© goWare 2015, prima edizione digitale
ISBN 978-88-6797-363-7
Copertina: Lorenzo Puliti
sviluppo ePub: Elisa Baglioni
goWare è una startup fiorentina specializzata in digital publishing
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Ogni riferimento a fatti, persone e cose è puramente casuale.
Nonostante questo romanzo prenda spunto da fatti storici realmente accaduti negli Stati Uniti, l’Autore assicura formalmente che i nomi dei personaggi e le aziende menzionate non sono quelli di persone o aziende reali.
Qualora qualcuno dovesse riconoscersi nei fatti descritti e nei personaggi e aziende narrati, non è di voi che si parla qui.
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Presentazione
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Epilogo
Ringraziamenti
goWare ebook team
Manifesto di goWare
Presentazione
New York, anno 2000. La storia prende avvio da una causa legale avviata negli Stati Uniti. Jason Davis, protagonista del romanzo e avvocato di successo e socio fondatore dello studio, è un uomo complesso con un ato da dimenticare. Intorno a lui si muovono personaggi carichi di umanità, spietati e cinici, ricchi di comione o vittime di arrivismo. Jason impersonifica il sogno americano, ha uno studio legale importante, una famiglia apparentemente perfetta. Ma il suo oscuro ato torna di colpo nella sua vita a scompigliare il presente e a rimettere pericolosamente in gioco ricordi mai sopiti.
In un crescendo di avvenimenti imprevedibili che tengono incollato il lettore alla pagina, si assiste a un evento drammatico che d’un tratto farà precipitare i personaggi nel timore che possano essere rivelati inconfessabili segreti. Un testo scritto con vero o da narratore che sa mescolare realtà e finzione e solo nel finale svelerà perché quei giorni non sono mai esistiti.
* * *
Andrea Canto, quarantenne, consulente finanziario, ha esordito nel 2009 con il romanzo Con tutto il cuore edito da Baldini Castoldi Dalai. Andrea è stato redattore di una rubrica finanziaria pubblicata giornalmente e letta da ottomila persone. Scrivere è la sua ione e un modo per creare realtà parallele rispetto a quella in cui vive. Quei giorni mai esistiti è il suo secondo romanzo.
A Paola, che un giorno mi ha detto: “Tu devi scrivere”.
Gesù, alzati gli occhi al cielo, disse: “Padre, ti ringrazio perché mi hai esaudito. Io sapevo bene che tu mi esaudisci sempre; ma ho detto questo a motivo della folla che mi circonda, affinché credano che tu mi hai mandato”. Detto questo, gridò ad alta voce: “Lazzaro, alzati e cammina!”.
Giovanni 11, 41-43
Nota dell’autore
Per esigenze narrative, il quartiere di Brooklyn viene descritto come degradato e lasciato a se stesso.
Nella realtà, ci sono altri quartieri della zona metropolitana di New York che corrispondono a questa descrizione.
Brooklyn è invece un quartiere tranquillo, sicuramente non ricco come Manhattan, ma certamente non povero come viene descritto. Solamente alcune strade sono decadenti, come in ogni altra città del mondo. In particolare, la strada in cui vive Sally Yrons è davvero degradata.
L’Autore ha scelto Brooklyn come una delle principale location in cui viene narrato Quei giorni mai esistiti per la presenza del ponte di Brooklyn, che ha un valore simbolico molto elevato: il aggio da una esistenza anonima e “senza quartiere” a un’esistenza sotto i riflettori, quella vissuta dai personaggi di questo romanzo. Il aggio dal vecchio al nuovo, che spesso può essere doloroso.
Infine, i nomi delle vie, delle piazze, dei monumenti e degli edifici narrati nel romanzo corrispondono alla realtà e sono accuratamente collocati nei luoghi che spettano loro.
Comprese le dieci colonne del Tribunale di New York City.
Montclair, 30 chilometri a ovest di New York, 11 settembre 2001, ore 7:03
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Uscirono di casa tutti insieme, l’aria tersa e pulita faceva presagire una splendida giornata. A Jason sembrava che la sua testa fosse diventata improvvisamente leggera, piena di elio invece della solita sensazione plumbea. Rilassato, guardò il sole che lentamente si alzava per un nuovo giorno, respirò a fondo.
“Allora bambini.”
Kelly gli fece una smorfia e cacciò fuori la lingua.
“Allora ragazzi”, si corresse sorridendo, ogni tanto dimenticava che sua figlia aveva già tredici anni e che cresceva in fretta.
“Voi andate con la mamma, oggi vi accompagna lei a scuola.”
“Evviva”, strillò Joshua. Di solito andavano a scuola accompagnati dallo scuolabus giallo che immancabilmente alle 7:24 di ogni mattina si fermava di fronte al loro cancello. Kelly e Joshua erano sempre lì ad attenderlo, tutti i giorni. Che fe freddo o caldo, che piovesse o nevicasse per non far aspettare gli altri bambini. Kelly teneva sempre per mano il suo fratellino, lo adorava di un’adorazione sconfinata. Gli raccontava le storie, lo faceva giocare, gli insegnava a dipingere e usare il computer. Era una seconda mamma di cui Claudine andava molto orgogliosa.
“Io invece come al solito vado in ufficio.”
“Noooo”, disse Joshua.
“Ebbene sì, a ognuno il suo. A voi la scuola e a me l’ufficio. Credetemi, è molto meglio la scuola.”
“In ufficio non ti diverti papà?”, chiese Joshua tendendo le braccine al padre per essere preso in braccio. Jason si chinò e sollevandolo lo strinse a sé.
In quella mattina dell’11 settembre.
“Certo che mi diverto in ufficio. Anch’io ho tanti amici assieme ai quali are il tempo.”
“Allora posso venire con te?”, chiese Joshua abbracciandolo ancora più stretto e dandogli un bacio sulla guancia.
“Uhm, vediamo cosa si potrà fare, dovremo chiedere l’autorizzazione alla tua maestra.”
“Andiamo ragazzi, è tardi”, disse Claudine incamminandosi verso il box. Salì sulla vecchia Mini e fece retromarcia, con la ghiaia che scricchiolava leggermente. Joshua e Kelly salirono, mentre Jason salì sulla Porsche e fece scendere il tettuccio, quel giorno aveva voglia di sentire l’abbraccio dell’aria, i
capelli che si scompigliavano nel vento.
“Ah, anche sportivo stamattina”, gli disse Claudine sorridendo.
“Oggi è un nuovo giorno”, disse Jason soffiandole un bacio.
Le due macchine percorsero il vialetto, a pochi chilometri dall’isola di Manhattan si separarono e Claudine imboccò il tunnel più a nord che ava sotto l’Hudson, mentre Jason scese di un paio di chilometri a sud e imboccò un altro tunnel dirigendosi verso downtown.
Sbucò in un fulgido sole, l’aria stranamente pulita e un cielo azzurrissimo incorniciavano il downtown di New York, con i suoi altissimi grattacieli.
Jason si sentiva leggero. Finalmente bene, lontano dai fantasmi del ato.
Parcheggiò la Porsche nel sotterraneo dell’ufficio e per la prima volta da anni salì a piedi verso la portineria, salutò Mitch allegramente, poi uscì nell’aria tersa del mattino.
Non aveva voglia di andare in ufficio, non subito almeno. Si guardò intorno in Liberty Street e vide frotte di impiegati, bancari che si recavano con affanno al lavoro.
Vide il suo stesso affanno e prese una decisione. Avrebbe portato la sua famiglia
in un bel viaggio, non importava la destinazione. Avrebbe lasciato scegliere a Claudine e ai ragazzi.
Si fermò davanti a una vetrina e si scoprì a sorridere.
La sua vita stava davvero cominciando.
New York, 3 ottobre 2000
1
Il silenzio era ovattato, denso di brusii sommessi e di risate in sottofondo. Il leggero tintinnio delle posate, camerieri in livrea che si muovevano come fantasmi, senza disturbare la quiete assoluta della suite dell’Harri’s Restaurant nel downtown di Manhattan, frequentato da banchieri, avvocati e da persone che potevano permettersi un’ora di lusso senza lavorare. Era molto difficile trovare un posto se non prenotando settimane prima, impossibile avere la saletta riservata posta in un angolo del locale, leggermente sopraelevata rispetto al resto dell’intimo ristorante, fiocamente illuminato da tre lampadari in cristallo appesi al soffitto in legno impreziosito di fregi e di piccole volute d’oro. Lusso, ma senza ostentazione.
Il sommelier si avvicinò a Jason seduto nella saletta riservata, i due confabularono per qualche istante decidendo la sequenza dei vini da portare in tavola. Poi lo congedò con un cenno del capo.
Jason Davis aprì una scatola in legno, scelse con cura uno dei sigari. Lo annusò, ne aspirò il tocco maschio e deciso, ne assaporò la fragranza quasi femminile. Lo accese e si appoggiò all’indietro sulla grande poltrona damascata di velluto rosso. Guardò Pamela, sua assistente in tante battaglie.
Jason si rilassò.
Nulla doveva o poteva interferire con la sua pianificazione. Ogni elemento era valutato, analizzato, sezionato con la cura di un chirurgo che esegua un’autopsia di vitale importanza. Jason sorrise dentro di sé.
Un’autopsia di vitale importanza.
Che controsenso, pensò Jason.
Eppure era lì, in quei momenti in cui il bisturi incideva la carne, era lì che si giocava la partita. Era il dettaglio, anche minimo, spesso insignificante, che separava la vittoria dalla sconfitta.
E questo, oltre a Pamela, lo sapevano bene i due soci seduti al tavolo che erano con Jason sin da quando lui aveva aperto uno studio suo.
I due alfieri. Markus Baker e Stern Reynolds, soci co-fondatori a cui spesso erano delegate le scelte di Jason, fondatore dello Studio Davis Baker & Reynolds.
Delegate, pensò lui soffiando un anello di fumo nell’aria. Non aveva mai ceduto il controllo, a nessuno.
Al limite, ma solo al limite, lo aveva delegato.
“Pare che ci siamo, allora. Il grande giorno è arrivato”, disse Stern Reynolds assaggiando un’insalata.
“Oggi gli facciamo il culo”, disse Markus Baker addentando una costata di ottocento grammi, molto al sangue.
Jason giocherellò con le posate, si guardò in giro distrattamente. Uno sguardo carico di interesse, filtrato da due iridi azzurrissime che potevano fulminare o deliziare.
Non era la prima volta che venivano qui.
E non sarebbe stata neanche l’ultima, pensò Jason.
“È da quando ho iniziato la mia carriera che sogno un momento come questo”, disse Stern bevendo un sorso d’acqua.
“Tu vivi troppo nei sogni caro socio, lasciatelo dire.”
“Cosa c’è di male nel sogno, Markus? È una realtà immaginata che diventa reale.”
“Sarà, ma io preferisco il fruscio dei dollari e un conto in banca bello grasso.”
Il silenzio scese tra loro quattro per qualche secondo, poi Pamela disse: “Siamo alle solite, è da quando vi conosco che vi beccate sempre sugli stessi punti, state cominciando a diventare noiosi.”
“E la noia porta con sé la prevedibilità che significa la morte per un buon avvocato. Sii prevedibile, e in aula verrai fatto a pezzi”, concluse Jason.
“Sarò anche noioso, Jason, ma in aula fino a ora non ho mai perso un colpo e con gli accordi stragiudiziali ho sempre fatto strike.”
“Te lo riconosco”, disse Jason.
“Dimentichi la Pacific West Oil”, disse Stern sorridendo con la consapevolezza di colpire un tasto dolente.
“Un errore di valutazione, capita a tutti nella vita.”
“Un errore che ci è costato cento milioni”, disse Stern punzecchiando il terzo socio che Jason aveva accolto nello Studio Davis Baker & Reynolds poco tempo dopo la sua fondazione. A Jason servivano i contatti, la rete, le informazioni, i privilegi. Markus aveva tutto questo e non c’era nessuno a Manhattan che non gli dovesse almeno un favore, nessuno che non fosse sulla sua agenda.
“Forse per te, Stern, i pinguini anneriti dal petrolio hanno diritti più importanti di noi uomini.”
“Finitela”, disse Pamela scuotendo il capo. Lei filtrava tutto quello che arrivava in Studio ed era insostituibile, per nessuna ragione Jason avrebbe permesso che Pamela se ne andasse. Nulla arrivava sulla scrivania di Jason e degli altri due
soci se prima non era stata accuratamente vagliata da Pamela. Aveva parlato poco nel corso del pranzo, lo stomaco leggermente annodato dall’ansia di quello che sarebbe successo nel pomeriggio. Lei e Jason sarebbero andati in Tribunale, mentre Stern e Markus sarebbero rimasti in ufficio. La strategia di Jason era semplice: mai farsi vedere troppo affamati e troppo ansiosi. La Triade era una sola, ma agiva in modo separato, assecondando le tre diverse personalità. Così erano chiamati Jason, Stern e Markus. La Triade.
“Ha ragione Pamela, fatela finita”, disse Jason.
“Io sono in questo business per fare soldi e la causa che inizia oggi ne porterà tanti. E per inciso, ne godrete anche voi”, disse Markus sorseggiando il caffè.
Jason si bloccò, guardò il dessert. Lo spinse da parte.
Chiuse gli occhi per un istante, ripensò a un tempo ormai remoto eppure sempre lì, pronto ad affiorare.
“Sei irritante, Markus”, disse Jason a bassa voce protendendosi verso il socio.
“Dico solo la verità, può piacere o non piacere. Ma è la mia verità.” “E se dei pinguini o dei mocciosi di sei anni perdono la vita a me non importa, perché è proprio sulla loro pelle che io farò ancora più soldi.”
Jason si alzò in piedi sbattendo il tovagliolo sul tavolo: “Tu prova a non portare rispetto per i nostri clienti e giuro che questa volta ti sbatto fuori dallo Studio.
Sono stato chiaro, Markus?”, disse Jason con un tono di voce che nel silenzio del ristorante era chiaramente udibile da tutti.
Markus si agitò sulla sedia.
“Lo sai bene come sono fatto, Jason”, i denti serrati come se le parole non dovessero uscire e soffocando un accesso d’ira continuò. “Mi hai scelto anche per questo, no? Perché io sono quello che ha portato lo Studio a camminare sulle rovine dei nostri avversari. L’ho fatto una volta, dieci volte. E lo rifarò anche questa volta.”
A quelle parole Jason scattò: “Hai pienamente ragione, ti ho scelto tra tanti squali. Non saresti nulla senza di me”, disse quasi urlando, mentre il ristorante si zittiva completamente e le teste degli ospiti erano tutte rivolte verso di loro.
“Non qui, Jason”, disse Pamela sorpresa da quella reazione di rabbia che da anni non riscontrava in lui.
“Sei fuori di testa, io me ne vado in ufficio.”
“Non ho ancora terminato, Markus.”
“Volete finirla per favore?”, disse Stern.
“Tu ti comporterai come un avvocato”, disse Jason.
“Non ho mai deviato dalla mia etica.”
“Mai?”
“Beh quasi mai”, rispose Markus con un sogghigno.
“Ti do un consiglio”, disse Jason alzandosi nuovamente in piedi e appoggiando la mano sulla poltrona nella quale Markus era sprofondato. “Cerca di comportarti umanamente. Almeno per una volta, Markus. Sono stato chiaro?”
“Cristallino, Jason. Cristallino.”
“Chiedo scusa se mi sono alterato.” Appoggiò una mano sulla spalla di Markus e uscì dal ristorante, prendendo sottobraccio Pamela.
Si avvicinarono alla limousine in attesa per portarli in Tribunale. La grossa macchina si immise nel traffico e nell’abitacolo calò il silenzio.
“Era da tanti anni che non ti vedevo perdere le staffe in questo modo.”
“Lo so.”
“Cos’è successo?”, chiese Pamela con un tono di voce più dolce.
Jason si strofinò gli occhi leggermente.
“Markus con quello che ha detto mi ha fatto ricordare eventi di un ato lontano. Io non voglio essere come mio fratello e il mio patrigno, non voglio essere come loro, dannazione! Io non sarò mai come loro”, ripeté a bassa voce.
Stern e Markus uscirono dal ristorante e si avviarono a piedi verso lo Studio, distante pochi isolati.
“Non ho mai visto Jason comportarsi così”, esordì Stern, “forse questa volta hai esagerato davvero, Markus.”
“Non più di altre volte”, rispose piccato Markus. Dentro di lui sapeva che stava recitando un ruolo, ma era come se questo ruolo gli si fosse appiccicato addosso come un abito troppo stretto.
“Forse hai toccato un argomento su cui Jason è sensibile”, insistette Stern.
“C’è del lavoro da fare oggi, ne parliamo un’altra volta”, disse Markus una volta entrato nell’ascensore, premendo il tasto 24 che in pochi secondi li avrebbe portati in ufficio.
In alto.
2
“Silenzio in aula.” Il cancelliere del Tribunale di New York alzò la voce per farsi sentire.
Entrò il giudice Aaron Schmit che si lasciò andare pesantemente nella logora poltrona di pelle. Era giudice di quella corte da più di venticinque anni e non aveva mai permesso che i soldi dei contribuenti venissero spesi in quelle che lui stesso definiva “inutili voluttà per ricchi.”
Jason sorrise tra sé e sé, non avrebbero potuto avere più fortuna, neanche se lui stesso avesse scelto personalmente il giudice.
Il pubblico assiepava l’aula, la folla era entrata dalla porta situata sul fondo, spingendosi l’uno con l’altro per avere un posto da cui sentire le parole degli avvocati e della corte.
Il giudice Schmit alzò gli occhi verso il pubblico e nascose il suo compiacimento nel vedere tanta gente, che di li a poco l’avrebbe vista pendere dalle sue labbra. Aveva fatto diverse prove a casa prima di recarsi in Tribunale. Voleva sorprendere, stupire. E quando c’erano di mezzo delle persone truffate, Schmit poteva diventare una delle peggiori carogne.
Si tolse gli occhiali e si portò alla bocca una stanghetta, che succhiò avidamente come fosse un lecca lecca. Guardò gli avvocati della difesa, rigidi e impettiti nei loro costosi abiti grigi confezionati su misura, cravatta grigio chiara da cerimonia e camicia bianca, di un bianco abbagliante.
Poi spostò lo sguardo su Jason, fu subito attratto da quel giovane avvocato che aveva scalato ogni gradino del successo, fino alle più alte vette.
Jason accavallò la gamba sinistra, la piega dei pantaloni del suo completo blu era perfettamente stirata. L’immancabile fazzoletto da taschino era sparito in qualche tasca interna. Il Patek Philippe Calatrava in platino sostituito da un comunissimo orologio d’acciaio senza pretese. Sobrio, ma anni luce lontano dalla sua naturale e innata eleganza. Anche lui, a casa quella mattina, aveva fatto i compiti e studiato la sua parte.
“Avvocati, buongiorno e grazie per esservi presentati nella mia umile casa”, disse il giudice presentandosi con la sua formula di rito.
Una giovane donna nel pubblico cercò di farsi avanti per sentire meglio, spintonò qualcuno, poi strusciò il suo seno sulla schiena di un uomo di mezza età, che si voltò e rimase come ipnotizzato dalla sua bellezza, semplice e disarmante. L’uomo si spostò di lato per farla are, lei gli rivolse un sorriso di riconoscenza e appoggiò una mano sulla sua spalla. Ormai erano anni che aveva scoperto i trucchi della seduzione e li aveva usati tutti, su qualunque uomo potesse servire al suo scopo.
“Rivolgo anche un ringraziamento al pubblico così numeroso, per la cortesia che sta dimostrando e per il tacito rispetto delle norme, atemi il termine, che regolano la mia aula”, e il giudice rimarcò il mia.
“Avvocati, ho esaminato con cura i fascicoli e francamente sono sbalordito da quello che ho letto.”
Jason rimase imperturbabile, ma il suo cuore mancò un colpo e nell’istante successivo cominciò a correre molto più velocemente del normale. Non si mosse di un millimetro e mantenne il suo sorriso, tuttavia spostò la coda dell’occhio alla sua destra, per inquadrare la schiera di avvocati posti in campo dalla Brown Motor Company e dalla Drexel/Power Tyre. La difesa. Il leader, Randy Stewart, rimase immobile, ma gli altri avvocati e i giovani portaborse si agitarono cominciando a sudare.
“Non che ci sia qualcosa che mi abbia particolarmente colpito. È un quarto di secolo che presiedo processi di ogni tipo e posso dire di averle viste tutte”, continuò il giudice.
“Ho visionato le foto, letto i rapporti della polizia stradale e degli ingegneri. La domanda di class action proposta dallo studio Davis Baker & Reynolds è accolta e certificata. Chiunque si senta parte lesa, residente negli Stati Uniti o in altre nazioni estere, ha tempo sessanta giorni a partire da oggi per presentare il proprio esposto allo studio Davis Baker & Reynolds.” Il giudice Schmit formulò la sua sentenza senza battere ciglio, fissando gli avvocati della difesa, che di botto si fecero piccoli, quasi minuscoli sulle sedie di legno. Solo il leader, l’avvocato Randy Stewart rimase, ancora una volta, imibile.
Dal pubblico si levò un brusio, qualcuno iniziò ad applaudire e quell’applauso segnò l’inizio di una delle più clamorose vicende giudiziarie degli Stati Uniti.
Jason si alzò in piedi e strinse la mano a Pamela. La sua assistente non riuscì a nascondere un sorriso di trionfo.
“Siamo dentro”, sussurrò nell’orecchio di Jason che accennò un sorriso e poi si
voltò verso Stewart.
“Congratulazioni”, disse Randy.
“Grazie. Ma aspetta che sia finita prima di farmele”, disse Jason strizzandogli l’occhio.
“Su questo non ci scommetterei troppo”, e attirò Jason vicino a sé.
“Tu non sai in che razza di casino ti sei infilato, piccolo bastardo. Ti faremo a pezzi”, sibilò.
“Quando avremo finito, verrai in ginocchio da me a chiedere un patteggiamento, Randy.”
“Vi sommergeremo con tanta di quella carta che ci nuoterete dentro.”
“Oh, se è per quella non c’è problema. Abbiamo affittato un capannone giù verso i dock. Mandateci tutto quello che volete, sai abbiamo anche delle ottime trincia carte, ultimo modello.”
“È più grossa di te, Jason. Lascia perdere.”
“Che dici Pamela, molliamo qui?”, disse Jason rivolto alla sua assistente che sorrise di un sorriso beffardo.
“Ha detto di no, sorride sempre quando dice di no.”
Randy Stewart girò sui tacchi e fece per andarsene, poi si fermò di colpo.
“Molo 34, capannone F22. Siamo stati anche lì, caro Jason” e se ne andò infilando l’uscita.
Pamela diede una rapida occhiata a Jason, che fece spallucce.
“Lo avrebbero scoperto, prima o poi. Rafforzeremo la sorveglianza, non ti preoccupare sta solo cercando di spaventarci.”
Pamela raccolse la borsa di pelle di Jason e si avviò a o spedito verso la porta dell’aula. Nessuno dei due vide la giovane donna bionda che da un angolo li osservava.
Jason e Pamela uscirono dal Tribunale e camminarono silenziosi verso sud, costeggiando il Foley Park. All’altezza del municipio, si inoltrarono nel parco antistante la residenza del sindaco. Tutto era tranquillo quella mattina, il cielo azzurro di inizio autunno illuminava ogni angolo.
Jason si sedette su una panchina, imitato da Pamela.
“Abbiamo tempo.”
La donna annuì. Avrebbe voluto prendergli la mano, magari abbracciarlo. Avrebbe voluto che il suo capo esternasse di più la sua gioia, ma qualcosa dentro di lui bloccava l’entusiasmo. Non era mai abbastanza, per lui.
“Sei stato grande.”
“Sarà una causa molto pesante, e molto lunga. Sei con me?”
“Come sempre.”
Jason si accese un sigaro.
“Ha ragione Randy, ci inonderanno di carta”, Jason si ò una mano tra i capelli, l’abbronzatura spiccava su quel volto segnato da qualche ruga.
“Non ci mancano le risorse, Jason. Con l’ultima class action abbiamo fatto cinquanta milioni di dollari. Netti.”
“Se tutto va bene, con questa class action ci portiamo a casa duecento milioni. Penso che potrei accontentarmi”, disse Jason soffiando nell’aria il fumo del sigaro. Aveva già tutto, non gli serviva altro, era tempo di ridistribuire la
ricchezza.
La giovane donna, quella del Tribunale, osservava da lontano la scena. Forse sono amanti, pensò. Si sentì a un tratto ridicola, lì nel parco nascosta dietro a un albero, con quella lettera in mano.
Jason e Pamela si alzarono e ricominciarono a camminare verso sud lungo Broadway. La donna dietro l’albero continuò a seguirli, conosceva molto bene la destinazione. Ci era già stata molte volte senza avere avuto il coraggio di entrare.
I due entrarono nel lussuoso grattacielo che ospitava lo Studio al 71 di Liberty Street. Salutarono Mitch, il portiere che chiamò immediatamente l’ascensore diretto al ventiquattresimo piano.
La donna si affacciò nell’atrio un secondo dopo che le porte dell’ascensore si erano silenziosamente chiuse.
“Oh accidenti.”
“La posso aiutare signorina?”, chiese Mitch.
“Dovevo consegnare personalmente questa lettera all’avvocato Davis.”
“La può lasciare a me, provvederò a fargliela recapitare.”
“No, devo consegnargliela personalmente. È molto urgente.”
Il portiere squadrò la giovane donna e decise di darle accesso allo Studio.
Pochi secondi dopo usciva nell’immenso atrio, un desk alto un metro e mezzo impediva l’accesso allo Studio, nessuno oltreava quella barriera se non era invitato.
“Devo consegnare questa lettera all’avvocato Davis”, disse la donna alla receptionist.
“Grazie può lasciare a me.”
“Devo consegnarla personalmente, è molto importante.”
“Mi dispiace ma se non ha un appuntamento non posso farla are. Mi può dire il suo nome?”
“Sally. Sally Yrons.”
“Bene Mrs. Yrons, dia pure a me la lettera.”
Sally le porse la lettera.
Dentro, solo il suo curriculum.
3
“Lo studio legale Davis Baker & Reynolds ha iniziato una class action in favore di cittadini degli Stati Uniti, Venezuela e di altre nazioni estere, che abbiano subito danni, ferite personali o morte come risultato dell’utilizzo di pneumatici progettati, prodotti e distribuiti dalla Brown Motor Company e dalla Power Tyre/Drexel. Oggi, il giudice Aaron Schmit, della corte federale di New York, ha predisposto l’attuazione della class action. In accordo a quanto affermato dalla National Highway Transportation Safety Authority (NHTSA), più di 2.200 persone hanno inoltrato protesta formale alla NHTSA lamentando seri danni e, addirittura, collasso completo della struttura dello pneumatico oggetto della class action. La statistica include 101 casi di incidente mortale e più di 400 feriti. La NHTSA ha sollecitato la Drexel e la Brown ad aggiungere nella lista dei pneumatici sospetti anche quelli non originariamente inclusi e che sembrerebbero ibili di danni.”
Posò il foglio di carta ancora tiepido di stampa sul tavolino e fece un cenno al cameriere che versò dell’altro caffè nella tazza ormai vuota.
“Siamo al centro dell’attenzione, ora”, gli disse Pamela seduta composta all’altro lato del tavolo. Sotto di loro, si apriva l’enorme ufficio di Jason disposto su due livelli: al primo livello la scrivania circondata da divani color panna, da una schiera di sei monitor e da una discreta saletta riunioni, al secondo livello una balconata di libri giuridici cingeva quello sottostante. Chi entrava nel suo ufficio, doveva avere l’impressione di essere circondato e avvolto dalla Legge, protetto e coccolato e, allo stesso tempo, doveva avere la possibilità di alzare gli occhi verso il soffitto e lasciare spaziare lo sguardo fino al cielo azzurro. La prospettiva offerta da questo sapiente uso di vetri e scale trasparenti era davvero stupefacente.
“Sì, lo siamo”, rispose Jason asciutto.
“Sono giù in sala riunioni, ci stanno aspettando.” Era l’assistente di Jason da quando lui aveva iniziato l’attività di avvocato fondando uno studio nella Upper West Side. All’epoca si occupavano di piccole cause, pochi soldi e tanta fatica con orari che avrebbero ammazzato un elefante. Poi, un giorno si presentò alla porta un nuovo cliente, aveva bisogno di consulenza nell’ambito di una frode bancaria. Jason, prima di fondare il suo Studio, aveva lavorato da praticante in un grosso studio legale di New York che si occupava di diritto societario e bancario, aveva ato mesi a studiare ogni clausola e ogni legge che regolava questo settore. E il cliente, la Bank of America, lo sapeva. Avevano bisogno di qualcuno che guardasse dentro una certa operazione nella quale erano spariti trentasei milioni di dollari, un lavoro da fare in silenzio. Era un’operazione potenzialmente imbarazzante per la Bank of America e se si fosse saputo in giro, se i media avessero annusato la trappola nella quale una delle banche più prestigiose del mondo era caduta, la perdita di fiducia e i danni all’immagine sarebbero stati incalcolabili. Fu quel lavoro che segnò la svolta di Jason e che lo proiettò prima nel mondo della finanza legale, e poi in quello ben più lucrativo delle class action, le cause che venivano organizzate da studi legali a difesa dei consumatori, di migliaia di persone che per un motivo o per l’altro erano state frodate dalle multinazionali.
Jason guardò i grattacieli, i riflessi di luce che irradiavano. Chiuse un attimo gli occhi e lasciò che la luce penetrasse nel suo cervello.
“Lascia che aspettino ancora un po’”, disse Jason accendendosi un sigaro mentre le spesse volute di fumo si dissolvessero nell’aria tiepida del primo pomeriggio.
Jason entrò nella sala riunioni principale. Un tavolo di forma ovale dominava l’intera stanza. Era circondato da poltrone di pelle nera. Jason si sedette al suo solito posto, dando le spalle all’enorme vetrata che si affacciava sui grattacieli circostanti. Alla sua destra sedeva Stern e alla sinistra Markus.
La luce entrava a cascata, inondando la sala. Jason premette un tasto posto su una piccola console, immediatamente i vetri si oscurarono leggermente creando una penombra discreta. Nello stesso istante, si attivarono le difese anti intrusione della sala riunioni che diventò come una gabbia di Faraday, del tutto schermata dall’esterno. Jason non voleva interferenze esterne e interne. Nessuno all’interno dello Studio, neanche Pamela, sapeva che nell’ufficio di Jason era stata ricavata una piccola stanza dove trovavano posto due supercomputer Sun Microsystem multiprocessore che avevano come unico compito quello di controllare tutte le comunicazioni, in entrata e in uscita, dallo Studio. Solo una persona era esente dal controllo.
Jason voleva avere il controllo di ogni cosa che succedesse, di ogni telefonata, email o riunione e i supercomputer svolgevano alla perfezione questo lavoro ed erano stati programmati in modo molto simile a Echelon: il database dei supercomputer conteneva migliaia di parole sospette che avrebbero messo in allarme o in pericolo le operazioni di Jason. Quando una di queste parole veniva riconosciuta, i computer mandavano una e-mail direttamente al suo indirizzo di posta elettronica. Grazie a questo complesso sistema, tre anni prima scoprì che uno dei suoi paralegali si stava accordando sottobanco con la parte coinvolta nella causa. Per un compenso di due milioni di dollari, il paralegale faceva uscire dallo Studio documenti riservati che avrebbero mandato all’aria l’intera causa. Quando Jason lesse il contenuto della e-mail che “incriminava” il suo paralegale, gli si era un sorriso sulle labbra. Lo aveva convocato nel suo ufficio, offrendogli il pranzo nella terrazza al terzo livello. Per l’occasione, Jason gli aveva fatto trovare del foie gras di prima scelta e una bottiglia di Cristal. Durante il pranzo, il paralegale si era convinto che lo aspettasse una promozione, solo che al posto del dessert gli venne servito su un piattino un foglio con la e-mail che aveva mandato alla parte in causa.
Oltre a Pamela e ai due soci, c’erano cinque associati e una decina di assistenti. Nessuno fiatava, aspettando le parole di Jason.
“Signori, innanzitutto grazie per il lavoro che avete svolto fino a ora”, disse. Per lo Studio, la causa era iniziata diciassette mesi prima, quando uno degli associati aveva letto una notizia curiosa riportata sull’Oakland Herald. Nello spazio di un week end, il giornale aveva riportato la notizia che due automobilisti erano incappati in un incidente mortale ed entrambi guidavano lo stesso autoveicolo, una Brown Galaxy. L’associato, Jeff Snyder, aveva fatto alcune telefonate ed era volato a Oakland, California. Lì aveva incontrato le famiglie dei due uomini che erano morti nell’incidente che si erano dette pronte a chiedere giustizia a tutti i costi. L’associato capì in un istante che le famiglie erano molto più interessate al denaro che ai parenti defunti. Quindi, Jeff aveva ispezionato i veicoli che erano ridotti a un ammasso di ferraglia, un particolare colpì la sua attenzione: entrambi, avevano una gomma del tutto squarciata. Jeff aveva fatto alcune fotografie e interrogato con discrezione i dipendenti delle autorimesse dove erano custodite le due Brown Galaxy. Non ci era voluto molto, qualche decina di dollari allungati sottobanco, per sapere che altri veicoli avevano subito degli incidenti con le medesime dinamiche. Jeff aveva approfondito le ricerche: tutti i veicoli che avevano subito quel genere di incidente erano dei Brown Galaxy e tutti avevano in dotazione pneumatici Power Tyre o Drexel. Ulteriori ricerche avevano confermato a Jeff che gli autoveicoli avevano una o più gomme squarciate, in alcuni casi l’intero pneumatico aveva subito una sorta di collasso. Da quel punto in poi, lo Studio Davis Baker & Reynolds aveva mobilitato buona parte delle sue risorse alla ricerca di persone che avessero subito quel tipo di incidente raccogliendo quasi milleduecento testimonianze, sufficienti per una class action.
“Come sapete oggi il Tribunale di New York ha convalidato la nostra richiesta di class action. Sono convinto che, se indaghiamo a fondo, troveremo molti altri casi. Stimo in circa quindicimila i potenziali clienti che troveremo e considerato un risarcimento di cinquantamila dollari per ogni cliente, se vinceremo la multa per la Brown sarà di settecentocinquanta milioni, più la multa una tantum”, Jason lasciò che queste parole planassero sul lungo tavolo. Il silenzio si fece ancora più pesante e avvolgente. Qualcuno scosse la testa, dissentendo apertamente.
“Con tutto il rispetto, Jason. Credo che la stima sia esagerata”, disse Kurt.
“Prendo atto del tuo scetticismo, ma non lo condivido. La nostra parte è il trenta percento. Fate voi i calcoli.” Jason si allungò sullo schienale della poltrona e si accese un sigaro. Nessuno lo imitò, nemmeno i due soci si azzardavano a fumare durante una riunione.
“È un’opportunità unica per il nostro Studio”, commentò Stern Reynolds con gli occhi che brillavano. “Restituiremo il torto subito e faremo giustizia, sarà spettacolare.”
Markus scoppiò a ridere tirandosi le bretelle che ormai erano fuori moda da almeno quindici anni.
“Cosa c’è da ridere?”, chiese Stern.
“Giustizia, torto, opportunità. Ma chi se ne frega, quello che interessa a noi sono i soldi, giusto Jason?”, Jason guardò severamente Markus, non gli era mai piaciuto il suo modo di fare ma era un formidabile avvocato.
“Ha ragione Stern. È un’occasione unica per lo Studio. Sempre che voi altri siate disposti a vincere, inteso”, Jason pronunciò queste ultime parole guardando uno a uno i presenti. Vide fame, ambizione e mancanza di scrupoli. E questo era ciò che gli serviva dai suoi collaboratori.
Jason fece un cenno a Pamela che cominciò a illustrare i dettagli dell’operazione, assegnando a ciascun associato e ai relativi assistenti una quantità di lavoro almeno doppia a quella abituale, già altissima. Nessuno fece
una smorfia, nessuno si lamentò.
Jason sapeva che questa parte era il lavoro sporco, quello che creava tensioni e inimicizie e per questo lo aveva assegnato, come in tutte le altre class action, a Pamela. Avevano definito i dettagli in meno di due ore durante il pranzo in terrazza e Jason aveva indicato le linee generali da seguire. Ricerca di altri clienti, raccolta di deposizioni giurate. Foto, video. Ogni database sarebbe stato spulciato, ogni ospedale visitato, ogni autorimessa sarebbe stata contattata. Lo Studio avrebbe speso milioni di dollari in questa fase, prendendosi tutti i rischi, ma avendo molte ricompense in caso di vittoria.
Jeff Snyder fu nominato capo progetto e coordinatore e lui avrebbe riportato direttamente a Jason. Gli altri due soci avevano il compito, come sempre, di seguire la squadra ed entrambi avrebbero riportato a Jason. La squadra di associati avrebbe dovuto formulare l’istruttoria scrivendo un dettagliato resoconto tecnico, allegare tutte le testimonianze, le deposizioni, le foto e i video, nonché i resoconti degli ospedali, le cartelle cliniche e le diagnosi.
“Bene, direi che è quasi tutto per oggi. Se qualcuno di voi ha problemi nel are una notte in ufficio a lavorare, può tirarsi indietro e lasciare il posto a qualcun altro”, disse Jason mentre nessuno si mosse dalla propria sedia.
“Gli associati prenderanno l’uno percento della transazione, gli assistenti lo zero virgola cinque. Il resto verrà diviso tra i soci.” Si sentì qualche mormorio, un paio di sospiri increduli. Era più del doppio di quello che Jason di solito concedeva per le class action.
Jason guardò attentamente i suoi collaboratori, sorridevano tutti tranne Pamela che stava armeggiando con una busta. Si sentì osservata e alzò lo sguardo verso Jason, che la guardava freddamente.
“Non ti interessa quello che stiamo dicendo?”, le chiese.
“No scusa stavo solo aprendo una busta.”
Jason si appoggiò allo schienale e ispirò una lunga boccata dal suo sigaro.
“Credo che tu possa sbrigare la posta in un momento successivo, ti pare?”
“Sì, certo”, disse Pamela facendosi un po’ più piccola appoggiando la busta sul tavolo. Jason notò che era vergata con una calligrafia elegante e con un inchiostro rosso, probabilmente di una stilografica. Prese la busta e notò che era indirizzata a lui. Riservata personale, anche se tutta la corrispondenza ava comunque tra le mani di Pamela prima di arrivare al destinatario.
“Spero che il contenuto di questa busta sia davvero molto importante”, disse Jason infilandola nella tasca interna della giacca. “Buona giornata signori, e buon lavoro. A settimana prossima, ore 9 puntuali.” Jason si alzò dalla poltrona e sparì nella penombra della sala.
“Beh, cosa fate tutti impalati. Li volete o no questi soldi?”, ringhiò Markus.
Tutti schizzarono in piedi e corsero nei propri uffici, per incollarsi al telefono, al fax, all’e-mail.
Tutti tranne Stern che rimase da solo nell’ampia sala riunioni. Spinse un pulsante e i vetri che circondavano la sala tornarono a farsi chiari lasciando filtrare la luce ancora intensa del pomeriggio. Poi premette un altro pulsante e silenziosamente i vetri cominciarono a scorrere l’uno sull’altro guidati da motorini elettrici e incanalati in guide precise. Tutta la vetrata si aprì sui tre lati, lasciando solo una balaustra di acciaio tra lui e il vuoto. Il vento fresco entrò nella sala e spazzò via l’odore di sudore, l’odore della paura lasciato da quindici uomini.
Stern si accese una sigaretta, guardò a lungo il bastoncino malefico che aveva avvelenato l’intera sua esistenza. Si appoggiò alla balaustra e tirò una profonda boccata. Avvertì immediatamente un fastidio in fondo ai polmoni e si chiese se avrebbe visto la fine di quella causa.
4
Jason tornò in ufficio a grandi i, portando con sé il ricordo della sfuriata con Pamela.
Dannazione, si disse. Venne preso da un senso di colpa, la testa gli girò per un attimo, la mente scivolò indietro in un piccolo appartamento del Bronx, caldissimo d’estate e gelido d’inverno, i soldi per l’affitto che non bastavano mai, il padrone di casa che minacciava in continuazione lo sfratto.
Le privazioni e le minacce erano state la costante della sua prima vita.
Forse grazie a esse era diventato ciò che era adesso.
Grazie alle minacce, grazie a complesse indagini fatte dal suo team su qualunque castello di carta ordito dalla difesa. Un castello che veniva giù, sempre e comunque, indipendentemente dal numero di carte di cui era composto.
Bastava un controinterrogatorio, condotto con i suoi tempi, i suoi ritmi e le sue occhiate, per scoprire la verità.
Era questa che cercava, momento per momento.
Cercava la verità che si celava dietro alle minacce, dietro alle pressioni psicologiche che facevano crollare il testimone più preparato, più determinato a resistere all’azione di sfondamento di Jason, continua e incessante, come quella dell’acqua contro le pietre che per dure che possano essere, col tempo soccombono.
Il morbido contro il duro.
Il vero contro il falso.
Le ricordo che è sotto giuramento, diceva spesso ai testimoni che doveva annientare, perché la loro distruzione avrebbe significato la vittoria. Bastavano queste poche parole per minare il teste, minarlo alle fondamenta.
Jason si sedette alla scrivania, si ò le mani sugli occhi, si sfregò le tempie.
Aprì un cassetto e prese un paio di aspirine.
Chiuse gli occhi e la sua mente entrò in uno stato meditativo, si lasciò scivolare di qualche gradino verso il basso, lasciò che si acquietasse del tutto. Poi, dopo qualche minuto, contò fino a tre e riemerse dalla meditazione. Lucido e affilato, il mal di testa era scomparso.
Il piano della scrivania era occupato da un fascicolo, arrivato per posta molto tempo prima.
Jason lo prese in mano. Guardò le note a fondo pagina e fece un altro salto indietro di trent’anni.
“Ce l’hai?”
“Sì”, rispose Jason sussurrando.
“Spara.”
Jason appoggiò il dito medio sul grilletto, cominciò a esercitare la forza per tirarlo verso di sé e far partire il colpo in canna. Una lieve pressione per un esito fatale, e in questo caso a ogni azione non corrispondeva una reazione uguale e contraria. Ma una reazione sproporzionata, folle.
Era quasi a metà corsa, il cervo brucava ignaro le foglie. Il grande palco di corna svettava verso l’alto, verso il cielo azzurro.
“Muoviti”, sussurrò Anthony, il patrigno.
Jason cominciò a sudare, grosse gocce gli ricadevano sulla fronte e sugli occhi annebbiandogli la vista.
Il dito medio continuava la sua corsa, verso il momento in cui la carabina Browning avrebbe sparato una pallottola di piombo alla velocità di milletrecento metri al secondo. In quell’istante il cervo alzò la testa, si guardò in giro. Gli arti
si irrigidirono, pronti alla fuga, pronti a scappare.
“Spara, maledizione”, sussurrò Anthony.
Jason sbatté le palpebre, inquadrò ancora una volta il cervo. Questi si girò nella sua direzione e gli sguardi si incrociarono per un istante. Jason ammutolì, perse i suoi occhi azzurri in quelli del cervo, neri come il carbone. Lasciò andare il grilletto e appoggiò a terra il fucile con le mani tremanti.
Anthony afferrò il fucile e con un solo balzo fu in piedi, il cervo sentì il rumore e fece uno scatto in avanti, ma fu troppo tardi.
Il proiettile uscì dalla Browning semiautomatica calibro 7x64, attraversò in un lampo la radura e si piantò nel cuore del cervo spaccandolo in due. L’animale emise un sonoro sbuffo.
E morì subito dopo.
“Dannato ragazzo”, disse Anthony buttando il fucile per terra sfiorando la testa di Jason, disteso sulla pancia, scosso dai singhiozzi.
“Dannato ragazzo”, ripeté. “Era un tiro di una semplicità assurda, e tu non hai neanche sparato. Sei una mezza sega, mi vergogno di essere tuo padre, e per fortuna non lo sono”, disse Anthony sputando su Jason, mentre un altro ragazzo sdraiatogli affianco rideva e si prendeva beffe di lui.
Jason si alzò, scattò attraversò la radura e raggiunse il cervo ancora appoggiato sui quarti anteriori. Mosche blu e verdi cominciavano ad affollare la ferita, l’enorme squarcio nel petto da cui il sangue usciva ora come un rivolo d’acqua rossa. Il cuore fermo, dilaniato, nella sua forza vitale. Jason si accucciò per terra, accarezzò la testa del cervo.
Venne subito raggiunto da Anthony e dal fratellastro Frank, di qualche anno più giovane. Il patrigno cominciò a insultarlo, a spingerlo verso Frank che di rimando lo spinse di nuovo verso Anthony e Jason si trovò intrappolato in un gioco dove lui era la marionetta.
“Sei uno smidollato, una pappamolla. Mi vergogno di te.”
“Lasciatemi stare”, uggiolò lui in preda alla disperazione.
Anthony caricò il braccio e lasciò partire una sberla che colpì Jason in piena faccia, poi un’altra e un’altra ancora fino a che il naso si ruppe e lui crollò a terra mischiando il suo sangue a quello della preda in modo irreversibile. Si strinse al corpo caldo dell’animale e il suo pensiero volò ancora indietro, verso un altro incubo, verso un altro paio di occhi che lo guardavano dal nulla, mentre lui sanguinava copiosamente.
Mamma, disse dentro di sé.
Jason tornò al presente, si alzò dalla poltrona e si versò due dita di scotch, poi si risedette pesantemente mentre il cuore gli martellava nel petto. Prese il fascicolo davanti a lui. Rilesse l’ultima nota ed esclamò ad alta voce. “Per Dio questo ha fatto la guerra in Corea, è sopravvissuto ed è stato ammazzato da una macchina.
Era un reduce.” Posò il fascicolo sulle ginocchia e fece mezzo giro sulla poltrona, bevve un sorso di scotch e il suo sguardo si perse nella vastità di New York.
Quel fascicolo.
Era stato uno dei primi che aveva ricevuto, inviatogli dalla moglie dell’uomo che era morto a bordo di una Brown, un uomo sopravvissuto alla guerra di Corea che aveva poi perso la vita su una qualunque strada degli Stati Uniti. Aveva riletto quel fascicolo decine di volte.
Lo aveva riletto anche quella mattina, prima di andare a pranzo con i soci, prima della riunione in cui aveva ripreso Pamela.
Ricordò una giornata calda, di sole. Quando sua madre Marion gli aveva detto che suo padre era morto, in quella terra lontana e per motivi che Jason, bambino di sette anni, non era riuscito a comprendere. Aveva solo capito che il padre, quello vero, militare di carriera e membro delle Forze Speciali, non era Anthony, ma un uomo che lui non aveva mai conosciuto e che ora sua mamma gli mostrava con delle foto leggermente sbiadite dal tempo. Era stato colpito dagli occhi che mandavano lampi di luce, assieme a un’aria malinconica, quasi fosse consapevole che sarebbe morto giovane.
Mio padre è morto in Corea e io non l’ho mai conosciuto, un dolore sordo continuava a battere nel suo petto, a un ritmo costante, come quello del suo cuore.
San Francisco, 3 ottobre 2000
5
Il freddo era una costante quasi assoluta. Sia d’inverno che d’estate. L’uomo brontolava tra sé e sé, come del resto aveva fatto negli ultimi cinquant’anni di vita, mentre macellava un agnello. Non pensava sarebbe stato così. Si era immaginato al comando di una grande nave militare, o anche di un transatlantico eggeri, per crociere di lusso. Ma le visite mediche per il reclutamento avevano frantumato il sogno. Se li ricordava quei giorni.
Il pensiero vagò ancora lontano, il sole furioso batteva sulle teste rasate degli allievi ufficiali che marciavano con uno zaino di venticinque chili sulle spalle senza che un rivolo di sudore colasse su quei giovani corpi. Li aveva invidiati e si era detto: “Diventerò uno di loro, anzi diventerò il loro capo e sarò stimato e amato e odiato, ma sarò un capo.” Poi le visite mediche nell’ospedale militare di Fort Carson, Colorado. Giorni e settimane che erano volate via, disperse dall’insopportabile pigiama di flanella marrone le cui maniche della giacca gli arrivavano a malapena all’avambraccio e i cui pantaloni non superavano il ginocchio.
Si era sentito ridicolo al paragone degli allievi ufficiali, quelli che avevano sotto il loro braccio le ragazze più belle, quelli che giravano per la città vestiti in alta uniforme e la gente li guardava sfilare con un senso di invidia. Nella sua testa c’era un pensiero quasi compulsivo. Voleva sentirsi ed essere vivo, soprattutto nel clima che si respirava in quegli anni di guerra, laggiù in Corea.
Continuò a macellare l’agnello mentre la nausea gli montò nelle narici e nella testa, giù per l’esofago fino a riempirgli lo stomaco e l’intestino.
E poi era arrivata la chiamata dal capo medico, giù all’infermeria, l’anticamera per la professione militare e per una vita che era lì pronta ad aspettare lui. Nella sua bella uniforme. E al fronte. Ma il medico gli aveva sventolato davanti un foglio e delle radiografie, aveva parlato con parole incomprensibili.
“Allora sei contento che te ne vai?” gli aveva chiesto.
“Ma... come...?”
“Oh ma sei anche sordo?”
“Io voglio diventare ufficiale, servire il mio paese e andare in guerra per portare la libertà”, aveva detto l’uomo.
“Cos’è che vuoi fare tu?”
“Sì, io...”
“Hai un difetto congenito al cuore che è più grande dell’azienda vinicola dei miei nonni, è già tanto guarda se arrivi a trent’anni.”
“Il mio cuore è a posto” aveva reclamato l’uomo, mentre un sottile panico si stava impossessando di lui.
Il medico all’altro capo del tavolo sembrava non aver sentito, mentre la pancia gli ballava scossa da una risata irrefrenabile. Aveva preso un foglio strappandolo dalla macchina da scrivere, ci aveva pestato su un enorme timbro.
riformato
Anthony tornò a casa con un foglietto in mano, la vergogna di dirlo ai genitori, agli amici. Soprattutto il padre ci contava, quante cose aveva già millantato agli amici del bar, l’incredibile carriera militare che il figlio avrebbe fatto.
Sarebbe diventato un generale a quattro stelle, amava ripetere tra un sorso di vino rosso annacquato e un altro.
E invece...
riformato.
Il sole calava dietro le sue spalle mentre il suo vagare non voleva fermarsi, perso nei vicoli senza nome, nelle piazze troppo grandi, nei viali troppo lunghi. Aveva continuato a camminare così per ore, dando dei calcetti ai piccoli sassi che incontrava sul suo cammino come a voler allontanare un destino informe e grigio e senza più senso.
Finalmente il sole era andato giù, trascinando con sé il peso del giorno per tuffarsi in una notte scura.
Anthony si era appoggiato al portone, ansimando come un cane bastonato, un cane che aveva percorso decine di chilometri nella radura per cacciare l’animale, per riportarlo al suo padrone, vittorioso e glorioso.
E invece aveva solo un foglietto di carta stropicciata, con inciso il disonore.
Costa Est degli Stati Uniti, 30 maggio 1957
6
Anthony eggiava nervosamente per il corridoio dell’ospedale. Ogni tanto usciva sul terrazzino rovinato da anni di intemperie e si accendeva una sigaretta. Il tempo ava e nessuno veniva a dirgli nulla.
Guardò lontano verso l’immensa pianura che si stendeva davanti a lui, ormai erano più di trenta ore che era lì. Non aveva mangiato nulla, in tasca aveva pochi spiccioli che gli sarebbero dovuti bastare per qualche giorno ancora. Non era tornato a casa dopo la folle corsa in ospedale, puzzava di sudore e la gente ando affianco a lui lo guardava con una punta di riprovazione. Era impermeabile, indifferente agli altri perché tutto era rimasto nei suoi sogni di ragazzo pronto a sfidare il mondo, pronto a sottometterlo al suo volere e ai suoi sogni irrealizzati. Sfuocati e infranti, in quel pomeriggio d’estate a Fort Carson, sette anni prima.
Aveva incontrato Marion, era solo una delle clienti del suo negozio, quell’orribile macelleria dove ogni cosa era impregnata dell’odore dolciastro e rancido del sangue. Spesso le aveva dato, di nascosto dal padrone, un pacchettino con dentro della carne fresca, senza farla pagare. Sapeva che Marion stava attraversando un periodo di difficoltà economiche.
Aveva voluto arruolarsi nell’esercito degli Stati Uniti, con un solo scopo: fare a pezzi quei dannati coreani.
Ma quello che aveva avuto era un surrogato dei suoi desideri. Il sangue c’era, e anche in abbondanza, ma apparteneva a bestie che non avrebbero mai potuto difendersi da sole.
Uscì dall’ospedale per fare due i nell’ampio parco, ben tenuto in confronto al fatiscente edificio dove sua moglie Marion stava per mettere al mondo il suo primo figlio.
Il vero padre era morto in guerra, nella lontana Corea. La notizia aveva provocato uno sconquasso nella vita di Marion, mentre in quella di Anthony c’era stata una sorta di transfert emozionale. Lui, che era stato scartato dall’esercito e non aveva potuto partire per difendere il proprio paese, aveva preso il posto di un eroe di guerra ed era entrato in punta di piedi nella vita di Marion.
Infatti, pochi giorni prima di ritornare definitivamente negli Stati Uniti dopo l’ultima missione diplomatica in Corea, il marito di Marion era morto in una imboscata. La guerra era finita nel 1953, ma si erano rese necessarie molte azioni diplomatiche per la politica aggressiva tenuta dalla Corea del Nord verso il mondo intero, che di fatto aveva dato inizio alla Guerra Fredda.
Col tempo, Anthony era diventato il suo migliore amico e l’aveva conquistata con le sue maniere gentili e calcolate, l’aveva affascinata con le sue storie di guerra, tutte inventate. Con i suoi racconti, aveva ridestato in Marion una sorta di senso di protezione per lui che era ritornato dalla Corea, laddove il marito era morto. Aveva confuso realtà e fantasia, fino a quando queste erano diventate una sola cosa, unica e imprescindibile: l’urlo silenzioso di un uomo che aveva fallito e che aveva vissuto solo nella sua testa l’orrore della guerra, che pian piano si era trasformata allontanandolo da se stesso e dal mondo, cercando rifugio nell’alcool, nella violenza e nella caccia.
Poi la recita era finita. Quando Marion gli aveva dato la notizia che era incinta ma che non era lui il padre, Anthony si era alzato dal dondolo su cui entrambi erano soliti sedersi nelle afose serate estive e se ne era andato. Aveva vagato,
come sempre nella sua vita, perdendosi in qualche bettola. Aveva tracannato litri di vino e di liquori e aveva perso i sensi in un campo abbandonato alla periferia di quel piccolo centro. Si era risvegliato al mattino, con il sole che gli picchiava in testa, ricoperto da uno strato di vomito che si era raggrumato sulla sua camicia.
Era rientrato a casa e si era fatto la doccia, ma quell’odore maledetto non era andato via.
Tornò nello squallido corridoio dove infermiere e medici andavano e venivano senza badare a nessuno, dandosi ordini a vicenda. Anthony fermò una delle infermiere per chiedere a che punto fosse il parto ma ottenne in cambio solo un brontolio biascicato. La maledisse tra i denti e sentì dentro di sé l’impulso di sbatterla a terra, ma si trattenne e riprese a camminare con indolenza su e giù per il corridoio. Sentì che la tensione se ne andava mano a mano che arono le ore, fino al punto in cui il desiderio di diventare padre anche se non naturale, già flebile, si azzerò del tutto.
“Non trovi che sia bellissimo”, chiese Marion tenendo in braccio un essere umano di poche ore di vita. La manina stringeva forte il dito di Marion.
“Come lo chiamiamo?”, continuò Marion.
Lui non disse nulla, si limitò a guardare il bambino appena nato con aria assente. Schioccò un bacio sulla fronte di Marion e mormorò quello che doveva sembrare una dichiarazione di affetto.
Che ci faccio qui? Non è nemmeno mio figlio!
Tolse velocemente la mano e si voltò andandosene, lasciando Marion e il bambino in quella stanza di ospedale, lasciando dietro di sé l’ultima cosa che poteva salvargli la vita.
Arrivò a casa stanco come mai lo era stato in vita sua. Andò in cantina e prese la doppietta. Uscì nei campi e si inoltrò nei boschi, vide un daino a duecento i da lui e si acquattò dietro un cespuglio. Era sottovento e il daino non poteva sentire il pericolo, non poteva annusare la morte imminente. Anthony lasciò che il daino si avvicinasse.
Voleva vedere bene la sua vittima, guardarlo in quegli occhi così profondi, così selvaggi. Così vivi.
Il daino si avvicinò, o dopo o, fino a quando un’esplosione squarciò il silenzio del bosco.
Anthony uscì dal suo nascondiglio, con ancora in mano la doppietta surriscaldata. Si avvicinò al daino che giaceva immobile. Prese un coltello e si inginocchiò. Lo rivoltò e con un solo gesto lo squarciò aprendolo in due.
New Jersey, 12 giugno 1965
7
Non era più in grado di andare avanti così. Aveva sperato in un cambiamento che non era mai arrivato. Aveva creduto che Anthony potesse essere un buon marito, quando le faceva la corte discretamente, quasi timidamente. Quando le allungava un pacchetto di carne senza farle pagare nulla, aiutandola nelle difficoltà. Quando si era sentita sola, lui le era stato accanto. Una eggiata al parco, il cinema all’aperto. Le esperienze sessuali che l’avevano lasciata senza fiato travolta dalla ione che lui ci metteva. Altre volte l’aveva invece coccolata teneramente.
Anthony capiva, afferrava le cose al volo, le sentiva nell’aria.
Poi qualcosa si era rotto, dopo la nascita di Jason. Non all’improvviso come un bicchiere di cristallo che cadendo sul pavimento si infrange in mille schegge. Era avvenuto tutto lentamente.
Lui aveva cominciato ad allontanarsi sempre di più. Talvolta, lo sorprendeva a guardare dalla finestra un orizzonte e un panorama che era sempre lo stesso.
Aveva cominciato a parlare di meno e a bere di più. Qualche volta rincasava la sera tardi. Puzzava di vino, di whisky, di fumo di sigarette. Aveva smesso di lavarsi, aveva smesso di parlarle e di portarla fuori.
Aveva smesso di sorridere.
Poi era cominciato l’incubo. Le botte. Prima solo una volta ogni tanto, magari una sberla o uno spintone con la voce che saliva di tono e gli occhi che improvvisamente mandavano lampi di odio. Poi le botte erano diventate sempre più frequenti, tanto che in diverse occasioni aveva dovuto andare all’ospedale. Piccole ferite, all’inizio.
Poi ferite sempre più profonde.
L’arrivo del piccolo Jason aveva destato in Marion la speranza che lui potesse tornare a essere un uomo normale, affettuoso come lo era stato all’inizio. Ma le cose, se possibile, peggiorarono e più di una volta aveva dovuto sottrarre Jason dalla furia del padre, quando tornava a casa e sfasciava tutto quello che trovava sul suo cammino.
Marion aveva cominciato a temere per la sua vita e soprattutto per quella di suo figlio.
Inaspettatamente era arrivato un secondo figlio, non frutto dell’amore ma di una violenza. Non aveva voluto abortire ed era nato Frank, di due anni più giovane di Jason.
E a quel punto la vita era diventata un inferno.
Lei aveva cercato di sottrarsi, di scappare. Ma lui l’aveva rintracciata e riportata a casa con la forza, minacciando di ammazzare lei e i suoi figli se solo ci avesse provato ancora.
Aveva fatto un ultimo tentativo, la primavera precedente, convincendo Anthony a farsi visitare da uno psichiatra che aveva riscontrato una grave forma di depressione. Gli aveva prescritto dei farmaci, che non avevano avuto alcun effetto perché lui li mischiava con l’alcool, un cocktail micidiale di violenza pronto a esplodere in un qualunque momento.
Marion aveva dubitato della diagnosi, non era depressione quella di Anthony. Era qualcosa che lo stava mangiando dentro, che veniva da un ato che lui non aveva condiviso con lei.
Aveva cercato di parlarne col marito, capirlo. Ma era stato tutto inutile. Sempre, il dialogo si concludeva con una scenata, con urla e spesso i vicini di casa avevano dovuto chiamare la polizia che si era limitata a una breve ramanzina.
Nessuno aveva fatto nulla per aiutarli e Anthony era sprofondato sempre di più nella sua violenza repressa con un’origine sconosciuta che lei non sarebbe mai arrivata a comprendere, né tantomeno a guarire.
Marion uscì sul piccolo patio tenendo in mano un bicchiere di tè freddo con molti cubetti di ghiaccio. Se lo ò sulla fronte.
Salutò con finta allegria la sua vicina di casa che ricambiò facendole ampi cenni con le mani. Marion si chiese se il suo sorriso riuscisse a nascondere il senso di vuoto che aveva dentro da anni, quella mancanza di amore e di stabilità.
Si sedette sul dondolo arrugginito. Come ogni altro oggetto della piccola casa alla periferia di una città del New Jersey, era ormai in rovina. Bevve un sorso di tè freddo. E poi comparve, là in fondo a quella via squallida, veniva avanti
trotterellando sotto il peso di un’enorme cartella, quasi più grande di lui.
“Ciao mamma!”, gridò lui, distante com’era Marion vide prima il movimento delle labbra del figlio, e poi sentì la sua voce. Chiara e cristallina, farsi largo tra l’immondizia lasciata a marcire sui marciapiedi e arrivare fino a lei.
Si alzò in piedi e allargò le braccia, il bambino prese lo slancio e cominciò a correre gettandosi tra le braccia della madre. Lui sentì il suo odore delicato di indumenti appena lavati con sapone profumato al gelsomino. Affondò il suo viso tra i seni della madre, trovò quel senso di protezione e di amore che l’avevano cresciuto e coccolato per i suoi otto anni di vita.
“Jason, tesoro”, gli schioccò un bacio sulla guancia arrossata dal caldo e dalla corsa e scoprì che forse un motivo per stare al mondo ce l’aveva ancora.
“Dove sei stato?”, gli chiese senza aspettarsi una risposta.
Anthony entrò in soggiorno, si slacciò le scarpe e le buttò in un angolo, afferrò una bottiglia di birra ancora mezza piena e la scolò in pochi sorsi.
“Affari miei”, rispose emettendo un sonoro rutto.
“No affari nostri, Anthony. Nostri!”
“Stai zitta, non voglio sentirti.”
Marion si girò verso la finestra, lacrime amare scesero sulle sue guance, una fitta di dolore e di vuoto esplose nel suo petto, lasciandola pietrificata.
“Vattene da questa casa.”
“Cosa hai detto?”, rispose lui alzandosi piano dalla poltrona e facendo qualche o verso Marion.
“Ti ho detto di andartene!”, gridò scagliandosi verso Anthony, picchiando forte i pugni contro il suo petto.
Jason sentì le grida, sentì il rumore dei mobili fracassati e di bicchieri rotti, uscì da camera sua e rimase in piedi sulle scale a guardare, paralizzato dalla furia cieca del suo patrigno che colpiva senza pietà Marion al volto, al petto. La buttò a terra e Marion batté violentemente la testa sul pavimento. Jason scese le scale più velocemente che poté, si scagliò verso il patrigno in un disperato tentativo di fermarlo, ma lui lo fece volare a tre metri di distanza. Anthony sollevò lo sguardo e rimase come incantato da quella scena, la rabbia gli montò addosso ancora di più esplodendo in una furia cieca, si accosciò e afferrò la moglie per i capelli, il corpo stranamente leggero, inerte.
E finalmente un velo nero scese su Marion, mentre Jason guardava nei suoi occhi che a un tratto divennero spenti e lo fissarono.
Come se la colpa fosse stata sua.
Da qualche parte nei boschi del Connecticut, primavera del 1970
8
Anthony uscì dal vecchio capanno nel bosco, stringeva in entrambe le mani i resti di due fagiani.
Li tirò addosso ai due ragazzi seminudi, tremanti nel freddo di quella primavera particolarmente pungente e carica di nuvole di pioggia. Da settimane pioveva senza sosta, i campi erano allagati e i raccolti sarebbero stati poveri. L’aria era densa di umidità.
I due ragazzi non fecero in tempo a ritrarsi e i fagiani si schiantarono sui loro petti.
Uno dei due, quello più robusto, Frank, si mise a ridere. Improvvisamente dimentico del freddo, afferrò da terra il fagiano e lo aprì con un coltello.
L’altro ragazzo, quello magro, Jason, prese a tremare ancora più violentemente.
L’uomo se ne accorse subito.
Gli si avvicinò, prese il fagiano da terra e serrò la gola del ragazzo in una morsa. Gli piegò con forza la testa all’indietro e lo costrinse a bere il sangue, mentre l’altro ragazzo rideva furiosamente battendo le mani.
Poi lo trascinò lungo un sentiero polveroso, lo strattonò e lo prese a calci nella schiena sbattendolo con forza sul cofano di un vecchio camioncino Dodge.
Prese da terra un fuscello e cominciò a percuoterlo in faccia, il ragazzo urlava e le sue grida risuonarono nel bosco facendo fuggire gli animali, facendo levare in volo gli uccelli. L’uomo lo costrinse a voltare le spalle, gli intimò di stare zitto mentre continuava a frustarlo con il fuscello. Non smise neanche quando dalla schiena il sangue prese a sgorgargli a spruzzi.
L’altro ragazzo osservava la scena da una decina di i, incitando il padre e lanciando grida di giubilo e di scherno.
Finalmente l’uomo si fermò, stanco e ansimante.
Afferrò per il collo il ragazzo gracile e lo sollevò da terra.
“Lo vedi quello? Ora è il tuo turno di tirare fuori i coglioni.”
Prese un coltellaccio dall’interno del Dodge e lo mise in mano al ragazzo.
“Devi aprirlo in due, prendere il cuore e mangiarlo assieme a tuo fratello. Capito?”
Il ragazzo gracile continuava a scuotere la testa, tremava sotto la spinta della paura. Se la fece addosso.
L’uomo sentì il puzzo.
“Sei una donnicciola”, gli urlò nell’orecchio. “Guarda come si fa.”
Si avvicinò affianco al cervo immobile. Il pesante calibro 7x64 aveva perforato il cuore e provocato la morte in un istante.
L’uomo strattonò la mano di Frank.
“Fallo e insegna a quella mezza sega come si fa.”
Frank afferrò il coltello, si accovacciò e strinse la gola del cervo. Poi affondò il pugnale nel ventre e tirò con forza il coltello verso i quarti posteriori, aprendo in due l’animale. Afferrò il cuore con le mani e con un movimento secco lo strappò via dalla carcassa. Affondò i denti nel cuore, ne morse un pezzo e lo inghiottì. Poi lo porse al padre, tenendolo con le due mani a coppa.
Il padre lo prese orgoglioso, si voltò verso il ragazzino gracile.
“Mangia.”
“No”, rispose Jason scuotendo la testa, con le lacrime che gli scendevano copiose dagli occhi.
Il padre lo afferrò di nuovo per la gola e gli infilò in bocca un pezzo del cuore del cervo.
Il ragazzino vomitò all’istante e l’uomo lo riempì di sberle, lo buttò con una spinta sul cofano della Dodge. Prese dal cassone di carico alcune funi, lo legò in fretta immobilizzandogli le gambe e le braccia.
Anthony guardò la sua opera e si disse che era una bella preda. Poi estrasse dal taschino del giubbotto una macchina fotografica Polaroid, scattò un paio di foto e lasciò che asse qualche minuto, mentre il risultato del suo lavoro si materializzava sul quadrato nero. Mentre i contorni e i colori della scena che aveva davanti agli occhi magicamente si disegnavano anche sulla carta.
Tenne una foto per sé, e l’altra la infilò con forza nella tasca dei pantaloni stracciati di Jason, del tutto privo di sensi.
New York, 3 ottobre 2000
9
Aveva girato a vuoto per le strade di New York per tutto il giorno. Sebbene abitasse a Brooklyn, non era mai venuta a patti con Manhattan. Le dava un senso di claustrofobia. Gli altissimi grattacieli sembravano voler chiudere in una morsa chiunque asse al loro cospetto. Era come addentrarsi in un canyon delle Montagne Rocciose, a poco a poco la luce svaniva e il sole veniva inghiottito dai colossi di vetro e di acciaio.
Era giunta nel downtown, appena sotto le Torri Gemelle, aveva eggiato sul Pier 51. Si era infilata in uno stretto aggio sotto il molo, poi era scesa per delle scale ammuffite e cosparse di ogni genere di immondizia fino a raggiungere l’East River. Era rimasta a lungo seduta con i piedi nel fiume, le erano venuti in mente alcuni dettagli della sua infanzia. Le estati ate in campeggio nei boy scout, i fuochi alla sera e le canzoni cantate fino a tarda notte accompagnate dal blando suono di una chitarra male accordata. I primi baci e le avventure nelle tende di un ragazzo che le piaceva molto. Sorrise dentro di sé al ricordo quasi malinconico di anni diversi, anni più lenti, anni che erano trascorsi nella monotonia di Brooklyn e nel sole dei campeggi, su a nord nel New England.
Il sole aveva descritto un piccolo arco nel cielo, ora illuminava con forza il ponte di Brooklyn e quello di Giovanni da Verrazzano. Come sono diverse le visuali e i panorami, a seconda dei punti di vista, pensò. Così maestosi e quasi imperiali, se osservati dall’alto di un grattacielo. E poi c’era la visuale da terra.
Agitò i piedi nell’acqua facendo mulinare il freddo fiume che lento ed eterno scorreva verso il mare. Immerse nell’East River le mani strette a coppa, raccolse un po’ d’acqua e se la versò sopra la testa. Una piccola cascata la inondò dall’alto, bagnandole i capelli e le spalle e scese lungo la schiena facendole
provare sottili brividi di piacere.
Si alzò e salì i gradini, si ritrovò al livello della strada e percorse qualche centinaio di metri verso ovest. Le Torri Gemelle svettavano sopra di lei e Sally alzò lo sguardo, dovette protendere il collo talmente all’indietro che sentì dolore, non riusciva a guardare così in alto.
Attraversò la strada ed entrò nella Torre Sud, pagò dieci dollari per il biglietto e si mise in fila.
L’ascensore la inghiottì.
Si fermò al cinquantaquattresimo piano e volle salire più in alto.
Fece un’altra piccola coda e prese il secondo ascensore. Appena mise piede fuori dalla porta sbandò e cercò di riprendere l’equilibrio, il cuore aumentò le pulsazioni, si disse che era normale, sapeva che le Torri erano state costruite per consentire un’oscillazione di tre metri per ogni lato, in modo che non si spezzassero sotto i forti venti che soffiano a quattrocento metri di quota.
Salì su una scala mobile, e dal 104esimo piano arrivò al 106esimo. L’open space era gigantesco, si voltò sulla sua sinistra e vide che un dipendente stava appendendo le foto dei visitatori scattate al piano terra. Cercò la sua, e la vide. Una ragazza sola, con lo sguardo triste e un sorriso luminoso.
ò oltre e salì per un’altra scala, al Top of the World. Ancora avvertì quel
senso di sbandamento, questa volta il grattacielo si era spostato velocemente e di parecchi metri sulla destra. Il senso di vertigine fu immenso, ma continuando a camminare si affacciò, per la prima volta guardò giù.
Rimase delusa, un’altra terrazza giaceva sotto il suo punto di osservazione e la visuale non era a strapiombo come nell’open space sottostante, dove incollando il viso ai vetri si poteva guardare fino giù alla strada senza alcuna interruzione.
Fece il giro della terrazza, osservando il panorama che si stendeva davanti a lei.
E si sentì tremendamente sola.
Prese la metropolitana e poi un autobus. Si lasciò dietro il fasto e lo splendore di Manhattan per ributtarsi nella periferia di New York. A ogni o le sembrava di sprofondare. Alzò il bavero del leggero giubbotto di cotone, un vento fresco si levò improvvisamente attirato dalle correnti d’aria.
Svoltò a sinistra lasciando Remsen Avenue e camminò sull’acciottolato dell’ottantanovesima strada est.
Ho sempre vissuto qui, pensò Sally infilando la chiave nella toppa del portone. Aprì e un tanfo di piscio e di spazzatura la avvolse immediatamente, facendole mancare il fiato. Le si incollò sui vestiti, le si attaccò ai capelli, le bruciò in gola. Trattenne a stento un grido, che le rimbombò dentro. Salì le scale incurvando le spalle e tenendo lo sguardo fisso a terra, pensando ai genitori che erano entrambi morti, ormai da alcuni anni.
Aprì la pesante porta blindata, unico strumento di difesa in quel quartiere degradato ed entrò al buio, compiendo alcuni gesti meccanici che ormai le erano diventati familiari. Le chiavi appoggiate sulla mensola in entrata, il giubbotto appeso all’appendiabiti.
I piatti sporchi erano ancora nel lavello, un odore di cibo aleggiava nell’aria. Aprì il rubinetto e il getto dell’acqua lavò via, almeno in parte, i rimasugli di cibo.
Si preparò un caffè e si accese una sigaretta sedendosi sulla poltrona preferita da suo padre.
Chiuse gli occhi e il suo pensiero volò a Jason, alla sua energia. Si trovò a desiderare di parlare con lui, di abbracciarlo e amarlo come non aveva mai fatto nessuno, neanche sua moglie.
Sospirò e si alzò dalla poltrona, ripensando a quella sensazione di paralisi che l’aveva bloccata la mattina quando invece avrebbe dovuto prendere il coraggio a due mani, fermarlo per la strada, presentarsi e dargli il suo curriculum. Si sentì sconfitta, Jason non avrebbe mai letto la sua lettera di presentazione, probabilmente era già finita nel cestino della carta straccia.
Prese il telefono e compose un numero, disse alcune parole e qualche minuto dopo fu fuori dal suo appartamento e quando finalmente arrivò a casa della sorella, una piccola villetta bianca circondata da un giardino, si sentì meglio.
Suonò il camlo e una voce eccitata le restituì il sorriso.
10
Sedeva da solo alla scrivania, un’immensa lastra di cristallo antisfondamento lucidata a specchio, sorretta da due piramidi in lega di titanio. La superficie della scrivania era così trasparente e pulita che sembrava impossibile che Jason Davis ci avesse trascorso l’intera giornata, e parte della sera. I divani color panna cingevano i tre lati dell’ufficio lasciati liberi dalla scrivania.
Sì, tutto ciò gli piaceva. Così come gli piacevano i due Renoir appesi sulla parete davanti a lui, appena illuminati da faretti discreti che proiettavano una luce speciale capace di non alterare o danneggiare il fragile olio su tela.
Bisognava aver rispetto di Jason e delle sue cose.
Dei suoi giocattoli, come amava chiamarli lui. Giocattoli costosi, come il suo Hawker XP-800 parcheggiato a pochi chilometri da lui, un jet intercontinentale capace di portarlo da New York a Londra nello spazio di poche ore. E i giocattoli avevano bisogno di cure, talvolta maniacali.
Il suo sguardo si spostava lentamente osservando ogni dettaglio del suntuoso ufficio, dalla libreria di fine ottocento riccamente intagliata, ai sei monitor da 21 pollici appesi alla parete. Quei sei monitor avrebbero dovuto mostrare cose importanti. L’andamento della Borsa di New York, la CNN, le ultime notizie provenienti dai Tribunali di mezzo mondo. Invece indicavano cose futili e che spesso confondevano le idee ai suoi preziosi e, a dire il vero, pochi visitatori che avevano l’onore di essere ammessi nel suo ufficio. Le previsioni del tempo di Roma e Berlino, la Terra ripresa dall’alto di un satellite che mostrava le linee della luce e del giorno in costante evoluzione. Anche da quei monitor, così in
vista, non era possibile estrarre alcuna informazione dell’intimità di Jason.
Jason si alzò e andò dalla parte opposta dell’ufficio, digitò un codice su un tastierino e una porta abilmente nascosta nel muro scivolò silenziosa, rivelando all’interno decine di monitor tutti accesi, computer, console, tastiere e joystick.
Due monitor mostravano l’interno di casa sua, un’elegante villa vittoriana appena fuori New York, poche decine di chilometri, immersa in un parco. Jason si soffermava spesso su quei monitor, le camere da letto dei suoi due figli, tredici anni Kelly e solo quattro anni il piccolo Joshua. La sua felicità, quella vera, per cui era valsa la pena combattere per così tanto tempo.
Aprì una scatoletta in legno, ne estrasse un grumo di qualcosa che assomigliava a terra Hashish, un feroce pakistano procurato da una persona che lavorava per lui da tempo, un uomo discreto e riservato ma tremendamente efficace. Qualche secondo e l’hashish era già in circolo, finalmente Jason poteva rilassarsi e lasciarsi andare nella soffice poltrona di cuoio, spegnendo un po’ la sua coscienza e la consapevolezza.
Devo smetterla con questo rito, si disse. Ma un istante dopo rise del suo stesso pensiero, di certo non si considerava un drogato. Era solo un modo per rilassarsi che lo aveva catturato dai tempi del college.
Rivolse l’occhio destro al monitor preferito. Vide sua moglie Claudine mettere a letto Joshua, dargli il bacio della buonanotte. In sottofondo l’eco delle voci. Ma quando arriva papà? Dormi tesoro, vedrai che ti apparirà in sogno, come in una magia ti prenderà per mano e ti accarezzerà i capelli. Ma davvero, continuava a chiedere Joshua. Adesso dormi, è tardi.
Kelly invece era sdraiata sul secondo monitor, sul suo letto a pancia in giù. Le cuffie dello stereo portatile nell’orecchio destro, i calzettoni bianchi, la testa che si muoveva al ritmo della musica mentre con l’orecchio sinistro parlava al telefono con una delle sue amiche, probabilmente Phoebe.
Devo decidermi a togliere la web-cam dalla camera di Kelly, pensò Jason. Ormai è troppo grande e non voglio vedere... Inorridì al pensiero di scoprire sua figlia con un ragazzo. Devo toglierla questo week end, subito.
Jason lesse l’accurata descrizione del progetto, guardò le foto che mettevano a confronto l’area urbana, prima del progetto di ristrutturazione e dopo che i lavori sarebbero stati terminati. La differenza era abissale, da un monotono grigio spento si ava a edifici moderni, appartamenti spaziosi circondati dal verde di alberi piantati a centinaia, panchine e altalene, negozi e centri commerciali. Una completa riqualificazione di un’area nella quale aveva speso metà della sua vita. Jason cliccò su alcune foto, poté ammirare l’interno dei loft e degli appartamenti così diversi da come erano sempre stati e sorrise nel monitor.
Tornò alla sua scrivania dopo aver digitato il codice che chiudeva ermeticamente la stanza segreta. Sollevò la cornetta e compose il numero di telefono dell’uomo che gli procurava il pakistano.
“Buonasera.”
“Avvocato, buonasera. Ecco, siamo su un canale riservato ora. Cosa posso fare per lei?”
Jason gli raccontò dello scontro verbale con Randy Stewart in Tribunale, gli
disse che il capannone non era più un luogo segreto.
“Non si preoccupi. Farò installare delle telecamere e dei rilevatori di presenze all’infrarosso. Metterò altri uomini a proteggere il perimetro, nessuno si avvicinerà se non invitato.” Jason si compiacque nel sentire quel “non invitato”, due parole che erano da sempre nel suo vocabolario.
“Grazie Mr. H”, usando come di consueto il soprannome che lui stesso aveva scelto anni prima.
“Grazie a lei, avvocato”, e la linea si interruppe.
Jason posò il telefono e con un click sul suo PC spense i sei monitor contemporaneamente con un effetto in dissolvenza, prima lenta e poi sempre più veloce fino a risucchiare le immagini in un piccolo puntino luminoso al centro dello schermo, che brillò per un istante prima di dissolversi tra i milioni di pixel. I faretti che illuminavano i Renoir si abbassarono fino a lasciare nell’oscurità ventiquattro milioni di dollari.
Si alzò dalla poltrona in modo indolente, si assestò il nodo della cravatta e controllò la piega dei pantaloni, ancora affilate come lame di rasoi. Con un sorriso soddisfatto imboccò il lungo corridoio che portava all’ascensore privato, i suoi i rimbombavano sul parquet come colpi di pistola, gli piaceva quel rumore maschio e deciso.
In un attimo fu giù in garage, accese il motore della sua Aston Martin blu notte. E la notte lo avvolse, mentre si lasciava alle spalle le luci di New York.
11
“Ciao zia”, esclamò Thomas saltandole in braccio.
Sally lo abbracciò e lo prese in braccio, il bambino rise felice.
Il mondo di Sally aveva perso colore, un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro era diventato sempre più grigio, avvolto da una nebbia che non si sollevava mai, neanche nei giorni più luminosi. Un senso di precarietà e di instabilità aveva cominciato a dominare le sue giornate e man mano era diventata sempre più irascibile, nervosa e insoddisfatta.
Al contrario della sorella, Anna, che aveva saputo rimanere a galla ma che non aveva potuto aiutarla. Tra le due sorelle c’erano ben sedici anni di differenza. Poi erano arrivati per Sally gli anni di una certa indipendenza, forse di una serenità ritrovata quando aveva cominciato a frequentare il college alla Columbia University, dove si era laureata in legge pochi mesi prima. La vita aveva cominciato a scorrere con una certa regolarità, scandita da esami, lezioni e lavori di gruppo. Aveva cominciato a sentirsi parte di qualcosa che la aiutava in qualche modo a vivere al riparo dalle depressioni dell’infanzia e dell’adolescenza.
Era però rimasta sola affettivamente, neanche quei pochi ragazzi che aveva frequentato e con cui era uscita era stata capace di creare un legame che andasse al di là di un’amicizia, forse più affettuosa delle altre, ma mai un vero amore. E capitava sempre che questi ragazzi, un giorno con l’altro, sparissero del tutto dalla sua vita, senza spiegazioni, senza una lettera né una e-mail. Lei provava a cercarli, si riduceva a essere zerbino e come tale veniva trattata.
“Ciao sorellina, finalmente ti fai vedere”, esclamò Anna stringendola forte a sé. Anna era il suo unico, vero legame.
“Scusami hai ragione, sono stata molto impegnata in queste settimane.”
“Eh, a chi la racconti” le fece un occhiolino e subito vide l’espressione di lei, farsi improvvisamente triste.
Si sedettero tutti a tavola e Sally ritrovò il calore della sorella e di suo nipote, che non mancava mai di stupirla con i suoi racconti da ragazzino monello. Lo invidiava, perché lui aveva ancora tutta la giovinezza davanti, mentre lei si sentiva così stanca e disillusa, come se la sua vita fosse già finita. Come se, in realtà, non fosse mai iniziata.
“Allora cosa c’è che non va?”
“No niente non ti preoccupare.”
“Dai, a me puoi dirlo lo sai.”
“Oggi dovevo vedere una persona. O meglio, avrei dovuto abbordare un avvocato ma non sono riuscita nemmeno ad avvicinarlo. Io che sono quella che si è laureata con il massimo dei voti, che ho abbindolato professori e assistenti, non sono stata capace di rivolgere la parola a questo avvocato.”
“Forse l’hai idealizzato un po’ troppo, come al solito metti sul piedistallo le persone che ti piacciono e dopo un po’ queste diventano irraggiungibili.”
“Già, forse.”
“Come va con la ricerca del lavoro?”
“Bene, ho fatto qualche colloquio, in uno studio mi hanno già praticamente assunta.”
“Ma è fantastico! Dobbiamo festeggiare.”
La sorella si proiettò in cucina per prendere due bicchieri e una bottiglia di vino. Sally poteva vederla armeggiare con il cavatappi, ogni tanto Anna si girava verso di lei e le lanciava grandi sorrisi.
Tornò quasi subito con i due flute di cristallo e una bottiglia di spumante.
“Al tuo nuovo lavoro, allora”, e alzò il bicchiere verso la sorella.
Sally brindò ma dentro di sé sapeva che era stata sconfitta un’altra volta e che il suo sogno di lavorare con Jason sarebbe rimasto irraggiungibile. Quello che era stato il suo mentore silenzioso all’università, il modello che lei aveva studiato,
sarebbe rimasto su un piedistallo fuori dalla sua portata.
“Senti, per curiosità. Chi è l’idolo a cui hai cercato di consegnare il curriculum?”
“Oh, non è importante” rispose Sally aiutando la sorella a mettere in lavastoviglie i piatti sporchi.
“Dai dimmelo, sono curiosa.”
“E va bene, uffa. Si chiama Jason. Jason Davis.”
Anna si bloccò all’istante, piegata in due sulla lavastoviglie. Si alzò lentamente, quasi un centimetro alla volta.
“Scusa, puoi ripetere il nome?”, le chiese con un filo di fiato.
“Jason Davis, ha uno studio a Manhattan. Si è fatto dal niente e sono anni che seguo le sue orme. So tutto di lui”, rispose Sally.
Anna si allontanò velocemente dalla cucina, camminò nervosamente per la sala da pranzo. Continuava a guardare la sorella che, dandole le spalle, dava le ultime ate al lavello per farlo brillare. All’improvviso la visuale si rimpicciolì, Sally divenne sempre più piccola mentre le sue parole arrivavano a lei in modo quasi del tutto incomprensibile. Corse su per le scale seguita dalla voce di Sally che la chiamava, mentre il pensiero valicò il tempo.
Anna all’improvviso sentì una botta alla schiena e un attimo dopo cadeva rovinosamente per le scale, come trascinata verso il basso da un’immensa forza.
Un mano calò verso il suo viso e le diede uno schiaffo, la teneva saldamente per i capelli trascinandola nel sottoscala.
“Stai zitta troia, sennò ti ammazzo.”
Anna fece un cenno con la testa, un tremito incontrollabile le si diffuse in tutto il corpo ma si impose di stare ferma.
L’uomo le strappò la camicetta e insinuò le mani sotto di essa, afferrandole i seni e stringendoli forte. Anna urlò di dolore e un conato arrivò all’improvviso.
“Cosa fai mi vomiti addosso? Adesso ti faccio vedere qualcosa di bello.”
Anna cercò di scalciare ma si rese subito conto che sarebbe stato inutile opporsi, l’uomo la inchiodava a terra con il suo peso, cercava di baciarla sulle labbra. Un altro conato arrivò quando Anna sentì l’odore fetido dell’alito.
L’uomo la prese per la testa e le assestò uno schiaffo. Il mondò andò in frantumi. La vista si oscurò per un attimo, poi riapparve. Le aprì le gambe con una violenza inaudita, le mutandine sottili si strapparono. Cercò di reagire chiudendo disperatamente le gambe.
No, non può andare così, pensò disperata.
A un tratto la pressione sul suo corpo si allentò, la bestia si era girata e aveva pronunciato una frase che non era riuscita ad afferrare.
Anna aveva sollevato la testa, il dolore per le botte ricevute le esplose nel cervello e intravide un altro uomo che si stagliava in controluce sulla porta e poi quell’uomo era addosso alla bestia ed erano rotolati per terra, avvinghiati uno all’altro, strappandosi i capelli e tirandosi pugni e calci. La bestia si era liberata per un istante, un piccolo breve istante nel quale aveva tirato fuori qualcosa che luccicava e un secondo dopo correva via, mentre l’uomo che era entrato dalla porta guardava incredulo il suo petto squarciato e il sangue scorrere come una fontana sul cemento grezzo.
Anna si avvicinò reggendosi al corrimano. Il corpo dell’uomo in una pozza di sangue. Si accucciò e gli accarezzò dolcemente la testa mentre la pozza di sangue si allargava sempre di più.
“Ti prego non morire”, disse. Poi prese da terra un lembo di stoffa insanguinato, un pezzo della sua camicia strappata.
Quindi tornò a chinarsi sull’uomo che conosceva bene, un ragazzo di due anni più grande di lei. Quello con cui aveva fatto l’amore per la prima volta, pochi giorni prima. In lontananza si sentivano grida, urla e le sirene dell’ambulanza. Mentre i vicini si affollavano intorno per assistere allo spettacolo, mentre Anna stringeva forte a sé la testa di Jason, cullandola, sussurrandogli parole dolci.
Anna venne richiamata bruscamente indietro dalla voce di Sally.
“Tutto okay?”, le chiese Sally dal fondo delle scale.
“Sì, sto controllando che Thomas dorma”, disse sussurrando mentre scendeva le scale.
“Sei pallida, ti senti bene?”
Anna ignorò la domanda e prese a riordinare il tavolo da pranzo.
Sally fissò la schiena della sorella e in silenzio ò uno straccio sul tavolo di legno, raccogliendo le ultime briciole.
“Perché proprio Jason Davis?”
“Cosa vuoi dire?”
“Perché proprio lui, dannazione!”, esclamò Anna girandosi.
“Ma scusa che ti prende? È un avvocato famoso, si batte per delle cause civili importanti e non ne ha mai persa una.”
“Ce ne saranno sicuramente altri di avvocati, perché vuoi rivangare il ato chiedendo un lavoro a Jason?”
“Il ato?”
“Senti, lascia perdere okay. Cercati un altro lavoro, dimenticati di quell’avvocato.”
“Forse è meglio se mi spieghi.”
Anna prese dalla libreria un album, lo sbatté sul basso tavolino del soggiorno.
“Qui c’è il motivo per cui non devi lavorare per Jason!”, le urlò.
Sally non aveva mai visto la sorella così fuori di sé. Prese l’album e aprì la prima pagina. Intravide una foto con un titolo inequivocabile. Una foto in cui apparvero le due persone che più aveva care al mondo. Anna e Jason giovani, ragazzi. Sorridenti. Il titolo a rovinare tutto: “Tentato stupro a Brooklyn.” Ma Anna le strappò dalle mani l’album prima che Sally potesse cominciare a leggerlo.
“Vattene ora.”
“Anna, calmati”, disse Sally abbracciando la sorella mentre il suo corpo fu scosso da tutte quelle lacrime che non aveva potuto piangere.
Anna si lasciò andare a terra, trascinando con sé Sally che continuò a stringerla forte. L’abbraccio della sorella non servì a nulla, perché lei continuo a cadere.
A cadere.
A cadere, e i ricordi presero il sopravvento.
Anna era arrivata di corsa in ospedale, madida di sudore e zuppa del temporale estivo che si era abbattuto su Brooklyn.
L’enorme infermiera che le si parò davanti all’improvviso la rese ancora più piccola di quanto già la sua giovane età mostrava.
“È troppo presto per le visite, il paziente non è in grado né di sentirti né di vederti.”
“Ma io gli devo parlare, è importante la prego mi lasci are.”
“Ascoltami ragazzina, te lo ripeto. Ora non si può, il paziente è stato in sala operatoria per cinque ore. La coltellata ha leso in profondità alcuni organi vitali, il polmone sinistro ha avuto i danni maggiori.”
Anna si accasciò su se stessa.
“Ma si riprenderà?”
“Non lo sappiamo. Il paziente ha avuto due arresti cardiaci e ha perso molto sangue. Ti è chiaro ora il quadro”?
“Non è il mio ragazzo”, esclamò Anna. “Anzi no, lo è. Non lo so”, disse confusa.
“Comunque la situazione non cambia, ora non puoi vederlo.”
Stringeva come una reliquia il lembo della camicia, sul quale si sommava il suo sangue a quello di Jason.
Anna annuì.
La donna le appoggiò la mano sulla guancia. Un’ora prima era stata informata da un poliziotto di quello che era successo.
“Torna domani, ti sapremo dire qualcosa di più.”
Anna uscì dall’ospedale di Brooklyn Hights, si sedette su una panchina nel piccolo giardino, si strinse e si sentì tremare tra le sue stesse braccia. Guardò il pezzo di stoffa che teneva in mano sussurrando una preghiera al cielo.
12
“Ora torna a casa, vattene”, esclamò Anna prendendo Sally per un braccio e trascinandola verso la porta d’ingresso.
“Non con te in queste condizioni, sei sconvolta.”
“Vai via!”
Sally fece un balzo all’indietro non capendo la reazione della sorella, la guardò per un lungo istante ma Anna rimaneva in piedi davanti a lei, tremando leggermente.
“Non devi lavorare per quell’uomo, mi hai capita?”
“Ma perché no?”
“Ci sono cose che non sai, Sally.”
“Allora dimmele.”
“No, ora vai via.” Le mise in mano la borsa e il soprabito, aprì la porta e la spinse fuori.
“Ci sono molti altri studi legali a New York, cercatene un altro”, e le sbatté la porta in faccia.
Sally rimase immobile sui gradini, poi si voltò e con o lento si fece avvolgere dal buio della notte, mentre Anna si appoggiò alla porta inghiottita da un buio ancora più profondo.
Anna tornò in ospedale il giorno dopo, e quello dopo ancora. La capo reparto aveva eretto un muro invalicabile per proteggere Jason da ogni minima emozione.
“È inutile che vieni qui tutti i giorni. Ti chiamerò io quando potrai vederlo.”
“Ma...”
“Niente ma. La vedi quella porta? Bene, al di là di quella sottile barriera ci sono persone, come te e me, che stanno lottando tra la vita e la morte.” Anna si sentì stupida, inetta. Egoista. Scrisse su un foglietto il suo numero di telefono e lo lasciò sul tavolo della reception.
“Ti chiamerò io”, le disse piano la capo reparto mentre Anna, a testa bassa e trascinando i piedi, si avviava verso l’uscita.
Si sedette sulla stessa panchina del piccolo parco che circondava le grigia mura dell’ospedale. Guardò un prato di margherite, amava quei fiori. Crescevano spontanei, liberi nei campi. Semplici e gioiosi.
Anna ne colse una e la portò al naso per annusarne il lieve profumo, così soffice ed etereo, così delicato.
I giorni arono, Anna tornò ad andare a scuola e le sembrò di precipitare in un mondo estraneo, mentre fino a pochi giorni prima adorava la scuola. Ora, anche le facce note dei compagni di classe le ispiravano repulsione. La mattina in aula la ava fissando la foto di Jason, che ora giaceva in ospedale sospeso a un filo. Niente più le importava, solo che Jason stesse meglio, che si riprendesse. Forse lo amava ora più di quanto lo avesse amato in quei pochi mesi da quando erano assieme.
Più volte le era capitato in quei giorni di svegliarsi nel cuore della notte avvolta da un senso di soffocamento, come se qualcuno la stesse strangolando, come se lo stupro avvenisse in quel momento.
Tentato stupro, pensò Anna sempre più persa nei suoi pensieri. Tecnicamente non era avvenuto. Anche la polizia e la magistrata che si occupava del suo caso le avevano detto la stessa cosa.
“Quella stronza”, disse a voce alta.
Il professore di geografia si zittì e fissò Anna, alcuni compagni di classe voltarono le schiene e la fissarono.
“Hai qualcosa da dire?”
“Mi scusi, pensavo a voce alta”, disse Anna e la classe scoppiò in un risolino mentre il professore annuiva, tornando alla lavagna.
Anna pensò a quel lungo interrogatorio, era durato quasi sei ore. Il sergente picchiettava sui tasti della macchina da scrivere, mentre la magistrata, sempre più irritata, le imponeva di smettere con il suo piagnucolio.
“Non siamo qui per giocare né per perdere tempo”, le aveva detto.
Anna avrebbe voluto mandare a quel paese quella stronza che se ne fregava del suo dolore, mandava occhiate al capitano di polizia in cerca di un sostegno, di qualcuno che potesse mostrare un minimo di umanità.
“Signorina, il mio compito è stabilire i fatti, determinare cosa è successo e che cosa si è inventata.”
“Io non mi sono inventata proprio nulla.”
“Non ho alcun dubbio, ma lei è giovane e carina. Cosa ne sappiamo che lei non abbia provocato il suo aggressore.”
Anna si era alzata di scatto e aveva puntato un dito contro la magistrata.
“Lei, lei non si permetta mai più di dire una cosa del genere, sono stata chiara?”
Il capitano la fissò e un accenno di sorriso comparve sul suo viso, è una ragazzina con le palle questa, pensò.
“Si metta a sedere e si calmi”, disse la magistrata sbuffando.
“E lei non mi provochi”, rispose Anna tutta rossa in viso.
“Mi ascolti, signorina. Io condivido il suo dolore, mi creda. Ma in aula la faranno a pezzi, per far credere alla giuria che la causa di tutto questo è lei.”
“Io?”
La magistrata rimase un attimo in silenzio, poi prese una cartellina verde e la aprì.
Anna ripensò al viso del suo aggressore. Era stato tracciato un identikit sommario, ma la polizia brancolava nel buio. Fino al giorno prima, quando l’avevano chiamata per andare in centrale. Il capitano di polizia le aveva mostrato un dossier di 20 foto, raccolto in una cartellina verde. Ogni foto era segnata da un numero. Lei aveva guardato attentamente le foto, poi aveva scosso la testa.
“Non è tra questi.”
“Facciamo una pausa” le aveva detto il capitano e l’aveva accompagnata giù in giardino. Il capitano era rimasto in silenzio, aveva lasciato che la mente della giovane si calmasse, che i ricordi riaffiorassero. Lui era sicuro che c’era la foto del suo aggressore in quella cartellina, e sapeva anche il numero. Ma era necessaria una conferma di Anna.
“Oh mio Dio”, disse al capitano.
“Che cosa c’è?”
“Torniamo un attimo nel suo ufficio.” Il capitano aveva annuito e sorriso tra sé e sé. Anna aveva ripreso la cartellina verde, scorso un’altra volta i volti questa volta velocemente.
“Mi dia dei fogli, per favore.”
Anna li appoggiò sui lati del viso di una delle foto, per eliminare i capelli. A destra, a sinistra e sopra.
“È lui.”
“Ne sei sicura?”
“È il numero 16.”
“Sei stata molto brava, Anna.”
“È lui vero?”
“Sei stata brava, adesso non ci pensare e torna a casa. Lascia fare a noi, d’accordo?”
Si erano alzati, il capitano aveva condotto Anna giù in cortile e aveva ordinato a un agente di accompagnarla a casa.
“Procedete”, disse il capitano. “Lo abbiamo sotto controllo vero?”
“Non si preoccupi, è da diciotto ore che non lo molliamo.”
“Allora arrestate quel figlio di puttana, avete carta bianca.”
Anna entrò in casa di ritorno dalla scuola.
“Hanno chiamato dall’ospedale, il tuo eroe sta meglio e ha chiesto di te”, le disse la madre sorridendole e abbracciandola forte. “Ora vai principessa, sennò fai tardi al ballo.”
“Dieci minuti, non di più. Chiaro?”
Anna annuì facendosi ancora più piccola nel suo acerbo corpo di adolescente. La caposala aprì la porta della stanza di Jason, poche ore prima era stato trasferito dal reparto di rianimazione alla terapia intensiva.
Anna rimase in piedi sulla porta. Jason giaceva semicosciente sul letto, gli occhi chiusi e lo schienale leggermente rialzato. Anna guardò la caposala, non sapendo bene cosa dovesse fare.
“Parlagli”, disse lei in tono incoraggiante.
Anna si avvicinò di qualche o al letto, gli accarezzò i capelli e la guancia. Jason aprì gli occhi e la guardò fisso.
“Stai bene?”, le chiese con un filo di voce e un accenno di sorriso che si spense quasi subito sul volto sofferente.
“Sì”, rispose Anna dopo qualche secondo, sentendosi tremendamente in colpa. Era lei che doveva giacere su quel letto, lei doveva avere nelle braccia quegli aghi, lei il respiratore ad alta concentrazione di ossigeno che si infilava nelle narici di Jason. Le scese una lacrima e non fece nulla per fermarla.
Jason le prese la mano, la accarezzò a lungo.
“È tutto finito, ora sei al sicuro”, le disse.
Anna si commosse profondamente e si sforzò di mantenersi salda. All’improvviso si ricordò che era stato Jason a chiedere di lei, appena si era risvegliato dal coma.
“No, non è tutto finito. Tu devi guarire.”
Jason sorrise.
“Non ti preoccupare. Qui mi trattano bene, anche se ogni tanto sono un po’ severi.”
“Ho avuto paura di rimanere sola.”
“Non sarai più sola, tesoro”, e attirò verso di sé la mano di Anna, anche lui in cerca di un conforto. Di amore.
Nella stanza aleggiò per qualche istante il silenzio, interrotto solo dal lieve suono prodotto dal monitor che misurava di continuo le pulsazioni cardiache.
“Ho una cosa importante da dirti, amore mio”, disse Anna avvicinandosi ancora di più, sussurrando nell’orecchio di Jason.
“Che cosa?”
“Non qui, voglio dirtela su un bel prato verde, tra le margherite, quando starai bene. D’accordo?”
“Okay, saprò aspettare allora”, disse lui con un sussurro portandosi la mano di Anna al viso, in cerca di una carezza.
“Molti sarebbero fuggiti”, disse di nuovo Anna, più a se stessa che a Jason.
Jason rimase in silenzio, consapevole della verità che aveva pronunciato Anna.
“Ieri sono stata alla polizia, ho riconosciuto l’aggressore in una foto segnaletica.”
Jason rimase zitto per qualche secondo.
“Ci può lasciare soli per qualche minuto?”, chiese Jason rivolto alla caposala.
“Solo cinque minuti.”
“Non devi farlo, è pericoloso per tutti.”
“Fare cosa?”
“Non devi denunciarlo”, e con questa frase le lasciò andare la mano.
“Perché no? Guarda come ti ha ridotto.”
“Se lo denunci, per me è finita”, rispose Jason dopo qualche istante, fissando il vuoto.
“Non capisco, perché dovrebbe essere finita? Andremo assieme in Tribunale e lo faremo sbattere in galera! Finalmente tornerai ad avere una vita normale e avremo giustizia entrambi!”
“No!”, disse Jason, quasi urlando.
Anna si ritrasse di un o, spaventata da quella reazione.
“Se va in galera non potrà farti del male.”
“Uscirà presto, molto presto. E quando uscirà sarà facile per lui trovarmi. E nel frattempo...”
“Nel frattempo?”
“Nel frattempo il mio patrigno mi renderà la vita un inferno.”
“Cosa c’entra lui adesso?”
Jason lasciò vagare lo sguardo per la stanza. All’improvviso il monitor lanciò un breve segnale di allarme, le pulsazioni avevano superato il livello di attenzione.
“Il mio patrigno è come il tuo aggressore, spietato come lui, come Frank. È lui che ti ha aggredita, il mio fratellastro. Non penso tu l’abbia mai visto, ti ho sempre tenuta alla larga dalla mia famiglia. Te l’ho raccontato una volta, sono due animali. Anthony si vendicherà su di me. E quando Frank uscirà di galera mi ucciderà. Lo capisci questo? Se lo denunci, è finita per entrambi. Tu e io saremo finiti.”
Anna rimase di sasso, fissò Jason per un lungo istante.
“Non puoi tirarti indietro proprio ora. Ce la caveremo assieme, Jason. Ti prego non lasciarmi sola.”
Il monitor lanciò una nuova serie di allarmi, fuori nel corridoio si sentì del trambusto, la porta si aprì ed entrò la caposala seguita da due infermiere.
“Fuori adesso!”, disse ad Anna.
Anna fece due i indietro, incapace di togliere lo sguardo dall’espressione dura e marmorea di Jason.
“Ritratta tutto. Dì che ti sei sbagliata!”
Anna si voltò di scatto e scappò dalla stanza, mentre Jason urlava ancora e il monitor impazzito non finiva più di lanciare allarmi.
Uscì dall’ospedale quasi correndo, poi si sedette sulla stessa panchina di sempre. Le margherite erano scomparse, il prato accuratamente tagliato. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e nascose il volto tra le mani, quello che voleva dire a Jason era stato tagliato proprio come quel prato.
E si sentì tradita e violentata un’altra volta.
13
Dopo la riunione, Pamela si chiuse nel suo ufficio e sedette alla scrivania. Cercò di ricordare altre occasioni in cui Jason l’aveva redarguita così, ma non riuscì a trovarne.
Ripensò a come Jason l’aveva trattata durante la riunione e si sentì come l’aveva fatta sentire Kealan qualche giorno prima. Era uscita da casa sua, all’alba di un giorno di settembre dopo che avevano fatto l’amore per tutta la notte. Prima di uscire, Kealan aveva detto a Pamela che la loro storia era finita e che non ci sarebbe stata un’altra volta. Pamela le aveva chiesto perché, l’aveva implorata di rimanere. Ma lei aveva sorriso e se ne era andata. Aveva provato a rintracciarla, ma ogni volta lei metteva giù il telefono senza neanche salutarla.
Cercò di concentrarsi sul lavoro, doveva inviare a tutte le persone che erano presenti alla riunione i memo scritti con i relativi compiti. Richiamò un software appositamente ideato per gli studi professionali, mediante il quale era possibile inviare delle e-mail crittografate in modo che non potessero essere intercettate o lette da occhi indiscreti. Un’altra trovata di Jason, per rendere sicuro lo spazio intorno a sé.
Cliccò sui nomi e allegò i file con le relative mansioni che aveva stabilito con Jason in terrazza. Poi inviò le e-mail.
Prese il cellulare e richiamò in memoria il numero di Kealan. Avrebbe voluto sentire la sua voce e accarezzare la sua pelle color ebano, liscia e levigata. Avrebbe voluto sentire il seno di Kealan contro il suo. Guardò il cellulare e seppe in un istante che non avrebbe più avuto tutto questo.
Del resto, lo aveva capito in fretta, già dalle scuole superiori quando le sue amiche erano impegnate a saltare di festa in festa. E di letto in letto.
Ogni tanto sorrideva e si inventava qualche storia, nascondersi tra l’erba bassa della savana le rendeva più facile cacciare. Spiava i corpi delle sue compagne.
Guardò ancora una volta il nome di Kealan sul cellulare, poi cliccò sul tasto cancella. E il suo mondo, quello che fino a pochi giorni lo aveva sostenuta, quello per cui era valso la pena alzarsi al mattino, venne risucchiato dalla memoria di un cellulare da quattrocento dollari e disperso al vento.
Montclair, 3 ottobre 2000
14
Percorse il lungo viale di accesso, la ghiaia scricchiolava sotto i pneumatici. Lasciò alla sua destra il bungalow adibito a studio di Claudine. Le luci poste a terra illuminavano dolcemente la strada sterrata, delimitata ai lati da due file ininterrotte di rose di tutti i colori e sfumature che rilasciavano nella tiepida sera di inizio autunno dei profumi che lo calmarono all’istante. Negli ultimi giorni la pressione era aumentata a dismisura e cominciava a risentirne. Jason pensò alla mattina, alla scenata nel ristorante e a come facilmente aveva perso il controllo. Pensò alla riunione del pomeriggio, in cui a stento si era trattenuto con Pamela.
Gli apparve, appena nascosta da qualche quercia centenaria, la villa illuminata da altre luci poste sul tetto, luci che mettevano in risalto i mattoni rossi asimmetrici, le ampie finestre sormontate da fregi lavorati. Il porticato e le sei colonne che lo reggevano davano alla villa un aspetto sontuoso ed elegante e nello stesso tempo l’avvolgevano in un’aura di discrezione.
Per quel sabato era prevista una cena intima con i suoi soci e qualche amico, per festeggiare l’inizio della class action.
Sentì un brivido di eccitazione percorrergli la schiena. Sentì anche la paura. Di perdere.
Era una paura che si portava dentro da tutta la vita e qualche volta aveva l’impressione che ogni suo gesto, ogni sua mossa e scelta e ogni decisione, fosse condizionata in qualche modo da questa paura. Di tornare alle origini, da quel buco dal quale era uscito, buco collocato da qualche parte agli estremi di Brooklyn.
Parcheggiò la Aston Martin in garage. Spense il motore e le note immortali di Mozart rimbalzarono sui sedili per spegnersi lentamente. Sfiorò la Mini di Claudine, era degli anni ’80, quando ancora viveva in Francia. La sua prima macchina, e anche l’unica. Lei non era mai stata interessata alle cose materiali, anzi col are degli anni Jason aveva notato che sembrava allontanarsi sempre di più dalle frivolezze, dal consumismo.
Col tempo erano diventati molto diversi, ma non due estranei. Avevano infatti coltivato le loro diversità fondendole e unendole, compensandosi a vicenda. Come due adolescenti, avevano ancora un luogo segreto dove stare, dove sognare e lasciarsi andare. Davanti alla loro camera da letto, un balconcino immetteva su un giardino d’inverno, coperto nei mesi freddi e poi, con l’equinozio di primavera, riaperto al mondo.
Il 21 marzo era la loro data preferita, dedicata allo smontaggio delle coperture in vetro e delle travi leggere che chiudevano il loro spazio. Era il giorno in cui si erano sposati che sanciva l’uscita dall’inverno per festeggiare l’ingresso nella primavera e in cui si erano promessi di stare assieme per sempre.
Dal garage ò direttamente in casa e immediatamente fu investito da Kelly.
“Papà papà ti prego dimmi di sì!”
Jason intercettò lo sguardo di Claudine seduta nell’enorme cucina.
“No”, rispose Jason sorridendo e dando un bacio sui capelli di Kelly. “E, a
proposito, ciao eh?”
“Ah scusa sì ciao hai ragione. Ma comunque non sai neanche di cosa si tratta”, protestò lei sbattendo i piedi per terra facendo volare nell’aria le sue lunghe trecce bionde.
“È sicuramente qualcosa di illegale e pericoloso, quindi la risposta è no” e mentre disse questo Jason si avvicinò a sua moglie, le diede un bacio sulla guancia strofinando il naso vicino al suo orecchio. Percepì la fragranza del profumo che indossava.
“Chopard.”
“Bravo, hai azzeccato anche questa volta.”
Un giorno potrei perdere tutto questo, pensò in un istante e ancora una volta la sua mente fu aspirata indietro di decenni. Ricacciò indietro i pensieri, quella corda, maledetta corda di nodi che fustigava il suo corpo di bambino.
“Allora, trattiamo”, incalzò Kelly sedendosi affianco alla mamma e incrociando le braccia sotto il piccolo seno.
Jason dovette sforzarsi per rimanere serio. Si sedette anche lui su uno sgabello.
“Dunque la scuola organizza la gita di inizio anno questo venerdì, andiamo al
Museum of Modern Art.”
“Un’iniziativa lodevole”, commentò Jason dando una veloce occhiata a Claudine che a sua volta cercava di rimanere compita.
“Appunto. Iniziativa lodevole e molta cultura. Quadri e sculture e insomma tutta quella roba lì.”
“Come roba?”, chiese Jason fingendosi stupito.
“Ma sì, roba, cianfrusaglie, pezzi vecchi.”
“Antichi. Si dice antichi. E comunque, signorina, al MOMA non espongono pezzi antichi, ma solo moderni. Da qui appunto il nome Museum of Modern Art. Arti moderne, Kelly.”
“Ok antichi, moderni insomma come vuoi tu”, rispose in fretta Kelly spalancando gli occhi blu cobalto che, Jason ne era sicuro, nel giro di uno o due anni avrebbero fatto strage di cuori.
“Ebbene?”
“Ebbene proprio qui sta il punto. Per tutto il giorno dobbiamo sorbirci una solfa di roba vecchia, ops antica anzi no volevo dire moderna. E comunque questo non è accettabile”, disse Kelly sbattendo con foga le mani sul ripiano in granito.
“Ahià.”
Jason rise di gusto e le domandò: “Quindi dove sta la richiesta?”
“La mia proposta è questa: vada per il MOMA, però la sera voglio, cioè ehm, vorrei andare a dormire a casa di Phoebe. Tranquilli ci sono i genitori, non siamo sole. Mangeremo un po’ di popcorn e...”
“E parlerete per ore fino a notte fonda, così il giorno dopo vi fingerete ammalate e salterete la scuola”, finì per lei Jason ricordandole un episodio di qualche mese prima.
“Ma è proprio questo il punto! Il giorno dopo non c’è scuola, quindi anche se stiamo alzate fino a tardi che problema c’è? Potremo dormire e poi fare i compiti.”
“Uhm”, mugugnò Jason guardando la moglie.
“Mi sembra una faccenda seria”, disse Claudine mordendosi il labbro per non mettersi a ridere.
“Uffa”, esclamò Kelly.
“Molto seria. Va bene allora la risposta è sì.”
“Urrà!”, gridò Kelly.
“Ma a due condizioni.”
“Va bene papà, sentiamole” e fece la faccia scura. Aveva studiato e affinato questa strategia da un pezzo, e dava ottimi frutti. Di solito le condizioni venivano mitigate. Di solito, ma non sempre.
“La prima è che tu e Phoebe non facciate troppo tardi alla sera.”
“Uhm, okay”, annuì Kelly.
“La seconda è che mi scr...”
“No!”, gridò Kelly disperata. “Ti prego un’altra relazione non la potrei sopportare, piuttosto la faccio finita qui, ora!”
Jason trattenne ancora l’impulso irrefrenabile di ridere.
“Okay, niente relazione questa volta, concesso. Però devi promettermi di fare i compiti.”
“Okay!”, esclamò con gioia.
“Diventerà un ottimo avvocato, la signorina. Proprio come suo padre.”
Jason si lasciò finalmente andare a una risata piena che dissipò in un lampo la stanchezza accumulata durante il giorno.
New York, 4 ottobre 2000 (e un giorno del 1977)
15
Jason appoggiò il dito indice sulla piastrina di riconoscimento delle impronte digitali. Uscì di casa prima dell’alba chiudendo piano la porta dietro di sé e dirigendosi verso il garage. I suoi i scricchiolarono sulla ghiaia percepiti dai sensori che aprirono automaticamente l’ampio garage. Li aveva fatti installare solo qualche mese prima, un complesso sistema di rilevatori di presenza, di allarmi antifurto e di sensori per la domotica.
Aprì la portiera dell’Aston Martin e si tolse la giacca sentendo su di sé il fresco della notte.
Vide un foglio che spuntava dalla tasca interna e per un attimo rimase perplesso. Di solito si cambiava d’abito ogni giorno, ma quella mattina aveva indossato il vestito del giorno precedente.
Prese il foglio ripiegato con cura e lo lesse.
Un curriculum. Poi si ricordò del giorno precedente, a quel foglio che Pamela stava leggendo e gli tornò in mente tutto.
Appallottolò il curriculum e fece per buttarlo sul sedile affianco al suo, quando all’ultimo momento fu attratto dal nome e cognome del mittente.
Sarebbe stata una giornata interessante, pensò accendendo l’Aston Martin.
Le luci scorrevano veloci. Mentre Jason accelerava e frenava, assecondando il traffico che mano a mano che usciva da Montclair si faceva sempre più intenso, le luci e le ombre alterarono la coscienza, il tempo, le percezioni.
Jason volò nel tempo di almeno due decenni.
Era fuori di casa, un fetido bilocale nel Brooklyn. Uscì con uno zainetto sulle spalle in cui erano riposti pochi oggetti personali, un ricambio di vestiti e qualche decina di dollari. In una tasca dello zainetto c’era una copia della Bibbia in formato tascabile, tutta consumata dall’uso, sottolineata nei i che aveva letto centinaia di volte. Era stata la sua guida silenziosa in quegli anni, l’unica cosa che aveva impedito che si buttasse giù da un ponte, o che si infilasse un ago in una vena sparandosi massicce dosi di eroina.
Fece qualche o superando una banda di ragazzotti che presero a insultarlo e a sputargli addosso.
Angelo di Dio, che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me, diceva dentro di sé. Arrivò all’angolo, si fermò e si voltò indietro. Poteva ancora scorgere le finestre buie di casa sua.
Angelo di Dio, che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me ripeté ancora dentro di sé.
Si staccò dal muro, sollevò la testa e raddrizzò la schiena. Prese a camminare veloce, sempre più veloce. Poi cominciò a correre in una corsa frenetica e
disperata. Continuò a correre per un tempo interminabile volando letteralmente sul ponte di Brooklyn, arrivò a Manhattan, col fiato grosso e le gambe che sembravano due pilastri di acciaio. Si chinò su se stesso per riprendere fiato, poi alzò la testa di colpo.
Si mise a sedere cercando di respirare normalmente, aveva sete ma non aveva nulla da bere.
Si tolse lo zaino dalle spalle ed estrasse la piccola Bibbia, la aprì a caso e lesse una frase. Ex tenebris vita.
Alzò lo sguardo verso i grattacieli di New York, milioni di luci sfavillavano nel buio rischiarando la notte. Si alzò in piedi e cominciò a camminare. Sollevò la testa cercando di guardare la vetta di un grattacielo. Lanciò un urlo verso quella vetta, l’urlo crebbe di intensità e superò uno a uno i piani fino ad arrivare in cima, per poi andare oltre, nel cielo nero dove non c’erano limiti.
“Guarda che non ti pago per non fare niente.”
“Sì signore.”
“Allora muoviti, c’è il pieno stasera.”
Jason si mosse veloce tra i tavoli del bar dove aveva trovato un lavoro, prese le ordinazioni urlate da ragazzi vocianti, pieni di muscoli e di soldi. Le ragazze stavano abbracciate ai loro petti e lui provò una fitta di invidia. Quelle ragazze
bellissime, irraggiungibili che neanche lo guardavano, e se lo facevano era come se non lo vedessero.
Lui era un uomo fantasma.
Tornava a casa a notte fonda, aveva rimediato una piccola stanza nel Queens in un appartamento che condivideva con una ragazza, a pochi centimetri da lui l’amore faceva il suo corso, anche se era solo sesso occasionale. Ma lui non aveva nemmeno più quello. L’aveva avuto, ma solo per un breve periodo della sua vita, con Anna. Ripensò a lei, ai dolci pomeriggi ati assieme, alle lettere che si scrivevano, all’amore puro e disincantato che era nato tra di loro. Avevano avuto il tempo di fare l’amore solo poche volte, ma quelle volte erano state così intense e dolci che non le avrebbe dimenticate per il resto della sua vita.
“Ciao caro, dormito bene?”
“Ciao.”
“Uh che umore questa mattina, del resto non è diverso da tutte le altre mattine”, disse la ragazza appoggiando la tazzina del caffè sul tavolo di legno, recuperato qualche giorno prima in una discarica. Traballava su tutti i lati e sembrava che dovesse sfondarsi da un secondo all’altro.
Jason si sedette pesantemente su una sedia. I capelli arruffati, le occhiaie nere lo facevano sembrare molto più vecchio dei suoi diciannove anni.
“Dovresti curare un po’ di più la tua immagine.”
Jason rimase zitto affondando i denti in un muffin vecchio di almeno una settimana. Faceva schifo ma doveva mandare giù qualcosa.
“La mia immagine?”, chiese lui alzando un sopracciglio.
La ragazza rimase folgorata dal suo sguardo, come ogni volta. Uno sguardo implacabile.
Esploderà un giorno o l’altro, pensò la ragazza.
“Sì, il tuo look.”
“E una volta che ho curato il mio look, cosa dovrei farci?”, chiese Jason marcando con ironia la parola look.
La ragazza sentì che la conversazione stava prendendo una piega sbagliata. Aveva preso in casa Jason solo da qualche settimana, lo aveva raccattato al parco mentre dormiva su una panchina, stordito da una bottiglia di whisky. Lo aveva aiutato a trovarsi un lavoro e contribuire alle spese. Lo aveva sfamato e neanche lei sapeva per quale motivo.
Con Jason era stato diverso. Era come accudire un cucciolo non ancora svezzato, o forse troppo svezzato dagli urti della vita. Diverso rispetto alle altre persone
della sua vita, che duravano lo spazio di una notte.
“Vedi Jason, il look è importante in questa società del cazzo. Se sei vestito bene, dentro ti senti bene. E se dentro ti senti bene, allora puoi fare quello che vuoi.”
Jason si ò le mani fra i capelli, incasinandoli ancora di più. Guardò il soffitto.
Poi riabbassò la testa, inchiodò la ragazza con lo sguardo.
La ragazza abbassò d’istinto gli occhi, non riusciva a sopportarlo.
“Ah, se sono vestito bene dentro mi sento bene? Allora facciamo una cosa. Andiamo a comprare un bello smoking da tremila dollari, delle scarpe nere lucide, molto lucide. Poi andiamo da un parrucchiere di grido, un taglio perfetto all’ultima moda. Un salto al centro benessere per una lampada.”
“Sì, ecco, più o meno...”
“Lasciami finire”, la ragazza si zittì di botto. “Poi andiamo a una bella festa, in un attico di Park Avenue. Io giro tra gli ospiti affascinando tutti con i miei racconti. Incontro un banchiere miliardario, che mi offre un posto di lavoro super-pagato. Ho anche la fortuna sfacciata di incontrare la donna della mia vita, di fronte a me si apre un’autostrada verso la felicità e il potere e il successo. Una casa e una famiglia. E tutto perché sono vestito bene e perché dentro mi sento bene?”
“Uhm non so se funzionerebbe così...”
“Tutte cazzate!”, esplose alzandosi di scatto e facendo volare indietro la sedia di un paio di metri. Con il braccio spazzò il tavolo e scaraventò per terra tutto quello che c’era sopra.
“Stupida troia, sono tutte cazzate”, ringhiò verso la ragazza, le si avvicinò e le strinse il collo come se volesse soffocarla. Poi a un tratto la guardò negli occhi, nei suoi occhi vitrei e terrorizzati e affascinati. La ragazza vide che il furore nelle pupille di Jason iniziava a defluire verso l’esterno e scomparire. Vide che piano piano appariva qualcosa di diverso, una dolcezza inaspettata, un bisogno di essere amato che andava al di là di ogni comprensione.
Jason lasciò andare la ragazza, già si erano formati alcuni segni violacei intorno al suo collo, per una decina di secondi era rimasta senza ossigeno e si era eccitata. Avrebbe voluto prendere Jason come faceva con tutte le altre sue prede, ma sapeva per istinto che sarebbe stato sbagliato.
Jason si allontanò da lei di qualche o. Si sentì morire dentro, come se qualcuno lo stesse trafiggendo con mille aghi, come se la sua anima venisse aspirata pezzo per pezzo. Si lasciò cadere sul divano consunto e lacero, lasciò andare la testa all’indietro e cominciò a piangere, di un pianto disperato e inconsolabile, cominciò a sussultare violentemente come se fosse in preda a un attacco epilettico.
La ragazza non aveva mai visto nessuno soffrire così tanto.
Si sedette vicino a lui, gli prese la testa e gli accarezzò i capelli cercando di calmarlo.
Jason disse qualcosa, ma la ragazza non capì e continuò a cullarlo.
“Tu non sai cosa mi hanno fatto.”
La ragazza continuò ad accarezzargli i capelli e le guancie, lo dondolava leggermente.
Jason cominciò a calmarsi, poi si sdraiò sul divano appoggiando la testa sul ventre della ragazza e chiuse gli occhi.
“Tu non sai cosa mi hanno fatto, Pamela. Io non sarò mai come loro”, disse lui e poi si addormentò.
Pamela rimase lì, ando le dita sui lineamenti di Jason. Sulla sua fronte, sugli occhi, sulle guance e sulla bocca. Toccò a lei piangere, lacrime di tristezza, ma anche lacrime di gioia perché stava finalmente cominciando a liberarsi del suo dolore.
Rimase seduta sul divano con la testa di Jason in grembo finché l’arco del sole compì tutto il suo tragitto nel cielo, finché un’altra notte scese su New York City.
New York, 4 ottobre 2000
16
Jason arrivò in ufficio che non erano ancora le sette del mattino. La scrivania era perfettamente sgombra, non un pezzetto di carta né un appunto. Era sempre così che la lasciava alla sera, libera da ogni barriera e impedimento.
Premette un tasto sull’interfono e qualche minuto dopo si materializzò il cameriere dello Studio, che era alle dipendenze solo dei soci e di qualche avvocato più anziano.
Il cameriere versò il caffè fumante, appoggiò due muffin ancora tiepidi su un piattino di porcellana e sparì silenziosamente come era venuto.
Jason accese il computer e si tolse la giacca. Riprese in mano il curriculum stropicciato e lo lesse attentamente.
Sorrise ancora, anche questa volta amaramente. L’indirizzo di casa gli era familiare, anche troppo.
Alzò il telefono e premette il tasto numero 1, il diretto con Pamela.
“Vieni qui, devo parlarti.”
Pamela entrò nel suo ufficio qualche secondo dopo e con un o deciso avanzò verso la scrivania di Jason.
“Questo foglio.”
“Credo sia quello che stavo leggendo ieri, durante la riunione.”
“Infatti, è proprio quello. Me lo sono ritrovato nella tasca della giacca stamattina. Voglio parlare con questa ragazza”, disse Jason sorseggiando il caffè e accendendosi il primo sigaro della giornata.
“È solo una neo-laureata in cerca di un lavoro”, obiettò timidamente Pamela non capendo il senso dell’ordine che aveva ricevuto. Non discuteva mai, né controbatteva.
“Appunto.”
“Oggi?”
“Nel primo pomeriggio, trova dieci minuti liberi nella mia agenda. Tutto chiaro?”
“Chiaro Jason.”
Poi lui ruotò la sedia e fissò il panorama davanti a sé, congedando silenziosamente Pamela che uscì dall’ufficio rapida come era venuta.
Sei tornata, pensò Jason.
“Grazie per essere venuta.”
Jason aveva mandato a memoria tutti i dettagli del curriculum prima di lasciarlo a Pamela. Laurea in legge alla Columbia University summa cum laude in soli tre anni. ione per la lettura e la scrittura, tiro con l’arco e canotaggio. Il profilo di una persona riflessiva e centrata sull’attimo presente. New York era piena di gente come lei. Era stato il suo indirizzo di residenza, una via nei bassifondi di Brooklyn che lo aveva colpito come un maglio. E, ovviamente, il suo nome.
“Grazie a lei per avermi ricevuto”, rispose Sally ancora del tutto incredula di trovarsi davanti a lui, proprio a lui. Aveva ricevuto una telefonata sul suo cellulare da Pamela che le aveva chiesto se era libera alle tre di quel pomeriggio per un’intervista. Sally aveva esitato, ma solo per un secondo. Le sue difese erano crollate all’istante quando Pamela le disse che lo studio Davis Baker & Reynolds era interessata a conoscerla. Sally aveva farfugliato qualcosa di incomprensibile e Pamela l’aveva congedata confermandole l’appuntamento e dandole l’indirizzo dello Studio. Anche Pamela era rimasta molto perplessa da quella convocazione, da quello che ricordava non era mai successo che Jason intervenisse nelle fasi preliminari di un’assunzione. Lui dava solo il suo benestare quando i cacciatori di teste avevano trovato per lo Studio i migliori cervelli disponibili.
“Dunque Mrs. Yrons, ho letto nel suo curriculum che le piacerebbe lavorare per uno studio legale impegnato in battaglie civili. Lei sa che cosa facciamo qui?”
“Sì, avvocato, non spreco il mio tempo a mandare in giro curriculum a tutti. Li mando solo agli studi con cui vorrei lavorare”, disse Sally sorpresa lei stessa dal modo di rispondere, ma le era venuto del tutto naturale assumere un atteggiamento sicuro e al limite della sfacciataggine.
Jason accavallò le gambe, si accese un sigaro lentamente e si lasciò sfuggire un mezzo sorriso.
“Lei parla sempre così chiaro o lo fa solo perché ha una paura dannata?”
Sally rimase in silenzio.
“Vede, qui non abbiamo certo bisogno di pappemolli. I nostri collaboratori sono tra i migliori nel loro campo. È tutta gente che ha fame e che non esiterebbe un secondo ad azzannare la preda. Non so se il concetto le è chiaro.”
“Chiarissimo avvocato. La strada, se mi a il concetto, mi ha insegnato molto. So come sopravvivere, mi creda.”
“Non vogliamo gente che vuole solo sopravvivere.”
Sally imprecò in silenzio per l’errore commesso e cercò di rimediare all’istante.
“Vede, avvocato, non è facile crescere nei sobborghi di Brooklyn. Forse lei non lo sa, ma laggiù si deve combattere ogni giorno. La sopravvivenza è solo il primo o per vivere.”
Jason fu colpito ancora una volta.
Brooklyn.
Una via abbandonata, edifici fatiscenti, cortili in rovina. Scale antincendio guaste, ascensori inesistenti.
Jason ritornò al presente guardando la brace sul suo sigaro.
“Dove si vede, diciamo, tra cinque anni?”
Sally lo guardò per un lungo istante, poi si protese leggermente verso di lui, verso il suo idolo. Verso la persona che aveva studiato, analizzato e dissezionato per anni mentre studiava legge. Di cui aveva un fascicolo alto mezza spanna in camera sua a Brooklyn.
“Qui”, rispose scandendo le tre lettere una per una.
Jason aspirò una lunga boccata dal sigaro, sollevò leggermente la testa verso l’alto e soffiò fuori il fumo. Poi puntò il sigaro verso Sally e annuì impercettibilmente.
Premette un tasto sull’interfono. “Pamela puoi venire qui da me per favore?”
Pamela entrò nell’ufficio di Jason senza bussare e rimase in piedi di fianco a Sally.
“Comincia domani, dal centralino. Fai sbrigare le pratiche dall’ufficio del personale.” E poi rivolto a Sally disse: “Spero non le dispiaccia iniziare dal primo gradino della piramide, è da lì che inizia il nostro tirocinio.”
“Si comincia sempre dal primo gradino per arrivare alla vetta”, rispose lei con il cuore che martellava talmente forte che temeva che si potesse sentire il battito.
Pamela la guardò ancora, incredula che quella ragazzetta fosse stata assunta da Jason in persona. E quando la scrutò nei suoi profondi occhi azzurri, il suo cuore mancò un battito.
“Certo che il vecchio si sta rincoglionendo”, disse Tim.
“Speriamo, così molla la baracca e se ne va in pensione a quarantatre anni, tanto ormai ha un pacco di soldi.”
“Non ci scommetterei, secondo me Jason morirà d’infarto sulla sua costosa poltrona in pelle piuttosto che mollare il lavoro, Kurt.”
Pamela entrò all’improvviso nell’ampio locale arredato a cucina.
Tim e Kurt si zittirono all’istante e Pamela non rivolse loro neanche un’occhiata.
“Se sento un’altra volta questo genere di discorsi, in dieci minuti vi ritrovate in mezzo alla strada con il vostro bel scatolone. E mi premurerò di impedirvi di trovare lavoro in qualunque altro studio legale dello stato per i prossimi cinque anni. Sono stata chiara?”
Tim e Kurt, quest’ultimo il più stretto assistente di Markus, si proiettarono fuori dalla cucina mormorando qualche inudibile parola di scusa.
Pamela sorseggiò lentamente il caffè, le piaceva sempre la posizione che aveva nello Studio. Poter decidere della sorte di questo o di quell’altro impiegato, senza farsi nessuno scrupolo. L’anno precedente aveva licenziato un’associata solo perché si era presentata in ufficio con una minigonna troppo attillata e la poveretta aveva faticato parecchio tempo prima di trovare un altro posto di lavoro.
La voce non aveva tardato a diffondersi e quasi tutti ormai sapevano che Jason aveva assunto una nuova centralinista. Molti pensavano che Jason fosse impazzito.
Pamela lo conosceva troppo bene per pensare a una cosa del genere. Aveva fatto delle indagini in Internet ma su Sally Yrons non era apparso nulla, se non una menzione sul sito della Columbia University dei laureati dell’anno 2000 come studentessa che si era laureata nel minor tempo concesso. Aveva telefonato al preside della facoltà di legge della Columbia University, gli aveva chiesto alcune
informazioni alle quali lui aveva risposto dopo mezz’ora circa, richiamandola.
Elenco degli esami sostenuti, voti, note di merito, attività extra universitarie. Sembrava tutto a posto.
A parte la velocità nel conseguimento della laurea era una delle tante, delle troppe ragazze che affollavano le università più prestigiose del paese, che sognavano una carriera lanciata a folle velocità nell’investment banking, come trader di borsa o come avvocato. Molti di essi si schiantavano alla prima curva.
Quelli che ce la facevano erano davvero in pochi e Sally Yrons non dava l’impressione di avere chissà quali risorse per sopravvivere anche un giorno soltanto.
Chi sei? chiese al suo volto riflesso nella finestra.
Montclair, 8 ottobre 2000
17
“Sembra che si stiano divertendo tutti”, disse Kurt al cellulare al riparo di una quercia.
“È una buona occasione per scucire delle informazioni, tutti tenderanno a lasciarsi andare.”
“Ne dubito”, rispose Kurt pensando al suo capo Markus e all’irraggiungibile Jason.
Kurt lavorava come assistente di Markus ormai da quattro lunghissimi e faticosissimi anni. Le sue giornate non duravano mai meno di sedici, qualche volta diciotto ore, tutte ate allo Studio, dietro a una scrivania, davanti al computer. Non avrebbe tollerato un altro anno così. Doveva agire ora, che era ancora giovane per godersi la vita che scorreva altrove tranne che nel suo misero ufficio appena al di fuori di quello suntuoso di Markus. Da qualche tempo, Kurt aveva cominciato a sniffare cocaina per riprendersi da un incipiente depressione che al mattino lo lasciava senza energie.
Devo uscire da questo buco, pensò continuando a parlare al telefono.
“Credi a me”, rispose la voce al di là del cellulare di Kurt. “Credi a me.”
“Ora torno alla cena non voglio farmi notare troppo, ti richiamerò domani
mattina”, disse Kurt chiudendo la conversazione per tornare alla cena. Aveva detto che voleva prendere una boccata d’aria e Markus gli aveva dato della pappamolla, incapace di reggere un bicchiere in più.
Frustrato si avvicinò alla grande casa costruita in stile Vittoriano, cercando di stimarne il valore. Probabilmente cinquanta milioni di dollari e una fitta di invidia gli attraversò lo stomaco pensando ai soldi di Jason, alla sua carriera. Alla sua fama. Avrebbe voluto essere come lui, ma da tempo aveva capito che non ne aveva la stoffa. Da tempo, aveva capito che i soldi, quelli veri, li avrebbe fatti in un altro modo. E sorrise al pensiero degli accordi, delle e-mail, dei messaggi criptati e delle conversazioni in codice che intratteneva ormai quotidianamente. Quei codici segreti lo avrebbero reso ricco. Doveva solo fare i giusti i e continuare a mantenere un profilo basso.
La festa stava volgendo al termine e molti invitati se ne erano già andati. Quasi tutti ubriachi. I fuochi di artificio avevano segnato il culmine del party, erano apparsi nel cielo all’improvviso e avevano disegnato lunghe scie bianche. Jason sedeva al tavolo rotondo sotto la veranda che si affacciava sul laghetto, al suo fianco Claudine fasciata da un semplice vestito color panna. Con loro sedevano Stern e Markus, il primo accompagnato dalla moglie Tabitha mentre Markus era da solo. Michael Carson, psichiatra a cui si rivolgevano la metà degli uomini d’affari di New York, intratteneva la compagnia raccontando uno dei suoi aneddoti preferiti. Ovviamente non rivelava mai i nomi dei suoi pazienti, ma poteva quantomeno illustrarne le gesta.
Stava giusto raccontando di quel broker della Goldman Sachs che aveva perso una fortuna nell’esplosione della bolla dei titoli tecnologi. Un giorno, era entrato nel suo studio come una furia, incolpando Michael che la causa del crollo di borsa era dovuto a un non meglio precisato mix di farmaci che gli aveva prescritto. Lo psichiatra aveva cercato di riportarlo alla calma spiegandogli che stava attraversando una crisi psicotica, che stava confondendo le ragioni del crollo di borsa con le sue problematiche personali che avevano innescato un medesimo crollo verticale.
Il broker non aveva voluto sentirci e aveva semidistrutto lo studio sotto lo sguardo imibile di Michael. Per esperienza, sapeva che doveva lasciar sfogare i suoi pazienti, tanto avrebbe addebitato il costo delle riparazioni alla sua assicurazione. Infine il broker era scoppiato a piangere come un bambino e pian piano era ritornato alla calma. Ma non al suo lavoro.
“Ah quanto siamo fragili”, aveva detto Michael Carson soffiando via un anello di fumo e sorridendo alla sua platea.
Jason lo aveva guardato, anni prima anche lui era stato in cura con degli ansiolitici e con una psicoterapia, quando gli incubi del ato erano tornati a manifestarsi nella sua vita quotidiana. Michael gli aveva spiegato che stava attraversando un periodo di conflittualità latente, generata dal fallimento della sua vita infantile e adolescenziale, dove un patrigno dispotico e violento lo aveva costretto a subire profonde umiliazioni e ferite che andavano ben al di là di quelle cicatrici che gli erano rimaste sulla schiena. Ferite che erano sconosciute a Michael, rese invisibili dai vestiti, nascoste al mondo con cura quasi maniacale.
Jason non si metteva mai in costume da bagno, non di fronte a estranei. Era un segno di debolezza che non aveva ancora accettato. Probabilmente gli ci sarebbero voluti ancora anni per guarire, anche se Jason sospettava che quelle cicatrici non se ne sarebbero mai andate, né dal suo corpo né dalla sua anima.
Claudine aveva ragione, devi accettarlo gli aveva detto spesso.
“A proposito di tempesta, avete notato quanto i media si sono scatenati sull’inizio di questa causa legale? La notizia è stata rilanciata da tutte le agenzie di stampa, i quotidiani ci hanno titolato in prima pagina”, disse Markus
ricordando i titoli apparsi sul Wall Street Journal e che avrebbero fatto lievitare gli introiti futuri dello Studio. Poteva già vedere la fila di clienti ammassarsi di fronte al loro ufficio. A questa visione, a Markus venne l’acquolina in bocca e poco ci mancò che cominciasse a sbavare come un boxer.
“Nella nostra class action abbiamo raccolto mille duecento quarantanove clienti fino a ora, ma sappiamo che ce ne sono di più. Molti di più”, disse Stern.
Jason aspirò una boccata dal suo sigaro, lo tenne stretto tra le dita della mano destra mentre il fumo veniva espulso nell’aria immobile. Pensò immediatamente a Mr H, all’enorme open space dove lavoravano da quasi un anno e mezzo almeno ottanta dipendenti. Un lavoro ignoto a tutti, anche ai suoi due soci. E sorrise all’idea di questo “piccolo” segreto che aveva deciso di tenere per sé, in attesa di mostrare le carte e far vedere chi era il più forte.
“Se solo con questo numero di clienti vinceremo la causa, e la vinceremo, i nostri clienti otterranno il giusto risarcimento perché spareremo alto, inchioderemo la Brown, la Power Tyre e la Drexel. Tutte assieme, sfileranno in mutande davanti a noi”, continuò Markus con gli occhi che si illuminarono, mentre Stern lo guardava con aria perplessa.
“E se calcoliamo che la nostra parcella è il trenta percento. Beh, io penso che saremo molto, ma molto più ricchi di adesso”, disse Markus con la bava alla bocca e un sogghigno animalesco.
Jason calcolò mentalmente quanto avrebbe incassato da questa causa, avendo il quaranta percento di quote dello studio. Poi lo sguardo si posò su Stern, vide che teneva la mano di Tabytha, sua moglie. La accarezzava, affettuosamente stringeva ogni dito della sua mano. Vide l’amore del suo socio, della persona che assieme a lui si era assunto molti rischi. Erano loro due che avevano costruito
dal niente quello che adesso era uno studio legale di cui tutti parlavano.
Poi un’ombra di malinconia ò negli occhi di Stern, girò la testa verso Tabytha e la cinse a sé. Non ce l’avrebbe fatta da solo, avrebbe sofferto troppo. E non ce l’avrebbe fatta a lasciare sua moglie e il piccolo Nicholas, di soli tre anni. Il giorno dopo avrebbe dovuto vedere Patrick, il suo amico di infanzia, che doveva confermargli quello che nel suo intimo già sapeva da qualche settimana. Non sarebbe stata una sorpresa, neanche Stern riusciva a capire da dove arrivasse quella convinzione assoluta, quella certezza.
Di essere malato al di là di ogni possibile cura.
Stern guardò Claudine, e in un lampo comprese qual era la cosa che aveva salvato Jason. Salvato, sì, era la parola giusta.
Stern aveva sempre pensato che Jason fosse un sopravvissuto.
E non si rendeva conto di quanto avesse ragione.
18
Jason si sedette su una panchina del parco della sua villa, un poco discosta dal grande prato dove gli addetti al catering stavano smontando i tavoli.
Inspirò profondamente l’aria della notte, densa di resina, di erba appena tagliata. Accavallò una gamba e bevve un sorso di Calvados dall’ampio bicchiere che teneva in mano.
Le luci soffuse e una grande quercia lo proteggevano dal resto del mondo, poteva osservare la scena come uno spettatore che guardi un film.
Vide Claudine che dava disposizioni alla servitù per sistemare tutto e rendere più agevole il ritorno alla normalità.
La normalità, pensò Jason accendendosi l’ultimo sigaro della serata mentre il tempo cominciò a scorrere all’indietro, sempre più velocemente in una corrente inarrestabile, mentre i pensieri gli tornarono alla coscienza e dove Jason vide il momento in cui era iniziata la sua normalità.
Era una serata tranquilla per gli standard di Manhattan, Jason ava da un tavolo all’altro con discrezione verificando che le ordinazioni fossero state portate ai clienti, togliendo le briciole da una tovaglia, sistemando bicchieri e calici.
Alzò la testa e vide una coppia di spalle, seduta vicino al muro. Sembravano molto intimi, Jason avvicinandosi vide che l’uomo teneva tra le sue mani le dita di una ragazza della sua età. Jason rimase immobilizzato per un istante, nello stesso istante in cui la ragazza si aprì in un sorriso che illuminò tutta la sala. Gli occhi le brillavano per l’eccitazione, sprigionava felicità.
Se si fossero spente le luci del locale, il sorriso della ragazza sarebbe stato sufficiente per illuminare il bar e la sua voce argentina avrebbe fatto da accompagnamento in una danza melodica.
“È tutto a posto?”, chiese Jason. Aveva scoperto di piacere agli altri, per qualche strano motivo che nemmeno lui riusciva a comprendere, le persone sembravano fidarsi di lui.
L’uomo si voltò verso di lui e con un sorriso aperto gli aveva chiesto di portargli un altro bicchiere di vino.
“E lei, signorina, desidera qualcos’altro?”, aveva chiesto Jason alla ragazza.
Lei era rimasta zitta a guardarlo per un attimo, poi aveva sorriso di un sorriso che aveva stordito Jason. Gli aveva detto di portarle una bottiglietta di acqua naturale e per la prima volta Jason aveva sentito la sua voce, un lieve accento se, le parole scandite lentamente in un inglese un po’ claudicante ma comprensibile.
Jason aveva annuito sorridendo, i due si erano guardati negli occhi per un istante che sembrò non voler mai terminare, poi Jason ritornò verso il bancone con il cuore che batteva a mille.
Jason dormì poco quella notte e si addormentò all’alba.
Arrivò al lavoro, puntuale come sempre. Andò nel retro bottega e si infilò il grembiule da cameriere. Si guardò allo specchio, l’aria un po’ stanca. Poche ore di sonno avevano dato al suo volto una maturità diversa. Aprì il rubinetto dell’acqua fredda e ci ficcò sotto la testa per svegliarsi.
Si guardò ancora nello specchio. Sorrise, sperando che ci fosse la ragazza del giorno prima, ma dovettero are alcuni giorni prima di rivederla.
“Senti cosa fai domani pomeriggio?”, gli aveva chiesto Claudine un giorno.
La ragazza era tornata spesso nel bar dove lavorava Jason, di solito si metteva in un angolo dando le spalle all’ampia vetrata in modo da controllare il territorio davanti a sé. Aveva sempre diversi libri che leggeva o consultava, ma spesso le occhiate erano rivolte verso Jason.
“Uh, domani pomeriggio sono libero.”
“Ti va di fare un giro in Central Park?”
“Con piacere”, rispose lui con la voce che gli tremava leggermente.
Nel corso di quelle settimane Jason si era avvicinato un po’ di più alla ragazza. Aveva scoperto che si chiamava Claudine, che aveva diciannove anni e che studiava psicologia alla Columbia University. Lei ogni tanto gli faceva qualche domanda, sul suo ato o sui suoi piani per il futuro, ma Jason trovava sempre il modo per schivare le domande e spostare l’attenzione su altre cose. Claudine se ne era accorta. Aveva capito che non si concedeva facilmente, che sotto la maschera di gentilezza che ogni giorno indossava durante il suo lavoro come cameriere c’era di più, molto di più.
Ogni tanto aveva individuato dei lampi di dolore are nei suoi occhi, l’ultima volta era successa solo il giorno prima quando un padre con in braccio un bambino di forse un anno era entrato nel bar. Jason li aveva guardati mentre il bambino si sedeva sulle ginocchia del padre lanciando piccole grida. Mentre batteva le manine, il sorriso di Jason si era spento.
Claudine aveva osservato Jason guardare quella scena e capì in un lampo che stava invidiando quel padre così premuroso.
“Allora ci vediamo qui alle 3, puntuale mi raccomando”, disse lei alzandosi e mettendo i libri in borsa.
Jason rise e le porse il leggero soprabito, la aiutò a indossarlo. Lei scostò i capelli dal colletto, e un profumo inebriante si diffuse nell’aria.
“Puntuale”, ripeté lei uscendo dal bar con un sorriso che avrebbe illuminato il mondo e con un’aria ingenua, da sognatrice.
Central Park era diventato la meta di tutti i loro incontri, lei si sorprendeva a
ogni o, a ogni svolta di un viale. La primavera stava facendo il proprio ingresso a New York, e ogni giorno il parco si colorava di colori sempre diversi.
Quando Claudine vedeva qualcosa che le piaceva particolarmente, faceva qualche saltello in avanti e nello stesso tempo si girava verso Jason sorridendogli, mostrando i denti bianchissimi. Poteva essere uno scoiattolo che mangiava una ghianda, oppure una farfalla che si librava nell’aria, o un cigno che solenne e maestoso si spostava nell’acqua nel più assoluto silenzio.
Claudine indicava e rideva e scattava foto. Sembrava una bambina che stesse scoprendo il mondo per la prima volta.
Qualche volta si sdraiavano sull’erba e lei leggeva dei brani di un libro in inglese, la testa vicina a quella di Jason, le spalle a contatto. Lui poteva quasi sentire i battiti del suo cuore, poteva aspirare il suo profumo, registrare la sua risata cristallina e il suo accento con una lieve erre moscia.
Un pomeriggio erano sdraiati sull’erba, il sole di fine aprile cominciava a scaldare l’aria, il cielo era blu cobalto. A un tratto lei appoggiò il libro in grembo e si fece più vicino a Jason. Appoggiò la testa sul suo petto mentre i capelli profumati di buono si diffondevano sul corpo di Jason. Lui le accarezzò i capelli, la baciò sulla sua testa mentre Claudine scivolava in un sonno leggero, cullata da una sensazione di sicurezza.
Lui rimase immobile osservando i capelli di Claudine, sentendo sul petto il suo seno che premeva contro di lui, cominciò a respirare in sincrono con lei poi alzò lo sguardo al cielo, e il cielo gli sembrò ancora più blu, ancora più luminoso. Ancora più infinito.
Ripensò ai modi di Claudine, alla gentilezza, alla maniera discreta e dolce con cui si era avvicinata a lui. Sembrava avesse intuito che doveva fare le cose con calma, doveva conquistarsi il suo affetto. Jason rivolse una preghiera silenziosa al cielo, ringraziando di questo dono, di questo primo dono che la vita sembrava volergli proporre.
A un certo punto lei si svegliò, si stirò lentamente, poi alzò la testa guardando Jason negli occhi. Si guardarono per un tempo infinito, scrutarono dentro l’anima dell’altro cercando di indovinare i pensieri. Lei gli sorrise, gli ò le dita sulla guancia e si avvicinò a lui, lo baciò per la prima volta. Fu un bacio timido, quasi timoroso, un bacio di altri tempi. Lei si scostò per un secondo, Jason la strinse forte a sé e il bacio divenne più lungo e apionato.
“Jason?”
“Dimmi.”
“Uhm”, disse Pamela squadrandolo.
“Cosa?”, chiese Jason un po’ nervoso. “Non va bene.”
“Cosa non va bene?”
“La cravatta. Non va bene, non stai mica andando a un colloquio di lavoro”, disse Pamela girando intorno a Jason. Indossava una delle sue camicie, allacciata
solo con qualche bottone. Sotto indossava degli slip in pizzo, gambe nude e lunghe. Jason non si era ancora abituato all’energia di Pamela, una voglia di vivere traboccante che la circondava e che riversava sugli altri. Nell’anno in cui Jason aveva vissuto con Pamela, lui aveva attinto avidamente a quella fonte bevendo ogni goccia, succhiando ogni stilla, inspirando la sua scia.
“Sai che sei cambiato molto in questi ultimi tempi?”, le aveva detto lei slacciandogli la cravatta e buttandola in un angolo.
“In che modo?”, chiese Jason.
“Non hai più l’aria da cane bastonato che avevi quando ti ho conosciuto” disse Pamela ridendo e slacciandogli il primo e il secondo bottone della camicia.
La mano di Jason si abbatté sulla sua come un pugno di ferro.
“Fermati qui”, le disse in tono che non ammetteva repliche.
“Cosa intendi?”
“I bottoni. Uno solo slacciato, due no.”
“Va bene, non ti arrabbiare però”, disse lei sbuffando e chinandosi a raccogliere la cravatta avvolgendola intorno al collo come un foulard.
“Non mi arrabbio.”
“Perché certe volte diventi così?”, chiese lei con voce bassa.
Jason la fissò per un lungo istante, poi si sedette sul letto. Il suo pensiero vagò a diversi mesi prima, a un’altra stanza di un altro appartamento. Claudine era in piedi davanti a lui.
Lei si era avvicinata a lui, gli aveva dato un bacio che sapeva di fragola. Jason le aveva accarezzato i capelli sciogliendole la coda di cavallo. Le aveva sbottonato la camicetta e le aveva baciato il collo, la gola. Claudine si era inarcata all’indietro, esponendo il seno e lui lo aveva raccolto con entrambe le mani, accarezzandolo piano. Aveva lasciato che fosse lei a condurre le danze e lei aveva assecondato i suoi tentennamenti e le sue paure senza mai chiedergli nulla. Aveva capito che in fondo a quello sguardo blu intenso c’era qualcosa che Jason nascondeva. Ma era troppo profondo per chiedergli direttamente da che cosa stesse scappando. Doveva avere pazienza, molta pazienza.
Claudine cominciò a slacciargli i bottoni della camicia, Jason ebbe un tremito ma rimase fermo. Al secondo bottone le scostò la mano. No, le aveva detto. Si era seduto sul letto e lei si era seduta affianco a lui, si erano stretti in un abbraccio ed erano rimasti così a coccolarsi per molto tempo. Poi Jason si era alzato, si era slacciato la camicia fino a rimanere a torso nudo.
Claudine rimase a guardare, sorridendogli mentre si chiedeva che cosa potesse essere successo al suo ragazzo per avere delle cicatrici così livide e profonde. Si erano sdraiati sul letto, lei aveva baciato ogni millimetro di quelle cicatrici e Jason le fu grato che non gli avesse chiesto nulla.
Era la prima volta per molte cose, per Jason, anche quella di mostrarsi a un altro essere umano.
“Scusa non ce l’ho con te, Pamela.”
“Lo so lo fai con tutti”, disse lei.
“Non con tutti”, sorrise Jason.
Le diede un piccolo bacio sulla guancia, poi uscì dalla stanza e, afferrata al volo la giacca blu, si dileguò nella notte.
Camminò a o svelto per circa venti isolati, per arrivare all’appartamento in cui abitava Claudine e che temporaneamente ospitava anche suo padre. Sarebbe presto ripartito, per un giro di conferenze negli Stati Uniti. Claudine gli aveva detto che suo padre stava diventando famoso nell’ambiente accademico e non solo in quello. Aveva studiato un fenomeno fino ad allora sconosciuto e lo aveva definito come “effetto serra.”
“Effetto serra?”, le aveva chiesto una volta mentre erano sdraiati sul soffice prato del Central Park.
“Qualcosa che secondo mio padre porterà a grossi sconvolgimenti nel clima di tutto il mondo. Lui pensa che ci saranno molti più tornadi, uragani, temporali di forte intensità. Maggiore caldo sulle zone desertiche e maggiore freddo
sull’Artide e sull’Antartide. Questo scontro fra caldo e freddo sarà la causa di importanti effetti.”
“Sembra affascinante, da un certo punto di vista.”
Claudine si era alzata diventando seria.
“Non lo è per niente, Jason. Noi abbiamo il dovere di proteggere e preservare il nostro pianeta per le generazioni future.”
Jason l’aveva guardata a lungo senza capire. Il suo orizzonte temporale si fermava al momento presente.
Non aveva ancora capito che tutto ciò che avrebbe fatto nel presente, avrebbe avuto i suoi effetti nel futuro e avrebbe determinato l’intera sua esistenza.
Anche se lui non aveva la più pallida idea né di cosa voleva diventare né che tutto ciò che faceva oggi avrebbe avuto un effetto sul suo futuro.
Tutto ciò che voleva era dimenticarsi e liberarsi di un ato che portava sulle sue spalle come un baule di cento chili.
Jason entrò nell’ascensore che lo avrebbe portato all’ottavo piano. Si guardò nello specchio mentre l’ascensore saliva. La giacca, comprata con Pamela il giorno prima in un negozio di abiti usati, gli stava sorprendentemente bene. Era
la prima volta che ne vestiva una e si sentiva a suo agio, sembrava quasi fatta su misura per il suo corpo. Non voleva essere troppo laccato per quell’incontro, che peraltro non gradiva particolarmente. Ma Claudine aveva insistito così tanto, suo padre era tornato negli Stati Uniti per tenere una conferenza alla Stanford University.
Claudine adorava il padre con un’adorazione che andava al di là di ogni limite, ne parlava spesso con Jason tanto che lui alla fine era diventato anche un po’ geloso.
Jason suonò il camlo e dei i risuonarono sul pavimento in legno, la porta si aprì e lei lo investì abbracciandolo e baciandolo.
“Mettile in un vaso”, disse lui tirando fuori da dietro la schiena un mazzo di rose rosse.
“Sono bellissime”, rispose lei annusandone il profumo delicato, poi lo prese per mano e lo trascinò dentro casa.
Un uomo stava guardando fuori dalla finestra e si girò mentre Jason entrava nel piccolo soggiorno.
Si aprì subito in un largo sorriso e si fece incontro a lui tendendogli la mano. Jason gliela strinse e rimase sorpreso dalla stretta forte e sicura.
“Allora questo è il tuo principe azzurro”, esclamò Alain Mayer rivolto a sua
figlia.
“Oh papà dai non cominciare.”
“Mia figlia mi ha parlato molto di te.”
Jason si ritrasse un attimo, vagamente imbarazzato. Claudine si mise al suo fianco, stringendogli il braccio.
“Non è vero, avrò parlato di te solo una o due volte.”
“Anche sua figlia mi ha parlato molto di lei, sono onorato di conoscerla”, rispose Jason in tono asciutto. Non gli andava che qualcuno parlasse di lui a un estraneo, neanche se questo estraneo era il padre della ragazza che aveva cominciato ad amare.
“Cosa ne dite di due stuzzichini prima di cena?”, disse Claudine.
La serata trascorse su conversazioni leggere e Jason piano piano aveva cominciato a sentirsi meno nervoso. A parte Pamela e Claudine, non frequentava mai nessuno e quella era la prima volta che si avventurava nella società.
“Quali sono i tuoi progetti per il futuro?”, chiese a un tratto Alain mentre metteva in bocca un cucchiaino di gelato.
“Io, veramente...”, rispose Jason bloccandosi subito. Non aveva mai considerato il futuro, per lui la vita si svolgeva solo nel momento presente. E nei ricordi del ato.
“Cosa ti piacerebbe fare come lavoro?”
“Ora lavoro in un bar, faccio il cameriere”, rispose Jason laconico, perdendo in un batter d’occhio la sicurezza che aveva guadagnato nelle ultime due ore.
“È un’esperienza molto interessante, Jason. Ti permette di stare a contatto con la gente, di capire e anticipare i loro bisogni”, disse Alain.
“Ah, non ve l’ho detto. Ho ato anche l’ultimo esame del primo anno, ho avuto l’ammissione oggi al secondo anno”, esclamò Claudine ridendo.
“Brava la mia bambina.”
Claudine si era trasferita a New York per studiare psicologia alla Columbia University, snobbando i ben più blasonati college del vecchio continente. Sosteneva che le teorie di Freud e Jung erano interessanti, ma non servivano a risolvere i problemi delle persone. Non era scavando nel ato che si trovavano le risposte. Lei pensava che solo il presente e l’azione potevano offrire un rimedio, e per questo aveva cominciato a seguire con avidità una nuova forma di terapia, conosciuta come terapia comportamentale e cognitiva.
“Figuriamoci, io nemmeno riesco a capire me stessa. Pensa che danni farei con i miei pazienti”, disse Claudine.
“E a te Jason cosa piacerebbe fare?”
Jason rimase zitto per un po’, guardandosi i polsini bianchi della camicia che spuntavano dalle maniche della giacca, poi alzò lo sguardo verso Alain che rimase come ipnotizzato dall’intensità dei suoi occhi, dalla determinazione che sprigionavano.
“Voglio aiutare le persone”, disse lui d’istinto, senza pensarci, senza nemmeno sapere cosa stava dicendo.
“È un buon proposito, vuoi diventare medico?”
“No”, rispose Jason mettendo il tovagliolo sulla tavola, come a indicare che la conversazione era finita.
“Allora potresti iscriverti anche tu a psicologia”, disse Alain con un sorriso bonario.
“Non credo che a lei davvero interessi cosa voglio fare nella mia vita.”
Un silenzio di tomba calò all’improvviso sui tre seduti a tavola, si sentiva solo lo sfrigolio delle candele, che bruciavano, e bruciavano.
“Certo che mi interessa, Jason. Scusa non era mia intenzione intromettermi nella tua vita.”
“Ecco, allora non lo faccia”, rispose lui alzandosi in piedi.
“Jason”, disse Claudine.
Lui allungò la mano sul tavolo, porgendola ad Alain che la strinse, poi guardò Claudine che era quasi sul punto di mettersi a piangere. Cercò di mormorare qualche parola di scusa, ma la voce non gli usciva. Si girò e se ne andò, chiudendo la porta di ingresso dietro di sé.
Claudine si alzò di botto dalla sedia e gli corse dietro, lo trovò sul pianerottolo con la fronte appoggiata contro il muro e il dito premuto sul tasto di chiamata dell’ascensore.
“Tesoro, cosa ti sta succedendo?”, chiese lei allarmata mettendogli una mano sulla spalla.
“Niente, non succede niente. Lasciami andare”, disse aprendo la porta dell’ascensore appena fermatosi al piano.
“Ti prego. Torna dentro”, disse Claudine da dietro la grata.
Ma l’ascensore cominciò a scendere e fu inghiottito dal vuoto sottostante.
Il giorno dopo Jason era di nuovo al bar, lavorava in modo svogliato ripensando alla sera precedente.
Servì due ragazzi all’incirca della sua età, uno dei due parlava di quello che avrebbe voluto fare terminata la scuola superiore.
“Mi iscrivo alla facoltà di legge”, aveva detto.
“Perché?”, aveva chiesto il suo amico.
“Perché voglio difendere le persone che hanno subito dei soprusi, che sono state maltrattate. Donne che sono state violentate. Uomini che sono stati licenziati senza nessuna ragione. Bambini che sono stati picchiati.”
L’amico aveva annuito mentre Jason continuava ad ascoltare la conversazione senza farsi notare.
“Io invece voglio studiare per diventare un medico.”
Jason si allontanò, si infilò nel retrobottega e si guardò allo specchio.
Si chiese come fosse possibile che due ragazzi che avevano più o meno la sua stessa età potessero avere delle idee così chiare sul loro futuro.
Si fissò negli occhi, poté risentire parola per parola quello che aveva detto uno dei due.
Quello che si chiamava Stern.
Diventare avvocato, proteggere le persone che hanno subito dei soprusi.
Per la prima volta nella giornata sorrise e, a un tratto, capì cosa voleva dire il padre di Claudine la sera precedente.
E capì cosa avrebbe fatto del suo futuro.
Il turno stava finendo, si sentiva stanco morto. In alcuni giorni il bar era relativamente calmo, in altri momenti non c’era neanche il tempo di respirare.
Jason salutò il suo capo e fece per uscire dal locale.
“Oh, stavo venendo a bere qualcosa qui, ma vedo che te ne stai andando”, disse Alain Mayer.
“Buon pomeriggio”, disse Jason vagamente imbarazzato. Si pentiva della scenata che aveva fatto la sera precedente e non si aspettava certo di ritrovarsi di nuovo il padre di Claudine davanti a sé.
Eppure era lì, davanti a lui.
E gli sorrideva.
“Cosa ne dici di fare due i? È una bella giornata che ci può regalare qualche altra ora di sole.”
Jason rimase un attimo incerto, ballonzolando sui due piedi.
“Prometto che non ti farò il terzo grado”, disse Alain con un sorriso radioso. “Solo due i, per sgranchirci le gambe.”
Jason sorrise e si incamminò con lui verso sud.
I due uomini camminavano alla base della Statua della Libertà. Avevano preso un battello che in pochi minuti aveva attraversato il braccio di mare che separava la piccola isola da Manhattan.
“Gli emigranti, molti anni fa quando arrivavano a New York, era questa la prima cosa che vedevano. Per loro era il simbolo di una vita nuova, di orizzonti da scoprire.”
Tirava un vento teso proveniente dal mare, l’aria salmastra era pregna di umidità. Jason alzò il viso nel vento che, arruffandogli i capelli, gli conferiva un aspetto di sfida. Alain lo guardò mentre Jason chiudeva per un attimo gli occhi, studiò i lineamenti del suo viso, l’aria decisa e quasi sfrontata che aveva già esibito qualche sera prima, a cena. Era rimasto molto sorpreso dalla reazione che aveva avuto il giovane, aveva capito d’istinto che era un ragazzo da non sottovalutare. Negli occhi aveva scorto dei lampi d’ira e di rabbia, avrebbe potuto diventare pericoloso se male indirizzato.
“Perché hai voluto vedermi, Jason?”
Dopo la scenata a tavola, Jason aveva bighellonato per la città, senza meta, quasi disorientato. Il cervello gli mandava messaggi contradditori, da un lato gli diceva di scappare. Dall’altro lato si sentiva attratto da Alain, un uomo imperioso, alto quasi un metro e novanta con delle spalle da giocatore di football americano. I capelli biondi leggermente lunghi gli davano l’aria di un vichingo, di un esploratore. Eppure in lui c’era un aura di dolcezza, di innocenza quasi. “Volevo scusarmi”, disse Jason dando un calcetto a un sassolino.
“Non hai niente di cui scusarti.”
“L’ho aggredita, sono stato maleducato.”
“È vero, ma io ti ho provocato. Inconsciamente forse, ma ti ho provocato. Mi sono intromesso nella tua vita privata senza averne il diritto.”
Jason lo guardò per un lungo istante.
“Saliamo?”, chiese Alain indicando la base della Statua della Libertà. Un cartello indicava l’accesso alle parti interne di essa.
Jason fece un cenno di assenso, comprarono due biglietti e cominciarono a salire la scala che portava verso la vetta, verso la corona che sormontava la testa.
Jason saliva i gradini dietro Alain, poteva vedere l’imponente schiena dell’uomo, diritta e agile.
“Qual è il suo scopo?”, chiese all’improvviso.
“Eh, cosa intendi?”
“Lo scopo della sua vita. Qual è?”, chiese Jason continuando a salire.
“Trovare l’origine della vita, capire quando e perché tutto ha avuto inizio”, rispose Alain senza il minimo cenno di affanno nella voce.
“E pensa di trovarlo?”, chiese Jason incuriosito.
“Oh, se lo trovassi vincerei sicuramente il Premio Nobel. Ma il mio obiettivo è
capire da dove veniamo e dove stiamo andando. “Da qualche anno mi sto interessando di alcuni fenomeni che pochi conoscono. Hai mai sentito parlare del buco nell’ozono e dell’effetto serra?”
“No”, disse Jason sempre più incuriosito, tacendo il fatto che Claudine gliene aveva parlato qualche giorno prima.
Alain scoppiò in una sonora risata che rimbombò per lo stretto vano della scala, fece gli ultimi gradini e salì sulla piattaforma che cingeva la testa della Statua della Libertà.
“Che splendido panorama, non trovi?”, disse Alain più rivolto a se stesso che a Jason.
“È bellissimo”, confermò Jason appoggiando le braccia sull’alto parapetto.
Alain aprì una scatoletta di legno ed estrasse due sigari, uno lo porse a Jason.
Jason prese dalle mani di Alain il sigaro, lo accese e aspirò leggermente.
“Ha parlato di effetto serra e buco nell’ozono.”
“Sono due fenomeni meteorologici che stanno cominciando a manifestare i loro effetti su scala planetaria. A lungo termine potrebbero diventare pericolosi.”
“Quanto a lungo termine?”
“Non molto. Forse cinquanta o cento anni.”
Jason scoppiò in una risata e aspirò un’altra boccata del sigaro, mentre il vento infuriava su di loro creando dei mulinelli d’aria.
“Fra cento anni noi non ci saremo più”, disse Jason.
“Vero. Ma ci saranno i tuoi figli, o i tuoi nipoti”, disse Alain guardando Jason seriamente. “Devi pensare al lungo termine. Devi pensare a come vorresti che fosse il mondo, anche in un futuro molto lontano, un futuro che va oltre la tua stessa vita”, disse Alain abbassando la voce e guardando lontano.
“Non devi aver paura.”
“Eh?”
“Ho detto che non devi aver paura del futuro, anche se ora probabilmente non hai ancora le idee ben chiare su cosa fare della tua vita.”
“Qualche idea ce l’ho”, disse Jason dopo un minuto di silenzio.
“Saliamo ancora, in cima alla torcia”, propose Alain con entusiasmo.
I due uomini salirono in silenzio per la stretta scala a chiocciola, dopo pochi minuti arrivarono in vetta e come prima si appoggiarono alla balaustra. Erano in cima alla torcia, nel punto più alto della Statua della Libertà.
“Guarda là, Jason”, disse Alain indicando i grattacieli di Manhattan. “Siamo in piena espansione. A te cosa interessa?”
Jason rimase zitto qualche momento, poi rispose senza esitazione.
“Voglio studiare legge e fare l’avvocato.”
Alain guardò il giovane, vide se stesso com’era venticinque anni prima.
“È un’ottima scelta. È una missione, un po’ come quella del medico.”
“Voglio aiutare le persone che hanno subito dei torti, che sono state messe in ginocchio e che non sanno più come rialzarsi. Voglio lasciare qualcosa di me su questa terra.”
Alain fissò Jason negli occhi, quell’azzurro così intenso lo ammaliò, era come una calamita che attirava qualunque cosa intorno a sé. Capì all’istante che quel
ragazzo avrebbe fatto molta strada, se avesse imboccato quella giusta. Ma che si sarebbe perso del tutto, se avesse fatto le scelte sbagliate.
“Hai già scelto l’università?”, chiese Alain.
“Sì. Yale. Non ho un soldo, ma mi accollerò il mutuo per poter studiare.”
Alain aspirò l’ultima boccata del suo sigaro, poi lo spense e lo mise in tasca. A Jason non sfuggì il gesto, chiunque altro avrebbe gettato il mozzicone nel vuoto.
“Ottima scelta, Jason. Ottima scelta”, disse Alain sorridendogli e cingendogli le spalle, stabilendo un primo e timido contatto fisico.
New York, 9 ottobre 2000
19
“È grave?”
“Temo di sì.”
Stern allungò le gambe davanti a sé, si accomodò meglio sulla poltrona e guardò fisso il medico.
“Quanto grave?”
“Molto. Ma non è terminale, per fortuna.”
Trasse un profondo respiro ma non fu particolarmente sorpreso. Semplicemente, lo sapeva.
Lo aveva sentito arrivare come arriva una folata di vento sul mare, che si increspa e diventa agitato.
“Cosa possiamo fare, Patrick?”
“C’è una sola strada da percorrere. Dobbiamo iniziare subito un ciclo di chemioterapia. Quindi dovremo procedere con un’operazione chirurgica. Questo, nella migliore delle ipotesi”, disse Patrick.
“Quanto mi rimane da vivere?”, chiese accavallando la gamba sinistra.
“Se tutto va bene, se rispondi alla chemioterapia e l’operazione avrà successo anche molti anni. Se le cose vanno male, credo pochi mesi, otto forse dieci mesi. Non di più.”
Stern fece un rapido calcolo. Sarebbe successo in estate, la sua stagione preferita. Quella delle surfate sulle onde dell’Atlantico, quella delle temperature roventi e la brezza, più fresca e dolce alla sera. “Mi dispiace, Stern”, disse Patrick.
Avevano condiviso la stessa stanza al college, a Berkeley, per tre anni. Erano diventati amici, profondamente amici. Patrick era stato il testimone di nozze di Stern e lui aveva ricambiato con lo stesso onore. Si erano ubriacati per la laurea conseguita nello stesso giorno, anche se avevano scelto facoltà completamente diverse. Mentre Patrick si era laureato in medicina, Stern aveva scelto legge e questo fu il collante per accese discussioni davanti a una birra con i piedi a mollo, a Santa Monica.
“Soffrirò?”, chiese Stern.
Patrick rimase in silenzio per qualche istante.
“Sì, ma non te ne renderai conto.”
“In che senso?”
“Trattiamo queste malattie con la morfina, quando il dolore diventa troppo forte. È vero, perderai in lucidità, ma non sentirai dolore fisico.”
Del dolore fisico a Stern non importava nulla e a un tratto si rese conto del vero significato della sua domanda.
Soffrirò a dover lasciare la vita?
Entrò in casa, uno splendido open space tutto circondato da vetri e costruito sulla spiaggia di Mastic Beach. Lo aveva comprato qualche anno prima quando era nato Nicholas. Era il suo sogno di casa, la luce inondava l’appartamento a ogni ora del giorno, e anche della notte quando c’era la luna.
Non accese nemmeno una luce lasciando che il quarto di luna diffondesse nell’open space una luce intima e confortante. Si versò un bicchiere di gin, aggiunse qualche cubetto di ghiaccio e una fettina di limone e uscì in giardino.
Stern si accese una sigaretta. Tirò una lunga boccata, poi bevve un po’ di gin.
Smise di pensare e sentì che una sensazione di calma cominciava a pervaderlo.
Guardò verso la luna che disegnava una sottile scia argentea sull’oceano placido e addormentato.
A un tratto sentì un dolore dentro di sé che non era fisico. Era localizzato molto in profondità e venne alla superficie come una colata di lava, l’immagine di sua moglie mentre entrava in chiesa coperta dal velo bianco, raggiante come un sole, gli ò davanti in un lampo, Nicholas fece capolino nella notte in cui era nato e gli aveva donato il primo sguardo, poi scapparono via le sequenze veloci degli amici e del suo lavoro.
Sì, avrebbe sofferto a lasciare questa vita.
Tabytha aveva sentito il marito rientrare mentre stava facendo addormentare il piccolo Nicholas. Assicuratasi del suo sonno profondo, socchiuse dolcemente la porta e raggiunse il marito.
“Come è andata oggi in ufficio?”, chiese Tabytha.
Stern ripensò velocemente alla giornata, non gli era rimasto impresso nulla, anzi no, qualcosa era rimasto: la voce di Patrick.
“Frenetica, come al solito.”
La moglie lo fissò per un lungo istante.
“Nicholas è già a letto. Ti ha aspettato alzato ma poi è crollato, ho dovuto trascinarlo come un sacco di juta nel suo letto”, disse la moglie.
“Dopo lo vado a salutare”, rispose Stern senza alzare lo sguardo.
“Cosa c’è amore?”
Stern si alzò dalla sdraio, fece qualche o e si fermò davanti alla siepe. A qualche centinaio di metri le onde dell’Atlantico si frangevano sulla spiaggia.
Otto o dieci mesi al massimo.
“Sei preoccupato per la nuova causa legale contro la Brown?”
Stern si girò verso di lei e sorrise debolmente.
“Ho visto Patrick, oggi.”
“Ah e come sta?”, chiese lei pensando che Patrick era un oncologo.
Stern rimase in silenzio, abbassò lo sguardo.
“Mi vuoi dire cosa succede?”, disse Tabytha alzandosi dalla sedia e andando incontro al marito lo abbracciò. Lui poté sentire l’eco delle sue parole, la sua voce così dolce quasi quella di una bambina lo commuoveva ogni volta che lei pronunciava una sillaba. Aspirò il lieve profumo di lei, un’acqua di gelsomino che le aveva regalato qualche giorno prima. Aveva un aroma così lieve che dovette concentrare tutti i suoi sensi per percepirlo. Le accarezzò la schiena, poté sentire il corpo di lei tonificato da ore di esercizi di yoga e di fitness.
“Dovrai essere forte”, disse lui in un sussurro.
“Cosa?” Poi fece qualche o indietro. Lui la cinse nuovamente in un abbraccio. “Cosa ha detto Patrick?”
“Ha detto che dovrai essere forte, amore mio.”
New York, 10 ottobre 2000
20
Stern sedeva alla scrivania fissando un punto oltre il monitor del computer. Aveva disdetto tutti gli appuntamenti della giornata e si era chiuso nel suo ufficio.
“Ti devo parlare.”
“Ciao Stern, vieni avanti”, Stern era più un amico che un socio dello Studio. Jason lo aveva incontrato per la prima volta nel bar dove lavorava e lì si erano conosciuti. Poi lo aveva ritrovato alcuni anni dopo a un cocktail organizzato dall’associazione degli avvocati. Avevano concluso la serata in un bar nell’Upper West Side, dimora dei più incalliti democratici di New York sbronzandosi a suon di gin e tonic.
Ed erano diventati davvero amici.
Quando Jason aveva deciso di aprire uno studio in proprio, aveva chiamato subito Stern perché diventasse suo socio.
Markus Baker entrò come partner solo qualche mese più tardi, ma Markus era un caso a sé. Jason lo aveva scelto per la sua fitta rete di contatti a ogni livello.
Jason guardò Stern negli occhi, ampie borse di stanchezza e un viso tirato davano l’impressione di una notte insonne.
“Va tutto bene?”
“No, non direi.”
“Che c’è, Stern?”
Stern si allungò sulla poltrona davanti alla scrivania di Jason, prese una sigaretta dal pacchetto poi ci ripensò e la mise via.
“Vorrei dare un contributo sostanziale a questa class action”, disse Stern.
“Certo che lo darai, il team è sempre lo stesso, lo sai bene”, disse Jason con una punta di preoccupazione.
“Vorrei fare di più questa volta. Un sacco di gente è morta. Come hai detto ieri, se vinciamo la causa lo Studio intascherà una grossa fetta di denaro. Intendo rinunciare alla mia quota e metterla a disposizione delle vittime.”
Jason lo fissò per un lungo istante.
“Stern, probabilmente la tua quota sarà di parecchie decine di milioni.”
“Lo so.”
“E vuoi rinunciare a tutti questi soldi? Hai un figlio e una moglie.”
“Loro sono già al sicuro, hanno già molto più denaro di quanto ne potranno mai spendere.”
“Come vuoi tu, ma posso chiederti la ragione?”
“Ho un tumore, Jason. Voglio lasciare in eredità qualcosa per cui valga la pena essere ricordato. Stavo pensando a una fondazione che aiuti i parenti delle vittime a superare il trauma della morte di un loro caro.”
Jason rimase pietrificato da questa notizia, la testa gli scattò all’indietro come se fosse stato colpito da un pugno.
“Lo hai già detto a tua moglie?”, disse riprendendosi dallo shock.
“Le ho parlato ieri sera, è sconvolta come puoi immaginare. La consolazione è che Nicholas è ancora piccolo per fortuna, ha solo tre anni. Non so se gli rimarrà impresso qualche ricordo di me. Non soffrirà.”
Jason si alzò e fece un giro intorno alla scrivania. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma si trattenne.
“Aiuterò io la tua famiglia, non permetterò che rimangano da soli.”
“Grazie Jason”, disse Stern alzandosi in piedi e andando verso la porta, con le mani affondate nelle tasche.
“Stern?”
“Sì”, disse lui voltandosi.
“Non ti lascerò da solo.”
“Lo so”, rispose Stern con occhi invasi dalla malinconia.
“Senti, riguardo alla donazione che vorresti fare, credo di avere un’idea migliore.”
“Quale sarebbe?”
“Fidati di me. Domani ti mostro qualcosa di interessante.”
Il giorno dopo di mattina presto, a bordo della limousine che avanzava lenta nel
traffico, imboccarono il ponte di Brooklyn e attraversarono l’East River.
Imboccarono l’Atlantic Avenue, percorsero qualche chilometro in direzione est, poi girarono a destra puntando a sud.
“Tutto ha avuto inizio qui, Stern” disse Jason con la voce carica di malinconia riconoscendo le vie, i palazzi anonimi, le persone che a ogni angolo di strada frugavano nei cassonetti dell’immondizia.
“Non deve essere stato facile”, disse Stern guardando dal finestrino opposto e vedendo la stessa sequenza di immagini che scorrevano davanti agli occhi di Jason.
“No infatti”, disse guardando Stern. “La vita inizia in un punto, non sei tu a sceglierlo. Ti ci trovi in mezzo. Tocca a te capire se quel punto di partenza è già l’arrivo, oppure no. Amavo mia madre, l’ho vista morire davanti ai miei occhi e non ho potuto fare nulla per impedirlo”, disse Jason divagando e lasciando correre il pensiero in un’altra realtà.
“Non lo sapevo, mi dispiace.”
La limousine percorse Remsen Avenue, entrando in una zona ancora più squallida. Alcune bande di teppisti ammutolirono al loro aggio, guardarono fissi nei finestrini cercando di indovinare chi fosse il boss che in quel momento stava controllando il loro territorio.
“Credo che ci debba essere qualcosa di più grande di noi. Qualcosa che ci spinga davvero ad alzarci dal letto ogni mattina e affrontare i demoni. Quelli là fuori”, disse Jason picchiettando il vetro con le dita.
“Il mio tempo forse è scaduto, Jason.”
Stern si accese una sigaretta, aspirò qualche boccata.
“Non ho combinato molto nella vita”, disse con un filo di voce.
“Non è vero questo e lo sai bene. Hai creato una vita. Hai amato. Abbiamo lottato assieme in battaglie impossibili, le abbiamo vinte.”
“Sì, ma per lasciare cosa?”
“Adesso te lo mostro”, disse Jason scendendo dalla limousine.
I due si incamminarono tra strade malfamate, tra palazzi fatiscenti.
“Fidati di me”, disse nuovamente Jason.
New York, 2 aprile 1998
21
“Ecco fatto, credo che sia tutto”, disse David Ashton prendendo il blocco di fogli che Jason gli stava porgendo.
Jason posò sul liscio e scuro tavolo di mogano la stilografica con la quale aveva firmato, per ultimo, i documenti che assegnavano a Stern e Tabytha la custodia fino alla maggiore età dei propri figli, Kelly e Joshua. Venivano costituiti due fondi fiduciari ognuno ammontante a dieci milioni di dollari e che sarebbero entrati nella piena proprietà dei suoi figli solo al compimento del venticinquesimo anno di età. Fino ad allora, i fondi sarebbero stati amministrati da un gestore di fiducia della Goldman Sachs, di cui Jason era intimo amico.
Infine, Jason aveva predisposto che le quote dello studio Davis Baker & Reynolds di sua proprietà sarebbero confluite nel lascito ereditario.
Tabytha prese la mano di Claudine, se la portò alla guancia.
“Oh Tabytha, non sai quanto siamo felici.”
Tabytha continuò a cullare tra le sue mani quella più piccola di Claudine, come fosse un oggetto prezioso, da venerare e custodire.
“Sono felice, con il gesto che state facendo a noi mi sento ancora più unita a voi”, disse Tabytha guardando prima Claudine e poi Jason.
I quattro erano stati nell’ufficio di Ashton anche la settimana precedente, quando Stern e Tabytha avevano firmato gli stessi documenti affidando Nicholas alle cure di Jason e Claudine, in caso loro ne fossero stati impediti. I quattro formavano un’alleanza perfetta, anche dall’esterno si poteva notare l’armonia che regnava tra loro. Un’armonia senza interferenze, spontanea e naturale quanto l’amore che si può avere per un figlio.
Montclair, 10 ottobre 2000
22
Jason entrò in casa, abbracciò la moglie e la tenne stretta.
“Tutto okay, Jason? Sei più affettuoso del solito stasera”, disse lei sorridendogli stupita.
“Tutto okay, solo una giornata diversa dal solito.”
“Diversa in che senso?”, chiese Claudine.
Jason ripensò a Stern, alla paura nei suoi occhi. Alla sua malinconia, la sua tristezza mentre gli diceva che forse aveva solo pochi mesi di vita. Il cuore gli si strinse in una morsa, prese delicatamente la mano di Claudine e la condusse in giardino.
Le disse tutto, lei ascoltò senza mai interromperlo, le raccontò tutto di Stern, da quando lo aveva incontrato per la prima volta al bar dove lavorava e lo aveva riconosciuto anni più tardi, alla festa nell’Upper West Side dove era iniziata la loro amicizia.
Finito il periodo di praticantato, Stern e Jason avevano dato l’esame di stato per diventare avvocati ed entrambi erano stati promossi con il massimo dei voti.
Avevano avuto offerte di lavoro da ogni studio legale di New York, offerte che era difficile rifiutare.
Poi una sera, al Madrugada, un locale messicano che erano soliti frequentare, Jason aveva proposto a Stern di aprire uno studio per conto loro. Sempre più eccitato, Jason gli aveva descritto quello che avrebbero fatto. Battaglie civili, battaglie contro le multinazionali. Battaglie per aiutare i deboli e le persone sofferenti.
Il giorno dopo avevano costituito lo Studio Davis & Reynolds, due locali più un bagno di servizio malconcio nella Upper West Side, la parte sbagliata di New York dove esercitare la professione di avvocato.
I soldi, le cause più importanti, le vere battaglie si concentravano nella East Side.
A quella, Jason diceva sempre, ci sarebbero arrivati prima o poi.
Jason guardò l’ora segnata dalla sveglia sul suo comodino. Le quattro e venti del mattino.
Valutò se fare una doccia bollente o una corsa nel parco. Si mise a sedere sul letto guardando sua moglie profondamente addormentata. Invidiava il fatto che riuscisse a lasciarsi andare completamente al sonno, all’oblio.
Jason invece era sempre presente, in un costante stato di tensione. Una sindrome da ansia generalizzata che il suo amico Michael, lo psichiatra, gli aveva
diagnosticato anni prima. Una sindrome che veniva dalle profonde ferite del suo ato.
Per Jason, il ato doveva rimanere tale. Solo un’azione nel presente avrebbe potuto riportarlo alla luce e ancora non sapeva quanto fosse vicino alla verità.
Si alzò dal letto e fece un rapido conto del fuso orario. A Parigi erano da poco ate le dieci di sera. Non troppo tardi per un telefonata.
Digitò il codice sulla tastiera ed entrò nella stanza, la copia gemella di un’altra stanza localizzata in un altro luogo.
Compose il numero a memoria.
Il telefono squillò due volte.
“Ciao Alain, sono io.”
“Ciao figliolo, nottambulo come sempre?”, chiese Alain con il sorriso nella voce.
“Come sempre.”
“È una gran cosa non dormire troppo.”
“Già”, disse Jason laconicamente.
Alain colse lo stato d’animo depresso del genero, che per lui era come un figlio. Si sentivano spesso, lui e Jason.
“Come vanno le cose?”, chiese Alain.
“Non molto bene. Sto perdendo un amico e...”
“Lo conosco?”
“È Stern. Ha un tumore molto grave e se tutto va male gli rimangono solo pochi mesi di vita.”
“Stern è una brava persona, mi ricordo di lui. Ti è molto simile.”
“Non è giusto, maledizione. Non è giusto!”
Alain rimase zitto. Gli sussurrò poi parole di incoraggiamento, come un padre può fare con un figlio.
“Perdo pezzi, Alain. Sto perdendo interi pezzi della mia vita.”
“Hai me, Jason. C’è tua moglie, mia figlia, e i tuoi figli.”
“Qualche volta non basta, Alain. Stern è stata la persona che ha illuminato per primo la mia vita.”
“Sii degno di lui, allora”, concluse Alain.
New York, 11 ottobre 2000
23
“Non pensavo che mi avresti telefonato così in fretta”, disse Markus Baker succhiando una caramella alla fragola.
“Non fare lo stronzo, Markus. Dobbiamo vederci.”
“Non se ne parla.”
“Ho detto che dobbiamo vederci, e in fretta.”
Markus si alzò in piedi, voltò le spalle al telefono posto in viva voce, guardò fuori il panorama di New York ai suoi piedi. Era questo che voleva: avere tutti ai suoi piedi, sotto di sé. Era paziente, scavava piccoli tunnel, che diventavano sempre più profondi. Accedendo a un’informazione, ricevendo il benvenuto nei più esclusivi club della city, andando a un cocktail party dove il suo incessante lavoro di pubbliche relazioni non si fermava mai. Il risultato di tutti questi anni di duro “lavoro” era una fittissima rete di contatti sparsi ovunque, in ogni azienda, in ogni studio legale. La sua agenda era strapiena di nomi, bastava sfogliarla per rendersi conto dell’incredibile ragnatela di relazioni che aveva intessuto nel corso degli anni.
Si accese una sigaretta. La accese, mentre il telefono mandava un lieve ronzio indistinguibile.
“Va bene”, disse infine.
“Vengo io da te, tra un’ora.”
“Ti aspetto. Porta il dessert”, e schiacciò un tasto che pose fine alla conversazione.
“Allora? Avevi tutta questa fretta, poi arrivi qui e non dici una parola”, chiese ironico.
“Ho parlato con il mio cliente”, disse Randy Stewart, stretto nel suo immancabile abito grigio antracite con i gemelli d’oro ai polsini della camicia.
Markus rimase in silenzio guardando il monitor del suo computer.
“Oggi le General Motors vanno forte, a quanto pare la old-economy sta tornando in auge. Del resto tutte quelle cazzate delle Internet company, le dot com, sono andate a farsi fottere. Non hai idea del lavoro che abbiamo qui, caro Randy.”
“Non sono qui per parlare dei soldi che hai perso in Borsa, Markus.”
“Perso soldi? Io? Non direi. Vedi, amico mio, si dà il caso che in tempi non sospetti, diciamo qualche anno fa, io assieme ad altri investitori abbiamo investito dei soldi in almeno una decina di aziende Internet. Poi abbiamo fatto quotare queste aziende, certo ci aspettavamo un buon risultato ma nulla di quello
che è realmente accaduto e siamo diventati ricchi, molto ricchi Randy. Però siamo stati anche accorti. Il risultato è che noi siamo usciti dagli investimenti nel momento migliore, mentre quelli che hanno messo la propria pensione su aziende che ora non valgono più nulla ora stanno con le pezze al culo”, disse Markus dondolandosi sulla comoda poltrona.
“E quanto ci hai guadagnato?”, chiese Randy sinceramente affascinato.
“Molto più di quanto immagini. Molto di più.”
“Allora il denaro non sarà un problema per te.”
“Cosa vuoi?”
“Trovare un accordo.”
“Impossibile. L’hai detto un istante fa. Per noi il denaro non è un problema. Quello che noi vogliamo è farvi fare la figura dei coglioni davanti a tutto il mondo. E, credimi, lo otterremo.”
“Però potremmo trovare un’intesa?”
“Cosa intendi?”
“Ogni cosa a suo tempo, Markus”, disse Randy rilassandosi sul divanetto e bevendo, finalmente, la tazza di caffè che nel frattempo era diventato freddo come la sua voce.
“Kurt, vieni da me per favore”, disse Markus ad alta voce.
Kurt entrò nell’ufficio di Markus, sin dalla fondazione dello Studio era stato designato da Jason come la persona di riferimento per le relazioni con le controparti.
Markus incontrava gli avvocati delle difese, Markus trattava. Markus ordiva e disfaceva. Certo, alla fine era sempre Jason che aveva l’ultima parola, ma quest’ultimo aveva in Markus una fiducia incrollabile.
Spesso, nel corso di tanti anni, non si era neanche arrivati in Tribunale grazie alle sorprendenti doti di Markus che aveva messo alle corde l’avversario ancora prima di torcergli un solo capello in aula. Spesso, le controversie erano decise e risolte nel chiuso delle sale riunioni.
“Quelli della Brown vogliono un accordo stragiudiziale.”
“Di già?”, chiese Kurt.
“Di già”, annuì Markus bevendo un sorso di Evian.
“Niente da fare, abbiamo appena iniziato a scavare. I clienti ci stanno addosso, continuiamo a ricevere mandati di rappresentanza legale. In pochi giorni abbiamo raccolto quasi milleduecento deposizioni firmate da persone che hanno subito danni da quei pneumatici. Dobbiamo andare avanti con questa linea e portarli in Tribunale.”
“Non so se il Tribunale sia una buona idea in questo caso. Loro sono grossi, molto grossi. Ci sommergeranno con tonnellate di carta, con dichiarazioni di esperti di tutto il mondo. Impiegheremo anni per venirne fuori, anche se probabilmente vinceremo noi.”
“Cosa ne dice Jason?”
“Anche lui mi sembra che si sia accorto del pericolo di andare in Tribunale. Ha convocato una riunione tra noi soci per prendere la decisione finale, se andare in causa o acconsentire a un accordo stra-giudiziale. Forse non otterremo le prime pagine dei giornali, ma di sicuro guadagneremo un pacco di soldi, per noi e per i nostri clienti”, disse Markus sospirando.
“Cosa vuole che faccia?”, chiese Kurt.
“Riunisci tutti quelli che lavorano a questo caso. Avete trenta giorni di tempo per raccogliere il maggior numero possibile di testimonianze e di mandati. Firmati. Poi presenteremo il conto alla Brown.”
“Un mese potrebbe non bastare”, protestò Kurt.
“Un buon motivo per cominciare subito”, disse Markus prendendo il telefono e ponendo fino alla conversazione.
24
Era ancora al lavoro, sapeva che i giorni sarebbero stati lunghissimi e le notti ancora di più. Odiava quel lavoro, un mucchio di scartoffie a cui badare, un mucchio di noia da seppellire in faldoni che sarebbero stati archiviati e dimenticati in qualche magazzino senza nome.
Da ragazzino sognava una vita avventurosa, libera. Con il sole in faccia e il vento nei capelli.
Poi qualcosa era cambiato, la famiglia gli aveva quasi imposto gli studi di legge e lui si era lasciato convincere. Anzi, piegare era il termine giusto.
Piegare al volere degli altri, alle strade e ai successi non conseguiti dai propri genitori che si ammazzavano di lavoro in un piccolo supermercato che non generava mai abbastanza denaro per coprire i costi.
Aveva ato le estati lavorando con i suoi, chiuso tra gli scaffali e le luci artificiali mentre gli amici organizzavano gite in spiaggia, si scambiavano ragazze e fidanzate. Mentre i suoi amici vivevano la giovinezza, la sua si stava bruciando in mezzo ai detersivi e al banco dei salumi.
Giorno dopo giorno la voglia di avventura si era spenta in lui, fino a che il padre gonfio di orgoglio, una sera a cena, gli aveva detto che avevano abbastanza soldi per finanziare i suoi studi di legge.
Aveva accettato questa notizia con un sorriso finto per non dispiacere ai suoi genitori, poi era salito in camera sua. Si era guardato intorno, non c’erano foto di amici o di ragazze con cui aveva avuto un flirt, anche solo eggero. Non c’erano coppe, né poster di un gruppo rock. Non c’era trasgressione, non c’era quella ribellione scomposta tipica dell’adolescenza.
Non c’era nulla, se non una sfinita rassegnazione.
Spense il computer e si infilò la giacca, si girò verso la finestra e guardò lontano.
Pensò a una barca a vela, là in mezzo all’oceano, insieme a qualche amico con cui raccontarsi storie e condividere ricordi. Pensò a una donna al suo fianco che si stringeva a lui.
Infilò la porta del suo ufficio e percorse il corridoio verso l’ascensore, sentiva che qualche suo collega era ancora al lavoro picchiando sui tasti del computer. Guardò l’orologio. Le due e mezza del mattino.
Come si fa a essere ancora furiosi dopo diciotto ore di lavoro? si chiese Kurt.
Scese in strada e si incamminò verso il suo appartamento, era a pochi isolati dal suo ufficio, solo cinque minuti a piedi.
Un lusso a New York City.
Arrivò davanti al suo condominio, una limousine nera parcheggiata proprio davanti all’ingresso.
Si abbassò il finestrino posteriore e si affacciò un uomo con i capelli brizzolati.
“Buonasera Kurt, era tanto che la aspettavo.”
Kurt rimase immobile, con la valigetta stretta nella mano destra all’improvviso diventata di piombo. Fece qualche o in direzione della limousine, il cuore gli accelerò un poco.
Sally usciva con una sua amica della Columbia University da un disco-bar ricavato da un molo del vecchio porto, aveva decisamente un buon motivo per festeggiare. Erano entrambe ubriache, camminavano sorreggendosi a vicenda scoppiando a ridere in modo sguaiato a ogni parola che l’altra diceva.
Camminarono respirando l’aria salmastra che arrivava dall’oceano, poi svoltarono un angolo.
“Fermati”, disse Sally a Leticia, biascicando il suo nome, trascinandola al riparo dietro un platano e osservò la scena.
L’uomo brizzolato scese dalla limousine e fece due i in direzione di Kurt, che lo osservò con curiosità.
“Bella serata, non trovi.”
“Bellissima”, rispose Kurt guardando a destra e sinistra, sincerandosi che non ci fosse nessuno di conosciuto in vista. “A che cosa devo l’onore della sua visita?”
“Potremmo salire nel tuo appartamento, oppure parlare comodamente in macchina.”
“Saliamo in macchina, è meglio.”
Randy entrò nella limousine subito seguito da Kurt, la portiera si chiuse. Kurt si allungò sul sedile chiudendo anche il vetro divisorio che li separava dall’autista. La schermatura doveva essere totale.
“Vedi Kurt, io do un gran valore all’informazione. Sapere quello che avviene, perché avviene e soprattutto quando è vitale. Convieni?”
“Lo so, credo sia per questo motivo che noi due ci parliamo ormai da diversi mesi”, disse Kurt accomodandosi nell’ampio abitacolo. Improvvisamente lo trovò molto comodo.
“Ho bisogno di sapere cosa avviene nel vostro Studio, Kurt. Ho bisogno di sapere se avete intenzione di andare in causa oppure se siete disponibili a un accordo stragiudiziale.”
“Queste sono informazioni che ti o regolarmente, Randy. Non mi pare niente di nuovo.”
Randy fece un gesto di stizza.
“Stai facendo un ottimo lavoro, del resto ti abbiamo già versato mezzo milione di dollari e ammetto che te li sei meritati. Ma ora ho bisogno della lista dei nomi, di tutti i vostri clienti che hanno firmato per aderire alla class action.”
“Sei pazzo, Randy se mi beccano mi radiano dall’albo, un conto è darti delle informazioni verbali ma qui si tratta di arti una tonnellata di dati sensibili. Non avrai mai queste informazioni.”
“Ah no?”, chiese Randy guardando di sottecchi il giovane avvocato. “Vorrà dire che mi sono sbagliato, buonanotte Kurt”, disse Randy sporgendosi nell’abitacolo per aprire la portiera.
“E se lo faccio?”
Randy si girò, gli sorrise e con una mano gli fece cenno di uscire dalla macchina, fecero qualche o lungo il viale deserto, illuminato fiocamente dai lampioni mentre Sally continuava a osservare la scena.
“Se lo fai avrai molto denaro”, disse Randy fermandosi di colpo a pochi metri dalle due ragazze nascoste dietro l’angolo.
“Di quanto denaro stiamo parlando?”
“Quattro milioni di dollari versati su un conto cifrato alle Bermuda. Netti ed esentasse.”
Kurt rimase paralizzato, come se gli avessero sparato con una pistola elettrica Taser, poi annuì lentamente mentre Randy si girò per tornare alla macchina. Aprì lo sportello e fece un sorriso sbieco all’indirizzo di Kurt che rimase fermo sul ciglio della strada.
New York, 12 ottobre 2000
25
“Mi sembra che abbiate la faccia un po’ stanca”, disse Jason guardando la sua task force riunita intorno al tavolo della sala riunioni.
Jason sapeva che i suoi ragazzi avevano lavorato giorno e notte, concedendosi solo qualche ora di sonno, spesso consumata in ufficio.
Proprio come quando ero giovane io, pensò.
“Markus, vogliamo fare il punto della situazione?”, disse Jason accendendosi il sigaro e lasciando che l’aroma pervadesse la stanza.
“Volentieri, Jason. Ieri è venuto da me Randy Stewart.”
Qualche piccola esclamazione di stupore si levò dal gruppo seduto intorno al tavolo. Jason taceva e osservava le reazioni di ognuno. Gli bastava un’occhiata per capire tutto, per fare una radiografia completa di chi gli stava di fronte.
Il suo era un istinto naturale, forse affinato dalla vita di strada che aveva fatto a Brooklyn.
“Mi ha proposto un accordo stragiudiziale.”
“Cosa gli hai risposto?”, chiese Jason intuendo quello che Markus avrebbe detto.
“Che dovevo parlarne con il team, ci siamo messi contro un gigante, questo lo sappiamo tutti. Un gigante che può inondarci con deposizioni, atti giurati, testimonianze. Potremmo andare avanti per anni e arrivare al punto di non avere più le risorse per proseguire. Questa causa coinvolge troppe persone e troppe risorse. Potremmo finire la benzina prima di arrivare alla meta e questo sarebbe un guaio”, disse Markus tamburellando le dita sul piano in cristallo del tavolo.
“Stern?”, chiese Markus.
“Concordo con Markus potremmo trovarci in difficoltà. Nelle class action si guadagna solo se si vince, nessuno paga in anticipo. Considerato l’avversario che abbiamo di fronte e il numero relativamente esiguo di deposizioni firmate, c’è il rischio che la giuria non si pronunci a nostro favore, o che emetta una sentenza di basso profilo. D’altro canto, con un accordo stragiudiziale potremmo cogliere l’opportunità di chiudere in fretta questa operazione, risarcire i parenti delle vittime e vincere. Non ci sarebbe però né la multa penitenziale né il clamore dei media, tutto si ridurrebbe a una piccola scaramuccia”, disse Stern visibilmente combattuto.
Jason gli sorrise.
Qualche mormorio di approvazione si levò dagli associati e dai collaboratori più giovani e inesperti.
Loro volevano il sangue, la battaglia e la lotta.
Jason si alzò, fece un giro intorno al tavolo in silenzio. A lui spettava la decisione finale e il silenzio teso, assoluto della stanza era rotto solo dal rumore dei suoi i sul parquet.
Pamela lo guardava affascinata, l’eleganza felina con la quale si muoveva, i i lenti e misurati, l’assenza di tensione. Il vestito grigio antracite che lo avvolgeva come un’armatura, i capelli tirati indietro con uno strato di gel.
Tornò al suo posto. Guardò uno a uno i suoi collaboratori. Poi trasse una boccata dal sigaro e il suo sguardo si fermò su Stern.
“La paura di perdere è dentro ognuno di noi. C’è chi si autoelimina. C’è chi fa il o, e cade. E poi si rialza. C’è infine chi fa molti i in più e arriva al traguardo. Voi da che parte volete stare?”
Stern annuì.
“A questo tavolo ci sono diciannove persone, ognuno di voi ha lavorato senza tregua e questo vi rende onore. Ma come ha detto Markus, rischiamo di farci fagocitare dalla Brown, dalla Power Tyre e dalla Drexel. Le loro risorse sono cento volte superiori alle nostre. Quindi possiamo decidere. Se fare un o in più, se farne tanti, oppure se rimanere fermi. E accettare l’accordo stragiudiziale. Voi cosa volete fare?”, chiese Jason guardando il gruppo.
Qualcuno mormorò un appena udibile “andiamo avanti”, qualcun altro disse “fermiamoci.” Altri, come Pamela e Stern rimasero zitti.
“Diciannove persone”, ripeté Jason. “Non sono poi così tante se paragonate alle centinaia di avvocati e paralegali che il nostro avversario può mettere in campo. Convenite?”
Qualcuno assentì.
“Spero che non ve ne abbiate male, signori. Ma devo parlare in privato con i miei soci. Potete andare per il momento, Pamela tu rimani”, disse Jason.
L’ultimo che varcò la soglia fu Kurt. Con gli occhi di Jason piantati a fuoco sulla sua schiena.
Jason si sedette sulla poltrona e premette un tasto. La stanza immediatamente piombò nel buio, mentre un proiettore scendeva dal soffitto e uno schermo si illuminava.
Con un piccolo telecomando in mano, Jason fece scorrere alcune diapositive. Mostravano l’interno di un enorme capannone dove lavoravano decine e decine di persone, come formiche intente a portare il cibo nel formicaio prima di affrontare l’inverno.
Si vedevano uomini in giacca e cravatta, altri in maniche di camicia. Si vedevano montagne di scatoloni, di faldoni tutti ordinatamente allineati sul lato
lungo del capannone.
“Quello che vedete è l’inchiesta parallela.”
Markus e Stern si protesero in avanti, fissando lo schermo attoniti.
“Quello che vedete sono più di ottanta persone che da diciotto mesi lavorano a questo caso. Che raccolgono firme, che ascoltano e registrano deposizioni. Che raccolgono clienti. Clienti ho detto”, disse Jason continuando a far scorrere le diapositive fino a quando lo schermo tornò a essere buio.
Jason guardò i suoi soci e le loro facce sbalordite.
“Abbiamo quasi quindicimila clienti, dieci volte tanto quello che pensa il nostro avversario. Questo significa che abbiamo talmente tanto materiale che possiamo andare in aula, trascinare la controparte in Tribunale e affossarli. Calcolando un risarcimento medio di cinquantamila dollari, ed è una cifra molto prudenziale, per ogni cliente danneggiato abbiamo un totale di settecentocinquanta milioni di dollari. A questo si aggiungerà la multa penitenziale, sui duecento o trecento milioni di dollari. Volete un accordo stragiudiziale e accontentarvi delle briciole o siete con me e andiamo in Tribunale per una causa che varrà più di un miliardo di dollari?”
“Com’è possibile tutto questo?”, chiese Markus.
“Ho utilizzato i miei fondi personali per finanziare quello che vi ho appena
mostrato. Il nostro nemico non sa nulla, conosce solo l’ubicazione del magazzino giù ai dock dove abbiamo messo il materiale che avete raccolto voi. Il grosso, quello che avete appena visto, è in un luogo lontano da qui. La sicurezza e la discrezione prima di tutto, Markus”, disse Jason guardando con un sorriso bonario il suo socio. “La stima, chiamiamola così, che vi avevo fatto la settimana scorsa non era una stima. Era già realtà”, concluse.
“Ma questo cambia tutto!”, esclamò Markus.
“Esatto”, disse Jason alzandosi dal tavolo. “Si va in Tribunale, amici miei, gli faremo il culo” e detto questo uscì dalla stanza.
Kurt era uscito dalla sala riunioni, andò nel suo ufficio e si chiuse dentro. Si sedette alla scrivania e si accese una sigaretta. La Triade era riunita, si stavano dicendo qualcosa di importante e lui non sapeva cosa. Forse non lo avrebbe mai saputo. Doveva informare Randy che qualcosa si stava muovendo, anche se non sapeva ancora esattamente cosa. Doveva tenere desto il suo interesse. Doveva mettere le mani su quei quattro milioni di dollari.
Scrisse un breve messaggio indirizzato a Randy Stewart. Aveva già il file sul desktop, un file Excel pieno di nomi, indirizzi e tutte le informazioni che Randy gli aveva chiesto. Lo allegò al messaggio, mentre il cuore accelerava a un ritmo incontrollabile. Rilesse il testo della breve e-mail, poi con un sorriso soddisfatto cliccò su Invio e in un attimo si ritrovò dall’altra parte della barricata.
L’e-mail partì dal PC di Kurt, percorse qualche nodo, si fermò un millisecondo nei server Sun Microsystem di Jason. Poi continuò il suo percorso e arrivò a destinazione. Alla casella di Randy Stewart.
Kurt ora sorrise, il peggio era ato e quasi si congratulò con se stesso.
Lui, avrebbe vinto comunque.
“Seguimi”, disse Jason a Markus, mentre Pamela e Stern uscirono come intontiti dalla sala riunioni.
Markus si alzò e i due si diressero verso l’ufficio di Jason.
“Abbiamo un problema in Studio”, gli disse senza preamboli.
“Che genere di problema?”
“Kurt, Il tuo assistente.”
“Sta lavorando bene alla causa contro la Brown.”
Jason si accese l’ennesimo sigaro.
“Diciamo che comunica con Randy. Tu ne sai qualcosa?”, chiese Jason.
“Strano. Non è autorizzato a parlare con Randy Stewart né con nessuno della Brown. Sono io l’unico portavoce”, disse Markus. Lo sguardo di Markus si era fatto improvvisamente più nitido.
Jason prese dalla tasca della giacca un foglio piegato in due e lo porse a Markus.
Markus inforcò gli occhiali da vista e dispiegò il foglio.
“Quel piccolo bastardo”, esclamò.
“Appunto.”
“Ma tu come hai fatto a...”
“Non chiederlo, Markus. Non saremmo arrivati fino a qui se non mi fossi sempre parato le spalle.”
“Da quanto tempo va avanti questa storia?”, chiese Markus sbalordito.
“Dall’inizio”, rispose laconicamente Jason.
“Adesso lo prendo a calci e lo sbatto fuori dalla finestra.”
“Tu non farai niente di tutto questo, vecchio mio.”
“Perché non dovrei?”, chiese Markus.
“Perché ho un’idea migliore”, rispose Jason sorridendo e spegnendo nel portacenere il mozzicone di sigaro.
“Vale a dire?”
“Diciamo che un portavoce non ufficiale potrebbe anche tornare a nostro vantaggio”, disse Jason sorridendo.
Markus si rilassò sulla piccola poltroncina, intuendo dove Jason voleva arrivare.
“Non importa che genere di informazioni fornisce a Randy. Quello che importa è cosa trasmette a Randy e questo lo possiamo pilotare noi.”
“Dovremmo mettergli qualcuno vicino.”
“So già chi può essere questo qualcuno”, disse Jason.
26
“A cosa stai pensando?”
“Sto guardando questo spettacolo, voglio rimanere nell’assenza dei pensieri” disse lei con un sussurro come a non voler disturbare la quiete in cui erano immersi.
Avevano le candele nel giardino d’inverno. L’illuminazione era talmente bassa che Jason quasi faticava a vedere sua moglie sdraiata assieme a lui su un’ampia sdraio in tek, grande come un letto matrimoniale su cui poggiavano un materasso e molti cuscini color panna. Poteva sentire il calore del suo corpo, il profumo della sua pelle.
“È una serata meravigliosa”, disse lui accarezzando i capelli lunghi e soffici di sua moglie.
“Come ti senti?”
Jason tirò una lunga boccata dal sigaro.
“Teso.”
Claudine fu scossa da un fremito che Jason percepì chiaramente, il suo corpo si contraeva per l’effetto della risata.
“Ehy non c’è niente da ridere” protestò debolmente.
“Cosa ti preoccupa?”, gli chiese.
“Sono tornati gli incubi.”
“Parli dei sogni o di quei flash che hai?”
“I flash”, rispose Jason sospirando.
“Fanno parte di te.”
“Non posso liberarmene vero?”
“Lo sai.”
“Cosa?”
“Lo sai che non puoi”, rispose Claudine abbassando nuovamente la testa stringendosi a lui con più forza, come se volesse proteggerlo dai suoi incubi. “Puoi solo conviverci.”
“Quanto li ho odiati”, disse Jason bevendo un sorso di cognac.
“Ma adesso non ci sono più, c’è solo un’ombra che non può più farti male, a meno che tu non le permetta di diventare realtà.”
ò un aereo nel cielo, le luci bianche dei piani di coda e della fusoliera somigliavano a stelle cadenti.
“Non ho sposato una psicoterapeuta per caso”, disse Jason.
“Non ero ancora psicoterapeuta, ho dovuto diventarlo solo dopo averti sposato”, rispose lei dandogli un colpetto nelle costole.
“Sono un paziente perfetto”, disse lui abbracciandola stretta.
Improvvisamente arrivò un refolo di aria fresca, spense qualche candela precipitandoli in un’oscurità più profonda.
“Brrrr”, disse Claudine rabbrividendo.
“Andiamo a dormire?”
Claudine si alzò, si scostò una ciocca di capelli che le cadeva di fronte al viso, quel gesto ricordò a Jason quando la conobbe, nel bar dove lavorava come cameriere. Jason si innamorò delle sue parole e della sua voce ancora prima di rivolgerle la parola. E quando lo fece lei alzò il viso, gli sorrise e si scostò una ciocca di capelli dagli occhi, proprio come adesso.
Era stata al suo fianco in ogni istante della sua vita. Era diventato l’uomo di adesso grazie a lei, non avrebbe saputo neanche immaginarsi una vita senza Claudine al suo fianco.
Jason si alzò e le cinse le spalle con un braccio, in silenzio entrarono in camera da letto e fecero l’amore con dolcezza e languore, con la stessa innocenza della prima volta, con lo stesso batticuore.
“Va tutto bene?”, chiese Claudine accarezzandogli la guancia.
“Stavo pensando a Stern. Ha detto che vuole lasciare lo Studio, dedicarsi alla famiglia per il tempo che gli rimane”, disse Jason cingendo le spalle di Claudine con un braccio.
“Mi sembra una buona idea, però gli lascerà troppo tempo per pensare”, disse lei.
“Pensavo di affidargli la gestione del progetto immobiliare di Brooklyn.”
Claudine rimase in silenzio per un po’, appoggiò la testa sulla spalla del marito.
“Non lo so, è un progetto a lungo termine. Magari non vedrà la fine e non so se questo gli gioverà.”
“È vero, però è qualcosa che gli sopravvivrà”, disse Jason.
“In ospedale ho sentito casi di pazienti che coinvolti in qualcosa di importante hanno prolungato di molto la propria esistenza. Gliene hai già parlato?”
“Sì, siamo andati a Brooklyn e gli ho mostrato tutto. Mi è sembrato molto colpito.”
Claudine si distese sul letto, portandosi il lenzuolo fin sotto al mento.
“E se capitasse a noi questo?”
“Questo non capiterà mai, amore mio. Io sarò sempre al tuo fianco, qualunque cosa succeda.”
Claudine lo abbracciò e si strinse a lui con forza, le accarezzò i capelli e la cullò nella notte che avanzava, lasciando il posto a un sonno profondo.
New York, 13 ottobre 2000
27
“Amore sono io, ti disturbo?”
“No cara, stavo guardando il progetto immobiliare di Jason, diavolo è dannatamente interessante.”
“Hai deciso se occupartene?”
Stern si girò sulla poltrona, guardò il ponte di Brooklyn in lontananza, premette meglio il cellulare contro l’orecchio, soppesò la risposta per qualche secondo. Sapeva che sarebbe impazzito se non avesse fatto qualcosa, se non avesse tenuto la mente impegnata. Quello che lo amareggiava era il pensiero di uscire di scena nel momento migliore della sua vita, con una donna che amava alla follia e un figlio a cui dedicava tutto il tempo libero.
Alla fine rispose semplicemente: “Sì, me ne occuperò.”
“Tesoro è fantastico”, disse Tabytha con la sua voce dolcissima, che lo riportò ai tempi di quando l’aveva conosciuta.
Stern non aveva perso tempo. Alla fine della conferenza si era alzato e si era avvicinato a Tabytha, facendole i complimenti per la domanda che aveva posto, gli effetti a lungo termine di un prolungato riscaldamento dell’atmosfera terrestre, ed erano usciti dalla sala camminando fianco a fianco, con le mani che
si toccavano ogni tanto. Stern non si era mai sentito così felice, le parole uscivano da lui con facilità e ascoltava rapito le risposte di Tabytha. Avevano fatto un lungo giro per New York e molte ore più tardi, avevano preso un battello per Ellis Island. Si erano baciati, mentre New York occhieggiava loro e la luna sorgeva dall’oceano, a illuminare con una scia gialla il loro amore.
Stern si riscosse da questi pensieri e disse: “Stasera ti porto a casa i disegni, è fantastico e Jason è geniale. Vuole riqualificare l’intera area, ci sono le foto di come è ora e i rendering di come sarà poi, è da non crederci.”
“Jason è fatto così, ogni cosa in cui si impegna è un capolavoro”, disse lei con una punta di ammirazione. “Senti anche a me è venuta un’idea grandiosa.”
“Che sarebbe?”
“Una festa con tutti i membri dello Studio e i nostri amici!”, esclamò.
“Una festa?”
“Sabato pomeriggio prossimo, una festa sulla spiaggia per salutare l’estate che se ne va. Il tempo sarà ancora magnifico, ho guardato le previsioni e danno una temperatura di venti gradi. Una festa in stile hawaiano, con catering, le palme sulla spiaggia, le tavole da surf. Tutto insomma.”
Stern rifletté per un istante. Avrebbe potuto insegnare a qualcuno a stare in equilibrio sulla tavola, a godersi quella magica sensazione di volare sull’acqua,
spinto da tonnellate d’acqua, il sale nei capelli, l’incredibile sensazione di essere vivo.
“Sai cosa ti dico?”
“Dimmi amore.”
“Organizziamola!”, esclamò Stern ridendo di gusto e pensando che voleva godersi fino in fondo la vita che gli restava.
28
Il giudice Aaron Schmit entrò in aula con il suo solito incedere indolente, quasi annoiato. Si lasciò cadere sulla poltrona, prese una tazza di caffè nero fumante e lo sorseggiò piano.
Gli piacevano le cose fatte bene. Con calma.
“Buongiorno avvocati”, disse finalmente dopo qualche minuto.
Jason e Randy risposero con un cenno del capo poi rimasero immobili, come due scolaretti alla presenza del maestro.
Jason sorrideva tra sé, cercando di dissimulare l’impazienza.
“Ringrazio la corte e lei signor giudice per aver accolto la mia istanza di richiesta di colloquio ufficiale con le parti interessate”, disse Randy.
“Grazie a voi per essere venuti nella mia umile dimora”, rispose il giudice.
Jason lanciò un’occhiata a Pamela che sedeva affianco a lui, gli restituì una strizzatina d’occhi appena percettibile. Anni prima aveva conseguito la laurea in legge, studiando alla sera. Pamela non era solo un’assistente, qualche volta
sapeva diventare il braccio armato di Jason.
“Sono stato informato dalla difesa sui recenti sviluppi del caso in questione. L’avvocato Randy Stewart, legale rappresentante della Brown Motor Company e della Power Tyre/Drexel, ha proposto una transazione amichevole e stragiudiziale.”
“È esatto signor giudice”, disse Randy pensando ai file che gli aveva mandato Kurt.
Milleduecento casi, non hanno nulla pensò.
“Bene”, rispose il giudice Schmit, mentre Jason non poté trattenere un sorriso.
Non esporsi mai, se non è strettamente necessario pensò.
“Cosa intende fare l’accusa?”, chiese il giudice rivolto a Jason.
“Per il momento ascoltare”, replicò lui senza battere ciglio.
“Mi sembra un atteggiamento corretto, avvocato”, disse il giudice rivolto a Jason. Gli piaceva quel giovane avvocato.
“La difesa intende proporre un accordo amichevole con un risarcimento pari a duecento milioni di dollari. In cambio di questa somma, la difesa chiede che tutte le azioni svolte dallo Studio Davis Baker & Reynolds siano terminate e archiviate e che il caso sia ufficialmente chiuso. La somma non è negoziabile.”
“Avvocato?”, chiese il giudice Schmit.
“Trovo interessante la proposta della difesa, ma...”, disse Jason mentre Randy stupito lo guardava con la coda dell’occhio. Da Kurt aveva ricevuto informazioni precise e si aspettava che Jason fosse interessato alla proposta di transazione amichevole. I suoi clienti gli avevano conferito una missione ben precisa: chiudere e in fretta, con un margine di manovra al rialzo.
“L’accusa intende accettare la proposta di risarcimento?”, chiese il giudice, con un’aria leggermente delusa.
“Come ho detto è una proposta interessante, ma siamo molto lontani dalla reale entità del danno subito dalle parti che rappresento e pertanto la risposta è no”, disse Jason gelido.
Randy rimase di sasso, non si aspettava un rifiuto.
“Vostro onore posso chiedere una sospensione dell’udienza per cinque minuti? Ho bisogno di parlare in privato con i miei assistiti”, disse Randy.
Il giudice Schmit batté col martelletto e sancì la sospensione, mentre un sorriso
appena accennato gli comparve sulle labbra.
Randy Stewart rientrò in aula qualche minuto dopo, mettendosi il cellulare nel taschino interno della giacca.
“Vostro onore, i miei assistiti intendono aumentare la somma e offrire trecento milioni di dollari come risarcimento del danno.”
“Solo qualche minuto fa, avvocato Stewart, aveva detto che l’offerta non era negoziabile. Le ricordo che siamo in un aula del Tribunale, non a un mercato.”
“Chiedo scusa, vostro Onore. Questa è la somma che il mio cliente intende offrire.”
“Avvocato Davis?”, chiese il giudice Schmit.
Jason si schiarì la voce, guardò Randy con un’occhiata di disprezzo e poi disse: “L’accusa non accetterà nessun compromesso, nessuna transazione amichevole, nessun accordo stragiudiziale. I nostri clienti intendono procedere fino alla fine”, disse asciutto.
“Avvocato Davis, ho il dovere di ricordarle che non vi è nessuna garanzia che qualora si procedesse a una causa legale, i vostri clienti possano ottenere un risarcimento.”
“Credo di esserne consapevole, vostro Onore”, rispose Jason tagliente.
Randy si lasciò andare sulla sedia, uno spostamento di qualche centimetro che non sfuggì a Jason né al giudice.
Randy uscì dall’aula furioso, saltò nella limousine e si fece portare al suo ufficio. Prese il cellulare e compose un numero premendo sui tasti come a volerli rompere.
“Che cosa succede lì da voi?”, disse investendo Kurt non appena questi rispose.
Kurt rimase un attimo in silenzio, controllò che in giro non ci fosse nessuno.
“Non capisco di cosa parli. Penso che Jason abbia accettato l’offerta no?”
“Pensi male. Non soltanto l’ha rifiutata, ma quel bastardo vuole andare in causa. Abbiamo aumentato l’offerta a trecento milioni di dollari e se ne è sbattuto altamente. C’è qualcosa che non sappiamo, qualcosa che non sai Kurt, maledizione!”
Kurt si sentì gelare la schiena. Trecento milioni di dollari rifiutati per circa milleduecento casi. Erano quasi trecentomila dollari a convenuto, una somma enorme.
“Io vi ho ato tutte le informazioni Randy e, per inciso, non ho ancora visto
un centesimo.”
“E non lo vedrai fino a quando non mi darai delle informazioni attendibili!”
“Sono attendibili, è quello che Jason ha detto a noi tutti.”
“Vi ha preso per il culo, maledizione Kurt svegliati c’è sotto ben altro.”
Kurt chiuse gli occhi e deglutì a fatica, sentì ancora il sapore amaro dello scherno e delle umiliazioni. Ne aveva ricevute così tante da ragazzo che ormai pensava potessero scivolargli di dosso. Ma in quel momento avrebbe voluto mollare tutto e sparire per sempre.
“Anticipami un milione di dollari, arriverò a scoprire il resto, è una promessa”, disse.
“Non avrai neanche un cent, fino a quando non mi dirai cosa succede, sono stato chiaro? Mettiti alle spalle di Jason, o di Markus o di chi vuoi tu. Ma dammi le informazioni giuste!”, disse Randy con furia chiudendo la comunicazione.
Kurt rimase con il telefono in mano, ripensò ai file che aveva mandato a Randy. Alle conseguenze di quello che aveva fatto. Se lo avessero scoperto sarebbe stato radiato dall’Albo e avrebbe dovuto affrontare un processo. Ma ormai era dentro, ben oltre il punto di non ritorno.
Si alzò dalla sedia e scese in strada. Doveva camminare, pensare, capire che cosa fosse andato storto.
Ma come? Cosa poteva fare adesso?
Si impose di stare calmo, del resto era l’assistente di Markus. Tutto transitava da lui e prima o poi avrebbe avuto altre informazioni, ma doveva agire con cautela, con disinvoltura. eggiò per il downtown di New York, alzò la testa verso le Torri Gemelle.
Qualche minuto dopo tornò in ufficio, si sedette alla scrivania e scaricò la posta elettronica.
Un invito a una festa?
Lesse meglio il messaggio. Un party a casa di Stern sulla spiaggia per il 21 ottobre. Guardò il calendario: un sabato. Di pomeriggio. Il messaggio raccomandava abbigliamento informale, pantaloncini e maglietta. A Kurt non sfuggì l’ironia, avrebbe fatto un freddo della madonna, altro che abbigliamento informale, avrebbero avuto bisogno delle giacche a vento.
Il messaggio, era destinato a tutti i dipendenti dello Studio. Si rilassò sulla poltrona. Tutti. Era certo che avrebbe trovato le informazioni in quella occasione, qualcuno si sarebbe sbottonato, in ufficio non si faceva altro che parlare della causa.
Rispose confermando la sua presenza al party. Doveva solo attendere, ancora qualche giorno. Poi si sarebbe goduto il premio.
29
Jason entrò nel suo ufficio che era già tardo pomeriggio mentre lo Studio ferveva di attività frenetica.
Salì i gradini per arrivare al secondo livello del suo ufficio, fece il giro della balaustra toccando con la mano il dorso dei tanti libri di legge. A dispetto di altri avvocati, non li teneva per fare bella mostra di se. Lui li aveva letti tutti. Poteva richiamare alla memoria un precedente accaduto anni prima in qualche stato o in un piccolo Tribunale di contea.
Uscì sulla terrazza e notò che le finestre antivento erano state montate. Lì, al ventiquattresimo piano, tra gli edifici e i canyon artificiali, in autunno e in inverno il vento poteva diventare davvero forte.
Si sedette sulla sua poltrona dalla quale poteva vedere il panorama davanti a sé. L’East River, i ponti, i quartieri oltre Manhattan. Brooklyn.
Si accese un sigaro.
Pensò a suo figlio Joshua, si chiese che cosa stesse facendo in quel momento all’asilo. Avrebbe dovuto are più tempo assieme a lui, avendo già perduto parte della crescita di Kelly. Sorrise al pensiero della gita al MOMA, e a quale compito le avrebbe dato da fare. Era una sorta di gioco che padre e figlia portavano avanti da sempre, come una sfida bonaria.
Jason guardò l’orologio mentre il sole tramontava.
Scese nel suo ufficio, digitò un codice su un tastierino numerico e una porta si aprì silenziosa. Contemporaneamente si accesero le luci.
Premette un tasto e la porta si chiuse alle sue spalle, era entrato nel suo regno. Nella seconda copia, nella stanza identica a quella che aveva a casa e dove nessuno era ammesso.
Jason compose un numero, in Francia doveva essere da poco ata l’ora di pranzo. L’uomo gli rispose al terzo squillo, con un vivace accento se e una cadenza ben nota.
“Alain ciao, ti disturbo?”
“No figurati sto terminando una relazione per una conferenza che ho domani qui a Parigi. A proposito, qui si parla molto di te, caro mio.”
“Figurati, in Francia non sapete neanche dell’esistenza di un mondo esterno”, disse Jason ridendo.
“No davvero, ho letto proprio qualche minuto fa una notizia apparsa sul Figarò on line. A quanto pare hai deciso di dare battaglia.”
Jason rimase per un attimo sorpreso, non aveva considerato che le sue
operazioni, le sue azioni potessero interessare una platea al di fuori di quella ben conosciuta, ristretta al suo campo di battaglia.
“Ho deciso di divertirmi un po’, ho delle buone carte in mano”, disse. Usava una linea sicura con criptatura a 128 bit, la stessa degli home banking. Quando aveva dato ordine di realizzare la stanza con i server che controllavano tutto quello che avveniva in Studio, che analizzavano la posta in entrata e quella in uscita, che spiavano ogni singola conversazione telefonica, ogni singolo tasto premuto su un computer di uno qualsiasi dei suoi dipendenti, ogni singolo foglio fotocopiato, ogni fax inviato e ricevuto, aveva dato ordine a Mr H di predisporre ogni cosa in modo che il controllo fosse completo, pervasivo e impossibile da scoprire. Nessuno, tranne Mr H, conosceva l’esistenza di quella stanza.
“Scoprire la gola è pericoloso, caro Jason.”
“Non quando hai un collare di ferro intorno al collo.”
Il padre di Claudine rise di gusto.
Il rapporto tra Jason e Alain si era intensificato nel corso degli anni. Jason si fidava di Alain, lo sentiva spesso. Una volta, addirittura, era volato da lui decollando da Newark nel cuore della notte per essere a Parigi al mattino, solo per chiedergli un consiglio.
“Come ti senti, Jason ?”
“Piuttosto nervoso, oggi rifiutando l’offerta della Brown ho dato avvio alla sequenza di eventi che ci porterà in Tribunale.”
“È quello che vuoi?”
“Sì”, rispose Jason senza esitazione.
“Allora prosegui per la tua strada. Ricorda, un ostacolo alla volta. Un giorno per volta.”
Jason ripensò a quello che Alain gli aveva detto forse più di venti anni prima quando erano scesi dalla Statua della Libertà.
Devi porti un obiettivo nella vita, e poi, ogni giorno, fare qualcosa che ti porti sempre più vicino a esso. Fino a quando lo raggiungi.
“Sono un po’ impaurito”, disse Jason abbassando la voce e chiudendo gli occhi.
“Cosa ti intimorisce?”, chiese Alain.
“Perdere.”
“Vittoria e sconfitta sono facce della stessa moneta.”
Jason trasse un profondo sospiro, immaginò quella moneta che volava nell’aria. Da un lato il suo viso, dall’altro lato quello di Randy Stewart.
“È una causa molto grossa”, disse Jason.
“Ed è proprio per questo motivo che tu ci metterai tutte le tue energie e le tue capacità per vincere.”
“Grazie Alain.”
“Grazie a te per avermi chiamato, Jason. Ci sentiamo presto, sei sempre nei miei pensieri. Dai un bacio a mia figlia e ai miei nipoti.”
“Lo farò, ciao”, disse Jason chiudendo la conversazione.
Jason si accese un sigaro e appoggiò la schiena sulla poltrona. Il profumo del tabacco si diffuse nell’aria della piccola stanza e immediatamente si misero in funzione gli aspiratori.
30
Stern aveva ato gli ultimi giorni saccheggiando i negozi di articoli sportivi e aveva comprato tutto quello che era necessario per insegnare ai suoi ospiti a fare surf su tavola.
Nei giorni precedenti aveva testato l’acqua davanti a casa sua e si era segnato le maree e i punti in cui la corrente era più forte. La risacca dell’Atlantico, nonostante le temperature favorevoli, cominciava a far sentire la sua potenza nell’inverno ormai imminente. Tabytha aveva invece pensato al catering. I turisti, ormai pochi, e gli abitanti delle case vicine che erano stati invitati alla festa, osservavano tra il perplesso e il divertito quel continuo andirivieni di operai che avevano completamente trasformato una spiaggia oceanica in un atollo, ricreando ambientazioni soft con tavolini e sedie in vimini protette da un pergolato di vere palme. Ovunque, lunghi buffet su cui erano stati disposti ogni genere di frutta per ottenere degli squisiti frullati.
La sera prima, quando avevano fatto le prove delle luci, Tabytha aveva lanciato grida di gioia e aveva esclamato: “Accidenti, manca solo un vulcano e c’è tutto.” Stern era scoppiato a ridere e Nicholas saltellava ovunque correndo da un punto all’altro della spiaggia, del tutto ammaliato da quello spettacolo.
Gli ospiti erano arrivati alla spicciolata. Qualcuno raccoglieva dalla sabbia, con aria incredula, le noci di cocco, mentre cameriere in gonnellino hawaiano servivano cocktail di frutta freschi ando da un ospite all’altro.
Nel biglietto di invito era chiaramente specificato di vestirsi in modo molto informale e ognuno degli ospiti aveva inteso l’informalità di New York a suo
modo. Qualcuno si era presentato in giacca e camicia senza cravatta e immediatamente era stato ghermito dallo staff e gli erano state fornite una maglietta abbondante e calzoncini corti. Inoltre Stern aveva raccomandato di portare con sé gli eventuali figli, e in breve la spiaggia si era animata come mai, neanche nelle calde giornate di luglio era così affollata. Le ragazze del miniclub avevano preso in custodia i figli degli invitati e subito li avevano coinvolti in giochi, dalla tombola alla caccia al tesoro fino alla costruzione di castelli e piste per le biglie sulla sabbia.
Stern si godeva il momento e le espressioni incredule dei suoi ospiti, ando a salutare i nuovi arrivati e intrattenendo tutti con una battuta.
Tabytha poche volte lo aveva visto così vivo e apparentemente spensierato.
“Beh”, disse Jason dando una pacca sulla spalla dell’amico.
“Bello vero?”, chiese Stern con l’aria di un bambino in una favola.
“Stupefacente, sembra davvero di stare su un isola alle Hawaii.”
“E non hai visto il meglio.”
Sally si aggirava tra gli invitati sorridendo e cercando di apparire disinvolta vestita con una camicia hawaiana che aveva trovato in un negozio di SoHo e con dei calzoncini corti che mettevano in risalto le sue gambe, lunghe e giovani, ancora dorate di una leggera abbronzatura estiva. Dentro di sé però si sentiva a
disagio, percepiva la grande sicurezza di ogni invitato, mentre lei era solo all’inizio. E, come sempre, da sola. Non conosceva quasi nessuno personalmente, ma di faccia conosceva tutti. Stando alla reception aveva imparato a memoria i visi degli avvocati, degli associati e delle segretarie. Aveva stretto amicizia solo con una giovane segretaria, Marlene, con la quale un paio di volte era uscita a pranzo.
Ben pochi le rivolgevano la parola e i gruppetti si stavano già formando tagliando fuori chi non vi apparteneva. Anche nelle occasioni mondane, New York era spietata: non si entrava se non ufficialmente invitato.
Finalmente vide Marlene che parlava con un avvocato, lo aveva notato spesso, si avvicinò a lei e questa la strinse in un abbraccio.
“Cara come stai?”, disse Marlene con un caloroso accento del sud.
“Grazie sto bene, è incredibile qui”, esclamò Sally rivolgendosi ora al giovane avvocato che la fissava.
“Ti presento Kurt, forse vi conoscete già.”
“Di vista”, rispose Sally porgendo la mano a Kurt che le fece un elegante baciamano.
Jason osservava la scena da lontano e quando vide Kurt presentarsi a Sally, non riuscì a nascondere un sorriso. Anche Pamela osservava tutto dalla terrazza della
casa di Stern che dominava la spiaggia. Si sentiva irraggiungibile, ma in quel momento avrebbe voluto essere affianco all’ultima arrivata. E guardare ancora quegli splendidi occhi azzurri che sembravano due laghetti di montagna.
Kurt intrattenne le due ragazze con eleganza, ma nello stesso tempo si rodeva dentro pensando al profumo dei soldi che si levava da ogni angolo.
Voglio essere come loro, pensò tra una risata e l’altra.
“Guarda che non ne ho idea”, disse Sally.
“Vieni con me un secondo, qui ci sentono.”
Le due donne si allontanarono di qualche decina di metri, la sabbia era ancora tiepida sotto i loro piedi nudi, la leggera brezza da est rinfrescava e l’oceano stava montando.
“Allora da dove vieni?”, chiese Pamela.
“In che senso?”, rispose Sally con una domanda, sulla difensiva.
“Dai andiamo, è da sempre che lavoro con Jason. Non ha mai trattato un’assunzione di persona, neanche quando lo Studio era composto da due persone.”
“Non so proprio cosa dirti, tu mi hai chiamata fissando il colloquio e io sono venuta, fine della storia.”
Pamela si accigliò un secondo, si voltò verso l’oceano e rimase affascinata dal continuo movimento delle onde, dalla risacca. Rimase ipnotizzata dalla natura, poi si destò e guardò negli occhi Sally e dovette fare uno sforzo per non prenderle la mano e portarsela alla guancia.
“Va bene, dimentica questo colloquio. Ora torna a divertirti”, disse Pamela liquidandola seccamente.
Devo fare qualche altra ricerca, pensò mentre anche lei tornava verso gli ospiti che nel frattempo erano aumentati.
Kurt ò di gruppo in gruppo, tendendo le orecchie e infilandosi negli scampoli di conversazione ma senza molto successo. Un paio di volte incrociò Sally, sembrava molto spaesata e avrebbe voluto parlare un po’ di più con lei, ma per il momento aveva una missione da compiere.
A un certo punto venne intercettato da Markus, che lo prese sottobraccio e gli offrì un drink.
“Vieni un secondo, ho bisogno di un tuo parere”, disse Markus e i due si avviarono verso un pergolato dove Jason li aspettava.
Si sedettero tutti e tre sulle ampie poltrone di vimini, Markus allungò i piedi nudi sul tavolino e si accese una sigaretta, mentre Jason rimase composto. Claudine, in piedi dietro di lui, gli stringeva una spalla e gli accarezzava i capelli.
“Kurt, tu che sei l’esperto del contenzioso, cosa ne pensi della causa?”, chiese Jason.
“Cioè della decisione di andare in Tribunale?”, rispose lui di rimando mentre il cuore gli accelerava in petto.
“Esattamente. Mi farebbe piacere sentire il tuo parere.”
“Una causa in Tribunale può essere un’arma a doppio taglio. Se troviamo una giuria che sta dalla nostra parte, potremmo portare a casa molto più di trecento milioni. È anche vero che in questi ultimi anni le giurie sono diventate molto più strette nelle class action e talvolta le accuse sono state completamente rigettate.”
“Noi però siamo in una botte di ferro”, aggiunse Markus.
“Tecnicamente sì.”
“Cosa intendi?”, chiese Jason incuriosito.
“Intendo che il numero dei casi che abbiamo, milleduecento, assieme ai molteplici casi di morte e di ferimento costituiscono una base per ottenere un
buon risarcimento.”
“Quanto buono secondo te?”, chiese ancora Jason.
“Anche qui è difficile da stabilire, come ho detto molto dipende dalla giuria. Sappiamo già che il giudice è dalla nostra parte, ma la giuria, beh quello è un altro discorso. Mi impensierisce anche un’altra cosa.”
“Che sarebbe?”, chiese Jason.
“Il numero dei casi”, disse Kurt trattenendo il respiro.
Jason fece ruotare il cocktail analcolico nell’ampio bicchiere e si portò alla bocca un pezzo di melone, poi sollevò lo sguardo e lo piantò negli occhi di Kurt.
Sono molto vicino a loro, pensò Kurt con il cuore a mille. Sono con loro.
“Anche a me impensierisce, soprattutto per il fatto che...”, disse Jason interrompendo la frase a metà e chinandosi verso Kurt. “Per il fatto che alcuni dei convenuti ci hanno revocato il mandato e nominato un altro studio di Los Angeles. La Brown ha venduto moltissimi esemplari del Galaxy in California ed è logico che altri studi si stiano muovendo. Per il momento l’emorragia non è grave, solo un centinaio di casi ma potrebbe diventare peggiore. Ora la causa verrà spostata in corte federale e la Brown potrebbe decidere di andare in Tribunale isolando qualche caso e tastando gli umori della giuria. Se vincono in California, che è molto stretta nelle class action, noi siamo finiti”, disse quasi
sussurrando.
A Kurt mancò il respiro, ce l’aveva fatta. Era entrato nel cuore dell’azione.
“Questo cambia le cose, allora”, disse a bassa voce mantenendo un tono di voce calmo e professionale.
“Fino a che punto?”, chiese Markus che ora si agitava nervosamente sulla sedia.
“Come ha detto Jason, se la Brown vince in California, magari isolando un solo caso e andando a processo con un solo convenuto, fatto che è già avvenuto molte volte, potremmo ritrovarci con un precedente molto scomodo che non riusciremmo ad aggirare”, disse Kurt appoggiandosi beatamente sulla sedia facendo trasparire molta più sicurezza di quella che provava. Teneva le mani strette a coppa, per non far vedere il tremito. Era lui che aveva gli assi in mano, ora.
I tre rimasero in silenzio per qualche istante, poi Jason disse: “Forse dobbiamo prendere i soldi che ci hanno offerto e chiudere qui. È troppo rischioso andare avanti.”
Un nuovo pesante silenzio cadde sui tre, Markus sospirò pesantemente mentre Kurt non poteva credere alle sue orecchie. Con quelle nuove informazioni, l’emorragia dei casi, avrebbe informato Randy di ritirare l’offerta e di andare in causa. Vide la sua barca a vela moltiplicarsi in lunghezza, avrebbe chiesto molti più soldi per questa informazione.
Dieci milioni? pensò.
“Va bene, parlerò con Randy”, disse Markus.
“Okay, procedi e tiriamoci fuori”, disse Jason alzandosi e appoggiando il bicchiere sul tavolo. “Grazie Kurt, sei stato di grande aiuto.”
“È stato un piacere Jason”, rispose Kurt chiamandolo col suo nome da battesimo. Jason lo guardò a sua volta, e poi sorrise mentre si accese un sigaro e, presa la mano di Claudine, sparì tra gli invitati.
“Posso avere la vostra attenzione?”, disse Stern parlando nel microfono e abbassando il volume della musica.
Tutta la platea di invitati si voltò verso di lui, qualcuno gli lanciò delle ovazioni, altri applaudirono.
“Non penserete mica di essere venuti qui a scroccare un po’ di cibo e qualche buon cocktail”, disse Stern facendo ridere tutti.
“C’è una sorpresa, no tranquilli non è la solita torta”, disse Stern e contemporaneamente fece un cenno ai ragazzi dello staff che tolsero un telo e mostrarono decine di mute e di tavole da surf perfettamente ordinate.
“Oggi, il vicecampione del mondo di surf del 1986, ovvero io, terrà corsi privati
di surf su onda. Il meteo è perfetto, onda bassa e lunga, vi divertirete molto sempre che voi pancioni abbiate il coraggio di strizzarvi nelle mute”, disse Stern rivolto a un gruppo di avvocati decisamente in sovrappeso e suscitando l’ilarità generale.
“Il primo che riuscirà a tirarsi in piedi sulla tavola e surfare per una decina di metri vincerà un grosso premio”, disse Stern urlando nel microfono.
Gli invitati si scaldarono ancora di più, una selva di applausi investì Stern e tutti si accalcarono verso la zona dove erano riposte le mute per poter essere i primi.
Tabytha osservava da lontano la scena, poteva vedere il sorriso e sentire le risate di suo marito. Un lampo di malinconia le trafisse il petto. Presto, tutto avrebbe potuto finire, il futuro ridotto a piccoli pezzi, come granelli di sabbia sparsi su una spiaggia oceanica.
Jason era stato incitato da tutti a partecipare, ma aveva cortesemente rifiutato e si era tenuto addosso la polo bianca, però si godeva lo spettacolo assieme a Claudine che ogni tanto gli strappava un bacio.
Stern divise il gruppo in due e portò cinque di loro leggermente più al largo. Lui si sarebbe alzato in piedi come aveva fatto le altre volte e avrebbe incitato gli altri a fare lo stesso.
L’onda arrivò, Stern notò subito che era più alta delle precedenti, si alzò in piedi e cominciò a surfare, con sua sorpresa vide con la coda dell’occhio che una ragazza giovane stava surfando come lui, sebbene con qualche esitazione e tremore stava in equilibrio sulla tavola tenendo le braccia larghe per bilanciarsi.
Stern sorrise e applaudì, improvvisamente la ragazza cadde e la tavola schizzò in avanti colpendo Stern alla tempia facendolo cadere in acqua.
Jason guardava la scena dalla battigia e contò i secondi, vide che la ragazza riemergeva mentre Stern non si vedeva.
D’istinto si tolse la polo e la buttò sulla sabbia correndo e tuffandosi in acqua per soccorrere l’amico. Cominciò a nuotare vigorosamente verso il punto in cui Stern era scomparso, poi Jason si immerse. Una volta, due. Incappò in qualcosa di solido e capì che era il corpo di Stern, lo tirò su fino alla superficie, l’amico perdeva un po’ di sangue dalla tempia.
Altri si tuffarono in acqua per aiutare Stern che venne trasportato sulla battigia. Alcuni membri dello staff tra cui un dottore intervennero per prestargli soccorso, mentre Stern già si stava riprendendo.
All’improvviso calò il silenzio sulla scena, rotto soltanto dal rumore delle onde e dai richiami lanciati dai gabbiani.
Tutti notarono le profonde cicatrici sul corpo di Jason. Sul petto c’erano diverse cicatrici, la coltellata ricevuta dal fratello e gli squarci prodotti dalla operazione per salvare il polmone sinistro. Ma era sulla schiena il vero scempio, lì dove le cicatrici formavano una ragnatela scomposta, tante piccole ferite che si sovrapponevano le une alle altre. Il segno indelebile lasciato dalle frustrate e dalle bastonate del suo patrigno.
“Ma cosa gli sarà successo?”, sussurrò una giovane associata al suo fidanzato.
Pamela osservava incredula. All’improvviso le venne in mente quello scatto di rabbia, quando aveva cercato di slacciargli il secondo bottone della camicia e Jason era quasi impazzito. Venti anni prima.
Claudine gli porse subito la polo che lui indossò in un secondo, poi prese sottobraccio la moglie e dopo aver trovato Joshua al miniclub se ne andò, seguito dallo sguardo triste di Sally e da quello attonito di tutti gli altri.
New York, 22 ottobre 2000
31
Di notte aveva rinfrescato, un forte temporale si era abbattuto sulla zona di New York e aveva portato via con sé le ultime tracce di un’estate che sembrava non volesse finire mai. Di colpo, nel giro di dodici ore, il panorama era completamente cambiato: una sottile nebbia dovuta all’umidità gravava sul porto mentre nuvole grigie coprivano il cielo. Il grigio, uniforme, si spandeva ovunque ricoprendo case, prati, strade. Anche i taxi gialli sembravano di un colore più spento e la luce si era abbassata notevolmente. Fin quasi a spegnersi.
Jason si era alzato di buon’ora e per la prima volta in molti anni non aveva fatto la sua solita corsa di cinque chilometri. Aveva vagato per la casa bevendosi tre o quattro caffè, poi si era collegato a Internet per leggere le ultime notizie. Aveva spento il computer e silenziosamente era andato nelle camere da letto di Kelly e Joshua. Li aveva guardati dormire, era rimasto con loro ascoltando i loro respiri profondi. I battiti del cuore. Lenti. Vitali.
Jason aveva pensato di telefonare ad Alain ma in Europa era notte fonda,
All’improvviso un velo plumbeo di tristezza e disperazione si era abbattuto su di lui. Una morsa al petto, un dolore cupo proveniente dal ato, un dolore che era sempre lì, appena sotto la superficie, pronto a riaffiorare. Entrò nella sua camera da letto e guardò Claudine dormire, si tolse la vestaglia e si mise sotto le leggere coperte, stringendosi forte al corpo di sua moglie che nel sonno ricambiò l’abbraccio.
Claudine e Jason avevano parlato fino a notte fonda, lei aveva ascoltato il suo sfogo. Lo aveva cullato come si può fare con un bambino, lo aveva tenuto stretto
a sé mentre Jason rievocava i fantasmi del ato che quel pomeriggio aveva mostrato a tutti. Quando lui stesso non avrebbe più voluto vederlo.
Sally vagava su e giù per lo stretto e buio appartamento fumando una sigaretta dopo l’altra, prese una giacca a vento e uscì nella fresca mattina. Non aveva praticamente dormito e il suo cervello era in subbuglio, si sentiva stanca e confusa eggiando per il quartiere fatto di edifici grigi e fatiscenti, cercò di trovare un po’ di calma respirando regolarmente e svuotando la mente. Negli ultimi giorni erano successe troppe cose che andavano al di là del suo codice di interpretazione degli eventi, era stata sopraffatta da persone che pensava di conoscere a fondo e che invece all’improvviso avevano manifestato zone d’ombra.
Sally si stancò presto di eggiare nel deserto di quel quartiere e rientrò in casa. Pensò di chiamare Anna e andare a trovarla per riempire quella lunga e vuota domenica, poi rinunciò ripensando all’ultima volta che si erano viste.
Praticamente l’aveva buttata fuori di casa e non se la sentiva di ripetere l’esperienza. Spense le luci e si sedette per terra con un cuscino sotto le gambe, chiuse gli occhi e si immerse nella meditazione per far riposare la mente, per eliminare una sequenza infinita di pensieri che si rincorrevano e la turbavano. Lentamente ritrovò la calma, meditava sin dai tempi dell’università e spesso riusciva a raggiungere stati profondi di rilassamento, vedendo così i problemi e le ansie per quello che erano: pensieri ingigantiti, resi estremi dall’emotività, dall’ansia.
Dall’angoscia di vivere.
Riaprì gli occhi dopo una decina di minuti, si sentiva decisamente meglio e ripensò ad Anna.
Perché ha reagito così?
Accese il computer e, mentre aspettava che si avviasse, si fece un caffè.
Cos’era quell’articolo nell’album?
Richiamò la pagina di Yahoo! e rimase assorta guardando il cursore che lampeggiava nella casella di testo, vuota.
Cosa sto cercando?
Digitò il nome di Jason e il computer restituì qualche centinaia di migliaia di risultati.
Jason, dannazione. Cosa gli era successo? Perché quelle cicatrici?
Rimase a guardare lo schermo senza vederlo, mentre il cervello proiettava al rallentatore le immagini chiare e nitide del giorno precedente. Era riuscita a mettersi in piedi sulla tavola da surf e aveva sentito sotto di sé l’onda che all’improvviso l’aveva fatta planare sull’acqua, immediatamente aveva provato un senso di gioia e di assoluto trionfo. Stava dominando la natura. Non pensava che potesse essere una sensazione così bella, lei che per molto tempo aveva subìto più che vissuto la vita. In quel momento, mentre era sulla cresta dell’onda, si era sentita meravigliosamente bene anche se in modo instabile. In quei pochi secondi aveva pensato che la vita era così, forse il surf ne rifletteva l’essenza: un
breve momento di esaltazione, mentre sotto di te, sotto ai tuoi piedi, riesci a controllare l’assoluta instabilità del mondo e degli eventi.
Quell’articolo. Sicuramente c’era scritto qualcosa di importante, ma cosa?
Nella casella di testo digitò il titolo dell’articolo che era riuscita a leggere un istante prima che la sorella Anna richiudesse l’album.
Tentato stupro a Brooklyn.
Il computer le restituì più di diecimila risultati, per un attimo Sally rimase disorientata, spaventata dalla violenza del mondo esterno, dall’irrealtà della vita reale.
Aggiunse la parola Jason Davis al titolo, e il campo di ricerca si restrinse notevolmente, solo trecentoventi risultati. Li scorse velocemente, individuando link che non centravano nulla e che erano stati richiamati solo perché aveva inserito il nome del suo mentore silenzioso. Alla quinta pagina la sua attenzione fu richiamata da un link, perduto nelle pieghe del cyberspazio.
Brooklyn Chronicle.
Era un quotidiano che esisteva sin da quando era bambina, non immaginava che fosse ancora in attività.
Cliccò sul link e apparve l’articolo che aveva intravisto nell’album di Sally.
Lo lesse attentamente.
Cazzo, pensò.
New York, 23 ottobre 2000
32
L’ascensore volava verso il ventiquattresimo piano mentre alcuni associati dello Studio stavano parlando tra di loro a voce bassa.
“Cosa gli sarà successo?”
“Dio mio che orrore tutte quelle cicatrici.”
Pamela fissava le porte dell’ascensore e ascoltava i commenti, quando l’ascensore superò il ventesimo piano decise di intervenire: “Siete qui per lavorare, non per sparlare alle spalle di chi non c’è, sono stata chiara?” disse senza voltarsi mentre l’ascensore percorreva gli ultimi quattro piani e le porte si aprivano sulla splendida hall dello Studio. Tutti si zittirono e, al ricordo di quello che era avvenuto a qualche loro collega, si dileguarono sparendo nei loro cubicoli.
“Pamela hai qualche minuto?”, chiese Stern affacciandosi alla porta del suo ufficio con Markus affianco.
“Certo Stern, entrate pure.”
I due soci si accomodarono sul divano, mentre Pamela premette un tasto e ordinò all’interfono di portare tre caffè lunghi.
“Scusa l’intrusione, ma siamo un po’ preoccupati.”
“Da cosa?”
“Beh lo hai visto anche tu no? Lo abbiamo visto tutti”, proseguì Stern. “Pensavo che tu sapessi qualcosa.”
Pamela incrociò le dita sulla scrivania in lucido mogano e abbassò il capo. “Purtroppo non ne so nulla, anche per me è stata una sorpresa.”
“È strano”, intervenne Markus.
“Perché?”
“Beh tu conosci Jason dai tempi dell’università, lui stesso mi ha raccontato che avete convissuto per qualche anno. Possibile che non ti abbia mai detto nulla?”
“Non ho mai visto Jason a torso nudo, se è questo ciò che vuoi sapere, Markus.”
“Pensi sia il caso di parlare con Jason?”
“Se non ha mai detto nulla in tanti anni a nessuno di noi, forse è una cosa di cui non vuole più saperne”, disse Pamela abbassando la voce e giocherellando pensierosa con la penna. Era dal giorno precedente che aveva intenzione di parlare con Jason ma non sapeva se sarebbe stata una buona idea.
Kurt entrò in studio come al solito, verso le 8.30 del mattino. Attraversò l’ampia hall, ò davanti a Sally non degnandola nemmeno di un’occhiata e si infilò in uno dei corridoi, aspirato nel suo ufficio da cui non sarebbe riemerso se non molte ore più tardi.
Sally compose un messaggio e-mail indirizzato a Leticia. Per errore calcolato immise nel campo del destinatario anche l’indirizzo e-mail di Kurt. Lo aveva visto parlare con i soci il giorno precedente. Ma, cosa più importante, lo aveva visto incontrarsi con Randy Stewart e quell’incontro, alle due del mattino, era davvero sospetto.
Verso l’ora di pranzo, quando l’attività dello Studio cominciò a rallentare, Kurt si avvicinò alla reception, proprio mentre lei stava sistemando le sue cose nella borsetta. C’era solo qualche messaggio da inoltrare, alcune telefonate in sospeso. Niente di importante.
“Salve Sally”, salutò educatamente Kurt avvicinandosi a lei.
Lei si finse perplessa, ma rispose al saluto con calore.
“Mi chiamo Kurt, ci siamo presentati alla festa di Stern, scusa se non ho potuto trattenermi ma ero impegnato in una riunione con i soci. Sai come vanno queste cose, in realtà le feste sono solo una scusa per continuare a lavorare anche nei
giorni festivi. Sei nuova qui?”, chiese Kurt.
“Sì, sono con voi solo da qualche giorno.”
Kurt rimase un attimo zitto, ripensando alle voci che si erano sparse nello Studio. E neanche aveva dimenticato le minacce di Pamela.
“Cosa ne dici di un drink stasera?”
“Uhm. Ho già un appuntamento con una mia amica.”
Kurt ripensò al contenuto della e-mail che gli era arrivata per sbaglio.
Sorrise tra sé e sé, pensando che Sally fosse ignara del fatto che aveva mandato l’e-mail anche a lui.
“Cosa ne dici se mi unisco a voi? Conosco un ristorante delizioso dove si mangia ottimamente.”
“Perché no?”, rispose.
Scrisse su un foglietto il numero del suo cellulare.
“Chiamami verso le sette”, gli disse.
Kurt tornò nel suo ufficio.
Rilesse il testo della e-mail di Sally.
«Lety non hai idea di che figo c’è in questo studio, si chiama Kurt e ho fatto di tutto per farmi notare alla festa ma sembra che non si accorga di me. Certo che io farei follie per lui! Devi consigliarmi tu, ci vediamo stasera. Sally.»
Jason arrivò in ufficio più tardi del solito, quel lunedì mattina. I telefoni squillavano in continuazione e i dipendenti andavano e venivano. Non appena Jason uscì dall’ascensore ed entrò nella hall, tutto si fermò per qualche istante. Jason non salutò nessuno e infilò il corridoio che portava al suo ufficio, entrò e sbatté pesantemente la valigetta sul piano in cristallo.
Qualche decina di minuti più tardi Jason era in terrazza assieme a Pamela per la consueta riunione giornaliera. Faceva fresco, la temperatura si era abbassata notevolmente anche se la cupola e le pareti in vetro montate in autunno e in inverno assieme a un piccolo sistema di riscaldamento facevano il loro dovere, dando un piacevole tepore.
“È tutto?”, chiese Jason dopo aver esaurito i punti all’ordine del giorno.
“Sì.”
“Bene, grazie Pamela.”
Lei indugiò per un attimo, si alzò e fece per andarsene, poi ebbe un ripensamento.
“Senti, Jason. Sabato pomeriggio... Ne vuoi parlare?”
Jason rimase in silenzio per quello che sembrò un tempo eterno, bevve un goccio di caffè.
“Non voglio parlarne. Il silenzio è la migliore delle risposte che ti possa dare. Puoi andare, ora”, disse malinconico guardando un punto fisso davanti a sé.
Lontano da sé. Ma non così lontano da sfuggire alla forza di gravità.
Kurt guardava ossessivamente il computer e ogni cinque minuti premeva il tasto di ricezione delle e-mail. Mancavano pochi minuti all’una del pomeriggio. Sentì un vociare proveniente dalla hall ma non se ne curò, all’improvviso arrivò quello che aspettava dal giorno precedente.
Una e-mail da Randy che richiedeva maggiori informazioni.
Rispose subito, altrettanto stringatamente. «Per ora ti basti sapere che si stanno
cagando sotto», scrisse Kurt e premette il tasto invio, poi decise di uscire dal suo ufficio per capire che cosa fosse tutta quella confusione che sentiva.
Stern aveva fatto radunare tutti nella hall dello Studio davanti alla reception e tra gli applausi generali portò un enorme coppa con in cima un surfista su un’onda gigantesca rispetto alle dimensioni dell’uomo.
“Un attimo di silenzio, prego. Abbiamo qui una promessa di questo meraviglioso sport e sono lieto di consegnare la coppa a Sally Yrons.”
Gli applausi scrosciarono e Sally sollevò la coppa. Paonazza in viso, pronunciò alcune parole di ringraziamento. Vide Kurt in fondo alla hall che le faceva l’occhiolino.
A pochi metri da lì, nella saletta segreta, Jason guardava la scena attraverso uno dei monitor e delle tante telecamere nascoste, mentre al telefono parlava con Alain, dall’altra parte dell’oceano Atlantico.
Mentre il testo della e-mail di Kurt veniva stampato nello stesso momento in cui era stato inviato.
Jason lo prese, lo rilesse un paio di volte. Sospirò e dopo aver finito la telefonata con Alain chiamò Mr H.
“Buongiorno avvocato”, rispose Mr H freddamente.
“Ho bisogno di un controllo ambientale completo, all’interno dell’abitazione di un mio dipendente e all’esterno dell’ufficio. Può procedere immediatamente?”
“Nessun problema signore, mi può dare il nome della persona da controllare?”
Jason glielo diede e non aggiunse altro, neanche l’indirizzo di casa.
Lo avrebbe scoperto Mr H in pochi minuti.
33
Alle sei Sally aveva telefonato alla sua amica Leticia annullando la cena. Voleva rimanere sola con Kurt, sapeva che era il tipo giusto che si sarebbe lasciato sfuggire qualche frase di troppo, magari dopo parecchi bicchieri di vino.
Alle sette Kurt si presentò puntuale.
“Sei incantevole stasera. Prendiamo un aperitivo?”, chiese Kurt sedendosi.
“Per me un bicchiere di champagne.”
“Dobbiamo festeggiare qualcosa?”
“Tu che ne dici?”, rispose lei con una punta di malizia nella voce.
Guardò con un certo disprezzo il corpo di lui, nudo sul letto e avvolto da un leggero lenzuolo. Aveva dovuto sorbirselo per parecchie ore che avrebbe invece ato in compagnia di un buon libro. La cena era stata deliziosa, costellata di doppi sensi e a un certo punto Sally si era ritrovata davvero eccitata ma odiava tutto di lui. La sua voce troppo profonda, il suo alito troppo pesante, il suo corpo troppo muscoloso. Lo odiava quando entrava dentro di lei, quando sentiva il suo ansito e i suoi gemiti. Lo odiava quando rideva e quando mangiava.
Ma aveva finto, perché questa era la missione che si era data. Lei aveva un compito da svolgere, molto più importante delle tresche di Kurt. Erano saliti a casa di lui verso le undici e avevano fatto sesso per almeno un’ora prima che Kurt si stancasse.
Si alzò in piedi e indossò una lunga t-shirt bianca che le arrivava fino alle ginocchia, guardò ancora una volta Kurt dormire beatamente perso nei suoi sogni. Forse sognava i milioni che gli sarebbero piovuti dal cielo entro poco tempo, che sarebbero stati depositati in qualche banca svizzera o delle Cayman, su un conto cifrato e anonimo.
Illuso.
Andò nello studio dall’altra parte del soggiorno, con le finestre terra cielo che restituivano una vista mozzafiato sui grattacieli di New York.
Accese il computer portatile che ronzò piano nel silenzio dell’appartamento.
Si era pure vantato, l’idiota. Non aveva neanche dovuto fare la fatica di estorcergli le informazioni. Sfogliò nella cartella della posta inviata.
In pochi secondi trovò quello che stava cercando. Si connesse a Internet e inoltrò il messaggio di posta elettronica al suo indirizzo e-mail in ufficio. Era quello che gli serviva, la ciliegina finale. Il bamboccione, prima di mettersi a letto con lei, aveva scaricato la posta elettronica e aveva risposto a una e-mail. Le aveva confidato che aveva inviato un messaggio importantissimo che avrebbe cambiato per sempre le loro vite.
Non capiva perché Kurt parlasse al plurale, forse perché sottintendeva che lei avrebbe fatto parte del gioco. Che sarebbe scappata con lui.
Che idiota, pensò ancora Sally.
Spense il computer e riattraversò il soggiorno infilandosi nell’ampia stanza matrimoniale. Si sfilò la t-shirt e rimasta nuda entrò nel letto e si sdraiò lontana da lui.
Arrivò in ufficio prima di tutti gli altri, mentre gli addetti alle pulizie stavano lavorando alacremente.
Il computer era , del resto non veniva mai spento e non si poteva definire un semplice computer. Era diviso in quattro monitor, ognuno dei quali assolveva una specifica funzione. Dalle telefonate in entrata a quelle in uscita, lo smistamento delle comunicazioni, gli inoltri alle segreterie vocali. Quello era il cuore pulsante dello Studio, lì dove tutto aveva inizio.
Forse è questo il motivo per cui Jason mi ha messo qui, pensò Sally bevendo una tazza di caffè.
Si collegò alla posta elettronica e scaricò il messaggio che aveva inoltrato da casa di Kurt, solo qualche ora prima. Rilesse l’allegato e un sorriso di trionfo le comparve sul viso.
Estrasse un dischetto da tre pollici e mezzo dalla borsetta e copiò il contenuto sul desktop. Poi si collegò ad Hotmail, il giorno prima si era fatta un indirizzo email anonimo.
Digitò l’indirizzo di posta elettronica di Jason e allegò i file che le interessavano. Erano per lo più report. Uno dei file conteneva la perfetta trascrizione di una conversazione telefonica che Kurt aveva fatto davanti a lei al ristorante.
Che idiota, pensò ancora una volta.
Rilesse il testo che accompagnava l’e-mail. Era una denuncia chiara e imparziale dell’attività per così dire segreta di Kurt.
Non esitò neanche un istante e premette il tasto di invio. Sapeva che la sua email sarebbe rimasta anonima, aveva preso tutte le precauzioni perché non voleva fare la figura della spiona.
Lei, doveva solo proteggere il suo mentore silenzioso.
“Buongiorno” disse Jason.
“Buongiorno a lei, avvocato”, rispose Sally con un ampio sorriso.
Jason se ne accorse all’istante e, contrariamente a quanto era solito fare, si fermò al banco della reception.
“Ti vedo raggiante stamattina, non avrai mica conquistato il cuore di qualche cavaliere solitario?” scherzò lui.
Sally rimase un attimo stupita, di solito Jason non concedeva mai più di un mezzo sorriso e spesso le ava davanti senza dare sentore di averla nemmeno vista.
“Oh no”, rispose Sally imbarazzata. Si sforzò di non mostrare nulla, anche quando la mano di Jason indugiò per un istante sul suo braccio.
“Come ti trovi con noi?”
“Benissimo avvocato”, rispose Sally.
“Forse non era quello che ti aspettavi. Intendo, la reception.”
“Ne abbiamo già parlato”, rispose Sally facendosi seria in viso.
Jason sembrò esitare per un attimo.
“Sì, ne abbiamo già parlato”, confermò lui con un cenno della testa.
“Messaggi per me?”
“Due telefonate che ho inoltrato sulla sua segreteria telefonica. Ore 7.55 e ore 8.03.”
“Grazie Sally, buona giornata”, rispose lui asciutto e voltandosi sparì nel corridoio che portava al suo ufficio.
E una e-mail che ti farà saltare per aria, pensò Sally.
Jason sorseggiava una tazza di caffè sulla terrazza riscaldata sopra il suo ufficio. Il suo sguardo spaziava oltre la spalla di lei.
“Cosa ne pensi di Sally?”
“Efficiente, mattiniera, sempre col sorriso sulle labbra. Una perfetta receptionist”, rispose Pamela dando un’occhiata al suo bloc notes dove erano riportati gli argomenti da discutere per quel giorno. Sally non compariva minimamente, e del resto la cosa non la stupì. Sarebbe ato molto tempo prima che qualcuno la notasse.
“Altro?”
“Sì, ha una storia con Kurt, l’ho letto nel consueto report giornaliero inviato dai nostri investigatori ieri sera”, rispose Pamela con un leggero tono offeso nella
voce, che non sfuggì a Jason.
“Cos’altro sappiamo di Sally?”, chiese Jason che aveva già un dossier su di lei di un centinaio di pagine. Pensi che sia qualcuno di cui ci si possa fidare?”
Strana domanda, pensò Pamela in un baleno.
“Non lo so, dovremmo metterla alla prova con qualcosa di più di un lavoro alla reception per scoprirlo.”
“Ho bisogno di gente di cui fidarmi, Pamela.”
“Ma tu ti sei mai fidato di qualcuno?”
“Tu cosa ne pensi?”, le chiese Jason con un sorriso amaro.
Pamela si mosse a disagio sulla sedia, era difficile resistere a quello sguardo.
Jason aprì una piccola cartelletta e porse dei fogli a Pamela.
“Leggi.”
«Durante la festa di ieri pomeriggio, ho presenziato a una riunione con Jason e Markus. Molti clienti hanno ritirato il mandato allo Studio, specie quelli della costa Ovest. Stanno perdendo pezzi, e lo sanno. Dobbiamo vederci per parlarne, la situazione qui cambia di giorno in giorno e secondo me possiamo chiudere in fretta senza troppi danni per voi. Del resto Jason ha già deciso di mollare la causa. K.»
Dopo qualche minuto Pamela posò i fogli sul tavolino e si versò una seconda tazza di caffè.
“Pare che abbiamo un problema”, disse.
“Se ti riferisci a Kurt, quello non è più un problema. Markus gli sta ando informazioni false che lui prontamente gira agli avvocati della Brown. Gli abbiamo fatto credere di essere deboli e che non vogliamo rischiare, in realtà nell’altro capannone abbiamo tanti di quei documenti contro di loro che li seppelliremo per anni.”
Pamela si sforzò di non guardare Jason a bocca aperta, anche se era da anni che lavorava con lui non smetteva mai di sorprenderla.
“Come hai fatto a beccarlo?”
“Ognuno ha i suoi segreti, cara”, rispose lui sorridendo.
Pamela distolse lo sguardo.
“Credevo che con me non ne avessi”, disse in un sussurro.
“Mi dispiace”, disse Jason.
“Ti dispiace? Perché non ti sei fidato di me? Perché non mi hai raccontato cosa ti è successo?”
Perché non hai condiviso il tuo dolore con me, pensò Pamela.
“Nemmeno io mi sono mai fidato completamente di me stesso.”
“Non lo avrei mai detto a nessuno. Abbiamo condiviso tanto, anche quel buco di appartamento. Siamo stati giovani assieme, Jason.”
Jason chiuse gli occhi.
Essere giovane, pensò.
“Non so se sono mai riuscito a essere giovane, essere puro. Forse nei primi anni della mia vita, fino alla morte di mia mamma. Quel giorno si è spento tutto, Pam. Anche la mia giovinezza.”
Le parole di Jason rimasero sospese nell’aria.
“Vedi”, continuò Jason, “avere fiducia in una persona significa anche non raccontare delle cose per non ferirsi, per non farsi ulteriore male. Non potevo spiegarti cosa ho ato, è stata una mia reticenza perché era troppo doloroso confidarmi, anche con te. Solo Claudine sa da dove arrivano le mie ferite, ma con lei è diverso.”
Pamela annuì con un cenno del capo.
“Sì, capisco cosa vuoi dire, forse sono stata un po’ egoista nel voler pretendere tutto da te.”
“No, non sei stata egoista. Sei stata e sarai sempre la mia migliore amica”, disse Jason prendendole la mano e accarezzandola dolcemente.
“Ok, così mi fai piangere”, disse lei con un sorriso privo di divertimento, ma sollevata rispetto a prima. “Torniamo ai segreti. Chi è stato a darti le informazioni su Kurt? La nostra agenzia investigativa?”, chiese Pamela.
“Oh no, qualcosa di molto più semplice”, rispose Jason pensando alla stanza dove alloggiavano i server della Sun. Era il solo a conoscere l’esistenza di quel sistema di intercettazione, neanche Pamela ne era al corrente. Tutti erano corruttibili, tutti erano comprabili. Tranne lui stesso.
“D’accordo, me lo vuoi dire o no?”, disse Pamela indicando con un cenno la
cartelletta.
“Me l’ha portata un uccellino”, rispose lui con aria innocente.
Pamela scoppiò a ridere e per un attimo scoprì la gola.
“C’è qualcuno che non vuole molto bene a Kurt. O probabilmente gliene vuole troppo”, disse lei facendo l’occhiolino.
“Esatto, diagnosi corretta.”
“Cosa vuoi che faccia?”
“Invitala a cena a casa mia, domani sera. Ci sarai anche tu.”
“D’accordo. Ora possiamo are alle cose importanti?”, disse Pamela leggermente piccata.
Jason posò la tazza di caffè e si accese il sigaro. Le rispose con un sorriso da corsaro mentre Pamela prese il bloc notes chiedendosi come sarebbe andata a finire quella sera.
Chiedendosi se avesse potuto specchiarsi in quei due laghetti di montagna. O se
ci fosse caduta dentro, sprofondando nell’abisso.
34
Kurt inviò un sms a Randy intorno alle sei di sera. Doveva vederlo, aveva bisogno di parlargli. Chiudere la storia.
Randy gli rispose dandogli appuntamento alle dieci, sarebbe ato in macchina. A quell’ora il downtown rimaneva deserto e non c’era pericolo di essere osservati.
“Buonasera Kurt”, disse Randy abbassando il finestrino.
L’autista fu svelto ad aprirgli la portiera e Kurt salì velocemente nella limousine.
“Allora come vanno le cose allo Studio?”, chiese Randy chiudendo il vetro divisorio.
“Vanno bene.”
“Perché hai voluto vedermi?”
“Perché siamo alla fine di questa storia.”
“In che senso?”, chiese Randy con curiosità.
“Mi sembra che noi due avessimo un patto.”
“I soldi”, disse Randy sospirando.
“Esatto.”
“Kurt, conosci le regole del gioco. Prima le informazioni, poi i soldi.”
“Temo che dobbiamo cambiare queste regole”, disse Kurt allungandosi sul sedile e prendendo un bicchiere dal piccolo mobile bar. Versò due dita di scotch, ne bevve un sorso e in un attimo un calore confortante si diffuse dentro di lui facendolo rilassare completamente.
Sarebbe bastato un altro bicchiere di scotch, e il pollo avrebbe cantato a squarciagola, pensò Randy.
“Facciamo così. Voi mi fate un bonifico per metà della somma, diciamo due milioni di dollari, ovviamente un conto cifrato. Al ricevimento dei soldi, vi do tutte le informazioni e voi finite di pagarmi con l’altra metà. Guarda Randy, le informazioni che ho da darti sono così preziose, che alla fine mi riconoscerete un bonus extra.”
“Non se ne parla”, disse Randy. “Torniamo indietro, prima fermiamoci a lasciare
a casa il nostro ospite”, disse Randy aprendo l’interfono con l’autista.
Kurt rimase interdetto.
Cristo sono io che comando ora, pensò.
La limousine si fermò davanti a casa di Kurt.
“Richiamami se cambi idea.”
Il cervello di Kurt prese a girare, vorticosamente. Non poteva lasciarsi sfuggire quell’occasione.
Ma si poteva fidare? Che garanzie aveva che lo avrebbero pagato?
“Posso fidarmi?”
“Kurt, ascolta. Ho fatto molti affari di questo genere, se così li possiamo definire. Ho comprato giudici, giurie, testimoni. Nessuno si è mai lamentato.”
Kurt soppesò le parole, rifletté per qualche istante e poi cominciò a parlare.
Mentre un microfono registrava tutto.
San Francisco, 23 ottobre 2000
35
“Sei la solita puttana, con chi è che sei andata a scopare questa volta?”, disse Frank brandendo una mazza da baseball.
“Ma vaffanculo!”
Frank esplose e lasciò andare la mazza in uno swing perfetto che incrociò lungo il suo arco un abat-jour disintegrandolo in mille pezzi. Continuò a roteare la mazza sbattendola sul tavolo che si schiantò per terra, mentre Susy si rifugiava in un angolo del soggiorno, accucciandosi sul pavimento e coprendosi la testa con la braccia.
La sua furia sembrava implacabile, la prese per i capelli e la trascinò sul divano. Cominciò a prenderla a sberle, sempre più forte fino a quando il sangue non cominciò a scendere come un rubinetto aperto dal naso spaccato.
“Smettila, smettila”, riuscì a dire lei.
Frank si fermò.
“Non vali nulla. Puoi fare la valigia e andartene. Ora esco per un paio d’ore con i ragazzi, quando torno non voglio sentire neanche più il tuo odore in questa casa di merda. Chiaro?”, le disse lui prendendole il mento con la mano destra e stringendo forte.
“Chiaro.”
“E metti a posto questo casino prima di andartene.”
Frank prese il giubbotto in pelle, afferrò al volo le chiavi della Corvette e uscì dalla squallida casa di Marin Street, a pochi chilometri dal Central Waterfront di San Francisco. Estrasse dalla tasca una scatoletta e, con una banconota arrotolata, tirò la cocaina.
Accelerò lungo i viali deserti, l’aria fredda entrava violentemente nell’abitacolo lasciato scoperto. Accese lo stereo della macchina e le note dei Guns ‘n Roses coprirono almeno in parte il frastuono del seimila centimetri cubici di cilindrata.
Mentre la cocaina entrava in circolo e raggiungeva il cervello.
Mentre lui, per nessun motivo reale, si sentiva un dio.
Rientrò a casa con il sole già alle spalle, parcheggiò la Corvette nel vialetto di sassi disseminato di ogni genere di rifiuti.
Frank aprì la porta in legno leggero, si fermò un attimo sulla soglia ad ascoltare. Silenzio. Entrò in soggiorno, il divano squarciato probabilmente da un coltello. Tutti i quadretti di nessun valore erano a terra, ammucchiati sui libri. Pagine strappate e pezzi di carta sembravano ancora volteggiare nell’aria, quasi fosse ato un uragano.
“Quella puttana”, ringhiò.
Salì al piano di sopra. Il bagno era in condizioni ancora peggiori del soggiorno. Susy aveva aperto tutti i rubinetti dell’acqua allagando i pochi metri quadri. Il vetro sopra al lavandino era frantumato in pezzettini minuscoli, le mensole di legno abbattute.
“Me la pagherà.”
In camera da letto trovò invece un ordine innaturale. Il letto era perfettamente rifatto, e sul cuscino c’era un biglietto. Lo prese in mano con l’intenzione di strapparlo, poi decise di leggerlo.
Caro stronzo,
sappi che sei una merda d’uomo. Puoi essere stato in battaglia e in guerra, potrai anche vantarti di essere stato un Navy Seals. Appunto, lo sei stato. Ora non sei più nessuno, solo un povero cocainomane che a le sue giornate di fronte al televisore a bere birra con quegli sfigati dei tuoi amici. Non mi troverai mai più, non cercarmi. Sarei capace di sfondarti la testa.
Vaffanculo, di cuore.
Suzanne
Frank lesse il biglietto due volte, poi lo strappò in pezzi minuscoli e lo gettò nel cesso.
Si sdraiò sul letto respirando a bocca aperta, rumorosamente.
Arrivò il sonno, come una botta in testa. Rivide se stesso, nella tuta mimetica da combattimento, con uno zaino da venti chili sulle spalle come se fosse una piuma, con il fucile di precisione costantemente imbracciato e puntato verso il nemico. Con il coltello affilatissimo che portava nella custodia agganciata alla caviglia destra, pronto per essere estratto e usato. Sui corpi di altri militari, sulle gole di nemici senza nome e senza identità. Sulle donne nei villaggi sperduti del Medio Oriente, del Sud-America o dell’Africa Equatoriale, che aveva costretto a terra inchiodandole con il suo peso, che aveva minacciato e poi stuprato senza pietà.
Due colpi alla porta dati con estrema violenza lo svegliarono.
“Ma chi è che rompe. Ah ciao Pà, non ti aspettavo così presto.”
“Ah no?”, chiese l’uomo dandogli uno spintone facendolo da parte. Frank aveva rimesso ordine nella casa, ci aveva impiegato tutta la notte. O tutto il giorno? Non se lo ricordava, aveva tirato talmente tanta coca che i ricordi si erano confusi e sovrapposti l’uno all’altro. Del resto non aveva mai afferrato più nulla negli ultimi anni, quando era stato congedato con disonore dalla Marina degli Stati Uniti.
Il vecchio si aggirò per la casa come se fosse un suo territorio, guardò negli angoli e sulle mensole, poi si stravaccò sul divano.
“Birra”, disse.
Frank andò in cucina e aprì il frigorifero. Un odore di stantio e di muffa lo investì in pieno, prese velocemente due bottiglie, le stappò e le portò in salotto.
Ne porse una al padre, i due batterono le bottiglie come in un brindisi, poi il vecchio tracannò il contenuto in pochi secondi, emettendo un rutto alla fine.
Frank fece lo stesso, gli piaceva la complicità con il padre. Tuttavia negli ultimi tempi il vecchio era diventato sempre più insopportabile e andava e veniva da casa sua a ogni ora del giorno e della notte.
“Allora cosa mi racconti?”, chiese il vecchio portando un dito alla bocca e pulendosi i denti marci con l’unghia.
“Niente di nuovo.”
“Sicuro?”
Frank si sentì a disagio, conosceva bene quello sguardo inquisitore che il vecchio era solito rivolgergli quando ne aveva combinata una. “Suzanne se ne è andata.”
Si alzò di nuovo e andò a prendere altre bottiglie di Bud, ne prese sei e le stappò una dietro l’altra.
Ricordava quanto suo padre fosse fiero di lui quando era in Marina. Poi non si erano più parlati per anni, dopo il suo congedo con disonore. Il vecchio si era allontanato e si era rintanato come un animale ferito nella sua tana. Solo da poco si erano riconciliati, solo da quando il vecchio aveva cominciato a bere sempre di più.
Erano diventati uguali, due bestie ferite che si leccavano i tagli della vita a vicenda.
Tagli senza punti di sutura. Tagli da cui ancora usciva il sangue.
Parecchie birre più tardi si erano messi a tavola, senza prendersi l’incomodo di apparecchiare.
“Allora finalmente sei solo?”, chiese il vecchio addentando un pezzo di carne, il sugo gli colava tra le dita e il mento.
“Sì, non la potevo più sopportare. Era finita da un pezzo ormai, solo che non trovavo il coraggio di buttarla fuori di casa.”
Frank si rese immediatamente conto dell’errore, ma era troppo tardi.
“Tu che non hai il coraggio di trattare con una donnetta?”
“No, volevo dire che mi faceva pena, in definitiva siamo stati assieme sei anni.”
“Stai diventando una pappamolla.”
“Lasciamo perdere, okay?”
E il silenzio cadde su di loro pesante come una coperta bagnata. Continuarono a mangiare la carne ridotta a brandelli e alcune particelle di sangue si rappresero sotto le unghie del vecchio, sovrapponendosi a quelle che già erano presenti da tutta una vita.
Una vita ata a macellare bestie inermi.
36
Suzanne entrò nella fatiscente stazione di Polizia di Oakland Bridge. Fu investita da una corrente umana che si muoveva in tutte le direzioni, apparentemente in modo casuale, discontinuo, caotico.
Il trillo dei telefoni si sovrapponeva l’uno sull’altro in un’indistinta melodia, voci e ordini superavano in volume e intensità altre voci che cercavano di farsi largo nella calca.
Si fece coraggio e fece qualche o verso il bancone dove un sergente, in piedi come su un palco, urlava nella cornetta di un telefono. Lei aspettò finché il sergente sbatté con violenza la cornetta sulla forcella.
“Buongiorno”, disse Suzanne con una certa fatica, le parole impedite a uscire liberamente dalle labbra che si erano gonfiate a dismisura. Teneva premuto sul mento un fazzoletto bianco, ormai impregnato di sangue.
“Cosa posso fare per lei?”
“Vorrei sporgere denuncia contro mio marito.”
Il sergente annuì gravemente e la scrutò per un attimo, i suoi occhi si addolcirono.
“È stata percossa?”
“Sì.”
“È la prima volta che succede?”
Suzanne sbuffò, scoprì il braccio destro, dei lividi bluastri e quasi neri apparvero lungo tutta la superficie della pelle, fino alla spalla.
“Venga, si accomodi.”
Il sergente le fece strada scavalcando uno scorcio di umanità ferita e calpestata.
“Ispettore McCloud?”, disse il sergente rivolgendosi a un uomo sulla cinquantina completamente calvo.
“Sì?”
Il sergente si chinò verso l’uomo, gli sussurrò qualcosa nell’orecchio.
“Prego”, disse Helmut McCloud rivolgendosi a Suzanne.
Lei scostò la sedia, fece un profondo respiro e si sedette stringendo i denti per calmare una fitta di dolore che improvvisamente si levò dal suo petto. Devo avere alcune costole rotte, pensò Suzanne come se il suo corpo appartenesse a un’altra persona, come se non fosse lei che per mesi, anni, era stata malmenata da Frank.
Ma ora è finita, pensò.
“Vuole una caramella?”
“No grazie.”
McCloud guardò il volto tumefatto della donna senza scomporsi.
“Come si chiama?”
“Suzanne.”
“Bene Suzanne, mi racconti cosa è successo.”
“È da anni che mi picchia. L’ho già denunciato due volte ma è stato messo in libertà vigilata. Adesso però... Se lo denuncio un’altra volta, andrà in galera anche per i reati precedenti, giusto?”
“Questo è vero. Sempre che sia ritenuto colpevole, ovviamente. Ma partiamo dall’inizio.” L’ispettore aprì un documento word, e cominciò a picchiettare sui tasti.
37
Helmut uscì dalla stazione di polizia intorno all’ora di pranzo, prese un hot dog e una coca cola da un venditore ambulante e si sedette su una panchina del piccolo parco adiacente. Incominciava a far freddo a San Francisco.
Cristo che posto di merda, pensò McCloud guardando le nuvole grigie che all’improvviso erano state sostituite, senza nessun preavviso, da banchi di nebbia che si formavano nella baia e salivano fino a coprire tutto.
Ci aveva impiegato un paio d’ore a prendere la denuncia di Suzanne e avviare le pratiche e in quel lasso di tempo un antico ricordo si era riaffacciato alla sua memoria. Certo, non era la prima volta che raccoglieva una denuncia per percosse, ma McCloud senza saperne il motivo si sentiva davvero depresso, come se la nebbia fosse calata anche nel suo cervello e avesse ottenebrato la luce, la scintilla della vita.
eggiando ricordò i tempi dell’università, le feste e le ragazze. Gli amici. Sembrava tutto così lontano. Poi la scuola di polizia, altri anni gloriosi, pieni di brio e di eccitazione. Il matrimonio e un figlio, Mark, che ora studiava economia ad Harvard. Aveva lavorato come un mulo per mettere da parte i risparmi e dare al figlio la possibilità di un’istruzione ai massimi livelli.
Helmut sorrise al pensiero che il figlio aveva già praticamente un lavoro, l’ultima volta che lo aveva visto era raggiante e stava coronando il sogno della sua vita. Diventare un floor trader alla borsa di New York.
Il suo ricordo tornò a Suzanne. Le aveva fatto pena. Helmut si bloccò a metà del vialetto e si accese una sigaretta, ripensò a un ato lontano, a quei bellissimi occhi azzurri spalancati su un mondo che non poteva più vedere, occhi che minuto dopo minuto diventavano sempre più spenti come se l’anima fosse restia a lasciare quel corpo. Li aveva chiusi lui, dopo che la scientifica aveva finito il proprio lavoro.
In quel periodo era dislocato a New York ed era uno dei primi casi di omicidio a cui si dedicava, affiancando un detective senior che ormai da troppo tempo faceva quella vita e non si sorprendeva più di nulla. Nemmeno di un cranio sfondato apparentemente a mani nude, sbattuto sul pavimento di marmo.
Helmut alla vista del cadavere era corso fuori e aveva vomitato, poi aveva cercato di ricomporsi in qualche modo ed era rientrato nell’appartamento. Fu sorpreso dall’odore di fiori, che contrastava nettamente con l’odore del sangue. La vittima doveva tenere molto alla casa, era tutto in ordine. Le tende profumate, le finestre ben pulite che lasciavano entrare la luce scintillante del sole.
George, il detective senior, aveva affidato a Helmut il compito di raccogliere le testimonianze. Chiunque avesse sentito o visto qualcosa veniva messo sotto torchio per individuare l’assassino. Il movente era chiaro: violenza sessuale. Restava da stabilire chi aveva compiuto quello scempio. I sospetti caddero immediatamente sul marito, per una legge non scritta le polizie di tutto il mondo sospettavano immediatamente del coniuge in quei casi di omicidio. Il problema era che il marito si trovava ad almeno cinquecento chilometri dal luogo, come era stato testimoniato da suo figlio che era con lui in una battuta di caccia. Certo, la testimonianza era debole poiché veniva da un ragazzino di sette anni. Però altre persone avevano visto il sospettato quel giorno nei dintorni del Connecticut. Un negoziante addirittura aveva esibito lo scontrino assieme al codice del porto d’armi, relativo all’acquisto di pallottole da caccia. Il porto d’armi risultava intestato al marito e, pertanto, in pochi giorni quest’ultimo venne eliminato dalla rosa dei sospettati facendo convergere le indagini in altre direzioni. Un maniaco, uno spostato. Si era presa in considerazione l’ipotesi del serial killer, dato che
nella zona altre due donne erano state ammazzate con modalità simili. Ma in questi ultimi due casi non c’era la violenza sessuale, pertanto l’ipotesi del killer seriale cadde in fretta.
Helmut aveva ato le notti in ufficio, a rileggere le trascrizioni degli interrogatori di tutte le persone con cui aveva parlato. Erano ati giorni, poi settimane. La pista si raffreddava sempre di più. Trascorsero tre mesi, ma dell’assassino nessuna traccia, neanche l’ombra di un sospettato. Helmut fece di nuovo un tentativo interrogando a fondo il marito per vedere se cadeva in contraddizione, ma nel frattempo si era aggiunta la testimonianza del figliastro, che aveva convalidato il fatto che il marito non poteva aver compiuto l’omicidio perché fisicamente non era lì nelle ore in cui era stato commesso. Punto.
Alla fine, Helmut si ritrovò con un fascicolo spesso una decina di centimetri. Foto, interrogatori, esami delle impronte digitali, verifica degli alibi. Nulla.
Fino a quando il caso divenne gelido e si spense come un camino che non veniva attizzato. Semplicemente, venne dimenticato da tutti.
Tranne che da Helmut. Per lui, quell’omicidio, era il caso irrisolto che a volte di notte lo teneva ancora sveglio.
Rientrò stancamente nella centrale di polizia, si diresse verso la sua scrivania e si lasciò cadere sulla sedia. Protocollò la deposizione di Suzanne, a un certo punto il suo sguardo si posò sul nome della persona che aveva appena denunciato.
Non è possibile, pensò.
Rilesse il rapporto una decina di volte, la descrizione fisica dell’aggressore, il suo nome e cognome, la brutalità e la forza esercitata.
Non può essere una coincidenza. Come ho fatto a non pensarci subito?
Digitò sul computer il nome che aveva letto sul rapporto. “Molton, ti ho ritrovato”, disse Helmut ad alta voce.
Si alzò di scatto in piedi e fece qualche o verso l’ufficio del comandante del distretto, entrò senza bussare mentre il suo superiore era al telefono.
Helmut rimase in piedi ad aspettare.
“Cosa vuoi Helmut?”, chiese il comandante posando il ricevitore sulla forcella.
“Devo fare un arresto, subito. Ho bisogno di due macchine e almeno quattro uomini.”
“Di cosa si tratta?”
“Di un’aggressione.”
Il comandante guardò Helmut come se fosse impazzito.
“Sei fuori di testa, Helmut? Due macchine e quattro uomini per un’aggressione?”
“Vuole rendersi responsabile e complice di un possibile omicidio volontario?”, chiese Helmut appoggiando le mani sulla scrivania del comandante e spingendosi minacciosamente in avanti verso di lui.
“Ci sono cose che non so?”, chiese il comandante vagamente preoccupato mentre tirava fuori da un faldone un foglio che cominciò a leggere.
Non sai nulla imbecille pensò Helmut.
“Ho appena raccolto la deposizione di una giovane donna, è venuta qui da noi per denunciare suo marito di maltrattamenti, aggressione, minacce e percosse. Era davvero malridotta.”
Il comandante sbuffò, poi prese un foglietto sul quale scrisse l’autorizzazione a utilizzare due macchine con una richiesta indirizzata al pubblico ministero di emettere un mandato per effettuare una perquisizione completa del domicilio del sospettato e se necessario di effettuare l’arresto.
“Vai adesso”, gli disse.
Helmut uscì di corsa dall’ufficio del comandante, prese al volo la giacca e la pistola, compose un numero di telefono e mise in allerta i suoi ragazzi. Quindi chiamò l’ufficio del pubblico ministero, il quale pochi minuti dopo gli trasmise le autorizzazioni richieste.
Le due macchine della polizia imboccarono una a una le viette del Waterfront fino a sbucare in Marin Street, fermandosi con uno stridore di freni.
I poliziotti scesero da ciascuna macchina mentre Helmut aprì la portiera e rimase per un attimo fermo. Gli agenti fecero il giro della casa piazzandosi nei punti strategici di uscita, poi due di loro sbatterono con violenza le mani sulla porta ordinando di aprire.
“Che cosa volete?”, disse Frank aprendo la porta d’ingresso.
Frank aveva compiuto innumerevoli missioni nei Navy Seals ed era addestrato a fronteggiare nemici ben più pericolosi.
Quando i poliziotti lo presero per le braccia e lo inchiodarono al muro perquisendolo gli venne quasi da ridere.
Helmut McCloud si fece avanti: “Frank Molton. Sei in arresto per aggressione, percosse, lesioni aggravate da futili motivi e dato che questo è il tuo terzo arresto per i medesimi reati temo che la tua carriera finisce qui, amico mio.”
“Avrei dovuto ammazzarla molto tempo fa”, disse Frank freddo.
“Entriamo in casa e rivoltiamola come un guanto”, disse Helmut mentre i poliziotti spintonarono Frank dentro la modesta casa guardandosi intorno stupefatti. Sembrava che una squadra di loro colleghi fosse già ata tanto era il disordine. La puzza di sudore e di sigarette invadeva ogni centimetro quadrato.
I poliziotti cominciarono a rivoltare un’altra volta tutto l’appartamento, e alla fine trovarono diverse pistole, qualche grammo di cocaina e di cannabis, oltre a un fucile da precisione e uno da guerra.
“La vedo male, caro Frank”, disse Helmut guardando l’inventario degli oggetti sequestrati ordinatamente disposti sul tavolo della cucina. “Sigillate questi oggetti e scattate foto da ogni angolo, poi chiudiamo e andiamocene. Questo figlio di puttana i prossimi dieci anni li a in un carcere federale.”
New York, 24 ottobre 2000
38
Sedeva alla sua postazione alla reception, come sempre da quando aveva iniziato a lavorare per lo Studio. All’inizio le era sembrato divertente lavorare in quella posizione, ma ora cominciava già ad andarle stretta. Non si era fatta il culo all’università per poi essere solo una receptionist, Sally voleva di più. Molto di più.
Poi le venne in mente il punto di origine, il colloquio con Jason.
“Potrebbe aspirare a qualcosa di più con il suo curriculum, è notevole.”
Lei si era fatta più piccola sprofondando nell’avvolgente poltrona di pelle. Temeva che le dicesse di no.
“Come mai ha voluto incontrarmi di persona?”, gli aveva chiesto a bruciapelo.
“Non è nelle mie abitudini, infatti. Non incontro mai i candidati per un’assunzione. Quelli li vedo dopo, di solito molti anni dopo. Quando mi servono davvero.”
“Allora perché ha voluto vedere me?”
Jason sorrise dentro di sé ed evitò la domanda.
“Discuterà i dettagli del suo contratto di assunzione con il nostro direttore del personale. Sappia che qui paghiamo bene, ma pretendiamo molto. Molto di più di ogni altro studio legale di New York.”
“È proprio per questo che voglio lavorare per voi”, rispose. Non le importava il denaro, avrebbe anche lavorato gratis.
Jason si alzò e lei lo imitò alla svelta, si strinsero la mano e Sally sentì la sua stretta, salda e decisa.
Squillò il telefono, un leggero trillo che si sentiva appena nel silenzio ovattato dello Studio. Alzò la cornetta.
“Studio Davis-Baker & Reynolds, buon giorno.”
“Buongiorno un cazzo”, rispose la voce al di là del filo.
“Prego?”
“Dai ami Jason, muoviti.”
“Temo che abbia sbagliato numero, signore.”
“Non credo proprio. Dai amelo, ho fretta.”
“Se mi lascia il suo nome la farò chiamare da Pamela.”
“E chi è Pamela?”, chiese la voce.
Sally rimase con la cornetta in mano, indecisa sul da farsi. Pensò per un attimo di mettere giù il telefono.
“Con chi parlo?”
“Sono Frank.”
Sally scrisse un appunto veloce sul suo bloc notes.
“Bene Frank, mi lasci un suo messaggio e provvederò a farlo avere all’avvocato Davis.”
“Ah già è vero che è avvocato, in effetti è proprio per questo che lo chiamavo. Senta, dica al suo capo che lo cerca Frank, vedrà che accetterà la telefonata, ci può scommettere il culo.”
Sally chiamò l’interno di Jason.
“C’è in linea una persona, insiste per parlarle direttamente.”
“Non ho tempo ora”, rispose Jason seccato.
“Dice che si chiama Frank e che è sicuro che avrebbe preso la chiamata. Comunque scusi non volevo disturbarla, gli dirò che è impegnato e di lasciare un messaggio.”
Jason rimase zitto per molti secondi, tanto che Sally poté sentire il suo respiro filtrato dai fili di rame che correvano nel rumore di sottofondo.
“Ha detto cosa vuole?”
“No avvocato, non l’ha detto. Inoltro la chiamata a Pamela?”
“No, me lo i pure.”
Sally chiuse la comunicazione con Jason e tornò sull’altra linea dove Frank era in attesa.
“Signor Frank, le o l’avvocato Davis.”
“Brava, vedo che Jason sceglie sempre le puttanelle migliori.”
Sally inoltrò la chiamata a Jason, e sibilò un vaffanculo tra i denti. Poi quando vide lampeggiare la spia del telefono di Jason, fece una cosa che avrebbe comportato il licenziamento immediato.
“Glielo avevo detto alla tua leccapiedi che appena sentito il mio nome avresti preso la chiamata.”
Jason rimase in silenzio, la cornetta appena attaccata al suo orecchio. Modulò il respiro e attese.
“Non si può neanche dire bando ai convenevoli, visto che non ne fai nemmeno uno.”
“Cosa vuoi, Frank?”
“Solo parlare con te.”
“È una vita che non ci sentiamo, di cosa dovremmo parlare?”
“Sono nei guai. Per colpa di Suzanne.”
Jason si appoggiò allo schienale della poltrona, diede un’occhiata ai sei monitor tutti accesi. Su uno di essi, la linea del giorno riflessa sulla terra avanzò di un centimetro verso ovest, la notte stava nuovamente arrivando.
“Suzanne?”
“Sì. Mia moglie. Mi ha denunciato.”
“Avrà avuto le sue buone ragioni”, rispose Jason sorridendo e guardando verso le torri gemelle che riflettevano il sole con le mille finestre, un colore leggermente rossastro cominciava a increspare la loro superficie di alluminio e di metallo.
“Mi vuole rovinare. Mi ha denunciato per violenze e tentato stupro due volte e tu sai che...”
“Un’altra condanna e vai dentro per parecchi anni”, disse Jason.
“Appunto.”
“Cosa vuoi, Frank?”
“La tua difesa.”
“Ma tu sei pazzo”, rispose Jason scoppiando a ridere.
“Sei il migliore no? Sei su tutte le televisioni, da settimane.”
“Sì, ma non certo nelle cause penali. Non se ne parla Frank, addio Frank”, e fece per rimettere giù la cornetta.
“Aspetta.”
“Frank ho da fare, chiudiamo qui la conversazione. Dirò a Pamela di cercare un avvocato a San Francisco e copro io le spese, ok?”
“Mi servi tu.”
“Ti ho già detto che è impossibile.”
“Se vado a fondo io, tu vieni con me. Abbiamo tanti scheletri nell’armadio. E dubito che i tuoi clienti sarebbero felici di sapere certe cose sul nostro conto.”
Jason scattò in piedi, serrò la cornetta con tanta forza da spaccarla in due.
“Ascolta piccolo bastardo. Con te e il vecchio i conti li abbiamo già fatti. Avete fatto la vostra vita, io la mia. E i risultati si vedono.”
“Ti aspetto qui a San Francisco, giovedì. Abito sempre nello stesso posto, anche se momentaneamente mi hanno trasferito in carcere. A giovedì, Jason”, e fu Frank a chiudere la conversazione lasciando che il segnale di fine chiamata si dissolvesse nei cinquemila chilometri che separano le due coste opposte degli Stati Uniti.
Jason rimase con la cornetta in mano, poi la scaraventò per terra mandandola in pezzi. E il segnale si spense del tutto.
Sally mise giù il ricevitore, nell’esatto momento in cui vide la spia del telefono di Jason smettere di lampeggiare. Le tremavano leggermente le mani e non sapeva neanche lei per quale motivo. Forse perché la telefonata l’aveva spaventata, o forse perché aveva infranto ogni regola della privacy tra cliente e avvocato.
Fissò il bloc notes per alcuni secondi, li dove aveva annotato il nome. Frank.
Si alzò dalla sua postazione e fece alcuni i in direzione dell’ufficio di Pamela. Bussò ed entrò quando al di là della porta una debole voce le disse avanti.
“Disturbo?”
“No dimmi”, rispose Pamela continuando a battere i tasti sul suo personal computer. Alle sue spalle, la vista sui ponti di Brooklyn e Giovanni da Verrazzano era mozzafiato. Un cambiamento gigantesco rispetto alla reception.
“Volevo chiederti una cosa. Chi è Frank?”
Pamela smise all’istante di scrivere, si voltò verso Sally e abbassò leggermente gli occhiali sul naso, guardandola al di sopra delle lenti.
“Perché questa domanda?”
“Ha appena chiamato, voleva parlare con Jason. Molto volgare direi, ha insultato tutti.”
“E tu gliel’hai ato?”
“Sì, ho chiesto all’avvocato Davis se potevo trasferirgli la chiamata e ha acconsentito.”
Pamela si alzò dalla scrivania.
“Ti ha detto cosa voleva?”
“No.”
“Grazie Sally, puoi andare.”
Pamela si diresse verso l’ufficio di Jason, svoltò l’angolo del corridoio e rimase stupita di trovare la porta chiusa. Era una cosa che Jason non faceva mai, la porta era sempre spalancata anche se nessuno metteva piede nel suo ufficio se non convocato direttamente da lui.
Rimase in piedi di fronte alla pesante porta di mogano lucidato, pensò subito che qualcosa non andava ma non riusciva a decidersi se bussare o fare dietrofront.
Che diamine, sono la sua assistente almeno io posso entrare, pensò Pamela attratta in modo irresistibile da quella porta, dall’uomo dietro di essa.
Bussò.
Niente, nessun rumore dall’interno.
Provò a bussare un’altra volta. Finalmente la porta si aprì.
“Dimmi”, le disse Jason con gli occhi spalancati e il nodo della cravatta sciolto.
“Cosa succede?”, chiese Pamela ora preoccupata guardandosi nello stesso tempo alle spalle per essere sicura che nessuno sentisse. O vedesse.
“Entra svelta.”
Jason cominciò a camminare avanti e indietro per l’ampio ufficio, come un leone in gabbia mentre Pamela in piedi davanti alla porta chiusa rimaneva ammutolita senza il coraggio di dire nulla.
Jason andò verso il piccolo bar e si versò un whisky, abbondante. Almeno quattro dita.
“Ci sono brutte notizie dal Tribunale?”, chiese Pamela sapendo che era una domanda sciocca.
Jason la guardò con aria di sufficienza e bevve un lungo sorso di whisky.
“Non dire cazzate, Pam”, disse lui scolando per intero il bicchiere. Fece per versarsene un altro, poi strinse il bicchiere e lo scaraventò all’altro lato della stanza, facendolo schiantare contro il muro.
Negli ultimi tempi era sempre più frequente che Jason perdesse il suo autocontrollo.
“Che cosa è successo, allora?”, chiese Pamela spaventata da quel gesto così violento.
Jason fece due i verso l’ampia vetrata, in lontananza si vedevano due rimorchiatori che trainavano una grossa nave eggeri nel porto di New York.
“Il ato ritorna, sai? Tu fai di tutto per scacciarlo, per tenerlo lontano, perché non ti faccia più male. Ma lui torna. E lo fa quando meno te lo aspetti, nel buio della notte, negli incubi. O di giorno, con una telefonata.”
Pamela rimase zitta.
“Tutto questo, lo vedi no? Tutto questo, l’ho costruito io. L’ho fatto dal nulla, spezzandomi la schiena ogni stramaledetto giorno della mia vita”, disse Jason urlando. Pamela si ritrasse un po’ di più verso la porta accostando le spalle al muro.
Poi fece qualche o in avanti avvicinandosi a Jason. Gli posò una mano sulla spalla. Jason si portò una mano alla fronte massaggiandosi le tempie.
“È tornato”, disse in un sussurro.
“Chi?”
“Mio fratello.”
Pamela fece per andarsene, poi si bloccò sulla porta e appoggiandosi allo stipite disse a Jason: “Ma c’è qualcosa che davvero io sappia di te?”
“Tutto quello che è successo dal nostro incontro in poi. Quello che è avvenuto prima non l’ho nascosto, ho solo cercato di cancellarlo. Ma non ci sono riuscito.”
San Francisco e New York, 24 ottobre 2000
39
Helmut era depresso, durante l’interrogatorio Frank si era rifiutato di rispondere a qualunque domanda e non aveva dato neanche le sue generalità complete. Solo tre ore dopo l’inizio dell’interrogatorio aveva chiesto un telefono per fare quella telefonata che gli spettava di diritto e aveva chiamato New York. Il suo avvocato, aveva detto.
Il materiale raccolto nella perquisizione, la testimonianza di Suzanne e le precedenti condanne erano più che sufficienti per arrivare in aula e costruire un solido castello probatorio che avrebbe spedito Frank in carcere per almeno dieci anni, se non di più.
Ma c’era qualcosa che non tornava.
Sta preparando qualcosa, pensò Helmut ricordandosi che chi aveva di fronte non era un cittadino qualunque. Era un delinquente e un violento, ma aveva servito nei Navy Seals per nove anni. Non si lavora nei Navy Seals per un tempo così lungo senza forgiarsi un carattere d’acciaio. Qualcuno resisteva due o tre anni, poi ava ad altro grado e diventava istruttore. Frank era stato un Navy Seals operativo per nove anni, e si vedevano tutti nei suoi occhi che non battevano ciglio, nel suo atteggiamento composto e per nulla intimorito.
Helmut si era fatto mandare il curriculum completo di Frank e aveva dovuto faticare non poco per averlo. Erano più le linee nere che cancellavano luoghi, città, nomi e missioni che il resto visibile. Alla fine del curriculum una semplice nota: congedo con disonore.
Helmut aveva richiamato il quartier generale chiedendo maggiori dettagli.
Quel congedo con disonore nascondeva qualcosa.
Frank aveva servito la patria in condizioni estreme per nove anni per poi farsi congedare con disonore?
Cos’era accaduto?
A un certo punto dell’interrogatorio glielo aveva chiesto direttamente, ma senza ottenere nessuna risposta. Frank non batté ciglio e anzi chiese una sigaretta.
“Io con voi non parlo se non alla presenza del mio avvocato”, disse Frank.
Helmut era uscito frustrato dalla saletta degli interrogatori, gli sarebbe piaciuto spaccargli qualche dente ma si era trattenuto.
Andò al centralino e si fece dare il numero di telefono che Frank aveva composto approfittando del suo diritto di fare una telefonata. Tornò alla sua postazione e immise il numero in Internet.
Aggrottò la fronte quando il computer gli restituì l’intestatario qualche secondo dopo. Lo studio Davis Baker & Reynolds compariva in almeno 5 milioni di
risultati e quello che Helmut lesse lo lasciò sbalordito.
Dall’altra parte degli Stati Uniti, Jason si chiuse nella sua saletta riservata, compose il numero di telefono della centrale di polizia di Oakland Bridge e chiese di parlare con il responsabile dell’arresto di Frank.
“Helmut McCloud”, rispose automaticamente sollevando la cornetta.
“Buongiorno parlo con il responsabile delle indagini a carico di Frank Molton?”
“Chi lo vuole sapere?”, chiese Helmut.
“Il suo avvocato, Jason Davis.”
C’è qualcosa che non va, pensò Helmut.
Guardò l’orologio, le tre del pomeriggio. A New York erano le sei di sera. Jason doveva essere uno di quegli avvocati che considerano l’ufficio come la prima casa, anche un luogo dove dormire se necessario.
“Cosa posso fare per lei, avvocato Davis?”, chiese Helmut.
“Voglio conoscere i capi di imputazione a carico di Frank Molton e sapere se è
già stata fissata la data dell’udienza per la cauzione.”
“Devo intendere che lei ha intenzione assistere Frank Molton?”, chiese Helmut.
“È una possibilità, signor McCloud”, rispose Jason.
“Ispettore McCloud”, rispose Helmut.
Il silenzio attraversò la distanza che separava le due cornette.
“Avvocato Davis, da quello che ho visto lei è specializzato in cause civili. Il punto è che qui siamo nel penale. Le accuse a carico di Frank Molton sono molestie, aggressioni, violenza privata. Forse violenza sessuale. Abbiamo già fatto una perquisizione nel suo appartamento e abbiamo trovato droga e armi non denunciate. Lei è sicuro di voler accettare la difesa?”, chiese Helmut.
“Come le ho detto, è una possibilità”, rispose Jason laconico prendendo un sigaro e rigirandoselo tra le mani.
Rivide il letto di ospedale dove era stato in bilico tra la vita e la morte. Rivisse le umiliazioni, gli insulti di quel dannato fratello.
“Chiedo scusa, ma non capisco. Perché un avvocato come lei dovrebbe interessarsi di questo caso?”, insistette Helmut.
“Ispettore, questa è una domanda a cui non posso rispondere, primo perché non è pertinente e secondo perché come sa c’è una privacy tra cliente e avvocato che non può essere infranta.”
Helmut rimase con il telefono in mano per qualche secondo. Un avvocato come Jason Davis non si sarebbe mai sporcato le mani con un tipo come Frank. Non si sarebbe mai esposto pubblicamente, era un o falso che avrebbe potuto significare la rovina della reputazione di Jason.
“Avvocato Davis, avrei bisogno di parlare con lei, a quattr’occhi. L’imputato rifiuta di rispondere a qualunque domanda, a stento ci ha dato le sue generalità. Può essere qui giovedì mattina un’ora prima dell’udienza preliminare? La questione la possiamo risolvere senza troppo clamore”, disse Helmut.
“A che ora e dove?”
“Al comando di polizia di Oakland Bridge, alle 10.”
“Va bene”, rispose Jason.
Dannazione, pensò.
“Il giudice ha già esaminato gli atti e per giovedì alle 11 emetterà o meno il suo benestare alla libertà su cauzione. Considerata la gravità dei reati perpetrati da Frank Molton dubito che gli concederà la libertà su cauzione, ma qui siamo a
San Francisco e qui tutto può succedere”, disse Helmut riferendosi alla fama che aveva la città, quella di essere la più liberale e democratica di tutti gli Stati Uniti.
“Va bene, eventualmente verserò la cauzione”, disse Jason.
Helmut rimase ancora più stupito.
“Allora l’aspetto, buon viaggio avvocato.”
Jason si alzò dalla sua poltrona. Andò verso le vetrate principali. Guardò giù, ventiquattro piani più sotto. Tutto sembrava diverso da quella prospettiva, gli aveva sempre dato l’illusione di controllare il mondo.
Chiuse gli occhi.
Era solo un illusione.
New York, 24 ottobre 2000
40
“Spero che tu non abbia impegni per questa sera.”
Sally smise di mangiare il suo hotdog, era in pausa pranzo ma non aveva lasciato il banco della reception.
“Perché?”
Pamela le si accostò fino a che il suo profumo penetrò le narici di Sally.
“Non è quello che pensi”, disse Pamela strisciando l’indice della mano destra sul piano di lavoro di Sally, che la guardò con aria interrogativa.
“Sei invitata a una cena speciale, non è una cosa che capita tutti i giorni qui.”
“Stasera sono libera, ma con chi dovrei uscire a cena?”
Pamela le porse un biglietto vergato a mano e per un attimo le loro dita si sfiorarono. Pamela sentì come un brivido che la percorse ma mantenne lo sguardo distaccato.
Sally lesse il biglietto e il respiro le si mozzò in gola.
Ricordava poco degli eventi successivi. Ricordava di essersi infilata in bagno e di avere ficcato la testa sotto l’acqua gelata del lavandino mentre un’associata la guardava con curiosità chiedendole se si sentisse bene. Poi si era chiusa in una toilette e aveva respirato con calma per quello che le erano sembrati minuti, per evitare che il panico dilagasse e avesse la meglio. Ne soffriva dagli anni dell’università, attacchi di panico che si manifestavano in circostanze stressanti e quella decisamente era una situazione di stress.
Ricordava di essere uscita dall’ufficio e di essere andata a casa, solo giunta nel suo soffocante appartamento aveva riacquistato lucidità. Aveva ingoiato un tranquillante e finalmente era calata l’angoscia e il panico.
Ci aveva messo quasi un’ora e mezzo per arrivare alla casa di Jason. Stava percorrendo il lungo viale dove si affacciava la villa del suo capo, appena fuori da Montclair.
Un cameriere la scortò fino alla veranda interna, sapientemente illuminata con luci soffuse che permettevano di guardare il parco su cui riposava placidamente il laghetto e il gazebo. Il cuore emise un battito fuori sincronia quando Jason si alzò dal tavolo rotondo e le venne incontro sorridendo.
“Spero che questa cena senza preavviso non abbia sconvolto i piani della sua serata.” Indossava una camicia bianca e un paio di pantaloni blu sportivi. I capelli erano leggermente scompigliati, molto diversi dalla rigida maschera che indossava al lavoro.
È anche più affascinante così, pensò Sally.
“È un piacere essere qui, avvocato”, rispose lei cautamente mentre Pamela le rivolse un cenno di saluto con la testa.
Claudine si avvicinò a Sally e le porse la mano con un sorriso dolcissimo.
“Benvenuta Sally, siamo lieti di averti qui a cena con noi.”
“È un piacere anche per me, Mrs. Davis.”
“Oh per piacere, mettiamo da parte le formalità. Sono solo Claudine”, rispose lei sorridendo cercando di sciogliere la tensione che vedeva nel corpo e nei movimenti della sua ospite.
Sally si sedette.
La conversazione iniziò blandamente, Jason intrattenne le tre donne raccontando che al suo ritorno dall’ufficio aveva trovato Joshua sulle rive del laghetto con la canna da pesca. Il piccolo non aveva idea che nel laghetto non ci fosse neanche un pesce, ma si era ostinato a voler rimanere lì fino a quando uno non avesse abboccato.
“Non è così facile pescare. Bisogna avere pazienza. È la preda che corre, il cacciatore rimane fermo”, disse Jason fissando Sally mentre Pamela si concesse
un sorriso. A un tratto Sally si sentì circondata. Stavano parlando di lei.
“Perché sono qui?”, chiese improvvisamente.
Jason fece un cenno al cameriere che sparì nel corridoio.
“Credo che tu lo sappia già.”
“Dubito che vogliate licenziarmi.”
“No, infatti. Non vogliamo licenziarti.”
A Sally non sfuggì il plurale nell’ultima frase.
Jason prese una busta da un tavolino affianco e la porse a Sally.
Sally aprì la busta e lesse. Sbiancò in volto.
“Sappiamo tutto”, disse Jason. “E tu ce l’hai confermato, hai fatto un ottimo lavoro.”
Un silenzio denso come il piombo calò sulla tavola, anche Claudine fu colta di sorpresa da questa situazione. Sin dal pomeriggio si era insospettita per questo strano invito a cena con una praticante dello Studio che aveva appena conosciuto alla festa di Stern.
“Cosa vuole esattamente da me?”, chiese Sally appoggiando la busta con i fogli sul tavolo.
“Quello che voglio sapere è perché mi hai mandato la e-mail denunciando Kurt.”
Sally rimase pietrificata.
Dio mio sa anche questo, pensò in un lampo.
“Mi pare inutile chiederle come fa a sapere che sono stata io”, disse Sally guardando prima Jason poi Pamela.
“Infatti, è inutile”, disse Jason scegliendosi un sigaro e accendendolo. “Quello che mi interessa davvero è una cosa soltanto”, disse con voce bassa.
“Che sarebbe?”
“Ma cosa sta succedendo?”, intervenne Claudine.
Jason fece un cenno a Claudine come a dirle che glielo avrebbe spiegato dopo e poi rispose a Sally.
“Quello che a me davvero interessa è: posso fidarmi di te?”, chiese Jason appoggiando i gomiti sul tavolo.
“Secondo lei? Ho denunciato Kurt per proteggere voi, per lo Studio. Non perché sono una spia. Le è chiaro, avvocato?”, disse Sally rossa per la rabbia. L’effetto dell’ansiolitico stava finendo. Doveva chiudere quella conversazione in fretta e andarsene da quel luogo che fino a poche ore prima vedeva come un posto incantato.
Claudine vide Sally irrigidirsi e le posò una mano sulla sua.
“Le informazioni che mi hai mandato sono molto, troppo importanti. Devo sapere come hai avuto quelle informazioni su Kurt e su Randy.”
Sally fece un profondo respiro, poi cominciò a parlare con una voce quasi impercettibile.
“Un paio di settimane fa stavo tornando da una festa con una mia amica, eravamo entrambe brille e ci siamo perse nel downtown di Manhattan. Il caso ha voluto che vedessi Kurt che rincasava, era molto tardi circa le due di notte. Non sapevo neanche dove abitasse Kurt, non lo stavo spiando dovete credermi.”
“Continua”, la incoraggio Jason.
“Vidi una limousine che aspettava davanti a casa di Kurt, ne scese l’avvocato Randy Stewart. Mi sembrava che fossero in confidenza, non so perché ma dedussi che non era la prima volta che si incontravano e questo mi mise in allarme. Perché Kurt stava parlando con l’avvocato della difesa, alle due di notte in una via isolata?”
Jason tirò una boccata dal sigaro, guardando Claudine che continuava a tenere la propria mano su quella di Sally.
“Allora ho pensato che sarebbe stata una buona idea sorvegliare Kurt, avvicinarlo. Farmi notare da lui. Era chiaro che stava nascondendo qualcosa.”
“E tu cos’hai fatto?”, chiese Jason.
“Ci sono andata a letto”, disse Sally abbassando la testa e riducendo la voce a un sussurro appena udibile.
La mano di Claudine si strinse ancora di più in quella di Sally.
“Forse è meglio se ne riparliamo un’altra volta, Sally è chiaramente sconvolta e davvero a disagio. Qui siamo a casa nostra, non in un’aula di Tribunale”, disse Claudine rivolta a Jason e fissando poi Pamela che sembrava gustarsi la scena.
“No, Mrs. Davis, cioè Claudine. Va bene così, ho quasi finito”, rispose Sally alzando la testa. E poi continuò rivolta a Jason: “Ieri sera ero a cena con Kurt, si
vantava del fatto che presto sarebbe stato ricco, che avremmo potuto scappare insieme verso una nuova vita. Fu ieri sera che presi la decisione di andare a letto con lui. Poi si è addormentato e mentre dormiva ho frugato nel suo computer, durante la cena mi aveva detto che aveva mandato una e-mail importantissima. Potevo solo sperare che l’avesse fatto da casa. Volevo proteggere lo Studio, volevo proteggere la causa in corso. Ecco perché ho fatto quello che ho fatto. Ecco perché sono andata a letto con un uomo che non mi interessa, e credetemi non è certo nelle mie abitudini”, disse Sally chinando la testa e vergognandosi.
“Adesso basta!”, esclamò Claudine alzandosi da tavola dando la mano a Sally.
Le due donne uscirono dalla stanza e Claudine la accompagnò di sopra, al bagno della sua camera da letto.
“Mi spiace molto per quello che è successo stasera qui, Jason non sembra nemmeno mio marito.”
“Non preoccuparti Claudine, io mi sono messa in gioco e io devo sopportare le conseguenze”, disse Sally ora con più sicurezza nella voce.
“Fai con comodo, io torno giù da Jason e lo sgrido, quando te la senti scendi”, disse Claudine con un sorriso.
Sally si prese il suo tempo, si lavò il viso e si risistemò il trucco. Poi uscì dal bagno.
Con la testa che le girava lievemente, si guardò in giro e vide il lungo corridoio sul quale si affacciavano diverse porte. Forse le camere dei figli?
Da sotto una delle porte filtrava uno strano chiarore, appoggiò la mano sulla maniglia ed entrò. La stanza era molto luminosa, eppure le luci erano spente. Alzò lo sguardo verso il soffitto e vide un’enorme cupola di cristallo che faceva da tetto. La luce della luna piena illuminava quasi a giorno la stanza.
Avanzò nella stanza e il suo sguardo fu attirato da un mobile e da due quadretti appesi alla parete.
Dov’è che li ho già visti?
Rimase bloccata quando vide il tastierino numerico in mezzo ai due quadretti e per un attimo si ritrovò di fronte l’esatta copia di quello che c’era nell’ufficio di Jason e che non le era sfuggito quando aveva fatto il colloquio. Anche la cupola di cristallo non era poi così dissimile dal secondo piano dell’ufficio di Jason in Liberty Street.
La porta scorrevole, affianco al mobile, era appena socchiusa e non filtrava luce. La aprì e in un istante la stanza fu invasa dalle luci. Sally rimase sbalordita vedendo l’incredibile numero di monitor e di computer. Tutti i monitor erano spenti, tranne uno che riprendeva la hall dello Studio in Liberty Street, stava guardando esattamente quello che lei vedeva ogni mattina. C’erano tastiere e joystick, e al centro troneggiava una poltrona in pelle identica a quella che Jason aveva in ufficio. Il cuore le batté in gola, non sapeva cosa si trovava di fronte, ma certo quella stanza era più di un semplice studio.
Dopo qualche minuto tornò da basso nell’ampia sala da pranzo. Jason si alzò prontamente e le andò incontro.
“Hai dimostrato di essere molto più di una centralinista ed è giunto il momento di arti a un nuovo incarico.”
Sally si sedette nuovamente e guardò Claudine che le rispose con un sorriso.
“Uno dei nostri soci anziani, Stern Reynolds, in questo periodo ha deciso di dedicare meno tempo alla Studio per questioni personali e sarebbe necessario che tu affiancassi l’assistente per i prossimi mesi. Puoi imparare molto. Sarah, l’assistente di Stern, è davvero brava”, disse Jason.
“Oddio, sì”, rispose prontamente Sally.
Pamela sorrise a sua volta e disse: “Brindiamo a un nuovo inizio allora” e tutti e quattro levarono i bicchieri di vino facendoli tintinnare, e con calma gustarono una deliziosa cena.
Dopo il caffè, Sally disse: “Ora, se mi volete scusare, vorrei rientrare a casa. Sono un po’ sopraffatta dalle emozioni e devo guidare almeno un’ora, non vorrei crollare sul volante”, disse Sally sorridendo.
“Vieni ti accompagno”, disse Claudine.
Jason si alzò dal tavolo e le strinse la mano, poi si chinò verso il suo orecchio e le sussurrò: “Benvenuta a bordo.”
Le due donne uscirono nuovamente lasciando Jason e Pamela da soli.
“Giovedì vado a San Francisco, quando torno Kurt deve essere fuori dallo Studio.”
“Consideralo già fatto”, rispose Pamela.
“Devo partire giovedì.”
“Dove vai?”
“A San Francisco. Devo vedere Frank.”
Claudine rimase in silenzio a lungo, un po’ come faceva con i suoi pazienti quando si accingevano a raccontare qualcosa di importante.
“Mi ha chiamato in ufficio, oggi pomeriggio. Ha detto che è nei guai.”
“E tu vai a salvarlo?”, chiese incredula.
Jason rimase zitto pensando al ricatto di Frank.
“Non vado a salvare lui, Claudine. Vado a salvare me. Noi.”
“È un uomo pericoloso. Lascialo al suo destino.”
“Non posso” e mentre diceva questo l’ombra di un antico terrore represso attraversò la sua mente.
Da qualche parte nei cieli degli Stati Uniti, 26 ottobre 2000
41
Erano in volo da pochi minuti.
L’alba disegnava dolci sfumature di colore. Jason guardò attraverso l’oblò. Poteva vedere New York che si allontanava sempre più rapidamente mentre il sole pigramente veniva su dall’oceano Atlantico, piatto e apparentemente immobile.
Un uomo sedeva composto in fondo all’aereo. Si erano rivolti un breve cenno di saluto mentre Jason saliva sull’aereo, poi l’uomo si era seduto. Lontano da lui, una presenza silenziosa e quasi minacciosa nel rigido portamento, nell’abito scuro che indossava immancabilmente.
Jason si svegliò di botto. Ci mise qualche secondo per capire dove si trovasse. Si sentiva spossato, la mente completamente vuota.
Si ò una mano sugli occhi e guardò fuori dal piccolo oblò. Non sapeva quanto tempo avesse dormito, a giudicare dalla luce dell’aurora forse solo qualche decina di minuti. Guardò il pannello che indicava la rotta dell’aereo sopra gli Stati Uniti e si sorprese nel constatare che erano a metà strada, appena sopra il Nebraska.
“Desidera un caffè, avvocato?”
“Grazie Jenny. Fammelo doppio.”
Jenny gli portò il caffè pochi istanti dopo, con qualche ciambella e dei biscotti al cioccolato.
“Che ore sono a New York?”
“Le otto e venti, avvocato.”
Jason prese il telefono satellitare e compose un numero che conosceva a memoria.
La voce all’altro capo del filo rispose al secondo squillo.
“Sally sono io, Jason.”
“Oh buongiorno avvocato, come sta?”
“Molto bene Sally, grazie.”
“Cosa posso fare per lei?”
“Spero che la cena dell’altra sera le sia piaciuta e le porgo le mie scuse se sono stato maleducato. Volevo solo dirle che deve pazientare ancora un paio di giorni prima che sia ufficializzato il trasferimento come assistente di Stern Reynolds.”
“Non si preoccupi avvocato, in definitiva mi stavo abituando a prendere trecento telefonate al giorno”, rispose Sally con una battuta.
Jason sorrise e disse: “Bene, mi fa piacere. La chiamavo per un favore. Nel mio ufficio, nel secondo cassetto della scrivania, c’è un’agenda. Può andare a prenderla? Aspetto in linea.”
“Subito avvocato”, disse Sally mettendo in attesa la comunicazione con l’intenzione di riprenderla dal suo ufficio.
Jason sentì il tocco della cornetta che veniva posata sulla scrivania, subito partì la musica classica dell’attesa. Guardando oltre l’oblò poteva scorgere i campi arati a perdita d’occhio. La riserva di grano degli Stati Uniti.
“Eccola, l’ho trovata”, disse Sally riprendendo la comunicazione.
“Bene. La apra alla data di oggi. C’è un indirizzo di San Francisco, può leggermelo per favore?”
“162 di Marin Street, Waterfront, San Francisco.”
Jason scrisse l’indirizzo su un foglietto di carta, la mano gli tremava leggermente ed esercitò un certo controllo per farla stare ferma.
“Grazie Sally, è tutto.”
“Grazie a lei, avvocato. A presto.”
Jason appoggiò il telefono nel vano appeso alla paratia, guardò il foglietto su cui aveva scritto l’indirizzo, e desiderò di invertire la rotta per tornare a casa.
Sally imitò il gesto di Jason che in quel momento si trovava a duemilacinquecento chilometri da lui e a trentacinquemila piedi di quota, e appoggiò il telefono sulla base. Era stata una mattinata stranamente tranquilla, diversa dalle precedenti nelle quali il telefono non smetteva mai di squillare.
Guardò l’agenda di Jason, la curiosità ebbe il sopravvento e cominciò a sfogliarla. Arrivò fino al giorno della sua assunzione, il 4 ottobre 2000. Il suo nome era cerchiato in rosso.
«Colloquio con Sally Yrons. Interessante.»
Sally rimase perplessa nel leggere quelle brevi note a margine.
Andò avanti di un paio di giorni, al 6 ottobre. Un’altra nota su di lei.
«L’ho assunta. Sembra molto sveglia e intelligente, credo che farà strada. Dedicarle tempo e attenzioni. Mi potrò fidare?»
Andò avanti di qualche altro giorno, leggendo con attenzione tutte le note. Ma non trovò più nulla su di lei. Richiuse l’agenda guardandosi in giro temendo che qualcuno potesse sorprenderla a curiosare.
Socchiuse la porta dell’ufficio di Jason in modo che nessuno potesse notarla, poi si guardò in giro. Vide il secondo piano dell’ufficio, con la terrazza in cristallo quasi sospesa nel vuoto.
Non è una coincidenza, pensò Sally ricordando lo studio a casa di Jason, del tutto simile a questo.
Il suo sguardo venne attratto da un dettaglio che aveva notato giorni prima. Il mobile con i quadretti, identici a quelli che c’erano a casa. Andò verso il mobile e vide che c’era un tastierino alfanumerico.
Un’altra stanza? pensò Sally.
Tornò verso la scrivania di Jason e aprì i cassetti, sempre con un occhio verso la porta. Se qualcuno l’avesse sorpresa a ficcare il naso nell’ufficio del capo, sarebbe stata buttata fuori. Carte, documenti, fascicoli. Tirò fuori alcuni di essi, li sfogliò rapidamente.
Rimise tutto a posto, rispettando l’ordine con il quale aveva estratto i fascicoli dai cassetti. Percorse con la mano il piano lucido in cristallo, sentì il fresco del vetro, la linearità e l’assenza di spigoli. Si sedette sulla poltrona di Jason e si diede una spinta per ruotare verso le vetrate che davano sul panorama grandioso di fronte a lei. Avrebbe voluto essere al suo posto, essere Jason anche se questo non sarebbe mai stato possibile.
Posò lo sguardo sulla base di una delle due piramidi in titanio che reggevano la scrivania. Guardò l’altra piramide e vide che le basi erano leggermente diverse, una più opaca l’altra più lucida. Si mise carponi sul pavimento e guardò con attenzione quella più lucida. Toccò la base e sentì che si muoveva. Tirò con un po’ di forza verso di sé e un cassettino sgusciò fuori. Dentro c’erano alcuni proiettili di piccolo calibro, una pistola minuscola e sotto alcune foto. Posò il contenuto del cassettino sulla scrivania, guardò con attenzione le foto. I figli di Jason quando erano piccoli. Sua moglie. In una di esse era ritratto un uomo con al fianco un ragazzino. Sally girò la foto, un appunto scritto a mano.
«Non dimenticarli.»
Sempre più perplessa continuò a sfogliare le foto, scene di vita quotidiana, un parco e una fontana. Arrivò all’ultima e rimase di sasso. Un ragazzino giaceva sul cofano di un camioncino bianco, a braccia aperte come crocifisso. Si poteva vedere la schiena martoriata e sanguinante, i pantaloni tirati giù fino alle caviglie. Il ragazzino aveva il viso diafano, sembrava quasi morto e aveva i tratti innocenti di un Jason giovane.
Girò la foto e quello che lesse la colpì come un maglio di ferro.
«Uccidili, appena puoi.»
In fondo al cassettino trovò un foglietto, con una preghiera. Non sapeva che Jason fosse religioso.
Lesse la preghiera: “Angelo di Dio che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me.” La preghiera le piacque e la imparò immediatamente, non l’aveva mai sentita prima ma le sue parole dolci e confortanti la toccarono nel suo intimo.
Sotto la preghiera c’era una frase che aveva già visto o sentito, ma non si ricordava dove.
Ex tenebris vita.
Poi vide una busta marrone, incuriosita la aprì.
Certificati di adozione dei figli di Jason e quelli di Stern? si chiese.
Era scritto nero su bianco, in un documento ufficiale datato 1998.
Rimise tutto a posto nel cassettino, esattamente come aveva trovato i documenti e le foto, non doveva lasciare traccia del suo aggio.
Guardò di nuovo verso l’angolo dello Studio, quei mobili esattamente identici a
quelli che aveva visto a casa di Jason. Un allarme silenzioso le squillò nella testa. Fece qualche o in avanti e si ritrovò di nuovo di fronte al tastierino alfanumerico. Lo fissò. Cominciò a inserire qualche parola e premere “invio.” Provò con i nomi dei figli di Jason. Li digitò in ordine inverso. Usò gli anagrammi.
Nulla, la porta rimaneva chiusa.
Poi si ricordò di quella frase.
La scrisse.
Ex tenebris vita.
E la porta si aprì.
Entrò nella stanza che si illuminò di una luce fioca, vide decine di monitor tutti spenti tranne quello centrale che riprendeva l’ufficio di Pamela. Sally lasciò vagare lo sguardo nella stanza, sulla scrivania c’erano delle foto. Ritraevano Jason con i figli, con Claudine. Una foto di Alain, il padre di Claudine, di cui aveva sentito parlare. E un’altra foto che non si sarebbe aspettata di trovare lì. Quella di Anna, sua sorella.
Sally rimase bloccata, le sembrò di trovarsi in un santuario e lo sguardo le cadde su un foglio appoggiato quasi per caso sulla scrivania.
Un nome: Ispettore McCloud e una sua foto affianco stampata probabilmente da Internet.
C’era anche un altro foglietto con scritto «Chiamare Mr H e indagare su McCloud. Rapporto completo su di lui, voglio sapere con chi ho a che fare. Organizzare preparativi per Frank e la carogna.»
Sally rimase interdetta, non capendo cosa significavano quegli appunti.
Chi è Mr H?
Chiuse la porta della stanza segreta e lasciò l’ufficio di corsa non prima di aver risistemato tutto nello stesso modo in cui lo aveva trovato, tornò verso la reception e all’improvviso le venne in mente quello che aveva visto la sera prima, in quella strana stanza piena di monitor a casa di Jason. Un’immagine fissa che riprendeva l’entrata dello Studio, esattamente nel punto in cui si trovava la reception dove lei sedeva tutte le mattine. Alzò lo sguardo verso il soffitto, sul momento le parve di non vedere nulla, poi vide una minuscola plafoniera bianca che sporgeva di qualche centimetro. Capì all’istante.
Una telecamera nascosta come ne aveva già viste a decine, in ogni angolo dello Studio. Nella stanza delle macchinette, negli uffici degli avvocati e degli associati, persino nei bagni. Le immagini scorrevano in sequenza velocissima, poté vedere tutte le telecamere a cui nessuno poteva prestare attenzione, nascoste e mimetizzate com’erano.
Dio mio siamo tutti sotto controllo, pensò Sally.
Stern e Markus facevano colazione assieme in un locale davanti al Tribunale, in attesa dell’udienza con il giudice Schmit.
“Oggi Randy lo facciamo secco”, disse Markus continuando a voltarsi per seguire con lo sguardo le giovani cameriere.
“È strano che proprio oggi Jason abbia scelto di andare a San Francisco. Che cosa aveva da fare laggiù più importante della nostra class action?”
“Non ne ho proprio idea, speravo che me lo dicessi tu.”
“Temo di saperne meno di te.” Adesso andiamo, è ora di catturare il merlo.”
“Gentili avvocati, grazie per essere convenuti nella mia umile dimora”, disse il giudice Schmit sorridendo affabilmente a Randy che sedeva nei banchi della difesa, e a Stern e Markus in quelli dell’accusa.
“Questa convocazione è alquanto insolita, ho ricevuto una precisa richiesta dall’accusa rappresentata dallo Studio Davis Baker & Reynolds di cui ho dato immediata notifica all’avvocato Randy Stewart, legale rappresentante della Brown Motor Company e in subordine della Power Tyre/Drexel.”
Randy si accomodò sulla sedia visibilmente soddisfatto pensando all’imminente trionfo. Le informazioni ricevute da Kurt erano precise e questa convocazione era sicuramente dovuta al fatto che la accusa avrebbe cercato un accordo
stragiudiziale. Non glielo avrebbe mai concesso, avrebbe costretto l’accusa a giocare tutte le sue carte, a dire che i loro clienti si erano ridotti, e di molto. Nello stesso tempo Randy era pronto ad andare a processo isolando un caso, uno solo, nello stato della California. Già si immaginava trionfante e carico di denaro come mai lo era stato in tutta la sua vita.
“Come la difesa sicuramente ricorda, l’accusa ha basato la propria class action su milleduecento convenuti, molti dei quali rappresentanti persone decedute a seguito degli evidenti danni riportati sugli pneumatici Power Tyre/Drexel montati sui veicoli Brown Galaxy, cosa che peraltro è ancora da dimostrare.”
Ancora da dimostrare? pensò Randy improvvisamente allarmato.
“Sarò particolarmente felice di accogliere l’istanza dello Studio Davis Baker & Reynolds presentata ieri presso la mia cancelleria.”
Cosa sta dicendo?
“Pertanto, accetto la richiesta dello studio Davis Baker & Reynolds di aggiungere ulteriori quindicimila centoquarantuno convenuti”, disse il giudice Schmit.
“Prego?”, esclamò Randy che era sbiancato all’improvviso.
“Avvocato Stewart, ha capito bene”, disse il giudice Schmit guardando di sottecchi Markus e Stern che facevano fatica a mantenere un’espressione
distaccata.
“Ma, giudice, significa che ci sono quindicimila convenuti in più?”, chiese Randy balbettando e sputando grosse gocce di saliva sul tavolo. Era solo quella mattina, non aveva voluto con sé la sua schiera di avvocati perché voleva prendersi tutto il merito.
“Significa che ci sono più di quindicimila persone che chiedono giustizia, sempre che veniate ritenuti colpevoli”, disse il giudice.
“Ma giudice, siamo ormai fuori dai tempi massimi, voglio dire...”
“Devo forse ricordarle che l’udienza preliminare è stata il 3 ottobre di quest’anno e che all’accusa sono stati concessi sessanta giorni di tempo per presentare tutta la documentazione?”, chiese il giudice sottolineando il “tutta.”
“Obiezione”, disse Randy.
“Obiezione a cosa?”, chiese il giudice severamente.
“No ecco. Non volevo dire obiezione vostro onore.”
“Allora cosa voleva dire?”
“Volevo solo dire, che... insomma, gradirei un rinvio del processo, intendo.”
“E su quali basi, avvocato Stewart?”
Sono finito pensò Randy.
“Vostro onore, la difesa non è stata preventivamente informata di questi nuovi quindicimila casi e pertanto chiedo formalmente che vengano archiviati. Chiedo l’annullamento formale del processo”, disse Randy giocandosi l’ultima carta.
“Avvocato Stewart, glielo ripeto nel caso non l’abbia capito. Vada a rileggersi la mia memoria del 3 ottobre 2000 e vedrà che ho dato espressamente giudizio favorevole che ulteriori nuovi convenuti potessero presentarsi entro sessanta giorni. E siccome siamo solo al 26 ottobre e sono ati solo ventitre giorni, la pregherei di sedersi e stare zitto”, disse il giudice.
“Avete altre domande?” chiese Schmit fissando prima l’accusa e poi piantando gli occhi nelle pupille di Randy. “Bene, allora l’udienza è aggiornata”, disse girandosi per nascondere il sorriso. Le parti si alzarono e il giudice uscì dall’aula.
Randy si piegò sul tavolo della difesa, prese alcuni fascicoli e li rimise nella borsa.
E adesso cosa dico alla Brown? pensò quasi con le lacrime agli occhi.
“Dai, Randy, non essere così abbattuto. Sono cose che succedono nelle class action”, disse Markus dandogli una pacca sulla spalla.
“Vaffanculo, okay?”
Markus scoppiò a ridere.
“Aspetta fammi fare due conti. Per milleduecento convenuti ci avete offerto trecento milioni per chiudere con un accordo stragiudiziale. Adesso che i convenuti sono dieci volte tanto, quanto ci offrirete?”, chiese continuando a ridere.
“Non avete ancora vinto”, disse Randy.
“Peccato che Jason non sia qui oggi, penso che si sarebbe dilungato anche sul tuo amico Kurt”, disse Markus facendo l’occhiolino a Randy.
“Che c’entra Kurt?”, chiese Randy con un filo di panico nella voce.
Stern prese dalla sua borsa un fascio di fogli e li gettò sul banco di Randy.
“Cosa sono?”, chiese Randy prendendone uno a caso.
“Scegli tu. E-mail, fax, intercettazioni telefoniche, tra te e Kurt. Tutto materiale che potremmo consegnare all’ordine degli Avvocati. Cosa ne dici Markus?”, chiese Stern.
“Mah, preferirei vedere Randy scannato da noi piuttosto che radiato dall’Albo. Dai c’è una buona notizia. Non ti denunceremo, non vogliamo la tua radiazione. Ma il tuo scalpo lo vogliamo per intero”, disse Markus dando un’altra pacca sulla spalla a Randy.
“Credo sia tutto, possiamo andare. Buona fortuna Randy”, disse Stern uscendo con Markus dall’aula, mentre Randy rimase lì a raccogliere il fascio di fogli e, guardandoli uno a uno, capì di essere davvero finito.
“Kurt puoi venire nel mio ufficio per cortesia”, disse Pamela all’interfono.
“Arrivo”, disse lui pimpante. Stava pensando all’udienza che in quel momento era in corso in Tribunale, non vedeva l’ora di sapere le ultime novità. Sicuramente lo Studio aveva presentato istanza per annullare la class action e la barca a vela con qualche milione di dollari ben custodito nella stiva ormai era più che una realtà.
Immediatamente dopo Pamela chiamò Sally e le disse di mandare due agenti della sicurezza nel suo ufficio.
Kurt percorse il lungo corridoio che lo separava dall’ufficio di Pamela e vide che dall’altra parte arrivavano i due uomini incaricati della sicurezza. Entrò con o spedito nell’ufficio e si sedette.
“Non mi pare di averti detto che ti potevi accomodare”, disse lei gelida guardandolo di traverso.
La solita stronza, ma tanto ormai chi se ne frega, vaffanculo a lei e a questo studio, pensò Kurt alzandosi dalla sedia e rimanendo in piedi, con la coda dell’occhio scorse i due uomini appoggiati allo stipite della porta.
“Sempre di buon umore tu”, rispose Kurt cercando di pungerla sul vivo.
Pamela lo squadrò per un istante e ripeté lo stesso gesto che poco prima Markus aveva fatto a Randy in Tribunale. Una pioggia di fogli attraversò la scrivania di Pamela finendo addosso a Kurt.
“Sei fuori di testa?”, chiese attonito.
“Leggi un foglio a caso”, disse Pamela con il ghiaccio nella voce.
Kurt prese in mano quello che sembrava il testo di una e-mail.
Poi prese un altro foglio. Continuò a are in rassegna la montagna di carta che Pamela gli aveva lanciato. Chiuse gli occhi per un istante, cercando di valutare le conseguenze.
“Sei licenziato con effetto immediato, Kurt”, disse Pamela mentre un sorriso compariva sulle sue labbra.
“Aspetta, non è come pensi.”
“Io non penso nulla, Kurt. Ci hai venduto alla Brown. Ma noi siamo stati più furbi di te, ti abbiamo trasmesso informazioni false, abilmente confezionate da Jason e che tu hai mandato a Randy. Che in questo preciso momento sta per essere scannato.”
No non può essere vero, sta bluffando pensò in un istante.
“Me ne vado, Pamela. Non potete farmi nulla. Tutte queste intercettazioni, sempre che riusciate a dimostrare che dipendano da me, non verranno mai prese in considerazione da nessuna aula di Tribunale del mondo. Sai bene quanto me che non valgono un cent bucato.”
“Lo credi davvero Kurt? Sappi che alcune di queste intercettazioni che non valgono un cent bucato, come le chiami tu, provengono direttamente dal tuo computer dello Studio. È registrata l’ora di transito, il mittente, il destinatario, il codice IP. Kurt, questo è materiale probatorio che ti inchioderà al muro. Ti basta?”
E se Pamela avesse detto la verità? Informazioni false? No non è possibile, continuò a pensare Kurt spavaldo.
“Hai trenta minuti per raccogliere le tue cose e lasciare l’ufficio”, disse Pamela facendo un cenno ai due uomini della sicurezza che avanzarono nell’ufficio.
“Per cortesia assicuratevi che l’impiegato non prenda nulla con sé a parte gli oggetti personali”, disse Pamela gelida, voltandosi e rimettendosi al computer.
“Non saresti nessuno senza l’appoggio di Jason”, disse Kurt sprezzante. “E, sappi un’altra cosa: vi schiacceremo”, concluse Kurt ormai già sulla soglia dell’ufficio con i due colossi al suo fianco.
“Ne sei proprio sicuro?”, chiese Pamela con un sogghigno.
42
Kurt raccolse in fretta i suoi oggetti personali, per un attimo rimase sorpreso da quanti pochi fossero. Non c’erano fotografie o cornici. Solo il diploma di laurea, le specializzazioni e le abilitazioni, oltre a un paio di tazze che usava per lo più come porta matite.
Mise tutto in uno scatolone di cartone, trasse un profondo respiro e uscì dal suo ufficio.
La notizia si era già diffusa in un battibaleno e gli avvocati e gli associati si sporgevano dai loro uffici e dai cubicoli per guardare in faccia il traditore che se ne andava. Kurt chinò per un attimo la testa sentendo il disprezzo dei colleghi che gli si attaccava come colla ai vestiti. Non era una sensazione nuova, già altre volte in gioventù l’aveva provata. Non tanto come una forma di disprezzo, quanto come una indifferenza neanche troppo velata.
Varcò la soglia del palazzo di Liberty Street senza degnarsi di salutare Mitch, il portiere. I due uomini della sicurezza aspettarono che fosse uscito dallo stabile per poi dileguarsi all’interno di esso.
Kurt rimase in piedi sul marciapiede, la gente gli ava accanto, qualcuno lo guardava con un misto di comione.
Si incamminò a o lento per Liberty Street, all’improvviso si rianimò.
Liberty Street, la strada della libertà, pensò.
Poteva chiamare Randy, informarsi di come era finita l’udienza in Tribunale ma poi cambiò idea. Non doveva mostrare troppa fretta. Avrebbe dovuto aspettare, ancora per un poco.
Si immise nella strada che lo portava a casa sua, ancora pochi giorni e poi avrebbe potuto finalmente lasciarla.
All’improvvisò squillò il telefono, aveva le mani occupate e appoggiò lo scatolone per terra, prese l’auricolare e lo fissò all’orecchio. Poi riafferrò lo scatolone e ricominciò a camminare.
“Pronto?”
“Oh, il nostro eroe. Fremevo dalla voglia di parlare con te. È un piacere sentirti, soprattutto dopo aver parlato al telefono per un’ora con quelli della Brown.”
“Li vedo come se li avesse davanti. Dei vermi che strisciano per terra.”
“Di vermi ce ne sono parecchi stamattina.”
“o in ufficio da te nel pomeriggio. Pranziamo assieme?”, esclamò Kurt.
“E cosa ci mangiamo? Una zuppa di lenticchie scotta?”
“Dobbiamo festeggiare, suppongo che lo Studio di Jason abbia ritirato la causa, con tutte le informazioni che vi ho dato.”
“Ah, le informazioni dici tu. Interessanti quelle informazioni.”
Kurt avvertì che c’era qualcosa che non andava nel tono di Randy.
Forse voleva abbassare il suo compenso? No, non avrebbe mai ceduto.
“Dove sei? Ti o a prendere.”
“Sono nel mio ufficio, e mi sto scolando il quarto bicchiere di scotch in venti minuti.”
“Aspetta Randy, mi puoi dire per favore cosa succede?”, chiese Kurt.
“Succede che ce l’hanno messo nel culo, amico mio.”
“Come sarebbe a dire? Jason aveva già deciso di uscire dalla causa...”, Kurt si bloccò mentre disse questa frase, ripensò a quello che gli aveva detto Pamela.
Abbiamo confezionato delle informazioni false.
All’improvviso lo scatolone decuplicò di peso, gli sembrava di portare un masso di duecento chili. Si fermò e lo appoggiò nuovamente per terra.
“Uscire dalla causa, dici? Jason e il suo staff hanno aumentato di oltre dieci volte la posta. I convenuti non sono più milleduecento, ma oltre sedicimila”, disse Randy tutto di un fiato.
Kurt rimase paralizzato.
“Come hai detto?”, chiese con un filo di voce.
“Hai capito bene. Hanno calato l’asso, anzi la mazza e noi affonderemo.”
“Ci deve essere un errore, non è possibile”, disse Kurt.
“Nessun errore, hanno portato altre quindicimila deposizioni. Siamo rovinati. Affonderemo tutti e tu sei il primo. Se posso darti un consiglio, sparisci dalla città per qualche mese, anzi non farci nemmeno più ritorno. Per il tuo bene”, disse Randy.
“Ma... ma i miei soldi?”, chiese Kurt balbettando.
“Te li puoi anche infilare nel culo, razza di idiota che non sei altro”, gridò Randy nel telefono e chiuse la comunicazione.
Kurt rimase sul marciapiede, ai suoi piedi lo scatolone di una vita ata nel vuoto, davanti a sé il futuro di una vita il cui orrore non sapeva ancora immaginare nei dettagli. Afferrò lo scatolone con entrambe le mani e si mise a correre a perdifiato, entrò nel suo palazzo e percorse a piedi le scale fino ad arrivare a casa.
Buttò lo scatolone facendolo volare per il soggiorno e nella sua traiettoria travolse e distrusse alcuni soprammobili in cristallo.
Si rannicchiò in un angolo della cucina e cominciò a piangere.
Dopo un tempo indefinito si alzò, vagò per la casa per qualche minuto. Il cervello completamente spento. Con uno sforzo ripensò alle ultime settimane, il senso di riscatto che stava cominciando a provare, in parte dovuto anche a Sally che sembrava si stesse innamorando di lui e a cui Kurt incominciava a tenere molto. Poi ò davanti alla sua mente uno dei fogli che Pamela gli aveva scaraventato addosso, una e-mail indirizzata a Kurt la sera stessa che era uscito con Sally a cena, la prima sera che avevano fatto l’amore.
È stata lei a mandare a Pamela quella e-mail, pensò mentre si sentì oppresso da un dolore al petto.
Si ò una mano sui capelli, sulla faccia. Si guardò intorno e non vide nulla di
familiare. Aprì la porta finestra che dava sul piccolo terrazzino, si sporse giù, il suolo sembrava così facile da raggiungere. Un colpo di vento lo fece rabbrividire, rientrò in casa sempre più stordito, sempre più stanco. Il dolore al petto aumentò, il senso di oppressione sembrava schiacciarlo, incominciò a respirare a fatica.
Andò in bagno e prese in modo automatico alcune scatole di sonniferi che gli erano serviti alcune settimane prima. Aveva fatto una scorta di farmaci per dormire. Andò in camera, ammucchiò tutte le compresse sul letto, poi prese una bottiglia di vodka e cominciò a trangugiare le pastiglie, una a una. Il mondo cominciò a ruotare sempre più velocemente.
Si sdraiò sul letto, chiuse gli occhi. Si rivide bambino in un campo da baseball con suo papà.
Poi la scena cambiò, vide una barca a vela che se ne andava nel buio della notte e spariva oltre l’orizzonte.
San Francisco, 26 ottobre 2000
43
Il taxi lasciò Jason di fronte alla stazione di polizia di Oakland Bridge, scese rabbrividendo per il vento gelido che soffiava dalla baia.
Per tutta la vita aveva evitato ogni contatto con le autorità di pubblica sicurezza. E invece, nel giro di due giorni, si trovava proiettato dall’altro lato degli Stati Uniti dove spesso era venuto per motivi di lavoro. Per dei processi, per agganciare un cliente, per una conferenza.
“Lei resti qui, mi attenda in quel bar. È meglio che vada dentro da solo e sentire cosa vogliono.”
“Sì signore”, disse Mr H girandosi come un soldato e attraversando la strada con due rapide occhiate, una a sinistra e una a destra per assicurarsi di avere strada libera. Movimenti ridotti al minimo, parole pronunciate solo se necessario.
Jason entrò nella stazione di polizia.
“Buongiorno sergente, mi chiamo Jason Davis e ho un appuntamento con l’ispettore Helmut McCloud alle dieci”, disse Jason guardando l’orologio e constatando che era perfettamente in orario.
Il sergente annuì, sollevò un telefono e compose un numero interno, parlò brevemente poi riappese.
“Prego signor Davis, venga con me.”
Il sergente lo accompagnò nei meandri della stazione di polizia, superò la piccola scrivania dove Jason vide il nome Helmut McCloud su una targhetta.
Uscirono dall’open space ed entrarono in uno stretto corridoio superando un paio di porte chiuse. Il sergente si fermò di fronte a una porta, batté con le nocche e senza aspettare il permesso aprì la porta ed entrò.
“Signore, c’è qui l’avvocato Davis.”
“Grazie, vada pure”, rispose McCloud e, alzandosi dalla scrivania, andò verso Jason che gli strinse la mano.
“Ha fatto buon viaggio, avvocato? Le linee aeree sono sempre congestionate al mattino.”
“Ottimo viaggio, ispettore. Ma sono venuto con mezzi miei.”
“Dunque avvocato Davis, per farle un riassunto della situazione. Il suo assistito...”
“Non è il mio assistito.”
“Quando ci siamo parlati al telefono lei aveva detto che intendeva assumere la difesa di Frank Molton.”
“No, ho solo detto che era una possibilità. Essendo un processo per direttissima, sono venuto qui con l’unico scopo di far fissare dal giudice una cauzione nella stessa giornata di oggi e poi conferire l’incarico della difesa a un altro avvocato penalista. Come lei ben sa, io lavoro nell’ambito civile e non ho nessuna intenzione di mettere le mani in stupri, percosse, violenze e quant’altro.”
“La richiesta di cauzione è già sul tavolo del giudice secondo le procedure standard, tra un’ora massimo due penso che ne sapremo qualcosa di più. Detto fra noi, spero che gli venga negata.”
Che accidenti è venuto a fare fino a qui? si chiese Helmut.
“Bene, come mai è venuto fino a qui?”
“Sono qui per vedere l’accusato e per dirgli un paio di cose, dopo di che tornerò alla mia vita. Le basta come risposta?”
“Direi di sì. C’è qualche rapporto che lega lei all’imputato? Magari un rapporto di parentela, o di amicizia”, chiese Helmut sondando il terreno. L’istinto di poliziotto gli stava dicendo che c’era qualcosa che non quadrava.
“Mi spiace ma non posso risponderle. Ora sono io che le faccio una domanda”,
disse Jason rilassandosi sulla scomoda sedia di legno.
“Chieda pure avvocato.”
“Possiamo infrangere la legge e fumarci due sigari in santa pace?”
Helmut scoppiò a ridere, indicò i cartelli e poi disse: “La polizia deve far rispettare le leggi, ma gli ispettori hanno qualche vantaggio e possono infrangerle, se questo non lede la libertà altrui.”
Jason sorrise e immediatamente trovò simpatico l’ispettore, tirò fuori dal taschino della sua giacca il contenitore dei sigari, già accuratamente scelti e preparati. Li annusò uno a uno e poi diede a Helmut quello che riteneva fosse il migliore.
Parlarono per quasi un’ora delle rispettive vite, Jason si sorprese di sentirsi tanto rilassato in compagnia di Helmut. Era un uomo che ascoltava molto e si mostrava interessato. Nel corso della conversazione, Helmut aveva detto che per un certo periodo di tempo aveva prestato servizio sulla costa Est degli Stati Uniti, senza precisare il luogo.
“Ero appena entrato nella polizia, ero così fiero. Gesù, quante ne ho viste, a un certo punto ho pensato di mollare tutto e dedicarmi ad altro. Sa è stato un pensiero d’impulso, un caso che...”
“Che?”
“Uno di quei casi che non ti fanno dormire la notte, uno di quei casi che purtroppo rimangono irrisolti. Per sempre.”
“Ma poi è andato avanti.”
“Vede quella del poliziotto è una vita piena di sacrifici, dedita agli altri. Una specie di missione. Forse come la sua, avvocato.”
All’improvviso il telefono sulla scrivania di Helmut suonò.
“Ispettore McCloud.”
Jason non poté sentire cosa veniva detto dall’altra parte del filo, scrutò attentamente il viso dell’ispettore.
“È impossibile, ma chi è il giudice?”
Jason continuò a fumare il sigaro sempre più rilassato, era a un o dalla vittoria.
“Maledetta città, sempre garantista”, sbraitò Helmut al telefono per riappendere con forza il ricevitore alla forcella.
“Il giudice ha fissato la cauzione per quel disgraziato.”
“Quanto?”
“Centomila dollari, con l’obbligo di firma ogni 24 ore.”
Jason rimase imibile, nella sua mente stava già preparando le mosse successive.
“Mi accompagna lei all’ufficio per la custodia cautelare?”
“La farò accompagnare da un mio agente, avvocato Davis. Io ho del lavoro da sbrigare, le chiedo scusa.”
“Nessun problema”, disse Jason e i due si strinsero la mano mentre Helmut gridò per richiamare l’attenzione di un poliziotto.
“Accompagna l’avvocato Davis all’ufficio per la custodia cautelare.”
“Sì signore, prego avvocato da questa parte.”
Jason uscì dall’ufficio di Helmut, lo guardò in viso e poté vedere la rabbia e la frustrazione di un poliziotto che fa il suo dovere, che assicura i criminali alla giustizia e poi qualche giudice li rimette in libertà.
“Grazie Ispettore McCloud, mi ha fatto piacere conoscerla.”
“Grazie a lei avvocato Davis.”
Jason uscì dalla centrale di polizia e salì su una macchina civile, al volante si sedette il poliziotto. Prese il cellulare dal taschino della giacca, compose un numero e parlò a voce bassa, con la mano premuta contro il microfono. Disse al poliziotto che dovevano prendere a bordo un’altra persona, Mr H, che uscì a o svelto dal bar e salì sulla vettura della polizia.
In pochi minuti furono all’ufficio della custodia cautelare, Mr H firmò un assegno e diede la sua garanzia che l’accusato sarebbe rimasto sotto il suo controllo.
“Tu guarda che casino. Dammi una mano, non stare lì a guardare.”
“Te l’ho già data una mano, e non ho ancora sentito un grazie.”
Frank scoppiò a ridere, prese un coltello da terra e se lo ò sulla gola, sulle braccia, sul petto, sfiorando la pelle con la lama.
“È quello che facevo a quella troia di Suzanne. Le avo il coltello sul suo corpo nudo dopo essermela scopata per ore. A quella puttanella piaceva farsi trattare male, mi implorava di picchiarla. Le puntavo il coltello proprio qui”, disse Frank appoggiando la lama sulla carotide di Jason.
Mr H fece uno scatto in avanti, subito fermato da un cenno della mano di Jason.
Jason rimase immobile, sentendo che la giugulare premeva contro l’acciaio affilato. Sarebbe bastato un solo movimento falso, e probabilmente Frank gli avrebbe tagliato la gola.
Un colpo secco alla porta interruppe il monologo di Frank, entrambi si voltarono. Un uomo alto quasi un metro e novanta e con le spalle larghe si stagliò sulla soglia.
Rimasero tutti e tre in silenzio, immobili. Frank abbassò il coltello, lo mise in tasca.
“Dopo tanti anni la famiglia è finalmente riunita”, esclamò il vecchio con una voce profonda.
“Non mi pare ci sia una famiglia qui”, disse Jason facendo un o in avanti verso il vecchio che continuava a rimanere fermo. “Non mi pare ci sia mai stata.”
“Ma come, non ti ricordi i vecchi bei tempi”, chiese il vecchio quasi sorpreso.
“No”, disse Jason ora facendo altri due i e trovandosi a pochi centimetri dal vecchio. Poteva sentire il puzzo di tabacco e di sudore, quasi ristagnante nell’aria già contaminata.
“No?”, chiese il patrigno avvicinando il viso a Jason.
“Vecchio di merda”, disse Jason ponendo una mano sul viso di Anthony e stringendo forte. Si aspettava una reazione, voleva che reagisse per tempestarlo di pugni e di calci fino a farlo implorare pietà.
Ma Anthony intuì la trappola e rimase fermo, ben saldo sulle sue gambe.
Frank si portò vicino al padre, spalla contro spalla come sempre uniti. All’improvviso il tappo saltò per aria, come spinto da un enorme pressione.
Fece scattare entrambe le mani sul collo di Frank e di Anthony.
Serrò ancora più forte la presa, tanto che i due guardarono inorriditi Jason.
“Questa è l’ultima volta che ci vediamo. C’è un conto in una banca del Costa Rica. Mezzo milione di dollari, dovrebbero essere abbastanza per due merde come voi. Non voglio mai più rivedervi né sentirvi”, disse Jason.
Abbassò di botto le mani, estrasse dalla tasca del suo impermeabile un biglietto di cartone bianco, lo lanciò in faccia al vecchio.
“Lì c’è l’indirizzo e il numero di telefono di una persona in Costa Rica che vi darà le coordinate bancarie e le istruzioni per prelevare i soldi. Una volta che li avrete prelevati, verrò chiamato e informato da questo signore che è nella stanza con noi. Da questo momento avrete alle costole un uomo, lui. Sono stato chiaro?”, disse.
“Signori prego. Preparate i vostri bagagli, entro tre ore dobbiamo essere all’aeroporto.”
“Dove andiamo? Subito in Costa Rica?”, chiese Frank.
“Nessuna domanda”, rispose Mr H mentre Jason usciva dalla fatiscente casa, risalendo sul taxi.
Frank andò nella sua stanza devastata dalla perquisizione della polizia, prese una valigia e mise dentro effetti personali, biancheria, qualche cambio di vestiti. Si sentiva al settimo cielo. Tra poco avrebbe avuto mezzo milione di dollari, si sarebbe comprato vestiti eleganti e macchine potenti. Era finita la vita del barbone senza mai il becco di un quattrino.
Il suo sguardo venne attirato dal Taser, un marchingegno che sputa ventimila volt e stordisce per qualche minuto.
Gli balenò in mente un’idea. Folle.
Tornò nel piccolo soggiorno, Mr H era in piedi e lo squadrava. Frank gli ò accanto con disinvoltura, in un istante estrasse il Taser e lo scaricò su Mr H, lasciandolo tramortito a terra. Poi afferrò il vecchio per un braccio e uscì di corsa dalla casa.
San Francisco e New York, 26 ottobre 2000
44
L’Hawker aveva rullato fino all’inizio della pista e si era messo in attesa. Jason era seduto al suo solito posto, quello preferito, a sinistra rispetto alla cabina di pilotaggio.
Il telefono satellitare squillò dopo qualche decina di minuti, Jason prese la cornetta e rispose direttamente.
“Avvocato Davis, mi scusi se la disturbo”, disse Mr H con un tono di voce che non era il suo, molto più basso e incerto del normale.
Jason capì al volo che era successo qualcosa, non era mai capitato che Mr H gli telefonasse in aereo, per di più solo un’ora dopo essersi lasciati. “Devo segnalare un incidente di incresciosa gravità e mai capitato prima. Sono stato sorpreso da Frank che mi ha stordito con una pistola ad alto voltaggio, quando ho ripreso i sensi l’imputato e il padre erano già fuggiti. Non capisco il senso di questa fuga, era già stato promesso loro una destinazione sicura e i mezzi finanziari per mantenersi.”
Jason rimase zitto con la cornetta in mano.
Non è possibile pensò.
“Credo sia stata una fuga dettata da un attimo di panico, dalla follia dei due
Molton. In ogni caso ho già radunato la nostra squadra di emergenza e siamo sulle loro tracce, abbiamo scoperto che sono fuggiti con la Corvette dell’imputato e che hanno poi noleggiato una macchina usando carte di credito false. Al momento ignoriamo la destinazione o dove possono essere nascosti, credo che questa fuga rappresenti una sfida alla sua persona, avvocato, e sono sicuro che ben presto li cattureremo.”
“Sono deluso”, disse Jason semplicemente guardando fuori dall’oblò mentre il jet lasciava velocemente la costa del Pacifico.
“Lo posso immaginare avvocato e me ne dispiace. Ma li cattureremo molto presto.”
“Lo spero bene”, disse Jason appoggiando la cornetta e interrompendo la comunicazione senza salutare.
“Mi versa uno scotch doppio, Jenny?”
La hostess ubbidì con prontezza e gli porse il bicchiere di whisky affogato in un mare di ghiaccio.
Dopo una decina di minuti chiese un altro doppio scotch e la testa cominciò a girargli.
Si alzò dopo qualche minuto, barcollante e reggendosi in piedi a stento.
Prese il telefono e compose il numero dello Studio, rispose Sally e le chiese di far qualche indagine su McCloud. La ragazza rispose che avrebbe compilato un dossier, e ancora si domandò cosa importava quella persona. McCloud.
Se Jason fosse stato lucido, non avrebbe fatto quello sbaglio e avrebbe indirizzato a Pamela la richiesta, ma il mondo gli girava intorno vorticosamente. Non riusciva a pensare lucidamente.
Si addormentò e al suo risveglio l’aereo era già fermo a motori spenti e il portello aperto. Una folata di aria fresca lo svegliò del tutto.
E fu fuori, sulla pista appena bagnata da una leggera pioggia autunnale.
Salì sulla Aston Martin blu notte, accese il CD. Dalle casse nascoste e disseminate per tutto l’abitacolo fuoriuscì una delle sue canzoni preferite.
Over and Over, Morcheeba.
Running through my life right now I don’t regret a thing, things you do just make me laugh and make me wanna drink.
Oltreò il cancello del terminal privato e si immise sul lungo viale che costeggiava il Newark. Un 747 ò sulla sua testa oscurando del tutto il rumore della sua Aston.
Jason spinse tutto il gas e la macchina sbandò paurosamente.
I’d like to meet a mad man, who makes all so sane. To walk out these troubles and what there is to gain, I’m falling...
Gli rimbalzarono alla mente le immagini di mille umiliazioni, di soprusi e di violenze, di sconfitte e di paura, di puzza di sudore e di alito e di alcool.
Premette ancora più a fondo il pedale del gas.
I’m falling, over and over and over again now, calling over and over again now.
Non poteva più vivere con quel peso dentro, quella sensazione di continua paura, di continuo terrore, puro terrore irrazionale di perdere tutto da un giorno all’altro.
Projecting what I want is always hard to know, when it comes between us let the damage show.
Accese gli abbaglianti e illuminò la strada bagnata, il nastro d’asfalto divenne grigio chiaro, il mondo si rischiarò per un attimo. Innestò la quinta. Vide un muro davanti a sé, forse un chilometro più avanti e spinse ancora più a fondo il pedale del gas, aveva abbondantemente superato i 240 chilometri all’ora.
I’d like to meet a space man, who’s gotta going on. Sailing through these stars
until our world is gone.
Il muro si avvicinò a velocità pazzesca, Jason azionò il tasto sul volante che ripristinava i controlli di trazione automatici e l’assetto della vettura. Spinse a fondo il pedale del freno e la macchina si acquattò come un felino sull’asfalto, perdendo rapidamente velocità, fino a quando fu fermo.
I’m falling...
Jason scese e vomitò tutti i whisky che aveva bevuto. Risalì in macchina imponendosi di calmarsi. Cominciò a tremare, prese una bottiglietta d’acqua alloggiata tra i sedili anteriori e bevve qualche sorso sciacquando via il sapore amaro e acre del vomito. Tirò fuori dalla tasca della giacca una pastiglia e la mise in bocca ingollandola con un sorso d’acqua, parcheggiò sul lato della strada e chiuse gli occhi.
Mentre il mondo, lentamente, si dissolveva.
Montclair, 26 ottobre 2000
45
“Come è andata il viaggio?”, chiese Claudine buttando le braccia al collo di suo marito e dandogli un lungo bacio sulle labbra.
“Ora che sono tornato, molto meglio.”
“Mi sei mancato, tesoro.”
Jason guardò Claudine negli occhi, era innamorato di lei come il primo giorno che l’aveva conosciuta. La sua vita non sarebbe stata nulla senza di lei, senza l’amore che riusciva a dargli. Gli aveva dato due figli e una serenità interiore che non aveva mai conosciuto nella sua giovinezza.
“Come è andato l’incontro con Frank e il tuo patrigno?”
“Insomma, avrei preferito non incontrarli ma spero davvero che questa sia l’ultima volta. Gli ho dato un biglietto di sola andata per il Centro America, non voglio più sentire parlare di loro. Hanno già combinato abbastanza casini nella mia vita.”
“Lo so.”
“Maledetti cani, avresti dovuto vederli quando gli ho sventolato sotto il naso qualche dollaro. Sbavavano come bestie assetate di sangue.”
“Ora è finita, come hai detto tu sono usciti dalla tua vita. Per sempre.”
Jason volle credere a questa frase.
“Anche tu amore mio”, sussurrò nell’orecchio di Claudine.
“Anche io cosa?”
“Anche tu mi sei mancata oggi.”
Jason vide un’ombra arrivare dal nulla, entrare nel suo cono visivo e si staccò dalla moglie andando incontro alla figura ben conosciuta.
“Alain, sei arrivato.”
“Sì, vecchio mio, stamattina alle 8. Ma mi fermo qui solo per una notte, domani riparto per Washington per una serie di conferenze. Mi sembri stanco Jason.”
“Sì, abbastanza, ho percorso diecimila chilometri oggi e fatto dodici ore di volo, in una sola giornata.”
“Il denaro non dorme mai, eh?”
“Oh no, qui non era una questione di denaro”, disse Jason ripensando ai seicentomila dollari che gli era costata quella giornata, ma sorridendo in cuor suo. Soldi ben spesi. Anche se non aveva previsto la fuga, sapeva che Mr H li avrebbe ritrovati in fretta.
“Ah allora non cercherò di violare il segreto professionale estorcendoti informazioni confidenziali.”
“Acqua in bocca, come sempre”, cercò di scherzare Jason.
“Cosa ne dite voi uomini di concedervi un brandy e un sigaro prima di andare a dormire?”
Alain e Jason andarono in un salottino, Jason accese le luci. L’atmosfera calda dei faretti illuminò l’ambiente con discrezione, era la sua stanza preferita con il profumo del legno dei mobili, il profumo della carta di antichi volumi appoggiati sapientemente su alcuni tavolini. Un quadro appeso a una parete pareva rompere l’atmosfera quasi da montagna, un’esplosione di colori che illuminava l’intera stanza.
Alain si fece vicino al quadro, intitolato “forme e colori.”
“Adoro questo quadro, è così vivo. E poi i colori, sono fantastici, sembra quasi
che si illuminino di vita propria, che emanino luce propria, un po’ come le stelle”, disse Alain in un sussurro ammirando il Picasso.
“Va tutto bene Jason?”
“Va come deve andare in un universo perfetto.”
“Guarda che qui non siamo a Stoccolma”, disse Alain riferendosi alla fantastica serata di tre anni prima, quando gli fu conferito il Premio Nobel per la Fisica per i suoi studi sul buco dell’ozono e sugli effetti del riscaldamento globale, fenomeni che studiava dagli anni ’70 quando ancora nessuno sapeva cosa fosse l’ozono.
“Ho dovuto saldare i conti con il ato”, disse Jason lasciandosi andare sulla poltrona e rilassando il corpo con il respiro. Di botto, gli piovve addosso tutta la stanchezza e la tensione accumulata durante la giornata.
“Qualcosa di cui vuoi parlare?”
“Non lo so, Alain. Dovrei essere felice, sono il protagonista della più importante causa della mia carriera, eppure il ato è tornato e ha annullato tutto.”
“Il tempo non esiste, Jason. Siamo noi a dargli forza con i nostri pensieri, le nostre paure e convinzioni. Siamo noi che facciamo vivere il ato nel nostro presente e impediamo che il presente si dispieghi e diventi il nostro futuro.”
“Sì lo so questo, è che... Ho paura”, disse Jason aprendo gli occhi e appoggiando il bicchiere di brandy. Ho paura di perdere tutto. Claudine, i miei figli, la vita che mi sono costruito.”
“Non perderai nulla di tutto questo. È il peso del ato che ritorna, quello da cui hai avuto la forza di uscire. È quel peso, impalpabile e invisibile, che ti fa vivere il presente in modo distorto.”
Jason chiuse gli occhi, recitò mentalmente la sua preghiera.
Angelo di Dio, che sei il mio custode. Illumina, custodisci, reggi e governa me.
Si alzò dalla poltrona, prese un cd e lo inserì nel lettore, tornò a sedersi e chiuse gli occhi. Qualche secondo dopo, le note immortali di My Way di Frank Sinatra invasero la stanza. Un uomo che percorre la propria strada fino alla fine, senza rimpianti e senza guardarsi indietro. Un uomo che ha amato, che ha lasciato, che si è innamorato e ha vissuto e gustato la vita in ogni sua sfaccettatura. Un uomo che lo ha fatto a modo suo.
“A modo tuo, Jason. A modo tuo, vivi la vita fino in fondo.”
Jason annuì, spense il sigaro.
“Sono un po’ stanco, andiamo a dormire?”, disse Jason.
Entrò in camera, sua moglie stava leggendo un libro.
“Finalmente, credevo che non arrivassi più”, disse Claudine.
Guardò negli occhi Jason.
Ha paura, pensò.
46
Jason si svegliò di soprassalto, le pareti intorno a sé sembravano essersi fatte più vicine quasi a volerlo schiacciare. Era in un bagno di sudore e ansimava, la sua parte di letto era completamente fradicia dal sudore che aveva emesso durante l’incubo. Girò la testa verso sinistra, Claudine dormiva ignara di tutto e sbatteva le palpebre continuamente. Stava sognando anche lei.
Si alzò senza far rumore evitando di svegliarla, andò in bagno e si tolse il pigiama, lo buttò in un angolo e rimase nudo davanti allo specchio osservandosi. Avvicinò una mano allo specchio e vide le sue dita che si avvicinavano alle sue stesse dita, poi i polpastrelli si toccarono e si congiunsero all’altezza del suo viso, stravolto.
Si infilò sotto la doccia e cercò di lavarsi via lo sporco che si sentiva addosso.
Jason uscì dal retro che dava sulla piscina.
Poi si inoltrò nella pineta. L’odore di resina più forte e intenso prese il posto di quello del glicine. La proprietà di Jason si estendeva per trenta ettari e terminava sulle rive di un piccolo lago artificiale. Cominciò a correre più velocemente, scartando a destra e a sinistra i rami e gli arbusti che gli venivano incontro a velocità sempre maggiori. Il terreno sdrucciolava sotto le sue lunghe falcate e talvolta Jason doveva fare uno sforzo per mantenere l’equilibrio e continuare a correre. Non riusciva a capire chi correva in piano sull’asfalto o addirittura rintanato nel chiuso di una palestra su un tapis roulant. La corsa doveva essere libera e selvaggia. Bisognava scegliere per istinto quale strada seguire, aggirare e saltare gli ostacoli, farsi ossigenare i polmoni dagli alberi, non certo dai gas di
scarico delle macchine.
Continuò così, correndo verso il sole. Si stava appena riscaldando, quando a un tratto deviò a sinistra prendendo un sentiero che aveva poco battuto.
La pineta si fece subito più densa, più affollata. Come se gli alberi fossero in competizione tra loro per guadagnarsi uno spazio vitale, per crescere verso la luce evitando di rimanere soffocati dagli altri. Anche nella natura c’era competizione ed era finalizzata a un solo scopo: la sopravvivenza. Al contrario degli uomini dove la competizione veniva esercitata per i fini più vari e spesso distorti. Il dominio sugli altri, il denaro, il sesso e il potere. Il desiderio di distruggere o di difendere, di costruire o di attaccare.
In pochi secondi tutta la luce dell’alba si dissolse come aspirata da un buco nero, la pineta ora era talmente fitta che Jason doveva stare bene attento a dove metteva i piedi.
All’improvviso il mondo si aprì e sbucò in una radura che dava sull’ampia valle di Montclair.
Costeggiò il piccolo lago fino ad arrivare a un vecchio bungalow, dove si fermò.
Era un rudere che Jason non aveva il coraggio di far demolire. Le giovani coppiette, durante le notti primaverili ed estive, trovavano lì il riparo per concedersi uno spazio di intimità, oppure si sdraiavano sulle rive del lago.
Jason entrò nel bungalow, una parte del tetto era crollata a terra e le pareti fatte di grosse pietre grezze erano leggermente incurvate verso l’esterno.
Con Claudine, anni prima avevano trascorso lì una notte. Si erano portati da casa qualcosa da mangiare e poi sul pontile, con i piedi nell’acqua, erano rimasti in silenzio godendo l’uno della presenza dell’altro.
Jason uscì dal bungalow e camminò sul pontile piuttosto cigolante, si sedette sul bordo e lasciò che la luce e il calore lo penetrassero.
Si ricordò di quando non viveva nella grande villa, ma in un bilocale nel centro di Montclair che Claudine aveva trasformato in un nido, volò ai primi anni della sua attività da libero professionista. Pensò a un uomo che aveva incontrato sul pontile, quasi per caso. Anche se Mr H non lasciava mai nulla al caso.
Un ex-legionario che aveva lasciato la Francia per stabilirsi negli Stati Uniti, con una nuova identità e un lavoro qualunque procuratogli dalla Legione, assieme a qualche decina di migliaia di dollari necessari per rifarsi una vita.
Rimase lì qualche minuto, poi diede un’occhiata all’orologio: era tempo di tornare a casa e affrontare la giornata.
New York, 27 ottobre 2000 (e molti anni prima)
47
Mr H entrò nel suo piccolo negozio di riparazione di strumenti elettronici, salutò il commesso e scese una scala molto stretta. Gli scalini troppo piccoli e intrisi di umidità ogni volta minacciavano una caduta, ma lui era abituato. Aveva percorso strade ben più impervie, sentieri mai battuti, aperto piste nella savana. Era sopravvissuto nel deserto senz’acqua per quattro giorni. Era stato spedito da un capo all’altro del mondo in missioni sempre più pericolose, sempre più al limite della sopportazione umana.
La Legione Straniera lo aveva addestrato.
Non si era arruolato nella Legione per sfuggire a un ato scomodo. Si era arruolato perché credeva nel Codice di comportamento.
Ogni Legionario è un fratello d’armi...
Rispettoso delle tradizioni, fedele ai tuoi capi, la disciplina e il cameratismo sono la tua forza, il coraggio e la lealtà le tue virtù...
Soldato scelto, ti alleni con rigore, mantieni la tua arma come il tuo bene più prezioso, hai la preoccupazione costante della tua forma fisica...
Sacra è la missione, devi eseguirla fino in fondo nel rispetto delle leggi, delle usanze della guerra, delle convenzioni internazionali, e, se fosse necessario,
rischiando la tua vita...
Nel combattimento, devi agire senza ione e senza odio, rispettare i nemici vinti, non lasciare mai i morti, i feriti e neanche le armi...
Mr H scese nel sotterraneo. Era un locale disegnato come una L, con il lato corto dedicato a laboratorio per le riparazioni elettroniche. Per la sua copertura.
Percorse il lato lungo in fondo al quale c’era una scaffalatura piena di pezzi di ricambio, di parti di computer, telecomandi, antenne satellitari. Tutto quello non significava niente per lui. La sua vita era altrove, dietro a quella scaffalatura. Premette un tasto e una piccola porticina perfettamente mimetizzata si aprì. Di fronte a lui computer e una lunga seria di monitor, alla sua destra c’era una parete piena di armi. Alla sua sinistra c’era uno scaffale pieno di strumenti per l’intercettazione ambientale e a distanza, scrambler per il riconoscimento e l’identificazione dello stress nella voce, apparecchi per intercettare e clonare ogni tipo di telefono cellulare, videocamere agli infrarossi e ad alta definizione, sistemi di visione notturna. Su un mobile in basso erano perfettamente allineati una quantità di aporti, carte d’identità, carte di credito, oltre a soldi rilegati in fascette di almeno una decina di paesi.
Tutto doveva essere in ordine, in modo che potesse essere infilato in uno zaino in pochi minuti.
Mr H aprì un cassetto pieno di cartelline e ogni cartellina conteneva un dossier su un uomo o una donna, su ex-commilitoni o agenti della CIA, della DEA e dell’FBI, della polizia di stato. Ognuno di essi gli doveva un favore. In un altro cassetto c’era una lista di nomi, appartenenti alle squadre che a seconda del momento o della circostanza dovevano essere messe in campo. Infallibili. Letali.
Mr H accese i monitor e si lasciò andare sulla sedia, si concesse un attimo di respiro. Un prigioniero gli era sfuggito. Inammissibile.
Chiuse gli occhi per un istante e rivide una scena di molti anni prima, sulle rive di un piccolo lago, vicino a un bungalow.
“La stavo aspettando”, disse lui rivolto a Jason.
Jason si fermò di botto, non si sarebbe mai aspettato di trovare qualcuno sulle rive di quel laghetto, non certo al mattino così presto.
“Prego?”
“Volevo incontrarla al riparo da sguardi indiscreti e orecchie che non devono sentire.”
Jason rimase del tutto spiazzato.
È un pazzo, pensò.
“Ho letto tanto su di lei. So che è un avvocato che si dedica a riparare i danni che migliaia di persone hanno subìto”, disse Mr H.
Jason lo fissò, l’uomo vestiva con dei pantaloni mimetici e una polo verdina, scolorita dal tempo. Se si fosse messo a camminare in mezzo al bosco probabilmente non l’avrebbe visto.
Pensò che non aveva nulla con sé con cui difendersi, per un istante ebbe paura.
Come se gli avesse letto nel pensiero, Mr H disse: “Non si preoccupi. Vorrei solo che mi ascoltasse qualche minuto.”
“Venga”, gli disse. Per qualche oscuro motivo, quell’uomo lo rassicurava ora, tanto da voltargli le spalle.
“Grazie”, disse Mr H sedendosi un po’ discosto da Jason.
“Non mi ha ancora detto il suo nome.”
“Non ha importanza il mio nome, la mia identità è stata cancellata e poi ripristinata”, disse Mr H e in pochi minuti gli raccontò la sua storia, il suo ato. E cosa l’aveva condotto fino a lì.
“Perché io?”, chiese Jason.
“Perché lei è una persona per bene, l’ho sentita parlare l’altro giorno dove faceva
colazione con il suo socio, l’avvocato Reynolds. Entrambi avete quello che la maggior parte delle persone ha perso, o si è del tutto dimenticata.
“Vale a dire?”, chiese Jason sempre più incuriosito da questa conversazione.
“Vale a dire i valori, avvocato. L’etica della propria professione, il fare qualcosa di moralmente giusto, qualcosa che eleva lo spirito, qualcosa che forse trascende lei e trova le radici nel suo ato.”
Jason trasalì. “Il mio ato?”
“Sì.”
“Non sa nulla del mio ato” rispose asciutto accennando ad alzarsi, per lui la conversazione era terminata.
“So che ha il petto e la schiena piena di cicatrici e di ferite che forse il tempo non guarirà mai”, disse Mr H.
Jason si rimise a sedere.
“Come fa a saperlo? Lo sa solo Claudine, mia moglie.”
“No non solo lei. Lo sanno anche i medici che l’hanno avuta in cura. E lo so perché io ho avuto accesso alle cartelle cliniche.”
A Jason montò dentro la rabbia ed esplose: “Lei non sa nulla di me. Cosa vuole?”
“Voglio lavorare per lei, avvocato.”
“Prego?”
“Voglio lavorare per lei. Trovare le informazioni giuste, le persone giuste, tutte quelle cose che possono fare la differenza tra una causa vinta e una causa perduta.”
“Senta, la ringrazio della sua offerta, ma non vedo come potrebbe essermi di aiuto. In ogni caso, non potrei pagarla granché, le mie risorse al momento sono parecchio limitate.”
“Ci sono molti modi in cui potrei esserle utile e il denaro è l’ultimo dei miei pensieri. Ci sarebbe subito un modo in cui potrei aiutarla. Ho delle informazioni riguardo alla causa che sta preparando, quella della medicina che ha provocato la morte di dieci bambini.”
Jason si tese come un arco, trattenne il respiro.
“Come fa ad avere certe informazioni?”, chiese sospettoso.
“Gliel’ho detto. L’informazione è la linfa vitale di ogni azienda, l’informazione prima di tutto”, rispose Mister H asciutto.
“Quale sarebbe questa informazione?”, chiese Jason.
“Vuole che lavori per lei?”
“Non lo so, non mi sta bene che lei abbia avuto accesso ai miei dati personali, così intimi. Mi dispiace, ma sarei in suo potere se le dicessi di sì.”
“No, non è lei che sarebbe in mio potere. Sono io che mi offro a lei”, rispose Mr H mentre Jason si alzava per andarsene.
Fece qualche o sul pontile, poi si girò e chiese nuovamente: “Quale sarebbe questa informazione?”
“Ho il nome di un chimico che ha lavorato nell’azienda, era il responsabile del prodotto che ora è sotto accusa. È pronto a testimoniare che sono stati compiuti degli illeciti pesanti perché il latte in polvere potesse are l’esame del Food and Drug istration.”
Jason rimase imperturbabile e chiese ancora: “Quali atti illeciti?”
“Glieli sentirà dire lei stesso, quando chiamerà questa persona a testimoniare”, rispose Mr H.
Jason rimase pensieroso a lungo e poi disse: “Va bene, mi ha convinto. Comincerà a organizzare la sicurezza nel mio studio.”
Mr H si alzò, strinse la mano di Jason e lo guardò negli occhi.
“Non mi ha ancora detto come si chiama”, disse Jason.
“È così importante un nome?”
Montclair, 27 ottobre 2000
48
La seduta stava volgendo al termine, Claudine guardò la piccola pendola a muro che discretamente segnava il tempo. Mancavano ancora cinque minuti e la sua paziente ormai da qualche minuto era sprofondata in un silenzio totale, fino a quando la seduta finì. Si sentivano gli scricchiolii del legno della vecchia portineria, quindi la paziente se ne andò e Claudine rimase sola nel cottage. Rimase nel suo studio fino a mezzogiorno e, dopo aver terminato una seduta con un bambino di nove anni, si infilò il cardigan beige e uscì in giardino. La giornata era splendida anche se si sentiva che ormai stava rinfrescando, alcuni alberi avevano cominciato a perdere le foglie da una decina di giorni, altri le avevano ancora tutte, di un rosso fuoco che quasi abbagliava.
“Come siamo pensierose”, disse Alain circondandole le spalle con un braccio e attirandola a sé per darle un bacio. Claudine gli gettò le braccia al collo, amava quella sensazione di protezione, di calore e di stabilità che suo padre emanava.
“Ciao papà.”
“Uhm, mi nascondi qualcosa. Quegli occhi, li conosco. C’è qualcosa che non va?”, chiese Alain ora un po’ più serio.
Claudine rimase zitta, il suo pensiero fino a quel momento concentrato sui pazienti, volò a Jason, alla notte prima. Ai viali di New York che avevano percorso mano nella mano. Jason le aveva confidato che aveva paura di quei viali cinti da altissimi grattacieli. Tra i pochi ragazzi che aveva frequentato, era quello più spaventato di tutti. Lo si vedeva nei suoi movimenti, nella schiena rigida, nelle poche parole che pronunciava, nel suo sguardo a volte assente, a
volte invece così intenso che la traava. Era stato uno schioccare di dita, un lampo che illumina la notte, un raggio di sole che esce da una nuvola. E all’istante si era innamorata di quel ragazzo. Così solo, così malinconico. Eppure così incredibilmente affascinante.
A volte Jason si adombrava, improvvisamente e senza nessun motivo particolare.
Claudine raramente gli chiedeva qualcosa in quei momenti, anzi quasi mai. Si stringeva piuttosto più vicino a lui, gli faceva sentire il suo calore, gli accarezzava un braccio, lo baciava. E quei momenti avano, come il sole che riemergeva da spesse nuvole, il sorriso tornava sul viso di Jason, i suoi occhi chiari, ancora più chiari.
Claudine guardò negli occhi suo padre.
“Ho paura”, disse stringendosi un po’ di più al padre.
Ricordava quegli anni della loro convivenza a Montclair, gli incubi di notte. Jason che si svegliava di colpo, tutto sudato e tremante, che si richiudeva in se stesso, che si spingeva ai margini del letto per stare da solo. Ricordava i suoi tentativi, all’inizio, di avvicinarsi a lui e veniva quasi sempre respinta. Poi si avvicinava piano piano, gli accarezzava i capelli. Lo coccolava. Gli dava piccoli baci sulla fronte, sulle guance. Lo stringeva a sé in un morbido abbraccio mentre lui si scioglieva, affondando il viso nel petto di Claudine, per cercare un riparo, un luogo sicuro. Un posto dove non essere solo, dove non essere maltrattato e abbandonato da tutti.
“Ho paura”, disse di nuovo Claudine rabbrividendo.
“Di cosa?”, chiese lui.
Claudine pensò alla notte precedente, a quando Jason si era rannicchiato vicino a lei. Aveva sentito i suoi singhiozzi quando lui credeva che si fosse addormentata e lei nel sonno gli si era stretta ancora più vicino.
“Ho paura di non farcela, questa volta. Kelly è un’adolescente è vero, Joshua invece ha bisogno di me, molto bisogno. E Jason... Jason...”
Il padre rimase in silenzio per parecchi minuti, conducendo sua figlia nel parco, attraversò il laghetto ando sotto il gazebo, mentre alcune foglie secche vorticavano intorno a loro, mosse da una folata di vento che all’improvviso si era alzata.
“L’ho visto turbato, Jason. Ieri sera aveva la faccia sconvolta.”
“Sì, era sconvolto.”
“Cosa gli è successo?”
Claudine rimase in silenzio per qualche istante, valutando se parlarne o meno, se dire la verità o tenere il segreto nell’intimità della coppia.
“Il ato ritorna, papà. E questa volta deve avergli fatto molto male. È regredito, in un solo giorno. È regredito di una vita.”
“No, non è così Claudine e dovresti saperlo, tu che sei psicoterapeuta. Dovresti sapere che l’evoluzione non procede mai in modo lineare. A volte si interrompe, e anche bruscamente, letteralmente in un battito di ciglia. A volte prende curve strane, ellittiche o paraboliche. A volte torna indietro e l’evoluzione diventa involuzione. E diventa tale perché ha bisogno di ritrovare un ancoraggio, un nuovo punto di partenza, una nuova base da cui ripartire. Ecco cosa è successo a Jason, ecco cosa gli sta succedendo. Ha affrontato i suoi mostri, lo ha fatto andando a sbatterci il muso contro e se lo conosco bene lo ha fatto a viso aperto, non li ha evitati, anzi. Gli è andato incontro, li ha presi a pugni e li ha mandati via. Ecco perché ieri Jason era così sconvolto, figlia mia. Ha affrontato il ato. E ha vinto lui.”
Claudine ascoltò in silenzio, lasciandosi avvolgere dalle parole sagge del padre.
“L’ho amato per tutta la vita, sai? Sin dal primo momento, dal primo istante in cui ci siamo conosciuti. In quell’istante, in quel bar, ho capito che era lui l’uomo della mia vita. L’ho amato fino in fondo, fino a quando speravo smettesse di soffrire. Ma soffre ancora, Jason. È una sofferenza senza fine, in quei luoghi così bui della sua anima. E io soffro con lui, talvolta anche più di lui.”
“Allora c’è una sola che puoi fare, figlia mia.”
“Quale?”, chiese lei dopo un lungo silenzio, dopo aver raccattato alcune foglie secche che giacevano sul prato.
“Continuare ad amarlo finché avrai vita, fino a quando la sua sofferenza sarà svanita. Fino a quando vi sarà concesso di vivere. E poi, oltre.”
Claudine abbracciò suo padre con dolcezza, una lacrima pigra le scese da un occhio. Sapeva che aveva ragione, sapeva che ogni giorno amava Jason sempre di più. E che non avrebbe mai smesso.
Padre e figlia camminarono a lungo per il giardino. Lasciando che le parole attecchissero, che i piccoli semi piantati avessero il tempo di germogliare.
New York, 30 ottobre 2000
49
Erano ati alcuni giorni dalla telefonata di Mr H senza che quest’ultimo riuscisse a rintracciare Frank e Anthony. Si erano come volatilizzati.
“Che cosa intende fare ora?”, chiese Jason. Il pensiero di quelle due carogne in fuga per gli Stati Uniti, nei giorni in cui stava preparando il processo, lo mandava in tilt. ava notti agitate. Ogni volta si svegliava di soprassalto, con il pigiama intriso di sudore.
“Abbiamo due squadre. La prima sta perlustrando la costa Ovest degli Stati Uniti. Aeroporti, porti, scali ferroviari, dogana con il Messico. Non crediamo possibile che siano riusciti ad attraversare il confine, oltretutto non hanno soldi. Non capisco il motivo di questa fuga, lei gli aveva promesso cinquecentomila dollari e un luogo sicuro.”
“È una sfida”, rispose asciutto Jason: “Sanno che si possono permettere di fuggire, siamo legati a doppio filo. Se Frank va a fondo, mi trascinerà con sé. Rivelerà ai giornalisti il mio ato, mi farà perdere la reputazione e il rispetto che mi sono conquistato.”
Perderò tutto, pensò.
“Capisco. La seconda squadra sta invece spostandosi lentamente verso est, pensiamo che con la macchina che hanno noleggiato vogliano arrivare fino qui, a New York.”
“Fino a qui?”, chiese Jason.
“Temo di sì, signore”, rispose Mr H.
Jason si ò una mano tra i capelli, chiuse gli occhi. Doveva rimanere calmo.
“Voglio una terza squadra che sorvegli mia moglie e i miei figli, ventiquattro ore al giorno. Li trovi il più presto possibile, non mi deluda ancora una volta”, disse Jason gelido.
“Sì, avvocato, chiarissimo.”
“Mr H?”, disse Jason chiamando l’ascensore.
“Signore.”
“Il più presto possibile”, ribadì Jason.
Jason infilò l’ascensore.
Mr H uscì dal sotterraneo, sentì il telefono vibrare nella tasca della giacca, una
voce metallica dall’altro capo degli Stati Uniti disse solo: “Vaso antico ritrovato e impacchettato.”
Mr H si concesse un sorriso. Ora toccava all’altro.
Sally stava ordinando le sue cose nel piccolo ufficio che avrebbe condiviso con Sarah, la prima assistente di Stern, con la quale si era trovata subito in sintonia. Le cose si stavano mettendo bene, finalmente era dentro gli ingranaggi dello Studio.
A un certo punto sentì del trambusto provenire dal corridoio, voci concitate, suoni di i affrettati. Uscì dall’ufficio e vide che alcune segretarie piangevano, mentre gli avvocati tenevano le braccia conserte, tutti fissavano il grande monitor appeso davanti alla reception, collegato con la CNN, che stava trasmettendo le immagini di un palazzo che lei ben conosceva. La cronista affermava che un ex dipendente di uno studio legale prestigioso era stato trovato morto all’interno del suo appartamento, probabilmente ucciso da una dose letale di barbiturici.
Avrebbe voluto urlare, poi corse verso i bagni e si chiuse dentro, piangendo tutte le lacrime che aveva.
“Non volevo che finisse così”, disse Sally.
“Neppure io”, rispose Jason bevendo un sorso di caffè.
“Non volevo la sua morte”, disse Sally.
“Nessuno lo voleva”, disse Pamela appoggiando la mano su quella di Sally e accarezzandola lievemente.
Il gesto non sfuggì a Jason, che fissò Pamela per un istante.
“Ricordi quello che ci siamo detti l’altra sera a casa mia?”, chiese Jason con dolcezza.
Sally annuì.
“Ti avevo detto che con il tuo trasferimento vicino a uno dei soci ti eri guadagnata una poltrona in prima fila, che eri entrata nella fossa degli squali. Ora tocca a te decidere se vuoi rimanere o andartene.”
“Sono io che l’ho denunciato. È colpa mia se si è ammazzato.”
“Lo avrebbe fatto comunque”, disse Jason.
“Come fa a esserne certo?”
“Kurt era un uomo fragile e comunque lo avremmo licenziato, avevamo già la
prova del tradimento.”
Sally si rannicchiò nell’ampia poltrona cercando di trarre conforto dal suo stesso abbraccio. Pamela la guardò, avrebbe voluto accarezzarla e coccolarla.
“Prenditi il pomeriggio libero, Sally.”
Lei rimase in silenzio, poi alzò gli occhi azzurro cielo e guardò in quelli di Jason. Per un istante, lui percepì una corrente strana, come un brivido che veniva da lontano.
“No, questo è il mio posto”, disse alzandosi e scendendo i gradini della terrazza per uscire dall’ufficio di Jason.
“È una tosta”, disse Pamela.
“Non lo so ancora”, disse Jason.
Pamela uscì dall’ufficio di Jason e andò direttamente nel nuovo ufficio di Sally.
“Va tutto bene?”, chiese.
Sally alzò la testa di scatto cercando di asciugarsi gli occhi cerchiati di rosso,
gonfi per il pianto.
“Cosa ne dici se stasera usciamo a bere un aperitivo? Conosco un ristorante carino, giù al Village”, Sally poté annusare il profumo di Pamela, guardarle le gambe. Guardarla dal basso in alto. E sentirsi dominata.
“D’accordo, una serata con un’amica potrebbe farmi bene”, rispose Sally pensando nello stesso momento a un’altra cosa. C’era un tarlo che le rodeva nel cervello e quel tarlo si chiamava Frank.
50
Pamela era uscita un’ora prima dall’ufficio per avere il tempo di prepararsi ed era sdraiata nella grande vasca idromassaggio, adorava i getti caldi e le bollicine.
Bevve un sorso di vino bianco e appoggiò il bicchiere sull’ampio bordo della vasca.
Si alzò dalla vasca e lasciò che l’acqua calda scorresse liberamente sul suo corpo ancora sodo e tonico, grazie a innumerevoli ore ate nella palestra dello Studio. Si guardò allo specchio e notò che la pelle si era leggermente arrossata mentre il vapore cominciava a far svanire il suo riflesso.
Sally attendeva Pamela nel luogo dell’incontro, appena fuori dal ristorante. Poi sentì una voce alle sue spalle.
“Come sei bella stasera”, disse Pamela prendendola per un braccio per attirarla a sé e darle due baci sulle guance.
Sally ricambiò il saluto e non poté fare a meno di notare il suo abito, una profonda scollatura che andava giù fino ai seni. Pamela si accorse al volo del suo sguardo e prendendola per un braccio la condusse all’interno del ristorante, sfiorandole quasi casualmente il braccio col suo seno.
Pamela richiamò l’attenzione del maitre e pochi secondi dopo sedevano
nell’angolo destro del ristorante che inquadrava tutto il locale.
“Allora, come ti trovi nello Studio e nella tua nuova carriera?”
“È molto eccitante. Lavorare per voi fa sentire su una ruota che non si ferma mai, è un impulso continuo grazie a Jason” rispose Sally sulla difensiva guardandosi in giro nello stravagante locale dove si trovavano a cena.
Pamela osservò la nuova arrivata, i capelli biondi le scendevano sulle spalle in morbidi riccioli e gli occhi blu davano al volto di Sally un’immagine di innocenza, come fosse una liceale davanti alla commissione di esame.
ò affianco a loro un cameriere a torso nudo, il fisico perfettamente scolpito e gli addominali in vista. Sally lo seguì con lo sguardo fino a che scomparve tra gli altri tavoli disposti a casaccio nell’ampio open space appena illuminato.
“Ti piace, vero?”
“Uhm, no. Non è il mio tipo.”
“Immaginati il suo corpo sopra il tuo, il suo peso, la tonicità dei suoi muscoli che senti guizzare sotto la sua pelle. Il sudore che scorre tra di voi, che vi unisce come colla. Immagina il tuo corpo, il calore che si diffonde tra le tue cosce.”
“Pamela!”, esclamò Sally portandosi una mano alla bocca e diventando tutta
rossa.
Pamela rise di gusto, poi si chinò in avanti lasciando che la scollatura del suo seno si aprisse agli occhi di Sally.
“Lo puoi avere se vuoi. Vedi, qui il personale è molto, come dire, amichevole.”
“Probabilmente riderai, ma io cerco ancora il mio principe azzurro.”
Pamela scoppiò a ridere. “E lo cerchi qui a New York, tesoro?”, disse lei continuando ad avvicinarsi a Sally, mentre le loro mani già si sfioravano.
Pamela la guardò e ancora si ò la lingua sulle labbra, questa volta lentamente.
“Qualche giorno fa ha chiamato un tizio in Studio, ha detto di chiamarsi Frank. Sai chi è?”
Pamela si irrigidì leggermente. Aveva imparato a controllare ogni sua emozione, ogni battito del cuore, ogni movimento delle ciglia.
“No chi è?”, dopo quella telefonata era entrata nello studio di Jason e lo aveva trovato sconvolto. Gli aveva detto che suo fratello era tornato. Non era stato difficile capire chi fosse Frank.
“Un tipo molto arrogante. Chiedeva di Jason, che ha preso immediatamente la telefonata. Non mi è sembrato il genere di persona con cui Jason ha abitualmente a che fare e sono rimasta sorpresa che Jason abbia voluto parlare con lui.”
“Capisco”, rispose semplicemente Pamela mangiando un’ostrica. “Le vuoi provare?”, chiese lei.
“Paiono buone.”
“Allora chiudi gli occhi.”
Sally chiuse gli occhi.
“Apri la bocca, piano.”
Sally ubbidì e il profumo del mare l’assalì. Pamela indugiava col dito nella sua bocca, Sally aspettava il momento di masticare e deglutire. Si accorse di non avere alcuna fretta, sentì il dito che le accarezzava la lingua, le labbra. Istintivamente chiuse dolcemente la bocca e il dito di Pamela rimase lì.
eggiavano per le vie allegre e intasate del Village, le loro spalle nude si sfioravano e ogni tanto le mani si toccavano.
“Non hai risposto alla mia domanda.”
“Non lo conosco te l’ho detto.”
“Chissà perché non ti credo”, disse Sally.
“Riguardo cosa?”
“Oh non ricominciare”, rispose Sally.
“Siamo arrivate, io abito qui.”
“Bene, allora buonanotte.”
“Quanta fretta”, disse Pamela appoggiando una mano sulla spalla nuda di Sally. La mano scese lentamente, le accarezzò l’avambraccio e risalì fino a sfiorare il collo e poi scese verso il seno.
Sally entrò nell’appartamento buio, solo un piccolo faretto illuminava quello che sembrava un soffitto. Poi Pamela premette un interruttore e l’appartamento prese vita. Sally rimase a bocca aperta, ammirando l’immenso loft. Davanti a sé c’era un ampio tavolo di cristallo che poteva ospitare dodici persone almeno, subito dietro la cucina a vista laccata in smalto rosso. Un pianoforte nero a coda riposava silente e maestoso nell’angolo a sinistra, a destra le scale che conducevano al secondo livello, gradini di legno spessi dieci centimetri e infilati
saldamente nel muro, ognuno di essi illuminato da una piccola luce rossa. Sally alzò lo sguardo e vide che il secondo livello si affacciava su quello sottostante mediante un ampio quadrato ricoperto da un cristallo antisfondamento. Tutto intorno al quadrato girava la balaustra. Sally fece qualche o in avanti tenendo il naso all’insù, poteva intravedere dei divani che correvano lungo tutto il perimetro, una zona studio con un computer.
“Non ti stupire non è mio, Jason mi permette di abitarci ma è dello Studio. Vuoi salire a vedere?”, disse Pamela.
Sally non rispose e salì le scale.
Poi vide un’altra scala, anche questa fatta di gradini di legno sospesi nel vuoto. Salì i gradini uno a uno e arrivò nella camera da letto, illuminata da led arancioni e che diffondevano nella stanza un’intimità che nemmeno un camino sarebbe stato in grado di generare.
“Ti piace?” chiese Pamela che silenziosamente l’aveva seguita e ora era affianco a lei.
“Non ho mai visto niente del genere. Non so neanche dove guardare.”
Pamela le prese la mano.
“Vuoi bere qualcosa?”
“Grazie”, rispose Sally.
“Vodka al limone?”, chiese Pamela.
“Sì, ma non troppa. Ho già la testa che gira.”
Pamela sorrise e versò il liquore in un bicchiere, riempiendolo fino all’orlo. Si avvicinò a Sally e le disse: “A noi.”
Sally bevve di un fiato la vodka, poi una lieve sensazione di benessere e di leggerezza si impadronì di lei. Si sedette su un piccolo divano davanti al letto e appoggiò il bicchiere sul tavolino. Pamela la imitò.
“Avevamo un patto”, disse Sally.
“Ora non pensarci.”
“Chi è Frank?” incalzò Sally.
“Oh Frank, sempre Frank. Ma che ti frega sapere chi è?”, disse Pamela allontanandosi seccata. “Jason ha un fratello, un poco di buono. E si chiama Frank.”
Sally rimase stupita e si annotò mentalmente l’informazione.
“Cosa ne dici se ora venissi un po’ più vicina a me?”, disse Pamela.
Sally si alzò dal piccolo divano.
“Non lo so, sono un po’ confusa in questo momento. La cena, questa casa, tu...”, e lasciò la frase in sospeso mentre si versava un altro bicchiere di vodka, dando le spalle a Pamela.
“Io cosa?”, chiese Pamela.
“Sai non mi sento pronta in questo momento a... Scusami, devo andare ora”, disse semplicemente.
Pamela annuì mentre Sally era già sulle scale, che scese un gradino alla volta, come se fosse penoso andarsene, come se volesse invece rimanere lì per sempre. Ma un sogghigno comparve sulla bocca di Sally e la accompagnò fino a quando fu fuori dal loft, per le vie ancora affollate.
È così semplice, pensò, sparendo nella notte.
New York, 23 novembre 2000
51
Quasi non si avvide di essere arrivata a casa di Anna. Aveva lasciato la metropolitana molte fermate più indietro, per godersi una camminata nel freddo pungente di quel giorno del Ringraziamento. La neve cadeva a piccoli fiocchi, a volte sostituita da leggeri cristalli di ghiaccio, sulle strade di New York, praticamente deserta. In quei giorni si fermava tutto, anche la Borsa si prendeva un week end lungo. Per dire grazie di quello che si aveva, dei desideri avverati, dei sogni da realizzare.
Sally suonò alla porta con il cuore che le batteva forte. L’ultima volta che era stata lì, Anna l’aveva praticamente buttata fuori di casa. Sembrava ato un secolo, invece erano solo poche settimane da quel giorno.
Anna l’aveva chiamata a casa e l’aveva invitata a are il giorno del Ringraziamento con lei e il piccolo Thomas. Ci sarebbero stati anche una coppia di amici di Anna e Sally aveva accettato di buon grado. Era l’occasione giusta per fare pace.
Thomas venne alla porta scivolando per tutto il corridoio, spalancò la porta e si gettò tra le braccia della zia.
“Sei qui, finalmente!”, esclamò.
Sally si chinò e lo prese in braccio, dandogli una quantità di baci.
Quanto mi è mancato, pensò.
Arrivò anche Anna e le due sorelle si abbracciarono, fu come entrare di nuovo in famiglia. Si tolse il soprabito e lo porse alla sorella.
“Allora questo è per te piccolino”, disse rivolto a Thomas dandogli un pacchetto e il bambino lanciò urla di gioia scartando il regalo.
“Vieni, ti presento ai miei amici”, disse Anna mentre Thomas continuava a saltellare sui piedi di Sally.
“Ti presento George e Claire”, disse Anna mentre la giovane coppia si alzava dal divano e strinse la mano a Sally, che ricambiò. Ma in un attimo si dimenticò di loro, quando vide che lo spazio nella libreria, occupato dall’album che Anna le aveva mostrato il mese prima, era rimasto vuoto.
Mentre Anna era in cucina a finire di cuocere il tacchino, Sally stava già trattenendo gli sbadigli nel sentire la storia degli amici di Anna, che erano in viaggio di nozze in crociera. Claire e George non facevano altro che parlare del loro viaggio, tenendosi stretti e continuando a scambiarsi effusioni. Solo fino a qualche tempo prima, Sally li avrebbe profondamente invidiati.
“È pronto!”, gridò Anna dalla cucina arrivando in sala da pranzo con il tacchino ancora fumante.
“Allora Sally, non ci hai detto che cosa fai nella vita.”
“Lavoro per uno studio legale”, disse lei.
Anna si fermò di botto e Sally con la coda dell’occhio vide che era diventata pallida.
“È uno studio piccolo, ci occupiamo di maltrattamenti a donne, botte, casi del genere”, disse Sally.
Anna la fissò, si chiese se avesse scoperto qualcosa.
Non sa nulla, pensò. Eppure c’è qualcosa di diverso in lei.
“Cosa sono i mallatramenti?”, chiese Thomas incapace di pronunciare correttamente la parola maltrattamenti.
“Oh niente, piccolino non ti preoccupare. Qualcosa che non è mai successo a nessuno di noi”, disse Sally chinandosi verso Thomas e dandogli un sonoro bacio sulla testa.
Mentre con la coda dell’occhio osservò Anna che si alzò da tavola e andò in cucina.
Il tardo pomeriggio divenne sera. Solo Thomas contribuiva a tenere svegli gli
adulti, mostrando a tutti i suoi giochi e i pupazzi. A un certo punto Claire e George si alzarono e ringraziarono abbracciando Anna, lui estrasse il cellulare e chiamò un taxi.
Infine uscirono, Anna chiuse la porta e si appoggiò su di essa. “Che fatica, non ne potevo più”, disse.
“Senti, è vero quello che hai detto a cena, vero?”, chiese.
“Uh, ne ho dette di cose a cena, visto che continuavi a versarmi da bere”, disse Sally ora lasciandosi andare biascicando un po’, mentre Thomas correva ancora instancabile scivolando sui corridoi in parquet.
“Riguardo il lavoro, quello che fai ora.”
Sally guardò sua sorella negli occhi e le disse: “Perché ne dubiti?” Anna non si aspettava una risposta così secca e rimase perplessa.
“Ora vado anch’io”, disse Sally.
Quando pochi istanti dopo fu fuori, nel freddo che spazzava New York, si sentì immediatamente sola.
Anna la guardò andare via.
C’è qualcosa che non va. Sua sorella era diventata più sicura e spavalda. E quella inconsueta sicurezza, che ora mostrava anche con lei.
Una sottile angoscia la colse all’improvviso.
Tribunale di New York, 6 agosto 2001
52
Quell’anno era stato massacrante per tutti i dipendenti dello Studio coinvolti nel caso Brown/Power Tyre/Drexel. Gli orari di lavoro avevano superato ogni limite immaginabile e lo Studio era stato sommerso da una quantità di carta infinita. Memo, appunti, rapporti, ingiunzioni. Jason aveva dovuto assumere altri collaboratori per stare dietro a questa mole di lavoro. Neanche lui aveva immaginato che la controparte avrebbe reagito così. Più volte era stato sul punto di crollare, ma si era imposto di andare avanti, qualunque cosa fosse successa e a qualunque prezzo. Non poteva permettersi di mostrare ai suoi collaboratori il benché minimo cedimento.
In realtà la causa non stava andando secondo la sua strategia originale. Aveva focalizzato troppo l’attenzione sugli effetti, piuttosto che sulle cause.
Jason aveva cominciato a perdere terreno, tutti i suoi testimoni erano troppo fragili per reggere a un controinterrogatorio sempre condotto da Randy Stewart. Gli accusati non erano il diavolo e Randy aveva eliminato una per una le testimonianze più toccanti.
Jason aveva capito che si stava infilando in un vicolo cieco dal quale non sarebbe più uscito. Stava rischiando di perdere la causa, o quantomeno di vincerla con uno scarto limitato, con pochissimi danni per la Drexel e la Power Tyre, tantomeno per la Brown, mentre il suo intento era l’opposto, vale a dire infliggere il massimo del danno possibile, distruggere l’immagine e la reputazione di due delle più importanti aziende produttrici di pneumatici, di due multinazionali che davano lavoro a decine di migliaia di persone, assieme a una delle più blasonate case automobilistiche del mondo.
Jason aveva quindi mostrato in aula i reperti su cui si fondava l’intera tesi dell’accusa, ossia che c’erano delle evidenti falle nella produzione di quegli pneumatici. Falle che si erano trasformate in tagli e bucature improvvise e in molti casi di collasso completo della carcassa dello pneumatico, che aveva provocato sbandamenti, capottamenti, incidenti di ogni genere.
E morti. Molte morti assieme a migliaia di feriti, molti dei quali con lesioni gravi e permanenti.
Ma il punto debole è che c’erano troppi dettagli tecnici, troppi grafici, troppe tabelle. Troppi fatti che la giuria non era in grado di cogliere nella sua interezza.
Nessuno dei suoi argomenti aveva davvero aperto una breccia e coperto di infamia la Drexel e la Power Tyre. Abilmente, Randy Stewart aveva spostato l’attenzione da queste due multinazionali sulla Brown, togliendo il legame di causa ed effetto, dato che la maggior parte se non tutti gli incidenti si erano verificati con i Brown Galaxy. Era la macchina la responsabile, non il pneumatico e così aveva creato il dubbio. La probabilità di perdere la causa era diventata alta, troppo alta.
Jason aveva appena finito di interrogare un altro testimone che era stato poi raso al suolo da Randy nel controinterrogatorio: era un’alcolista all’ultimo stadio e suo fratello non era morto nell’incidente, si trattava semplicemente di uno scambio di persona che il testimone aveva architettato.
Il teste alla fine fu congedato, Jason notò perfettamente gli sguardi di disprezzo della giuria verso l’alcolista, sguardi che poi si erano spostati su di lui.
Sto perdendo la giuria, pensò.
“Ringrazio le parti per essere convenute nella mia umile dimora”, disse il giudice Schmit con la sua abituale formula con cui iniziava o dichiarava conclusa una sessione. “La corte si aggiorna secondo i calendari prestabiliti.”
Jason raccolse le carte e le infilò nelle sue borse, aiutato da Pamela.
Uscirono nell’aria calda di un’estate particolarmente soffocante che aveva chiuso in una morsa tutta la costa Est degli Stati Uniti. Generalmente, quello era il periodo dell’anno in cui Jason si prendeva un paio di settimane di ferie e andava con la famiglia in esplorazione del loro paese, o saltavano sull’aereo e andavano in qualche luogo esotico. Jason sorrise lievemente pensando al suo giocattolo parcheggiato al Newark Airport, da quando lo aveva comprato era stato ovunque e non aveva più fatto un secondo di coda, si godeva la totale libertà che avere un jet privato poteva offrire. Lo avrebbe perso, lo sapeva Jason. Se le cose fossero continuate così, avrebbe perso l’aereo. E molto altro ancora.
Dopo pochi minuti che camminavano, Randy affiancò Jason e Pamela con la sua limousine. Scese e si parò davanti a Jason, con le spalle ben diritte e l’aria di chi la sa lunga.
“Stiamo andando male, eh?”, disse.
“Randy?”
“Si?”
“Vaffanculo, Randy.”
“Ma come siamo permalosi, senti vengo qui in pace.”
“Cosa vuoi?”
“Stai perdendo la causa, Jason. È sotto gli occhi di tutti. Ma è anche vero che questo genere di cause possono girare a sfavore dell’uno o dell’altro in un batter d’occhio. Io e i miei clienti non vogliamo rischiare.”
“Interessante, Randy. Scusa, devo andare”, disse Jason mostrando una sicurezza che in quel momento non aveva.
“Aspetta. Ti offro centocinquanta milioni e chiudiamo qui.”
Jason rimase zitto per qualche istante. Non ci sarebbero state dichiarazione di colpevolezza legali, non ci sarebbe stato un richiamo mondiale della stampa. Solo un po’ di quattrini per chiudere la causa fuori dalle aule di Tribunale. Lo Studio avrebbe avuto diritto a un terzo di quella cifra che sarebbe bastata appena per coprire le spese e almeno sarebbero rimasti a galla.
“Accetto. A una condizione però. Che tu mi faccia recapitare quei centocinquanta milioni in monete da un cent presso i miei uffici, in modo che i
miei dipendenti possano tirarle con le fionde nel tuo ufficio.”
Randy rimase a bocca aperta.
“Perché non ti prendi qualche ora per pensarci?”, disse.
“Vaffanculo Randy. E, detto tra noi, mi sembra di avertelo già detto.”
Jason sentì il telefono vibrare nella tasca interna della giacca, lo estrasse e guardò il visore. Chiamata sconosciuta.
“Buongiorno avvocato”, disse Mr H con il suo solito tono calmo e distaccato.
“Pamela puoi andare avanti in ufficio? Io ti raggiungo dopo”, disse Jason.
Cercò un angolo più discreto dove parlare.
“Bene. La ascolto”, disse accendendosi un sigaro.
“Abbiamo impacchettato il vecchio, questo è avvenuto tempo fa.”
“Quanto tempo?”
“Mesi, avvocato. Volevo comunicarle la cattura di entrambi i soggetti, ma le cose sono andate per le lunghe. Il vecchio lo abbiamo preso a cento miglia a est di Palm Springs, una settimana dopo che erano scappati. Il giovane lo aveva abbandonato in un motel. Noi lo abbiamo prelevato e trasferito a Lincoln in Nebraska con un aereo privato. Attualmente è sotto custodia, ventiquattro ore al giorno.”
“Molto bene”, disse Jason. “E il giovane?”
“Ci è scappato diverse volte quando ormai eravamo sulle sue tracce. Una volta a Denver, una seconda volta a Dallas. Infine, ieri in Florida. È un tipo in gamba, devo ammetterlo. Sfuggire a due squadre di otto uomini scelti da me non è cosa di tutti i giorni”, disse Mr H.
“È un ex Navy Seals, si è liberato del vecchio per avere strada libera e poter scappare. Sta fuggendo verso est, non mi sorprenderebbe se ora venisse verso nord, verso New York”, disse Jason con un filo di ansia nella voce.
“È quello che pensiamo anche noi”, confermò Mr H.
“Vuole me. Aveva l’occasione di andarsene con mezzo milione di dollari e invece sta dimostrando che può fare quello che vuole.”
“È questione di giorni, ora sappiamo esattamente dov’è e dove sta andando.”
“Prendetelo e poi fate quello che è stato stabilito. Quei due devono essere imbarcati per il Costa Rica, li voglio fuori dalla mia vita al più presto possibile.”
“C’è un’altra cosa che volevo dirle, questa è una buona notizia invece. La squadra che sta investigando sulla causa ha trovato un testimone chiave, ex consulente sia della Drexel che della Power Tyre.”
Jason sollevò un sopracciglio.
“E cosa avete scoperto?”, chiese con circospezione.
“Oh, quello che abbiamo scoperto va al di là di ogni immaginazione, avvocato”, disse Mr H con il sorriso nella voce.
New York, 7 agosto 2001
53
I mesi erano ati con la velocità di un lampo; Sally era stata assorbita in pieno dalla causa Brown-Drexel-Power Tyre.
Stern era comparso sempre di meno in Studio, aveva perso tutti i capelli ed era invecchiato, ma i medici nutrivano qualche speranza, il tumore si era fermato e in alcune parti del corpo era regredito. C’era la concreta possibilità di andare avanti, aveva detto. Sally aveva raccolto le sue confidenze molte volte e anche lei gli aveva raccontato della sua sofferenza, invisibile, strisciante, ma sempre presente.
Sally aveva pensato spesso a quella sera del Ringraziamento in cui era stata ospite a casa di Anna. E a quel buco nella libreria, dove era conservato l’album che molto tempo prima Anna le aveva gettato in faccia per poi richiuderlo subito. Aveva cercato molte occasioni per andare a casa di Anna quando lei e Thomas non c’erano, ma non era mai riuscita. Quando lei aveva del tempo libero, ovvero non più di mezz’ora, Anna era sempre a casa. E sì che aveva il mazzo di chiavi, avrebbe potuto entrare quando ne aveva voglia, ma doveva farlo con circospezione. Aveva atteso, pianificato, chiesto ad Anna di fare delle commissioni per lei in modo da avere campo libero, ma non c’era stato verso. E ora, invece, l’occasione si stava manifestando. Quel week-end lei e Anna avevano pianificato un viaggio a Disney World in Florida per festeggiare il compleanno di Thomas. Aveva detto ad Anna che era un regalo da parte sua per tutto quello che la sorella maggiore aveva fatto per lei e in definitiva ora i soldi non le mancavano. Anzi ne aveva di più di quanti ne potesse effettivamente spendere.
Con un sorriso dentro di sé, Sally prese il telefono e compose il numero di Anna.
“Ciao sorellina, come stai?”
“Stancamente bene, mi stanno uccidendo”, rispose lei che in realtà non sentiva la fatica, anzi si alimentava della forza e dell’energia che generava quell’immensa causa che ogni giorno diventava sempre più grande e sempre più pericolosa.
“Dai ancora qualche giorno poi finalmente stacchi.”
“È proprio per questo che ti chiamavo.”
“C’è qualcosa che non va?”
“Tutto non va. Sono bloccata, mi hanno praticamente ordinato di completare le memorie per cinque convenuti, è un lavoro immenso e dovrò lavorare anche nel week end. Sono dei casi di violenza e di omicidio, sono coinvolti anche dei bambini purtroppo”, mentì Sally che non aveva mai detto che aveva continuato a lavorare nello studio di Jason.
“Oh mio dio”, rispose Anna. “Che cosa terribile, anche i bambini.”
“Già.”
“Allora senti rimandiamo il viaggio, possiamo andare il prossimo week end.”
“No, temo che non sia possibile. Ho appena chiamato l’agenzia e mancando pochi giorni perderemmo l’intero viaggio e i soldi. Non mi rimborserebbero neanche un cent.”
“Accidenti, allora cosa facciamo?”
“Andate voi, tu e Thomas. È il suo compleanno e non sta più nella pelle di andare a DisneyWorld, non deludiamolo.”
Anna rimase zitta per qualche istante e poi disse: “In effetti è da dieci giorni che vola per la casa imitando tutti i personaggi della Disney, non parla di altro.”
“Allora andate voi due, dai. Mi farete vedere le foto e i filmini”, disse Sally fingendosi addolorata.
“Sei sicura? Accidenti mi dispiace.”
“Non ti preoccupare, troveremo un’altra occasione per stare assieme.”
“Thomas sarà molto dispiaciuto.”
“Lo so, tu intanto diglielo poi io stasera lo chiamo e parlo un po’ con lui. Riuscirò a sollevargli il morale, vedrai.”
“Va bene, mi dispiace tantissimo Sally.”
“Anche a me.”
“Allora chiama Thomas verso le sette, torna dal tennis a quell’ora.”
“Okay Anna, divertitevi anche senza di me, promesso?”
“Promesso sorellina, ti mando un abbraccio.”
Sally chiuse la comunicazione e un sorriso di trionfo comparve sul suo viso.
È fatta, pensò. Ma un istante dopo pensò a Thomas.
Aveva dovuto sacrificare un innocente.
La settimana ò velocissima, Sally era oberata di lavoro perché doveva preparare le memorie che sarebbero servite a Jason nell’udienza di lunedì 13 agosto.
Arrivò il sabato, Sally staccò tardi e andò direttamente a casa di Anna. L’aria era
calda, satura di umidità e dell’allegro vociare dei turisti.
Prese la metropolitana e arrivò nei pressi dell’appartamento di Anna. La luce stava calando rapidamente ma non era ancora buio. Sally pensò che non era una buona idea entrare in casa di Anna in quel momento. Diede un’occhiata all’orologio e all’improvviso sentì fame, decise di andare a mangiare in un delizioso bistrot lì davanti, con i tavolini fuori sull’ampio marciapiede.
Ordinò un bicchiere di vino bianco e un’insalata ben guarnita.
Aveva tempo.
Aveva tutta la notte per cercare.
Dove accidenti è, pensò Sally. Ormai erano ore che frugava in ogni angolo della casa. Aveva guardato negli armadi, nei cassetti, sotto la biancheria, dietro ad altri libri. Aveva anche ispezionato la cameretta di Thomas palmo a palmo, anche se dubitava che Anna potesse tenere l’album in camera di sua figlio, ma non aveva voluto lasciare nulla al caso.
Sally si lasciò andare sul divano, all’improvviso le piovve addosso tutta la stanchezza di quella settimana, di quei mesi frenetici e assurdi. Guardò l’orologio. Le tre del mattino, erano sei ore che cercava, senza alcun risultato.
Chiuse gli occhi per un istante. Meditò. Lasciò che i pensieri si placassero, che la mente tornasse allo stato naturale di quiete.
All’improvviso le comparve la scena di quella sera, quando Anna aveva preso l’album e aveva salito le scale.
Le scale.
Lasciò che i pensieri si placassero ancora, improvvisamente si sentì fresca e riposata. In un istante, seppe dove Anna aveva messo l’album.
Prese la chiave della soffitta da una scatola che conteneva decine di altre chiavi, ognuna era contrassegnata da una linguetta di carta.
Box, cantina, sottoportico, serrande primo piano.
Soffitta, Sally la vide e la prese.
Salì le scale, la prima rampa che portava al primo piano, poi salì la seconda rampa. Era già stata lì, ma non c’era nulla, a eccezione di un locale che Anna usava per stirare e fare il bucato, appena sotto il tetto. E una botola nel soffitto, che poteva essere abbassata e che portava nel sottotetto.
Sally prese uno sgabello lasciato lì nell’angolo, ci salì sopra, aprì il lucchetto con la chiave che aveva appena trovato e una scala di metallo estraibile si allungò fino ai suoi piedi.
Il cuore cominciò a martellare nel petto di Sally, sapeva di essere sulla strada giusta, salì i gradini e sbucò nel sottotetto immerso in una oscurità totale. Cercò a tentoni un interruttore, che trovò dopo qualche tentativo. E all’improvviso il sottotetto si illuminò. Sally salì gli ultimi gradini e le parve di entrare in una sauna, la temperatura era soffocante.
Si guardò in giro e avanzò di qualche o. Il suo sguardo fu attratto da una scatola di legno, si avvicinò e la aprì.
Dentro, l’album.
Si fece una tazza di caffè con l’album ancora chiuso sul tavolo e lo sorseggiò lentamente.
Aprì l’album e vide alcune foto che conosceva, Anna da piccola; un po’ più grandicella. Anna ripresa in primo piano di fronte alla scuola.
Girò le pagine e poi si bloccò di fronte a una di esse.
Jason e Anna? pensò sbalordita dopo aver guardato la foto.
Erano giovani, molto giovani. La sorella a braccetto di Jason. Anche se il tempo aveva cambiato i lineamenti e li aveva induriti e aveva steso una sottile patina gialla sulla foto, i volti erano inconfondibili.
Jason? si chiese ancora una volta mentre il cuore accelerò improvvisamente il ritmo.
Allora si conoscevano. Ma come è possibile che Anna non me l’abbia mai detto?
Il suo pensiero volò all’anno precedente, alla scenata che la sorella le aveva fatto quando lei le aveva detto di lavorare per Jason. Sentì immediatamente che c’era qualcosa che non andava, anche la foto era strana, gli occhi dei due luccicavano. Sembravano innamorati. La testa di Anna appoggiata sul petto di Jason, il braccio di lui a circondarle la vita. Quei sorrisi, che venivano dalle profondità del tempo, da un momento di felicità e di gioia. Dalla giovinezza.
Girò altre pagine dell’album, c’erano diverse foto di Jason e Anna. Una la colpì particolarmente, era una foto scattata di spalle, loro due che camminavano mano nella mano in un quartiere fatiscente, una strada che lei conosceva bene.
Oh mio dio, la via dove abito, pensò, mentre le mani presero a tremarle leggermente.
Sally bevve un altro sorso di caffè e si impose di stare calma, chiuse gli occhi un istante. Si conoscevano ed erano fidanzati, su questo non c’era alcun dubbio a meno di voler negare l’evidenza.
Ma allora cosa è successo? Perché Anna odia così tanto Jason? si chiese sempre più assorta nella contemplazione delle vecchie foto che arrivavano da un ato lontano eppure lì, quasi a portata di mano. Un ato che aveva rimescolato le carte e le aveva distribuite nuovamente ai giocatori. Le stesse carte, per un presente quasi identico.
Sally girò una pagina e si imbatté in un articolo di giornale, una testata locale, di Brooklyn. Un articolo che parlava di un tentato stupro con ancora le foto di Jason e Anna.
Sally lesse l’articolo e alla fine quasi le cadde di mano la tazzina di caffè.
Non è possibile, pensò. Ma a un tratto i pezzi del puzzle sembravano acquistare fisionomia. Sua sorella aveva subìto un tentato stupro e Jason era intervenuto per difenderla, l’articolo riportava che nella colluttazione con l’aggressore Jason aveva avuto la peggio. Era stato in bilico tra la vita e la morte, era stato operato e un pezzo di polmone era stato rimosso. Il giornalista si soffermava sull’orrenda visione dei numerosi tagli e del sangue che colava sulla strada.
Quelle cicatrici! pensò Sally. Mia sorella quasi stuprata!
Andò avanti nella lettura con il fiato che le veniva meno. Lesse un altro articolo datato qualche giorno dopo l’aggressione, il giornalista aveva ripreso la questione e spiegava che la principale testimone, Anna, aveva in un primo momento riconosciuto l’aggressore ma poi aveva ritrattato. Contemporaneamente, anche Jason aveva ritirato la denuncia e l’aveva estesa a ignoti. Il giornalista non mancava di sottolineare il comportamento bizzarro dei protagonisti di questa vicenda di sangue. Riportava alla fine che sia Anna che Jason erano stati trattenuti in centrale per parecchie ore, ma alla fine l’accusa era quasi caduta. Era rimasto solo un fascicolo aperto per tentato omicidio, violenza privata, aggressioni, percosse, tentato stupro.
A carico di ignoti! lesse Sally.
Sally conosceva bene sua sorella, sapeva che una delle sue caratteristiche principali era quella di saper riconoscere un volto in mezzo a mille altri, era estremamente portata per la fisionomia.
Eppure aveva detto che si era sbagliata, eppure aveva ritrattato.
Com’è possibile? si chiese Sally sbalordita. Si alzò dal tavolo sentendo una vampata di calore che le proveniva da dentro, immediatamente il cuore accelerò, si sentì girare la testa e riconobbe all’istante i sintomi di un attacco di panico particolarmente violento. Prese di tasca un tranquillante e lo inghiottì, si sedette sulla poltrona e chiuse gli occhi. Dopo dieci minuti dormiva.
Il sole entrò presto nella stanza. Sally guardò l’orologio, le sei e trenta del mattino.
Quanto aveva dormito? Si chiese. Non ne aveva idea, non si ricordava fino a che ora aveva letto l’album.
Si fece una nuova tazza di caffè e la bevve avidamente.
Accese il suo computer portatile, le era venuta un’idea. Anna conosceva Jason e lo conosceva bene, tanto da essere stati quasi certamente fidanzati. Si connesse a Internet e digitò yahoo.com. In un attimo fu nel motore di ricerca, nella casellina “cerca” scrisse il nome completo Frank Davis.
Centoquattro risultati. Ne scorse qualcuno, aprì a caso dei link ma non trovò nessuna fotografia minimamente somigliante a Jason, così come non trovò nessun articolo che mettesse in collegamento Frank Davis con il fratello Jason.
Poi scrisse Jason Davis e il motore di ricerca le restituì centinaia di migliaia di risultati. Li aveva già visti, li conosceva a memoria, uno per uno, quei link li aveva consultati tutti.
Quindi inserì “Frank Davis + Jason Davis”, ordinando a Yahoo! una ricerca più raffinata, in cui il nome di Jason comparisse insieme a quello del fratello.
Zero risultati.
Le venne un’altra idea, doveva risalire alla famiglia di origine di Jason per sapere chi era il fratello.
Quindi inserì nella casella di ricerca “Jason Davis + famiglia.” Comparvero circa duecento risultati, ancora una volta li cliccò senza un ordine ben preciso, ma tutto quello che il motore di ricerca restituiva erano articoli o foto di Jason Davis con la moglie Claudine e i figli. Nessun riferimento a Frank Davis, o al padre di Jason.
Dannazione ce l’avrà pure un padre, pensò. Sapeva che Jason e Frank erano fratelli, glielo aveva detto Pamela. Ma dentro di sé sentiva che c’era dell’altro, c’era qualcosa in quella telefonata così arrogante che l’anno prima aveva inoltrato a Jason. Qualcosa che le sfuggiva e che forse era nell’album. Scostò frustrata il computer portatile, la tecnologia non le aveva dato nessun aiuto anzi le aveva confuso un po’ di più le idee.
Nessuna famiglia d’origine? Com’è possibile? pensò Sally senza sapere che tutto il materiale residente in Internet, peraltro ben poco, era stato fatto sparire da Mr H e dalla sua squadra molti anni prima, quando Internet era ancora agli albori. Quando Mr H aveva capito che Internet poteva diventare un boomerang per Jason, se qualcuno avesse scavato nel ato. Il cognome Molton, legato a Jason, era stato rimosso da ogni angolo della Rete, compreso il più remoto.
Si sedette nuovamente di fronte all’album, dentro di sé stava iniziando a stramaledirlo quel dannato album, quando mai le era venuta l’idea di cercarlo.
Poi gli articoli finirono, rimase una pagina bianca ma ingiallita ai bordi, come se fino a poco tempo prima ci fosse attaccato qualcosa che poi era stato staccato. Un po’ come quando si stacca un vecchio quadro da una parete intonacata di bianco e rimane il segno.
Nella pagina successiva c’erano altre due foto, entrambe ritraevano delle classi di alunni. Classe 1979 e 1980. Nella prima Anna non compariva, nella seconda, quella dell’anno successivo sì. Sembrava più matura, più adulta. Subito sotto c’era il diploma di scuola media superiore, conseguito da Anna nel 1980. Sally fece un rapido calcolo mentale: non quadrava. Anna avrebbe dovuto diplomarsi nel 1979 e apparire nella foto di classe di quell’anno, invece appariva nel 1980 e anche l’attestato del diploma riportava inequivocabilmente la data 1980.
Sally rimase su quelle pagine per molti minuti, aveva già visto la foto del 1979, aveva già visto le facce conosciute dei compagni di scuola di Anna. Li aveva visti da qualche parte, forse nei vecchi annuari della scuola. Poi il buco di un anno e infine Anna che ritorna e si diploma.
Guardò l’orologio, le nove e quindici. Anna e Thomas sarebbero arrivati intorno a mezzogiorno, doveva sbrigarsi se voleva leggere tutto l’album, rimetterlo al suo posto, riordinare le tracce del suo aggio e poi uscire.
Riprese l’album e girò un’altra pagina. Trovò un certificato, guardò meglio l’intestazione.
Un certificato di adozione?
Guardò il nome della bambina che era stata adottata, lesse i nomi delle persone che l’avevano adottata. Si portò una mano alla testa, si massaggiò le tempie come se fosse stata colpita da un pugno. Semplicemente non poteva credere che il nome della bambina adottata era il suo, Sally, e che la coppia che l’aveva adottata erano i genitori di Anna.
Il panico le esplose dentro come una mina antiuomo e in un istante comprese da dove veniva tutto il dolore che sentiva dentro di sé, il vuoto che percepiva in ogni momento della sua vita.
Lei era stata abbandonata e qualcuno l’aveva adottata. E stando così le cose, lei non aveva dei veri genitori e neppure Anna era la sua vera sorella.
Si alzò in piedi, andò in bagno e vomitò, fino a quando non ebbe più le forze di muovere nemmeno un muscolo.
Sentì delle voci, le arrivavano da lontano. Thomas e Anna stavano entrando in
casa e lei doveva essersi addormentata per terra in bagno, oppure era rimasta svenuta per tutto quel tempo. Non le importava, non le importava proprio niente. Si alzò e andò in cucina, l’album era ancora sul tavolo e Anna lo fissava senza capire, poi dovette intravedere un movimento alla sua sinistra, si voltò e fissò negli occhi la sorella.
“Piccolo mio, per favore. Vai in camera tua a disfare la valigia. Poi la mamma arriva ad aiutarti”, sussurrò Anna mentre Thomas dava una rapida occhiata a zia Sally senza capire che cosa ci fe lì, ma la raggiunse lo stesso e l’abbracciò. Sally si chinò, gli accarezzò la testa e diede un buffetto a Spugna, il pupazzo preferito che Thomas si portava ovunque.
“Fai quello che ha detto la mamma”, gli disse a mezza voce e il bambino sparì dalla vista, infilando le scale.
“Cosa ci fai qui?”
“Potrei farti la stessa domanda”, rispose Sally sedendosi al tavolo, l’album di fronte a lei. “Potrei chiederti che ci faccio io qui, in questa vita. Potrei chiederti da dove vengo. Potrei chiederti perché tu e Jason vi conoscevate. Potrei chiederti come è possibile che tu non mi abbia mai parlato di uno stupro e come è possibile che non mi hai mai detto che sono stata adottata”, disse Sally a voce sempre più alta, prendendo l’album e sbattendolo sul piano della cucina più volte.
“Potrei chiederti chi sei tu, visto che non sei neanche mia sorella!”, urlò Sally in preda a una fortissima rabbia.
Anna si portò una mano alla bocca, avrebbe voluto urlare ma solo delle lacrime scendevano di fronte al dolore della sorella, che nel frattempo la guardava ma senza realmente vederla.
Anna le si fece vicino, le accarezzò la testa.
“Era per proteggerti, Sally. Sono successe molte cose che era meglio non dirti all’epoca. Non è più possibile sapere chi sono i tuoi genitori biologici, lo sai. Queste informazioni non vengono rilasciate.”
“Perché non me lo hai detto?”, gridò Sally dando uno schiaffo ad Anna, che si portò una mano alla guancia, senza reagire. Sconfitta.
“Volevo dirtelo qualche anno fa, ma poi i nostri genitori sono morti e non mi è stato più possibile dirti che i tuoi genitori biologici ti avevano abbandonata. Sarebbe stato troppo per te.”
Abbandonata, pensò Sally.
“E adesso. Non era forse il caso di dirmi qualcosa invece di buttarmi addosso l’album, l’anno scorso, e poi mandarmi fuori di casa come hai fatto?” esplose Sally. “Ho ventiquattro anni. Quando pensavi di dirmi che sono stata adottata?”
“Mi dispiace.”
“Ti dispiace? Solo questo sai dirmi? Mi hai tenuto all’oscuro di tutta la mia vita, è praticamente da quando sono nata che mi sento vuota dentro, che dentro di me ci sono delle cose che ho intuito e che non ho mai conosciuto davvero, grazie anche alle tue bugie. Alle vostre bugie, a quelle bugie dette da quelli che credevo fossero i miei genitori!”, gridò ancora Sally alzandosi di botto e facendo cadere la sedia, afferrò l’album e lo scaraventò contro il muro della cucina dove infranse alcuni piatti appesi.
Anna si chinò e lo rimise sul tavolo, con mani tremanti. Come una reliquia che portava solo danni.
Sally si piegò su se stessa, si lasciò cadere sul pavimento messa in ginocchio da quella girandola di verità e menzogne, si sentiva devastata dentro, incapace di pensare.
“Quando pensavi di dirmi che hai subìto un tentativo di stupro?”, chiese con voce più bassa.
“Mai.”
“Mai? Mai?”, disse Sally alzando di nuovo la voce e rimettendosi in piedi. “Tu vieni a dirmi che mi consideri una sorella anche se non lo siamo, abbiamo impostato tutta la nostra vita sul fatto che fossimo sorelle di sangue, Anna. Sorelle. E ora mi dici che non mi avresti mai rivelato che anni fa hai subìto un tentativo di stupro, che ha sventato per di più Jason?”
“Non me l’ha permesso”, rispose Anna con un sussurro, la testa completamente vuota.
“In che senso?”
“Nel senso che se avessi continuato con la denuncia saremmo stati entrambi in pericolo. Jason ha voluto proteggermi fino all’ultimo, forse solo ora lo capisco. Forse solo ora capisco che se avessi confermato la mia denuncia, probabilmente saremmo morti entrambi.”
“Confermare la denuncia? Quindi la prima volta che hai riconosciuto l’aggressore era lui davvero.”
Anna assentì debolmente.
“Lo era.”
Sally rimase zitta, non riusciva a incassare ogni parola, ogni verità era come un pugno nello stomaco che mandava all’aria tutto quello che aveva sempre conosciuto e ritenuto come vero.
Sally respirò profondamente e fece un’altra domanda, non sapeva più cosa aspettarsi a quel punto. “Quando pensavi di dirmi che tu, in un qualche modo, non solo conoscevi Jason, ma dalle foto sembri anzi sei stata sicuramente la sua fidanzata?”
“Cosa c’entra Jason adesso?”
“Perché è stato il mio mito e se vuoi proprio saperlo io ci lavoro con lui, dannazione”, urlò Sally.
“Ti avevo detto di mollare lo Studio”, rispose Anna alzando la voce e sbattendo le mani sul tavolo. “Ti avevo detto di lasciare quel maledetto Studio.”
“Adesso non venirmi a fare la predica. Tu. Tu mi hai mentito per tutta la vita. Tu mi hai lasciata sola.”
“Non ti ho mai lasciata sola nemmeno per un istante. Non siamo sorelle, è vero. Ma ti ho amata come lo fossi, anzi probabilmente di più. Così come ti hanno amata i miei genitori. Non importa il legame biologico, Sally, quello che importa è l’amore”, disse Anna sconsolata massaggiandosi le tempie. “E se proprio vuoi saperlo, ci sono altre persone che non ti hanno mai lasciata sola.”
“Cosa intendi?”
“Ti sei mai chiesta da dove venissero i soldi per studiare legge alla Columbia?”
“Ho vinto delle borse di studio, ma non vedo cosa c’entri questo ora”, rispose Sally accalorandosi ma ricordando perfettamente che c’erano delle cose che aveva volutamente dimenticato. Un bonifico fatto per errore che lasciava sul suo conto migliaia di dollari. Una busta infilata sotto una porta, con dentro dei soldi.
Anna scosse la testa. “Non bastavano le tue borse di studio e neanche i miei soldi
bastavano, Sally. Qualcuno ha pagato per te.”
Sally scattò all’indietro, come se avesse ricevuto un gancio ben assestato.
“Cosa stai dicendo ora?”
“Sto dicendo che qualcuno ti aveva abbastanza a cuore per vederti laureata, qualcuno che voleva lavarsi un senso di colpa magari nei miei confronti. Qualcuno che si chiama Jason”, le gridò in faccia all’improvviso Anna.
Il silenzio calò su entrambe le donne, ora separate da anni luce, da una distanza incolmabile. Da verità nascoste e da una montagna di bugie.
“Ora basta Sally, calmiamoci un attimo. Le cose sono andate così, ci sono dei fatti che non conosci e che è meglio che rimangano nella vita privata di chi li ha vissuti”, disse Anna vinta dalla disperazione.
“Che rimangano nella vita privata? Anna sei fuori di testa? Ma lo sai cosa c’è in questo album? Lo hai mai letto almeno o lo hai composto senza essere consapevole di quello che stavi facendo? Chi sono i miei genitori!”, urlò Sally piangendo.
“Chi sono i miei genitori!”, urlò di nuovo con tutta la voce che aveva in corpo.
Anna scosse la testa e deglutì a vuoto, ma rimase in silenzio.
Sally afferrò al volo il computer portatile, lo chiuse di scatto e quasi corse verso la porta dell’appartamento. Via da lì, lontana, il più lontana possibile.
“Aspetta Sally!”
“Non ti voglio più vedere, almeno non fino a quando non mi avrai detto tutta la verità.”
E uscì nel mattino splendente, la luce così intensa le ferì l’anima, il cervello e la fece sprofondare nel buio più assoluto.
New York, 13 agosto 2001
54
Sally si era data malata per un giorno, era devastata da quello che aveva scoperto. Dall’album, dal ato che era tornato così inaspettato e doloroso, facendola precipitare in un turbinio di pensieri e di emozioni che l’avevano annientata.
Dopo la discussione con Anna, era tornata nel suo appartamento a Brooklyn, aveva chiuso le imposte per tenere fuori l’accecante luce dell’estate e aveva telefonato allo Studio adducendo una scusa qualunque per stare lontana dall’ufficio, dal lavoro. Da Jason.
All’improvviso sentiva di odiarlo. Era lui il responsabile di molti dei suoi problemi attuali, lui quello che aveva raggirato e manipolato la sorella Anna, lui quello che aveva insabbiato una denuncia e non aveva permesso che la legge fe il suo corso. Lui, l’avvocato.
Aveva percorso ogni centimetro del suo piccolo appartamento, pensando e ripensando. Poi era uscita, aveva bisogno di prendere aria. Era andata verso il ponte di Brooklyn e lì si era fermata. Aveva visto la sua vita scorrerle davanti agli occhi sempre con quella sensazione che ci fosse qualcosa che non andava. I suoi genitori adottivi erano stati dei genitori veri e amorevoli, però continuava a domandarsi su chi era davvero, da dove venisse.
Era così concentrata e chiusa nel suo dolore da non rendersi conto che la risposta a tutte le sue domande l’aveva davanti agli occhi.
Tornò in ufficio il giorno dopo, una notte agitata e densa di sogni e di incubi l’avevano indebolita ancora di più. Avrebbe voluto licenziarsi all’istante dallo Studio, allontanarsi da quell’uomo il più velocemente possibile. Eppure sentiva che c’era qualcosa di irrisolto, qualcosa che non era stato detto, o che non aveva capito. E aveva deciso di affrontare Jason quel giorno.
Piombò come una furia nel suo ufficio mentre lui era al telefono. Jason alzò un sopracciglio con aria interrogativa, poi le indicò la sedia ma Sally rimase in piedi con le braccia conserte. Jason capì all’istante che c’era qualcosa che non andava, non era mai successo che un dipendente dello Studio entrasse nel suo ufficio così senza essere convocato e infatti dopo qualche istante Pamela comparve sulla soglia e si avvicinò a Sally.
“Cosa ci fai qui?”, le sussurrò aspramente.
“Affari miei”, le rispose Sally senza guardarla.
Pamela rimase per un attimo sbigottita, poi la prese per un braccio per portarla fuori e in quel momento Jason chiuse la comunicazione.
“Buongiorno signore, cosa posso fare per voi?”, chiese Jason con un tono chiaramente ironico.
“Sally andiamo via, non è questo il momento”, disse Pamela.
“Te l’ho già detto. Fatti i cazzi tuoi e ora lasciaci soli”, disse Sally fissando
Jason.
“Va bene così, Pamela non c’è problema. Chiudi la porta quando esci”, disse Jason congedandola.
Pamela rimase sbalordita. Da quello che si ricordava non si era mai verificato che un dipendente dello Studio fe irruzione nell’ufficio di Jason. E che lui la lasciasse fare. Uscì dall’ufficio tirandosi dietro la porta e chiudendola con uno scatto secco.
“Dunque?”, chiese Jason con cautela.
“Non ho più una vita!”, esplose subito Sally. “Me l’avete rubata, tu, Anna, i miei genitori adottivi. Non so neanche come mi chiamo realmente, non so da dove provengo. E ora dovrei ringraziarti anche perché mi hai pagato gli studi?”, disse Sally tutto d’un fiato. Le mani e la voce le tremavano talmente tanto che non riusciva più a controllarsi.
“Puoi sederti un attimo per cortesia, Sally”, disse Jason con un tono pacato. Lei obbedì e Jason le versò un bicchiere d’acqua aspettando che si calmasse. Nel suo farneticare iniziale aveva fatto il nome di Anna, non gli era certo sfuggito questo particolare.
“Non ho una vita”, disse Sally stancamente appoggiando il bicchiere dopo aver preso un lungo sorso.
“Che cosa intendi, non capisco”, disse Jason sporgendosi sulla scrivania per farsi più vicino a lei. Voleva bene a quella ragazza e lui stesso si sentiva stranamente turbato dallo stesso turbamento della giovane.
“Hai avuto una storia con Anna e lei ha subìto un tentativo di stupro che tu hai sventato. Ma poi hai deciso di non andare avanti con la denuncia, l’hai costretta a ritrattare tutto quando lei aveva scoperto il suo aggressore e sapeva bene chi era. Anna non è mia sorella e come se non bastasse ho scoperto che sono stata adottata e non so chi siano i miei genitori biologici. Infine, tu hai pagato i miei studi, o almeno parte. Non quadra più nulla. Ho sempre sentito che nella mia vita mancavano dei pezzi. Fatti che non quadravano, parole non dette. Ma tutto questo è troppo!”, disse Sally.
Jason lasciò che la bufera si placasse. Si chiese se fosse stata Anna a sollevare il coperchio sul ato che, con pazienza certosina, aveva cercato sempre di tenere ben chiuso. Ma Sally doveva aver scoperto tutto da sola. Jason si alzò.
“Vieni con me”, disse porgendole una mano.
Salirono le scale in silenzio.
Jason la condusse fuori, sull’ampia terrazza in vetro.
Sally si sedette su un’ampia poltrona, imitata da Jason.
“Va meglio?”, le chiese con dolcezza.
Lei annuì senza parlare.
“Vedi”, cominciò Jason, “Hai detto che non hai una vita, che non sai chi sei. Che non sai chi sono i tuoi genitori biologici. È importante sapere da dove si proviene, sono d’accordo, ma più importante è sapere che da dove si proviene c’è stata una cosa, fondamentale e che a te è stata data in abbondanza, solo per il fatto che sei esistita e continui a esistere.”
Sally alzò gli occhi su di lui.
“L’amore, Sally. Ho conosciuto i tuoi genitori quando tu eri ancora piccolissima e, credimi, non hanno mai messo in dubbio che loro fossero davvero i tuoi genitori, anche se non hanno compiuto il gesto biologico di metterti al mondo. Ho visto tua mamma raccontarti delle fiabe. Ho visto tuo papà accompagnarti all’asilo, a scuola. Ti teneva sempre per mano sai? E tu non avevi occhi che per lui, era il tuo eroe, la persona più importante del mondo. E lo era, credimi”, disse Jason mentendo su questa ultima parte ma con un fine nobile, non era più tornato a Brooklyn e non aveva più rivisto il suo quartiere d’origine dopo la sua fuga.
“Quanti bambini crescono nel degrado, magari picchiati o umiliati dai loro stessi genitori. Quante paure devono provare, quanto poco amore viene a loro concesso. Eppure crescono comunque”, disse Jason con una nota di tristezza nella voce e in un lampo a Sally venne in mente quella foto custodita nella piramide in titanio della scrivania, quella foto dove c’era un Jason giovanissimo chiaramente in una situazione in cui era quella che lui stesso stava descrivendo. Sally lo guardò negli occhi e per un attimo le sembrò di vedere un lampo di dolore, un profondo dolore che si annidava negli ambiti più reconditi dell’anima di Jason.
“Io credo che essere adottati non significhi non essere amati, anzi secondo me sono più amati i bambini adottati di quelli biologici. Perché vedi, un bambino biologico è come un dato di fatto in una coppia, arriva e non puoi certo fare finta che non esista, o dosare l’affetto o l’amore che provi per lui. Un bambino adottato invece è qualcosa di ricercato, di voluto, di desiderato con ogni fibra dell’essere dei genitori adottivi. È due volte figlio, capisci quello che voglio dire?”, chiese Jason.
“Sì, credo di sì”, disse Sally con un accenno di sorriso sulle labbra.
Jason e Sally rimasero in silenzio per qualche minuto.
“E Anna?”, chiese Sally rompendo il silenzio.
Jason lasciò are qualche secondo prima di rispondere, lasciò are una nuvola che oscurava il sole e che correva veloce nel cielo.
“Eravamo davvero giovani, sai? Io avevo diciotto anni, lei sedici appena compiuti. È stata la mia prima fidanzatina e lo stesso era per lei.”
“Ma tu l’hai lasciata sola, dopo averla salvata.”
Jason notò ancora che Sally non lo chiamava più “avvocato”, ma continuava a dargli del tu.
“Conosci Brooklyn, no?”
Sally annuì. “Ci vivo ancora”, disse con la voce rotta dalla tristezza.
“Noi vivevamo lì, Sally.”
“Noi?”
“Sì, ovviamente anche io vivevo lì.”
Sally se lo aspettava, lo sapeva. Altrimenti come avrebbe fatto Jason a conoscere Anna?
“Potevate andarvene”, disse poco convinta.
“E portare via tua sorella? Per andare dove?”, chiese Jason accendendosi un sigaro. “Solo io me ne sono andato, ma... beh, per me vale un altro discorso.”
Sally si rannuvolò, avrebbe voluto chiedere a Jason perché solo lui se ne era andato, ma d’istinto capì che non avrebbe avuto risposta, che era una domanda troppo dolorosa anche per lui.
“Però l’hai lasciata sola. L’hai costretta a ritirare la conferma del riconoscimento
e tu stesso non hai proseguito con la denuncia, sebbene ti avesse quasi ammazzato.”
“Era l’unica cosa da fare. Se avessimo proseguito sulla via legale, per noi sarebbe stata la fine. Il nostro aggressore era un capobanda. Un vero animale. I suoi gregari ce l’avrebbero fatta pagare, lo sai anche tu. In quei dintorni, specie venti anni fa, la vita non valeva molto. Tradire Anna era l’unico modo per salvarle la vita. Se potessi tornare indietro farei esattamente la stessa identica cosa”, disse Jason aspirando una piccola boccata.
“Devi avere voluto molto bene ad Anna”, disse Sally.
Jason annuì, semplicemente.
“Perché io?”, chiese Sally all’improvviso.
“Perché tu sei la sorella di Anna. Non potendo più aiutare Anna, ho aiutato te. Sei capace e onesta, lavori molto bene. Ti ho osservata da lontano sin dai tempi in cui andavi a scuola e quando ho saputo che ti saresti iscritta a legge alla Columbia, sono stato felice.”
“Mi ha aiutata molto, avvocato”, disse Sally ando al lei e a Jason non sfuggì. “Come posso ripagarla per tutto questo?”, chiese con gli occhi che le erano tornati a brillare. Era di nuovo dalla parte di Jason, lo avrebbe seguito fino in fondo.
Jason sorrise e aspirò un’altra boccata dal sigaro.
“Lo stai già facendo, Sally. Non hai nessun debito verso di me”, disse.
“Grazie avvocato.”
“Grazie a te”, rispose Jason mentre Sally già scendeva i gradini e si allontanava, lasciandolo solo.
Jason scese nel suo ufficio, compose il numero che gli aveva dato Mr H e rimase al telefono per almeno una mezz’ora.
Alla fine della telefonata disse: “Venga almeno a New York, Mr Griffin. Non la costringerò a testimoniare, se non vuole. Ma parliamone a quattr’occhi, è importante.”
Il suo interlocutore rimase zitto per quella che sembrava un’eternità.
“Va bene, verrò”, disse semplicemente chiudendo la conversazione.
Tribunale di New York, 24 agosto 2001
55
“Può dire alla corte il suo nome e cognome?”, chiese Jason alzandosi in piedi mentre il testimone finiva il giuramento con la mano destra sulla Bibbia. Stern e Markus erano seduti al banco dell’accusa e Sally si era fatta largo nel pubblico per non perdersi neanche una parola. Era nell’aria in ufficio, tutti sapevano che quel giorno sarebbe successo qualcosa di importante.
“Mi chiamo Albert Griffin.”
“Qual è la sua occupazione, signor Griffin?”
“Attualmente svolgo attività di consulenza per alcune aziende.”
“Che tipo di aziende?”
“Aziende che producono materiali gommosi di altissima qualità utilizzati per usi industriali e come materiale isolante negli usi civili.”
“Ha mai lavorato nel settore automobilistico?”, chiese Jason eggiando tranquillamente per l’aula e appoggiandosi con un braccio alla balaustra che lo divideva dalla giuria.
“Sì”, rispose Griffin.
“Con quali mansioni”? chiese Jason.
“Ero l’ingegnere che guidava il team di progettazione e costruzione di alcuni pneumatici.”
“In quale azienda, signor Griffin?”
“La Drexel e negli ultimi anni ho collaborato anche con la Power Tyre come consulente esterno.”
“Interessante”, disse Jason ascoltando il lieve mormorio che si era levato dal pubblico.
“Quindi lei progettava e realizzava una linea di pneumatici della Drexel, ho capito bene?”, chiese Jason.
“È esatto.”
“E di quale linea di pneumatici? Intendo signor Griffin, un’azienda grande quanto la Drexel avrà diverse linee di prodotto. Lei per quale linea era il direttore responsabile?”
“Della linea di pneumatici oggetto di questo processo”, rispose Griffin senza esitare.
Jason si bloccò dando le spalle alla giuria, poi si voltò con un atteggiamento provato decine di volte e che alla fine gli era divenuto del tutto naturale: quello di un mago che sta estraendo un coniglio dal cilindro.
“Signor Griffin, può spiegare a questa corte le mansioni del suo lavoro? Cosa faceva esattamente?”
“Disegnavo e progettavo un nuovo pneumatico con gli standard più alti di qualità. Quindi costruivo dei prototipi. Questi prototipi venivano provati con migliaia di ore di test, con tutti i tipi di stress possibili a cui uno pneumatico può trovarsi sottoposto.”
“Ci citi qualche esempio di questi stress, se non le dispiace.”
“Una buca, un forte temporale, una nevicata, una lastra di ghiaccio. Gli pneumatici sono il punto di contatto tra la vettura e il suolo, sono la parte più importante di qualunque vettura. Non solo della Brown Motor Company”, disse Griffin guardando negli occhi Randy Stewart.
“La linea di pneumatici oggetto di questo dibattimento aveva superato i test e gli stress che lei aveva imposto?”
“Sì, e con largo successo.”
“Temo di non capire”, disse Jason avvicinandosi al suo testimone.
“Gli pneumatici che realizzai erano conformi ai più alti livelli qualitativi di quell’epoca. Erano in grado di resistere a ogni sforzo, a ogni stress o sollecitazione e nessun incidente, neanche nelle condizioni più estreme, venne provocato da un cattivo funzionamento degli pneumatici.”
“Allora come si spiegano queste?”, disse Jason indicando il pannello sui cui erano state incollate le foto di pneumatici sventrati, distrutti, collassati, bucati e che avevano condotto a incidenti spesso mortali.
“Si spiegano con il fatto che gli pneumatici immessi sul mercato dalla Drexel non erano gli stessi che avevo progettato io”, disse Griffin imperturbabile.
La giuria si tese verso il testimone.
“E perché quei pneumatici non erano gli stessi, signor Griffin?”, chiese Jason guardando la giuria.
“Perché costavano troppo, perché i margini di profitto erano bassi rispetto a quanto richiesto per ogni progetto dall’azienda”
“Il margine di profitto?”, chiese Jason sempre fissando la giuria.
“Esatto, il margine di profitto. Vede la concorrenza nel settore è molto forte. Il prodotto che io realizzai era il top della gamma, ma costava troppo alla produzione. Scrissi un report alla direzione generale evidenziando la minore redditività che questa linea di pneumatici, altamente sicura, avrebbe dato alla Drexel.”
“Capisco. E la Drexel cosa fece?”, chiese Jason voltandosi di tre quarti verso l’ingegnere che continuava a mantenere un atteggiamento sereno.
“Gli standard qualitativi vennero cambiati e abbassati parecchio, per ridurre i costi di produzione. Gli pneumatici vennero commercializzati e incominciarono gli incidenti.”
“E lei cosa fece, signor Griffin?”, chiese Jason ora appoggiandosi al banco del testimone.
“Scrissi un altro report alla direzione generale, manifestando il mio dissenso per il cambio dei parametri qualitativi e imponendo che tutti gli pneumatici venissero richiamati alla casa di produzione per le ispezioni”, disse Griffin posando sul banco un voluminoso report rilegato a spirale.
“Sia messo a verbale come prova numero centoquarantanove”, disse Jason prendendo il report e consegnandolo al cancelliere dell’aula.
“Si proceda”, disse il giudice Schmit.
“Che cosa rispose la direzione generale quando lei inviò il suo report?”
“Nulla.”
“Nulla?”, ripeté Jason.
“Gli pneumatici non vennero ritirati dal commercio, anzi la produzione aumentò e le vendite in un primo momento andarono molto bene. Il titolo guadagnò parecchi punti percentuali in borsa, la Drexel ottenne un’eccellente trimestrale.”
“Con il risultato che gli azionisti si arricchirono.”
“Esattamente.”
“Ma a danno dei consumatori”, disse Jason voltandosi verso Randy Stewart che sembrava una statua di sale.
Un mormorio di disapprovazione serpeggiò per l’aula, il giudice richiamò l’ordine battendo due volte il martelletto.
“Il danno fu ingente, come lei ha dimostrato, avvocato Davis”, disse Griffin fissando la giuria.
“A questo punto cosa fece?”
“Non potevo fare molto, non avevo il potere di ritirare dal commercio una linea di prodotti evidentemente di scarsa qualità, solo la direzione generale aveva questo potere decisionale. Quindi scrissi una breve e-mail indirizzata al consiglio di amministrazione della Drexel, al reparto tecnico e alla produzione.”
“Ci può spiegare il contenuto di questa e-mail?”, chiese Jason.
L’ingegnere Griffin trasse dalla sua valigetta un unico foglio, lo porse a Jason.
“Sia messo a verbale come prova a carico numero centocinquanta”, disse Jason prendendo una copia della e-mail e porgendo l’altra al cancelliere.
Cominciò a leggerne il testo, scandendo le parole.
“Gentili Signori, la linea di pneumatici prodotta, con nome in codice TSH-12, è del tutto non conforme agli standard qualitativi imposti dal nostro laboratorio di progettazione, e non conforme agli standard commerciali della Drexel. Tutti i parametri di qualità da me suggeriti e imposti non sono stati rispettati, la conseguenza è che ora sul mercato sono installati milioni di pneumatici che potrebbero provocare danni estremamente seri. Consiglio, anzi, impongo che la linea sia immediatamente ritirata dal commercio e che gli pneumatici siano sostituiti da altri con migliori performance e che non siano soggetti ai casi che stanno arrivando al nostro laboratorio. Questi casi, di cui ho allegato le foto, indicano severi danni alla carcassa dello pneumatico e in talune circostanze il suo collasso completo. Per le informazioni che mi sono state trasmesse, ci sono già dodici vittime accertate oltre a numerose altre centinaia di feriti. Qualora la
Drexel dovesse proseguire su questa linea, ossia di non ritirare gli pneumatici dal commercio, i danni potrebbero essere incalcolabili.”
“Quando mandò questa e-mail, signor Griffin?” chiese Jason già sapendo la risposta, essendo la data e l’ora di invio della e-mail stampata sul foglio.
“Il giorno prima della trimestrale.”
“Quella che ottenne eccellenti risultati”, dichiarò Jason.
“Quella che fece diventare ricchi gli azionisti e in particolare il top management, che potè esercitare i diritti di opzione sulle azioni.”
“I diritti di opzione?”, chiese Jason.
“I diritti di opzione che vennero esercitati dal top management all’indomani della trimestrale.”
“Temo di non seguirla”, disse Jason. “Può spiegare alla corte e alla giuria cos’è un diritto di opzione?”
“Obiezione, vostro onore”, disse Randy alzandosi in piedi. “Il teste è un ingegnere, non un esperto di diritto finanziario.”
“Il diritto di opzione, avvocato Stewart, è cosa assai nota tra tutti i risparmiatori degli Stati Uniti e il teste è perfettamente in grado di rispondere a questa semplice domanda. Obiezione respinta”, disse il giudice Schmit.
“Può rispondere alla domanda”, disse Jason.
“È molto semplice, in effetti. Il diritto di opzione permette di sottoscrivere le azioni di un’azienda quotata in borsa a un prezzo che spesso è molto al di sotto del valore di mercato. Generalmente parlando, i diritti di opzione sono concessi al top management come strumento per incentivare il proprio lavoro. Più il top management lavora bene e di conseguenza fa salire il prezzo in borsa dell’azione, più il diritto di opzione acquista valore.”
“Chiarissimo Signor Griffin, può però spiegarci che cosa fa acquistare di valore il diritto di opzione?”, chiese Jason dando un’occhiata alla giuria, tutta tesa nell’ascoltare il testimone.
“Aumentando il prezzo di borsa, il diritto di opzione mantiene il suo prezzo originario e permette di sottoscrivere azioni a un prezzo davvero irrisorio rispetto ai valori di mercato, azioni che poi possono essere rivendute in borsa.”
Jason estrasse un altro fascicolo dalle sue carte e lo porse al cancelliere. “Sia messo a verbale come prova a carico numero centocinquantuno”, disse aspettando che il fascicolo fosse distribuito e che il lucido corrispondente venisse proiettato sul monitor.
Rivolgendosi alla giuria, disse. “Come vedete dal monitor, il report evidenzia due colonne di numeri. La prima colonna è il prezzo del diritto di opzione. La
seconda il valore di borsa dell’azione Drexel. L’ultimo prezzo in basso a destra è il prezzo di borsa il giorno della trimestrale. Ventiquattro dollari. Potete notare che il prezzo del diritto di opzione non cambia rispetto alla variazione del prezzo di borsa, e rimane costante. Zero virgola quindici centesimi per azione. È esatto Mr. Griffin?”, chiese Jason.
“È esatto”, confermò il teste.
“Questo significa che il top management aveva il diritto di sottoscrivere le azioni a un prezzo di 15 centesimi di dollaro e poi rivenderle a 24$. In altre parole, per ogni mille dollari, il top management veniva retribuito, con questo meccanismo, con centosessantamila dollari. È corretto Mr. Griffin?”, chiese ancora Jason.
“È esatto”, confermò nuovamente Griffin.
Un brusio di disapprovazione si levò altissimo dal pubblico e da molti membri della giuria.
“Mr. Griffin, prendiamo ad esempio l’amministratore delegato della Drexel, ossia quello che avrebbe avuto il potere esecutivo di ritirare gli pneumatici incriminati. Quante azioni poteva sottoscrivere e poi rivendere con il meccanismo del diritto di opzione?”
“Due milioni di azioni”, rispose Griffin senza esitare.
“Obiezione vostro onore, il teste non può sapere questi dati.”
“Obiezione respinta, avvocato Stewart. Forse non lo sa, ma questi dati sono reperibili su qualunque sito Internet di informazione finanziaria”, disse il giudice Schmit.
“Sia messo a verbale questo report, come prova a carico centocinquantadue. È la lista dei beneficiari dei diritti di opzione, con l’indicazione di quante azioni potevano sottoscrivere”, disse Jason porgendo un altro fascicolo al cancelliere.
Jason attese ancora qualche secondo, poi si rivolse di nuovo al teste.
“Dunque, Mr. Griffin. L’amministratore delegato della Drexel, come si evince dal rapporto, aveva ad esempio la facoltà di sottoscrivere due milioni di azioni a 15 centesimi per un esborso totale di trecentomila dollari. Secondo il meccanismo del diritto di opzione, aveva la facoltà di venderle il giorno stesso della trimestrale a 24$, con un ricavo netto di 48 milioni di dollari. È corretto mister Griffin.”
“È corretto”, rispose il teste.
“E cosa fece l’amministratore delegato, ottenendo così una trimestrale fantastica che sparò alle stelle il prezzo di borsa dell’azione?”
“Nulla, come ho già detto il mio report venne ignorato e l’amministratore delegato, assieme a tutti gli altri membri del top management che avevano sottoscritto il diritto di opzione, vendettero le azioni nei giorni successivi alla trimestrale, accumulando una fortuna. Stiamo parlando di parecchie centinaia di
milioni di dollari.”
Jason estrasse un altro fascicolo che consegnò al cancelliere. “Sia messo a verbale questo fascicolo, come prova a carico centocinquantatre. È la lista completa del top management e del consiglio di amministrazione che ha beneficiato dei diritti di opzione e ha rivenduto sul mercato le azioni, nei giorni immediatamente successivi alla trimestrale.”
Il fascicolo venne proiettato sul monitor e comparve quello che Jason aveva detto.
“Signor Griffin, può per favore dire ad alta voce la somma totale evidenziata in verde? È quel numero in basso a destra.”
“Duecentosettantuno milioni di dollari”, disse Griffin senza esitazione.
“Questa è la somma guadagnata dai signori della Drexel in pochi giorni. Un tempismo eccezionale, conviene Mr. Griffin?”, disse Jason sorridendo apertamente.
“Convengo”, confermò Griffin.
E in aula esplose un boato, il giudice Schmit batté il martelletto ripetute volte minacciando di far sgombrare l’aula. Finalmente ritornò il silenzio.
Jason eggiò avanti e indietro, prima di girarsi di nuovo verso la giuria.
“Una domanda, signor Griffin. E specifico, prima di sollevare un’obiezione dalla difesa, che sto solo chiedendo un parere.”
“Prosegua, avvocato”, acconsentì il giudice.
“Signor Griffin, cosa sarebbe successo se il top management avesse seguito i suoi consigli e avesse fatto ritirare gli pneumatici prima della trimestrale?”
“Sarebbe successo un disastro.”
“In che senso? Si spieghi meglio”, chiese Jason trattenendo un sorriso.
Il prezzo di borsa delle azioni sarebbe crollato in pochi minuti, gli azionisti avrebbero perso molto denaro e il top management non avrebbe potuto esercitare i diritti di opzione.”
“Quindi, quei 271 milioni di dollari...”
“Sarebbero evaporati come neve al sole, avvocato. Il top management avrebbe perso tutto, e anche di più.”
Jason lasciò che queste parole planassero nell’aula, le lasciò entrare nelle menti dei giurati.
“Il profitto, Mr. Griffin”, disse poi Jason guardando i giurati.
“Il profitto, avvocato”, rispose Griffin.
“Quando lei mandò l’e-mail, che cosa fece la direzione?”
“Venni licenziato e minacciato. Il giorno dopo avevo già lasciato gli uffici scortato da guardie armate”, disse Griffin abbassando il tono della voce, con una punta di rabbia repressa.
“Un’ultima domanda, signor Griffin. In che cosa consistevano le minacce che le furono rivolte?”
“Fui minacciato di un’azione legale nei miei confronti, per negligenza e per incompetenza.”
“Incompetenza?”
“Esatto, avvocato.”
Jason trasse un profondo respiro, guardò la giuria e disse: “Non ho altre domande”, e tornò al banco dell’accusa dando a Randy Stewart un’occhiata trionfante. Markus e Stern rimasero imibili.
“La parola alla difesa, avvocato Stewart il teste è suo”, disse il giudice.
Randy si alzò dal tavolo, si prese qualche minuto leggendo dei fogli che aveva davanti a sé.
“Avvocato non intendo stare qui tutto il pomeriggio. Se ha domande da fare la ascoltiamo, altrimenti può rinunciare come ben sa al contro interrogatorio.”
Randy si schiarì la voce e fece qualche o verso Griffin.
“Lei è sposato, Mr. Griffin?”
“Lo sono stato fino a quattro anni fa, mia moglie è morta improvvisamente.”
“Mi dispiace”, disse Randy senza empatia.
La giuria registrò al volo questa scarsa partecipazione emotiva e tutti guardarono Jason.
“Mi risulta che lei per un certo periodo di tempo soffrì di depressione, a seguito della morte di sua moglie. Si sottopose a una cura psicoterapeutica o farmacologica?”
“Non credo che questo la riguardi, avvocato”, disse Griffin.
“Ai fini del nostro dibattimento può essere utile sapere quali fossero le sue condizioni fisiche e psicologiche al momento dei fatti e in un periodo di forte stress.”
“Il teste è pregato di rispondere alla domanda”, disse il giudice Schmit intuendo che la difesa aveva fatto un o falso.
“Mi sottoposi a una cura di antidepressivi che durò circa otto mesi.”
“E oggi come si sente?”
“Perfettamente bene, avvocato.”
Randy si ò i fogli tra le mani che tremavano leggermente.
“È possibile che il malessere per la perdita di sua moglie abbia influito sulla sua capacità di giudizio, sulle sue abilità progettuali e sul suo lavoro in genere?”
“No”, rispose secco Griffin.
“Come fa a esserne così certo?”, chiese Randy facendo un ennesimo sbaglio.
“Perché il lavoro era la mia terapia, i farmaci e la depressione solo una conseguenza, avvocato. Come nel caso degli pneumatici, la causa era nota, la conseguenza venne ignorata e non curata. Per questo motivo la Drexel è responsabile della morte di più di quattrocento persone, del ferimento di più di quindicimila tra cui molti bambini, e responsabile di una quantità immensa di dolore. Il mio è nulla paragonato alla somma di tutti questi dolori, avvocato.”
L’aula esplose in un altro boato.
Jason guardò nuovamente Randy che era l’immagine della disfatta.
Il giudice Schmit si rivolse all’accusa. “Avvocato ha altri testimoni?”
“L’accusa ha finito”, disse Jason.
“Avvocato Stewart?”
“La difesa ha finito, vostro onore”, disse Randy quasi senza più voce.
“Dichiaro concluso il dibattimento, la giuria si può ritirare e deliberare”, disse il giudice Schmit battendo due volte con il martelletto e alzandosi in piedi.
Sally fu tra le prime a uscire. Non c’era più bisogno di aggiungere altro: avevano vinto. Si sentì parte di un ingranaggio perfetto.
Stern e Markus lasciarono il banco dell’accusa, imitati da Jason e tutti e tre uscirono nel caldo sole di quella splendida estate.
“Jason, li abbiamo fatti secchi”, disse Markus quando furono a una ragionevole distanza dal Tribunale.
“Abbiamo vinto”, confermò Stern con un sorriso.
“Aspettiamo il verdetto della giuria, ragazzi”, disse Jason cauto. Si sentiva molto contento, euforico, ma nello stesso tempo era mentalmente sfinito. Il peso di quella causa, i lunghi mesi di assedio, il testimone chiave.
I tre camminarono con o leggero sotto i raggi del sole avviandosi verso l’ufficio, a un certo punto Jason vide Anna, si bloccò e disse loro: “Voi andate avanti, vi raggiungo tra poco.”
“Ma come! Dobbiamo festeggiare, c’è tutto lo Studio che ci aspetta”, disse Markus.
“Arrivo subito, datemi qualche minuto. Devo solo parlare con una persona”, disse loro e un secondo dopo stava già attraversando la strada per raggiungerla.
New York, 24 agosto 2001
56
Jason si avvicinò ad Anna lentamente. Si sentiva le gambe di piombo mentre pensava che nel giro di un anno, da quella telefonata di Frank, tutto il suo ato era tornato a fargli visita.
“Ciao Anna”, disse fermandosi a un metro da lei. Il cuore aveva accelerato, l’emozione di trovarsi di fronte alla sua prima fidanzatina, forse l’unica cosa bella di quegli anni a Brooklyn, lo stava sopraffacendo.
“Buongiorno Mr. Davis, la stavo aspettando.”
I due rimasero sul marciapiede mentre la gente indifferente camminava affianco a loro e il traffico scorreva lento come un fiume placido che ha raggiunto la foce. Rimasero a guardarsi per un tempo che sembrò un’eternità, Jason non sapeva cosa dire di fronte al modo in cui Anna si era rivolto a lui, così algido e formale.
“Ti prego dammi del tu.”
“Non credo sia il caso Mr. Davis”, rispose Anna tenendo le braccia lungo i fianchi, in atteggiamento aperto, di sfida. Non c’era quasi la minima emozione in lei, e se c’era, pensò Jason, doveva nasconderla con molta abilità.
“In un certo senso mi aspettavo che venissi”, disse Jason anche se in realtà era assolutamente sbalordito da quell’incontro. Sì, forse si aspettava che Anna
tornasse nella sua vita, ma non in quel modo, non davanti a tutti. Non di fronte al Tribunale.
“Io invece speravo di non rivederla più.” Jason poté notare la sua sicurezza quasi spavalda, gli occhi di lei, le pupille ridotte a due spilli che lo fissavano.
“Lo immagino”, rispose Jason sentendo nel petto quel dolore familiare, quel senso di colpa che aveva per lei, per averla abbandonata dopo averla salvata, per essere uscito dalla sua vita senza neanche un addio. Senza nulla, neppure una sillaba.
“Dobbiamo parlare.”
Jason si guardò in giro, notò alcuni colleghi avvocati che lo stavano guardando mentre avano al suo fianco. Si sentiva cereo in faccia, esausto dopo la battaglia con Randy. Non avrebbe potuto sopportarne un’altra, in mezzo alla gente, con la folla che assisteva.
“C’è un parco qui vicino, possiamo andare lì?”
“D’accordo”, e i due si incamminarono tenendosi a distanza. Il sole era caldo, caldissimo. Ma quello spazio che li divideva era più gelido della più fredda delle notti antartiche.
Si sedettero sulla stessa panchina su cui Jason e Pamela si erano seduti quasi un anno prima, quando il giudice Schmit aveva ammesso la causa alla discussione
in Tribunale. Jason aveva paura, quel giorno e la stessa paura ora la sentiva con Anna. Ripensò a quei pochi mesi di felicità che aveva vissuto con lei, quando erano stati fidanzati. Una felicità quasi sovrannaturale, magica. Acqua fresca che lavava via tutto lo sporco. Aria pura, che lo rendeva vivo e vibrante. Pensò alla sua giovinezza e che sì, era valsa la pena viverla, perché aveva potuto godere di quei mesi con Anna. Della sua dolcezza, dell’amore che si scambiavano dandosi con completa generosità. Senza calcolo, senza malizia.
“Ti ascolto”, disse Jason con dolcezza.
“Sally ha scoperto molte cose sul ato, su di noi e su se stessa. Ero stata chiara con lei, per nessun motivo avrebbe dovuto lavorare per te. Invece me la ritrovo ben piazzata nel tuo Studio. Non voglio che abbia a che fare con uno come te”, disse Anna dura, ando al tu dimenticandosi della formalità di poco prima.
“Ma perché?”
“Perché? Perché hai fatto talmente male a me e alla mia famiglia che non voglio...”
Jason la interruppe, i tanti anni ati in Tribunale a interrogare testimoni, a far saltare fuori la verità e a combattere fino all’ultimo sangue, presero il sopravvento.
“Che cosa non vuoi? Dannazione Anna, è ata una vita dai tempi di Brooklyn. Credi che per me sia stato semplice? Ho dovuto buttare alle ortiche anche te, l’unica cosa bella e per cui valeva la pena vivere. Ho dovuto, Anna.
Dovuto. Per salvare te, per salvare noi.”
“Non capisci. C’è molto di più ora, più di quello che immagini.”
“Che sarebbe?”, chiese lui.
“Non voglio per nessun motivo che tu faccia del male a mia figlia!”
“Tua figlia?”, chiese Jason stupito.
“Hai ragione, non è solo mia. Avrei dovuto dire nostra figlia”, disse Anna girando la testa e fissandolo negli occhi.
Jason non riusciva a capacitarsi.
“Come sarebbe nostra figlia?”, chiese con un filo di voce.
“Hai capito bene, Jason. Ma non sono venuta qui perché tu ora ti assuma ulteriori obblighi, anzi. Tu devi starne lontano. Quello che ti chiedo, anzi che ti ordino di fare è di licenziare Sally, oggi stesso.”
“Stai scherzando vero?”
“Tienila lontana dalla tua vita, le faresti solo del male, credimi.”
“È nostra figlia...”, ripeté Jason incredulo. Anche se dentro di sé, una parte infinitesimale della sua coscienza aveva capito. In un certo senso, tutto aveva una logica, una spiegazione. Persino quel senso paterno durante la sfuriata di Sally. E poi quegli occhi, così intensi e chiari, azzurri e profondi da fare male.
“Vedi questo parco? Guarda il prato come è ben rasato. È del tutto simile a quel piccolo giardino che c’era fuori dall’ospedale, quel giorno che hai ripreso conoscenza e che sono venuta da te. Quel giorno che mi hai umiliata, impedendomi di proseguire con la denuncia. Quel giorno che mi hai impedito di dirti che stavamo aspettando una figlia. Tu mi hai scacciata via, mi hai allontanata da te. Tu stesso sei scappato dalle tue responsabilità e mi hai lasciata sola e ora non puoi più pretendere nulla.”
“Ti ho spiegato le mie ragioni, dannazione”, disse Jason alzando la voce. “Ora c’è nostra figlia di mezzo e questo cambia tutto.”
“Tu non c’entri nulla con Sally. Ti ho già permesso di aiutare Sally, con l’università. Ora è finita.”
Lui rimase come impietrito, aveva ritrovato una figlia che non sapeva neanche di avere e nel giro di cinque minuti l’aveva perduta di nuovo.
Jason conosceva abbastanza bene la famiglia di Anna e non avrebbero mai permesso uno scandalo di una ragazza madre a sedici anni, ecco perché era stata
data in adozione pensò lui. Poi il pensiero volò al tentativo di stupro e capì che se si fosse saputo in giro, che se si fosse saputo che Anna era la madre di Sally, quest’ultima poteva essere additata come la figlia dello stupratore. Anna aveva fatto la scelta giusta, pensò.
“Temo di non poterlo fare”, disse Jason dopo qualche minuto di silenzio.
“Cosa?”, chiese Anna senza guardarlo in faccia.
“Licenziare Sally. Ha già avuto abbastanza guai.”
“È un tuo problema, Jason. Fallo con tatto, trovale un altro lavoro. Ma tienila lontana da te”, disse Anna tornando a guardarlo negli occhi senza tradire la minima emozione.
“Il problema è nostro, cerca di capire almeno questo. Comunque una soluzione ci sarebbe. Potrei spostarla al progetto che sta gestendo il mio socio. È un progetto molto importante di riqualificazione immobiliare. A Brooklyn.”
“Fai quello che vuoi, Jason” disse Anna alzandosi in piedi. “Ma tieni a mente una cosa: tu hai una tua famiglia. Non ti permettere più di immischiarti nella mia.”
“Anna”, disse Jason e lei si fermò. Era stanca, svuotata. Voleva solo andarsene, si voltò e guardò di nuovo Jason. Faccia a faccia. “Non chiedermi di cancellarla dalla mia vita.”
Anna si voltò senza dire nulla e si allontanò. Via da quel parco, via da lui. E solo allora si concesse di provare le emozioni, quelle che aveva seppellite per tanti anni. E di lasciar apparire le lacrime, nate all’improvviso come quelle margherite in un prato verde, ormai così lontano.
Jason rientrò in ufficio mentre i festeggiamenti erano in corso, la notizia dell’interrogatorio di Albert Griffin era volata nello Studio ancora prima che il giudice congedasse le parti, e tutti avevano capito che avevano vinto. Si leggeva nel volto dei partecipanti un senso di sollievo, quasi inaspettato giunto come un fulmine a ciel sereno. In un momento in cui la causa aveva imboccato una via difficile, Jason aveva estratto dalla manica l’asso vincente.
Jason schivò le mani che gli venivano tese e prese al volo Pamela, trascinandola nel suo ufficio.
“Chiama Stern e Sally, vi voglio parlare immediatamente”, disse a Pamela sedendosi alla sua scrivania con l’aria sfinita.
“Cosa succede adesso?”
“Fallo e basta, maledizione!”
Pamela uscì dall’ufficio, cominciava ad averne abbastanza di questi misteri di Jason. È vero che la vita con lui era stata un lunghissimo mistero, molti particolari le erano del tutto ignoti. Ma da qualche tempo stava esagerando, non sembrava neanche più lui.
Stern e Sally entrarono nell’ufficio di Jason seguiti da Pamela, Jason era seduto al tavolo delle riunioni che era più un soggiorno intimo, con le poltrone color panna.
“Accomodatevi un secondo.”
“Ehy guarda che di là stiamo festeggiando”, protestò Stern.
“Non ora”, rispose secco Jason. “Pamela, per cortesia, devi trasferire Sally Yrons al progetto immobiliare di Brooklyn gestito da Stern, voglio che lo affianchi e che lo segua sin da domani. Sally lavorerà sul campo con lui. Stern, spero che non ti dispiaccia avere come assistente personale Sally, ha già dimostrato di essere molto brava. Farà un ottimo lavoro.”
“No certo che no, sono solo un po’ sorpreso. Comunque va benissimo per me, apprezzo molto il lavoro che ha fatto con Sarah”, disse Stern guardando Sally che era impallidita.
Pamela trattenne un sorriso.
Finalmente se ne va, pensò accavallando le gambe. Non averla avuta era stata per lei un’offesa personale. Ma in un lampo, per un istante solo, quasi le dispiacque.
“Non capisco, sembra un sorta di punizione”, disse Sally protestando
leggermente.
“Mrs. Yrons, non è affatto una punizione, anzi. Potrà affiancare uno dei tre soci dello Studio in un progetto nel quale credo moltissimo, avrà tonnellate di lavoro legale da svolgere e, mi creda, non la sposterei di posizione se non ritenessi che lei è in grado di fare un ottimo lavoro. È una promozione, non una punizione Mrs Yrons”, rispose Jason.
“Come preferisce, avvocato”, disse lei guardandosi la punta delle scarpe.
“Bene, è tutto. Potete andare, tra poco vi raggiungo”, disse Jason alzandosi in piedi. Si avvicinò alla scrivania e, sollevato il telefono, compose un numero dando le spalle ai tre.
57
Sally aveva finito di radunare le sue cose, le aveva imballate in uno scatolone e le aveva consegnate al corriere incaricato di portarle al suo nuovo ufficio a Brooklyn. Sarò più vicina a casa, pensò. Ma si sentiva come scaricata, anche se Jason le aveva detto che era una promozione. Le pesava lasciare lo Studio, si era trovata benissimo e in un ambiente altamente competitivo aveva dimostrato di saperci fare, tanto che in breve si era conquistata la simpatia e il rispetto dei colleghi. ò per i vari uffici per salutarli uno a uno, poi tornò da Sarah che strinse in un abbraccio. Erano diventate amiche e si erano confidate molte cose, in quell’anno così intenso. Sally guardò l’orologio, erano da poco ate le sei del pomeriggio. Andò da Pamela e la salutò cordialmente, ma lei rispose con una certa freddezza. Sally intuì che era contenta che se ne andasse e intuiva il motivo. Uscì dall’ufficio di Pamela, a pochi metri quello di Jason. Il cuore cominciò a batterle forte e si decise ad andare a salutarlo. Entrò nell’ufficio bussando alla porta per annunciarsi. Jason era seduto alla scrivania, fissava il panorama fuori, oltre le immense vetrate, e non l’aveva sentita. Sally si schiarì la voce e lui si voltò. Sembrava stanco, tirato.
“Allora arrivederci avvocato.”
Jason si alzò dalla sedia e le andò incontro con cautela. Si trovava di fronte a sua figlia, e non poteva fare nulla. Non poteva abbracciarla, non poteva dirle che le voleva bene. Si sentì smarrito e triste, molto triste anche se mascherò abilmente il suo stato d’animo.
“Arrivederci Sally, ti aspettano mille mal di testa e tonnellate di lavoro, ma confido che sarai all’altezza di questo compito.”
“Lo spero, avvocato.”
“Non è un addio, Sally. Le porte dello Studio sono aperte per te. Sei sveglia e in gamba, farai molta strada. Con noi, se lo vorrai”, disse Jason in parte tradendo la parola che aveva dato ad Anna. Non voleva rinunciare a Sally, non poteva rinunciare a una figlia e si sentiva a pezzi dentro al pensiero del colloquio che aveva avuto solo poche ore prima con Anna.
Sally gli strinse la mano con decisione e poi fece una cosa che sciolse Jason.
Lo abbracciò.
Sally prese la metropolitana e in poche fermate era arrivata nelle vicinanze della casa di Anna. Voleva incontrarla, chiarire alcune cose prima di iniziare un nuovo capitolo nella sua vita.
Suonò e Thomas venne ad aprirle la porta vestito da Zorro.
“Tesoro cosa fai con la mascherina nera e la spada?”
“Mi sto preparando per Halloween.”
“Ma caro Halloween è fra tre mesi!”, disse Sally divertita.
“Lo so zia, ma devo essere pronto per l’evento, sto facendo le prove generali. Dolcetto o scherzetto?”
“Dolcetto”, rispose Sally e gli diede un pacchetto di caramelle che teneva in borsa.
Anna comparve scendendo le scale, le due sorelle si guardarono da lontano e Sally abbassò lo sguardo. Si sentiva in colpa per la scenata che le aveva fatto, per come l’aveva trattata. Si strinse le braccia sotto al seno e rimase lì in piedi, mentre Thomas fuggì via gridando come un ossesso contro nemici invisibili.
“Ciao Sally, non ti aspettavo.”
“Ciao Anna.”
“Dai entra. Vuoi fermarti a mangiare? Stasera faccio la pizza, Thomas ne va matto.”
Sally accettò e notò che Anna aveva la stessa espressione di Jason, sembrava affranta.
Distrutta, quasi.
Le due donne andarono in cucina e Sally la aiutò a preparare la teglia e gli ingredienti per la pizza.
“Senti, sono stata molto ingiusta la scorsa volta”, disse Sally spalmando il burro sulla teglia.
Anna avrebbe voluto lasciarsi andare un po’ ma si trattenne e appoggiò la spalla su quella di Sally, abbracciandola.
“Ehy voi due cosa state facendo?”, gridò Thomas brandendo la spada e irrompendo in cucina.
“Ci stavamo abbracciando, piccolino”, disse Anna chinandosi verso il figlio e stampandogli un bacio sulla guancia.
Thomas rimase un attimo pensieroso, e poi esclamò: “Posso abbracciarvi anch’io prima di andare a letto?”, chiese tenendo Spugna, il suo peluche preferito, in braccio e suscitando sorrisi.
“Sì amore, mettiti il pigiama poi vengo a rimboccarti le coperte.”
“Buona notte zia”, disse Thomas abbracciando Sally.
“Buona notte piccolo Zorro.”
Thomas sparì correndo sulle scale e Sally e Anna rimasero da sole in soggiorno,
con un bicchiere di vino rosso in mano.
“Oggi è successa una cosa in ufficio”, disse Sally. “L’avvocato Davis mi ha assegnata a un progetto immobiliare, lavorerò a stretto contatto con uno dei tre soci, Stern Reynolds.”
Anna sorrise dentro di sé, di un sorriso amaro. Jason aveva mantenuto la promessa e lo aveva fatto in tempi rapidissimi tanto che lei stessa ne era davvero sorpresa.
“Quando cominci?”
“Domani.”
“Mi sembra una bella opportunità.”
“Lo è”, confermò lei bevendo un sorso di vino. “Però...”
“Però cosa?”, chiese Anna.
“Mi mancherà Jason”, disse Sally intrecciando le dita della mani e stirandosi leggermente.
“Ascolta, Sally. Capisco che tu consideri Jason come il tuo mentore, ma credimi non è così. Con tutti i danni che ha fatto alla nostra famiglia è meglio che per un po’, anzi sarebbe meglio per sempre, tu ne girassi al largo.”
“Mi spiace Anna”, rispose Sally.
“Di cosa?”
“Del tuo odio per Jason.”
“È motivato, Sally. Non è campato per aria.”
“C’è anche il perdono”, disse Sally guardando la sorella con aria bonaria.
“Hai idea di quanto la nostra famiglia, io stessa, abbiamo sofferto per Jason?”
Sally rimase in silenzio a lungo.
“Lo ha fatto per proteggerti. Perché ti amava. E sono sicura che anche lui deve aver sofferto moltissimo.”
“Lui è fuggito. Da se stesso, da me. È solo un vigliacco.”
Sally ascoltò. C’era qualcosa che non tornava.
Perché Anna odia così tanto Jason? si chiese, lasciando cadere la conversazione.
Montclair, 25 agosto 2001
58
Jason uscì sul patio circondato dalle sei colonne e si accese un sigaro. Ripensò a Sally, a quell’abbraccio che gli aveva dato il giorno prima. Stava abbracciando sua figlia. Sua figlia. Che non sapeva nemmeno di avere, nata da una relazione di una vita precedente. Ripensò a tutti gli eventi capitati quell’anno, a quante volte il ato era ritornato a fargli visita. Non era possibile che fossero tutte coincidenze. Frank, Anthony, Brooklyn, Anna. E adesso Sally. Per un attimo Jason si sentì tremare dentro, aveva confidato quella sua sensazione a Michael Carson la sera prima durante una cena ristretta che Claudine aveva organizzato.
Si era appartato con Michael in uno dei soggiorni della casa e gli aveva raccontato le sue paure, i suoi dubbi.
“Ho condotto una causa difficile, importante. Terrificante, a volte. E l’ho praticamente vinta, manca solo il verdetto. Il mio ato è tornato a farmi visita e c’è qualcosa che non va. Mi sento vuoto dentro. È come avere finito la benzina in mezzo a una strada di campagna senza nessuno nel raggio di chilometri.”
“Sono i tuoi momenti di malinconia, Jason. Quelli che in ato si trasformavano in violente depressioni. Vedi, la vittoria per una persona come te è qualcosa che va al di là delle capacità emotive di poterla gustare fino in fondo. Magari un giorno ti lascerai dietro il ato e riuscirai a vivere completamente nell’attimo presente, ma non forzare gli eventi.”
Jason era rimasto pensieroso a lungo, aveva chiuso gli occhi e ascoltato le voci della sua vita, la voce di quel vuoto che si era improvvisamente aperto, la voce di quella giovane donna che era sua figlia, e aveva detto a Michael: “Come
faccio a lasciarmi dietro il ato, se questo continua a ripresentarsi?”
Una piccola figura sedeva di spalle in mezzo al prato su una seggiolina di plastica rossa, per bambini. Davanti a lui una tela da pittore. Era troppo lontano per capire cosa Joshua stesse dipingendo. Un sorriso illuminò il viso di Jason, guardò verso il sole. Era uno splendido sabato, le nuvole bianche si rincorrevano nel cielo azzurro, alcuni cumulonembi più scuri erano sdraiati sulla linea dell’orizzonte. Nulla avrebbe turbato quel giorno, ma la preoccupazione di Jason volò a Claudine.
Glielo devo dire oggi, pensò. E per un attimo tremò nuovamente, chiedendosi se sua moglie avrebbe accettato un’altra figlia, nata ventiquattro anni prima. Ma, per lui, viva solo da un giorno.
Scese i gradini e si incamminò silenzioso verso il figlio di quattro anni, i piedi nudi calpestavano il soffice prato verdissimo, una sensazione di pace e di completezza pervadeva il suo animo. E in sottofondo, la malinconia.
Arrivò a qualche metro da Joshua e si fermò a osservarlo: era completamente assorto nel suo piccolo mondo che a lui doveva sembrare gigantesco e tutto da scoprire. I capelli biondissimi a caschetto rilucevano nel sole come un campo di grano, i piccoli piedi l’uno sull’altro quasi a volersi fare compagnia. Jason rimase qualche minuto in silenzio senza fare nulla, riducendo al minimo il suo stesso respiro. Non voleva rompere l’incantesimo ma a un tratto Joshua si voltò e alzandosi fece cadere la seggiola. In due i si buttò tra le braccia del padre che lo tirò su senza fatica.
“Che cosa stai dipingendo, campione?”
“Sto facendo un quadro per te!”, esclamò con vivacità Joshua muovendo veloce le gambette nude.
“Oh, allora vediamo un po’.” Jason si avvicinò e rimase colpito dalle pennellate di colore che spiccavano sulla tela bianca. Il sole aveva gli occhi e un ampio sorriso, gli alberi erano stranamente rossi, il cielo invece azzurro.
“Come mai hai dipinto gli alberi rossi?”
“Perché è così che saranno tra un po’ di tempo.”
Jason sorrise. “Hai ragione, avevo dimenticato che siamo già a fine agosto. In effetti qualche fogliolina è già rossiccia, le vedi quelle in alto?”
“Sì sì, tra un po’ saranno tutte rosse.”
“Senti cosa ne dici se andiamo a cercare la mamma e Kelly e andiamo in città a fare un giro?”
“Urrà”, esclamò Joshua.
Parcheggiarono la macchina in un largo spiazzo davanti a Starbucks.
“Allora ragazzi, il programma è questo. Prima mi accompagnate a bere un caffè espresso come si deve.”
Un coro di no si sollevò da Joshua e Kelly.
“Calma calma. Solo cinque minuti, d’accordo?”
Un grugnito di approvazione arrivò dai figli.
“Poi andiamo tutti al Montclair Plaza a fare shopping!”, disse Jason guardando la moglie vestita con dei semplici short blu e una polo grigia chiara.
“Urrà”, esclamarono i figli all’unisono, adoravano il Plaza dove c’erano ogni tipo di negozi, dall’elettronica ai costumi da bagno ando per i vestiti classici da uomo e le scarpe italiane di Prada.
“Ciao Carl, come butta?”, disse Jason appoggiandosi al bancone dello Starbuck’s.
“Oh, il grande avvocato. Ho seguito le tue gesta in tv, ormai sei una celebrità!”
“Figurati, ero già una celebrità”, rispose Jason ridendo e battendo un pugno sulla spalla di Carl.
“Il solito espresso?”
“Sì grazie, e due milk shake alla fragola.”
Aspettarono un paio di minuti, mentre Joshua ballava sui piedi del padre impaziente di bersi il suo milk shake.
“È da un po’ che non ti vedevo.”
“Diciamo che sono stato un po’ impegnato. Quand’è che andiamo a fare una partita a squash?”
“Quando vuoi, va bene venerdì sera?”
“Ottimo, ci vediamo al campo alla solita ora”, rispose Jason prendendo il vassoio e portandolo al tavolo d’angolo preferito, dove le luci soffuse e la musica in sottofondo riuscivano sempre a calmarlo.
“Sono sempre sorpresa dall’atteggiamento che hai con Carl”, disse Claudine prendendo la mano del marito e guardando i figli che bevevano rumorosamente.
“Perché?”
“Sei diverso con lui, è come se tu fossi davvero te stesso quando parli con Carl. Non concedi mai a nessuno di entrare nel tuo spazio privato, tranne a me. Però Carl sembra la persona con cui hai un feeling particolare.”
Jason pensò subito agli anni dell’università a Yale, quando per mantenersi agli studi faceva il cameriere in una pizzeria nel centro di New Haven. I suoi compagni entravano a frotte nel locale e i primi tempi era stata dura servirli al tavolo con indosso un grembiule, ma poi ci aveva fatto l’abitudine ed era diventato parte della sua vita. Ricordò con una fitta di dolore gli sguardi indifferenti delle belle ragazze, sguardi che lo oltreavano come fosse un fantasma, come se non esistesse. Sguardi che lo facevano sentire una nullità. Semplicemente, non voleva che altri si sentissero come si era sentito lui e forse era questo il motivo che lo legava a Carl. Col tempo erano diventati amici, anzi buoni amici anche se erano separati da un abisso sociale e finanziario. Ma Claudine aveva ragione, Jason poteva rilassarsi quando era in compagnia di Carl, poteva essere se stesso. Poteva ridere e incazzarsi, senza essere giudicato né temuto.
Jason finì di bere il suo caffè, guardò Joshua e Kelly che lo fissavano ormai da cinque minuti. Sorrise.
“Va bene, ho capito. Andiamo a fare spese pazze!”
E uscirono dallo Starbuck’s tenendosi per mano e correndo lungo le strade poco affollate di Montclair.
La giornata volò, Claudine comprò dei vestiti per Joshua, compresa una simpatica maglietta che diceva “È stato lui” e sotto alla scritta un dito puntato verso sinistra. Kelly aveva messo gli occhi su un negozio di biancheria intima, senza farsi vedere dai genitori. Almeno, questo era quello che credeva perché
Jason la vide.
Oh no, pensò Jason con un sorriso.
Erano andati al cinema a vedere Atlantis, l’ultimo della serie di Walt Disney. Joshua batteva le mani a ogni singola scena, mandando urla estasiate mentre Kelly aveva ato quasi tutto il primo tempo a mandare messaggi col cellulare alla sua amica Phoebe. Jason l’aveva spiata con un sorriso bonario.
Per fortuna che ho tolto le web cam da camera sua, pensò tornando al film, per godersi il presente. L’attimo. Quel pomeriggio di serenità e di tranquillità. Un pomeriggio che, per quello che ne sapeva, poteva essere l’ultimo.
“Cosa c’è che non va?”, gli chiese lei nell’intimità del loro giardino d’inverno. La serata era calda, bellissima. Le stelle immense, la luna tramontava gialla dietro gli alberi.
“Possibile che non riesca mai a nasconderti nulla?”
“Amore guarda che sono io, eh?”, rispose lei ridendo, con la sua risata felice e cristallina.
“Devo dirti una cosa.”
“Lo so, caro”, rispose lei facendosi più vicina a lui, fondendo il suo corpo con
quello di lui, dandogli un bacio leggero sulle morbide labbra.
“È difficile spiegartelo, risale a molto tempo fa”, disse Jason abbracciandola ancora più stretta. Il cuore cominciò ad accelerare, se lei non avesse capito l’avrebbe perduta. O si sarebbe raffreddata. In ogni caso, dopo, nulla sarebbe più stato lo stesso.
“Ho incontrato Anna, ieri.”
“Come sta?”, chiese lei vagamente sorpresa. Erano almeno venticinque anni che non si vedevano e subito si domandò come mai Anna fosse tornata nella vita del marito.
“Le ho voluto bene, sai? Eravamo giovani, ragazzi. Incoscienti.”
“Guarda che sono gelosa della tua prima fidanzatina”, scherzò Claudine accarezzando i capelli del marito, che si mise a ridere.
“Mi ha detto una cosa che non sapevo.”
“Cosa?”
Lui rimase in silenzio a lungo, osservò qualche stella cadente, flash di luce che bruciavano nell’atmosfera terrestre, corpi celesti che entravano in contatto con la terra a una velocità incredibile e si disintegravano. Ogni volta si stupiva della
vastità dell’universo, immaginava la Terra come un piccolo punto nell’immensità, circondata dall’infinito. E, lui, un punto ancora più piccolo, solo una virgola.
“Che ho una figlia e che si chiama Sally. Quella ragazza che ho assunto l’anno scorso. È nostra figlia, mia e di Anna”, disse Jason decidendo di non indorare la pillola. La verità e basta.
Claudine si irrigidì di colpo, appoggiò il gomito sulla sedia a sdraio e si mise seduta.
“Una figlia?”, chiese sbalordita.
“Una figlia. Non ne sapevo nulla, non l’ho mai neanche sospettato. Mi dispiace amore mio”, disse Jason con ansia nella voce, senza avere la forza di guardare sua moglie.
Claudine rimase zitta per qualche istante, poi tornò a distendersi e abbracciò Jason che a sua volta si rilassò, si calmò.
“E adesso cosa intendi fare?”
“Non ti senti ferita?”
“Non lo so. No, non credo. È una cosa successa molti anni fa, io non c’ero
ancora. Non cambia nulla in quello che c’è tra noi due, nel nostro matrimonio e coi nostri figli. Però cambia per te, hai un pezzetto di famiglia in più ora.”
“Cosa dovrei fare?”
“Riconoscerla come tua figlia, accoglierla nella nostra famiglia.”
“Non so se questo sarà possibile, Anna è stata categorica. Mi ha detto di sparire dalla loro vita, anzi mi ha chiesto di licenziare Sally.”
Dio quanto la amo, pensò lui.
“Licenziarla? Non l’avrai fatto vero?”
“No, certo che no. L’ho solo spostata dallo studio di Liberty Street e l’ho affidata a Stern, nel nuovo studio di Brooklyn. Gestirà assieme a lui il progetto immobiliare.”
“Comunque devi insistere con Anna, lascia are un po’ di tempo magari. Ma cerca di convincerla. Sally è tua figlia ed è giusto che tu la riconosca e che sia parte della tua vita.”
Jason la abbracciò, la cullò a lungo commosso dalla generosità di lei.
“Perché me lo dici solo ora? Avremmo potuto parlarne ieri, subito.”
“Avevo paura.”
“Paura di cosa?”
“Delle conseguenze. Temevo che non avresti capito, che mi avresti respinto, o che ti saresti arrabbiata.”
Claudine si sollevò a sedere nuovamente e prese tra le mani il viso di Jason. “Tu davvero credi che ti avrei sposato e che voglio are la mia vita con te, senza accettare tutto di te, con tutto il mio amore?”, gli chiese dandogli un bacio e portando Jason al caldo, nel conforto dell’anima di lei e delle stelle, che da lontano brillavano ancora più luminose.
In quell’universo in cui lui non era più solo.
Tribunale di New York, 7 settembre 2001
59
La camera di consiglio durò solo qualche ora, dopo le arringhe finali di Randy e Jason. La difesa non aveva più nulla da dire, relegata in un angolo. Jason utilizzò il minuto concessogli dalle leggi dello Stato di New York per porre l’accento sull’avidità, sui profitti che le multinazionali dovevano conseguire per compiacere i mercati azionari, sulle ricchezze ottenute da pochi a danno di tanti. Dedicò solo qualche secondo al ricordo delle vittime causate dagli pneumatici e lasciò la giuria con la sensazione che fossero loro a detenere il potere. Ad avere tra le mani la facoltà di scegliere se continuare e mantenere l’attuale establishment, lo status quo, oppure condannare le tre multinazionali.
“La giuria ha raggiunto un verdetto?”, chiese il giudice Schmit.
“Sì, vostro onore, e il verdetto è unanime”, disse il presidente della giuria alzandosi in piedi e consegnando nelle mani del cancelliere un singolo foglio bianco ripiegato in due.
Il silenzio nell’aula divenne ancora più palpabile, divenne quasi denso e avvolse tutto.
Jason sedeva nel banco dell’accusa, affianco a lui i due partner dello studio: Markus Baker e Stern Reynolds. Lo studio Davis Baker & Reynolds al completo.
Gli occhi di tutti seguirono il percorso del foglio, la tensione in aula crebbe, il pubblicò ammutolì.
Il foglio venne prima portato dal segretario del Tribunale, quindi sullo scranno del giudice Schmit.
Egli lo aprì con studiata calma infilandosi gli occhiali, scorse lentamente il contenuto e infine sollevò lo sguardo.
Guardò prima Randy Stewart poi Jason Davis e infine disse: “Lo Stato di New York ritiene colpevole la Brown Motor Company e in subordine la Drexel e la Power Tyre per i reati ascritti di negligenza, turbativa del mercato azionario, false comunicazioni sociali, falso in bilancio, omicidio colposo plurimo con l’aggravante del peculato, lesioni personali di grave entità e violenza privata. Lo Stato di New York condanna le suddette aziende al pagamento della somma di centocinquantamila dollari per ogni persona che sia deceduta in seguito a incidenti provocati dal cattivo funzionamento degli pneumatici da loro prodotti, al pagamento della somma di cinquantamila dollari per ogni persona che abbia subito lesioni o ferite riconducibili alla fattispecie di cui sopra e a una multa penitenziale una tantum di trecento cinquanta milioni di dollari. Inoltre, lo Stato di New York impone alle aziende condannate il pagamento di tutte le cure mediche che sono state sostenute dai convenuti e che dovranno essere sostenute fino alla loro completa guarigione”, disse il giudice Aaron Schmit visibilmente soddisfatto.
Dal pubblicò si levò un applauso che il giudice lasciò libero di percorrere l’aula mentre Jason sorrise. Le multinazionali avrebbero dovuto pagare un risarcimento di un miliardo e centosessanta milioni, più le spese legali e collaterali che avrebbero dovuto sostenere per le cure mediche e per un tempo indefinito. Una mazzata che andò al di là delle più rosee previsioni di Jason.
E quella sensazione di paura della sera prima si dissolse in una salva di applausi e di acclamazioni che salì dal pubblico assiepato in aula, qualche protesta si alzò
momentaneamente ma venne subito zittito dalle urla di giubilo crescenti.
Jason si alzò in piedi, strinse la mano e abbracciò i suoi due soci. Guardò la giuria sorridendo ringraziandola silenziosamente con un cenno del capo.
Poi venne trascinato via dalla folla e dai giornalisti che si accalcavano intorno a lui.
Gli giunse, tra tutte, una domanda che lo colpì in modo particolare.
“È felice?”
Lui guardò nella folla cercando di individuare chi gli aveva rivolto questa domanda.
“Non si può essere felici quando ci si trova di fronte a tragedie del genere che potevano, anzi dovevano essere evitate. Quindi la risposta alla sua domanda è no. Sono gratificato perché con il mio team abbiamo portato alla luce la verità e abbiamo reso giustizia alle tante vittime di questo orrore e alle loro famiglie”, disse Jason.
Uscì dal Tribunale seguito dai suoi soci. La macchina era già in attesa. Si tuffarono dentro nella limousine nera e l’autista dovette lottare con i giornalisti e respingere il loro assalto. Poi finalmente accelerò schivando la folla. Jason guardò la facciata del Tribunale di New York allontanarsi: le dieci colonne di marmo bianco immobili che reggevano il timpano, guardiane silenziose della sua
vittoria.
Avrebbero tenuto una conferenza stampa ufficiale più tardi, ora era il momento di festeggiare. Il suo telefono continuava a squillare, appena smise sentì il suono di un messaggio. Era di Pamela: “Congratulazioni.”
“Andiamo in Liberty Street”, disse Jason.
L’autista annuì silenzioso e imboccò la strada per arrivare in ufficio, alloggiato proprio di fianco alla Federal Reserve nel cuore finanziario di New York.
A due i dal World Trade Center.
I tre soci entrarono nello studio Davis Baker & Reynolds e furono accolti da una grandinata di applausi lungo tutto il corridoio.
Il tavolo delle riunioni era carico di ogni genere di prelibatezze e bottiglie di champagne.
Jason, assieme ai soci, si portò a una estremità del tavolo stringendo mani a tutti, rivolgendo parole di ringraziamento anche a chi non aveva partecipato direttamente alla causa legale. Abbracciò Pamela.
Poi prese un flute di champagne, con un cucchiaino batté contro di esso provocando un allegro tintinnio. Piano piano la folla di avvocati si ridusse al
silenzio. Jason li guardò uno a uno, tutti giovani e preparati, tutti ambiziosi e determinati.
“Posso avere la vostra attenzione?”, disse Jason. La luce risplendeva da dietro le sue spalle, annullando i piccoli difetti del suo corpo. Una statura decisamente nella media e le rughe di stanchezza agli angoli degli occhi.
La sala si zittì all’istante.
Jason fece un cenno a Stern che fece due i in avanti.
“Vorrei dirvi tre cose. La prima, la più importante, è che oggi non abbiamo vinto.” Un brusio di scontento si levò dai suoi assistenti.
“Abbiamo stravinto”, urlò Stern mentre lo Studio si lasciava andare a una selva di acclamazioni e di applausi.
“La seconda è che questa vittoria coinvolge tutti voi, è un merito di ognuno di voi. E ognuno di voi non solo avrà salvo il posto di lavoro”, disse Stern suscitando un coro di risate “ma avrà anche una gratifica extra”, concluse. E un’altra salva di grida e di cori rimbombò sulle pareti.
“La terza cosa è che lunedì lo Studio si prenderà un giorno di ferie.”
A questo annuncio lo Studio esplose, non era mai successo che gli uffici
chiudessero per un giorno che non fosse quello del Ringraziamento.
Stern si affiancò a Jason e gli sussurrò nell’orecchio: “Manca una persona tra noi oggi, ma doveva sbrigare delle pratiche importanti nello studio di Brooklyn.”
“Ho notato che Sally non c’è”, disse Jason.
Sua figlia non era lì con lui a festeggiare la sua vittoria più importante.
Great New York Area, 8 e 9 settembre 2001
60
Sabato mattina, nell’ufficio deserto, Randy Stewart sedeva alla sua scrivania. Si alzò e eggiò per i lunghi corridoi, entrò nelle varie stanze. In quelle degli avvocati anziani, in quelle dei neo assunti. Si sedette in un cubicolo di forse un metro quadro, ripensando a quando lui, giovane avvocato, aveva proprio iniziato da lì. Era salito, in alto. Alle vette dell’avvocatura, delle grandi cause civili, molte di esse con risvolti penali. Alle parcelle da un milione di dollari in su. Non si sarebbe mai sporcato le mani per meno, non avrebbe sprecato il suo tempo per quattro soldi, o per difendere piccole aziende. Aveva sempre vinto, fino al giorno prima quando sulla sua strada aveva incontrato Jason.
Randy si alzò dal cubicolo e tornò nel suo ufficio, si sdraiò su un divano e chiuse gli occhi. Sentiva il ticchettare del suo orologio, sentiva il suo respiro, il lieve battito del cuore, la circolazione del sangue e i muscoli che si decontraevano dopo un anno di battaglie e di notti insonni. Ascoltava se stesso, ascoltava il silenzio. Ascoltava la solitudine e il sapore amaro della sconfitta.
Pochi minuti dopo la sentenza, aveva ricevuto in sequenza tre telefonate, dagli amministratori delegati della Drexel, della Power Tyre. E della Brown, la peggiore di tutte.
Su di lui si era scatenato l’inferno, una valanga di improperi quando fino a poche settimane prima erano solo lodi per come stava gestendo la causa, per il fatto che stava portando i suoi clienti a una vittoria da tutti considerata impossibile.
Ricordava ogni singola parola di quelle telefonate, ma quello che lo aveva massacrato di più era la consapevolezza che la sua non era solo una sconfitta.
Era una perdita disastrosa, devastante. Un collasso su tutti i fronti, un castello di carte che era venuto giù di botto, quando il giudice Schmit aveva concluso affermando che lo Stato avrebbe valutato la possibilità di estendere il limite iniziale della causa, includendo i reati di omicidio colposo plurimo, strage, lesioni aggravate, insider trading, aggiotaggio di borsa e una sfilza di altri capi di imputazione minore per i tre amministratori delegati delle rispettive società. Se le cose fossero andate come aveva detto il giudice Schmit, non solo la battaglia era perduta sul piano civile, ma si sarebbe estesa come un incendio distruggendo tutto quello che avrebbe incontrato sul suo cammino.
Lui compreso.
Randy ascoltò il silenzio e capì che era finito e la sua carriera irrimediabilmente distrutta.
Sally uscì dal piccolo appartamento di Brooklyn, si sentiva leggera. Euforica. Non aveva potuto partecipare al trionfo di Jason, al verdetto. All’ultimo momento era stata sommersa da una marea di ingiunzioni che imponevano lo stop ai lavori appena iniziati.
eggiò per il quartiere, ormai conosceva a memoria i disegni di riqualificazione di tutta l’area, poteva immaginarsi ogni centimetro dell’intero quartiere, poteva vedere come sarebbe diventato. Le zone verdi, i parchi per i bambini, i brutti edifici abbattuti e sostituiti da palazzi moderni in vetro. Arrivò alla fine della sua strada, disseminata di buchi e rattoppi, si voltò e aprì le braccia. Guardò in alto verso il sole e abbracciò il nuovo mondo che le si stava parando davanti.
Anna andò al cinema con Thomas quel giorno. Le ultime settimane l’avevano logorata.
Il suo primo fidanzatino, la spensieratezza di quegli anni. Sembrava che non ci fosse più nulla del genere nella sua vita attuale, a parte Thomas che riusciva sempre a farla ridere. Era l’unica cosa bella che le era rimasta e a lui dedicava quasi tutte le sue energie. Alla sera, prima di dormire, gli raccontava le storie, quasi tutte inventate. Lo accompagnava alle lezioni di tennis, dove stava ore a guardarlo invidiando il suo essere bambino, la sua gioia e spontaneità. Il suo essere vivo.
Per lei il mondo si era spento dopo la morte di suo marito. E adesso che Jason aveva fatto ritorno nella sua vita, si sentiva turbata, indecisa su quale direzione prendere.
Un giorno avrebbero dovuto parlare con Sally, ma non ora pensò Anna prendendo per mano Thomas e camminando assieme per le vie di New York.
L’ispettore McCloud si era appena svegliato ed era uscito da casa per prendere il giornale che tutte le mattine il ragazzo gli portava lanciandolo esattamente sul tappetino di casa.
In prima pagina in basso era riportata la vittoria schiacciante di Jason. La multa che era stata erogata era una delle più elevate mai comminate negli Stati Uniti, diceva l’articolo che rimandava a una pagina interna.
McCloud sapeva già tutto, avendo letto la notizia in Internet il giorno precedente e aveva sorriso nel vedere la foto di Jason. Da quando lo aveva conosciuto, lì a San Francisco, aveva seguito con interesse la causa intentata contro le multinazionali degli pneumatici e la Brown. Aveva anche pensato di andare a New York per assistere all’arringa finale e al verdetto, ma il suo magro stipendio
non era sufficiente per concedersi lussi del genere.
Si sedette sull’ampia poltrona al centro del salotto, arredato in modo semplice e asettico. Funzionale, avrebbe detto qualcuno. McCloud viveva da solo ormai da qualche anno, dopo essersi separato dalla moglie in modo amichevole e nella sua vita si sentiva la mancanza di una donna. Per non farsi prendere dalla solitudine, McCloud aveva comprato un golden retriever che lo aspettava a casa ogni sera e scodinzolava allegramente. Un tocco di gioia, ma si sentiva comunque molto solo in quella casa.
Pose il giornale sulle gambe, sentiva che doveva fare qualcosa. Frank era scappato assieme a suo padre quasi un anno prima e non era mai più stato rintracciato. Quello strano individuo taciturno che si era presentato come Mr H e che aveva garantito e firmato per la cauzione, era sparito.
McCloud valutò se fosse il caso di telefonare a Jason, lo aveva fatto un paio di volte nel corso di quell’anno per informarlo sulle novità. Era sempre un piacere parlare con lui, l’ultima volta erano stati al telefono almeno quindici minuti conversando affabilmente. Gli piaceva quell’uomo, era ricco e potente, ma era una persona comune senza grilli per la testa, che sapeva bene da dove era venuto. L’ispettore aveva fatto qualche piccola indagine su di lui, sul suo ato e qualcosa era saltato fuori. Neanche McCloud sapeva perché aveva indagato discretamente su Jason, c’era qualcosa di misterioso in lui e in effetti il suo intuito non lo aveva tradito.
L’ispettore si infilò la vestaglia e abbandonò l’idea di chiamare Jason. Era domenica mattina e quasi certamente era con la sua famiglia, si appuntò mentalmente di chiamarlo nella settimana successiva. Poi prese il guinzaglio e portò in giardino Golf, il golden retriever più affettuoso del mondo.
Il cellulare di Jason vibrò nella tasca dei suoi jeans. Guardò il numero ma vide che era un numero privato. Si rabbuiò un istante e si diresse verso lo studio, da dove avrebbe potuto parlare liberamente.
“La linea è sicura?”, chiese Jason come faceva di consueto, anche se conosceva benissimo la risposta. Ogni volta, doveva sentirsi rassicurato quando parlava con Mr H. Era una pedina troppo preziosa nel suo scacchiere e per nessun motivo al mondo qualcuno avrebbe mai dovuto collegare Mr H a lui.
“Certo, avvocato. Ho inserito le solite misure di sicurezza e di antiintercettazioni. La chiamo per darle una buona notizia.”
“La ascolto.”
“Abbiamo intercettato e bloccato il giovane a Philadelphia.”
Jason si lasciò cadere su una poltrona e appoggiò i piedi su una sedia davanti a lui. Era una notizia grandiosa.
“E il vecchio?”
“La squadra lo ha preso in consegna e lo sta portando qui a Washington, dove ci troviamo con il giovane. Domani i documenti e i aporti saranno pronti e martedì mattina ci imbarcheremo per Los Angeles, dove avremo la coincidenza per il Costa Rica.”
“Eccellente, ha opposto resistenza il giovane?”
“Non troppa, lo abbiamo messo fuori combattimento in fretta, signore.”
“Sono soddisfatto, c’è voluto del tempo per ritrovarlo. Mi raccomando, mi fido di lei. Non se lo lasci sfuggire una seconda volta.”
“Non si preoccupi, non andrà da nessuna parte questa volta. Non sentirà mai più parlare né del vecchio né del giovane.”
Jason era con la sua famiglia raccolta a tavola, la sera precedente era arrivato anche Alain che aveva terminato un giro di conferenze per gli Stati Uniti e sarebbe ripartito per Parigi quello stesso pomeriggio.
Jason guardò Kelly in un corpo di una giovane che tra poco avrebbe fatto girare la testa a molti ragazzi. Era il ritratto di sua moglie Claudine quando aveva diciotto anni.
Guardò Joshua. Guardò Claudine e poi Alain e pensò che aveva tutto.
Tranne Sally.
Con una certa amarezza, pensò che nella sua vita ci sarebbe sempre stato un tassello mancante.
Poco più tardi Claudine e Jason accompagnarono Alain in aeroporto, erano in perfetto orario e ci misero solo quaranta minuti per arrivare al JFK.
Sulla via del ritorno, Claudine chiese a Jason: “Cosa hai intenzione di fare con Sally?”
“Per il momento c’è una sola cosa che posso fare ed è includerla nel testamento. Ho già preso appuntamento per domani mattina. È solo un primo o, la strada è ancora lunga e lei non sa chi sono i suoi genitori. Prima o poi, Anna e io dovremo dirglielo.”
“Sì, dovrete dirglielo e, amore, includere Sally nel testamento è un’ottima idea. Il primo giusto o anche se la cosa mi inquieta un po’.”
“Perché?”
“Beh, il testamento non è una cosa un po’ definitiva?” I due si guardarono e scoppiarono a ridere contemporaneamente, mentre la macchina correva sull’asfalto, diretta a casa.
Al sicuro.
Montclair, 11 settembre 2001, ore 7:03
61
Uscirono di casa tutti insieme, l’aria tersa e pulita faceva presagire una splendida giornata. A Jason sembrava che la sua testa fosse diventata improvvisamente leggera, piena di elio invece della solita sensazione plumbea. Rilassato, guardò il sole che lentamente si alzava per un nuovo giorno, respirò a fondo.
“Allora bambini.”
Kelly gli fece una smorfia e cacciò fuori la lingua.
“Allora ragazzi”, si corresse sorridendo, ogni tanto dimenticava che sua figlia aveva già tredici anni e che cresceva in fretta.
“Voi andate con la mamma, oggi vi accompagna lei a scuola.”
“Evviva”, strillò Joshua. Di solito andavano a scuola accompagnati dallo scuolabus giallo che immancabilmente alle 7.24 di ogni mattina si fermava di fronte al loro cancello. Kelly e Joshua erano sempre lì ad attenderlo, tutti i giorni. Che fe freddo o caldo, che piovesse o nevicasse per non far aspettare gli altri bambini. Kelly teneva sempre per mano il suo fratellino, lo adorava di un’adorazione sconfinata. Gli raccontava le storie, lo faceva giocare, gli insegnava a dipingere e usare il computer. Era una seconda mamma di cui Claudine andava molto orgogliosa.
“Io invece come al solito vado in ufficio.”
“Noooo”, disse Joshua.
“Ebbene sì, a ognuno il suo. A voi la scuola e a me l’ufficio. Credetemi, è molto meglio la scuola.”
“In ufficio non ti diverti papà?”, chiese Joshua tendendo le braccine al padre per essere preso in braccio. Jason si chinò e sollevandolo lo strinse a sé.
In quella mattina dell’11 settembre.
“Certo che mi diverto in ufficio. Anch’io ho tanti amici assieme ai quali are il tempo.”
“Allora posso venire con te?”, chiese Joshua abbracciandolo ancora più stretto e dandogli un bacio sulla guancia.
“Uhm, vediamo cosa si potrà fare, dovremo chiedere l’autorizzazione alla tua maestra.”
“Andiamo ragazzi, è tardi”, disse Claudine incamminandosi verso il box. Salì sulla vecchia Mini e fece retromarcia, con la ghiaia che scricchiolava leggermente. Joshua e Kelly salirono, mentre Jason salì sulla Porsche e fece scendere il tettuccio, quel giorno aveva voglia di sentire l’abbraccio dell’aria, i
capelli che si scompigliavano nel vento.
“Ah, anche sportivo stamattina”, gli disse Claudine sorridendo.
“Oggi è un nuovo giorno”, disse Jason soffiandole un bacio.
Le due macchine percorsero il vialetto, a pochi chilometri dall’isola di Manhattan si separarono e Claudine imboccò il tunnel più a nord che ava sotto l’Hudson, mentre Jason scese di un paio di chilometri a sud e imboccò un altro tunnel dirigendosi verso il downtown.
Claudine accompagnò i ragazzi a scuola e guardò l’orologio. Le 8:15. La sua prima paziente era alle 10:30. Pensò a Jason e d’istinto si diresse verso il suo ufficio. Aveva voglia di stare con lui davanti a un cappuccino e a una brioche. All’improvviso, sentì una grande ansia dentro di se. Doveva sbrigarsi, fare in fretta. Suonò il clacson diverse volte per aprirsi un varco nel traffico e proseguì verso downtown.
Era arrivato in ufficio come tutti i giorni, lasciando la macchina nel solito posto a lui riservato. Era andato verso l’ascensore privato che l’avrebbe portato direttamente nel suo studio, poi cambiò idea e decise di prendere le scale.
Salutò il portiere allegramente.
“Buongiorno Mitch, come sta?”
Il custode si voltò, un po’ sorpreso da quel cambiamento di routine, era solito vedere negli schermi a circuito chiuso l’avvocato Davis che saliva nell’ascensore, senza mai are da lui. Praticamente, non si erano mai nemmeno salutati e rimase doppiamente sorpreso quando Jason mostrò di conoscere il suo nome.
“Bene avvocato Davis e lei come sta? La vedo in gran forma oggi.”
Il portiere notò l’elegante abito grigio chiaro a righine blu appena visibili, il fazzoletto bianco che spuntava appena dal taschino, le scarpe nere tirate a lucido e i capelli sapientemente pettinati all’indietro.
“Tutto sotto controllo Mitch, oggi è una splendida giornata”, disse Jason e in un attimo fu fuori, nella stretta e austera Liberty Street.
I taxi strombazzavano, qualcuno si sporgeva dal finestrino e lanciava invettive contro i pedoni, contro le macchine, contro il mondo.
Una giovane ragazza spingeva un eggino, una bambina di circa un anno lanciava qualche urletto di gioia osservando con stupore il mondo intorno a sé. Jason si fermò un attimo, si accovacciò, sorrise alla piccola e le strinse leggermente la mano. Lei l’afferrò con tutta l’innocenza possibile, e strinse un dito della mano di Jason, che per lei doveva sembrare enorme.
Jason si commosse a quel contatto, non era solito lasciarsi andare a sentimentalismi e per di più con sconosciuti. Ma quella mattina si sentiva diverso. Si sentiva libero. Era davvero tempo di guardare avanti, lasciando che i suoi vecchi fantasmi sparissero nell’oblìo.
Claudine lasciò la macchina in un parcheggio sotterraneo del Tribunale di New York.
Poi risalì dal quarto piano sotterraneo e fu nella luce, scese verso Fulton Street, non avrebbe fatto in tempo ad arrivare in Studio prima di lui, ma gli avrebbe fatto una sorpresa in ufficio comparendo all’improvviso. Si sentiva come una ragazzina di quindici anni. Anche se quel senso di ansia non l’aveva ancora lasciata.
Voltò a destra imboccando Church Street, ancora un centinaio di metri e poi sarebbe arrivata.
Jason decise di seguire con discrezione la ragazza con il eggino, non aveva fretta di andare in ufficio quel giorno.
Forse era tempo di cambiare vita.
Osservò la ragazza mentre la piccola nel eggino scalciava in tutte le direzioni e lanciava cinguettii verso il cielo azzurro.
Il telefono gli vibrò nella tasca interna della giacca, lo prese e vide il nome di Claudine.
“Indovina indovinello”, disse lei con voce cristallina, la stessa che lo aveva fatto innamorare anni prima.
“Hai marinato la scuola”, rispose Jason.
“Uhm, fuochino. Lo sai che ti vedo? Sono a cento metri da te.”
“Dove sei, non ti vedo c’è troppa gente.”
Claudine alzò un braccio per farsi vedere nella folla.
“Mascalzona, ti ho vista. Dai vieni che facciamo colazione assieme.”
“Ma come non bevi il solito caffè e il muffin nella tua area privata di combattimento?”, rispose Claudine prendendolo un po’ in giro per la sua terrazza da capitano e da corsaro che aveva fatto allestire.
“Ti amo, sai?”
“Lo so. Dimostralo ora.”
“E come?”
“Ovvio, facendo colazione con me”, disse Claudine mettendo giù il telefono e
correndo verso di lui.
Anche Jason si mosse, un o e poi un altro e come vent’anni prima a un tratto si ritrovarono a correre in mezzo alla folla, uno verso l’altra.
Sally scese dalla metropolitana alla fermata di Wall Street. Si lasciò trascinare dall’immane forza propulsiva di New York, degli uomini d’affari, degli impiegati, dei broker e degli avvocati e vide Jason e Claudine che entravano in un bar. Durante la notte e nel tratto di metropolitana, aveva messo assieme i tasselli del puzzle, ora aveva capito. Mancava solo una risposta, legata a quell’anno mancante. A quello strano 1979. Doveva parlare con Jason, solo qualche minuto.
Ma rimase ferma, lì sul marciapiede, mentre la gente ava. Si lasciò scansare, una pallina da flipper in un gioco più grande di lei.
Jason e Claudine entrarono nel bar mentre Sally li fissava da lontano. Si accomodarono a un tavolino vicino alla finestra.
“Adoro questo bar”, disse Jason prendendo la mano di Claudine nella sua. Mi ricorda il bar in cui ho lavorato quando ero ragazzo, quando ti ho conosciuta.”
Claudine sorrise a quel ricordo, le batté forte il cuore e tornò ragazza.
Avevano appena iniziato la loro colazione che la giovane donna col eggino entrò nel locale. La bambina squittiva allegramente e la donna si sedette vicino a
Jason.
La bambina si sporse dal eggino e prese un lembo della giacca di Jason.
“Non disturbare il signore, Ashley.”
“Non mi disturba, è molto dolce sua figlia”, disse Jason riprendendo il contatto con l’infante e accarezzandole la manina. Claudine lo guardò intensamente e capì che qualcosa era cambiato in suo marito, e quel qualcosa, qualunque cosa fosse, le piaceva immensamente.
A un tratto Jason sentì un sibilo provenire da lontano, i rumori attorno a lui parvero diminuire di intensità fino a scomparire. Una folata di vento spazzò il selciato sotto la Torre Nord e disperse alcuni pezzettini di carta. Poi il sibilo crebbe di intensità, vide qualcuno dei anti alzare lo sguardo al cielo.
Poi il botto, un fragore assordante seguito da un’altra esplosione. Jason alzò lo sguardo incredulo e rimase pietrificato, dalla Torre si alzò un’altissima colonna di fumo e di fiamme.
Immediatamente Jason prese la mano di Claudine.
“È stato un aereo, forse il pilota ha perso il controllo. È arrivato diritto centrando esattamente la Torre”, disse la giovane donna prendendo in braccio Ashley.
“È sicura?”, chiese Jason.
“Sicurissima”, rispose lei, mentre gli altri avventori del locale si precipitavano fuori.
Jason rifletté su cosa doveva fare. Se andare in ufficio o rifugiarsi da qualche altra parte. Pensò che gli edifici forse erano in fase di evacuazione, sarebbe stato impossibile prendere l’ascensore e salire.
Dopo pochi secondi le teste si girarono tutte di scatto verso sinistra, verso qualcosa che si muoveva veloce, troppo veloce. Un secondo aereo arrivò inclinando le ali e penetrò nella Torre Sud, provocando un enorme esplosione, attraversando l’edificio senza incontrare nessuna resistenza, come una lama affilata nel burro.
La gente cominciò a correre come impazzita. In lontananza si sentirono delle sirene, decine e poi centinaia. Gli antifurti delle macchine, degli appartamenti, dei loft e degli attici cominciarono a suonare all’unisono.
“Presto usciamo, via da qui”, disse Jason che dalla sua visuale aveva visto il secondo aereo.
Si ritrovarono in mezzo al caos, assieme alla giovane donna.
Poi il tempo si dilatò, si fermò per alcuni istanti e riprese a correre più veloce di prima. Le Torri bruciavano, la gente si buttava dalle finestre. In quegli istanti che
separavano i piani più alti dal piano terra, gli uomini e le donne dell’aria venivano sbalzati contro gli spuntoni acuminati della griglia di contenimento del grattacielo, della sua facciata.
“È troppo pericoloso stare qui, potremmo essere schiacciati dalla folla”, disse Jason sconvolto.
“I nostri ragazzi”, disse Claudine rivolta al marito.
“Li hai accompagnati a scuola, vero?”
“Certo, ma non saranno in pericolo?”
“La loro scuola è lontana da qui. Meglio non muoversi adesso, c’è troppa confusione. Poi tu vai a prendere i bambini, io invece vado in ufficio per sincerarmi che tutti i dipendenti stiano bene e che non ci siano pericoli. Vi raggiungerò a casa appena possibile, d’accordo?”
“Va bene”, disse Claudine e aggiunse rivolta alla donna: “Lei venga con me, la accompagnerò fuori da questa confusione. È troppo pericoloso stare qui.”
Dalla folla qualcuno gridò, disse che era un attentato, non un incidente.
“Ma sarà vero?”, chiese la giovane donna. “Com’è possibile, due aerei che vengono dirottati nello stesso momento?”
“Forse si è trattato di un errore umano”, disse Claudine mentre Jason capì che l’America era sotto l’attacco di terroristi.
New York, 11 settembre 2001
62
Sally guardò verso il cielo e si sentì stringere la gola.
Cosa accidenti sta succedendo? pensò.
Si fermò un istante appoggiandosi contro il muro.
Fece un respiro e attraversò la piazza, aveva un appuntamento alle 10 con alcuni associati dello Studio che dovevano aiutarla a redigere alcuni atti. Poi sarebbe tornata a Brooklyn.
“Vai a prendere i ragazzi. Mi sembra che la situazione sia più tranquilla ora”, disse Jason mentre Sally lo guardava da lontano, non poteva raggiungerlo, la folla la schiacciava e la spintonava da tutte le parti. Si sentì perduta. Le fiamme sembravano aumentate, il fumo sembrava più nero, più denso.
Sembrava che la polizia avesse riportato un minimo di controllo, la folla era stata sgomberata anche se sul selciato c’era di tutto: migliaia di fogli, pezzi di muro, putrelle di acciaio. Detriti di ogni genere.
Sally vide Claudine e una giovane donna con una bambina in braccio avviarsi in una direzione, mentre Jason andava verso gli uffici. Anche lei entrò in Liberty Street. L’ultima cosa che le importava adesso era la riunione, quello che davvero voleva era chiudersi in un luogo sicuro con i suoi colleghi e rimanere lì fino a
quando avesse ritrovato il coraggio per tornare a casa.
All’improvviso, nell’istante in cui Jason e Claudine si separarono, si sentì un fragore assordante provenire dall’alto, tutti alzarono le teste e quello che videro li lasciò senza fiato. La Torre Sud stava crollando accartocciandosi su se stessa.
Un mare di polvere e di fumo invase in pochi istanti tutta l’area, con una tale densità che era impossibile vedere a un metro.
Claudine e Sally videro tutto. Ma non capirono cosa successe perché vennero investite da una colossale nuvola grigia.
La nuvola avanzò e crebbe diventando sempre più alta, strati di amianto e di cemento invasero Downtown, e anche il sole sembrò voler scappare, ammantando il paesaggio di una terrificante luce giallo sporca.
Claudine gridò il nome di suo marito ma non ottenne risposta, si trovava nel buio più completo provocato dalla polvere, non vedeva neanche a cinque centimetri di distanza. Non vide più la ragazza con la bambina. Continuò a correre avanti e indietro, cadde e si rialzò urlando il nome di Jason, ma senza che nessuno rispondesse. Era scomparso, come volatilizzato.
Deve essere qui da qualche parte. Si appoggiò al muro di un edificio e aspettò che la polvere si diradasse. arono i minuti e invece sembrava che la polvere aumentasse sempre di più, ora si trovava nella oscurità più completa. Gridò ancora il nome di Jason, qualcuno le ò affianco tutto ricoperto dalla polvere grigia. Fantasmi, usciti da chissà dove.
La priorità era quella di andare a salvare i figli. Avanzò a tentoni per Liberty Street, conosceva bene quella zona. Poi quando la polvere si diradò leggermente, corse via.
Sally cercò di scappare, le parve di scorgere una figura familiare pochi metri davanti a sé. La vista le si rischiarò per un istante e le sembrò che fosse Jason. Aprì la bocca per lanciare un urlo, per chiedergli aiuto, per uscire da quell’inferno ma non riuscì a emettere alcun suono. Rimase impietrita, incapace di muoversi.
Quando Sally si riscosse dal suo stato di shock fece appena in tempo ad alzare gli occhi al cielo e vide qualcosa che cadeva. Qualcosa di gigantesco. Lo spostamento d’aria la buttò a terra, sdraiata sulla schiena vide la seconda Torre afflosciarsi e ripiegarsi su se stessa, lasciando dietro di sé una seconda ondata di polvere e di sabbia, che oscurò finalmente tutto.
È un sogno, pensò sdraiata a terra. Ora mi sveglio e sarà finito. È solo un brutto sogno, continuava a ripetere dentro di sé. Si rialzò in piedi ma un istante dopo venne travolta dalla folla in fuga, cadde a terra e batté violentemente la testa. Vide solo una luce buia avanzare verso di lei e si lasciò avvolgere da essa.
Jason non riusciva a rendersi conto di quanto lo circondava. Avanzò nel caos più completo, aiutò una donna a rimettersi in piedi. Cercò la ragazza con la bambina ma tutto intorno a lui c’erano detriti e frammenti di ogni genere e non vedeva nulla se non una polvere spessa che oscurava tutto. Inciampò in una enorme ruota, gli sembrò la ruota di un camion ma poi pensò che fosse troppo grossa. C’era qualcosa agganciato alla ruota, una protuberanza di ferro e acciaio. Fece ancora qualche metro, lì dove per l’ultima volta aveva visto la ragazza ma al suo posto c’era un enorme buco che sprofondava nel selciato.
Incominciò a gridare il nome di sua moglie ma non ottenne nessuna risposta. Sollevò calcinacci e blocchi di cemento con la forza della disperazione. Avanzò tra fogli di carta che a centinaia scendevano tutto intorno come fiocchi di neve. Avanzò e inciampò, cadde e si rialzò continuando a gridare il nome di Claudine.
A un tratto una folla di persone avanzò verso di lui, come un fiume in piena. Si tolse la cravatta e se la portò al naso e agli occhi, per cercare di vedere meglio.
Avanzò controcorrente spintonando, non capì dove stesse andando quella gente ricoperta di stracci e di grigio. Cadde a terra e si rialzò in piedi. Corse alla cieca.
Un uomo sbucò completamente imbrattato di sangue. Era in uno stato ipnotico. Lo fermò, gli chiese se avesse visto sua moglie, la descrisse nei particolari ma l’uomo non capì, non sentì e continuò a camminare come se nulla fosse successo.
Jason vide un altro uomo seduto sul marciapiede, stringeva ancora in mano la valigetta di pelle dell’ufficio e sembrava una statua di gesso; si guardò i vestiti, e vide che era esattamente come quell’uomo. Un blocco unico di grigio chiaro. Andò da lui e lo implorò di aiutarlo a trovare sua moglie, gli descrisse Claudine.
L’uomo sollevò la testa e lo guardò come se fosse un marziano: “Amico, qui sono tutti morti”, e si afflosciò nuovamente su se stesso.
Poi fu di nuovo l’inferno, un rumore assordante, assurdo, inconcepibile. Si voltò e vide che mancava qualcosa nel paesaggio che vedeva ogni mattina.
Anche la Torre Nord non c’era più. Il mondo era crollato.
Si sedette sul cofano di una macchina quasi completamente sfondata, anch’essa grigia come tutto il resto. Il cuore prese a martellargli nel petto, si portò le mani alla testa e urlò.
Trovò infine la forza di alzarsi, scalò un ammasso di rottami per poi scendere dall’altra parte, il braccio gli rimase impigliato in una specie di gancio, tirò con forza e la manica si strappò completamente. Guardò il gancio, e riconobbe la familiare struttura portante in acciaio delle Torri Gemelle, lì a terra quando invece fino a poco prima svettava nel cielo azzurro.
Proseguì a caso per le vie di downtown, evitando di un soffio le ambulanze e le macchine dei vigili del fuoco e della polizia che sciamavano in ogni direzione, prive di un comando, di qualcuno che gli dicesse cosa fare.
Tornò in Liberty Street per trovare come ultimo riparo il suo ufficio, anche qui una spessa coltre di polvere ricopriva ogni cosa. Pensò che Claudine potesse essere lì, era sensato si disse. Poteva aver trovato rifugio e scampo nel suo palazzo, l’avrebbe ritrovata seduta nel suo ufficio. Spaventata, ma viva.
Arrivò di fronte al portone del suo ufficio, il palazzo di una cinquantina di piani tutto acciaio e vetro era ancora lì. Jason trasse un profondo respiro ma qualcosa non gli tornava. Guardò il muro cercando la targa di ottone che in caratteri eleganti stabiliva la sede del suo studio. Davis Baker & Reynolds.
Ma la targa era scomparsa.
Entrò nell’androne e venne fermato dal portiere.
“Dove va lei? gli gridò dietro.
“Io... io. Sto cercando i miei dipendenti, devo vedere se stanno bene”, disse Jason pulendosi la faccia con la manica della giacca.
“Mitch hai visto Claudine, mia moglie? È venuta qui?”
“Non c’è più nessuno qui, sono fuggiti tutti”, disse il portiere prendendo sottobraccio Jason e conducendolo all’uscita.
“Mitch, finiscila!”
“Mitch?”
“Sì, piantala di strattonarmi, devo salire in ufficio e vedere se è tutto a posto.”
Il portiere parve riprendere un po’ di compostezza.
“Mi ascolti. Le Torri Gemelle sono crollate, qui c’è il caos totale. Sono stati degli aerei, un attentato terroristico ha detto la televisione.”
“Ma che dici Mitch?”
“La smetta di chiamarmi Mitch, io mi chiamo Brad.”
Jason ascoltò queste parole senza registrarle.
Fece un o indietro, e poi un altro e un altro ancora.
Non era un sogno, era tutto vero.
Uscì nell’inferno, la polvere era avanzata come uno tsunami che travolge tutto in un lampo.
Jason guardò di nuovo lì dove avrebbe dovuto esserci la targa del suo ufficio, in quel rettangolo vuoto. Poteva essere qualunque altro palazzo, poteva trattarsi di qualunque altra strada simile a Liberty Street.
Claudine intanto era riuscita a recuperare la macchina nel parcheggio sotterraneo. Partì sgommando e andò verso nord facendo a ritroso la strada che aveva percorso solo un’ora prima per andare da Jason. Non sapeva quanto tempo fosse ato e neanche le importava, doveva andare dai suoi figli e portarli a casa, il più in fretta possibile. Prese il telefono cellulare e compose il numero di
Jason, ma non c’era segnale.
Arrivò alla scuola frenando bruscamente, vide che i bambini e i ragazzi erano radunati nel cortile interno. Cercò disperatamente Kelly e Joshua e li vide in un angolo, Kelly teneva in braccio Joshua che piangeva e si disperava. Claudine corse loro incontro e li abbracciò.
“State bene?”, chiese.
“Sì, mamma, stiamo bene. Abbiamo visto tutto. Dio mio è terribile”, disse Kelly piangendo mentre Claudine prendeva tra le sue braccia Joshua.
“Ho la macchina qui fuori, andiamo subito a casa.”
“Dov’è papà?”, gridò Kelly salendo in macchina.
“Non lo so. Ero con lui vicino all’ufficio quando la Torre è crollata ma l’ho perso di vista nel caos generale. C’era una polvere pazzesca, non si vedeva nulla”, disse Claudine partendo veloce.
Solo in quel momento Kelly si rese conto che sua madre era grigia dalla testa ai piedi.
“Ma tu stai bene?”, le chiese.
“È solo polvere, sto benissimo.”
“Papà dov’è?”, chiese Joshua mentre Claudine svoltava a sinistra per imboccare il tunnel e uscire da Manhattan.
“Papà arriverà presto”, disse Claudine e dentro di lei sperò che fosse vero.
63
Il volo 77 della United Airlines attendeva in pista all’aeroporto Dulles di Washington. Era una mattina tranquilla, pensò il comandante Charles Burlingame. Solo qualche aereo prima del suo, poi avrebbero decollato. Alle 8:10 in punto, come da piano di volo.
I eggeri a bordo sbadigliavano, qualcuno beveva il caffè offerto dall’equipaggio. Il volo fino a Los Angeles era lungo, ci sarebbero volute sei ore per attraversare gli Stati Uniti.
Frank e il padre sedevano nella fila 14, alla destra del loro angelo custode che non li aveva mollati un attimo nelle ventiquattro ore precedenti. Avevano i aporti falsi e alcuni documenti, ben chiusi in un bagaglio nella stiva del 757. Nuovi nomi, nuove identità. Frank guardò fuori dal finestrino, non c’era molto da vedere se non un paesaggio piatto. Pensò alla nuova vita che lo attendeva, da lì a poche ore sarebbe stato sdraiato su una spiaggia con qualche bella ragazza. Certo, c’era il peso morto del padre da portarsi dietro, ma un giorno si sarebbe liberato anche di lui. Si addormentò lasciandosi cullare dal ronzio del jet, mentre un paio di file davanti alla sua alcuni individui stavano armeggiando con le mani ficcate sotto il sedile, al riparo da occhi indiscreti.
Venne svegliato all’improvviso da un urlo, come un ordine sparato a gran voce con un megafono. Si guardò intorno confuso, forse aveva sognato.
“Stai fermo e non ti muovere, sennò ti spacco le gengive”, disse Mr H a Frank.
“Che succede?”
“Zitto, stai zitto.”
Frank vide degli uomini in piedi armati di coltelli e taglierini, abbaiavano ordini e spingevano i eggeri verso la coda dell’aereo. Capì all’istante che si trovavano al centro di un dirottamento, Frank guardò il padre che rimase ammutolito.
“Dobbiamo fare qualcosa, intervenire”, disse Frank al mastino affianco a sé che sedeva tranquillo come se stesse guardando una partita di football americano.
“Tu muoviti dal tuo posto e io ti uccido senza che tu abbia il tempo di capire cosa avviene”, gli disse in un sibilo Mr H.
Uno dei dirottatori indicò loro tre, gli gridò di alzarsi con un inglese stentato.
“Ora alzatevi e seguite gli ordini di questa gente”, disse Mr H.
Frank per un momento pensò che il loro mastino fosse d’accordo con i dirottatori, non poteva credere che la sua vita ora fosse nelle mani di ben due gruppi di persone diverse.
I tre vennero spinti verso la coda dell’aereo dove si ammassavano gli altri eggeri, confusi e impauriti. Un bambino piangeva e la madre cercava di
consolarlo dicendogli di non avere paura, che si trattava di un gioco.
All’improvviso l’aereo virò, fu una virata molto veloce con le ali inclinate di almeno trenta gradi. Qualche cappelliera si aprì e il contenuto si rovesciò a terra cadendo sulle teste dei eggeri, quelli in piedi persero l’equilibrio e si tennero a qualunque cosa pur di non cadere. Qualcun altro vomitò, per la paura e per i 2G di accelerazione di gravità che premevano sullo stomaco. La prua dell’aereo si mise su una rotta esattamente inversa a quella tenuta fino a quel momento, e il volo 77 tornò indietro da dove era venuto. Erano le 8:56.
Tre uomini dall’aspetto mediorientale tenevano a bada i eggeri, ben presto le urla e i pianti si spensero lasciando il posto a qualche singhiozzo. Si era diffusa la consapevolezza che erano tutti in serio pericolo, ma nessuno capì quanto fosse grave quel pericolo.
“State tutti buoni e non vi succederà nulla”, gridò uno dei dirottatori con gli occhi che strabuzzavano fuori dalle orbite. Frank si agitò un istante e fece per alzarsi in piedi, ma si prese un ceffone dal dirottatore. E prese una gomitata nelle costole da Mr H.
“Te l’avevo detto di stare fermo, imbecille.”
Frank rimase sorpreso dalla freddezza del suo carceriere, se paragonata a quelli che sembravano mediorientali. Cercò con lo sguardo il padre ma non lo vide, quella sarebbe stata un’ottima occasione se la carogna fosse rimasta uccisa. Frank pensò al mezzo milione di dollari che avrebbe potuto godersi da solo e l’occasione gli sembrò propizia. Doveva solo aspettare l’occasione giusta. Attendere. Si guardò ancora in giro e vide il padre due file indietro accasciato su una poltrona, un filo di sangue gli colava dalla bocca, evidentemente l’avevano pestato.
Lui gli avrebbe dato il colpo di grazia.
Una donna sdraiata affianco a Frank e incuneata tra due file di poltrone prese il cellulare, compose un numero di telefono e rimase in attesa con le lacrime agli occhi. Parlò col marito.
“Oh Dio, no”, Frank sentì dire dalla donna. “Pronto, pronto. Rispondi!”
“Metta giù quel telefono”, le disse Frank a denti stretti. Tutto voleva tranne che l’attenzione dei dirottatori fosse richiamata su di sé.
“Era mio marito. Ha detto che due aerei si sono schiantati contro il World Trade Center”, disse la donna tra le lacrime.
“Non dica stronzate e stia zitta”, le ringhiò addosso Frank tirandole un manrovescio. La donna si zittì all’istante e guardò fisso davanti a sé, come in trance.
All’improvviso l’aereo si abbassò di quota iniziando una picchiata. I eggeri ruzzolarono in avanti gridando, qualcuno ne approfittò per scagliarsi contro i dirottatori ma colpì i loro coltelli. Rimasero uccisi e il panico si diffuse immediatamente, qualche eggero svenne, altri urlarono selvaggiamente fino a che vennero messi a tacere dai dirottatori.
La picchiata continuò per parecchi interminabili minuti, fino a quando il 757
tornò in assetto orizzontale. Il padre di Frank alzò la testa per guardare fuori dal finestrino, vide che stavano sorvolando una zona residenziale ma non capì dove fossero fino a quando vide un obelisco bianco stagliarsi nel cielo azzurro. Il Washington Monument.
Mr H fino a quel momento era quasi piacevolmente affascinato dalla situazione, in ato aveva volato a bordi di caccia supersonici. Era sorpreso da come il pilota manovrasse bene il pesante aereo di linea. Guardò anche lui fuori dal finestrino e rimase sbalordito quando vide l’enorme cupola bianca del Campidoglio are a due chilometri alla loro destra. E alla stessa quota.
Si alzò di scatto e gettò i suoi centodieci chili contro il primo dirottatore che aveva davanti a sé, lo stese con una gomitata nella giugulare, poi si scaraventò contro il secondo uomo.
Frank pensò che il momento era perfetto, strisciò all’indietro fino a raggiungere il padre, gli strinse la carotide. In pochi secondi sarebbe tutto finito, sarebbe stato libero.
Poi l’aereo ebbe un sussulto, Frank guardò fuori e vide un prato verde.
Fu l’ultima cosa che vide, mentre il padre gli moriva tra le mani e il 757 si schiantava a 850 chilometri all’ora contro il Pentagono.
Mastic Beach, 11 settembre 2001
64
Stern stava facendo zapping distrattamente sui canali del satellite. Si era alzato all’alba, quella mattina. Aveva visto il sole sorgere dall’Oceano Atlantico un centimetro alla volta. Si era commosso allo spettacolo offerta dalla natura, per le certezze che essa dava: il sole sorge a est e tramonta a ovest, e così sarebbe stato per milioni, miliardi di anni anche quando l’uomo sarebbe stato solo un ricordo nella mente di Dio.
Aveva eggiato a lungo sulla spiaggia, la giornata era già tiepida.
Aveva paura, Stern. Il giorno dopo avrebbero dovuto operarlo. Il tumore si era arrestato e ora era necessario asportare alcune parti di organi del tutto compromesse. Avrebbe perso un polmone e parte dell’intestino.
Ma non gli importava, l’unica cosa che voleva era sopravvivere, mai come in quei mesi la vita gli era diventata incredibilmente preziosa.
Si era come risvegliato a una seconda nuova vita, dove aveva imparato a convivere con la malattia, a non vederla più come una nemica da combattere, ma come una preziosa componente di quello che era il suo cammino terreno. Era stata la malattia che aveva permesso a Stern di entrare in fusione con sua moglie, completamente, totalmente. La amava ogni giorno di più, ogni giorno che gli era concesso di alzarsi dal letto e arrivare a sera. E nello stesso modo si era goduto i momenti con Nicholas, il figlio di quattro anni, e i rapporti con i colleghi di lavoro giù a Brooklyn. Era entrato in forte sintonia e simpatia con Sally, aveva potuto apprezzare fino in fondo la sua generosità e l’intensa sofferenza che nascondeva dietro quegli splendidi occhi azzurri, sofferenza che ogni tanto
veniva alla luce e che lui consolava come poteva.
Stern ò in rassegna tutti i canali velocemente senza soffermarsi, poi vide qualcosa. Tornò indietro alla CNN e vide che c’era un grattacielo che fumava. Riconobbe all’istante le Torri Gemelle.
“Dio del cielo”, esclamò ad alta voce.
“Cosa c’è amore?”
“Vieni un attimo qui, Tabytha.”
La moglie si avvicinò guardando il televisore e si sedette sulle sue gambe abbracciandolo.
“Cosa succede?”, chiese allarmata.
La televisione continuava a trasmettere la stessa immagine, statica.
Il conduttore stava parlando di una probabile esplosione nella Torre Nord del World Trade Center, il suo tono di voce era concitato, si capiva perfettamente che non sapeva cosa dire, come interpretare quelle immagini. A un certo punto si fermò sbigottito, qualcuno gli aveva ato un foglio e lesse la notizia di agenzia in diretta.
“Sembra che un aereo di linea si sia schiantato contro la Torre Nord”, disse con la voce rotta dall’emozione.
“Oh mio Dio”, esclamò Tabytha mentre Stern la abbracciava ancora più stretta.
“Come accidenti ha fatto il pilota a centrare il grattacielo, la visibilità è perfetta. Non può essere un errore umano”, ragionò Stern.
A un certo punto, senza preavviso, l’inquadratura cambiò e si ò a una ripresa dall’elicottero. Lo squarcio prodotto nel grattacielo era immenso, le travi di ferro e acciaio erano incurvate verso l’interno dell’edificio e quasi si delineava la sagoma dell’aereo che aveva provocato quel disastro.
Le immagini diventarono sempre più caotiche, le telecamere si moltiplicavano ogni secondo, i conduttori si parlavano l’uno sull’altro.
Il cellulare di Stern squillò per l’arrivo di un messaggio, lo lesse immediatamente. Pamela avvisava tutti di non andare in ufficio.
Nello stesso momento la televisione disse che probabilmente si trattava di un dirottamento aereo, nello stesso modo in cui era arrivata la prima notizia: con un foglietto letto in diretta. Il conduttore impallidì e la telecamera si spostò di nuovo in campo lungo per inquadrare le Torri.
Poi successe qualcosa e Stern lo vide chiaramente. Una macchia scura lanciata a
velocità folle entrò nel grattacielo ed esplose sollevando una nuvola altissima di fuoco e fumo.
Tabytha sobbalzò e disse: “È il replay, qualcuno ha filmato l’aereo che si è schiantato.”
Stern annuì e poi vide una cosa che non gli quadrava. L’esplosione che aveva visto aveva coinvolto la Torre Sud e ora entrambe le Torri erano in fiamme.
Quella macchia scura che aveva visto arrivare a una velocità assurda era un altro aereo. Un secondo aereo. Che si era schiantato in diretta televisiva.
Tabytha e Stern si abbracciarono ancora più forti.
“Nicholas”, esclamò lei dopo qualche minuto.
“È al sicuro all’asilo, ma forse è meglio chiamare.”
“No no, vado subito a prenderlo”, disse lei.
“Aspetta vengo anch’io.”
“Stai qui, potrebbero avere bisogno di te allo Studio, oppure Pamela potrebbe
mandare un altro messaggio.”
Lo Studio era molto vicino al World Trade Center.
Tabytha uscì di corsa. Stern doveva anche chiamare Patrick, chiedergli se doveva andare all’ospedale per l’operazione. Immaginò che in tutti gli ospedali di New York dovesse esserci il finimondo.
Compose il numero di Patrick. Nessuna risposta, nessun segnale. Riprovò dal telefono fisso ma ottenne lo stesso risultato.
Stern continuò a guardare la televisione, ora che le telecamere degli elicotteri trasmettevano da vicino gli sembrava che il fumo fosse diventato sempre più nero e denso. La CNN continuava a mandare in onda lo schianto del secondo aereo, la palla di fuoco.
Aerei contro grattacieli, pensò, a quell’ora i grattacieli erano colmi di gente che andava al lavoro.
All’improvviso vide quello che non avrebbe mai pensato: molte persone si buttavano da quattrocento metri di altezza per salvarsi dalle fiamme. I loro corpi sembravano fermi, all’inizio, poi acquistavano velocità e scomparivano.
Stern provò a chiamare in ufficio, non aveva senso stare lì, doveva fare qualcosa. Non poteva guardare in televisione quello che a pochi chilometri stava avvenendo in diretta. Tutte le linee dell’ufficio erano mute. Provò i cellulari di
Jason, Markus e di tanti altri ma non c’era verso di mettersi in contatto con qualcuno.
E pochi minuti dopo, accadde: la Torre Sud crollò come un castello di sabbia.
Stern rimase attonito, incapace di pensare.
Uscì di casa, scese i gradini che dalla veranda portavano in spiaggia. Poteva sentire il calore della sabbia, il riflusso dell’oceano, la tranquillità della natura. Poi si voltò verso destra, e vide il fumo e la polvere che si alzavano nel cielo per chilometri.
Si mise a sedere continuando a fissare Manhattan in lontananza. A un tratto vide un’altra ondata di polvere, ancora più grande della prima e capì che anche la seconda Torre era crollata, sbriciolandosi come un biscotto nel cielo di New York.
New York, 11 settembre 2001
65
Markus era già in Studio quando i due aerei si erano schiantati sulle Torri Gemelle. Gli avvocati si erano trovati nella grande sala delle riunioni e avevano assistito sbigottiti e impotenti. Markus rimase in disparte, un po’ isolato dagli altri.
Tornò nel suo ufficio e accese la tv.
Diede un’occhiata alla borsa, era stata chiusa pochi minuti dopo l’apertura con i listini che perdevano il 10%. Sarebbe rimasta chiusa per una settimana, ma questo Markus ancora non lo sapeva.
Quello che sapeva era che nel momento in cui si sarebbero cercati i colpevoli e si fossero aperte le inchieste, lui sarebbe stato lì.
Aprì un documento word e con il sorriso sulle labbra cominciò a scrivere una lista di società ed enti che avrebbe trascinato in colossali cause da miliardi di dollari.
Il giudice Schmit era in Tribunale, dopo la chiusura della causa che aveva presieduto, stava effettuando il aggio di consegne al nuovo giovane giudice. Gli segnalò le cause pendenti, quelle urgenti e quelle che potevano aspettare. All’improvviso entrò nel suo ufficio, trafelata e senza bussare, la sua assistente.
“Giudice accenda il televisore, presto.”
“Spero che sia per un buon motivo”, rispose lui squadrandola e lei annuì sull’orlo delle lacrime.
Il giudice Schmit rimase annichilito, nel momento in cui la televisione si accese il secondo aereo si era già schiantato e le Torri erano in fiamme. Quando un’ora dopo entrambe le Torri erano state spazzate via dalla follia umana, congedò il nuovo giudice e rimase da solo in ufficio.
Appoggiò il mento sulle mani e pianse, lui che aveva dedicato tutta la sua vita alla giustizia, alla salvaguardia dei diritti dei più deboli, stava assistendo a qualcosa che andava al di là della sua comprensione, un delitto di proporzioni immani. Un crimine contro l’umanità.
Patrick quel giorno aspettava Stern. Le probabilità di salvarlo erano basse, ma assieme avevano deciso di tentare il tutto e per tutto.
Patrick era in ospedale, nel caos più completo. Le ambulanze continuavano a sfornare feriti. I morti venivano chiusi in sacchi neri e messi in un magazzino. Non aveva mai visto nulla del genere, neanche al cinema, mai avrebbe pensato che nella sua professione di medico avrebbe visto tutti quegli orrori.
Arrivò un uomo con un gamba amputata alla coscia, gli era stata applicata una cintura per fermare l’emorragia. Il paziente lo guardò con occhi sereni per un istante, e poi spirò tra le sue abili mani di chirurgo che cercavano di porre rimedio alla gravissima ferita.
Si dimenticò di Stern, erano troppe le richieste di aiuto, i pianti disperati e le urla sommesse che provenivano da ogni angolo del pronto soccorso e dell’intero ospedale.
Verso metà mattina vide Michael Carson, venuto a dare una mano.
Subito Patrick gli assegnò dei compiti. C’era bisogno di tutto l’aiuto possibile e Michael era in gamba, avrebbe saputo alleviare il dolore di tanti.
Carl, il gestore dello Starbucks di Montclair, amico di Jason, non perse tempo davanti alla televisione, conosceva tutti in città. Manovali, operai, magazzinieri.
Li chiamò uno per uno e organizzarono un convoglio per andare a Manhattan.
Radunarono gli attrezzi su quattro pick up, dopo averli stipati di ogni genere di materiale: pale, picozze, luci elettriche, elmetti, guanti, scarpe da lavoro, tute, acqua. L’indomani al più tardi si sarebbero presentati alla stazione di polizia di Montclair.
L’America intera si stava mobilitando.
66
Jason ritornò sui suoi i facendo la strada al contrario, un cartello segnaletico indicava chiaramente la via: Liberty Street. Non poteva essersi sbagliato.
Cominciò a tossire e a sputare, la polvere gli era penetrata dappertutto. La sentiva negli occhi, nei capelli, nelle orecchie. La tosse diventò sempre più forte e fu costretto a sedersi sul bordo del marciapiede.
Guardò le persone che avano vicino a lui, non avrebbe saputo dire se erano uomini o donne. Tutti avevano uno sguardo allucinato e perso nel vuoto, tutti giravano senza una meta.
Gli aerei, attentato terroristico, le torri cadute. Pensò a Mitch, o Brad o come dannazione si chiamava quel portiere.
Cominciò a correre verso nord, lontano da quell’inferno. Claudine doveva aver fatto il suo stesso ragionamento. Doveva essere andata a prendere i bambini.
Corse per quasi venti isolati, e a mano a mano la polvere si diradava.
Corse evitando decine di persone che andavano nella direzione opposta, per dare una mano o per curiosare.
Corse finché ebbe fiato, poi si voltò indietro: una nube immensa di fumo ricopriva completamente Manhattan, svettando nel cielo per chilometri.
Cercò con lo sguardo un taxi ma sembravano tutti spariti, chi aveva potuto era già scappato verso direzioni più sicure. La città, normalmente a quell’ora piena di traffico, era quasi silenziosa, come un vecchio set abbandonato di un film western.
Cercò il portafogli nella tasca interna dell’abito, c’erano due banconote da cento dollari ma pensò che non bastassero.
Vide una filiale della Bank of America nell’altro lato della strada, la raggiunse in pochi balzi e cercò freneticamente il bancomat.
Lo trovò sull’angolo della banca, aprì il portafoglio ed estrasse la sua carta. Sorrise, per la prima volta da molte ore, pensando che il suo credito era praticamente illimitato e avrebbe potuto prelevare anche centomila dollari. Avrebbe potuto svuotarlo quel bancomat. Inserì la tessera e pochi istanti dopo il visore gli rimandò un messaggio che non aveva mai visto.
Tessera non valida.
La inserì ancora, e poi una terza volta. E a quel punto il bancomat trattenne la tessera.
Rivolgersi allo sportello per il rilascio della tessera.
Tirò un pugno furioso contro il monitor, provò con un’altra tessera bancomat, ne aveva almeno quattro. Niente. Anche la seconda fu inghiottita dalla macchina elettronica.
Evidentemente tutti i sistemi elettronici erano andati in tilt, oppure erano stati bloccati per evitare furti e sciacallaggi.
Riprese a correre verso nord.
Sbucò in Times Square e si sorprese di aver fatto così tanta strada, bloccò un taxi al volo e finalmente fu all’interno di un abitacolo sporco di grigio.
Il conducente, un afghano forse, si girò verso di lui.
“Dove vuole che la porti?”
“Fuori da questo casino e alla svelta, mi porti a Montclair” disse Jason infilando cento dollari nel cassettino che divideva in due l’abitacolo mediante un vetro antiproiettile.
“Casino?”, chiese il conducente.
“Come lo definirebbe lei?”, disse Jason mentre il taxi partiva in direzione di
Montclair.
“Ordinaria amministrazione”, rispose il taxista e, per un attimo, a Jason sembrò che il taxista stesse sorridendo.
Il traffico si diradò in fretta, mentre prendevano il tunnel sotterraneo sotto l’Hudson, in direzione ovest.
Jason si guardò indietro quando sbucarono dall’altro lato del fiume, in una zona che miracolosamente sembrava del tutto pulita. Se possibile, la nuvola di polvere era diventata ancora più grande e minacciosa.
“Mi lasci qui, accosti pure sulla destra”, disse Jason. Si sarebbe scolato volentieri mezza bottiglia di scotch per calmarsi del tutto, ma non era ancora il momento. Durante la corsa in taxi aveva provato almeno una cinquantina di volte a chiamare i numeri dei cellulari di Claudine e di Kelly, ma non c’era segnale. Li conosceva a memoria. E questo fu un bene.
Perché almeno non si accorse che tutti i numeri registrati nella rubrica erano spariti.
Il taxista ripartì sgommando. Jason si voltò verso il grande cancello che separava la sua villa dal resto del mondo. E restò immobile come un sasso.
Rimase fermo per quello che gli sembrò un tempo eterno, poi si riscosse e accostandosi al cancello vide che era di un colore diverso.
Non è possibile.
Il cancello era verde scuro, quando al mattino era dipinto di un marrone chiaro. E il bungalow dove aveva sede lo studio di Claudine era scomparso.
Jason appoggiò una mano sotto il camlo. Tornò verso la strada. Guardò a destra. Poi a sinistra.
Non ci potevano essere dubbi, quella era casa sua, era l’unica villa di quelle dimensioni nel raggio di almeno tre chilometri. Non ce n’era un’altra, nemmeno simile, alla sua. Si voltò di nuovo verso il cancello.
Fece qualche o e si decise a suonare il camlo.
Finalmente un uomo che non aveva mai visto uscì da un gabbiotto nascosto da una siepe.
“Desidera?”, gli chiese avvicinandosi al cancello.
“Prego?”, rispose Jason sentendosi un perfetto idiota.
“Le ho chiesto cosa desidera, signore.”
“Sono Jason”, rispose lui mentre quel dialogo cominciava ad apparirgli del tutto surreale.
“Bene, buongiorno Jason. Ha bisogno di aiuto?”
Jason scoppiò a ridere e il custode lo guardò con un’ombra di sospetto.
“Senta, non so chi è lei ma di certo oggi non è giorno per fare scherzi. Avrà sentito delle Torri Gemelle, no?”
“Certo signore, ne parla tutto il mondo”, rispose il custode abbassando lo sguardo mentre un fremito gli percorse il labbro superiore.
“Ecco appunto, ci sono già state abbastanza demolizioni per oggi”, disse Jason indicando con un dito lo spazio lasciato libero dallo studio di Claudine.
Jason rimase interdetto, solo in quel momento si rese conto che in quello spazio c’era una quercia centenaria.
Non può essere lì, pensò.
“Lei era a Manhattan?”, chiese il custode avvicinandosi di un altro o verso il cancello. Aveva assunto un tono comionevole che non sfuggì a Jason.
“Certo che ero a Manhattan, dove crede che mi sia ridotto così?”
“Capisco signore. Ha bisogno di aiuto? Le posso portare un bicchiere d’acqua se vuole.”
Jason si appoggiò al cancello, lo strinse forte: “Chiunque tu sia, mi hai rotto le palle. Apri questo stramaledetto cancello e fammi entrare”, ringhiò.
“Temo di non poterlo fare, signore”, rispose calmo il custode facendo un o indietro e appoggiando la mano destra su un walkie talkie.
“Lei teme di non poterlo fare? Questa è casa mia, apra il cancello!”, urlò Jason.
Il custode estrasse il walkie talkie dalla cintura, premette un tasto e dando le spalle a Jason disse al microfono una breve frase che Jason non riuscì a capire.
“Si calmi ora. Questa non è casa sua.”
“Come sarebbe a dire?”, urlò ancora Jason.
“Qui abita la famiglia Johnson.”
“Qui abito io con mia moglie Claudine e i miei figli Kelly e Joshua da quasi dieci anni!”
“No signore, temo che si sbagli e ora se non le dispiace faccia due i indietro e si allontani dal cancello.” All’improvviso comparvero due guardie da un vialetto. Uscirono e si disposero affianco a Jason.
“Cosa avete intenzione di fare, maledizione lasciatemi entrare, devo vedere se la mia famiglia sta bene.”
“Qui non c’è la sua famiglia”, disse una delle guardie mentre una macchina della sorveglianza privata si accostò al ciglio della strada.
Jason perse la testa e cominciò a menare pugni, ma fu ben presto immobilizzato e scaraventato dentro la macchina di servizio, che partì lasciando dietro di sé una scia di polvere.
Montclair, 11 settembre 2001, ore 12:43
67
“Dove stiamo andando?”
“Dove vuole lei, signore”, rispose l’agente privato guardando Jason dallo specchietto retrovisore.
“Io voglio andare a casa”, disse Jason alzando la voce.
“Si calmi signore. Se ci dice dove abita, la riportiamo a casa noi.”
“Maledizione, quella è casa mia”, disse Jason puntando il dito dietro di sé.
“No signore, quella non è casa sua. Presto servizio in questa zona da quattro anni e quella villa è sempre stata della famiglia Johnson.”
“E chi sono i Johnson? Senta se questo è uno scherzo, direi che ne ho abbastanza. Inverta la marcia e torni indietro subito!”, gridò Jason con una punta di isterismo nella voce.
“Questo non è possibile, signore. Adesso la prego di calmarsi altrimenti dovremo portarla al comando di polizia.”
Jason cercò di prendere fiato, con una sottile paura strisciante che cominciava a salirgli dal petto. Dov’era finito lo studio di Claudine?
Non aveva senso.
Decise di cambiare tattica, non avrebbe ottenuto nulla se avesse continuato a dare di matto.
“Sono un po’ scosso da quello che è successo oggi.”
“Lo capiamo signore, lei dove si trovava?”, chiese l’autista.
Nel mezzo del casino, pensò Jason.
“Proprio sotto alle Torri, mi sono cadute praticamente addosso.”
“Vuole che la accompagniamo all’ospedale di Montclair?”, chiese quello affianco all’autista.
Jason ci pensò un attimo, forse era sotto shock, forse una commozione cerebrale. Qualche motivo che spiegasse che casa sua non era più casa sua ci doveva pur essere.
“No grazie, lasciatemi qui per favore.”
“Qui?”, chiese l’autista.
“Ho bisogno di fare due i e schiarirmi le idee. Poi andrò a casa.”
“Si ricorda dove abita?”
“Sì, credo di sì”, mentì Jason.
La macchina della polizia privata accostò al marciapiede, l’autista scese e aprì la portiera di Jason, che inutilmente stava cercando di sbloccare, essendo chiusa dall’esterno.
“Le lasciamo un biglietto da visita dell’agenzia, se ha bisogno di qualcosa, se si sente male ci chiami per favore”, disse l’uomo. Sotto la polvere si intravedeva un abito elegante, costoso. Il Rolex d’oro al polso di Jason confermò l’ipotesi della guardia. Quell’uomo non era certo un barbone.
“Lo farò. E scusate se ho alzato la voce”, disse Jason.
L’uomo risalì sulla macchina.
Jason fece un cenno di saluto e abbozzò un sorriso mentre la macchina se ne andava lentamente, sorriso che morì sulle sue labbra appena si voltò.
Jason si guardò attorno. Non c’era nessuno in giro. Nessuna macchina di aggio, nessuno in bicicletta o su un furgone. Il nulla. Guardò l’orologio: le 13:45.
Si incamminò per il lungo viale, dalle finestre si sentiva solo il rumore delle televisioni.
Poteva sentire alcuni lamenti provenire dall’interno delle case, dei singhiozzi trattenuti a stento, una signora anziana urlava dicendo che suo figlio era lì, proprio lì sotto. Che lavorava nel World Trade Center. Urlava e piangeva. Jason continuò a camminare e le lacrime gli scesero, finalmente.
Vide uno Starbucks Coffee poche decine di metri davanti a lui, aveva fame e si sentiva debole. Doveva buttare giù qualcosa.
Entrò nel negozio e vide che c’erano solo due o tre clienti appoggiati al bancone. Fissavano tutti il televisore, sbalorditi, tenendosi la testa tra le mani. Nessuno si accorse di lui.
Jason si avvicinò al bancone e notò la targhetta recante il nome del cameriere attaccata come una spilla.
“Buongiorno John, potrei avere un sandwich e un caffè per favore?”
“Certo signore, glielo porto subito”, rispose il cameriere squadrandolo.
Jason guardò il televisore e nell’attesa decise di richiamare ancora una volta la sua famiglia. Compose il numero di telefono di Claudine, sentì il segnale di libero poi all’improvviso la linea cadde.
“Accidenti”, esclamò Jason.
“È così da molte ore, non si riesce a telefonare con i cellulari”, disse porgendo il panino e il caffè a Jason.
Jason fissò a lungo John, incerto se fargli una domanda, poi si decise. Quello era un giorno in cui nessuno si sarebbe stupito di nulla.
“Chi abita in quella grande villa sul vialone a un paio di chilometri da qui?”
“Quella con il cancello verde?”
“Sì”, disse Jason deglutendo.
Che accidenti ci faceva il cancello verde?
“È una famiglia molto ricca, con dei figli. Una ragazza di circa dodici anni e un bambino più piccolo.”
“Ah”, disse Jason finalmente sollevato e pensò al comportamento delle guardie e del custode, senza riuscire a dargli un senso.
“Abitano lì da molti anni. Si chiamano Johnson.”
A Jason andò di traverso il caffè.
“Come ha detto che si chiamano?”, chiese con un filo di voce.
“Johnson. Famiglia Johnson”, rispose John girandosi verso gli altri clienti.
Jason uscì in strada con il caffè e il panino in mano, all’improvviso sentì una forte nausea e gettò tutto in un bidone della spazzatura.
New York, 11 settembre 2001, ore 8:57
68
Le erano bastati pochi minuti per capire. Si era proiettata al suo terminale ed era entrata nella intranet aziendale. Con un paio di click, aveva richiamato la schermata delle comunicazioni istantanee a tutti i membri dello Studio, impiegati, associati e avvocati. Aveva composto un breve testo e lo aveva inviato. Nel secondo successivo, sui cellulari e i cercapersone dei dipendenti dello studio Davis Baker & Reynolds era apparso lo stesso messaggio.
“Per nessun motivo oggi dovete avvicinarvi allo Studio.”
Il software rimandò indietro due avvisi di mancato recapito: uno dal telefono di Jason e l’altro da quello di Sally.
Pamela riprovò a inviare lo stesso messaggio ma le ritornò lo stesso avviso di errore. Immediatamente sentì il cuore accelerarle in petto.
Tra tutti i dipendenti dello Studio proprio quei due nomi non avevano ricevuto il messaggio: Jason e Sally.
Pamela tornò a guardare il monitor. Ma quelle due caselline rimasero rosse e continuarono a lampeggiare.
Uscì dal suo ufficio e si recò in quello di Markus che continuava a battere sulla tastiera, del tutto inconsapevole e indifferente a quello che stava succedendo
fuori.
Cosa diavolo starà facendo in un momento come questo, pensò Pamela.
“Markus abbiamo un problema”, disse dando un leggero colpo con le nocche alla porta del socio per richiamarne l’attenzione.
“Uno solo?”, rispose Markus continuando il suo lavoro.
“In realtà due”, rispose Pamela.
“Che sarebbero?”, chiese Markus alzando finalmente la testa dal monitor.
“Ho mandato un messaggio di avviso a tutti i dipendenti dello Studio di non venire in ufficio e di tornare a casa. L’hanno ricevuto tutti, tranne Jason e Sally.”
“Sì, l’ho ricevuto anch’io”, rispose Markus perplesso.
“Perché il sistema non ha consegnato i messaggi?”, chiese Pamela.
Markus si stirò leggermente sulla poltrona.
“Non saprei, forse hanno il telefono rotto, forse si trovano in un luogo senza copertura.”
“Non credo”, rispose Pamela preoccupata.
“Jason sa badare a se stesso, ci sarà senz’altro un motivo plausibile. Le Torri sono lontane qualche centinaio di metri da qui e lui per venire in ufficio non ci a affianco. Chiama Claudine e fammi sapere”, rispose Markus.
“Sally dovrebbe venire in ufficio oggi per una riunione con il team di Stern.”
“Chiama Stern e chiedi se lui ne sa qualcosa. In caso negativo, fai una ricerca sui familiari di Sally. Dobbiamo sincerarci che tutti i nostri dipendenti siano in salvo, al momento è la priorità numero uno”, disse Markus che già era tornato a battere i tasti sul suo computer.
Pamela rientrò nel suo ufficio e richiamò al computer l’intero dossier su Sally compilato dal direttore del personale. Vide che aveva una sorella, Anna, da chiamare in caso di emergenza.
Pamela sollevò il telefono e compose velocemente il numero di Anna, ma dopo qualche squillo partì la segreteria telefonica.
Maledizione, pensò.
Rivide la giovane ragazza, ai suoi occhi azzurri ed ebbe un tuffo al cuore.
Aprì un cassetto ed estrasse una foto. Le web cam all’interno del suo appartamento ne avevano scattate parecchie, quella sera con Sally.
Guardò i contorni del suo viso, le sue labbra, i capelli. Poté quasi sentire il suo profumo e sperò che il suo ricordo non fosse legato per sempre solo a una foto.
A un certo punto sentì delle grida provenire dalla sala riunioni, si alzò di scatto. Fece appena in tempo a entrare nella sala, per vedere che una delle Torri veniva giù.
Tornò nel suo ufficio verso l’ora di pranzo. Si sedette esausta alla sua scrivania e riprovò a chiamare Sally.
Uno due squilli. Poi gli squilli continuarono a vuoto, finché scattò la segreteria.
“Sono Pamela dove sei? È da tempo che provo a chiamarti ma non rispondi mai. Oddio non vorrei che fossi in mezzo a quel casino, che tu fossi... No non ci voglio pensare, ascolta richiamami appena puoi.”
Jason sentì squillare il cellulare e guardò il numero sul visore. Conosceva perfettamente quel numero, ma non riuscì a spiegarsi il motivo per cui non appariva il nome del chiamante sul visore.
Sentì subito una voce familiare che gli chiese se stesse bene.
“Sì, sto bene, grazie a dio sei tu.”
La voce proseguì senza rispondergli.
Non mi sente, disse tra sé e sé.
“Ascoltami, sono in mezzo a un casino. Fatto sta che non trovo più casa mia. Sì, lo so che è pazzesco ma per favore aiutami.” La linea cadde all’improvviso.
Richiamò con il tasto di chiamata rapida. Ma il telefono dall’altra parte suonava libero.
Si alzò in piedi furente e sbatté il telefono per terra.
Cominciò a camminare per le strade di Montclair, ò davanti a un distributore di benzina, poi a un grande parcheggio. Vide l’insegna del Montclair Plaza ed entrò. eggiò per i lunghi corridoi, quasi tutti i negozi del centro commerciale erano deserti, solo i commessi erano in attesa di clienti che quel giorno non sarebbero venuti. L’America, di colpo, era precipitata in uno stato di shock.
Jason si fermò sul suo ultimo pensiero.
Stato di shock.
Sì, poteva essere. Tutto si sarebbe spiegato in quel modo. Forse anche lui senza rendersene conto vagava come un fantasma in una terra di nessuno, scambiando i luoghi, confondendo fatti e persone.
Incrociò una guardia armata, un uomo enorme alto almeno due metri con delle spalle larghe come una locomotiva. Il suo sguardo era bonario, quasi assente.
“Mi scusi”, disse Jason.
“Dica signore.”
“Ho bisogno di aiuto. Non riesco più a trovare casa mia, non riesco a contattare la mia famiglia. Non mi sento bene.”
“Si sieda un attimo su quella panchina”, rispose la guardia.
“Non voglio sedermi.”
L’uomo lo guardò per un istante.
“Vuole che chiami un’ambulanza?”
“Non lo so.”
“Come si chiama, signore?”
“Jason. Jason Davis. Mi conoscono tutti qui a Montclair, abito in una grande villa su Melville Road.”
L’uomo annuì, senza dare cenno di averlo riconosciuto.
“Anche lei”, disse Jason.
“Cosa, signore?”
“Anche lei, stupido figlio di puttana non sa chi sono”, disse Jason alzando la voce di un tono.
“Si calmi signor Davis. Si sieda su quella panchina, ora chiamo un’ambulanza.”
La guardia estrasse il walkie talkie, Jason aveva visto quella scena, poco prima. Il mondo gli sembrò di colpo ostile. Si scagliò con tutte le sue forze verso la guardia afferrandogli il walkie talkie. L’uomo preso alla sprovvista non reagì subito all’attacco di Jason che cominciò a menare pugni e calci. Cercò la pistola della guardia e la estrasse dalla fondina.
La reazione della guardia a questo punto fu fulminea, afferrò Jason per un braccio, glielo torse dietro la schiena e lo buttò a terra.
Prese le manette e gliele infilò velocemente ai polsi. Poi chiamò qualcuno al walkie talkie, una voce gracchiante rispose e Jason venne trascinato per molti metri lungo tutto il Montclair Plaza.
Poté vedere gli occhi stupiti dei commessi piantati contro di lui, ma non oppose più resistenza e si lasciò andare. Chiuse gli occhi e si lasciò sbattere con forza dentro una macchina, che partì con le sirene accese.
Pamela ò tutto il giorno in preda all’ansia. Non poteva fare nulla, non poteva uscire dall’ufficio. Verso metà pomeriggio arrivarono dei poliziotti con l’ordine di sgomberare lo stabile.
In pochi secondi l’ufficio si svuotò, il panico crebbe all’improvviso. Tutti temevano un altro attacco, o una bomba.
Pamela si trovò in strada, chiese a un poliziotto che cosa stava accadendo ancora.
Il poliziotto non lo sapeva, avevano ricevuto ordine di sgombrare tutta la zona.
Pamela corse via, svoltò l’angolo di Liberty Street e rimase paralizzata dall’orrore. Non c’era più nulla, solo uno spazio immenso e vuoto.
Poi sentì delle voci, sempre più forti e concitate. Qualcuno urlò. Sentì un pompiere dire “ora lo tiriamo giù.”
Guardò nella direzione del pompiere, vide un palazzo marrone chiaro alto forse quaranta piani. In quel palazzo aveva sede la National Security Agency, l’FBI, la CIA e la SEC. C’era anche un rifugio per il sindaco di New York, in caso di emergenza e quella lo era, pensò tra sé. C’era il cuore della nazione in quel palazzo, gli organi vitali di informazione. I servizi segreti. Poi a un tratto Pamela sentì nuovamente delle esplosioni e il World Trade Center numero sette venne giù come un fantoccio.
Si incamminò verso nord, mortalmente stanca verso casa sua, nel Greenwich Village. Cercò la chiave del suo appartamento, fino alla sera prima l’avrebbe individuata nel giro di un secondo. Ora invece le provò tutte, prima di indovinare quella giusta. Entrò in casa, si spogliò e salì al primo piano salendo le scale come se stesse andando di fronte a un plotone di esecuzione. Si sedette sul divano con indosso mutandine e reggiseno, si tolse anche quelli e rimase nuda a contemplare il vuoto.
Accese il televisore, ogni canale trasmetteva le stesse immagini, i commenti erano tutti uguali. Si era già anche trovato, a distanza di poche ore, il colpevole ed erano spuntate tutte le facce dei ventiquattro terroristi coinvolti nel più grande attacco agli Stati Uniti.
Lei aveva visto pezzi di gambe, di braccia. Aveva visto persone gettarsi da trecento metri di altezza. Gli aerei polverizzarsi ed esplodere nell’interno delle torri.
Eppure avevano già trovato i aporti dei terroristi, immacolati, come se fossero appena usciti dalla rotativa di stampa.
Sorrise con uno strano senso di inquietudine e spense il televisore. Si sdraiò sul divano e si addormentò.
San Francisco, 11 settembre 2001, ore 16:30 della costa Est
69
“Voglio andare”, disse l’ispettore McCloud al capo del comando di polizia di Oakland Bridge.
Il capo fece un lieve cenno di diniego.
“Perché no?”
“C’è già fin troppa gente in quel casino.”
“Stanno richiamando agenti con esperienza da tutti gli Stati Uniti.”
“Mi servi qui”, rispose il capo.
“Non me ne frega niente se ti servo qui, io devo andare. È tutta la vita che mi faccio il culo tra le scartoffie, le puttane e i magnacci. Voglio fare qualcosa di importante, per la mia nazione e per il mio popolo. È per questo che sono entrato in polizia!”, esclamò McCloud picchiando il palmo della mano sul tavolo.
“Va bene, siediti. Facciamo una telefonata.”
McCloud ubbidì e si sedette di fronte al suo capo, che compose un numero di telefono e parlò a lungo con qualcuno.
“Coordinamento, non presenza sul campo”, disse all’interlocutore.
Annuì più volte, bofonchiando all’apparecchio.
“Grazie, te lo spedisco”, disse il capo.
“Allora?”, chiese McCloud.
“Allora leva il culo da quella sedia. Per i prossimi giorni sei in trasferta a New York, in un centro di coordinamento a trenta chilometri dal downtown. Sei contento?”
Non era esattamente quello che aveva sperato, voleva andare in mezzo alla battaglia, come aveva fatto in Vietnam qualche decennio prima. Ma trenta chilometri da New York era senz’altro meglio che starsene a San Francisco, a cinquemila chilometri di distanza.
Helmut volò tutta la notte su un grosso aereo da carico, un Hercules Galaxy stipato all’inverosimile di ogni genere di materiale di soccorso e di pronto intervento. C’erano addirittura due ruspe e una scavatrice, oltre a tonnellate di medicine, cibo e acqua. Helmut era seduto su uno strapuntino, circondato da soldati della Guardia Nazionale e da alcuni altri in abiti civili.
Probabilmente medici, pensò.
In pochissime ore era stato preparato un ponte aereo tra la costa Ovest e quella Est degli Stati Uniti e da tante altre città.
Helmut atterrò all’alba del 12 settembre all’aeroporto La Guardia di New York, si aprì l’enorme portellone di carico e i eggeri scesero in modo ordinato. Helmut rimase un attimo spaesato, ma subito si avvicinò a lui un sergente della polizia che radunò anche gli altri civili che avevano volato con Helmut. Il sergente fece un rapido appello e verificò che fossero tutti presenti, poi li fece salire su un minivan.
Mano a mano che si avvicinavano a New York City cominciavano tutti a rendersi conto della portata del disastro. Nel cielo si alzavano altissime colonne di fumo e di polvere.
Il minivan entrò nell’isola di Manhattan e il sergente rivolse loro la parola per la prima volta da quando erano partiti dall’aeroporto.
“Grazie per essere venuti, il vostro aiuto sarà molto prezioso, qualunque genere di aiuto potrete dare, qualunque informazione potrete raccogliere dovrà essere condivisa da questo gruppo. Ora faremo una breve fermata in Union Square, devo lasciare giù uno di voi. Gli altri invece rimarranno a bordo e vi condurrò a Ground Zero. Ispettore McCloud?”
“Dica sergente”, rispose Helmut con un brutto presagio già in mente.
“È lei che devo lasciare in Union Square, lì ci sarà una macchina ad attenderla che la porterà all’ufficio a cui è stato preposto.”
“Sì signore.”
Ufficio? Non ho fatto tutta questa strada per andare in un ufficio, pensò Helmut.
Il pulmino arrivò in Union Square. Una macchina con i lampeggianti accesi era pronta e lo aspettava.
“Questo è l’agente che la accompagnerà a Montclair”, disse il sergente.
“Montclair? E che razza di posto è?”, rispose Helmut. Intanto osservava alcune persone che si fermavano di fronte a un muro e appiccicavano qualcosa.
“È una cittadina qui vicino, credo che le abbiano spiegato i termini della sua missione, vero?”
“No”, rispose secco Helmut. “Io sono venuto a New York per, dare una mano, non per andare in un ufficio a un’ora da qui”, disse mentendo e sperando così che venisse dislocato a New York.
“Ispettore McCloud, non ho il tempo di discutere con lei. Quando sarà arrivato a Montclair potrà senz’altro chiedere un’altra assegnazione. Arrivederci e grazie per essere venuto a New York.”
Helmut rimase un attimo disorientato e chiese: “Cosa fanno quelle persone?” indicando il muro.
“Venga a vederlo lei stesso”, disse l’agente a bassa voce.
I due uomini si avvicinarono al muro e gli girarono intorno. C’erano già centinaia di foto di persone scomparse. Uomini, donne, bambini. Di ogni età e di ogni razza. Sopra ogni foglio c’era scritto “Missing”, scomparso, e un numero di telefono da chiamare nel caso qualcuno avesse visto quella persona.
La gente che attaccava le foto diventava sempre più numerosa e lo spazio andava rapidamente esaurendosi.
“Agente. Mi porti immediatamente a Montclair”, disse Helmut sbattendo la portiera.
“Sì signore”, disse l’agente, le sirene si accesero e la macchina partì.
New York, 12 settembre 2001, ore 8:30
70
Pamela si svegliò stordita, come se in realtà non avesse dormito. La notte era stata gonfia di incubi e più volte si era destata improvvisamente fradicia di sudore. Verso le 3 del mattino aveva deciso di prendere qualche goccia di tranquillante scaduto scovato in fondo a un cassetto e riuscì a concedersi qualche ora di sonno profondo.
Si svegliò con il pensiero con cui si era addormentata. Sally. Continuava a pensare a lei, al fatto che il giorno prima era stata del tutto irreperibile. Che lei si trovava nella zona del World Trade Center quando la Torre Sud era crollata. Che per qualche motivo nel corso dell’anno l’aveva osteggiata così tanto, senza sapere il perché.
Pamela si sentì soffocare subito dall’angoscia, si preparò una tisana e si mise alla finestra.
Sally, pensò.
Il suo pensiero volo indietro di quasi un anno, quando lei era venuta a casa sua, quando erano state a un soffio dal diventare amanti, anche solo per una notte. Pensò alla dolcezza di Sally, alla sua ingenuità che in qualche momento le era sembrata calcolata, studiata e che in altri era del tutto spontanea.
Andò in cerca del telefono e lo trovò in una piega del divano, controllò le chiamate ricevute. Due telefonate. Markus Baker e Stern Reynolds.
Richiamò Markus, per fortuna le linee telefoniche erano tornate a funzionare.
“Sono io, Pamela.”
“Tutto ok? Sono a casa. Ho sentito anche Stern. Abbiamo verificato che tutti i dipendenti dello Studio sono salvi. È stato anche merito tuo, sei stata molto tempestiva nel mandare il messaggio ieri mattina. Ti dobbiamo molto.”
“Mancano ancora Jason e Sally? Hai notizie?”
Markus si zittì e per qualche istante poté sentire il suo respiro.
“No, nessuna notizia. Ieri nel tardo pomeriggio sono riuscito a parlare con Claudine ma mi ha detto che non era ancora rientrato a casa. L’ho richiamata alla sera verso le dieci ma ancora niente, Jason sembra sparito e Claudine è sull’orlo di una crisi”, disse Markus.
Jason, pensò Pamela. Dove sei finito?
“Dove può essere finito?”
“Non lo so proprio, Pamela.”
“Avrebbe potuto tornare a casa a piedi. Anche se non avesse trovato mezzi di trasporto ce l’avrebbe fatta comunque.”
“Ho provato molte volte a chiamare sul suo cellulare, ma non dà segnale. Ora telefono alla nostra agenzia di sicurezza e faccio sguinzagliare i loro uomini per tutti gli ospedali di New York. Lo troveremo”, disse Markus.
Pamela rimase in silenzio. Non poteva fare nulla, se non aspettare.
“Hai qualche notizia di Sally?”, chiese.
“No non l’ho sentita, forse sa qualcosa Stern. Prova a dargli un colpo di telefono mentre io mi attivo con l’agenzia.”
“Hai idea di quando potremo tornare in ufficio?”, chiese Pamela sentendosi soffocare al pensiero di stare in casa.
“Non lo so. L’area intorno al World Trade Center è stata chiusa e sgomberata per dieci isolati compreso il nostro, in tutte le direzioni.”
“Teniamoci in contatto ok?”
Pamela telefonò a Stern, ma anche lui non aveva più notizie di Sally e aveva già
cercato di contattarla decine di volte. Anche nel suo caso, la linea era muta.
Pamela mise giù il telefono, non aveva alcuna intenzione di stare in casa tutto il giorno. Indossò un paio di jeans e una polo.
Salì sul taxi che aveva chiamato qualche minuto prima e allungò l’indirizzo di Sally al conducente. Il taxi attraversò vie affollate di gente, incontrò una processione dove ognuno reggeva in mano una candela. Persone di ogni genere sedevano su panchine, per terra, in preda forse allo shock. Pamela pensò che la stessa cosa poteva essere capitata a Jason e Sally, che si fossero persi. Nel giro di una giornata, Manhattan era diventata una zona di guerra.
Si infilarono nel tunnel sotto l’East River e poco dopo furono a Brooklyn. Metro dopo metro, il paesaggio diventava sempre più desolante e la polvere grigia sembrava quasi essersi addossata tutta sopra Brooklyn, per effetto del vento leggero che spirava da ovest.
Il taxi si fermò di fronte a un edificio.
“È questo l’indirizzo?”, chiese Pamela sbalordita.
“Sì signora, siamo arrivati.”
“Mi aspetti qui per favore.”
Scese dal taxi come un automa. Un giorno, molti anni prima, Jason l’aveva portata a vedere i luoghi della sua infanzia, dove era cresciuto. L’edificio che si trovava davanti era lo stesso condominio dove Jason aveva abitato nella sua giovinezza.
Compose il numero di Sally, ancora rispose la sua segreteria telefonica. Provò un’altra volta. Niente.
Si avvicinò al portone e guardò i cognomi. Portoricani, ebrei, cinesi. Poi vide il suo, Yrons.
Premette il camlo e aspettò. Premette ancora e poi una seconda e una terza volta, rimase attaccata a quel camlo per minuti ma nessuno rispose.
Si voltò, si sedette sul marciapiede, incapace di pensare. Non aveva più luoghi in cui cercare e fu assalita dalla disperazione.
Poi risalì sul taxi e diede ordine di riportarla a casa.
Montclair, 11 e 12 settembre 2001
71
Doveva calmarsi. Ricordava quello che era successo il giorno precedente. Gli avevano chiesto nome, professione ed età, l’avevano trascinato davanti a una macchina fotografica e con un foglio in mano lo avevano fotografato, di fronte e di profilo. Poi gli avevano imbrattato le mani con l’inchiostro e aveva premuto su un foglio. Le impronte.
Mi hanno preso le impronte, non ci posso credere pensò Jason tirando un calcio alla brandina.
Poi aveva chiesto un telefono per chiamare a casa e gli aveva risposto un messaggio registrato. Il numero di telefono è inesistente, diceva il messaggio. Jason, sbalordito, aveva richiamato decine di volte ma il messaggio era sempre lo stesso.
Anche il suo numero di telefono di casa era scomparso.
Si guardò intorno nell’angusta cella. A parte la brandina, c’era ben poco. Un lavandino, un tavolo di plastica e una tazza di un cesso maleodorante.
Fine.
Una porta pesante di acciaio chiudeva la gabbia in cui si trovava. Dalla piccola finestra con le sbarre protetta da un vetro spesso almeno cinque centimetri
entrava una luce pallida. Non era luce naturale, certo non quella del sole. Provò a issarsi facendo leva su una protuberanza nel muro, appoggiò i piedi e si sollevò. Guardò fuori, un lampione mandava una luce soffusa, non capiva se era notte o l’alba di un nuovo giorno.
Gli avevano tolto l’orologio, le stringhe, la cintura, ogni genere di effetto personale compreso il portafoglio. Aveva indosso solo il completo grigio macchiato dalla polvere. Si ò le mani sul vestito per rimuovere quello strato di sporco, aveva bisogno di sentirsi di nuovo lui. Poco tempo prima il Time l’aveva ritratto in copertina, giudicandolo l’uomo più elegante dell’anno.
Si guardò intorno facendo l’inventario di quello che aveva a disposizione e capì che doveva contare solo su se stesso per uscire da quel casino.
Poco più tardi giunse un poliziotto, aprì la porta di acciaio e lasciò un vassoio sul tavolo. Jason non gli chiese nulla. Non disse niente. Prese il vassoio dal tavolo e guardò il contenuto. Del tè caldo e alcuni biscotti. Trangugiò tutto in un fiato.
Si sdraiò sulla brandina cercando di tenere gli occhi aperti, doveva pensare. Ma il suo cervello si rifiutava di elaborare ancora, lo aveva fatto per tutto il giorno. Cadde di botto nell’oblio.
Un uomo grande e grosso si avvicinava, si sentì chiuso in un angolo, non poteva scappare, non c’erano vie di fuga. L’uomo si chinò e prese a toccarlo con insistenza, lui provò a opporre resistenza ma questo eccitò ancora di più l’uomo. Gli strappò i vestiti e lo girò, completamente nudo. Urlò e poi urlò ancora per richiamare l’attenzione, chiese aiuto e a un certo punto sentì che la presa su di lui si allentava. Era comparso un altro uomo, ora erano in due, si fronteggiarono per qualche istante e si scambiarono delle parole incomprensibili, come se fossero state pronunciate in un’altra lingua. Poi il secondo uomo, decisamente più
piccolo di corporatura, tirò calci e pugni all’uomo più grande. Preso alla sprovvista questi reagì, scagliandosi contro l’uomo più piccolo, caddero entrambi a terra e si rotolarono sul pavimento.
Lui ne approfittò, raccolse da terra i suoi indumenti e scappò via. Nella luce del sole, in quel cortile disabitato, guardò i vestiti e vide con sgomento che era un abito rosa chiaro con le spalline strappate che sarebbe potuto andare bene a una adolescente.
Si svegliò di botto dall’incubo mettendosi a sedere, cercò di capire dove si trovasse e per qualche istante gli occhi rifiutarono di restituire alla mente quello che vedeva. Poi Jason si ricordò. La prigione, la gabbia e la porta d’acciaio. Si sdraiò di nuovo sulla brandina, sperando che l’incubo non tornasse più e che non rimanesse imprigionato nella cella assieme a lui.
“Ma dove mi hai mandato?”, sbraitò McCloud nel ricevitore del telefono, troppo piccolo per le sue mani enormi.
“Dove hai chiesto tu”, rispose calmo il suo capo.
“Mi avevi promesso un centro di coordinamento per fronteggiare le emergenze, non un buco di merda in un paesino sperduto.”
“L’hai vista la televisione questa mattina? Sai cosa è arrivato a Ground Zero?”
“No ma...”
“Niente ma, Helmut. Sai cosa ha ordinato di fare il sindaco Giuliani? Te lo dico io. Ha ordinato che fossero portati ventimila sacchi di plastica, hai presenti quelli neri e lunghi approssimativamente come un uomo, quelli con una grossa e spessa cerniera di metallo?”
“No, non ho visto.”
“Ecco appunto non sai nulla, Helmut. Hai capito il numero che ti ho detto? Ci sono ventimila sacchi di plastica laggiù, tra un po’ non sapranno neanche più dove metterli i morti!”
“Sì, ma questo cosa c’entra con...”, disse Helmut con la voce un po’ malferma.
“Tra qualche ora i morti te li metteranno sotto la scrivania e dovrai aiutare a dare loro un nome. Quindi fai il tuo lavoro e non rompermi le palle”, disse il suo capo sbattendo il telefono.
Helmut rimase con il telefono in mano, guardandosi in giro nell’angusto ufficio di polizia di Montclair.
Si sedette alla scrivania. Aveva sognato la battaglia sul campo, e ancora una volta si trovava confinato in un ufficio. C’era comunque molto lavoro da fare, doveva coordinare i suoi uomini e indirizzarli a Ground Zero, mentre altri agenti dovevano rimanere in zona per qualsiasi emergenza, qualunque cosa questa parola potesse significare dopo il disastro avvenuto il giorno precedente.
Prese dal mucchio una pratica e i suoi occhi volarono veloci ma non si soffermò sul nome. Era stato arrestato il giorno precedente per aggressione e resistenza a pubblico ufficiale.
Possibile che in questo casino generale gli agenti avessero arrestato qualcuno per un reato di così scarsa importanza?
Per lui poteva essere chiunque, tanto poco gliene fregava in quel momento. Chiamò il sergente Greg Evans e si fece aggiornare sulla situazione del prigioniero.
“Leggo da questo fascicolo che ieri avete arrestato un uomo per aggressione e resistenza a pubblico ufficiale. Complimenti”, disse Helmut al sergente con tono sarcastico, mentre il sergente si dondolava sui talloni guardandosi le punte delle scarpe. Non gli piaceva che la stazione di polizia di Montclair fosse stata affidata a uno della costa Ovest.
“Signore, qui da noi, come dire, è un luogo tranquillo. Ci teniamo alla sicurezza della nostra cittadina. A Montclair abitano molte persone ricche e piuttosto famose, ci sono residenze da...”
“Ma dico, in questo casino lei mi viene a parlare della sicurezza di Montclair.”
Helmut si portò una mano alla fronte e vi si appoggiò, non poteva credere alle proprie orecchie.
“Va bene, siete molto ligi e ci tenete alla sicurezza. Mi può allora dire che cosa ha detto il fermato?”, chiese cercando di mantenere la calma.
“Temo di non saperlo.”
“Prego?”
“Il fatto è che non ho ancora avuto il tempo di interrogarlo.”
Un silenzio di tomba piombò sull’ufficio.
“Non credo di aver capito. È evidente dal fascicolo e da quello che il fermato ha dichiarato che lui si trovava sotto il World Trade Center quando le Torri sono crollate. Questa persona...”
“Si chiama...”, disse il sergente Evans.
“Non me ne frega niente di come si chiama! Questa persona era in mezzo al più grande disastro che sia mai successo sul suolo degli Stati Uniti, a parte Pearl Harbour, e lei mi viene a dire che non solo lo avete fermato con un’accusa che, mi i il termine, è assolutamente ridicola, ma neanche lo avete interrogato a fondo.”
“Temo di sì, signore.”
“Sergente, mi ascolti bene perché glielo dico una sola volta. Questa persona, chiunque essa sia, deve essere aiutata. È traumatizzato, probabilmente in stato confusionale. Per nessun motivo doveva essergli riservato il trattamento che gli avete offerto. Afferra il concetto?”
“Sì signore”, disse Evans a bassa voce.
“Vada immediatamente a interrogare il fermato e per l’amor di dio fate sparire la schedatura che avete fatto. Anche le impronte digitali gli avete preso.”
“È la norma signore.”
“Quello che è avvenuto non è la norma. Mi aspetto che voi siate flessibili e che vi comportiate di conseguenza. E ora sparisca e mi relazioni tra sessanta minuti.”
Helmut rimase nell’ufficio incredulo su quello che aveva appena ascoltato.
La sicurezza di Montclair, pensò.
Ma vaffanculo, lui aveva ben altro a cui pensare.
Montclair, 12 settembre 2001
72
I sistemi informatici erano ancora quasi completamente inaccessibili, Internet non funzionava né si poteva accedere ad alcun database.
Il sergente Evans stava consultando l’elenco telefonico dei residenti a Montclair e nelle zone limitrofe.
Guardò il grosso volume, riportava l’indicazione della località: Clifton, 5 chilometri a nord-est da Montclair.
E trovò il nome, ce n’era uno solo: Marianne Davis.
Inserì il nome Marianne Davis nell’archivio della polizia ma il sistema era ancora quasi del tutto bloccato, l’unica informazione che restituiva era la residenza corrispondente a ciascun nome.
Sbuffò e mise da parte il volume dei residenti di Clifton, concentrandosi sull’enorme pila di altri elenchi del telefono. Aveva infatti ordinato a due agenti di fare il giro di tutte le località nel raggio di quindici chilometri dal centro di Montclair per recuperare gli elenchi telefonici dagli uffici comunali e dare un’occhiata alle case in cui abitavano. Se quello che Jason diceva, l’unica possibilità di trovare un suo parente era che abitasse in una grande casa comprabile solo con un alto reddito.
Sembra di essere tornati indietro di 50 anni, pensò Evans. Trovò altri Davis a Essex, aic e Hackensack, località dormitorio al servizio della grande New York City.
Tom Davis, Lee Davis, Clarisse Davis e l’elenco continuava. Nessuno di essi abitava in una zona prestigiosa.
Solo una corrispondeva a un eventuale enorme reddito legato al marito Jason Davis, solo una viveva in una villa particolarmente grande. Marianne Davis. Il sergente tamburellò per qualche istante la matita sul blocco degli appunti, poi chiamò due agenti e disse loro di andare a prelevare immediatamente la signora Marianne Davis.
Potrebbe essere la moglie, pensò Evans.
“Temo di non capire cosa vogliate da me”, disse la signora una volta entrata in centrale e condotta in ufficio dal sergente Evans, il quale era rimasto sbalordito nel vedere che Marianne Davis aveva come minimo 65 anni.
“È solo una formalità, signora Davis. Abbiamo qui una persona che apparentemente è sotto shock e sembra aver perso la memoria. Non sa dove si trova né dove è collocata casa sua.”
“Con tutto il disastro che c’è in questi giorni vi preoccupate di un barbone qualunque che probabilmente è senza fissa dimora?”, chiese Marianne Davis.
“È proprio perché ci troviamo in una situazione di massima allerta che dobbiamo mantenere alte le difese.”
La signora rise nervosamente.
“Lo trova divertente?”, chiese Evans.
“Sì, mi perdoni ma lo trovo non solo divertente, ma semplicemente assurdo.”
“Quali sono i suoi rapporti con Jason Davis?”
“Jason chi?”
Oh santo cielo, pensò Greg Evans.
“Jason Davis. È un suo parente?”
“Che io sappia no, ma non si sa mai nella vita.”
“Prego?”, chiese Evans.
“Lasci perdere agente”, disse Marianne Davis.
“Sono sergente.”
“Lasci perdere, sergente”, disse Marianne ponendo l’accento sulla parola sergente, facendolo sembrare più un insulto che un grado maggiore nella Polizia.
“Senta, sarebbe disposta a fare un riconoscimento?”
“Le ho già spiegato che non conosco nessun Jason Davis e che non c’è nessun parente che corrisponda a questo nome”, disse Marianne visibilmente irritata.
“Ci metteremo solo pochi minuti.”
“Va bene”, rispose seccamente Marianne accendendosi una sigaretta.
“Temo che non si possa fumare qui.”
“Senta, sergente. Se non mi permette neanche di fumare le assicuro che giro i tacchi e me ne vado, visto che non avete nessun diritto di trattenermi qui.”
Evans chiamò al telefono un agente.
“Sì, mettete il detenuto Davis nella camera di riconoscimento, noi arriviamo subito.”
Evans mise giù il telefono e si alzò imitato da Marianne che spense la cicca per terra. Evans la guardò con disapprovazione, ma ritenne opportuno non fare commenti.
Condusse Marianne Davis nella stanza per il riconoscimento, davanti a loro una grande vetrata.
“Il detenuto non potrà vederla, dalla sua parte c’è solo uno specchio.”
“Li guardo anch’io i polizieschi”, disse Marianne.
“Ora facciamo entrare il detenuto. La invito a prendersi tutto il tempo necessario, può darsi che ora le sfugga ma magari sarà in grado di aiutarci.”
Jason Davis entrò nella sala di riconoscimento, sbatté gli occhi illuminato da potenti fari alogeni che mettevano in evidenza ogni ruga, ogni minima imperfezione del viso e del corpo.
“Lo riconosce?”, chiese il sergente Evans dopo qualche secondo, aveva visto negli occhi di Marianne come un luccichio.
“No, mai visto in vita mia.”
“Ne è sicura?”
“Sicura”, disse Marianne alzandosi dalla poltrona e uscendo dalla stanza, lasciando Evans lì, rassegnato. Non vedeva l’ora di togliersi dai piedi quel dannato Jason Davis, ma sembrava che la strada da percorrere fosse ancora davvero molto lunga.
Marianne Davis uscì a grandi i seguita da Evans che le chiedeva di attenderlo per mettere una firma su un documento. arono davanti all’ufficio di Helmut e quest’ultimo bloccò il sergente.
“Chi era quella?”, chiese perplesso.
“Una signora che ho chiamato per riconoscere il detenuto”, rispose Evans sulle sue.
“Innanzitutto le ho già detto, sergente, che per nessun motivo deve chiamare questa persona con l’accezione detenuto.”
“Sì signore”, rispose Evans imbarazzato.
“Come è andato il colloquio?”
“Male direi. Il riconoscimento è stato negativo. Credevo fosse la moglie.”
“Scusi può ripetere, sergente Evans?”, chiese Helmut sbalordito.
“Ho detto che...”
“Ho capito perfettamente cosa ha detto, sergente!”, urlò Helmut alzandosi di botto dalla sedia e facendola volare per terra. “Ma dico è fuori di testa a pensare che potesse essere la moglie di un quarantenne? Quella signora se non ho visto male va per la settantina.”
“Ehm sì, è chiaro anche a me ma sa bisogna controllare tutto”, disse Evans per cercare di rabbonire il collerico Helmut. Non ne poteva più di lui, né di quel dannato Davis, né di farsi prendere a calci nei denti quando sentiva che aveva del lavoro più urgente da fare che correre dietro ai fantasmi, ma ovviamente stette zitto.
“Cristo è da non crederci”, disse Helmut sollevando la sedia da terra e rimettendola al suo posto. “Da non crederci. Voi altri avete fatto la scuola di polizia nei film, sa quelli che erano in circolazione una decina di anni fa. Ecco, dovrebbero farne un altro: la centrale di polizia più pazza del mondo”, disse Helmut tra il divertito e l’ironico.
“Senta mi faccia la cortesia, faccia venire qui quella signora, quanto meno le porgerò le scuse per averla scomodata.”
“Sì signore”, disse Evans uscendo di fretta dall’ufficio.
“Signora le chiedo scusa a nome della centrale di polizia di Montclair per l’incomodo che le abbiamo provocato.”
“Non è nulla ispettore, può capitare di sbagliarsi e apprezzo la vostra solerzia e zelo. Se non c’è altro posso andare, mi riaccompagnate a casa voi?”, chiese Marianne Davis.
“Accompagni la signora a casa sua”, disse Helmut rivolto a un agente.
Helmut si sedette pesantemente sulla sedia, un feroce mal di testa stava cominciando a farsi sentire. Il suo pensiero scivolò, e poi scivolò ancora. In quel caso irrisolto di più di trent’anni prima. Una donna ammazzata con l’unico sospettato, il marito, dotato di un alibi di ferro, per poi ritrovarseli in una denuncia fatta dall’altra parte degli Stati Uniti.
Molton, pensò.
Per un istante Helmut si sentì sopraffatto, quel caso aveva sempre sporcato il suo curriculum, come un tarlo lo aveva corroso dentro ed era diventato il suo punto debole.
Doveva dare un’accelerata a quel caso.
“Evans può venire nel mio ufficio?”, disse all’interfono.
Il sergente si presentò pochi secondi dopo, mentre Helmut era in piedi di fronte alla finestra.
“Vede sergente, nella vita bisogna fare il massimo. Si può perdere, si può vincere. Ma bisogna sempre scendere in campo con la consapevolezza, la forza e la determinazione di vincere”, disse Helmut sempre dando le spalle a Evans.
“Temo di non seguirla, signore.”
“Lo so che non mi segue ed è per questo che glielo dico. Lei ritiene di stare facendo il massimo nel suo lavoro?”
“Sì signore, credo di sì.”
“Dare il massimo non è sufficiente, bisogna dare tutto. Sono stato abbastanza chiaro?”
“Chiarissimo ispettore.”
“Dia un nome alla persona che abbiamo qui. Lo aiuti a ritrovare la strada di casa e non lasci che un caso irrisolto la perseguiti per il resto della sua vita. Lei deve
capire che bisogna dare sempre tutto di sé, indipendentemente dal fatto che si vinca o si perda”, concluse Helmut tornando a guardare fuori dalla finestra.
73
“Allora cerchiamo di riepilogare”, disse Evans sedendosi sulla sedia e ponendola di fronte alla brandina. Jason era sdraiato e teneva gli occhi chiusi.
Jason aprì gli occhi per un istante e fissò il sergente ponendo poi l’attenzione sul fascicolo che Evans aveva in mano.
“Dunque signor Davis, è così che si chiama no?”
“Avvocato Davis, prego.”
“Bene. Ha detto di chiamarsi Jason Davis, professione avvocato, residente a Montclair, sposato con Claudine Mayer e con due figli. Se quello che dice è vero e cioè che è famoso, allora dovrebbero esserci decine di migliaia di articoli che parlano di lei. Il problema è che non funziona nulla e gli archivi della polizia sono bloccati. Non possiamo verificare né avere riscontri per il momento.”
Il sergente Evans rimase in silenzio di proposito per qualche decina di secondi, ma Jason non si mosse.
“Lei afferma di essere un famoso avvocato”, disse Evans.
“Ho appena vinto una causa miliardaria contro la Power Tyre e la Drexel, nonché contro la Brown. Fino all’altro giorno tutto il mondo parlava di me.”
“Capisco”, disse asciutto Evans e poi continuò: “Se fosse vero, allora dovrebbe essere registrato nell’Albo degli Avvocati di New York, o di qualunque altra città degli Stati Uniti.”
“Come accidenti credete di poter controllare se quello che dico è vero visto che non avete accesso a uno straccio di informazione?”, disse Jason sollevandosi dalla brandina e piantando gli occhi in quelli del sergente che li abbassò quasi subito, subendo l’impatto di quello sguardo così penetrante.
“Bene, lasciamo un attimo da parte questa questione. Qui leggo che ieri è stato arrestato da un nostro agente. C’è un’accusa di aggressione a pubblico ufficiale. Ci sono molti testimoni che hanno detto che lei senza motivo apparente si è scagliato contro un agente privato della sicurezza e ha cercato di sottrargli la pistola.”
“Sì ma...”
“Mi lasci finire. È stato portato qui alla centrale in evidente stato di shock, le hanno chiesto le generalità e ha trascorso la notte in cella. Corretto fino a qui?”
“Sì”, rispose Jason tenendo gli occhi fissi in quelli di Evans.
“C’è qui un rapporto di un agente che ha svolto un’indagine su di lei, questa
mattina.”
“Ebbene?”
Il sergente si mosse a disagio sulla sedia di legno che scricchiolò sotto il suo peso.
“Il fatto è che lei non risulta.”
“In che senso?”, chiese Jason.
“Credo che mi abbia capito bene, avvocato Davis.” Il sergente squadrò Jason. Non era decisamente un uomo di strada, Jason lo incuriosiva ma non capiva il perché.
Notò le unghie perfettamente curate. Le mani lisce e morbide. Poteva davvero essere un avvocato.
“Da quello che è emerso, a Montclair vive un Jason Davis di professione avvocato, ma il punto è che non si tratta di lei. È un suo omonimo, anche nella professione.”
“Come ci possono essere due Jason Davis, entrambi avvocati e residenti nello stesso posto?”, chiese Jason.
“Ho mandato dei colleghi a verificare e hanno confermato quello che le ho appena detto”, disse Evans.
“Pazzesco”, disse Jason stropicciandosi gli occhi.
“Oggi abbiamo fatto venire qui una donna, si chiama Davis” disse Evans, dopo una decina di secondi di silenzio. Assecondava il detenuto, lasciava che sbraitasse e si calmasse in modo da rendere fattibile un confronto, un interrogatorio, in modo che Jason potesse calmarsi prima di affrontare i i successivi.
Jason si alzò di scatto dal letto, pensando che avessero chiamato Claudine. “Perché non me lo avete detto?”
“Il confronto è stato negativo, lei non l’ha riconosciuta. Noi pensavamo fosse sua madre.”
“Mia madre? Ma cosa sta dicendo? Mia madre è morta almeno trent’anni fa!”, sbottò Jason e picchiando un pugno sulla brandina disse “Jason Davis sono io, ficcatevelo bene in testa.”
Tornò a sdraiarsi sullo scomodo tavolaccio, chiuse gli occhi, il panico gli montava dentro a ondate.
“Cosa avete intenzione di fare?” chiese, rompendo il pesante silenzio che era
caduto nella minuscola cella.
“Appena il sistema e le linee verranno riattivate provvederemo a effettuare una ricerca e incroceremo le informazioni che ci ha dato con tutti gli archivi. Cercheremo nell’elenco telefonico, nei registri di polizia e in quelli degli insolventi. Nel registro dei pregiudicati e dei possessori di armi da fuoco. Chiederemo anche alla motorizzazione, all’agenzia delle entrate, ai registri dello stato di New York e della contea. Se necessario consulteremo anche i registri parrocchiali, gli enti di previdenza.”
Evans guardò di nuovo l’uomo che aveva davanti, o era un pazzo furioso, o un mitomane. Oppure c’era qualcosa di vero nelle cose che diceva. L’istinto gli suggerì quest’ultima strada.
Jason si sollevò sul tavolaccio. Guardò fisso il sergente cercando di assimilare quello che gli aveva detto ma la sua mente rifiutava di accettarlo.
“Chiariremo la sua posizione e non appena avremo verificato la sua identità, la riporteremo a casa.”
“Non resisto più qui”, disse Jason.
“Io credo che lei stia soffrendo di uno stress post-traumatico così profondo che ha mischiato tutte le carte.”
“Quindi sarei solo un povero pazzo”, disse Jason tornando a sdraiarsi.
“Non ho detto questo. Ho detto solo che probabilmente soffre di questo tipo di stress. Qualche giorno di riposo in una situazione più confortevole e con un aggancio alla realtà, la televisione, potrebbero aiutarla a uscire da questa situazione e ricordare chi è. Ricordare almeno dove vive, dov’è la sua casa.”
“Devo rimanere qui?”
“Temo di sì, per qualche giorno.”
Jason ebbe un conato di vomito.
“Facciamo così: vi fornisco un elenco completo delle persone che potete contattare. Amici, parenti, colleghi di ufficio. Uno di loro mi riconoscerà senz’altro.”
“È un’ottima idea. Agente”, gridò Evans
“Signore.”
“Porti l’avvocato Davis nella cella che abbiamo fatto preparare.”
Jason seguì docilmente l’agente, poi Evans che lo seguiva dappresso gli indicò una pesante porta in metallo. Jason entrò e guardò con attenzione la cella.
Nell’angolo c’era la tv, la accese su un canale a caso. Trasmetteva un’intervista a un pompiere, cambiò canale. Le Torri che venivano giù. Cambiò canale. Un aereo che si infilava in una delle due Torri. Decise di spegnere la tv, se quella era la terapia che avrebbe dovuto seguire per guarire, allora sarebbe impazzito del tutto.
Si sdraiò sulla brandina, almeno c’era un soffice materasso seppur sottile al posto del tavolaccio su cui si era spaccato la schiena la notte precedente.
Jason si addormentò di botto e il tempo trascorse via, nell’immensa oscurità nera del suo cervello.
Si svegliò di soprassalto, da un incubo. Una scala, un uomo a terra. Era lui a terra, il suo respiro veloce e superficiale. Poi l’immagine cambiò, vide se stesso dall’alto della scala, capì che stava morendo. Una voce concitata che gli implorava di non addormentarsi, una voce di donna. Lui sempre a terra in una pozza di sangue che si allargava, poi chiuse gli occhi e si lasciò andare mentre recitava la sua preghiera.
Angelo di Dio che sei il mio custode.
Jason si alzò dalla brandina tutto sudato, potevano essere ati pochi minuti o diverse ore.
Accese il televisore, vide di nuovo le immagini della distruzione e della bufera di polvere e amianto. Lui era lì, aveva visto tutto in diretta, l’esplosione, i calcinacci e detriti che piovevano da tutte le parti, il caos.
Poi, il buio. Mancava qualcosa ma non ricordava cosa. Era importante ma la mente si rifiutava di collegarsi.
Cambiò canale, un’edizione speciale di un telegiornale. Ancora le stesse immagini, gli stessi video amatoriali che supponeva venissero trasmessi in tutto il mondo ventiquattro ore al giorno.
Quando finirà questa storia, pensò Jason sconfitto mettendosi al tavolino e compilando la lista di persone che conosceva e che, ne era certo, l’avrebbero tirato fuori dai guai.
74
Claudine era seduta sul divano abbracciata a Kelly. Avevano spento la televisione verso l’ora di cena, quando il cielo si era fatto nero sopra Manhattan ed erano usciti in giardino. Dal grande prato si vedeva chiaramente una colonna di fumo che per chilometri si alzava nel cielo. Kelly aveva abbracciato la mamma, mentre Joshua in braccio alla tata indicava il cielo.
Claudine aveva chiamato spesso suo marito. Lo aveva cercato allo Studio ma i telefoni suonavano a vuoto. Lo aveva chiamato sul cellulare, ma risultava staccato. Avrebbe voluto fare il giro degli ospedali ma Manhattan era stata chiusa, nessuno poteva entrare.
Aveva chiamato suo padre, ma non c’era verso di parlare con nessuno.
Mentalmente, si preparò al peggio.
Mise a letto Joshua dopo cena e anche Kelly andò a dormire.
Claudine si sentiva distrutta, si infilò sotto il lenzuolo fresco e cercò di concentrarsi sulle sequenze della mattina, su quello che era avvenuto in Liberty Street. Ricordava chiaramente la ragazza con la bambina, ricordava che a un certo punto aveva sentito un boato enorme e che una nuvola di fumo e di polvere avanzava verso di loro a una velocità pazzesca, poi tutto era diventato buio. L’ultima immagine che ricordava era il marito che la salutava, prima che lui tornasse indietro nell’inferno del World Trade Center.
Non aveva senso, pensò Claudine continuando a rigirarsi nel letto.
Si ricordò gli anni della sua infanzia. Alla mamma. Un mattino avevano fatto colazione assieme, sua mamma le aveva preparato la merenda per l’intervallo a scuola. L’aveva pettinata e le aveva fatto qualche domanda, per riare blandamente le lezioni del giorno. Poi Claudine era andata a scuola, e alla sera la mamma non c’era più, portata via da un infarto mentre faceva la spesa al supermercato a Montmartre, un quartiere di Parigi.
Si rigirò nel letto convulsamente ripensando a quell’evento del ato, quella morte così violenta, immediata. Incontestabile. Il aggio dalla normalità di una bambina che va a scuola come tutti i giorni, ai giorni disperati del suo funerale, della morte della sua adorata mamma.
No, non può finire così anche con Jason, pensò Claudine e capì perché si sentiva così annichilita, incapace di reagire, di muoversi, di andare a cercare il marito. Non voleva trovarlo morto, voleva solo che tornasse a casa. Da lei.
Rimase sveglia a lungo incapace di prendere sonno, poi decise di alzarsi. Vagò per la casa. Lo studio di Jason, i tanti soggiorni e angolini intimi in cui avevano suddiviso l’enorme casa. Il patio con il laghetto e il gazebo, gli uccellini che tornavano a svegliarsi cinguettando allegramente, del tutto ignari della tragedia che si era abbattuta sul mondo. Le girava la testa, sentiva il cuore accelerare, sudava freddo e nello stesso tempo aveva caldo.
Andò in cucina e si preparò una camomilla, nella vana speranza che questo la aiutasse a calmarle i nervi. Prese il telefono e fece il numero di Jason, era muto.
Claudine rimase in silenzio, stringendo forte la cornetta del telefono. Aveva chiamato il padre decine di volte nel corso della giornata precedente, ma la linea cadeva in continuazione. Gli Stati Uniti erano diventati come un’isola, tagliata fuori dal resto del mondo. Tutte le linee di comunicazione erano saltate.
Lo spazio aereo chiuso.
Montclair, 13 settembre 2001
75
Il sergente Evans entrò quasi in punta di piedi nell’ufficio di Helmut che era al telefono e che gli fece cenno di sedersi e il sergente obbedì.
“Sì signore, è chiaro”, disse Helmut.
“Vede ispettore, l’America come lei sa è in una situazione di emergenza senza precedenti, mi aspetto che lei coordini al meglio le risorse di cui dispone. A proposito, ha ricevuto via fax i numeri di telefono dei responsabili?”, chiese il sindaco Giuliani.
“Sì signore, li ho ricevuti e non tema, faremo il massimo per aiutare in questo momento così delicato.”
“Non ne dubito. Posso fidarmi di lei?”, chiese il sindaco in tono asciutto.
“Al cento percento, signore”, disse Helmut gonfio d’orgoglio.
“Bene allora la saluto, faccia un buon lavoro, quel lavoro che tutta l’America e il mondo si aspetta da noi adesso.”
“Sì signore, grazie della telefonata. Arrivederci.”
Il sindaco aveva messo giù ancora prima che Helmut potesse finire di parlare, ma lui si sentiva stranamente euforico, importante. Gli era stato assegnato un incarico ben preciso dal sindaco di New York e non intendeva certo deluderlo. Il sindaco Giuliani aveva chiamato personalmente tutti i comandi di polizia della zona, per dare coraggio e calore e per dare ordini, quando necessario.
“Cosa c’è sergente Evans?”, chiese Helmut tornando alla realtà.
“Si tratta della persona fermata per aggressione, ho parlato a lungo con lui. Non credo abbia idea di chi sia, penso che si tratti di uno shock post traumatico da stress.”
“Ah, adesso è anche medico?”
“Ehm no signore, ho solo fatto i corsi di pronto soccorso all’accademia.”
Helmut soffocò una risata, non riusciva a credere alle proprie orecchie.
Dei corsi di pronto soccorso all’accademia, pensò stupefatto.
“Ci sono alcune cose che non tornano.”
“Quali?”, chiese Helmut prendendo un fascicolo.
“Ad esempio gli oggetti che gli abbiamo requisito al momento dell’arresto. Ha un Rolex d’oro che credo abbia un valore di almeno trentamila dollari. Le scarpe sono state confezionate a mano, a Londra. Anche il suo abito, seppure rovinato, si vede che è di alta sartoria. Ma non ci sono né documenti né carte di credito per identificarlo, probabilmente sono andate perse.”
“Capisco”, disse Helmut fissando negli occhi il sergente che si mosse a disagio sulla sedia. E poi continuò: “Voi avete arrestato un uomo che come lei ha detto soffre di stress post traumatico, che si trovava sotto le Torri, che è vestito come un banchiere e non riuscite nemmeno ad aiutarlo. Glielo ripeto, quest’uomo dev’essere aiutato non arrestato e giuro che se non fa sparire immediatamente le carte che comprovano il suo arresto la prendo a pedate nel culo. Sono stato chiaro?”
“Sì signore, chiarissimo.”
“Senta, sergente. Mi sta facendo perdere tempo, okay. Prima ero al telefono con il sindaco di New York, tutte le risorse, le forze e i materiali devono essere impiegati per Ground Zero. Non c’è né spazio né tempo per uno smemorato, lo porti in un ospedale e lo faccia assistere da dei medici.”
“Ho già chiamato gli ospedali ma non c’è un letto libero, neanche in corsia. Il caos è completo, ispettore.”
Helmut trasse un profondo respiro, contò fino a tre per mantenere la calma.
“Le linee sono state ripristinate? Intendo, possiamo accedere ai database nazionali e a Internet?”
“Internet funziona a singhiozzo, ma molti dei database compreso quello della polizia e dell’FBI sono ancora inattivi.”
Helmut rimase incredulo.
“Quindi non ha idea di che pesci pigliare, a questo punto”, concluse Helmut.
“Ehm, in un certo senso sì, è così. Non so dove sia la verità.”
“Sergente, glielo dico una volta sola. Lei mi deve relazionare quando sa tutto, non quando non sa nulla. Adesso se ne vada e faccia tutte le indagini, voglio che il nostro ospite sia liberato entro un paio d’ore e che sia riportato a casa, visto che gli ospedali sono pieni. Sono stato abbastanza chiaro?”
“Chiarissimo, signore.”
“Un’ultima cosa, visto che ora è diventato pure un medico e dato che abbiamo in cella uno smemorato afflitto da una sindrome di stress, non pensa che sarebbe utile almeno chiamare uno psichiatra?”, disse Helmut in tono ironico.
“È un ottima idea signore.”
Maledizione che razza di incapaci, pensò Helmut furente.
Il sergente Evans uscì dall’ufficio di Helmut con la coda tra le gambe, non era abituato a farsi trattare in quel modo. Quell’uomo aveva rimesso in discussione tutto, lo aveva umiliato, sbeffeggiato e trattato a pesci in faccia. Non sapeva cosa gli faceva più male, se l’orgoglio ferito o il fatto di non contare più niente alla centrale. Probabilmente, entrambi.
Evans scese le scale ed entrò nel reparto dove erano alloggiati i detenuti. Ogni tanto arrestavano un ubriaco e gli facevano smaltire la sbornia in cella. C’erano stati dei casi più importanti, compreso un omicidio ma avendo il killer ucciso in più stati, era diventato un crimine federale e l’FBI lo aveva preso subito in consegna.
Praticamente, a Montclair non succedeva mai nulla di rilevante ma quel poco che capitava dava a Evans una sensazione di controllo e di comando del tutto ingiustificata e ingigantita da un ego malato.
Evans fece aprire da un agente la nuova cella di Jason, decisamente più gradevole dei loculi chiamati celle di detenzione in cui Jason era stato rinchiuso sino al giorno prima ed entrò, trovandolo come al solito sdraiato sulla brandina a occhi chiusi.
Entrando nella cella diede un colpo di tosse per annunciare la sua presenza, ma Jason rimase del tutto indifferente, avulso e assente dalla realtà che lo circondava.
Il sergente prese una sedia e la avvicinò alla brandina scuotendo Jason dal suo torpore con una leggera pressione sul braccio. Sapeva che era sveglio, che ascoltava tutto, ma sembrava sempre assorto in uno stato di meditazione assoluta che escludeva il resto del mondo.
“Senta, Avvocato. Credo di non avere buone notizie.”
Jason si sollevò a sedere e appoggiò la schiena contro il muro.
“Cosa è venuto a dirmi, sergente?”
“Dunque, secondo le nostre procedure non possiamo rilasciarla, almeno non immediatamente. Non sappiamo chi è, non conosciamo le sue generalità. Non sappiamo dove abita e non ha un posto dove andare a dormire. A questo si aggiunge anche l’arresto però qui c’è una bella notizia.”
“Che sarebbe?”
“Lo stiamo stralciando dagli atti, ma ci vorrà ancora un poco di tempo perché sparisca completamente.”
“Una buona notizia, finalmente, ma non voglio stare qui.”
“Lo capisco bene, ma qui è al sicuro. Ci Lasci il tempo di chiarire la situazione. Vorrei convocare un medico per farla visitare, nel frattempo.”
“Un medico? Non sono ferito”, disse Jason stizzito.
“Ehm, intendevo uno psichiatra.”
“Uno psichiatra?”
“Esatto.”
Un greve silenzio calò su di loro, mentre il sole si abbassava sull’orizzonte, portando finalmente la notte sul continente americano. La notte avrebbe portato speranza, angoscia, forse delle fiaccolate. Tutto, tranne che la vista orribile di quello squarcio nel distretto finanziario di New York City.
“E cosa me ne faccio di uno psichiatra?”
“Come le ho già detto, credo che lei soffra di un forte stress, avvocato Davis. Del resto era proprio lì quanto tutto è successo. Uno stress post-traumatico spiegherebbe tutto.”
Jason lo guardò di sbieco, lo stesso sguardo che riservava durante le udienze in Tribunale quando parlando verso la giuria si rivolgeva alla difesa.
“Cazzate.”
“No non sono cazzate. Ascolti io le credo...”
“Eh si vede come mi crede!” disse Jason alzando la voce.
“Stia calmo, sono qui per aiutarla.”
Jason lo guardò di nuovo e Greg sentì che quello sguardo gli penetrava nel profondo delle ossa, lo gelava.
Questo è un uomo che sa il fatto suo, pensò il sergente Evans.
Jason gli puntò un dito contro, esattamente nello stesso modo in cui, mentre pronunciava l’arringa finale, metteva a tappeto l’avversario.
“Non crede a me? Non crede agli schedari? Bene, padrone di non crederci. Allora chiami il mio studio, Davis, Baker & Reynolds, è a due i dalle Torri. Ci saranno almeno centocinquanta persone che confermeranno la mia identità e le diranno chi sono.”
“Non possiamo farlo, avvocato. Tutta la zona intorno al World Trade Center è stata evacuata nel raggio di dieci isolati, non c’è più nessuno negli edifici e l’area è in mano ai soccorsi, come può immaginare ci sono migliaia di persone da tirare fuori. Le priorità ora sono diverse.”
Jason all’improvviso si sentì del tutto solo, inerme, in una stramaledetta cella di un carcere di provincia. Gli girò la testa e dovette tenersi alla brandina per non cadere. A grandi i, correva ormai sull’orlo dell’abisso.
Riprese conoscenza poco dopo. Sentiva sotto di sé il duro della brandina, aprì gli occhi e vide che si trovava in cella. Trattenne un urlo di disperazione, voltò la testa a sinistra e vide un uomo seduto affianco a lui, con uno sfigmomanometro gli stava misurando la pressione e auscultando il battito cardiaco.
“Come si sente?”
“Non bene.”
“Lo immagino. Ha avuto un piccolo collasso cardiocircolatorio, ma i suoi parametri sono a posto ora.”
“Bene, ci mancava solo l’attacco di cuore”, disse Jason ironico.
Il dottore della polizia si levò lo strumento dalle orecchie e gli sfilò dal braccio la fascia per rilevare la pressione arteriosa.
“Deve mangiare qualcosa.”
“Non ho fame.”
“Lo capisco, ma il suo fisico è debilitato, forse c’è un inizio di disidratazione.”
“Ricoveratemi allora, sarà sempre meglio che stare in prigione.”
“Non possiamo farlo. Gli ospedali della zona sono pieni da scoppiare, accettano solo pazienti in codice rosso.”
Attraverso la piccola porta di acciaio entrò il sergente Evans.
“Come sta, dottore?”
“Sta bene, fisicamente parlando. Come gli ho detto, deve mangiare qualcosa e bere molti liquidi. Si sentirà molto meglio.”
“Mi faccia questo favore, avvocato. Ora mangi”, disse Greg indicando un vassoio molto più pieno di cibo rispetto a quello della mattina.
“Va bene, però tiratemi fuori da qui”, disse Jason sollevandosi dalla brandina e mettendosi seduto. E prima di lasciarsi andare al sonno, pensò: “Per uscire di qui avrei bisogno di Mr H.”
L’indomani mattina il sergente Greg Evans bussò alla porta dell’ufficio di Helmut.
“Venga avanti, sergente. Mi illumini con le sue scoperte”, disse Helmut riaffiorando dal mare di carta che aveva ingombrato ogni angolo della scrivania. Aveva fatto un inventario di tutte le risorse che Montclair disponeva: equipaggiamenti, materiale di pronto soccorso, ricerca e salvataggio, automezzi e uomini naturalmente. Aveva quindi elaborato un piano per utilizzare queste risorse a ciclo continuo, pianificando i doppi turni con turni di riposo. Helmut si sentiva carico, anche se era lontano da Manhattan gli sembrava più importante quello che stava facendo ora.
“Ha scoperto qualcosa sul nostro amico smemorato?”, chiese Helmut.
“Credo di aver risolto il caso.”
“Sì, mi immagino, nella vostra lucida follia avete addirittura convocato una pensionata di 65 anni immaginando che fosse la moglie”, disse Helmut ironico.
“Abbiamo invece trovato la vera casa dell’avvocato, è a un paio di chilometri dalla prima villa. Abbiamo dovuto controllarle tutte ma alla fine ci siamo riusciti”, sorrise Evans.
“Mi fa piacere sentirlo.”
“Poi ho fatto una ricerca in Internet, finalmente si riesce ad accedere ai motori di ricerca principali, inserendo il suo nome e la sua professione. Il risultato è stato sbalorditivo. Ci sono centinaia di migliaia di link ad altrettanti siti, tutto il mondo sta parlando di lui in questi giorni. Le foto corrispondono, è lui. Ha vinto
una causa enorme contro la Power Tyre e la Drexel ottenendo un risarcimento di più di un miliardo di dollari. Non è un avvocato qualunque, è una superstar.”
“Può ripetere?”, chiese Helmut sbigottito alzando la testa dal mucchio di scartoffie e fissando il sergente Evans, mentre il suo colore intenso di afroamericano diventava grigio cinereo.
“È come le ho detto. Abbiamo arrestato l’avvocato più famoso e potente degli Stati Uniti.”
Helmut rimase qualche istante in silenzio del tutto tramortito da quello che gli aveva appena detto il sergente.
“Ma scusa, fammi capire. Quale dei tre soci avete arrestato? Jason Davis, Stern Reynolds o Markus Baker?”, chiese Helmut già temendo la risposta.
Il sergente Evans rimase un attimo in silenzio.
Ma cos’è li conosce, pensò?
“Ecco, ehm. Abbiamo arrestato Jason Davis, da quello che ho letto è lui l’avvocato più importante dello Studio e quello che ha dato il contributo finale per la vittoria nella class action.”
“Siete fuori di testa”, disse Helmut a voce bassissima, più a se stesso che a
Evans.
“Mi scusi credo di non aver capito.”
“Ho detto che siete fuori di testa!”, urlò Helmut alzandosi in piedi di botto e facendo volare la sedia per terra assieme ad almeno la metà delle scartoffie che occupavano la sua scrivania. “Ma vi rendete conto di chi avete arrestato? Vi rendete conto di quello che potrebbe succedere adesso?”, urlò con ancora più forza tanto che altri agenti si affacciarono timidamente alla porta dell’ufficio di Helmut per capire cosa stesse succedendo.
“Signore, si calmi la prego. Era un sospettato, ha aggredito un agente e...”
“Siete degli imbecilli e ancora di fronte alla realtà non vi siete resi conto del casino che avete creato. Ma per Dio, Jason Davis è stato su tutte le televisioni per tutto il week end, la conferenza stampa della vittoria è stata mandata in onda dalla CNN, dalla NBC, da un mucchio di televisioni locali e nazionali, e ora lei mi viene a dire di calmarmi? Mi viene a dire che se non ci fossero state le foto in Internet non l’avreste riconosciuto? Ma dove vivete? Cosa fate alla sera, guardate il wrestling oppure ogni tanto date un’occhiata alle notizie”, sbraitò Helmut fuori di sé.
“Mi spiace io non so cosa dire...”
“E infatti non deve dire nulla, non deve fiatare. Stia zitto per l’amor del cielo, che se Jason Davis adesso si incazza e fa causa al distretto di polizia di questa cittadina va a finire che ci spediscono tutti quanti in Antartide a contare i pinguini!”
“Signore la prego si calmi, ora stiamo già preparando i documenti per scarcerare l’arrestato e...”, disse Evans ma non riuscì a terminare la frase che Helmut lo investì come un carro armato.
“Allora in primo luogo non voglio che lo chiami più con la parola arrestato. In secondo luogo, ma dico siete impazziti a preparare i documenti per la scarcerazione? Quest’uomo non è mai stato arrestato, non gli sono mai state prese le impronte digitali, non è mai stato trattato come un delinquente. Bruciate la documentazione e fatela sparire, fate quello che volete ma Jason Davis da qui non è mai ato”, gridò Helmut sempre più agitato mentre ormai tutto il distretto di polizia si era zittito e gli agenti si assiepavano fuori dalla porta per non perdersi nemmeno una parola.
“D’accordo ispettore, faremo tutto quello che ci ha detto.”
“Non solo, non ho finito. Lo dovete trattare con i guanti bianchi, condurlo a casa nella massima serenità possibile, assicurarvi che stia bene e che sia tranquillo. Sono stato abbastanza chiaro?”, disse Helmut calmandosi un poco e raccattando la sedia da terra.
“Sì signore sarà fatto, non dubiti. Lei forse lo vuole incontrare prima che lo accompagniamo a casa?”
Helmut rimase nuovamente sbigottito, conosceva Jason da quell’incontro a San Francisco.
“Lei è pazzo, sergente. Spero che lo sappia. Io conosco quell’uomo e lo stimo, non voglio assolutamente incontrarlo in una situazione del genere, mi ha capito?”
“Perfettamente ispettore.”
“Vada a liberare Jason Davis e lo porti a casa, al volo.”
“Sì signore, immediatamente”, disse il sergente Evans sparendo dall’ufficio con la velocità di un razzo.
Dopo mezz’ora circa Jason fu scarcerato e ò davanti all’ufficio di Helmut che era al telefono e non lo vide, qualche secondo dopo era fuori dalla centrale di polizia. Una macchina era già in attesa.
“Tra poco saremo a casa sua, avvocato Davis”, disse Evans girandosi verso Jason.
E finalmente troverò mia moglie e i miei figli, pensò Jason sorridendo per la prima volta.
Il viaggio fu breve e in pochi minuti Jason arrivò a casa, la riconobbe immediatamente. Il bungalow era tornato al suo posto e anche il cancello. Trovava assurdo che si fosse sbagliato così clamorosamente, di sicuro doveva essere sotto shock. Ma, ancora adesso, si sentiva la testa stranamente leggera, come se fosse distaccato dalla realtà.
Montclair, 14 settembre 2001
76
La macchina della polizia si fermò di fronte al maestoso ingresso della villa. L’agente alla guida si sporse dal finestrino e si annunciò. Jason sorrise nel riconoscere le voci dei figli in sottofondo. Il cancello scattò e la macchina poté entrare e percorrere il lungo vialetto sterrato.
I suoi figli lo aspettavano sulle scale e gli corsero incontro. Si abbracciarono con forza e poi con tenerezza, Jason sussurrò loro parole di conforto e rassicurazione.
Sono a casa, pensò commosso.
Evans rimase in disparte. La cameriera, solo poche ore prima, gli aveva detto che la famiglia Davis era in viaggio e non sarebbe rientrata molto presto. Forse aveva capito male lui, o aveva capito male la cameriera ispanica, magari aveva male interpretato il senso della domanda, magari non l’aveva capita affatto. Del resto, non importava perché anche lei era lì in piedi, all’interno del colonnato.
A un certo punto la figlia chiese: “Ma dov’è la mamma?”
“Non è qui con voi?”, chiese Jason sbalordito.
“No, credevamo foste assieme. È da parecchio che non abbiamo più notizie e temevamo... oddio... che foste entrambi morti”, disse la figlia mentre altre lacrime le bagnavano il viso, ancora infantile nonostante i tredici anni di età.
“Credevo di trovarla qui”, disse Jason sconcertato.
“Avvocato Davis”, disse Evans avvicinandosi. “Mi può dare una foto? I nostri agenti sono quasi tutti a Ground Zero, se c’è la troveranno.”
“Sì, grazie”, rispose confuso Jason estraendo dal portafoglio una foto di Claudine. La diede a Evans, poi ebbe un ripensamento: “Cercate di trovarla, magari evitando di arrestarla. Intesi?”, disse Jason con voce gelida.
Evans abbassò lo sguardo chiaramente imbarazzato, fissò a lungo le scarpe.
Questo ci manda davvero a contare i pinguini in Antartide, pensò Evans ricordando la battuta di Helmut, che ora non sembrava più una battuta di spirito.
“Grazie per avermi riaccompagnato a casa”, disse Jason più dolce ora, avanzando di un o e stringendo la mano a Evans.
“Senta, cosa ne dice di parlare con uno psicologo”, chiese il sergente abbassando la voce per non farsi sentire dai figli.
“Non mi sento bene in effetti”, disse Jason consapevole del suo stato e ancora più conscio e spaventato dal fatto che sua moglie non ci fosse.
Sì, aveva bisogno di aiuto pensò.
“Un mio amico, è uno psichiatra che esercita a New York ma fa anche il volontario nell’ospedale di Montclair, lo chiamo io tra poco. Avete il mio cellulare e il mio indirizzo, vi prego di comunicarmi immediatamente qualunque notizia”, disse Jason.
Evans fece il saluto militare e si congedò, allontanandosi piano nel vialetto.
Jason era sotto il gazebo con i figli. Si era notevolmente calmato dopo l’incontro con i figli e il ritorno a casa. Ma era più che mai preoccupato per Claudine.
Doveva esserci una spiegazione per la sua assenza, pensò Jason.
Magari anche lei aveva subito una disavventura simile alla sua ed era impossibilitata a contattarli.
“Avvocato mi scusi”, disse la cameriera avvicinandosi.
“Sì Natalia, mi dica.”
“È arrivato il medico.”
“Lo faccia accomodare nel mio studio, gli dica che arrivo tra qualche istante.”
“Jason!”, esclamò Michael Carson appena vide l’amico entrare nello studio. “Avevo appena finito il turno e sono venuto subito, non immagini nemmeno che disastro c’è in ospedale.”
“Non sto bene, Michael. Ho dei vuoti di memoria, mi sento confuso. La mente non si ferma mai su nessun pensiero, è come se fossi del tutto svuotato. E poi c’è Claudine.”
“Mi è stato riferito che non è tornata a casa. Ma ci possono essere tanti motivi, dobbiamo aspettare Jason. A te cosa è successo?”
“Non ci crederesti mai, sono stato arrestato. Mi hanno preso le impronte digitali, messo in una cella come un delinquente. E poi c’è Claudine, eravamo assieme quando la Torre è crollata. È arrivato questo muro di polvere, densissimo. Sembrava lava, ci ha investito in pieno, io ho perso il senso dell’orientamento e ho perduto di vista Claudine. L’ho cercata a lungo ma non sono più riuscito a ritrovarla. Dio non vorrei che...”
“No Jason aspetta, non saltare subito alle conclusioni. Come ti ho detto prima ci possono essere molti motivi per cui Claudine non è tornata a casa. Guarda te, ad esempio. Sei stato in carcere addirittura quando invece avrebbero dovuto ricoverarti. Il fatto è che ci troviamo in una situazione di totale caos e le reazioni umane sono del tutto imprevedibili in questi frangenti.”
“Lo spero, Michael. Lo spero.”
“Prendi ancora le gocce che ti ho prescritto qualche settimana fa?”
“In questi ultimi due giorni no, me ne sono completamente dimenticato.”
“Ti ricordi il dosaggio e il farmaco che ti avevo prescritto?”
Jason rimase in silenzio per un lungo momento, poi rispose di no. Non ricordava nulla.
“Ora devi tornare a prendere il farmaco, dieci gocce per tre volte al giorno”, disse Michael porgendo a Jason il piccolo flacone color marrone.
“Vorrei farti qualche altra domanda.”
“Okay”, rispose Jason tranquillamente.
“Se pensi al tuo ato, qual è la prima immagine che ti viene in mente?”
“Ricordo un fratello e un padre”, disse semplicemente.
“Parlami di loro.”
“Non c’è molto da dire. Ho subito violenze, per diversi anni.”
“Chi usava violenza contro di te?”
“Entrambi, credo.”
“In che senso credi, Jason?”
“Non so, mi sento confuso in questo momento. Ricordo due persone, ma non ricordo esattamente chi dei due mi ha violentato. Non ricordo nemmeno se sono stato violentato, in realtà.”
Jason si agitò sulla poltrona, sbatté gli occhi rapidamente, sentì il cuore accelerargli in petto, sentì che la pressione del sangue saliva enormemente, premendo contro le tempie.
“Ti senti bene?”, chiese Carson notando il pallore di Jason.
“Sì”, mentì lui cercando di riprendere il controllo.
“Vorrei solo farti un’altra domanda. Come si chiamano tuo padre e tuo fratello?”
“Mio fratello si chiama Frank. Frank Molton. Ha un cognome diverso dal mio perché in realtà siamo fratellastri.”
“E tuo padre?”
“Non lo so”, disse Jason fissando Michael.
“Temo di non capire, Jason.”
“Non me lo ricordo”, rispose Jason mentre sentì che l’ansia, finalmente, se ne andava.
Trascorse qualche minuto in perfetto silenzio. Jason poteva udire il cinguettare degli uccelli in giardino.
“A cosa stai pensando, Jason?”
“Non capisco quello che sta avvenendo, sono così disorientato. Erano molti anni che non mi sentivo così.”
“Vuoi raccontarmi qualcosa di quegli anni? Magari qualcosa che non mi hai detto?”
“No, non me la sento ora. Sono stanco e non ricordo più nulla.”
Jason si alzò dalla poltrona e si avvicinò alla grande vetrata. Fuori, il grande parco che cingeva la villa. Così grande da perdersi in quell’enormità, in quell’abisso nel quale sentiva che ormai stava volando giù, oltre il ciglio.
77
Alain Mayer arrivò all’aeroporto di Newark, New York, con un volo speciale nella tarda serata del 14 settembre e subito salì a bordo di un elicottero.
Dopo pochi minuti atterrarono al campo di volo di Montclair.
Finalmente era ritornato dalla sua famiglia, ogni volta che tornava era come rientrare davvero a casa.
La macchina si fermò un istante al cancello di ingresso che venne subito aperto, percorse il vialetto e finalmente si arrestò davanti al porticato.
Erano tutti lì ad aspettarlo e non fece in tempo a scendere dalla macchina che Claudine si era gettata al suo collo abbracciandolo e piangendo, di gioia e di tristezza nello stesso tempo, per dover rivedere il suo amato padre in circostanze così tristi e assurde.
“Papà sei tornato”, disse Claudine stringendosi a lui.
Poi guardò oltre la spalla di Claudine e vide Kelly, con le mani nascoste dalle maniche della felpa, che ballonzolava da un piede all’altro. Lasciò la stretta di Claudine e allargò le braccia all’indirizzo di Kelly che si proiettò in quell’abbraccio caldo e finalmente sicuro, lasciando libere di scorrere tutte le lacrime che aveva dovuto ricacciare indietro in quei giorni.
Anche Joshua andò a stringere il nonno, tirandogli le gambe dei pantaloni e lui lo sollevò in braccio, stringendolo forte e accarezzandogli i capelli soffici.
“Grazie al cielo sei qui, papà”, disse Claudine quando si furono seduti tutti in veranda, mentre Joshua era andato a recuperare la canna da pesca e giocava con i piedini immersi nel laghetto artificiale.
“Cosa dobbiamo fare, nonno? Ci sentiamo perduti, abbiamo tanta paura che papà non sia più qui con noi.”
“Dobbiamo cercare di mantenere la calma”, disse Alain ostentando una fiducia che sentiva solo in parte.
“Potrebbe essere ferito, o aver perso conoscenza. Magari è ricoverato in qualche ospedale e nessuno riesce ad accertarne l’identità. Delle persone esperte mi hanno spiegato in volo, mentre venivo qui, che è facile che persone vittime di attacchi terroristici possono rimanere traumatizzati così tanto da perdere addirittura la memoria. Si chiama stress post-traumatico. Mi hanno anche detto che gli ospedali sono pieni di feriti e di persone traumatizzate e che non sanno più dove metterle. È molto probabile che Jason sia in una situazione del genere.”
“Vorrei tanto crederti”, interloquì Claudine.
“Invece devi crederci, figlia mia.” Ti ho allevata con due parole, tesoro. Te le ricordi ancora?”
“Sì.”
“Quali sono? Dille ad alta voce.”
Claudine rimase in silenzio per qualche istante, poi sussurrò: “Abbi fede.”
Alain mise Joshua a letto.
Poi andò in camera di Kelly, era sdraiata a letto e fissava il soffitto.
“Vuoi parlare un po'?”, le chiese sedendosi sul letto.
“Ho paura, nonno.”
“Ho paura anch’io.”
“Davvero?”, chiese Kelly.
“Non sono preoccupato per tuo papà, ho la certezza assoluta che tornerà a casa.”
“Allora di cosa hai paura?”, chiese Kelly mettendosi a sedere sul letto e stringendo a sé le ginocchia,
“Mi fa paura quello che ho visto”, disse Alain continuando ad accarezzare le mani di Kelly, mentre il suo universo perfetto si disgregava di fronte a lui.
Alain scese in veranda, trovò Claudine che beveva una camomilla, con gli occhi fissi davanti a sé. Non la riconosceva più, era l’ombra di se stessa.
“L’ho cercato ovunque ma non l’ho trovato. È morto, me lo sento. È morto.”
New York, 15 settembre 2001
78
Claudine stava guardando la televisione mentre i figli dormivano e Alain stava preparandosi un caffè in cucina.
La televisione trasmetteva periodicamente la lista ufficiale dei morti. Sembrava un bollettino di guerra tanto era angosciante, scarno e asettico. I nomi comparivano a decine, a centinaia. arono due nomi che Claudine conosceva bene, morti su uno degli aerei. Pensò alla loro squallida vita e alla loro morte così terribile, ed ebbe quasi pietà per loro.
Poi le scritte continuarono e Claudine lo seppe così: a un certo punto i nomi di Pat, Douglas, Natasha e Phoebe Williams arono sullo schermo lasciandola impietrita.
Era morta la migliore amica di Kelly assieme a tutta la sua famiglia.
Doveva rimanere salda e calma.
Chiamò il padre ad alta voce e Alain arrivò subito, allarmato.
“Cosa dico ora a Kelly?”, disse Claudine spiegando quello che aveva visto alla tv.
“Glielo dobbiamo dire, prima o poi lo verrà a sapere in qualche modo. Non vorrei addirittura che qualche compagno di scuola chiamasse Kelly e glielo dicesse, sai come sono fatti i ragazzi. Non pensano alle conseguenze e talvolta riescono a essere inutilmente crudeli.”
“Kelly non ha mai vissuto la morte di qualcuno a lei vicino, sarà un trauma pazzesco.”
“Capisco che sia molto difficile ma devi prendere in mano la situazione, devi dare conforto e speranza ai tuoi figli perché di Jason non si hanno ancora notizie. Devi dare alcune giornate libere a Natalia. Anche lei ha una famiglia anche se vive lontano da qui, tutti vogliono stare in famiglia in questi giorni, è ora che il mondo si fermi.”
“Va bene ma tu devi rimanere con noi oggi, papà. Kelly ha bisogno di tutto il nostro aiuto.”
Alain rimase in silenzio per qualche istante, poi annuì mentre Claudine si alzò e uscì dalla casa, non prima di aver spento il televisore. Doveva stare sola, doveva riflettere.
Claudine uscì in giardino e camminò per la pineta e il parco, ascoltando i rumori della natura che la calmavano profondamente.
Non sapeva cosa fare. Come poteva dirlo a Kelly? Come poteva infliggerle un altro dolore, dopo che lei stessa non riusciva ancora a capacitarsi di niente? Come poteva dire alla figlia che la sua migliore amica era morta, proprio nei giorni in cui del padre non c’era nessuna notizia?
Claudine camminò a lungo per la pineta, arrivò al bungalow e al laghetto, lì dove avevano nuotato nudi nelle fresche acque del lago. Sorrise a quei ricordi e poi decise. Avrebbe aspettato che Kelly si fosse alzata e avesse fatto colazione. Avrebbe aspettato che i demoni della notte fossero scomparsi e poi glielo avrebbe detto.
Le avrebbe detto che non era più una ragazzina. Doveva dirle che era una donna e che doveva guardare da vicino la morte.
Vicino, troppo vicino pensò Claudine facendo ritorno a casa.
Verso le dieci del mattino i figli si alzarono, Joshua entrò in cucina gridando e Claudine gli sorrise prendendolo in braccio e dandogli tanti baci. Dietro di lui comparve Kelly, aveva un viso migliore rispetto al giorno prima, riposato e più sereno. Forse l’arrivo del nonno, un affetto ritrovato, l’aveva tranquillizzata.
“Ciao mamma”, disse Kelly stringendola forte a lei. Era sempre stata una bambina molto affettuosa, bisognosa di affetto forse perché Jason non l’aveva abbastanza riempita di attenzioni quando lei era piccola.
“Ciao tesoro, hai dormito bene?”
“Insomma, non molto bene. Ho avuto degli incubi”, disse Kelly strofinandosi gli occhi come a voler scacciare il sonno, il buio. E con essi gli incubi.
“Ricordi cosa hai sognato, tesoro?”
“No, non ricordo nulla.”
Come posso dirle che è morta Phoebe? pensò Claudine.
“Mamma mamma voglio i corn flakes”, protestò Joshua interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
“Certo Joshua, te li prendo subito. Latte fresco?”
“Urrà, sì”, esclamò Joshua nella sua ingenuità.
Dopo qualche minuto Kelly disse a bassa voce: “Nessuna notizia del papà?”
Claudine la guardò intensamente: “No, purtroppo no.”
“Ti voglio bene mamma”, disse Kelly stringendosi ancora più forte a lei.
“Anch’io figlia mia, anch’io.”
Claudine andò nello studio del marito, doveva fare una telefonata, sentire il parere di un esperto e di un amico e compose il numero di cellulare di Michael Carson.
“Oh Claudine, ciao come ti senti?”
Claudine ripensò alle notti piene di sofferenza, nel letto vuoto. Le lunghe ore che scorrevano via lente e inarrestabili e senza fine. Lunghe ore poi diventate giorni.
“Insomma, credo di aver dormito qualche ora, non di più.”
“È già qualcosa, vedrai che andrà meglio”, rispose Michael ottimista come sempre.
“Lo spero”, disse Claudine abbassando il tono della voce. Non voleva farsi sentire da Kelly.
“Ti ho chiamato perché vorrei un consiglio da te.”
“Dimmi tutto Claudine.”
“Stamattina ho visto alla televisione che la migliore amica di mia figlia, Phoebe, è morta assieme a tutta la famiglia. I corpi sono stati trovati e identificati, non c’è dubbio che siano loro.”
“Oh mio Dio, che tragedia”, disse Michael sinceramente afflitto. Conosceva di vista Phoebe e la considerava, come Kelly, una ragazzina molto equilibrata per la sua età, con qualcosa di adulto nei suoi comportamenti. Forse era proprio per questo motivo che le due erano diventate così amiche.
“Che cosa devo fare, Michael? Non so proprio come dirlo a Kelly.”
“Il mio consiglio è parlarle al più presto. Non usare mezze parole, dille solo la semplice verità, con dolcezza e delicatezza. Poi stalle vicino, soffrirà moltissimo.”
Claudine si sentì male per lei, per la sua adorata bambina che lei continuava a vedere come tale anche se stava crescendo e in fretta.
“Claudine sei ancora lì?”
“Sì, ci sono. È tutto così dannatamente orribile.”
“Lo so, ci vorrà molto tempo per riprendersi. Molte persone non si riprenderanno mai completamente da quello che è successo.”
“Come hanno potuto, maledetti. Come hanno potuto”, disse Claudine, pensando a tutta la gente che in quel momento soffriva, come lei, come Kelly. Tutto per un motivo incomprensibile, una guerra fra religioni.
“Parla ora con Kelly, se poi hai bisogno chiamami. Aspettati una reazione violenta che è la cosa migliore in questi casi perché aiuta subito a buttare fuori la rabbia. Kelly è un’estroversa e credo si comporterà così, non terrà dentro di sé il dolore.”
Una reazione violenta, pensò.
“D’accordo Michael, grazie del consiglio.”
“Di niente, tienimi aggiornato d’accordo? Ti chiamo stasera. Ci sono notizie di Jason?”
“Nulla”, rispose lei laconicamente.
Michael rimase un attimo in silenzio, poi disse: “Tornerà o lo troveremo.”
“Lo spero. Grazie Michael, a presto”, disse Claudine appoggiando delicatamente il telefono e portandosi le mani al viso.
Trovò Kelly in giardino, stava giocando a frisbee con Joshua e sembrava più spensierata rispetto a quando si era svegliata.
“Natalia mi faccia un piacere”, disse Claudine alla tata.
“Dica signora.”
“Vada a prendere Joshua e lo tenga un po’ con lei, io devo parlare da sola con Kelly.”
“Sì signora, vado subito.”
Claudine guardò la tata andare verso Joshua, prenderlo in braccio e sommergerlo con una cascata di baci. Era il piccolo della famiglia ed era adorato da tutti.
Claudine si avvicinò subito a Kelly, la cinse per le spalle e si incamminò con lei sull’ampio prato che portava sul retro della casa, verso il gazebo e il laghetto.
“C’è una cosa che ti devo dire.”
Kelly si bloccò all’istante e impallidì. “È successo qualcosa al papà?”
“No non si tratta del papà.”
“Di che cosa si tratta allora?”
“Phoebe.”
Kelly fece un o indietro diventando pallidissima.
“Non dirmelo, ti prego.”
Claudine si avvicinò a lei per abbracciarla ma Kelly la respinse.
“Mi spiace tesoro. Phoebe non c’è più”, disse Claudine omettendo che anche i suoi genitori erano morti. Non poteva darle la notizia tutta in un colpo solo.
“Cosa stai dicendo mamma?”, urlò Kelly scagliandosi contro la madre, picchiando i pugni sulle sue spalle.
“Mi spiace molto tesoro, davvero”, disse Claudine cercando di tenere abbracciata la figlia per trasmetterle la sua vicinanza, il suo amore.
“Non ci credo, non è possibile”, urlò ancora Kelly.
“L’hanno trovata vicina alle Torri. Con i suoi genitori e la sorellina Natasha”, disse Claudine tirando fuori tutta la verità.
Kelly si mise a urlare ancora più forte, dando dei pugni violentissimi al petto e
alle spalle di Claudine che rimase annichilita, anche a lei si spezzò qualcosa dentro, non aveva mai visto la figlia soffrire in quel modo ed era stata lei a darle la notizia. Kelly non si era mai trovata di fronte alla morte di una persona cara e l’impatto era stato una mazzata.
Montclair, 15 settembre 2001
79
Jason si svegliò all’alba, aveva dormito solo qualche ora intervallata da incubi continui. Aveva sognato di nuovo che qualcuno lo aggrediva e gli faceva male. Di nuovo quel vestito rosa da ragazzina. Si alzò e si fece una doccia bollente, poi scese in cucina e si preparò un caffè. Sua moglie non era ancora stata trovata e quel giorno aveva deciso di fare il giro degli ospedali per rintracciarla.
Chiamò Pamela. Il cellulare della sua assistente squillò a vuoto per parecchi secondi e alla fine scattò la segreteria.
“Pamela sono io Jason, ti prego di chiamarmi appena puoi ho bisogno di sapere se stai bene e se mi puoi fare un favore. Io sono stato nei casini fino a poche ore fa, ti spiegherò tutto”, disse Jason nella segreteria e poi chiuse la comunicazione.
Compose il numero di Stern che conosceva a memoria e l’amico gli rispose dopo tre squilli.
“Buon Dio Jason, finalmente. Ma dove accidenti eri finito?”
“Guarda è una storia lunga.”
“Aspetta che metto il vivavoce, c’è anche Tabytha qui.”
“Ciao Tabytha.”
“Jason oh caro, finalmente. Che bello sentire la tua voce eravamo così in ansia per te.”
“Sentite, vi racconterò la disavventura che mi è capitata più tardi, ora avrei bisogno di un grosso favore.”
“Dimmi tutto”, rispose Stern prontamente.
“Devo andare a cercare Claudine, non si trova. Non è a casa da giorni e temo che sia rimasta ferita.”
“Oh signore, in effetti ho provato a contattarla spesso ma sia a casa sia al suo cellulare non rispondeva nessuno.”
“Potreste per favore occuparvi dei miei figli questa mattina? Io starò via qualche ora fino a quando mio suocero Alain arriverà qui. Non voglio lasciarli soli, sono scossi e hanno bisogno di avere intorno delle persone amiche.”
“Non temere amico, saremo lì in un batter d’occhio. Dacci mezz’ora, ok?”
Tabytha si intromise nella conversazione e disse: “Senti Stern non è meglio se tu rimani qui un po’ a riposare? Sei molto debilitato e con l’operazione tra un paio di giorni forse devi stare tranquillo.”
“Non so, in effetti mi sento molto debole.”
“Rimani a casa, amico mio. Va bene anche se viene solamente Tabytha, i ragazzi la conoscono e si fidano di lei.”
“Sicuro che non ti dispiaccia?”, chiese Stern.
“Non dirlo neanche per scherzo.”
“Allora fra mezz’ora massimo sono lì, d’accordo Jason?”, chiese Tabytha.
“Ti ringrazio tantissimo, siete davvero due amici, i migliori che potrei avere.”
“A più tardi.”
“Grazie Tab”, disse Jason chiudendo la conversazione.
Jason si vestì e uscì in macchina. Si sentiva sfinito.
Non era abituato a starsene con le mani in mano. Aveva il tempo di andare a vedere gli ospedali intorno al World Trade Center dove sarebbe stato più
probabile ritrovare la moglie. Se lei fosse rimasta ferita l’avrebbero certo portata in un ospedale vicino.
Lasciò la macchina appena entrato a Manhattan e camminò verso il World Trade Center, l’intera zona era transennata e non si poteva are. Andò verso nord al Bellevue Hospital Center, mostrò una foto di sua moglie all’infermiera al banco ma gli disse che non avrebbe potuto riconoscerla perché era nuova di lì, una delle tante volontarie che si erano fatte avanti per dare una mano, in qualsiasi modo possibile per non lasciare soli gli abitanti di New York. La ragazza chiamò la caposala che aveva coordinato in quei giorni tutti i ricoveri e le dimissioni.
“Ha visto questa persona? È mia moglie, si chiama Claudine Mayer e non ho più notizie di lei dall’11 settembre mattina.”
La caposala guardò la foto ma fece un cenno di diniego con la testa.
“Non è mai stata ricoverata qui.”
“Ne è sicura?”
“Sicurissima, mi spiace signore”, disse la caposala restituendo la foto a Jason.
Uscì dall’ospedale e si diresse a sud aggirando la zona delle Torri.
Arrivò al New York Down Town Hospital, fece di nuovo la fila e parlò con
alcune infermiere. Nessuno aveva visto Claudine, nessuno poteva riconoscerla. Ma Jason non aveva alcun dubbio che avrebbe ritrovato sua moglie, era solo questione di tempo. Era solo questione di mantenere la calma.
Stava quasi per andarsene quando la sua attenzione fu catturata da una donna che giaceva su un letto, in una camera ancora vuota. Trovò strano che la camera non ospitasse altri pazienti, ma forse erano stati dimessi da poco e altri avrebbero presto preso il loro posto.
Entrò nella camera, non sapendo neanche lui perché.
Si avvicinò alla donna che sembrava dormisse.
“Sally”, disse soltanto Jason.
New York, 15 settembre 2001
80
Jason rimase folgorato, come ammutolito. Era uscito per cercare sua moglie e aveva trovato Sally. Uscì velocemente dalla camera e si rivolse alla capo infermiera.
“Conosco quella donna, è una mia dipendente, da quanti giorni si trova qui?”
La donna scrutò Jason con attenzione, di regola non avrebbe potuto fornire nessun tipo di informazione alle persone non parenti ricoverate in ospedale, ma tutte le regole erano saltate e i protocolli non esistevano più, in quei giorni. Ognuno faceva quel che poteva, si ammazzava di lavoro con turni estenuanti e non era la prima volta che erano state riconosciuti dei feriti a opera di persone che non erano affatto parenti.
“È qui dalla mattina di martedì, 11 settembre”, disse la capo infermiera consultando un registro.
“Ma sta dormendo? È sotto l’effetto di sedativi?”
“Temo di no signor... ?”
“Davis, Jason Davis”, disse lui protendendo una mano verso la capo infermiera e stringendogliela.
“Piacere di conoscerla signor Davis, io sono Elizabeth.”
“Quali sono le sue condizioni?”, chiese Jason in modo concitato. Mentre la capo infermiera rispondeva lui non riusciva a sentire nulla, vedeva la donna come se fosse all’estremità di un lungo tunnel, sentiva le parole ma non ne afferrava il senso. Arrivò un attacco di panico, violentissimo e l’ultima cosa che vide fu il pavimento sul quale sbatté la testa cadendo.
Riprese conoscenza qualche minuto dopo, seduto su una sedia vicino al banco delle infermiere. Ancora una volta un medico gli stava misurando la pressione e gli parlava. Jason ascoltava le parole, le sentiva ma sembrava un eco, non riusciva ancora a metterle insieme e dare loro un senso.
“Guardi qui, per favore”, disse il medico muovendo un dito a destra e a sinistra, Jason seguì il movimento e cominciò a riaversi.
“Ha avuto un forte calo di pressione.”
Jason aveva già sentito quelle parole, quando aveva perso conoscenza in carcere. La sensazione di panico stava svanendo ma rimaneva ancora quella fortissima ansia.
“Potrei avere un sedativo?”
“Gliel’ho già somministrato. Mi dica: le capitano spesso questi attacchi?”
Li aveva spesso? pensò.
“Non lo so, no non mi sembra”, disse con scarsa convinzione, da qualche parte dentro di sé sentiva che non stava dicendo la verità ma fu un pensiero che ò via veloce e scomparve nell’improvvisa ondata di calma che lo avvolse, dovuta al farmaco.
“Mi ha detto Elizabeth che lei conosce quella donna”, disse il medico indicando Sally.
“Sì, la conosco molto bene. È una mia dipendente e conosco bene Anna, quando eravamo ragazzi è stata la mia fidanzata.”
“Chi è Anna?”, chiese il medico.
“La sorella di Sally.”
“Elizabeth, questa Anna Yrons è stata avvertita che la sorella è ricoverata qui?”
“Sì, è stata riconosciuta da un’altra donna di cui ora non ricordo il nome, poi abbiamo trovato in fretta la sorella Anna.”
“Molto bene”, disse il medico. “Come si sente ora?”, chiese rivolto a Jason.
“Sì, va tutto bene, mi sento molto meglio grazie.”
“Andiamo nel mio studio, le darò qualche informazione in più su Mrs. Yrons per vedere come possiamo aiutarla”, disse il medico asciutto.
I due entrarono in un ufficio piuttosto piccolo, arredato in modo scarno e asettico. Sedie di metallo, una scrivania in plastica. Il medico indicò una sedia e Jason si accomodò pesantemente, la testa ancora vuota, il senso di irrealtà e di distacco ancora forti.
“Mi dica dottore, quali sono le condizioni di Mrs Yrons?”
“Al momento sono stabili, è stata portata qui in una situazione di coma, probabilmente dovuta a un colpo ricevuto alla testa. È stata trovata a poche decine di metri dal World Trade Center in stato di incoscienza e così è rimasta.”
“Vuol dire che non ha più ripreso conoscenza?”
“Esatto.”
“Qual è la vostra diagnosi, intendo quando pensate che si risveglierà?”, chiese Jason bevendo un lungo sorso d’acqua.
“Purtroppo non lo sappiamo, i misteri della mente sono ancora insondabili. Quello che sappiamo è che non ci sono danni permanenti, le abbiamo fatto una TAC e non risultano emorragie o danni cerebrali, questo è già qualcosa.”
“Quindi potrebbe rimanere così per molto tempo?”, chiese Jason avvertendo di nuovo il panico che si insinuava in lui, cercò di scacciarlo.
“Teoricamente potrebbe risvegliarsi tra qualche minuto, oppure tra mesi. Come le ho detto, non lo sappiamo. Quello che credo di poter affermare con una relativa certezza è che Mrs Yrons non rimarrà in coma per sempre. C’è un’attività cerebrale molto intensa a tratti, oserei dire molto al di fuori della norma per pazienti nelle sue condizioni. Personalmente non ho mai visto un caso così”, disse il medico appoggiando le mani sulla piccola scrivania.
“Cosa intende esattamente?”
“Vede, nella mia pratica medica come può immaginare ho visto centinaia di pazienti in stato di coma. È una situazione in cui il cervello è, come dire, quasi del tutto spento. Non risponde agli stimoli sensoriali esterni, per esempio. Nel caso di Mrs Yrons invece c’è una situazione paradossale, lei si trova in un coma vigile, oserei dire. Alterna momenti di calma in cui la sua attività cerebrale è del tutto simile a quella di altri pazienti nelle stesse condizioni, a momenti di attività cerebrale convulsa, quasi estrema.”
“Cioè si rende conto dell’ambiente in cui si trova? Sente le voci?”
“No, non credo che senta nulla, ma è come se il suo cervello stesse elaborando una quantità infinita di dati ed è proprio questo a tenerla in coma.”
“Temo di non seguirla”, disse Jason confuso.
Il medico unì le punta delle dita e appoggiò il mento alle mani e disse: “Il coma, per come la medicina tradizionale lo conosce, è semplicemente un meccanismo di difesa della mente che si mette in una posizione di riposo in modo da far guarire il resto del corpo. Avrà senz’altro sentito parlare del coma indotto farmacologicamente?”, chiese il medico.
“Sì.”
“Ecco, la situazione è simile. È come se fosse in un coma farmacologico e lei stessa si rifiuta di cadere nel buco nero tentando disperatamente di rimanere agganciata alla vita.”
“Vuol dire che è in pericolo di morte’, chiese Jason e un’altra ondata di panico gli montò dentro.
“No, no. Vede io sono un neurologo e posso affermare con certezza che Mrs Yrons non corre un rischio del genere. Dobbiamo semplicemente aspettare che il suo cervello si calmi, che torni alla normalità e a quel punto credo che si risveglierà. Se posso avanzare una ipotesi...”
“Dica.”
“È come se stesse continuando a vivere, non so come altro spiegarlo. Anche
nelle fasi del sonno, il suo cervello è in un continuo flusso di pensieri e di attività cerebrale e questo non permette al corpo di guarire. È come un cane che si morde la coda, capisce? Poi, tutto a un tratto, come le ho detto, il suo cervello si spegne. Anomalo, davvero anomalo.”
“Sì, è tutto chiaro”, disse Jason chinando il capo e pensando al modo per aiutare Sally. Glielo doveva. Pensò ad Anna. Anche a lei glielo doveva.
“Senta, quali sono le cure che vengono somministrate a Mrs Yrons?”
Il medico si schiarì la voce e sembrò imbarazzato: “Quelle di base in casi del genere.”
“Non mi bastano le cure di base, per lei voglio il massimo. Un’assistenza continua ventiquattro ore su ventiquattro, un fisioterapista e qualcuno che stia sempre con lei e che le parli in continuazione, o che le faccia ascoltare della musica.”
“Questo sarebbe di grande aiuto, però... ehm... .ha un costo elevatissimo.”
“Il denaro non è un problema, mi creda. Provvederò a versare oggi stesso centomila dollari per le cure da fornire a Sally Yrons, ma mi deve garantire che avrà il massimo delle attenzioni possibili.”
Il medico sembrò imbarazzato, non gli era mai piaciuto che chi avesse i soldi potesse pagare le cure mediche e chi fosse indigente venisse piazzato in una
corsia, quando andava bene. Quando andava male, veniva dimesso senza tante storie.
“Avrà il massimo delle cure possibili, glielo garantisco”, disse il medico alzandosi contemporaneamente a Jason. I due si strinsero la mano e uscirono in corridoio.
“Vada pure dalla paziente, se lo desidera. Le parli. Le farà bene sentire una voce amica”, disse il neurologo.
“Grazie del suo aiuto”, disse Jason stringendo la spalla del medico e si avviò verso la camera di Sally, mentre un’altra ondata di panico, ancora più forte delle precedenti, lo investì e lo tramortì quasi non appena vide Sally distesa a letto, immobile e con il ronzio delle macchine in sottofondo.
Jason si sentì trascinato ancora più in basso, in un abisso di cui nemmeno lui vedeva il fondo.
Jason rientrò a casa, parcheggiò la Porsche un po’ a casaccio nell’ampio box ed entrò in casa.
Subito i figli gli corsero incontro e ancora una volta si sentì profondamente commosso da queste ondate di amore.
“Jason”, disse Alain venendo avanti dalla penombra.
“Sei arrivato”, disse Jason abbracciandolo.
“Si hanno notizie di Claudine? Dio mio, ma tu sei distrutto.”
“Jason ciao”, disse Tabytha stringendolo forte.
In effetti Jason si sentiva a pezzi, le emozioni di quei giorni, il ritrovamento di Sally e quei dannati attacchi di panico lo avevano messo al tappeto.
“Sì, sono molto stanco, è vero. Ho bisogno di riposare, poi devo continuare le ricerche. Oggi ho trovato una mia dipendente, è in coma. Troverò anche Claudine, ne sono sicuro. Devi farmi un grosso favore, Alain.”
“Tutto quello che vuoi”, disse lui mentre i due si allontanavano dai ragazzi.
“Devi stare assieme ai miei figli mentre io cerco Claudine.”
“Hai bisogno di dormire”, obiettò Alain.
“Sì, solo un paio d’ore. Ma questa notte intendo fare il giro di tutti gli ospedali e mi fido solo di te.”
“Certo non è un problema, starò io con loro.”
“Grazie”, rispose Jason semplicemente. “Tabytha cara, grazie per essere stata con i miei figli, spero non ti abbiano fatta disperare.”
“Oh no, è stato un piacere. Sono adorabili, e così adulti per la loro età.”
“Ora torna da Stern, ha bisogno di te. Anche Nicholas ti aspetta.”
“Sì, è tempo che vada. Però se hai bisogno chiama, restiamo uniti.”
“Papà ma dov’è la mamma?”, disse il piccolo tirandogli le gambe dei pantaloni e reclamando per essere preso in braccio.
“Prometto che domani mattina, quando ti sveglierai, la troverai nel tuo letto”, disse Jason dissimulando la propria preoccupazione.
“Urrà”, esclamò il bambino e corse via verso i suoi giochi.
Jason accompagnò fuori dalla porta Tabytha, la abbracciò forte e aspettò che salisse in macchina.
“Troverai Claudine.”
“Lo spero.”
“Pregheremo per te.”
“Grazie Tabytha, salutami Stern, vi devo molto.”
“Non dirlo neanche per scherzo, ciao Jason”, disse lei mettendo in moto la macchina e allontanandosi sul vialetto.
Jason la guardò andare via e si voltò per rientrare in casa, senza accorgersi che le colonne del porticato erano quattro.
Invece che sei.
Jason dormì profondamente per un paio d’ore, dopo aver consumato una breve cena con Alain e i ragazzi. L’atmosfera era cupa, silenziosa. Anche la presenza del nonno, che di solito portava nella famiglia una ventata di allegria e spensieratezza, questa volta non riusciva a bucare il muro dell’ignoto, dell’incerto e dell’angoscia di non sapere se Claudine fosse viva, oppure si trovasse in una condizione simile a quella di Sally. Oppure...
“Starò via tutta la notte, Alain.”
“Noi ti aspettiamo qui”, disse Alain accompagnandolo alla macchina.
Jason salì in macchina, cercò l’avviamento e non lo trovò.
“È a sinistra, te ne sei dimenticato?”
Jason rimase un attimo interdetto, era una cosa che aveva trovato strana sin dal mattino, sin dal primo momento in cui era salito in macchina. Premette il pulsante di avviamento posto a sinistra del volante, la macchina si mise cupamente in moto e scomparve nella notte.
New York, Brooklyn, cimitero di Greenwood 16 settembre 2001
81
La gente cominciava a defluire verso l’esterno della chiesa, il panorama che si parò loro gettò tutti nello sconforto. Al di là dei sentieri ben tenuti, dei prati verdi appena tagliati da cui emanava ancora il profumo dell’erba, si vedeva chiaramente la ferita di New York.
“Non finirà mai tutto questo”, disse una signora anziana tenendosi al braccio di un uomo vestito con eleganza.
Quasi nessuno faceva commenti, erano del tutto inutili in quell’atmosfera, in quel contrasto tra vita eterna e morte istantanea.
“Io non sarei riuscita a fare la stessa cosa”, disse una giovane donna guardando la bara.
Nessuno aveva visto il corpo, i medici lo avevano vietato. Era stato messo nella bara di legno dopo che le sue impronte dentali erano state riconosciute.
Ma c’era una sua foto sulla lapide che ne ritraeva il viso in un momento felice, sorridente e spensierato come poche volte lo era stato. Era una foto rubata, scattata senza che se ne accorgesse. Lo sguardo non era rivolto verso la macchina fotografica, ma oltreava l’obiettivo di qualche centimetro, guardando lontano.
Un pezzo di Beethoven in sottofondo, la Sonata al Chiaro di Luna, rendeva l’atmosfera ancora più contrita e commovente.
Tabytha, distrutta dal dolore, si aggrappava a Stern.
Pamela in piedi, composta. Non dava segnali di cedimento. Non avrebbe mai ceduto, non in pubblico. Era durata così poco la loro complicità. Poco, se raffrontata a quello che avrebbero potuto fare assieme. Avevano il mondo davanti a loro, ma ora il mondo aveva voltato loro le spalle. In un certo senso, tutti erano rimasti un po’ più soli.
I presenti sfilarono davanti alla fossa, qualcuno gettò un petalo di rosa, qualcun altro una manciata di terra. Per ultima ò Anna, fece cadere dei fiori di gelsomino che lasciarono nell’aria una leggera scia di profumo.
La folla ondeggiò, si formarono gruppetti di persone che si confortavano a vicenda.
Si alzò il vento che disperse in pochi minuti le nuvole sopra il cimitero, come se non fossero mai esistite, lasciando il cielo azzurro e sgombro.
Montclair, 15 settembre 2001
82
Kelly si piegò in due dal dolore. Successe in un istante. Corse via, attraversando tutto il giardino e calpestando fiori e aiuole. Corse verso Natalia che superò in un millesimo di secondo e che la guardò stupefatta. Inciampò su un sasso sporgente e cadde faccia in avanti. Cadde e si fece male, ma non sentì il dolore fisico.
Entrò in casa sbattendo la porta e facendo sobbalzare Alain che sedeva in veranda.
Non pianse. Non ancora. Salì le scale facendo i gradini a tre a tre e si infilò nel corridoio andando a sbattere contro uno dei tavolini che sorreggevano molte foto di famiglia e che si rovesciò a terra.
Corse verso camera sua mentre Claudine era rimasta impietrita in giardino.
Alain aveva sentito il clangore dei vetri infranti, del comodino che rovinava a terra. Si alzò all’istante dalla poltrona e fece le scale andando verso la camera di Kelly che trovò chiusa, sbarrata dall’interno.
Alain sentì dei forti rumori provenire dalla stanza di Kelly che rovesciava tutto quello che c’era sulla scrivania, strappava le foto dalle pareti e gettava il cellulare contro il muro mandandolo in pezzi.
Non gli sarebbe più servito, pensò. A chi mai avrebbe più potuto telefonare, ora
che Phoebe non c’era più.
Chi avrebbe chiamato la sera, per riferirle che c’era un ragazzo che le piaceva e che timidamente si era avvicinato a lei?
A chi avrebbe raccontato le sue dolci e fragile paure, di piccola donna che sta crescendo in un mondo impazzito?
Chi le avrebbe creduto?
Chi l’avrebbe aiutata e confortata?
Chi l’avrebbe fatta ridere a crepapelle, per ogni minima sciocchezza?
Kelly si buttò sul letto, affondò la testa nel cuscino e cominciò a piangere, a urlare il suo dolore cercando di soffocarlo col cuscino già zuppo di lacrime, poi lo gettò via e il suo dolore fu libero di essere urlato.
“Kelly sono il nonno, ti prego apri la porta. Cosa succede tesoro?”, disse Alain mentre Claudine si era rianimata e procedeva come uno zombie, chinandosi per raccogliere il tavolino, per mettere inutilmente assieme i cocci di una vita spezzata e non avrebbe saputo dire se quella vita era di Phoebe o di sua figlia.
Claudine si avvicinò al padre e gli sussurrò nell’orecchio quanto si sentiva inadeguata pur avendo studiato psicologia infantile. Si sentiva distrutta dentro e
isolata dalla sua stessa figlia che avrebbe dovuto proteggere a ogni costo.
Alain si limitò ad annuire e disse a Claudine: “Figlia mia, non ti basterebbero dieci vite a studiare ed esercitare per non essere coinvolta emotivamente nel dare una tale notizia proprio a Kelly.” Alain le suggerì di attendere appena fuori dalla porta e di rimanere qualche minuto in disparte.
Bussò di nuovo alla porta, mentre Kelly da dentro la camera sbarrata gli urlava di andare via, di sparire, di lasciarla in pace. Alain sapeva che sarebbe stata la cosa più sbagliata da fare, lasciarla sola in un momento così avrebbe significato ucciderla due volte.
“Kelly lasciami entrare solo un secondo, parliamo un po’”, disse Alain con infinita dolcezza.
“Non c’è niente da dire!”, urlò Kelly.
“Lo so come ti senti tesoro, dai aprimi stiamo assieme solo qualche minuto, se poi vuoi che vada via non hai che da dirmelo”, disse Alain guardando Claudine che rimaneva due i indietro. Teoricamente avrebbe dovuto essere lei a consolare la figlia, ma pensò che forse l’abbraccio neutrale e così pieno di amore del nonno avrebbe fatto bene a Kelly. Lei sarebbe venuta dopo, quando l’incendio sarebbe stato spento.
Alain sentì che Kelly si alzava dal letto e veniva verso la porta, girò la chiave nella serratura. Kelly socchiuse la porta e nonno e nipote si guardarono per un lungo istante dagli abissi del tempo che li separava, dalle generazioni che si erano interposte tra di loro.
Kelly appoggiò la fronte sullo stipite e con delicatezza Alain aprì la porta di qualche altro centimetro, assecondando i tempi di lei, i suoi ritmi. Il suo dolore.
Allora Kelly prese la mano del nonno e lo tirò verso di sé e nonno e nipote si ricongiunsero al di là del tempo che li separava.
Ricominciò a piangere. Tremava, stringendosi sempre più forte ad Alain.
“Non piangere bambina mia, ci sono qua io adesso”, disse Alain accarezzandole i capelli biondi.
“Come è potuto accadere, nonno? Cosa ci faceva lì Phoebe con la sua famiglia?”
“Non lo so. Forse non lo sapremo mai, forse non capiremo mai per quale orribile circostanza lei e tutta la sua famiglia erano lì, proprio in quel momento.”
“Come è possibile che sia avvenuto tutto questo, questo...”, disse Kelly senza riuscire a trovare la parola adatta per descrivere l’orrore che sentiva dentro di sé.
“Lo so bambina mia. Ma vedrai che col tempo questo dolore si affievolirà e ricorderai la tua amica Phoebe per quello che è stata, per l’amicizia e l’amore che ti ha dato.”
arono lunghi minuti di silenzio, in cui la disperazione di Kelly si affievolì lentamente.
“C’è una breve poesia, sai”, disse lei rompendo il silenzio.
“Quale poesia?”
“L’ha scritta Phoebe, la settimana scorsa sul mio diario.”
“Me la vuoi far leggere?”, chiese Alain consapevole che Kelly voleva davvero condividerla con lui.
“Sì”, disse Kelly andando verso la scrivania e prendendo il diario, mentre Claudine continuava a rimanere in corridoio ad ascoltare.
“Ecco, l’ha scritta il 5 settembre. Il primo giorno di scuola.”
Alain lesse la poesia e rimase sbalordito: impossibile non leggerci dentro un presagio.
Si cade. Si vince. Si muore.
New York, ospedale Presbyterian 12 settembre 2001
83
Era ricoverata in sala rianimazione. Una sala asettica e controllata. Monitorata ventiquattro ore su ventiquattro. I suoi parametri vitali venivano registrati dalle macchine collegate al suo corpo tramite tubi ed elettrodi. Era in quello stato da ventiquattro ore. I medici avevano diagnosticato un coma profondo, teoricamente avrebbe potuto risvegliarsi in qualunque momento ma il suo corpo giaceva lì, tra fresche lenzuola mentre la sua mente vagava chissà dove. L’elettroencefalogramma dava segnali contrastanti, alternando momenti di estrema attività cerebrale a momenti in cui sembrava che la paziente stesse scivolando in un coma irreversibile.
Entrò il medico di guardia che diede un’occhiata alla cartella clinica appesa ai piedi del letto. Non era cambiato nulla, neanche il fatto che non avevano idea di chi fosse. Non aveva documenti con sé, neanche la tessera di una palestra. Probabilmente la sua borsetta era andata persa, sotto tonnellate di macerie.
Nel reparto c’erano altre persone come lei, dei senza nome. Ma che per fortuna erano vivi. Il medico guardò con comione la sua paziente e uscì dalla stanza. Nel corridoio diede un occhiata all’orologio a muro, segnava le tre del pomeriggio circa. Erano ate poco più di ventiquattro ore dagli attentati, ma al medico sembrava di essere lì da un mese. Si sentiva sfinito e decise di sdraiarsi un attimo nella sala riservata al personale dell’ospedale.
Pamela era ancora più sfinita di quel medico. Dopo essere stata a casa di Sally e non aver trovato nessuno, dopo averla chiamata al telefono decine di volte senza ottenere risposta, aveva deciso di fare il giro degli ospedali di New York, pensando che fosse rimasta ferita. Non si era resa conto di quanti ospedali c’erano in città, ne aveva visitati parecchi, ormai aveva perso il conto. Erano le quattro del pomeriggio del 12 settembre quando varcò la soglia del New York
Presbyterian Hospital.
Si recò subito alla reception, una lunga coda di persone stava facendo la stessa cosa che lei da ore portava avanti con ostinazione. Attese con impazienza il suo turno, poi finalmente poté parlare con l’infermiera della reception. Descrisse Sally, ma l’infermiera scosse subito il capo.
“Se non ha un nome e un cognome non possiamo identificarla, signora. Può comunque guardare in quella bacheca dove ci sono le foto dei pazienti che sono ricoverati qui da ieri mattina e vedere se trova la sua amica”, disse l’infermiera indicando un muro dalla parte opposta della reception.
Pamela si avviò verso la bacheca. Vide uomini con la barba, volti di giovani e di donne. Tutti erano accomunati da una cosa sola: tenevano gli occhi chiusi.
Poi la sua attenzione fu attratta da una foto in mezzo alle altre. Esultò per un istante e poi con angoscia si chiese se quella foto ritraesse Sally viva, o morta.
“È lei, è qui da voi”, disse Pamela all’infermiera indicando con il braccio teso dietro di sé la bacheca azzurra.
L’infermiera sorrise e Pamela capì che la sua amica era ancora viva.
“Posso vederla?”, chiese Pamela al medico di Sally.
“Le può anche parlare se vuole.”
Pamela entrò nella stanza che sapeva di medicinali e di malattia, sentì sopra di sé un leggero refolo d’aria condizionata. Si avvicinò al letto di Sally e con dolcezza le prese la mano.
“Si chiama Sally Yrons, vive a Brooklyn ed è una mia collega.”
“Da quanto tempo la conosce?”
“Da circa un anno.”
“Sa se Sally ha dei parenti?”
“Sì, ha una sorella che si chiama Anna”, disse Pamela scrivendo su un foglietto il suo numero di cellulare che aveva imparato a memoria.
“La contatteremo subito.”
“Crede che si riprenderà?”
“Non possiamo dirlo al momento, la prognosi è riservata. Sally attualmente è in coma profondo, come le ho detto. Questa situazione potrebbe migliorare
rapidamente, come rimanere stazionaria per diverso tempo.”
“Quanto tempo?”
“Settimane, mesi. Non lo sappiamo. Ora le consiglio di tornare a casa e di riposarsi un po’, è molto stanca anche lei e ha bisogno di dormire. Per il momento non c’è molto che lei possa fare, se non venire qui regolarmente a trovare Sally e parlarle, anche se forse lei non la sentirà.”
Pamela annuì e all’improvviso si sentì sfinita, come mai si era sentita.
“Torni domani mattina, per quell’ora saremo riusciti a contattare sua sorella Anna, sarà di grande aiuto a Sally.”
Pamela si svegliò presto la mattina del 13 settembre, era appena sorto il sole.
Si vestì e andò direttamente al Presbyterian.
Questa volta non dovette fare la coda alla reception, si infilò in uno degli ascensori e salì fino al settimo piano. Sbucò nel corridoio, più tranquillo del giorno precedente e si rivolse alla caposala.
“Vorrei vedere Sally Yrons”
“Lei è una parente”?
“No, una sua amica.”
La caposala la squadrò con diffidenza e le disse: “Abbiamo rintracciato la sorella della signora Yrons, è già lì con lei nella stanza.”
“Oh bene sono contenta che l’avete rintracciata.”
“Sì, e ha anche un nipotino di sette anni. Sono entrambi con Sally.”
“E come sta lei?”
La caposala scosse la testa. “Sempre stazionaria.”
“Vado da lei” disse Pamela che si voltò ringraziando e a i svelti si diresse verso la stanza di Sally. Si fermò solo un istante, con la maniglia in mano. Poi trasse un profondo respiro ed entrò.
Una donna si voltò subito, si vedeva che aveva pianto. Un bambino invece sedeva composto e tranquillo su una sedia, senza fare il minimo rumore. La guardò incuriosito per un attimo, poi tornò a rivolgere la sua attenzione al Game Boy.
“Buongiorno, mi chiamo Pamela Dexter. Sono un’amica di sua sorella.”
“Piacere. Mi chiamo Anna.”
Le due donne si strinsero la mano e poi istintivamente si abbracciarono.
“L’ospedale mi ha contattata ieri. Sono venuta immediatamente con Thomas e abbiamo ato la notte qui.”
“Sarai molto stanca.”
“Molto preoccupata più che altro”, disse Anna rivolgendosi verso Sally. Le prese la mano e la accarezzò, la portò al viso e la strinse contro la sua guancia. In sottofondo, il monitor che controllava le pulsazioni batteva regolare, come un metronomo. Si sedettero su due sedie e cominciarono a parlare a Sally che giaceva immobile nel letto, come addormentata. Pamela si chiese se la sua amica la potesse sentire, se le sue parole potessero raggiungere il luogo in cui si trovava ora. Un luogo buio in fondo a un tunnel dove non c’era nessuno ad aspettare.
Entrarono in casa nel tardo pomeriggio, Thomas si mise a correre per tutto l’appartamento salendo e scendendo le scale, guardando con stupore l’enorme buco nel soffitto.
“Devo ringraziarti, sai.”
“No non devi. È un piacere per me ospitarvi e stare assieme a voi, in questo momento abbiamo bisogno l’uno dell’appoggio dell’altro. E poi siamo a due i dal Presbyterian, possiamo essere lì in cinque minuti.”
Pamela aveva insistito perché Anna e Thomas venissero a stare da lei in quei giorni, per andare e tornare da Brooklyn ci volevano ore perché era tutto bloccato.
“Ho bisogno di dormire qualche ora”, disse Anna stancamente.
“Ti accompagno nella tua stanza, il letto è abbastanza grande per entrambi”, disse Pamela facendo un cenno al bambino che continuava a mandare ululati di gioia a ogni nuova scoperta che faceva in casa. Ora era particolarmente attratto dai faretti incassati nelle scale che si accendevano di una luce rossa al aggio, innescati da delle fotocellule abilmente nascoste nel muro, e poi si spegnevano in una lenta dissolvenza.
“Thomas non credo abbia intenzione di dormire”, disse Anna con un sorriso.
“Penso di no. Facciamo così, tu vai a riposare e io esco con lui, lo porto al parco qui vicino. Di solito ci sono tanti altri bambini, troverà sicuramente qualcuno con cui giocare. Noi due abbiamo la stessa taglia quindi puoi metterti i miei vestiti, ti andranno a pennello. Anche a lui comprerò qualcosa.”
“Posso giocare a baseball con quei bambini?”, chiese Thomas stringendo forte la mano di Pamela.
“Certo che puoi.”
Thomas corse via e in un attimo i bambini erano diventati tutti amici.
Pamela sorrise alla scena che si svolgeva davanti ai suoi occhi, poté stupirsi della facilità con cui i bambini sembravano aver accantonato quelle giornate, dedicandosi al loro sport preferito. Un tempo, anche lei era stata così, ne era certa. Spontanea come il sorriso di un infante, libera come una nuvola nel cielo, fresca come la brezza estiva che si leva dal mare. Da qualche parte, dentro di lei, giacevano quei ricordi, quel senso di appartenenza alla vita e al presente. Ma era tutto così lontano, così perduto che quasi le sembrava irreale che anche lei, un giorno, fosse stata bambina. Le scese una lacrima e la lasciò sgorgare senza vergogna, senza doversi nascondere in un bagno per poi rifarsi velocemente il trucco. Nella sua tragicità, gli eventi che avevano colpito New York e il mondo intero avevano risvegliato le coscienze di tutti. Anche se il prezzo pagato era stato altissimo.
Ritornarono verso il Greenwich Village al tramonto, il sole diffondeva nell’atmosfera uno strano colore, era scomparso persino l’azzurro del cielo.
“Perché continuano a fumare?”, chiese Thomas stringendo la mano di Pamela. Lei avvertì il desiderio del bambino di essere rassicurato.
“Perché ci sono degli incendi e i pompieri li stanno spegnendo”, rispose guardando in basso e incrociando lo sguardo puro di Thomas. Le si strinse il cuore per un attimo, contemplando la sua innocenza.
“Perché è successo tutto questo?”
Bella domanda, pensò Pamela. Cercò una risposta che non traumatizzasse il bambino più di quanto doveva già esserlo, anche se non lo dava a vedere.
“Perché un aereo si è rotto ed è andato a sbattere contro una delle torri”, rispose lei.
“Erano due.”
“Come?”
“L’ho visto alla TV, erano due gli aerei che si sono rotti.”
“Qualche volta capita, sai. Gli aerei sono macchine complesse e molto sicure, ma talvolta capita che si rompano.”
“E vanno sempre a sbattere contro i grattacieli?”, chiese Thomas guardando in su, verso di lei.
“No, di solito non accade. È stata solo una coincidenza.”
“Cosa significa coincidenza?”
“Significa che siamo stati molto sfortunati che due aerei, quasi nello stesso momento, si siano rotti e sia successo l’incidente.”
“L’incidente”, disse Thomas perplesso.
“Sì, un incidente”, confermò Pamela stringendo ancora di più la mano del bambino.
“Guarda, me lo compri? Dai ti prego!”, disse all’improvviso Thomas indicando una vetrina. Un orso di peluche, grande quanto il bimbo, dormiva in mezzo ad altri giocattoli.
Pamela sorrise e si stupì della facilità con cui Thomas era ato da un argomento all’altro. Entrarono nel negozio e un attimo dopo ne uscirono, con Thomas che saltellava tutto contento intorno a lei, stringendo a sé l’enorme orso bianco di peluche a cui aveva dato il nome di Placido.
New York, 13 settembre 2001
84
“Hai riposato?”, chiese Pamela osservando Anna mentre scendeva le scale.
“Insomma, un paio d’ore di dormiveglia. Sono troppo scossa e spaventata per dormire.”
“Lo capisco, anch’io non dormo quasi nulla.”
“È crollato”, disse Anna rivolta al bambino che dormiva tranquillo sul divano, abbracciato al suo nuovo amico peloso.
“È un bambino molto tenero e affettuoso.”
“Ti ha fatto disperare?”
“No, per niente. Al parco ha fatto subito amicizia con altri bambini, poi tornando a casa ha visto quell’enorme orso di peluche e allora ho pensato di fargli un regalo.”
“Hai fatto bene, è un bambino che ha molto bisogno di affetto e talvolta anch’io non riesco a dargli tutte le attenzioni e l’amore che vorrebbe.”
Pamela annuì sentendo che la donna di fronte a sé nascondeva qualcosa, ma preferì non approfondire l’argomento. Porse ad Anna una tazza di caffè e tenne l’altra per sé, lo gustarono in silenzio mentre il lieve respiro di Thomas faceva da sottofondo.
“Ho preparato qualcosa da mangiare, qualche hamburger e patatine fritte.”
“Evviva”, esclamò Thomas sedendosi a tavola. Anna e Pamela lo guardarono con affetto mentre il bambino divorava l’hamburger.
“Ehy piano, non vorrai mica stare male no?”
“Ho fame, mamma. È un secolo che non mangio.”
“Hai ragione, oggi è stata una giornata lunga”, disse Anna abbassando lo sguardo. Pamela intercettò il suo cambiamento di umore e le versò un altro po’ di vino rosso nel bicchiere mezzo vuoto.
“Ma la zia dormirà ancora per tanto tempo, mamma?”
“La zia deve riposare, non sta molto bene in questo momento.”
“Ma morirà?”
La domanda uscì dalla bocca di Thomas come una coltellata, per lui morire non aveva ancora un significato preciso.
Anna si sentì mancare a questa domanda, il bambino gliel’aveva posta in un’altra occasione, anni prima.
“No non morirà, stai tranquillo”, disse Anna accarezzando il viso di suo figlio mentre lui la guardò con la speranza negli occhi.
“Vuoi un po’ di gelato?”, chiese Pamela per distrarre il bambino da questi pensieri.
“Tutto cioccolato per me!”
“Allora credo di avere qualcosa che ti piacerà”, gli rispose Pamela strizzandogli l’occhio. Thomas cercò di copiare il gesto ma il risultato fu un comico sbattimento di palpebre.
Anna e Pamela scoppiarono a ridere insieme a Thomas.
“Mi racconti una storia?”
Pamela lo guardò un po’ sorpresa, lo aveva messo a letto mentre Anna si faceva
una doccia.
“Uh, che storie ti piacciono?”
“Quelle dove c’è un super eroe che combatte contro i cattivoni.”
Pamela non poté fare a meno di trattenere un sorriso e cominciò a raccontare una storia pescandola dagli archivi impolverati della sua memoria, mentre il bambino lentamente chiudeva gli occhi e si addormentava.
“Hai ragione, è proprio un bambino delizioso.”
“Sì, lo è”, confermò Anna. “Anche se qualche volta mi preoccupa un po’.”
“Perché?”
“Vedi, è molto sensibile e qualche anno fa è successa una cosa che l’ha turbato molto, non vorrei che ne risentisse troppo in futuro.”
“Cosa è successo?”, chiese Pamela sapendo di avventurarsi in un territorio delicato.
“Suo padre, mio marito. È morto improvvisamente. Un infarto, mentre
cenavamo.”
“Oh mio Dio.”
“È stato terribile. Un momento prima parlava allegramente con Thomas. Un secondo dopo si era afflosciato sul tavolo, non credo neanche se ne sia accorto.”
“E Thomas come ha reagito?”
“È rimasto lì, con gli occhi sbarrati mentre chiamavo l’ambulanza. Non mi sono mai perdonata il fatto che avrei dovuto portarlo via subito da quella scena.”
“Dovevi salvare tuo marito.”
“Sì. In realtà, avrei dovuto salvare entrambi. Ma non sono riuscita a salvare nessuno dei due.”
“Non dire così, sei una mamma molto affettuosa e Thomas mi sembra che abbia dimenticato. Mi sembra spensierato.”
In quel momento un urlo risuonò fortissimo nell’appartamento, Anna si alzò di scatto e corse su per le scale diretta verso la camera di Thomas.
Pamela rimase ammutolita sul divano. Una lacrima scese lentamente sulla guancia e poi si asciugò da sola.
Arrivò il mattino, un altro giorno da riempire con la speranza.
“Non me la sento di portare Thomas in ospedale, oggi”, disse Anna.
“Hai ragione, per lui deve essere un grosso trauma.”
Pamela e Anna stavano facendo colazione sul piccolo terrazzo ornato da gerani di tutti i colori.
“Potrebbe stare me con me tutta la mattina e poi verso le tre del pomeriggio ti veniamo a prendere davanti all’ospedale. Cosa ne pensi?”
“È una buona idea, adesso lo chiediamo anche a lui. Stanotte ha avuto il solito incubo.”
Pamela rimase in silenzio osservando Anna, il suo modo discreto di convivere con un dolore più grande di lei.
Il bambino si affacciò in quel momento sul terrazzo stropicciandosi gli occhi. Il pigiama giallo dei Simpson lo rendeva ancora più buffo e strappò un sorriso a Pamela che lo guardò con tenerezza.
“Mamma.”
“Hai dormito bene, tesoro?”
“Sì, dopo che mi hai cantato le canzoncine i mostri se ne sono andati.”
“Senti cosa ne pensi di stare con zia Pam questa mattina e noi ci vediamo dopo pranzo?”
Thomas rimase un attimo in silenzio, poi abbracciò la sua mamma e le disse che andava bene.
Pamela si sentì stringere il cuore da quella manifestazione di affetto così intima e profonda tra una mamma e il suo bambino.
Thomas si arrampicò sulle sue gambe e le schioccò un bacio sulla guancia accarezzandole i capelli.
Pamela rimase immobile, non aveva mai avuto una manifestazione di amore così gratuita e sincera, in tutta la sua vita. Poi strinse le braccia intorno al bambino e ricambiò il bacio, mentre il viso di Thomas si illuminava.
“Hai capito tutto, tesoro?”, chiese Anna accosciandosi per essere all’altezza del
figlio.
“Sì, mamma, farò il bravo e non farò disperare Pam.”
“Su questo ho i miei dubbi.”
“Parola di lupetto, mamma.”
“Allora siamo d’accordo, ci vediamo più tardi.”
Anna abbracciò Pamela e le sussurrò un grazie, poi salì sul taxi che si mise in moto lentamente. Dal lunotto posteriore Anna continuò ad agitare la mano in segno di saluto, finché Thomas divenne così piccolo da non poterlo più vedere.
Pamela appoggiò una mano sulla testa del bambino, che guardò in su verso di lei strizzando gli occhi per difenderli dai raggi solari.
“Abbiamo molte ore tutte per noi a quanto pare”, disse Pamela sorridendo e facendo l’occhiolino al bambino.
Montclair, 15 settembre 2001
85
“Non ce la faccio più a stare qui, ad aspettare una telefonata che non arriva” disse Claudine stringendosi al padre.
“Hai ragione, bisogna fare qualcosa. Magari Jason è ricoverato da qualche altra parte, dobbiamo insistere nel cercarlo.”
“Devo andare io”, disse Claudine rimarcando la parola devo. “Mi serve che tu stia qui con i ragazzi, mi fido solo di te. Devo andare a cercare Jason, ora”, disse guardando l’orologio. Erano da poco ate le otto di sera e Joshua già dormiva. “Ti prego stai tu con Kelly, d’accordo.”
“Non ti preoccupare, ora vai.”
Claudine uscì e mise in moto la sua vecchia Mini. Sapeva solo che doveva fare di nuovo il giro di tutti gli ospedali, degli ambulatori e avrebbe dovuto farlo da sola, come nei giorni precedenti. Per un attimo si sentì di nuovo fragile, ma poi il pensiero di ritrovare suo marito vivo le diede speranza.
Si diresse verso New York City. Scese verso la città, con il cuore in tumulto, l’anima in subbuglio. Posteggiò nella parte alta di Central Park East e incominciò a scendere verso sud. Grazie alla sua professione conosceva tutti gli ospedali a memoria. Era brava Claudine ed era molto stimata nell’ambiente medico anche se esercitava la professione privatamente.
ò da un ospedale all’altro, da un ambulatorio all’altro, facendo sempre le stese domande, mostrando sempre la stessa foto agli addetti alla reception, mentre la notte lasciò il posto all’alba e poi al mattino. In un caso, un’infermiera le aveva detto che c’era una persona molto somigliante a quella della foto ricoverata lì, Claudine si era tuffata dietro l’infermiera camminando con o veloce, salvo poi rimanere delusa quando vide l’uomo sul letto. Non era Jason, anche se in effetti la somiglianza era notevole.
Poi arrivò al Presbyterian Hospital, mostrò la foto alla capo infermiera che scosse il capo, anche se la foto non le sembrava nuova, le sembrava di aver già visto quella persona ma non riusciva a inquadrarla. Vedeva troppe persone ed era sfinita.
Claudine fece per uscire dall’ospedale nel momento in cui Pamela, che teneva per mano Thomas, entrava con Anna.
“Pamela come mai sei qui?”, le chiese Claudine.
“Ciao Claudine, ti presento Anna Yrons.”
“Piacere, Claudine Davis.”
Anna rimase ferma sul posto mentre le mani cominciarono a sudarle.
“È la moglie di Jason Davis?”, chiese Anna intuendo la risposta.
“Sì, sono io”, rispose Claudine guardando Anna con benevolenza. Sapeva chi si trovava davanti e sapeva che era un momento delicato, non doveva urtare la sensibilità di Anna, non in quel momento.
Anna scrutò Claudine come se le stesse facendo una radiografia e un improvviso silenzio calò sulle tre donne, mentre Thomas teneva la mano della mamma.
“Piacere di conoscerla”, rispose alla fine Anna gelida.
“E questo bel bambino chi è?”, chiese Claudine cercando di mettere un po’ di allegria nella conversazione, anche se dentro si sentiva a pezzi.
“È mio figlio Thomas”, disse Anna stringendolo a sé, come se avesse paura che suo figlio le venisse portato via da un momento all’altro.
“Pamela non mi hai ancora detto come mai sei qui”, chiese Claudine.
“È per la sorella di Anna, è ricoverata in questo ospedale ed è in coma. Però è in condizioni stabili.”
“Mio dio, mi dispiace. Vorrei andarla a trovare, l’ho conosciuta l’anno scorso a una cena a casa nostra e l’ho trovata una ragazza deliziosa. Si può?”, chiese Claudine tacendo che sapeva che Sally era figlia di Jason. Anna si irrigidì all’istante, non voleva che quella donna entrasse nella sua vita come aveva fatto il marito, come Jason. Entrare per poi scomparire.
“Non so, forse solo qualche minuto, non dobbiamo affaticarla troppo”, rispose alla fine Anna venendo incontro alla richiesta di Claudine e contemporaneamente strinse ancora più forte la mano di Thomas.
“Ahia mi fai male”, disse il piccolo.
“Oh scusa tesoro.”
Claudine notò il gesto di protezione verso Thomas, notò la riluttanza di Anna e pensò che forse non era il caso di entrare così nella sua vita privata, ma ormai era fatta e le tre donne con Thomas varcarono la soglia dell’ospedale dirigendosi verso la stanza di Sally.
Entrarono nella stanza, Anna trovò la sorella nella stessa identica posizione in cui l’aveva lasciata poco prima.
“Spero si svegli presto”, disse Anna prendendo la mano di Sally e portandosela al viso.
Claudine aveva già incontrato Sally un anno prima, ma allora non sapeva la verità, non sapeva che lei era la figlia di Jason e rimase impietrita. Le guardò bene il viso, le studiò i lineamenti. La linea della bocca, il naso, il mento leggermente squadrato. La somiglianza era notevole e non si capacitò di come non l’avesse colta l’anno prima a cena, lei che osservava sempre tutto si era forse inconsciamente rifiutata di notare quei dettagli che ora le risultavano evidenti.
Claudine prese da parte Anna e le disse: “Vorrei scambiare due parole con te, se è possibile.”
“Per cosa?”
“È una cosa importante”, le disse Claudine appoggiando lievemente la mano sul braccio di Anna che si sentì attraversare da un brivido di freddo.
Lo sa, pensò Anna.
“Temo che non ci sia più molto da dire”, disse Anna abbassando le sguardo e ponendo Thomas tra lei e Claudine, come a farle da scudo.
“Non te lo chiederei, se non fosse così importante, Anna.”
Anna rimase in silenzio per qualche istante ma alla fine acconsentì.
“Pamela puoi tenermi un attimo Thomas? Claudine e io usciamo in corridoio.”
Thomas corse dalla zia acquisita e con lo slancio tipico dei bambini poco ci mancò che la fe ruzzolare per terra.
“Ehy campione”, disse Pamela ridendo mentre le due donne uscivano dalla
stanza nel corridoio.
“Sono anch’io in giro per ospedali, per Jason. Non si trova da nessuna parte e sono giorni che non abbiamo più notizie di lui”, esordì Claudine. “Vedi, mi ha confidato che Sally è sua figlia, vostra figlia. Come puoi immaginare, sul momento sono rimasta molto colpita, non me lo aspettavo. Jason e io ci raccontiamo tutto, non avrei mai immaginato che avesse un’altra figlia. Ma del resto nemmeno lui lo sapeva, anche se forse l’ha sempre intuito.”
Anna annuì, ripensò alla sua giovinezza, a quegli attimi di amore che avevano generato una figlia così splendida.
“Hai detto che Jason non si trova da nessuna parte, magari è ricoverato in qualche ospedale come Sally, anche noi l’abbiamo trovata per caso”, disse Anna appoggiando il braccio su quello di Claudine, stabilendo un contatto per la prima volta.
“Sì, è possibile”, rispose Claudine cercando di farsi forza. “Vedi, quando Jason mi ha detto di avere una figlia, io gli ho consigliato di farla includere immediatamente nel testamento. Fa parte della famiglia, noi siamo una famiglia, Anna. Non voglio invadere il tuo spazio, non voglio rovinare le vostre esistenze, ma ci tenevo che tu sapessi questo.”
“Non so cosa dire, oddio sono così confusa.”
“Non c’è nulla da dire, cara Anna. Nulla.”
Anna cedette di colpo, le difese che aveva eretto si infransero di fronte alla bontà e alla dolcezza di Claudine e a quello che le aveva appena detto.
“In fondo al cuore non ho mai smesso di amare Jason, è stato il primo amore della mia vita e ogni giorno c’è Sally a ricordarmelo.”
“Lo so”, disse Claudine semplicemente.
“Ti prego tienimi informata su Jason, ti lascio il mio numero di cellulare. Avvisami non appena lo trovi, d’accordo?”
“Certo lo farò, sarai la prima che chiamerò”, disse Claudine mentre Anna scriveva velocemente su un biglietto il suo numero di telefono porgendoglielo.
Alla fine le due donne si strinsero in un abbraccio e Claudine evitò con cura di dirle una delle verità che aveva scoperto in quei giorni.
Non era ancora il momento giusto.
Montclair, 16 settembre 2001
86
Saltò in piedi e aumentò il volume al massimo, chiamando contemporaneamente a squarciagola Alain che arrivò di corsa.
“Cosa succede?”, gridò per sovrastare le urla di Jason e il volume della TV.
Jason indicò la TV.
“Questa mattina è stato rinvenuto il corpo di Claudine Mayer, figlia del Premio Nobel per la Fisica Alain Mayer e moglie di Jason Davis, il celebre avvocato che nell’agosto di quest’anno ha vinto la causa contro note case produttrici di pneumatici. Il corpo è stato rinvenuto dai pompieri impegnati a Ground Zero, impegnati dalla mattina dell’11 settembre a cercare eventuali sopravvissuti. Dalle prime indiscrezioni, sembrerebbe che Claudine Mayer abbia resistito per qualche giorno e di conseguenza la morte dovrebbe essere sopraggiunta per le ferite riportate nel crollo delle Torri.”
Alain si lasciò cadere sul divano, Jason si prese la testa tra le mani, sedendosi affianco al suocero.
Rimasero così con Alain al fianco e la figlia in piedi immobile, alle loro spalle. Aveva sentito tutto, ed era rimasta esclusa dal dolore dei suoi cari.
“Papà”, esclamò la figlia correndo verso di lui, e abbracciandolo, Jason la strinse
forte.
Qualche ora più tardi, Jason chiamò Michael Carson. Si sentiva debole e confuso.
Jason tornò dai suoi figli, prese in braccio il piccolo, diede la mano a Kelly e salirono verso le camere da letto.
Jason rimase interdetto quando vide così tante porte, sembrava aver perso l’orientamento.
“Papà?”, chiese Kelly appoggiandosi sul fianco di Jason e stringendogli forte la mano.
“Non ricordo...”
Kelly aprì una porta e accese la luce. Rimase sulla soglia della porta, in attesa.
“Ha mangiato?”, chiese Jason alla tata che gli era affianco.
“Sì, avvocato, e credo si sia già addormentato. Se vuole lo metto a letto.”
“Grazie ci penso io”, rispose Jason entrando nella stanza di Joshua e rimanendo
sorpreso dall’atmosfera così piena di amore. Carta da parati di color pastello, peluche disposti un po’ ordinatamente e un po’ a casaccio, la pista di un trenino elettrico, le morbide luci.
Jason posò il figlio sul letto, lo svestì e gli infilò il pigiama mentre Kelly non lo mollava per un attimo, tenendolo stretto, adesso per una mano, ora attaccata alla sua spalla.
Gli ò un peluche. “Si chiama Gilly, è il suo preferito”, disse sottovoce.
Jason non ricordava minimamente quel dettaglio. Gli mise il peluche sotto le lenzuola. Gli accarezzò i capelli e gli diede un bacio sulla fronte, rimboccandogli un poco le coperte. Poi padre e figlia uscirono, lasciando accese le luci soffuse e socchiudendo la porta.
“Tu hai mangiato?”, le chiese.
“Sì papà, ma non voglio andare a dormire. Voglio stare con te” rispose Kelly sedendosi sul divano e dando un colpetto al sofà, indicando al padre dove voleva che si sedesse.
Kelly immediatamente appoggiò la testa sul petto del padre guardandolo negli occhi, si distese e si addormentò.
Jason rimase lì sul divano, ad ascoltare la pendola che batteva i quindici minuti, le mezz’ore, le ore. Lasciò che il tempo asse, chiuse gli occhi e il dolore
assalì anche lui, come una lama che gli trafisse il cuore. Non si oppose, non fece nulla per fermarlo, non pensò ad altro. Se non a un giorno lontano in cui si erano conosciuti.
E che non riusciva a ricordare.
“Come ti senti, Jason?”, chiese Michael appena arrivato.
“Non bene. Ci sono molte cose che non ricordo.”
“Cosa?”
“La casa. Non me la ricordo. O meglio, so che è casa mia. Mi ricordo qualche dettaglio. Il gazebo e il prato, il vialetto. Ma non mi ricordo il resto.”
“Credo che sia normale. Forse non ricordi l’interno della casa perché qui hai troppi ricordi. Riaffioreranno, uno per volta. Cosa vedi quando chiudi gli occhi?”
“Claudine.”
“Solo lei?”
“Sì, e c’è solo il suo viso. Ma è strano. È come se lo vedessi da lontano. Non
riesco a ricordare i dettagli, il suo profumo ad esempio”, disse Jason riprendendo in mano la scatola ed estraendo uno dei sigari. Lo guardò come se fosse la prima volta, poi prese un accendino per accenderlo.
“Devi tagliare l’estremità”, disse Michael osservandolo attentamente.
Jason lo guardò con aria interrogativa, lo psichiatra prese uno dei sigari e la lametta, tranciò di netto una delle estremità e poi porse il sigaro a Jason.
“Così è più buono, disse Michael facendogli l’occhiolino. “È tardi ora, devi riposare” disse ponendo sul tavolino un piccolo flacone in vetro. “Venti gocce prima di dormire, ok?”
“Ok”, rispose Jason con la testa vuota, già lontano da lì.
Michael intercettò il suo sguardo. “Domani nel pomeriggio vengo a visitarti, ti va bene?”
“Va bene, Michael. C’è una cosa che non capisco.”
“Cosa?”
“Sono sicuro di averti già visto, ma non mi ricordo quando.”
Michael sorrise e si alzò in piedi. “Non ti preoccupare, tutto andrà per il meglio.”
Tutto andrà per il meglio, disse tra sé Jason alzandosi a sua volta per accompagnare Michael pensando che nulla sarebbe più stato come prima.
New York, Brooklyn, cimitero di Greenwood 16 settembre 2001
87
Erano ati solo cinque giorni. Il tempo si era dilatato, scorrendo con una lentezza esasperante. New York si era fermata, del tutto.
Le foto dei parenti, degli amici, dei conoscenti e dei figli e dei padri e delle madri scomparsi in un lampo di fine estate, avevano affollato ogni angolo di Union Square.
Quel lampo e quel fuoco, la polvere e il calore e il puzzo insopportabile che si levava senza sosta da Ground Zero, giorno e notte, aveva pervaso ogni angolo della città, ogni casa e ogni ufficio.
La campana risuonò nell’aria, i tocchi gentili segnavano uno degli innumerevoli funerali che si sarebbero tenuti. Nessuno sapeva il numero preciso.
Aspettavano lì, in piedi, di fronte al portale gotico. Stretti nei loro abiti neri, il Governatore di New York George Pataki e il sindaco Rudolph Giuliani erano uno affianco all’altro, rigidi sull’attenti, mentre la bara in legno di mogano scuro, sormontata da una discreta corona di gelsomini, sfilava davanti a loro sorretta da quattro uomini.
La folla entrò nell’ampia chiesa, le autorità sedettero nelle prime file a sinistra. I familiari, gli amici più cari, i parenti, si stringevano uno affianco all’altro, nelle file di destra.
Si levò la sonata di Beethoven, una melodia flebile e delicata, quasi una carezza indirizzata a ciascuna delle persone presenti in chiesa, e alle tante altre che non avevano trovato posto.
E poi la melodia cessò.
Loro erano lì, tutti. O quasi.
Pamela con il socio anziano Markus Baker. Stern Reynolds e Michael Carson, lo psichiatra delle star di New York City. E poi c’erano i dipendenti e gli associati dello Studio Davis Baker & Reynolds, austeri nei loro abiti scuri. Qualcuno si teneva per mano, altri pregavano sommessamente.
Si levò la voce del Cardinale di New York.
Si alternarono al leggio alcuni lettori, alcuni testimoni che raccontarono. Qualcuno dovette interrompere la lettura. Il sindaco Giuliani si fermò un istante quando si rivolse direttamente alla bara, quando pronunciò il suo nome a voce alta. Quel nome che rimbombò nelle alte navate gotiche della chiesa, che rimbalzò all’esterno penetrando nelle orecchie delle migliaia di presenti, che percorse ogni vialetto del cimitero e accarezzò statue di bambini piangenti e puttini addolorati, increspando la superficie dei laghetti come un’onda invisibile. Per poi salire levandosi al cielo attraversando uno squarcio che si era aperto tra le nuvole in cui si intravedeva l’azzurro dell’infinito e verso il quale quel nome era indirizzato, mentre la bara veniva traslata e tumulata. Mentre le lacrime scorrevano finalmente libere, e il dolore avvolgeva come una cappa tutti i presenti, rendendoli una cosa sola.
Montclair, 18 settembre 2001
88
“Sono contento di rivederti.”
“Anch’io, Stern.”
Jason annuì. Erano seduti sotto il gazebo, al riparo dall’umidità.
Fece are lo sguardo sulle ninfee che Claudine aveva collocato.
Jason ava la gran parte delle sue giornate sotto quel gazebo, guardando i pesci di vari colori affiorare alla superfici per prendere il cibo.
Si era allontanato. Con il corpo. Con la mente. Con l’anima.
“Come stai, Stern?”
“Potrei chiederti la stessa cosa, Jason.”
Sui due amici scese un silenzio innaturale, come una densa foschia che calando sulle montagne le cela alla vista.
“Sopravvivo”, disse Jason con una voce che gli sembrò provenire da un’altra parte di se stesso, la sentì arrivare da lontano e poi svanire nel nulla.
“Ricordi le nostre bevute quando ci siamo conosciuti? Quante sere abbiamo ato a bere discutendo di ideali, di cose che non andavano e che dovevano essere modificate. Delle ingiustizie, dei soprusi. Quello su cui abbiamo costruito la nostra vita, battendoci per i più deboli.”
“È un ato lontano, Stern. È un ato che non ritornerà più.”
“È vero, Jason. È un ato che non tornerà, ma possiamo ancora costruire qualcosa per il nostro futuro.”
Jason lo guardò, gli sorrise e poi scoppiò in una specie di risata isterica per nascondere il suo immenso dolore.
Quella sensazione di nulla e di vuoto.
Quel dolore nel petto.
Continuo.
Martellante.
Quel dolore che iniziava nel momento in cui si svegliava e che finiva nel momento in cui si addormentava, grazie ai sedativi che gli aveva prescritto l’amico Michael.
“Stai bene?”, chiese Stern preoccupato vedendo la maschera di sofferenza dell’amico.
“Sì”, rispose semplicemente Jason.
Prese un sigaro dalla tasca interna della giacca. Non si curò di annusarlo. Non era stato nel deumidificatore. Non era stato scelto.
Coi denti strappò un’estremità, la sputò per terra e lo accese. Si lasciò andare sulla poltrona. Poi prese il portacenere, spense il sigaro disgustato.
Frugò nelle tasche della giacca, estraendo una piccola sigaretta fatta a mano. Un nero pakistano.
L’accese con gusto e finalmente poté lasciarsi andare.
Stern percepì subito l’odore, così familiare, così noto nella sua giovinezza.
Così estraneo nella vita di loro, adulti. Anche se è proprio quando la gioventù
finisce, che si può finalmente tornare ad assaporare i momenti lievi dell’infanzia.
“Da quanto tempo fumi quella roba?”
“Non ho mai smesso, Stern. È stato il mio piccolo segreto. Ogni tanto, alla sera tardi, quando ero in Studio, mi accendevo una sigaretta come questa. Era il premio della giornata, un tuffo nel ato, un momento per staccare la spina, per non pensare. Per cadere nell’oblio.”
“Ora piantala Jason.”
Jason lo guardò con occhi assenti, oscurati dalla droga che lentamente si stava impadronendo del suo corpo, delle sue cellule nervose. Dei sensi, che lentamente si acquietavano.
Del dolore, che lentamente diminuiva.
“Devi tornare in ufficio, amico mio.”
“A fare cosa? Devo occupare il mio spazio perché nessuno prenda il mio posto, o perché Markus non approfitti della mia assenza e faccia buttare giù le pareti per allargare il suo di ufficio?”
“Non è questo il punto e lo sai.”
“E allora qual è il punto, Stern?”
“Il punto è quella sottile linea che a tra il vivere e morire. Il punto è quella linea che ti permette di andare avanti, riguadagnando un maledetto centimetro ogni giorno, oppure soccombere. Il punto è non mollare, mai. Per nessun motivo.”
Jason si agitò a disagio sulla poltrona. Ricacciò indietro il suo dolore, lo spinse giù in fondo, dove si annidavano tutti gli altri dolori della sua vita.
Jason prese il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans, estrasse alcune foto.
“Le vuoi vedere?”
“Sì.”
Jason ò le fotografie al suo amico, le sfogliò una a una. Scene di vita familiare, i bambini piccoli che crescevano una fotografia dopo l’altra. Claudine sorridente con i suoi bambini, con Jason in mezzo a loro. In mezzo. Come se anche lui fosse ancora un bambino da proteggere.
Poi Stern si bloccò su una foto.
“Cos’è questa?”
“Prova a indovinare”, disse Jason con un sorriso storto, biascicando leggermente le parole, ottenebrate dal feroce pakistano.
“Sei tu.”
“Sì, amico mio. Sono proprio io.”
“Ma... com’è possibile?”
“È possibile quando hai avuto un patrigno che ti picchiava dal mattino alla sera. Quando hai avuto un patrigno che ha ammazzato tua madre davanti ai tuoi occhi. È possibile quando hai avuto un fratellastro che ti ha accoltellato e che ti ha ridotto in fin di vita.”
“Oh mio Dio, Jason.”
“Dio non c’entra, Stern. Lascialo al suo posto. Dio non esiste.”
Stern rimase in silenzio guardando l’amico che si era allungato ancora di più nella poltrona di vimini, che era sprofondato ancora di più in se stesso.
Stern si alzò, si accovacciò al fianco di Jason.
“Ascolta, io non so cosa ti sia successo. Non me lo hai mai raccontato. Ma qualunque cosa sia, possiamo uscirne assieme.”
Jason girò la testa, poi un lampo di malinconia ò nei suoi occhi e in un attimo il dolore gli esplose nuovamente nel petto. Tirò lungamente dal pakistano, pregando che la droga lo calmasse. Pregando un Dio che non era mai stato nella sua vita. Che gli aveva voltato le spalle.
“Lo sapeva una sola persona, Stern. Solo Claudine sapeva tutto.”
Stern chinò la testa, appoggiò una mano sulla spalla di Jason.
“Ora lei non c’è più”, disse Jason.
“Lo so.”
“Ora sono solo, amico mio.”
“Non lo sei.”
“Sì che lo sono”, gridò a un tratto Jason, un grido acuto amplificato da una
sofferenza implacabile.
Stern si ritrasse immediatamente, non aveva mai sentito gridare Jason. Non lo aveva mai visto così. Semplicemente, non lo conosceva affatto. Non come pensava di conoscerlo, almeno.
“Ci sono Kelly e Joshua. Ci sono io. C’è Pamela. Ci sono i dipendenti dello Studio che tu hai creato. Tu lo hai fatto. E ora tu non puoi mollare!”, gridò a sua volta Stern alzandosi in piedi e puntando il dito contro Jason.
“Tu non puoi mollare, è chiaro?”, gridò ancora Stern, livido di rabbia.
Jason sbatté gli occhi, si riscosse un secondo, uno solo.
In quel secondo arono davanti ai suoi occhi tutte le volte che non aveva mai mollato.
Tutte le volte che aveva combattuto.
Tutte le volte che era morto dentro, per poi risorgere.
“Io ho già mollato. Vattene Stern, lasciami in pace. Non voglio più vederti.”
Stern fece due i indietro, si voltò per andarsene.
Poi si girò su se stesso.
“Io ho un tumore e sono ancora vivo. Mi avevano dato otto mesi di vita, a essere fortunato. Eppure sono ancora qui”, gridò Stern puntando un dito contro Jason.
“Tu non puoi permetterti di lasciarti andare. Ma guardati. Sei lì come un diciottenne a farti le canne. Tu.
Tu che sei andato sulla copertina del Time. Tu che hai fondato uno Studio che è uno dei più importanti al mondo. Tu, a cui si rivolgono migliaia di disperati per ottenere giustizia. Tu, che vai in Tribunale e con le tue arringhe metti in ginocchio la difesa. Tu che incanti le giurie. Tu che, nonostante tutto, sei un vincente.
Tu, Jason. Questo sei tu, e lo sei ora. E vuoi che ti dica una cosa? È proprio il tuo ato di merda che ti ha fatto diventare quello che sei ora. Se tu non avessi dovuto lottare per conquistarti ogni maledetto centimetro, tu ora non saresti qui. Non avresti ottenuto risarcimenti per miliardi di dollari. Non avresti messo in ginocchio le aziende più importanti del mondo. Non avresti due figli splendidi che ti amano alla follia. Non avresti amici che ti adorano. Non avresti dipendenti che ti ammirano come fossi un dio. E tu ora vuoi buttare via tutto? Tu fallo e ti ammazzo con le mie stesse mani!”, urlò Stern in faccia a Jason, a un centimetro dal suo viso.
Jason chiuse gli occhi.
Lasciò che le lacrime salissero.
Lasciò che il dolore dilagasse.
Lo lasciò scorrere come una diga che si rompe.
Cominciò a singhiozzare, prima lentamente poi via via sempre più profondamente.
“Vieni con me”, disse Jason con la voce ridotta a un sussurro.
Stern seguì l’amico camminando sul ponticello, alcuni pesci fecero capolino, ma tornarono a immergersi nel buio del lago dopo che i due amici entrarono in casa.
Jason entrò nello studio sormontato dalla cupola in cristallo, premette un pulsante e una porta scorrevole si aprì in silenzio.
“Che cosa è tutto questo?”, disse Stern guardandosi in giro nella stanza grande come un campo da squash.
“È la seconda copia, amico mio.”
“Seconda copia”, ripeté Stern fissando attonito le decine di monitor, i pannelli di controllo, centinaia di pulsanti e un enorme monitor da 60 pollici posto al centro del muro.
“La seconda copia di cosa?”, ripeté Stern.
“Di una stanza che c’è nel mio ufficio”, disse Jason.
Stern rimase immobile.
Quella stanza assomigliava a una postazione di controllo per il lancio degli Shuttle.
Poi a un tratto il viso di Stern si oscurò.
Il suo sguardo ò in rassegna i monitor a decine. Tutti accesi. Ogni angolo della casa, e ogni angolo dell’ufficio in Liberty Street.
Si fissò su un monitor, in particolare. Era un documento word che si componeva, parole che venivano scritte e che apparivano magicamente.
Jason seguì lo sguardo di Stern.
“Un associato che sta scrivendo un memo”, disse Jason prendendo un sigaro e accendendolo.
Capì.
“Questo è il controllo, Jason. Vero?”
“Lo è”, disse lui sedendosi su una confortevole poltrona e invitando l’amico a sedersi di fianco a lui.
“È da qui che potevi sapere tutto.”
Jason annuì.
Per la prima volta nella sua vita si vergognava di quello che aveva fatto.
“Jason. Io non ci posso credere. Che cosa hai fatto?”
Jason rimase zitto, poi disse: “Ho controllato le vostre vite, Stern.”
“Tu cosa?”, disse Stern alzando la voce di un’ottava.
“Perdonami amico mio.”
“Hai intercettato tutto. Telefonate, e-mail, conversazioni private. Tutto.”
Jason annuì ancora.
“Perché lo hai fatto?”, chiese Stern incredulo.
“Non lo so. Quello che so, quello che avevo capito, è che dovevo sempre rimanere un o avanti a tutti, per poter avere davvero in mano la situazione.”
“Tu sei pazzo.”
Queste ultime tre parole. Gli rimbalzarono nella mente. Penetrarono dentro di lui. Rovistarono nel suo ato.
Quelle parole, le aveva analizzate centinaia di volte con Michael Carson.
Michael lo aveva assicurato.
“Non sei pazzo. Sei solo molto insicuro e spaventato.”
“Non hai mai creduto in noi, non ti sei mai fidato di noi”, disse Stern.
“No.”
Stern si lasciò scivolare sulla sedia, rimase zitto.
“Neanche di me, Jason? Neanche di me ti sei fidato?”
Jason aprì un cassetto, prese un telecomando. Schiacciò un tasto e il monitor da 60 pollici si accese. Apparve un lunghissimo elenco.
“Indica dove sono tutte le telecamere, indica tutti i computer, i fax, le stampanti che sono sotto il mio controllo. Cerca il tuo nome.”
Stern si alzò dalla sedia, si avvicinò all’enorme monitor.
Scorse tutti i nomi. Uno dopo l’altro. In ordine alfabetico. Le stanze della casa e dell’ufficio. I bagni delle donne.
Tutto, compreso l’ascensore privato di Jason in Liberty Street, a cui solo lui poteva accedere.
Compresa la terrazza schermata dai vetri della gabbia di Faraday. Come se Jason
volesse controllare anche se stesso.
Il suo nome non c’era. Stern era l’unica persona esente dal controllo.
Jason prese due bicchieri e una bottiglia di scotch assieme a una piccola busta marrone, uscirono sul giardino d’inverno.
Si sdraiarono sulle chaise longue.
“Nessuno si è mai sdraiato lì, Stern. Nessuno, tranne Claudine.”
Stern rimase zitto, commosso dalla fiducia che gli aveva dato Jason e sconvolto da ciò che aveva visto, dalla sua paranoia. Alla sua necessità di controllare qualunque cosa. Pensò a quante energie dovesse essere costato a Jason l’avere sempre tutto sotto controllo. Non solo la sua vita, non solo il naturale pensiero per i suoi figli. Non solo l’amore per sua moglie Claudine. Ma anche il controllo su più di duecento persone.
“Perché non me ne hai mai parlato, Jason? Avremmo potuto aiutarti di più, avrei potuto fare qualcosa.”
Jason guardò in cielo, sorseggiò lentamente il suo whisky.
“Non avresti potuto fare nulla, amico mio. Nessuno avrebbe potuto fare nulla. Anche Claudine ha avuto molte difficoltà a penetrare nella mia corazza, e ce l’ha
fatta. Credo sia stata l’unica persona al mondo con cui io abbia davvero parlato. Con cui sono entrato in intimità. Con cui sono stato in fusione. Con cui non avevo paura.”
“C’è un’ultima cosa che non ti ho detto”, continuò Jason.
Stern sospirò.
“Un uomo. Un ex militare della Legione Straniera. Ha lavorato per me per quasi quindici anni. Ed è intervenuto quando era necessario.
“Cosa intendi?”
Jason guardò l’amico.
“Ci sono cose che non è necessario che tu sappia.”
“Ha ammazzato qualcuno?”, chiese Stern.
Jason fissò a lungo il cielo nero sopra di lui, anche le stelle si erano oscurate e non mandavano più nessun bagliore.
“È meglio che tu non sappia”, disse alla fine.
Rimasero lì, in silenzio, per alcuni minuti.
Jason diede la busta marrone a Stern.
“Devi tenerla con te, custodiscila.”
“Cosa c’è dentro?”, chiese Stern prendendo la busta.
“Delle informazioni che riguardano noi.”
“Non vuoi dirmi cosa c’è dentro?”, chiese Stern.
“Ci sono cose che non devi sapere. Per il momento”, rispose Jason aspirando un’ultima boccata dal sigaro.
Accompagnò l’amico fino alla macchina, gli aprì la portiera.
“È tardi, domani dobbiamo lavorare.”
“Vuoi dire che verrai in ufficio?”, chiese Stern.
“Sì”, rispose Jason.
Stern lo fissò.
Guardò la lettera che stringeva ancora nelle mani.
“Cosa devo fare di questa?”
“Chiudila in cassaforte, a casa tua. E conservala.”
Alcuni grilli frinivano nell’erba. Le rose mandavano il loro profumo. L’erba il suo effluvio. I sensi attutiti. Attenuati. Addormentati.
Stern salì in auto, allacciò la cintura e chiuse la portiera.
Poi abbassò il finestrino.
“A domani?”, gli chiese.
“A domani”, disse Jason.
Lui rimase lì, solo nel buio della notte, guardando i fanali rossi dell’auto di Stern che si allontanavano sul vialetto.
Premette un tasto sul telecomando, il cancello si aprì e poi si richiuse.
Il silenzio. Innaturale. Scomposto.
Perfetto.
Il suo cuore che batteva, lo poteva sentire. Un battito dietro l’altro.
Chiuse gli occhi e guardò dentro di sé. Gli si spalancò l’abisso.
Cadde.
Entrò nella stanza di Kelly, fece qualche o verso di lei. Dormiva profondamente, con i lunghi capelli sparsi sul cuscino.
La accarezzò.
Entrò nella stanza di Joshua, il bambino sbatteva leggermente gli occhi.
Stava sognando.
Si chinò verso di lui. Gli diede un bacio.
Tornò in camera sua, riaprì la stanza, la copia numero due. Guardò tutti i monitor, tutti accesi.
Come aveva potuto? si chiese.
Schiacciò un tasto sul telecomando, sul monitor apparve la copia della lettera che aveva appena dato a Stern.
Poi aprì un cassetto.
Estrasse un oggetto di metallo. Pesante. Molto pesante.
Cominciò a respirare forte, a sentire la paura.
Guardò il monitor, lesse a bassa voce il testo. Il suo desiderio che i suoi figli fossero adottati da Stern. Che lo Studio asse completamente nella sua gestione. Che il suo progetto immobiliare fosse continuato dal suo migliore amico.
Lesse il post scriptum.
Quella preghiera, muta e silenziosa che così spesso aveva detto dentro di sé.
Angelo di Dio che sei il mio custode, illumina custodisci, reggi e governa me.
Spense tutti i monitor con una sola pressione di un tasto.
Poi si portò alla tempia l’oggetto di metallo.
Un fulmine illuminò la stanza buia.
New York, ospedale Presbyterian 16 settembre 2001
89
Un bip. Qualcosa si mosse sul fondo, nel buio più oscuro. Nella palude più nera.
Il tracciato sul monitor registrò un picco, poi sprofondò di nuovo. In basso, sempre più in basso.
“Allora che cosa facciamo oggi tu e io?”
“Dunque. Uhm.”
Thomas rimase pensoso per un po’ guardando per aria, poi guardandosi le scarpe. Pamela gli sorrise, era un po’ nervosa, non aveva mai ato così tante giornate con un bambino, almeno non nell’età adulta.
“Ho un’ideona!”, esclamò Thomas con gli occhi che si sgranarono.
Percepì qualcosa, un movimento. Ma fu solo un guizzo, che si disperse. Il tracciato sul monitor registrò un picco, poi sprofondò di nuovo.
“Sono tutta orecchi”, disse Pamela.
“Allora, prima andiamo al Nike Store a comprare una maglietta dei New York Yankees.”
“Va bene. Lo cerchiamo in Internet perché io non so dove si trovi.”
Un dito si mosse, solo uno spasmo pensò il giovane medico scuotendo la testa. Temeva che non si sarebbe mai ripresa.
Uscì dalla porta richiudendola dietro di sé e si diresse verso altri pazienti.
Lei si sentì trainata verso l’alto da una forza misteriosa a cui non si poteva opporre. Si lasciò trasportare cullandosi in questo limbo.
“Eccolo, trovato”, esclamò Pamela.
All’improvviso l’elettroencefalogramma lanciò una serie continua di allarmi acustici, il medico si bloccò un istante e si voltò di scatto tornando nella stanza. Il tracciato impazzì, facendo registrare una continua serie di picchi.
Lei vide delle nuvole, prima scure come quelle di un temporale, poi più chiare, quasi traslucide. ò attraverso e continuò a salire, finché vide il cielo azzurro.
Il cellulare di Pamela le vibrò in tasca, mentre con Thomas stava entrando nel Nike Store sulla Quinta Avenue. Rispose, pochi secondi dopo afferrò il bambino per il braccio e lo trascinò con sé verso un taxi.
Erano tutti intorno al letto, Anna le teneva una mano mentre Thomas le accarezzava la fronte. Pamela era un po’ più discosta, affianco al giovane medico.
“Dove sono?”, chiese con un filo di voce.
“Sei in ospedale. Hai dormito un po’.”
Sally ruotò gli occhi guardando intorno a sé, si sentiva talmente stanca da avere voglia di tornare in quel confortante abbraccio così scuro. Girò la testa verso la finestra, da cui entrava una lama di luce. Vide due persone che non riconobbe. Avvertì su di sé una carezza morbida e guardò Thomas con occhi distanti.
“Chi siete?”
Anna rimase interdetta, il medico si avvicinò prontamente al letto, estrasse dal taschino una lampada e controllò le pupille della paziente.
“In che mese siamo?”, chiese il medico a Sally.
Lei rimase zitta continuando a guardare stupita le persone che aveva intorno.
“Chi sono io?”, disse poi rivolta verso il nulla.
Si guardò in giro, nella stanza in cui era stata trasferita dopo aver lasciato la rianimazione. Un televisore fissato al muro, una finestra da cui entravano alcuni raggi di sole, un armadietto.
Chiuse gli occhi per un istante.
In un lampo aveva recuperato la memoria, si era ricordata tutto.
“Come stai oggi? Mi ha detto il medico che tra poco sarai dimessa. Sally?”, disse Anna dolcemente.
Lei continuò a rimanere in silenzio.
Il giovane medico la visitò per l’ultima volta, controllò i riflessi del suo corpo, la reazione delle pupille alla luce. La fece camminare, la fece parlare.
Lei obbedì, senza sorridere. Qualcosa di lei era rimasto nell’abisso.
New York, ospedale Presbyterian 19 settembre 2001
90
Poche ore prima di essere dimessa, arrivò in ospedale una coppia. Si registrarono alla reception e chiesero di vedere Sally, l’impiegata disse loro che erano arrivati appena in tempo, le dimissioni dall’ospedale sarebbero avvenute un’ora dopo circa.
La coppia salì in ascensore. Uscirono all’ottavo piano e andarono direttamente dalla capo infermiera.
“La penultima porta a destra in fondo al corridoio, stanza 829.”
“Grazie”, rispose l’uomo stringendo la mano della donna al suo fianco e portandola con sé.
L’uomo si fermò davanti alla porta, sentì un leggero bisbiglio, l’odore asettico degli ospedali. Bussò.
“Avanti”, disse una voce dall’interno della camera.
La coppia entrò e la donna guardò Stern senza dare prova di riconoscerlo. Sally dormiva o forse sonnecchiava.
“Come sta Sally?”, chiese Claudine.
“Sta bene, tra poco la dimettono.”
“Sono felice di sentirlo”, disse Claudine. “Anna, questo è Stern Reynolds, l’amico più caro di Jason.”
“Sally mi ha parlato spesso di lui”, disse Anna.
“Sally è stata indispensabile nel progetto di Brooklyn”, disse Stern.
“Avrei bisogno di parlarti da sola in privato, se non ti dispiace”, disse Claudine rivolta ad Anna.
Si chio alle spalle la porta.
“Cosa succede?”, chiese Anna.
“C’è una cosa che sono venuta a dirti a nome di Jason, lui mi aveva raccontato tutto e vorrei che ora anche tu sapessi la verità. La verità finale l’ho appresa dalla TV.”
“Ti ascolto.”
“Jason aveva un fratello, Frank”
“Lo so”, disse Anna secca.
Ricordò l’ospedale, il campo di margherite. Poi l’immagine scattò all’indietro di qualche fotogramma, rivide l’uomo steso a terra nel suo sangue.
“Jason doveva lasciare che lo denunciassi.”
“Ti avrebbero fatta a pezzi in Tribunale”, disse Claudine avvicinandosi a lei.
“Che ne è stato di Frank?”, chiese Anna con la voce che tremava.
“Frank non è più un problema. È morto assieme al padre Anthony, erano a bordo di uno dei quattro aerei dirottati. Quello diretto sul Pentagono. È finita, Anna.”
Anna rimase zitta e si sentì sollevata, un altro pezzo del ato era andato a posto.
Rientrarono nella stanza di Sally qualche minuto più tardi.
Dopo qualche minuto, Sally con i suoi occhi blu profondi come il mare guardò prima Stern, poi Anna e infine Claudine. Si era svegliata, era pronta per tornare a casa.
“Ho fatto un sogno”, disse Sally. “Un sogno lunghissimo, dove io ero Jason. Sono finita in prigione e non ricordavo più dove abitavo, né qual’era casa mia. Non riconoscevo più nessuno e mi sono vista nel letto di un ospedale. Ricordo degli attacchi di panico tremendi, ho persino sognato di togliermi la vita, perché nel mio sogno anche Claudine era morta. Ho incontrato persone della vita di Jason, la sua famiglia e i figli. Stern. Anche un ispettore se non ricordo male. È stato un sogno che mi sembra sia durato giorni. Ed è stato come se...”, disse Sally fermandosi e guardando nel vuoto.
“Come se cosa?”, chiese Claudine con dolcezza.
“Come se quei giorni non fossero mai esistiti”, rispose Sally triste. “Ma dov’è Jason ora?”
New York, Brooklyn, cimitero di Greenwood 16 settembre 2001
91
“Siete così tanti oggi. Siete tutti qui per lui, per il nostro amico, padre e collega. Sarebbe felice di vedervi tutti assieme e sicuramente lo è”, disse Stern.
Si fermò per un istante, aveva parlato spesso in pubblico, ma ora si sentiva impaurito, intimidito. Davanti a lui c’erano almeno cinquecento persone e duemila fuori dalla chiesa ascoltavano le sue parole.
“Ho conosciuto Jason molti anni fa, quando eravamo giovani, quando pensavamo di avere tutta la vita davanti. Quando pensavamo di poter davvero cambiare le cose e rendere il mondo un posto più sicuro, più felice. In parte, ci siamo riusciti anche se la strada è ancora molto lunga. Ci siamo incontrati per caso nel bar dove lui lavorava per mantenersi agli studi. Aveva abbandonato la famiglia, quel luogo sicuro per molti ma che per lui era stata una prigione, un luogo di sofferenza.”
La folla guardò Stern con occhi attenti, il silenzio era pressoché totale.
“Ci siamo ritrovati altre volte, sempre in quel bar. Spesso, quasi sempre, a discutere di ideali, della Giustizia, dei diritti dei poveri e degli indifesi che troppo spesso venivano calpestati in nome del profitto e del potere delle multinazionali. È da lì che è partito tutto, da quei discorsi, forse un po’ campati per aria, ma che disegnavano nettamente le nostre personalità. Abbiamo fondato lo Studio che presto si è affermato e che negli ultimi anni è diventato un punto di riferimento, un faro, permettetemi l’espressione. In tutti questi anni Jason è stato tutto per me, molto più di un collega. È stato un amico vero, sincero, sempre pronto a sostenere una battaglia, sempre pronto a dare una parola di conforto.
Vedete, un’idealista come me spesso si scontra con la realtà, ne esce scornato, picchiato, deluso. Eppure Jason era sempre lì a sostenermi, a infondermi coraggio e linfa vitale, a non lasciare che mollassi. È grazie a lui se il mio idealismo ha potuto crescere in ambienti ostili, rimanendo vivo, una costante nella mia vita. Spesso mi sono trovato a dover combattere contro i mulini a vento, ma anche in quel caso Jason era presente, magari riportandomi un po’ alla realtà, a guardare le cose nella giusta prospettiva.”
Stern fece una pausa, mentre i presenti al funerale avevano ascoltato con attenzione le sue parole e, quelli che conoscevano meno Jason, avevano repentinamente cambiato idea su di lui, lo stavano vedendo per l’uomo che era stato. Non per la maschera che aveva indossato.
Stern notò il cambiamento di umore nella folla.
“Vedete, Jason aveva qualcosa in più rispetto agli altri. Molti di voi probabilmente lo hanno conosciuto per le sue capacità professionali, per la sua inavvicinabilità. Pochi sapevano che era una persona estremamente generosa e che aveva aiutato molte persone nella sua vita, tenendo per sé le cose migliori. Le teneva per i membri più stretti della sua famiglia, per gli amici veri, ma anche, come sentiremo dopo, per persone che erano parte del suo ato, della sua vita. Diversi anni fa ebbi un momento di profonda crisi, prima che conoscessi Tabytha e che nascesse il nostro adorato Nicholas. Soffrii di depressione, per fortuna lieve ma anche in quei momenti Jason mi rimase vicino, con la sua empatia era in grado di cogliere i più lievi mutamenti di umore nelle persone che gli stavano affianco. Mi aiutò a uscirne, mi tenne con sé e spesso fui ospite a casa sua, per una cena o un pranzo domenicale. Non mi ha mai lasciato solo. Jason non ha mai lasciato solo nessuno, nella sua vita.”
Alcune donne nelle prime file ora guardavano la bara di Jason con affetto, con amore. Mentre gli uomini si contenevano, con il groppo in gola, con l’emozione pronta a uscire, lacrime trattenute, dolore soffocato.
“Alcuni anni fa decidemmo di legare ancora di più i nostri destini e nel caso a me e a mia moglie fosse successo qualcosa, Jason e Claudine si sarebbero presi cura di Nicholas e lo avrebbero adottato. Lo stesso facemmo Tabytha e io per i figli di Jason. Fu un patto che segnò il culmine del nostro rapporto affettivo, della nostra profonda amicizia.”
Le persone presenti in chiesa si scambiarono uno sguardo, sicuramente non era questo il Jason che conoscevano, non era questa la facciata.
“L’anno scorso mi fu diagnosticato un tumore, molto grave. Mi sono sottoposto a molte cure mediche e in parte ho lasciato l’avvocatura dello Studio, anche qui Jason mi venne in aiuto affidandomi la gestione del progetto immobiliare di riqualificazione di un quartiere di Brooklyn di cui adesso si comincia a parlare. Un progetto a lungo termine, impegnativo e che avrebbe dovuto distrarmi dai miei problemi, dall’angoscia di avere un tumore. E anche qui Jason ebbe ragione, ho potuto curarmi e tra breve sarò operato, qualche speranza c’è”, disse Stern con la voce che per un momento si ruppe in gola.
Si fermò per un istante, portandosi una mano agli occhi per asciugare le lacrime.
Il suo migliore amico era morto e nessuno avrebbe potuto sostituirlo.
Epilogo
Brooklyn, 16 settembre 2006
Un telo bianco copriva una statua alta quasi due metri, collocata all’ingresso del nuovo quartiere residenziale di Brooklyn, voluto da Jason e realizzato con l’infaticabile lavoro di Stern e Sally.
Stern era sopravvissuto, aveva subito molte operazioni, ma alla fine aveva vinto la battaglia contro il cancro.
Parecchie centinaia di persone, che abitavano nel quartiere degradato dei tempi della giovinezza di Jason, ascoltavano le parole del sindaco, con gli sguardi rivolti verso la statua.
Finalmente il discorso finì e Sally fu chiamata a togliere il telo. Sciolse il nodo che lo teneva assieme e il telo bianco venne giù.
Sotto di esso, una statua di Jason che guardava il quartiere, di profilo.
E una targa: Ex tenebris vita.
“C’è qualche messaggio per me?”, chiese Sally entrando in ufficio un paio d’ore dopo la cerimonia e sedendosi alla scrivania di Jason. Aveva fatto molta strada e i soci, l’anno prima, l’avevano nominata Amministratore delegato dello Studio.
“No”, rispose Pamela. “Ma abbiamo delle cose di cui discutere”, disse lei aprendo un bloc notes e guardando Sally nei suoi profondi occhi azzurri.
Quando ebbero finito, Sally si alzò e si diresse verso la stanza segreta, digitò la frase sul tastierino alfanumerico e la porta si aprì.
Schiacciò un tasto e tutti i monitor presero vita.
Si accese una sigaretta abbandonandosi sull’ampia sedia in pelle, guardò i monitor uno a uno. Vide gli uffici e le scrivanie degli avvocati. Su un monitor si componevano delle parole. Su di un altro, veniva scritta una e-mail. Il più grande dei monitor indicava una lista infinita delle persone sotto controllo. Il controllo era di nuovo completo e solo una persona ne era esente.
Aspirò una profonda boccata dalla sigaretta e gettò la testa all’indietro soffiando il fumo nell’aria immobile.
Ringraziamenti
Questa è la pagina che preferisco maggiormente scrivere, perché significa che il libro che ho scritto è stato pubblicato.
Ci sono tante persone che hanno contribuito alla stesura di Quei giorni mai esistiti, li cito in ordine sparso.
Manuela La Ferla, preziosissima editor, la prima che ha creduto nel romanzo e che mi ha preso sotto la sua ala protettrice.
Riccardo Borri, la cui ineguagliabile fantasia e immaginazione hanno permesso la scrittura del romanzo. Senza di te, questo libro non sarebbe mai esistito.
John per avermi segnalato alcuni luoghi caratteristici di New York City e per aver dato un contributo fondamentale per la realizzazione della copertina di questo romanzo.
Nicoletta, per aver suggerito un titolo più corto e più incisivo rispetto a quello originale da me pensato.
Max, per le sue spiegazioni di carattere medico e le accurate descrizioni di una caccia al cervo.
I tanti lettori tester che leggendo e rileggendo le varie bozze hanno dato importanti suggerimenti, incorporati poi nella stesura finale: Paola, Adalgisa, Nicoletta, Lionello, Manuela, Matteo, Giovanna, Elena, Massimiliano, Umberto, Federica, Riccardo, Cristina, Maira, Rosanna e suo cugino di cui non ricordo il nome, Walter e Morena.
Grazie a mio nipote Nicolò, che in questo libro è presente in tutti i bambini di cui ho narrato, nelle fasi della loro crescita. Mi ha insegnato che è alla fine della gioventù che si può finalmente tornare a essere un po’ bambini. Spugna è davvero il suo peluche preferito (assieme a Leoncino) mentre Placido, ancora adesso, è più grande di lui.
goWare <e-book> team
goWare è una startup costituita da autori, editor, redattori e sviluppatori che condividono la visione sul futuro delle nuove tecnologie e la ione per l’editoria. Raccogliere, selezionare e organizzare i contenuti allo scopo di renderli a portata di touch è la sfida quotidiana di goWare come casa editrice digitale. Operativamente goWare è costituita da due team: goWare
team, che si occupa di concepire e sviluppare applicazioni per iPhone e iPad e goWare <e-book> team, specializzato in editoria digitale, creazione di ebook, consulenza e formazione in campo editoriale. Il goWare team è composto da Roberto Avanzi, Elisa Baglioni, Mariarosa Brizzi, Stefano Cipriani, Valeria Filippi, Mirella Francalanci, Patrizia Ghilardi, sco Guerri, Mario Mancini, Alessio Orlando, Lorenzo Puliti, Maria Concetta Ranieri.
Manifesto di goWare
Il contenuto in digitale è un’altra cosa
Pensiamo che i contenuti digitali siano differenti da quelli distribuiti attraverso i media tradizionali, diversi nel formato, nel design, nel pubblico che li fruisce. Lavoriamo per valorizzare questa diversità, curando nel dettaglio la realizzazione di ebook ed enhanced book pensati per un’esperienza di lettura autenticamente digitale.
“Sur the print experience”
Non c’è bisogno di tradurlo, le parole del team iBooks della Apple suonano come l’11° comandamento. La chiave è la generosità. Ci sono tanti piccoligrandi accorgimenti per migliorare la lettura dell’ebook. Per esempio non c’è più il vincolo della foliazione, si può essere generosi con l’interlinea, gli spazi, le paragrafature, i colori: la costipazione è finita, coloriamo le parole e arieggiamo la pagina! È il vero trionfo della volontà sulla necessità.
Abbasso il piombo!
Gli ebook di goWare sono progettati e realizzati per vivere in un ecosistema digitale. Ci ispiriamo a Wikipedia: la lettura digitale ha bisogno di link per farci spaziare da un contesto a un altro. È inoltre sincopata: la cementificazione del testo è finita! Abbasso il piombo, viva il link. La
partecipazione distratta non ci spaventa.
Il valore di un ebook non sta solo nel contenuto ma nella relazione
All’interno di un ecosistema digitale, il valore economico di un libro non sta più soltanto nella quantità di copie che il suo editore/produttore riesce a vendere a un prezzo massimizzato, quanto nelle idee e nella relazione che riesce a creare con il proprio pubblico e i media sociali; lavoriamo su questa relazione in modo che diventi il veicolo per costruire il rapporto economico.
Siamo nomadi
Sia i nativi che gli immigrati digitali non sono per niente stanziali, sono nomadi, si spostano continuamente da un dispositivo all’altro e da una piattaforma all’altra. I nostri contenuti sono pensati per spostarsi con loro.
Dillo subito, e con una narrazione possibilmente visuale
Curati, interessanti e veloci da leggere, gli ebook di goWare vanno al sodo e non contemplano solo il testo: la narrazione visuale e quella musicale sono parte integrante della progettazione.
Dove stiamo andando?
«Where we going man? I don’t know, but we gotta go» scrive Jack Kerouac
in On the road. Il team di goWare ha sempre in mente queste parole da cui ha tratto anche parte del suo nome. Innumerevoli sono le incognite che gravano sul presente e sul futuro dell’editoria digitale: nessuno sa bene dove approderemo, per ora occorre andare e occorre sperimentare.
Salve, lettore globale
I nostri ebook sono rivolti ai lettori italiani esigenti che pensano globalmente, convinti che siamo tutti parte di un medesimo insieme economico, culturale se non ancora linguistico: il mondo. La rivoluzione digitale significa prima di tutto questo. Tutte le opinioni sono un patrimonio, meglio se differenti, ancor meglio se fuori dal coro.
Detto altrimenti...
... cioè con le parole della poetessa inglese Ruth Padel Di’ addio al potrebbe-esser-stato [...] vai perché sei vivo, perché stai morendo o sei, forse, già morto Vai perché devi.
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