La Spina Di Poitiers: La Saga Del Cuor Di Leone 1 2k4z2i

A cura di Alessandro Iascy e Giorgio Smojver

Gianmaria Ghetta

La spina di Poitiers

ROMANZO

Illustrazioni di Pietro Rotelli

ISBN 9788825417173 © 2021 Gianmaria Ghetta Edizione ebook © 2021 Delos Digital srl Piazza Bonomelli 6/4 20139 Milano Versione: 1.0

Illustrazioni di Pietro Rotelli Copertina di Paola Andreatta Collana a cura di Alessandro Iascy e Giorgio Smojver

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Indice

Copertina

Il libro

L'autore

La spina di Poitiers

Introduzione

Prologo

Capitolo 1 – Trabucchi e volpi

Capitolo 2 – Il potere del sangue

Capitolo 3 – Il nome che infranse il sogno

Capitolo 4 – Sulle sponde della Vienne

Capitolo 5 – Cuor di Leone

Conclusione

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Il libro

Un frammento di leggenda perduto. Vecchi amici e improbabili alleati. Riccardo, giovane principe d’Inghilterra, dovrà fare appello a tutto il suo coraggio per uscire vivo dalla trappola di acciaio e magia nera preparata dai suoi implacabili avversari.

Riccardo Plantageneto, figlio del Re d’Inghilterra, è un giovane impetuoso, dal coraggio sfrenato. Ancora lontano dal diventare il sovrano che erà alla storia, per adempiere il suo destino dovrà conquistare l’imprendibile fortezza di Taillebourg, le cui mura celano nemici formidabili e poteri infernali. Saranno la furia della battaglia e una necessità disperata a spingerlo in cerca della leggendaria Spina di Poitiers.

L'autore

Gianmaria Ghetta è nato a Trento il 10 aprile 1977. Sposato e padre di due figli, vive a Rimini, dove si occupa di marketing. Ha conseguito la Laurea in Storia Contemporanea presso l’Università di Bologna. Cresciuto in Val di Fassa, tra i maestosi scenari alpini delle Dolomiti, è sempre stato affascinato dalla natura selvaggia e dalla letteratura avventurosa. Salgari, Verne, Stevenson, Cooper, London, Dumas… lo hanno fatto innamorare poi di autori del fantastico come Tolkien, Howard, Burroughs, Lovecraft, Eddings, Leiber, Gemmell, Moorcock… Tra i suoi altri interessi, l’escursionismo alpino, i boardgame, il cinema (soprattutto western) e la storia militare. Per la collana Heroic Fantasy Italia di Delos Digital ha pubblicato i romanzi brevi L’eredità (2020) e La Voce Nera (2020). Per l’editore Letterelettriche il racconto L’aquila e la pietra, inserito nell’antologia Sword & Sorcery Sui mari d’acciaio (2020). Il suo racconto L’ultimo sacrificio, finalista al trofeo Rill 2020, è stato pubblicato nell’antologia Aspettando Mondi Incantati 2020, edita dall’Associazione Rill.

Dallo stesso autore

Gianmaria Ghetta, L'eredità Heroic Fantasy Italia ISBN: 9788825411126 Gianmaria Ghetta, La voce nera Heroic Fantasy Italia ISBN: 9788825412550

Introduzione

Giorgio Smojver

L’incontro tra Gianmaria Ghetta, apionato di storia militare, letteratura avventurosa e cinematografo, e il monarca più famoso, con Carlo Magno, del medioevo – certo il più famoso nel mondo anglosassone – è parso subito sia ad Alessandro Iascy che a me del tutto naturale. Gianmaria coniuga la sua precisione dei dettagli nella ricostruzione storica, mai pedante, e l’abilità nel descrivere scene d’azione con la fantasia e l’ampio respiro dell’avventura classica. Di saper descrivere il medioevo aveva dato ampia prova ne “La voce nera”, uno dei romanzi più apprezzati della nostra collana, ambientato nell’Irlanda del XIII secolo. Riccardo I d’Inghilterra, detto “Cuor di Leone” per l’abitudine di combattere sempre in prima fila tra i suoi soldati, è insieme figura straordinariamente popolare – prima per i romanzi di Sir Walter Scott, “Ivanhoe” e “Il Talismano”, poi per i molti film soprattutto dedicati a Robin Hood – e, in tempi più recenti, diffamata. Hanno contribuito a falsarne l’immagine prima il nazionalismo inglese, poi il “politically correct” che ha resa obbligatoria la condanna in blocco di quel complesso fenomeno storico che furono le crociate. Riccardo fu forse il miglior guerriero del suo tempo, per il valore personale e l’abilità tattica, cui non corrispose eguale ampiezza di vedute strategica. In generale lo spirito cavalleresco, il voler combattere alla testa dei propri cavalieri, mal si accordavano con una strategia efficace: ricordiamo che anche il suo contemporaneo Federico I Barbarossa perse la battaglia di Legnano per aver voluto combattere in inferiorità numerica, e soprattutto per aver attaccato in prima fila, così che la falsa notizia della sua morte gettò i suoi nel panico. Riccardo non era inglese, malgrado l’Inghilterra ne abbia fatto un simbolo dell’orgoglio nazionale. Suo padre apparteneva alla stirpe se dei Plantageneti, conti dell’Angiò e del Maine; sua madre Eleonora, che l’educò, a quella dei duchi di Aquitania. I Plantageneti furono patroni della poesia

provenzale e se: Riccardo sapeva comporre versi in entrambe quelle lingue, ma non nella nascente lingua inglese. È ridicolo che nel film “Robin Hood” di Ridley Scott addirittura Eleonora, che era stata regina di Francia e sempre si sentì duchessa di Aquitania, sia mostrata come regina “inglese” e parli con disprezzo dei si. Riccardo non era un sadico come a volte è stato mostrato di recente. Uomo di guerra in un’epoca violenta, istintivo e ionale, compì gesti sia di grande crudeltà che di generosità. Feroce quando prendeva a forza un castello o una città che gli aveva resistito e causato la morte dei suoi soldati, ata la furia sapeva anche essere magnanimo con gli ex nemici e ribelli. Gianmaria Ghetta non l’idealizza, ma nel costruirne il carattere mescola verità storica e tradizione leggendaria – così nelle figure ovviamente non storiche di Little John e Robin Hood – e alla fine Riccardo ci appare, secondo il giudizio del grande Steven Runciman, principe ribelle, re poco avveduto, ma splendido e ardito guerriero.

Giorgio Smojver

Prologo

– Madre, ancora una volta! Una sola! Per favore… Poi prometto di dormire subito! – Mi pare di aver già sentito queste parole, Riccardo… Non più tardi di ieri sera, se non sbaglio, prima che la nutrice ti sorprendesse a cavalcare il guanciale, intento a sgominare Saraceni con la tua spada di legno. – No, no! Questa volta lo prometto davvero, mano sul cuore. Poi farò tutto un sonno fino all’alba! Un’ultima volta, ti prego… Eleonora, Duchessa d'Aquitania e Guascogna, Contessa di Poitiers e ora, per il volere di Dio, Regina consorte d’Inghilterra al fianco di Re Enrico, secondo del suo nome, alzò gli occhi al cielo, rassegnata di fronte all’insistenza del suo caparbio quartogenito. – Va bene. – sospirò. – Quale parte della storia vuoi che ti racconti? Forse, questa volta potrei… – Voglio la battaglia! – La battaglia… certo. – commentò lei, reprimendo uno sbadiglio. – Il momento decisivo, immagino. – Sì, sì! Il muro di ghiaccio! – esplose il piccolo con un sobbalzo, facendo vibrare il letto di entusiasmo. Gli occhi vispi, sprizzanti eccitazione, scintillarono nella penombra, riflettendo come perle grigie i bagliori del camino in fondo alla stanza. Eleonora non poté nascondere un sorriso. Conosceva quello sguardo trasognato, di chi si allontana dalle sponde noiose della realtà per salpare verso le remote ma ben più affascinanti lande della fantasia, in cerca di avventure incredibili. Sogni e immaginazione, non certo le migliori virtù per un figlio di re; eppure, erano proprio quei momenti infantili a colmarle il cuore di gioia. Donna di ferro, capace di agire alla bisogna con spietata determinazione e ben pochi scrupoli,

era tuttavia legata a quel bimbetto fulvo da un affetto viscerale; perché Eleonora amava i suoi figli dal primo all’ultimo, ma il vincolo che la stringeva al piccolo Riccardo superava ogni altro sentimento. Strofinò la manica del vestito sugli occhi, rimuovendo quel momento di tenerezza insieme a una lacrima di commozione. Elargendo al suo uditore impaziente un largo sorriso, e senza dover sforzare la memoria, riportò alla mente le parole del celebre ma ignoto cronachista, autore delle Cronache Mozarabiche:

Gli uomini del nord erano immobili come un muro; sembravano fusi insieme in un baluardo di ghiaccio impossibile da sciogliere, mentre trucidavano gli Arabi con le spade.

– Madre, ma come è possibile? Eleonora si interruppe. Era sempre così: tante insistenze, ma poi, non appena iniziato il racconto della battaglia di Poitiers, ecco sopraggiungere la consueta pioggia di domande. – Come è possibile cosa, Riccardo? – Ma i Saraceni non erano tutti a cavallo? Come hanno fatto i Franchi ad abbatterli, combattendo a piedi? Domanda da adulto, figlio mio, che richiede una risposta all’altezza. – Non confondere mai la ricchezza con il coraggio, Riccardo. Ricordati che anche nell’uomo più umile, padrone solo del proprio coraggio, può esserci lo stesso valore che alberga nel cuore del miglior cavaliere, coperto dalle sue armi e in groppa al suo destriero. Il cielo non ha voluto che nascessimo tutti ricchi o di nobili origini, ma il valore di un uomo prescinde dal suo lignaggio o dai beni che possiede. – Ho capito madre. Dunque, i Franchi erano coraggiosi, anche senza cavalli…

– Molto coraggiosi. E, come sai bene, freddi come il ghiaccio. – E non si gettavano ciecamente all’assalto… Ha colto subito il punto… – Sapevano bene che mantenere la posizione era vitale. Così hanno serrato gli scudi, abbattendo i nemici. Ma se mi venisse concessa tregua dalle domande, potrei raccontartelo…

Gli Austrasiani, dai grandi arti e le mani di ferro, colpivano coraggiosamente nel cuore della battaglia…

A quel punto, l’entusiasmo del principino divenne incontenibile. Il bambino si era messo a sedere, la coperta di pelliccia stretta tra le manine, sollevata fino a coprire la punta del naso per alleviare la tensione. I suoi occhi spalancati fissavano la madre, accompagnandosi nello stupore alla boccuccia silenziosa, che ripeteva le parole del racconto sillaba dopo sillaba, pur senza emettere un suono. – Bravi soldati coraggiosi! – strillò, interrompendo ancora una volta la narrazione. – Hanno mantenuto la disciplina, come i legionari dell’antica Roma! Eleonora inarcò un sopracciglio. – Legionari? E chi te ne avrebbe parlato, di grazia? Ti avevo espressamente vietato di importunare ancora i confratelli del monastero. – Ma la loro biblioteca è straordinaria… – Sì, ma non mi risulta che leggere sia il tuo atempo preferito, o mi sbaglio? Riccardo arrossì, abbassando lo sguardo. – Però… Fratello Godwin è un cantastorie eccezionale… – E tu gli hai chiesto delle legioni romane…

– Ho sbagliato a farlo? – Dipende, figlio mio; da cosa hai imparato. – Che i guerrieri di Roma vincevano le battaglie con l’addestramento e la disciplina, prima ancora che con la forza. – Sei perdonato. – annuì Eleonora. – Solo per questa volta, comunque. – Quindi i Franchi erano come i soldati di Roma? – la incalzò ancora lui. – Non lo so, ma la cronaca ci dice che rimasero saldi, fino alla vittoria. Fu la loro tenacia che infranse gli assalti degli Arabi, fino a quando Carlo Martello ordinò la carica. Allora i cavalieri di Oddone I, Duca di Aquitania, spazzarono il campo, disperdendo gli infedeli. – Fanti e cavalieri insieme! – Esatto, piccola peste… ma la tua curiosità ha reso l’ora tarda, e tu d’altronde sai benissimo come va a finire questa storia… – Certo, madre… – sbuffò lui – furono loro che trovarono e abbatterono il re dei Saraceni… ma io non ci credo! – La cronaca dice proprio così. – rispose lei, allargando le braccia. – Ma il re dei Saraceni non può essere caduto in questo modo, ucciso da una picca o da un’ascia qualsiasi! Deve essere stato di certo Re Carlo ad abbatterlo. – Riccardo, sai che Carlo non era re. Come Maggiordomo di Palazzo era un uomo potente, ma al servizio del suo Re, Teodorico IV. Sul viso pallido del bambino si dipinse una smorfia di evidente disapprovazione. – Non me ne sono scordato, madre. Ma penso che un vero re dovrebbe guidare i suoi uomini in battaglia, non nascondersi dietro al trono lasciando altri a battersi per lui. Incrociò le braccia, rivolgendo alla donna uno sguardo deciso. – Io non farei mai così. E sono certo che sia stato proprio Carlo a uccidere Abd

al-Raḥmān! La regina fissò il figlio con dolcezza. – In realtà, piccolo mio, c’è una storia, narrata solo raramente, e da pochi menestrelli, che racconta una versione diversa… Le parole trasformarono il volto imbronciato del bimbo in una maschera di gioia. – Si dice che, di fronte alla fuga disordinata del suo esercito, il sovrano degli Arabi si sia gettato nella mischia, falciando i nemici con la spada e invocando a gran voce il nome di Carlo. Terribile a vedersi, nella sua collera, nessuno osava affrontarlo. Fino a quando, facendosi largo tra i suoi, giunse il Martello in persona a raccogliere la sfida. – Continua! Cosa accadde poi? – Nessuno lo sa con certezza, poiché il tempo ha cancellato la memoria di quei momenti gloriosi; tuttavia, si narra di come i due contendenti si scambiassero colpi possenti, facendo il vuoto intorno a sé. I loro corpi furono presto coperti di ferite, al punto che i guerrieri di ambo le parti credettero che entrambi sarebbero morti, trafiggendosi a vicenda. Eppure, alla fine, Carlo riuscì a entrare nella guardia dell’avversario, abbattendolo con un fendente. Nell’istante in cui il gran Saraceno morì, la lama della spada di Carlo si infranse, finendo in mille pezzi. Ma la battaglia era vinta e la cristianità salva. – Lo sapevo, lo sapevo! Ma perché non mi hai mai raccontato prima questa storia? – Perché ogni storia ha un suo momento per svelarsi, e questo era quello giusto. Lui la abbracciò, cingendole il collo con le piccole braccia. – Grazie, madre. Eleonora ricambiò il gesto per un istante, prima di divincolarsi con tenera fermezza. Scostando i capelli rossicci, gli depose un bacio leggero sulla fronte. – Ora, mantieni la promessa di poco fa e dormi fino a domani. Per questa sera hai già sognato abbastanza. Si allontanò, il lungo abito frusciante sul pavimento di legno. Mentre si

apprestava a chiudere dietro di sé la pesante porta di quercia, la voce del figlio la raggiunse attraverso la stanza. – Madre… – Cosa c’è ancora? Nello sguardo di Riccardo ardeva un fuoco che lei non aveva mai visto prima. – Da grande, voglio essere come il Martello… più di lui, persino! Madre, te lo giuro, io diventerò il più grande condottiero d’Inghilterra dai tempi di Artù! In lontananza, il cielo suggellò queste parole con il fragore del tuono. Eleonora d’Aquitania sorrise, enigmatica; poi, senza una parola, abbandonò la stanza e scomparve nei tenebrosi corridoi del castello.

Capitolo 1 – Trabucchi e volpi

Francia, Taillebourg, Anno Domini 1179.

Osservare da lontano la “Bête de Taillebourg” era una cosa straordinaria, ma vederla in azione a pochi i di distanza era un’esperienza quasi ipnotica. Vi era qualcosa di ammaliante nei movimenti di quel mastodontico prodotto dell’ingegno guerresco. Gli uomini che si agitavano come formiche attorno al gigante di legno, ognuno intento nel disbrigo dei propri compiti, agli occhi grigi e attenti del giovane condottiero parevano simili a una congrega di minuscoli adoratori, intenti a venerare una titanica divinità della distruzione. Gli argani cigolarono, tirando verso il basso il grande braccio di legno, formato da un fascio di travi strettamente legate da bande di ferro. Quando fu giunto in posizione, un paio di uomini si affrettarono a bloccarlo, ancorandolo a un robusto gancio metallico. Quattro serventi nerboruti entrarono allora in azione, raccogliendo un pesante masso liscio dal cumulo di pietre ammucchiate a pochi i di distanza. Tra sbuffi e imprecazioni, il proiettile fu deposto all’interno dell’ampia frombola di cuoio, fissata all’estremità della trave, che giaceva distesa lungo una canalina in legno spalmata di grasso. A un cenno dell’uomo che dirigeva le operazioni, tutti si allontanarono dalla macchina. Braccia muscolose azionarono la leva di sgancio, liberando il cassone riempito di pietre che precipitò verso il basso, trascinandosi dietro l’estremità più corta del braccio. Questo ruotò violentemente intorno al suo asse. La frombola strisciò con il suo carico lungo il legno ingrassato, prima di sollevarsi e sganciare il proietto. Con un ululato sordo, il masso squarciò l’aria, fino a quando uno schianto di pietra contro pietra segnalò l’impatto con le mura della cittadina. Il braccio della “bestia” continuò a oscillare, rallentando dolcemente fino a fermarsi. Il Duca di Aquitania osservò gli uomini riportare il braccio in posizione e il capo servente affrettarsi a regolare il punto di sgancio della frombola.

– Lancio un po’corto? Il nobile si girò verso il punto di provenienza della voce, accogliendo con un sorriso il nuovo venuto, un colosso biondo dai capelli ricci, alto quasi sette piedi. – Si può far meglio, Little John. Unisciti a me, e vediamo se Mastro Gauthier riesce ad aggiustare la mira. – Se non ci riesce lui, allora siamo fottuti! Chi ci capisce qualcosa con quell’arnese diabolico… Rimpiango quando bastavano un paio di semplici catapulte per rovinare un muro e are parola alle spade. – I tempi corrono, amico mio, e occorre adattarsi alle novità per mantenere il o. Dieci anni fa non sapevo nemmeno cosa fosse un trabucco, e adesso guarda… la mia Bestia è già diventata famosa tra i nemici. – Dieci anni fa… – borbottò Little John. Soffocò a stento una risata sotto il folto cespuglio di barba e baffi, senza però impedire al compagno di notarla. – Cosa ci trovi di così divertente? – E me lo chiedi? Riccardo, hai solo ventidue anni… dieci anni fa, quando io davo già la caccia alle sottane, tu eri ancora impegnato a schiacciarti i brufoli sul naso… altro che trabucchi. Le quattro guardie che sostavano accanto a loro, immobili nella luce infuocata del tramonto, impallidirono. Erano in pochi a poter parlare così impunemente al loro signore. L’uomo che reggeva le sorti dell’Aquitania era capace di ridere, ma poteva anche spegnere ogni segno di ilarità non gradita con rabbia repentina. Riccardo tuttavia sorrise senza dar mostra di irritazione. Guardò divertito il gigante dello Yorkshire meridionale; Little John conosceva il suo cuore come pochi altri. Quell’omaccione, che lo superava in età di sei anni, era per lui un fratello maggiore, cresciuto praticamente al suo fianco, nonostante il rango sociale completamente diverso. Lo stalliere e il principe, prima in Inghilterra e poi in Francia, quando il destino aveva condotto entrambi nei possedimenti oltremanica di sua madre Eleonora. Riccardo volse nuovamente la sua attenzione alla macchina da guerra. Mastro Gauthier aveva completato i suoi calcoli. Il trabucco oscillò nuovamente,

scaraventando un altro masso contro le mura, lungo una traiettoria più alta. L’aria fu percossa dal fragore del colpo, ma le mura rimasero salde, a sfidare con la loro caparbia resistenza la volontà degli assalitori. Riccardo crollò il capo e lo scosse vistosamente, andosi ripetutamente una mano tra i folti capelli rossastri. – Che ne pensi John? – Che di questo o, qui ci invecchieremo. Le abilità di Gauthier sono fuori discussione, ma temo che una sola “bestia” non basti… ce ne vorrebbe un branco. Quell’affare è tanto potente quanto lento da caricare. Alla fine, ci entreremo in città, ma anche se ci riuscissimo… – …rimarrebbe sempre quel maledetto! – imprecò Riccardo, agitando il pugno in direzione del formidabile castello che si ergeva sulla rupe sovrastante l’abitato. – Dobbiamo fare in fretta, Riccardo. Indugiare troppo è pericoloso, e sai bene che l’autunno è tardo ormai; tra non molto sarà l’inverno a bussarci alla porta. – Hai ragione… e fin troppa, temo. Il vecchio Goffredo sa bene che non deve fare altro che starsene rintanato come un coniglio dietro alle sue mura, e attendere. I baroni aspettano solo un mio o falso per attaccarmi a tradimento. Se vedranno che l’assedio va per le lunghe, o se annanno odore di sconfitta, si precipiteranno su di noi come corvi su un cadavere… – In tutta sincerità, puoi dar loro torto? – disse John, posando una mano sulla spalla dell’amico. – Cosa intendi? – Ti hanno seguito quando ti sei unito ai tuoi fratelli, sollevandoti contro tuo padre. Per te hanno versato il sangue, perso figli o fratelli. Quando hai piegato il ginocchio, sottomettendoti… Si sono sentiti traditi, Riccardo… E ora che tu levi ancora la spada, ma questa volta contro di loro e di nuovo al servizio del re che tanto detestano, ti sorprendi davvero della loro reazione? – Non avevo scelta, e tu lo sai. La guerra era ormai persa, e io non sono tipo da combattere battaglie inutili.

– Non lo metto in dubbio. Ma non pensare che quanti ti circondano ragionino sempre come te. Ci sono uomini che non fanno calcoli. Riccardo esplose in una risata inattesa. – John il filosofo! Vecchio mio, quando hai ragione hai ragione. Ti prometto che la prossima volta conterò almeno fino a dieci prima di decidere contro chi entrare in guerra. – Ci rinuncio! Sarai pure un duca, ma è impossibile parlare seriamente con te! Riccardo lo fissò, gli occhi improvvisamente accesi di gelida determinazione. – Prenderò questa fortezza, John, nonostante tutto. La prenderò, costi quello che costi, e il vecchio sarà finalmente orgoglioso di me. – Allora prepariamoci a sputare sangue, perché quella lassù sarà una noce molto dura da rompere, anche per il Duca di Aquitania. Riccardo scrutò la mole massiccia del castello di Taillebourg, un immenso uccello rapace, appollaiato nella luce del crepuscolo sopra la rupe che dominava l’omonima città e il fiume Charente. – Chi insegue la gloria dipinge l’arazzo della propria vita con il colore del sangue. Se per trovare la mia dovrò imboccare la via del massacro, non avrò esitazioni. Il gigante si limitò a osservare l’amico, mantenendo un silenzio enigmatico. – Ma ora vieni John. – tagliò corto Riccardo, con voce addolcita. – Mangiamo e beviamo insieme, alla faccia di quelle dannatissime mura! Prima di dormire, voglio ragionare con te sul modo migliore per averne ragione.

Fu il baccano proveniente dall’esterno a strapparlo dalle braccia ristoratrici del sonno. Riccardo era solito dormire con un occhio solo, ma fatiche e tensioni dell’assedio stavano mettendo il suo fisico e la sua mente a dura prova. Si alzò lentamente dal letto, stropicciandosi gli occhi nell’intento di riacquistare subito un po’ di lucidità, ma solo quando si fu spruzzato in viso l’acqua fredda del

bacile si sentì davvero sveglio. Si rivestì in fretta, cercando nel frattempo di cogliere qualche indizio nella babele di voci e rumori che si sovrapponevano appena oltre il pesante telo della tenda. Un attacco? Forse una sortita? Liquidò subito quel pensiero. L’agitazione che avvertiva era diversa dalla frenesia degli uomini in procinto di combattere. A ogni buon conto, afferrò la cinta con la spada e la fissò in vita. Scostato il drappo dell’ingresso, uscì all’aperto. La scena che gli si parò davanti non era certo quella che si aspettava: una folla confusa di cavalieri, fanti e scudieri si accalcava intorno a una figura che giaceva riversa al suolo, rannicchiata nel vano tentativo di proteggersi dalla gragnola di calci che le piovevano addosso. Artigiani e garzoni di stalla, attirati dal frastuono, cercavano di intrufolarsi in quella calca per rendersi conto di quanto stesse accadendo. Riccardo si avvicinò, ma nessuno, nella massa in preda all’agitazione, parve accorgersi della sua presenza. – Il duca! – tuonò infine la voce di uno dei cavalieri, un individuo dal naso adunco e gli zigomi molto marcati, che lo rendevano simile a un avvoltoio in armatura. – Disgraziati, pendagli da forca, buoni a nulla! Fate largo al vostro signore! Le imprecazioni ebbe l’effetto di un buon colpo di frusta, disperdendo gli uomini come pecore davanti al lupo. La loro vittima rimase immobile nella polvere, al centro dello spiazzo, appena al di fuori del perimetro luminoso proiettato dai fuochi da campo e dai bracieri. Riccardo si piantò davanti alla sagoma scura. – Tiratelo su. – ordinò. – Voglio vederlo in faccia. Braccia robuste sollevarono di peso il corpo; un soldato afferrò i lunghi capelli

dello sconosciuto e li strattonò con forza, sollevandogli la testa. I raggi della luna quasi piena delinearono i contorni di un viso inaspettato. Riccardo osservò stupito i lineamenti delicati e la pelle liscia, indugiando sugli occhi marroni e profondi che lo fissavano con rabbia. Qualcuno avvicinò una torcia. Approfittando della nuova luce, Riccardo abbassò lo sguardo, lasciandolo scorrere su un corpo snello e ben fatto. Pantaloni e casacca di pelle non riuscivano a nascondere le forme proporzionate e sinuose. – Una donna! – Cosa c’è, non ne avevi mai vista una? – lo apostrofò lei con tono sprezzante. Il cavaliere dal volto ossuto si fece avanti, colpendole la guancia con uno schiaffo violento. – Silenzio cagna, e porta rispetto! Sarà il duca soltanto a decidere se e quando potrai parlare. – Vai a farti fottere… – ribatté lei, alzando il viso in segno di sfida. Dal labbro spaccato, un filo di sangue le colava lungo il mento. Con un moto di rabbia, il cavaliere tornò a levare il braccio, ma la mano di Riccardo lo bloccò a mezz’aria, serrandogli il polso in una stretta di ferro. – Basta così, Ranulf. – Ma mio signore… – Non mi hai sentito? Riccardo fulminò il cavaliere con lo sguardo. Nonostante i suoi occhi azzurri continuassero a rimanere puntati sulla donna, traboccanti d’odio, l’uomo si ritirò in buon ordine. Riccardo tornò a rivolgere a lei la sua attenzione. – Come ti chiami, ragazza?

Nessuna risposta. Nel frattempo, gli uomini erano tornati ad accalcarsi tutt’intorno, formando un largo cerchio di teste protese e occhi curiosi. Non erano pochi gli sguardi lascivi e i commenti piccanti, ma erano soprattutto gli insulti a farla da padrone. Più di una minaccia di morte si alzò dalla folla in fermento. – Cosa stavi facendo nell’accampamento? Di nuovo, la domanda di Riccardo non ottenne risposta. La ragazza si guardò intorno, forse valutando per la prima volta la precarietà della sua situazione; tuttavia, non fece altro che serrare la mascella in una smorfia ostinata, senza proferire parola. – Ranulf! Dimmi cosa è successo. Il cavaliere si sfregò nervosamente il naso aquilino. – Si tratta certamente di una tagliaborse, venuta in cerca di monete da sfilare ai soldati ubriachi. È stata sorpresa mentre si aggirava intorno alla vostra tenda. Un lanciere si fece avanti, inchinandosi. – Perdonate mio signore. Addosso le abbiamo trovato queste. Riccardo allungò le braccia, afferrando due armi, racchiuse nei loro foderi. Ne sfilò una, osservandone la lama. L’acciaio, decorato con una scrittura runica per tutta la sua lunghezza, misurava due buoni piedi. Il singolo filo, diritto tranne una leggera curva nella parte terminale, e il dorso ottuso piegato ad angolo acuto verso la punta, rendevano chiara la provenienza dell’arma. – Un langseax… arma rara, soprattutto in queste terre. E molto insolita, per un comune ladro… – Io direi un’arma per uccidere. – esclamò una voce alle sue spalle. In mezzo ai soldati, sui quali torreggiava come una quercia tra i cespugli, si era fatto strada Little John. – Non si va in giro a tagliare cordoni di borse con ferri del genere. – Allora si tratta di un’assassina! – imprecò Ranulf, facendosi paonazzo. – E di certo al soldo di quel bastardo di Goffredo!

Un’ondata di rabbia sferzò la folla assiepata, correndo di bocca in bocca in un mormorio via via più minaccioso. – Assassina! Voleva uccidere il duca… – Maledetta puttana! Ma come ha fatto a entrare nell’accampamento? – È vero… Perché le guardie non l’hanno vista? – Quasi fosse fatta di fumo… dev’essere per forza una strega… – Sì, è una strega… Ammazziamola! – Appendiamola a un albero… qualcuno prenda una corda! La babele di voci crebbe fino a fondersi in un grido unanime. – A morte! Morte alla strega! Riccardo alzò le braccia, intimando il silenzio. – Disperdetevi! – tuonò. – Che ognuno torni alla sua tenda o ai posti di guardia. La ragazza sia messa in catene. – Mio signore! – esclamò Ranulf. Gli occhi del cavaliere sembravano in procinto di schizzargli dalle orbite. – Questa donna era qui per uccidervi! Voi dovete… – Io non devo niente, Ranulf de Thouars. – La voce di Riccardo si era fatta bassa e pericolosa. – Hai udito i miei ordini; mi attendo siano eseguiti.

– Perché l’hai risparmiata? Little John si lasciò cadere tra i cuscini e le pellicce del letto, strappando al giaciglio uno scricchiolio di sofferenza. Riccardo scosse la mano, quasi a voler scacciare il pensiero. – Ti aspettavi forse che la lasciassi impiccare?

– Di solito streghe e stregoni fanno quella fine… se non peggio. – rispose John, stringendosi nelle spalle massicce. – Streghe… Se dovessi appendere per il collo ogni poveraccio accusato di stregoneria, dagli alberi penzolerebbero più cadaveri che grappoli d’uva dalle vigne. Non sappiamo nulla di quella ragazza… come facciamo a dire che sia una serva del demonio? – Riccardo, sai come la penso. Non ho mai incontrato nessuno che intrallazzasse davvero con il diavolo, ma sono certo che gente di quel genere impegni le sue notti in cose ben peggiori che strisciare negli accampamenti militari… E poi, se avessi i poteri dell’inferno dalla tua, credi che avresti bisogno di portarti appresso due lame come quelle? Io no di certo. – Allora cosa credi? – Non lo so… forse voleva davvero ucciderti o forse era in cerca di qualcosa da rubare… dall’abbigliamento sono certo però che non si tratti di una prostituta. – Lo dici quasi con dispiacere… – Insomma… ma hai visto che ragazza? Diciamo che un pensierino forse ce lo avrei fatto. – Comprare l’amore non si addice a nessuno, John, tantomeno a chi serve un duca. – lo rimproverò bonariamente Riccardo. – Piuttosto potresti conquistarla con i tuoi modi da cortese gentiluomo. La risata di John fu roboante. – Temo che la farebbe saltar via con un fendente, la mia cortesia… magari insieme ai gioielli di famiglia. Ha gli occhi di una leonessa, quella lì! Riccardo si alzò dalla sedia di legno su cui era accomodato. Incrociate le braccia dietro la schiena, iniziò a eggiare nervosamente, percorrendo avanti e indietro lo spazio limitato della tenda. – Hai sentito cosa mormorano gli uomini? – Gli uomini parlano di tante cose.

– Dicono che si tratti della “Volpe di Bordeaux”… – Una volta, un ubriaco disse che io ero l’ultimo della stirpe dei giganti. – tagliò corto John. – È una ladruncola. Tutto qui. – E se invece fosse lei? – La più grande ladra di Francia nel nostro povero accampamento? E a quale scopo? La Volpe ruba solo oggetti di grande valore; in questo letamaio le uniche cose disponibili in abbondanza sono merda di cavallo, pessima birra e cattivo umore. – Eppure, amico mio, in questa storia qualcosa non torna… John si grattò il testone arruffato, aggrottando le sopracciglia. – Rifletti un istante. – riprese Riccardo. – Non conosciamo la sua identità, ma credo che su una cosa possiamo concordare: per un ladro, infilarsi in mezzo a un assedio è un bel rischio… Allora perché non andare direttamente ai carri delle vettovaglie, o in cerca della tenda con il denaro per la paga dei mercenari? – Forse nel buio avrà confuso la tua tenda con un’altra… – La più grande del campo? Con i miei stendardi a sventolarci sopra? Volpe o no, lei non mi sembra cieca, e tantomeno stupida. – E allora perché intrufolarsi proprio nel tuo alloggio? – Cercava qualcosa di particolare. Qualcosa che sapeva dove trovare. – E cosa? – Non ne ho la benché minima idea. – rispose Riccardo allargando le braccia. – Ma si è fatto tardi, e domani ci sarà da menar le mani; voglio assaltare le mura della città. Vai a dormire John, per spaccare teste mi servi in forma. – D’accordo, d’accordo… io ci vado di corsa a farmi una dormita, ma solo se prometti di fare altrettanto. Con un cenno di saluto, il guerriero uscì dalla tenda, prima di girare i tacchi e

tornare a infilare il suo testone ricciuto all’interno. – Perché non serve a un accidenti avere un esercito sveglio e fresco, se il comandante è cotto come una pagnotta. – Sì padre, obbedisco… ma va’, levati dalle palle, Little John!

Rimasto solo, Riccardo si versò una coppa di vino, approfittando della caraffa che i servitori avevano cura di mantenere sempre ben colma sul tavolino. Tornò a sedersi. Il trascorrere dei minuti e delle sorsate portò con sé la fatica della lunga giornata, gravandogli le spalle già stanche di un nuovo peso. Si stese sul letto, cercando di rilassare i muscoli irrigiditi. Nonostante fosse esausto, non riusciva a smettere di pensare alla ragazza. Il viso della ladra continuava a rimbalzargli nella testa, al punto che gli pareva quasi di sentire fissi su di sé quegli occhi ardenti e fieri. Certamente, si trattava di una bella donna… Un sorriso appena accennato gli illuminò il viso, spegnendosi subito. Ma non è questo a turbarmi. Chiuse gli occhi, imponendosi di cedere al sonno. Li riaprì dopo un istante, indispettito per l’incapacità di piegare la mente al proprio volere. Lei era sempre là, un pensiero ossessivo. Si stropicciò le palpebre, per cancellare quella presenza indesiderata. Troppo furba per vagare in cerca di un colpo di fortuna… Si rialzò. Vuotò d’un fiato un’altra coppa, ma di lì a poco si ritrovò sul letto, consapevole che nemmeno scolarsi una cantina avrebbe potuto fornirgli sollievo. Il cervello ricominciò a macinargli senza tregua nel cranio pensieri e congetture, incalzato dalla visione della ragazza come un daino dal cacciatore. Fissò il soffitto della tenda e sbadigliò così forte che ebbe la sensazione di slogarsi la mandibola. Si guardò intorno, snervato. Non vi era nulla, racchiuso in quelle poche braccia di tela bianca, che valesse un simile rischio, a parte qualche abito di pregiata fattura e poche suppellettili di buon artigianato. Ma derubare un nobile, nel migliore dei casi poteva costare una mano… Chi l’avrebbe fatto per una sedia o un paio di brache? Cosa stava cercando?

Sovrappensiero, si ò una mano sul petto. La sensazione improvvisa del metallo premuto contro la pelle lo fece sussultare. Si alzò di scatto, mettendosi a sedere. Le dita corsero a infilarsi nello scollo della camicia di lino, trovando il piccolo oggetto, fissato dalla catenina. Lo sfilò delicatamente dal collo, stringendolo nel pugno. Come ho fatto a non pensarci subito? Allentò la stretta, osservando il piccolo crocefisso posato sul palmo. Fuso in un unico pezzo di oro massiccio, e decorato con motivi floreali in argento, portava incastonati all’estremità delle quattro braccia altrettanti rubini rosso fuoco, grandi ognuno quanto un mirtillo. Riccardo scosse la testa. – Non era difficile, dopotutto. – mormorò. Si scordava spesso di quell’oggetto, dono della madre per i suoi diciotto anni. Nel consegnarglielo, Eleonora aveva pronunciato delle strane parole: “Portalo sempre sul cuore, e confida a lui la tua ora più oscura.” Non aveva mai compreso il significato di quella frase misteriosa ma, per esaudire la donna che l’aveva messo al mondo, aveva preso l’abitudine di non togliersi mai la croce. Osservò di nuovo il gioiello, apprezzandone la realizzazione e i dettagli. Si trattava senza dubbio di un oggetto di grande valore, certamente il più prezioso presente nel campo. Plausibile pensare che la Volpe di Bordeaux ne fosse giunta in cerca. Soddisfatto da questo pensiero, ricadde sul cuscino, finalmente pronto ad arrendersi al sonno tanto a lungo rimandato. Prima che l’oblio avvolgesse ogni cosa, la sua coscienza ormai intorpidita fu sfiorata da un ultimo, fuggevole pensiero. Solo mia madre e John sanno della croce… Un istante dopo, il nobile russare di Riccardo, Duca di Aquitania, si levò al centro dell’accampamento, mescolandosi al più lieve respiro della brezza notturna.

* * *

La piana si estendeva scura come l’anima di un peccatore, immersa nel silenzio della notte umida e trapuntata di stelle ondeggianti. L’uomo contemplò a lungo le piccole luci, gli occhi ammaliati dal pigro tremolio delle fiammelle lontane. Osservati da lassù, i fuochi da campo non apparivano minacciosi, evocando l’immagine tranquillizzante di una qualche festa paesana più che il riunirsi di genti spietate e pronte a dar battaglia. Goffredo di Rancon, terzo a fregiarsi di quel nome tra i signori di Taillebourg, sospirò, posandosi le mani sul ventre prominente. Appoggiandosi alle merlature, tornò a scrutare le posizioni degli avversari. Dalla sommità della torre più alta del castello, l’accampamento di Riccardo non pareva poi così impressionante; gli attendamenti si estendevano davanti alle mura della città ma non arrivavano a coprirne l’intera estensione. Quel ragazzino ha con sé forze più scarse di quanto temessimo… Il pensiero fu interrotto da un bagliore improvviso. Qualcosa divampò e si mise in movimento. Un rumore di meccanismi in azione accompagnò la sfera rovente, scaraventata in alto nel cielo notturno. Il proietto tracciò nell’aria un sentiero di fiamma, concludendo la sua corsa imbizzarrita contro una torre della cinta muraria cittadina. Per un istante, la deflagrazione trasformò la notte in giorno, svelando un frenetico formicolare umano tra tende e carriaggi. Goffredo si rivolse a una delle guardie che pattugliavano il torrione. – Fa’ presto, manda a chiamare Hugon! – Eccomi, mio signore. Le parole lo fecero trasalire. L’uomo che le aveva pronunciate si materializzò dal nulla, partorito dalle tenebre. E alle tenebre, Hugon di Montfort-L’Amaury sembrava appartenere. Nonostante superasse di poco i quarant’anni, la sua alta figura sembrava quella

di un uomo ato attraverso eoni di tormenti e sofferenza: la schiena, piegata da una vistosa deformità, non era che l’elemento più appariscente di un fisico martoriato; gambe e braccia, avvizzite e contorte in modo raccapricciante, si muovevano innaturalmente, simili a rami nodosi piegati dal vento. I lunghi capelli, neri e sfilacciati, ricadevano in una coltre untuosa a incorniciare il viso magro e glabro, nel quale l’occhio sinistro brillava come fuoco nero. L’altra orbita, pur se priva dell’occhio asportato, sembrava dardeggiare tutt’intorno, al punto che i malcapitati intenti a fissare quel volto inquietante si sentivano quasi attratti da essa, pronti a esserne risucchiati. Avvicinandosi, Hugon trascinò la tunica, e il rumore della stoffa nera che sfregava sulla pietra si diffuse tra i camminamenti silenziosi, facendo rabbrividire gli armigeri sparpagliati lungo le mura; conoscevano fin troppo bene quel fruscio sinistro, così sgradevolmente simile allo strisciare di un rettile. – Vedo che non dormite ancora, mio signore. Forse preferite la frescura della notte al tepore del vostro letto? – Avevo bisogno d’aria… chiuso in quelle quattro pareti mi sembrava di soffocare… e poi… Le parole furono interrotte da un boato; non vi sarebbe stato riposo, quella notte, per le già provate mura di Taillebourg. – Lo senti, Hugon? Lo senti? – Goffredo si torse le mani, alzando al cielo gli occhi marroni. – Quel moccioso bastardo non si darà pace finché non avrà raso al suolo questa fortezza e non mi avrà staccato la testa dal collo! – Di certo i buoni cittadini non potranno godersi il sonno. Goffredo fissò il volto di Hugon. Illuminati solo in parte dalla luce incerta delle torce, i lineamenti dell’uomo apparivano distesi, segno che il bombardamento delle macchine d’assedio non destava in lui nessuna particolare preoccupazione. – Forse faresti bene a sturarti le orecchie, e magari anche ad aguzzare la vista. – commentò acidamente Goffredo, senza curarsi di mascherare il nervosismo che gli attraversava la voce. – Finora non avevano mai battuto le mura durante la notte. Inoltre, se ti degnassi di dare un’occhiata, vedresti che il campo è in pieno fermento… le due cose insieme hanno una sola spiegazione: domattina Riccardo prenderà d’assalto Taillebourg.

– Non importa granché; era inevitabile che la città cadesse, prima o poi. Per noi farà comunque poca differenza… – Devi essere impazzito! Se la città cade, poi toccherà al castello, e gli uomini di Riccardo troveranno anche riparo e alloggio nelle abitazioni. – Ma non siete stato proprio voi a dire che questa fortezza è imprendibile? – Non capisci che non posso correre rischi? – sbottò Goffredo con un moto di stizza. – Io ho combattuto durante la crociata, al seguito di re Luigi e di sua moglie Eleonora. Fu quella strega a scaricare tutta la colpa su di me dopo il disastro del monte Co… la baldracca! La battaglia andò a rotoli per tanti motivi, ma le decisioni che presi furono tutte concordate con Amedeo, il conte di Savoia. Eppure, lei diede la colpa soltanto a me. Goffredo si interruppe, paonazzo in viso. Inspirò affannosamente, cercando di riacquistare un po’ di autocontrollo. – E adesso, mi tocca avere a che fare con il figlio… un debole che non ha saputo opporsi a suo padre, prima sollevandosi contro di lui, e poi tradendo chi aveva avuto fiducia nella sua ribellione. – Un debole? – chiese Hugon con artificiosa curiosità. – Alcuni già lo chiamano “Cuor di Leone”… – Perché in due mesi ha espugnato Castillon-sur-Agen? Impresa notevole, ma prendere un castello non gli conferisce il diritto di guidare uomini più meritevoli ed esperti di lui! – Forse, mio signore, ma se non ricordo male poi ha sbaragliato il campo a Saint-Maigrin, ha preso Limoges e Châteauneuf, ha fatto cadere Dax, Bayonne e Saint-Pierre… E adesso, dopo aver messo a sacco Richemont, assedia perfino Taillebourg, l’imprendibile. Non sarò uomo di guerra, ma per essere le azioni di un debole sembrano quantomeno sbalorditive. – Sa combattere, te lo concedo. Ma non basta la spada a fare di un uomo un capo. Tra i baroni vi sono uomini più degni di governare queste terre. – Certamente, mio signore. Sconfiggete Riccardo, mettete il ragazzo in catene e il re dovrà scendere a patti con voi. Potreste diventare voi il nuovo padrone

dell’Aquitania. – Ma prima bisogna vincere, e se domani la città cadesse… Goffredo squadrò la figura che lo fronteggiava, un’ombra contorta alla luce delle fiaccole. – L’assalto deve fallire, Hugon, costi quel che costi. – Fallirà. – Devi garantirmelo! – ringhiò Goffredo. – Fa’ quel che devi. Le labbra del gobbo si incurvarono in un ghigno sinistro. L’uomo fissò il cielo cupo. – Io sono Hugon di Montfort-L’Amaury e il sangue degli antichi druidi scorre nelle mie vene. – La voce prese a vibrare di folle frenesia. – Questa notte le tenebre più oscure pulsano sotto la pallida luna… ne avverto con chiarezza il potere. L’occhio nero dello stregone incrociò lo sguardo intimorito di Goffredo. – L’inferno sarà con noi. Taillebourg non cadrà.

Capitolo 2 – Il potere del sangue

– Ma dove diavolo stiamo andando? Goffredo incespicò in una pietra sconnessa, che per poco non lo spedì a ruzzoloni sul pavimento sudicio. Imprecò, strizzando gli occhi per cercare di distinguere un po’ meglio il aggio che si allungava nel buio, a malapena intaccato dalla torcia di Hugon. Aveva perso il conto dei corridoi che avevano percorso, ma del resto le vastità tenebrose del sottosuolo di Taillebourg non erano mai state esplorate completamente da nessuno. Le gallerie superficiali, dove gli antichi signori della fortezza avevano collocato i magazzini, le armerie e le prigioni, gli erano ben note; altrettanto non poteva dire del dedalo di cunicoli che si spingevano nelle profondità più repulsive, rendendo la rupe simile a un formicaio. – Dannazione, Hugon! Ti ho chiesto dove siamo diretti. Per l’ennesima volta, lo stregone non diede segno di averlo udito. Proseguiva a testa bassa, avanzando con il suo o strascicato, fermandosi ogni tanto in prossimità di qualche diramazione. In quel momento si guardava intorno, annusando l’aria come un segugio, oppure esaminava minuziosamente la parete della galleria. Cosa cercasse, Goffredo non era in grado di dirlo; ai suoi occhi, la roccia che li circondava appariva grigia e uniforme, del tutto priva di segni che potessero essere interpretati come indizi sulla direzione da prendere. Eppure, il druido non sembrava roso dal dubbio poiché, dopo una breve esitazione, sceglieva sempre con piglio deciso il nuovo aggio, addentrandosi in quel labirinto inestricabile. Dopo un tempo che a Goffredo parve interminabile, iniziarono a udire un suono in lontananza, un fioco gorgogliare via via sempre più vicino e distinguibile. Superata una svolta e imboccato l’ennesimo lungo corridoio, intravidero una pallida luce. Il rumore misterioso svelò presto la sua natura: le acque scure del fiume Charente, che scorrevano poco lontano. Hugon affrettò il o e Goffredo, quasi correndo per raggiungerlo, si trovò a sbucare in un’ampia grotta naturale, aperta verso l’esterno sul versante meridionale, affacciato sul corso d’acqua che fluiva pigramente verso sud.

Il fondo roccioso dell’antro terminava con un piccolo pontile di legno, sorretto da travi coperte di muschio che affondavano nell’acqua. Goffredo osservò con sospetto i pali di sostegno e l’assito, fradicio e sconnesso, le cui condizioni testimoniavano del lungo inutilizzo dell’approdo, un tempo forse sfruttato per il transito di rifornimenti o per garantire un’ultima via di fuga ai signori di Taillebourg. La sua scrupolosa osservazione fu interrotta da uno sciabordio lontano. Con circospezione, si spinse lungo il pontile, attento a non calpestarne i tratti marciti dall’umidità. Non riuscì a scorgere nulla; la superficie del fiume era coperta da una densa coltre di nebbia che si estendeva sopra le acque, trasformandole in un sinuoso serpente di foschia bianca e lattiginosa. Aguzzando la vista, riuscì infine a scorgere una sagoma, da principio confusa ma poi sempre più chiaramente somigliante a una piccola imbarcazione. Due figure immobili si ergevano a prua, quasi invisibili a eccezione degli occhi, sfere gialle e oblique sfolgoranti nel buio. – Una barca… Hugon, chi la conduce? Il sorriso dello stregone assomigliò al ringhiare di un lupo famelico. – I miei servitori, puntuali come sempre. Con il mio dono per voi. Non appena la piccola chiatta giunse all’altezza del molo, una creatura repellente balzò sul pontile: alta non più di cinque piedi, era dotata di un corpo oltremodo massiccio, muscoli sgraziati e potenti, coperti da una peluria ispida. Dalla base della schiena spuntava una lunga coda spessa e glabra, in tutto simile a quella di un comune ratto di fogna. Quando alzò la testa, fissandolo con curiosità, mancò poco che Goffredo perdesse i sensi, travolto dall’orrore e il disgusto. Il volto peloso che stava guardando non era umano, nonostante i lineamenti conservassero ancora tracce corrotte di un’umanità ormai perduta. Il lungo naso, alla cui estremità fremevano baffi sottili, annusò l’aria, puntato in direzione dei due uomini. Quando aprì la bocca, svelando una chiostra di denti aguzzi e giallastri, la voce che ne uscì risuonò come un orrido squittio. – Eccoci padrone, abbiamo portato… – …quello che ci hai chiesto. – aggiunse la seconda creatura, sbarcata in quel momento alle spalle del mostruoso compagno.

Hugon fissò i due esseri, indistinguibili tra loro. Il volto dello stregone era contratto per la collera. – Vermi schifosi! Ratti di palude! – urlò. – Siete forse ciechi? Questo è Goffredo III di Rancon, mostrate il rispetto dovuto al signore di Taillebourg! Sibilando di paura, gli uomini ratto si ritrassero, rimpicciolendo di fronte all’ira del loro padrone. Dopo un momento, esitanti, tornarono a farsi avanti, crollando in ginocchio di fronte a Goffredo. – Imploriamo il vostro perdono… – piagnucolò il primo. – …o nobilissimo signore. – sussurrò il secondo. – Io sono Degmo, vostro umile servo… – …e io sono Dragmo, al vostro servizio. Hugon si avvicinò, agitando la torcia con impazienza. – È sufficiente. Adesso sbrigatevi a scaricare, miserabili. Abbiamo molto da fare e il tempo corre veloce. In men che non si dica, le due creature si precipitarono alla barca, affrettandosi a sollevare una lunga cassa rettangolare. Osservando lo sforzo necessario ai due nerboruti servitori per sollevarlo, Goffredo concluse che il contenitore grigio dovesse essere costruito con un qualche tipo di pietra. Hugon alzò una mano e tutti si avviarono, tallonando lo stregone lungo un buio cunicolo.

Goffredo avvertiva alle sue spalle l’incedere di Degmo e Dragmo, i pesanti intervallati da sonori sbuffi di fatica. In cuor suo, iniziava a essere stanco di quel peregrinare sottoterra, del quale non riusciva a indovinare lo scopo. I suoi timori per l’ennesima sgroppata nell’oscurità furono comunque fugati, poiché quel vagare li condusse infine a una bassa camera di forma circolare, completamente priva di aperture a eccezione dell’arco di ingresso che si apprestavano ad attraversare. Varcando la soglia, Goffredo avvertì un brivido di gelida

premonizione. Le fiamme di una coppia di bracieri strappavano alle tenebre forme orribili, danzanti sulle pareti come spiriti posseduti. Rivelate dalle lingue di fuoco, figure oscene parevano prendere vita, fuoriuscendo dalla roccia nella quale mani blasfeme avevano intagliato le loro fattezze stranianti. Il nobile non riuscì a impedirsi di far scorrere lo sguardo sull’innaturale processione di abomini che decorava il perimetro della sala. Quando, con uno sforzo di volontà, riuscì a distogliere gli occhi da quella visione terrificante, la sua attenzione fu catturata dal grande altare di pietra che occupava il centro della stanza; una lastra di roccia, grossolanamente levigata, sorretta da due rozzi pilastri. Fu lì che gli uomini ratto deposero la cassa, prima di accovacciarsi come cagnolini ai piedi di Hugon. Lo stregone, ignorando i due servitori, si avvicinò a uno dei bracieri, prese un sacchetto di cuoio dalla tasca della tunica e, sciolti i legacci che lo serravano, versò sulle fiamme una manciata di polvere rossastra. Le lingue di fuoco avvamparono con violenza, torcendosi verso il soffitto in una spirale striata di giallo e arancio; poi l’uomo ripeté la medesima operazione con l’altro braciere. Il salone, così repentinamente illuminato, rivelò nuovi orrori a uno stralunato Goffredo. Nel tratto di parete più lontano dai fuochi, finora rimasto ai margini del loro perimetro luminoso, si aprivano una mezza dozzina di nicchie, ognuna larga e alta quanto un uomo. Goffredo ebbe l’impressione che alcune delle cavità fossero occupate da qualcosa. Spinto dalla curiosità, avanzò per vedere meglio. Un grido gli salì alle labbra, soffocato a stento dal palmo della mano premuto contro la bocca. La suggestione di un istante prima assunse un’inaspettata forma umana, incarnata nelle fattezze di tre serve del castello; le riconobbe subito, nonostante non riuscisse a ricordare i loro nomi. Le aveva viste spesso: una, la bionda, lavorava alle cucine, una era una lavandaia e la terza una tessitrice. Le donne erano appese per le braccia, legate a robuste catene di ferro, i corpi abbandonati e le teste reclinate da un lato. Goffredo notò gli occhi chiusi e temette il peggio, ma poi colse un impercettibile movimento nei loro petti. Dio onnipotente… respirano! Provò una sensazione di sollievo, subito cancellata dal terribile presentimento che lo afferrò, stringendogli in un cappio la bocca dello stomaco. Allarmato, guardò lo stregone. – Hugon, perché siamo qui?

– Ve l’ho detto, quando eravamo in cima alla torre. – Mi hai detto che la fortezza non sarebbe caduta, non che saremmo venuti a rintanarci in queste cripte come sepolti vivi! – Avete forse paura? – Goffredo di Rancon non ha paura di niente. Ma pretendo di sapere cosa vuoi fare. Perché quelle donne? Hugon sorrise, accarezzando la cassa grigia. – Avvicinatevi Goffredo, e tutto vi sarà chiaro. Schioccò le dita, richiamando Degmo e Dragmo. Afferrato il coperchio, lo rimossero con attenzione, squittendo per la fatica. Nel vano polveroso era collocato il corpo mummificato di un guerriero, l’elmo di ferro ancora calzato, arrugginito come la cotta di maglia che copriva il torace scendendo fino alle cosce ormai scheletriche. Le mani ossute stringevano una grande ascia danese da battaglia. – Un morto? – chiese Goffredo, sorpreso e allo stesso tempo infastidito. – Sarebbe questa la tua arma segreta per respingere l’assalto di domani? Di cadaveri ne avremo fin troppi, e freschi… Dubito ce ne possa servire un altro, per giunta ammuffito. La risata di Hugon esplose nel cerchio di pietra, riecheggiante d’inferno. – Ora vedrete cosa può un druido delle arti nere… e scoprirete se il vostro coraggio è saldo quanto credete. – Batté le mani seccamente, una sola volta. – Portate qui la ragazza! Degmo e Dragmo schizzarono in piedi, precipitandosi verso la nicchia più vicina, occupata dalla ragazza con i capelli color del grano. Armeggiarono intorno ai polsi imprigionati. Con un tintinnio metallico, il corpo della donna, liberato dalla costrizione degli anelli di ferro, cadde inerte tra le braccia pelose degli animaleschi servitori. Levando squittii di malefica soddisfazione, trasportarono la preda al cospetto del padrone.

– Sollevatela sopra la cassa. Le creature issarono il corpo sopra la bara di pietra, posizionandosi ai due lati dell’altare, i possenti muscoli delle braccia gonfi nello sforzo di mantenere quella faticosa posizione. Nelle mani di Hugon lampeggiò l’acciaio di un pugnale. – Aspetta! – urlò Goffredo. – Non vorrai… Il suo grido si spense nell’orrido gorgoglio della gola recisa. La lama affilata si aprì la strada nel collo candido, recidendo le carotidi con un unico movimento. La giovane, ancora incosciente, non emise neppure un gemito. Il sangue schizzò con violenza dalla ferita, imbrattando le braccia e i volti di Degmo e Dragmo. I due esseri rimasero immobili, andosi avidamente la lingua sulle labbra per assaporare il liquido caldo. Goffredo, livido in viso, si posò una mano sul petto, cercando disperatamente di non vomitare. Hugon, dal canto suo, osservava la scena con evidente soddisfazione. Il suo unico occhio seguiva il fluire del fiotto scarlatto, che ruscellava inzuppando i resti polverosi del guerriero defunto. Goffredo sussultò. Per un istante gli parve di aver visto muoversi le mani del morto. Stai sognando… questo deve essere un incubo. Le dita scarnificate si strinsero intorno al manico dell’ascia, avvolta nelle ragnatele. La testa ruotò lentamente, girandosi nella direzione di Goffredo. Le orbite vuote del cadavere brillarono di una luce verde e maligna, alimentata da un fuoco diabolico che pareva ardesse all’interno del cranio, sotto la calotta dell’elmo. Goffredo arretrò istintivamente, incapace di controllare il panico. La voce di Hugon si alzò, formulando frasi empie e misteriose, in una lingua mai più udita in Francia da prima che le caligae dei legionari di Roma ne calpestassero il suolo. Il morto si alzò, uscendo dalla bara che per secoli ne aveva custodito le spoglie. Protese una mano verso lo stregone, pronto a ghermirne la gola. Degmo e

Dragmo squittirono all’unisono, ergendosi in difesa del padrone, ma Hugon li fermò con un cenno deciso. La voce stentorea del druido scandì una singola parola. L’orrore rianimato si arrestò, le dita che si aprivano e richiudevano spasmodicamente, impossibilitato ad avanzare oltre. – A dispetto della morte, ti è stata concessa una seconda esistenza, Gunnbjörn Stenkilsson, ed essa mi appartiene! Combatterai i miei nemici e li annienterai, perché nulla potrà ferirti o distruggerti. – Che Dio abbia pietà di noi, druido… – gemette Goffredo, stringendosi la testa fra le mani. – A quale mostruosità hai dato vita? – Che fine ha fatto la vostra baldanza? – lo canzonò Hugon di rimando. – Non vi avevo forse promesso vittoria? Ebbene, sarà questo vichingo a conquistarla per voi. Apparteneva al grande esercito della sua razza, che tre secoli orsono assaltò Parigi, al comando del terribile Hrôlfr, che noi chiamiamo Rollone. Poi guidò una razzia a sud della Loira, devastando il Limousin e l’Aquitania. Fu ucciso sotto le mura di Taillebourg, e qui fu sepolto. Pietra e argilla ne hanno conservato le membra e il potere del sangue umano lo ha ricondotto tra noi, strumento del nostro volere. – Sei certo di poterlo controllare? – mormorò Goffredo. Il nobile aveva smesso di tremare ma si manteneva a debita distanza. – Non vorrei ci si rivoltasse contro… – Non accadrà, e nessuna arma potrà fermarlo. Gunnbjörn si mosse spontaneamente verso Hugon, emettendo un mugolio raccapricciante, le braccia protese in una silenziosa richiesta. – Il sangue umano ti ha ridestato, e soltanto grazie a esso potrai mantenere la tua integrità in questo mondo. Un lamento di femmina si alzò flebile. Goffredo osservò sgomento le due donne superstiti muoversi debolmente, avvisaglia di un’imminente ripresa di conoscenza. – Tempismo perfetto. – esclamò soddisfatto Hugon, dirigendosi verso l’uscita della cripta. – Adesso saziati, normanno. Presto avrò bisogno della tua ascia.

Il cadavere si mosse, barcollando verso le figure incatenate.

Hugon uscì nel corridoio e scomparve, imitato dai servitori bestiali, scodinzolanti all’inseguimento del padrone. Goffredo lanciò una sola occhiata frettolosa dietro di sé, appena in tempo per vedere i denti scheggiati del morto vivente azzannare la carne viva di una delle sventurate. Un istante dopo, il signore di Taillebourg fuggiva lungo i corridoi immersi nel buio, nell’inutile tentativo di allontanarsi dalle grida disperate che risuonavano alle sue spalle.

* * *

La spada colpì il suo scudo al centro, strappando schegge acuminate alla superficie lievemente curva di solido tiglio. La potenza del colpo ò dal legno al braccio, provocandogli una fitta acuta che si irradiò attraverso il polso fino al gomito. Ignorando il dolore, Riccardo fece forza sulle gambe e spinse avanti lo scudo in una botta violenta. L’avversario, già sbilanciato dal colpo appena assestato, fu colto di sorpresa, ricevendo l’urto in pieno viso. Cadde all’indietro, il naso ridotto a poltiglia informe. Riccardo gli fu addosso in un baleno, infilando la punta della spada nella sua bocca spalancata. Appoggiandosi alla lama ancora conficcata nella gola dell’uomo, si concesse un istante per riprendere fiato prima di dare addosso al prossimo avversario. Fin dal primo istante, l’assalto era degenerato in una zuffa disordinata e sanguinosa, data la determinazione di entrambe le parti ad assumere il controllo dell’ampia breccia. La “Bête de Taillebourg”, questa volta ata da altri tre ordigni più piccoli, frutto degli sforzi dei carpentieri di mastro Gauthier, aveva bersagliato la cinta muraria per tutta la notte. Gli uomini addetti al tiro, esausti, erano crollati sulle proprie macchine appena dopo il levar del sole, quando una parte delle mura era rovinata con un fragore di tuono simile all’echeggiare delle trombe di Gerico. Con magnifico tempismo, senza neppure attendere che la nube di polvere e calcinacci si diradasse, Riccardo aveva impartito l’ordine di attacco, scagliando avanti i suoi uomini. Appostati tra le pietre frantumate, calpestando i corpi maciullati di quanti non erano stati lesti abbastanza per sfuggire alla devastazione, i difensori di Taillebourg avevano atteso a piè fermo, decisi a contendere con l’acciaio ogni spanna di terreno.

Le due masse di uomini si scontrarono in un urto tremendo, onde contrapposte di muscoli e metallo, intrecciate in una spaventosa mattanza; e poiché il giovane duca non era uomo capace di sfuggire il pericolo, mandando altri alla morte, era sempre in prima fila, incurante del rischio, esponendosi direttamente per spronare fanti e cavalieri. Un soldato, avvicinandosi da tergo, alzò l’ascia per colpirlo alla schiena. Il lungo bastone di Little John fischiò, abbattendosi sulla testa protetta da un largo cappello di ferro. L’asta, di solida quercia indurita al fuoco, accartocciò il metallo, sbriciolando il cranio sottostante. Il gigante ritrasse l’arma, gocciolante di sangue e materia cerebrale, lasciando crollare a terra il corpo senza vita. Gli occhi nocciola del colosso avevano perso la loro innata dolcezza. Afferrò bruscamente Riccardo per la spalla e lo costrinse a girarsi, folgorandolo con lo sguardo. – Per la barba di San Dunstano! Testa di legno, vuoi farti ammazzare? – Per quello? – rispose Riccardo con un’alzata di spalle, indicando il cadavere ai suoi piedi con la punta della spada. – Non posso guardarti sempre le spalle, specie nel pieno di una battaglia… – Il viso di John avvampò di collera. – Dannazione a te, ogni tanto cedi il o e lascia un brandello di gloria anche ai tuoi cavalieri! – La predica nel bel mezzo della battaglia? Lascia stare vecchio mio, ho una città da prendere. – Signore, cosa ho fatto di male… – imprecò l’altro, picchiandosi il pugno sulla testa protetta dalla calotta di ferro. – E allora, muovi le tue nobili chiappe e andiamo a porgere omaggio al buon Goffredo.

L’incertezza aleggiava sul campo di battaglia, danzando leggera sulle punte di lance e spade, scivolando sul filo delle scuri e sugli anelli intrecciati degli usberghi. Nessuna delle due parti sembrava capace di prevalere, poiché, nonostante gli sforzi dei contendenti, la vittoria pareva sfuggire a entrambi, preda ambita ma irraggiungibile. Gli attaccanti, guidati dall’impeto del loro giovane comandante, avevano posto piede sulla breccia per tre volte, ma

altrettante ne erano stati respinti, lasciandosi dietro una scia di cadaveri. D’altro canto, neppure i difensori erano stati in grado di contrattaccare in modo decisivo, pagando ogni assalto con moneta di sangue. Il Duca di Aquitania si terse il sudore che dal bordo dell’elmo gli ruscellava sulla fronte, scendendo a inzuppargli la barba, e scrutò la muraglia umana che si ostinava a sbarragli la strada: spalle curve e volti stanchi, occhi annebbiati e mani tremanti, armi sorrette più dalla forza della disperazione che da quella dei muscoli. Riccardo sapeva leggere il campo di battaglia come un libro aperto, svelandone i misteri celati a occhi meno attenti. L’intuito innato per la guerra, eredità di suo padre in lui ancor più sviluppata, gli consentiva di riconoscere istintivamente i momenti decisivi, quei delicati frangenti in bilico tra vittoria e sconfitta, gloria e ignominia, vita e morte. – Con me! Un’ultima volta! Il suo grido si perse nel boato di migliaia di gole urlanti all’unisono. Come un sol uomo, l’esercito avanzò, inerpicandosi sullo sfacelo di pietre che lo divideva dalla città. Un ronzio minaccioso riempì l’aria, precedendo la nuvola di frecce e quadrelli che avvolse gli assalitori, aprendo vuoti sanguinosi tra le fila avanzanti. L’attacco ondeggiò, sferzato dalla morte sibilante. Per un momento, la pioggia di ferro sembrò aver ragione della carne e del sangue. Alla fine, l’illusione svanì come rugiada sotto il sole e la schiera, sospinta dall’entusiasmo, travolse i difensori, scalzandoli dalle posizioni che avevano tenacemente difeso. Ai lati della breccia, gli arcieri e i balestrieri che fino a quel momento avevano bersagliato senza sosta il nemico, persa la protezione della fanteria ormai in rotta, furono costretti a cedere anch’essi terreno per evitare di essere soverchiati. Il leone dorato in campo rosso, trapunto sui vessilli d’Aquitania, ruggì nel vento del mattino mentre le truppe irrompevano vittoriose a Taillebourg.

Nella concitazione che seguì l’ingresso in città, Riccardo dimostrò ancora una volta le sue qualità di comando, tenendo ben salda la briglia dei suoi. Impartiti gli ordini necessari per impedire che le truppe si sbandassero, inseguendo nelle vie facili bottini d’oro o sottane, lasciò a Ranulf de Thouars il compito di setacciare strade e abitazioni, annientando le eventuali sacche di resistenza

residue. Raccolto intorno a sé un buon nerbo di uomini, si avviò invece in direzione del ripido acciottolato che si inerpicava sul fianco della rupe, collegando il centro abitato alla fortezza. Proprio lì, in lontananza, poteva scorgere i soldati della guarnigione arrancare in fuga, piccole formiche impazzite in cerca di scampo. – Vuoi saggiare le difese? – chiese John. – Per assalire il castello, dovremo comunque riposizionare a gittata utile le macchine d’assedio. Non sarà un lavoro breve, e nel frattempo voglio dare un’occhiata alle mura; se esiste qualche punto debole, potremo farcene un’idea. All’imbocco del sentiero, la presenza incombente della roccaforte, che si ergeva quasi a strapiombo sopra le loro teste, si fece opprimente. Il titano di pietra grigia attendeva indifferente, gli spalti silenziosi e immobili. – Qualcosa non va, John. Il compagno sbuffò sonoramente, appoggiandosi di peso al bastone insanguinato. – Né frecce, né pietre… lassù schiacciano un pisolino, o è in arrivo qualche sorpresa La risposta si materializzò in un rumoroso ruotare di cardini. Le porte del castello di Taillebourg si spalancarono con un cigolio metallico che rimbalzò tra i contrafforti rocciosi. – Il vecchio pancione ha del fegato, dopotutto. – rise John. – Devi ricordarmi di fargli i complimenti prima di accopparlo… Non credevo avesse le palle per osare una sortita. – Un azzardo che gli costerà caro. Li travolgeremo prima che si schierino. Cogliamoli con le brache calate! Riccardo chiamò a sé uno scudiero. – Torna in città di corsa e cerca Sir Ranulf. Digli di raggiungerci subito; e che porti gli uomini migliori! Se le cose vanno come spero, avremo bisogno di rinforzi. Hai capito?

Il ragazzo, giovanissimo e decisamente imbarazzato per aver ricevuto un incarico direttamente dal duca, annuì e corse via, non prima di aver abbozzato un goffo inchino e una risposta balbettante. Riccardo non attese che il messaggero si fosse allontanato; riuniti gli uomini attorno a sé, li guidò senza indugio alle porte. Procedendo verso l’alto, il sentiero lastricato si trasformava in una angusta mulattiera, scavata direttamente nella roccia viva. Dopo un ultimo e breve tratto rettilineo, il percorso curvava bruscamente in uno stretto tornante, ripiegando in direzione dell’accesso alla rocca. Superato questo punto, gli assalitori si arrestarono, sorpresi dalla visione che si parò loro dinnanzi. Le porte di Taillebourg erano spalancate, gli scuri battenti di quercia protetti da una tripla linea di armati, schierati in silenziosa attesa. Alla loro testa, si ergeva un guerriero scheletrico dall’aspetto sconcertante; elmo e cotta di maglia, di antica foggia nordica, avevano perso da tempo il loro colore originario, la brillantezza del metallo ormai sepolta dalla coltre rossiccia della ruggine. La corrosione pareva aver intaccato anche la testa della lunga ascia danese che portava appoggiata alla spalla. Sotto il metallo, gli abiti non erano che un ammasso di stracci polverosi, cenci consumati dal tempo, incapaci di celare il biancore delle ossa e gli scarni brandelli di carne e muscoli ormai mummificati. In tale decadimento, era tuttavia visibile una scintilla di orrida vita, fiammelle verdi che ardevano nelle orbite vuote. – Sangue del diavolo… Riccardo, o quello è un cadavere che cammina o io sono il vescovo di Reims. – sibilò John. – Prenderai i voti un’altra volta, allora. Vediamo di rispedire quell’abominio nella fossa dalla quale è strisciato fuori. A un cenno della sua mano, mezza dozzina di quadrelli volarono a bersaglio, trafiggendo il non morto. Unico effetto dell’attacco fu il serrarsi scricchiolante delle dita scheletriche intorno al manico dell’ascia. La creatura, che in vita aveva risposto al nome di Gunnbjörn Stenkilsson, mosse contro gli avversari, seguita dagli uomini di Goffredo. L’impatto del suo assalto fu spaventoso. Animata dalla magia nera, muoveva la grande ascia in gesti ampi, imprimendo una forza terrificante a ogni colpo, del tutto indifferente al fatto che i fendenti la esponessero a pericolose risposte.

Riccardo si ritrovò sgomento a osservare i suoi mentre venivano fatti a pezzi. Lance e spade si abbattevano sulle ossa polverose, solo per venirne misteriosamente respinte, oppure attraversavano i tessuti ormai disfatti senza causare danni apparenti. Ci volle poco perché il panico iniziasse a propagarsi. Allo scempio causato dal vichingo si aggiunse l’attacco degli uomini di Goffredo; sotto una tale pressione la coesione dei ranghi iniziò a sfaldarsi. Riccardo comprese che lo scontro era perduto; i suoi veterani potevano reggere qualsiasi urto, ma non quello di un nemico stregato e invulnerabile. In preda a una rabbia furiosa colpì, aprendo in due il volto di un lanciere avversario, prima di abbatterne un altro, schiantandogli lo sterno con una spallata. Era deciso a raggiungere il non morto. Se sconfitta doveva essere, avrebbe almeno abbattuto l’orrore causa di quel disastro. John lo raggiunse nella mischia, i capelli ricci impastati di sangue e cervella. – Dove credi di andare? Quello ti ammazza. – Posso ucciderlo. – rispose Riccardo, cercando di spingerlo da parte. L’altro lo fronteggiò, saldo come la pietra. – E come conti di fare? Ragiona, per Dio! Se tu cadi è tutto perduto. Ordina la ritirata, invece, prima che quel demonio faccia una strage. Uno squillo di corno alle loro spalle segnalò l’arrivo dall’abitato dei primi rinforzi, un buon centinaio di uomini che si gettò con entusiasmo nella mischia. Alla loro testa, un giovane dai corti capelli neri, alto e ben piantato, guidava l’attacco. Riccardo ne fu incuriosito. Il ragazzo, privo di elmo, era protetto dall’usbergo tipico di un cavaliere, ma senza alcuna cotta d’arme a renderlo riconoscibile, cosa insolita e rischiosa per un uomo di rango, poiché i nemici avrebbero potuto ucciderlo anziché tentare di catturarlo per un riscatto. Anche il semplice scudo non portava stemma. Forse uno dei nostri mercenari?

– Guarda quel ragazzino… a volte anche il vero coraggio può essere in vendita. – disse Little John, indovinando il suo pensiero. – Ha del fegato il pulcino! E davvero lo sconosciuto stava dando sfoggio di valore. Mulinando il falcione senza risparmio, aprì un varco sanguinoso nel fronte dei nemici, spazio nel quale si incunearono i compagni d’arme sfruttando il momento. La bilancia dello scontro tornò in precario equilibrio. Le milizie di Riccardo, spronate dalla presenza del loro signore e ora anche dall’esempio del mercenario, diedero fondo a tutte le risorse rimaste. Le muraglie contrapposte di carne e acciaio ondeggiarono avanti e indietro, spazzate dal vento dell’incertezza. Avanzò allora il non morto; recidendo siepi di lance intrecciate, stese di fronte a sé un tappeto rosso di morti. Quanti tentavano di opporsi a lui, altrettanti incontravano lo stesso tragico destino, fossero semplici armigeri o prodi cavalieri. Riccardo imprecò e fece per avanzare. – Aspetta! – disse Little John, la mano stretta intorno alla spalla per trattenerlo. – Guardalo… quel magnifico incosciente! Al centro della carneficina, mostro e mercenario si fronteggiavano. Gli uomini di entrambi gli schieramenti arretrarono, spinti dalla curiosità per il duello imminente ma anche istintivamente attratti dall’occasione di un momento di respiro. Il non morto fu il primo ad attaccare. L’ascia si alzò e ricadde in una traiettoria di distruzione. Il ragazzo schivò come meglio poteva. Evitò di un soffio un secondo colpo. Ne scansò un terzo a fatica, poi un quarto. L’arma della creatura fendeva l’aria senza mai rallentare, sorretta nei suoi attacchi da braccia e gambe che non conoscevano dolore o stanchezza. Il mercenario, compresa presto l’inutilità di qualsiasi sforzo teso a sfiancare

l’avversario, contrattaccò tentando di sfruttare al meglio la maggiore mobilità. Danzando sulle gambe, colpì ripetutamente, cercando un varco utile nella guardia del nemico. Il cadavere vivente non parve preoccuparsene, quasi indifferente all’azione del ragazzo. Il falcione disegnò l’ennesimo fendente, ma questa volta la reazione non fu quella che il mercenario si aspettava. Il non morto si mosse con insospettabile rapidità, vibrando l’ascia danese in un colpo di straordinaria potenza; solo un disperato balzo all’indietro impedì al giovane di ritrovarsi con il cranio scoperchiato. La forza stessa del colpo trascinò in avanti il mostro, esponendolo a una risposta che giunse fulminea. Sfruttando l’opportunità, l’uomo calò un fendente formidabile. Riccardo e Little John si lasciarono sfuggire un grido di esultanza. La lama affilata raggiunse la colonna vertebrale, staccando il teschio dal resto del corpo, prima di colpire rumorosamente le pietre del sentiero. Gunnbjörn Stenkilsson crollò in ginocchio. Un soldato si avvicinò al teschio, esultante, per raccogliere il macabro trofeo. Un lampo d’acciaio, un urlo, e il corpo del malcapitato si accasciò, spaccato in due dalla testa allo sterno. Il vichingo, ancora senza testa, sollevò il cadavere maciullato e lo gettò addosso ai compagni orripilati, in una pioggia di sangue e interiora. Gli uomini di Riccardo arretrarono, in preda al terrore. L’essere raccolse il teschio con deliberata lentezza e lo ricollocò nella sua posizione originaria, dove rimase ben saldo, in virtù di chissà quale stregoneria. Il fuoco verde riavvampò diabolico. Di fronte a tanto orrore, anche il coraggio dei più intrepidi venne meno. L’intera schiera si diede alla fuga, rifluendo in una massa scomposta lungo il sentiero, inseguita dai nemici trionfanti. Il non morto invece volse le spalle alla battaglia. Gunnbjörn, figlio di Stenkil,

non era solito rinunciare alla lotta ma ora aveva fame, una fame mai provata neppure in vita. Trascinando lentamente le sue ossa sulle pietre insanguinate, scomparve all’interno della fortezza. Goffredo e Hugon, che fin dall’inizio avevano assistito al combattimento dall’alto delle mura, inviarono altri contingenti a incalzare gli uomini di Riccardo. A nulla valsero gli sforzi del Duca di Aquitania per riportare la disciplina e organizzare una resistenza. La folla di sbandati si riversò in città, percorrendo le strade come un fiume in piena. Il panico generale travolse anche le truppe che avevano assunto il controllo dell’abitato, spaventate e confuse nell’assistere all’improvvisa e inspiegabile rotta dei propri compagni. Prima che le campane delle chiese di Taillebourg scandissero i rintocchi di mezzogiorno, all’interno della città non era rimasto un solo uomo dell’esercito che, meno di un’ora prima, ne aveva così valorosamente espugnato le mura.

* * *

L’accampamento era una bolgia di disordine e paura. Gli uomini, evacuata la città, avevano ripiegato in una massa confusa, sordi ai richiami dei comandanti. Ogni parvenza di ordine si era dissolta, rendendo vani gli sforzi dei picchetti di guardia per ricompattare la folla degli sbandati. Quando fu chiaro che i difensori non avrebbero spinto l’inseguimento oltre le mura, timorosi di un contrattacco delle milizie che presidiavano il campo, il panico iniziò finalmente a scemare, ma solo per cedere il o allo sconforto. Fanti e cavalieri giacevano qua e là, seduti con il capo chino o semplicemente stesi a terra, con il viso tra le mani, armi e scudi disseminati alla rinfusa. Riccardo osservò un gruppo di lancieri, impegnati a reggersi faticosamente alle aste conficcate nell’erba. Parlottavano animatamente, voci concitate che discorrevano di vergogna e sconfitta. Avvicinatosi, riuscì a cogliere alcune parole, ripetute ossessivamente e venate di terrore: “Il Cavaliere della Ruggine”.

Riccardo, strinse i pugni, maledicendo in cuor suo il demone che aveva trasformato una vittoria quasi certa nella più amara delle sconfitte. A tal punto giunge la tua determinazione, Goffredo? Per trionfare su di me sei disposto ad allearti con le tenebre? Rimuginando sull’accaduto, prese a vagare tra i capannelli di uomini, distribuendo pacche sulle spalle e frasi di incoraggiamento. Umili armigeri o nobili di rango, tutti ricevettero una parola di stima e conforto. Al termine di quel lungo peregrinare, svuotato di ogni energia e ancora coperto di sangue e sudore, si diresse infine ai suoi alloggi per riposare. Giunto alla tenda, non fu sorpreso di trovarvi Little John. In piedi accanto a lui, appena un o indietro, vide il giovane mercenario. – Il nostro scavezzacollo, come volevi. – esclamò John. – Adesso mi leggi nel pensiero? – chiese il duca, lasciando cadere l’elmo accanto al letto. – Se non vuoi parlarci, lo faccio andar via… – Ma piantala! – ridacchiò Riccardo. – E vai a riposare. Come avevi detto, temo ci aspettino giorni più difficili del previsto. Il colosso annuì e lasciò la tenda, non prima di aver fatto cenno al ragazzo di farsi avanti. – Siediti, e prendi un po’ di vino. – disse Riccardo, indicando la brocca posata sopra al tavolino. – Versane anche per me. Sa il cielo se non ne ho bisogno… – È stata dura, mio signore. – disse l’altro, riempendo due coppe. – Dura sì… ma tu non hai demeritato. Ti sei fatto valere. Qual è il tuo nome? Non mi pare di averti mai visto. Combatti tra i miei mercenari? – Mi chiamo Bryce. Mi sono unito all’esercito un paio di settimane prima della presa di Richemont. – Bryce hai detto… Bryce, e poi? Ce l’avrai una famiglia.

– Soltanto Bryce. – Capisco… – mormorò Riccardo, osservandolo con occhi attenti. – Io sono giovane, ho solo ventidue anni, ma diavolo, tu… – Ne ho diciassette. – farfugliò. – Compiuti. – E cosa ne pensano a casa di questo tuo giocare alla guerra? – Mia madre è una serva di cucina. Il fatto che l’esercito badi a sfamarmi al suo posto, per lei è solo un sollievo. Quanto al resto… sono un bastardo. – Chi è tuo padre? – Un cavaliere inglese. Fece i suoi comodi con mia madre durante un torneo, in Normandia. – E non ti ha riconosciuto… Tua madre non ti ha rivelato l’identità di questo galantuomo? Il giovane arrossì violentemente, poi abbassò la testa, fissando i propri piedi nel tentativo di nascondere l’imbarazzo. – Preferirei non parlarne, mio signore. Ma se si tratta di un ordine… – Va bene così, almeno per ora. – disse Riccardo alzando una mano. – Un uomo, anche alla tua età, ha il diritto di avere dei segreti. Ne riparleremo in un’occasione migliore. Bryce socchiuse le palpebre, reprimendo uno sbadiglio. – Siamo tutti esausti. – disse Riccardo. – Purtroppo la sconfitta non è il miglior balsamo per sanare la fatica. – Ma la prossima volta non finirà così! – scattò Bryce, con un’irruenza sfacciata che tradiva la sua età. – Ragazzo, di certo hai coraggio, e oggi ne hai dato buona prova. Affrontare quella cosa a viso aperto non era da tutti, ma non hai esitato. Non sarai un cavaliere, anche se ne porti le armi, ma non vi sono dubbi sul fatto che tu ne

possieda il valore. Riccardo sorrise, si avvicinò, e posò le mani sulle ampie spalle di Bryce. – Oggi, guardandoti mentre ti battevi con quel demonio, ho avuto la sensazione di rivedere me stesso… la stessa gioventù, la temerarietà, quella stessa incosciente spavalderia… Non è concesso a tutti il privilegio di potersi vedere realmente allo specchio. – Perdonate, ma non sono sicuro di capire esattamente cosa intendiate. Riccardo scosse la testa. – Non farci caso. Ora ritirati. eremo il resto della giornata a riposare e riorganizzarci, nell’attesa che la notte porti consiglio. Domani vedremo cosa fare per spedire Goffredo di Rancon a trovare quel diavolo con cui pare ami tanto trafficare.

Capitolo 3 – Il nome che infranse il sogno

Ogni faccenda d’armi, come qualsiasi vicenda dove l’uomo e le sue ioni siano protagonisti, rappresenta un universo a sé. Entro i suoi confini, ogni azione, ogni scelta, ogni singolo particolare, contribuisce a creare il flusso di eventi che, intrecciandosi, porteranno all’esito finale. Durante questo processo vi sono sempre dei punti chiave, snodi nello spazio e nel tempo destinati a rivelarsi fatali per una delle parti in lotta: la morte di un comandante, una posizione persa o conquistata, una battaglia perduta… Riccardo sapeva di trovarsi esattamente in uno di quei momenti cruciali. Quando la maggior parte degli uomini si fu arresa al sonno, uscì e camminò sotto le stelle. Avvolto nel mantello, girovagò tra le tende, pedinato dagli sguardi incuriositi e un po’ assonnati delle sentinelle. Avvertiva l’odore acre della sconfitta. Aleggiava sulle tende silenziose, un fantasma etereo, nutrito di scoramento e paura, capace di corrompere al suo tocco i cuori meno saldi. Riccardo inspirò a pieni polmoni. Perfino l’aria fresca della notte sembrava puzzare di onta e vergogna. Doveva evitare che il morbo del disfattismo contaminasse l’armata, duramente colpita dalle pesanti perdite della giornata. Si fermò presso l’estremità del campo, sedendosi su un barilotto di birra, rovesciato all’ingresso di una tenda sudicia, macchiata da grosse ditate di unto. Ignorando il pesante russare proveniente da oltre il telo, sprofondò in pensieri più cupi delle nuvole che ora coprivano il luccichio delle stelle. Padre, tu cosa faresti?

Il pensiero lo sorprese. Ultimamente pensava spesso a Re Enrico. Che ciò fosse causato da un rimorso per la sua ata rivolta contro l’autorità paterna, o da qualche altro motivo imperscrutabile, non avrebbe saputo dirlo.

Eppure, la domanda restava. Che fare? L’esercito rischia di crollare… ma non posso ritirarmi! Se cedessi ora, tutti i baroni sconfitti tornerebbero a rivoltarsi contro di me come cani rabbiosi… Si alzò, in preda a una furia impotente. Sferrò un calcio stizzito al sedile improvvisato e il barilotto si rovesciò, rotolando addosso alla tenda. Un colpo secco, di legno contro ossa, seguito da un rosario di imprecazioni. La collera di Riccardo sbollì in una precipitosa ritirata nell’oscurità, accompagnata dalle irripetibili maledizioni della sua vittima ignota.

La familiare comodità del letto non gli portò il conforto che sperava. Lenzuola e coperte, anziché offrirgli ristoro, gli si strinsero addosso, serpenti di lana e stoffa avvinghiati a soffocarlo. Finirono presto sul pavimento, un mucchio informe nel buio. Rigirarsi e cambiare posizione non sortì effetti migliori. Snervato dall’incapacità di prendere sonno, iniziò a giochicchiare con il piccolo crocefisso d’oro, ruotandolo tra le dita. Confida a lui la tua ora più oscura… – Madre, madre… – mormorò. – Non so se sia la mia ora più oscura, ma è disperata abbastanza da sperare in un miracolo. – Guardò il simbolo sacro. – Se puoi e vuoi, aiutami. I rubini incastonati nel metallo si accesero di un bagliore improvviso, tizzoni di fiamma rossa nelle tenebre. Lo sguardo del giovane fu calamitato dalle gemme ardenti. Mentre li fissava, i gioielli parvero pulsare e i fiori delle decorazioni presero vita, scivolando in una danza argentea sulle braccia della croce. Riccardo avvertì le palpebre farsi pesanti. Contro ogni logica, cercò ostinatamente di resistere al sonno fino a quel momento agognato, rendendosi conto, per la seconda volta in quel giorno, di non poter vincere la battaglia. Chiuse gli occhi e si arrese.

Riccardo!

Una voce. Lo raggiunse da lontano, squarciando il bozzolo d’oblio nel quale era precipitato. Riccardo! Una voce vissuta. Forse di un vecchio. Eppure, anche immerso nel sonno, seppe con certezza che nessun vecchio sulla terra avrebbe mai potuto parlare con una voce simile. Riccardo! Rabbrividì. Era un timbro antico, come le fondamenta della terra e i pilastri del firmamento, una voce capace di attraversare gli abissi dello spazio e del tempo, misteriosa e insondabile, ma allo stesso tempo riecheggiante di un’autorità assoluta. Schiacciante. Riccardo! Lo vide. Senza che si fosse avvicinato. Semplicemente apparve, materializzandosi davanti a lui. Un uomo anziano, pelle ferita dal tempo e occhi azzurri come il cielo del nord, barba e baffi di un candore accecante a circondare un sorriso da lupo selvaggio. – Chi sei? Un sogno forse, oppure sei reale? Il vecchio non rispose. Il sorriso si allargò ancora, conferendo alla figura, magra ma imponente, avvolta in una lunga tunica nera, l’aspetto di un animale da preda pronto ad azzannare. – Riccardo Plantageneto! L’ora è giunta e il fato incombe. Sono qui per aiutarti. – Non ti capisco, vecchio, e non ti conosco. Non so neppure se tu esista veramente. – Mi hai chiamato e io ho risposto. Solo questo conta. – Cosa vuoi da me? – Che tu compia una scelta.

– Quale scelta? – Quella che spetta ai re. – Non ho scettro, né corona. – rispose Riccardo, la voce incrinata da un’improvvisa amarezza. – Né mai li avrò. – Ti sbagli. Il cuore del duca ebbe un sobbalzo. L’assoluta sicurezza di quell’affermazione lo scosse fin nel midollo delle ossa. – Non spetta a me il trono… – È vero. Cionondimeno, sarai re. – Basta giocare! – scattò Riccardo. – Come puoi dirlo? – È scritto. Ma c’è una scelta da fare, perché questo si compia. – Non mi piacciono gli enigmi. – Allora taci, e ascolta. – rispose l’altro. – Perché non mi è concesso restare a lungo tra i viventi. Riccardo impallidì, avvertendo i capelli rizzarsi sulla nuca. Allungò istintivamente la mano verso la spada, che sapeva essere posata sullo sgabello. Le dita si strinsero intorno all’aria. Lo sguardo atterrito del giovane scoprì un paesaggio di nebbia informe. La tenda, il braciere, il letto… tutto era scomparso. Restavano solo lui e il misterioso visitatore, circondati da un nulla ignoto e lattiginoso. – In nome di Cristo, giungi dunque qui dall’oltretomba? Dimmi il tuo nome. – Merzhin, mi chiamano i bretoni, e per le genti del Galles sono Myrddin Emrys… Quanto all’Inghilterra, là mi conoscono come Merlino. Riccardo ammutolì. – Ti prendi gioco di me?

– È una cosa che mi dicono spesso… – disse l’altro, accarezzandosi pensoso la barba bianca. – Credo sia stato Uther Pendragon il primo a farlo, quando gli dissi che avrei reso possibile la sua notte di lussuria con Ygraine; anni dopo, anche Artù mi accusò di deriderlo, quando gli raccontai che sarebbe stato lui a estrarre la spada dalla roccia. Ora è il tuo turno, pare… – Sei davvero tu, dunque? Merlino il potente, l’ultimo dei druidi. Ma come è possibile? E perché mai dovresti aiutarmi? Non ti servono poteri magici per indovinare che sono cristiano. – Parli del crocifisso? – rise il vecchio. – Ma è proprio tramite quello che ho potuto raggiungerti. – Io non adoro i tuoi dei pagani, druido. – Pochi sono coloro che ancora lo fanno, nascosti in luoghi inaccessibili o all’ombra di antiche querce. Il Cristo Bianco ha scacciato le antiche potenze secoli fa, ma il mio compito non è cambiato. Riccardo tacque. Madido di sudore freddo, la pelle increspata per la tensione, tentava di capire quanto di ciò che vedeva e udiva fosse reale. Si ritrovò a pensare di essere prigioniero di qualche allucinazione, indotta da tensione e stanchezza. Le parole di Merlino lo riportarono bruscamente alla realtà. – Oggi come allora, io difendo la stirpe dei re di Britannia, che ora chiamate Inghilterra, quelli che sono e quelli che saranno. Questo incarico mi fu affidato e lo onoro da secoli. La morte mi impedisce di essere fisicamente al tuo fianco, ma la mia saggezza sarà con te, da oggi fino al tuo ultimo giorno. – Indicò con la mano il crocifisso che Riccardo stringeva ancora nel pugno. – In circostanze estreme, quando vedrai svanire la speranza e avrai bisogno del mio consiglio, potrai chiamarmi attraverso quello. Riccardo guardò il monile. – Artù lo fece forgiare quando il Graal fu ritrovato. – disse Merlino. – Mi chiese di legare parte del mio spirito ad esso, in modo da potermi sempre raggiungere. Da quel giorno, viene tramandato in gran segreto a ogni re d’Inghilterra. Quando Re Stefano morì, tua madre se ne impadronì. Lo tenne nascosto a Enrico, per poi donarlo a te.

Riccardo fronteggiò il fantasma. Gli occhi grigi accesi da una luce di sfida. – Voglio crederti, Merlino. Non sono destinato alla successione, ma se quel che dici è vero, se il destino vuole che io cinga la corona, allora gelerà l’inferno prima che io mi faccia sfuggire l’occasione offerta dal fato! Dimmi cosa devo fare. – Devi vincere. – Più facile a dirsi che a farsi. – Non c’è altro modo. Il trionfo su coloro che si oppongono a te è il primo o sulla via del trono. Schiaccia i baroni. – Non temo nessuno, ma non posso battermi contro la magia nera. – Artù lo fece. Ed era un ragazzo come te. Forse anche più sprovveduto. – Uno sprovveduto con una spada magica, però. – Excalibur è perduta per sempre. – mormorò Merlino. – Tornerà, un giorno, quando Artù stesso lo farà, e solo lui potrà brandirla di nuovo… Però hai ragione, per opporsi alle tenebre muscoli e coraggio non basteranno. Dovrai avvalerti di un potere più forte. – Farò ciò che devo. – Nessuna arma comune potrà uccidere ciò che il negromante ha evocato… – Il mago agitò il pugno a mezz’aria, sussurrando una maledizione. – Quel miserabile di Hugon… potessi ancora assumere forma fisica, penserei io a spazzarlo via da questa terra come fa il vento con le foglie secche. – Sospirò, sciogliendo la rabbia in un sorriso astuto. – Ma ci sono altri modi, ragazzo mio… trova “la Spina di Poitiers”. – La Spina di Poitiers… Non ne ho mai sentito parlare. – È una reliquia potente. – Una reliquia? Ma…

– Credevi forse che ti avrei spedito a cercare una dama in qualche lago o altra roba del genere? – lo canzonò il vegliardo. – Molte delle potenze che agivano nel vecchio mondo non hanno più la forza per operare. Il male ora deve essere combattuto dal nuovo potere che origina dal dio dei cristiani. – Tu parli del potere della Croce. – Sì, o di quello posseduto da quanti hanno combattuto per essa. Cosa sai della battaglia di Poitiers? – Da bambino, costrinsi mia madre a ripetermi fino alla noia le cronache di quel giorno di gloria per la Cristianità. – Conserva quei ricordi allora, ti serviranno. La reliquia è legata al luogo dello scontro. Di più non posso dirti. Riccardo corrugò la fronte. – Cosa significa? Vuoi dire che non sai altro? – Non dovresti perdere tempo a discutere. – rispose Merlino. Ora la voce del mago sembrava più fioca, quasi provenisse da una grande distanza, anziché da pochi i. – Devi essere pazzo! – ringhiò Riccardo, fissandolo con occhi gelidi. – Il morale delle mie truppe è appeso a un filo, e secondo te io dovrei andarmene a sud, a vagare su un campo di battaglia vecchio di secoli… e per fare cosa, poi? Cercare una fantomatica reliquia di cui in realtà non sai nulla? – Placa la tua collera, ragazzo. – I miei cavalieri finirebbero per appendermi a un albero, e avrebbero ragione. Un capo non abbandona i suoi uomini nel momento più duro. – Non ho detto che sarebbe stato facile. – Basta, vecchio, vattene prima che perda la pazienza! Se questo è tutto l’aiuto che hai da darmi, avresti potuto risparmiarti la fatica di evadere dall’inferno per venire a guastarmi il sonno.

– Stolto! – tuonò Merlino. – Ti prenderei a schiaffi per la tua sciocca insolenza, ma purtroppo nella mia condizione anche questa piccola soddisfazione mi è preclusa. – Si avvicinò, fino a portare il suo viso a una spanna da quello di Riccardo. Il duca arretrò, intimorito dall’energia che si sprigionava da quel vecchio senza età. – Secoli nella terra dei morti hanno indebolito l’intensità della mia preveggenza, ma non sono riusciti a cancellarla. Riesco ancora a vedere il futuro allungarsi davanti a me, eppure scrutarlo è come affondare lo sguardo in un mare di nebbia. Intravedo solo sprazzi di ciò che potrebbe accadere, frammenti delle possibilità che il destino propone e degli esiti che potrebbero derivare dalle scelte degli uomini. La figura dell’incantatore iniziò a dissolversi. Merlino chiuse gli occhi e inspirò profondamente, quasi cercando dentro di sé un rimasuglio di forza; i contorni del suo corpo, per un istante, tornarono a delinearsi con chiarezza. – C’è qualcuno che può trovare il luogo esatto dove giace la Spina… In un tremolio, il druido svanì nella foschia, scomparendo alla vista di Riccardo. Il duca si guardò intorno, confuso. Dalle tenebre, la voce di Merlino, eco lontana ormai appena distinguibile, lo raggiunse un’ultima volta. – …qualcuno che porta il nome che infranse il sogno. Trovalo, e compi il tuo destino.

* * *

Il primo cavaliere entrò nella radura poco prima di mezzanotte. In lontananza, Taillebourg non era che una sagoma massiccia nelle tenebre. Alla luce della torcia che stringeva in pugno, osservò l’ampio spiazzo d’erba, circolare e bordato di querce secolari. Uno accanto all’altro, gli alberi maestosi formavano una siepe, giganti lignei che delimitavano il confine di quel luogo nascosto. Trascorsi alcuni minuti, l’uomo si decise a scendere da cavallo. Legato l’animale a un ramo, avanzò di alcuni i, prima di fermarsi, in attesa. Non dovette

attendere a lungo. Il secondo uomo lo raggiunse di lì a poco, presto seguito da un terzo. Via via, uno dopo l’altro, altri si aggiunsero alla silenziosa riunione, ombre scure che fuoriuscivano dalle tenebre per unirsi al cerchio di luce fiammeggiante che andava formandosi in quell’angolo celato della foresta. La misteriosa congrega assommava circa una quindicina di individui, quando due figure avanzarono con o deciso, esponendo i propri lineamenti al bagliore delle fiaccole. Il profilo di Goffredo, alto e massiccio, contrastava in modo bizzarro con l’immagine del compagno deforme. Hugon rimase un o indietro, mantenendosi seminascosto nelle ombre. Soltanto metà della sua faccia appariva con chiarezza, i lunghi capelli cadenti sul viso, una coltre nera che celava parzialmente l’orbita vuota. In molti si chiesero come i due uomini avessero potuto abbandonare la fortezza assediata per raggiungere quel luogo, ma nessuno ebbe il coraggio di formulare la domanda. La voce del nobile risuonò squillante, frantumando un silenzio che si avvertiva carico di attesa. – Guardatevi intorno, amici, guardate! Tutti quelli che sono radunati qui hanno una cosa sola in comune. – E quale? – rispose un uomo, la voce vibrante di malcelata ironia. – Quella di essere stati presi a calci in culo dal Duca di Aquitania? – Quello accomuna solo voialtri, Aimaro di Limoges. – rispose Goffredo, sprezzante. – È stato il rampollo reale, finora, a doversi leccare le ferite, non certo io. Le mie mura sono ancora in piedi. – Sorrise, lisciandosi la corta barba brizzolata con la mano in un gesto distensivo. – Però è davvero lui a unirci. Riccardo è un nemico per tutti quelli che sono qui stasera. – Allargò le mani, abbracciando con lo sguardo i suoi interlocutori. – Ma il tempo della nostra vendetta è ormai prossimo! Se uniamo le forze, senza divisioni e tentennamenti, il giovane Plantageneto finirà schiacciato come un chicco di grano nella macina. – Parla chiaro, Goffredo! Io ti conosco fin troppo bene. – esclamò una voce. –

Dicci cosa hai in mente. O forse dovrei dire quello che ha in mente il diavolo che ti porti appresso? – Hugon è un valido alleato. – rispose Goffredo. Lo stregone, alle sue spalle, si esibì in un maldestro accenno di inchino. – Sue sono le arti che ieri ci hanno permesso di cogliere una grande vittoria. – Già… arti di Satana… – borbottò l’uomo, con ribrezzo. – E con questo? – rise Goffredo. – Forse che il nobile Vulgrino de Thouars è solito sputare nel piatto in cui mangia? Io non lo credo, altrimenti non possiederesti le terre e i castelli che ti permettono di avere le tasche sempre gonfie. Se oggi non avessimo ripreso la città, ricacciando il moccioso nel suo accampamento, questa guerra sarebbe già finita e nessuno avrebbe cavalcato nella notte per essere qui. Vulgrino arrossì e distolse lo sguardo. – Stiamo giocando una partita rischiosa. – riprese Goffredo. – Occorre buttare l’intera posta sul piatto, se vogliamo prevalere. Quello che vi chiedo è di raccogliere un esercito, e attaccare l’accampamento di Riccardo. La radura esplose in una babele di voci allarmate. – Un esercito? – Ma ci vorrà tempo per assemblare un contingente simile… – E se il ragazzo venisse in qualche modo a saperlo… Fu la voce roca di Hugon a spazzare via il mormorio. – Avete sette giorni a partire da stanotte. Quando saranno trascorsi, le porte di Taillebourg si apriranno per una sortita in massa. Sarà allora che voi attaccherete, chiudendo la trappola. Gli sguardi dei nobili si incrociarono, in un saettare di occhiate nervose. – E cosa accadrà al duca?

Una voce spezzò l’atmosfera d’incertezza. Dal cerchio di uomini si staccò una figura. Un cavaliere dal portamento fiero, di forse venticinque anni, che vestiva i colori della Contea di Bigorre. – La Contessa Stefania-Beatrice è ammalata, e ha inviato un emissario in sua vece. – bisbigliò Goffredo all’orecchio di Hugon. – Emeric di Foix… dicono sia lui ad allietare le notti della sua signora, quando il marito è troppo sbronzo per fare il suo dovere. – Mai dubitare della furbizia delle donne. – rispose il gobbo. – Manda avanti l’amante sbarbatello per sentire che aria tira… se le cose prendessero una brutta piega, potrebbe sempre dire che nel momento delle decisioni scomode lei non c’era. Afferrando il collo della tunica nera, la strattonò un po’, sistemandosela sulla schiena deforme. Sorrise, invitando con un gesto il giovane a proseguire. Il cavaliere non se lo fece ripetere. Avanzò con piglio deciso, piantandosi in mezzo alla radura a gambe leggermente divaricate. ò in rassegna con lo sguardo gli uomini che lo attorniavano, lasciando che ammirassero la sua espressione altezzosa. – Il piano che ci proponete è audace, Goffredo. Tuttavia, credo che sia solo un pericoloso frutto della rabbia, o della paura. – Parla chiaro, ragazzo! – ringhiò il nobile. – Non mi piace che mi si dia del vigliacco. – Vigliacco? Non lo penserei mai di chi ha combattuto gli infedeli in Outremer… Però credo che questa congiura nasca dal vostro timore di non poterla spuntare. È una mossa astuta, ma a dir poco rischiosa. Goffredo dischiuse le labbra, quasi a voler ribattere, prima di richiuderle in un silenzio accigliato. – Non avete risposto alla mia domanda. – incalzò l’altro. – Se anche vincessimo, cosa ne sarebbe del Duca di Aquitania? Per avere una risposta devo rivolgermi al vostro tirapiedi? Goffredo tacque ancora. Il druido, indifferente all’insulto, continuava a sorridere.

– Mi rivolgo anche a voi, amici qui riuniti. – gridò Emeric. – Conosciamo tutti Riccardo! Forse qualcuno pensa seriamente che il giovane Plantageneto si arrenderà? Che deporrà la spada, permettendoci di prenderlo prigioniero? – Perché non dovrebbe? – insorse Goffredo. – La magia di Hugon lo ha già messo alle strette e il suo esercito ha subito una sconfitta bruciante. Ricordate che, dietro alla sua baldanza, non è altro che un debole… ci ha traditi! Ha tradito la rivolta, strisciando come un verme ai piedi di quel bastardo di suo padre. Dio lo maledica, io vi dico che se lo attacchiamo tutti insieme, cederà! – Voi confondete la realtà con i vostri desideri! Ha deluso suo padre una volta. Morirà piuttosto che deluderlo ancora. E se morisse, Dio ci salvi dall’ira di Enrico. Goffredo balzò avanti, il volto deformato dalla collera. – Che muoia, allora, e si fotta suo padre! – Sputò a terra, in mezzo ai piedi dell’emissario. – Morto il più forte tra i suoi figli, Enrico sentirà il trono vacillargli sotto il sedere! Se sapremo essere risoluti, il Regno d’Inghilterra stesso potrà essere alla nostra portata. Invece di trattare con il Re, potremmo prenderci la sua testa e piantarla su un palo in cima alla Torre Bianca di Londra. – Tu sei pazzo… – esclamò Emeric. – Ti sento parlare, ma le parole che escono dalla tua bocca appartengono a quel demonio! – Arretrò di un o, puntando il dito contro il negromante. – Io non so quale inferno ti abbia vomitato, storpio maledetto, ma la contessa mi aveva messo in guardia sul tuo conto: hai versato il miele del diavolo nelle orecchie di Goffredo! Il cerchio dei nobili ondeggiò, scosso da un tumulto di incertezza. – Io starei attento alle parole che pronunci. Potrebbero strozzartisi in gola. – La voce di Hugon pareva il sibilo di una vipera in agguato nell’erba. – Emeric di Foix ha ragione! – esclamò a gran voce un barone, rompendo gli indugi. – Abbiamo perso il senno? Siamo insorti per far valere i nostri diritti, ma ora qui si parla di regicidio! Per bastardo che sia, non attenterò alla vita di un re consacrato per ubbidire alle macchinazioni di un servo del demonio. – E allora brucia, insieme alla tua sciocca lealtà!

Hugon di Montfort-L’Amaury protese le braccia verso il nobile, pronunciando una sequela di parole, del tutto incomprensibili ma odiose all’udito. Furiose fiamme bluastre scaturirono dalle gambe dello sventurato barone. Le urla di sconcerto dei presenti si confo con quelle strazianti dell’uomo. Il turbine di fuoco consumò mantello e cotta d’arme in un istante. L’oscurità si illuminò di terrore mentre il calore sprigionato dalla fiamma soprannaturale aumentava di intensità. La cotta di maglia si sciolse e il metallo colò, fondendosi con pelle e ossa. Occhi e lingua raggrinzirono e si accartocciarono. Il lezzo nauseante della carne bruciata invase la radura, cancellando gli odori freschi e umidi della notte. Nessuno osò mettere mano alla spada; i nobili, in preda all’orrore, rimasero impietriti, fino a quando le grida di inumana sofferenza cessarono e del disgraziato non rimasero che pochi resti carbonizzati. Goffredo di Rancon, pallido in volto ma risoluto, si fece avanti. ando accanto al mucchio di ceneri fumanti, si fermò, disperdendolo con un calcio. Poi proseguì, fino a trovarsi di fronte al portavoce di Bigorre. – Ebbene, Emeric di Foix, hai compreso la bontà dei nostri piani o ti serve un’ulteriore prova della nostra determinazione? Il cavaliere, bianco come uno straccio, sguainò la spada, digrignando i denti. – Sei un mostro… come quel demone in forma umana che ti porti appresso… – balbettò. Allungò le braccia, disponendosi in posta lunga, la punta della spada protesa contro il viso di Goffredo. – Signore, dammi la forza per… Strabuzzò gli occhi, incapace di completare la frase. Lasciò cadere la spada, portandosi le mani irrigidite alla gola. La bocca si spalancò, si richiuse e si aprì ancora, alla ricerca convulsa di aria. Cadde in ginocchio. Il viso, da pallido che era, si fece paonazzo, poi cianotico.

Contorcendosi, si girò sulla schiena e, in preda al panico, rivolse uno sguardo implorante all’avversario. Il signore di Taillebourg rispose con un sorriso di sprezzante derisione. Le mani del cavaliere strapparono ciuffi d’erba, affondando nel terreno umido. Infine, con un gorgoglio orribile, la lingua fuoriuscì dalla bocca sbavante e gli occhi si fecero vitrei, accompagnando il corpo negli ultimi spasmi. Quando le convulsioni cessarono, Hugon si avvicinò al cadavere. – Giovane stolto… non ti avevo avvertito? Lo stregone si volse verso i nobili atterriti. La sua figura nera sembrò raddrizzarsi e crescere, assumendo l’aspetto di un colosso. – Avete una settimana per radunare le vostre forze! – tuonò. – Quando sarà trascorsa, affogheremo nel sangue il trono d’Inghilterra. Senza una parola, conti e baroni si dispersero rapidamente, i volti ancora scossi dall’orrore cui avevano assistito. Sapevano ormai che il tempo in cui poter scegliere era finito, soffocato, come il respiro dello sventurato Emeric di Foix, dal vincolo opprimente della congiura. Uno dopo l’altro, si affrettarono a raggiungere i propri cavalli e fuggirono da quel luogo di morte, sparendo nell’oscurità.

* * *

– E non ti ha detto altro? – Te lo ripeto… poi mi è sparito da sotto il naso. – Merlino… – Merlino.

– Quello di Excalibur… Riccardo annuì. – Quello di Artù… – Dannazione a te, John! Hai ascoltato o no quello che ti ho detto? – Fino all’ultima parola… e ancora non ci credo. I raggi del primo sole abbracciavano con ritrosia l’accampamento ancora addormentato, allungando timidamente sul terreno le ombre dei due uomini che camminavano lungo il perimetro dei picchetti di guardia. Il gigante si grattò nervosamente la testa, scompigliando i riccioli biondi con le dita della mano enorme. – Cioè, voglio dire… È una bella storia, intendiamoci… ma “quel” Merlino… quello della spada nella roccia? Insomma, in fin dei conti ieri abbiamo rimediato una bella batosta… sei sicuro di non aver bevuto troppo prima di metterti a letto? Negli occhi del duca guizzò un lampo di impazienza. John lo colse, alzando le mani in un gesto di resa. – Non puoi negare che si tratti di una faccenda davvero strana… Ammettiamo tuttavia che non si sia trattato solo di un sogno straordinario, cosa diamine vuol dire “qualcuno che porta il nome che infranse il sogno”? – Sia dannato se lo so. – rispose Riccardo. Picchiò il pugno contro il palmo dell’altra mano. – Il vecchio mi ha piantato in asso proprio sul più bello. Camminando, si erano addentrati nel bosco, oltre le linee delle sentinelle. Riccardo guardò attraverso gli alberi; la bruma dell’alba rendeva le mura di Taillebourg un'immagine indistinta, vicina ma confusa, un sogno di nebbia e pietra che emergeva dalla luce soffusa del mattino. Sospirò, prima di rivolgersi alla figura massiccia dell’amico. – Che mi dici della nostra gatta selvatica?

– Dovresti chiederlo alle guardie. – ridacchiò John. – Ieri sera ha quasi strappato a morsi una guancia all’uomo che le portava da mangiare. Se i compagni non lo avessero trattenuto, credo che le avrebbe spaccato la testa in due… E come dargli torto, il poveraccio buttava sangue come un porco scannato. – Voglio parlarle. Avverti Ranulf.

Quando raggiunsero Ranulf de Thouars, lo trovarono impegnato in un atempo crudele. Il cavaliere, impugnando un lungo ramo appuntito, pungeva selvaggiamente le gambe della ragazza. Da par suo, la giovane, impossibilitata a reagire, si limitava a trascinarsi nel fango, cercando scampo all’estremità opposta della sua prigione. La gabbia nella quale era stata rinchiusa non rappresentava certo un capolavoro di maestria artigiana, ma i pali di legno strettamente legati tra loro sembravano abbastanza robusti per frustrare qualsiasi velleità di fuga della “Volpe di Bordeaux”. L’uomo girava senza sosta intorno alla gabbia, senza concedere tregua alla sua vittima; non appena la ragazza si spostava per sfuggirgli, non faceva altro che muoversi su un altro lato, infilando lo strumento di tortura improvvisato tra le sbarre. – Spero tu ti stia divertendo. Ranulf trasalì. – La prigioniera sta bene. – si giustificò. – È solo un giochetto sciocco… per are il tempo. – Ogni tanto un aggettivo lo azzecchi anche tu, Ranulf. – disse Riccardo. Gli occhi freddi del duca si fissarono sul pezzo di legno che il cavaliere stringeva ancora, prima di volgersi verso la città. – Il tuo so comunque mi allieta. Il nemico asserragliato dietro a quelle mura deve costituire una minaccia davvero misera se i miei luogotenenti hanno tempo da perdere in questo modo. Ranulf ammutolì. Il ramo cadde nel fango. Prima di poter formulare una risposta, un gesto eloquente della mano di Riccardo stroncò sul nascere ogni obiezione. – Ora va’! Il campo è ancora in subbuglio e non voglio sorprese mentre siamo vulnerabili.

Ranulf accennò un inchino, abbassando il volto paonazzo, prima di allontanarsi a o svelto. Riccardo si accostò alla gabbia. – Alzati ragazza, voglio parlarti. Occhi furiosi lo aggredirono attraverso le sbarre. – Tiratela fuori. Le guardie aprirono la porta, afferrarono la giovane in catene e la scaraventarono bruscamente a terra, davanti ai piedi del duca. – Adesso vuoi finalmente dirmi cosa andavi cercando? – Sono affari miei. – Che sono diventati anche miei nel momento in cui hai deciso di venire a sbrigarli nel mio campo. La ragazza alzò la testa, fissando Riccardo che torreggiava sopra di lei. – Nessuno dice alla Volpe di Bordeaux dove andare o no. Riccardo sorrise, incontrando lo sguardo di Little John. Il gigante, visibilmente divertito, allargò le braccia. – Lo ammetti dunque! – la apostrofò Riccardo. – La famigerata Volpe è davvero tra noi… anche se temo che questa volta abbia scelto il pollaio sbagliato. La ragazza si rialzò. Incrostata di fango dalla testa ai piedi, con gli abiti imbrattati di sporcizia, conservava tuttavia la sua bellezza selvaggia. I lunghi capelli scarmigliati e le guance macchiate di terra sembravano esaltare la sua femminilità altezzosa, anziché sminuirla. Pur ridotta in catene, scrutava i suoi carcerieri con la sfrontatezza di una regina. – Suvvia, dimmi quel che voglio sapere e finiamola qui. – esclamò Riccardo. – Non ho nulla contro di te, e ho una guerra da combattere. Parla, e sarai libera. Little John scrutò sottecchi l’amico, nella cui voce iniziava a cogliere le tracce

striscianti di una pericolosa impazienza. – Bada, non te lo chiederò un’altra volta. La ragazza sospirò, abbassando lo sguardo e le spalle in un gesto rassegnato. Poi scattò. Le braccia si mossero repentine, trascinandosi dietro le catene. Gli anelli di ferro massiccio sibilarono nell’aria. Soltanto un fulmineo balzo all’indietro consentì a Riccardo di evitare che il metallo gli sfracellasse il cranio. In un attimo, la Volpe sgusciò via. Le guardie, che trattandosi di una donna avevano pensato fosse sufficiente incatenarle soltanto le mani, si affannarono a inseguirla. Il primo malcapitato che tentò di sbarrarle la strada non aveva creduto necessario indossare l’usbergo, per sorvegliare una ragazza: lo rimpianse quando la testa della fuggitiva, proiettata avanti come un ariete, lo centrò alla bocca dello stomaco. Tornando in corsa con una capriola, la ragazza stese un secondo uomo, spedendolo a ruzzolare nell’erba insieme ai suoi denti sbriciolati. Rapida come un cerbiatto, si precipitò verso gli alberi poco lontani, lasciandosi alle spalle gli armigeri, rallentati dalle cotte di maglia. Nell’istante in cui raggiunse le prime piante, qualcosa la colpì alla schiena con la potenza di un maglio. Crollò di schianto, cercando disperatamente di inalare un po’ di aria nei polmoni, svuotati dall’urto improvviso. – Fine della corsa. Little John la afferrò per la casacca di pelle e se la gettò in spalla, come avrebbe fatto con una fascina. Tornò lentamente indietro, scuotendo la testa. – Pessima idea, ragazza… Ora dovrai pagare il prezzo della sua collera. Riccardo, labbra e pugni serrati, attese che il compagno depositasse al suolo il fardello scalciante. – Un ceppo! Subito! – gridò.

Little John si avvicinò, azzardandosi ad afferrare un polso dell’amico. – Riccardo… – sussurrò, per non farsi udire dai soldati – …forse una bella frustata potrebbe bastare… – E portate un’ascia! – tuonò il duca, divincolandosi. – Sarà il mio fedele John a mozzare le mani di questa sgualdrina! Il gigante sbigottì, incapace di replicare. I fieri occhi marroni della giovane, anche se solo per un attimo, furono offuscati dalla paura. John guardò Riccardo, sperando in un ripensamento, ma in cuor suo sapeva di non poter fare nulla. Lo spirito dell’amico era come un incendio sopito: una volta fatto divampare, non vi era consiglio o minaccia che potesse estinguerlo. Il patibolo di fortuna venne improvvisato in pochi minuti. La vittima fu costretta a inginocchiarsi, le braccia incatenate distese a forza con una corda, al di sopra della cassa di legno collocata alla bisogna. Qualcuno infilò tra le mani di Little John il manico di una scure. Tutt’intorno, andò velocemente formandosi la calca dei curiosi. La voce dell’esecuzione si era propagata attraverso le tende come un fuoco tra la paglia, richiamando l’attenzione di tutti. La folla di soldati si assiepò, fremendo per l’attesa del sangue. Nonostante l’eccitazione per il supplizio imminente fosse palpabile, sulla platea calò una coltre di religioso silenzio. Tutti i presenti sapevano quanto, in simili circostanze, una sola parola sbagliata potesse rivelarsi fatale: la rabbia cieca del duca poteva travolgere amici e nemici senza troppe distinzioni. A qualche o dalla cassa, gli uomini posizionarono un braciere ; tra i tizzoni, lasciarono ad arroventare un coltellaccio da macellaio, che sarebbe servito per cauterizzare subito le amputazioni. Riccardo osservò i preparativi senza pronunciare una parola. Quando tutto fu pronto, fece cenno di iniziare.

John impugnò l’ascia e ne saggiò la lama con il pollice. Trovate un paio di piccole asperità, iniziò a riarla lentamente con la cote, sino a rendere perfetto il filo. – Non perdiamo tempo. – ordinò Riccardo, spazientito. – Voglio vedere il sangue. Little John si portò a fianco della condannata. Serrò la stretta intorno all’impugnatura dell’arma. – Fatti coraggio, e non muoverti. – le sussurrò. – È un attimo… Sarà un taglio netto, e tu sopravviverai. – Fai quello che devi. Io non griderò. Un mormorio si alzò dalla folla. Riccardo invitò al silenzio. – È il momento di tagliare le zampe alla Volpe. – disse. Little John alzò l’ascia sopra la testa. La ragazza, pallida come una lapide, alzò la testa, cercando con lo sguardo i volti eccitati degli spettatori. Li sfidò, ando da uno all’altro, fino a soffermarsi su quello imibile del Duca di Aquitania. – Siete venuti per vedere la Volpe di Bordeaux? – urlò infine a squarciagola, in modo che tutti potessero udirla. – E allora guardate come affronta il supplizio Ginevra Bonnet! L’ascia si mosse. – Fermo! Con uno strattone disperato, il guerriero deviò il colpo all’ultimo istante, affondando la lama nel terreno, a un palmo dalla cassa. Ansimando, si voltò in direzione del duca. Riccardo fissava la ragazza con occhi sbarrati. – La condanna è sospesa. – ordinò seccamente. – John, falle dare una ripulita…

e poi portala nella mia tenda.

– Posso almeno sapere che diavolo ti è preso? Riccardo ignorò la domanda. Sprofondato in una sedia, sorseggiava lentamente una coppa di vino, senza dar cenno di aver notato l’arrivo del corpulento amico. Dall’esterno, il rumore costante delle macchine d’assedio, tornate in azione, componeva un sottofondo ipnotico. – Ma mi stai ascoltando? Ci è mancato davvero un pelo… non avessi le braccia che mi ritrovo, a quest’ora la poveretta dovrebbe grattarsi quel suo bel nasino con due moncherini. – Lei dov’è? – chiese d’improvviso Riccardo, riscuotendosi. – Qui fuori. Ci sono quattro uomini con lei, anche se ora sembra essersi un po’calmata. La paura ha spesso l’effetto di placare i bollenti spiriti, e la nostra Volpe, di strizza deve averne avuta a sufficienza. – Portala dentro, ma lascia gli uomini fuori. – Non vuoi proprio dirmi che è successo? – È lei. La persona di cui mi ha parlato Merlino. – Lei? – esclamò John, lanciando una veloce occhiata all’esterno. – Cosa te lo fa credere? – Il suo nome. – Ginevra? Un bel nome, ma non capisco cosa… – Era il nome della moglie di Re Artù. – Questo lo sa pure un caprone della mia risma… – borbottò John. – Ma non vedo dove vuoi arrivare. – Dato che queste cose le sanno perfino i caproni, allora conoscerai anche la storia di lei e Lancillotto… e di quel che ne seguì.

– San Giorgio! Certo che sì… le storie di corna e belle ragazze sono sempre le più interessanti! L’espressione di Little John mutò nel pronunciare le ultime parole della frase. Sul largo viso barbuto prese forma una smorfia stupita. – Il tradimento di Ginevra! – Per essere così grosso sei sveglio. – rise Riccardo, assestando una pacca sonora sulla spalla dell’amico. – Il tradimento della regina con il migliore e più fidato dei cavalieri… Fu uno scandalo e un’infamia, un sacrilegio che infangò l’onore del re e incrinò la fiducia tra i fratelli d’arme… – …infrangendo il sogno nato con la Tavola Rotonda. – terminò John. – Per tutti i Santi! Potrebbe davvero essere lei. – Occorre verificarlo, però. Solo il cielo sa cosa starà architettando quel demonio di Hugon; dobbiamo muoverci in fretta e trovare la reliquia. Portala dentro. A un cenno di John, la Volpe di Bordeaux fu spinta nella tenda senza troppi riguardi. Gli occhi marroni ardevano nuovamente di una vitalità selvaggia. Senza alcun ritegno né timore si piantò di fronte a Riccardo, fissandolo con tale intensità da inchiodarlo alla sedia. Lui ricambiò lo sguardo, quasi divertito da tanta sfacciata impudenza. – Non farò lunghi discorsi perché non ne ho il tempo, quindi andrò dritto al sodo. Ho bisogno di te, per trovare qualcosa di cui, fino a ieri notte, non conoscevo neppure l’esistenza. Il viso della giovane rimase imibile, non un muscolo a tradire sentimenti o reazioni. – Aiutami, e non ti sarà fatto alcun male. Recuperato quel che cerco, potrai andartene per la tua strada, alleggerita dal fardello delle catene e appesantita da una ricompensa generosa. Qual è la tua risposta? – Avrei prima una domanda.

– Senti un po’, ragazza! – intervenne John, strattonandola per un braccio. – Tu parlerai solo quando… – Concessa. – disse Riccardo, placando il compagno. – Perché pensi sia io la persona adatta al tuo scopo? – chiese lei. – Il tuo nome corrisponde alle indicazioni che mi sono state date. – Indicazioni? – ironizzò lei. – Riccardo Plantageneto che agisce ascoltando qualcuno… E chi sarebbe mai l’uomo dotato di una simile influenza? – Merlino. – Non lo conosco. – disse Ginevra. – Ma evidentemente lui sa qualcosa di me… Un nobile? O forse un cavaliere? – Un mago. E prima che tu lo chieda, sì. Quel mago. Il viso della ragazza si fece serio, ma non tradì alcuno stupore. – Ora capisco… – mormorò. – È grazie alla croce che hai potuto parlare con lui? Quell’oggetto ha grandi poteri. – Come fai a saperlo? – Certe cose le sento, ne avverto la presenza; una capacità che mi porto dentro fin dall’infanzia. Ginevra si spostò di un o, appoggiandosi con la spalla al palo centrale della tenda. – Da piccola, facevo letteralmente impazzire il sacerdote del mio villaggio. Nella sua chiesetta, custodiva una cosa che la gente diceva fosse capace di guarire e operare miracoli; una reliquia, ossa di santi o schegge della Vera Croce… nemmeno lo ricordo. Non avevo idea di cosa si trattasse, ma ciò che sapevo bene era come scovare ogni nascondiglio escogitato dal vecchio prete per negare quel tesoro alla curiosità di noi bambini. – Come riuscivi a farlo? – chiese Riccardo.

– Come spiegarlo? Immagini, sensazioni, talvolta sogni o presentimenti. Riesco ad avvertire la presenza del potere soprannaturale, sia esso sprigionato da oggetti ed esseri di origine divina o emanato da entità malvagie ed empie. – Come hai saputo del crocifisso? – Dove c’è la guerra ci sono mercenari, e dove ci sono mercenari ci sono soldi. Ero qui per ben altro… Soltanto ando accanto a questa tenda ho avvertito la presenza del monile. – Per questo non hai battuto ciglio quando ho parlato di Merlino… – disse Riccardo, afferrando il gioiello sotto la veste ed esponendolo alla vista. – Quella croce è straordinaria. Non avevo mai percepito niente di simile prima. – Il tuo racconto conferma le parole di Merlino. Il druido è stato molto chiaro: per vincere questa battaglia devo trovare la Spina di Poitiers, una reliquia sacra da tempo perduta. – Adesso capisco… – Lo farai? – Non mi sembra di avere alternative. – Ciononostante, preferirei mi offrissi il tuo aiuto spontaneamente. Sono abituato a essere obbedito per ammirazione e fedeltà, prima che per paura o costrizione. – Non concedo fedeltà a nessuno, ma ti seguirò. Per una sfida, quella di trovare la Spina, e anche per un altro motivo. – Illuminami. Ginevra sorrise, squadrandolo. – Diciamo che la Volpe di Bordeaux ama circondarsi di gente interessante, e Dio mi fulmini se tu, Riccardo Plantageneto, non sei un uomo fuori dal comune… – Gettò uno sguardo divertito a Little John, che aveva assistito imibile al dialogo. – …come, del resto, quelli di cui ti circondi.

Riccardo si alzò, ergendosi in tutta la sua altezza, gli occhi accesi di un fuoco freddo sotto la rossa chioma leonina. Con un gesto plateale, le posò entrambe le mani sulle spalle. – Allora seguimi, Volpe, e non te ne pentirai. Il tempo di sellare i cavalli e cavalcheremo verso Poitiers.

Capitolo 4 – Sulle sponde della Vienne

Il sole di mezzogiorno brillava pallido, facendo timidamente capolino tra le nubi sfilacciate che si rincorrevano nel cielo ottobrino. I suoi raggi sembravano colpire la terra con una debolezza insolita anche per la stagione, incapaci di riscaldare gli uomini affaccendati intorno ai quattro cavalli allineati al centro dello spiazzo centrale dell’accampamento. Gli animali, corsieri dall’aspetto vigoroso e guizzante, scalpitavano impazienti, costringendo a sforzi considerevoli gli stallieri intenti ad assicurare finimenti e bagaglio. – Questo non è un cavallo, è un cane. – brontolò insoddisfatto Little John. – Dio non voglia ci sia da combattere lungo la strada… l’idea di caricare in sella a questi nanerottoli è più terrificante di quella di incrociare la lama con il nemico. – Ma questo armadio si lamenta sempre così o si tratta solo di un giorno sfortunato? – chiese Ginevra, rivolgendosi al giovane cavaliere che le si era avvicinato alle spalle. – Temo dovrai abituarti. John è fatto così e non credo cambierà. Per fortuna, quando serve, picchia almeno quanto borbotta. – Lui è Bryce, mercenario e squinternato fino al midollo. – li interruppe Riccardo. – Lei invece è Ginevra Bonnet, grazioso fiore di Bordeaux e ladra impenitente. – La famosa Volpe. – disse Bryce, piegando il capo in un frettoloso inchino. – Nell’accampamento si parla solo di te. – Bravo ragazzo. – commentò John. – Quindi, mentre te la rimiri per benino, vedi anche di tenerla d’occhio, se non vuoi ritrovarti in mutande. – Quel che piacerebbe a te, bestione… – lo canzonò lei di rimando, le mani sui fianchi in segno di sfida. Uno degli stallieri si avvicinò di corsa.

– I cavalli e le provviste sono pronti, come ordinato. Riccardo annuì, prima di rivolgersi ai compagni. – In sella, allora. Avrete modo di conoscervi meglio lungo la strada. Anche lavorando di sprone, ci vorranno almeno due giorni per raggiungere Châtellerault. – Non andavamo a Poitiers? – si stupì Bryce. – La cultura dei giovani… – rise il duca. – La battaglia prese il nome da Poitiers, ma in realtà il luogo dello scontro si trova più a nord, alla confluenza della Vienne con il Clain. – Non lo sapevo… – arrossì il ragazzo. – Siamo in due. – aggiunse Ginevra. – Donaci la pazienza. – esclamò Little John, alzando gli occhi al cielo. – Da piccoli non vi hanno insegnato niente? – Può darsi che qualcuno mi abbia farfugliato qualcosa… – replicò stizzita la ladra. – In ogni caso ero troppo impegnata a svuotare borselli per farci caso. – E io a spaccar teste. – disse Bryce. – Lasciamo perdere. – sospirò il gigante. – Due giorni hai detto? – Cavalcando veloci. – rispose Riccardo. – Per questo ho fatto sellare questi “cani”. La rapidità è essenziale, e dei corsieri ci serviranno assai meglio; i destrieri ci rallenterebbero, anche se in caso di combattimento sarebbero più utili. I quattro compagni montarono le proprie cavalcature e si lasciarono alle spalle l’accampamento, imboccando di gran carriera l’ampia carrareccia che conduceva verso nord. Nascosto all’ombra delle ultime tende, un uomo seguì con occhi attenti il loro rapido allontanarsi; quando furono svaniti oltre le prime curve del sentiero, sgattaiolò lesto verso il bosco, sparendo tra gli alberi.

* * *

– John, fai tu il primo turno di guardia. Poi svegliami. Il secondo lo farò io. – Ripartiamo appena fa giorno? – Alle prime luci. – disse Riccardo. Congedandosi dall’amico con un lungo sbadiglio, il duca si ritirò nella tenda, la più ampia delle due che John aveva montato al centro della piccola radura, presso una chiesetta diroccata, a un tiro di freccia dal ciglio della strada. Non appena Riccardo si fu coricato, Ginevra si avvicinò in silenzio alla massiccia figura di John. Lo osservò per un po’, sbirciandolo mentre accatastava legna e rametti, per poi accenderli con pochi e precisi colpi del focile sulla pietra focaia. Il fuoco divampò, creando un alone circolare di confortevole calore. La Volpe di Bordeaux si accovacciò, scrutando con curiosità il volto del compagno di viaggio, delineato nel buio incombente dal danzare della fiamma. – Sei un tipo curioso, Little John. – Non direi. Non c’è nulla di particolarmente interessante in me. – Sei un uomo libero. E di umili origini, se non ti ho giudicato male. – Il mondo è pieno di poveracci. Non vedo come questo mi renda speciale. – Perché lo servi? Riccardo, intendo. – È il mio duca. – Sì, però il legame tra voi è diverso. Vi ho osservato… tu gli obbedisci, ma siete amici. Immagino ci voglia tempo per coltivare l’amicizia di un uomo del genere. – Siamo cresciuti insieme. – sorrise lui. – Il principe e il povero.

– Ammetto che si tratti di un ragazzo straordinario, con la tempra di un capo nato. – disse lei, senza mascherare una nota di ammirazione. – Però… – la sua voce si abbassò repentina, colorandosi di una diversa sfumatura – …se accetti un consiglio, stai sempre in guardia! Lo conosco appena, ma vedo distintamente qualcosa ardere dentro di lui: un fuoco inesauribile, che brucia come queste fiamme, capace di consumare chiunque si frapponga tra lui e i suoi desideri. – Riccardo è sempre stato così. – sospirò John, alzando le spalle. – Per lui ogni cosa è una sfida: contro il mondo, contro i suoi nemici… soprattutto contro se stesso. – Sorrise, fissando la ragazza con i suoi occhi dolci e profondi. – Non ho paura di lui. Quando perde il controllo può essere terribile, ma io spesso so come placarlo. In fondo, credo che proprio per questo mi abbia sempre voluto al suo fianco. Un calpestio sull’erba li mise in allarme. – Allora, piccioncini, finito di tubare? Il volto di Ginevra divenne paonazzo. Si allontanò bruscamente da John, e prese a sistemarsi i capelli con la mano. Il guerriero, che aveva già afferrato il suo bastone, la fissò stranito, confuso da quella reazione. Rilassò i muscoli. – Da dove spunti tu, disgraziato? Un altro po’ e ti spaccavo la testa in due! Dove diavolo sei stato? – Ho soltanto gironzolato qui intorno, tanto per dare un’occhiata. – si schermì Bryce. – Già che c’ero ho raccolto altra legna per il fuoco. Ho forse interrotto qualcosa? – Un accidente. – bofonchiò John. – Adesso però fila a nanna, e vedi di far piano. Il duca sta già dormendo. – Messer John… – declamò il mercenario, esibendosi in un inchino teatrale. – Lady Volpe… Il bastone di Little John sibilò nell’aria, colpendo il punto in cui, fino a un istante prima, si era trovato il sedere del compagno. Con un saltello sfrontato, Bryce evitò la botta e sgusciò via ridacchiando, scomparendo oltre l’ingresso della

stessa tenda in cui riposava Riccardo. Ginevra rise di gusto. – Che furfante, quel ragazzino… – Ha diciassette anni, ma è già un uomo fatto. Dovresti vedere come combatte. – disse John. – Non bastano sangue e sofferenza per fare un uomo… o una donna. – mormorò lei. Si schiarì la voce, concentrandosi su un punto lontano, oltre la linea scura degli alberi. – Guerra e dolore fanno crescere in fretta, ma io lo guardo, e oltre la scorza del soldato scorgo ancora il ragazzo. – Sei stanca, Ginevra, dovresti riposare anche tu. Domani staremo in sella dall’alba al tramonto. – Indicò la tenda più piccola. – Puoi dormire lì. L’ho preparata apposta per te. Insomma, voglio dire… non è bene che una donna dorma in mezzo a tre uomini. Il viso di Ginevra si illuminò di un sorriso delizioso. – Sotto la pelle dell’orso si nasconde un gentiluomo… – civettò. – C’è altro oltre ai muscoli nel possente Little John. – Io… vado a fare la guardia! – sbottò lui, allontanandosi in tutta fretta, inseguito dalle occhiate divertite della ragazza.

Le tre ore erano trascorse abbastanza in fretta, ma non quanto Little John avrebbe voluto. L’oscurità aveva portato con sé un vento teso e freddo, che sferzava la pelle con nerbate gelide e insistenti. Per l’ennesima volta, cercò conforto nello spesso mantello di lana, stringendoselo addosso quanto possibile. Ancora pochi minuti… poi andrò a svegliare Riccardo. Sorrise. Sapeva che non l’avrebbe fatto. Lo avrebbe lasciato dormire, sobbarcandosi anche il suo turno, prima di affidare l’ultimo a Bryce. Si appoggiò di peso al bastone.

Uno scricchiolio lo distolse dai suoi pensieri. Nelle tenebre qualcosa si mosse; ombre che scivolavano come fantasmi tra gli alberi. A un tiro di sasso, qualcosa di pesante spezzò un ramo con un rumore secco. John alzò il bordone in posizione di guardia. Un fruscio impercettibile alle sue spalle. Prima di poter reagire, una mano femminile gli afferrò il braccio, costringendolo a voltarsi. Il fuoco disegnò nel buio la figura flessuosa di Ginevra. – John, stanno arrivando. – Li ho sentiti. Uomini o bestie? – Non lo so, ma ne ho avvertito distintamente la presenza. Qualunque cosa sia, è mossa da un potere abbastanza forte da strapparmi al sonno. Il coro di grida che squarciò la notte li raggiunse contemporaneamente alla prima ondata di assalitori. Forme scure dall’aspetto umanoide invasero la radura, provenienti sia dalla vicina foresta, sia dalla parte della strada. Ginevra guardò il più vicino degli avversari, credendo di riconoscere un volto umano. Prima di poterne avere la certezza, la testa del nemico esplose in una pioggia di sangue e cervella, schiantata dal tremendo impatto del bastone di Little John. L’arma, ancora gocciolante, disegnò in aria un arco mortale, sbriciolando la scatola cranica di un altro malcapitato. I muscoli del gigante si tesero, spingendo l’asta di legno nello stomaco di un terzo assalitore. La potenza dell’affondo traò il corpo da parte a parte, arrestandone la corsa e impalandolo sul posto. – Attento! Ginevra spiccò un balzo felino, investendo il nemico, che stava per colpire Little John alle spalle, con la furia di un gatto selvatico. I due corpi crollarono insieme

a terra, avvinti in una lotta disperata, rotolando accanto al fuoco. La Volpe di Bordeaux incrociò i due langseax, spingendoli sotto il mento dell’avversario. Questo spostò la lama della spada, appena in tempo per bloccare i due coltelli, proteggendosi la gola esposta. Al chiarore della legna ardente, la ragazza riuscì a distinguere un volto, indiscutibilmente umano, seppur stravolto da un’espressione bestiale. Gli occhi, vitrei e iniettati di sangue, parevano non vederla, sbarrati da un’immobilità raccapricciante. La bocca, spalancata in un urlo belluino, emetteva versi incomprensibili, soffocati in un gorgoglio sbavante. Con un ringhio, l’uomo iniziò a respingere la giovane, dando prova di una forza fisica sproporzionata per un individuo di quella corporatura. Prima di essere scaraventata via, Ginevra si spostò di lato, mandando a vuoto la spinta del nemico. L’acciaio dei langseax cantò, staccando la testa dal corpo. Inspirando a pieni polmoni per riprendersi, la ragazza vide Little John, incalzato da un nugolo di avversari. Il gigante, sanguinante da numerosi tagli al petto e agli arti, arretrò, incespicando in un cadavere. Cadde sulla schiena e uno sciame di nemici gli fu subito addosso, le armi levate per finirlo. Ginevra, nonostante si trovasse in mezzo alla mischia, non poté trattenersi dal chiudere gli occhi. – Dio per Enrico, l’Inghilterra e San Giorgio! L’urlo di guerra dei Plantageneti echeggiò nella notte, così vibrante da scuotere perfino quell’orda ottusa, insinuando nelle menti ottenebrate un’eco inconscia di paura. Il Duca di Aquitania, seguito da Bryce, emerse dalla tenda, travolgendo i nemici come un dio vendicativo; non impugnava spada e scudo, ma una grande ascia danese a manico lungo, molto simile a quella brandita dal non morto di fronte alle porte di Taillebourg. Arma poderosa, che in tempi lontani aveva forgiato nel sangue le fortune dei vichinghi, nelle mani di Riccardo si trasformò in uno strumento di distruzione, tranciando gambe, staccando braccia, sfondando crani e casse toraciche. La larga

lama d’acciaio ridusse gli uomini che circondavano Little John a un carnaio di corpi smembrati. Era troppo da sopportare, anche per quegli involucri svuotati di ogni coscienza e manovrati da una volontà estranea. Latrando come cani randagi, volsero le spalle e fuggirono. Ma non era notte per la misericordia. Little John, Ginevra e Bryce scattarono all’unisono, lupi famelici su una pista di sangue, macellando i miserabili come pecore sotto lo sguardo indifferente della luna.

Abiti di poco conto. Riccardo si accovacciò accanto al cadavere. Il corpo giaceva scomposto, metà del cranio scoperchiata dal colpo violento di una lama affilata, probabilmente il pesante falcione di Bryce. La torcia illuminò resti di materia cerebrale, sparpagliati sull’erba insanguinata. Distogliendo lo sguardo, si concentrò sull’arma ancora stretta tra le dita irrigidite dell’uomo. L’impugnatura avvolta da semplice corda, pomo e guardia disadorni, la lama segnata in più punti da scheggiature e chiazze di ruggine. Nemmeno il più miserabile tra i mercenari avrebbe affidato la sua vita a una ferraglia simile. Banditi da strada, assassini prezzolati. Tagliagole. – Ho controllato tutti i corpi, signore. Non ne è rimasto nessuno vivo. – Non sarebbe stato male salvarne uno per fargli qualche domanda… – si accigliò Riccardo. – Difficile interrogare un uomo senza mezza testa. Bryce arrossì. – Avete ragione, ma…

– Lascia stare. In fin dei conti, buona parte di questo macello è anche frutto del mio braccio. Hai fatto quel che dovevi, e tanto basta. Il duca si rialzò. Scavalcando i morti, raggiunse Little John, seduto a terra accanto alle tende; si era tolto il giaco di maglia e il gambesone, ora entrambi posati a terra accanto alla calotta di ferro; sul torace muscoloso si affaccendavano le mani di Ginevra. Riccardo osservò le dita affusolate danzare sulla pelle, sfiorando contusioni e ferite con abile delicatezza, per detergerle dallo sporco o spalmarle di unguento lenitivo. John lo salutò con una smorfia di dolore. – Fai piano, accidenti a te! Fa male… In risposta, la ragazza gli assestò uno scappellotto dritto sulla nuca. – La Volpe che tiene a bada l’orso. – rise Riccardo. – Questa donna è pane per i tuoi denti. – Io non sono pane per nessun uomo, men che meno tra i presenti. – reagì lei, inviperita. – Che sia chiaro, prima che a qualcuno venga il dubbio. John si lasciò sfuggire un gemito. – Lascia stare il duca e finisci alla svelta, prima che vada a fuoco… quella poltiglia brucia come lo sterco del demonio. In risposta, Ginevra strisciò sull’ennesima lacerazione una dose esagerata del medicamento, accompagnandola con un sorrisetto venato di perfidia. – Uomini di Goffredo? – mugolò Little John, stringendo i denti. – Bastardi senza arte né parte. – sbuffò Riccardo, scuotendo il capo. – Feccia di strada, dunque… – Così sembrerebbe. – rispose Riccardo. – Controllati comunque da chi sappiamo, con l’ausilio di qualche stregoneria. Hai visto le loro facce, no?

– Difficile ignorarle… sembravano posseduti. Più lenti del normale, ma molto più forti. – Ci è andata bene. Se fossero arrivati più numerosi, forse non saremmo qui a discuterne. – Si lasciò cadere a terra, toccandosi la parte posteriore dell’orecchio destro. Ritrasse la mano, inumidita, fissando le dita sporche di sangue, prima di rivolgersi a Ginevra. – Finito con lui, sarei lieto se potessi dare un’occhiata anche a me. Poi leveremo il campo di corsa. – Hai paura ne arrivino altri? – Può anche darsi… con serpenti come Hugon è meglio aspettarsi sempre il peggio. In ogni caso la prudenza non è mai troppa… una ladra dovrebbe saperlo. – Una ladra sarebbe già a diverse miglia da qui. – rispose lei, sprezzante. – Tirati su, Duca di Aquitania, quel graffio posso rammendartelo anche in sella.

Contrariamente ai loro timori, i quattro compagni poterono proseguire il viaggio indisturbati, senza subire ulteriori attacchi. Durante il giorno avevano superato Fenioux, Saint Jean d’Angély e Aulnay, pulviscolo di casupole e fattorie isolate, intessuto nell’arazzo di campi e pascoli che ornava la campagna del Poitou; prima di accamparsi erano sfilati oltre il borgo di Melle, presso il quale si erano concessi una pausa di pochi minuti, per far rifiatare i cavalli. Ora la corsa notturna li portò ancora più a nord, fino a sfiorare il villaggio di Lusignano. La bruma non concesse loro che un breve istante, appena sufficiente per cogliere, attraverso un fugace squarcio nel biancore, la visione delle torri orgogliose del castello di Lusignano, culla della nobile famiglia, tra le più potenti della Cristianità d’Occidente. Infine, costretti dallo sfinimento delle cavalcature, ed esausti essi stessi, si arresero alla stanchezza presso le porte di Poitiers. La vista dell’abitato, che si estendeva al riparo delle mura nuove, regalo alla città della madre di Riccardo, suscitò nei compagni del giovane un’ondata di entusiasmo. Indolenziti per le lunghe ore trascorse in sella e intirizziti

dall’umidità, alla prospettiva di un pasto degno di tal nome e di un bagno caldo, dismisero le loro facce stanche per indossare maschere di felicità. Quando Riccardo comunicò loro che non avrebbero varcato le porte, protestarono quindi con veemenza, solo per arrendersi subito dopo, uno per volta, all’incrollabile determinazione del duca. Eppure, al di là di mugugni e lamentele, sapevano bene come la sua decisione fosse corretta: l’accoglienza che la cittadinanza avrebbe tributato al giovane, li avrebbe intrappolati in un’interminabile sarabanda di danze e banchetti nel Palazzo dei Conti-Duchi, costringendoli a una lunga sosta forzata, tanto piacevole quanto dannosa, considerata l’estrema urgenza della loro missione.

L’aspetto più riposato di cavalli e cavalieri, guadagnato grazie al ristoro delle poche, sciupate ore di sonno, fu presto cancellato dalla polvere della strada, che, sotto il sole del tardo mattino, avvolse il gruppo diretto a settentrione. Un guado difficoltoso li aveva transitati sulla sponda destra del Clain, il fiume tortuoso che scavava la propria via nel terreno calcareo in direzione di Châtellerault. Presso la cittadina, le sue acque nervose si gettavano a incontrare quelle placide e maestose della Vienne, scompigliando il loro lento sfilare verso la Loira. Era proprio lì, in quel lembo di terra stretto tra il corso dei due fiumi e somigliante al tozzo corno di un qualche animale, che Carlo il Martello, Maggiordomo di palazzo dei regni merovingi di Austrasia, Burgundia e Neustria, aveva incontrato in battaglia i figli dell’Islam, assestando loro una tale batosta da rispedirli con la coda tra le gambe in al-Andalus.

– Ti sei battuto bene contro quei briganti. Sta diventando un’abitudine. Riccardo aveva portato il cavallo accanto a quello di Bryce. Dopo ore di galoppo sostenuto, ora i corsieri avevano calato il ritmo, ando a un trotto più tranquillo. – Continuate a pagarmi, no? Faccio solo il mio lavoro. – Ne pago tanta di gente; valessero tutti la metà di quel che vali tu, sarei più potente degli antichi Cesari.

– Diciamo che sono bravo ad ammazzare la gente. – rispose Bryce. – Qualità di famiglia, forse… Alle loro spalle, Ginevra sghignazzò sonoramente. – Ti sei scelto davvero dei galantuomini per farti da scorta, Riccardo Plantageneto… Il ragazzino, taglia teste che è un piacere, mentre il bestione, qui, si diverte a spaccarne altrettante con il suo bastone. – Senti da che pulpito… – grugnì Little John. – Questa notte sembravi un beccaio, altro che Volpe. – In effetti, non conosco molta gente capace, in tre, di trasformare un prato in un camposanto. – disse Riccardo, elargendo ai compagni un sorriso sincero. – Non potrei viaggiare con compagni migliori. – Prima di metterci a discutere su chi sia il tagliagole più bravo, vogliamo parlare della nostra meta? – intervenne Ginevra. – Cosa vuoi sapere? – chiese Riccardo. – Quanto è grande il campo di battaglia? Le mie percezioni possono essere forti, ma hanno dei limiti. – Le cronache descrivono uno scontro in uno spazio abbastanza ristretto, anche se bisogna ricordare che l’inseguimento estese il massacro a uno spazio molto più vasto. – Allora come intende procedere il signore dell’Aquitania? – chiese la giovane, con il consueto tono a metà strada tra il serio e il canzonatorio. – Un’idea potrebbe essere quella di legarti a un cavallo e trascinarti in giro fino a quando non senti qualcosa… – rispose Riccardo. – Oppure John potrebbe prendere a calci quel tuo bel culo su e giù lungo il campo di battaglia per il tempo che serve. Spronò il cavallo, eludendo l’inevitabile risposta avvelenata della ragazza, e si portò avanti a tutti. – Affrettiamo il o! Voglio raggiungere il campo di gloria entro mezzogiorno.

Lì vedremo il da farsi.

Avvicinandosi al luogo dello scontro, si portarono più a ridosso del fiume, sfruttando le sue sponde come punto di riferimento. Ora si stavano addentrando in una zona disabitata, priva di fattorie o villaggi. Gli anni dopo la battaglia avevano insegnato ai contadini quanto fosse frustrante tentare di coltivare una terra marchiata in profondità dalla furia della guerra: aste spezzate, lame in frantumi, elmi e scudi spaccati… erba e fango mischiati con legno, metallo e ossa. Un impasto di morte, legato dal sangue e dalle lacrime, che rendeva il lavoro d’aratro uno sforzo sterile. I robusti agricoltori del Poitou sapevano bene come fosse inutile spargere sementi dove la morte aveva già raccolto la sua messe. Privi com’erano di una strategia precisa, vagarono a lungo in quella distesa silente, punteggiata qua e là di robuste querce, faggi scarmigliati e pioppi slanciati, guardiani veglianti da secoli sul sonno dei morti. Dove la campagna incolta declinava verso le rive del Clain, gli alberi abbandonavano invece la loro solitudine per riunirsi in grandi macchie frondose, scintillanti sotto il sole di gialli e rossi più intensi, ravvivati forse dalla frescura che le acque portavano con sé nel loro scorrere al cospetto dei rami sporgenti.

– Quindi non c’è nessuno che abbia un’idea di dove si svolse esattamente la battaglia? Ginevra si guardava intorno con fare sconsolato, abbassando le palpebre di tanto in tanto, in cerca di una sensazione, una percezione capace di sottrarre il gruppo a quel vagabondare disilluso. – Un piccolo aiuto potrebbe rendere il mio lavoro meno simile a quello che è attualmente: un’impresa disperata. Riccardo alzò un braccio, indicando il nastro scintillante d’azzurro che si allungava in lontananza, verso oriente. – Quella laggiù è la Vienne. Credo che Carlo abbia posizionato poco distante da

qui la sua fanteria; se aveva scelto questo posto per ancorare i fianchi ai due fiumi, deve avere schierato l’esercito nel punto più stretto, lasciando ai lati solo lo spazio sufficiente per l’attacco dei cavalieri del duca Oddone. – Ma non ne sei certo… – si accigliò Ginevra. – No, ma è ciò che avrei fatto io, se fossi stato qui. – Il baluardo di ghiaccio! – esclamò John. – Mi sembra di risentire la tua voce, quando eravamo piccoli. Ne avevo le palle piene di sentire quella storia… La sapevi a memoria, e a furia di ripeterla l’hai martellata in testa anche a me! – Però adesso ci torna utile, zuccone! – disse Riccardo, arrestando il cavallo. – Dividiamoci. Io e Bryce controlleremo la parte del campo di battaglia verso il Clain, tu e Ginevra erete al setaccio il terreno da qui alla Vienne.

* * *

L’animale si mosse in silenzio, sgattaiolando nell’erba alta. Le larghe orecchie si tesero, captando ogni minimo rumore prodotto dagli invasori. Il corpo snello guizzò, strisciando intorno al tronco di un ontano, prima di spiccare un balzo. Atterrò su uno dei rami più bassi, che percorse furtivamente, afferrandosi saldamente al legno con gli artigli acuminati. Macchia di pelo fulvo, raccolta e pronta a tutto, attese. Eccoti! A Bryce, il movimento tra i rami non era sfuggito. Richiamò l’attenzione del compagno con un cenno della testa. – È laggiù, sotto l’ontano più grande, proprio a destra di quel masso grigio. – Che cos’è? – bisbigliò Riccardo, la mano posata sull’impugnatura della spada. – Una donnola! – esclamò a gran voce il mercenario, abbandonandosi a una risata fragorosa, divertito da quel suo scherzo infantile.

Il piccolo mammifero, allertato dallo schiamazzo improvviso, scappò via, trascinandosi dietro la piccola coda, e si sottrasse alla loro vista. Con le lacrime agli occhi, Bryce cercò di ricomporsi. – Vi chiedo scusa, ma non ho resistito. È la terza di quelle bestiole che sorprendo a correre tra i cespugli. Sono animali veramente simpatici, e di solito difficili da vedere. – Eppure sono gli unici animali che abbiamo visto. – Riccardo si era fatto serio, le linee del volto corrugate quanto la corteccia degli alberi circostanti. – Ora che ci penso, avete ragione. – mormorò Bryce, turbato. – La zona è disabitata, eppure non abbiamo visto altri animali: né cervi, né caprioli, o lepri, neppure un uccello o uno scoiattolo. Tutte bestie più facili da scorgere di una donnola… – Guarda il terreno, Bryce. Non si muove neppure una formica. Questo posto è morto. – Ma senza la presenza dell’uomo, gli animali dovrebbero essere più numerosi… Ci deve essere una spiegazione. Forse una maledizione? – No, temo che la risposta stia proprio nelle donnole. – disse Riccardo, con un filo di voce. – Vederne una è difficile, anche se può capitare… ma tre? – Temo di non capire… Pensate che le donnole abbiano ucciso o messo in fuga gli altri animali? È semplicemente assurdo, non… – È molto peggio di così. – lo interruppe l’altro. – Credo che le donnole siano le uniche creature sopravvissute. – Sfoderò lentamente la spada, fissando il compagno con occhi spaventosamente seri. – Qualcosa ha sterminato tutti gli esseri viventi nei dintorni. Tutti tranne le donnole, gli unici a essere immuni ai suoi poteri. Riccardo emise un sospiro, scrutando le ombre del sottobosco, fattesi di colpo minacciose. – Una coccatrice. Abbiamo a che fare con una coccatrice.

* * *

Avvicinandosi al fiume, i campi si erano fatti più radi, lasciando spazio ad ampi tratti di terra brulla e sassosa, da tempo eletti a loro reame da cespugli spinosi e rovi tenaci. Se il terreno, nei pressi del Clain, declinava dolcemente fino ad abbracciare le acque bizzose, quasi a volerle placare, nei pressi della Vienne manteneva invece un netto distacco; era come se la terra, al cospetto di quella massa liquida, calma e indifferente nel suo fluire, volesse a sua volta rimarcare orgogliosamente la propria differente natura. Ginevra si era addentrata senza esitazione nel labirinto caotico di rocce frastagliate e sconnesse che costellava il terreno in prossimità della riva. Ora la ragazza, smarrita un po’ dell’iniziale baldanza, si era fermata per scrutare con attenzione il panorama aspro che la circondava. A prima vista, la desolazione sembrava estendersi fino alle sponde del fiume, nonostante il susseguirsi di depressioni e grandi massi, qua e là intervallati da alberi solitari, rendesse impossibile verificarlo, impedendo allo sguardo di spingersi più in là di qualche o. Dopo alcuni minuti, Ginevra si ritrovò a percorrere un ampio canalone incassato da entrambi i lati tra ripidi fianchi di terra, punteggiato di sfasciumi e blocchi rocciosi. Soltanto allora si accorse di aver nuovamente perso di vista John; la cosa non le piacque, agitando con un fremito sgradevole i suoi sensi già in allerta. Addentrandosi in quel dedalo di macigni aveva avvertito una presenza ostile, la sensazione di un pericolo annidato nell’ombra, al quale non era ancora stata capace di dare un nome. Chiamò il compagno, affidando al suono della voce il compito di scacciare l’inquietudine crescente, per impedire che si trasformasse in paura. L’eco del grido rimase senza risposta, frammentandosi in mille eco nella desolazione. Alla sua sinistra, udì un rotolare di pietre. Prima che il rumore si spegnesse, i langseax sgusciarono dai foderi con un gemito metallico.

– John, sei tu? Un franare di roccia e terra le rimbalzò nelle orecchie, questa volta alla sua destra. Un raschiare sordo la fece trasalire. Qualcosa di gigantesco, da qualche parte, arava freneticamente il terreno. Tentò di identificarne la provenienza, senza esito. L’attacco giunse da dove non se lo aspettava. Una massa enorme giunse di corsa alle sue spalle; soltanto un disperato scarto laterale, frutto dell’agilità conquistata in anni di vita furtiva, evitò alla Volpe di Bordeaux di essere travolta e calpestata a morte. Rotolando su un fianco, riuscì a scorgere un paio di zampe smisurate. Si rimise in piedi con una giravolta, le lame incrociate a difesa davanti al petto. La creatura che l’aveva assalita arrestò la sua carica, rallentando fino a fermarsi a un tiro di sasso da lei. Ginevra non vantava una grande conoscenza di mostri e creature bizzarre, ma non serviva aver studiato un bestiario per riconoscere l’essere che si trovava ad affrontare. Il corpo, che nelle forme ricordava quello di un gallo, aveva le dimensioni di una viverna, della quale possedeva anche le squame che lo ricoprivano. Dall’estremità anteriore si estendeva un lungo collo scaglioso, sormontato da un’orrida testa di gallo, mentre da quella posteriore una coda di lucertola, appuntita e disseminata di aculei. Ginevra vide la testa crestata piegarsi in avanti, ondeggiante, in cerca di qualcosa. Crede di avermi calpestata… forse posso riuscire a… Il proposito di fuga scomparve in una nuvola di polvere. Aprendo le grandi ali membranose, fino a quel momento ripiegate, la coccatrice si sollevò da terra, ruotando orizzontalmente su se stessa, per posarsi nuovamente al suolo, con gli occhi sfolgoranti puntati verso la giovane ladra. Senza pensare, Ginevra chiuse gli occhi e si gettò dietro il masso più vicino. Incrociare lo sguardo della bestia, anche solo per un attimo, le sarebbe stato fatale, tramutando il suo corpo in una delle pietre che punteggiavano il fondo della gola.

Ma non posso combatterla con gli occhi chiusi, mi farebbe a pezzi… Le orecchie furono percosse dal frastuono di un incedere pesante sul terreno. Sentì crescere la disperazione. Quando il tonfo delle zampe artigliate risuonò a pochi i, si fece un rapido segno della croce, lanciò un grido rabbioso e si precipitò allo scoperto, gli occhi fissi al suolo e le lame pronte a colpire. Qualcosa, sopra di lei, spiccò un balzo dalle rocce, oscurando il sole mentre cadeva. Little John piombò dall’alto, agile come una lince a dispetto della sua mole, brandendo il bastone. Lo sguardo della coccatrice saettò nell’aria, portando la morte. Il guerriero riuscì a ruotare la testa, schivandolo, ma questa reazione fulminea, rapida abbastanza per salvarlo, compromise anche la precisione del suo attacco. Il pesante bordone, destinato a sfracellare il cranio della bestia, lo colpì solo di striscio, maciullando l’occhio sinistro, prima di slittare via, disperdendo l’energia residua lungo le squame coriacee. John, sbilanciato dall’impatto, rovinò al suolo, colpendo il terreno con una forza che avrebbe spezzato il corpo di un uomo meno formidabile. – Ginevra, stai dietro a me! Ruggendo come un leone, il gigante fu subito in piedi, allargando il braccio per respingere il tentativo della ragazza di portarsi al suo fianco. – Non ti lascerò crepare da solo, razza di stupido! – urlò lei, spingendolo via. – Se è il mio giorno, morirò senza nascondermi. – La voce, carica di tensione, fu accompagnata però da un impercettibile sorriso. La coccatrice attaccò. Il vortice d’aria, generato dal battito furioso delle sue ali, scaraventò indietro Ginevra, proiettandola contro un albero rinsecchito. L’urto le strappò di mano i langseax, lasciandola tramortita alla base del tronco. John gridò il nome della ragazza, gettandosi a capofitto contro la belva. Prima che uno solo dei fendenti, portati alla cieca, potesse giungere a bersaglio, il mostro ruotò sul lato destro facendo schioccare la coda in un micidiale colpo di

frusta. John avvertì un dolore lancinante al petto. Sentendosi mancare, annaspò, crollando in ginocchio. Strinse gli occhi, in attesa del colpo di becco che gli avrebbe strappato la testa dal collo. Un oggetto sfrecciò accanto alla sua guancia. La coccatrice lanciò verso il cielo un verso acuto, orrida parodia del nobile canto del gallo, storpiato in un mostruoso sibilo di rettile. Il mostro sbandò lateralmente e urtò la parete del canalone in una cascata di terriccio, agitando spasmodicamente l’ala destra, squarciata fino a metà dal falcione di Bryce che era rimasto incastrato nel tessuto membranoso. – Serve una mano? John, ancora boccheggiante, riuscì appena a indicare il corpo disteso di Ginevra. Riccardo giunse in quel momento. Valutate le condizioni dei compagni con una rapida occhiata, assalì il mostro senza esitazioni. Ancora in preda al dolore della tremenda ferita, la coccatrice si avventò su di lui, decisa a far scempio di quell’umano tanto arrogante da osare sfidarla. Ora però, lo scontro era ben diverso. Impossibilitata a levarsi in volo, la bestia fu costretta ad accettare un selvaggio corpo a corpo con l’uomo, scoprendolo animato da una furia pari, se non superiore, alla sua. Il cavaliere vestito di ferro sembrava essere ovunque, danzando sulle gambe con un’agilità sorprendente. Uno dopo l’altro, i colpi della sua spada implacabile la raggiunsero, azzannando la carne con il morso spietato dell’acciaio. Anche i tentativi di tramutare in pietra il suo carnefice si rivelarono inutili; più e più volte fece dardeggiare l’occhio rimasto intatto, ma il suo sguardo incontrò sempre e soltanto quello imibile del leone campeggiante sullo scudo, prontamente levato a difesa. Da lontano, Little John osservò trepidante lo scontro mortale. Il mostro si muoveva sempre più lentamente, e zoppicando, il sangue che colava da molte ferite a inzuppare il terreno. Eppure, il guerriero sapeva come a Riccardo sarebbe bastata anche solo una minima distrazione per incontrare la sua fine.

Emettendo un sibilo di insopportabile frustrazione, la coccatrice raccolse tutte le sue forze e attaccò, pronta a uccidere l’avversario e porre fine a quell’agonia. Riccardo, strappando un grido di sconcerto all’amico, lasciò cadere a terra lo scudo. Soltanto allora, John si accorse della sacca di pelle legata alla cintura del compagno. Il duca la afferrò in un baleno, allentò il legaccio e la scagliò addosso al mostro incombente. Dalla sacca guizzarono due donnole, piccoli fulmini artigliati che si avventarono contro la creatura, azzannandola ferocemente al collo. Terrorizzata dall’improvvisa comparsa dei suoi unici nemici naturali, invulnerabili ai suoi poteri e troppo sfuggenti per temere i suoi colpi, la coccatrice iniziò a dimenarsi convulsamente, dimenticandosi dell’avversario nel tentativo di scrollarsi di dosso i suoi torturatori. Riccardo colse il momento senza esitare. Evitando gli spasmi violenti delle zampe, si portò sotto la bestia. La spada, stretta con entrambe le mani, affondò nel ventre, squarciandolo da una parte all’altra. Il corpo gigantesco si accasciò, spargendo sui sassi la massa disgustosa delle interiora, in un’ondata di fetore talmente intenso da far perdere i sensi. La coccatrice torse il collo, cercando di trascinare con sé nella morte il nemico con un ultimo sguardo. Prima che il movimento potesse compiersi, la spada di Riccardo recise di netto la testa, facendola ruzzolare nella polvere insieme al suo occhio letale. Ginevra, che nel frattempo aveva ripreso i sensi con l’aiuto di Bryce, chiamò a sé i compagni. Respirando faticosamente, si puntellò con le braccia, appoggiando la schiena al tronco dell’albero. – Adesso so dove si trova la reliquia… – mormorò a stento. La fissarono stupiti. – L’ho percepita chiaramente durante il combattimento… non è lontana. – sussurrò. Con uno sforzo che le strappò un rantolo di sofferenza, allungò il braccio, puntando l’indice verso il cadavere della coccatrice. – Trovate la sua tana… La Spina è là. Prima che potessero farle qualsiasi domanda, chinò il capo e svenne.

Capitolo 5 – Cuor di Leone

La fucina, costruita con solide pietre di fiume, era stata eretta ai margini dell’accampamento, nell’evidente quanto inutile tentativo di preservare il riposo della truppa dall’inesauribile diluvio di colpi coi quali Mastro Audebert tempestava l’incudine, senza curarsi di distinguere tra il giorno e la notte. Ora l’artigiano, un uomo vigoroso, dal volto squadrato incorniciato da una gran barba color del fumo, fissava affascinato il frammento di metallo che stringeva tra le dita, un pezzo di acciaio lungo poco meno del palmo della sua mano e largo forse la metà. – Non posso ricavare una spada da questo… – si schermì. – Lo sapete anche voi, signore. – Fondilo. – disse Riccardo. – E uniscilo alla lama della mia. – Ma questo potrebbe alterare l’equilibrio della spada, o addirittura peggio, comprometterne l’elasticità. E se in battaglia… – Lascia stare i dubbi, fabbro. Fallo e basta. Mentre l’uomo, scuotendo la testa, si metteva al lavoro, ravvivando la fiamma della sua forgia sotto gli occhi attenti del duca, Little John si avvicinò a grandi i. – Gli hai detto di cosa si tratta? – chiese. – Certo che no… – sbuffò Riccardo, giocherellando con la punta della barba. – Te lo immagini? … Mastro Audebert, questo l’abbiamo trovato nella tana di una coccatrice… è un pezzo della spada di Carlo Martello… – Perché no? – Perché gli sarebbe venuto un colpo. – sogghignò Riccardo. – Oltre alla paura di venire pietrificato maneggiando il metallo, lo avrebbe spifferato in tutto il campo; e in questo momento ho bisogno che gli uomini si concentrino al

massimo sulla battaglia che ci attende, senza aspettarsi di vincerla grazie a qualche miracolo. E poi, non siamo neppure certi che si tratti della reliquia… – Ma l’abbiamo trovata proprio dove ci ha detto Ginevra. – protestò John. Riccardo rise, fissando l’amico con piglio sorpreso. – Per tutti i Santi, vecchio orso. Da quando pendi dalle labbra delle ragazze? – Da quando sanno fare quel che sa fare lei… Comunque sta bene, se vuoi saperlo. Nessun osso rotto o altro di peggio. – Stai calmo. – rise ancora Riccardo. – Mi ero già informato di persona con il cerusico. E poi, non avrebbe cavalcato di ritorno fin qui se avesse avuto metà delle ossa in frantumi. – Sorrise, stringendo la spalla di John. – Ma sei arrivato di corsa, dimmi cosa c’è. – Ranulf de Thouars. – Non era tra quelli venuti a darci il benvenuto, quando siamo rientrati al campo… È ferito, o ammalato? – Del peggiore dei malanni. Il tradimento. – imprecò John. – Poco dopo la nostra partenza, una pattuglia che batteva la boscaglia nei pressi di Taillebourg lo ha sorpreso a lanciare frecce con dei messaggi oltre le mura. – Ecco spiegata la festa organizzata per noi dai banditi. – mormorò Riccardo. Sospirò, senza tuttavia dar sfogo alla collera. – Lo hanno preso? – No, purtroppo. Mentre stavano per agguantarlo, sono arrivati gli uomini di Goffredo. Senza dubbio una sortita organizzata per proteggere quel bastardo. Ora lo schifoso è rintanato nella fortezza, insieme ai suoi degni compari. – Lo prenderemo, John. E pagherà il suo debito. – Cosa pensi di fare? Se hanno qualche carta da giocare, adesso Goffredo e Hugon romperanno ogni indugio… Ora che sanno in che condizioni siamo, non ci concederanno il lusso di riorganizzarci. – Allora vedremo di semplificare le cose, tirando i topi fuori dalla loro fogna…

Anzi, amico mio, emo la cortesia di andare a trovarli direttamente a casa loro.

* * *

Come un gentiluomo che al momento giusto arretra per favorire il o alla propria dama, il sole si ritirò in buon ordine, cedendo lo splendore del cielo notturno alla magnificenza della sua argentea signora. La luce della luna si stese dolcemente, tratteggiando nel buio prima gli aspri contorni della rupe di Taillebourg, e poi quelli arcigni della fortezza. ando oltre, sorvolò case e palazzi della città, accarezzando torri e merlature con la leggerezza del tocco di un amante. Infine, si adagiò lieve sulla vegetazione che si estendeva oltre le mura, scintillante di rugiada, avvolgendo alberi e cespugli con bagliori d’argento. Ed ecco che, dove le piante si spingevano più vicine ai bastioni, nel punto in cui questi si ancoravano alla roccia della rupe, tronchi e arbusti presero a muoversi leggermente, quasi risvegliati dalla magia di quei raggi splendenti. In un battito di ciglia, il sottobosco si animò, scivolando in avanti sulla corsa di gambe e piedi apparsi per incanto. Forme scure e veloci danzarono nelle tenebre, raggiungendo l’ombra massiccia delle mura, per poi sparire in essa. L’immobilità ristabilì il suo dominio per lunghi minuti, fino a quando le figure riapparvero, sorgendo dall’oscurità che le aveva inghiottite, i loro profili neri ora irti di lame crudeli. Gli uomini che montavano la guardia al tratto sbrecciato delle mura morirono senza accorgersi di nulla; alcuni tra gli aggressori raccolsero le armi dei morti e presero il loro posto, dopo averne nascosto i cadaveri tra le macerie. Gli altri, silenti come fantasmi, scavalcarono le pietre insanguinate e si dispersero nelle stradine addormentate della città ignara.

Ranulf de Thouars emerse dalla piccola porta che collegava il torrione al cammino di ronda e si avviò lungo i bastioni; la differenza tra la luce violenta delle torce presenti all’interno, e il pallido chiarore lunare che rischiarava gli spalti, oscurò per un momento la sua vista, rischiando di farlo incespicare.

Recuperò l’equilibrio afferrandosi alle merlature, evitando così un volo disastroso verso il selciato sottostante. Imprecando, si appoggiò per un momento alla fredda pietra, cercando di ricomporsi. L’ora era tarda, ma preferiva eggiare lungo le mura che unirsi a Goffredo e Hugon nel salone, per sorseggiare vino o allungare le mani verso il fondoschiena di qualche servetta. Si comportava così da una settimana, ormai. Gli era bastato poco per leggere nei loro occhi il fantasma strisciante del disprezzo. Hugon, d’altra parte, non aveva esitato nel dar voce esplicitamente a questo pensiero… “Chi tradisce oggi il suo signore, perché non dovrebbe tradire noi domani?” Dopo pochi giorni, aveva finito per non tollerare più la compagnia dei due uomini, gli sguardi di spregio, il loro bisbigliare alle sue spalle. Camminando lentamente, ripensò al padre, morto coraggiosamente affrontando sul campo le truppe di Re Enrico. L’ho fatto per te, padre… ho dovuto farlo… solo per te… Respirò profondamente, lasciando che l’aria fredda della notte si riversasse nei suoi polmoni dilatati. Strinse i pugni con rabbia. Nella mente, il volto senza vita del padre, bianco nella fissità della morte, fu sostituito dall’immagine di Riccardo che si inginocchiava ai piedi del sovrano, sancendo con quel gesto la fine della rivolta contro il trono e l’inutilità dei sacrifici compiuti. Tutte quelle vite perdute, i sogni distrutti… ogni cosa sprecata per l’avventatezza di un ragazzo, folle a sufficienza per appiccare il fuoco della ribellione ma non abbastanza per lasciarlo bruciare fino in fondo. Sei morto per niente… Il viso del padre e la figura del giovane Plantageneto iniziarono a sovrapporsi e a roteare, alternandosi sempre più in fretta fino a dissolversi. Come svegliandosi da un incubo, Ranulf boccheggiò, appoggiandosi al parapetto. In basso, la cittadina di Taillebourg dormiva. Vide i puntini luminosi delle fiaccole ondeggianti: le sentinelle, disseminate

lungo la cinta muraria, la percorrevano con monotona regolarità. Non erano molte numerose, ora che il grosso delle truppe era stato richiamato nella fortezza, ma sufficienti a impedire che gli assalitori potessero entrare senza pagare il giusto tributo di sangue. Distinse con chiarezza la breccia, unico punto in cui le fiammelle si raccoglievano più numerose. Distogliendo lo sguardo, torno a immergersi nei suoi pensieri amari. Ti vendicherò. Quell’arrogante senza onore pagherà con la vita. Un rumore attirò la sua attenzione. Nonostante tendesse le orecchie come un segugio, non riuscì a indovinarne la natura o la direzione. Il rumore si ripeté. Un raspare, di terra e roccia. Accelerò il o, procedendo a ritroso verso la torre; un senso di minaccia incombente gli risalì la spina dorsale come un ragno. Sentì la pelle accapponarsi sotto la tunica e la cotta. Lungo il percorso, si sporse due o tre volte tra i merli, cercando di scorgere qualcosa, ma gli occhi si tuffarono senza esito in un muro bianco. La brezza notturna raccoglieva in un abbraccio le dense nebbie generate dalla foresta e dallo Charente, spingendole inesorabilmente lungo i fianchi scoscesi della rupe. Celato alla sua vista, il misterioso rumore echeggiò ancora. Ranulf ebbe la sensazione di udirlo sempre più vicino. Si girò, cercando con lo sguardo l’arciere di guardia che aveva superato un minuto prima. Credette di intravederne la sagoma, alla luce ondeggiante di un braciere, ma fu solo la suggestione di un momento. La nebbia raggiunse la sommità delle mura in quell’istante, scavalcandola nel suo fluire impalpabile. Poche braccia più in là, dove la torre si ancorava saldamente alle rocce, un’ombra apparve nel varco tra due merli. Rimase immobile per alcuni secondi, dando a Ranulf l’impressione di un gigantesco falcone appollaiato tra i blocchi di pietra; poi balzò sul camminamento e assunse la forma di un uomo, vestito di cuoio e armato di spada. Prima che l’intruso potesse disporsi a difesa, Ranulf gli fu addosso. Il suo affondo preciso trovò il collo esposto dell’avversario, troppo lento ad accorgersi

della minaccia. Il corpo si accasciò sulla pietra, insozzandola con il sangue ruscellante dalla carotide squarciata. Ritrasse la lama, guardandosi attorno. Altre figure nere, quasi invisibili nelle tenebre, sgusciarono leste davanti ai suoi occhi allarmati. Riuscì a distinguerne una soltanto, nelle cui movenze riconobbe un’eleganza tipicamente femminile. Ginevra!? No! Devo dare l’allarme prima che… Un piede pesante calpestò la pietra alle sue spalle. Si voltò, pronto a combattere. Qualcuno lo investì con la forza di un uragano, schiacciandolo contro il parapetto. Una mano guantata gli impedì di gridare, stringendolo alla gola. Mentre avvertiva la punta acuminata di un pugnale premergli contro il costato, il volto del misterioso aggressore si avvicinò al suo; in quel movimento, la luna rivelò una barba e dei baffi rossastri. Due occhi grigi, spaventosamente freddi, lo inchiodarono sul posto. – È tempo di pagare per i tuoi peccati. – Sei stato tu a tradirci! – mugolò Ranulf, quasi soffocato da quelle dita implacabili. Le lacrime rigarono il volto scarno, scorrendo lungo lineamenti distorti dalla rabbia e dalla paura. – Io ti odio! Ti odio! Io ti… L’acciaio stridette nel perforare gli anelli della maglia metallica, trovando la via verso il cuore. – Io invece non provo odio per te – disse Riccardo, la voce ferma, velata di tristezza – ma devi morire. Continuò a premere, fino a quando non sentì Ranulf afflosciarsi e poi cadere. Accompagnò il corpo senza vita, posandolo a terra, seduto; con gli occhi socchiusi e la testa reclinata sulla spalla, pareva dormisse. – Non so dove tu stia andando, Ranulf de Thouars, ma se incontrerai tuo padre, digli che mi dispiace. Dal buio, spuntò Ginevra, il viso arrossato per la fatica della scalata e l’eccitazione dello scontro. Le mani impastate di sangue stringevano i langseax

gocciolanti. Dietro di lei, una fila scura di figure armate, sguardi truci e bocche tese. Ombre partorite dalle tenebre, ora trasformate in uomini pronti a tutto. – Le sentinelle non ci daranno più problemi. – sussurrò. La bocca di Riccardo si arcuò in un ghigno soddisfatto. – Alle porte! Subito seguito dagli altri, si infilò nella torre, precipitandosi giù per la ripida scala a chiocciola.

* * *

Little John condusse gli uomini oltre la breccia alla massima velocità possibile, seguendo alla lettera le indicazioni impartitegli da Riccardo, prima di partire con Ginevra per la sua incursione notturna. Quella ideata dalla mente vulcanica del duca era una mossa azzardata, per non dire incosciente: impadronirsi della breccia con il favore dell’oscurità, attraversare la città addormentata e scalare la rupe fino a raggiungere la sommità delle mura della fortezza, proprio nel punto in cui queste si aggrappavano alla roccia. Solo un pazzo, o un gatto, avrebbe potuto pensare di riuscirci senza crepare. E quella squinternata di Ginevra, anziché tirarsi indietro, aveva accolto il tutto con l’entusiasmo di una bimba cui avessero offerto un giocattolo nuovo. John scosse la testa, ripensando alla figura della ragazza che si allontanava. Il pensiero di non rivederla lo ferì all’improvviso, come una frustata sul cuore. Non è il momento giusto per distrarsi, John… Con una rapida occhiata, verificò che tutti i soldati avessero oltreato le macerie. Alzando il bastone sopra la testa, come un novello Mosè, li guidò a o di corsa attraverso la città, incurante di proteggere i fianchi dell’avanzata. Lasciandosi alle spalle le ultime abitazioni, imboccarono il sentiero per i

cancelli. Dietro di loro, grida stralunate si levarono in coro, accompagnate da uno sferragliare d’armi, annunciando il brusco ma tardivo risveglio della guarnigione cittadina. Un grido d’allarme piovve su di loro dagli spalti, innocuo, ma presto seguito dal ben più minaccioso fischiare di frecce e quadrelli. Alcuni uomini lasciarono la vita sul selciato, trafitti dai dardi che iniziavano a cadere con crescente intensità. – Se il duca non ce l’ha fatta, siamo completamente fottuti! – gemette un cavaliere. – Fiducia! – disse John. – Ha il sangue di suo padre, il ragazzo. – Preghiamo di trovare le porte aperte, allora. – sbuffò l’altro. – Oppure ci schiacceranno come una noce. – Uomo di poca fede. – sentenziò Little John, indicando al compagno le porte di Taillebourg, che ormai si profilavano dietro l’ultimo ripido tornante del sentiero. I battenti, solidi e spessi, fasciati di ferro, si stagliavano imponenti, formidabili ma spalancati. Al loro centro, infuriava violentissima la mischia. Un drappello di uomini difendeva il meccanismo che controllava il movimento delle porte da una marea di armigeri. Di fronte al complesso di ruote e argani, un guerriero combatteva come un titano tra le formiche. Alto una buona testa più degli avversari che lo circondavano, non cessava di farne strage, accumulando ai suoi piedi i corpi martoriati. Con un unico fendente, aprì in due il cranio di un fante che lo incalzava da vicino. Un altro colpo ben piazzato staccò di netto un braccio, facendolo volare in aria. Insozzato dalla pioggia scarlatta che schizzava dall’arto mozzato, il cerchio di assalitori arretrò per un momento, permettendo al combattente di rifiatare. Tergendosi il sudore che gli ruscellava dalla fronte, Riccardo salutò con un cenno l’arrivo del suo amico più fidato. – San Giorgio, John! Iniziavo a pensare ti fossi fermato in città a scolarti una pinta… Qui ci sono teste da spaccare!

* * *

Bryce tese l’orecchio, sforzandosi di raccogliere i rumori che il vento portava con sé, spirando dalla direzione della città. Ciò che udì, parlava di morte e massacro: metallo che urta il metallo, schianti di legno fracassato e gemiti di carne offesa. Comunque stesse andando il piano di Riccardo, dentro Taillebourg si combatteva. Imprecò, battendosi sulle cosce le mani guantate di ferro. Avrebbe dato qualsiasi cosa per essere oltre quelle mura, insieme ai suoi amici. “Ho un altro compito per te…”, gli aveva detto il duca, e così adesso, invece di dar battaglia al suo fianco con Little John e Ginevra, era costretto a starsene lì, acquattato tra i cespugli come un brigante in attesa di un povero Cristo da spennare. Intorno a lui, disseminati a mezzaluna nella boscaglia, ottocento uomini, dei quali oltre la metà arcieri e balestrieri, scrutavano muti la pianura ondulata, che si estendeva nel buio oltre la fascia di vegetazione che circondava l’abitato. – Signore, quanto credete che dovremo aspettare? Bryce squadrò dalla testa ai piedi l’uomo che aveva infranto il silenzio: quarant’anni o poco meno, abiti logori e una faccia smunta a sbirciare sotto il cappuccio, consumata più dalla fame e dai crampi allo stomaco che dal logorio della battaglia. Persino l’arco di tasso e la faretra di cuoio, stinta e consunta, parevano aver visto giorni migliori. Buon Dio, sembra un fantasma… siamo davvero allo stremo. – Hai fretta di batterti? – Se uno si batte può lasciarci la pelle, e non si ha mai tanta fretta di crepare. – rispose l’uomo, allargando un sorriso sdentato. – Ma non mi piace l’idea di stare qui a poltrire mentre i nostri cercano di non farsi ammazzare dentro la stramaledetta città. – Dici bene, amico, ma l’ordine del duca è di attendere qui.

– Per fare cosa? – Far scattare una trappola. – Quindi giochiamo un brutto scherzo a qualcuno? – Purtroppo no – rispose Bryce – è a noi che stanno per farlo lo scherzo, e non credo che ci sarà granché da ridere… L’arciere si grattò la testa, stralunato. – Il nostro compito è di evitare che l’intero esercito finisca macinato come grano maturo. – spiegò Bryce. – Dobbiamo tener ferma la mola per il tempo che serve, mentre il duca cerca di ammazzare il mugnaio. Un calpestio interruppe la conversazione. Un braccio scostò le frasche alla loro sinistra, lasciando are il giovane scudiero cui apparteneva attraverso l’intrico dei rami. Il ragazzo si accovacciò accanto a Bryce, trafelato, sgranando occhi latori di notizie sgradevoli. – Arrivano. Tantissimi… Li avremo addosso a minuti.

* * *

Hugon raggiunse Goffredo mentre il feudatario stava completando la vestizione per la battaglia, attorniato da un pugno di valletti terrorizzati. Quando lo stregone fece il suo ingresso nelle stanze del nobile, situate nel mastio della rocca, il gruppo di ragazzini si raccolse in un angolo, piagnucolando. Da quando servette e sguattere erano sparite o fuggite, si mormorava che il gobbo trasformasse paggi e valletti in cibo per la sua creatura. Goffredo sbuffò, cercando inutilmente di sistemarsi la cintura sul ventre prominente, per bilanciare il peso dell’usbergo. Alla fine, snervato dallo sforzo inutile, lasciò cadere le braccia e si rivolse al nuovo venuto. – Te lo avevo detto, no? Quel ragazzo è un demonio, forse anche peggio di quel gran bastardo che lo ha messo al mondo. Dio lo stramaledica! Se riesce a

prendere la fortezza siamo perduti. – Ci morirà, invece. – rispose Hugon, trascinando la tunica sul pavimento di pietra, in un movimento che a Goffredo ricordò lo strisciare di una serpe. – E tu dominerai l’Aquitania. – Sembri sicuro, ma lo eri anche quando hai mandato quei pendagli da forca a scannarlo sulla strada per Poitiers. Devo ricordarti come è finita? La pupilla nera di Hugon si contrasse, riducendosi a un frammento di oscurità. – Io non ero presente, così come la mia creatura. – sibilò. – E non tollero mi si rinfaccino i miei fallimenti… – Non minacciarmi! – sbraitò Goffredo. – Vedi piuttosto di portare a termine ciò che hai lasciato in sospeso. L’incantatore accennò un inchino. – E tu che farai? Con un movimento deciso, Goffredo sguainò la spada e la tenne sollevata davanti a sé, lasciando correre gli occhi sulla lama. La bocca si inclinò in un sorriso teso. – Il nemico tiene le porte del mio castello, druido. Vado a riprendermele.

* * *

L’esercito dei baroni travolse il campo di Riccardo. Per soccorrere i difensori di Taillebourg, i feudatari ribelli avevano riunito una forza che superava di gran lunga le scarse risorse di cui Bryce disponeva. Il mercenario aveva osservato la massa avanzante attraverso i campi, contando le torce che scintillavano nel buio, e ne aveva stimato la consistenza in poco meno di quattromila tra fanti e cavalieri; si trattava di quasi cinque volte il numero dei suoi uomini.

Quando la colonna degli assalitori investì le prime tende, la luce dei bracieri ancora accesi tra gli alloggiamenti svelò l’identità dei nemici: su scudi, stendardi e cotte d’arme campeggiavano le losanghe gialle e rosse dei conti d’Angoulême, i leoni armati e linguati d’azzurro di Bigorre, la croce patente rossa in campo argento dei signori di Comminges, e poi i tre leoni azzurri in campo d’oro della viscontea di Limoges, e ancora i blasoni di Perigord, Auvergne, Armagnac e Bearn… Senza incontrare alcuna resistenza, gli armati dilagarono, abbattendo le tende e appiccando il fuoco a carriaggi e vettovaglie. Le macchine d’assedio furono cosparse d’olio e incendiate. In mezzo alle pire che consumavano mangani e catapulte, soltanto la “Bête de Taillebourg” continuava a ergersi, le sue travi troppo massicce per poter essere date alle fiamme facilmente da uomini impegnati in un’opera di distruzione improvvisata. Resisi conto che il campo era stato abbandonato, i comandanti iniziarono a richiamare i propri uomini, sparpagliati tutt’intorno nella frenesia del saccheggio, per avviarli attraverso la fascia boscosa che separava il campo dalle mura della città. Nella confusione, nessuno dei nobili riuscì a notare la minaccia che stava prendendo forma tra gli alberi. Controllando a stento la rabbia, Bryce aveva faticato per tenere a freno la furia dei suoi uomini di fronte a quello scempio. Il mercenario levò un braccio e centinaia di uomini incoccarono, fissando silenziosamente il suo palmo aperto. Quando il pugno si richiuse, l’aria crepitante di fiamme fu attraversata da una nuvola di acciaio sibilante. Dozzine di cavalieri furono abbattuti dalla prima ondata di dardi, uccisi o disarcionati dalle cavalcature imbizzarrite. Frecce e quadrelli, volando attraverso gli incendi, presero a loro volta fuoco, screziando le tenebre con scie roventi. Sorpresi dall’attacco inatteso, i baroni impiegarono momenti interminabili per comprenderne la natura. Urla feroci e piattonate di spada spinsero infine gli uomini verso la linea della vegetazione, in caccia del nemico invisibile che continuava a saettare senza tregua i loro ranghi. Bryce attese fino all’ultimo prima di sottrarsi all’urto, ripiegando con i suoi tra gli alberi. Arcieri e balestrieri arretrarono in buon ordine, riparandosi dietro alle file di fanti che avevano eretto una barriera con tronchi caduti, sassi e ramaglie.

Gli inseguitori si scagliarono a testa bassa contro questo vallo improvvisato, alcuni tentando di scavalcarlo, altri strappando rami e pietre per esporre i difensori ai colpi dei compagni che incalzavano alle spalle. Bryce si spostava lungo la barricata, incoraggiando gli uomini e intervenendo dove la mischia si faceva più violenta. La sua decisione di appostare alcuni arcieri tra le chiome degli alberi, sui fianchi della linea difensiva, si stava rivelando profetica oltre che azzeccata: bloccati da un ostacolo più duro del previsto, i baroni stavano infatti facendo scivolare robusti nerbi di truppe ai lati del suo schieramento. Scoprire che la morte piombava anche dall’alto avrebbe obbligato il nemico a maggiore prudenza, rallentandone ulteriormente l’avanzata. Bryce si stropicciò gli occhi, arrossati dal sudore e dalla densa fuliggine. Osservò il flusso interminabile di uomini che sbucavano dagli alberi, linee compatte di acciaio, una dopo l’altra, baluginanti nel riverbero degli incendi che filtrava tra i tronchi scuri. Fa’ presto, Riccardo… Fa’ presto…

* * *

– Avanti, avanti! Dategli addosso! È solo un uomo! Goffredo gesticolava, incitando le sue truppe, sgomente al cospetto di un avversario che sembrava invincibile. Lo scontro volgeva inesorabilmente a suo sfavore: nonostante la guarnigione del castello soverchiasse numericamente la piccola forza di Riccardo, la ferocia sovrumana del Plantageneto stava alterando drasticamente l’equilibrio della bilancia. Il ragazzo appariva invulnerabile. Più di una volta era sembrato sul punto di cadere, travolto dalla folla di avversari, solo per uscirne sempre vittorioso. E a ogni scampato pericolo, aveva risposto con la strage dei suoi nemici. Il signore di Taillebourg rabbrividì, fissando il giovane invasato, e nella sua mente iniziò a farsi largo il pensiero che fosse il massacro stesso ad alimentare il fuoco di una simile collera. La ferocia del duca cresceva infatti insieme alla

strage, di essa si cibava, e a sua volta la nutriva con una spietata messe di sangue. Neppure i primi rinforzi della guarnigione cittadina, per quanto tardivi, erano valsi a risolvere lo scontro. Fiancheggiato dal colosso che lo seguiva come un’ombra, Riccardo si era gettato direttamente in mezzo ai nuovi nemici, portando la carneficina nei loro ranghi. Goffredo iniziava a disperare, quando il fragore del combattimento fu sovrastato da un suono acuto e odioso, un sibilo raccapricciante, che risuonò nella corte interna di Taillebourg, accompagnato da un lezzo rivoltante di morte e decomposizione. Molte delle sue guardie portarono la mano alla bocca, cercando di soffocare i conati di vomito, ma Goffredo sorrise, esultando per l’irrompere di quel fetore disgustoso. – Se Dio non vuole prendere le mie parti – bestemmiò istericamente – allora sarà il diavolo a decidere la battaglia!.

Richiamato dal suo sonno eterno, per calpestare di nuovo la terra animato da un’empia non-vita, Gunnbjörn Stenkilsson emerse dalla scalinata che conduceva alle cripte, calpestando feriti e morenti nel suo incedere trascinato. Al bagliore delle torce, le sue ossa decrepite lampeggiarono di un lucore malsano. Nessuno avrebbe potuto dire se in qualche angolo della sua anima dannata sussistesse ancora un ricordo della precedente esistenza, del sapore dolce dell’idromele, del fragore di onde infrante sulla prua di un drakkar, dell’ebrezza violenta della razzia e del saccheggio. Pietà, odio, paura o rabbia, dalle sue orbite scure non traspariva nulla, se non un vuoto spaventoso; del possente guerriero, grande tra il suo popolo, non restavano che tetre sembianze, consumate dai morsi del tempo e del sepolcro. Questa volta, gli uomini di Riccardo si ritrassero timorosi al suo aggio, memori della sua invulnerabilità. Il non morto raggiunse il centro della corte e si fermò, la scure posata sulla spalla coperta dalla maglia arrugginita. Il teschio si mosse ciondolante, a destra e a sinistra, scrutando la folla di armati assiepata a debita distanza. L’unico a farsi avanti fu il Duca di Aquitania. Si fece largo tra i suoi,

raccogliendo quella sfida tanto silenziosa quanto eloquente. – È me che stai cercando, avanzo d’inferno? Il cranio ruotò nella sua direzione, le gambe ossute si divaricarono e le ginocchia, da secoli ormai prive di cartilagini, scricchiolarono nel piegarsi leggermente. Le mani scheletriche si mossero sull’impugnatura dell’ascia, sollevandola in posizione di guardia: gesti antichi, di un uomo talmente assuefatto alla battaglia da ripeterli automaticamente anche nella morte. Non vi fu alcuna esitazione: così come non poteva averne l’essere animato dal sortilegio, così l’ebbrezza della lotta sottraeva a Riccardo ogni incertezza. Coperto di sangue dalla testa ai piedi, con un urlo selvaggio aggredì l’avversario. Il suo fendente incontrò il solido legno dell’ascia, slittò e concluse la sua corsa contro la testa d’acciaio dell’arma. Il rumore metallico delle due lame che cozzavano riaccese lo scontro. In circostanze più cortesi, forse le fazioni contrapposte avrebbero interrotto le ostilità, concordando una tacita tregua per assistere al duello, ma non c’era posto per la cavalleria tra le pietre insanguinate di Taillebourg. John guidò la carica, facendosi largo a suon di bastonate. Distribuendo colpi senza risparmio, diede fiato alla voce possente. – Ginevra! Ginevra! Tenendo sotto controllo gli avversari con un occhio, con l’altro cercava ovunque la ragazza, setacciando con lo sguardo camminamenti, postierle e porticati. Nella sua ricerca frenetica, riuscì a intravedere una sagoma che sgusciava nella ressa dei combattenti; fu la visione di un istante, prima che la figura scomparisse nella calca. Pensò di inseguirla, ma il gesticolare convulso di alcuni fanti lo convinse a lasciar perdere. Guardò nella direzione indicatagli dai suoi uomini e impallidì: Riccardo era in pericolo.

La spada scattò, assestando una veloce stoccata. Riccardo la vide volare sopra la guardia dell’avversario, per una volta troppo lenta, e trovare un varco nella cotta di maglia slabbrata e arrugginita. La lama si piantò tra le costole grigie della creatura. Il gemito che proruppe dalla gola del cadavere non aveva nulla di umano. Era un suono antico e malvagio, di pietre trascinate una contro l’altra nella polvere. La Spina! Funziona, dunque… Riccardo sorrise, un’esultanza subito soffocata dalla reazione fulminea del vichingo. Spostandosi di lato, il non morto scivolò letteralmente via dalla spada. La lama ricurva dell’ascia agganciò il tallone di Riccardo, e con uno strattone lo spedì gambe all’aria. Il giovane cadde sulla schiena e rotolò subito via, evitando il colpo successivo, che si abbatté sulle pietre del selciato mancando la sua testa di un soffio. Rimessosi in piedi, urlò, avvertendo un dolore lancinante al polpaccio sinistro, una frustata bruciante che partì dall’arto ferito percuotendogli la spina dorsale fino al cervello. Stringendo i denti, si girò e colpì con il bordo dello scudo il viso del lanciere che lo aveva trafitto. L’uomo crollò, vomitando sangue e denti. Un fante dalla stazza gigantesca scavalcò il corpo del compagno, vibrando un colpo di mazza che costrinse Riccardo in ginocchio. Altri uomini accorsero da ogni parte. – Il bastardo è a terra! – ringhiò Goffredo di Rancon, facendosi udire a dispetto del frastuono. – Un sacco d’oro per la sua testa! Riccardo alzò lo scudo, proteggendosi dalla pioggia di colpi. Riusciva a vedere i suoi uomini; non distavano che pochi i, ma avrebbero potuto essere al capo opposto del mondo, impossibilitati com’erano a raggiungerlo da una muraglia di lance e spade. Come un cane rabbioso, sferrò colpi alla cieca. Minacciato da una picca, tagliò un paio di mani, lasciandole attaccate all’asta. Qualcosa lo colpì con violenza alla schiena, ributtandolo al suolo; da terra, falciò un ginocchio e troncò un piede. Il sangue che spruzzava dal moncherino lo accecò. Anche senza riuscire a vedere, percepì con chiarezza l’incombere del non morto sopra di sé. Strinse spasmodicamente l’elsa della spada.

Non posso morire qui…

* * *

L’inferno doveva essere simile a quello. Il bosco era in fiamme, e ridotto a un mattatoio. Alla luce delle piante incendiate, i corpi crivellati di frecce sembravano ricci giganteschi abbandonati sull’erba. Presso la barricata, dove il combattimento corpo a corpo aveva imperversato con più violenza, lo spettacolo era anche peggiore. Bryce aveva difeso la posizione fino all’ultimo, ricoprendo lo sbarramento con i cadaveri dei nemici. Dove archi e balestre avevano perso molta della loro utilità, spade e asce avevano sbrigato orrendamente il lavoro da beccaio, riducendo gli assalitori a mucchi di carne rosseggiante. Tuttavia, rinviare ancora l’inevitabile non rientrava più nelle possibilità del ragazzo. Forti del loro numero, gli uomini fedeli ai baroni stringevano ormai i difensori da ogni parte, minacciando di chiuderli in una morsa senza scampo. – Indietro! Ripiegare sulla città! Bryce impartì l’ordine con la morte nel cuore. Sfuggire al macello tra gli alberi per finire massacrati allo scoperto… questo era il suo timore, fin troppo fondato: senza cavalleria, lo spazio aperto che si apriva oltre il bosco sarebbe divenuto la loro tomba. Con un colpo di falcione spacciò l’ennesimo avversario, prima di gettare un ultimo sguardo ai resti della barriera dove aveva lasciato troppi dei suoi. Gli alberi in fiamme, giganti ardenti nell’oscurità declinante che precedeva l’alba, illuminarono il suo viso solcato dalle lacrime.

* * *

Uno schianto di ossa spezzate. Il tonfo del legno che impatta la carne. E poi alte grida di sorpresa e dolore. Riccardo non riuscì a sentire altro prima che due braccia poderose lo afferrassero, trascinandolo di peso fuori dalla calca di corpi intrecciati. Quando riuscì finalmente a ripulirsi gli occhi dal sangue appiccicoso, quello che gli si parò davanti fu il largo viso barbuto del suo amico. – Non vorrai crepare in questa merda di piazzale… – gli urlò John. – E se quello spiedo che hai in mano funziona sul serio, sbrigati a fare quel che devi prima che ci accoppino tutti! Dio solo sa quanto reggerà quel marmocchio, giù al campo. Riccardo arrossì, di imbarazzo e furore, limitandosi ad annuire. Agitando la spada come fosse un vessillo, trascinò i suoi in un nuovo, furibondo assalto. La ferocia dell’attacco aprì una breccia nella massa compatta degli uomini di Goffredo, varco che il Duca di Aquitania fu lesto a sfruttare. Sapeva chi avrebbe trovato ad aspettarlo nel cuore della carneficina. Il non morto lo caricò appena fu in vista, portando un colpo di scure di incredibile potenza. Lo scudo di Riccardo, incassando l’urto, si spaccò dal bordo superiore fino al centro. Un secondo colpo lo ridusse in schegge. Questa volta, però, il Plantageneto non si fece trovare impreparato: liberatosi con uno strattone dei resti ormai inutili dello scudo, anziché arretrare si proiettò in avanti, entrando nella guardia dell’avversario. La mano sinistra, ora libera, afferrò il manico dell’ascia, impedendo alla creatura di recuperare l’arma per un nuovo colpo. La destra calò la spada in un colpo formidabile, centrando la spalla del mostro. L’antica cotta di maglia si lacerò, poiché la stregoneria che la rendeva quasi indistruttibile era ora contrastata dal potere altrettanto grande che permeava la lama. Gli anelli di ferro arrugginito volarono in aria e l’acciaio affondò in profondità nelle ossa, frantumando la clavicola e separando per metà l’omero dalla scapola. Gunnbjörn urlò, senza però reagire, le orbite fisse sul braccio che penzolava semi-staccato dal corpo. Riccardo approfittò subito della prima vera incertezza del suo nemico. Impugnando la spada con entrambe le mani, colpì ancora nello stesso punto. Il braccio scheletrico cadde a terra, gli ultimi brandelli di muscolo marcescenti recisi dal metallo benedetto. Facendo appello a risorse che potevano

provenirgli solo dal legame con gli abissi dell’inferno, il vichingo sollevò senza sforzo la pesante ascia con il braccio rimasto, facendola oscillare con incredibile rapidità. A impedire che l’arma schiantasse elmo e cranio del giovane condottiero, fu solamente l’intervento disperato di Little John; il bastone del gigante deviò l’ascia verso il basso. La lama urtò con violenza la coscia di Riccardo, ma il colpo, privato della forza necessaria per penetrare il solido usbergo di maglia, slittò lungo il metallo e cozzò contro il selciato in una cascata di scintille. Ignorando il dolore, il figlio del re disegnò con la spada un arco di luce argentea. L’acciaio se, sacralizzato dai poteri della reliquia di Carlo Martello, frantumò le vertebre dell’abominio alla base del collo, separando il cranio dal resto del corpo. La testa schizzò in aria e poi urtò le pietre con un suono sinistro, ruzzolando per qualche o prima di fermarsi ai piedi di Goffredo di Rancon. Il nobile impallidì, fissando terrorizzato i fuochi verdi ancora ardenti nelle orbite del vichingo. Davanti ai suoi occhi sbarrati, le fiamme avvamparono più vive con un ultimo guizzo, prima di spegnersi per sempre. Insieme ad esse, venne meno anche la volontà di battersi della guarnigione di Taillebourg. Già sorpresi dall’audace incursione notturna e ora demoralizzati dalla sconfitta del loro infernale alleato, molti tra i difensori rimasero immobili, osservando il corpo decapitato del morto vivente. Quando si resero conto che il mucchio d’ossa non si sarebbe più rialzato, iniziarono a disperdersi. Alcuni gettarono le armi, i fanti crollando in ginocchio e implorando clemenza, i cavalieri restando in piedi, confidenti nell’incolumità garantita loro dalla possibilità per i nemici di ottenere un buon riscatto. I più, però, fuggirono attraverso le porte e sciamarono verso la città, un gregge disordinato che urlava e correva, coinvolgendo nella rovinosa rotta anche i più ordinati drappelli che risalivano il sentiero per unirsi a una battaglia che solo ora intuivano già perduta. Goffredo lanciò la sua spada a terra, incrociando le braccia. – Hai vinto, Plantageneto. Goffredo di Rancon sa riconoscere e accettare la sconfitta. Riccardo non lo degnò di uno sguardo. Raccolse invece il teschio e l’elmo di Gunnbjörn e si avvicinò a Little John. Il gigante sorrise, osservando l’espressione completamente esausta del compagno, le spalle basse e le mani

tremanti. Consumata la propria furia animalesca nel crogiolo della battaglia, sembrava ora svuotato di ogni energia. Gli posò una mano sulla spalla. – Sei tutto intero? – Trovatemi un cavallo, subito! – ordinò seccamente Riccardo a uno dei suoi scudieri. – E adesso dove vuoi andartene? – chiese John. – Bada a Goffredo. Che non gli sia fatto alcun male. Io ho ancora una cosa da fare. Un minuto dopo, in sella allo stallone appartenuto a Goffredo, il nuovo padrone della fortezza cavalcava a briglia sciolta verso la città sottostante. Guardandolo allontanarsi, John rise sonoramente, sfregandosi energicamente le mani guantate in uno sferragliare di maglia metallica. – Povero Goffredo! – esclamò, rivolgendosi al nobile senza curarsi di celare il suo divertimento. – Una batosta del genere, e neppure la soddisfazione di arrendervi a un cavaliere di rango. Purtroppo, vi toccherà il sottoscritto; non ho patenti di nobiltà ma dovrete accontentarvi. Siete mio prig… Due ombre scattarono, appena inquadrate dalla sua visione periferica, una a destra e l’altra a sinistra. Colto di sorpresa e impossibilitato a fronteggiare contemporaneamente il duplice attacco, Little John si girò d’istinto a sinistra, per contrastare quella che il suo intuito gli suggeriva essere la minaccia principale. Nel primo chiarore dell’alba, la figura contorta di Hugon di Montfort-L’Amaury riempì il suo sguardo, la tunica nera svolazzante durante il balzo, e il lungo pugnale acuminato alzato. John non capì come quell’uomo deforme potesse essere comparso dal nulla ma seppe in un istante che non sarebbe riuscito a evitare il colpo mortale. Tentò comunque di sollevare il bastone tra sé e l’avversario. Qualcosa fendette l’aria, scivolando sopra la sua spalla. L’urlo di dolore dello stregone si accompagnò a un fiotto di sangue scuro, quando l’acciaio appuntito del langseax divelse il suo occhio sinistro dall’orbita. Il druido ricadde sul selciato, urlando come una bestia ferita. Completamente cieco, prese a dimenarsi selvaggiamente sulle pietre chiazzate di sangue, prima di emettere un rantolo inarticolato e rimanere

immobile. John sospirò, sbalordito. Alle sue spalle, Ginevra si terse il sudore dalla fronte. – Ci è mancato un pelo, stupido orso. – Ma come… – Mi cercavi, no? Ti ho sentito chiamare il mio nome durante la battaglia. – Il tuo… Sì, ti cercavo… – arrossì lui. – Volevo solo assicurarmi… – Lo so cosa volevi, bestione. – disse lei, afferrandolo per il giaco di maglia e tirandolo a sé. Premette le labbra morbide sulle sue, in un lungo bacio. Il viso del gigante mutò dal rosso al paonazzo. – Non farti strane idee. – ridacchiò lei, sfuggendo al suo goffo tentativo di abbraccio. – Non è così facile mettere le mani sulla Volpe di Bordeaux. Little John si raddrizzò, schiarendosi la gola. – Adesso sarà meglio occuparsi di questa vecchia cornacchia. Quasi risvegliato da quelle parole, l’ultimo discendente dei druidi neri balzò improvvisamente in piedi, rianimato da una vitalità che fino a poco prima sembrava completamente scomparsa. La bocca, rosseggiante per il sangue che colava copioso lungo il viso dall’orbita martoriata, mormorò parole oscure e blasfeme. Un vento tagliente, scaturito dal nulla, invase la corte, accecando i presenti con folate di polvere. Turbinando, investì la figura curva dello stregone. Le vesti nere si avvolsero intorno al corpo deforme, fasciandolo strettamente come un sudario. L’argento dei simboli celtici che fregiavano la tunica sfavillò, illuminato da una luce misteriosa, mentre le fattezze dell’uomo iniziavano a dissolversi davanti agli occhi sbarrati di Little John e Ginevra. Infine, reagendo allo sconcerto, la ladra scagliò una delle fidate lame, mirando alla testa dell’incantatore. Il colpo, preciso e potente, attraversò soltanto l’aria, concludendo la sua corsa nello scudo di un sergente, abbastanza rapido da alzarlo in tempo. Hugon di Montfort-L’Amaury era scomparso.

* * *

Bryce schivò la lancia per miracolo. La cuspide metallica strisciò contro l’anca, tranciando la cintura di cuoio che reggeva il fodero. La sua risposta spezzò la zampa anteriore destra del cavallo e l’animale crollò, trascinando con sé nella rovinosa caduta il proprio cavaliere. Avventandosi sull’uomo, stordito dalla caduta, Bryce lo uccise con un rapido affondo. Stremato, rialzò la testa e lasciò vagare gli occhi sul campo aperto, rischiarato dalla tenue luce del primo mattino. Intorno a lui, la rovina. La prima carica del nemico aveva infranto e disperso le sue linee. La seconda aveva portato il massacro tra gli uomini sparpagliati e in balìa del panico. La terza avrebbe lasciato soltanto cadaveri riversi nell’erba. Bryce alzò la spada, urlando a gran voce per richiamare a sé ogni uomo dotato ancora di quel tanto di volontà bastante per battersi. La ritirata aveva condotto il manipolo di disperati al cospetto delle mura sbrecciate della città. La cavalleria dei baroni ripiegò, riordinando i ranghi per l’ultima, decisiva carica. A Bryce bastò uno sguardo per valutare il numero dei superstiti. Dubitò ne fossero rimasti in piedi più di duecento. Quelli mancanti all’appello avevano versato il proprio sangue sotto gli zoccoli, attraversando la spianata, se non erano già caduti difendendo il bosco ardente, pira funebre per quanti si erano battuti fino all’ultimo sotto le sue fronde. Lo squillo acuto delle trombe salutò insieme il sorgere del sole e la carica fatale. Bryce, sfinito, la vista annebbiata per il sudore e la stanchezza, trovò a fatica energie sufficienti per sollevare il falcione. Come in un incubo, vide la lunga fila di destrieri muoversi, accelerare, trasformarsi in una valanga di carne, muscoli e acciaio in corsa. Poi, d’incanto, l’incubo sembrò trasformarsi in un sogno.

I ranghi dei cavalieri rallentarono, prima impercettibilmente, poi in maniera inequivocabile: diminuirono la velocità, fino ad arrestarsi al centro della spianata, massa fremente ma attraversata dal tremito del dubbio. – Lassù! Guardate lassù, in cima alla breccia! Un grido strappò il manto di silenzio surreale che aveva avvolto il campo di battaglia. Bryce seguì le braccia tese degli uomini. Immobile e solitario, in piedi sulla rovina che segnava la sommità della breccia, si ergeva un uomo. Nel gioco di luci creato dal riverbero del sole sorgente sulle pietre, la sua sagoma svettava impressionante; un colosso, scuro e indistinto, stagliato contro l’azzurro del mattino. L’uomo alzò il braccio sinistro, che reggeva uno stendardo. Il drappo si distese alle carezze della brezza mattutina, lasciando che il leone dorato d’Aquitania ruggisse nel vento. Soltanto allora, con un gesto teatrale, l’uomo avanzò, emergendo dall’ombra. Riccardo Plantageneto, Duca di Aquitania, regale e insanguinato, levò al cielo il braccio che stringeva la spada. Migliaia di occhi, arrossati dal fumo degli incendi, videro il macabro trofeo infisso sulla punta d’acciaio: il cranio del Cavaliere della Ruggine, sormontato dall’antico elmo norreno. All’estremità opposta della piana, i baroni compresero: Taillebourg era caduta, il piano di Goffredo fallito, la ribellione condannata. Era tempo di trattare con il vincitore. L’esercito di soccorso cessò ogni ulteriore avanzata. Dai ranghi ancora in armi si distaccò un singolo cavaliere, che cavalcò verso la breccia, agitando un drappo bianco. Bryce, attorniato dai suoi soldati, uomini increduli che si abbracciavano per la gioia di averla scampata, si lasciò cadere in ginocchio, ringraziando Dio per l’esito straordinario di quella giornata sanguinosa e incerta. Riccardo, sceso lentamente verso la spianata per incontrare l’araldo dei ribelli, fu accolto da un boato di acclamazione, un urlo feroce ed estasiato che rimbalzò di gola in gola, dalla pianura alle strade di Taillebourg, su, fino alle porte dell’orgogliosa rocca.

Un urlo che era insieme un omaggio e una profezia. – Cuor di Leone! Cuor di Leone! Cuor di Leone!

Conclusione

Francia, Tours, Anno Domini 1187.

– Stai fermo, testa di legno! Altrimenti, invece di vedere qualcosa, rischio di rompermi l’osso del collo. Little John, sbuffò, sistemandosi meglio le cosce della ragazza sulle ampie spalle. – Ginevra, non sei una bambina! – protestò a gran voce, prima di essere fulminato dallo sguardo scandalizzato di uno dei chierici di San Martino che prendevano parte alla funzione. Tra la folla che riempiva la grande basilica di Tours, molte teste si girarono, bersagliandoli con occhiate di muto rimprovero. – Tu piuttosto, abbassa la voce – lo punzecchiò lei – o finiranno per buttarci fuori! A pochi i di distanza, Bryce sghignazzò, godendosi il battibecco. Nonostante gli anni lo avessero abituato a quei continui bisticci, le schermaglie tra loro non cessavano di divertirlo. – Sono proprio dei bei tipi, quei due. – disse una voce alla sua sinistra. Bryce squadrò l’uomo che gli si era avvicinato: forse trent’anni, alto e robusto di corporatura, ma agile, capelli castani e occhi vivaci del medesimo colore, un naso insolente piantato nel mezzo del viso dai lineamenti affilati. – Li conoscete, forse? – chiese stupito. – Mai visti prima. – rispose il nuovo venuto, scuotendo la testa. – Ma formano senza dubbio un bel quadretto. In mezzo a tutti questi nobili, rigidi come mummie, e a tanti cavalieri così impettiti da sembrar di legno, fa piacere vedere un po’ di spontaneità. Sono forse marito e moglie?

– Che il Signore ce ne scampi! – rispose Bryce, soffocando una risata. – Ginevra e John sono… come dire… amici. O potrei dire amanti… Non saprei bene come definirli, ma di sicuro lei non è donna che si possa legare a un focolare. – Capisco. – rispose lo straniero. – Ma ecco che arriva l’arcivescovo! Dall’arco di una navata laterale, fece il suo ingresso in pompa magna Bartolomeo, arcivescovo di Tours, scortato da una vera e propria armata di preti, arcipreti, chierici e chierichetti. Il coro di fanciulli tacque, sostituito dalle voci e dai canti ieratici dei canonici della basilica. Il fumo degli incensi avvolse i vassalli del Poitou e di Aquitania, schierati da entrambi i lati dell’altare maggiore, a formare una sorta di aggio per il loro signore. Un religioso silenzio calò sulla folla assiepata, quando Riccardo Plantageneto, figlio di Enrico II Plantageneto d’Inghilterra, avanzò lungo la navata centrale, vestito solo di una semplice tunica bianca e privo di qualsiasi ornamento, fosse anche solo la cotta d’arme con i suoi colori. Bryce avvertì un brivido corrergli lungo la schiena, quando riconobbe tra i baroni schierati anche Goffredo di Rancon, ancora signore di Taillebourg per grazia e lungimiranza del suo vincitore. Per un momento, il ricordo tornò a quell’assedio di otto anni prima, alla battaglia disperata sotto le mura, alle orribili negromanzie del druido nero. Scacciando quei pensieri, fissò ancora Riccardo, affascinato dai dettagli della cerimonia: tutto era così simile al giorno in cui Riccardo in persona, tra quelle stesse mura, lo aveva investito cavaliere, con la benedizione di San Michele e di San Giorgio. Ma ora era tutto diverso. Perché tutto era cambiato. Gerusalemme era caduta. Prima dicerie di mercanti e pellegrini, poi lettere, e infine messaggeri, avevano recato in Occidente notizie via via più circostanziate sulla catastrofe occorsa in Terrasanta. La sconfitta totale dell’esercito cristiano di Re Guido di Lusignano, presso i Corni di Hattin, il 4 luglio 1187, aveva spalancato agli infedeli le porte della Città Santa.

Tiberiade, Acri e Sidone erano cadute entro il mese, Beirut ad agosto e Ascalona a settembre. Solo l’eroica Tiro aveva resistito, guidata da Corrado di Monferrato. Gerusalemme si era arresa il 2 ottobre, cedendo al trionfante Saladino. – Voi sapete qualcosa sull’appello del nuovo papa? – sussurrò Bryce al forestiero. – Siete straniero, pare, quindi forse avrete udito qualche nuova lungo la strada. – Ho sentito delle voci… – rispose l’altro. – Mercanti provenienti dalla Lombardia raccontano che papa Urbano III sia morto per il dolore nell’apprendere della caduta di Gerusalemme… La notizia sarebbe stata portata direttamente dall’arcivescovo di Tiro. Dicono anche che Gregorio VII… o è l’ottavo? … – Scrollò le spalle, grattandosi pensosamente il capo. – Comunque, VII o VIII che sia, pare che il nuovo papa abbia vergato di suo pugno una bolla chiamata Audita tremendi, per informare tutta la cristianità e incitarla alla riconquista del Santo Sepolcro. – Qui non se ne è udito nulla… – mormorò Bryce. – Non mi sorprende… La bolla è ancora fresca di inchiostro… eppure il vostro signore non ha atteso né papi né re per prendere la croce. – Riccardo è fatto così. Sarebbe partito comunque, al di là di prediche, pergamene o editti reali. – Un buon cristiano. – Questo non lo so. – rispose Bryce, fissando l’uomo con occhi meditabondi. – Sta a Dio giudicare. Ma oltre alla croce, credo sia il richiamo della battaglia a scuotere la sua anima. Il duca è nato per la guerra. E per le sfide impossibili. – Sorrise, guardando Riccardo, che nel frattempo si era inginocchiato di fronte all’altare, la testa china e le mani giunte in preghiera. – Per questo lo seguirei anche in capo al mondo. Magari finirà all’inferno, ma di certo neppure il diavolo potrà rinfacciargli di essersi mai tirato indietro. – Il Cuor di Leone. – mormorò l’uomo. – È così, e una cosa di sicuro posso dirvela, per esperienza: fossi nel sultano, inizierei seriamente a preoccuparmi.

L’aumentata solennità del canto interruppe la conversazione, riportando la loro attenzione alla celebrazione, giunta al momento culminante: Riccardo ricevette dalle mani dell’arcivescovo la croce, e pronunciò la solenne promessa di partire per la Terrasanta e combattere gli infedeli per la liberazione dei luoghi santi. Bartolomeo, invocando la solenne benedizione di Dio, della Vergine e di tutti i Santi sul duca crucesignato e su quanti, in quello stesso giorno, si fossero uniti a lui nell’impegno, levò una supplica per il successo del agium in Oltremare. Il tutto si concluse con la Messa cantata.

Dopo la celebrazione, la tensione si sciolse in strette di mano e abbracci. I feudatari si complimentavano tra loro e con i propri vassalli per il coraggio della scelta, sbilanciandosi in ardite supposizioni sulla futura partenza, sui preparativi necessari e le imprese di là da venire. Quando tutta questa agitazione andò lentamente stemperandosi, Riccardo prese commiato dai suoi baroni e si avvicinò ai soli con i quali bramava davvero condividere il proprio stato d’animo. – Dunque, è fatta, amici. – esclamò. – La Terrasanta ci aspetta. – Non credo sarà una cosa veloce… – disse Little John, torcendosi un po’ la barba. – Perché no? Intendo partire al più presto. – John ha ragione. – intervenne Ginevra. – Se un po’ ti conosco, tuo padre non sa ancora nulla di questa tua bravata… – Ormai è fatta, mia cara. E il vecchio se la farà are. – Ma ci sono anche le questioni qui in Francia da sistemare. – aggiunse Bryce. – Re Filippo è sempre ai ferri corti con l’Inghilterra… – Banda di gufi! Voi sì che sapete incoraggiare un amico! – rise sonoramente Riccardo. La risata, amplificata dalle volte della basilica, riecheggiò come un tuono, facendo sobbalzare nelle loro tonache le schiere di prelati ancora belanti intorno all’arcivescovo.

– Sarà comunque una grande avventura, mio signore! Riccardo fissò con curiosità l’uomo che aveva parlato. – Questo è certo, straniero. Ma voi chi sareste? Bryce si fece avanti, posando una mano sulla spalla dell’uomo. – Ci siamo conosciuti durante la celebrazione, e abbiamo parlato. Non mi ha detto nulla di lui, neppure il nome, ma accento e modi lo tradiscono: viene dalla nostra bella Inghilterra. – Come vi chiamate dunque, amico inglese? L’uomo avanzò di un o, esibendosi in un inchino impeccabile che rivelava indubbie origini nobili. – Il mio nome è Sir Robert Hood, di Loxley, nello Yorkshire, per servirvi; ma gli amici, quali spero potremo diventare, mi chiamano semplicemente Robin. Sono qui per unirmi alla crociata del Cuor di Leone. – Robin Hood. – ripeté Riccardo, con un largo sorriso. – E allora, per San Giorgio, sarete dei nostri! Uno ad uno, fissò gli amici con gli occhi grigi scintillanti d’eccitazione. – Little John, Bryce, Ginevra, Robin, la Terrasanta ci aspetta!

FINE

Ringraziamenti

A Valerio, il mio fantastico “Big Brother” nella vita, compagno di tanti, indimenticabili viaggi nel fantastico, vissuti insieme al tavolo da gioco, dalle lontane partite di Hero Quest, tanti anni fa, fino alle sfide di oggi. Fratellone, questa è un’avventura che dedico a te!

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