“Noi siamo contro la vita sedentaria”
Benito Mussolini
“Mussolini ha sempre ragione”
Leo Longanesi
“In Italia esistono due tipi di fascismo: il fascismo e l’antifascismo”
Ennio Flaiano
Prefazione
La storia raccontata attraverso la cronaca minuta di grandi eventi. Dalla battaglia di Adrianopoli alla marcia su Roma, ando per il Medioevo e il Sedicesimo secolo. L’autore, col suo inconfondibile stile, non trascura le figure imponenti che hanno lasciato il segno nel nostro turbolento ato, come Leo Longanesi e Antonio Gramsci.
Ennio Leopoldo
Sommario
UN FASCISTA IN FUGA DAI FASCISTI
Dopo l’8 settembre l’Italia è spaccata in due; il re, col suo governo, si fa scortare a Brindisi dagli Alleati angloamericani appena sbarcati in Puglia mentre i carri armati tedeschi invadono Roma. Tutti, in quelle tragiche ore, sono costretti a fare i conti col proprio ato; chi si è compromesso col governo Badoglio, con gli antifascisti e con la monarchia sente di essere in pericolo: “Per quanto riguarda l’Italia, ci sarà una terribile lezione per tutti”, dirà Hitler per radio. Su tutti si agita un clima di profonda incertezza e i treni diretti verso il Sud liberato faticano a contenere chi ha paura di temere qualcosa. Tra questi uomini c’era anche Leo Longanesi.
* * * L’autore del “Vademecum del perfetto fascista”, l’uomo che coniò il motto “Mussolini ha sempre ragione” e che scrisse i più riusciti slogan di propaganda del regime come “Taci, il nemico ti ascolta”, era in fuga dai nazifascisti. Longanesi ormai da tempo perse la fede verso il regime e nei suoi giornali la fronda, l’anticonformismo e la satira verso l’imponente retorica che il MinCulPop aveva eretto faceva la stecca alle disposizioni della propaganda. “Un giorno raccontò d’essere diventato antifascista in tram, guardando il didietro di un console della milizia in piedi davanti a lui”, scriverà Indro Montanelli. La sua adesione al fascismo fu della prima ora, ma questa avvenne quando il regime non aveva inutili ambizioni imperiali, non inneggiava alla superiorità della stirpe e, soprattutto, non intendeva sostituire le vecchie tradizioni italiane con quelle costruite ex novo sull’uomo nuovo fascista. Il fascismo di Longanesi era quello della sua Romagna, era quello anarchico del nonno Leopoldo Marangoni, era quello delle cose fatte in casa e di Strapaese, movimento culturale e letterario che proponeva la continuazione delle tradizioni paesane, la valorizzazione del territorio nazionale e lo spirito patriottico che i reduci della prima guerra mondiale avevano ereditato da Gabriele D’annunzio. Era quel fascismo che riprendeva lo spirito anarchico del Mussolini di quegli anni: “Voi siete anarchico, siatelo per molti anni finché potete. È una ricetta per restare giovani”, gli disse una volta Mussolini mentre eggiavano sulla spiaggia di Cesenatico.
E Longanesi, anarchico e conservatore allo stesso tempo, quest’uomo dell’Ottocento cresciuto leggendo Sorel e Rimbaud in quell’8 settembre del 1945 si trovò in mezzo a due fuochi. Da una parte i fascisti, i quali l’accusavano per il suo antifascismo, dall’altra gli antifascisti, che lo accusavano per la militanza alle attività del regime.
* * * Trovò rifugio a Napoli e lo sconforto affiora dal suo diario: “Noia, delusioni, miseria, pioggia, luce di candele e odor di cavoli fatti in casa. Rifarsi una vita in condizioni così poco favorevoli, fra stranieri stupidi e orgogliosi, che giudicano tutti gli italiani ladri e ruffiani, non è così facile, soprattutto a quarant’anni, quando non si crede più con estrema forza ai grandi ideali, e soprattutto quando questi ideali non ci sono. iamo i giorni in casa a chiederci: “Che cosa faremo?””. Nell’Italia del dopoguerra tutti cercano di crearsi una nuova verginità e nessuno è mai stato fascista. Montanelli racconta che, all’arrivo di Longanesi a Milano nel giugno del ’45, il giornale “L’Italia Libera” ospitava un trafiletto nel quale si deplorava che Longanesi non avesse fatto in tempo a giungere nel capoluogo lombardo per essere appeso per i piedi alla famosa pompa di benzina di piazzale Loreto. Scrive Montanelli: “Il caso volle che proprio l’indomani incontrasse l’incriminato. S’era in un pubblico locale di Montenapoleone, infestato anche quello di partigiani. E il poveretto, entrando, rimase disorientato quando si trovò di fronte a Leo, che gli puntava il dito accusatore. E di colpo, saltando come un misirizzi su una sedia e additando agli istanti partigiani il malcapitato, proruppe in questo straordinario grido: “È un antifascista! Prendetelo!””. Dopo la morte di Longanesi, avvenuta a Milano il 27 settembre del ’57, Ennio Flaiano scriverà: “In Italia esistono due tipi di fascismo: il fascismo e l’antifascismo”.
MUSSOLINI E LA GUERRA ALL’AMERICA
Il 16 febbraio 1926, sul terzo numero de L’Italiano, comparve un motto destinato ad avere fortuna: “Mussolini ha sempre ragione”. Inserito con qualche variante nel Vademecum del perfetto fascista, edito dall’editore Vallecchi, lo slogan coniato da Leo Longanesi finì a grandi caratteri sui muri delle case italiane. Lo scopo del giornalista romagnolo era quello di esercitare una satira, di sviluppare un paradosso che avrebbe dovuto far notare lo scenario di cartapesta che il regime stava costruendo con la propaganda. Ma Mussolini, a cui quel motto piacque parecchio, ci credette, e, peggio, ci credettero gli italiani. Perfino oltreoceano, nella democratica America, il duce italiano riscosse consensi: “Nella sua persona si fondono le doti di Mazzini con quelle di Cavour”, scriveva il New York Times l’11 maggio del ’24.
* * * Mussolini governò da solo per vent’anni; nemmeno nel direttorio del Partito fascista era possibile trattare argomenti politici. Quando era necessario prendere decisioni di fondamentale importanza, anche nelle ore più concitate del regime, Mussolini arrivava abitualmente alle riunioni di gabinetto con l’ordine del giorno già pronto e deciso. Nella sua visione, i ministri erano soltanto degli esecutori, non dei consulenti. Anche alla Camera, all’arrivo del duce, i deputati e il pubblico delle gallerie si levavano in piedi per sommergerlo d’applausi. A Palazzo Venezia, i ministri dovevano attraversare l’immensa sala del mappamondo per raggiungere la grande scrivania di Mussolini di corsa, per poi ritirarsi con o svelto dopo aver preso gli ordini. In questo clima da commedia, quando nel giugno del ’40 l’Italia dichiarò guerra a Francia e Inghilterra, essa era completamente disarmata. Mussolini aveva assicurato al Paese “otto milioni di baionette bene affilate e impugnate da giovani e intrepidi forti”, ma non poteva nascondere che c’era la stoffa necessaria per vestire solo un milione di soldati.
* * * Dopo aver firmato l’armistizio con una Francia già sconfitta dalla Germania nazista, invitò i giornalisti a Villa Torlonia, affinché ammirassero il suo stile tennistico in una partita giocata contro un professionista. Essi dovettero assistere increduli ad una carnevalata pietosa; non riusciva a eseguire il rovescio e colpiva la palla dal basso. Per sua fortuna l’arbitro era il segretario del Partito fascista, Achille Starace, il quale dopo un solo set proclamò Mussolini vincitore col punteggio di sei a due. Artefice e vittima del suo mondo di finzione architettato con cura, e con alle spalle un esercito composto da artiglierie vecchie di vent’anni e da aeroplani che raramente riuscivano a decollare, il duce decise di dichiarare guerra agli Stati Uniti d’America. Intanto alle tredici dell’11 dicembre ’41, i romani vennero sorpresi da un’inaspettata, grande notizia: i meglio informati erano convinti che la Russia avesse chiesto l’armistizio e che Mussolini era pronto a dare l’annuncio dal balcone di Palazzo Venezia. Tutti, eccitati e affamati, attesero il duce nella piazza colma. Alle quindici, ecco finalmente Mussolini: “Le potenze del Patto di acciaio, l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista, sempre più strettamente unite, scendono oggi a lato dell’eroico Giappone contro gli Stati Uniti d’America”. La folla, abituata da vent’anni ad applaudire, si liberò in un grande applauso. Ma sarà l’ultimo. “It is very tragic”, confessò l’ambasciatore americano a Roma. “Ancora un’altra guerra, ancora un altro nemico da insultare sui giornali”, sospirò Mario Pannunzio. “Dobbiamo discorrere di questioni militari delle quali ben poco capiamo, che evadono dal nostro mestiere. È come se entrassimo in un’altra persona più stupida di noi. Alla fine della giornata si è stanchissimi per la fatica di aver sostenuto un peso inutile”, esclamò Alberto Moravia. Pochi giorni dopo, Mussolini chiese separatamente a Longanesi e a Giovanni Ansaldo cosa pensassero dell’intervento: “Io gli ho chiesto”, disse Ansaldo, se ha mai veduto l’elenco telefonico di New York. E lui non m’ha saputo rispondere, ha solo scrollato le spalle”. “Io invece”, replicò Longanesi, “gli ho suggerito di guardarsi attentamente Life e lui m’ha risposto che sbagliavo, che è più bella la rivista del Popolo d’Italia. Non c’è scampo. Abbiamo perso la guerra”.
LA MARCIA SU ROMA
Il colpo di pistola di Gavrilo Princip che il 28 giugno 1914 assassinò l’Arciduca sco Ferdinando, erede al trono austriaco, pose fine all’Ottocento, alla Belle Époque, a quel lungo periodo di pace che in Europa durava dal lontano 1870. La guerra è il pretesto col quale tutti cercheranno di fare una propria rivoluzione: socialisti, nazionalisti, repubblicani, guarderanno al fango e al sangue delle trincee come l’occasione per igienizzare il vecchio mondo, come la possibilità di risolvere definitivamente vecchi conflitti secolari. Il mondo sarà diviso in due per quattro lunghi anni e i sogni, le speranze, il futuro di un’intera generazione è rimasto impigliato sul filo spinato delle trincee. Emilio Lussu, comandante sardo pluridecorato per la partecipazione alla prima guerra mondiale scriverà nel suo libro Un anno sull’altipiano: “Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi! È orribile! È per questo che ci ubriachiamo tutti, da una parte e dall’altra. L’anima del combattente di questa guerra è l’alcool. Il primo motore è l’alcool. Perciò i soldati, nella loro infinita sapienza, lo chiamano benzina”.
* * * Lussu fece appena in tempo a terminare gli studi universitari prima della mobilitazione generale e fu protagonista della dura battaglia politica che si combatterà in Italia nel dopoguerra, dopo che nel novembre del ’18 sui giornali apparirà finalmente la parola pace, una parola costata otto milioni di morti. Intanto il 23 marzo del ’19, nell’indifferenza generale, Mussolini fonda a Milano i Fasci di combattimento. Ne faranno parte quei combattenti che, finita la guerra, faranno fatica a concepire quel nuovo mondo democratico nato dalle ceneri della Grande Guerra, privo di un nemico da combattere. Sono anni difficili per la fragile democrazia italiana e l’inconsistenza politica delle forze liberali intanto blocca il Paese: il 4 luglio del ’21 cade il governo Giolitti, il 26 febbraio del ’22 quello presieduto da Ivanoe Bonomi e sei mesi dopo viene sfiduciato il giolittiano Luigi Facta. Nessuno dei vecchi politici liberali sembra in grado di mettere d’accordo tutte le frammentate forze politiche parlamentari e gli italiani stanno a guardare, perplessi. “Tutti invocano, come nei momenti di estremo pericolo, il provvidenziale intervento di un Uomo, con l’U maiuscola, che sappia
finalmente riportare il Paese nell’ordine e nella legalità”, scriverà Giustino Fortunato. Il 10 agosto Facta riotteneva la fiducia alla Camera in un clima di profonda incertezza.
* * * Il 24 ottobre, a Napoli, si apre il congresso fascista. Michele Bianchi, quadrumviro, grida agli squadristi: “Insomma, fascisti, a Napoli ci piove, che ci state a fare?”. La folla risponde: “Tutti a Roma”. La marcia è cominciata e Roma è preoccupata. Cosa accadrà? Roma è la città del Re, della burocrazia, dell’alta borghesia, dell’esercito. Roma ha paura e i primi soldati nella serata del 27 vengono dislocati alle porte della città. Facta propone al Re di firmare lo stato d’assedio ma il Re prende tempo. Che avrebbe fatto l’esercito dato che più volte, negli ultimi tempi, era stato più vicino ai fascisti che alla Corona? Il Re interpellò numerose personalità militari e la risposta che ricevette dal generale della vittoria, Armando Diaz, sarà decisiva: “Maresciallo, l’esercito sarà fedele?”. “Maestà”, rispose Diaz, “l’esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova”. Lussu, che a quell’epoca era dirigente del Partito Sardo d’Azione, nel suo libro Marcia su Roma e dintorni, un classico dell’interpretazione antifascista, sottolineò gli aspetti comici che emersero quel 28 ottobre del ’22. Scrisse: “Che era questa benedetta marcia su Roma? Le idee non erano chiare. La stampa pressoché unanime spiegava trattarsi di una marcia ideale: un’espressione figurata che significava ascesa spirituale, conquista morale. Lo stesso Mussolini non aveva idee molto precise. Egli in una intervista celebre aveva detto: “Questa marcia su Roma è strategicamente possibile attraverso le tre grandi direzioni: costiera adriatica, costiera tirrenica e valle del Tevere”. Il che come ognuno può controllare sulla carta è un bel pasticcio. Ma per quanto questo piano strategico fosse piuttosto confuso, chiariva tuttavia trattarsi di una vera e propria marcia, da farsi con le gambe. “Nessuno mi toglie dalla testa”, disse l’on. Facta, “che l’espressione marcia su Roma va interpretata come una figura retorica”. Che fece l’on. Facta? In un primo tempo accolse con tutti i convenevoli gli ambasciatori del “Duce” che gli offrivano guerra o pace. Li trattò con squisite maniere, cercando di temporeggiare. Offrì persino strette di mano, sigari e pranzi. Quando s’accorse che tutto era vano, e seppe che la marcia su Roma era iniziata, prese il coraggio a due mani. Che face mai? Presentò al re le dimissioni del suo gabinetto”.
QUELL’IDIOTA DI BERLINO
Nella notte fra l’8 e il 9 novembre del 1923, Adolf Hitler, alla guida dei reparti delle SA, dei Freikorps e di altre forze dell’estrema destra, tenta l’insurrezione armata, il colpo di Stato: il putsch di Monaco. L’obiettivo è quello di sequestrare i capi del governo bavarese per poi marciare su Berlino. Il dittatore della Baviera, il dottor Gustav von Kahr, nella birreria Burger-Brauker, aveva appena incominciato il suo discorso, col quale presentava il suo piano di governo: “Il primo ed il più grande compito di fronte al germanesimo è di restituirgli la sua libertà. Se non vi riusciamo, esso è destinato a scomparire dal novero delle grandi razze. Bisogna incominciare con rafforzare l’autorità dello Stato e coltivare l’idea nazionale nelle regioni occupate dai si e particolarmente il Alsazia. Il più forte uomo politico della terra non può fare nulla se non…”. La voce di Kahr venne interrotta da un boato, dal suono del grande portone d’ingresso che viene spalancato con un violento calcio. È Hitler. I mille presenti in sala trattengono il fiato, il presidente del Consiglio bavarese, von Knilling, guarda i suoi ministri, seduti in prima fila, preoccupato.
* * * Nella sala impaurita fanno irruzione centinaia di soldati armati con la croce uncinata sul braccio. Pestando i tacchi sul pavimento seguono Hitler, il quale accelera il o per dirigersi verso l’oratore che ormai non parla più. Hitler avanza, dalla cintura estrae una pistola e spara un colpo in aria. “Silenzio”, grida a un pubblico già muto. “Tutti devono tornare al proprio posto; se no, entrano in azione le mitragliatrici”, dice. I suoi ufficiali d’ordinanza sparano dei colpi di pistola verso il soffitto, facendone cadere l’intonaco. Attorno alla birreria si sono schierati oltre mille nazisti armati. Hitler annuncia: “Il governo bavarese è rovesciato. Il presidente della Repubblica, Ebert, deposto. Il governo di Berlino ha cessato di esistere. Prego Kahr ed il presidente von Lossow di abbandonare per qualche minuto la sala”.
* * * Nel frattempo i nazisti armati sequestrano il presidente del Consiglio bavarese, von Knilling, ed il ministro degli Interni Schweer, trascinandoli in automobile e conducendoli verso destinazione ignota. Altro colpo di pistola e Hitler prende nuovamente la parola: “Propongo di nominare reggente il dottor Kahr; direttore generale degli affari politici Hitler; supremo comandante militare Ludendorff; ministro della Reichswehr il generale von Lossow; presidente del Consiglio bavarese von Poehner. Ebert, Stresemann e Knilling e gli altri dittatori hanno cessato di esistere. Nostro compito sarà di formare un grande esercito, che marcerà su Berlino”. Il pubblico applaude.
* * * Entrano nella grande sala Ludendorff, Kahr, Lossow e Poehner. Kahr prende la parola per primo: “In questa terribile ora così grave prendo nelle mie mani i destini della Baviera come rappresentante della monarchia”. Poi Ludendorff: “In quest’ora metto le mie forze a disposizione del governo nazionale. La coccarda bianca, rossa e nera riavrà colore e onore. Siamo giunti ad una svolta della storia della Germania e del mondo. Voglia Dio proteggere il nostro lavoro. Nulla succede sulla terra senza la sua benedizione. Ma il signore dei cieli è con noi”. Hitler spara altri due colpi di pistola e aggiunge, tra gli applausi di un pubblico ormai rapito: “O domani in tutta la Germania vi sarà un governo nazionale o noi saremo tutti morti!”. Altri applausi. Hitler sembra aver vinto: la democrazia sembra essere finita; sono finiti i suoi uomini, è finito il suo linguaggio; è finito il suo stile, dietro mille nazisti armati che sfilano per Monaco eseguendo il o dell’oca, seguendo il ritmo degli inni nazisti e lo sventolio delle bandiere con la svastica.
* * * La notizia del putsch giunge a Berlino intorno alla mezzanotte. Ebert e Stresemann sembravano i più preoccupati. Che sarebbe stato di loro? Hitler e Ludendorff erano in marcia col preciso scopo di prendere il loro potere. “Ma noi, che colpe abbiamo?”, sembrano dirsi. Tre mesi prima avevano formato un governo di grande coalizione, il quale comprendeva tutti i partiti costituzionali,
dai tedesco-popolari alla Spd e presieduto dallo stesso Stresemann. Il cancelliere veniva accusato di poco patriottismo, di mettere in primo piano gli accordi internazionali anziché favorire l’economia interna tedesca, di accettare ivamente le sanzioni imposte da Francia e Inghilterra. Stresemann era convinto che la rinascita della Germania sarebbe stata possibile solo attraverso gli accordi e l’amicizia con le potenze vincitrici. In settembre, fra le proteste della destra e dei nazisti in particolare, aveva riallacciato i rapporti con la Francia, ordinando la fine della resistenza iva nei territori della Ruhr. La Repubblica di Weimar sembra alla fine, la vecchia politica di Stresemann sembra estromessa, la democrazia tedesca è in crisi, i vecchi uomini politici perdono autorità. Il nuovo avanza, marciando verso Berlino al o dell’oca.
* * * La preoccupazione a Berlino sale; all’una il governo prendeva i primi provvedimenti: il generale Seeckt veniva nominato dittatore militare, col preciso scopo di fermare “le orde armate che conducono alla rovina”. In Turingia vengono inviati oltre quindicimila soldati; reparti dell’esercito del Wurttemberg e del Baden ricevettero l’ordine di tenersi pronti per marciare su Monaco. Tutte le polizie dei vari Stati confederati erano mobilitate.
* * * Improvvisamente Kahr e von Lossow cambiano idea: tradiscono Hitler e si schierano con le forze governative, le quali non trovano difficoltà nel disperdere il piccolo esercito nazista. Nel pomeriggio l’arrivo delle truppe governative provenienti dalla Baviera meridionale dava la sicurezza che il movimento rivoluzionario, il tentato putsch, stava per giungere alla sua conclusione. Nella città veniva proclamato lo stato d’assedio e istituita la Corte marziale. Chi aiutava i nazisti veniva tratto in arresto. A Norimberga le guardie personali di Hitler venivano disarmate e arrestate. Verso le 17 il cancelliere Stresemann, ripreso il totale controllo della situazione, riusciva a mettersi in comunicazione telefonica col presidente del Consiglio bavarese, von Knilling, il quale gli comunicava che ormai non vi erano più che due edifici che offrivano resistenza: il palazzo del Comando militare, dove si trovavano Hitler e Ludendorff, i quali
tentavano l’ultima disperata resistenza e una cantina di una birreria. Alle 19 ecco arrivare il telegramma ufficiale della Wolff, il quale annuncia la fine delle ostilità e dei piccoli combattimenti: “Il palazzo del Comando militare di Monaco è stato occupato stasera, dopo un combattimento, dall’esercito bavarese. Da ambo le parti si segnalano deboli perdite. Ludendorff ed Hitler si sono consegnati prigionieri”.
* * * Il putsch fa conoscere Hitler in tutta la Germania. La più grande guerra della Storia ha lasciato l’Europa in macerie: debiti di guerra che nessuno sapeva come pagare, riparazioni che affamavano il popolo tedesco, che come tutti i popoli era ansioso di tornare alla pace. Agli inizi del 1924 il mondo cambia: il ventidue gennaio muore Lenin; il tre febbraio muore Wilson. I simboli di quella che è stata da una parte la rivoluzione rossa e dall’altra la costruzione della nuova Europa postbellica lasciano il posto a un nuovo mondo, fatto di arroganza e di paura. I partiti democratici, sempre più litigiosi, non riusciranno a sopravvivere al nuovo linguaggio, alle nuove ideologie, alla nuova politica del “tutto e subito”. Nuovi personaggi entreranno in scena. La mattina del 10 novembre il ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile porge il giornale a Mussolini; il giornale riportava questo titolo: “Il colpo di Stato bavarese è miseramente fallito”. “Hai letto di questo Hitler?”, gli chiede il ministro. “Sì”, gli risponde Mussolini: “Ho letto di quell’idiota di Berlino”.
LO SCAMBIO: IL CARCERE DI ANTONIO GRAMSCI
La mattina del 16 agosto 1924 gli italiani vengono svegliati da una terribile notizia: il cadavere del deputato socialista Giacomo Matteotti, scomparso il 10 giugno dopo aver denunciato alla Camera brogli e violenze delle squadre fasciste perpetrate durante le ultime elezioni, è stato ritrovato dal cane di un guardacaccia nel bosco della Quartarella. Il Paese è scosso e il governo Mussolini, al potere da quasi due anni, sembra avere le ore contate. I fascisti strappano dalle camicie nere il distintivo del fascio, i liberali guardano con simpatia le opposizioni e la Monarchia, il Clero e l’Esercito sembrano rimpiangere l’Italia dei notabili e di Giolitti. Mussolini è solo; basterebbe una spallata dei suoi avversari politici per farlo uscire dal Parlamento e far cadere il governo.
* * * I giorni ano lentamente e gli italiani, confusi, cercano sui giornali una notizia che non leggeranno mai. Ma le opposizioni tacciono, si sono ritirate sul silenzioso Aventino. Intanto Mussolini, smarrito, eggia in auto per le vie di Roma e osserva i romani: il geometra Rossi, con la sua lucida borsa di pelle nera, apre puntuale la porta del suo studio; l’avvocato Mancini sale sul tram che lo porterà al Palazzo di Giustizia e il bar dei coniugi Ricci prosegue la vendita di gelati. La tempesta sembra essere ata e il cadavere di Matteotti è soltanto un lontano ricordo che tutti hanno una gran voglia di dimenticare. I distintivi col fascio vengono timidamente ripescati dai cassetti e le camicie nere raccolgono una nuova illustre adesione, quella di Luigi Pirandello. Le opposizioni si suicidano col proprio silenzio e Mussolini le seppellirà il 3 gennaio del ’25, inaugurando la dittatura. È la fine dello Stato liberale: la Camera è soppressa, la libertà di stampa abolita e vengono sciolti i partiti politici. Le condanne del tribunale speciale si abbatterono soprattutto sui comunisti e sul segretario del loro partito, Antonio Gramsci. Il Partito comunista viene raso al suolo: ventidue anni di carcere a Terracini, venti a Roveda, a Scoccimarro e a Gramsci, il quale verrà arrestato l’8 novembre e portato nel carcere di Regina Coeli. Dopo un breve periodo a Ustica Gramsci viene trasferito nel carcere di San Vittore e, dal 19 luglio del 1928, detenuto nel carcere di Turi, in provincia di Bari. Per dieci
anni fu prigioniero in carceri fasciste o in case di cura e durante questo periodo scrisse “I quaderni dal carcere”. Il pensiero di Gramsci affiora da quelle pagine: la concezione di egemonia, i problemi italiani derivati dalla mancata conoscenza del ato e la concezione che l’intellettuale sardo aveva del fascismo, una classe dirigente di ignoranti e prepotenti che è diventata élite grazie a un decreto.
* * * Gramsci, fragile e malato, tentò più volte di ottenere la liberazione, come ci racconta Giorgio Fabre nel suo libro “Lo scambio: come Gramsci non fu liberato” edito dalla Sellerio editore. Scrive Fabre: “Gramsci nei Quaderni riuscì tante volte a bucare le pareti dei suoi luoghi di segregazione. Continua a stupire l’enorme volume di letture e di contatti, diretti e indiretti, che il leader comunista seppe allora magnificamente sviluppare: un po’ di giornalista, un po’ di filologo, un po’ da vero capo partito qual era stato fuori dal carcere. Per questo forniva ai suoi uomini, classe operaia e classe dirigente, un quadro d’interpretazione del mondo che pensava sarebbe stato utile e rilevante nel futuro”. Il primo tentativo di scambio era stato presentato al nunzio vaticano a Berlino Eugenio Pacelli, futuro Papa Pio XII, dall’incaricato d’affari sovietico a Berlino Stefan BratmanBrodowski. La proposta fallì e Fabre, sul suo libro, spiega le ragioni di questo fallimento e degli altri che seguiranno: “L’errore più macroscopico fu quello che ancora oggi è il più difficilmente comprensibile: una valutazione del tutto errata dell’atteggiamento del Vaticano e della Chiesa. Non è facile capire come Gramsci potesse pensare nel 1927, continuando a riproporsi la questione per altri sette anni, che la Chiesa avrebbe contribuito a toglierlo di galera: ed erano gli anni dei conflitti drammatici tra Urss e Vaticano”. All’alba del 27 aprile del ’37 Gramsci muore su un letto della clinica Quisisana di Roma; due giorni prima, il 25 aprile, un’emorragia cerebrale piegò definitivamente il suo fragile corpo. Nel processo del ’28 che condannava Gramsci il p.m. fascista Isgrò riportò a gran voce la volontà di Mussolini: “Bisogna impedire a quel cervello di funzionare per almeno vent’anni”. Non ci riuscirono.
LA CACARELLA DI LEOPARDI
Il tre ottobre del 1935 centomila soldati italiani, sotto il comando del quadrumviro maresciallo Emilio De Bono, lasciarono gli altipiani eritrei nei quali erano assiepati per marciare verso l’Etiopia e la sua capitale, Adua. Per un giorno l’Italia si ferma; si sospende il lavoro e vengono chiuse le scuole. Milioni di uomini e di donne si radunano nelle piazze di tutta Italia; i giovani avanguardisti tengono in braccio i piccoli figli della lupa col fez e le lucide scarpette di cuoio. L’attenzione di tutti è rivolta agli altoparlanti posti nei vari punti di raccolta; col naso all’insù si attendono notizie straordinarie. Si diffonde la voce di Mussolini: “Italia proletaria e fascista, in piedi!”. La guerra africana è cominciata ed è l’unica impresa del regime ad essere davvero sentita dal popolo italiano. Perfino Achille Ratti, papa Pio XI aveva dichiarato il ventinove agosto al Congresso nazionale delle infermiere cattoliche: “La guerra è diventata necessaria per l’espansione di una popolazione che aumenta di giorno in giorno”. Sui giornali si parla dell’onta subita dagli italiani ad Adua nel 1896, si pubblicano le sbiadite commoventi oleografie del forte di Makallè e di Dogali e si riscoprono Pascoli e la guerra di Libia.
* * * Nascono le cartoline raffiguranti donne abissine col seno nudo: “Io, di negre, me ne sposo una!” è il commento più diffuso. Alle adunate fasciste l’inno “Giovinezza” viene sostituito da nuovi cori, inneggianti la conquista dell’Etiopia e delle mammelle africane: “E se l’Africa si piglia, si fa tutta una famiglia”. Nelle calde e soleggiate stazioni ferroviarie dell’estate del ’35 le bande musicali salutano i volontari che da tutta Italia partono per conquistare “un posto al sole”. Nell’entusiasmo generale Mussolini, due mesi dopo aver dato inizio alle ostilità nel continente nero, progetta un nuovo giornale rivolto alle masse, popolare e illustrato; un rotocalco che sia un efficace mezzo di propaganda e che alimenti l’entusiasmo imperiale fascista. Longanesi glielo fa credere e nel dicembre del ’35 otterrà l’incaricò dal Duce di preparare il suo nuovo giornale: “Omnibus”. Scriverà due mesi dopo al suo più stretto collaboratore, Giovanni Ansaldo: “Caro Ansaldo, tutto è stato definito. Sono il direttore di Omnibus. Il lavoro al
quale vado incontro è pauroso, e mi sento solo come Cappuccetto rosso nel bosco. Tuttavia sono deciso a fare un bel giornale e lo farò. Questo è il nostro giornale, una trincea all’ombra del regime, contro... le dirò chi”.
* * * Il tre aprile 1937, finanziato da Angelo Rizzoli e Arnoldo Mondadori, esce in edicola il primo numero di Omnibus, settimanale di attualità politica e letteraria. Nelle intenzioni di Mussolini, Omnibus avrebbe dovuto essere un organo di propaganda del regime, ma Longanesi lo trasformò “nell’unico foglio capace di corbellare gli aspetti più deteriori del fascismo”, scriveranno Montanelli e Staglieno. In un periodo nel quale tutta la stampa doveva intonare l’inno al regime, doveva esaltare l’impresa imperiale e il nazionalismo più esasperato, Alberto Savinio scriverà sull’Omnibus del ventotto gennaio 1939 un articolo intitolato “Il sorbetto di Leopardi”. Lo scrittore si recò a Napoli con l’intento di raccontare le celebrazioni che si tennero nella città partenopea per il primo centenario dalla morte di uno dei padri della letteratura italiana, Giacomo Leopardi. Per Savinio il poeta era morto di cacarella a Napoli per avere ingerito troppi gelati in delle caffetterie poco pulite. Scrive Savinio: “Leopardi morì durante un’epidemia di colera, di una leggera colite che i napoletani chiamano ‘a caccarella”. Dopo due anni di vita e novantacinque numeri, Mussolini ha la scusa per sopprimere Omnibus. Qualche giorno dopo, il due febbraio, il Minculpop diede ordine al prefetto di Roma di chiudere il rotocalco di Longanesi: “Prego V.E. Disporre che settimanale Omnibus edito da RizzoliMilano sospenda sue pubblicazioni per revoca riconoscimento del gerente responsabile Leo Longanesi causa atteggiamento tenuto periodico in questi ultimi tempi”. L’articolo di Savinio fu un pretesto col quale il regime tentò di nascondere una ragione di fondo puramente politica e la vera vittima della penna dell’autore: l’Alto Commissario di Napoli.
* * * Savinio racconta che, in partenza per il capoluogo campano, diede appuntamento a un suo amico presso il “Caffè Gambrinus”, ignorando che il locale era stato recentemente chiuso dal prefetto per volontà della moglie, la quale risiedeva al
piano superiore. Savinio lamentò la chiusura del locale e apostrofò il prefetto come asino: “L’aria di Napoli è esiziale ai bei caffè, come le rose son mortali agli asini. Con le sue sale dorate e i suoi tavoli cioccolata, i suoi divani di velluto rosso e le sue grandi vetrine aperte su piazza San Ferdinando e su piazza del Plebiscito, il “Gambrinus” era meno un caffè che un monumento, una istituzione, uno dei gangli vitali di questa città. Perché è stato ucciso?”. Il prefetto si lamentò personalmente con Mussolini, risentendosi per quella definizione di somaro che Savinio gli aveva attribuito. Quello del ventotto gennaio 1939 sarà l’ultimo numero di Omnibus, giornale voluto da Mussolini come mezzo di propaganda ma che si rivelò l’unico strumento di fronda alla retorica del regime fascista. In “Parliamo di Longanesi” Corrado Pizzinelli scriverà: “Non era facile fare un settimanale così, con alle spalle il Ministero della Cultura Popolare e con Longanesi che non voleva mai la retorica. Longanesi era sempre sotto pressione. Quella che trovava difficile da neutralizzare era la guerra continua sotterranea che tanti gli facevano e che gli procurava tutte le settimane minacce di soppressione. Ogni tanto veniva convocato d'urgenza e doveva andare al Ministero. In ogni modo per quasi due anni riuscì a superare tutti gli ostacoli, anche perché tutti sapevano che poteva andare dal Duce e, parlando con lui, poteva bloccare tutte le manovre e le calunnie. Poi improvvisamente arrivò la fine”.
EUGENIO CURIEL, L’ANTIFASCISTA
Roma, Palazzo Venezia, luglio del 1934: Benito Mussolini, nella Sala del Mappamondo, vestito con la camicia nera e un abito bianco, riceve i giovani giornalisti de L’Universale, uno squattrinato quindicinale che tirava mille copie diretto dal fascista anticonformista Berto Ricci. L’Universale era uno dei tanti periodici gestiti dai GUF, i gruppi universitari fascisti, ognuno dei quali dava una propria interpretazione del fascismo e da cui nacquero le prime fronde che costituiranno il seme dell’antifascismo uscito allo scoperto dopo il 25 luglio. Mentre ava in rassegna l’emozionatissima redazione de L’Universale, il Duce si fermò appena Indro Montanelli si presentò. Il giovane giornalista poco prima aveva scritto un articolo nel quale criticava il razzismo dei nazionalsocialisti, da un anno al potere in Germania. “Mi pare di aver letto un vostro articolo contro il razzismo”, gli chiese Mussolini, grave e corrucciato: “Bravo! Il razzismo è roba da biondi”.
* * * Quattro anni dopo, a Trieste, Mussolini proclama le leggi razziali e gli italiani diventano ariani per decreto. La campagna antisemita non viene sentita dal popolo italiano ma le disposizioni del regime impongono le prime esclusioni e molti intellettuali saranno allontanati dalle proprie cattedre e dai propri giornali. Tra questi uomini vi era anche il triestino Eugenio Curiel. Scriverà Nando Briamonte nel suo libro La vita e il pensiero di Eugenio Curiel: “Con l’articolo La rappresaglia sindacale, apparso su Il Bò del 20 agosto 1938, cessava la collaborazione di Curiel all’organo gufino. Sullo stesso numero la direzione del giornale iniziava la campagna razziale e denunciava “l’invasione intellettuale da parte degli ebrei” nelle università. Il nome di Curiel figurava in un elenco di insegnanti israeliti di cui si chiedeva l’allontanamento. Poco dopo era costretto a lasciare la cattedra”. Come raccontato da Gianni Fresu nel libro “Eugenio Curiel: Il lungo viaggio contro il fascismo” edito dalla casa editrice Odradek la collaborazione di Curiel con Il Bò ebbe inizio nel 1937 e il giovane triestino, a differenza di molti intellettuali che facevano parte di quella generazione, deefinita “la generazione degli anni difficili”, nutrì da subito un profondo
sentimento antifascista e non dovette aspettare i bombardamenti del ’43 per comprendere lo scenario di cartapesta che il regime aveva costruito con la propaganda. Il Bò era ufficialmente il giornale dei GUF di Padova, “ma dalle cui colonne dovevano iniziare a are parole d’ordine, riflessioni e critiche”, scrive Gianni Fresu. Lo scopo era quella di minare la propaganda fascista dall’interno e di avvicinare i giovani intellettuali alle teorie democratiche e antifasciste. Nel settembre del ’38 sopraggiunge disattesa la campagna antisemita e le leggi razziali entrano in vigore. Sui giornali si parla della superiorità della stirpe e a grandi lettere si annuncia la difesa della razza.
* * * Il lavoro di Curiel, ebreo, si interrompe e il giovane intellettuale trova rifugio a Parigi, salotto degli esuli antifascisti. Tornato in Italia, tenta nuovamente di riparare in Francia ma al confine, nel giugno del ’39, viene individuato dalla polizia e arrestato. Condannato a cinque anni di confino, scontò la pena sull’isola di Ventotene che lasciò dopo la caduta del fascismo. Tornato a Milano, diresse L’Unità clandestina e proseguì il lavoro interrotto nel ’38. Diciotto mesi dopo, il 24 febbraio del ’45, per le strade di Milano venne riconosciuto da un commando fascista. Così il parlamentare comunista Gianni Cervetti ricorderà l’episodio, intervistato dall’autore del libro: “Io ero un ragazzino, avevo quindici anni, nato a qualche centinaio di metri dal luogo in cui fu ammazzato, ossia, piazza della Conciliazione. Quel giorno ero a giocare, anche se l’epoca non era delle più felici, insieme ad altri miei coetanei, a una cinquantina di metri dal luogo dell’omicidio. Sentimmo un urlo. Ci voltammo e vedemmo una persona con un lungo cappotto in fuga, inseguito da un gruppo composto da alcuni miliziani e alcuni fascisti in borghese. A un certo punto sentimmo una raffica di mitra. Colpito, Curiel proseguì incespicando la fuga, fino a una seconda raffica di pallottole, quella definitiva. Nessuno sapeva che si trattasse di Curiel, però, nel quartiere si diffuse subito la voce sulla natura dell’omicidio. Io stesso sentii dire distintamente “hanno ammazzato un capo della resistenza””.
LA MALA SETTA
Tre uomini, Carlo Pisacane, Giovanni Nicotera e Giovan Battista Falcone, il 25 giugno 1857, insieme ad altri ventiquattro compagni rivoluzionari, si imbarcarono su un piroscafo di linea diretto a Cagliari; lo scopo era quello di prenderne il comando e liberare i detenuti del carcere di Ponza, per creare un esercito in grado di liberare il Sud dalla dinastia dei Borbone. Rinchio il capitano della nave a vapore nella sua cabina e si armarono coi fucili e le munizioni che trovarono nella stiva. Giunti sull’isola laziale, liberarono i 323 detenuti che, impugnando le armi, si diressero verso Sapri. Allertati dal governo di Napoli, il quale aveva sparso la notizia che quella di Pisacane era una banda di delinquenti e assassini evasa da Ponza, i sapresi si schierarono dalla parte del Re. Deluso, il napoletano di idee mazziniane decise di puntare verso Napoli, mentre stanco e sfiduciato ripensava al suo testamento, composto alla viglia della spedizione: “Il primo dovere di un patriota è quello di agire. Se non riesco, disprezzo profondamente l’uomo ignobile e volgare che mi condannerà. Se riesco, apprezzerò assai poco i suoi applausi. Ogni mia ricompensa la troverò nel fondo della mia coscienza”.
* * * Il 1° luglio, mentre era in marcia verso il Cilento, il piccolo esercito rivoluzionario che intendeva liberare quelle povere e analfabete masse contadine dal Regno dei Borbone, venne attaccato da quegli stessi uomini che intendeva sollevare contro Ferdinando II. Pisacane fu gravemente ferito e, con le ultime forze, si diresse dietro a un albero, dove si uccise con un colpo di pistola. Tre anni dopo, Giuseppe Garibaldi venne accolto trionfante da quegli stessi contadini e l’impresa dell’esercito di Pisacane fu dimenticata. Nel libro “La mala setta” di sco Benigno, edito da Einaudi, l’autore racconta come da quell’insurrezione nacquero, o meglio, si rafforzarono quelle organizzazioni criminali che oggi prendono il nome di cosa nostra. “Non bisogna credere che un bel giorno nei vicoli di Napoli sia nata spontaneamente la camorra, e si sia data un’organizzazione. Non è la storia. La sua nascita e la sua crescita sono intrecciate alla nascita e al formarsi dello Stato unitario”, dichiara Benigno in
un’intervista rilasciata a Vincenzo Esposito.
* * * Nel dicembre del ’61, a nove mesi dall’unità d’Italia e dopo la morte di Cavour, il deputato Angelo Brofferio alla Camera fece scoppiare un caso, accusando le forze di pubblica sicurezza, e che “la maggior parte dei disordini che succedono in Italia si devono attribuire a costoro”. E aggiunge: “Il governo non si accorge che la sua polizia è composta d’uomini i quali non hanno rossore di trattare coi ladri, cogli assassini, coi malfattori d’ogni specie. Sì, o signori, coi ladri e cogli assassini, i quali, come si rivelò nei criminali dibattimenti, comprano l’impunità, dividendo colla polizia l’infame bottino”. Nei giorni convulsi della transizione dal regime borbonico a quello sabaudo, Garibaldi affidò l’ordine pubblico a un uomo di fiducia di sco II, Liborio Romano. Spregiudicato, costituì una guardia in grado di mantenere l’ordine in quella situazione di emergenza e arruolò gente del popolo, uomini d’azione abili nell’esercizio delle armi e abituati all’uso della violenza; tra questi vi erano i più rinomati caporioni, cinici vessatori identificati dall’appellativo comune di camorristi. E, cosa fosse questa camorra, lo scrisse in quei giorni Silvio Spaventa, responsabile della polizia: “La camorra è una setta di birboni, che ha capi, gerarchia, affiliati, mezzi e titoli d’ammissione, gli atti di ferocia, di bravura, il disprezzo delle leggi, delle pene, dell’infamia. La trovi nelle prigioni, nelle case di prostituzione, di giuoco; era organizzata in tutti i reggimenti dell’esercito borbonico, dovunque regna il vizio e la corruzione”. Col tempo, i camorristi occuparono sempre più cariche nei grandi ingranaggi della macchina amministrativa sabauda e i giornali del Regno guardarono positivamente all’evento, come un segnale di mutamento della contadina e povera plebe partenopea. Gli accordi tra Stato e capi della malavita risultavano sempre più frequenti e qualcuno, come l’ex procuratore borbonico a Palermo Diego Tajani, mise in guardia dal fenomeno: “Il negare che la mafia non esista significa negare il sole; è qualche cosa che si vede, che si sente, che si tocca pure troppo. I mafiosi non sono altro che oziosi i quali non hanno mestiere di sorta ed intendono di vivere e talora anche di arricchire per mezzo del delitto”. Sorde dinnanzi al pericoloso fenomeno, Destra e Sinistra continuavano a trattare mentre la situazione si aggravava. E quegli uomini, descritti da Brofferio come assassini, misero momentaneamente da parte le bombe, per poi rispolverarle quando un affare, una concessione o un favore veniva loro negato da parte degli uomini dello Stato italiano.
I CINQUE RAGAZZI DI CAMBRIDGE
La storia dei “Cinque di Cambridge”, fatta di spionaggio e servizi segreti, attraversa il Novecento e la sua eco sora il millennio, avvicinandoci a quella che ormai sembrava una vicenda, e un modo di fare la guerra, appartenente a un lontano ato. L’Europa del primo dopoguerra è divisa in due: America e Unione Sovietica bussano sul grande portone del debole Vecchio continente. Sono anni di grande agitazione politica e in ogni Paese le forze conservatrici appaiono inadeguate a fronteggiare il vento rivoluzionario sollevatosi in Russia nell’ottobre del ’17. La crisi, accentuata da una guerra che non ha avuto vincitori, porta gli stanchi e disillusi europei tra le braccia dei nuovi movimenti estremisti, i quali sembrano rispondere meglio alle esigenze della nuova e turbolenta epoca. Se questo processo travolge prima l’Italia e in seguito la Germania, nella liberale e conservatrice Inghilterra di Giorgio V la dinamica di crescita delle ideologie estremiste fu più controllata, ma non del tutto assente. All’alba del secolo era nato il Labour Party, il quale rappresentava l’alternativa a sinistra alle forze tradizionaliste e, sebbene non fosse un vero partito comunista, costituiva il nuovo versante della rappresentanza per quelle masse di lavoratori e operai britannici raccontate nei romanzi di Dickens.
* * * Preoccupata dei cambiamenti sociali ed economici che stava subendo, l’Inghilterra perse il primato economico mondiale a favore degli Stati Uniti. Inneggianti a un nuovo ordine le classi proletarie, una fetta di giovani studenti e spesso membri di famiglie borghesi che frequentavano le migliori scuole e università del Regno, subirono l’influenza della speranza comunista. I servizi segreti sovietici, ansiosi di esportare la propria ideologia, avviarono operazioni di reclutamento di agenti e spie già inseriti nella società dei Paesi occidentali. Gli ambienti di primo interesse furono quelli universitari, e specie quello che da secoli formava le classi dirigenti britanniche: l’università di Cambridge. Lo storico ateneo subì una forte influenza dall’ideologia comunista e trovò sia negli studenti che nei docenti terreno fertile per un’attiva promozione politica. Si formarono gruppi e movimenti sempre più orientati a sinistra e alla fine degli
anni Venti arrivò Harold Philby, il primo dei Cinque, giovane studente nato in India, il quale entrò in contatto con diversi gruppi socialisti e comunisti come la University Socialist Society e il gruppo segreto detto gli Apostoli. Qui conosce Anthony Blunt, studente di matematica e lingue, tra le personalità di spicco degli ambienti studenteschi. Negli stessi mesi studiano a Cambridge Guy Burgess, noto per essere stato considerato “il più brillante studente della sua generazione”, e Donald Maclean, figlio del parlamentare inglese Sir Donald. Il quinto membro del circolo è uno scozzese, già convinto comunista prima di entrare all’università: John Cairncross.
* * * I Cinque, arruolati dai sovietici, compirono azioni eroiche: nel ’33, a Vienna, resero possibile la fuga degli esuli comunisti dalla Germania di Hitler; nel corso della Guerra civile spagnola attivarono una folta rete di spionaggio; nella Seconda guerra mondiale si impossessarono della documentazione sulle strategie pianificate da Churchill nel Consiglio di guerra e nel dopoguerra la loro attività iniziò con la spartizione di Berlino tra le potenze vincitrici. Considerati in Inghilterra come biechi traditori a sangue freddo, l’inizio della fine per le spie di Cambridge giunse nel ‘49 col Progetto Venona. Nato nel ’43 per iniziativa dell’intelligence militare americana, il Venona Project era un piano di decrittazione dei messaggi in codice sovietici messo in piedi per timore che Stalin, al tempo alleato occasionale delle potenze occidentali, potesse giungere a una pace segreta con la Germania nazista, permettendo a Hitler di concentrare le forze sugli Alleati. Venona, sulla base di decine di messaggi in codice intercettati, aveva stilato una lista di circa trenta nomi tra i quali identificare un agente al servizio dei sovietici, nome in codice Homer, che faceva recapitare a Mosca messaggi criptati dall’interno del Ministero degli Esteri britannico. Il cerchio si strinse sui Cinque di Cambridge, i quali dovettero interrompere le attività di spionaggio. A prescindere dal fallimento del comunismo reale e dal comunismo sovietico, carico di crimini e violenze e indipendentemente dalle simpatie ideologiche, la vicenda dei cosiddetti “Magnifici Cinque” è una storia di uomini vissuti con una ione politica costante e disinteressata, una condotta e un trasporto che il nuovo mondo sembra non conoscere.
LE ULTIME ORE DI UN DITTATORE
Il 10 dicembre del 2010 i telegiornali europei dànno una notizia che viene accolta nell’indifferenza generale: in Tunisia, nella strada principale di Sidi Bouzid, il venditore ambulante Mohamed Bouazizi si cosparge di benzina e si dà fuoco. ano i giorni e quelle piccole fiamme diventano un grande incendio che investe i regimi dittatoriali del Nordafrica. La Rivoluzione dei gelsomini tunisina dà inizio alla protesta, alla voglia di libertà, di democrazia, alla Primavera araba. Ben Ali in Tunisia, Mubarak in Egitto, Gheddafi in Libia. I grandi dittatori lasceranno il posto ai gruppi armati dei ribelli.
* * * Nel libro L’Ultima notte del Rais, edito dalla Sellerio editore, lo scrittore algerino Yasmina Khadra immagina l’ultima notte del comandante libico Muammar Gheddafi. “Ho sentito bisbigliare una delle mie guardie del corpo: trincerata nel buio, sosteneva che stavamo vivendo “la notte del dubbio” e si chiedeva se l’alba ci avrebbe portati sotto i riflettori o consegnati al rogo. Le sue parole mi hanno infastidito, ma non l’ho richiamato all’ordine. Non era necessario. Con un minimo di buonsenso, si sarebbe astenuto dal pronunciare una simile bestemmia. Non c’è affronto peggiore che dubitare in mia presenza. Se sono ancora vivo vuol dire che niente è perduto. Sono Muammar Gheddafi. Questo dovrebbe bastare a mantenere la fede. Sono colui per mezzo del quale arriva la salvezza”. Gheddafi governò la Libia per quarantadue anni e la sua aspirazione era quella di unire tutto il popolo arabo sotto la propria bandiera. Nacque da padre ignoto in una famiglia beduina e, tra i beduini, crescere senza padre è già un marchio d’infamia. Coraggioso e ostinato, ambiva al potere e per conquistarlo si arruolò nell’esercito. Guidò il colpo di Stato del 1 settembre ‘69 e venne proclamato Guida e Comandante della Rivoluzione. Ma, come tutti i grandi sognatori che giungono il potere, ha impedito al popolo libico di sognare, di avere delle ambizioni; Gheddafi si è sostituito al popolo in nome del popolo. La sua fine sarà tragica: i libici che prima lo acclamavano, quella notte tra il 19 e il 20 ottobre del 2011 prima lo spogliarono poi lo lacerarono e infine diedero inizio al linciaggio. “Cado a terra al rallentatore. Rinasco dalle ferite, nuovo
come una creatura appena uscita dal ventre della madre. A poco a poco, l’una dopo l’altra, le grida si spengono, poi i volti, poi la luce del giorno. Muoio, ma la mia impronta rimane. Avendo segnato le coscienze, sono destinato a risiedere nella memoria dei popoli. Mi rimpiangeranno: le mie gesta saranno cantate nelle scuole, il mio nome verrà inciso sul marmo delle steli e santificato nelle moschee, la mia epopea ispirerà poeti e drammaturghi, i pittori mi consacreranno affreschi più grandiosi dell’orizzonte; sarò venerato pianto durante le penitenze, e avrò tanti seguaci, come si addice alle guide d’eccezione. Me ne vado”. Il regime di terrore del Colonnello terminò così. L’uomo che per tutta la vita si era elevato a portavoce di un qualche messaggio divino, quella notte mentre veniva circondato e catturato dai ribelli, capì finalmente di essere soltanto un uomo. Ma, ormai, era troppo tardi.
LA BATTAGLIA DI ADRIANOPOLI
“In questo nostro tempo, tanto la Dea della giustizia quanto il Dio degli eserciti devono coprirsi la faccia per la vergogna. Quando un barbaro, vestito di pelli, comanda quelli che indossano la clamide; quando un altro di loro, spogliatosi dalla pelliccia di pecora di cui era coperto, veste la toga e discute dell’ordine del governo insieme ai magistrati dei Romani; quando un altro ancora siede al posto d’onore accanto al console, mentre quelli che ne avrebbero diritto stanno indietro. Questi tali poi, appena usciti dalla sala del Consiglio, si rimettono subito le pellicce e quando incontrano i loro soci si mettono a ridere della toga, dicendo che con quella addosso non si riesce neanche a sguainare la spada. Io mi stupisco di tante cose, ma soprattutto della nostra condotta; perché qualunque famiglia che abbia solo un pochino di benessere, ha lo schiavo goto. In tutte le case sono Goti quello che prepara la tavola, quello che si occupa del forno, quello che porta l’acqua; e gli schiavi accompagnatori, quelli che si caricano sulle spalle gli sgabelli pieghevoli su cui i propri padroni possono sedere per strada, sono tutti Goti. Insomma, è dimostrato da tanto tempo che questa è la razza più adatta a servire i Romani. Ma che questi uomini alti e biondi, con i loro capelli lunghi, siano i nostri servi in privato e poi ci governino in pubblico è davvero incredibile. Il barbaro, non capisce le virtù. Dall’inizio fino ad ora questa gente non ha fatto altro che ridere di noi”. Questo straordinario testo di Sinesio di Cirene, vescovo romano vissuto tra il quarto e il quinto secolo dopo Cristo, descrive il disagio subìto dai Romani nato con quel fenomeno noto come “le invasioni barbariche”.
* * * Ebbero inizio alla fine del secondo secolo e si costituivano in carovane, composte da decine di migliaia di individui. I guerrieri a cavallo precedevano e seguivano i carri, nei quali trovavano riparo donne, vecchi e bambini. ando di conquista in conquista, le prime popolazioni barbare che presero a spallate i Romani, gli Ostrogoti e i Visigoti, formavano un esercito che seminerà il panico tra i Romani: quello Goto. Nel suo libro “Il Tardoantico: il Dio e i molti sovrani” edito da Einaudi, Rene Pfeilschifter racconta la grande battaglia di Adrianopoli,
l’epico scontro fra l’esercito Goto e quello Romano: “Il 9 agosto 378 si combatté la battaglia nei dintorni di Adrianopoli. I Romani lasciarono le proprie salmerie in città e in quel giorno afoso marciarono per 17 chilometri mentre i Goti semplicemente aspettavano. Numerosi tentativi di trattativa del visigoto Fritigerno, furono respinti con superiorità dai generali Romani. Uno scopo di questi ultimi sforzi diplomatici era quello di guadagnare tempo fino a quando la cavalleria dei Goti ancora marciante si fosse unita all’esercito, ma Fritigerno voleva anche evitare il peggio. Tuttavia, l’imperatore romano Valente aprì le ostilità. L’avanzata fu punita amaramente dalla cavalleria nemica, che era arrivata al momento giusto. L’ala sinistra, spostata in avanti, si trovò improvvisamente senza copertura e fu annientata, e alla fine anche l’ala destra fu sconfitta. I Romani subirono una pesante disfatta , due terzi dei tre o quattromila soldati morirono. Valente, che combatté fino all’ultimo, fu colpito da una freccia e cadde tra i soldati semplici. Il suo cadavere non fu più ritrovato”.
* * * Ammiano Marcellino, storico Romano, scriverà: “Dopo la battaglia apportatrice di morte quando la notte aveva riempito di tenebre la terra, i superstiti si trascinavano chi a destra, chi a sinistra oppure dove la paura lo aveva tratto, ognuno cercava invano chi gli era stato amico e compagno, ma in realtà nulla potevano aver di mira all’infuori di sé stessi perché pensavano di avere sul collo le spade dei nemici. Se pur lontane, si udivano le grida miserevoli di chi era stato abbandonato, i singhiozzi dei moribondi, i pianti tormentosi dei feriti”. L’imperatore Valente, ferito, cercò rifugiò all’interno di una capanna alla quale i Goti diedero fuoco; i due terzi dell’esercito imperiale e trentasette Generali persero la vita, nel vano tentativo di difendere il più grande Impero della Storia. Il nuovo Imperatore, Teodosio I, inaugurava la politica dell’esercito mercenario, composto per lo più da cavalieri barbari, i quali fecero collassare ciò che restava del grande Impero Romano.
CARLO V A CALLER
Nel Sedicesimo secolo, “l’ossessione turca” toglieva il sonno agli europei, atterriti dalla maestosità dell’Impero Ottomano, che si estendeva dal Mar Nero all’Etiopia e dove pendevano sanguinanti le spade dei soldati inneggianti lo gihād. Il 1520 vide Solimano diventare imperatore e il suo regno sarà il più lungo e il più glorioso. Riuscì a colpire il cuore di una spaventata Europa cristiana, la quale, assetata di riscatto, vedrà in quegli anni giungere al potere colui che sarà capace di fermare l’avanzata musulmana: Carlo V. Figlio di Filippo, acquisì l’eredità borgognona nel 1515 e ben presto governò un Impero sul quale “non tramontava mai il sole”. Fu incoronato imperatore il 23 ottobre 1520 ad Aquisgrana; un potere simile non veniva conferito a un uomo solo dai tempi di Carlo Magno.
* * * Il nuovo imperatore promise la conservazione della fede cattolica, la custodia della Chiesa e la difesa dell’Impero, che garantì affidandosi al più grande ammiraglio del tempo, Andrea Doria. Due anni più tardi il marinaio genovese sconfisse le navi turche appostate nel Mediterraneo, attaccandole lungo le coste greche. Il raid aveva messo a nudo l’impreparazione della flotta turca e Solimano capì di avere assoluto bisogno di un uomo alla sua altezza, un lupo di mare capace di guidare la flotta ottomana. Khair al-Din, per i turchi il Protettore della Fede, fu il fondatore della marina da guerra turca, l’audace corsaro dell’imperatore. Per via della folta e lunga barba rossa veniva chiamato Barbarossa; aveva i sopraccigli cespugliosi, un grande naso schiacciato e due occhi profondi e scintillanti che svelavano una rara crudeltà. L’invenzione della stampa consentì la pubblicazione di migliaia di xilografie che riproducevano la sua spaventosa immagine, la quale terrorizzava l’intero Vecchio Continente. Nel frattempo arrivò, inaspettata, una terribile notizia: Barbarossa aveva conquistato Tunisi, città che si trovava in una posizione ideale per esercitare il pieno controllo del Mediterraneo. La risposta di Carlo non si fece attendere e diede ordine di radunare l’intera flotta cristiana nelle acque del Golfo degli Angeli, in quella città che lui chiamava Caller.
* * * La mattina dell’11 giugno 1535 il porto di Cagliari veniva colorato da centinaia di vele, le quali tolsero il fiato ai fortunati cagliaritani che riuscirono ad assistere a quel grande spettacolo. L’intera città si fermò per ammirare la grande armata radunata dall’Asburgo. La lastra di marmo posta sul portone d’ingresso dell’Antico Palazzo di Città, nel quartiere di Castello, ne ricorda l’evento e si ritiene che le navi fossero “circa 600”. Il mattino del 14 giugno tutte le navi si mossero, puntando verso Tunisi. Uno dei primi attacchi subiti fu guidato da Hasan Aga. Fedelissimo di Barbarossa, Hasan era un sardo di nome Peppino, originario dell’isola dell’Asinara. L’ammiraglio ottomano l’aveva rapito quando era bambino; gli fece abbracciare la religione musulmana, lo castrò e lo allevo come un figlio. Mentre i soldati di Carlo arrivavano alle porte della città assediata, i prigionieri cristiani che vi erano all’interno evasero della carceri di Barbarossa, s’impadronirono dell’arsenale e aprirono le porte della città. Il successo di Carlo fu enorme. Vittorioso, fece rientro in Italia, costeggiando fieramente quel porto di Caller dal quale era partito.
LA NASCITA DELLA STAMPA IN SARDEGNA
Un epico evento, avvenuto a metà del quindicesimo secolo, scosse le radici della turbolenta e contadina Europa di quegli anni, piantata con radici millenarie al buio e incerto suolo del Medioevo. Nel 1454, in Germania, il tipografo Johannes Gutenberg inventa la stampa a caratteri mobili. Prima dell’invenzione tipografica, i libri venivano minuziosamente copiati a mano, risultando rari e costosi; la cultura era, di conseguenza, un lusso. Per la quasi totalità della popolazione sapere leggere e scrivere non era né considerato necessario né utile: la cultura veniva tramandata attraverso la tradizione orale dei cantastorie, la quale garantiva la trasmissione, di generazione in generazione, di leggende popolari e di poemi epici. Per secoli, l’istruzione e la conoscenza rimasero appannaggio esclusivo di quella piccola e ristretta élite in grado di poterle acquistare. Ma la stampa si diffuse prepotentemente in tutto il continente europeo che da questa rivoluzione uscirà profondamente cambiato; l’alfabetismo, la capacità elementare di leggere e scrivere, sconvolgerà il vecchio mondo rurale e spianerà la strada al dorato periodo illuminista.
* * * Tutte le grandi città installarono una propria tipografia e il primo libro italiano verrà stampato nel Monastero di Santa Scolastica di Subiaco, nel Lazio, nell’anno 1465. In seguito furono costruite stamperie a Venezia, Firenze, Milano, Bologna, Napoli, e in Sicilia, che era stata la culla della grande poesia. La Sardegna, e in particolare Cagliari, dovettero aspettare il 1566 e il prototipografo Nicolò Canelles. Nacque ad Iglesias nel 1515, dove la sua nobile famiglia di origine catalana risiedeva da quasi due secoli, giunta in quella città a seguito della armate di Alfonso d’Aragona. Figlio di Nicolò Canelles y Castelvì e di Beatrice del Seny fu avviato alla carriera degli studi; studiò prima nella sua città natale, poi a Cagliari e infine a Roma, dove conseguì la laurea in utroque jure (diritto civile e diritto canonico) nel 1548.
* * * La situazione dell’isola, fino a quel momento, era stata drammatica: non esistevano scuole pubbliche e si era troppo lontani dai centri culturali italiani e dalle sfolgoranti e straordinarie atmosfere del Rinascimento. Solo verso la metà del Cinquecento i sardi acquisirono parità di condizione giuridica rispetto ai dominatori aragonesi e solo in quell’epoca ripresero intensità i traffici e gli scambi con i porti della penisola. Vennero aperte le prime scuole pubbliche che si moltiplicarono ad opera dei Padri gesuiti. Furono anni di profondi cambiamenti e si crearono le condizioni favorevoli affinché l’impresa di Canelles potesse realizzarsi. La tipografia che egli costituì a Cagliari tenne a modello la stamperia romana voluta da Pio IV, impiantata nel 1561 e diretta inizialmente da Paolo Manunzio, dove Canelles lavorò per diversi anni e vi trovò fonte di ispirazione ed esempio. Acquistò, a proprie spese, i torchi e l’attrezzatura necessaria a Roma e fece trasportare il tutto nella città cagliaritana, dove venne sistemata al pianterreno della sua casa nel castello, in via dei Cavalieri (oggi via Canelles) dove alloggiarono anche i dipendenti e gli stampatori. Si fermò a Cagliari per alcuni mesi e curò personalmente l’inizio della nuova attività editoriale, inaugurata con la pubblicazione del Catechismo dell’Auger, degli Atti dei primi sinodi diocesani e di un manuale per il clero, a cui seguirono i Decreti del Concilio di Trento. Accanto all’officina tipografica aprì una libreria, come era consuetudine diffusa presso la maggior parte dei tipografi del tempo. Non curò gli affari editoriali a lungo e l’anno successivo, nel 1567, fece ritorno a Roma, nominando procuratori Stefano Moretto e Vincenzo Sembenino, il quale guidò entrambe le attività fino al 1576.
* * * La vita di Canelles può essere sintetizzata dal motto inserito nella marca editoriale: Pasco ut prosim, (mi nutro per giovarmi), il quale ne rappresenta il temperamento, incline allo studio delle fonti e dall’indagine. Nel 1572 fu nominato vicario e commissario generale della Diocesi cagliaritana e il 20 giugno del 1577 divenne vescovo di Bosa. Ebbe il coraggio di impegnare tutte le proprie risorse, intellettuali e morali, per attuare un programma concreto che lo portò ad essere editore e libraio oltre che sacerdote e vescovo. Rendeva sempre efficace la sua opera sacerdotale di educazione e di formazione, sia diffondendo libri sia favorendo gli studi ai giovani più meritevoli, i quali in seguito diedero
un contributo prezioso a vantaggio dell’intera isola. Morì a Cagliari nel 1585, dove lasciò la sua tipografia e la biblioteca con oltre tremila volumi, i quali contribuirono a far nascere nel popolo sardo una determinata consapevolezza della propria storia.
LA BATTAGLIA DI WATERLOO
Il 6 aprile del 1814 Napoleone, reduce dalla tragica sconfitta di Mosca e dalla disfatta di Lipsia, abdicò. I suoi marescialli, stanchi d’impugnare le armi contro tutta Europa, lo costrinsero all’esilio sull’isola d’Elba. Il Conte di Provenza, fratello minore del Re ghigliottinato, prese il nome di Luigi XVIII e la parola pace cominciava ad essere pronunciata. Ma ai si, questo Borbone che non prometteva conquiste, grandi armate e glorie imperiali non piaceva. Napoleone, ancòra affamato di vittorie, nel febbraio del ’15 lasciò l’isola d’Elba per far ritorno in Francia. Al suo arrivo, gli stessi generali che l’avevano costretto all’esilio lo accolsero in trionfo; ripresero in mano le armi e ripresero la vecchia e gloriosa bandiera tricolore, abbandonando quella bianca della dinasta dei Borbone. Il Re fuggì e le potenze europee riorganizzavano i propri eserciti. Hanno inizio i famosi Cento giorni, nei quali la Francia combatterà da sola contro la Settima coalizione. Questa comprendeva tutte le potenze europee che, riunite in un unico grande esercito, attendevano Napoleone e i suoi trecentomila uomini nelle pianure del Belgio. Lo scontro decisivo avvenne il 18 giugno a Waterloo; fu l’ultima battaglia combattuta da Napoleone che, tre giorni dopo, tornò a Parigi da sconfitto.
* * * Ma cosa accadde durante questa immensa e sanguinosa battaglia che segnò la fine dell’età napoleonica? Sergio Valzina, per la Sellerio editore, raccoglie nel volume “Waterloo” due racconti di due padri della letteratura europea: il primo, lo scozzese Walter Scott, racconta di una battaglia che ha avuto un solo vincitore: “gli inglesi vinsero la battaglia, i prussiani la conclo e portarono a compimento la vittoria”. Per il secondo, il se Victor Hugo, “l’uomo che ha vinto la battaglia di Waterloo non è Napoleone in rotta, non è Wellington che alle quattro cedeva, non è Blucher che non si è battuto: l’uomo che ha vinto la battaglia di Waterloo è il generale se Cambronne”. Chi ha vinto a Waterloo?