Aligi Pezzatini & Simone Gambineri
Il Sogno del Rinnegato
Amnia Vol. 1
Nuova Edizione Riveduta e Corretta
Titolo | Amnia Vol.1 - Il Sogno del Rinnegato (Nuova Edizione) Autore | Aligi Pezzatini e Simone Gambineri Revisione e Mappe | Daniela Maccarrone
© 2018, 2021 Aligi Pezzatini e Simone Gambineri Tutti i diritti riservati agli Autori Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso congiunto degli autori.
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Perché questa nuova edizione?
Il primo libro della saga di Amnia, “Il Sogno del Rinnegato”, vide la luce nel 2018 e fece subito breccia nel cuore di molti apionati di giochi di ruolo, per poi essere apprezzato anche dagli altri lettori. In procinto di scrivere il quarto volume della saga, abbiamo deciso di rimettere mano ai primi libri per “svecchiarli”, risistemando le parti che risultavano pesanti e rendendo più chiari determinati intrecci. Questi serviranno per comprendere meglio l’evoluzione della storia e dei personaggi nel proseguimento della saga. In definitiva, questa nuova edizione di Amnia è più snella e più curata. Ci auguriamo che in questo modo i nuovi lettori possano apprezzare la Saga di Amnia, e che anche i vecchi lettori possano trarne beneficio per una rilettura in attesa delle prossime uscite.
Aligi & Simone
Ai vecchi e ai nuovi avventurieri di Amnia:
Che la luce di Vàlor (o Tyran) illumini i vostri i!
Prologo
La Profezia dell’Equilibrio
Una sola regola vige nel mondo di Amnia: l’equilibrio deve essere sempre preservato. La Triade, l’insieme dei tre dèi principali del cielo di Amnia, è il fulcro intorno al quale girano totalmente l’esistenza, la possibilità e la perdita. Dei tre poli della Triade, i due che hanno forgiato le due anime mortali dominanti non devono prevalere l’uno sull’altro. Vàlor, il dio che presiede al Polo della Libertà, creatore della razza degli umani, asserisce che l’amore deve essere la prima regola da seguire, quell’amore che mette il bene dell’altro davanti al proprio. Solo così la vera libertà di tutti sarà anche la vera felicità di tutti. Tyran, il dio che presiede al Polo dell’Ordine, creatore della razza dei rettiloidi, asserisce che il caos è rovina, e che solo nella disciplina di una ferrea gerarchia tutto può funzionare e portare benessere a chiunque. Samas, il dio che presiede al Polo del Giudizio, colui che deve assicurare che l’equilibrio nel mondo di Amnia sia sempre mantenuto, agisce nel silenzio e senza clamori. Tre divinità, ma due sole idee che si confrontano, due soli spiriti che si fronteggiano, due soli popoli che si combattono. Pregate perché nessuno dei due Poli, né la Libertà né l’Ordine, prevalga sull’altro, e perché non venga mai rotto l’equilibrio tra i due spiriti. Il segno che l’equilibrio sta iniziando a rompersi sarà dato dalla decisione della
razza reietta, gli elfi creati dalla dea Ardèsia, di sostenere uno dei due Poli della Triade. Il segno che l’equilibrio si è rotto sarà la luna spezzata a metà: ciò preluderà al risveglio di Nemesi, colui che riporterà il mondo di Amnia al suo stato iniziale, quando niente ancora esisteva. Il segno che tutto è ormai compromesso e che Nemesi ha cominciato a svolgere il suo compito sarà il sole che lentamente si oscurerà. Quando tutto sarà buio, allora Amnia ripartirà dall’inizio e sarà come se non fosse mai esistito tutto ciò che adesso esiste. Ricordate! A dispetto di tutte le vostre certezze, delle speranze e delle illusioni, c’è una sola legge che su Amnia va rispettata: l’equilibrio deve essere sempre preservato.
PARTE PRIMA
Quando un sogno svanisce
~ 1 ~
Una nuova città
K eldon di Manis e Duncan di Brintasien si fermarono in prossimità della grande porta meridionale della città di Crandall, ai cui lati troneggiavano gli stendardi dell’Impero di Anosia, un dragone che brandiva un fulmine come una lancia, e del Duca di Crandall, un elmo con un lungo cimiero su uno scudo crociato. I due uomini lasciarono spaziare lo sguardo sulle alte e imponenti mura di cinta, che sembravano incombere con severità su chi era di aggio, poi scesero con calma dai cavalli e li guidarono per le redini verso la coda di persone che attendeva di entrare in città sotto lo sguardo vigile dei gendarmi. «Ecco, se c’è una cosa che proprio non sopporto è l’attesa per i controlli all’ingresso nelle città» sbottò Keldon togliendosi dalle spalle il mantello, madido di sudore. Aveva ventotto anni e i capelli corti neri, la carnagione chiara e gli occhi marrone scuro; indossava l’ampia tunica bianca e gialla da chierico di Vàlor sotto cui si intravedeva la cotta di maglia sul corpo tonico. Appoggiò il mantello sulla sella e prese in spalla lo zaino che vi era agganciato sul fianco, dalla cui sommità sporgeva una mazza ferrata. Erano partiti da Camaran, la capitale dell’Impero, otto giorni prima, e la stanchezza per il viaggio si faceva sentire, nonostante le pause lungo la strada. «E poi, appena ci fermiamo alla locanda in città, voglio togliermi la tunica! Ora capisco perché i missionari non la portano mai: è scomodissima in viaggio!» Duncan sorrise, mentre sistemava meglio lo scudo che era attaccato dietro la sella del cavallo. Era di poco più alto di Keldon e aveva anche lui ventotto anni e gli occhi scuri, ma teneva i capelli neri corti e la barba curata su una carnagione abbronzata; indossava una corazza di piastre con impresso il simbolo dell’Ordine dei Paladini di Vàlor, il sole fiammeggiante con la falce di luna al suo interno racchiuso in un rombo, e dal fianco sinistro pendeva una spada lunga. «Sei stato troppo tempo chiuso nel tempio a pregare» lo canzonò Duncan divertito. «Vedrai che, quando la missione sarà conclusa, non vorrai più tornare a rinchiuderti nel tempio. E a me farebbe comodo viaggiare con un chierico che è mio amico.»
Anche Keldon sorrise a quelle parole, mentre si guardava intorno. La radura davanti alla grande porta della città era piuttosto ampia e occupata ai margini da diverse tende da campo dei gendarmi, dove venivano effettuati i controlli di ingresso. In mezzo a queste tende, campeggiava un grosso tabellone su cui erano affissi le principali notizie e i proclami del governo locale; in alto, molto in grande, era messa in evidenza la data attuale: 8° del Nono del 1492. D’un tratto Duncan disse in tono alterato: «Ehi tu, mettiti in coda!» Keldon si voltò e vide che il suo amico aveva afferrato per un braccio un uomo alto, snello e biondo, con un pizzetto scuro e con gli occhi chiari. Quest’ultimo si divincolò facilmente dalla sua presa e, nel movimento, il bracciale d’oro che Duncan portava al polso sbucò fuori da sotto la manica. L’uomo si avvicinò al gendarme lì vicino che aveva osservato la scena, quindi gli sussurrò qualcosa. Il soldato fece un cenno di assenso con la testa e gli fece segno di are. Poco dopo un altro gendarme, sulla trentina, bruno e atletico, stranamente a disagio, si avvicinò a Keldon e a Duncan. Fece loro il saluto militare, portando il pugno destro sul cuore, e disse rivolto a Keldon: «Benvenuto a Crandall, chierico di Vàlor.» Poi, dopo una veloce occhiata al pettorale dell’armatura di Duncan, aggiunse rapidamente ripetendo il saluto: «E anche a voi, paladino di Vàlor. Scusateci se non vi abbiamo notati subito e vi abbiamo fatto aspettare in coda. Io sono il tenente Vennic. Prego, seguitemi.» Visibilmente sorpresi, Duncan e Keldon seguirono il gendarme, a cui si affiancarono subito altri due soldati. Appena entrarono in città, il Tenente e i due soldati si fermarono, così come Keldon e Duncan. «Scusateci davvero se non vi abbiamo riconosciuti» si giustificò Vennic. «Sapevamo che il Duca aveva chiesto aiuto a Camaran per via dei briganti e aspettavamo da diversi giorni una squadra in cui doveva esserci un chierico di Vàlor di o. Sono stato incaricato di accogliere la delegazione dell’Esercito, ma pensavo che sarebbe arrivato un gruppo più... come dire... numeroso...»
Duncan sospirò e gli rispose: «Capisco che la cosa possa aver causato qualche fraintendimento. L’esercito è occupato a presidiare i confini dell’Impero, in particolare la zona del Corridoio di Coridan, e non può occuparsi anche di queste faccende. Il generale ha richiesto all’Ordine dei Paladini di Vàlor di prendersene carico, ma anche noi siamo impegnati su diversi fronti e dobbiamo dislocare con cautela le nostre risorse. Per questo il colonnello Fesaris mi ha incaricato di indagare su quello che sta succedendo da queste parti.» Esitò qualche istante, quindi aggiunse: «A proposito: non ci siamo ancora presentati. Io sono Duncan di Brintasien, tenente dell’Ordine dei Paladini di Vàlor.» «E io sono Keldon di Manis, chierico missionario di Vàlor. Collaboro con Duncan in questa missione.» Il gendarme si presentò ufficialmente a sua volta: «Tenente Lionel di Vennic, assistente supervisore della Porta Meridionale, ma attualmente reincaricato per aiutarvi nella vostra indagine.» «Grazie, Tenente» rispose Duncan. «Il vostro aiuto sarà prezioso.» «Immagino che vorrete cominciare domani le indagini: ora sarete stanchi per il viaggio.» «In effetti sì» annuì Duncan, rivolgendo un’occhiata divertita a Keldon. «Potete suggerirci una buona locanda dove alloggiare?» «La “Dama Purpurea” non è male. È vicina alla Gendarmeria Centrale dove, se volete, possiamo accudire i vostri cavalli.» «Accettiamo volentieri la vostra offerta, Tenente» si intromise Keldon. «Almeno saremo sicuri che i cavalli saranno in buone mani. Per domani, dovranno essere riposati per la nostra ricognizione.» «Bene! Allora date pure i vostri cavalli ai miei soldati: penseranno loro a portarli alle stalle della gendarmeria, intanto io vi accompagnerò alla locanda.» Keldon e Duncan presero i bagagli e consegnarono le redini dei cavalli ai due soldati, che subito si incamminarono lungo una strada secondaria. Poi il Tenente
fece loro cenno di seguirlo lungo la via principale. La strada era piuttosto larga e piena di gente. Il suono delle voci e i rumori delle attività riempivano ogni angolo. Lionel spiegò ai due nuovi arrivati che Crandall era la città principale del Ducato ed erano in molti a venire lì per commerciare, soprattutto da quei paesini sparsi per il territorio che non erano abbastanza importanti da meritare un segno sulle mappe. Poco dopo un gruppo di rettiloidi ò accanto a loro e i due amici rimasero sorpresi. Avevano la pelle ricoperta di scaglie di colore verde brillante ed erano vestiti con armature di cuoio borchiato; i loro volti da rettile non sembravano minacciosi, nonostante la bocca prominente dotata di denti aguzzi e gli occhi dalla pupilla a fessura. Lionel notò la loro inquietudine e li rassicurò dicendo che si trattava di un gruppo di mercanti provenienti da Golana, la città dell’Egemonia Tyranian più vicina. Spiegò che erano arrivati circa una settimana prima, interessati alle pelli di animali e ad altri manufatti della Grande Foresta che solo a Crandall era possibile trovare, per motivi storici ben precisi. Fin dall’alba dei tempi, raccontò infatti il Tenente, gli elfi non avevano mai concesso a nessuno che non fosse elfo di entrare nel loro territorio: si ritenevano superiori alle due razze del “mondo esterno”, gli umani e i rettiloidi, ed erano convinti che la loro sola presenza avrebbe contaminato la purezza e la perfezione della propria razza. Per questo si isolarono e chio i confini della Grande Foresta, proteggendoli con incantesimi protettivi e con pattuglie di ranger, gli elfi guerrieri più abili. Col tempo, però, si resero conto che non avrebbero potuto sopravvivere senza commerci con l’esterno, in particolare perché il loro territorio era povero di metalli. Fu così che, 1492 anni addietro, avvenne la “Prima Uscita degli elfi”. L’evento fu così eclatante da spingere i sapienti a creare un nuovo calendario che avrebbe iniziato a contare gli anni proprio da quel momento. Gli elfi incaricarono un clan di occuparsi delle relazioni commerciali con il mondo esterno e crearono un rito di purificazione per proteggerne i membri dalla contaminazione delle altre razze. Inoltre, per ridurre i rischi, decisero di predisporre un solo luogo per il commercio e la scelta ricadde su Crandall, che aveva la fortuna di essere la città esterna più importante vicina ai confini della Grande Foresta. In seguito a lunghe relazioni diplomatiche, l’Imperatore di Anosia donò agli elfi la più grande delle ville della zona settentrionale della città, circondata da alte mura e con un ampio giardino: nacque così l’Enclave Elfica. Da allora iniziò il viavai di mercanti da tutta Amnia a Crandall per commerciare con gli elfi. Alla fine, dunque, nonostante le loro antipatiche manie aristocratiche, la loro presenza portò lustro e ricchezza
alla città, portando soddisfazione a tutti. D’un tratto Lionel si fermò e guardò Duncan e Keldon con imbarazzo. «Scusate, ma non mi capita spesso di parlare della storia della mia città e, quando ne parlo, mi entusiasmo così tanto da dimenticarmi sempre che tutti già la conoscono.» I due gli sorrisero e Keldon rispose: «Non c’è nulla di cui scusarsi: è stato interessante ascoltare questa storia da qualcuno che la sente davvero propria. Ma volevo sapere una cosa: sarà possibile vedere in giro qualche elfo?» Lionel scosse la testa. «Temo di no. Tutte le dicerie sul loro conto sono vere: non vogliono contaminarsi mescolandosi con noi. Quando devono uscire dalla città per tornare alla Grande Foresta, viaggiano sempre in una carovana ben sorvegliata. In quel caso potreste riuscire a vedere i soldati elfi, ma auguratevi di non vedere mai un’elfa, se tenete alla vostra salute mentale: anche le voci sulla loro incredibile bellezza che lascia senza fiato sono vere!» «Non è solo una leggenda, allora?» Chiese Duncan. «Magari... E la cosa peggiore è che per le elfe noi umani siamo simili a mostri, quindi non c’è speranza.» I tre ripresero a camminare e, dopo aver svoltato in una strada laterale, si fermarono davanti all’ingresso di una locanda: sull’insegna a lato della porta c’erano l’immagine di una donna formosa con lunghi capelli biondi, vestita di rosso, e la scritta “La Dama Purpurea”. «Ecco, questa è la locanda» disse Lionel. «Spero che vi troverete bene. Per riprendere i vostri cavalli venite domattina alla caserma centrale. Vi aspetterò là nel caso abbiate bisogno di qualsiasi cosa per la vostra indagine. Buona serata» e fece loro il saluto militare. Duncan rispose al suo saluto e aggiunse: «Grazie per la tua disponibilità. Buona serata anche a te.»
«Buona serata e grazie» aggiunse Keldon, salutandolo con un inchino. Lionel si allontanò e tornò verso la strada principale, lasciandoli soli. «Allora?» Chiese Keldon, mentre osservava la dama purpurea dell’insegna. «Cosa facciamo?» «Io direi di approfittare del resto della giornata per rilassarci un po’ in vista di quello che ci aspetta nei prossimi giorni. Quindi, adesso, prenderemo una stanza alla locanda, lasceremo i nostri bagagli e poi andremo a fare un giro in città fino all’ora di cena. Poi dormiremo e domattina, freschi e riposati, inizieremo a lavorare alla nostra indagine. Che ne pensi?» Keldon annuì sorridendo. «Approvo in pieno il tuo piano. Andiamo!» Entrati nella locanda, furono accolti dalla musica dolce di un flauto e da un tenue profumo di frutti di bosco. Il locale era ampio e illuminato dalla luce soffusa del giorno che penetrava dalle tende bianche alle finestre. Al momento c’era soltanto una decina di persone: due coppie erano sedute ai tavolini ad ascoltare la donna bionda sul palco che suonava il flauto; un uomo biondo, dall’aria annoiata, era seduto al bancone accanto a un boccale di birra; quattro giovani, probabilmente dei soldati in libera uscita, occupavano una delle tavolate e giocavano a carte tra diversi boccali vuoti. Proprio in quel momento una giovane cameriera, con i capelli castani raccolti in una crocchia, stava portando loro altri quattro boccali di birra. Duncan e Keldon si avvicinarono al bancone, dove un uomo magro stava asciugando uno dei tre boccali che aveva davanti. «Buongiorno» disse subito Duncan. «Volevamo prendere una stanza per la notte.» Il locandiere annuì con un cenno del capo, si asciugò le mani sul davanti del grembiule che indossava, si girò e prese una chiave dal quadro dietro di lui. «Stanza 5: sulle scale, primo piano, in fondo al corridoio a destra.» «Ma non dovreste registrare i nostri nomi?» «Se ne occupa mia moglie, ma ora è fuori. Potete farlo stasera. E poi, se non ci si
può fidare di un paladino e di un chierico di Vàlor, di chi altro si potrebbe?» «Giusto!» Biascicò con una certa difficoltà il tizio biondo che era seduto accanto a loro. Keldon e Duncan si voltarono, mentre l’uomo continuava a parlare, ma non con loro, bensì con il boccale di birra: «Una volta ho conosciuto un chierico affa... affidibal... affidabilissimo... mi salvò la vita dopo che ero stato assalito da dei briganti... aveva la pelle verde e dei denti così ag... aguz... appuntiti...» Keldon e Duncan si guardarono. Che fosse una delle vittime dei briganti su cui dovevano indagare? Mentre l’uomo continuava a disquisire, senza troppa lucidità, sulla tonalità di verde delle squame, Duncan, sottovoce, disse a Keldon: «È inutile parlarci adesso: in queste condizioni non sarebbe affidabile. Andremo a cercarlo domani: il locandiere saprà dirci sicuramente dove trovarlo. Ora pensiamo a riposarci. E poi, non volevi andare al tempio?» Keldon annuì. «Sì, meglio rimandare a domani. In effetti, anche se come missionario ne sono dispensato, sento la mancanza del raccoglimento della preghiera.» Salutarono il locandiere e salirono rapidamente nella loro camera. Era semplice ma pulita, con due letti separati, ai piedi di ciascuno dei quali c’erano un baule e un piccolo armadio. Mentre Duncan sistemava i bagagli nei bauli, Keldon si tolse la tunica bianca e gialla da chierico, rimanendo vestito con la cotta di maglia, e si sistemò sopra l’armatura il medaglione dorato con il simbolo di Vàlor, segno riconoscibile del suo stato di chierico. «Bene» esclamò Keldon. «Ora possiamo andare.» Tornarono giù nella sala comune e videro che l’uomo ubriaco si era addormentato abbracciato al boccale semivuoto, mentre il locandiere lo fissava con disapprovazione. Duncan restituì la chiave al locandiere e uscì dalla locanda con Keldon. Il chierico si guardò intorno e chiese all’amico: «E ora dove andiamo?» Anche lui guardò la strada sconosciuta in cui si trovavano, quindi fece cenno a Keldon di aspettare e rientrò nella locanda. Il biondo ubriaco si era alzato e
barcollava verso l’uscita. Duncan raggiunse il locandiere e gli domandò come raggiungere il tempio di Vàlor. Ottenuta l’informazione, lo ringraziò e si girò per uscire, quando vide l’ubriaco in seria difficoltà nel superare un tavolo. Ebbe l’impulso di andare ad aiutarlo, ma vide che la cameriera gli si avvicinava; allora il paladino tornò fuori dal chierico. «Da questa parte» gli disse indicando verso destra. I due si misero in cammino, mentre si guardavano intorno seguendo una strada secondaria. Quando raggiunsero la Piazza del Tempio, l’imponenza dell’edificio sacro si offrì ai loro occhi. Le mura erano costruite con marmi di colore grigio, bianco e giallo e ospitavano delle nicchie contenenti statue di personaggi religiosi. L’ingresso principale del tempio era aperto e diverse persone entravano e uscivano. Prima di entrare, Keldon rimase ai piedi della scalinata con le braccia allargate verso l’alto e il viso sollevato. Nel suo cuore sentì la calda presenza della divinità all’interno del tempio, e la cosa lo riempì di gratitudine e di gioia. Vàlor era il dio che incarnava lo Spirito della Libertà ed era adorato da tutti coloro che credevano nei suoi ideali di amore, di pace e autodeterminazione. Egli aveva creato gli umani e, per questo, la maggior parte dei suoi fedeli era umana. I rettiloidi erano stati creati invece da Tyran, il dio che incarnava lo Spirito dell’Ordine: i suoi fedeli, per la maggior parte rettiloidi, sostenevano gli ideali di disciplina, forza e timore. Vàlor e Tyran erano in continua lotta tra di loro, essendo i loro ideali di fatto inconciliabili. Dato che le due divinità non potevano intervenire direttamente nelle vicende dei mortali, la lotta veniva messa in pratica dai fedeli all’una o all’altra divinità. Ma non sempre sfociava nella guerra. Ve n’erano state diverse in ato, tutte più o meno disastrose, vinte alternativamente dall’uno o dall’altro schieramento. Altre volte invece, come ora, la lotta consisteva nell’accaparrarsi il maggior numero di fedeli. In questo caso, i chierici assumevano un ruolo di fondamentale importanza: erano mortali che consacravano la propria vita alla divinità e ai suoi ideali, e che per questo motivo potevano diventare dei vettori del potere divino. Essi, mediante le Preghiere di Intercessione, potevano chiedere alla propria divinità di compiere un “miracolo”.
Le richieste più comuni erano di curare ferite o malattie, e di impartire benedizioni. Queste due divinità, insieme al dio Samas, il Giudice che li manteneva in equilibrio, costituivano la Triade, cioè la completezza della Volontà Divina. Al di fuori della Triade, esistevano altre divinità, cosiddette “minori”, che però non richiedevano fedeli e non rispondevano alle preghiere. Per questo nessuno si era mai preoccupato di sapere chi e quante fossero. Di due sole divinità nel tempo si era avuta notizia: Faber, il fabbro degli dèi, a cui a volte si rivolgevano gli artigiani prima di cominciare un lavoro, e Ardèsia, la dea della bellezza e delle arti, che aveva creato gli elfi con tutte le loro esasperanti bellezza, perfezione e altezzosità. Duncan toccò una spalla di Keldon, che si riscosse dai suoi pensieri. «Tutto bene?» «Sì, scusa. Ero immerso nella benevolenza di Vàlor e ho perso la cognizione del tempo. Non credevo che il calore della preghiera mi sarebbe mancato così tanto.» «Torniamo alla locanda: sei stato fermo qui fuori in preghiera per quasi un’ora ed è già tempo di cena... Hai perso l’occasione di vedere com’è dentro il tempio di Crandall!» Keldon si guardò intorno e vide che la porta principale del tempio adesso era chiusa e che pochissima gente era rimasta sulla piazza. Il sole stava tramontando e il buio cominciava a calare sulla città, mentre gli addetti all’illuminazione iniziavano il proprio lavoro accendendo le lanterne a partire dai luoghi principali. «Per fortuna resteremo qui ancora per un po’!» Esclamò poi con un sorriso per sdrammatizzare. Duncan ricambiò il suo sorriso e insieme si incamminarono verso la locanda. La strada secondaria si faceva sempre più buia a mano a mano che avanzavano e che il sole calava. I due videro le lanterne presenti lungo le mura delle case, ma ancora non erano ati gli inservienti ad accenderle.
Quando raggiunsero il secondo incrocio, all’improvviso Duncan sentì un rumore sordo e vide Keldon che cadeva a terra portandosi le mani alla testa. Il paladino si voltò e intravide una sagoma nella penombra del vicolo, poi il luccichio di una lama gli raggelò il sangue. Senza indugio, sguainò la spada e assunse una posizione di difesa.
~ 2 ~
Le fonti della natura
M orgase di Quantiea sollevò lo sguardo a cercare il sole che stava calando dietro le mura di quello stretto vicolo della città di Crandall. La druida aveva ventisei anni, gli occhi marroni, la pelle abbronzata e i lunghi capelli castani raccolti dietro le spalle in una treccia che le ricadeva fino a sotto le scapole. Indossava una leggera armatura di pelle che non celava affatto né il suo corpo tonico, né il suo seno appena compresso nel pettorale. Teneva uno zaino sulle spalle, al quale era attaccato un lungo bastone rinforzato. La sua lupa, che le stava di fianco, si sedette sulle zampe posteriori e rimase a guardarla in attesa che riprendesse a camminare. Per la decima volta da quando era entrata in città, la druida si pentì di averlo fatto e dovette ammettere di essersi persa. Tutti quegli incroci assurdi, quelle strade regolari senza alcun punto di riferimento! Come facevano a non impazzire quelli che abitavano nelle città? Fece un lungo sospiro, mentre per la decima volta ripensava a cosa l’avesse condotta da quelle parti...
... Undici mattine prima, quando ancora non sapeva che avrebbe dovuto intraprendere quel viaggio, Morgase aveva deciso di restare a letto un po’ di più del solito, lasciando la mente libera di vagare. I poteri di un druido erano intimamente connessi alla natura tramite due fonti principali: quella vegetale e quella animale. Molto raramente un druido eccelleva in entrambe le fonti; Morgase prediligeva quella animale, che consisteva nella capacità di comunicare con gli animali, arrivando anche a controllarli, e nell’assumerne la forma e le capacità. Per la fonte vegetale, invece, non aveva grande interesse: anche se riusciva a comunicare con le piante e a controllare alcuni poteri delle pietre, non era mai riuscita ad assumere una forma vegetale.
Qualcosa di umido e molliccio sulla faccia la svegliò del tutto. «Ferma, Insidia!» Esclamò afferrando il muso della lupa, che si era arrampicata sul letto. «Ho capito, mi alzo!» Insidia scese e si sedette, sbattendo velocemente la coda su uno dei piedi del letto, generando una rapida e irritante sinfonia di colpi che non smise finché Morgase non si fu alzata. La donna si stiracchiò e si mise in piedi: il lenzuolo ricadde a terra rivelandone il corpo nudo, asciutto e abbronzato. Si guardò intorno, ancora un po’ assonnata. Come la maggior parte delle case dei druidi, anche la sua era stata costruita insegnando agli alberi a modellarsi secondo il tipo e la funzione di un edificio. La camera, in quel momento, era nella penombra per via delle fronde che chiudevano l’apertura che fungeva da finestra. Morgase entrò nella stanza accanto, dove in terra c’era un cerchio composto da dodici pietre azzurre. La druida vi si sistemò in mezzo, si concentrò e toccò una delle pietre: subito dodici getti d’acqua fresca, originati dalle pietre, le si riversarono addosso, ripulendola e risvegliandola completamente. «Eppure riuscirò prima o poi a fare in modo che l’acqua sia almeno un po’ tiepida» borbottò tra sé. Poi aggiunse, con la voce in falsetto: «“Devi applicarti di più sulla Fonte Vegetale”. “Sì, papà”.» Morgase sospirò, mentre si asciugava e tornava nella sua stanza per vestirsi. Quante volte aveva dato quella risposta ai richiami di suo padre! Non era facile essere la figlia del Druido Supremo del Cerchio dei Salici: lei doveva essere sempre perfetta. Aveva raggiunto il grado di “druido itinerante” a diciassette anni, ben due anni prima dei suoi coetanei, ma non era mai caduta nella tentazione di essere arrogante o presuntuosa. Anzi, nonostante avesse la possibilità di andarsene quando voleva, aveva deciso di restare e di aiutare i suoi compagni che avevano più difficoltà. A vent’anni cominciò a partire in missione per conto del Cerchio, a volte insieme ad altri, a volte da sola. Nei sei anni trascorsi da allora, non aveva mai deluso nessuno. Peccato solo che sua madre Eria non poté mai vedere i suoi successi. Un timido latrato di Insidia interruppe i pensieri di Morgase, che stava finendo di sistemarsi il pettorale dell’armatura di pelle in modo che non le stringesse troppo il seno.
«Che c’è Insidia?» Chiese la druida alla lupa, focalizzando la mente sull’animale. La risposta della lupa non era fatta di parole, ma i pensieri concettuali tipici di un lupo vennero rapidamente tradotti in vocaboli dalla mente della druida, ormai affinata da anni di esperienza. La risposta risuonava più o meno così: Tuo padre chiede di te. Ha fretta. «È per questo che sei venuta a svegliarmi?» Sì. Lui è preoccupato. Morgase sospirò e prese in mano il suo bastone rinforzato ai piedi del letto. «Allora andiamo, non facciamolo aspettare oltre.» Uscì e accolse con gioia la luce e gli odori di quella mattina di fine estate. Insidia le ricordò con un ringhio di non indugiare e Morgase, facendole il verso, riprese a camminare, continuando però a godersi il paesaggio circostante. Il Cerchio dei Salici era una delle organizzazioni druidiche più antiche. Esso si trovava all’interno della Foresta di Smeraldo, nell’Impero di Anosia meridionale, tra le città di Bandelios ed Hekaras. Il Conglomerato, cioè quella che la gente comune chiamerebbe città, era situato in una zona nascosta e irraggiungibile da un non druido. Morgase non si stancava mai di osservare le curiose e talvolta bizzarre forme che gli alberi avevano assunto per ricreare le funzionalità di un’abitazione. E anche lei, come tanti altri suoi compagni, non smetteva mai di chiedersi se la vera intelligenza architettonica fosse dei druidi o degli alberi. Raggiunse l’ampio spiazzo antistante la Corte del Druido Supremo. Non ci aveva impiegato molto tempo, dato che la sua casa era vicina alla Corte, ma si sorprese di non avere incrociato nessuno nel tragitto. Indugiò qualche attimo prima di entrare. Il grande edificio era costituito interamente da un unico e immenso salice: la sua vista la lasciava ogni volta senza fiato, sia per la sua imponenza fisica, sia per la sua aura potente ma, allo stesso tempo, placida e tranquilla. Insidia la spinse a muoversi appoggiandole il muso sul fondoschiena. La druida si arrese ed entrò nella Corte, mentre le due guardie ai lati del grande ingresso la
salutavano con un cenno del capo. Suo padre la stava aspettando in piedi nell’ampio ingresso. Il Druido Supremo Gantaser di Quantiea era un uomo alto e muscoloso, con lunghi capelli grigi raccolti in una coda e con una folta barba, anch’essa grigia, legata più o meno a metà con un laccio di cuoio; indossava un’armatura di pelle nera, e un falcetto argentato gli pendeva dalla cintura. Sdraiato a poca distanza dietro di lui c’era un grosso orso bruno che la osservava. «Devo parlarti» esordì lui con voce profonda, nel suo solito modo sbrigativo. «Ho una missione per te.» A Gantaser piaceva rimanere in piedi al centro dell’ingresso della Corte, perché lì si trovava il punto massimo dell’aura del Grande Salice, e la sensazione di calma che provava gli rendeva più facile prendere le decisioni complicate. «Ti ascolto, padre» rispose Morgase. Insidia le si era accucciata dietro, timorosa, con lo sguardo fisso sul grosso orso bruno. «È giunta voce che nel Bosco delle Sette Sequoie accadano fatti poco chiari. Alcune persone hanno detto di avere visto strane luci e udito suoni innaturali. Inoltre, di alcuni individui entrati nel Bosco non si sono più avute notizie: sono letteralmente scomparsi nel nulla. Da quando il Cerchio delle Sette Sequoie si è...» Si interruppe qualche istante, ricacciando indietro un triste ricordo, poi continuò: «...sciolto, tanti anni fa, nessun druido ha più controllato quella zona: forse ciò che sta accadendo può confermare che la nostra presenza è importante per tenere sotto controllo quella parte della natura che non vuole essere controllata. Tu devi andare là e scoprire cosa sta succedendo.» Morgase rimase alcuni istanti sovrappensiero, persa nel ricordo della madre, originaria di quel Cerchio, poi disse: «Il Bosco delle Sette Sequoie è vicino alla Grande Foresta. Perché non se ne occupa il Cerchio degli elfi? Non devono necessariamente venire in contatto con gli umani di Crandall.» Gantaser scosse la testa con un accenno di delusione. «Ho provato a contattare il Cerchio della Grande Foresta, ma nessuno si è degnato di rispondere. Questa maledetta mania isolazionista degli elfi non porta altro che guai, e prima o poi dovremo occuparci di questo problema, per lo meno tra noi druidi.»
«Quindi, essendo i più vicini, dobbiamo occuparcene noi.» Non era una domanda. «Sì» confermò lui. «Chi posso portare con me?» «Nessuno: dovrai andare da sola. Altri problemi, sia nella Foresta, sia nelle zone circostanti, non mi permettono di lasciare che qualcun altro si allontani dai nostri compiti territoriali. Avrai sicuramente notato che stamattina non c’è quasi nessuno in giro per il Conglomerato. Sei la più abile ed esperta tra gli itineranti, e credo tu possa cavartela senza problemi, come sempre.» «Sono onorata di avere la tua fiducia, padre» commentò lei con un sorriso. «Devo partire subito?» «Sì, il Bosco delle Sette Sequoie è lontano, e le voci che ho sentito esprimevano un senso di urgenza. Rifornisciti secondo le tue esigenze e poi parti. La Natura ha bisogno del tuo aiuto...»
... Morgase si riscosse dai ricordi e abbassò lo sguardo verso Insidia, ancora seduta al suo fianco ad aspettarla. Il sole era sceso oltre le mura delle case e la luce andava sempre più affievolendosi. La druida si mise in ginocchio e abbracciò la lupa, che subito si mise a scodinzolare. Il viaggio dalla Foresta di Smeraldo fino a Crandall era durato circa dieci giorni ed era stato piuttosto tranquillo. Per la maggior parte del tempo la donna aveva viaggiato in forma di lupa, lontano dalle strade frequentate dalla gente. Arrivata in prossimità del Bosco delle Sette Sequoie, aveva avvertito una strana sensazione che proveniva da Insidia, come una specie di presentimento, che la convinse a proseguire verso la città di Crandall. Non era la prima volta che provava quella sensazione di disagio, e l’unica volta che non l’aveva seguita era stato quando era rimasta sepolta tra le macerie di una frana. Quella fu la volta in cui Insidia andò vicinissima a rimarcarle: “Te l’avevo detto!” Morgase sentì uno strano rumore, come un colpo sordo, provenire poco distante. Nello stesso istante, Insidia si alzò in piedi e cominciò a ringhiare verso la direzione del rumore.
Ormai era buio, ma alla druida era sembrato di vedere qualcosa che si era mosso dietro l’angolo dell’incrocio poco più avanti. Giunsero altri rumori, sempre da quella zona, e riconobbe il suono metallico di due lame che si incrociavano. Qualcuno stava combattendo! Afferrò il bastone rinforzato che teneva attaccato allo zaino e, entrando in contatto con la mente di Insidia, le disse di prepararsi a combattere: iniziarono quindi insieme ad avanzare silenziosamente verso l’origine dei rumori.
~ 3 ~
L’unione fa la forza
D uncan era in difficoltà. Sorpreso nel vedere Keldon accasciarsi improvvisamente, non aveva avuto il tempo di prendere lo scudo, ma solo la spada. In realtà il problema non era riuscire a difendersi con un’arma dai fendenti dell’assalitore, che era molto rapido, ma la poca libertà di movimento per proteggere Keldon e non lasciarlo in balia del nemico. Duncan azzardò un affondo, che lo lasciò scoperto sul fianco, e colpì la maschera dell’uomo facendola cadere a terra. Quella maschera era divisa verticalmente in due metà: la parte destra era nera, con l’effigie di un mezzo volto sorridente, mentre la sinistra era bianca, con l’effigie di un mezzo volto triste o arrabbiato. La perdita della maschera aveva fatto esitare l’uomo, impedendogli di approfittare dell’errore di Duncan. «Che cosa vuoi?» Gli chiese ancora il paladino, mentre deviava un altro veloce attacco. Sentì un gemito provenire da Keldon, ma continuò a tenere lo sguardo fisso sulla spada corta dell’aggressore. Altri due rapidi affondi vennero parati. Aveva la netta impressione che lo sconosciuto lo stesse denigrando. D’un tratto l’uomo disse: «Il tuo bel bracciale d’oro. Dammelo e vi lascerò in pace.» Duncan rimase sorpreso dalla richiesta, ma non ebbe il tempo di pensarci, perché l’uomo tornò all’attacco e questa volta fu più veloce. Non riuscì a parare il terzo dei quattro colpi, che lo ferì vicino alla giuntura sotto lo spallaccio dell’armatura. Tuttavia continuava a credere che lo sconosciuto non volesse davvero ferirlo a morte: i colpi sembravano troppo precisi anche nei piccoli errori di mira. Se solo avesse avuto il tempo di prendere lo scudo... Keldon emise un altro gemito e si mosse. Duncan, per un attimo, cercò di vedere con la coda dell’occhio cosa faceva il suo amico, e si mosse leggermente verso
di lui. Lo sconosciuto ne approfittò per attaccarlo: con un affondo e un movimento a spirale della spada lo disarmò. L’arma di Duncan cadde a terra con un rumore metallico. «Non dargli niente» disse d’un tratto Keldon, che tentava faticosamente di alzarsi. «Ecco, ora che siete in due, posso cominciare a fare sul serio» sentenziò l’uomo. Aveva appena finito di dire quelle parole che venne assalito alle spalle e buttato a terra da una creatura ringhiante a quattro zampe. Subito un’altra figura sconosciuta, questa volta di natura umana, si frappose tra Duncan e l’assalitore. «Tutto bene?» Chiese al paladino la nuova arrivata. «Sì, grazie» fece appena in tempo a rispondere, prima che lo sconosciuto si rialzasse, questa volta con una spada corta per mano. «Adesso basta» sbottò l’uomo infuriato. «Dammi il tuo bracciale o ti stacco la mano e me lo prendo da solo!» Duncan cercò disperatamente di recuperare la sua spada, mentre Keldon, che si era ripreso del tutto, afferrò la sua mazza ferrata e si alzò in piedi. L’uomo, però, fu più veloce: aggirò con una piroetta la lupa e si mosse verso il paladino con le lame pronte a colpire, ignorando la donna che era sulla sua traiettoria. Morgase non si lasciò scappare quella chiara occasione di vantaggio: con il bastone intercettò le spade dello sconosciuto e gli sbilanciò la corsa, costringendolo a uno scarto di lato che lo allontanò di diversi i dai due uomini. Una fiammella sbucò da dietro l’angolo e illuminò fiocamente il vicolo. Duncan, che stava fissando lo sconosciuto, rimase interdetto quando riuscì a vedergli il volto: era un uomo biondo con gli occhi chiari, come il nobile che era ato avanti alla fila e come l’ubriaco della locanda. Il paladino gli disse, sbigottito: «Tu! Eri sempre tu!» «Maledizione!» Imprecò l’uomo, che subito si girò, raccolse la sua maschera da terra e corse via, nella direzione opposta a quella da cui proveniva la luce, sparendo nel buio.
Keldon si voltò e vide un giovane che teneva una lunga canna su cui ardeva una piccola fiammella. Era chiaramente spaventato. «Io... io devo solo accendere le lanterne, poi vado via...» borbottò timidamente. Quelle parole e l’espressione del giovane provocarono in Duncan una risata liberatoria, che contagiò anche Keldon e Morgase. «Fa’ pure il tuo lavoro» gli disse il chierico. «Non ti disturberemo, ce ne stavamo andando.» Poi si girò verso la donna che li aveva aiutati. Era bella, alta quasi quanto Duncan e abbronzata, e notò che stava sanguinando al braccio sinistro. «Sei ferita!» Esclamò il chierico avvicinandosi, ma si fermò quando la lupa si fece avanti ringhiando. Morgase la richiamò: «Calma, Insidia! Sono amici.» L’animale si girò a guardarla, poi si avvicinò a Keldon. Subito la druida disse: «Lasciatevi annusare, così potrà riconoscervi.» I due uomini, anche se non erano del tutto tranquilli, si lasciarono annusare; poi la lupa tornò da Morgase e le si sedette accanto. A quel punto, la donna tirò su il braccio sinistro e vide la ferita, di cui non si era minimamente accorta. Era un brutto taglio, ma per fortuna non era molto profondo. «Dev’essere successo quando ho colpito le spade di quell’uomo. Era più veloce e abile di quello che pensavo: mentre le respingevo ha avuto il tempo di muoverne una in modo da colpirmi.» «Già, era molto abile e veloce» confermò Duncan ripensando al combattimento. «Lascia che ti curi la ferita» intervenne Keldon. «Meglio non rischiare che possa infettarsi.»
Subito il chierico impose le mani sulla ferita e, alzando lo sguardo verso l’alto, iniziò la preghiera di intercessione per le guarigioni: «Sommo Vàlor, tu sei il dio del Bene, il dio della Luce, il dio dell’Amore, il dio della Libertà, il dio della Pace. Tu accorri sempre in aiuto del fedele che invoca te, la tua forza, la tua potenza e la tua grazia. Ascolta la mia preghiera di intercessione. Ascolta la preghiera del tuo umile servo che ti chiede aiuto. Concedimi di essere il vettore del tuo potere divino di guarigione. Concedimi di essere il tramite della tua grazia, affinché la ferita di questa donna si risani e la sua vita non sia più in pericolo.» Rimase in raccoglimento qualche istante, quindi toccò la ferita con la mano destra. Subito Morgase percepì come una specie di formicolio e il sangue cessò di uscire, mentre i lembi della ferita si avvicinarono e si risaldarono. Keldon riprese: «Ti ringrazio, sommo Vàlor, per il tuo aiuto. Le nostre preghiere non cesseranno mai di lodare il tuo nome e non dimenticheremo mai la tua benevolenza verso di noi.» Il chierico abbassò le mani e Morgase osservò sorpresa il proprio braccio, dove ora restava solo una piccola cicatrice. Keldon le sorrise e disse: «Non ci siamo ancora presentati. Io sono Keldon di Manis, chierico missionario di Vàlor. Vengo da Camaran.» Si voltò verso l’amico, aspettando che si presentasse a sua volta, ma vide che sembrava assorto nei suoi pensieri. Allora aggiunse: «E il mio pensieroso amico è Duncan di Brintasien, paladino di Vàlor, anche lui di Camaran.» Nel sentirsi nominare, Duncan si riscosse dai suoi pensieri e disse, un po’ imbarazzato: «Sì, perdonami, mi chiamo Duncan.» La donna sorrise a sua volta e disse: «Morgase di Quantiea, druida del Cerchio dei Salici. Vengo dalla Foresta di Smeraldo, nell’Anosia meridionale.» Poi indicò la lupa e aggiunse: «E lei è Insidia, la mia compagna animale. E fidatevi del suo nome: spesso è davvero insidiosa!» La lupa guaì indispettita, quasi avesse qualcosa da ridire su quel commento.
«Non restiamo qui» intervenne Duncan. Poi si rivolse a Morgase: «Noi stavamo tornando alla locanda per mangiare. Tu hai già un posto dove andare?» La druida arrossì leggermente, ricordandosi di essere arrivata lì solo perché si era persa, quindi disse: «Ecco, in realtà non ci avevo ancora pensato. Non conosco la città e non sapevo decidermi.» «Allora vieni con noi alla locanda della Dama Purpurea» le propose Keldon. «Lasciaci almeno offrirti la cena per il tuo aiuto.» «Ma non ho fatto niente» si schermì lei. «È stato il lanterniere a far fuggire quell’uomo.» «Sei comunque venuta in nostro soccorso» aggiunse Duncan sorridendo. «E non eri obbligata a farlo. Lascia che ti ricompensiamo anche solo per l’intenzione.» A quelle parole la druida non seppe come ribattere e accettò il loro invito, quindi li seguì verso la locanda della Dama Purpurea.
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Nell’oscurità di un vicolo, lo sconosciuto biondo dagli occhi chiari camminava in silenzio, continuando a imprecare mentalmente. Era dovuto fuggire per colpa di quel maledetto lanterniere e, sempre per colpa sua, quei tre avevano visto il suo volto. Non poteva rischiare di essere catturato, quindi la sua unica opzione era stata la fuga. Non era questo, però, a irritarlo di più: il fatto veramente imperdonabile era di non essere riuscito a prendere il Bracciale. Ora purtroppo non aveva più campo libero in città. Se quella druida col suo lupo ringhioso fosse rimasta con loro, non avrebbe più potuto prenderli ancora di sorpresa. E pensare che era riuscito a pedinarli senza farsi notare, dapprima ascoltando i loro discorsi con quel gendarme, per poi precederli alla locanda,
dove si era finto ubriaco per controllarli meglio! Era rimasto molto soddisfatto della propria interpretazione: né il locandiere, né la cameriera avevano avuto sospetti. Comunque, dai loro discorsi aveva scoperto che quei due erano lì per lui e per i suoi compagni, e che proprio l’indomani si sarebbero messi a cercarli. Allora, perché fare tanta fatica? Sarebbero stati loro stessi a cadere nelle sue mani e a consegnargli quello che voleva. L’uomo si calò il cappuccio sulla testa e si avviò verso l’uscita della città.
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Morgase e i due uomini erano seduti a un tavolo della locanda semivuota e stavano spiluccando ciò che rimaneva di un grosso pollo arrosto. Avevano avuto tutti e tre così tanta fame che si erano abbuffati, assalendo quel povero pollo senza proferire parola. La druida, però, prima di iniziare a mangiare, aveva chiesto che fosse portato a Insidia un cosciotto di agnello crudo, che la lupa aveva mostrato di gradire fin troppo, tanto che lo aveva finito in brevissimo tempo per poi rimanere a rosicchiare l’osso con calma sotto il tavolo. «Davvero non avete idea di chi fosse quel tipo nel vicolo?» Ruppe il silenzio Morgase mentre lanciava un’occhiataccia alla lupa che si era messa a rompere l’osso con i denti, facendo dei rumori secchi che qualcuno avrebbe potuto considerare poco gradevoli. «Non so perché volesse il mio bracciale» rispose Duncan pensieroso, «ma so di un gruppo criminale che nasconde il volto con delle strane maschere bianche e nere...» «E chi sono?» Gli chiese Keldon. «Si fanno chiamare “Maschera d’Ombra”, una gilda di ladri che imperversa per gran parte di Anosia...» Morgase lo interruppe:
«Ho già sentito quel nome, ma non ci ho mai avuto a che fare personalmente.» «Fino a ora era solo una voce che fossero arrivati anche nel Ducato di Crandall» riprese Duncan, «ma dopo l’incontro con quel tipo, la presenza qui della Maschera d’Ombra non è più un sospetto. A questo punto, devo cercare delle prove inconfutabili della loro presenza, così da richiedere l’intervento del mio Ordine.» «Quello che non capisco è perché volesse il tuo bracciale» disse Morgase. «Se fosse stato un ladro, non avrebbe dovuto volere i tuoi soldi? O forse è un bracciale particolare?» Duncan tirò su la manica e mostrò loro il bracciale. Era d’oro e aveva delle venature argentee che formavano una sorta di largo reticolo; in rilievo erano presenti degli strani simboli anch’essi argentei. «Che io sappia, non ha nessuna caratteristica particolare. Forse può avere un certo valore dato che è fatto di oro e argento, ma per me è un caro ricordo e, per questo motivo, non ha prezzo.» Per un attimo Keldon incrociò lo sguardo di Duncan e vide nei suoi occhi un velo di tristezza. Intanto Morgase si era avvicinata per vedere meglio il bracciale: c’erano dei riflessi nella componente argentea che non la convincevano. «Sai, Duncan» esordì, «non credo che quelle venature siano fatte d’argento. Forse il nostro amico se n’era accorto e per questo gli interessava.» Il paladino guardò il bracciale come se fosse la prima volta che lo vedeva e le chiese: «Perché, di che cosa è fatto?» «Platino.» «Platino?» Le fece eco Keldon. «Ma è un metallo rarissimo!» «Già» confermò lei. «E per questo è anche preziosissimo. L’unico giacimento, tra l’altro molto piccolo, di cui sono a conoscenza è a Metallia, nelle Montagne Rocciose delle Terre Libere. Però...» Si interruppe, pensierosa, poi indicò uno
dei simboli in rilievo sul bracciale e riprese: «Ammetto di ignorare il significato dei simboli, ma il processo con cui quei filamenti di platino sono stati inclusi nell’oro è ormai perduto da millenni, quindi mi pare evidente che questo gioiello sia molto antico. Dove l’hai trovato?» Duncan abbassò lo sguardo e lo risistemò sotto la manica con un accenno di malinconia; subito Keldon intervenne: «Perdonalo, ma non è facile per lui parlarne. Ti posso comunque assicurare che non c’è nulla di misterioso, ma solo qualcosa di doloroso. Cambiamo discorso, se non ti dispiace. Perché sei a Crandall?» Morgase annuì, comprensiva, e rispose: «Anch’io, come voi, sono qui per una missione...» Mentre la druida spiegava i problemi del Bosco delle Sette Sequoie, Duncan si sforzò di non pensare al bracciale, preferendo concentrarsi su se stesso e su Keldon...
... Duncan e Keldon si erano conosciuti tanto tempo prima a Camaran, la capitale dell’Impero di Anosia, quando erano ancora bambini. Duncan veniva da Vikrin, un villaggio delle campagne intorno a Hekaras, uno dei tanti che non apparivano sulle carte ufficiali. Era il terzo di cinque figli. I suoi genitori erano contadini, ma erano di nobili origini, prima di decadere in seguito alle azioni di una famiglia rivale, circa cinquant’anni prima che lui nascesse. Un giorno, quando Duncan aveva sette anni, ò nel villaggio un gruppo di paladini di Vàlor, guidati dal tenente Fesaris, in cerca di giovani da reclutare. Egli mostrò interesse per Duncan, e i suoi genitori furono contenti di lasciarlo andare: lui sarebbe stato bene e, nello stesso tempo, avrebbe permesso loro di mantenere dignitosamente i suoi quattro fratelli. Il piccolo Duncan pianse per tre giorni dopo che fu partito per l’accademia di Camaran. A quel tempo era troppo piccolo per pensare che quell’opportunità era il miglior regalo che i suoi genitori potessero fargli: un futuro chiaro e sicuro. Il tenente Fesaris si era proposto come tutore di Duncan fino al raggiungimento della maggiore età. I primi anni all’accademia furono tutto un susseguirsi di esercizi fisici e di lezioni teoriche su varie materie, in particolare sulla fede in Vàlor. Fu proprio
durante le lezioni di religione che Duncan conobbe Keldon. A differenza di lui, Keldon era orfano. Era stato abbandonato sulle scalinate del Grande Tempio di Vàlor di Camaran, avvolto in una coperta di lana. Fu Benedir, un sacerdote, a trovarlo. Quel giorno Benedir stava andando al tempio per celebrare la Benedizione e, grazie al silenzio che c’era sempre a quell’ora di mattina presto, aveva udito degli strani lamenti provenire da uno degli ingressi laterali. Incuriosito, era andato a vedere e aveva trovato un neonato che piangeva. Non aveva avuto il cuore di abbandonarlo e lo aveva preso con sé. Quella mattina Benedir aveva celebrato la Benedizione con il piccolo sulle gambe. Da allora, lo aveva tenuto con sé e, d’accordo con la moglie, lo aveva adottato. La loro unione non era stata benedetta dalla nascita di figli e aveva visto quel neonato come un segno dell’amore di Vàlor per loro. Benedir portava sempre Keldon alle celebrazioni e fu il bambino stesso, quando compì nove anni, a chiedere al padre adottivo se poteva entrare nel clero e diventare come lui. Naturalmente egli provò grande gioia e lo fece entrare nella scuola del tempio. Col are del tempo Benedir divenne Gran Sacerdote di Vàlor, ma Keldon non volle mai alcun favoritismo. E comunque, non ne avrebbe avuto alcun bisogno, perché in lui la fede era ben salda. Duncan e Keldon si erano conosciuti quando avevano dieci anni, all’inizio del corso sui dogmi di Vàlor. Si erano ritrovati seduti accanto nello stesso banco e da lì era partita la loro amicizia. La loro crescita nei due diversi aspetti della fede di Vàlor, quello militante dei paladini e quello contemplativo dei chierici, era avvenuta di pari o e in armonia. Il loro gruppetto si arricchì qualche anno dopo di un’altra persona, che fu molto importante soprattutto per Duncan, ma ora non voleva pensare a lei. Gli tornò in mente, invece, un altro avvenimento doloroso che ebbe l’effetto di cementare ancora di più la loro amicizia. Avvenne quando avevano diciassette anni. Fu il suo tutore Fesaris a dare a Duncan la nefasta notizia della morte di suo padre e di suo fratello maggiore. I dettagli della vicenda non erano molto chiari. Suo padre e suo fratello erano in viaggio verso la città portuale di Fadros per vendere alcuni prodotti al mercato locale, come avevano fatto tante altre volte. Si erano aggregati a una carovana che partiva da Hekaras, ma, prima di incrociare la Grande Strada Meridionale, che collegava Camaran con Latvalla, erano stati assaliti da un gruppo di briganti. Tutti i componenti della carovana erano stati uccisi, ma in un modo decisamente strano: erano stati colpiti con qualcosa di molto acuminato nei punti vitali, principalmente la giugulare, il
cuore o l’inguine, ed erano morti dissanguati. Suo padre, però, aveva subito un altro trattamento raccapricciante: gli era stato rimosso l’occhio sinistro. Le indagini non avevano trovato niente di utile e si erano concluse senza che venisse identificato un colpevole. Duncan si era recato con Keldon a fare visita alla sua famiglia, trovando sua madre distrutta dal dolore per la perdita del marito e del figlio. Il giovane chierico aveva cercato di consolare la famiglia dell’amico toccata dal dolore, ma lui era rimasto troppo colpito dall’accaduto: sarebbe voluto andare a cercare vendetta, infiltrandosi nei luoghi peggio frequentati di ogni città per cercare informazioni su chiunque potesse essere il fautore della strage. Keldon, con accese discussioni, riuscì a fargli capire che, se così avesse fatto, avrebbe vanificato l’opportunità che suo padre gli aveva dato, concedendogli di entrare nell’ordine dei paladini. Alla fine Duncan si era calmato e aveva deciso di devolvere una parte del suo salario di paladino per sostenere sua madre e i suoi fratelli più piccoli. Questo fatto, però, lo aveva segnato più di quanto pensasse, perché da allora ebbe sempre maggiore intransigenza nei confronti di chi commetteva ingiustizie contro gli indifesi...
... Duncan sentì per la seconda volta pronunciare il suo nome, e si riscosse dai suoi pensieri. Si accorse così che Keldon stava finendo di raccontare a Morgase quelle cose che lui stesso stava ricordando. Morgase aveva gli occhi lucidi per la commozione quando si voltò verso Duncan per dirgli che le dispiaceva per l’accaduto. «Grazie, ma è successo ormai quasi dieci anni fa e l’ho superato. Non è stato facile, ma ora non mi alzo più nel cuore della notte immaginandomi la scena della strage. E per buona parte devo ringraziare Keldon, che mi è stato vicino in quel periodo difficile.» In quell’istante, Insidia emise una serie di bassi e rapidi guaiti, al che Morgase si fece seria, abbassando lo sguardo verso la lupa. «Che succede?» Le chiese Keldon un po’ allarmato. La druida si rilassò di nuovo e quindi rispose: «Insidia mi ha ricordato una cosa che ha percepito quando è saltata addosso allo sconosciuto. Era un odore ormai quasi svanito, ma molto particolare. Si tratta di
una pianta erbacea che cresce solo da queste parti, in particolare nel Bosco delle Sette Sequoie. Sono quasi certa che quel tizio sia stato là non più tardi di due giorni fa. Potrebbe essere un buon punto per cominciare a capire chi sia. Inoltre, come vi ho già spiegato, anch’io devo recarmi lì: potremmo unire le forze per portare a compimento le nostre rispettive missioni.» Duncan e Keldon si guardarono. «In effetti un aiuto non sarebbe male» concesse il paladino, «soprattutto se dobbiamo addentrarci in un territorio che non conosciamo. E, trattandosi di un bosco, direi che l’aiuto di una druida sarebbe il meglio che mai avessimo potuto sperare.» «A proposito, domani dobbiamo anche andare dal Tenente dei Gendarmi per recuperare i cavalli» aggiunse il chierico. «Pensi che sarebbe una buona idea provare a reclutare anche lui? È vero che la nostra dovrebbe essere una missione esplorativa, ma, nel caso di eventuali spiacevoli imprevisti, non sarebbe meglio essere più numerosi e meglio preparati?» Morgase sorrise: «Non vedo come darti torto!» Anche Duncan annuì: «Sì, sono d’accordo. È bene non rischiare.» Morgase si stiracchiò e sbadigliò. «Si è fatto tardi. Credo sia meglio andare a dormire.» Anche Keldon sbadigliò. «Hai proprio ragione. La stanchezza per il viaggio si fa sentire. Hai già preso una stanza?» La druida scosse la testa. «In realtà non ci ho pensato. Non credevo di restare in città per la notte.» «Allora rimani con noi» le propose Duncan. «Il locandiere dovrebbe avere ancora stanze libere. Così domani potremo partire tutti insieme.»
Morgase ci pensò un po’, poi annuì e si alzò per andare a parlare con il locandiere. «Domani ci aspetta una lunga giornata» commentò Keldon. «Credo che l’aiuto di Morgase sia proprio quello che ci serviva per la missione.» «Sì» concordò Duncan, «e spero che anche noi potremo esserle di aiuto.»
~ 4 ~
Il disonore dell’esilio
L iriel di Eiron si appoggiò con la schiena a un albero, incrociando le braccia sul seno prosperoso. Prima di tutto era un’elfa, con la pienezza dell’altezzosità e dell’arroganza della sua razza, poi era un’incantatrice, capace di utilizzare l’Eteria, l’energia potente e invisibile che permeava il mondo e manteneva l’unità tra i suoi elementi; molti la consideravano addirittura la forza vitale stessa di Amnia. Liriel aveva ventisei anni e splendidi occhi verdi, la carnagione chiara e un corpo sinuoso e formoso, con lunghissimi capelli rossi ondulati che le ricadevano fino al fondoschiena; la punta delle orecchie, che fuoriusciva dai folti capelli, e le sottili sopracciglia, che all’esterno si incurvavano verso l’alto, rivelavano chiaramente la sua natura elfica. Indossava una tunica viola scuro, lievemente attillata sul seno e sui fianchi. Stava osservando spazientita Firion che, inginocchiato, studiava un’orma sul terreno erboso. Firion di Feldaris era anche lui un elfo, aveva ventotto anni, occhi azzurro ghiaccio, lunghi capelli biondi raccolti in una coda, carnagione chiara e lineamenti raffinati; il suo corpo, anche se tradiva la classica snellezza elfica, aveva un evidente tono muscolare, frutto del suo addestramento come ranger, le guardie elfiche di confine, esperte nell’esplorare le aree naturali e nell’uso dell’arco. Indossava un’armatura di pelle e aveva un arco lungo e una faretra agganciati alla spalla sinistra. Accanto a lui, seduto in terra a gambe incrociate, anche il fratello di Liriel osservava l’impronta. Nalatien di Eiron aveva ventitré anni, occhi verdi, capelli castano chiaro tagliati a caschetto, carnagione chiara e corporatura snella; indossava una semplice tunica blu scuro. Come la sorella, aveva ereditato a sua volta il sangue di incantatore. Liriel non era dell’umore giusto per degnarsi di considerare ciò che i due stavano facendo, per cui preferì pensare a se stessa, cosa che le riusciva decisamente
bene, e riconsiderare gli eventi che l’avevano portata in quella schifosa foresta...
... Liriel aveva scoperto presto di avere il dono completo, cioè la capacità di percepire l’Eteria e di utilizzarla secondo la propria volontà. Sentire l’Eteria era molto comune tra gli elfi: quasi tutti ne erano in grado. Saperla usare, invece, era meno comune, perché implicava di avere una mente forte e una volontà potente. Cose che l’elfa aveva in abbondanza. I suoi genitori non facevano parte dell’aristocrazia elfica, ma non se la avano male. Gestivano un negozio di oggettistica nella città di Ariadne e inoltre, godendo del favore della Famiglia Averintia, ogni tanto avevano la possibilità di commerciare con gli umani o con i rettiloidi traendone ottimi profitti. Essi, però, non avevano il dono completo, che invece avevano avuto i suoi nonni. Anche Nalatien aveva ereditato da loro il dono. Per volontà dei suoi genitori, a dieci anni era stata affidata a un precettore, un anziano incantatore di Thule, Aliman di Egaras, affinché le insegnasse a padroneggiare l’arte dell’Eteria e le evitasse di danneggiare qualcosa, qualcun altro o se stessa. Il lancio degli incantesimi, le aveva insegnato subito, consisteva infatti nell’entrare in uno stato di grande concentrazione per poter pronunciare la formula, anche solo mentalmente per i più esperti. Essa era accompagnata da precisi movimenti con le mani e le braccia, definiti “movenze”, secondo la giusta sequenza e le relative pause. Questi movimenti erano il vero fattore indispensabile per la fruizione del flusso di Eteria, per il giusto dosaggio, per la scelta dell’elemento o dell’effetto e per la corretta direzione. Inoltre Aliman l’aveva ammonita che avrebbe dovuto dormire regolarmente, perché la mente dei mortali non era in grado di sopportare a lungo il contatto con la potenza dell’Eteria: il sonno aveva lo strano potere di purificare la mente e di renderla di nuovo ricettiva all’Eteria. Era stato da Aliman che Liriel era venuta a sapere dell’esistenza del Dominio di Kentara, il luogo dove l’Eteria era considerata al di sopra di qualunque cosa e dove gli incantatori potevano imparare tutti gli incantesimi esistenti. Il precettore le aveva spiegato che là esistevano quattro torri, una per ciascuna delle quattro Scuole dell’Eteria: la Torre della Difesa comprendeva tutti gli incantesimi di protezione, di immobilizzazione, di bando e di trasformazione fisica; la Torre del Dominio raccoglieva tutti gli incantesimi di lettura e controllo mentale, di
alterazione delle percezioni e di creazione di illusioni; la Torre Elementale comprendeva tutti gli incantesimi di manipolazione energetica e di creazione; la Torre dell’Evocazione comprendeva tutti gli incantesimi che portavano creature o materiali dall’incantatore, o che rivelavano informazioni. La giovane Liriel si era subito sentita attratta dalla Torre Elementale, quella più offensiva. Aliman le aveva spiegato anche che, quando un incantatore sceglieva di specializzarsi in una Scuola (e una soltanto), poteva imparare gli incantesimi più potenti di quella Scuola, ma non poteva più eseguire gli incantesimi della Scuola opposta. Se lei, quindi, avesse deciso di diventare una Elementalista, avrebbe perso gli incantesimi della Scuola dell’Evocazione. Secondo gli studiosi, questo fenomeno derivava dalla Legge dell’Equilibrio dell’Eteria: in ogni incantatore l’Eteria poteva raggiungere un livello equivalente tra tutte le Scuole, ma se si superava quel livello in una di esse, l’equilibrio veniva alterato e, per riequilibrare l’accresciuto livello della Scuola scelta, il flusso di Eteria in quella opposta veniva disattivato. Per questo motivo, le aveva rivelato il precettore, lui non aveva scelto di specializzarsi: in questo modo era vero che non avrebbe imparato gli incantesimi più potenti, ma non avrebbe dovuto rinunciare a qualcosa. Il ragionamento non era piaciuto troppo a Liriel, che continuava a sognare la Torre Elementale di Kentara. Così come non piacque neanche a Nalatien, che la affiancò negli studi, quando anche lui compì dieci anni: Nalatien si sentiva attratto invece dalla Torre dell’Evocazione. A tutti questi sogni e desideri, però, c’era una non indifferente limitazione: gli elfi non uscivano mai dalla Grande Foresta. Dunque, né Liriel né Nalatien avrebbero mai potuto raggiungere il Dominio di Kentara. In realtà, aveva rivelato loro Aliman, diversi elfi incantatori erano a Kentara per approfondire lo studio dell’Eteria, ma erano di famiglia nobile oppure avevano ottenuto a caro prezzo il permesso di espatriare, limitato comunque alla sola Kentara. Quelle erano le uniche opzioni che prevedevano un futuro rientro nella Grande Foresta. Qualunque altra soluzione avrebbe voluto dire esilio permanente...
... Liriel si riscosse dai pensieri quando sentì Firion che la chiamava. «Che c’è?» Fece lei con tutta la supponenza possibile. «Non riconosco quest’orma» rispose lui fingendo di non aver notato la sua
irritazione. «E la cosa non mi piace. Potrebbe essere qualche mostro che vive in questo bosco, ma non ho idea di cosa possa essere.» «Non devi preoccuparti di questo» ribatté lei riavviandosi indietro un ciuffo di capelli che il vento le aveva portato sugli occhi. «Con la mia Eteria posso affrontare qualunque mostro osi intralciare il mio cammino.» «Se volete» intervenne Nalatien, «posso fare una divinazione per cercare di scoprire cosa possa essere.» Firion si guardò attentamente intorno. Si trovavano in un piccolo spiazzo circondati da querce di varia grandezza, sentiva il cinguettio di vari uccelli e il fruscio dei rami che venivano mossi dal vento. Tuttavia, si ripeté con rammarico, non conosceva quel luogo, che gli umani chiamavano Bosco delle Sette Sequoie. Se davvero era pericoloso come gli sembrava, sarebbe stato meglio trovare al più presto un riparo per la notte, prima che il sole calasse del tutto. Alla fine gli rispose: «Se può esserci di aiuto, non direi di no a una divinazione.» Liriel sbuffò annoiata e disse a sua volta: «Ma sì, eseguila pure, tanto non abbiamo niente di meglio da fare.» Nalatien sorrise alla sorella, poi iniziò a prepararsi per la divinazione e si concentrò sull’impronta nel terreno, quindi sulla formula e sulle movenze dell’incantesimo. Firion si rialzò in piedi e si mise a fissare Liriel, i cui lunghi capelli rossi si muovevano con il vento...
... Firion aveva conosciuto Liriel nove anni prima, quando lui era ancora una recluta dei ranger. Secondo le norme elfiche non era ancora adulto: lo sarebbe diventato al raggiungimento del ventesimo anno di età, compiendo il Rito di Ardèsia in onore della dea che aveva creato gli elfi e li aveva resi migliori delle altre due razze create dagli dèi. Già il semplice fatto che gli elfi vivessero il doppio degli umani e dei rettiloidi e che avevano i sensi molto più sviluppati, bastava a indicare il favore che la dea aveva avuto nei loro confronti. La famiglia
Feldaris, a cui Firion apparteneva, faceva parte dell’aristocrazia della città di Ariadne e aveva avuto la rara benedizione di poter concepire tre figli, invece dei due che al massimo riuscivano ad avere le coppie elfiche. Firion, infatti, aveva un fratello maggiore, Kirkis, che stava facendo carriera nella Guardia Reale, e una sorella minore, Siriana, ancora troppo piccola per poter avere già deciso seriamente cosa fare da grande. Egli aveva deciso di non seguire le orme del fratello e aveva fatto domanda di arruolamento presso i ranger. Anche se non era un percorso usuale per un nobile, era comunque considerato un onore essere uno dei ranger, dato che il loro operato proteggeva tutti gli elfi dalle insidie del mondo esterno. Il loro incontro era avvenuto un giorno che Firion era stato inviato di pattuglia lungo il fiume Sunivia, vicino a Myrel. Liriel doveva essersi persa, anche se non lo aveva mai ammesso, e, per sfuggire all’assalto di un orso che l’aveva presa alla sprovvista, era caduta in acqua. Firion aveva scacciato l’orso urlandogli contro, poi si era girato verso la ragazza. La vista di Liriel seduta in mezzo all’acqua del fiume, con lo splendido viso corrucciato, lo aveva folgorato. I capelli rossi bagnati, con le punte affusolate delle orecchie che sbucavano fuori, con le gocce d’acqua che dai capelli ricadevano sulla candida pelle nuda, e i seni prosperosi che la veste bagnata non riusciva a nascondere, lo avevano affascinato subito. «Tutto bene mia signora?» Le aveva chiesto sorridendo e porgendole la mano per aiutarla a uscire dal fiume. Liriel, per alcuni secondi, lo aveva squadrato come se fosse stato una qualche bizzarra visione, poi l’elfa aveva sollevato la mano per accettare il suo aiuto, e dalle sue labbra carnose era spuntato un dolce sorriso. Gli aveva detto di chiamarsi Liriel e di essere un’incantatrice. Era finita in quel fiume perché il suo precettore le aveva dato il compito di portargli la prova che con la sua Eteria aveva sconfitto un grosso animale. L’unico problema era stato che l’orso si era accorto per primo di lei e non era riuscita a trovare la concentrazione necessaria per lanciargli contro l’incantesimo Fulmine, discretamente difficile, secondo le istruzioni del precettore. Alla fine Firion l’aveva aiutata a trovare un altro orso senza farsi scoprire, dandole così l’opportunità di lanciare il Fulmine, che aveva colpito l’animale e lo aveva stordito. Così lei aveva avuto il tempo di lanciarne un altro che aveva
ucciso l’orso. Liriel era stata molto grata del suo aiuto anche se, all’inizio, non voleva ammetterlo. Quando il suo precettore si fece raccontare la verità su come fosse riuscita a eseguire il suo compito, si mostrò compiaciuto con lei perché aveva imparato la vera lezione che doveva apprendere, cioè che non sempre poteva fare tutto da sola. A quel punto Liriel si era lasciata finalmente andare e aveva ceduto prima all’amicizia con Firion, e poi a qualcosa di più intimo. Firion ripensava a come fosse stato bello stare con lei, nonostante i suoi genitori si opponessero perché non era di famiglia nobile. Ma da un po’ di tempo Liriel era cambiata: era sempre più spesso arrabbiata con il mondo per la gabbia in cui si sentiva rinchiusa. Sapeva che il suo sogno era diventare un’esperta Elementalista e che per farlo sarebbe dovuta andare nel Dominio di Kentara, fuori dalle terre degli elfi. L’auto-isolamento elfico era la sua gabbia, a cui non aveva modo di rimediare. Firion aveva provato a consolarla facendola sentire la persona più importante per lui, ma il tempo aveva invece sempre più inasprito l’insofferenza della ragazza, finché per lei il sogno di Kentara era diventato un’ossessione. Firion sospirò mentre le osservava i lunghi capelli rossi che l’avevano sempre affascinato, e che tuttora lo ammaliavano. Poteva solo sperare che, ora che erano fuori dalla Grande Foresta, Liriel guarisse dalla sua ossessione e tornasse a guardarlo come un tempo...
... Nello stesso momento, Nalatien era concentrato nell’incantesimo di divinazione: si ripeteva mentalmente le parole della formula e muoveva le mani secondo lo schema che aveva memorizzato. Grazie al continuo ripetersi delle parole e delle movenze, infatti, il velo del tempo era costretto a sollevarsi, così da permettere a chi praticava la divinazione di dare un’occhiata a ciò che esso celava alla vista dei mortali. A differenza della sorella, Nalatien non agiva mai d’impulso e per questo si sentiva più attratto dalla Scuola dell’Evocazione, che per la natura dei suoi effetti prevedeva una linea di azione più riflessiva e controllata. Era proprio questo suo carattere calmo che il più delle volte riusciva a fare breccia nelle barricate sollevate da Liriel per difesa e a renderla più ragionevole.
Mentre era immerso nella meditazione, Nalatien avvertì di nuovo quella strana sensazione che da tempo provava quando eseguiva un incantesimo della Scuola dell’Evocazione. Era qualcosa di vago e di impalpabile, ma sentiva che, se solo per un attimo fosse riuscito ad afferrarla, avrebbe provato l’appagamento più totale. Per questo voleva seguire la sorella a Kentara ed entrare nella Torre dell’Evocazione. Era certo che là sarebbe riuscito a capire cosa fosse quella sensazione e a raggiungerla. Improvvisamente un’immagine penetrò nella sua mente. Vide un laghetto in mezzo agli alberi e qualcosa di indistinto che si muoveva sulla sua superficie. Dalla forma degli alberi sembrava che quel laghetto fosse da qualche parte all’interno del bosco in cui si trovavano. Poi la visione si allargò e vide sulle rive del laghetto la figura di un uomo vestito con un’armatura nera, con lunghi capelli lisci e neri. Egli alzava una mano verso il centro del lago e la forma indistinta gli si avvicinava, come per ricevere una carezza. Nalatien aprì gli occhi di scatto, con il respiro affannoso. Aveva già visto quell’uomo, ne era sicuro. Lo aveva visto parlare con Liriel, più di una volta. Ma com’era possibile? Un umano non poteva entrare nella Grande Foresta: sarebbe stato fermato dai ranger e, nel caso avesse fatto resistenza, sarebbe stato ucciso in modo rapido ed efficace. Eppure lo aveva davvero visto: era proprio lui che parlava con Liriel in uno dei numerosi giardini di Ariadne. Allora non aveva capito che non era un elfo: lo aveva dato per scontato. Nalatien ricordava di aver cercato una volta di avvicinarsi di nascosto per cercare di ascoltare i loro discorsi. Era riuscito a sentire che l’uomo le parlava delle torri di Kentara e di qualcosa di molto potente. Tuttavia, in qualche modo, l’uomo doveva essersi accorto di lui, perché, d’un tratto, aveva lanciato un’occhiata verso il cespuglio dove si era acquattato, poi aveva fatto un cenno di saluto a Liriel e se n’era andato. Nalatien aveva provato a seguirlo ma, a un certo punto, l’uomo era come scomparso nel nulla: aveva svoltato dietro un albero e poi era sparito. Doveva essere un potente incantatore, ma non aveva percepito alcun flusso di Eteria in lui. Non aveva avuto il coraggio di parlarne con Liriel, quindi si era dimenticato di lui. Fino a ora. Adesso però veniva il momento peggiore: avrebbe dovuto comunicare agli altri cosa aveva visto nella visione divinatoria, una visione che, tuttavia, non era per niente chiara.
... Liriel si era di nuovo rinchiusa nei suoi pensieri, mentre attendeva che il fratello completasse la divinazione. Ripensava a cosa l’avesse portata lì, in quel bosco maledetto lontano dai luoghi che conosceva. Non sarebbe dovuta andare così: quell’uomo glielo aveva assicurato. Aveva seguito attentamente le sue istruzioni, era certa di non aver commesso alcun errore, ma qualcosa era andato storto e quegli elfi erano morti. Non dovevano nemmeno essere lì: quella struttura doveva essere vuota. Era certa che, quando aveva controllato, non ci fosse nessuno, a parte gli animali che aveva sistemato come obiettivo dell’incantesimo. Eppure, dopo l’esplosione che non ci sarebbe mai dovuta essere stata, tra le macerie erano sbucati i corpi di quegli elfi. Morti. Per mano sua. Era talmente sconvolta da non essersi accorta dell’arrivo della Guardia Reale, richiamata dal boato. Era stata arrestata e condotta davanti al tribunale in catene, ando davanti a gente che la osservava con disprezzo. I giudici la condannarono all’esilio, una condanna che equivaleva a una pena di morte. Se c’era una legge che non doveva mai essere trasgredita, era la Direttiva di Ardèsia: un elfo non doveva mai uccidere un elfo. E purtroppo lei l’aveva fatto, anche se era stato un incidente: aveva commesso l’unico peccato che per un elfo non aveva perdono. L’avevano spogliata delle sue proprietà, avevano annunciato che da quel momento i suoi genitori non avevano più una figlia, avevano dichiarato che lei non era più un’elfa. L’avevano fatta accompagnare dagli esecutori, potenti guerrieri e incantatori vestiti con una tunica nera che copriva tutta la loro figura, al confine della Grande Foresta. Quindi l’avevano cacciata fuori senza dire una parola, lasciandola sola nello sconosciuto mondo esterno. Poi successe qualcosa che la meravigliò più di qualsiasi altra cosa. Vide Firion che varcava il confine, sotto lo sguardo dei silenziosi esecutori. L’elfo dichiarò che avrebbe accettato di seguire la sorte di Liriel nel suo esilio, che non avrebbe abbandonato l’unica persona con cui aveva condiviso la sua anima. Uno degli esecutori ruppe il silenzio e dichiarò che neanche lui era più un elfo e che non avrebbe mai più potuto fare ritorno. Qualche attimo dopo, anche Nalatien varcò il confine, dichiarando che quei luoghi non avevano più alcun interesse per lui. Lo stesso esecutore dichiarò che neanche lui era più un elfo e che avrebbe condiviso con la sorella il peso del suo peccato. Alla fine i tre si erano allontanati in silenzio, diretti verso sud. Una lacrima solcò il viso di Liriel...
Nalatien si rialzò in piedi. Guardò Liriel e Firion senza lasciar trapelare il proprio timore. Stava ancora pensando a come fare per dire loro quello che aveva visto nella divinazione, quando uno strano verso animalesco risuonò nell’aria. Sembrava qualcosa di simile al nitrito di un cavallo, ma aveva anche qualcosa di selvaggio e di sinistro. Firion afferrò l’arco e incoccò una freccia, girandosi intorno per cercare di intuire da dove sarebbe arrivata l’aggressione. Liriel e Nalatien gli si avvicinarono, preparandosi a lanciare un incantesimo di attacco. Improvvisamente, dal terreno cominciò a salire una coltre di nebbia che aveva uno strano odore di putrefazione.
~ 5 ~
In cerca di indizi
D uncan e Keldon stavano discutendo con il tenente Lionel sul da farsi, mentre Morgase si stava accertando della salute dei cavalli. I tre uomini erano fuori dal recinto delle stalle, con la lupa che sonnecchiava accanto a loro, mentre la druida era stata accompagnata da un soldato a vedere i destrieri. «Proverò a chiedere a quel gendarme» stava dicendo il Tenente, dopo aver ascoltato il racconto di Duncan sull’accaduto della sera prima, «ma non credo che possa essere coinvolto in qualcosa di losco. Lo conosco ed è sempre stato leale. Probabilmente, se lo ha lasciato are, quel tizio gli avrà dato una discreta mancia... Purtroppo non è raro che accadano queste cose: la paga, se hai famiglia, non basta mai. Potremmo interrogarlo, ma vedrete che sarà successo come vi ho detto e che non ci sono implicazioni di altro tipo.» «Me lo auguro» replicò Duncan. «Non è mai bello quando una guardia tradisce la sua città. Per quanto riguarda l’uomo mascherato, crediamo che la sua banda si nasconda nel Bosco delle Sette Sequoie. Forse è per questo che finora vi sono sfuggiti: a quanto ho letto, quel posto non è molto sicuro.» «Non era così una volta» annuì Lionel con un sospiro. «Fino a circa trent’anni fa quel luogo era accogliente e nei giorni di festa, dalla primavera fino all’autunno, c’era sempre tanta gente che andava là per divertirsi e rilassarsi, immersi nella natura. Poi, d’un tratto, i druidi che si prendevano cura del bosco scomparvero misteriosamente e da allora quel luogo è diventato sempre più cupo, tanto che la gente ha smesso di andarvi. Chissà, forse l’arrivo della vostra amica druida è un segno di Vàlor...» Keldon e Duncan si guardarono, poi il chierico disse: «Potremmo chiedere a Morgase se sappia qualcosa riguardo la loro sparizione. So che i druidi sono molto gelosi dei loro segreti, ma, se ha a che fare con ciò che sta succedendo, potrebbe esserci di aiuto.»
Duncan annuì. «Sì, credo che non sia una cattiva idea.» Poi si girò verso il Tenente e disse: «A proposito, Lionel: che ne pensi di unirti a noi nelle indagini? Tu conosci bene queste zone e ci saresti di grande aiuto. Sarebbe veramente un enorme vantaggio e potremmo risolvere la situazione più velocemente.» Il Tenente ci pensò qualche secondo, poi gli rispose sorridendo: «Devo ammettere che non hai tutti i torti. Datemi solo il tempo di comunicare al mio superiore che mi aggrego alla vostra squadra e aspettatemi subito fuori dalla porta sud: dovrei sbrigarmela in un’ora scarsa.» I tre uomini si strinsero la mano, quindi Lionel si allontanò. Pochi minuti dopo Morgase arrivò portandosi dietro tre cavalli. «Dov’è andato Lionel?» Chiese Morgase, sorpresa. «Non l’ho salutato...» Duncan le rispose: «Non ti preoccupare: ho convinto Lionel a venire con noi. Conosce queste zone e ci sarà di aiuto nella nostra ricerca.» «Ottima idea!» Esclamò lei compiaciuta. «È andato a fare rapporto al suo superiore» intervenne Keldon. «Ci raggiungerà alla porta sud della città.» «Bene, allora andiamo!» Mentre camminavano per una delle strade laterali della città, Duncan si fece coraggio e chiese alla donna: «Lionel ci ha detto che fino a una trentina di anni fa c’erano dei druidi nel Bosco delle Sette Sequoie, e che sono scomparsi misteriosamente... Ne sai qualcosa?» Morgase si fermò, con lo sguardo rivolto verso il basso. Anche i due uomini si fermarono. «Tutto bene?» Le chiese Keldon, preoccupato. «Se è qualcosa di cui non vuoi parlare, va bene così...»
La donna scosse la testa e sollevò lo sguardo verso di loro. «No, avete ragione. Io non volevo pensarci perché mi evoca brutti ricordi, ma forse questo fatto è collegato a quello che sta accadendo ora. Vedete, mia madre faceva parte del Cerchio delle Sette Sequoie, la comunità di druidi che custodiva il Bosco. Lei è morta dandomi alla luce...» «Mi dispiace» mormorarono Keldon e Duncan all’unisono. Morgase fece un sospiro. «A quel tempo accaddero tante cose misteriose al Bosco delle Sette Sequoie. Mio padre me ne parlò quando fui abbastanza grande per capire.» Rimase in silenzio qualche momento per raccogliere le idee, poi riprese: «Tutto cominciò quando uno strano individuo si presentò nella Radura delle Sette Sequoie. Aveva un’armatura scura e lunghi capelli neri; sul suo viso c’erano diverse cicatrici. Disse di chiamarsi Rhao. Non era chiaro come fosse riuscito ad arrivare nella radura, il luogo segreto in cui sorgeva il Conglomerato. Il druido supremo del Cerchio di mia madre gli aveva chiesto spiegazioni su come fosse giunto lì, ma l’uomo aveva risposto che conosceva molti segreti, compresi quelli dei druidi. Poi Rhao aggiunse che aveva bisogno del bosco per i suoi scopi e che loro se ne sarebbero dovuti andare. Il druido supremo naturalmente si rifiutò. Allora Rhao disse che, in un modo o nell’altro, avrebbe ottenuto quello che voleva. Si allontanò, ma prima toccò una delle sequoie e disse: “Avete avuto la vostra opportunità di scegliere. Ora sarò io a decidere per voi”. Subito dopo quelle parole, scomparve nel nulla. Per un po’ tutto rimase tranquillo; anche l’arrivo di quello strano uomo fu quasi dimenticato. Una mattina, una delle sette sequoie, proprio quella che Rhao aveva toccato, iniziò a mostrare delle strane macchie scure. I druidi tentarono di scoprire cosa fossero, ma non ci riuscirono. Dopo pochi giorni la sequoia iniziò a marcire e, nello stesso tempo, le due di fianco iniziarono a presentare alcune macchie simili. Ormai era chiaro che qualcosa le aveva infettate e che, purtroppo, nulla potesse curarle. Il fatto ancora più strano accadde quando la prima sequoia morì: alcuni druidi scomparvero. Non molto tempo dopo, tutte e sette morirono. Quando anche l’ultima sequoia avvizzì, non c’era più alcun druido nel Bosco. Mia madre non era là quando successe: era nella Foresta di Smeraldo con mio padre, in procinto di darmi alla luce. In quei giorni stava male e mio padre, con il potere del suo Cerchio, fece tutto il possibile per aiutarla. Riuscì a scoprire che il problema era nel suo legame con la natura: stava svanendo, come se qualcosa lo stesse inghiottendo. Tentò di spezzarlo per poi riannodarlo al proprio Cerchio, ma qualcosa glielo impedì. Ebbe la visione fugace di un uomo in armatura nera, lo stesso che, secondo mia madre, aveva visitato il bosco due mesi prima: rideva
grottescamente mentre con le mani estirpava le sette sequoie per poi piantare, al loro posto, uno strano seme nero. Tutto il Cerchio condivise quella visione e ne ebbe paura. In quello stesso istante iniziarono le doglie e, per proteggermi, si affrettarono a isolare con tutte le forze la Foresta di Smeraldo, sperando che questo avrebbe reciso anche il legame di mia madre con il Bosco: lei avrebbe perso i suoi poteri, ma sarebbe stata salva. Ebbero successo a metà: mia madre morì quando il legame si spezzò, mentre io nascevo e iniziavo a piangere.» Morgase si interruppe, con un groppo in gola, mentre Keldon e Duncan erano stupiti e sconvolti. Dopo qualche altro respiro, riprese: «Anch’io condivisi quella visione, anche se ero solo una neonata. Ho bene impresso nella mente quel viso duro, compiaciuto del male che commetteva. Ricordo il dolore e l’angoscia di mia madre, consapevole che stava per lasciarmi da sola. Non augurerei a nessuno di provare un simile dolore. Tuttavia, questo mi ha fatto ereditare una particolare forma di potere...» Morgase si interruppe di colpo quando udì la voce del tenente Lionel, sorpreso: «Cosa fate ancora qui? Pensavo che foste già alla porta sud.» «Sì, perdonaci» rispose Keldon, dopo aver lanciato uno sguardo fugace a Morgase, «ci siamo fermati un attimo per parlare e non ci siamo accorti del tempo che ava... A questo punto possiamo fare la strada insieme.» «Certamente» annuì il Tenente, affiancandosi a Duncan. «Non vedo l’ora di iniziare la nostra caccia!» Keldon fece un sorriso di comprensione a Morgase e tutti insieme si incamminarono verso l’uscita della città. Dopo circa un minuto, Morgase si sentì in dovere di dare qualche spiegazione riguardo la propria missione; si schiarì la voce e disse: «Il Bosco delle Sette Sequoie è stato lasciato dal suo Cerchio druidico ventisei anni fa e da allora è rimasto abbandonato a se stesso. Noi pensavamo che sarebbero stati i druidi elfici a intervenire ma, tanto per cambiare, non sono usciti dal loro “sacro” isolamento. È vero che gli elfi tendono ad agire con molta calma: le loro vite sono lunghe il doppio delle nostre e il loro senso del tempo è molto diverso dal nostro. Tuttavia, ventisei anni di attesa sono decisamente
troppi e allora sono stata inviata dalla Foresta di Smeraldo per cercare di scoprire cosa sta succedendo. Vi ringrazio tutti fin da ora per l’aiuto che potrete darmi.» Quando superarono la porta meridionale, i quattro montarono sui cavalli e si diressero con o spedito verso il Bosco delle Sette Sequoie. Insidia li seguiva trotterellando poco più lontano, attraverso la vegetazione fuori dalla strada. Poco dopo la partenza dalla città, Lionel si mise a parlare con Duncan del suo lavoro di gendarme, di come a volte fosse noioso restare nella postazione di guardia a osservare la gente che entrava e usciva dalla città. Per questo aveva accolto con entusiasmo la possibilità di cambiare la sua monotonia quotidiana, quando gli era stato offerto di essere l’ufficiale di collegamento con la delegazione di Camaran. Non si aspettava di dover aiutare a compiere un’indagine importante, per cui era ben contento di essere lì con loro. Il viaggio durò circa cinque ore, durante il quale Lionel continuò quasi ininterrottamente a raccontare prima della situazione locale, poi dell’Impero di Anosia e infine di tutta Amnia. Nonostante la conoscessero già, Duncan e Keldon finsero di essere interessati al suo racconto; un po’ meno Morgase, che comunque riuscì a evitare di sbadigliargli in faccia. Lionel si dilungò parecchio a decantare le bellezze del Ducato di Crandall, in particolare il rinomatissimo “vino di Crandall”, che era conosciuto ben oltre i confini dell’Impero: il segreto del suo gusto sopraffino era un particolare vitigno che cresceva solo da quelle parti, lungo il confine con la Grande Foresta. Era poi ato a parlare dell’Impero di Anosia e della capitale Camaran, che era la città più grande del mondo, dove risiedeva l’imperatore Geran III di Calondorn. Raccontò che l’Impero era suddiviso in cinque Ducati (Camaran, Crandall, Sanderia, Bandelios e Deneva) e che gli sarebbe piaciuto visitarli prima di diventare troppo vecchio per viaggiare. Si era soffermato anche sulla questione del Corridoio di Coridan, il territorio neutrale che faceva parte delle Terre Libere, che si estendevano fino alla zona nord-orientale del continente, in cui vi erano solo alcune città-stato e varie tribù disseminate in ordine sparso. Questo Corridoio separava i confini dell’Impero di Anosia da quelli dell’Egemonia Tyranian, la nazione dei rettiloidi, la razza con cui gli umani erano stati in guerra fino a pochi decenni prima. Ora, le due razze erano in pace, come dimostrava il fatto che si potevano vedere rettiloidi commerciare a Crandall, ma in realtà c’era una sorta di conflitto ideologico non armato, con le diplomazie di entrambi i paesi attente a evitare incidenti che avrebbero potuto avere esiti irrevocabili.
Della Grande Foresta, il regno degli elfi, Lionel concluse che era inutile parlare perché tanto non sarebbe mai stato possibile per un umano andare a visitarla. Il discorso cadde poi sulla Repubblica Veridiana, a sud-ovest dell’Impero, in cui vivevano quelle persone che rifiutavano e temevano l’Eteria: là, infatti, era proibito lanciare incantesimi e i trasgressori venivano catturati dall’Inquisizione e rinchiusi nella Prigione di Abaddon, dove l’Eteria, per qualche misteriosa ragione, non aveva effetto. Al contrario, nel Dominio di Kentara, situato su un gruppo di isole a est dell’Impero, dominava l’Eteria e gli incantatori erano liberi di studiare per accrescere fino al massimo possibile il loro potere. Alla fine Lionel parlò anche dell’Alleanza Posidonia, che comprendeva un gruppo di grosse isole a est del continente dominate dal Consiglio dei Dieci Corsari, ricordo di quando quella gente viveva di pirateria. Lionel non poté fare a meno di recriminare patriotticamente sul fatto che, sebbene queste ultime tre nazioni fossero abitate in maggior parte da umani, non fossero intervenute in aiuto dell’Impero contro gli assalti dell’Egemonia Tyranian nelle guerre ate. Finalmente, quando ormai Morgase credeva che sarebbe caduta da cavallo per la sonnolenza, arrivarono in vista del Bosco delle Sette Sequoie. Il confine del bosco era sin troppo netto, con gli alti e grossi fusti delle querce che interrompevano bruscamente la pianura erbosa e nascondevano alla vista tutto ciò che vi era all’interno. Diversi sentieri si aprivano tra gli alberi e attraversavano da una parte all’altra il bosco, e uno, spiegò loro Lionel, iniziava proprio vicino alla strada che stavano percorrendo. «Direi che possiamo cominciare da questo sentiero. È quello più vicino alla città e potrebbe anche essere la via più probabile che ha preso il vostro assalitore per tornare nel bosco.» «Sono d’accordo» disse Duncan. «Se poi non troviamo niente, possiamo sempre ampliare la ricerca.» Anche Keldon e Morgase si dissero d’accordo. Lasciarono i cavalli all’ingresso del sentiero e presero con sé l’equipaggiamento necessario. Inoltrandosi nello stretto viottolo sterrato delimitato ai bordi dai cespugli e dai tronchi degli alberi, i tre uomini si misero a parlare dei pregi delle città di Camaran e di Crandall. D’un tratto Morgase alzò una mano e subito tutti si zittirono.
«Insidia ha trovato qualcosa» sussurrò indicando un punto oltre il bordo del sentiero. «Seguitemi, ma fate attenzione a dove mettete i piedi.» Morgase si abbassò e si infilò in mezzo a due grossi cespugli, sparendo alla vista dei compagni. Subito Duncan le andò dietro, dopo aver fatto cenno a Lionel di mettersi di retroguardia e a Keldon di seguirlo. La copertura delle chiome degli alberi era talmente fitta che la luce del sole riusciva a malapena a trapelare tra le foglie: sembrava quasi di essere all’imbrunire anziché in tarda mattinata. «Attenti qui a sinistra» disse piano la druida, indicando un punto per terra. «Sotto l’erba più secca c’è una trappola.» Quando Keldon ci ò accanto, non poté fare a meno di dare un’occhiata. In effetti, se la donna non lo avesse avvisato, non avrebbe mai notato il lieve rigonfiamento sotto alcuni ciuffi d’erba. Poco più avanti Insidia era ferma di fronte a un cespuglio e stava puntando un fagotto di stracci. Non appena i quattro la raggiunsero, realizzarono subito che quanto indicava erano in realtà i resti del corpo di un uomo. Morgase abbracciò la lupa e la spinse lontano, mentre i tre uomini riuscirono a stento a reprimere un senso di nausea per l’intenso odore di decomposizione. Gli strappi dei vestiti rivelavano la carne in brandelli e le ossa sottostanti; il viso aveva le orbite degli occhi svuotate e le guance scarnificate, mentre larve biancastre uscivano da ciò che restava delle labbra. Keldon fece un grosso sospiro e si chinò accanto al corpo, con l’intenzione di elevare una preghiera per il defunto. ando lo sguardo dalla testa ai piedi del cadavere, notò qualcosa di strano: il corpo era effettivamente straziato da morsi di animale, ma non erano stati la causa della morte. «Quest’uomo dev’essere morto almeno da cinque giorni» esordì Keldon con tono professionale, sorprendendo Duncan e Lionel che si attendevano le litanie di una preghiera. «I morsi non presentano tracce di sanguinamento, quindi sono stati inferti quando l’uomo era già morto dissanguato. In particolare, la causa della morte è quella» e indicò l’estremità della gamba destra, in cui il piede era stato tranciato di netto dalle morse di una trappola. «Probabilmente, preso dal panico per il dolore, non è riuscito a fermare l’emorragia ed è morto dissanguato.»
Lionel si fece coraggio e si affiancò a Keldon. «Hai già visto persone morte così?» Gli chiese mentre studiava il viso rovinato dell’uomo. «Per fortuna no, ma il compito di un chierico non è solo pregare. Spesso, durante una battaglia, non c’è tempo per chiedere una guarigione a Vàlor, per cui veniamo istruiti a intervenire sulle ferite con mezzi “naturali”.» Duncan conosceva bene Keldon e non era sorpreso della sua abilità. Si voltò a guardare Morgase e vide che stava accarezzando la lupa, come se cercasse di calmarla. Poi sentì l’imprecazione a denti stretti di Lionel e riportò la sua attenzione sul cadavere. «Che succede?» Chiese subito al Tenente. «Lo conosco! Lavorava come commesso al negozio di erboristeria della città, ma spesso andava in giro a cercare delle erbe per rifornire il magazzino. Tre giorni fa il padrone del negozio era venuto da me a chiedere se l’avessi visto, dato che spesso ci ritrovavamo con altri amici per giocare a palla. Vedete, era davvero bravo nei lanci lunghi, ed era anche svelto e preciso; spesso dovevano saltargli addosso in due per evitare che lanciasse appena prendeva la palla...» «Be’, ora l’abbiamo ritrovato» lo interruppe subito Duncan. «Bisognerebbe però capire chi ne ha causato la morte. Forse qualche cacciatore...» «Io lo escluderei» intervenne Morgase, che lasciò sola la lupa, ora più tranquilla, e si avvicinò a loro. «Quella trappola è per animali più grossi di quelli che potrebbero avventurarsi in mezzo alla boscaglia. Secondo me, è stata predisposta proprio per ciò che ha preso: un uomo.» Duncan fissò prima Morgase, poi la trappola, quindi il cadavere e infine di nuovo Morgase. «Vuoi dire che è una specie di protezione sistemata dalla banda di quel tizio?» «Non lo escluderei.» «Allora siamo sulla buona strada!» Esclamò Keldon con una certa euforia, dopo avere approfittato del discorso di Lionel per recitare una breve preghiera per l’anima del defunto. «Almeno ora sappiamo che siamo nel posto giusto» commentò Duncan. «Però il
bosco è grande e non sarà facile trovare il loro nascondiglio.» Lionel guardò Morgase, quindi esclamò sorridendo e ammiccandole: «Ma di certo la nostra bella druida saprà trovare qualche traccia del loro aggio!» Morgase rimase qualche istante indecisa se interpretare quel “bella druida” come un approccio scherzoso, e quindi lasciar perdere, oppure preoccuparsi perché il Tenente era davvero attratto da lei. Non era mai stata brava nel capire certe intenzioni tra gli umani, perché non sempre erano quello che sembravano; tra gli animali, invece, era molto più semplice: non c’erano ambiguità né fraintendimenti. Per il momento, comunque, decise per la prima ipotesi e rispose semplicemente: «Generalmente avresti ragione, ma questi sono degli esperti e non sarà facile trovare delle tracce. Tuttavia, ho studiato la conformazione di questo bosco e, sulla base delle normali procedure con cui noi druidi scegliamo i nostri rifugi, ci sono tre o quattro posti che potrebbero essere usati come nascondiglio, ma sono molto distanti tra loro e ci porterà via parecchio tempo raggiungerli e valutare se siano occupati o se lo siano stati fino a poco tempo fa. D’altronde, è anche possibile che questi individui si spostino tra diversi luoghi, proprio per non farsi scoprire, quindi la ricerca potrebbe essere ancora più complicata.» Duncan diede una mano a Keldon per rialzarsi dal cadavere, quindi disse a Morgase: «Non abbiamo altre tracce da seguire se non quelle che ci indichi tu. Raggiungiamo il nascondiglio più vicino a noi.» «Sì, è la scelta più logica» concordò Keldon. «Sei tu la nostra guida in questo bosco oscuro» disse Lionel con enfasi e un largo sorriso. Morgase scelse di non considerare quell’ultima esclamazione e indicò invece a Insidia di andare avanti. La lupa lanciò un’occhiata all’uomo che parlava strano scoprendo i denti, ma Morgase le fece cenno di no. Allora quella trotterellò via, tornando verso il sentiero e dirigendosi verso ovest. La druida e i tre uomini la seguirono.
Raggiunsero il primo nascondiglio a metà pomeriggio. Si erano fermati soltanto verso l’ora di pranzo per mangiare rapidamente qualcosa. Avevano consumato rapidamente una razione, mentre Lionel raccontava della sua ultima partita a palla, in cui la sua squadra aveva stravinto per dodici a zero. Morgase e Keldon lo ascoltavano più o meno distrattamente, ma senza farlo notare troppo, mentre Duncan, pur ammettendo di non conoscere quel gioco, fu tentato di chiedergli se non stesse esagerando un po’. Il nascondiglio indicato da Morgase consisteva in una grotta e una serie di cunicoli che si estendevano all’interno di una collina. I quattro, per sicurezza, si fermarono al limite della radura spoglia antistante l’ingresso della caverna, nascosti tra i cespugli. «A prima vista sembrerebbe che non ci sia nessuno» commentò Lionel. «Ma, se quei malfattori non vogliono essere scoperti, probabilmente la prima cosa che faranno è nascondere le loro tracce. Quindi, osservare da qui non serve a niente...» «O potrebbe essere necessaria un’attesa molto lunga» lo interruppe Duncan. «Un’attesa che preferirei evitare, se possibile.» «Anch’io» concordò Keldon. Lionel si girò verso Morgase e le domandò: «Non è che puoi mandare il tuo lupo a dare un’occhiata?» La druida ci pensò un attimo, poi rispose: «Potrei, ma non mi fido a mandarla da sola: se ci fosse veramente un gruppo di persone nascoste, potrebbe essere troppo pericoloso. Andrò con lei, ma non sorprendetevi per quello che vedrete e cercate di restare il più possibile in silenzio. E ricordatevi che, anche se non vi potrò parlare, vi capirò benissimo.» I tre uomini si guardarono incuriositi, quindi annuirono con un cenno del capo. Allora Morgase chiuse gli occhi e si concentrò sulla forma della pantera. Qualche attimo dopo il suo corpo iniziò a vibrare sempre più rapidamente: agli occhi dei tre uomini il corpo della druida sembrò sfocarsi. I vestiti si fo con il suo corpo, le gambe e le braccia iniziarono ad accorciarsi e assottigliarsi; il
corpo si adagiò sul terreno a quattro zampe, mentre assumeva una forma più affusolata e slanciata, e una peluria scura iniziava a crescere dovunque; il volto assunse una forma più felina e un paio di orecchie appuntite spuntarono in cima ai lati della testa, mentre dalla bocca sbucarono quattro lunghi denti canini; dal fondoschiena spuntò infine una coda lunga e affusolata. Tutto era durato una decina di secondi. Ora, davanti ai tre uomini ricolmi di stupore, c’era una grossa pantera nera che li guardava con un’espressione quasi divertita. Un attimo dopo, il felino si girò verso la radura e si acquattò, confondendosi tra l’erba, mentre si avvicinava all’ingresso della grotta. Insidia la seguiva a distanza, non essendo altrettanto capace di nascondersi alla vista. Dopo circa un’ora, la pantera uscì dalla grotta senza nascondersi, con la lupa a fianco, e raggiunse rapidamente i tre compagni. Quindi Morgase si concentrò sulla sua forma umana e il corpo di pantera ridiventò come sfocato: la druida, sotto gli occhi ancora stupiti dei tre uomini, tornò umana con indosso l’armatura di pelle. Lionel, ma in verità anche Duncan e Keldon, rimasero un po’ delusi per questo, forse perché avevano sperato di vederla senza vestiti. «Lì dentro non c’è nessuno vivo» disse subito Morgase, che non aveva fatto caso alla delusione dei tre uomini. «A parte qualche trappola, tre delle quali hanno avuto successo, la grotta non sembra essere stata usata. Credo che sia solo un’esca per ingannare chiunque sia alla ricerca della banda.» Lionel le chiese subito delle tre persone cadute in trappola, ma Morgase rispose che, purtroppo, non c’era più nulla di riconoscibile nei tre corpi. Il cadavere più vicino all’ingresso, però, non era morto a causa di una tagliola come gli altri. Forse, aveva concluso, c’erano alcune trappole più subdole che contenevano un qualche tipo di veleno. «Allora qui non c’è più niente da fare» concluse Duncan cercando di nascondere la delusione per non aver fatto centro al primo colpo. «Dobbiamo muoverci verso un altro nascondiglio. Qual è il più vicino?» «Ci sono delle altre grotte vicino a un laghetto, a nord-est da qui. La vicinanza all’acqua ne fa un buon candidato per un nascondiglio.» Tutti e tre gli uomini concordarono con il suggerimento della druida e si misero in marcia.
La camminata fu per la maggior parte del tempo silenziosa e tranquilla: Lionel fu sorprendentemente taciturno e Insidia permise loro di evitare le trappole. Keldon non poté fare a meno di chiedere a Morgase dove fosse finita la sua armatura quando aveva assunto la forma di pantera. Morgase sorrise e gli rispose: «Perché i druidi non indossano mai armature di metallo, ma abiti o armature di origine animale o vegetale? La natura dei nostri poteri druidici ci consente di manipolare l’essenza di tutto ciò che ha avuto origine da un essere vivente, ma non il metallo o la pietra. Per esempio, noi convertiamo la sostanza di cui è fatta un’armatura di pelle in quella di cui è fatta la pelliccia che ricopre un animale. Questo, tra l’altro, rende la nuova pelliccia più robusta e resistente rispetto a quella di un animale normale. Eventuali oggetti metallici o di pietra che abbiamo addosso al momento della trasformazione, come per esempio un’arma o un borsellino pieno di monete, rimangono custodite in una specie di tasca interna al corpo. Per questo non vedrai mai un druido che si porta dietro uno spadone o uno scudo di metallo, perché neanche se si trasformasse in un elefante potrebbe muoversi liberamente con uno scudo o uno spadone infilato tra gli intestini...» Quando ormai il sole stava calando, giunsero in prossimità del laghetto. Insidia si era fermata ad aspettarli vicino a dei folti cespugli. Come la volta precedente, Morgase fece fermare tutti prima di arrivare nella zona interessata in caso ci fossero pericoli nascosti. Mentre erano acquattati dietro ai cespugli in cui si era fermata la lupa, la druida disse: «Il laghetto si estende davanti a noi, mentre le grotte di cui vi parlavo si trovano sulla destra, dove c’è una piccola collina. Qui le grotte si abbassano sotto terra, ma, poiché il sottosuolo è roccioso, non ci sono infiltrazioni di acqua. Come dicevo, questo sarebbe un ottimo nascondiglio.» «Forse sarebbe il caso di fare anche qui un sopralluogo silenzioso» suggerì Lionel guardando Morgase. Prima che la druida potesse rispondere, dal terreno cominciò ad alzarsi una densa foschia e un nauseabondo odore di decomposizione si sparse nell’aria. Insidia iniziò a ringhiare girando in cerchio. «Che succede?» Chiese Duncan allarmato, mettendo una mano sull’elsa della
spada. Morgase si guardava intorno con una strana espressione sul volto. «Non sono sicura» mormorò, «ma se è ciò che temo, siamo nei guai.» «In che senso?» Proruppe Keldon. «Conosco una creatura che, quando si palesa, genera una foschia maleodorante simile a questa. E tra l’altro predilige proprio le zone con acqua stagnante.» «Come un lago?» Domandò Duncan. «Sì» confermò lei. «Ma il vero problema è che questa creatura è in parte composta di Eteria, quindi non è facile da sconfiggere.» Improvvisamente, oltre il lago, ci fu come una grande fiammata seguita da un forte boato. «Laggiù deve esserci qualcuno!» Esclamò Lionel. «E sembrerebbe che stia combattendo» aggiunse Keldon. «Allora raggiungiamolo,» decise Duncan. «Forse possiamo aiutarci a vicenda contro questo essere che vive nella nebbia!» Morgase approvò la decisione del paladino; quindi tutti insieme uscirono allo scoperto e si diressero correndo verso l’altra riva del lago.
~ 6 ~
Dall’altra parte della barricata
J oel di Kyrad stava percorrendo a grandi falcate il corridoio nel rifugio segreto della Maschera d’Ombra, all’interno del Bosco delle Sette Sequoie. Era ancora di pessimo umore per lo scontro che aveva avuto in città con quei due sciocchi e con quella druida impicciona. La cosa che più gli bruciava era di essere stato costretto alla fuga dall’arrivo di quel maledetto lanterniere. Quando l’altra mattina aveva notato il Bracciale al polso di quel rozzo paladino, aveva osato credere di essere stato baciato dalla fortuna. Erano quasi seicento anni che la Maschera d’Ombra lo cercava. L’ordine che dava massima priorità alla sua ricerca era stato emanato dalla Maschera di Gannum di allora, il capo supremo della gilda, e nessuno dei suoi successori lo aveva mai revocato, ma anzi era stato rinominato “Direttiva Primaria”. Nessuno sapeva cosa avesse di così importante quel Bracciale, ma la ricompensa per chi lo avesse consegnato alla Maschera di Gannum era al di là di ogni immaginazione, e questa era l’unica cosa che contava. Joel si fermò davanti alla porta in fondo al corridoio. Si ò le mani tra i capelli biondi e fece un profondo respiro, cercando di calmarsi prima di proseguire. Oltre quella porta lo aspettava Dolan, il suo capo. Lo aveva inviato a Crandall per controllare la sicurezza dell’Enclave Elfica, e invece gli doveva riferire che si era imbattuto nella Direttiva Primaria e di aver dovuto interrompere la missione. Trasse un altro ampio respiro, quindi bussò alla porta. «Entra pure, Joel» disse una voce profonda. La stanza aveva una strana forma a pianta trapezoidale, con il soffitto leggermente spiovente; dietro una scrivania era seduto un uomo sulla sessantina, magro e calvo, ma con una folta barba nera con una striscia bianca sotto il mento. La stanza era fiocamente illuminata da una lanterna posta sulla scrivania,
che creava degli strani giochi di ombre con i simboli in bassorilievo sparsi casualmente sulle pareti di pietra. «Sentiamo il tuo rapporto.» Joel sapeva bene che Dolan usava l’espediente della bassa illuminazione in quella strana stanza per incutere timore su coloro che venivano a trovarlo. Tuttavia saperlo non lo aiutava a stare meglio. Si avvicinò di qualche o alla scrivania e si schiarì un paio di volte la gola. «Non mi piace questa stanza sbilenca» esordì inaspettatamente Dolan, notando la titubanza di Joel. «Chissà cosa avevano in mente quei druidi pazzoidi quando hanno progettato questo posto. L’unica cosa di cui sono veramente capaci è mantenere i loro segreti. Pensa a questa struttura costruita nella roccia: a meno che tu non abbia l’incredibile colpo di fortuna di trovarti nel punto giusto e guardare la parete con il sole molto basso all’orizzonte, non riuscirai mai a trovarne l’ingresso. E sono riusciti a farlo senza nemmeno usare l’Eteria. Capisco perché gli incantatori trovino irritanti i modi di fare dei druidi.» Joel annuì e, con la gola secca, riuscì a dire: «Bisogna ammettere che anche l’idea di iniziare le nostre scorribande lontano da Crandall ha contribuito a tenere i gendarmi lontani da qui.» «Più che giusto, amico mio: è stata dura lasciar perdere quella città per così tanti anni, limitandoci inizialmente alle strade nei pressi dei confini del Ducato. Ci siamo accontentati all’inizio delle piccole carovane o dei viandanti, poi siamo ati ai villaggi che non interessano alla gente che conta. La cosa difficile è stata mantenere il nostro motto: “Ladri, ma non assassini”.» «Verissimo!» Aggiunse Joel, ora meno teso. «Non dobbiamo confonderci con quei criminali assassini dei Corvi Scarlatti. Noi non uccidiamo mai, a meno che non si tratti di legittima difesa: bastardi, ma con onore!» Dolan sorrise, ma il suo sguardo era triste. «Vedo che la tua disapprovazione dei Corvi Scarlatti è sempre molto accesa, più che in tanti altri. Non sei il solo ad avere sofferto quando hanno ucciso Clelia per la banale gelosia di uno squallido nobile. Per me lei era come una figlia. Quando mandavo in missione voi due insieme, sapevo che il risultato sarebbe sempre stato migliore di quello che avrei potuto immaginare. Mi auguro che ci possiamo sempre distinguere da quei pazzi
sanguinari senza scrupoli.» Anche lo sguardo di Joel si velò di tristezza nel ricordare Clelia. Aveva i capelli biondi, che teneva tagliati molto corti, e il suo corpo era magro e slanciato, molto atletico. Erano entrati insieme nella Maschera d’Ombra, circa tredici anni prima, entrambi quindicenni. Dolan li prese subito a benvolere e li mandò spesso in missione insieme. Fin da subito, infatti, Joel e Clelia avevano trovato un’intesa perfetta tra loro, tanto che erano capaci di comunicare semplicemente con uno sguardo. Le altre Maschere li avevano soprannominati “la Carezza e il Pugno”, paragonandoli alle due mezze facce che componevano la maschera di Gannum, una gioiosa e una arrabbiata. Joel era considerato la Carezza, mentre Clelia era il Pugno, perché lui eccelleva nell’agire senza essere notato, mentre lei era molto abile nel combattimento corpo a corpo. Col tempo tra loro era nato qualcosa di più dell’amicizia, ma il loro spiccato senso del dovere per la gilda, che aveva salvato le loro vite dall’oblio di una gioventù triste e dolorosa, non fece mai loro perdere di vista che la Maschera d’Ombra veniva prima di tutto. Tuttavia, più o meno due anni prima, Joel si trovò a rimpiangere quella decisione, quando trovò il corpo di Clelia ucciso dai Corvi Scarlatti. Pianse amaramente, ripensando alle cose che non avevano mai fatto insieme e che non avrebbero più potuto fare. Solo le missioni che Dolan gli aveva assegnato in continuazione dopo quell’evento tragico lo avevano salvato dall’affogare nella disperazione e nella pazzia. Joel si riscosse dai ricordi quando qualcuno bussò alla porta. Un messaggero entrò e comunicò brevemente che un altro uomo non era rientrato dalla missione, il terzo in quattro giorni. Dolan andò su tutte le furie e si alzò bruscamente dalla sedia. «Maledizione! La Maschera di Gannum è sicura che i druidi non possono più tornare qui a riprendere il controllo, quindi non sono stati loro. Dev’essere qualcun altro a divertirsi alle nostre spalle. Che i Corvi Scarlatti siano riusciti a individuare il nostro rifugio?» Si rivolse al messaggero e gli gridò: «Ordina che sia aumentata la sorveglianza e che due gruppi perlustrino i dintorni! Non dobbiamo più avere nessuna perdita!» L’uomo annuì e uscì rapidamente dalla stanza. Dolan era visibilmente turbato dalla notizia appena ricevuta. Non era possibile
che tre dei suoi uomini fossero semplicemente scomparsi nel giro di quattro giorni senza lasciare alcuna traccia. Avrebbe trovato i colpevoli e li avrebbe puniti in modo esemplare: nessuno poteva permettersi di colpire la Maschera d’Ombra e restare impunito! Si sedette e rimase qualche momento in silenzio per calmarsi. Poi alzò lo sguardo su Joel: «Ci siamo persi in chiacchiere, prima, ma tu eri venuto qui per dirmi qualcosa, giusto?» Ecco, ci siamo! Pensò Joel, quindi si schiarì ancora la gola e finalmente disse: «Questa notte, a Crandall, ho dovuto avviare la Direttiva Primaria.» Dolan rimase in silenzio per dieci lunghissimi secondi, con lo sguardo fisso su di lui. Poi si alzò di nuovo in piedi e domandò: «Davvero? Hai trovato il Bracciale?» «Sì. Purtroppo non sono riuscito a impossessarmene a causa di un maledetto imprevisto, ma so chi lo possiede: un inconcludente paladino arrivato ieri in città, accompagnato da un chierico e da una druida. Ammetto che è stato imperdonabile da parte mia non essere riuscito a prenderglielo, ma ho saputo che quel paladino sta cercando chi ha causato le ultime rapine nella zona, inoltre è sulle mie tracce. Quindi non dovremo fare altro che aspettare che lui venga qui tra le nostre braccia.» Sul viso di Dolan si disegnò un sorriso di gioia, ma, prima che potesse commentare, dalle crepe sulle pareti iniziò a penetrare una densa foschia violacea. Rapidamente si concentrò davanti a loro e si condensò sempre di più, finché non diede forma a un uomo alto e robusto, dai lunghi capelli lisci e neri e il viso deturpato da profonde cicatrici; indossava una pesante armatura scura, sul cui pettorale erano impressi degli strani segni sconosciuti intorno a un grande simbolo, un sole fiammeggiante con all’interno tre occhi disposti ai vertici di un triangolo. «Chi sei?» Gridarono Dolan e Joel, mettendo mano alle armi. «Il mio nome è Rhao» rispose l’uomo con voce profonda e con un sorriso
beffardo sulle labbra. «Anch’io sto cercando quel Bracciale, da molto più tempo. Lascio a voi la scelta: consegnatemelo una volta che sarà nelle vostre mani.» «E se non lo fimo?» Chiese Joel minaccioso, sguainando lentamente le due spade. «Allora sarò io a scegliere per voi» rispose Rhao con voce glaciale. A Joel non piacque quella risposta e incrociò le armi davanti a sé, pronto ad attaccare. L’uomo scosse tranquillamente la testa e il suo corpo si dissolse nella foschia violacea. Prima di svanire, la sua voce risuonò cupa: «Ricordatevi del Bracciale: se non scegliete voi, sceglierò io.»
~ 7 ~
Un nemico misterioso
F irion si stava guardando intorno con molta attenzione. Teneva l’arco in tensione, con una freccia incoccata, pronto a lanciare. Quella strana nebbia densa e maleodorante che si era sollevata dal suolo non aveva niente di naturale, lo percepiva chiaramente. Inoltre aveva intravisto per un attimo qualcosa di simile a un grosso animale a quattro zampe che si muoveva velocemente. Non gli era sembrato un comune animale e non era neppure certo che ce ne fosse soltanto uno. Anche Liriel aveva visto qualcosa in mezzo alla nebbia e aveva iniziato a prepararsi per lanciare l’incantesimo più potente che conosceva: la Palla di Fuoco. Erano necessarie ventiquattro movenze diverse delle mani, eseguite nelle giuste sequenza e coordinazione, mentre venivano pronunciate le parole della formula. In realtà, lei non ne aveva enunciate nessuna, ma aveva soltanto mosso leggermente le labbra. Liriel ne andava molto fiera: il livello di concentrazione che riusciva a raggiungere era tale da permetterle di lanciare un incantesimo anche solo pensando alle parole della formula. Nalatien le aveva detto più volte che poteva essere pericoloso, ma lei gli aveva ribattuto che non c’era alcun pericolo, perché la componente indispensabile per il lancio di un incantesimo erano le movenze e il solo pensare alla formula non avrebbe attivato niente. Nel frattempo Nalatien aveva completato l’evocazione di una creatura da un altro piano di esistenza, e si apprestava ad aprire il portale per concederle l’accesso al suo mondo. Gli incantesimi della Scuola dell’Evocazione, che tanto apionavano Nalatien, erano quelli più difficili e dagli effetti più bizzarri, perché implicavano che l’essere evocato accettasse il Vincolo e si sottomettesse alla volontà dell’evocatore. A volte era capitato che una creatura particolarmente intelligente fosse riuscita a trovare una falla nel Vincolo e a ribellarsi all’evocatore, ma per fortuna l’evocazione aveva una durata limitata. Un tempo alcuni demoni erano riusciti a soggiogare il proprio evocatore per continuare a rimanere nel mondo, ma dopo il Grande Bando Demoniaco imposto dai chierici
circa cinquecento anni prima, quest’ultimo pericolo non esisteva più. A causa di questi rischi, le evocazioni più complesse erano insegnate ed eseguite soltanto nella Torre dell’Evocazione di Kentara. Nalatien stipulò mentalmente il Vincolo per le creature non intelligenti, e aprì il portale: davanti a lui si formò a mezz’aria un disco in verticale, che emanava una debole luminescenza bluastra, da cui uscì una creatura simile a un falco, ma con quattro ali e con scaglie giallastre al posto delle piume. L’essere evocato guardò negli occhi l’incantatore, poi si diresse in volo verso la zona dove la nebbia era più densa. Dopo una decina di metri, il falco iniziò a sparire alla vista, nascosto dalla foschia. Firion si mise a seguire con lo sguardo quello strano falco, sperando che risultasse un’esca sufficientemente allettante per l’essere nascosto nella nebbia e che lo spingesse a rivelare la sua posizione. Anche Liriel, con la concentrazione bloccata sull’ultima movenza del suo incantesimo, si mise a seguire con lo sguardo la creatura evocata dal fratello, pronta a rilasciare tutta la potenza della sua Palla di Fuoco. Dopo quasi un minuto sentirono uno stridio soffocato e in lontananza intravidero come un lampo attutito dalla nebbia. Subito Firion scagliò due frecce in rapida successione, mentre Liriel liberò con l’ultima movenza la Palla di Fuoco. Le frecce lanciate da Firion solcarono la nebbia senza incontrare alcun ostacolo, mentre la Palla di Fuoco esplose pericolosamente a una ventina di metri da loro in un fragoroso boato, molto prima del punto in cui aveva mirato l’incantatrice, come se si fosse scontrata contro qualcosa di solido. Una parte delle fiamme tornò verso di loro, ma a subirne gli effetti fu solo Liriel: la sua mano destra assorbì la potenza di ritorno che si manifestò come un’ustione. Il suo grido di dolore allarmò Firion, che le si avvicinò incoccando un’altra freccia, temendo che fosse stata attaccata. Invece Nalatien era rimasto fermo in piedi e sembrava disorientato, con lo sguardo vacuo. «La mia creatura se n’è andata... è stata ricacciata indietro...» mormorò con una certa difficoltà. «Qualcosa nella nebbia ha spezzato il Vincolo con la forza e gli effetti si sono riversati in me...» Firion comprese che quell’essere doveva avere qualche difesa contro l’Eteria e si spostò davanti ai due incantatori per proteggerli.
«Resta vicino a me e a Liriel» intimò a Nalatien, poi mormorò parlando tra sé: «Non devo assolutamente mancarlo: sarà anche immune all’Eteria, ma non può esserlo alle mie frecce!» Il ranger continuava a tenere sott’occhio tutto l’ambiente circostante, ormai quasi totalmente nascosto dalla fitta nebbia, cercando di cogliere il minimo segno di movimento, mentre Nalatien iniziava a riprendersi dallo shock per l’interruzione forzata del Vincolo. Liriel, invece, imprecava tra i denti per il dolore alla mano destra, mentre con la mano sana era riuscita a prendere la borraccia dallo zaino, a toglierle il tappo con la bocca e a versare un po’ d’acqua sulle ustioni. Un vento gelido e privo d’odore iniziò a soffiare dalla direzione in cui era esplosa la Palla di Fuoco. Firion tese ancora di più la corda dell’arco, puntando la freccia controvento. Nalatien si riscosse e si apprestò a lanciare i Dardi di Luce, un incantesimo di attacco poco potente, ma preciso e rapido. Liriel, invece, soffocò un’imprecazione per l’impotenza dovuta dalla ferita alla mano e si avvicinò maggiormente a Firion. Un rumore di scalpitio di zoccoli, simile a quello di un cavallo, iniziò a farsi sempre più vicino. I due elfi concentrarono la loro attenzione da quella parte, in attesa di avere un bersaglio da colpire, mentre Liriel imprecava in silenzio provando a muovere la mano ustionata per realizzare una movenza, ma senza troppo successo. D’un tratto il rumore di zoccoli cessò e ricomparve alla loro sinistra. Anche il vento gelido e inodore cambiò direzione. Firion e Nalatien si girarono subito da quella parte e il giovane incantatore, preso un po’ dal panico, lanciò i Dardi di Luce. Tre piccole sfere luminose si formarono dalle sue mani e si mossero rapidamente verso la fonte del rumore, perdendosi nella nebbia. «Scusa» sussurrò Nalatien a Firion, che si limitò a scuotere la testa e a mantenere la concentrazione. Se prima non sapeva dove fossimo, pensò Firion, ora lo sa sicuramente. Devo tenermi pronto ad agire il più rapidamente possibile. Il rumore di zoccoli si fece sempre più vicino. Firion sussurrò a Nalatien di aspettare a colpire fino a che la creatura non fosse stata completamente visibile. Finalmente qualcosa cominciò a prendere forma dalla nebbia: sembrava una figura piuttosto grossa, a quattro zampe, dalle fattezze di un cavallo. Quando
videro quella forma, tutti si rilassarono. L’animale si avvicinò ancora, rivelando di essere di colore bianco e di avere il manto completamente umido. Emanava l’odore di terra bagnata dalla pioggia. Quello strano cavallo era ormai completamente visibile, a una decina di i dai tre elfi. Firion aveva abbassato l’arco e aveva lasciato andare la corda e la freccia; Nalatien aveva abbassato le braccia, mentre Liriel non sentiva quasi più il dolore delle ustioni alla mano destra ed era più rilassata. Il ranger allungò una mano per accarezzare il muso bianco di quello splendido animale... Improvvisamente qualcosa di scuro si lanciò contro la mano di Firion e gli azzannò la manica trascinandolo a terra. Subito dopo una voce di donna gridò: «Non toccatelo! Non è un cavallo, è un kelpie!» Quel grido ebbe l’effetto di risvegliare i tre elfi dallo stato ipnotico in cui erano caduti. Dalla nebbia videro sbucare quattro umani, tre maschi e una femmina, che correvano verso di loro. La femmina e il maschio armato con una mazza ferrata si misero fra gli elfi e il kelpie, mentre gli altri due sollevarono lo scudo e la spada e si lanciarono contro l’animale urlando a squarciagola. L’arrivo improvviso dei quattro umani ebbe l’effetto desiderato di spaventare il kelpie, che indietreggiò e si diede alla fuga. La nebbia svanì, rapidamente assorbita dal terreno, rivelando che si trovavano in una piccola radura circondata da fitti alberi, non molto lontano da un laghetto. I tre elfi caddero a sedere in terra, esausti. «Non vi preoccupate della stanchezza» disse subito loro Morgase. «È l’effetto del kelpie: alimenta il suo potere con le energie di chi ha ammaliato. Ora che è andato via, dovreste recuperare in fretta.» I tre elfi annuirono riprendendo fiato, mentre i tre umani maschi fissavano a bocca aperta l’elfa Liriel. Fino a quel momento avevano pensato che le storie sulla bellezza indescrivibile delle Elfe fossero solo delle leggende, nate perché considerate inarrivabili e inaccessibili; ma, ora che ne avevano una davanti agli occhi, pensavano che non avrebbero più visto qualcosa di così bello nella loro vita. Notando gli sguardi dei tre umani, Liriel si affrettò a ricomporsi, ma così mostrò la ferita alla mano destra; subito Duncan esortò Keldon a curarla.
Trepidante, il chierico si avvicinò all’elfa, sorridendole e porgendole la mano. Liriel non avrebbe mai voluto mostrarsi debole, soprattutto di fronte a degli umani, ma, dopo aver lanciato un’occhiata a Firion che aveva annuito silenziosamente, si degnò di sollevare la mano destra ustionata. Keldon aveva il cuore che batteva all’impazzata quando le toccò la mano, mentre lei sperava che il chierico fe alla svelta, perché non apprezzava il contatto con gli umani. Keldon, cercando di concentrarsi solo sulla mano dell’elfa e non sul seno prosperoso che si intravedeva tra le pieghe della tunica, iniziò la preghiera di intercessione per la guarigione delle ferite. Nel frattempo Morgase, sempre sorridente, aiutò Firion e Nalatien a rialzarsi, quindi fece le presentazioni: «Io sono Morgase, una druida del Cerchio dei Salici. E loro sono» proseguì indicando ogni volta ciascuno dei tre umani, «Keldon, chierico di Vàlor, Duncan, paladino di Vàlor, entrambi di Camaran, e Lionel, tenente dei gendarmi di Crandall. Siamo qui nel Bosco delle Sette Sequoie per cercare la causa di alcune sparizioni avvenute nei dintorni... e credo che l’abbiamo appena trovata...» «Ti riferisci a quella creatura?» Le chiese Firion. Morgase annuì, quindi lo fissò con aria interrogativa. L’elfo comprese quasi subito che con quell’espressione lei lo stava invitando a presentarsi a sua volta. Allora, anche se avrebbe preferito evitarlo, disse: «Il mio nome è Firion e sono un ranger. Loro sono Liriel e Nalatien, entrambi incantatori. Eravamo in viaggio, ma ci siamo persi in questo bosco, quando siamo stati sorpresi dall’attacco di quel... Come l’hai chiamato? Kelpie?» «Sì» confermò lei. «Come mai vi siete persi? Credevo che un ranger non smarrisse mai l’orientamento...» Morgase l’aveva detto sorridendo, come per sdrammatizzare, ma Firion si era sentito punto sul vivo e quindi ribatté: «Non sono un esperto dei luoghi al di fuori della Grande Foresta. È la prima volta che esco all’esterno e...» «È colpa mia se ci siamo persi» intervenne prontamente Liriel, notando che
Firion era in difficoltà. Ora che la mano le era stata guarita si sentiva meglio e aveva ritrovato tutta la sua dignità elfica. «Ci eravamo fermati perché volevo osservare meglio questi luoghi, ma all’improvviso il mio gatto è scappato e ci siamo messi a inseguirlo, ma lo abbiamo perso. Ci siamo accorti troppo tardi di esserci allontanati dagli altri con cui eravamo in viaggio, e così ci siamo ritrovati qui senza sapere dove andare. Abbiamo vagato un po’, cercando di dirigerci verso la città, ma poi abbiamo incontrato quella strana creatura... e infine voi...» «Mi dispiace» disse Duncan, con voce grave, «ma non abbiamo visto nessun gatto. Spero per voi che non abbia incontrato anche lui il kelpie.» Morgase non era convinta della spiegazione dell’elfa, non percependo alcun odore di gatto, ma preferì tacere per il momento: gli elfi difficilmente si aprivano con gli esponenti delle altre razze e, forse, la sua bugia poteva dipendere da quella dannata diffidenza elfica. Tuttavia non poteva lasciarli all’oscuro di qualcosa che evidentemente non conoscevano e decise di dare loro la cattiva notizia: «Voi non sapete come agiscono i kelpie, vero?» Nalatien e Liriel scossero semplicemente la testa, ma Firion fissò lo sguardo sulla druida, avendo percepito dal tono della sua voce che ci fosse qualcosa che non andava. «Un kelpie non è un semplice animale, né un semplice mostro. È uno spirito malvagio che ha l’unico scopo di uccidere chiunque gli capiti a tiro...» «In che senso: uno spirito?» La interruppe Keldon. «Vuoi dire che è un fantasma?» «No, le anime dei morti non c’entrano affatto. Si tratta di qualcosa che era stato abbandonato e dimenticato centinaia di anni fa. Una volta esisteva una terza fonte druidica di potere che aveva a che fare con gli spiriti della natura. Coloro che la padroneggiavano erano detti sciamani: forse ne avete sentito parlare in qualche racconto. Per farla breve, questi avevano la capacità di evocare gli spiriti della natura e di usare il loro potere per molteplici scopi, tra cui curare e, purtroppo, distruggere.» «Non ho mai sentito parlare di spiriti della natura che possono essere evocati» intervenne Nalatien, punto sul vivo. «Ho approfondito parecchio l’argomento
delle evocazioni perché è la Scuola di Eteria in cui mi vorrei specializzare, ma non ho mai letto di questa possibilità.» «Né lo leggerai mai» affermò Morgase con serietà. «I druidi del ato hanno distrutto tutte le informazioni relative a questo antico potere. Tuttavia ne è stato tramandato il ricordo in forma orale, più che altro come monito perché nessuno usi più questa pericolosa capacità. In breve esistono quattro tipi di spiriti, uno per ogni elemento: acqua, aria, fuoco e terra. Sono simili agli elementali che voi incantatori potete evocare, ma la differenza è che questi spiriti si trovano nel nostro mondo e non sono soggetti alle limitazioni delle creature esterne. Normalmente questi spiriti sono nella forma dormiente e non costituiscono alcun problema ma, se vengono risvegliati, allora le cose possono farsi davvero molto pericolose.» «E il kelpie quale tipo di spirito è?» Chiese Nalatien. «È uno spirito dell’acqua.» «Allora quella strana nebbia era parte di lui?» Chiese ancora Nalatien. «Sì, ma il nucleo della sua essenza è la forma animale che avete visto, cioè quella specie di cavallo bianco.» «Allora basta colpire quel cavallo per ucciderlo» concluse Duncan. Morgase scosse la testa. «Purtroppo non è così semplice. Come loro hanno già scoperto, la nebbia protegge il kelpie dall’Eteria, quindi non può essere colpito da incantesimi o simili.» «Però posso centrarlo con le mie frecce» intervenne Firion brandendo l’arco. Morgase fece un mezzo sorriso e gli chiese: «Allora perché non l’hai fatto prima?» L’elfo rimase in silenzio, sconcertato, così la druida continuò: «La forza di questa creatura sta nella sua capacità di ammaliare i bersagli. All’inizio agisce con la nebbia per isolare il bersaglio dall’ambiente circostante, privandolo quindi dei punti di riferimento esterni; la nebbia, inoltre, emana un
odore nauseabondo che contribuisce ad attenuare i sensi del bersaglio. Successivamente lo colpisce con un soffio di vento fresco e umido che sembra inodore, ma che nell’umidità cela un potente liquido ipnotico che viene assorbito principalmente mediante l’odorato e in piccola misura anche dalla pelle. A questo punto il bersaglio è ammaliato e, quando il kelpie si fa finalmente vedere, non può resistere alla tentazione di toccarlo. Dal momento in cui si è verificato il contatto, il bersaglio non avrà altro scopo nella sua vita che salire in groppa al kelpie. Una volta sopra, il kelpie lo porta in mezzo a un lago o in un’altra fonte d’acqua abbastanza grande, e qui lo disarciona e lo affoga.» Sul viso di Firion comparve un’espressione di terrore. «Quindi, se io l’avessi toccato...» «Sì, ora non saresti qui a parlare con me.» Morgase si fermò un attimo e ò lo sguardo sui tre elfi, poi continuò: «Purtroppo, però, non siete ancora in salvo. È per questo che ho voluto spiegarvi tutto questo.» Adesso era Keldon che si era allarmato. «Cosa significa che non sono ancora in salvo?» Anche Liriel sembrava più interessata alle sue parole. «Puoi spiegarti meglio? Cosa vorresti dire?» «Il vostro problema è che siete stati marchiati: il vento gelido vi ha toccati, quindi siete ancora i suoi bersagli, e il kelpie non smetterà di cercarvi fino a che non vi avrà indotti a salirgli in groppa per annegarvi. L’unica vostra salvezza è distruggere il kelpie prima che vi uccida.» «Come fai a sapere tutte queste cose?» La interruppe Liriel, ancora non completamente convinta, anche se aveva notato che Firion sembrava crederle. «Sono una druida» le rispose semplicemente Morgase, sostenendo il suo sguardo. «Ci sono dei segreti della natura che preferiamo non rivelare a coloro che non appartengono ai Cerchi, perché potrebbero usare tali conoscenze per portare morte e distruzione, come è successo qui...» Fu Lionel, questa volta, a intervenire con un accenno di nervosismo nella voce: «Aspetta, aspetta, aspetta! Vorresti dire che qualcuno ha evocato questo kelpie nel Bosco delle Sette Sequoie per provocare la morte delle persone scomparse?»
«Non lo so, ma sicuramente è stato evocato da qualcuno molto potente più o meno ventisei anni fa, quando il Cerchio druidico delle Sette Sequoie scomparve misteriosamente.» Nel sentire quella data, Keldon e Duncan sobbalzarono, ricordando ciò che Morgase aveva segretamente raccontato loro riguardo la sua nascita. «Data la vicinanza del Bosco alla Grande Foresta, pensavamo che sarebbero stati i druidi elfi a occuparsi dell’accaduto, ma il Cerchio elfico non si è mai fatto vivo: alla fine sono stata mandata io a controllare la situazione. Avrei preferito davvero, come credeva Duncan, che i colpevoli fossero stati semplicemente una banda di briganti...» A quelle parole, Firion si schiarì la gola e poi disse, con un tono dimesso: «Mi dispiace di doverti dare una cattiva notizia, Morgase. Purtroppo anche il Cerchio druidico degli elfi è scomparso. Secondo quanto mi hanno detto i miei superiori, è successo circa trent’anni fa, quindi prima della sparizione del Cerchio di questo Bosco. Non è chiaro come ciò sia potuto accadere, ma diverse persone, tra cui anche qualche ranger, avevano riferito di avere visto uno strano uomo, vestito di un’armatura nera, girovagare intorno al luogo dove si trovava il Conglomerato e incidere strane rune sugli alberi.» Nel sentire parlare dell’uomo in armatura nera, Morgase trasalì, mentre Liriel e Nalatien riuscirono a stento a non mostrare la loro sorpresa. «Poi, all’improvviso, l’area fu invasa dalle fiamme e tutto venne distrutto. Adesso il luogo dove sorgeva il Conglomerato è una landa desolata ricoperta di cenere. Nonostante diversi tentativi nel corso degli anni, non c’è più cresciuto niente. Adesso quella radura viene chiamata la Desolazione e nessuno osa entrarci, perché si è diffusa l’idea che quella terra sia stata maledetta.» Keldon, temendo che il discorso continuasse ancora a lungo, si fece avanti e disse: «Perdonatemi, ma il sole è ormai tramontato e credo sia opportuno accamparci qui, per mangiare e riposare. E, a mente fresca, penseremo a quali saranno le nostre prossime mosse.» In effetti i raggi della luna che sorgeva in basso sull’orizzonte filtravano attraverso le fitte chiome circostanti. «Il chierico ha ragione» annuì Liriel guardando Firion. «Se quel mostro dovesse attaccarci di nuovo, è meglio che non ci trovi esausti.» Poi si rivolse a Morgase e
le chiese: «Tra quanto pensi si ripresenterà il kelpie?» «Solitamente dopo ogni attacco si trova già su una fonte d’acqua per recuperare le energie, ma stavolta non ha potuto farlo ed è dovuto scappare. Considerando che noi venivamo dalla parte del lago, non può essersi rifugiato là e dev’essere fuggito verso un altro ristagno d’acqua. Comunque, non credo che questa notte ci attaccherà, ma per sicurezza sarebbe meglio che voi tre rimaneste il più possibile vicino al fuoco, che il kelpie, essendo uno spirito dell’acqua, teme.» In breve, con l’aiuto di tutti, il campo e il falò furono pronti; anche Liriel, nonostante inizialmente fosse recalcitrante, si diede da fare. Quando tutto fu pronto, consumarono una cena veloce con le razioni militari che aveva portato con sé Lionel: pane, formaggio e carne secca. Mentre mangiavano intorno al fuoco in silenzio, ciascuno era concentrato sui propri pensieri. I maschi umani continuavano a sforzarsi di non guardare o pensare all’elfa, senza troppo successo; Morgase ripensava all’uomo in armatura nera che piantava un seme nero al posto delle sette sequoie; Firion preparava altre frecce, mentre Nalatien rifletteva su quale delle creature che sapeva evocare potesse essere più adatta contro il kelpie; anche Liriel, come la druida, pensava all’uomo in armatura nera che era stato la causa della sparizione dei druidi elfici e si chiedeva se fosse la stessa persona che le aveva insegnato l’incantesimo della Palla di Fuoco. Quando tutti avevano finito di mangiare, Liriel ruppe il silenzio e disse: «Credo sia giunto il momento di pensare a un piano per affrontare il kelpie.» Tutti si girarono verso di lei, pensando che intendesse avanzare una proposta, invece l’elfa rimase in silenzio a sostenere i loro sguardi. Allora Duncan prese la parola: «Per prima cosa direi di ricapitolare quello che sappiamo...» Inaspettatamente, fu Nalatien il primo a parlare: «La sua nebbia respinge l’Eteria, quindi attaccarlo con gli incantesimi non servirebbe a niente.» Il secondo a parlare fu Lionel:
«Anche attaccarlo corpo a corpo avrebbe poca efficacia, se c’è il rischio di essere ammaliati dal suo odore...» Subito dopo intervenne Firion: «E anche attaccarlo a distanza ha poco senso: la nebbia lo nasconde e non c’è nulla da colpire.» A quelle parole, Keldon commentò: «Niente armi, niente Eteria... Se tutto questo è vero, allora non c’è proprio niente che possiamo fare.» Poi, dopo un attimo di esitazione, si girò verso Morgase e le chiese: «Siamo davvero condannati?» La druida bevve qualche sorso d’acqua dalla sua borraccia, quindi rispose: «Vedo che avete centrato il punto. Un kelpie è proprio uno dei motivi per cui gli antichi druidi decisero di bandire il potere degli spiriti. A prima vista sembra una creatura innocua, invece è molto pericolosa e praticamente inattaccabile. Inoltre, dato che appartiene a questo mondo, non può nemmeno essere ricacciata indietro.» «Allora è questa la differenza con le creature evocate dall’Eteria che intendevi?» Le chiese Nalatien, comprendendo ora appieno la pericolosità del kelpie. «Sì, inoltre qui siamo nel suo ambiente, in un luogo dove l’acqua abbonda, quindi è ancora più forte.» «Ma prima siamo riusciti a farlo scappare» esclamò Keldon. «Vuol dire che c’è qualcosa che teme...» «Sì, temeva il fatto che noi quattro non eravamo sotto l’influsso del suo potere ipnotico e quindi potevamo colpirlo. In effetti il suo corpo può essere ferito, ma solo quando assume la forma solida che usa per caricare in groppa la sua preda. E, quando noi siamo arrivati, stava per prendere Firion, quindi era vulnerabile ai nostri colpi.» «Ma allora è questo che dobbiamo fare» esordì Lionel convinto. «Qualcuno di noi farà da esca, mentre gli altri si terranno lontani in modo da non essere presi dall’effetto di ammaliamento. Quando il kelpie si renderà visibile per prendere
una delle esche, noi lo attaccheremo su tutti i lati, impedendogli ogni via di fuga.» «Chi dovrebbe fare da esca?» Fece Liriel visibilmente irritata. «Che ne dici, Morgase?» Chiese Duncan, ignorando la domanda dell’elfa. «Credi che sia fattibile?» La druida ci pensò qualche attimo, poi rispose: «Sì, ma dobbiamo essere ben coordinati, perché, se ritardiamo l’attacco anche di un solo istante, quello che farà da esca morirà.» «Scusate» intervenne nuovamente Liriel, «chi farà da esca?» Tutti si voltarono verso di lei, che sostenne i loro sguardi con fierezza. Finalmente Morgase le rispose: «Dovrete essere voi elfi. Come vi dicevo, siete già stati marchiati e il kelpie cercherà di prendervi non appena avrà recuperato le forze.» «E quando accadrà?» Chiese l’incantatrice. «Il kelpie colpisce di notte o comunque quando il sole è coperto, credo per accentuare l’effetto occultante della nebbia. Per questo il momento che preferisce è l’alba o il tramonto, quando è più naturale che la nebbia si alzi.» «Quindi ci attaccherà all’alba?» «Potrebbe, ma non credo che avrà recuperato sufficiente energia, dato che non è riuscito ad annegare qualcuno. Secondo me è più probabile che attacchi al tramonto. Per questo io utilizzerei la giornata di domani per cercare il punto del bosco più lontano dalle fonti di acqua...» «Perché?» Chiese Firion. «Di sicuro, appena sarà pronto percepirà i vostri marchi, quindi si dirigerà verso di voi. Se, però, sarà lontano dall’acqua, il suo potere sarà minore perché potrà fare affidamento solo sull’umidità presente nel terreno, dunque avremo qualche possibilità in più di vittoria.»
«Come puoi essere sicura che venga a cercare noi e non vada invece a cercare un’altra preda?» Le ribatté Nalatien. «È la sua natura: il marchio che vi ha imposto lo attirerà verso di voi. E, quando si rivelerà nella sua forma fisica per prendervi, noi dovremo colpirlo con forza e precisione fino a ucciderlo.» I sette si guardarono l’un l’altro per alcuni istanti, poi Lionel batté le mani ed esclamò: «Allora è deciso! Stasera ci riposiamo e domattina andremo a cercare il luogo più arido del bosco, quindi aspetteremo il tramonto e faremo fuori quel mostro! Siamo a cavallo!» «Speriamo di no» borbottò Firion mentre chiudeva il tappo della borraccia. Lionel, resosi conto dello stupido errore, arrossì e si alzò rapidamente per andare a prendere dell’altra legna per il fuoco. I preparativi per la notte vennero svolti velocemente dai tre maschi umani, mentre la druida spiegava a Insidia come avrebbe dovuto comportarsi se avesse sentito l’avvicinarsi di un pericolo. Inoltre vennero decisi i turni di guardia: avrebbe cominciato Lionel, poi Duncan, quindi Keldon; anche Firion volle partecipare, prendendosi l’ultimo turno. Allora i tre elfi si sistemarono il più vicino possibile al falò, mentre i quattro umani si misero in cerchio attorno al fuoco, ma un poco più lontano. Dieci minuti dopo, la stanchezza ebbe il sopravvento e tutti si addormentarono, tranne Lionel che rimaneva di guardia, nel silenzio della notte.
~ 8 ~
Notte tormentata
D uncan si svegliò di soprassalto. Aveva il respiro affannoso e il cuore gli martellava nel petto. Si guardò rapidamente intorno: gli altri stavano ancora dormendo tranquillamente, mentre Lionel, seduto su un masso dall’altra parte del falò, si stava distraendo dalla monotonia del turno di guardia intagliando un pezzo di legno. Il paladino si coprì il viso con le mani. Aveva ancora davanti agli occhi le immagini del sogno che lo avevano scosso. Non era stato un semplice incubo, ma un bizzarro miscuglio di fatti accaduti ed eventi irreali, tutti però con uno stesso punto in comune. Il sogno aveva avuto inizio in uno dei giardini del Grande Tempio di Vàlor a Camaran, circa dieci anni prima...
... «Non dovresti prendere tutto sempre così sul serio» stava dicendo una bella ragazza con i lunghi capelli biondi raccolti in due crocchie ai lati della testa. «Altrimenti ha ragione chi dice che i paladini sono più rigidi delle colonne portanti del tempio.» «Lilibeth!» Esclamò Duncan meravigliato. «Dove hai sentito queste voci?» «Sai che non possiamo rivelare cosa ci viene detto in confessione» replicò lei assumendo un’espressione innocente. «Se l’hai appena fatto!» «È vero, ma non ti ho svelato chi è stato a dirlo. Si dice il peccato, ma non il peccatore, non lo sai?» «Tu stai troppo tempo a studiare con Keldon!»
«E tu, invece, dovresti imparare di più dal tuo amico. Sei sempre troppo serio... Non ti farebbe male sorridere un po’.» «Nessuno prenderebbe sul serio un paladino che sorride!» «Ecco perché preferisco quando non sei in servizio» concluse lei prendendogli la mano, mentre il viso di Duncan si addolciva in un sorriso. «Vieni: facciamo una eggiata.» Si incamminarono mano nella mano lungo il vialetto fiorito del giardino, circondati dal profumo dei fiori e dal canto degli uccelli. I raggi del sole riscaldavano i loro volti, mentre i due si guardavano con qualcosa di più del semplice affetto. Un bagliore illuminò il cielo, seguito da un potente boato. I due sollevarono lo sguardo: una nuvola nera si allargava sempre di più. Lilibeth alzò il braccio destro per indicarla. Aveva un’espressione calma sul volto, mentre Duncan provava un senso di disagio. Il bracciale dorato che la donna portava al polso destro si illuminò per un istante e ci fu un altro lampo nel cielo. Mentre nell’aria rimbombava il fragore di un’esplosione, l’oscurità li avvolse entrambi, gelida e soffocante... ... «Adesso apri gli occhi, Duncan» stava dicendo Keldon a bassa voce. Il paladino li aprì lentamente. Era in una stanza buia, illuminata da due fiammelle che levitavano a mezz’aria. Quando i suoi occhi si abituarono alla scarsa luce, vide che erano generate da due candele appoggiate su un vassoio che qualcuno teneva in mano. Un bracciale dorato al polso di quella persona rifletteva la luce tremolante, disegnando linee variopinte sul pavimento e sulle pareti. «Auguri!» Esclamarono insieme Keldon e Lilibeth. Subito il chierico aprì la tenda della finestra e Duncan vide davanti a sé la ragazza con una torta in mano, su cui erano poste due candeline. «Venti non ci stavano» si giustificò subito Keldon nel notare lo sguardo confuso dell’amico. «Vi avevo detto che non volevo più festeggiare il mio compleanno!» Disse Duncan con lo sguardo fisso sulla torta.
«Lo so» replicò Lilibeth sorridendo. «Per questo la sorpresa è venuta meglio! Dai, adesso soffia!» Il paladino fece un sospiro di rassegnazione, poi guardò negli occhi Lilibeth, che a sua volta lo osservava felice. Si girò verso Keldon: anche lui era contento e sorrideva. Allora Duncan prese fiato e soffiò sulle candeline. Ma dalla torta si sollevò un fitto polverone bianco che investì la ragazza. La pelle le si coprì di innumerevoli tagli e la tunica bianca le si intrise di sangue, tanto da diventare subito rossa. Le sue urla di dolore echeggiavano forti e terribili, ma la disperazione del paladino per la propria incapacità di aiutarla durò poco, perché la polvere bianca avvolse anche lui nell’oblio della morte... ... Duncan, nel buio, provò una fitta di dolore al fianco sinistro, mentre una voce stava parlando, stranamente attenuata. Non riusciva a comprenderne le parole, ma riconobbe la voce: era di Benedir, il padre adottivo di Keldon. Avvertì di nuovo una fitta al fianco e subito dopo sentì la voce di Lilibeth che gli sussurrava all’orecchio, allarmata: «Svegliati, Duncan! Benedir ti sta guardando!» Con enorme fatica, il giovane aprì gli occhi. Era seduto a un banco, accanto a Lilibeth e a Keldon. Davanti a lui c’erano altre due file di banchi dove erano sedute altre persone, poi vide Benedir, in piedi su una larga pedana, che stava guardando dalla sua parte, mentre continuava il suo discorso sulle aree di dominio di Vàlor. Qualche momento dopo, l’uomo distolse lo sguardo e riprese a camminare avanti e indietro lungo la pedana, come al suo solito. «Ti è andata bene anche stavolta» gli sussurrò Keldon. «Se fossi stato io mi avrebbe subito richiamato.» «Cosa mi sono perso?» Chiese Duncan sforzandosi di non sbadigliare. «Niente che non possa spiegarti io più tardi» gli rispose Lilibeth. «Però devi promettermi che la smetterai di allenarti anche di notte.» «Per lo meno non quando il giorno dopo hai lezione» aggiunse Keldon. Proprio in quell’istante suonò la campana che indicava il termine della lezione. Mentre tutti si alzavano per uscire dall’aula, la voce di Benedir risuonò potente e
glaciale: «Signor di Brintasien, accoliti di Manis e di Vesperan, rimanete, vi prego.» Gli altri studenti si affrettarono a uscire dall’aula, mentre i tre ragazzi rabbrividirono al pensiero che sarebbero stati puniti per la loro distrazione. «Cosa devo fare con voi?» Esordì Benedir, mentre si ava una mano sull’ampia calvizie in cima alla testa. «C’è chi dice che è colpa vostra se i miei capelli diventano grigi e radi prima del tempo.» Nonostante la battuta, i tre rimasero seri, perché sapevano che ogni altro loro comportamento avrebbe irritato maggiormente l’insegnante. «Mi dispiace, maestro» iniziò Duncan. «È colpa mia se si sono distratti...» «Certo che è colpa tua» disse Benedir con la voce che si faceva sempre più cavernosa, mentre dai suoi occhi uscivano lacrime di sangue. «È sempre colpa tua!» La luce dalle finestre si affievolì di colpo, come se il sole si fosse improvvisamente spento. Dal pavimento attorno a Benedir spuntarono delle fiamme nere che emanavano una strana luce grigiastra. Erano disposte a cerchio intorno a lui e spandevano nell’aria un fetore gelido di putrefazione. «Questo è ciò che lasci intorno a te» proseguì l’insegnante con la voce sempre più bassa e profonda. «Le tue scelte non lasciano speranza agli altri: per colpa tua, della tua decisione di allenarti anche di notte, hai costretto i tuoi amici a distrarsi dalla lezione...» Benedir si afferrò il braccio sinistro, se lo staccò dal corpo e lo lanciò verso Keldon. Quando l’arto toccò terra, si spiaccicò al suolo, ma subito si ricostituì assumendo la forma di un uomo con i capelli biondi che rideva. Con il o ondeggiante di un ubriaco, si posizionò dietro a Keldon e lo afferrò per il collo. Un attimo dopo, la mano dell’uomo divenne una lama e squarciò la gola del giovane, spruzzando sangue ovunque. «Non pensi mai alle conseguenze delle tue azioni» continuò Benedir. «Ti arroghi il diritto di essere sempre nel giusto, di aver rispettato le tue regole e che questo sia sufficiente per giustificare ogni effetto collaterale.»
Keldon, ormai esangue, fissò Duncan con occhi spenti e dalla sua gola, squarciata a forma di bocca, uscì una strana voce vibrante: «Perché? Perché mi hai lasciato morire?» «Io... io non...» tentò di ribattergli, ma le parole gli si bloccarono in gola. «Non puoi ispirare fiducia negli altri» riprese Benedir, «se tu stesso non hai fiducia in loro.» Una gigantesca fiamma grigia avvolse Lilibeth, che gridò a squarciagola per il dolore. Duncan cercò di avvicinarsi per aiutarla, ma non riuscì a muoversi. Quando la fiamma si estinse, sul pavimento giaceva lo scheletro della ragazza, che lo fissava con le orbite vuote. Il bracciale dorato al suo polso si era danneggiato, e dalle crepe usciva uno strano liquido argenteo che formava una pozza sempre più grossa. «Dovevi aiutarla, ma ti sei tirato indietro. Potevi aiutarla, ma hai lasciato che altri intervenissero e si arrendessero. Hai tradito tutto ciò che avevi di più sacro!» Il liquido argenteo si mosse verso Duncan, raggrumandosi in una forma sempre più grande. Quando fu di fronte a lui, aveva formato una strana statua argentata dalle fattezze femminili. Questa vibrò e da essa uscirono delle parole con una voce metallica, simile a quella di Lilibeth: «Perché? Perché mi hai lasciata morire?» La statua argentata sollevò un braccio e afferrò Duncan al collo. «Ecco» concluse Benedir, «il tuo giudizio è stato decretato!» Duncan si sentì stringere la gola, ma non poteva muoversi per difendersi. Era sempre più difficile respirare, sempre più difficile...
... Era stato a quel punto che Duncan si era svegliato di soprassalto. Il paladino aprì la borraccia e bevve diversi sorsi per placare l’arsura che sentiva
in gola. Rivedere Lilibeth, anche se solo in un sogno, lo aveva scosso più di quanto pensava. Erano ati due anni da quando si era spenta tra le sue braccia a causa di una malattia incurabile, ma non era rimasto sconvolto perché l’aveva vista morire di nuovo: ciò che lo aveva colpito erano state la sensazione di impotenza che aveva provato e le parole che il Benedir del sogno aveva detto. I suoi pensieri vennero interrotti da Lionel, che si era avvicinato per il cambio della guardia. Duncan annuì e si alzò in piedi, mentre il Tenente si accucciava nel suo sacco a pelo per dormire. Il paladino gettò alcuni ceppi nel fuoco per ravvivarlo, quindi si andò a sedere sul masso dove prima era seduto Lionel, e iniziò il suo turno di guardia, cercando di non pensare al sogno e a Lilibeth.
Immobile e in silenzio, Liriel aveva osservato il cambio della guardia, incuriosita per lo strano risveglio improvviso del paladino. Continuava a sentirsi a disagio in mezzo a quegli umani, soprattutto per via del modo in cui la guardavano: sembrava volessero divorarla con gli occhi. Non era abituata a quella concentrazione di attenzioni, né, del resto, le aveva mai volute. A parte, forse, quelle di Firion. Mosse leggermente la testa per lanciargli un’occhiata e vide che stava dormendo. Osservò la curva molto accentuata delle sue sopracciglia, che lo facevano sembrare sempre troppo serio, e la punta di una delle orecchie che sbucava dai capelli biondi. Erano state proprio le sue sopracciglia che l’avevano colpita subito quando lo aveva conosciuto. D’un tratto le sue palpebre si mossero e subito l’elfa si affrettò a distogliere lo sguardo. Tornò a pensare al paladino, chiedendosi se il suo brusco risveglio fosse dipeso dalla stessa cosa che aveva percepito lei. All’inizio era stato qualcosa di appena percettibile, come se fosse oltre i limiti dei suoi sensi, ma, a mano a mano che si erano addentrati nel bosco, era diventata più chiara. Alla fine si era resa conto che la potente aura oscura circostante era identica a quella proveniente dal ciondolo che portava al collo, donatole dal misterioso maestro umano che le aveva insegnato gli incantesimi più potenti. L’incantatrice si portò una mano tra i seni e tirò fuori il ciondolo ovale, chiudendolo nel suo pugno. Ne sentì la superficie liscia e la linea in rilievo che
ne percorreva la zona centrale. Non aveva mai capito perché gliel’avesse donato: non sembrava il tipo di persona che faceva regali senza contraccambio. Aveva solo detto una frase, che l’aveva lasciata interdetta: “Non separarti mai dal Primo Respiro, la sua guida ti servirà.” D’un tratto Liriel rammentò un particolare: anche il kelpie aveva avuto una traccia di quell’aura. Allora diverse domande le sorsero in mente: perché Rhao stava agendo mediante un’evocazione e non di persona, come invece le aveva insegnato? Che fosse lei il vero bersaglio dell’attacco? E se fosse, perché? Voleva metterla di nuovo alla prova? Erano domande a cui Liriel non sapeva dare risposta, e che continuarono a tormentarla finché, vinta dalla stanchezza, finalmente si addormentò.
Nalatien si era addormentato quasi subito. Non ricordava mai i sogni, ma provava sempre una sensazione diversa a seconda di cosa avesse sognato. A volte, però, si svegliava con la chiara sensazione di dover assolutamente fare qualcosa, anche se spesso non si trattava di qualcosa di definito e sfociava in un nulla di fatto. Solo una volta questo suo impulso aveva avuto un vero compimento: quando aveva deciso di seguire la sorella nel suo esilio. Per quanto fosse dispiaciuto per ciò che era accaduto a Liriel, abbandonare le terre degli elfi era sempre stata la sua più grande paura. Al massimo avrebbe potuto accettare l’idea di andare a studiare nella Torre dell’Evocazione a Kentara, ma soltanto perché ciò prevedeva di restare nella Torre per tutto il tempo. Eppure, quando aveva udito la sentenza dell’esilio, qualcosa era scattato dentro di lui. Aveva cercato di resistere all’impulso assurdo di lasciare la sua casa e di andare dietro alla sorella, e ci era quasi riuscito. Le sue resistenze erano crollate quando aveva visto Firion oltreare il confine e dichiarare che avrebbe seguito la sorte di Liriel, della sua amata. Allora era stato sopraffatto dall’impulso e aveva superato il confine, facendo poi quella ridicola dichiarazione secondo cui non aveva più alcun interesse per i luoghi della sua razza. Ci aveva pensato a lungo, mentre camminava dietro a Liriel e a Firion verso l’ignoto, ma non riusciva a darsi una spiegazione per il suo irrazionale comportamento. Eppure, dentro di sé, in un remoto angolo della sua mente,
avvertiva come un senso di soddisfazione per essersi allontanato dalla terra degli elfi e per essere finalmente libero di fare quello che voleva. Percepiva l’idea di una promessa che adesso poteva essere mantenuta: nessuna evocazione, cosa per lui di importanza vitale, gli era più preclusa. Anche ora, mentre era immerso in un sonno ristoratore, una promessa di grandezza alimentava segretamente i suoi sogni.
Keldon, all’ora prestabilita, svegliò Firion per l’ultimo turno di guardia. «Sei ancora sicuro di volerlo fare?» Gli chiese il chierico a bassa voce. «Sì» confermò lui alzandosi in piedi. «Sono un ranger. Sono abituato a turni di guardia molto più massacranti.» Il chierico sorrise e annuì, quindi tornò al suo giaciglio. L’elfo si stiracchiò e andò a sedersi sul masso vicino al fuoco, ma dandogli le spalle. Respirò a fondo l’aria fresca della notte e accolse con piacere il silenzio e l’oscurità, benché i suoi occhi sensibili già intravedessero l’avvicinarsi dell’alba. Era stato tormentato tutta la notte dal ricordo degli eventi che lo avevano portato in quel maledetto bosco. Ancora non riusciva a credere che tutto fosse accaduto realmente, ma una cosa gli era chiara: doveva proteggere Liriel, forse anche da se stessa. Un giorno aveva parlato con il suo maestro Aliman, che si lamentava di come Liriel stesse cominciando a saltare le lezioni troppo spesso. All’inizio aveva pensato che si fosse stranamente stancata dell’Eteria, ma poi aveva capito che il suo problema era invece l’opposto. L’anziano incantatore gli rivelò di temere che Liriel avesse troppa fretta di imparare e che si fosse messa a studiare qualche incantesimo avanzato da sola, col rischio di farsi male anche seriamente. La giovane elfa pensava di essere riuscita a nascondergli il suo intento, ma il troppo rapido miglioramento nella padronanza delle movenze l’avevano tradita. Allora Aliman aveva chiesto a Firion di tenerla d’occhio per la sua sicurezza e lui aveva accettato nei limiti dei suoi impegni di ranger. Così aveva scoperto che Liriel non stava studiando dei nuovi incantesimi da
sola, ma glieli insegnava qualcuno che non sarebbe mai dovuto essere lì: uno strano umano dai lunghi capelli neri, che indossava un’armatura nera con strani simboli. Portava sempre il cappuccio calato sulla testa, ma una volta Firion era riuscito a intravedere una profonda cicatrice su una guancia. Sommando quel brutto spettacolo al fatto che fosse un umano, non riusciva a capire come Liriel riuscisse a stargli vicino. Firion aveva osservato spesso l’amata esercitarsi e un paio di volte era stato sul punto di uscire allo scoperto e di intervenire, quando lei aveva commesso un errore e si era provocata delle ustioni alle mani. Qualcosa nell’aura di quell’uomo, però, lo aveva convinto a restare a guardare. Inoltre aveva scoperto che anche Nalatien spiava di nascosto cosa fe Liriel. A causa sua, Firion aveva rischiato di essere scoperto: l’uomo si era accorto di essere osservato ma, per fortuna, aveva notato solo il giovane elfo e se n’era andato prima che potesse nascere uno scontro. Quando fu il momento di fare rapporto ad Aliman, evitò di rivelargli la presenza dell’umano, perché Liriel avrebbe rischiato una severa punizione, forse addirittura la proibizione di continuare gli studi sull’Eteria. Una simile pena sarebbe stata per lei peggio della morte. Allora gli disse che Liriel aveva trovato delle pagine di un vecchio libro da cui aveva imparato i nuovi incantesimi, ma un tentativo finito male le aveva bruciate e non ne era rimasto nulla. Poi però avvenne l’incidente. Firion aveva seguito Liriel e l’umano fino a un edificio abbandonato. I due vi avevano sistemato alcuni piccoli animali, poi l’uomo le aveva dato alcune spiegazioni sul nuovo incantesimo. Mentre l’elfa era impegnata a concentrarsi, Firion aveva visto l’umano fare uno strano gesto con la mano e qualcosa aveva scintillato dentro l’edificio. Incuriosito, si era spostato per controllare e aveva scoperto che oltre agli animali erano presenti anche degli elfi. Purtroppo non ebbe la possibilità di avvertire Liriel: mentre si voltava verso di lei, dalle sue mani era partita una Palla di Fuoco che era andata a infrangersi con enorme potenza contro il muro dell’edificio, facendolo crollare. Le grida di dolore degli elfi, investiti dalle macerie e dalle fiamme, erano state terribili. Firion aveva notato l’espressione di Liriel sconvolta e inorridita, poi si era accorto che era rimasta sola. L’umano era svanito. Furioso e consapevole di non poter rivelare a Liriel la sua presenza, l’elfo aveva cercato di rintracciare l’umano, ma senza successo.
Assistere impotente al processo di Liriel fu straziante. Rivelare che il colpevole fosse l’umano avrebbe soltanto peggiorato le cose, perché Firion non avrebbe dovuto tenere nascosta la sua presenza e sarebbe stato condannato a morte per tradimento. E lei con lui. Tuttavia una cosa era chiara: Liriel non aveva alcuna colpa, l’umano l’aveva incastrata per allontanarla dalla terra degli elfi. Non riusciva a capirne il motivo, ma Firion non aveva alcuna intenzione di lasciarla sola. Finalmente giunse l’alba. L’elfo respirò a fondo l’aria fresca del mattino. Ancora non era del tutto certo se fidarsi di quegli umani, ma almeno da loro non percepiva alcuna aura oscura. Firion si alzò in piedi e iniziò a svegliare i vecchi e i nuovi compagni.
~ 9 ~
A caccia del nemico
I nsidia era riuscita a seguire le tracce del kelpie fino al luogo in cui era attualmente nascosto. Il lago era un po’ più piccolo dell’altro, circondato da una fitta vegetazione tranne a ovest, dove una zona brulla e desolata si estendeva per diversi chilometri. «Il kelpie è qui» dichiarò Morgase. «Purtroppo, finché non uscirà al calar del sole non potremo fare nulla, ma questo ci dà tutto il tempo per prepararci ad affrontarlo e a vincere!» Lionel prese la parola: «In quanto ufficiale più alto in grado del Ducato di Crandall, credo sia mio dovere prendere il comando della situazione.» Osservò in silenzio i compagni e, quando almeno Duncan e Keldon ebbero annuito, proseguì: «La cosa più importante è conoscere il territorio in cui dovremo muoverci. Dato che è ancora metà mattina, abbiamo tutto il tempo che ci serve.» ò rapidamente in rassegna i compagni che lo stavano guardando con diverse gradazioni di interesse (il più basso era da parte di Liriel, il più alto di Duncan). «La soluzione migliore è dividerci per esplorare i dintorni del lago. Tuttavia i bersagli del kelpie siete voi elfi, per cui sarebbe meglio che non rimaniate isolati. Io suggerirei di fare tre gruppi misti, due andranno in esplorazione, mentre il terzo preparerà il campo base e il pranzo...» «È proprio necessario separarci?» Lo interruppe Firion. «Forse no, ma preferisco esagerare nelle precauzioni piuttosto che lamentarmi se qualcosa va storto.» L’elfo ci pensò un attimo, poi annuì. Allora Lionel riprese: «Dunque, nei due gruppi che andranno in esplorazione sarebbe opportuno che ci
sia almeno uno tra i più esperti degli ambienti naturali: per il primo pensavo a Morgase e Nalatien, per il secondo a Firion e Keldon. Nel gruppo che si occuperà dell’accampamento ci saremo io e Duncan, che abbiamo più esperienza in merito, e Liriel.» Non appena sentì la formazione dei gruppi, Liriel smise di pensare ad altro. L’idea di restare sola con quei due umani non le piaceva. Lanciò un’occhiata di soccorso verso Firion, ma lui si limitò a scrollare la testa e a sollevare le spalle. Liriel sbuffò, ma rimase in silenzio. Dopo aver concordato le zone da esplorare e un limite di tempo di tre ore, i gruppi di Morgase e Firion si diressero in direzioni opposte, mentre il gruppo di Lionel si apprestava a scegliere il punto migliore in cui allestire il campo base.
Firion e Keldon si erano fermati davanti all’apertura di una grotta nascosta dagli alberi, al fianco di una piccola collina. «Credi che potrebbe esserci utile?» Chiese il chierico, che aveva seguito l’elfo quasi con riverenza, affascinato dall’agilità e dall’eleganza dei suoi movimenti. «Non credo che rimanere bloccati in uno spazio chiuso possa esserci di qualche aiuto» rispose Firion. Il ranger aveva gradito che l’umano avesse accettato senza problemi la sua superiorità per quanto riguardava l’ambiente naturale. E, nonostante la sua goffaggine nel muoversi sul terreno accidentato, era riuscito a stargli dietro senza rallentarlo troppo. Cominciava a dubitare del pregiudizio secondo cui gli umani erano tutti scansafatiche, prepotenti e attaccabrighe. «Certo che no» replicò Keldon, «non pensavo a un luogo per nasconderci. Pensavo piuttosto a un luogo dove imprigionarlo. Credi che sia possibile?» «In effetti non sarebbe male come idea. Però, perché la trappola possa funzionare, serve un’esca che lo attiri là dentro, cioè uno di noi. Per questo vorrei assicurarmi di non rimanere rinchiuso lì dentro con il kelpie.» «Hai ragione. Dobbiamo andare a vedere.» Si avvicinarono all’ingresso della grotta. Keldon lanciò un’occhiata al suo interno, ma non vide niente oltre al buio. Si girò verso l’elfo per dirglielo, ma
notò che stava osservando l’interno della caverna con molta attenzione. Allora all’umano venne spontaneo chiedergli: «Dunque è vero che voi elfi potete vedere al buio?» Firion, senza distogliere lo sguardo, rispose: «Non proprio. Nel buio completo anche noi siamo ciechi, ma per vedere ci basta una minima fonte di luce, come può essere una notte stellata senza luna. Naturalmente riusciamo a distinguere solo delle sagome indistinte, ma i nostri occhi riescono a vedere le tracce di calore, come quelle emanate dai corpi, quindi non abbiamo problemi a cacciare di notte.» Keldon annuì, stupito, e gli domandò cosa vedesse nella grotta. «Niente di vivo, però intravedo qualcosa di strano in terra. Non riesco a distinguere bene, ma sembrerebbe quasi...» «Uno scheletro?» Suggerì l’umano con una certa apprensione. «Sì! Come fai a saperlo?» «Ieri ne abbiamo trovati altri in una grotta piena di trappole mortali.» «Dunque, se c’è uno scheletro, vuol dire che ci sono anche delle trappole.» «Sì» confermò semplicemente Keldon. «Allora ci conviene lasciar perdere la grotta e tornare dagli altri.» Il chierico annuì e lasciò che l’elfo lo guidasse verso il campo.
Morgase, Nalatien e Insidia stavano avanzando nell’area brulla e desolata che si stagliava a ovest del laghetto. Finché avevano esplorato la zona verdeggiante, la druida aveva chiacchierato serenamente con l’elfo, chiedendogli come fosse la sua terra e cosa fe nella vita. Nalatien le aveva risposto tranquillamente, pur senza addentrarsi nel motivo per cui erano fuori dalle terre elfiche; le aveva spiegato che sia lui, sia sua sorella Liriel erano incantatori, che il suo desiderio
era diventare un bravo evocatore e che la sua speranza era di riuscire a entrare nella Torre dell’Evocazione a Kentara. Quando però avevano cominciato a esplorare la zona desolata, Morgase si era fatta cupa e silenziosa. Nalatien non poté fare a meno di notarlo e gliene chiese il motivo. Dopo qualche momento di esitazione, la druida gli rispose con un tono di tristezza nella voce: «Qui sorgeva il Conglomerato del Cerchio delle Sette Sequoie, a cui apparteneva mia madre.» Nalatien si guardò intorno. Il terreno era spoglio, privo di qualsiasi vegetazione. Ogni tanto si vedevano dei cumuli di cenere, alcuni ancora compatti, altri invece sparpagliati qua e là dal vento. Non sembrava possibile che lì potesse esserci stato un bosco. Eppure, poco lontano, si vedevano i confini fitti di alberi del Bosco delle Sette Sequoie. Era come se ci fosse una linea, oltre la quale tutto ciò che c’era di vivente fosse stato cancellato dall’esistenza. L’elfo provò uno strano brivido dentro di sé al pensiero di tutta quella morte, poi disse: «Cos’è successo per provocare una simile distruzione?» «Nessuno lo sa con precisione» rispose Morgase con una voce stranamente neutra. «L’unica cosa certa è che è stata provocata.» «E chi potrebbe essere così potente da riuscire a fare questo?» «Non sappiamo chi sia in realtà, né come e perché lo abbia fatto» disse Morgase, ora con la voce velata di rabbia. «Sappiamo solo che il suo nome è Rhao, e che l’ultima volta che è stato visto, circa trent’anni fa, aveva lunghi capelli neri e indossava una strana armatura scura...» Quella descrizione non era nuova per Nalatien. Stava per dirlo a Morgase, ma poi preferì lasciar perdere e si limitò a dirle che gli dispiaceva per quello che era successo. «Grazie. Pensavo di avere ormai superato la cosa, invece...» L’attenzione di Morgase venne attirata da una strana struttura scura che si
intravedeva poco più avanti, oltre una coltre di fumo nero che saliva dal terreno. «Quello cos’è?» Si chiese ad alta voce. Nalatien, grazie ai suoi occhi più acuti, non ebbe difficoltà a distinguerne i particolari e le rispose: «Si direbbe una bassa colonna di roccia di colore nero: a metà si apre dividendosi in tre guglie che si slanciano verso l’alto e verso l’esterno... Sembra un fiore con i petali semiaperti, in mezzo ai quali c’è una strana sfera scura. Ma è tutto troppo piccolo per essere un edificio.» «Che vista!» Commentò Morgase, ammirata. Poi indicò il fumo e aggiunse: «Purtroppo non possiamo avvicinarci. Il terreno intorno a quella strana struttura è ancora impregnato del veleno che ha provocato la morte di ogni essere vivente della zona.» Alzò gli occhi verso il sole e aggiunse: «Inoltre è ora di tornare dagli altri. Magari ci sono delle novità più belle.» Nalatien annuì, quindi i due si girarono e si incamminarono per tornare al campo base.
Lionel e Duncan avevano ripulito l’area dell’accampamento, raccolto la legna, preparato il fuoco, e ora stavano finendo di sistemare alcuni piccoli tronchi da usare come sgabelli. Nel frattempo Liriel aveva cucinato una specie di stufato. Durante i preparativi, i due uomini avevano approfittato di ogni momento possibile per osservare l’elfa con interesse; Lionel aveva anche cercato di imbastire una discussione con lei raccontandole alcuni fatti di vita della gente di Crandall, ma Liriel era rimasta sulle sue, limitandosi a dire che era un’incantatrice e a spiegare cosa fosse l’Eteria. In realtà l’elfa si sentiva un po’ a disagio, sia per le occhiate che i due uomini le lanciavano, sia perché, con tutto quello che era successo, non era riuscita a dormire bene. Perlomeno, finora nessuno dei due si era comportato male con lei; le era stato raccontato infatti che gli umani desideravano a tal punto le elfe da prenderle con la forza. Liriel rabbrividì al solo pensiero. Quando lo stufato era ormai pronto, fecero ritorno al campo Morgase e Nalatien
e, pochi minuti dopo, anche Firion e Keldon. Solo dopo che ne fu servita loro una scodella, Lionel iniziò a interrogarli. «Bene» esordì. «Avete trovato qualcosa che può esserci di qualche aiuto?» Dopo qualche cucchiaiata di stufato, sul cui sapore nessuno ebbe da ridire con grande soddisfazione di Liriel, fu Keldon il primo a prendere la parola: «Abbiamo trovato una grotta che avrebbe potuto essere interessante, ma Firion ha notato uno scheletro al suo interno e allora abbiamo capito che era già stata disseminata di trappole. Avevamo pensato di usarla per imprigionare il kelpie, ma, dopo la scoperta dello scheletro, ci sembrava troppo pericoloso per chi avrebbe dovuto fare da esca.» «Capisco» disse Lionel. «Non c’è nient’altro che potrebbe esserci utile da quella parte?» Fu Firion questa volta a rispondere: «Ci sono delle aree più fitte di alberi alternate ad altre adiacenti più rade. Potrebbero essere dei punti utili in cui tentare un agguato, ma c’è il rischio che gli alberi possano rallentare la nostra fuga se qualcosa non funzionasse.» «Dovremmo comunque tenerlo in considerazione» commentò Duncan, pensieroso. «Dalla vostra parte c’era invece qualcosa di interessante?» Chiese Lionel a Morgase. La druida scosse la testa e rispose: «L’unica zona che potrebbe esserci utile è quella arida, priva di vegetazione e quindi priva di fonti d’acqua: lì sicuramente il kelpie sarebbe più debole. Ma c’è un grosso problema: in alcuni punti il terreno trasuda ancora il veleno che ha distrutto tutto...» «Conosco la preghiera d’intercessione per eliminare il veleno dal corpo» intervenne prontamente Keldon, ma venne subito interrotto da Morgase: «Certo, ma quanto ti serve per completarla? Quel miasma è stato in grado di
distruggere in poco tempo una vasta area del bosco quasi trent’anni fa ed è ancora attivo. Su un umano potrebbe agire in pochi secondi: pensi di potercela fare?» Il chierico stava per ribattere, ma Duncan lo precedette: «Ha ragione lei, Keldon: ti servono almeno due minuti per quella preghiera. Ricordi quando la provasti la prima volta per me? Inoltre, se a rimanere avvelenati fossimo più di uno, come potresti fare? La preghiera contro i veleni agisce su una persona alla volta. Te la sentiresti di decidere chi salvare e chi invece lasciare morire?» Keldon scosse il capo, scoraggiato, rammentando anche un’altra limitazione di quella preghiera: il veleno doveva essere di origine naturale. Se il veleno che aveva ucciso parte del Bosco delle Sette Sequoie era stato creato con l’Eteria, allora c’era la seria possibilità che la sua preghiera non avrebbe funzionato. E lui non era ancora abbastanza forte per incanalare la potenza divina necessaria all’intercessione contro tutti i tipi di veleni. Mentre Keldon era perso nei suoi pensieri, Lionel riprese la parola: «A questo punto, dobbiamo escludere dai nostri piani quella zona, mentre potrebbe essere utile prendere in considerazione quelle indicate da Firion per un’imboscata. Qualcuno potrebbe fare da esca nello spazio più aperto, mentre gli altri aspettano il momento opportuno per attaccare nascosti nella vegetazione. Però, per approntare un piano che funzioni, devo sapere quali sono le vostre abilità per schierarvi al meglio e farvi correre meno pericoli possibile. Purtroppo non vi conosco e non posso disporvi sul campo a occhi chiusi come avrei fatto con i miei soldati.» Nel lungo silenzio che seguì, tutti si scambiarono varie occhiate con un misto di sospetto e di curiosità. Alla fine fu Duncan il primo a decidere di rivelare le sue carte: «In quanto paladino dell’Ordine dello Scudo, sono addestrato a combattere in prima linea e a mantenere la posizione in modo da proteggere le seconde linee. Conosco anche alcune invocazioni protettive che spesso mi sono state utili in battaglia.» «Invocazioni?» Chiese Liriel.
«Sono simili alle preghiere dei chierici a Vàlor, ma molto più rapide e con un effetto ben preciso, non adattabile. Per eseguirle, però, noi paladini dobbiamo impugnare una spada o uno scudo benedetti dal Gran Sacerdote di Vàlor o da un suo vicario.» «Quindi» intervenne Nalatien, «tu potresti imporre su di noi delle protezioni contro il kelpie?» «Più o meno... Non posso impedire che vi tocchi, però potrei rafforzare il vostro spirito in modo che l’effetto ipnotico del kelpie abbia meno mordente e la vostra volontà non venga sopraffatta.» «È già qualcosa» concesse lui. Poi, dopo un attimo di esitazione, proseguì: «Io sono un incantatore esperto di evocazioni, ma ieri notte abbiamo scoperto che l’Eteria ha poco effetto sul kelpie, quindi le creature che potrei evocare sono inutili. Però conosco un incantesimo che non va lanciato sui nemici, ma sugli amici.» «In cosa consiste?» Gli chiese Morgase. «È l’incantesimo della Velocità. Posso rendere fino a tre persone più rapide e più reattive: potrebbero attaccare e ritirarsi velocemente per evitare il contrattacco, e poi tornare di nuovo all’attacco. Non dura molto...» «Ma può esserci molto utile!» Esclamò Lionel. «Potrebbe significare la nostra salvezza se lo fi sulle persone giuste.» Dopo l’esempio del fratello, Liriel decise di intervenire: «Anch’io sono un’incantatrice, ma sono specializzata negli incantesimi di attacco. Come ha detto Nalatien, purtroppo si sono rivelati inefficaci contro il kelpie. Sfortunatamente, però, non conosco incantesimi utili per la nostra situazione. Ne conosco uno che si chiama Protezione dalle Frecce, ma non so quanto potrebbe esserci d’aiuto, dato che Firion non sbaglia mai un colpo.» Lionel le sorrise: «Bè, lui forse no, ma anch’io pensavo di restare indietro e attaccare con l’arco per avere una visuale migliore del campo di battaglia e darvi le giuste indicazioni. Non penso che sarebbe una cattiva idea usare quell’incantesimo su
chi sarà in prima linea.» Fu Keldon questa volta a intervenire: «Per quanto mi riguarda credo che la mia posizione sia accanto a Duncan. Sono addestrato a combattere corpo a corpo, inoltre posso pregare Vàlor perché infonda a tutti noi una Benedizione del Guerriero.» «Le benedizioni sono sempre ben accette» commentò Lionel. «E tu, Morgase?» «Posso combattere sia con il mio bastone, sia in forma animale» rispose lei brevemente. «Direi che anche per me la giusta posizione sia insieme a Duncan.» Lionel stava per fare un suo commento, ma fu preceduto da Firion: «A questo punto faremmo bene a riposarci un po’. La battaglia che ci aspetta non sarà facile.» Prima che il Tenente potesse replicare, l’elfo si alzò in piedi e si avvicinò a Liriel, porgendole la mano. L’incantatrice accettò il suo braccio e si alzò, poi i due andarono a sedersi all’ombra di un albero ai margini del campo, abbracciati. Anche Nalatien si alzò in piedi e, dopo aver salutato gli altri con un cenno della testa, andò a sedersi sotto un albero a gambe incrociate, come in meditazione. In contemporanea, Morgase si stiracchiò e si sdraiò in terra, con Insidia che le si accucciò di fianco; mentre l’accarezzava entrò anche lei in meditazione. «Io pregherò un po’» comunicò Keldon a Duncan e Lionel, che erano rimasti sorpresi dalle reazioni degli altri. Il paladino gli fece un cenno di assenso con la testa, poi si voltò verso il Tenente e gli domandò: «Che ne pensi se ci alleniamo un po’?» Lionel accettò con gioia la sua offerta e, prese le loro armi, si allontanarono dal campo, pur restando nelle vicinanze, per esercitarsi.
~ 10 ~
Il seme dell’oscurità
L ionel aveva disposto che tutti dovessero stare appostati. Appena il sole aveva iniziato a tramontare, Keldon aveva invocato su tutti la benedizione di Vàlor, mentre Liriel aveva lanciato su Duncan, Keldon e Morgase la Protezione dalle Frecce. Nel frattempo, Nalatien teneva pronto l’incantesimo di Velocità. I due incantatori facevano da esca al centro di uno spiazzo tra la fitta vegetazione, dove si erano nascosti Duncan, Keldon, Morgase e Insidia. Firion e Lionel erano invece appostati in cima a due alberi, pronti a colpire con l’arco. Quando il sole calò sotto l’orizzonte, una strana nebbia cominciò a salire dal terreno, e nell’aria iniziò a diffondersi un odore di putrefazione. La nebbia occultò rapidamente gran parte della visuale, rendendo impossibile per tutti scorgere qualsiasi cosa oltre lo spiazzo in cui era concentrata tutta la loro attenzione. Dalla parte del laghetto, cominciò a prendere forma qualcosa in mezzo alla nebbia, e un vento inodore prese a soffiare verso di loro. Come stabilito, non appena Liriel avvertì il vento ammaliante, fischiò due volte e tutti si prepararono ad attaccare. A pochi i dall’elfa e da suo fratello, il kelpie si rese visibile nella forma del cavallo bianco e i due iniziarono a concentrarsi per resistere al suo effetto ipnotico. Firion scoccò una freccia che andò a conficcarsi poco sotto il garrese. Il kelpie emise un forte verso stridulo e, nello stesso istante, Duncan, Keldon, Morgase e Insidia uscirono dai loro nascondigli e lo attaccarono su entrambi i lati: mentre la lupa si interponeva tra gli incantatori e il mostro, gli altri presero a subissarlo di colpi al ventre e alle zampe. Anche le frecce scagliate da Firion e Lionel contribuirono a ferirlo. Il kelpie sembrava subire l’effetto dei colpi senza riuscire a reagire; poi, però, emise un forte verso stridulo e si alzò sulle zampe posteriori, agitando quelle
anteriori verso l’alto. Con un turbinio di vento il suo corpo venne immediatamente circondato da uno strato di nebbia e le ferite scomparvero, comprese le frecce conficcate nel suo corpo. Tutti si bloccarono, increduli per quello che era appena successo. «Non perdiamoci d’animo» gridò Lionel dalla sua postazione sopraelevata. «Colpiamolo ancora!» E scoccò subito una freccia che sfiorò la testa del kelpie e la mano del paladino. Duncan, Keldon e Morgase, reprimendo lo sconforto per l’improvvisa guarigione del kelpie, attaccarono di nuovo urlandogli contro. Anche Liriel, presa dalla disperazione, decise di agire: raccolse una pietra e la scagliò contro il mostro, colpendolo sulla fronte, ma senza alcun danno. Tuttavia l’elfa notò qualcosa che la fece rabbrividire: il kelpie non mostrava il minimo interesse per lei o Nalatien, e nemmeno per i tre umani che lo stavano attaccando, ma aveva il muso sollevato verso l’alto, in direzione del ramo su cui era appollaiato Firion, lo stesso punto verso cui aveva rivolto le zampe anteriori quando si era sollevato su quelle posteriori. Inoltre, dopo quel gesto, il ranger non aveva più lanciato alcuna freccia. Liriel sollevò ansiosamente gli occhi: Firion aveva lo sguardo assente e aveva cominciato a scendere dall’albero. L’elfa provò un tuffo al cuore e iniziò a montarle la paura. «Aiuto!» Gridò in preda al panico. «Firion è stato soggiogato! Fermatelo!» Tutti si voltarono e videro che il ranger era sceso dall’albero e si stava avvicinando lentamente al kelpie. Insidia fu la prima a reagire, mettendosi a difesa dell’elfo, ma il kelpie si sollevò sulle zampe posteriori e la colpì con forza con quelle anteriori, facendola sbalzare indietro. Morgase si protese a proteggere la lupa, accasciata a terra, mentre gli altri colpivano il mostro, ma senza alcun effetto. Lionel era disperato per il fatto che non poteva essere di aiuto contro il kelpie con l’arco, ma d’un tratto ebbe un’idea: confidando nelle capacità guaritrici del chierico, puntò le gambe di Firion, sperando che il dolore lo avrebbe risvegliato dal potere del mostro. La freccia sibilò nell’aria e si piantò nel polpaccio sinistro di Firion, che però
sembrò non accusare il colpo. Liriel imprecò subito contro Lionel, esprimendo forti dubbi sulla moralità di sua madre e di lui stesso. Duncan e Keldon continuavano ad attaccare le zampe del kelpie, ma nessun colpo aveva effetto. Quando Liriel aveva imprecato, Morgase si era voltata per capire cosa stesse accadendo, ma quello fu un terribile errore: il kelpie le si avvicinò di un o e la colpì forte alla testa con il muso. Cadde a terra gemendo, ma non per il colpo a tradimento: quando era entrata in contatto con lui, era stata percorsa da una specie di corrente che l’aveva lasciata senza fiato e nella sua mente si aprì una visione. Vide se stessa eggiare in un bosco verde e lussureggiante, ricco di vita, a fianco del suo spirito guida, una grossa rana verde con delle macchie nere. D’un tratto tutta la vegetazione circostante avvizzì e rimase una vallata arida e desolata. Perché sono qui? Domandò mentalmente al suo spirito guida. Senza parlare, la grossa rana le indicò di guardare più avanti. La druida sollevò lo sguardo e vide la base di una grossa sequoia, circondata da volute di fumo nero. Poi, dalla parte superiore del ceppo si separarono tre pezzi, che si allargarono a modellare una struttura simile a una torre con tre punte, e al centro si formò una specie di sfera scura. Subito dopo, il ceppo diventò di pietra e si colorò di nero. Morgase si ricordò di aver già visto quella cosa durante l’esplorazione con Nalatien. Era stato lui a dirle che aveva notato una sfera al centro di quella strana struttura. Guarda ancora, disse la voce bassa del suo spirito guida. La druida obbedì: dalla sfera nera usciva del fumo chiaro che si concentrava davanti al ceppo, addensandosi fino a dare forma a un cavallo bianco che subito corse a tuffarsi in un laghetto apparso dal nulla lì accanto. Osserva bene, la esortò ancora lo spirito guida. Morgase si concentrò ancora di più e scorse un filo di fumo bianco che collegava la creatura con la sfera nera.
Quello è il seme dell’oscurità, che ventisei anni fa qualcuno ha piantato in questo bosco. Ora sai cosa devi fare. Morgase tornò in sé e si ritrovò di nuovo a terra, con la testa dolorante e la strana sensazione di qualcosa che le premeva sulla schiena. In realtà era rimasta incosciente solo pochi secondi, durante i quali Duncan si era messo sopra di lei, sollevando lo scudo per proteggerla, mentre Lionel stava incitando Liriel a trovare un modo meno doloroso per fermare Firion, che continuava lentamente ad avanzare verso il mostro, incurante della freccia che gli usciva dal polpaccio. Liriel continuava a maledire quel dannato essere che rendeva inutile la sua Eteria. Quelle parole fecero nascere un’idea a Nalatien, che decise di uscire dal suo stato di concentrazione e subito si rivolse alla sorella: «Liriel, non lasciare che quell’essere ti faccia credere che l’Eteria sia inutile. È vero, non puoi attaccare il kelpie, ma quello non è l’unico bersaglio. Puoi sempre agire su Firion!» Nella mente dell’elfa si accese una luce capace di dissipare una parte di quel panico che finora le aveva impedito di pensare lucidamente. Ricordò l’incantesimo di Immobilizzazione che le aveva insegnato il suo maestro Aliman: se non poteva essere usato sul kelpie, avrebbe però funzionato benissimo su Firion! Allora Liriel si preparò a bloccare il ranger con la sua Eteria. Nel frattempo Morgase si era spostata da sotto Duncan, ancora con lo scudo sollevato per proteggerla dal kelpie, e si era messa a sedere. Mentre si concentrava per assumere la forma di pantera, la druida disse rapidamente al paladino: «Scusa se ora vi abbandono, ma c’è un altro modo per sconfiggere il kelpie. Perdonatemi se l’ho capito solo adesso. Voi cercate in tutti i modi di impedire che Firion venga toccato. E restate in vita.» Duncan non fece in tempo ad aprire bocca, che il corpo di Morgase cominciò a vibrare e la sua forma cambiò da umana a pantera. Per un attimo lo sguardo di Morgase incrociò quello di Liriel, che nel vedere la sua trasformazione rischiò di perdere la concentrazione per l’incantesimo di Immobilizzazione. Poi, dopo aver
lanciato un’ultima occhiata a Nalatien, anche lui meravigliato per la sua trasformazione, Morgase iniziò a correre il più velocemente possibile verso la zona desolata, dove si trovava il seme dell’oscurità che aveva piantato Rhao quando lei era nata. Nel vedere la pantera che correva via, Lionel gridò forte: «Ma che fai Morgase? Torna qui!» «Ha avuto un’idea per fermare il kelpie» spiegò rapidamente Duncan. «Noi facciamo in modo che Firion non muoia!» Il paladino, senza più la druida da proteggere, si alzò in piedi e caricò il kelpie con lo scudo, mentre Keldon gli dava man forte attaccando con la mazza il mostro al fianco. In quello stesso momento, Liriel completò le movenze dell’incantesimo: il corpo del ranger brillò per un attimo e si bloccò mentre compiva un o. «Adesso Firion è immobilizzato» dichiarò Liriel ad alta voce, «ma non durerà a lungo. Dato che è lui il bersaglio, proteggiamolo tutti insieme!» «Giusto, ma non dobbiamo lasciar fuggire il kelpie» gridò Lionel, che aveva cominciato a scendere dall’albero. «Duncan, proteggi Firion con lo scudo! Keldon, resta a sinistra, io mi piazzerò alla sua destra! Liriel o Nalatien, uno di voi può appiccare un fuoco dietro di lui per impedirgli la fuga?» «Ci penso io» rispose Liriel ad alta voce. Poi aggiunse, rivolta a Nalatien: «Resta vicino a Firion ed evoca qualcuna delle tue bestie più grandi per fargli da scudo.» L’incantatore annuì e fece come aveva detto la sorella. Dal grosso portale di evocazione uscì un essere simile a un gorilla, ma con quattro braccia e quattro gambe. Nalatien gli ordinò semplicemente di restare fermo davanti a Firion. Nello stesso tempo Liriel, muovendosi carponi per cercare di farsi notare il meno possibile, si portò dietro al kelpie e, usando l’incantesimo Mani Fiammeggianti, diede fuoco a un grosso cespuglio. Allora Lionel, con la spada e lo scudo nelle mani, disse con enfasi:
«E ora cerchiamo di resistere mentre Morgase trova una soluzione.» Quasi in risposta a quelle parole, il kelpie si sollevò di nuovo sulle zampe posteriori e colpì lo scudo di Duncan.
Morgase, in forma di pantera, correva il più velocemente possibile attraverso la zona arida, verso la struttura di pietra nera. Aveva raggiunto l’area in cui i fumi velenosi fuoriuscivano dal terreno, ma non accennò a fermarsi: anzi, proseguì senza esitare. Per un istante le dispiacque di non aver detto a Nalatien che i druidi nella forma animale erano immuni ai veleni. Stava per dirglielo, quando sia da Insidia che dal suo spirito guida era arrivato un cenno di disapprovazione. Uno strano pensiero le sorse all’improvviso nella mente: che quei due fossero gelosi di Nalatien? Allontanò da sé quei pensieri e si concentrò su quello che doveva fare. Giunta davanti alla strana struttura nera, si mise a studiarla con attenzione. Era alta poco meno di tre metri e la base derivava sicuramente dal ceppo di un’enorme sequoia. Dalle radici pietrificate trasudavano i fumi neri del veleno che ammorbava l’aria circostante. Le tre guglie rastremate che si sviluppavano da metà erano inclinate verso l’esterno e davano l’idea dei petali di un fiore grottesco, in mezzo ai quali si librava una sfera nera di circa trenta centimetri. Mentre i suoi contorni sembravano ben delimitati, sotto la superficie si intravedeva qualcosa muoversi, come se ci fosse stata dell’acqua scura molto densa che vorticava lentamente in maniera disordinata. Se solo mi fossi resa conto prima di cosa fosse, si rammaricò, forse adesso non rischieremmo di morire a causa del kelpie, risvegliato dal seme dell’oscurità che quel dannato Rhao ha piantato qui! È colpa sua se mia madre è morta! Il suo sguardo si fissò sul seme oscuro. Nonostante l’aura di malevolenza che irradiava tutto intorno, Morgase si sorprese al pensiero che avrebbe potuto distruggerlo molto facilmente e fu colta da un lampo di comprensione: Per questo che Rhao si è dato tanto da fare per eliminare i druidi da questo luogo! Solo uno di noi poteva arrivare al seme, superando incolume il veleno. Maledetto bastardo! L’ultimo pensiero era talmente carico di rabbia e di dolore per la morte di sua
madre e di tutti gli altri druidi, che la pantera Morgase ruggì con incredibile intensità e violenza. Allora, il felino fece un agile balzo e afferrò il seme con la bocca, quindi lo dilaniò con le sue zanne. Il guscio si incrinò e dalle crepe iniziò a colare del liquido nero che, a contatto con l’aria, evaporò istantaneamente. Poi Morgase, con la forza del dolore e della rabbia, serrò ancora di più le mascelle fino spaccare il seme in mille pezzi. La druida avvertì improvvisamente una sensazione di pace. La malevolenza emanata dal seme era svanita, come pure il veleno che aveva distrutto il Bosco delle Sette Sequoie. La pantera ruggì ancora mentre Morgase pensava: Mamma, sei stata vendicata! Ora puoi riposare in pace. D’un tratto si ricordò dei suoi compagni e si affrettò a tornare indietro per vedere se fosse riuscita a salvarli dal kelpie.
Duncan era riverso a terra, scaraventato indietro dalla carica del kelpie. Solo grazie al suo scudo si era salvato dalla forza dell’impatto. Lionel e Keldon erano stati quasi travolti a loro volta e si erano salvati saltando nella direzione opposta appena in tempo. Ora però il kelpie era a pochi i da Firion, ancora immobilizzato dall’incantesimo di Liriel. C’era solo la creatura evocata da Nalatien, lo strano gorilla con quattro braccia e quattro gambe, a fare da scudo all’elfo. Lo stesso incantatore era immobile a pochi i di distanza, con lo sguardo assente. Liriel gridò il nome di Firion, disperata per la propria impotenza. Il kelpie avanzò verso l’elfo lentamente, quasi pregustando ciò che sarebbe successo a breve. Quando toccò lo strano gorilla, la creatura evocata si dissolse nel nulla come una bolla di sapone. Ora l’elfo era suo! Improvvisamente tutti percepirono come se un grosso peso fosse stato levato dai loro cuori. Il kelpie arrestò la sua avanzata e allungò il collo verso l’alto, emettendo un lungo suono acuto, come un lamento. I contorni del suo corpo
iniziarono a tremolare, simili a uno specchio d’acqua increspato dal vento. Pochi attimi dopo, il mostro si sciolse e divenne una pozza d’acqua, subito assorbita dal terreno. Firion e Nalatien caddero a terra. Gli altri quattro rimasero senza fiato per lo stupore. L’incubo era finito: finalmente erano salvi! Qualche attimo dopo, Firion e Nalatien si risvegliarono dall’effetto ipnotico e si guardarono intorno, increduli di essere ancora vivi. Firion si toccò la gamba sinistra che gli pulsava per il dolore, e sentì l’asta di una freccia che sbucava fuori dal polpaccio. Decise che avrebbe chiesto aiuto al chierico per estrarla senza rischi, ora gli interessava solo riabbracciare Liriel. L’elfa corse subito ad abbracciare Firion, quasi con le lacrime agli occhi. Duncan e Lionel si scambiarono la stretta all’avambraccio come saluto di vittoria, mentre Keldon elevò una preghiera di ringraziamento a Vàlor. Nalatien si voltò verso la zona desolata per vedere se Morgase arrivava. Anche Insidia si era ripresa e si era messa a guardare dalla stessa parte. Dopo poco, una pantera si avvicinò dalla zona desolata e ridivenne Morgase. «State tutti bene?» Chiese subito preoccupata. «Sì» le rispose Nalatien sorridendo. «Siamo tutti salvi!» Anche la druida sorrise, poi si accucciò per accarezzare Insidia. Improvvisamente ognuno di loro sentì una puntura a un braccio o alla base del collo e un senso di torpore li pervase. Tutti caddero a terra. «Grazie per averci tolto di mezzo quell’essere spregevole» disse una voce che a Duncan, Keldon e Morgase sembrò familiare. «Quel mostro schifoso ha ucciso parecchi di noi.» Dalle ombre dietro la boscaglia circostante uscì una dozzina di persone, tutte mascherate. «So chi sei» disse Duncan a fatica. «Perché ce l’hai con noi?» L’uomo rise, mentre si accucciava al suo fianco. «Sai che cosa voglio.» Si tolse la maschera e rivelò di essere davvero l’uomo biondo con cui si erano scontrati in città. Con un sorriso di scherno, aggiunse:
«Ma voi ora vi farete una bella dormita.» I quattro umani e i tre elfi non riuscirono a resistere agli effetti dell’anestetico e i loro occhi si chio.
~ 11 ~
Il pesce grosso mangiò il pesce piccolo
J oel, con la maschera appesa alla cintura, teneva tra le dita il bracciale dorato rivolgendolo in alto verso la luna, e osservava gli strani riflessi che le striature platinate creavano sotto quella luce diafana. Era stato più facile del previsto prenderlo. Li aveva fatti tenere d’occhio fin da quando erano entrati nel Bosco delle Sette Sequoie: il paladino bifolco, con l’oggetto che da centinaia di anni le Maschere cercavano, il chierico ottuso, ciecamente al seguito del paladino, e la druida che, se non avesse odorato tanto di selvatico, sarebbe anche stata interessante. In più si era aggiunto al gruppo un insulso tenentino della gendarmeria di Crandall, niente più di una seccatura marginale. Joel sapeva che quei quattro avevano l’intenzione di venire lì, lo aveva detto anche a Dolan, e da Crandall il sentiero orientale era l’ingresso più logico. Per sicurezza, comunque, aveva anche inviato qualcuno a controllare gli altri ingressi più vicini alla città. Proprio da uno di questi gli era giunta una notizia che lo aveva incuriosito parecchio: Bert, nel suo rapporto, aveva riferito di tre elfi che si aggiravano nel bosco come fuggiaschi. Joel aveva subito cominciato a pensare alla possibilità di ingaggiarli: forse erano esiliati che avevano perso tutto e che avrebbero potuto trovare interessante la sua proposta. Inoltre, le loro particolari abilità elfiche sarebbero state un ottimo acquisto per il suo gruppo. Aveva ordinato a Bert di seguirli, ma poi era arrivato quel dannato mostro a rovinargli i piani. Poi era giunto il rapporto di Alan, che seguiva i quattro di Crandall: era stato piuttosto contento di sapere che il paladino e i suoi compagni avevano salvato gli elfi, meno che i due gruppi si fossero uniti. Alan aveva riferito dei loro piani per sconfiggere definitivamente il kelpie e allora Joel aveva ordinato a lui e a Bert di non perderli di vista. Joel tornò a guardarsi intorno. Quello che più interessava loro era stato preso, ma le Maschere erano pur sempre dei ladri, e così i suoi compagni avevano cominciato a frugare tra le cose dei begli addormentati.
La sua attenzione venne richiamata da dei gemiti soffocati: tre dei suoi uomini erano chinati intorno all’elfa. Si avvicinò rapidamente e riconobbe che erano Bert, Lobbi e Nedas. Avevano aperto la tunica dell’elfa, mettendone a nudo il seno sodo e prosperoso. Bert si stava intascando l’amuleto che aveva al collo, mentre gli altri due erano assorti a compiere altre amenità: Lobbi le stava massaggiando con le dita i capezzoli turgidi e caldi, e Nedas le palpeggiava le cosce lisce, vellutate e morbide. C’era solo un piccolo problema: l’elfa aveva gli occhi aperti e Joel pensò che, se quella femmina avesse potuto, avrebbe incenerito i suoi tre compagni con lo sguardo. Quando Bert iniziò ad accarezzarle il ventre e a scendere lentamente sempre più verso il basso, Joel decise di intervenire: «Basta, lasciatela stare! Non vedete che è ancora sveglia? Gli elfi sono più resistenti di noi ai sedativi! E poi, va bene che è un’elfa bellissima, lo vedo anch’io che ha un corpo stupendo, ma non siamo qui per questo: abbiamo i nostri doveri da completare. Datele un’altra dose e poi andiamocene.» L’altro obbedì e la punse al braccio con un ago. Subito Liriel chiuse gli occhi e si addormentò profondamente. «Che facciamo con gli altri, Joel?» Chiese Alan, che si era avvicinato a loro affascinato dalle forme dell’elfa. «I quattro di Crandall hanno visto le nostre trappole e le loro vittime. Il tenente ne ha riconosciuta una, l’ho sentito io.» Joel staccò a fatica lo sguardo dal petto dell’elfa e si girò verso Alan. «Noi non siamo i Corvi: noi non uccidiamo se non è proprio necessario. Abbiamo preso quello che volevamo e anche qualcosa di più. Lasciamoli qui e andiamocene, ma prima farò rapporto a Dolan.» Si sfilò dalla manica una pergamena grigia che teneva arrotolata sull’avambraccio, la stese e si punse l’indice della mano destra con un ago che spuntava dall’angolo in alto a sinistra. Quindi scrisse: “La Direttiva Primaria è stata portata a termine senza problemi. Coloro che avevano il manufatto sono stati resi inoffensivi. Potete iniziare i preparativi per la Risoluzione Finale. Rientreremo alla base quanto prima. Gloria alla Maschera d’Ombra! Joel”.
In breve tempo la scritta scomparve. Dopo un’attesa di un paio di minuti, la pergamena divenne calda e sulla sua superficie comparve: “Ottimo lavoro. Gloria alla Maschera d’Ombra! Dolan”. Joel riarrotolò la pergamena intorno al braccio e disse: «Bene, torniamo alla base: la missione è stata completata con successo per la gloria della Maschera d’Ombra!» «Gloria alla Maschera d’Ombra!» Risposero gli altri a una sola voce, entusiasti, alzando il pugno al cielo.
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Nella zona desolata del Bosco delle Sette Sequoie, la struttura nera a tre punte si stava lentamente disgregando. I resti infranti del seme dell’oscurità erano sparsi tutto intorno sulla terra secca e arida, dove i fumi del veleno stavano pian piano svanendo. Un uomo in armatura scura, dai lunghi capelli neri e dalle profonde cicatrici sul volto, osservava le rovine con odio crescente. I suoi occhi ardevano di rabbia e desideravano vendetta. «Sapevo che avrei dovuto sterminare tutti i druidi: la possibilità che uno di loro giungesse qui e capisse come fermare il mio piano per questo bosco non era così remota» disse Rhao con voce profonda. Sollevò lo sguardo e aggiunse con tono calmo: «Tuttavia, se lo avessi fatto, la natura si sarebbe ribellata, e allora non avrei più potuto realizzare il mio piano.» Si avvicinò ai resti della struttura nera e la colpì con un pugno; poi riprese con più concitazione: «Lo spirito d’acqua, però, ha svolto egregiamente il suo compito, e ha indebolito a sufficienza la Maschera d’Ombra!»
Sollevò una mano e un forte vento si alzò insieme a una foschia violacea, innalzando tutta la polvere nera che aveva fatto parte della torre. Quando il vento cessò e la polvere si depositò di nuovo al suolo, Rhao era svanito.
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Joel stava percorrendo il corridoio che portava alla stanza di Dolan. Aveva lasciato gli altri compagni nella sala grande accanto all’ingresso a dividersi quello che avevano recuperato nell’incursione. Non gli era piaciuto quello che avrebbero voluto fare all’elfa. Quando aveva visto la mano di Bert che le scendeva verso l’inguine, gli era tornato in mente qualcosa che sperava di avere dimenticato. Anche adesso rivide il corpo senza vita di Clelia. La sua compagna non era stata solamente uccisa dai Corvi: il suo corpo era imbrattato di sangue e presentava ferite e contusioni sparse un po’ dovunque, soprattutto sui seni e sulle gambe. Gli era stato subito chiaro che quei maledetti avevano abusato di lei. Forse era stato un gesto di oltraggio nei confronti delle Maschere, oppure un atto intimidatorio o un gesto di sfida. Purtroppo non gli era stato possibile cercare coloro che avevano ucciso e umiliato Clelia. All’inizio Joel non aveva capito perché Dolan glielo avesse proibito, e si era infuriato parecchio con lui, rivolgendogli parole molto violente e offensive, tanto che dovette farlo rinchiudere per una settimana prima che si calmasse. Poi Joel aveva compreso: il suo capo non voleva che anche lui, spinto dalla cieca vendetta, potesse diventare un’altra vittima dei Corvi. Adesso il suo più grande rammarico era che Clelia non potesse assistere al trionfo delle Maschere su quei maledetti Corvi. Centinaia di anni erano trascorsi in cui i due gruppi si erano confrontati alla ricerca del Bracciale Perduto. Né Joel né i suoi compagni erano a conoscenza del motivo per cui quel Bracciale fosse così importante, tanto da avere priorità su qualunque altra missione. In fin dei conti, però, ciò che a loro davvero importava erano il successo, il piacere e il denaro, tutte cose che, lavorando con le Maschere, ricevevano a sufficienza.
Tuttavia Joel sentiva profondamente il bisogno di quest’ultima vittoria: avere portato a compimento la Direttiva Primaria era un ottimo surrogato della vendetta contro gli odiati Corvi. Davanti alla porta della stanza di Dolan, Joel si fermò e respirò a fondo, allontanando il ricordo di Clelia. Stava per bussare, quando sentì dei i dietro di lui. Riconobbe subito l’andatura di Noa di Dovitilia. Si voltò e vide una bella donna alta e snella, con gli occhi marroni e i capelli neri tagliati a caschetto, che indossava una delle sue improbabili tuniche corte dai colori fin troppo sgargianti. La sua maschera era appesa a un gancio della cintura ed era diversa da quella di Joel: aveva a destra la metà bianca con il volto arrabbiato e a sinistra la metà nera con il volto sorridente. Lei, Joel e Ternio, ora in missione a sud, erano i luogotenenti di Dolan, i più alti in grado del Rifugio di Crandall. Noa gli sorrise e disse: «Ho saputo che hai risolto due grossi problemi con una sola impresa: hai sconfitto il mostro che ci stava decimando e hai portato a compimento la Direttiva Primaria. Spero che ti ricorderai dei tuoi amici quando sarai al servizio della Maschera di Gannum.» Joel le si avvicinò ricambiando il sorriso, e con le dita le tastò il tessuto della corta gonna viola e gialla: «Se smetterai di indossare certe cose, potrei anche pensare di fare il tuo nome alla Maschera di Gannum...» Lei gli accostò il viso all’orecchio e sussurrò suadente: «Se vuoi me la tolgo.» Joel rimase stupito, ma subito Noa gli prese la mano e la allontanò dalla gonna, quindi riprese in tono normale: «Comunque Dolan non è nella sua stanza: ti sta aspettando nella sala di osservazione.» L’uomo sorrise e le fece un inchino scherzoso, poi disse: «La gloria mi attende. Prego, fammi strada!» Mentre camminava, Joel non poté fare a meno di notare ciò che la donna cercava
di nascondere con quella pettinatura a caschetto: aveva inconsciamente ravviato i capelli, scoprendo il padiglione dell’orecchio sinistro, lievemente appuntito in alto. Noa preferiva non far sapere di essere una mezzelfa, principalmente perché non voleva vedere negli occhi degli altri la commiserazione per il suo stato. Un mezzelfo era il risultato dell’unione tra un umano e un’elfa o viceversa; nel caso di Noa, diversamente da quanto accadeva di solito, suo padre era un elfo e sua madre un’umana. Dal punto di vista fisico un mezzelfo ereditava i tratti migliori delle razze dei due genitori: abilità e versatilità dagli umani, intelligenza e agilità dagli elfi, senza contare i sensi più sviluppati e la vita più lunga, anche se non proprio alla pari degli elfi. L’unico loro difetto era l’impossibilità di avere figli. Da un punto di vista morale, tuttavia, le due razze vedevano i mezzelfi in maniera opposta: per gli umani erano considerati delle risorse preziose, dato che portavano in sé il potere degli elfi senza la loro arroganza; per gli elfi, invece, erano degli abomini che dovevano essere uccisi a vista se solo avessero tentato di entrare nel loro territorio. Era soprattutto la comione che Noa non voleva vedere negli occhi degli altri, la pietà per il fatto che non apparteneva a nessuno dei due mondi: troppo elfa per gli umani e troppo umana per gli elfi. Infatti, neanche tutti gli umani apprezzavano veramente i mezzelfi, perché ne invidiavano l’avvenenza e le migliori capacità. Per evitare tutto questo, lei aveva scelto di tenere nascosti, per quanto possibile, i suoi tratti caratteristici più evidenti. Noa faceva già parte delle Maschere quando il quindicenne Joel si era unito a loro. Aveva sei anni più di lui, ma in quanto mezzelfa dimostrava la sua stessa età. Anche ora che Joel aveva ventotto anni e lei trentaquattro sembravano praticamente coetanei. Quando Noa aveva visto il disagio di quel timido ragazzino nel trovarsi in quel nuovo ambiente, aveva fatto tutto il possibile per farlo abituare alla nuova famiglia, arrivando ad affezionarsi a lui. Per Joel, Noa divenne la sorella maggiore che non aveva mai avuto. Quando arrivarono nella sala d’ingresso, un’ampia stanza quasi circolare con le pareti di roccia, Noa si fermò, si girò verso Joel e gli chiese: «È vero che ti sei imbattuto in tre elfi durante l’incursione?» «Sì, ma non ho avuto modo di interagire con loro, perché ci siamo avvicinati solo dopo l’attacco con l’anestetico. Abbiamo preso qualche manufatto elfico se ti interessa...»
Noa scosse la testa e riprese: «Vedremo. Ora non facciamo aspettare Dolan.» Oltreò Joel e salì le scale dietro di lui. Arrivarono a un’altra sala circolare in cui si aprivano tre porte, una delle quali sorvegliata da due guardie. «Dolan ci attende» disse loro Noa, e subito aprirono la porta. Il capo era seduto in terra a gambe incrociate, al centro di quell’ampia stanza circolare priva di soffitto. La temperatura era più fresca rispetto alle altre sale del rifugio, e in alto si vedeva un settore di cielo stellato. Dolan aveva gli occhi chiusi e teneva le braccia conserte. Joel notò che la striscia bianca della sua barba lungo il mento era stata modellata a formare una treccina, come faceva nelle occasioni importanti. Quando si guardò intorno, rimase stupito nell’osservare tutti i suoi compagni allineati lungo le pareti, ognuno con la propria maschera sul volto. Tutti e trentacinque i membri attualmente presenti al Rifugio erano lì. Joel si voltò verso Noa e la vide sorridere. Dolan si alzò con un ampio sorriso. Indossava il vestito di velluto nero e dorato, quello dei momenti più solenni. La sua maschera era appesa alla cintura, accanto al suo stocco d’argento. Joel gli si avvicinò, tirò fuori dalla tasca il Bracciale, fece un profondo inchino e glielo porse. «Ecco il Bracciale Perduto» annunciò solennemente. «La vittoria della Maschera d’Ombra è ormai certa!» Dolan lo prese e lo sollevò, mostrandolo con enfasi ai presenti. Tutti iniziarono a battere ritmicamente un piede a terra, con una cadenza lenta e maestosa. Dopo circa un minuto, Dolan alzò la mano per chiedere il silenzio. «Ecco la realizzazione di un sogno» dichiarò Dolan con voce forte e ferma. «Il sogno di Gannum, la Prima Maschera, il fondatore della nostra gilda, oggi diventa realtà! Grazie al nostro compagno Joel, la Direttiva Primaria è stata portata a termine con successo! Seicento anni è durata questa ricerca, seicento anni che ci hanno visto combattere contro i Corvi Scarlatti. Abbiamo dovuto piangere la perdita di tanti compagni, abbiamo sofferto ferite e oltraggi, ma alla fine ne siamo usciti vincitori!» Dolan si girò intorno per mostrare a tutti il Bracciale Perduto, poi si avvicinò a
Joel e un applauso scrosciante salutò la sua vittoria. Improvvisamente una foschia violacea scese sulla grande sala, oscurando il cielo stellato. Una voce profonda vibrò nell’aria: «Un bel discorso toccante, Dolan: mi sono quasi commosso. Per questo voglio concederti un’ultima possibilità di scelta.» Nello sconcerto generale, tutti corsero intorno al loro capo per proteggerlo. «Non ti consegneremo mai il Bracciale, Rhao!» Dichiarò Dolan con fermezza. «Molti si sono sacrificati per la sua ricerca, molti sono morti senza poter vedere il giorno della vittoria! Non cederemo mai senza combattere!» Rhao, con molta calma, ribatté: «Speravo che lo avresti detto...» La nebbia viola si addensò rapidamente, dando forma a un uomo in armatura nera. La Maschera più vicina lo attaccò cercando di prenderlo di sorpresa, ma quando le sue armi toccarono l’armatura si disgregarono. In quell’istante, lo strano simbolo al centro del pettorale, un sole fiammeggiante con all’interno tre occhi disposti ai vertici di un triangolo, aveva emesso un lampo. La ragazza cercò subito di allontanarsi da lui con una capriola all’indietro, ma Rhao sollevò una mano e fece alcune rapide movenze. L’aria si fece pesante e dall’apertura del soffitto le stelle scomparvero, coperte da cupe nubi scure. Poi un fulmine scese dal cielo e colpì la giovane donna senza possibilità di scampo. Il fragore del tuono che seguì fu assordante e subito dopo iniziò a piovere. Quando gli occhi dei presenti si ripresero dagli effetti del lampo, videro i resti carbonizzati della loro compagna e Rhao che si avvicinava lentamente a Dolan. «Avete fatto la vostra scelta» dichiarò. «Peccato che non è stata quella giusta.» Joel e Noa si scambiarono una rapida occhiata, poi il primo gridò: «Bianchi, seguite Noa e occupatevi della difesa di Dolan. Neri, restate con me e preparatevi alla battaglia!» Subito, tutti coloro che avevano nera la parte destra della maschera si portarono
al fianco di Joel, che stava valutando come approfittare del pavimento di pietra reso scivoloso dalla pioggia. Intanto, quelli che avevano bianca la parte destra della maschera si strinsero intorno al loro capo e si avvicinarono a Noa, che indicò loro di oltreare la porta e di scendere al piano di sotto. Per un momento si voltò a guardare Joel, poi raggiunse gli altri. «Dobbiamo arrivare al piano sotterraneo» disse Dolan a Noa mentre scendevano le scale. «Lì possiamo trincerarci e usare tutte le difese di cui disponiamo.» La mezzelfa annuì, ma disse: «Guida tu gli uomini fino al sotterraneo. Non posso lasciare Joel da solo ad affrontare quel mostro.» «Sapevo che lo avresti detto» affermò lui con una punta di tristezza nella voce. «Non ho rimpianti!» Riprese lei, decisa. «Ho giurato di dare la mia vita per la Maschera d’Ombra e, se questa dovesse essere la mia fine, è stata comunque una mia scelta!» «Allora va’, se è quello che vuoi. E rendi onore alla Maschera d’Ombra!» Noa si fermò e guardò Dolan con la sua scorta sparire giù per le scale del sotterraneo. Poi si voltò, fece un profondo respiro e si mise a correre per tornare da Joel. Rhao era in piedi al centro della stanza e osservava i corpi delle Maschere riversi a terra, immobili, tra cui anche Joel. Noa stava per gridare e attaccare, quando i suoi occhi acuti da mezzelfo notarono che Joel respirava ancora; allora si nascose dietro il battente della porta. L’uomo in nero si incamminò verso l’uscita e superò la porta senza accorgersi della mezzelfa. In quell’istante un fulmine calò dalla volta scoperta del soffitto e colpì uno dei corpi riversi a terra, incenerendolo. Rimasta sola, Noa entrò e raggiunse rapidamente Joel, lanciando preoccupate occhiate alle nuvole minacciose che si vedevano dall’apertura del soffitto. Gli tastò l’arteria al collo e sentì che pulsava ancora, anche se molto lentamente. La mezzelfa emise un grosso sospiro di sollievo: era ancora vivo! Aprì una delle tasche segrete della sua bizzarra tunica, e ne tirò fuori una piccola boccetta piena
di un liquido azzurro. Non credevo che l’avrei mai usata davvero, pensò rigirando la bottiglietta tra le mani. Avevo creato questa essenza stimolante quasi per gioco, come antidoto per le solite essenze sedative che usiamo, e volevo regalargliela con l’augurio che non dovesse mai usarla per aver sbagliato a preparare gli aghi soporiferi... Noa aprì la boccetta e intinse una delle sue freccette nel liquido blu. Poi punse Joel e si mise a sentirgli l’arteria del collo. Avvertì un leggero aumento della frequenza cardiaca e sentì lacrime di gioia salirgli agli occhi. Mentre pungeva nuovamente Joel, un fulmine calò dal cielo con un fragoroso boato e colpì un altro corpo, incenerendolo. Noa, che non se lo aspettava, gridò dallo spavento. Punse rapidamente Joel con altre dosi di stimolante, e pregò qualunque divinità fosse disposta ad ascoltarla di non essere colpita dal fulmine. Dopo altre quattro dosi, Joel aprì finalmente gli occhi.
~ 12 ~
Nel covo della Maschera d’Ombra
D uncan stava imprecando con rabbia mentre, insieme a Lionel, controllava per l’ennesima volta il terreno circostante alla ricerca del suo prezioso bracciale, alla luce di una torcia. Sperava ancora di ritrovarlo da qualche parte, ma ormai aveva capito che doveva averlo preso quel maledetto biondino. Anche Firion era furioso. Era stato lui il primo a riprendersi, andando subito a coprire il corpo mezzo nudo di Liriel. Quelle bestie non avevano notato che anche lui aveva resistito in parte all’effetto del narcotico. Tuttavia, non era riuscito a muoversi: aveva potuto solo assistere a quello che quei tre bastardi volevano fare alla sua amata. Keldon aveva risanato la gamba di Firion e dato un po’ di assistenza a tutti, compresa Insidia, che però continuava a essere stordita per la forte dose di sedativo. Morgase era inginocchiata accanto al chierico, preoccupata. Liriel era ancora piuttosto scossa, non solo per la violenza subita, ma anche per il furto del medaglione, che le aveva donato il suo maestro Rhao, e della penna argentata, regalo di suo padre. Era seduta su un tronco con lo sguardo infuocato meditando vendetta, mentre Nalatien, accanto a lei, cercava di rincuorarla, pur pensando all’unica cosa che gli era rimasta per ricordargli i genitori e che gli era stata rubata, cioè la piuma dorata. Intanto Firion camminava avanti e indietro di fronte a Liriel, giurando sulla dea Ardèsia che avrebbe vendicato il suo onore. D’un tratto, Morgase si alzò in piedi e disse a gran voce: «Adesso basta! È inutile restare qui a rimuginare su quello che è successo. Ora ho capito dov’è il nascondiglio di quei ladri, e non intendo lasciare che disonorino il Rifugio dei druidi del Bosco delle Sette Sequoie! Se avete davvero l’intenzione di riprendervi quello che vi hanno rubato» e Morgase guardò prima Duncan e poi Liriel, «o di vendicarvi per ciò che hanno fatto» e qui guardò Firion e ancora Liriel, «allora vi conviene venire con me!» Si voltò verso la lupa
che, nel frattempo, si era messa a sedere, e disse: «Insidia, andiamo!» La lupa emise un breve ululato, poi si alzò e si avvicinò alla druida. Lo sfogo di Morgase ebbe l’effetto di scuotere tutti i suoi compagni dai loro pensieri, e li spinse a reagire. Ciascuno prese le sue cose e la seguì. La donna si diresse con o deciso verso la zona dove sorgeva il Rifugio, cioè la costruzione che i druidi usavano per accogliere gli ospiti. Quando aveva visto com’era stato ridotto il Conglomerato, aveva capito che anche le protezioni del Rifugio erano andate perdute: chiunque avrebbe potuto accedervi senza problemi. Quale posto migliore di quello, quasi invisibile grazie a effetti ottici naturali, per nascondersi? Ne era sicura: quella gente era lì! Durante la camminata a rapide falcate attraverso i sentieri tortuosi del bosco, tutti furono silenziosi, anche Lionel. Nelle loro menti volavano potenti incantesimi, affondi valorosi, sangue sparso per terra, grida che imploravano pietà. Anche Duncan si trovò a desiderare vendetta, tanta era la rabbia per la perdita del bracciale, l’unico ricordo che gli rimaneva di Lilibeth. Impiegarono circa due ore per raggiungere il crinale della collina rocciosa al cui interno sorgeva il Rifugio. L’ingresso era nascosto dagli alti alberi che lo circondavano e tutti lo videro solo quando la druida li portò nella posizione giusta per notare la fenditura nella roccia. «A volte si possono ottenere risultati efficaci anche senza usare l’Eteria» commentò Morgase facendo l’occhiolino a Nalatien. Poi aggiunse, rivolgendosi a tutti: «Il rifugio è qui dentro. Non so se quei ladri abbiano sistemato delle trappole, quindi fate attenzione. L’ideale sarebbe spegnere le torce, ma non sembra esserci nessuno di guardia, quindi teniamole accese, per il momento: ci aiuteranno a scorgere eventuali pericoli...» La luna e il cielo stellato scomparvero rapidamente dietro nubi nere e minacciose. Poi ci fu un fortissimo lampo, seguito da un violentissimo tuono, e cominciò a piovere. «Che sta succedendo, per tutti gli dèi?» Imprecò Lionel asciugandosi la pioggia dagli occhi. I tre elfi percepirono un forte brivido lungo la schiena: Liriel e Nalatien si
scambiarono uno sguardo carico di terrore. Anche Morgase e Keldon avvertirono una strana sensazione, ma prima che potessero intervenire, Nalatien disse: «Questo non è un fenomeno naturale: c’è un’alta concentrazione di Eteria lì dentro.» «Mio fratello ha ragione» confermò Liriel rabbrividendo ancora, mentre un altro tuono rimbombava nell’aria. «È di sicuro un incantesimo molto potente, ma non so di quale tipo. Chiunque l’abbia lanciato è un incantatore molto abile e pericoloso...» «Allora faremo attenzione» esclamò con decisione Duncan. «Ma io entrerò lì dentro e mi riprendo il bracciale di Lilibeth!» Dopo un altro forte tuono, tutti avanzarono, pronti a reagire alla vista dei nemici.
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Joel e Noa stavano scendendo furtivamente le scale, pronti all’azione. Purtroppo la mezzelfa non era riuscita ad aiutare gli altri che forse erano ancora vivi: a un tratto il cielo si era scatenato in una rapida serie di fulmini che aveva colpito tutti i corpi a terra. Solo perché aveva afferrato Joel e si era lanciata con lui fuori dalla sala si erano salvati. L’uomo sentiva la rabbia montargli sempre di più. Se avesse sospettato che quel bastardo era un incantatore, si sarebbe subito preoccupato di colpirlo alle mani, come gli era stato insegnato. Era quello il loro punto debole: se non potevano usare le mani, non potevano eseguire incantesimi. E ora i suoi compagni sarebbero stati ancora vivi. In fondo all’ultima rampa di scale, riversi a terra, c’erano tre corpi ricoperti di sangue. Mentre Joel avanzava lentamente lungo il corridoio, Noa si fermò a osservare uno dei corpi. Già alla prima occhiata, desiderò di non essersi arrestata e represse un conato di vomito. Il corpo non presentava ferite; il sangue che lo copriva era uscito a fiotti abbondanti dalla bocca e dal naso, soffocandolo.
Joel le toccò la spalla per indicarle di riprendere a muoversi. Lei si voltò, annuì e si rialzò. Poi, insieme si avviarono verso il corridoio che portava alla sala sotterranea.
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Morgase e Firion stavano lavorando su una trappola che bloccava l’ultimo tratto di corridoio, prima dell’ingresso del Rifugio. Il ranger, grazie ai suoi sensi elfici, aveva notato qualcosa di strano ed era riuscito a fermare Duncan appena in tempo, tirandolo indietro mentre da alcuni fori lungo la parete uscivano degli aghi, forse avvelenati. Nessuno di loro aveva conoscenze specifiche sulla disattivazione delle trappole, ma Morgase aveva avuto l’idea di continuare ad attivarla finché non avesse terminato la scorta di aghi e Firion si era offerto di aiutarla. Nel frattempo gli altri fremevano per l’impazienza. «Se mi lasciaste lanciare una Palla di Fuoco contro la trappola...» iniziò a dire Liriel, ma Firion la interruppe dicendo: «Tutti quelli che sono lì dentro ci accoglieranno con le armi in pugno.» «Senza contare che in questo stretto corridoio verremmo bruciati anche noi» aggiunse Keldon. «Magari dentro non c’è più nessuno» intervenne Lionel. «Dopo quei fulmini, forse sono tutti morti.» «Non ci giurerei» ribatté Nalatien. «Ho eseguito una rapida divinazione, e ho percepito almeno una ventina di segni vitali là dentro. La situazione è confusa, ma di una cosa sono sicuro: nella parte in alto non c’è più nessuno.» «Forse si sono rifugiati nel piano sotterraneo» azzardò Morgase, ma venne subito richiamata da Liriel: «Non ti distrarre, e pensa a disattivare quella maledetta trappola!»
«Non è che debba concentrarmi...» stava cominciando a ribattere la druida, ma si fermò quando al suo stimolo la trappola non lanciò più aghi. Allora disse con una punta di soddisfazione: «Fatto! Possiamo proseguire.» Superarono la trappola e raggiunsero la grande porta di pietra poco oltre. D’un tratto ci fu un potentissimo boato, che sembrava costituito da più tuoni. Tutta la struttura di pietra tremò, e la porta venne spalancata dall’onda d’urto. I tre elfi e i quattro umani fecero un salto indietro per lo spavento, e rimasero un paio di minuti fermi per riprendersi. «Che diamine è stato?» Chiese Duncan quando le orecchie avevano finito di fischiare. «Un’altra trappola?» «No, era di nuovo l’incantesimo dei fulmini dal cielo» rispose Liriel, anche lei, come gli altri, ancora stordita per il boato. «Sì» confermò Nalatien che teneva ancora le mani sopra le orecchie. «Ora non percepisco più l’Eteria, quindi l’incantesimo deve essere terminato.» «Allora è il momento giusto per entrare e riprenderci le nostre cose» concluse Duncan risistemandosi lo scudo sul braccio. «Sì, andiamo» concordò Liriel, preparandosi a lanciare l’incantesimo Palla di Fuoco all’occorrenza.
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Rhao si stava stancando. Aveva decimato le forze a difesa dell’attuale possessore del Bracciale e lo aveva costretto a rifugiarsi con un piccolo gruppo di superstiti nel sotterraneo. Nessuno di loro aveva compreso con chi veramente avessero a che fare, nessuno di loro aveva la minima idea di chi fosse lui realmente. Ma ora qualcosa era cambiato. L’elfa, che si era segretamente impegnato a istruire, era nelle vicinanze. E questo non sarebbe dovuto succedere.
Rhao si trovava in fondo al corridoio sotterraneo e stava guardando la massiccia porta di legno chiusa. Tutto stava andando secondo i suoi piani, se non fosse stato per quell’unico particolare imprevisto: l’elfa era lì. E non era sola. Basta così! È necessario anticipare i tempi e fare in modo che, quando Liriel giungerà qui sotto, tutto sia già finito. Allora, quando avrò il bracciale, ciò che desidero potrà avverarsi, e finalmente il mio sogno vivrà. In silenzio Rhao fece alcuni rapidissimi gesti con le mani, poi avanzò verso la porta chiusa e ci ò attraverso come se non esistesse.
~ 13 ~
Sogni infranti
J oel e Noa erano rimasti allibiti. Fra tutto quello che potevano aspettarsi raggiungendo il corridoio che portava alla sala sotterranea, quell’eventualità non era davvero pensabile: sotto i loro occhi, l’uomo in armatura era appena ato attraverso una porta chiusa. «Chi è questo Rhao, maledizione?» Si chiese Noa ad alta voce. Joel si era già rimproverato a sufficienza per averlo sottovalutato, quindi, invece di risponderle, disse serio: «Non ha alcuna importanza! L’unica cosa che conta è che gli impediamo di prendere il Bracciale Perduto, o il sogno di Gannum sarà distrutto per sempre!» Noa annuì. «Siamo solo in due, ma non possiamo permetterci di sbagliare!» «Rhao sarà impegnato con Dolan e gli altri, quindi non potrà difendersi anche da noi. Se saremo sufficientemente rapidi, potremo colpirlo alle mani e gli renderemo impossibile lanciare i suoi maledetti incantesimi. Allora sarà facile piantargli un pugnale alla gola e finirlo una volta per tutte!» I due si avvicinarono alla porta e Noa toccò il meccanismo che la sbloccava. Allora Joel la spalancò e, affiancato dalla mezzelfa, si lanciò all’attacco.
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«Ma qui non c’è nessuno» stava dicendo Keldon a bassa voce, mentre con gli altri scendeva le scale che portavano nel sotterraneo.
Firion scosse la testa e indicò qualcosa per terra, vicino alla parete: «Non credo, qui è ato qualcuno da pochissimo tempo.» Keldon non vide nulla di particolare. «Come fai a dirlo?» «Un po’ di polvere è ancora nell’aria vicino ad alcune serie di tracce, segno che sono state lasciate meno di cinque minuti fa.» Il chierico stava per fare un commento sulla vista dell’elfo, ma ciò che c’era in fondo alle scale lo lasciò sgomento. Corse verso uno dei tre corpi ricoperti di sangue e si chinò per esaminarlo, mentre gli altri continuavano lentamente ad avanzare. Dopo poco si rialzò e riprese a camminare affiancandosi a Morgase e a Nalatien. «Come sono morti?» Gli chiese l’elfo. «Sono annegati nel loro sangue» rispose mestamente Keldon. «Non ci sono segni di ferite, quindi dev’essere stato l’effetto di qualche incantesimo, ma non ne conosco nessuno che ne abbia uno simile.» «Forse è un incantesimo di alto livello, di quelli insegnati solo nelle Torri di Kentara. Se è così, il nemico che stiamo per affrontare è molto pericoloso.» Poco più avanti il corridoio sotterraneo curvava ad angolo retto e non permetteva di vedere cosa ci fosse oltre. Firion avanzò per controllare, mentre gli altri aspettavano. Una grossa porta si stava lentamente chiudendo, ma dallo spiraglio riuscì a intravedere diverse persone. «Ci siamo!» Comunicò agli altri, mentre la porta si chiudeva con un leggero scatto metallico. «Quelli che cerchiamo sono lì dentro.» «Allora non perdiamo tempo» intervenne Liriel precedendo Duncan e sorprendendo i compagni. Avanzò con solenne furia verso la porta, sfregandosi le mani per l’impazienza. Quando vi fu davanti, esclamò: «Adesso lasciate che la apra a modo mio!»
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Rhao era soddisfatto. Aveva immobilizzato tutti coloro che erano all’interno della sala sotterranea, compresi i due luogotenenti di Dolan che avevano pensato di sorprenderlo. Affinché si rendessero conto della loro completa sconfitta, aveva escluso le loro teste dalla paralisi, lasciando che potessero vedere, ascoltare e parlare. Si avvicinò lentamente a Dolan, rimasto bloccato vicino al suo trono di pietra nell’atto di lanciare un dardo. Non degnò di alcuna considerazione le altre Maschere immobilizzate nell’ampia sala: la sua attenzione era concentrata sul Bracciale che l’uomo stringeva nel pugno. «E così il sogno di Gannum ha termine» dichiarò Rhao con voce solenne. «Il suo desiderio di vendetta non verrà mai realizzato, e la sua anima non troverà mai la pace.» «Cosa stai dicendo?» Sbottò Dolan. «Come? Davvero non sapete lo scopo della vostra Direttiva Primaria?» E scoppiò in una risata. «Non ti permetteremo mai di prendere il Bracciale» gridò Joel con rabbia. Rhao si voltò verso di lui, immobile in piedi vicino alla porta, e gli replicò con voce calma: «Non mi serve il vostro permesso.» La porta venne scossa da un’esplosione, ma per il momento resistette all’impatto. «L’elfa è già qui» commentò Rhao, serio. «Non posso perdere altro tempo.» Congiunse le mani davanti a sé e l’aria intorno a lui divenne fredda. Le sue mani
si accesero di una luce azzurra e sul pavimento iniziarono a formarsi dei cristalli di ghiaccio sempre più grandi. Poi allargò lentamente le braccia e dalle sue mani uscì una spada dalla lama di ghiaccio: emetteva una debole luminescenza azzurra che lasciava intravedere degli strani simboli. Quando l’arma fu completa, la impugnò e la sollevò verso il cielo. «Oggi avete l’onore di osservare la Gelida. Le ferite inferte da quest’arma divina non possono essere guarite da nessun chierico.» Si voltò verso Dolan e dichiarò: «A te l’onore di essere il primo della Maschera d’Ombra a provarla!» Gli si avvicinò e, con un gesto rapido, gli recise il polso sinistro. La mano cadde a terra mezza congelata e lasciò andare il Bracciale. Tra le urla di Dolan, che poteva soltanto guardarsi il moncherino del braccio da cui il sangue usciva a fiotti, Rhao si chinò e raccolse il gioiello. «Eccolo, finalmente!» Esclamò trionfante. Si soffermò a osservarlo, rimirando le eleganti venature platinate che rappresentavano un’antica scrittura ormai dimenticata. «Ti ho trovata, Krynica» sussurrò con venerazione. La porta esplose tra le fiamme con un enorme boato. Le macerie investirono con violenza il gruppo di Maschere nelle vicinanze, tra cui Joel e Noa, che vennero scaraventati a terra; a differenza di altri che morirono sul colpo, i due subirono solo qualche ferita agli arti. Duncan e compagni superarono con circospezione ciò che restava della porta, nascosti in parte dal polverone. Quando si resero conto che alcune persone erano state travolte e ferite dai detriti, tutti rimasero sgomenti. Liriel tornò con la mente all’incidente che aveva causato con la sua prima Palla di Fuoco, e riprovò la stessa sensazione di paura e confusione. Ogni sensazione di turbamento scomparve quando videro l’uomo in armatura nera, più o meno al centro della stanza, e si prepararono con decisione alla battaglia. Duncan notò che stringeva il bracciale di Lilibeth nella mano che impugnava la spada, come se fosse la guardia dell’elsa, e subito sollevò lo scudo, preparandosi alla carica. Poi, però, realizzarono che nessuna delle Maschere si era mossa per difendersi dal loro arrivo, né cercavano di sbarazzarsi delle
macerie cadute su di loro, nonostante i lamenti di dolore, e si fermarono. «Non costringetemi ad attaccare anche voi» esordì Rhao rivolto ai nuovi arrivati, sollevando la sua spada di ghiaccio che emanava una fredda luce azzurra. «Quest’arma è la Gelida, l’arma divina dell’equilibrio. Le ferite che infligge non possono essere curate da nessun chierico e non lasciano scampo, come ha scoperto quell’uomo» e indicò Dolan, ormai morto dissanguato. «Quello era il capo della Maschera d’Ombra di questa zona, quindi il tuo compito, paladino Duncan di Brintasien, è stato pienamente assolto e puoi tornare a casa vincitore.» Nel sentire pronunciare il proprio nome da quell’uomo sconosciuto, Duncan provò un senso di timore, e anche l’ultimo barlume del desiderio di caricarlo si spense inesorabilmente. Morgase avrebbe voluto ribattere alle parole di Rhao, ma percepiva che quell’arma era davvero molto pericolosa. Doveva trovare un modo per vendicarsi del male che quell’uomo aveva fatto al Cerchio di sua madre, senza rischiare di venirne colpita. Incrociò con lo sguardo gli occhi di Insidia che, subito, emise un uggiolio di assenso. Rhao raccolse un ciondolo da terra, vicino a uno dei corpi immobilizzati, poi si avvicinò all’incantatrice, porgendole il medaglione. «Questo è tuo, Liriel. Ti avevo detto che non avresti dovuto separartene mai, ricordi?» L’elfa provava vari sentimenti contrastanti: avrebbe voluto ringraziare il suo Maestro per ciò che le aveva insegnato; avrebbe voluto chiedergli perché l’avesse abbandonata quando aveva più bisogno di lui; avrebbe voluto prendere Firion sotto braccio, girarsi e andarsene, perché era certa che mostrargli indifferenza gli avrebbe fatto molto più male di qualsiasi attacco. Invece rimase in piedi, in silenzio, con le mani aperte a coppa davanti a sé. Rhao vi depose il medaglione che lui stesso le aveva regalato tempo fa, mentre Liriel continuava ad avere lo sguardo fisso su quel ciondolo color platino, ovale e liscio, tranne per una linea in rilievo che ne percorreva la zona centrale. Nel silenzio innaturale, si alzò la voce di Joel, ancora incapace di muoversi liberamente: «Il Bracciale d’oro! Prendetegli quel Bracciale e lui avrà perso!»
Quelle parole riscossero Duncan e i suoi compagni dal torpore in cui erano caduti. Rhao si voltò verso la Maschera e gli disse: «Vedo che continui a sbagliare le tue scelte, Joel di Kyrad. Credo sia giunto il momento di mostrarti le conseguenze dei tuoi errori.» Rhao sollevò la mano verso di lui e iniziò a eseguire una rapida sequenza di movenze con le dita. «No!» Gridò Noa, tentando di spostarsi davanti a Joel, ma riuscì soltanto a muovere un piede e un braccio. Insidia si avventò contro la mano di Rhao e gliela azzannò con forza, riuscendo a strappargli il Bracciale e facendogli anche cadere a terra la Gelida. «Dannato animale bastardo!» Gridò Rhao colmo d’ira e subito si voltò verso la lupa, completando la sequenza di movenze verso di lei. Dalla sua mano partì un raggio di colore verde palude che colpì Insidia. Subito venne circondata da un alone luminoso e cominciò ad avvizzire: il suo corpo iniziò a ridursi e il pelo cadde rapidamente a terra, rivelando la pelle che si raggrinziva sempre di più; i muscoli persero tonicità e si afflosciarono mentre rendevano sempre più evidenti le ossa sottostanti. Dopo soli dieci secondi, Insidia era diventata pelle e ossa; poi, ciò che rimaneva della lupa si accasciò a terra, irriconoscibile e privo di vita. Tutti si raggelarono, inorriditi e terrorizzati, soprattutto Liriel e Nalatien, che realizzarono di aver appena assistito a un incantesimo proibito della Scuola del Sangue, bandita più di mille anni prima perché usava l’Eteria al di là della sua natura. Morgase, nel vedere quel mucchietto di ossa che, fino poco prima, era stato la sua compagna animale forte e vigorosa, cacciò un urlo colmo di rabbia e disperazione. Sotto gli occhi dei presenti, il suo corpo si mise a vibrare e cominciò a ingrandirsi e a ricoprirsi di una folta pelliccia scura. In pochi secondi, Morgase era diventata un grosso orso bruno. L’animale rugliò minacciosamente contro Rhao e avanzò verso di lui, lento ma inesorabile. Approfittando della nuova minaccia che teneva occupato l’uomo in armatura, Lionel si fece coraggio e scattò verso i resti della lupa per recuperare il bracciale
dorato. Intanto Firion scagliò una freccia e perforò la mano di Rhao. Stava per emettere un grido di soddisfazione, quando vide che il foro si era richiuso subito. Anche Duncan e Keldon avevano deciso di reagire: il primo invocò sui compagni la protezione di Vàlor, mentre il chierico intonò una preghiera per chiedere la benedizione del favore divino. Intanto Joel e Noa stavano finalmente ricominciando a muoversi, ma ancora non erano in grado di affrontare un combattimento corpo a corpo. Vedere i loro compagni ancora ridotti all’impotenza fu terribile; Noa si rammaricò di avere usato per se stessa il resto dell’antidoto che aveva somministrato a Joel. Cercando di non attirare l’attenzione, i due iniziarono a trascinarsi verso il trono di pietra, dietro cui dovevano essere ancora nascoste delle armi. Nalatien era rimasto travolto dal dispiacere per Morgase a causa degli effetti dell’incantesimo di Rhao su Insidia. Vedendo, però, la reazione della druida, ricacciò indietro la disperazione e si costrinse a pensare a quale creatura potesse evocare per aiutare i compagni. Liriel era sgomenta e diverse domande la tormentavano. Perché Rhao voleva quel bracciale? Perché le aveva restituito lo strano medaglione ovale che le aveva regalato tempo fa? Ma soprattutto, perché conosceva gli incantesimi della Scuola proibita? L’elfa esitava: nonostante tutto, non se la sentiva di attaccare un suo maestro. Rhao si abbassò per recuperare la Gelida, ma venne colpito da una potente zampata dell’orsa che lo scaraventò contro il muro, travolgendo le Maschere immobilizzate vicino alla porta. Morgase urlò di nuovo furiosa: l’effetto fu un nuovo forte ruglio minaccioso del grosso animale contro Rhao. Lionel approfittò del momentaneo stordimento del nemico per raccogliere il bracciale. Sforzandosi di non guardare lo scheletro di Insidia, si diresse verso Duncan. Il paladino, quando si accorse di quello che aveva fatto il Tenente, si preparò a fornirgli copertura. Firion si portò a fianco di Liriel, ancora confusa e indifesa, e approfittò dello stato di Rhao per lanciargli una raffica di sei frecce, in rapida successione due alla volta. Le prime rimbalzarono sull’armatura, mentre la seconda coppia gli colpì il collo, ma le ferite si rimarginarono subito. Le ultime due frecce erano state indirizzate verso gli occhi, ma erano svanite non appena l’uomo aveva
sollevato lo sguardo e il simbolo sul pettorale aveva lampeggiato. Keldon constatò che Vàlor aveva concesso il suo favore dal fatto che le frecce dell’elfo avevano raggiunto il bersaglio. Purtroppo non avevano avuto l’effetto sperato, ma su quello la sua preghiera non aveva potere. Era rimasto sconvolto dalla morte della lupa e si dispiacque di non poter fare niente per lei, ma forse poteva aiutare Morgase nella sua nuova forma: conosceva una preghiera che avrebbe reso la sua pelle più coriacea e resistente. L’unico problema era che avrebbe dovuto avvicinarla e toccarla: si augurò che, in preda alla furia, la druida non lo considerasse una minaccia. Rhao si riprese dal colpo dell’orsa prima di quanto tutti si aspettassero. Neutralizzate le frecce dell’elfo, si guardò rapidamente intorno e si accorse dell’umano che aveva preso il Bracciale e si avvicinava al paladino. Qualcosa attirò la sua attenzione al margine del campo visivo: una Palla di Fuoco era diretta verso di lui. Rapidamente lanciò un incantesimo difensivo che deviò la Palla di Fuoco lontano da lui, verso la parte della sala dove si trovava il trono di pietra. La zona venne avvolta dalle fiamme, che uccisero le Maschere superstiti. Per fortuna di Joel e Noa, i due non erano ancora riusciti ad arrivare là. Liriel teneva le mani sollevate davanti a sé. Non credeva che sarebbe riuscita a lanciargli contro la Palla di Fuoco, ma alla fine la rabbia per l’abbandono aveva avuto il sopravvento. «La tua collera si placherà quando avrò quel Bracciale» disse Rhao, mentre con la mano eseguiva una rapida serie di movenze. «Allora tutto ti sarà chiaro.» Per un attimo il suo corpo venne circondato da un alone luminoso, poi lanciò un incantesimo che spinse indietro l’orsa fino alla parte opposta della sala. Allora alzò la mano e la Gelida volò verso di lui. Con un movimento rapido, raggiunse Lionel e lo colpì alla schiena con un fendente orizzontale. Il Tenente ebbe solo il tempo di lanciare il Bracciale verso Duncan, prima che il suo corpo si congelasse all’altezza del bacino e si dividesse a metà. Il paladino allungò la mano per afferrare in volo il gioiello e solo quando lo strinse nel pugno si accorse di quello che era accaduto a Lionel, inorridendo. Nel frattempo Rhao si era avvicinato rapidamente a Duncan, con la Gelida alta
sopra la testa, e gli stava assestando un violento fendente. Con un ultimo gesto disperato, il paladino spostò la mano per intercettare la lama della spada divina. Prima che la Gelida colpisse la mano dell’uomo, Rhao si rese conto che avrebbe preso anche il Bracciale stretto nel suo pugno e allora, con un riflesso fulmineo, bloccò il colpo. La lama si fermò a un millimetro dal bracciale. Tuttavia Rhao si accorse che c’era qualcosa di sbagliato. Duncan non si era mosso dalla sua posizione, restando con il braccio sollevato e gli occhi chiusi. Inoltre, intorno a lui era calato un silenzio innaturale. Si guardò rapidamente intorno e vide che nessuno si muoveva. Tutto era immobile, compresa l’aria e la polvere che vi era sospesa. «Che succede?» Si chiese Rhao ad alta voce, sconcertato. «Non ho lanciato alcun incantesimo di immobilizzazione! Perché tutti si sono fermati?» Il suo sguardo tornò sul paladino e sul Bracciale che ancora stringeva nel pugno sollevato. Allora, con un sorriso compiaciuto sulle labbra, allungò la mano per prenderlo una volta per tutte. Come lo toccò, il Bracciale si infranse e inondò l’aria con un’esplosione di miriade di scintille iridescenti, avvolgendo tutto ciò che era presente nella sala sotterranea. Solamente Rhao, circondato dall’alone azzurro della Gelida, non ne venne toccato. Un attimo dopo, tutti i corpi si dissolsero in altrettanti frammenti di luce. Rhao si guardava intorno, sbigottito. Non riusciva a capire cosa fosse successo. Percepiva chiaramente che non erano solo le persone presenti in quella stanza a essere scomparse, ma anche tutti gli esseri viventi di Amnia, come se non fossero mai esistiti. Una presenza si palesò ai suoi sensi, qualcuno che conosceva. «Nalia!» Gridò pieno di odio. «Non puoi essere qui, non puoi! Io ti ho eliminata molto tempo fa, tu non esisti più qui!» Strinse la Gelida tra le mani ed ebbe come una folgorazione nella mente, comprendendo cosa fosse accaduto. Rhao scoppiò a ridere, un risata amara, dal sapore della sconfitta.
«Sei stata brava, Nalia: sei riuscita a sorprendermi. Non avrei mai creduto che saresti stata capace di compiere un atto simile, un’azione così drastica e disperata. Ma in questo modo mi hai dimostrato che anche tu, come gli altri, temevi il ritorno di Krynica.» Le mura della sala si cristallizzarono; lentamente, iniziarono a disgregarsi e a svanire nel nulla. Rhao capì che era la fine di tutto e che il suo sogno era ormai impossibile da realizzare. Mentre tutto l’universo intorno a lui cadeva in frantumi e si dissolveva, chiuse gli occhi e disse con voce sommessa: «Mi dispiace, Krynica, ho fallito...» Non c’era più nulla adesso intorno a lui, solo il vuoto assoluto e il silenzio. Alla fine, anche la Gelida si disgregò e Rhao perse la sua protezione. La prima cosa ad andare in frantumi e a scomparire fu la sua armatura nera. Poi l’arma divina svanì e cessò definitivamente di esistere. Infine il corpo di Rhao si dissolse in frammenti di luce e, un istante dopo, svanì nel nulla anche la nube di miasma violaceo che aveva al suo interno...
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Quando Duncan aprì gli occhi si accorse di essere in piedi in una radura, ai margini di un bosco. Sentiva nelle orecchie uno strano mormorio in lontananza, ma forse era soltanto il fruscio dei rami mossi dal vento. Ebbe un attimo di smarrimento, quando si accorse di avere lo scudo fissato sulla schiena e che la spada era nel fodero al suo fianco: non ricordava di averli rimessi a posto. Intorno a sé vide diversi corpi a terra senza vita, tra cui quello di Lionel. Poi notò che c’erano altre persone in piedi come lui: Keldon, Morgase, Firion, Liriel, Nalatien e due delle Maschere d’Ombra, un maschio e una femmina. Il maschio era il tipo biondo che avevano incontrato a Crandall, e che li aveva assaliti nel Bosco delle Sette Sequoie. Non appena la sua mente si schiarì del tutto, il suo primo pensiero fu di cercare il
bracciale di Lilibeth, ma non lo trovò. Vide invece Keldon inginocchiato sul corpo di Lionel e lo raggiunse: stava mormorando una preghiera di commiato e si unì a lui. Notò che il suo corpo, nonostante fosse evidente che era stato diviso a metà, era stato risistemato in segno di rispetto. Non avevano avuto molto tempo per conoscersi, ma sicuramente la sua parlantina gli sarebbe mancata. Forse, se non avesse tentato di prendere il bracciale e di riportarglielo, ora sarebbe stato ancora vivo. Duncan si rialzò e si avvicinò a Morgase, in piedi davanti ai resti di Insidia. Anch’essi erano stati risistemati, e ora ricordavano di più la lupa che era stata. Nel silenzio, il paladino sentiva i singhiozzi di pianto della druida. Si limitò a toccarle una spalla in segno di amicizia e di conforto. La donna si voltò un attimo verso di lui, con il viso rigato dalle lacrime, e gli concesse un cenno di assenso con la testa. I tre elfi sembravano tutti in buona salute, anche se Nalatien pareva ancora un po’ stordito. Firion e Liriel, invece, erano abbracciati, come per darsi reciproco conforto e decise di non importunarli. Duncan girò tra i cadaveri, ma non vide il corpo di Rhao. Si ritrovò a sperare di non incontrarlo mai più. Infine si avvicinò ai due superstiti della Maschera d’Ombra. Nel vedere di nuovo quel tipo biondo infido, il paladino sentì montare sempre di più la rabbia per tutto ciò che era successo e, con tutta la furia che aveva in corpo, gli gridò: «È tutta colpa tua, bastardo!» Tutti si voltarono verso Duncan, per capire cosa stesse succedendo, e lo videro scagliarsi contro l’uomo biondo. Joel era ancora troppo debole per riuscire a schivarlo: venne colpito da un pugno in pieno mento e arretrò barcollando. Noa cercò di mettersi in mezzo per proteggerlo, ma il paladino la spinse via facendola cadere e tornò alla carica contro di lui con un’altra serie di pugni. Mentre lo colpiva, Duncan aveva le lacrime agli occhi e urlava: «È colpa tua se questa gente è morta, se Lionel è morto. Sarebbe stato tutto diverso se, quando ci hai assaliti nel vicolo, io fossi riuscito a catturarti e a consegnarti ai gendarmi! È colpa tua tutto questo!» Joel continuava ad arretrare sotto i colpi di Duncan, proteggendosi il volto con le
braccia, finché raggiunse il limite della boscaglia e inciampò; il paladino gli piombò addosso e lo afferrò per il collo. A quel punto, Keldon e Morgase decisero di intervenire. Non appena Duncan si sentì afferrare le braccia, si rese conto di avere trasceso, e che il suo gesto non era degno di un paladino. Stava per dire qualcosa, quando vide l’espressione stupita nei volti dei compagni che si erano avvicinati. Si alzò e si girò verso il punto che tutti guardavano: ciò che vide lo lasciò di sasso. Nella pianura che si stagliava davanti a loro, dove riconobbero in lontananza la città di Crandall, si stava svolgendo una battaglia infuocata tra due eserciti. I rumori della lotta adesso erano molto più evidenti, e non erano più attutiti dalla vegetazione. Uno dei due eserciti mostrava le insegne dorate e argentee di Vàlor, mentre l’altro mostrava le insegne rosse e verdi di Tyran. «Che sta succedendo, in nome di Vàlor?» Si chiese Keldon ad alta voce. «Quando è scoppiata la guerra con l’Egemonia Tyranian? E come fanno a essere così all’interno dell’Impero di Anosia?» Firion aggiunse, incredulo: «Com’è possibile? Tra le fila dell’esercito oro-argento ci sono anche degli elfi! Ma noi siamo sempre stati neutrali nei conflitti tra i due schieramenti!» Qualcosa apparve nel cielo, in lontananza, dalla parte dell’esercito di Tyran. Man mano che si avvicinava divenne sempre più chiaro che non fosse di qualcosa di normale: aveva la forma di un umanoide, alto circa quattro metri, ed era dotato di grandi ali, simili a quelle di un pipistrello; la sua pelle era di colore rosso scuro e aveva grandi mani artigliate con una spada nella destra e una frusta nella sinistra, entrambe fiammeggianti; la sua testa era mostruosa, con una bocca enorme piena di denti aguzzi, e due lunghe corna che partivano dalle tempie e scendevano verso le spalle. L’essere atterrò in mezzo all’avanguardia dell’esercito di Vàlor e iniziò a colpire i soldati con le sue armi, facendo una strage. Tutti rimasero sconvolti alla vista di quel mostro. Con un filo di voce, Keldon mormorò: «Non è possibile: quello è un Bàlor, un potente signore dei demoni. Erano stati
banditi da Amnia centinaia di anni fa! Perché è qui, adesso?» Quelle parole non fecero altro che aumentare il terrore in cui tutti erano caduti. Cos’era successo al mondo, mentre erano stati nel Bosco delle Sette Sequoie? Cosa sarebbe successo ora alle loro vite? Così come i loro sogni, si sarebbero infrante per sempre?
PARTE SECONDA
Quando la speranza svanisce
~ 14 ~
Un mondo diverso
M orgase aveva appena dato il triste addio a Insidia, affidando il suo spirito alla natura da cui aveva avuto origine. Mentre era in raccoglimento, però, si era sentita strana. All’inizio aveva pensato che fosse a causa della morte di Insidia o per l’improvvisa trasformazione in un orso bruno, forma che ancora non avrebbe dovuto padroneggiare. Poi si rese conto che, invece, era l’ambiente intorno a lei. Il suo potere, che aveva sempre tenuto nascosto, si era attivato; quella capacità, che aveva ereditato in seguito alla distruzione del Cerchio di sua madre per opera di Rhao, ora le permetteva di percepire sensazioni nuove: fino ad allora gli spiriti della natura erano rimasti nascosti, sopiti da qualcosa di cui la storia aveva cancellato le tracce, ma adesso si erano risvegliati, e lei ne stava percependo il canto. I suoi pensieri e la sua concentrazione erano stati interrotti dalle grida di Duncan contro Joel. Quando aveva visto che il paladino stava aggredendo furiosamente Joel, subito si era affrettata a raggiungerlo per fermarlo, insieme a Keldon. Poi aveva visto la pianura antistante il bosco invasa da una marea di soldati che combattevano tra loro e si era letteralmente paralizzata. Aveva riconosciuto le insegne ostentate dai due eserciti e non capiva perché avessero i simboli delle due divinità rivali invece dei rispettivi capi politici. L’arrivo dell’essere che Keldon aveva definito Bàlor, un signore dei demoni, la turbò per la violenza feroce e cruenta con cui combatteva contro i soldati. Non sapeva molto riguardo quelle creature; ricordava però quanto le aveva detto suo padre riguardo l’ormai scomparso Ordine degli Esorcisti, che si era impegnato centinaia di anni prima a impedire il ritorno dei demoni su Amnia. «Adesso cosa facciamo?» Chiese d’un tratto Liriel, con lo sguardo perso nella pianura dove era in corso la battaglia. Duncan indicò la città che si vedeva in lontananza dall’altra parte della pianura e
rispose: «La cosa più sicura sarebbe raggiungere Crandall: le sue mura di cinta sono molto robuste e potrebbero resistere senza problemi a un assedio, anche di quel demone. Ma tra noi e la città c’è una guerra in corso. Non so se riusciremo ad aggirare il campo di battaglia senza correre rischi.» Inaspettatamente, Joel intervenne: «Anche restare qui o addentrarci nel bosco non sono buone idee. Se io fossi al posto dei loro comandanti, questo sarebbe il primo luogo dove cercherei dei fuggiaschi, dei disertori o delle spie.» Keldon si schiarì la gola e si intromise: «Perdonatemi, ma c’è una cosa su cui non posso transigere.» Si girò per un momento verso i corpi dei defunti, poi continuò: «Non possiamo lasciarli così, in balia degli animali e delle intemperie. Dobbiamo seppellirli e pregare per le loro anime.» Firion gli rispose con voce severa: «Se vuoi posso aiutarti a seppellire Lionel, ma per quanto riguarda gli altri umani, per me possono restare dove sono.» Joel e Noa non gradirono le sue parole, ma lui, quando vide che Liriel annuiva, comprese che l’elfo doveva aver saputo quello che alcuni di loro avevano cercato di fare all’incantatrice, e non se la sentì di dargli torto. Keldon allora si rivolse alle due Maschere: «A voi interessa che i vostri compagni abbiano una degna sepoltura?» «Certo» rispose Noa, piccata. «Anche se per voi siamo dei fuorilegge, non siamo di certo selvaggi.» Duncan sospirò e disse: «Va bene, facciamo come vuoi tu, Keldon. Ma cerchiamo di fare alla svelta: non so quante ore di luce abbiamo e preferirei non andarmene in giro nell’oscurità,
con dei demoni in circolazione.» Morgase si concentrò qualche momento, poi annunciò con una punta di perplessità nella voce: «Ecco, questo è davvero strano. Lo scontro nel Rifugio mi sembra essere accaduto al massimo mezz’ora fa. Ed era notte fonda! Ora, invece, è pomeriggio inoltrato e mancano circa quattro ore al tramonto.» Quelle parole lasciarono tutti stupiti: nessuno, fino a quel momento, aveva realizzato che di colpo si erano ritrovati all’aperto e in pieno giorno. Alla fine, comunque, Duncan disse: «Cerchiamo di concludere tutto in due ore. Prima finiamo e prima possiamo metterci in marcia e capire cosa sia successo.» Liriel e Nalatien guardarono Firion con aria interrogativa. Il ranger annuì loro, poi disse al paladino: «D’accordo, vi aiuteremo, ma solo perché così faremo prima e potremo andarcene da questo posto pericoloso.» A quel punto, Joel si fece avanti e ribatté: «Capisco che dobbiamo cooperare perché, per qualche oscuro motivo, ci ritroviamo tutti sulla stessa barca, ma chi ha deciso che il paladino sia il capo?» Keldon gli rispose, serio: «In realtà nessuno l’ha deciso esplicitamente, ma quando ci siamo trovati in difficoltà, lui e Lionel si sono dati da fare per mantenerci in vita. E ora che Lionel è morto, ci è sembrato naturale lasciare che Duncan continuasse con il compito che noi, tutti insieme, gli abbiamo affidato.» Joel non era pienamente convinto, ma preferì evitare ulteriori discussioni e si limitò ad annuire. Seguì quindi gli altri, insieme a Noa, per dare un minimo di degna sepoltura ai suoi compagni morti. Duncan si chinò su Lionel e prese il suo equipaggiamento, dove c’erano anche un piccone e due vanghe; allora, con le lacrime agli occhi, sussurrò:
«Mi mancherà il tuo essere pronto a ogni evenienza. Forse è vero che parlavi troppo, ma per il poco tempo che ci siamo conosciuti sei stato un buon amico.» Si rialzò e porse le pale a Firion e a Joel. Di colpo Liriel si fermò con le braccia puntate sui fianchi e dichiarò con voce decisa: «Sia chiaro che io non lavorerò insieme a quella» e indicò con un cenno della testa Noa, «e nemmeno Firion o Nalatien.» Duncan, Keldon e Morgase rimasero sorpresi dalle parole dell’elfa. Noa, invece, abbassò mestamente lo sguardo, mentre Joel le si avvicinava e le poneva una mano sulla spalla per confortarla. «Perché?» Chiese Keldon con genuino stupore. «Qual è il problema?» «Gli impuri non possono avere contatti con i figli di Ardèsia» chiarì Liriel con severità. «Cosa? Gli impuri?» Replicò Keldon ancora più confuso guardando Noa. Joel iniziò ad avanzare contro l’elfa, ma Noa lo fermò afferrandolo per un braccio. Quindi fece due i avanti e con le mani si tirò indietro i corti capelli che le coprivano le orecchie, rivelando che erano leggermente a punta. «Io sono una mezzelfa» disse semplicemente. «Secondo la legge degli elfi, io sono un abominio e pertanto non devo avere nessun contatto con loro, i figli di Ardèsia.» La rivelazione sorprese parecchio i tre umani, così come la ferma reazione rabbiosa di Liriel: avevano sempre pensato che l’odio degli elfi verso i mezzelfi fosse solo una delle tante leggende che circolavano su di loro. Per mettere fine a quella spiacevole discussione, Morgase si portò davanti a Noa e le disse: «D’accordo, allora lavorerò io insieme a te.» Poi si girò verso Duncan e gli chiese: «Allora, cosa dobbiamo fare?» Il paladino dispose lo scavo di due fosse: una per Lionel e Insidia, l’altra per le Maschere. Il lavoro pesante fu fatto principalmente da Duncan stesso, Firion e
Joel; Morgase e Noa si occuparono di portare i corpi all’interno delle buche, man mano che venivano scavate, mentre Nalatien e Liriel li ricoprivano. Nel frattempo, Keldon officiava la preghiera funebre collettiva, cantando gli inni e recitando le litanie in onore delle anime dei defunti. Avevano quasi finito, quando Firion sollevò la testa, si alzò in piedi per vedere fuori dalla fossa, e si guardò attentamente intorno. Duncan gli chiese: «Che c’è? Tutto bene?» «Mi è sembrato di sentire un fruscio tra le foglie» rispose lui a bassa voce. «Era quasi il rumore di qualcuno che cerca di muoversi silenziosamente nella boscaglia. Forse non siamo soli,» Anche Noa aveva sentito qualcosa di strano, e si stava guardando intorno. Morgase le chiese: «C’è qualcosa che non va?» «Non ne sono sicura» rispose lei con lo sguardo intento a scrutare la boscaglia circostante, «ma tieni pronte le armi.» Liriel e Nalatien avevano sentito quello che avevano detto Firion e Noa, e iniziarono a preoccuparsi. Non era il fatto di non essersene accorti anche loro a turbarli, ma piuttosto che la stanchezza accumulata non avrebbe consentito loro di sostenere con il loro incantesimi un combattimento prolungato. All’improvviso una voce forte e profonda risuonò nell’aria: «Fermi! Armi a terra!» Dalla boscaglia uscirono undici uomini, uno dei quali era molto muscoloso, alto quasi due metri, con la testa rasata e con un’ascia per mano. Tutti indossavano un’armatura di pelle con una colorazione mimetica verde e marrone, ma sulla spallina destra avevano ricamata la sagoma del simbolo di Vàlor. «Chi siete?» Disse Duncan a voce alta, risalendo fuori dalla fossa. «Voi scappa da battaglia» disse il gigante un po’ a fatica, come se avesse qualche problema a parlare bene la lingua. «Voi disertori!» Poi il suo sguardo cadde sui
cadaveri in fase di sepoltura e aggiunse: «O peggio...» Subito Joel raggiunse il bordo della fossa e, con un tono cortese, disse: «Non è come credete, signore. Noi eravamo in viaggio e siamo ati dal bosco per evitare la battaglia. Vedete, con noi abbiamo una principessa degli elfi e siamo stati incaricati di scortarla a Crandall. Non volevamo che potesse rimanere scioccata alla vista della violenza e del sangue, e allora abbiamo intrapreso questa strada, forse un po’ più lunga, ma certamente più sicura per lei.» Il titano osservò Liriel con molta attenzione, mentre i nuovi compagni della Maschera cercavano di non mostrare alcuna sorpresa per le sue parole. Alla fine indicò i cadaveri e replicò: «Non fortunati, allora. Morti vi segue qui.» «Siamo stati attaccati da una banda di predoni, e questi erano nostri compagni che sono morti nell’attacco» si giustificò Joel. «Hanno protetto la principessa con la loro vita, dobbiamo rendere loro onore per questo.» «Se vero, questo molto giusto» dichiarò l’altro tornando a guardare l’elfa. «Lei molto bella, ma non principessa.» Liriel cercò di non mostrare alcuna reazione alle sue parole. «È per il suo vestito dimesso, vero?» Si affrettò a ribattere la Maschera. «Lo abbiamo fatto perché non volevamo fosse riconosciuta. Ci sono parecchi briganti che potrebbero essere interessati a una principessa elfica per un riscatto.» Il gigante diede una rapida occhiata ai compagni di quell’uomo loquace, poi disse: «Vero, Amnia qui è pericolosa adesso. Ma lei non principessa. Principesse elfiche porta sempre due anelli con sigillo a medio e anulare sinistro.» Joel replicò prontamente: «Naturalmente glieli abbiamo tolti proprio per evitare che fosse riconosciuta.» L’altro indicò con la punta dell’ascia destra la mano di Liriel e disse:
«Principesse elfiche porta anelli da quando bambine. E in sue dita non c’è segni di anelli.» Joel si girò di scatto verso Firion, che era a pochi i da lui, e gli chiese sottovoce: «Ma è vero?» Firion annuì e molto lentamente iniziò ad avvicinare la mano destra all’arco che era appoggiato a terra, sul bordo della fossa. «E poi» aggiunse il titano indicando Noa, «principesse elfiche non viaggia neanche morte con mezzelfi.» Quelle parole fecero perdere un battito al cuore di Noa, ma lei cercò di rimanere imibile. A quel punto, Joel cambiò strategia. Prese con uno scatto una delle sue spade corte e la puntò contro Firion, poi uscì dalla fossa con un salto. «Allora ci avete ingannati» gridò Joel fingendosi spaventato, puntando la spada alternativamente contro Liriel e Firion. «Ci avevate detto di essere principi e che avevate bisogno di protezione. Ma chi siete davvero? Cosa volete da noi? Perché ci avete detto che dovevamo portarvi a Crandall?» Mentre parlava e puntava l’arma contro gli elfi, Joel stava indietreggiando lentamente verso il gigante. Quando gli fu abbastanza vicino, fece una rapida piroetta e gli andò dietro la schiena, riuscendo a puntargli la spada al lato del collo. Quella mossa non sorprese solo il titano e i suoi gregari, ma anche i compagni della Maschera. Duncan si lasciò sfuggire un: «No, maledizione!» mentre Firion afferrava il suo arco e caricava una freccia. «Adesso abbassate voi le armi!» Gridò Joel agli avversari. «Altrimenti il vostro capo perderà letteralmente la testa.» Joel pronunciò l’ultima frase con un sogghigno divertito. Firion, però, notò che i suoi gregari non sembravano preoccupati per l’improvviso cambiamento della situazione e la cosa non gli piacque. Anche
Duncan rimase stupefatto dalla loro mancata reazione. Joel, vedendo che i gregari non abbassavano le armi, perse un po’ della spavalderia iniziale. Avvicinò ancora di più la lama al collo del titano e disse: «Che c’è, non tenete alla vita del vostro capo?» Uno di quelli vicino a lui, che non aveva minimamente accennato ad abbassare la spada e lo scudo, rispose con uno strano tono: «Voi non avete mai avuto a che fare con un barbaro, vero?» Il corpo del gigante divenne più caldo e uno strano brontolio cominciò a fuoriuscire sempre più forte dalla sua gola. «Siete ancora in tempo ad arrendervi» aggiunse il gregario con una strana punta di timore. Agli occhi dei presenti, il titano crebbe di almeno un metro di altezza e assunse un aspetto più minaccioso. Joel, nonostante la sorpresa per la crescita improvvisa, tentò di affondargli la spada nella schiena, ma la lama scivolò sulla pelle senza fare alcun danno. Con un movimento rapidissimo, il barbaro si girò indietro, brandendo le due asce con le punte perpendicolari al suolo e colpì con il piatto dell’ascia sinistra il fianco di Joel, che volò via per una decina di metri, finendo contro il tronco di un albero. Subito due gregari, approfittando del suo stordimento, lo afferrarono e lo legarono. Duncan e gli altri erano rimasti impietriti dal repentino cambiamento del gigante e dalla rapidità dei suoi movimenti. Inoltre, vedere Joel neutralizzato così velocemente, diede un taglio drastico alle loro speranze di successo. Firion approfittò che il barbaro gli aveva rivolto le spalle e lanciò la freccia che aveva incoccato, puntando in mezzo alle scapole. L’elfo sobbalzò per lo stupore quando la vide rimbalzargli sulla pelle. Il gigante si voltò di scatto e avanzò rapidamente verso Firion con un ringhio feroce. Liriel, preoccupata, gli scagliò contro alcuni Dardi di Luce, ma anch’essi rimbalzarono innocui sulla sua pelle. Il ranger tentò di scartare di lato, ma una delle asce riuscì a colpirlo di piatto a una gamba, che si irrigidì per il forte impatto. Anche Firion venne prontamente
immobilizzato da due gregari. Nel frattempo Duncan, Keldon, Morgase e Noa erano riusciti a impugnare le rispettive armi, ma la velocità del barbaro era stata tale che non aveva dato loro il tempo di intervenire. Quando il gigante si era lanciato contro Firion, Duncan aveva pensato di allargare il braccio per intralciare la sua avanzata con la spada, ma aveva appena cominciato a farlo che quello era già addosso al ranger. Allora si affrettò a prendere lo scudo, il barbaro gli fu subito addosso e lo colpì di piatto con una delle asce, mandandolo a terra senza fiato. Due gregari si affrettarono a bloccare anche lui. Il gregario che aveva parlato prima gridò: «In nome di Vàlor, arrendetevi!» Keldon, sentendo pronunciare il nome della sua divinità, si bloccò di colpo, incredulo. Anche Duncan ne rimase sorpreso. «Ci arrendiamo!» Gridò il chierico con tutto il fiato che aveva in gola. Immediatamente i suoi compagni non ancora bloccati si fermarono dall’intraprendere qualsiasi azione e si girarono verso di lui con una chiara espressione interrogativa sui volti. «Ci arrendiamo!» Ripeté Keldon, mentre buttava a terra la sua arma. Anche i suoi compagni fecero lo stesso, mentre i due incantatori si limitarono a tenere le braccia ferme lungo i fianchi. Subito due gregari si affrettarono a raccogliere le loro armi, compresi i dardi alla cintura delle due Maschere, mentre altri si preoccupavano di legare i rimanenti compagni di Keldon, in particolare bloccando le braccia e le mani dei due incantatori. Quando tutti furono immobilizzati, il gigante tornò alle sue dimensioni originali e si accasciò a terra, visibilmente in affanno. «Bravi» riuscì a dire con un filo di voce. «Ormai vi conosco, sergente Orson» disse il gregario che aveva parlato in
precedenza, avvicinandosi a lui con un sorriso. «So quanto può durare la vostra Furia e come vi sentite dopo averla invocata. Ero comunque pronto a intervenire, anche in maniera letale, se non si fossero arresi in tempo.» «Bene, caporale Fred» annuì il gigante riprendendo fiato. «Ora al campo base.» Con efficienza, i soldati allinearono gli otto prigionieri e si misero in marcia verso sud. Orson si rialzò in piedi e li seguì lentamente, ancora piuttosto affaticato. Camminarono lungo il bordo del bosco, tenendosi lontani dal campo di battaglia, da cui avevano cominciato a provenire cupi rimbombi di esplosioni. Il caporale Fred si affiancò a Orson e gli chiese: «Tutto bene, sergente?» «Sì» annuì lui. «Stanchezza da Furia ata. Ma rumori di battaglia non piace. Fare noi presto.» Il Caporale ordinò agli altri soldati di aumentare il o, poi tornò a chiedere al barbaro: «Come avete fatto a scoprire che il biondo mentiva? Tutto quel discorso sugli anelli non aveva senso.» Orson sorrise compiaciuto. «Invece tutto vero, anche se segni di anelli su dita di elfe invisibili per umani. Ma io sicuro che biondo non sincero, perché c’era mezzelfa. Mai nobili elfi va con mezzelfi, piuttosto morire.» Il Caporale rimase colpito dall’arguzia del Sergente. Era stato inserito nella squadra di ricognizione di Orson come suo secondo da circa tre mesi, e la scarsa opinione che all’inizio aveva avuto del barbaro era drasticamente cambiata. Ancora una volta si domandò dove fosse la sua tribù di barbari e perché solo lui fosse giunto in aiuto dell’Esercito di Vàlor. Avrebbe voluto chiedergli come mai non sapesse parlare correttamente la lingua degli umani, ma conosceva la sua estrema riservatezza e preferì lasciare perdere. Il resto del viaggio trascorse in silenzio, interrotto ogni tanto dal rumore di
esplosioni provenienti dal campo di battaglia. I prigionieri all’inizio avevano provato a chiedere loro chi fossero e dove li stessero portando, ma vennero zittiti dal Caporale che li redarguì, dicendo che i prigionieri non avevano alcun diritto di fare domande, e che più tardi sarebbero stati loro a dover fornire delle risposte chiare ed esaurienti.
~ 15 ~
Prigionieri di Vàlor
O rson, con il gruppo che stava scortando, arrivò in vista dell’accampamento circa un’ora dopo, con il sole basso sull’orizzonte. Era stato allestito in una vasta area pianeggiante, vicino alle rovine di una città a sud-est del bosco, ed era molto esteso, composto da moltissime tende di varie dimensioni e forme, a seconda del loro uso. Due grandi strade percorrevano l’accampamento in linea retta da nord a sud e da est a ovest, dividendolo in quattro quartieri. Al momento sembrava piuttosto vuoto. Anche se aveva visto le rovine solo di sfuggita, a Duncan era parso di riconoscere la piccola città di Eminiar. Com’era possibile che fosse stata rasa al suolo in meno di tre giorni? Raggiunsero l’area di detenzione, che consisteva in un enorme tendone isolato, sotto al quale erano sistemate sei grandi gabbie di metallo, quattro delle quali erano vuote. A sorvegliare le prigioni c’erano quattro soldati armati con lance e fruste, che indossavano una corazza di piastre argentata con inciso sul pettorale sinistro il simbolo di Vàlor. Le guardie slegarono i prigionieri, ma misero ai loro piedi delle catene chiuse da due lucchetti, per impedire loro di correre o di fare i lunghi. A Liriel e Nalatien misero anche delle manette speciali che bloccavano le dita delle mani. Allora li perquisirono e trovarono alcuni piccoli grimaldelli nei risvolti dei vestiti di Joel e di Noa, e un piccolo stiletto in ciascuno dei loro stivali, subito requisiti tra i mugugni dei due. Poi li divisero: in una gabbia fecero entrare i cinque maschi, mentre nell’altra le tre femmine. Quando fu in cella, Liriel si sistemò subito il più lontano possibile da Noa. Fred scambiò una rapida occhiata con Orson, poi disse: «Torneremo a prenderli per l’interrogatorio. Date loro un po’ d’acqua, così che non abbiano la gola secca e possano rispondere alle domande» I soldati risero di gusto, poi uscirono dal tendone insieme al barbaro e ai suoi
compagni e si appostarono ai lati dell’ingresso. Una volta rimasti soli, Duncan, Keldon e Nalatien si guardarono mestamente intorno, mentre Joel si avvicinò alla porta della gabbia per studiarne il grosso lucchetto. Firion, invece, si era avvicinato il più possibile alla gabbia dov’era rinchiusa Liriel, e la fissava intensamente. L’elfa era seduta accanto a una silenziosa Morgase, intenta a osservare le strane manette che le impedivano di muovere le dita e quindi di lanciare incantesimi, mentre Noa stava studiando i due lucchetti sulle catene che le serravano le gambe. Nelle altre due gabbie occupate c’erano tre umani legati e feriti, mentre nell’altra due rettiloidi, anch’essi legati e feriti. Tutti sembravano privi di sensi. Joel colpì rabbiosamente le sbarre della cella e ruppe il silenzio: «Cosa diamine è successo? Non può essere scoppiata una guerra di punto in bianco, non è assolutamente possibile!» In tono apparentemente calmo, Duncan disse: «Anche perché le rovine di Eminiar ai confini di questo accampamento starebbero a significare che questa guerra è in corso da almeno una settimana... Ma una settimana fa io e Keldon eravamo in viaggio da Camaran a Crandall, e non c’era nessuna guerra, né in corso né in preparazione.» Nalatien, con lo sguardo pensieroso sulle strane manette, aggiunse: «Nessuno di voi ha pensato invece alla cosa più assurda? Come abbiamo fatto a are dal sotterraneo di quel covo scavato nella roccia, allo spazio aperto in cui ci siamo risvegliati?» «Forse è stato un incantesimo di Rhao» azzardò Joel. «Gli ho visto fare delle cose che mai avrei pensato possibili...» «In effetti è un incantatore molto abile» confermò Liriel, mentre testava la resistenza delle manette che aveva alle mani. «L’incantesimo con cui ha ucciso la lupa era qualcosa che non ho mai visto e di cui non ho mai letto.» Liriel non si accorse che Morgase si era girata dall’altra parte e aveva chiuso gli occhi. «Sospetto che si trattasse di un incantesimo proibito. E uno che è in grado di lanciare incantesimi proibiti è molto pericoloso.»
«Per quanto possa essere interessante sapere come ci siamo arrivati» intervenne serio Keldon, «credo invece sia molto più importante sapere dove sia questo “qui”, cioè dove ci troviamo adesso.» «Azzarderei che siamo in una prigione» fece Joel con un sorriso ironico. «E tra poco verranno anche a interrogarci.» Dopo un profondo respiro, Morgase si intromise: «Nessuno di voi, invece, si è chiesto perché nella gabbia, là in fondo, ci sono due rettiloidi che portano dipinto sul petto il simbolo di Tyran? Per quello che so, solo quando partono per la guerra i rettiloidi invocano in questo modo l’aiuto del loro dio, giusto?» Keldon si girò prima verso la druida, poi verso i rettiloidi. «Sì, i soldati delle loro truppe lo fanno, ma noi non siamo in guerra con i rettiloidi! Non è possibile che tutto sia potuto accadere nei tre giorni che siamo stati nel Bosco delle Sette Sequoie!» Una guardia entrò nel tendone con una grossa borraccia in spalla e un bicchiere di legno in mano, mentre un’altra rimase sulla soglia dell’ingresso. «Silenzio!» Intimò loro con voce forte la prima guardia. «Risparmiate la voce per l’interrogatorio. Ora avvicinatevi uno alla volta alle sbarre e vi darò un po’ d’acqua.» Il soldato si accostò alla gabbia dove erano tenute le donne. La prima ad avvicinarsi fu Liriel, che protese subito in avanti le mani ammanettate. «Purtroppo non posso togliertele, mi dispiace» disse l’uomo con voce incredibilmente dolce, forse affascinato dalla bellezza dell’elfa. «Ma posso aiutarti a bere, vieni più vicina.» Liriel avrebbe preferito fare qualsiasi altra cosa, ma aveva davvero molta sete e non le rimase che avvicinarsi con il viso alle sbarre. La guardia riempì il bicchiere e lo avvicinò piano alle labbra di lei. Mentre Liriel beveva, Joel lanciò una rapida occhiata ai compagni di cella e a Noa, poi si avvicinò di qualche o alle sbarre e chiese alla guardia timidamente:
«Scusate, ma ho visto delle rovine qui vicino. Io sono di Eminiar e...» «Allora mi dispiace per te» lo riprese la guardia che era all’ingresso, con un tono privo di comione. «I tuoi amici di Tyran l’hanno distrutta più di un mese fa, prima che riuscissimo a riprenderci questa regione...» Le parole “un mese fa” riecheggiarono cupamente nelle orecchie degli otto prigionieri. «Zitto!» Gli intimò il primo soldato, che nel frattempo aveva finito di dare da bere a Liriel e stava ando il bicchiere a Morgase. «Avevo degli amici là» riprese l’altro, cupamente. «Spero di avere l’onore di preparare il patibolo per questi bastardi: è da tanto che vorrei vedere delle spie pendere dalla forca!» «Noi non siamo spie» esclamò Duncan con foga, affiancandosi a Joel. «Io sono un paladino di Vàlor!» La guardia con l’acqua era ata in quel momento davanti alla gabbia degli uomini, e stava osservando tanto Duncan quanto Joel. «Non solo tradisci il tuo popolo» gli disse con disgusto, «ma bestemmi anche il dio che ti ha creato. Avrai di sicuro quello che meriti. Intanto non provare ad avvicinarti per bere, nemmeno tu» e indicò Joel. Poi si rivolse a Firion: «Tu, vieni a bere.» In silenzio la guardia diede da bere anche a Nalatien e a Keldon, poi si allontanò dalla gabbia, e insieme all’altra guardia uscì. Joel si voltò verso Duncan e gli disse esasperato: «Ma come ti è venuto in mente di dire che sei un paladino di Vàlor?» «E tu sei davvero di Eminiar?» Gli ribatté Duncan sostenendo il suo sguardo. «Certo che no» fece lui con un sorriso beffardo. «Ma a me hanno creduto.» «Adesso basta!» Sbottò improvvisamente Keldon. «Litigare tra noi non serve a niente, siamo tutti sulla stessa barca!»
«Vedrai come sbarco appena posso» mormorò Joel a bassa voce. L’ingresso di Orson con Fred e altre guardie interruppe la conversazione. «Ora portiamo voi a interrogatorio» esordì il barbaro con voce cupa, rivolto ai prigionieri. «Dopo il nostro rapporto, il generale Dario ha deciso di partecipare di persona al vostro interrogatorio» aggiunse il Caporale con un sorriso ironico. «Non fateci fare brutta figura!» I soldati fecero uscire in silenzio gli otto prigionieri dalle gabbie e li scortarono fino a un’altra tenda poco distante, non molto grande. Una delle due sentinelle di guardia si rivolse a Orson dicendo: «Il generale Dario sta finendo di discutere con il conestabile Asterio, ma ci ha informati del vostro arrivo e ha dato disposizioni affinché lo attendiate nell’anticamera della sua tenda. Entrate senza fare storie!» La sentinella sollevò un lembo del telo che chiudeva l’ingresso, e li lasciò are. Il luogo di attesa non era grande e un pesante telo giallo celava alla vista l’altra parte della tenda. Poco dopo ne uscì un uomo sulla sessantina, magro, con capelli bianchi che gli arrivavano alle spalle e barba bianca corta e curata; aveva due fedi d’oro all’anulare della mano sinistra. Poi uscì un uomo sulla cinquantina, robusto, con la testa completamente calva e una cicatrice che andava dalla fronte alla nuca, ando attraverso la metà sinistra del cranio; aveva una folta barba scura e indossava un’armatura dorata con il simbolo di Vàlor sul pettorale sinistro. «Allora restiamo d’accordo così, Dario» stava dicendo l’uomo con i capelli bianchi. «Appena sarò alla Roccaforte, invierò una spedizione esplorativa a Sanderia per verificare le informazioni che mi hai riportato. E speriamo di avere un riscontro positivo, questa volta.» «Non ti preoccupare, Asterio» ribatté l’uomo in armatura dorata, «sono sicuro che è quello che stiamo cercando.» Quando videro gli otto prigionieri circondati dalle guardie, Asterio li squadrò con curiosità, e poi disse a Dario sorridendo:
«Vedo che hai ospiti. Non ti ruberò altro tempo, anche se potrebbe essere interessante restare ad ascoltare.» Mentre lo diceva, aveva lo sguardo fisso su Liriel. «Ma, purtroppo, devo tornare alla Roccaforte. Fammi sapere l’esito della battaglia... e dei colloqui...» Anche Dario gli sorrise e replicò: «E tu fammi sapere se le informazioni erano giuste.» Asterio annuì, poi uscì dalla tenda, seguito da due guardie. Il generale Dario ò in rassegna ciascuno dei prigionieri, soffermandosi a fissarli negli occhi intensamente, senza proferire parola. Poi, d’un tratto, chiese: «Chi parla per tutti voi?» Keldon, Firion e Morgase si girarono a guardare Duncan, mentre gli altri restarono con lo sguardo fisso davanti a loro, anche se Liriel diede un rapido sguardo furtivo a Firion. Il paladino stava per prendere la parola, quando fu anticipato da Joel: «Cosa volete da noi? Siamo solo degli innocui viandanti.» Con lo sguardo fisso su di lui, Dario disse con voce calma e tranquilla: «Vedi, Orson, molti pensano che sia meglio interrogare separatamente i prigionieri, ma io credo che invece sia più interessante tenerli insieme, perché nessuno, per quanto esperto, può mascherare certi atteggiamenti che, a prima vista, potrebbero non avere alcun significato.» La Maschera, a quelle parole, provò un brivido gelido lungo la schiena, e pensò di aver fatto la mossa sbagliata. «Sì» commentò il barbaro. «Gruppo non unito. Evidenti disaccordi e poca armonia. Forse conosciuti poco fa.» «Sapevo che l’avresti notato» concordò il Generale voltandosi verso di lui e sorridendo. «Peccato solo che nessuno qui parli la tua lingua: senza i problemi di
comunicazione potresti essere un eccellente capitano.» Il barbaro scosse la testa e disse: «Già visto in campo quando presi. Io avvantaggiato.» «Non importa» ribatté Dario. «Ciò che conta è che te ne sei reso conto, mentre i tuoi soldati no. Inoltre hai notato qualcosa che ti ha spinto a chiedere che li vedessi anch’io, e sono d’accordo con te. Bene, sentiamo un po’ cos’hanno da dirci. Tu» e indicò Duncan, «quali sono i vostri nomi?» Duncan esitò un istante per quella domanda inattesa, poi rispose, limitandosi a dire solo i nomi come richiesto. Dario ò nuovamente in rassegna con lo sguardo i prigionieri secondo l’ordine con cui Duncan li aveva nominati, quindi indicò Liriel e disse: «Tu cosa puoi dirmi che possa convincermi a non giustiziarvi come spie e traditori?» L’espressione che comparve sul bel volto dell’elfa fu di immenso stupore. Rimase diversi secondi in silenzio, mentre si affannava a cercare una risposta che potesse evitare guai a se stessa, a Firion e a Nalatien. Vedendo che il silenzio si prolungava, Joel si intromise: «Siamo in missione segreta per conto degli elfi. Abbiamo un messaggio importante per il vostro capo. Possiamo riferirlo soltanto a lui.» Dario si girò verso l’uomo, con il volto chiuso in un’espressione indecifrabile. «Bene, allora mi avete trovato. Dimmi: qual è questo messaggio segreto degli elfi?» Joel rimase leggermente spiazzato per quella risposta, poi si riprese e rispose: «No, devo parlare con il vostro vero capo.» «Asterio è tornato alla Roccaforte, e comunque non penso proprio che sarebbe interessato.»
«La guerra sta andando male» azzardò Joel, «non penso che non gli interesserebbe una possibile alleanza con gli elfi.» Dario fissò negli occhi Joel, poi si girò di scatto verso Duncan e gli chiese: «Tu cosa ne pensi? Questo messaggio è davvero così importante?» Duncan ebbe un brivido lungo la schiena. Non capiva perché quell’uomo della Maschera d’Ombra continuasse imperterrito a inventarsi sempre delle false storie da raccontare a chi incontrava. Il paladino percepiva che l’uomo davanti a lui era una persona integerrima e non voleva ingannarlo, anche se avrebbe potuto costargli la vita. Stava esitando soltanto perché dalla sua risposta dipendeva anche la vita di Keldon e degli altri, ma poi realizzò il motivo del comportamento del generale alla “rivelazione” di Joel. «Gli elfi sono già vostri alleati, vero?» Le labbra di Dario si incurvarono in un leggero sorriso, ma i suoi occhi rimasero seri. La Maschera comprese di avere sbagliato per la troppa fretta, e si maledisse per non essersi ricordato prima che Firion aveva visto degli elfi tra le fila dell’esercito in oro e argento. Il Generale rispose a Duncan: «Già. Credo che il vostro messaggio sia arrivato un po’ tardi, signori.» Il Generale si allontanò di qualche o dai prigionieri e disse: «Purtroppo ci siamo sbagliati, Orson: queste persone non sono state di alcuna utilità. Forse non sono spie, ma è meglio non rischiare...» La terra tremò forte per diversi secondi. Tutti si immobilizzarono e ammutolirono per il terrore. Nalatien aveva percepito una strana perturbazione nell’Eteria ed era sbiancato di colpo; dalle sue labbra era sfuggito un: «Non è possibile!» Anche Liriel aveva percepito una forte vibrazione nell’Eteria, ma non le era chiara l’origine del disturbo. La frase del fratello, però, le fece capire che lui doveva avere compreso. «Nalatien, cos’hai percepito?»
«Qualcuno sta tentando un’evocazione di alto livello» rispose lui lentamente, con lo sguardo perso nel vuoto, «e il portale si sta aprendo sotto terra... Non dovrebbe essere possibile, eppure sta accadendo... Non ho la più pallida idea di cosa potrebbe uscirne...» La terra tremò di nuovo. Questa volta si sentirono anche delle grida provenire dall’esterno. Dario aveva sentito le parole di Nalatien e, nonostante il suo scetticismo per tutto ciò che riguardava l’Eteria, non poté non prenderle in seria considerazione, poiché il suo istinto gli diceva che quell’incantatore elfo non stava mentendo. Alla fine sbottò: «Maledetti evocatori di Tyran! Non gli bastava evocare i demoni? Che accidenti avranno in mente adesso?» Si girò verso Orson e gli disse: «Riporta i prigionieri in cella, poi resta a presidiare questa zona con i tuoi uomini. Io andrò a dare una svegliata ai nostri incantatori!» Subito Dario uscì dalla tenda e iniziò con la sua voce potente a gridare ordini ai soldati rimasti nell’accampamento, affinché si preparassero alla difesa; inoltre diede disposizioni per richiamare dal campo di battaglia alcuni incantatori. Orson obbedì agli ordini e scortò i prigionieri alle celle con i soldati rimasti con lui. Quando uscirono dalla tenda del generale, il sole stava tramontando dietro le alture del Bosco delle Sette Sequoie, che si vedeva in lontananza. Un’altra scossa di terremoto provocò una smorfia di preoccupazione sul volto del barbaro. «Più veloci» intimò Orson ai prigionieri. «Tra poco è notte e pericolo misterioso imminente. In cella voi sicuri.» I soldati li spronarono a camminare più velocemente per quanto permettevano loro le catene ai piedi. Joel, vista la situazione e notando il timore del gigante, tentò il tutto per tutto e disse: «Se ci lasci nelle celle rischiamo di venire travolti dai crolli causati dal terremoto. Là non saremo per niente al sicuro, anzi! Se moriremo rinchiusi là dentro, ci avrai sulla coscienza.» Orson non si voltò a guardare Joel, né accennò a rallentare. Ciò che al momento
gli premeva era di raggiungere la destinazione prima che fosse troppo buio. Poco lontano una ventina di soldati con le torce in mano si stava radunando per eseguire l’ordine di Dario di riportare indietro dal campo di battaglia alcuni incantatori. Avevano appena iniziato a marciare a file serrate, quando ci fu un’altra violenta scossa e il terreno sotto di loro si aprì. Le loro urla disperate risuonarono nell’aria, mentre la maggior parte dei soldati cadeva nella voragine. Solo tre erano riusciti ad aggrapparsi al bordo del baratro e a tirarsi su; il terrore era evidente nei loro volti. Orson ordinò ai suoi soldati di fermarsi. Tutti, sia soldati che prigionieri, erano rimasti molto scossi da ciò che avevano visto. Questa volta fu Duncan a parlare al barbaro nel tentativo di renderlo ragionevole: «Quello che sta accadendo non è normale. So che non ti fidi di noi e ne hai tutte le ragioni, ma non puoi lasciarci morire così, legati e incapaci di difenderci. Vorrei poterti dire che noi possiamo aiutarti ma, dopo quello che ho visto accadere, non so se sarei sincero. Di una cosa, però, sono sicuro: io non voglio morire senza combattere, senza avere almeno la possibilità di fare la mia parte. Ammetto che non posso parlare a nome di tutti noi, ma posso assicurarti che io, Keldon e Morgase saremo di sicuro al tuo fianco!» Alcuni soldati raggiunsero la voragine per soccorrere i superstiti e per verificare cosa fosse effettivamente successo. «Nemmeno noi vogliamo morire così» rincarò Firion, a nome anche di Liriel e Nalatien. «Ricorda che loro sono incantatori, quindi forse sono le carte migliori che hai in mano, e le mie frecce non mancano mai il bersaglio. Inoltre noi elfi non siamo limitati dalla mancanza di luce.» Orson si voltò verso di lui. Il barbaro capiva le ragioni dei prigionieri, ma aveva ricevuto degli ordini precisi dal generale e non poteva assolutamente liberarli di sua iniziativa. Ci fu un’altra scossa e forti grida attirarono la loro attenzione: dalla voragine era uscito qualcosa di lungo e sinuoso che aveva subito attaccato i soldati, che, però, si erano immediatamente gettati a terra per ripararsi e quella strana cosa aveva colpito le tende più vicine, distruggendole. A quella vista, Orson perse ogni esitazione. Lanciò un forte urlo minaccioso, poi
gridò: «Attacco!» e con i suoi soldati si lanciò contro l’invasore del sottosuolo, lasciando soli gli otto prigionieri. «Che facciamo adesso?» Chiese Keldon, esprimendo a voce alta quella che era la domanda di tutti. «Andiamocene» rispose prontamente Joel. «Torniamo al Bosco delle Sette Sequoie e cerchiamo di scoprire cosa ci è successo.» «Ma non possiamo abbandonarli sotto l’attacco di quella cosa» si lamentò Duncan, combattuto tra la necessità personale e l’onore. «Quello non è di sicuro un animale naturale» chiarì Morgase. «Non ho mai visto né mai ho sentito di qualcosa del genere...» «Dev’essere stato evocato dal Piano Elementale della Terra» intervenne Nalatien. «Per quegli esseri, muoversi nel terreno è come nuotare nel mare per i pesci.» «C’è qualcosa che possiamo usare contro di lui?» Chiese Firion. Prima che Nalatien potesse rispondere, Noa sbottò: «Ma come? Davvero state pensando di combattere contro quel mostro per aiutare chi ci voleva giustiziare?» «Certo» annuì Duncan. «È l’unico modo per guadagnarci la loro fiducia. E poi, che altro possiamo fare? Siamo tutti sulla stessa barca.» «Bene, fate come volete» dichiarò Joel infuriato. «Io scendo dalla tua barca. Nessuno ci controlla, quindi possiamo andarcene senza problemi. Noa, andiamo!» La mezzelfa si affiancò a Joel. Inaspettatamente, Liriel intervenne chiedendo: «Cosa pensate di fare per quelle catene?» E indicò i loro piedi. «Quando saremo al sicuro, ci metterò cinque minuti per aprire i lucchetti» dichiarò Noa con un sorriso compiaciuto. «Se vuoi posso pensare anche alle tue manette.»
«E come pensi di fare? Le guardie hanno preso tutti i tuoi gingilli» le fece notare Firion. «Spesso alcuni oggetti di uso comune possono are come innocue decorazioni» replicò Noa e sollevò la frangia dalla fronte rivelando una piccola forcina per capelli. «Anche questa può essere un efficace grimaldello per chi sa come usarla.» «Ma non potevi utilizzarla prima, quando eravamo in cella?» Intervenne Liriel. «Mai rivelare subito tutte le tue carte» replicò lei. «E poi, prima c’era ancora la possibilità che ci liberassero di loro iniziativa: ho preferito aspettare.» Duncan ci pensò qualche istante, poi disse: «D’accordo, se volete andare fate pure. Io rimango qui a combattere. Se è vero che questi sono l’Esercito di Vàlor, allora sarò dalla parte giusta e non avrò rimpianti.» Keldon gli fu subito a fianco, dichiarando con voce forte: «Io sono con te!» Anche Morgase si mosse per mettersi a fianco dei due, ma proprio in quel momento ci fu una fortissima scossa che li fece cadere a terra, e una voragine si aprì a pochi metri da loro. Dalla fenditura del terreno fuoriuscì una specie di tentacolo bianco di circa un metro di diametro. L’apice si piegò in basso, girandosi verso di loro come per osservarli, poi si aprì in tre parti, rivelando un’enorme bocca piena di denti acuminati: non era affatto un tentacolo! Subito il verme si abbatté con forza al suolo, puntando verso Firion, che era il più vicino. L’elfo ebbe il giusto riflesso di buttarsi a terra e il verme lo mancò di poco. Quando colpì il terreno, provocò un forte boato che fece tremare il suolo. Assordati e un po’ storditi, gli otto ex-prigionieri si rimisero faticosamente in piedi e cercarono di allontanarsi dalla voragine. Tuttavia, a un certo punto, Joel e Noa si dileguarono rapidamente nella direzione opposta in cui si erano mossi gli altri, verso il Bosco delle Sette Sequoie. «E ora che facciamo?» Gridò Keldon a Duncan, per superare i fischi che gli rimbombavano nelle orecchie.
Il paladino si guardò intorno. Il sole era tramontato e la luce stava lentamente affievolendosi, ma riuscì a vedere una rastrelliera buttata per terra lì vicino, in cui c’era ancora qualcosa di utile. La raggiunse velocemente, e gli altri lo seguirono. Liriel sbuffò sollevando le mani. «Voi avete le armi, ma noi che facciamo? Con queste manette non possiamo fare nessun incantesimo!» Improvvisamente Nalatien gridò. Il verme si era sollevato da terra e stava puntando contro di loro. Duncan afferrò lo scudo, Firion l’arco e la faretra, Keldon il mazzafrusto e Morgase la lancia, poi si buttarono di lato a terra, appena in tempo: il verme si schiantò sulla rastrelliera, distruggendola con le tre poderose mascelle. Tutti avevano il cuore in gola per la paura, ma Duncan si sforzò di far mantenere la lucidità a sé e agli altri. «Nalatien, tu sei l’esperto di evocazioni. Come possiamo combattere questa specie di verme troppo cresciuto?» L’elfo ci pensò un attimo e rispose: «Ora che l’ho visto ho capito che cos’è: è un Verme del Profondo. Non è facile evocarlo, perché ci sono poche cose che un evocatore può promettergli per convincerlo a stipulare un patto. Sono praticamente invulnerabili, perché hanno un’elevata capacità di rigenerazione.» «Non hanno alcun punto debole?» Chiese Firion. «Temono la luce del sole, ma ormai è tramontato. Inoltre, appartenendo al Piano Elementale della Terra, dovrebbe essere indebolito da attacchi di un altro elemento.» «Quindi se lo attaccassi con una Palla di Fuoco, potrei fargli molto male?» Domandò Liriel con una strana luce esaltata negli occhi. «Credo di sì, ma...»
«Toglietemi queste maledette manette!» Gridò Liriel isterica, muovendo freneticamente le braccia. Presi dalla concitazione della discussione, nessuno di loro si accorse che il verme aveva tirato fuori la testa dal terreno e aveva cominciato a muoversi sempre più velocemente verso di loro. Vennero travolti dal corpo del verme e scaraventati a terra. Il mostro si erse sopra di loro, apparentemente indeciso su chi assaggiare per primo. Alla fine il verme si fermò sopra Nalatien. L’elfo aveva ripreso i sensi quasi subito dopo il colpo, ma ancora non riusciva a muoversi. Vide la bocca tripartita del mostro aprirsi lentamente in tutta la sua grandezza e calare inesorabilmente sopra di lui. Nalatien chiuse gli occhi e attese l’inevitabile. Quando, pochissimo dopo, Nalatien si rese conto di essere ancora vivo, riaprì gli occhi e vide che una delle tre mascelle del verme era stata tagliata via di netto. In piedi accanto a lui il gigante Orson, con un’ascia per mano, portava un nuovo attacco contro la bocca del mostro. Il verme sollevò la testa, ma le asce affondarono nella carne coriacea del suo corpo, che iniziò a contorcersi e a ritirarsi nella voragine. Il barbaro si disinteressò del mostro e si abbassò verso Nalatien. «Tutto bene?» L’incantatore annuì con un cenno del capo e riuscì soltanto a sussurrare un: «Grazie.» Duncan e gli altri si erano rialzati un po’ faticosamente dopo il duro colpo subito, e rimasero sorpresi di vedere Orson con due soldati. Ormai era calata la notte e solo alla luna quasi piena, già alta nel cielo, riuscivano a vedere qualcosa. Il paladino cercò di approfittare dell’occasione e implorò il gigante: «Ti prego, liberaci dalle catene. Possiamo aiutarti con quel mostro!» Il barbaro si guardò rapidamente intorno, poi chiese: «Dove biondo e mezzelfa?» «Sono scappati» disse Firion senza mezzi termini. «Questo dovrebbe dimostrarti
che non siamo come loro.» Orson non ci pensò più di tanto. Disse ai due soldati che potevano raggiungere il generale, poi appoggiò a terra una delle due asce e impugnò l’altra con entrambe le mani, quindi disse: «Io non ha chiavi. Voi siede e allarga gambe.» Tutti fecero come aveva detto, anche se Liriel ebbe qualche pudore a sistemarsi in quella posizione, con la tunica sollevata molto sopra le ginocchia. Il primo a essere liberato a colpi di ascia fu Duncan. Mentre Orson liberava il resto dei suoi compagni, il paladino gli chiese: «Dove sono gli altri soldati? Dov’è il Generale?» Solo dopo aver liberato tutti, Orson rispose: «Generale e altri soldati occupati con altri vermi in quartiere nord di accampamento.» «Ma quanti ce ne sono?» Fece Liriel, disgustata. D’un tratto il gigante si mise in ginocchio davanti a Liriel e le prese le mani che erano ancora bloccate dalle manette. L’elfa rimase turbata dalla mossa del barbaro, mentre Firion si irrigidì preoccupato, pronto a scattare in suo aiuto. Lui disse in tono tranquillo: «Ora io libera tue mani, ma forse un po’ di dolore.» «Fa’ pure» annuì lei. «Meglio un po’ di dolore che stare senza poter usare le mani...» Orson afferrò le due estremità delle manette all’altezza del polso, quindi tirò con forza verso l’esterno. Dopo qualche secondo, le manette cedettero con uno schianto, restituendo la libertà alle mani dell’incantatrice. Liriel aveva effettivamente sentito un certo dolore, ma rimase in silenzio e si osservò le mani come se le vedesse per la prima volta. Poi il barbaro andò da Nalatien e fece lo stesso.
Quando furono tutti liberi, Duncan iniziò a ringraziarlo, ma il suo discorso venne interrotto dal grido di allarme di Firion. Tutti si buttarono a terra e questa volta il verme ò sopra di loro senza colpirli. Mentre si rialzava, Orson dichiarò: «Discorsi dopo, ora combattere!» Prese l’ascia che aveva appoggiato in terra e partì in carica contro il verme. «Forza, dobbiamo aiutarlo!» Esclamò Duncan ai compagni, mentre si sistemava lo scudo sul braccio. «Lancerò una Palla di Fuoco in quel punto» disse Liriel indicando la voragine da cui fuoriusciva il mostro, «quindi state lontani da là! Firion, rimani a proteggermi mentre mi concentro.» Nalatien si affiancò a Firion e alla sorella, pronto ad aiutarli con i suoi incantesimi. Allora il paladino si girò verso Keldon e Morgase, che gli sorrisero. Tutti e tre insieme si lanciarono contro il verme, in aiuto del barbaro. Subito Liriel iniziò a concentrarsi per lanciare il suo incantesimo più potente, la Palla di Fuoco, mentre Nalatien era entrato in meditazione per eseguire una divinazione che gli rivelasse se quell’essere aveva dei punti deboli. Firion, in mezzo ai due incantatori, quando aveva la linea di tiro libera, lanciava una freccia verso il mostro. I tre umani erano alle prese con la testa del verme, insieme a Orson. Il paladino, che si era piazzato di fronte al mostro, usava lo scudo per ripararsi dai colpi che cercava di attirare su di sé, permettendo così ai compagni di attaccarlo più o meno indisturbati. Tuttavia il verme non sembrava subire danni dai loro colpi. Duncan realizzò che l’unico modo per ferirlo era costringerlo ad aprire la bocca e colpirlo lì, come aveva fatto Orson quando era accorso in aiuto di Nalatien. Poi Liriel lanciò la Palla di Fuoco. La sfera infuocata viaggiò rapidamente verso la voragine risplendendo nel buio e si infranse con un forte boato contro il corpo del verme che ne fuoriusciva. Buona parte della sua pelle coriacea prese subito fuoco e il mostro iniziò a contorcersi per terra, aprendo la bocca con un verso stridulo. Allora Duncan gridò:
«Alla bocca! Colpitelo alla bocca!» Subito Orson, Keldon e Morgase seguirono il suo suggerimento. Il barbaro riuscì a tranciare di netto una delle tre mascelle e la druida conficcò la lancia in fondo alla gola del mostro; il chierico lo colpì con il mazzafrusto all’attaccatura di una mascella facendogli sbattere la testa contro il terreno. Duncan ne approfittò e piantò lo scudo con tutta la forza alla base della bocca, recidendo di netto le altre due mascelle. Il verme smise di contorcersi, e tutto il suo lungo corpo si accasciò a terra. Nessuno di loro poté trattenere un grido di gioia e di soddisfazione per la morte del mostro, tranne Nalatien, che era ancora concentrato sulla sua divinazione, con gli occhi chiusi. I quattro umani che avevano dato i colpi finali al verme si stavano congratulando tra loro, mentre Firion e Liriel si erano incamminati per raggiungerli, quando Nalatien gridò: «Allontanatevi da lì! Non è morto!» Il corpo biancastro del verme iniziò a emettere una strana luminescenza verdastra, poi sollevò la testa dal suolo, nuovamente integra. Immobilizzati dalla sorpresa, nessuno dei quattro umani fu sufficientemente pronto per evitare il colpo del mostro, che li buttò violentemente a terra. Una voce accanto a Nalatien domandò: «Perché non è morto? Cosa sai?» All’incantatore non era nuova quella voce, e nemmeno a Liriel e a Firion, che erano ancora vicino a lui. Nessuno di loro, però, ebbe il coraggio di voltarsi verso colui che aveva parlato. Con lo sguardo fisso davanti a sé, Nalatien rispose: «Mi ero sbagliato: l’accampamento non è stato invaso da decine di Vermi del Profondo, ma da un unico Terramedusoide. È un essere del Piano Elementale della Terra che ha un corpo centrale da cui fuoriescono decine di tentacoli che simulano dei Vermi del Profondo. Il problema è che i tentacoli non solo risanano rapidamente le ferite fisiche, come il Verme del Profondo, ma rigenerano anche quelle provocate dall’Eteria. L’unico modo per sconfiggerlo è colpire con un
forte flusso di Eteria il corpo centrale, che dovrebbe essere sotto terra, in mezzo ai punti di uscita dei tentacoli.» Nel frattempo, i quattro umani si erano rialzati in piedi e guardavano preoccupati il verme che sembrava in procinto di attaccare di nuovo. Quando sentì la voce di Nalatien, Morgase si girò verso di lui e, nel chiarore della luce della luna, intravide una figura scura accanto a lui, molto simile a un uomo con lunghi capelli, in armatura. «Grazie» rispose la voce e un attimo dopo i due incantatori percepirono che una grande quantità di Eteria si stava accumulando nel cielo al centro dell’accampamento. Nalatien vide con la coda dell’occhio che l’uomo aveva sollevato la mano destra, e stava eseguendo delle movenze molto complicate con una rapidità incredibile. Alla fine l’uomo chiuse la mano a pugno e dal cielo si formò un enorme fulmine globulare che andò a colpire il terreno con un gran fragore, penetrando con forza in profondità. Allora estrasse una spada dalla lama che emanava una tenue luce azzurra, e iniziò a correre molto velocemente verso il baratro aperto dal fulmine globulare. Poi ci si buttò dentro, tenendo la spada puntata verso il basso. La terra tremò di nuovo violentemente ma, questa volta, ci fu anche un suono stridulo, inizialmente molto forte, poi sempre più flebile. Il tentacolo vicino a loro si ricoprì di ghiaccio, poi scomparve nel nulla, e tutto piombò nel silenzio. Tutti si sedettero a terra, esausti. Dalla voragine saltò fuori l’uomo in armatura e si avvicinò a loro. Orson si alzò subito in piedi e chinò la testa in segno di rispetto. «Ottimo lavoro, Orson» disse questi sorridendo, con la sua voce profonda compiaciuta. Si era fermato a pochi i da loro. Aveva lunghi capelli neri e il suo viso era chiaro e privo di rughe o cicatrici. L’armatura che indossava era scura, quasi nera, e sul pettorale era impresso il simbolo di un cerchio con una spada disposta in orizzontale lungo il diametro. «Riesci sempre a trovare dei compagni utili per ogni occasione» aggiunse rivolto a Orson. «Vuoi presentarmeli?»
Quando l’uomo osservò i visi di quelle persone, però, il suo sorriso si spense e venne sostituito da un’espressione di curiosità. Infatti tutti avevano in volto una smorfia che era un misto tra il terrore, lo stupore e la sorpresa, come se avessero visto qualcosa, o meglio qualcuno, che conoscevano e che non si aspettavano di vedere. Poi, Liriel fece un o in avanti e con voce timida disse: «Rhao...»
~ 16 ~
Il dolore non prevarrà
M iranda teneva la testa china, sforzandosi di contenere il dolore per la perdita del padre, avvenuta durante la battaglia della Piana di Crandall. Non era stata una morte onorevole: nessun combattimento faccia a faccia, nessun confronto leale di forza e audacia. Soltanto l’incantesimo di un dannato incantatore da lontano, una maledetta Palla di Fuoco impersonale e senz’anima che distruggeva indiscriminatamente tutto quello che incontrava. Se mai avesse avuto bisogno di un pretesto per odiare l’uso dell’Eteria nelle battaglie, ora ne aveva uno bello grande. Udiva senza ascoltare le preghiere funebri del chierico nella sua monotona cantilena. Quando però sentì pronunciare il nome di suo padre, legato Atrenas di Calendia, Miranda sollevò il capo, scostando con le mani i lunghi capelli neri che le erano finiti davanti al viso. Aveva la carnagione chiara ma abbronzata, gli occhi di un verde intenso, i lunghi capelli lisci e neri, tra cui spiccava una ciocca di capelli rossi che partiva dalla fronte sopra l’occhio sinistro; di solito li teneva raccolti sulla nuca, così che non nascondessero le sue orecchie da mezzelfa di cui andava fiera, ma ora aveva voluto lasciarli liberi e lisci fin quasi al fondoschiena. Il suo corpo era asciutto e muscoloso; il seno non era molto abbondante, ma la morbidezza delle sue forme femminili le era garantita dal fondoschiena e dalle lunghe gambe tornite; nei suoi trent’anni di vita, non aveva mai incontrato qualcuno che non ne avesse apprezzato il corpo, anche se ora, in segno di lutto, lo aveva coperto con un’ampia tunica di raso viola scuro. Si guardò per l’ennesima volta intorno, mentre il chierico e i suoi due accoliti iniziavano un canto funebre a più voci. La tenda adibita a tempio era molto grande e alta, ma i pesanti addobbi rossi e verdi rendevano l’atmosfera cupa e grave. Davanti all’altare, su cui ardeva il fuoco sacro, era posta la pira funebre, ancora spenta; il corpo di suo padre vi era disteso in alta uniforme. Le panche disposte su due file non erano state sufficienti per tutti coloro che lo avevano conosciuto: diverse persone erano rimaste in piedi in fondo o lungo i lati
dell’ampia tenda. Miranda era seduta in prima fila, insieme agli assistenti di suo padre. Nella prima panca dell’altra parte, invece, c’erano le più alte autorità politiche presenti al campo, primo fra tutti il console Albios, il comandante in capo dell’Esercito di Tyran. Come di consueto per le uscite in pubblico, aveva sul viso una maschera di metallo brunito con le fattezze abbozzate di un teschio metà umano e metà rettiloide, adornato da fregi argentati; ciò stava a significare che il ruolo di Console era più importante della persona che deteneva tale carica. Accanto a lui c’erano il legato Kort’Enash, un rettiloide in armatura dalla pelle verde smeraldo e dagli occhi gialli, responsabile del campo base avanzato, e la pretora Frisk’Isha, rappresentante della Guardia Personale dell’Egemone, una rettiloide dalla pelle verde chiaro e dagli occhi rossi. Miranda riportò la sua attenzione sul chierico che stava concludendo il canto funebre. Era il pretore Trisk’Àlish, uno dei capi dell’Ordine dei Sacerdoti Guerrieri di Tyran. Era un rettiloide dalla pelle verde scuro, con delle leggere venature gialle sul bordo delle scaglie, che gli conferivano un aspetto mistico; aveva trentun anni e gli occhi color ambra; sopra una lunga tunica verde con le maniche rosse indossava i paramenti sacri viola per i funerali, sul cui petto era disegnato un grosso serpente verde a due teste con il corpo sinuoso incrociato a formare un otto orizzontale, simbolo dell’infinità dell’anima. Trisk’Àlish iniziò l’ultima preghiera di commiato: «Grande Tyran, dio giusto con chi onora il tuo nome, ascolta la nostra preghiera per l’anima del nostro compagno Atrenas di Calendia. Quand’era in vita, questo umano ha dimostrato tutto il suo enorme coraggio: ha voltato le spalle a quel dio che si autodefinisce benevolo e comionevole, quel dio che lo ha generato nella debolezza e nell’incertezza di un mondo dominato dal caos. Quest’umano ha visto che la via del suo creatore era sbagliata, e ne ha compreso l’iniquità, l’ipocrisia e la falsità. Allora si è rivolto a te e ha riconosciuto la tua supremazia, ha abbracciato la tua causa e ha scelto di servire nella tua forza e nella tua determinazione, sapendo che solo il tuo ordine è l’unica soluzione per un mondo che, a causa del caos che lo domina, volge sempre più verso la sua distruzione. Atrenas, potente Tyran, si è distinto nel suo operato, portando gloria e onori al tuo nome, accrescendo la fede in te nei tuoi credenti e la fama di te in coloro che ancora non ti conoscono. Sommo Tyran, tu sei severo ed esigente, ma anche giusto ed equanime.» Il chierico raccolse la fiaccola deposta ai piedi dell’altare e la accese tramite la fiamma sacra che vi ardeva al centro. Si avvicinò alla pira
funebre e appiccò il fuoco partendo dai piedi. «Accogli l’anima del nostro compagno Atrenas nel tuo regno di gloria, dove potrà finalmente ammirare la realizzazione del giusto ordine che tu vuoi si compia anche su questo mondo terreno.» Si voltò verso il popolo, tenendo alta la fiaccola, e proclamò: «Elevate la vostra preghiera di ringraziamento a Tyran per aver avuto modo di conoscere il nostro compagno Atrenas, unite le vostre voci per onorare la sua memoria e per offrire le sue opere al nostro dio.» Tutti i presenti acclamarono: «Potente Tyran, veneriamo il tuo nome e onoriamo la memoria di Atrenas, che con la sua vita ha reso gloria e onore a te. Accoglilo nel tuo regno di ordine e giustizia, insieme a tutti coloro che lo hanno preceduto.» Trisk’Àlish si avvicinò a Miranda e le porse la fiaccola fiammeggiante: «Contribuisci a fortificare la luce che guiderà l’anima di tuo padre Atrenas nel regno del nostro dio.» La mezzelfa, con il viso apparentemente imibile, prese la fiaccola, si avvicinò alla pira funebre e diede fuoco alla zona della testa. Poi proclamò ad alta voce: «Sommo Tyran, accogli l’anima di mio padre, Atrenas di Calendia. Fa’ che la sua vita di ordine e giustizia nel tuo nome sia un fulgido esempio della fede che dobbiamo avere per te.» «Così diciamo tutti» concluse il chierico. «Così diciamo tutti» ripeterono i presenti. A quel punto, mentre la pira ardeva sempre di più, Miranda si portò di lato a essa con la fiaccola in mano, mentre il chierico con i due accoliti si sistemava tra la pira e l’altare, mormorando litanie nella sua lingua madre. Tutti, allora, andarono a rendere omaggio al legato Atrenas di Calendia. Ciascuno accettava con un inchino la fiaccola dalle mani di Miranda dicendole: «Lascia che prenda parte del tuo dolore.» Poi affondava la torcia tra le fiamme, pronunciando il nome di suo padre, e gliela
rendeva dicendole: «Il fuoco di Tyran sia la tua forza per sconfiggere il dolore.» Il rituale andò avanti per circa un’ora, fino a che nel tempio improvvisato rimasero solo Miranda, Trisk’Àlish con i due accoliti e la pira ormai quasi spenta. La mezzelfa si sedette sulla panca, esausta, ancora con la fiaccola accesa in mano. Il chierico le si avvicinò e le prese con gentilezza la torcia, gettandola in quello che restava della pira. Quindi le disse: «Torna al tuo alloggio, adesso. Penso io a sistemare qui. Più tardi o a vedere come stai.» Miranda sollevò lo sguardo su di lui e fissò i suoi occhi color ambra nella pupilla a fessura, ora più larga per via dell’oscurità; con voce sommessa gli rispose: «Grazie per le belle parole, avevo proprio bisogno di sentirle. Ti aspetterò per bere qualcosa in memoria di mio padre.» Si alzò in piedi e fece un inchino verso l’altare sacro a Tyran, poi uscì lentamente dal tempio improvvisato. Una volta fuori, Miranda respirò a fondo l’aria fresca della sera, cercando di dimenticare l’odore acre della pira e quello dolciastro degli incensi. Si ravviò i capelli spostando le ciocche dietro le orecchie appuntite. Non si sentiva a suo agio senza l’armatura da Difensore di Tyran, ma per i rettiloidi le tradizioni erano importanti, così si era adattata ai loro rituali e aveva indossato quella scomoda tunica viola da lutto pubblico. Non vedeva l’ora di raggiungere la sua tenda e di rimettersi i soliti indumenti. Mentre si incamminava verso la sua tenda, Miranda soffermò lo sguardo sulle alte cime degli alberi della Grande Foresta, che si vedevano in lontananza a nord-est, nel chiarore lunare. Il campo era stato allestito vicino ai resti della città umana di Koliman, secondo il classico schema triangolare dei rettiloidi, che preferivano razionalizzare al meglio tutto lo spazio disponibile; le tende erano tutte uguali e avevano un’insegna diversa a seconda dell’uso o del grado dell’occupante. La gerarchia rettiloide non differiva di molto da quella degli umani, a parte nei nomi: i rettiloidi chiamavano console un generale, un
colonnello era un legato, un maggiore si chiamava pretore, un capitano era un prefetto, un tenente era un centurione, un maresciallo era un decurione, un sergente era un tribuno e un caporale era un triario. Secondo questa scala, Miranda era un Prefetto dell’Ordine Sacro dei Difensori di Tyran, qualcosa di molto simile a quello che gli umani chiamavano Ordine dei Paladini. La mezzelfa tornò col pensiero all’incursione nella Piana di Crandall: se la battaglia avesse avuto successo, avrebbero aggirato l’ostacolo della maledetta Roccaforte dei seguaci di Vàlor, e avrebbero potuto puntare indisturbati verso Camaran per sottomettere l’imperatore degli umani... E la guerra sarebbe finita... e vinta! Ma Crandall, la città fortificata che controllava quella zona, aveva resistito ed era riuscita a respingerli. Così avrebbero di nuovo dovuto fare i conti con la Roccaforte, nella speranza che prima o poi cadesse, lasciandoli are. Finalmente raggiunse la sua tenda e vi entrò. L’interno non era particolarmente lussuoso, cosa che esprimeva il concetto di uguaglianza dei rettiloidi: tutti erano di uguale importanza e dunque dovevano ricevere lo stesso trattamento. Miranda comprendeva il senso di quella regola e il potere che aveva sulla gente comune, ma in città, per esempio, la sua casa di figlia di un Legato era molto più grande e bella di quella di un Centurione. Un altro concetto, infatti, era altrettanto importante nella cultura rettiloide: ciascuno ottiene secondo quanto si merita. La coesistenza di queste due idee le era sempre apparsa una grande contraddizione, ma suo padre le aveva spiegato che la seconda regola era necessaria per mantenere un giusto grado di competizione tra i membri della società, così che non si accontentassero di una vita piatta e semplice, ma puntassero per quanto possibile a migliorare se stessi e la società. Miranda non si era mai particolarmente interessata di questioni politiche, ma un altro concetto l’aveva colpita quando era giunta nell’Egemonia con suo padre: non esistevano vincoli di razza, chiunque poteva accedere a qualunque carica. Ne era un esempio proprio quella di Console: chi aveva quella carica non mostrava mai il suo aspetto in pubblico, proprio perché non aveva importanza che fosse un rettiloide, un umano o un mezzelfo. Nell’Egemonia Tyranian tutti erano i benvenuti: ovviamente, purché si sottomettessero alla dottrina religiosa di Tyran. Si sfilò la tunica viola e indossò il completo di pelle di colore rosso che era solita tenere sotto l’armatura. Quell’abito attillato era per lei come una seconda pelle e si sentì riavere, finalmente a suo agio. Si sedette sul bordo del letto e il suo pensiero tornò a suo padre. Ricordò il soprannome di “Leliana” con cui la chiamava affettuosamente fin da bambina, giocando sul fatto che, quando era
piccola, non riusciva a pronunciare bene il proprio nome e lo storpiava in quel modo. Anche l’ultima volta che lo aveva visto, prima della battaglia, l’aveva chiamata così. Miranda sentì qualcosa dentro di sé che cedeva, e calde lacrime di disperazione cominciarono a solcarle il viso.
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Trisk’Àlish, ancora nel tempio improvvisato, aveva appena terminato di recitare la Preghiera del Crepuscolo in lode di Tyran, inginocchiato davanti all’altare. Gli piaceva molto rimanere solo nel tempio, immerso nella penombra e nella quiete del silenzio, libero dai pensieri violenti. Era così che avrebbe voluto vivere, ma era consapevole che la gloria di Tyran richiedeva dei sacrifici. In particolare, ogni chierico aveva un proprio sacrificio da offrire al dio, per dimostrargli di essere degno del suo potere e della sua forza. Il desiderio dell’isolamento, del silenzio e della tranquillità era il suo sogno, ma Tyran aveva scelto per lui la via del sacerdote guerriero, sempre immerso nel rumore della lotta, nelle grida di dolore, nel sangue. Tuttavia, ogni tanto, sentiva il bisogno del silenzio e della contemplazione per bilanciare nel suo animo tutto il fragore delle azioni che compiva per fare trionfare il suo dio. Il suo personale sacrificio, dunque, consisteva proprio nel fatto che ogni volta rinunciava al suo sogno, per abbracciare quello di Tyran. Un rumore di i lo riscosse dai suoi pensieri. Rapidamente si rialzò in piedi e si voltò. Non appena vide che si trattava del console Albios, chinò subito la testa in segno di rispetto. «Le tue parole alla cerimonia di oggi sono state molto toccanti» gli disse a bassa voce il Console. «Vi ringrazio» rispose lui con deferenza. «Ti prego, vorrei rimanere solo in questo tempio» aggiunse il Console con una strana urgenza. «Assicurati che nessuno disturbi le mie preghiere.» Il chierico annuì e si affrettò a uscire dal tempio, quindi ordinò ad alcuni soldati di montare la guardia all’ingresso della grande tenda.
Rimasto solo, Albios si trattenne in piedi davanti all’altare, finché la fiamma che vi ardeva sopra tremolò e iniziò a diventare verde; allora si mise subito in ginocchio. «Mio signore Aval’Dyr, il tuo servo ti ascolta.» Una voce profonda uscì dal fuoco con un tono severo: «La battaglia della Piana di Crandall non è andata affatto bene. Siamo stati ricacciati indietro e abbiamo subito molte perdite.» «È vero, mio signore» rispose il Console, sulla difensiva, «ma si trattava solo di un diversivo.» «Un diversivo troppo costoso, Albios. La perdita del legato Atrenas non era contemplata. Sarà difficile trovare un degno sostituto.» «Ammetto di aver sottovalutato la loro competenza nel controllo dell’Eteria, ma anche noi abbiamo causato loro diverse perdite. Inoltre vi ricordo che i nostri piani prevedono altre azioni più efficaci e definitive.» «È per questo che ti ho convocato qui. Non possiamo permetterci di perdere tempo prezioso, se vogliamo vincere. Hai qualcosa da riferirmi?» «Sì, mio signore. Ho finalmente localizzato lo Scrigno, ma ho saputo che anche loro lo stanno cercando, sebbene pensano sia qualcos’altro.» «Non devi assolutamente permettere che lo prendano: è essenziale per la nostra vittoria!» «Non vi deluderò, Aval’Dyr. Lo Scrigno è in possesso di un elfo a Sanderia. Il suo nome è Lolianis di Erastad. Non conosce il vero potere di ciò che custodisce, e per questo sono riuscito a convincerlo a contrattare il suo acquisto. Se possibile cercheremo di prenderlo con le buone, ma ci terremo pronti a usare le cattive.» «Hai già deciso chi mandare?» «Sì. Per gestire la contrattazione ritengo che il più adatto sia il pretore Trisk’Àlish, dell’Ordine dei Sacerdoti Guerrieri di Tyran: preferisce sempre tentare prima le vie del dialogo, ma quando deve agire lo fa con prontezza ed
efficacia, senza alcuna esitazione. Per la seconda parte del piano, invece, pensavo alla figlia del legato Atrenas, il prefetto Miranda dell’Ordine dei Difensori di Tyran. Il suo desiderio di vendicare il padre sarà la forza che ne alimenterà il potere, rendendola invincibile.» «Molto bene, Albios. Che Tyran guidi i nostri i verso la vittoria.» La fiamma verde tremolò e cominciò ad affievolirsi, fino a spegnersi. Il Console si alzò in piedi, rimuginando su ciò che doveva fare. Aveva avuto fortuna a scoprire dove fosse lo Scrigno, ma ora non poteva più fare affidamento solo sulla buona sorte. Fece un lungo respiro e si voltò, uscendo dal tempio.
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Miranda si era appena sdraiata sul letto, stremata dalle emozioni di quella giornata, quando una voce fuori della tenda chiese il permesso di entrare. Riconobbe subito la voce di Trisk’Àlish. Si alzò a sedere e si sistemò i capelli, raccogliendoli in una crocchia improvvisata dietro la nuca, quindi gli comunicò il suo assenso. Il chierico scostò il pesante telo dell’ingresso ed entrò. Nella mano sinistra aveva una bottiglia, che mostrò subito a Miranda. «Che cos’è?» Gli chiese, cercando di mantenere la voce sotto controllo. «Avevi detto che volevi bere per onorare tuo padre, no? Ho pensato che questo sarebbe stato di suo gradimento.» Miranda si alzò in piedi e si avvicinò, prendendo la bottiglia che le porgeva. Osservò incuriosita l’etichetta e commentò: «Vino di Crandall... Invecchiato ben sette anni!» Restituì la bottiglia a
Trisk’Àlish e si girò a prendere due calici dal mobile dei viveri. «A mio padre piaceva molto questo vino. L’ho sentito dire diverse volte che era l’unica cosa da salvare degli umani. Forse era destino che la sua vita dovesse finire proprio in quella valle, a poca distanza da Crandall.» Tornò verso di lui con due calici di bronzo nelle mani e gli chiese: «Dove l’hai trovata?» «Avevo sentito di alcune squadre esplorative che avevano fatto razzie nei dintorni della città di Crandall, e ho voluto controllare cosa avessero recuperato. Tra il bottino di una delle squadre, ho visto questa bottiglia e l’ho subito requisita. Era mia intenzione regalartela, perché sapevo che tra non molto sarebbe stato il compleanno di tuo padre...» Trisk’Àlish si interruppe, visibilmente imbarazzato. Miranda scosse la testa, gli fece un sorriso e disse: «Su, apri la bottiglia e beviamo alla sua memoria. Forse così il mio dolore si addolcirà un po’.» Il chierico tirò fuori dalla tasca un cavatappi e stappò agilmente la bottiglia di vino. Ne versò un po’ nei due calici che Miranda aveva in mano, riempiendoli fino a metà, quindi disse: «Dovremmo lasciarlo un po’ prendere aria. Dicono che così il vino acquisisca un sapore migliore.» Lei sorrise e gli porse una delle due coppe. «Se ammetti che lo hai sentito dire, allora è vero che voi rettiloidi non sapete nulla del vino.» Trisk’Àlish fece ondeggiare il calice e osservò i riflessi rossi della luce sulla superficie del liquido. «In effetti noi preferiamo il sapore più deciso della birra. Però devo ammettere che il sapore delicato del vino non è male.» Il telo che chiudeva l’ingresso della tenda venne sollevato. Miranda e
Trisk’Àlish si voltarono seccati, ma quando videro che il disturbatore aveva sul viso una maschera di metallo brunito a forma per metà di un teschio umano e per metà rettiloide, subito si piegarono in ginocchio. «Console» disse Miranda con riverenza, «è un onore ospitarvi nella mia umile tenda.» «Stavamo brindando in memoria del legato Atrenas» aggiunse Trisk’Àlish con altrettanto rispetto. «Se volete unirvi a noi...» Albios scosse leggermente la testa. «Vi ringrazio, ma il dovere mi chiama e sto per partire per la capitale. A ogni modo, cercavo proprio voi due. Ho una missione della massima importanza da affidarvi...»
~ 17 ~
Echi del ato
N oa aveva appena terminato di liberare se stessa e Joel dalle catene ai piedi. Non era stato facile aprire quei lucchetti usando solo una forcina per capelli, ma alla fine ci era riuscita in circa mezz’ora. Dopo la fuga dall’accampamento dell’Esercito di Vàlor, si erano allontanati quanto bastava per non essere coinvolti nei combattimenti con quel mostro assurdo. Una volta al sicuro, protetti anche dal buio della notte, avevano cercato un luogo tra i cespugli, dove potersi appartare per liberarsi dalle catene, senza rischiare di essere disturbati. «Adesso cosa facciamo?» Chiese Noa a Joel, risistemando la forcina tra i capelli. «Dobbiamo scoprire cosa ci è successo» le rispose, mentre nascondeva le catene in mezzo a un cespuglio. «Nel nostro rifugio all’interno del Bosco delle Sette Sequoie troveremo sicuramente qualche indizio utile.» Noa non aveva proposte alternative da suggerire, per cui annuì e, insieme, si misero in cammino verso il bosco. «Peccato che non siamo riusciti a riprenderci le nostre armi» commentò Noa d’un tratto. Joel si girò e le sorrise, tirandosi su la manica destra per mostrarle il semplice bracciale di cuoio intorno alla prima metà dell’avambraccio; sembrava solo una protezione, ma in realtà nascondeva un corto pugnale che usciva fuori da sotto il polso facendo scattare la molla con un perno. «Non sei la sola ad avere risorse ben nascoste» le replicò con soddisfazione. «Il soldato che ci ha perquisiti deve aver pensato che, dopo avermi tolto tutti i pugnali sparsi nei vestiti, un bracciale non fosse qualcosa di pericoloso.»
Anche Noa sorrise e, per tutta risposta, si sollevò la manica sinistra della tunica sgargiante viola e gialla, ora un po’ meno appariscente a causa dello sporco, mostrandogli un bracciale di cuoio simile al suo, ma decorato con figure floreali. «Come vedi, anch’io ho le mie risorse segrete» gli ribatté, altrettanto soddisfatta, «ma sono molto più carine!» Joel annuì e si riabbassò la manica, poi commentò in tono beffardo: «Meno male che, con tutto quello che abbiamo ato, i colori della tua tunica sono diventati un po’ più smorti, sennò riusciresti a camuffarti nel bosco come un pezzo di carbone su un foglio bianco!» Noa sbuffò e gli ribatté apparentemente offesa: «Se il mio modo di vestire non ti piace, dillo apertamente, senza giri di parole!» L’uomo sorrise scuotendo la testa, ma la mezzelfa aveva compreso subito che si trattava solo di uno dei suoi soliti scherzi. Arrivarono ai confini del Bosco delle Sette Sequoie senza incontrare nessuno. Anche i rumori della battaglia erano cessati. Ormai era notte fonda, ma la luce della luna era sufficientemente intensa per permettere anche a Joel di vedere qualcosa. Si trovavano in una radura che si apriva al confine del bosco. Da una parte si intravedevano dei mucchietti di terra. «È qui che siamo stati catturati» disse Noa, indicando il punto dove erano ancora evidenti le tracce di uno scavo. «Però l’interrogativo del giovane elfo è più che valido: come abbiamo fatto ad arrivarci?» «Sono certo che al rifugio troveremo la risposta anche a questo: se qualcosa di strano è accaduto, è stato sicuramente durante lo scontro con Rhao.» Joel esitò qualche istante, poi aggiunse: «Tu di notte vedi molto meglio di me: tocca a te fare da guida fino al rifugio.» «Almeno qualche vantaggio a essere nata mezzelfa ci dovrà essere, no?» Fece lei con un tono più sarcastico che ironico. «Seguimi.»
Noa spostò i bassi rami di un cespuglio e si inoltrò all’interno del bosco. L’uomo non vedeva quasi nulla a causa dei folti rami che nascondevano la già debole luce della luna, quindi, per evitare di perdersi, mantenne lo sguardo fisso sulla sagoma del corpo della mezzelfa, lasciando che fosse lei a riconoscere il sentiero per raggiungere il rifugio. Mentre camminavano, Joel volle ripercorrere con Noa gli ultimi avvenimenti, prima del loro risveglio dall’oscurità. «Stavo ripensando alle parole di Rhao durante lo scontro nel sotterraneo... Ha detto che ignoriamo il vero scopo della Direttiva Primaria... Inoltre prima aveva accennato al fatto che la vendetta di Gannum non si sarebbe mai compiuta e quindi la sua anima non avrebbe mai trovato pace... Che senso ha? Perché il fondatore della Maschera d’Ombra non dovrebbe trovare pace?» «Non ne ho idea» ammise lei, ripensando all’accaduto. «Però a me ha colpito di più un’altra cosa che ha detto... Quando ha preso in mano il Bracciale Perduto, Rhao ha detto: “Finalmente ti ho trovata, Krynica”.» Tacque qualche momento per concentrarsi sul sentiero, poi riprese: «Chi diamine è Krynica? E cosa c’entra con il Bracciale Perduto? Il bracciale serve per compiere la Direttiva Primaria, così come ci è sempre stato detto.» «Già! Solo i capi sezione hanno informazioni più dettagliate al riguardo, ma purtroppo Dolan è morto prima di potercele rivelare.» Noa esitò qualche momento, poi commentò: «Non mi è mai piaciuta troppo tutta questa segretezza nei riguardi della Direttiva Primaria. Dopotutto, se è lo scopo principale della Maschera d’Ombra, credo sarebbe stato più giusto che tutti ne avessero piena conoscenza.» «Da soli non troveremo mai queste risposte» concluse Joel con decisione. «Credo che la cosa migliore sia tornare al nostro rifugio e, se là non troviamo niente, andremo alla base più vicina, dove riferiremo quanto accaduto e, finalmente, potremo are al contrattacco.» «Sì, sono d’accordo con te» confermò Noa. «Anche se penso che alla fine dovremo comunque raggiungere una base per fare rapporto.» Mentre discutevano, avevano camminato per circa mezz’ora, percorrendo diversi
sentieri e qualche punto non battuto. Dopo un po’ che erano tornati in silenzio, la mezzelfa si fermò di colpo. «Cosa c’è?» Le chiese Joel a bassa voce, fermandosi appena un attimo prima di sbatterle contro. «C’è qualcosa che non mi torna... Qui doveva esserci un bivio, segnalato da un grosso albero; invece non c’è nessun albero, e il sentiero prosegue verso destra. Il percorso per arrivare al rifugio prevedeva qui una svolta a sinistra...» «Sei sicura di non avere sbagliato strada?» «Sono stata io a disegnare le mappe per arrivare al rifugio» rispose lei quasi offesa per la domanda. «Ho imparato a memoria ogni percorso a partire da qualunque punto utile del confine del bosco. Se ti dico che qui manca qualcosa, allora vuol dire che è così.» Joel ci pensò qualche istante, poi le suggerì: «Pensi di poterci arrivare lo stesso, anche se i punti di riferimento non ci sono più?» «Mio padre era un ranger, lo sai?» Gli ribatté piccata. Joel rimase sorpreso da quella rivelazione: lei, infatti, non gli aveva mai parlato del padre elfo. «Mi ha insegnato lui, quand’ero piccola, a leggere le mappe e a ricordarle, insieme ai trucchi per orientarsi in qualsiasi occasione.» Dopo un momento di esitazione, l’uomo le chiese un chiarimento sulla sua domanda iniziale: «Vuol dire sì?» La mezzelfa si girò verso di lui, poi gli disse semplicemente: «Seguimi!»
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Rhao era fermo nello spiazzo, vicino alla zona di detenzione dell’accampamento, poco distante dalla voragine da cui era partito l’attacco di uno dei tentacoli del Terramedusoide che aveva sconfitto definitivamente grazie alla Gelida e al suggerimento di un incantatore che non conosceva. Appena giunto all’accampamento, aveva aiutato Dario a spezzare il tentacolo che lo minacciava, poi il Generale gli aveva dato qualche accenno sulle otto probabili spie catturate da Orson. Ora aveva davanti sei di loro, tre umani e tre elfi, e stava osservando con curiosità e stupore la gamma di emozioni contrastanti che danzavano sui loro volti. Non capiva perché provassero un odio così feroce nei suoi confronti: lui non li aveva mai visti prima d’ora. «Che succede? Tutto bene?» Si azzardò a chiedere. «Tu!» Gridò Duncan con rabbia. «È tutta colpa tua! Cosa ne hai fatto del bracciale di Lilibeth?» «Hai ucciso Insidia» intervenne Morgase furiosa, brandendo la lancia e avvicinandosi di qualche o a lui. «Hai distrutto il Cerchio di mia madre nel Bosco delle Sette Sequoie, e hai ucciso anche lei, mentre mi metteva alla luce!» «Hai ucciso Lionel» rincarò Duncan, affiancandosi a Morgase. «Lo hai diviso a metà con quella tua spada di ghiaccio, senza alcuna pietà!» Neanche Firion poté più restare zitto; incoccò l’ultima freccia rimasta e gridò: «Hai tradito il rispetto che Liriel aveva per te, per il suo maestro. L’hai abbandonata, distruggendo tutti i suoi sogni!» Nel sentire quelle parole, l’elfa comprese che il ranger aveva in qualche modo saputo cosa le era successo. Allora si affiancò a lui e disse, più con tristezza che con rabbia: «Avevi promesso di insegnarmi a controllare la massima potenza dell’Eteria, ma mi hai abbandonato quando avevo più bisogno di te.» Rhao era sbigottito: non conosceva nessuno dei nomi che avevano pronunciato, né aveva idea di che cosa lo stessero accusando. Non aveva mai preso alcun
bracciale a quella Lilibeth, né conosceva quegli Insidia e Lionel che secondo loro avrebbe ucciso. Non aveva mai avuto a che fare con i druidi, né tantomeno aveva distrutto un loro Cerchio e ucciso la madre della donna che aveva davanti... mentre la partoriva! E poi, come avrebbe potuto dimenticarsi di avere avuto quell’elfa sensuale come allieva? Nonostante tutto, però, percepiva chiaramente che non stavano mentendo, né che le loro menti fossero influenzate. L’unica spiegazione plausibile era che stessero dicendo la verità, ma com’era possibile, se nulla di quello che affermavano era mai accaduto? Com’era possibile un simile paradosso? Improvvisamente, Rhao intuì cosa potesse essere successo, anche se era praticamente impossibile, e decise di approfondire la questione a qualsiasi costo. Dario arrivò con alcuni soldati che si affiancarono a Orson. I sei stranieri lanciarono una rapida occhiata alle guardie, ma Rhao fece cenno al Generale di non intervenire, poi ribatté alle accuse: «Quando mai avrei commesso questi misfatti?» Per nulla intimorita dai rinforzi appena arrivati, Morgase rispose con veemenza: «Proprio ieri notte hai ucciso Insidia davanti ai miei occhi, l’hai fatta avvizzire con un incantesimo. Eravamo nel Rifugio druidico del Bosco delle Sette Sequoie, di cui si erano impadroniti quei bastardi della Maschera d’Ombra che stavamo cercando. Tu stesso hai detto a Duncan che ora il suo compito era concluso, perché avevi ucciso di tua mano il loro capo.» Il Generale, Orson e i soldati presenti erano increduli e confusi per le accuse sollevate contro Rhao, ma, come da ordini ricevuti, restarono fermi ai loro posti e non intervennero. Dal canto suo, Rhao era sempre più stupito da quanto stava venendo fuori piano piano e i suoi sospetti, per quanto improbabili, trovavano sempre di più una conferma. «Io non sono mai stato nel Bosco delle Sette Sequoie» ribatté a voce alta, abbassando le braccia lungo i fianchi per cercare di sembrare il meno aggressivo possibile. «Fino a otto giorni fa ero alla Roccaforte, e sono stato fino a ieri in viaggio per arrivare qui.» Indicò Dario e Orson, poi aggiunse: «Loro ve lo possono confermare.» «Sono tuoi sottoposti» intervenne subito Firion. «Direbbero qualsiasi cosa che tu gli comandassi di dire.»
«Inoltre, perché dovremmo fidarci della tua parola?» Rincarò Duncan. Rhao ò di nuovo in rassegna con lo sguardo i suoi contestatori, ma si soffermò sui due rimasti finora in silenzio. Uno era l’umano accanto a Duncan: aveva percepito subito la sua aura di chierico di Vàlor, ma solo ora che aveva potuto concentrarsi su di lui si era reso conto del pieno favore del dio di cui godeva; dunque non era affatto un apostata, come aveva pensato inizialmente, e ciò alimentava i suoi sospetti. L’elfo silenzioso era un evocatore, o più probabilmente un aspirante tale: al momento era concentrato su se stesso nel tentativo di compiere una divinazione per capire cosa fosse accaduto. Anche questo confermò i suoi sospetti. Tuttavia, Rhao non poteva perdere altro tempo con quelle accuse e doveva trovare una conferma definitiva alla sua idea, prima che quelle persone fero qualcosa di sciocco e lo costringessero a intervenire per fermarli. Allora decise di rischiare il tutto per tutto e, con voce ferma e con gli occhi fissi su di loro, disse: «Vi sembra tutto normale quello che avete visto finora?» La sua domanda ebbe l’effetto sperato e sui volti dei sei stranieri comparvero i segni del dubbio. Allora proseguì: «Avete visto con i vostri occhi la battaglia tra il nostro esercito e quello dei nostri avversari, tra l’Armata di Vàlor e l’Esercito di Tyran. Avete visto con i vostri occhi le rovine di Eminiar, proprio qui accanto a questo accampamento, rovine che risalgono a più di un mese fa. Probabilmente avrete visto anche qualcos’altro che vi sembra non dovrebbe esserci, o che dovrebbe essere in un altro modo...» Sorprendentemente, fu Nalatien a interromperlo. «Sì, c’è qualcosa di sbagliato in tutto questo. Anche il mio tentativo di divinare la nostra situazione ha dato un risultato errato, eppure non ho sbagliato né a formulare l’incantesimo, né a manifestare la richiesta.» Sollevò lo sguardo verso di lui e gli chiese: «Cos’è che mi manca?» Rhao sorrise. Quello era davvero l’ultimo pezzo che gli serviva per capire cosa fosse accaduto a quelle persone, anche se non sapeva perché. Tutto quello di cui era stato accusato era successo davvero, anche se non proprio “quando” pensavano loro. Doveva assolutamente farsi raccontare tutto ciò che sapevano, ma prima avrebbe dovuto spiegare loro qualcosa che perfino a lui pareva assurdo.
A Rhao non era mai piaciuto girare troppo intorno alle cose, aveva sempre preferito essere molto diretto, quindi trasse un profondo respiro e chiese loro a voce alta e chiara: «In che anno pensate che siamo?»
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Poco dopo la mezzanotte, Noa e Joel erano arrivati finalmente all’ingresso nascosto del rifugio, ai piedi della collina rocciosa. Joel era stato tutto il tempo dietro a Noa, non potendo in alcun modo esserle di aiuto a causa dell’oscurità. In compenso aveva sentito chiaramente tutte le imprecazioni della mezzelfa, quando riscontrava qualcosa di diverso rispetto a quello che ricordava. «Ci siamo» disse Noa sussurrando, con un tono lievemente titubante. «Ma anche qui c’è qualcosa di diverso: ieri l’ingresso era nascosto anche da parecchie fronde di piante rampicanti, ora invece è completamente spoglio.» «Forse ci è successo come nel racconto del mezzelfo errante» azzardò Joel con una punta di ironia. «Ah sì?» Gli ribatté, sarcastica. «E saremmo arrivati al momento della nostra nascita o a quello della nostra morte?» «In realtà mi auguro a nessuno dei due» fece lui con un cenno della mano, come per cancellare quello che aveva appena detto. «Ma ci sono successe troppe cose strane, e questo non mi piace per niente.» «Neanche a me» rispose lei. «Ma ormai siamo qui e direi di provare a entrare. La risposta alle nostre domande potrebbe essere là dentro.» «Sì» concordò lui. «Entriamo.» Muovendosi silenziosamente e con i furtivi, i due oltrearono lo stretto ingresso della caverna. Tutto intorno a loro era buio e silenzio. Joel si rammaricò ancora per non poter essere di alcun aiuto. Dal canto suo, Noa trovò per
l’ennesima volta qualcosa di sbagliato: non c’era nessuna porta a chiudere l’ingresso, solo qualche rampicante striminzito che penzolava dall’arcata della grotta. Si fermò a osservare con più attenzione, mentre Joel attendeva un po’ impaziente: non c’erano tracce della presenza recente di una porta, né delle trappole che erano state installate a protezione del rifugio. Sempre più sconcertata, Noa decise comunque di continuare ad avanzare. I due entrarono nella grande sala comune, da cui partivano le scale per salire al piano superiore e per scendere a quello sotterraneo. L’oscurità adesso era quasi assoluta e anche Noa faceva fatica a vedere. Tuttavia la mezzelfa intravedeva un debole alone di luce rossastra nel vano dietro le scale. «Vedi qualcosa laggiù dietro le scale?» Sussurrò a Joel, che era rimasto appiccicato a lei per non perdersi. «Quali scale? Non vedo nemmeno la punta del mio naso» rispose lui a bassa voce. «Allora qui c’è qualcuno» concluse lei. «Riesco a vedere le tracce di calore emanate dal suo corpo.» Una voce roca e stridula risuonò nell’oscurità: «Perdonatemi per la mia scortesia, avevo pensato che foste entrambi mezzelfi, e che quindi potevamo fare a meno della luce. Provvedo subito.» Dietro le scale si accese una luce giallognola, all’inizio molto fioca, ma che divenne intensa quanto due o tre lanterne nel giro di pochi secondi. Quando la luce si fu stabilizzata, dal vano uscì un vecchio curvo con lunghi capelli bianchi scarmigliati e una lunga barba bianca altrettanto scomposta; aveva la pelle bruciata dal sole e il viso pieno di rughe; le orbite dei suoi occhi erano vuote. Teneva in una mano una pietra più o meno sferica da cui proveniva la luce che illuminava il luogo, e nell’altra mano un lungo bastone nodoso, con cui si aiutava a camminare. Accanto a lui c’era un grosso lupo bianco, che li osservava con attenzione. «Scusateci per l’intrusione» esordì Joel con tono quasi dimesso. «Non sapevamo che ci fosse ancora qualcuno qui dentro.» La bocca del vecchio si incurvò in un lieve sorriso, poi disse:
«Il Cerchio dei druidi se n’è andato tre anni fa, quando è cominciata ufficialmente la guerra tra i fedeli di Vàlor e di Tyran. Io non me la sono sentita di lasciare la mia casa, allora sono rimasto qui, in attesa che il mio ciclo vitale giungesse alla sua naturale conclusione.» «La guerra tra Vàlor e Tyran?» Esclamò Noa con estrema meraviglia. «Anch’io ho fatto quella faccia quando me l’hanno detto» sorrise il vecchio, rivelando la mancanza di diversi denti nella sua bocca. «Come potete sapere che faccia ho fatto se voi siete...» aveva cominciato a dire Noa, ma si interruppe, arrossendo, prima di dire la parola “cieco”. «Neve è i miei occhi» spiegò il vecchio, indicando il lupo bianco al suo fianco. «E io sono un pessimo ospite. Immagino sarete stanchi per il viaggio, e che vorrete ristorarvi un po’. Venite di là, ho ancora un po’ di stufato di verdure che, modestamente, oggi mi è venuto particolarmente bene.» Il vecchio si girò e tornò lentamente nel vano dietro le scale, mentre Noa e Joel si guardarono increduli. «Questo dev’essere un vecchio druido» sussurrò Noa, guardinga. «Sai anche tu quello che si dice sui druidi: più invecchiano, più diventano potenti.» «D’accordo, evitiamoci ulteriori problemi» annuì, poi aggiunse con un mezzo sorriso: «Per quanto mi riguarda, cercherò di essere il più sincero possibile!» La mezzelfa scosse la testa e, insieme al compagno, raggiunse il vecchio nella sua piccola tana dietro le scale. Vicino alla parete c’era un giaciglio in disordine e vari esemplari di tuberi erano ammucchiati nell’angolo, insieme a un otre pieno d’acqua. In mezzo, posta su alcune grosse pietre, c’era una grande pentola fumante con un ramaiolo appeso sul bordo e, per terra accanto a essa, c’erano un paio di ciotole e due cucchiai di legno. «Servitevi pure quanto volete» disse il druido, sedendosi vicino al giaciglio e sistemando la pietra luminosa davanti a sé. «Io ho già mangiato.» Joel prese con circospezione una delle due ciotole, la riempì con un po’ di stufato usando il ramaiolo e la ò a Noa, insieme a uno dei due cucchiai, poi riempì l’altra ciotola per sé. Assaggiò con un certo sospetto quella brodaglia e,
sorprendentemente, la trovò piuttosto saporita, gustosa e ancora calda. Anche Noa ne rimase meravigliata. Mentre i due ospiti mangiavano con gusto, il vecchio chiese loro: «Come mai siete giunti in questo bosco abbandonato? Non credo siate qua per fare una visita al vecchio Camal, che poi sarei io... Immagino che ancora non vi fidiate di me per raccontarmi i fatti vostri, e allora perché non mi parlate di quella storia del mezzelfo errante? Non mi dispiace, ogni tanto, sentire di nuovo il suono delle voci...» Joel e Noa si guardarono di sottecchi: evidentemente il druido li aveva sentiti arrivare da un bel po’. Allora l’uomo, immaginando che lei non avrebbe gradito ricordare quella favola, disse, cercando di evitare le parti più razziste e limitandosi al solo argomento principale: «Non è nulla di che. In realtà non è un vero e proprio racconto, ma più che altro una specie di indovinello che può avere più risposte. Parla di un mezzelfo che gioca un pesante scherzo a un incantatore, e questi, per vendetta, lo maledice a rivivere alcuni momenti della sua vita, sia i più dolorosi che quelli più felici. Ma il punto è che non rivive solo gli eventi che ha già vissuto, ma anche quelli che deve ancora vivere, compresa la sua morte, che è l’ultimo evento. Ovviamente il racconto termina con un grosso interrogativo: se il mezzelfo muore quando rivive quel momento, che fine fanno gli eventi della sua vita che ancora non ha vissuto? Come ho detto, non esiste un’unica risposta...» «Domanda davvero molto interessante» mormorò Camal, con gli occhi ciechi rivolti verso Joel, «che me ne fanno venire in mente altre, rivolte però direttamente a voi...» Il vecchio si schiarì la gola, poi proseguì: «Perché siete stati così sorpresi di sentire della guerra tra Vàlor e Tyran? Sta andando avanti da ben tre anni, e non c’è più nessuno, ormai, che non ne sia rimasto coinvolto: tutti sanno della guerra. Inoltre, perché pensavate che dovesse esserci una porta all’ingresso di questo luogo? Non c’è mai stata una porta. Ma chissà, forse ci sarà in futuro...» A quelle parole, i due provarono come un tuffo al cuore. Dopo un lungo minuto di silenzio, la mezzelfa si fece coraggio e chiese: «Cosa vuol dire che ci sarà una porta in futuro?»
«Be’, se ora non c’è, ma tu ricordi una porta e altri annessi, vuol dire che, non essendocene per certo mai stata una in ato, probabilmente verrà costruita in futuro.» A entrambi si chiuse lo stomaco. Joel fece un profondo respiro, che quasi gli provocò un attacco di nausea, poi disse con un filo di voce: «Sembra quasi che tu stia insinuando qualcosa di impossibile...» Il vecchio sollevò una mano, quindi il lupo bianco ci pose sotto la testa e si lasciò accarezzare, sempre mantenendo lo sguardo fisso sui due stranieri. «Già» esclamò Camal in un sospiro. «Sembra anche a voi, vero? Eppure, se io vi dicessi che oggi è il 12° del Nono dell’anno 912, scommetto che vi sentireste il terreno crollare sotto i piedi, giusto?»
~ 18 ~
Una verità non gradita
J oel e Noa rimasero senza fiato. Non solo sentivano il terreno crollare sotto i piedi, ma i loro cuori stavano battendo all’impazzata e le loro menti erano diventate confuse e annebbiate. «Non lasciatevi prendere dal panico» disse subito Camal, con voce calma e suadente. «Respirate a fondo, lentamente. Pensate soltanto a me e al mio Neve. Concentratevi solo sul suono della mia voce...» Allora, per consentire loro di seguire il suo suggerimento, iniziò a parlare, continuando a mantenere un tono calmo e tranquillo: «Tutto è cominciato il giorno di mezza estate di tre anni fa, quando l’esercito dell’Impero di Anosia invase il territorio dell’Egemonia Tyranian e attaccò la città di Golana. L’imperatore Tremain II di Calondorn dichiarò che si trattava di un attacco preventivo in risposta alle manovre dell’esercito dell’Egemonia: inizialmente la loro Armata era avanzata verso nord, nelle Terre Libere, poi, senza alcun preavviso, aveva occupato le città minerarie di Metallia e Caldera; quindi aveva cominciato a scendere verso la città di Oasi. Temendo che sarebbe arrivata ad attaccare Ronara, per poi proseguire verso Sanderia e addentrarsi nel cuore dell’impero, portando ovunque morte e distruzione, Tremain II decise di dividere il suo esercito in tre fronti: la Prima Legione rimase a difesa della capitale sotto il comando del generale Varo di Olendar; la Seconda Legione fu inviata al confine settentrionale in difesa di Ronara, comandata dal generale Asselar di Beranzia; la terza venne inviata verso il confine occidentale, oltre il corridoio di Coridan, per compiere l’attacco preventivo sotto il comando dei generali Rhao di Legandia e Dario di Narend. L’attacco ebbe pieno successo: la Terza Legione conquistò Golana con estrema rapidità, cogliendo di sorpresa le scarne difese approntate dai capi militari dell’Egemonia, che si erano concentrati sul loro fronte settentrionale. Tuttavia, a nord le cose andarono molto diversamente: la Seconda Legione venne sbaragliata al confine dall’imponente Armata dell’Egemonia, comandata dal Console Albios e dai Legati
Zakresh’Odrissh, Kort’Enash e Atrenas di Calendia. L’unica cosa che il generale Asselar riuscì a fare fu ritirarsi a Ronara con i soldati superstiti e costringere l’Armata a fermarsi per assediare ed espugnare la città, se non voleva rischiare di mantenere una possibile minaccia alle spalle. In questo modo, l’avanzata dell’Egemonia rimase bloccata per tutto l’inverno del primo anno di guerra. Nel frattempo, la Terza Legione era asserragliata a Golana, in attesa dell’ordine di attaccare il cuore dell’Egemonia, la capitale Penthana, ma l’Imperatore ordinò invece di mantenere la posizione. Quell’errore permise all’Egemone di richiamare le riserve a difesa della capitale, di fare addestrare nuove reclute, soprattutto incantatori, e di mettere in campo l’Ordine dei Sacerdoti Guerrieri di Tyran, guidati dal pretore Trisk’Àlish. Così, quando in primavera alla Terza Legione giunse l’ordine di attacco, la difesa della capitale risultò impenetrabile. All’arrivo del secondo inverno, la situazione al fronte occidentale era ancora in stallo. Nello stesso periodo, ciò che restava della Seconda Legione era riuscita a resistere all’assedio di Ronara, soprattutto grazie all’incantatrice del Primo Eterion Aselia di Nulivantes e alla gran sacerdotessa di Vàlor, Nalia di Eburnean. Anche qui la situazione rimase in stallo fino all’arrivo del secondo inverno. Tuttavia, questa volta, i Legati idearono una mossa che spiazzò il Generale avversario: non rispettarono la consuetudine di evitare gli scontri durante la stagione sfavorevole e attaccarono in pieno inverno. La battaglia fu terribile e cruenta: nonostante il Legato Zakresh’Odrissh, colui che aveva avuto l’idea di forzare l’attacco, trovò la morte per mano della Gran Sacerdotessa, la Seconda Legione venne sconfitta e la città venne presa. Solo pochi soldati riuscirono a fuggire e, sotto la guida di Nalia e dell’incantatrice Aselia, raggiunsero Sanderia in attesa di ordini e di rinforzi dalla capitale. Anche la Terza Legione venne attaccata a tradimento, ma resistette all’assalto; tuttavia ricevette l’ordine di retrocedere e allestire una base difensiva alla vecchia Roccaforte del Sole, nella Valle dei Piccoli Laghi, dove avrebbe potuto bloccare tutte le vie verso Camaran. Anche ai superstiti della Seconda Legione, a cui si era unito un battaglione di coscritti, venne ordinato di ripiegare alla Roccaforte. Allo stesso tempo, l’Armata dell’Egemonia ricevette l’ordine di insediarsi alla Cittadella del Sangue, nelle Terre Libere vicino al Bosco dei Sussurri. Da allora siamo in una situazione di stallo, con i due schieramenti che lanciano attacchi dalle due postazioni base, ma senza riuscire a prevalere sull’altro. L’ultimo di questi attacchi ha avuto luogo proprio due giorni fa, nella Valle di Crandall, con l’apparente vittoria dello schieramento imperiale.» Joel e Noa si erano lentamente ripresi dallo sconvolgimento, ma il lungo discorso del vecchio druido era stato tutt’altro che rassicurante. Noa, però, aveva
notato un’incongruenza nel suo racconto. «Avete parlato delle Legioni dell’Impero e dell’Armata dell’Egemonia, ma là fuori io ho sentito parlare di Esercito di Vàlor e di Armata di Tyran. Cosa c’entrano gli dèi in questa guerra?» Camal scosse la testa con un sorriso amaro e rispose: «È il solito trucco dei politici, per far leva sulle ioni della gente. Secondo te, la gente comune seguirebbe con più solerzia un imperatore e un egemone, oppure una divinità che può rendere la tua vita davvero migliore e felice?» Anche Joel aveva sentito qualcosa che aveva attirato la sua attenzione. Fece un profondo respiro e gli chiese: «Prima hai nominato i generali a capo delle legioni imperiali, ma ce n’è uno di cui ho già sentito il nome. Chi è questo Rhao?»
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Duncan e compagni sembravano ancora poco convinti della storia sulla guerra tra l’Impero di Anosia e l’Egemonia Tyranian. Rhao sapeva che sarebbe stato difficile far loro capire cosa fosse successo, ma non pensava di incontrare così tanta resistenza. Comunque fece buon viso a cattivo gioco, e rispose senza problemi alla domanda perentoria di Morgase sulla sua identità: «Io sono il generale Rhao di Legandia. Sono originario di Oasi, dove venni notato dai Cercatori di Kentara, che mi affidarono alla Torre Elementale per la mia istruzione nell’Eteria. Terminati gli studi con eccellenti risultati, fui inviato alle dipendenze della Corte Imperiale come consulente. Là ho scoperto anche la mia predisposizione all’arte della guerra, e sono stato addestrato come soldato. Tuttavia, la mia era una situazione particolare, essendo anche un incantatore, e per questo l’imperatore Tremain II decise di costituire il Corpo Speciale degli Incantatori Guerrieri. Grazie alla mia capacità di guidare in battaglia sia i soldati, sia gli incantatori, sono stato scelto dall’Imperatore stesso per guidare la Legione che avrebbe eseguito l’attacco preventivo, insieme al generale Dario.»
«Non ho mai sentito parlare di un Corpo Speciale degli Incantatori Guerrieri» lo interruppe Duncan, ancora sospettoso. «Si tratta di un corpo altamente scelto dell’esercito imperiale, ma viene raramente preso in considerazione nelle questioni ufficiali, perché comprende al momento solo tre membri, me compreso. Gli altri due sono solo degli allievi. Purtroppo non è facile trovare persone che abbiano pari abilità nell’uso delle armi e dell’Eteria: chi eccelle nell’uso delle armi è quasi incapace di formulare anche il più semplice incantesimo e, viceversa, chi è abile nell’uso dell’Eteria non trova facile combattere con le armi. Per questo motivo, il mio Corpo Speciale non dipende dalle gerarchie dell’esercito, ma risponde direttamente all’Imperatore e a lui soltanto.» «Quindi voi potete lanciare incantesimi?» Chiese Liriel, a sua volta ancora poco convinta riguardo l’intera storia, ma memore delle giornate trascorse a seguire le sue lezioni sull’Eteria. «Certamente» le rispose con un sorriso. «Hai visto anche tu il mio Fulmine Globulare penetrare nella voragine del tentacolo! Si tratta di un incantesimo potente e di alto livello!» Rhao avrebbe voluto cambiare discorso per cercare di scoprire qualcosa di più su di loro, ma non era ancora riuscito a soddisfare del tutto la loro curiosità e ottenere così un grado di fiducia sufficiente per rischiare altre mosse. Tuttavia, era certo che venivano da un remoto futuro, perché, se fossero venuti dal ato, si sarebbe sicuramente ricordato di loro. L’improvviso intervento di Keldon lasciò interdetto lo stesso Rhao: «Perdonatemi, ma, per quanto mi sforzi, io non ricordo di avere mai studiato di una guerra totale tra l’Impero e l’Egemonia, né ho mai letto o sentito le denominazioni “Esercito di Vàlor” e “Armata di Tyran”. Naturalmente ci sono state battaglie documentate tra i due stati, ma sono sempre rimaste a un livello locale, senza coinvolgere le autorità centrali. Inoltre, già dall’anno 1000 erano in corso scambi commerciali proficui tra le due nazioni, senza contrasti che non fossero di natura concorrenziale.» La consapevolezza di Rhao venne come percossa da un fulmine di comprensione.
Ma certo! Pensò tra sé con una certa euforia. Dev’essere accaduto qualcosa di enorme e di inaspettato che ha lacerato la struttura del tempo... E temo anche che non sia stato completamente casuale. Devo assolutamente tornare alla Roccaforte e parlarne con Nalia: forse lei saprà come dobbiamo comportarci. Inoltre ho la forte sensazione che non devo perdere d’occhio questi sei... e che dovrei cercare di ritrovare i due che sono scappati... Molto probabilmente, anche se loro non ne hanno idea, devono essere collegati a qualsiasi cosa sia successa, e sarebbe meglio che non se ne andassero in giro senza alcun controllo... Sono certo che anche Nalia sarebbe d’accordo con me su questo... Allora Rhao disse loro: «Purtroppo ignoro per quale motivo non vi risultino queste vicende. Tuttavia, la gran sacerdotessa Nalia potrebbe saperne qualcosa, o magari potrebbe tentare di scoprirlo: la benevolenza di Vàlor scorre potente in lei e forse il dio potrebbe rispondere alle sue preghiere e permetterle di scorgere qualcosa, per spiegare quello che vi è accaduto.» «La gran sacerdotessa Nalia?» Ripeté Keldon, ricordando che Rhao l’aveva nominata nel suo racconto, in particolare riguardo al fatto che aveva combattuto e sconfitto uno dei Legati dell’Armata di Tyran. «Sì» intervenne Orson con grande serietà. «Lei è persona più vicina al dio.» Con un sorriso, Dario lo riprese dicendo: «Dovresti prima specificare quale dio, però, Orson. Se non ricordo male, tu, fino a poco tempo fa, seguivi Nurta, la dea della forza.» «Tutti guerrieri prega Nurta» si giustificò il barbaro. «Non bene andare in battaglia senza sua benedizione. Ma Nurta non risponde a preghiere, Vàlor sì.» Il generale approfittò dell’interruzione del discorso: «Scusate se vi interrompo» disse dando una rapida occhiata a tutti per poi rivolgersi a Rhao: «La situazione al campo è tornata sotto controllo. Tutte le evocazioni sono scomparse e non c’è traccia di attività nemica nei dintorni. Le perdite sono state sorprendentemente contenute, anche se ci sono diversi feriti. Credo, tuttavia, che non sia il caso di rimanere ancora qui.»
«Sì, sono d’accordo con te: ormai questo campo è compromesso. Di’ ai chierici di occuparsi dei morti e dei feriti, e ordina agli uomini abili che preparino tutto per la partenza: torniamo alla Roccaforte.» Poi indicò i sei stranieri e aggiunse: «E loro verranno con noi. Penso che anche Nalia vorrà parlare con loro e sentire la loro storia.» Che fra l’altro non ci hanno ancora raccontato nei particolari che mi interessano, aggiunse dentro di sé con leggero disappunto, soffermando lo sguardo su Liriel che, secondo quanto avevano detto, sarebbe stata una sua allieva. «Molto bene» esclamò Dario. «Appena farà giorno saremo pronti per partire.» Quindi si allontanò, seguito dai soldati, per dare le necessarie disposizioni. Rimasto solo con i sei e con Orson, Rhao sorrise loro e disse: «Venite a ristorarvi un po’ per la notte. Tra la prigionia e il combattimento con il mostro, sono certo che non avrete avuto modo di riprendervi adeguatamente, e domattina ci aspetta un lungo viaggio. Siete miei ospiti.»
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Joel e Noa erano sdraiati su due giacigli che erano stati offerti loro da Camal. Il vecchio druido aveva insistito molto perché si riposassero prima di ripartire. Le due Maschere d’Ombra, però, non riuscivano a prendere sonno, dopo tutto quello che avevano scoperto. «E ora che facciamo?» Sussurrò Noa a Joel. «Purtroppo, tutte le discrepanze che ho notato nel paesaggio per arrivare fino a qui sono perfettamente in accordo con quello che ci ha raccontato il druido. Per quanto possa sembrare assurdo, temo che siamo davvero nel 912.» L’uomo rimase diversi minuti in silenzio nell’oscurità, mitigata soltanto dal piccolo falò che il druido aveva per riscaldarsi dall’umidità della notte. Stava cercando di riordinare le idee e di pensare a cosa avrebbero potuto fare adesso, considerando anche quello che Rhao aveva detto, mettendo in dubbio il vero scopo della Direttiva Primaria. Poi, finalmente, disse:
«Per quanto mi sforzi, non trovo niente che possa confutare il racconto del vecchio: siamo davvero nel 912. A questo punto, dovremmo cercare il modo di tornare indietro... avanti... insomma, nel nostro tempo...» «Ed è qui che ci blocchiamo» lo interruppe. «Se non sappiamo come siamo arrivati qui, come facciamo a tornare dov’è il nostro posto? Il druido ci ha parlato delle vicende recenti, anche se io non mi ricordo siano accadute, ma non ha saputo dirci niente su cosa ci abbia portato qui, o come possiamo fare per tornare nel futuro.» «Forse dovremmo proseguire con la nostra idea iniziale» rispose lui un po’ titubante. «Cerchiamo la base della Maschera più vicina a noi e chiediamo aiuto. Sarà un po’ difficile spiegare la nostra situazione, ma non potranno negare che siamo dei loro.» «Per quello che ricordo, c’è una base a Sanderia, ma non so se ci sarà anche adesso.» Joel rimase qualche secondo in silenzio, ricordando improvvisamente una cosa che gli aveva raccontato Dolan, quindi disse: «Non so se ci sia anche una base, ma rammento che a Sanderia, più o meno in questo periodo, c’era una cripta sotterranea dove era custodita la Maschera del primo Gannum. Forse, se la troviamo, possiamo fare luce sul mistero della Direttiva Primaria... Magari potremmo pure scoprire perché siamo qui e come tornare indietro.» Noa fece un sorriso amaro e replicò: «E forse ci sono troppi “forse” nel tuo discorso.» Poi tornò seria e proseguì: «Ma devo ammettere che non ho altre soluzioni da proporre. E se davvero la Maschera del primo Gannum era imbevuta di Eteria come dice la leggenda, forse potrà esserci realmente di aiuto.» «Allora domattina partiremo per Sanderia» concluse Joel. Noa annuì e poi si girò dall’altra parte, cercando di dormire. L’uomo rimase qualche minuto a osservare la punta dell’orecchio che sbucava dal caschetto dei capelli di lei, invidiando per qualche istante le sue capacità da
mezzelfa, poi si girò anche lui dall’altra parte, e provò ad addormentarsi.
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I tre umani e i tre elfi erano sdraiati su delle brande all’interno di una grande tenda, accanto a quella dove alloggiava lo stesso Rhao. Duncan e Keldon si erano sistemati su due brande vicine e, in attesa di prendere sonno, stavano parlando tra loro a bassa voce. «Tutta questa storia è molto strana» sussurrò Duncan, «eppure il Rhao che abbiamo incontrato qui è molto diverso da quello con cui ci siamo scontrati nel Bosco delle Sette Sequoie. Non ho percepito alcuna malevolenza in lui e sembrava sincero in quello che diceva.» «Neanch’io ho percepito malevolenza in lui» confermò Keldon, «anche se non ho percepito nemmeno la benevolenza di Vàlor. Sono certo che non è lo stesso del Bosco: quello era molto più cupo e aveva profonde ferite sul volto che nemmeno una preghiera molto potente riuscirebbe a guarire in meno di un giorno.» «È un potente incantatore» azzardò Duncan. «Forse le ha coperto con un incantesimo di illusione.» Firion si intromise nel discorso: anche lui tardava a prendere sonno. «No, non credo. Se lo avesse fatto per nasconderle a noi, qualcuno dei soldati che lo avessero visto con il suo volto ferito avrebbe potuto sorprendersi per la novità del suo nuovo aspetto, ma nessuno ha tradito alcun segno di sorpresa, nemmeno i soldati semplici.» «Allora dovremmo concludere che ci ha detto la verità?» Chiese Duncan, sconcertato. «Siamo davvero nel 912 e tutta la nostra vita vissuta finora, in realtà, non è ancora accaduta? È assurdo!» Neanche Morgase riusciva a dormire e, girandosi sulla branda verso di loro,
intervenne nella discussione: «Hai ragione, è assurdo. Tutto quello che ci è successo è assurdo. Ma c’è qualcos’altro che è ancora più assurdo. Prima di entrare qui nella tenda, mi ero messa a contemplare il cielo stellato per riflettere un po’, ma subito ho distolto lo sguardo con un brivido...» «Cosa hai visto?» Le chiese Firion. «Alcune stelle non sono dove erano ieri. Sembra impossibile, lo so, ma è così! Non sto parlando di quelle che cambiano posizione regolarmente, ovviamente, ma di quelle che vengono usate anche come punti di riferimento. Ci sono delle costellazioni che sono cambiate, e che non hanno più la forma che le contraddistingue!» Nalatien fece sentire la sua voce: «Le stelle si muovono molto lentamente e il loro movimento non è visibile nemmeno tra un mese e l’altro, ma con un intervallo di cinquecento anni può essere osservato con chiarezza.» «Vorresti dire che siamo davvero finiti cinquecento anni indietro nel tempo?» Gli chiese Duncan balzando a sedere sulla branda. «I segni, purtroppo, sono evidenti. Non ci sono altre spiegazioni.» «Allora cosa facciamo?» Chiese ancora il paladino. «Come torniamo indietro?» «L’unica soluzione, per il momento, è seguire Rhao» rispose Keldon. «So che l’idea a qualcuno potrebbe non piacere, ma secondo me dovremmo parlare con la gran sacerdotessa Nalia: lei potrebbe essere l’unica a sapere come possiamo tornare indietro.» «E cosa te lo fa pensare?» Lo riprese Liriel, che era stata svegliata dai loro discorsi. «Credi che la tua Gran Sacerdotessa possa chiedere a Vàlor cosa ci è successo, e magari dirci come fare per tornare a casa?» «Perché no?» Le ribatté, un po’ risentito. «Sbagli a non avere fede...» «In chi? Nella tua decrepita Gran Sacerdotessa? Sarà già tanto se ci dirà che fa
tutto parte del piano che il suo dio ha per noi.» «Allora cosa proponi?» Le chiese Morgase a bruciapelo. L’elfa rimase in silenzio in cerca di una risposta, ma dopo pochi istanti Nalatien sobbalzò a sedere sulla branda, colto da un oscuro pensiero. «Che succede?» Gli chiese Morgase, preoccupata. «Tutti voi vi state preoccupando di come faremo a tornare indietro, ma nessuno di voi ha pensato che le nostre azioni potrebbero cambiare il nostro presente?» L’elfo si fermò per calmarsi, respirando a fondo un paio di volte, poi proseguì: «Potremmo uccidere uno dei nostri antenati, impedendo così la nostra stessa nascita... Vi rendete conto del pericolo? Non possiamo andare in giro come se niente fosse...» «Quindi anche per te dovremmo davvero restare con Rhao?» Gli domandò la sorella. «Per quanto la cosa piaccia poco anche a me, quell’uomo sa cosa ci è successo e, di sicuro, si assicurerà che non facciamo troppi danni.» «Sono d’accordo con lui» aggiunse Morgase. «Non possiamo rischiare.» «Anch’io sono della stessa idea» aggiunse Keldon. «Non l’avrei mai detto» borbottò Liriel, guardando di sottecchi il chierico; poi disse con un tono più comprensibile: «D’accordo. Ma solo perché al momento non ho un’idea migliore.» Firion e Duncan si limitarono ad annuire, quindi l’elfa concluse irritata: «Dato che abbiamo deciso cosa fare, possiamo rimetterci a dormire?» Senza attendere una risposta, si sdraiò di nuovo sulla branda e si girò dalla parte della tenda.
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Joel e Noa salutarono il vecchio druido, ringraziandolo per l’aiuto. Camal aveva anche regalato loro uno zaino, che Joel si era messo in spalla, un po’ di cibo e di acqua. «Grazie a voi per la compagnia» rispose loro Camal. «Fate attenzione se proseguite verso nord: è là che si trova l’Armata di Tyran.» I due uscirono dal rifugio. L’aria era fresca e il sole stava sorgendo, il cielo era chiaro e privo di nuvole. «Sanderia è da quella parte» disse Noa indicando con la mano verso nord. «Perfetto!» Esclamò Joel. «Fai strada.» La mezzelfa si incamminò nella direzione che aveva indicato, subito seguita da Joel. Intanto, nel rifugio, il vecchio druido accarezzava la testa del suo lupo bianco. D’un tratto Neve emise un lungo ululato. Camal appoggiò la testa su quella del lupo e gli sussurrò: «Sì, l’ho sentito anch’io. È strano vero? Il giovane umano è molto più vecchio di quello che sembra. Speriamo che quello che cerca possa risolvere i suoi problemi...»
~ 19 ~
Promesse
D uncan e compagni erano seduti tutti insieme su un carro semiscoperto, insieme a Orson e ad altri tre soldati. Erano in viaggio ormai da tredici giorni, diretti verso la Roccaforte del Sole, la base avanzata dell’Esercito di Vàlor. Avevano seguito la strada principale dalle rovine di Eminiar fin quasi a Lentiar, dove avevano deviato verso nord seguendo un sentiero in direzione del centro della Valle dei Piccoli Laghi. Secondo il barbaro mancavano ormai solo un paio d’ore all’arrivo. Durante il viaggio, i sei avevano avuto l’occasione di conoscere Orson e i soldati che, di volta in volta, si erano riposati sul carro, parlando con loro e giocando a dadi o a carte. I più partecipativi fin dall’inizio furono Firion e Morgase, che sentivano il bisogno di svagarsi per non pensare alle cose tristi accadute negli ultimi giorni. Sotto gli occhi meravigliati di Liriel, il ranger aveva spiegato che, durante le noiose notti di guardia, aveva indugiato spesso in quel tipo di giochi con il compagno di turno. Morgase, dal canto suo, aveva rivelato che quei giochi le erano sempre piaciuti e che apprezzava soprattutto sfidare la sorte ai dadi perché, spesso, vinceva lei. Poco più tardi si era unito alle discussioni e al gioco anche Keldon che, alla fine, non vedeva nulla di male nel divertirsi un po’. Era stato un po’ più difficile, invece, convincere Duncan a partecipare, non del tutto persuaso della liceità di quei giochi: il chierico aveva impiegato un giorno intero a convincerlo, ma alla fine il paladino aveva ammesso che quello svago lo faceva sentire meglio. Due giorni dopo anche Nalatien si era unito a loro, convinto da Morgase che anche a lui avrebbe fatto bene un po’ di svago. Liriel, invece, aveva deciso di rimanere fuori dai giochi, ma si era rassegnata a partecipare alle discussioni. Una volta il caporale Fred le aveva chiesto perché non volesse giocare con loro e l’elfa aveva ammesso che non le piacevano i giochi basati solo sul caso e sulla fortuna. Durante queste discussioni, i sei vennero a sapere che Orson era originario delle Terre Libere e che proveniva da una tribù di barbari chiamata Hunast, tutti più o
meno della sua stessa costituzione possente. Quando gli fu chiesto di precisare, davanti a una mappa, il luogo da dove veniva, il barbaro aveva indicato un punto vuoto nelle Terre Libere, più o meno a metà tra Oasi e Portoverde, vicino al confine elfico. Non riuscirono a sapere altro del ato di Orson, e il caporale Fred confermò che nessun altro era mai riuscito a fargli parlare del suo ato. Molto spesso, in quelle notti ate sul carro, Duncan non aveva potuto fare a meno di ricordare Lilibeth, prima di addormentarsi. Si era anche ritrovato a pensare al momento in cui aveva perduto per sempre il suo bracciale, l’unico ricordo che gli fosse rimasto di lei. Rivide Lionel che glielo lanciava, mentre veniva tagliato a metà dalla spada di ghiaccio di Rhao; si rivide alzare la mano destra che stringeva il bracciale, come se avesse potuto fargli da scudo per la morte imminente. Poi si era risvegliato circa cinquecento anni nel ato. Una terribile domanda continuava a tormentarlo: se fosse stata colpa sua? Quando aveva ripreso i sensi, non c’era più traccia del bracciale, l’oggetto che tutti stavano cercando. Perché tutto questo accanimento su quello che era soltanto un antico cimelio della famiglia di Lilibeth? Se avesse davvero avuto qualche potere particolare, possibile che nessuno se ne fosse mai accorto? Anche Morgase aveva avuto difficoltà a dormire. Sentiva ancora molto forte la mancanza di Insidia, soprattutto perché il legame druidico era stato reciso con violenza; era come se avesse perso un braccio o una gamba. Inoltre una domanda la tormentava continuamente: com’era possibile che quel Rhao che aveva salvato tutti dal Terramedusoide, fosse lo stesso che le aveva ucciso la lupa cinquecento anni nel futuro? Una notte in cui la druida non riusciva proprio a prendere sonno, era uscita dal carro e aveva girovagato un po’ tra le tende dei soldati che riposavano dalle fatiche del viaggio, salutando con un cenno della testa quelli che vegliavano attorno ai falò. In un punto lontano dai fuochi, si era fermata a osservare il cielo, contemplando quelle stelle che non riconosceva più. In particolare, aveva provato un brivido gelido quando non era riuscita a trovare la costellazione del Lupo, e, per lo sconforto, non aveva potuto trattenere le lacrime. Proprio in quel momento aveva sentito dei i dietro di lei. Si era voltata di scatto e aveva visto Nalatien, con un’espressione imbarazzata sul volto. «Scusami» le aveva detto con un filo di voce. «Ti ho vista uscire... Sapevo che stavi soffrendo per la tua perdita, ma non pensavo che il dolore fosse così grande. Se preferisci restare sola me ne vado subito.»
«No, rimani» aveva replicato Morgase, avanzando verso di lui e prendendolo per una mano. Erano rimasti diverso tempo in silenzio, mano nella mano. Poi la donna, con gli occhi rivolti al cielo verso il punto dove avrebbe dovuto esserci la costellazione del Lupo, gli aveva sussurrato: «Quando un compagno animale muore, in particolare se di morte violenta, il Cerchio si riunisce per aiutare il druido a sopportare il dolore e la solitudine. Non è facile restare privo di qualcuno che hai sempre avuto in un angolo della tua mente, sempre pronto ad ascoltarti e a darti consigli. Per questo motivo non potrò prenderne un altro finché non avrò superato il dolore della perdita di Insidia. E, senza l’aiuto di altri druidi, temo che dovrà are molto tempo.» Morgase aveva distolto lo sguardo dal cielo e si era voltata verso l’elfo, sorridendogli. «Grazie per essere rimasto qui con me.» «È stato un piacere» aveva risposto lui, arrossendo lievemente. «Ma devo ammettere che, ultimamente, neanch’io riesco a dormire bene.» «Hai degli incubi?» Gli aveva domandato, un po’ preoccupata. «Non ricordo mai i sogni che faccio. Quando mi sveglio, ho delle sensazioni diverse a seconda di quello che ho sognato, ma non potrei mai dire cosa ho visto in sogno.» Nalatien aveva fissato lo sguardo negli occhi di lei e aveva proseguito: «No, non penso di avere avuto incubi, però a volte degli strani pensieri mi si formano nella testa e mi spaventano. Il mio maestro Aliman diceva che era uno squilibrio nell’Eteria che non riuscivo a compensare, ma che si sarebbe sistemato se avessi seguito le lezioni di grado superiore in una delle Scuole di Kentara. Ma adesso, dopo quello che è successo, come potrei andarci?» Dopo qualche attimo di esitazione, Morgase gli aveva confessato di avere anche lei un problema con il proprio potere. «Si tratta di qualcosa che ho ereditato a causa di ciò che è successo alla mia nascita, ma che non sono mai riuscita a padroneggiare. Una volta lo chiamavano “Fonte degli Spiriti” e aveva a che fare con gli spiriti della natura...» «Come il kelpie del Bosco!» Aveva esclamato l’elfo, interrompendola. «Ricordo che ne avevi parlato quando ci spiegasti che cos’era il kelpie. Allora saresti una
sciamana, un’evocatrice di spiriti della natura?» «Forse... Purtroppo non c’è più nessuno che possa insegnarmi a usare questo aspetto del mio potere druidico. Tali conoscenze andarono perdute...» Morgase ci aveva pensato qualche istante, poi aveva ripreso con un tono quasi stupito: «Più o meno in questi anni...» La druida sembrava rattristarsi di nuovo, allora Nalatien aveva evocato un pulcino dorato e lo aveva deposto nelle mani di lei, dicendo: «Per ora posso solo farti spuntare un piccolo sorriso con questo misero dono, ma ti prometto che verrà il giorno in cui ti renderò quello che ti è stato strappato via!» Morgase aveva sorriso nel sentire il calore del pulcino tra le sue mani ed era rimasta molto colpita dalle parole dell’elfo e dalla sua promessa. Quando il pulcino era svanito, scaduto il tempo dell’evocazione, Morgase aveva preso le mani di Nalatien, si era accostata a lui e l’aveva baciato su una guancia, in segno di ringraziamento. L’imbarazzo dell’elfo era ben visibile dal rossore sul suo viso. Dal giorno successivo, Nalatien aveva cominciato a partecipare alle discussioni e ai giochi con Morgase e gli altri compagni di viaggio. Quello svago non gli serviva solamente perché gli faceva piacere stare in compagnia della druida, ma perché così evitava di pensare all’altro fatto che lo tormentava e di cui non aveva avuto il coraggio di parlare con lei. Era un evento della sua infanzia, che era stato evocato dalla voce che ogni tanto lo tormentava, e che lo aveva lasciato profondamente sconvolto proprio la notte in cui aveva seguito Morgase: era quello il vero motivo per cui non era riuscito a dormire. In quel ricordo, Nalatien aveva da poco compiuto dieci anni e stava giocando a nascondino con la sorella. Si era intrufolato nel negozio di oggettistica dei loro genitori, che non aveva ancora aperto per il pomeriggio. La bottega era suddivisa in due grandi stanze: quella principale, dove erano esposti gli oggetti di uso normale, e quella sul retro, dedicata esclusivamente agli oggetti incantati con l’Eteria, sempre chiusa a chiave. Quel pomeriggio, però, la porta era aperta. Nalatien aveva spesso aiutato il padre nel negozio, a spazzare il pavimento e a spolverare gli oggetti nelle vetrine della sala principale. Quest’ultima mansione gli piaceva di più, perché così poteva prendere quei manufatti e rimirarseli un po’, ma quelli oltre la porta chiusa avevano il fascino del proibito e, nella
fantasia di Nalatien e Liriel, quegli oggetti alimentavano il desiderio di scoprire l’Eteria, di comprenderla e di usarla. E adesso quella porta era aperta. Il piccolo Nalatien si era avvicinato quatto quatto alla porta, con i nervi tesi allo spasimo per la consapevolezza di stare facendo qualcosa che suo padre gli aveva vietato. Era rimasto a lungo dietro la porta, con il fiato sospeso, ad ascoltare se ci fosse qualche rumore all’interno della sala proibita. Quando era stato sicuro che non ci fosse nessuno, si era fatto coraggio ed era entrato. La stanza era in penombra, evidenziando maggiormente la leggera luminescenza emanata da alcuni degli oggetti posti nelle bacheche. L’elfo si guardava intorno con gli occhi spalancati per la meraviglia: c’erano una penna argentata, in piedi, in perfetto equilibrio su un foglio di pergamena, un cerchio metallico al cui interno si intrecciavano fili sottilissimi di diversi colori, un’ampolla di vetro piena di una strana polvere nera luccicante... Poi la sua attenzione era stata catturata da un’altra porta che non aveva mai visto: era più piccola dell’altra... ed era socchiusa. All’improvviso aveva sentito un rumore provenire da oltre la soglia, come una specie di mormorio. La curiosità di un bambino di dieci anni aveva avuto la meglio sulla paura, quindi si era avvicinato lentamente alla porta socchiusa, con le orecchie tese ad ascoltare il minimo suono. Arrivato a un o dalla porta, aveva realizzato che il mormorio era la voce di suo padre. Nalatien si era silenziosamente affacciato attraverso lo spiraglio della porta e aveva visto una piccola stanza con un tavolo al centro, su cui era appoggiato qualcosa di luminoso. Suo padre era girato di spalle, seduto al tavolo con il volto tra le mani e coperto dai lunghi capelli grigi; stava parlando da solo, ripetendo di continuo le stesse parole: «Non era questo il patto... dovevo essere io il prescelto... l’avevi promesso... Perché mi hai abbandonato?» Nalatien era rimasto turbato dalla vista del padre in quelle condizioni, e aveva fatto per tornare indietro, ma era andato a sbattere contro la porta, provocando un secco rumore che aveva rivelato la sua presenza. Subito il padre si era voltato e lo aveva visto in piedi sulla soglia. Allora si era alzato e si era mosso verso di lui, con il volto distorto in una smorfia di odio e rabbia. «Tu!» Aveva gridato. «Cosa hai fatto? Perché ha scelto te? Perché?» Si era lanciato contro il piccolo e lo aveva afferrato per il collo, stringendolo forte e sollevandolo da terra, mentre gridava più volte:
«Lascia mio figlio, torna da me! Sono io il prescelto!» Nalatien faceva sempre più fatica a respirare e la sua vista iniziava ad annebbiarsi. Stava per perdere conoscenza, quando aveva sentito un grido femminile e subito aveva sentito calare la pressione intorno al collo per poi iniziare a cadere a terra. Ma, prima di toccare il pavimento, aveva sentito di essere stato preso in un abbraccio, poi aveva udito la voce di sua madre Elinia che diceva: «Lodrin, smettila! È tuo figlio!» Il ricordo terminava con l’arrivo di sua madre che lo salvava, ma due domande continuavano a tormentare Nalatien: perché suo padre aveva agito così? E perché la voce nella sua mente gli aveva riportato alla luce quel preciso evento che aveva completamente rimosso? Era stato tentato di parlarne con Morgase, nella speranza che potesse aiutarlo a comprendere, ma la paura che avrebbe potuto reagire negativamente e che si sarebbe allontanata da lui lo aveva fatto desistere. Allora aveva deciso che avrebbe cercato di vivere alla giornata, sperando di riuscire prima o poi a capire che cosa fare. Il viaggio di Keldon fu invece piuttosto tranquillo, eccezion fatta per le trentacinque corone che aveva perso ai dadi contro Morgase. Quando poteva, il chierico si ritirava in disparte per pregare Vàlor affinché aiutasse lui e i suoi compagni in questo nuovo mondo sconosciuto. Al termine di ogni preghiera, lo supplicava affinché lo illuminasse sul motivo per cui fossero finiti cinquecento anni nel ato, ma, al momento di entrare nella Roccaforte, ancora non aveva ottenuto risposta. Per Firion e Liriel, quei giorni di viaggio tranquilli furono l’occasione per rinsaldare il loro legame, che aveva un po’ vacillato a causa dell’esilio a cui l’elfa era stata condannata. Un giorno in cui erano rimasti soli sul carro, Liriel e Firion ebbero una discussione, con la quale riuscirono a chiarire gran parte delle divergenze. Erano sdraiati entrambi sul giaciglio di Liriel: Firion aveva un braccio che le cingeva la schiena e la teneva vicino a sé, mentre i loro visi erano a pochi centimetri di distanza; ciascuno avvertiva chiaramente il fiato caldo dell’altro sulle rispettive guance. Come sempre, Firion aveva cominciato baciandole le sopracciglia con delicatezza, mentre lei stava con gli occhi chiusi e attendeva il suo turno. Quella
volta, però, Liriel gli aveva chiesto con un sussurro: «Perché sei qui con me?» Continuando a baciarle le sopracciglia, le aveva risposto: «Be’, mi sembra ovvio, non credi?» L’elfa aveva aperto gli occhi e lo aveva fissato con severità. «Sai che non era questo che intendevo.» Lui aveva smesso di baciarla e l’aveva fissata intensamente negli occhi. «Perché ti amo: non ti basta?» Le aveva chiesto lui con una certa tensione nella voce. «Non lo so» aveva risposto lei, distogliendo lo sguardo. «Sono successe così tante cose nei pochi giorni trascorsi dopo la mia condanna all’esilio... E tu hai addirittura rischiato di morire, per colpa di quella specie di cavallo...» «Cosa ti tormenta, Liriel?» L’aveva interrotta, appoggiandole una mano sulla guancia. «Non sei mai stata il tipo che ha paura di qualcosa...» «Hai ragione... in parte...» «Che vuoi dire?» Liriel aveva fatto un profondo respiro per calmare il nervosismo che la stava bloccando, quindi aveva risposto: «Non ho paura per me, ma per te.» «Per me?» La sorpresa di Firion era stata molto evidente. L’elfa era tornata a fissarlo negli occhi, quindi aveva proseguito: «Tu sei qui per colpa mia, perché hai voluto seguirmi nell’esilio a cui sono stata condannata per essermi fidata di qualcuno che non conoscevo, ma che mi aveva promesso di realizzare il mio sogno di dominare l’Eteria.» Aveva tratto un altro profondo respiro, poi aveva continuato: «Se non fosse stato per me, tu saresti
potuto restare tranquillo a casa, nella Grande Foresta, avresti continuato la tua carriera nel corpo dei ranger, rendendo onore alla tua nobile famiglia... Senza di me, non avresti mai dovuto litigare con i tuoi genitori, perché non approvavano la ragazza che ti eri scelto...» A quel punto lui l’aveva zittita dandole un bacio sulla bocca. «Esatto» le aveva sussurrato dopo, «è stata una mia scelta. Non sei stata tu a obbligarmi a venire con te, sono stato io che ho deciso di seguirti. Non sarei mai potuto rimanere ad Ariadne senza di te, la mia vita non avrebbe più avuto senso senza vedere il tuo viso, senza accarezzare i tuoi capelli, senza ascoltare la tua voce... E poi, a me non è mai importato di quello che dicevano i miei genitori su di te, lo sai bene.» Liriel era più commossa di quello che avrebbe voluto ammettere, tanto da riuscire a stento a trattenere le lacrime. Con voce tremante aveva iniziato a dire: «Ma io non posso lasciare che tu...» Firion l’aveva zittita di nuovo con un bacio sulle labbra, quindi aveva iniziato ad accarezzarle con leggerezza il bordo di un orecchio con le dita. «Non ti lascerò mai finire quella frase» le aveva sussurrato, mantenendo le labbra a contatto con quelle di lei. «Io sono qui con te perché ti amo, non c’è nient’altro che conta. Non importa se questo Rhao è davvero quello che ti ha ingannato, non importa se non potremo più tornare nella Grande Foresta, non importa se ora ci troviamo nel ato e non importa se non sappiamo se potremo tornare indietro. L’importante è che siamo insieme, tu e io, qui e adesso! Solo questo è quello che davvero conta, solo questo!» Quelle parole ebbero l’effetto di sciogliere tutte le barriere che Liriel aveva innalzato con il tempo, per difendere la propria anima, principalmente dalle cose dolorose, ma suo malgrado anche dagli eventi gioiosi. Con la vista offuscata dalle lacrime, l’elfa rispose finalmente ai baci dell’amato.
~ 20 ~
Destinazioni
J oel e Noa arrivarono stremati in vista delle rovine di una città, dopo ben tredici giorni di cammino attraverso il Bosco delle Sette Sequoie. Le scorte del vecchio druido erano bastate solo per sei giorni, quindi si erano visti costretti a cacciare per procurarsi il cibo. Le lame celate che portavano al polso, benché non fossero proprio l’ideale per cacciare nei boschi e per preparare gli animali a essere cucinati, erano state la loro salvezza. Però, la necessità di procacciarsi il cibo aveva rallentato la loro marcia: Noa aveva previsto dieci giorni per uscire dal lato nord del Bosco delle Sette Sequoie, poi altri diciotto giorni per arrivare a Sanderia. Invece, al momento di uscire dal bosco, erano già in ritardo di tre giorni sul programma. «Quella dovrebbe essere Koliman» disse Noa con una punta di delusione, indicando le rovine che si stagliavano davanti a loro. «Temo che la guerra sia ata anche da queste parti» commentò Joel con sarcasmo. «Allora, non solo non troveremo cibo» aggiunse Noa sconfortata, «ma sfuma anche l’idea di poter trovare dei cavalli, per recuperare il tempo perso dentro il bosco.» I due si guardarono intorno con crescente scoraggiamento. Le rovine erano limitate solo alla zona più periferica della città, mentre al centro si vedevano edifici ancora in piedi, ma non c’erano segni di presenza umana. A est era ancora visibile un enorme spiazzo dai contorni regolari, che formavano un gigantesco triangolo: molto probabilmente era stato un accampamento militare. Noa alzò lo sguardo per osservare la posizione del sole, quindi disse: «Abbiamo ancora circa quattro ore prima che faccia buio. Proviamo a dare un’occhiata a ciò che rimane in piedi di Koliman: forse c’è ancora qualcosa di
utile.» Joel annuì, continuando a guardarsi attentamente intorno. I due si separarono per esplorare più rapidamente gli edifici ancora integri, nella zona centrale della città. Tutte le porte erano state sfondate e l’interno degli edifici era stato svuotato o distrutto. Quando il sole iniziò a calare, Joel si diresse verso la casa in cui avevano deciso di convergere il loro giro esplorativo. Non appena la raggiunse, vide Noa che usciva dall’edificio. «Questa è stata l’opera di un rastrellamento militare» concluse l’uomo scuotendo il capo. «Prendi tutto quello che puoi e distruggi quello che non puoi arraffare, così che il nemico non possa usarlo in futuro contro di te.» «Bella regola» commentò lei ironica. «Comunque, come per tutte le regole, ogni tanto viene fuori qualche eccezione.» «Che vuoi dire?» «Tempo fa ho fatto la cameriera in una locanda, per compiere un furto molto complicato... Ho imparato che alcuni locandieri sono molto gelosi delle loro cose e, per fortuna, anche quello di questa città era così. Ho trovato il suo nascondiglio segreto, dove teneva un bel po’ di viveri. Ho portato tutto qui dentro» e, sorridendo, indicò la casa da cui era uscita. «Purtroppo tavoli, sedie e letti non sono più utilizzabili, ma almeno stanotte avremo un tetto sulla testa e la pancia piena!» Anche Joel sorrise insieme a lei e le diede una pacca sulla spalla, esclamando: «Finalmente la fortuna comincia a girare dalla parte giusta!» Mentre entravano nella casa, la mezzelfa si sentì avvampare al pensiero che avrebbero dormito insieme. Nonostante fossero compagni nella Maschera d’Ombra da tanti anni, non era mai capitato che fossero da qualche parte da soli: le missioni erano sempre affidate a gruppi di tre o più e, insieme a loro, c’era stata sempre Clelia, che aveva con Joel uno strano legame, come testimoniavano i loro soprannomi rispettivamente di “Pugno” e “Carezza”. Quella sera i due cenarono a sazietà con insaccati, formaggi e un pane piuttosto duro, ma ancora accettabile. Comunque, la cena fu apprezzata da entrambi,
soprattutto quando Noa, con un sorriso luminoso, estrasse da una sacca una bottiglia di vino. «Questo è il vero tesoro che nascondeva il locandiere: vino di Crandall!» Joel non poté evitare di commentare il suo apprezzamento con un fischio. «Novecentonove» lesse sull’etichetta esclusiva. «Nel nostro tempo varrebbe più di centomila corone!» «Anche di più» replicò lei. Poi, assumendo un’espressione seria, gli chiese: «Vuoi tenerla da parte per quando torniamo?» E fece il gesto di riporla nello zaino. Joel scosse la testa ridendo. «Approfittiamone ora! È probabile che tra cinquecento anni sarà diventato aceto e allora non sarebbe più buono!» Anche Noa rise e gli ò la bottiglia perché la stape, mentre prendeva in mano due dei sei calici di bronzo che aveva trovato tra le cose del locandiere. Joel riempì le due coppe, poi prese quella che lei gli porgeva. «A noi!» Brindò accostando il suo calice a quello di Noa. «Ai successi che avremo anche in questo tempo sconosciuto!» «A noi!» Rispose lei, toccandogli il calice con il suo, facendoli risuonare. Poi aggiunse, arrossendo leggermente: «Oltre tutte le avversità che la vita ci porrà dinnanzi.» Quella notte, benché per sicurezza avessero deciso di fare i consueti turni di guardia, trascorse abbastanza tranquilla. Per la prima volta da quando erano stati scaraventati fuori dal loro tempo, riuscirono a riposare veramente. Durante il suo turno, Noa aprì un’altra bottiglia di vino: purtroppo non era rinomato come quello di Crandall, ma sentiva il bisogno di bere qualcosa che non fosse acqua. Quando l’ebbe bevuto tutto, la bottiglia le cadde di mano e rotolò vicino a Joel, che continuò a dormire. La mezzelfa si alzò in piedi, ma la testa le girava più di quanto si aspettasse: allora si mise a gattoni e si avvicinò silenziosamente al compagno. Non appena gli fu accanto, invece di prendere la bottiglia, si soffermò a guardare il suo viso. Gli scostò un ciuffo di capelli biondi che gli copriva un occhio, ma quando iniziò ad accostarsi a lui si bloccò.
«Che cosa fai, stupida?» Sussurrò sorpresa; quindi afferrò la bottiglia e si allontanò, uscendo quasi di corsa dalla casa. Nel silenzio della notte, lanciò la bottiglia lontano con rabbia e il suono del vetro infranto la riportò alla realtà. La mattina dopo raccolsero tutto quello che avevano trovato e si misero in marcia verso nord-ovest, seguendo la strada principale che portava a Sanderia. Intorno a loro c’era solo desolazione e in due giorni di cammino non incontrarono nessuno. Quasi al tramonto, la loro attenzione fu attirata dalla vista di un po’ di fumo poco più avanti, e dall’odore di carne arrostita. I due si scambiarono una rapida occhiata e subito furono d’accordo su quello che avrebbero dovuto fare. Il piccolo accampamento di fortuna si trovava una decina di metri fuori dal ciglio della strada, ed era costituito da un carro, a cui era attaccato un cavallo, e da quattro uomini seduti attorno a un falò. Uno di loro stava controllando delle bistecche infilate in una lunga e sottile asta di metallo tenuta sul fuoco. «Non ci posso credere» esordì Joel con un tono di voce lievemente concitato. «Delle persone! Credevo che non ci fosse rimasto più nessuno da queste parti!» I quattro uomini, sorpresi da quella voce inattesa, si affrettarono a impugnare le armi, ma quando videro che si trattava solo di un uomo e di una donna, con i vestiti dimessi e ricoperti di polvere, si rilassarono e, sorridendo, fecero loro segno di avvicinarsi. Joel e Noa avanzarono simulando un o stanco; l’uomo aggiunse anche un’andatura leggermente zoppa e la schiena curva. Quando si apprestò a sedersi fu aiutato con diligenza da Noa, che poi gli si sedette accanto. «Sono proprio dei tempi pessimi per viaggiare» iniziò a dire Joel, scaldandosi le mani al fuoco. «È stata una vera fortuna incontrare delle persone così gentili come voi. Il nostro programma prevedeva di trovare un posto alla locanda di Koliman, invece era tutto distrutto... Avevamo sentito che stava accadendo qualcosa di brutto da queste parti, ma avevamo necessità di raggiungere Sanderia, così ci siamo messi lo stesso in viaggio. Speravamo di incontrare qualcuno lungo la strada, ma non abbiamo incontrato nessuno finora... Voi avete idea di cosa sia successo davvero?»
I quattro uomini si guardarono tra loro per un breve istante. Avevano tutti i capelli scuri tagliati corti, vestiti con delle semplici armature di cuoio un po’ rovinate e, accanto a tre di loro, c’era una spada, mentre uno aveva una lancia. Quello seduto accanto a Joel aveva il braccio sinistro fasciato e legato al collo, mentre quello con la lancia, seduto accanto a Noa, aveva una gamba steccata. Mentre il terzo uomo si occupava delle bistecche sul fuoco, l’altro rispose a Joel: «C’è stata una battaglia vicino a Crandall: le armate di Tyran e di Vàlor si sono scontrate là quindici giorni fa... E Vàlor questa volta ha avuto la meglio. L’armata di Tyran aveva un campo base nel grande spiazzo vicino a Koliman ma, pochi giorni dopo la battaglia, lo hanno abbandonato e si sono ritirati. Naturalmente hanno razziato completamente la città prima di andarsene, lasciando le rovine che avete visto.» Mentre l’uomo parlava, Joel si diede una rapida occhiata intorno, fingendo di are lo sguardo tra lui e i suoi compagni, soffermando, invece, l’attenzione sul carro e sul cavallo. Il carro non aveva una copertura superiore e gli sembrava “troppo” vuoto; inoltre notò delle strane macchie scure irregolari. Il cavallo, invece, non era da tiro e sembrava un po’ malridotto. «La guerra è un brutto affare» commentò l’uomo con il braccio fasciato scuotendo la testa. Joel stava per porre una domanda, quando l’uomo con la gamba steccata lo precedette, dicendo con un tono lievemente sospettoso: «Come mai siete in viaggio a piedi? Per Sanderia la strada è lunga...» «Ah!» Fece Joel concitato, scuotendo teatralmente le mani davanti a sé. «Siamo vivi per miracolo! Poco dopo la partenza siamo stati assaliti da dei briganti che ci hanno rubato i cavalli e il carico che stavamo trasportando. Hanno anche violentato mia moglie... è da allora che non parla più...» A quelle parole Noa si lasciò scappare una rapida occhiata sorpresa a Joel, che però non tradì alcuna emozione, dato che tutti stavano guardando lui, che continuò invece a raccontare la sua storia: «Non che la cosa mi dispiaccia troppo, sia chiaro... Sapete le donne come chiacchierano; la mia, poi, non chiude mai la bocca, nemmeno quando mangia o in quei momenti in cui... be’, mi capite vero? Più sono belle, più fanno storie. Se almeno parlassero di argomenti interessanti...» Questa volta fu Joel a lanciare una rapida occhiata di scuse alla mezzelfa, sperando che continuasse a
tenergli il gioco. «La cosa che veramente mi è dispiaciuta è che le hanno fatto un po’ male... su, fagli vedere, cara...» Noa si alzò in piedi e, con in viso un’espressione quasi assente, iniziò a slacciarsi molto lentamente la cintura della corta tunica, cercando di essere pronta a qualsiasi evenienza. Subito i quattro uomini sgranarono gli occhi e fissarono i loro sguardi sulla donna con desiderio. Joel si alzò lentamente in piedi e disse: «Scusate, ma ho un improvviso bisogno che non posso rimandare... Va bene se vado dietro il carro?» L’uomo che aveva parlato prima rispose distrattamente, senza staccare gli occhi da Noa: «Sì, sì, va’ pure...» «Scusate ancora» riprese Joel con tono dimesso, muovendosi verso il carro e strascicando la gamba destra per terra, «ma da quando mi sono preso questa ferita alla gamba, non ho più tanta resistenza... Faccio subito.» «Fa’ con comodo» disse l’uomo con la gamba steccata, senza riuscire a staccare gli occhi dalle gambe della donna. Noa continuò a mantenere il volto inespressivo, nonostante l’imbarazzo che provava per lo sguardo di Joel, e iniziò a sollevare lentamente la corta gonna, mostrando le cosce tornite e vellutate. Quando l’uomo con la gamba steccata aveva allungato una mano per toccarla, ci fu il rumore sordo di qualcosa che cadeva a terra poi, subito dopo, un altro rumore simile. «Toglile subito le tue luride mani di dosso!» La voce di Joel adesso non era più quella dimessa della finzione, ma era ferma e minacciosa. I due uomini si voltarono verso di lui e videro i loro compagni riversi a terra e Joel in piedi, con la schiena perfettamente diritta e una pietra stretta nella mano destra.
Subito Noa si accucciò, fece una capriola che la portò dietro all’uomo che l’aveva palpata, e gli appoggiò la lama nascosta sulla gola. «Vi conviene collaborare, se non volete fare la fine dei vostri compagni» disse la mezzelfa in tono minaccioso. Joel si avvicinò all’uomo con il braccio fasciato e gli chiese: «Adesso rispondi a due semplici domande. A chi avete rubato quel carro e quel cavallo? Di quale armata siete disertori?» L’uomo impallidì. Anche il suo compagno, terrorizzato soprattutto per la lama che sentiva a contatto con il suo collo, era sbiancato e aveva cominciato a tremare. Noa cominciò ad avvertire da lui un fetore acre, sempre più forte. «Siamo scappati verso la fine della battaglia» riuscì a rispondere con voce tremante l’uomo dal braccio fasciato. «Eravamo nell’Armata di Tyran, quando abbiamo visto arrivare i demoni sul campo di battaglia e siamo scappati: quelli non distinguono tra amici e nemici...» «Quindi vi siete dati alla macchia» proseguì per lui Joel, «e a un certo punto avete incontrato i padroni del carro, vero?» Dopo qualche attimo di esitazione, in cui l’uomo scambiò un’occhiata con il compagno, rispose: «Sì, è così. Erano un uomo e una donna che scappavano da Koliman. Lui ha avuto l’idea di prendere il carro» e indicò il compagno che preparava le bistecche, «ma quando si sono rifiutati di cederlo, ha ucciso l’uomo, mentre la donna l’ha violentata e poi uccisa...» «Immagino sia stato solo lui a stuprarla» domandò la mezzelfa con un tono tutt’altro che rassicurante. «Sì, certo» rispose l’uomo, forse un po’ troppo frettolosamente. Con un movimento rapido e preciso, Noa recise la gola dell’uomo che teneva in ostaggio, poi afferrò la lancia e la scagliò contro l’altro uomo, colpendolo in piena gola e uccidendolo.
«Perché li hai uccisi?» Sbottò Joel. «Avevano visto i nostri volti!» Senza aggiungere altro, la mezzelfa si avvicinò ai due uomini storditi da Joel e li finì tagliando loro la gola. «Ti do ragione riguardo al fatto che ci avevano visti» le concesse, «ma sai che non mi piace tutta questa violenza: bastava un colpo in testa ben assestato!» «Non meritavano di vivere un secondo di più!» «Per lo meno adesso abbiamo un mezzo per muoverci più velocemente e con meno fatica. Vieni, aiutami a sistemare il carro: non è bene restare qui stanotte.» Noa lo guardò con una strana espressione negli occhi, poi si sedette accanto al fuoco, prese una delle bistecche che si stavano ormai bruciando e si mise a mangiarla. Joel rimase stupito. «Che fai? Dobbiamo muoverci!» Si girò verso di lui e disse: «Cosa vuoi? Io sono solo una donna che non fa altro che parlare di cose inutili...» Joel emise un sonoro sospiro. «Era tutta una finta! Non ti sarai di certo offesa?» Per tutta risposta, Noa diede un morso alla bistecca, come se avesse voluto dilaniarla. «Va bene, ho capito» si rassegnò Joel. «Faccio da solo...»
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Miranda stava scendendo ai piani inferiori della Cittadella del Sangue, dove si trovavano i laboratori dei fabbri. Come di consueto, aveva raccolto i lunghi
capelli neri in una crocchia dietro la nuca, con il ciuffo rosso che formava una specie di coroncina intorno alla testa, e indossava la sua armatura rossa con le rifiniture verdi di Difensore di Tyran, il cui simbolo era impresso al centro del pettorale. Non era stato un viaggio facile arrivare alla Cittadella con tutto l’esercito al seguito, in meno di dieci giorni. Ce n’erano voluti cinque per ritirarsi dalla Valle di Crandall e raggiungere il campo di Koliman, dove avevano dovuto fermarsi per tre giorni per celebrare i rituali funebri per tutti i caduti della battaglia. Poi erano ripartiti verso quello che veniva semplicemente chiamato “Nodo”, ma che in realtà era un portale che collegava due punti ben precisi di Amnia. L’esistenza di questi Nodi era tenuta nella massima segretezza dalla cerchia degli incantatori che li aveva scoperti; perfino i soldati che li avevano dovuti utilizzare ignoravano cosa fossero e pensavano si trattasse di un incantesimo molto potente. Miranda era una dei pochi non incantatori a sapere cosa fossero in realtà, perché tale conoscenza poteva esserle utile nel compito di Prefetto dell’Ordine Sacro dei Difensori di Tyran. Il motivo principale della loro segretezza non era per la loro utilità strategica, ma per quello che serviva al loro utilizzo. Dopotutto, i Nodi non erano presenti su tutta Amnia, ma solo in alcuni punti ben determinati in cui i flussi di Eteria si intersecavano creando, appunto, un “nodo” energetico; inoltre, per usarli come portale di teletrasporto, era necessario un punto base grande, fisso e stabile, che in questo caso era la stessa Cittadella del Sangue, da cui si potevano raggiungere gli altri punti dislocati su Amnia. Il vero motivo della segretezza era dovuto al rituale di attivazione dei Nodi esterni e al tipo di energia necessaria per mantenere aperto il portale. Il rituale consisteva nel tracciare particolari simboli nel luogo dove si trovava il Nodo con tutto il sangue contenuto nel corpo di un bambino, mentre l’energia proveniva dalla forza vitale di un demone, la cui potenza doveva essere proporzionale alla distanza dalla Cittadella. Se l’attivazione bastava farla una sola volta per ciascun Nodo, l’energia necessaria doveva essere fornita a ogni teletrasporto. Inoltre c’era la complicazione che un Nodo esterno non poteva essere riutilizzato subito, ma doveva are almeno un anno perché si purificasse e tornasse disponibile. La Cittadella del Sangue era diventata, da cinque anni, la base avanzata dell’Armata di Tyran. Era un antico ed enorme edificio, situato all’interno del Bosco dei Sussurri, costruito sulla base di una struttura a forma di stella a cinque punte; la sua particolarità consisteva nello svilupparsi verso il basso, dunque la
quasi totalità dell’edificio si trovava sotto terra. Questo era anche il motivo per cui la sua ubicazione era riuscita a rimanere segreta per lunghissimo tempo e per molti, in particolare i nemici dell’Egemonia, era ancora sconosciuta. La maggior parte dei piani più vicini alla superficie era adibita ad alloggi, mentre i piani più profondi erano usati come officine o laboratori. Miranda si era fermata all’estremità di un corridoio del diciottesimo piano, vicino alla superficie, dove si trovava il suo alloggio, e stava aspettando che si rendesse disponibile una piastra levitante per raggiungere il settantanovesimo piano, molto più in basso, dove si trovava il laboratorio del fabbro che doveva cercare. Il corridoio era molto ampio, illuminato da una striscia luminescente che percorreva tutto il soffitto. Le pareti grigie, uniformi e regolari, erano un chiaro segno di come fosse stata costruita l’intera Cittadella, cioè scavata interamente nella roccia. Di fronte a Miranda il muro aveva una rientranza profonda, che veniva chiamata “Levistazione”, sul cui pavimento erano presenti sei grossi fori, uno per ciascuna piastra levitante. In attesa insieme a Miranda c’era una decina di persone: sei erano soldati, metà umani e metà rettiloidi, e quattro erano incantatori, tutti umani. Nel vederli, le tornò in mente la particolarità che l’aveva incuriosita fin dall’inizio: tra i rettiloidi, solo le femmine avevano la capacità di manipolare l’Eteria. Nessuno aveva mai saputo spiegarle il motivo, neanche Trisk’Àlish, anche se in realtà sospettava che l’argomento fosse tabù tra i rettiloidi. Un breve sibilo acuto annunciò l’arrivo di una piastra levitante che chiuse il foro di fronte a Miranda. La mezzelfa vi salì sopra e disse ad alta voce: «Scendere: piano settantanove.» Dopo una leggera vibrazione di conferma, la piastra iniziò a muoversi silenziosamente verso il basso a grande velocità fino a raggiungere il piano richiesto. Miranda uscì dalla Levistazione e avvertì subito il rimbombo del suono dei metalli che venivano lavorati, oltre al calore dovuto alle fornaci e alle forge accese. Il corridoio era molto largo e, al centro, il pavimento era solcato da due fessure metalliche parallele, su cui si muovevano dei carrelli pieni di materiale da lavorare o di armi e armature completate. Quando Miranda fu di fronte alla porta della stanza che cercava, il soldato di
guardia le fece il saluto militare piegando il braccio destro davanti al petto, col pugno chiuso sul cuore, poi le aprì la porta. La stanza era molto ampia e alta, con al centro una grossa forgia dentro cui ardeva un’alta fiamma. L’aria all’interno della stanza era ancora più calda di quella del corridoio, e Miranda avrebbe voluto spogliarsi dell’armatura che cominciava a bruciare. Quattro persone stavano lavorando ai quattro lati della forgia, tutti umani che indossavano solamente dei pantaloni di cuoio. Miranda, che non voleva restare altro tempo in quel luogo soffocante, chiese a gran voce: «Chi di voi è Hangus di Verklunder?» Gli uomini smisero di lavorare e si voltarono verso di lei, ma solo uno appoggiò sull’incudine il grosso martello e le si avvicinò, mentre gli altri ripresero a lavorare. Era un umano sui trent’anni, più basso di Miranda, ma con il corpo massiccio e muscoloso; aveva occhi marroni e i capelli neri di media lunghezza, tenuti all’indietro da una striscia di cuoio sulla testa, nonché una folta barba scura che gli arrivava fino al petto villoso. L’uomo fissò per diversi secondi il simbolo del serpente di Tyran, impresso sul pettorale dell’armatura della mezzelfa, poi alzò lo sguardò direttamente nei suoi occhi e le rispose con tono deciso: «Sono io Hangus di Verklunder, mastro fabbro di Metallia. Con chi ho l’onore di parlare?» Miranda sorrise per la sfrontatezza che l’uomo stava mostrando: era proprio la persona che le serviva. Allora gli rispose a sua volta: «Sono Miranda di Calendia, prefetto dell’Ordine Sacro dei Difensori di Tyran. Mi è stata affidata un’importante missione per ottenere finalmente la vittoria contro l’Armata di Vàlor, e tu dovrai costruire per me un’armatura speciale, che mi consenta di compierla con successo.»
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La colonna dei soldati dell’Esercito di Vàlor si fermò al centro di un’immensa
pianura, a nord di Lentiar e a ovest del Bosco delle Sette Sequoie. I tre umani e i tre elfi, insieme a Orson, erano scesi dal carro ed erano corsi avanti, ma, con grande delusione, videro solo una landa vuota. «Non saremmo dovuti arrivare alla Roccaforte del Sole?» Chiese Duncan al barbaro. Orson sorrise, poi indicò Rhao: si era portato davanti alla colonna e sembrava prepararsi a lanciare un incantesimo. Quando il Generale sollevò le braccia, fu come se una coltre di nebbia si diradasse. Lentamente, davanti a loro, si formò dal nulla un alto e possente muro di cinta che occupava tutta la loro visuale, con un enorme e massiccio portone di legno borchiato in fase di apertura. Allora Orson, sempre con il sorriso sulle labbra, rispose a Duncan dicendo: «Ecco Roccaforte del Sole.»
~ 21 ~
La Gran Sacerdotessa
N alia aveva appena finito di recitare la preghiera del mattino nella sua cappella personale e stava tornando nella sua camera da letto, dove le due giovani accolite, che la servivano e la seguivano quasi dovunque, erano in attesa. Indossava una lunga veste bianca, semplice e senza maniche; al collo portava un medaglione dorato con il simbolo di Vàlor, che le ricadeva sul seno florido. A meno che non fosse proprio necessario, preferiva evitare i pesanti abiti d’oro e d’argento che il suo rango di Gran Sacerdotessa di Vàlor avrebbe richiesto; con una certa fatica aveva ottenuto di limitare i paramenti a uno scialle argentato che portava sulle spalle, su cui era ricamato in oro il simbolo del suo dio. Aveva un corpo snello, il seno florido, la pelle chiara e gli occhi blu cobalto; i suoi capelli, lisci e lunghi fin quasi al fondoschiena, erano del colore dell’oro, con dodici ciocche d’argento ai lati della testa, sei a destra e sei a sinistra, che spesso acconciava in lunghe e fini trecce, di solito sistemate a formare un’elaborata coroncina; ora, invece, le aveva lasciate libere lungo le spalle e la schiena, mentre la chioma dorata era raccolta in una morbida crocchia alta sulla testa. Era molto giovane per essere una Gran Sacerdotessa, dato che aveva solo ventisette anni, ma la benevolenza di Vàlor scorreva molto potente in lei, tanto che il suo favore era quasi tangibile. Quando si era presentata al Grande Tempio di Camaran per entrare nell’ordine dei chierici, aveva già quindici anni ma, subito, chi l’aveva esaminata si era accorto del grande favore divino di cui godeva; inoltre la sua umiltà, insieme alla generosità e all’avvenenza innocente, la fece benvolere da tutti, tanto da essere praticamente costretta ad accettare il ruolo di Gran Sacerdotessa che le offrirono tutti i decani delle sette congregazioni della Chiesa appena cinque anni dopo il suo arrivo. Quando Nalia entrò nella sua camera dalla porta privata, le due accolite si alzarono in piedi e le furono subito davanti, salutandola con un inchino. Entrambe, appena diciottenni, avevano i capelli tagliati corti a caschetto, con una treccia lunga e fine che pendeva dalla tempia destra fino al fianco. Helen di
Undina era bionda, aveva gli occhi azzurri e il corpo snello; Korin di Vesperan, era mora, aveva gli occhi marroni e un corpo un po’ più prosperoso della compagna. La camera era molto ampia, con al centro un grande letto a baldacchino e accanto un comodino e una poltrona, su cui era appoggiato lo scialle argentato che Nalia usava per simboleggiare il suo rango. Un’ampia veranda, con pesanti tende bianche ora aperte, illuminava la stanza. «Tutto bene, Divina?» Le chiese Helen in tono preoccupato. Nalia la guardò e sorrise. Da quando era entrata al suo servizio, due anni prima, continuava a dirle di non chiamarla “divina”, ma lei si ostinava a usare il suo appellativo da Gran Sacerdotessa. «Sì, grazie. Oggi Rhao dovrebbe fare ritorno con l’esercito dopo la vittoria alla Piana di Crandall. Immagino che i soldati vorranno festeggiare... e poi toccherà come sempre a noi risanare le ferite dei festeggiamenti.» «Meglio festeggiare una vittoria che piangere una sconfitta» replicò la giovane, quasi punta sul vivo. Nalia le sorrise di nuovo e commentò: «Hai proprio ragione. Stai diventando saggia!» Helen arrossì e, proprio in quel momento, una guardia bussò alla porta. La Gran Sacerdotessa concesse l’ingresso e il soldato entrò: «Mia signora, il tenente Inza chiede udienza.» Nalia si voltò verso l’accolita Korin e le domandò: «Non aspettavo tua sorella così presto. È forse successo qualcosa?» Korin scosse la testa. «No, Divina. Almeno non da quel poco che mi racconta del suo lavoro.» Allora la Gran Sacerdotessa disse alla guardia:
«Riferiscile che la riceverò nella Sala della Primavera, tra venti minuti.» Il soldato annuì e uscì dalla stanza. Subito Korin e Helen si avvicinarono a Nalia e le sciolsero la crocchia sulla testa, lisciandole i lunghi capelli biondi con la spazzola e sistemando le dodici trecce argentate a formare una coroncina. Poi presero lo scialle argentato e glielo sistemarono sulle spalle. Infine Nalia, seguita dalle due accolite, uscì dalla camera. La Roccaforte del Sole era costruita secondo una pianta quadrata, con il lato di tre chilometri, delimitata lungo il perimetro dalle possenti mura di cinta e dalle alte torri di guardia; al centro di ciascun lato delle mura si apriva una grossa porta di accesso, corrispondente a un punto cardinale. Un secondo muro di cinta si alzava più all’interno, delimitando il cuore della Roccaforte, al cui centro si trovava il Palazzo Centrale. La zona tra le due mura era chiamata Periferia e accoglieva le attività utili al o della popolazione, come l’agricoltura e l’allevamento. La zona tra le seconde mura e il Palazzo era chiamata Centro ed era quasi una città, suddivisa da ampi viali in nove quadrati, chiamati Quartieri; quello mediano era interamente occupato dal Palazzo. Quest’ultimo aveva l’aspetto di un massiccio castello, con quattro torri agli angoli e un’alta torre mediana sorretta da un sistema di archi e contrafforti, sotto cui si trovava il cortile interno. Ciascuna delle quattro ali del Palazzo era dedicata a una particolare funzione: l’Ala Settentrionale alle attività eteriche, quella Orientale alle attività clericali, quella Meridionale all’amministrazione e quella Occidentale all’Esercito. La camera di Nalia si trovava al secondo piano dell’Ala Orientale, mentre la Sala della Primavera al piano terreno, vicino al tempio. Percorrendo gli ampi corridoi, la Gran Sacerdotessa incrociò diverse persone che, come di consueto, si inchinarono al suo aggio. Se, da un lato, le faceva piacere questa dimostrazione di rispetto, dall’altro avrebbe preferito meno deferenza nei suoi confronti, perché in questo modo avrebbe avuto la possibilità di avvicinare più persone e di comprendere meglio quali fossero i pensieri e i reali bisogni della gente. Inoltre, la presenza delle due accolite sempre dietro di lei, la rendevano ancora più inavvicinabile. Inizialmente la sua scorta era molto più nutrita e aveva provato a limitarne la presenza solo agli eventi ufficiali, ma le fu risposto che era necessaria per la sua sicurezza, soprattutto in guerra: non potevano rischiare di perdere la massima autorità della Chiesa di Vàlor, a cui tutti nell’Impero di Anosia avevano dedicato la loro vita. A quelle parole, Nalia non poté far altro che arrendersi, anche se le consentirono di ridurre la scorta a due
accolite, che avrebbe potuto scegliere lei stessa, per le attività comuni. Quando arrivò in vista della Sala della Primavera, Nalia notò che il tenente Inza di Vesperan stava aspettando davanti alla porta, con le braccia conserte. Era una bella donna umana di ventotto anni, dal corpo muscoloso e atletico; aveva occhi azzurri e capelli biondi lunghi, leggermente mossi, raccolti ai lati della testa in varie trecce che andavano dietro le spalle, mentre quelli in cima erano uniti in una coda che andava dietro la nuca; indossava l’armatura argentata da paladina di Vàlor di cui andava fiera. «Perdonami per il ritardo, Inza» le disse subito Nalia. «Stamattina la preghiera mi ha coinvolto più del solito. Vieni, andiamo dove nessuno ci potrà disturbare.» Le due guardie ai lati della porta si fecero avanti e aprirono l’ingresso. La Sala della Primavera era piuttosto grande e per la maggior parte vuota, dato che serviva per le riunioni con il popolo. Le sue caratteristiche distintive erano gli affreschi floreali e un lieve profumo di viole sempre presente nell’aria. Al centro della parete opposta all’ingresso, sopra a cinque gradini, si trovava un grande trono di pietra, dietro il quale si apriva una porticina che conduceva a una stanza più piccola e riservata. Nalia vi entrò e si sedette in una delle quattro sedie intorno al tavolo rotondo; le due accolite si sistemarono in piedi dietro di lei, a capo chino, mentre Inza le si sedette di fronte e subito disse: «Ho parlato con mio padre a proposito dell’elfo di cui ha avuto notizia giorni fa.» A quelle parole, Korin alzò la testa e fissò sorpresa la sorella, ma poi si riprese e tornò ad abbassare lo sguardo. «Intendi Lolianis di Erastad, l’elfo di Sanderia che vuole vendere l’antico artefatto elfico?» Le chiese Nalia, congiungendo le mani sotto il mento. «Sì, proprio quello!» «Perché non è venuto direttamente Asterio a parlarmi?» «Mio padre è rimasto tutta la notte a discutere con l’Imperatore. L’incantatrice Aselia è riuscita a trovare un modo per perfezionare lo Specchio Comunicante, che ora può funzionare per dodici ore di seguito... Non so se ne sia rimasto contento, o se invece ne avrebbe fatto volentieri a meno...» Nalia si lasciò sfuggire un sorriso, al pensiero del conestabile che si rimirava in
uno specchio, pettinandosi la curata barba bianca, ma si riprese subito e chiese: «Di cosa trattava questa lunga discussione?» «Per farla breve, mio padre è riuscito a convincere l’Imperatore a contribuire alla somma richiesta per l’acquisto della “reliquia di Ardèsia”, come l’ha chiamata lui, attingendo al tesoro imperiale. Alla fine ci darà trecentomila corone d’oro.» «Ma Lolianis ne ha chieste cinquecentomila!» Inza fece un mezzo sorriso: «Il resto della somma dovremo metterlo noi...» «Ci toccherà intaccare le riserve» disse Nalia un po’ preoccupata. «Se dovessero esserci altre spese impreviste, rischiamo di restare senza fondi per pagare i soldati, i lavoratori e le merci. Speriamo che la reliquia sia davvero quello che sospettano tuo padre e l’incantatrice Aselia: se è veramente la Forgia del Maestro, allora ne sarà davvero valsa la spesa! Con quella potremo creare armi e artefatti che renderanno abili guerrieri chi le à, e allora avremo un esercito praticamente invincibile!» «Io non me ne intendo, ma mio padre è sicuro di non sbagliarsi. Comunque, l’Imperatore si assicurerà che il denaro sia qui entro tre giorni: l’Evocatore di Corte teletrasporterà i corrieri fino a Lentiar, poi da lì ci raggiungeranno a cavallo in meno di tre giorni.» «Ha pensato proprio a tutto» commentò Nalia annuendo in segno di approvazione, anche se in realtà era delusa per il fatto che l’Imperatore non avesse accolto pienamente le sue richieste. «Per fortuna l’Imperatore ha stipulato il patto di collaborazione con il Dominio di Kentara: avere degli incantatori istruiti alle Torri è un vantaggio non indifferente. Mi piacerebbe che anche i nostri Evocatori conoscessero l’incantesimo del Teletrasporto: in certe occasioni, nonostante sia limitato a un massimo di dieci persone, potrebbe essere davvero molto utile!» «È vero» si limitò a dire Inza, non volendo contrariare la Gran Sacerdotessa, sebbene non avesse molta fiducia nell’Eteria. Poi, però, contando sul fatto che lei non avrebbe evitato di risponderle come aveva fatto suo padre, chiese: «Perché l’Imperatore non ha fatto in modo che i corrieri arrivassero direttamente qui? O almeno alle porte della Roccaforte...»
Nalia le sorrise, comprendendo il motivo della sua domanda. «C’è un valido motivo se il comodo incantesimo del Teletrasporto viene insegnato solo agli incantatori più esperti: un minimo sbaglio può provocare anche la morte di chi viene teletrasportato. L’incantatore deve conoscere bene il luogo di arrivo e, soprattutto, deve averlo visto almeno una volta, per poter evocare senza errore il punto focale di dislocazione. Evidentemente, l’Evocatore dell’Imperatore non è mai stato da queste parti, e il luogo più vicino che conosce è la città di Lentiar.» Dopo qualche attimo in silenzio, aggiunse: «Comunque, anche se quell’Evocatore fosse stato qui, non sarebbe mai riuscito a evocare un punto focale, perché la barriera che protegge la Roccaforte impedisce ogni tipo di intrusione.» Inza era più che soddisfatta dalla spiegazione di Nalia: come sempre, aveva dimostrato di possedere un’ampia conoscenza e la capacità di spiegare in modo semplice e chiaro. Considerando conclusa la discussione, fece per alzarsi, ma subito la Sacerdotessa riprese a parlarle: «So che tra poco arriveranno i generali Rhao e Dario; molto probabilmente, uno di loro vorrà occuparsi della missione in prima persona, ma io vorrei chiederti di iniziare a preparare un piccolo contingente militare, per accompagnare la delegazione che si occuperà dell’acquisizione dell’artefatto: tutti quei soldi potrebbero fare gola a qualcuno, ed è bene che non ci siano imprevisti lungo il tragitto per Sanderia.» «Sarà un onore per me» disse la paladina, con una punta di orgoglio nella voce. «Allora parteciperò anch’io alla spedizione?» «Certamente. Ho piena fiducia nella tua abilità militare e nella tua capacità di valutare le situazioni, quindi sarai un ottimo aiuto per il Generale. So che sta cercando qualcuno da istruire come suo luogotenente, e credo che potresti essere proprio la persona che cerca.» Quelle parole insinuarono un’ombra di dubbio nella mente di Inza. «Ritenete che qualcosa potrebbe andare male?» «Non lo so. Ma non ricordo di aver mai sentito parlare di “reliquie di Ardèsia”. La dea creatrice degli elfi non è mai stata una costruttrice...» Qualcuno bussò e Nalia si interruppe. Subito le due accolite le si avvicinarono
per proteggerla, ma lei scosse la testa e disse ad alta voce: «Entra, Aselia.» La porta si aprì, ed entrò un’elfa alta e snella, con occhi marroni e lunghi capelli neri raccolti in due crocchie ai lati della testa; aveva cinquant’anni, ma ne dimostrava dieci di meno. Indossava una lunga tunica di seta azzurra e bianca e, al collo, aveva un medaglione dorato di forma romboidale, su cui erano incisi, al centro, la sagoma di una torre, e ai quattro angoli una fiamma, una goccia d’acqua, una montagna e un turbine di vento, simbolo della sua appartenenza alla Torre della Scuola Elementale di Kentara e del suo grado di Primo Eterion, cioè un gradino sotto al ruolo di Capo della Torre (il “Magister Eterion”). Era accompagnata da due giovani umane gemelle, le sue allieve Mara e Lara, entrambe snelle e vestite con una lunga tunica azzurra e bianca; avevano diciannove anni, gli occhi scuri e i capelli castani tagliati corti, tranne per un lungo ciuffo sulla tempia sinistra per Lara e su quella destra per Mara. «Come avete fatto a capire che ero io?» Chiese subito Aselia sedendosi alla sinistra di Nalia, mentre le due allieve si mettevano dietro di lei. La sacerdotessa sorrise e rispose: «Le guardie non avrebbero fatto are nessun altro, a parte il Conestabile o i Generali... Ma sapevo che non poteva essere nessuno di loro, quindi rimanevi solo tu.» Aselia sembrò delusa da quella spiegazione così logica. Allo sguardo interrogativo di Nalia, rispose appoggiando le mani sul tavolo: «Perdonatemi, ma mi aspettavo un metodo di identificazione più esoterico... magari una visione da parte di Vàlor...» «Sai bene che lui non agisce in questo modo...» iniziò a dire Nalia, quasi punta sul vivo, ma venne subito interrotta da Aselia con un cenno delle mani: «Non sono venuta qui per una lezione di religione, anche se forse ce ne sarebbe bisogno, se ho sentito bene quello che stavate dicendo a Inza prima che bussassi.» La paladina si intromise:
«Non riuscite mai a smettere di becchettarvi se sia meglio l’Eteria o il Potere Divino?» «Non fino a che lei non ammetterà che io ho ragione» dissero Nalia e Aselia all’unisono. Subito le due si guardarono, poi scoppiarono a ridere, mentre Inza scuoteva la testa sconsolata, conoscendo bene la grande amicizia che c’era tra loro. Poi Nalia guardò Aselia negli occhi. «Grazie per essere venuta di tua iniziativa: avevo proprio bisogno di parlarti. Ma prima spiegami cosa intendevi riguardo alla lezione di religione: cosa sai di Ardèsia che mi sfugge?» L’incantatrice congiunse le mani sul tavolo e rispose: «Ci sono storie del nostro ato di cui gli elfi non parlano mai, né tra loro, né tantomeno con gli appartenenti alle altre razze. È qualcosa che sentiamo nella parte più nascosta del nostro cuore fin dall’infanzia, come un ricordo ancestrale della nostra creazione.» «Quindi non puoi parlarmene?» Fece Nalia, dispiaciuta. «Non era questo che volevo dire» replicò lei un po’ sulla difensiva. «Voi siete la persona più vicina a Vàlor che sia mai esistita, e siete sempre onesta e sincera, oltre che pronta a combattere il male e i suoi agenti. Il punto è: se non posso fidarmi di voi, allora non c’è nessun altro che possa essere degno di ascoltare questa storia.» Inza provò un improvviso senso di disagio e fece per alzarsi, ma l’incantatrice la fermò subito: «No, rimani. Prima o poi certi antichi segreti dovranno smettere di essere tali, perché sono il più grande ostacolo alla nostra uscita dalla Grande Foresta.» Inza si risedette, ma sul viso aveva un chiaro segno di imbarazzo. «Tutti sanno che le tre razze di Amnia sono state create da tre divinità diverse» iniziò Aselia, con lo sguardo fisso su Nalia. «Vàlor ha creato voi umani, Tyran ha creato i rettiloidi e Ardèsia ha creato gli elfi. Nessuno, però, si è mai chiesto seriamente perché Vàlor e Tyran facciano parte della Triade, mentre Ardèsia no, nonostante abbia la stessa potenza divina degli altri due: infatti la terza divinità
della Triade è Samas.» «A me è stato insegnato che la Triade è stata creata così dagli dèi, per mantenere l’equilibrio sul nostro mondo» intervenne Inza timidamente. Aselia si girò e le sorrise: «E questo è vero, adesso. Ma all’inizio Ardèsia faceva parte della Triade: i tre dèi più potenti crearono le tre razze.» «Allora perché Ardèsia non è più nella Triade?» «Perché lei barò» le rispose con tono grave. «Non rispettò le limitazioni che le tre divinità si erano date per la creazione delle tre razze. Per questo, noi elfi viviamo il doppio sia degli umani sia dei rettiloidi, per questo abbiamo i sensi più sviluppati delle altre due razze e siamo capaci di percepire l’Eteria più facilmente. Gli altri dèi si infuriarono con lei, perché la creazione era irreversibile, e la scacciarono dalla Triade, limitandone l’influenza su Amnia; decisero di sostituirla con Samas, che avrebbe dovuto garantire l’equilibrio tra Vàlor e Tyran. Le razze da loro create divennero dominanti su Amnia, mentre gli elfi vennero maledetti: non potendo modificare le nostre qualità fisiche e mentali, si assicurarono che non potessimo dominare sulle altre razze, diminuendo la nostra fertilità. Nessuno si è mai chiesto perché le coppie elfiche abbiano solo in rarissimi casi eccezionali più di due figli?» Inza scosse la testa, visibilmente sconcertata. Nalia, invece, non sembrava affatto sorpresa dalla storia: «Nulla di ciò che hai raccontato è nuovo per me, Aselia: ci sono dei dogmi che per il bene comune devono restare segreti, e vengono rivelati solo a chi deve tramandarli. Ma avevi detto che avresti parlato di artefatti creati nel periodo d’oro degli elfi.» «Immaginavo che sapeste già tutto» disse l’incantatrice, sorridendo, «ma mi sembrava giusto far capire a chi non conosceva questa storia come dovessero sentirsi disperati gli elfi che vissero nel tempo in cui Ardèsia fu costretta ad abbandonarli, e non poté più rispondere alle loro preghiere.» Inza provò un certo imbarazzo comprendendo che quella spiegazione era stata per lei, mentre Nalia non poté trattenere una sincera preoccupazione. «Cosa vorresti dire? Che cosa hanno fatto gli elfi di quel tempo?»
«La maggiore affinità elfica con l’Eteria e gli ultimi influssi della Grazia Divina di Ardèsia permisero loro di creare artefatti molto potenti, ben al di là di ciò che adesso può essere creato solo nelle Torri di Kentara.» «Quindi vorresti dire che, se l’artefatto elfico di Lolianis è originale, ha un potere immenso?» «Esatto. Purtroppo, senza vederlo non ho modo di sapere quale sia e l’elfo non ci ha dato alcuna descrizione utile per identificarlo. Comunque una cosa è certa: non deve assolutamente cadere nelle mani dei seguaci di Tyran!» Nalia annuì, concordando con l’incantatrice. Rimase qualche momento sovrappensiero, poi guardò Inza, le due allieve gemelle dietro l’incantatrice e, infine, riportò lo sguardo su Aselia. Allora disse: «Sono perfettamente d’accordo con te sul fatto che dobbiamo a ogni costo prendere noi quell’artefatto. Anche solo l’idea che i seguaci di Tyran possano mettere le mani su qualcosa di così potente è sufficiente a convincermi di fare qualunque cosa perché non accada. E, a questo proposito, vorrei chiederti un favore...»
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Missione a Sanderia
N alatien stava cavalcando accanto a Morgase. Erano in viaggio da cinque giorni verso la città di Sanderia, per aiutare il generale Dario in una delicata missione. Insieme a loro c’erano anche Liriel, Firion, Duncan e Keldon, oltre al barbaro Orson e ad altri cinquanta soldati. Il generale Dario era più indietro e, accanto a lui, cavalcavano il tenente Inza, una paladina di Vàlor, e Lara, una delle due gemelle allieve di Aselia, l’incantatrice Elementalista del Primo Eterion. Sia Nalatien che Liriel erano rimasti sorpresi quando l’elfa si era presentata loro, e non era parso vero a sua sorella che si fosse offerta di farle da maestra. Anche lui aveva accettato l’offerta di un maestro, un vecchio umano barbuto di nome Lumis, che aveva studiato alla Torre dell’Evocazione di Kentara, e che, a tempo perso, si occupava della biblioteca della Roccaforte. All’inizio il giovane elfo era rimasto stupito del fatto che lui e i suoi compagni fossero stati scelti per quella missione. Erano arrivati soltanto da cinque giorni e non avevano fatto niente di particolare per farsi notare, ma il tenente Inza aveva ritenuto di potersi fidare di loro. In realtà, durante il viaggio, era venuto fuori che una ventina dei soldati selezionati da Inza era stata precettata da Rhao per una missione di soccorso a un villaggio a ovest della Roccaforte e allora, su consiglio di Orson, il Tenente aveva ripiegato su loro sei. L’impatto con la vita nella Roccaforte, nei cinque giorni prima di quella missione, era stato leggermente traumatico per i sei “viaggiatori del tempo”, ma aveva avuto anche l’effetto di donare loro un po’ di speranza. Il colloquio privato che avevano avuto con la Gran Sacerdotessa, il giorno del loro arrivo, non era stato esattamente quello che si aspettavano: Nalia non aveva saputo spiegare loro come fossero arrivati lì, ma li aveva rassicurati che, se fosse esistito un modo per farli tornare indietro, lei l’avrebbe trovato. Inoltre aveva rivelato loro che sapeva dell’esistenza di antichi rituali molto potenti, ma ormai dimenticati: forse, tra essi c’era proprio quello che serviva loro. Il vero problema sarebbe stato recuperare quelle informazioni in tempo di guerra, un momento non proprio
favorevole per quel tipo di ricerca. Tuttavia, prima di congedarli e di lasciare che prendessero confidenza con la Roccaforte e i suoi abitanti, aveva promesso loro che avrebbe fatto di tutto per rimandarli a casa. L’incontro con Nalia aveva avuto un forte impatto su Keldon. Nalatien aveva notato come il chierico non riuscisse a distogliere lo sguardo da lei. Non sapeva se fosse solamente perché la donna rappresentasse il grado più alto del suo ordine di chierici, oppure se Keldon fosse rimasto affascinato dalla sua bellezza, o perché invece, come lui, avesse percepito in lei qualcosa di strano. L’elfo non aveva alcun dubbio sul fatto che quella donna fosse molto potente come Gran Sacerdotessa, ma aveva percepito anche qualcosa che non si sarebbe mai aspettato in un chierico: una debole e velata traccia di Eteria. Tuttavia non aveva percepito alcuna falsità nelle sue parole e aveva accettato senza esitazione il suo aiuto: se questa Nalia era davvero una rarissima sacerdotessa incantatrice, allora poteva essere la loro unica speranza per tornare a casa. Gli altri avevano subito sottoscritto il patto di reciproco aiuto; solo Liriel aveva esitato finché non aveva accettato anche Firion. I cinque giorni trascorsi alla Roccaforte del Sole erano stati intensi per tutti. Nalatien e Liriel furono impegnati, con i rispettivi maestri e i loro allievi, a imparare nuove teorie sull’Eteria e nuovi incantesimi; Duncan e Firion si esercitarono con le truppe dell’esercito, insieme a Orson e al tenente Inza, a cui erano stati affidati da Rhao; Morgase aveva trovato un boschetto nella Periferia Est, e aveva provato a esercitare il suo nuovo potere, che derivava dalla Fonte dello Spirito, anche se con scarsi risultati; Keldon desiderava essere pronto per aiutare i suoi compagni contro le minacce sconosciute nel suo tempo, cioè i demoni, e Nalia si offrì di insegnargli alcune preghiere dell’Ordine degli Esorcisti, oltre a dargli varie informazioni relative ai demoni. La seconda sera di permanenza alla Roccaforte, durante la cena, Nalatien aveva sentito Keldon e Duncan parlare di Inza: erano incuriositi per il fatto che avesse lo stesso cognome di Lilibeth, e avevano ipotizzato che la paladina potesse essere una sua antenata. Inoltre Keldon aveva saputo che il padre di Inza era il conestabile Asterio, il rappresentante del Consiglio Nobiliare alla Roccaforte; Duncan aveva confermato che anche Lilibeth era di famiglia nobile e che, dunque, era una loro discendente. Nalatien non capiva il loro interessamento per quelle questioni nobiliari, quindi non seguì oltre i loro discorsi. Durante i giorni di apprendimento, avvenne qualcosa di curioso e divertente:
Lumis, il maestro di Nalatien, vide Liriel dettare i suoi appunti a una penna argentea che, in equilibrio su un foglio di pergamena, si muoveva da sola. L’uomo, con il suo animo da bibliotecario, rimase estasiato a fissarla per quasi un’ora, poi ò l’ora successiva a chiedere a Liriel se gliela prestasse per esaminarla, ma senza successo. Da allora, ogni volta che Lumis incrociava Liriel, provava di nuovo a chiederle se gli prestava la penna argentata e l’elfa, puntualmente, rifiutava, dicendo che era un regalo dei suoi genitori e che non voleva separarsene. In tutto questo, Liriel e Firion sembravano aver rinsaldato il loro legame, e avano insieme ogni momento libero che avevano, mentre Nalatien e Morgase cominciavano a provare qualcosa che andava oltre la semplice simpatia. In particolare Nalatien, la sera prima della partenza, aveva regalato a Morgase la sua piuma dorata, un prezioso ricordo dei suoi genitori, come “segno di amicizia” (così le aveva detto, profondamente imbarazzato ma felice); inoltre, le aveva rivelato che sulla piuma era stato impresso un incantesimo sonoro in grado di riprodurre una melodia variabile a seconda dell’umore della persona che la portava alla bocca. La druida, con un sorriso luminoso, l’aveva legata a un laccio di cuoio e se l’era messa al collo, giurando che non l’avrebbe mai tolta e che l’avrebbe usata pensando a lui. Era quasi mezzogiorno quando Nalatien, che cominciava a stancarsi di stare seduto in sella al cavallo, si guardò di nuovo intorno. In lontananza, si stagliava il Bosco di Mezzapianura e tra poco sarebbe spuntata davanti a loro la città di Sanderia. «Ormai dovremmo essere quasi arrivati» disse rivolto a Morgase, accanto a lui. «Sì» gli confermò sorridendo. «Sentivo poco fa Inza che parlava di un’ora ancora di viaggio.» «Allora tra poco dovrò di nuovo ripetere l’incantesimo di Leggerezza sulla cassa delle monete» la informò. Poi aggiunse, con una punta di esaltazione: «Non sapevo che esistessero incantesimi che avessero anche un’utilità così pratica.» «E questo ti piace?» «Sì» le rispose, entusiasta. «Come funziona questo incantesimo?» In realtà a Morgase non interessava
saperlo, ma le piaceva ascoltare Nalatien che parlava dell’Eteria. «Genera un campo eterico che sostiene il peso di ogni cosa sia all’interno del contenitore su cui viene lanciato. In pratica, senza quell’incantesimo sarebbe impossibile anche solo sollevare la cassa con le monete, figuriamoci spostarla. Con l’incantesimo, invece, il peso da sollevare è solo quello della cassa.» Morgase era compiaciuta di sentire quella gioiosa euforia nelle parole di Nalatien e gli sorrise. L’elfo ricambiò e aggiunse: «Speriamo che la transazione avvenga senza troppe contrattazioni, così potremo tornare rapidamente alla Roccaforte.» «Perché tutta questa fretta?» Gli chiese, incuriosita. «Cosa devi fare?» «Voglio riprendere le mie lezioni! All’inizio non credevo possibile che un incantatore umano potesse insegnarmi qualcosa, ma Lumis è veramente bravo e paziente, anche se ogni tanto divaga un po’ troppo e si mette a parlare di cose che non c’entrano niente.» «Be’, ognuno ha i suoi difetti» commentò lei con un sincero sorriso. La colonna si fermò e un cavaliere corse verso il generale Dario. Nalatien e Morgase lo sentirono chiaramente riferire al Generale che l’avanguardia aveva preso contatto con l’inviato di Lolianis di Erastad, l’elfo che possedeva l’artefatto in vendita, e che li avrebbe guidati dove il suo padrone li aspettava. Il Generale diede l’ordine di seguire l’inviato, ma aggiunse che i soldati dovevano rimanere all’erta. Il cavaliere tornò verso l’avanguardia e la colonna riprese a marciare. «Ecco!» Disse Nalatien a Morgase, indicando davanti a loro. «Laggiù ci sono le mura della città di Sanderia. Finalmente siamo arrivati!»
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Joel e Noa entrarono a Sanderia a metà mattinata, seduti alla guida del carro che avevano “recuperato” dodici giorni prima. Grazie a quel mezzo di trasporto, erano riusciti a risparmiare quasi sette giorni rispetto alle previsioni iniziali di Noa. Inoltre la mezzelfa, tra i commenti soddisfatti dell’uomo, si era cambiata d’abito: aveva abbandonato la veste variopinta per un completo di pelle che aveva trovato in un baule del carro. Il viaggio era stato piuttosto noioso: avevano incrociato pochissime altre persone lungo la strada e, nonostante l’abilità oratoria di Joel, non erano riusciti ad avere informazioni utili su cosa avrebbero potuto trovare a Sanderia. L’unica cosa certa era che la città era ancora in piedi e che non era stata toccata dall’Armata di Tyran. La città era molto grande e aveva un perimetro più o meno circolare, costituito da alte e robuste mura in cui si aprivano tre porte: una a nord-est, chiamata Porta dei Monti, perché era rivolta verso le Montagne Rocciose; una a sud-est, chiamata Porta delle Pianure, perché portava verso le pianure centrali dell’Impero; una a ovest, chiamata Porta del Mare, perché la strada che usciva da lì portava a Deneva, e quindi al mare. Le costruzioni erano tutte in muratura e le strade erano tutte lastricate, ampie e alberate. Al centro della città, spiccava su tutto il castello del Duca di Sanderia, circondato da un enorme viale su cui si affacciavano gli altri tre edifici più importanti: il tempio di Vàlor verso la Strada delle Pianure, il Teatro delle Arti verso la Strada dei Monti, e il Mercato Coperto verso la Strada del Mare. «Sai dove dobbiamo andare?» Chiese Noa a Joel, mentre lui guidava il carro a o d’uomo, a causa delle persone che attraversavano indiscriminatamente la strada. I due erano rimasti sorpresi di vedere tanta gente in quella città. «Dolan mi aveva raccontato che il Rifugio di Sanderia era nei sotterranei del grande teatro della città: un luogo perfetto per nasconderci sotto gli occhi di tutti.» «E c’è anche un lato beffardo» aggiunse Noa. «Le “Maschere” nascoste in un teatro è un vero colpo di genio!» Joel sorrise, mentre accostava il carro a un lato della strada e si fermava. «Perché ti fermi?»
«Faremo prima a piedi, piuttosto che con questo carro: lasciamolo qui. Se servisse, poi prenderemo dei cavalli, che sono molto più veloci.» «D’accordo» rispose la mezzelfa, che subito scese e raccolse tutto il suo equipaggiamento. Anche Joel scese e prese le sue cose, quindi si diede una rapida occhiata intorno e disse: «Il teatro dovrebbe essere al centro della città. Andiamo.» Si avviarono a o svelto, senza fare attenzione alle strade e alla gente che avevano intorno: la loro priorità era raggiungere il più in fretta possibile il rifugio della Maschera d’Ombra, nella speranza che ciò che vi era custodito potesse rivelare loro perché fossero finiti lì, e come fare per tornare a casa. Avrebbero pensato dopo a guardarsi intorno, per trovare i mezzi necessari ad andarsene. Il teatro era molto grande e alto, e si trovava al centro di un’ampia piazza. L’edificio era costruito in pietre di marmo bianco e nell’area centrale delle mura, tra le alte finestre, erano stati scolpiti molti fregi con un motivo ricorrente: due maschere intrecciate, una sorridente e una piangente. Ognuno degli ingressi presenti nelle quattro facciate era strettamente sorvegliato. «Dobbiamo trovare un modo per raggiungere i sotterranei» commentò Joel, mentre si sedevano su una panchina sotto un albero, per studiare la situazione senza dare nell’occhio. «Non mi sembra che quelle guardie siano dei nostri» aggiunse Noa, notando che indossavano un’armatura senza insegne, «né della gendarmeria cittadina. Forse sono mercenari assoldati da qualche nobile e, se è così, dovremo fare attenzione, perché quella gente prende il proprio lavoro molto sul serio.» «Vuoi dire che sono peggio di Duncan?» Le domandò con un sorriso, pensando al ligio paladino che avevano lasciato indietro, all’accampamento dell’Esercito di Vàlor. Anche lei sorrise e ribatté: «Potrebbe sembrare impossibile, ma è così.»
Joel fissò lo sguardo sulla porta più vicina, rimanendo per un po’ sovrappensiero, poi disse: «La cosa migliore sarebbe attendere la notte, ma dubito che la sorveglianza sarebbe minore. Inoltre, devo ammettere che tutta questa vigilanza per un teatro mi puzza un po’: sembrerebbe quasi che stiano preparando qualcosa di grosso.» «Forse ci sarà un gruppo teatrale famoso e non vogliono essere disturbati. Sai come possono essere impossibili gli artisti certe volte.» Joel si voltò con un’occhiata sospettosa e le chiese: «Ti sei anche travestita da attrice di teatro?» Lei sorrise. «Perché, non ti sembro adatta? Mi ricordo che c’era uno che mi assillava, e cercava sempre di intrufolarsi nel mio camerino...» «Questa storia non me l’avevi mai raccontata...» «Prima o poi lo farò» tagliò corto lei, ammiccando. «Ora pensiamo a come entrare lì dentro.» Joel scosse la testa sconsolato e tornò a guardare l’edificio. «Forse dovremmo cercare di raggiungere una delle finestre...» «No, le finestre sono fisse. L’aerazione dell’interno è assicurata da delle feritoie celate tra i fregi dei muri: vedi che in alcuni punti il marmo è leggermente più scuro?» «Allora potremmo provare a sorprendere le guardie... Hai ancora i dardi soporiferi?» Noa stava per rispondergli di no, quando la porta si aprì e ne uscì un elfo, accompagnato da due uomini armati. Si fermò a parlare alle guardie e subito lo seguirono insieme agli altri due soldati verso la scuderia, dall’altra parte della strada, lasciando l’ingresso incustodito. Joel e Noa si guardarono negli occhi e si alzarono dalla panchina, poi si mossero rapidamente verso la porta, rimasta socchiusa, assicurandosi che l’elfo e i suoi soldati non si voltassero.
Non appena furono dentro l’edificio, si trovarono in un atrio ampio con una grande porta, che presumibilmente portava al teatro vero e proprio, delle scale che salivano, e due piccole porte laterali. Stavano ancora valutando dove andare, quando sentirono una voce, proveniente dall’esterno, che si avvicinava: «Le due delegazioni arriveranno alla porta est e alla porta ovest, e i miei uomini si assicureranno che non si vedano prima dell’incontro. Nell’eventualità che qualcuno volesse andare a vedere cosa c’è dall’altra parte del teatro, bloccatelo in qualunque modo riteniate opportuno...» Joel e Noa non rimasero ad ascoltare il resto del discorso: subito si mossero verso la porta secondaria di destra. La mezzelfa la aprì rapidamente con la sua forcina, quindi entrarono e richio la porta. Si ritrovarono in un corridoio scarsamente illuminato, che procedeva a destra e a sinistra. «Dove andiamo ora?» Sussurrò Noa. Joel le indicò qualcosa sul muro, a sinistra della porta da cui erano entrati: una piccola immagine di una maschera con la metà sinistra chiara e la metà destra scura. «Se i segnali di qui sono gli stessi che usiamo nel nostro tempo, direi a destra.» La mezzelfa annuì e, con un sorriso, gli fece cenno di precederla. «Un cavaliere dovrebbe fare andare avanti le signore» mormorò lui con un tono scherzoso. «Non fare il paladino» gli ribatté continuando a sorridere, «stavolta sei tu che conosci la strada.» Joel si incamminò con circospezione verso la parte destra del corridoio, tenendo d’occhio le pareti per vedere se ci fossero altri segnali. Noa gli andò subito dietro, pronta a usare la lama celata in caso di un incontro spiacevole. In fondo al corridoio trovarono una porta, su cui era intagliato un piccolo simbolo delle Maschere sopra la maniglia. La mezzelfa aprì rapidamente la serratura: oltre la porta videro delle scale che scendevano. «Ci siamo» sussurrò l’uomo quasi emozionato. «La cripta deve essere qua
sotto!» Noa annuì e richiuse la porta alle loro spalle, mentre Joel esaminava le scale per verificare che non ci fossero trappole nascoste. Ai due estremi del primo gradino, notò i disegni in rilievo di due maschere: quella a sinistra aveva la metà scura a destra, mentre quella a destra l’aveva a sinistra. Allora si posizionò di fronte al simbolo a sinistra, che corrispondeva alla sua maschera, e fece cenno a Noa di sistemarsi davanti a quello di destra, corrispondente alla maschera di lei. «Meno male che siamo delle metà diverse» commentò Joel a bassa voce, poi aggiunse rivolto a Noa: «Al mio tre, premiamo insieme i simboli.» La mezzelfa annuì; si sistemò quindi nel punto indicato e attese il conteggio di Joel.
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Il pretore Trisk’Àlish, chierico di Tyran, era in una radura poco lontano dalla città di Sanderia. Osservava a braccia conserte l’umano, che stava attendendo, mentre questi scendeva da cavallo. Il Pretore indossava la sua armatura a scaglie di metallo rosso da sacerdote guerriero di Tyran, con inciso sul pettorale il simbolo sacro del dio, che faceva risaltare la sua pelle a scaglie verdi con venature gialle; alla cintura era appeso un mazzafrusto pesante a due mani. Al suo fianco c’erano il suo secondo, il centurione Dork’Atash, un rettiloide dalla pelle a scaglie verde scuro, muscoloso e con indosso un’armatura a piastre e uno spadone a due mani sistemato dietro la schiena, e l’incantatrice Ilik’Shacksi, una rettiloide dalla pelle a scaglie marroni che indossava una tunica verde bordata di rosso. Trisk’Àlish era visibilmente provato dal viaggio: dieci giorni a marce forzate dalla Cittadella con il carico d’oro, perché alla fine era stato deciso di non utilizzare il Nodo vicino a Sanderia, ma di mantenerlo attivo per un’eventuale fuga strategica. Riportò la sua attenzione sull’umano che si stava presentando come l’inviato del
nobile Lolianis di Erastad, l’elfo che possedeva l’artefatto che interessava al console Albios. Doveva avere una trentina d’anni e indossava una corazza di piastre senza insegne. La cosa parve strana al chierico, così lanciò un segnale al suo secondo affinché tenesse gli occhi aperti in previsione di un pericolo. «Il mio nobile signore desidera che vi guidi nel luogo che ha preparato per accogliervi» disse l’umano, che sembrava lievemente nervoso. «Per non allarmare la popolazione, dobbiamo seguire un tragitto prestabilito che non ammette deviazioni. Il nobile Lolianis si scusa se non potrete godere delle bellezze della nostra città» «Nessun problema» gli rispose Trisk’Àlish nella lingua degli umani. «Siamo qui solo per l’oggetto che il tuo padrone vuole vendere. Guidaci pure secondo quanto ti è stato comandato.» L’uomo annuì, fece un profondo inchino verso di lui e montò nuovamente in sella. Trisk’Àlish si girò verso Ilik’Shacksi e le disse: «Rinnova l’incantesimo di Leggerezza sulla cassa: meglio evitare che termini l’effetto durante l’incontro, altrimenti potremmo rischiare di dover lasciare tutto quel denaro ai nostri nemici.» L’incantatrice annuì e si diresse verso i soldati che trasportavano la cassa. Quando l’incantesimo fu completato, il chierico montò in sella e diede l’ordine di avanzare.
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Noa gridò con forza tutta la sua frustrazione. Avevano ispezionato ogni centimetro di quella maledetta stanza, ma non c’era niente di niente. Le pareti erano grigie e spoglie, senza mobili o quadri che potessero eventualmente nascondere qualcosa. «Calmati!» Le disse Joel prendendole le mani. «Se questa stanza è stata sigillata
in quel modo così particolare, non può non esserci niente...» «Cosa te lo fa pensare?», sbottò lei, interrompendolo. L’uomo le si avvicinò ancora di più e le appoggiò la fronte sulla sua, quindi le sussurrò: «Quello che cerchiamo è di sicuro qui dentro, dobbiamo solo trovare la giusta chiave che ci mostri la via.» Notando che cominciava a calmarsi, aggiunse con un sorriso: «Ti fidi di me?» Noa fece un profondo respiro, imbarazzata da quel contatto così ravvicinato. Sentiva il cuore batterle forte e un desiderio, che finora aveva tenuto prigioniero nelle profondità della sua mente, cominciava ad affiorare. «Io...» iniziò a dire, ma uno strano scintillio alla coda dell’occhio attirò l’attenzione di Joel, e anche la sua. Sul muro accanto a loro adesso c’era una grande porta in bronzo, alta circa tre metri, con varie figure in rilievo sui due battenti. «Cos’è questa?» Chiese Joel ad alta voce, più a se stesso che a Noa. «Non c’era fino a un attimo fa!» «Avevi ragione» disse Noa. «L’abbiamo trovata!» L’uomo si avvicinò alla porta e provò a spingerla, ma non si mosse. Ne esaminò la superficie, ma non trovò alcun segno di una serratura. Allora provò a colpirla con pugni e calci, ma ancora non ottenne alcun effetto. «Non è possibile che non ci sia modo di aprirla!» Sbottò visibilmente alterato. «Non appare una porta dal nulla senza che racchiuda qualcosa di prezioso! Forse...» Noa, che era andata più indietro a osservare nell’insieme la grande porta, notò qualcosa che la fece rabbrividire e richiamò subito il compagno: «Joel, fermati! Vieni qui e guarda meglio le figure sulla porta.» L’uomo si girò e, cercando di camminare tranquillamente per nascondere il
dolore che si era fatto colpendo la porta, si portò al suo fianco. «Cosa c’è da vede...» iniziò a dire, ma si fermò quando anche lui comprese cosa fosse rappresentato sui due battenti. La metà inferiore della porta era piena di figure abbozzate di uomini e donne che sembravano scontrarsi in una feroce battaglia. La metà superiore, invece, comprendeva due figure molto grandi che si guardavano: a sinistra una donna, che impugnava una bacchetta, e a destra un uomo, che teneva una maschera come uno scudo. «L’uomo a destra è Gannum, mentre la donna a sinistra è la Regina Corvo» mormorò Noa visibilmente scossa. «E la scena raffigurata sotto rappresenta l’eterna lotta tra la Maschera d’Ombra e i Corvi Scarlatti» sussurrò lui con una sorta di meraviglia nella voce. Si avvicinò di qualche o alla porta, con lo sguardo fisso sull’uomo che teneva in mano la maschera a due facce. «Questo è Gannum» disse quasi in estasi, «colui che ha creato la Maschera d’Ombra, il fondatore della nostra gilda. Lui ha stabilito la Direttiva Primaria... e forse il suo segreto sta proprio dietro questa porta...» Si spostò dall’altra parte e fissò la donna con la bacchetta. «Questa invece è la Regina Corvo» disse con un tono glaciale, «colei che ha fondato gli infidi e spietati Corvi Scarlatti, i nostri eterni nemici.» Si spostò in mezzo alla porta, con le mani alzate. «Da una parte la Maschera d’Ombra, coloro che scivolano nell’oscurità per appropriarsi dei beni altrui, dall’altra i Corvi Scarlatti, che si nascondono nell’oscurità per rubare senza ritegno le vite degli altri...» Joel fu colto improvvisamente da un triste pensiero e mormorò: «Così come hanno fatto con Clelia...» Tacque qualche istante, poi riprese: «Li odio profondamente quei maledetti senza onore... Non so perché, ma li odiavo già da prima che la uccidessero...» Colpito dallo strano silenzio di Noa, Joel si girò e le chiese:
«Perché non dici nulla? Non ti sarai bloccata per la vista dei Corvi?» La mezzelfa sembrava quasi in stato catatonico, con lo sguardo fisso sulla porta di bronzo, immobile. Joel, preoccupato, iniziò ad avvicinarsi a lei, quando la porta da cui erano entrati si spalancò di colpo e un elfo armato di un pugnale si precipitò nella stanza. «Detesto trovare intrusi non graditi nel mio territorio» dichiarò infuriato. Joel riconobbe l’elfo che avevano visto alla porta di ingresso del teatro: aveva capelli corti neri, corpo longilineo e uno strano luccichio negli occhi scuri. «Scusate per l’intrusione» disse simulando un tono mite. «Pensavamo di trovare gli attori della Compagnia dei Garofani blu, ma nel cercare il loro camerino ci siamo persi...» «Odio chi si invita alle feste senza essere il benvenuto» replicò l’elfo con aria minacciosa. «Avete fatto il vostro ultimo errore.» In quel momento Noa si riprese e diede man forte alla recita di Joel, intervenendo con voce acuta: «Scusate, ma questo posto mi ha molto turbata. Non sono abituata a queste cose. Il mio compagno pensava di divertirsi, spaventandomi in questa stanza buia, ma la mia reazione ha invece spaventato lui.» «Non mi interessa perché siete qui» sbottò l’elfo sempre più infuriato. «I miei ospiti stanno per arrivare... E voi siete di troppo!» «Sono perfettamente d’accordo» convenne Joel, simulando un certo imbarazzo. «Anche se non so di preciso dove siamo, direi che per noi è proprio l’ora di andare via.» L’elfo rise. «Troppo tardi. Come è stato per coloro che, una volta, erano padroni qui dentro, anche per voi è giunta l’ora di sparire. Le Maschere sono svanite per mano dei loro nemici di sempre, voi invece lo sarete per mano mia!» «Cosa stai dicendo?» Domandò con impeto Joel, dimenticando la simulazione e assumendo un tono più minaccioso.
Improvvisamente l’elfo scomparve e, subito dopo, udirono la sua voce dietro di loro: «Addio!» Joel si voltò di scatto, ma, prima che potesse rendersene conto, venne colpito in pieno volto da un violentissimo pugno e cadde indietro di qualche metro, finendo a terra, stordito. Noa cercò di approfittare del fatto che l’elfo le volgeva le spalle, e sfoderò la lama celata del bracciale, puntando a recidergli la gola. Quello però si mosse rapidamente di lato, schivando il suo assalto, e la colpì con i pugni al petto, scaraventandola contro la porta di bronzo, che risuonò con un cupo suono metallico. La mezzelfa ansimava, faticando a riprendere il respiro, mentre l’elfo le si avvicinava lentamente. Quando le fu addosso, la schiacciò violentemente con il proprio corpo contro la porta metallica, poi le si avvicinò con il viso al collo e si mise ad annusarla. «Hai un buon profumo, mezzelfa: mi piace» sussurrò in tono lascivo; subito dopo tirò fuori la lingua e si mise a leccarle il collo, emettendo dei mugolii alternati a una specie di fusa. «Hai il mio stesso sapore, quello dolce del sangue delle tue vittime... Quello di un’assassina!» Noa gridò. Le sue urla riscossero Joel, che sollevò faticosamente la testa, ignorando la pozza sotto di lui, formata dal sangue che gli usciva dal naso. Ciò che vide lo lasciò esterrefatto: l’elfo aveva affondato il pugnale nel ventre di Noa. La mezzelfa provò a reagire, cercando di colpire nuovamente l’elfo alla gola con la lama celata, ma lui riuscì senza problemi a bloccarle il polso con la mano sinistra, mentre con l’altra riprese il pugnale, lo tirò fuori dal ventre di lei e la colpì di nuovo. Noa gridò ancora, poi iniziò a perdere conoscenza e si accasciò, aggrappandosi alle vesti dell’aggressore e macchiandole di sangue. L’elfo la lasciò cadere a terra con fastidio, mentre osservava la pozza di sangue che si faceva sempre più grande sotto al corpo della mezzelfa. «Cagna maledetta!» Sbottò lui con rabbia. «Adesso dovrò cambiarmi: sarebbe disdicevole ricevere i miei ospiti in queste condizioni.»
Joel era sconvolto. Il corpo esanime di Noa era sporco di sangue davanti a lui, con il pugnale conficcato nel ventre: per un attimo, a quella vista si sovrappose il ricordo del corpo martoriato di Clelia. L’uomo gridò di rabbia e frustrazione contro l’elfo. «Disperati pure finché puoi, umano» gli disse l’elfo, mentre usciva dalla stanza. «Quando i miei ospiti se ne saranno andati, tornerò per divorarvi.»
~ 23 ~
Acquisizione complicata
D ario aveva fatto presto a scegliere i dieci uomini da portare con sé, al cospetto del nobile elfo Lolianis di Erastad, nella sala centrale del teatro: il tenente Inza, il sergente Orson, il caporale Fred, gli incantatori Lara, Liriel e Nalatien, il paladino Duncan, il chierico Keldon, il ranger Firion e la druida Morgase. Assieme al resto dei soldati, nel grande atrio dell’ala est del teatro, lasciava il capitano Aiace, con l’ordine di essere pronto a intervenire. Mentre attendevano nel grande atrio che tutto fosse pronto, il tenente Inza raccolse intorno a sé i compagni e li aggiornò confidenzialmente su un fatto. «Fate molta attenzione a proteggere Lara» disse loro a bassa voce, «ma che non sia una cosa troppo evidente: non dobbiamo assolutamente attirare l’attenzione su di lei.» «Perché?» Chiese semplicemente Morgase. Inza guardò intensamente la druida e gli altri, quindi rispose: «Lei e la sua gemella Mara hanno un dono molto particolare: non importa quale sia la distanza tra loro, ma sono sempre una nella mente dell’altra.» Tutti si voltarono verso Lara meravigliati, facendola arrossire. «Perché questo sotterfugio?» Chiese Liriel, leggermente interessata. «Purtroppo non ci è stato detto cosa sia realmente ciò che Lolianis vuole venderci, e c’è chi teme possa essere una trappola. La gran sacerdotessa Nalia e l’incantatrice Aselia sono con Mara e si terranno in contatto con noi per confermare l’autenticità dell’artefatto.» «Quindi Nalia sta vedendo anche ora quello che succede?» Chiese Keldon lievemente intimorito.
«Non proprio» rispose timidamente Lara. «Mia sorella vede e sente ciò che vedo e sento io, e lo riferisce loro. La gran sacerdotessa Nalia e la maestra Aselia sono le massime esperte riguardo gli artefatti antichi e ci diranno senz’ombra di dubbio se quello di Lolianis sia autentico o se invece sia una truffa.» L’inviato del nobile elfo tornò nell’atrio e fece loro segno che potevano entrare. Orson e Duncan presero la cassa contenente il denaro richiesto e si incamminarono verso il portone che conduceva al salone del teatro, protetti dai compagni. Il generale Dario li precedette. Oltreata la grande porta, la vista del teatro lasciò tutti senza fiato. La sala non era molto grande, ma era alta più di dieci metri, con il soffitto blu scuro in cui erano inserite centinaia di piccole pietre luminose che lo facevano sembrare un cielo stellato. Il palco sopraelevato di un paio di metri era chiuso da una pesante tenda rossa, mentre al centro della platea erano state tolte le sedie e allestito un tavolo, su cui era appoggiato qualcosa coperto da un drappo dorato. Un elfo dai capelli corti neri e il corpo longilineo era in piedi lì accanto. Il generale Dario e i suoi compagni avevano cominciato ad avvicinarsi all’elfo, quando la grande porta sulla parete opposta si aprì ed entrò un gruppo composto da dieci rettiloidi. Quello in testa doveva essere un chierico di Tyran; accanto a lui c’erano un’incantatrice e un soldato pesantemente armato; gli altri erano soldati semplici che proteggevano la cassa da loro trasportata. Subito l’elfo disse con voce alta e squillante: «Avvicinatevi pure senza timore. Sono Lolianis di Erastad: vi ho invitati qui per vendere l’artefatto in mio possesso al migliore offerente.» Dario e Inza si guardarono sconcertati, poi fissarono Lara: nessuno aveva parlato loro di un’asta! Dopo qualche momento, Lara disse sottovoce: «Nalia dice di continuare sulla base di come evolve la situazione. E aggiunge che si fida del vostro giudizio.» Il Generale annuì e fece cenno ai compagni di continuare ad avanzare verso l’elfo, che era già stato raggiunto dal chierico rettiloide e dal suo seguito.
Non appena furono tutti intorno al tavolo, il chierico rettiloide disse con assoluta calma al Generale umano: «Nonostante il nostro attuale stato di guerra, credo che sarebbe opportuno fare le dovute presentazioni. Sono il pretore Trisk’Àlish, sacerdote guerriero di Tyran, al comando di questa missione.» L’altro annuì e replicò: «Sono il generale Dario di Narend, dell’Esercito di Vàlor.» Negli occhi con le pupille a fessura del rettiloide si accese una luce di curiosità e di ammirazione. «Così voi siete una delle due “manguste” di Golana! Devo congratularmi per l’efficacia della vostra tattica, almeno all’inizio.» Il Generale rimase interdetto nel sentire il soprannome che le schiere di Tyran avevano dato a lui e a Rhao, per la rapida conquista di Golana avvenuta tre anni prima, all’inizio della guerra. Subito, però, si ricordò anche di quanto successe l’anno successivo, a causa della tattica temporeggiatrice a cui furono costretti per l’indecisione dell’Imperatore, quindi ribatté: «Voi invece siete la “roccia” di Penthana. È grazie a voi se la vostra capitale non è caduta, due anni fa.» Il chierico chinò la testa in segno di saluto, con una specie di sorriso ironico. Il nobile Lolianis fece due colpi di tosse per richiamare l’attenzione di tutti. «Non vi ho convocati per sostenere una battaglia verbale» disse con tono apparentemente calmo. «Siete qui per acquistare questo artefatto che noi elfi abbiamo fortunosamente rinvenuto in una delle rovine nel cuore della Grande Foresta.» Trisk’Àlish intervenne: «Avete ragione, siamo tutti qui per voi, anche se in realtà le informazioni sulla vera natura dell’artefatto che ci state offrendo non sono state del tutto chiare.» Anche Dario decise di intervenire:
«Inoltre, nobile Lolianis, non ci è palese il motivo per cui intendete venderci questo “potentissimo” artefatto elfico. Quale vantaggio ne avete? Non posso credere si tratti solamente di profitto.» L’elfo sorrise a entrambi e rispose: «Avete ragione, ma la scarsa chiarezza è stata necessaria per evitare che qualcuno, intercettando i nostri messaggeri, potesse decidere di intervenire senza essere invitato.» Nessuno sembrò troppo convinto delle sue parole, ma Lolianis continuò il discorso senza curarsene: «Adesso dovete accettare la partecipazione all’asta offrendo cinquantamila pezzi d’oro ciascuno, poco importa che siano corone imperiali o piastre egemoni. Poi toglierò il drappo sull’artefatto, e avrà inizio l’asta vera e propria.» Subito Dario obiettò: «Non è giusto: la nostra moneta vale più di quella dell’Egemonia!» Con un enorme sorriso, Trisk’Àlish ribatté: «Noi siamo d’accordo con il nobile elfo e vi offriamo i nostri cinquantamila pezzi d’oro.» Fece un cenno ai soldati che aprirono la cassa e si misero a contare il denaro richiesto. Rassegnato, Dario fece cenno a Orson e Duncan di preparare le cinquantamila corone d’oro. Dopo qualche momento di esitazione, Keldon si avvicinò ai due per aiutarli. Trisk’Àlish lo osservò incuriosito: era tanto che non vedeva da vicino un chierico di Vàlor e rimase turbato nel sentire in lui la malevolenza di Vàlor nei suoi confronti. Sentendosi osservato, Keldon sollevò lo sguardo dalla cassa e incrociò lo sguardo del rettiloide, rabbrividendo nel percepire in lui la malevolenza di Tyran. «Non farti intimorire e continua a contare» gli sussurrò Duncan, preoccupato per l’amico. «Il loro gioco è proprio incutere timore nell’avversario, così che non possa agire lucidamente.» Keldon annuì e tornò a concentrarsi su quello che stava facendo. Le monete
erano state raccolte in sacchetti da mille pezzi e fu rapido estrarne cinquanta dalla cassa, che poi Duncan e Orson deposero sul tavolo davanti all’elfo. Lo stesso fecero i rettiloidi. «Molto bene» esclamò Lolianis con soddisfazione. «Con questo atto avete accettato i termini del patto. Adesso vi mostrerò il mio artefatto!» Con esagerata enfasi, afferrò le estremità del drappo dorato che copriva l’oggetto a cui tutti erano interessati, e lo scoprì con un ampio gesto. L’artefatto era un piccolo scrigno di ossidiana di forma cubica, di venti centimetri di lato. Lungo le facce laterali erano scolpiti strani simboli sconosciuti, sovrapposti e intrecciati tra loro, che risplendevano di una luce argentata. Sul coperchio chiuso erano posizionati tre diamanti, ai vertici di un triangolo dorato in rilievo sulla superficie; all’interno di ogni diamante era disegnato uno dei simboli della Triade: in basso a sinistra il serpente con le fauci aperte, in basso a destra il sole con la luna all’interno, in alto al centro il cerchio con una spada lungo il diametro. Tutti percepirono l’aura di potere che emanava quello scrigno. Gli incantatori sentirono più chiaramente l’enorme potenza eterica in esso racchiusa, mentre i due chierici percepirono anche una forte essenza malevola. Lolianis, spaziando con lo sguardo intorno a lui, esordì: «La potenza racchiusa nello scrigno è enorme. Nulla di più potente è mai stato creato in questo mondo. Qui vi sono racchiusi tutto l’ingegno, tutte le risorse e tutto il potere degli antichi elfi. Chi di voi riuscirà ad acquisire lo scrigno e a dominarne il potere, avrà la vittoria assicurata! E per poterla fare propria, la base d’asta è di trecentomila pezzi d’oro!» «Trecentodiecimila!» Gridò subito Dario, preso dalla concitazione del momento. «Trecentocinquantamila!» Rilanciò con calma Trisk’Àlish, con lo sguardo fisso sullo scrigno nero. Nel momento in cui il Generale faceva la sua nuova offerta, Lara afferrò per un braccio il tenente Inza, pallida in volto. «Che succede?» Le chiese subito la paladina, preoccupata.
«Nalia sa cos’è quello scrigno» le rispose con un certo affanno. «È noto come lo Scrigno dei Mali Maggiori! Non deve assolutamente finire nelle mani dei seguaci di Tyran.» «Cosa dobbiamo fare?» Chiese Inza allarmata da quel nome minaccioso, rivolgendosi a Nalia tramite Lara, mentre il generale continuava la battaglia di rilanci e battibecchi contro il chierico rettiloide. «Cercate di acquisirlo a tutti i costi! Una volta che lo avrete con voi, vi dirò cosa fare.» La paladina si avvicinò velocemente a Dario e lo aggiornò sottovoce su quanto aveva detto la Gran Sacerdotessa. Notando il cambio di espressione sul volto del Generale, Trisk’Àlish lo punzecchiò dicendo: «Che succede, “mangusta”? Siete a corto di denaro?» Dario assunse subito un’espressione neutra e ribatté: «Tutt’altro! Il mio secondo mi avvisava semplicemente che il tè è pronto. Ne volete un po’ anche voi?» «Vi prego» disse l’elfo infastidito dalle ripicche verbali tra i due contendenti. «Non distraetevi e continuate i vostri sforzi per acquisire questo splendido artefatto!» Dario e Trisk’Àlish iniziarono a rilanciare per una decina di minuti, fino a che il rettiloide superò di dieci pezzi l’offerta di cinquecentomila pezzi d’oro del Generale. L’elfo, vedendo che l’umano sembrava interdetto, iniziò a contare il tempo che avrebbe sancito la fine dell’asta e la conseguente vittoria dei seguaci di Tyran. Dario guardò i compagni con una punta di disperazione, conscio di non avere nessun’altra possibilità di rilanciare. Quasi d’istinto, Inza, Duncan e Keldon si misero a cercare se, nelle tasche, avessero qualche moneta per poter fare un’ultima offerta. Quando Lolianis dichiarò la conclusione dell’asta e sancì la vittoria del chierico rettiloide, Lara gridò disperata:
«No! Non devono prendere lo scrigno!» Tutti i seguaci di Vàlor riconobbero l’inflessione e il tono della voce di Nalia. D’istinto Firion imbracciò rapidamente l’arco, incoccò una freccia puntando contro il chierico rettiloide e gli intimò: «Non toccare quello scrigno!» Contemporaneamente anche gli altri sfoderarono le armi, mentre gli incantatori si affiancarono preparandosi ad agire. Dario era rimasto immobile nella sua posizione con gli occhi fissi sul comandante avversario per studiarne le mosse. «Dunque è così che agisce Vàlor di fronte alla sconfitta» commentò Trisk’Àlish in tono ironico schioccando le dita. «Tradisce senza ritegno la parola data.» Dario e gli altri rimasero interdetti, mentre i soldati rettiloidi obbedivano al comando del Pretore e, impugnate le armi, si schieravano in prossimità del tavolo su cui era posto lo scrigno. Allora, il generale chiese al chierico di Tyran con voce esitante: «Cosa vorresti dire?» Non c’era alcun patto tra noi...» «Certo che c’era un patto» intervenne il nobile Lolianis con enfasi. «Avete anche pagato per sancirlo prima di cominciare le trattative.» Inza avanzò brandendo la spada e sbottò rivolta all’elfo: «Tutto questo non ha senso! Non è valido un patto che fai sottoscrivere all’insaputa!» «Sempre a cavillare voi paladini di Vàlor» le ribatté Trisk’Àlish, ancora deciso a non voler estrarre la sua arma. «Avete perso: fatevene una ragione» e iniziò ad avvicinarsi al tavolo per prendere lo scrigno. Duncan e Orson si affiancarono a Inza, poi insieme avanzarono verso lo scrigno. Keldon e Morgase si posizionarono davanti a Lara per proteggerla. «Non c’è nulla che possiate fare» intervenne di nuovo Lolianis, sempre più
enfatico. «La partita è chiusa: il vincitore è Trisk’Àlish di Tyran! Lo scrigno appartiene a lui!» «Nei tuoi sogni!» Sbottò Firion, preparandosi a scagliare una freccia contro il rettiloide non appena avesse toccato lo scrigno. Uno schianto fece sobbalzare tutti: la porta laterale a destra della base del palco venne aperta con violenza e Joel e Noa entrarono nella sala del teatro, entrambi sporchi di sangue. La mezzelfa sembrava molto provata: era madida di sudore e stava sanguinando dal ventre; si aggrappava al braccio di Joel con tutte le forze, colma di rabbia e ostinazione. Neanche l’uomo era messo molto bene: il suo volto era tumefatto e uno dei suoi occhi chiari era gonfio e chiuso. Tutti rimasero immobili, sorpresi da quell’entrata inattesa, mentre Keldon, che si era subito reso conto delle gravi condizioni di Noa, le corse incontro, iniziando a intonare la preghiera di guarigione più potente che conosceva. Quando Keldon era ancora a qualche o da lei, Noa si staccò da Joel rivelando un pugnale nella mano destra, tenuto per la lama. La mezzelfa, barcollando, guardò Lolianis con occhi carichi d’ira. Il chierico le si fermò davanti e incrociò il suo sguardo, vedendo qualcosa che gli gelò il sangue: l’occhio sinistro di Noa risplendeva di una brillante luce azzurra. Con freddezza e rapidità, la mezzelfa lanciò il pugnale verso Keldon. La piccola arma sfiorò la tempia del chierico, provocandogli un piccolo taglio, poi proseguì la corsa fino a che non si fermò sul bersaglio con un rumore sordo. Keldon vide Noa accasciarsi a terra, sorretta all’ultimo momento da Joel, poi si voltò: il pugnale si era conficcato nel mezzo della fronte del nobile elfo. Tutti erano rimasti impietriti per l’accaduto. Lolianis di Erastad cadde a terra in una pozza di sangue, esanime.
~ 24 ~
La furia dei traditi
K eldon era in ginocchio e stava intonando la preghiera di guarigione per Noa, sdraiata in terra davanti a lui, pallida e sporca di sangue. Anche Joel era inginocchiato accanto a lei e ripeteva sussurrando: «Noa, non morire, ti prego!» A una ventina di metri di distanza, tutti i presenti erano sconvolti per la morte improvvisa del nobile Lolianis per mano proprio della nuova arrivata. Trisk’Àlish stava accusando Dario e i suoi compagni di essere stato d’accordo con l’assassina, mentre il Generale insisteva con veemenza sulla loro estraneità al fatto. I rispettivi compagni erano in piena tensione, con le armi in pugno, pronti a un eventuale scontro. Al termine della preghiera di guarigione, l’emorragia si arrestò, ma Keldon sembrava confuso. «Che succede?» Gli chiese Joel, preoccupato. «Non capisco. Le ferite si sono chiuse, ma non iniziano a guarire. Sembra che Vàlor non voglia rispondere alla mia preghiera...» Dopo un attimo di esitazione, rabbrividì e si girò a guardare il chierico rettiloide. «O forse non può...» La Maschera seguì il suo sguardo e riconobbe nel rettiloide con l’armatura rossa un chierico di Tyran. «Credi che sia possibile?» «Non lo so, non ho mai sentito parlare della possibilità di bloccare il potere di una preghiera, ma forse in questo tempo le cose sono diverse.» Una luce di rabbia comparve nell’occhio sano di Joel. «Tu resta qui con lei, ci
penso io a sbloccare il potere del tuo dio!» Si alzò, impugnò le armi e si mosse con o deciso verso il chierico rettiloide. Quando si accorse di Joel che si avvicinava minaccioso, Duncan gli si mise davanti, bloccandogli la strada. «Non ce l’ho con te, paladino» sbottò la Maschera d’Ombra, colmo di rabbia. «Fammi are!» «Non peggiorare ulteriormente la situazione, Joel» gli intimò con severità, mentre Morgase si avvicinava a loro. «Avete già fatto del vostro peggio, uccidendo il nobile elfo che ci aveva convocato per un’importante acquisizione...» «Nobile elfo?» Sputò Joel furioso. «Chi credi che abbia ridotto Noa in quelle condizioni? Pensi che sia caduta dalle scale? Secondo te le ferite al volto me le sono fatte sbattendo contro una porta? Quell’elfo ha avuto ciò che si meritava.» Duncan e Morgase rimasero interdetti. Era stata una sorpresa vedere le due Maschere, che li avevano abbandonati durante l’attacco del Terramedusoide, entrare all’improvviso nel teatro, soprattutto in quelle condizioni disperate. Il paladino avrebbe voluto chiedere a Joel perché erano lì e come avevano fatto ad arrivarci, avrebbe voluto domandare se fosse a causa loro che si erano ritrovati nel ato. Invece abbassò l’arma e fece cenno a Morgase di non intervenire. Dopo aver assistito a quella scena, Trisk’Àlish disse ad alta voce: «Ecco il modo di agire dei seguaci di Vàlor! Tante belle parole sull’amore e sulla libertà, ma alla prova dei fatti siete subito pronti ad attaccare chi non la pensa come voi. Oggi avete perso il confronto per acquisire l’artefatto elfico e subito vi siete dati da fare per impedire che potessi prenderlo e portarlo da chi saprebbe farne un uso decisamente migliore rispetto a voi. Addirittura avete ucciso quel povero elfo, colpevole solo di aver confermato la mia vittoria...» «Io non c’entro nulla con Vàlor!» Gridò Joel e avanzò verso il rettiloide impugnando le spade corte con la lama rivolta verso il basso. «Questo dimostra ancora di più che ho ragione» ribatté Trisk’Àlish, sempre deciso a non prendere in mano la sua arma. «Vàlor riempie le vostre teste di improbabili concetti di onore e di lealtà che vi fanno sentire superiori,
combattendo i nemici secondo le vostre regole. Ma, quando si rende necessario agire veramente, ingaggiate persone estranee per compiere quelle azioni per cui voi non avete il coraggio... Ecco, se devo dare un volto all’ipocrisia, è proprio il vostro!» «Tu vaneggi!» Gli gridò contro Inza. «Davvero?» Replicò lui con un sorriso ironico. «Eppure non siamo stati noi i primi a mettere mano alle armi, oggi. Non siamo stati noi di Tyran a uccidere quel povero elfo inerme. Siete stati voi, o meglio qualcuno che a quanto pare conoscete. Voi ci avete minacciato con le armi, voi vi siete avvantaggiati con la morte dell’elfo, voi avete deciso che non posso prendere ciò che ho regolarmente vinto.» Appoggiò la mano sull’impugnatura del suo mazzafrusto pesante e aggiunse: «Permettetemi di ricordarvi un fatto: anche la guerra, non siamo stati noi a cominciarla...» Tutti i seguaci di Vàlor rimasero colpiti dalle sue parole, ma Dario si schiarì la voce ed esclamò: «Belle parole, chierico, ma, come sempre, a voi piace rigirare i fatti e i discorsi a vostro esclusivo vantaggio...» Il Generale venne interrotto da un improvviso susseguirsi di forti suoni gutturali che assomigliavano a una grottesca risata. Tutti si guardarono intorno, poi compresero che provenivano dal punto dove il corpo di Lolianis giaceva a terra. All’improvviso l’elfo si alzò in piedi come se fosse stato una marionetta, con il corpo rigido e la parte superiore che si sollevava da terra senza alcun normale appoggio delle braccia, rimaste adagiate lungo i fianchi. Il viso dell’elfo era sporco di sangue e, sotto il manico del pugnale che spuntava dalla fronte, aveva gli occhi bianchi e completamente spalancati, mentre la bocca era distorta in un sorriso così accentuato da essere impossibile. Tutti rabbrividirono. «Non credevo che sarei stato smascherato così presto» disse l’elfo con una voce profonda e gutturale. Poi voltò la testa verso Noa, ancora sostenuta in piedi da Keldon, e proseguì: «Sapevo di essermi esposto troppo quando ho indugiato nell’annusare l’aroma di quella spietata e infallibile assassina, ma non pensavo che sarebbe stata in grado di reagire così, dopo che l’avevo ridotta in fin di vita. Mi sorprende sempre la tenacia di alcuni di voi mortali.» Quelle parole, in particolare le ultime due, furono come una doccia fredda per
tutti i presenti. Dario si fece coraggio e chiese, cercando di mantenere la voce alta e ferma: «Tu chi sei davvero? Cosa vuoi da noi?» La testa dell’elfo si girò con un angolo di quasi centottanta gradi e gli rispose: «Chi sono ormai non ha più importanza per voi... Anche perché a cosa servite voi mortali se non a essere divorati?» Firion fece un o avanti e, sempre con l’arco in tensione, disse: «Cosa intendi con “divorati”?» «Esattamente quello che ho detto, figlio di una dea decaduta» rise Lolianis. «Credo di aver imparato bene a usare il linguaggio degli umani...» Keldon e Trisk’Àlish ebbero un lampo di intuizione e insieme dissero: «Tu sei un demone!» L’essere che era stato Lolianis rise fragorosamente. Tutti rabbrividirono di nuovo e assunsero una posizione difensiva. «Benvenuti al mio banchetto, di cui siete il piatto forte. Ammetto che mi aspettavo di attirare qui qualcuno di più importante, ma mi posso accontentare... Per adesso.» Trisk’Àlish impugnò finalmente il suo mazzafrusto e disse al demone, con tono minaccioso: «È solo questo che volevi da noi? Un cibo un po’ più prezioso dei soldati che voi demoni siete soliti divorare?» «Certo che no, chierico del dio tiranno!» Gli rispose voltando la testa verso di lui, ancora con un angolo impossibile. «Confesso che è stato molto difficile riuscire a indurre alcuni dei vostri evocatori del sangue a commettere l’errore decisivo nel formulare il Vincolo di Evocazione, ma adesso siamo in diversi a non essere più sottomessi e a non dover più fare ritorno negli abissi grazie ai corpi che abbiamo invaso. Voi ci avete evocati allettandoci con gustose
promesse, invece ci avete usati per la vostra guerra, lasciando che i vostri nemici ci bandissero o ci uccidessero. Non avete idea di cosa voglia dire per noi essere banditi e ricacciati indietro: la morte è di gran lunga preferibile! Inoltre, ci avete torturati e mutilati per i vostri oscuri esperimenti, ci avete assassinati per i vostri maledetti Nodi di teletrasporto... Non riesci proprio a immaginare cosa possiamo volere?» Keldon, che ancora aiutava Noa a stare in piedi, disse: «Voi volete vendetta!» «Esatto, chierico del dio debole, ma non solo! Non ci basta la vendetta nei confronti dei nostri aguzzini, asserviti al dio tiranno, non è sufficiente divorarli per appagare la nostra furia. Noi vogliamo di più. Noi vogliamo tutto: noi vogliamo Amnia!» «Noi non ve lo permetteremo!» Gridarono con impeto e all’unisono Duncan, Inza, Morgase, Firion, il centurione Dork’Atash e altri due soldati rettiloidi. «Noi non abbiamo chiesto il vostro permesso» concluse il demone. Il corpo dell’elfo cominciò a deformarsi, aumentando di dimensioni e assumendo una carnagione rosso fuoco, mentre un suono grave e forte cominciò a rimbombare nell’aria, facendo tremare le mura dell’edificio. «Dobbiamo uscire da qui!» Gridò Dario, cercando di superare il frastuono provocato dal demone. «Scappate! Tutti fuori!» Approfittando dell’occasione imprevista, Trisk’Àlish completò gli ultimi due i che lo separavano dal tavolo e afferrò lo scrigno. Subito lo ò all’incantatrice Ilik’Shacksi, che era corsa al suo fianco, e le ordinò: «Teletrasportati subito al Nodo e aspettami là.» La femmina rettiloide, che aveva impiegato il tempo del discorso del demone per prepararsi a quell’evenienza, annuì e recitò subito le ultime parole della formula dell’incantesimo, eseguendo le ultime movenze necessarie, poi prese il suo stiletto e si incise profondamente il palmo della mano tre volte, mentre Trisk’Àlish guadagnava l’uscita insieme ai suoi soldati, lasciando il centurione Dork’Atash a proteggerla.
Tutti erano presi dal panico, in fuga verso la porta da cui erano entrati nel teatro che stava iniziando a crollare e non notarono cosa fosse successo, tranne Lara, che aveva mantenuto il suo sguardo sullo scrigno. Quando vide quello che il chierico rettiloide aveva fatto, diede voce al grido di Nalia: «No! Non lasciateglielo portare via!» Ma i secondi che i suoi compagni impiegarono per rendersi conto di chi avesse gridato e di cosa fosse l’oggetto di riferimento furono troppi: un attimo prima che la freccia di Firion raggiungesse l’incantatrice rettiloide, quest’ultima svanì sotto i loro occhi... E con lei lo Scrigno dei Mali Maggiori. «Maledizione!» Imprecarono Dario e Inza. Poi tutti ripeterono l’imprecazione con maggior sgomento, quando videro cosa stava diventando il corpo dell’elfo: un umanoide alto circa quattro metri, dotato di grandi ali simili a quelle di un pipistrello, con la pelle di colore rosso scuro e grandi mani artigliate, con la testa dotata di una bocca enorme piena di denti aguzzi, e di due lunghe corna che partivano dalle tempie e scendevano verso le spalle. Quello era un Bàlor, un signore dei demoni! Lara, dando ancora voce a Nalia, cercò di spingere tutti a muoversi e a scappare. Firion, incoccando un’altra freccia, gridò ai compagni: «Uscite tutti, proteggete gli incantatori! Io vi coprirò le spalle!» Morgase afferrò Nalatien per un braccio e lo trascinò via, mentre Orson, con la sua praticità barbarica, prese in braccio Liriel e la portò fuori; Dario, Duncan e Inza, invece, si affiancarono a Lara. Anche Trisk’Àlish, dopo che Ilik’Shacksi si fu teletrasportata con lo scrigno, iniziò a guadagnare l’uscita del teatro con i suoi soldati, mentre il centurione Dork’Atash rimaneva indietro a proteggere la fuga. Non gli erano piaciute per niente le parole del demone: se quanto aveva detto era vero, la loro vittoria sulle schiere di Vàlor poteva essere in serio pericolo, perché dei demoni liberi su Amnia e desiderosi di vendetta, soprattutto nei loro confronti, erano lo scenario peggiore possibile. Con rammarico dovette ammettere che c’era soltanto una soluzione per non soccombere: allearsi temporaneamente con i seguaci di Vàlor. Allora iniziò a pensare a come comunicare con il generale avversario per proporgli una tregua e un’alleanza temporanea per fronteggiare il nemico comune nemico.
Nel momento in cui gli ultimi componenti dei due gruppi uscirono dalla sala del teatro, il Bàlor completò la trasformazione e un forte boato scosse l’edificio dalle fondamenta, provocando un crollo che bloccò tutte le porte. Purtroppo i due di retroguardia non fecero in tempo a raggiungere l’uscita: Firion e Dork’Atash rimasero bloccati all’interno del teatro con il demone.
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Nalia si sedette esausta su una panca della sua cappella privata. Con lei c’erano il conestabile Asterio, che si accarezzava nervosamente la curata barba bianca, l’incantatrice Aselia, che tormentava il medaglione romboidale con le insegne della Torre Elementale, e la sua allieva Mara. Quest’ultima era inginocchiata al centro della piccola cappella, circondata da un cerchio di dodici candele, uniche fonti di luce nella sala. La Gran Sacerdotessa preferiva non mostrare le sue capacità eteriche, per non turbare i fedeli che non gradivano gli incantatori. Per questo, spinta da un brutto presentimento, si era ritirata con i suoi collaboratori nella cappella privata e aveva lanciato un incantesimo di Legame Mentale con Mara, che le aveva permesso di vedere e sentire direttamente attraverso i sensi della gemella Lara. Inoltre aveva eseguito una preghiera rituale di occultamento, per evitare che la sua presenza venisse notata. «Tutto bene?» Le chiese Aselia preoccupata, avvicinandosi alla Sacerdotessa. Nalia si girò verso di lei e annuì con un cenno del capo. Era madida di sudore e aveva il respiro affannato. «È solo la stanchezza dell’incantesimo. Sono ancora tutti vivi, ma Firion è rimasto bloccato insieme al Bàlor, e temo che non possa sopravvivere, se gli altri non riescono ad aiutarlo.» Aselia tirò un sospiro di sollievo nel sentire che Lara era salva, anche se la situazione la preoccupava. Anche Asterio fu sollevato dalla notizia che erano tutti vivi, soprattutto sua figlia Inza. Nessuno dei due aveva potuto assistere all’evento come aveva fatto Nalia, ma avevano solo ascoltato la cronaca di
Mara: Asterio era un semplice studioso di famiglia nobile e Aselia non conosceva quell’incantesimo avanzato della Scuola del Dominio. «Dunque era tutta una trappola molto elaborata» commentò Asterio incrociando le braccia, mentre Aselia si sedeva accanto a Nalia. «Sì» confermò la sacerdotessa. «Il demone è stato molto chiaro al riguardo. Inoltre ha detto anche alcune cose molto interessanti: Rhao non sarà affatto contento quando gli svelerò il mistero su alcuni dei prodigiosi vantaggi di cui godevano i nostri nemici.» «Quindi si tratta della Scuola del Sangue?» Chiese Aselia allarmata. «Sì, con l’aggiunta del potere demoniaco: un miscuglio micidiale. Quei poveri incantatori di Tyran non hanno idea del guaio in cui si sono cacciati.» «Ora però hanno lo Scrigno dei Mali Maggiori» puntualizzò Asterio. «Con il suo potere potrebbero volgere le sorti della guerra in loro favore.» «Solo se hanno tutte e tre le Chiavi» rivelò Nalia. I due stavano per emettere un sospiro di sollievo, quando incrociarono lo sguardo della Sacerdotessa e notarono nei suoi occhi una luce di terrore. «Temi che le abbiano già, vero?» Domandò Aselia con un filo di voce, dandole confidenzialmente del tu, come sempre quando non erano in pubblico. La sacerdotessa annuì con un cenno della testa. «Altrimenti non mi spiego tutta la fretta di Trisk’Àlish di recuperare lo scrigno. Inoltre, conoscevo il luogo che custodiva una delle Chiavi e ho controllato... Era vuoto.» L’incantatrice e il Conestabile provarono un brivido gelido lungo la schiena. Nalia si alzò di scatto in piedi e si scompigliò nervosamente i capelli. «Odio quando le mie premonizioni si avverano!» Esclamò esasperata. «Non sopporto di non poter fare nulla per contrastarle.» Anche Aselia si alzò in piedi e le appoggiò una mano sulla spalla per consolarla:
«Qualche volta, però, ci sei riuscita» le disse con un tono calmo e fiducioso. «Quando siamo rimaste bloccate a Ronara, nella tua premonizione ci avevi viste entrambe morte nell’assedio.» Nalia si girò verso l’amica e le sorrise. «Aselia ha ragione» disse Asterio concitato, avvicinandosi a loro, «non dobbiamo perdere la speranza! Non possiamo arrenderci ancora prima di combattere...» Mara richiamò la loro attenzione: «Perdonatemi: a Sanderia sta accadendo qualcosa...»
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Liriel stava piangendo disperata. Quando si era accorta che Firion non era con loro, ma che era rimasto intrappolato nel teatro insieme al demone, aveva lanciato una Palla di Fuoco sulle macerie che bloccavano la grande porta. La sua potenza, però, non era stata sufficiente a smuoverle; aveva invece rischiato di ferire qualcuno dei compagni, tanto che Nalatien e Morgase avevano cercato di calmarla, assicurandole che gli altri avrebbero cercato di liberare il aggio e di salvare Firion. Nel frattempo Keldon e Joel si erano appartati in un angolo del grande atrio insieme a Noa. Il chierico aveva assicurato che ora sentiva nuovamente la presenza di Vàlor, e che le sue preghiere curative sarebbero state ascoltate. Prima che potesse iniziare, Joel venne chiamato da Orson per aiutare a sgomberare la porta dalle macerie e liberare Firion. La Maschera non riuscì a trovare una scusa per restare con Noa, allora le baciò la mano e, ricordando Clelia, le sussurrò con un sorriso: «Ti proibisco di abbandonarmi, chiaro?» La mezzelfa rispose con un filo di voce, ma con tenacia:
«Non ci penso proprio a morire in questo luogo, fuori dal nostro tempo!» Joel si alzò e ringraziò Keldon con sincerità, quindi raggiunse Orson e si mise ad aiutare gli altri a spostare le macerie. Una volta soli, Noa afferrò il braccio del chierico e lo implorò con un sussurro: «Ti prego, mantieni il segreto. Ho notato com’è cambiata la tua espressione quando mi hai guardata, prima che lanciassi il pugnale. So che hai visto il mio occhio.» Keldon interruppe la preghiera e le disse piano: «Sì, l’ho visto...» «Ti prego!» Gli replicò con un tono di urgenza che lo sorprese. «Promettimi sul tuo dio che non rivelerai il mio segreto, soprattutto a Joel.» «Ma perché...?» Provò a ribattere l’uomo, ma subito Noa strinse di più la presa sul suo braccio e ripeté con caparbietà: «Ti prego!» Notando la sincerità della sua preoccupazione, nonostante lo stato di precaria salute in cui si trovava, Keldon si arrese e le disse: «D’accordo, manterrò il segreto.» Nel sentire la sua promessa, Noa si rilassò e chiuse gli occhi, cadendo in un sonno ristoratore. Il capitano Aiace rientrò nell’atrio e corse verso Dario, impegnato con gli altri a liberare dalle macerie l’ingresso interno per salvare Firion. «Generale, è sorto un nuovo problema. Tre demoni sono comparsi alle porte della città: stanno devastando tutto, uccidendo chiunque incontrino. La gendarmeria locale sta scortando i cittadini all’interno del Palazzo Ducale, ma non penso che potranno entrarci tutti.» «Dannazione!» Imprecò Dario mentre si fermava ad asciugare il sudore sulla
fronte. «Non c’è davvero fine al peggio...» Il capitano si schiarì la gola, poi aggiunse, con una certa titubanza: «C’è anche un’altra notizia che dovrei darvi...» Dario lo guardò spazientito e subito Aiace riprese: «Il comandante della delegazione rettiloide è qui fuori e chiede di parlare con voi a proposito dell’attacco dei demoni.» Il Generale rimase qualche attimo in silenzio, colto alla sprovvista. Allora chiamò Inza e le riassunse rapidamente la situazione, quindi concluse: «Uscirò con il resto del contingente ad aiutare la gendarmeria locale. Ti affido il comando di questo gruppo: la tua priorità è salvare Firion. Conto su di te!» La Tenente portò il pugno destro sul cuore ed esclamò: «Signorsì!» Dario annuì compiaciuto e seguì il capitano Aiace fuori dal teatro, mentre Inza tornava dagli altri.
~ 25 ~
Il Signore dei demoni
F irion era accucciato dietro un grosso pezzo di colonna. Aveva l’arco pronto per colpire, ma non voleva rischiare di scagliare una freccia alla cieca, dato che non ne aveva una quantità infinita. Quando parte del tetto era crollata bloccando le uscite, il Bàlor si era mosso contro il soldato rettiloide, dando così all’elfo il tempo di raggiungere un riparo e lanciare qualche freccia. In qualche modo, il rettiloide era riuscito a sopravvivere ai colpi di frusta del demone e aveva trovato rifugio dietro alcune macerie del soffitto. Firion aveva paura. Il fatto che il Bàlor, con i suoi quattro metri di altezza, stesse agendo con fin troppa lentezza e scarsa precisione, voleva dire soltanto una cosa: stava giocando con loro. Allora all’elfo fu subito chiara una cosa: prima che il demone smettesse di considerarli un divertimento allettante e li uccidesse con un unico colpo mortale, doveva assolutamente trovare un modo per uscire da lì. Con circospezione, il ranger si sporse dal suo nascondiglio per controllare la situazione. Il Bàlor era in piedi e gli dava le spalle; stringeva in mano una lunga frusta rossa che si divertiva a fare schioccare nell’aria in direzione di un cumulo di macerie. Allora Firion decise di approfittare della situazione: caricò rapidamente l’arco e mirò alla base della nuca, presumibilmente il punto più vulnerabile del corpo del demone. La freccia partì verso il bersaglio a grande velocità, ma il Bàlor si voltò di scatto e la intercettò a mezz’aria con la frusta, distruggendola. Il demone proruppe in una fragorosa risata. «Povero elfo solitario, chissà come sarà delusa la tua dea creatrice nel vedere che ti sei schierato con il debole dio degli umani.» «Cosa stai dicendo?» Sbottò il ranger con un improvviso scatto d’ira, incoccando
contemporaneamente due frecce e mirando agli occhi del demone. «Perché anche tu parli della guerra come se fosse un confronto tra Vàlor e Tyran? E cosa c’entra Ardèsia? La guerra è tra umani e rettiloidi, due popoli che da sempre si sono fronteggiati, incuranti degli effetti che tutto ciò ha anche su di noi...» Mentre parlava, Firion notò che il rettiloide faceva capolino dal suo nascondiglio dietro le macerie e sperò che avesse il buon senso di approfittare della momentanea distrazione del demone. Ma, prima che il soldato potesse fare qualcosa, il Bàlor fece roteare la frusta all’indietro e colpì il cumulo di detriti sbriciolandone una parte, costringendo Dork’Atash a rifugiarsi dietro ciò che rimaneva. «Concordi anche tu, figlio del dio tiranno?» Gli chiese in un sorriso di zanne. «Neanche tu credi che i vostri rispettivi dèi si stiano facendo beffe di voi? Neanche tu dubiti che il vostro sommo Aval’Dyr abbia davvero a cuore il vostro futuro?» Poi si rivolse a Firion: «E tu, figlio della dea decaduta, sei così sicuro che la somma Nalia sia stata completamente sincera con gli umani e i loro alleati elfi? Sei certo che i suoi piani comprendano davvero la salvezza di tutti voi?» Dork’Atash emerse da dietro le macerie e ribatté al demone: «Perfino l’Egemone risponde ad Aval’Dyr, tutto il popolo rettiloide combatte per lui! Per la fede in lui noi viviamo, e per la sua gloria noi moriamo!» Il soldato puntò l’enorme spadone contro il Bàlor e partì in carica, urlando a squarciagola. Nello stesso istante, Firion lasciò partire le due frecce, mirando agli occhi del demone. Il Bàlor, però, agì più rapidamente di quanto avesse fatto finora: con la frusta intercettò a mezz’aria entrambe le frecce, mandandole in mille pezzi, poi sollevò l’enorme gamba destra e colpì Dork’Atash, scagliandolo contro il muro. «Patetici» sghignazzò il demone. «È solo grazie alle barriere tra i piani, create dai vostri dèi, che non siete ancora schiavi di nessuno.» Firion lanciò un’occhiata preoccupata verso il soldato rettiloide e trasse un sospiro di sollievo quando lo vide muoversi e cercare di rimettersi in piedi. Subito incoccò altre due frecce. «Come sanno gli evocatori» continuava intanto il Bàlor, mantenendo lo sguardo
su Firion, «sono tanti i piani che coesistono con il vostro, e non sono pochi quelli che vorrebbero raggiungervi per dominarvi o distruggervi. A quanto pare, grazie alla vostra incompetenza, avremo noi l’onore di farlo davvero!» «Noi non ci piegheremo mai a voi!» Gridò Dork’Atash e avanzò di nuovo contro il demone, arma in pugno. Firion stava per lanciare le frecce contro gli occhi del Bàlor, quando questi si voltò verso il rettiloide e sentenziò in un basso ringhio: «La stoltezza non diverte a lungo.» La frusta si infiammò e colpì Dork’Atash, generando un violento schiocco simile a un boato. Sotto gli occhi di Firion, il corpo del rettiloide venne circondato da fiamme e cadde a terra, diviso a metà. Con tono beffardo, il demone esclamò: «Mi auguro per te che il sommo Aval’Dyr abbia pregato il suo dio di prepararti un posto nel vostro paradiso.» Si voltò verso Firion, fece schioccare ancora una volta la frusta infuocata, e gli disse in tono minaccioso: «Adesso ti ò come puntaspilli per le tue frecce, poi godrò nel sentirti supplicare la somma Nalia di perdonare la tua elfica sfacciataggine, infine ti rimanderò dalla tua creatrice in una forma che non so se saprà riconoscere. Dopo tutto questo, mi divertirò con la tua compagna.» Firion, colmo d’ira, scagliò altre due frecce contro gli occhi del demone, che le intercettò ancora una volta in volo, ma subito ne lanciò un’altra puntando alla mano che impugnava la frusta. Quando si conficcò sul dorso, il Bàlor ringhiò per la sorpresa. «Allora non sei così invulnerabile come vuoi far credere!» Esclamò Firion fingendosi meravigliato. «Maledetto elfo!» Ruggì infuriato. «Ti pentirai di avermi sfidato!» Si tolse la piccola freccia dall’enorme mano, poi mosse verso l’alto la frusta disegnando nell’aria un cerchio di fuoco e colpì il soffitto sopra al punto in cui si trovava Firion; una valanga di macerie precipitò al suolo con un boato. L’elfo
saltò repentinamente di lato, ma un grosso frammento riuscì a colpirlo duramente a una spalla, facendogli perdere l’arco e la faretra. «Cosa farai senza il tuo pungiglione, elfo?» Lo canzonò. «Mi lancerai qualche pietra?» Firion rimase immobile a terra con gli occhi chiusi, in preda a un’intensa fitta di dolore alla spalla sinistra. Non gli sembrava rotta, ma molto probabilmente era lussata. E questo voleva dire che era seriamente nei guai, perché non avrebbe più potuto usare l’arco per combattere. Appena il demone fu praticamente sopra di lui, Firion aprì gli occhi e rotolò di lato, evitando il grosso piede che stava calando per schiacciarlo. L’arco e la faretra non ebbero la stessa fortuna. «Non sei altro che uno scarafaggio, elfo» sbottò il Bàlor quando si accorse di non averlo preso. «Finirai schiacciato come meriti!» Firion aveva continuato a rotolare finché aveva raggiunto il punto dove era stato nascosto il rettiloide. Sperò che il demone non se ne accorgesse troppo presto, perché il movimento rotatorio aveva peggiorato la situazione della spalla: ora non riusciva neanche a muovere il braccio. Mentre cercava di rialzarsi, aiutandosi con il braccio sano, notò un pugnale con la lama ondulata, perso probabilmente dal soldato rettiloide quando si era rifugiato lì dietro. Non avendo opzioni migliori, lo prese e se lo infilò alla cintura. «Trovato!» Tuonò all’improvviso la voce profonda del demone sopra di lui, seguita da un ghigno compiaciuto. Firion sentì il sangue gelarsi nelle vene. Tentò di allontanarsi gettandosi di lato, ma il demone era troppo vicino e questa volta non poté sfuggirgli. Il Bàlor riuscì ad afferrarlo per la gamba destra, e subito lo sollevò in aria avvicinandolo al suo volto mostruoso. Un intenso fetore, simile a un miscuglio di sudore stantio e di uova marce, raggiunse il naso dell’elfo, provocandogli alcuni conati di vomito. Il ranger tentò di divincolarsi dalla sua presa ferrea, ma il Bàlor lo sbatté contro il tronco di una colonna. Firion gridò per l’acuto dolore al fianco, mentre il demone rideva di gusto e lo lanciava di nuovo contro la colonna. L’elfo pendeva inerte dalla mano del demone che, per gustarsi meglio la scena, lo sollevò fino al viso e lo annusò, facendo uno strano sibilo dalle grosse narici.
«Mi piace l’odore del sangue e della paura. È il perfetto anticipo di quello che verrà dopo.» All’improvviso Firion si riscosse. Con un grido disperato, sollevò il busto e piantò il pugnale ondulato nella mano del demone che lo stringeva. L’effetto fu quello sperato dal ranger: il Bàlor fece un possente grugnito e lo lasciò cadere a terra, sorpreso da quella mossa inattesa. Nonostante il dolore per la caduta, in aggiunta a quello alla spalla e alla gamba, Firion si affrettò a raggiungere un punto sicuro dietro altre macerie, vicino al muro dove si trovava la porta secondaria da cui erano entrati Joel e Noa. ando nel punto in cui aveva schivato il piede del demone, vide il suo arco spezzato e le frecce sparse a terra. Raccolse le uniche tre che vide integre e riprese a muoversi, determinato a non arrendersi. Quando raggiunse il nuovo rifugio, con il fiato corto, vide che anche la porta secondaria era bloccata dalle macerie. Sollevò lo sguardo verso l’alto, con il disperato istinto di chiedere ad Ardèsia o a Vàlor un po’ di aiuto, ma prima di formulare qualunque preghiera si fermò. Sopra il palco, a pochi metri da lui, una parte del soffitto era crollata formando una grossa crepa da cui penetravano alcuni raggi di sole. Sentì crescere un filo di speranza e si guardò intorno in cerca di un modo per raggiungere quella spaccatura, che lo avrebbe portato all’esterno. Diverse colonne erano cadute addossate alla parete e avevano creato una precaria impalcatura che arrivava fino a circa due terzi del muro; per raggiungere la crepa avrebbe dovuto arrampicarsi lungo le balaustre degli ultimi due piani della galleria. Non sarebbe stato difficile, se non avesse avuto il braccio sinistro fuori uso. Si voltò per assicurarsi che il demone fosse ancora intento a contemplare la ferita, quindi strinse con forza i denti e si buttò con la spalla lussata contro la parete, nel tentativo di risistemare l’articolazione. Ci riuscì al secondo colpo, con il corpo madido di sudore e intorpidito per il continuo dolore, ma due frecce che stringeva in mano si spezzarono. Non mi posso arrendere, si disse Firion per farsi forza, guardando l’ultima freccia che gli era rimasta in mano. Liriel mi aspetta, non posso lasciarla sola. Con enorme sforzo salì sul palco e iniziò a scalare le colonne, rimanendo sorpreso di riuscire a muovere il braccio sinistro senza troppo dolore. Quando
raggiunse la balaustra della galleria più bassa, avvertì dei forti colpi dal basso che si avvicinavano rapidamente. Con un boato, il sostegno sotto i suoi piedi venne a mancare e, solo grazie ai suoi riflessi fulminei, riuscì ad aggrapparsi alla base del parapetto con entrambe le mani. «Credevi che quel maledetto pugnale consacrato avrebbe fermato me, un signore dei demoni?» Ringhiò la voce del Bàlor poco sotto di lui, gelandolo per il terrore. «Hai fatto il tuo ultimo errore!» Firion percepì una fortissima fitta alla gamba destra, che gli fece scappare un grido di dolore e gli fece quasi perdere la presa. Sempre più terrorizzato, guardò sotto di sé: buona parte della sua gamba era all’interno della bocca del demone. Quando i loro occhi si incrociarono, il Bàlor incurvò la bocca in un macabro sorriso, rivelando che tre delle sue zanne erano penetrate nella coscia dell’elfo. La sua lingua viscosa ò sulla gamba e ne assaporò il sangue che colava copioso. In quell’istante di disperazione, mentre la sua mente si stava perdendo nell’oscurità, Firion pensò a Liriel e le chiese mentalmente perdono per non essere stato abbastanza forte. Poi il suo pensiero si rivolse stranamente alla gran sacerdotessa Nalia e formulò una silenziosa preghiera a Vàlor. Qualche attimo dopo, Firion sentì una sensazione di speranza salirgli dal fondo del cuore e il pensiero di rivedere Liriel gli regalò un ultimo residuo di energia. Allora lanciò un forte grido e impugnò con forza la freccia che ancora teneva nella mano destra, poi si inarcò all’indietro e la conficcò nell’occhio destro del Bàlor. La bocca del demone si aprì in un urlo di dolore, liberando dalla morsa la gamba di Firion. Il Bàlor si inginocchiò a terra, coprendosi l’occhio ferito con le mani, mentre l’intero edificio venne percosso da numerosi tremori e scricchiolii. Firion non si lasciò sfuggire l’occasione e trovò la forza di arrampicarsi lungo le balaustre, fino alla grande crepa del soffitto. Quando arrivò alla spaccatura e si sporse per raggiungere l’esterno, il teatro tremò con forza e altri pezzi crollarono a terra, mentre Firion, ormai senza più forze, non riuscì a mantenere la presa e cadde a peso morto verso la strada.
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Nalia riaprì gli occhi, madida di sudore e stremata. Si accorse di essere sdraiata in terra, e che Aselia e Asterio erano chini su di lei. «Per quanto sono stata priva di sensi?» Chiese loro con un filo di voce. «Circa un minuto» rispose l’elfa con uno sguardo severo, «e per fortuna qui non c’è nessuno che avrebbe potuto approfittarne.» Aselia la aiutò a mettersi a sedere, mentre Asterio raggiunse il tavolino appoggiato al muro, riempì un calice con un po’ d’acqua dall’anfora e lo portò a Nalia. Dopo che ebbe bevuto qualche sorso, Asterio le chiese preoccupato: «Cos’è successo? Perché avete interrotto il legame con Lara?» «Stavo osservando i nuovi arrivati che si adoperavano per liberare il aggio e raggiungere il loro amico prigioniero con il Bàlor, quando c’è stato un forte tremore e il soffitto dell’atrio ha cominciato a crollare. Ho sentito Inza che dava un ordine, forse quello più difficile che un comandante deve dare: uscire da lì e abbandonare un compagno, cioè lasciare Firion. Le grida disperate di Liriel sono state l’unica cosa che ho sentito durante la ritirata. Ho visto che Orson ha dovuto prenderla di peso per portarla fuori... E per fortuna Nalatien e Morgase le tenevano le mani per impedirle di lanciare un incantesimo contro Orson o gli altri. Una volta fuori, lo spettacolo non era migliore. Da più parti della città si alzavano colonne di fumo nero e si sentivano i rumori della battaglia. Sicuramente Dario stava dando o alla gendarmeria cittadina, per fronteggiare la minaccia. Poi, con grande sorpresa, ho visto poco più lontano un gruppo di soldati umani e rettiloidi che combattevano insieme contro un Anfis, un demone alto quasi tre metri, simile a un rospo umanoide con gli aculei... Non ho avuto modo di osservare se quella strana alleanza stesse funzionando, perché, mentre Inza discuteva con gli altri per decidere il da farsi, Keldon si è avvicinato a Liriel per cercare di calmarla, anche se non ha avuto molto successo. In quel momento, dall’interno del teatro ho sentito una preghiera, una silenziosa richiesta di aiuto. Era Firion. Ho percepito che era ferito e molto debole. Allora ho fatto l’unica cosa che potevo fare: ho pregato per lui per dargli un po’ di speranza...» Aselia la interruppe arrabbiata:
«Si può sapere perché l’hai fatto? Anche se per te non è una cosa impossibile eseguire una preghiera a distanza, lo è di certo farlo per interposta persona, attraverso il legame mentale con Lara. Ti rendi conto che saresti potuta morire?» Nalia sorrise debolmente. «Tu esageri sempre. Al massimo avrei potuto perdere i sensi per l’intensità dello sforzo, come in effetti è accaduto. Sarebbe stato davvero pericoloso se fossi stata sul campo di battaglia...» «Ringrazio Vàlor che non sia stato così» sospirò Asterio sollevato; poi, però, domandò a Nalia con durezza: «Si può sapere perché diamine l’avete fatto?» Nalia guardò i due negli occhi e rispose: «Ho visto che, se tutto fosse rimasto invariato, Firion sarebbe stato divorato da quel Bàlor. Non avevo tempo né forza per mettermi a studiare con attenzione la visione, per cui ho fatto l’unica cosa che potevo fare per lui da qui...» «E rischiare così di morire» la rimproverò Aselia. «Davvero un bel guadagno.» «Chissà cosa avrebbe fatto Rhao quando, tornato dalla missione, avrebbe scoperto della tua morte.» aggiunse Asterio in tono cupo. Nalia scosse la testa e sorrise. «Come vi ho detto, sapevo che non c’era pericolo per me qui. E, comunque, ridare la speranza a chi l’ha perduta vale qualunque prezzo!» Questa volta fu Aselia a scuotere la testa. «Ragionare con te è davvero impossibile. Spero che avrai sempre qualcuno di fidato al tuo fianco, quando sceglierai di prendere questi rischi.» La sacerdotessa le sorrise. «Ho qui te. Insieme abbiamo già affrontato la morte e l’abbiamo sconfitta. So che posso fidarmi sempre di te.» Aselia rimase imbarazzata dalle sue parole e cercò aiuto con lo sguardo verso
Asterio; prima che questi potesse dire qualcosa, però, intervenne Mara a richiamare la loro attenzione: «Divina, credo che dovreste tornare a vedere cosa sta accadendo a Sanderia.» Subito Nalia si alzò, aiutata da Aselia e Asterio, e si avvicinò a Mara, per riattivare l’incantesimo di Legame Mentale...
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Joel si stava guardando intorno per valutare la situazione. Inza gli aveva chiesto di aiutarli e, in cambio, lui e Noa sarebbero stati accolti nella Roccaforte del Sole, al sicuro dalla guerra. La stava osservando ancora, mentre dava ordini ai suoi uomini, tra cui c’erano gli altri giunti come lui dal futuro e che mai avrebbe pensato di incontrare di nuovo. Sembrava una donna decisa e capace, oltre a essere molto bella. Distolse lo sguardo e alzò invece gli occhi il cielo, rimproverandosi: Non è questo il momento di pensare a certe cose! Inoltre, ricorda Clelia e Noa: le donne che mi stanno vicino non sono al sicuro... Un movimento in cima all’edificio del teatro attirò la sua attenzione. Riconobbe senza difficoltà il biondo elfo che sbucava fuori da una grossa crepa, chiaramente ferito. Allora subito gridò: «Guardate!» E indicò il punto in cima al teatro. «Quello è Firion!» Tutti si voltarono e videro l’elfo che, faticosamente, cercava di uscire dalla crepa. L’edificio iniziò a tremare violentemente e altri pezzi di muratura crollarono a terra. Firion, ormai senza più forze, non riuscì a mantenere l’equilibrio e cadde nel vuoto. Liriel urlò. Duncan iniziò a correre verso il punto dove sarebbe caduto l’elfo, ma dubitava che avrebbe fatto in tempo. Fortunatamente, Orson fu più veloce di lui: arrivò ad afferrare Firion tra le braccia proprio un istante prima che si
schiantasse al suolo. Poi il barbaro si allontanò dall’edificio, che sembrava sul punto di crollare, e adagiò l’elfo a terra. Subito Liriel lo raggiunse e abbracciò forte Firion, con le lacrime agli occhi per la gioia. L’elfo tossì e le sorrise, poi le disse con un filo di voce: «Ti prego, cara, non stringermi così forte... Non so quante ossa mi siano rimaste intere...» Arrivò anche Keldon, che già aveva iniziato a intonare una preghiera di guarigione. Firion lo lasciò fare, ma quando percepì che le emorragie si erano arrestate, lo prese per un braccio interrompendone la concentrazione: «Così è sufficiente, non sprecare altro tempo con me. Ora abbiamo qualcosa di più serio da affrontare.» Nessuno dei suoi compagni comprese le sue parole, fino a che non videro tutta una parte della parete del teatro crollare e il Bàlor, alto oltre quattro metri, uscire dalle macerie con un urlo inferocito. Subito Inza diede l’ordine di proteggere Firion e tutti si disposero fra lui e il demone; la stessa paladina, Duncan e Fred si posizionarono davanti ai compagni con gli scudi sollevati. «Vedo che hai ritrovato i tuoi amici, elfo» ringhiò il Bàlor. «Vorrà dire che anche loro faranno la tua stessa fine!» Joel avanzò di qualche o e andò davanti a tutti, provocando la loro meraviglia. Indicò spudoratamente l’occhio gravemente ferito del demone e disse ad alta voce: «Il mio amico deve averti colpito all’occhio sano, se non ti rendi conto che sei in inferiorità numerica.» Per tutta risposta, il Bàlor fece schioccare la frusta a mezz’aria, rendendola infuocata, e gli ribatté: «Non ci metterò molto a ripristinare la parità!»
Con un colpo secco lanciò la corda fiammeggiante verso la Maschera, che però la schivò scattando di lato. Questa, però, finì la sua corsa contro lo scudo di Duncan, impattando tra le scintille. Il paladino si lasciò sfuggire un gemito di sorpresa. Intanto Joel continuava a irritare il demone a gran voce: «Non è stato un colpo particolarmente preciso. E pensare che, di solito, per mirare bene si chiude un occhio: credevo che saresti stato avvantaggiato...» La rabbia del Bàlor montò ancora di più e proruppe in un forte ringhio. Colpì il terreno con un pugno e un’onda di terremoto si propagò verso i suoi nemici: gli scudi benedetti di Inza e Duncan riuscirono a bloccarne l’avanzata, ma non quello normale di Fred, che si disgregò, ferendolo alle braccia e al torace. Questo permise all’onda di proseguire dietro di lui e sbilanciare i suoi compagni, che caddero rovinosamente a terra. «Maledetti paladini!» Imprecò il Bàlor. «Questo però non potrete fermarlo!» Roteò la frusta infuocata sopra la testa e generò una sfera di fuoco che lanciò contro di loro. Inza e Duncan invocarono lo Scudo Sacro, ma non furono abbastanza veloci e le fiamme li avvolsero entrambi. Con grande rapidità, Morgase prese dal sacchetto che portava alla cintura sei pietre azzurre, le posizionò tra le dita e si mise davanti ai due paladini, dando le spalle al demone: si concentrò e da ciascuna pietra scaturì un potente fiotto d’acqua che iniziò a spegnere il fuoco. A quella vista, il Bàlor caricò nuovamente la frusta infuocata e fece partire un colpo laterale contro la druida per toglierla definitivamente di mezzo. All’improvviso risuonò nell’aria il grido di Nalatien che chiamava Morgase. Poi, sotto gli occhi sbigottiti di tutti, Nalatien scomparve dalle retrovie e riapparve tra Morgase e il demone. Un attimo dopo, l’elfo venne colpito dalla frusta infuocata e iniziò a bruciare; per l’effetto della forza del colpo, venne scaraventato lontano di oltre venti metri, in un vicolo tra due edifici, dove il suo corpo continuò ad ardere, immobile.
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Abbandonare un compagno
M orgase, in lacrime, stava stringendo al petto il corpo di Nalatien. Quando aveva realizzato quello che era accaduto, si era precipitata nel vicolo dove l’elfo era stato scaraventato e aveva usato il potere delle pietre per spegnere il fuoco che ardeva sul suo corpo. Aveva notato subito che le ustioni erano molto gravi e aveva sperato che Keldon arrivasse quanto prima, ma, quando aveva appoggiato la mano sul petto di Nalatien e non aveva sentito alcun battito, il mondo le era crollato addosso. Gli altri raggiunsero la stradina più lentamente per evitare eventuali attacchi del demone. Inza e Duncan, grazie all’intervento tempestivo di Morgase e alla protezione, seppure tardiva, dello Scudo Sacro, avevano subito solo lievi danni dalle fiamme e avevano potuto continuare ad agire attivamente, decidendo di rimanere in retroguardia pronti a difendere i compagni. Il vicolo era piuttosto stretto e il Bàlor, quando vi fu davanti, esitò a entrarci, poiché si rese conto che la sua grande mole gli avrebbe impedito di muoversi liberamente e di usare la frusta. Vedere il demone fermo all’ingresso del vicolo restituì ai compagni un po’ di speranza. «Non so quanto ancora resterà fermo a pensare» disse Inza guardando tutti i suoi compagni e fermandosi per ultimo su Keldon. «Vedi se puoi fare qualcosa per Nalatien.» Mentre il chierico si avvicinava al corpo di Nalatien, già con il cuore pesante dopo aver visto la reazione disperata di Morgase, gli altri si prepararono a difendere la posizione all’interno del vicolo. Liriel però non mantenne la posizione assegnatale e si incamminò con Keldon fino a raggiungere Nalatien. L’elfa era in preda a emozioni forti e contrastanti: era ata dalla gioia di rivedere Firion ancora vivo, alla disperazione nel vedere suo fratello colpito a morte e in preda alle fiamme. Ed era successo perché Nalatien aveva voluto
salvare una misera umana. Liriel si rendeva conto di non riuscire a pensare lucidamente e che sarebbe stata solo di impaccio agli altri, quindi aveva deciso di raggiungere il fratello, nella speranza che ciò che era sembrato all’inizio fosse soltanto un’illusione. Anche Joel aveva lasciato la sua posizione e si era avvicinato a Inza, colei che al momento sembrava al comando del loro gruppo. La Tenente si era tolta l’elmo e si stava asciugando il sudore con il dorso della mano. L’uomo rimase qualche istante bloccato a osservarne i capelli biondi acconciati in strette treccine ai lati della testa e l’avambraccio scoperto dall’armatura: nonostante quello che aveva ato, non aveva tracce di bruciature o ustioni. Poi si riscosse e le domandò: «Non pensi sia strano che quel demone non ci abbia attaccati mentre ci ritiravamo in questo vicolo?» Inza si voltò verso di lui, ma, prima che la donna potesse rispondere, Duncan intervenne con un tono severo: «Tu non hai proprio alcun rispetto per l’autorità, vero Joel?» «Se è la tua, no di certo» lo rimbeccò prontamente. Inza sollevò subito una mano per indicare ai due di smetterla. «Avevo già capito che il nuovo arrivato ha qualche problema con l’autorità, ma devo ammettere che la sua osservazione è giusta.» Joel fece un sorriso beffardo verso Duncan, ma la donna gli chiese subito: «Pensi che possa averci spinto in qualche trappola?» La Maschera la guardò nei suoi occhi azzurri e le rispose, serio: «Non saprei, non conosco questa città. Però, credo di essere la persona giusta per scoprirlo. Posso allontanarmi per fare una ricognizione?» Sostenendo il suo sguardo, lei annuì. «D’accordo, ma non stare via più di mezz’ora: se dovessimo spostarci, sarebbe un problema ritrovarci.»
Joel la salutò con un cenno della testa e si avvicinò a Noa, dicendole che sarebbe tornato presto, poi si diresse verso il fondo del vicolo. «Ti fidi di lui?» Chiese Duncan a Inza quando l’altro fu lontano. «Non lo so ancora» gli rispose mentre lo guardava allontanarsi. «Di sicuro sa il fatto suo, anche se non si direbbe a prima vista.» «Sai che è una Maschera d’Ombra?» La donna si voltò di scatto verso Duncan, sorpresa. «Cosa? Ma non è possibile! Sono ormai più di dieci anni che quella banda di ladri è scomparsa...» Inza si interruppe, ricordandosi con chi stava parlando, poi dopo qualche momento riprese: «Ah, capisco. In futuro la Maschera d’Ombra si riformerà e Joel, nel vostro tempo, è uno di loro. Quindi, secondo te, non dovrei fidarmi di lui?» Duncan tornò a guardare il demone, ancora in attesa all’inizio del vicolo. «Per quel poco che l’ho conosciuto, posso dirti che puoi fidarti di lui solo fino a che sei sicura che i suoi scopi coincidano con i tuoi.» «Quindi, dato che è anche suo interesse uscire vivo da qui, dovrei potermi fidare di lui...» «In teoria...» borbottò Duncan, non del tutto convinto. Inza si voltò per lanciare un’occhiata alla mezzelfa, seduta in terra insieme a Firion: entrambi erano ancora impossibilitati, per le ferite, a partecipare alla battaglia. Allora le sorse nella mente un pensiero di speranza: Forse però c’è dell’altro nel suo cuore, su cui poter fare affidamento. Intanto Keldon era riuscito non senza difficoltà a convincere Morgase a lasciargli esaminare Nalatien, intimorito anche dallo sguardo duro e sconvolto di Liriel. Con il cuore pesante di chi già sapeva cosa stava per scoprire, il chierico si inginocchiò sul corpo dell’elfo. Ciò che vide era desolante: la superficie del corpo e del viso era quasi del tutto
coperta di ustioni; i capelli erano in gran parte bruciati, così come la tunica e lo zaino. Keldon iniziò a intonare una preghiera di guarigione, con la voce tremante per la tristezza, ma sapeva già che non avrebbe ottenuto risposta: nessun miracolo poteva guarire dalla morte. Quando Morgase e Liriel videro che il corpo di Nalatien continuava a rimanere immobile, dai loro occhi cominciarono a cadere lacrime di dolore e disperazione. «Non è possibile» mormorò Morgase con la voce rotta dal pianto. «Non può morire, non adesso, non così... Io...» Tornò con la mente alla notte in cui Nalatien aveva evocato per lei un pulcino dorato e lo aveva deposto nelle sue mani dicendo: “Per ora posso solo farti spuntare un piccolo sorriso con questo misero dono, ma ti prometto che verrà il giorno in cui ti renderò quello che ti è stato strappato via!” Si voltò verso Keldon e lo supplicò disperata: «Ti prego, riprovaci. Chiedi ancora a Vàlor di salvarlo...» ma si interruppe quando vide che anche lui stava piangendo. «Mi dispiace» le disse con voce tremante. «Purtroppo non esistono preghiere che possano riportare in vita i morti... Dobbiamo lasciarlo andare.» «Noooo!» L’urlo disperato era stato di Liriel. Il dolore che quella singola parola conteneva scosse tutti i suoi compagni. Come se aspettasse proprio quel segnale, il Bàlor rise e con i pugni colpì con forza il terreno, generando un’onda sismica verso il vicolo. Duncan e Inza non si lasciarono sorprendere e, con i loro scudi benedetti, riuscirono a bloccare l’onda rivolta verso di loro, ma non poterono evitare che colpisse gli edifici circostanti. Le pareti intorno a loro vibrarono pericolosamente e alcune macerie cominciarono a cadere dai tetti. «Maledizione!» Imprecò Inza guardando con preoccupazione verso l’alto. «Ecco qual era il suo piano!»
«Non è sicuro rimanere qui» sentenziò Duncan. «E dove andiamo? Se andiamo avanti gli finiamo praticamente in bocca...» La voce di Joel, appena giunto di corsa dietro di lei, la interruppe. «Poco più indietro c’è un aggio che conduce sotto terra. Forse è proprio il rifugio che ci serve.» Un’altra onda sismica causò il crollo di parte dell’edificio situato all’imbocco del vicolo, pochi metri davanti a loro. Allora la paladina dichiarò: «Non possiamo più aspettare! Fred, Keldon, occupatevi dei feriti. Orson, Morgase, voi proteggete Lara e Liriel. Io e Duncan resteremo indietro per bloccare altri attacchi.» Poi guardò Joel negli occhi e gli disse: «Guidaci là.» Subito la Maschera corse avanti. Morgase e Liriel non volevano abbandonare Nalatien, ma un’altra scossa fece crollare parte del tetto sopra di loro e un grosso pezzo le mancò per poco. La vista del corpo dell’elfo coperto dalla polvere e dai detriti evidenziò tristemente che ormai se n’era andato e le due si affrettarono a malincuore a seguire gli altri verso la salvezza. Mentre l’incantatrice imprecava e malediceva il Bàlor, la druida giurò a se stessa che sarebbe tornata a riprendere il corpo di Nalatien per onorarlo con una degna sepoltura. Non appena raggiunsero il luogo individuato da Joel per accedere nei sotterranei, Inza notò che la porta di legno che ne chiudeva l’accesso sembrava essere stata aperta con una chiave che però non c’era. La paladina preferì non farsi domande e seguì Duncan e gli altri giù per le scale strette e ripide. Si ritrovarono in un lungo corridoio buio, illuminato soltanto in quel punto dalla luce che filtrava dalle scale; era alto e largo circa due metri e si estendeva a destra e a sinistra. «Cosa diamine è questo posto?» Sbottò Liriel chiaramente alterata. «Abbiamo lasciato il corpo di mio fratello là fuori per finire sotto terra? Se il Bàlor à di nuovo il suo terremoto, rimarremo intrappolati qui sotto, se non peggio... Allora come potrò vendicarlo?» Inza non seppe darle torto; anche gli altri iniziarono a temere di essere finiti dalla padella nella brace, quando sentirono di nuovo tremare il terreno sotto i piedi e parecchia polvere cadde dal soffitto su di loro. In particolare Orson, che si muoveva nervosamente avanti e indietro, mostrò di non gradire particolarmente
quel luogo sotterraneo. «Questo dovrebbe essere un corridoio di collegamento tra due rami delle fognature» spiegò Joel con lo sguardo sempre fisso su Inza. «Da qui possiamo allontanarci dal demone senza rischiare altri attacchi diretti e cercare un’uscita che ci riporti su, ben lontani dal pericolo.» «E poi che facciamo?» Lo interruppe Duncan severo, ricordando quanto accaduto durante l’attacco del Terramedusoide. «Scappiamo?» La Maschera sorrise e gli ribatté: «Dipendesse da me, sì. Ma so che voi paladini non vi ritirate mai dal pericolo, quindi pensavo che, una volta in superficie, potremmo trovare un modo di colpire il demone da una posizione più sicura per noi.» «E magari potremmo anche ricongiungerci con il Generale e gli altri soldati» aggiunse Inza, speranzosa. «Non rifiuterei un aiuto, vista la nostra situazione» commentò Joel notando che nessuno di loro era rimasto indenne, sia fisicamente che mentalmente. «L’importante è che decidiamo in fretta cosa fare.» Sorprendentemente fu Noa a intervenire, ancora sorretta in piedi da Keldon; la sua voce tradiva il dolore che ancora provava: «Qui siamo più o meno al centro della città. Se prendiamo il aggio a sinistra andremo verso ovest: eremo sotto al demone e ci troveremo verso la zona dove sembravano esserci più disordini. Se andremo a destra, raggiungeremo una zona che per il momento sembra ancora calma e meno pericolosa.» Joel guardò la mezzelfa e, facendole una smorfia, commentò: «Noa è una vera esperta di orientamento, anche nelle condizioni più estreme.» Poi si girò di nuovo verso Inza e le disse con una punta di rassegnazione: «Allora immagino che andremo a sinistra, giusto?» Inza gli sorrise maliziosamente e gli rispose: «Se a te va bene così, allora va bene anche a me!»
Quindi, rivolta a tutti, disse: «Allora è deciso: andremo a sinistra e cercheremo di ricongiungerci con Dario, così avremo più possibilità di sconfiggere il Bàlor e i suoi gregari, e di vendicare la morte di Nalatien.» Morgase e Liriel si affiancarono subito a Inza, desiderose di farla pagare a quel maledetto demone che aveva tolto la vita a Nalatien. Anche Orson mostrò di gradire l’idea di combattere per la vittoria. Lara rimase stranamente silenziosa, ma si avvicinò a loro. Keldon con Noa e Fred con Firion si accodarono lentamente agli altri. Vedendo come si era volta la situazione, Joel scosse la testa e impugnò le due spade corte. Poi, sempre guardando la Tenente, esclamò: «D’accordo, avete vinto. Andiamo!» ò con sicurezza avanti a Inza e Duncan e fece segno ai due paladini di seguirlo.
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L’incantatrice Ilik’Shacksi camminava nervosamente avanti e indietro con lo Scrigno dei Mali Maggiori tra le mani. Si trovava nella piana tra Sanderia e il Bosco di Mezzapianura, nel punto dove era localizzato il Nodo. Era ormai più di un’ora che si era teletrasportata dal teatro di Sanderia, ma ancora non aveva avuto notizie da Trisk’Àlish. Le ferite che si era inferta sulla mano per concludere l’incantesimo di teletrasporto della Scuola del Sangue si erano quasi rimarginate e la spossatezza che l’uso dell’Eteria del Sangue generava era ormai ata. La sua preoccupazione crebbe quando vide alzarsi numerose colonne di fumo dalla città. Aveva subito pensato di lanciare un incantesimo di chiaroveggenza per scoprire cosa stesse accadendo, ma il fatto che sarebbe rimasta vulnerabile a eventuali attacchi l’aveva fatta desistere. Era l’unica vera limitazione della Scuola del Sangue: concedeva di emulare gli incantesimi delle altre Scuole, ma richiedeva
che venissero alimentati con il sangue, cioè con la propria forza vitale, provocando una spossatezza variabile a seconda della potenza dell’incantesimo e dal vigore dell’incantatore. Non poteva assolutamente permettersi di farsi cogliere di sorpresa, ora che custodiva quel prezioso scrigno. Inoltre, più o meno nello stesso istante in cui erano comparse le colonne di fumo, aveva avvertito una strana vibrazione nell’Eteria, come un riverbero riflesso. Le ci era voluto qualche minuto per realizzare che si era trattato della rottura violenta di un Patto di Evocazione di alto livello, proprio come quelli che vincolavano i demoni... E questo voleva dire che i suoi colleghi incantatori che li avevano evocati dovevano essere morti. E che Sanderia era in guai seri... Così come Trisk’Àlish. Ilik’Shacksi era combattuta su quale fosse il suo primo dovere. Secondo quanto avevano stabilito durante la preparazione della missione, se qualcosa fosse andato storto, l’incantatrice avrebbe dovuto fare ritorno alla Cittadella con lo scrigno, anche se ciò avrebbe voluto dire abbandonare Trisk’Àlish e gli altri soldati. Però, dall’altra parte, c’era la sua lealtà al sacerdote guerriero e, ammise, anche i sentimenti che provava per lui. Era pienamente consapevole che Trisk’Àlish non avrebbe gradito che i suoi sentimenti per lui prevalessero sul volere di Tyran, così come sapeva che, se lui fosse stato lì, sarebbe stato il primo a dirle di andare via e di lasciarlo indietro. I suoi pensieri vennero interrotti dall’apparizione nell’aria di fronte a lei di un cerchio scuro di circa cinque metri, che iniziò a vorticare su se stesso. Qualche secondo dopo ne emerse il prefetto Miranda, con la sua armatura rossa dalle rifiniture verdi. «Com’è la situazione?» Chiese subito ancora prima di guardarsi intorno. «Il Console vuole sapere...» Non appena realizzò che davanti a lei c’era solo Ilik’Shacksi, l’espressione sul suo viso fu un misto di sorpresa e terrore. «Cos’è successo?» Le chiese subito, allarmata. «Dov’è Trisk’Àlish? Dov’è Dork’Atash? Dove sono gli altri?» Stringendo al petto lo Scrigno dei Mali Maggiori, l’incantatrice rispose: «Il “nobile elfo” di Sanderia in realtà era un Bàlor. Ho potuto riconoscere la sua
aura solo quando si è rivelato. Trisk’Àlish mi ha subito ordinato di fuggire con lo scrigno, anche perché gli umani avevano l’ordine di impedirci di portarlo via.» Miranda guardò il piccolo scrigno cubico di ossidiana e gli strani simboli sconosciuti argentati che ne decoravano la superficie. «Allora la missione è andata a buon fine, dopotutto» commentò con una strana nota di incertezza nella voce. «Ma perché è rimasto là e non è venuto con te?» «Sono fuggita con un incantesimo di teletrasporto e non potevo portare nessun altro con me se avevo lo scrigno. Inoltre, Trisk’Àlish sembrava deciso a combattere contro quel demone, dato che aveva giurato di annientare tutti i seguaci di Tyran.» «Allora è davvero successo quello che temeva Albios» disse Miranda con tono grave. «Quando è morto l’incantatore umano che era riuscito a evocare il Bàlor, il Console si è subito preoccupato...» «Vuoi dire che ora, a Sanderia, il signore dei demoni è libero di sguinzagliare i suoi seguaci?» «Sì, e, quando avrà finito, vorrà sicuramente vendicarsi per come i demoni evocati sono stati trattati. Forse Trisk’Àlish ha fatto la scelta giusta a rimanere lì per aiutare gli umani a sconfiggere il demone, sempre che sia possibile. Dopotutto, ricordo bene che Kentara ci aveva sconsigliato di evocare un Bàlor, a causa delle estreme difficoltà nella formulazione del Patto: forse il vantaggio di avere sotto il proprio comando lui e tutta la sua legione demoniaca non vale il rischio di perdere la propria anima e il mondo.» Ilik’Shacksi era sconvolta: un sospetto trovò conferma nelle sue parole. «Credi sia per questo che nella battaglia di Crandall sembrava combattere con meno vigore e stimolo del solito? Stava già pianificando le prossime mosse contro di noi?» Miranda annuì tristemente. «Già, e anche per questo motivo mio padre è morto. Spero che Trisk’Àlish riesca a sconfiggerlo e a ricacciarlo da dove è venuto!»
L’incantatrice sollevò lo scrigno verso Miranda e le chiese: «Adesso cosa facciamo? Andiamo ad aiutare Trisk’Àlish?» La mezzelfa scosse la testa con rammarico. «Tyran sa bene quanto vorrei andare a Sanderia a vendicare mio padre, ma il Console ha bisogno dello Scrigno dei Mali Maggiori per scoprire dove si trova l’ultima Chiave. Purtroppo non abbiamo tempo da perdere. Torneremo insieme alla Cittadella e consegneremo al Console lo scrigno, poi pregheremo Tyran affinché conceda a Trisk’Àlish la vittoria e il ritorno a casa.» Ilik’Shacksi non poté far altro che annuire e seguì Miranda attraverso il Nodo.
~ 27 ~
Alleanza inattesa
D ario estrasse la propria spada dal corpo immobile di un demone. Aveva forma umanoide, braccia lunghe e artigli affilati, un corno curvo e piatto che usciva dalla parte posteriore del cranio; metà faccia era occupata da una larga bocca piena di denti aguzzi che era stata devastata dal mazzafrusto di Trisk’Àlish, stordendo il demone a sufficienza per permettere a Dario di trafiggerlo con la spada in pieno petto. «Bel colpo, Mangusta!» Esclamò il chierico con un sorriso sulla bocca rettiloide che al Generale parve un po’ inquietante. Tuttavia gli sorrise a sua volta e gli replicò: «Devo ammettere, Roccia, che con le tue conoscenze sui demoni è quasi una eggiata sconfiggerli. Ma è già il nono di questo tipo che uccido, per non contare quegli altri. Quanti diamine ce ne sono ancora?» Si guardò intorno, esasperato. Si trovavano sul viale in prossimità della Porta del Mare, la zona più colpita dagli attacchi dei demoni. Diversi edifici avevano subito pesanti danni a causa degli assalti. Altri gruppi misti di umani e rettiloidi stavano combattendo con successo contro diversi demoni. Con stupore, il Generale dovette constatare che, senza il consiglio di Trisk’Àlish su come sconfiggere quei demoni, da lui definiti “minori”, quelli avrebbero avuto di certo la meglio su di loro. Dario aveva potuto riconoscere in giro quattro tipi diversi di demoni. Due di questi agivano da soli o, più raramente, in gruppi di tre, mentre un terzo tipo era a capo di un gruppo di almeno venti demoni del quarto tipo, quelli più deboli. Il demone appena ucciso da Dario faceva parte della tipologia più problematica, i “Necor”: l’unico modo per ucciderli, aveva spiegato Trisk’Àlish, era di colpire il cuore al centro del petto, quando la sua coscienza era vacillante, ad esempio in seguito a un forte colpo in testa. Il secondo tipo di demoni solitari erano i “Krond”: un incrocio tra un umano gigantesco di due metri e mezzo, e un
avvoltoio enorme, con braccia forti e muscolose ricoperte di piccole piume grigie, un lungo collo sormontato da una testa di avvoltoio e, ovviamente, ampie ali piumate; i colpi avevano effetto solo nei punti non coperti dalle piume. I demoni gregari, chiamati “Vesk” non avevano particolari difese: erano alti un metro e mezzo, avevano un corpo tozzo, umanoide, ricoperto di vesciche e una bocca con piccole zanne; erano lenti, ma il loro muoversi in gruppi numerosi li poteva rendere pericolosi se sottovalutati. A coordinare questi gruppi c’era sempre un quarto tipo di demone, chiamato “Anfis”: simile a un rospo umanoide alto circa due metri e mezzo, con braccia al posto delle zampe anteriori; aveva una larga bocca, con file di possenti denti, e lunghi aculei che correvano lungo la schiena; la sua pelle generava esalazioni velenose e non era consigliato avvicinarli, piuttosto bisognava trafiggerli con le frecce da lontano. Anche Trisk’Àlish si stava guardando intorno, sempre più preoccupato. Sapeva bene, infatti, che solo alla sconfitta del Bàlor i demoni minori avrebbero cessato di arrivare; ma per lui non aveva alcun trucchetto o piano da proporre. Dei boati giunsero dalla zona del teatro e un grosso polverone si sollevò nell’aria. Uno o più edifici dovevano essere crollati e Trisk’Àlish sentì stringersi lo stomaco, conscio che quella poteva essere soltanto opera del Bàlor. «Spero che Inza e gli altri non fossero ancora là» mormorò Dario con un brivido gelido, fermandosi qualche istante a osservare il polverone. Poi notò un gruppo di soldati in difficoltà contro tre plotoni di Vesk e aggiunse con decisione: «Andiamo ad aiutare quegli uomini: prima o poi, questi demoni dovranno pur finire!» Il chierico annuì e si affiancò a lui, ma, con un’altra stretta allo stomaco, evitò di dirgli che in realtà quei demoni erano praticamente infiniti. E che, al contrario di loro, non avevano bisogno di riposo. I due raggiunsero rapidamente il gruppo di soldati, infilandosi agilmente tra le linee dei due plotoni di Vesk che li avevano circondati, e ingaggiarono subito battaglia al loro fianco, falcidiando con discreta facilità quei lenti demoni, mentre gli arcieri, rincuorati dall’arrivo del Generale, si occupavano degli Anfis a capo di ciascun plotone. Dario continuava a meravigliarsi di come sembrasse più facile sconfiggere quei mostri, ora che aveva avuto le informazioni sulle loro debolezze dal chierico rettiloide. Anche se, ammise mestamente tra sé, i mostri con cui aveva combattuto finora erano soltanto quella che si poteva definire
“carne da macello”: ricordava bene che, nella battaglia di Crandall, erano stati presenti anche dei demoni cosiddetti “maggiori”, quelli che avevano fatto più danni, ma che, in realtà, avevano colpito indistintamente umani e rettiloidi. D’un tratto, sopra al plotone di Vesk che ancora non era intervenuto in battaglia, si formò una grossa e plumbea nube con una curiosa forma a spirale, da cui iniziarono subito a piovere chicchi di grandine grandi quanto un pugno, che ferirono gravemente tutti i demoni del drappello generando il panico tra le loro fila. Dario sentì una serie di urla galvanizzate alla sua sinistra: si voltò e vide l’incantatrice Liriel con le mani ancora sollevate e un sorriso soddisfatto sul volto; dietro di lei c’erano Inza e gli altri che aveva lasciato al teatro. Notò però che c’erano due persone in più, quelli che erano scappati dall’accampamento durante l’attacco del Terramedusoide, e che mancava il giovane elfo incantatore a cui piaceva divinare le informazioni. La repentina disfatta del terzo plotone ridiede vigore e coraggio ai soldati, che riuscirono in pochi minuti a far fuori i rimanenti Vesk e i loro comandanti Anfis. Quando i demoni morirono, i loro corpi si sciolsero in una melma putrida e maleodorante, e vennero assorbiti dal terreno. Subito, in quell’area, si formò una sorta di oasi di pace, e il gruppo di Inza ne approfittò per riunirsi a Dario. «Allora ce l’avete fatta a salvare Firion» li salutò il Generale con un sorriso, quando loro lo raggiunsero. «Sì, lui è salvo» confermò Inza, ma nel suo viso non c’era allegria. «Però non sono riuscita a proteggere tutti: Nalatien si è sacrificato per salvare Morgase ed è stato ucciso dal Bàlor.» Dario ò lo sguardo sui compagni di Inza, soffermandosi alla fine su Morgase: non ebbe difficoltà a notare il suo viso teso e addolorato. Anche Liriel, nonostante la soddisfazione per il grande effetto della Tempesta di Ghiaccio, aveva una strana luce negli occhi, che tradiva chiaramente quanto fosse rimasta colpita dall’accaduto. Inoltre, notò anche gli sguardi di curiosità dei nuovi arrivati nel vedere il chierico rettiloide al fianco del generale. «Purtroppo qui la situazione non è buona» disse Dario. «Ogni volta che sconfiggiamo dei demoni ne spuntano di nuovi, e non riusciamo a trovare un modo per impedire che arrivino...»
Sorprendentemente Lara si fece avanti e, fissando lo sguardo su Trisk’Àlish, dichiarò: «È colpa loro se siamo arrivati a questo punto. Hanno sopravvalutato le loro capacità di controllare un Bàlor, e ora ne paghiamo le conseguenze. Nessuno di voi si è mai chiesto perché i Bàlor sono noti come “signori dei demoni”? Perché nel piano abissale hanno sotto il loro comando eserciti sconfinati di demoni e hanno la capacità di convocarli al loro cospetto senza limiti, proprio quello che sta facendo adesso il Bàlor, ora che è libero dal debole vincolo che gli incantatori di Tyran gli avevano imposto.» Tutti i presenti avvertirono un gelido brivido scendere lungo la schiena. Poi Dario si fece coraggio e chiese: «Dunque, Nalia ritiene che l’unico modo per vincere sia sconfiggere il Bàlor?» Per un attimo Dario vide una strana espressione di rimprovero negli occhi dell’incantatrice gemella, poi si ricordò che, accanto a lui, c’era Trisk’Àlish, e si rese conto di aver inconsapevolmente rivelato qualcosa che non avrebbe dovuto. Con un sospiro, pregò Vàlor che il chierico rettiloide non avesse afferrato ciò che le sue parole implicavano. Trisk’Àlish fissò negli occhi la giovane incantatrice umana, poi ammise: «Purtroppo la vostra amica ha ragione: l’unico modo per vincere è sconfiggere il Bàlor. Ma io non conosco alcun modo per farlo.» Dario stava per ribattergli quando, nel punto dove erano scomparsi i Vesk, si sollevò una nube nera dal marcato odore di zolfo. Subito tutti si bloccarono sul posto e assunsero una posizione difensiva. Quando il fumo si diradò, davanti ai loro occhi comparve un essere insolito alto circa tre metri: dalla cintola in su aveva l’aspetto di una donna attraente, ma con sei braccia che impugnavano tre coppie diverse di armi, mentre dalla vita in giù aveva il corpo di un serpente gigantesco, dalle spire ricoperte di scaglie verdi; un’armatura nera copriva le spalle e il seno. «Una Marilith» esclamò Trisk’Àlish con un gemito soffocato. «È un generale dell’esercito dei demoni, molto più potente di quelli che avete affrontato finora. Solo il Bàlor è peggio di questo essere!»
«Quali sono le sue debolezze?» Gli chiese subito Dario. «Purtroppo non ne ha» ammise Trisk’Àlish. Liriel iniziò a eseguire le movenze per lanciare un incantesimo, ma subito il chierico rettiloide la fermò: «È immune all’elettricità e al fuoco, quindi non perdere tempo.» Poi, il suo sguardo si soffermò su Keldon, il chierico di Vàlor che stava sostenendo la mezzelfa ferita, e gli si avvicinò rapidamente. «Tu, però, potresti avere una possibilità. Conosci una preghiera di esorcismo?» Keldon ebbe solo il tempo di annuire con un cenno della testa, perché la Marilith iniziò ad attaccare i soldati che le erano più vicini, falciandoli con le sei armi impugnate. Le urla strazianti dei soldati e la vista del demone che li divorava ancora vivi ebbero l’effetto di risvegliare tutti dal torpore in cui erano caduti dopo la sconfitta dei Vesk. Dario, comprendendo il senso della domanda di Trisk’Àlish, gridò con decisione: «Dobbiamo proteggere Keldon e dargli il tempo di eseguire la preghiera di esorcismo, l’unica cosa che ci può salvare. Soldati: fate un muro di scudi contro il demone! Incantatori: usate i vostri poteri per proteggere Keldon o per intralciare il nemico! Paladini: attaccatelo con le vostre armi benedette, le sole che possono ferirlo seriamente, ma senza rischiare la vita!» Tutti si apprestarono rapidamente a eseguire i suoi ordini, mentre si rivolgeva a Morgase e a Joel: «Voi rimanete a difendere Keldon e i feriti...» «Attenti!» Il grido di Lara arrivò solo un attimo prima che due armi della Marilith si schiantassero con un boato assordante sul muro di scudi che, per fortuna, resse il colpo. La bocca del demone era incurvata in un macabro sorriso, sporca del sangue dei soldati che aveva appena finito di divorare. «Attacchiamo!» Gridò Trisk’Àlish con veemenza. I soldati si impegnarono a contenere gli assalti della Marilith per mezzo del muro di scudi, mentre Inza e Duncan ne uscivano lateralmente per colpirla
quando la sua attenzione era rivolta lontano da loro, soprattutto per l’effetto dei dardi di ghiaccio di Liriel. Lara aveva lanciato alcuni incantesimi di protezione su Keldon, poi si era concentrata a rendere più resistente il muro di scudi. Orson si era posizionato davanti al chierico, per proteggerlo con la sua mole, mentre Joel e Morgase erano rimasti vicini a Firion e a Noa. La Marilith non si preoccupava delle ferite, che si rimarginavano quasi subito, e continuava a colpire sempre con più determinazione il muro di scudi, bramosa di divorare anche quei mortali. Intanto Keldon era concentrato sulla benevolenza di Vàlor che sentiva dentro di sé, invocando ripetutamente il nome del suo dio, affinché gli donasse il suo favore e il suo appoggio. Poi, dopo che sette scudi vennero abbattuti e quattro soldati feriti gravemente, il chierico si sentì pronto e sollevò le braccia, proclamando ad alta voce: «Demone Marilith, generato nella profonda oscurità dell’Abisso, ascolta dalla mia bocca di umile servo la voce del Sommo Vàlor, il dio della Luce, il dio dell’Amore, il dio della Libertà.» Rivolse i palmi delle mani verso l’essere malvagio e proseguì con voce più alta e severa: «Con l’inganno e il tradimento hai invaso questo mondo, senza alcuna pietà hai tolto la vita a innocenti e ti sei nutrita delle loro carni per assimilare la loro essenza e la loro anima immortale. Nulla di più grave ha mai urlato vendetta al cospetto del mio trono.» I palmi di Keldon assunsero una lieve luminescenza dorata e la metà serpente della Marilith si immobilizzò, mentre il suo volto quasi umano si deturpava in un grido silenzioso. «Io ti comando di allontanarti da questo mondo; io ti esorto di andartene da questo mondo; io ti impongo di lasciare questo mondo!» Il corpo della Marilith iniziò a brillare di una luminescenza argentata e Keldon congiunse le mani davanti a sé. «Io, umile strumento della potenza del Sommo Vàlor, in nome del dio della Luce, ti bandisco per sempre da questo piano!» Il demone divenne completamente di pura luce argentea, immobilizzato in un ultimo grido di rabbia e frustrazione. Poi la luce vibrò, come la limpida superficie di un lago rotta dalle increspature di un sasso gettato nel mezzo, e l’essere malvagio si sciolse come ghiaccio al sole. Keldon si accasciò a terra, esausto, mentre gli altri esultavano per la fine del pericolo.
«Ce l’hai fatta davvero!» Esclamò Joel, incredulo, dandogli una pacca sulle spalle. «Lasciatelo riposare, adesso» intervenne inaspettatamente Trisk’Àlish, mentre riagganciava il mazzafrusto alla cintura. «Attraverso il suo corpo è ata un’enorme quantità di energia divina e ha bisogno di riprendersi. Se vi servono delle cure posso pregare io per voi...» si fermò un attimo, poi proseguì con uno strano sorriso: «Se accettate di essere guariti da Tyran...» Tutti lo guardarono con un misto di curiosità e sospetto, ma Dario annuì e gli disse: «Ti prego, occupati dei soldati feriti. So che Tyran ci è nemico, ma non potrà negare che in questa occasione dobbiamo agire insieme.» Trisk’Àlish annuì e si diresse verso i soldati feriti. Lara si avvicinò al Generale e gli parlò con l’intonazione di Nalia: «Non rilassatevi ancora: il vero nemico si sta avvicinando. Ha mandato avanti la Marilith per controllare se con noi ci fosse un esorcista, l’unica cosa che davvero teme. E questo vuol dire che ha già in mente un piano.» «Allora vuol dire che dovremo farlo anche noi» disse Dario con decisione. «Sapete quali sono i punti deboli del Bàlor?» «Purtroppo non ne ha. Anche bandirlo con un esorcismo non è facile: il rituale stesso prevede almeno due esorcisti per avere buone probabilità di successo.» «Ma noi abbiamo solo Keldon!» Esclamò Inza, sconcertata. Lo stesso chierico rabbrividì nell’udire quelle parole e ciò che implicavano. «All’occorrenza il rituale di esorcismo può essere adattato: è necessario che il celebrante principale sia un chierico, quindi Keldon, ma in assenza di altri chierici, può essere aiutato da altri capaci di canalizzare l’energia divina, come i paladini.» Lara si voltò verso Inza e Duncan, chiaramente sbigottiti: «Voi sarete i celebranti coadiutori del rituale.» Liriel si fece avanti e chiese:
«L’Eteria non può essere d’aiuto?» «Potrebbe» ammise Lara, «ma solo un incantatore della Torre della Difesa conosce gli incantesimi di Congedo e di Esilio che sarebbero necessari.» «Nemmeno i miei poteri della natura possono servire?» Chiese Morgase, desiderosa di dare il suo contributo per vendicare Nalatien. Lara scosse la testa, dispiaciuta. «Purtroppo tutto quello che puoi fare è infastidire il Bàlor per distrarlo.» Il terreno sotto i loro piedi tremò violentemente, mentre l’aria fu percossa da una profonda e cupa risata gutturale. Tutti videro il Bàlor con le grandi ali membranose spiegate in segno di minaccia; nella mano sinistra stringeva la frusta infuocata, mentre nella destra impugnava una grande spada fiammeggiante. Inoltre, l’occhio prima accecato era tornato sano. «È il momento di fare di questa città la testa di ponte del nostro impero» dichiarò il signore dei demoni con voce potente. «Da qui potremo conquistare con facilità sia l’Egemonia del dio tiranno, sia l’Impero del dio debole.» Dario si avvicinò di qualche o con la spada puntata contro di lui e gli ribatté ad alta voce: «Credi davvero che non cercheremo di fermarti?» Trisk’Àlish si affiancò al Generale e aggiunse: «Non siamo così inermi come credi!» Subito i soldati si mossero davanti ai due e riformarono il muro di scudi, mentre Keldon, aiutato da Duncan e Inza, aveva ripreso a concentrarsi sulla benevolenza di Vàlor dentro di sé. «Nemmeno io» rise il Bàlor e, accanto a lui, salirono dal terreno due Marilith; i due demoni si inchinarono e si allontanarono velocemente verso le porte di nordest e di sud-est. Senza aggiungere altro, il Bàlor cominciò a schioccare ripetutamente la frusta infuocata contro il muro di scudi, che per il momento resse ai colpi.
Liriel, consapevole di non potere usare i suoi incantesimi migliori di attacco, perché avrebbe rischiato di colpire anche i compagni, decise di lanciare il Muro di Ghiaccio, anche se ancora non lo padroneggiava perfettamente: se fosse riuscita a plasmarlo e a curvarlo, avrebbe anche potuto intrappolarvi il demone. Allora, senza esitazione, iniziò subito a pronunciare la formula e a eseguire le quarantuno movenze necessarie. Nel frattempo Dario e Trisk’Àlish si erano portati a ridosso del muro di scudi per attaccare il Bàlor, ma i suoi continui attacchi con la frusta di fuoco non permettevano loro di avvicinarlo. D’un tratto, una strana forma cilindrica bianca iniziò a formarsi intorno al demone, ma un semplice colpo della sua spada fiammeggiante dissolse il Muro di Ghiaccio di Liriel. «Adesso mi avete stancato!» Gridò il demone e caricò a testa bassa il muro di scudi. L’impatto fu disastroso: diversi soldati vennero scaraventati indietro di una ventina di metri, ricadendo rovinosamente a terra, mentre altri vennero falciati dalla sua spada fiammeggiante. Dario tentò di colpirgli il fianco, ma la sua arma scivolò sulla pelle del demone, senza ferirlo. Nello stesso momento, Trisk’Àlish si avvicinò al Bàlor con le mani giunte davanti a sé e innalzò una preghiera: «Potente Tyran, dio della forza e della vendetta, mostra ai tuoi fedeli la tua potenza affinché la loro fede in te rimanga salda. Ascoltami, Grande Tyran, e permea le mie mani con la tua energia divina: concedimi di ferire con il solo tocco chiunque osi mettersi sulla mia e sulla tua strada.» Terminata la preghiera, lo toccò con entrambe le mani sulla coscia enorme. La pelle si avvizzì e sfrigolò come se fosse stata bruciata. Il Bàlor ringhiò e, con uno scatto fulmineo, colpì il chierico rettiloide con l’elsa della spada, ferendolo al volto e scaraventandolo a terra stordito.
~ 28 ~
Vittoria a ogni costo
O rson non poteva accettare che il demone fosse così vicino a lui e ai suoi compagni: il rituale di esorcismo che stavano ancora preparando era la loro unica salvezza e non dovevano essere interrotti. Si concentrò su se stesso e richiamò la Furia: il suo corpo crebbe di circa un metro e assunse un aspetto più imponente e minaccioso. Allora impugnò saldamente le asce gemelle e partì alla carica contro il demone. Il Bàlor stava per dare il colpo di grazia a Dario, inerme a terra, e non si accorse dell’assalto di Orson, che gli affondò le asce gemelle nella coscia e nel fianco. Il demone ruggì di rabbia e rivolse la spada fiammeggiante contro il barbaro, che non subì alcun danno e gli assestò invece altri due forti colpi. Per aiutare Orson, Liriel e Lara si misero a lanciare ripetutamente i Dardi di Luce contro la faccia del nemico, l’incantesimo di attacco più debole ma più veloce, mentre i soldati sopravvissuti riformarono il muro di scudi per proteggere Keldon e i due paladini, tranne un piccolo gruppo che andò in soccorso di Dario e Trisk’Àlish. Il Bàlor ignorò tutte le distrazioni e si preoccupò soltanto di sistemare il maledetto barbaro in preda a quella “Furia” che lo rendeva così resistente. Dato che le armi non sembravano avere effetto, lasciò cadere a terra la spada e la frusta, unì le mani a pugno e calò un forte colpo sulla spalla destra del barbaro, che cadde in ginocchio: l’articolazione della spalla destra si schiantò con uno schiocco raccapricciante e il braccio penzolò inerme lungo il fianco, lasciando finire a terra l’ascia che impugnava. Tuttavia, incurante della grave ferita, Orson gridò con rabbia e affondò l’altra ascia in profondità nella gamba del demone. Il Bàlor ruggì infuriato e con un forte manrovescio lo scaraventò lontano con un volo di circa trenta metri, mandandolo a schiantarsi contro il muro di un edificio che gli crollò addosso. I presenti rimasero profondamente sconvolti, tanto che alcuni ebbero dei violenti
conati di vomito. Tutti cominciarono a dubitare che sarebbero riusciti a sopravvivere. Prima che Dario potesse dare l’ordine di ricompattarsi, il Bàlor colpì il suolo con i pugni e generò una forte onda sismica che fece cadere rovinosamente tutti a terra. Allora recuperò rapidamente le sue armi e falciò a metà con la spada i soldati a lui più vicini, mentre con la frusta colpì in direzione del Generale, che però riuscì a evitarla rotolando di lato; non fu altrettanto rapido il caporale Fred, il cui braccio sinistro venne fratturato in più punti. In quel momento, nonostante fosse ancora a terra, Keldon cominciò a proclamare la preghiera di esorcismo, con Duncan e Inza che, come da istruzioni, gli andarono dietro dopo le prime due parole: «Demone Bàlor, creatura ignobile che sei stata generata nell’oscurità più profonda e impenetrabile, ascolta dalla mia bocca di umile servo la voce del Sommo Vàlor, il dio della Luce, il dio dell’Amore, il dio della Libertà...» Il Bàlor proruppe in una fragorosa risata e tutti rabbrividirono nel sentire quei suoni cupi e possenti. «Credete davvero che una sequela di parole, anche se in forma di preghiera, possa influenzare un Signore dei Demoni? C’è un motivo se i più grandi sapienti sconsigliano di evocarci.» Fece schioccare in aria la frusta e scagliò un attacco verso il chierico, ma Duncan e Inza sollevarono in tempo i loro scudi benedetti, bloccando il colpo in una fiammata quasi innocua. «Non potrete resistermi ancora a lungo» rise il demone. «Il vostro debole dio non può sentire le vostre parole in mezzo alle urla strazianti delle vittime dei miei soldati. Ormai siete soli!» Keldon non si lasciò intimorire: si alzò in piedi e, rivolte le palme delle mani verso il demone, proseguì l’esorcismo insieme a Duncan e Inza: «Trema, essere reietto, disperati e urla contro il cielo che ti disconosce, perché il giudizio su di te sta per essere decretato in maniera netta e definitiva...»
All’improvviso il Bàlor si mise a urlare disperato, facendo rinascere in tutti la speranza; ma, dopo alcuni secondi, il suo grido si trasformò in una grottesca risata raggelante. «Nulla di tutto questo ha efficacia contro di me» esultò, sollevando la spada fiammeggiante verso il cielo. «L’era degli dèi e dei loro infimi leccapiedi è giunta al suo termine! Ora ha finalmente inizio il dominio dei demoni!» Con un rapido scatto, il Bàlor fu davanti al chierico e ai due paladini e inferse un fendente micidiale con la spada, che spezzò gli scudi di Duncan e Inza, ustionando loro le mani e le braccia. Disperato, Keldon invocò mentalmente l’aiuto di Vàlor e, anche se la sua voce ora tremava, continuò la preghiera di esorcismo: «Con l’inganno e il tradimento hai invaso questo mondo, senza alcuna pietà hai tolto la vita a innocenti e ti sei nutrito delle loro carni per assimilare la loro essenza e la loro anima immortale. Nulla di più grave ha mai urlato vendetta al cospetto del mio trono.» Il Bàlor posizionò la punta infuocata della spada davanti al viso del chierico e lo derise dicendo: «Allora non hai capito niente, chierico: il tuo dio non è più qui!» Il Bàlor portò indietro la spada per affondare la lama nel corpo di Keldon, ma Duncan gli si parò davanti e ricevette il colpo al suo posto. Il chierico rimase sconvolto dalla mossa dell’amico e la sua fede vacillò per un istante, finché non si accorse che l’armatura aveva deviato la lama e il paladino aveva subito soltanto gli effetti della fiamma. «Continua, Keldon» mormorò Duncan con un filo di voce. «Ricordati che è un demone: è nella sua natura ingannare...» Il Bàlor non sembrò sorpreso da quella mossa; anzi, puntò la spada al suolo e, con un atteggiamento di scherno, si appoggiò sull’elsa. «Generalmente ti darei ragione, paladino, ma stavolta sono più sincero della vostra Gran Sacerdotessa...» La sua bocca mostruosa si piegò in un sorriso pieno di zanne e aggiunse: «O forse no!» Rialzò la spada sopra la testa e si preparò a colpire a morte i due umani.
D’un tratto si alzò nell’aria una voce che intonava una strana cantilena in un linguaggio sconosciuto. Tutti si bloccarono, compreso il Bàlor. Nel riconoscerla, molti rabbrividirono e si voltarono increduli. In piedi, non molto lontano, con le braccia protese verso l’alto e con la tunica annerita e bruciata, Nalatien stava eseguendo un incantesimo di evocazione. Morgase e Liriel rimasero a fissare il giovane elfo, meravigliate: la sua pelle non mostrava alcun segno di bruciatura, eppure entrambe lo avevano visto coperto di ustioni e, cosa ancora più sconcertante, senza vita. Inoltre, Liriel e Lara percepirono la grande quantità di Eteria che Nalatien stava accumulando e notarono che la formula e le movenze dell’evocazione erano molto complesse, quasi ai limiti di ciò che veniva insegnato perfino a Kentara. Fu proprio quest’ultimo particolare che spinse il Bàlor a lasciar perdere Keldon e a voltarsi verso il giovane elfo. «Credevo di averti ucciso» gli ringhiò il Bàlor. «Questa volta mi assicurerò che non rimanga nemmeno un frammento del tuo corpo!» Aveva appena iniziato a muoversi verso di lui, che l’evocazione fu conclusa e si aprì il portale: un disco dorato di circa tre metri, sospeso verticalmente a mezz’aria. Il suo interno vorticò velocemente e ne uscì un essere alato, alto poco meno di tre metri, dall’aspetto di un uomo molto muscoloso, con la pelle levigata color smeraldo e la testa calva, su cui era tatuato uno strano simbolo, simile a una stella, che però non era del tutto visibile; le sue ali erano bianche e piumate, e nella mano destra impugnava un imponente spadone. «Un Cherubino!» Esclamò Lara colma di meraviglia, con il tono di voce di Nalia. «Come è possibile che Nalatien sia riuscito a evocare un angelo? Nessuno è mai riuscito a convincerne uno ad accettare un patto...» Alla vista del Cherubino, il Bàlor gridò con incredibile ferocia contro il suo nemico naturale e partì rapidamente alla carica con la spada fiammeggiante rivolta in avanti. L’angelo reagì altrettanto velocemente: sollevò lo spadone e deviò l’arma dell’avversario, spingendo poi la grossa lama sul fianco e aprendogli uno squarcio. Il grido di dolore del demone questa volta fu decisamente sincero. Il lamento del Bàlor risvegliò Morgase dal torpore in cui era caduta alla vista di Nalatien. La druida si concentrò e richiamò alla mente la forma della pantera. Il suo corpo si mise a vibrare: rapidamente si ingrandì e si allungò, mentre gli spuntava una fitta coltre di pelo nero. Dopo pochi secondi, Morgase divenne una
possente pantera nera e, con un forte ruggito, si lanciò all’attacco contro la schiena del Bàlor. Intanto Dario stava valutando tristemente la gravità della situazione: più della metà dei suoi soldati era morta; Orson era svenuto, mezzo sepolto sotto le macerie di un edificio; Duncan e Trisk’Àlish erano gravemente feriti, mentre Keldon sembrava ancora esausto per il precedente esorcismo e Inza era in piedi al suo fianco con il braccio sinistro ustionato. Gli unici che non erano stati toccati dal massacro, forse perché non considerati una minaccia dal demone, erano Firion e Noa, entrambi ancora malmessi, e le due incantatrici Liriel e Lara protette da Joel, lievemente ferito. In mezzo a tutto quel disastro, però, la miracolosa apparizione di Nalatien con l’evocazione di un angelo rinnovò la sua speranza e allora Dario ordinò ai soldati superstiti di proteggere Keldon e le incantatrici. Poi, approfittando che il Bàlor fosse concentrato sull’angelo, andò a controllare lo stato di Trisk’Àlish. Il demone aveva lasciato cadere le armi e aveva afferrato la testa del Cherubino con entrambe le mani, quando qualcosa di grosso e peloso gli saltò sulla schiena, conficcando gli artigli nella carne, e si lasciò ricadere a terra aprendogli diversi squarci. Con un forte grido, il Bàlor mollò la presa sull’angelo e si voltò di scatto, colpendo la pantera al fianco con un manrovescio e facendola volare vicino a Keldon. Grazie alla sua naturale agilità, il felino riuscì ad atterrare sulle zampe e ad attutire l’impatto con il suolo, ma poi si accasciò, dolorante e stordito. Il demone tornò a occuparsi dell’angelo, colpendolo con un potente doppio pugno sulla testa che lo fece vacillare e indietreggiare di qualche o. Allora il Bàlor ne approfittò: recuperò la spada fiammeggiante e, con un rapido affondo, la conficcò nella spalla del suo nemico. D’un tratto, la voce di Nalatien risuonò nell’aria con un tono irato: «Keldon, tutti stanno facendo qualcosa tranne te: vuoi darti una mossa? Completa il rituale dell’esorcismo e rispedisci il Bàlor nell’abisso. Non posso mantenere evocato il Cherubino ancora a lungo, soprattutto se continua a subire ferite. Muoviti, chierico, fa’ il tuo dovere!» Quelle dure parole di rimprovero riscossero Keldon dall’apatia in cui era caduto. Guardò il giovane elfo con un sorriso di comprensione, poi aiutò Duncan a rialzarsi e protese di nuovo le braccia verso il Bàlor. Non appena i due paladini misero una mano sulle sue spalle, riprese ad alta voce la preghiera di esorcismo:
«Nulla di più grave ha mai urlato vendetta al mio trono. Per questo ora io ti comando di allontanarti da questo mondo; io ti esorto di andartene da questo mondo; io ti impongo di lasciare questo mondo!» All’udire quelle parole, il Bàlor si voltò verso il chierico e vide che le sue mani si stavano accendendo di una luce argentata. Allora raccolse la frusta infuocata e lanciò una potente sferzata verso il chierico, ma il suo braccio venne bloccato dal Cherubino, che gli fece perdere la presa sull’arma. Keldon ripeté ancora, questa volta insieme a Duncan e a Inza: «Io ti comando di allontanarti da questo mondo; io ti esorto di andartene da questo mondo; io ti impongo di lasciare questo mondo!» Il demone gridò infuriato e traò da parte a parte con la spada fiammeggiante il corpo del Cherubino, ancora avvinghiato al suo braccio sinistro. Uno strano liquido azzurro e fluorescente iniziò a fluire dalla bocca dell’angelo e dalla profonda ferita sul petto. Keldon congiunse le mani e concluse l’esorcismo con la terza invocazione di espulsione. Tutti rimasero con il fiato sospeso, aspettandosi di vedere il demone scomparire in uno sfavillio di luci com’era successo per la Marilith. Invece fu il Cherubino a svanire in una sorda esplosione e, un istante dopo, Nalatien cadde in ginocchio, esausto e stordito a causa del termine violento della sua evocazione. Il Bàlor proruppe in una fragorosa risata e allargò le braccia in segno di vittoria. «Non puoi più bandirmi da questo mondo, chierico! Finché quel maledetto angelo ancora viveva, avresti potuto avere la possibilità di scacciarmi grazie al suo riflesso divino, ma ora non puoi più sovrastare il potere di un signore dei demoni. I vostri dèi sono divisi e non c’è più niente che può minacciarmi: il mio dominio su Amnia non avrà mai fine!» Keldon non poteva credere alle parole del demone e ripeté la parte conclusiva dell’esorcismo, ma non successe nulla. Il Bàlor rise più forte e gli si avvicinò. «Povero chierico di un dio debole» lo schernì con un sorriso maligno. «Mi assicurerò che tu lo raggiunga tra atroci dolori!»
Keldon era scoraggiato e stava per cedere al panico. Diede un’ultima occhiata intorno a sé: molti di coloro giunti con lui a Sanderia erano morti, mentre altri erano gravemente feriti. Poi, il suo sguardo incrociò quello di Lara. Aveva una strana luce calda negli occhi e gli tornò in mente una cosa che gli aveva detto Nalia il giorno prima della partenza per Sanderia, durante un momento di pausa dopo la preghiera del mezzogiorno: «Non dimenticare mai che siamo noi il mezzo, Keldon» aveva detto Nalia con la sua voce dolce e cristallina. «Il potere di Vàlor può entrare in questo mondo solo attraverso il nostro corpo, solo attraverso coloro che si sono consacrati a lui, consapevolmente e spontaneamente. Per noi non vale la regola che un corpo robusto resiste meglio a una maggiore potenza, ma è la nostra fede, quanto noi ci abbandoniamo alla volontà del nostro dio, che ci rende uno strumento sempre più efficace e potente per la sua gloria. Il nostro corpo è solo la sua porta per questo mondo, ma ciò che regola il flusso del potere divino è la nostra fede in lui.» La paura svanì dal cuore di Keldon. Allargò le braccia e guardò negli occhi il Bàlor, ormai giunto a pochi i da lui. Allora proclamò a gran voce: «Sommo Vàlor, dio della Luce e dell’Amore, ascolta la preghiera disperata del tuo servo in questo momento di oscurità e di terrore. Non ho la forza necessaria per bandire questo Bàlor dal nostro mondo, per cui ti chiedo di accogliere la mia richiesta disperata: lascia che il mio corpo sia la prigione che lo terrà per sempre lontano da Amnia, che il mio corpo sia la porta che si chiude intorno a lui. Ti prego, sommo dio Vàlor, donami la tua forza e accetta il mio sacrificio per amore di coloro che potranno continuare a vivere nella tua pace. Ti prego, misericordioso Vàlor, donaci questa vittoria a ogni costo!» Nel sentire le parole della preghiera, il Bàlor inorridì e avvertì il gelo penetrargli nelle ossa. Anche i compagni di Keldon rimasero colpiti da quella richiesta. Il petto del chierico si aprì e ne uscì un’immensa luce dorata che investì in pieno il Bàlor, poi ci fu un potente lampo accecante e un forte tuono fece tremare l’aria e la terra. Quando tutti tornarono a vedere, Keldon era steso al suolo e non c’era più traccia del Bàlor né di tutti gli altri demoni. Subito Duncan e Inza si inginocchiarono accanto al chierico per soccorrerlo. Il
paladino sospirò di sollievo quando sentì il suo cuore battere, ma rimase sconcertato nel vedere il pettorale della sua armatura distrutto e una sottile cicatrice che percorreva il centro del suo petto lungo tutto lo sterno. Anche gli altri si avvicinarono a Keldon, tutti più o meno malconci, mentre Trisk’Àlish preferì rimanere più indietro. Quando Nalatien li raggiunse, con o lento e affaticato, Morgase gli sorrise e, nonostante avesse dolore dovunque, corse ad abbracciarlo con le lacrime agli occhi. L’elfo la lasciò fare, ma non rispose al suo abbraccio. «Com’è possibile? Tu eri morto, l’ho visto...» Nalatien si limitò a scuotere la testa e disse: «Non adesso, per favore... Ora occupiamoci di Keldon.» Anche Liriel si avvicinò per abbracciare il fratello, ma non gli disse nulla. Nel frattempo Dario aveva ringraziato Trisk’Àlish per l’aiuto, concedendogli di tornare dai suoi soldati. Poi chiese a Joel e a Noa se avessero intenzione di unirsi a loro e andare alla Roccaforte; l’uomo rispose prontamente di sì, mentre la mezzelfa lo fissava stupita. Quando il Generale si allontanò per impartire i comandi necessari a ristabilire l’ordine in città, Noa chiese a Joel in un sussurro: «Perché vuoi andare con loro alla Roccaforte? Non mi dire che ti sei davvero invaghito di quella paladina? Ho visto come la guardavi...» L’uomo le sorrise e le rispose a bassa voce: «Hai perso troppo tempo a guardare me e non hai osservato bene lei. Ammetto che è una bella donna, ma ci sono cose che mi interessano molto di più.» «Ah, sì?» Gli replicò piccata. «Cosa ti interessa in quella biondina?» Joel le mise una mano sotto il mento e le girò il viso verso Inza, che stava aiutando a preparare Keldon per il viaggio. «Guarda bene cosa c’è al suo polso sinistro.»
Noa le osservò il braccio, sul quale si vedevano ancora le tracce delle ustioni causate dalla frusta del demone; poi, quando realizzò quello che stava vedendo, rimase senza fiato. «Ma quello è il Bracciale Perduto...»
~ 29 ~
Il tempo cura quasi tutte le ferite
R hao era rientrato alla Roccaforte del Sole undici giorni dopo che i reduci della missione a Sanderia avevano fatto ritorno. Aveva dovuto pattugliare gran parte del corso del fiume Sunivia e dintorni, dalla strada tra Legara e Lentiar a quella tra Sanderia e Koliman, affrontando i piccoli drappelli dell’Armata di Tyran che tentavano di infiltrarsi nel territorio dell’Impero di Anosia per saccheggiare i villaggi più isolati. Anche se aveva avuto successo, la missione era stata molto faticosa e stressante. Non aveva avuto perdite tra i suoi uomini, solo qualche ferito. Parlando con Asterio e Aselia, aveva saputo del rischio che Nalia aveva corso durante la missione a Sanderia e si era infuriato con lei. Il Generale aveva seguito la Gran Sacerdotessa nelle sue stanze e aveva cominciato a rimproverarla con dure parole. Nalia se ne stava seduta con apparente tranquillità sul letto, mentre Rhao camminava nervosamente avanti e indietro. «Non puoi assolutamente permetterti queste debolezze» le stava gridando in conclusione della sua sfuriata. «Cosa ne sarebbe di tutti i nostri sforzi, se dovesse succederti qualcosa di irreparabile? Nel grande disegno, io posso anche essere sostituito, ma tu no: solo tu puoi essere il faro che guida questa gente, solo tu puoi essere la loro fonte di speranza in questo momento di grande pericolo. Senza di te, tutto è perduto!» Nalia si alzò in piedi e fermò l’ossessionante andirivieni di Rhao, prendendogli le mani e guardandolo negli occhi. «Proprio perché devo essere quello che tu dici» gli rispose sorridendo, ma con tono deciso, «non posso esimermi dal proteggere coloro che credono in me, anche a rischio della mia vita. Come potrei chiedere loro di donarmi la loro vita, se io non mi impegnassi a mia volta a proteggerla e a valorizzarla?» «Ma sono soltanto dei mortali» ribatté Rhao, abbassando lo sguardo sulle sue
mani, «non ti puoi paragonare a loro...» «Forse no» concesse lei, alzandogli il viso per guardarlo di nuovo negli occhi, «ma è stato stabilito che loro siano gli strumenti per agire, e uno strumento che si sente amato e protetto può agire con maggiore efficacia...» «Allora la tua è solo una strategia...» cominciò a dire Rhao, ma questa volta fu Nalia ad assumere un’espressione arrabbiata e lo interruppe: «Non farmi dire quello che non ho detto! Sai bene qual è il mio pensiero.» Comprendendo che, su quel particolare argomento, non avevano lo stesso punto di vista, Rhao si congedò da Nalia con un sospiro rassegnato e decise di raggiungere la sommità della torre centrale del palazzo per calmarsi un po’. La particolare struttura a contrafforti, con i quali la torre si appoggiava alle mura del cortile interno del palazzo, faceva sì che sembrasse quasi sospesa nel vuoto. Quella illusione di precarietà la rendeva un luogo isolato e tranquillo che a Rhao piaceva molto. Da lassù, inoltre, poteva spaziare lo sguardo su tutta la Roccaforte e dintorni. Mentre saliva gli scalini che conducevano alla stanza in cima alla torre, ripensò al suo discorso con la sacerdotessa: Forse Nalia fa bene a comportarsi così, dopotutto quello è il suo ruolo e lo comprende sicuramente meglio di me. Soltanto, preferirei che fosse più prudente, che non rischiasse troppo in prima persona. Se il nostro avversario fosse stato presente, avrebbe potuto approfittare del suo stato di incoscienza vincendo senza la minima fatica. Giunto davanti alla porta dell’ultima stanza della torre, ne afferrò con decisione la maniglia e aggiunse: È il mio compito proteggerla! Sono qui per questo e lo farò anche contro la sua volontà! Non dovrà più accadere che sia indifesa e in potenziale pericolo! Entrò nella stanza, dove venne accolto da una calda luce benevola. Il soffitto era molto alto, sulle pareti disadorne si aprivano lunghe finestre da cui si vedeva tutto il panorama della Roccaforte e della pianura circostante. Al centro della stanza c’era una sorta di podio circolare in pietra, su cui stava in piedi una creatura simile a un uomo imponente e massiccio, alto quasi tre metri, con brillanti occhi color topazio, carnagione dorata e luccicanti ali bianche, che teneva spiegate e sollevate a toccare il Trietere, un cristallo azzurro, sospeso a mezz’aria, a forma di un prisma lungo circa trenta centimetri.
«Sei tornato» disse la creatura con voce potente e melodiosa, chinando verso di lui la testa calva, su cui era impresso il simbolo del sole e della luna uniti di Vàlor. «Non c’era bisogno che venissi a controllare se ho fatto ciò per cui sono stato chiamato. Hai potuto constatare al tuo arrivo che la barriera protegge sempre la Roccaforte.» Rhao sorrise: non era la prima volta che il Serafino lo salutava in maniera scherzosa e, nonostante di solito non gradisse l’ironia fine a se stessa, gli piaceva il modo di fare di quell’angelo. «So che non ce n’era bisogno, ma mi dispiace saperti qui da solo...» «Sai bene che non sono mai solo» gli sorrise. «In quanto appartenente alla schiera più potente degli angeli, sento continuamente la presenza del mio dio, anche in questo luogo lontano e solitario.» Esitò qualche istante, poi aggiunse: «Ma non è per questo che sei venuto, vero?» Rhao guardò il cristallo azzurro luminescente sospeso tra le sue ali. «In effetti, avevo bisogno di un po’ di pace, che soltanto qui riesco a trovare.» «Ho capito» sorrise ancora il Serafino, «hai di nuovo litigato con Nalia. Qual è stato il motivo questa volta?» Rhao scosse la testa. «Ti dispiace se rimaniamo un po’ in silenzio a contemplare il panorama?» «Non sempre è necessario parlare, amico mio. La comprensione talvolta non ha bisogno di parole. E anche il silenzio può essere una preghiera, che gli dèi ascoltano volentieri...» Rhao gli sorrise di nuovo, si avvicinò alla finestra che dava verso nord e si perse nei suoi pensieri...
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Anche Nalia aveva sospirato quando Rhao se n’era andato, sebbene il suo fosse stato più un sospiro di sollievo. Quella sfuriata lo aveva indotto ad andare via prima di farle la domanda che temeva e che l’avrebbe costretta a rivelargli un’altra cosa che lo avrebbe fatto infuriare ancora di più. Le dispiaceva che Rhao si arrabbiasse a causa delle loro divergenze di opinioni, ma sperava che, prima o poi, avrebbe compreso perché lei mantenesse quella linea di condotta. Il fatto incriminato era accaduto tre giorni dopo il rientro della squadra di Dario da Sanderia. Il Generale era giunto da lei per fare rapporto e le aveva riferito anche dello stato di salute di Keldon: dopo quel suo strano esorcismo aveva avuto febbre alta e difficoltà a rimanere concentrato per gran parte del viaggio di ritorno, ma, due giorni prima dell’arrivo alla Roccaforte, aveva cominciato a delirare. Nalia aveva ordinato subito che il chierico fosse portato nella sua cappella privata. Qui aveva tracciato sul pavimento il simbolo di Vàlor con la cera di una candela benedetta, poi vi aveva fatto sistemare Keldon. Per tre giorni aveva pregato ininterrottamente per la sua salute, affiancata a turno da Duncan e da Inza. Qualche volta anche gli altri suoi compagni erano venuti a trovarlo, sostando in preghiera al suo fianco. Nalia aveva apprezzato quell’attenzione da parte dei suoi amici, nonostante non si fossero ancora ripresi del tutto dalle ferite. Era rimasta un po’ delusa, invece, che non fosse mai venuto Nalatien. Anche se con i suoi compagni era stata vaga, la Gran Sacerdotessa sapeva bene cosa stesse accadendo a Keldon: ciò che causava il suo malessere era il Bàlor. Il demone stava cercando di rompere il sigillo che lo imprigionava nel corpo del chierico, provocandogli la febbre e i deliri. Se ci fosse riuscito, allora si sarebbe impadronito di Keldon, corpo e anima. Nalia aveva sperato che il chierico fosse abbastanza forte da bloccare del tutto la volontà del demone, ma aveva sottovalutato la potenza del Bàlor e il suo desidero di vendetta. La sera del terzo giorno avvenne ciò che Nalia temeva. Duncan e Inza erano stati convocati da Dario per un aggiornamento sui loro compiti alla Roccaforte, lasciandola sola con Keldon, che gemeva più del solito per il dolore che il demone gli provocava. Si era inginocchiata accanto a lui e gli teneva la mano sul cuore, sussurrandogli con lo sguardo fisso sul suo viso: «Mi dispiace per tutta questa sofferenza, Keldon: è colpa mia quello che ti è successo. Ti ho fatto tornare in mente quel discorso sul fulcro del corpo nella
dimensione divina, proprio nella speranza che comprendessi quale fosse l’unico modo per sconfiggere il Bàlor. Un modo drastico, certo, ma sapevo che saresti stato in grado di sostenere l’energia divina necessaria per generare il sigillo di contenimento. Non avevo previsto, però, questa spiacevole conseguenza.» Sospirò tristemente, poi proseguì: «È vero, se fossi stata fisicamente lì con voi, non ci sarebbero stati tutti questi problemi con i demoni, ma sarei stata costretta a rivelarmi al popolo, e questo avrebbe potuto mettere a repentaglio l’esito di questa guerra. Non voglio nemmeno pensare a cosa succederebbe, se dovessimo perdere.» Portò l’altra mano su quella di Keldon e continuò con un filo di voce: «C’è una cosa che mi ha sorpresa enormemente in tutto quello che è successo: Nalatien. Sono certa che fosse davvero morto, come tu stesso hai confermato alla povera Morgase in lacrime, e so che nessuno può tornare indietro dalla morte. Eppure, poco dopo essere stato dichiarato defunto, era lì, in piedi vicino a voi, vivo... E stranamente molto più potente. Nessun evocatore è mai riuscito a richiamare un angelo, perché non è affatto semplice convincerli ad abbandonare il cospetto della divinità a cui sono legati. Eppure, un angelo ha risposto alla sua convocazione, una divinità ha concesso al suo servitore di accorrere in vostro aiuto. Peccato non essere riuscita a vedere il simbolo sulla testa: mi sarebbe piaciuto sapere quale divinità ringraziare...» Nalia sospirò e sollevò lo sguardo verso la statua di Vàlor dietro l’altare. D’un tratto ricordò un particolare che aveva visto, mentre era nella mente di Lara, e si disse: Un momento, in realtà ho intravisto parte del simbolo che quel Cherubino aveva impresso sulla testa! Sembrava una stella... Delle dodici divinità di Amnia, sono tre ad averla nel loro simbolo. Distrattamente, portò la mano sinistra su una delle dodici trecce argentate che le ornavano i lunghi capelli biondi, e continuò a pensare: Una era Aradis, una delle divinità scomparse durante la Guerra Divina insieme a Floris, Faunia e Velicus. La sua essenza divina venne fusa nel flusso di Eteria, distruggendone la Volontà, quindi dubito fortemente che possa essere stata lei a rispondere all’evocazione. La seconda divinità con una stella nel simbolo è Ardèsia, la creatrice degli elfi... In effetti potrebbe aver risposto all’evocazione di una delle sue creature, ma sono ormai tanti anni che ha perso interesse per questo mondo a cui è stata costretta a rinunciare: perché avrebbe dovuto intervenire proprio adesso? Infine, la terza divinità con una stella nel simbolo è... Ebbe un tuffo al cuore, mentre realizzava quel pensiero. No, non può essere stato davvero lui...
Improvvisamente Keldon cominciò a tremare e a essere scosso da spasmi muscolari per tutto il corpo. Subito Nalia gli pose le mani sul cuore e sussurrò il nome di Vàlor. Il chierico si rilassò e smise di sussultare, ma continuava ancora a gemere per il dolore. La sacerdotessa ebbe un improvviso lampo di comprensione e gli slacciò la camicia aprendola sul petto. Con il cuore colmo di tristezza, vide che la cicatrice sullo sterno di Keldon aveva cominciato a emettere una tenue luminescenza rossastra. No, dannazione! Imprecò dentro di sé. Il Bàlor ha trovato un’incrinatura nel sigillo e la sta forzando per romperlo. Non gli ci vorrà molto per riuscirci e allora nemmeno io potrò più bandirlo perché, grazie al corpo e all’anima di Keldon, otterrà la capacità di incanalare l’energia divina, e ogni preghiera sarà inefficace contro di lui. Sospirò mestamente, osservando il volto del chierico. Purtroppo esiste solo una soluzione, ma non mi piace per niente: Keldon dovrà essere vivo per mantenere attivo il sigillo e nello stesso tempo dovrà rimanere addormentato per evitare che la sua coscienza fornisca appigli al Bàlor per liberarsi. Tutto questo è peggio della morte! Si scompigliò i capelli, disperata, e aggiunse: Perché gli evocatori di Tyran non hanno pensato alle conseguenze delle loro azioni? Prese dolcemente la testa di Keldon tra le mani e si abbassò; i suoi capelli biondi ricaddero su di lui, mentre i loro visi si avvicinarono. Nalia avvertiva molto chiaramente i muscoli della faccia del chierico tesi per il dolore che stava provando. Allora gli sussurrò con il cuore colmo di tristezza: «Mi dispiace per quello che dovrò farti, ma è l’unico modo per salvarti dal mostro che diventeresti quando il demone romperà il sigillo. Sarai vivo, ma non potrai più svegliarti... Non potrai più tornare a casa, nel tuo tempo. L’unica cosa che posso fare per alleviare la tua pena è donarti un sogno, in cui sarai sempre in pace insieme con i tuoi amici...» Si interruppe, con la gola che le doleva per lo sforzo di non piangere. Tre lacrime le sfuggirono dalle palpebre chiuse e caddero sul volto di Keldon, bagnandogli gli occhi e le labbra. Il chierico emise un profondo sospiro, poi si calmò. Nalia sollevò rapidamente la testa e riaprì gli occhi, facendo appena in tempo a vedere le proprie lacrime scintillare di una tenue luce dorata e penetrare negli occhi e nelle labbra dell’uomo. Il suo respiro divenne regolare e il suo corpo si rilassò: ogni dolore sembrava cessato. Dopo qualche momento, Keldon aprì
lentamente gli occhi e fissò lo sguardo sul volto meravigliato di Nalia. Poi, con un filo di voce, riuscì a sussurrare: «Mia dea...» Nalia gli sorrise, contenta che la sua previsione era stata disattesa. Stava per rinchiudere Keldon in un sogno perpetuo, convinta che fosse l’unica soluzione per salvare lui e il mondo, ma non aveva previsto che sarebbe rimasta così coinvolta nel suo dolore da versare per lui quelle tre lacrime miracolose. Gli accarezzò una guancia e gli sussurrò: «Riposati adesso: sei salvo.»
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Ci vollero due mesi interi perché i sopravvissuti alla missione di Sanderia si ristabilissero quasi completamente, anche se Firion, Orson e Noa accusavano ancora qualche problema all’inizio dell’inverno. Tra i deceduti nel viaggio di ritorno c’era anche il caporale Fred, la cui perdita rattristò molto il barbaro. Nessuno volle mancare alla cerimonia funebre per tutti i caduti, che fu tenuta dopo il ritorno di Rhao. Questi due mesi e il successivo furono piuttosto tranquilli, permettendo agli otto stranieri provenienti dal futuro di entrare più in confidenza tra di loro e con alcuni abitanti della Roccaforte. Duncan, Inza e Joel avevano cominciato ad addestrarsi insieme, mentre gli altri, ancora convalescenti, li osservavano e commentavano. Solo Nalatien partecipò poche volte, e solo perché costretto da Morgase, rimanendo però silenzioso. arono appena pochi giorni e gli incontri tra Joel e Inza, (che tra l’altro aveva ottenuto il grado di capitano), divennero quasi leggenda: lui con la sua tecnica basata sul movimento e sulla velocità, lei, invece, con la sua tattica basata sulla posizione e sulla difesa, pronta ad approfittare del minimo errore dell’avversario per colpirlo con forza e precisione. Fin dall’inizio Noa, d’accordo con Joel, raccoglieva le scommesse su chi avrebbe vinto, poi riferiva segretamente al compagno quale fosse la scommessa più giocata; allora l’uomo agiva di
conseguenza... Questo gioco andò avanti per circa un mese, fino a quando Inza se ne accorse e fece giurare a Joel di smetterla. Tuttavia Noa, che non era stata coinvolta nel giuramento, continuò a raccogliere le scommesse sui duelli, anche se con più discrezione e assicurandosi che Joel non ne risultasse implicato. Morgase, dopo essere stata costretta a trascorrere la prima parte dell’autunno in convalescenza nel Palazzo Centrale della Roccaforte, riprese a frequentare il boschetto che aveva trovato nella Periferia Est. Poco prima dell’inizio dell’inverno, riuscì a raggiungere una parte del suo potere nascosto e ottenne la capacità di osservare il mondo con la Vista Spirituale. Vide le silfidi, gli spiriti dell’aria, che si insinuavano nel vento, alimentandolo e dirigendolo per far cadere le ultime foglie dai rami; vide gli gnomi, gli spiriti della terra, che compattavano il terreno in prossimità delle radici degli alberi per proteggerle dalla rigidità dell’inverno; vide una salamandra, uno spirito del fuoco, che si rifugiava in un tronco per sfuggire al freddo invernale; vide anche alcune ondine, gli spiriti dell’acqua, che tornavano verso un laghetto poco lontano. Alcune volte Morgase era rimasta sorpresa nel vedere uno di quegli spiriti voltarsi verso di lei e guardarla con espressione interrogativa, come se le chiedesse se quanto stava facendo fosse giusto; lei si era limitata ad annuire. Avrebbe voluto rendere partecipe anche Nalatien della gioia che le infondeva il suo nuovo potere, ma ultimamente l’elfo era molto preso dall’apprendimento di nuovi incantesimi e Morgase sapeva che non voleva essere disturbato quando studiava l’Eteria. Ogni tanto le riaffiorava alla mente una triste domanda: ciò che stava sperimentando era possibile anche nel suo tempo, dove la Fonte dello Spirito era ormai dimenticata? Il recupero di Firion dalle ferite inflittegli dal Bàlor fu l’occasione per completare il riavvicinamento tra lui e Liriel. L’incantatrice, nel tempo libero dalle lezioni con Aselia, si occupò del ranger per tutto il primo mese in cui fu costretto a letto; poi, quando Firion poté muoversi, Liriel lo sorreggeva tenendolo a braccetto nelle eggiate che facevano ogni sera. In seguito, con la fine dell’autunno, il ranger fu nuovamente in grado di riprendere gli allenamenti e anche lei si concentrò di più sugli studi dell’Eteria, lasciando la sera come momento incantato tra loro. Durante una delle solite eggiate serali, Firion aveva comunicato a Liriel che finalmente si era perfettamente ristabilito e che avrebbe iniziato ad allenarsi insieme a Duncan e agli altri. Quella stessa notte, mentre erano a letto dopo aver fatto l’amore, l’incantatrice lo aveva stupito chiedendogli di sposarla. Dopo un
primo momento di meraviglia, Firion l’aveva abbracciata e le aveva risposto che ne era felicissimo. Però, durante la notte, alcuni strani pensieri tormentarono l’animo di Liriel. Firion stava dormendo al suo fianco e il fuoco ardeva nel camino illuminando e riscaldando la loro stanza. L’elfa si rigirava tra le mani lo strano ciondolo ovale che le aveva regalato il suo maestro Rhao, un giorno che ora le sembrava lontano quasi cinquecento anni. Com’è possibile che il mio maestro sia lo stesso Rhao di questo tempo? Nessuno può vivere cinquecento anni, soprattutto senza quasi invecchiare! A parte le cicatrici sul viso, non ricordo che il mio maestro fosse molto più vecchio del Rhao di questo tempo. E poi cosa significa la frase misteriosa che mi disse quando me lo consegnò: “Non separarti mai dal primo respiro: la sua guida ti servirà”... Una guida per cosa? E perché non dovrei mai separarmene? E cosa significa “primo respiro”? Tante domande a cui si aggiunge il fatto che non percepisco alcun flusso di Eteria nel ciondolo: cosa mai può avere di speciale? Eppure, devo ammettere che quando lo guardo mi lascia una strana sensazione, che non riesco a definire... Chissà, forse dovrei parlarne con Rhao: anche se non è il mio maestro, potrebbe saperne qualcosa... Però, posso fidarmi di lui? Con quest’ultima domanda, anche Liriel finalmente si addormentò.
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La prima notte dell’inverno, Morgase dormiva nella sua piccola casa, nello stesso palazzo del Quartiere Quattro in cui avevano preso alloggio anche i suoi compagni. Aveva ato la giornata nel solito boschetto a esercitarsi con il suo nuovo potere fino a sfinirsi, soddisfatta per avere ottenuto il pieno controllo sulla sua Vista Spirituale. Era rientrata in casa poco dopo il tramonto e aveva subito il fuoco nel camino, poi aveva cenato riscaldando lo stufato che le aveva dato Orson. Terminato di mangiare, si era seduta sulla poltrona davanti al camino e si era avvolta in una coperta; rimase a osservare il fuoco che ardeva e scoppiettava finché, per la stanchezza, non cadde addormentata. Poco dopo, la porta d’ingresso si aprì silenziosamente e una figura scura entrò e si avvicinò alla poltrona su cui la druida dormiva, accoccolata in posizione fetale, coperta fin quasi al volto. Da sotto il mantello nero dell’intruso uscì la
lama di un pugnale, che brillò alla luce del fuoco. Morgase cambiò posizione: si stiracchiò e allungò le gambe e le braccia, facendo cadere la parte superiore della coperta e rivelando la sua nudità. Quel movimento improvviso fece sobbalzare l’intruso e gli fece cadere il cappuccio, rivelando dei corti capelli castani e due orecchie a punta. Nalatien aveva lo sguardo fisso sul seno della druida, che si alzava e si abbassava al ritmo del suo respiro. Lentamente, le avvicinò il pugnale al petto, con la punta rivolta verso il basso Uccidila! Sussurrava perentoria la voce nella sua mente. Affondale la lama nel cuore! Proprio per quello che provi per lei, proprio per quel sentimento lo devi fare! Lei è la tua debolezza, lei è ciò che ti impedisce di abbracciare il potere definitivo. Devi strapparla via da te, devi estirparla dalla tua vita! Finché lei ci sarà, non sarai mai libero di essere ciò che sei destinato a diventare. Avanti, Nalatien, uccidila! Il pugnale era ormai a pochi centimetri dalla pelle della druida, proprio sopra il suo cuore, quando ci fu un improvviso scoppiettio del falò e, per alcuni secondi, la fiamma arse con una luce più intensa, facendo luccicare qualcosa adagiato sul seno destro di Morgase. L’attenzione di Nalatien ne fu attratta e la sua mano tremò quando vide che si trattava di una piuma dorata. L’elfo riconobbe il regalo che le aveva fatto e ricordò quale fosse il suo significato per entrambi. Allora ripose il pugnale nella cintura e risistemò la coperta sul corpo di Morgase. Poi si voltò e uscì. Sei solo un debole, disse delusa la voce nella sua testa. Non raggiungerai mai il massimo potere se resterai ancorato ai futili sentimenti mortali! Entrato nel suo alloggio, accanto a quello di Morgase, Nalatien si sedette sul letto. Aveva ancora davanti agli occhi il seno nudo della donna con la piuma dorata adagiata sopra e quell’immagine ebbe l’effetto di zittire la voce nella sua mente. Aveva promesso che l’avrebbe ascoltata per ottenere un potere che gli altri incantatori non sarebbero riusciti nemmeno a sognare, ma l’interferenza con i suoi sentimenti per Morgase non gli era piaciuta. Allora sorrise e disse alla voce nella sua testa:
«Riuscirò a diventare ciò che devo anche senza il tuo aiuto...»
~ 30 ~
La prigione del Rinnegato
M iranda si fermò davanti alla grande porta della cappella dell’Ordine dei Sacerdoti Guerrieri di Tyran, al sessantaseiesimo piano sotterraneo della Cittadella del Sangue. I due massicci soldati rettiloidi di guardia avevano incrociato le lance per bloccare il aggio, spiegando che avevano ricevuto l’ordine di farli attendere. Ad aspettare con lei c’erano Trisk’Àlish e Ilik’Shacksi: tutti e tre erano stati convocati con urgenza dal console Albios in persona. Evidentemente aveva saputo del successo della loro missione di recupero dell’ultima chiave e voleva verificare di persona che fosse quella giusta, ma a Miranda non convinceva quell’inutile attesa. «Non puoi fare qualcosa?» Chiese a Trisk’Àlish, irritata. «Questa cappella appartiene al tuo ordine: perché dovrebbero impedirti di entrare?» Il chierico rettiloide scosse la testa sorridendo e le rispose con tono calmo: «Non essere impaziente, Miranda: non lasciarti tradire dall’impulsività della tua metà umana. Capisco che in certi casi possa essere una qualità utile, ma questa volta dobbiamo solo aspettare.» Lei lo guardò di sottecchi e aggiunse, leggermente piccata: «Dici così perché sai qualcosa che io non so, vero? Tu sai sempre qualcosa in più rispetto agli altri...» Ilik’Shacksi annuì. «In effetti ho notato anch’io questa tua qualità... E non hai idea di quanto tu possa essere irritante!» Trisk’Àlish sospirò emettendo un lieve sibilo e guardò le sue compagne.
«Tutto quello che so è che non ci sarà solo il Console con noi.» Miranda e Ilik’Shacksi rimasero meravigliate. Poi, l’incantatrice disse piano: «Vuoi dire che ci sarà anche “lui”?» Il chierico si limitò a stringersi nelle spalle, mentre Miranda portò inconsciamente la mano al borsello che aveva alla cintura, e pensò che non era poi stato così facile recuperare quella strana chiave...
... Dieci giorni prima, il primo giorno dell’inverno, Miranda, Trisk’Àlish e Ilik’Shacksi erano stati convocati d’urgenza dal console Albios, nel suo ufficio al sesto piano sotterraneo. All’esterno, nella regione intorno alla Cittadella, aveva cominciato a nevicare già da più di una settimana e muoversi fuori dalle strade principali era diventato molto difficile; la guerra, inoltre, era in una fase di tregua forzata e c’era poco da fare. Per questo Miranda aveva gioito, quando aveva ricevuto la convocazione del Console. Albios si era scusato subito per dover chiedere loro di svolgere una missione in quelle condizioni disagevoli, ma i tre, quasi all’unisono, avevano replicato che era un onore. Allora, compiaciuto, aveva spiegato loro: «Finalmente abbiamo scoperto dov’è nascosta la Chiave dell’Equilibrio, il terzo oggetto necessario per aprire lo Scrigno dei Mali Maggiori. Si trova in un luogo piuttosto impervio: il Bosco Gelido, a nord di Akander, nell’estremità nordorientale delle Terre Libere. Sicuramente, in questo periodo, il bosco darà pieno credito al suo nome, ma si tratta di una condizione necessaria per accedere alla cripta che custodisce la Chiave. Esiste un Nodo poco fuori dalla foresta, quindi dovrete affrontare solo l’ultima parte del viaggio, fino alla cripta che si trova su un’isola in mezzo a un lago ghiacciato al centro del bosco. Che Tyran sia con voi!» I tre avevano accettato l’incarico con entusiasmo e, in poche ore, avevano completato i preparativi. Miranda, inoltre, aveva chiesto e ottenuto di portare per sicurezza anche dieci soldati di scorta, dato che non conoscevano quei luoghi; si erano offerti volontari sei rettiloidi e quattro umani. Quando Ilik’Shacksi le aveva domandato perché non avesse chiesto più soldati, la mezzelfa aveva risposto che un gruppo troppo numeroso sarebbe stato solo d’impaccio, date le
condizioni ambientali del luogo in cui dovevano andare. Il viaggio fino al Bosco Gelido tramite il Nodo fu fin troppo facile. Le difficoltà cominciarono con l’attraversamento del Bosco per arrivare al lago ghiacciato: la causa non fu il freddo intenso, a cui avevano rimediato con adeguati abiti pesanti, ma una tribù di barbari che li assalì, probabilmente perché avevano invaso il loro territorio. Subirono sette scontri in punti diversi del bosco, che comunque videro Miranda e compagni uscire sempre vittoriosi. Nel primo attacco, però, la squadra di Miranda perse due soldati, un rettiloide e un umano, a causa della sorpresa. Trisk’Àlish non poté curarli in tempo e, infuriato, invocò su quella gente l’ira di Tyran: una colonna di fuoco scese dal cielo e incenerì i responsabili dell’imboscata. Negli scontri successivi, i barbari si limitarono ad attaccarli dalla distanza, ma Ilik’Shaksi usò l’Eteria per proteggere dalle frecce i compagni e non ci fu alcuna perdita; gli assalitori, invece, furono facile bersaglio delle saette dei soldati sotto gli ordini di Miranda e delle Palle di Fuoco dell’incantatrice. Un secondo momento critico avvenne nell’ultimo scontro, quando i barbari li affrontarono a viso aperto. Si trovavano in una radura coperta di neve e, in un primo momento, i barbari ebbero la meglio, grazie alla loro migliore capacità di muoversi in quelle condizioni. Quattro soldati, tre rettiloidi e un umano ci rimisero la pelle. A causa dell’attacco ravvicinato, per non rischiare di colpire i compagni, Trisk’Àlish non poté invocare nuovamente l’ira di Tyran, né Ilik’Shaksi poté lanciare le sue Palle di Fuoco. Fu Miranda a risolvere la situazione, attaccando fisicamente gli aggressori con il metodo classico della spada e dello scudo. Dopo un primo attimo di esitazione, anche Trisk’Àlish seguì il suo esempio, impugnando il mazzafrusto a due mani e aiutando così la mezzelfa e i quattro soldati ancora vivi a vincere. L’incantatrice, invece, si era ritirata dietro di loro per poter lanciare indisturbata molteplici Dardi di Luce contro i barbari. Alla fine nessun nemico sopravvisse. Due dei soldati del gruppo di Miranda, un rettiloide e un umano, erano stati feriti gravemente e Trisk’Àlish li curò con le sue preghiere, ma prima li redarguì per la loro scarsa attenzione, poi li spronò a essere più efficienti. I due si rialzarono galvanizzati dalle sue parole di incoraggiamento. Il gruppo riprese ad avanzare nel bosco e giunse al lago ghiacciato senza altri intoppi. La vegetazione, imbiancata dalla neve, si interrompeva bruscamente a una ventina di metri dalla riva, formando come una muraglia in alcuni punti
impenetrabile. I quattro soldati rimasti si allontanarono in due coppie miste per esplorare la zona. «Strano che non ci abbiano attaccati qui» commentò Miranda, guardandosi intorno. «Avrebbero potuto farci fuori facilmente, approfittando della strana conformazione della vegetazione.» Trisk’Àlish indicò l’isoletta che si trovava al centro del lago, con lo strano obelisco di pietra che vi sorgeva. «Forse per loro questo luogo è sacro e non vogliono violarlo. Quella struttura deve essere dedicata alla loro divinità, forse a Nurta, la dea della forza e della guerra.» «Perché pregare una divinità che non ascolta?» Sbottò l’incantatrice, scuotendo la testa. «Capisco il senso di pregare Tyran, o al limite Vàlor, che rispondono alle preghiere con i loro doni, ma cosa può spingere qualcuno a invocare un dio che non risponde?» «A volte la fede non ha bisogno di una risposta» rispose il chierico con uno strano tono enigmatico. «Comunque non si dedica la propria vita a un dio solo per ricevere un contraccambio, lo si fa perché lo si ritiene giusto.» Miranda e Ilik’Shacksi si scambiarono un’occhiata di complicità, poi la prima esclamò: «Chissà se anche ai chierici di Vàlor piace fare i misteriosi...» «Quello che ho intravisto a Sanderia sembrava altrettanto serio» replicò l’incantatrice, «ma preferisco di gran lunga il “mio” chierico!» Gli si avvicinò con uno scatto e lo baciò sulla bocca, lasciandolo sbigottito. Poi aggiunse, voltandosi di nuovo verso Miranda: «E mi piace immensamente sorprenderlo in questo modo e godermi la sua espressione, a metà tra l’imbarazzato e il soddisfatto!» «Tu non sei normale» rise Miranda scuotendo il capo, sapendo che l’incantatrice appariva così disinibita solo perché le guardie si erano allontanate. Uno dei soldati richiamò la loro attenzione: stava camminando sulla superficie ghiacciata del lago senza problemi. Allora si misero in marcia verso l’isola al
centro del lago, facendo attenzione a non scivolare. Durante il tragitto, Ilik’Shacksi rimase attaccata al braccio di Trisk’Àlish per sentirsi più sicura, ma sembrava ugualmente inquieta. Appena raggiunsero la riva dell’isola, Ilik’Shacksi si accasciò a terra, tenendosi la testa tra le mani. Subito Trisk’Àlish e Miranda si voltarono verso di lei, mentre i soldati si disposero a difesa in cerchio intorno a loro. «Che succede Ilik’?» Le chiese il chierico, inginocchiandosi al suo fianco. Stava per prenderle la mano, quando notò che era sporca di sangue e capì che l’incantatrice aveva usato un incantesimo della Scuola del Sangue. D’istinto elevò una rapida preghiera guaritrice. Avvertendone l’effetto curativo, Ilik’Shacksi sollevò lo sguardo su di lui. «Perdonami se ti ho fatto preoccupare, ma dovevo farlo. Come Elementalista non posso lanciare incantesimi di divinazione, ma con la Scuola del Sangue posso disporre di surrogati altrettanto efficaci.» Trisk’Àlish le prese la mano che aveva appena guarito e la baciò. «Non ce l’ho con te per aver usato la Scuola del Sangue, soltanto vorrei che mi avvertissi quando lo fai, perché così posso essere pronto per aiutarti, dopo lo sforzo che ti viene richiesto.» Gli sorrise, grata della sua premura, poi riprese spiegando: «È stata un’esperienza molto strana. Appena abbiamo messo piede sulla superficie ghiacciata, ho iniziato a estendere i miei sensi con l’Eteria di Sangue e ho percepito diverse creature minacciose che dimorano nelle acque del lago. Non sono riuscita a capire che tipo di creature fossero, ma sono sicura che non sono di questo mondo.» Il chierico aiutò l’incantatrice a rialzarsi, poi scambiò un’occhiata con Miranda ed esclamò: «Dev’essere questo che intendeva il Console riguardo la necessità delle condizioni glaciali dell’inverno!» «Sicuramente!» Confermò Miranda indicando il lago. «Se la superficie non fosse
stata ghiacciata, quelle creature sarebbero state libere di assalirci! Sono certa che è per paura di loro che i barbari non ci hanno attaccati qui!» Con un sorriso compiaciuto, Trisk’Àlish aggiunse: «Ma, grazie a Tyran, il tempo in queste condizioni avverse ci è stato propizio!» Mentre Trisk’Àlish rimaneva con Ilik’Shacksi per assicurarsi della sua salute, Miranda si avvicinò all’obelisco di pietra. La base era a pianta quadrata, larga circa cinque metri, e la struttura si rastremava verso l’alto fino alla punta, a circa una ventina di metri di altezza. Sembrava composto da un unico pezzo: le pareti erano completamente lisce, senza simboli o iscrizioni. Una parete era in parte coperta da una fitta serie di arbusti e la mezzelfa vi trovò un ingresso, privo di porta o altre protezioni. Se qui dentro c’è qualcosa di così prezioso come la chiave dello Scrigno, pensò dubbiosa, perché è tutto aperto? Perché non ci sono iscrizioni o altri tipi di indicazioni? Non mi piace per niente... Miranda chiamò i soldati e chiese due volontari che andassero in avanscoperta. Tutti e quattro si offrirono e allora ne scelse due, un umano e un rettiloide, e ordinò agli altri di restare di retroguardia, pronti a intervenire in soccorso. Poi attese che Trisk’Àlish e Ilik’Shacksi li raggiungessero. Prima di entrare nell’oscurità della cripta, l’incantatrice creò una bolla luminosa che galleggiava a mezz’aria poco sopra la sua testa. I due soldati in avanscoperta, non del tutto raggiunti dalla sua luce, preferirono illuminare davanti a loro con le lanterne. Oltreato l’ingresso, una lunga e stretta serie di gradini scendeva piuttosto ripidamente. La superficie degli scalini era ricoperta di ghiaccio e costrinse il gruppo a una lenta discesa. In fondo iniziava un corridoio largo e alto circa due metri, che curvava costantemente verso destra, continuando gradatamente a scendere. Il pavimento era ghiacciato, ma ciò che inquietava era l’aria stranamente immobile, come se anch’essa fosse congelata. Dopo circa mezz’ora di cammino, il corridoio terminò bruscamente, senza alcuno sbocco. Dovevano essere a circa cinquanta metri di profondità e cominciavano a fare fatica a respirare. I due soldati in avanscoperta esaminarono il muro alla fine del corridoio e riferirono che non c’era assolutamente niente, né
fori né leve. «Non è possibile che non ci sia nulla» sbottò Miranda avvicinandosi al muro. «Fatemi dare un’occhiata!» «Cosa pensi di trovare in più dei soldati?» Le chiese l’incantatrice, demoralizzata, rabbrividendo per il freddo ora più intenso. Trisk’Àlish le mise una mano sulla spalla e le rispose con un sorriso rassicurante: «Anche tu dimentichi troppo facilmente che è una mezzelfa... I suoi sensi sono più acuti dei nostri e non sarebbe la prima volta che risultano determinanti per il successo delle nostre missioni. Lasciala fare.» Miranda si mise a esaminare attentamente il muro di fronte a loro, che era completamente liscio e senza alcun segno o graffio, in cerca anche del più piccolo difetto. Non è possibile che la strada finisca qui! Pensò irritata. Non si costruiscono un obelisco e una cripta sotterranea per niente. Deve esserci qualcosa che ci indichi come continuare... In un gesto disperato, ormai priva di altre soluzioni, si tolse il guanto di lana dalla mano destra: forse il tatto avrebbe potuto notare qualcosa che sfuggiva ai suoi occhi. Non appena le dita toccarono la superficie di pietra, sul muro brillò il simbolo di una stella a sei punte, con al centro il corpo sensuale di una donna che, quasi subito, venne sostituito dal simbolo di un cerchio con una spada disposta orizzontalmente lungo il diametro. Questo rimase visibile per un paio di secondi, poi svanì. E con esso anche il muro. Miranda si voltò di scatto verso Trisk’Àlish, sgomenta: «Cos’è successo?» Il chierico avanzò di qualche o verso di lei e commentò ad alta voce: «Ma certo, dovevo capire che fosse così! Perché non ci ho pensato prima?» «Che intendi dire?» Gli chiese Miranda, indicando quasi con orrore il aggio
che si era misteriosamente aperto. «Sono stata davvero io?» Trisk’Àlish annuì con un sorriso. «Hai visto i due simboli che si sono succeduti sul muro: il primo era quello di Ardèsia, la dea creatrice degli elfi, il secondo era quello di Samas, il dio del giudizio e dell’equilibrio.» «E allora?» «La chiave custodita qui è quella dell’Equilibrio, cioè quella legata al terzo polo della Triade, presieduto da Samas. Ma all’inizio il terzo polo della Triade era Ardèsia! I primi tre dèi della Triade sono anche quelli che hanno creato le tre razze di Amnia. Evidentemente, per qualche motivo che ignoro, Ardèsia è ancora legata al Polo dell’Equilibrio e di conseguenza lo sono anche le creature da lei create.» «Ho capito!» Lo interruppe Miranda, raggiante. «Dato che io sono per metà elfa, la mia natura è stata la chiave per accedere all’interno della cripta!» «Esatto!» Confermò lui. Poi, con un sorriso compiaciuto, si voltò verso Ilik’Shacksi e le disse: «Hai visto che il suo aiuto è sempre determinante?» La rettiloide gli rispose con una smorfia, mentre Miranda si ritrovò a pensare: Non sarà davvero gelosa di me? Trisk’Àlish è solo un caro amico, ma niente di più... Inoltre non potrebbe mai funzionare fisicamente tra noi, e lei dovrebbe saperlo... Non ci furono altri commenti e il gruppo riprese ad avanzare nel nuovo corridoio. Dopo poco il soldato umano in avanscoperta si accasciò lentamente a terra. Subito il suo compagno rettiloide fece cenno agli altri di fermarsi e si chinò per accertarsi dell’accaduto, ma dopo pochi istanti anche lui si accasciò, esanime. Tutti si bloccarono, terrorizzati. Ilik’Shaksi iniziò a preparare un incantesimo di attacco che potesse avere efficacia in quel luogo angusto, mentre i soldati sguainarono le armi e assunsero un posizione di difesa. Poi, però, Miranda chiese ad alta voce:
«Perché le lanterne dei soldati si sono spente?» A quella semplice domanda, Trisk’Àlish realizzò che la fatica nel respirare non dipendeva dalla stanchezza. Allora chiamò tutti vicino a sé ed elevò una preghiera: «Potente Tyran, tu sei il creatore della razza dei rettiloidi, ma accetti tra i suoi fedeli anche coloro che da te non furono creati. Potente Tyran, ascolta la preghiera del tuo servo che invoca il tuo aiuto. Dona a noi che siamo nel pericolo la capacità di respirare dove non è possibile. Ti prego, potente Tyran, concedici di completare la missione che ci è stata affidata per la tua gloria.» Pochi istanti dopo, respirare fu per tutti più facile. «Qui sotto non c’è aria» spiegò rapidamente il chierico. «La preghiera che ho proclamato non ha una lunga durata e non posso ripeterla perché, a lungo andare, danneggia i polmoni. Troviamo alla svelta questa Chiave dell’Equilibrio, poi usciamo subito da qui. Penseremo dopo a onorare il sacrificio di quei soldati.» «Aspettate!» Intervenne Ilik’Shacksi, mostrando il palmo della mano macchiato di sangue, per indicare che aveva appena eseguito una divinazione. «La situazione è ben peggiore. Un antico e potente incantesimo permea queste mura di pietra: non so come possa essere stato ideato o formulato, ma in pratica le particelle che compongono l’aria sono come congelate, rendendole impossibili da respirare. Inoltre, a qualsiasi cosa toccata dalle particelle viene trasmessa questa immobilità estrema che ne disgrega l’interno, lasciando un guscio vuoto. Fortunatamente l’effetto è concentrato davanti a noi, come una bolla che circonda la zona in cui si trova la Chiave e che, a quanto pare, comincia dove i soldati si sono accasciati a terra. La nostra attuale difficoltà a respirare deriva dalla vicinanza a quest’area, che riflette in parte i suoi effetti anche sull’aria circostante...» «Allora che facciamo?» Chiese Miranda demoralizzata. «Siamo bloccati qui? Dobbiamo abbandonare la missione?» «Purtroppo, come hanno scoperto loro» le rispose l’incantatrice indicando i due soldati a terra, «andare avanti è diventato piuttosto complicato adesso.» «Non c’è nulla che puoi fare con la tua Eteria?»
Ilik’Shacksi assunse un’aria incredula ed esclamò: «Questa me la devo ricordare: la scettica Miranda che chiede l’aiuto dell’Eteria!» Poi tornò seria e aggiunse: «Purtroppo, senza conoscere l’incantesimo, non posso sapere quale contromisure adottare.» Si girò verso Trisk’Àlish e riprese: «Forse adesso dovremo davvero fidarci di un chierico e del suo dio...» Trisk’Àlish guardò le due donne con una punta di perplessità. «Non mi è chiaro se il tuo sia un complimento, ma una cosa è certa: se qui è implicato il potere della Triade, allora Tyran è davvero la soluzione. Conosco una preghiera molto potente, che potrebbe funzionare in questa situazione, ma posso are solo il flusso di energia divina necessario per una persona...» Miranda si avvicinò a lui con aria decisa e disse: «Allora falla su di me! Quella porta si è aperta per la mia natura, quindi devo essere io ad andare.» Nessuno poté contestare le sue parole. Il chierico si portò davanti alla mezzelfa e le impose le mani sulla testa, proclamando la sua preghiera: «Potente Tyran, dio della Forza e della Vendetta, ascolta la preghiera del tuo servo. Grande Tyran, tu che accogli chiunque voglia mettere la sua forza e le sue capacità al tuo servizio, non distogliere il tuo sguardo fiero da coloro che agiscono in tuo onore. La situazione si è fatta disperata e solo con il tuo aiuto potente possiamo portare a compimento ciò che è necessario per la tua gloria e la tua vittoria. Infondi su questa mezzelfa la forza della tua volontà, rendi il suo corpo invulnerabile e il suo spirito incorruttibile, rendila capace di donarti una vittoria che altrimenti sarebbe impossibile. Ascoltami, potente Tyran, e per la tua gloria esaudiscimi!» Di colpo tutti i dubbi di Miranda si dissolsero e si sentì rinvigorita e piena di forze. Un tenue alone di luce rossastra circondò il suo corpo, segno visibile che la preghiera di Trisk’Àlish era stata esaudita. «Non perdere tempo ora» le disse con un filo di voce, visibilmente affaticato. «Questa preghiera non può durare molto, perché consuma parecchia energia, anche la tua.»
Senza alcuna esitazione, Miranda annuì e andò avanti con i veloci, superò i corpi dei due soldati e uscì rapidamente dalla vista dei compagni. Avvertì soltanto l’inizio di un lieve senso di oppressione quando raggiunse i due cadaveri, senza alcun altro effetto. Il corridoio terminò in una piccola stanza dalle pareti di pietra, spoglie e grezze. Due elementi, però, facevano comprendere che quel vano non era così insignificante come sembrava. Il primo era la parete opposta all’ingresso, fatta interamente di ghiaccio, oltre la quale si intravedevano muoversi strane forme di varie dimensioni. Il secondo era al centro della stanza: un piedistallo con un leggio, tutto di ghiaccio, che emanava una tenue luce azzurra. Sulla sua superficie si vedeva appena accennata una stella a sei punte con al centro il corpo di una donna, sovrastato da un ben più marcato cerchio con una spada orizzontale lungo il diametro. Miranda riconobbe subito i due simboli e uno strano brivido le percorse la schiena. Poi, non potendo indugiare in esplorazioni, si avvicinò rapidamente al piedistallo e toccò la superficie del leggio, in corrispondenza del simbolo di Ardèsia. Per un attimo ebbe l’impressione che qualcuno le stesse aprendo la mente come un libro. Quando la sensazione cessò, vide che il leggio si era aperto, rivelando una nicchia: all’interno c’era uno cristallo azzurro dalla forma simile a un pestello, lungo circa dieci centimetri. Lo prese in mano e notò che una delle due estremità era concava e portava impresso il simbolo di Samas. All’improvviso Miranda sentì di fare fatica a respirare, mentre la vista iniziava ad annebbiarsi. Cercando di controllare il panico, iniziò a correre per tornare dai suoi compagni. Non appena li raggiunse, si accasciò a terra senza più forze e subito Trisk’Àlish elevò una preghiera di guarigione...
... Miranda si riscosse dai suoi ricordi, quando le guardie diedero loro il permesso di accedere alla cappella. Mentre entrava con Trisk’Àlish e Ilik’Shacksi, le tornò in mente che il viaggio di ritorno era stato agevolato dalla presenza di un Nodo a nord-est, su una spiaggia ghiacciata, anche se avevano camminato più di tre giorni attraverso il bosco per raggiungerlo. La cappella era piuttosto spoglia e austera, illuminata soltanto dalle candele
votive poste sopra il basso altare davanti alla statua di Tyran. Le due persone presenti si voltarono verso di loro: una era il console Albios, con il volto coperto dalla maschera che ne indicava il ruolo, l’altra era Aval’Dyr. Era un uomo alto e robusto, di bell’aspetto e dalla carnagione olivastra; lunghi capelli bianchi scendevano dietro la schiena fino alle scapole e un ciuffo sulla fronte gli copriva l’occhio sinistro; quello destro, ben visibile, aveva l’iride rosso fiammante e la pupilla a fessura verticale, simile a quella di un serpente. Indossava camicia e pantaloni neri; sopra aveva una larga giacca rossa con un ampio colletto che si sollevava dietro il collo. Come lo videro, tutti e tre caddero in ginocchio, inchinando il capo. Quasi subito Aval’Dyr disse loro con voce chiara e profonda: «Alzatevi! Avete dimostrato la vostra lealtà con le vostre azioni, non c’è bisogno che vi inginocchiate.» I tre si alzarono, lievemente stupiti dalle sue parole. Miranda sfilò dalla cintura il borsello che conteneva la Chiave dell’Equilibrio e la porse ad Aval’Dyr. Questi le si avvicinò e prese con delicatezza ciò che lei gli offriva. «Grazie per la vostra impresa» riprese Aval’Dyr ando lo sguardo su tutti e tre. «Avete subito diverse perdite per recuperare questo oggetto e lo scrigno a esso correlato, ma sappiate che quei sacrifici non sono stati vani, perché finalmente la vittoria sarà nostra!» Si voltò verso il Console e gli disse: «Albios, deponi lo Scrigno dei Mali Maggiori sull’altare di Tyran, al centro del sigillo delle candele.» Mentre il Console eseguiva quanto gli era stato comandato, i tre notarono che le candele sull’altare avevano una disposizione che formava una doppia spirale. Quando lo strano scrigno cubico di ossidiana fu in posizione, i segni sconosciuti tracciati sulle facce laterali iniziarono a brillare come un caleidoscopio di colori, mentre i diamanti, posti sulla faccia superiore ai vertici del triangolo d’oro, si illuminarono ciascuno di una luce dorata, rossa e azzurra. «Ecco!» Esclamò Aval’Dyr compiaciuto. «Adesso possiamo aprirne il coperchio senza rischiare che ciò che vi è rinchiuso possa uscire.» Sorridendo ad Albios
aggiunse: «Non è qui che dovrà accadere.» A quelle parole Miranda, Trisk’Àlish e Ilik’Shacksi provarono un misto di timore e di speranza: comprendevano la pericolosità di ciò che avevano davanti, ma ora avrebbero avuto la rivelazione su quale fosse il piano cui avevano contribuito. Aval’Dyr estrasse dal borsello di Miranda la Chiave dell’Equilibrio, il cristallo azzurro cilindrico con il simbolo di Samas impresso nell’estremità concava, e la porse ad Albios, che intanto aveva tirato fuori da una delle tasche della sua tunica altri due cristalli simili, uno di colore rosso e l’altro dorato. Con le tre Chiavi in mano, il Console si portò di fronte allo scrigno. «Avvicinatevi» disse Aval’Dyr ai tre. «È giusto che anche voi vediate l’arma finale che avete contribuito a recuperare.» Col fiato sospeso, si affiancarono ad Aval’Dyr, a due i dall’altare. Avevano una vista perfetta del coperchio dello scrigno, su cui i tre diamanti risplendevano intensamente. Albios appoggiò l’incavo del cristallo azzurro sul diamante dello stesso colore e gli fece compiere un giro completo in senso orario. Poi prese nella mano sinistra il cristallo rosso e nella destra quello dorato, li appoggiò sui rispettivi diamanti e li ruotò in modo speculare. Dall’interno dello Scrigno dei Mali Maggiori giunse come il rintocco di una campana, poi il coperchio si aprì, girando su se stesso di quarantacinque gradi. Tutti guardarono attraverso i quattro spiragli che si erano aperti in corrispondenza degli angoli dello scrigno, e videro qualcosa muoversi al suo interno: all’inizio era solo una forma scura, nebulosa e non ben definita, ma presto divenne una voluta di fumo dai riflessi viola scuro che vorticava in quello spazio angusto. «Mantus» esclamò Aval’Dyr indicando lo scrigno aperto. «Questo è il nome di colui che è rinchiuso lì dentro da moltissimo tempo: Mantus, il dio rinnegato. Grazie a lui, la Roccaforte del Sole cadrà, l’Esercito di Vàlor si disperderà ai quattro venti e l’Impero di Anosia sarà nostro!» Si voltò verso Miranda e aggiunse: «A te ho deciso di affidare l’onore di compiere la mossa finale: l’armatura che ti ho ordinato di farti costruire ti proteggerà dal suo influsso.»
Tornò a guardare lo scrigno e commentò con enfasi: «Ora non c’è più niente che può contrastarci. Con questa mossa il destino è compiuto: abbiamo vinto!»
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Il mastro fabbro Hangus di Verklunder era chiuso da solo in una stanza speciale della forgia nell’ottantesimo piano sotterraneo della Cittadella del Sangue. Si accarezzava pensieroso la lunga e folta barba scura, mentre osservava per l’ennesima volta l’armatura che il prefetto Miranda gli aveva commissionato circa tre mesi prima. L’aveva sistemata su un manichino modellato sulle misure del corpo della mezzelfa, in modo da non commettere errori: per funzionare pienamente, infatti, questo tipo di armature doveva essere in perfetta armonia con chi l’avrebbe indossata. La corazza copriva praticamente tutto il corpo ed era completamente nera, eccetto per alcune rifiniture in verde e rosso nelle articolazioni. In molti punti erano stati incisi diversi simboli eterici: solo con la particolare luce radente che illuminava l’armatura in quel momento potevano essere visti. Non era stato facile fondere l’ossidiana e combinarla con l’acciaio, così come erano state necessarie parecchie prove prima di ottenere l’oro rosso e l’oro verde della tonalità giusta da applicare per le rifiniture. Per chi non avesse la sua capacità di infondere l’Eteria nei metalli, sarebbe stato un lavoro impossibile. E, purtroppo, quello era il motivo per cui era chiuso nelle profondità della maledetta Cittadella del Sangue. Hangus era originario di Metallia, la più famosa città mineraria di Amnia, posta in un altopiano nelle Montagne Rocciose settentrionali, nelle Terre Libere. Aveva ereditato da suo padre la forgia di famiglia, la ione per la lavorazione dei metalli e, cosa molto più importante, la rarissima capacità di infondere l’Eteria nei metalli che lavorava, così da riuscire a realizzare manufatti di qualità eccezionale e unica. Non era un semplice “mastro fabbro” come tanti altri, ma un rarissimo “fabbro eterista” e le sue realizzazioni erano molto richieste, soprattutto dai nobili e dagli alti ufficiali. Sua moglie Ilas si occupava di gestire le ordinazioni e i pagamenti: i tempi di lavorazione erano lunghi e non poteva soddisfare tutte le richieste, ma lei era abile a trarre guadagni più che sufficienti
per una vita tranquilla e dignitosa per loro e per la figlia Sevra. L’anno prima che cominciasse la guerra, un esercito dell’Egemonia era giunto a Metallia e l’aveva conquistata cogliendola di sorpresa: i soldati erano arrivati in silenzio, alle prime luci dell’alba, e avevano occupato rapidamente i luoghi chiave della città. Il giorno stesso, il console Albios aveva dichiarato pubblicamente che Metallia si era unita all’Egemonia. Poi cominciarono le deportazioni di coloro che sarebbero stati utili all’esercito: Hangus era stato tra i primi, proprio perché era un fabbro eterista. Non aveva potuto rifiutarsi: se non avesse accettato di andare, sarebbe stato rinchiuso insieme alla sua famiglia nel Carcere di Yonada, famoso perché da lì nessuno usciva vivo. Venne condotto prima a Penthana, la capitale dell’Egemonia, poi, dopo l’inizio della guerra, fu portato alla Cittadella del Sangue. Realizzare armi e armature era un lavoro ordinario che non gli dava alcuna soddisfazione, fino a che non gli venne richiesto di forgiare quella potente armatura. Il rumore della chiave che apriva la porta della stanza interruppe i suoi pensieri. Hangus si voltò e vide il prefetto Miranda che entrava con un portamento fiero e deciso, seguita da due soldati. «Mastro Hangus» lo salutò quando si fermò a pochi i da lui. «Prefetto Miranda» le rispose, senza inchinare la testa. Miranda stava per rimproverarlo per la sua irriverenza, ma Hangus la precedette, indicando il manichino al centro della stanza: «L’Armatura della Luna Oscura è pronta. Ora la vostra missione può avere inizio.»
~ 31 ~
Punto di non ritorno
J oel e Inza stavano eggiando al chiaro di luna, in uno dei giardini del Quartiere Quattro, vicino a dove la Maschera aveva preso alloggio. Il terreno e gli alberi erano tutti imbiancati: aveva nevicato fino al giorno prima ma, finalmente, il tempo si era calmato e nel pomeriggio era apparso addirittura il sole. Come accadeva quasi ogni sera da quando si erano tutti ristabiliti, avevano cenato insieme ai compagni provenienti dal futuro, più Orson. Durante la cena, Nalatien era stato più silenzioso e distaccato del solito, ma Morgase aveva finto di non accorgersene. Erano entrambi avvolti in un ampio mantello pesante di pelliccia per contrastare il freddo, ma si vedeva chiaramente che la donna indossava anche l’armatura. La Maschera lo aveva già notato a cena, né gli era sfuggito che perfino Duncan la indossava. Allora, adesso che finalmente erano soli, iniziò un discorso che finora era riuscito a trattenere solo con grande difficoltà: «È una regola inderogabile per voi paladini quella di indossare sempre l’armatura? Capisco quando siete in servizio, ma anche ora che ci stiamo rilassando? E quando vai a letto come fai? Hai anche la vestaglia fatta di maglie di ferro?» Inza finse solo per un attimo di arrabbiarsi per il suo sarcasmo. Ormai, dopo quasi quattro mesi, aveva iniziato a conoscerlo e sapeva che era il suo modo di fare per mascherare la timidezza o l’imbarazzo. Allora, dopo qualche attimo in cui aveva simulato il broncio, gli sorrise ammiccando e gli ribatté con voce suadente: «Ti piacerebbe scoprirlo?» Joel rimase interdetto, piacevolmente interdetto. Poi, però, cambiò discorso e le
chiese: «Sei stata un po’ troppo seria a cena, più del tuo solito. È forse successo qualcosa?» Lei scosse la testa con un’espressione dispiaciuta sul volto. «Questa mattina mio padre mi ha chiesto di nuovo di raggiungere mia madre e mio fratello a Nettunia, la capitale dell’Alleanza Posidonia. Stavolta era molto più deciso: aveva perfino chiesto all’evocatore Lumis di teletrasportarmi a Camaran, e poi là aveva addirittura prenotato una nave per Posidonia...» «Lo ha chiesto anche a tua sorella?» «Non saprei, ma suppongo di sì. Non gli è mai piaciuto che io e Korin ci siamo ritrovate in piena zona di guerra, e ha sempre detto di preferire che entrambe avessimo avuto il buon senso di nostro fratello Boran di starcene ben lontane. Non ha mai capito niente di noi.» All’improvviso Inza provò un senso di vertigine e un forte brivido gelido lungo la schiena. Nel vederla rabbrividire, Joel si avvicinò e le circondò le spalle con una parte del proprio mantello per riscaldarla un po’. «Tutto bene?» Le chiese preoccupato. «Vuoi tornare a casa?» Lei scosse la testa: «No, è stato solo un momento: ora è ato.» Chinò la testa sulla sua spalla e aggiunse: «Ti prego, restiamo così ancora un po’...» L’uomo non vedeva alcun motivo per negarle quel favore e, anzi, ne approfittò per stringersi un po’ di più a lei. I due si erano fermati a guardare il cielo, osservando la luna quasi piena e le stelle. Joel aveva appena alzato un braccio per indicarle la costellazione degli amanti, quando gli astri sparirono e il cielo divenne opaco e lattiginoso. Inza rabbrividì e mormorò: «No, non è possibile...»
Il cielo si ruppe, come il vetro di una finestra colpito da un sasso. I suoi frammenti caddero e si dissolsero in deboli scintillii di luce bianca. La luna e le stelle tornarono a splendere in un cielo notturno che però non sembrava più lo stesso. «Che sta succedendo?» Chiese Joel, spaventato. Inza, col cuore in gola, rispose con un sussurro: «Siamo tutti in pericolo: non so come sia potuto accadere, ma la Sacra Barriera è caduta...»
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Nalia e Rhao erano usciti sulla terrazza della camera da letto della Gran Sacerdotessa, per guardare il cielo stellato e i tetti innevati degli edifici della Roccaforte. Quando si era appartata nelle sue stanze con il Generale, la sacerdotessa aveva congedato le accolite Helen e Korin, ma sapeva che sarebbero rimaste fuori dalla porta insieme alle guardie di Rhao. Erano gli svantaggi di essere una persona importante e un possibile bersaglio del nemico. Nalia indossava una lunga tunica di lana bianca con fregi d’oro intorno al collo e in fondo alle maniche. Si appoggiò alla balaustra del terrazzo e sollevò lo sguardo verso la luna. «Perché sei così pensierosa?» Le chiese Rhao, mentre le sistemava un mantello di pelliccia bianca sulle spalle. La donna se lo strinse meglio sul petto e si voltò verso di lui, accarezzandogli la guancia. Il Generale indossava in modo impeccabile la sua solita armatura di un blu scuro quasi nero, oltre a un pesante mantello azzurro sulle spalle. «Sono tre giorni che una spiacevole sensazione mi tormenta. È come se avvertissi l’imminenza di un fatto drammatico e doloroso, ma un muro di nebbia mi impedisse di vederlo. È frustrante!»
Rhao le sfiorò i capelli, poi li raccolse lentamente in una lunga coda, continuando ad accarezzarli. Sapeva che quel gesto affettuoso aveva l’effetto di calmarla. «Qualunque cosa stia per succedere, noi ne usciremo, come abbiamo sempre fatto. Niente ci potrà separare, niente ci potrà sopraffare. Abbiamo il dovere di portare a termine ciò che siamo stati chiamati ad affrontare. E non falliremo.» Nalia gli sorrise, poi si voltò di nuovo a osservare la luna. «A proposito, ho saputo che ieri hai avuto un colloquio con la tua allieva del futuro...» Rhao scosse la testa, lasciandosi scappare un mezzo sorriso. «Voleva sapere informazioni su un medaglione che le avrei regalato nel suo presente... Ovviamente, non avevo alcuna risposta da darle.» La sacerdotessa si voltò di nuovo verso di lui e disse, pensierosa: «So che ne abbiamo già parlato altre volte, ma continuo a trovare strano che quelle persone venute dal futuro non abbiano mai sentito parlare di questa guerra: un evento di così grande importanza ed estensione non può essere stato dimenticato. Tu sostieni che questo fatto sia irrilevante, ma io non sono d’accordo... Secondo me c’è qualcosa che ci sfugge...» Si interruppe all’improvviso, avvertendo una sensazione dolorosa che le opprimeva il petto. Anche Rhao aveva percepito qualcosa. Poi dal cielo scomparvero la luna e le stelle. «No, non è possibile» mormorò Nalia sgomenta. «Lo hanno liberato davvero! Mantus è qui!» Mentre la Sacra Barriera andava in frantumi, Rhao le disse: «Occupati della difesa della Roccaforte con Dario: tra non molto saremo sotto attacco. Io penso a Mantus!» E subito corse fuori dalla camera. La Gran Sacerdotessa fissò la porta che il Generale aveva lasciata aperta e sussurrò con un groppo in gola:
«Ti prego, fa’ attenzione...»
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Miranda era da sola nell’oscurità, nella Valle dei Piccoli Laghi al centro dell’Impero di Anosia. Sapeva che quella maledetta Roccaforte del Sole doveva essere da qualche parte davanti a lei, anche se i suoi occhi non vedevano altro che una pianura vuota. L’incantatore incaricato del suo teletrasporto le aveva assicurato che sarebbe arrivata in una zona sicura, ma da lì avrebbe dovuto muoversi almeno per due ore verso sud. Adesso aveva raggiunto il punto indicato e stava attendendo che scattasse l’ora dell’attacco. La mezzelfa aveva indosso l’Armatura della Luna Oscura, che la rendeva quasi invisibile nell’oscurità della notte, e stringeva tra le mani lo Scrigno dei Mali Maggiori. Aval’Dyr le aveva assicurato che la corazza l’avrebbe protetta all’apertura dello Scrigno, anche se non le era del tutto chiaro da cosa. Tutto ciò che sapeva era che la vittoria dipendeva da lei. Miranda vide apparire la Stella della Notte che, come sempre, usciva da dietro la luna un’ora prima della mezzanotte. Quello era il segnale concordato per dare inizio all’attacco. Appoggiò lo Scrigno a terra e tirò fuori dalla tasca le tre Chiavi cristalline. Dopo un profondo respiro, si inginocchiò e ripeté la manovra che aveva visto fare al console Albios. Quando risuonò il rintocco di una campana, i tre cristalli penetrarono nel coperchio, mentre questo ruotava aprendo lo scrigno. Miranda venne investita da una potente ondata di malevolenza, che però non la sconvolse come avrebbe dovuto. Osservando le scintille violacee che si erano formate sull’armatura nera, la mezzelfa realizzò che, se fosse stata senza protezione, la sua mente sarebbe impazzita e il suo corpo sarebbe stato dilaniato. Dai quattro spiragli aperti sullo scrigno, cominciò a uscire un denso fumo di colore violaceo, che si aggregò in una forma ovoidale sopra di lei. «Finalmente libero!»
La mezzelfa rabbrividì, percependo tutta la carica di malevolenza e di potenza di cui erano intrise quelle due semplici parole. Il fumo avanzò e penetrò senza difficoltà attraverso la barriera della Roccaforte, generando in quel punto una rapida serie di onde, simili a quelle che si formano su uno specchio d’acqua. Miranda era rimasta molto turbata da ciò che aveva percepito da Mantus. La sua potenza sembrava infinita, così come la malevolenza che emanava. Non so se sia stato un enorme errore liberare un essere così potente, ma ormai il punto di non ritorno è stato superato: adesso possiamo soltanto andare avanti e sperare nella nostra vittoria. Si rialzò in piedi con fierezza e aggiunse: Finalmente avrò la mia vendetta contro questa odiosa Roccaforte! Padre, oggi vendicherò la tua morte! Accarezzando questo pensiero, Miranda appoggiò la mano sul pomello della spada e rimase in attesa della caduta della barriera, per poter cominciare l’attacco finale.
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Rhao era salito fino in cima alla torre con una velocità incredibile. Trovò la stanza inaspettatamente buia, senza alcuna traccia né del Serafino né del cristallo azzurro a forma di prisma. Nell’aria circolava un leggero profumo di fiori. L’oscurità non era un problema per lui, ma provò uno strano brivido quando attivò la Visione Notturna con una rapida serie di movenze. Sulle pareti vide grondare uno strano liquido dorato, che era l’origine del profumo floreale, mentre sul pavimento davanti a lui c’erano una mano dorata, in parte annerita, e un pezzo di ala con le piume carbonizzate. Con tristezza non poté far altro che confermare che il liquido dorato era il sangue dell’angelo e ciò che rimaneva del suo corpo era sparso in brandelli per tutto il pavimento. Anche il cristallo azzurro era in terra, ridotto in briciole. Allora indurì il proprio cuore e, con lo sguardo fisso sul podio di pietra vuoto, commentò in tono gelido:
«Il Trietere distrutto, un Serafino assassinato... Altre colpe si aggiungono a quelle che ti hanno fatto rinchiudere nello Scrigno dei Mali Maggiori, dio rinnegato!» Sollevò la mano destra, nella quale comparve una spada dalla lama di ghiaccio. «Vieni fuori Mantus, so che sei qui!» Una massa di fumo violaceo uscì dall’oscurità del sottotetto e puntò rapida verso di lui. Rhao, però, fu più veloce: si voltò e lo traò di netto con la lama della Gelida, ma la nube si aprì incredibilmente a metà ed evitò l’affondo. Dopo essersi riunita, assunse un aspetto allungato, simile a una spira di serpente, e iniziò a volteggiare in cerchio sopra la testa di Rhao, fuori dalla sua portata. Mantus sussurrò con un tono compiaciuto: «Finalmente sono libero! Dopo innumerevoli secoli di prigionia, qualcuno è stato tanto pazzo da liberarmi e mi ha fatto trovare il contenitore adatto per manifestarmi in tutta la mia potenza su Amnia.» «Non crederai davvero che io lo permetta? Tu non uscirai mai da questa torre!» Rhao compose una rapida sequenza di movenze e un fulmine globulare penetrò all’interno della stanza, colpendo in pieno Mantus. Una potente esplosione fece crollare buona parte della torre e, un istante dopo, una fine pioggerella iniziò a cadere sopra la Roccaforte.
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Morgase si era distesa da poco sul letto, esausta e delusa per come era andata la serata. Aveva sperato di far aprire un po’ Nalatien che, dopo Sanderia, si era sempre più isolato dagli altri. L’unica cosa che sembrava interessargli era imparare nuovi incantesimi. Alcune volte le sembrava che l’elfo volesse dirle qualcosa, le pareva di vedere nei suoi occhi quella luce apionata che aveva avuto quando le aveva promesso di renderle ciò che le era stato strappato via; poi, però, lo sguardo di Nalatien tornava quello freddo e distaccato che lei detestava e si voltava dall’altra parte.
Dei forti rumori provenienti dalla strada risvegliarono la druida dal sonno e da quei pensieri morbosi. Sembrava quasi che ci fosse una festa con balli movimentati, urla sguaiate e tamburi... Oppure che ci fosse una battaglia... Quell’ultimo pensiero la svegliò del tutto e Morgase scattò a sedere sul letto. Ora avvertiva chiaramente che la confusione proveniente da fuori era di una battaglia in corso. Mentre si rivestiva in fretta, si avvicinò alla finestra per dare un’occhiata alla strada attraverso le feritoie delle persiane: due soldati di Vàlor combattevano contro tre di Tyran, mentre altri due compagni di questi ultimi sfondavano la porta della casa di fronte e appiccavano il fuoco. Quando fu pronta, prese il bastone rinforzato e corse fuori, giù per le scale, per aiutare i soldati in minoranza. Appena uscita, con la coda dell’occhio notò uno strano movimento alla sua sinistra, ma si rese conto troppo tardi che si trattava di una Palla di Fuoco e che non aveva modo di evitarla. All’ultimo istante, però, il suo nuovo potere percepì lo spirito di una salamandra nel fuoco che ardeva lì vicino, e invocò il suo aiuto. La druida avvertì lo spirito del fuoco che penetrava in lei nello stesso istante in cui la Palla di Fuoco le esplodeva addosso e le faceva fare un volo di una decina di metri. Con immenso stupore, si ritrovò distesa a terra quasi illesa: l’incantesimo le aveva ustionato solo il braccio colpito, invece che tutto il corpo. E, in un unico istante, si rese conto di quanto fossero grandi le potenzialità della Fonte dello Spirito. Si girò verso il punto da cui era arrivata la Palla di Fuoco e riconobbe l’incantatrice rettiloide di Sanderia che si stava avvicinando. Sul suo viso scorse un accenno di stupore, forse per avere scoperto che era ancora viva. «Maledetti druidi» imprecò Ilik’Shacksi a voce alta, quando realizzò cosa fosse accaduto. «Aveva ragione il mio signore Aval’Dyr: avremmo dovuto farvi fuori tutti! Ora ho l’occasione di correggere questo deplorevole errore!» A quelle parole, Morgase si infuriò: ora capiva come mai non avesse incontrato alcun druido in questo tempo. E, cosa ancora peggiore, aveva realizzato quale fosse stata la causa della scomparsa della Fonte dello Spirito. L’incantatrice rettiloide eseguì rapidamente una serie di movenze e dalle sue mani scaturì un fulmine diretto contro la druida. Stavolta, però, Morgase era pronta e schivò la saetta tuffandosi di lato, anche se si ferì il braccio sinistro già ustionato. Tuttavia non poté permettersi di fermarsi per il dolore, perché
l’incantatrice lanciò un’altra serie di fulmini che la costrinsero a rotolare in terra per evitarli. Nel frattempo, i soldati che avevano assistito all’esplosione della Palla di Fuoco si erano dileguati in tutta fretta, lasciando sole le due femmine. Improvvisamente una forte esplosione giunse dal Palazzo Centrale della Roccaforte e Ilik’Shacksi proruppe in una sonora risata. «Ormai la vittoria è nostra! La Roccaforte è caduta! Gloria e lode a Tyran!» Morgase si rialzò un po’ faticosamente in piedi e replicò con tono aspro, puntando il proprio bastone contro la rettiloide: «Non credi di stare cantando vittoria troppo presto? Io sono ancora qui!» L’incantatrice rise di nuovo. «Allora rimedierò subito, druida! E questa volta non ci sono altre fiamme ad aiutarti.» La donna iniziò a correre verso l’incantatrice per attaccarla, ma la rettiloide fu più rapida e generò una Palla di Fuoco che colpì in pieno la druida avvolgendola nelle fiamme. Sotto la pioggia che iniziava a cadere, Ilik’Shacksi esclamò, colma di soddisfazione: «Adesso posso raggiungere Trisk’Àlish e unirmi a lui nella vittoria!»
~ 32 ~
Vendette incrociate
D ario era in piena battaglia, affiancato da una nutrita squadra di soldati e paladini. Quando aveva ricevuto il messaggio mentale di Nalia, che lo avvisava dell’imminente attacco dell’Armata di Tyran, si trovava ancora in una locanda del Quartiere Due. Fortunatamente era lì con altri soldati e aveva subito inviato dei messaggeri ai comandanti della Guardia negli altri Quartieri, ma le prime linee nemiche arrivarono troppo presto e il Generale dubitò che la difesa fosse stata pronta in tutta la Roccaforte. Per il momento il suo gruppo riusciva a tenere testa agli assalitori, nonostante l’inferiorità numerica, grazie al fatto che era riuscito a uccidere il comandante nemico: tuttavia nello scontro Dario era stato ferito gravemente al fianco destro e la debolezza per la perdita di troppo sangue cominciava a farsi sentire. Uno dei paladini si accorse della sua situazione e gli si avvicinò, aiutandolo a rimanere in piedi. In tono preoccupato gli disse: «Signore, non potete continuare a lungo con quella ferita. Prendete una scorta e rientrate al Palazzo Centrale per farvi curare dai chierici. Non possiamo permetterci di perdervi!» Dario si asciugò il sudore dall’ampia fronte e gli replicò: «Io non abbandono i miei soldati! Che esempio sarei se mi ritirassi al minimo graffio, lasciandoli soli nel momento del bisogno?» «Con tutto il rispetto, signore, il vostro non è un semplice graffio...» Di scatto il Generale si voltò verso di lui e lo fissò negli occhi: «Tu sei un paladino, giusto?»
«Sì, signore.» «Allora usa una delle tue invocazioni per fermare l’emorragia.» «Ma non è come la preghiera di un chierico...» «Lo so» ammise determinato, «ma adesso qui ci sei tu, non un chierico. Fa’ il tuo dovere e riprendiamo a combattere per difendere la Roccaforte.» L’uomo non trovò nessun argomento per ribattere, quindi si rassegnò a eseguire la sua invocazione curativa come ordinato. La ferita smise di sanguinare e Dario lo ringraziò con un silenzioso cenno del capo, facendogli segno di restare al suo fianco. Dietro lo schieramento nemico apparvero dieci dischi luminosi verticali, grandi circa tre metri, da ciascuno dei quali iniziò a uscire una fila di soldati che andò a rimpolpare le linee nemiche. «Maledizione!» Imprecò Dario con rabbia. Si rivolse ai soldati intorno a lui e, indicando con la spada i dischi luminosi, gridò con tutto il fiato che aveva in gola: «Non possiamo permettere che ne arrivino altri, non possiamo lasciare la Roccaforte nelle mani di quei bastardi di Tyran! È vero, noi siamo in svantaggio numerico, ma non vince chi ha più soldati: vince chi ha più tenacia e determinazione! Noi non falliremo: siamo guerrieri di Vàlor e non giriamo le spalle di fronte al nemico. Dobbiamo chiudere quei portali a ogni costo! Se anche morissimo oggi, il nostro sacrificio permetterà ai nostri compagni di vincere contro questo nemico sleale. Soldati, all’attacco!» Il gruppo gridò esaltato il suo assenso e avanzò compatto contro lo schieramento di Tyran.
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Nalia, affacciata alla terrazza della sua camera, osservava con estrema disperazione i quartieri della Roccaforte in fiamme e i soldati dei due schieramenti che si fronteggiavano con ostilità. Aveva spento le luci della stanza
per evitare che qualcuno potesse vederla. Erano stati colti dannatamente di sorpresa. Dario non era nel Palazzo Centrale, ma era riuscita ad avvertirlo appena in tempo perché riuscisse ad approntare una difesa disperata. Neanche Inza era presente e aveva dovuto affidare il comando delle guardie del palazzo al capitano Aiace, che per il momento stava dimostrando di meritare la sua fiducia. La Gran Sacerdotessa era impegnata nell’unica cosa che potesse fare per aiutare chiunque credesse in lei: stava pregando intensamente Vàlor, affinché infondesse forza e coraggio nel cuore dei suoi fedeli, perché non si lasciassero sopraffare dalla paura e dallo scoraggiamento. L’improvvisa sensazione che qualcuno fosse entrato nella stanza interruppe la sua concentrazione. Si voltò indietro e scrutò nell’oscurità: vicino alla porta c’era una figura in una lunga tunica di raso nero che si avvicinava lentamente. Quando notò che il suo viso era celato da una maschera di metallo dalle fattezze di un teschio metà umano e metà rettiloide realizzò subito chi aveva davanti e disse con un tono carico di disprezzo: «Non aspettavo il vostro arrivo così presto, console Albios di Tyran. Credevo avreste atteso che i vostri sottoposti completassero l’opera di devastazione.» Albios si fermò a pochi i da lei e ribatté divertito: «In effetti quella era la mia idea iniziale, ma mi era sembrato doveroso venire al cospetto di vostra signoria per porgervi i miei omaggi prima che perdeste la libertà.» Nalia trasalì nel sentire la sua voce, perché aveva avvertito qualcosa di familiare, ma si riprese subito e gli replicò: «Immagino avrete avuto qualche difficoltà a raggiungere le mie stanze. Sapete, avevo detto alle mie guardie che non volevo essere disturbata.» «In effetti ho avuto una discussione piuttosto animata prima di arrivare qui, ma non potevo permettere che le vostre preghiere riuscissero a cambiare le sorti della battaglia.» Albios si sfilò la maschera, rivelando il volto di un uomo sulla sessantina, con
una barba bianca, corta e ben curata. Nalia rimase profondamente sconvolta. «Come...?» Riuscì soltanto a balbettare. «Tu...?»
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Ilik’Shacksi aveva iniziato a incamminarsi trionfante verso il Palazzo Centrale della Roccaforte, quando giunse una voce maschile dal punto in cui aveva appena bruciato la druida: «Non pensi di avere troppa fretta, rettiloide?» L’incantatrice si bloccò di colpo, con il cuore che perdeva un battito. Si voltò e vide un elfo dai corti capelli castani che copriva con il suo mantello il corpo della druida. Un attimo dopo, Morgase si alzò a sedere, illesa. «Com’è possibile?» Mormorò Ilik’Shacksi sconvolta. «Da dov’è sbucato quell’elfo? Come è riuscito a non subire alcun danno e a proteggere quella maledetta druida? Avevo potenziato la Palla di Fuoco con l’Eteria del Sangue: non c’era alcuna possibilità che uscisse viva dall’impatto...» Nalatien si voltò verso Morgase e per un attimo le sorrise, poi tornò serio e le disse: «Raggiungi Nalia al Palazzo Centrale, anche gli altri dovrebbero essere lì. Della rettiloide me ne occupo io, poi vi raggiungo.» La druida annuì e si rialzò in piedi. Sfiorò timidamente con le labbra la guancia di Nalatien e lo ringraziò con un sussurro, poi si mise a correre verso il Palazzo Centrale. L’incantatrice iniziò a eseguire le movenze per lanciare un incantesimo alle spalle di Morgase, ma si interruppe subito a causa di una potente aura malevola che le provocò paura e angoscia. Con terrore crescente comprese che proveniva dall’elfo.
«Non ti permetterò di completare l’incantesimo» disse Nalatien con voce calma, ma nello stesso tempo minacciosa. «Pagherai caro per quello che intendevi fare a Morgase!» Nalatien stese la mano e Ilik’Shacksi ebbe l’impressione che le ombre intorno a loro si radunassero sotto l’elfo. Qualcosa di lungo e nero prese forma uscendo apparentemente dal terreno: le ombre si stavano solidificando, mentre diventavano una lunga falce rossa con la lama nera che emanava l’aura dell’Eteria del Sangue. Non posso lasciare che quell’elfo continui a vivere, pensò, combattuta tra il terrore e la fedeltà a Tyran. Non posso permettere che con il suo potere comprometta la nostra vittoria! Si fece un taglio sul palmo della mano destra e iniziò a eseguire il più velocemente possibile le movenze per l’incantesimo della Gabbia di Sangue, ma l’elfo fu più rapido di lei. In un battito di ciglia, Nalatien le fu davanti e ruotò la falce verso di lei. Entrambe le mani dell’incantatrice caddero a terra, tagliate di netto all’altezza del polso. Ilik’Shacksi urlò tutto il suo dolore, la sua disperazione e il suo terrore.
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Keldon si trovava in una piazza periferica del Quartiere Quattro. Diversi edifici erano ridotti in macerie a causa degli incantesimi nemici. Si appoggiò con la schiena al muro dietro di lui, esausto. Era seduto in terra, con lo sguardo fisso sulla spada spezzata che impugnava. Quanto rimaneva della lama era ricoperto di sangue, così come il braccio e tutto il resto di lui. La fine pioggia che stava cadendo dal cielo non era sufficiente a lavarglielo via. Con un profondo sospiro, si rammaricò di non aver mai voluto addestrarsi con un’arma diversa dalla mazza e pregò Vàlor che quell’errore non fosse causa della sua morte. Rabbrividì osservando l’altra metà della lama, conficcata nel petto sanguinante di un soldato rettiloide. Se solo quella sera non avesse lasciato a casa la sua mazza ferrata...
Un rumore improvviso lo riscosse dai suoi pensieri: altri quattro soldati di Tyran, due umani e due rettiloidi, si avvicinavano con le spade sguainate e un ghigno feroce sui volti. Il chierico fece per rialzarsi, ma i piedi gli scivolarono nel fango perdendo la presa e ricadde a terra. I nemici erano ormai a pochi i da lui. Un urlo feroce risuonò d’un tratto nell’aria e un sorriso di speranza gli spuntò sul viso. Duncan arrivò di corsa e caricò i soldati con lo scudo: ne buttò due al suolo, mentre gli altri arretrarono rapidamente. «Keldon, cosa fai lì per terra?» Gli gridò il paladino, mentre deviava con la spada l’affondo di uno dei due nemici rimasti in piedi. «Dobbiamo raggiungere il Palazzo Centrale e proteggere Nalia!» Il rimprovero dell’amico ebbe l’effetto sperato: usando il moncone della spada come leva, Keldon si rialzò in piedi, ma subito si bloccò a causa di una fitta di dolore al fianco. Portò la mano nel punto dolorante e sentì che era umido: realizzò subito che non era per via della pioggia. Duncan era impegnato a tenere testa ai due nemici rimasti in piedi, ma con la coda dell’occhio notò che l’amico era ferito... Quell’attimo di distrazione gli fu quasi fatale: i due soldati che aveva buttato a terra si erano rialzati e uno di loro, il rettiloide, era riuscito a portarsi dietro di lui. Fu il rumore metallico dell’armatura a tradirlo, quando sollevò il braccio per sferrare il colpo. Il paladino riuscì a spostarsi in avanti, ma non abbastanza per evitare che la punta della spada lo ferisse alla spalla sinistra, rimasta scoperta perché aveva perso quel pezzo dell’armatura in uno scontro precedente. Stringendo i denti per sopportare il dolore, girò su se stesso e colpì il soldato al collo con la spada: il rettiloide crollò a terra, annegando nel suo stesso sangue. I suoi compagni, però, non restarono a guardare e cercarono di colpire Duncan alla schiena. Il paladino evocò prontamente lo Scudo Sacro intorno a sé: le spade rimbalzarono indietro a pochi centimetri da lui, cozzando contro una barriera di energia lievemente luminescente. Allora si spostò rapidamente di fronte a Keldon e assunse una posizione difensiva, sollevando lo scudo. «Ecco il patetico trucco di un paladino messo alle strette» gli sibilò il soldato rettiloide con un ghigno. «Ma questo non potrà salvarti a lungo!» Subito lui e gli altri due compagni iniziarono a bersagliarlo di colpi, finché lo Scudo Sacro si infranse e lo scudo metallico sul braccio del paladino cadde a
terra con un forte clangore. Duncan, in un gesto disperato, sollevò la spada come ultima difesa. I tre soldati scoppiarono in una risata. «Salutaci il tuo patetico dio!» Lo schernì il rettiloide. Sollevarono lentamente le spade per caricare un triplice affondo che non avrebbe dato scampo al paladino. Un ringhio minaccioso giunse dalla sommità dell’edificio dietro Keldon. I tre soldati si bloccarono e sollevarono lo sguardo per capire cosa fosse stato, ma ormai era troppo tardi. Una pantera nera piombò con uno slancio rapidissimo su di loro: con gli artigli colpì agli occhi i due umani e con le fauci azzannò alla gola il rettiloide. Duncan ne approfittò subito per completare l’opera, uccidendo i due soldati accecati. Lasciato andare il collo del rettiloide ormai morto, la pantera si girò verso Duncan e Keldon, pieni di sorpresa. Rapidamente la forma animale si cambiò in una donna, che sputò in terra un pezzo di carne sanguinante. «Morgase!» Esclamò Duncan sollevato. «Ho temuto che non ce l’avessi fatta...» La druida sorrise e gli ribatté: «Non credevo che proprio tu fossi un uomo di poca fede! Tre rettiloidi pensavano di avermi intrappolata in un vicolo cieco, ma li ho fatti ricredere.» Keldon si accorse dell’ustione al braccio sinistro e subito le chiese: «Cos’è successo? Non è una ferita normale.» «È stata l’incantatrice di Sanderia, ma per fortuna Nalatien è accorso in mio aiuto. Lui è rimasto a occuparsene, mentre io sono corsa verso il Palazzo Centrale, ma ho incontrato sulla strada i tre rettiloidi di cui vi dicevo prima... E adesso ho incrociato voi.» La druida notò che il chierico si teneva il fianco e capì che anche lui era ferito. «Anche tu sei stato colpito!» Keldon scosse la testa e si rialzò, aiutato da Duncan, poi disse deciso:
«Non possiamo perdere tempo a curare queste ferite: sono meno gravi di quello che possono sembrare. Dobbiamo raggiungere Nalia al Palazzo Centrale!» Una forte esplosione proveniente dal giardino vicino rimbombò nell’aria. Morgase sorrise e commentò: «Questa è di sicuro opera di Liriel. Si starà certamente divertendo.» «Già» aggiunse Duncan. «Meglio raggiungerla alla svelta, magari con lei ci sono anche gli altri...»
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Nell’ampio spiazzo di un giardino nella zona nord del Quartiere Quattro, una decina di soldati dell’Esercito di Tyran si stava proteggendo con gli scudi dalle frecce che provenivano dalla cima di un albero. Firion, in equilibrio su uno dei rami più alti, incoccò l’ennesima freccia, mentre lanciava un rapido sguardo a Liriel che se ne stava ai piedi dell’albero con gli occhi chiusi e le mani protese di fronte a sé. «Insomma Liriel, quanto ti ci vuole?» Sbottò lui impaziente. «Non posso tenerli bloccati ancora per molto!» «Taci, Firion!» Esclamò lei con freddezza. «Se non vuoi che la Palla di Fuoco Potenziata ci esploda addosso, tieni lontano quei bastardi e non disturbarmi più!» Il ranger prese disperato l’ultima freccia dalla faretra, ma proprio in quel momento l’incantatrice completò le movenze dell’incantesimo e dalle sue mani scaturì un’enorme palla di fuoco che si diresse proprio in mezzo ai soldati nemici, esplodendo fragorosamente e inondandoli di fiamme e detriti. Ancora con gli occhi chiusi, Liriel sorrise compiaciuta, mentre Firion lanciava un grido esaltato.
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Joel e Inza si erano rifugiati sotto il ponte che attraversava un ramo del laghetto del giardino. Avevano raggiunto quella posizione superando diversi gruppi di soldati di Tyran, grazie agli agili colpi furtivi di Joel e agli affondi della paladina. Stavano riprendendo fiato, quando sentirono una forte esplosione che proveniva poco distante verso ovest. «Questa deve essere stata sicuramente Liriel» commentò sottovoce Joel, mentre, accovacciato a terra, si controllava una ferita all’avambraccio sinistro. «Sì, il boato sembrava venire dalla parte in cui si erano diretti quando ci siamo separati» aggiunse Inza avvicinandosi a lui. La sua armatura era sporca di sangue ma, per fortuna, la maggior parte non era suo. Poi, con un tono deliziato e punzecchiando Joel con un dito, riprese: «Hai visto che ho fatto bene a mettermi l’armatura stasera?» L’uomo le afferrò il dito e, fingendo un tono sospettoso, disse: «Forse sapevi che sarebbe successo... Oppure semplicemente ci hai portato sfortuna...» Inza sfilò subito il dito dalla sua mano e gli replicò sommessamente: «Magari l’avessi saputo...» Poi si irrigidì e aggiunse seria: «Non perdiamo altro tempo: raggiungiamo Liriel, poi continuiamo verso il Palazzo.» Joel annuì e si sporse per verificare la presenza di altri soldati. Non vedendone, fece un cenno a Inza e si mise a correre verso il punto dove aveva sentito il boato. Inza gli fu subito dietro.
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Nello spiazzo a nord del giardino, Liriel osservava compiaciuta i corpi carbonizzati dal suo nuovo incantesimo, mentre Firion controllava i cadaveri in cerca di qualcosa di utile o di interessante. Poco dopo, dal vialetto a sud comparvero Keldon, Duncan e Morgase, mentre dal viale a est sopraggiunsero Joel e Inza. Quando furono tutti insieme, Duncan chiese: «Com’è la situazione? State tutti bene?» Firion scosse il capo e rispose: «Finora ce la siamo cavata, ma ho terminato le frecce e, purtroppo, quelle di questi soldati sono state bruciate dalla Palla di Fuoco di Liriel.» «Se preferivi scontrarti con tutti loro personalmente...» gli rinfacciò l’incantatrice, senza riuscire a nascondere un mezzo sorriso. Anche se era contenta che avessero ancora voglia di scherzare, nonostante la situazione drammatica, Inza si fece forza della sua autorità e intervenne: «Dobbiamo raggiungere il Palazzo Centrale e proteggere Nalia dall’attacco. O vi siete dimenticati che, senza di lei, non potrete mai più tornare a casa vostra?» Nessuno trovò da ribattere e subito si misero tutti a correre verso il Palazzo Centrale. Non trovarono altri nemici e lo raggiunsero in una ventina di minuti. Quando arrivarono, videro Orson e Noa disposti a difesa dell’ingresso principale. Non appena vide Joel, la mezzelfa corse ad abbracciarlo, sollevata di vederlo ancora vivo. Gli spiegò che l’esercito, sotto il comando del capitano Aiace, si stava occupando di stabilizzare la situazione intorno al Palazzo, mentre a loro era stato affidato il compito di difendere la porta principale. Per quanto ne sapevano, ancora il Palazzo non era stato violato. Inza stava per chiederle i dettagli delle disposizioni del Capitano, quando davanti a loro comparve un portale, grande il doppio degli altri che avevano visto finora. Tutti assunsero una posizione difensiva, mentre qualcosa iniziava a uscire dal disco luminoso: dodici persone in armatura rossa con rifiniture verdi; al centro
del pettorale di ciascuna armatura era impresso il simbolo di Tyran che sovrastava quello di un otto disposto in orizzontale. «La squadra scelta dei Difensori di Tyran» sussurrò Inza con voce tremante. «Dodici guerrieri potenti e spietati, quasi quanto il loro stesso dio...» Uno di questi aveva un volto conosciuto: era il chierico Trisk’Àlish, con cui avevano avuto a che fare a Sanderia, sia come nemico che come temporaneo alleato contro il Bàlor. Il rettiloide, per la sua posizione centrale all’interno del loro schieramento, sembrava essere al comando. «Ben ritrovati» esordì Trisk’Àlish con tono soddisfatto. «Così ci incontriamo proprio alla fine della guerra, che, ormai è chiaro, abbiamo vinto noi.» Si diede una rapida occhiata intorno, poi riprese: «Non pensavo sarebbe stato così facile far credere al vostro comandante che nessuno dei miei soldati fosse entrato nel Palazzo Centrale... Ormai è questione di poco perché Nalia venga catturata e sia costretta a dichiarare la resa.» D’un tratto, colmo di rabbia, Duncan partì in carica contro Trisk’Àlish, ma la reazione del rettiloide fu più rapida: impugnò il mazzafrusto a due mani e colpì con forza il paladino, che, stordito, cadde a terra riverso sul fianco. Keldon e gli altri si prepararono ad attaccare per difendere il loro compagno, ma Trisk’Àlish ripose la sua arma e, tenendo le mani ben in vista, domandò: «Perché volete rischiare la vostra vita in un conflitto ormai perso? Perché volete continuare a immischiarvi in una guerra che non è mai stata vostra? Non sapete nemmeno il vero motivo per cui combattete: perché affannarsi tanto?» Keldon rimase colpito da quelle parole e, senza abbassare l’arma, gli chiese: «Cosa vorresti dire? Parla chiaramente!» Trisk’Àlish sorrise e rispose: «Bene, è giusto che sappiate anche voi la verità, che tutti sappiano la verità!» «Quale verità?» Disse Duncan con un gemito, rialzandosi in piedi. «Nalia non è chi vi ha sempre detto di essere: non è una semplice Gran
Sacerdotessa di Vàlor. Nalia è la “figlia” di Vàlor!» Il cuore di tutti i presenti perse un battito.
~ 33 ~
Neanche la speranza
A selia e le sue allieve gemelle, Lara e Mara, si trovavano impegnate ad aiutare i soldati di Vàlor alla Porta Settentrionale delle Mura Interne. Avevano sentito l’esplosione che aveva quasi distrutto la torre del Palazzo Centrale, ma non potevano permettersi di lasciare i soldati in balia degli incantatori nemici. L’elfa aveva appena fatto sfoggio delle sue abilità di Primo Eterion della Torre Elementale di Kentara lanciando uno Sciame di Comete Infuocate in una vasta area, sfoltendo di parecchie unità lo schieramento nemico. Lo sforzo di un simile incantesimo l’aveva lasciata per alcuni secondi così debole da non accorgersi dell’arrivo di un soldato di Tyran in una strana armatura nera. Lara e Mara, però, lo videro ed eressero una barriera intorno alla loro maestra, appena in tempo per annullare l’attacco a sorpresa della nuova minaccia. «Maledetti incantatori!» Gridò Miranda colma di rabbia quando la spada le venne bloccata dalla barriera. «Con i vostri sporchi trucchi avete ucciso mio padre! Non vi lascerò vivere!» Aselia non si lasciò sorprendere di nuovo: contrattaccò subito con un Colpo Tonante indirizzato alla testa, un incantesimo che colpiva il bersaglio con un forte spostamento d’aria. A quella brevissima distanza, l’impatto poteva essere molto pericoloso, ma l’effetto dell’incantesimo venne assorbito dall’elmo, che però volò via. L’incantatrice rimase sorpresa nel vedere che il suo nemico era una mezzelfa; ma ciò che attirò la sua attenzione fu la ciocca di capelli rossi che partiva dalla fronte sopra l’occhio sinistro. «I tuoi amici sono rimasti decisamente colpiti dal mio Sciame di Comete Infuocate» la provocò Aselia. «E vedo che anche a te il mio Colpo Tonante è rimasto molto impresso!»
Miranda non si lasciò trascinare dall’istinto, ma provava troppa rabbia per gli incantatori e non poteva assolutamente lasciar perdere. Si era accorta che i due ultimi incantesimi dell’elfa, quelli di cui si era vantata, l’avevano prosciugata di quasi tutte le energie, mentre le sue due compagne gemelle potevano essere un problema. Però, pensò d’un tratto Miranda, scorgendo una soluzione, forse può bastare bloccarne solo una... La gemella che stava per prendere di mira fece un o verso di lei, scoprendosi leggermente, e Miranda non si lasciò scappare l’occasione: lanciò verso Mara un pugnale che le si conficcò nel palmo della mano e nello slancio conseguente attaccò l’elfa. La spada era indirizzata al petto di Aselia, ma scivolò nel residuo della barriera senza colpirla; allora la mezzelfa accompagnò la lama verso il basso, finché non avvertì più alcuna resistenza e poté colpirla alla gamba. L’incantatrice cadde a terra sotto gli occhi esterrefatti delle gemelle, mentre la nemica sovrastava l’elfa e sollevava la spada sopra di lei. Quasi in tono di preghiera, Miranda proclamò: «Ecco, padre, adesso sarai vendicato.» Poi guardò negli occhi l’incantatrice e aggiunse: «In nome di Atrenas di Calendia, legato dell’Esercito di Tyran, mio amato padre, io faccio dono a Tyran della tua anima immonda!» Nel sentire quel nome, Aselia sussultò. Guardò di nuovo la ciocca rossa fra i capelli della sua nemica e d’un tratto realizzò chi fosse. «Leliana» disse Aselia con un tono quasi di speranza. Questa volta fu Miranda a bloccarsi, sentendo il soprannome con cui la chiamava suo padre uscire dalle labbra di quella maledetta incantatrice elfa. L’esitazione le fu fatale: Lara riuscì a lanciarle contro un Fulmine che, a causa della perdita dell’elmo, non venne bloccato del tutto dalla sua armatura. Miranda cadde a terra, stordita dall’effetto dell’incantesimo, e subito Mara le fu addosso, puntandole alla gola lo stesso pugnale che lei le aveva lanciato poco prima. «No, non ucciderla!» Gridò Aselia quasi disperata, mentre cercava di rialzarsi. Mara rimase sorpresa da quell’ordine, ma non poté fare altro che ubbidire: allora si limitò a colpirla alla testa con l’impugnatura, facendole perdere i sensi.
«Perché mi avete fermato, maestra?» Le chiese subito dopo, risentita. «È una nemica!» Aiutata da Lara, Aselia si avvicinò a Miranda e si inginocchiò al suo fianco, fissandole il viso. Con la voce tremante per l’emozione, le rispose: «Hai ragione, è una nostra nemica... Ma è anche mia figlia, la figlia che credevo di avere perduto per sempre.»
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Trisk’Àlish, circondato dalla squadra scelta dei Difensori di Tyran, stava godendo nell’osservare le espressioni sconvolte dei seguaci di Vàlor dopo la rivelazione della vera identità di Nalia. Solo il chierico non sembrava particolarmente colpito, ma era certo che le sue prossime rivelazioni non avrebbero lasciato indifferente neanche lui. «Ma non è tutto» riprese a gran voce. «Chi pensate che sia Rhao? Credete davvero possibile che un semplice mortale possa essere nello stesso tempo un abilissimo guerriero e un potentissimo incantatore? Rhao, in realtà, è il figlio di Samas, il dio del giudizio e dell’equilibrio. Cosa dire, infine, del mio signore Aval’Dyr? Non so se ne avete mai sentito parlare, data la scarsità dei vostri servizi di informazione, ma è lui che comanda realmente l’Egemonia: Aval’Dyr, figlio del sommo Tyran.» Tutti si guardarono sconcertati, increduli di fronte a quelle rivelazioni, ma consci che non c’era alcuna falsità in esse. Liriel intervenne, dubbiosa: «Com’è possibile? Nella storia non c’è mai stata traccia di questi figli degli dèi, nessuno ha mai raccontato di loro o delle loro gesta. E nemmeno di questa vostra insulsa guerra abbiamo mai saputo nulla.» Questa volta fu Trisk’Àlish a rimanere stupito per le parole dell’elfa, ma subito le considerò solo un goffo tentativo di raggirarlo e proseguì a parlare seguendo la propria linea di pensiero:
«Infine, nessuno di voi si è mai chiesto come siamo riusciti a invadere la vostra preziosa Roccaforte? Come abbiamo fatto a superare la vostra barriera divina che doveva essere invalicabile?» Fu Noa a rispondere alla domanda retorica del chierico, con un tono lievemente circospetto: «È ovvio: avevate qualcuno all’interno.» «Giusto» le confermò. «Avrete di certo sentito parlare del console Albios, vero?» Inza, con un impeto di rabbia a causa dell’impossibilità di attaccarlo per farlo tacere, gli rispose: «È il braccio esecutivo del vostro Egemone, colui che mette in pratica la sua volontà.» Con un sorriso, le replicò: «Allora ti farà piacere sapere che in realtà il console Albios è un umano come te. È il vostro conestabile, Asterio di Vesperan!» Inza sentì quelle parole come se fossero state una pugnalata in pieno petto. Mio padre è il Console dell’Egemonia? Si chiese disperata. Provò un forse senso di vertigine e sarebbe caduta a terra, se Joel non l’avesse prontamente sorretta. Ora la soddisfazione di Trisk’Àlish era completa.
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Nalia stava respirando a fatica, cercando di calmare la marea di emozioni che la stavano tormentando: rabbia per il tradimento di Asterio, dolore per l’inevitabile sconfitta subita in modo così ignominioso, disperazione per la sorte dei suoi fedeli a causa della caduta della Roccaforte, preoccupazione per Rhao, che
ancora non era tornato... «Perché?» Gridò contro Asterio. «Perché lo hai fatto? Perché ci hai traditi?» L’uomo si accarezzò con calma la barba curata e rispose: «L’Impero non potrà mai vincere la guerra, non con quell’Imperatore debole e incapace che si ritrova. Quell’inetto non sarebbe mai dovuto salire sul trono. Sai anche tu che la guerra sarebbe potuta finire due anni fa, se solo ci fosse stato un altro più deciso al comando dell’Impero. Con le mie azioni, ho risparmiato a tutti altri anni di una lunga guerra logorante, che avrebbe portato solo morte e distruzione in ogni angolo dell’Impero. Con le mie azioni ho fatto in modo che non ci siano più sofferenze per il popolo di Anosia.» «Dunque tu avresti agito per il bene dell’Impero e del suo popolo?» Si meravigliò Nalia. «Tu hai consegnato l’Impero nelle mani dell’Egemonia per evitare che il popolo soffrisse per una guerra prolungata?» Lo guardò con disprezzo. «Tu non hai idea di quello che hai fatto! Tu hai dato ai rettiloidi la possibilità di dominare sugli umani, la possibilità che li facciano schiavi, se non abbracciano la fede in Tyran...» Esitò qualche istante, poi esplose: «Tu sei pazzo!» Asterio scosse la testa e le ribatté, con tono condiscendente: «Non puoi capire...» «Io non posso capire?» Gridò lei ancora più furiosa. «Hai tolto al tuo popolo la libertà di scelta, l’unica cosa che veramente conta! Lo hai condannato per sempre a essere schiavo di una razza che solo in apparenza accoglie tutti, ma in realtà vuole porre il suo giogo al collo di chiunque non sia come loro!» L’uomo scosse nuovamente la testa con un atteggiamento paziente e replicò: «Col tempo capirai che il tuo giudizio è errato, Nalia. Adesso può davvero cominciare un’era di pace per tutta Amnia.» La semidea, tutt’altro che convinta, stava per ribattergli, ma le sorse una domanda nella mente e gli chiese con tono sospettoso: «Come avresti fatto, da solo, a nascondere le tue intenzioni a me e a Rhao?
Come sei riuscito a diventare un capo carismatico qui e presso i nostri nemici? Ma soprattutto, come puoi muoverti liberamente tra i due schieramenti, senza che la Sacra Barriera ti blocchi il aggio?» Asterio sorrise. «Sono anche riuscito a nascondere a tutti di essere un potente incantatore della Scuola della Difesa. Tuttavia, non è grazie a essa che sono riuscito a ingannare ognuno di voi, compreso il tuo Serafino in cima alla torre.» Sollevò la mano sinistra, dove sfoggiava due fedi d’oro all’anulare. «Tu sei solo una semidivinità: potrai anche agire in questo mondo secondo la tua volontà, ma rimani sempre vincolata alle sue leggi... Non sei onnipotente.» Con uno scintillio, i due anelli ne divennero uno, grosso e di colore rosso, con sottili venature verdi lievemente luminescenti che disegnavano su tutta la sua superficie una serie apparentemente infinita di simboli di Tyran. «Io, invece, ho ricevuto il potere assoluto di un vero dio!» Nalia spalancò gli occhi, incredula. «Lo ha dato a te!» Sussurrò con una strana riverenza, poi però proseguì con voce colma d’ira: «Quel vigliacco di Aval’Dyr l’ha dato a te!» «È questo che tu e Rhao dovevate recuperare, vero? L’Anello Divino di Tyran, l’artefatto che dona a chi lo porta il potere di un dio. È per questo che è cominciata la guerra, vero? Dovevate riprendervi l’Anello e riportare indietro Aval’Dyr, così che fosse giudicato e punito per il suo ignobile furto... E proprio tu osi parlare di libertà?» A quel punto, la semidea non poté più trattenersi: «Hai ragione su una cosa: quell’Anello ti rende onnipotente, ma non ti rende onnisciente: per questo è pericoloso e deve tornare sul Piano Divino. Mai lasciare un potere illimitato a chi non sa usarlo secondo giudizio. Inoltre, con che coraggio osi rimproverarmi di non concedere libertà, tu che hai usufruito della massima indipendenza di Vàlor nelle tue azioni? Anche solo per il fatto che tu sia riuscito a diventare Conestabile per Vàlor e Console per Tyran: sono certa che è da molto prima che cominciasse la guerra che tieni i piedi in due staffe. Non hai alcun diritto di giudicare il mio operato! Mi dispiace solo per Inza e Korin, quando verranno a sapere chi fosse in realtà loro padre...»
Asterio stava per ribattere, quando sentì dei i dietro di sé e vide l’espressione sorpresa di Nalia, mentre guardava oltre le sue spalle. «Rhao, sei salvo...» iniziò a dire la semidea, ma si interruppe quando notò la strana luce nei suoi occhi. Allora le sfuggì in un sussurro: «No, non è possibile...» Asterio non poté fare a meno di voltarsi per guardare Rhao a sua volta. Notò che aveva qualcosa di diverso: sembrava meno rigido e più diffidente. Inoltre, il metallo del pettorale della sua armatura era stato fuso, cancellando il simbolo di Samas. «Mantus, non puoi averlo fatto davvero!» Si disperò Nalia. «Ti rendi conto che è proprio per questo tuo disprezzo della dignità altrui che sei stato rinnegato? Non proseguire in questo tuo cammino verso la completa perdizione...» Nel sentire le parole della semidea e ciò che implicavano, Asterio rimase sconvolto. Mantus aveva continuato ad avanzare tranquillamente, ando accanto ad Asterio e a Nalia; uscì sulla terrazza dietro di lei e si fermò davanti al parapetto. Allora parlò, con una voce profonda: «Nalia, figlia di Vàlor, quando avrò il pieno controllo del corpo di Rhao e disporrò del suo pieno potere, allora potrò finalmente realizzare il mio sogno. Ma perché questo avvenga, tu e Aval’Dyr, il figlio di Tyran, dovrete morire!» Asterio gridò e lanciò un incantesimo di Stasi verso Mantus, ma il dio si dissolse in una nebbia violacea e si dileguò nella notte. Nalia cadde in ginocchio, piangendo. «Perché tu e Aval’Dyr avete aperto lo Scrigno dei Mali Maggiori? Non avete idea di cosa avete scatenato, non avete idea di cosa è capace Mantus. C’è un motivo se è stato rinnegato...» Asterio scosse la testa e si rimise la maschera di Console sul viso, come se fosse una barriera con cui proteggersi da ciò che era accaduto. «Non è così che doveva andare» confessò sconcertato. «Avevamo un accordo:
Mantus avrebbe distrutto il Trietere per permetterci di entrare nella Roccaforte e, in cambio, Aval’Dyr gli avrebbe donato un corpo materiale di notevole potenza. Il mio signore non riteneva possibile che Mantus sarebbe riuscito a sopraffare Rhao... No, non era così che doveva andare.» Nonostante fosse ancora sbigottito, Asterio attivò l’incantesimo di Comunicazione Multipla e si rivolse ai comandanti delle sue truppe: «La Roccaforte è caduta e non è più un problema per noi. Anche Rhao è caduto. Ormai la vittoria è nostra! Rientrate alla Cittadella e preparatevi alla conquista di Camaran!» Diede un’ultima occhiata a Nalia, ancora in ginocchio in lacrime, e svanì silenziosamente nell’ombra.
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Ilik’Shacksi vagava a i lenti lungo una via in rovina del Quartiere Quattro. Era pallida e quasi priva di forze per il troppo sangue perduto. Aveva diverse ferite in tutto il corpo, una particolarmente grave all’occhio sinistro, oltre ai due moncherini delle braccia. Chi è quel mostro? Pensava, cercando di resistere al panico. Se Aval’Dyr non sapeva della sua presenza all’interno della Roccaforte, deve essere assolutamente avvertito! Nessuno potrebbe sopravvivere a quell’essere spietato. Devo assolutamente avvisare Aval’Dyr e Trisk’Àlish, finché sono in tempo. Quello è un mostro! Un senso di vertigine la costrinse a sedersi a terra, con la schiena appoggiata al muro di un edificio mezzo diroccato. Tyran, ti prego, proteggimi! Implorò l’incantatrice. Permettimi di avvisare Trisk’Àlish del pericolo. Sollevò lo sguardo verso il cielo, da cui ancora cadeva una pioggerella leggera, e il pensiero corse al suo amato: Trisk’Àlish aiutami! Vieni in mio soccorso come hai sempre fatto! Non mi hai mai abbandonata nel momento del bisogno, mi hai sempre aiutata... ti prego, vieni anche ora...
Con la coda dell’occhio scorse un movimento alla sua sinistra. Si voltò e vide una figura massiccia che si avvicinava. Dopo qualche attimo lo riconobbe: era lui, Trisk’Àlish! Con il sorriso sulle labbra, si alzò faticosamente e gli andò incontro, barcollando. Quando lo raggiunse, lo abbracciò e gli sussurrò: «Sapevo che saresti arrivato a soccorrermi!» Lo baciò, poi riprese: «Ti amo, ti ho sempre amato. Ti prego, portami alla Cittadella: portami via da questo posto che puzza di morte...» Con uno strano tono di voce, le rispose: «Non è il luogo: sei tu che puzzi di morte.» Ilik’Shacksi si staccò immediatamente da lui, scioccata. Lo guardò in volto e, piena di terrore, vide le sue sembianze trasformarsi in quelle di un elfo. Nalatien la stava fissando con insensibili occhi di ghiaccio. L’incantatrice cadde in ginocchio, disperata. «Chi sei, maledetto? Che razza di mostro sei?» Guardandola dall’alto in basso, le rispose con enfasi: «Io sono la fine di tutto, per questo non mi importa di niente.» Con un largo movimento delle braccia, calò la lama arcuata della falce sull’incantatrice e la tagliò a metà. Poi sollevò lo sguardo verso il cielo e sorrise, mormorando quasi compiaciuto: «Allora non mi ero sbagliato... Adesso lo sento chiaramente: mio fratello è tornato su Amnia dopo il suo lungo esilio...»
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Trisk’Àlish ò nuovamente con lo sguardo tutti i seguaci di Vàlor davanti a lui e riprese:
«Questa guerra non è altro che uno scontro fra gli dèi per la supremazia. Non potendo agire direttamente su Amnia a causa della Legge Divina, hanno trovato il modo di aggirarla: da madri mortali hanno generato i loro figli, che così sono diventati parte di questo mondo, svincolandosi dagli obblighi divini. Voi, dunque, non siete stati altro che burattini inconsapevoli nel grande gioco degli dèi, misere pedine sacrificabili nella grande scacchiera di Amnia. Solo pochi mortali sono stati messi a conoscenza della verità, tra cui io stesso, perché potessero aiutare con maggiore efficacia nella battaglia. Io ho avuto l’onore di sostenere personalmente il signore Aval’Dyr nei suoi progetti segreti, che hanno portato alla conquista della Roccaforte del Sole, il baluardo ritenuto inespugnabile a difesa dell’Impero di Anosia. Grazie alla vittoria di oggi, non ci sono più ostacoli per la nostra avanzata verso la vostra capitale. Anosia cadrà. Rhao cadrà. Nalia cadrà. Vàlor cadrà. E a voi non rimarrà neanche la speranza di rivedere la luce del sole!» Il chierico rettiloide chinò leggermente la testa da un lato, come se stesse ascoltando qualcosa. Dopo poco riprese a parlare: «Il console Albios ha appena dichiarato la nostra completa vittoria. Rhao è caduto, mentre Nalia e l’Impero seguiranno presto la sua sorte. Non vedo l’ora di festeggiare la fine della guerra nella sala del trono dell’Imperatore, a Camaran, brindando con del buon vino di Crandall, insieme alle mie fedeli compagne Miranda di Calendia e Ilik’Shacksi. Domani la nostra vittoriosa marcia su Camaran avrà inizio e chiunque oserà opporsi verrà schiacciato senza pietà. Tutti voi sarete nostri schiavi per sempre!» Poi, rivolto ai propri compagni, disse: «Andiamocene: ormai questo luogo è solo un inutile rudere in rovina.» Il portale dietro di loro si riaprì e i dodici Guerrieri Scelti di Tyran lo attraversarono in silenzio, sparendo oltre la soglia. Poi anche tutti gli altri soldati di Tyran sparsi per la Roccaforte vennero richiamati indietro. Un velo di smarrimento cadde su tutti coloro che erano rimasti, soldati e incantatori. Duncan e Inza sentivano ancora nella loro mente le parole con cui Trisk’Àlish aveva dichiarato la completa vittoria di Tyran. Liriel e Firion si erano abbracciati, tentando di ottenere un po’ di conforto dal contatto reciproco. Joel e Noa si guardavano increduli, pensando che, forse, era stato un enorme
sbaglio schierarsi con Vàlor. Keldon pensava a Nalia, a come dovesse sentirsi abbattuta e al fatto che il suo cuore non aveva sbagliato, percependo in lei qualcosa di più di una Gran Sacerdotessa. Orson si guardò intorno, ancora incapace di credere a quello che era successo, e vide sbucare da un vicolo il generale Dario, barcollante e ferito. Morgase, preoccupata per Nalatien, alzò lo sguardo verso il cielo, quasi in una preghiera. In quell’istante, le nubi si squarciarono e mostrarono la luna piena spaccata esattamente a metà. La druida impallidì. «Il secondo segno della Profezia dell’Equilibrio» mormorò. Sollevò il braccio e indicò la luna spezzata, spingendo tutti a guardare il cielo. Non appena riconobbero quel segno, un crescente senso di terrore si insinuò nei presenti, soprattutto nelle persone provenienti dal futuro. Nel profondo dei loro cuori, avevano pensato che il viaggio nel ato aveva uno scopo, ma se non era per evitare quella rovinosa sconfitta, quale altro senso poteva avere? Forse, invece, erano stati inviati lì perché non intralciassero i piani di qualcuno e morissero in quella guerra. Allora, però, perché mandarli da Nalia, la figlia di Vàlor? Forse c’era qualcos’altro a cui non riuscivano a pensare e, dunque, per loro c’era ancora una speranza.
Epilogo
Il ritorno del Rinnegato
In lontananza, nella notte, la Roccaforte del Sole bruciava tra le fiamme della guerra. Un uomo in armatura nera osservava imibile, anche se una parte dentro di lui soffriva per ciò che era accaduto. Si voltò e vide un’altra persona che stava osservando lo stesso spettacolo. Le nubi si diradarono e la luce della luna spezzata ne illuminò il viso: era un elfo, dai capelli castani e giovane, nei cui occhi brillava, però, una consapevolezza antica e potente. «Bentornato Mantus, fratello mio» disse l’elfo. «Finalmente il tuo esilio è terminato.» Mantus abbozzò un sorriso. «Non certo grazie a te. Non pensare che mi sia dimenticato che sei rimasto a guardare, mentre i nostri fratelli maggiori mi imprigionavano.» «Se avessi fatto qualcosa, qualunque cosa, saremmo stati in due a finire dentro lo Scrigno» ribatté Nalatien. «E comunque non sono folle come te: io eseguo soltanto il compito che mi è stato assegnato. Non ti ha insegnato nulla la prigionia?» Mantus tornò a guardare verso la Roccaforte in fiamme e riprese: «Quando sono uscito, ho avvertito la presenza di nostra madre qui, da qualche parte, ma non sono riuscito a individuarla. Cosa le è successo, mentre ero rinchiuso?» Nalatien si portò al suo fianco e rispose:
«I nostri fratelli della Triade l’hanno sconfitta. Krynica non esiste più.» «Ti sbagli, Nemesi: io l’ho sentita! Debole, inerme, divisa, ma ancora viva!» Nemesi fissò la luna spezzata e sospirò. «Hai ragione: nostra madre è qui. Parte di lei è sigillata in un Bracciale, ma non può essere individuata né liberata, finché rimane in possesso di una precisa linea di sangue.» «Ma se conosci il suo possessore...» «No, i nostri fratelli maggiori hanno fatto in modo che il sigillo possa essere spezzato solo se il Bracciale viene donato spontaneamente, senza alcun tipo di costrizione.» «Per questo non me ne volevi parlare: temi che faccia qualcosa di avventato...» «Lo hai già fatto e sei stato rinchiuso per millenni» ribadì Nemesi. «Non voglio rischiare di cadere insieme a te e di vedere rovinati i miei piani.» Mantus si voltò verso di lui e aggiunse: «Anch’io ho i miei piani. Quando sarò pronto, tutti li conosceranno, anche tu!» «Fa’ come vuoi, fratello, agisci come desideri: combatti, conquista, uccidi... Ma ricordati questo: quando il sole si oscurerà, toccherà a me!» Senza aggiungere altro, Nemesi svanì nell’ombra, lasciando Mantus da solo. Il dio rinnegato tornò a guardare la Roccaforte, ripensando con soddisfazione alla visione di Nalia in lacrime. Una parte di lui si accese improvvisamente d’ira per quell’emozione e Mantus capì che non sarebbe stato facile soggiogare la volontà di Rhao. «Infuriati pure, figlio di Samas» disse il Rinnegato, «tanto non potrai mai liberarti di me. Adesso voglio solo godermi lo spettacolo dell’alba, della mia alba! Tra poco il sole sorgerà e la sua luce mostrerà al mondo la figlia di Vàlor sconfitta e umiliata. Allora, dopo che avrò sistemato anche il figlio di Tyran, tutti adoreranno me!»
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Un avvincente romanzo dark fantasy, che vi terrà incollati fino all'ultima pagina!
“Che senso ha la vita senza un sogno da realizzare?”
La vita spensierata di Efrem viene distrutta quando un uomo misterioso gli uccide brutalmente i genitori e gli rapisce la sorella Danica. Spinto dalla disperazione per la sordità degli dèi alle sue preghiere, invoca l’aiuto di un Numen, un antico e quasi dimenticato guardiano del mondo, per ottenere il potere di liberare la sorella e vendicare i genitori. Diventa, così, un Epuratore, un cacciatore dei temibili Vortan che minacciano ogni essere vivente. Aveva speso due anni per prepararsi, ma era ancora in tempo per salvare sua sorella?
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Sul mondo di Esperia la tecnologia sta lentamente declinando, apparentemente senza motivo. Anche per scoprirne le cause, una giovane archeologa sta conducendo degli scavi, ma viene ferita a morte da un colpo di pistola dopo aver rinvenuto uno strano manufatto. Per salvarsi si vede costretta a stipulare un patto con un essere, definito dalle leggende come maledetto, che concede un grande potere ma al prezzo della sua anima. Sarà l'unica via anche per svelare i più grandi arcani del suo mondo, sostenuta in questo da un nuovo, inaspettato amore.
“Solo nel mondo del Divoratore capirete quale sia il vero senso di un’emozione.”
INDICE
Prologo
Quando un sogno svanisce Una nuova città Le fonti della natura L’unione fa la forza Il disonore dell’esilio In cerca di indizi Dall’altra parte della barricata Un nemico misterioso Notte tormentata A caccia del nemico Il seme dell’oscurità Il pesce grosso mangiò il pesce piccolo Nel covo della Maschera d’Ombra Sogni infranti
Quando la speranza svanisce
Un mondo diverso Prigionieri di Vàlor Il dolore non prevarrà Echi del ato Una verità non gradita Promesse Destinazioni La Gran Sacerdotessa Missione a Sanderia Acquisizione complicata La furia dei traditi Il Signore dei demoni Abbandonare un compagno Alleanza inattesa Vittoria a ogni costo Il tempo cura quasi tutte le ferite La prigione del Rinnegato Punto di non ritorno Vendette incrociate Neanche la speranza Epilogo
Per il lettore