Il Sogno Di Ludovica 644a27

IL SOGNO DI LUDOVICA

DI

GRAZIA MARTORANA

Dedico questo libro alle persone che mi hanno dato la vita, mia mamma Rosa e mio papà Nunzio e alle persone che sono la mia vita, mio marito Roberto e i miei due figli Federico e Alessio.

Titolo | Il sogno di Ludovica Autore | Grazia Martorana ISBN | 9788891155566

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PRIMO CAPITOLO

Era notte, era buio e Ludovica si trovava sperduta in mezzo al maestoso giardino di Villa Gravina di Palagonia.

Il silenzio della notte era come se le parlasse; la luna squarciava i visi di quei pupi nani e deformi posti tutt’intorno alla Villa.

Quei mostri parevano urlare, sembravano come animati e Ludovica scappava come se fosse inseguita da loro.

Lei correva, correva così veloce che inciampò in una siepe, il suo ginocchio iniziò a sanguinare e Ludovica presa da paura e sgomento iniziò a urlare.

Urlò così forte che qualcuno la sentì: “Chi mai potrà essere?”, pensò fra sé e sé Ludovica.

In lontananza vide una luce che, a poco a poco si fece sempre più intensa; ed ecco, dietro a quel bagliore apparve un uomo.

Un uomo bellissimo, alto, dai lineamenti marcati; in quel momento la paura e lo sgomento che l’avevano accompagnata pochi minuti prima non c’erano più.

In quell’uomo lei vide protezione e salvezza.

Lui le tese la mano per rialzarla, le diede il suo fazzoletto per asciugare la ferita e poi si presentò come il Conte Ferdinando di Azzaria.

Lei si alzò di scatto, come se quel piccolo incidente non ci fosse mai stato e con un filo di voce lo ringraziò.

Non fece nemmeno in tempo a spiegargli l’accaduto che corse subito a Palazzo.

Ludovica entrò nella sua stanza, silenziosamente, in punta di piedi: non voleva svegliare gli altri dormienti a quell’ora tarda della notte.

Pose il fazzoletto sotto il cuscino, fece le sue solite preghiere di ringraziamento, perse un po’ di tempo a prendere sonno e poi si addormentò.

Il gallo cantò presto, come sempre, era mattina e la vita di corte iniziò più viva e fervente che mai.

Il Principe di Palagonia aveva bandito una delle sue consuete feste; la Villa doveva essere pronta a ricevere i suoi illustri ospiti.

Nella Reggia si correva come matti, i servi pulivano, le lavandaie lavavano, i sarti cucivano, i cuochi cucinavano; era un corri corri generale.

Tutto doveva essere pulito e ordinato prima dell’arrivo dei Conti, dei Marchesi e dei Principi invitati al ballo di corte.

La sala degli specchi, la più grande stanza della Villa, luccicava come brillano le onde del mare lacerate dai raggi del sole durante il tramonto.

Ogni granello di polvere era spazzato via e le conchiglie che ricoprivano i muri della sala, sfavillavano come brillanti.

Tutto era perfetto! Le danze potevano incominciare.

La sera giunse presto e gli invitati iniziarono ad arrivare.

Per primo venne il Duca di Valguarnera, seguirono il Principe di Santa Flavia, il Principe di Cattolica, il Marchese Inguaggiato, il Duca di Serradifalco e altri nobili di Bagaria e dei dintorni, accompagnati dalle loro consorti.

Come sempre Ludovica si nascose in giardino per ammirare, attraverso le finestre del primo piano, gli abiti delle nobildonne di corte.

Contesse, Marchese e Duchesse vestite con abiti lunghi e sfarzosi, ricoperti da bordure ricamate e da lustrini, con fili d’oro e nastri di raso, ampi e fastosi, abiti da sogno.

Questo era proprio il sogno di Ludovica: indossare quei bellissimi abiti da dama.

Questa volta Ludovica mise più olio nella sua lanterna: non voleva certo rivivere la brutta esperienza della notte precedente.

Lei stava lì, ore e ore, nascosta fra i cespugli, aspettando le carrozze che venivano e andavano con dietro quelle splendide dame di corte vestite divinamente.

Lei aspettava in silenzio, rintanata dietro un cipresso e osservava.

Guardava gli abiti e non solo … osservava le stranezze dei nobili, i tradimenti, gli inganni, gli amori e le ioni.

Dalla sua postazione Ludovica riusciva a cogliere quegli attimi di vita aristocratica che non si ravvisavano alla luce del sole.

Era contenta, era felice, anche se sapeva che quel mondo non le apparteneva, a lei bastava questo: osservare!

A lei bastava ammirare come incantata l’opulenza e la bellezza di quel mondo.

Ludovica aveva quattordici anni ed era molto bella; aveva dei lunghi capelli neri e degli occhi blu cobalto che sembravano rispecchiare il colore del mare dell’Aspra in tempesta.

Era cresciuta fra gli alberi di zagara e le verdi chiome di ulivo.

Veniva da una famiglia di proletari, suo padre lavorava la terra, e sua madre faceva la serva presso la casata dei Gravina di Palagonia; ed era per questo che Ludovica viveva lì, nelle stanze predisposte per la servitù.

Aveva imparato a leggere e a scrivere da un paio d’anni, grazie agli insegnamenti di Smeralda, la zia che l’aveva lasciata qualche mese prima, a causa di una polmonite, e che era stata per Ludovica un punto di riferimento, una confidente, un’amica …

Quando la zia le raccontava storie di dame e favole di principi e principesse, Ludovica sognava, immersa in un mondo fantastico e sconosciuto, e non perdeva la speranza che prima o poi qualcosa di stupendo potesse accadere nella sua vita.

Fino a quel momento nulla accadde; fin quando, un giorno, la notizia della morte di sua madre cancellò in un solo istante tutti i sogni di Ludovica.

Le crollò il mondo addosso, quel mondo che lei stessa si era creata viaggiando con l’immaginazione.

L’irreale lasciò spazio alla realtà e questa era cruda e dolorosa.

Si ritrovò sola, all’improvviso: aveva perso la zia e la madre, le persone che più di tutte avevano segnato la sua vita!

Dopo un periodo di smarrimento, però, Ludovica fu costretta a rimboccarsi le maniche e fu assunta a lavorare come lavandaia presso l’elegante e lussuosa Villa del Principe Luigi Naselli d’Aragona.

Entrando vi erano, da entrambi i lati, delle lunghe e rosee scalinate che si ricongiungevano al piano superiore.

La ragazza fu subito ben accolta, ma sentiva la mancanza della vita sfarzosa e mondana di Villa Gravina di Palagonia, di quelle feste eleganti e sontuose, ma soprattutto gli mancavano quei mostri deformi, quelle caricature di mendicanti, di gobbi e di musicanti a cui lei aveva da sempre sussurrato i suoi segreti più profondi, quei pupi che le facevano tanta paura ed allo stesso tempo anche tanta compagnia nelle lunghe notti estive, quando stava ore e ore a osservare la nobiltà dagli scorci delle finestre.

Il Palazzo era molto imponente, a fianco di esso vi erano le stalle, e lì vicino vi era un grande pozzo, dove ogni giorno le lavandaie andavano a intingere l’acqua.

Fu durante una giornata calda e afosa che Ludovica conobbe Filippo. Lo vide lì, ai piedi del pozzo, stava rinfrescandosi per combattere quello scirocco che gli rendeva la pelle sudaticcia e appiccicosa.

I due si videro e poi si guardarono così intensamente che in quel momento per pochi istanti il mondo sembrò fermarsi.

Le brezze di salsedine provenienti dal mare dell’Aspra e gli odori dei fiori di zagara, accompagnati ai profumi dei grappoli d’uva appena spuntati, rendevano quel momento ancora più inebriante; tutto in quell’istante parlava di loro.

Fu il ragazzo a spezzare per primo quella sorta d’incantesimo che si era creato attorno a loro.

“Sono Filippo, il garzone di stalla”, disse lui con voce decisa e intraprendente, togliendosi il cappello e abbassandosi come a fare un inchino.

Anche lei si presentò, e con voce molle e tremante disse: “Sono Ludovica, la lavandaia”.

Lui era un bel ragazzo, con dei magnifici occhi marrone che parevano proprio parlare.

Quell’incontro fu fatale: dal momento in cui i due si conobbero, s’innamorarono, e divennero inseparabili.

Finalmente la ragazza sembrò riacquistare quella felicità che per un po’ di tempo le era mancata.

Infatti, dalla morte di sua madre non aveva più la gioia di vivere di un tempo; e il trasferimento da Villa Gravina di Palagonia a Villa Naselli d’Aragona le aveva suscitato una sorta di disorientamento interiore.

Filippo era molto gentile, la riempiva sempre di attenzioni, le regalava a ogni occasione dei fiori di campo che Ludovica metteva delicatamente fra i capelli.

“Ecco, ho raccolto questi narcisi per te, per rendere ancora più grazioso questo tuo visino d’angelo”, le diceva lui toccandolo con le sue mani.

“Grazie”, gli diceva lei con voce frenata e in quel “grazie” racchiudeva tutta la sua ammirazione e il suo sentimento.

Il culmine della loro storia d’amore arrivò il giorno in cui i due decisero di fare una eggiata nelle campagne prossime alla Villa.

Raggiunsero un posto incantevole, dove le meraviglie della natura si fondevano tra di loro per formare un equilibrio perfetto e armonioso, e che da qualche tempo era divenuto il loro rifugio d’amore.

Si recavano lì per contemplare gli incanti del tramonto che tingeva tutto il cielo d’arancio e di rosso e che faceva scintillare le onde schiumeggianti del mare che si schiantavano come infuriate fra gli scogli arsi e umidicci.

“Che bello stare qui con te”, disse lui compiaciuto.

“Starei qui abbracciata a te per sempre”, rispose lei.

“Vorrei essere una tua piccola lacrima di gioia per perdermi nei tuoi splendidi occhi blu”, aggiunse lui, rendendo quel momento ancora più romantico.

Si ritrovarono soli in mezzo all’erba alta che li solleticava, come sfondo un mare di un azzurro deciso, rincorrendosi a vicenda e provando delle sensazioni molto intense e profonde.

Lei cadde sfinita ai piedi di un frutice, lui prese un grappolo d’uva, quello più verde e acerbo e lo morse, poi lo fece assaggiare a Ludovica.

Quelle bacche lasciarono cadere il loro succo aspro e acre sui corpi accaldati dei due che presi come da un istinto quasi animalesco iniziarono ad avere atteggiamenti molto carnali. La mano forte e robusta di lui scese lentamente sul corpo accalorato e stuzzicato di lei.

Di lì a poco la ione rapì anche le loro menti e fecero l’amore.

I due si fo in un solo corpo, l’odore della pelle mescolata, con quella dell’erba di campo, sembrava quasi ubriacarli.

I due si diedero l’uno all’altra … erano un solo corpo e un’unica anima.

Quel momento così intenso e sensuale fu interrotto dall’abbaiare di un cane; di soprassalto i due presero i loro indumenti e, rivestendosi, corsero via.

Erano ati dei mesi e Ludovica e Filippo erano più innamorati che mai.

Un giorno il giovane portò Ludovica alle stalle facendole ammirare

l’antichissima danza del toro, che il vecchio padre gli aveva insegnato.

Rimase estasiata! Ne aveva da sempre sentito parlare ma i suoi occhi ora si erano fatti testimoni dello spettacolo meraviglioso di quella danza così vigorosa e nello stesso tempo così ionale.

“Eri così virile su quel toro … sei stato bravissimo!”, gli disse, ancora incantata e rallegrata da quella danza.

“Grazie Ludovica; mio padre me la insegnò quando avevo cinque anni e non sai da allora quante cadute ho fatto. All’inizio non riuscivo neanche a salirci, non sapevo nemmeno stare più di qualche secondo sul dorso del bue”, raccontò lui ancora stanco per quei movimenti così vigorosi e minuziosi.

“Adesso però sei stato capace anzi sei stato un vero bovaro”

“Questa è la prima volta che mostro la mia danza ad una ragazza”, asserì lui, tirando Ludovica a sé per un braccio.

“Allora vuol dire che mi sono meritata questo spettacolo fantastico”, disse lei, avvicinando ancora di più il suo corpo e il suo viso a quello di lui.

“Tu meriti molto di più”, ribadì lui accarezzando e poi mordendo dolcemente le labbra di Ludovica.

Lei sentendo quelle parole si sciolse in un lungo bacio pieno di sentimento; gli accarezzava i capelli e spingeva la testa di lui contro la sua per rendere quel bacio ancora più forte e sigillante.

Nel frattempo, arrivò a Palazzo la notizia che il Principe Naselli d’Aragona avesse venduto la Villa al Principe di Cutò, e che la servitù doveva abbandonare la residenza.

Ben presto i “catoi” e i “dammuselli” del piano terra della villa si svuotarono.

Quella notizia fu molto sconfortante; Filippo e Ludovica per la prima volta dovettero separarsi.

Il loro distacco fu traumatico. Ludovica versò fiumi di lacrime, nulla poteva consolarla, era come se sentisse che quella sarebbe stata l’ultima volta assieme.

“La lontananza non ci separerà”, disse Filippo con voce dilaniata, per il dolore di allontanarsi dalla sua amata; “vedrai che presto staremo ancora insieme, più uniti che mai”, ma quella giornata afosa e ventosa non era d’incoraggiamento per i due e sembrava preludere a qualcosa di brutto.

Ludovica non aveva nemmeno le forze per replicare a quelle parole che per lei, in cuor suo, erano lasciate a quel vento che stava portandosi dietro la sua disperazione, la sua afflizione e la sua amarezza ma anche il suo amore e le sue ioni.

La tristezza prese il sopravvento su di lei, piegata dal dolore per il dipartirsi di Filippo, si gettò a terra, sopra a quella terra che aveva visto nascere il suo amore ma anche il suo dolore, sopra a quella terra dove lei si era data totalmente al suo amato, dove la ione l’aveva sconvolta e travolta.

La prese e la tenne stretta in un pugno ma niente poté frenarla: il vento se la portò via lontano e il pianto di Ludovica divenne ancora più straziante.

Il sole in quel momento s’incupì e lasciò spazio alla pioggia.

Iniziò a piovigginare e quelle gocce d’acqua sul viso di Ludovica erano forti e pungenti al tal punto da farla sprofondare nella poltiglia di fango che si era formata sotto di lei.

arono giorni e Ludovica costretta dalla vita ad andare avanti anche nelle avversità, riprese il suo vecchio lavoro come serva presso il Principe di Palagonia; una magra consolazione per lei.

Filippo invece, trovò lavoro come stalliere a Palermo, presso il Principe di Trabia.

La vita di corte presso il Principe di Palagonia era sempre molto vivace.

Ludovica era carica di lavoro e questo in qualche modo la aiutava, lei stessa a volte si caricava di faccende per non pensare alla lontananza dal suo amato.

Filippo le scriveva quasi tutti i giorni lunghe lettere, messaggi d’amore e di amarezza, righe e righe cariche di ione, che Ludovica custodiva gelosamente sotto il cuscino proprio accanto a quel fazzoletto, ancora sporco di sangue, che un giorno un uomo le regalò.

”Lei gli aveva rapito il cuore e lui aveva imprigionato il suo”; “amore vuol dire darsi l’uno all’altra”; “nulla potrà spezzare quel legame che si è intriso fra noi”, queste erano le frasi che Filippo scriveva nelle missive apionate indirizzate alla sua amata.

Era stata lei stessa a insegnargli quelle frasi, era stata lei a insegnargli a leggere e a scrivere pochi mesi prima, come se avesse saputo già che sarebbe servito a entrambi, di lì a poco.

Dal suo dolore trovava sollievo solo quando si recava in quel luogo incantevole, in quel posto dove Filippo e Ludovica avano gran parte del loro tempo.

Dove i due si erano dati a vicenda l’uno all’altra.

Lì iniziava a pensare, i ricordi di lunghe notti d’amore e di ioni la sopraffacevano.

Quel luogo le dava un pizzico di consolazione, dove conforto non poteva essercene.

Un giorno Ludovica andò vagando per le campagne del paese, smarrita nella sua

solitudine, costretta a cercare una ragione, un perché alla sua sofferenza per quell’improvvisa lontananza; quando udì degli spari.

Erano dei cacciatori che tenevano in mano il loro trofeo, della selvaggina calda e sanguinante, fra le dita.

Alla vista di quello scempio, Ludovica scappò; uno dei cacciatori la notò e fece per inseguirla.

Poco dopo la raggiunse, la fermò, la guardò e la riconobbe.

Anche lei riconobbe subito il volto di quell’uomo: era il Conte Ferdinando di Azzaria, l’uomo del fazzoletto.

In quel momento un brivido gelido attraversò il suo corpo; il Conte vedendola impaurita e vacillante cercò di calmarla; le spiegò che non voleva spaventarla e poi la riaccompagnò alla Villa.

“Non devi aver paura, ti ho inseguita perché ti ho visto scappare e volevo capire chi eri e cosa stessi facendo”, disse lui incoraggiandola. Ludovica non aprì bocca per tutto il tempo e arrivata alla Villa, ringraziò il Conte e si congedò da lui.

Cosa le stava accadendo? Sapeva con certezza di essere innamorata di Filippo ma la vista di quell’uomo l’aveva talmente sconvolta che adesso tutto era in dubbio.

Quei sentimenti sinceri e profondi avevano lasciato spazio alla confusione e al turbamento.

Quell’uomo aveva provocato in lei delle emozioni. “Legate a cosa?” Si chiedeva Ludovica, con disperazione.

Non era amore e neanche ione, era forse un senso di protezione che lei percepiva in quell’uomo dai lineamenti marcati.

Il Conte di Azzaria che alloggiava alla Villa per il periodo estivo era un uomo colto ed elegante.

Aveva all’incirca quaranta anni, amico fraterno del Principe di Palagonia, ava gran parte del suo tempo a leggere e a scrivere, aveva una ione sfrenata per la caccia, alla quale si dedicava almeno due volte la settimana.

Amante della bella vita e delle belle donne, dell’arte e del teatro; si dilettava a mettere in scena attimi di vita borghese e aristocratica.

Le gentildonne erano felici di farsi dirigere da lui durante le rappresentazioni teatrali: era un uomo molto ambito!

Un giorno Ludovica guardò, nascosta dietro un cespuglio, una scena diretta dal Conte.

Nel grande cortile della Villa s’inscenava la scoperta dell’America.

Rimase tanto incantata da quelle scene, da quella storia, che un giorno di qualche anno prima sua zia Smeralda le aveva raccontato, che si dimenticò di essere nascosta dietro al groviglio e applaudì anche lei entusiasta al termine della rappresentazione.

Quell’applauso fu sentito dal Conte che si voltò e vide la ragazza fuggire a nascondersi.

Lui la rincorse e la fermò; in quel momento Ludovica voleva sprofondare dalla vergogna.

“Perché scappi? Non hai fatto niente di male, anzi, sono contento che tu abbia apprezzato la mia rappresentazione”, disse lui sostenendola.

Lei rossa dalla vergogna disse: “Non stavo scappando e solo che sì e fatto tardi e devo rientrare a casa, mi stanno aspettando”.

“Sai che hai un viso molto carino?”, disse il Conte, come se non avesse sentito le parole di lei, e prendendole il volto fra le mani e osservandolo bene, aggiunse “Potresti fare l’attrice di teatro”,

“Vorresti partecipare a una mia commedia?”.

“Non saprei … non so recitare!”.

“Non preoccuparti, t’insegnerò io”.

I due fissarono un appuntamento per l’indomani all’alba, sotto il vecchio albero di mandorle, non molto lontano dalla Villa.

Quella notte sembrava non are mai, era come se il sole non volesse sorgere: fu una notte interminabile.

Ludovica non chiuse occhio, pensò insistentemente a quell’incontro e a quello che potesse annunciare.

Finalmente il sole spuntò, era l’alba e Ludovica, eccitata per quell’incontro, si recò subito nel luogo dell’appuntamento.

Fu lei la prima ad arrivare ma dopo pochi minuti, ecco che vide arrivare il Conte, elegante, come sempre, e con quell’aspetto così maturo e protettivo.

Ludovica in quel momento voleva scomparire, non si sentiva all’altezza della situazione e in cuor suo pensava di aver fatto male ad accettare quell’invito.

Era imbarazzata e impacciata, girava insistentemente quel braccialetto che aveva sul polso e abbassava lo sguardo come intimidita e vergognosa.

Il Conte si accostò a lei e baciò la sua mano: un gesto da galantuomo che mai nessuno aveva fatto a Ludovica.

“Sono felice che tu sia venuta, t’insegnerò tutti i trucchi per essere una brava attrice”, esordì lui prendendole la mano per mettersi in cammino.

I due s’incamminarono verso una lunga eggiata, durante la quale il Conte spiegò a Ludovica molte cose del teatro e dei teatranti.

Ludovica rimase affascinata da quei racconti, da quella sua gestualità, da quelle spiegazioni così scrupolose.

Il Conte la osservava e coglieva in lei quell’ingenuità tipica delle ragazze della sua età.

E fu proprio questa genuinità e questa mancanza di malizia che le fece vedere solo il lato nobile e schietto del Conte.

Vedeva in lui un maestro, un istitutore che le insegnava l’arte teatrale ma soprattutto l’arte della vita, con le sue continue contraddizioni e ioni.

Da quel giorno, sovente presero ad incontrarsi segretamente sotto il vecchio mandorlo; trascorrevano ore a leggere, provare e fantasticare con la mente.

Avevano messo in scena una vecchia commedia in prosa del ‘500, la famosa Calandria del Bibbiena, che trattava dello scambio di due gemelli, un maschio e una femmina.

Ludovica interpretava la parte di Fulvia, moglie dello sciocco Calandro, e amante di Lidio, uno dei gemelli.

La commedia era molto divertente e Ludovica rappresentandola viveva dei magnifici momenti di spensieratezza.

I racconti del maestro di Azzaria, era così che lo chiamava Ludovica scherzosamente, erano per lei come nettare per le api: non poteva farne a meno!

Lei lo ascoltava ammirata parlare in dialetto fiorentino.

Lui cercò di insegnarle quel gergo ma non ci riuscì del tutto.

I due provarono e riprovarono la decima scena del secondo atto, si trattava di un dialogo tra Calandro e sua moglie Fulvia:

“CALANDRO Fulvia! oh, Fulvia!

FULVIA Messer, che vuoi?

CALANDRO Fatti alla finestra.

FULVIA Che c'è?

CALANDRO Vuoi altro? Io vo insino in villa, ché Flaminio nostro non si consumi drieto alle caccie.

FULVIA Ben fai. Quando tornerai?

CALANDRO Forse stasera. Fatti con Dio.

FULVIA Va' in pace. Col mal anno. Guarda che vezzoso marito mi detteno li fratelli miei! che mi fa venire in angoscia pure a vederlo”.

Queste furono le frasi che ripeterono decine di volte, fra risate e ilarità.

Quei momenti di allegria avevano fatto scordare a Ludovica il sentimento per Filippo a tal punto che non gli scriveva da un po’ di tempo.

Lui invece, all’oscuro della situazione, continuava a scriverle e nell’ultima lettera scrisse che presto sarebbe venuto a trovarla, e che attendeva con ansia quel giorno in cui avrebbe rivisto la sua amata.

Quella lettera, però, non fu mai letta da Ludovica poiché troppo presa dagli insegnamenti del suo adorato maestro.

Filippo contava i giorni che avano veloci come foglie trascinate dal vento in impeto.

Intanto Ludovica e il Conte continuavano con consuetudine a vedersi e fra loro si era creata una grande complicità, entrambi legati da ioni come la musica, la lettura e il teatro.

“Vedi Ludovica, nel teatro si recita la vita di un'altra persona ed è per questo che si è liberi di dar sfogo ai sentimenti più nascosti del nostro animo”, diceva lui cercando di insegnarle la recitazione in tutte le sue forme più implicite.

“Nell’interpretazione c’è sentimento, sfogo, apertura mentale, esaltazione e rapimento; se vuoi essere una brava attrice, devi dimenticarti totalmente di te stessa e della tua vita e metterti nei panni di un'altra persona che potrebbe anche essere l’opposto di te”, spiegava lui proseguendo nei suoi insegnamenti.

Lei rimaneva in contemplazione, persa nelle parole del suo insegnante, meditando sul significato di quelle definizioni.

Ogni tanto il vento le scuoteva i capelli e lei come infastidita da quella momentanea distrazione li prendeva e li annodava stretti, fissandoli con dei rametti.

Il Conte la guardava compiaciuto, osservava attentamente quel corpetto beige che le stringeva il petto, guardava la sua lunga gonna che le toccava le caviglie, quei capelli così scompigliati e quei piedi nudi lo facevano sorridere.

Ludovica non metteva quasi mai le scarpe, voleva toccare e sentire la terra sotto di lei, voleva pestare quei prati fioriti, quelle scale di marmo, quei ciottoli che incontrava per strada, voleva sentire sulla sua pelle il mondo sotto di lei, come per frenarlo, per contenerlo.

arono dei giorni e l’atteso ritorno di Filippo avvenne.

Lui si recò nel luogo dell’appuntamento che aveva scritto a Ludovica, puntuale come sempre: il giardino delle vigne.

In quel posto avevano condiviso dei bellissimi momenti, le più intense emozioni; dove i due ebbero il loro primo rapporto amoroso, ubriacati dai profumi che li circondavano.

Filippo aspettò a lungo, ma niente! Neanche l’ombra di lei.

“Sarà stata trattenuta da qualche imprevisto!”, pensò ad alta voce lui, facendo avanti e indietro da un arbusto all’altro.

Attese delle ore, si fece quasi buio, il sole calò e le nuvole si dispersero nell’etere. Andò alla Villa e chiese alla servitù ma nessuno sembrava averla vista.

“No, non la vedo da un paio d’ore”, disse una serva al giovane.

Andò allora in giro per le campagne a cercarla, quando sentì nelle vicinanze una risata che riconobbe essere di Ludovica, ma in sottofondo udì le risa di un uomo, un tipo dalla voce ferma e matura.

Li vide e poi si nascose: i due scherzavano con confidenza e sorridevano l’uno all’altra con una complicità non da poco, provando delle scene della Calandria.

“Ma questo marito era proprio sciocco”, disse Ludovica al Conte divertita.

“A volte uno fa lo sciocco ma non lo è affatto; magari a Calandro piaceva far finta di non vedere o di non capire! Oppure lo faceva solo per un suo divertimento … chi lo sa?”, rispose lui, avvicinandosi sempre di più a Ludovica che nel frattempo pareva aver compreso cosa le sarebbe potuto accadere da questa vicinanza.

Il cielo era scuro e una frescura penetrante faceva capo ai due che sembravano essersi isolati da tutto ciò che li circondava.

Un fuori programma sconvolse gli occhi e il cuore di Filippo.

Il Conte a un tratto afferrò Ludovica e la baciò.

Lei, come una giovane gazzella avvinghiata da un possente leone, si lasciò cadere fra le sue braccia, ricambiando quel lungo bacio apionato.

Tutto si fermò e per un istante anche il cuore di Filippo smise di battere.

Sorpreso da quella visione a dir poco sconvolgente, iniziò a vagare nel buio della campagna; come rincorso da una tigre, corse veloce inciampando ripetutamente.

La sua disperazione era tangibile, pensava e ripensava alla scena di cui si era fatto spettatore ignaro, mettendosi le mani in faccia e piangendo per l’angoscia che stava vivendo.

Intanto i due erano tornati alla Villa; una serva avvisò Ludovica che Filippo era ato prima a chiedere di lei.

“E’ ato un giovane, un certo Filippo. Ti cercava”, disse la serva.

“Adesso dov'è?”, chiese Ludovica agitata.

“Non saprei, ma l’ho visto andare verso le campagne”, rispose la serva.

Lei, presa come da un senso di colpa improvviso, andò subito a cercarlo.

Ormai si era fatto buio, Ludovica prese la sua lanterna e lo cercò per le campagne della Villa; poi si diresse verso il giardino delle vigne, ma lì trovò solo un mazzo di fiori di campo, adagiato sotto una vite e legato con fili di paglia.

Era spossata e affaticata; aveva cercato in lungo e in largo, aveva un peso grosso sul petto che la opprimeva quasi a farla rallentare e frenare nella sua ricerca disperata.

Poi andò al pozzo e infine alla stalla e fu lì che trovò Filippo, penzolante e con un cappio al collo.

Era in fin di vita: la sua disperazione l’aveva spinto a fare un gesto estremo.

Ludovica gridò con tutte le sue forze, ma le sue grida erano sorde e nessuno la sentì.

Allora facendosi coraggio prese una scala di legno che trovò nella stalla e la adagiò sulle balle di fieno che si trovavano lì accanto, prese, poi, una piccola ascia e tagliò la corda legata al collo di Filippo.

Il suo corpo moribondo cadde a terra in mezzo al fieno, Ludovica lo prese sopra di lei e con un sospiro di voce gli sussurrò “Perdonami, perdonami, perdonami …”; non riusciva a dire altro! Il senso di colpa la soggiogava. Aveva capito tutto, aveva immaginato il perché di quel gesto.

Filippo le toccò la mano e poi spirò; era stata l’ultima dimostrazione d’affetto nei

confronti della sua amata.

Quel tradimento aveva spezzato quel legame così intenso e quell’ amore così sconvolgente, che lui apprezzava più della sua stessa vita.

Quella vita che aveva perso così freddamente senza nemmeno pensarci due volte.

Ludovica pianse lacrime amare, non poteva darsi pace, le sue lacrime cadevano come un fiume in tempesta sopra il corpo senza vita di lui.

Della gente che si trovava nelle vicinanze della stalla, la sentì e si recò frettolosamente da lei facendosi osservatori di un dramma irragionevole. Ludovica fu portata via con forza, poiché non voleva abbandonare il corpo esanime di Filippo, e continuava a dire le stesse parole: “Perdonami, perdonami, perdonami”, piangendo di un pianto asfissiante e opprimente.

Fu accompagnata nella sua stanza ma nulla poteva consolarla: quella visione così orribile la tormentava. “E’ tutta colpa mia, è tutta colpa mia”, questa era la frase che si ripeteva incessantemente, nascondendo il volto tra le ginocchia, avvolte dalle braccia, per la disperazione.

Il Conte di Azzaria seppe dell’accaduto e andò a trovare Ludovica.

La trovò nella stanza, rannicchiata in un angolo del letto con le lettere di Filippo tra le mani sommerse dalle lacrime. Cercò di consolarla ma nulla sembrava

confortarla, i vari tentativi di tranquillizzarla furono vani.

“Stai calma Ludovica, non agitarti in questo modo: potresti avere un mancamento”, disse il Conte impietosito nel vedere quella ragazza così abbattuta.

Sino a quel momento l’aveva vista sempre sorridente e divertita per ogni cosa che faceva, l’aveva vista sempre attenta e vigile mentre adesso la vedeva smarrita, triste e debole.

“Non m’importa! Adesso voglio solo morire!”, disse lei affranta dal dolore.

Il Conte le promise che si sarebbe fatto carico della sepoltura di Filippo, che si sarebbe occupato lui di tutto. Al funerale Ludovica non volle partecipare ma andò al giardino delle vigne, portò con sé dei fiori di campo, quegli stessi fiori che Filippo le regalava sempre, e li sparpagliò lungo le viti per tutto il vigneto; in quel posto, dove avevano trascorso dei bellissimi tempi d’amore.

Sola con la sua disperazione pensava e ripensava a quei momenti, quegli attimi che aveva trascorso con il suo grande amore. Sparse delle viole, delle margherite, degli oleandri, dei narcisi bianchi e proprio questi ultimi le fecero riaffiorare dei pensieri, dei ricordi che con forza le tornarono alla mente.

Pensò che un giorno il suo amato le aveva donato dei petali ed ognuno di essi rappresentava i figli che avrebbe desiderato avere da Ludovica, e come i petali del narciso erano ben sei.

Poi si gettò come priva dei sensi sopra a quei fiori, prese due pugni di terra e se li sfregò addosso come per sentire l’odore e il calore di Filippo sulla sua pelle e iniziò a piangere di un pianto disperato e singhiozzante. arono dei mesi e Ludovica cercò di andare avanti, fu molto difficile per lei riprendere la sua vita fra le mani ma la compagnia del Conte in qualche modo la consolò.

Lui cercò in tutti i modi di farla reagire e di spronarla in ogni maniera, facendole “superare” quel momento così doloroso.

Ormai a Ludovica era rimasto solo lui, l’unica persona che non l’aveva abbandonata nella sua vita.

Questo l’aveva sempre di più legata al Conte, e lui, a poco a poco, la conquistò, anche se il ricordo di Filippo era molto presente e vivo in lei.

SECONDO CAPITOLO

Ludovica ava le giornate lavorando e studiando: si era ritagliata un po’ di spazio durante il quale cercava di allargare le sue conoscenze.

Purtroppo non aveva mai potuto studiare ma quello che sapeva lo aveva appreso dai libri, da sua zia, dai racconti del Conte e dalla vita stessa.

Nonostante la grave crisi di quegli anni costrinse la popolazione a defluire nelle campagne, Bagaria si andò sempre di più popolando; il posto dove Conti e Principi avevano costruito la loro residenza estiva era diventato un vero e proprio paesino.

Misere botteghe, servizi notarili, religiosi e quelli dell’aromatario del cerusico diedero vita a un paesino appena germogliato.

Ai suoi piedi vi era la borgata dell’Aspra, dove i pescatori si raccoglievano per vendere del pesce fresco del mediterraneo.

Era lì che Ludovica si recava spesso a contemplare il mare, ad ascoltare il fischio del vento e a osservare i cavalloni schiumosi che si frantumavano fra gli scogli.

Pensava e ricordava … la vita l’aveva segnata, momenti belli e devastanti l’avevano attraversata.

In lei la voglia di riscattarsi, nonostante tutto, era sempre viva.

La sua fede l’aveva sempre aiutata a superare ogni istante della sua esistenza.

Era proprio nel suo credo che prendeva la forza per andare avanti, quella fede così schietta e sincera la aiutava a reagire, nonostante le difficoltà della vita.

“Mio Dio dammi la forza per andare avanti. Padre, sii il mio scudo e la mia salvezza, aiutami nelle avversità, manda i tuoi angeli a vegliare su di me. Cullami fra le tue braccia e fa che possa scordare questi momenti così bui. Te lo chiedo nel nome del tuo glorioso figlio Gesù. Amen”

Questa era la preghiera che la giovane Ludovica rivolgeva, implorandolo, al suo Santo Padre.

Anche la compagnia del Conte era uno stimolo in più a vivere meglio: lui c’era, anche nelle ostilità.

Ludovica si era trasferita in una casetta situata ai piedi di Villa Gravina di Palagonia: era stato un regalo del suo Conte.

Aveva abbandonato il suo vecchio lavoro e si era dedicata anima e corpo al teatro.

Un piccolo teatro allestito a lato di Villa Branciforti, per volere dello stesso

Principe, era il suo luogo di lavoro o per meglio dire era il posto dove poter sfogare i suoi sentimenti, le sue emozioni e i suoi dolori.

Quando recitava, metteva tutta se stessa in gioco, nelle rappresentazioni cercava sempre di dare il meglio di lei.

I Principi, i Conti e i nobili palermitani e bagarioti la guardavano esterrefatti, riusciva a suscitare delle emozioni anche alle persone più schive.

Le sue interpretazioni erano reali a tal punto da far dimenticare agli sbalorditi spettatori, di essere a teatro.

Li trasportava nei luoghi e nei posti più incantati, nei meandri delle sue scene, facendo rivivere a essi, in prima persona, le sue emozioni e le sue trepidazioni.

Il Principe Branciforti stesso rimaneva stupito nel guardare le sue interpretazioni così profonde e intime, le sue movenze così sensuali e ad ascoltare la sua voce così dolce e delicata.

Ludovica aveva conquistato la maggior parte delle più importanti personalità del paese.

Le foglie degli alberi iniziarono presto a cadere e trasportate da un vento folle si dirigevano verso il mare agitato e burrascoso, lasciando nell’aria gli aromi di un’estate ormai ata.

Il Conte, nel frattempo, aveva abbandonato la residenza estiva e si era trasferito a Palermo per dirigere i suoi affari, ma un paio di volte la settimana ritornava a Bagaria per venire a trovare la giovane Ludovica.

Il loro sentimento racchiudeva riconoscenza, protezione, ioni comuni, sensualità, ma non lasciava spazio all’amore vero.

Fra loro c’erano notti di ione, carnalità ma lo sguardo di lei era sempre rivolto a quel ato che l’aveva fatta maturare molto velocemente e che aveva segnato il suo modo di reagire alla vita.

Fra i due si era creato un legame inscindibile, dipendevano l’uno dall’altra.

Si vociferava tanto attorno a questa relazione … un Conte e una serva, il ricco e la povera.

Ludovica non dava troppo peso ai pettegolezzi, aveva capito sulla sua pelle che vi erano cose più gravi che dar carico a maldicenze di gente invidiosa e impedita.

Il suo desiderio era di vivere questa storia alla luce del sole ma il Conte non era ancora pronto ad affrontare le dicerie della nobiltà; almeno questo era quello che diceva lui.

“Perché non pensiamo a noi e smettiamo di dar peso alla gente? Quello che conta è il nostro sentimento!”, gli disse lei con voce intenerita, quasi a implorare,

dopo una lunga notte d’amore.

“Non posso combattere contro i giudizi del mio ceto, non posso e non voglio. Sono un Conte e devo mantenere un certo decoro e una certa etichetta”.

“Allora non mi ami!”, replicò lei, alzandosi dal letto scocciata dalla situazione, e fece per rivestirsi, , quando lui, infuriato per quella mancanza di fiducia, la prese con forza per un braccio, la guardò negli occhi e le disse: ”Certo che ti amo, ma a me va bene così”.

“A te va bene così: vederci un paio di volte la settimana, usare il mio corpo e poi ognuno per le sue vie … a me questo non basta più!”, affermò Ludovica con voce decisa e rabbiosa, ma Ferdinando, che nel frattempo si era rivestito, lasciò quelle parole al silenzio della stanza e se ne andò.

Nulla mutò. Continuarono per mesi a vedersi come prima.

Lei si era ormai rassegnata a quella decisione così determinata.

Durante le prove di una rappresentazione teatrale, Ludovica conobbe Clarissa un’attrice simpatica ed estroversa.

Si trovarono subito bene, Clarissa aveva qualche anno in più di lei ma non li dimostrava per niente, anzi, sembrava proprio una ragazzina.

Strinsero una vera amicizia: Clarissa era diventata la sua confidente, la sua complice e la sua migliore amica.

In qualche modo Ludovica aveva visto in lei la figura che da qualche tempo aveva perso, un punto di riferimento come lo era stata la zia Smeralda nella sua fanciullezza.

Era solita raccontare barzellette o sbizzarrirsi in indovinelli puerili e divertenti, e questo a Ludovica piaceva molto, la aiutava a distrarsi e a non pensare più di tanto.

Clarissa apparteneva alla media borghesia, era sposata con un notabile della cittadina, e viveva non molto lontano dall’abitazione dell’amica. La sua casa era molto bella, circondata da un vigneto, e da un ampio giardino ben ornato, i suoi mobili erano lussuosi e ricchi di argenti e cristalli.

Fra il piano terra e il primo piano vi erano delle scalinate di marmo bianco, dove ci si poteva specchiare; al piano terra vi era un ampio salone, degnamente arredato, dove Clarissa invitava abitualmente le sue vagliate amiche per il tè, un rituale cui non poteva sottrarsi, e di cui Ludovica ne fece presto parte.

Accanto vi erano le cucine, al piano superiore le camere da letto e la grande stanza ovale, dove suo marito custodiva degli strumenti tecnici e scientifici molto ricercati.

Aveva anche un terrazzo, dove si poteva ammirare il panorama della città: in lontananza si scorgevano le ampie facciate della Villa del Principe di Palagonia, del Palazzo del Principe di Cutò e delle varie Ville del paese.

Era un posto molto centrale e Ludovica se ne innamorò subito.

Da lì poteva ammirare tutto, dei bei tramonti che dipingevano come un quadro ad acquerelli un cielo scarlatto, delle gazze ladre che riponevano sopra gli alberi il loro bottino, in lontananza il mare che inebriava l’aria pura e sana di Bagaria, i calessi che facevano avanti e indietro per le strade ancora grezze della città.

Pastori che portavano al pascolo le loro pecore, cani che abbaiavano ai anti.

“Da qui, si può anche volare. E’ un posto stupefacente! Ho visto un panorama simile solo dal Palazzo Naselli d’Aragona”, disse Ludovica conquistata da quel contesto.

Affascinata da quella vista, iniziava a vagheggiare con la fantasia.

Da lì, Ludovica sognava, fantasticava con la mente proprio come faceva un tempo dalle alte logge di Palazzo d’Aragona, vedendo quei posti ancora incontaminati, osservando quei campi fioriti e così colorati, da quelle stesse logge calcate dai nobili palermitani, per ammirare gli strabilianti giochi d’artificio in onore di Santa Rosalia.

Si ricordò di un aneddoto accaduto tempo prima, mentre osservava il cielo colorarsi di mille luci scintillanti; guardava i nobili ospiti del Principe Naselli mentre si meravigliavano di quei fuochi così abbaglianti e fulgenti.

Si ricordò che uno di essi aveva fatto cadere accidentalmente il suo bastone dal peristilio e aveva colpito inaspettatamente un cavallo che dalla paura si era imbizzarrito e messo a correre per tutto il cortile, trascinandosi dietro tutto ciò che incontrava durante la sua folle corsa.

Si ricordò di come Filippo, dopo l’accaduto, scherniva il cavallo imitandolo nella sua corsa matta per tutto il cortile della villa, davanti agli occhi divertiti di Ludovica.

I sogni però svanivano presto lasciando spazio ai ricordi crudi e violenti del suo ato.

La perdita di Filippo aveva creato in lei un senso di colpa molto profondo, non poteva darsi pace, nonostante fossero ati ormai degli anni.

Clarissa, che era venuta a conoscenza di tutto, cercava sempre di confortarla ogni qual volta vedeva il suo viso rattristarsi, ogni qual volta l’amarezza la soffocava quasi a farle perdere il respiro.

“Stai tranquilla, adesso ci sono io qui con te. La vita a volte ti opprime, ti distrugge, ti fa cadere, ma poi ti dà sempre una mano per rialzarti”, diceva Clarissa, mettendo una mano sulla spalla dell’amica affranta, e stringendola poi forte a sé.

La sua amicizia era molto importante per Ludovica, e le due donne avano molti momenti della giornata assieme, fra il teatro e i pomeriggi trascorsi a confidarsi sorseggiando una tazza di tè.

Inoltre, Clarissa, aveva preso Ludovica con sé come bambinaia: doveva occuparsi delle sue figliolette gemelle, due belle bambine di quattro anni, alle quali Ludovica dedicava gran parte del suo tempo.

Le piccoline le davano molto da fare, ma Ludovica trovava sempre un po’ di spazio per il teatro e per incontrarsi con il suo Conte.

La loro relazione da qualche tempo si era intiepidita: Ferdinando, da quando Ludovica aveva accettato di fare la bambinaia, era diventato geloso e opprimente.

La sua insicurezza e mancanza di fiducia nei confronti di lei, era divenuta insopportabile.

Un giorno Ludovica si sentì male e svenne. Clarissa, spaventata, chiamò il medico che la visitò e le comunicò la lieta notizia: stava aspettando un bambino.

La notizia la scosse un po’, ma fu subito felice al pensiero che sarebbe diventata madre.

Anche Clarissa fu molto contenta della bella novella: la sua migliore amica avrebbe presto avuto un figlio!

Ludovica, dopo una notte d’amore, diede la nuova a Ferdinando, ma inaspettatamente lui reagì male.

La sua reazione fu molto violenta, scaraventò sedie e soprammobili per terra, non poteva darsi pace, ripetendosi com’era potuto succedere.

“Non è possibile, non ci posso credere! Questo bambino non lo terrai, devi abortire al più presto!”, le impose, con fare minaccioso.

Ludovica fu molto sbalordita da quella reazione, rimase per un po’ di tempo senza parole e aprì bocca solo per dire ciò: “Vuoi o non vuoi, io il bambino lo terrò con me”.

Lui a sentire questo s’infuriò ancora di più; lei, senza saperlo gli aveva lanciato una sfida cruenta, e prima di andare via, la afferrò per un braccio e la gettò violentemente per terra, ed è lì che lei rimase, immobile, piangendo e disperandosi, guardando il soffitto affrescato con angeli e messaggeri divini e iniziò a pregare.

Nella sua disperazione trovò la forza per chiedere a Dio il perché di tutto questo accanimento ma in quel momento non trovò nessuna risposta e rimase sola con la sua afflizione.

Clarissa non la vide venire a lavoro e si preoccupò, allora andò a cercarla a casa, vide la porta aperta ed entrò, la trovò ancora distesa sul pavimento, rannicchiata accanto al letto, tremolante e infreddolita.

La rialzò e la fece distendere, le portò un bicchiere d’acqua e si fece raccontare l’accaduto.

L’amica la confortò, dicendole che le sarebbe stata sempre accanto, anche se Ferdinando l’avesse abbandonata.

“Amica mia, potrai sempre contare su di me, ti aiuterò io, e ti starò accanto sempre”, disse lei accarezzando i lunghi capelli di Ludovica.

E fu così! Da allora, il Conte, non si fece più vedere, la lasciò da sola ad affrontare un mondo duro e selvaggio.

Ludovica sola, e senza tetto si trasferì a vivere in casa di Clarissa.

“La mia casa è la tua casa: sentiti libera di fare ciò che vuoi”, disse, ricevendo l’amica in casa sua.

Lì si trovò molto bene: occupava il suo tempo giocando con le bambine e leggendo loro vecchie favole, e trascorreva ore a parlare e scherzare con la sua cara amica.

Tutto andava bene ma le continue avances del marito di Clarissa la misero molto in difficoltà. Lei, però, non voleva dirle niente: aveva troppa paura che un’incomprensione potesse sgretolare la loro amicizia.

Un giorno lui la cinse come per baciarla, lei cercò con forza di uscire da quella morsa pericolosa ma non ebbe la forza per scansarlo, impedita anche dal fatto che la sua pancia si era ingrandita. Fu lui stesso ad allentare quella stretta, dopo

averla lambita.

“Mi lasci e la finisca di importunarmi!”, disse lei.

“Sennò che fai? Vai dalla mia bella mogliettina a raccontarle tutto?! Non ti conviene…perderesti l’amica e anche il lavoro e nello stato in cui sei non credo ti converrebbe”, disse lui in maniera fastidiosa.

Una delle piccoline, che aveva visto tutto, corse subito dalla madre e le raccontò l’accaduto.

“Madre, madre, ho visto mio padre baciarsi con Ludovica”, disse la piccola.

Clarissa non poteva credere alle sue orecchie: la sua migliore amica l’aveva tradita proprio con suo marito.

Fu questo il primo pensiero che la assalì.

Quell’amica che aveva sempre curato, consolato e accolto a braccia aperte a casa sua, l’aveva tradita.

Non voleva crederci, ma preferì fidarsi delle parole semplici e senza malizia di sua figlia, sangue del suo sangue, che della verità contraffatta che poteva raccontarle un’estranea.

Andò da Ludovica e senza farsi dare spiegazioni la cacciò di casa.

Accecata dalla rabbia, le disse di andarsene e che era solo una profittatrice e una poco di buono.

“Questo è il ringraziamento per averti ospitato a casa mia? Ti credevo sincera, ma mi sbagliavo”, disse Clarissa ingiuriando Ludovica.

L’aveva delusa e tradita e non l’avrebbe mai più perdonata.

“Non è come pensi tu! è stato tuo marito a molestarmi. Io volevo dirtelo, ma non ho trovato il coraggio, credimi”, disse Ludovica afflitta e sofferente. Cercò invano di raccontarle la verità, ma Clarissa piena di collera non la volle ascoltare, le intimò di raccogliere i suoi pochi indumenti, e di andare via.

Ludovica, per l’ennesima volta incompresa e delusa dalla vita, prese le sue cose e andò via; era al settimo mese di gravidanza e questa ulteriore delusione segnò in modo decisivo la sua vita.

Si trovò a dormire per strada, in aperta campagna sotto gli alberi di ulivo, coperta di stracci.

Infreddolita e trasandata andava vagando da un punto all’altro del paesino.

Guardava dei bambini giocare e divertirsi per strada in mezzo al fango e alla melma e rimembrava la sua fanciullezza, ricordava le giornate spensierate e beate della sua infanzia, quando le responsabilità e i dolori della vita non la sfioravano nemmeno lontanamente.

Ogni tanto trovava rifugio in quella chiesetta misera e spoglia a fianco del corso principale del paese, proprio alle spalle della, invece, austera e ricca chiesa madre.

Le iscrizioni sepolcrali le rammentavano le perdite considerevoli della sua vita, lasciando spazio alla tristezza e al rammarico.

Mendicava e la gente impietosita per il suo stato le dava qualcosa da mangiare, la sua vita era diventata una lotta continua per la sopravvivenza sua e del piccolo che portava in grembo.

“La prego, signora, mi dia un tozzo di pane, non mangio da due giorni, la prego”, diceva lei supplicando e implorando le anti per ricevere qualcosa da mangiare.

Un giorno per strada incontrò una locandiera, che impietosita, la condusse al suo ostello e la ospitò.

La mise a letto, le fece un buon brodo caldo e le tenne compagnia.

“Come ti senti? Vedrai che il mio brodo ti riscalderà tutto questo bel pancione”,

disse l’anziana signora, accarezzandole affettuosamente il grembo.

“Sto bene, grazie. Non so come ringraziarla! Pregherò per lei, affinché Dio la ripaghi di tutto quello che sta facendo per me”, disse la giovane guardando con gratitudine la vecchia donna.

Era un’anziana di circa settant’anni, era molto gentile e affabile e in lei Ludovica trovò una madre.

Si chiamava Donna Catarina ed era sola, non aveva figli e aveva messo su una locanda ben conosciuta dagli abitanti di Bagaria e anche dai forestieri.

Donna Catarina aveva degli aiutanti, c’era Clara la cameriera, Ernesto il cuoco e Beatrice che serviva ai tavoli.

I primi due la accolsero molto bene, furono felici di avere trovato una nuova amica, mentre Beatrice provò per lei una sorta di gelosia.

Vide che la vecchia le stava sempre vicina, sempre pronta a confortarla e aiutarla, e questo le dava molto fastidio al punto che voleva in qualche modo sbarazzarsi di lei.

“Non credi che sarebbe meglio fare nascere tuo figlio da qualche tuo parente e non in una taverna?!”, disse Beatrice con finta apprensione.

“Non ho più nessuno, non ho parenti”, rispose lei, abbattuta e rattristata.

“Lo dicevo per te, ma visto che sei sola, allora ti devi accontentare”, aggiunse Beatrice.

La data del parto si approssimava e lei era molto entusiasta, non vedeva l’ora di prendere fra le sue braccia quel pargoletto, che aveva deciso avrebbe chiamato Esmeralda se fosse stata femmina o Filippo se fosse stato un maschio.

Un giorno Ludovica stava servendo ai tavoli quando vide sull’uscio della porta addentrarsi il Conte Ferdinando di Azzaria. Immediatamente, presa da un’incontrollabile paura, andò a serrarsi nella sua stanza, ma lui la intravide.

Si sedette e poi domandò a Beatrice di lei.

“Chi è quella ragazza?”, chiese, facendo cenno col collo a Beatrice.

Lei gli raccontò che da qualche tempo viveva nella locanda, che era stata trovata dalla proprietaria per strada, che era una stracciona, una mendicante.

“E’ solo una poveraccia raccolta per strada dalla mia padrona”, rispose lei.

Il Conte diede dei soldi a Beatrice e concordò un appuntamento al vecchio albero di mandorle per il pomeriggio seguente.

Lei prese i soldi e l’indomani come stabilito, si recò all’appuntamento.

Donna Catarina, nello stesso tempo, era andata a vedere come stesse Ludovica, l’aveva vista dileguarsi e non ne aveva capito la causa.

Entrando in camera la vecchia chiese spiegazioni a Ludovica: “Che cosa ti è successo? Ti ho visto scappare agitata…per caso non ti senti bene?” - “No, sto bene e che ho visto una persona che ho conosciuto tempo fa e ne sono rimasta turbata”, rispose Ludovica.

Lei raccontò la storia della sua vita alla vecchia e le disse che quell’uomo che era entrato in locanda poco prima, era il padre del suo bambino, l’uomo che aveva distrutto la sua vita.

Ludovica ancora non poteva sapere che la sua disperazione e la sua afflizione sarebbero diventate ancora più lancinanti.

Il giorno tanto atteso arrivò e Ludovica con sofferenza mise alla luce la bellissima Esmeralda.

Era una bimba graziosissima, aveva lo stesso colore degli occhi della madre e delle guancette rosse come ciliegie.

Il parto fu molto travagliato e Ludovica distrutta dal dolore, dormì per ore.

Al risveglio attorno a lei trovò i suoi amici, Clara ed Ernesto e la vecchia Donna Catarina.

Avevano dei visi sconvolti, parevano aver visto degli spettri, come se volessero nasconderle qualcosa.

“Che succede? Perché mi guardate a quel modo? Sembrate aver visto dei fantasmi”, disse Ludovica alzandosi faticosamente dal letto.

Si alzò andando verso la culla, con le mani in pancia ancora stravolta dal parto, si avvicinò e vide che la sua piccolina non c’era più.

Chiese spiegazioni ma nessuno sembrava saperne niente.

“Ditemi dov'è mia figlia, ve ne prego!”, disse Ludovica preoccupata e ansimante.

“Noi non lo sappiamo! Quando hai partorito, abbiamo pulito la piccolina e poi l’abbiamo messa a dormire nella culletta. Ma quando siamo ritornati a controllarla era già sparita. Ci dispiace!”, disse Clara pentita per non essere stata accorta.

La bambina era scomparsa, avvolta nella copertina che Ludovica stessa aveva ricamato per la nascitura, era come sparita nel nulla, nessuno aveva visto o sentito niente: non potevano darsi pace.

Ludovica aveva appena intravisto la sua piccolina solo per pochi attimi al momento del parto, prima di addormentarsi in sonno profondo.

Non ricordava nemmeno più il suo viso, il suo nasino e le sue manine.

L’avevano strappata via da lei, da quella donna che, nonostante tutte le difficoltà della vita, aveva trovato sempre la forza per andare avanti.

E negli ultimi tempi era stata proprio quella creatura nel suo grembo a darle la forza di reagire, quella bimba nel suo ventre, ancora senza nome e senza volto, le aveva fatto dimenticare le brutte esperienze del ato.

Ludovica le raccontava storie e favole, mondi fantastici e irreali prima che la dura realtà la sconvolgesse così violentemente.

Qualcuno si era intrufolato nella locanda e aveva rapito la sua Esmeralda: “Chi mai poteva essere?”, si chiedeva Ludovica piangendo e disperandosi.

Quelle lacrime che la avevano accompagnata da sempre sembravano non uscire più, il pianto lasciò posto alla rabbia e alla vendetta.

Lo sguardo debole e fragile di Ludovica cambiò e si fece una promessa: “Mai più nessuno mi farà soffrire in questo modo e ad ogni costo ritroverò la mia piccola”.

Ludovica divenne fredda e spietata, il suo carattere si fortificò, in pochi mesi divenne un'altra persona.

Nulla si seppe più della piccolina, arono anni e la vita di Ludovica cambiò radicalmente.

La dolce fanciulla indifesa non c’era più, adesso Ludovica era una donna matura e senza scrupoli.

Non avrebbe permesso più a nessuno di calpestare i suoi sentimenti, di approfittare delle sue debolezze.

Ritornò a lavorare a teatro e divenne una teatrante di successo, molti uomini le correvano dietro ma nessuno di essi ruppe quella maschera di ferro che si era creata.

La vita l’aveva trattata male, dietro a quegli abiti lunghi e sfarzosi delle dame di corte trovò solo desolazione e tradimento.

Il sogno di Ludovica ormai si era frantumato fra inganni, pene e false ipocrisie.

Le sue interpretazioni erano spettacolari a tal punto che un commediografo di successo la notò e la assunse al Regio Teatro Carolino di Palermo.

I suoi spettatori erano prestigiosi e illustri, tutte le personalità più in vista della città venivano a teatro ad ammirare le sue interpretazioni.

Quel talento che un giorno il conte Ferdinando di Azzaria aveva visto nascere e crescere, fiorì come una rosa ben schiusa.

L’autore delle sue pene e dei suoi trionfi, quell’uomo che le aveva insegnato l’arte del teatro e della vita stessa, facendole pagare il duro prezzo dell’amarezza e della sconfitta, ma non della resa, era ormai lontano dai suoi pensieri; fin quando scoprì un’amara verità.

Ludovica non aveva mai perso la speranza di ritrovare sua figlia, ma, nonostante i vari tentativi e le diverse ammissioni di colpa, nulla sembrava portarla alla piccola che, ati ormai tanti anni, doveva essere una giovane fanciullina di dieci anni.

Scoprì che la persona che aveva rapito sua figlia era stata il Conte di Azzaria con la complicità di Beatrice.

Era stata proprio lei, in fin di vita, a rivelarglielo qualche mese prima, morendo poi per una grave malattia ai bronchi.

Beatrice, avvolta dal senso di colpa fece chiamare Ludovica, ormai donna di successo, rivelandole la dura verità che da anni la soffocava e per la quale si era ammalata.

Era stato un castigo divino, pensava Beatrice: la sua vita era giunta alla fine a causa della gelosia morbosa nei confronti di Ludovica che l’aveva spinto a scendere a compromessi con il Conte Ferdinando di Azzaria.

Era stata lei a portare Esmeralda a quell’uomo senza scrupoli, in cambio di una manciata di monete.

“Perdonami Ludovica, te ne prego! Non mi do pace per quello che ti ho fatto, ho commesso un crimine assurdo e adesso sto pagando per le mie colpe”, disse la pallida Beatrice sofferente e distrutta dal dolore e dalla malattia.

La verità, raccontata con voce strozzata da una tosse acuta e insistente, non consolò Ludovica, ma le fece tirare un sospiro di sollievo: aveva almeno riaperto una speranza in fondo al suo cuore asciutto e desolato.

Durante un’opera teatrale strinse i rapporti col commediografo Evaristo Scozzari, era un uomo che, come lei, si era creato da solo.

“Ludovica sono contento di averti qui con noi. Sei veramente un’attrice di talento e sono convinto che avrai ancora più successo di quanto tu non ne abbia già ottenuto ”, disse il commediografo tenendola per mano.

“La ringrazio. Lei è molto gentile. Sono io onorata ad essere diretta da un uomo di successo come lei”, disse Ludovica accennando un sorriso.

Anche lui proveniente da una famiglia di proletari aveva sempre lavorato sodo

per prepararsi e per formarsi culturalmente.

I duri sacrifici erano stati ripagati dalla fama riscossa negli ultimi anni.

Evaristo Scozzari era uno degli uomini di più successo fra i commediografi del’ ‘800.

Uomo e padre, aveva sempre faticato per ottenere tutto quello che serviva per avere reputazione e rispettabilità nella vita.

Si era sposato a soli diciotto anni ed era rimasto vedovo all’età di trentatré.

Dovette da solo crescere ed educare i suoi due figli, Luca e sco, uno ribelle e l’altro molto introverso.

Aveva una cinquantina d’anni e nella sua vita ne aveva ate tante, ma era un uomo di fascino e pieno di voglia di fare.

Scritturò Ludovica per una tragicommedia del Goldoni intitolata “Il Belisario”: raccontava le vicende di un generale dell’Imperatore Giustiniano accusato di aver tradito lo stesso.

Lei aveva il ruolo di Antonina, moglie del generale.

La rappresentazione era molto ricca, fra colpi di scena, innocenze e cattiverie.

Un dramma intrecciato e complesso che, tuttavia, allietò gli spettatori con un gioioso finale.

Tra gli altri attori lei riconobbe Clarissa, l’amica che l’aveva tanto amata e anche tanto odiata.

Quando le due donne si videro, un fremito scosse i loro corpi.

Il ricordo del ato si fece presente, ma finsero di non conoscersi.

Nonostante era scorso molto tempo, Clarissa aveva sempre quell’aspetto che la ringiovaniva di qualche anno.

Gli anni sembravano non avere scalfito quel viso ilare e raggiante che anni prima Ludovica accostava affettuosamente fra le sue mani.

Durante le prove Ludovica legò ancora di più i rapporti con il commediografo Scozzari.

I due si frequentarono per un periodo e una sera lui le chiese di sposarlo.

Sotto un cielo scuro ricoperto di stelle lucenti, Evaristo s’inginocchiò davanti allo sguardo malinconico e imbarazzato di Ludovica, e prendendole le mani fra le sue, come un perfetto gentiluomo, la chiese in sposa.

“Ludovica quello che provo per te è un sentimento che mi toglie il respiro. Non avrei mai pensato che a questa età mi potesse accadere tutto questo. Chiedo la tua mano affinché le nostre vite possano diventare un'unica sola esistenza”, disse Evaristo guardando gli occhi nostalgici di Ludovica.

arono dei giorni, e nel frattempo Ludovica e Clarissa si erano ritrovate; lei capì di essersi sbagliata nel giudicare male e superficialmente la giovane amica, di essersi fidata dell’apparenza senza volere sentire ragioni e chiarimenti.

Questo l’aveva capito un giorno, suo malgrado, quando vide entrare in camerino suo marito importunando e provocando Ludovica.

“Ci si rivede … già Ludovica! Ti ricordi di me? Sono il marito della tua cara amichetta …, o, forse, devo dire della tua cara nemica Clarissa”, asserì lui con fare irritante.

“Sparisci … vai via! Non sono più l’ingenua ragazzina di un tempo, quando gli uomini potevano approfittarsi di me”.

Ludovica prese fiato e aggiunse: “Adesso nessuno potrà sfruttarmi e servirsi di me”.

“Sei stato fortunato, l’ingenuità di tua figlia ha fatto sì che lei non vedesse quanto era spietato e approfittatore il padre”, disse lei con voce ferma.

“Eh si, la mia cara mogliettina ha creduto al racconto della piccoletta; non sai che i bambini sono la bocca della verità?!”

“E poi che differenza c’è tra il fatto che ti stavo baciando o che ci stavamo baciando? Non c’è…….”, non fece in tempo a terminare la frase che fu interrotto bruscamente da Clarissa che avendo sentito tutto, uscì dal suo nascondiglio, prese una spazzola d’argento che stava sulla pettiniera e iniziò a picchiare il marito “Per me c’è differenza, brutto degenerato insensibile, per me c’è differenza!”.

A un certo punto il marito, ormai scoperto nella sua sconsideratezza, approfittò della distrazione della moglie e scappò come un vigliacco.

“Codardo e disonesto”, le gridò dietro Clarissa abbassando poi il capo come dal pentimento.

Le due donne, a un certo punto, si cercarono con lo sguardo, si avvicinarono l’una all’altra e si abbracciarono crollando poi in un pianto disperato.

Ludovica non lo faceva da anni, da quando aveva perso la sua bambina, per lei quel momento fu un ritorno al ato, in lei si era aperto un barlume dietro a quella corazza tetra e oscura che si era creata.

Clarissa mortificata si buttò ai piedi dell’amica, chiedendole di perdonarla; lei prese la sua mano e la rialzò e la cinse nuovamente a se.

Aveva ritrovato la sua cara amica, la sua confidente, che la vita, come tante altre cose, le aveva tolto.

Questa fu una redenzione per lei, anche se le sue ferite erano ancora lacerate e sanguinanti.

Clarissa ricordò della promessa fatta a Ludovica e disse: “Un giorno io ti promisi che ti sarei stata sempre accanto anche nelle ostilità e che non ti avrei mai abbandonata; non ho adempiuto alla mia promessa e per questo non merito il tuo perdono e la tua amicizia”.

Ludovica con voce commossa disse: “Non sono Dio per condannarti e nemmeno per giudicarti: è la vita che ha creato l’ennesima separazione ……”.

Si fermò un attimo come per farsi coraggio e poi continuò: ”Prima da mia zia Smeralda, poi da mia madre, dopo da Filippo, da Ferdinando, da te e infine dalla mia stessa figlia”.

Il resoconto della sua vita era drammatico, una tragedia dietro l’altra l’aveva accompagnata.

Clarissa stupita da quelle parole, cadde in un pianto assordante; “perdonami, perdonami, non dovevo abbandonarti e lasciarti in mezzo ad una strada, sola e

indifesa! Non merito la tua amicizia, perdonami”, disse col cuore fra le mani come a implorarla e a supplicarla.

Le due, inginocchiatesi a terra, si strinsero l’una all’altra e da allora divennero più amiche che mai.

Ludovica sposò il commediografo Scozzari e si trasferì nella sua Villa di Palermo.

I due figli di lui non la accolsero bene, pensavano che Ludovica avesse sposato il padre solo per il successo e per il denaro.

“Pensi che non sappia perché hai sposato mio padre?”, le disse un giorno il maggiore dei fratelli.

“Che cosa pensi? Dimmelo in faccia”, incalzò Ludovica, quasi sfidando il giovane.

“Penso che a te interessino solo le ricchezze e il successo! è per questo che hai ammaliato mio padre”, aggiunse Luca.

Lei rimase zitta, era stata ferita ma non voleva creare attriti col giovane figliastro.

Non era certo questa la motivazione che aveva spinto Ludovica a prendere tale

decisione: in Evaristo lei vedeva stabilità, tranquillità, tutto ciò che lei aveva da sempre cercato e mai avuto nella sua vita.

Il più grande dei suoi due figli, Luca, era un ragazzo di vent’ anni, furbo e ribelle, aveva da sempre creato problemi al padre a causa del suo carattere così dissoluto.

Il fratello minore, sco, di due anni più giovane, era molto chiuso e riservato, non aveva amici e dedicava gran parte del suo tempo allo studio.

Per Ludovica non fu facile conquistare la simpatia di sco proprio per questa sua timidezza e chiusura interiore.

Lei cercò di stimolarlo in ogni modo, ma i vari tentativi furono inutili.

Finché un giorno vide in mano a sco un libro: lei lo conosceva molto bene, perché era la famosa commedia del Bibbiena.

Nonostante quel titolo fece riaffiorare nella sua mente dei brutti ricordi, cercò di parlare spiritosamente della Calandria.

Raccontò a sco le varie scene e fece anche una sua interpretazione. Il ragazzo, interessato e stupito da quei racconti e da come Ludovica l’avesse riportato, iniziò a fidarsi di lei.

I due divennero buoni amici, condividendo la ione per la lettura e per le opere teatrali.

Luca infastidito da quell’improvvisa apertura del fratello nei confronti di Ludovica, che per lui era solo un’estranea e un’arrivista, cercò in ogni modo di allontanarla da lui, facendo credere all’ingenuo sco che era un’opportunista e che voleva solo beffarsi di lui.

“Non capisci che lei vuole soltanto prenderti in giro? Ti vuole usare per mostrarsi valente e sincera agli occhi di nostro padre”, disse Luca cercando di convincere il fratello.

sco era molto debole e si lasciò persuadere dalle parole del fratello, credendo che la donna fosse solo ambiziosa e che volesse conquistare la sua simpatia per apparire onesta agli occhi del padre.

Ludovica cercava sempre un approccio con lui ma vide chiudersi porte in faccia, e capì che Luca le aveva messo il fratello contro.

“sco, perché oggi non vieni con noi alle prove? Potrai vedere con i tuoi occhi quanto è bravo tuo padre”, disse Ludovica mentre si apprestava ad andare col marito a teatro.

“No, preferisco restare a casa”, disse lui con fare discreto e introverso.

Lei non si arrese e cercò in tutte le maniere di riacquistare quel rapporto, quella

complicità che si era creata poco prima fra loro.

Un giorno gli regalò un libro, dentro scrisse una dedica, lo diede a sco ma lui non volle accettarlo; allora lo lasciò in giardino, sopra un muretto ai piedi di una siepe e poi se ne andò.

sco aspettando che Ludovica se ne fosse andata, lo prese e corse su in stanza a leggerlo.

Lo aprì, e incominciò a leggere “Questo libro racconta la vita di un ragazzo, che veniva deriso da tutti, che affrontava i problemi della vita scappando, che non voleva aprire gli occhi per vedere la dura e cruenta realtà, che si nascondeva dietro alle parole di un altro, che non voleva guardare con i suoi occhi, ma parla anche di un ragazzo che, una volta uscito da quell’involucro che si era creato, divenne un luminare di successo amato e apprezzato da tutti. Con la speranza che questo libro possa aprire i tuoi orizzonti e che i tuoi confini possano allargarsi a tal punto da accogliere ogni novità e ogni mutamento nella tua esistenza, ti auguro una buona lettura Ludovica.”

sco lesse il libro tutto di un fiato, e finalmente capì.

Comprese che quel muro doveva essere abbattuto e che la mancanza prematura della madre non poteva farlo stare in una prigione d’isolamento.

Doveva aprire le porte al mondo, bello o brutto che fosse, vivendo e gustandosi ogni istante della sua vita.

Corse ad abbracciare Ludovica, la ringraziò e lei fu molto contenta, aveva capito che il piccolo erotto aveva aperto finalmente le sue ali per spiccare il volo.

TERZO CAPITOLO

Ludovica con consuetudine si recava ogni inizio settimana a Bagaria, portava con sé dei fiori di campo avvolti con fili di fieno e li adagiava sulla lapide di Filippo.

S’inginocchiava davanti a quella tomba e i ricordi la assalivano.

Rimpiangeva le lunghe giornate di spensieratezza di un tempo, quando lei e Filippo si rincorrevano in mezzo ai campi fioriti, quando durante le calde giornate si recavano al pozzo per trovare un po’ di refrigerio, schizzandosi a vicenda con l’acqua.

Quando lui le mordicchiava scherzosamente la mano, salendo per il braccio per poi sfiorare dolcemente le sue labbra.

Quando le attorcigliava disordinatamente i capelli, mettendole dei fiordaliso fra le sue ciocche come a cingere e ad esaltare il suo meraviglioso volto.

Come sempre, dava degli spiccioli alla giovane figlia del custode del cimitero, raccomandandole di tenere sempre pulita la tomba del suo Filippo e dei suoi familiari.

La ragazza era contenta di ricevere quelle monete e non mancava mai di adempiere al suo dovere.

Ludovica chiedeva, poi, al suo cocchiere di fermarsi per qualche minuto davanti al Palazzo Filangeri di Cutò e in lei le emozioni si facevano sempre più vive.

Si ricordava di quei fagiani affrescati nel soffitto di una delle stanze del Palazzo, si ricordava di quante volte era salita dalla scalinata destra e scesa da quella sinistra, facendo diventare anche il semplice gesto del salire e scendere, un gioco divertente.

Pensava a quegli affreschi piuttosto imbarazzanti di donne semi nude, ricoperte solo da veli e ricordava la storia ad esse annessa.

L’aveva ascoltata un giorno, quando la principessina spinta da curiosità aveva domandato alla sua educatrice cosa rappresentassero. Lei era lì, per caso, stavo riordinando la biancheria ma rimase stregata da quella storia che parlava di tre dee che si contendevano la mela d’oro gettata dalla dea Elis, durante un banchetto. Quel pomo doveva appartenere alla più bella ed è per questo che le tre dee la pretendevano a vicenda. La scelta della più bella ricadde su Paride, l’uomo più bello, Principe di Troia che dopo avere ascoltato i vari tentativi di corruzione da parte di ognuna di esse, scelse Afrodite che gli avrebbe concesso Elena come sposa, moglie di Menelao, re di Sparta.

Scatenando successivamente la guerra di Troia.

Ludovica non avrebbe mai pensato che un dipinto sul tetto potesse svelare una così bella e interessante storia, e ne rimase conquistata.

Poi si fermava davanti a Villa Gravina di Palagonia e anche lì i ricordi si facevano presenti.

Le reminiscenze delle lunghe sere trascorse dietro una siepe osservando le dissolutezze della nobiltà; i segreti raccontati a quei pupi che erano divenuti ormai suoi complici.

Ludovica non poteva farne a meno di guardare quei mostri deformi, facevano ormai parte di lei, della sua esistenza.

ava poi per la locanda di Donna Catarina, che ormai da qualche tempo non c’era più, e se ne ritornava a casa.

Il ritorno a casa era sempre molto triste ma Ludovica cercava di camuffare quella malinconia che la investiva.

Suo marito era un uomo molto comprensivo e nonostante lei non gli avesse raccontato niente o quasi del suo ato, a lui non interessava.

Non si faceva molte domande e non chiedeva molti perché: a lui bastava il presente.

Quello che era stato, lo lasciava al ato, lui voleva solo vivere la sua storia con serenità e tranquillità, godendosi appieno ogni attimo del suo matrimonio.

I problemi a Evaristo li creava il figlio Luca: rientrava tardi la sera, trascorreva le giornate nelle taverne a ubriacarsi e in compagnia di donne di strada.

Non aveva limiti e il padre non sapeva più come comportarsi con lui.

I due erano sempre in contrasto, litigavano sempre alzando la voce e a volte venendo anche alle mani.

Un giorno il giovane ribelle portò una donnetta di strada alla villa, avevano degli atteggiamenti molto imbarazzanti, il padre vedendoli s’infuriò e cacciò la donna e prese a schiaffi il figlio.

“Sei solo un impertinente e un insolente … non hai limiti! Adesso addirittura ti porti le prostitute a casa, sei una vergogna! Ma la colpa è solo mia che non ti ho saputo educare e ti ho dato troppa libertà. Adesso mi pento di come ti ho cresciuto”, disse il padre infuriato.

Lui diventò violento e mise a insultare Ludovica che con molta calma lo lasciò fare.

“Dici a me che porto le donnette di strada a casa ma tu lo hai fatto prima di me!”, disse Luca sprezzante, guardando Ludovica e poi andandosene dalla stanza.

Il padre mortificato si scusò con Ludovica: “Scusa Ludovica: non so più che fare con lui, non so come prenderlo. Non mi perdona il fatto che sua madre sia morta.

Incolpa me! Mi ha sempre detto che avrebbe preferito la mia morte a quella della madre. Non so più che fare”.

“Non preoccuparti caro, ti capisco e in qualche modo capisco anche lui. Il dolore è stato talmente grande che il suo cuore si è riempito di rabbia, ma vedrai che prima o poi capirà che questo modo di prendere le cose non porta a niente, devi solo dargli tempo”, disse Ludovica con voce consolatoria, afferrando le mani del marito e portandosele al petto.

“Sarà così come dici tu … devo dargli tempo”, disse Evaristo.

sco, invece, ava le sue giornate stendendo pagine e pagine di scritti.

Voleva diventare un commediografo proprio come il padre e Ludovica gli dava una mano affinché questa ione si concretizzasse.

I due si trovavano ore e ore a leggere, cancellare e scrivere pagine di copioni, sceneggiature di commedie e di tragedie.

“Penso che dodici atti bastino per terminare la commedia, tu che ne pensi?”, disse Ludovica, aiutando sco a scrivere una nuova opera.

“Lo penso anch’io, ci fermiamo qui anche perché ho la testa che mi scoppia da quanto abbiamo scritto oggi”, rispose il giovane.

Ludovica si era molto affezionata a sco, ed era corrisposta.

Nonostante la differenza di età non fosse molta, lui vedeva in lei la figura materna che da sempre gli era mancata, e lei in lui il figlio che non aveva mai potuto stringere fra le braccia e accarezzare.

Fra i due si era creato un legame molto intenso: lei gli aveva aperto il cuore facendolo sentire amato e apprezzato, lui aveva colmato il vuoto che sua figlia aveva lasciato nel suo animo.

Avrebbe avuto un paio d’anni in meno di sco la sua piccolina, e sarebbe stata di certo una bella signorina se solo quel Conte spietato e senza cuore non l’avesse portata via da lei.

Quel Conte atroce che da tempo era scomparso dalla sua vita e del quale lei aveva perso ogni traccia.

Clarissa, intanto, aveva rotto i rapporti col marito; era venuta a conoscenza dei vari tradimenti avvenuti nel corso degli anni nei suoi confronti e l’aveva anche sorpreso a letto con la cameriera.

La vicinanza di Ludovica fece in modo che quei momenti difficili assero più celermente.

“Non hai perso niente, amica mia! Ti chiedo di non versare nemmeno una lacrima per quell’uomo.

Non ti meritava, tu meriti di meglio”, disse Ludovica in maniera decisa e determinata, confortando la sua cara amica.

“Hai ragione: era solo un vigliacco ma è anche il padre delle mie figlie e mi sarà difficile dimenticarlo visto che ancora viviamo sotto lo stesso tetto”, disse, come rincuorata dalle parole di Ludovica ma ancora delusa e sconsolata per l’infedeltà del marito.

Clarissa conobbe un uomo, era il proprietario di una fabbrica di filanda.

Era sempre in prima fila a teatro e non c’era volta che non portasse dei fiori per le più belle teatranti di Palermo, ma quella che a lui interessava veramente era Clarissa.

“Siete state divine! Stasera vi siete davvero superate. Ecco, vi prego di accettare questo presente … nulla a confronto di ciò che meritate”, disse lui porgendo i fiori alle due donne e conquistando le simpatie di Clarissa.

Anche lei si fece prendere da quell’uomo, lo trovava distinto e molto intrigante.

Lo vedeva sempre lì, sera per sera, vestito con gusto e sempre pronto ad applaudire e a complimentarsi.

Lui iniziò un lungo corteggiamento, era proprio un gentiluomo. Si chiamava Saro, aveva dei baffetti neri e indossava sempre un cappello che toglieva

all’inizio dello spettacolo e rimetteva poi alla fine.

Aveva una delle più importanti fabbriche di filanda di quel periodo, in poco tempo era riuscito a conquistare gran parte del mercato europeo.

Clarissa stava vivendo una bellissima storia, lottando contro tutti e tutto per quell’amore così innocente e irreprensibile.

Il marito seppe della sua storia clandestina con Saro e anche se il loro amore e i loro rapporti si erano chiusi da qualche tempo, andò su tutte le furie.

Iniziò a inveire contro di lei e la picchiò violentemente, davanti al suo pubblico, poco prima della conclusione di una commedia.

Una commedia che si trasformò ben presto in tragedia! Infatti, alla vista di quella bestia che senza farsi tanti scrupoli osò percuotere la moglie, Saro perse il lume della ragione e si precipitò sul palco aggredendolo.

I due se le diedero di santa ragione, fin quando il marito di Clarissa uscì una pistola e sparò.

Un silenzio di tomba scese in quel teatro che aveva visto, si tante sparatorie, ma tutte simulate.

Quello sparo rimbombò per almeno un minuto nelle orecchie degli spettatori,

che si erano fatti testimoni di una tragedia assurda.

Sembrava una scena tratta da quelle tragedie shakespeariane che il pubblico tanto apprezzava, ma adesso quello stesso pubblico non sapeva se credere ai propri occhi … il gelo scese sul teatro.

Tutto fu interrotto dal tonfo del corpo di Clarissa, che cadde senza vita sul palco.

La sua veste bianca in un attimo divenne rossa scarlatta, i suoi occhi rimasero aperti e il suo corpo pietrificato.

Aveva parato il colpo che suo marito aveva indirizzato a Saro, mettendosi in mezzo per proteggere quell’amore così sano e generoso che da poco aveva fatto capolino nella sua vita.

Impressionata e traumatizzata da quello che i suoi occhi avevano visto, Ludovica si gettò sul corpo ancora caldo e sanguinante dell’amica, la abbracciò e le sue mani, il suo viso e i suoi vestiti si riempirono anch’essi di sangue.

Un altro colpo aveva nel frattempo insordito le orecchie di quel pubblico stupefatto e stravolto.

Il marito vittima, della sua stessa stoltezza, si era ucciso.

I teatranti a quel punto presi dal panico iniziarono a gridare e a scappare, anche il

pubblico fece lo stesso, e in pochi minuti il teatro si svuotò.

Sulla scena erano rimasti i corpi senza vita di marito e moglie e la disperazione di Saro e Ludovica.

“No, no, no! Amica mia, non mi puoi lasciare. Svegliati, te ne prego! Clarissa, amica mia svegliati!”, disse Ludovica ancora incredula per quello che era accaduto, accarezzando i capelli e le guance di Clarissa e facendo cadere le sue lacrime su di essa.

“Clarissa, amore mio perché l’hai fatto? Era per me, quel proiettile. Dovevo morire io, non tu!”, disse Saro, disperato e sommesso, piangendo e accostando il suo volto a quello della sua amata.

Era accaduto un’altra volta: aveva perso di nuovo qualcuno che amava profondamente!

“Quando dovrà finire questa maledizione!?”, si chiedeva Ludovica costernata dal dolore.

La notte non chiuse occhio, pensava e ripensava a quelle scene drammatiche cui aveva dovuto assistere.

Si svegliava di soprassalto, iniziando a respirare affannosamente, come se il rumore dello sparo fosse ancora dentro le sue orecchie.

Il marito cercava di consolarla, ma la sua disperazione era troppo grande.

“Stai calma, è tutto ato. Ci sono io qui con te”, le diceva il marito facendole bere dei sorsi d’acqua e adagiandole delicatamente la testa sul cuscino.

Anche Clarissa fu sepolta al cimitero di Bagaria, non molto distante dalla tomba di Filippo.

Ludovica prese la mano del marito e lo portò ai piedi di due tombe e gli disse: “E’ qui che vengo ogni settimana”, poi indicandole con la mano, aggiunse ”qui ci sono mia madre e mia zia”.

Poi afferrò nuovamente la mano di suo marito e lo portò ai piedi di un'altra tomba. Nella lapide vi era scritto il nome e il cognome e Ludovica disse: “Lui è il più grande tormento della mia vita: è per quello che ho fatto a lui che sto pagando un prezzo così caro”.

In quel momento si era svelata per la prima volta a suo marito, lui non fece domande, aveva capito e questo gli bastava.

Con lo sguardo aveva incrociato la piccola guardiana del cimitero, la chiamò e come sempre le diede degli spiccioli.

Le tombe per le quali Ludovica si raccomandava a lei, erano sempre pulite e piene di fiori freschi.

Ludovica la ringraziò e aggiunse alle altre anche quella di Clarissa.

“Cara fanciulla ti do in custodia anche questa fossa: occupatene come fai con le altre”, disse, indicando la tomba e abbassando poi gli occhi per la tristezza.

Evaristo finalmente aveva capito il perché di quel viso che ogni tanto s’intristiva, il perché di quelle lettere adagiate sotto il cuscino che lui mai aveva osato leggere.

Era un uomo molto discreto e aveva piena fiducia nella donna che aveva sposato.

Fu dura ritornare a lavorare al Carolino ma Ludovica era ormai abituata all’afflizione: era come se ne fosse assuefatta.

Anche sco partecipò alla messa in scena di una commedia ideata e diretta da suo padre e fu la sua prima vera collaborazione come commediografo.

Il padre fu orgoglioso di lui. Dall’arrivo di Ludovica a casa sua, aveva visto fare tanti cambiamenti al ragazzo, tutti in positivo.

Adesso era dischiuso, entusiasta di tutto quel che faceva e pieno di voglia di vivere.

Anche Ludovica era contenta del suo cambiamento: quel ragazzo l’aveva proprio inorgoglita.

Un giorno Evaristo invitò a cena degli amici, persone appartenenti alla nobiltà, e apionati di teatro.

Ludovica stava finendo di farsi bella quando dalla finestra vide arrivare una carrozza, dalla quale scese una donna, molto piacente, vestita con un abito marrone con dei pizzi bianchi, delle bordure ricamate tutt’intorno alle maniche e una amaneria formata da una lunga fila di alamari.

Rimase incantata da quell’abito così prestigioso ma in un attimo il suo stupore lasciò spazio al disprezzo.

Dopo la donna, dalla carrozza scese un uomo, un signore distinto e dai lineamenti marcati: il Conte di Azzaria.

Ludovica disperata si chiedeva come avrebbe potuto fare per evitare quell’incontro ma nulla le veniva in mente.

Evaristo entrò in stanza avvisandola che gli ospiti erano già lì e chiedendole di fare presto.

Lei gli disse di non sentirsi tanto bene e che avrebbe preferito restare in camera ma lui la pregò di scendere, fin quando la convinse.

Entrata in sala da pranzo il suo sguardo s’incrociò subito con quello di Ferdinando: in quel momento Ludovica si sentì quasi svenire ma si fece forza e

si avvicinò al marito il quale iniziò le presentazioni.

Tutti si complimentarono con lei per quanto fosse una brava attrice e anche il Conte Ferdinando, facendo finta di niente, fece le sue considerazioni.

Gli invitati si sedettero iniziando a parlare del più e del meno, presero argomenti come politica, cultura e teatro.

“Non so voi cosa ne pensate di tutte quelle genti che promuovono l’indipendenza della nostra terra.

Come se noi senza monarchia stessimo meglio”, esclamò uno degli invitati aprendo un infinito discorso politico.

“Non gli è bastato averci provato tempo fa e avere perso”.

“Questi indipendentisti sono buoni solo a scatenare rivolte e poi...”.

“Come vogliono governare la Sicilia … con le rivoluzioni?”.

“Io invece penso che noi siamo una nazione a parte, con la nostra cultura, la nostra storia, la nostra lingua e quindi ci farebbe bene spartirci dall’Italia”, aggiunse uno degli invitati

“Ma che dice Duca?! Non ha visto il fallimento del governo Paternò Castello? E’ durato solo pochi mesi”, replicò un altro.

“Le lotte sanguinose non portano a niente, ci vuole coordinazione di tutte le forze del paese”, aggiunse un altro commensale.

Tutti espressero le loro opinioni, chi a favore, chi contrario.

Ludovica, come a spezzare quella monotonia, prese la parola e disse alla Contessa: “Signora Contessa, è da tanto che è sposata con il Conte di Azzaria?”, accennando un sorriso finto e contraffatto.

La Contessa rispose: “Guardi Ludovica, ormai quasi non ricordo gli anni che sono ati, eravamo due fanciulli quando ci siamo sposati”.

In quel momento il bicchiere pieno di vino del Conte cadde per terra infrangendosi in mille pezzi.

“Scusate, non volevo”, disse il Conte imbarazzato, cercando di recuperare qualche pezzetto di vetro, come per nascondersi sotto il tavolo.

“Non importa, lasci stare. Se ne occuperà la servitù. Può capitare a tutti di rompere qualcosa”, disse Ludovica riferendosi non di certo al calice.

”Forse si è emozionato pensando ai tanti anni trascorsi insieme alla sua bella

consorte”, disse Ludovica con voce ironica.

Tutta la sala sbuffò a ridere per quella battuta sarcastica di Ludovica, la Contessa stessa ne fu molto divertita.

Ormai gli anni sul viso del Conte si erano fatti visibili: i suoi lineamenti erano ancora più marcati e i suoi capelli si erano ingrigiti.

Ludovica lo fissava e lui, come impaurito da quello sguardo che pareva giustiziarlo, abbassava gli occhi.

Non trovava il coraggio di guardare quegli occhi così belli ed espressivi di lei, quegli occhi blu che gli ricordavano le lunghe sere d’estate appartati sotto gli alberi di limoni e di mandorle.

Quello sguardo che era cambiato, da ragazza semplice a signora elegante e di classe, incuteva sbigottimento al Conte.

Quegli occhi che un giorno divennero lucidi per l’emozione e subito dopo stravolti dalle lacrime, sembravano fulminare lo sguardo fugace del Conte.

Adesso i ruoli erano cambiati: la giovane gazzella di un tempo era divenuta una tigre feroce.

I signori finirono di cenare e dalla stanza da pranzo si trasferirono nel grande

salone, e uno degli invitati chiese a Ludovica di recitare qualcosa.

Inizialmente restia, disse: “Va bene, vi reciterò delle scene della Calandria”, gli invitati contenti batterono le mani, mentre Ferdinando rimase imibile, sorseggiando un liquore.

“Ho bisogno di un uomo che mi faccia da spalla”, disse.

“Conte si avvicini … un uomo come lei, colto e amante del teatro, non credo non ricordi la Calandria”.

“No, veramente non la ricordo bene, l’ho letta molti anni addietro”, disse lui, infastidito e impacciato dal contesto.

“Non si faccia pregare! Sono convinta che la ricorda benissimo”. Vista l’insistenza di Ludovica e anche degli altri invitati, il Conte si convinse.

Recitarono la scena, e tutti si divertirono tanto a sentire i i della Calandria ma alla fine dell’atto, Ludovica, approfittando della distrazione degli invitati, allietati e presi dal fare i loro commenti, corse con le lacrime agli occhi, giungendo nella sua stanza. Il marito la seguì e, una volta raggiunta, la trovò in lacrime ai piedi del letto.

Aveva cercato di essere forte, di trattenere la sua rabbia ma si frenò così tanto da scoppiare nella sua angoscia.

Il suo viso si era rattristito, le sue mani iniziarono a tremare.

Evaristo si avvicinò a lei e la strinse forte, il pianto di Ludovica divenne ancora più straziante.

“Aiutami Evaristo, aiutami” “che ti succede cara, sai che puoi fidarti di me”

“ti prego di scusarmi con gli invitati, non mi sento tanto bene”“non preoccuparti, capiranno”.

Evaristo scese e visto l’ora tarda congedò gli ospiti: “Vogliate scusare la mia consorte ma ha avuto un mancamento ed è andata a riposare”, poi risalì e trovò Ludovica con le lettere di Filippo in mano.

Iniziò a leggere a voce alta la famosa ultima epistola che lui le aveva mandato e i suoi occhi lucidi e languidi si riempirono sempre più di lacrime.

“Caro amore mio, qui a Villa Trabia si lavora molto. Sto mettendo dei soldi da parte per acquistare una casetta, sarà il nostro tetto quando ci sposeremo. Mi manchi tanto, non sai quanto ti penso e quanto ti vorrei qui con me. La prossima settimana verrò a Bagaria, devo accompagnare dei cavalli che il Principe di Trabia ha venduto al Principe di Palagonia. Non vedo l’ora che questi cinque giorni ino per riabbracciarti e baciarti. Alle quattro della sera ti aspetto al giardino delle vigne. Ti ricordi bei momenti che pas……..”

Evaristo la interruppe, aveva capito e non voleva vederla più soffrire in quella

maniera.

La lettera parlava di un appuntamento e lei disse al marito “A quell’appuntamento non ci sono mai andata: quel giorno Filippo mi vide fra le braccia del Conte Ferdinando di Azzaria e si tolse la vita …….”, s’interruppe, e iniziò a singhiozzare.

Poi riprese: “Tutto per quell’uomo, nobile di ceto, ma non nei sentimenti! Approfittò della mia giovane età, della mia ingenuità, mi mise incinta e mi abbandonò”.

Evaristo la lasciava parlare senza interromperla, capì che aveva bisogno di sfogarsi, di tirare fuori tutto ciò che le faceva male dentro.

Lei continuò: “Ma la sua cattiveria non finì qui: quando misi alla luce la mia piccola Esmeralda, lui la rapì, prima che potessi stringerla fra le mie braccia, e d’allora non ho avuto pace nella mia anima”.

Evaristo strinse la moglie al petto e le accarezzò dolcemente il viso.

Ludovica quel giorno aveva scoperto il perché di quella reazione così violenta del Conte alla notizia di un figlio: era già sposato, quando conobbe lei.

Luca, intanto, aveva avuto dei piccoli problemi con la legge ed era stato rinchiuso nelle carceri della città.

Il padre si mobilitò subito e con l’aiuto di amicizie importanti, lo fece uscire di prigione.

Il figlio neppure lo ringraziò anzi, lo ingiuriò e lo schernì.

“Ti ho fatto pietà ed è per questo che mi hai fatto uscire dal carcere. Non ho bisogno della tua carità, posso benissimo cavarmela da solo”, disse il giovane ingrato.

Intanto, la vita di Ludovica continuava come sempre, fra teatro, casa e le visite ai suoi cari, al cimitero di Bagaria.

Un giorno Evaristo e Ludovica furono invitati a un ballo di corte a Villa Gravina.

La Villa, che l’aveva vista nascere e crescere, adesso l’aveva ospitata.

Ludovica era bellissima, vestita divinamente con un elegantissimo abito di corte.

Aveva i capelli intrecciati che le coronavano il capo, degli eleganti gioielli le brillavano al collo valorizzando ancora di più la sua bellezza.

Tutta l’aristocrazia era alla festa, dame con lunghi e pomposi abiti, si aggiravano nella sala grande della Villa, quella stessa sala che Ludovica da fanciulla lucidò centinaia di volte.

Guardò dalla finestra verso il giardino: le cose si erano invertite! Vide fra i cespugli una giovane con una lanterna in mano.

Si commosse, si ricordò di lei, della sua curiosità, di quando osservava dagli scorci delle finestre.

Scese giù e trovò una ragazza esile e infreddolita, la giovane quando la vide cercò di scappare, ma lei la fermò.

“Non avere paura, non voglio farti del male, ero solo venuta per guardare nascosta dietro una siepe, le ipocrisie di quel mondo”, fece un segno col dito per indicare la sala.

La giovane non comprese, tremava e Ludovica prese il suo soprabito e lo mise alla ragazza.

“Io mi chiamo Ludovica, tu invece? Qual è il tuo nome?”

“Mi chiamo Gertrude, sono la figlia della cuoca, rispose lei con un fil di voce.

“Non hai paura di stare qui sola a quest’ora tarda della notte?”, le disse

“Non sono sola”, e guardandosi intorno con una mano alzata e girando di

continuo il suo collo come a indicare qualcosa disse: “Ho tutti loro che mi fanno compagnia”.

Ludovica guardò quello che la ragazza aveva indicato e si mise a ridere; la ragazza aveva fatto segno a quei pupi e gobbi deformi che circondavano la Villa.

Rallegrata esclamò: “Hai ragione. Ci sono loro a farti compagnia”.

Nel frattempo suo marito, preoccupato per il suo improvviso allontanamento, era sceso per cercarla, quando la vide parlare con quella ragazzina.

“Ludovica che fai? Sei scomparsa nel bel mezzo della festa”, le gridò “Sto arrivando, aspetta”, rispose lei.

Salutò la giovane e andò alla festa.

“Avevo un po’ di nostalgia”, disse al marito.

La festa finì e le carrozze erano pronte per riaccompagnare i padroni nelle loro dimore.

Il cocchiere aprì lo sportello a Ludovica e mentre si accingeva per salire sentì la voce della giovane che le correva dietro gridandole: “Contessa, dimentica la mantella”.

Ludovica intenerita da quella fanciulla così perbene le disse: “Tienila, è un regalo”.

Entrò in carrozza e ordinò al cocchiere di partire.

La ragazza rimase lì, ferma con il copri abito nelle mani, e guardò la carrozza andare via fino alla fine della strada.

sco aveva avuto molto successo, e nonostante la sua giovane età divenne uno dei principali collaboratori dei più importanti commediografi e tragediografi siciliani.

Il teatro era diventato la sua vita, il suo mondo.

Un giorno conobbe Priscilla, una graziosa attrice appena sedicenne.

Anche lei condivideva le sue stesse ioni: la musica, la lettura e il teatro erano tutto il suo universo.

Ludovica incoraggiava il giovane a dichiarare il suo amore alla fanciulla, ma cercò di dare una mano alla sorte invitando Priscilla per un tè. La giovane era molto educata, di classe e ben vestita.

“Sei così giovane, ma già ha molto talento”, disse Ludovica mentre sorseggiava il tè.

“La ringrazio! Il fatto è che in famiglia siamo tutti innamorati del teatro: i miei genitori mi hanno trasmesso quest’amore da sempre”, disse la giovane adagiando la tazza sul piattino.

Ritornato a casa, sco ebbe la bella e inaspettata sorpresa di trovare le due donne discorrere amabilmente.

“Salve Ludovica. Salve Priscilla”, disse il giovane togliendosi il cappello e abbassando il capo.

Anch’esse ricambiarono il saluto, continuando a sorseggiare la loro bevanda.

“sco, - incalzò Ludovica - perché non fai vedere a Priscilla il giardino e la cappella di famiglia”.

I due giovani andarono e stettero delle ore a eggiare sotto le verdi frange d’ulivo, parlando delle loro ioni.

Intanto Luca, li aveva incontrati in giardino e con fare spavaldo disse “Fratellino, non mi presenti questa bella fanciulla?”

“Si, scusa. Lei è Priscilla, lavora a teatro con me. Lui è mio fratello maggiore,

Luca”, rispose, come seccato dalla situazione.

La salutò e se ne andò; sco si scusò per quel fare un po’ irruento del fratello, ma la ragazza sembrò non averci dato peso.

Continuarono a vedersi per mesi ma il timido giovinetto, non aveva ancora trovato il coraggio di dichiarare i suoi sentimenti.

Ludovica come sempre andò al cimitero di Bagaria ma lo trovò chiuso, con delle spranghe davanti all’entrata principale, a causa del terremoto avvenuto giorni prima, che aveva danneggiato la maggior parte delle tombe e dei tabernacoli.

Il custode aveva perso la vita inaspettatamente, colpito da una trave caduta dal tetto di una chiesuola, durante la forte scossa.

La moglie, scioccata dal fatto che aveva visto il marito morire davanti ai suoi occhi, era come impazzita ed era stata rinchiusa in manicomio.

“Signora, non si può ancora entrare”, disse il nuovo custode a Ludovica.

“Il terremoto ha colpito tutta la parte occidentale del cimitero e stiamo ancora lavorando per ricostruire e ripulire certe tombe compromesse dal disastro”.

Un pensiero frullò nella testa di Ludovica e disse: “Che fine ha fatto la giovane figlia del custode?”

“Ho sentito che è stata portata in una chiesetta non molto lontano da qui, ma non so altro”, disse il nuovo custode.

La donna lo ringraziò e andò via addolorata per quella brutta notizia che aveva ricevuto.

Il mattino seguente, Ludovica assieme al marito si recò a Bagaria per scoprire dove era stata mandata la fanciulla.

Iniziarono a girare per tutte le chiesette del paese fin quando, dopo vari tentativi, il parroco della piccola chiesa del Purgatorio le disse che la ragazza era stata ospitata lì per qualche tempo, in attesa di essere affidata a un orfanotrofio.

Quando la giovane la vide, le corse subito incontro e con gli occhi pieni di lacrime prese a raccontare la brutta esperienza che aveva vissuto.

Ludovica ebbe pietà di lei: era rimasta da sola senza genitori, in un posto nuovo ed estraneo.

Allora, d’accordo con Evaristo, decise di portarla con sé; assieme a lei una cassetta di legno incisa dal suo papà, contenente poche cose che si erano salvate dal terremoto.

Ludovica la aprì e vide dei disegni, delle posate, oggetti di poco conto, ma di grande valore affettivo per la piccola orfanella.

Fortunata, questo era il nome della ragazza, inizialmente si sentì un po’ persa.

Era successo tutto così velocemente: il terremoto, la morte del padre, la madre rinchiusa in un manicomio e il trasferimento a Villa Scozzari.

Ludovica si dedicò anima e corpo alla piccola donna. Voleva farle scordare prima possibile la brutta esperienza vissuta, ed alleviarle il suo dolore.

“Fortunata, mi accompagneresti a raccogliere dei fiori in giardino? Li voglio mettere in questo vaso”, disse Ludovica indicando il recipiente.

“Va bene Signora, le farò compagnia”, rispose la giovane ancora intimidita e intimorita dalla grande villa.

“Fortunata, ti ho detto tante volte che puoi chiamarmi semplicemente Ludovica”, ribadì lei, rimproverandola con dolcezza.

“Va bene Sign…mi scusi, Ludovica”, disse Fortunata.

Ludovica le prese un’istitutrice e in poco tempo imparò a leggere e a scrivere.

Dal maschiaccio che era, si trasformò in una giovane e avvenente fanciulla.

Ludovica era molto soddisfatta dei risultati che Fortunata aveva ottenuto; anche suo marito si era affezionato a lei.

“Fortunata, vieni qua”, disse Evaristo entrando nel salone dove si trovavano le due donne.

La giovane andò dal patrigno che la afferrò per le mani e la accompagnò in giardino.

“Questo è per te, ti piace?”, disse Evaristo indicando un purosangue. “E’ bellissimo! Grazie!”, disse entusiasta la giovane, abbracciando prima il patrigno e dirigendosi poi verso il cavallo per accarezzarlo.

Ludovica guardò la scena dalla finestra e ne fu molto contenta.

Luca la trovava molto carina, ma Fortunata cercava sempre di sfuggire agli sguardi intriganti degli uomini.

sco, nel frattempo, si era fidanzato con Priscilla ma lei sembrava anche molto interessata al fratello di lui.

Un giorno i due si ritrovarono in giardino e approfittando del ritardo di sco, fecero una eggiata durante la quale ebbero degli atteggiamenti molto intimi.

A lei non dispiacquero per niente le avances di Luca, anzi, sembrava essere molto presa da lui.

“Basta! Ci potrebbero vedere”, gli disse, mentre il giovane la seduceva e la lambiva.

“Non preoccuparti, qui non ci vedrà nessuno”, ribadì lui.

I due, in breve tempo, divennero amanti.

Era un giorno importante per sco: la prima della sua nuova commedia teatrale.

Il teatro era gremito, Ludovica, Evaristo e la giovane Fortunata si sedettero in prima fila, accanto a lei la Contessa di Azzaria, venuta ad ammirare l’interpretazione della figlia, la graziosa protagonista.

Ludovica rimase di sasso: la protagonista della commedia era Priscilla.

Lei stessa aveva incoraggiato il giovane sco a dichiararsi a lei. “Cosa ho fatto?” – pensò amaramente.

Stava male al solo pensiero che si sarebbero dovuti imparentare col Conte.

Decise che quel matrimonio doveva essere evitato, in qualche maniera li avrebbe separati.

Non seguì per niente la commedia era troppo indaffarata a pensare, a trovare una soluzione al pasticcio che lei stessa inconsapevolmente, aveva combinato.

Fu un trionfo. La commedia piacque molto, tutti andarono a congratularsi col giovane e con i familiari.

“Complimenti Ludovica, il suo figliastro è stato del tutto all’altezza del padre”, disse uno degli spettatori divertito dalla bella commedia diretta dal giovane.

Ludovica annuiva educatamente ai complimenti per sco, ma la sua testa in quel momento era in tutt’altro posto.

La giovane Fortunata, frattanto, si era presa una cotta per il giovane commediografo, ma il suo sentimento non era ricambiato.

Stava ore e ore ad ascoltare i lunghi monologhi che saggiava il giovane, origliando dietro la porta o nascondendosi dietro i lunghi pini in giardino.

I due divennero buoni amici. sco vedeva in Fortunata una sorella minore da proteggere e difendere anche dalle grinfie del fratello.

Le parlava della commedia, della musica, del teatro, del canto e lei rimaneva assopita, quegli argomenti erano lontani da lei, e cercava di cogliere ogni insegnamento nel migliore dei modi.

“Vedi Fortunata, quando si canta si usa il diaframma”, le diceva sco toccandole la pancia.

E poi aggiungeva: “Devi ispirare l’aria e gonfiare l’addome, la devi trattenere qualche secondo e poi svuoti i polmoni facendo uscire la voce.”.

Lei mise in pratica quelle spiegazioni così dettagliate, ma qualcosa non andò bene, la voce non usciva in maniera pulita.

“Fortunata, non così veloce: devi ispirare ed espirare senza fretta e poi devi tenere le spalle ferme”, sosteneva sco aggiustando la postura di Fortunata.

Quelle lezioni per lei erano come gocce di rugiada cadute su un terreno arido e deserto.

Quel deserto ben presto si mutò in un prato fiorito e la giovane Fortunata divenne una donna colta e istruita.

Ludovica decise di parlare con sco, per capire quali fossero i suoi sentimenti per Priscilla.

“sco scusa, volevo chiederti una cosa”, disse Ludovica placcando il giovane in giardino.

“Dimmi Ludovica, ti ascolto”, disse lui

“Qual è il sentimento che ti lega a Priscilla?”, chiese, guardandolo negli occhi.

“Perché t’interessa saperlo … non capisco”, disse lui.

“Tu rispondimi! Sai che ti voglio bene e m’interessa saperti felice”, aggiunse lei spazientita.

“Io la amo. Tutto qui”, rispose lui, con una luce negli occhi.

“Ma sei sicuro che sia amore? A volte sembra che lo sia, ma non lo è. Magari ti sei solo infatuato.

E’ solo un innamoramento eggero e poi potrà are”, diceva Ludovica cercando di persuaderlo da quel sentimento.

Cercò in ogni modo di dissuaderlo, ma nulla avrebbe potuto fare cambiare idea a sco.

“Ludovica non capisco il perché di questo tuo accanimento, ti ho appena detto che la amo e basta”, disse lui dando un taglio netto a quella discussione e lasciandola da sola in giardino.

Lei rimase a pensare ma in quel momento nessuna soluzione le pareva opportuna.

QUARTO CAPITOLO

Ludovica, fece costruire una residenza estiva a Bagaria, dove si trasferì con la sua famiglia.

La Villa era smisurata, immersa nella natura, il bagliore del sole faceva riflesso su quei vetri enormi delle finestre del primo piano.

I erotti allietavano le orecchie dei residenti con un canto melodioso e armonioso.

I profumi dei fiordalisi rupestri e delle splendide orchidee selvatiche inebriavano l’aria, portando un pizzico di allegria e leggerezza alla Villa.

Una nuova cuoca e una nuova cameriera erano arrivate alla nuova Villa Scozzari, madre e figlia; era la fanciulla che Ludovica aveva conosciuto mesi prima a Villa Gravina di Palagonia.

Ludovica era contenta di avere con sé Gertrude: quella ragazza le ricordava tanto lei da giovane.

Le due donne stavano ore e ore a parlare della Villa, di come quelle feste sontuose attiravano la loro attenzione.

“Sai, Gertrude, anch’io vivevo da giovane a Villa Gravina e anch’io come te mi nascondevo fra i cespugli per spiare i nobili durante le feste”, disse Ludovica seduta sul grande divano del salone.

“Ma lei poteva vederli da vicino i nobili … è una contessa!”, rispose la ragazza.

“No, io non sono una contessa. Sono una serva, come te”, affermò Ludovica accarezzando il mento di Gertrude.

“Io facevo la serva a Villa Gravina: lavavo, spazzavo, pulivo e sistemavo”, disse Ludovica rimpiangendo paradossalmente i vecchi tempi.

La giovane si meravigliò di quelle parole, non avrebbe mai potuto pensare niente del genere.

Quella bella e ricca attrice famosa era solo una semplice serva.

Fra loro si era creata tanta complicità, per Ludovica quella fanciulla era stata un dono di Dio.

Gertrude e Fortunata divennero buone amiche, le due ragazze entrambe provenienti dai bassi ceti, avano il tempo nelle campagne raccogliendo fiori e frutta fresca e andando a cavallo proprio come dei maschiacci.

Le due alleate si divertivano a fare degli scherzi all’arrogante e presuntuosa

Priscilla che con il suo fare impertinente le molestava di continuo ricordandole da quale squallore venissero.

“Mamma mia, che fetore che emanate … ma perché non andate a lavarvi?”, disse un giorno Priscilla incrociando le due ragazze in giardino.

“Puzza farai tu, di marcio però”, disse Fortunata irritata dal fare di Priscilla.

“Si vede che i tuoi vocaboli sono limitati! Tua madre doveva essere una poveraccia come te e di certo non ti ha mai fatto aprire un libro!”, disse lei, ridendo sarcastica, con fare aspro e pungente.

Fortunata a sentire quelle parole si era talmente innervosita da volerla aggredire, ma Gertrude la fermò.

“Lasciala stare, Fortunata, su, andiamo via”, disse Gertrude.

“Si, andate via, ve ne prego! Sto svenendo dal fetore. Ormai l’odore di povertà ve lo portate addosso”, disse Priscilla in maniera antipatica e indisponente, chiudendosi le narici con le dita.

Le due giovani donne la lasciarono nella sua superbia e andarono via.

Un giorno le due fanciulle, stanche dei continui insulti, organizzarono uno scherzetto alla giovane.

Presero due cavalli dalla stalla, li fecero imbizzarrire e li scagliarono contro Priscilla.

La giovane impaurita cadde a terra dentro una pozzanghera di fango e iniziò a gridare e a lagnarsi.

Il giovane sco venne in suo soccorso, e lei, con fare pietoso, raccontò l’accaduto al fidanzato accusando le due ragazze di ciò che era successo.

“Sono state quelle due”, piagnucolò Priscilla, indicando le giovani che nel frattempo si erano nascoste fra gli arbusti del giardino.

Lui, arrabbiatissimo, si recò dalle due fanciulle e rimproverandole fece presente che se quei dispetti fossero continuati, avrebbe detto tutto a Ludovica e al padre.

“Ma è lei che ci ha provocato”, si difese, la giovane Fortunata.

“Ci ha insultato e ingiuriate, parlando in maniera molto offensiva delle nostre madri”, continuò la giovane, “non puoi difenderla! Apri gli occhi: lei ti fa vedere solo ciò che vuole”.

“Non voglio sentire ragioni, siete sole delle bambine, comportatevi da donne quale ormai siete”, disse lui con un po’ di rimorso per quel tono forte e duro che aveva usato nei confronti della sorellastra.

Le giornate alla villa trascorrevano serene, quando a un certo punto le grida della giovane Gertrude ruppero quella calma che aleggiava nell’aria.

Ludovica sentendo quelle urla corse subito come una furia e una scena drammatica sorprese il suo sguardo.

La giovane era lì, tremolante, con i vestiti stracciati e una bava di sangue che usciva dalla sua bocca.

Spaventata, rannicchiata in un angolino della stanza e scossa per quello che le era accaduto.

Quel giovane spregiudicato aveva abusato di lei.

Ludovica vide nello sguardo della fanciulla un terrore impressionante, quella violenza aveva portato via l’innocenza e la purezza della giovane.

Ludovica furibonda, sentì il bisogno di difendere quell’anima pura e integra; prese un coltello dalla cucina e andò alla ricerca di Luca.

Lo trovò in giardino, stava lavandosi il viso presso una fontanella e senza pensarci due volte puntò il coltello sulla schiena del ragazzo; ma ecco che una mano ferma e possente afferrò l’arma prima che questa potesse toccare il dorso del ragazzo.

Era Evaristo, aveva visto un movimento bizzarro in giardino e si era subito affrettato per andare a vedere cosa stesse succedendo.

Il padre immediatamente nascose l’arma gettandola dietro un cespuglio, Ludovica con disperazione iniziò a battere i pugni sulla schiena e poi sul petto di Luca, ignaro di quello che gli sarebbe potuto succedere attimi prima.

“Sei un infame, un bastardo”, continuava a ripetergli Ludovica agitandosi e percuotendolo sul petto.

E lui non curante di quello che aveva fatto prese Ludovica dai polsi e la gettò in terra, poi fuggì.

Luca per un periodo non si fece più vedere, ava le sue giornate ubriacandosi e andando a letto con donnacce di strada.

Continuava ancora a vedersi con Priscilla, la quale si era veramente innamorata di quell’uomo nonostante il bruto che fosse.

“Luca perché non abbandoni questa vita dissennata e provi ad avere una tua famiglia”, gli diceva lei con gli occhi pieni di commozione.

“E una famiglia con chi la dovrei fare con te”, le diceva lui ridendo e bevendo del vino direttamente dalla bottiglia, facendone cadere dei sorsi sulle bianche lenzuola.

arono dei giorni e alla villa la vita trascorreva con la solita consuetudine di sempre.

La notizia di un grave incidente avvenuto al Conte di Azzaria scosse gli equilibri che faticosamente si erano assestati alla villa.

Era cascato da cavallo e a causa di quella caduta aveva perso la sensibilità alle gambe rimanendo paralizzato e cieco.

“E’ una punizione di Dio per quello che ti ho fatto”, disse il Conte a Ludovica avendola fatta chiamare, “ti ho fatto del male e non ho smesso mai di pagarne le conseguenze”.

Lei rimaneva lì guardando quell’uomo ormai vecchio, trasandato e sofferente, nei suoi occhi ormai spenti vedeva solo afflizione e dolore.

La pietà si sopraffaceva alla rabbia per quell’uomo che le aveva fatto tanto male.

“Devo dirti tutto, non posso più tenermi questa verità dentro che mi ha fatto tanto male”, disse lui.

“Non chiedo il tuo perdono e non lo voglio perché non lo merito.

Quello che ho fatto è stato deplorevole, sono stato spregiudicato con te, ti ho ingannato e abbandonata e poi ti ho strappato tua figlia dalle braccia”.

“Nostra figlia”, disse Ludovica calcando la voce.

Il Conte in quel momento s’incupì e i suoi occhi divennero lucidi, continuò poi dicendo: “Per quello che ho fatto, non ci sono parole, ero un uomo senza pietà, ero sposato e non volevo che la notizia di una figlia illegittima sconvolgesse il mio matrimonio e la mia vita”.

Ludovica lo lasciava fare, lo lasciava parlare senza interromperlo, stava lì ad ascoltarlo con attenzione.

“Così assoldai degli uomini, dei malviventi che per pochi spiccioli fecero sparire per sempre la bambina”.

Quel “per sempre” risuonò nella testa di Ludovica all’infinito, quel “per sempre” la sconvolse.

In quel momento Ludovica che si trovava in piedi accanto al letto, si avvicinò al Conte e lo afferrò per il bavero della veste, dicendogli queste parole: “Che fine ha fatto mia figlia, brutto bastardo”, “non meriti di vivere disonesto”.

Il Conte la lasciò sfogare, e poi disse: “Hai ragione sono un bastardo, un disonesto e anche di peggio, ho ucciso la mia stessa figlia e per questo ho pagato fino a questo momento. L’ho buttata dentro una fossa, lo sepolta viva in quel

cimitero tetro e oscuro di Bagaria”.

In quel momento un freddo gelido percosse la pelle di Ludovica, ogni speranza in lei di trovare la sua piccola era svanita lasciando spazio alla rabbia e all’amarezza.

Rimase zitta, senza parole, davanti a quella verità così sconvolgente; s’inginocchiò a lato del letto e si mise le mani in faccia coprendosi il viso.

Il Conte si fece forza per dire un’ultima cosa: ” Ludovica quello che ho fatto non ha scusanti ma l’ho pagato caro, infatti, dopo qualche tempo dalla morte della bambina per un vano errore ho ucciso il mio stesso primogenito durante una battuta di caccia. Lui era lì, fra i cespugli ed io scambiandolo per una lepre gli ho sparato un colpo mortale. Per due volte ho ucciso i miei stessi figli, sangue del mio sangue. E la mia vita è stata un continuo tormento sino ad ora che sono cieco e paralitico. La provvidenza ha chiesto il riscatto per tutto il male che ho fatto”.

Ludovica sentì dentro di sé un senso di consolazione, nonostante la notizia della morte della figlia l’avesse sconvolta.

Provava sollievo al pensiero che non solo lei avesse avuto una vita così travagliata e nonostante la rabbia e il dolore la opprimevano provava comione per quell’uomo ormai vecchio e malandato.

Prima di andarsene lei disse al Conte queste parole: “Non incolpare Dio per quello che hai fatto o per quello che ti è successo, Dio non ha chiesto nessun riscatto ma sei stato tu stesso a procurarti tutte queste sciagure, ti sei attirato tu

stesso queste maledizioni e la colpa di tutto è solo tua”.

Non volle infierire più, sapeva che già aveva pagato un prezzo salato per tutto il male che le aveva fatto, lo lasciò nell’abbandono della stanza e se ne andò.

Fuori la stava aspettando suo marito che impazientito per il tempo trascorso le corse incontro mettendole una mano sulla schiena e facendola salire sul cocchio.

Non fecero in tempo a entrare nella carrozza che uno sparo assordò le loro orecchie.

ò del tempo e Ludovica rassegnandosi amaramente per la morte della figlia trovò consolazione in Fortunata e Gertrude che intanto si era ripresa dalla brutta esperienza vissuta.

Le tre donne erano più unite che mai, trascorrevano le loro giornate in compagnia di un buon libro e sommersi dalla natura, rincorrendosi in aperta campagna e raccogliendo dei bellissimi e colorati fiori di campo.

“Gertrude puoi andare a mettere questi fiori dentro il vaso che sta in salone”, disse Ludovica porgendo i fiori che avevano raccolto tutte e tre insieme.

Un giorno Ludovica portò le due ragazze alla vecchia borgata dell’Aspra facendogli ammirare le meraviglie del tramonto.

Le due erano entusiaste, incantate da quegli ardori tiepidi e dai quei raggi rosati che coloravano tutto il cielo d’arancio.

Le tre donne erano lì, mano nella mano con di fronte un oceano di emozioni e di sensazioni.

Quel momento avvolse le loro afflizioni in un calore sovrumano e le tre donne si sentirono come leggiadre in mezzo ad un mare di meraviglie.

Quel posto le aveva incantate a tal punto da farle rimanere lì per ore senza rendersene conto.

“Si è fatto tardissimo, Evaristo ci sta aspettando per la cena”, disse Ludovica avviandosi verso la carrozza seguita dalle due ragazze. Intanto, il giovane ribelle si era fatto vivo alla villa, nessuno volle riprendere discorsi con lui.

Anche la giovane Gertrude cercò di farsi forza e di non dargli adito.

La notizia che Ludovica stesse aspettando un bambino allietò i volti della ormai allargata famiglia Scozzari, Evaristo era contentissimo e anche suo figlio sco era al settimo cielo, anche le due ragazze che ormai facevano entrambe parte della famiglia furono gioiose della novità.

“Sono contentissimo”, disse Evaristo avvicinandosi alla moglie e accarezzandole il grembo.

Si avvicinò il giorno del quarantesimo compleanno di Ludovica ed Evaristo assieme alle due ragazze organizzò una festa a sorpresa per la moglie.

Invitarono solo pochi intimi e Ludovica fu molto contenta di condividere la gioia di quel giorno con i suoi cari.

Arrivò il momento di scartare i regali e Ludovica aprì per primo il regalo della giovane Fortunata.

Era una bellissima copertina bianca tutta ricamata a mano dalla stessa ragazza, al centro vi erano quattro angioletti tutti ricamati di bianco e di azzurro, era un regalo per il piccolo pargoletto che aveva in grembo.

Quando Ludovica la vide, rimase in silenzio, senza parole.

“Non ti piace Ludovica?”, disse la giovane con fare stupito.

“Certo che mi piace cara è bellissima”, rispose lei con fare pensoso.

Poi aprì tutti gli altri regali e la serata continuò fra feste, danze e canti.

Fu Fortunata stessa ad allietare gli invitati con la sua voce, soave e gradevole, accompagnata dal giovane sco al piano forte.

Luca stava in disparte a osservare l’evolversi della serata e fu all’udire la voce di Fortunata che qualcosa in lui si scosse.

Per la prima volta provò un sentimento vero, una sensazione mai provata guizzò il suo corpo.

Si era innamorato della giovane fanciulla, la quale da sempre era rapita dal giovane sco, il quale era fidanzato con l’avvenente Priscilla sua amante.

Era un circolo vizioso di cui Luca non poté sottrarsi.

Luca, di conseguenza, cercò di cambiare i suoi atteggiamenti anche nei confronti della giovane Fortunata.

“Fortunata tieni, ho colto questo mazzo di papaveri per te”, disse Luca ammirando esterrefatto la bellezza della giovane fanciulla.

Lei inizialmente fu titubante ma poi accettò il mazzo di fiori, lo prese e se ne andò senza nemmeno ringraziarlo.

Percorse pochi metri e buttò quei fiori dietro una siepe.

Lui aveva provato a essere carino con lei, ma niente smosse il suo cuore nei riguardi di Luca, era molto prevenuta.

Il suo cuore e la sua anima erano persi per sco, non poteva fare a meno di lui come l’aria che respirava, e nonostante il suo sentimento non fosse ricambiato, nel suo cuore c’era speranza e fiducia che qualcosa sarebbe cambiato.

Priscilla notò il cambiamento di Luca e vide anche il sentimento che esso provava per la giovane e ne fu turbata.

“Ti sembra che non l’ho visto come guardi quella poveraccia, ti piace vero?”, disse Priscilla rivolgendosi a Luca.

“Stai zitta e lasciami in pace”, disse lui allontanandosi da Priscilla.

Ludovica guardava e riguardava quella copertina che Fortunata aveva ricamato e spinta da curiosità chiamò la giovane dicendole dove avesse visto quel disegno raffigurato sulla copertina.

“Fortunata, ti volevo chiedere da dove hai visto gli angioletti che hai ricamato sulla copertina”, disse Ludovica impaziente di avere la risposta dalla giovane.

La giovane prese una vecchia cassetta e iniziò a uscire dei disegni, poi delle vecchie posate e poi per ultima una vecchia e sporca copertina. “L’ho copiato da qui il disegno degli angioletti”, rispose la giovane indicando la coperta.

“La mia mamma la teneva conservata in un cassetto e da piccola mi diceva che

gli stessi angeli della copertina mi avevano protetta alla nascita”, raccontò Fortunata, “ è una delle poche cose che si è salvata dal terremoto”, aggiunse la fanciulla.

Era proprio la copertina che un giorno la giovane Ludovica ricamò per la sua piccola Esmeralda.

Lei la prese e l’avvicinò al suo viso sentendone l’odore, la strinse poi alla sua bocca e la ridiede a Fortunata sfiorandole la mano.

Ludovica non sapeva che pensare era molto confusa e decise di fare chiarimento su questa storia.

Prese la decisione di andare a trovare la madre di Fortunata in manicomio.

La trovò vecchia e trasandata, i capelli lunghi e bianchi che le ricoprivano il viso, scompigliati e crespi, gli occhi come usciti dalle palpebre e i denti ingialliti e spezzati.

A vederla ebbe paura, stava lì seduta in una sedia di paglia canticchiando una vecchia ninna nanna.

Ludovica si fece coraggio, si avvicinò e iniziò a farle delle domande.

“Signora a chi canta questa ninna nanna”, disse lei con voce esitante.

La vecchia pazza non rispose subito ma dopo un po’ disse: “Chi sei tu, che vuoi da me, vattene, vattene”.

Poi aggiunse cantando: “Angioletti del Signore che bel dono mi portaste lalalalalalalala”.

Quella donna era del tutto fuori di testa, Ludovica pensò che sarebbe stato inutile continuare a farle delle domande e decise di andarsene.

Mentre si voltò per incamminarsi la donna la prese alle spalle e le disse: “Dove vai bella signora, non vuoi più parlare con me”.

Ludovica iniziò a tremare e un malore le venne in grembo, la sua mano toccò la pancia come per trattenerla e la vecchia pazza vedendola in quello stato le disse: “ Sei incinta vero? Io non lo sono mai stata ma gli angioletti mi hanno portato nel cuore della notte una bella bambina”.

La folle iniziò a ridere in maniera del tutto squilibrata, quella risata scendeva e saliva di tono in continuazione, sembrava non dovesse finire mai.

Alle parole della donna Ludovica si sentì mancare le forze, una paura agghiacciante la assalì, la voce di quella donna era timorosa e paurosa.

Quella squilibrata si sedette di nuovo e poi facendo avanti e indietro con il corpo disse: “Mio marito è sottoterra, il terremoto l’ha divorato, è buio, e notte, non ho

fame, voglio dormire”, iniziò a dire delle frasi senza senso e Ludovica a quel punto la interruppe, voleva farla ragionare prima della sua completa dispersione.

“Quando ha partorito sua figlia?”, le chiese Ludovica.

La folle rispose prima cantando: “Fortunata del mio cuor, gli angioletti ti portar lalalalalala”.

Poi parlò dicendo: “ Io non l’ho partorito ma la terra l’ha partorito davanti casa mia avvolta in uno straccetto”.

In quel momento Ludovica capì tutto; il suo corpo stava in piedi per miracolo, iniziò a rabbrividire e si diresse verso l’uscita.

La terra aveva partorito la piccola Fortunata, la piccola era stata trovata dai custodi del cimitero sotto terra ancora viva.

Una verità assurda e sconvolgente si presentò a Ludovica: la giovane Fortunata era la sua Esmeralda.

La figlia che da sempre aveva cercato e della quale aveva perso ogni speranza, negli ultimi anni le era sempre stata vicino.

Il destino l’aveva ricongiunta a se inconsapevole di tutto.

Quella bambina orfana e abbandonata era il suo pargoletto, sua figlia che le era stata portata via brutalmente al momento della nascita.

Non era morta, l’aveva ritrovata e adesso nessuno l’avrebbe mai più separate.

arono dei giorni e il corpo di Luca fu ritrovato morto sulle sponde del fiume Eleuterio.

L’avevano ammazzato, una coltellata aveva stroncato la vita del giovane ribelle.

Ora che stava mettendo la testa apposto, la sua vita era stata distrutta.

Chi mai avrebbe potuto compiere un gesto del genere?

La polizia fece le sue indagini, e tutti gli altarini vennero alla luce.

Si scoprì che la giovane Gertrude era stata tempo prima violentata dalla vittima e che Luca e Priscilla erano amanti.

La notizia sconvolse il povero sco che soffrì tantissimo per quella rivelazione.

Si era fidato di una donna falsa e ipocrita che l’aveva tradito da sempre con il suo stesso fratello.

Fortunata gli restò accanto consolandolo e confortandolo.

Lei aveva cercato di aprirgli gli occhi ma lui accecato da quel sentimento forte che provava per Priscilla non aveva né visto né capito nulla.

“ Tu sapevi, avevi capito, perché non mi hai detto nulla”, disse lui.

“Io ho provato a dirti che tipo di donna era Priscilla ma tu non mi hai creduto”, disse Fortunata con fare comionevole.

“Fatti forza sco, non abbatterti. Io ti starò vicino”, gli disse Fortunata accarezzando la testa del ragazzo.

I sospetti ricaddero tutti su Priscilla, che gelosa per il sentimento che il giovane provasse nei confronti di Fortunata, aveva deciso di vendicarsi per l’improvviso abbandono da parte di Lui.

“E’ vero, Luca mi aveva lasciato perché si era innamorato di Fortunata, ma io non l’ho ucciso, non l’avrei mai fatto. Lo amavo e non sarei stata mai capace di compiere un gesto simile”, disse Priscilla al commissario cercando di deviare i sospetti.

Un colpo di scena sconvolse la casa, il commissario assieme ai suoi sbirri venne ad arrestare Ludovica.

Durante le indagini aveva saputo del suo tentato omicidio nei confronti di Luca sventato dal padre.

Lo stesso coltello che Ludovica aveva tenuto fra le mani era stato usato per ferire a morte il giovane ribelle.

“E’ vero che lei tempo prima aveva cercato di uccidere la vittima in giardino?”, chiese il commissario a Ludovica.

“Si è vero. Ero piena di rabbia e di disprezzo per il vile gesto che aveva fatto a Gertrude e senza pensarci due volte sono andata in cucina e ho impugnato un coltello che ho poi puntuta sulla sua schiena. Ma mio marito prima che potessi sfogare la mia collera, mi blocco e buttò il coltello dietro una siepe”, disse Ludovica raccontando l’episodio avvenuto tempo prima nel giardino della villa.

“Lei non aveva ancora dimenticato quell’oltraggio che aveva fatto alla cameriera e l’ha ucciso”, disse il commissario accusando Ludovica per l’omicidio di Luca.

Ludovica fu arrestata ancora prima che potesse confessare la verità alla sua giovane figlia.

Era disperata e gridava la sua innocenza, nessuno credeva ai suoi occhi.

Evaristo vociava al commissario che si stavano sbagliando e Fortunata e Gertrude le corsero incontro aggrappandosi alla sua veste.

“Non potete arrestarla, lei è innocente”, diceva Evaristo tirando a sé Ludovica.

Il commissario non dette adito alle parole del marito e portò via Ludovica.

La casa fu scossa e un silenzio tombale scese in quella stanza.

Fortunata pianse disperata, Evaristo non poteva ancora crederci, il giovane sco ancora immerso nel suo dolore non volle credere ai suoi occhi.

Arrivata in carcere, la sbatterono in una cella sudicia e sporca, a farle compagnia delle delinquenti che quando la videro entrare col suo vestito per bene iniziarono a deriderla e a beffeggiarla.

Lei continuava a dichiarare la sua innocenza ma il commissario ormai aveva chiuso le indagini che avevano visto lei come unica e sola colpevole.

“Ei ragazze, guardate chi c’è qui, la Contessa Innocenzia”, disse una delle delinquenti facendo ridere tutte le altre per la sua battuta derisoria.

“Bella signora come mai ti hanno rinchiuso qui in mezzo a delle pezzenti come noi; stai attenta a non sporcare il tuo costoso abito, potresti rovinarlo”, continuò la malvivente beffeggiandola e toccando l’abito di Ludovica con le mani sporche

di melma.

Ludovica era come fra le nuvole, per lei quello che stava vivendo era solo un brutto incubo e ben presto pensava che si sarebbe svegliata da quell’obbrobrio.

Fortunata con consuetudine assieme al patrigno la veniva a trovare in carcere, anche sco e Gertrude venivano spesso a trovarla incoraggiandola e rincuorandola.

“Non demoralizzarti amore mio, troverò il modo di farti uscire da qui”, le diceva Evaristo sostenendola.

Quando Ludovica vedeva arrivare la giovane figlia, il suo cuore iniziava a palpitare all’impazzata aveva una voglia matta di dichiararle tutta la verità ma voleva aspettare il momento e il posto più propizio.

Le giornate arono veloci come pagine di un libro girate dal vento.

Ogni sera Ludovica si inginocchiava davanti a quelle sbarre lerce della piccola cella, derisa e schernita dalle sue compagne di sventura.

Il momento del parto avvenne, nell’infermeria del carcere Ludovica diede alla luce un bellissimo maschietto cui dette il nome di Filippo.

Ludovica disse al marito di portarlo alla villa, il carcere non sarebbe stato il

luogo adatto per una creatura tanto indifesa.

“Portalo con te a casa, le mura sordide e sporche di questa cella non sono il posto adatto per lui”, disse Ludovica porgendo il bambino appena nato fra le braccia accoglienti del Padre.

Il distacco fu straziante, Ludovica continuava a sussurrargli parole dolci e a tenerlo per la manina come per trasmettergli il suo grande amore.

“Piccolo mio, la mamma ti ama tanto ma con tuo padre starai meglio, lui ti potrà dare tante cose che mamma qui non può darti”, gli diceva Ludovica accarezzandolo e sfiorandolo con il viso.

Voleva osservarlo bene prima di lasciarlo andare via da lei.

“Hai delle manine cosi piccole, hai gli stessi occhi di tuo padre. Da grande sarai un uomo forte e virtuoso proprio come il tuo papà, diceva Ludovica al piccolino fissando poi il marito.

Fu come abbandonarlo, ma per la sofferente Ludovica fu la decisione più giusta da prendere.

Per la seconda volta nella sua vita dovette separarsi dal suo stesso sangue, dalla sua stessa vita.

Il suo temperamento anche in questo caso l’avrebbe aiutata a superare quel momento.

La sua forza che da sempre la caratterizzava era un’arma influente per superare momenti bui e difficili della sua vita.

La sua fede era come inesauribile, in Dio lei vedeva la salvezza e la speranza.

Aveva capito sulla sua pelle che i tempi di Dio non erano i suoi tempi e che le risposte in qualche modo sarebbero arrivate sempre e comunque.

QUINTO CAPITOLO

La notizia di una confessione improvvisa all’omicidio di Luca diede speranza e conforto al suo cuore afflitto e stanco.

Era stata la cuoca a uccidere il ragazzo durante un momento di sconsideratezza.

“Signor commissario un innocente sta scontando la pena che spetta a me. Sono stata io a uccidere quel disonesto che ha approfittato della purezza di mia figlia”, disse la cuoca confessando quella brusca verità al commissario.

L’ammissione stordì tutti che tutto avrebbero pensato ma non questo.

La giovane Gertrude rimase sconvolta, sua madre l’aveva vendicata per quell’atto di violenza che aveva subito dal giovane eversivo.

La cuoca confessò il suo dramma, facendo ricadere tutta la colpa su di lei.

Aveva visto Ludovica scendere in giardino con un coltello in mano e voleva finire quello che lei aveva lasciato in sospeso tempo prima.

Aveva visto, negli occhi e nei momenti di afflizione della figlia, la grande sofferenza che quell’uomo aveva provocato nella sua vita rompendo quella giovinezza sana e pudica.

Non voleva fare ricadere la colpa su Ludovica ma i fatti la videro rea.

Aveva voluto confessarlo prima ma non aveva trovato il coraggio, fin quando la visione di quel pargoletto innocente aveva scatenato in lei un senso di colpa grandissimo.

Non poteva far pagare a un innocente il suo fatale errore, la sua vendetta spietata.

Gertrude perdonò la madre e promise che le sarebbe stata sempre vicino.

“Madre ti starò sempre accanto”, le disse la giovane figlia guardandola poi rinchiudere in cella.

L’incontro fra Ludovica e il piccolo Filippo fu davvero emozionante.

La donna lo strinse a se donandogli tutto il suo amore e il suo calore.

Il corpicino tenero di Filippo si accovacciò fra le braccia protettive e accoglienti della madre che fu presa da grande emozione e commozione.

Lo fissò e vide un bambino cresciuto; aveva ormai cinque mesi, e si rammaricò per quella forzata lontananza.

“Piccolo mio, quanto sei cresciuto. Non ho potuto starti vicino in questi mesi ma adesso non ti lascerò mai più”, disse lei vezzeggiando il suo Filippo.

Tutti furono contenti del ritorno alla villa di Ludovica, tutti le corsero incontro abbracciandola e baciandola.

Quando Ludovica vide venirle incontro Fortunata, la strinse a se e poi guardandola negli occhi e accarezzandole il mento le disse: “Figlia mia ti ho ritrovata e non ti lascerò mai più”.

La giovane non capì, pensò che parlasse così per la lontananza che le aveva visto separate per un certo periodo, ma poi il parlare di Ludovica proseguì: “Fortunata, quello che devo dirti cambierà la tua vita ma è ineluttabile che questo avvenga, io stessa non potevo crederci, ne sono venuta a conoscenza da un po’ di tempo grazie a te, grazie a quella copertina che con amore mi ricamasti”.

La giovane non capiva ma cosa avrebbe voluto dire con quelle parole la matrigna?

La copertina? Fortunata non capiva, era agitata, non sapeva cosa pensare, cosa le aspettasse.

A poco a poco si andava allontanando come se volesse evitare di sentire quella rivelazione, quella verità ancora celata.

Ludovica continuò e gli sguardi perplessi dei presenti si fecero più attenti.

“Tu sei mia figlia, sangue del mio sangue, membra delle mie stesse membra, quella figlia che con crudeltà mi hanno strappato dalle braccia alla nascita ….”

Le sopracciglia di tutti i partecipi si arruffarono, la stessa Fortunata continuava a muovere la testa come se non potesse credere a quelle parole.

“….Il destino stesso però si è fatto giudice di un processo di appello tanto desiderato, non ho smesso mai di sperare, fin quando il tuo stesso padre, quell’uomo crudele e malvagio che ti allontanò da me, mi confessò che ti aveva ammazzato sotterrandoti viva in una fossa del camposanto”.

L’irritazione mischiata con l’incredulità per quel racconto così cruento aggirò alla villa.

Ludovica iniziò a versare le sue consuete lacrime, appoggiò il piccolino dormiente fra le braccia robuste del padre e si sedette sulla poltrona costretta dalle sue gambe che non si reggevano più in piedi.

La giovane era lì ferma, assopita nei suoi pensieri, quello che le aveva raccontato Ludovica sembrava più una scena di una tragedia che il triste esordio della sua vita.

Ludovica continuò: “Quella stessa copertina che tu mi regalasti fu la soluzione all’arcano della mia esistenza, e adesso non ho più dubbi”, disse lei come

rigenerata.

Poi avendo ripreso le forze si alzò e avvicinandosi a Fortunata disse: “Tu sei la mia Esmeralda, mia figlia “.

Ludovica adagiò la sua mano sulla spalla vacillante della fanciulla come per avere un contatto, un’unione, ma la giovane con fare impulsivo tolse di scatto la mano di Ludovica e corse via piangendo.

Una mano maschile aveva bloccato l’azione di Ludovica a inseguire la figlia, era sco che con fare sicuro chiese a Ludovica di dare del tempo alla ragazza e che lui stesso si sarebbe fatto consolatore della giovane.

“Lasciala stare, deve ancora capire e accettare questa pesante rivelazione; la tranquillizzerò io”, disse il giovane abbandonando la mano di Ludovica che prima aveva stretto fra la sua per arrestarla.

Nel frattempo Evaristo con in braccio il piccolo si era accostato alla moglie confortandola e rincuorandola.

sco era corso a cercare la giovane Fortunata che si era nel frattempo dileguata.

La cercò da per tutto, nelle camere, in giardino, nelle stalle ma niente; era scomparsa.

Un pensiero in quel momento affiorò nella mente lucida di sco e precipitosamente si recò al mare dell’Aspra.

Scese dalla carrozza e in lontananza vide una donna sola e infreddolita, era Fortunata che seduta su uno scoglio si era abbandonata fra gli schizzi delle imperversate onde del mare e le dolci carezze del vento provenienti dal settentrione.

I suoi capelli erano aizzati dal vento come un battito d’ali di un’aquila reale; i suoi occhi erano lucenti e fiammeggianti come il tramonto stesso che i due ragazzi in quel momento stavano scorgendo.

Uno scenario incantevole e agghiacciante allo stesso momento si era attorniato ai due che, presi ancora da incredulità e da sorpresa per quelle parole ancora risonanti nei loro orecchi, si erano visti e ammirati.

sco corse ad abbracciare la giovane Fortunata, la strinse a sé e la avvicinò al suo petto sorreggendole la nuca.

Lei si lasciò placata, su quel torso quieto e rassicurante; fra i due si era creata un’attrazione, un incanto fatale.

Lei non poteva fare a meno di accarezzare la pelle morbida e fresca di sco sotto quella camicia di lino bianca ancora sbottonata; lui non poteva staccare il suo corpo da quello palpitante e apionato di lei.

Il sole era tramontato e i due si diressero alla villa, fra loro solo poche parole, frasi di conforto e d’incoraggiamento.

Ludovica vide ritornare la figlia e le corse subito incontro ma lei la frenò alzando la sua mano e le disse: “Non voglio parlarti; non voglio nemmeno che tu mi tocchi o che ti avvicini a me; voglio che tu mi lasci in pace”.

Quelle parole cosi dure e forti pesarono su Ludovica come un grosso masso sulla sua schiena debole e stanca.

In silenzio come un pescatore che aspetta pazientemente il suo pescato se ne andò a rintanarsi nella sua stanza, sola e disperata.

La giovane aveva dato a lei la colpa di quello che era successo, oppure, voleva meglio assimilare il tutto, forse le sarebbe bastato del tempo per ricongiungersi con Ludovica, questo lei non lo sapeva ma lo sperava ardentemente.

sco capì le motivazioni di Fortunata, era troppo ferita perché perdonasse quella donna che la aveva resa partecipe di quella verità così sorprendente.

Non poteva pensare che i suoi genitori non fossero stati i veri genitori e che il suo vero padre l’avesse quasi ammazzata con una ferocia disumana.

Nonostante tutto però, era stata Ludovica ad accoglierla a braccia aperte a casa sua, spalancandole il suo cuore e la sua anima ancor prima di sapere che fosse la sua stessa figlia.

Ludovica che da qualche tempo, costretta dalle circostanze, aveva abbandonato la scena ritirandosi quasi a clausura nella sua bella villa bagariota.

Trascorse qui gran parte delle stagioni che lente attraversavano la sua esistenza nuda e asciutta.

I rapporti con la figlia erano sempre precari, la giovane le rimproverava il fatto di averla fatta crescere in un posto lugubre e sporco, in povertà e miseria fra tombe da spazzare e loculi da pulire.

Durante una cena la giovane tirò fuori tutta la sua rabbia inveendo contro Ludovica: “ Cibi raffinati, vini ricercati e con questo che volete ripagarmi per gli anni persi a spazzare le foglie dalle tombe, infreddolita e intorpidita senza potere avere nemmeno il tempo e il modo di togliermi quel sudiciume d’addosso. Il lerciume che mi riempiva il corpo e il viso facendomi sentire allo stesso modo. Certo la signora adesso vuole ricompensarmi, vuole togliersi quel masso sul petto che le pesa tanto”.

Non concepiva il fatto che anche Ludovica fosse stata vittima di quella crudele realtà, che la vedeva sola a se stessa, abbandonata agli eventi sconvolgenti della vita.

La madre rimase in silenzio, stupita da quelle parole che si infilzavano al suo animo come una spada ben affilata.

La giovane continuò: “Certo in quegli anni non sapevo cosa fosse il Teorema di

Pitagora o La caduta dei dannati di Rubens ma ero di certo a conoscenza degli anni di morte di tutte le genti bagariote.

La giovane manifestato il suo dramma corse fuori in giardino facendosi sorprendere da una pioggia fitta e gravosa.

Ludovica che fino a quel momento era rimasta in silenzio, ferita nel profondo si alzò è guardò dalla finestra la giovane sottomettersi alle intemperie del tempo.

Le sue mani strette al seno iniziarono a sobbalzare come spinte dal battito rigoglioso del suo cuore.

I suoi occhi lasciarono cadere sul grande vetro della finestra le sue intense lacrime che si fondevano come tutt’uno con gli schizzi veementi della pioggia.

Ogni cosa in quel frangente fu lasciata al tempo, al vigente ed al futuro.

Il piccolo Filippo aveva ormai un anno, aveva iniziato a dare i suoi primi i.

Ludovica ava gran parte del suo tempo con il suo piccolino, si era aggrappato a lui con tutte le sue forze, come a temere un suo abbandono.

Il piccolo Filippo era molto legato alla madre a tal punto di non volerla lasciare andare nemmeno per un minuto; si teneva ben saldo alla sua veste quando qualcuno gli chiedeva di andare con lui, anche se fosse stato il suo stesso padre.

“Filippo dai vieni da papà, ti porto a vedere i cavalli”, gli diceva il padre al piccolino tirandolo a sé, ma lui non cedeva e si afferrava sempre di più alla madre come un gatto spaventato.

Quell’attaccamento in qualche modo rincuorava Ludovica che in cuor suo sperava di recuperare i rapporti con la giovane figlia.

Fortunata, nel frattempo, si era fidanzata con un giovane nobile palermitano trasferitosi temporaneamente a Bagaria per la stagione estiva.

I due si erano conosciuti alla foce del fiume Eleuterio, dove Fortunata abitualmente andava a rinfrescarsi dopo una lunga cavalcata.

Da poco la giovane aveva scoperto che il suo amato fosse il fratello maggiore della tanto odiata Priscilla.

Priscilla che nel frattempo era ritornata assieme al giovane sco, che l’aveva scusata e perdonata grazie al forte sentimento che ancora il giovane nutriva nei suoi confronti.

Tommaso e Fortunata abitualmente si ritrovavano agli argini del fiumiciattolo che gli regalava ritratti naturali riflessi nelle sue acque.

I grandi arbusti di pini che coronavano il corso d’acqua davano un effetto verde scuro alle acque limpide e luminose del torrente.

Anche i due vi si specchiavano mano nella mano o avvolti in un profondo e ionale bacio.

Fra loro era nato un amore, un sentimento reciproco di stima e di rispetto, che aveva fatto scordare alla giovane fanciulla il sentimento vero e profondo per sco.

Priscilla e sco, un giorno, avendoli sorpresi presso una piccola grotta alle falde del monte Catalfano s’infuriarono brutalmente; i due erano lì a contemplare la bellezza della natura, come isolati dal mondo, fra le querce spinose e le orchidee selvatiche.

Non molto distante, il letto acquoso del fiume Eleuterio rendeva quel posto ancora più magico e interessante.

I due scoperti nella loro estasi cercarono di fuggire come inseguiti da serpenti velenosi.

“Dai scappiamo! Non voglio storie col mio fratellastro”, disse Fortunata tirando Tommaso da un braccio.

In quel momento un sentimento nuovo era nato in sco, la rabbia mischiata con la gelosia, che non era né quella di un fratellastro né di un amico, realizzò un sentimento soffocante e sconvolgente.

Il cuore di sco iniziò a palpitare all’impazzata e la sua mente fu sommersa da dubbi e da incertezze.

Quello che in quell’istante stava provando era un sentimento certo e intimo che mai gli era appartenuto; si era pazzamente innamorato della giovane Fortunata.

Le grida disperate di Priscilla, fecero ritornare in sé sco; la giovane, presa dall’inseguimento dei due, era caduta in un dirupo trattenendosi fortunatamente in un ramo molto robusto.

Le urla di Priscilla avevano attratto anche i due fuggitivi che presi da spavento, ritornarono sui loro i per andare a vedere cosa era successo alla ragazza.

La trovarono ciondolante, trattenuta solo da un frutice e prima che il giovane sco potesse recuperarla, la presero e la misero in salvo.

Priscilla scossa e spaventata abbracciò il fratello e ringraziò la giovane Fortunata.

“Grazie per avermi salvato!”, disse Priscilla rivolgendosi a Fortunata.

Fra le due da quel momento nacque una sorta di connivenza legata anche al fatto che Fortunata le avesse salvato la vita.

Da allora i dubbi di sco si fecero certezze, niente avrebbe potuto fargli

cambiare idea, quello che lui provava per la giovane Fortunata era un amore scioccante e accecante.

La vita alla villa scorreva con la solita abitudine di sempre, fra rancori, amori, confidenze, dubbi e incertezze.

Ludovica, in qualche modo, aveva ripreso i rapporti con la giovane figlia ma erano delle relazioni fredde e distaccate.

“Puoi accompagnare Filippo alle stalle ha voglia di cavalcare un puledrino”, disse Ludovica rivolgendosi alla giovane figlia.

“Si”, rispose semplicemente lei, prendendo fra le sue braccia il fratellino.

Questo, però, per il momento bastava a Ludovica che attendeva con ansia una vera e completa riappacificazione con la figlia.

La figlia che si era fidanzata con un giovane nobile palermitano ancora a lei sconosciuto.

Il rapporto fra Ludovica e Priscilla ritornò a essere, bene o male, quello di prima.

Era la promessa sposa del figliastro e lei doveva comportarsi da suocera beneducata e affidabile, nonostante, non le avesse ancora perdonato il fatto di avere tradito sco con il suo stesso fratello.

sco, invece, era combattuto fra l’amore schietto per Fortunata e l’impegno preso con Priscilla.

Ora che l’aveva vista con altri occhi, non quelli di un confidente o di un amico, la voleva tutta per sé; voleva stringerla a sé in un abbraccio infinito, sussurrandole parole dolci e mostrandole tutto il suo animo.

Consapevole del fatto che la giovane avesse aperto il suo cuore all’affascinante Tommaso, non perdeva la speranza e la forza per combattere quella battaglia così tanto complessa.

Le due coppie erano in subbuglio, tra sco e Priscilla vi erano spesso delle incomprensioni, dei distacchi che Priscilla aveva notato ormai da un po’ di tempo.

“Devo andare alla villa i miei mi stanno aspettando”, le diceva sco solo dopo pochi minuti che fossero stati assieme.

“Ma come già te ne vai, sei appena arrivato”, replicava Priscilla.

“Ti ho detto che mi stanno aspettando”, disse lui seccato, lasciando poi la casa della giovane.

Tra Fortunata e Tommaso invece, c’era un sentimento vero, attendibile che spesso era oscurato da un ritorno al ato.

Dietro a quell’amore c’era celato un altro sentimento, un rimorso, un rimpianto per qualcosa o per qualcuno che Fortunata non aveva ancora dimenticato.

Questo Tommaso lo leggeva nei suoi grandi occhi blu che spesso si riempivano di lacrime e di afflizione.

“Che ti succede amore mio, perché piangi!”, le diceva Tommaso vedendola triste, seduta dietro un albero.

Lui sapeva della sua triste storia, sapeva di anni ati nell’oscurità, nell’ombroso cimitero di Bagaria; sapeva delle menzogne che avevano accompagnato la sua vita e sapeva anche che Ludovica fosse la sua vera madre.

Lei gli aveva confidato tutto, gli aveva aperto il suo cuore e lui aveva accolto quella confessione con il dovuto rispetto.

Un giorno sco incontrò Fortunata nella famosa vallata di Solanto, stava lì sotto un albero di mandole, guardando da una parte l’imponente castello antico e dall’altra le rovine di un’era ormai ata.

Lui si avvicinò a lei, la guardò e poi le disse: “Che fai qui tutta sola?”.

Lei rispose: “Non sono sola con me ci sono Fillide e Acamante”.

Lui si voltò a destra e a manca ma non vide nessuno, poi aggiunse: “Ma io non vedo nessuno? Di chi parli, non capisco?”.

La giovane iniziò a raccontare al dolce sco la storia dei due giovani amanti greci, che perdutamente innamorati dovettero separarsi a causa della celebre guerra di Troia.

sco restò stupito da quella storia, non ne aveva mai sentito parlare e interessato continuava a seguire il racconto della bella amata, perdendosi nei suoi immensi occhi blu, lucenti e profondi come il cielo d'inverno.

Lei continuò: “La giovane principessa Fillide non vedendo tornare il suo amato si lasciò morire per la disperazione. La Dea Atena impietosita da quella struggente storia d’amore decise di trasformare Fillide in un bellissimo albero di mandorlo. Acamante invece, non era morto e venuto a sapere della tragica morte della sua amata e della sua trasformazione in mandorlo, abbracciò l’albero che per ricambiare le tenerezze fece prorompere dai suoi rami fiori anziché foglie”.

Fortunata raccontò la splendida storia e poi stette in silenzio come a non volere infierire più su quel mandorlo in fiore così maestoso e stupefacente.

Il giovane rimase anche lui senza parole, quella bellissima storia l’aveva commosso.

I due si cercarono con lo sguardo, poi si avvicinarono e si baciarono.

Dei boccioli caddero sui due come ad accarezzarli ma a un tratto Fortunata interruppe quella magia che si era creata fra loro, e disse: “No! Non posso farlo; Tommaso non merita questo e nemmeno sarebbe giusto nei riguardi di Priscilla”.

Lui replicò guardando intensamente Fortunata e mettendole le mani nelle spalle: “ Non puoi frenare il tuo cuore, non puoi chiedere alle tue labbra di fermarsi, questo e quello che vogliono, non impedire al nostro amore di ricongiungersi, non permettere a questo incanto di spezzarsi”.

Poi aggiunse: “Oggi i due amanti greci, questo mandorlo fiorito, questo cielo impregnato da nuvole smerlate e questo sole che sta calando si sono fatti complici e testimoni del nostro grande amore”.

Lei rimase sopraffatta da quelle parole così inequivocabili e indubitabili di sco ma ormai era troppo tardi, il suo cuore si era dato a un altro uomo.

Lei disse al giovane queste parole: “Ormai è troppo tardi, non posso sconvolgere la mia vita più di quanto non lo sia”.

Poi guardando intensamente sco e girandosi come per avviarsi, aggiunse: “Perdonami!”, e se ne andò.

Non aveva trovato la forza e il coraggio per combattere per quell’amore così salubre e sincero; non voleva deludere e amareggiare le persone a lei care, preferendo il suo sacrificio, la sua rinuncia e la sua resa.

La giovane arrivata a casa corse subito ad abbracciare Ludovica, voleva essere confortata e rassicurata da una persona cara: chi meglio della sua stessa madre poteva farlo?

Le due, che si trovavano sulla lunga scalinata esterna della villa, si sedettero sugli scalini e iniziarono a coccolarsi e ad accarezzarsi.

Per Ludovica fu un momento indimenticabile, tutto attorno si placò, c’erano solo lei e la sua bellissima figlia con la loro felicità e la loro contentezza per la loro improvvisa riappacificazione.

Fu per prima Ludovica a parlare: “Che ti succede piccola mia?”.

“Scusami, non ti ho saputo capire, ti ho maltrattato e rinnegata come se la colpa di tutto fosse stata tua”, disse Fortunata piangendo.

Ludovica prese un fazzoletto e asciugando le lacrime alla sua piccola disse: “Non importa, è ato; adesso quello che conta veramente e che ci siamo ritrovate”.

Le due donne si abbracciarono lungamente e gli sguardi eclissati dei presenti divennero soddisfatti.

Evaristo e il giovane sco avevano assistito alla scena ed erano sprizzanti di gioia per la riconciliazione di madre e figlia.

La famiglia in questo momento era più unita che mai: le prime imprese del piccolo Filippo e i mini concerti della giovane Fortunata allietavano le fresche serate autunnali della villa.

Fortunata aveva confessato alla madre il suo sentimento contrastato e tormentato per il giovane Tommaso.

“Ludovica non so che fare, non capisco se quello che mi lega a Tommaso sia un sentimento vero o solo un innamoramento eggero”, diceva la giovane figlia disperandosi e tormentandosi.

“Non preoccuparti lo capirai presto. Quando non vedrai l’ora di stringerlo a te, quando ti mancherà dopo solo pochi minuti che se ne sarà andato, quando penserai e ripenserai ai suoi sguardi, alle sue carezze. Solo allora capirai che quello è amore”, rispose Ludovica.

La madre aveva poi proposto a Fortunata un colloquio col giovane per conoscerlo, ma la figlia ancora perplessa volle rimandare l’incontro.

“Perché non lo porti alla villa e ce lo presenti?!”, disse Ludovica.

“Mi sembra ancora presto, non voglio affrettare i tempi”, rispose la fanciulla.

“Va bene! Non preoccuparti lo conoscerò a tempo debito”, aggiunse la madre; poi continuò: “Però mi devi promettere che starai attenta, che non ti farai ingannare come mi sono fatta ingannare io in ato”.

“Non preoccuparti madre è un bravo ragazzo”, asserì Fortunata.

In quel momento a Ludovica non importava più di Tommaso, delle presentazioni; Fortunata aveva pronunciato una parola che l’aveva fatta sobbalzare, che l’aveva rincuorata, l’aveva per la prima volta chiamata “madre”.

Tra sco e Priscilla i rapporti erano sempre più tesi anche a causa dei suoi continui sfoghi nei confronti di essa relativi ai suoi inganni del ato.

Il giovane non l’aveva del tutto perdonata dei tradimenti avvenuti col fratello e il sentimento che provava per Fortunata rendeva quelle colpe ancora più ingombranti.

“Non so se posso più fidarmi di te, mi hai già tradito una volta e lo potresti rifare”, diceva sco, incolpando Priscilla per il suo ato, durante una lite.

Ludovica adesso aveva riacquistato una certa tranquillità, la sua vita scorreva serena e beata fra giocate a mosca ceca col suo piccolo ometto Filippo, baci rubati al suo grande amore Evaristo e carezze fugaci alla sua giovane figlia Fortunata.

Nella sua vita ne aveva ate tante, aveva conosciuto la povertà, la miseria, l’amore, la ione, la ricchezza, la disperazione, la fama e il successo ma adesso si era riscattata di tutto.

Ora era contenta e il sogno della sua vita era mutato; a lei bastava solo vedere la sua famiglia unita e felice, con un solo cuore e un’unica anima.

Ben presto però, quella felicità fu turbata; Ludovica scoprì a chi appartenesse il giovane Tommaso.

L’aveva scoperto da Priscilla che “ingenuamente” aveva svelato il nome del ragazzo a Ludovica.

“Certo mio fratello Tommaso e un buon partito per la sua giovane figlia”, disse Priscilla sorseggiando del tè in salone in compagnia di Ludovica.

Lei rimase sconcertata da quella rivelazione, mille pensieri la assalirono; quella tazza di tè che stava assaporando iniziò a traballare all’impazzata.

Priscilla la vide sconvolta e disse: “Mi scusi tanto Ludovica, non sapevo che fosse all’oscuro della relazione fra mio fratello e Fortunata”.

Ludovica come a coprire quel suo stupore negò il tutto e rispose: “No, ti sbagli, lo sapevo già, sono a conoscenza di tutto” e poi con una scusa liquidò la giovane.

Ludovica si chiedeva come avrebbe potuto fare per dividere i due, sapeva che erano così innamorati, così uniti e questo la turbava.

La sua mente era diventata un campo di battaglia, strategie e tattiche imperversavano nella sua testa ma niente di questi pensieri poteva essere attuato, avrebbe compromesso il rapporto ormai stabile con la figlia.

L’unica ancora di salvezza venne da Fortunata stessa, la giovane in un momento di sconforto aveva confessato alla madre i suoi dubbi e le sue incertezze.

Fortunata aveva parlato alla madre dell’episodio avvenuto tempo prima fra lei e sco sotto l’imponente albero di mandorlo di Solanto.

“Madre, la mia anima è tormentata. Non riesco a togliermi dalla bocca il sapore delle labbra dolci di sco”, disse la giovane tenendo stretto a sé uno spartito del ragazzo.

Lei prese quelle confessioni e ne fece tesoro; doveva incoraggiare a qualunque costo l’amore contenuto dei due.

Iniziò a fare delle domande a sco, gli chiese dei rapporti con Priscilla ma il giovane come seccato le rispose vagamente.

“sco, come va con Priscilla?, disse Ludovica fermando il giovane fra le scale esterne della villa.

“Non saprei! Guarda Ludovica non ho voglia di parlarne. Scusami”, rispose sco allontanandosi poi da essa.

Ludovica capì, pensò che la strada che stesse seguendo fosse quella giusta, aveva capito che tra sco e Priscilla le cose non andavano tanto bene.

Con una scusa mandò la giovane Fortunata a prenderle un cestino d’uva nella campagna contigua alla villa e con un’altra scusa pregò il giovane sco di raccoglierle un altro cestino d’uva.

I giovani inconsapevoli di quello che la madre stesse architettando si ritrovarono soli in mezzo alla natura che li cingeva.

Quando sco la vide non poté frenare il battito folle del suo cuore, era così bella, i suoi lunghi capelli neri le accarezzavano il viso deliziosamente, i suoi occhi erano blu come il cielo d’inverno, le sue labbra dolci come il miele.

Era proprio una visione celestiale, un angelo era sceso dal cielo e si era fatto donna.

Lei notò lo sguardo attento e perso di lui e restò bloccata, davanti a quell’uomo dolce come una mora appena matura.

I loro sguardi si persero e poi si ritrovarono ma presa da paura per quello che sarebbe potuto succedere Fortunata corse via.

Arrivò alla villa, diede il cestino alla madre e salì in camera.

Poi arrivò sco e avendo capito il giochetto di Ludovica le chiese: “Perché mi vuoi fare del male come se già non soffrissi abbastanza!”.

Ludovica demoralizzata per quella frase che il giovane ragazzo le disse con grande sconforto, rimase zitta.

Pensò che non sarebbe stato giusto forzare il destino, che facendo così avrebbe solo fatto del male alle due persone che tanto amava nella sua vita.

Bisognava lasciare i fatti alla sorte, bella o brutta che fosse stata; con la convinzione che qualcosa di consistente sarebbe cambiato.

SESTO CAPITOLO

Nel frattempo la giovane Gertrude aveva abbandonato la villa e si era trasferita dagli zii.

I suoi parenti vivevano nelle casette predisposte per la servitù di Palazzo Branciforti.

Gertrude era ritornata a fare la serva ma ogni tanto ritornava a villa Scozzari per venire a trovare la sua cara amica Fortunata.

“Fortunata non sai quanto e grande la villa del Principe di Butera; ancora mi perdo, non riesco a orientarmi bene di quante stanze ci sono”, diceva Gertrude all’amica.

Anche lei spesso andava a trovarla affascinata dalle bellezze di quell’imponente Palazzo.

Il Castello del Principe Branciforti di Butera era stupendo, vi erano delle torri merlate e degli spazi vastissimi.

Era in questi atri che la giovane Fortunata intratteneva gli invitati del Principe con la sua candida ed eccelsa voce.

Era stato il Principe stesso a scoprirla, sentendola cantare in compagnia della giovane serva, nascosta ai piedi della torre orientale del castello.

La giovane era diventata ricercatissima, tutti i Principi, i Baroni e i notabili di Bagaria la ingaggiavano per allietare dolci serate.

Come sempre sco, che aveva lasciato il teatro, la accompagnava al piano forte aggiungendo quel pizzico di armonia in più che non guastava per nulla.

Lui la accompagnava sempre nelle sue serate a Villa Branciforti di Butera, alla fine delle quali si sedeva sfinito ai piedi di un cipresso a contemplare l’originalità e l’avvenenza di una statua posta su una fontana lì stante.

Era una bella figura di donna con gli occhi profondi a guardare l’infinito, piena di fiori e di frutta che a lui ricordava tanto la sua giovane amata.

Fortunata continuava a vedersi col suo bel Tommaso che negli ultimi tempi era diventato geloso a causa del suo improvviso successo nel canto.

Per paura di perderla chiese la sua mano, il giovane si recò a Villa Scozzari con un bel mazzo di orchidee che diede a Ludovica e si presentò come il Conte Tommaso di Azzaria chiedendo Fortunata come sposa.

Quel nome tuonò come un fulmine a ciel sereno nelle orecchie ormai calche di Ludovica.

Suo marito vedendola smarrita prese la situazione in mano e cercò di intrattenere il giovane Tommaso.

“Finalmente ci conosciamo, Fortunata ci ha tanto parlato di te”, disse Evaristo al giovane.

La Signora Scozzari a malincuore, vedendo gli occhi lustri della figlia, dovette accettare la proposta di Tommaso.

Non voleva sconvolgere la vita ormai rasserenata della giovane figlia; avrebbe pensato dopo a come far frantumare questo sgradevole contrattempo.

L’autunno si fece da parte lasciando spazio a un inverno freddo e gelido.

Gertrude intanto, si era fidanzata con un giovane falegname, i due erano molto innamorati.

avano le loro giornate nella più totale spensieratezza; ma in lei il dramma per il torto subito era sempre presente.

Ogni tanto si recava in carcere a trovare la sua vecchia madre.

“Madre ho conosciuto un ragazzo e presto ci sposeremo”, le diceva la figlia sprizzante di gioia.

“Ma gli hai detto della tua disgrazia”, chiedeva la madre a Gertrude.

“No, ancora non glielo detto ma non preoccuparti e un bravo ragazzo e capirà”, rispose la giovane sicura delle sue parole.

I due innamorati erano diventati complici e alleati, il loro legame era indissolubile, il loro amore era insormontabile.

Questo almeno era quello che pensava Gertrude prima di rimanere esasperata per una reazione esagerata di Pasquale alla scoperta della sciagura avvenuta nella sua vita.

Il giovane non poteva perdonarla per quella terribile rivelazione, come se la colpa di quello che era successo fosse stata sua.

Non aveva nemmeno più il coraggio di guardarla negli occhi, indignato, la lasciò sola e infreddolita lungo il viale che recingeva la Villa.

Lei rimase lì con la sua disperazione e il suo tormento.

Il giorno seguente si recò alla villa cercando conforto fra le braccia amorevoli di Ludovica.

Le raccontò la vicenda e con voce soffocata dal pianto, iniziò a tremare e a disperarsi.

Ludovica cercò di confortarla, in qualche modo quella storia le ricordava quella della sua vita.

Un uomo insensibile, una reazione esagerata, un abbandono, erano tutte cose che Ludovica aveva subito in ato.

Si mise nei panni della fanciulla, dandole forza e rassicurandola; le disse che quell’uomo non l’avrebbe meritata e che ne avrebbe trovato uno più sensibile che l’avrebbe capita e amata così com’era.

“Non preoccuparti, magari ha bisogno solo di tempo e poi se ne farà una ragione. E se non fosse così, vuol dire che non ti amava veramente, sennò ti avrebbe compreso. Stai tranquilla ci sono tanti ragazzi che farebbero qualsiasi cosa per stare con una ragazza così bella e dolce come te”, le disse Ludovica asciugando le lacrime sul viso di Gertrude con un fazzoletto.

Le parole di Ludovica non convinsero la giovane ragazza che stracciata dal dolore si recò all’Aspra buttandosi a capofitto fra gli scogli bagnati e viscidi della borgata.

La notizia sconvolse tutti ma soprattutto la giovane Fortunata, che troppo presa dai suoi dilemmi amorosi, non seppe stare vicino alla sua cara amica Gertrude, sopraffatta dal dolore, in un momento così tragico della sua vita.

Vedendola giù di morale sco cercò di rianimarla ma la tragedia aveva scioccato a tal punto Fortunata da farle perdere la voce.

“Fortunata che ti succede! Perché ti sei arrestata nel parlare! Stai male?”, le disse sco preoccupato per quell’improvvisa perdita di voce.

La sua melodiosa e angelica voce non c’era più, non riusciva nemmeno a pronunciare una sillaba.

I suoi dolci canti ormai erano lasciati al ato, al tempo che fu.

Ludovica chiamò tutti i più illustri luminari bagarioti e palermitani e tutti concordavano su una cosa: era stata quell’emozione imprevista per la morte dell’amica a generare quell’impedimento nel parlare.

Doveva darle tempo e forse la voce sarebbe ritornata.

Quel “forse” turbava tanto Ludovica che ogni sera pregava per la sua giovane figlia.

Il matrimonio fu rimandato e la notizia in qualche modo alleggerì Ludovica.

sco le restò sempre vicino aiutandola a superare quel momento così difficoltoso.

I due si capivano attraverso i gesti, avevano inventato un loro vocabolario simulato.

Ogni parola o frase era rinchiusa in un gesto, ogni emozione invece era visibile e leggibile negli occhi languidi e pensosi di Fortunata.

I due giovani avano giornate intere a inventare gesti da poter sostituire alle parole ormai arrestate nelle fauci di Fortunata.

Questo la aiutava a non pensare, la distraeva dalla realtà che le aveva tirato un brutto scherzo.

“Quando hai fame, fammi questo gesto”, le diceva sco indicando e toccando coll’indice le sue labbra.

Anche Tommaso le stava accanto, nonostante i dissapori createsi con la madre per Fortunata erano ben accesi.

La Contessa di Azzaria si era resa contraria al matrimonio del figlio con la giovane, non voleva che il figlio sposasse una muta, una malata.

“Devi annullare questo matrimonio. Non voglio che mio figlio, un Conte, un uomo colto e rispettabile sposi una muta, una malata “, gli diceva la madre opponendosi fortemente a quel matrimonio.

Anche Priscilla forse per pietà o per richiamo di consanguineità si era avvicinata a Fortunata.

Vedeva una ragazza fragile, sperduta e disorientata e voleva farsi carico delle sue afflizioni come per punirsi, per castigarsi.

Si condannava per la morte di Luca, non aveva saputo restarci accanto in un momento così difficile della sua vita.

Aveva visto in Fortunata solo una nemica, una persona da odiare e da disprezzare e non aveva saputo cogliere quella dolcezza e quella sensibilità che la caratterizzavano.

Adesso se ne era accorta ed è per questo che le stava accanto aiutandola e assistendola.

“Se vuoi, ti faccio un po’ di compagnia”, disse Priscilla a Fortunata vedendola da sola al piano forte.

E la giovane con un cenno accettò la proposta della sorella.

Sentiva un richiamo forte nei confronti di Priscilla che solo Ludovica ne sarebbe stata in grado di dare spiegazione.

Ludovica vedeva le giovani ragazze assieme e ne era turbata e felice allo stesso tempo.

Ogni tanto pensava di metterle a conoscenza della verità ma era un pensiero vago che presto scompariva.

Non voleva calcare la mano in una situazione già delicata.

Era primavera e la giovane ancora priva della voce ava i suoi giorni ad ascoltare il dolce canto dei erotti e degli usignoli.

Li invidiava, provava gelosia a sentire le deliziose armonie degli uccellini, voleva essere a loro posto per cantare a squarciagola quei canti ardenti ed entusiasti.

Priscilla ormai, aveva capito il sentimento che legava Fortunata al giovane sco.

Aveva intravisto in quegli sguardi trafugati, in quei gesti affettuosi e frettolosi un sentimento sincero e profondo e si era messa da parte. Aveva liberato il campo lasciando sco con una scusa poco credibile ma con una scelta del tutto inaspettata.

Aveva deciso di scontare le sue pene facendosi suora di clausura.

La sua scelta fu definitiva e decise di trascorrere il resto della sua esistenza a Palermo fra le mura del convento di Santa Maria della Pietà.

sco rimase meravigliato di tale decisione, non capiva il perché di una sua improvvisa vocazione.

Fu Priscilla stessa a chiarire i suoi dubbi; la giovane prima di abbandonare la sua rigogliosa e tracotante vecchia vita, decise di avere un confronto con il giovane, durante il quale espresse i suoi pentimenti per gli errori del ato.

Il motivo che aveva spinto la giovane a prendere la drammatica decisione fu proprio questo; lei stessa si era voluta infliggere una pena per quella sua mancanza di rispetto nei confronti del giovane sco.

“Quello che ti ho fatto è stato molto brutto. Tu non lo meritavi, sei stato sempre dolce e affettuoso con me, mi hai addirittura graziato ed io nemmeno lo meritavo”, disse la ragazza stanca e desolata per quel frangente del suo ato che ancora la tormentava.

La sua pena era flagellarsi per il resto della sua vita nella solitudine e nell’intercessione perenne.

Priscilla sembrava aver preso tale decisione nella libertà più assoluta, sembrava quasi contenta di questo cambiamento radicale nella sua vita.

Aveva lasciato via libera a quella storia d’amore ancora sigillata nei cuori dei

due ragazzi.

sco volente o no, dovette accogliere tale decisione e farsene una ragione.

“Non ti scorderò mai”, le diceva sco mentre la giovane Priscilla s’incamminava verso la carrozza.

“Pregherò per te”, gli diceva lei con voce tenera approssimandosi a salire nel cocchio e aggiungeva: “Lotta con tutte le tue forze e la conquisterai”.

sco da quella frase aveva scoperto il vero motivo del suo improvviso allontanamento dalla scena.

Priscilla aveva capito i sentimenti sinceri che legavano i due giovani e si era scansata dal loro cammino.

Tommaso stanco dei continui litigi con la madre, già esasperata dall’improvvisa e inaspettata vocazione della figlia, decise di sposare la bella Fortunata all’oscuro di tutti.

Propose alla giovane di fuggire durante la sera e andare poi a scambiarsi le promesse sacramentali nella vecchia chiesa del Purgatorio.

Avrebbe pensato lui a tutto: parlare col prete e trovare i testimoni.

“Fuggiamo e sposiamoci sta notte”, le diceva lui con convinzione e persuasione.

Lei ancora senza voce, gli indicava con i gesti che avrebbe voluto aspettare a quando le sarebbe ritornata la voce.

Lui cercò in ogni modo di convincerla: “Quello che importa è che ci amiamo, il resto non conta, non m’importa se sei muta, noi ci amiamo e questo è quello che conta”.

Era proprio quel “noi” che in Fortunata suscitava dei dubbi, che provocava delle incertezze.

La giovane impedita anche dal fatto che non potesse parlare, cedette all’opera di convincimento di Tommaso e decise di attuare la strategia da lui accennata.

Fortunata all’oscuro di tutti, prese il vestito da sposa dall’armadio della madre e se lo mise.

Le stava stretto ma cercò di allargarlo tirandolo impetuosamente con le mani.

Mise degli ornamenti fra i suoi capelli e prima di andarsene ò dalla stanza di sco lasciandogli una lettera sotto la porta.

Il giovane già dormiente sentì dei rumori che lo fecero svegliare di sussulto.

Si girava e rigirava senza poter prendere sonno fin quando i suoi occhi intravidero la lettera.

Alzandosi di scatto come se avesse un presentimento, prese la busta, la aprì e la lesse.

La lettera diceva così: “ Caro sco, quando leggerai queste righe io avrò già fatto il mio o.

Avrò già intrapreso il mio cammino verso l’unione sacramentale con Tommaso. Ti prego di stare vicino a mia madre Ludovica e di confortarla e rincuorarla per tale mia decisione. In questo momento mi è sembrata la cosa giusta da fare.

Scusa se sto facendo ciò all’oscuro di tutti, ma Tommaso ed io abbiamo preferito così. Comprendimi mio caro amico”.

sco non poteva capacitarsi, non capiva il perché di quel gesto avventato e frettoloso.

Non poteva permetterglielo, proprio adesso che le aveva aperto il cuore, non sarebbe stato giusto.

Lui sapeva che era stata solo costretta dalle circostanze e che si sentiva obbligata

nei confronti di Tommaso, forse per ricambiare il suo grande sentimento, ma in cuor suo sentiva che non lo amava.

sco con impeto andò a bussare alla porta di Ludovica che svegliatasi fu assalita da un senso di agitazione.

“Sssssss, Zitto, tuo padre e Filippo stanno dormendo“, disse lei uscendo dalla stanza e chiudendosi dietro la porta.

“Non capisci Ludovica, tua figlia sta commettendo una follia”, esclamò lui mettendosi le mani in faccia per lo sconforto.

Lei non capiva era ancora tramortita dal sonno e sco scuotendola le disse: “Fortunata e scappata per sposarsi con Tommaso”.

Ludovica a sentire quelle parole si rianimò subito e ancora in vestaglia, assieme al giovane, andò a svegliare il cocchiere e si precipitò a cercare la figlia.

Dentro la carrozza i due rilessero la lettera di Fortunata; Ludovica presa d’angoscia raccontò tutta la verità al giovane sco.

Il cocchio si fermò davanti alla chiesa Madre di Bagaria ma niente i due non c’erano; sco per far prima, prese un cavallo che trovò nelle vicinanze, lo slegò e come un fulmine si diresse nelle altre chiesette della cittadina.

Nulla, nemmeno l’ombra dei due; sco ebbe un illuminazione, si ricordò della chiesetta che Fortunata aveva menzionato un giorno durante un racconto della sua vita.

Aveva parlato della piccola chiesetta del Purgatorio che l’aveva ospitata durante la ricostruzione del cimitero per i danni provocati dall’ultimo terremoto.

Cavalcò con tutte le sue forze, arrivò davanti alla chiesetta, poi scese e si precipitò dentro come impazzito.

Vide i due ai piedi dell’altare e con tutta la sua voce grido: “Noooooooooooooooo”.

Quell’urlo blocco i due sposanti; il prete si arrestò nel parlare, Fortunata a un tratto iniziò ad aprire e a chiudere la sua mano prontamente come a indicare qualcosa.

sco sapeva bene cosa volesse significare quel gesto, era stato lui stesso a inventarlo assieme a Fortunata.

Lei gli indicava di andarsene via ma lui rimase lì, fermo davanti al grande portone d’ingresso della chiesa.

Tommaso iniziò a incamminarsi verso di lui e arrivatogli dirimpetto, iniziò a strattonarlo cercando di cacciarlo fuori dalla chiesetta e dicendogli: “Vai via, lasciaci in pace, siamo abbastanza grandi da decidere da soli della nostra vita”.

sco cercò di fermarlo facendo forza su quelle brusche tirate e iniziò anche lui a spingerlo; a un tratto una voce femminile blocco i due.

“Basta! Basta!”, con voce alta e decisa Fortunata aveva iniziato a parlare.

Lei stessa si stupì di quell’improvviso urlo, ancora sentiva le sue corde vocali vibrare.

Anche i due ragazzi rimasero sorpresi e smisero di spingersi.

Tommaso corse ad abbracciare Fortunata, la alzò fra le sue braccia e iniziò a girare velocemente assieme a lei.

La giovane nonostante era fra le braccia del suo promesso sposo, non toglieva lo sguardo da quello di sco che continuava a stare davanti al portone in silenzio e immobile.

“Fanciulli avete ancora l’intenzione di unirvi in matrimonio?”, disse il parroco richiamando l’attenzione dei due.

“Si, si”, disse Tommaso.

Un “No” acuto e fermo interruppe la disposizione di Tommaso.

Era Ludovica che, finalmente aveva trovato i due ed entrando in chiesa, aveva espresso apertamente il suo volere nei confronti di quel matrimonio.

“Madre, che ci fai qui”, disse Fortunata stupita di vedere Ludovica lì a quell'ora tarda della notte.

“Ti è ritornata la voce!”, disse la madre contentissima correndo verso la figlia e abbracciandola.

“Madre siete in vestaglia e a piedi nudi, perché?”, domandò la figlia sbalordita di vederla in quelle condizioni.

“Questo e di poca importanza”, rispose la madre e poi aggiunse: “Vi ho cercato per tutte le chiese di Bagaria e adesso finalmente vi ho trovato”.

“Questo matrimonio non può essere celebrato piccola mia”, disse Ludovica guardando intenerita la sua giovane figlia e tenendole le mani.

“Noi abbiamo già deciso e ci sposeremo adesso”, replicò Tommaso innervosito per quell’inaspettato arrivo di Ludovica.

“Vero cara!”, aggiunse lui guardando gli occhi smarriti di Fortunata, ma Ludovica interruppe quello sguardo mettendosi fra i due, prendendoli entrambi per mano e dicendogli queste parole: “Quello che vi lega è amore, un sentimento sincero che però non è profondo e straziante come quello che si prova per

un’amata o per un amato”.

“Il vostro è un amore fraterno”, aggiunse lei.

“Che ne sa lei dei nostri sentimenti. Basta!... Se ne vada e ci lasci diventare marito e moglie in pace”, disse Tommaso irritato, togliendo violentemente la mano da quella di Ludovica e tirando a sé la giovane.

Fortunata rimaneva lì, dispersa, spinta da una parte all’altra fra Tommaso e Ludovica.

Poi si fece coraggio e parlò: ”Madre, vai via, te ne prego”.

sco era fermo davanti all’altare, guardava la situazione che pareva complicarsi e impaziente per quella dura rivelazione che Ludovica doveva confessare ai due, attendeva in silenzio.

A un certo punto il curato agitato e infastidito interruppe tutti e disse: ”L’ora si è fatta tarda; se non dovete più sposarvi allora andate”.

“No, questo matrimonio si farà”, disse Tommaso con decisione guardando Ludovica in faccia.

Lei ribadì e finalmente confessò quella sconvolgente verità: “ Questo matrimonio non potrà mai essere celebrato, voi siete fratello e sorella”.

Tutti rimasero in silenzio, stupiti da quelle parole così inequivocabili; Fortunata sembrava non avere capito cosa la madre avesse voluto dire con quella frase.

“Madre ma cosa volete dirci, non capisco”, disse la figlia perplessa.

“Fortunata, tu e Tommaso siete fratelli, figli dello stesso padre”, disse Ludovica col cuore in mano, dispiaciuta e piena d’angoscia per quello che era stata costretta a dire.

In quel momento Tommaso si sentì perdere le forze e piegò le sue ginocchia cadendo a terra e mettendosi le mani in faccia dalla delusione e dall’afflizione.

Continuava a ripetere sempre le stesse parole: “Non può essere, non ci credo”.

Fortunata piena di dolore e di pena, in lacrime, corse fuori la chiesetta.

Era confusa, stordita e non riusciva a essere lustra, si sedette sotto un albero di ulivo, ne spezzò una frangia e se la mise con forza in faccia come a coprirsi il viso.

Non voleva vedere e non voleva credere a quelle parole dette pochi attimi prima dalla madre.

Continuava a piangere e a singhiozzare, quando vide sedersi accanto a lei sco.

Lui le torse quel ramoscello d’ulivo umido e bagnato dal viso e iniziò con le sue dita ad asciugare le lacrime di Fortunata.

Poi la strinse a sé con tutte le sue forze, quasi a soffocarla e iniziò con dolcezza a farle delle carezze.

Ludovica vedendoli si fermò davanti all’uscita della chiesetta, mentre Tommaso rimaneva ancora a terra distrutto dal dolore.

sco disse a Fortunata, accarezzandole i capelli e mettendole delle ciocche dietro gli orecchi: “Amore mio, so che stai soffrendo, quello che stai provando tu in questo momento l’ho vissuto io prima, quando ho letto la tua lettera. Ero disperato e scoraggiato, non potevo credere che avresti ato il resto della vita accanto ad un altro uomo che non ero io.

So che il tuo dolore è grande, ma questa e la realtà e devi fartene una ragione.

Le lacrime di Fortunata si fecero sempre più sofferenti e la giovane, sconvolta, strinse a sé sco.

Lui aggiunse: “Io ti starò sempre accanto, ti aiuterò a superare questo momento così difficile”.

“Io ti amo e non posso più vivere senza di te”, disse lui guardando intensamente la sua amata, prendendole il dolce viso fra le mani e avvicinando il suo naso a quello della giovane donna.

Fortunata trovando conforto e sentimento in quelle parole così forti e intense, baciò sco.

I due si unirono in un bacio apionato e struggente, lasciando i loro dubbi e i loro mali al tempo.

Ludovica vide tutta la scena, sembrava una delle sue ate rappresentazioni teatrali.

Andò via, lasciando i due da soli e riaccompagnando il giovane Tommaso alla sua residenza.

Durante il viaggio di ritorno raccontò al giovane la sua storia con il padre e Tommaso afflitto dal dolore, dovette accettare quella aspra e sconcertante verità.

Ritornate alla villa le due donne parlarono a lungo dei fatti, Ludovica raccontò le sue disavventure, quello che aveva ato nella sua giovinezza, parlò dei suoi amori, delle sue ioni ma anche delle sue disgrazie e delle sue sciagure.

“Fortunata io capisco benissimo il tuo dolore, non sai quante volte mi sono disperata cercando una ragione, un perché a tutto quello che mi stava opprimendo. Ma nella mia disperazione non avevo la lucidità per capire, per

comprendere tutta quella avversione nei miei confronti. Davo la colpa agli altri, a chi mi faceva del male ma non capivo che quella era solo la sorte, la ventura che a volte era scostata dalla giusta via anche per le mie colpe, per i miei falli.

Adesso ho capito che il destino ha voluto così e non si può sempre cercare un colpevole. Anche perché a volte siamo noi stessi peccatori delle nostre sventure”, concluse la donna stringendo le mani fredde e umide della figlia.

arono dei giorni e la giovane Fortunata che nel frattempo si era chiarita con la madre, decise di dare un taglio al ato.

Prese quella vecchia e sporca copertina e con sco, sua madre ed Evaristo si recò sopra la scogliera più alta dell’Aspra e la gettò da lì come abbandonata al vento e al buio della notte.

A farle compagnia il suo amato, i suoi genitori e una vecchia lanterna; una cornice di stelle riflesse nelle acque scure del mare dell’Aspra e una luna piena e bianca le faceva da contorno in quel momento così delicato e pieno della sua vita.

Lasciò l’avvenuto alle sue spalle gettando quella vecchia copertina che l’aveva avvolta nell’oscurità e nelle complessità della sua esistenza, diede un taglio netto alla sua vecchia vita fatta di miseria, falsità e inganni.

Ludovica anch’ella alleggerita e sollevata corse via per ritornare sul cocchio che li aveva accompagnati fin lì, ma il suo abito s’impigliò fra dei rami che sbucavano fuori dalle rocce.

Ludovica iniziò a tirare la sua veste per scrollarla da quei tralci ed ecco che quel bel pizzo se che ornava il bordo del suo vestito si strappò.

Iniziò nuovamente ad agitare la sua gonna ancora impedita da quei rametti sbucati fuori come all’improvviso ed ecco che un lembo di seta pregiatissimo della sua veste si lacerò.

Finalmente il suo abito si era liberato da quei tralci che sembravano come agguantarlo.

Ludovica rise e anche i suoi familiari che erano lì ad aspettarla accennarono un sorriso.

Prese poi un vecchio e sporco fazzoletto, si pulì le mani e poi lo gettò nelle tenebre della sera.

Poi impetuosamente strappò dal suo collo tutte le preziose perle che adornavano la lunga collana e le gettò via sugli scogli.

ò del tempo e il grande giorno arrivò; fu Ludovica stessa ad accompagnare i due giovani all’altare della spoglia e sguarnita chiesetta di Bagaria.

I due si scambiarono le loro solenni promesse d’amore davanti agli sguardi felici degli amici più cari, dei loro familiari e della stessa servitù che era stata invitata ad assistere al loro matrimonio.

Ludovica fu contenta e finita la cerimonia corse a piedi nudi per le vie di Bagaria fin quando arrivò davanti a quel maestoso giardino di Villa Gravina di Palagonia.

Si fermò ad ammirare quei mostri, quelle decine di statue sparse tutt’intorno alla Villa; quei cavalieri, quelle dame, quei dragoni, quei soldati, quei mendicanti, quei nani deformi, quei pulcinelli, quei serpenti con più teste di altri animali.

Si arrampicò per delle finestrelle sopra il porticato, si avvicinò a loro accarezzandoli nelle loro diversità e poi si sedette accanto ad uno dei mostri, era un musicante che teneva un tamburello tra le mani, si accostò a lui come per fare festa e soddisfatta gli sussurrò parole dolci e gioiose fra sorrisi e risate.

Poi alzò la sua testa a contemplare il cielo e con un sorriso spensierato ringraziò l’autore delle sue vittorie.

Fine.

INDICE

PRIMO CAPITOLO

SECONDO CAPITOLO

TERZO CAPITOLO

QUARTO CAPITOLO

QUINTO CAPITOLO

SESTO CAPITOLO