CHIARA CILLI
LA PROMESSA DEL LEONE
ROMANZO
La Promessa del Leone © 2011 Chiara Cilli www.bovethovia.blogfree.net
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Copertina by © Gaetano Di Falco www.gaetanodifalco.com
Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi, e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, vive o defunte, è del tutto casuale.
A Gaetano, per la splendida copertina. You rock!
Less daunting as team
You, unlikely king by my side
And me, so much better for trusting you
My hand over your heart
While you keep hindrances at bay
Color me surprised by how our union saves the day
Alanis Morissette
PREFAZIONE
LA leggenda narra di un antico Smeraldo, custodito nella Rupe del Destino, capace di mutare l’anima di un uomo nell’indole selvaggia e maestosa del leone.
Fin dall’alba dei tempi, la pietra ha conferito ai meritevoli il potere di trasformarsi nell’animale che regna nell’Africa Orientale, ed essi lo hanno protetto con le loro vite dall’evoluzione dell’uomo e della Terra. Se lo Smeraldo dovesse entrare in possesso dell’uomo indegno, esso perderà il suo potere e i suoi Figli verrebbero inghiottiti dal buio della morte. Ma se uno dei Figli, preda della cieca ambizione, dovesse sfiorarlo, esso si tingerebbe di malvagità e gli conferirebbe un potere tale da piegare il mondo ai suoi piedi. È scritto che quando il sangue macchierà la mano di una Figlia e le sue lacrime bagneranno la terra della Rupe del Destino, lo Smeraldo brillerà di una luce accecante. E persino la morte tornerà sui suoi i.
1
JAMILA dormiva profondamente contro il fianco caldo e morbido di sua madre, Zena. Gli adulti avevano ato la notte a caccia ed erano tornati alla Roccia con due carcasse di zebra per lei e per gli altri cuccioli. I loro respiri pesanti riecheggiavano nella grande caverna buia, e quelli dei maschi erano così rumorosi da far vibrare i sassolini sotto i loro musi.
Kenan fu il primo a svegliarsi, raggomitolato nell’angoletto riservato alla sua famiglia, ben lontano dal ventre della madre, o dalla criniera soffice del padre, per non apparire un cucciolo troppo affettuoso. Si sgranchì le piccole zampe, sfoderando gli artigli corti, e non si lasciò sfuggire nemmeno uno sbadiglio. Dall’entrata della grotta filtrava la fioca luce dell’alba, e Kenan non perse tempo. Trotterellò verso la nicchia della famiglia del capobranco, Rashid, e fece attenzione a non fare alcun rumore mentre si avvicinava all’amica addormentata. Non amava molto il contatto con gli altri leoni, perfino con sua madre e suo padre. Tuttavia in Jamila aveva trovato una buona compagna di giochi, anche se lo infastidiva parecchio l’affetto appiccicoso che aveva nei suoi confronti. Con una certa riluttanza aprì la propria mente per comunicare con la sua. – Jamila – chiamò. – Svegliati, è ora. Gli occhi castani dai riflessi verdi della piccola leonessa si schio lentamente, spostandosi piano verso quelli azzurri di lui. – Kenan? – Sollevò la testa, sbattendo le palpebre. – Sei già in piedi? – domandò sottovoce. Lui annuì. – Andiamo a svegliare Daren, o ce la perderemo. Jamila fece sì con il capo e, una zampetta alla volta, si mise in piedi. Ma era ancora nel mondo dei sogni e barcollò appena fece per muovere un o. Kenan la sostenne prontamente con il collo e se non fosse stato per il suo desiderio di diventare uno dei vigilanti (la squadra dei maschi del branco incaricata di sorvegliare le terre circostanti la Roccia) non sarebbe stato tanto carino con lei, per brillare così agli occhi del capobranco.
Con o felpato si fecero largo tra i felini che affollavano la caverna, fino a trovare il loro amico steso sulla schiena con le zampe all’aria e con un’espressione beata sul muso. Jamila gli diede un colpetto sulla spalla. – Daren, dài, svegliati. Daren? Dobbiamo muoverci. Lui rotolò su un fianco. – Oh, Jamila – farfugliò durante il sonno. – Dolce angelo… Lascia che ti dia un bacio…
Lei sentì la rabbia montarle dentro. Era arcistufa della cotta di Daren, soprattutto quando faceva il gradasso davanti a Kenan per dimostrarle quanto la meritasse e lei si ritrovava a essere il trofeo della zuffa che nasceva ogni santa volta che quei due bisticciavano. Per questo sfoderò gli artigli e lo graffiò, sibilando a zanne snudate: – Idiota che non sei altro, svegliati!
Daren scattò sull’attenti con il pelo irto sulla schiena, ma Kenan gli tappò la bocca con una zampa. – Zitto, o sveglierai tutti quanti – lo ammonì con sguardo severo. Daren gli scoccò un’occhiataccia, le iridi verdi ardenti di stizza, scrollandosi dal muso i cuscinetti vellutati dell’amico. – Sì, sì, lo so…
Guardò Jamila di soppiatto, in un certo senso spaventato dall’aggressività che quella femmina gli riservava. Ed era molto confuso e irritato perché, ogni volta che lo redarguiva o lo colpiva, non capiva mai quale fosse il motivo. Jamila era un vero e proprio mistero per lui, ma era pazzo di lei. Da sempre. – Andiamo, svelti – fece Kenan, muovendosi silenzioso verso l’entrata della grotta.
Jamila e Daren lo seguirono, e il leoncino si osservò i graffietti sulla zampa. – Ahi… – si lamentò. – Era proprio necessario? – domandò all’amica. Lei sollevò il mento con superiorità. – Certo, visto che continuavi a ripetere il mio nome nel sonno. Davanti a Kenan. Daren si sentì veramente un insetto. – Mica l’ho fatto apposta, Jamila…
Quando furono all’aperto l’immensa piana del Ngorongoro, la caldera vulcanica nella pianura di Sergenti, in Tanzania, si estese a perdita d’occhio dinanzi a loro, i cui cuori fecero una capriola. La nebbia notturna che alimentava le foreste ai pendii dell’antico vulcano si era quasi del tutto diradata. La quiete prima dell’inizio del nuovo giorno consentiva di ascoltare la melodia dei torrenti che generavano gli stagni, i laghetti e il lago al centro della gigantesca bocca. La fauna della savana si accingeva a destarsi, e i fenicotteri già affollavano il grande specchio d’acqua. Un gruppo di zebre cominciava a spostarsi verso la fonte di abbeverata più vicina, accompagnata da una mandria di gnu. Oltre le cime degli alberi dalla parte opposta del Ngorongoro, i primi bagliori arancioni dell’alba si ramificarono nel cielo limpido, tingendolo di sfumature fresche di rinascita. – Siete pronti? – chiese impaziente Kenan.
Daren e Jamila annuirono, preparandosi a scattare. – Ai posti… – fece la giovane leonessa, aumentando la tensione tra loro e sentendola scorrere nelle proprie vene. – Via!
Ogni mattina si svegliavano prima dell’alba e correvano a perdifiato nella foresta, diretti a sud, verso il Lago Eyasi. Sin da quando avevano memoria, gareggiavano per raggiungere uno scoglio sulla riva del lago e dare il benvenuto al sole del nuovo giorno. Restavano a rimirarlo per un po’, senza dirsi niente, poi
tornavano in fretta e furia nella caldera vulcanica perché Rashid aveva stabilito che nessuno aveva il permesso di uscire dal cratere in forma di leone. Ma a quei tre bricconcelli infrangere le regole era sempre piaciuto. Anzi, avevano deciso che, finché non fossero diventati grandi, sarebbe stato il loro scopo. Certo, ogni giorno rischiavano sempre più di essere scoperti, ma grazie alla loro natura magica erano molto più veloci rispetto ai leoni comuni. Jamila correva con grazia tra gli alberi, risalendo la pendice ripida e seguendo a ruota i suoi compagni. Daren galoppava in modo goffo, affondando nella terra come se pesasse un quintale; si sforzava inutilmente di raggiungere il suo rivale, ormai arrivato quasi alla vetta. Kenan, infatti, procedeva con una velocità senza pari, facendo lo slalom tra i tronchi come se sapesse perfettamente quale sentiero seguire. Jamila lo guardava rapita. Le sembrava che fosse avvolto da un’aura di luce ultrabrillante. La sua eleganza, il modo sicuro in cui si muoveva, la fermezza nell’esprimersi, la profondità del suo sguardo. Era innamorata di lui sin da quando aveva incrociato i suoi occhi, e non aveva più avuto simpatia per altri, se non per lui. Kenan era la creatura più bella che avesse mai visto. Peccato che sapesse che lui non provava nulla per lei. Ecco perché si infuriava con Daren, ogni volta che glielo faceva notare con cattiveria: lei sapeva che non aveva alcuna speranza di essere ricambiata, eppure i suoi sentimenti erano troppo forti per poterli sopprimere e guardare avanti. In fin dei conti, avevano ancora dodici anni… Aveva tutta la vita per conquistarlo, no? Come ogni giorno, Kenan arrivò per primo allo scoglio e sbirciò Daren arrampicarcisi e scrutarlo con astio. – Che c’è? Per caso hai da ridire sulla mia vittoria, come fai sempre?
Daren scoprì le zanne. – Devi smetterla di cambiare strada ogni volta, Kenan!
– Nessuno ti ha obbligato a seguirmi.
Jamila balzò agilmente sullo scoglio, frapponendosi tra i due. – Ragazzi, smettetela, okay?
Kenan sfidò Daren con un’occhiata arrogante. – E poi, non è certo colpa mia se voi due correte come due rinoceronti in una palude. – Non tirare in ballo Jamila! Lei non c’entra. Stiamo parlando di te e del fatto che vuoi sempre fare lo sbruffone davanti a lei per vantarti!
Kenan salì con gli anteriori sul grosso sasso. – Non ho bisogno che ci sia lei per avere la conferma di essere migliore di te in tutto, Daren. Gli occhi di Daren scintillarono come tizzoni ardenti. – Brutto…!
Jamila gli si parò dinanzi per impedirgli di attaccarlo. – Basta! – ringhiò. Sbuffò, rilassando i muscoli tesi. – Ha vinto Kenan. Punto. E sta sorgendo il sole, tra l’altro.
I due maschi si osservarono truci per un istante, poi tutti e tre evocarono il loro aspetto umano nelle loro menti e lasciarono che la magia mutasse la loro forma felina. Un globo di luce bianca si sprigionò al centro dei loro petti, ammantandoli completamente. Non era una transizione dolorosa, anche se erano ancora piccoli, ma piuttosto fastidiosa. Era come essere ricoperti di formiche, una sensazione che faceva accapponare la pelle. Quando i bagliori si affievolirono, non erano più cuccioli di leone ma ragazzini. Daren guardò Jamila sedersi sulla punta dello scoglio e si accomodò accanto a lei come in trance. Dio, era bellissima. I capelli biondi le ricadevano sulla schiena in dolci onde. Il vestitino di tessuto beige aveva un taglio semplice, ma le stava d’incanto nonostante fosse magrolina.
Lei lo osservò di soppiatto, lusingata ma furiosa che lui la squadrasse come un babbeo. Sì, le piaceva che la guardasse così, ma a volte esagerava. La faceva sentire importante, ma dopo un po’ la stufava. Tutto sommato, Daren era… carino. Biondo come tutti i leoni e le leonesse mutaforma, i suoi capelli erano una zazzera arruffata. Aveva il viso pieno di spensieratezza e gli occhi verdi trasmettevano felicità e voglia di vivere. La maglia bianca era sporchissima e stracciata, e i pantaloni marroni non lo facevano sembrare alto quanto Kenan, ma era… sì, era carino. Jamila aveva sempre invidiato il suo modo di essere. Avrebbe tanto voluto essere libera come lui, ma era la figlia del capobranco e tutti si aspettavano tanto da lei. Non essendo nata maschio, sapeva già che la sua crescita sarebbe stata una sofferenza. Ma, almeno, aveva i suoi amici. Kenan si sedette accanto a Jamila a gambe penzoloni. Era bello, non c’era che dire. Labbra a cuore carnose, volto rotondo e non spigoloso come quello di Daren, una chioma dorata e lucente. Nonostante la sua giovinezza, aveva una muscolatura notevole, messa in risalto dalla casacca nera e dai pantaloni marroni. Fin dall’età di dieci anni, quando aveva atterrato Daren mentre stava per rubargli un pezzo di carne, tutti avevano capito che sarebbe diventato il leone più forte del branco. Uno spicchio abbagliante emerse all’orizzonte e il barrito del maschio alfa di un branco di elefanti risuonò come la sveglia del mattino nella regione di Shinyanga. Una mandria di bufali raggiunse la sponda orientale del Lago Eyasi e alcuni cuccioli si immersero nell’acqua. Le onde docili remarono come vibrazioni verso i tre ragazzini, perdendo la loro forma incantatrice sulla superficie irregolare dello scoglio. Kenan chiuse gli occhi ed espirò lentamente dalle narici. «Sarebbe meglio rientrare» suggerì, tendendo la mano a Jamila. Solo quando lei lo squadrò guardinga, si rese conto del gesto che aveva appena fatto. Cavolo, gli era venuto istintivo. Proprio non aveva programmato quella gentilezza verso l’amica, e adesso chissà cosa si era messa in testa. Be’, lei non si era fatta nessun castello. O meglio, Jamila voleva convincersi di questo. In realtà il cuore le era salito in gola, quando lo aveva visto allungare la mano per aiutarla a rialzarsi. Con le gote in fiamme, accettò il suo aiuto, dicendo: «Sì, andiamo».
«Che facciamo oggi?» chiese Daren, scendendo anche lui dal grosso sasso. «Domanderò alla mamma se possiamo andare a fare un giro, mentre lei e le altre leonesse vanno a comprare altre stoffe a Mwadui» rispose Jamila. Abbassò timidamente lo sguardo sulla sua mano, ancora stretta a quella di Kenan. «Tu… che ne pensi, Kenan?» Lui si corrucciò, sganciando le dita dalle sue come se gli avesse dato una scarica elettrica. «Sì» fece con aria seccata. «Per me è uguale.» «Ehi, non essere così scontroso» lo apostrofò Daren, affiancando Jamila. Aveva intravisto un balenio di tristezza attraversarle il viso, e proprio non ce l’aveva fatta a tenere la bocca chiusa. Che cavolo, possibile che Kenan non si rendesse conto che Jamila pendeva dalle sue labbra? Che bisogno c’era di fare l’antipatico con lei? Non faceva che farla soffrire ogni volta. «Jamila voleva solo essere gentile.» Kenan lo guardò con sufficienza. «Infatti le ho detto che andava bene.» «Non mi sembra proprio.» «Daren, basta» intervenne lei, posandogli una mano sulla spalla. «Stai sollevando un polverone per nulla.» Osservò prima lui poi Kenan. «Andiamo, coraggio.» Si distanziarono l’uno dall’altro e si diedero lo slancio per tuffarsi in avanti con un balzo. Nel punto più alto della parabola mutarono forma in un lampo bianco e riatterrarono sulle quattro zampe per poi schizzare a velocità sovrannaturale verso il Ngorongoro.
2
GALOPPARONO giù lungo il pendio della caldera, sperando che il sole salisse lento nel cielo e che i raggi che fendevano le alte e folte fronde della foresta non arrivassero alla Roccia prima di loro.
La Roccia si stagliava a nord del Ngorongoro, alle radici della parete ripida e ricoperta di vegetazione. Era un’alta costruzione di pietra che il padre di Jamila e gli altri uomini del branco avevano costruito quando erano arrivati in Tanzania. A Jamila piaceva molto ascoltare la storia che li aveva portati in Africa, e almeno una volta a settimana supplicava sua madre di raccontargliela. All’età di venticinque anni i suoi genitori, all’epoca fidanzati, erano partiti insieme al gruppo di amici d’infanzia per un safari nei pressi del Lago Eyasi. Alloggiavano in un hotel nella città di Shinyanga quando, nel bel mezzo della notte, avevano udito un rombo assordante. D’impulso avevano bussato alle stanze dei loro compagni, che avevano sentito lo stesso rumore inquietante. Come prede di un sogno, le sei coppie erano scese in strada e avevano rubato le Jeep dell’albergo. Avevano guidato come se conoscessero la destinazione, verso est, verso il Lago Eyasi. Ma non erano diretti lì, bensì al Lago Kitangiri. Sulla sponda orientale del piccolo specchio d’acqua sorgeva la Rupe del Destino, una gigantesca piramide di pietra, alla cui base vi era l’entrata di un’infida caverna. Loro l’avevano varcata senza timore, tenuti per mano da una benevola presenza invisibile. Lì avevano trovato quello che aveva cambiato per sempre le loro vite. Lo Smeraldo. Zena aveva raccontato che una luce bianca li aveva avvolti con gentilezza, conferendo loro il dono di cambiare forma e di assumere le sembianze del leone. In cambio di questo, lo Smeraldo aveva chiesto protezione e, quando avevano accettato senza indugio, aveva mostrato loro un luogo sicuro in cui poter vivere e portare avanti la loro magica esistenza come Figli del Destino. Così, Rashid e gli altri maschi si erano rimboccati le maniche e avevano issato massi su massi per creare una casa che non insospettisse i satelliti. Avevano sposato le loro donne e avevano diffuso una diceria che raccontava di come vivessero a stretto contatto con i leoni; e avevano costruito due grotte, una sopra
l’altra. Quella al piano superiore veniva usata durante il giorno come una casa comune, in cui le mogli cucinavano, lavavano e chiacchieravano con i loro mariti come gente normale. Al piano inferiore, invece, vivevano di notte in sembianze di leone, mangiando e dormendo. La prima cosa che Jamila, Daren e Kenan si erano sentiti dire, era che non dovevano andare in giro in forma felina durante il giorno. Solo quando calava il sole, il branco poteva trasformarsi e comportarsi come soleva alla specie leonina. All’inizio, a nessuno dei tre era piaciuta l’idea di mangiare carne cruda direttamente dalla carcassa; con il are del tempo, però, l’indole selvaggia e predatrice del leone si era propagata in loro come un veleno afrodisiaco, e affondare le zanne nella coscia di uno gnu era divenuto un bisogno irrinunciabile. Non che il pranzo umano non fosse di loro gradimento, ma la cena animale era molto più succulenta. I tre leoncini indugiarono dinanzi all’arcata della caverna al pianoterra, quando un invitante profumino proveniente dalla grotta al livello superiore attirò la loro attenzione. Daren annusò l’aria. – Mmh!
Jamila menò uno scappellotto con la zampina sulla sua testa. – Parla piano! – lo apostrofò sottovoce. Kenan li superò con aria da predatore letale, gli occhi fissi sul sentiero breccioso scavato nella roccia per raggiungere la caverna al primo piano. – Andiamo a vedere. Salirono quatti la stradina, attenti a non fare rumore. In prossimità dell’entrata, Kenan si appiattì al suolo e allungò il collo per sbirciare all’interno. Jamila gli strisciò accanto, mascherando un sussulto del cuore nel sentire il pelo dell’amico contro il proprio. – Vedi niente?
– Solo quattro ciotole sulla tavola.
– Ehi, non vedo un accidenti! – Daren si arrampicò sulla schiena di Kenan.
– Ahi, Daren! – borbottò lui. – Mi stai rompendo la spina dorsale!
– Oh, ma piantala! Peso meno di te, quindi non lamentarti e lasciami guardare.
– Ssh! – sibilò Jamila. – Finitela, o ci farete scoprire.
La giovane leonessa si issò e varcò la soglia con estrema cautela, guardandosi intorno come se da un momento all’altro un fucile fosse spuntato da un momento all’altro. Daren e Kenan la affiancarono e lei pensò che, se lo sparo fosse stato laterale, almeno loro l’avrebbero protetta a costo di beccarsi la pallottola in un fianco. La cucina consisteva in un caminetto con il braciere aperto verso l’interno, accanto a un immenso giaciglio di pellicce dei leopardi che in ato li avevano attaccati e quelle del bestiame delle tribù masai che pascolava a sud del Ngorongoro. Un lungo tavolo di legno con alcuni sgabelli occupava la parte opposta della caverna. Accostato alla parete c’era un altro tavolino, dove stavano allineate brocche dell’acqua e ciotole di terracotta; sotto, c’erano altri ripiani su cui erano riposti formaggi, pane e frutta. In un angolo vicino all’entrata stavano ammucchiate alcune armi che gli adulti avevano costruito per cacciare anche in forma umana. Far credere di essere in grado di sopravvivere solo grazie a frutta, pane e formaggi era troppo rischioso, così i grandi avevano dato il via al commercio della carne con i villaggi vicini: in questo modo potevano permettersi di comprare stoffe e altro cibo, far vedere che avevano necessità uguali alle altre persone. Jamila intravide delle lunghe gambe vicino al tavolo e si bloccò. I piedi si spostarono verso la pentola sul fuoco nel camino e un paio di mani affusolate
sollevò il coperchio, girando il mestolo. Jamila riconobbe la veste bianca della madre e divenne una statua di pietra. – Via, via, via! – strillò ai compagni. – C’è la mamma!
Fecero dietrofront, pronti a scappare e a tornare dabbasso per accoccolarsi nel punto esatto in cui si erano addormentati, ma… «Dove credete di andare, voi tre?» Jamila e Daren abbassarono le orecchie. Kenan sbuffò. Poi si voltarono con scintillii sornioni negli occhi. Zena si rigirò un bicchiere di legno nelle mani, asciugandolo con una pezza. Aveva l’aria di non essere affatto contenta. «Sedetevi.» Loro cambiarono forma e ubbidirono. Daren tenne lo sguardo fisso sulle proprie mani. Kenan incrociò le braccia, la schiena dritta e la testa alta, incurante di essere stato beccato. Jamila puntellò i gomiti sul tavolo e appoggiò il mento sulle mani a coppa, osservando la madre con preoccupazione. E sua madre non ne trasmetteva poca, di inquietudine! Zena era una donna dalla bellezza rara. Altissima, spalle larghe, muscolosa e femminile al tempo stesso. Magnetici occhi verde mare, labbra bronzee in contrasto con la carnagione dorata, capelli biondi dal taglio corto e sensuale. Jamila l’aveva sempre considerata una dea. Zena ripose il bicchiere e si accomodò di fronte ai tre ragazzini. «Allora» cominciò, «si può sapere dove eravate?» Daren e Jamila parlarono l’uno sopra l’altra, mettendosi ancor più nei pasticci. «Siamo andati a vedere se il cucciolo della famiglia di leopardi a est si era già svegliato» fu la bugia di lei. Quella di lui fu: «Siamo andati a fare una corsetta intorno alla Roccia». Zena socchiuse le palpebre, e Kenan roteò gli occhi scuotendo la testa senza
speranza. Quei due erano proprio dei campioni nell’inventare una scusa plausibile, pensò. Jamila fulminò Daren con lo sguardo, poi si morse le labbra e si preparò alle urla della madre, che sicuramente stava per esplodere, a giudicare da come si era irrigidita. Tuttavia decise di anticiparla per rimediare in qualche modo. «Mamma… Non volevamo fare niente di male… Siamo solo andati al lago per vedere l’alba, tutto qui.» «Quale lago? Quello del cratere?» Daren si fece piccolo, scrutando Jamila come se fosse la leonessa più coraggiosa che avesse mai conosciuto; il che era vero, tra parentesi. Anche Kenan la guardo di traverso. Però, pensò, era stata in gamba a prendere la parola. Avrebbe voluto farlo lui, ma ora era curioso di vedere come se la sarebbe cavata. Jamila trasse un profondo respiro, prima di rispondere: «Il Lago Eyasi.» Zena sgranò gli occhi. «Oh, Jamila…» «Lo so, mamma, ma non…» «Hai idea di cosa succederebbe se tuo padre lo venisse a sapere?» la incalzò, le mani le tremavano. «Dio…» Si alzò di slancio, facendoli sobbalzare. «E immagino che, per andare e tornare prima che noi ci svegliassimo, abbiate mantenuto le sembianze animali, giusto?» «Sì» annuì debolmente Jamila, guardandola sventolarsi con una mano. «Oddio… E se vi fosse successo qualcosa?» «Non ci è mai successo niente…» intervenne Daren. Le iridi di Zena bruciarono come tizzoni. «Siete usciti altre volte?» sibilò. Jamila si torturò le unghie. Grande, Daren era proprio un genio. «Sì, mamma.»
«Come fai a dirmi ‘Sì, mamma’ con tale tranquillità?» ringhiò a denti stretti, temendo che la propria ira svegliasse il branco. Scorgendo l’amica trasalire, Kenan decise di prendere in mano la situazione. «Siamo sempre stati attenti a non farci vedere» disse. «E non c’è mai nessuno a quell’ora, al lago.» Zena lo traò con un’occhiataccia. «Ma ci sono i satelliti, ve l’abbiamo spiegato mille volte.» «Andavamo troppo veloce» ribatté lui. «Non ci hanno visto.» «Non potete esserne sicuri» sbottò la donna. Li guardò uno per uno, poi si abbandonò a un lungo sospiro e tornò a sedersi. Deglutì a vuoto diverse volte, prima di trovare la forza per parlare. «Avete idea di come mi sia sentita quando mi sono svegliata e voi non c’eravate? Ho avuto tanta paura. Credevo…» le tremò la voce, «… che vi fosse accaduto qualcosa di brutto…» Non riuscì a continuare. Dio, aveva davvero pensato il peggio. Si era alzata di soprassalto, era uscita all’aperto e li aveva cercati per tutto il Ngorongoro. Aveva galoppato e galoppato nella caldera, seminando il panico tra gli animali, perché era strano che una leonessa andasse a caccia di giorno. Era rincasata distrutta sia fisicamente che psicologicamente. Aveva considerato più volte l’idea di svegliare Rashid e dirgli che sua figlia e gli altri due ragazzini erano scomparsi, poi si era detta che, conoscendoli, era meglio attendere qualche minuto. Jamila, Daren e Kenan erano tre pesti sempre in cerca di avventure e, magari, andare in giro prima dell’alba era quella che avevano escogitato la sera prima. Così si era imposta di rimanere calma e aveva cercato di distrarsi preparando la colazione per l’intero branco. Grazie al cielo, ora sapeva che stavano bene. Jamila ebbe un nodo in gola alla vista delle lacrime agli occhi della madre. Non l’aveva mai vista piangere, lei era una leonessa forte, e capì quanto fosse stata in ansia. «Scusa, mamma.» Zena tirò su col naso, asciugandosi le lacrime con i palmi delle mani. «Non importa, tesoro.» «Noi non volevamo…» fece per dire Daren.
Lei lo zittì con un sorriso. «L’importante è che siete tornati a casa sani e salvi.» Fece una pausa, poi assunse un’espressione grave. «Ma promettetemi di non farlo mai più.» Jamila inspirò a pieni polmoni. Scambiò un’occhiata di intesa con Daren e Kenan, e assentì. «Lo promettiamo.» «Già in piedi?» domandò la voce baritonale di un uomo. I dodicenni si voltarono di scatto verso l’entrata della grotta, e Jamila saltò giù dallo sgabello, gridando: «Papà!». Rashid la prese in braccio. «Ehilà, principessa!» Le stampò un bacio sulla guancia. «Non avevate più voglia di dormire, piccoli?» chiese, sedendosi e tenendola sulle sue ginocchia. Daren e Kenan andarono nel panico, e Zena se ne accorse. «È colpa mia, caro. Li ho accidentalmente svegliati quando sono salita a preparare la colazione. A proposito, ragazzi, avete fame?» «Oh, eccome se ce l’abbiamo, tesoro» esclamò il marito, scompigliando i capelli di Kenan e Daren. Zena sogghignò. «Va bene, allora vi servo subito.» Jamila legò le braccia attorno al collo possente del padre, squadrando il suo volto. Il suo papà era tutto per lei. Gli voleva un bene dell’anima, e trovava assolutamente giusto che una donna bella come sua madre avesse voluto un uomo straordinario come lui. Mascella squadrata e delineata dalla barba corta, labbra sottili incorniciate dal pizzetto, occhi celesti, capelli mossi e biondi, trentott’anni e un fisico da ventenne. Se Jamila considerava sua madre una dea, allora suo padre era senz’altro un dio. «Verrai con noi a Mwadui, oggi?» domandò Zena al suo uomo, mentre porgeva i cereali inzuppati nel latte. «Veramente avevo in programma di fare un salto a Mwanza per riportare un po’ di pesce ai nostri giovani leoni» replicò Rashid, ammiccando alla figlia. «Gli altri, invece, andranno in perlustrazione.»
Zena si accomodò per mangiare. «Problemi?» chiese. «Io spero di no, ma un amico, giù a Shinyanga, mi ha detto che dei tipi strani hanno chiesto dove potevano osservare la fauna da vicino; mi pare che gli abbiano detto di essere zoologi, o una cosa del genere.» Scrollò le spalle. «Comunque li mando a dare un’occhiata, non si sa mai.» Svuotò la sua ciotola con un’ultima cucchiaiata. «E voi, ragazzi? Programmi?» «Possiamo andare a giocare al lago?» disse Daren. Ovviamente si riferiva a quello al centro del cratere, pure Zena gli riservò uno sguardo ammonitore. «Certo che potete, figliolo» rispose Rashid. «Ma non vi trasformate in leoni, siamo intesi?» Jamila gli diede un bacione sulla guancia. «Intesi, papà.»
3
BANGA, il padre di Kenan, guidò gli uomini a sud del Lago Eyasi. La grossa e polverosa Jeep che si erano fatti prestare da un loro vecchio amico a Mwadui (be’, praticamente gliel’avevano sottratta, visto che ci andavano in giro da quando vivevano lì e non avevano nessuna intenzione di restituirgliela) mangiava chilometri su chilometri e, tra una battuta e l’altra, loro non se ne accorsero neanche.
Ovviamente, Banga teneva gli occhi vigili intorno a sé e, nei pressi del Lago Kitangiri, alzò appena il piede dall’acceleratore per analizzare le rive. «Vedete niente?» domandò ai suoi compagni, fermando del tutto la vettura. «Nada, boss» rispose Akil, il padre di Daren, dando una pacca sull’esterno della portiera posteriore. Banga sbuffò e si asciugò il sudore sulla fronte con un braccio. «Proseguiamo, allora» disse tra sé. Scesero giù lungo il fiume Mhawara e si immersero nella steppa dell’Iwembere. L’istinto del leone li spinse a desiderare di trasformarsi per calcare quell’enorme prateria a quattro zampe, e ognuno di loro dovette aggrapparsi a qualcosa per non saltare giù dalla macchina in movimento e compromettere tutto il branco con un evento che i satelliti avrebbero sicuramente avvistato, data la mancanza di vegetazione consistente. Quando aguzzarono la vista e scorsero il ponte che attraversava il fiume, notarono l’auto di un loro amico della città di Nzega ferma sul ciglio della strada maestra che conduceva a Singida. «Ohi, non è la macchina di Ghali, quella là?» fece Akil, dando un colpetto sulla spalla di Banga. «Aha» si corrucciò lui. «E sembra in compagnia dei tizi che stiamo cercando.»
«Io dico di andare a dare un’occhiata» suggerì un altro mutante. «Uhm… Perché no?» Banga schiacciò l’acceleratore. Vicino alla Jeep del loro amico, svettavano due Hummer neri e un furgone nero dall’aria decisamente sospetta e fuoriposto. Tipi muscolosi con i bicipiti tatuati, spesse canottiere nere, medagliette militari appese al collo e occhiali da sole impenetrabili, stavano scaricando cassoni dall’aspetto pesante. Erano in dieci, minacciosi come serial killer professionisti. Akil stritolò la spalla di Banga con una mano. Cristo, questo poteva voler dire una sola cosa: un convoglio di bracconieri. Gesù, altro che tipi strani, quelli erano cacciatori di frodo! Banga fermò l’auto a pochi metri dal gruppo di stranieri e i suoi compagni balzarono giù con fare quasi arrogante. Mentre loro precedevano lui e Akil e salutavano con allegria il loro vecchio amico, Banga spense il motore e studiò i movimenti dei bracconieri: da come adagiavano con cura le casse, sicuramente contenevano fucili da caccia molto costosi e altre armi. Akil lo richiamò all’ordine con una specie di ringhio, giacché aveva percepito su di lui l’odore della rabbia felina e temeva che Banga potesse perdere il controllo, al pensiero che quei tizi potevano far fuori le loro famiglie, o peggio, catturarli per rinchiuderli in uno zoo. Banga fece un cenno con il mento all’amico e, insieme, scesero dalla macchina per raggiungere gli altri. «Ehilà, Banga» lo salutò cordialmente Ghali, un uomo sulla sessantina. Ai suoi tempi era stato un giovanotto di un certo fascino, con la corporatura robusta, ma adesso la pancia molle era come una zavorra che penzola da una mongolfiera. «Ciao, Ghali» ricambiò Banga, dandogli una pacca sulla schiena. «Che si dice?» «Mah, niente di che.» Il brav’uomo si grattò la zazzera brizzolata. «Sempre la solita vitaccia.» «Che combini qui?» gli chiese Akil, indicando col capo i bracconieri all’opera. Ghali grugnì. «Guadagno qualche centone portando a so questi gentili signori.»
Banga socchiuse le palpebre con sguardo tagliente. «Sono bracconieri?» mormorò a denti stretti. «Perché lo sai cosa succede a chi sta con quei bastardi, vero, amico?» aggiunse, cingendogli le spalle con un braccio e parlandogli all’orecchio. «Ehi, Banga, così mi offendi» si ribellò il vecchio. «Ma come ti viene in mente che mi metto a fare da guida turistica a dei tipi che potrebbero essere dei cacciatori di frodo? Io amo il mio Paese, così come tutti gli animali che lo popolano.» Akil sfoderò un sorriso smagliante, posandogli una mano sulla spalla. «Bene, volevamo solo sentirtelo dire.» Banga incrociò le braccia sul petto. «Allora perché non ce li presenti?» «Volentieri, ragazzi. Seguitemi.» Ghali avanzò con o malcerto verso i gorilla umani alti quasi quanto gli Hummer che guidavano. «Signor Shelby, vorrei presentarle alcuni miei amici.» Un uomo molto affascinante gli lanciò un’occhiata, comandò a uno dei suoi subordinati di spostare la cassa in un altro punto e li raggiunse. Date le rughe profonde, doveva avere all’incirca sessantaquattro anni, e nonostante i capelli bianchi, la barba incolta e le borse sotto gli occhi, trasudava charme da tutti i pori. Indossava un gilet beige dalle mille tasche e dei calzoncini dello stesso colore con altrettanti scompartimenti. Come se non bastasse, alla vita aveva legato una cinta con binocolo, walkietalkie e una borraccia. Per non parlare del cappello. Insomma, proprio un vero avventuriero pronto per l’esplorazione in stile Indiana Jones. Gli mancavano solo la frusta e la pistola, naturalmente. «Signor Shelby» ripeté Ghali, quando lui gli fu accanto, «loro sono i miei amici del Ngorongoro, quelli di cui vi ho parlato ieri sera.» Banga e Akil si irrigidirono. Ma bene… Shelby si illuminò mentre allungava la mano a Banga; aveva capito che era lui a guidare il gruppo. «Ah, e così voi siete i famosi uomini che vivono con i leoni. Sono Mark Shelby. Lavoro per lo zoo di San Diego.» «Banga» si presentò il mutaforma. Naturalmente non era quello il suo vero nome, ma da quando il destino gli aveva riservato una vita diversa, lo aveva
cambiato, come tutti i membri fondatori del branco. «E così, le hanno già raccontato quello che si dice in giro sul nostro conto.» «Oh, sì. E devo dire che sono molto curioso di scoprire se è la verità.» Shelby agganciò le dita alla cintura, gonfiando il petto e alzando il mento. «Magari potreste aiutarmi con il mio lavoro.» «E quale sarebbe, di preciso?» fece Akil, un po’ troppo guardingo per i gusti di Banga, che non voleva dare l’impressione di essere sulla difensiva. «Il direttore dello zoo vorrebbe alcuni scatti di leoni per la nuova galleria nel museo, soprattutto dei cuccioli. E dato che, a quanto pare, voi vivete con loro» fece un sorriso sornione, «potreste aiutarmi a fare qualche foto e ripresa degna del National Geographic.» Banga occhieggiò gli uomini del signor Shelby, poi tornò su di lui. «Come mai proprio i leoni? Voglio dire, sono animali notturni e di giorno non sono molto interessanti da vedere.» «Oh, è quello che ho detto anch’io al direttore, ma lui mi ha risposto che i leoni sono gli animali preferiti dai bambini, maggior fonte di guadagno dello zoo.» Inarcò le sopracciglia. «Sa, Simba, Mufasa, Scar, Il Re Leone della Disney…» Akil e gli altri sogghignarono, e Banga annuì. «Sì, sì, ha perfettamente ragione.» Buttò fuori l’aria e proseguì: «Comunque, certo, saremmo più che lieti di aiutarla». «Bene. Perfetto, direi. Venite, allora, vi presento ai miei ragazzi. Siete disponibili da subito, vero?» Akil lanciò un’occhiata ai bauli vicino agli Hummer. «Assolutamente.»
4
ARRIVARE al centro del cratere in forma umana si preannunciò alquanto noioso, per i tre dodicenni. Almeno, avevano tutta la mattinata per giocare tranquillamente senza doversi preoccupare di nulla.
Il sole picchiava forte sulle loro teste, mentre costeggiavano la piana della savana per sfruttare l’ombra rinfrescante degli alberi lungo le pareti della caldera. Si fermarono a riposare qualche minuto, sopprimendo la smania di cambiare pelle e correre liberi, e Jamila guardò all’orizzonte in cerca dello specchio d’acqua. Gesù, l’intero cratere pareva una distesa di carbone ardente. Era come filtrare il fuoco con lo sguardo. Si rimisero in marcia, attraversando i tratti di palude e godendosi per qualche secondo il fresco sotto le macchie di acacia. Quando finalmente raggiunsero il lago, non persero tempo e si tuffarono, incuranti e irrispettosi degli gnu che si stavano abbeverando sulla loro stessa sponda. Daren incominciò a spruzzare l’acqua a Jamila e Kenan, e lo stormo di fenicotteri rosa si spostò più a sud del lago, dove le zebre osservavano i tre cuccioli di umani con spiccato interesse. A un certo punto Kenan si ritrovò attaccato da Jamila e Daren e diede loro le spalle per ripararsi gli occhi dalle ‘secchiate’ che gli stavano rovesciando addosso. «Ah, ma allora volete la guerra!» Di scatto si girò e si lanciò su Daren, tenendogli la testa sott’acqua mentre lui si sbracciava per liberarsi. «Vediamo adesso come te la cavi.» Jamila si fiondò su Kenan e caddero in acqua. «Fai male a dimenticarti che ci sono anch’io, Kenan» lo apostrofò quando riemersero, nuotando sul dorso con una luce maliziosa negli occhi. Kenan le fece un sorrisetto e, lentamente, le andò alle spalle con aria innocente. Dio, fissarla mentre anche lei lo osservava gli procurò una sensazione sgradevole ma piacevole al contempo. Era quasi… stregato, e questo lo faceva sentire vulnerabile. «Oh, ma non mi sono dimenticato di te» le rispose prima di agguantarla da sotto le ascelle.
Daren spuntò davanti a Jamila con un urlo sguaiato. «Ah! Adesso sei in trappola!» Le afferrò una caviglia e le sollevò il piede fuori dall’acqua per farle il solletico. «No, no, no!» strillò la povera Jamila, ridendo e soffrendo al tempo stesso. «Daren, ti supplico, basta!» Rise tanto da contagiare anche Kenan. «Oddio, basta, sto morendo!» «Va bene.» Daren scambiò un’occhiata d’intesa con Kenan e le prese anche l’altro piede. «Uno, due, tre!» La gettarono in acqua come fosse stata un sacco di patate e si diedero il cinque. Jamila annaspò per risalire in superficie e i capelli le si incollarono al viso come le ventose di un polipo. «Oh, Dio… Idioti! Questa ve la faccio pagare, giuro!» Daren ridacchiò, poi diede di gomito all’amico. «Bella mossa, quella di bloccarla da dietro.» «Ti ho visto nuotare di nascosto verso di lei, e mi è sembrato un buon piano.» Con l’acqua che le arrivava ai fianchi, Jamila si drizzò e si avvicinò con o di carica ai due maschi per cercare vendetta… quando scorse una figura umana oltre la spalla di Daren. «Chi è quello?» domandò accigliata. I suoi amici si voltarono. «Non lo so…» s’incupì Kenan. «Ehilà?» fece il ragazzino fermo sulla riva, sventolando un braccio per attirare la loro attenzione. «Ehi!» Daren scrollò le spalle. «Andiamo a conoscerlo.» Camminò faticosamente verso il bambino, accennando una corsetta completa di un raggiante sorriso per fare subito una bella impressione; stringere amicizia era il suo talento nascosto, dopotutto. Sì, era in grado di andare a genio a chiunque lo incontrasse dopo soli cinque minuti. «Ciao!» esclamò quando uscì dal lago, grondante dalla testa ai piedi.
Il ragazzino ricambiò il sorriso, salutandolo con la mano. «Ciao a te! Vi stavate facendo una nuotata?» «Eh, già.» Daren scosse vigorosamente la testa per scrollarsi l’acqua di dosso. «Vuoi unirti a noi?» «Sì, mi piacer…» «Chi sei?» lo interruppe bruscamente Kenan affiancando Daren e, non sapeva perché, tenendo Jamila al sicuro dietro di sé. Daren alzò gli occhi al cielo, e il ragazzino rispose: «Mi chiamo William e sono qui in viaggio con mio padre». Kenan si guardò intorno di soppiatto. «E come hai fatto ad arrivare fin qui? Dove alloggiate?» «Stiamo in un hotel a Shinyanga. Ma mio padre è qui per lavoro, così anche il nostro maggiordomo è venuto con noi per permettermi di visitare il posto mentre lui è indaffarato.» Daren rimase a bocca aperta. «Hai un maggiordomo? Fico!» «E come mai sei qui da solo?» lo punzecchiò Kenan. «Non lo sai che ci sono i leoni, quaggiù?» «Appunto!» rilanciò William. «Il mio maggiordomo ha inchiodato la macchina in cima alla parete del cratere e mi ha detto che avrei potuto ammirare gli animali solo da lassù. Perciò sono scappato.» «Hai fatto bene, Will» lo rassicurò Daren, mettendosi le mani sui fianchi. «Voi, invece?» chiese William, facendo una smorfia. Evidentemente stava soffocando nella T-shirt candida e nei calzoncini color kaki scuro. Jamila si fece avanti. «Noi viviamo qui.» Avrebbe voluto aggiungere qualcos’altro, ma rimase totalmente rapita dall’aspetto del ragazzino. I suoi capelli, ricci e lucenti, avevano il colore del cacao. Le iridi erano verdi come l’erba fresca e le labbra a cuore erano di un rosa profondo. A Jamila
piacevano le sue ciglia nere, folte e ricurve, davano molta intensità al suo sguardo. Non aveva il fisico di Kenan, né la sua altezza, ma ne era comunque affascinata, e non solo perché era uno straniero appena conosciuto. «V… voi vivete qui? Nel cratere?» trasecolò William. Jamila annuì con un dolce sorriso, e Daren esclamò: «Yep!» mostrando il pollice all’insù. Aveva imparato quella parola da un gruppo di turisti americani e gli piaceva un sacco pronunciarla al posto del sì. «Oh… okay.» William si rilassò. «Wow… è grandioso!» Jamila distese le labbra. «Io sono Jamila. Lui è Kenan.» «E io sono Daren.» «Allora, Will» disse la dodicenne, «vieni a farti un bagno con noi?» La sua espressione abbagliò come il sole. «Volentieri! Sto morendo di caldo.» Il motore ruspante di una Jeep echeggiò nel Ngorongoro e i ragazzini si voltarono a guardare una nube di polvere avanzare verso di loro, racchiudendo la vettura. I branchi di gnu e zebre furono percossi da scariche elettriche e si sparpagliarono come fulmini nel cielo, terrorizzati dall’intrusione di quel mostro di metallo. «Oh, cacchio» borbottò William, agitandosi. La Jeep si fermò a pochi metri da loro e lo sportello si spalancò, rivelando la figura di un uomo dai capelli bianchi come la neve e l’incarnato pallido, con un paio di occhiali da sole a specchio, T-shirt celestina, pantaloni bianchi al ginocchio e scarponcini. «Signorino William!» gridò il maggiordomo in preda all’ansia, correndo con fare dinoccolato verso di loro. «Signorino William» ripeté col fiato corto quando gli fu vicino, «come le è saltato in mente di venire qui da solo? Se suo padre lo sapesse, mi licenzierebbe subito e le vieterebbe di uscire fino ai diciott’anni.» «Non sono solo, Amos» lo rassicurò Will. «Ti presento Jamila, Kenan e Daren. Vivono qui.»
Il maggiordomo li squadrò. «Qui? Cioè, qui nel Ngorongoro?» Loro annuirono. «Oh, buon Dio…» «E stavamo per fare un tuffo.» William gli posò una manina sul braccio raggrinzito. «Ti unisci a noi?» Amos abbassò il capo per guardarlo. «No, signorino, nessun tuffo. Ora lei ed io ce ne torniamo in città, dove sarà al sicuro.» «Ma papà non tornerà all’albergo prima di pranzo!» protestò lui. «Per piacere… Fammi stare un po’ qui con i miei nuovi amici, poi ce ne andiamo. Promesso.» Il maggiordomo tentò di resistere agli occhi lucidi del suo padroncino, poi si arrese miseramente con un languido sospiro. «Se suo padre decide di farmi indossare uno dei tappeti di tigre del salotto per potermi sparare liberamente con uno dei suoi fucili» lo minacciò mentre lo aiutava a sfilarsi la maglietta e a togliersi le scarpe, «mi avrà sulla coscienza per l’eternità, signorino William.» I quattro ragazzini si buttarono nelle acque del lago e i giochi divennero più equilibrati, in quanto potevano affrontarsi in coppie. Si divertirono come matti, finché non venne l’ora di pranzo. «Tornerai domani?» domandò Daren a Will, mentre raggiungevano Amos sulla riva. «Mi piacerebbe tanto.» «Non credo che suo padre le darà il permesso, signorino» si intromise Amos, asciugandogli i capelli con la T-shirt. Jamila fece un largo sorriso. «Che problema c’è? Basta non dirglielo.» «Già, infatti!» convenne William. Il maggiordomo si abbatté moralmente. «Oh, povero me…» «Allora ci vediamo domani alla stessa ora» esultò Daren. Will stirò un angolo della bocca. «Sicuramente.»
Jamila si ritrovò davvero contenta di aver trovato un nuovo amico ma, quando scrutò Kenan di sottecchi, un brivido di paura la percorse. Giacché lui era accigliato in un modo spaventoso, come se avesse percepito qualcosa di pericoloso avvicinarsi a grandi falcate.
5
LA mattinata fu troppo breve per permettere a Mark Shelby di raggiungere il Ngorongoro con le sue nuove guide turistiche. Soprattutto perché Banga e gli altri lo tennero bloccato al Lago Eyasi a scattare foto alle specie volatili e a riprendere con le telecamere le centinaia di gnu che popolavano le vaste piane lì intorno.
I mutaforma misero alla prova l’americano, ricavandone un bel niente. Mark Shelby e la sua equipe di gorilla sembravano proprio venuti fin lì per scopi puramente osservativi. Però c’era da considerare che, di tutte le casse che avevano scaricato e poi ricaricato sul furgone, ne avevano aperta solo una, e l’avevano richiusa in fretta quando Akil aveva allungato l’occhio per sbirciare all’interno. Quando arrivò mezzogiorno, il signor Shelby ordinò ai suoi uomini di cominciare a rimettere l’attrezzatura a posto. «Be’, ragazzi, non so davvero come ringraziarvi» disse. «Ci avete dato consigli preziosi su come avvicinarci abbastanza da non spaventare gli animali e ottenere scatti decenti.» Banga agitò una mano. «Naa, si figuri. Per così poco.» «Andrà alla ricerca dei suoi leoni nel Ngorongoro, questo pomeriggio?» azzardò a chiedere Akil. «Perché se vuole possiamo incontrarci in un punto e accompagnarla, da veri padroni di casa.» «Non a caso, viviamo lì e ci farebbe piacere farle conoscere le nostre famiglie» convenne Banga. «Non le promettiamo i leoni, ma i ghepardi sono un ottimo rimpiazzo: si muovono nelle ore diurne, specialmente nel tardo pomeriggio, prima del tramonto.» Shelby si tolse il cappello e se lo sbatté sulla coscia per togliere la polvere; poi se lo rimise in testa. «Siete molto gentili, ma questo pomeriggio intendevamo muoverci verso il Lago Vittoria e seguire gli spostamenti degli elefanti nelle terre vicino a Mwanza.»
Banga alzò le mani. «Gli elefanti battono i ghepardi, non c’è che dire» scherzò. «Allora buona caccia» lo provocò Akil, fissandolo dritto negli occhi color ambra. Mark Shelby lo guardò con espressione ambigua, in seguito la ragnatela di rughe si intensificò sulle sue tempie a causa di un sorriso tirato. «La ringrazio.» Si spostò sul vecchio amico dei mutaforma. «Torna con noi a Shinyanga, signor Ghali?» «Certo che sì» esclamò lui. Diede di gomito a Banga: «Mia moglie mi ha preparato un pranzetto da leccarsi i baffi, amico mio» gli confidò. Salutò anche gli altri e salì sulla sua Jeep. Banga osservò con fare intimidatorio lo zoologo montare a bordo di uno degli Hummer. «Alla prossima, signor Shelby. E benvenuto in Tanzania.» Lui ribatté con un cenno del capo e chiuse lo sportello. Il motore del possente veicolo ruggì di colpo, e quelli dell’altra vettura e del furgoncino si susseguirono uno dopo l’altro. Il finestrino scuro della portiera di Shelby si abbassò e lui si sporse dicendo: «Perché domani mattina non ci incontriamo al lago nel cratere? Facciamo per le otto?». Banga incrociò le braccia sul petto, voltandosi verso i compagni per sondare i loro sguardi. «Alle otto» confermò infine. Mark Shelby richiuse il finestrino e il convoglio si mosse verso sud, seguito a ruota dalla Jeep di Ghali. Akil diede un colpetto sul bicipite di Banga e su quello del compagno alla sua destra. «Quel tipo non mi convince proprio, amici. E a voi?» «Neanche un po’» commentò qualcuno. Banga si corrucciò. «Aspettiamo un’oretta, poi andiamo in città.» Akil inarcò un sopracciglio. «A Shinyanga? E perché? È quasi ora di pranzo, le femmine ci aspettano.» «Voglio chiedere in giro di Mark Shelby.»
«Senti, anche se fossero bracconieri, non andrebbero mica in giro a dirlo al primo che a.» «No, ma il primo che a ha il vizio di origliare e sicuramente ha ascoltato conversazioni che non avrebbe dovuto sentire.» «Conversazioni con parole tipo ‘leoni’, ‘fucili’, ‘coltelli’, ‘pellicce’ e ‘cuccioli’?» «Bravo, socio.»
All’una del pomeriggio, Banga, Akil e gli altri parcheggiarono nei pressi della stazione della ferrovia Central Railway. Nessuno seppe dar loro informazioni interessanti, anzi, pareva che lì intorno non avessero neanche notato due Hummer e un furgone. Tentarono alla pista per l’atterraggio degli aerei, ma al box informazioni riuscirono solo a dirgli che il signor Mark Shelby era atterrato all’aeroporto di Dodoma due giorni prima. Questo voleva dire che si erano spostati con le macchine fino a Singida, avevano attraversato il fiume Mhawara, la città di Nzega e avevano raggiunto la regione di Shinyanga, dedusse Banga. Akil propose di chiedere nei pressi dell’albergo dell’indiziato, e Banga si trovò costretto a accettare: quei tizi sembravano davvero dei fantasmi, visto che nessuno li aveva notati. O, forse, era quello che volevano far credere. Risalirono in macchina e raggiunsero l’hotel, fermandosi in un vicolo laterale perché la loro Jeep non desse nell’occhio; tutti lì li conoscevano, e non era decisamente il caso di farsi beccare a ficcare il naso per ottenere informazioni sugli stranieri. Akil, seduto sul sedile del eggero, si girò verso i tre compagni su quelli posteriori. «Andate» comandò. «Ehi, ehi, ehi» esclamò sottovoce Banga, richiamando la loro attenzione. «Fermi. Guardate un po’ laggiù.» Il portello posteriore del furgone nero del signor Shelby si era spalancato e un
uomo sovrappeso era sceso barcollando. L’uomo si guardò intorno con noncuranza, sistemandosi la maglietta e tirandosi su i pantaloni. Dopo, un paio di braccia possenti richiuse le porte del furgone. Un ringhio vibrò nella gola di Akil. «Cristo, è Ghali.» Banga stritolò il volante. «Portatelo qui.» I mutaforma balzarono giù dalla Jeep e in meno di un secondo rapirono il loro amico, trascinandolo alla fine dell’angusta via senza uscita. Ghali trasudava panico da tutti i pori e li fissava costringerlo contro il muro, come predatori affamati di carne fresca. «Ragazzi, ma cosa vi è saltato in testa? Che volete da me?» farfugliò, incominciando a sudare freddo quando Banga e Akil gli andarono vicino. «Credevo ti aspettasse un pranzo succulento, Ghali» lo apostrofò il vice di Rashid. «Brutto figlio di uno sciacallo» sibilò Akil, afferrandolo per la collottola e sbattendolo contro la parete. «Che combini con quelli, eh?» «Niente, amici, ve lo giuro su Dio» rispose Ghali, tremando come una femminuccia per via dell’oppressione del viso furibondo e minaccioso che stava a meno di un palmo dal suo. «Mi stavo solo facendo dare un anticipo per il servizio che fornirò al signor Shelby durante la sua permanenza.» «E quale sarebbe…» Banga gli tirò fuori dai calzoni una mazzetta di banconote piuttosto pesante (Gesù, guardandola con più attenzione, era davvero una somma esagerata) e gliela sventolò sotto il naso, «… questo servizio?» «Quello… quello che avete fatto voi stamattina: mostrargli luoghi in cui può… trovare quello che gli serve.» «Ah? Perché, non so cosa ne pensi tu, ma a me questa cifra pare un tantino esagerata, per quello che ti hanno detto di fare.» Ghali non rispose, e Akil gli schiacciò la faccia contro il muro. «Che altro fai per quello straniero, huh? Parla, o giuro che ti gonfio di botte fino a ricoprirti di sangue e poi ti lascio nella savana in pasto alle iene.»
«Oh, no… ti prego, amico… no…» «Allora dicci chi è Shelby e che cosa è venuto a fare qui» gli intimò Banga, andandogli sotto a muso duro mentre Akil mollava l’uomo e si spostava di lato. Ghali fu percorso da una scossa di pura paura e gli ci vollero alcuni secondi, prima di reprimere la nausea e rimettere in moto il cervello. La testa gli girava come dopo una sbronza, ma per quello non poté fare nulla, se non accettarlo. Si inumidì le labbra secche con la lingua, rimpiangendo di non avere un goccio d’acqua per la gola riarsa, e ingoiò la bile. «Non so molto» esordì. «Cominci male, amico» lo ammonì Akil con tono tagliente. Ghali trasalì. «No, no, no.» Si asciugò la fronte imperlata di sudore con il dorso della mano. Espirò, rassegnato. «Mark Shelby non è uno zoologo…» «Ma va?» bofonchiò Akil. «Akil» lo ammonì Banga, esortando Ghali a continuare. «Lavora per lo zoo di San Diego, sì, ma come bracconiere.» «Tombola!» esclamò Akil. «Perché è qui? Lo zoo sta cercando di guadagnare illegalmente qualche leone in più per le sue gabbie?» lo interrogò Banga, grave. «Non sono i leoni adulti che vuole.» Ghali deglutì. «Sono i cuccioli. Vuole catturare quelli del branco nel Ngorongoro e riportarli in America. Da quello che ho capito, lo zoo lo pagherà una fortuna.» «Oh, Cristo…» Akil divenne pallido come un lenzuolo e, immaginando il suo piccolo Daren che veniva sedato, gettato in una gabbia e rinchiuso in una struttura alla mercé della gente, ebbe un capogiro e si ritrovò sostenuto da uno dei suoi compagni. Banga perse la testa e calò un pesante gancio destro sullo zigomo del traditore. Il colpo fu tale da far schiantare Ghali sulla strada polverosa, e i compagni del mutaforma intuirono che la forza sovrannaturale del leone si era impadronita del loro amico.
«Banga, maledizione…» Ghali si portò due dita al viso, soffiando come un gatto quando i polpastrelli sfiorarono la gota già gonfia. «Sei pazzo?» inveì, strisciando a terra con la coda tra le gambe. «Tu lo sei» ringhiò lui, i pugni serrati per nascondere gli artigli che stavano spuntando. Ancora qualche secondo e le sue pupille si sarebbero ridotte a due fessure verticali e un bel paio di zanne, con cui squarciargli la gola, gli sarebbero sbucate dalle sue labbra. «Perché lo hai fatto? Che fine ha fatto la frase ‘Io amo il mio Paese, così come tutti gli animali che lo popolano’, eh?» Si chinò per afferrarlo e scuoterlo con violenza, come se fosse stato un pupazzo inanimato. «Brutto vecchio bastardo, da quando fai amicizia con i bracconieri, huh?» Akil intravide lame ricurve e splendenti affiorare sulla punta delle dita dell’amico. Gesù, quello non era un bene. Per niente. «Banga…» «Loro…» Ghali tremava da capo a piede, e così la sua voce, «… loro mi hanno promesso un mucchio di soldi. Dollari… un sacco di dollari.» Dio, Banga non riuscì a non digrignare i denti. «E tu, a quel punto, te ne sei fregato del tuo Paese e ti sei venduto a dei criminali. Mi sembra giusto.» «Come fai a non capire?» sbottò Ghali con gli occhi sbarrati. «Io ho una famiglia da mantenere e quei soldi…» Banga non lo lasciò finire: «I soldi qui non servono a niente». «Ma nella capitale sì!» Banga rimase basito e Akil, ripresosi, disse: «Te ne vai?». Banga lasciò andare Ghali, che si posò una mano sulla gola e si ò l’altra sul volto provato e madido di sudore. Annuì. «Voglio trasferirmi lì con la mia famiglia, sì. Il signor Shelby mi ha detto di avere degli agganci.» Sospirò. «Mi ha promesso una nuova vita. Una vita migliore per i miei due figli.» «A patto che tu gli mostrassi il covo dei leoni» sibilò Banga. Ghali abbassò lo sguardo, mortificato, colpevole, e lui dovette trarre un profondo respiro per non cedere ancora all’istinto dell’animale che era in lui. «Ti rendi conto che hai messo a rischio l’incolumità delle nostre, di famiglie?» Si ò le mani tra i capelli, contraendo le labbra per tenerle chiuse. «Cristo, Ghali, praticamente noi
viviamo con i leoni. Non senti quello che si dice in giro? E l’hai anche detto a quel tizio. Come ti è venuto in mente?» «Quelli sono armati fino ai denti, dannazione» intervenne Akil. «E tu li avresti portati a un o dalle nostre donne e dai nostri figli credendo che non sarebbe accaduto nulla?» «Vogliono i leoni, non gli umani» si giustificò Ghali, come se rapire i cuccioli, impacchettarli e spedirli in un altro continente fosse stata una cosa normale. Akil brillò d’ira. «Oddio» ringhiò, incrociando le dita dietro la nuca e spostandosi per non avere più la faccia di quel rifiuto davanti agli occhi. Banga si mosse repentinamente, premendo il palmo sul petto di Ghali e sbattendolo contro il muro. «Stammi bene a sentire. Ti comporterai come se non fosse successo niente. Farai tutto quello che Mark Shelby ti dirà.» «O… okay.» «Prova riferirgli di questa conversazione, e Rashid saprà dove trovarti. Rashid, Ghali. Sono stato chiaro?» «C… chiarissimo, Banga.» «Adesso vattene.» Ghali lo guardò con circospezione, muovendosi lentamente accanto ai compagni di Banga. Dio, con quelle espressioni torve erano più spaventosi dei leopardi di notte. Quando si ritenne a distanza di sicurezza da loro e il calore del motore della Jeep gli accarezzò i polpacci, chiese: «Chiamerete la polizia? Gli direte di me?». Banga socchiuse le palpebre. «No, Ghali, non chiameremo la polizia e nessuno saprà quello che stai facendo con quegli stranieri.» Ghali si rilassò un pochino. «E… come farete con il signor Shelby? Lui… verrà a prendere i cuccioli…» Akil apparve alle sue spalle, cingendogliele con un braccio e sfoderando un sorriso tutt’altro che benevolo. «Tranquillo, vecchio amico. Non essere in pena
per gli animali che dici tanto di amare.» Banga aggrottò la fronte. «A Mark Shelby ci pensiamo noi.»
6
LE donne stavano cucinando il pesce sulla brace nell’accampamento antistante alla Roccia, quando i maschi del branco tornarono a casa.
L’aria era satura del profumo delle spezie, le voci melodiche delle mogli facevano da colonna sonora al piccolo ma affollato pubblico, accalcatosi sotto un massiccio masso per ascoltare il racconto del capobranco. Seduto sulla pietra, Rashid teneva i cuccioli col fiato sospeso, sicuramente stava raccontando una delle tante avventure che tutti loro avevano affrontato dopo la trasformazione. «Capo?» lo chiamò Banga, richiamando l’attenzione di tutto il branco. Tra le nove testoline bionde sedute a terra, riconobbe quella del figlio, ma Kenan non si volse a salutarlo. Be’, suo figlio era sempre stato freddo ma, cavolo, col are del tempo peggiorava sempre più. Sua moglie diceva che Kenan era fatto così e che non bisognava desiderare che fosse diverso. Rashid sollevò gli occhi sui suoi uomini. «Jamila, piccola, perché tu e i tuoi amici non venite qui e improvvisate qualche scenetta per i vostri compagni?» disse, tenendo lo sguardo puntato su quello del suo vice. Mentre scendeva dalla roccia per raggiungere i suoi uomini e ascoltare il loro rapporto, si accorse che Zena lo stava osservando con aria preoccupata. Le andò vicino e la baciò; un lungo bacio ricco d’amore e rassicurazione. Poi avanzò con o risoluto verso Banga. «Abbiamo…» fece per dire lui. «Non qui» lo interruppe il capobranco. «Andiamo di sopra» decise. «Allora, questi zoologi?» domandò, quando furono nella caverna, lontano dalle loro famiglie. «Altro che zoologi, capo» commentò Akil, appoggiato alla parete vicino all’entrata.
«Che vuoi dire?» si accigliò Rashid, irrigidendosi sullo sgabello e piantando i gomiti sul tavolo. «Vuole dire che questa mattina abbiamo portato a so un convoglio di bracconieri» spiegò Banga, fermo come una statua al centro della grotta. Rashid si pietrificò. «Che cosa?» Banga si sedette sullo sgabello di fronte a lui. «Rashid» disse dopo averlo fissato per un minuto intero, «l’uomo che guida il convoglio si chiama Mark Shelby e…» «E…?» Rashid traspirava rabbia, e il fatto che l’amico non continuasse lo faceva agitare da morire. «Cristo, Banga, parla» Lui gonfiò il petto d’ossigeno. «È qui per i nostri figli.» Il capobranco sbiancò e Banga proseguì con una certa difficoltà: «A quanto pare, lo zoo di San Diego è a corto di cuccioli di leone e il signor Shelby pensa proprio di rapire i nostri.» Rashid restò immobile per un attimo, sconvolto dalla notizia. Dio, i cuccioli… I suoi cuccioli, il futuro del branco… Si coprì il viso con le mani, poi le premette ai lati del cranio. «Oh, Dio santissimo…» «Domani mattina abbiamo appuntamento con loro al lago» continuò Banga. «Shelby ci ha raccontato di essere qui unicamente per fotografare e riprendere con le videocamere, e noi ci siamo offerti di fargli da guida nella caldera per tenerlo sottocontrollo.» «Dovremmo avvisare le femmine» intervenne Akil. «No» replicò perentorio Rashid, alzando la testa. «Non voglio allarmarle.» «Ma, capo, quelli si aspettano che li portiamo dai leoni» protestò Akil. «Se le leonesse si fanno trovare a eggio, quei bastardi non si insospettiranno, e la nostra presenza impedirà a Shelby di fare qualsiasi mossa che possa smascherare il suo vero intento.» «No» ripeté il capobranco, inchiodandolo con lo sguardo. «Assolutamente no. Non ho intenzione di coinvolgere le nostre donne e metterle in pericolo.»
«Oh, andiamo, Rashid» sbottò Akil. «Sai che è un buon piano.» Lui si alzò dallo sgabello, minaccioso, i muscoli contratti per lo sforzo di trattenersi. «Sono io il capobranco, Akil. E ho detto no.» Le scintille di collera nelle sue iridi si spensero a poco a poco, e Rashid posò le mani sul tavolo, guardando i suoi uomini uno per uno. «Ecco cosa faremo. Per prima cosa, domani non vi presenterete all’appuntamento. Sarete voi a fare ciò che Akil ha proposto» ordinò a tre dei maschi del gruppo, che assentirono. «Banga, tu e Akil mi porterete a conoscere il nostro nuovo amico. Poi si vedrà.» «Capo…» Banga esitò, «… quei tizi sono professionisti. Se vogliono i nostri figli, se li verranno a prendere.» Rashid si incupì, sondando le menti dei compagni. «E noi ci faremo trovare pronti.» Akil affiancò Banga, stringendogli la spalla con la mano. «Parole sante, capo.»
7
QUELLA sera Jamila raggiunse Kenan sul retro della Roccia, trovandolo sdraiato supino sull’erba del piccolo prato prima della foresta. Si era alzata una brezza fresca e lei, sicura che lui fosse lì, aveva portato uno scialle in più. Rimase indietro a osservare il modo in cui aveva accavallato le gambe all’altezza delle caviglie, come teneva un braccio piegato dietro la testa e l’altro sullo stomaco. Era molto buio, ma la luce delle stelle proiettava un argenteo bagliore sul suo volto, rimandando all’immagine di un angelo.
«Perché te ne stai lì impalata, Jamila?» Lei sobbalzò. «Ti posso fare compagnia?» «Fa’ come ti pare.» Kenan la scrutò con la coda dell’occhio mentre si allungava al suo fianco, avvolta in uno scialle dorato come le onde dei suoi splendidi capelli. Jamila profumava di rose, e il suo odore lo inebriò. Ne inspirò più che poté, attento a non farsi beccare, fino a ritrovarsi saturo di lei e della sua magica presenza. Davanti agli occhi aveva ancora il ricordo di lei completamente bagnata, con la pelle luccicante e la chioma tempestata di gocce che, al sole, brillavano come cristalli. La voce di Jamila lo strappò dalle sue fantasie. «Ti ho portato uno scialle» disse porgendoglielo, «così se hai freddo…» «Sì» la incalzò. «Grazie.» Tornò bruscamente alla realtà e, tutt’a un tratto, l’effluvio di rose che lei emanava lo nauseò, tanto che pensò di alzare i tacchi e sloggiare. A Jamila occorsero cinque minuti buoni di assoluto silenzio, prima che il cuore smettesse di martellarle nel petto e la voce non le giocasse brutti scherzetti imbarazzanti. «Secondo te, cosa si sono detti i nostri genitori, oggi a pranzo?»
Era quello che voleva sapere anche lui. «Be’, tuo padre aveva affidato un compito al mio e agli altri, no? Avranno fatto rapporto.» «Dalla faccia, tuo padre non sembrava avere buone notizie.» Kenan sbuffò piano dalle narici, guardando le stelle senza vederle. «Ti preoccupi troppo.» Jamila si corrucciò, rotolando su un fianco per fissarlo dritto negli occhi. «Tu no?» Lui spostò lo sguardo nel suo, e gli ci volle tutta la sua forza di volontà per ignorare il brivido che gli era corso lungo la spina dorsale. «Sono troppo giovane per preoccuparmi» rispose stancamente. «Quando avrò diciott’anni comincerò a farlo.» Jamila si arrese. Avrebbe voluto condividere con lui la sua sincera preoccupazione per quello che aveva il sentore che stesse accadendo, avrebbe voluto farsi rassicurare da lui, magari sperando in un abbraccio, o in una stretta di mano, ma Kenan le aveva metaforicamente sbattuto la porta in faccia. Tornò con la schiena sull’erba sospirando, e si mise a studiare le stelle. Non che conoscesse le costellazioni, ma era un buon modo per non cedere al bisogno di dichiararsi finalmente a Kenan. Una stella cadente attraversò il firmamento tetro proprio in quell’istante e lei si illuminò di rinnovata speranza, chiudendo gli occhi e desiderando di costruire una vita insieme a lui, sposarlo e avere dei figli che fossero la copia sputata del loro bellissimo papà. «Che desiderio hai espresso?» le chiese Kenan di punto in bianco. Dio, non sapeva neanche perché aveva aperto la bocca. In fondo, non gli importava un fico secco di quello che le era ato per la testa dopo che aveva visto la stella cadente. Dopotutto, lui non aveva espresso alcun desiderio, perché lei avrebbe dovuto? Be’, semplice, Jamila era una femmina e, per natura, era irrimediabilmente romantica e sentimentale. Che stupida. Però, cribbio, moriva dalla voglia di sapere qual era il suo desiderio. «Non te lo può dire, intelligentone» lo canzonò Daren, piombando a peso morto accanto a Jamila. «Non lo sai? Se lo riveli, il desiderio non si avvera.» Si
avvicinò alla compagna, toccandole la coscia con la sua. «Ehi, Jamila, mi daresti un po’ del tuo scialle? Fa freddino, qui per terra.» «Uffa» brontolò lei, cedendogli metà della stoffa dorata e rabbrividendo perché non era più comodamente infagottata e al calduccio. D’istinto, Kenan condivise con lei il suo scialle. «Tieni.» Jamila girò il capo, sondando il suo sguardo con diffidenza. A volte era capace di sorprenderla totalmente. «Grazie» ribatté con un filo di voce. Daren tenne gli occhi fissi sul cielo infinito, sperando con tutto se stesso che un’altra stella cadente scendesse per consentire anche a lui di esprimere un desiderio. Sapeva per certo cosa aveva chiesto Jamila alla stella, eccome. Non era forse quello che desiderava con tutta se stessa ogni volta che si svegliava? Lei voleva Kenan. Da sempre. E Daren? Cacchio, lui voleva Jamila. Da sempre. Così come da sempre sapeva che il suo era un amore disperato. «Ho un’idea» esordì per poter almeno chiacchierare con lei. E, sì, perché no, anche con Kenan, il suo miglior amico. «Facciamo un gioco. Allora, che vorreste fare da grandi?» Jamila scoppiò a ridere. «Questo gioco fa pena!» Kenan sogghignò di nascosto. «Concordo appieno.» «D’accordo, okay, guastafeste» bofonchiò Daren. «Inizio io.» Trasse un bel respiro. «Da grande vorrei… uhm… una vita semplice. Sì, vorrei gli amici e la mia famiglia. Esattamente quello che ho adesso. E, magari, un giorno, una famiglia tutta mia. Una moglie, dei figli… Tutto quello che voglio è qui.» Jamila lo guardò con totale ammirazione. Aveva sempre creduto che Daren fosse uno sciocco ragazzino sbruffone, e ora, invece, aveva scoperto che condividevano lo stesso desiderio: una vita felice con le persone che amavano, una famiglia di cui prendersi cura. L’unica differenza era che lei aveva ben chiaro con chi costruirla. «Io vorrei vedere il mondo» disse Kenan, rubando la parola all’amica. «Voglio scoprire ogni angolo nascosto della Terra, visitare tutti i continenti. Viaggiare.»
Daren fece una risatina. «In pratica, non vedi l’ora di andartene da qui» scherzò. Ma quando Kenan non replicò alla battuta e Jamila gemette, capì di aver visto giusto. Si mise a sedere e puntò gli occhi sull’amico. «Dici sul serio?» Kenan abbassò le palpebre, respirando con molta calma. «Non ho motivo per restare. Voglio vivere la mia vita, e so che non è qui.» Jamila tremò. Il solo pensare a un’esistenza senza di lui, le metteva voglia di gettarsi a testa ingiù da un precipizio. Dio… Perché Kenan aveva detto così? Perché? Perché non voleva restare lì con loro? Con lei? No, lui… lui voleva andarsene. Via. Sparire. Vedere il mondo. Gesù… Cosa aveva di speciale, il resto del mondo, che lì non c’era? L’avventura? C’era. Il pericolo? Altroché. Le persone? I turisti andavano e venivano di mese in mese. Dio, se Kenan se ne fosse andato, lei sarebbe… sarebbe… morta. Sì, sarebbe morta senza di lui. Jamila si sentì male. Le venne da vomitare e la nausea schizzò alle stelle quando si alzò a sedere di scatto, una mano a coprire la bocca. «Oddio…» «Ohi, che hai?» Daren le spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio per scoprirle il viso. «Ti senti bene?» Jamila avvertì le lacrime inondarle gli occhi e scansò la mano del compagno con brutalità. «Lasciami stare!» strillò prima di mettersi in piedi e correre via. Daren colpì Kenan con lo sguardo. «Ma bravo.» Lui rimase comodamente sdraiato. «Sarebbe colpa mia, se si è sentita male?» «Non si è sentita male, pezzo di cretino» sibilò Daren, alzandosi. «Ci è rimasta da schifo per quello che hai detto.» Lui fece spallucce. «Non posso farci niente se è così emotiva.» Daren non riusciva a credere che fosse tanto ottuso, ma sospettava fortemente che avesse capito il vero motivo della reazione di Jamila e avesse deciso di infischiarsene. «Non è emotiva, Kenan. E lo sai perfettamente.» Kenan si mise in piedi con noncuranza, avvolgendosi nello scialle. «Dovrà
farsene una ragione.» Gli lanciò un’occhiata. «E anche tu.» Daren gli andò sotto con aria omicida. Erano così vicini che i loro petti si sfioravano. Perché il compagno si comportava in quel modo? Perché era sempre così distaccato? Be’, oddio, non sempre. Ogni tanto. Così come ogni tanto era il migliore amico che si potesse desiderare: ingegnoso, simpatico, un ottimo compagno di squadra su cui poter sempre contare. Kenan gli guardava le spalle, e Daren le guardava a lui. Erano mitici, insieme. E nonostante amasse Jamila, che non aveva occhi se non per Kenan, gli voleva bene come a un fratello e non gli serbava rancore. Affatto. Ma, cavolo, quando esagerava era un vero e proprio bastardo. E lo era soprattutto con Jamila. Perché, maledizione? «Andiamo, Daren, pensaci bene» lo provocò Kenan. «Quando me ne andrò, potrai finalmente avere quello che hai sempre sognato: Jamila.» Daren corrugò la fronte. «Tu non la meriti» ringhiò, girando i tacchi e levando le tende. Kenan lo osservò sparire dietro la Roccia con espressione truce. Espirò pesantemente dal naso, continuando a fissare il punto in cui l’amico era scomparso. «Lo so» sussurrò.
8
IL branco si svegliò a poco a poco, mentre la luce del primo sole serpeggiava all’interno della grotta come una calda carezza.
Jamila percepì i suoi genitori alzarsi per primi e sollevò la testolina per osservarli stiracchiarsi. La criniera di suo padre era la più folta e morbida che avesse mai visto e lui era un leone gigantesco, tanto che evitava di gironzolare spesso senza nessun motivo per evitare di attirare troppo l’attenzione. Ciononostante, Jamila riusciva sempre a convincerlo a dedicarle un po’ del suo tempo per rotolare insieme sul prato dietro la Roccia e giocare con lei. Zena sfregò un lato del viso sul capo della figlia. – Dormi ancora un po’, tesoro. Ti verrò a svegliare quando è pronta la colazione. Dormi.
Jamila ebbe solo il tempo di annusare l’odore fruttato della madre, poi cedette nuovamente al sonno con l’oro delle striature del suo pelo che le saettavano nella mente. Rashid chiamò a sé la sua leonessa, ando la lunga e massiccia coda sulla sua schiena, poi salutò gli adulti del suo branco con un cenno. In religioso silenzio, i leoni uscirono all’aperto e si radunarono nell’accampamento dinanzi alla Roccia per essere liberi di sbadigliare rumorosamente. – Buongiorno, amici – esordì Rashid, dopo che il suo ruggito fu riecheggiato in tutto il cratere.
Banga strizzò gli occhi, tirando fuori gli artigli mentre si stiracchiava a dovere. – Buongiorno, capo. Akil affiancò Banga. – Che sia davvero un buon giorno, capo. Speriamo che…
Rashid lo fulminò con lo sguardo, mentre Banga si voltò di scatto verso di lui. Gesù Cristo, pensò il capobranco, e meno male che avevano deciso di non dire nulla alle femmine per non innervosirle! Quell’idiota si era quasi fatto scappare una frase che lo avrebbe di sicuro messo in una brutta situazione con Zena. Akil si irrigidì, scrutando le leonesse con la coda dell’occhio. – Speriamo che la giornata sia splendida come quella di ieri, dell’altro ieri, due giorni fa…
– Sì, okay, socio – lo zittì Banga. – Abbiamo tutti capito quello che vuoi dire.
Rashid scosse la criniera. – Forza, andiamo. Le femmine si fecero da parte per consentire al capobranco di stare in testa al gruppo e, non appena lui fu partito al galoppo, lo seguirono disponendosi a ventaglio dietro di lui. Banga scoccò un’occhiataccia all’amico. – La prossima volta che apri la bocca, controlla che sia collegata al cervello, per piacere. Rashid ti stava per mangiare vivo.
– Dài, non è colpa mia se non connetto, la mattina.
Banga roteò gli occhi, e anche i maschi raggiunsero le proprie leonesse, sfrecciando verso l’acqua limpida e fresca del lago per abbeverarsi. La paura più grande di Rashid era trovare i bracconieri già all’opera, essere avvistati e dover fare chissà cosa per… cielo, non lo sapeva neanche lui. Quello che sapeva era che quella storia andava risolta al più presto. Magari, avrebbe potuto impedire ai cuccioli di trasformarsi, almeno finché i bracconieri non se ne fossero andati. Cosa che, maledizione, doveva avvenire al più presto, altrimenti
avrebbe perso la testa, al pensiero che Jamila potesse venirgli portata via. Quando tornarono alla Roccia, i tre dodicenni e gli altri piccoli di sei anni si erano svegliati e li stavano aspettando nella caverna al piano superiore. Gli adulti mutarono nella loro forma umana nella foresta, poiché il bagliore della trasformazione, nel corso del tempo, aumentava di intensità e quindi dovevano decisamente ripararsi dai satelliti. «Allora, giovanotti» esordì il capobranco, quando furono tutti seduti per la colazione, «siete pronti per il nuovo giorno?» Jamila, seduta vicino a Daren, ben lontana da Kenan, alzò lo sguardo sul padre. «Sì, papà. Volevamo andare a giocare al lago anche oggi. Possiamo?» Già non vedeva l’ora di rivedere Will e sapere qualcos’altro di lui. Banga e Akil, rispettivamente alla destra e alla sinistra di Rashid, si irrigidirono vistosamente. Zena non se lo lasciò sfuggire, mentre prendeva la sua ciotola e raggiungeva le donne sul letto di pellicce; c’era qualcosa che quei due e suo marito stavano nascondendo, e questo non le piaceva per niente. Si era battuta tanto perché lei e le altre donne non venissero escluse dai problemi seri del branco, perciò avrebbe fatto due chiacchiere con il suo leone molto presto. Rashid distese le labbra in un sorriso. «Perché, invece, non andate a trovare i leopardi nella foresta? È un po’ che non vi vedo tornare con qualche graffio.» «Rashid!» lo rimproverò Zena, incupendosi. «È un bene che non tornino più con gli squarci sul viso.» «Tranquilla, tesoro, sanno cavarsela» ribatté, immergendo il cucchiaio nel latte. «E poi, è un buon modo per imparare a usare gli artigli.» Sollevò gli occhi sui tre dodicenni. «Dico bene, ragazzi?» Kenan distese un angolo delle labbra e Daren esclamò: «Certamente». Jamila vide sua madre scuotere la testa e mascherare la sua apprensione, abbassando lo sguardo sulla sua colazione ancora intatta. «Faremo comunque molta attenzione» si sentì in dovere di aggiungere con un sorriso alla mamma. «Molto bene, allora» disse il capobranco, rizzandosi. «Signori» fece rivolto ai suoi uomini, «andiamo a fare un giro di ricognizione?»
Banga fu il primo a mettersi in piedi. «Come no.» «Agli ordini, capo» esclamò Akil, scompigliando i capelli di Daren prima di affiancare Banga. Rashid diede un bacio a Jamila, poi avvicinò Zena con un’occhiata possessiva. Lei tralasciò la colazione e andò tra le sue braccia. Avrebbe voluto resistere, ma il legame tra loro era più forte di quello tra comuni esseri umani: era quasi una dipendenza, la certezza che il loro amore sarebbe stato eterno. «Che c’è per pranzo?» le bisbigliò lui nell’orecchio, spingendola contro il proprio petto. «Zuppa di pesce» rispose lei, mugolando. «Mmh, allora torneremo con l’acquolina in bocca.» «Perché, adesso non ce l’hai?» Akil si schiarì rumorosamente la voce e Banga ridacchiò, cingendo le spalle di altri due compagni e cominciando a uscire. «Dài, capo, smettila di fare lo sdolcinato, o ti lasciamo qui» lo prese in giro Akil, dando un colpo sul bicipite del compagno al suo fianco per fargli segno di seguirlo fuori. Tutti scoppiarono a ridere, e gli uomini del branco lasciarono la Roccia.
Alle otto spaccate Mark Shelby era alla guida del suo Hummer e stava proseguendo sulla strada dissestata e ripida lungo il pendio meridionale della caldera. Sarebbe voluto partire da Shinyanga all’alba ed effettuare un sopralluogo del cratere, ma aveva deciso di non correre rischi inutili con ‘i tizi dei leoni’, come li aveva soprannominati. Be’, tizi dei leoni o no, non poteva più rimandare. Massimo altri due giorni, poi sarebbe tornato in America. E non a mani vuote, maledizione. Il pezzente che aveva ingaggiato, quel Ghali, gli aveva dato una mappa del Ngorongoro, perciò verso l’ora di pranzo avrebbe liquidato i selvaggi incontrati il giorno prima e
avrebbe proseguito la ricerca dei leoni a est del Lago Magadi. Mark Shelby costeggiò le sorgenti del Seneto e raggiunse la sponda occidentale del lago, pigiando il piede sul freno solo quando la Jeep del signor Ghali si fu arrestata davanti a lui. Spense il motore e spaziò con lo sguardo sul bellissimo e selvaggio paesaggio che si estendeva fino alle pareti boscose. Il migliore dei suoi uomini, che sedeva sul sedile del eggero, tirò fuori una pistola dal cruscotto e la caricò con le munizioni estratte dalla tasca laterale dei pantaloni. «Come vuole che ci comportiamo, signor Shelby?» Mark si sistemò gli occhiali da sole sul naso, borbottando. «Esattamente come ieri. I tipi del posto arriveranno da un momento all’altro e un omicidio di massa per impedir loro di parlare non è decisamente quello di cui ho bisogno.» «Ma non sarebbe lei a commetterlo, saremmo noi. Quindi di che si preoccupa? Di fare brutti sogni?» Gli piaceva il senso dell’umorismo di quell’uomo. «Credi che non abbia mai ucciso, figliolo? Faccio questo lavoro da tutta la vita e non mi sono certo guadagnato la mia fama con i sorrisi e il rispetto della vita umana. Molte volte ho dovuto mettere a tacere i testimoni…» guardò fuori dal finestrino, «anche uomini con cui lavoravo da molto e di cui credevo di potermi fidare.» «Della serie ‘se non ti fanno fare bene il tuo lavoro falli fuori e continua come se niente fosse’.» «Hai afferrato» si complimentò Mark Shelby. «Perché dovrebbe essere diverso, stavolta?» Shelby fece un sorriso eloquente, sporgendosi verso i sedili posteriori per prendere il suo cappello. «Gli anni sono ati, amico mio. Quello che ti ho raccontato risale a moltissimo tempo fa, quando me ne andavo in giro da solo, con uno zaino in spalla e un fucile. Poi sono arrivati i soldi a palate, e ora ho una famiglia a cui pensare.» Gli batté una mano sulla coscia. «Quando avrai la tua, capirai.» «No, signore, temo che non capirò lo stesso.»
Mark rise. «Ti lascerò far fuori il panzone. L’abbiamo pagato, sì, ma temo che se i tizi dei leoni lo mettessero sotto pressione, vuoterebbe il sacco.» «Agli ordini, signore.» «Bene.» Si sistemò il cappello in testa e aprì lo sportello. «Andiamo a fare i bravi zoologi.» Scese dall’Hummer e, battendo le mani come una maestra di scuola elementare, comandò alla sua squadra di cominciare a prendere telecamere e macchine fotografiche. I padroni di casa sarebbero arrivati da un momento all’altro e… Una Jeep senza il tettuccio si stava avvicinando a grande velocità. Parli del diavolo, commentò tra sé Mark Shelby. Chissà perché, si aspettava di vederli arrivare in groppa agli elefanti. O, meglio ancora, in sella ai leoni che stava cercando.
Rashid si accigliò, alla vista del famoso convoglio di bracconieri che minacciava l’incolumità dei cuccioli del suo branco. «Allora non stavi dicendo cavolate, quando hai detto che questo tizio aveva due Hummer.» Banga lo guardò con un sorrisetto. «Perché avrei dovuto mentirti, capo?» «Perché, di solito, ti inventi cavolate spaziali per fare lo spaccone.» «No, quello è Akil» si difese Banga, lanciando un’occhiata all’amico da sopra la spalla. «Confermo, boss» fece Akil. Man mano che si avvicinavano, procedendo a un soffio dalla riva calma, l’odore delle zebre che stavano allontanandosi dal lago per recarsi nella piana invase i polmoni dei tre mutaforma. Solo poche ore prima avevano smembrato una famiglia di gnu e avevano ucciso delle zebre per riportarle ai cuccioli ma, Dio, la voglia di azzannare quelle giugulari pulsanti di vita li faceva fremere sui sedili. Chissà se sarebbe mai ata, la smania del leone in loro, si chiese Rashid.
Appena ebbe affiancato la Jeep di Ghali, fermò la propria, studiando attentamente il modo quasi letale con cui si muovevano gli energumeni con fotocamere, videocamere e treppiedi. «Lasciami indovinare» disse a Banga, «il nostro amico è quello che sembra il papà di Indiana Jones.» «Bingo» replicò Banga, saltando fuori dalla vettura insieme a Akil. «Ehilà, Ghali. Come va?» Rashid aprì la portiera, scrutando il loro buon vecchio amico. Lo aveva accecato il sole, oppure Ghali aveva la faccia di chi ha appena visto un fantasma mentre i suoi due compagni gli andavano incontro con sorrisi sgargianti? Ah, no, ora anche lui sorrideva. Però era tutto molto strano… «Ehilà, giovanotti» rispose Ghali. «Io bene, ma fa così caldo che tra poco mi butto in acqua con tutti i vestiti.» Rashid scoccò un ultimo sguardo al furgone nero: probabilmente era lì che avrebbero rinchiuso sua figlia e gli altri piccoli, in gabbie anguste, e poi soffocati in casse di legno come tante matrioske. Gli spuntarono gli artigli alle mani e dovette attendere un attimo per riprendere il controllo di sé, affondando le dita nel sedile. Infine scese dalla Jeep. «Ghali, amico mio.» L’uomo sbiancò, e guardò Banga e Akil, travolto da una paura che il capobranco non riusciva a spiegarsi. Poi Banga gli posò una mano sulla spalla e lui parve riacquistare colorito; anche se, che gli venisse un colpo, Rashid lo vedeva chiaramente tremare al suo cospetto. «Rashid, che onore averti qui con noi, quest’oggi» lo accolse Ghali con un sorriso non troppo sincero. Rashid si avvicinò per abbracciarlo e l’effluvio della sua paura lo mise in allerta. Perché era spaventato da lui? O forse… che avesse timore degli uomini per cui stava lavorando? Be’, se era così, allora sapeva che erano dei bracconieri e… diamine… sì che lo sapeva! Sapeva di aiutare dei bracconieri e temeva per quello che lui gli avrebbe fatto. Avrebbe ato un brutto quarto d’ora, senz’altro, si ripromise il capobranco. «Come te la i?» gli domandò, dopo aver ricevuto conferma sui suoi sospetti
dagli occhi sfuggenti dei suoi due compagni. «Non mi lamento, Rashid» ribatté Ghali, sfregandosi nervosamente le mani sudate. «Tu? Tua moglie? Tua figlia? Tutto a posto?» «Perfettamente, grazie per avermelo chiesto.» «Allora, ragazzi, pronti per cominciare?» intervenne Mark Shelby, affiancando Ghali. Rashid sapeva che, attraverso gli occhiali da sole a specchio, stava guardando lui e, immaginandolo nell’atto di brandire un fucile e sparare un sonnifero a Jamila, sentì le zanne pulsare nelle gengive. «Lei deve essere il famoso signor Shelby» esordì con voce decisamente troppo roca per sembrare amichevole, tanto che dovette schiarirsela un paio di volte per reprimere la voglia di sbranarlo. Mark Shelby si tolse gli occhiali e li mise nel taschino del gilet, stingendogli la mano. «Sono qui da tre giorni e il mio nome è già sulla bocca di tutti» scherzò. «Con chi ho il piacere di fare conoscenza?» «Rashid» replicò il mutaforma. «Diciamo che sono…» scambiò un’occhiata divertita con Banga e Akil, «… il capobanda.» «O il capobranco» lo incalzò Shelby. «Ho sentito dire che lei e i suoi amici vivete con i leoni.» Rashid sogghignò. «Oh, più che altro è una convivenza forzata.» Il signor Shelby e i suoi compagni ridacchiarono. «No, davvero. Ogni tanto ano vicino al nostro accampamento, ma noi non gli rompiamo le scatole e loro, in cambio, non ci mangiano.» L’uomo inarcò le sopracciglia. «Mi sembra un buon compromesso per sopravvivere ma spero ardentemente che i suoi leoni, signor Rashid, non siano timidi e si facciano fotografare dai miei uomini.» Brutto ipocrita di un americano. Il capobranco si sforzò di mantenere i nervi saldi. «Oh, sono sicuro che oggi spunteranno fuori.» «Che stiamo aspettando, allora?» esclamò Akil. «Signor Shelby, andiamo a caccia.»
«Lieto che siate così impazienti di perdere il vostro tempo per aiutare lo zoo per cui lavoro.» «Chiunque ami gli animali merita il nostro aiuto» fece Banga, voltandosi per raggiungere Akil alla Jeep. «Vero, capo?» «Giustissimo.» Mark Shelby si rimise gli occhiali e allargò le braccia. «Fateci strada, dunque.» «Con immenso piacere.» Rashid scrutò l’uomo mentre saliva a bordo dell’Hummer. «E, signor Shelby? Sarà ospite della mia famiglia, a pranzo. Non accetto un no. Potrà continuare la sua esplorazione nel pomeriggio, ma pranzerà con noi.» Lo straniero alzò un angolo della bocca. «Non mi offrirete una coscia di zebra da mangiare a mani nude, vero?» Rashid avrebbe voluto mangiare lui. E mentre era ancora vivo. Guardandolo negli occhi. «Stia tranquillo, sul menù di oggi c’è una bella zuppa di pesce.» Il capobranco tornò alla sua macchina, mise in moto e partì in direzione della piana a nord del Lago Magadi. «Sarà stata una buona mossa, capo, invitare quel bastardo in casa nostra?» sollevò l’argomento Banga. «Stavo per chiedere la stessa cosa» convenne Akil a muso duro. «Portiamo il bracconiere proprio dove sono le sue prede predilette?» «È un azzardo.» Rashid aguzzò la vista, abbozzando un sorrisetto quando intravide tre leoni maschi svettare nella savana, imperiosi come statue dorate in movimento. «Tranquilli, amici miei.» Staccò il piede dall’acceleratore, finché la Jeep non si fermò. «Se il mio piano avrà successo, Mark Shelby sarà solo un brutto ricordo.» Akil si accigliò con aria maliziosa. «Mi piace quel sorrisetto, boss.» Banga si volse verso il suo capo. «Che hai in mente, Rashid?»
9
DAREN, Jamila e Kenan avevano ripulito per bene le ciotole e, controvoglia, avevano aiutato le loro mamme a stendere i panni lavati.
Verso metà mattinata, Jamila si avvicinò alla madre, intenta a girare un lungo mestolo nel pentolone sul fuoco all’aria aperta dell’accampamento. «Mamma? Hai ancora bisogno di noi, o possiamo andare a giocare?» Zena la guardò senza vederla. Era in pensiero per suo marito. C’era sicuramente qualcosa che non le aveva detto. Qualcosa di così importante da richiedere il sostegno di tutti i maschi del branco. A pranzo gli avrebbe cavato la verità con la forza, se necessario. Rashid era molto propenso a collaborare quando lei lo metteva alle strette, doveva ammetterlo. «Mamma?» «Oh, sì, amore, scusami.» Zena scosse la testa. «Dicevi?» «Possiamo andare a giocare?» «Sì, andate pure. Ma non fatevi male e non trasformatevi per nessun motivo.» Jamila annuì e girò i tacchi verso i suoi amici. «Possiamo andare» riferì, fingendo che Kenan non esistesse. Daren arricciò le labbra, osservando prima lei poi Kenan, muovendo la mandibola ora a sinistra ora a destra. Cavolo, Jamila era veramente arrabbiata. Kenan aveva esagerato, l’altra sera, lo sapeva anche lui, ma forse lei l’aveva presa troppo sul personale. Insomma, sì, Kenan aveva detto che voleva andarsene, ma questo non voleva dire che lo avrebbe fatto davvero. Magari, anche Daren avrebbe cambiato idea, col tempo. Si cresce, no? Si cambia, giusto? Poteva anche darsi che i ruoli si sarebbero invertiti, e tra qualche anno Kenan avrebbe voluto dei figli proprio con Jamila. O, magari, sarebbe stata proprio lei a mollarli entrambi.
Una cosa era certa: stare in compagnia di quei due (che già solitamente si parlavano poco) e nel bel mezzo dell’incendio in corso tra loro era insopportabile. Urgeva fare qualcosa immediatamente. «Facciamo a chi arriva primo alle sorgenti del Seneto?» propose, sperando che la competizione li avrebbe… Ah! Non riusciva a crederci! Davvero stava cercando di far riavvicinare la sua amata al suo miglior amico? Che emerito idiota! Jamila lo traò con lo sguardo, afferrandolo per il gomito e trascinandolo lontano dall’accampamento, addentrandosi nella foresta. «Non arriveremo lontano, correndo per fare una gara» disse a voce alta perché sua madre la udisse. «Sì che siamo giovani, ma pur sempre umani con due gambe.» Daren la guardò di traverso, capendo solo all’ultimo quello che la ragazzina intendeva. «Oh.» «Siamo liberi» comunicò Kenan a Jamila, camminando dietro di loro. «Bene» ribatté lei, staccandosi da Daren. Kenan la osservò avanzare a o di carica per distanziarli e cercare un punto in cui le fronde degli alberi fossero abbastanza fitte da coprire la loro trasformazione. La sua indifferenza nei suoi confronti non avrebbe dovuto interessargli più di tanto; in fondo, aveva sempre sperato che lei smettesse di stargli così appiccicata. Ma, adesso che lo aveva ottenuto, avvertiva un vortice di irritazione nello stomaco. Detestava ammetterlo, ma lottava contro l’impulso di raggiungerla, afferrala per una mano… quella sua morbida e levigata mano… guardarla in faccia e dirle che… Oh, ma che sentimentale! Le avrebbe detto che la vita era sua e che ne avrebbe fatto quel che voleva, che lei non c’entrava niente con lui e che poco gli importava averla o no al suo fianco. Cribbio, era una femmina, e le femmine portavano solo guai e ti rendevano debole con le loro moine e i figli. Un pugnetto di Daren sul suo braccio lo fece tornare con i piedi per terra. «Chiedile scusa» sibilò l’amico. Kenan si incupì, proseguendo sulla scia di Jamila. «Non ci penso neanche.» Daren lo seguì a ruota. «Dài, Kenan…»
«Valla a consolare tu, se ci tieni tanto.» «Qui è perfetto» fece Jamila, bloccandosi. Girò con una piroetta, fissando Daren. «Ci siete?» Avrebbe voluto essere ancora più crudele con Kenan e dire Ci sei? ma sarebbe stato veramente un atteggiamento infantile. Daren sbuffò, per la prima volta infastidito dallo sguardo di Jamila concentrato unicamente su di sé. «Uh-huh.» Jamila ruotò di nuovo sulle punte, accennò una corsetta e spiccò un salto a braccia aperte, avviando la mutazione con il pensiero. Quando tornò sul terreno, indossava il corpo agile e flessuoso di un cucciolo di leone. Nella realtà aveva dodici anni, ma da leonessa dimostrava circa un anno. Lei, Daren e Kenan erano ancora dei cuccioli, sì, ma abbastanza grossi da essere lasciati liberi di trotterellare nel Ngorongoro. Tra non molto (due, tre anni) Kenan e Daren sarebbero ufficialmente diventati dei leoni adulti e, quando avrebbero assunto le sembianze feline, Rashid avrebbe faticato a tenerli a bada, in quanto i due maschi avrebbero potuto spodestarlo e assumere il controllo del branco. A meno che Daren e Kenan non si fossero costruiti una famiglia propria a quindici anni, il che era poco probabile. Lei stessa sarebbe stata pronta per il matrimonio come minimo a vent’anni, cavolo, non prima. Ma, conoscendolo, Daren non avrebbe mai scacciato Rashid: lo rispettava troppo e, anche se il suo ego gli avesse imposto di assumere il comando, lo avrebbe zittito con un ruggito; mentre Kenan… lui sarebbe stato un problema, o forse no, stando alle dichiarazioni dell’altra sera… Ah! Non voleva pensarci. I tre leoncini aggirarono la palude di Gorigor, risalendo lungo il pendio ricco di vegetazione. Attraversarono la strada che portava fuori dal cratere, e si tuffarono nella Foresta di Lerai. Il sole picchiava forte, mentre galoppavano veloci sull’erba. Un’antilope roana li vide sfrecciare verso di sé e si addentrò nel bosco per cercare riparo, temendo che i tre leoni fossero a caccia e non avendo colto che fossero solo tre cuccioli. Infastidito dalla presunzione di Jamila di poter condurre la corsa, Kenan cambiò il o e virò verso una coppia di elefanti africani che riposavano all’ombra degli alberi. – Ohè, Kenan! – gli strillò Daren. – Dove vai?
Vedendo che l’amico non aveva nessuna intenzione di filarselo, Daren fu costretto ad abbandonare Jamila per impedire a quel pallone gonfiato di metterli nei guai. Accelerando a dismisura, lo affiancò prima che potesse sfoderare un ringhio d’avvertimento agli elefanti e scatenare il panico. Kenan lo sbirciò di sottecchi, ma non fece nulla per distanziarlo. Allora, Daren lo costrinse a tornare sulla strada giusta e Kenan si ritrovò pressato tra lui e Jamila. – Se hai così tanta voglia di farti rinchiudere nella Roccia per il resto dei tuoi giorni, – lo apostrofò la giovane leonessa, – torna indietro e fatti vedere mentre scorrazzi nella savana. Da solo.
– Pensa agli affari tuoi, Jamila.
– Infatti. Non ho nessuna intenzione di essere reclusa fino alla morte per colpa tua.
– Oh, santo cielo! – sbottò Daren. – Non potreste fare pace, per favore?
– No – risposero loro due.
Un ghepardo, acquattato tra il fogliame intorno al grosso tronco di un albero, soffiò al loro aggio con il preciso intento di inseguirli, ma i tre mutaforma schizzarono fuori dalla Foresta di Lerai procedendo verso le sorgenti del Seneto. Appena il suono dell’acqua giunse alle loro orecchie, ripresero le sembianze umane e si chinarono sulla sponda dello specchio d’acqua limpida per rinfrescarsi. Mentre bevevano, Daren drizzò le orecchie. «Uhm, questo è decisamente il
rumore di una Jeep che procede a o di lumaca.» «Di sicuro è quel maggiordomo che ha paura perfino di una formica» commentò Kenan, bagnandosi il viso. Jamila fu tentata di ammirarlo, invece bevve dalle mani a coppa. «Andiamo a fermarli, allora. Prima che scendano al lago.» Detto fatto, si piazzarono davanti alla macchina che stava proseguendo lungo la strada polverosa. Il povero Amos sobbalzò sul sedile e inchiovò con gli occhi sicuramente sgranati, dietro le lenti a specchio. «Oh, Gesù… Che spavento!» Jamila saltellò vicino al lato del guidatore e picchiettò una nocca sul finestrino, che si abbassò. «Buongiorno, Amos» esclamò con un sorriso solare. «Buongiorno a lei, signorina.» «Ciao, Jamila!» gridò William dall’interno dell’abitacolo. «Ciao, Will!» rispose lei. «Amos, dovresti parcheggiare tra gli alberi. Va bene?» «Ma il lago si trova laggiù, signorina. Non vorrà mica farci andare a piedi?» Daren cinse le spalle dell’amica, comparendo nella visuale dell’uomo. «No, tranquillo, Amos. Non ti impolvererai le scarpe, promesso» scherzò. Jamila stava ancora fissando la mano di Daren sulla sua spalla, stranita, quando lui le diede un colpetto col fianco. «Ehm… sì, sì» farfugliò. «Abbiamo una sorpresa per voi, perciò seguiteci!» Be’, dire che William e Amos rimasero a bocca aperta era un eufemismo. D’altronde, come biasimarli? L’acqua della sorgente era tanto cristallina e azzurra da ricordare quelle della Polinesia. Circondata dall’erba alta e a foglie grandi, la piscina era un vero e proprio paradiso, con isole di massi da cui tuffarsi nel punto più profondo. «Perbacco, è stupendo!» sospirò Amos.
«Qui ci vuole una foto» fece William, aprendo una tasca dello zaino sulle spalle del buon vecchio al suo servizio. «Che bella, una macchina fotografica!» esclamò Jamila con occhi luccicanti. «Sì» Will si inorgoglì dell’oggetto, quasi insignificante da dove veniva lui, e puntò l’obiettivo verso la bellissima ragazzina. «L’ho portata per farci un sacco di foto da mettere nell’album dei ricordi. Fai cheese.» Dio, Jamila non aveva mai fatto una foto in vita sua. Come sarebbe stato? Doloroso? Oddio, no! Certo che no. Ma, forse, doveva mettersi… in posa? No, forse sorridere. Sì, doveva sorridere e non spalancare gli occhi in quel modo. Forse doveva piegare un po’ la testa, aggiustarsi i capelli… «Cheese!» disse Daren, cingendola forte con un braccio e facendo il segno della pace con la mano. A quell’inaspettato impeto d’amicizia, Jamila rimase entusiasta e un sorriso spettacolare si dipinse sul suo volto nell’istante in cui il flash l’accecò. «Perfetti!» William attese che la polaroid stame la foto e la consegnò a Jamila. «Siete venuti benissimo.» «Facciamocene una insieme, Will» propose Daren. «Amos, ce la fai tu?» chiese William, porgendogli la fotocamera. «Ma certo, signorino. Mettetevi in posa.» Jamila abbassò lo sguardo sulla foto. Che matto che era Daren. Il bello era che sembrava pazza anche lei, nell’immagine. Due scemi. Eppure parevano così uniti. Come se l’obiettivo avesse colto qualcosa di invisibile tra loro. Un forte legame. Una luce nei loro occhi, così simili. «Argh! Sembriamo due mostri!» gridò Daren, ridendo con William e Amos. Jamila lo guardò e, non sapeva perché, sorrise spontaneamente, schiacciandosi la foto sul cuore. Per quanto potesse essere triste o arrabbiata per via di Kenan, Daren c’era sempre, con la sua allegria e con il suo sorriso. Per lei, per farla stare bene. Avrebbe dovuto ringraziarlo, prima o poi.
Continuarono a farsi centinaia di foto imbarazzanti. Una in bilico sulla sponda del laghetto. Una nascosti nell’erba, un’altra dietro a un albero. Mentre saltavano, o facevano le capriole. Una mentre Jamila e Kenan tenevano Daren per i piedi in verticale e Will stava sdraiato davanti a loro. Una mentre Daren e William improvvisavano un combattimento di arti marziali e Jamila era piegata in due dal ridere. Tutti momenti che sarebbero stati custoditi gelosamente dal loro nuovo amico, che sembrava davvero mandato lì dal destino. «Il signorino William ed io abbiamo pensato di portarvi dei souvenir dall’America per uno spuntino» esordì Amos a un certo punto, sedendosi a terra vicino al suo padroncino e aprendo lo zaino. «Ah, già!» Will distribuì dei pacchetti con qualcosa di rumoroso all’interno. «Mangiate! E spero che vi piacciano.» Jamila analizzò la confezione rossa, circospetta. «Che cosa…» Daren aprì la bustina e vi infilò le dita, abbuffandosi di scaglie dorate dall’odore invitante, e lei lo fulminò con un’occhiataccia, «… sono?» «Patatine fritte» rispose lui, aprendo il sacchetto e mangiando. «Non come quelle di Mc Donald’s, ma accettabili.» Vedendo che Jamila non si azzardava neanche ad aprire la bustina, aggiunse: «Sono patate cotte nell’olio fritto in padella, tutto qui. Non sono pericolose – se ne mangi un sacchetto solo, ovvio. Dài, provale!» Jamila si fece forza e… «Buone!» disse dopo aver inghiottito. «Te l’avevo detto!» «Lascia perdere, Will.» Daren ripulì la sua bustina, l’accartocciò e la diede a Amos, che la infilò nello zaino. «Jamila è un po’ schizzinosa.» «Io non sono schizzinosa» si offese lei. «Sì.» «No.»
«Sì.» «No.» Scoppiarono a ridere, e Daren e Will presero a parlare di uno sport, il football (molto seguito in America, a quanto pareva). Jamila prese la polaroid, sbocconcellando le sue patatine, e scattò delle foto ai due ragazzini. Le piaceva fotografarli mentre erano semplicemente loro stessi, erano più naturali. «Ohi, me ne fai una con Kenan?» le domandò di slancio Daren, quando si accorse dell’obiettivo puntato su di sé. «No, no» protestò Kenan, finendo le sue patatine fritte. «Dài, amico, non fare il guastafeste e sorridi.» Daren gattonò al suo fianco e gli cinse le spalle con un braccio, mettendosi in posa. Jamila distese le labbra. «Sorridete.» Scattò e recuperò la foto, agitandola per farla asciugare. «Oh, che carini!» «Fammi vedere» fece Daren, strappandogliela di mano. «Oddio» bofonchiò, ridacchiando. «Anch’io la voglio vedere» si intromise William. Daren andò da lui. «Guarda.» Will scoppiò a ridere. «Sembra che tu abbia una paralisi alla faccia! Guarda che sorriso da psicopatico!» Jamila scosse la testa, spostando la sua attenzione su Kenan. Osservava i due ragazzini con aria cupa e invidiosa, ma lei scorse anche un velo di tristezza nei suoi occhi. Un bagliore così irresistibile da volerlo catturare a tutti i costi. Kenan era bellissimo, innaturalmente tenebroso con quei suoi rifulgenti capelli biondi e le iridi azzurre. Aveva l’aspetto di un leone pronto a uccidere nella notte più cupa. Jamila non resistette e, approfittando del fatto che non la stesse guardando, gli scattò una foto proprio nel momento in cui i suoi occhi si posavano su di lei.
Kenan corrugò la fronte. «Ti senti meglio, adesso?» «Certo che no.» Lei prese la foto per vedere com’era uscita. Perfetta. Aveva colto proprio il lato oscuro in cui gli piaceva avvolgersi. «Dammela.» Jamila non si mise a lottare con lui e posò la polaroid sull’erba, tornando ad ascoltare la conversazione tra Daren e William. Non capiva un accidente di quello che stavano parlando, ma le piaceva osservare le loro espressioni. Chissà come sarebbero cambiati, i loro volti, quando sarebbero diventati grandi? William sarebbe rimasto lo stesso, se lo sentiva. Forse, tornando in America, si sarebbe tagliato i capelli, un taglio alla moda che gli avrebbe fatto fare strage di cuori. Jamila già lo vedeva nei panni di un modello, con stole di donne al proprio seguito e case sparse in tutto il mondo. Si sarebbe ricordato di loro? Dei suoi amici della Tanzania? Forse, se non avesse buttato tutte le foto. Daren? Lui… Sinceramente Jamila non aveva la più pallida idea di come immaginarselo tra cinque anni. Ma di una cosa era sicura: sarebbe stato con lei e con le loro famiglie, sempre intento a far ridere chiunque avesse il muso. Kenan… Oddio, no, non poteva proprio pensare a lui. Soprattutto visto che le aveva detto che avrebbe voluto vedere il mondo, una volta grande. Dio, un futuro senza di lui… E lei? Lei… Un flash la riportò alla realtà e Jamila si voltò di scatto verso Kenan: aveva la polaroid in mano e stava recuperando la foto appena stampata. Non era riuscito a resistere. Il modo in cui Jamila aveva lo sguardo fisso nel vuoto lo aveva stregato. Un manto di tristezza l’aveva circondata e lui si era sentito talmente in colpa da dover chiedere perdono, intrappolando la sua angelica e indomita bellezza in una foto. I suoi capelli mossi sarebbero rimasti così per sempre, ribelli e sensuali. I suoi occhi castani, incantati da pensieri che avrebbe tanto voluto conoscere, avrebbero mantenuto la loro dolce innocenza. Avrebbe tanto voluto essere ritratto in una foto insieme a lei, curioso di sapere
come apparivano vicini. «Ora siamo pari» le disse, porgendole la foto. Jamila si guardò. Dio, sembrava una fata lontana dal suo regno, in una cornice di verde e raggi solari che aggiungevano un effetto mistico all’immagine. Che capelli biondi che aveva, e com’erano lunghi. Con uno scatto, Kenan era riuscito a trasformarla in una creatura raggiante di una luce che, purtroppo, lei non percepiva. Ma… perché lo aveva fatto? «Facciamo uno scambio» propose. «Tu mi dai la tua, io ti do la mia» disse, porgendogli la foto. Lui si accigliò. «Perché dovrei volere la tua foto?» Jamila si corrucciò e fece di testa sua, afferrando la foto che Kenan teneva sull’erba vicino a sé e lanciandogli la propria. «Almeno, avrò un tuo ricordo e tu uno mio, quando sarai in giro per il mondo» replicò acida, piegando la foto e mettendosela nella tasca dei pantaloncini. Kenan la osservò avvicinarsi a William e Daren, sedendosi con loro e partecipando alla conversazione. Cavolo, era contento che Jamila gli avesse dato la sua foto. Se non fosse stato così… Così come?… forse gliel’avrebbe chiesta per primo, magari spiegandole perché l’aveva fotografata. Già… perché l’aveva fatto? Un verso agghiacciante arrivò alle sue orecchie, e un brivido gli rotolò lungo la sua schiena. Si ficcò la foto di Jamila in tasca e si avvicinò a Daren. «Che c’è, K?» Dio, odiava quando parlava come i turisti che per un certo tempo si era divertito a spiare a Shinyanga. «Non chiamarmi così» ringhiò. «Va bene. Che c’è, Kenan?» «Hai sentito?»
«Sentito cosa?» s’intromise William, mentre lui e Jamila riguardavano le foto scattate in quelle ore. Il ruggito di un leopardo riecheggiò, e Amos tremò. «Oh, Gesù…» «C… che cos’era quello?» chiese Will con un filo di voce. I tre mutaforma si guardarono. Poi Kenan si alzò e prese il comando. «Jamila, porta William e Amos alla Jeep. Veloce.» Lei si tirò su, concentrata. «E voi?» Daren balzò in piedi. «Lo distraiamo, ovviamente.» Jamila annuì. «State attenti.» «Attenti a cosa?» fece William, spaventato. Daren e Kenan scattarono nel folto della foresta, e Jamila si voltò verso Amos e Will. «In piedi, forza. Dobbiamo andarcene alla svelta.» William si sentì afferrare il braccio dal suo maggiordomo e, simultaneamente, la ragazzina lo condusse a forza tra gli alberi. «Ma che sta succedendo, Jamila? Perché stiamo scappando? E perché Daren e Kenan sono spariti come se fossero partiti all’attacco di qualcosa?» «Signorino, ricorda quando le avevo detto di non scendere dalla macchina perché era pericoloso?» disse Amos, affaticato per via della corsa. «Sì.» «E ricorda quando le avevo detto che c’erano animali pericolosi?» «Aha.» «Ecco, Will, c’è un leopardo che ha seriamente intenzione di mangiarci» concluse Jamila. «Perciò, muoviti!» Due ruggiti meno profondi risuonarono nella foresta, e lei riconobbe le tonalità dei suoi compagni. Dio, era così in pena per loro. Ma non poteva mollare William e Amos, doveva prima portarli al sicuro.
Cosa di certo non facile, se le erbacce si mettevano contro di loro, intrecciandosi alle caviglie del povero Amos che già faticava a tenere un’andatura decente. Will ruzzolò con lui, ma Jamila si scansò prontamente per non finire con la faccia al suolo. «Amos, Amos!» urlò William, cercando di liberare i piedi del suo maggiordomo con tanta foga da graffiarsi i palmi. «Ahi, accidenti!» Oh, Dio santissimo… Jamila si gettò a terra, strappando quelle dannate erbacce quasi fossero stati roventi come tizzoni. Il suo udito super sviluppato captava i rumori della lotta in atto a una distanza assolutamente pericolosa da loro, e il suo cervello rischiava di andare in tilt. Udiva il ringhio profondo del leopardo adulto, quelli meno baritonali di Daren e Kenan, il sibilo degli artigli che fendevano l’aria, lo scricchiolio delle foglie sul campo di combattimento. Erano vicinissimi. Gesù, erano vicini! Per quanto Kenan e Daren cercassero di distrarlo, il leopardo voleva le prede indifese e in fuga. Loro. «Amos, non muovere le gambe, altrimenti ti intrecci ancora di più e non riusciremo mai a tirarti fuori!» lo ammonì Will, in preda al panico. Oddio… Jamila avrebbe voluto lasciare che le spuntassero gli artigli al posto delle unghie e liberare il maggiordomo. Ma non poteva, cavolo, non poteva! «Non hai un coltello o qualcosa di affilato, in quello zaino?» chiese ad Amos, o forse a William. La miseria! Will non era il solo a essere schiavo del panico, a quanto pareva. L’uomo attanagliò la mano ossuta e rugosa al braccio del padroncino. «Dovete andare, signorino.» Guardò rapidamente Jamila. «Dovete andare entrambi. Correte. Subito.» William sbiancò. «No… No! Non ti lascio qui, Amos» singhiozzò mentre si scorticava irrimediabilmente le mani nell’erbaccia. Jamila ammutolì. Poi, non sapeva come, riuscì a domandare: «Avete un’arma nella Jeep? Una pistola, un coltello, un fucile, un lanciarazzi… qualcosa?». Amos batté le palpebre, le sue iridi di ghiaccio brillarono. «Un fucile,
signorina.» Molto bene. Jamila indurì la propria espressione. Non aveva importanza se era sbagliato, o contro le leggi del branco. Non poteva mettere a rischio le loro vite e non poteva lasciare che i suoi compagni rimanessero feriti per impedire al leopardo di raggiungerli. Doveva farlo, non aveva altra scelta. «Bene» disse. «Will, vai. Corri alla Jeep e prendi quel cavolo di fucile e le cartucce.» «No» protestò Amos. «Andate tutti e due.» Jamila non lo ascoltò. «William, corri. Io intanto lo libero. Gesù, muoviti, prima che il leopardo ci sbrani vivi!» Cavolo, pensò Will, quello somigliava decisamente a uno dei giochi di sopravvivenza per Xbox a cui stava incollato ventiquattr’ore su ventiquattro. Solo che lui non era davanti alla tivù, e nelle sue mani non c’era nessun joystick. Lui era dall’altra parte, nel gioco. Toccava a lui rimboccarsi le maniche e sopravvivere. Proprio quando stava annuendo, pronto a scattare, un boato breve e sordo echeggiò. Una quiete inverosimile precipitò nella foresta, e Jamila cacciò indietro le lacrime. Daren e Kenan… Era successo qualcosa. Erano stati sbalzati contro i tronchi, ne era certa. E, adesso, il leopardo puntava dritto verso di loro. Se prima aveva avuto qualche esitazione a usare i propri poteri per salvarli, ora non poteva fare altrimenti. O sarebbe morta anche lei. Il gemito di Will risuonò come un’esplosione. «Jamila…» Jamila trasse un profondo respiro e sfoderò gli artigli della mano, stracciando i rovi avvinghiati alle caviglie del maggiordomo con una zampata. «Oh, Gesù!» imprecò Amos. «Oddio!» esclamò William, cadendo di sedere sull’erba.
Il poderoso felino maculato saltò fuori dagli alberi con un ruggito d’avvertimento. Jamila si voltò di scatto, ringhiando mentre le zanne le sfioravano il labbro inferiore. E, senza pensarci due volte, schizzò in avanti abbandonando le sembianze umane in un lampo di luce bianca.
10
WILLIAM non riuscì a credere ai propri occhi. Jamila era un leone. Si era trasformata in… un cucciolo di leone grande quanto un pastore tedesco. Questo era impossibile, giusto? Insomma, la gente non poteva trasformarsi come nei film o nei cartoni animati, vero? No, cribbio. No che non poteva.
Eppure era quello a cui aveva appena assistito. Una trasformazione degna di un film della saga di Twilight. Solo che non c’era stato nessuno «Stop!» del regista per consentire di inserire al computer gli effetti speciali. Era stato tutto vero. Jamila si era data il via, si era alzata di colpo sfoggiando artigli e zanne, e poi… Poi un globo di luce non molto intensa l’aveva investita e lei… Lei era sparita. C’era una leonessa, adesso. Una leonessa troppo esile che stava andando ad affrontare un leopardo gigantesco, diretto verso di loro con le fauci spalancate e il corpo pronto a fiondarsi sulle sue prede.
Jamila si avventò sul leopardo nel disperato tentativo di bloccare il suo attacco, ma venne sbalzata contro un albero. Il colpo fu tremendo, tanto che per un istante vide nero, ma non poté fermarsi a leccarsi le ferite. Salvare William e Amos era il suo unico obiettivo. Ringhiò e si lanciò contro il nemico, arpionandosi al suo possente dorso. Affondò gli artigli nella carne morbida, fino in fondo, resistendo mentre l’animale sgroppava come un ossesso per liberarsi di lei. Il leopardo si buttò a terra con una capriola e Jamila si sentì morire sotto il peso del suo avversario. Ritrasse le unghie con un gemito e strisciò via, mentre il felino si rimetteva in piedi e decideva se squartare prima la gola a lei, o avventarsi sui due umani.
Temendo che scegliesse Will e Amos, Jamila ruggì flebilmente per richiamare la sua attenzione e si rialzò per lottare fino alla fine. Dio, com’era piccola in confronto a lui. Una sola zampata le avrebbe fracassato il cranio. Nel momento in cui il leopardo si preparava per saltarle alla giugulare e Jamila contraeva i muscoli, le voci di Kenan e Daren tuonarono nelle sorgenti del Seneto, ma lei fu l’unica a udirle. – Jamila!
I due leoncini si fiondarono sul leopardo. Kenan gli affondò gli artigli nella spalla e Daren gli piombò sulla schiena, scavando nella sua carne come se fosse stata terra. Jamila li andò ad aiutare, saltando sul brutto muso dell’animale e graffiandolo. Il leopardo s’impennò e si liberò di lei con una zampa, mandandola a sbattere contro un tronco. Poi afferrò Kenan per la nuca con i denti e lo lanciò dalla parte opposta. – Jamila! Kenan! – gridò Daren. – Brutto…!
Si aggrappò con tutte le sue forze al collo del felino e gli morse l’orecchio con ferocia, ingoiando ingordo il sangue che gli colava nella gola. Il leopardo ruggì per il dolore e scaraventò via Daren, che cozzò prima contro un albero, poi contro un altro. Kenan schizzò in suo aiuto, estraendo gli artigli per affettare la faccia di quel bastardo di leopardo. Quello, però, scartò di lato e si acquattò per lanciarsi su di lui e ucciderlo. Jamila, dolorante in tutte le parti del corpo, guardò Daren, conciato peggio di lei, che cercava in tutti i modi di riprendere il controllo delle proprie zampe. Di alzarsi immediatamente per soccorrere Kenan, il suo migliore amico. Ma non ce la faceva. Il leopardo aveva usato molta più forza per liberarsi di lui e, nonostante Daren avesse una volontà ferrea, riuscì solo a sollevare la testa e a
osservarla con quei suoi meravigliosi occhi verdi. – Scappa…
– No – rispose lei, facendo forza sui posteriori per mettersi in piedi e aiutare Kenan. Fallì miseramente, ripiombando sul terreno.
– Jamila, scappa – le intimò Daren disperato.
Il ruggito della morte riecheggiò nel Ngorongoro. Gli sguardi di Jamila e Daren balenarono subitanei verso Kenan e si pietrificarono. Il calcio di un fucile si abbatté con violenza contro il fianco del leopardo, nell’attimo in cui l’animale scattò in avanti per agguantare Kenan alla giugulare. Il leopardo rotolò nell’erba per poi rimettersi in piedi e ruggire contro il nuovo nemico. Ma quando vide la canna del fucile, evidentemente un’arma che conosceva molto bene, puntata verso di sé, soffiò e si dileguò come se avesse visto un muro di fiamme avanzare verso di lui. Jamila guardò Kenan, sano e salvo. Poi si spostò su Daren, che era riuscito a sollevarsi e stava cercando di mettere una zampa davanti all’altra. Quando entrambi i maschi si volsero verso di lei per accertarsi che stesse bene, Jamila annuì, rizzandosi e preparandosi ad affrontare l’inevitabile.
William non era terrorizzato. Di più. Era stato a guardare quello che stava succedendo con gli occhi sbarrati, il corpo immobile come una statua di ghiaccio e il cuore che sussultava ogni qualvolta uno dei cuccioli di leone veniva colpito.
Poi non aveva più avvertito la presenza di Amos al suo fianco ed era quasi svenuto. Fino a quando il suo maggiordomo, sempre professionale, diligente e gentile, era tornato sul campo di battaglia con un fucile da caccia come il più impensabile degli eroi. Senza batter ciglio aveva menato un colpo al leopardo, quasi incurante del pericolo. Con espressione da vero duro, aveva puntato il fucile contro l’animale assetato di sangue, mantenendo il controllo di sé e sul dito pronto a premere il grilletto. Chissà cosa aveva letto il leopardo nei suoi occhi, mentre si fissavano. Be’, fatto stava che Amos, il grande maggiordomo, aveva salvato le vite di tutti loro. «Amos?» lo chiamò, titubante. Lui si girò per guardarlo. «Sta bene, signorino William?» gli chiese con tono risoluto, il fucile in spalla, l’aura dell’eroe che lo ammantava come un divo di Hollywood. «Uh-huh» mormorò Will, scrutando l’arma sospettoso. «Oh, mi perdoni. Non volevo spaventarla» si affrettò a scusarsi l’uomo, posando il fucile e accucciandosi sui calcagni. «Naa, non sei tu a farmi paura.» William spostò lo sguardo sui tre leoncini. Deglutì, osservando la femmina. «Jamila…?»
Lei abbassò gli occhi, e Daren le si avvicinò. – Indovino. Ti sei trasformata di fronte a loro, non è così?
– Vuoi l’oscar?
– Oddio, quanto sei permalosa… Perfino dopo che abbiamo rischiato la pelle per salvarti.
– Ma io cercavo di salvare la loro – replicò Jamila, spiando Will.
Daren sospirò. – Quindi? Che facciamo? Kenan?
– Non possiamo andarcene come se niente fosse – proseguì lei. – Avrebbero potuto lasciarci qui a morire e mettersi in salvo, invece sono rimasti. Amos ci ha salvati, ragazzi. Meritano di sapere la verità.
Daren roteò gli occhi. – Oh, Signore…
– Jamila ha ragione – disse Kenan. – Trasformiamoci.
Lo fecero, e i sussulti di Amos e William furono come veri e propri terremoti. Non proprio la reazione che si aspettavano, ma almeno non stavano urlando come pazzi. O non erano svenuti. Era già qualcosa, no?
«Oh, Maria Vergine Santissima…» boccheggiò il maggiordomo. «Oh… mio… Dio…» trasecolò Will. Jamila si cinse con le braccia, a disagio dinanzi ai pensieri che scorrevano come un fiume in piena nelle menti di Amos e William. Kenan fissava i due umani come se cercasse di prevedere la loro prossima mossa, quasi temesse… anzi, no… quasi fosse certo che li avrebbero attaccati da un momento all’altro. A Daren tutto quel silenzio imbarazzante proprio non piaceva. Quindi perché non spezzare la tensione? «Ehm… sorpresa!»
Jamila e Kenan si voltarono lentamente e lo traarono con occhiate di fuoco. Be’, in un certo senso, era stata una mossa azzeccata, quella di Daren. Almeno, qualcuno aveva parlato e nessuno aveva perso i sensi, o si era messo a gridare. Ancora. «C… che…» Will deglutì, «… che cosa siete?» Jamila respirò coraggio per rispondere: «Leoni». «Leoni?» trasalì l’impavido Amos. «Umani» aggiunse Daren, grattandosi la zazzera bionda. «Umani?» fece eco William. «Mutaforma» concluse Kenan accigliato. Will e Amos impallidirono, sospirando contemporaneamente: «Oddio». Jamila decise che era il momento di mettere in chiaro le cose. «Non dovete dirlo a nessuno. Vi prego, non ditelo a nessuno» li implorò, avanzando di un o. «Se lo farete, ci daranno la caccia peggio che ai leoni comuni.» «Ci braccheranno» disse Daren, affiancandola. «Vorranno catturarci per rinchiuderci in qualche laboratorio sotterraneo e studiarci. Faranno degli esperimenti su di noi, ci tratteranno senza alcun riguardo.» Jamila sbatté le ciglia, soffermandosi sul maggiordomo. «Amos, ti prego… Promettici che non dirai mai nulla a nessuno.» L’uomo deglutì, scrutando Kenan per una frazione di secondo. Jamila si chiese che razza di espressione avesse il compagno, perché Amos si turbò come se avesse visto uno spettro, prima di tornare su di lei. «Sul mio onore, signorina, le prometto che non rivelerò il vostro segreto.» «Neanche sotto tortura?» domandò Daren, e Jamila gli diede una gomitata nel fianco. «Ahia…» Amos abbozzò un sorriso. «Neanche sotto tortura, signorino» assicurò.
Jamila lo ringraziò di cuore. Guardò William, penetrandolo con lo sguardo. «Will?» «Cosa?» «Prometti di mantenere il segreto?» Il ragazzino si mise a braccia conserte, lisciandosi il mento con aria pensierosa. «Uhm, non saprei…» Kenan si fece avanti. «Risposta sbagliata» ringhiò a denti stretti. Maledizione, sapeva che quello straniero avrebbe portato guai. Lo sapeva fin dall’inizio. E adesso? Quanto in là si sarebbe dovuto spingere con le minacce? Be’, fino a quando non lo avesse supplicato di non ucciderlo, sarebbe potuto andare bene, no? Peccato che Jamila gli posò una mano sul petto per impedirgli di andare oltre, disorientandolo con il suo profumo floreale. Ah, dannatissimo olfatto! Jamila aveva intuito le intenzioni di Kenan e con un’occhiataccia gli aveva intimato di non azzardarsi a muovere un muscolo. Si era sentita in dovere di proteggere Amos e William, di nuovo. Tornò a fissare Will. «Ti prego…» cacciò indietro le lacrime, «… non distruggere le nostre vite.» Lui fece una smorfia. «Uhm…» «Signorino William!» lo ammonì Amos con sguardo severo. Will scoppiò a ridere. «Ma sì, stavo scherzando!» Daren mollò un pugno affettuoso sul suo braccio. «Volevi tenerci sulle spine, eh?» «Dovevate vedervi, eravate cadaverici!» «È un sì?» chiese conferma Jamila con un sorriso speranzoso. William si alzò ed eseguì una buffa riverenza. «Ha la mia parola, mademoiselle.» «Perfetto» esclamò Daren. «Tutto si è risolto per il meglio, quindi occupiamoci
del motivo principale per cui siamo qui.» Tutti lo guardarono con aria interrogativa. «Tuffiamoci!» gridò, prendendo la rincorsa e buttandosi nella sorgente con tutti i vestiti. «Ci sto, aspettami!» fece Will. «Un momento, signorino» Amos faticò non poco a mettersi in piedi per rincorrere il ragazzino, «non si è tolto i vestiti! No, no, non si bagni! Si deve prima… spogliare» terminò afflitto, osservando il suo padroncino sguazzare contento insieme a Daren. Jamila ridacchiò, pronta a raggiungerli in acqua, quando Kenan la trascinò per un braccio contro l’albero più vicino. «Che cosa vuoi e che stai facendo?» inveì a bassa voce. «Dobbiamo parlare di quello che è appena successo.» «Non mi sembra ci sia nient’altro da dire, Kenan. Perciò, fammi andare a divertire, se non ti dispiace.» Il corpo mingherlino di Jamila scivolò lontano dal suo ma lui si volse prontamente, afferrandola per una mano. «Jamila…» L’occhiataccia che lei gli scoccò valse dieci frustate. «Non toccarmi» sibilò, liberandosi dalla stretta e voltandogli le spalle. «E dài, Jamila» sbottò lui. Lei ruotò di colpo sulle punte per fronteggiarlo. «Dài cosa? Dovrei essere felice che tu te ne voglia andare? Dovrei far finta di niente, pur sapendo che non hai intenzione di rimanere qui con il branco? Oh, scusami. Scusami, se non sorrido. Scusami, se non ti abbraccio e non ti auguro buona fortuna.» Dio, Kenan avrebbe tanto voluto colmare la distanza tra loro e abbracciarla, perché percepiva chiaramente il dolore che stava provando. Ma non lo fece. «Dovresti, perché la vita è mia e sta a me decidere come e dove viverla.» «Ma fai parte anche della mia» disse Jamila con enfasi. Kenan rimase di stucco, e lei proseguì a voce più bassa: «E non voglio che tu vada via.»
Oddio. Kenan sentì qualcosa sussultare nel petto. Una fitta tremenda. Stava provando una sensazione nuova e… strana. Non avrebbe saputo dire se fosse piacevole o fastidiosa, forse entrambe le cose. Era come un formicolio lungo le braccia, giù per la schiena fino ai piedi. In quel momento avrebbe voluto fare una cosa che non gli era mai ata per la testa. Mai, maledizione, quindi perché proprio adesso? Voleva… avvicinarsi a lei… prenderle il viso tra le mani e… baciarla. Gesù, voleva proprio baciarla. Sulla bocca; sulle sue morbide, carnose e rosee labbra. Voleva conoscere il suo sapore, sapere che cosa avrebbe avvertito dentro di sé nell’averla così vicino. Ma, cavolo, se lo avesse fatto avrebbe ceduto alla debolezza e non sarebbe più riuscito a risalire. «Accadrà, Jamila. Prima o poi.» «Lo so.» Lei alzò gli occhi nel disperato tentativo di evitare che le lacrime le solcassero le guance. Poi li riposò su colui che tanto amava e che la stava facendo soffrire in un modo che neanche immaginava. «Ma non puoi pretendere che scrolli le spalle e continui a trattarti come sempre. Tu ci lascerai. Te ne andrai. Perciò comincerò ad abituarmi all’idea fingendo che tu già non ci sia più.» Kenan la riprese per mano quando lei girò nuovamente i tacchi. «Non puoi farmi questo. Non puoi.» Jamila lo traò con lo sguardo. «Sta’ a vedere» ringhiò, scollandosi di dosso le sue dita. «Non voglio che non mi parli più.» Lei si girò per guardarlo. «Che ti cambia, se ci parliamo o no? In fondo, non siamo campioni di conversazioni, io e te.» Kenan si incupì. «Non voglio che mi ignori.» Ma che diavolo stava dicendo? Sarebbe stato molto meglio, se lei l’avesse fatto. «E che cosa vuoi, allora? Perché sicuramente non è stare con la tua famiglia, me e Daren.»
Lei. Voleva lei. La voleva portare via con sé. Oh, cielo… Guarda che razza di pensieri gli balenavano nella testa! «Senti» sbuffò, «siamo ancora piccoli e per ora non andrò proprio da nessuna parte. Quindi è inutile discuterne adesso.» «Giusto» disse sarcastica. «Perché parlarne? Potresti cambiare idea tra qualche anno, o domani, o stasera stessa, no?» «Infatti.» Oddio! Ma che stava dicendo? Jamila lo sbirciò in tralice. La stava prendendo in giro? Strano, di solito era a Daren che piaceva scherzare. «Sì, come no.» Adesso voleva anche farle credere che avrebbe cambiato idea. Conoscendolo, decisamente no. Il fatto che gli stesse dando le spalle per l’ennesima volta mandò in fiamme l’autocontrollo di Kenan. Con un ampio o l’affiancò e, che Dio l’aiutasse, la prese per mano come aveva visto fare da suo padre con sua madre. Jamila lo guardò con tanto d’occhi, osservando poi le dita di lui intrecciate alle sue. Che le venisse un colpo. La stava davvero tenendo per mano? Kenan la teneva per mano? Okay, era arrivata l’apocalisse. Oppure il suo bellissimo cervello era impazzito. Per forza. Kenan non aveva mai fatto una cosa del genere. Insomma, non aveva mai mostrato segni d’affetto con nessuno, men che meno con lei. Jamila era convinta che la considerasse un insetto appiccicoso, da dove saltava fuori quel gesto così intimo? «Non ti sto prendendo in giro» le assicurò, lo sguardo così profondo che lei quasi vi annegò. «Allora resta» replicò Jamila, intensa come il sole. Che fosse dannato, Kenan si arrese. «Vedremo.» Jamila spostò lo sguardo sulla guerra amichevole in atto nello specchio d’acqua. Solo che non c’era più nessuno scontro: Will era in balìa di Amos, che lo stava sgridando per bene, e Daren era in piedi vicino alla sponda, fradicio dalla testa ai piedi, il viso contratto dalla sofferenza e dalla rabbia, i pugni serrati con forza, i muscoli in trepidazione. Guardava lei. Guardava Kenan. Guardava le loro mani unite.
Immersa nelle sue iridi color verde mare chiaro, che da laggiù, sotto la luce dei raggi solari, sembravano due stupefacenti peridoti, Jamila ebbe una strana sensazione. Qualcosa dentro di lei ruggì a gran voce e… Lasciò la mano di Kenan.
11
QUELLA sera sarebbe stato meglio se suo padre non fosse tornato per cena, pensò William, seduto composto al tavolo apparecchiato per tredici persone nel ristorantino dell’albergo. Nella sua mente aveva ancora chiare le immagini di Jamila, Daren e Kenan che si trasformavano in leoni, e temeva di lasciar trapelare troppo dal suo sguardo scintillante.
Erano le otto ate, e lui e Amos si scambiavano occhiate furtive. Era ovvio che entrambi avrebbero voluto parlare di quanto successo quella mattina, ma non si azzardavano per paura che qualche orecchio indiscreto si tendesse per ascoltare la loro interessante conversazione. Perché, cavolo, chiunque si sarebbe messo a origliare un argomento riguardante leoni mutaforma. «Gradisce dell’acqua, signorino?» esordì il maggiordomo, la bottiglia sospesa a mezz’aria. Will sbatté le palpebre. «Grazie, Amos» annuì, tenendo fermo il bicchiere con una mano. Una coppia entrò nella sala e William guizzò con gli occhi nella loro direzione. Dov’era suo padre? Oddio, non che ne sentisse la mancanza. Solo che non li aveva avvisati che non sarebbe venuto a cena, come aveva fatto a pranzo. Sì, poco dopo che lui e Amos si erano rimessi in marcia per Shinyanga, il maggiordomo aveva ricevuto una chiamata, in cui suo padre lo informava che si sarebbe trattenuto a pranzo con delle persone conosciute il giorno prima. A Will era parso molto strano. Suo padre era un lupo solitario e la gente non gli andava molto a genio, fatta eccezione per i suoi uomini. Anche con lui non era quel che si dice un padre affettuoso e, quando chiacchieravano, aveva sempre il broncio. Da un po’ di tempo, William era giunto alla conclusione di non piacergli, ma non aveva ancora scoperto il perché. E Amos, quando gliene parlava, rispondeva sempre che suo padre era così duro perché voleva che lui
diventasse un uomo forte e di successo. Sarà, aveva pensato Will, ma lui voleva che suo padre gli insegnasse a giocare a calcio, non a sparare con un fucile da caccia. Se c’era una cosa che odiava di lui più del fatto di non essere amorevole, era proprio il suo lavoro. Suo padre diceva di adorare gli animali e, sì, era vero. Era così vero che aveva arredato uno dei tre soggiorni della loro residenza nel New England con animali imbalsamati di grossa taglia. Forse, non dovendo starci lui, lo aveva ritenuto di gran classe ma per William, che viveva lì da sempre, era un trauma ogni mattina. Suo padre tornava nel New England solo il fine settimana, mentre gli altri giorni, se non aveva nessuna richiesta, se ne stava a San Diego a fare chissà cosa. Meno male che lo portava con lui, quando il lavoro gli chiedeva di spostarsi per una lunga distanza. Almeno, Will aveva la parvenza di essere figlio di qualcuno in carne e ossa, e non di un fantasma che, ogni tanto, piazzava qualche animale morto nelle stanze della casa. Proprio quando Amos stava per chiamare il cameriere e ordinare solo per loro due, Will udì il rombo dei motori delle auto di suo padre. «No, eccoli. Sono arrivati» informò il maggiordomo. Suo padre apparve sotto la soglia d’ingresso. I capelli brizzolati e la barba incolta gli conferivano un’aria saggia, quasi filosofica, ma il suo abbigliamento da safari mandava un messaggio forte e chiaro: NON INFASTIDITEMI, O SARÀ PEGGIO PER VOI. E William ne sapeva qualcosa (le sue ginocchia, più che altro).
Dieci omaccioni si stagliarono alle sue spalle, più che minacciosi nell’abbigliamento nero. Amos scostò la sedia e si alzò, facendo un piccolo cenno al gruppo. «Siamo qui, signor Shelby.»
Mark Shelby vide il suo vecchio maggiordomo sollevare un braccio per attirare
la sua attenzione, guardandosi furtivamente intorno per essere sicuro di non peccare di maleducazione verso gli altri clienti dell’hotel. Avanzò insieme ai suoi uomini e prese posto a capotavola, consapevole che suo figlio lo stava osservando con gli occhi di chi implorava un saluto. Be’, non lo avrebbe accontentato neanche se si fosse tagliato un dito per attirare la sua attenzione. No, un momento, si disse, forse avrebbe spostato lo sguardo su di lui: se fosse stato capace di un gesto del genere, avrebbe voluto dire che finalmente dimostrava di avere il suo stesso sangue. Sua madre era stata la migliore donna che avesse mai incontrato. Intelligente, bellissima, sensuale e impavida come una pantera. L’aveva amata molto, e quando gli aveva dato un figlio, si era detto che Dio gli aveva donato ciò che c’era di più prezioso: una famiglia felice. Finché il Signore non aveva deciso che sua moglie doveva essere sua. Era morta in un incidente stradale mentre portava William all’asilo e, ironia della sorte, suo figlio era miracolosamente sopravvissuto. Mark Shelby non aveva mai accettato che lei avesse perso la vita. Lei, la sua anima gemella, lo aveva lasciato solo. Con un figlio che era una vera femminuccia. Essendo sangue del suo sangue, Mark aveva immaginato che William sarebbe diventato forte e coraggioso; invece doveva portarselo dietro ogni volta che si spostava per lavoro perché lui soffriva la mancanza del padre. Patetico. Un vero uomo non aveva bisogno di nessuno. Tuttavia, se voleva che suo figlio crescesse come voleva lui, doveva fare a modo suo. «William» esordì Mark Shelby, appena il cameriere ebbe preso le ordinazioni. «Sì, papà?» rispose lui, guardandolo per un istante con occhi che sprizzavano felicità. Dovette scoccargli un’occhiataccia, perché assumesse un atteggiamento meno… adorante. «Come hai ato la giornata?» «Molto bene, papà, grazie.» Amos spalancò le palpebre a dismisura e William continuò: «Siamo stati nel Ngorongoro. Abbiamo visto tante zebre».
«Che coincidenza» fece Mark, «anche noi siamo stati nel cratere.» Il cameriere portò a tutti loro una bistecca servita su un letto d’insalata. Shelby tagliò un grosso boccone e lo mangiò con gusto. Poi tornò sul figlio. «Ma non ho visto le tracce di nessuna Jeep, oltre a quelle delle nostre auto.» Will si fermò con la posata a mezz’aria e la bocca aperta. Oddio, oddio! Che cosa doveva rispondere? Cosa poteva dire, per non tradire il segreto dei suoi amici? Be’, per il momento non doveva parlare, perché suo padre non aveva ancora finito di metterlo in imbarazzo. «Non avevo specificato che non dovevate scendere nella caldera per alcun motivo, Amos?» Il maggiordomo si mosse a disagio sulla sedia, guardando di sottecchi il suo padroncino. «Sì, signore, l’aveva fatto.» Mark Shelby seguitò a mangiare con noncuranza. «Da quanti anni sei al servizio della mia famiglia, Amos?» Non gli diede tempo di rispondere. «Be’, da qualche anno prima che William nascesse. Dico bene? Dunque, per tutto questo tempo, mai sei andato contro il mio volere. Presumo che stavolta sia avvenuto un fatto eclatante, se mi hai disobbedito.» Alzò gli occhi dal piatto per fulminarlo con un’occhiataccia. «Altrimenti, non riesco a spiegarmelo.» Amos divenne una statua di pietra, mentre elaborava una scusa plausibile per tirare almeno il signorino William fuori dai guai. Ma Will non poteva lasciare che lui si prendesse tutta la colpa. Suo padre l’avrebbe sicuramente licenziato, una volta tornati a casa, e lui non poteva vivere senza Amos. Era il suo unico, vero amico. Lui c’era sempre, che glielo chiedesse o no. Sì, vivevano insieme, ma non era questo il punto. Amos era la sua vera famiglia. «È colpa mia, papà» intervenne. «Non prendertela con Amos. Lui ha solo fatto quello che gli ho chiesto…» «Avevo espressamente detto che non dovevate scendere nel Ngorongoro perché ci sono animali pericolosi» si inalberò Shelby. Sinceramente, era sorpreso che il figlio avesse preso le difese del maggiordomo; conoscendolo, si sarebbe fatto proteggere tenendo lo sguardo basso. «Ti avrei portato con me, in caso contrario. No, William?» «Ha perfettamente ragione, signore» convenne Amos. «Ma…»
Mark Shelby posò le posate e appoggiò i gomiti sul tavolo. «Non c’è nessun ma, Amos. Hai portato William in un posto infestato da animali che avrebbero potuto sbranarvi vivi. Hai messo in pericolo la vita di mio figlio, e questo è imperdonabile.» Prima che il maggiordomo potesse parlare per difendersi, Will ebbe un baleno di incredibile coraggio. E stupidità. «Non eravamo soli, papà.» «Come?» sibilò suo padre, corrugando la fronte rugosa. Amos si affrettò a correre ai ripari. «Niente, signore. Il signorino William intendeva dire…» «Zitto.» Mark Shelby afferrò suo figlio per un braccio, lo fece alzare e lo fece sedere sulle proprie ginocchia con aria tutt’altro che paterna. «Che vuol dire che non eravate soli, William?» Il ragazzino fu indeciso se rispondere o no. Pensare a una bugia in così poco tempo era una vera impresa per lui, che non ne aveva mai detta una in vita sua. Il che gli fece anche temere di non essere abbastanza convincente, ammesso che l’avesse trovata. Will lanciò un’occhiata al suo maggiordomo, in cerca d’aiuto. Suo padre, però, intuì il suo tentativo di fuga dalla domanda e William aprì bocca, prima che Amos subisse le conseguenze della sua disobbedienza. «Abbiamo conosciuto tre ragazzini, ieri, nel cratere. C… ci hanno fatto compagnia. Siamo stati con loro stamattina.» Be’, non era tutta la verità, ma avrebbe tirato lui e Amos fuori dai guai, e avrebbe tenuto i tre mutaforma lontano da suo padre. Forse. «Ma davvero?» fece Mark Shelby. Intravide suo figlio costringersi a non tremare. Gli stava nascondendo qualcosa, ne era certo. Era troppo codardo, il piccolo William, per mentire al suo papà. Quindi la storia dei tre ragazzini incontrati nel Ngorongoro era vera, ma c’era sicuramente dell’altro. Qualcosa che non gli aveva detto e che, a giudicare da come Amos si era impietrito, non avrebbe rivelato neanche se costretto.
Be’, dipendeva da come lo si obbligava a vuotare il sacco. E i suoi uomini erano molto bravi nel persuadere la gente a parlare. Se poi si considerava il fatto che William era molto legato al maggiordomo, la certezza che vuotasse il sacco era assicurata. Bastava minacciare il buon Amos, tutto qui. «Sì…» bisbigliò suo figlio. «Si chiamano Jamila, Daren e Kenan, e vivono nel Ngorongoro con le loro famiglie.» Mark Shelby s’illuminò. «Non mi dire» borbottò tra sé. «Ragazzi, sentite questa. A quanto pare, William ha stretto amicizia con i figli dei tizi con cui abbiamo pranzato.» Gli energumeni sghignazzarono maligni. Will si sentì un’antilope in una caverna di tigri. «Hai conosciuto i genitori dei miei amici, papà?» «Proprio così, figliolo.» Mark lo posò a terra, tenendolo vicino a sé. «E sai cosa si dice di quella gente che vive nel cratere?» William guardò Amos. «No, cosa si dice?» Non che fossero dei mutaforma, si augurò. Suo padre s’incupì per spaventarlo ancor più, traendolo a sé e inchiodandolo con occhi duri e spietati. «Si dice che vivano con i leoni e che condividano il cibo con loro, mangiando carne di zebra cruda. Si dice che dormano con i leoni, che si comportino come loro. Si dice che, una volta, siano andati a caccia con i leoni e abbiano attaccato un gruppo di turisti che stava esplorando la caldera.» Ovviamente, erano tutte menzogne per farlo crollare. E Will era decisamente terrorizzato, perché, conoscendo il segreto dei tre mutaforma, quella poteva benissimo essere la verità. Dio, pensare che Jamila, Daren e Kenan, in forma animale, avrebbero potuto rosicchiare la gamba di qualcuno… «Come… attaccato?» Il braccio destro di suo padre fu alle sue spalle in un baleno. «Sbranato» ringhiò, avvolgendogli il collo con un braccio e mimando l’atto di staccargli un orecchio a morsi. William sobbalzò per lo spavento e tutti gli omaccioni scoppiarono a ridere,
crudeli come iene. «I miei amici non farebbero mai del male a nessuno» bisbigliò, tenendo lo sguardo basso e rammentando tutti i momenti divertenti ati con i tre mutanti. Mark Shelby socchiuse le palpebre, cercando di sondare la sua mente. «Non ne sarei così sicuro, figliolo. Io ho visto dove e come vivono. Tu hai visto la loro casa? No? È una roccia gigantesca, con una caverna alla base e una più in alto. Il capo della piccola comunità mi ha confessato che i leoni ano la notte nella grotta al pianoterra. Immagina di dormire sapendo che sotto di te c’è un intero branco di animali, pronti a squarciarti la pancia …» «Signor Shelby non c’è motivo di spaventare il signorino in questo modo» intervenne Amos, ma il suo padrone non se ne curò. «… immagina di chiudere gli occhi, nella notte più oscura, e sognare di affondare i denti nella gola di uno gnu. Di sentire il sangue ancora caldo inondarti la bocca con il suo sapore metallico e dolciastro. Immagina di svegliarti e scoprire che non era un sogno, e che non eri tu a masticare, ma un leone enorme chino sul tuo torace. Le zanne insanguinate e sporche grumi di carne. Le tue interiora esposte per lui e la sua fame di te.» Con l’acre in bocca, Amos batté le mani sul tavolo. «Basta, signore, la prego! Sta esagerando.» Il volto di Shelby divenne una maschera di collera. «Taci. William deve sapere che razza di persone folli e assolutamente inaffidabili frequenta.» Will, vedendo il maggiordomo sotto le grinfie di suo padre, perse il controllo dei pensieri e delle parole. «I miei amici leoni non farebbero mai del male a nessuno! Loro…» «Signorino William!» trasecolò Amos. Il ragazzino si sentì mancare il pavimento sotto i piedi e si coprì la bocca con le mani, mentre suo padre lo fissava come se fosse stato la chiave a lungo cercata per aprire un forziere pieno d’oro.
Mark Shelby pensò di essersi completamente rimbecillito per non essere ancora
scoppiato a ridere in faccia al figlio. ‘I miei amici leoni’, aveva detto così, no? William aveva detto ‘amici leoni’, giusto? Ah! Pazzesco. Davvero assurdo. Eppure… Avrebbe avuto senso. Se fosse stato vero, avrebbe potuto spiegare perché si diceva che quei tizi vivessero con i leoni. Stando a quello che aveva detto William, erano quei tizi, i leoni. Oh, ma per piacere! Ma rileggeva i pensieri, prima di farseli scorrere davanti? Mark Shelby doveva davvero essere impazzito e disperato, per credere che delle persone potessero trasformarsi nei leoni che stava cercando. Nel gergo, sarebbero stati dei mutaforma, no? Era così che venivano chiamati coloro che erano in grado di assumere le sembianze di un animale. Dio buono, ma esistevano davvero creature del genere? Com’era possibile? Però, se ci rifletteva, tutto aveva un senso. Quella mattina, solo due dei cinque tizi che aveva conosciuto il giorno prima erano stati con lui tutta la mattinata, insieme a quel Rashid. E, manco a farlo apposta, avevano avvistato tre leoni maschi. Tre, come i ragazzi che erano mancati all’appello. Coincidenza? No, secondo il suo bravo figliolo. Oh, Dio… Mutaforma. Umani leoni. Leoni umani. Aveva pranzato con le sue prede. Aveva avuto i cuccioli… i bambini… sottomano. Oh, che gli venisse un colpo! Cristo santo! Era perfetto: sarebbe tornato a trovare i suoi nuovi, carissimi amici e avrebbe rapito i bambini. No, i cuccioli. Certo, il problema era un altro. Non poteva consegnarli allo zoo. Che cosa sarebbe accaduto, se i leoncini avessero ripreso le sembianze umane di fronte alle centinaia di spettatori di San Diego? Oh, sì, sarebbe sicuramente stato un problema. No, avrebbe tenuto per sé i piccoli mutanti e, in seguito, avrebbe deciso cosa farne. Ma prima doveva sapere qualcosa in più sul suo nuovo obiettivo. «Io…» farfugliò suo figlio. «Io… non volevo dire… cioè… intendevo dire che…»
«Ssh, William. Tranquillo, ho capito perfettamente quello che volevi dire» fece Mark Shelby, falsamente affabile.. «Scusa per quello che ho detto sui tuoi nuovi amici, non avevo ancora capito quanto ci tenessi. Vorrei che mi raccontassi di loro, se ti va.» Le iridi di Will si spostarono freneticamente da lui ad Amos, il cui sguardo inviava il chiaro ordine di tenere la bocca chiusa e di non creare altri problemi a Jamila, Daren e Kenan. Cielo, era l’ultima cosa che voleva! Perciò non rispose a suo padre e chinò la testa, anche se non gli sembrava vero che lui fosse interessato a qualcosa che lo riguardasse. Mark aggrottò le sopracciglia a poco a poco. No, così non andava bene. Di questo o, suo figlio non gli avrebbe spifferato nulla. Sapeva che con le buone non avrebbe ottenuto niente ma, cavolo, William era sangue del suo sangue, non avrebbe voluto arrivare a tanto. Ma lui non gli lasciava altra scelta. Doveva sapere tutto il possibile su quelle… creature. Quindi scambiò un’occhiata con il suo braccio destro che, come se fosse stato nella mente del suo capo, comprese al volo quello che voleva che fe. Si alzò dalla sedia e con nonchalance agguantò Amos per un braccio. Il maggiordomo, essendo in un luogo pubblico, dove la gente era ignara di chi fossero le persone sedute al suo stesso tavolo, si costrinse a sgranare le palpebre il meno possibile. Il cuore gli balzò in gola, al pensiero di ciò che il signor Shelby aveva in mente di fare per costringere il figlio a parlare. Di sicuro sospettava che anche lui sapesse quello che gli interessava. Perciò, se il signorino William fosse riuscito a mantenere il segreto sui tre mutaforma, il signor Shelby avrebbe puntato dritto su di lui. Ma Amos non avrebbe parlato. Aveva promesso. Aveva giurato. Neanche sotto tortura. E mentre veniva trascinato nell’atrio dell’albergo e veniva ‘gentilmente’ condotto per le scale, capì che stava andando incontro a un vero e proprio interrogatorio. E, Dio santissimo, aveva l’impressione che non sarebbe stato piacevole.
William non capì come si fosse ritrovato nella camera di suo padre. Fatto sta che era lì. Insieme alla banda.
Suo padre l’aveva fatto sedere al centro del letto. Amos, invece, era piantato sulla sedia dinanzi al tavolino, dalla parte opposta della stanza, vicino alla finestra che dava sul balconcino. Con tutti quei gorilla che trasudavano pericolo sembrava di essere rinchiusi in una cella. Non c’era un solo angolo buio, nella camera, se non le espressioni truci degli energumeni. Suo padre torreggiava davanti a lui. William aveva paura. Quando tutti quegli sguardi puntati su di sé gli fecero venir voglia di nascondere la testa sotto il cuscino, o ficcarsi sotto il letto, William chiese con voce flebile: «Che cosa c’è, papà?» Mark Shelby si massaggiò la radice del naso. Tutta la situazione gli pareva davvero incredibile. «C’è, figliolo, che voglio che tu mi dica tutto dei tuoi nuovi amici leoni.» «Per amor del cielo, signor Shelby» intervenne Amos, «sono solo tre ragazzini come il signorino William con cui abbiamo ato qualche ora a giocare. E se è preoccupato che possiamo aver rivelato la vera natura del suo lavoro, non ha motivo di temere.» «E me ne compiaccio, Amos.» Shelby gli lanciò un’occhiataccia. «Vuol dire che la tua fedeltà verso la nostra famiglia è più forte dell’onestà nei confronti dei poveri animali indifesi.» Si rivolse a suo figlio. «Tuttavia non è quello che volevo sapere. William» fece un o verso il letto, «vuoi sapere come ho soprannominato i genitori dei tuoi amici? I tizi dei leoni. Sai, per via di quello che si dice in giro di loro.» Ora le sue ginocchia toccavano il materasso. «Ma tu li hai chiamati in modo diverso. Li hai chiamati ‘amici leoni’. Perché? Non sapevi quello che la gente dice di loro. E in più, non li hai soprannominati ‘amici dei leoni’, come verrebbe naturale fare. No, tu hai omesso l’articolo, come se volessi intendere altro.» «Signor Shelby, tutto questo è assurdo!» imprecò Amos, facendo per alzarsi dalla sedia, ma una mano pesante calò sulla sua spalla per costringerlo a rimanere dov’era. Mark lo ignorò, inchiodando il figlio con lo sguardo. «Ora dimmi, William.» Incrociò le braccia dietro la schiena e piegò il busto in avanti, guardandolo dritto negli occhi. «Che cosa sono i tuoi amici?»
Oh, Dio santissimo. Aveva capito. Suo padre aveva capito. Sapeva, o sospettava, cosa fossero Jamila, Daren e Kenan. William sbiancò. Dannato lui e la sua lingua lunga che non andava molto d’accordo con il suo stupidissimo cervello! D’altronde, non aveva mai avuto l’occasione di mantenere un segreto, e il fatto che non ci fosse riuscito non avrebbe dovuto sorprenderlo. Oh, Gesù… E adesso? Cosa doveva fare? Una smorfia, scoppiare a ridere in faccia al padre e chiedergli se era impazzito? Buon piano, ed era anche l’unico che gli era ato per la mente. Suo padre lo incalzò. «Non sto scherzando, William. Voglio la verità. E sappi che crederò a tutto quello che mi dirai.» Decise di abbattere le difese di suo figlio, aggiungendo con voce più bassa: «Perché io mi fido di te, e so che non mi mentiresti mai. Non è così?». Will trasalì. «No, signorino William!» Il maggiordomo scattò in piedi e il braccio destro di Mark Shelby affondò il pugno nel suo stomaco. Il ragazzino sgranò gli occhi. «Amos!» strillò, mentre lo osservava furente e terrorizzato sorreggersi al suo assalitore per non crollare sul pavimento. «Un altro gesto del genere e ti faccio buttare fuori» lo avvertì il suo padrone con aria dura. Poi tornò su suo figlio. «Allora? Che cosa sono i tuoi amici?» Il rantolo di Amos rumoreggiò nel silenzio di William. «Ha giurato, signorino» gemette. «Ha promesso. I suoi amici si fidano di lei, non può…» «Silenzio!» tuonò Mark Shelby, e il suo braccio destro assestò un pugno sullo zigomo dell’anziano. «No, no! Per favore, papà, non fargli male!» Will gattonò fino al bordo del materasso per assicurarsi che Amos, riverso a terra con un rivolo di sangue che gli colava dal taglietto sulla gota, stesse bene. «Ti dirò tutto quello che so, ma lascialo stare, per piacere.»
«Allora parla. Cosa sono i tuoi amici?» William lo guardò con occhi lucidi. «Loro… loro sono…» Oddio, non poteva tradire i suoi amici. Dio, suo padre era venuto in Tanzania per catturare dei cuccioli di leone. E loro erano cuccioli di leone! Suo padre voleva rapire Jamila, Daren e Kenan. Non poteva permettere che succedesse. «Non parli? Bene, allora.» Suo padre fece un cenno ai suoi uomini. «Procedete.» Quando il primo, violento calcio arrivò, il cuore di William si fermò. Osservò la scena di cruda brutalità che stava avendo luogo davanti a lui. Accolse i brividi suscitati dallo schiocco raccapricciante della mandibola di Amos. Fissò le chiazze del sangue da lui sputato, le macchie sulla sua camicia, gli schizzi sull’intonaco della parete. Solo quando la vista del volto martoriato del suo maggiordomo, segnato da gonfiori e tagli da cui sgorgava sangue copioso, gli venne offerta su un piatto d’argento, William si ridestò. La nausea lo colpì come uno schiaffo e vomitò vicino al comodino. «Allora, figliolo, ora vuoi rispondere alla mia domanda?» Will si pulì le labbra con il dorso della mano, spostando lo sguardo su Amos. Dio, non riusciva neanche a reggersi in piedi da solo, o ad aprire gli occhi. Peccato, perché avrebbe tanto voluto che gli trasmettesse la forza per continuare a resistere. A non mollare. Ma ormai era solo. Guardò suo padre con aria afflitta ma anche con tanta, tanta rabbia. E gli raccontò tutto.
Che gli venisse un colpo. Mutaforma. Aveva pranzato con dei mutanti-leoni! Mark Shelby stentava a crederlo, sul serio. Lui, uomo tutto d’un pezzo e con la ferrea convinzione che il soprannaturale non esistesse, aveva appena ascoltato suo figlio raccontare di come era stato salvato dall’aggressione di un leopardo da tre ragazzini. Tre ragazzini che si erano trasformati in un lampo di luce in tre leoncini, per citare il piccolo William.
Cosa ancora più bizzarra, era che lui gli credeva. Ecco perché la sua mente incominciò immediatamente a elaborare un piano per sottrarre i cuccioli al branco. Quando lo ebbe comunicato ai suoi uomini e deciso con loro come agire esattamente, scrutò suo figlio. Si stava prendendo cura del maggiordomo con estrema gentilezza; gli dava il voltastomaco. Inutile, William non sarebbe mai diventato l’uomo che lui voleva che fosse. Solo qualcosa di scioccante avrebbe potuto stroncare il suo lato buono e liberare quello che, in futuro, gli sarebbe tornato utile. Mark Shelby prese per il gomito il suo braccio destro. «Chiama i nostri contatti a Dodoma e dì di mandare qualcuno qui che prenda mio figlio e lo rispedisca in America. Subito.» «Sissignore.» «Voialtri prendete il vecchio.» Mark Shelby estrasse una pistola da una tasca posteriore del gilet. Will scattò in piedi, mentre Amos veniva trascinato lontano da lui. «No! Perché? Ho fatto quello che mi avevi chiesto! Ho risposto alle tue domande! Ti ho detto tutto quello che volevi sapere, papà! Che cosa vuoi fargli?» «Sì, William.» Mark Shelby non prestò attenzione al tono iroso del figlio. Aprì un’altra tasca e ne tirò fuori un silenziatore che avvitò alla canna dell’arma. «Hai fatto tutto quello che ti ho chiesto, e sei stato bravissimo.» Si avvicinò al suo maggiordomo. «Ma sei stato anche un infame, e i veri uomini non lo sono mai. Hai tradito quei mostri. Non sei stato abbastanza forte da mantenere il loro segreto. Guarda Amos: lui sì che è un vero uomo. Ha sopportato di essere picchiato fino allo svenimento senza dire una sillaba. È lui il vero amico dei mostri, non tu. Tu? Tu sei un traditore; e non voglio traditori infami nella mia squadra.» Puntò la pistola sulla fronte del maggiordomo. Will piangeva oramai a dirotto. «No, ti prego, no… Papà, no…» «Ma forse posso ancora cambiare quello che sei.» Un sibilo di una frazione di secondo risuonò incisivo come una detonazione,
appena il dito si fletté sul grilletto.
12
RASHID era furioso e preoccupato. Molto preoccupato, dannazione. Il giorno dopo che Mark Shelby aveva pranzato insieme al suo branco, aveva svegliato i suoi uomini e con loro aveva girato in sembianze animali per la savana fino all’ora di pranzo.
Il piano che aveva escogitato non era andato in porto. Il convoglio di bracconieri non si era visto nel Ngorongoro, quella mattina, e Rashid aveva ruggito la sua esasperazione terrorizzando tutti gli animali della caldera. L’idea era di attirare Mark Shelby nella foresta e attaccare lui e i suoi uomini ferocemente (senza ucciderli, naturalmente, ma qualche graffio non avrebbe guastato). Più si sarebbero spaventati, meglio sarebbe stato. Peccato che il suo piano non avesse avuto luogo. Perché quel bastardo non si era fatto vivo? Rashid non si era alzato decidendo all’ultimo momento di fargli un agguato. Diamine, l’aveva ospitato in casa sua apposta per sapere i suoi progetti, e Mark Shelby aveva risposto che quel giorno si sarebbe recato agli stagni del Goose, a nord del Lago Magadi. Ma Rashid aveva tenuto gli occhi fissi sulla strada che scendeva vicino alle sorgenti del Seneto, e nessun convoglio del diavolo l’aveva percorsa. Sul momento aveva avuto il sospetto che i bracconieri si fossero accampati a sua insaputa da qualche parte nel cratere, ma Banga e Akil avevano stretto i denti e avevano ispezionato tutta la foresta lungo le pareti del vulcano. Il capobranco aveva dato loro il permesso di sfruttare la super velocità, giacché le fronde degli alberi li avrebbero tenuti al sicuro dai satelliti. Ma Mark Shelby e i suoi aguzzini non si erano fatti vedere. E ora, Rashid era arrabbiato e in apprensione. Soprattutto perché miliardi di pensieri aleggiavano nella sua mente, dandogli il tormento. Aveva paura che Mark Shelby si fosse rintanato da qualche parte e stesse mettendo a punto un piano per catturare i cuccioli a cui tanto anelava.
Be’, dov’era il problema? Bastava dire ai loro figli di non trasformarsi per nessuna ragione al mondo e tutto sarebbe andato per il meglio, no? Sì, maledizione. Doveva sforzarsi di pensare positivo, mentre mangiava succulenti cosce di pollo comprato e cucinato dalle donne del suo branco. Specialmente perché sua moglie lo scrutava di traverso. Rashid aveva la netta impressione che gli sarebbe toccato affrontarla tra non molto. E così fu. «Tesoro, posso parlarti?» disse Zena, mentre suo marito accarezzava il capo di sua figlia, la cui bocca era unta di grasso di pollo e olio. Rashid alzò lo sguardo sulla sua splendida femmina, masticando. Scambiò un’occhiata rapidissima con Banga e Akil, poi rispose: «Certo». La seguì sul retro della Roccia. Non era mai un buon segno quando lo trascinava lì in silenzio. Sapeva che si stava torturando le dita, anche se gli dava le spalle, e questo significava che voleva dirgli o chiedergli qualcosa di molto importante. «Dimmi la verità» esordì lei. Bene, pensò Rashid. Davvero bene. D’altronde, che si aspettava? Zena non era stupida, diamine, e sgattaiolare fuori dalla Roccia con tutti gli uomini, all’alba, non era stata una mossa furba. Aveva detto di non voler allarmare le leonesse ma, porca miseria, non avrebbe dovuto sottovalutare la perspicacia della sua donna. Non l’amava per questo? Il capobranco si tirò su le maniche della camicia, facendo dei profondi respiri. «Abbiamo un problema, sì.» «Quanto è grave?» domandò lei con voce incerta. «Abbastanza.» «Oh, Dio…» Rashid l’abbracciò da dietro, premendole le labbra all’incavo tra spalla e collo.
Cielo, adorava il profumo fruttato della sua pelle. «Non temere, non lascerò che succeda niente ai nostri piccoli. A nessuno di noi.» Zena si volse per guardarlo dritto negli occhi. «Raccontami tutto» gli intimò, aggrappandosi ai suoi bicipiti gonfi. Ora come ora, Mark Shelby era diventato un tipo imprevedibile e, per quanto Rashid ne sapeva, poteva attaccarli in qualsiasi momento. Cosa? Ma che stava pensando? Mark Shelby non aveva motivo di assalirli, perché lui non sapeva che loro erano mutanti-leoni. Eppure… aveva un brutto presentimento. Era assurdo, lo sapeva, ma non poteva ignorare quel brivido. Quindi, alla luce dei nuovi sviluppi, era meglio che le femmine del branco fossero pronte a tutto. «Un convoglio di bracconieri è alla ricerca di cuccioli di leone.» Le palpebre di Zena si spalancarono oltre l’inverosimile. «Oh, Dio santissimo…» Aggrottò le sopracciglia sottili. «Sono quegli uomini, vero?» lo aggredì. «Zena…» «Hai portato i mostri che vogliono catturare Jamila a casa nostra?» «Abbassa la voce.» «No, Rashid, non l’abbasso! Misericordia, ma come ti è venuto in mente?» «Loro non sanno di noi» si giustificò lui, indietreggiando mentre lei lo incalzava. «Dovevo sapere di più di Mark Shelby e di quello che voleva. Dovevo osservarlo e indagare per agire di conseguenza.» «Hai messo in pericolo i nostri cuccioli» sibilò Zena. «No, Zena, ho cercato di proteggerli» l’affrontò Rashid a muso duro, spiazzandola. «Cosa credi che avrebbe pensato, quell’uomo, se ci fossimo dimostrati diffidenti nei suoi confronti? Ci pensa già la gente, a crearci problemi con le dicerie. Dovevamo farcelo amico, Zena, o avrebbe creduto sul serio a quello che avrebbe sentito dire in giro.»
La donna roteò gli occhi, voltandogli le spalle. «Oh, Gesù, Rashid…» «Avevamo in programma di attaccarli questa mattina, agli stagni del Goose.» «Dove avevano detto che sarebbero andati oggi» convenne lei, dimostrando di essere stata particolarmente attenta mentre Mark Shelby parlava con suo marito. «Esatto» confermò lui. «Ma il convoglio non è sceso nel cratere. Mark Shelby non si è visto e…» Sbuffò. Be’, tanto valeva dirglielo. «Ho un brutto presentimento, Zena.» Sua moglie si strinse le braccia attorno al corpo e si voltò verso di lui. L’unica volta in cui Rashid aveva visto quell’espressione di terrore sul suo volto, era stata dopo la trasformazione. Ma, diamine, la capiva benissimo: anche lui era spaventato come un bambino. Jamila era la cosa più preziosa che avessero, e Mark Shelby gliela voleva portare via. Per sempre. Rashid abbracciò forte la sua femmina, che gli sussurrò in un orecchio: «Siamo ancora in pericolo, vero?». Il capobranco fendette il nulla con lo sguardo. «Non permetterò che prendano i nostri cuccioli. Non lascerò che prendano nostra figlia. Ma, Zena, se dovesse succedere qualcosa, dovrai prendere in mano la situazione e proteggere gli altri. Hai capito?» «Conta su di me.»
La giornata trascorse tranquillamente per i tre dodicenni. Anche se l’atteggiamento dei grandi non convinceva Jamila e Kenan. Si comportavano tutti in modo strano: erano tesi come corde di violino e sobbalzavano per un nonnulla. Cosa ancora più strana, era che le loro madri li avevano pregati di rimanere nella caverna al piano di sopra insieme agli altri bambini. Jamila era sdraiata sul letto di pellicce con Dana, Naja e Malik (che aveva un debole per lei). Daren e Kenan, invece, erano seduti a tavola e stavano facendo un gioco d’azzardo con i bicchieri e un noccio insieme a Din, Dinari e Nia (che aveva una cotta per Daren).
«Secondo me stanno architettando qualcosa» esordì Daren a un certo punto, sbuffando così pesantemente che i lunghi capelli biondi della piccola Nia, seduta di fronte a lui, ondeggiarono. «Di chi parli?» chiese Jamila, mentre intrecciava con grazia la chioma fluente di Dana. «Dei nostri genitori.» «Per me è in quello al centro» fece Din a Kenan, indicando il secondo bicchiere dei tre allineati sul tavolo. «Stanno semplicemente preparando la cena, e ne approfittano per fare una di quelle riunioni alle quali non possiamo assistere» disse Jamila. «Sei sicuro?» domandò Kenan al piccolo Din, fissandolo dritto negli occhi ambrati screziati di verde. «Mmh mmh» annuì il bambino. «Naa» strillò Daren per smentire l’amica. «C’è qualcos’altro sotto, me lo sento.» Kenan sollevò di colpo il bicchiere e Din, Dinari e Nia si abbandonarono a sospiri di sconforto. «Hai perso» decretò. «Ora tocca a te, Dinari.» Jamila si mise ad acconciare anche i capelli di Naja, scrutando Daren mentre scendeva dallo sgabello, regalava un sorriso alla piccola Nia e si inginocchiava accanto a lei sulle pellicce. «Secondo te, perché Will e Amos non si sono fatti vedere oggi?» sussurrò. Era rischioso parlare dei loro amici clandestini in presenza delle bambine, che avrebbero potuto raccontare tutto alle loro mamme, ma Jamila era tanto vicina a Daren che solo lui poteva sentirla. «Non lo so.» Daren si sdraiò supino e, istintivamente, sollevò una mano per sfiorare con la punta delle dita i capelli di Jamila. Lei glielo lasciò fare. «Forse sono andati da qualche parte con suo padre. Magari oggi ha deciso di are la giornata con il figlio, chissà.» «Jamila» Nia si avvicinò timidamente, «pettini anche me?» «Va bene. Siediti qui. Così brava. Vuoi anche tu la treccia come quella di Dana?
Okay.» Kenan spostò lo sguardo sulla sua amica, attento a non farsi beccare mentre la osservava. Dio, che modo sublime di muovere la spazzola, e che gesti eleganti. Approfittando dell’indecisione di Dinari nell’indovinare sotto quale bicchiere si trovasse il noccio, Kenan guardò quella fata bionda pettinare le sue ancelle mentre… Daren le accarezzava i capelli. No. Questo non gli piaceva per niente. Quella testa vuota non doveva permettersi di toccarla. Lei era… lei era… sua. «Allora» esordì il piccolo Dinari, balzando con gli occhi celesti su Kenan, «per me è nel primo a sinistra. Oppure, forse…» Uno strano rumore, quasi impercettibile, drizzò i peli dietro la nuca del dodicenne. «Ssh» ordinò a Dinari, spaventandolo con la sua aria minacciosa. Daren si sollevò a sedere, scrutandolo interrogativo. «Ohè, che c’è?» Kenan tese le orecchie, tenendo lo sguardo fisso sull’entrata della caverna. Perché non sentiva il profumino della cena che i grandi stavano preparando di sotto? Jamila si fermò con il pettine a mezz’aria, guardando Kenan, poi Daren. «Che succ…» «Ssh» sibilò Kenan, e il suo viso si contrasse in una maschera altamente sospettosa. Perché gli adulti non stavano scherzando, o quantomeno discutendo, come facevano sempre? «C’è qualcosa che non va.» Daren fece una smorfia. «Del tipo?» «Non lo sentite?» «Cosa?» fece Jamila, seriamente allarmata per la circospezione dell’amico. Kenan scivolò giù dallo sgabello, muovendosi lentamente verso l’entrata della grotta. Din e Dinari si tuffarono sul letto di pellicce, e tutti i bambini si strinsero intorno
a Jamila e Daren. «Kenan, ti prego, ci stai spaventando» lo apostrofò lei, rassicurando le bambine con rapide carezze. Kenan ascoltò attentamente il crepitio del fuoco nell’accampamento. In teoria, i loro genitori stavano arrostendo cosce di zebra e di gnu; quella sera, chissà per quale motivo, non avrebbero cenato come leoni. Gli adulti erano stati chiari: per un po’, nessuno di loro avrebbe assunto le sembianze animali. Solo che Kenan non udiva alcuno scoppiettio, o lo sfrigolio della carne che cuoce. Tutto taceva, fuori dalla caverna. «C’è troppo silenzio» commentò tra sé. Daren sbuffò, si alzò e gli andò vicino strisciando i piedi. «Amico» gli posò una mano sulla spalla, «sei paranoico. Siamo nel cratere di un vecchissimo vulcano: è logico che sia silenzioso. Neanche un meteorite si sognerebbe di schiantarsi qui.» Un istante dopo, tutto precipitò nel caos.
«Va’!» gridò Rashid. Con il sapore del suo uomo sulle labbra, Zena afferrò Abena, la madre di Kenan, e cominciò a correre verso la Roccia. «Andiamo, svelte!» urlò, voltandosi verso Kinue. Kinue era la madre di Daren e l’unica donna abbastanza forte, dopo di lei, da non lasciarsi prendere dal panico e aiutarla in quel momento di assoluto pericolo. Quando il sole era tramontato, gli adulti si erano riuniti nell’accampamento e, con la scusa di dover discutere di questioni ‘da grandi’, avevano detto ai bambini di aspettarli nella grotta al piano superiore. Era stato allora che Rashid aveva informato le femmine del convoglio di bracconieri e del rischio che correvano, specialmente i loro figli. Mentre decidevano sul da farsi, ora che anche le donne sapevano di Mark Shelby, il buio era calato in fretta, come se gareggiasse contro di loro in un gioco che aveva il gusto del sangue, della sofferenza e della morte. Nel sibilo sinistro
del fuoco, i mutaforma avevano avvertito la presenza degli umani. La presenza dei bracconieri di Mark Shelby. Rashid e i suoi uomini si erano guardati, avevano avvicinato le loro femmine e le avevano baciate con trasporto. Poi Zena si era sentita bisbigliare nell’orecchio di correre e non voltarsi; di andare di sopra con le altre, prendere i loro figli e scappare. Aveva provato a ribellarsi in silenzio, ma Rashid le aveva ribadito di correre e non voltarsi. Prendere Jamila, la loro bambina, e portarla in salvo. Via di lì. Lo scatto della sicura di un’arma da fuoco era giunto alle loro orecchie e il capobranco aveva lanciato un grido disumano, scagliandosi con gli altri maschi contro i bracconieri balzati fuori per attaccarli. Ora Zena doveva correre da sua figlia. Tutte loro dovevano correre dai loro figli e proteggerli. I grugniti e i rumori della lotta che stavano sostenendo i loro mariti le rincorrevano man mano che si inerpicavano sul sentiero breccioso che conduceva alla caverna, ma non potevano fermarsi. Dovevano portare i loro figli al sicuro.
«Oh, mio Dio!» strillò Jamila, quando uno sparo riecheggiò nel Ngorongoro, troppo vicino. «Oh, porca miseria!» imprecò Daren, mettendosi le mani nei capelli. «Che cosa è stato?» Kenan gli scoccò un’occhiataccia. «Secondo te, cos’era?» «Non quello che sto pensando, spero.» «Proprio quello, invece.» «Daren!» gridò Jamila, terrorizzata quanto i bambini che la circondavano con occhi grondanti di lacrime. I due dodicenni si voltarono contemporaneamente verso di lei, ma solo Daren
lasciò perdere la curiosità di affacciarsi fuori dalla grotta per andare da Jamila. Kenan si odiò per non essere immediatamente corso da lei, al momento dello sparo, e ardeva di gelosia perché l’amica aveva chiamato Daren. Non lui. «Tranquilli, tranquilli» disse Daren concitato. «Andrà tutto bene, vedrete.» Jamila allungò un braccio per aggrapparsi al colletto della sua T-shirt. «Che sta succedendo?» gli chiese, spaventata a morte. Per un istante che gli parve un’eternità, Daren si perse in lei. «Non lo so.» «Arriva qualcuno» esclamò Kenan, parandosi insieme al suo compagno dinanzi a Jamila e ai bambini. Era pronto a difenderli da chiunque avesse fatto irruzione nella caverna. A qualunque costo. Solo che nessun nemico varcò l’arcata, ma le loro madri. I loro respiri erano impressionanti, quasi avessero corso per chilometri e chilometri in forma umana senza essersi fermate neanche un attimo. Negli occhi sgranati, quasi spiritati, la paura navigava a vele spiegate. Paura e panico. Avevano i vestiti incollati ai corpi sudati e tremanti, mentre focalizzavano la loro attenzione sui ragazzini rannicchiati sulle pellicce. Zena fu la prima ad avvicinarsi. «Jamila» sospirò mentre la tirava su per un braccio. «Mamma, che succede?» «Tranquilla, tesoro, andrà tutto bene.» Jamila era stanca di sentirselo dire. Pretendeva di sapere cosa diavolo stava succedendo giù all’accampamento. E subito, perché mai… mai, cavolo… aveva visto sua madre terrorizzata. «Ci siete?» chiese Zena con tono da leader, anche se una piccola incertezza nella voce tradì la sua sicurezza. «Abena, Kinue, ragazze, siete pronte?» Jamila si voltò verso Daren e Kenan, anche loro tenuti per mano dalle loro madri; le altre bambine, invece, erano in braccio alle loro mamme, che tenevano saldamente i figli maschi per mano. Dio santo, perché erano tutte così impaurite?
Zena attese che le sue amiche annuissero. «Bene. Allora, bambini, statemi tutti a sentire. Adesso dobbiamo andarcene via. Lontano dalla Roccia, mi avete sentito?» Si rivolse alle bambine. «Tenete sempre gli occhi chiusi, d’accordo? Non apriteli finché non ve lo diciamo noi.» Loro assentirono, e Zena spostò lo sguardo su Jamila, Daren e Kenan. «Voi restate sempre vicino a noi e correte. Non fermatevi mai.» Jamila trasalì. Oh, misericordia. Qualunque cosa stesse accadendo, dannazione, erano in pericolo. «Ci siamo tutti?» Zena respirò a fondo. «Andiamo, allora. Forza!» Appena furono fuori dalla Roccia, Jamila si sentì mancare. Suo padre e gli altri del branco stavano combattendo contro le persone che avevano ospitato a pranzo il giorno precedente. Nel buio della notte, le fiamme del focolare proiettavano bagliori sinistri sui lottatori e sui fucili che gli umani impugnavano. Jamila vide suo padre schivare il calcio del fucile dell’uomo che stava affrontando. Lo riconobbe subito. Mark Shelby. Con gli occhi, Jamila ò in rassegna l’intero accampamento, che adesso sembrava un vero e proprio campo di battaglia. Mentre sua madre la trascinava senza pietà giù per il sentiero scavato nella pietra della Roccia, Jamila vide fiotti di sangue zampillare e risplendere alla luce del fuoco e della luna piena. Coltelli militari fenderono l’oscurità in cerca di carne da incidere. Kenan, fermamente aggrappato alla mano della madre, abbracciò l’area dello scontro con lo sguardo, cercando il padre. Lo trovò vicino al masso dove il capobranco si sedeva per raccontare le storie ai giovani: si stava battendo con un tizio grosso il doppio di lui; da una narice gli colava un rivolo rosso scuro, ma il suo avversario era messo peggio, con un sopracciglio spaccato e uno zigomo violaceo. Kenan fu colpito dall’impulso di andare ad aiutare il suo papà e rallentò la corsa, ma la mamma lo strattonò e lui capì di non poter fare nulla. Qualcuno, in mezzo al ring di terra, sabbia, polvere, fuoco e buio volò in aria e ricadde pesantemente sul suolo. Daren riconobbe immediatamente suo padre e non poté credere ai propri occhi. Mai lo aveva visto in difficoltà in una lotta, neanche quando si scontrava per gioco con il capobranco in persona. Perché non si trasformava? Perché tutti loro non si trasformavano e mettevano in fuga quegli umani cattivi, mostrando zanne e artigli?
L’energumeno che aveva scaraventato per aria suo padre avanzò minaccioso e letale su di lui, ancora riverso a terra; in una mano aveva un coltello dalla lama seghettata, mentre con l’altra stava estraendo una pistola dalla fondina ascellare. Oddio, pensò Daren, una pistola. Non riuscì a trattenersi e gridò: «Papà!». La battaglia si arrestò, e così il gruppo in fuga. Le labbra dei mutanti-leoni si arricciarono per la rabbia, inveendo con imprecazioni inudibili. I respiri delle donne riempirono il silenzio mortale, mentre i bracconieri rimiravano i bambini come fossero stati un’oasi nel deserto. Fu allora che Daren, Jamila e Kenan compresero di essere ciò che quegli uomini volevano. Erano lì per loro. E questo poteva voler dire una sola cosa. Sapevano. Jamila si sentì attirare contro la gamba lunga della madre che, posandole una mano sulla spalla, tremò. «Oh, no» mormorò. Kenan osservò Mark Shelby e lo intravide portare una mano al walkie-talkie agganciato sulla sua spalla. Anche a quella distanza, il dodicenne avvertii un bip e poi la voce profonda dell’uomo: «Sono qui. Prendeteli». Un grido di battaglia echeggiò nella caldera, e Rashid balzò sul bracconiere come una bestia inferocita. «Non li avrai mai, bastardo!» I fari di un Hummer si stagliarono dalla parte opposta del campo, abbagliando i fuggitivi fermi davanti all’entrata della caverna al pianoterra. I quattro sportelli si spalancarono contemporaneamente e il resto della banda degli umani saltò giù dalla vettura con espressioni truci. I loro sguardi iniettati di forza bruta puntarono l’obiettivo, e le femmine del branco sgranarono gli occhi. «Oh, cavolo» ringhiò Kenan. «Oh-oh…» bisbigliò Daren. «Correte!» ordinò Rashid, bloccando con le mani il calcio del fucile che minacciava di colpirlo sul naso.
«Via!» strillò Zena a squarciagola. I fuggiaschi si tuffarono nella foresta alle spalle della Roccia, risalendo il pendio ripido. Fecero affidamento alla vista felina per muoversi velocemente nel buio e schivare gli alberi, ciononostante non erano abbastanza veloci da seminare i loro inseguitori. I fasci luminosi delle torce tagliarono l’oscurità che avevano dinanzi, accarezzandoli e facendo loro pregustare il momento della cattura. I i pesanti dei bracconieri erano vicinissimi, e Zena sapeva che era questione di secondi, prima che li raggiungessero. Non potevano farcela. Non tutti insieme. «Jamila, Kenan, Daren» esordì con il fiatone. «Prendete i bambini e proseguite.» Le donne mutaforma si bloccarono e posarono a terra le figlie. I tre dodicenni non se lo fecero ripetere due volte e, capendo che era il solo modo che avevano per salvarsi, presero per mano i più piccoli e ricominciarono a correre senza guardarsi indietro. Dana, Naja e Nia erano molto impacciate, e i tre ragazzini dovevano mantenere un’andatura tale da non rischiare che cadessero o scivolassero via dalle loro prese ferree. Erano stanchissimi; correre in salita con due gambe era una faticaccia, senza contare che ognuno di loro si trascinava dietro due bambini. Le urla delle femmine che lottavano con gli uomini che li inseguivano risuonarono raccapriccianti, e Jamila dovette stringere i denti per l’orrenda sensazione che le formicolò sulle braccia. «Coraggio, piccoli, non fermatevi» ripeteva ogni cinque secondi, forse per convincere più se stessa che loro. Daren inciampò in un groviglio di erbacce, cadendo di faccia insieme a Nia e Dinari. «Che imbranato sei!» lo sgridò Kenan, fermandosi con Naja e Din. «Alzati!» Daren aiutò i due fratellini a rimettersi in piedi, poi un bagliore dietro di sé, in fondo alla discesa, attirò la sua attenzione. «Cacchio…» Si rivolse a Kenan: «Ce n’è uno laggiù!». Jamila sussultò. «Dài, andiamo!» «Per di qua» esclamò Kenan.
Jamila e Daren lo seguirono. «Perché?» chiese lei. «Se restiamo uniti non ce la faremo mai» spiegò Kenan, fermandosi quando l’erba diventò più fitta e più alta. «Bambini, dovete nascondervi qui. Restate giù e non muovetevi per nessuna ragione, okay? Torneremo a prendervi quando sarà sicuro.» «No, piccola» Jamila asciugò le guance di Dana con i pollici, «non piangere. Non dovete fare rumore, va bene?» Daren posò una mano sul capo di Malik. «Zitti e fermi. Noi torneremo presto» promise con un sorriso. Il crack di un legnetto spezzato fece accapponare la pelle dei tre ragazzini che, dopo essersi guardati intensamente, scattarono su per il pendio. Varie volte urlarono i propri nomi o altre frasi per sviare il cacciatore dai bambini nascosti ma, quando Jamila incespicò e cadde, i suoi compagni dovettero arrestarsi per soccorrerla. Un brutto taglio le solcava lo stinco, il sangue strisciava copioso sulla sua pelle. «Jamila» esclamò Daren, chinandosi vicino a lei e spostandole i capelli dietro le spalle. Kenan fece altrettanto, esaminando la ferita. «Riesci a correre?» le domandò, penetrandola con lo sguardo. Lei gli restituì la stessa occhiata. «Posso provarci.» «Ti aiutiamo noi» fece Daren, legandosi il suo braccio attorno alle spalle e issandola di peso. Un quarto respiro, pesante e affannato come quello di un toro infuriato dopo la carica, sibilò dietro di loro. Jamila e Daren si voltarono lentamente, negli occhi una paura che non accennava a lasciarli in pace. «Oh, no…» rantolò lei.
«Maledizione» imprecò lui. Non appena la sagoma massiccia dell’umano prese forma nelle tenebre e la luce della torcia che impugnava colpì le sue prede, Kenan si lanciò all’attacco cambiando forma in un lampo bianco. Jamila e Daren si tramutarono in statue di ghiaccio.
«Kenan!» Jamila guardò basita il leoncino avventarsi sull’uomo possente con tale ferocia da rivelarsi più potente di un leone adulto. Con le fauci in bella mostra e gli artigli sguainati Kenan lacerò gli indumenti dell’umano, affondandogli le unghie nella coscia muscolosa per non essere sbalzato via mentre quello scalciava come un cavallo imbizzarrito. «Oh, Gesù Cristo!» bestemmiò il bracconiere, grugnendo rumorosamente per il dolore. «Bestiaccia del diavolo!» Incominciò a cozzare l’estremità della torcia sulla testa di Kenan, e Jamila si coprì le orecchie per sfuggire a quel suono tremendo, incapace però di chiudere gli occhi. L’energumeno continuò a picchiare duro sul capo del piccolo leone, mentre con la mano libera tirava fuori un oggetto sospetto dalla tasca posteriore della cintura multiuso. Il sangue cominciò a sprizzare dal solco che la torcia stava scavando sulla fronte di Kenan, fendente dopo fendente, e Jamila si tappò la bocca con le mani per non gridare. Quando la punta dell’ago di una siringa scintillò nel buio, Daren intuì le intenzioni dell’uomo e non poté più stare a guardare. Scattò e si trasformò all’apice della parabola del balzo spiccato contro l’omaccione. «Daren!» strillò Jamila, rimasta sola, avvolta dall’erba fredda e umida. Il bracconiere lo colpì con la pila prima che potesse agguantarlo al collo, scagliandolo contro un albero come se avesse impugnato una mazza per colpire una noce di cocco in picchiata verso di lui.
Kenan ne approfittò per staccarsi dalla sua gamba e si diede un bello slancio per saltargli alla giugulare e farla finita. Ma qualcosa andò storto. Forse non calcolò bene i tempi, o forse fu semplicemente troppo lento, perché all’improvviso si vide la canna di una pistola puntata contro. Dannazione, tutte quelle botte in testa lo avevano tramortito più di quanto credesse, perché quell’uomo aveva avuto il tempo di rimettere la siringa al suo posto, illuminarlo con la luce e tirare fuori l’arma. Quella sì che era sfortuna, commentò Kenan nei suoi pensieri. L’urlo di Jamila lo fece tornare con la mente lucida un istante prima che la pallottola gli bucasse il petto. Un bruciore intenso divampò sulla sua spalla e il sentore del sangue gli invase le narici, mentre rotolava scompostamente sul suolo. Jamila corrugò la fronte, paralizzata dal terrore, e guardò il corpo di Kenan, immobile sul manto nero della notte. Non poteva più stare a guardare mentre quel mostro faceva a pezzi i suoi compagni. Quindi, afferrò la prima cosa che trovò (un sasso decisamente troppo piccolo per recare danno) e lo lanciò contro l’uomo che si preparava a ricacciare la siringa da infilare nella pelliccia di Kenan, ormai fuori gioco. La pietra rimbalzò sul suo testone e lui barcollò all’indietro. Daren si rialzò prontamente e si scagliò su di lui con tale impeto da solcargli il petto con gli artigli e farlo schiantare contro un albero. Il cucciolo di leone seguitò imperterrito a scavare nel torace dell’umano, che a sua volta si dimenava con pugni e manate altrettanto violenti. Finché un calcio non sbalzò via Daren, facendolo rovinare a diversi metri di distanza. Kenan guardò l’amico digrignare le zanne per resistere al dolore e salvarli da quell’incubo tremendo. Ma non poteva. Nessuno sarebbe venuto a salvarli. I loro papà stavano combattendo contro Mark Shelby e cinque dei suoi scagnozzi. Le loro mamme ne stavano tenendo occupati altri quattro. Nessuno poteva permettersi di venire a soccorrerli. Nessuno. Toccava a lui prendere in mano la situazione. Toccava a lui decidere cosa fare.
Toccava a lui sacrificarsi. – Daren – chiamò Kenan, la voce arrochita per il dolore alla spalla. L’amico levò lo sguardo su di lui. – Prendi Jamila e andatevene.
– Ma cosa stai…
– Salvala – gli ordinò Kenan, tenendo d’occhio l’umano che, lentamente, stava recuperando le forze per mettere KO anche Daren. – Non possiamo farcela tutti e tre. E lo sai.
Daren scosse la testa. – Oh, per piacere, amico, non mi sembra il momento adatto per mettersi a giocare all’eroe.
– Non è un gioco, razza di imbecille! – Kenan lo traò con un’occhiata omicida. – Devi salvare Jamila. – Perché lui l’amava, avrebbe voluto aggiungere. – Salvala. Ti prego. Tu devi farlo.
Per alcuni secondi che parvero secoli, Daren osservò il sangue che sgorgava copioso dal solco al centro del capo di Kenan: si riversava sul suo pelo folto e dorato, viscido e lucido, e gli colava intorno all’occhio come una specie di disegno con la vernice. Kenan aveva ragione a chiedergli, anzi, a comandargli di portare via Jamila. Anche se lei si fosse trasformata e li avesse aiutati, quel tipo aveva una cavolo di pistola, e i proiettili erano rapidi quanto la loro velocità sovrumana. Non ce l’avrebbero mai potuta fare. E se quel tizio avesse perso il controllo li avrebbe ammazzati tutti, invece di catturarli come Daren aveva mezzo intuito che dovesse fare. Altrimenti, a cosa gli sarebbe servita una siringa, se non per addormentarli con un sedativo?
Il bracconiere si destò di colpo e mosse i ampi e intimidatori verso Daren e Kenan, l’arma in una mano e la torcia nell’altra. Jamila strinse i denti e si ò il palmo sul taglio per asciugare approssimativamente il sangue, decisa a impedire a quel demone umano di fare del male ai suoi compagni. Ma, quando scattò in piedi per tuffarsi nel buio e trasformarsi, Daren riprese le sembianze umane e la placcò di punto in bianco. Jamila buttò fuori il fiato in un colpo solo, mentre lui l’afferrava per un polso, si rialzava e la trascinava lontano da quell’inferno. «Che stai facendo?» inveì lei, tentando di divincolarsi. «Che cosa stai facendo?» «Corri!» strillò Daren, imponendo alle sue gambe di non fermasi. Di non tornare indietro dal suo migliore amico.
Il suo migliore amico, sì, quello che aveva lasciato alle grinfie di quel bracconiere per salvare la propria vita e quella di Jamila. «No! Dobbiamo tornare subito indietro!» La ragazzina riuscì a liberare il polso e fece dietro front. «Jamila, no!» Daren le cinse la vita con entrambe le braccia, traendola a sé perché non scape via. Dio, se Kenan l’avesse vista riemergere dall’oscurità per salvarlo, non gliel’avrebbe mai perdonato. «Dobbiamo continuare a correre!» Lei gli diede una testata, poi ruotò sulle punte per dargli uno spintone. «Ma che stai dicendo? Non possiamo lasciare Kenan lì! Dobbiamo tornare da lui!» «È stato lui a dirmi di portarti via!» le confessò Daren, pulendosi il sangue tra il labbro superiore e il naso con un gesto di stizza. Oh, Dio… Jamila percepì una fitta al cuore, e le lacrime le inondarono gli occhi. «No, lui… non l’avrebbe mai fatto…» Daren si fece serio. «Oh, sì, invece. Significhi molto più di quello che pensi, per lui.» Le si avvicinò. «E se adesso torni lì, il suo sacrificio non sarà valso a niente. Prenderanno anche te e me.»
Jamila singhiozzò, abbassando il capo. «Kenan…» Daren le posò le mani sulle spalle, fissandola. «Jamila, dobbiamo continuare a correre. Per Kenan.» Lei sussultò e il viso di Kenan, un attimo prima che la polaroid di William lo immortalasse, le apparve nei pensieri. Annuì piano e le dita di Daren si intrecciarono alle sue. Guidandola lontano.
13
DAREN avvertì la rabbia montargli dentro. Mentre scendeva lungo la parete rigogliosa di vegetazione insieme a Jamila, si sentiva sempre più un codardo. Non avrebbe dovuto abbandonare Kenan. Non avrebbe dovuto, maledizione. Gli amici non si lasciano indietro. E Kenan era molto più di un amico, per lui: era suo fratello, quello che non aveva mai avuto; checché ne dicessero Kenan e il suo orgoglio.
Sarebbe dovuto rimanere lì con lui e avrebbe dovuto continuare a lottare per la loro sopravvivenza. Ma, cavolo, non avrebbe rischiato la vita di Jamila. Ecco perché a stento aveva battuto ciglio, quando Kenan gli aveva ordinato di portarla in salvo. Si trattava di Jamila, la loro compagna, quella che entrambi amavano (perché Daren sapeva che anche Kenan era innamorato di lei, anche se si rifiutava di ammetterlo) e per nessuna ragione al mondo andava messa in pericolo. Ecco perché la teneva saldamente per una mano e cercava di correre dove il terreno era meno accidentato, per ridurre al minimo lo sforzo di Jamila nel proseguire con un orrendo taglio sanguinante allo stinco. Man mano che scendevano, Daren non udiva i rumori della lotta tra i bracconieri e gli adulti. Stavano raggiungendo il punto in cui avevano nascosto i più piccoli del branco ma, arrivati a quel punto, avrebbero dovuto sentire le grida di battaglia delle loro mamme, rifletté Daren. Quando trovarono i bambini, congelati dalla paura, Jamila e Daren si chiesero se fosse il caso di tornare alla Roccia, o prendere i bambini e spostarsi verso ovest, il più lontano possibile dalla strada che il convoglio avrebbe dovuto risalire per uscire dal cratere. Poi le voci dei loro genitori risuonarono come campane a festa nel Ngorongoro. Stavano chiamando loro. Urlavano i loro nomi con tale disperazione da far insorgere le lacrime negli occhi di Jamila. I due ragazzini compresero che i bracconieri se n’erano andati e che il peggio era ato, così tornarono dalle
loro famiglie insieme agli altri bambini del branco. Mentre Rashid e Zena abbracciavano Jamila fino quasi a soffocarla, lei osservò le tracce del combattimento impresse nella polvere. Lo spiedo era stato rovesciato a terra, probabilmente qualcuno ci era atterrato sopra. I pentoloni non erano più accantonati sotto l’alberello vicino al grosso masso ma sparsi qua e là come grovigli di paglia che rotolano senza meta nella sabbia. C’erano chiazze di sangue rappreso; sangue dei nemici e dei maschi valorosi del branco. Jamila non sentiva niente di quello che le stavano sussurrando i genitori. Tutto quello che udiva era il fuoco che sibilava. I pianti dei bambini e delle mamme e i sospiri di sollievo dei papà erano muti. Erano tutti muti. Tranne Banga e Abena. «Dov’è Kenan?» stava gridando Abena. «Dov’è mio figlio?» Era in preda all’isteria, tanto che Jamila si spaventò quando la prese per un braccio e la guardò dritto negli occhi. «Jamila, ti prego, dimmi dov’è Kenan.» Kenan. La giovane fu assalita da uno spasmo. «Lui…» Daren l’affiancò. «L’hanno preso. Abbiamo combattuto contro uno dei bracconieri ma era troppo forte, anche se eravamo in sembianze animali.» Un silenzio tombale cadde nell’accampamento. «Oh, mio Dio.» Kinue si chinò accanto a Abena, cingendole le spalle con un braccio mentre lei mollava la presa su Jamila. «Dev’essere stato quell’uomo che ci è scappato» ipotizzò Zena, affiancando l’amica dall’altro lato e scostandole i capelli biondi dal viso attonito. «Evidentemente non è tornato indietro dal suo capo, come avevamo pensato» aggiunse Kinue, grave. Zena si accigliò. «No. Ha inseguito i nostri figli.» Banga mostrò le zanne, mentre serrava talmente forte i pugni che gli artigli gli incisero la carne e il sangue colò denso. «Rashid» esordì ringhiando, «vado a riprendermi mio figlio.»
Il capobranco gli posò una mano sulla spalla. «E noi veniamo con te.»
No, non poteva farcela. Jamila non aveva la forza di stare a guardare mentre i maschi del branco si dividevano in squadre per rincorrere il convoglio di Mark Shelby e recuperare Kenan. Perché si davano tanto da fare? Per Kenan non c’era più speranza, ormai. Lei lo sapeva, perché gli altri non volevano capirlo? Lo aveva visto sanguinare inerme nell’oscurità e sapeva benissimo cosa era accaduto quando lei e Daren erano scappati, abbandonandolo al suo destino. Non c’era più niente che potessero fare, per cambiare le cose. Niente. Jamila si mosse come un automa per l’accampamento disastrato, schivando i bambini e le loro mamme, ando tra gli uomini pronti per andare a riprendersi Kenan. Erano proprio convinti di poter vincere, non riusciva a crederci. Mentre lei era stanchissima. La gamba le doleva. Il taglio le bruciava tremendamente. Il bello era che i grandi erano conciati peggio di lei e si preoccupavano di salvare Kenan, invece di pensare a curarsi. Be’, c’era solo da sperare che presto o tardi avessero capito che per Kenan non c’era più niente da fare. «Jamila» la chiamò una voce lontana. La conosceva… Ah, sì, era Daren. L’unico amico che le era rimasto. La stava seguendo come un cagnolino. «Jamila, dove stai andando?» «A dormire» rispose lei, già pronta a entrare nella grotta, mutare forma e sdraiarsi per riposare. Daren sbuffò e serrò una mano attorno al suo polso, trascinandola sul retro della Roccia per parlarle a quattr’occhi. Sì che era sconvolta, era comprensibile, ma non poteva tollerare di vederla in quello stato. Doveva scuoterla in qualche modo. «Jamila» esordì, «non è finita. Vedrai, i grandi troveranno Kenan e lo riporteranno qui.» «Oh, no, anche tu ne sei convinto…» fece lei con aria afflitta. «Ma dov’eri, eh? C’eri anche tu, Daren, e non puoi davvero credere che tutto si risolverà per il meglio.» «Sì, invece.» Daren le prese il viso stanco tra le mani. «I nostri genitori…» «I nostri genitori sono stupidi» lo incalzò. «Pensano di poter acciuffare Mark
Shelby prima che sparisca dalla Tanzania, ma quel tipo ha sicuramente un aereo privato che lo aspetta chissà dove per portare Kenan in un altro continente.» Jamila tremò. «Non lo vedremo mai più…» Dio, no. No. Assolutamente no. Daren non poteva sopportare le sue lacrime. Ogni goccia vitrea che le rotolava giù per la guancia era rovente come lava e pesante come una tonnellata, per lui. Non poteva lasciare che Jamila piangesse per il resto della vita. Non poteva sopportare di non vederla sorridere mai più. Lei, il suo sole. No. No, avrebbe fatto di tutto pur di renderla di nuovo felice. «Jamila, ascoltami. Lo rivedrai. Mi hai sentito? Tu rivedrai Kenan. Hai capito? Io lo riporterò a casa. Lo riporterò da te. Dovessi viaggiare per tutto il mondo, io lo troverò e lo riporterò qui. Da te.» Lei annegò nelle sue parole, aggrappandosi al verde giada delle sue iridi come fossero state boe nell’oceano. Il terreno le mancò sotto i piedi, di fronte alla sua determinazione. Era come se Daren risplendesse di una nuova aura, ricolma di forza, rabbia e ferrea volontà. Adesso, l’amico le appariva come un titano pronto a fare qualsiasi cosa per lei. Era il suo monolito. Suo. Con il cuore gonfio d’emozione Jamila premette le labbra sulle sue per un secondo, poi l’abbracciò fortissimo. «Grazie, Daren» mormorò, scoppiando a piangere sulla sua spalla. Lui le cinse la vita con le braccia, attirandola a sé. Quel bacio non aveva significato niente per lei. E non aveva significato nulla per lui, giacché nei suoi occhi ardeva un solo e unico proposito: trovare Kenan. «Lo riporterò da te, Jamila» le bisbigliò risoluto in un orecchio. «È una promessa.»
14
«È lui, uno dei tuoi amici leoni, non è così?» Rinchiuso in una gabbia di ferro nella stiva di una nave, Kenan scrutava con odio liquido negli occhi azzurri gli energumeni che lo accerchiavano. Quando Daren e Jamila erano scomparsi dalla sua vista, l’umano gli aveva iniettato un sedativo e lui era rimasto incosciente fin quando il cullare dell’acqua e il suo profumo non lo avevano svegliato. Subito aveva capito che Mark Shelby disponeva di un’imbarcazione privata e che stavano solcando le acque del Lago Vittoria, diretti magari in Kenya, o in Uganda. Il che era un bel vantaggio, visto che sicuramente il branco credeva che Mark Shelby e il suo convoglio si sarebbero diretti a est, a Dodoma, forse pensando che l’americano avesse un aereo con cui filare direttamente in America. Be’, questa sì che era fortuna, si disse Kenan. «William» Mark Shelby premette le dita dietro la nuca del figlio, che si inarcò per il dolore, «ti ho chiesto se lui è uno degli amici di cui mi hai parlato.» Will era davvero fortunato che Kenan fosse dietro le sbarre, altrimenti se lo sarebbe mangiato vivo. Cavolo, cavolo, cavolo! Fin dall’inizio aveva sospettato di quel riccioletto ma, per stare a sentire Jamila e Daren, non aveva seguito il proprio istinto. E guarda un po’ cos’era successo. Che gli servisse da lezione: ecco cosa accadeva a familiarizzare con gli umani, soprattutto con quelli stranieri che ti offrono un sacchetto di patatine. Era colpa di William. Quel brutto rammollito aveva raccontato al padre di loro, infrangendo la parola data. Che infame. Che maledetto infame. Mark Shelby si inalberò e spinse il figlio contro la gabbia. Oh, sì, pensò Kenan, l’offerta migliore che quell’uomo potesse fargli. Infischiandosene degli omaccioni pronti a prenderlo a calci al primo segno di ribellione, si avventò contro Will. Attraversò le fessure della gabbia con le braccia e lo afferrò per la collottola, spremendogli la faccia contro le sbarre.
«No, fermi» intimò Shelby ai suoi uomini. «Brutto moccioso infame» sibilò Kenan, inchiodando William con sguardo assassino. «Lo sai che cosa hai fatto? Ci hai traditi, bugiardo che non sei altro. Per poco non ci ammazzavano tutti quanti, lo sai? Prega Dio che non riesca a liberarmi, perché giuro che ti strapperò la gola a morsi.» Mark Shelby sottrasse suo figlio dalle grinfie di Kenan, spingendolo da parte. «Interessante» disse tra sé, rimirando gli artigli sbucati sulle dita del prigioniero mentre si chinava alla sua altezza. «E puoi farlo davvero? Puoi strappare la gola di qualcuno a morsi?» Kenan premette una mano sulla ferita alla spalla; sanguinava ancora, anche se di meno. Rimase dov’era, quel vecchio Indiana Jones non lo spaventava neanche un po’. «Faccia entrare suo figlio nella gabbia e glielo mostrerò.» «Quelli puoi farli apparire e sparire quando vuoi?» fece il signor Shelby, indicando gli artigli. «Come funziona?» «Mi escono se voglio sbranare qualcosa. O qualcuno.» «Uhm. Puoi fare la stessa cosa con le zanne?» Kenan sollevò il mento con aria spavalda, stirando un angolo delle labbra. «Siete solo tu e i tuoi due amici a possedere questo dono, o tutte le vostre famiglie? Sai, ho avuto il piacere di scontrarmi con Rashid… È questo il suo nome, giusto?… Ma non ho visto né zanne, né artigli.» «Che cosa vuole da me?» scattò Kenan di punto in bianco, sviando la domanda. Mark Shelby accennò un sorriso sornione. «Voglio sapere chi ti ha dato la capacità di trasformarti in leone.» Kenan socchiuse gli occhi, sondando la sua mente. «Perché?» «Chi ti ha dato questo dono?» «Non è un dono.»
L’espressione di Mark Shelby ebbe un fremito. «Se non parlerai, ragazzino, catturerò anche tutte le persone a te care e le torturerò. Le ucciderò, se necessario. Davanti a te, finché non farai quello che voglio.» Kenan lo scrutò mentre si rimetteva dritto e indietreggiava dalla gabbia. «Non le serve la mia famiglia per avere risposte che posso benissimo darle io. O per farmi fare quello che vuole.» Mark Shelby si voltò verso di lui. «Che cosa hai in mente, piccolo mutante?» Kenan lo fissò, inspirando a fondo.
15
Nove anni dopo
LA leonessa sfrecciò come un missile tra gli alberi alle radici della parete ripida del vulcano, tuffandosi nella Foresta di Lerai. I muscoli le dolevano, data l’andatura che stava sostenendo, ma non poteva farsi superare dai leoni più giovani che le stavano alle calcagna. Cavolo, ne andava della sua reputazione e rischiava di essere spodestata come leader.
Nella foga della corsa tra un’acacia e l’altra, scorse un ghepardo acquattato dietro un cespuglio, pronto a scagliarsi sul gruppo di leoni che aveva invaso il suo territorio. Oh, peccato che in primis non avesse notato che erano leoni maschi adulti, quelli che le stavano dietro; e secondo, non aveva capito che non aveva alcuna speranza di sopravvivere, con lei nei paraggi. Eh, sì, modestamente era la femmina più forte del branco ed era anche l’unica che andava a caccia con quelle più anziane, perché le più piccole avevano un rigetto totale all’idea di correre, sudare e sporcarsi del sangue della propria preda. Peggio per loro, perché era quello che lei amava, invece. La leonessa scoprì le zanne contro il ghepardo che soffiò e s’irrigidì. Allora, lei rallentò la sua corsa e ruggì verso di lui. L’avvertimento rimbombò nella foresta, diffondendosi come onde in uno specchio d’acqua. – Ecco, bravo gattino – fece uno dei leoni maschi alle sue spalle. – Sta al tuo posto.
– Aveva proprio intenzione di attaccarci – disse un altro.
– Be’, gli sarebbe andata maluccio. Non trovi, Dinari? – intervenne lei, mantenendo l’andatura attuale per scambiare quattro chiacchiere e assicurarsi che il ghepardo avesse compreso l’antifona.
– Eh, già – rispose lui. – Sei d’accordo anche tu, Din?
– Assolutamente sì. Deve solo provarci, quel gatto, a seguirci; gli tolgo quelle macchie gratis a suon di zampate.
– Con permesso! – parlò il terzo leone, sfrecciando in testa al gruppo, deconcentrato dallo scambio di battute.
– Ehi, Malik, non vale! – protestò Dinari.
Din scosse la criniera. – Sempre il solito esibizionista, eh, Malik?
Non era detta l’ultima parola, pensò la leonessa. Cambiò il o insieme agli altri due maschi e schizzò dietro al leone che conduceva la gara. Nonostante lei fosse meno impacciata, data la mancanza della prosperosa criniera, i suoi avversari non perdevano un colpo e riuscire ad affiancare Malik nella savana fu una vera impresa. Ma ce la fece e, a pochi metri dal traguardo, mise il turbo vincendo la corsa. La bella Dana, con il suo lungo vestito nero, scese dal masso che svettava nell’accampamento antistante alla Roccia. I morbidi capelli le ricadevano sul petto in boccoli definiti, incorniciandole il viso appuntito e mettendo in risalto le labbra rosse.
Alla sua destra, Naja la sovrastava con la sua altezza, contrapponendosi alla sua aria da regina della notte con un abito fresco e svolazzante. Gli zigomi alti e rotondi spiccavano per il loro colorito accentuato, minimizzando le labbra sottili e illuminando i suoi occhi azzurri come lapislazzuli. Portava i capelli raccolti, una tattica molto efficace per mostrare il collo lungo ed esile e far cadere Malik ai suoi piedi. Alla sinistra di Dana, invece, stava Nia. Era la femmina più sfacciata del branco poiché, essendo la meno bella, doveva attirare l’attenzione su di sé sfoggiando un abbigliamento volgare. Il problema era che i genitori non potevano dirle niente, in quanto, sottoforma di leone, Nia era già adulta. Era alta e formosa, e non smetteva un attimo di vantarsene e di mettersi in mostra per la sua preda, il bel Dinari. «Non c’è niente da fare, ragazzi» esordì Dana, quando i leoni affaticati ripresero la forma umana. «Non riuscirete mai a batterla, è troppo veloce.» «Ma è anche più anziana, in teoria» ribatté Malik, sfilandosi la T-shirt per asciugarsi l’attraente viso madido di sudore. «A maggior ragione, non dovresti imbrogliare, amico» lo apostrofò Din, imitandolo. «Dico bene, Jamila?» Jamila si avvicinò all’alberello accanto al masso in cerca di un po’ d’ombra, slacciandosi i lacci all’altezza del petto della maglietta e tirandosela fuori dai pantaloncini per far circolare l’aria. «Evidentemente si sente inferiore, altrimenti non lo farebbe.» Si tirò su la chioma ondulata perché le si asciugasse la nuca bagnata. Poi scoccò un’occhiata maliziosa al diretto interessato. «Dico bene, Malik?» Nonostante avesse quindici anni, Malik ne dimostrava molti di più con il suo fisico atletico, le gambe lunghe e muscolose, gli addominali scolpiti e le braccia grosse quanto le cosce mingherline di Dana, sua sorella. Era l’orgoglio dei suoi genitori, in quanto bellissimo, spiritoso e forte. Infatti diceva sempre di voler diventare membro dei vigilanti del branco che, dopo l’attacco dei bracconieri, aveva iniziato a girare per tutta l’Africa in cerca del compagno rapito. Perfino Jamila non era insensibile al suo fascino arrogante, mentre le andava vicino con la maglietta agganciata al collo e un vezzo sulle labbra. «Perché non ci affrontiamo su qualcosa che non sia la corsa, visto che sei tanto sicura di te?»
Gli occhi di Jamila si ridussero a due fessure. «Oh» sospirò, sporgendo il volto verso di lui, «e che cos’è che avevi in mente, di preciso?» Malik poggiò una mano sul tronco, chinandosi su di lei e annusando il suo profumo. «Qualcosa in cui non potrai dire che non sono un campione» rispose a bassa voce, sensuale. Con la coda dell’occhio Jamila vide la sofferenza sul viso dai tratti angelici di Naja e spinse via Malik con un sorriso altezzoso. «Non ci pensare neanche, ragazzino. Sei troppo piccolo per me. Ti consiglio di sfoderare la tua arte nella seduzione su qualcuno della tua età.» Din, accanto alla sua Dana, scoppiò in una risata fragorosa. «Grandissima, Jamila!» «Ahia, Malik» fece Dinari, mentre quella viscida di Nia gli massaggiava le spalle. «Sei proprio un perdente, quando si tratta di Jamila.» «Piantala!» ringhiò Malik, tirandogli la T-shirt. Jamila scosse la testa e il suo sguardo andò alla caverna al piano di sopra della Roccia. Sua madre la stava guardando, una grossa ciotola stretta al grembo e nell’altra mano un mestolo con cui mischiava il contenuto. Che bella era, sotto la luce del sole. Jamila la salutò con un cenno, poi si spostò vicino a Naja con un’espressione dolce. «Grazie per prima» le bisbigliò la ragazza, imbarazzata. Jamila le toccò la spalla con la propria. «Figurati. Ma tu sbrigati a dirgli quello che provi per lui.» «Va bene» esclamò Malik, guadagnando l’attenzione dei suoi amici e il centro dell’accampamento come un gladiatore imbattibile pronto ad affrontare dieci tigri. «A detta dei presenti, a quanto pare, non ho nessuna possibilità di prendere il tuo posto come leader del gruppo.» «Oh, non essere così duro con te stesso» lo canzonò Jamila. Malik sfoggiò un sorrisetto sornione. «Dunque, ti sfido, Jamila, figlia del capobranco.»
Lei inarcò le sopracciglia. «Tu vuoi sfidarmi? E a cosa?» Lui sogghignò e le fece segno di raggiungerlo. «Ci batteremo qui, davanti a una schiera di validi giudici.» Indicò i ragazzi con un ampio gesto e scoccando un’occhiataccia a ognuno di loro. «E decideremo una volta per tutte chi merita di essere il capo.» «Cioè chi è il più forte» precisò Jamila, legandosi i capelli in maniera approssimativa con una forcina arrugginita che teneva nella tasca posteriore dei pantaloncini. «Esattamente» replicò Malik, scrocchiandosi le dita con fare intimidatorio e iniziando a girarle intorno. «Un combattimento leale per il comando.» «Tu non sai essere leale.» «Dovrai rischiare, o ti considererò una codarda.» «Vai, Jamila!» strillò Nia come un’oca pomposa. «Fagli vedere di cosa sei capace! Yuhu!» La ventunenne scosse il capo, alzando gli occhi al cielo. Dio, dopo la bella corsa sfiancante per tutto il Ngorongoro, quello scontro era proprio l’ideale per recuperare le energie. «Via!» urlò qualcuno. Jamila si ritrovò improvvisamente a schivare una sequenza di cazzotti degni di un pugile professionista, e la sua unica possibilità di contrattaccare fu con una ribaltata a piedi disuniti. Quando Kenan era stato rapito e Daren era diventato di diritto un vigilante, Jamila aveva supplicato suo padre di prendere lei, Malik, Din e Dinari come allievi. Il pensiero di essere la più debole, quella che Kenan e Daren avevano sempre dovuto proteggere, l’aveva fatta imbestialire e si era buttata anima e corpo per imparare a difendersi. Tuttavia Malik era intenzionato a batterla e ci stava andando pesantuccio, constatò Jamila, quando un manrovescio schioccò sulla sua mascella. Lei crollò violentemente a terra, mangiando la polvere e percependo il sapore del sangue
sulla punta della lingua. Ma tu guarda, si disse, il bel Malik faceva sul serio. «Andiamo, Jamila» la provocò, allargando le braccia, divertito. «Coraggio, tesoro, ho appena cominciato a dartele.» Lei avrebbe cominciato adesso. Si rialzò e stavolta fu lui a retrocedere sotto il suo feroce attacco. La ragazza aveva velocità e flessibilità dalla sua parte, che risultarono ottimi alleati contro la potenza dei muscoli di Malik. Durante gli anni di addestramento, loro due erano sempre stati alla pari ma, quando Malik aveva sfoggiato quell’aitante corpo, aveva perso parecchi punti in velocità. Però aveva acquisito una capacità di incassare colpi non indifferente. Ecco perché Jamila puntava alle gambe: farlo cadere e stringerli le mani attorno al collo finché non si fosse arreso, era l’unico modo per batterlo. Certo, Malik non avrebbe mai ammesso la sconfitta, orgoglioso com’era, perciò avrebbe dovuto capire da sola quando avesse rischiato di ucciderlo. Quindi, senza indugiare oltre lo atterrò con una mossa tanto rapida quanto letale, montando a cavalcioni sul suo petto e attanagliandogli le dita alla gola. «Arrenditi» gli intimò. Lui fece per afferrarla per i capelli, ma Jamila gli inchiodò i polsi sul terreno e gli premette un ginocchio alla base del collo. «Arrenditi» ripeté con veemenza. «O… okay» farfugliò Malik, rotolando su un fianco e tossendo quando lei lo lasciò andare. «Grande, Jamila!» Din le diede il cinque. «Sei stata semplicemente grande.» «Mitica, boss!» esclamò Dinari, spiccando un saltello in contemporanea a Jamila per sbattere il torace contro il suo e poi farsi dare una bella strigliata sulla testa. Naja si avvicinò timidamente alla femmina più grande. «Jamila, non sei stata un po’ troppo dura con lui?» le chiese sottovoce. Lei la prese sottobraccio. «Piccola, qui quella che sanguina sono io, mi pare. Sta’ tranquilla, non gli ho fatto male. Credimi, neanche un po’. Almeno, adesso hai la scusa per andare da lui e confortarlo come si deve.» Le sfregò l’indice sotto il mento. «Non so se mi spiego….» Naja arrossì visibilmente. «Okay, hai capito quello che intendo.»
«Ohè, Malik!» «Woh, woh, woh!» Jamila si girò di scatto, un secondo prima di vedere Malik avventarsi su di lei con gli artigli in bella vista.
No, dannazione. No. Un mese di lontananza e quel senso di possesso nei suoi confronti non si era affievolito nemmeno un po’. Anzi, si era rafforzato. Al punto che, Dio santo, gli dava sui nervi perfino che gli altri maschi la guardassero. Eccola lì, Jamila, reduce da una galoppata pazzesca e con l’aura della vincitrice che la faceva risplendere più del sole. Era appena tornato con la squadra e la prima cosa che aveva fatto era stato chiedere a Zena dove fosse sua figlia. Solo per scoprire che la signorina se la stava sando con i ragazzini, invece di… fare qualsiasi altra cosa… magari stare in cucina con le altre donne. Si era aspettato di vederla sotto l’arcata della grotta al piano di sopra, con gli occhi puntati sull’orizzonte, in attesa che lui tornasse. Invece no. E brava Jamila; lei sì che si era buttata tutto alle spalle e aveva ripreso a vivere la sua vita come se nulla fosse cambiato. Un po’ la invidiava, sul serio. Anche lui avrebbe voluto dimenticare, ma le parole che aveva pronunciato quella notte, sul retro della Roccia, aleggiavano continuamente nella sua mente. D’altronde, non era il tipo che non mantiene le promesse. Il contrario, casomai. Lui manteneva sempre la parola data. Ma guardala, si disse mentre la osservava all’ombra della caverna al pianterreno, ora si stava battendo con Malik. Cribbio, quel ragazzino era anche più grosso di lui, eppure Jamila non se la cavava male. Eh no, cavolo, lo aveva sbattuto a terra. Che velocità! Jamila era capace di sorprenderlo con qualche nuova capacità ogni volta che tornava da una spedizione. Ecco che adesso gli aveva piantato un ginocchio nella gola. Dio, quanto lo
eccitava vederla prendere il controllo della situazione come se le spettasse di diritto. Amava vederla vincere. Amava lei. E moriva dalla voglia di andare lì, farsi largo tra le quindicenni accaldate per via di tutti quei torsi nudi che le circondavano, prendersi la sua femmina e trascinarla dalla parte opposta del cratere solo per essere certo di non essere disturbato da nessuno. Un mese, cacchio. Era ato un mese dall’ultima volta che l’aveva toccata e lui aveva ancora il coraggio di starsene lì nascosto? Era decisamente impazzito. Abbassò lo sguardo per trovare la forza di uscire. Che codardo! Ma possibile che, a ventun anni, fosse ancora così vigliacco quando si trattava di Jamila? Wow, forse era davvero il caso di farsi dare qualche ripetizione da quel pomposo di Malik. Tornò a guardare verso l’accampamento giusto in tempo per notare gli artigli appena spuntati al posto delle unghie sulle mani del ragazzino. Prevedendo quello che aveva in mente, scattò senza pensare e in un lampo si ritrovò tra lui e Jamila. Le giovani lanciarono un grido di terrore, mentre lui parava la zampata con una mano e con l’altra spingeva indietro il mutante. Sentì pronunciare il proprio nome, ma ciò che gli premeva in quel momento era inchiodare Malik con lo sguardo affinché capisse quello che stava per dirgli. «Non la toccare» gli ordinò cupo. Malik lo schernì con un ghigno. «Oh, bentornato a casa, eroe. Scusa se mi permetto, Daren, ma non vedo il tuo nome scritto sopra.» Indicò Jamila con lo sguardo. «È tua?» Sì. «Tu non devi azzardati a toccarla ancora.» Girò i tacchi e avanzò in due i verso Jamila, cingendole la vita con un braccio prima che svenisse ai suoi piedi. Quando lei gli premette i palmi sul petto, si sentì pervadere dal desiderio di sfilarsi la T-shirt per sentirla sulla pelle. Avrebbe voluto contemplare la sua bellezza, ma la vista del sangue sul suo labbro inferiore lo mandò su tutte le furie. «Altrimenti, Daren?» lo provocò Malik, allargando le braccia. «Che cosa mi fai? Mi cacci dal branco? Non hai l’autorità per farlo.»
L’occhiata che Daren gli lanciò non solo lo traò, infondendo in Malik un acuto senso di inquietudine, ma, se ne avesse avuto il potere, lo avrebbe bruciato vivo. «Ti taglierò ogni singola falange delle mani e dei piedi, in modo che tu non possa usare gli artigli né in una forma, né nell’altra.» Un sussulto generale, e Daren ebbe la conferma che la sua minaccia aveva sortito l’effetto desiderato non solo in Malik ma anche negli altri. Jamila era di sua proprietà e nessuno doveva permettersi di alzare un dito su di lei. «Siamo intesi?» aggiunse in un ringhio basso. Scorgere l’astio puro nello sguardo di Malik non gli fece né caldo, né freddo: in sé per sé, lui era insignificante, ma quando toccava la sua donna era tutt’altra storia. «Bene.» L’effluvio del sangue di Jamila aleggiò sotto il suo naso, trasportato a tradimento dal soffio di vento appena alzatosi. Fu più forte di lui: lo respirò a pieni polmoni e il suo istinto animale prese il sopravvento. Senza neanche guardarla negli occhi, le volse il viso verso di sé e le ò velocemente il pollice sul labbro inferiore, raccogliendo la punta di sangue che fuoriusciva dal taglietto. Un gesto troppo intimo e decisamente inappropriato, visto che avevano un pubblico di quindicenni ma, Dio, non aveva proprio saputo resistere. E sentire Jamila inarcare la schiena e premersi contro il suo corpo era uno sconvolgente ed eccitante invito a prendere tutto quello che poteva offrirgli… Alt. Non poteva. Cavolo, non poteva proprio. Jamila… no, lei non voleva lui. Jamila era innamorata di Kenan, il suo migliore amico. Daren lo sapeva di essere solo un ripiego momentaneo. Le aveva promesso che avrebbe riportato il suo amato a casa e quella era solo… gratitudine. Gratitudine del cacchio. Imponendosi di non incrociare il suo sguardo, Daren si diresse rapidamente verso il retro della Roccia. Mentre camminava si mise il pollice insanguinato in bocca e… Gesù, Jamila sapeva di pura estasi.
«Daren?» Jamila si affrettò a raggiungerlo. «Daren, ti prego, aspetta» lo supplicò quando lo vide nell’atto di addentrarsi nella foresta. Lui si fermò senza voltarsi. Cielo, com’era teso. Sotto la T-shirt, le spalle larghe erano rigide. I muscoli delle braccia, immobili contro i fianchi, erano contratti. Anche quelli delle cosce vigorose, avvolte dai jeans al ginocchio, erano pronti a scattare a qualunque movimento sospetto. Jamila osservò a lungo i suoi capelli, affascinata e col cuore in gola. Erano molto più lunghi… sì, erano cresciuti dall’ultima volta che lo aveva visto e si erano anche schiariti un pochino. Solo quando fu certa di gestire la propria voce, parlò: «Quando sei tornato?». «Poco fa.» Jamila boccheggiò al suono della sua voce. Più ava il tempo, più diveniva profonda e sensuale. Le veniva da ridere, al pensiero che da piccoli l’aveva detestata con ogni fibra del suo essere, ritenendola quasi infantile e molto fastidiosa. «Perché non…» Daren si girò d’improvviso. «Che cosa stavi facendo, Jamila?» l’aggredì. «È così che i le tue giornate quando non ci sono?» Lei ebbe un capogiro. Crescendo, Daren era diventato non solo un maschio di valore, impegnato nella sicurezza del branco, ma anche un ragazzo così bello da togliere il fiato. I suoi occhi verde giada, erano così espressivi e le sue labbra così invitanti. I capelli così folti e biondi da coprirgli la fronte e lambirgli la nuca con lunghe ciocche. Restare lucida di fronte a lui era quasi impossibile. Ogni volta che la guardava, Daren si prendeva un pezzetto di lei. Sentiva di appartenergli fino in fondo all’anima e… misericordia… lei si era innamorata di lui. Non poteva essere altrimenti, dato il suo desiderio di dargli tutta se stessa, senza riserve.
«Te ne vai in giro con quei lattanti a pavoneggiarti?» continuò a infliggere lui, gesticolando rabbioso con una mano. Jamila si accigliò. «Come scusa?» Daren le andò sotto a muso duro. «Io viaggio per mesi, girando l’Africa, per trovare quel maledetto convoglio e riportarti Kenan. E tu i le giornate a divertirti?» Jamila sollevò il mento. «No, Daren, o le giornate a fingere di stare bene per non vedere mia madre piangere mentre mi guarda.» Lui tacque. «Ho ato una notte dopo l’altra a piangere, immaginando che tu fossi con me. Ogni notte, io ho pianto.» «Ti ho fatto una promessa, Jamila. Non puoi…» «No, tu mi hai lasciata sola» lo incalzò lei, alzando il tono di qualche ottava. Nell’attimo che seguì, risalire dal baratro in cui lo sguardo di Daren l’aveva inghiottita fu impossibile. Le lacrime le bagnarono le ciglia, e dovette sbatterle più volte per ricacciarle indietro. «Mi hai lasciata completamente sola» ripeté con un filo di voce. Daren la fissò. Buon Dio, com’era bella. Con quelle ciocche ribelli sfuggite alla forcina che svolazzavano ai lati del suo viso. Con quelle lunghissime ciglia che le incorniciavano le iridi marroni come il cioccolato, così folte. Con quelle sopracciglia spesse ma ben definite, arcuate come le ali di un uccello. Con quelle labbra grandi… Senza neanche accorgersene aveva alzato una mano per sfiorarle la guancia. La percepì tremare nell’istante in cui i suoi polpastrelli le toccarono lo zigomo e rimase impietrito nel vederla socchiudere le labbra, chiudere le palpebre e… appoggiarsi completamente contro il palmo. Il modo in cui teneva la bocca socchiusa lo fece fremere dalla voglia di far combaciare le labbra alle sue e, quando udì un piccolo gemito sfuggirle, volle disperatamente sentirglielo emettere ancora. Jamila premette la mano sulla sua, riaprendo piano gli occhi, e se la scostò dal volto per ammirarla. Daren la guardò far scorrere le dita affusolate sul palmo, sperando che non
aumentasse la pressione, perché altrimenti l’impulso di attirarla a sé e baciarla sarebbe stato incontenibile. Come se gli avesse letto nel pensiero, Jamila smise di sfiorarlo ma… Oh, Dio… si portò la sua mano alla bocca e baciò il centro del palmo, lentamente. Daren restò paralizzato, gli occhi sgranati, poi avvertì la punta umida della lingua di lei… Alt. Ritrasse il braccio di punto in bianco. «Devo andare» ansò. Jamila lo trattenne per il polso, disorientata, a un o dallo svenire, ma certa di quello che voleva. Lui. «Daren, aspetta…» La fulminò con un’occhiata gelida. «Jamila, no.» Il dolore che lesse nel suo sguardo gli trafisse il cuore. Ah, ma quale dolore? Lei non amava lui, se n’era dimenticato? Era Kenan che lei amava da sempre. Figurati se adesso i suoi sentimenti erano balzati su di lui. Be’, forse sì, ma perché lui era il ripiego di Kenan. Una volta riportato a casa il soldato, Jamila sarebbe tornata tra le sue braccia, no? Sì. Daren sbatté le palpebre. «Devo andare» disse con più convinzione di prima, lasciandola sul retro della Roccia.
Jamila non si arrese e gli corse dietro, rimanendo quasi accecata dalla luce intensissima del sole di mezzogiorno. «Daren» lo chiamò ad alta voce, prima di accorgersi che si era unito al resto della squadra di vigilanti. Lui le scoccò un’occhiata minacciosa, per intimarle di non raggiungerlo. Al diavolo le sue minacce, pensò Jamila, muovendosi in avanti. «Ah, eccoti, principessa.» Jamila si ritrovò costretta nell’abbraccio del padre. «Ehi, papà» lo salutò. «Di’ alla mamma che veniamo a mangiare più tardi, va bene?» le disse Rashid, carezzandole la guancia con il dorso delle dita.
Jamila spostò gli occhi su Daren, incrociando il suo sguardo torvo. «Okay.» «Grazie, tesoro.» Il capobranco le schioccò un bacio sui capelli. «Ti voglio bene.» «Anch’io.» «Ragazzi, perché non ci spostiamo sul retro della Roccia? Lì staremo all’ombra, almeno» propose Rashid alla squadra, che assentì. Quando Daren le ò accanto, lei serrò con prepotenza la mano attorno al suo polso. «Daren…» «No, Jamila» sibilò lui tra i denti, incapace di staccare lo sguardo dal suo. «Daren» ringhiò lei, una nota più che sofferente nella voce. Lui buttò un’occhiatina agli uomini, ormai quasi tutti scomparsi dietro la costruzione di pietra. Trasse un profondo respiro e sbuffò dalle narici. «Dopo» le disse, scivolando lontano da lei. Jamila lo guardò finché non scomparve sul retro della Roccia, poi risalì alla caverna al piano superiore. Malik se ne stava appoggiato con una spalla contro l’arcata dell’ingresso, e lei tenne lo sguardo fisso nel suo fintantoché fu a un metro da lui. Si era rimesso la maglietta e la scrutava con arroganza, a braccia conserte. «Ti sei fatta la guardia del corpo, capo?» I pensieri di Jamila erano ancora troppo intorpiditi dal profumo intenso di Daren, dal calore della sua mano, dalla morbidezza della sua pelle sotto le sue labbra, per curarsi della frecciatina. Fece spallucce e con indifferenza disse: «Vieni a mangiare?». Malik sorrise mestamente, mettendosi dietro di lei e arpionando le mani alle sue spalle. «Certo, boss» annuì, spingendola dentro.
16
New Hampshire, Stati Uniti
«VEDI di scegliere una canzone decente, Will, questa volta» si lamentò il ragazzo sdraiato sul tatami che ricopriva il pavimento della palestra privata dell’immensa abitazione.
William scosse la testa con un sorrisetto e il sudore che gli inzuppava i capelli schizzò a terra. «Perché, altrimenti rischi di nuovo di colpirmi sul serio per la troppa frustrazione?» ribatté, dando un blando pugno a uno dei tre sacchi da boxe mentre si avvicinava allo stereo. Il ragazzo piegò le ginocchia e intrecciò le mani dietro la nuca, ridacchiando. «Oh, per me puoi anche mettere My Heart Will Go On di Celine Dion, ma poi non andare a piangere da tuo padre se ti colpisco anche sull’altro zigomo.» Will scorse i titoli dei brani sul suo iPhone. «No, quella non ce l’ho. Ma per farti incazzare potrei mettere Girlfriend di Avril Lavigne e improvvisarti un balletto per farti innamorare di me. Cosa ne dici?» «Non m’incazzo per così poco, fidati.» «No, hai ragione. Infatti prima non ti sei incazzato: hai letteralmente perso il controllo, Kenan.» Il mutante-leone si sollevò sui gomiti e incrociò gli occhi di William prima che tornasse a guardare lo schermo del cellulare. «Ogni tanto mi capita» ammise. «Sì, ma fai che non capiti con me, cazzo. Ho temuto che mi scavassi quattro solchi sulla guancia con una zampata.» «Almeno, mi sono trattenuto e ti ho colpito col tallone» fece Kenan con un
sorrisetto. «Oh, grazie tante. Ti hanno piantato una specie di albero in quella tua camera che sembra una seconda casa, per quanto è grande, e ti vieni a sfogare su di me? Bell’amico che sei.» «Il tronco non sanguina.» Will si pietrificò, guardandolo da sopra la spalla. «Divertente.» Kenan si mise in piedi con un balzo, serpeggiando alle spalle dell’amico come un predatore pronto ad affondare gli artigli sulla sua preda innocente. «Non sto scherzando» sibilò a voce bassa. William seguitò a muovere il pollice sullo schermo touch-screen, ben consapevole del fiato caldo del mutaforma sul suo collo sudato. «Uh-huh. Sì, come no. Balle.» Kenan sbuffò, tirandosi su la canotta nera e coprendosi il viso mentre vagava senza meta per la sala. «Sai, la caccia è la sola cosa che mi manca della mia vita ata.» Will inarcò un sopracciglio, scoccandogli un’occhiataccia. «Ma se all’università non fai che dare la caccia a tutte le ragazze che ti capitano a tiro.» «Non è colpa mia se Yale è piena di bocconcini.» «Che tu hai assaggiato uno per uno. Meno male che non alloggiamo al campus, altrimenti ci faresti espellere.» «Ehi, nessuno ti obbliga a tornare qui con me.» «Scherzi? Non mi fido a lasciarti solo in questa casa con tutti gli animali imbalsamati. Rischio di tornare il fine settimana e trovarti morto per depressione. Sai, la lontananza…» «Chiudi il becco e trova una cazzo di canzone tosta, sennò per oggi basta.» «Cristo, Kenan, a volte sei proprio una rottura.» Finalmente, Will trovò una canzone decente per i gusti del leone. «Hang On può andare?»
Quella dei Seether, pensò Kenan. Perfetta per descrivere la sua vita in quel periodo, non c’è che dire. «Sì, va bene» annuì. Be’, se proprio doveva darsi la mazza sui piedi, che colpisse bene, cazzo. Così, quando la musica partì ad alto volume e le pareti della sala vibrarono, i due ripresero a scontrarsi sul tatami come stuntmen professionisti, traando il nulla senza mai toccarsi veramente con calci e pugni. Erano ati nove anni da quando Kenan aveva stretto il patto della sua vita con Mark Shelby. Fin da subito, Kenan aveva intuito che non sarebbe mai riuscito a scappare dalle sue grinfie, così la notte stessa del suo rapimento aveva stipulato un accordo con lui. Gli avrebbe mostrato la fonte del suo potere di mutare forma almeno dopo dieci anni dalla sua scomparsa dalla Tanzania. Kenan sapeva bene che il suo branco non avrebbe mai smesso di cercarlo, ed era certo che avrebbero girato l’Africa in eterno, senza mai pensare che, in realtà, lui non fosse prigioniero in chissà quale arena di combattimenti clandestini tra leoni. Mark Shelby aveva sondato il suo sguardo per diversi minuti, poi aveva accettato. Ma Kenan aveva voluto di più. Aveva chiesto di poter vivere la vita che aveva sempre desiderato: quella di un ragazzo normale che va a scuola, ha degli amici con cui fare baldoria alle feste, rimorchia una ragazza dopo l’altra, beve quanto gli pare, guida tutte le macchine che vuole, fuma quello che gli spacciatori gli propongono nei vicoli dei locali. Vive. Kenan non sapeva cosa Mark Shelby avesse letto nei suoi occhi, ma aveva deciso di portarlo con sé nel New England. Neanche lo avesse adottato come figlio, lo aveva portato in casa sua e nel giro di una settimana si era ritrovato a dormire su un letto che sembrava fatto di mollica di pane, per quanto era morbido. Bah, si era detto il mutante, forse lo stava semplicemente ingannando. Tempo un’altra settimana, e Kenan era diventato uno studente: prima aveva seguito lezioni private con un insegnante per mettersi in pari con gli altri alunni, poi aveva cominciato a frequentare le lezioni nella stessa classe di William. Eh già, Will. Incredibile ma vero, quell’infame che aveva tradito il suo segreto era diventato il suo amichetto del cuore. A volte facevano veramente ribrezzo,
loro due. Sempre insieme, sempre a prendersi a parolacce con il loro gruppetto di amici. Non c’era un solo attimo della giornata che non assero insieme. Kenan aveva voluto imparare le arti marziali, e William si era aggregato. William era voluto andare a New York a fare shopping come un finocchio, e Kenan si era aggregato (rimangiandosi immediatamente la faccenda del finocchio, perché le maglie firmate che aveva comprato erano da urlo). Con il are degli anni, Kenan aveva capito che il suo rapimento era stato la svolta della sua vita. All’inizio aveva creduto che sarebbe diventato uno schiavo, che Mark Shelby lo avrebbe tenuto segregato in un laboratorio mentre scienziati e ricercatori lo aprivano con bisturi e roba simile per studiarlo come se fosse un stato alieno. Invece no, Kenan era stato trattato con i guanti d’oro. Non era un prigioniero ma, come diceva Will per prenderlo in giro, un attraente, stupido e giovane studente dell’università di Yale. William si abbassò e disegnò un semicerchio con il piede, mirando a farlo cadere. E ci riuscì, perché era evidente che il ragazzo aveva la testa da tutt’altra parte. «Ehi, amico, non è da te andare al tappeto così presto» lo canzonò, saltellandogli intorno per non perdere il ritmo della lotta. Non era da lui andare proprio al tappeto, lo corresse Kenan nei suoi pensieri, restando immobile. Cavolo, il suo cervello si era disconnesso nell’attimo in cui la strofa che detestava era risuonata nella palestra. I can’t pretend we’re the same, aveva cantato Shaun Morgan, la voce della band. Tradotto: Non posso far finta di essere come te.
Cristo… Kenan si ò le mani sul viso nel tentativo di scacciare le immagini che si stavano facendo largo tra i suoi pensieri. No, cazzo. In tutti quegli anni era riuscito a tirare avanti solo e soltanto grazie alla capacità di mantenere alto il muro che lo separava dai ricordi della sua vita ata. Solo così aveva la convinzione di essere felice. Oh, ma che stronzate stava dicendo? Lui era felice. Viveva in una casa da sballo,
guardava la tivù su uno schermo grande quanto la parete, mangiava tutte le porcherie che voleva, si vestiva come un modello di GQ, frequentava una delle università migliori del mondo, si portava a letto tutte le ragazze che voleva… e aveva il coraggio di dire che non era felice? Che testa di cazzo. «Che c’è, campione, neanche questa canzone è di tuo gradimento?» disse Will, capendo che l’amico non si sarebbe più rimesso in piedi. «Hai indovinato.» William si allungò al suo fianco mentre la musica continuava a pompare nella sala. «Che c’è, Kenan?» gli chiese. «Niente.» «Kenan…» «Non giocare a fare lo psichiatra con me, Will» ringhiò il mutaforma. «E inoltre, sta squillando il telefono alla parete.» William si alzò a sedere e si volse in direzione della porta. Era vero, cavolo, la spia azzurra dell’avviso di chiamata stava lampeggiando. «Come hai fatto a sentirlo con tutto questo fracasso?» domandò all’amico mentre si metteva in piedi per andare a rispondere. «Il mio udito è più sviluppato, l’hai dimenticato?» replicò stancamente. «Non sono umano» aggiunse tra sé. Dio, aveva proprio voglia di buttarsi sul letto e svegliarsi il giorno dopo. Magari, prima poteva farsi un giretto con la biondina sexy che gli aveva dato il suo numero… La musica cessò di colpo. «Era Ashton» lo informò William, tirando fuori un asciugamano dal borsone e tamponandosi il viso. Ashton era il nuovo maggiordomo. Kenan era rimasto indifferente alla notizia che Amos era morto per proteggere il suo segreto quando Will gliene aveva parlato, piangendo a dirotto come una femminuccia. Be’, se non altro, Kenan era soddisfatto di come William era cresciuto stando
con lui. Almeno adesso, quando capitava che si sbronzassero in qualche pub, non restava in un angolo a frignare e faceva a botte col primo che capitava. Poi, però, toccava a Kenan prenderlo per un braccio e trascinarlo via prima che la polizia li arrestasse. «Che cosa voleva?» gli chiese il mutante, andandogli vicino per prendere la bottiglietta d’acqua accanto al suo borsone e scolarsela. «È pronta la cena?» «No.» Will esitò. «Mio padre è tornato.» Kenan fu scosso da un brutto presentimento ed ebbe la sensazione che, come da ragazzino, un pesante drappo di oscurità calasse sul suo volto. Peccato che, adesso, l’aria del tenebroso affascinate la sfoderasse solo per conquistare le ragazze; con gli amici invece era uno sbruffone arrogante di prima categoria, e William era il suo braccio destro, ovviamente. Be’, non diventi il più fico dell’università se te ne stai sempre con l’aria corrucciata e per i fatti tuoi, no? A prescindere da quanto sei è bello, se non sei il leader di un gruppo non sei nessuno. «Vorrà sicuramente farci vedere il nuovo animale imbalsamato che hanno lasciato in soggiorno stamattina, è ancora tutto bello incartato» ipotizzò Kenan, noncurante. «Direi proprio di no, amico.» Will si issò il borsone su una spalla, dopo aver staccato l’iPhone dallo stereo. «Ci sta aspettando nel suo studio.» «Ah sì?» Kenan si sedette sulla panca, asciugandosi il viso con un panno. «Vuole vederci. Subito.» Il brutto presentimento di Kenan divampò come un incendio. «Allora» disse mentre si caricava il borsone in spalla e si rizzava, «sarà il caso che ci facciamo una doccia, prima di incontrarlo.»
Mark Shelby vide suo figlio e il suo prezioso pupillo entrare con sicurezza nello studio. Davvero sorprendente come Kenan avesse cambiato William. In meglio, ovviamente. Mark era quasi geloso, perché avrebbe voluto essere lui l’artefice di quel cambiamento. Eh sì, aveva fatto proprio bene a far entrare quel ragazzo
nelle loro vite. Kenan era riuscito dove lui aveva fallito: trasformare William in un uomo. «Ciao, papà» lo salutò Will. «William, Kenan» li salutò, chiudendo il libro che stava sfogliando senza leggere. «’sera, signor Shelby» fece Kenan con un sogghigno beffardo. «La vedo abbronzato. Finalmente ha capito qual è il vero scopo di lavorare a San Diego.» Mark si sbottonò il colletto della camicia con un sorriso compiaciuto. Perbacco, quel ragazzino a malapena aveva aperto bocca, la prima settimana dopo lo sbarco in America, e guarda adesso! Mark si era preso sette giorni di ferie per seguire il piccolo mutante mentre si ambientava nella sua nuova casa, e anche perché aveva dovuto farsi spedire qualche cucciolo di tigre da un suo amico in Malesia, altrimenti il direttore dello zoo lo avrebbe gettato nella gabbia degli orsi insieme ai suoi uomini senza batter ciglio. All’inizio, l’oscurità nei suoi occhi azzurri lo aveva inquietato: quel moccioso aveva squadrato ogni angolo con lo sguardo dei killer professionisti. A essere sinceri, Shelby aveva temuto per la vita di suo figlio, nell’osservare il piccolo Kenan girare pericolosamente per le stanze della villa. Dopo qualche giorno, però, aveva parlato a quattr’occhi con lui e avevano deciso che Kenan avrebbe potuto trasformarsi quando voleva: i domestici, lautamente pagati per tacere, sarebbero stati informati del suo segreto e lui avrebbe potuto gironzolare per casa come un animale da salotto. Per risolvere l’odio che il mutaforma nutriva per William, invece, aveva comandato a suo figlio di partecipare con Kenan alle lezioni di arti marziali che lui aveva chiesto di apprendere. E, come per magia, quei due erano diventati amici per la pelle. Ah, era proprio vero che lavorare insieme unisce! Eccola lì, la coppia del secolo. L’arrogante e intrigante Kenan, in blue jeans, maglioncino grigio sopra alla Tshirt e giacca gessata scura. E l’affascinante e galante William, anche lui in jeans, camicia bianca con il colletto sbottonato e giacca nera. «Noi comuni umani, giovane Kenan» gli rispose mentre arrotolava le maniche
della camicia fino ai gomiti, «dobbiamo faticare per avere una pelle dorata come la tua.» Kenan ridacchiò. «Non la prenda male, signore, ma se quello è il massimo del colorito che riesce a ottenere dopo quattro giorni di cazzeggio sulla spiaggia, allora ha un problema serio.» Will rise, infilandosi le mani in tasca. «Devi ammettere, papà, che sei ben lontano dall’essere bronzeo come l’adone qui presente.» Le labbra di Mark Shelby, nascoste dalla folta barba bianca, si distesero. «Touchè, figliolo.» Kenan alzò gli occhi sul soffitto con una smorfia pensierosa. «Sa, il fatto che lei voglia abbronzarsi, mi fa sospettare che ci sia una bella, ricca e attempata signora su cui vuole fare colpo. Uhm…» Storse il capo verso il suo compare. «Potrebbe essere, no, Will?» «Già… Spiegherebbe perché, l’altro giorno, è arrivato un pacco contenente tutta la linea uomo dei profumi di Armani.» William si rivolse al padre con aria sorniona. «Papà?» Kenan accennò un sorrisetto. «Cos’ha da dire a sua discolpa, signor Shelby?» Mark rise di gusto. «Incredibile. Non avrei mai pensato che, un giorno, sarei stato contento di tornare a casa per il weekend.» Scosse la testa per darsi un contegno. «Sedetevi, ragazzi.» «Non deve meravigliarsi» ribatté Kenan, mentre si accomodavano. «È scientificamente testato che la nostra presenza crea dipendenza. Ci conosci, i una serata con noi e dopo è garantito che non vorrai frequentare nessun’altra compagnia, eccetto noi.» «Non vorranno frequentare altri sbruffoni se non te, vorrai dire» lo corresse Will. «Ehi, sai che non sempre faccio battute divertenti: se tu non iniziassi a ridere per reggermi il gioco, quelli mi mollerebbero subito.» «Non fare il leone modesto. Sei il re di Yale. E il problema più grande è che lo sai benissimo, cazzo.»
Kenan sorrise con innocenza. «Lo so.» «Visto?» «D’accordo, ragazzi» intervenne Mark Shelby. «Ora piantatela di fare gli idioti e siate seri.» William si mosse a disagio sulla sedia. «Che succede, papà?» Mark balenò con gli occhi sul mutante che lo fissava, improvvisamente cupo come quando aveva dodici anni. «Kenan.»
Non serviva aggiungere altro. Lui aveva capito. «Non mi sembra che siano ati dieci anni. Oppure sì?» Sibilò tra i denti. «Cavolo, credo di non saper più contare. O è così, o è lei a confondersi, signor Shelby. Perché manca ancora un anno.» «Con tutto quello che ho fatto per te, ragazzo, e che continuerò a fare anche dopo la riuscita del nostro accordo, mi aspetto di essere ricompensato in anticipo.» «Andiamo, non faccia il sentimentale che non le si addice proprio.» «Nessun sentimentalismo, Kenan. È la verità. Ormai sei come un figlio per me e mi aspetto che diventi una persona di un certo rilievo, dopo il college.» «Oh, anch’io. Ma, a quel punto, lei mi avrà già tagliato fuori dalla sua vita.» L’uomo si accigliò. «E perché? Sono io l’artefice di ciò che sei adesso, e sono molto orgoglioso di te. Perché dovrei chiamarmi fuori quando questa faccenda sarà conclusa? No, Kenan.» «In pratica» si intromise William, «non ti butteremo per strada a calci.» «Fa sempre piacere sentirselo dire» controbatté Kenan, tirando un sospiro di sollievo. Anche se, se lo avessero cacciato di casa e gli avessero tolto la sua nuova vita,
avrebbe liberato il leone in lui e li avrebbe costretti a tenerlo con loro con la forza. Non mangiava più carne cruda che staccava a morsi dall’osso ma, Dio, il sapore del sangue caldo in gola gli mancava da impazzire. Quindi non si sarebbe fatto problemi. A mali estremi, estremi rimedi. In un modo o nell’altro, avrebbe continuato a condurre la sua bella esistenza. «Bene.» Shelby si sporse verso di lui, poggiando i gomiti sul tavolo. «Veniamo al dunque, allora. Comincia a parlare.» Kenan sbuffò piano, rievocando le calde serate estive nell’accampamento della Roccia, quando Rashid raccontava ai cuccioli di come i loro genitori fossero diventati leoni. Si sforzò tremendamente per non ritrovarsi i volti dei suoi amici davanti agli occhi e cercò di cancellare le immagini, lasciando solo il suono profondo della voce del capobranco. «C’è una pietra, lo Smeraldo, che ha dato ai nostri genitori il potere di cambiare forma. Noi, i loro figli, siamo nati con questa capacità: siamo più forti, siamo purosangue, loro no. Ma non credo che questa differenza sia rilevante. Il capobranco diceva che eravamo i Figli del Destino e che avevamo il compito di proteggere lo Smeraldo dall’uomo.» «Ti sei apionato al fantasy di recente, amico?» lo canzonò William. «Solo perché ho visto la trilogia DVD del Signore degli Anelli che hai in camera tua e che cercavi di nascondere» replicò Kenan sagace.
«Ehi, Viggo Mortensen è un mito in quei film.» «Sì, ma Frodo è davvero pessimo.» «Non puoi biasimarlo, se l’anello lo ha deviato. Gli altri sì, e lui no? Fammi capire.» «Frodo è il protagonista ed è il più cesso di tutti.» «Basta» esclamò Mark Shelby. «Piantatela con queste bambinate.» Fece una pausa, incenerendo il figlio con lo sguardo finché non chinò il capo. Tornò su Kenan: «Dove si trova lo Smeraldo?».
Lui rievocò le parole di Rashid. «Sulla sponda orientale del Lago Kitangiri si erge la Rupe del Destino. Lì…» avvertì una fitta al cuore e dovette inspirare a fondo per mascherare il dolore, «… è custodita la pietra.» «Uhm…» Mark Shelby incrociò le dita, appoggiando il mento sui pollici e borbottando in gran segreto. Che il suo cervello stesse macchinando qualcosa era palese. «William» esordì dopo un lunghissimo silenzio, facendolo sobbalzare dallo spavento. «Sì, papà?» «Che ne diresti di assentarti dalle lezioni per tre, quattro giorni?» «Ahm…» Will non aveva parole. «Dico: portami dove vuoi, anche su Marte, basta che non vado al college.» «Molto bene» annuì suo padre. «Prima di ripartire, il direttore mi ha commissionato la cattura di alcuni cuccioli di elefante» scoccò un’occhiata a Kenan, «e avevo giusto in mente di tornare nella meravigliosa Tanzania.» «Okay. Quando partiamo?» «Domani. Sono circa tredici ore di volo, quindi partiamo presto, così possiamo cominciare già dal pomeriggio.» «Non sarà semplice come crede, signor Shelby» sentenziò Kenan con aria truce. «Che cosa intendi?» si corrucciò l’uomo. «Lo Smeraldo e i leoni sono collegati» spiegò. «Se il branco avvertirà che lo Smeraldo è in pericolo, avremo un problema.» Inspirò rumorosamente dalle narici con una smorfia di stizza. «Un grosso problema.» «Abbiamo già affrontato il tuo branco…» «Ex branco.» «… e mi pare che ce la siamo cavata egregiamente. E abbiamo preso quello per cui eravamo venuti, tra l’altro» terminò con un ghigno malcelato.
Kenan rispose con un fugace mezzo sorriso. «Avete combattuto con gli uomini, signor Shelby, non con i leoni.» William piegò la testa verso di lui. «Potremmo convincere Jamila e Daren a unirsi a noi.» Kenan divenne di ghiaccio. Quei nomi… quei nomi… Il suo migliore amico, quello vero. La ragazza che amava, la sola. Le due persone più importanti della sua vita, quella ata. Jamila e Daren. Daren e Jamila. Jamila. Daren. «Terra chiama Kenan.» Kenan sbatté le palpebre, ancora scosso. «No… Loro non… No, loro…» Si schiarì la voce. «Loro non accetterebbero mai.» «Posso sempre comprarli come ho fatto con te» si pavoneggiò Mark, abbandonandosi sullo schienale. «Tutti hanno un prezzo.» «Non loro.» Esitò. «Non sono come me.» «Loro non sono come te o tu non sei come loro?» Kenan lo traò con sguardo assassino, il leone ruggì nel suo petto. «Averli dalla nostra parte non farebbe alcuna differenza» sibilò. «Saranno gli adulti a irrompere nella Rupe. E credetemi, se accadesse non ci sarebbe scampo per nessuno.» Il respiro pesante e accelerato di William riecheggiò nel silenzio generato dall’intensità degli sguardi di Kenan e Mark Shelby. «Okay, brutto bastardo che non sei altro, se volevi spaventarmi ci sei riuscito. Se stanotte non riuscirò a dormire per colpa degli incubi, verrò in camera tua e ti terrò sveglio fino all’alba.» «Ma falla finita» lo apostrofò Kenan. «Vedrai se non lo faccio» minacciò Will, sistemandosi nervosamente sulla sedia.
«E che cazzo, ma guarda te…» borbottò. «Voglio solo che siate preparati per quello che vi aspetta.» «Hai fatto bene a essere così diretto, Kenan» lo rassicurò Shelby. «Dunque. Uhm…» Si prese un attimo per riflettere. «William, tu sarai il nostro diversivo.» Suo figlio arpionò le dita alle ginocchia, sporgendosi in avanti. «Cioè? È una cosa buona, o mi devo preoccupare di non tornare vivo a casa?» «Vivi con me, Will. Dovresti temere per la tua vita ogni giorno» scherzò Kenan, mostrando i denti affilati e bianchi. «Oddio, come sei simpatico.» Gli occhi di William erano due piccole fessure. «Ti sposterai con i miei uomini nel Ngorongoro» annunciò Mark Shelby, riferendosi a Will. «Se il branco di mutaforma penserà che siamo tornati per un nuovo attacco, sarà troppo impegnato per guardare nella direzione giusta. Che ne pensi, Kenan?» Lui inarcò le sopracciglia, facendo spallucce. «Potrebbe funzionare, sì. Ma William e i suoi gorilla dovranno davvero attaccare la Roccia nel momento esatto in cui lei prenderà lo Smeraldo, altrimenti è inutile.»
Shelby lo fissò a lungo. Pazzesco, stavano parlando di come attaccare la sua famiglia, la sua gente, di come sottrarre ciò che si poteva definire il loro Santo Graal, e lui non batteva ciglio. Mark si rifiutava di credere che a Kenan non importasse. Insomma, era la sua famiglia, e lui non faticava a escogitare tattiche violente per tenerli occupati. Perché era certo che Kenan sapesse che la parola ‘attacco’, nel suo vocabolario, equivaleva a ‘scontro che prevede sangue’. «Molto bene» esultò. «Allora è deciso. Sveglia all’una di stanotte, ragazzi. Partiamo alle due.» «Sissignore.»
Kenan programmò la sveglia. Poi si spogliò, restando solo con i pantaloni neri della tuta. Aveva mangiato da poco e sentiva proprio il bisogno di fare un po’ di movimento. Quindi accese lo stereo e le note della canzone Get Out Alive del gruppo hard rock dei Three Days Grace esplosero nella sua megacamera. Si buttò a terra di fronte al letto e cominciò con le flessioni, veloce come un fulmine, proprio come se non gli costasse nessuna fatica. Ma man mano che le parole della canzone risuonavano, rallentò fino a fermarsi. Certo che sceglieva sempre canzoni che lo tiravano su di morale, si complimentò con se stesso. Cristo, era proprio un mago. Si drizzò e si sedette sul bordo del materasso. La sua mente lottò contro di lui, vincendo e costringendolo ad aprire quel maledetto cassetto. Quello del comodino. Quello che i suoi occhi avevano puntato. Come se fosse una marionetta comandata da qualcun altro, lo aprì e ne tirò fuori ciò che voleva disperatamente guardare. La foto di Daren e Jamila. Una delle prime notti dopo il rapimento, si era intrufolato in camera di William. Mentre lui dormiva profondamente, aveva rovistato con attenzione tra la sua roba, in cerca dell’album fotografico in cui aveva raccolto tutti gli scatti fatti quella stupenda mattina, alle sorgenti del Seneto. L’aveva trovato e lo aveva portato con sé nella sua stanza, guardando le foto fino all’alba; poi lo aveva rimesso al suo posto. Ma solo dopo aver rubato la foto che Will aveva scattato ai suoi due amici. Quella in cui Daren e Jamila rifulgevano come due soli. Due soli in perfetta armonia, quasi si fossero appartenuti. Kenan per poco non stritolò la foto. No, Jamila era sua. Se vuoi uscirne vivo / Oh,oh, corri per la tua vita, stava dicendo in inglese il cantante dei Three Days Grace.
Dio, chissà com’era diventata bella la sua Jamila. Chissà se aveva ancora i capelli così fluenti e mossi. Chissà quanto era diventata alta. E il suo corpo? Cielo, il suo corpo doveva essere divenuto uno splendore. Se la immaginò snella e slanciata, sensuale e maliziosa senza sforzarsi di esserlo, innocente e peccaminosa mentre camminava nella foresta, predatrice e regina a caccia nel suo regno. Bellissima. E sua.
Gesù, se l’avesse rivista… non avrebbe esitato neanche un istante a caricarsela sulle spalle, anche di peso se necessario, e a portasela via. Jamila era la sua femmina, l’unica compagna per la vita che avrebbe scelto. Chissà se lei lo amava ancora… I suoi occhi si spostarono istintivamente su Daren, e un mezzo sorriso gli increspò le labbra. E testa quadra? Chissà com’era diventato quell’imbecille. Ora che lui non c’era più, aveva campo libero con Jamila. Dio, chissà quante volte al giorno ci provava con lei. E, per giunta, gli altri cuccioli (be’, ormai non lo erano più no? Quanti anni avevano adesso, Malik, Din e Dinari? Quindici?) avrebbero cominciato a girarle intorno come maschi allupati. In preda a un raptus di rabbia, richiuse la foto nel cassetto con tale impeto che il mobile per poco non andò in frantumi. Se resto, non sarà per molto / Finché non brucerò dentro / Se vado, posso solo sperare… Di non incontrarli, si augurò Kenan nei suoi pensieri mettendosi le mani nei capelli e abbandonandosi a peso morto sul letto.
17
Ngorongoro, Tanzania
CHE illusa. Stupida, illusa e cretina, continuava a ripetersi Jamila. Se ne stava rannicchiata sul giaciglio nella caverna al piano superiore da tanto tempo che a malapena ricordava quando aveva deciso di segregarsi lì dentro.
Doveva essere stato dopo cena, sì. Ricordava di aver a stento affondato le zanne in una delle zebre che aveva cacciato con le leonesse, perché troppo concentrata su Daren. Rammentava che lui si era sistemato al suo fianco (un invito implicito per Malik a non avvicinarsi a lei) e aveva mangiato senza dire una parola, il grosso muso peloso imbrattato di sangue e i filamenti di carne che si erano appiccicati come ventose alle sue zanne. Poi Jamila aveva dato la buonanotte ai genitori, aveva ripreso la forma umana ed era salita di sopra. Ormai non dormiva più in sembianze feline, non ci riusciva. Aveva ato tante di quelle notti a piangere sul letto di pellicce che la grotta al piano superiore era diventata la sua camera, quando calava il sole. Quella notte, però, Jamila non piangeva. Continuava a pensare a Daren, alle sue mani, alla potenza del senso di possesso che lo aveva pervaso quando Malik l’aveva attaccata alle spalle, al legame quasi viscerale che era divampato tra loro all’improvviso, lasciandola satura di lui e rendendola dipendente dalla sua presenza. Dal suo tocco. Jamila si tirò su di colpo, infuocata dal ricordo della pelle di Daren sotto le sue labbra. Dio, che caldo che aveva! Febbre? Forse. La veste di lino era chiusa sul davanti con una cintola, era senza maniche e la gonna si apriva frontalmente; le gambe potevano sgusciare fuori in qualsiasi momento, quindi era da escludere
che fosse l’indumento a farle calore. Ripensò a Daren che le ava il pollice sulle labbra con enfasi, facendole quasi male. Dopodiché aveva leccato via il suo sangue dal polpastrello… Oh, Dio! Jamila si sentì avvampare e si lasciò cadere all’indietro, rotolando sul fianco e dando le spalle all’ingresso della grotta. Andando avanti così, si disse, non avrebbe di certo ato la notte a piangere. Ma non avrebbe neanche dormito, dannazione. Chiuse gli occhi e trasse un lento e profondo respiro. Qualcuno entrò nella grotta, ma Jamila non aprì gli occhi e non si mise sull’attenti. Inspirò a fondo. L’aroma intenso di Daren le invase le narici, infiammando il suo corpo di un’emozione sconosciuta. Fu elettrizzata dall’impulso di rizzarsi e ristabilire quel contatto creatosi sul retro della Roccia, ma non ebbe il coraggio. Daren avanzò verso le brocche d’acqua, e Jamila lo occhieggiò di nascosto versarsene un po’ in un bicchiere. Com’era bello mentre beveva, con la luce lunare che si estendeva a terra come un manto iridescente e gli sfiorava i piedi nudi. Daren rimise il bicchiere sul banco e sospirò, sfilandosi la maglietta e abbandonandola sul tavolo. Jamila si sforzò con tutta se stessa di non spalancare le palpebre e di non boccheggiare. Il cuore le martellava, mentre lui continuava a darle le spalle nude, quasi avesse voluto torturarla con la vista dei propri muscoli, così attraenti. Daren si voltò. Per un attimo Jamila pensò che tornasse di sotto con gli altri leoni e che fosse salito semplicemente per assicurarsi che lei fosse lì, usando la scusa della sete e lasciando la T-shirt per chissà quale motivo. Ma lui la spiazzò, e si stese vicino a lei. Jamila si strinse le braccia al petto. Dio, avrebbe dato di tutto pur di sentire almeno una volta la sua voce. O la sua mano che si posava sulla sua spalla. O… «Non mi saluti neanche?» disse senza accorgersene. Daren piegò un braccio dietro la testa, espirando. «Credevo dormissi.»
Jamila non trattenne un verso sprezzante. «Come posso dormire?» replicò con voce straziante. Daren inspirò rumorosamente dal naso, sembrava una bomba pronta a esplodere da un momento all’altro. «Hai ragione. Non mi hai chiesto di Kenan, stamattina, quindi è logico che tu muoia dalla voglia di avere notizie.» Esitò. «Non l’abbiamo trovato. Siamo stati in Egitto, ma niente… come negli ultimi nove anni, del resto. Scusa se non te l’ho detto immediatamente e ti ho fatto stare in pena fino a adesso.» Una lacrima rotolò sulla guancia di Jamila. «Sei stato via un mese, Daren… Davvero pensi che m’importasse sapere di Kenan, quando eravamo sul retro?» Daren serrò gli occhi, combattendo con le proprie emozioni. Cielo… Daren stava morendo dalla voglia di farla mettere supina e rotolare su di lei. Voleva sentire il suo corpo morbido e gracile sotto di sé. Voleva far scorrere le mani su di lei, scivolare con la bocca sulla sua pelle liscia. Voleva baciarla fino a soffocarla e sentirla ansimare in cerca di aria. Una vocina nella sua testa gli rammentò che lui era il ripiego di Kenan, per lei. Sostituto temporaneo. Era molto probabile che lui non sarebbe mai tornato, ma Daren sarebbe rimasto sempre un ripiego, per Jamila. Sempre. Lei era innamorata di… «Ti ho pensato tanto.» Il cuore di Daren ebbe un sussulto, e i suoi occhi si riaprirono lentamente. Oh, maledizione… «Ti ho pensato anch’io.» Jamila gemette in silenzio, sorridendo come dopo un bel sogno. Tutto quello che voleva era lì con lei, a pochissimi centimetri di distanza, e non poté far a meno di girarsi su un fianco e poggiare la guancia sul suo petto. Daren si irrigidì tanto da farla preoccupare, ma lei non si tirò indietro e non si scusò per quel gesto improvviso e così azzardato. «Jamila, non…» ansimò lui, facendo per tirarsi su. Per rompere quel meraviglioso contatto. «Ssh» lo tranquillizzò lei, piantandogli una mano sul torace con fermezza.
Sfregò il viso sul suo petto, premendosi contro il suo fianco perché il suo corpo non avrebbe retto un solo istante in più, lontano da quello di lui. «Ti prego… non te ne andare.»
Dio, Jamila era sul suo petto. Contro di lui. Daren avvertiva il suo fiato caldo sulla pelle esposta. Lei lo accarezzava con movimenti circolari, inconsapevole delle sensazioni che gli stava inviando. Le sue belle dita affusolate scesero verso il basso, contornandogli le linee degli addominali contratti fino allo spasmo. Cristo, non riusciva a respirare; aveva paura di perdere il controllo, se lo avesse fatto. Jamila si premeva sempre di più contro il suo fianco. Tra non molto avrebbe alzato una gamba e l’avrebbe abbandonata sulle sue, sfiorandogli gli stinchi con la punta delle dita. Oh, Gesù… Daren avrebbe voluto agganciare una mano sotto il suo ginocchio e sistemarsela sul bacino in quel preciso momento. Oddio, se lo avesse fatto… «Toccami.» Daren si pietrificò. Oh, Cristo santo… Lo aveva detto davvero? Jamila lo aveva detto veramente, o era solo frutto della sua fantasia? «Jamila…» boccheggiò, tentando di sgattaiolare via prima che il suo lato animale emergesse e si prendesse quello che voleva. Lei gli premette con veemenza le dita sul petto, tanto che la pelle divenne pallida per l’esagerata pressione. «Voglio sentirti» sussurrò sensuale. Il braccio di Daren esaudì quella richiesta, circondandole le spalle e traendo quella creatura celestiale ancor più a sé. Fece scorrere la mano sulla sua schiena, sibilando di piacere quando lei si inarcò sotto il suo tocco. Jamila tirò su la testa e i loro sguardi si attrassero come calamite. Al chiarore della luna, gli occhi di Daren erano scuri, con pallidi raggi verdi che si spostavano da una parte all’altra delle iridi. Era bellissimo, con quei ciuffi dorati che gli cadevano davanti agli occhi, la fossetta sul mento, lo sguardo perso nel suo.
Gli sorrise, prendendo delicatamente la mano con cui non le stava accarezzando la schiena e intrecciando le dita alle sue. «Cosa c’è?» gli domandò, baciandogli il dorso della mano. Daren migliorò la presa, incantato. «Non riesco a smettere di guardarti.» Sganciò le dita dalle sue per poterle carezzare la guancia, mentre lei gli faceva scivolare la mano sul braccio. «Penso sempre a te. In ogni momento. Non riesco a smettere di volerti con tutto me stesso.» Jamila avvicinò il viso al suo, le punte dei loro nasi si toccavano. «Promettimi che non smetterai mai.» Daren smise di respirare, annegando inesorabilmente nei suoi occhi, splendenti come il granato marrone più prezioso. Delicato ma sicuro, le prese il viso tra le mani mentre la convinzione di essere solo un ripiego iniziava lentamente a scemare. «Mai» le promise. Le loro labbra si incontrarono, languide e frementi allo stesso tempo. Quando si separarono di appena un millimetro, Jamila ripristinò quel contatto così a lungo desiderato e lo penetrò con la lingua, strisciando con il corpo su di lui per non lasciargli via di scampo. Non che Daren avesse in mente di fermarsi; proprio per niente. La lingua della sua femmina era così intraprendente, mentre lambiva la sua, mentre entrava e usciva dalla sua bocca, che lo mandò su di giri nel lasso di un secondo. Guizzò seduto e si sistemò le gambe di Jamila intorno ai fianchi. Udire il suo gemito di sorpresa fu come ricevere una secchiata d’acqua gelida in una giornata afosa. Moriva dalla voglia di sentirla ancora ansimare per lui, e Jamila lo accontentò quando le slacciò la veste e gliela sfilò. Nuda dinanzi al suo uomo, Jamila godette nel sentire le sue labbra indugiare sulle clavicole e reclinò il capo, affondandogli le dita nei capelli folti mentre le baciava la gola. Daren le inclinò il volto per sfiorarle la guancia con le labbra e, alla vista della lunghissima chioma dorata che brillava come una stola di seta, non seppe resistere: le ò le dita di una mano tra i capelli e lei si inarcò, premendosi contro il suo petto. Nel percepire i suoi capezzoli inturgiditi sfregargli sulla pelle, Daren si lasciò sfuggire un gemito e di slancio la fece stendere sulla schiena.
Jamila si offrì completamente al maschio che la dominava, aggrappandosi alle sue spalle per non essere sbalzata via dalla sua potenza. Daren la sentì avvinghiare con forza le gambe dietro la sua schiena e conficcargli le unghie nella carne. No, non erano le unghie: erano gli artigli della leonessa. Anche a lui erano spuntati, e li stava affondando nelle pellicce, lacerandole. Daren prese Jamila, mordendola sulla spalla in modo che tutti sapessero che lei era sua. Non era certo che fosse quello che Jamila voleva, ma non riuscì a trattenersi. Doveva essere sicuro che lei avrebbe gridato in quel modo sublime solo per lui, perché chiunque avrebbe provato a rubargli ciò che gli apparteneva sarebbe morto all’istante. Voleva che tutti, vedendo il morso sulla sua spalla, sapessero che era legata a lui. Ma quando lei si ritrasse leggermente dalle sue zanne, Daren temette di aver fatto l’errore più grande della sua vita. Cristo, ma come gli era saltato in mente? Lei era innamorata di Kenan e lui… oddio… lui l’aveva condannata a un legame forzato. «Daren» mugolò Jamila. Lui cacciò le zanne dalla sua carne, ingoiando il suo sangue paradisiaco e chiudendo gli occhi, pronto a farsi spezzare il cuore dalla donna che amava. Jamila portò le labbra vicino al suo orecchio. «Sono tua.» Daren ringhiò di soddisfazione. Sua.
18
IL chiarore arancio intenso dell’alba serpeggiò all’interno della caverna, abbracciando la mutaforma addormentata. Jamila avvertì il calore dei raggi sul viso, stranamente non bagnato dalle lacrime, quella mattina. Schiuse piano le palpebre e le batté un paio di volte per mettere a fuoco. Si tirò su a sedere e… la sua veste da notte le scivolò sulle gambe, lasciandola nuda. La afferrò in men che non si dica e si coprì, raccogliendo le ginocchia al petto.
Quello scatto improvviso le procurò una fitta di dolore ai muscoli delle gambe. In effetti, le dolevano alla prima contrazione, così come quelli degli addominali e delle braccia. Si sentiva come se avesse lottato con tutte le sue forze per rimanere aggrappata a un tronco in mezzo alle rapide di un fiume. Era stanchissima e oltremodo appagata nel medesimo istante. Tornò con la mente alla scorsa notte e… un’ondata di emozioni e sensazioni intense e sconvolgenti la investì. Rammentò i gemiti di piacere che divenivano pian piano grida, mani che l’avevano fatta ansimare, dita che si erano strette possessivamente alle sue e il palmo che con forza aveva spinto contro il suo, denti che erano affondati nella sua carne… Jamila abbassò lo sguardo sulla spalla. Il morso era proprio lì, sul muscolo deltoide. Piccoli buchi tra le due coppie di fori più grandi costituivano un bel marchio ancora fresco sulla pelle arrossata. Jamila avvicinò le dita alla ferita, timorosa. Il flash di un maschio che la teneva stretta a sé, con una mano intrecciata ai suoi capelli e l’altra premuta sul morso, la fece sussultare. Immagini frammentate di dita grandi e sporche di sangue che fremevano mentre lei le ripuliva con la lingua e poi si concedeva a una bocca vogliosa la fecero avvampare, e tornò a stendersi. Si schiacciò il palmo sudaticcio sulla fronte altrettanto madida, poi si voltò verso l’entrata della grotta. Il suo cuore ebbe un cedimento, e subito dopo incominciò a correre come un forsennato.
Appoggiato alla cornice dell’arcata e vestito solo di jeans al ginocchio e scarpe da ginnastica, si stagliava Daren. Buon Dio, pensò la ragazza, un corpo così doveva essere vietato. Jamila impazziva per la sua schiena, per tutti quei muscoli guizzanti che la imploravano di spremerli fino allo strappo. Rotolò su un fianco e si puntellò sul gomito per ammirarlo in ogni minimo dettaglio. Con le braccia incrociate al petto i bicipiti risaltavano come armi micidiali, il collo era perfettamente proporzionato e muscoloso al punto giusto, e la nuca… Un momento. Dov’erano i capelli? Oh, Dio… se li era tagliati. Jamila si era sempre domandata come fe suo padre ad avere sempre la stessa lunghezza di barba e di capelli, e ora aveva il sentore che Daren condividesse questo segreto con lui e con gli altri uomini. Superato lo shock iniziale, tornò ad ammirare il nuovo aspetto del suo maschio. Dietro, Daren aveva i capelli molto corti con meravigliose sfumature castano scuro. In cima erano più lunghi e folti. Jamila si chiese come li avesse pettinati davanti, se li avesse lasciati sulla fronte, o se li avesse tirati indietro… «Che stai guardando?» Lei si morse il labbro, nascondendo il sorrisetto con l’abito. «Te. Mi piace la tua schiena.» Daren la guardò da sopra la spalla. Dio, sentiva il suo odore floreale anche da lì. «Ah sì?» Si voltò completamente verso la sua femmina. «E cos’altro?» Jamila trasudò smania di lui da tutti i pori, mentre Daren le si avvicinava con l’eleganza di chi sa di avere il potere. «Le tue spalle.» Daren si inginocchiò di fronte a lei, occhi negli occhi. «Poi?» Jamila lasciò che affondasse con la lingua nella sua bocca, gemendo mentre le scostava la veste dalle gambe. «Le tue mani» mormorò.
«Mmh.» Daren si spostò più in basso, mordicchiandole l’osso iliaco. Si trattenne dall’affondare i denti anche lì quando udì il suo gemito, e le infilò una mano sotto il ginocchio, divaricandole una gamba. «Poi, che altro ti piace?» chiese sensuale. Jamila s’infiammò per lui, guardandolo far scorrere il dorso delle dita all’interno della coscia sensibile. «Le tue labbra» boccheggiò, sudando freddo. «Dove?» Daren avvicinò il volto alla sua coscia. «Qui?» disse, lambendole la pelle con una carezza umida. Sollevò lo sguardo su di lei, avvertendola tremare. «Forse qui?» continuò, spostandosi più all’interno, più in basso. Jamila fu scossa da un tremendo brivido di piacere e reclino il capo all’indietro, abbandonandosi a lui. «No, guardami» le ordinò Daren, parlando contro la sua coscia, sconvolgendola con il suo fiato caldo. Lei obbedì, puntando lo sguardo nel suo. «Voglio che mi guardi mentre lo faccio.» Premette nuovamente la bocca sulla sua carne, e Jamila lo osservò spostarsi nel punto che stava pulsando disperatamente per ricevere il piacere sublime che solo Daren poteva darle. Per lei fu impossibile non afferrarlo per i capelli, e digrignò i denti per imporsi di continuare a guardarlo quando lui le diede ciò che bramava. «Oddio!» strillò scandalizzata una voce femminile. «Oh, Signore!» imprecò nello stesso istante una voce maschile. Jamila si rizzò a sedere di scatto e si tirò l’abito fino al mento, mentre Daren le copriva le gambe in un battito di ciglia. Din e Dana erano fermi all’entrata della caverna con le mani davanti agli occhi e i corpi rigidi come due pali di legno. «Non si bussa più?» li apostrofò Daren, quando la sua donna ebbe legato la cintola della veste. «Busseremmo se ci fosse una porta» replicò Din, imbarazzato dalla punta dei piedi alle radici dei capelli. «Ora capisco perché Nia insisteva così tanto per venire a chiamarvi» bofonchiò Dana.
«Possiamo aprire gli occhi?» chiese Din, impaziente di girare i tacchi e andarsene. «Dana sì, tu no» rispose secco Daren. «E se ci provi, ti scaravento giù dal sentiero.» Dio, aveva proprio l’aria di chi lo avrebbe fatto senza problemi. Jamila fissò il profilo attraente del suo uomo, interdetta. «Daren, sono vestita.» «Per niente, invece.» Si mise in piedi e l’aiutò ad alzarsi, guidandola verso il tavolo. «Ti ho preso dei pantaloncini e una maglietta mentre dormivi.» Il guardaroba del branco si trovava in una nicchia sul retro della Roccia, e Jamila non trattenne un sorriso: Daren le aveva risparmiato un viaggio imbarazzante in veste da notte, dove chiunque avesse incontrato avrebbe notato i fori sulla sua spalla. Quelli che tutte le madri del branco avevano. Solo che il morso di Jamila era fresco e avrebbe impiegato molto tempo, prima di cicatrizzarsi come quelli delle altre femmine. «Grazie» disse a Daren, andando poi a versarsi un bicchiere d’acqua. Lui calcolò quei pochissimi metri che ora li separavano e soffocò l’impulso di tornarle vicino e muoversi insieme a lei in ogni cosa che faceva. Invece, prese la T-shirt pulita che aveva preso per sé e se la mise. «Allora, volete spiegarci per quale motivo siete venuti, o intendete starvene lì zitti ancora per molto?» «I grandi sono andati a bere cinque minuti fa; noialtri ci stiamo preparando per andare non appena tornano» spiegò Din, battendo nervosamente un piede. «Veniamo subito» riferì Daren, andandogli sotto con decisione. Guardò Dana; le gote erano rosse come le sue labbra. «Aspettateci all’accampamento.» «Va bene» assentì la quindicenne, prendendo per mano Din. «Andiamo, su.» Il ragazzino abbassò la mano con cui si era coperto gli occhi e, prontamente, Daren gli piantò la propria sulla testa, torcendogliela dalla parte opposta della grotta. «Non ti avevo detto di non guardare?» «Ahi, ahi! Mi fai male, ahi!» «Cammina» gli diede uno spintone, «e vattene, prima che ti prenda a calci.»
Jamila ridacchiò, scuotendo la testa mentre cominciava a spiegare la maglietta a maniche corte. Piegò un angolo delle labbra, pensando al motivo per cui lui l’aveva scelta: un top non avrebbe coperto i segni del morso, ciò significava che Daren non era ancora pronto a dire a tutti di loro. Una cosa stupida, perché era impossibile che il branco non avesse sentito niente, la scorsa notte. E andiamo, gli adulti sapevano perfettamente che cosa avevano fatto lei e Daren. «Vestiti» fece lui, tornandole vicino. «Ti aspetto fuori» soggiunse, riflettendosi negli occhi della sua amata. Jamila inarcò un sopracciglio. «Non dirai sul serio» esclamò con un tenero sorriso. «Vuoi aspettarmi fuori perché mi devo vestire? Ti sembra il caso?» Inutile aggiungere Dopo stanotte. Daren sollevò il mento con arroganza, i muscoli del collo si tesero in tutta la loro potenza. Le posò le mani sui fianchi, attirandola a sé con un movimento brusco, e le avvolse il deltoide morso con la mano. Questo bastò per ritrovarsi le dita della sua femmina sul viso, tra i capelli e sulla nuca. La baciò con trasporto, circondandole la vita con le braccia, desideroso di possederla ancora. Lì, sul tavolo. Adesso. Invece, fece un o indietro con un’espressione più che eloquente sul viso. «Sì, mi sembra decisamente il caso che ti aspetti fuori.» Si sorrisero. «Fai subito.» Jamila rimase con lo sguardo incollato al suo finché non uscì dalla caverna. Sorrise come una sciocca, tastandosi la gola, e incominciò a vestirsi.
Una colazione con la famiglia al completo nel luogo in cui erano successe cose perverse e ionali solo poche ore prima, non era certo quello che Jamila e Daren avrebbero voluto fare. Soprattutto perché c’era il rischio che Dana e Din se ne uscissero con quello che avevano visto all’alba. Ovviamente Daren gli aveva intimato di tenere la bocca chiusa, ma nessuno avrebbe potuto prevedere cosa avrebbero fatto i grandi. Domande della serie ‘Quando vi sposerete?’ ed esclamazioni del tipo ‘Ecco la nuova coppia del branco!’ erano proprio ciò che i due volevano evitare. Ma
saltare la colazione non avrebbe fatto altro che alimentare il pettegolezzo. Be’, in quanto a spettegolare, pensò Jamila, le madri del branco si stavano contenendo parecchio, mentre tutti bevevano il latte dalle ciotole e masticavano i fiocchi di cereali fingendo di parlare del più e del meno. I giovani erano seduti a gambe incrociate sulle pellicce e gli adulti occupavano l’altro lato della grotta ma tutti, tra una parola e l’altra, lanciavano un’occhiata a Jamila e Daren che, zitti zitti, ostentavano indifferenza e tenevano gli sguardi bassi. «Dunque» esordì Rashid, ando il suo piatto vuoto alla moglie, «essendo il capo, ho deciso che oggi siamo tutti in vacanza.» Akil alzò la mano. «Ehm, boss? Oggi dovevamo andare a concludere quell’accordo a Arusha, veramente.» «Chiamalo e digli che l’accordo slitta a domani» risolse Rashid. Banga sogghignò, anche se non era il suo sorrisetto migliore… non da quando avevano rapito suo figlio. «Non abbiamo un cellulare, capo.» «Uhm.» Rashid socchiuse le palpebre. «Dovremmo procurarcene uno, allora.» Proseguì con una scrollata si spalle, alzandosi dallo sgabello: «Comunque, stavo dicendo che oggi ognuno è libero di fare quello che vuole. Riunioni, decisioni e discussioni» scoccò una rapida occhiata alla figlia, «sono rinviate a domani. Le faccende serie sono tabù. Oggi ci riposiamo, e non ammetto repliche. Tutto chiaro?» I mariti si strinsero alle loro mogli con fare possessivo e accattivante. «Signorsì» risposero allegramente in coro. Rashid rise. «Perfetto.» «Jamila?» esordì Zena, mentre Abena e Kinue l’aiutavano a raccogliere le ciotole e a metterle nel pentolone nel camino. «Sì, mamma?» ribatté lei, consegnandole la sua scodella. «Avevo intenzione di andare a Shinyanga a comprare qualche bel vestito al
mercato» Zena prese anche la ciotola di Daren, «e stavo pensando che tu e Malik potevate accompagnarmi.» Diede i piatti a Kinue, che li ò ad Abena e lei li mise nel pentolone. «È solo per non fare il viaggio da sola. Poi, magari, voi due vi fate un giro mentre scelgo i vestiti.» «Per me non ci sono problemi, Zena» fece Malik con il suo solito fascino inappropriato e, in questo caso, decisamente di pessimo gusto. «Lo sai che ti faccio compagnia volentieri, se me lo chiedi.» «Direi che sei un po’ troppo giovane, ragazzino, per cercare di rubarmi la donna» lo prese in giro Rashid, ridendo con i genitori di Malik. Zena ammiccò al suo uomo, poi tornò sulla figlia. «Tesoro, tu che dici? Ti va di venire? Ci facciamo una eggiata, guardiamo le bancarelle» gli occhi le scivolarono su Daren, «parliamo…» Jamila si paralizzò. L’istinto di guardare il suo compagno fu duro da sopprimere. «Ehm… non penso che sia una buona idea, mamma… No.» «Dài, capo, non fare la difficile» esclamò Malik frustrato. «Non andiamo mica in Asia. Andiamo al mercato.» Sfoderò uno dei suoi sguardi incantatori. «Ci divertiamo» aggiunse allusivo. Jamila distolse prontamente lo sguardo da lui. «No…» Dio, avrebbe voluto gridare a tutti il motivo del suo rifiuto, ma c’era una ragione se Daren le aveva fatto indossare una T-shirt. «Oh, andiamo» sbraitò Malik, levando in aria il braccio con cui avvolgeva le spalle di Naja con aria stizzita. «Ha detto no» ruggì Daren con la sua voce profonda, zittendo con un’occhiata omicida chiunque avesse tentato di convincere la sua femmina. «Prova a insistere ancora e te ne pentirai amaramente.» Jamila sgranò gli occhi, così come tutti i presenti. Be’, se qualcuno aveva avuto qualche dubbio su loro due, ora Daren aveva dato la prova evidente che erano diventati compagni. Nel silenzio che seguì, dire che Jamila si sentiva nuda di fronte a tutti era un eufemismo. Se, almeno, Daren avesse percepito il suo disagio e l’avesse stretta forte, invece di duellare con Malik a suon di occhiatacce, si sarebbe sentita meglio.
Per fortuna, suo padre capì che era terribilmente imbarazzata e si prodigò per salvarla. «Può accompagnarti il giovane Din, amore» propose a Zena con voce tonante, da leader. «Con due maschi al tuo fianco, sono più sicuro che nessuno ti importunerà.» Non che sua moglie avesse bisogno di protezione, diamine, era una furia quando voleva. «Che ne dici, giovanotto?» Din scambiò uno sguardo d’intesa con Malik. «Andiamo a fare shopping» replicò con un sorriso benevolo. «Visto?» fece Rashid. «Problema risolto.» «Così sembra, caro» rispose lei, posandogli un casto bacio sulle labbra. Jamila guardò suo padre intensamente. Lui alzò un angolo della bocca e le fece l’occhiolino. Lei gli sorrise con tutto l’amore possibile, prima di afferrare Daren per mano ed esclamare: «Noi andiamo al lago! Ci vediamo a pranzo». «A chi arriva prima?» le domandò lui, mentre guizzavano fuori dalla caverna e scendevano nell’accampamento, frementi. «Mi hai letto nel pensiero» ribatté lei maliziosa. «Via!» gridò lui senza preavviso, barando come al suo solito, rievocando le lunghe corse di un tempo. E tristi ricordi.
A Zena piaceva guidare la Jeep per andare a Shinyanga. Le piaceva il vento che le scompigliava i capelli e le sferzava il viso. Guidare le rammentava la sua vita precedente nel mondo civilizzato. Ricordava perfettamente quando i suoi genitori le avevano regalato la sua prima macchina; di seconda mano, ma pur sempre un bel mezzo che equivaleva a libertà. Era stato esattamente dieci minuti dopo aver inserito le chiavi, aver avviato il motore e aver percorso tutto il viale, che aveva incontrato suo marito. E lo aveva fatto finire dritto all’ospedale. Eh sì, era così che si erano conosciuti. Un incidente stradale. Zena non stava guardando avanti e non aveva visto che lui stava attraversando la strada. Per fortuna, andava a o d’uomo, ancora un po’
spaventata dalla nuova responsabilità, e non lo aveva investito violentemente. Certo che quando il destino ci si mette, ci si mette e basta. Non vuole sentire scuse. Se deve succedere, deve succedere. Punto. Durante il tragitto, sia Din che Malik la supplicarono di farli guidare un pochino ma Zena, inamovibile, li aveva minacciati di portarli con sé a comprare vestiti da donna se non la piantavano di assillarla. Giunti a destinazione, parcheggiò davanti all’imbocco di un vicolo buio e angusto senza uscita. «Allora, io vado» esordì scendendo dalla Jeep, «uno di voi due rimanga nei paraggi e dia un’occhiata all’auto, ogni tanto.» «Va bene» fece Malik, sgranchendosi i muscoli delle braccia possenti. «Mi accompagni tu, Din?» domandò Zena, issandosi la borsa sulla spalla. Notando che il ragazzino stava scambiando occhiate interdette con l’amico, sorrise perfida. «Ehi, dovevate saperlo che uno dei due mi avrebbe dovuta aiutare a portare la roba che ho intenzione di comprare. E siccome Ghali è sparito dalla faccia della Terra per chissà quale ragione, non mi fido a lasciare la macchina incustodita. Uno resta e l’altro viene con me. Forza, decidete.» Malik menò un colpo sul petto di Din. «Resto io, amico. Vai tu.» «E ti pareva…» borbottò lui. «Allora, Malik, dovrebbero essere circa le…» Zena alzò lo sguardo in cielo e studiò la posizione del sole, «… undici e mezza. Spero di non metterci molto, ma conta che prima dell’una non saremo di ritorno.» «Wow, che bello. Una bella oretta e a tutto solo a fare la guardia alla Jeep come un cagnolino» ribatté sarcastico. «A casa sanno già che oggi mangeremo tardi, quindi non preoccuparti se non ci vedi tornare subito. Okay? Bene, a dopo.» Malik tornò in auto e si allungò comodamente sui sedili posteriori, pensando a Jamila e all’odore di Daren che la impregnava da capo a piede quando si erano radunati nell’accampamento per andare ad abbeverarsi.
Altro che un’oretta, cacchio. All’una, Malik aveva dovuto mettere in moto la Jeep e destreggiarsi in una manovra in retromarcia per infilare la macchina nel vicolo e guadagnare un poco d’ombra per continuare il suo sonnellino. Poi si era riaddormentato per altre due ore. E adesso, qualcuno con la mano pesante gli stava stritolando una spalla come se fosse stato un frutto da spremere. «Ohi, Malik? Svegliati, amico.» Lui schiuse le palpebre e mise a fuoco la faccia di Din. «Era ora…» biascicò, raddrizzandosi sui sedili. Zena gli gettò addosso una caterva di buste di plastica e di carta, sogghignando come una iena mentre lui arrancava fuori dalla Jeep ancora mezzo addormentato. «Ben svegliato, principino» lo canzonò. «Ci abbiamo messo tanto?» Malik si stropicciò gli occhi. «Naa, tipo tre ore e mezza. Come minimo sono le tre del pomeriggio.» «Ma smettila.» Zena adagiò anche la propria borsa sui sedili posteriori, mentre Din sistemava gli acquisti tutti da un lato per potersi sedere. «Massimo sono le due e mezza.» «No, no, sono le tre, credimi. Il mio stomaco dice che vi sto aspettando da quasi quattro ore.» Zena mostrò la chiostra di denti bianchissimi. «Va bene, è tardino. Perciò andiamo, prima che Rashid mobiliti tutto il branco per venirci a cercare.» Malik e Din cominciarono a scambiarsi battute tipicamente maschili per chissà quale motivo, e Zena si rifiutò categoricamente di ascoltarli quando Din iniziò a raccontare della ragazza che aveva adocchiato al mercato. Scosse la testa e… La notte calò improvvisamente su di loro. Zena spalancò le palpebre lentamente, percependo un gelo assurdo risalirle dalle gambe fino alla nuca e immobilizzarla. Malik e Din furono alle sue spalle in meno di un secondo, l’odio e la paura navigavano sui loro volti.
Due Hummer giganteschi gettarono il buio più oscuro all’interno del vicolo, seguiti a ruota da un furgone scuro, lasciandosi dietro una scia che aveva il sentore del pericolo puro. Come la luna attraversa il sole durante l’eclissi, il convoglio tetro restituì un fioco bagliore alla viuzza e svoltò a sinistra, fermandosi nei pressi dell’albergo della città. I tre mutanti-leoni si appiattirono contro il muro della casa e si sporsero cautamente per osservare, i loro cuori erano pressanti come tamburi durante un’esecuzione. «Cribbio» bisbigliò Din, una piccola incertezza nella voce. «Vi prego, ditemi che non è quello che penso» gracchiò Malik, scoccando un’occhiata fugace a Zena. Dal primo Hummer scese un uomo sulla settantina, con la mascella e le guance completamente coperte dalla barba bianca, screziata d’argento, tenuta da safari, occhiali da sole impenetrabili e cappello in testa. Din e Malik erano troppo piccoli per ricordarsi di lui, ma Zena non aveva mai dimenticato il volto dell’uomo che per poco non aveva portato via tutti i cuccioli del branco. L’uomo che aveva rapito Kenan in quell’orrenda notte. Mark Shelby, il bracconiere. «È quello là?» chiese Malik, riportandola al presente. «È senz’altro lui» intervenne Din, cupo. «Guarda quanto sono grossi quei bestioni in nero… No, no, è per forza quel vecchio dall’aria letale, il capobanda.» «È lui» confermò Zena truce. Il secondo Hummer e il furgone si svuotarono a loro volta e due ragazzi riempirono l’aria con le loro risate fraterne. Il più basso dei due, con i capelli ricci castano scuro, occhi verdi e labbra sottili incorniciate da un’ombra di barba che delineava anche la mascella squadrata, aveva un sorrisetto scaltro mentre si sistemava un paio di occhiali all’ultimo grido sul naso. L’altro, alto più o meno un metro e ottantacinque, era un marcantonio con il
fisico scolpito da ore e ore di palestra. Aveva braccia muscolose e spalle possenti come quelle di Malik, e la T-shirt col cappuccio nascondeva un ventre sicuramente piatto e sodo. Sembrava un tipo più sportivo del suo amico, e quegli occhi azzurri e i folti e lunghi capelli biondo scuro gli davano l’aria del classico sciupafemmine viziato e arrogante. In mezzo al fragore delle grida d’incitamento provenienti dal mercato, al via vai di turisti davanti all’ingresso dell’hotel e all’andirivieni di Jeep per le strade polverose, i tre mutanti non colsero quello che si stavano dicendo e, di conseguenza, non capirono perché l’adone biondo avesse mollato uno scappellotto al moro, che dovette riafferrare al voglio gli occhiali sbalzati via dal suo naso. Ciò nonostante, la risata del biondo sovrastò il chiasso cittadino; una risata calda, giovanile, di chi è abituato a vincere sempre. Mark Shelby mosse le braccia verso i suoi uomini, che annuirono all’unisono e si spostarono tutti verso il furgone nero. Poi si avvicinò ai due ragazzi (il moro gli assomigliava moltissimo, e Zena azzardò che fosse il figlio) e posò una mano rugosa sulla spalla del biondo. Disse qualcosa, il figlio gli rispose con un’espressione sofferente. Shelby parlò ancora, rivolto solo al biondo, stavolta, e il ragazzo si incupì ringhiando qualcosa. «Ehi, Din?» chiamò Malik a voce non troppo alta. «Mmh?» «Quel divo di Hollywood» disse riferendosi al ragazzo biondo, «non ti sembra…» «Familiare?» «Già.» «Sì, mi dà l’impressione di uno che gira tre bicchieri capovolti sul tavolo con una velocità impressionante.» «E tu devi indovinare dove si nasconde il noccio, vero?» «Esatto. Anche tu hai pensato la stessa cosa?»
Malik annuì. «Già. Con quelle mani, quegli occhi, quei capelli… Mi ricorda proprio quel gioco che facevamo quando eravamo piccoli con…» Un lampo balenò nella sua mente. «Oddio…» imprecò, saettando con lo sguardo su Din. «Non può essere…» sussurrò lui, impietrito. «Sì, invece» sibilò Malik, le iridi che scintillavano di emozione. «Guardalo.» Zena capì, e il suo cuore fece una capriola. «Malik, metti in moto la macchina» ordinò, torva e circospetta. Il ragazzino sbatté le palpebre. Aveva sentito bene? «Ahm… Sei sicura?» «Muoviti, dannazione.» Con tutti i pensieri che stavano catapultandosi nella sua testa, guidare veloce per tornare alla Roccia era fuori discussione. Ora Malik aveva l’occasione di provarle di essere una freccia alla guida. I due giovani montarono sulla Jeep, e un istante dopo il motore rombò. Zena rimase ferma dov’era, basita, lo sguardo verde mare puntato sul ragazzo biondo insieme ai bracconieri. Insieme, non legato in qualche modo. Con, non contro di loro. A suo agio, sorridente, scherzoso, non rovente d’odio e rabbia. Tra amici, non nemici. Il biondo ammutolì di punto in bianco mentre stava parlando con l’amico, e Zena ebbe l’assoluta certezza della sua identità, perché lo vide con chiarezza annusare l’aria. Percependo il suo odore. Quando lui si volse verso di lei, ogni dubbio svanì.
19
«SMETTILA di rosicare perché con questo accenno di barba sono più affascinante di te e ti ho fregato l’hostess più carina dell’aereo.»
«Ma finiscila.» Kenan menò uno scappellotto sulla nuca di Will, sperando che i suoi occhiali cadessero a terra e si rompessero. William li riacciuffò al volo. Peccato. «Allora, ragazzi» esordì Mark Shelby, affiancando il suo pupillo e posandogli una mano sulla spalla muscolosa e dura, «contenti di essere di nuovo in Tanzania?» «Altroché» rispose Will, sarcastico. «Questo sole, così teneramente caldo e accecante, è ciò che ho sempre desiderato» aggiunse con un’espressione dolorosa, mettendosi una mano in cima al capo. Kenan fece una risatina; a lui il sole non dava affatto fastidio. Chissà perché, vero, genio? disse una vocina nella sua testa. «Bentornato a casa, Kenan» gli disse Mark Shelby, stringendo la presa sulla sua spalla e abbassando il tono della voce. Lui si fece serio, disintegrando metaforicamente il muro di un’abitazione con lo sguardo. «Non è più casa mia» ringhiò. Mark abbozzò un sorriso mesto. «Bene, ragazzo mio, bene.» Gli diede una pacca sulla schiena. «Vado dentro a dire che siamo arrivati» annunciò, sparendo nell’albergo. Vedendo le tenebre sul volto dell’amico, William gli andò vicino. «Ehi, senti…» Merda, non sapeva proprio cosa dire. «Come… come ti senti?» «Bene.» Kenan sapeva perfettamente quello che lui intendeva dire. Entrambi
serbavano bei ricordi di quelle terre, ma quelli di Will non potevano neanche lontanamente competere con quelli di una vita ata a correre libero nella savana. «Okay, come vuoi… Allora io vado a dare una mano a scaricare le valige.» «Sì…» Kenan si irrigidì di colpo. Le sue narici si dilatarono istintivamente, cogliendo un particolare odore nell’aria. Quel profumo fruttato… era nei suoi ricordi, abbinato alle immagini delle colazioni, dei pranzi e delle cene con il branco. Contornava il viso di una donna bellissima e forte. Kenan lo seguì, il suo volto ruotò nella direzione da dove proveniva e due occhi severi, verdi come il mare, lo catturarono con fermezza. Oh, cazzo. Era Zena. La madre di Jamila. La moglie del capobranco. Il suo fottutissimo branco. Voltato per metà verso di lei, Kenan sapeva perfettamente quello che le stava ando per la testa. Si stava chiedendo cosa ci faceva con i loro nemici, perché non era rinchiuso in qualche gabbia, perché se ne stava lì come se non fosse circondato da bracconieri. In realtà lei aveva già la risposta ai suoi quesiti. Lui era diventato uno di loro. Non prigioniero, come avevano creduto fino ad ora. Dio santissimo, Kenan aveva una voglia matta di far schierare gli energumeni alle sue spalle, Will alla sua sinistra, Mark alla sua destra e fornirle una bella immagine da stamparsi nel cervello e riproporre al quel cesso di branco di mutanti.
Cazzo! Chissà che shock che avrebbero avuto i suoi genitori e tutti gli altri, quando Zena avesse raccontato loro di questo incontro epico! Avrebbe voluto ficcarsi nel portabagagli della Jeep… (un momento, erano Din e Malik, quelli che vedeva nell’auto? Oh, quanto erano cresciuti! Quasi si sentiva vecchio)… e spiarli mentre glielo diceva per vedere le molteplici reazioni. Notando che la femmina di Rashid era più immobile di una statua, Kenan si volse completamente verso di lei e piegò il busto in una teatrale riverenza. Quando si erse, il suo sorrisetto fu più arrogante di quanto avesse voluto e, giusto per essere sicuro che lei avesse capito l’antifona, si tirò su il cappuccio della T-shirt con aria di sfida. Lei aggrottò pericolosamente la fronte, e Kenan le lanciò un ultimo sorriso beffardo prima di girare i tacchi. Oh, sì, avrebbe voluto dirle, era tornato. E aveva una bellissima sorpresa per tutti loro.
20
«QUANDO ripartirete?» domandò Jamila a Daren, accoccolandosi meglio contro il suo corpo granitico.
Lui la cinse ancor più con il braccio, inspirando appieno l’aroma dei suoi capelli. «Non lo so. Dovevamo riunirci oggi con tuo padre, per decidere dove andare con la prossima spedizione, ma…» Fece spallucce. Jamila scrutò i raggi del sole filtrare attraverso la rada fronda dell’alberello nell’accampamento, sotto la quale erano seduti. «Sono contenta che papà ci abbia concesso questo giorno da are insieme.» Fece le fusa, circondandogli il torace con un braccio. «Solo io e te.» Daren le sfiorò i segni del morso con la punta delle dita. «Credi che l’abbia fatto per noi?» «Assolutamente sì.» Lui le sollevò il viso con un dito, perdendosi nei suoi occhi. «Allora dovrò ringraziarlo.» Jamila gli sorrise, stregata, e si lasciò baciare con estrema cura, gustando con molta calma il suo sapore. Aveva fame di lui, era pervasa dalla smania incredibile di riassaporare tutto quello che lui poteva darle. E che avrebbe continuato a donarle finché non fosse ripartito per chissà dove. Per mantenere la promessa. Se lei gli avesse chiesto di restare, si ritrovò a pensare Jamila, se lo avesse implorato di ignorare quel giuramento, Daren avrebbe mollato tutto e sarebbe rimasto con lei? Il problema era che Jamila proprio non lo sapeva, perché non sapeva con esattezza quanto lui avesse a cuore il recupero di Kenan. Non sapeva se, per Daren, era più importante lei o il suo migliore amico
disperso. Be’, se magari si fosse decisa a chiederglielo… «Daren?» lo chiamò, tirandosi appena indietro dalla sua bocca. Lui la guardò adorante. «Mmh mmh?» Jamila schiuse le labbra per parlare, quando l’eco lontana del motore di una Jeep giunse alle loro orecchie, richiamando a rapporto i quindicenni del branco che sfrecciarono verso i due ventunenni come proiettili. Daren si mise in piedi e aiutò la sua compagna ad alzarsi, tenendola sempre stretta a sé. «Sembra che stiamo per mangiare.» «Finalmente» brontolò Jamila, scrutando i leoni che cambiavano forma in fiochi lampi bianchi. «Dove siete stati?» chiese a Dinari, mentre lui le andava vicino con le tre ragazzine al suo seguito. «A mollo nel lago» rispose lui allegro. «Ma poi abbiamo visto la Jeep con tua madre, Malik e Din scendere nel cratere e siamo corsi qui» finì Dana, la gonna nera si allargava dietro di lei facendola sembrare una regina. «Eccoli là» annunciò Daren, indicando con un cenno del capo la macchina che si stava avvicinando. «Noi cominciamo a salire» fece Dinari al suo leader, e Jamila annuì. La Jeep si arrestò brutalmente al centro dell’accampamento, sollevando un polverone. Jamila dovette ripararsi gli occhi e, quando vide Malik scendere dal lato guida, rimase perplessa. Da quando sua madre si lasciava convincere da quel cascamorto a farlo guidare? Din balzò giù dall’auto e lo sportello del lato del eggero si spalancò di colpo. Le lunghe gambe di Zena sbucarono dalla macchina e lei scese con un’espressione terribile in volto. Jamila trasalì, quando gli occhi adirati e sconvolti della madre incapparono nei
suoi. «Mamma?» Lei fu attraversata da un balenio di atroce sofferenza e ancor più rabbia, e dovette spostare lo sguardo sul forte Daren per trovare in lui la fermezza che le occorreva in quel momento. «Dov’è mio marito?» Daren si accigliò, stringendo la vita di Jamila con il braccio tanto da sentirla gemere. «Di sopra» replicò cupo, osservando ora Malik ora Din. Qualcosa non andava. Zena assentì con un cenno del mento e, senza aggiungere altro, disse ai due ragazzini: «Andiamo». Confusa e irritata, Jamila si sganciò dal suo uomo e si spostò velocemente verso la madre. «Che succede? Mamma? Mamma, dimmi che cosa sta succedendo.» Zena l’allontanò con un’occhiataccia. «Non adesso» ringhiò, salendo in fretta e furia lungo il sentiero che portava alla grotta al piano di sopra. Jamila la guardò, assalita da un’ansia improvvisa. Le pareva che la lunga veste della madre stesse andando a fuoco; un fuoco alimentato dall’intensità dei sentimenti che la stavano invadendo. Era accaduto qualcosa, e Jamila avrebbe scoperto di che si trattava. «Din» intimò, prima che lui le sgusciasse sotto il naso per raggiungere Zena. Lui deglutì, senza fermarsi. «Che succede?» disse lei, allora, inseguendolo. «Non posso… dirtelo» farfugliò Din, scappando. Jamila corrugò le sopracciglia e quando Malik le ò accanto perse il controllo. «Dimmi che cosa diavolo sta succedendo» ringhiò, attanagliando una mano attorno al suo bicipite e riuscendo a far presa nonostante la sua grandezza. Con quella luce, le loro iridi sembravano risplendere di pagliuzze d’oro, più scure in Jamila e molto più chiare in Malik. «No, capo» rispose il ragazzino, calmo e affranto. «Non posso essere io a dirvelo.»
«Dirci che cosa?» Daren afferrò la sua femmina per il polso e l’attirò a sé. Malik non perse altro tempo e avanzò rapidamente lungo il sentiero scavato nella pietra. «Malik» sibilò Jamila, digrignando i denti e facendo per raggiungerlo e prenderlo a schiaffi finché non avesse parlato. «Non seguitemi» ordinò lui, guardandoli da sopra la spalla e continuando a camminare. «Vi verrò a chiamare quando saranno pronti» aggiunse prima di scomparire nella caverna silenziosa. Pronti per cosa? si chiese la mutaforma, mentre Daren, più tenebroso della notte, la guidava verso il retro della Roccia, dove l’ombra e il fresco avrebbero reso quei minuti di attesa meno logoranti di quanto già non fossero.
Quando finalmente Malik andò a chiamarli, Daren e Jamila furono titubanti nell’entrare nella grotta. C’erano tutti, nessuno escluso. Le ragazzine erano inginocchiate sulle pellicce, così immobili, con le gote arrossate, le labbra socchiuse, le spalle aperte e le mani raccolte in grembo, che sembravano pie come tre vergini pronte per essere date in sacrificio agli dèi. Dinari era seduto a gambe incrociate vicino a Nia, lo sguardo basso. Gli adulti erano accalcati intorno al tavolo; alcune donne erano appollaiate sugli sgabelli e i mariti torreggiavano accanto a loro, altre erano sedute sulle ginocchia del proprio uomo. Guardavano Jamila e Daren come si guarda una persona che ha appena subìto un lutto. Din e Zena erano piazzati dinanzi al mucchio di armi nobili e, non appena Malik li affiancò, Jamila ebbe l’impressione che quei due fossero stati ufficialmente nominati assistenti della moglie del capobranco. Rashid era appoggiato con le mani alla mensola del caminetto, la schiena curva sotto la camicia di jeans e la testa ciondolante. Oddio. «Che sta succedendo?» domandò Jamila per l’ennesima volta, la voce così sconsolata da strappare un ansito di commozione alla madre di Naja e Din.
«Sedetevi da qualche parte, ragazzi» comandò Rashid, senza voltarsi. «Basta con questa messa in scena snervante» sbottò Daren. «Parlate immediatamente, o giuro che faccio un macello e allora sì che avrete un motivo valido per essere così profondamente addolorati e incavolati.» Il capobranco si voltò a metà, fulminandolo con lo sguardo. Cristo, pensò scrutandolo con attenzione, quella luce focosa negli occhi… quella era la luce di chi… è nato per comandare un branco. Lo stesso fuoco che Banga, Akil e gli altri uomini avevano visto nel suo sguardo quando avevano deciso di seguirlo e di sottostare al suo comando. «Oh, per amor del cielo, Rashid» lo rimproverò Zena, portandosi al centro della caverna perché infastidita da quella lotta per il potere. Fissò prima Daren, poi sua figlia. Inspirò a fondo e parlò con la risolutezza che la contraddistingueva: «Mark Shelby e i suoi uomini sono qui, in Tanzania. A Shinyanga. Io e i ragazzi abbiamo visto il convoglio fermarsi davanti all’hotel. E…». «Kenan è con loro» sopraggiunse Rashid duro. «Cosa?» trasecolarono contemporaneamente Jamila e Daren. Okay, diciamo che dalle facce che avevano tutti quanti, non si aspettavano di certo una notizia bella come quella. «Oh, mio Dio…» sospirò Jamila, stringendosi le mani al collo con un sorriso che si allargava sul suo viso. «L’avete visto?» chiese euforica, rivolgendosi anche a Din e Malik. Loro restarono in silenzio. «Sta bene, sì?» domandò Daren concitato. «Certo, nove anni di prigionia non devono essere stati facili, per lui… Ma sta bene, non è vero?» «Non è prigioniero dei bracconieri, Daren» ribatté grave il capobranco. Il ragazzo si scollò dalla sua femmina, andandogli sotto a muso duro. «Che intendi dire?» sibilò sommessamente. Rashid parve parlargli con il pensiero, per quanto intensamente lo guardò.
arono un lungo istante così, occhi negli occhi, fino a quando Jamila non colse un brivido scuotere le spalle di Daren, che divenne rigido come il tronco di un albero. «No» sussurrò lui, scuotendo la testa e indietreggiando. «Cosa? Non ho capito, che vuol dire?» protestò Jamila, supplicando il padre di spiegare anche a lei. Daren serrò le palpebre e si ò le mani tra i capelli, intrecciandole dietro la nuca e reclinando il capo all’indietro. Distrutto, si girò verso la sua compagna e non incrociò il suo sguardo. La oltreò, incamminandosi verso l’entrata della grotta, e ripeté lo stesso gesto un’infinità di volte, imprecando: «Dio, Dio… Lo sapevo… lo sapevo…». Jamila si accigliò, andandogli vicino. «Tu sapevi cosa? Daren? Daren, guardami. Che cosa sapevi?» Arpionò una mano alla sua spalla muscolosa. «Daren, guardami, maledizione, e rispondimi!» Lui se la scrollò di dosso. «È uno di loro, Jamila!» l’assalì. Lei raggelò. Kenan, uno di… loro. «No…» Indietreggiò dal suo compagno, sostenendo il suo sguardo pervaso dalla rabbia. «Ti… ti stai sbagliando.» Daren serrò la mascella, deglutendo. Dio, avrebbe voluto avere Kenan sottomano per picchiarlo a sangue e chiedergli perché lo aveva fatto. Perché aveva fatto questo a loro, a Jamila? «No…» «Sì, invece» sibilò lei, trafiggendolo con uno sguardo omicida. «Ti stai sbagliando.» Si voltò di scatto verso Din e Malik. «E voi» indicò anche sua madre, «avete visto male.» Tremava da capo a piede per la rabbia. «Kenan non l’avrebbe mai fatto» scoccò un’occhiataccia a Daren, «e non lo farebbe mai.» «Non puoi saperlo.» Lui l’avvicinò, ma lei si sottrasse e incominciarono a girarsi intorno come due predatori pronti a difendere la propria convinzione. «Non puoi sapere quanto è cambiato» continuò a infierire. «Neanche tu!» Jamila ruotò d’improvviso verso Malik e Din. «Che cosa avete visto?» Silenzio. «Ditemi che cosa avete visto!»
Malik sostenne la sua ira. «Mark Shelby e i bracconieri. E Kenan.» «Parlava tranquillamente con l’uomo e con un altro ragazzo» aggiunse Din, spaventato dalle emozioni che i due emanavano. «Quale altro ragazzo?» intervenne Daren. «Ehm…» Malik scrollò le spalle larghe. «Moro, riccio…» Jamila traò Daren con lo sguardo, allargando le braccia. «William. Visto?» «Non essere stupida» l’apostrofò lui, riprendendo a rincorrerla in quel circolo di dolore, che cresceva sempre più. «Non sono stupida, mi sto solo rifiutando di credere alle loro parole!» «Come puoi non credere a quello che hanno visto?» strillò Daren, gesticolando verso Zena, Din e Malik. «E tu come puoi crederci!» Jamila smise di girare in tondo, portandosi una mano sul cuore. «È di Kenan che stiamo parlando! Lui non ci tradirebbe mai!» «Non puoi esserne certa!» «È nostro amico!» Daren fu a un respiro da lei in un battito di ciglia. «Non sappiamo più chi è! Potrebbe davvero essere diventato uno di loro. Uno di loro, Jamila!» Lei alzò il mento. «Non aspettavi altro, Daren, vero?» Gli diede uno spintone e poi un altro, e un altro ancora, perché lui non faceva niente per impedirglielo. «Non aspettavi altro! Hai sempre sperato che succedesse! Così come hai sempre sperato di non riuscirlo a trovare per avermi tutta per te! Perché sapevi che se fosse tornato io…» «Tu cosa?» ruggì Daren, incalzandola e costringendola a cercare riparo dalla sua furia. «Avresti scelto lui, come sempre? Saresti stata in difficoltà perché non avresti saputo chi scegliere dei due? Ti saresti concessa a lui, invece che a me? Avresti capito che ami lui, e non me?»
Non si era nemmeno accorto di averla presa per le braccia e che lei si stava divincolando forsennatamente. «Se è questo che pensi» gridò Jamila a squarciagola, «allora quello che ti ho detto ieri notte non significa niente per te!» «Ti ho sentito, invece!» Daren premette con forza la mano sul morso che le aveva lasciato sulla pelle. «Eccome se ti ho sentito! Ma sapevo che non era quello che volevi realmente.» Jamila riuscì a liberare un braccio e menò un violento schiaffo sul suo viso. Solo allora si rese conto che stava piangendo a dirotto. «Come puoi anche solo pensarlo?» ringhiò, poi se ne andò. «Jamila, aspetta!» Lei gli puntò un dito contro. «Non provare a seguirmi» lo avvertì, svanendo nella luce del pomeriggio. Col cavolo. Daren le corse dietro. «Jamila!» «Ha detto» Rashid lo bloccò prima che uscisse, «di non seguirla.» Daren incenerì il capobranco con uno sguardo assassino. «Lasciami andare» gli intimò letale. Rashid, invece, serrò la morsa. «È mia figlia, Daren.» «È mia.»
Jamila quasi rotolò nell’accampamento della Roccia, stordita, nauseata, sudata, grondante di lacrime. Barcollante, trovò un solido sostegno nel grosso masso, ansimando come se avesse corso per chilometri e chilometri. Era troppo. Il sole stava tramontando e lei si sentiva cadere, proprio come lui. Avrebbe voluto avere un coltello a portata di mano, così da piantarselo nel petto, cavarsi il cuore e porgerlo a Daren gridando: «Chiedilo a lui! Chiedi a lui qual è
l’uomo che amo!». «Jamila.» Lei non si voltò nemmeno. «Sta’ lontano da me.» «Cristo, Jamila, non puoi fare così.» Inspirò con forza. «Non puoi gettare tutto addosso a me!» Lei si girò di scatto. «Se tu non fossi così ansioso di andare a scontrarti con Kenan, perché sei sicuro al cento per cento che sia diventato nostro nemico, allora lo farei!» Un balenio d’ira fiammeggiò sul volto di Daren, che tornò a incombere su di lei, minaccioso. «Non sono ansioso di battermi con lui, Jamila! Come devo dirtelo?» Lei arretrò verso l’alberello. «Io non ti credo! Te lo leggo negli occhi!» «Era il mio migliore amico!» tuonò Daren. «E lo è ancora!» «Sì!» «Allora perché credi a quello che ci hanno detto?» «Perché non ho altra scelta!» «Sì, invece!» Jamila era lacerata nel profondo. «Puoi scegliere di credere in lui, in Kenan!» «Non posso.» Jamila si portò le mani nei capelli e gridò, accucciandosi sui calcagni e piangendo. Perché? si chiese. Perché stava succedendo questo? Perché, lassù, avevano deciso di inondarli con quell’immenso dolore? Che cosa avevano fatto di male? Nessuno di loro aveva mai smesso di sperare che Kenan tornasse, e nessuno di loro si meritava questo. Jamila si tirò su e, asciugandosi le guance con i palmi, appoggiò la schiena al tronco. «Perché non puoi?» mormorò a Daren, senza guardarlo.
Lui buttò fuori l’aria lentamente. «Perché voglio guardarlo in faccia mentre mi dice la verità.» Jamila chiuse le palpebre, poi le riaprì, osservando l’imbrunire serpeggiare sinuoso nel cratere. «Io non posso credere che lui ci abbia tradito.» Daren deglutì e si fece forza, andandole così vicino da aderire completamente con il corpo al suo. «Lo so» bisbigliò, sfiorandole i contorni del viso con i polpastrelli. Oh, Signore… che fosse dannato per quello che stava per dirle. «Ed è per questo che…» gli mancò la forza per continuare, «… quando te lo riporterò, ti lascerò libera.» Jamila spostò gli occhi nei suoi, avvertendo ogni molecola di sé strillarle che lui aveva appena detto una cosa tremenda e lei non se ne era nemmeno resa conto. «Libera da cosa?» Daren non riuscì a fare a meno di sfiorarle le labbra, sperando di non dimenticarne mai il sapore e la morbidezza. Infine, con un gigantesco sforzo, rispose: «Da me». Il mondo crollò addosso a Jamila.
21
«ANDIAMO a riprenderci Kenan» sentenziò Rashid.
Riuniti nella caverna al piano di sopra, tutti i maschi del branco annuirono seri. Le tenebre erano scese sulla Tanzania, e i leoni erano pronti a riprendersi ciò che apparteneva loro. A qualunque costo. Le fiamme del focolare sibilavano a ritmo della loro brama di cambiare pelle, ruggire all’uomo che si era portato via un pezzo di loro e sfoderare gli artigli. «E tu» proseguì il capobranco, rivolgendosi a Daren, «vedi di non fare sciocchezze. Siamo un branco, e come tale agiamo. Non fare niente di testa tua, ci siamo capiti?» Avrebbe voluto aggiungere Sono il capo, e si fa come dico io, perché avvertiva chiaramente il senso del maschio alfa nel ragazzo, e andava soppresso prima che diventasse un problema. A braccia conserte, Daren lo fulminò con lo sguardo. «Non mi sembra di essere mai stato un tipo che manda all’aria il gioco di squadra.» Scambiò un’occhiata con gli altri maschi, con cui aveva ato la maggior parte del tempo in quei nove anni. «Dico bene?» Rashid gli andò sotto con l’aria di chi ti vuole pestare fino allo svenimento. «Fai poco il gradasso con me, ragazzo.» «E tu datti una mossa a dire che dobbiamo muoverci» ribatté Daren, tenendogli testa. «Ho intenzione di mantenere una promessa, stanotte, e non posso farlo se continui a farmi vedere chi comanda.» Il capobranco strinse un pugno, pronto ad abbatterlo sulla faccia di quell’arrogante. «Rashid» lo rimproverò Banga, mettendogli una mano sulla spalla. «Ti prego,
c’è mio figlio con quegli uomini.» Akil lo affiancò dall’altro lato. «Basta perdere tempo, capo. Andiamo a mettere paura a quelle femminucce coi fucili.» Rashid si trattenne dal mostrare i denti a Daren. «Muoviamoci, allora.»
Jamila attese che gli uomini uscissero dalla caverna, rimanendo all’interno di quella al pianoterra. Osservava le altre donne preparare la cena in silenzio, con gli occhi bassi e le mani tremanti. I maschi avevano deciso di andare a ‘liberare’ Kenan, ed era più che comprensibile che ognuna di loro temesse per la vita del proprio compagno. Dio, Jamila le capiva benissimo. Per questo, quando gli uomini scesero nell’accampamento per salutare le proprie donne, lei uscì con foga dalla grotta buia per cercare Daren e… andò a sbattere proprio contro di lui. «Ti devo parlare.» «Non ho tempo adesso, Jamila.» «Ce l’hai per me» replicò, prendendolo per mano e conducendolo nella caverna. La luce del fuoco, appiccato nel campo per arrostire qualche coscia di zebra, rendeva possibile muoversi all’interno senza sbattere il naso da qualche parte, e Jamila inchiodò Daren contro la parete rocciosa con veemenza. «Jamila…» sospirò lui. «Zitto.» Lei fece una pausa, cercando i suoi occhi. «Io non devo scegliere niente, Daren. Hai capito? Niente.» Lui sbuffò, facendo per andarsene. «Non sei lucida; ne riparliamo quando torno con Kenan.» «Io sono lucida.» Gli premette una mano sul petto. Inspirò a fondo. «Devi farmi
una promessa…» «Un’altra?» «… e questa è la più importante di tutte. Promettimi che se le cose si metteranno male, tu non rimarrai per mantenere quella che mi hai fatto nove anni fa.» «Cosa diamine stai…» Jamila gli posò due dita sulle labbra. «Promettimi che se raggiungere Kenan fosse troppo pericoloso, tu non sfiderai la sorte. Promettimi che se lui non… volesse tornare a casa, tu tornerai da me.» Daren la fissò a lungo. «Ho fatto una promessa e la manterrò. Costi quel che costi.» Gli prese il volto tra le mani, scuotendo la testa. «No, perché se il costo da pagare è la tua vita, sappi che ti seguirò senza pensarci due volte. Kenan, o non Kenan.» Daren si incupì. «Perché?» Jamila fece scivolare le dita sul suo collo, poi sulle sue spalle, fermandosi sui suoi fianchi. Sollevò una mano e la poggiò al centro del suo petto, occhieggiando la stoffa della maglietta modellarsi sotto il palmo. «La mia mano sul tuo cuore» disse, levando lo sguardo sul suo e smarrendosi. «Che vuoi dire?» sussurrò lui. Lei accennò un sorriso. «Ti amo, Daren.» Deglutì. «Promettimi che farai ciò che ti ho chiesto. Promettimi che tornerai da…» Daren la baciò con tale impeto da scaraventarla contro la parete opposta. Respirò il suo gemito di sofferenza e fu sul punto di possederla lì, in quel momento. Ma si staccò, a malincuore. «Te lo giuro.» «Daren! Andiamo, muoviti!» lo richiamò all’ordine Banga, la sua voce tradì la sua impazienza. Il calore di Daren scivolò lontano dal corpo voglioso di Jamila, e lei allungò le
braccia per trattenerlo. «Devi tornare qui, da me. L’hai promesso» lo minacciò, il tono incerto. Daren, ormai sotto l’arcata della caverna, sorrise. «Ti amo. E tornerò qui. Da te.» Le loro mani si separarono nella notte più fredda della loro vita.
22
QUELLA sera Kenan non riusciva a smettere di pensare a quello che aveva fatto.
Dio santo, ma come gli era venuto in mente di comportarsi in quel modo con la madre dell’unica ragazza che amava davvero? Perché si era sentito minacciato da lei? Cristo, invece di correrle incontro e abbracciarla forte, pregustando già l’abbraccio che avrebbe scambiato con la figlia, l’aveva squadrata da lontano. E si era sentito superiore sotto tutti i punti di vista. Si era sentito terribilmente e irrimediabilmente diverso, e aveva dovuto farglielo capire. Kenan non capiva perché aveva sentito il bisogno di essere crudele con una delle persone che non avevano smesso un solo attimo di cercarlo, di sperare che fosse ancora vivo. Si sentiva malvagio fino al midollo, e il problema era che… non sapeva se voleva esserlo. Perché di certo non era buono, cazzo. Non lo era per niente. Voleva che il suo branco soffrisse come lui aveva sofferto in quegli ultimi nove anni. Da quando in qua hai sofferto? lo canzonò la vocina fastidiosa nella sua testa. Infatti che cavolo stava pensando? Non aveva sofferto neanche un po’. Casomai, aveva capito che razza di vita squallida aveva vissuto prima dell’arrivo di Mark Shelby. Ecco perché lo aveva convinto ad allestire una specie di campo base fuori dalla città, quasi nella natura selvaggia della piana sterminata: Zena aveva sicuramente allertato la famiglia allargata sul ‘nuovo Kenan’ che aveva incontrato, quello che se ne stava in mezzo ai bracconieri con la stessa tranquillità di una mucca al pascolo, e figurati se suo padre non aveva supplicato il capobranco di non perdere neanche un minuto e venirlo a prendere. Molto bene, perché era quello che Kenan voleva.
Aveva fatto anche un favore al branco, trascinando gli umani lì: avrebbero potuto agire secondo il loro piano senza preoccuparsi che altri intrusi innocenti rimanessero immischiati, e ovviamente il signor Shelby e i suoi gorilla avrebbero potuto sfoderare l’artiglieria pesante senza il rischio di venire smascherati dalle autorità locali. Allungato supino sul sacco a pelo nella sua tenda, Kenan si chiese se i suoi genitori avessero creduto alle parole di Zena. No, certo che non ci avevano creduto: nonostante lui non avesse mai manifestato affetto nei loro confronti, gli volevano un bene dell’anima. Tuttavia era sicuro che non avessero aperto bocca per difenderlo. Al contrario, era certo che Jamila e Daren avessero fatto un gran casino, quando Zena aveva detto loro di lui. Sicuramente Jamila le aveva dato contro, non credendo nemmeno per un secondo alla sua teoria. E anche Daren, senza dubbio, non aveva dato credito alle voci sul suo tradimento. No, loro erano suoi amici. Si fidavano di lui. Invece, Kenan gli aveva traditi sul serio. E ci godeva, ad ammetterlo, perché lo faceva sentire invincibile. Era imprevedibile: né il suo branco, né Mark Shelby sapevano con esattezza quello che gli ava per la testa. O cosa aveva intenzione di fare. Già, genio, gli disse quella cazzo di vocina, bella domanda. Rispondi tu? No, grande leone, non puoi rispondere perché non sai neanche tu cosa fare. Kenan chiuse gli occhi, sbattendosi il dorso della mano sulla fronte. Che idiota era stato a farsi trascinare di nuovo lì. Che cazzo di imbecille. Avrebbe potuto tranquillamente spiegare con precisione a Shelby dove trovare la Rupe del Destino e restarsene comodamente seduto sul gigantesco divano nella tenuta nel New England, mentre lui si prendeva quello che voleva. Stupido, si disse, era semplicemente uno stupido. «Dormi?»
Kenan osservò Will mentre entrava nella tenda e se la chiudeva dietro, sedendosi ai suoi piedi. «Ti è sfuggito il fatto che abbia insistito per accamparci qui fuori, sapendo per certo che il branco ci avrebbe attaccato?» replicò stancamente. «Stanno arrivando; percepisco le vibrazioni del loro galoppo nel terreno. Posso dormire, secondo te?» «Mio padre e gli altri si sono radunati attorno al falò con fucili che potrebbero aprire un buco in un muro di cemento» gli fece notare William, attonito dinanzi alla sua tranquillità. Kenan intrecciò le dita dietro la nuca, accavallando le gambe all’altezza delle caviglie. «Logico, gli ho detto io di farsi trovare pronti, altrimenti la recita non funzionerebbe.» «E ripetimi un po’, qual è ’sta recita?» Il mutaforma sbuffò. «Non appena saranno vicini, io me ne andrò in città. Quando il branco vi attaccherà, vi difenderete come meglio potete, finché Daren non ti riconoscerà. A quel punto, la lotta si interromperà e tuo padre dirà che l’accordo che avevamo era aiutarlo a catturare quante più specie possibili da cedere allo zoo, grazie alle mie doti naturali di cacciatore, per nove anni, per poi farmi tornare a casa dalla mia famiglia. Quindi Rashid e gli altri vi minacceranno di mantenere il nostro segreto fino a farvi cedere le ginocchia, poi se ne andranno credendo che io sia già alla Roccia. Non ci sarò, ovviamente, e loro penseranno che stia vangando per la Tanzania per un qualche problema psicologico. Sai, la lontananza… nove anni… Insomma, loro ci lasciano in pace e noi possiamo proseguire con il nostro intento. Fine. Piaciuta la storiella?» «Kenan…» «In effetti, se li faceste fuori tutti non sarebbe una cattiva idea; risparmieremmo tempo…» rifletté tra sé il mutante. «Kenan.» Lui si sollevò sui gomiti d’improvviso. «Che cazzo vuoi, Will?» «Perché lo fai?» William lo inchiodò con un’occhiataccia. Kenan tornò a stendersi. «Perché non dovrei?»
«Quella è la tua famiglia, e ne parli come se non te ne fregasse un accidenti.» «Infatti non mi importa niente di loro.» «Balle, amico.» Kenan si rizzò a sedere di scatto e, per un attimo, Will ebbe la sensazione che volesse sbranarlo. Deglutì e proseguì: «Credi che non sappia quello che stai provando? Credi che non mi accorga di quanto stai soffrendo?». «Ma falla finita e esci, prima ti faccia stare zitto per sempre.» «So della foto, Kenan» lo incalzò Will risoluto. «Uh-huh, sì, proprio quella che tieni nel cassetto del comodino e che adesso è nella tua tasca.» Esitò. «È così non ti frega niente, eh?» Le sopracciglia di Kenan si incontrarono. Inspirò con forza. «Da quanto lo sai?» «Da sempre; da quando ti sei intrufolato in camera mia e te la sei presa. La mattina ho sfogliato l’album e mi sono accorto che mancava la foto più bella.» Kenan inarcò un sopracciglio. «Tu ti svegliavi e ti mettevi a guardare quelle stupide foto?» «Evidentemente non sono così stupide, se hai sentito il bisogno di tenere con te quella di Jamila e Daren.» Will si sentì traare da parte a parte dalla profondità dello sguardo dell’amico, e sospirò per alleviare la tensione. «Ascolta, stai facendo la cosa sbagliata.» «No, non direi.» «Smettila di fare il cazzone arrogante, per una volta, e stammi a sentire» inveì William a denti stretti. «Non ho smesso di sfogliare quell’album: lo faccio tutt’ora per ricordare quei giorni meravigliosi…» «Oh, ti prego, mi sta uscendo la lacrimuccia.» «… in cui ho trovato degli amici veri.» «Già» lo interruppe Kenan, tagliente. «Peccato che, per quanto ci considerassi grandi amici, non lo eravamo abbastanza, vista la tua bocca larga.»
Un velo di sofferenza calò sul viso di Will. «Io ho pagato per la mia debolezza, K.» Kenan si incupì. «No. Amos ha pagato, non tu.» «Lui era più di un padre, per me. L’ho perso. E per colpa mia, tu hai dovuto sopportare di vivere una vita che non era la tua.» Il mutaforma scoppiò a ridere; la sua risata era vibrante come la coda di un serpente a sonagli. «Sei pazzo, amico? È questa la mia vita, con te, Yale, le ragazze… Questa è la vita che ho scelto.» «Be’, è quella sbagliata» lo apostrofò Will. «E sai perché? Perché in quella foto» indicò i pantaloni di Kenan, «ci sono due persone che ti stanno aspettando a braccia aperte.» Fece una pausa. «E quella che fissi per tutta la notte, quella a cui pensi sempre, non ha smesso di amarti. E di sperare che torni da lei.» Kenan distolse lo sguardo e l’immagine dei suoi due amici, in una delle loro tante liti, gli apparve davanti agli occhi, nitida come se fossero stati davanti a lui. Non ricordava le loro voci, o il profumo di lei, e si odiava per questo. Di loro, non gli era rimasto nient’altro che il ricordo dei volti. Avrebbe voluto poter cambiare le cose. «Puoi farlo, amico mio» gli assicurò William. Merda, si disse Kenan, aveva pensato ad alta voce. «Non saprei come…» Will gli posò una mano sulla caviglia. «Jamila ti ama, e ti sta aspettando.» «E quindi? Cosa pretendi che faccia? Che vada da lei e me ne esca con un: ‘Sorpresa!’? Non mi riconoscerà neanche…» «Andiamo, tu sei Kenan. Il più fico di Yale, quello che schiocca le dita e ha tutte le donne che vuole. Sei un mito in tutto ciò che fai, la gente ti adora. E Jamila ti sta aspettando da nove anni.» «Come fai a dirlo?» «Senti. Sono stato con voi quanto? Due giorni? Ricordo come vi guardavate
quella mattina, alle sorgenti. Ricordo quanto amore c’era nello sguardo di Jamila, e forse tu non te ne sei mai reso conto ma la guardavi nello stesso modo. E un sentimento come quello non svanisce col tempo, credimi. Nove anni non hanno cambiato niente.» Kenan abbozzò un sorriso. «Hai letto un manuale d’amore mentre eravamo in viaggio e io non me ne sono accorto?» William gli stritolò un polpaccio. «Fai poco lo spiritoso e muoviti a tornare da lei, scemo.» Kenan sferrò un pugno affettuoso sul suo braccio. «Come la mettiamo con Tuo Padre & Co.? L’accordo prevede che vi porti tutti alla Rupe del Destino.» «Ci arrangeremo; dopo tutto, hai già detto a mio padre dove si trova di preciso. Non c’è motivo di trattenerti qui.» Will ridacchiò con Kenan. «Solo… promettimi che mi verrai a trovare, ogni tanto. Giusto per evitarmi di tornare a essere uno sfigato.» Kenan rise. «Va bene, amico.» «E porta anche Jamila e Daren, così gli facciamo vedere com’è la vita vera.» «E la Play Station.» «Quella in primis.» Risero di quel momento, poi Kenan si spostò ancor più vicino all’amico e gli posò una mano sulla spalla, fissandolo. «Grazie, Will.» «Sì, lo so, se non ci fossi io non sapresti cosa fare.» «Puoi dirlo forte.» «Sì, okay, ma niente abbracci, per favore.» William fece per aprire la cerniera della tenda. «Cerca di sradicare uno dei paletti della tenda e esci mentre io distraggo gli altri» gli disse da sopra la spalla. Kenan increspò un angolo delle labbra. «Ho un’idea migliore» rispose, sollevando una mano e lasciando che cinque bei paia di artigli gli spuntassero al
posto delle unghie. Will sfoderò un sorriso smagliante. «Sei un grande.»
Jamila non riusciva a respirare. Sarebbe voluta andare con Daren, invece di starsene lì come una cretina ad aspettarlo. In fin dei conti suo padre l’aveva addestrata, quindi perché non l’aveva portata con sé? Perché i ragazzini sì e lei no? Non volava una mosca, nell’accampamento. Madri e figlie mangiavano in silenzio, attente a non incrociare il suo sguardo. Jamila aveva voglia di urlare che stava bene, anche se non era vero neanche un po’. Si sentiva inutile e sola. Lei sapeva combattere, era brava, perché era lì? A fare la donna in pena per il suo uomo? Perché era esattamente così. Temeva per Daren e, allo stesso tempo, era furiosa per essere stata scartata dalla spedizione di recupero. Ecco perché si era rintanata sotto l’arcata della caverna al pianterreno in sembianze animali, in modo che non potessero leggere la preoccupazione e la rabbia sul suo viso. «Jamila?» Smarrita completamente nella sua angoscia, Jamila non si era nemmeno resa conto che sua madre le era andata vicino con una coscia fumante di gnu dal profumo squisito su un piatto di terracotta. Be’, l’odore di carne cotta sarebbe stato squisito per un umano, non per una leonessa che bramava il sangue in gola. Jamila sistemò il testone sulla zampa destra, sottraendosi allo sguardo in pena di Zena. – Non ho fame – rispose, consapevole che la madre avrebbe udito solo un triste miagolio. «Tesoro, devi mangiare.» Zena la accarezzò sulla nuca. «Almeno un pezzettino» insistette, mettendole il piatto sotto il muso. Jamila storse il naso, chiudendo gli occhi per non dover sopportare la vista di
quel bel pezzo di carne rovinata dal fuoco e… erano spezie, quelle che stava annusando? Bleah! Avrebbe preferito mangiare un insetto schifoso. «Non devi essere in pensiero, angelo mio» seguitò sua madre. «Presto, Kenan sarà di nuovo a casa e tu potrai riabbracciarlo.» Jamila si trasformò in un secondo, la furia più cieca le ardeva nelle iridi. «Non è per Kenan che sto così!» gridò, spaventando le altre. In piedi di fronte a sua madre, seduta a terra, non riusciva a vederla veramente. Era accecata da una brutta sensazione. «Piccola.» Zena sospirò, mettendosi in piedi e cercando le mani della figlia. «È comprensibile. Tuo padre e gli altri uomini sono andati ad affrontare Mark Shelby e i suoi bracconieri; tutte noi siamo in ansia. Ma vedrai che riusciranno a riportare Kenan sano e salvo qui. E sono sicura che ho frainteso, quando l’ho visto. Sì, ho capito male, hai ragione tu.» Jamila si impose di mantenere la calma con un bel respiro. «Non è per Kenan, ho detto.» Zena le spostò una ciocca dietro l’orecchio. «Dolce amore mio, so che…» «Non sai un bel niente, invece» sibilò Jamila, sfuggendo alle sue cure. «Perché se fosse così, capiresti perché non riesco a respirare.» «Che cosa stai…?» Jamila si tirò su la mezza manica della T-shirt, mostrando a tutte le femmine del branco il morso lasciatole da Daren. «Non è per Kenan» scandì lentamente per assicurarsi che sua madre ricevesse il messaggio. Zena si portò una mano alla bocca, sconvolta. «Oh, piccola mia…» La guardò dritto negli occhi. «Jamila, perdonami. Io non… Noi donne non percepiamo l’odore del possesso che i maschi lasciano addosso alla loro… compagna. Oh, ecco perché tuo padre…» «Già» tagliò corto lei, coprendosi la spalla. Chissà perché, aveva sempre pensato che, quando si sarebbe innamorata, sua
madre glielo avrebbe letto in faccia e sarebbe stata la prima ad accorgersene. Incredibile quanto il lato animale del leone prevalesse su quello umano. Jamila, nervosa al punto da strapparsi i capelli, si chinò e prese la coscia di gnu, addentandola con rabbia e staccandone un bel boccone che faticò a mandar giù. «Va bene adesso?» chiese a Zena, pulendosi le labbra con il dorso della mano. «Io…» Jamila si abbandonò a un verso di esasperazione. «Vado a fare due i.» La peggiore delle cose che potesse fare. Sparire sul retro, cambiare di nuovo forma e sfrecciare tra la fitta vegetazione lungo le pareti della caldera, fu proprio una pessima mossa. Già, perché lei odiava andare in giro di notte da sola. Quando andava a caccia con le altre leonesse era okay, ma da sola proprio no. Il buio le faceva una paura matta, nonostante la vista felina le consentisse di muoversi con estrema facilità e, di conseguenza, di non temerlo. Ma lei era sempre stata una fifona, da quel che ricordava. Sì, rammentava di una notte in cui lei, Daren e Kenan avevano giocato a nascondino e Jamila era rimasta appiccicata a Daren (che all’epoca detestava) perché davvero non riusciva a muovere un solo o nel buio della foresta. Lui, naturalmente, era stato più che felice di tenerla per mano mentre cercavano un buon nascondiglio, soli soletti. Chissà se Daren e gli altri erano già arrivati a Shinyanga. Chissà se Daren stava bene. Jamila decise di uscire dalla foresta e galoppò per la collina di Engitati. Costeggiò la palude di Mandusi e gli stagni del Goose con una falcata regolare, anche se stava per esplodere dalla frustrazione. Gli animali che la videro raggelarono per poi rimanere interdetti quando lei sfrecciò lontano da loro, per nulla interessata alla caccia. Le sorgenti del Seneto fecero capolino dinanzi a lei, quasi disorientandola. Jamila scese al trotto e tornò umana continuando a correre. Decelerò lentamente.
Si ò le mani sul viso stremato, poi tirò fuori una forcina dalla tasca e si raccolse i capelli alla meno peggio. Lacerata dalla preoccupazione per il suo uomo e dalla brutta sensazione che non l’abbandonava, si mise le mani sui fianchi e sbuffò, avvicinandosi allo specchio d’acqua limpida. La falce della luna si rifletteva in esso, così come lei. Stava morendo dal bisogno di correre da suo padre e dimostrargli che valeva quanto Malik, Din e Dinari, se non più. Lei non era una femmina come le altre. Era forte e coraggiosa, non meritava di essere lasciata a casa. Non era fatta per essere quel tipo di donna, la moglie che aspetta il marito. Lei voleva difendere il branco esattamente come facevano i maschi, perché sentiva di essere nata per proteggere la sua famiglia. Gettò la testa all’indietro, intrecciando le mani dietro la nuca, i gomiti uniti. Le parve quasi di tornare indietro nel tempo, a quella splendida mattina ata con William e Amos. Riassaporò con il pensiero il gusto delle patatine in bustina. Riudì il click del bottone della polaroid e il fruscio della foto che veniva stampata. Riascoltò le risate. Rivide i sorrisi e le pose ridicole di Daren. Ricordò il volto ombroso di Kenan quando gli aveva scattato la foto. Ce l’aveva ancora. Era nella tasca dei pantaloncini che adesso non le entravano più e che erano stati accantonati chissà dove nella pila di vestiti nella nicchia. Non l’aveva buttata. L’aveva semplicemente sepolta. Ma non per dimenticare. No, solo per continuare a sperare che, un giorno, lui sarebbe tornato… Una fragranza maschile, di quelle che hanno gli uomini che usano profumi artificiali, aleggiò sotto il suo naso. Era un aroma dinamico ed energico, di quelli che ispirano entusiasmo e fiducia. Di quelli che comunicano tutta la potenza e lo stile della persona che hai di fronte. Jamila si mise in allerta, filtrando con lo sguardo il nero che la circondava, pronta ad affrontare chiunque la stesse osservando, perché non aveva più una brutta sensazione. Aveva una tremenda sensazione.
23
LA guardava scrutare le tenebre della notte africana in tutte le direzioni, ma non nella sua. Lei aveva fiutato il suo odore, o meglio, il profumo del suo dopobarba. Ecco perché era così sulla difensiva: non lo riconosceva.
Lui inspirò a fondo l’aroma floreale che dava quel tocco di femminilità alla sua indole coraggiosa e indomabile. Sì, santo cielo, era proprio lei. Dio, quanto era diventata bella. Non aveva mai visto niente di così aggraziato, longilineo e sensuale. Quelle ciglia, così folte e nere; sembrava che fosse stata truccata dal migliore esperto del campo. Che zigomi alti e arrossati! Pareva che vi avesse ato sopra un pennello dalle setole morbide e intrise di una polvere iridescente. Le labbra erano rimaste le stesse, di un rosa scuro. Oh, e i capelli brillavano anche al buio, una luce d’oro che ondeggiava sinuosamente nonostante lei li avesse raccolti dietro la nuca. Dio, che corpo. Era fatta per correre. Era slanciata ma tanto sexy che i migliori stilisti del mondo, se l’avessero vista, se la sarebbero contesa a costo della vita. Non era formosa ma, cielo, era troppo desiderabile. Kenan non riusciva più a rimanere nascosto. Dopo aver galoppato dalla città al cratere del Ngorongoro ed essersi fermato di colpo per aver avvertito la presenza di Jamila alle sorgenti del Seneto, moriva dalla voglia di uscire allo scoperto e affondare la lingua nella sua bocca, toglierle i vestiti e premere il corpo contro il suo per lasciarle il proprio odore addosso. Doveva essere l’istinto del leone in lui a fargli avvertire questo bisogno: il pensiero di… marchiare come sue tutte le ragazze che si era portato a letto in quegli anni non lo aveva mai neanche sfiorato. Ma Jamila… lei era sua. Era sempre stata destinata a lui.
Guarda verso di me, la implorava nella sua mente. Lui era lì, bastava che guardasse con più attenzione dietro gli alberi. «Chi c’è?» chiese lei guardinga, poi si chinò vicino alla sponda del laghetto e si armò della pietra più grande che la sua bella mano affusolata riuscì a impugnare. Lui non rispose. Cristo, era paralizzato. «Ti conviene venire fuori, chiunque tu sia» continuò Jamila, aveva un’aria davvero pericolosa. «E sarà meglio per te non fare niente di stupido, o ti tirerò questa pietra in testa. Ho una mira perfetta, ti avverto.» Cavolo, Kenan non ne aveva dubbi, ma… non ce la faceva più a stare lì senza far niente. Con le gambe che tremavano (Dio santo, non era proprio da lui!) avanzò verso di lei, che gli dava le spalle. Al rallentatore, Jamila si voltò. Il sasso le scivolò dalla mano. «Ciao, Jamila.»
Jamila lo fissava. Il ragazzo che le stava davanti la superava di quindici centimetri e le incuteva tanto timore da pietrificarla. Eppure non aveva nulla di terrificante. Era bello da morire, una bellezza giovanile e diversa da quella di Daren, cresciuto troppo in fretta per adempiere alla parola data. Aveva un fisico scolpito, diverso però da quello dei maschi del branco: sotto la T-shirt col cappuccio, i muscoli erano molto gonfi, come se non avesse fatto altro che sollevare pesi dalla mattina alla sera. Tuttavia la sua imponenza le ricordava proprio gli uomini del suo branco. «Ciao, Jamila» aveva detto. Eppure lei non lo conosceva.
Anche se… quegli occhi azzurri, quelle labbra carnose e un po’ meno scure delle sue, così ben disegnate… I lunghi capelli, di un biondo ramato, che gli coprivano le orecchie e gli sfioravano le spalle… le ricordavano qualcuno. «Sono io, Jamila» disse lui, azzardando un o. Lei non sentì il bisogno di indietreggiare. Lui le era vicinissimo, il suo respiro le accarezzava il viso. «Sono io» ripeté, guardandola dritto negli occhi, totalmente ammirato. Jamila aveva il respiro accelerato e pesante, mentre rimaneva immobile sotto il suo tocco delicato ma deciso. Incredibile, si stava facendo accarezzare da un ragazzo che nemmeno conosceva. Lui, al contrario, era come se sapesse perfettamente chi aveva dinanzi e fosse convinto di avere diritto di possesso della femmina che stava carezzando. Jamila non riusciva a spiegarselo, ma era così, perché dentro di lei si era risvegliata una vecchia sensazione; un sentimento che aveva provato per una sola persona. «Non sei cambiata neanche un po’» sussurrò lui, contornandole le labbra con un dito. «Sei… bellissima.» Le sue iridi trovarono quelle di lei. «Non mi riconosci?» Jamila spalancò le palpebre a poco a poco. No, non poteva essere lui. Lui non avrebbe mai sorriso in quel modo, accattivante e seducente come un cobra. Lui non l’avrebbe mai guardata con tanto desiderio. Lui non avrebbe mai mostrato un’espressione tanto radiosa, con il mento quasi sollevato con arroganza. Lui era sempre stato cupo come l’oscurità e taciturno. Lui a malapena le aveva parlato. Lui aveva incrociato il suo sguardo solo se costretto, perché le doveva dire qualcosa. Lui l’aveva sempre trattata come se non esistesse, pur sapendo quello che lei provava. No, non poteva essere lui.
Lui non l’aveva mai tenuta stretta a sé.
Non ce la faceva più. Voleva baciarla. Doveva baciarla. Eccolo, il suo timore più grande: che non lo riconoscesse. ’Fanculo Will e tutte le cazzate che aveva sparato per convincerlo ad andare lì, compresa quella che nove anni non cambiano niente. Col cavolo. Jamila non lo riconosceva, e il fatto che si stesse facendo sfiorare il viso non significava nulla. Magari era una tipa facile e… Oh, ma guarda che cretino! Solo lui poteva essere così stupido da dare della puttana alla ragazza che amava. Jamila non era affatto come le ragazze che aveva abbordato per anni nei locali; loro sì che erano facili, facilissime. No, non poteva più resistere. Voleva molto più di una carezza sulla sua guancia vellutata. Oh, Dio… quanto la voleva. Lei era sua. La sua Jamila. «Sono io» disse ancora una volta, facendo un ultimo tentativo prima di baciarla. «Jamila… io.» Eccola. La scintilla che stava aspettando attraversò gli occhi della ragazza, che sussultò con una mano sull’addome. «Kenan!» strillò, gettandogli le braccia al collo e conficcandogli il mento nella spalla. Lui la strinse fino a farle male, affondandole il volto all’incavo tra spalla e collo, respirandola. La sua salvezza, questo era Jamila. La sua via di redenzione. Ora che era di nuovo con lei, non sarebbe più sprofondato. Si sarebbe aggrappato con tutte le sue forze alle sue mani per non cedere nuovamente all’ambizione. Lei lo avrebbe reso una persona migliore. Il suo amore lo avrebbe trasformato. Kenan non avrebbe avuto più bisogno del potere che il successo e i soldi di Shelby gli avrebbero potuto dare. Ci sarebbero stati solo lui e lei. Erano solo lui e lei.
Da sempre e per sempre. «Sapevo che saresti tornato» gli bisbigliò Jamila nell’orecchio. Kenan sapeva che un sorriso spettacolare le stava colorando il viso di gioia, e non riuscì a impedirsi di sollevarla da terra e volteggiare con una fragorosa risata di felicità. «Oh, mio Dio» esclamò Jamila mentre l’adagiava sul terreno. Gli prese il volto tra le mani, ispezionandone ogni millimetro con estrema cura. «Stai bene?» gli domandò, quasi stesse cercando una ferita mortale che non vedeva. Kenan proruppe in una risata vibrante, sfoderando il sorrisetto beffardo che, ormai, gli veniva spontaneo. «Certo. Benissimo.» Jamila sorrise, scuotendo la testa. «Dio, sei così… diverso.» Rise, posandogli le mani sul petto muscoloso. «Mi sembra un sogno che tu sia qui.» Kenan premette le mani sulle sue guance, alzandole leggermente il viso. «Tu sei un sogno.» Le sistemò le ciocche ribelli dietro le orecchie. «Mi hai aspettato.» «Tutti noi non abbiamo smesso un attimo di sperare che un giorno saresti tornato a casa.» «Ma tu più di tutti, non è così?» disse con voce suadente, ricordando solo grazie al suo rapido cipiglio che lei non lo conosceva così com’era adesso. Lei non conosceva Kenan il seduttore, ma Kenan il tenebroso. «Dio, quanto mi è mancato il tuo viso.» «Ci sei mancato anche tu.» Non si accorse nemmeno che aveva parlato al plurale, era troppo preso dal perdersi nella sua bellezza sensuale. «Ma ora sono tornato.» La trasse ancor più a sé e accostò la bocca alla sua, ignorando deliberatamente quello strano odore che le impregnava la pelle e si mescolava al suo profumo naturale. «E non ti lascerò mai più» le assicurò, fissandola con intensità.
La baciò con trasporto, mettendo da parte il bacio che aveva immaginato di darle (un bacio lento, dolce, romantico) e penetrandola con tutta la propria ione per lei. Premette con enfasi le labbra sulle sue, divorandola, deciso a dimostrarle quanto l’amava e a scusarsi per tutta la sofferenza che le aveva procurato quando erano piccoli. Perché era stato un totale idiota a non contraccambiare fin da subito i sentimenti che nutriva per lui. Ne aveva pagato le conseguenze, però: il destino lo aveva allontanato in modo che capisse quanto lei contasse per lui. E Kenan lo aveva capito. Non avrebbe commesso mai più uno sbaglio simile. Con decisione si aprì un varco tra le sue labbra con la lingua, fremendo di impazienza quando lambì la sua e… «No» sobbalzò Jamila, scollandosi da lui e indietreggiando con una mano sulla bocca e l’altra sullo stomaco. «Non posso.» Kenan si accigliò, leccandosi le labbra. Ehi, mitico, lo chiamò quella bastarda di una vocina, sembra che l’unica femmina in grado di resisterti sia proprio quella che ami. Che sfiga, eh? Kenan si riavvicinò a lei, le mani sui suoi fianchi. «Jamila, ehi? Perché non puoi? Ho sbagliato qualcosa? Dimmelo. Che c’è che non va?» domandò a raffica, premuroso e preoccupato di aver fatto davvero qualcosa che l’aveva spaventata. Forse era il suo primo bacio e, quindi, ci era andato un po’ troppo pesante. Un momento. Non forse, quello era stato il suo primo bacio. Nessuno poteva averla baciata in quei nove anni, perché lei era sua. E lei amava lui. «No.» Jamila si tastò la gola con le mani. «Non hai fatto niente di sbagliato. È solo che…» Si sventolò con una mano. «Dio, che caldo…» Si guardò intorno confusamente. «Gli altri sono già tornati alla Roccia, vero?» Kenan cercò il suo sguardo provato, in un certo senso divertito dall’effetto che le aveva fatto il suo bacio. «Quali altri?»
«Gli altri: mio padre, tuo padre, Daren…» «Sono venuto da solo.» C’era qualcosa che non gli quadrava, in quella situazione. Jamila era troppo… nervosa. Balenò con gli occhi su di lui, circospetta. «Ma… loro sono andati a Shinyanga per… liberarti da… Mark Shelby…» «Ah.» Kenan rimise in moto il cervello per ricordare la storiella che aveva escogitato con Mark e che Will avrebbe dovuto raccontare a Daren. «No, io… tecnicamente non ero suo prigioniero. Andiamo, tua madre ti avrà sicuramente detto del nostro incontro e di certo avete pensato che vi avessi tradito. Be’, non è così. Quando Mark Shelby mi ha rapito, abbiamo fatto un accordo: io lo avrei aiutato per un periodo a fare ancora più soldi con la caccia illegale, e lui mi… avrebbe mostrato il suo mondo. Il periodo è terminato e…» allargò le braccia con un sorriso trionfante, «… eccomi qui. Sano e salvo.» La diffidenza di Jamila non era diminuita neanche un pochino. «Ma se tu sei qui, vuol dire che loro sono…» Boccheggiò. «Oddio… Dobbiamo andare da loro… Sono in pericolo, dobbiamo andare a salvarli!» esclamò in preda al panico. Una reazione esagerata, secondo Kenan. «Tranquilla, Jamila, tranquilla. Tuo padre e gli altri non corrono alcun pericolo. Will gli dirà che me ne sono andato e loro torneranno alla Roccia, non devi preoccuparti.» «No, non capisci… Non è per mio padre… Io…» Okay, adesso stava decisamente esagerando. «Jamila.» Kenan le prese il volto tra le mani, risoluto. «Io sono qui. Io. Qui.» «No, devo andare…» Kenan fu investito dall’impulso di sfoderare gli artigli e conficcarli nel tronco di un albero per pressarla contro la corteccia e impedirle di scappare chissà dove. Sentì le zanne pulsare perché le snudasse e la fe tremare di piacere; un piacere che soltanto lui le avrebbe concesso. Resistendo dal fare entrambe le cose, le bloccò la testa con le mani e la inchiodò con lo sguardo, quello che lei conosceva bene. Quello che disse, però, risuonò come un ringhio più che minaccioso.
«Ti proibisco di pensare ad altro, se non a me.» La baciò contro il suo volere, perché, che fosse dannato, sentiva che lei non lo voleva. Cercava di respingerlo, puntando i pugni sul suo petto e sulle spalle. Ma lui la desiderava più di ogni altra cosa, e l’avrebbe posseduta a tutti i costi, che lei lo volesse o no. Era sua, e di nessun altro. Ma quando la sua lingua catturò per l’ennesima volta il nettare divino che era il sentore di lei, avara di altre zone da assaporare, una punta amara gli bruciò nella bocca. Si ritrovò saturo di un altro sapore, disgustoso e forte, ruvido come cartavetra. Come la prima volta che aveva bevuto dell’alcol (un Red Devil, per l’esattezza) la gola gli andò in fiamme e dovette allontanarsi da Jamila. Solo quando cominciò a tossire, capì che cosa gli stesse succedendo. Perché era quella, la punizione che toccava a chi osava baciare la femmina di un altro leone.
24
SCAPPARE. Correre via immediatamente e non voltarsi. Questo le suggerì l’istinto, perché qualcosa le diceva che non c’era niente di più pericoloso di un leone innamorato tradito.
Eppure Jamila non si mosse; restò a fissare Kenan mentre tossiva come se avesse ingoiato un veleno che gli stava raschiando le viscose pareti interne della gola. Teneva le dita strette attorno al collo, il busto piegato in avanti di novanta gradi, le gambe malferme mentre barcollava indietro, poi a destra, a sinistra e in avanti. «Kenan» lo chiamò, andandogli vicino e liberandogli la fronte madida di sudore dai capelli. «Ti senti male? Che cos’hai? Kenan? Rispondimi, per favore. Mi stai facendo preoccupare… Kenan?» Lui, con le lacrime che sgorgavano dagli occhi serrati con forza, strinse una mano attorno al suo braccio, rantolando: «Non… Cosa…?». «Spostiamoci verso l’acqua» disse Jamila di slancio. «Appoggiati a me. Così, bravo.» Caddero entrambi in ginocchio sulla sponda della sorgente. «Ecco, bevi. Kenan, allunga le mani; c’è l’acqua. Bevi. Vedrai che erà.» Lui non aprì gli occhi, ma a tentoni cercò la superficie fresca e vi affondò le braccia fino al gomito. Con le mani a coppa bevve avidamente, tossendo tra un sorso e l’altro. Quando il bruciore alla gola si attenuò, si bagnò la faccia paonazza, riprendendo un colorito naturale a poco a poco; anche il respiro tornò lentamente regolare. Jamila sospirò di sollievo. Dio, che spavento che le aveva fatto prendere. Aveva temuto che sarebbe soffocato. «Va meglio?» gli chiese, andogli le dita tra i capelli umidi di sudore. Kenan buttò fuori l’aria in un colpo solo, le palpebre chiuse, e inspirò con forza. Quando si voltò verso di lei e le aprì, i suoi occhi erano terribilmente arrossati. Erano così rossi da mettere i brividi.
Jamila li guardò con più attenzione. No, non erano arrossati per via del mancato soffocamento. No, erano… iniettati di sangue. Lo sguardo di Kenan era traboccante di rabbia, quella impossibile da placare. Quella che non conosce altro che la vendetta. «Mi hai tradito.»
Lo aveva tradito. Porca puttana, lei lo aveva tradito. Nella sua bocca c’era il sapore di un altro uomo, non era un dolce bocciolo di rosa pronto a schiudersi per lui. Si era schiuso per qualcun altro, non per lui. Quelle labbra tentatrici erano state già baciate da qualcuno che non era lui, avevano già assaporato il gusto di un altro uomo. No, non poteva essere successo… Lei era sua. Lei amava soltanto lui. Jamila si irrigidì vistosamente. «Di cosa stai parlando?» disse, indietreggiando piano nella speranza che lui non se ne accorgesse. Ma Kenan aveva gli occhi fissi su di lei. Occhi che bramavano di spogliarla per accertarsi che sulla sua pelle non vi fosse alcun segno. Kenan arpionò il terreno con le dita, puntandola come un predatore. «Chi è lui?» ringhiò. Jamila si drizzò con cautela. «Cosa stai… dicendo? Io non… capisco.» Kenan respirò l’odore della sua paura, e si alzò al rallentatore. «Non prendermi in giro, è una cosa che non sopporto» sibilò, mentre gli artigli si protendevano alle estremità delle sue dita. Jamila indietreggiò. Con le spalle aperte e il mento alto, però, sembrava pronta a battersi con lui, se fosse stato necessario. «Kenan…» esitò, «mi stai spaventando.» Un ramoscello si spezzò sotto la sua scarpa. «Perché stai facendo così?»
Lui focalizzò l’albero più vicino e con scaltrezza la obbligò ad arretrare in quella direzione. Quando lei fu in trappola, le andò sotto con l’eleganza e la letalità di un assassino. Lei si tese tutta, ma non per il motivo che lui avrebbe voluto: Jamila trasudava terrore da tutti i pori, e Kenan inspirò quella fragranza a pieni polmoni finché non trovò il sentore intruso. «Sento l’odore di un altro su di te.» Ma non riusciva a capire a chi appartenesse: era stato via troppo tempo per ricordare gli odori degli altri maschi del branco. Strusciò un lato del viso sul suo, continuando ad annusare. «Dimmi chi è.» Lei faticava a respirare. La teneva talmente stretta con lo sguardo che non aveva via di scampo. «Io…» ansimò. Kenan le schiacciò le dita di una mano sulle guance ma senza brutalità, la bocca sulla sua. «Dimmi chi ha osato baciarti.» Jamila aveva gli occhi lucidi. «Kenan…» «Tu sei mia» ringhiò lui. Si specchiò nelle sue iridi e la sua espressione si addolcì. «Lo sei sempre stata» mormorò, sfiorandole la tempia con i polpastrelli. «E lo sapevano tutti. Perciò dimmi chi è stato.» Lei scosse piano la testa, tremando. «Io non…» Kenan incominciò a vedere di nuovo rosso, pervaso dalla collera che gli montava dentro come un mustang selvaggio. Aveva un bruttissimo presentimento su quello che Jamila non riusciva a dirgli. «Sei mia. Tu ami me.» «No.»
Come dirglielo? Come dirgli che Daren, il suo migliore amico, era l’amore della sua vita, il suo amante, il suo compagno? Be’, se un modo c’era, Jamila non sapeva quale fosse. «Come?» rantolò Kenan, allontanando il volto dal suo. Jamila tornò a respirare, e due lacrime grosse rotolarono giù per le sue guance, incontrandosi sotto il mento. Aprì la bocca per parlare, ma ne uscì solo un ansito.
Ci riprovò: «Non ti amo più». Kenan fece un o indietro, poi si bloccò. Un angolo delle sue labbra si stirò verso l’alto, un’espressione beffarda che faceva rizzare i capelli dietro la nuca. «Stai mentendo. Non è possibile.» Le tornò vicino. «Tu mi ami da sempre.» Jamila si strinse nelle spalle; tutto quello che voleva in quel momento era sparire. «Io non so… che cosa dire.» Kenan la cinse con le braccia, traendola a sé. «Non c’è bisogno che tu dica niente, piccola» la rassicurò con un dolce sorriso. «Sei sconvolta e provata, lo capisco. Voglio dire, nove anni… Al tuo posto io non sarei confuso, sarei direttamente svenuto non appena ti avessi vista.» Oh, Gesù. «No, Kenan» fece Jamila, attenta alle parole che sceglieva, «non sono confusa. Provata, sì. Sconvolta, altroché. Ma non sono confusa.» «Sì, invece» sibilò lui a denti stretti, premendole con forza i pugni dietro la schiena per schiacciarla ancor più contro il suo corpo. «Tu sei molto confusa, se dici che non mi ami più.» «Perché è così.» «No, non è possibile. Tu mi ami.» Lei scosse la testa, piantando i palmi sul suo petto. «No, mi dispiace tanto.» Kenan esplose. «Non dirmi che ti dispiace!» La prese per le braccia quando fece per scappare, stringendo molto forte. Non gli importava di farle male. «Tu non puoi non amarmi più! Tu sei mia!» Jamila tentò di divincolarsi con tutta se stessa. «No, Kenan, no! Ti prego, lasciami!» «Dimmi che mi ami!» Jamila si ritrovò costretta tra un tronco e quel ragazzo che le stava lasciando lividi sui bicipiti e pareva reso ceco dalla furia. «No, non posso!» Ormai fuori ogni controllo, Kenan l’afferrò per le spalle e la sbatté contro
l’albero. «Che significa che non puoi? Tu ami me!» «Non sono innamorata di te!» Jamila avvertì la mano di Kenan esattamente sopra il morso di Daren e, improvvisamente, le sembrò di essere isolata dalle grida sovrumane del ragazzo. «Tu sei mia!» Un lampo d’ira balenò nelle iridi di lei, che sfoderò gli artigli di una mano e graffiò il dorso di quella con cui lui stava soffocando il marchio del suo uomo. «No!» Nel ritirare il braccio di scatto, lanciando un urlo di dolore, Kenan le strappò la manica della T-shirt. Indietreggiò, poi si esaminò le cinque, profonde righe scarlatte sul dorso della mano. Il sangue colava denso e scuro, formando un’inquietante griglia sulla sua pelle dorata. Jamila vide le zanne sbucargli dalle labbra e, quando lui balzò con gli occhi su di lei e notò il morso, gonfiò il petto. «Non sono tua» affermò a testa alta. «Non lo sono mai stata.» Il viso bellissimo di Kenan diventò una maschera d’orrore. «Oh, non sai quanto ti sbagli.» Le si avvicinò con le movenze di un boa pronto a strangolare. «Non hai idea di quanto ti sbagli.» Protese una mano verso di lei e Jamila non poté arretrare, perché si sarebbe trovata di nuovo in trappola tra il tronco e lui. «Non ti avvicinare» gli intimò, poco convinta e poco minacciosa. Kenan le sfilò la forcina e la prese ferocemente per i capelli, facendola urlare di sofferenza. «Sei mia. Solo mia.» No, quello non era il Kenan con cui Jamila era cresciuta. Il suo amico non l’avrebbe mai strattonata in quel modo. Il vecchio Kenan non l’avrebbe mai sbattuta a terra, gridandole addosso. Non avrebbe cercato di prenderle il viso e baciarla contro la sua volontà, toccandola con voluttà. Dio, le sue mani. Le sue mani violente sul suo corpo. La sua lingua che spingeva per entrare nella sua bocca. Il suo odore che lottava per ammantarla e sovrastare quello di Daren. Jamila si sentiva malissimo. Non era il suo Daren che la teneva
stretta. Non era Daren che voleva possederla. Era Kenan. E Jamila non voleva. Riuscì a schiantare il palmo sul mento di lui e indietreggiò rapidamente; così veloce che le si intrecciarono i piedi e cadde di sedere sull’erba. «Woh!» esclamò Kenan, raccogliendo col pollice il sangue sul labbro inferiore. «Non ti credevo così selvaggia. Sei meglio di come immaginavo che fossi diventata.» Terrorizzata, Jamila strisciò all’indietro, guardandolo con tanto d’occhi avanzare verso di lei. «Ti prego, Kenan, basta…» Gli occhi di lui saettarono alle spalle di lei, e Jamila si sentì sollevare di peso da un paio di braccia forti.
«Stai bene?» Daren cinse la sua femmina con un braccio. Cristo santissimo, stava tremando come una foglia. Tremava, maledizione. Lo fissava, implorante e adoranti. Daren la guardò tutta, accigliandosi nel vedere la maglietta strappata e il suo morso in bella vista. Jamila aveva i segni delle dita di Kenan sulle braccia, sembrava il manto di un leopardo. I suoi splendidi capelli erano arruffati e sconvolti quanto lei. L’odore di Kenan la permeava, ma non poteva competere con quello che le aveva lasciato lui sulla pelle. Ma, Dio, era forte. E, per essere tale, aveva dovuto metterle le mani addosso. Addosso alla sua donna. Grande sbaglio. Jamila annuì e si strinse a lui, ansando contro il suo petto. «Sì, sto bene.» Daren sentì il bisogno di baciarla, ma prima aveva una cosa più importante da sistemare. Quindi cozzò con lo sguardo duro contro quello divertito e adirato del
ragazzo che li stava osservando. «Kenan.» Be’, se Kenan era rimasto a bocca aperta, il suo sorrisetto arrogante non lo dava a vedere. «Oh» ridacchiò come una iena, una luce folle negli occhi. «Ma non mi dire!» Lo indicò. «Daren?» «Sì.» «Oh-oh!» Kenan colmò la distanza che li separava a grandi i. «Ma guarda come sei diventato!» Prima che potesse avvicinarsi troppo a Jamila, Daren tese una mano per bloccarlo e spostò la sua compagna dietro di sé. «Oh, andiamo, amico.» Kenan allargò le braccia con un grande sorriso, nient’affatto affidabile. «Sul serio hai paura che possa farle del male?» chiese con arroganza, alludendo a Jamila con un gesto quasi stizzito. L’espressione di Daren rimase inflessibile. «Ringrazia il cielo che non ci fossi, Kenan.» «Altrimenti? Che mi avresti fatto, huh?» «Di certo non avresti quel sorrisetto sulla faccia.» Kenan inarcò le sopracciglia in modo teatrale. «No, ovvio.» I suoi occhi cercarono quelli di Jamila. «Ho toccato la tua femmina, come minimo mi avresti rotto un braccio.» «Te le avrei rotte entrambe.» Se tuoni e lampi avessero potuto esplodere nello sguardo di una persona, sarebbe stato in quello di Kenan. «Più che logico» fece sprezzante. «Avete trovato un bel modo per ammazzare il tempo mentre io non c’ero. Chi l’avrebbe mai detto, eh?» Daren sentì Jamila premersi sempre più contro la sua schiena. «Ho parlato con William.» Kenan accennò una smorfia indolente, indietreggiando. «Ah, il caro William.
Hai visto che bel tipo è diventato? Merito mio, modestamente.» «Non vantarti di questo, amico. Will prometteva bene già da piccolo» controbatté Daren serio. «Sì, ma non era sicuro di sé come lo è adesso» precisò Kenan, infilando i pollici nelle tasche posteriori dei jeans. «Su questo devo darti ragione» convenne Daren. «Infatti era molto convincente quando mi ha raccontato la storiella che gli hai detto di dirmi. Persino suo padre lo scrutava basito mentre recitava alla perfezione.» Kenan scoppiò a ridere. «Sai, sono sorpreso che tu non te la sia bevuta; non sei mai stato molto sveglio, in fin dei conti.» «Ti conosco.» Daren fece una pausa significativa. «Con la possibilità di vivere la vita che hai sempre sognato, non avresti mai formulato un accordo che prevedeva il tuo sfruttamento come animale da caccia per poi tornare dalla tua famiglia.» Kenan si mise una mano sul cuore. «Così ferisci i miei sentimenti, fratello.» «Perché non la smetti di fare il cretino e ci racconti com’è andata veramente, huh?» Daren si staccò da Jamila e avanzò verso di lui con aria dura. «Come hai vissuto fino a oggi, Kenan? In una gabbia, o in una reggia?» Gli andò così vicino che i loro petti si sfiorarono. «Pensavi davvero che avrei creduto che Mark Shelby avesse rischiato di compromettere la vera identità del suo gioiello dell’Africa, servendosi di te per il suo lavoro? Sai, sono sorpreso; sei sempre stato un tipo sveglio, in fin dei conti. Forse la vita da umano straricco ti ha bruciato l’intelligenza.» Kenan, intanto, aveva perso la sua aria beffarda. «Buffo, e io che volevo veramente tornare a casa.» «Se lo avessi voluto davvero, saresti tornato molto tempo fa» intervenne Jamila, timorosa e colma di dolore come la sua voce. Kenan la guardò, cupo com’era stato un tempo. «Così ti saresti concessa a me e non a lui per disperazione?»
«Non è stato per disperazione.» «Certo che no. Preferisci per solitudine?» «Smettila di trovare un motivo che non è quello vero.» «Forse noia è più indicato.» «Basta!» inveì Daren. «È stata la tua ragazza a cominciare» fece Kenan, infantile. «Prenditela con lei» aggiunse, voltando le spalle a Daren. «Perché siete tornati?» tuonò proprio lui. Kenan si fermò, e Daren proseguì: «Che cosa ha in mente stavolta Mark Shelby? E perché ti ha portato con sé?». Kenan ruotò sulle punte dei piedi con un sorriso agghiacciante e espose loro il piano del signor Shelby per filo e per segno, scioccandoli. «Avevo intenzione di schierarmi dalla vostra parte perché avevo immaginato, anzi, Will aveva immaginato che mi avreste riaccolto a braccia aperte. Già mi vedevo al tuo fianco, Daren, mentre sbranavamo i bracconieri per impedir loro di prendere lo Smeraldo. Ma non sarà affatto così, no?» Le sue labbra si distesero in un sorriso esagerato e per nulla rassicurante, tanto che Daren tornò vicino a Jamila, tenendo gli occhi fissi su quel ragazzo imprevedibile. Anche Kenan camminò all’indietro, attento a non finire nello specchio d’acqua che ascoltava in silenzio. «Mmm» sospirò, «eh, già.» Inspirò l’aria tra i denti, emettendo un sibilo simile a quello di un serpente. «Pare proprio che, per colpa vostra, sia destinato a fare la cosa sbagliata.» «Non farlo, Kenan» disse Daren; le sue parole furono a metà tra una supplica e un comando. Lui si mise a braccia conserte e ogni muscolo del suo corpo si ingrandì con superiorità. «Non sei il capobranco, D. E anche se lo fossi, io non appartengo più alla famiglia.»
«Ti sbagli» si interpose Jamila con tono straziante, affiancando il suo uomo. «Ne fai ancora parte. Ne farai sempre parte» fece un piccolissimo o avanti, «perché tu sei parte di noi.» Per un millesimo di secondo Daren ebbe l’impressione che Jamila avesse voluto dire che era parte di lei, e il suo cuore perse un colpo. «Non tradirci, amico mio.» Incontrò i suoi occhi, spietati e pericolosi nell’oscurità della notte. «Torna a casa con noi. Risolviamo questa cosa. Insieme.» Kenan respirò pesantemente, sostenendo il suo sguardo. «È troppo tardi» sentenziò, girando i tacchi. Jamila si mosse subitanea verso di lui. «No, aspetta. Kenan, aspetta.» Attese che si voltasse e la guardasse così intensamente da toglierle il fiato. «Non lasciarm…» S’interruppe, deglutendo. «Non lasciarci di nuovo.» Kenan azzardò ben due i verso di lei, le labbra schiuse per replicare a quella lacerante implorazione. Daren si tese. «Stop. Lì.»
L’amico lo traò con un’occhiataccia, ma il leone in lui lo costrinse a obbedire all’ordine del maschio della femmina che non gli apparteneva. Poi spostò lo sguardo su Jamila, perdendo ogni cognizione. Dio, quanto era bella. E non era sua. «Sono tornato per te, Jamila» rivelò con voce grave. «Sappilo.» Non rimase a soffrire per la sua decisione. Non sentì torcersi lo stomaco per le lacrime che le stavano solcando le guance. Non restò per permettere al suo migliore amico di continuare a parlare, perché sapeva che sarebbe riuscito a fargli cambiare idea. Solo lui poteva riuscirci. Kenan non aggiunse altro, e se ne andò.
25
TUTTO si aspettava, William, fuorché vedere Kenan tornare al campo base proprio mentre cercava di placare l’ira di suo padre, infuriato perché, secondo lui, il suo pupillo li aveva traditi. Will aveva detto di tutto per convincerlo del contrario, ribadendo che Kenan gli aveva rivelato l’esatta ubicazione della Rupe del Destino e che, quindi, potevano ancora seguire il piano concordato precedentemente.
In definitiva, che Kenan ci fosse o no non cambiava niente, ma Mark Shelby non ne era affatto convinto, a giudicare da come imprecava contro il figlio. «Non capisci» stava appunto inveendo. «Averlo dalla nostra parte era un bene. Ora, potrebbe rivoltarcisi contro. Lui conosce i nostri piani.» «No, papà, non accadrà niente di tutto questo» rispose William, accerchiato dagli energumeni del padre e, tuttavia, rilassato. «Kenan voleva solo tornare dalla sua famiglia. Ti ha dato i mezzi per prenderti ciò che vuoi. Il minimo che tu possa fare è lasciare che torni a casa.» Con le mani sui fianchi e un’espressione feroce sul viso attempato, Mark Shelby grugnì camminando avanti e indietro. «Diamine, l’avrei lasciato andare, se me lo avesse chiesto. Dopo tutto, hai ragione: ha fatto tutto ciò che gli ho chiesto, ma avevo l’impressione che volesse continuare a vivere nel New England, invece che qui con la sua famiglia.» Un lampo bianco si espanse alle spalle dell’uomo, e William si riparò gli occhi istintivamente. «Ed è così» esordì Kenan, raggiungendoli al centro del campo. «Non ho nessuna intenzione di tornare a vivere in questo schifo.» Squadrò i presenti uno per uno con la severità di un condottiero. «Allora, com’è andata la recita? Immagino di essermi perso grandi prove d’attore.» Prese a girare attorno al gruppo attonito e sospettoso. «A parte la tua, Will. Ho incontrato Daren, e indovina un po’? Non ha creduto a una sola parola.»
«Gli uomini del tuo branco sono venuti qui, come avevi predetto» si difese William. «Uno di loro si è fatto avanti chiamandomi per nome, e quando ho capito chi avevo di fronte…» «Sì, sì» fece Kenan seccato. «Lo so, lo so. Non era il Daren che ti aspettavi di vedere: fisico da modello di GQ, sguardo intenso e imperscrutabile di chi è pronto a dare la vita per la giusta causa, una sicurezza di sé che fa invidia… Già, anch’io sono rimasto di sasso. Perciò non ti incolpo; non sei il solo che ha pensato fosse rimasta la stessa testa vuota di un tempo.» Mark Shelby attanagliò una mano al braccio del mutaforma, quando il suo circolo intimidatorio lo portò vicino a sé. «Ascolta, ragazzino, quello che hai fatto non mi è piaciuto per niente» sibilò. «Puoi raccontarmi tutte le balle che vuoi; non ti crederò per principio, ma voglio sapere perché sei tornato.» Kenan storse la bocca in un sorriso sghembo. «Stia attento, signor Shelby» disse, scendendo con lo sguardo sulla mano raggrinzita ma forte aggrappata al suo braccio. «Sono così incazzato che se non mi lascia immediatamente, esaudirò la richiesta che mi fece nove anni fa e le mostrerò come so strappare una gola a morsi. La sua gola.» «Okay.» William li separò. «Okay, basta.» Suo padre fece per protestare, ma lui lo zittì: «Papà, no. È tornato e non ci ha traditi. Fine della questione». Lasciò che suo padre interpretasse il ruolo dello scaricatore di porto, abbandonandosi alle più orrende bestemmie e imprecazioni, sostenuto dal coro baritonale dei suoi uomini. Poi tornò su Kenan: «Amico, ora spiegami perché cazzo sei qui». Il mutante-leone scrollò le spalle muscolose. «Il destino ha voluto così. Ti saluto.» Will gli si piazzò davanti, fregandosene della sua occhiata assassina. «Che cosa è successo?» Kenan inarcò un sopracciglio. «Se ti riferisci all’incazzatura, è perché quel bastardo di Daren si è preso ciò che era mio e Jamila non mi ha aspettato.» Nella pausa eloquente che seguì, William impiegò un secondo per capire. «Oh, cazzo.» «Già.» Kenan cambiò espressione in un battito di ciglia. «Se invece ti riferisci a
questo sorriso smagliante che ho sulla faccia, allora mi spiace ma non posso dirtelo.» William era basito. «Tu non stai bene.» «Sto una favola» replicò lui, aggirandolo. «No, no, no.» L’amico gli bloccò di nuovo la strada. «Adesso noi due ce ne andiamo nella tua tenda e mi racconti per filo e per segno che cosa è successo.» Kenan fece una smorfia sofferente, facendo per scansarlo. «Oh, andiamo, Will, sai che odio le sedute psicologiche che ti piace tanto fare alla gente.» L’umano si spostò con lui. «Allora andiamo da qualche parte a fare a botte, perché è chiaro che hai bisogno di sfogarti in qualche modo.» Kenan alzò gli occhi al cielo, lì lì per perdere le staffe. «Piantala, amico» ringhiò senza guardarlo. «O non rispondo di me, giuro.» Come se William non avesse mai avuto a che fare con i suoi sbalzi d’umore del cazzo. «Oh, senti, non me ne frega un accidenti se…» Kenan lo agguantò per un braccio e lo scaraventò di lato per are. «Ti avevo avvertito» mormorò a denti stretti. Prese a camminare verso la città, quando si arrestò di colpo e si girò indietro. «Signor Shelby» chiamò a voce alta, con fare da giullare, «se non sbaglio abbiamo delle stanze in albergo, giusto? Lo spettacolo è finito e il pupillo è sfinito» recitò con una riverenza. «Smantellate pure, se volete.» Indicò con il pollice le abitazioni alle sue spalle. «Io me ne vado a dormire su un letto vero, se non vi dispiace.» Girò i tacchi, e tra sé aggiunse: «Non la o, la notte, in una tenda».
I singhiozzi di Jamila gli sembravano raffiche di vento fastidiose che si susseguivano a intervalli quasi regolari. Il pompare forsennato del suo cuore era l’unico, altro rumore snervante che giungeva alle orecchie di Daren. La sua femmina era ancora lì, dove Kenan l’aveva lasciata, e piangeva con dignità. Daren non sapeva se essere grato che non fosse crollata a terra e che si ergesse in tutta la sua bellissima figura davanti a lui, o se preoccuparsi per i
sentimenti che la stavano corrodendo. Perché lei stava soffrendo tremendamente, lo avvertiva. La sua compagna stava malissimo, e lui se ne stava dietro di lei, lontano, imperturbabile. No, non era vero. Anche lui stava da schifo, e se lei si fosse voltata per guardarlo lo avrebbe visto. Perché Jamila non aveva perso il suo innamorato (lei era ciecamente sua, e ne era convinta con tutta se stessa), ma un grande amico. Per Daren era diverso. Lui aveva perso il suo migliore amico. Quello che aveva sempre considerato un fratello. Non di sangue, ma fratelli nello spirito. Sì, non si erano mai piaciuti particolarmente, erano innamorati della stessa ragazza e da piccoli non avevano fatto altro che azzuffarsi; ma entrambi sapevano di poter contare l’uno sull’altro. Sempre. Non più, invece, si disse Daren. Non avrebbe più potuto contare su di lui. Kenan non era più il suo migliore amico. Era rimasto solo, in quella battaglia. Neanche Jamila avrebbe potuto comprendere il peso che si portava dietro. Il peso di ciò che andava fatto, e che lui… Non aveva la forza di fare. A Daren cedettero le ginocchia, e si ritrovò seduto in un batter d’occhio con la fronte poggiata sulle ginocchia e le mani nei capelli. Dio santissimo, era sfinito. Distrutto. Stanco morto e addolorato. Sconfitto. Aveva perso. E qualunque cosa avesse fatto d’ora in poi, non ne sarebbe uscito vincitore. Era un miserabile perdente, indegno della donna valorosa che era rimasta in piedi nonostante il dolore. «Daren, amore mio.» Percepì le mani della sua amata cercare il suo volto. I suoi occhi incontrarono
quelli grandi ed espressivi di Jamila, in ginocchio di fronte a lui. Le lacrime che le rigavano le guance brillavano come stelle iridescenti al chiarore della luna. «Sono qui» proseguì lei, aprendosi un varco tra le sue gambe per andargli più vicino. «Sistemeremo tutto.» «Non volevo crederci» gracchiò lui. Cristo, che femminuccia. «Anche quando parlava con quel ghigno sulla faccia, non volevo crederci.» «Lo so.» «Solo adesso ci credo. Solo adesso…» «Ssh.» Jamila lo abbracciò forte. Daren affondò il viso nei suoi capelli, stringendola a sé con foga, quasi avesse bisogno di nutrirsi delle sensazioni che gli trasmetteva. Quasi sentisse il bisogno di trarre da lei la forza necessaria per agire. «È colpa mia.» Jamila si ritrasse di scatto, fissandolo. «Che stai dicendo?» Daren la scostò e si mise in piedi, i pugni stretti. «Se ti avessi lasciata in pace… Se non avessi ceduto ai miei sentimenti per te… Se avessi continuato a dirmi che non eri mia…» «Smettila.» Daren torreggiò su di lei. Lei che, in ginocchio ai suoi piedi, lo pugnalava con un’espressione che avrebbe potuto far indietreggiare un intero esercito. «La colpa è mia, non negarlo.» «La colpa non è di nessuno.» Jamila si alzò, affrontandolo. «E tu non puoi incolpare il nostro amore per quello che Kenan è diventato.» Daren scollegò il cervello dalla bocca e l’aggredì, costringendola a retrocedere. «Se tu l’avessi aspettato, tutto questo non sarebbe successo!» Lei non smise un attimo di sostenere il suo sguardo con coraggio, indietreggiando, sì, ma non spaventata. «Io ho aspettato!»
«No, tu ti sei innamorata di me perché eri stufa di aspettare!» Jamila sollevò una mano per schiaffeggiarlo, ma Daren la bloccò. «Non provare mai più a dire una cosa del genere» gli intimò, snudando i denti. Per un lunghissimo minuto, lui non seppe rispondere, troppo perso in lei. Infine, soffiò l’aria dalle narici e bisbigliò: «Scusa». Gli occhi di Jamila divennero due fessure ostili e lei alzò la mano libera, mandando a segno un sonoro schiaffo. La testa di Daren scattò dalla parte opposta per la violenza dell’impatto, e così vi rimase per alcuni attimi. Poi il suo sguardo guizzò in quello di lei e lui la baciò con impeto, senza preavviso. Al contrario di come aveva immaginato, nella sua bocca non vi era traccia del sapore di Kenan. L’orgoglio di essere oramai incancellabile nella mente e sulla pelle della sua femmina investì Daren, che sentì Jamila inarcarsi contro di lui nella foga del torrido bacio. «Ti amo» disse lui con voce arrochita. «Scusami.» Lei premette con forza una mano sulla sua guancia, aggrappandosi alle sue spalle. «Ti perdono.» Daren le diede un altro bacio, più dolce e lento, in seguito si staccò da lei e raggiunse piano la sorgente, fermandosi sul ciglio della sponda erbosa. Non guardò il proprio riflesso, ma scrutò l’oscurità che li avvolgeva. Dio, quanto coraggio e forza di volontà avrebbe dovuto avere da adesso in poi. Altrimenti sarebbe stata la fine per tutti loro. «Daren?» Lui annuì tra sé, pronto a fare la cosa giusta. «Dobbiamo tornare alla Roccia e dire a tuo padre quello che ha intenzione di fare Mark Shelby insieme a Kenan. Lui saprà sicuramente cosa fare.» Meno male che non si era voltato, perché se l’avesse detto guardandola negli occhi, Jamila lo avrebbe picchiato. Ne era certo, stando all’ondata di rabbia che gli stava incenerendo la schiena.
«No» strillò lei. Lo raggiunse con ampie falcate risolute, prendendolo per le spalle e facendolo girare verso di lei. «Daren, no. Noi possiamo convincerlo a tornare. Possiamo convincere Kenan a tornare da noi, a casa.» «È irrecuperabile, Jamila. Apri gli occhi.» «E tu non chiuderli, Daren.» Jamila restò in silenzio per istanti… e istanti, fissandolo con una determinazione senza pari. «Io posso salvarlo.» Ma lei non conosceva la parte fondamentale della storia. Lei non conosceva le vere intenzioni di Kenan. Intenzioni che non avevano nulla a che fare con Mark Shelby. Si trattava di una cosa che sapevano solo loro due, i loro padri e il capobranco. Risaliva a molti anni prima, quando Rashid e gli altri li avevano condotti alla Rupe del Destino, dove tutto era cominciato. Il motivo per cui non poteva fare come voleva Jamila. La leggenda dello Smeraldo, e quello che narrava.
Oh sì, le cose sarebbero andate a modo suo. Kenan rotolò sulla schiena incrociando le mani dietro la nuca, dopo aver sistemato il cuscino sotto la testa, e accavallando le gambe all’altezza delle caviglie. Al momento opportuno, avrebbe smesso di essere solo una pedina e sarebbe diventato il protagonista. Avrebbe fottuto Mark Shelby proprio nell’attimo cruciale, e avrebbe ottenuto quello che voleva da sempre. Il potere. Al momento opportuno, avrebbe reso lode alla leggenda dello Smeraldo lasciando tutti a bocca aperta. Oh, sì.
Daren avrebbe fatto meglio a essere intelligente, come gli aveva fatto intendere, e a capire al volo il suo piano, altrimenti il branco sarebbe stato davvero nei guai. Kenan non aveva mai voluto che Mark Shelby si impossessasse dello Smeraldo, perché conosceva bene la leggenda: nelle mani di un essere umano non predestinato, i Figli del Destino sarebbero morti all’istante. Kenan, di conseguenza. Be’, non era così disperato da volersi ammazzare. No, lui voleva il potere. E sapeva come ottenerlo. Sorrise con furbizia. Cavolo, aveva scordato di dire una cosa importante ai suoi due amici del cuore. Peccato, si disse. Però poteva sempre dirlo adesso al mondo intero. «Restate sintonizzati.»
26
LA mattina seguente, il cielo era insolitamente cupo. Nuvoloni carichi di pioggia, quella che batte violentemente sulla terra, creando voragini nella sabbia per ricordarti che la sorte è sempre in agguato per ottenere ciò che vuole, sorvolavano la Tanzania come una pelliccia di montone che cambia colore a seconda del verso in cui l’accarezzi.
Jamila sapeva che quel tempo uggioso era sintomo di un brutto presagio. Lo sentiva nelle ossa, mentre se ne stava seduta con le ginocchia strette al petto sotto l’arcata della caverna al piano superiore della Roccia. Dall’interno provenivano i rumori delle femmine del branco che lavavano i piatti usati per la colazione e li asciugavano; le più piccole stavano aiutando a pelare le patate. Sembravano avere le bocche cucite con fili di metallo, per quanto era agghiacciante il loro silenzio. Come biasimarle. Perfino gli uomini erano rimasti scioccati, quando Daren aveva rivelato il vero piano di Kenan: allungare le mani sullo Smeraldo e ricevere da esso il potere di piegare il mondo ai suoi piedi, come narrava la leggenda. Una leggenda che gli adulti avevano taciuto alle nuove generazioni, includendo chissà perché anche Jamila. Ecco perché lei era furiosa, mentre sua madre la osservava scrutare il firmamento plumbeo con le sopracciglia aggrottate. Era arrabbiata con i suoi genitori per averla tenuta all’oscuro di quella maledetta leggenda, ma perlopiù ce l’aveva a morte con Daren. Gli aveva chiesto di concederle un’ultima possibilità per convincere Kenan a tornare dalla loro parte, e lui l’aveva ingannata facendole credere che lo avrebbe fatto. Invece, non appena erano tornati alla Roccia, l’aveva spinta lontano da sé e aveva rivelato tutto al branco intero.
Dio, quanto lo aveva odiato in quel momento. Ecco perché lo aveva cacciato dalla grotta, quando lui aveva fatto per stendersi con lei sul letto di pellicce, dormendo da sola. Oddio, dormendo… meglio pensando, perché non aveva chiuso occhio. La decisione di suo padre, quando Daren aveva finito di parlare, era stata secca e insindacabile: Mark Shelby e i suoi uomini dovevano morire, o tutti loro sarebbero periti. Oh, quanto aveva urlato, Jamila, di fronte a quella sentenza. Perché dicendo ‘l’intero convoglio’, suo padre aveva voluto dire ‘tutti’; e ‘tutti’ comprendeva anche William e Kenan. Soprattutto Kenan. Nessuno si era preoccupato di ascoltare le grida di protesta di Jamila, nemmeno Daren. Sua madre aveva dovuto portarla fuori e prenderla a schiaffi, affinché capisse quanto erano in pericolo. Sì, perché se Mark Shelby si fosse impadronito dello Smeraldo, tutti loro, i Figli del Destino, sarebbero morti con la scomparsa del suo potere. Mentre, se fosse stato Kenan a impossessarsene, gli umani sarebbero divenuti suoi schiavi e loro, i suoi sudditi più fedeli. Sarebbero diventati suoi schiavi, con l’unica differenza che, al contrario della gente, sarebbero stati lucidi sotto il suo dominio, ma incapaci di opporre resistenza. Con Kenan reso invincibile dalla malvagità dello Smeraldo, sarebbero stati marionette consce nelle sue mani. E sarebbe stato peggio della morte. Jamila abbassò lo sguardo sull’accampamento, studiando le schiene curve e i muscoli tesi dei maschi riuniti in cerchio attorno al capobranco. Eccoli là, i grandi eroi, pronti a far strage dei nemici in pieno giorno per proteggere la famiglia. Jamila li odiava tutti, dal primo all’ultimo. Sapeva perfettamente che andava fatto, ma detestava la leggerezza con cui avevano risposto all’ordine di uccidere. Nessuno di loro aveva battuto ciglio, all’idea di trasformarsi in assassini,
neanche Daren. E questo Jamila non lo accettava. Per quanto l’indole del leone spingesse i maschi a difendere le loro famiglie, uccidere un ghepardo troppo audace era un conto. Ma loro, laggiù, stavano riando il piano per uccidere delle persone. Movimenti improvvisi in tutte le direzioni la fecero tornare alla realtà, e le lunghe gonne delle donne e le gambe snelle e pimpanti delle quindicenni sfilarono davanti a lei, scendendo fluide ed eteree lungo il sentiero scavato nella pietra. Solo guardando in basso, capì a cosa era dovuta l’aura d’ansia che le accompagnava. Così, si alzò anche lei e scese nell’accampamento, corrucciandosi oltre l’inverosimile nel vedere secchiate di miele colare sui gruppetti abbracciati fino quasi a stritolarsi. Qualche lacrima luccicava sulla guancia di alcune femmine, qualche gemito sfuggiva dalle labbra di qualcuno, altre bocche erano impegnate a premersi castamente l’una sull’altra. Jamila incrociò gli occhi di suo padre, che teneva Zena stretta al suo petto possente. L’ordine, la supplica di raggiungerli era palese come la presenza del sole la mattina, ma Jamila dilatò le narici, digrignando quasi i denti in segno di risposta. Quindi levò le tende, nauseata da quella scena che sapeva di disperazione e di non ritorno, e fece capolino nel retro della Roccia. L’aria odorava di pioggia ma, chissà perché, era certa che non avrebbe piovuto; forse verso sera. «Jamila.» Lei non si volse nemmeno; il suo profumo intenso era inconfondibile. «Vattene, non ho intenzione di fare come gli altri.» Grazie al cielo, si disse Jamila, Daren rimase dov’era. «È per il bene del branco.» Lei si voltò di scatto, furiosa. «Non m’interessa!» Un tuono rimbombò docile tra le nubi nere. Jamila inchiodò Daren con lo sguardo. «È sbagliato.» Lui colmò la distanza che li separava in meno di un secondo. «Anche quello che vuole fare Kenan è sbagliato.»
«Ti avevo chiesto di lasciarmi provare ancora» ribatté, sollevando il mento per non farsi sovrastare dall’inattaccabilità di Daren. «Non potevo, Jamila!» sbottò il giovane. Le diede le spalle, respirando in modo affannato. «Riguarda lui e me» disse quando tornò padrone di sé. Jamila aveva lo sguardo sgranato. «Daren…» esitò, «tu stai andando a uccidere Kenan. Kenan, il tuo migliore amico!» Lui si girò con veemenza, gridando: «Credi che non lo sappia?». Jamila gli andò sotto con determinazione. «Credo tu non sia abbastanza sconvolto!» Anche lui accorciò le distanze. «Lo sono!» «No, non lo sei!» «Solo perché non mi vedi a terra, non significa che non mi senta male per quello che devo fare!» Jamila distolse lo sguardo e Daren si abbandonò a un grido di esasperazione, rimanendo a un soffio da lei. Jamila respinse l’impulso di piangere tra le sue braccia, imponendosi di essere forte come lui. Più di lui. «Può essere salvato» sussurrò, guardando altrove. «Possiamo salvarlo. Posso salvarlo.» Daren sospirò, a pezzi, e le spostò i capelli dietro una spalla. Sentirla irrigidirsi per quel gesto lo tramortì dentro. «Non possiamo» rispose a voce bassissima. «Non puoi.» Le prese dolcemente ma con fermezza il viso, per poterla guardare dritto negli occhi. Occhi che non erano con lui, in quel momento. «Non è più Kenan. Non lo è più da molto tempo. Forse non lo è mai stato.» Jamila si accigliò. «Ti sbagli.» Dall’accampamento giunse l’eco della voce di Rashid, chiamava Daren con il tono del generale di un esercito pronto per scendere sul campo di battaglia. Lui e Jamila deglutirono, fissandosi così intensamente da annegare l’uno nello sguardo dell’altro. Daren si sporse in avanti per baciarla, ma Jamila reclinò il capo all’indietro, gli occhi di una durezza dolorosa. Dapprima ferito, Daren
inspirò con forza dal naso e si tirò indietro senza staccare lo sguardo dal suo. Jamila lo scrutò indietreggiare e celare l’enorme sofferenza che gli aveva procurato, rimanendo immobile mentre lui si girava e se ne andava. Nessuno sapeva l’esito dello scontro. Leoni contro umani muniti d’ogni sorta d’arma. Nessuno sapeva chi sarebbe stato il vincitore. Ecco perché le mogli avevano baciato i mariti, che a loro volta avevano abbracciato i figli: nessuno sapeva se sarebbero tornati. Neanche Jamila sapeva se… Daren sarebbe tornato da lei. Il suo cuore si fermò nell’istante in cui lei considerò l’ipotesi di non rivederlo mai più. Daren si bloccò di colpo, proprio prima di sparire dietro l’angolo, e si voltò indietro. Senza rendersene nemmeno conto, Jamila incontrò i suoi occhi magnetici. Quasi si fossero letti nel pensiero, entrambi avanzarono l’uno verso l’altro con frenesia scontrandosi in un bacio struggente. La paura di non poter mai più avere momenti come quello era troppo forte. Così forte che raschiava i loro petti, facendosi strada verso i loro cuori per insidiarsi e farli cadere a picco. Jamila bramò di sentire il suo corpo sul proprio, pelle su pelle, perché era troppo spaventata. Così spaventata che i tuoni inoffensivi le rombavano nelle orecchie, inducendo il suo respiro a smorzarsi e a farsi irregolare. Quelli che la stavano percorrendo non erano brividi ma scosse elettriche infami, che la facevano tremare di paura e le strillavano che non avrebbe mai più potuto godere delle carezze del suo amato. Oddio.
«Ti amo» disse Daren, tenendola saldamente per la nuca. Non le diede modo di replicare, neanche di contraccambiare, e premette le labbra sulle sue con prepotenza. Per risucchiarle l’anima. Jamila percepì le sue mani scivolare su di lei e il calore del suo corpo
allontanarsi da lei, e non riuscì a respirare. Daren calò una maschera severa sul suo volto, schiacciato dal peso di ciò che stava per compiere, e se ne andò. Jamila contrasse la mascella, inspirando aria di guerra. Un coro di tuoni gorgogliò nel cielo grigio scuro, e lei serrò i pugni. Decisa a sfidare la sorte.
27
CORREVANO tutti alla stessa velocità, un’andatura sostenuta per non sprecare inutilmente le energie che sarebbero state necessarie di lì a poco. Ognuno di loro, mentre galoppava, stava attento a non affaticarsi e a preservare la propria forza sovrumana per lo scontro imminente. Daren percepiva la determinazione nei leoni che avanzavano stoici al suo fianco.
Persino Banga puntava dritto davanti a sé senza accennare minimamente un sentimento. Daren non riusciva a capacitarsene, non riusciva neanche a pensare che non gli importasse nulla di Kenan. Qualunque padre sano di mente avrebbe fatto di tutto per bloccare la spedizione volta a uccidere il proprio figlio, eppure Banga non aveva aperto bocca per tentare di persuadere Rashid ad adottare un altro metodo punitivo; neanche sua moglie aveva fiatato. Mai. Mentre procedevano in formazione lungo la sponda occidentale del Lago Eyasi, Daren alzò gli occhi al cielo uggioso. Caspita, si ritrovò a pensare, sembrava proprio che il destino avesse deciso che quello scontro non potesse avvenire sotto il sole splendente, quasi anche lui fosse del parere che stavano per fare qualcosa di sbagliato. Ma, a volte, bisogna compiere un’azione sbagliata per avere il tanto desiderato lieto fine, no? Nonostante non stessero procedendo a super velocità, il vento sferzava il grosso muso di Daren come una frusta e gli appiattiva all’indietro la folta criniera, screziata di castano dorato e castano scuro. Con il collo proteso in avanti, il terreno scorreva quasi invisibile sotto le sue zampe. Non era Rashid a condurre, ma tutti loro. Ognuno percepiva la presenza degli umani nella direzione che stavano seguendo, e ognuno era concentrato su quello che andava fatto. Ma era Daren l’unico a sentire l’odore di Kenan; quello nuovo, quello che sapeva di folle ambizione. Ed era a pochi chilometri da lui, proprio dove doveva
essere.
«Sarebbe quella, la famosa Rupe del Destino?» esordì William. «Me la immaginavo più…» Kenan, a braccia conserte, gli scoccò un’occhiata di traverso. «Non dire quello che stai pensando.» Lui sghignazzò. «Più simile alla Rupe dei Re de Il Re Leone.» Kenan fece una risatina divertita. «Lo sapevo.» «Dunque» Mark Shelby affiancò il suo pupillo, «spiegami perché ce ne stiamo qui, invece di entrare.» Sollevò il binocolo di ultima generazione e analizzò la piramide di pietra che svettava spartana sulla sponda opposta del Lago Kitangiri. Kenan lo sbirciò di soppiatto; nella sua mente già navigavano le immagini del momento in cui gli avrebbe staccato quella testa di cazzo dal collo. Oh sì, già sentiva il sapore stantio del suo sangue. Già vedeva il terrore liquido nei suoi occhi mentre si trasformava in leone e gli si avventava contro con le fauci spalancate. «La sua memoria sta perdendo colpi, signor Shelby» lo canzonò. «Non ricorda quello che le ho detto? Senza un diversivo, nessuno entra lì.» «Uhm…» borbottò lui, sbattendosi il cappello su una coscia e rimettendoselo. Kenan fece dietrofront con l’aria di chi la sa lunga. In realtà era semplicemente stanco di dover aspettare per agire. «Stamattina vi ho portato qui per un semplice sopralluogo.» Will ridacchiò, affascinante come un modello pronto per un servizio fotografico tra tuoni e lampi. «E per sottolineare che non mentivi riguardo alla Rupe e tutto il resto.» Kenan poggiò le natiche sul cofano dell’Hummer, la maglietta nera a giromanica metteva talmente in risalto i muscoli ipersviluppati, che pareva un lottatore di wrestling. Il fatto che si fosse pettinato i lunghi capelli all’indietro, scoprendo la fronte, gli conferiva un aspetto davvero sexy e tremendo. «Allora, signor Shelby, posso tornare a dormire sonni tranquilli, o devo stare ancora in pensiero perché
lei non si fida di me?» domandò stancamente. Dio, quanto si stava annoiando. William scoppiò a ridere prima che suo padre potesse rispondere. «Ma smettila con queste cazzate!» esclamò, lanciandogli un sasso. Kenan lo afferrò al volo, spaccone più che mai mentre si rigirava la pietra tra le mani, il mento sollevato. «Figliolo?» Mark Shelby si avvicinò a Will con gli occhi bassi e l’atteggiamento saggio. Gli mise una mano sulla spalla, guardandolo. «Ringrazia il cielo che Kenan abbia ottimi riflessi, perché se quel sasso avesse ammaccato la mia macchina, avresti fatto meglio a scappare e a nasconderti.» Kenan sogghignò come una iena, e William gli scoccò un’occhiataccia della serie ‘Dopo facciamo i conti’. Poi disse: «Hai ragione, papà. Scusa, la prossima volta lancerò nella direzione opposta». Shelby gli diede una pacca sulla schiena con un sorriso benevolo. «Sarà meglio. E tu…» Puntò un dito contro Kenan. «Ti tengo d’occhio.» Magnifico, commentò il mutante nei suoi pensieri, figuriamoci quanto gliene poteva fregare. Tanto, intervenne quella vocina insopportabile, stasera cenerai con le sue budella. Non è così, grande imperatore? «Scusa?» Kenan avanzò verso l’amico non appena Shelby si fu allontanato per andare a parlare con i propri uomini. «Ma se tiri la pietra dalla parte opposta, come fai a colpirmi?» Gli riconsegnò il sasso con un sorrisetto. «Già non ci azzecchi normalmente, figuriamoci così.» «Naa.» Will gettò il sasso nel lago. «La prossima volta farò questo.» Il ragazzo placcò Kenan di punto in bianco, cogliendolo alla sprovvista. In un groviglio di braccia e gambe, William ebbe la meglio per circa tre secondi per poi ritrovarsi sopraffatto dalla velocità assurda del mutaforma e dalla sua notevole imponenza. «Niente da fare, amico» lo canzonò Kenan, seduto cavalcioni sull’addome di Will. «Quando sei a terra diventi proprio un cesso che non sa difendersi.»
Smontò da lui e si allungò al suo fianco, affondando le dita nell’erba morbida. «Quando torniamo a casa» disse William con il fiatone, «ci alleniamo a quattro zampe sul tatami.» Kenan intrecciò le mani dietro la nuca, chiudendo gli occhi e rilassandosi. «Ottima idea, William Shelby.» «Oh no, guarda come mi hai ridotto la camicia! Ora dovrò…» Kenan smise di ascoltarlo. Aprì gli occhi di scatto. Il terreno sotto di lui vibrava; vibrazioni che solo un leone era in grado di avvertire. Si tirò su, captando suoni che solo lui poteva udire. Nell’aria carica di umidità, il riverbero di un poderoso galoppo di massa si librava come l’eco di un’esplosione. Non si trattava dei tuoni in attesa nel cielo, no, era qualcos’altro che rombava. Era come il ritmo dettato dai tamburi; un crescendo inarrestabile che odorava di una sentenza emessa, di una decisione irreversibile. Morte. «Ehi, amico, che ti prende?» Kenan capì. In una frazione di secondo fu in piedi. Un istante dopo fu alle spalle di Mark Shelby. Non si preoccupò nemmeno di rispondere all’insulto che gli aveva ringhiato per averlo spaventato in quel modo e gli rubò il binocolo, rompendo la cordicella con cui penzolava dal collo del vecchio. Si portò l’oggetto agli occhi e analizzò la piana, a nord. «Che cosa succede?» gracchiò Will. «Che cosa vedi?» chiese Mark Shelby, burbero. Niente. Kenan non vedeva niente, perché era… «Troppo tardi» concluse ad alta voce. «Per cosa?» fece William.
Nel voltarsi, Kenan incrociò lo sguardo del signor Shelby e lui comprese che stava per accadere qualcosa di grosso. E terribile, a giudicare dalla serietà del suo pupillo. Per questo comandò ai suoi omaccioni: «Prendete i fucili, alla svelta.» «Will.» Kenan cinse le spalle dell’amico con un braccio e lo costrinse a raggiungere con lui l’Hummer più vicino. «Voglio che tu salga su questo coso e torni in città.» Aprì lo sportello. «Chiuditi nella tua stanza d’albergo e restaci, okay?» «Col cavolo, amico» protestò lui. «Tu non mi carichi su una macchina come se fossi una donna da mettere in salvo prima della battaglia.» «Va bene, non volevo metterla su questo piano ma, sì, è esattamente così. Perciò…» scaraventò William nell’abitacolo, «… metti in moto e vattene immediatamente.» «Ma…» «Vattene, cazzo!» ruggì, sbattendo la portiera. «Non ho tempo di preoccuparmi per la tua incolumità.» Girò sulle punte dei piedi, i pugni serrati e le zanne che cominciavano ad affiorare. «Non ho proprio tempo, dannazione» ringhiò tra sé. «Kenan» lo chiamò Mark Shelby, quando lui li raggiunse sul retro del furgone. «Che diavolo sta succedendo?» Il mutante-leone osservò i fucili a pompa e a canna che gli energumeni stavano caricando, soddisfatto. «Molto bene, vedo che avete capito la gravità della situazione.» «Non abbiamo capito niente, ragazzino» sibilò Shelby, andandogli sotto a muso duro. «Spiegaci perché tutta questa foga.» Kenan giunse le mani, sfregandole. «Okay. Be’, in sintesi, ci sono…» s’interruppe per contare con le dita, «… dieci leoni piuttosto incazzati con il sottoscritto che puntano dritti verso di noi.» «Non vedo nulla, signore» obiettò uno degli uomini, scollando gli occhi scuri dalle lenti del binocolo.
«Stanno andando a velocità sovrumana, premio Nobel» disse Kenan, mellifluo. Tornò a guardare Mark. «Stanno venendo per me. E per lei, signor Shelby. Quindi le consiglio di armarsi per bene, perché quelli hanno seriamente intenzione di impedirci di tornare vivi in America.» «Che intendi dire, ragazzo?» domandò un altro, mentre Mark Shelby prendeva alla lettera il consiglio del suo pupillo e tirava fuori un fucile da un baule. Kenan rivolse lo sguardo verso il Lago Eyasi. Erano vicinissimi, lo sentiva. Così come percepiva il loro intento. «Vogliono fare una strage, e possono benissimo riuscirci.» «Non se li uccidiamo prima noi» dichiarò il braccio destro di Shelby, caricando l’ultima cartuccia nel suo fucile. «Ben detto» si complimentò il suo capo, facendo lo stesso con la sua arma. «Sì…» Kenan scrutò i commando in stile Rambo con un sorriso sbilenco. «Mi piace come ragionate.» Una specie di rombo fluttuò nell’atmosfera, e anche gli uomini che lo circondavano capirono che non si trattava di un tuono. «Bene, signori, sarete undici contro nove; un vantaggio da non sottovalutare.» Mark Shelby inarcò un sopracciglio. «Mi deludi, Kenan, pensavo sapessi contare. Saremo dodici contro dieci… Ehi, fermo! Dove stai andando, ragazzino?» Kenan continuò a camminare senza voltarsi. Alzò una mano e salutò. «Me ne vado.» Si girò, proseguendo all’indietro. «Ah, e ho detto bene: sarete undici contro nove, perché uno dei leoni seguirà me. Ne sono certo.» Mark si issò il fucile sulla spalla, facendo per seguirlo. «Sentimi bene, razza di mostro…» «Suvvia, signor Shelby, non si agiti. Tornerò, e vedrà che andrà tutto bene. Basta che li uccidiate tutti, e risolverete il problema. Vi direi di ammazzare prima i giovani, ma voi non siete in grado di riconoscerli.» «Allora rimani, razza d’imbecille!» gridò il braccio destro di Mark. «Naa, ve la caverete alla grande.»
Kenan tornò a camminare nel verso giusto, scacciando dalla sua testa le grida degli umani che aveva abbandonato al loro destino. Sarebbero morti comunque quella sera per mano sua, quindi che differenza poteva fare? «Io ho un conto da saldare» disse a denti stretti, tuffandosi in avanti e mutando forma in un lampo di luce.
Avevano accelerato a metà tra il Lago Eyasi e il Lago Kitangiri. A quella velocità era quasi difficile vedere dove stavano andando, ma a guidare Daren era la percezione di Kenan con i nemici. Solo lui, infatti, conosceva l’attuale odore del ragazzo, e quindi era lui a guidare l’attacco. Normalmente i leoni non sono dotati di grande resistenza, ma loro non erano comuni leoni, e lanciarsi a quella velocità supersonica non comportava alcuno sforzo ai loro cuori. Nella furia della corsa, Daren mise a fuoco la piramide di pietra sul lato opposto del lago. Le carte geografiche non la riportavano, ne era certo, ma la Rupe del Destino era lì da migliaia di anni, pronta a donare il potere del leone ai più meritevoli. Eccoli lì, i bracconieri del diavolo. Se ne stavano schierati davanti ai loro mastodontici mostri a quattro ruote, scrutando l’orizzonte a destra e a manca, pronti a far fuoco in qualunque direzione perché non riuscivano a vederli. Logico, stavano andando veloci come proiettili. Dio, il cielo diventava sempre più scuro. Sembrava notte. A Daren non piaceva la notte: temeva i suoi demoni e il male che serpeggiava fino a entrarti dentro, senza che te ne accorgessi. – Accerchiamoli – ordinò Rashid. – Colpi rapidi, siamo in minoranza. Li abbiamo già aggrediti, saranno più preparati. Sappiamo come agiscono, come si difendono e come attaccano. Occhio ai fucili, ragazzi.
Daren si voltò verso Banga. – Lascia a me Kenan.
– Mi occupo io di mio figlio, Daren. Non azzardarti a immischiarti. Penso io a lui.
– No – si impose Daren. – Non ce la faresti, lo so. Lascialo a me. – Si accorse che Rashid stava ascoltando la conversazione. – Non fallirò.
Il capobranco annuì. – Kenan è tuo.
– Rashid! – protestò a gran voce Banga.
– Taci – Tornando a guardare davanti a sé, Rashid si accorse che era giunto il momento. – Ci siamo. Dividiamoci. Non abbiate pietà per questi uomini, amici miei. Quest’oggi salveremo le nostre famiglie.
Daren scattò verso sinistra con Malik, Din e Dinari, accelerando ancora per attaccare alle spalle dei nemici. La terra era arida sotto le sue zampe, nonostante la prossimità del lago. Malik e Din lo affiancarono nel dietrofront, mentre Dinari rimase indietro. L’Hummer e il furgone nero si innalzavano come mura difensive, impedendo loro di vedere i bersagli ma offrendogli anche un’eccellente copertura. I dieci leoni rallentarono di colpo per prepararsi all’attacco, divenendo visibili all’ultimo secondo agli occhi degli umani armati. – Che nessuno resti vivo!– urlò Rashid a squarciagola.
Il ruggito del capobranco tuono nella Tanzania, e sei giganteschi leoni balzarono
sugli undici uomini in riga davanti alle vetture. Daren, Malik, Din e Dinari saltarono sui tetti delle macchine, fiondandosi per ultimi nella mischia di sangue, grida, e pallottole vaganti. Daren, però, rimase sul tetto del furgone per avere una visuale migliore dello scontro confusionario e individuare il suo obiettivo. Scorse Mark Shelby, impegnato a menare rumorosi colpi sul cranio di Rashid con il calcio del fucile. Non trovò William, e nemmeno Kenan. Dov’era quel bastardo? Un ruggito riecheggiò sulle acque del Lago Kitangiri, e Daren ruotò repentinamente la testa verso la Rupe del Destino. Fu allora che lo vide: Kenan, un leone enorme con la criniera quasi della stessa tonalità dorata del manto. Nell’oscurità del paesaggio che lo circondava, sembrava una statua d’oro, scintillante come un faro nella notte più buia. Un proiettile fischiò vicinissimo al suo orecchio, e Daren fu incerto se scendere sul campo di battaglia e aiutare il giovane Dinari, o andare da Kenan. Ci pensò Malik a facilitargli le cose, andando in aiuto dell’amico. Perfetto, pensò Daren, la sua guerra privata lo stava attendendo sulla sponda opposta. E lui non se la sarebbe persa, non si sarebbe tirato indietro. La sopravvivenza del branco dipendeva anche da lui, adesso. Daren spalancò le fauci, i lunghi canini luccicavano come pugnali letali, e ruggì in risposta al suo nemico. Saltò giù dal furgone e si lanciò all’inseguimento.
28
FUGGIRE dalla Roccia subito dopo che i maschi si erano lanciati al gran galoppo in sembianze feline, era stato un gioco da ragazzi per Jamila. Dopo tutto, era quello che lei, Daren e Kenan avevano fatto tutte le mattine quando erano piccoli: sarebbe stato il colmo, farsi beccare proprio adesso.
Jamila si era inoltrata nella foresta lungo le pareti della caldera in forma animale, tenendosi a debita distanza dal gruppo, e aveva raggiunto il Windy Gap (il punto panoramico del Ngorongoro) per seguire la loro avanzata al di fuori del cratere. Con occhi felini li aveva visti procedere lungo le rive occidentali del Lago Eyasi, chiedendosi perché non sfruttassero la supervelocità. Come se avessero captato il suo pensiero, i leoni, superato il lago, avevano accelerato in maniera assurda. Jamila a stento era riuscita a continuare a seguirli con lo sguardo ma, quando le fu stato chiaro dove fossero diretti, si era lanciata all’inseguimento. Adesso correva disperatamente. Le miglia scorrevano rapidissime, divorate dalle sue falcate soprannaturali. Galoppava così veloce che non si accorse neanche di aver superato il Lago Eyasi. Il rombo dei tuoni aumentava via via di volume, un sottofondo perfetto per lo scontro in atto a pochi chilometri da lei. Udiva i rumori degli schianti contro le lamiere delle vetture e sul suolo. Gli spari, seguiti ora da un ruggito, ora da un miagolio sofferente, riecheggiavano sinistri nel giorno oscuro. In corrispondenza della sponda settentrionale del Lago Kitangiri, Jamila si arrestò tanto bruscamente che le cedette un anteriore. Soffocò un gemito dolente. Il respiro pesante le tappava le orecchie. Chiuse gli occhi per riprendere fiato e studiò la lotta tra leoni e uomini. Buon Dio… C’era sangue dappertutto. I manti dei grossi felini ne erano imbrattati, così come i vestiti degli umani. Ce n’era così tanto che non si capiva da chi provenisse. Tre
umani erano a terra. Jamila riconobbe suo padre, il leone più grande di tutti, combattere con Mark Shelby. Dio, erano ricoperti di sangue. Erano tutti ricoperti di sangue. Demoni dalle zanne rosse contro diavoli dalla pelle rossa. Jamila udì la voce di Malik. Lui, Din e Dinari erano assatanati, belve inferocite e inarrestabili. Fu orgogliosa di vederli in azione e desiderò essere al loro fianco… ma di certo non per uccidere delle persone. Sorvolò sul senso di nausea davvero ridicolo che le suscitava la vista di tutto quel sangue, e cercò Daren e Kenan in quella bolgia di morte. Non li trovò. I peli sul fianco sinistro le si drizzarono inspiegabilmente, attirando la sua attenzione con piccoli e puntigliosi brividi. Scattò con la testa verso la Rupe del Destino. Che fosse lo Smeraldo a chiamarla? No, era un tipo di richiamo differente. Era una sensazione di empatia, un legame irreversibile che stava sussurrando il suo nome. Era un legame che lei aveva con una sola persona. Daren. Era lui a chiamarla. Forse inconsciamente, ma il suo amore stava gridando il suo nome, mandandole tante emozioni che Jamila avrebbe potuto trovarlo ovunque fosse andato semplicemente seguendole. E così fece, schizzando verso la Rupe del Destino e proseguendo sulla scia di Daren. Perché sapeva che lui stava inseguendo Kenan. E li avrebbe raggiunti prima che fosse troppo tardi.
29
GALOPPARE fino a ritrovarsi nella regione di Morogoro non era certamente nelle intenzioni di Kenan. Dietro di lui, Daren non perdeva mai il o, e così Kenan si era ritrovato a sorare Dodoma, virando a sud e seguendo il fiume Ruaha fino al Parco Nazionale dei monti Udzungwa.
Be’, mitico, sghignazzò la vocina nella sua testa, se non altro avrete uno scenario mozzafiato in cui battervi. Cosa c’è di più bello, che morire precipitando dalle tre cascate dello Sanje? Dài, che sarà una bella morte! Kenan continuò a galoppare, ringhiando a quella voce del cazzo che credeva che sarebbe stato lui a morire, e non Daren. Stupidissima voce inesistente. Addentrandosi nella vegetazione fittissima, i due leoni si rincorsero schivando alberi e rovi. Ogni falcata, ormai a velocità molto ridotta per via della salita ripida, era una fitta indescrivibile; ma nessuno dei due demorse un solo istante, seguitando ad arrampicarsi: Kenan per raggiungere la vetta delle cascate, Daren per raggiungere lui. Il suono di tonnellate di litri d’acqua che crollavano rispettivamente da un’altezza di centoottanta, quaranta e settanta metri, era assordante. Le felci arboree ricoprivano il sottobosco insieme a briofite ed epifite, rendendo difficoltosa la salita. L’oscurità più infida li ammantava nella corsa tra gli alberi, finché il pallido grigiore dell’esterno apparve davanti a Kenan. I due mutaforma si ritrovarono allo scoperto ed entrambi dovettero frenare di colpo per non finire nel fiume e venire trascinati dalla corrente. Kenan e Daren si guardarono intensamente per un breve istante, poi il leone dalle iridi azzurre riprese la sua fuga risalendo il fiume Sanje fino a quando l’acqua non fu bassa e quieta. Massi di ogni forma e dimensione ricoprivano le sponde del fiumiciattolo, sbucando anche dalla superficie cristallina e scura. Tutt’intorno, alberi dalle mille specie muravano e delineavano il corso del fiume,
rendendo quasi impossibile seguire una via che non fosse quella dell’acqua. Quando il suo avversario balzò nel fiume, incespicando nei massi, Daren si bloccò sulla sponda e ruggì: – Kenan!
Lui si fermò, le zampe anteriori su un sasso e quelle posteriori nell’acqua. Ruotò la testa verso l’amico. – Già stanco di darmi la caccia, D?
– Basta scappare – Daren s’impettì. – Finiamola qui.
Kenan si girò completamente verso di lui. – E come vuoi farlo, Daren, huh? – domandò, eggiando nel fiume con aria rilassata. Tornò sulla riva, fronteggiandolo. – Vuoi usare le zanne per strangolarmi, o vuoi affrontarmi da uomo a uomo e recidermi la carotide con gli artigli? – Se avesse potuto, avrebbe fatto un sorrisetto. – Naa, scommetto che deciderai di affrontarmi così, leone contro leone. Almeno, sarai sicuro di non avere esitazioni, perché non vedrai il mio bel viso. No, Daren? Che c’è, hai perso la parola?
– Perché.
Kenan si sedette, leccandosi l’anteriore e sfregandosi il naso con tranquillità. – Perché cosa?
–Rispondimi – ringhiò Daren, snudando le zanne.
Le iridi azzurre guizzarono su di lui. – Lo sai benissimo, stronzo – Si rimise in piedi, la testa bassa e gli occhi puntati sul leone che aveva di fronte mentre gli
andava incontro piano. Si fermò, sollevando il mento, l’espressione eccitata. – Il potere, ovvio.
Kenan si trasformò e Daren lo imitò all’istante, spiandolo fare l’equilibrista tra un masso e l’altro, attento a non finire a mollo. «Ricordi quella sera?» gli chiese Kenan, perdendo quasi l’equilibrio per guardarlo da sopra la spalla. «Quella in cui abbiamo fatto quel gioco su cosa volevamo fare da grandi?» «Sì» rispose Daren, grave. Kenan fece una risatina, ruotando su una pietra con un piede solo, le braccia aperte. «Ricordo ancora la tua penosa risposta: una vita semplice, dicesti.» Lo guardò, trovando stabilità sul masso. «Tutto quello che voglio, è qui.» Fece un mezzo sorriso. «Proprio una risposta del cazzo, amico, scusa se te lo dico.» «E tu? Ricordi la tua, di risposta?» Un folle sorriso sghembo si distese sul volto di Kenan. «Oh, sì.» Balzò su un altro scoglio, riavvicinandosi alla terraferma. «Viaggiare, vedere il mondo… In un certo senso, io il mio sogno l’ho realizzato.» «Ricordi cos’altro dicesti?» lo incalzò Daren, muovendo un o verso il punto in cui lui stava andando. «Ho la vaga impressione che tu stia per dirmelo.» Kenan mise piede sulla fanghiglia della riva, ritrovandosi l’amico (ex amico) a un palmo dal naso. «Dicesti che non avevi alcun motivo di restare, che la tua vita non era qui.» Kenan fece spallucce. «Che vuoi che ti dica? All’epoca non mi era venuto in mente di dominare il mondo, non ero ancora di ampie vedute. Fortunatamente, Mark Shelby mi ha rapito e il desiderio di essere non solo il migliore ma anche il padrone di tutti mi è apparso nella testa. E…» allargò le braccia con un falso sorriso smagliante, «… eccomi qui. Il ritorno del figliol prodigo, tornato a casa per ridurvi in tanti cagnolini obbedienti.»
La durezza dell’espressione di Daren non aveva subìto alterazioni. «Non sei tornato per il potere.» Kenan si fece serio di colpo. «Tu credi?» «Sei tornato per Jamila. Unicamente per lei.» I muscoli del volto di Kenan ebbero un fremito, interdetti dalla confusione dei pensieri che il cervello non riusciva a decifrare. «Mmm» mugolò, le labbra serrate. Indietreggiò in modo che si scambiassero di posto. «Cosa vuoi? Una medaglia?» Daren serrò i pugni, e finalmente la sua tensione si allentò. «No, Kenan. Non voglio una medaglia.» Lui increspò un angolo della bocca. «Vuoi chiedermi scusa per avermi fregato la ragazza? Ah, no, giusto. È lei che ti ha scelto. E aveva un’ampia gamma di opzioni, devo ammetterlo.» «Voglio che ti renda conto che volevi tornare a casa!» sbottò Daren. «Tu volevi tornare da noi, dalla tua famiglia. Perché adesso vuoi distruggerci?» «Perché tu mi hai tradito!» Si ritrovarono l’uno dinanzi all’altro in un battito di ciglia, e Kenan lo spintonò. «Mi hai voltato le spalle, brutto figlio di puttana! Io mi fidavo di te!» «Io non ti ho mai voltato le spalle!» replicò Daren, restituendogli le spinte. «Per nove anni non ho fatto altro che girare l’Africa e cercati! Per riportarti da lei! Gliel’avevo promesso!» «Per nove anni non ho fatto altro che sperare che tu la proteggessi, che ti prendessi cura di lei, non che me la rubassi!» «Non te l’ho rubata, Kenan!» Daren schivò il suo pugno, piantandogli una mano sulla faccia per allontanarlo. «È capitato!» «Non sarebbe successo se tu non avessi scordato che Jamila era mia!» «Non sarebbe successo se Jamila fosse tua! Ma non lo è mai stata! Era destino che fosse mia, non puoi prendertela con me!»
Kenan menò un manrovescio sul mento dell’amico. «Io la amavo!» strillò. Sospirò, buttando fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni. «E tu lo sapevi» aggiunse con voce… lacerata. «Tu lo sapevi, Daren. E te la sei presa lo stesso.» «Kenan…» Daren si pulì il sangue dal labbro, tirandosi su. «Se tu avessi davvero creduto che sarei tornato, anche solo per un attimo, non l’avresti nemmeno sfiorata con lo sguardo» sibilò lui. «Tu eri sicuro, tu hai sperato con tutto te stesso che io non tornassi mai più.» «Ti sbagli! Ho pregato ogni notte perché ti trovassi, un giorno o l’altro!» «Perché avresti dovuto farlo?» gridò Kenan. «Perché ti voglio bene!» Daren esitò, gli occhi inchiodati a quelli dell’amico. «Sei mio fratello, Kenan. Non c’è stato un solo secondo in cui non abbia voluto rivederti, trovarti e riportarti a casa. Da Jamila.» Avanzò verso di lui. «E non c’è stato un solo momento in cui lei non ti abbia amato. E continua ancora a farlo. Lo so.»
Kenan tremava dalla rabbia. Una rabbia che si attorcigliava sempre più nel suo petto, gonfiandosi, espandendosi fino a non lasciargli scampo. La sentiva caricarsi di tutto l’odio che covava e che provava verso Daren in quel momento. Come uno di quei pupazzetti con una levetta sulla schiena, da girare e girare finché si può, l’ira di Kenan era una bomba a orologeria. E lui lo sapeva. Eccome; stava giusto aspettando che Daren dicesse qualcos’altro di falso e toccante per perdere il controllo. E Dio solo sapeva quanto avrebbe goduto a fracassargli quella testa bacata. Gliel’avrebbe spiaccicata più e più volte su uno di quei massi appuntiti, fino a ritrovarsi una poltiglia di carne, ossa e cervella nella mano. Poi si sarebbe ripreso Jamila, e gliel’avrebbe fatta pagare anche a lei. Per non averlo aspettato. Per essersi data a Daren. Avrebbe finto di essere Sweeney Todd e avrebbe giocato con lei fino a quando non avesse gridato che era lui che amava da sempre e che le dispiaceva da morire. E lui l’avrebbe perdonata, alla fine,
perché l’amava. Sì, Kenan l’amava da impazzire e non sarebbe stato misericordioso con il suo branco. Li avrebbe schiavizzati. Tutti quanti. E si sarebbe preso tutto ciò che voleva, regnando sul mondo intero. Una punizione ragionevole per tutti loro, perché… Kenan non sapeva perché, davvero, ma voleva che ogni membro del branco soffrisse come lui stava soffrendo adesso. Di nuovo, amico? gli chiese la vocina del cavolo. Non avevi già fatto questo pensiero? E non avevi detto che non stavi soffrendo? Povero, piccolo leoncino. Non capisci che, qualunque cosa farai, rimarrai sempre solo? Credi che Will ti appoggerà, quando ti sarai trasformato in tiranno? No, sciocco leone, lui starà dalla parte dei più deboli. Non dalla tua. Sei destinato a restare solo con il tuo potere. «Kenan» Daren gli posò una mano sulla spalla, «torniamo a casa. Lascia perdere tutto questo, e torna a casa con me.» Lo guardò intensamente. «Possiamo ancora farcela. Insieme, come ai vecchi tempi.» Meno cinque. Meno quattro. Meno tre. Meno due. Meno uno. Zero. CARICA COMPLETATA. Kenan spianò le labbra in una gigantesca smorfia enigmatica. «Ah, fratello» sospirò, scostandosi la mano dalla spalla. Gli posò la sua sulla guancia, e il suo sorriso svanì. «È troppo tardi.»
Come se fossero stati in grado di leggersi nel pensiero, i due ragazzi si trasformarono in famelici leoni. E il mondo iniziò a tremare.
Jamila non si capacitava che fossero lì. Non riusciva a credere che Kenan avesse portato lì Daren. Rammentava bene quando Kenan le aveva confidato di essere totalmente affascinato dalle cascate dello Sanje, e le veniva da piangere pensando che aveva scelto proprio quel posto per misurarsi con Daren.
Un luogo che significava così tanto per lui, e che aveva designato come campo di battaglia per lo scontro con il suo migliore amico. Come aveva potuto? Perché, Kenan? continuava a ripetersi, stringendo i denti mentre arrancava nella foresta pluviale. Perché Kenan lo aveva fatto? Aspettarla. Entrambi dovevano aspettarla, prima di fare qualsiasi cosa. Lei stava arrivando, c’era quasi. Le chiome fittissime degli alberi non lasciavano filtrare neanche il bagliore plumbeo del temporale imminente, eppure Jamila sapeva che stavano già cadendo le prime gocce. C’era quasi; lo scroscio dell’acqua l’assordiva, il sottobosco la rallentava, la salita la sfiniva. Ma c’era quasi. Avvertiva l’odore di entrambi i maschi, quello di Daren più forte di quello di Kenan. Giunse sulla vetta della cascata e si fermò. Il modo in cui respirava era raccapricciante, pareva che potesse stramazzare al suolo da un momento all’altro. Sotto la coltre infrangibile di nuvoloni carichi di pioggia, Si impose di mantenere la calma e regolare il respiro, di riprendere fiato e continuare a seguire le tracce dei due leoni. La valle del Kilombero si estendeva fino alla Riserva del Selous, regalando un panorama mozzafiato a chi raggiungeva la cima della cascata, e Jamila si rammaricò di non poter sostare ancora un pochino e godersi la vista. La terra vibrò sotto i suoi cuscinetti e alcuni sassolini rotolarono nel fiume, come se qualcuno avesse abboccato il pianeta e cercasse di far cadere ogni cosa. Non un ruggito ma un verso diecimila volte più inquietante echeggiò nella regione di Morogoro. Jamila tremò, sicura che non fossero Daren e Kenan ad affrontarsi, ma due antichi titani. Ciò nonostante, scoprì i denti e risalì il fiume. La riva diveniva sempre meno percorribile, fin quando non si ritrovò a galoppare nell’acqua, inciampando ogni due falcate. Gli alberi scorrevano rapidi e a tratti ai due lati, e lei ebbe l’impressione che si muovessero e palpitassero con il suo cuore. I ruggiti, i sibili e gli schianti erano sempre più vicini e si ripercuotevano nei tronchi. Una striscia di terra fangosa si allargò sulla sponda sinistra del
fiumiciattolo; Jamila balzò su un masso e saltò sulla terraferma, mutando forma durante la parabola. Riatterrò malamente, un ginocchio le cedette e dovette puntellarsi sul pugno per non cadere. Altri due lampi bianchi attirarono la sua attenzione, e lei sollevò lo sguardo per vedere Kenan cadere a terra con un braccio grondante di sangue e Daren avventarsi sulla sua gola con gli artigli in bella mostra. Jamila agì senza pensare. In un batter d’occhio si ritrasformò in leonessa e si parò davanti a Kenan appena in tempo, respingendo Daren con un profondo e assordante ruggito. Per la sorpresa e la paura di non riuscire a fermarsi, Daren si buttò all’indietro, cadendo. «Jamila» sussurrò, ansimante e stregato dalle iridi della leonessa. Lei riassunse le sembianze umane, sostenendo il suo sguardo con severità. «Non lo ucciderai» disse, tenendosi pronta a fare qualunque cosa. I tre mutanti si rimisero in piedi all’unisono, diffidenti gli uni verso gli altri. «Non finché ci sarò io» aggiunse determinata, fissando il suo compagno come non aveva mai fatto. Daren soffiò tra i denti, accigliandosi, gli artigli che fremevano per lacerare carne viva. Quella di Kenan. «Jamila» sibilò. «No» ringhiò lei. «Non ti permetterò di farlo.» Daren avanzò di un o, minaccioso. «Levati di mezzo.» «Mai» tuonò Jamila, restando dov’era. «Non lo farò mai.» All’improvviso Kenan le strinse il braccio insanguinato intorno al collo, facendo per soffocarla da dietro, e la usò come scudo mentre arretrava. «Oh, piccola, ma come sei gentile a sacrificarti per me.» «Lasciala» gli ordinò Daren, ritratto della rabbia più vera. «Lurido bastardo infame che non sei altro, lasciala andare subito.»
«No, no, D» fece lui. «Ti conviene rimanere dove sei se non vuoi che spezzi il suo bel collo.» «E a te conviene lasciarla se non vuoi che stacchi la testa dal tuo collo.» Kenan sogghignò, immergendo la mano libera nei capelli di Jamila e spostandoglieli per ammirare un lato del suo viso e della sua nuca. A Jamila si rivoltò lo stomaco, nel percepire il sangue di lui impregnarle la maglietta e bagnarle la pelle sotto la stoffa; e quando Kenan le infilò le dita sotto il colletto, allargandoglielo lateralmente fino al limite, rabbrividì dal ribrezzo. «Che faresti, Daren» disse Kenan, ando i denti sulla sua spalla nuda, «se adesso la mordessi? Proprio qui, come un vampiro.» Schiuse la bocca, posando i denti sulla pelle di Jamila. «Se adesso affondassi le zanne dentro di lei» proseguì suadente, gli occhi puntati su Daren, «che cosa succederebbe?» «Fallo» ringhiò Daren, serio e letale. «E nessun posto sarà buono per nasconderti da me, K.» Kenan rise. «Sai…» Premette con forza la mano sul morso dell’amico, e le zanne di Jamila sbucarono improvvisamente, mentre lei ringhiava, soffriva, cercava di liberarsi inutilmente. «Sono indeciso se ucciderla e lasciarti vivere come mio schiavo, senza la tua donna, o ucciderti lentamente davanti ai suoi occhi.» Il respiro di Daren era pesante e saturo d’odio. «Devi lasciarla andare, Kenan.» Lui parve non ascoltarlo e continuò a torturare Jamila, soffocandola sia con il braccio viscido sia schiacciando il palmo sul morso. «Potrei anche lasciarvi vivere entrambi» le bisbigliò nell’orecchio come uno psicopatico. «E obbligarvi a stare lontani, una volta avuto il potere che bramo.» «Kenan, lasciala.» «Anche questa sarebbe un’atroce crudeltà per voi, no?» disse ad alta voce. «La lontananza… sapere di appartenervi ma non poter stare insieme.» «Lasciami…» rantolò Jamila, le zanne pulsanti al massimo della lunghezza. «Il problema è che devo per forza liberarmi di uno dei due, altrimenti non
riuscirò ad attuare il mio diabolico piano» rifletté Kenan tra sé, totalmente impazzito. Daren avanzò di un altro o. «Non ucciderai nessuno» sibilò, incontrando lo sguardo della sua compagna. Kenan serrò la morsa attorno al collo di lei, incupendosi. «Tu dici?» Jamila intercettò ancora gli occhi del suo uomo. «Ehi, Kenan?» ansò. «Sì, tesoro?» rispose lui con dolcezza, sfregandole il naso sulla guancia. «Sai cosa… ho fatto… in questi… nove… anni?» «Cosa, falsa santarellina?» Strinse ancora, e lei agonizzò. «Cosa hai fatto, oltre a non aspettarmi e a innamorarti del mio migliore amico?» Un ringhio le gorgogliò nella gola. «Mi sono fatta addestrare» affermò, piantando le zanne nel suo avambraccio. Kenan ritirò il braccio in meno di un secondo, urlando di dolore; Jamila ruotò di colpo e gli fece scattare la testa all’indietro con una manata sul naso. Accadde tutto in un attimo. Sia Daren sia Kenan si trasformarono in leoni, uno per attaccare e l’altro per scappare. Quando scomparvero dalla sua vista, tornando dove il fiume si ingrossava per precipitare da centoottanta metri, Jamila si sentì mancare per via del sangue cha la ricopriva. Dio santo, la sua maglietta era diventata scarlatta. Sentiva il liquido viscoso anche sulla gola e sotto la mascella. E in bocca. Jamila si girò di lato e vomitò. Solo quando cominciò a non focalizzare più ciò che la circondava, realizzò quanto fosse stupida. Debole, si ammonì, non era altro che una debole. Che cosa stava facendo? Doveva andare da Daren, inseguire Kenan insieme a lui, non
restarsene lì come un’emerita idiota! Affondando le dita nella fanghiglia, guizzò in avanti e abbandonò la forma umana.
30
IL destino può fare molte cose. Può unire le persone, o separale. Anche per sempre. Può punire e far soffrire in modo tremendo. Può far sbilanciare un guerriero proprio nel momento cruciale, e decretare per primo la sua sconfitta. Può decidere l’esito di una battaglia, spostando semplicemente la direzione del vento.
Può togliere la vita alla persona che si ama. Quando un lampo grande quanto l’intero firmamento si estese sulla valle del fiume Kilombero, appena apparsa davanti a lei, ammantando l’intero paesaggio come una presenza mistica, Jamila frenò bruscamente finendo quasi col muso a terra. Due creature dal manto d’oro si stavano fronteggiando sul bordo del precipizio. I loro ruggiti erano soffocati dal rumore dell’acqua, ma nulla poteva impedire ai loro denti e ai loro artigli di balenare in quel giorno tetro. Kenan, sovrastato da Daren, riuscì a puntargli le zampe sulla pancia e a scaraventarlo lontano da sé. Il morso di Jamila e quello precedente di Daren sputavano sangue a volontà da uno degli anteriori. Jamila non ebbe modo di dire e fare nulla. Daren tornò alla carica sul suo avversario, spiccando un balzo. Ma Kenan si accucciò all’ultimo istante, e il cuore di Jamila urlò.
Kenan non era in grado di prevedere il futuro perché, se avesse potuto, non si sarebbe abbassato per nessuna ragione al mondo e avrebbe lasciato che Daren lo azzannasse alla gola, trascinandolo lontano dal precipizio. Ma Kenan non era un mago.
Mentre vedeva Daren volare sopra di sé, il suo cervello calcolò la distanza che li separava dal precipizio, e lui capì che l’amico non sarebbe riatterrato sul suolo. Sarebbe caduto. Caduto di sotto. Da un’altezza di centoottanta metri. Per questo, nella fase discendente della parabola di Daren, Kenan tornò umano e, con gli occhi sbarrati, gridò: «Daren!». Lui mutò forma in quell’attimo, la paura viva nelle iridi verdi mentre il terreno non gli correva incontro. Era il vuoto ad attenderlo con gioia. Kenan, a terra, allungò le braccia verso di lui ripetendo il suo nome all’infinito affinché anche lui le tendesse. Afferrarlo. Kenan doveva afferrarlo, prima che… Maledizione, Daren era troppo lontano perché potesse arrivarci. Quanta spinta del cazzo si era dato, quella testa quadra, per saltargli addosso? si chiese, stizzito e terrorizzato. Con un colpo di reni, Kenan si spinse in avanti a mo’ di verme, le braccia protese, gli occhi imploranti e il terrore padrone del suo viso. E di quello di Daren che, al rallentatore, scendeva alla sua altezza. Solo che la terra non bloccò la sua discesa. Kenan digrignò i denti, urlando, e si tuffò sul bordo del dirupo sdraiandosi completamente sul terreno umido. Daren cadeva davanti ai suoi occhi, e Kenan si sporse ancora, una mano tesa e l’altra agganciata al suolo per evitare di precipitare a sua volta. Le loro mani si trovarono. Ma la nube d’acqua che evaporava verso l’alto rese volutamente scivolosa quella presa già precaria, e i palmi dei due fratelli non ebbero neanche il tempo di dirsi addio. Specchiandosi nello sguardo di Daren, Kenan lo guardò cadere e svanire nella nebbia. Lo guardò lasciarlo solo.
31
L’ANIMA di Jamila l’abbandonò nel momento in cui Daren, l’amore della sua vita, precipitò nel vuoto e non rimase altro che l’eco delle grida di lui e di quelle di Kenan.
Kenan, il responsabile della sua morte. Accecata dalla vendetta, lei si scagliò contro l’artefice della creatura incompleta che era diventata. «Bastardo!» inveì, montandogli sopra e sferrando un pugno dopo l’altro sul suo volto. «Maledetto assassino! L’hai ucciso! L’hai ucciso!»
Sopraffatto da tanta furia, Kenan non poté nemmeno reagire. Non voleva. Era stravolto. Dalla sua bocca e dal suo naso sprizzavano fiotti di sangue a causa delle percosse. Colpi che Jamila faceva bene a infliggergli. Se li meritava tutti, quei cazzotti. Anzi, se Jamila avesse calzato un guanto con degli spuntoni all’altezza delle nocche, sarebbe stato meglio. Doveva essere punito. E lei era l’unica persona che aveva il diritto di farlo. «Bastardo! Dannato bastardo!» continuava a strillargli, cambiando mano per massacrargli anche l’altro lato del viso. «L’hai ucciso!» Lo prese per la collottola, rizzandosi e issandolo con sé quasi fosse stato un peso piuma. «Come hai potuto?» ringhiò tra i denti. «Come hai potuto!» Lo scaraventò alle sue spalle, e Kenan rovinò malamente sulla riva del fiume impetuoso. Ogni suono e rumore, che fino a quel momento era stato muto, esplose nella sua mente come un’emicrania improvvisa. La voce di Jamila, che fino a un istante prima non era stata che un sibilo lontano, tuonò nella sua testa
con la potenza di un ruggito; e Kenan si rese conto che non era un sogno, quello che stava vivendo. Era realtà. Realtà.
«L’hai ucciso! Tu hai ucciso Daren!» Kenan sollevò una mano, il palmo rivolto verso la ragazza che si stava avventando nuovamente su di lui, un gesto per implorarla di fermarsi. «Io non volevo!» Lei esitò. Lui esitò. «Credimi, Jamila, ti prego» rantolò. «Io non volevo ucciderlo.» La rabbia che contraeva il volto di Jamila si affievolì a poco a poco, lasciando spazio al dolore eterno e dilaniante. Un singhiozzo la scosse, il suo sguardo era ancora infuocato. Due singhiozzi la fecero traballare, i suoi occhi luccicarono sotto il cielo plumbeo. Le lacrime rotolarono incontrastate e devastanti sulle sue guance, le palpebre si serrarono con forza. Kenan si pulì il sangue sulle labbra, sotto il naso e sul mento. Poi si fiondò ai suoi piedi, prendendola tra le braccia prima che piombasse al suolo.
Jamila crollò. Nell’abbraccio di colui che l’aveva privata della sua anima gemella, pianse a dirotto mentre la pioggia incominciava a scendere su di loro. Non sentiva nulla, nessun suono. Oppure no, era l’esatto contrario. Percepiva tutto con estrema nitidezza: lo scrosciare delle tonnellate d’acqua, il rombo dei tuoni nelle nubi, il respiro della foresta, i sussurri del vento, il raschio dei fulmini, il silenzio dei lampi. Il mondo che andava avanti senza Daren. «Non volevo, non volevo, non volevo» le stava mormorando Kenan nell’orecchio, stringendola tanto forte da non farla respirare.
Jamila ansimò, girando il viso dall’altro lato, ed esaminò i due morsi sul braccio di lui. Inconsciamente allungò le dita per sfiorare la forma lasciata dai denti di Daren, proprio sul bicipite gonfissimo e tosto. «Hai ucciso Daren» bisbigliò senza alcun sentimento, distante anni luce. Kenan premette il mento in cima al suo capo e la circondò ancor più con le braccia. «Io non volevo, te lo giuro… Io non volevo… È stato un incidente… Io…» «Io ti odio.» «Jamila.» Kenan le prese il volto tra le mani, trasalendo quando vide il suo sguardo ricolmo di astio oscuro. «Io non volevo uccidere Daren. Ti prego, perdonami.» La baciò, e lei rimase imibile. «Mi dispiace tanto» aggiunse, prima di alzarsi e lasciarla lì. Jamila rimase sola, con le cascate del fiume Sanje che cantavano la loro triste e fragorosa litania per il cuore della Figlia del Destino.
32
QUANDO Jamila tornò alla Roccia era ora di pranzo, forse anche più tardi, e aveva smesso di piovere. Fu più che logico che, appena mise piede nella caverna, nessuno vedesse le lacrime che le rigavano le guance, poiché era grondante.
«Ma dove diavolo eri?» l’aggredì Zena, seguitando a pulire una ferita profonda sulla coscia di Banga. «Non stare lì impalata! Vieni, abbiamo bisogno d’aiuto!» Jamila non si mosse. Una delle cose che sapeva sul mondo era che c’erano le guerre e che la gente moriva combattendo. Però non aveva idea di come si svolgessero le battaglie tra le Nazioni, né di come apparissero i soldati dopo la sconfitta. Non sapeva come si presentava il quartier generale della parte lesa, ma immaginò che fosse come la grotta in cui era adesso. Il pavimento era ricoperto di corpi agonizzanti e sanguinanti. Corpi di padri che le figlie e le mogli stavano disperatamente accudendo. Banga era sdraiato sul tavolo: Zena stava aiutando Abena a ripulire le due ferite d’arma da fuoco che gli avevano squarciato la coscia e il muscolo del braccio. Akil era messo peggio di tutti: steso sul letto di pellicce con innumerevoli panni inzuppati di sangue sull’addome, era madido di sudore, con le labbra secche e le palpebre tremanti. In preda al delirio, non si accorgeva neanche dell’ago che entrava e usciva dalla sua pelle: Kinue gli stava ricucendo un enorme taglio sulla spalla con l’aria di chi sta per svenire o dare di stomaco. Tra gorgoglii, risucchi e parole senza senso, Jamila riconobbe la voce del padre. Era con Malik, Din e Dinari, lievemente feriti, e si stava inalberando con il più grosso dei tre. Rashid si accorse che lei lo stava fissando e gli fece cenno con la mano di aspettare. «Non m’interessa, Malik» continuò a gridare.
«Come fa a non interessarti? Non vedi che ci abbiamo quasi rimesso tutti quanti le penne? E adesso vuoi tornare lì a finire il lavoro?» «Se non uccidiamo immediatamente quel bastardo di Shelby, moriremo davvero tutti quanti.» «Capo, i nostri padri stanno già morendo!» esplose Malik. «Dobbiamo portarli da qualcuno che possa curarli!» «Non prima di aver eliminato Mark Shelby.» «Siamo rimasti solo noi quattro!» «Anche loro hanno subìto molte perdite; più di noi, se non mi sbaglio.» Rashid inchiodò il quindicenne con un’occhiataccia. «Possiamo farcela.» Gli posò una mano sulla guancia. «E poi, abbiamo Daren: con lui la vittoria è assicurata. A proposito…» Si rivolse alla figlia. «Jamila, dov’è Daren?» «Nessuno lo ha visto?» fece Zena. «Non era con voi?» chiese allarmata Kinue. Un coro di domande s’innalzò nella grotta, voci che pronunciavano senza tregua il nome che la mente di Jamila considerava la più tremenda delle fruste. La ragazza si sentì soffocare da un’orda di orrendi pensieri che la rosicchiavano dall’interno come tanti, maledetti topi. Tutti, in quella caverna, la stavano tartassando e schiacciando. Ma nessuno se ne rendeva conto. Perché nessuno la stava guardando realmente. Jamila si coprì le orecchie con le mani, il mento premuto alla base della gola, gli occhi chiusi con forza. Udì il proprio nome sulle bocche di tutti, e poi di nuovo il nome. Avrebbero smesso, un giorno, di continuare a parlare? «Basta… basta…» Qualcuno, in quel momento, si stava prendendo la briga di tacere e ascoltare quello che Jamila stava sussurrando?
«Basta, basta, basta.» Qualcuno, in quel momento, aveva il buon senso di dire di fare silenzio e lasciarla respirare? «Basta.» No, nessuno la vedeva. «Daren è morto!» La caverna si zittì. Jamila sollevò il capo, scivolando con le dita sulle labbra, sommersa dagli sguardi basiti della sua famiglia. «Daren è morto» mormorò un’altra volta, una soltanto. Lo rivide precipitare nel vuoto. Rivide Kenan allungare le braccia per afferrarlo. Li rivide un’altra volta, una soltanto. Rashid fece un o verso la figlia, annichilito. «Come…» Il gemito di Kinue catturò la sua attenzione, e lui si sentì in dovere di restare forte per l’amico in fin di vita. «Com’è successo?» chiese a Jamila con fermezza. «Chi è stato?» Jamila percepì nuovamente le braccia di Kenan cingerla, la sua voce nell’orecchio che le diceva che non voleva. Non voleva e non voleva. Riavvertì l’odore e il sapore del suo sangue disgustoso, il modo in cui l’aveva quasi strangolata come un boa. Riascoltò i vari piani che aveva in mente per far soffrire sia lei che Daren, ricolse quella vena folle nel suo tono arrogante. E il dolore fu irrimediabilmente sostituito dall’odio. Le braccia le ricaddero lungo i fianchi, e un’espressione sconfitta e terribile al contempo le velò il viso. «È stato Kenan» rivelò distaccata. «Oh, mio Dio…» sospirò Din. Malik si avvicinò a Jamila. «Cos’è successo?» Jamila tenne gli occhi fissi in quelli di Banga, come per dire ‘Senti cosa ha fatto tuo figlio’. «Kenan ha portato Daren alle cascate dello Sanje…» «Laggiù?» fece Dinari, attonito.
«… e si sono battuti. Sono riuscita a raggiungerli prima che Daren tagliasse la gola a Kenan, e mi sono messa in mezzo.» Jamila fece una pausa, osservando il nulla e sussurrando: «Non avrei dovuto». Rialzò lo sguardo, proseguendo ad alta voce. «Kenan è scappato e Daren… lo ha inseguito. Ma… saltando per azzannarlo alla giugulare… lui è…» Uno spasmo la bloccò. Dopo un bel respiro, terminò: «Daren è precipitato dalla cascata». Banga si ò la mano del braccio sano sugli occhi. «Oh, Dio» ansò, mentre sua moglie poggiava la fronte sulla sua spalla e piangeva sommessamente. «Oh, Jamila…» Zena incrociò lo sguardo affranto del marito, e gli fece segno di andare dalla loro bambina. Jamila vide suo padre avvicinarsi e scappò dal suo abbraccio, quasi ringhiandogli contro. «Dobbiamo andare alla Rupe del Destino e impedire a Mark Shelby di prendere lo Smeraldo.» Din, Malik e Dinari affiancarono il capobranco, che disse: «Lo faremo, principessa. Andremo adesso, così saremo lì ad aspettarli. E non avranno scampo». Jamila annuì. «Bene. Kenan è gravemente ferito a un braccio. È debole, lasciatelo a me. Mi occuperò io di lui.» «No» tuonò Zena, gettando la pezza nell’acqua sporca. «Tu non andrai con loro, Jamila.» «Ci andrò, invece» sibilò. «Tua madre ha ragione» convenne Rashid. «Non verrai con noi, è escluso.» Questa volta Jamila mostrò i denti. «È la mia vendetta. Non potete togliermela.» «Oh, posso eccome, signorina» la minacciò suo padre, avanzando e torreggiando su di lei. «Sono il capobranco, e farai come ti dico.» Intrattabile e senza più controllo, Jamila gli andò sotto a muso duro. «Kenan è mio. Sarò io a vendicare la morte di Daren. Nessuno potrà impedirmi di venire alla Rupe con voi. Nemmeno tu, papà.»
Fece per fare dietrofront, andare a togliersi i vestiti fradici di pioggia e sangue e mettersi qualcosa di asciutto, ma Rashid l’afferrò per un braccio. «Non posso rischiare che tu ti faccia male, Jamila» esclamò. La ragazza gli scoccò un’occhiataccia. «Non sono più una bambina, papà» affermò, scrollandoselo di dosso con veemenza. «Sono cresciuta.» Guardò i suoi amici. «Sono addestrata. E vendicherò la morte di Daren.» «Non se ne parla» ribadì lui, severo. «Era il mio compagno» ringhiò lei. «Non mi fermerai.» Il tempo di voltare le spalle al massacro ospitato nella caverna, e quello che avrebbe potuto essere il pugno di un gigante si abbatté sulla testa di Jamila, che non vide nemmeno il terreno correrle incontro. Perché era già priva di sensi.
33
LA porta della camera si spalancò con tale impeto che, quando il battente cozzò contro il muro, l’intonaco si screpolò.
«Kenan!» gracchiò William. Quello che vide lo lasciò di stucco. «Che diavolo è successo?» Gettando al vento il copriletto intriso del suo sangue, Kenan snudò le zanne contro l’amico. «Chiudi quella cazzo di porta!» Will non se lo fece ripetere due volte. Avanzando di un o verso Kenan, la sua scarpa slittò come se si fosse trovato su una lastra di ghiaccio, o come se il pavimento fosse stato ricoperto d’olio. Abbassò lo sguardo e… «Oddio.» Né ghiaccio, né olio. Sangue, che colava come cioccolata fusa dalle dita dell’amico e formava una pozza in rapida espansione. «Vai in bagno a prendere altri asciugamani!» gli comandò Kenan. William non ebbe il coraggio di guardarlo, perché non aveva la forza di vedere quello che stava facendo. Si sentiva debole e gli tremavano le gambe e sentiva caldo e gli veniva da vomitare e incominciava a vedere tutto nero… «Will, cazzo, muoviti o morirò dissanguato!» Morte. Dissanguato. Kenan. Il suo migliore amico. William tornò lucido e si fiondò in bagno, fissando gli asciugamani appesi
accanto al lavandino come fossero stati alieni. «Quali prendo?» Non sapeva perché avesse chiesto una cosa così stupida. «Prendili tutti, Cristo!» ruggì Kenan dall’altra stanza. «Sbrigati!» Will tornò in fretta e furia dall’amico e buttò sul letto tutti quelli che era riuscito ad agguantare. «Okay, e adesso?» Guardò il braccio che Kenan teneva poggiato sulla coscia, il palmo all’insù. «Oh, Dio santissimo…» «Prendi un panno e tienimelo premuto sul morso vicino alla mano» gli diede istruzioni Kenan. Notando che l’umano lo fissava senza muovere un muscolo, lo colpì con un’occhiata omicida. «William. Sii uomo e aiutami a non morire, cazzo.» Will si ricosse e afferrò un asciugamano, inginocchiandosi nella pozza di sangue davanti a lui e premendo forte sulla ferita aperta a metà tra il polso e il gomito. Solo quando Kenan iniziò a ricucirsi i lembi di pelle ballonzolanti dal bicipite, si accorse della valigetta del pronto soccorso aperta lì vicino. «Quella dove l’hai presa?» «L’ho rubata all’hotel» rispose il mutante a denti stretti, mentre faceva entrare e uscire l’ago dalla carne. «Oh.» William percepì un sapore acre in bocca, e dovette distogliere lo sguardo da quel precario intervento chirurgico. «Kenan, cos’è successo?» Lui non rispose. «Kenan. Che cosa è successo? Chi ti ha… morso?» Ci arrivò da solo. «Oh, mio Dio… Hai affrontato Daren…» Le iridi azzurre di Kenan intercettarono quelle verdi dell’amico. «Già» sospirò, stringendo le mascelle per continuare a ricucirsi. Will si agitò. «Kenan…» esitò, «dimmi che… che lui è… è messo meglio o peggio di te, ma che è…» «Daren è morto.» William si pietrificò. «C-come?» Kenan cucì l’ultimo punto, respirando rumorosamente, l’espressione contratta da un dolore che non era solo fisico.
«Oh, Dio…» Will boccheggiò. «L’hai ucciso.» Kenan prese l’ago con la bocca, impugnò le forbici nel kit e tagliò il filo. «È stato un incidente.» «Hai ucciso Daren…» biascicò William, in procinto di alzarsi e andare via. Kenan premette con decisione la mano su quella con cui gli teneva l’asciugamano schiacciato sul morso. «Non è stata colpa mia, Will.» Gli sfilò il panno e lo vide deglutire un conato di vomito. «È stato un incidente.» William non disse nulla, e lo osservò improvvisarsi infermiere anche con quella lacerazione. Quel morso era più piccolo del primo, proprio come se… «C’era anche Jamila?» domandò di punto in bianco. Kenan si interruppe per una frazione di secondo, poi proseguì. «Sì.» «Dimmi che non l’hai ucciso davanti a lei, Kenan. Dimmi che non l’hai fatto sotto gli occhi di Jamila.» «Cristo, William, non l’ho ucciso io!» sbottò il mutaforma. «È precipitato dalle cascate dello Sanje» aggiunse, concentrandosi nuovamente sull’intervento. «Non ho potuto fare niente. È stato un incidente» ripeté con un filo di voce. Non sapeva se fu per il tono, o per la sua espressione, ma Will gli credette. Scivolando sul lago di sangue che ancora gocciolava dalle dita dell’amico, William si drizzò e prese un telo piccolo per pulirgli il più possibile la mano. «Come stai?» «Dov’è tuo padre?» chiese di rimando Kenan. «Sta seppellendo i corpi dei suoi uomini da qualche parte, dove nessuno possa mai trovarli.» Kenan terminò la sutura. «Quante perdite ci sono state?» «Sette.» Kenan aprì e chiuse il pugno con una smorfia. «Raggiungi gli altri» disse grave. «Vengo subito.»
William si tirò su. «Sei sicuro? Devi riposarti, non hai un bell’aspetto, amico.» Lui si tolse la maglietta. «Sto bene.» «Ti aiuto a… ripulire questo macello?» «No, vattene.» Will lo mandò a ’fanculo e uscì, sbattendo la porta. Alla velocità della luce, Kenan si ficcò sotto la doccia per lavarsi via il sangue di dosso. Indossò una camicia scura e dei jeans neri, s’infilò le scarpe e gettò tutti gli asciugamani a terra affinché assorbissero il sangue sul pavimento. Mettendo una mano sulla maniglia della porta, si bloccò. L’immagine di Daren che precipitava a un centimetro da lui gli si ripropose davanti agli occhi. Kenan appoggiò la fronte al battente di legno. Pianse. Per tutto. Perché era colpa sua.
«Basta con i sentimentalismi, signor Shelby.» Kenan sgusciò alle spalle di William e gli rubò le chiavi dell’Hummer con cui aveva raggiunto il padre. «Abbiamo un piano diabolico da portare a termine, o sbaglio?» Si avviò verso l’automobile. «Se volete ancora venire, bene. Se no amen, ci andrò da solo.» Con voce gutturale, Mark Shelby lo affrontò: «Perché dovresti volerci andare comunque? Lo Smeraldo non rappresenta niente per te». Nel bel mezzo nel nulla, nella notte più profonda, tra Shinyanga e Nzega, Kenan si fermò a un metro dal bestione a quattro ruote. Ma bravo, genio, lo riprese la vocina nella sua testa, già che ci sei perché non gli dici che hai intenzione di fare di tutti loro i tuoi schiavetti? Questa sì che sarebbe una mossa intelligente! Dài, diglielo!
Kenan scosse il capo (patetico tentativo di scacciare quell’intruso immaginario) e si girò indietro verso Shelby, i suoi tre uomini sopravvissuti e William. «Domanda più che logica, signore. Vede, venendo qui ho avuto l’impressione che la morte dei suoi uomini l’abbia turbata non poco. Ho solo pensato che volesse restare in vita per non lasciare Will orfano.» Il braccio destro di Mark e gli altri due energumeni affiancarono il loro capo, che con sicurezza rispose: «Hai pensato male, ragazzino. Ci sono sempre delle vittime, in guerra». «Uhm, sì» bofonchiò Kenan, rigirandosi le chiavi tra il pollice e l’indice; il braccio cominciava a dargli meno fastidio. «Ascolti, posso pensarci io. Davvero. Vado, faccio fuori la mia famiglia, prendo lo Smeraldo e glielo porto. Semplice. I suoi uomini non rischieranno la vita per recuperare una fottuta pietra che a loro non interessa, e lei sarà sicuro di non morire e di poter avere ciò per cui è qui.» «Kenan, andiamo, non puoi pensare di farcela da solo» protestò William. «Tranquillo, amico, sarà una eggiata.» Aprì lo sportello. «Tornerò non appena avrò preso lo Smeraldo.» «No» decretò Mark Shelby, la voce baritonale riecheggiò nell’oscurità. «Non andrai da solo, Kenan. Verremo con te.» Scoccò un’occhiata al figlio. «Tutti.» Si tirò su il cinturone multiuso. «Gliela faremo pagare, a quei bastardi figli di puttana.» «Sissignore» assentirono gli omaccioni alle sue spalle. Be’, peggio per loro, si disse Kenan, osservandoli da sopra alla spalla. «La scelta è vostra. Io vi ho offerto la vita ma non ve ne frega niente, quindi…» Salì sull’Hummer. «Will, monta.» «Agli ordini, amico» esclamò lui, occupando il posto del eggero in men che non si dica. «Tu, con me» comandò Mark Shelby al suo braccio destro. «Voi due prendete il furgone.» Kenan cacciò la testa fuori dal finestrino e inspirò a pieni polmoni, desiderando di essere a caccia nel Ngorongoro, con Daren e Jamila al suo fianco. Tra poco, si
rincuorò, tra poco sarebbero stati di nuovo insieme. «Kenan» lo chiamò William. «Sei sicuro di quello che fai?» Lui avviò il motore, stringendo le dita sul volante. «Perfettamente.» Con la coda dell’occhio scorse la preoccupazione del ragazzo. «Rilassati, amico. È quasi finita.» «E come finirà, Kenan?» Kenan non replicò subito. «Bene» mentì. Tirò fuori il braccio dal finestrino e mostrò il pollice all’insù a Mark Shelby, che ripeté lo stesso gesto con i due uomini a bordo del furgone. Kenan annuì a William, poi schiacciò il piede sull’acceleratore e guidò lungo il confine tra la provincia di Shinyanga e quella di Tabora con un unico obiettivo. Un obiettivo che, man mano che si avvicinavano al Lago Kitangiri, sfumava in un altro scopo. Uno scopo alimentato dalla brama di potere assoluto. Dall’ambizione.
34
«SI sta svegliando.»
Jamila riconobbe il sentore pellicce che le solleticavano il naso. Dischiuse le palpebre lentamente e alzò il capo, quando una dannata fitta di dolore dietro la nuca le mozzò il fiato. «Zena, è sveglia» ripeté la stessa voce di prima. Jamila non la identificò perché troppo impegnata a tener testa al dolore. Il profumo fruttato anticipò sua madre, che si sedette sui calcagni dinanzi a lei. «Amore, come ti senti?» Jamila avvertì qualcosa di fresco sulla fronte e mise a fuoco piano ciò che le stava intorno. Il calore del focolare la lambiva dolcemente. Solo quando si puntellò sui palmi per sollevarsi, comprese di non essere sul letto di pellicce ma sul terreno polveroso dell’accampamento. «Sei ancora un po’ stordita, non è così?» Jamila sbirciò la madre strizzare una salvietta in una pentola ripiena d’acqua e premergliela sul viso. «Tra qualche minuto starai meglio.» Jamila si guardò. I suoi vestiti… «Ti ho tolto quelli che indossavi» la incalzò Zena, «o ti saresti presa un bel malanno, oltre al raffreddore che sicuramente ti verrà per essere andata in giro sotto la pioggia.» Jamila scorse dei movimenti al di là del fuoco e riconobbe i volti di Dana, Naja e Nia. La voce di Dana, realizzò: era stata la voce di Dana, quella di prima. Erano lì per lei. Lì, a guardarla rinvenire invece di assistere i loro padri. Jamila strizzò gli occhi, inspirando con forza. «Chi mi ha colpito?»
Le iridi di sua madre balenarono su di lei. «Jamila…» «Chi, mamma.» Zena strizzò il panno, gli occhi fissi nei suoi. «Tuo padre.» Jamila espirò pesantemente, godendosi la sensazione di fresco che l’acqua fredda le stava donando. Ingoiando la rabbia, reclinò il capo e osservò il cielo. Era sera. O notte, peggio ancora. Era buio. «Tuo padre e gli altri sono andati alla Rupe del Destino.» Jamila guardò sua madre e le rispose con un mezzo sorriso. «Lo sai, vero, che adesso mi alzerò e andrò lì?» Zena sorrise, scostando la pentola d’acqua, e le sistemò i capelli dietro le orecchie. «Tuo padre pensa che noi» scambiò un’occhiata d’intesa con le quindicenni alle sue spalle, «te lo impediremo.» Anche Jamila le guardò, poi tornò su sua madre. «E lo farete? Perché, che lo facciate o no, io non resterò un altro secondo qui.» «Non ti ho infilata in un paio di jeans e in quegli scarponcini, mentre eri svenuta, per rompermi la schiena» replicò la donna, spostandosi dietro di lei e raccogliendole i capelli in una coda di cavallo. «Sei la nostra unica speranza, tesoro. Solo tu puoi salvarci.» Jamila si piegò di lato per osservarla. «Di che stai parlando?» Zena le posò un lungo bacio sulla fronte. «È il tuo destino, figlia mia.» Intrecciò le dita alle sue e l’aiutò a mettersi in piedi. «Va’, Jamila.» La scrutò confusa. Non sapeva perché sua madre credesse ciecamente in lei, né perché fosse convinta che fosse il suo destino. Si rese conto di non volerlo neanche sapere. «Grazie, mamma» disse semplicemente, abbracciandola.
L’abbraccio dell’addio, avrebbe dovuto chiamarlo. Sì, perché Jamila non sarebbe tornata a casa. Era più che certa che avrebbero vinto, ma lei non sarebbe tornata indietro. No, avrebbe ucciso Kenan e poi si sarebbe suicidata, cadendo accanto a lui. E finalmente lei, Daren e Kenan sarebbero di nuovo stati insieme. Amici per sempre. «Fa’ che i nostri fratelli tornino sani e salvi, Jamila. Per favore, è l’unica cosa che ti chiediamo» ansimò Naja, sorretta da Dana. «Lo farò» annuì. «Buona fortuna» le augurò Nia, seria per la prima volta. Jamila le fece un cenno del capo. «Ora va’» le comandò Zena, autoritaria. «Corri.» Jamila scattò come un ghepardo, e un lampo di luce bianca si sprigionò nella notte della verità.
35
«NO, no, Will. Tu resti in macchina.»
Kenan percepì la propria anima abbandonarlo languidamente ma inesorabilmente. Sperò con tutto il cuore di riuscire a conservarne ancora un po’ per convincere William a rimanere nell’Hummer. Conservare ancora un po’ del suo lato umano per salvare la vita dell’amico. «Stai scherzando? Vi farete uccidere» si lamentò Will, aprendo lo sportello per scendere. Kenan si sporse al volo e lo richiuse. «Non dire cazzate, idiota. Resterai qui, così tu eviterai di farti uccidere. Huh? Va bene?» «No, per niente.» «Perfetto.» Kenan smontò dalla Jeep. «Non muoverti, hai capito? William, guardami, cazzo, non sto scherzando.» Lui obbedì, e Kenan lo fissò. «Se vuoi vivere, non venire lì dentro.» Un ultimo sguardo all’amico, poi chiuse la portiera e un brivido d’eccitazione gli annunciò che avrebbe fatto esattamente quello che aveva in mente da quando aveva scoperto di Jamila e Daren. Qualche metro più in là, Mark Shelby stava scendendo dall’Hummer con il suo braccio destro, seguìto a ruota dagli altri due gorilla nel furgone. Non importava che avessero arrestato i veicoli a debita distanza, giacché così come Kenan avvertiva la presenza dei maschi del branco nella Rupe del Destino, loro avvertivano la sua. Mentre si avvicinava al capo dei bracconieri, il mutante lo udì dire: «Prendete i fucili. Io entrerò per primo, voi mi starete dietro. Sparate a qualunque cosa ci attacchi e…»
«No» obiettò Kenan, strappando il fucile al braccio destro di Shelby e consegnandolo proprio a lui. «Faccia entrare prima loro» indicò i tre energumeni con lo sguardo, «poi entrerà lei.» Mark lo scrutò circospetto. «Perché?» «Sai qualcosa che noi non sappiamo, ragazzino?» «So come agiranno.» Kenan inchiodò Mark Shelby con lo sguardo. «C’è il capobranco, là dentro. I tre che sono con lui, sono giovani: si avventeranno senza esitare su chi entrerà per primo nella caverna. Mandi avanti loro; Rashid rimarrà in disparte per misurarsi con lei, ne sono certo.» «Quindi, che cosa ci suggerisci, ragazzo?» domandò il braccio destro. Lui sostenne il suo sguardo. «Portate i leoni giovani fuori dalla Rupe, poi ci penserò io.» I tre bracconieri annuirono. «Vuole che mi occupi anche del capobranco, signor Shelby, o vuole farlo lei?» «Non ce ne sarà bisogno, Kenan.» L’uomo gli poggiò una mano sulla spalla. «Il momento è giunto.» Le labbra di Kenan si stirarono sarcasticamente. «Evviva.» Tornò serio di colpo, prendendo il posto di Shelby come leader dell’assalto. «Andate, è ora» comandò. «Forza, coraggio e non fatevi uccidere prima del previsto.»
Non era così che Malik aveva immaginato la grotta che custodiva il famoso Smeraldo. C’era qualcosa di magico intorno alla roccia appuntita, sulla cui sommità svettava la pietra esagonale. Tanto per fare un esempio, chi diavolo aveva tutte quelle torce che contornavano il perimetro della sala circolare? Loro non di certo, visto che le fiamme già ondeggiavano, al loro arrivo. La notte era scesa sulla Tanzania, e Malik era piazzato davanti allo Smeraldo come un titano imbattibile. Alla sua sinistra, Din e Dinari occupavano il centro dello schieramento; Rashid era l’esterno opposto. Quel giorno aveva piovuto e l’aria si era raffreddata, ma nessuno di loro se ne
preoccupava. Stavano per combattere, l’adrenalina che circolava nei loro corpi era più ustionante del fuoco. Ognuno avvertiva i muscoli pronti a guizzare, la pelle pronta a mutare forma. Gli artigli già erano spuntati sulla punta delle dita. Le zanne pulsavano per essere liberate. Gli occhi bruciavano per via delle pupille che si assottigliavano e allungavano. Il rumore inconfondibile degli pneumatici che frenavano nella terra arida attorno al lago giunse alle loro orecchie, e i loro cuori fecero una capriola. «Ci siamo, ragazzi» fece Malik, eccitato e concentrato. «Per i nostri padri» disse Din, mostrando i denti che crescevano a dismisura. «Per Daren» aggiunse Dinari, accucciandosi a quattro zampe, pronto a correre. «Non dategli neanche il tempo di parlare» ringhiò Rashid, scrocchiando le ossa del collo. «Nossignore» sibilò Malik. Lame di luce brillarono sui contorni di tre fucili che stavano facendo capolino nella Rupe e una deflagrazione di ruggiti proruppe nella caverna, forte come lo scoppio improvviso di una bomba.
– Attenti ai fucili! – urlò Din.
– Via dalla traiettoria! – gridò Malik, buttandosi contro Dinari. La pallottola fischiò a un soffio dal suo orecchio, mentre incespicava nel corpo dell’amico e spalancava la bocca per scagliarsi contro uno dei tre uomini che avevano tentato di entrare nella Rupe.
Malik piantò gli artigli nelle spalle possenti dell’uomo, le zanne balenarono nell’oscurità mentre la sua vittima crollava sotto il suo peso.
– Malik, attento! – Din si fiondò contro il bracconiere che stava puntando la canna del fucile contro l’amico e lo abbatté come un birillo grazie a una potente testata. Il colpo partì, ma mancò il bersaglio.
Distratto dal salvataggio di Din, Malik non vide per tempo il calcio del fucile piombare sulla sua testa, seguìto da diverse ginocchiate nella pancia che lo costrinsero a mollare la presa sulla preda. In quel mentre, Dinari s’impennò contro il terzo nemico, incurante della canna puntata sul suo petto esposto, e rampò sferzando l’aria a un centimetro dal suo volto minaccioso. Più veloce del dito sul grilletto, il leone atterrò l’uomo e lo morse profondamente alla spalla. Gli altri due bracconieri riuscirono a scappare, lasciando indietro il loro compagno. – Stanno andando verso le macchine!
– Dinari, – fece Malik – finiscilo subito. Non perdere tempo a mangiarlo mentre è ancora vivo, e vienici a dare una mano.
Il giovane leone ficcò gli artigli ancora più a fondo nel petto dell’umano, godendo quasi come un sadico nel sentirlo urlare e sibilare. – Va bene, va bene.
Malik annuì e affiancò Din, rincorrendo i due energumeni che stavano fuggendo verso gli Hummer e il furgone. Per un istante Dinari osservò i suoi amici. Ecco, lo sapeva, si canzonò, stava perdendo tempo inutilmente, guardando la distesa piatta del Lago Kitangiri e scrutando nelle tenebre che lo circondavano. Il viso di Nia si materializzò nei suoi pensieri, facendogli semplicemente desiderare con tutto se stesso di riuscire a sconfiggere quella brutta gente che voleva far loro del male e a tornare a casa
dalle loro bellissime ragazze. Dinari avrebbe fatto di Nia la propria compagna, si ripromise. Sì, lei era quella giusta. Non gli importava che fossero ancora giovani, lo avrebbe fatto non appena l’avesse rivista. «Ciao, Dinari.» Dinari voltò il testone di scatto, giusto in tempo per vedere un ragazzo biondo brandire il fucile che l’umano aveva perso nella caduta e sparargli.
«Via libera, signor Shelby.» Con un piede Kenan aiutò il braccio destro di Mark a togliersi di dosso la carcassa del leone e a rialzarsi. Gli riconsegnò il fucile, poi scrutò Shelby in tralice. Be’, pensò il mutaforma, sarà stato anche vecchio, ma con quel pugnale che aveva dietro la schiena avrebbe fatto paura anche a lui, se avesse dovuto affrontarlo. «Farei qualcosa per bloccare il sangue, se fossi in te» suggerì Kenan al braccio destro di Mark. «Quello è un morso studiato per indebolire.» Lui analizzò i fori sul petto con una smorfia. «Grazie del consiglio.» «Vado a sistemare anche gli altri due leoni. Tu guarda le spalle al tuo capo, ma resta nascosto. E cerca di non svenire; blocca il sangue.» Kenan lasciò l’uomo al suo destino e incominciò a correre verso le auto. Quattro spari echeggiarono sulla riva orientale del lago, e Kenan scomparve in un globo di luce. Malik e Din avevano i secondi contati, pensò con un senso di invincibilità mentre galoppava dritto verso di loro.
36
«BEN rivisto, Rashid.»
«Shelby.» I due uomini si studiarono per un minuto che parve durare una vita intera. Il capobranco era un colosso di muscoli, virilità e potenza fisica, imbattibile sotto ogni punto di vista. Mark Shelby, dal suo canto, era ingegno e astuzia; negli occhi aveva il velo oscuro di chi ha ucciso tante volte. «Vedo che hai mandato avanti le pecore che ti sono rimaste» lo provocò il mutaforma paratosi dinanzi allo Smeraldo. «E tu gli unici cani sani che avevi.» Rashid fece spallucce. «Ai miei ragazzi piace fare gli esibizionisti.» «E ai miei piace far abbassare la cresta agli sbruffoni. Vedo che le botte subite in testa la volta precedente non l’hanno fatta abbassare a te.» Rashid ghignò. «No, ma mi hanno fatto notare che oggi non hai il tuo amico del cuore con te. Niente fucile?» Shelby raggiunse il centro della grotta, tranquillo e guardingo al contempo. «Speravo in un confronto alla pari, da uomini» ammise, inarcando le sopracciglia. «Pensi di avere qualche chance, se mi battessi con te in questa forma?» «Non si può mai sapere cosa ha in serbo il destino, no?» «Ah, be’…» Il capobranco allargò le braccia e avanzò verso di lui con un sorriso sornione. «Allora te la sei proprio cercata.» Il pugno rovescio di Rashid andò a segno, dando il via alla lotta, e Mark barcollò
di lato con un grugnito. Il mutante era già convinto che sarebbe stato tutto fin troppo facile, quando l’uomo estrasse un coltello dal fodero dietro la schiena e vibrò un fendente proprio mentre gli si avvicinava per colpirlo nuovamente. Sorpreso, non lo schivò e la lama gli strappò la T-shirt e, dato il bruciore improvviso, probabilmente lo incise lievemente al ventre. «Infame figlio di putt…» gemette Rashid, indietreggiando con una mano sul taglio. Il montante sotto il suo mento fu tempestivo e gli fece chiudere la mandibola con uno scatto raccapricciante. Mark Shelby lo placcò e lo buttò a terra, sommergendolo di pugni e colpendolo con l’elsa del pugnale. Facendo ricorso alla forza del leone, Rashid lo sbalzò lontano da sé. Mark andò a sbattere contro la parete rocciosa, ricadendo tra polvere e frammenti di pietra che si erano staccati per la violenza dell’impatto. Nonostante il suo corpo non fosse più giovane come una volta, tenne duro e strinse la presa sul coltello. Rashid fu su di lui in un battito di ciglia, e Shelby cominciò a riflettere che sarebbe stato meglio affrontare l’animale. Incassando manate e pugni, si diede dell’idiota per essere stato così superbo da non portare con sé neanche una pistola. Sarebbe stato da infami ma, cavolo, era così che si era guadagnato fama e rispetto. Purtroppo, però, la realtà era che il mutante-leone lo stava facendo a pezzi, e lui sputava fiotti vermigli e sanguinava dal naso. Ma il pugnale era ancora stretto nella sua mano… «Basta giocare, Shelby.» Rashid lo disarmò, tenendolo saldamente per la collottola. «Tu e i tuoi uomini vi siete divertiti abbastanza.» Mark colse una sagoma dalle fattezze umane alle spalle del mutaforma, sotto l’arcata altissima della caverna. Dio sia lodato, era il suo fedele braccio destro! E brandiva un fucile a pompa. «No» ansimò l’americano, la barba impregnata del sangue che sgorgava come bava dalla sua bocca. «Non abbiamo ancora eseguito il nostro numero migliore.» Il rumore del sistema di pompaggio per riarmare il fucile ed espellere la
cartuccia già esplosa riverberò nella grotta della Rupe del Destino. La linea di un sorriso trionfante incurvò le labbra di Mark Shelby. Rashid si voltò lentamente e traò con sguardo adirato il bracconiere che stava per sparargli. Era ricoperto del suo stesso sangue e si era strappato l’orlo della canottiera nera per fasciarsi la spalla ferita. L’odore di Dinari lo ammantava, e il capobranco si chiese perché il ragazzino non lo avesse finito. Si domandò se stesse bene. «Bang, leone» fece l’uomo con un sogghigno. Il ruggito assordante di una leonessa spazzò l’intera caverna come un tornado, e uno scintillio di zanne zampillò sulla nuca del braccio destro di Mark Shelby.
37
JAMILA spezzò il collo dell’uomo che aveva minacciato di uccidere suo padre, annunciando così il suo arrivo a destinazione. Il cadavere tra i suoi denti giaceva inerme sotto di lei, e la ragazza riprese le sembianze umane.
«Ciao, papà.» «Jamila» sibilò Rashid, allentando la presa sulla collottola di Shelby. «Ti avevo detto di restare alla Roccia.» Lei abbozzò un sorrisetto, scrollando le spalle e scavalcando il morto. «Anch’io sono contenta di averti salvato la vita, papà.» Accadde tutto in un secondo. Mark Shelby riuscì a impadronirsi nuovamente del pugnale. Rashid perse l’equilibrio, colto alla sprovvista, e barcollò all’indietro con gli occhi puntati sulla lama che si sollevava. Mark gli piantò il coltello nel petto con un grido belluino, mancando il cuore. Raggelata, Jamila guardò il padre crollare a terra con un tonfo sordo. «Papà!» Incurante della pericolosissima vicinanza di Mark Shelby, si gettò accanto al corpo del padre ed estrasse la lama dalla sua carne, lanciandola lontano. «Papà? Papà! Per favore, apri gli occhi… Papà!» «Sc… scappa» gorgogliò Rashid, le palpebre tremanti e pesanti come macigni. «Scappa… va’… via…» Lei gli strinse forte la mano, così grande e possente rispetto alla sua. «No, io non ti lascio. Sei il capobranco.» Nella gola di Rashid ci fu come un risucchio. «Via…» Le lacrime di Jamila precipitarono sulla guancia di lui. «Sei il mio papà, tu mi
proteggi sempre…» Gli accarezzò i capelli. «Da qui non me ne vado.» Rashid spalancò gli occhi d’improvviso, spaventandola, e cominciò a tremare. Balzò con lo sguardo su di lei. «Ti voglio…» Non finì mai la frase. Jamila appoggiò la fronte sul suo ampio e muscoloso petto e scoppiò a piangere. Prima Kenan, poi Daren, e adesso suo padre. Tutto stava andando in frantumi. Non le era rimasto niente per cui vivere. Davvero niente. Solo quando l’aroma della vendetta che l’aveva guidata fin lì riaffiorò in lei, aggiungendo un altro nome alla lista delle persone da uccidere, Jamila alzò la testa. «Troppo tardi per essere forte, dolcezza» le ringhiò Mark Shelby nell’orecchio, prima che di afferrarla per i capelli e fare di lei ciò che voleva.
Kenan serpeggiò silenzioso verso l’Hummer, dove William stava osservando con occhi sbarrati la cruda scena che il modesto cinema dal vivo de La Compagnia dei Leoni Mutaforma proponeva quella notte. Quando aprì lo sportello posteriore e s’infilò nell’abitacolo, Will si spiaccicò contro il parabrezza. «Allora mi ascolti quando parlo» lo sfotté Kenan. L’amico tirò un sospiro di sollievo e si portò una mano al cuore. Cacchio, l’aveva proprio spaventato. Attese che il respiro tornasse a un ritmo normale, poi parlò: «Solo perché qui dentro non c’è neanche un misero coltellino svizzero e tutte armi sono nel furgone». Attraverso il vetro del finestrino, Kenan vide Malik e Din sfrecciare a destra e a manca per schivare i proiettili, attaccando tra uno sparo e l’altro. Avevano le zampe imbrattate di sangue e, quando sfoderavano gli artigli, balenii scarlatti fendevano il buio. «Mi sorprende che tu non abbia fatto l’eroe, uscendo e andando a prendere una pistola.»
Will gli scoccò un’occhiataccia. «Non sono così stupido, amico. E quelli si stanno azzuffando proprio davanti al furgone. Sto elaborando un piano per non farmi azzannare e per non beccarmi una pallottola volante.» Kenan si abbandonò sul sedile, chiudendo gli occhi e trattenendo il respiro. Si sarebbe rilassato per qualche minuto, giusto il tempo per permettere a Mark Shelby di fare il gladiatore, poi… Il mondo a sua completa disposizione. «Ehi, ma non avevi detto che, una volta portati fuori i leoni più giovani, ci avresti pensato tu?» domandò William con voce incerta, teso come una corda di violino mentre assisteva allo scontro tra leoni e uomini. «È morto qualcuno?» «Per adesso no, ma…» «Naa, allora se la cavano alla grande.» Un urlo disumano travolse tutto ciò che circondava l’uomo che l’aveva lanciato, mentre Malik gli tranciava di netto il braccio e lo gettava in aria con sdegno, seminando una pioggia vermiglia. L’arto mozzato piombò sul cofano dell’Hummer in cui erano nascosti William e Kenan, schizzando gocce rosse sul parabrezza. Kenan aprì un occhio. «Uhm, quello è decisamente il segno che non se la stanno cavando bene.» «Oh, Cristo santo» rantolò Will, ingoiando la bile con il viso contratto dall’orrore. «Okay.» Kenan scese dalla Jeep e l’aggirò da davanti. Peccato che i due leoni avessero già terminato il lavoro, quando lo raggiunse. «Ah» borbottò con un certo disappunto, «che rapidità, ragazzi.» I due leoni gli andarono incontro con le zanne insanguinate in bella vista, e Kenan si eccitò. «Spero proprio che non siate troppo stanchi per me.» Era pronto a trasformarsi, quando un ruggito prorompente devastò l’aria, investendo i tre mutanti come un uragano.
Malik e Din si scambiarono sguardi preoccupati, per poi saettare veloci come fulmini verso la Rupe del Destino. Kenan sapeva perché avevano rinunciato a lui, e non poté fare a meno di sussurrare: «Jamila». «Che cosa succede?» esclamò Will, spostatosi dal lato del guidatore e affacciatosi dal finestrino abbassato. Senza neanche riflettere, Kenan gli puntò un dito contro e iniziò a correre. «Resta qui» gli ordinò, prima di cambiare forma e correre in direzione della piramide di pietra. William lo fissò basito galoppare dietro gli altri due leoni, rimanendo immobile come una lastra di ghiaccio per mezzo secondo. «Col cavolo, amico.» Scese dall’Hummer e prese la prima pistola che trovò nel furgone; poi tornò alla Jeep, mise in moto e diede gas.
38
MALIK riprese le sembianze umane e si tuffò in scivolata accanto alla carcassa del leone nei pressi dell’ingresso della rupe. «Dinari!» Gli sollevò il grosso e pesante muso. «No» biascicò, «maledizione, no!»
Din si gettò al suo fianco, sconvolto. «No… no, no, no!» Prese a scuotere il leone. «Dinari, no! Amico mio, no!» La testa gli cadde penzoloni, le lacrime piombarono sul pelo dell’animale senza vita. «Dinari… ti prego… perché?» Malik gli posò una mano sulla spalla, facendo un respiro profondo per restare lucido. L’avrebbero pagata. Chiunque avesse ucciso Dinari, avrebbe fatto meglio a scappare in capo al mondo, perché lo avrebbe trovato e smembrato. Un acuto grido femminile detonò all’interno della Rupe del Destino, e Din e Malik alzarono la testa. Incuranti che Kenan li avesse appena raggiunti e del rombo di un Hummer che incalzava, scattarono per andare in soccorso del loro leader. Appena si stagliarono sotto la cornice dell’entrata, però, non furono in grado di proseguire. L’odore del sangue fresco saturava la caverna illuminata a giorno. A pochi centimetri dai loro piedi, il cadavere del bracconiere di cui doveva occuparsi Dinari era riverso in una pozza di sangue e la testa era piegata in un’angolatura innaturale. Qualche metro più in là giaceva il corpo senza vita del… «Oh, mio Dio» boccheggiò Dinari, tirando il fiato. «Capo!» Malik s’inginocchiò accanto a Rashid, premendogli una mano sulla ferita al petto e auscultandogli la gola con l’altra. Din gli andò vicino, e si coprì il volto con le mani quando l’amico lo guardò e
scosse la testa. «Perché? Non sarebbe dovuta andare così… Non doveva andare così…» Un grido, e qualcosa si schiantò contro il muro di pietra. Malik e Din rivolsero subitanei lo sguardo in quella direzione. Jamila, con il labbro spaccato e numerosi tagli da cui colava sangue copioso, era in balìa della furia di Mark Shelby, che infieriva su di lei con manrovesci, ginocchiate e coltellate. L’uomo pareva posseduto da un’entità maligna bisognosa della sofferenza che solo torture come quella potevano dare. Nei suoi occhi albergava la rabbia più assatanata, quasi Jamila gli avesse fatto un torto imperdonabile. Lei cercava di difendersi come meglio poteva, ma nonostante fosse più giovane e addestrata a combattere, non riusciva a sottrarsi a quell’ira tremenda. Era come se ci fosse qualcosa che le impediva di reagire. E Malik capì di cosa si trattava quando la ragazza rovinò a terra, rotolando scompostamente e sbattendo la fronte alla parete. Era il dolore. Jamila era schiacciata dal dolore delle perdite che aveva subìto una dopo l’altra. Neanche la vendetta era in grado di aiutarla: ormai era completamente sola. Malik balzò in piedi e fece per scattare verso Mark Shelby, che stava tornando alla carica, ma una presa più che salda sul suo braccio lo bloccò. «No» gli intimò Kenan, scuro in volto. «Non puoi aiutarla.» Malik sostenne il suo sguardo, digrignando i denti. «Lasciami, o giuro che ti spezzo il braccio prima che tu te ne accorga.» Repentinamente Kenan gli serrò l’altra mano attorno alla gola e, lanciando un’occhiata omicida a Din per ordinargli di non immischiarsi, lo inchiodò al muro. «Ascoltami bene, Malik. Basta fare gli eroi, tu e Din. Siete ragazzini, non dovreste essere qui. Avete fatto abbastanza. Prendete il capobranco e portatelo il più lontano possibile, capito? Dovete toglierlo di qui, o Jamila continuerà a non riuscire a bloccare neanche uno schiaffo. Malik» gli sbatté la testa contro la roccia per riavere la sua attenzione, «hai capito quello che ho detto?» Din si avvicinò, agitato per via dei grugniti e delle urla di Jamila. «Sì, abbiamo capito» rispose al posto dell’amico.
Malik si allontanò dalla parete quando Kenan lo lasciò andare. «Non abbandonarla» gli comandò con durezza. «Penso io a lei, voi muovetevi e non tornate qui.» I due mutaforma si caricarono in spalla il corpo del capobranco e, scambiando un ultimo sguardo con il loro ex compagno, lo trasportarono fuori dalla Rupe del Destino. Kenan aspettò che sparissero, inghiottiti dal buio della notte, poi tornò a guardare il signor Shelby ridurre la ragazza che amava in una bambola inanimata con cui sfogarsi. Jamila era carponi, stremata e ferita ovunque, e stava sputando un fiotto di liquido denso e scuro. Kenan inspirò dalle narici e si mise a braccia conserte, restandone fuori e godendosi lo spettacolo crudo e violento, con gli occhi di ghiaccio che balenavano da Jamila allo Smeraldo.
William frenò non appena i fari dell’Hummer illuminarono un leone morto con un buco nel fianco. «Cristo santo…» Non era Kenan, sapeva bene qual era il suo aspetto quando si trasformava, tuttavia era un’altra persona. Un’ennesima vittima di quella guerra assurda. Mosso da qualcosa che non sapeva spiegare, impugnò la pistola e scese dalla Jeep. Non era molto pratico, ma aveva visto tutti i film di James Bond per sapere come si corre con una pistola in mano. Solo che quando fece capolino nella caverna, non ebbe la più pallida idea del genere di film in cui si trovava. Qualunque gentiluomo che si rispetti non toccherebbe mai una donna neanche con un dito, eppure suo padre le stava dando di santa ragione a una ragazza. Ecco che le tirava su la testa afferrandola per la chioma bionda e mossa… «Oh, mio Dio…» Era Jamila. Anche se erano ati nove anni dall’ultima volta che l’aveva vista, Will era
certo che fosse lei. Jamila, a pezzi per via dei colpi brutali e senza spiegazione di suo padre. Jamila, ricoperta di tagli, con le guance dipinte di sangue e la fronte simile a una grattugia. Jamila, strisciante e senza forze sotto gli occhi imibili di Kenan. William distolse l’attenzione dallo scempio crudele di suo padre, spostandola sull’amico fermo davanti a lui. «Perché te ne stai lì impalato?» tuonò.
Kenan lo guardò da sopra la spalla. «Perché è la cosa giusta.» L’ambizione che lo pervadeva lo aveva in pugno, sì, ma non avrebbe avuto la donna che lui amava come sua schiava personale nell’impero che presto sarebbe sorto. Will sbottò. «Ma che cazzo dici?» Gli andò sotto a muso duro e lo spintonò. «È Jamila.» Lo inchiodò con un’occhiata intensa, premendogli la canna della pistola sul cuore. «Quindi vedi di piantarla e vai a salvarla.» «No.» Kenan gli rubò la pistola con un movimento fluido e la gettò vicino allo Smeraldo, cosicché non potesse sparare a nessuno. «E neanche tu lo farai.» Attonito, William osservò il viso imperturbabile dell’amico. «Tu hai qualche rotella fuori posto.» «Non muoverti di qui, Will» gli intimò Kenan, quando lui gli voltò le spalle con l’intento di metter fine a quella mostruosità. Il ragazzo sbuffò rumorosamente e lo affiancò, obbediente. Se c’era una cosa che aveva imparato bene, in tutti quegli anni, era che non bisognava mai farlo innervosire se si teneva alla propria vita. Kenan lo sbirciò di soppiatto, poi ritornò su Jamila, i pugni e Mark Shelby. Dio santissimo, il cuore gli urlava come un ossesso di scaraventare quel bastardo contro una fiaccola e bruciarlo vivo. Gli urlava di aiutare Jamila e portarla in salvo. A casa. Ma non poteva. Si odiava per questo, ma non poteva. Il suo lato oscuro glielo
impediva, costringendolo a stringere le dita sui bicipiti e a corrugare le sopracciglia. Gli occhi gli bruciavano tremendamente, ricolmi di lacrime che mai sarebbero scese. Una ginocchiata si abbatté sulla mascella di Jamila, che stramazzò al suolo. I metri che ora li separavano erano così pochi… Kenan non guardò.
39
ALZARSI e resistere era oramai inutile. La ginocchiata le rintronava ancora nella testa, come il riverbero di una voce che vaga nel vento da un’eternità. Non sentiva più le gambe da un pezzo, le braccia formicolavano, le labbra pulsavano, i tagli bruciavano ogni qualvolta sfregavano contro la stoffa della T-shirt e dei jeans.
Di certo non aveva più un viso ma un pallone da calcio che Mark Shelby aveva la seria intenzione di scuoiare. Il sangue le colava dal naso, dalle guance e dalla fronte. Vedeva rosso già da un po’, e non perché era accecata dalla rabbia. In bocca avvertiva un sapore metallico. Era un miracolo che avesse ancora tutti i denti! «Credevi di potermi fermare, ragazza?» si sgolò Mark Shelby. «Tu?» La prese per i capelli, sollevandola di peso. «Da sola?» Le affondò le dita dell’altra mano nelle guance viscide, e lei urlò. «Senza il tuo paparino e i tuoi amici?» Le sferrò un pugno rovescio. Jamila crollò nuovamente a terra, sputando altro sangue. Che senso aveva continuare a lottare? Shelby aveva ragione: come aveva potuto pensare di essere abbastanza forte da proteggere il branco? I giorni ati con suo padre a imparare a difendersi erano stati tempo sprecato. Tutta la sua vita era stata un totale fallimento. Provò a issarsi sugli avambracci, e incontrò gli occhi di Kenan. Eccolo lì, il traditore, proprio dove doveva essere, proprio nella posizione che si era immaginata: a braccia conserte, il capo lievemente chino e un drappo d’oscurità sul volto bellissimo. Chissà quanto stava godendo nel vederla venire massacrata dal suo capo. Probabilmente avrebbe voluto farlo lui stesso. Eppure… c’era qualcosa di diverso nel suo sguardo. Qualcosa che non ebbe modo di scoprire, perché la punta di uno scarpone le affondò nel fianco e lei
rotolò all’indietro. Inspiegabilmente, riuscì a tendere le mani prima di schiantarsi contro la roccia su cui svettava lo Smeraldo, e la sfruttò per tentare di tirarsi su a sedere. Mark Shelby non tornò subito alla carica, ma si spostò verso l’alta parete e si chinò per raccogliere qualcosa. Be’, non poteva essere il coltello, perché Jamila lo vedeva risplendere dietro la schiena dell’uomo, ben assicurato al cinturone. Perciò era… Le si mozzò il respiro. Era una pistola. «Papà, no! Sei pazzo?» gridò il ragazzo alla destra di Kenan. «Taci, William» ringhiò Mark Shelby, avanzando verso di lei. Jamila guardò il ragazzo moro. Gesù, quello era Will? Era cambiato tantissimo e… Un momento. Papà? William era il figlio di Mark Shelby? Ecco spiegata la sua presenza, si disse Jamila. E così, anche lui, come Kenan, era lì per assistere alla sua sconfitta. Alla sua morte. «Uno per uno» sibilò l’uomo, togliendo la sicura all’arma e puntandola verso di lei, «vi ucciderò. Uno per uno, mostri del diavolo.» «No» rantolò Jamila, facendo uno sforzo sovrumano per drizzarsi e far scudo allo Smeraldo con il proprio corpo. «Lei è il diavolo.» Mark Shelby la schernì con un mezzo sorriso. «Porta i miei saluti a tuo padre, leonessa.» Le fiamme delle fiaccole nella caverna crepitarono sinistre. Qualcuno si mosse fulmineo alle spalle del bracconiere. «No!» gridò una voce. Un’altra ruggì un nome.
Mark Shelby sparò, e il proiettile trovò un cuore pulsante ad accoglierlo.
«Will!» Kenan si precipitò da Jamila e, insieme, sostennero il corpo di William mentre si accasciava. La camicia bianca dell’amico era intrisa di sangue che fuoriusciva inarrestabile dalla ferita al centro del petto. Basita, Jamila immerse le dita di una mano nei capelli ricci del ragazzo che le si era parato davanti per salvarle la vita, e avvicinò le labbra alle sue. «William? Will?» «No, cazzo, no.» Kenan la scostò per scuotere la testa dell’amico. «Will? Will, cazzo, apri gli occhi! William! Dài, cazzo, dài! Non mollare, maledizione, non mollare!» Jamila cercò di fermare l’emorragia premendo sulla ferita, ma sapeva che era inutile. Non avvertiva alcun battito sotto i palmi. «William, ti prego…» ansimò, piangendo in silenzio. «Idiota, stupido, cretino» lo insultò Kenan, schiaffeggiandolo piano per ottenere una qualche reazione. «Sapevo che l’avresti fatto. Cazzo, lo sapevo, e non fatto niente…» Jamila lo guardò. «Kenan…» Lui afferrò William per i capelli e gli sbatté la testa sul terreno. «Dài, Will, cazzo! Torna da me, amico! Torna da me!» Uno spasmo lo spiazzò, lasciandolo senza fiato. «Non lasciarmi solo anche tu…» Jamila ritrasse le mani, e non controbatté all’occhiataccia che Kenan le scoccò. Non c’era niente da dire, in quel momento. Tutto era muto, intorno a loro. La speranza che un battito cardiaco tornasse a battere e il tempo che scorreva lento erano un filo sottilissimo tra i loro sguardi. Gli occhi di Kenan erano specchi d’odio rovente che avrebbero tanto voluto esternare quello che lui provava. Kenan abbassò le palpebre, incapace di sostenere ancora lo sguardo di Jamila, e lasciò una carezza sulla guancia
dell’amico. Lei prese aria per parlare. «Kenan…» Lui alzò una mano per zittirla. Aprì gli occhi e la sua espressione mutò in un’orrenda maschera di rabbia implacabile. «L’hai ucciso» ringhiò ad alta voce. Mark Shelby sapeva bene che si stava rivolgendo a lui. A lui, che era rimasto imibile di fronte alla morte del suo unico figlio. «Se l’è cercata. Si è messo in mezzo.» Kenan inspirò con forza, sollevando le ginocchia da terra ma rimanendo accucciato sui calcagni. «Tu l’hai visto. L’hai visto per forza mentre ti ava accanto per mettersi davanti a lei. E hai sparato lo stesso.» «Si è schierato dalla parte sbagliata» fece Shelby. «Ha scelto lui di morire.» Puntò la pistola sulla schiena del suo pupillo. «E adesso spostati, o farai la stessa fine.» Kenan guizzò con gli occhi in quelli di Jamila e si tirò su, lentamente. «No, brutto figlio di puttana» sibilò a denti stretti. «Ora mi hai veramente stufato.» In una frazione di secondo si trasformò in leone e si avventò sull’uomo con una furia tale da far oscillare le potenti fiamme delle torce. Dall’arma partì un colpo che sgretolò un punto indefinito del soffitto, poi gli unici suoni che echeggiarono nella grotta furono le urla disperate di Mark Shelby, i ruggiti di Kenan e il rumore raccapricciante dei suoi artigli che laceravano tutto ciò che potevano. Un ultimo grido, e le zanne del leone strapparono la giugulare della sua vittima. Kenan tornò umano e sputò il sangue che aveva in bocca, pulendosi le labbra con un gesto sprezzante. Osservò il cadavere dilaniato di Mark Shelby. Be’, se William se l’era cercata, allora lui ci si era buttato a braccia aperte, incontro alla morte. «Avrei dovuto farlo molto prima» disse tra sé, accusandosi della perdita dell’amico. Si girò verso Jamila; martoriata e gocciolante di sangue, con ciocche ribelli sfuggite all’elastico, era più bella che mai. Se avesse avuto un po’ meno tagli su
tutto il corpo e avesse conservato solo quel rivolo scarlatto che le scendeva da un angolo della bocca, avrebbe potuto posare per qualche servizio fotografico sui vampiri. Ma, in quel momento, Jamila non era sensuale: era la statua quasi inespressiva di chi non ha ancora gettato la spugna. «Non è cambiato niente, vero?» gli chiese. «No» rispose Kenan. Diede un calcio al corpo di Mark Shelby, facendolo rotolare sulla pancia, e impugnò il pugnale dietro la sua schiena. Lo lanciò a Jamila che lo afferrò al volo. «Prova pure a difenderti se vuoi, ma ti ucciderò comunque.» Lei rimirò la lama sporca del proprio sangue. «Non ha senso…» Alzò lo sguardo su di lui. «Perché, se mi hai appena salvato la vita?» Kenan fece un verso di esasperazione. «No» disse stancamente, «l’ho mangiato perché ha sparato a Will.» Jamila brandì il coltello come si deve, circospetta. «Perché vuoi uccidermi, allora? Potresti semplicemente sbalzarmi da qualche parte e prendere ciò che vuoi.» Stirò sarcastico le labbra. «Chiamalo atto di gentilezza, ma non voglio che tu sia mia schiava.» «Neanch’io lo voglio. Ecco perché sarò io a ucciderti.» «Non ci riuscirai, Jamila.» «E tu non avrai lo Smeraldo, Kenan.» Le si fiondò contro con una velocità impressionante, e lei scartò di lato con una capriola. Lui l’attaccò con pugni e calci che Jamila faticò a schivare. Con fin troppa facilità Kenan le strappò il pugnale di mano e lo gettò via. Balzando su di lei come un giaguaro, l’agguantò per la gola e, insieme, volarono per qualche metro. Jamila rovinò sulla schiena e il suo corpo tracciò un solco profondo nel terreno a causa della violenza dell’impatto e del peso che la sovrastava. Kenan calò un altro pugno sul suo zigomo, continuando a strangolarla. «Mi dispiace» sussurrò, mentre arcuava le dita della mano libera e lasciava che si
materializzassero gli artigli. Il suolo vibrò sotto Jamila. Kenan sollevò il capo di scatto e saltò all’indietro, allontanandosi da lei prima che il leone scagliatosi contro di lui gli recidesse la carotide con una zampata.
40
NON poté credere a quello che vide. Era tutto sbagliato. Non era così che sarebbe dovuta andare. Sarebbe dovuta finire prima che quello scempio potesse essere consumato, e il sangue innocente versato.
Quando era arrivato alla Roccia, non aveva potuto credere ai propri occhi. Attonito, aveva fissato i corpi moribondi dei maschi del branco; le femmine lo avevano abbracciato e toccato, quasi avessero voluto accertassi che non fosse un fantasma. In quel momento, avrebbe potuto esserlo benissimo, vista l’espressione sul suo volto mentre sua madre lo aveva pregato di dare l’ultimo saluto al padre, perché stava morendo. Poi era arrivata Zena, che lo aveva preso in disparte e aggiornato sulla situazione. Ma, soprattutto, gli aveva rivelato un particolare devastante. Jamila era andata in aiuto del capobranco, Malik, Din e Dinari alla Rupe del Destino. Quindi non aveva perso altro tempo e aveva galoppato il più in fretta possibile, anche se quasi privo di forze, per raggiungere la sponda orientale del Lago Kitangiri. Al suo arrivo, aveva scorto delle sagome sulla riva: erano Malik e Din che vegliavano sul corpo del capobranco, ucciso da una pugnalata di Mark Shelby. I rumori dello scontro in atto nella caverna avevano catturato la sua attenzione e si era catapultato in quella direzione, deviando velocemente lo sguardo dal cadavere del giovane Dinari. Una volta varcato l’ingresso della grotta, non aveva esitato ad avventarsi su quel bastardo di Kenan, che stava per eliminare Jamila. Pensando solo agli artigli che stavano per tagliarle la gola, non si era preoccupato di coglierlo di sorpresa e, quando lui aveva evitato la sua zampata, non lo aveva incalzato perché… Lei era accanto a lui. Jamila era in pessime condizioni, eppure era tremendamente irresistibile anche con i vestiti stracciati e il sangue che le colava dalle innumerevoli ferite. Non
che lui fosse messo meglio: aveva un bel bernoccolo in testa, uno sulla fronte, e varie escoriazioni superficiali, ma più che altro era sfinito per l’impresa sostenuta per non annegare. E per tornare a casa. L’aiutò a rialzarsi. «Jamila.»
Lei lo fissava con tanto d’occhi, aggrappata ai suoi bicipiti. Stava sognando, si diceva, oppure era già morta e quello era il paradiso. In entrambi i casi vederlo era una gioia immensa. Toccarlo e sentirlo era stupendo, come immergersi in una sorgente d’acqua calda. Vedersi riflessa in quegli occhi verdi che era sicura non avrebbe mai più rivisto le toglieva il respiro. Il calore di quel corpo a cui il suo si stava modellando con tanta semplicità era una languida carezza di ione che le penetrava dentro fino a risvegliarle l’anima. «Daren» sussurrò, quando lui le sfiorò la guancia con una delicatezza tale da farla gemere. La circondò con le braccia e s’impadronì delle sue labbra. A Jamila non importò del dolore che quel bacio le procurò, poiché significava che non stava sognando e che non era morta. Daren era lì. Era vivo. Il ragazzo a cui aveva donato il suo cuore era lì con lei. «Allora sei sopravvissuto, D» esordì la voce tagliente di Kenan. La sua risatina vibrante rimbombò nella caverna. «Perché non sono sorpreso?» «Fortuna, destino…» Daren spostò Jamila dietro di sé. «Scegli tu, K.» Si allontanò dalla sua donna, avanzando con sicurezza verso di lui. «Ma a quanto pare, lassù vogliono proprio che ti faccia fuori una volta per tutte.» Kenan gli scoppiò a ridere in faccia. «Eccone un altro!» Sospirò esasperato. «Quando capirai che non puoi competere con me? Non potevi nove anni fa e non puoi neanche adesso.» Daren scrutò il corpo di William a pochi i dall’amico. «Pagherai per tutto quello che hai fatto» sibilò grave.
«Mi offendi, amico mio» fece Kenan, beffardo ma sottile, «se pensi che sia stato io a uccidere Will. Ora che mi ci fai pensare, ho sparato solo a Dinari e ho strappato la gola a Mark Shelby; il peggio è opera di Malik e Din. Perfino la tua ragazza ha eliminato quel tizio vicino all’entrata.» Fece una smorfia di dispiacere. «Ah, sto già cominciando a perdere la mia vena omicida! Be’, conto di riacquistarla non appena avrò avuto ciò per cui sono qui.» «Stavolta non vincerai, Kenan.» Lui si fece serio di colpo, deglutendo. «E se fossi tu a non vincere?» Spostò lo sguardo su Jamila, guardandola intensamente. «Saremmo di nuovo io e te.» «Non accadrà, amico. Finirà adesso. Tra te e me» sentenziò Daren. Kenan sorrise arrogante. «Apriamo le danze, allora, D. Vediamo come va a finire.»
Non avrebbe voluto guardare, davvero. Jamila avrebbe voluto chiudere gli occhi, riaprirli e ritrovarsi da qualche altra parte; magari sulle rive calme del Lago Magadi, con indosso un vestitino bianco reso trasparente dall’acqua, tra le braccia del suo amore, a rimirare il sole risplendere nei suoi capelli. Invece li teneva spalancati. Calamite irrimediabilmente attratte dallo scontro tra i due ragazzi che si stavano confrontando in sembianze umane. Daren e Kenan erano due forze della natura inarrestabili, schegge di potenza fisica e pericolosità animale, giacché le mani artigliate erano pronte a metter fine alla vita del proprio avversario. Nella furia della battaglia, Daren faticava a tenere il o arrancando sotto l’attacco incessante di Kenan. Daren era forza, ma Kenan era precisione e tecnica: era concentrato e non sottovalutava il suo nemico, ma era palese che stesse aspettando il momento propizio per metterlo al tappeto. Con la base del palmo Kenan centrò Daren in pieno viso e, approfittando del suo sbilanciamento, si abbassò e piroettò con la gamba tesa. Daren crollò a terra sbattendo la testa, ma si rimise prontamente in piedi con un colpo di reni.
Invano, perché Kenan eseguì un impeccabile calcio rotante che lo sbalzò dalla parte opposta della caverna. Daren si schiantò contro la parete rocciosa, più in alto delle fiaccole, e precipitò al suolo tra calcinacci e polvere. «Sai, Daren» disse Kenan, asciugandosi il sudore sulla fronte con il braccio. «È un vero peccato che tu non ti regga in piedi, perché sarebbe stato uno scontro epico. Purtroppo» gli andò vicino proprio mentre lui tentava di rialzarsi, «è andata così.» Calò un cazzotto sulla sua tempia, tramortendolo del tutto. «Che ci vuoi fare» aggiunse tra sé con rammarico. Girò i tacchi verso lo Smeraldo, finalmente privo d’inutili difese di cui sbarazzarsi… o forse no. Jamila gli si parò davanti con uno scatto invisibile, i pugni serrati e l’espressione del guerriero che mai e poi mai si arrenderà. Quella di chi è disposto a dare la vita per difendere il suo ideale. Kenan roteò gli occhi. «Oddio» sbraitò. «Mi ero completamente dimenticato di non averti già uccisa.» «Hai fatto male.» Jamila assestò un pugno rovescio e uno frontale con l’altra mano, ma Kenan schivò il primo e parò il secondo, menando un fendente sulla sua nuca con il taglio della mano. Lei cercò di non perdere l’equilibrio e si girò per tornare all’attacco, ma lui l’abbrancò per la gola, la trascinò in avanti e le piazzò un calcio tra le scapole. La ragazza sbatté con violenza contro la piccola rupe dello Smeraldo, cadendo sul pavimento, priva di ogni forza. «Oh, Jamila» sospirò Kenan, andandole vicino con tutta la calma del mondo. «Perché?» Corrugò le sopracciglia nel vederla arrancare per tirarsi su. «Perché continui a lottare?» Lei scorse una corta lastra di metallo balenare nella polvere sotto di sé e affondò le mani, stringendo bene le dita attorno all’impugnatura per poi alzarsi e fronteggiare il suo avversario. Tenne il braccio nascosto dietro la schiena. «Perché credo di poterti fermare.»
Lui le andò sotto, erano così vicini che avvertiva il suo respiro sul volto. «Non puoi, te l’ho già detto.» Jamila lo penetrò con lo sguardo, intrappolandolo. «Perché, Kenan?» Kenan non rispose subito. «Perché tu hai scelto lui.» «No… Non si tratta di me, o di Daren.» Esitò. «Hai sempre voluto di più, fin da quando eravamo piccoli. Fin da allora l’ambizione covava in te. E adesso, guardati: ti domina completamente.» Il ragazzo fece spallucce. «Forse sono nato per far sì che la leggenda dello Smeraldo si avveri.» Jamila scorse un movimento alle sue spalle, ma fu abilissima nel non lasciar trapelare nulla. «Allora io sono nata per impedirlo» affermò. Kenan allungò un angolo delle labbra. «Uniti dal destino.» Si perse in lei. «Ma separati dall’amore.» Una lacrima le solcò la guancia, l’elsa le scivolava nella mano sudata. «Mi dispiace tanto, Kenan.» Lui annuì appena. «Anche a me.» Con riflessi più che pronti serrò le dita attorno al suo polso prima che lei gli conficcasse nel petto il pugnale che aveva raccolto. «Perché te l’ho detto più di una volta che non puoi fermarmi.» Jamila continuò a far forza per pugnalarlo, ma lui era troppo possente rispetto a lei. Non riusciva più neanche a ritirare il braccio: era totalmente inerme e indifesa. La canna di una pistola brillò al bagliore intenso del fuoco, alle spalle di Kenan, che abbozzò un sorrisetto. «Ti riprendi velocemente, a quanto vedo» commentò. Daren avanzò di un o, puntandogli l’arma alla testa. «Lasciala andare. Adesso.» «Mmh…» sospirò Kenan, lo sguardo rivolto al soffitto. «Alla luce della situazione in cui ci troviamo, pensi che sarò più veloce io a scartare di lato e ad allungare il braccio quel tanto che mi basta per sfiorare lo Smeraldo, o tu a
premere il grilletto senza rischiare di fare un buco in testa alla ragazza che ami?» Piegò il capo all’indietro con fare teatrale. «Huh, D?» Daren non guardò Jamila. «Scopriamolo.» Il pugnale cambiò padrone in un battito di ciglia. La lama affondò nell’incavo tra spalla e collo fino al manico. Uno sparò risuonò nella Rupe del Destino.
41
LO aveva fatto. Lo aveva ucciso.
Il suo migliore amico gli aveva sparato in pieno petto. In cuor suo aveva sempre sperato che non ne avesse il coraggio. Non come lui che, reso cieco dalla smania di potere, non aveva mai dubitato di non riuscire a ucciderlo. Alla fine, gli aveva piantato il coltello nella gola senza batter ciglio. Avrebbe voluto dirgli tante cose, mentre cadeva. Dirgli che gli dispiaceva. Che era un fottuto infame perché gli aveva rubato la ragazza, ma che lo perdonava. Che non c’era niente da fare, lui rimaneva più forte di lui sotto tutti i punti di vista. Che se non si fosse preso cura di Jamila come lei meritava… Ah, no, anche lui stava per morire. Ironia della sorte, l’avrebbero lasciata sola entrambi. Ma la cosa più importante che Kenan avrebbe voluto poter dire a Daren era… Ti voglio bene anch’io, fratello.
42
LO aveva fatto. Lo aveva ucciso.
Il suo migliore amico gli aveva piantato un coltello nel collo. In cuor suo aveva sempre saputo che non avrebbe mai avuto alcun problema. Nessuna esitazione. Non come lui che, ogni volta che incrociava il suo sguardo, perdeva la sua forza di volontà nel fare la cosa giusta. Alla fine, però, aveva premuto il grilletto guardandolo dritto negli occhi. Avrebbe voluto dirgli tante cose, mentre cadeva. Dirgli che gli dispiaceva. Che Jamila era sempre stata sua, e che avrebbe dovuto accettare la sconfitta da uomo, invece di diventare uno psicopatico megalomane. Che era riuscito a metterlo fuori gioco solo perché era sfinito e di non montarsi la testa come al solito. Che adesso avrebbe dovuto pensare lui a proteggere Jamila… Ah, no, anche lui stava per morire. Jamila sarebbe rimasta sola, e non aveva dubbi che si sarebbe tolta la vita nell’istante in cui lui avrebbe spirato. Ma la cosa più importante che Daren avrebbe voluto poter dire a Kenan era… Tornando indietro, non ti avrei sparato, fratello.
43
«DAREN!» Jamila lo sostenne, ma non poté evitare la caduta. Dio santissimo, quanto sangue…
Mosso da un ultimo briciolo di energia, Daren si estrasse la lama nel collo con un grido disumano. «Oddio.» Jamila scacciò la nausea, tappando lo squarcio con entrambe le mani, investita da un pianto scrosciante come il più violento dei temporali. «Amore mio, Daren, ti prego, resisti» rantolava tra un singhiozzo e l’altro. Lui schiuse le labbra violacee e un rivolo scuro serpeggiò fuori dalla sua bocca, seguìto da un risucchio. «T… ti…» «No, no, no, amore, non lasciarmi. Stai qui, stai qui.» «A… amo.» Jamila sgranò gli occhi nel vedere i suoi chiudersi pian piano. «No…» Gridò con tutto il fiato che aveva in gola, accasciandosi sul petto del suo compagno. «Daren! No! Ti prego, no! Torna me! Daren, no! No!» Jamila si tirò su d’improvviso, colta da un conato di vomito. Piantò le mani lorde di sangue sul suolo e prese a tossire, quasi stesse soffocando. Così com’era giunta, la nausea l’abbandonò, lasciando spazio a tremiti convulsi che la investirono come una raffica di vento. Il primo tentativo di trarre un profondo respiro fallì miseramente, ma il secondo andò meglio. Sola nella caverna, circondata da cadaveri, Jamila osservò quello di Daren. Il sangue sgorgava ancora dalla ferita, come se avesse voluto illuderla che poteva ancora salvarlo tamponando. Lei chiuse gli occhi… E due lacrime caddero dalle sue ciglia, bagnando la terra della Rupe del Destino.
Lo Smeraldo prese vita e un immenso e accecante globo luminoso si sprigionò, esplodendo poi senza emettere alcun rumore. D’istinto, Jamila si gettò su Daren per proteggerlo e il suo cuore perse un colpo quando la luce si affievolì improvvisamente e un altro battito giunse melodioso alle sue orecchie.
44
«ECCO dov’eri» esordì Jamila, entrando nella caverna della Rupe del Destino. Affiancò Daren, avvinghiandosi al suo braccio e posandogli il mento sulla spalla. «Che fai qui?»
Daren seguitò a studiare la pietra esagonale di fronte a lui. «Perché non ha riportato in vita anche lui, secondo te? Anche Kenan era un Figlio del Destino.» «Ma era anche colui che voleva impadronirsi del suo potere per scopi malvagi.» Jamila soffiò dalle narici, guardando lo Smeraldo. «Ha salvato i Figli che lo meritavano. La leggenda si è avverata.» Daren si voltò verso di lei e la trasse a sé. «Grazie a te. Ti dobbiamo la vita.» La ragazza lo fissò intensamente. «Ti avrei raggiunto, se non fossi resuscitato» disse con un filo di voce. «Lo so.» «Mi avresti odiato, per questo?» Lui sbuffò pesantemente. «Non chiedermelo, perché non ti saprei rispondere.» La baciò con ione, premendola contro di sé. «Dobbiamo andare» disse lei con un sorriso appagato. «Già. Ci stanno aspettando, giusto?» Jamila lo prese per mano, incamminandosi. «Sì, sono tutti pronti.» «Manchiamo solo noi, allora.» «E senza di noi non si può iniziare.»
Nella meravigliosa cornice delle sorgenti del Seneto, Jamila, vestita di bianco e con boccioli candidi tra i capelli sciolti, avanzò sottobraccio al padre verso lo specchio d’acqua dove Daren l’attendeva con trepidazione. Erano circondati dal branco al completo, gli adulti da una parte e i giovani dall’altra; l’eleganza e la varietà di colori deflagravano come un arcobaleno di felicità incontenibile per quell’evento tanto atteso. Rashid si fermò e baciò la figlia sulla fronte, poi la consegnò a Daren e si posizionò dinanzi ai due promessi sposi. Il matrimonio si svolse tra le lacrime delle donne e i sorrisi compiaciuti degli uomini. Il capobranco parlò con il cuore e a nome di tutti, poiché ognuno di loro doveva la vita al coraggio dei due ragazzi. «Scambiatevi pure le vostre promesse, figlioli» disse a un certo punto, lanciando un’occhiata d’intesa a Zena, emozionata come non mai. Daren e Jamila ruotarono l’uno di fronte all’altra. Lui cacciò fuori l’aria, nervoso e con un sorriso radioso sul viso. «Jamila» esordì, «tu mi hai sempre odiato, da quel che ricordo. Non c’era una sola cosa di me che ti andasse a genio.» Sorrise. «Avevi sempre da ridire su tutto e litigavamo spesso, prendendoci a male parole e gridandoci addosso come due idioti. Ma…» esitò, «non c’è stato un solo momento in cui ti abbia amata di meno. Da sempre sei stata la mia unica ragione di vita, e ti prometto che non smetterai mai di esserlo.» Jamila si inumidì le labbra, prendendo un bel respiro prima di parlare. «Daren» disse, «sì, è vero, ti detestavo particolarmente e più volte ho cercato di strangolarti nel sonno, lo ammetto.» Tutti risero. «Ma… poi ti guardavo negli occhi, quei tuoi fantastici occhi verdi, e… vedevo il mio futuro. Con te. Solo con te. È come se sin da allora io sapessi che sei tu la parte che mi completa. Ti ho sempre amato, e non lo sapevo.» Sorrise. «Ora lo so. Ti amo, e ti prometto che non smetterò mai di farlo.» Rashid si schiarì la voce, riavendo l’attenzione dei due sposi. Unì le loro mani e dichiarò: «Per il tuo coraggio, Daren, per aver protetto il branco e dimostrato di essere il migliore di tutti noi, ti nomino nuovo capobranco. Possano il tuo valore e la tua forza guidarci da adesso in poi». Un coro di applausi riempì il silenzio che seguì, poi Rashid andò avanti: «Marito e moglie. Possa quest’unione far tornare a splendere il sole sulla Tanzania».
Daren e Jamila suggellarono la cerimonia con un bacio, venendo poi sommersi da uno scroscio di applausi, grida di gioia e un assalto di massa da parte dei loro amici, che fingendo di volerli abbracciare li gettarono nella sorgente. Mossa azzardata perché, non appena uscirono dall’acqua, Daren e Jamila si vendicarono su tutto il branco che alla fine si ritrovò nel laghetto insieme agli sposi. D’altronde, era un giorno di festa, no?
EPILOGO
«CHE fai qui?»
Daren guardò Jamila sedersi accanto a lui sullo scoglio della riva del Lago Eyasi. Era quasi l’alba, e il chiarore arancio del cielo faceva sembrare i suoi capelli del colore della terra rossa. «Ricordi quando venivamo qui, ogni mattina?» Le labbra di lei si distesero. «Certo, come dimenticarlo.» «Lui vinceva sempre.» Daren fissò l’orizzonte senza vederlo. «Non riuscivo mai a batterlo.» «Perché era più veloce» rispose Jamila con un sorriso. «E perché non volevo veramente batterlo. Volevo che lui riconoscesse che potevo farlo, che ne ero in grado, che non era imbattibile come credeva.» Lei gli cinse le spalle con un braccio. «Arrogante com’era, non l’avrebbe mai ammesso, anche se l’avesse creduto.» Daren fece una mezza risata. «Sì, infatti.» Jamila spostò lo sguardo sul cielo. «Ecco, sorge il sole.» Lui si rizzò e la tirò su di peso, stringendola a sé mentre i raggi li accarezzavano dolcemente. Le prese la mano e se la premette sul petto. «La tua mano sul mio cuore.» «Sempre» bisbigliò lei. Lo baciò, poi tirò fuori qualcosa dalla tasca posteriore dei jeans. «Ho una cosa per te.» Daren prese quello che gli porse, trattenendo il respiro. Era una foto. Di Kenan. «Ma… è…» Guizzò con gli occhi su di lei. Jamila sorrise. «Gliel’ho scattata quel giorno alle sorgenti, quando Amos aveva
portato la polaroid e Will aveva insistito per farci tutte quelle foto.» «Sì… mi ricordo.» Daren osservò molto attentamente l’espressione cupa, quasi irritata, di Kenan. Già, all’epoca era quella, la faccia che mostrava ogni giorno. Accennò una risatina. «Era proprio fotogenico.» «E io sono un’ottima fotografa» si pavoneggiò Jamila. Scrutò Daren mentre continuava a guardare la foto; la sua mente era sicuramente lontana nel tempo. «Torniamo a casa» gli disse, carezzandogli la guancia. Lui sollevò lo sguardo su di lei. «Sì.» Intrecciò le dita alle sue e la baciò nuovamente. Per l’ultima volta si voltò verso il lago e lanciò la foto, che turbinò come una foglia e si posò sulla superficie cristallina, affondando adagio. «Addio, fratello.»
RINGRAZIAMENTI
QUESTO è il primo romanzo che pubblico senza il o di una casa editrice, tuttavia ci sono alcune persone senza le quali non riuscirei a scrivere nemmeno una riga, indipendentemente da quanti libri io legga!
Il primo grazie va alla mia mamma, che da sempre mi sostiene e legge in anteprima le mie opere, piangendo, correggendomi (anche se il più delle volte ignoro le sue opinioni, oppure le interpreto diversamente per far sì che non si allontanino troppo dalle mie!) e minacciando di non leggere più nulla di ciò che scrivo perché racconto storie sempre tragiche. Il secondo va alle Angels, Annapia e Sabina, i miei angeli custodi che puntualmente ricevono i capitoli dei romanzi in corso di scrittura e li commentano come un vero e proprio gruppo di lettura. Senza il loro sostegno, non sarei niente. L’ultimo, ma non meno importante, va a coloro che mi hanno ispirata per i tre personaggi principali. È solo grazie alle emozioni che mi trasmettono che sono riuscita a raccontare questa storia, e spero di avervi donato ciò che loro hanno regalato a me mentre li immaginavo sotto il sole della Tanzania…
L’AUTRICE
Nata il 24 gennaio 1991, Chiara Cilli vive a Pescara, in Abruzzo. I generi di cui scrive spaziano dal fantasy all’urban, dal paranormal all’erotico. La sua saga fantasy La Regina degli Inferi esordisce a gennaio 2012 con il primo libro, Il risveglio del Fuoco, edito da Edizioni Tabula Fati. Da questo libro è tratto il racconto erotico Assaporare il Fuoco che pubblica per Lite Editions, con cui presto prenderà il via la serie Matt Staton’s Agency. La Promessa del Leone è il suo primo romanzo e-book.
INDICE
PREFAZIONE
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
EPILOGO
RINGRAZIAMENTI
L’AUTRICE
INDICE