Antonio Bini
Diario di uno sbarbatello
Battitore libero
Titolo originale: "Diario di uno sbarbatello" © 2015 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu) I edizione cartacea maggio 2015 ISBN edizione cartacea: 978-88-6396-643-5 I edizione e-book giugno 2015 ISBN edizione e-book: 978-88-6396-691-6 www.giovaneholden.it
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ISBN: 9788863966916
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Indice
Definizione di sbarbatello I Borgo Giannotti II La bici rossa III La zia Maria IV Il cazzotto V La Capinera VI Poker in corsia VII Rombo VIII L’incrocio IX Il bancario X All’Alpe XI Uscita da scuola XII La zingarella XIII Trasgressione XIV La spinta XV La Chioccia XVI Vito XVII Austerity
XVIII Gigi e i provervi XIX Prime gare XX Il gregario XXI Compagna di fatiche XXII L’ultima salita XXIII Alba in Pania XXIV Giovanni… e Giovanna XXV Via S. Andrea XXVI Ragazza facile XXVII Apparizione XXVIII Arcangelo e l’ingordigia XXIX Mille lire XXX Le mani in tasca XXXI Lucca per l’Africa XXXII Esercizi XXXIII Vocazione XXXIV Mugello XXXV Il voto XXXVI Obiezione XXXVII Cavaliere di compagnia XXXVIII L’annegato
XXXIX Contromano XL Centauri XLI Lucca di corsa XLII Cartolina rosa XLIII Luci nella notte XLIV Profondo nord XLV La Messa è finita XLVI La sentinella XLVII Carla XLVIII Nonnismo XLIX La fine e l’inizio L Gli spari LI La Ronda LII Ingenuità LIII Firenze LIV L’abbraccio LV Ritorno al sud LVI Scricciolo LVII Le note di Ivano LVIII La Chitarra
L'Autore
A te che guardi il mondo come spazio di conquista e lo vivi da pellegrino. A te che rifuggi il mondo dei grandi mentre cerchi di diventare grande. A te che sogni fiori nei cannoni bocche da baciare girotondi di amici e sei costretto a lottare per non soccombere. A te che con ingenuità vuoi salvare dalla corruzione la tua innocenza. A don Lorenzo che ha preso per mano la nostra gioventù
e l’ha amata più del suo stesso Creatore.
Io non sono ciò che la vita mi ha concesso, io sono tutto quello che ho dato alla vita che è in me.
Definizione di sbarbatello
Lo sbarbatello è un giovane acerbo che ha intrapreso un viaggio a mani nude, ha negli occhi la meraviglia ma è sicuro di sé; forte della sua baldanza, crede di poter conquistare il mondo senza armi. Secondo la buffa classificazione di Enzo, padre del protagonista, il percorso di vita ha quattro stadi; a ritroso dall’uomo al bambino si ha: omo, bislomo, cazzabubbolo, coglioncello. Antonio è ancora bislomo, ma per quanto sviluppata, anche la società intorno a lui non è molto diversa, e come lui, molti altri si smarriscono nel loro viaggio interiore; quegli stessi altri che lui non smetterà mai di cercare.
I
Borgo Giannotti
I boschi nel cuore, i sentieri nelle scarpe, negli occhi la città; Antonio è un ragazzo timido che ha voglia di nuove esperienze, è sceso dalle montagne per cercare fortuna e ha trovato un piccolo impiego al borgo Giannotti: la porta di accesso per Lucca. Suo padre, animato da entusiasmo, con l’aiuto di amici ha trovato quel piccolo laboratorio di riparazioni elettrodomestici e TV; il lavoro non è granché, anche la paga è poca cosa, ma intanto è un inizio. Da principio gli è parsa quasi una beffa; avrebbe voluto iscriversi a un corso per corrispondenza perché i circuiti elettrici su cui aveva studiato un po’ a scuola lo intrigavano e lo apionavano, ma in casa lo avevano dissuaso spiegando che il radiotecnico era un mestiere ormai in disuso, e ora si ritrova in mezzo a radio e TV con la voglia di fare ma senza capirci niente e non è molto contento; è solo un ragazzo di bottega e non si sente utile, ma non si perde d’animo: è iniziata una nuova avventura. Sono gli anni del boom economico, nuove esigenze prendono posto nella vita delle famiglie e sono tanti i ragazzi che non proseguono gli studi per entrare nelle fabbriche, nelle officine, nei cantieri. In quel mese di settembre scopre che Borgo Giannotti è un luogo quasi magico; un’intera strada, con le sue piccole traverse, le sue corti, la piazzetta centrale, disseminate di botteghe che brulicano di gente operosa, creativa e vivace: il retrobottega della città. I suoi precedenti incontri con quel mondo erano stati un po’ fugaci e, per quanto la città apparisse fascinosa, con le sue mura, i suoi palazzi, le sue torri e le sue chiese, non immaginava che potesse essere così divertente e intrigante; altro che mietere il grano o vangare nella vigna! Ora è immerso in un pullulare di arti e mestieri: falegnami, bottai, fabbri, tornitori, marmisti, cestai, vinai, salumieri, ciabattini, vetrai, ceramisti, decoratori… miscuglio di suoni, voci e traffici; non più la campagna col ticchettio della battitura delle falci, né gli incitamenti agli animali, né il rumore del trattore.
Borgo Giannotti riunisce in sé tutte le attività di una città intera; come in un grande formicaio, ciascuno è impegnato a produrre, costruire, modellare, creare, vendere, consegnare. Nessuno ozia, tutti sono operosi e allegri; già, allegri come e ancor più che i contadini nei campi. In quelle settimane visita tutto il borgo; eggiando in lungo e in largo nelle ore di intervallo del pranzo, si ferma a osservare le vetrine sbirciando fra gli scaffali, quasi a cercare un altro lavoro, e ogni cosa lo affascina. Incontrando bottegai e artigiani si presenta a loro indicando dove lavora, come a dire: ci sono anch’io! Cerca di conoscere i ragazzi e le ragazze che lavorano nelle varie botteghe, nella speranza di allacciare nuove amicizie e di condividere i suoi sogni; ma a volte capita di vederlo eggiare con le mani in tasca, come se ancora non avesse ben capito qual è la sua strada. I giorni volano via insieme agli ultimi scampoli d’estate, sta per iniziare la scuola, e il suo pensiero corre talvolta fra quei banchi, dove ha lasciato i compagni di studio, quelli che ritorneranno per finire le medie e quelli che andranno ai licei. Questi ultimi in particolare, eranno tutti di lì, davanti alla bottega in cui lavora; così ogni mattina, appena arrivato sbircia attraverso la porta a vetri, e fra le automobili che lentamente transitano, aspetta di veder comparire il pullman, nella speranza di riuscire a salutare alcuni di quei ragazzi. Non è affatto pentito di aver lasciato i banchi di scuola per andare a lavorare, anzi è più che mai determinato; eppure si sente come un soldato in guerra senza fucile e lontano dal fronte, infatti la sua opera non è di grande aiuto, perché è solo un ragazzo di bottega. Sostituisce qualche resistenza bruciata ai ferri da stiro, riceve qualche telefonata per richiesta di riparazioni, (magari dimenticando di annotarne l’indirizzo) talvolta accompagna il titolare a recuperare una lavatrice, o a installare un’antenna; mansioni ancora un po’ marginali, finché un giorno di venerdì suo padre a a trovarlo nell’intervallo del pranzo. Antonio come al solito sta mangiando in bottega, il titolare non è ancora rientrato, così Enzo può parlare liberamente al ragazzo. “Sono stato alla vetreria a prendere il vetro per la finestra di casa, mi hanno chiesto se conoscevo qualche ragazzo che avesse voglia di lavorare lì da loro, ti può interessare? La paga è migliore di questa, certo il lavoro è più pesante, ma saresti regolarmente assunto e assicurato. Che ne pensi?” Antonio, che ha accolto suo padre con un semplice gesto della mano, si alza dal banco col boccone in bocca e spalanca il sorriso, è l’occasione che aspettava, la possibilità di mettersi in gioco più attivamente, e ingoiando senza masticare
chiede fremente: “Quando potrei cominciare?” Suo padre rimane sorpreso, e colto anche lui dal fremito si gira subito verso la porta e uscendo frettolosamente come per acchiappare al volo un’occasione dice: “Vado a chiederlo!”; poco dopo torna annunciando sorridente: “Puoi cominciare lunedì!” “Bene!” esclama Antonio. “Mi spiace un po’ per l’elettricista, ma lunedì andrò in vetreria! Appena arriva glielo dico subito, anzi se aspetti un po’ dovrebbe arrivare, così glielo diciamo insieme!” Rientrando poco dopo, l’elettricista trova la sgradita sorpresa; in verità fino ad allora Antonio non era stato di grande aiuto, ma lo aveva preso con sé, perché un ragazzo in bottega faceva comunque comodo, perciò ora si dispiace un po’ di perderlo, tuttavia di fronte a quella determinazione e a una migliore prospettiva di lavoro per il giovane, non può fare altro che rivolgergli i suoi auguri. Qualche raccomandazione per il nuovo impegno di lavoro, poi l’elettricista lo congeda: “Se vuoi puoi anche andare subito, così ti presenti nella nuova bottega”. Antonio annuisce e con un pizzico di dispiacere raccoglie le sue cose, intanto l’elettricista salda i conti con suo padre, poi rivolto al ragazzo lo saluta con una calorosa stretta di mano e gli rinnova gli auguri, Antonio sorride ringraziando dell’occasione ricevuta per quel suo primo impiego, e per quello che di buono ha appreso in quelle settimane. Uscendo con suo padre saluta di nuovo con la mano, e insieme si dirigono con o deciso verso la vetreria. Camminano fianco a fianco, ma fra i due non corrono parole, soltanto sguardi e sorrisi. “Di nuovo qui? Ha dimenticato qualcosa?” chiede l’operaio anziano vedendoli entrare. “No, è tutto a posto!” risponde Enzo. “Ho trovato il ragazzo che cercate!” E indica Antonio; allora quello esce da dietro il banco e sorridendo domanda: “è suo figlio?” “Sì, mi chiamo Antonio,” risponde allungando la mano. “Piacere, io sono Arcangelo, noi ci siamo già visti, lavori qui al Giannotti.”
“Sì e se mi volete vorrei lavorare qui con voi!” risponde prontamente. Arcangelo sorride di nuovo e li invita a seguirlo. “Venite, vi accompagno dai titolari.” Antonio è felice, quel tipo è simpatico, e anche l’ambiente è piacevole; la vetreria ha un ingresso molto ampio e completamente aperto che si affaccia sul marciapiede, come una grande finestra sul borgo. Nel lungo corridoio, addossate alla pareti, casse di vetro a perdita d’occhio, poi, stanze che si aprono su grandi tavoli da lavoro, circondati a loro volta da lastre di vetro di ogni colore e dimensione. È lì che Antonio incontra i titolari. “Questo è Antonio,” dice Arcangelo presentando il ragazzo, “vuol venire a lavorare con noi, lo prendiamo?” “Eh, dipende,” rispondono i due in coro. “Se hai voglia di lavorare, qui c’è posto!” dice uno sorridendo. “Se avete bisogno, io sono pronto!” chiarisce subito Antonio. “Bene, così ci piaci,” conclude l’altro, poi si presentano. “Io sono Ivano.” “Io sono Vito.” “Allora, ti va bene iniziare subito lunedì?” domanda Ivano. “Qui, col vetro c’è tutto da imparare, ma se hai voglia ti troverai bene,” ribadisce Vito. Sempre più convinto, Antonio risponde: “Ci vediamo lunedì alle otto! Sono sicuro che mi troverò bene!”
II
La bici rossa
Il vetro non era per lui un elemento del tutto nuovo, aveva vissuto tra fiaschi, damigiane, bottiglie per il latte… ma maneggiarlo, ritagliarlo, molarlo, era per lui un’esperienza inedita e le novità lo motivavano, così si applicò con profitto. Nonostante la regolare assunzione e la relativa busta paga, anche con lui, i titolari della vetreria adottarono il loro metodo consueto: una porzione di paga ogni fine settimana. Come ebbe ricevuto quei soldi, Antonio li consegnò subito con fierezza al padre; Enzo fu ancora una volta sorpreso, non se li aspettava se non per la fine del mese, perciò li accolse con entusiasmo, quanto il gesto del figlio che glieli affidava. Antonio, ormai era un uomo che lavorava fra gli uomini, anche se in realtà, a motivo della sua giovane età, la voglia di svago non era affatto diminuita in lui; così Enzo volle ripagare presto quella scelta coraggiosa e convinta di suo figlio, di voler andare a lavorare. Pochi giorni dopo, ando a prendere il figlio all’uscita dal lavoro, lo invitò a seguirlo con fare deciso: “Vieni con me!” Incuriosito il ragazzo lo seguì, cercando di immaginare quale sorpresa lo attendeva, perché dallo sguardo sornione di suo padre aveva intuito che c’era una novità. Camminando lungo il marciapiede di Borgo Giannotti, Antonio si voltava continuamente a destra e a sinistra, gettando sguardi furtivi qua e là nelle botteghe e nelle vetrine. ando davanti all’oreficeria ricordò una brutta avventura dell’anno precedente alla gita scolastica a Montenero; …correndo, giocando e saltando coi compagni di scuola, non si era accorto che il suo orologio da polso si era rotto, il vetro era saltato via e con esso tutto il movimento interno era schizzato chissà dove. Insieme ai suoi compagni lo aveva cercato a lungo ma inutilmente. Tornando a casa senza orologio era stato duramente rimbrottato, e da allora non aveva più avuto l’orologio da polso. Fissando a lungo la vetrina pensò fra sé: non sarà mica che vuole comprarmi un
nuovo orologio?! Ma suo padre, voltandosi lo incitò: “Andiamo?” Con suo grande stupore, si fermarono poco più avanti dal ciclista: la più bella bottega del Borgo Giannotti! Almeno per lui. Amava tutti gli sport, ma il ciclismo lo affascinava più di ogni altro; la fatica, il sudore, le tattiche, le volate, le fughe… tutto lo entusiasmava, e la bici, quel mezzo così meraviglioso nella sua semplicità, che gli appariva come un puledro scalpitante, stava in cima alla lista dei suoi desideri, quello più di tutti era lo sport che avrebbe voluto praticare. Suo padre lo guardò e gli disse: “Che ne pensi? La vorresti una bicicletta?” A lui parve di sognare, era così contento che aveva perso la parola. Ci pensò il vecchio negoziante a togliere l’imbarazzo, entrò in bottega e subito ne uscì spingendo una bicicletta da uomo sportiva, rossa fiammante, col cambio e il manubrio stretto, una meraviglia! Lui non lo sentì nemmeno il negoziante che elencava pregi e difetti… “è usata, ma funziona benissimo, ha qualche graffio, ma tutto il resto è perfetto! Ha il cambio a cinque rapporti Campagnolo, la migliore marca, freni Campagnolo con lo sblocco, insomma è proprio un bell’oggetto, che ne dici?” Antonio non capì nulla di quanto il negoziante aveva detto, era rimasto lì impalato a fissarla incantato. Erano ati pochi anni, da quelle prime pedalate sulla storica bici del vecchio pievano, nella penombra della grande soffitta, e lui le ricordava con piacere, ma questa era tutta un’altra cosa, subito se ne innamorò come fosse una bella ragazza. Aspettò impaziente, come uno spasimante in attesa di un ballo; durante la descrizione infatti, notò che il negoziante la teneva con leggerezza, come in una danza, una mano sul manubrio come a sostenerle il braccio, l’altra sulla sella, come appoggiata sul fondoschiena… Quando finalmente fu invitato ad avvicinarsi, la toccò come fosse una donna… ne impugnò il manubrio ma con dolcezza, provò a stringerne i freni per sentirne la reazione, smanettò sulla leva del cambio per osservare lo spostamento della catena, tastò la sella per verificarne la forma e la morbidezza… fece girare i pedali avanti e indietro e ascoltò il ticchettio della ruota libera, infine scrutandola da cima a fondo la annusò; tutto era perfetto, perfino il profumo; era stata tenuta con cura. Guardò il negoziante con aria soddisfatta e distorcendo le labbra in un sorriso mal trattenuto, confermò il suo gradimento. Mentre si accingeva a fare manovra con prudenza fra tutte le altre bici, per evitare di sciuparla, vide che suo
padre e il negoziante confabulavano per il prezzo e li lasciò fare; salutò entrambi, e tenendo la bici al fianco come una fidanzata si diresse verso la vetreria dove avevano lasciato l’auto. Poco dopo il padre lo raggiunse, e poiché la vetreria era ancora aperta, disse al ragazzo: “Vuoi lasciarla qui? Così domani la provi, ci vai in giro per Lucca, poi nei prossimi giorni se vuoi la portiamo a casa”. “Giusto!” rispose Antonio. “Per ora la terrò qui se a loro non dispiace.” Andò subito a chiedere e avuto l’assenso la parcheggiò in fondo al corridoio; prima di uscire la guardò ancora una volta, con lei il mondo non avrebbe avuto più confini.
III
La zia Maria
Antonio trascorre più tempo a Lucca che a casa, sul colle di Monsagrati, le otto ore di lavoro giornaliere infatti sono spezzate da una lunga pausa pranzo; in quei momenti gode di estrema libertà, tutti vanno a mangiare a casa, lui invece, come in precedenza mangia in bottega da solo. Così, con la solita indomita voglia di esplorare, ingoia in fretta e furia il contenuto del pentolino che la mamma gli ha preparato con grande cura, poi salta in sella alla sua bici rossa fiammante e se ne va in giro per la città e i dintorni. È inesperto, e talvolta si perde nel labirinto di viuzze del centro, oppure si confonde con la sequenza dei semafori dei grandi incroci di periferia, o magari si allontana troppo e per tornare in tempo al lavoro corre veloce rientrando sudato. Un giorno suo padre non trovandolo durante l’intervallo attende il suo rientro, e vedendolo arrivare sfrecciando si compiace con lui per la padronanza della guida in bici, ma trovandolo accaldato e un po’ sudato lo rimprovera: “Ma dove sei stato?” E lui divagando risponde: “In giro”. Enzo non è soddisfatto della risposta, e per richiamarlo all’ordine replica: “Vedi di non esagerare! Piuttosto, visto che hai la bici e vai veloce, sei mai stato a trovare la zia Maria? Te lo ricordi dove abita? È facile arrivarci”. E in breve glielo spiega. Pare un semplice invito, ma nei giorni a seguire viene ripetuto, col preciso intento di garantirgli quel contatto in città. Maria può costituire un punto d’appoggio, la sua casa per quanto umile, è un ambiente che offre rifugio, ristoro, ospitalità e sicurezza. È la sorella minore di suo padre, abita nel centro della città e ha due figlie; la piccola è ancora da svezzare, la più grande invece, della stessa età di lui, è spigliata, ben adattata all’ambiente di città, e ha con
Antonio una buona intesa. Papà e mamma si preoccupano per lui, perché dopotutto è ancora un ragazzo e ha bisogno di stabilità; la zia Maria pare la persona ideale per lui, è infatti una donna attenta e vigile, ma anche allegra e simpatica e ad Antonio piace. L’infanzia per lei è stata dura, la fanciullezza ancora di più; la guerra, l’occupazione, il padre al fronte, lei unica figlia con tre fratelli maschi, di cui uno più piccolo; poi la ricostruzione, il duro lavoro nei campi, infine la perdita di un fratello per malattia. Tutto questo ha temprato il suo carattere già di per sé risoluto, ma non ha scalfito la sua ironia, che ancora emerge potente dalle sue battute, dalle grasse risate e dalle espressioni colorite, che si mostrano come un aspetto ereditario. Finalmente Antonio accoglie l’invito di suo padre e le fa visita, lei lo riceve con gioia e lo esorta caldamente a tornare e anche a fermarsi a pranzo, così le visite si susseguono con soddisfazione di tutti. La zia Maria diventa ben presto la persona con cui Antonio parla di più; certo non si confida troppo con lei, perché non è la mamma, ma del resto non si confida tanto neppure con la mamma. Con lei però Antonio si sente più libero e riesce a parlare di tutto, a sollevare dubbi, a lanciare contestazioni, a esporre il proprio punto di vista. Ma è soprattutto lei a domandare, a volere il suo parere; Antonio è il figlio maschio che Maria non ha mai avuto, e anche quello di cui ha bisogno per tenere a bada la figlia maggiore, dal carattere ribelle e indipendente. Maria si fida di lui e non può fare diversamente; è un ragazzo calmo e pacifico con la testa sulle spalle, almeno è così che si presenta, e forse in sua compagnia la figlia si darà una calmata. In realtà Antonio ha molte idee, ha la testa che gli fuma; oltre a scoprire nuovi mondi, sta scoprendo lati nuovi di se stesso, perciò si confronta con tutti a viso aperto, mettendo alla prova la validità dei suoi ragionamenti; anche la zia Maria ha le sue idee, e sua cugina ne ha altre spesso all’opposto, ma lui non si lascia intimorire, dice la sua senza pudore. Maria spesso controbatte, ma apprezza la sua franchezza, lo etichetta come rivoluzionario, ma poi conclude sempre con una grassa risata, mentre mesta le pietanze o serve a tavola. Anche quell’alloggio, con la sua essenzialità contribuisce ad alimentare il confronto col suo vecchio mondo di bambino. Maria abita in un vecchio palazzo che si affaccia su una piazza con un grande portone; per entrare in casa deve salire quattro alti scaloni fino a una piccola porta nera all’ultimo piano, da lì una quinta rampa più angusta conduce nel sottotetto: casa sua. Lo spazio è ampio, ma il
soffitto è basso con scalini ovunque da salire o scendere, un alloggio povero, ma accogliente e familiare. Sembra un ritrovo di carbonari, di cospiratori, un rifugio nel cuore della città, ricca, opulenta e ordinata, un porto franco in cui ci si può esprimere senza censure, e Antonio si sente a suo agio. La luce naturale entra dagli abbaini, le due sole piccole finestre, si affacciano dal sotto-gronda su una viuzza stretta e buia, ma pur seminascoste aprono la vista su una grande piazza, quella della “pietra piegata”. Ad Antonio piace quella città; un groviglio di strade, piazze, vicoli e corti incastonati nelle pietre; mondi da cui sbucano, appaiono e scompaiono come per magia, uomini, donne, vecchi, bambini. Ovunque c’è vita, ovunque c’è luce fra i mille pertugi; poi, non si sa come, fra muri, chiese e palazzi, si innalzano inaspettati alberi di ogni specie, giardini che offrono scorci di verde tanto gradevoli, da ricordare la campagna coi suoi colori e i suoi profumi. Lucca è a dimensione familiare e lui se ne sente parte, da sempre è anche città di commerci, popolata di negozi, botteghe, e laboratori artigiani, con migliaia di persone che vivono e lavorano fianco a fianco, in spazi ristretti, talvolta angusti; un ambiente che ha regole non dissimili da quelle dei borghi di campagna, solo un po’ più complesse e soggette a ritmi più vivaci. Tante opportunità e tante occasioni, di affari, di acquisti, di incontri, di svago; ma anche tentazioni e opportunità di trasgressione. Per Antonio è un ambiente intrigante, ancora pressoché inesplorato, dove modi e comportamenti degli abitanti rappresentano per lui una continua sorpresa. Un giorno, ad Antonio viene offerta la possibilità di cenare e dormire dalla zia, così, nel tardo pomeriggio va a prendere sua cugina all’uscita dal negozio dove lavora; con sua sorpresa vi trova anche una ragazza ad attenderla, mai vista prima, è una cugina di sua cugina. Dai lunghi capelli, alta e bionda, dall’aspetto solare ed effervescente; genera simpatia e Antonio ne resta subito impressionato, è colpito dal suo portamento e dalla sua schiettezza, niente a che vedere con certe ragazze di città dai modi raffinati; insomma, una ragazza alla sua portata. Dopo essersi presentato, escono tutti e tre insieme e si infilano per vicoli; occorre fare acquisti per casa, a cena ci sarà anche la nuova conoscenza. Dopo aver fatto acquisti, chiacchierando allegramente, Antonio non perde tempo, si fa conoscere meglio cercando di rendersi simpatico; eggiano senza curarsi troppo dell’orario, e rientrati in casa lo zio li brontola: “è tardi! Dove siete stati? Ci voleva così tanto?” La figlia risponde per le rime, ma Maria ride guardando Antonio, ha capito che
aveva bisogno di fare conoscenza. La cena comunque è quasi pronta, perciò i ragazzi non hanno più molto tempo per conversare, se non davanti agli zii. Dopo cena, per recuperare il tempo perso, i tre si recano nella camera della cugina a chiacchierare; Antonio è un po’ impacciato davanti alla naturale sfrontatezza delle due ragazze, prova a raccontare ancora qualcosa di sé, poi le ragazze conquistano la scena; dapprima coinvolgendo anche lui, poi con discorsi da donne finiscono per escluderlo. Antonio resta per un po’ in disparte, incapace di mettersi in evidenza, finché le ragazze, con fare furtivo tirano fuori un paio di sigarette. “Ne vuoi una anche tu?” gli sussurrano. “No grazie!” risponde lui sottovoce. La cugina si affaccia alla porta sbirciando, per assicurarsi che sua madre non si trovi nei paraggi; avendola udita parlare ad alta voce con suo padre in cucina, si tranquillizza, e tornando in camera sorride dicendo piano: “Via libera!” Mentre le due cugine si mettono a fumare, Antonio si sente a disagio; per quanto, la fumata di alcune sigarette, in una gita scolastica di qualche anno prima, gli fosse apparsa gradevole, non vuole partecipare a quella trasgressione, né vuole sentirsi complice. Il fumo infatti, sta provocando problemi di salute a suo padre, e lui ne ha preso sul serio l’ammonimento; tuttavia non vuole tradire le ragazze e il loro segreto, perciò le saluta dicendo: “Io vado in cucina dagli zii”. Le ragazze approvano soddisfatte, immaginando che Antonio terrà occupati Maria e Paolo per un po’. Infatti così è, Maria, con sorpresa domanda ad Antonio: “Io Caio!, come mai sei qui? Non ci stai bene con le ragazze?” “Sì!” risponde Antonio. “Ma ora hanno cominciato a fare discorsi da femmine e io mi annoiavo un po’.” “Allora mettiti qui e racconta qualcosa,” dice Paolo. Antonio lo accontenta, raccontando del suo lavoro, della scoperta della città, della sua nuova bicicletta, ma la zia Maria scalpita, vuole sapere qualcosa di più. “Dimmi la verità, ti piace quella ragazza?”
Antonio sorride sornione senza rispondere. “Ah, ah, lo sapevo!” dice Maria e anche Paolo sorride. “È una bella ragazza, è anche brava e simpatica, potrebbe essere proprio adatta a te!” insiste Maria sorridendo mentre Paolo annuisce, poi visto che lui sta diventando rosso, cambiano discorso e tornano a parlare del lavoro, e di casa sua. A un certo punto, la zia va in camera sua a chiudere la finestra, affacciandosi, nota due piccole luci alla finestra accanto, quella della figlia. Lì per lì pensa siano lucciole, poi si ricorda che non è possibile e capisce; entra repentinamente nella camera e sorprende le due ragazze con la sigaretta in bocca. “Sciagurate!” grida alle due. “Volete rovinarvi la vita?” E la figlia, senza peli sulla lingua replica: “e allora? Fumi anche te! Perché noi non possiamo?” “Perché siete troppo giovani e fa male!” rispose Maria irritata. “Andiamo, venite in cucina!” Arrivando in cucina, Maria spiega al marito il motivo di quel baccano, e lui rincara la dose rimproverandole duramente, ma quelle sembrano inamovibili nella loro obiezione. Poi Maria guarda Antonio e dice sorpresa: “Mi meraviglio di te! Lo sapevi e sei stato zitto?” Ma lo zio lo difende: “E che doveva fare, la spia?” Antonio, consolato dalle parole dello zio, allarga le braccia per confermare. Maria si zittisce e sorride, non per questo ha perso fiducia in lui; anzi, sa che continuerà a richiedere la sua presenza, per averlo un po’ con sé, e anche per dare un’occhiata alla figlia. Nei giorni successivi, Antonio ripensa alle parole della zia, e soprattutto ripensa a quella nipote, ora che è meccanizzato può andare a trovarla; abita fuori Lucca ma non lontano, un posto che ha già visitato con le sue scorribande in bicicletta. L’intervallo del pranzo è abbastanza lungo, e quando il tempo è favorevole, ingoia in un boccone il contenuto del suo pentolino e parte; talvolta per la fretta di andare mangia senza neppure riscaldare, oppure lascia una parte delle
pietanze, subendo la ramanzina della mamma. Si presenta alcune volte a casa di lei, e ogni volta viene accolto con simpatia e cordialità, conoscono la sua famiglia e ne hanno stima, ma è soprattutto lui a piacere; è un ragazzo semplice e un po’ alla buona, ma proprio per questo è apprezzato a differenza dei furbetti. Antonio non è innamorato, anche se avrebbe voglia di esserlo; ha ancora bisogno di capire se stesso e i propri limiti, di affinare le sue capacità di relazione, di mettersi in gioco, perciò vuole misurarsi. Per il momento è solo interessato a conoscerla, a stabilire un contatto; forse quella ragazza può offrirgli l’inizio di una storia che vada oltre l’amicizia. La incontra alcune volte, la rivede anche insieme a sua cugina, ne parla di nuovo anche con la zia Maria, poi capisce che prova solo simpatia; è felice di quell’incontro e di quell’amicizia, ma sposta altrove la sua attenzione. Ora però sa di poter contare sulla zia Maria, di avere un punto di riferimento, per confrontarsi, raccontare dei suoi amori e chiedere consiglio.
IV
Il cazzotto
Quel nuovo lavoro trovato dal figlio era una benedizione, un dono del cielo, ma ancora non bastava; le spese erano tante per la sua numerosa prole, così Enzo dovette ancora una volta inventarsi un altro lavoro, una fatica in più per un’altra fonte di reddito. Trovò lavoro da un conoscente, poche ore alla settimana a giorni alterni, perché di più non avrebbe potuto; pur avendo di fatto la stalla ormai vuota, la vigna e i campi non potevano essere trascurati. In quella piccola azienda artigiana, insieme ad altri operai, Enzo realizzava tubi, pozzetti e altri manufatti in cemento. Il laboratorio era vicino a Borgo Giannotti, dove lavorava Antonio, così capitava a volte che i due fero il viaggio insieme. Nel lungo tragitto per andare e tornare dal lavoro si scambiavano di solito qualche battuta, ma non erano gran chiacchieroni e più che altro si trattava di brevi accenni di conversazione; quel venerdì sera però, di ritorno dal lavoro, Enzo era particolarmente silenzioso e pareva rabbuiato, Antonio pensò che fosse assillato dalle tante preoccupazioni, così non gli dette troppo peso, e anche se aveva voglia di raccontare la sua settimana, tacque. L’indomani, come ogni sabato, si ritrovarono a lavorare insieme nei campi e Antonio aveva ancora voglia di raccontare le sue piccole avventure, ma non sapeva come cominciare. Stavano vangando nella vigna fianco a fianco, e Enzo, oltre a mantenere il silenzio della sera precedente, pareva animato da una insolita foga, tanto che affondava la vanga con forza incontrollata, finché a un tratto si fermò. Guardò il ragazzo negli occhi, sospirò sbuffando dal naso come era solito fare e sbottò: “Ieri ho dato un cazzotto a Elio e l’ho steso per terra!” Il suo volto era tutto una smorfia, non sapeva darsi pace; sospirò di nuovo, questa volta a bocca aperta e a pieni polmoni, e si mise a spiegare al figlio cosa era accaduto. Elio, suo collega di lavoro, aveva umiliato uno dei loro compagni e
lui non era riuscito a trattenersi di fronte a una tale ingiustizia. Ma quella sua reazione scomposta, per quanto dettata dall’indignazione, non era in alcun modo giustificabile, si era comportato da bruto e questo proprio non gli andava giù. Ma perché lo racconta proprio a me? pensò Antonio; Enzo, immaginando la perplessità del figlio non fece attendere la spiegazione: “Mi raccomando! non dire niente alla mamma!” Poi, chinando il capo come a rientrare in sé concluse: “Dovrò confessarmi, ma soprattutto dovrò chiedere scusa a Elio sperando che mi perdoni”. Poi guardò di nuovo il ragazzo abbozzando un sorriso di compiacimento, e appoggiandogli una mano sulla spalla disse: “Sai perché lo racconto a te? Non sapevo a chi dirlo e avevo bisogno di confidarmi con qualcuno, e tu che ormai sei quasi un uomo, sei l’unico a cui potevo raccontarlo. Poi è bene che tu sappia che può capitare anche fra adulti di trovarsi a litigare di brutto, e che non bisogna mai lasciarsi andare come è successo a me, ricordatelo!” Antonio, che era abituato a lavorare ogni tipo di terra, da quella dura a quella argillosa, che aveva superato ostacoli e pericoli di ogni genere, che si credeva capace di affrontare chiunque e qualunque situazione a viso aperto, per la prima volta si trovava su un terreno a lui sconosciuto, essere il confidente di suo padre. Non solo non ci aveva mai pensato, ma soprattutto gli sembrava assurdo, e invece era vero: suo padre aveva bisogno del suo appoggio morale, lui non era più soltanto un figlio, era l’uomo di casa. Antonio abbozzò un sorriso, poi trascorsero lunghi attimi di silenzio, non sapeva cosa dire; sapeva conservare un segreto, ma quello gli pareva un po’ troppo pesante, suo padre però pareva alleggerito dopo lo sfogo. “Via!” disse Enzo riprendendo la vanga, Antonio lo seguì e si rimisero a vangare, entrambi parevano intenti a seppellire i pensieri giù nella profondità della terra, fin dove arrivava la punta della vanga. Antonio, apprezzando il lavoro condivideva il detto Il lavoro nobilita l’uomo, e quel giorno gli parve ancor più appropriato, perché la fatica, il sudore, lo sforzo comune li aiutava a purificare i pensieri. Più tardi infatti, tornando verso casa, avevano il viso più disteso, come di coloro che insieme hanno fatto i conti ciascuno con la propria coscienza; chissà, forse la mamma che li attendeva a casa con un piatto fumante di gustosa minestra, era meno ignara di quanto supponesse Enzo; se Antonio non era riuscito a capire subito che cosa tormentava suo padre, forse alla sua mamma non era sfuggito. Infatti, quando Enzo, risollevato da quella confessione, si confidò anche con la moglie, lei confermò che aveva intuito che avesse avuto
una lite sul lavoro. Fu sorpresa e amareggiata nell’apprendere di quel gesto, ma ora il peso era diviso fra tre persone e per Enzo sarebbe stato più facile chiedere scusa. Trascorsero alcuni giorni di trepidazione e dubbi; il timore di una denuncia, il rischio di perdere il lavoro… poi Enzo tornò al lavoro, i due si chiarirono, l’incidente fu superato e anzi, inaspettatamente i due divennero amici. Quella storia scavò nel fondo del suo cuore di ragazzo, più di quanto affondi nel terreno la vanga, che secondo un detto popolare ha la punta d’oro.
V
La Capinera
Come tutti i ragazzi della sua età dava volentieri calci al pallone; l’adolescenza aveva bisogno di sfoghi. Giocava con qualunque cosa rimbalzasse o rotolasse, neppure i frutti verdi e duri del kaki si salvavano dai suoi calci, ma ciò che forse lo divertiva di più era giocare con le piccole palline colorate di gomma trasparente, assai di moda in quegli anni fra i ragazzi. Aveva talmente bisogno di scaricarsi, che ci giocava perfino in camera sua, irritando non poco suo padre, il quale lavorando spesso nella rimessa o nella cantina sottostanti, mal sopportava quel continuo fastidioso battere sul pavimento. Una domenica d’inizio autunno, se ne stava a giocare nella piccolissima piazza inseguendo un pallone, da solo come al solito; sopraggiunse un’auto che parcheggiò proprio lì, e lo costrinse a smettere di giocare, era suo cognato Angelo, che sceso dall’auto, dopo averlo salutato brevemente, si incamminò verso la casa di Mario. Poco dopo i due ricomparvero sulla piazzetta confabulando, Mario, in tenuta da caccia, aveva una doppietta alle spalle; Angelo, non ancora attrezzato, aprì il bagagliaio e ne tirò fuori una cartucciera e un lungo fucile d’altri tempi, un Winchester a pompa della fine dell’800, un regalo dello zio Gigi d’America. Salutando il ragazzo che li stava guardando incuriositi, i due dissero in coro: “Tu continua pure a giocare, noi andiamo a caccia!” Antonio restò perplesso col pallone in mano per qualche secondo, poi posatolo, corse dietro a loro in breve li raggiunse e disse: “Vengo anch’io!” I due si guardarono ridendo sotto i baffi, finché Angelo esclamò: “Dove vai tu? Se vuoi venire con noi sarà meglio che ti cambi la maglia!” Poche volte si era interessato alla caccia, non ne aveva approfondito le tecniche,
e non si era reso conto che la sua maglia rossa fiammante, avrebbe tenuto lontano gli uccellini dalle canne dei fucili. Prontamente rispose: “Vado di corsa a casa, mi cambio e vi raggiungo”. “Va bene,” risposero i due, “noi intanto ci avviamo, ci vediamo al Merlo, ma non ritardare perché non aspetteremo!” Di corsa rientrò a casa, si cambiò la maglia e disse ai suoi: “Vado a caccia con Angelo, Mario e Salvatore”. E uscì di nuovo correndo per raggiungerli in tempo. Radunato il gruppetto, i quattro si diressero verso la località Boroni, lì si separarono in tre direzioni opposte, come verso le punte di un triangolo; quando furono abbastanza distanti l’uno dall’altro, cercarono un nascondiglio naturale oppure un capanno di frasche, insomma un appostamento da cui poter colpire gli uccelli al loro aggio. Antonio andò con suo cognato, ma non avendo con sé alcuna arma, men che meno un fucile, si sentiva inutile e dovendo starsene lì in silenzio, cominciò a pensare di avere sbagliato a seguirli. Immaginava la caccia come ricerca, azione, inseguimento di prede, invece si annoiava. Riuscì a mala pena a pronunciare poche parole sottovoce, che venne subito zittito; trascorsero minuti interminabili, ma non ò nessuna preda, e anche dagli altri appostamenti nessuno sparo. Angelo e Antonio stavano seduti sopra due pietre uno di fronte all’altro, accovacciati sotto un riparo naturale di rovi ripulito opportunamente all’interno; con le orecchie tese giravano continuamente il capo, scrutando le cime degli alberi nella speranza di individuare qualche preda da colpire. A un certo punto, quando stava per esaurire la voglia, Antonio scorse un uccelletto in cima a un ramo. “Là, lassù!” sussurrò indicando col dito ad Angelo; ma trovandoselo alle spalle, Angelo non riusciva a vederlo bene, e soprattutto non poteva riuscire a colpirlo da quella posizione, perciò rispose sottovoce ad Antonio con un tono di rammarico: “Da qui non gli posso sparare, e non possiamo scambiarci di posto, mi spiace”. Antonio fu subito pronto a cogliere l’occasione, e sussurrò perentoriamente: “Io però da qui posso colpirlo!” A quelle parole Angelo, allentò inconsciamente la presa sul fucile, come se stesse per affidarlo a un altro cacciatore, era quello in cui sperava Antonio, che con sveltezza tolse il fucile dalle mani di suo cognato. Angelo fu colto di sorpresa, ma essendo abbastanza esperto di armi non fece nulla per opporsi, né per riprendersi subito il fucile; troppo pericoloso! Tanto
bastò ad Antonio per impugnare il Winchester, prendere la mira e fare fuoco; era soltanto la seconda volta che sparava con un fucile da caccia, ma si era esercitato più volte al tiro al bersaglio con le giostre del settembre lucchese, perciò riuscì a colpire il bersaglio con precisione. Soddisfatto del risultato, riconsegnò dolcemente il fucile a suo cognato, e con sguardo fiero affermò: “L’ho preso!” Ma Angelo, che aveva seguito attentamente l’azione di Antonio, non vide cadere la preda, perciò dubitò, e con aria di scherno disse: “Sì, chissà che hai colpito! Forse un riccio o una foglia di castagno!” Antonio per nulla offeso né seccato replicò: “Ora lo vado a prendere! ho visto dove è caduto”. E subito uscì dal nascondiglio. Bastarono pochi minuti, il tempo di scendere il pendio e di risalirlo, ed ecco che si ripresentò dentro il nascondiglio con la preda in mano ancora calda. “Eccolo qua!” affermò soddisfatto. “Caspita! L’hai colpito davvero!” disse Angelo con una smorfia di sorpresa, ma subito con un sorriso beffardo aggiunse: “Comunque sarà meglio nasconderlo, visto che si tratta di una Capinera, di cui è vietata la caccia; se ci beccano le guardie con questo siamo rovinati!” Poi ci ripensò, il ragazzo meritava in ogni caso un elogio, era stato prudente nelle mosse e preciso nel colpire, così si complimentò con lui: “Però sei stato bravo, non me lo sarei mai aspettato! Un’altra volta ti riporto a caccia con me”. Poco dopo, poiché le prede cacciabili non si erano fatte vedere, uscirono entrambi dal nascondiglio e andarono a cercare gli altri, che nel frattempo non avevano sparato neanche un colpo. Al loro incontro, Mario e Salvatore chiesero ad Angelo che cosa avesse catturato con quello sparo, Angelo raccontò il fatto e appena ebbe mostrato la Capinera, gli altri due si misero a ridere; rivolgendosi ad Antonio, Salvatore concluse: “Come cacciatore hai ancora da imparare, ma come bracconiere sei perfetto!” E tutti scoppiarono in una grassa risata.
VI
Poker in corsia
Rincorrendo la palla nell’aia e dribblando galline e anatre, si era persuaso di poter sfoggiare la stessa classe di Altafini, Rivera, Mazzola… e insaccando con facilità il pallone in ogni pertugio, credeva di avere il fiuto del gol di Pelè. Vedendolo così determinato, un parente dello zio lo mise alla prova: “Ti andrebbe di giocare in una squadra vera?” Antonio si impettì e rispose prontamente: “Sicuro!” Pochi giorni dopo si ritrovò in campo vestito di tutto punto, calzoncini, maglietta e scarpette (usate), ad allenarsi con un gruppo di compagni. Avendo quasi sempre giocato da solo, mostrò subito i suoi limiti: difficoltà di controllo di palla nella ricezione, mancanza di visione del gioco; ma non si demoralizzò, sapeva di avere qualità, scatto bruciante e grinta, e di certo sarebbe migliorato in ogni aspetto, tecnico e tattico. Il campionato iniziava presto, così la Società per cui giocava, organizzò una partita amichevole per testare la squadra; l’avversario, una delle squadre più blasonate fra quelle giovanili. Lucca, campo Balilla, proprio sotto le mura; viene deciso con l’accordo di tutti, squadre e arbitro, di schierare a turno tutti quanti i giocatori, comprese le riserve, quindi anche Antonio che parte dalla panchina. La squadra avversaria dimostra subito la propria fama andando in gol varie volte e mantenendo inviolata la propria porta. Dopo aver a lungo esortato i suoi a segnare almeno il gol della bandiera, quasi sul finire della partita l’allenatore, finalmente fa entrare anche Antonio, dovrà giocare gli ultimi dieci minuti. “Dacci dentro! Vogliamo fare gol!” gli grida l’allenatore per caricarlo. Pronto a farsi valere e a farsi vedere, Antonio si sposta di continuo seguendo la
palla; poche battute, un rimpallo e si libera sulla destra; col campo libero, lancia la palla davanti a sé ed esplode tutta la sua forza in una corsa a perdifiato dritto verso l’area avversaria, si prepara al cross, ma i difensori avversari che hanno intuito il pericolo si precipitano su di lui in coppia, lo stringono in una morsa e cadono tutti a terra. Antonio rimane sotto gli altri due con la mano destra piegata sotto il corpo; si rialza gridando dal dolore, ha un polso slogato, la sua partita si è conclusa appena in un minuto. Inutile l’incitamento dell’allenatore: “Sei sicuro di non farcela? Se esci dobbiamo finire la partita in dieci perché non ci sono altre riserve”. Niente da fare, il dolore è troppo forte, non riesce neppure a vedere la fine; con dolori lancinanti viene accompagnato a casa della zia Maria, che con le figlie stava guardando la partita. Coricato su un lettino, trascorre il pomeriggio aspettando inutilmente che il polso si sgonfi e che il dolore si calmi, intanto ripensa alla sua carriera calcistica, così repentinamente messa in discussione, ma non riesce a trovare pace tanto è forte il dolore. Viste le sue condizioni lo lasciano a dormire dalla zia; l’indomani, col polso ancora gonfio e ancora dolorante, viene accompagnato all’INAM, per farsi vedere da un dottore, una breve visita, una radiografia e via in ospedale; oltre alla slogatura, ha una frattura a un osso della mano. Arriva all’ospedale Galli Tassi, dove in breve viene ingessato e subito ricoverato per alcuni giorni. È un po’ preoccupato e ne parla con la mamma; nonostante l’età ha ancora episodi di enuresi notturna, (ogni tanto fa la pipì a letto) per cui a casa ha ancora le traverse sul materasso. Sono episodi ormai sempre più rari, ma teme che possa capitargli proprio lì, in quella grande camerata che sa di ospedale da campo; per non rischiare dovrebbe dire all’infermiere di mettere le traverse nel letto, ma sarebbe motivo di vergogna verso tutti gli altri, specialmente i ragazzi, di cui il salone è pieno, così decide di non chiedere le traverse. Forse a causa del cambio di letto, del dolore al polso, del freddo di quella enorme camerata, chissà, fatto sta che quella scelta si dimostra imprudente, al mattino infatti si sveglia tutto bagnato, e così la vergogna è doppia. Si mostra meravigliato all’infermiere e ai ragazzi con cui ha già fatto amicizia, affermando che la cosa non gli succedeva più da tempo, ma l’infermiere non ci crede e mentre gli cambia il letto lo rimprovera. “Potevi dirmelo, almeno non bagnavi il materasso!” Poi gli sistema quelle odiate traverse che lui non voleva. Gli altri compagni di sventura invece, di fronte alle sue spiegazioni sembrano convinti o almeno fanno finta di credergli; insomma, con sua gradita sorpresa nessuno lo prende in giro, anzi, viene accolto con simpatia.
Nel reparto di ortopedia sono tutti un po’ sciancati, per lo più, gambe e braccia rotte, alcuni si possono alzare dal letto come lui, ma c’è un ragazzo che ha una gamba rotta e non si può muovere; quello diventa il punto di ritrovo e di gioco. Non sono molti i giochi da poter fare in reparto, bisogna stare a riposo e fermi, le carte però non necessitano di attività fisica e non ingombrano, perciò vengono tollerate. Venuta la sera, i ragazzi più grandi tirano fuori un mazzo di carte dicendo: “Dai! Facciamoci un poker!” Antonio si blocca ed esclama: “No! Io non so giocare a poker!” “Che importa?” ribadiscono gli altri. “Te lo insegniamo noi!” In men che non si dica Antonio ha le carte in mano, come gli altri fa un po’ fatica a tenerle e a giocarle, ma è felice; le avventure e le sventure, e perfino le proprie debolezze ormai contano poco, perché ha trovato nuovi amici.
VII
Rombo
Angelo è un giovanotto pieno di vita che ama divertirsi; ama la musica con tutti i suoi strumenti, e suona il basso in una band, ma soprattutto ama il rombo dei motori. Ha una predilezione per le auto sportive, e al volante della sua Giulia Alfa Romeo, la Pantera della polizia, cerca di riprodurre su strada le imprese dei piloti in pista. Antonio ha già avuto modo di provare con lui qualche scarica di adrenalina lungo le curve di quelle colline, Angelo è il fidanzato di sua sorella, e lui è stato più volte inviato a reggere il moccolo. Angelo, ogni volta si diverte un po’ con lui, disegnando qualche curva su due ruote, effettuando qualche sbandata controllata, qualche partenza a ruote fumanti o qualche brusca frenata senza mani sul volante. Antonio, però, più che spaventato sembra divertito, perciò ogni volta che sale a bordo, Angelo si esalta, e sfoggiando la sua sopraffina tecnica di guida, spreme tutti i cavalli della sua rombante Pantera. In vista del G.P. d’Italia di F1 a Monza, invita Antonio a seguirlo fin là a vedere la gara. “Andiamo con altri amici miei, coi quali ho già girato mezza Europa dietro alle gare di F1,” spiega ad Antonio, “ci portiamo un piccolo palco da montare sul posto, dalla cui altezza si gode perfettamente lo spettacolo. Allora che fai, vieni?” Antonio è entusiasta dell’idea, perché le auto da corsa piacciono anche a lui e ne parla subito in casa; avuto l’okay dai suoi genitori, lo comunica ad Angelo, il quale però si scusa dicendo: “Gli amici purtroppo non vengono e il palco non c’è; saremo solo io e te e dormiremo in auto, sei ancora sicuro di venire?” “Certo che vengo!” risponde prontamente Antonio. “Dormire in auto su quei sedili morbidi, che problema c’è?”
“No!” risponde Angelo. “Mi spiace, niente sedili morbidi, né reclinabili, andiamo con la mia nuova auto una Fiat 128 Sport, una vera bomba! Però è scomoda per dormire.” “Non importa, mi adatterò!” conclude Antonio. Il viaggio di andata è un vero divertimento, sull’autostrada più tortuosa d’Italia, la Genova-Milano, Angelo si esalta e disegna le curve come un pittore, sorando tutti con destrezza ed eleganza; un piccolo assaggio dello spettacolo che li aspetta. Dopo una notte insonne, a causa della scomoda posizione in auto, il parco di Monza si presenta a loro col suo magnifico bosco. Dopo aver fatto colazione ne visitano una parte, avvicinandosi alla vecchia pista e alla sua impressionante parabolica in cemento; ma per la gara, senza il palco e con l’affollamento di gente, i due devono accontentarsi di un posto marginale nel bosco e di una vista poco spettacolare sulla pista. Appena finita la gara si rimettono sulla via del ritorno non molto soddisfatti. Antonio si aspettava qualcosa di più entusiasmante e lo dice, allora Angelo promette: “Il prossimo gran premio che andiamo a vedere, saremo più organizzati, e vedrai che spettacolo!” Ma lui, mentre annuisce, sta già decidendo che probabilmente non andrà. Angelo non disdegna neppure le moto, così, dopo aver decantato ad Antonio le qualità e le prestazioni di una moto che vuole acquistare, una domenica si presenta a casa sua in sella a una Motobi 250. Antonio sta giocando a pallone sulla strada, Angelo si ferma davanti a lui, e senza scendere dalla moto lo invita a provarla: “Dai sali! Che aspetti? Guidi tu. Facciamo un giro fino alla chiesa e ritorno”. Questa volta non c’è la promessa di uno spettacolo da vedere, c’è un’emozione da provare, e la moto è lì, davanti a lui invitante, che aspetta solo di essere cavalcata. L’adrenalina sale e Antonio è tutto un fremito; finora è salito solo sulla moto di suo padre, un Galletto Guzzi assai lento, ed è salito sempre dietro, non ne ha mai guidato una. Avrebbe voglia di saltare su, dare gas, far impennare la moto, e spingerla a tutta velocità per sentirla vibrare in un rombo infernale. Ma lui non è un pilota, e non siamo in pista; ha ancora negli occhi quella grossa chiazza di sangue stampata su uno stipite di Porta Santa Maria, dove un
giovanotto si è schiantato con la sua moto poco tempo prima. Mentre pensa tutte queste cose, nemmeno sente la voce di Angelo che insiste: “Allora? Sali o no? Non avrai mica paura?” Quando si riprende dai suoi pensieri, Angelo sta ancora tentando di convincerlo, ma lui, col desiderio negli occhi, e la prudenza nel cuore, scuote il capo più volte e calcia con forza il pallone che teneva fra le mani, poi lo rincorre a perdifiato per allontanare definitivamente quella attraente tentazione.
VIII
L’incrocio
Molte cose erano cambiate: le sue giornate, le sue occupazioni, i suoi amici, l’ambiente di vita; una cosa era rimasta immutata, come ai tempi delle scuole medie, erano ancora i suoi zii ad accompagnarlo e riportarlo a casa. Come ai tempi delle medie, si alzava molto presto perché gli zii prendevano servizio in ospedale alle sette e mezzo; così in quei gelidi inverni lucchesi percorrevano spesso la val Freddana fra due ali di campi imbiancati di brina. Però, anziché fermarsi come allora davanti alla scuola, per attendere a lungo al freddo pungente l’apertura da parte del bidello, scendeva un po’ più avanti e un po’ più tardi, per restare ad attendere ancora al freddo, ma solo per poco, l’apertura della vetreria. Anche l’ambiente dentro la vetreria era abbastanza freddo in inverno, dopo le prime stanze col soffitto basso, si apriva un grande salone con un tetto altissimo e grandi vetrate che disperdevano il calore. Muovendosi per le attività di lavoro, pian piano tutti si riscaldavano, meno Antonio, che aveva ricevuto il compito di ritagliare tanti piccoli vetri per cornici rotonde, con l’aiuto della nuova tagliatrice meccanica. Stando seduto e facendo movimenti minimi, era facilmente preda del freddo, così più spesso di altri, si interrompeva per andarsi a scaldare almeno le mani alla grande stufa alimentata a cherosene, provvisoriamente sistemata al centro del salone. Era assai potente e, anche se non riusciva a scaldare tutto quell’enorme ambiente, standoci vicino anche solo per pochi secondi, se ne avvertivano subito i benefici; aveva un solo difetto, si incendiava con una discreta fiammata, perciò bisognava usare un piccolo stoppaccio posto in cima a una lunga stecca di ferro, per evitare di bruciarsi le mani. Per non consumare troppo cherosene, quando la temperatura era gradevole veniva spenta; il rischio nel riaccenderla era legato alla temperatura interna alla stufa, se era ancora troppo calda produceva una grande fiammata e allora la stecca per l’accensione serviva assai lunga. Un giorno, rientrando dopo il caffè al bar, Antonio e altri due colleghi decisero di riaccenderla perché faceva davvero freddo; poiché era ancora assai calda gli
altri due lo sconsigliarono, contro il parere Antonio però volle farlo lo stesso, purtroppo non si accorse che era stato rimesso anche il cappuccio in cima alla breve canna fumaria. La fiammata somigliò quasi a una esplosione e non trovando via d’uscita verso l’alto si dilatò lateralmente; Antonio si ritrovò la mano senza peli e un po’ bruciacchiata, il viso schizzato di nero e le sopracciglia bruciate. La leggera bruciatura della mano dava un po’ fastidio, il viso arrossato anche, ma la scena fu un po’ comica, e così i ragazzi si misero a ridere a crepapelle e Antonio con loro. Rientrando al lavoro, anche i due titolari si misero a ridere e uno di loro disse: “Finalmente hai capito che vuol dire non scherzare col fuoco?!” A fine giornata Antonio se ne uscì ancora dolorante e come ogni sera andò ad attendere gli zii al solito posto, l’incrocio fra via S. Marco e via del Brennero; faceva un gran freddo, e lì fermo, impalato su quell’angolo di strada, lo faceva sembrare come una di quelle signore che aspettano compagnia, ma in realtà non era il solo, anche altre persone in altri punti del borgo attendevano un aggio. A un certo punto, alla comparsa della sagoma grigia e dei quattro fanali di una Fiat 124 Special, Antonio riconobbe gli zii. Erano leggermente in anticipo rispetto al solito orario ma meglio così; lui era infreddolito e bruciacchiato e non ne poteva più di aspettare. Come al solito si fermarono poco prima dell’incrocio, si voltarono verso di lui come sempre per invitarlo a salire, e lui non si fece pregare, con azione fulminea aprì lo sportello e salì a bordo; il tempo di richiudere lo sportello e dire ciao, ed ecco la sorpresa: sarà stato il freddo, gli occhi arrossati o chissà che aveva visto… quelli non erano gli zii! La somiglianza nelle sagome e nella capigliatura era impressionante, l’auto, la fermata, gli sguardi, tutto era uguale, e non credeva ai suoi occhi! I due si voltarono, allibiti e seccati, ed esclamarono in coro: “Beh?” Antonio stava per esplodere dal ridere, ma riuscì a mala pena a restare serio, giusto il tempo per dire: “Scusate, ho sbagliato auto!” Aprì la portiera e saltò giù come un fulmine, in tempo per voltarsi e attaccare a ridere piegato in due. Quando finalmente arrivarono gli zii, prima di salire osservò con attenzione l’auto e suoi occupanti, tanto che la zia, tirando giù il finestrino lo sollecitò dicendo: “Che fai, non vieni?!” Salito a bordo con una smorfia sul viso, la zia lo incalzò di nuovo: “Ti vedo strano stasera, hai il viso arrossato, che ti è successo, è andata bene la giornata?”
Antonio, che stava già ricominciando a ridere rispose: “Se volete ve la racconto, ma dubito che mi crederete”. E in breve fece loro il riassunto. Al termine, ridevano tutti talmente tanto che lo zio dovette accostare perché non riusciva più a guidare.
IX
Il bancario
ava ogni mattina filando sulla sua motoretta anni ’50 senza neanche il parabrezza; lo stesso faceva nel pomeriggio, probabilmente abitava al di là del fiume e aveva un lavoro in città. Indossava un abito elegante, giacca grigia, pantaloni scuri con la riga e la risvolta, scarpe lucide, camicia bianca e cravatta; sicuramente era un impiegato, forse di banca o di assicurazioni, aveva folta e lunga capigliatura tendente al grigio, ma non era anziano. Scendendo a modesta velocità, lungo quella strada lastricata di sanpietrini, a causa dei continui sobbalzi, con la giacca completamente aperta, i pantaloni tirati su al ginocchio che scoprivano il calzino classicamente bianco, la cravatta rovesciata dietro al collo e i capelli fluttuanti, dava l’impressione di sfrecciare come un guardaroba svolazzante. Antonio lo incrociava spesso dopo pranzo, mentre coi suoi amici, ragazzi delle botteghe vicine, si recava al bar a prendere il solito caffè e a giocare una partita a carte. A lui pareva talmente buffo che ogni volta si fermava a guardarlo are, a volte lo ammiccava agli altri, e un paio di volte, con atteggiamento monellesco e sbeffeggiante, gli indirizzò un grido di incitazione: “Vai!” Si sentiva un po’ vigliacco ad agire così, visto che quel tale correva via, ma era un modo per sentirsi un po’ ganzo agli occhi degli altri. Un giorno però, mentre Antonio lanciava il grido, quel tale, evidentemente stufo dello sfottò, si fermò proprio davanti a lui, Antonio si sentì raggelare. E ora che faccio? si domandò mentre iniziava ad arrossire di vergogna. “Beh?” domandò quel tale con tono caustico. “Che problema hai? Hai voglia di sfidarmi, ti vuoi battere con me?” disse con voce alterata. “Se proprio ne hai voglia, chiama tutti i tuoi amici, non te ne scordare alcuno, perché per battermi alla pari, di fessi come te me ne servono tanti!” Dette un’ultima occhiataccia ai ragazzi e ripartì con gli abiti al vento. Antonio era confuso, frastornato e umiliato, non si aspettava proprio una
reazione del genere; e pensare che proprio mentre lanciava l’ennesimo grido, dentro di sé aveva deciso di smetterla, proprio perché gli pareva di esagerare. Aveva ragione quello strano tipo, lui si era comportato da gran villano, e oltretutto aveva fatto la figura del fesso. Mogio, mogio si avviò verso il bar seguito dagli amici, scossi e perplessi; che c’entriamo noi con le sue becere minacce? bisbigliavano fra sé. Poco più avanti incontrarono il barbiere, che puliva il negozio in attesa di aprire; incuriosito dalla reazione dell’uomo a cui aveva involontariamente assistito, fermò i ragazzi e chiese loro: “Mi spiegate che è successo, perché ce l’aveva con voi, che gli avete fatto?” I ragazzi tacevano aspettando la risposta di Antonio, e lui per tagliare corto e uscire da quella situazione imbarazzante disse con angelico candore: “Boh? Che ne so?” Ma il barbiere non la bevve, e insistendo replicò: “Se un tizio come quello si ferma a inveire e addirittura a minacciare dei ragazzi, non è per caso, né per niente, qualcosa dovete avergli fatto, perciò, date retta a me, non fate tanto i bischeri e non vi mettete contro le persone più grandi! E poi vedete di portare rispetto!” concluse mentre loro proseguivano verso il bar. Giunti davanti al bancone ordinarono i soliti caffè, chi macchiato, chi ristretto, chi normale; Antonio, volle continuare a sorprendere, e quel giorno ordinò: “Un macchiato corretto a rum e sassolino!” Gli altri ragazzi lo fissarono sbalorditi ed esclamarono: “Che hai ordinato?!” “Ora provo, poi vi farò sapere!” rispose Antonio tagliando corto. Era già da alcuni giorni che stava studiando quel cocktail, e quello era proprio il giorno adatto per sperimentarlo; dopo ciò che era successo voleva cambiare discorso, spostare l’attenzione su altri argomenti, e ci riuscì. Era ancora assai giovane, ma all’epoca non si badava molto all’età per la distribuzione degli alcolici, così, la signora del bar, dopo averlo guardato un po’ di traverso gli servì quello che aveva chiesto. Afferrato il suo strano caffè andò a sedersi al tavolino con gli altri, e appoggiando la tazzina, prese il mazzo delle carte e cominciò a mischiarle nervosamente. Gli altri, girando stancamente i cucchiaini nelle tazzine, si guardavano intorno ancora perplessi.
Dopo pochi interminabili secondi, Antonio riprese la tazzina e ingoiò il caffè in un sorso, posando la tazzina vuota fece una smorfia di compiacimento, poi, sbatté sul tavolo il mazzo di carte appena mischiate e disse con tono di sfida: “Beh? Non volete giocare?” Un po’ svogliatamente gli altri si disposero alla solita partita, Antonio distribuì le carte e cominciarono a giocare; in breve la tensione si sciolse e ricominciarono a ridere e scherzare come se nulla fosse successo. Antonio, come gli altri rideva e chiacchierava, scherzando come suo solito su ogni giocata, insomma pareva quello di sempre; finché, il gioco gli si presentò sfavorevole e cominciò a irritarsi. Una giocata dopo l’altra, lui e il suo compagno stavano perdendo di brutto, e a un certo punto non riuscì più a contenersi, battendo il pugno sul tavolo, tirò la sua carta e bestemmiò. La signora del bar, che fino ad allora aveva osservato i ragazzi nel più completo silenzio, sbottò: “Ma non ti vergogni?! Un ragazzino come te, sembreresti anche bene educato, e invece ti comporti come uno di quei volgari tipacci ubriaconi. Se tu fossi mi’ figliolo ti prenderei a schiaffi! Vergognati!” Antonio accusò il colpo, anche questa volta era nel torto più completo, si credeva ganzo, ma aveva ancora tanto da imparare.
X
All’Alpe
Col naso appiccicato al finestrino, guardava scorrere fitti boschi, macchiati qua e là di prati verdi e case sparse; arroccati sui colli, piccoli borghi proprio come il suo, una valle simile alla sua ma più grande: la Garfagnana. Era contento di quel viaggio e di quell’avventura che si apprestava a vivere; a Gallicano iniziò la lunga salita, man mano che si arrampicavano su per il monte, lo scenario si ampliava e il suo cuore batteva più forte. Quando giunsero al bivio per Piglionico, lo sguardo si aprì a un paesaggio fiabesco, tanto che Enzo fermò l’automobile e scesero. Davanti a loro, l’imponente mole piramidale della Pania Secca con la Pania della Croce poco dietro; sotto di loro, un’immensa conca boscosa come un mare verde scuro; al centro, emergente come un isolotto, un cucuzzolo erboso con una chiesetta in cima: l’Alpe di S. Antonio. Lui si innamorò subito di quel luogo, si sentì come dentro un sogno e fu felice, ma non immaginava cosa e soprattutto chi avrebbe incontrato su quell’altura. Appena giunsero ai piedi della chiesetta, si accorse subito che quel luogo così selvaggio, pullulava di ragazzi e ragazze suoi coetanei e in un attimo ò dall’euforia alla confusione. Seguendo gli altri ragazzi, salirono la scalinata che sfociava sul sagrato, dove si fermarono a guardare la chiesa e a godere ancora un po’ di quella visione sui monti. Antonio, in quel brusio di voci e in quello scorrere gioioso di volti, era un po’ frastornato. Rimasti soli, si infilarono anche loro nello stretto vialetto che costeggiava la chiesa, e giunti all’ingresso della canonica, un giovane prete si fece loro incontro e si presentò: “Salve! Sono don Agostino”. Subito dietro a lui un altro prete, più maturo: “Ben arrivati! Io sono don Bruno.” “Antonio!” rispose lui timidamente allungandosi verso le mani tese. “È la prima volta che vieni quassù?” chiese don Bruno. “Sì è la prima volta,” rispose suo padre credendolo in difficoltà.
“Tranquillo! Ti troverai bene!” replicò don Agostino. “Farai tante amicizie in mezzo ai tuoi coetanei!” soggiunse don Bruno. Antonio annuì sorridendo e, dopo poche ultime raccomandazioni, i suoi genitori si congedarono. Non era abituato a stare con tanti coetanei, ma ben presto si sentì a suo agio; era abituato invece alla vicinanza dei preti, perciò non si sentì in soggezione davanti a loro e tutto filò liscio. Cinquanta, sessanta ragazzi, maschi e femmine, quasi tutti sotto i vent’anni, alloggiati in una canonica, una casa adiacente e una scuola dismessa, sperduti fra le montagne della Garfagnana; “una colonia!” avrebbe detto qualcuno, “un campeggio!” dicevano altri, “un campo-scuola”, così veniva definito dagli organizzatori, i giovani dell’Azione Cattolica di Lucca. La definizione era appropriata, perché in effetti, più che una vacanza, quell’esperienza era una scuola di vita. Erano alloggiati in camere comuni e in spazi non troppo comodi e la cura degli alloggi era affidata alla responsabilità di tutti. A esclusione della cucina, gestita da Elisa ed Ersilia, due donne del luogo, tutte le altre attività erano gestite dai ragazzi; ciascuno era chiamato a offrire il proprio contributo, nei vari compiti e servizi richiesti dalla vita comune e questo a lui non dispiaceva, perché svolgendoli insieme ad altri era facilitato nel socializzare. Il pezzo forte della giornata era l’attività formativa: riflessione personale e lavori di gruppo su temi biblici e sociali, seguiti da un confronto collettivo. Seduti in cerchio su un prato o sul sagrato della chiesa, tutti era chiamati a parlare e non per tutti era facile. Antonio in particolare, con la sua timidezza, pativa particolarmente quel momento, ma non voleva sottrarvisi, era l’occasione per imparare a essere più sfrontato; era talmente deciso a superare il suo isolamento, che non restava mai a lungo con qualcuno, ma cercava sempre nuove compagnie, per questo apprezzava molto la disposizione a tavola, dove nessuno aveva il proprio posto, ma i portatovaglioli numerati erano disposti in modo casuale. Ogni pomeriggio avendo un po’ di tempo libero si cimentavano nei giochi più vari; dai soliti giochi con la palla, al ping-pong, fino ai giochi di gruppo più fantasiosi; i più romantici invece cantavano intorno a un chitarra. Antonio, che era interessato a tutto e a tutti, saltava da un’attività all’altra in un batter d’occhio, per provare giochi, per sperimentare confronti, per conoscere tutti, per sentire il contatto fisico o per emozionarsi negli occhi degli altri al suono della chitarra. Prima però, che i giorni si susseguissero felici, avrebbe
dovuto superare quello scoglio che lo aveva fatto tentennare sulla decisione di esserci. Aveva sedici anni, era un uomo ormai, ma gli capitava ancora, sia pure molto raramente, di bagnare il letto. Da un po’ ormai non gli accadeva e forse questo significava che quella fastidiosa disfunzione era superata; ma per qualche giorno restò in apprensione, al punto che per un paio di notti quasi non dormì, finché poi, vinto dal sonno, si lasciò andare sperando per il meglio e tutto fu perfetto. Strinse nuove amicizie allargando i suoi orizzonti, ma scoprì di essere il più piccolo di tutti, e uno dei pochi che lavorava, perciò dovette imparare a farsi avanti, per evitare di sentirsi isolato, per essere della partita, per stare al o. Mettendo in campo tutte le sue qualità scoprì che non era da meno, che in qualche campo eccelleva e che la sua goffaggine adolescenziale era qualcosa di cui si poteva anche ridere. Certo, l’ambiente fantastico, l’esuberanza dell’età e gli ormoni che esplodevano, non lo aiutavano a controllarsi, perciò qualche volta subì dei richiami; fu allora che parlando con altri di disciplina e del comportamento da tenere, emerse per la prima volta quel nome: don Giovanni. I veterani dei campi-scuola apparivano intimoriti alla sola pronuncia di quel nome. “Chi sarà mai costui?” pensò e disse Antonio rivolto ai presenti. “Come, non lo conosci?!” esclamarono gli altri sbigottiti. “Ti accorgerai quando lo incontri!” Il tempo scorse via fra canti, preghiere, avventure, scherzi, confronti… e gioia di stare insieme. Nei gruppi e nelle assemblee parlarono di molte cose: la loro vita personale, la fede, la famiglia, i sogni, la vita sociale coi suoi problemi, ma non ardivano cambiare il mondo, erano solo felici di esserci, Antonio quanto gli altri, forse di più. La sera, in modo particolare, le emozioni agitavano i giovani cuori, come lo sbatter d’ali dei pipistrelli; durante l’ora delle stelle, si svolgevano solo giochi collettivi, cantavano tutti assieme, e col favore del buio, ciascuno cercava di sedersi o accoccolarsi vicino a chi aveva rubato il suo cuore. Arrivò il momento della gita in Pania e Antonio ne fu particolarmente eccitato; partenza in piena notte, lunga eggiata alla luce delle torce, alba in vetta. Non andò così, il cielo plumbeo borbottava minacciosamente, dopo una faticosa camminata si fermarono al rifugio e lì attesero l’alba; Antonio però non mancò di fare da cavaliere verso le ragazze e i loro bisogni, fece un massaggio per crampi a un polpaccio, portò lo zaino di una affaticata, coprì con la propria
giacca a vento una infreddolita e altre piccole cose. Forse alcune ragazze si approfittavano della sua gentilezza un po’ interessata, ma lui non se ne curava, il sorriso che riceveva in cambio era sufficiente per ripagarlo e per farlo stare bene. A metà mattinata il cielo si fece chiaro e poté salire con don Bruno e pochi altri sulla vetta della Pania Secca; lo spettacolo fu grandioso, non era mai stato così tanto vicino al cielo, seduto sopra il creato. Sul finire di quei giorni felici, quando ormai non ci pensava più, d’improvviso un nome scosse l’aria. “è arrivato don Giovanni!” E un gruppo di ragazzi corse gioiosamente verso il sagrato. “Ma come?!” esclamò Antonio. “è tanto temuto e suscita così tanta gioia? Allora voglio conoscerlo anch’io!” Si avviò dietro gli altri e lo vide sotto gli abeti, come a nascondersi nell’ombra. Stava parlando con don Bruno, ma fu circondato dai ragazzi festosi e lui li salutò con abbracci uno a uno. Antonio attese con pazienza che tutti gli rivolgessero i saluti e quando finalmente rimase solo con don Bruno, si fece avanti. I loro occhi si incrociarono e nessuno dei due abbassò lo sguardo mentre Antonio si avvicinava. Sorridendo, don Bruno fece le presentazioni. “Questo è Antonio, questo è don Giovanni.” Don Giovanni, con un sorriso di scherno guardò don Bruno per un attimo, come a dire “so presentarmi da solo”, poi sorridendo al ragazzo chiese: “Da dove vieni?” “Da Monsagrati, in val Freddana,” rispose Antonio. “Bene!” replicò don Giovanni con tono soddisfatto. “Vogliamo organizzare alcuni incontri per giovani in quella zona, abbiamo bisogno anche di te, ci stai?” Antonio apprezzò molto quella richiesta perentoria, quel tono deciso e quello sguardo penetrante, quell’uomo gli era subito piaciuto, e senza indugio, con la fronte alta e un sorriso convinto rispose: “Certo! Fatemi sapere!” Li salutò e li lasciò.
Sfumarono presto quei giorni e come per i bei sogni, anche se a lungo cullati, di essi rimase solo il ricordo di forti emozioni, di incontri felici, di nuove eggere amicizie; o forse no, forse molto era rimasto, forse proprio su quei giorni e su quelle sere, molti ragazzi potevano costruire un futuro, dove tutto sarebbe stato possibile. Per Antonio era così, lui portava con sé una certezza; quei dieci giorni avevano cambiato la sua vita e quel breve fugace incontro con don Giovanni aveva segnato l’inizio di una grande duratura amicizia; attraverso di lui, anche i legami intrecciati con quei ragazzi non sarebbero andati perduti.
XI
Uscita da scuola
L’incontro con i ragazzi ai campi-scuola, aveva spostato il centro degli interessi di Antonio dalla sua piccola valle alla città e ora Lucca era lì davanti a lui, a pochi i. In gran parte erano studenti delle scuole superiori, un mondo per lui sconosciuto e proprio per questo intrigante. Desiderava confrontarsi, entrare in relazione con tutti quei ragazzi, far parte del loro mondo, perciò non perdeva occasione di incontrarsi con qualcuno di loro, singolarmente o con piccoli gruppi, e poco importava se talvolta, in presenza di argomenti squisitamente scolastici, non riusciva a spiccicar parola, voleva sentirsi uno di loro. Il modo più semplice per inserirsi era quello di incontrare un gruppo strutturato, e l’occasione arrivò nell’autunno del ’73; alcuni ragazzi del gruppo giovani di S. Paolino, conosciuti all’Alpe, lo invitarono. “Ci ritroviamo per fare i cenci, vieni?” Antonio rispose subito con entusiasmo: “Sicuro! Ci sarò!” Aveva sentito che quel gruppo organizzava varie iniziative di solidarietà; aiuto ai bisognosi, raccolta di medicine per l’Africa, visite agli anziani soli… così, pensando a sco d’Assisi, il suo santo preferito, credette che i fare i cenci volesse dire raccogliere abiti usati da rivendere per ricavarne denaro. Quando si presentò nella piazzetta di S. Pierino venne accolto con simpatia e calore, e pur conoscendo solo un paio di quei ragazzi si sentì a casa; vedendo che tutti stavano chiacchierando allegramente e nessuno si muoveva domandò: “Ma i cenci? Quand’è che andiamo a farli?” “Sono sopra,” rispose Claudio, “li hanno già fatti.” “Come li hanno già fatti?! Io ero venuto apposta per farli!” replicò Antonio.
“No, avevi capito male, facciamo i cenci voleva dire, ci ritroviamo per mangiarli! Alcune persone li hanno preparati per tutti,” concluse Claudio. “Mangiarli?! Ma di che parli?!” esclamò Antonio sorpreso. “Io credevo che andassimo a raccogliere abiti e stoffe per i poveri!” Claudio e gli altri intorno scoppiarono a ridere: “Ah, ah, ma che avevi capito? Scusa eh, ma come le chiami tu le strisce di pasta fritta e zuccherata?” “Cenci,” rispose Antonio. “Appunto!” concluse Claudio ridendo sosamente. Poi, invitandolo a salire aggiunse: “Devo ammettere però che eri armato di buone intenzioni! Ne terremo conto e ti coinvolgeremo in qualche iniziativa”. L’incontro si svolse in un clima di grande amicizia e Antonio scoprì con piacere che c’erano anche ragazze carine e simpatiche. Claudio si accorse che le aveva adocchiate e, al termine dell’incontro, lo salutò sorridendo. “Ho notato che ti sei trovato bene, come hai visto qui c’è della bella gente, torna pure che ti troverai ancora meglio!” Antonio indagò come poteva su quelle ragazze, le avvicinò di nuovo e riuscì a conquistare la loro fiducia; con molta intraprendenza e senza preoccuparsi di piacere o meno, propose a una di esse di uscire qualche volta a eggiare insieme, era una ragazza silenziosa e un po’ riservata, proprio come lui, così pensò che fosse alla sua portata. Immaginava di ricevere un rifiuto, invece con sorpresa lei acconsentì. “Ti va bene il pomeriggio dopo le sei?” chiese cortesemente Antonio. “No, mi spiace, a quell’ora devo ancora finire di studiare e i miei genitori non me lo consentirebbero.” “E se ci vedessimo dopo cena? Che ne dici?” propose di nuovo Antonio. “Sì, penso che sia possibile,” rispose lei con aria un po’ perplessa. “Bene! Ti chiamerò,” concluse Antonio.
Poche sere dopo si presentò alla porta di lei dopo averla avvisata, aprirono i suoi genitori e gentilmente lo fecero accomodare. “Fra un attimo sarò pronta,” disse lei dopo averlo salutato. Davanti ai suoi genitori Antonio si sentiva un po’ in soggezione, come se dovesse sostenere un esame, ma si mostrò gentile, rispondendo alle loro domande. “Abbiamo saputo che lavori, che cosa fai?” Lui spiegò in breve che lavorava da qualche anno a Borgo Giannotti e che aveva lasciato gli studi per aiutare la famiglia, ma non riuscì a spiegare oltre, perché nel frattempo arrivò la ragazza pronta per uscire. Con sua sorpresa, anche i genitori di lei si infilarono il soprabito e uscirono con loro; lui e lei in avanti e i genitori a braccetto dietro a poca distanza. Per Antonio era una situazione inedita e a dir poco imbarazzante, comunque fece buon viso a cattivo gioco, e si avviarono tutti verso il centro; facendosi forza si rivolse a lei chiedendo della scuola, dei suoi interessi, dei cantanti preferiti… Trattò tutti gli argomenti possibili, sempre però misurando le parole nel timore di essere udito; non voleva rischiare di non piacere ai suoi, perché era assai carina e voleva poterla incontrare ancora, magari da solo. La eggiata si protrasse per poco meno di un’ora, lei non poteva rincasare tardi, ma Antonio fu comunque contento, almeno quella sera. Nei giorni a venire ripensò a lungo a quella eggiata e non ne fu entusiasta; era disposto a rispondere a tutte le loro domande, a chiarire il suo pensiero su qualsiasi argomento, pur di tranquillizzarli, era perfino disposto a restringere le future eggiate a pochi minuti, purché solo con lei. Anche a lui era toccato di reggere il moccolo, ma trovava poco carina la loro presenza, che per quanto così discreta, era comunque un po’ ingombrante. La incontrò di nuovo varie volte al ritrovo del gruppo, ma non ebbe più il coraggio di andare a farle visita di sera e ben presto il suo interesse scemò. Qualche tempo dopo rivolse la sua attenzione su un’altra ragazza del gruppo, altrettanto carina, ma più loquace, questa volta però cambiò tattica, andò ad aspettarla davanti al liceo, all’uscita da scuola. Lei fu sorpresa di vederlo e chiese: “Come mai sei qui?” Antonio con tono distaccato rispose: “Questo è il mio intervallo del pranzo, ero venuto a fare due i in città e mi sono detto, perché non aspettarla per
accompagnarla a casa?” “è carino da parte tua, grazie,” commentò lei facendo finta di crederci. Lungo il primo tratto non furono soli, c’era anche una sua compagna, così lui, per non ingombrare troppo la strada le seguiva da vicino in silenzio, poi anche se per poco poté finalmente affiancarla e scambiare con lei quattro chiacchiere. Oltre che carina era affabile e conversava con grande piacere con chiunque; sì, quella ragazza gli piaceva proprio. Alcuni giorni dopo volle ripetere l’esperienza, sperava di riuscire a fare colpo su di lei, ma con sorpresa, non era solo ad attenderla; aveva già sentito dire che aveva un ragazzo, ma sperava che non fosse vero o che non fosse una cosa seria. Quando lei uscì salutò subito il suo ragazzo e fu chiaro che fra i due l’intesa era forte, lei fu sorpresa di vedere di nuovo Antonio, ma prontamente chiarì la cosa presentandolo al suo ragazzo: “Questo è Antonio, un amico che viene al gruppo, a volte nel suo tempo libero viene ad aspettarmi per accompagnarmi a casa”. I due si salutarono con una stretta di mano, poi lei soggiunse: “Oggi come vedi non sono sola, ma se vuoi puoi accompagnarmi anche tu”. Antonio non sapeva che fare, ma andarsene gli sembrava brutto, così li accompagnò per un po’ camminando a fianco all’altra ragazza, ma scambiandoci solo poche battute. Quando restarono solo loro tre, si rivolse a lei dicendo: “Ti saluto, tanto non sei sola, ci vediamo, ciao”. Poi si rivolse a lui e lo salutò: “Ciao, piacere di averti conosciuto”. E se ne andò. Peccato! pensò fra sé mentre rientrava al lavoro, ma per nulla abbattuto per quell’ennesima buca; forse la sua tecnica di avvicinamento non era la migliore o forse sbagliava solo gli obiettivi, ma una cosa lo confortava più di tutto, Lucca era grima di ragazze carine e prima o poi avrebbe trovato quella giusta per lui.
XII
La zingarella
Recatosi da uno dei falegnami del borgo per una commissione, lo trovò che discuteva con un cliente, ma non di affari, argomento: le donne. Vedendo arrivare il ragazzo lo squadrarono da capo a piedi e subito l’argomento si declinò su di lui. Il tema, sempre lo stesso: come agire con le donne per trarne il massimo del vantaggio e del godimento. Antonio si sentì un po’ troppo al centro dell’attenzione, ma d’altra parte, in quel periodo gli capitava spesso, perciò cercò di adattarsi cogliendo qualche utile consiglio e qualche buona informazione da chi pareva decisamente più esperto di lui. Qualche battuta ancora fra i due adulti, poi il falegname chiese ad Antonio: “Di che avresti bisogno?” Antonio allungò un foglio su cui erano annotate le misure dei legni da ordinare; il falegname lo guardò con attenzione, mentre l’altro, in silenzio, pareva attendere con impazienza la possibilità di riprendere la conversazione. Annuendo col dondolare del capo, il falegname comunicò ad Antonio le sue conclusioni: “Torna nel pomeriggio e sarà tutto pronto”. Antonio stava per congedarsi, quando apparve sulla porta una zingarella che chiedeva l’elemosina; giovanissima e assai carina, indossava quel tradizionale abito lungo che la faceva apparire più donna. Antonio, che non aveva antipatie né pregiudizi di sorta, la guardò subito con simpatia accennando un sorriso. Udiva spesso recriminazioni e improperi verso quelle persone, additate come ladri, ma a lui non importava granché delle accuse della gente, non guardava l’abito, piuttosto chi c’era dentro. I due adulti invece, fissarono la fanciulla con uno sguardo che ad Antonio parve fra il truce e il volgare, infine la liquidarono con una battuta sarcastica: “Qui non trovi soldi, siamo più poveri di te!”
La ragazza allungò nuovamente la mano con insistenza accompagnandola con una smorfia sul viso, ma non avendo ottenuto attenzione se ne andò. Antonio fu un po’ dispiaciuto e la seguì con lo sguardo per alcuni attimi; bastarono perché fosse notato dai due adulti, che lo chiamarono in causa di nuovo. L’amico del falegname gli domandò sornione: “Ti piaceva eh?, beh, non hai tutti i torti, anzi hai buon gusto; certo, gli zingari sono un po’ sporchi, ma quella era carina, bastava darle una buona lavata…” Poi, indicando il falegname aggiunse: “Per noi sarebbe un problema, perché la ragazza è minorenne, ma a te che potrebbero fare? Potresti approfittarne…” Antonio non seppe replicare, un po’ per inesperienza, un po’ perché quel tipo di volgarità lo metteva a disagio. Visto il suo imbarazzo, il falegname concluse: “Vai, vai, non ci pensare! Piuttosto, torna nel pomeriggio, i legni saranno pronti”. Antonio si incamminò salutando i due compari con un filo di voce e un rapido gesto della mano, l’amico del falegname gli rispose con una smorfia e una strizzata d’occhio. Ripensando a tutta quella scena, sperò di incontrare di nuovo la zingarella; avrebbe voluto dirle semplicemente “ciao”, anche solo per vederla sorridere, ma non la rivide. Come d’accordo, nel pomeriggio ritornò a prendere i legni e trovò il falegname da solo; questi, volendo giustificare la conversazione del mattino, cercò di rassicurare il ragazzo dicendo: “Ti sei scandalizzato? Sai com’è, anche noi grandi qualche volta abbiamo voglia di ridere e scherzare e dire qualche stupidaggine. Riguardo alle donne poi, è normale scherzare e dire sciocchezze visto che ci piacciono; piacciono anche a te immagino o no?” Antonio taceva, quella giustificazione, peraltro non richiesta, non lo interessava. Insistendo, il falegname aggiunse: “Tu non corri dietro alle ragazze?” E lui, volendosi togliere dall’ulteriore imbarazzo tagliò corto: “A me piace correre in bicicletta!” “È vero!” rispose il falegname con aria sorpresa. “Ti vedo a volte sfrecciare giù per il Giannotti.” Poi aggiunse: “Ma tu, corri per divertimento o vorresti partecipare alle corse, quelle vere? Perché io conosco alcune persone che
potrebbero farti correre”. Antonio cambiò espressione, non credeva alle proprie orecchie, si fece spiegare dove andare, poi prese i legni che aveva ordinato, salutò di nuovo, questa volta pieno di eccitazione e si avviò verso la vetreria. Giunto sulla strada si voltò di nuovo verso il falegname, ripeté l’indirizzo ricevuto, per essere sicuro di non sbagliare e con tono fermo e deciso esclamò: “Ci andrò sicuramente, grazie!”
XIII
Trasgressione
La sua testa era piena di idee, il suo cuore carico di buoni sentimenti, il suo animo sostenuto da buone intenzioni… ma il suo corpo fremeva nei desideri di nuove esperienze, come se fosse prigioniero degli abiti che lo coprivano. Era come un pulcino che sta bucando il guscio, tutto gli appariva nuovo, attraente, luccicante, abbagliante e succulento. Conosceva tutti i sapori e i profumi della campagna e li sapeva riconoscere e apprezzare; la mamma infatti sapeva preparare cibi gustosi e saporiti, perché nonostante la povertà della loro condizione economica, la natura offriva doni di ogni specie: funghi, castagne, mirto, giuggiole, fragoline… perfino le erbe selvatiche avevano gusti e aromi prelibati, tanto che lui se ne cibava direttamente, come l’acetosella, la menta, il finocchio selvatico. Approdando alla città, scoprì nuovi gusti, prodotti dall’industria del benessere. Se fino ad allora aveva fatto merenda con pane-olioaceto-sale, oppure pane-vino-zucchero, e una volta alla settimana con focaccia salata o dolce, ora poteva provare le merendine di pan di spagna e cioccolato, le brioche e altre porcherie ipercaloriche gradevolissime al palato. Anche gli alcolici non si limitavano più al classico bicchiere di vino della propria cantina o a una lacrima di grappa fatta in casa; ora poteva gustare una varietà di birre inimmaginabile, oltre ai vini provenienti da tutta Italia. Perfino le bevande superalcoliche riempivano con la loro varietà l’intero scaffale del bar e Antonio, curioso com’era, una dopo l’altra le volle assaggiare proprio tutte. Era goloso e sulle brioche lanciò perfino una scommessa; dopo il pranzo andavano sempre a prendere il caffè, insieme all’ormai consueto intruglio macchiato-corretto, Antonio mangiava una o due paste. Un giorno il suo compagno Alfredo lo provocò: “Dimmi un po’, quante ne potresti mangiare dopo pranzo?” Antonio con la sua solita flemma rispose: “Una ventina”.
“Esagerato!” replicò Alfredo. “Scommettiamo?” insisté Antonio. La quantità pareva spropositata, perciò senza indugio, Alfredo propose: “Okay, ci sto, però le paste le scelgo io!” “Va bene!” acconsentì Antonio. “Purché non siano tutte uguali, ma variegate! Facciamo domani?” “Bene!” concluse Alfredo. “Voglio proprio vedere!” “Anch’io voglio vedere!” soggiunse il barista. Ma la sfida non si fece mai, Antonio era pronto, gli altri invece ci avevano ripensato. Al di là e al di sopra del cibo, c’era ancora qualcosa di particolarmente attraente che le superava tutte: le ragazze. Se in campagna, dove lui abitava, scarseggiavano le persone e quindi anche le ragazze, in città non sapeva dove posare gli occhi! Gli era già capitato più volte di trovarsi in un assembramento di persone, così accadeva ogni volta che si festeggiava qualche santo; ma qui la cosa era ben diversa, le ragazze erano molto più numerose, la varietà molto ampia, e poteva vederle ogni giorno, cosicché i suoi ormoni schizzavano fuori da ogni poro. Al bar, fra tanti personaggi di ogni risma, capitavano talvolta alcuni giovanotti un po’ troppo spregiudicati; parlavano sboccati, bevevano molto, sfottevano Mustaphà, un marocchino che vendeva tappeti e oggetti vari, qualche volta sfogliavano riviste pornografiche. Antonio non poteva resistere, ogni volta doveva darci un’occhiata e non gli bastava mai; così dopo averle notate all’edicola, decise che ne avrebbe acquistato una. La vendita era vietata ai minorenni, e lui non aveva ancora diciassette anni, ma ci provò lo stesso. In fondo al Giannotti c’era una piccola edicola con una anziana bonaria signora; lui si presentò a fine mattinata e chiese quel titolo che aveva memorizzato. La signora restò perplessa e guardandolo negli occhi disse: “Ci vogliono diciotto anni per acquistare questo giornaletto, e tu mi sembri piccolo, ce l’hai diciott’anni?” “Sì!” rispose lui deciso. “Diciotto e mezzo!”
“Mah!?” disse la signora storcendo le labbra, però non volendo insistere glielo dette. Orgoglioso ed eccitato per esserci riuscito, si avviò verso la vetreria col giornaletto arrotolato sottobraccio; era ansioso di svelare quei contenuti erotici, ma non voleva essere scoperto. Quando stava per entrare nella vetreria, incontrò un collega che notò subito la rivista. “Ah, bravo! Vedo che ti vuoi documentare! Fammi un po’ vedere!” E subito gli sfilò il giornaletto da sotto il braccio. “Accidenti! Guarda che roba!” commentò appena lo aprì, e continuando a sfogliare confermò: “Ah, questa è proprio spettacolare! Bene, proprio un bel giornale!” Mentre quello sfogliava le pagine lì sul marciapiede, Antonio si muoveva nervosamente guardandosi intorno, nel timore che asse qualcuno e li vedesse; finché si spazientì e riprendendosi furtivamente il suo giornaletto entrò in vetreria dicendo: “Devo andare a mangiare!” Quelle pagine divennero ben presto motivo di chiacchiera e di battute, proprio quello che lui non voleva, così pochi giorni dopo prese il giornaletto e lo gettò via, ma tutti pensarono che lo avesse nascosto. Non avendo più quelle pagine in giro, Antonio pensò di poter evitare l’argomento; ma non fu così. Lavoravano spesso uno vicino all’altro, sul grande tavolo foderato di panno di feltro, ritagliando vetri e specchi sagomati o realizzavano su di essi disegni e decorazioni. Stando così a contatto chiacchieravano di molti argomenti e l’argomento donne alla fine veniva sempre a galla. Per un po’ furono solo battute, accompagnate da qualche perla di saggezza elargita dagli anziani, poi un giorno si presentò un signore che pareva saperla lunga. Era assai distinto e parlava con proprietà di linguaggio, come uno che ha studiato; elargì anche lui alcune perle di saggezza, fin quando, volendo chiudere un discorso affermò: “Bisogna insegnare presto ai ragazzi a fare sesso! Io portai il mio ragazzo da una donna a pagamento appena ebbe compiuto sedici anni!” Antonio rimase sbalordito, e mentre gli altri commentavano positivamente, la sua testa prendeva fuoco. Non è possibile! Non si fa! pensò, è una cosa che non farò mai! Magari non è carino spiare dal buco della serratura, o dalle pagine di un giornale, ma si tratta solo di guardare! Non si può trattare una donna come un’automobile su cui fare scuola guida! No, questo proprio non mi piace!, ma
per evitare spiacevoli discussioni tenne per sé questi pensieri e si concentrò sul suo lavoro di decorazione. Quel giorno le richieste in stile juke-box dei colleghi caddero nel vuoto, Antonio non aveva voglia di cantare e non cantò.
XIV
La spinta
Ormai si era fatto tanti amici, là nella città che lo aveva adottato e che ora sentiva come casa sua; eppure, la sua allegria e la sua esuberanza pareva nascondessero qualcosa. Gli mancava forse il profumo dei boschi e il silenzio della campagna oppure non si era ancora del tutto ambientato? La verità era ben più complessa; lui stava crescendo in fretta, ma il mondo intorno a lui stava cambiando ancora più velocemente e si sentiva sempre un o indietro. Era un lavoratore, tutti quei suoi amici, studenti. Nonostante tutte le lotte, le proteste, le manifestazioni degli anni precedenti, vissuti in nome di ideali condivisi, quei due mondi erano ancora separati, non comunicanti; le uniche ragioni del loro stare insieme parevano legate alla comune giovane età, ai miti e ai sogni. Il contatto col mondo studentesco affinava il suo modo di parlare e perfino di agire e all’occorrenza diceva la sua, ma non si sentiva trattato come protagonista, in altre parole stava con loro, era accettato e ben voluto ma non era uno di loro; o forse a lui pareva così. Questa nuova situazione di disagio non l’aveva proprio prevista, fino ad allora aveva pensato di esistere solo come giovane, non come giovane lavoratore; eppure tutti quei ragazzi, un giorno sarebbero andati a lavorare, anche se forse tutti in ufficio, invece che a fare l’operaio come lui. Considerava ogni tipo di lavoro con pari dignità e non gli importava se alcuni erano ben vestiti mentre lui indossava la tuta da lavoro; si sentiva a suo agio vestito da operaio, perché considerava ogni abito funzionale al suo scopo, come i pantaloncini per un calciatore, il tutù per una ballerina o la cravatta per un impiegato. Quello che non gradiva era una società divisa in classi e questo accadeva anche fra i suoi coetanei; lui non si sentiva inferiore a nessuno, come tutti cercava di ampliare le sue conoscenze sforzandosi di crescere come uomo, ma nonostante i suoi sforzi, si sentiva considerato di un’altra categoria. Vedeva sfuggire il tempo, come se i momenti vissuti con loro non stessero portando frutti; si sentiva un brutto anatroccolo, ma non lasciava nulla di intentato per essere sempre e comunque
accetto e gradito. Non perdeva occasione per mettersi in mostra, per spingersi avanti; a volte scimmiottava i ragazzi più divertenti imitando le loro battute, a volte era lui a inventarne, anche fino a rendersi ridicolo. Frequentava vari gruppi di amici, anche se spesso sapeva poco di loro, tanto era scarso il tempo che poteva trascorrere in città; in uno di questi gruppi spiccava la bella presenza di un ragazzo un po’ più grande. Era gravemente handicappato, camminava con molta difficoltà con l’aiuto di stampelle e si reggeva in piedi a fatica; anche il suo parlare era un po’ smozzicato, ma aveva una grande presenza di spirito e tanta simpatia, perciò quando arrivava entrava subito al centro della scena. L’attenzione che suscitava era dovuta in parte anche alle sue condizioni fisiche, nella logica di mutuo aiuto che animava quei ragazzi, ma lui non voleva preferenze, non amava essere considerato speciale, tantomeno diverso, si sentiva uno di loro, che aveva come caratteristica principale la lentezza. Antonio ammirava molto la sua forza d’animo e la sua ironia, ma più ancora il suo essere uomo, pari nella dignità; lo sentiva come alleato nel suo disagio, ma per sé non poteva vantare nessun handicap. Avrebbe voluto fare squadra con lui, ma non sapeva come entrare nelle sue grazie, non voleva apparire commiserevole, voleva essere suo amico alla pari, perciò cercò di aprire con lui un confronto, di intrecciare un dialogo, ma il loro rapporto stentava. Decise allora di confrontarsi con battute di spirito, ma non sempre funzionava, finché un giorno, nel fervore dell’ironia Antonio perse il controllo. Mentre rideva per una battuta, mollò una pacca sulla spalla di quel ragazzo; si trattava di un gesto bonario neppure pesante, ma per lui fu troppo forte, iniziò a muoversi in modo scomposto come se volesse camminare, ma all’improvviso le sue gambe cedettero e cadde malamente sullo specchietto retrovisore dell’auto a cui era appoggiato. Antonio non comprese subito cosa stava succedendo e restò immobile, mentre gli altri ragazzi intervennero prontamente. Non aveva idea che quel ragazzo fosse così debole e non riusciva a credere di essere stato proprio lui a causarne la caduta, ma quando si sentì dire da lui che non voleva essere toccato, si vergognò diventando rosso in viso come suo solito. Ripensò all’imprecazione che aveva subito, “stronzo!” e si sentì tale; questa volta si era spinto troppo oltre.
XV
La Chioccia
Petto gonfio da Gallo Cedrone, sguizzante e giocosa come una Lontra, musetto buffo di Riccio, occhietti furbi da Volpe. Le sue misure erano… tutte fuori misura, come la sua simpatia; Antonio non poté fare a meno di notarla. Certo non era il modello di ragazza che lui bramava, ma aveva uno strano fascino ammaliatore e una naturale predisposizione all’amicizia, quella sincera e spontanea… l’unica che lui praticasse e che cercava ovunque, così mentre era impegnato a correre qua e là come fosse in un pollaio a inseguire pollastrelle, quel sorriso lo attirò come una calamita. L’aveva conosciuta al campeggio all’Alpe, e volendo rivederla conservò con cura il suo indirizzo e il numero di telefono. Si presentò alla sua porta non senza un po’ di titubanza, lei lo accolse con gioiosa sorpresa e anche la mamma di lei fu felice di ospitarlo in casa; non si farà mica strane idee?! pensò Antonio fra sé mentre sorrideva alla signora. Le visite si susseguirono e ogni volta lui si sentiva sempre più a casa sua; il suo desiderio di approccio con l’altro sesso difettava un po’ di comunicazione, ma lei lo metteva completamente a suo agio e nacque un’intesa. Antonio comprese ben presto la profondità di quella persona, che aveva un cuore di ragazza, due occhi di fanciulla e un portamento di donna; non ne era innamorato, eppure l’amava. Fino ad allora aveva guardato le ragazze solo in due modi: compagne di scuola e di giochi o prede da conquistare. Con lei scoprì definitivamente il valore dell’amicizia fra uomo e donna, un assioma contestato dai più, che pensavano a lui e lei come attrazione di corpi, carne perennemente turgida, febbricitante di ione. I giovani in special modo erano visti così, la società li voleva così, proprio mentre fra di essi emergeva il bisogno di aprire i cuori, non solo le membra. Antonio stava crescendo, e insieme alle sue pulsioni cresceva in lui il bisogno dell’altro, di un confronto a viso aperto e in quel momento non riusciva a trovarlo con nessun altro al di fuori di lei o almeno così credeva lui. In realtà le loro esperienze familiari, per quanto diverse, come ambiente di vita e di focolare, li accomunavano; famiglie semplici, dai buoni principi e dai forti
contrasti, dove ciascuno irrevocabilmente veniva di continuo richiamato alle proprie responsabilità e dove era inevitabile una maturazione precoce. Entrambi erano più grandi della loro età, e questo li esponeva ai rischi del mondo; lui, che veniva dal piccolo borgo di campagna, era affascinato dalla città, ma si sentiva un po’ perso, lei, che in città c’era nata e cresciuta, ci si sentiva prigioniera e aveva voglia di nuove scoperte, di girare il mondo. La musica d’oltre oceano, i figli dei fiori, la fantasia al potere, le rivoluzioni culturali, la tempesta di nuove idee… era una miscela inebriante ed esplosiva che li vedeva in sella come una coppia di moderni Don Chisciotte. Ma in fondo ciò che veramente li univa, era quello sguardo d’intesa che andava oltre le pupille, oltre ogni malizia, oltre ogni invidia, oltre ogni immaginario. Al principio, lui si sentiva come protetto, come un pulcino sotto le ali della chioccia, e così lo vedevano anche gli amici, ma ben presto, benché più giovane e più inesperto la considerò come sua pari. Antonio trascorreva la maggior parte del suo tempo lontano da casa, fra lavoro, bar, amici, interessi religiosi e sportivi, ma sempre comunque intorno alla città; ormai la campagna era lontana, per quanto lavorasse ancora duramente a fianco di suo padre ogni volta che c’era bisogno, cioè spesso. Lei invece, da poco tempo, era rimasta orfana di padre e questo la rendeva un po’ malinconica; il rapporto con suo padre infatti era stato assai turbolento, sia per la rigidità di lui, tipica dell’impostazione familiare di quegli anni, sia per il carattere esuberante e ribelle che la distingueva. Aveva un fratello più grande già sposato e abitando da sola con la mamma le mancava un riferimento maschile adulto; la mancanza di quel padre che avrebbe desiderato, e ora anche di quello che gli era toccato, la rendeva volubile e insicura nonostante la sua maturità di donna. La sua mamma venutasi a trovare da sola, la ricopriva di troppe attenzioni, un po’ per bisogno, un po’ per il timore che potesse prendere brutte strade, per questo fu felice di vedere in casa sua quel ragazzino così gentile; sperava che sua figlia trovasse in lui un amico che la calmasse un po’. Da parte sua, anche lei cercava un amico in cui riconoscersi, qualcuno che la ascoltasse e la capisse, fuori dai pregiudizi e dalla censura; quello era proprio Antonio, ancora acerbo, ancora ragazzo, ancora sbarbatello, ma leale, sincero e aperto all’ascolto. Lui cercava solo amicizia e in cambio offriva la sua; da lei ne ricevette tanta e neppure si accorse di quello che aveva dato, abituato com’era a voler stare in mezzo, come pure a farsi da parte.
XVI
Vito
Come molte altre attività del Borgo Giannotti, anche la vetreria in cui Antonio lavorava era a conduzione familiare, di conseguenza anche i rapporti fra titolari e dipendenti erano di tipo familiare. Questo non impediva, anzi favoriva i richiami a sbrigarsi, a darsi da fare, a produrre. Antonio era avvezzo a quel tipo di richiamo e neppure lo disdegnava, considerandolo come un pungolo, un incitamento, piuttosto che una critica; perciò lo accoglieva sempre con un certo favore, mai mugugnando, eventualmente lamentandosi apertamente. I richiami più graditi venivano da Vito, uno dei titolari; un ometto tarchiato, impettito e dal ghigno irriverente. Di origine pugliese e di sangue bollente, pareva sopraffatto dalla sua stessa energia; ostinato, capace e infaticabile, mai accettava di restare indietro ai suoi dipendenti. In ogni occasione, in qualsiasi tipo di lavoro, voleva primeggiare, precedere gli altri; non era presunzione o spocchia, era il piglio del capo, del leader, di colui che dà l’esempio, che mostra il lavoro ben fatto, era voglia di fare e questo ad Antonio piaceva, animato com’era dalla voglia di imparare e di farsi valere. Venendo continuamente spinto alla competizione, sorse in lui il desiderio di superare quel suo capo così esuberante e in ogni occasione studiava il modo per stargli davanti. Macché! Non c’era nulla da fare, quel piccolo uomo dai capelli bianchi e spelacchiati, pareva proprio insuperabile, al contrario, Antonio, un giorno dovette umiliarsi. Dovevano scaricare una piccola cassa di vetro stretta e lunga, ma del peso di alcuni quintali; stava sul pianale di un furgoncino e la gru non ci arrivava. “Scarichiamola alla pisana,” propose Vito. “Non so se ce la facciamo,” replicò Antonio. “Ma sì andiamo!” concluse Vito con decisione.
Il metodo alla pisana, a dispetto del nome, non si sapeva bene da dove provenisse o perché lo chiamassero così, ma era molto semplice e sicuramente usato già in antichità. Anziché sollevare tutto l’oggetto, lo si faceva scivolare dal carro fino ad appoggiare una estremità a terra, poi si sollevava l’altra estremità, si faceva spostare il carro da altri e si calava il peso a terra; in questo modo si doveva sollevare soltanto la metà del peso. Semplice e ingegnoso, ma Antonio era perplesso a causa del notevole peso della cassa. Su insistenza di Vito cedette alla richiesta e si apprestò a sollevare insieme a lui l’estremità della cassa, che nel frattempo era stata fatta scivolare a terra. Vito aveva braccia corte e robuste, Antonio invece, aveva braccia robuste ma lunghe; le loro leve non coincidevano, così Antonio si trovò fuori forza. Su incitazione di Vito, provò e riprovò, ma alla fine, nel timore di non riuscire e di farsi male, si arrese. “No!” esclamò deciso. “Non posso farcela! Ho bisogno di aiuto!” Vito lo guardò sorridendo come si guarda un cucciolo in difficoltà e chiamò Arcangelo a dargli una mano. Per Antonio fu una vera sconfitta, aveva mostrato un suo lato debole; immaginava di avere la stessa grande forza di suo padre, ma pur avendo sempre saputo di essere un po’ debole di braccia, non lo aveva mai confessato a se stesso. Comunque non si arrese, continuò più di prima a cercare un modo per superare Vito e finalmente arrivò. Un giorno partirono in tre, Vito, Antonio e Alfredo, dovevano montare dei vetri in un capannone, una lunga serie di finestre a tre vetri ciascuna. Saliti sul ponteggio con vetri e attrezzatura, iniziarono a montare ciascuno il proprio vetro; terminata la prima, scesero, spostarono il ponteggio e risalirono per un’altra finestra. Il lavoro era uguale per tutti e tre, ma Vito come al solito, lavorava più svelto per finire prima degli altri due. Per le prime finestre, Antonio osservò bene il lavoro e le mosse di Vito, studiò con attenzione le difficoltà del lavoro e quelle eventuali del suo capo, poi senza farsi notare, si organizzò scrupolosamente per le finestre successive. Si applicò con estrema cura, per non sprecare neppure un secondo e, lavorando con la solita disinvoltura, ma con mosse più rapide e precise, riuscì più volte a terminare qualche secondo prima di Vito senza però dare alcun peso alla cosa. Vedendosi superato, Vito cominciò a innervosirsi e a borbottare, come se il lavoro non gli venisse bene. A quel punto, Antonio lo guardò con espressione stupita dicendo: “Che succede, hai qualche problema?”
E Vito, mordendosi le mani confessò: “Porco-Giuda-ladro-assassino! Finivo sempre prima di voi, ora invece finisco più tardi! Come se non riuscissi più a lavorare.” “Mah?!” replicò Antonio flemmatico, e con fare indifferente si voltò e riprese il suo lavoro. Gli ci volle tutta per trattenersi in un sogghigno, tale era la soddisfazione che avrebbe voluto scoppiare a ridere; solo a fine giornata, vedendolo ancora pensoso, confessò a Vito il suo tiro mancino e lui incredulo scoppiò in una grassa risata. A quel punto Vito capì che Antonio non voleva restare indietro e apprezzò ancora di più il suo sforzo coinvolgendolo maggiormente nel lavoro. Le loro scaramucce proseguirono e i successi di Vito si moltiplicarono, non solo per la sua indomita voglia di prevalere, ma anche perché ad Antonio non importava più di tanto primeggiare; aveva dimostrato di poterlo fare e questo gli bastava. La competizione per lui non era legata al fare prima, ma al fare meglio di prima. Qualche tempo dopo si recarono nella media valle a montare dei grandi vetri in un nuovo negozio; essendo assai lontano Vito, Antonio e Alfredo, andarono di sabato mattina in orario straordinario, bisognava concludere subito il lavoro per evitare di ritornare. Tutto pareva procedere per il meglio, finché scaricando il vetro più grande si trovarono in difficoltà; nessuno dei tre aveva predisposto un piano d’appoggio morbido per posare il vetro a terra, neppure Vito ci aveva pensato, perché la sua intenzione era quella di metterlo direttamente in posa sulla finestra, ma giunti nella stanza, Antonio e Vito trovarono il aggio ostacolato e dovettero prolungare il tragitto. A un tratto, Antonio inciampò e sentì scivolare la presa, allarmato esclamò: “Mi scivola! bisogna posarlo!” Ma Vito non gli dette subito ascolto e abbassò il vetro solo quando lo vide fare ad Antonio; troppo tardi, Antonio calò prima, il vetro toccò d’angolo e si ruppe. Vito saltò su tutte le furie; oltre al danno non da poco, bisognava anche ritornare un’altra volta, non c’era tempo di rimediare quella mattina e imprecando redarguì duramente Antonio, accusandolo di avere sbagliato, di aver agito sbadatamente e frettolosamente. Antonio, assai rammaricato, tentò di spiegare che era inciampato, che aveva provato a tenere il vetro, e che non riuscendoci lo aveva avvisato, ma Vito non volle sentire ragioni, era davvero infuriato. Gli era
già capitato di sentir gridare il suo capo a quel modo, solitamente quando lo faceva aveva tutte le ragioni, ma quella colpa non poteva accettarla, non era tutta sua. Lasciò sbraitare Vito, poi dette sfogo al suo dissenso; controllando a stento le parole, con voce alterata minacciò di andarsene e a nulla valse il richiamo alla calma di Alfredo; Antonio sapeva di non avere torto e questa non l’avrebbe mandata giù. Di fronte a quel ragazzo, più infuriato di lui, Vito si zittì; Alfredo ne fu meravigliato, non gli era mai capitato di vederlo arrendersi. Recuperando la calma, Vito disse: “Cerchiamo di montare tutti gli altri vetri, per quello grande ritorneremo”. Per tutta la mattina, compreso il viaggio di ritorno, non vi fu altra conversazione, ma quello scambio di battute feroci non minò l’intesa fra i due, che anzi si rafforzò e crebbe come la reciproca stima. Un anno dopo accadde qualcosa di simile, questa volta fu tutta colpa di Antonio, era da poco patentato e affrontando bruscamente una curva, fece sbattere il grande vetro che, non essendo ben fissato sul cavalletto, si ruppe sul cassone; quella volta Vito poté accusarlo giustamente, ma forse si sentiva in debito e non alzò la voce.
XVII
Austerity
Scoppiò la crisi petrolifera e con essa arrivò l’austerity. Gli italiani, guardando la TV imparavano continuamente parole nuove e prendevano padronanza con la lingua, stavano uscendo definitivamente dall’analfabetismo. Conoscevano anche qualche parola straniera, e fra queste, austerity aveva un significato fin troppo chiaro: austerità, cioè rinuncia al di più, meglio ancora fare con poco, avere poco. I più anziani avevano sperimentato a lungo quel regime di vita, peggiorato dal razionamento del cibo durante la guerra; ora si doveva rinunciare solo a un po’ di quel benessere acquisito col boom economico negli anni precedenti, al confronto una bazzecola, ma le nuove generazioni si erano abituate alle comodità e all’accumulo, e qualsiasi rinuncia pesava. Con l’austerity cominciarono a scarseggiare alcuni generi alimentari, fra questi, il pane e lo zucchero. Antonio viveva l’età della spensieratezza e, benché il suo impiego nel mondo del lavoro fosse legato alle necessità, non prestava troppa attenzione a queste cose; gli parevano questioni troppo grandi che un po’ lo incuriosivano, ma che poi sfuggivano alla sua comprensione: in quel periodo era conosciuto come uno sputasentenze spesso immotivate. Quella sera, però, si scontrò con la dura realtà della natura umana; tornando a casa, Antonio e suo padre si fermarono alla bottega di generi alimentari, sbrigati i pochi acquisti, Enzo si intrattenne a parlare con Amerino, amico e proprietario del negozio. Era un uomo tranquillo, di poche parole, sempre sorridente e ben disposto, ma serio, risoluto e onesto nei suoi comportamenti, nonché poco incline a sopportare malizie, sotterfugi e abusi. I due adulti si scambiarono varie considerazioni sulla situazione economica, politica e sociale del momento, barcamenandosi fra lo sconforto per le tante cose che non funzionavano e il reciproco incoraggiamento a non mollare, a fare qualcosa di buono per il futuro e per i figli; come altre volte, era proprio questo fervore per la famiglia a prevalere e ad alimentare in loro la speranza.
Stavano perciò per salutarsi su questa reciproca raccomandazione, quando Enzo domandò: “E allora pensi che la mancanza di zucchero si risolverà presto?” “è un bel problema e non so risponderti, ma speriamo di sì.” Da poco era entrato in negozio un signore sconosciuto, che stava cercando prodotti fra gli scaffali, visto che si serviva da solo, Amerino aveva lasciato fare, continuando la sua chiacchierata. A quel tale non erano sfuggite le riflessioni dei due amici, tanto che a conclusione del loro colloquio, confessò in modo strafottente: “Io non ho questo problema! Anche se lo zucchero mancasse a lungo, io non mi preoccupo, a casa ne ho settanta chili!” Enzo e Amerino strabuzzarono gli occhi: “Cosa?!” esclamò Amerino alterando il tono della voce. “Disgraziato! Non ti vergogni? Cosa ci fai con settanta chili di zucchero? Ci sono famiglie a cui manca e tutti ne hanno bisogno!” Poi, sopraffatto dal disgusto si avvicinò a quell’uomo, e parlandogli sul viso, indicò la porta dicendo a denti stretti: “Posa la roba che hai preso e vai fuori di qui! E non farti più vedere!” A quelle parole, l’uomo posò le poche cose che aveva in mano e uscì borbottando e smanaccando. “Speriamo che si vergogni e che condivida un po’ dello zucchero che ha!” affermò Enzo senza troppa convinzione. “Mah, chissà!” rispose Amerino ancora accigliato, poi scuotendo la testa tornò mestamente dietro il bancone. Antonio, goloso com’era, pensò speriamo che in casa nostra non manchi! Comunque sarà meglio che ne usi un po’ di meno!, non riusciva a immaginare come poteva essere la vita senza zucchero, ma improvvisamente, quello che aveva studiato a scuola, e visto in TV, gli apparve chiaro, se la scarsità di zucchero preoccupava, la mancanza di cibo, doveva essere terribile per gli affamati. Arrivò l’autunno, e i problemi di approvvigionamento furono risolti; si era trattato di speculazione: far scarseggiare la merce per pretenderne un prezzo più alto. Alla fine dell’autunno, però, la crisi petrolifera si aggravò e vennero imposte severe restrizioni energetiche, fra cui il blocco totale del traffico domenicale. Questa nuova situazione, nonostante i disagi specialmente per chi stava in
collina e lontano dalla città, portò ad Antonio un poco di allegrezza; anche durante quei mesi freddi, ogni domenica partiva dal paese in sella alla sua bici rossa per recarsi a Lucca a incontrare gli amici, a giocare con loro, a bighellonare per la città, ad andare al cinema… Le strade erano deserte, e viaggiando in bici Antonio usava tutta la carreggiata, zigzagava a cavallo della striscia di mezzeria, insomma poteva fare lo scemo in mezzo alla strada come se fosse tutta sua, ed era proprio divertente; pedalando da solo nel freddo pungente, immerso nel silenzio della campagna, si sentiva il padrone del mondo. Anche la città non pareva più la stessa, tanto più tranquilla che, rinchiusa com’era dentro le sue mura, pareva addormentata. Una domenica, Antonio e i suoi amici, si sfidarono sulle mura, che prive di traffico, somigliavano a una grande giostra pronta a mettersi in moto; inseguendosi fra un baluardo e l’altro, su e giù per quei bastioni, come in un circuito di montagne russe, correvano con le bici all’impazzata, fino a piombare per ripide discese in qualche piazzetta, raccogliendo gli accidenti delle poche persone a eggio. L’indomani sarebbe tornato ancora lì, e la città sarebbe stata di nuovo brulicante di vita; quella sera, però, col buio, tornando verso casa, il viaggio gli parve più lungo del solito, non vedeva l’ora di arrivare, la strada non finiva più, e quell’unico fanale, il suo, gettava sull’asfalto una luce triste e malinconica, come se al mondo, in quell’aria ormai gelida ci fosse solo lui.
XVIII
Gigi e i provervi
Con una mano a sorreggere la testa leggermente piegata, e l’altra appoggiata sul mento, Gigi l’Americano, l’anziano zio di Angelo, sta ascoltando con grande attenzione Antonio, che snocciola le sue convinzioni etiche. Il ragazzo, che ormai si sente grande, manifesta la volontà e l’ostinazione di difendere principi e valori fondamentali, anche a costo di caro prezzo, contestando il compromesso praticato da molti. Con gli occhi spalancati, Gigi lo osserva divertito e fiero; a ogni affermazione del ragazzo annuisce dondolando il capo su e giù, e con le labbra strette, trattiene a stento un sorriso di compiacimento. Anche Enzo ascolta le ragioni di suo figlio, osserva le sue mosse e sorride; ha le mani giunte e per lui questo non è solo il gesto della preghiera, lo fa ogni volta che mostra grande interesse. Appena il ragazzo conclude la sua arringa, Gigi apre il suo sorriso e fa brillare i suoi grandi occhi sul viso scarno, segnato dall’età. Restando per qualche attimo in silenzio, fissa con dolcezza il ragazzo, poi dondola la testa con movimento continuo ma diseguale; dapprima su e giù come ad annuire, poi stringe le labbra e gira la testa a destra e a sinistra più volte come a dissentire, infine aprendo un po’ le labbra, dondola il capo da una spalla all’altra come a indicare perplessità e dubbio. Antonio osserva divertito il dondolare di quel testone calvo, con quel viso irsuto e quel sorriso beffardo; tutto quel movimento silenzioso lo rallegra, perché gli ricorda il ciondolare delle grandi maschere del carnevale di Viareggio, forse Gigi è ancora più buffo. In quei movimenti, Gigi ha fatto la sua sintesi. Ma cosa pensa veramente? si chiede Antonio. Gigi è uomo di mondo a tutti gli effetti; anziano, saggio, ricco d’esperienza, ha vissuto in America per mezzo secolo e in modo avventuroso per giunta, almeno così si dice. Aveva già conosciuto uno zio Gigi d’America, il fratello di nonna Paola, ma lo aveva incontrato molti anni prima e non ne aveva ricavato grandi
insegnamenti, perciò questo ennesimo emigrante d’oltremare appare ai suoi occhi molto più interessante. Lo zio di Angelo infatti è stato grande giocatore di poker e come tale, ha vinto tutto e perso tutto; di conseguenza si è adattato anche ai lavori più umili ed è stato perfino fuorilegge, trasportando liquori di contrabbando al tempo del proibizionismo. Anche Enzo pare perplesso delle cose dette, Antonio lo ha percepito, e attende silenzioso e paziente una qualche osservazione, in particolare spera che quelle labbra si schiudano, vuole ascoltare l’opinione di quell’uomo taciturno. Ma Gigi non è uomo che pontifica, perciò tace ancora per qualche istante, insegnando che la parola è come l’acqua, che per sgorgare pura e limpida deve sorgere dal profondo ed essere a lungo filtrata. Finalmente Gigi si concede e racconta una storia.
Un frate molto anziano e un po’ obeso risaliva affannosamente un irto colle, per raggiungere la chiesetta sulla sommità, là lo attendevano molte persone per la celebrazione della S. Messa ed era in grave ritardo. La fatica era tanta e la sua mole, caricata sugli acciacchi dell’età, non gli permetteva di andare a o svelto; sicché, data l’ora tarda, si raccomandava con preghiere sempre più insistenti, di ottenere l’aiuto necessario per poter giungere in tempo a celebrare all’ora stabilita. A un tratto, dietro di lui, sopraggiunse un barroccio tirato da un mulo recalcitrante, guidato da un boscaiolo, che frustava l’animale imprecando e bestemmiando. Udendo quello sferragliare misto di schiocchi di frusta e male parole, il frate fu preso da sgomento e alzando gli occhi al cielo, supplicò di esser liberato da quelle presenze demoniache. Poi ci ripensò; se quel carro andava su fino alla chiesetta forse sarebbe potuto salire. Insistendo nella preghiera, si voltò e fece cenno al boscaiolo di fermarsi, questi fermò il barroccio e guardando il frate ansimante, domandò: “Volete salire?” “Sì buonuomo, ne avrei proprio bisogno! Devo celebrare Messa su alla chiesetta,” rispose il frate. “Beh, se volete salite pure,” disse il boscaiolo, “ma non garantisco che il mulo ci porti tutti e due fino in cima, quando sente troppo peso da tirare si impunta e l’unica cosa che lo fa camminare sono le bestemmie!”
“Per carità!” esclamò il frate mentre saliva. “Vi scongiuro, fatene a meno!” Il boscaiolo riprese il viaggio e con tutta la sua buona volontà cercò di evitare bestemmie e parolacce, ma poco dopo il mulo si impuntò e non voleva più saperne di andare avanti. “Padre, vi avevo avvisato,” disse rivolto al frate, “se non gli mando qualche accidente accompagnato da parolacce, questo non si muove più!” Il frate con le lacrime agli occhi e le mani imploranti, non poté far altro che arrendersi. “E va bene,” disse con triste rassegnazione, “se proprio dovete, pronunciate quelle brutte parole, io mi tapperò le orecchie mentre prego.” Agitando la frusta al suono di indicibili bestemmie, il boscaiolo fece ripartire il mulo e il frate poté arrivare in cima al colle in tempo per la funzione.
Finito il suo racconto, Gigi fissa il ragazzo con sguardo interrogativo senza aggiungere altre parole, muta solo l’espressione del viso, riprendendo il suo sorriso beffardo. Antonio non sa cosa dire, né come replicare; si aspettava qualche profonda riflessione, qualche racconto delle sue esperienze, questa invece è una strana storia, resta pensieroso a capo chino per qualche attimo. Ci pensa Enzo a rompere il silenzio. “Allora, hai capito il significato di questa storia?” chiede al ragazzo. “Se capisci questa, puoi capire tutti i proverbi!” Antonio non sa cosa rispondere; alzando il capo, volge uno sguardo remissivo verso suo padre e verso Gigi e fa soltanto un breve cenno col capo, come a dire “ci penserò!”
XIX
Prime gare
Si presentò all’appuntamento pieno di speranze; il circolo sportivo aveva la sua sede in un piccolo bar, un ambiente semplice e familiare. Anche lì c’era chi andava solo per bere o per giocare a carte, ma appena si presentò, lo accolsero con calore e lo invitarono in una stanzetta all’interno; lo stavano aspettando. Fra tutti quei sorrisi di compiacimento per un nuovo arrivato, Antonio si sentì un po’ a disagio, che si aspetteranno mai da me? si chiese un po’ preoccupato. Ci pensò subito il presidente a metterlo a suo agio. “Piacere io sono Giuseppe, lui è Livio, l’allenatore, e gli altri sono tutti amici. Tu ti chiami?” “Antonio!” rispose deciso lui. “Allora, ci hanno detto che vorresti correre in bici, come vedi questa è una piccola società sportiva, ma a noi piace dare l’opportunità di correre a chi ha voglia di farlo, tu hai mai gareggiato prima d’ora?” “No, ho solo scorrazzato in qua e in là, ho una bici sportiva, col cambio,” risponde Antonio, fiero e col viso un po’ più disteso. “Ah, allora fai anche la salita!” esclama Livio felicemente sorpreso. “Mmh, veramente di salite lunghe non ne ho ancora fatte, ad esempio, per arrivare a casa mia dal fondovalle ci sono quattro chilometri, ed è una gran faticata, allora tengo la bici in garage da un amico giù al piano, da lì la porto al Giannotti il lunedì, ci vado in giro per città e dintorni durante la settimana, poi la riporto via, e la domenica la prendo per andarci a Lucca.” Mentre lui racconta, tutti lo ascoltano con attenzione e annuiscono con la testa,
apprezzandone la sincerità e la franchezza. È una piccola società sportiva l’Unione Sportiva S. Alessio, vanta pochi atleti, ma poggia su sani principi, lealtà, pulizia, coraggio. “Non preoccuparti delle salite!” lo rassicura il presidente. “Ci penserà l’allenatore a preparati a dovere insieme agli altri; abbiamo altri tre ragazzi, contiamo su di voi, cercate di farvi onore!” Parlarono ancora un po’, del lavoro, della famiglia, delle sue eventuali difficoltà, poi il presidente concluse dicendo: “Allora, se sei davvero deciso, in settimana andremo a fare la visita medica, poi, se tutto è a posto la bici da corsa te la daremo noi, sei contento?” Antonio era raggiante e riuscì a dire a mala pena: “Sì”. Superata brillantemente la visita medica, lo richiamarono per ordinare la bici; “Eccola qua!” dichiarò Poli, il fornitore. “Tutta Campagnolo e montata su misura, con doppia moltiplica per dodici rapporti. Un vero gioiello!” “Ora sì che posso salire fino a casa!” esclama Antonio soddisfatto. Appena inforcò quella bici leggerissima e filante, si animò di grandi ambizioni, ma trovò subito difficoltà con gli allenamenti comuni, gli altri studiavano e potevano allenarsi nei brevi pomeriggi invernali, lui invece lavorava fino a tardi, e a poco servivano i massaggi che si faceva ogni sera alle gambe, come consigliato dal medico sportivo. Antonio rivelava grande forza nelle gambe, tanto fiato nei polmoni e capacità di soffrire; ma nelle brevi gare per allievi contava soprattutto l’agilità, la scioltezza di gambe, la capacità di mulinare velocissimo sui pedali; le prime gare pianeggianti infatti, si risolvevano in una serie infinita di scatti e contro scatti. Quando Antonio si presentò al via della prima gara, aveva il cuore che palpitata, ma era solo emozione, non immaginava che di lì a poco, se lo sarebbe ritrovato in gola fin quasi a strozzarsi. La gara partì subito a mille e il gruppo si scatenò fin dal primo giro in una serie di scatti forsennati sul filo dei cinquanta all’ora. Antonio avrebbe avuto la forza sufficiente per tirare rapporti molto lunghi, ma il regolamento era chiaro e rigido, per gli allievi c’era un limite al massimo rapporto; perciò per raggiungere quelle velocità occorreva far girare le gambe come eliche. Antonio non aveva quel tipo di allenamento e faticava a tenere le ruote, così si lasciava un po’ sfilare nel lungo rettilineo e recuperava sulla frenata del gruppo, prendendo in velocità la curva a gomito. Al terzo giro però perse troppo contatto, così abbordò la curva a tutta velocità, e si rialzò sui pedali ancora inclinato, una gobba dell’asfalto lo
fece sobbalzare, e scivolando a terra finì la sua corsa giù dal poggio, dentro una fossa. Si rialzò prontamente e avrebbe voluto ripartire subito, ma la ruota anteriore della sua bici era tutta storta, la sua prima gara finì malamente. Aveva preso un gran botta sull’anca e risalendo in bici sentiva assai dolore; riprese l’allenamento solo verso la fine della settimana provando a fare un lungo giro per vedere come stava. Aveva ancora dolore e non riusciva a spingere più di tanto; l’indomani si gareggiava, c’era una salita leggera ma lunga, da ripetere varie volte, lui proprio non se la sentiva e lo comunicò all’allenatore. Ma la sera, con sorpresa, se lo ritrovò a casa accompagnato dal presidente e dal vice. “Come non corri? Non avrai mica paura?!” “No, non ho paura,” spiegò Antonio. “è che ho ancora dolore dalla botta che ho preso e non riesco a pedalare con tutta la forza, così ho pensato che sarebbe meglio non sforzarmi.” “No, è proprio gareggiando che puoi recuperare meglio!” sollecitò il presidente. “Se rimani staccato non importa, ma è bene che tu gareggi!” Antonio non era affatto convinto, temeva di fare pessima figura, non lo avrebbe voluto per sé e nemmeno per loro, ma per rispetto a quelle persone, animate da tanta ione, si arrese e accettò di gareggiare. A vederlo correre erano venuti anche dal suo paese, perciò ce la mise tutta, ma appena la corsa si fece dura rimase staccato; strinse i denti, imprecò, sbuffò, ma non ci fu nulla da fare, con quel dolore e poco allenamento, si ritrovò nel gruppetto degli ultimi. Non riuscendo a rientrare sul gruppo, gli altri rallentarono, e lui non poté certo mettersi a fare l’andatura, così sulla penultima asperità vennero doppiati; a quel punto non aveva senso fare ancora un giro e andarono anche loro diretti al traguardo. I suoi paesani lo applaudirono comunque, immaginando che fosse arrivato immediatamente dopo il gruppo; lui conosceva la verità ma non disse niente, perché era veramente deluso.
XX
Il gregario
Dopo le delusioni delle prime corse si presentò al via a Bagni di Lucca nuovamente motivato, il circuito non era difficile, circa tre chilometri di discesa, due di leggera salita e mezzo chilometro pianeggiante: una corsa da arrivo in gruppo. Questa volta era in grado di rispondere a tutti gli scatti e per un po’ fu animato da grande soddisfazione; a due terzi di gara volle mettersi alla prova, dopo il traguardo rallentò un po’ e sull’attacco successivo scatenato in discesa perse contatto col gruppo che filava via velocissimo. L’adrenalina salì alle stelle, che sto facendo? si domandò, non mi succederà mica come la prima volta?; voleva dimostrare a se stesso prima che agli altri che era in grado di recuperare, di rimontare il distacco e ci riuscì facilmente senza troppo sforzo, ma non da solo. Purtroppo fra quelli che erano rimasti indietro c’era anche uno dei favoriti alla vittoria, il quale se la prendeva comoda restando nelle retrovie e lasciando sfogare il gruppo; volendo anche lui rientrare fece cenno ad Antonio e credendolo in difficoltà disse: “Andiamo, vienimi dietro che rientriamo!” Antonio non seppe replicare e lo seguì. A metà della salita successiva, si accorse che il nuovo compagno di squadra arrivato da poco era rimasto indietro e pedalava con affanno. Proprio come lui nella prima gara, mancando di allenamento, non riusciva a sostenere quei ritmi forsennati; Antonio rallentò di nuovo e lo attese, gli si affiancò per chiedergli come stava, e quello rispose in modo disarmante: “Non ce la faccio più, mi ritiro!” affermò con gesto di stizza. “Non te lo permetterò!” gli gridò Antonio perentorio. “Mancano solo un paio di giri, ormai è quasi finita, andiamo, mettiti a ruota!” Si pose davanti a lui e ricominciò a pedalare più forte, ma senza strafare per non sfiancarlo. La gente schierata lungo la strada notò quel gesto di altruismo e si
mise a incitare tutti e due, quando ricominciò la discesa Antonio si voltò ancora verso di lui e gridò: “Dai ora! Stammi incollato!” E spingendo a più non posso sui pedali recuperò un po’ del distacco dal gruppo. Quando ricominciò la salita il suo compagno andò di nuovo in crisi. “Lasciami indietro e rientra solo tu, io non ce la faccio,” disse sfiduciato, ma Antonio insistette: “Non voglio sentire storie! Dai! Spingi che ormai siamo arrivati!” E si rimise davanti a tirare. Le gambe gli facevano male, ma tutti quegli scatti non lo avevano indurito, sentì che l’allenamento cominciava a dare risultati, la fatica poteva essere vinta, ma il suo compagno sbuffava e smanettava sul cambio, era proprio al gancio. Antonio lo affiancò e gli urlò ancora di seguirlo, si rimise davanti ma poco dopo dovette rallentare, lo affiancò di nuovo e di nuovo si mise davanti, e così via con ostinazione. In quella fase il gruppo rallentò un poco, i velocisti si studiavano in vista della volata, così anche Antonio e il suo compagno riuscirono finalmente ad accodarsi al gruppo. La gente che già li aveva incitati al giro precedente gridava: “Forza, dai!” E giù applausi, a quelle grida d’incoraggiamento Antonio non sentì più la fatica e il suo compagno trovò la forza di reagire; quando la folla vide che la rimonta era avvenuta con successo scrosciarono applausi. Tagliarono il traguardo in fondo al gruppo, ma insieme con gli altri, ed entrambi erano felici; avevano completato la gara senza distacco e Antonio si era meritato la simpatia di molti, dimostrando oltre alla forza anche grande sportività.
XXI
Compagna di fatiche
L’austerity non era superata, fu introdotta una nuova limitazione al traffico domenicale: le targhe alterne. All’U.S.S. Alessio si sorrideva sulle altrui sfortune, una squadra avversaria infatti, aveva tutte le proprie auto con targhe dispari, ma quella domenica anche loro dovettero arrangiarsi e chiesero aiuto ai genitori dei ragazzi. Prima che si fossero organizzati, smontando le bici per farle entrare nelle auto si fece tardi, così arrivarono a Montopoli Valdarno appena in tempo per l’iscrizione alla gara e la punzonatura delle ruote. Solitamente, l’allenatore si incaricava di massaggiare i muscoli dei ragazzi, aiutato da un accompagnatore; si usava olio canforato che riscaldava parecchio, poi si pedalava per qualche chilometro con una serie di scatti per sciogliere ulteriormente i muscoli, ma quella volta non ci fu tempo, breve discesa verso la partenza, pronti, via! Poche centinaia di metri, neanche il tempo di scaldarsi un po’ e la strada si impennò paurosamente; l’andatura era talmente lenta che alcuni cadevano, altri sbuffavano imprecando, alcuni si ritirarono subito. Antonio, robusto com’era nella muscolatura, più di altri aveva bisogno di riscaldarsi prima della salita, perciò si trovò in grossa difficoltà, ma non volle dargliela vinta; superata la prima salita, si riprese nel tratto di falsopiano e finì di riscaldarsi nella discesa e nella successiva pianura. Insieme a lui un gruppetto di agguerriti inseguitori decisi a recuperare lo svantaggio, ora poteva esprimersi al meglio, e corsero con impegno e buona intesa, ma il gruppo dei migliori era già molto avanti e quella salita terribile dovettero affrontarla ancora undici volte. Nonostante l’impegno, recuperarono solo una parte dello svantaggio, ma conclo la corsa; degli ottantacinque partenti ne erano arrivati solo trentadue! Stremati ma soddisfatti, si sparsero qua e là, dove i rispettivi genitori li attendevano; il traguardo era posto lontano dal luogo di premiazione, e bisognava sbrigarsi per presentarsi ai giudici di gara. Sul ciglio della strada o ai bordi di un campo, i ragazzi si denudavano per rivestirsi di abiti asciutti; poiché erano fra gli ultimi, nel timore di perdere la carovana e non sapere dove andare,
Antonio fece tutto in fretta e furia, sollecitato dall’allenatore, si fece aiutare da sua madre a rivestirsi mentre suo padre aveva già messo in moto. Salì velocemente sull’automobile e partirono, ma senza bici, che nella fretta era rimasta appoggiata all’albero; Antonio non la recuperava mai dopo la gara, c’era sempre qualche accompagnatore che lo faceva per lui, caricandola sull’ammiraglia, ma quella scusa non sarebbe certo bastata. Al pensiero di non ritrovarla più, si sentì soffocare; tornarono indietro di corsa, erano ati pochi minuti, ma per rubare una bici anche troppi; col nodo in gola ridiscesero il monte. Forse nessuno l’aveva vista o forse avevano capito che era di uno dei corridori e non l’avevano toccata, forse c’era davvero rispetto per la ione e la fatica di quei ragazzi chissà; comunque la bici era ancora lì come l’avevano lasciata! Tornati dagli altri, scoprirono che più di uno aveva segnalato quella bici abbandonata. “Questa volta ti è andata bene!” disse uno degli accompagnatori rivolgendosi ad Antonio. “Sai che succede vero, al soldato che perde il fucile?” Antonio non sapeva rispondere a quella domanda, ma aveva capito l’antifona e sorrise sollevato. A rincarare la dose ci pensò un altro che chiese: “E lo sai cosa succede a uno che trascura o abbandona la fidanzata?” Rise di nuovo e questa volta annuì, lui non ce l’aveva la fidanzata, ma conosceva bene la risposta, così da lì in poi si prese maggiormente cura di lei, di quello splendente mezzo argentato, da cui si aspettava grandi soddisfazioni.
XXII
L’ultima salita
Pioveva a dirotto quel giorno, le strade erano piene di pozzanghere, l’aglio venne sprecato a iosa come se dovessero cacciare i vampiri… sfregandolo su e giù lungo il cerchio delle ruote, si cercava di dare almeno un po’ di aderenza e di presa ai tacchetti dei freni. Sotto una pioggia incessante, coperti dalle mantelline impermeabili, i commissari di gara dettero il via. Poche centinaia di metri e sulla prima curva tutti provarono i freni; pareva che rispondessero, ma alla successiva curva a gomito al termine di un veloce rettilineo, cominciarono i problemi. Antonio tentò di frenare, ma pur stringendo le leve a più non posso, non ci fu nulla da fare, la bici andava dritta, con gli occhi semichiusi per evitare gli schizzi di fango, cercò un varco dove infilarsi senza tamponare nessuno e andò bene. Attraversando il paese avevano incontrato un gruppetto di tifosi sotto gli ombrelli, e insieme agli incitamenti alcuni avevano gridato: “Che ione!” Com’era vero! Ci voleva proprio tanta ione per correre in bici sotto quella pioggia, e tutti quei ragazzi ce l’avevano, Antonio più di altri, perché lui più di altri aveva paura di cadere. Poche settimane prima era stato protagonista di una caduta spettacolare e pericolosa; una brutta scivolata, una gran botta sul fianco, per finire ribaltato a testa in giù in un fossetto pieno d’acqua; aveva dovuto usare la forza della disperazione per liberarsi dal laccio dei pedali, mentre si sentiva scoppiare i polmoni con la bocca serrata e la testa sott’acqua. Era sempre stato spericolato, ma la velocità che raggiungevano con quelle bici un po’ lo spaventava; la strada viscida chiedeva molta dimestichezza, lui aveva imparato tardi ad andare in bicicletta e nel controllo del mezzo non era molto spregiudicato. Iniziò la salita, non molto lunga, né molto ripida, ma non era il suo terreno e rimase nelle retrovie. La discesa invece era assai ripida, proprio in fondo presentava un dosso su ponticello, e subito dopo una curva a gomito in contropendenza. Ripensando a quella brutta esperienza ebbe paura di cadere e rallentò ancora prima di dover frenare, così perse leggermente contatto dal
grosso del gruppo. Nel tratto di pianura aveva smesso di piovere, così si abbassò sul manubrio e scaricò sui pedali tutta la forza che aveva, ma l’andatura del gruppo era troppo veloce e non riuscì a completare il ricongiungimento; i suoi compagni di retrovia non l’avevano aiutato, anzi sulla sua azione di forza erano rimasti indietro. Ecco una nuova salita, breve ma con pendenze medie, questa volta era da solo e si impegnò a fondo curvando la schiena, ci credeva ancora. Arrivato allo scollinamento venne affiancato dalle ammiraglie che seguivano, e quando le vide svoltare a sinistra svoltò anche lui; sentendo gridare dalle auto credeva che lo incitassero, invece lo stavano richiamando, il percorso era dall’altra parte, loro stavano prendendo una scorciatoia. Dovette tornare indietro per un centinaio di metri e perse un bel po’ di secondi; quando fu di nuovo sul tracciato ritrovò i ragazzi che aveva staccato, si affiancò a loro e disse: “Forza! Il gruppo è poco più avanti, se ci impegniamo possiamo riprenderlo, io avevo sbagliato strada, ma ora sono pronto, andiamo che in questo saliscendi tutto curve siamo avvantaggiati!” Niente, quei ragazzi sembravano apatici, rinunciatari, quasi pentiti di essere lì; Antonio si mise a tirare, sperando di trovare collaborazione, provò e riprovò scattando in continuazione per rilanciare la velocità, ma senza aiuto riuscì solo a consumare molte energie, alla fine del saliscendi riarono dal traguardo, stava ricominciando a piovere, e gli altri completamente demotivati rallentarono dicendo: “Non né abbiamo più voglia, ci ritiriamo!” Antonio si voltò deluso, ma senza prendersela troppo replicò: “Fate pure, io arrivo fino in fondo anche da solo!” E proseguì infischiandosene del loro dissenso. Di nuovo la salita, quella meno dura ma lunga, lui da solo e dietro a lui l’ambulanza di fine corsa; sapeva che ormai non poteva più ricongiungersi col gruppo e forse neppure con qualche ritardatario, aveva un breve distacco, pochissimi minuti, ma era completamente solo. Cercando di tenere una buona andatura senza spingere troppo, percorse quegli ultimi interminabili chilometri assorto nei pensieri… Chi me lo ha fatto fare? Era meglio fermarsi? No! Voglio arrivare fino in fondo! Non mi importa se ultimo. Certo, chissà che diranno di me all’arrivo, e chissà cosa pensano quei due sull’ambulanza, che sono pazzo?! Chi se ne frega! Io ho
la mia dignità! Di pazzo! E giù grasse risate. Sì, sì, sono proprio un allegro pazzo, pensò infine quando giunse in vista del traguardo; l’ambulanza che lo aveva scortato fin lì, deviò per rientrare in sede, e ad accompagnarlo negli ultimi metri, un rovescio d’acqua che tolse definitivamente dalle strade gli ultimi temerari tifosi. Tagliò il traguardo per ultimo con fierezza, ma a causa della pioggia battente, tutti erano andati a ripararsi; nessuno della sua famiglia o dei suoi amici era venuto a vederlo, perciò nessuno lo aspettava e nessuno lo vide. Per nulla scoraggiato, si mise alla ricerca del suo gruppo, e dopo un po’ riuscì a trovare uno degli accompagnatori, che un po’ allarmato gli chiese: “Ma dov’eri? Non ti abbiamo visto!” “Ero rimasto staccato e sono arrivato ultimo, da poco.” Poi guardandosi intorno chiese: “Dove sono i giudici di gara? Voglio farmi segnare!” Ma quello cercò di persuaderlo: “Lascia perdere! Vuoi farti segnare ultimo?” “Certo!” replicò Antonio. “Io sono arrivato, ho concluso la gara!” Poco dopo riuscì a trovare i giudici, ma ormai avevano stilato l’ordine d’arrivo e redatto il rapporto e non accolsero la sua richiesta. Non vollero capire che per lui era importante e ne fu rammaricato; ma poi si ricordò di aver avuto tre testimoni d’eccezione, l’autista dell’ambulanza e i due soccorritori e pensò che non avrebbero mancato di raccontare l’incredibile storia di un mito: uno sconosciuto perdente, che ostinatamente era voluto arrivare ultimo.
XXIII
Alba in Pania
Salendo lungo la pietraia i suoi battiti acceleravano sempre di più; non era la fatica, che anzi pareva non avvertire, era un strana forma di eccitazione che mai aveva provato prima, stava per dichiararsi a una lei. La ragazza di cui si era innamorato era lì un o davanti a lui, ne udiva il respiro reso profondo dall’ascesa, ne contava i battiti, ne immaginava lo sguardo avvolto in una complice oscurità. Era stato di nuovo spinto a partecipare al campeggio estivo dell’Azione Cattolica, dopo l’esperienza degli anni precedenti che lo aveva visto timoroso e impacciato in mezzo a tanti ragazzi e ragazze, e il desiderio di immergersi di nuovo nell’amicizia, con la segreta speranza di incontri galeotti aveva avuto il sopravvento sulla sua atavica vergogna. Già altre volte, ancora piccolo, era stato innamorato, e anche in esperienze precedenti, aveva provato attrazione verso alcune ragazze; ma questa volta quell’esplosione di gioventù pulsante aveva travolto le sue difese e quel viso così radioso aveva fatto impazzire il suo cuore. Era bastato un caldo e suadente “ciao! Io mi chiamo Lucia”, per fargli tremare le gambe. Sulle donne e sul loro aspetto aveva gusti ben definiti: gli piacevano rotonde, ma il suo cuore guardava molto più lontano di quelle curve attraenti. Nella voce, nello sguardo, oltre che nella figura e nel portamento, lui cercava una possibile intesa che lasciasse presagire felicità; lui non cercava una donna con cui divertirsi o sfogare lo scatenarsi dei suoi ormoni, anche se quest’idea lo stuzzicava di continuo; lui cercava la donna della sua vita, colei che lo avrebbe completato e per questo reso felice. Quella donna poteva essere Lucia? Lui non lo sapeva, ma il suo cuore batteva all’impazzata ed era ansioso di scoprirlo. L’oscurità, il silenzio della montagna, il fiato corto l’uno sull’altro, parevano gli ingredienti perfetti per mettere a confronto i propri cuori, così si fece avanti. Bastarono pochi i e fu al suo fianco: “Posso parlarti?”
“Certo! dimmi…” rispose lei volgendosi in un sorriso. “Volevo dirti… lo sai che mi piaci tanto?” “Davvero?!” domandò lei con malcelato piacere. A fatica lui riprese consumando tutto il fiato: “è da qualche giorno che volevo dirtelo… ” Lei attese qualche attimo, poi con tono che incoraggiava ad andare oltre confessò: “Sono davvero lusingata…” Facendosi forza Antonio aggiunse: “Beh, mi farebbe molto piacere poterti conoscere meglio…” Ma non andò oltre, non riuscì a dirle quanto forte battesse il suo cuore; lei lo aveva intuito, ma occorreva più audacia e più chiarezza, così mentre pensava al come e al quanto approfondire il discorso, lei concluse: “Bene, domani ne riparliamo”. Antonio non seppe replicare, indugiò, si schiarì la voce, ma tacque; proprio in quel momento Paolo si intromise fra di loro, e chiedendo scusa con fare cortese e deciso, attaccò bottone con Lucia. Antonio non era l’unico spasimante, e osservando Paolo che con modi e parole fascinosi cercava di incantare Lucia, pensò fra sé: che fesso che sono! Mi sono fatto avanti per primo e mi sono lasciato fregare! Paolo andò avanti a parlare per un po’ e Antonio ne fu molto ingelosito, al punto da pensare: speriamo che lei si annoi! La pietraia terminò e con essa il ciottolante crocchiare degli scarponi, con una lunga scalinata a zig zag risalirono l’ultimo ripido tratto e furono in cresta, il sentiero era stretto, perciò si disposero tutti di nuovo in fila indiana; un breve tratto di cresta e in silenzio furono in vetta. Era ancora buio, perciò si sistemarono fra i massi vicino alle due croci per ripararsi dalla fredda brezza mattutina. La nuova croce realizzata in tubi di ferro imbullonati uno sull’altro si ergeva possente sfidando le intemperie, mentre quella precedente giaceva ricurva accasciata a terra, con un gran buco nella longherina verticale, segno evidente della forza devastante del fulmine. Quel confronto fra le due croci, suggerì ad Antonio un parallelo con quanto era accaduto lungo la pietraia; si sentiva a terra e con un buco nel cuore, ma non voleva darsi per vinto. Fissò a lungo l’orizzonte per spingere lontano da sé pensieri tormentati e per cercare un raggio di luce che
potesse riscaldarlo, così indicando la linea dei monti verso est, attirò l’attenzione degli altri, annunciando che il sole sarebbe spuntato proprio da laggiù, da quella piccola sella fra due cime, e che sarebbe stato uno spettacolo sorprendente. “Se mi prestate attenzione ve lo spiego” disse lasciandoli incuriositi. Si sedettero tutti, alcuni accanto a lui in attesa di maggiori spiegazioni, fra questi alcune ragazze ma non Lucia, lei era di nuovo alle prese con le dolci parole di Paolo che le lasciava intendere, che il sorgere del sole era uno spettacolo organizzato da lui per omaggiarla. Il cielo da grigio si fece azzurrino poi più chiaro; Antonio dimentico di tutto si guardò intorno e provò gioia, gli amici lo circondavano e senza alcun interesse apparente si stringevano l’un l’altro, allora aprì il suo volto al sorriso pronto ad accogliere quel bacio luminoso che il cielo prometteva. Pian piano, comparve fra le cime un piccolo semicerchio color rosso pastello, e subito lo indicò: “Ecco il sole!”, ma gli altri non riuscivano a vederlo, pensavano fosse una nuvoletta, allora lui si spiegò: “La luce del sole impiega poco più di otto minuti per giungere fino a noi, perciò fissate bene quel piccolo disco rosso e allo scadere di quei minuti lo vedrete accendersi”. Gli altri parevano perplessi. “Ma no!” disse uno dei ragazzi. “Il sole non brilla perché c’è foschia!” Allora Antonio, rivolgendosi alle ragazze che parevano più incuriosite confermò loro: “Date retta a me, quando ve lo dirò fissate il sole con attenzione e vedrete!” arono gli otto minuti e quando gli altri, stufi di aspettare erano distratti a guardare altrove, Antonio esclamò: “Ora! Fate attenzione ora! Ancora pochi secondi”. Come per magia il sole si accese e finalmente la luce brillò sui loro volti estasiati; felici, ringraziarono Antonio per averli esortati ad aspettare la luce, e una delle ragazze lo baciò sulla guancia, ma non era quella che lui sperava. Un giorno avrebbe ricevuto il bacio di una donna, e come la prima luce di quell’alba, avrebbe fatto brillare il suo volto e la sua vita; ne era certo, ma doveva ancora attendere. Mentre gli altri cantavano inneggiando al sole, Antonio continuò a fissare a lungo la cresta dei monti da cui era sgorgata la luce. Non riuscendo a placare i marosi del suo cuore, si alzò e si mise ad esplorare i dintorni della vetta, aveva sentito dire che lassù, nascosta fra le rocce, c’era una stella alpina.
“Cosa cerchi?” chiesero gli amici, ma lui non rispose, fece solo un cenno con la mano, e cercò, cercò a lungo.
XXIV
Giovanni… e Giovanna
“Giovanni ti vuole vedere!” disse Mariapia incontrando Antonio. Era una donna decisa e di poche parole, solare e sempre ben disposta, legata da antica amicizia alla famiglia di Antonio. “Dove posso trovarlo?” domandò lui. “Se vieni con me il sette ottobre lo puoi vedere a casa sua, festeggeremo il suo compleanno.” Il festeggiato era quel don Giovanni incontrato all’Alpe un paio di volte e quindi conosciuto appena, assistente spirituale dei giovani dell’Azione Cattolica. Curioso di conoscerlo da vicino, Antonio rispose: “Bene! Verrò molto volentieri”. Don Giovanni era famoso per l’attrazione che esercitava sui giovani, perciò era chiaro che quello sarebbe stato un incontro affollato e Antonio era contento; avrebbe fatto nuove conoscenze e consolidato amicizie con giovani conosciuti all’Alpe. Da buona insegnante di se, Mariapia aveva la più se delle auto, una simpatica e dondolante Citroen Diane color beige; rivolta ad Antonio disse: “Ti toccherà salire dietro! Sai, dobbiamo are a prendere una ragazza, perciò la facciamo accomodare davanti, sei d’accordo?” Antonio annuì e confermò di buon grado: “Certamente!” Non fu certo quel suo tono suadente e persuasivo a convincerlo, ma il soggetto in causa: una ragazza. Antonio aveva modi non troppo raffinati e un’età da sogni sconfinati e sangue bollente, ma si sforzava di usare cortesia e buone maniere, specialmente verso ogni nuova ragazza, che non mancava di valutare con cura.
Seduto sul sedile posteriore, ascoltò a lungo Mariapia che parlava di Giovanni, decantandone le qualità; dopo un po’ disse qualcosa anche su Giovanna, stuzzicando la sua curiosità con un tono di complicità, ma Antonio la ascoltò un po’ distrattamente, perché non amava molto farsi raccontare una ragazza, preferiva la scoperta e la sorpresa, poi l’avrebbe inquadrata da solo. Era sera, perciò, quando si fermarono per prenderla a bordo, non riuscì a vederla bene dal finestrino; Giovanna salì in auto dopo un breve cenno di saluto “buonasera!” e Mariapia l’accolse coi soliti convenevoli: “è tanto che aspetti? A che ora è arrivato il treno? Come è andato il viaggio?” Poi soggiunse: “Ah, quasi dimenticavo, lui è Antonio, non credo che vi conosciate”. “Ciao, piacere!” disse Antonio cercando di darle la mano. “Ciao, piacere mio!” rispose Giovanna con voce cortese, ma fece solo il cenno di voltarsi. “Bene!” concluse Mariapia con la sua inconfondibile risata di soddisfazione, “Se starete un po’ dietro a Giovanni, senz’altro avrete tempo e occasioni per conoscervi meglio!” La salita era ripida e piena di curve ma breve, non ci fu molto tempo per aprire un discorso; Antonio lasciò parlare loro e concentrò la sua attenzione sul profilo di lei, che da dietro e nella penombra dell’abitacolo appariva incerto. Dal portamento e dalle poche parole che pronunciò, in risposta alle insistenti domande di Mariapia, Antonio percepì che quella era una ragazza interessante, che meritava conoscere a fondo e che avrebbe voluto incontrare di nuovo. Dopo pochi minuti di salita arrivarono; la canonica era piena di gente in allegria, in gran parte erano giovani. Vedendo entrare Mariapia con Giovanna e Antonio, don Giovanni si alzò per salutarli aprendo loro un gran sorriso e abbracciò tutti e tre calorosamente, ma il clima di festa lo rubò ben presto all’attenzione dei singoli, richiamato al centro della scena. Discorsi ufficiali, battute di spirito e infine regali e brindisi; la gioia era palpabile, don Giovanni era circondato d’affetto, e per quanto, si trattasse di persone semplici, o forse proprio per questo, quello sparuto gruppetto di gente radunata intorno a lui, pareva avere la forza di cambiare il mondo. Fra torte e pasticcini, la sala si animò di chiacchiericci, Antonio non si era scordato di Giovanna, anzi cercava di osservarla meglio, ma in quella confusione gioiosa, si trovarono presto separati; attraverso Mariapia conobbero persone nuove, ma quasi subito, Antonio venne avvicinato da quelle incontrate all’Alpe e si intrattenne con loro. Fra di loro non
solo convenevoli ma proposte d’incontri, di attività di gruppo, di iniziative concrete; galvanizzati da quegli ideali, emersi con prepotenza nei giorni e nelle sere trascorsi all’Alpe, volevano dare corpo a quella speranza che sgorgava dai loro cuori. Quel sogno che veniva da lontano, anche da loro a lungo accarezzato, di poter costruire insieme una nuova società fondata sulla fraternità, di aprire nuove strade di giustizia e di pace, non poteva restare un’illusione. Ghandi, Martin Luther King, don Milani, abbé Pierre, Raoul Follereau, Albert Schweitzer, tutti operatori di giustizia e di pace; la loro opera non era conclusa, e loro volevano portarla avanti. L’esperienza dell’Alpe faceva a tutti quello strano effetto; erano accalorati dal fervore e al momento dei saluti, si scambiarono i numeri di telefono, con la promessa di ritrovarsi molto presto. Anche don Giovanni si rivolse ad Antonio dicendo: “Allora ti aspetto la settimana prossima al CODAC, verrai?” “Sì, verrò!” rispose Antonio. “Aspetto anche te!” disse rivolto a Giovanna. “Io però vorrei occuparmi dei ragazzi.” “Beh, comunque ci vedremo lo stesso,” concluse don Giovanni, e spalancando un gran sorriso li abbracciò entrambi. Per il ritorno, Giovanna trovò un aggio da un amico e Antonio dovette rimandare quel discorso mai cominciato “Peccato!” disse rivolto a Mariapia. “Mi sarebbe piaciuto conoscerla meglio.” Mariapia scoppiò in una grassa risata, poi lo esortò: “Se vuoi rivederla e conoscerla meglio, non devi fare altro che andare a Lucca”. “Già, è vero, forse la vedrò là, ma cos’è ’sto CODAC?” chiese Antonio un po’ preoccupato. Lei rise di nuovo. “Tranquillo, non è un covo segreto, è solo una modesta sede dove si incontrano i coordinatori dell’Azione Cattolica, comunque se vuoi puoi venire con me.” Riprendendo fiato soggiunse: “Riguardo a lei, avrete tutto il tempo di fare amicizia”. E concluse con l’ennesima risata di compiacimento, che sciolse anche il sorriso tirato di Antonio.
XXV
Via S. Andrea
Diversamente da S. Zita, la sua compaesana più famosa, Antonio lavorava a Lucca da pendolare; ma proprio come per lei, Monsagrati rappresentava la sua storia ata, Lucca la sua vita presente e come Zita, anche lui aveva trovato in città il suo nuovo centro spirituale. Proprio adiacente alla via Fatinelli, dove Zita aveva lavorato per lunghi anni, si trovava la piccola chiesa di S. Andrea, lì abitava don Giovanni; la sua porta era sempre aperta e vi era un continuo scalpicciare su per quelle strette scale. Antonio suonava spesso a quella porta, cercava una nuova guida che gli offrisse stabilità; non rinnegava certo la stima e la gratitudine verso quel saggio sant’uomo del suo vecchio parroco, ma aveva bisogno di una nuova paternità e di un confronto aperto coi suoi pari. Quelli che stava vivendo erano anni difficili, per l’ambiente in cui viveva, per le tensioni e le contraddizioni che attraversavano la società, e per i tormenti che la sua età gli procurava. Non cercava tanto consigli, né indicazioni per le sue scelte di vita, sapeva ciò che voleva, ma aveva bisogno di conferme e di confronti; spesso aveva soltanto voglia di parlare. Don Giovanni non era un tipo accomodante o accondiscendente, andava dritto per la sua strada e trattava tutti allo stesso modo, diretto e senza peli sulla lingua. Facilmente Antonio si sentiva contrastato, ma questo non lo irritava, né lo deludeva, perché era proprio questo di cui aveva bisogno. Le alte finestre della canonica, tipiche delle case di Lucca, si affacciavano su un grande giardino, e in quelle povere stanze entrava una grande luce; non era solo la luce solare a rendere caldo il luogo, c’era una luce nel cuore di don Giovanni, che pareva provenire da altrove. Al di là del giardino, oltre il muro, Palazzo Fatinelli stava lì da secoli a ricordare le gesta di Zita, proclamata santa a ragione dei miracoli che le erano stati accreditati. Anche a lui piacevano quei segni miracolosi raccontati e rappresentati in quadri e statue, ma più ancora apprezzava la semplicità dei gesti di Zita, sempre pronta a donare pane e vino, fino al punto di rubare.
Quei gesti di condivisione li aveva visti mille volte in casa sua, tanto da considerarli un fatto naturale; erano semplici gesti di umanità che i suoi rivolgevano a tutti, di qualunque provenienza o ceto sociale, senza chiedere mai quale fosse la fede politica o religiosa di appartenenza. Ora invece, in quegli anni tormentati da aspre lotte, rivendicazioni, contrapposizioni, e perfino azioni di terrore, notava con chiarezza l’importanza di quei gesti fraterni, e lì presso don Giovanni ritrovava la semplicità di quella condivisione, “ti fermi a mangiare con me?” ripeteva ogni volta, “si mangia quello che c’è” precisava pensando al grande appetito di Antonio. Lui si fermava ogni volta che poteva, e a quell’invito, sorrideva rispondendo sempre “va benissimo quello che c’è!”; pareva proprio che lo spirito di santa Zita profumasse ancora quell’angolo di città. Frequentava quella casa così spesso, che ritrovandoselo fra i piedi, in presenza di altri visitatori da ascoltare, o da confessare, don Giovanni talvolta era costretto a invitarlo a ritornare. Qualcuno di questi, trovandolo lì così spesso, pensava addirittura che abitasse con lui. Non andava solo a chiedere, a parlare, o a confessarsi, andava soprattutto a trovare un amico; aveva bisogno di condividere i suoi sogni e le sue aspirazioni, ma poteva anche succedere, che stessero insieme alcune ore quasi senza parlare. Nonostante tutte le nuove amicizie allacciate dopo l’esperienza dell’Alpe, nonostante il suo nuovo impegno accanto a loro, nella realizzazione di progetti condivisi, per quanto don Giovanni lo spingesse fuori all’incontro con loro, ancora faticava a trovare un amico sicuro a cui appoggiarsi. Come per Zita, e ancora di più per lui, dal piccolo borgo di campagna alla città, lo spazio si era dilatato fino ai confini del mondo, e si sentiva come un cucciolo fuori dalla tana, libero e felice ma senza protezione.
XXVI
Ragazza facile
Avendo manifestato chiaramente le sue pulsioni, si trovò ad affrontarne le conseguenze. Un giorno venne mandato in una casa a sostituire un vetro, insieme a uno degli operai anziani, che essendo di quei paraggi, conosceva bene la casa e i suoi occupanti. Questi sapeva bene, che la coppia di adulti che vi abitava, durante il giorno era al lavoro, e nella casa c’era soltanto la figlia; una ragazza molto particolare. Strada facendo cercò di preparare il ragazzo a quell’incontro con allusioni, domande, strane metafore; infine domandò: “Insomma, ti piacciono le ragazze, vero? Non dirmi di no! Oggi ne incontreremo una, proprio a casa sua; e siccome questo vetro posso montarlo anche da solo, tu potrai stare tutto il tempo con lei. È giovane, non è troppo bella, ma è abbastanza in carne”. Volendo spiegarsi meglio chiarì: “Non è particolarmente intelligente, ma è assai disponibile a divertirsi coi ragazzi, perciò non perdere tempo, fatti avanti!” Antonio aveva già ricevuto inviti e raccomandazioni simili da altri adulti, tutti prodighi di attenzioni verso di lui, desiderosi di vederlo diventare uomo, e certo le pulsioni giovanili lo rendevano vulnerabile di fronte a simili incitamenti, ma più bramava ciò verso cui si sentiva spinto, più stranamente opponeva resistenza. Non accettava che altri scegliessero per lui, decidessero per lui, men che meno che usurero i suoi desideri; ciò che voleva, doveva prenderlo da sé, di sua volontà, e se non voleva, desiderio o no, non voleva, punto! Così, mentre annuiva con un sorriso sforzato, dentro di sé pensava ma che vuole questo? Perché non si fa gli affari suoi? Non ho mica voglia di farmi guidare come un burattino! Ma quando entrarono in casa ed ebbe conosciuto quella ragazza cambiò umore; effettivamente non era una grande bellezza, ma le sue curve erano molto invitanti, la sua voce era calda e sensuale e i suoi modi accattivanti, Antonio si trovò in difficoltà. L’altro lo congedò dicendo: “Il vetro lo monto da me, tu stai pure lì!” E con le mani gli fece cenno di buttarsi.
Antonio si presentò, scambiò qualche parola, ma ripensando ad alcuni episodi di anni precedenti, non voleva andare oltre; ebbene sì, aveva provato ad allungare le mani, ma su ragazze sveglie, consapevoli, che avevano saputo opporsi e respingerlo; se quella fosse stata responsabilmente disponibile chissà, magari avrebbe ceduto alla lusinga, ma questa situazione non poteva accettarla. Dopo alcuni attimi di silenzio, lei gli raccontò delle sue collezioni e lo invitò sul terrazzo che dava sul retro per mostrargliele. Antonio la seguì immaginando chissà quali cose, ma lei, come una bimba che gioca con le bambole, gli mostrò una raccolta di oggetti; lui non riusciva nemmeno a guardarli, tanto era attratto da quel corpo sinuoso, ma al vedere quel comportamento, e sentire quei discorsi così marcatamente infantili, rimase bloccato. Pochi minuti e sopraggiunse l’altro, che con la scusa di aver bisogno d’aiuto lo trascinò dentro casa, lo rimproverò smanaccando vistosamente, e lo risospinse fuori a darsi da fare. Antonio lo lasciò fare ancora una volta ma si rimise soltanto a parlare con lei; poco dopo, avendo finito il suo lavoro, l’altro lo richiamò, appena il tempo di dire “ciao, ci rivediamo” e ripartirono. “Sei stato un bischero!” lo rimproverò l’anziano. “Non lo sai che ogni lasciata è persa? Cerca di svegliarti! Con le donne non si può perdere tempo!” Antonio ascoltò silenzioso la ramanzina, come se fosse meritata, ma dentro di sé ribolliva. Forse devo essere più spregiudicato, ma perché tutta questa furia? Io con una ragazza avrei proprio voglia di perderci del tempo, che c’è di sbagliato? Non è mica un tiro al piccione! Alcuni giorni dopo, si affacciarono all’ingresso della vetreria alcune ragazze in abiti scollati e assai spigliate, parlavano se; con loro c’era un giovanotto, amico di quello che aveva redarguito Antonio. Ben presto, si formò un capannello intorno a loro, ma lui tornò nel retrobottega, più tardi lo stuzzicarono. “Hai visto che pupe? Perché sei scappato? Avevi paura di doverti confessare?” Antonio rispose con un sorriso di scherno, non gli interessavano i moralismi, semplicemente non gli piacevano le tresche e li lasciò ridere.
XXVII
Apparizione
Le dodici, è ora di pranzo, tutti si apprestano a interrompere il lavoro, quando sul grande portone di ingresso appare una figura esile, è una ragazza giovane e carina. “Mi scusi,” dice rivolgendosi ad Arcangelo che sta uscendo da dietro il suo tavolo di lavoro. “Avrei bisogno di realizzare un oggetto in vetro.” “Mi spiace signorina, stiamo per andare a pranzo, può tornare nel pomeriggio?” “Nel pomeriggio non posso, potrei lasciare l’ordine adesso?” replica lei con fare dimesso. “Vediamo cosa si può fare,” risponde Arcangelo e subito grida: “Antonio, c’è lavoro per te!” Poi si rivolge a lei con tono accomodante: “Vada pure di là, c’è un ragazzo, chieda a lui, vedrà che l’aiuterà”. E sorridendo si avvia verso l’uscita. Nel frattempo Antonio si sta scaldando la minestra, ha liberato uno dei suoi tavoli di lavoro e si è apparecchiato alla bell’e meglio; sta brontolando fra sé per quella minestra riscaldata, per quel pranzo che la sua mamma ha preparato con tanta cura e amore, ma che oggi per lui è insoddisfacente. Quando ode quel richiamo si affaccia subito nella stanza accanto, ma non vedendo nessuno non gli dà importanza e torna a prepararsi per il pranzo; pochi secondi e ha un sussulto, sa di essere solo come ogni giorno a quell’ora, ma ha percepito una presenza furtiva alle sue spalle, si volta e resta meravigliato, non crede ai suoi occhi, una dolce fanciulla, dall’aspetto fragile e di una bellezza abbagliante, sta lì, in piedi davanti a lui. Sentendolo brontolare si è avvicinata in silenzio nel timore di disturbare.
“Antonio?” domanda con voce fioca e sensuale. “Sì, sono io,” risponde lui imbarazzato. “Cosa ti serve?” le chiede prendendo confidenza mentre il cuore batte forte. Per nulla intimorita dal luogo a lei estraneo, e dal trovarsi lì sola con uno sconosciuto, si avvicina a lui e gli mostra un foglietto con un disegno: “Saresti in grado di farmi questo?” domanda con voce suadente. Lui, che si sta beando di quell’incontro, prende quel foglio sfiorandole le mani e per un attimo si perde nel suo sguardo; abbassando gli occhi su quel disegno, si ricorda improvvisamente il pentolino della minestra, e spegne prontamente il fornello, scusandosi con lei per lo scatto deciso. Lei, volendosi giustificare per il disagio arrecato dice: “Scusami, mi spiace disturbarti per il pranzo, ma non ho altri momenti”. “Non importa!” risponde Antonio, felice di quella piacevole interruzione del suo pranzo. “Vediamo di che si tratta.” In breve lei spiega che vuole realizzare una piccola teca di vetro completamente sigillata, e al suo interno vuole rinchiuso un bigliettino ben visibile, glielo mostra, c’è scritto: Numero telefonico di Alain Delon. Si tratta di un oggetto davvero strano, ma serve per uno scherzo di compleanno. “Pensi di poterlo fare? Mi piacerebbe proprio!” chiede lei con aria implorante. Lui si gongola nel sentirsi pregato, e senza indugio risponde: “Certo! È insolito, ma non è difficile”. “E quanto mi costerà?” domanda lei preoccupata. “Tremila lire possono bastare?” “Basteranno!” conclude Antonio sorridendo. “Potrei averlo per domani?” domanda lei, di nuovo con aria implorante. “Certo! Contaci!” “Allora a domani, e grazie!” dice lei salutando con un sorriso. Antonio la osserva alloccato mentre lei se ne va, e rimasto solo continua per interminabili secondi a fissare quell’angolo di muro dietro cui è scomparsa,
domani la rivedrò! pensa fra sé. Poi finalmente si riprende, ingoia in un boccone il contenuto semifreddo del suo pentolino, e si mette subito all’opera per realizzare quel piccolo oggetto. Poco dopo rientrano tutti al lavoro, e con sguardi sornioni e maliziosi, uno a uno chiedono: “Allora com’è andata? Sei riuscito ad accontentare quella fanciulla?” Lui però non si scompone e dice: “Certo! Che credete?!” Ma non spiega cosa deve fare per lei e borbottando qualcosa di incomprensibile lo tiene nascosto. L’indomani attende con ansia l’ora di pranzo; alle dodici tutti se ne vanno come al solito, ma lei non arriva. Non mi avrà mica bidonato? pensa fra sé mentre eggia avanti e indietro tra la sua stanza di lavoro e l’ingresso; non la vuole aspettare sul portone, perché se fosse notato, potrebbe apparire come un appuntamento equivoco. Finalmente la vede entrare, lei si scusa per il ritardo e con un sorriso carico di aspettativa chiede: “Sei riuscito a farlo?” Antonio, trattenendo a stento l’emozione, ricambia il sorriso e risponde con dolcezza: “Certo! E spero che ti piaccia!” Prende la piccola teca dal tavolo e gliela mostra. Nel timore che possa cadere e rompersi durante il aggio di mani, la trattiene per qualche secondo e così facendo le loro mani si incrociano. Sente la pelle vellutata delle mani di lei, che quasi sostengono le sue, rese ruvide dal prolungato contatto con gli abrasivi per il vetro e ha un fremito. Si guardano per due interminabili secondi; tanto basta perché lui si perda in quegli occhi di cerbiatto, poi si riprende e lasciando scivolare la teca nelle mani di lei chiede: “Che ne dici, ti piace?” Lei abbassa gli occhi verso la teca quasi come non gli importasse, forse imbarazzata dal precedente sguardo penetrante e dal contatto di mani; la osserva da ogni lato, sorride e annuisce soddisfatta, infine conferma: “è bellissima! Hai fatto un ottimo lavoro! Complimenti!” Quelle parole di piena approvazione lo rendono orgoglioso, ma quasi subito viene preso dallo scrupolo e domanda con tono accorato: “Veramente ti piace? Sei sicura che va bene?” In realtà, la sua non è ossessione scrupolosa, né tantomeno insicurezza, si tratta di ben altro; ha capito che, se c’è qualcosa da correggere, può rivederla,
altrimenti tutto finisce lì e forse non la incontrerà più. Lei lo guarda con dolcezza, pienamente soddisfatta del servizio e della premura, e gradevolmente colpita dalle sue attenzioni gentili. Poi, quasi scusandosi per quel distacco, sorride un po’ più decisa e conclude: “Okay! Allora vanno bene tremila lire?” Antonio, ormai rassegnato, risponde un po’ svogliatamente: “Certo! Come d’accordo”. Lei lo guarda ancora una volta e con un ultimo sorriso si congeda: “Ciao, e grazie ancora!” E voltatasi scompare in un attimo. Antonio si batte i pugni sulla fronte. Che stupido! dice fra sé, non le ha neppure chiesto come si chiama, men che meno se poteva rivederla; forse ha pensato che non era corretto approfittare dell’occasione, o forse gli è sembrata fuori portata. Tutte scuse! magari non avevo speranze, ma sono stato proprio un bischero! Ripensando a lei nei giorni seguenti, non riesce più a ricordare il colore dei suoi capelli, né se erano ricci o fluenti; né ricorda più il colore dei suoi occhi, ma solo la leggerezza del suo corpo, il calore delle sue mani, la seduzione del suo sorriso.
XXVIII
Arcangelo e l’ingordigia
Antonio stava tagliando lastre di vetro sul banco nell’ingresso, là dove avveniva il primo accoglimento delle richieste dei clienti, vicino a lui, Arcangelo stava sistemando altre lastre di vetro nelle rastrelliere. Si presentò un signore assai distinto, con l’aria di chi la sa lunga; rivoltosi ad Arcangelo, forse perché più anziano, venne cortesemente dirottato verso Antonio con parole rassicuranti: “Si rivolga pure a lui con fiducia!” Era il modo di Arcangelo di spronare i più giovani a imparare a trattare coi clienti e a prendersi qualche responsabilità. Antonio con la consueta cortesia domandò: “Di cosa ha bisogno?” E quello gli porse un bigliettino con sopra le misure del vetro che gli serviva. “Devo sostituire quello rotto alla finestra di cucina,” soggiunse il cliente. “Bene!” disse Antonio. “Allora immagino che basti un vetro semplice di uno spessore di tre millimetri, è quello che c’era giusto?” E mostrò al cliente un scarto di vetro di quello spessore. “Okay,” disse il cliente, “è proprio quello!” Antonio guardò di nuovo le misure, poi si mise a cercare il pezzo adatto fra gli scampoli delle lastre, finalmente ne trovò uno di poco più grande delle dimensioni richieste, lo pose sul tavolo e iniziò a tagliarlo secondo le misure; lo scarto sarebbe stato minimo, ma a causa di un’incrinatura che era sfuggita ad Antonio, il vetro si ruppe diagonalmente. Con rammarico dovette buttare entrambi i resti dello scampolo, e andando a prelevare una lastra nuova dallo scaffale borbottò dicendo: “Accidenti! Era perfetto, aveva pochissimo scarto, che spreco! Ora dovrò ricavarlo da una lastra intera”.
“Poco male!” osservò il cliente. “Quello scampolo era già stato pagato!” Antonio, di fronte a quelle parole restò perplesso e domandò sorpreso: “Che significa?” A quelle parole il cliente si voltò verso Arcangelo e disse: “Ancora acerbo il ragazzo!” Antonio si sentì irritato, ma si mantenne calmo e replicò: “Non ho capito cosa intendeva dire, me lo potrebbe spiegare?” Prendendo fiato, il cliente cercò di spiegare ad Antonio la logica del margine di guadagno, mentre lui appoggiando delicatamente la lastra di vetro sul tavolo, si mise a tagliarla facendo grande attenzione. Con l’orecchio teso cercava di capire ciò che gli veniva spiegato, ma era troppo concentrato per prestare veramente ascolto, così per non apparire maleducato alzò gli occhi un paio di volte e fece cenni col capo come se avesse capito, ma non trasse in inganno quel navigato signore. In breve il vetro fu pronto e Antonio, riconsegnando il biglietto con una annotazione, lo invitò a recarsi nella stanza oltre il breve corridoio per pagare il dovuto. Mentre quello andava, Antonio mise la rimanenza del vetro al suo posto, Arcangelo, con fare indifferente, proseguì il suo lavoro di sistemazione delle lastre di vetro. Poco dopo ricomparve il cliente, prese il suo vetro e ringraziò, salutò Arcangelo, poi si rivolse ad Antonio dicendo: “Mi sembri un ragazzo sveglio, perciò rifletti bene sulle cose che ti ho detto. Buona giornata”. E se ne andò. A quel punto, Arcangelo si avvicinò e guardando il ragazzo con simpatia lo istruì commentando: “Hai fatto un buon lavoro e ti sei comportato bene, però ti sei dimenticato di salutare di nuovo quel signore quando si è rivolto a te, ricordati che la cortesia è importante quanto il lavoro stesso!” Antonio aprì le labbra accennando una replica, ma le richiuse subito e domandò: “Che mi dici del pezzo già pagato? Non ho mica capito bene”. Arcangelo glissò: “Pensaci un po’ su, ma non preoccupartene troppo! Poi ne riparleremo. Cerca piuttosto di continuare a far bene il tuo lavoro e a essere gentile! Non avrai mai di che pentirtene”. Alcuni giorni più tardi, Antonio si ritrovò solo con Arcangelo, e volendo
riprendere il discorso lasciato in sospeso disse: “Penso di aver capito la storia del pezzo già pagato”. E a conferma di questo raccontò l’episodio dello zucchero a cui aveva assistito mesi prima, quindi sentenziò: “Quando il guadagno è assicurato, si può anche rinunciare a una piccola parte di esso, che sia uno scarto di vetro o un cliente indesiderato!” Arcangelo fu colpito dalle parole del ragazzo e concluse con una affermazione sibillina: “Ricordati Antonio, se un capo di governo dichiarasse per risolvere i problemi degli italiani, abbiamo deciso di regalare cento milioni a capo famiglia… qualcuno direbbe a me ne spettano centocinquanta!”
XXIX
Mille lire
I titolari della vetreria avevano l’abitudine di pagare gli operai a ogni fine settimana, dividendo in quattro parti uguali lo stipendio dovuto; a fine mese veniva consegnata loro soltanto la busta paga. Puntualmente, appena giunto a casa, Antonio consegnava il suo incasso settimanale nelle mani di suo padre. Ogni lunedì si recava al lavoro direttamente in sella alla sua bici rossa, la lasciava poi posteggiata dentro la vetreria durante tutta la settimana, per utilizzarla nell’intervallo del pranzo; il sabato, al termine della mattinata di lavoro, tornava a casa in bici. Accadde che un sabato, preso dalla fretta di arrivare a casa, si infilò i soldi della settimana in una tasca dei pantaloni anziché nel portafogli; risultato, trentacinquemila lire perse per strada. Era così amareggiato e deluso di se stesso che non riusciva a parlare; erano ancora tempi duri con due fratelli più piccoli a scuola, e quella era una perdita rilevante. Giurò a se stesso che una cosa del genere non sarebbe accaduta mai più, ma intanto occorreva rimediare. Raccontò la cosa anche ai suoi titolari confessando la sua sbadataggine, non con l’intento di ottenere comione, ma come a richiedere maggiore attenzione, più richiami e più rimproveri, di cui evidentemente sentiva il bisogno. Lavorò più sodo di prima, chiese di fare qualche mezz’ora di straordinario per recuperare un po’ di soldi, e alla fine venne premiato dai titolari, che a quelle poche ore di straordinario, aggiunsero di tasca loro quanto mancava alla cifra persa. Antonio ringraziò vivamente e tutti in casa furono sollevati, lui però non si acquietò; riflettendo a lungo su quell’evento, capì che anche le grandi ricchezze cominciavano dal risparmio delle piccole mille lire. Da qualche anno ormai frequentava il gruppo giovani di Lucca, che brillava per la presenza di alcune ragazze davvero carine. Ovviamente non voleva perdere il o, e non perdeva occasione per stare con loro ovunque andassero; non c’era bisogno che alcuno lo invitasse, si faceva notare, perciò c’era sempre. Non volendo però sperperare, cominciò a valutare con attenzione e con proverbiale noncuranza, i programmi di svago che di volta in volta venivano presentati;
quando gli amici proponevano il cinema e a seguire una pizza, si faceva trovare preparato con una scusa ben studiata, e sceglieva solo una delle due; se aveva voglia di pizza, storceva il naso sui film in cartellone, se aveva voglia di cinema, aveva mangiato troppo a pranzo. Talvolta questa rinuncia era obbligata o meglio lui se la imponeva; capitava infatti che prima di partire per Lucca, o di scendere dall’auto se veniva accompagnato, suo padre gli chiedesse: “Soldi ne hai abbastanza?” E lui, anche se aveva in tasca poco più di mille lire, appena sufficienti per uno solo dei due momenti di svago, rispondeva deciso: “Sì, sì!” Quando andava con gli altri al cinema, restava con loro anche dopo e si sedeva in pizzeria accanto agli altri senza però ordinare niente; quello era un modo per continuare a stare insieme, e in effetti non tutti ordinavano da mangiare, anche se per lui non era così facile dato il suo vorace appetito. La cosa più difficile però era evitare il cinema a vantaggio di una calda e gustosa pizza; in quel caso doveva trovare qualcosa da fare in quelle due ore, e non sempre trovava compagnia, perciò capitava di vederlo girare a vuoto per la città o a far le vasche in via Fillungo, la eggiata della città. Non si trattava solo di are il tempo, bisognava motivare bene quell’assenza, per evitare scollamenti nei rapporti d’amicizia, e ora che aveva trovato un gruppo di coetanei simpatici, non poteva permettersi di perderli. A soccorrerlo, era la proverbiale capacità dei lucchesi di spendere con moderazione, in questo era perfettamente integrato. Con gli amici comunque, sapeva farsi apprezzare anche per certe sue trovate stravaganti. Una domenica di inizio estate si ritrovarono in tre in piazza San Frediano; la città pareva deserta, molti probabilmente erano andati al mare, altri sonnecchiavano nell’ora della siesta, insomma, era tutto un mortorio, così ci pensò Antonio a risvegliare gli animi e la gente. Trovò una lattina nel cestino dei rifiuti e cominciò a giocarci e a palleggiarci come fosse un pallone, poi, lanciandola agli altri li sfidò; cominciarono così a arsela l’un l’altro mentre percorrevano il Fillungo. Da un angolo all’altro, da una soglia all’altra, cominciarono a incontrare gente, poche persone, ma che loro sfruttavano come giocatori avversari, improvvisando tunnel e aggi smarcanti, sotto i loro sguardi irritati, talvolta divertiti. Arrivando in piazza San Michele si fermarono, raccolsero quello che restava della lattina, si dettero un tono da ragazzi seri, e proseguirono eggiando con aria indifferente; ma quando giunsero in piazza Napoleone, dove si radunavano vari gruppetti di ragazzi, non riuscirono più a trattenersi, attaccarono a ridere a crepapelle suscitando la curiosità degli altri, e più erano
osservati più ridevano, quella era vita! Come era stato da bambino, così continuava a essere, quel vivere giocondo, che consentiva ad Antonio di non avere rimpianti per quelle povere scarne mille lire.
XXX
Le mani in tasca
L’intervallo è quasi finito, fra poco si ricomincia, Antonio non ha trovato da giocare al bar e rientra prima; vede un’ombra, dentro c’è qualcuno che eggia silenziosamente, che sia un cliente? Si avvicina e con sorpresa scopre che è Vito; si ferma e lo fissa in silenzio ma cosa fa? si domanda stupito; ha le mani affondate nelle tasche, avanza lentamente nel grande salone e si guarda intorno come un estraneo, o peggio ancora, come un vagabondo; mai vista una cosa del genere! Vito è un quasi sessantenne, ma con le mani in tasca sembra un adolescente, che rimpiange il suo ato, è indeciso sul futuro e guarda sconsolato un presente non più suo. Antonio lo chiama, lui si volta e sorride, ma ha ancora le mani in tasca e sembra voler dire “oggi non ho voglia di far niente”. “Che ti succede? Non ti ho mai visto con le mani in tasca!” esclama Antonio. “È vero!” risponde Vito accompagnando con una grassa risata. “Boh? Non lo so che mi a per la testa,” dice perplesso mentre continua a eggiare. “Porco Giuda ladro! sarà la vecchiaia...” Nel frattempo arriva anche Ivano, vede i due che confabulano e con un po’ di gelosia si avvicina, sfoggia un sorriso indagatore e chiede: “Che succede? Di che stavate parlando?” “No, niente d’importante,” risponde Antonio senza accontentarlo. Ivano solleva il mento esibendo la sua consueta smorfia di insoddisfazione, Vito si toglie le mani di tasca e in un attimo si trasforma; si mette subito al lavoro, rapido e deciso come suo solito, ma non è lui, c’è qualcosa che non va. In realtà, Antonio lo ha già visto un po’ alienato giorni prima, mentre aspettavano sul marciapiede l’arrivo di un carico di casse di vetro. Vito si era messo a osservare le auto che avano e scuotendo il capo più volte aveva commentato con
amarezza: “Come si può andar bene? Guarda lì, ogni auto che a tiene solo il guidatore, quanto spreco! Agli italiani ci vorrebbe la benzina a tremila lire al litro!” Aveva una buona visione del mondo, e probabilmente aveva ragione anche quella volta, ma di solito criticava lavorando a testa bassa, senza perdere tempo, senza soffermarsi troppo, ora invece pareva stanco, non si riconosceva più nei rapidi cambiamenti della società dei consumi. Si sentiva un estraneo, e in effetti lo dimostrava anche il suo modo di viaggiare; arrivava ogni mattina assai presto in sella a una specie di motorino scoppiettante degli anni ’50, un vero pezzo d’antiquariato, peggio di quello del bancario. Un giorno Antonio gli domandò: “Non sarà il caso che tu lo cambi?” E lui mostrandosi meravigliato rispose: “E perché dovrei cambiarlo? Finché va lo tengo, e va benissimo!” Anche ad Antonio pareva che il mondo stesse cambiando in fretta ma non gli dava troppa importanza, lui per primo voleva così; comunque, visto dal Borgo Giannotti, il mondo sembrava più o meno lo stesso di sempre, in quei quattro anni che aveva trascorso lì, tutto era rimasto come prima. Le botteghe erano sempre le stesse, gli operai più o meno anche, e quasi ogni cosa si comprava sfusa; perfino gli acidi per ripulire i vecchi specchi sciupati, si acquistavano presso una specie di cantina piena di damigiane, portando un vuoto da riempire. Così pure certi sali per ripulire o lucidare i vetri si acquistavano a peso in una storica farmacia di città e ancora realizzavano in proprio gli specchi, producendo perfino l’acqua distillata con un apposito filtro a resine. Anche lungo la strada di Ripafratta erano ancora all’opera gli scalpellini che squadravano le pietre a mano. Riparlando con Vito qualche tempo dopo, Antonio confermò: “Scusami, non voglio offenderti, ma mi sa tanto che tu stia proprio invecchiando! Non ti riconosco!” “Sì, forse è vero,” confessò Vito, “ma non vedo nella gioventù attuale quello slancio, quella voglia di creare che avevamo noi quando eravamo giovani. È proprio strano, perché voi oggi avete molte più possibilità di quelle che abbiamo avuto noi, ma vi cullate sugli allori. Tutte queste brutte cose, il terrorismo, le stragi, la corruzione… secondo me sono anche la conseguenza di questa poca voglia di lavorare.” Poi si interruppe e riprese: “Non dico a te, che invece mi sembri volenteroso, ma in generale vedo solo voglia di divertirsi. Sai come
diceva mio padre?” E snocciolò un proverbio barese incomprensibile che più o meno suonava così: “Iusede porc, cum dea corpa mia, gu dea port!” “Che hai detto?!” chiese Antonio arricciando il naso. E Vito tradusse: “Studia figlio, che tu non debba dire, mia colpa, mia colpa”. In seguito Vito volle scommettere su Antonio e sulle sue potenzialità; considerandolo quasi suo pari, lo coinvolse fino a chiedere il suo consiglio, confrontandosi con lui sui lavori da eseguire, sul modo di procedere, e perfino sul compenso da richiedere, quindi sul preventivo da presentare. Antonio si sentì catapultato in un ruolo più grande di lui, gli pareva di invadere il campo, ma non si sentiva a disagio, pensò che proprio da quel confronto ava la scelta di diventare imprenditore; già, pareva che Vito gli proponesse proprio questo, di entrare in società e la cosa lo attraeva. Un giorno però si recarono per lavoro presso una piccola vetreria in città, il titolare era un anziano signore, ormai svogliato e stanco; confessò che voleva smettere e cercava chi acquistasse i macchinari e i vetri che aveva in laboratorio. Vito sorrise e ciondolando la testa annuì, poi mise una mano sulla spalla di quell’uomo e propose Antonio come possibile acquirente; subito la cosa piacque a quel signore e domandò notizie. “Quant’è che fai il vetraio? E che sai fare? Sai lavorare alle mole?” Antonio spiegò che sapeva lavorare ormai con tutte le macchine per il vetro, dal filo lucido, alla molatura, alla lucidatura, fino alla sabbiatura e alla decorazione, e l’uomo lo prese in simpatia. “Mi sembri perfetto per questo posto, lo vuoi prendere?” Antonio si sentì gratificato di tanta stima, e di tanta fiducia; l’idea era fantastica, un laboratorio tutto suo, per un attimo la cullò come un sogno, immaginandosi come uno di quegli storici artigiani d’altri tempi, che tanto avevano contribuito a far grande quella città e quella regione. Ma in breve ritornò alla dura realtà, e domandò: “E quanto mi costerebbe tutto questo?” “Pochissimo!” rispose l’anziano signore. “Con cinquecentomila lire ti lascio tutto!” “Davvero poco!” disse Vito, mentre Antonio pensava la stessa cosa.
“Due mesi di stipendio! Potrei farlo.” “Allora? Che pensi di fare?” incalzò Vito. Antonio era di fronte a un dilemma, doveva ancora partire per il servizio militare e sarebbe accaduto presto. Come poteva investire in quell’impresa se poi era costretto a lasciarla chiusa per un anno? Probabilmente, non avrebbe avuto nemmeno il tempo di conoscere tutti i clienti della bottega, e al ritorno dal militare avrebbe dovuto lavorare come un mulo per trasformare il laboratorio in una svolta per la sua vita; qualche tempo prima proprio Vito lo aveva istruito: “Ricordati Antonio, a lavorare onestamente non si fanno i soldi!” Ed ebbe paura di non farcela. Si sentiva anche tradito dal suo titolare, da cui si aspettava un’altra proposta; capì che anche Vito probabilmente aveva voglia di smettere e non seppe decidere; spiegò le sue perplessità ai due anziani, e infilando le mani in tasca con un po’ di tristezza e di rassegnazione rinunciò: “No, mi spiace proprio, non posso!”
XXXI
Lucca per l’Africa
La società stava cambiando in modo convulso e non in meglio come avevano sperato, ma non tutti avevano rinunciato ai loro sogni, lui certamente no. Il Parlamento aveva da poco concesso la maggiore età e il voto ai diciottenni, presto si sarebbe anche lui presentato alle urne e questo contribuiva ad accrescere il suo senso di responsabilità. Era cresciuto mangiando pane e politica, perché suo padre, si era molto impegnato per lunghi anni al servizio del bene comune; ora anche lui poteva come suo padre incidere direttamente sulla vita del Paese. Anche lui come suo padre, non era un credulone e non dava nulla per scontato, aveva capito che la politica come la vita quotidiana, era fatta anche di compromessi, tuttavia non voleva rinunciare alle cose in cui credeva. Per lui, il lavoro, la cultura, la formazione spirituale, lo sport, la politica, erano ciascuno nel proprio ordine, tutti aspetti importanti della vita personale e sociale; ma cercava sempre qualcosa di più. Era continuamente alla ricerca di modi alternativi, per costruire pezzi dei suoi sogni. Anche i ragazzi che sulle panchine in pietra di via Roma suonavano il flauto o la chitarra, parevano proporre un’alternativa alla società dei consumi, ma Antonio li osservava con curiosa disapprovazione, perché non vedeva in loro uno slancio propositivo. Così pure, i ragazzi che eggiavano per il centro con abiti firmati e Ray-Ban sul naso, non riscuotevano da lui troppa simpatia; era altro quello cercava. Da qualche anno ormai, il centro dei suoi interessi, era al di là di quella piccola porta di via Arcivescovato, 43. Aveva il muro scalcinato, e proprio sopra la porta l’intonaco aveva sbollato creando una specie di sacca, Antonio di tanto in tanto giocava con qualche amico, usandola come canestro per un sassolino. In quella sede così scarna, si concentrava l’impegno di ragazzi e adulti, per la preparazione di varie attività, fra cui anche i campi-scuola estivi. A seguito del pressante invito di don Giovanni, assistente spirituale dei giovani e loro ala protettrice, Antonio aveva iniziato a collaborare più attivamente, e anche se non capiva compiutamente quale fosse il ruolo dell’associazione, quel tipo di esperienza corrispondeva
molto a ciò che lui cercava; aveva trovato una nuova appartenenza. In quella sua nuova famiglia si sentiva un uomo, e non era solo per i suoi diciotto anni; lì era fatto parte di un nuovo progetto di società fondata sull’amore. Venne chiamato ad affiancare gli educatori di un campo-scuola giovanissimi, e per quanto non si sentisse adeguato accettò; aiutare i più giovani a diventare più responsabili, ecco la sfida. Più che un educatore, Antonio era un amico un po’ più grande, ma poteva vantare un intenso percorso di fede e di vita, per questo gli era stata accordata fiducia. Scoprì che anche quei ragazzi avevano sogni simili ai suoi, suonavano e cantavano le canzoni di Joan Baez, Bob Dylan, Guccini, De André; canzoni di pace, di rifiuto dell’odio e della violenza. Fra quei giovani, alcuni provenivano da S. Paolino, erano gli eredi di quelli che lo avevano accolto qualche anno prima; alla fine dell’estate andò a incontrarli, avevano già una guida, Giancarlo un uomo maturo, brillante e simpatico, si trovò bene con loro e continuò a frequentarli. Scoprì che avevano dato vita a una interessante attività pratica, raccoglievano dalle farmacie e dai medici, le confezioni omaggio dei farmaci lasciate dai rappresentanti. Girando in lungo e in largo la città riuscivano a riempire parecchie scatole; in seguito i farmaci andavano selezionati, buttando quelli scaduti, andavano separati per genere, antibiotici, cortisonici, antinfiammatori… Antonio li aiutò a lungo con grande piacere, pensando al sollievo che avrebbero portato ad altri ragazzi proprio come loro, anche se di altro colore e di altra fortuna. L’anno seguente, il Friuli venne scosso da un fortissimo terremoto che provocò centinaia di morti e migliaia di sfollati; gli aiuti giunsero da ogni dove e anche da Lucca partirono in molti, specialmente giovani, fra questi alcuni erano amici di Antonio. Anche lui avrebbe voluto partire, ma era maggio e il lavoro non gli permetteva di prendere ferie o permessi; quando finalmente in agosto ebbe le ferie, la situazione in Friuli era ormai sotto controllo, si stava ricostruendo e non c’era più l’emergenza, Antonio scelse di non andare. A settembre però la terra tremò di nuovo, ci fu nuova emergenza e partirono nuovi aiuti, ma lui di nuovo non poté esserci; era riuscito solo a inviare un po’ di soldi. Continuò a separare medicinali per persone lontane, nel rimpianto di non essere stato accanto a quelle vicine al momento del bisogno.
XXXII
Esercizi
Dopo ferragosto, sazio di tanti impegni, e avendo ancora un po’ di ferie, sentì il bisogno di starsene un po’ da solo a riposare e a meditare, pensò di andare a farsi una breve vacanza, da solo in qualche paesino della Garfagnana, ma suo padre lo contestò. “Che fai?! Vai via di nuovo?! E a casa non ci stai mai?! Non ti sembra di esagerare?” Enzo desiderava forse più di altri che suo figlio spiccasse il volo, che trovasse la sua strada, ma questo fervore gli pareva veramente troppo, inoltre aveva ancora bisogno di lui, specialmente ora che era forte e robusto. Ogni settimana, Antonio si recava a Lucca una o due volte per riunioni serali o convegni, a volte alla domenica partecipava a incontri di intere giornate, e ogni volta andava da solo con la sua lambrettina; ormai la sua vita era tutta a Lucca, eppure anche a Monsagrati c’era molto da fare, in casa e in parrocchia. Volendo giustificare il suo desiderio di vacanza, Antonio rispose: “Mi sono impegnato tanto quest’anno, ora mi piacerebbe un po’ di svago”. Ma Enzo lo riprese: “Veramente io avevo bisogno di te per alcuni lavori, perché come sai, a casa ce n’è da fare! E a proposito dell’impegno, ricordati che qualche volta bisogna anche dire di no”. Antonio avrebbe avuto molto da obiettare, senti da che pulpito viene la predica! pensò fra sé memorizzando i tanti impegni di suo padre, ma si arrese e annuì, forse aveva ragione lui. ata l’estate però volle rifarsi, venne organizzato all’Alpe di S. Antonio un breve Corso di Esercizi Spirituali, e quando capì di che si trattava volle partecipare. La sua famiglia non fu troppo contenta, perché sarebbe stato via quattro giorni durante il ponte di Ognissanti, una delle feste più
importanti per loro. Tutti i morti delle due famiglie d’origine, riposavano nel piccolo cimitero di Monsagrati, perciò quello era un giorno di ricordo e di visita collettiva, e soprattutto di incontro e di convivialità. A fine giornata si ritrovavano tutti nella grande cucina, dove nonna Paolina faceva ballare le castagne sulla padella e su per il camino, fino a farne delle croccanti mondine. Fra chiacchiere e risa, dopo aver meditato sulla vita ata dei loro morti, e averne tratto qualche insegnamento, serio o ironico, tutti insieme festeggiavano la loro vita presente assaporando la gioia di stare insieme. “Quindi non ci sarai!?” domandarono in coro Enzo e Maria un po’ rattristati. “Pregherò per i vivi e per i morti da lassù!” rassicurò Antonio sorridendo. Partirono a fine pomeriggio con un pullman organizzato per l’occasione, all’Alpe c’era la neve, perciò il pullman dovette lasciarli a metà della salita, da lì, nel freddo della sera attesero le auto, e a piccoli gruppi raggiunsero la casa. Quel giorno Antonio aveva avuto un diverbio sul lavoro, ed essendo ancora arrabbiato, lo manifestò a colei che gli sedeva accanto sul pullman; cercava il modo di sfogarsi, di pacificarsi, per trascorrere serenamente quei giorni e lei lo tranquillizzò dicendo: “Domani starai bene, vedrai, sarà una bella esperienza!” Quella sera fu presentato il programma delle giornate, molto simile alla vita dei benedettini ora et labora: sveglia ore sei, preghiera comune, colazione, lavoro, pranzo, riposo, meditazione, preghiera comune, cena, confronto e preghiera conclusiva; era richiesto un clima di silenzio. Proprio quello che serviva ad Antonio per sbollire le arrabbiature. Faceva un gran freddo lassù, quella poca neve che ricopriva tutto era gelata, e anche le stanze da letto erano fredde, non c’era riscaldamento! C’era abbondanza di coperte, ma quasi tutti si erano portati dei pesanti sacchi a pelo invernali come era stato consigliato; Antonio invece, che era avvezzo alla mancanza di riscaldamento, si era portato le lenzuola, e sotto gli sguardi infreddoliti dei compagni di stanza, si coricò senza neppure indossare un pigiama. Durante la notte si svegliò, ma non era per il freddo, uno dei compagni di stanza stava pregando ad alta voce. Antonio apprezzava tutte le forme di spiritualità, ma quella gli parve proprio esagerata, perciò domandò: “Come mai non dormi?” “Te lo spiego domani, buonanotte!” La mattina dopo, confermando di trovarsi a suo agio, Antonio fu l’unico a
lavarsi il viso con l’acqua gelida; dopo la preghiera e la colazione si misero tutti al lavoro, alcuni stavano in cucina, altri facevano manutenzione della casa, altri ancora studiavano in vista di esami, Antonio si ritrovò a raccogliere castagne. Era un piccolo gruppo e c’era con loro anche don Giovanni, le castagne che raccoglievano erano destinate a una famiglia del luogo che in quegli anni aveva dato tanta collaborazione durante l’estate. Fino ad allora aveva guardato quei luoghi con gli occhi affascinati di un sognatore, ora scopriva tutta la durezza di quell’ambiente e la povertà di quella rude gente di montagna, che per trarre frutti dalla terra aspra, faticava molto di più di quanto lui avesse sperimentato. Questo lo rallegrò moltissimo, oltre al piacere di stare nel bosco, a svolgere un lavoro che per lui era divertimento, poteva condividere quella gioia che aveva ricevuto da bambino lavorando nei campi; la mattinata perciò scorse via serenamente come aveva sperato. Quando furono a pranzo però rimase sbigottito; il suo compagno di camera rivelò il motivo della sua preghiera notturna, Antonio aveva bestemmiato nel sonno! Lui arrossì imbarazzato, poi si affrettò a scusarsi, motivando con lo stesso argomento confessato all’andata sul pullman; in una notte agitata da sogni tormentati, aveva sputato un po’ di quella rabbia che aveva ancora dentro. I giorni seguenti trascorsero sereni, in un clima di profonda amicizia e di grande raccoglimento, ma come accadeva ormai spesso, Antonio si innamorò. Si sentì a disagio, perché forse quello non era l’ambiente giusto per tessere relazioni, stavano lì per dedicarsi all’anima più che al corpo, ma non poté resistere, in un momento di meditazione personale la convocò in disparte e si dichiarò. Alcune parole di circostanza “dove vivi, cosa studi, che progetti hai?”, poi arrivò al punto: “Volevo dirti che tu mi piaci tantissimo!” Temeva il suo rifiuto, ma forse più ancora temeva il suo assenso, così si mostrò impacciato, e dopo aver provato un senso di liberazione per essersi manifestato, non riuscì ad aggiungere altro. Lei lo ascoltò con calma e rispetto, poi con lo stesso rispetto rispose: “Sono lusingata, mi fa piacere che tu mi apprezzi, purtroppo io non condivido i tuoi stessi sentimenti, mi spiace”. Con la voce impastata Antonio replicò: “Va beh, possiamo almeno conoscerci un po’ meglio?” “D’accordo!” concluse lei. Riprendendo il ritmo e il clima di quei giorni, ripensò a quel momento e gli
parve di aver fatto di nuovo la figura del fesso; ma in realtà anche in quell’esperienza così tanto apprezzata, si era ritrovato un po’ solo, infatti era l’unico giovane lavoratore fra tanti studenti, e ancora una volta gli erano mancati un po’ di argomenti di conversazione. Tornato a casa scoprì che forse l’aria dell’Alpe giocava brutti scherzi; quella ragazza gli piaceva, ma non era poi così perso per lei, infatti provò a ricercarla, ma quando riuscì a incontrarla di nuovo non seppe andare oltre un saluto. Non era quella che cercava o forse era ancora parecchio imbranato. Nei mesi successivi cercò di consolidare i rapporti di amicizia coi ragazzi del CODAC, era ancora un po’ troppo grezzo e anche un po’ troppo solitario; ma quell’impegno che tanto apprezzava, di aprire la coscienza propria e degli altri al bisogno di amicizia e di dialogo, per sconfiggere le ingiustizie sociali, si trasformò in un duro scontro fra due posizioni opposte. In vista delle elezioni, si creò un clima di forte contrapposizione e di dissenso, fra il tradizionale sostegno incondizionato alla DC, e il desiderio di rinnovamento della politica. Nel bisogno di affrancarsi e di esprimere le proprie scelte in un pluralismo democratico, alcuni di quei ragazzi, manifestarono fin troppo chiaramente un atteggiamento ribelle verso le gerarchie ecclesiastiche; don Giovanni fu additato per questo come unico responsabile, e si aprì uno scontro fra giovani e adulti all’interno dell’Azione Cattolica. Per cercare di sanare quello strappo, l’arcivescovo Agresti, fu costretto con dispiacere a sollevare don Giovanni dal suo incarico. Per Antonio fu un duro colpo, nulla cambiava nel suo rapporto di amicizia con don Giovanni, ma bisognava ricostruire quel clima di collaborazione che si era guastato. Benché lui fosse ben disposto all’amicizia con tutti, senza indagare le colpe di alcuno, quel sogno della società dell’amore si era incrinato irrimediabilmente. Tuttavia, Antonio era a suo modo irriducibile, e anche quando tutto sembrava compromesso, continuava a crederci; nuove figure apparvero in via Arcivescovato, 43, e Antonio le accolse con favore, pronto a collaborare silenziosamente; quei giorni di freddo trascorsi all’Alpe lo avevano temprato ed era pronto a dare nuovi frutti.
XXXIII
Vocazione
Su quel breve crinale proteso verso la vallata si ergeva semplice e imponente la Pieve di S. Giovanni Battista; a pianta romanica e quindi con l’abside rivolta est, verso il sorgere del sole, la vallata e la piana di Lucca. Una piccola strada erbosa girava intorno all’abside, ma non molti la usavano; quello era uno dei luoghi preferiti dai ragazzi: era dietro e quindi un po’ nascosto, c’era spazio sufficiente per giocare e si prestava a prove di equilibrio. Il muro in pietra a semicerchio, poggiava su due ordini di basamento, che sporgevano quel tanto, da costituire due piccoli cornicioni sovrapposti. La modesta altezza dal suolo, trasformava quelle sporgenze, in un terreno di sfide affascinanti senza pericoli di sorta; i ragazzi, a turno o in fila indiana, cercavano di percorrere l’intero cornicione da un estremo all’altro senza cadere. Il gioco aveva due livelli: il cornicione in basso (pochi centimetri da terra) per principianti, quello in alto (meno di un metro da terra) per i più esperti. Era un gioco solo per ragazzi, perché pur non essendo troppo difficile, consentiva l’appoggio completo solo a un piede bambino. Questo aspetto rendeva quelle prove ancora più intriganti; l’equilibrio sul bordo dell’abside, oltre a evidenziare l’abilità degli sfidanti ne misurava la crescita; quando un esperto non riusciva più a camminare lì sopra, era diventato grande. L’attesa delle funzioni religiose veniva consumata lì dietro da Antonio e dagli altri ragazzi, così, quando la campana suonava a rintocco, con una breve corsa intorno all’abside, si presentavano davanti alla piccola porta laterale che si apriva verso sud, e con un paio di salti su quei quattro scalini erano in chiesa. La porta era solitamente usata dagli uomini, molti dei quali si fermavano quasi subito nella penombra; dopo il segno di croce bagnato dall’acqua benedetta, andavano a sedersi sulle panche laterali appoggiate al muro sotto la navata destra, vicini all’uscita. Le donne invece, entravano dall’ingresso principale posto sulla grande facciata, esposta a ovest, ma seminascosta ai raggi del sole da una fila di imponenti cipressi secolari. Antonio, talvolta allungava la corsa per
entrare da quella porta, l’ingresso infatti era solenne; si ava da una zona di penombra, al bagliore multicolore della luce interna, diffuso dalle vetrate a mosaico. La potenza di quel colonnato avvolto da fasci di luce, invitava al silenzio e dava un senso di pace interiore, rendendo quel luogo pregno di misticismo. Quel piccolo ingresso laterale però gli era più familiare; era usato anche da don Palmiro e permetteva un accesso diretto al coro, dietro l’altare, e alla sacrestia, insomma, l’ingresso di quelli che contano. Quando entrava o usciva da quella piccola porta, Antonio si fermava spesso per un momento a guardare verso la vallata e suoi crinali, Lucca era nascosta da un colle, ma lui cercava di immaginarsela, ricca e potente, distesa ai suoi piedi; quel luogo lo faceva sentire come un Re, che ritto su di un palco di pietra, si compiace nell’ammirare i suoi possedimenti baciati dal sole. Quell’abside, quelle pietre, quei gradini, quella porta, quell’angolo di colle, lo videro progressivamente e forse prematuramente diventare uomo. Quel luogo nascosto della Pieve, veniva talvolta usato anche dagli adulti, perché si prestava per conciliaboli, confidenze, pettegolezzi, progetti arditi. Anche i ragazzi, lì fuori, non si limitavano a giocare, ma parlavano e progettavano di tutto; mentre in chiesa erano abbastanza dediti alle preghiere, lì parlavano più che altro di donne, e lì divenne chiaro ad Antonio, che la sua vocazione non era quella religiosa. A motivo del suo spirito di devozione, aveva già ricevuto ancorché piccolo, un invito a entrare nella vita monastica, ma benché avesse grande apprezzamento e interesse per quel tipo di vita, non vi si riconosceva e aveva sorvolato. Ora che stava crescendo, lavorava e cominciava a fare progetti che includessero una donna, era certo, che non avrebbe esitato a declinare di nuovo un eventuale simile invito. Un giorno, tardivamente rispetto alle sue previsioni, anche il vecchio pievano don Palmiro gli lanciò una proposta; lo fece alla sua solita maniera, senza invadenza, né perentorietà. Al termine della S. Messa, uscendo da quella porticina, vide Antonio che osservava la vallata baciata dal sole, si fermò accanto a lui e disse: “Dimmi un po’, ma tu hai mai considerato la possibilità di entrare in seminario?” “Sì,” rispose Antonio senza troppa convinzione. “E allora, cosa ne pensi? Non ti piacerebbe?” insisté don Palmiro. Antonio ci pensò un attimo, non sapeva come rispondere, temeva di dare un
dispiacere al vecchio pievano, che evidentemente dimostrava stima nei suoi confronti. Prendendo fiato articolò le sue obiezioni. “Sì, ma… ora ho il lavoro, in casa c’è bisogno…” Vedendo la perplessità negli occhi del pievano concluse: “Comunque ora sono impegnato nell’Azione Cattolica…” Al pievano non dispiacque la risposta, ma insistette: “Questo va bene, il Seminario però è un’altra cosa, pensaci!” Quelle parole non erano troppo impegnative, né vincolanti, né impazienti; ma il sorriso di compiacimento con cui don Palmiro accompagnò l’invito, scavò un solco nel cuore del ragazzo. Questa volta doveva trovare una risposta che fosse definitiva. Aveva capito bene, perciò non si limitò a pensarci su, e cominciò a frequentare il Seminario anche se un po’ alla chetichella. Aveva conosciuto un paio di seminaristi ai campeggi dell’Azione Cattolica, con la scusa di andarli a trovare, si fermò alcune volte a parlare anche con gli altri; avendo gradito le sue visite lo sollecitarono: “La prossima volta resta a pranzo con noi!” Ritornò e pranzò con loro, conversando di molte cose, in seguito tornò ancora, finché il rettore del seminario, un giorno lo chiamò nel suo ufficio. “Vorrei conoscerti meglio.” Ebbero una lunga conversazione e parlarono un po’ di tutto, volendo concludere il colloquio il rettore domandò: “Insomma, dimmi un po’, cos’è che stai cercando qui? Vieni abbastanza spesso, ma non ti fermi mai a lungo. Come mai?” Antonio spiegò che il suo interesse era legato all’invito del pievano, a cui voleva dare una risposta convincente, perché a lui in realtà interessavano le ragazze. “Mmh, se vuoi venire qui solo per chiacchierare coi seminaristi, vieni quando vuoi. Se invece come dici cerchi una fidanzata, beh, come vedi qui non ci sono ragazze. Se poi, vuoi valutare la possibilità di entrare in Seminario, prova a fermarti agli incontri del gruppo vocazionale, e verifica se ti interessa davvero. In altre parole, verifica qual è la tua strada e seguila con decisione.” “D’accordo, grazie!” concluse Antonio alzandosi per salutare.
Il rettore lo incalzò: “Se vuoi fermarti, il gruppo vocazionale si sta riunendo proprio ora, nella stanza al centro del corridoio, ciao”. Antonio salutò e uscì, ando davanti a quella stanza, udì all’interno alcuni ragazzi che parlavano, si avvicinò alla porta, allungò la mano sulla maniglia, ma non aprì; si volse, era solo nel lungo corridoio, ritrasse la mano e si avviò silenziosamente. All’uscita incontrò sco, che sorridente come sempre, gli disse: “Ciao, torna presto!” Antonio sorrise, annuì col capo e se ne andò. Tornò ancora al seminario, ma non dette mai la sua risposta al pievano, né mai ce ne fu bisogno.
XXXIV
Mugello
Già da un anno stava usando il Galletto Guzzi abbandonato da suo padre e finora si era trovato a meraviglia, ma adesso quella vecchia motocicletta cominciava a dare segni di stanchezza, così, dopo tante piccole rimesse a punto, decise di farne revisionare il motore. Il Galletto aveva un motore che girava lentamente come un trattore, e non gradiva l’acceleratore al massimo; Antonio invece amava tirargli il collo, non solo per sentirlo cantare a conferma del suo nome, ma soprattutto per ottenere velocità, tanta velocità; forse proprio per questo il motore si era un po’ stancato. Quando il meccanico lo ebbe rimesso a nuovo, comunicò ad Antonio la sua soddisfazione per aver fatto un buon lavoro. “Perciò mi raccomando,” disse al ragazzo quasi pregando, “non lo strapazzare! Il motore è nuovo, e quindi un po’ legato. Specialmente per i primi due-trecento chilometri fallo andare piano e a piccole tappe, niente maratone!” Antonio ringraziò, ma non fu molto contento; aveva previsto di andare all’autodromo del Mugello a vedere una corsa automobilistica, e voleva andarci col suo Galletto insieme ad altri amici in moto. Il Mugello era troppo lontano e la data troppo vicina, non avrebbe fatto in tempo a sciogliere il motore con i chilometri necessari, però lanciò lo stesso la proposta agli amici. Con dispiacere nessuno accolse la sua idea, ma lui non si scoraggiò anzi. “Andrò in treno!” disse. “Così non sfiancherò il motore nuovo!” Era avvezzo a stare da solo e non lo disprezzava, ma questa per lui voleva essere una gita, una specie di avventura da vivere in compagnia ed era un po’ mogio; ci pensò un po’ su, poi il fascino di andare a scoprire posti nuovi del tutto sconosciuti prevalse, e partì. Non conosceva affatto le linee ferroviarie, perciò non capì che poteva arrivare molto vicino, fino a Borgo S. Lorenzo, a pochi chilometri dall’autodromo, e si fermò a Prato. Ingenuamente pensò che un
autodromo come quello doveva essere famoso, e quindi sarebbe stato ben collegato con servizi di autobus ai principali centri. Quando alla stazione di Prato scoprì che era ancora molto lontano, fece buon viso a cattivo gioco, prese un autobus per Calenzano, poi si mise a fare l’autostop; troverò qualcuno che va a vedere le corse! pensò fra sé con grande ottimismo. Non si sbagliava, poco dopo si fermò una Ford Escort tutta carenata di spoiler e alettoni, tappezzata di adesivi come un’auto da rally, ci siamo! pensò Antonio sorridendo, aprì la portiera e chiese: “Vai all’autodromo?” “Ci puoi scommettere!” rispose il tizio al volante. Saltò su e l’auto partì a razzo, Antonio aveva scaldato il cuore di quel solitario apionato di motori; mulinando sul cambio e affondando l’acceleratore, quell’aspirante pilota si esaltò alla guida, mettendo a dura prova l’aderenza delle gomme all’asfalto. Antonio amava quel tipo di guida, lo aveva già apprezzato da suo cognato, ma questa volta era un po’ sulle spine; certo, quel tale ci sapeva fare, ma c’era un piccolo problema, lui! Quel tizio per l’appunto era piccolo di statura, forse un metro e quaranta forse meno; stava seduto sulla punta del sedile e arrivava a malapena ai pedali, come se la sarebbe cavata con una frenata brusca e potente? Per cercare di farlo calmare un po’, Antonio si mise a parlare di gare, piloti, scuderie… ma ottenne l’effetto contrario, più si parlava di corse e più quello affondava l’acceleratore, fin quasi a scendere dal sedile. Come dio volle arrivarono all’autodromo, entrarono e si trovarono un posto sul prato più alto; non c’erano tribune, ma la vista era spettacolare, altro che Monza! Il circuito infatti si snodava fra due colline, col rettilineo d’arrivo sul fondovalle, dall’alto di quella collina si poteva vedere un lungo tratto di pista con tre curve, e in lontananza si poteva intravedere anche un pezzo di tracciato della collina opposta: un punto davvero spettacolare e tranquillo. Le gare erano già cominciate a partire dalle classi minori, stavano gareggiando auto di serie elaborate e lo spettacolo era già divertente, perciò Antonio si fermò lì per un po’. Appena iniziò l’intervallo, con la scusa di esplorare le altri parti del circuito, salutò quel piccolo uomo ringraziandolo ancora del aggio, lui ricambiò ringraziando per la compagnia e assicurò: “Io non mi muovo, alla fine mi ritrovi qui, così andiamo via insieme”. “Okay grazie!” rispose Antonio. “Comunque, casomai mi perdessi, se non mi vedi non preoccuparti, un aggio lo trovo di sicuro! A dopo!” E sparì. Nonostante la simpatia, non aveva alcuna intenzione di ritornare con lui, perciò si tenne nascosto e alla fine di tutte le gare, attese ancora un po’ prima di ripresentarsi sul prato. Uscendo dall’autodromo si rimise a fare l’autostop, ma
tutti quelli che si fermavano abitavano nei paraggi, così non arrivò molto lontano; finché, un signore di mezza età, lo accompagnò per un tratto un po’ più lungo fino alla foce di un colle; era magrolino e muoveva il capo con uno strano tic. “Vivo da solo,” disse, “e siccome non avevo più voglia di stare sul divano, vado a fare due i su alla foce, mi spiace di non poter andare oltre, ma troverai senz’altro qualcuno che ti porta fino a Calenzano.” Antonio annuì sorridendo e ringraziò, giunti alla foce scese e salutò ringraziando di nuovo, poi si avviò a o svelto giù per la discesa alzando il dito alle poche auto che avano, e poiché nessuno si fermava, essendosi fatto ormai quasi buio, per niente scoraggiato allungò il o, deciso ad arrivare a piedi. A un tratto, dalla penombra sbucarono i fanali di una piccola utilitaria che si fermò, era quel tipo con lo strano tic; fece salire di nuovo Antonio dicendo: “Mi è cambiato il programma, lassù tirava troppo vento, perciò mi sono detto: perché non andare a fare un giro a Calenzano? Così posso anche dare un aggio a quel ragazzo, ed eccomi qua!” Ad Antonio parve una giustificazione un po’ strana, anche perché di vento non ne aveva sentito, pensò che quel ripensamento celasse in realtà un bisogno di sfogo, la necessità di confidare a qualcuno i propri guai, quindi chi meglio di un estraneo? Come aveva intuito, dopo aver ripreso a parlare genericamente dei rispettivi luoghi di provenienza, la conversazione proseguì con qualche confidenza sui problemi dell’esistenza; ben presto però prese una piega e un tono che lo imbarazzava. Quel tale cominciò a parlare di gusti sessuali e di rapporti ambigui, finché sfociò in una dichiarazione che lo lasciò sbigottito. “Sai, è da tanto tempo che lo voglio chiedere a un autostoppista: posso metterti una mano sulle cosce e un po’ più in là?” Antonio restò calmo, ma con voce fredda e decisa rispose secco e forte: “No!” Quello, per niente intimorito, non si ritrasse e insistette con più dolcezza: “Soltanto sopra i pantaloni”. Allora Antonio, con la stessa fredda decisione, replicò più forte: “No!” A quel duplice netto rifiuto, l’uomo ritrasse la mano e ò a maniere più accomodanti. “Potrei darti uno strappo fino a Prato, così non dovrai cambiare
treno!” Antonio senza scomporsi insistette: “Non importa!” In quel momento un’auto più grossa li sorò, erano quattro ragazze, e quel tale ammiccando verso di loro disse: “Mi piacciono anche quelle, ma preferisco i ragazzi, che ci posso fare?” Antonio colse l’occasione per precisare, e allargando le mani disse: “A me piacciono solo quelle!” Quel tale però non voleva mollare e ribatté: “Ma insomma, non ti posso portare fino a Prato? Non voglio niente, solo fare un po’ di strada insieme”. Antonio si mostrava calmo, ma era stato teso per tutto il tempo, pronto a scattare se quello avesse riprovato ad allungare la mano. Gli era già capitato di incontrare persone con gusti sessuali diversi dai suoi, e non si era mai sentito a disagio con loro, anzi con alcuni aveva allacciato rapporti di amicizia; un paio di volte aveva ricevuto perfino ammiccamenti, ma lui non se ne aveva fatto un problema, né tantomeno se l’era presa. Pochi mesi prima, Pier Paolo Pasolini era stato ucciso sul litorale romano e Antonio, che apprezzava la sua arte e la sua schiettezza, ne era rimasto colpito e rattristato; la sua mamma invece, forse per metterlo in guardia, per tutta risposta, aveva rimarcato le insistenze addebitate al regista. Ora Antonio, per quell’uomo così insistente, provava solo comione, non tanto per le sue tendenze, ma per il modo rozzo di manifestarle, che mostrava gravi difficoltà di relazione e nascondeva una profonda solitudine. Avrebbe accettato volentieri un aggio fino a Prato, ma non aveva gradito l’approccio e non poteva fidarsi, così quando furono abbastanza vicino a Calenzano, e il traffico rallentò, esclamò con forza: “Si fermi, scendo qui!” Quello, però, col solito fare gentile replicò: “Ormai siamo arrivati a Calenzano, puoi scendere più avanti”. Antonio tuttavia non volle andare oltre e facendo cenno di aprire la portiera, con voce alterata ribadì: “Ho detto che scendo qui!” L’auto si fermò, Antonio scese e con un tono decisamente più cortese, abbassò la testa, sorrise e salutò dicendo: “Grazie mille e arrivederci”.
Con o deciso si avviò verso la stazione, mentre l’altro con l’auto cercava di seguirlo, ma non riuscì per il traffico cittadino. In breve Antonio si dileguò. Sul treno ripensò a lungo a quella strana giornata e sorrise di gusto, benché da solo: era stata davvero avventurosa…
XXXV
Il voto
“Questa volta votiamo PCI!” Così si espressero i suoi compaesani, rivolgendosi a suo padre con tono di avvertimento. “Non scherziamo!” rispose Enzo, ma questa volta il suo splendido sorriso appariva un po’ tirato. Eravamo alla vigilia delle elezioni e gli uomini erano troppo delusi dagli scandali e dalla corruzione del potere, che lasciava tanti problemi irrisolti. Da molto tempo erano iscritti alla DC, e certamente non dicevano sul serio parlando in quel modo, ma non avevano più fiducia in quei politici e nelle loro promesse; credevano però, sia come contadini che come cristiani, all’onestà e alla buona volontà di Enzo, segretario della locale sezione DC, era uno di loro e da lui si aspettavano molto. Enzo allargò le braccia, come a dire che la pensava come loro, ma che non era così facile portare dentro il partito cambiamenti di rilievo, almeno non da solo. Lui ci aveva sempre provato, lottando contro i privilegi, sostenendo i bisogni dei più deboli, appoggiando candidati, uomini e donne, che reputava di grande serietà; e ci avrebbe provato ancora, ma aveva bisogno dell’appoggio e del sostegno di tanti, per lui contava soprattutto la comunità, “la forza è nella solidarietà!” amava dire. Si era trovato coinvolto in politica suo malgrado e per quel piccolo borgo era diventato una specie di istituzione, un punto di riferimento; come tanti di quelle parti non aveva titoli di studio, ma sapeva parlare chiaro, e sapeva vedere altrettanto chiaramente i problemi e le possibili soluzioni. Antonio lo stimava molto e non sentiva disagio nell’essere figlio di tanto padre, anzi, avrebbe voluto seguirne le orme; ma anche sulla politica aveva le sue idee. Pur essendo profondamente attaccato alla fede cristiana, non amava molto i dogmi, questi riguardavano la vita spirituale, e in virtù di ciò li accettava come frutto di lunghissima e approfondita meditazione. Quello che proprio non accettava, erano i dogmi nella vita sociale, per lui tutto era soggetto a confronto. Proprio per questo non amava le mezze misure e gli accomodamenti, e non era disposto
a scendere a compromessi; lo zio Gigi lo aveva messo in difficoltà con le sue storie, ma lui cercava strade più giuste, e quella paventata dai suoi compaesani gli sembrava più un ripiego, un dispetto, piuttosto che una scelta consapevole, perciò non intervenne, e lasciò parlare suo padre. Non era tesserato, ma era stato invitato da suo padre che voleva coinvolgerlo nella partecipazione; Enzo amava la libertà, e quell’amore lo aveva trasmesso ai figli, perciò non poteva limitarsi a proporgli una tessera, voleva sensibilizzarlo, e forse si aspettava anche un suo intervento. Qualche giorno prima infatti, Antonio aveva incontrato un suo ex compagno di scuola, che diffondeva per strada un piccolo giornale di ispirazione comunista, e incuriosito lo aveva acquistato per pochi spiccioli. Era stato notato dallo zio, che con un sorriso stupito, gli aveva lanciato un avvertimento: “Se lo vede tuo padre…” Antonio aveva risposto candidamente: “Voglio sapere cosa dicono questi”. Lo zio aveva sentenziato: “Tutte bugie! Soldi buttati via!” Enzo aveva saputo, ma anziché criticare la scelta del figlio, gli aveva chiesto un parere sulle cose scritte in quel giornale, e aveva apprezzato le sue valutazioni. La riunione coi suoi compaesani, proseguì in un aspro confronto, e Antonio non intervenne; ma facendo tesoro di quelle esperienze e di quelle discussioni, di lì a poco si impegnò nella campagna elettorale. Conosceva il candidato da sostenere, lo aveva incontrato e ascoltato, si era intrattenuto con lui; era un uomo di grande levatura morale e di grande cultura, il prof. Renzo Papini, presidente uscente dell’Azione Cattolica di Lucca. Come altri, Antonio portò in giro volantini e parlò con chi conosceva, perché era convinto della validità, della preparazione e dell’umanità di quella persona, ma essendo assai timido dovette sforzarsi per sostenere la sua proposta. Fece visita ad alcuni parroci della sua valle, convinto che molti fedeli si sarebbero rivolti a loro per una indicazione di voto; finché una sera, certo di trovare la giusta accoglienza, visitò una parrocchia che contava un bel numero di tesserati all’Azione Cattolica. Con sua sorpresa, trovò dal parroco un altro candidato, anche lui a caccia di voti, anche lui della DC, ma di una corrente diversa da quella che proponeva il prof. Papini. Un po’ imbarazzato e intimorito, su invito del parroco, presentò brevemente il suo candidato; si sentiva a disagio, così, dopo aver raccomandato di proporre il voto al prof. Papini almeno ai tesserati AC, fece cenno di andarsene, ma non poté, quel politico aveva qualcosa da dire. Con molto mestiere, elogiò la
disponibilità di nuovi candidati, e pur non conoscendo il prof. Papini, si disse convinto della sua valenza, ma non capiva perché mai si era presentato con quella corrente, e pontificò: “Cosa vogliono, e dove vanno questi? C’era bisogno di questa nuova corrente? C’eravamo già noi a difendere i valori cristiani della famiglia e della società!” Antonio era intimidito, avrebbe avuto da replicare, ma riuscì solo a borbottare qualcosa del tipo: “Più persone serie si candidano meglio è…” Ma l’altro replicò prontamente: “Meglio pochi candidati vincenti che dispersione di voti!” Con sua sorpresa, il parroco annuiva ogni volta alle parole di quel politico; Antonio era impacciato e non aveva argomenti, vedendolo in difficoltà, i due cercarono di rincuorarlo, ma nelle battute che seguirono si sentì perfino offeso. “Non te la prendere, purtroppo non hai esperienza! E anche il tuo amico candidato sicuramente non ne ha.” Sentendosi umiliato e inadeguato a rispondere, si alzò e dopo aver ringraziato e salutato e se ne andò. Chissà, forse non sarò in grado di seguire la strada di mio padre, pensò mentre se ne andava deluso. Qualche anno dopo capitò l’occasione di farsi sentire, c’era bisogno di difendere il diritto al lavoro, messo a rischio dal cieco profitto e non si tirò indietro; insieme ad alcuni amici dell’AC preparò un breve e incisivo intervento, e lo lesse durante una manifestazione in una piazza gremita di gente. I compagni di partito di Enzo apprezzarono molto il suo intervento e anche il piglio e la forza che aveva messo nelle sue parole, perché si capiva che credeva in ciò che diceva. Enzo ne fu fiero e gli comunicò i commenti dei colleghi di partito; “So che hai parlato in piazza,” disse sorridendo, “si sono complimentati con me, e io gli ho risposto che era tutto merito tuo.” “Sì, ho letto un breve documento, ma non l’ho scritto da solo,” rispose Antonio quasi arrossendo. Enzo non disse molto altro, ma gli sorrise soddisfatto e orgoglioso, uno dei suoi modi silenziosi per dire “bravo!” Alcuni giorni dopo, in attesa di qualcuno che lo riportasse a casa, con sorpresa Antonio vide arrivare un amico di suo padre, un compagno di partito; “Tuo padre non poteva, così ha chiesto a me di venirti a
prendere.” Cercando di giustificarsi. Lui intuisce subito che c’è dell’altro, infatti dopo poche battute, l’amico di Enzo dice: “Mi complimento con te, so che sei intervenuto in piazza con autorevolezza, che hai parlato chiaro e spigliato, che ne diresti di entrare nel partito? Potresti iniziare, partecipando agli incontri della sezione giovanile, conosceresti gli altri, poi se hai la stoffa e te la senti, un domani potresti essere tu a dirigere, così potresti portare avanti le tue idee. C’è bisogno di gente in gamba, che si dia da fare in questa società così complessa. Che ne pensi?” Antonio capisce la finezza di suo padre; vuole che sia libero di fare la sua strada, e teme che chiedendogli un impegno da padre a figlio possa sentirsi in obbligo, così ha mandato un altro. Capisce anche che la strada che gli viene prospettata è molto interessante e anche attraente, ma senza confessare di aver già pensato a quella possibilità, abbozza un sorriso nascosto sotto una smorfia e respinge la proposta: “No, non me la sento!” L’amico di suo padre cerca di insistere, lo fa con dolcezza, portando argomenti convincenti: “Se non ci sarai tu, ci sarà un altro, ma lui porterà avanti quello che più gli sta a cuore, e non quello che interessa a te o a tuo padre; se lasciamo le redini in mano ad altri, poi dobbiamo accettare quello che viene, questo è il momento di partecipare attivamente, pensaci!” Antonio annuisce di fronte a queste valutazioni, ma poi argomenta: “è vero quello che dici, servono giovani formati per avere domani una classe dirigente responsabile, anche per questo mi sto impegnando in Azione Cattolica”. Ma l’altro insiste ancora: “Certamente è importante quello che fai nella chiesa, ma l’impegno diretto nella politica è un’altra cosa, ed è quello che serve oggi, tu puoi farlo, e non saresti solo!” Antonio non è tipo da scartare facilmente strade percorribili, per lui impossibile è una parola provvisoria, perciò rassicura l’amico: “Okay, ci penserò!” In cuor suo, però, sa che non andrà per quella strada, qualcosa glielo impedisce. Non gli piace ciò che ha visto in quegli anni, vorrebbe poter fare qualcosa per cambiare; teme di sbagliare a stare fuori dalla mischia e vuole fare la sua parte; ma è ancora un sognatore, un ingenuo, forse un illuso, teme di poter essere usato e strumentalizzato, perciò la sua parte per ora non sarà quella del protagonista.
XXXVI
Obiezione
Antonio è cresciuto in un ambiente povero ma ordinato, dove il rispetto per l’autorità e per le regole è sempre stato considerato vitale; cose che lui ha imparato ad apprezzare. Tuttavia, da quando ha acquistato l’uso della ragione, non ha mai lesinato di obiettare, di osservare le cose a modo suo, anche nei grandi cambiamenti che la vita impone. Ormai è maggiorenne e sente aria di chiamata alle armi; anche se è finita la guerra in Vietnam, il clima internazionale fra gli stati e fra i due grandi blocchi est-ovest non è del tutto stabile, il clima sociale nel paese lo è ancora meno. La contestazione del ’68, che si reggeva su grandi e variopinti ideali, è stata soppiantata da bieche pretese e soffocata da un’onda di violenza angosciante e destabilizzante. Le antiche certezze sono state spazzate via, ma non si riesce a impiantarne di nuove, e per alcuni addirittura non ce ne dovrebbero proprio essere. In alcune città più calde si viene talvolta spinti o strattonati a pensare e ad agire in un certo modo, piuttosto che in un altro. Lucca, nella sua apparente tranquillità, pare governata dalla sua fama di città moderata, ma anche lì dentro, il fermento è grande e palpabile; nonostante non abbia una propria università, il luogo principe del pensare di quegli anni, il confronto culturale è molto vivace, specialmente fra i giovani. Associazioni, gruppi, movimenti, partiti, parrocchie… ognuno per la sua parte anima il dibattito intorno ai grandi temi: pace, diritti civili, scuola, lavoro, informazione; anche nell’Azione Cattolica i dibattiti sono spesso accesi, ed è la sua stessa struttura di tipo laicale e democratico a provocarli. Uno in particolare riscalda i cuori di quei giovani, l’obiezione di coscienza al servizio militare, la contestazione del sussistere della forze armate e, in particolare, il rifiuto della figura dei Cappellani Militari, sulla scia dell’insegnamento critico di don Lorenzo Milani, e di altri preti ribelli degli anni ’60. Da tutto il nuovo che emerge dagli anni precedenti, prende forza fra quei giovani
la convinzione che si possa costruire un mondo più giusto e più umano, dove le armi non si limitino a tacere, ma vengano messe al bando, così come la paura dell’altro. Le canzoni di protesta o di impegno civile, che animano il turbolento movimento giovanile, scaturiscono in gran parte dallo slogan I CARE, mi sta a cuore, e contribuiscono anch’esse ad alimentare il confronto. Antonio conosce alcuni dei primi obiettori di coscienza di Lucca e ne rimane affascinato, ma nel corso di quegli anni turbolenti, quello slancio puro e sincero verso orizzonti di pace e di giustizia universale, inizia a deformarsi e a guardare agli interessi particolari. Antonio è combattuto, fin dalla sua infanzia ha sviluppato una propria idea di società, di individuo, di istituzioni, e non parteggia per alcuno schieramento politico, perché non trova in essi alcuna appartenenza, ma ora che credeva di aver trovato finalmente la sua strada, si scontra con nuove ideologie, ed è in crisi. Ciò che più gli preme è sentirsi pienamente parte della società, e non è interessato ad alcuna posizione di prestigio, né a onorificenze di sorta; chiede solo di offrire il suo contributo alla costruzione del bene comune, ma non accetta di essere relegato in un ruolo imposto. Nonostante le regole morali abbastanza rigide della società patriarcale in cui è cresciuto, ha respirato amore per la libertà, di pensiero, di espressione, di azione, e per il dialogo con tutti, nessuno escluso, e queste sono diventate per lui realtà umane inalienabili. La riflessione sulle tragedie del ’900, due guerre mondiali, deportazioni, stermini, e non ultima sulla guerra del Vietnam, scuotono la sua coscienza; è un pacifista, ma è anche pragmatico, e non è ancora del tutto convinto, che la sua generazione sia preparata a una rivolta senza armi, come ama spesso cantare. Decide allora di confrontarsi seriamente sull’obiezione di coscienza al servizio militare; ne parla con don Giovanni sottoponendogli le sue perplessità, e lui gli consiglia di parlare con gli obiettori, con quanti hanno già fatto o stanno per fare quella scelta. Lui vorrebbe un confronto aperto a tutti, magari con una serata di dibattito, ma l’argomento è ostico e il clima non è favorevole; sono ancora troppi quelli che confinano quel tipo di scelta nella scelleratezza di frange di anarchici e rivoluzionari. Rifugge altresì il confronto con un gruppo ristretto di obiettori, dove tutti sono ben determinati, e dove alcuni hanno una posizione troppo politicizzata; teme di essere sopraffatto, forse addirittura ostracizzato, ma più di tutto, forse a torto, teme di perdere amici. Indugia un po’, poi decide di incontrare uno di loro, ma il colloquio come aveva temuto non lo soddisfa, forse non ho parlato con la persona giusta, pensa fra sé. Trascorre alcune settimane pieno di dubbi e tormenti, ma non trova nessuno con cui argomentare, poi decide; non farà obiezione di coscienza, aspetterà la cartolina rosa per andare sotto le armi. Guarderà dal di dentro quella realtà considerata come
abbrutimento; crede che per quanto negativa, potrà sempre trarne qualche insegnamento. La prima lezione arriva molto presto; all’inizio dell’addestramento militare, scopre una dura realtà, l’ostracismo; nonostante la legge consenta di svolgere il servizio civile a chi fa obiezione di coscienza, nella prassi viene osteggiata in vari modi, anche con mezzi burocratici che diventano umilianti. Si vuole far pesare, la presunta responsabilità, di abbandonare il proprio Paese alla mercé del nemico, così capita che gli obiettori vengano inviati presso una caserma, in attesa dell’accoglimento della domanda. Una sera, quando tutti stanno andando a letto, un obiettore viene accompagnato in caserma e fatto sistemare in una branda in mezzo a tutti gli altri. Con un rapido aparola tutti vengono informati, e Antonio esce dalla sua camerata per incontrarlo, si avvicina a quel ragazzo che nervosamente prepara la sua branda e lo saluta. “Ciao, sono Antonio.” “Ciao,” risponde l’altro svogliatamente senza neppure alzare lo sguardo e senza dire il suo nome. “Come mai ti hanno mandato qui?” domanda Antonio. “è così, non lo sai?!” “Mi spiace per te, ma che è successo, non hanno accolto la tua domanda?” insiste Antonio. “Proprio non vuoi capire! La domanda è accolta, vogliono solo rompermi le scatole!” “Mi dispiace proprio,” ripete Antonio, poi domanda: “Che possiamo fare per te? C’è qualcosa di cui hai bisogno?” “No grazie, non mi manca niente, e non voglio niente da voi. Avete scelto di stare col sistema, perciò lasciatemi in pace!” Antonio rimane deluso da quella fredda reazione e avrebbe voglia di mandarlo a quel paese, ma non è per questo che si è avvicinato, perciò si volta rattristato e saluta: “Allora ciao, buonanotte e buona fortuna!”
Dorme male Antonio quella notte, e spera di riaprire l’indomani quel dialogo interrotto, ma quando al mattino si avvia verso di lui trova la branda vuota, è già partito. “Accidenti! Ma come si fa a costruire pace rifiutando l’amicizia?!” commenta a voce alta mentre scende lo scalone. Qualche mese più tardi incontrerà un altro di quei rivoluzionari anarchici schierati contro il sistema; non ha fatto obiezione di coscienza, ma in compenso è un ragazzo affabile che ha voglia di parlare, di dialogare, di conoscere, è un sognatore proprio come Antonio, e immediatamente stringe amicizia con lui, e a lui si racconta. “Non mi piace il mondo così com’è, però sai, c’è speranza di poterlo cambiare, per questo dobbiamo lottare, anche la mia fidanzata la pensa come me, siamo andati insieme a tante manifestazioni perché vogliamo una società più giusta. Abbiamo anche dormito in gattabuia, e preso qualche manganellata, ma ne valeva la pena! Guarda, ho ancora i segni!” Scoprendo la schiena mette in mostra un piccolo tatuaggio su una spalla, è una stella a cinque punte senza sigle, ma somiglia a quella delle BR. Antonio replica sorridendo: “Io non ho mai partecipato a quelle manifestazioni, ma sono d’accordo con te, bisogna cercare di cambiare il mondo”. Poi arricciando un po’ il naso lo consiglia: “Quel tatuaggio però è meglio se non lo fai vedere”. “Che possono farmi?” risponde lui. “Mettermi ancora dietro le sbarre? Anche in quel caso, il pensiero resterà comunque libero, perché quello non si può imprigionare!” “Sono sempre più d’accordo con te,” risponde Antonio, “ma devi sapere che qui nei dintorni, c’è una cellula attiva delle BR, se qualche ufficiale scoprisse quel tatuaggio, potresti are guai molto seri, non fare lo stupido!” Malgrado i dubbi che lo affliggono e lo sguardo critico e indipendente, o forse proprio grazie a quello, Antonio riceve avanzamenti di carriera; ma anche con l’acquisizione dei gradi, lui non sarà mai un obbediente ossequioso, e più volte metterà in discussione perfino gli ordini ricevuti. Alla fine, quella dura faticosa esperienza non riesce a sciogliere i suoi dubbi, e tornando a casa sente il bisogno
di condividerla, di confrontarsi a tutto tondo, e vuole farlo anche con un gruppo di obiettori; ha molto da dire, e sa che può essere utile a tutti, specialmente a quelli che si accingono a compiere una scelta così importante. Un giorno si presenta a una loro riunione, l’argomento è Il servizio civile, e la sua applicazione. Quei ragazzi sono suoi amici, perciò lo salutano e lo accolgono senza problemi, ma nello svolgersi della discussione viene snobbato; non è uno di loro, e ormai non potrà più esserlo, perciò cosa avrà mai da dire? Qualcuno gli chiede perfino: “Ma tu, come mai sei qui? Che hai a che fare con noi? E cos’è che vuoi da noi?” Antonio è spiazzato, prova a spiegare il senso della sua presenza, propone il confronto, ma non riesce a interessarli, sanno già tutto della naja, sembrano voler dire “se ti sei trovato male peggio per te! Dovevi saperlo!” Non potendo e non volendo opporsi a quelle obiezioni, non ha altra scelta, si alza e se ne va mentre saluta con un sorriso amaro.
XXXVII
Cavaliere di compagnia
Antonio era cresciuto assai rapidamente, proprio come i tempi che aveva attraversato; aveva allargato le sue conoscenze, si era anche guadagnato un po’ di fiducia e un po’ di simpatia, proprio quei fattori su cui puntava per avvicinare le ragazze, per trovarne una con cui imbastire una storia, vera e seria. Non avendo avuto alcuna storia, viveva nel dilemma e si domandava: quanto si deve essere seri per avere una storia così? È vero che le ragazze gradiscono i ragazzi seri o preferivano quelli sciocchi? Cosa vuol dire avere fascino, e per essere attraente bisogna essere anche spiritosi? Aveva provato a corteggiare le ragazze con vari metodi, delicati o intraprendenti, ma non aveva funzionato e non trovava mai la misura; non si era mai considerato bello, ma ora cominciava a pensare di essere considerato bruttino, per nulla interessante. Non immaginava certo, che sarebbe rimasto coinvolto in una storia come quella, e che proprio quella storia avrebbe dato una svolta alla sua vita. Da ragazzo, aveva avuto più volte l’incarico di sorvegliare le sue sorelle maggiori, fungendo da terzo incomodo, reggendo il moccolo o il lume come si diceva allora, ma questa richiesta lo lasciò senza parole. Una sua amica, già fidanzata, lo chiamò per chiedergli un favore, si trattava di cosa delicata. Un’amica di lei era stata tradita e lasciata dal suo ragazzo, e ne era rimasta talmente amareggiata, che si era rinchiusa in casa e non voleva più uscire con gli amici. Si era sdegnata degli uomini e non aveva più alcuna fiducia in loro. “Guarda che non ci sono soltanto mascalzoni, arrapati e approfittatori!” le aveva detto l’amica pensando ad Antonio. “Ci sono in giro anche ragazzi garbati e rispettosi e te ne farò conoscere uno, così ti convincerai!” Antonio lasciò parlare la sua amica, e per sincerarsi di aver capito bene le chiese ulteriori conferme e spiegazioni, ma più approfondiva più strabuzzava gli occhi,
infine replicò: “Che cosa?! Gli hai parlato di me?! Dovrei fare il cavaliere di compagnia? Tu sei pazza!” Ma quella insistette lusingandolo con tanti complimenti. “Lo so che sei un tipo a posto, serio ma anche simpatico, gentile ma spontaneo… insomma sei la persona perfetta per offrire amicizia, e questa ragazza ora ha bisogno solo di questo, non mi puoi dire di no!” Antonio non voleva lasciarsi confondere da tutti quei complimenti ed era intenzionato a rifiutare, ma aveva sperimentato il valore dell’amicizia nei momenti di bisogno, perciò con po’ di riluttanza e molte perplessità accettò. Molte cose lo preoccupavano: il rischio di fare brutte figure, il timore di non riuscire a far nulla di utile per quella perfetta sconosciuta, il rischio di ferirla e di deluderla ancor di più, ma soprattutto quello che più lo faceva tremare, era il fondato timore che quella sconosciuta non fosse una lei qualsiasi, ma una ragazza carina; sarebbe stato come chiedere a un leone affamato, di fare amicizia con una gazzella. Cosa avrebbe fatto lui in questo caso? Sarebbe stato in grado di essere spiritoso, simpatico, spontaneo? Avrebbe saputo controllarsi, senza mostrare un interesse eccessivo o un finto disinteresse? Chissà, forse la sua amica sperava che i due si piero davvero e sbocciasse qualcosa fra di loro. Antonio pensò a lungo a quell’incontro, e scoprendosi a fare progetti per l’occasione, credette di tradire l’amicizia, ma infine disse fra sé: che c’è di male a essere carino? L’importante è che mi comporti con rispetto, e non avrò nulla da rimproverarmi. Nervosamente attese sul sagrato della Basilica di S. Frediano; eggiava avanti e indietro, guardando un po’ la piazza per trarne ispirazione, un po’ la Basilica col mosaico del Cristo Re come a chiedere protezione. Finalmente l’auto arrivò, la sua amica scese e con un sorriso lo invitò a salire dietro. Appena un “ciao, sono Antonio, piacere di conoscerti” e già era impacciato e confuso; quello che aveva temuto, e anche un po’ sperato, stava lì accanto a lui. Colei che aveva appena salutato, non era affatto una semplice lei, né una qualunque ragazza carina; era una sventola, una ragazza da urlo, si sentì il cuore in gola, e restò senza fiato. Per riprendersi guardò fuori e dopo aver inspirato chiese: “Allora, dove andiamo?” Il fidanzato della sua amica rispose sorridendo: “è una bella giornata, perciò abbiamo deciso di andare a Viareggio, che ne pensi?” “Perfetto!” rispose Antonio cercando di superare il disagio.
A causa del traffico il viaggio fu abbastanza lungo, ebbero tempo per parlare e per conoscersi meglio, ma Antonio non lo seppe sfruttare bene, riducendolo a poche scarne informazioni, e a qualche smozzicata considerazione. Anche lei lavorava, e su questo scambiarono qualche battuta, ma la conversazione non prese mai il volo, pareva che mancassero gli argomenti, e questo era strano, perché Antonio si interessava a tutto, lavoro, politica, religione, famiglia, amicizia, amore, sport, musica, cinema, teatro… Il clima nell’auto diventò fin troppo ossequioso, in un ambiente così ristretto o si conversa o ci si tocca, ed era difficile parlare, perché ancor più difficile non toccare. Antonio era un taciturno, che in compagnia diventava un chiacchierone, ma non amava sentirsi costretto a fare qualcosa, men che meno a parlare. Avrebbe preferito fare una lunga eggiata, dove camminando fianco a fianco, senza toccarsi ma vicini, la presenza dell’altro non è incombente, dove si può parlare senza guardarsi, e ci si può aprire all’amicizia perché andiamo nella stessa direzione. L’occasione infine arrivò; giunti infatti a Viareggio si misero a eggiare sul lungomare, ma quelle lunghe pause di silenzio in quello spazio angusto, in cui gli occhi di Antonio facevano fatica a trovare pace e a liberarsi da quella prorompente bellezza, avevano scavato un piccolo solco fra i due sconosciuti, e la presenza della folla che eggiava intorno non li aiutava a ricoprirlo. Antonio come suo solito, non si scoraggiò e non si dette per vinto, c’era ancora tempo, quello era solo un primo incontro e non necessariamente l’ultimo, ma cominciò a star male; crampi allo stomaco e mal di pancia. Pensò che fosse dovuto al disagio provato, ma non era così, ci mancava anche questa! pensò fra sé mentre dissimulava. Sulla via del ritorno trovarono l’autostrada bloccata per un incidente, e restarono a lungo in auto senza poter scendere. Antonio stava proprio male, ma non voleva assolutamente darlo a vedere, non voleva rovinare quella giornata, e quell’incontro che in fondo non era andato così male; erano stati un po’ impacciati come capita fra amici appena conosciuti, ma si era comportato gentilmente, perciò contava di rivederla. Avrebbe voluto concludere quel loro incontro con un po’ più di simpatia, con qualche nota di allegria, e perché no, con qualche nota cantata. Aveva una voce gradevole e ben intonata, e conosceva un buon repertorio di canzoni, avrebbe potuto cantare qualcosa insieme agli altri, magari evitando le canzoni d’amore più struggenti, e questo sarebbe stato davvero carino; ma quel forte malessere che voleva nascondere glielo impedì. Il silenzio cominciò a farsi pesante e ingombrante, e la conversazione si concluse con frasi di circostanza, numeri di telefono, promesse di nuovi incontri, e auguri di buona vita. Ritornando a casa, concluse che aveva fallito e che avrebbe dovuto scusarsi con lei, così un paio di giorni dopo la chiamò, si scusò spiegando che di solito era un po’ più allegro e che quel giorno non si era sentito bene, ma
mentre lo diceva capì di aver sbagliato. Quella verità non serviva a renderlo più simpatico, né a stimolare la voglia di rivedersi, e forse quell’incontro davvero era servito solo, a far capire a lei che non tutti i ragazzi sono dei porci, niente di più, quel di più che a lui era mancato.
XXXVIII
L’annegato
Antonio aveva trovato una buona combriccola e con quei ragazzi sarebbe andato anche in capo al mondo, figurarsi al mare, dove c’era solo da divertirsi. Una delle ragazze aveva a disposizione un ombrellone e una cabina per tutta l’estate, in uno stabilimento balneare di Viareggio, a Città Giardino. Quando i suoi genitori e suoi fratelli non lo usavano, invitava gli amici; per Antonio era un vero so e nell’acqua si divertiva da matti, tanto che a volte ci restava per ore, saltando, sguazzando, giocando a palla o semplicemente facendo il morticino. Già, lui non sapeva nuotare, però amava starsene a galla, disteso e fluttuante a lasciarsi cullare dalle onde, un piacere unico. Ogni tanto da quella posizione provava a dare qualche bracciata di dorso, era l’unico tipo di nuotata che poteva permettersi, solo che non vedeva dove andava, così, per evitare problemi, nuotava in parallelo alla spiaggia. Ogni tanto però si allontanava anche lui, quando i suoi amici arrivavano fin dove non si tocca; pian piano prendeva confidenza e si sentiva più sicuro, perché il dondolamento delle onde lo rilassava. Un giorno si presentò all’ombrellone ma non trovò tutti i ragazzi, mancavano quelli più simpatici, più giocherelloni, e se ne dispiacque, perché era un po’ teso; forse il lavoro, forse un po’ di stanchezza, aveva bisogno di rilassarsi. Alcuni leggevano e l’allegria languiva, così a un certo punto, li lasciò e andò da solo a fare il bagno; era così nervoso che non riusciva nemmeno a stare a galla, e questo lo rendeva ancora più infastidito e teso. Allora decise di scaricarsi nuotando; avanti e indietro, ma niente, non riusciva a distendersi, perché era troppo vicino alla riva e con le braccia toccava il fondo. Perciò guardò verso il largo, vide che c’era gente in acqua e decise di allontanarsi un po’; dette qualche bracciata, finché temendo di andare troppo oltre si fermò. Per un attimo pensò di virare nuotando, dando più spinta con un braccio, ma poi decise che forse era meglio fermarsi, fare il punto e rilassarsi; errore. Appena si fermò, teso com’era volle posare i piedi, ma non toccava, anzi si trovava sull’orlo di una buca, e
appoggiando i piedi sopra il ripido pendio scivolò verso il fondo. Dandosi una forte spinta uscì dall’acqua a riprendere fiato, in quell’attimo guardò verso la spiaggia e si accorse che si era allontanato più del dovuto, poi andò giù di nuovo, ma finì ancora più in basso, con una nuova spinta risalì, riprese fiato e provò a distendersi sul pelo dell’acqua per poter nuotare a dorso, ma era troppo rigido e non riuscì. Allora decise di lasciarsi andare giù, per risalire la buca gattonando dal fondo e arrivare fin dove si toccava, ma anziché progredire verso riva, la corrente lo fece scivolare ancora di più nella buca. A quel punto provò e riprovò a venire a galla e a dare qualche bracciata, ma era troppo nervoso, più insisteva e più si irrigidiva, finché nel timore di non farcela, accettò la vergogna di alzare la mano e chiedere aiuto. Con sua sorpresa, non vide movimento sulla spiaggia, come se nessuno lo avesse notato, andò sotto ancora una volta e di nuovo si spinse con forza per uscire a prendere aria e ad agitare il braccio, ma anche questa volta nessun segno dalla spiaggia. Temette il peggio, ma non volle arrendersi, ritornò giù e di nuovo su, e questa volta si sentì afferrare alle spalle; c’era un pattino dietro di lui che stava intervenendo in suo soccorso, per questo il bagnino dalla spiaggia non si era mosso. Lo issarono a bordo, e prima ancora di chiedergli “come stai?” lo rimproverarono duramente “non ci si allontana da riva se non si sa nuotare!” e lui sorridendo soddisfatto annuì ripetutamente. Giunto vicino a riva, scese dal pattino e ringraziò con una smorfia e il pollice alzato, il bagnino era lì ad aspettarlo e chiarì: “Ti avevo visto, ma non mi sono mosso perché c’era quel pattino vicino a te, comunque con me non ti devi preoccupare, per affogare ci vogliono almeno un paio di minuti e in quel tempo io arrivo quasi alle boe!” Antonio non si sentì sollevato, ma dal momento che il bagnino non si era mosso e aveva solo controllato dalla spiaggia il salvataggio, fra gli ombrelloni nessuno si era accorto di niente; questo fu un vantaggio per lui che non dovette vergognarsi più di tanto, ma alla fine fu anche motivo di amarezza. Non aveva vergogna verso i suoi amici, perciò raccontò quello che gli era capitato, ma non avendo visto concitazione, non fu preso troppo sul serio, come se stesse esagerando; lo spiegò di nuovo dicendo: “Ma avete capito che stavo per annegare?” “Certo!” risposero, come si trattasse di cosa da poco. Si aspettava da loro più interesse, più sensibilità, magari qualche ramanzina, invece niente; allora prese i suoi cruciverba e si mise comodo, ma non era
concentrato, fingeva per nascondere la sua delusione. Più tardi arrivò qualcun altro di loro e Antonio avrebbe voluto raccontare l’accaduto, ma aspettò che lo fero gli altri per lui, invece niente. I ragazzi appena arrivati erano tanto desiderosi di tuffarsi, che si spogliarono in un attimo esclamando: “Andiamo pigroni, corriamo a fare il bagno!” Come se nulla fosse, Antonio balzò in piedi e corse con loro in acqua; un po’ di tuffi, un po’ di schizzi e di risate e fu di nuovo allegro. Nemmeno dopo essere tornati all’ombrellone parlarono mai del suo incidente, Antonio capì, che il loro non era disinteresse; non gradivano affrontare l’argomento annegamento, forse perché risvegliava tristi ricordi. Venne quasi sera ed erano ancora lì, Antonio decise di fare un ultimo bagno e uno dei ragazzi lo seguì; l’acqua era tiepida e piacevole, niente onde e intorno tanto silenzio, pareva che il mare li coccolasse chiedendo scusa per le sue insidie, e Antonio, finalmente disteso si lasciò cullare.
XXXIX
Contromano
Nella fretta di arrivare, Vito imboccò il lungarno pisano al contrario, e a nulla valse l’invito di Antonio a tornare indietro, ormai si era infilato in quel senso unico ed era deciso ad arrivare fino in fondo. Gli automobilisti che incontravano, facevano segnali coi fari e col clacson, accompagnandoli talvolta con gli insulti, ma Vito non si scompose mai: “Ormai ci sono, lasciatemi are!” diceva rivolto ai più ostili, mentre rideva divertito. Al termine di quella sortita, rise ancora più di gusto e rivolgendosi al ragazzo esclamò soddisfatto: “Hai visto, ce l’abbiamo fatta!” Qualche anno dopo, anche Antonio realizzò un’impresa simile; a bordo del suo Galletto Guzzi, dopo aver fatto salire due amici, ne trainò un altro in bici e così legati si diressero verso l’uscita della città, percorrendo un lungo tratto contromano. Era estate, la città era semideserta, e diversamente che sul viale del lungarno, Antonio incontrò poche auto e nessuna ostilità. Sembrava anche quella un’impresa andata a buon fine, ma un po’ di giorni dopo, arrivò una lettera a casa, era intestata al proprietario del Galletto, suo padre. Enzo guardò Antonio sogghignando, e per niente compiaciuto gli disse: “Hai guidato contromano eh!? E in tre sul motore!” E scuotendo il capo con movimenti disordinati soggiunse: “Bravo! Complimenti! E ora questa chi la paga?” E mostrò la multa. Antonio, arrossendo per la vergogna, allungò la mano e prese la busta, poi, alzando le ciglia con disappunto, concluse: “Ho sbagliato e la pago io”. Era assai seccato, perché quel giorno non aveva incontrato nessun vigile, perciò, dopo aver chiarito e accettato le sue responsabilità, si interrogò: “E come ha fatto luqquì a farmi la multa? Io non visto nessun vigile!”
Suo padre svelò l’arcano: “Se leggi bene, c’è scritto che ava di lì, ed era in borghese”. “Come in borghese?!” disse Antonio. “E si può fare una multa senza avere l’uniforme?” “Evidentemente sì!” concluse Enzo. “E sarà bene che tu non ne prenda altre!” Antonio, che aveva imparato fin da piccolo a rispettare con rigore tutte le regole, si era ormai quasi avvezzo all’idea di poterle trasgredire, e data l’esuberanza della sua età, anche se ormai maggiorenne, lo faceva con allegria, seppure di rado. Al tempo di Woodstock, dei figli dei fiori, della fantasia al potere, lui era solo un ragazzo, e non ricordava gli slogan e i concetti che animarono quella stagione, qualcos’altro invece gli era rimasto impresso, era la preoccupazione dei suoi zii, che temevano per il figlio, al servizio militare, in una zona di aspre contestazioni studentesche. Ora che stava riscoprendo la filosofia di quei tempi, e che aveva l’età adatta, gli veniva voglia di metterla in campo; d’altra parte, insieme a nuovi diritti civili, sembrava emergere nella società un nuovo concetto di libertà, tutto era messo in discussione, tutto pareva lecito e gli adulti lo applicavano per primi, e forse ancor più dei giovani considerati a torto trasgressivi. La politica più di tutto pareva sprofondare nella corruzione e Vito, rimarcando i suoi insegnamenti lo evidenziava di continuo: “è vero, noi rubiamo, ma ci hanno imparato loro!” Per Antonio, in realtà, andare contromano non era stato solo un gesto di allegra trasgressione, anche a lui era venuta voglia di contestare il sistema, e perché no, a partire proprio dai sensi unici, o dai semafori, dal numero dei eggeri. Già prima di allora ne aveva viste di tutti colori, perfino suo padre aveva viaggiato sul Galletto in quattro, se lo ricordava bene di quando cercava di reggersi forte seduto sul fanale posteriore; e anche con la vetreria aveva fatto cose pericolose, come portare grandi vetri a spalla sulla bicicletta o dentro una 500. Antonio non ce l’ha soltanto con la società e il sistema, sta contestando la sorte della sua vita. Finora si è trovato bene in vetreria con tutte quelle persone, ma ora i soci si stanno separando per gravi divergenze, Vito se ne sta andando e Arcangelo pure, alcuni operai se ne sono già andati; lui non si trova male con Ivano e la sua famiglia, ma sa che gli mancheranno gli altri, inoltre, Antonio rimarrà l’unico operaio, e quella famiglia comincia ad andargli stretta. Sa che darà loro un dispiacere se andrà via pure lui, e non vuole che lo considerino ostile, ma non si sente più a suo agio, perciò appena arriva la cartolina del militare, comunica a
Ivano la sua decisione. “Devo partire militare, ma quando ritorno voglio cambiare lavoro, perciò mi dispiace dirtelo, ma mi licenzio.” Ivano apre le braccia in segno di rammarico. “Vai via anche te? L’avevo capito che non ti trovavi più a tuo agio, ma mi dispiace proprio perderti. Se vuoi ripensarci noi ti aspetteremo e avrai ancora il tuo posto, comunque, quando avrai finito il militare se vuoi potrai tornare.” “Preferisco licenziarmi,” risponde Antonio con tono di dispiacere. Ivano non capì, ma non replicò, non sapeva che Antonio aveva anche un altro motivo per licenziarsi e ben più importante, la liquidazione. I suoi dodici mesi sotto le armi avrebbero pesato sulla sua famiglia, i soldi della liquidazione invece le avrebbero dato un po’ d’aiuto; era un rischio abbandonare il posto di lavoro, avrebbe potuto non trovarne subito un altro al suo ritorno, ma così aveva deciso.
XL
Centauri
Dopo la gita solitaria al Mugello, Antonio volle rifarsi, si incontrò più volte con sco un amico che aveva una moto simile alla sua, solo un po’ più piccola, ma ugualmente storica, uno Zigolo. Trovarono altri ragazzi variamente motorizzati e dettero vita a una piccola variegata carovana, Galletto, Zigolo, Vespe truccate, SWM Cross… una banda di easy rider senza limiti di spazio e tempo. Antonio e sco erano maggiorenni e potevano trasportare un eggero, ma avendo le moto storiche erano quelli meno matti, e per entrambi i motivi attiravano poco l’attenzione delle ragazze che di solito salivano con gli altri; nondimeno anche loro si divertivano da pazzi. Dopo qualche piccola scorribanda nei dintorni di Lucca, una domenica imboccarono la strada di Arsina decisi a salire fino a Montecatino, ma il cielo si annuvolò e si fermarono lungo la strada per decidere il da farsi. Mentre ancora ci stavano pensando, quello con la moto da cross guardando verso il basso esclamò: “Che bello!” Gli altri si guardarono intorno ma non videro nulla di interessante. “Ma che hai visto?!” chiesero stupiti. “La vigna!” disse lui sogghignando, e si buttò giù per le piane sotto gli occhi sbalorditi di tutti. Si trattava di un pendio assai ripido tagliato a piccole terrazze, l’impianto di una vigna abbandonata, e qua e la ancora tratti di filari di viti ormai vizze. In un battibaleno scomparve dalla loro vista discendendo tutto il pendio, mentre loro commentavano quella bravata, poi ricomparve e zigzagando fra le piane ritornò in cima. “Che spettacolo! Divertimento puro!” gridò agli amici ancora sbalorditi e incitandoli gridò ancora: “Dai forza venite anche voi!”
Ma nessuno si mosse. Uno con la Vespa disse: “Con la tua moto da cross è fattibile ma per noi è impossibile, il terreno è troppo bagnato e si sprofonda”. Ma quello per convincerlo disse: “Prestami la vespa, vedrai che ce la faccio anche con quella! In cambio ti do la mia moto da cross”. Presto fatto, si scambiarono le moto e sotto lo sguardo incredulo degli altri si buttarono giù per il pendio. Arrivati in fondo si fermarono un attimo e il primo dette qualche indicazione al nuovo arrivato, nonostante la moto da cross quello faticava a risalire confermando la difficoltà del terreno, l’altro invece anche con la vespa dimostrò di saperci fare, sbandava e slittava come fosse sul sapone ma riuscì comunque a riportarla in cima. Gli altri osservavano divertiti mentre Antonio e sco fremevano dalla voglia di provare, ma con uno sguardo d’intesa, scossero il capo e decisero che non era proprio il caso. Continuando a scorrazzare una domenica salirono fino a o Dante,[1] e anche lì l’amico con la moto da cross dette sfoggio delle sue capacità cavalcando fra le rocce del crinale, mentre Antonio e sco ancora una volta spettatori si limitavano a guardare il tramonto oltre la foce dell’Arno. Finalmente arrivò anche per loro l’occasione di rimorchiare. sco chiamò Antonio: “Ho lanciato l’idea di una gita in moto e due ragazze mi hanno detto che verranno, ci stai?” “Ci puoi scommettere!” rispose Antonio. Arrivò a Lucca tutto pimpante, ma sco lo freddò subito e con una smorfia di delusione disse: “Siamo stati bidonati dalle ragazze!” Antonio non se ne ebbe a male e rispose con ironia: “E che ce frega! Andremo a giro da soli, e peggio per loro!” A sco piacque l’idea e propose: “Che ne dici se andiamo a farci una gita a Lerici?” “Bello! Mi piace! Pensa, non ci sono più stato dalla gita delle medie,” rispose Antonio con entusiasmo. La gita in moto escludeva l’autostrada e da perfetti easy rider percorsero le strade più comuni; il traffico era intenso ma loro non se ne curarono, viaggiando
a lungo sulla striscia di mezzeria superarono file interminabili di auto e infine giunsero a Lerici. La cittadina era splendida come Antonio la ricordava, ma in troppi avevano avuto la loro stessa idea, il traffico era bloccato e non c’era parcheggio neanche per le moto. “E ora che facciamo?” chiese sco un po’ dispiaciuto per non averci azzeccato. “Qui c’è troppa confusione, meglio andare da un’altra parte,” rispose Antonio mentre facevano lo slalom fra le auto. Poi ripensando a quella gita delle medie aggiunse: “Perché non andiamo a Portovenere?” sco sorrise sarcastico. “Ah, ah, ti rendi conto di cosa proponi? Non è esattamente vicino!” “Non te la senti? Io potrei arrivare anche in capo al mondo!” replicò Antonio divertito. “Va bene, andiamo!” concluse sco. “Ma vedrai che sarà lunga al ritorno!” Giunti a Portovenere trovarono meno affollamento, perché i gitanti della domenica stavano già rientrando; fecero benzina poi si avviarono verso la chiesetta di S. Pietro. Avevano viaggiato tanto e ora sentivano un forte stimolo, scesero nei bagni e in breve furono di nuovo sulla terrazza, guardarono il mare e la chiesetta. “Il sole è già basso, sarà meglio rientrare,” disse sco. “Hai ragione, torneremo un’altra volta con più calma,” rispose Antonio. E si avviarono soddisfatti verso le moto, pronti a una nuova avventura sulla via del ritorno. Salendo sulle moto dettero un’ultima occhiata verso il mare e sco scoppiò in una risata esilarante: “Ah, ah, super-galattico!” Antonio lo guardò divertito e trascinato da quello sfogo incontrollato riuscì a mala pena a chiedere: “Ma che dici? Che c’è di tanto divertente?” Quasi soffocato dalle risa sco rispose beffardo: “Ti rendi conto? Abbiamo
viaggiato per ore e siamo arrivati fino a Portovenere solo per fare una pisciata!” A quelle parole anche Antonio si scompisciò dalle risate e rientrando verso casa gli ci vollero parecchie curve prima di calmarsi.
Dante Alighieri, “Inferno”, Divina Commedia, canto xxxiii.
[1] “Questi pareva a me maestro e donno,/ cacciando il lupo e ’lupicini al monte/ per che i Pisan veder Lucca non ponno.”
XLI
Lucca di corsa
La sua voglia di vivere era sconfinata, e la sua esuberante gioventù lo spingeva a godere appieno della libertà come molti suoi coetanei, ma a differenza di tanti che si sfogavano nel gioco del calcio, lui amava esprimersi nella corsa e non si accontentava di guardare tutte le corse dello sport, voleva anche praticarle. Aveva voglia di cimentarsi, e anche da solo, gare o non gare, più di tutto amava correre a perdifiato; in piano, in salita, in discesa, sul mare, nei boschi, ovunque; a piedi, con la bici, con la Lambretta, col Galletto. Perfino col trattore di suo padre dava tutto gas per sentire il vento sulla faccia, correva sempre, come se volesse spiccare il volo. Era così forte e insopprimibile quel desiderio, che nei suoi momenti di insoddisfazione o di delusione aveva un incubo ricorrente, sognava di non riuscire a correre, di cadere sotto il proprio peso, mentre nei suoi sogni più felici, correva leggero fino a camminare nell’aria. L’esperienza del ciclismo si era esaurita a causa del suo mal di schiena, e ciò lo aveva assai amareggiato; continuava a divertirsi qualche volta con la bici, ma ormai il suo maggiore sfogo era nelle moto. Aveva rifiutato di provare la moto di Angelo, perché troppo potente, poi si era divertito con la Lambrettina truccata, ma più di tanto anche quella non andava; ora che guidava il vecchio Galletto Guzzi di suo padre, lo spremeva fino a mandarlo fuori fase, perché per quanto potente, non faceva più di novanta all’ora, e scorrazzando sempre a tutto gas, finiva spesso dal meccanico. Era una vecchia moto ormai fuori moda, e forse alle ragazze non piaceva molto, ma a lui non importava granché, era economica, comoda, (sul lungo sedile si poteva stare anche in tre!) e pratica (nonostante le grandi ruote aveva perfino quella di scorta!). Se le ragazze non vogliono salire, pazienza! Saliranno quando avrò l’auto, pensava fra sé. Quell’estate a Lucca venne organizzata una gara podistica assai particolare, Lucca di notte; una corsa a piedi su e giù per le mura, perfino dentro le mura,
tutta in notturna e con l’arrivo in periferia, ed era aperta a tutti. Antonio aveva da troppo tempo represso il desiderio di correre a perdifiato, per cui non volle assolutamente mancare a quell’appuntamento. Cercò i suoi amici, la propose anche a loro, li incitò anche se non ce n’era bisogno; si ritrovarono in un bel gruppo e decisero di partecipare proprio come gruppo, infatti c’era un premio anche per il gruppo più numeroso. Antonio però aveva un bel problema da risolvere, aveva portato il suo Galletto dal meccanico, ma questi, essendo assai impegnato non glielo aveva riconsegnato; avrebbe potuto ritirarlo soltanto quella sera dopo la gara e sarebbe dovuto arrivare fin quasi a Vorno, in mezzo alla campagna, dalla parte opposta della Piana di Lucca. Troverò un aggio? pensava, ma sì, c’è un sacco di gente coi motorini, ci sarà uno che mi porta! Magari anche solo fino a Pontetetto. Aveva le chiavi di quelle poche stanze, che ospitavano la sede dell’Azione Cattolica, andò lì a cambiarsi e si presentò al via tutto pimpante. La corsa era di quattordici chilometri e lui scarseggiava un bel po’ d’allenamento, così non volle forzare l’andatura; preferì farsi superare da tanti e godersi lo spettacolo di quell’onda umana che fluiva sulle mura. Da quei bastioni secolari su cui vigilava la Pantera di marmo, Lucca appariva in tutto il suo splendore; correndo in circolo, i campanili si sovrapponevano e si scambiavano all’orizzonte come le quinte di un teatro, pareva fosse la città a girare intorno a lui. Quella breve ora di corsa fu divertimento puro; il loro gruppo risultò il più numeroso, perciò venne premiato, ma questa si rivelò una fregatura. Dovendo aspettare un po’ per la premiazione si fece tardi; quando Antonio provò a chiedere un aggio, anche quelli che si erano già resi disponibili rifiutarono scusandosi, era troppo tardi, continuò a cercare e finalmente uno accettò di portarlo, ma con sorpresa scoprì di avere il motorino in riserva. Quando ormai sembrava che avrebbe dovuto farsela tutta a piedi, si fece avanti Vittorio, un amico d’infanzia che disse: “Io ho la bici, ti accompagnerei, ma non so portare un altro in canna”. “Nessun problema!” rispose Antonio cogliendo al volo l’occasione. “Ti porto io sulla canna, ci stai?” Con modesta velocità, adeguata alla situazione, entrarono in città, Antonio si cambiò e si coprì meglio, poi si avviarono verso la periferia. Si conoscevano bene e non mancarono argomenti di conversazione, perciò il tempo trascorse
rapidamente e senza accorgersene arrivarono a Pontetetto, a quel punto controllarono l’ora, era tardissimo! Antonio si fermò e disse: “Proseguirò a piedi, da qui la strada è in salita e in due non ce la faccio, ma manca poco, tu invece sei parecchio lontano da casa, perciò è meglio che vada, ti ringrazio tantissimo del aggio e della serata”. Lo salutò e si avviò a piedi. Era assai stanco ma felice, era stata una splendida serata; quando però giunse alla baracca del meccanico non trovò la chiavetta per mettere in moto il Galletto; lui non c’era, ma erano d’accordo che l’avrebbe lasciata sul banco da lavoro. Pensa che ti ripensa, Antonio si avviò a spinta, finché a metà discesa si fermò, prese le pinze che teneva nel bauletto e tagliò un pezzo di filo di ferro da un filare di viti, lo piegò ed ecco pronta la chiavetta! Mise in moto e partì più felice di prima, col vento in faccia rideva come un matto di quella giornata così avventurosa, ma i problemi non erano finiti; il filo di ferro non faceva bene contatto, per cui il Galletto andava a singhiozzo, a fatica prendeva velocità e consumava benzina senza divorare la strada. “Già, benzina! Porca miseria! Mi ero scordato di fare il pieno, e ora segna riserva, speriamo bene!” disse ridendo ancora. Giunto a fatica a metà della salita di Monsagrati, il Galletto si fermò, non c’era più benzina! “Ecco fatto!” esclamò Antonio. “Ora sì che mi levo la voglia di correre a piedi!” E si avviò pian piano, assonnato e stanco, a dormire poche ore, per tornare al mattino, nuovamente a piedi, a recuperare il Galletto.
XLII
Cartolina rosa
Si presentò alla visita con un timore incomprensibile, era uno sportivo e non c’era nulla in lui che non andasse. Dopo i vari accertamenti medici, al terzo giorno fu chiamato come gli altri a riempire dei moduli con una serie di quesiti che gli parvero poco significativi, generici e un po’ demagogici; con lo stesso timore rispose puntualmente, indicando ovunque la sua predilezione per l’ambiente montano. Sperava di essere assegnato agli alpini come suo zio, ma non trovando nella scheda l’opzione Alpini, alla domanda “in quale reparto vorresti andare?” barrò la voce Artiglieria da montagna. Con sua sorpresa venne selezionato per i Paracadutisti, perciò, insieme ad altri venne invitato a restare ancora un po’ in aula per vedere un filmato; mostrava i parà in allenamento e in azione e l’intento era chiaro: invogliare a entrare in quel Corpo. A lui sarebbe piaciuto lanciarsi e nuotare libero nell’aria, ma aveva conosciuto ragazzi che si erano trovati male in quel Corpo a causa del regime cameratesco sopra le righe, perciò era già deciso a rifiutare, e restò soltanto per sua curiosità. Quando poi l’ufficiale promotore pronunciò al negativo l’ultima lusinga, non ebbe più dubbi: “Ricordate, che a causa del territorio montuoso da cui provenite, fate parte di un distretto alpino, perciò chi rifiuta questa occasione quasi certamente finirà negli alpini!” Bene! pensò Antonio. Aveva rinunciato con un po’ di perplessità a presentare obiezione di coscienza al servizio militare, ora non poteva fare altro che cercare il modo migliore di impiegare quei dodici mesi affinché non diventassero tempo sprecato; amando la montagna pensò che lassù si sarebbe trovato a suo agio e sarebbe stato temprato nel corpo e nello spirito. Trascorsero mesi e finalmente arrivò la cartolina rosa; Antonio aveva voglia di provare questa nuova avventura, ma lì dove doveva presentarsi non c’era traccia di montagne: Lecce, nel tavoliere delle puglie! Ne restò deluso, ma sapendo che quello iniziale era un periodo di addestramento base, sperò in una sistemazione migliore per il seguito. Era la metà di aprile e a Lecce faceva già molto caldo, ma questo lui
poteva solo immaginarlo; Antonio aveva girovagato molto fino a quel momento, ma non si era mai allontanato da casa sua per più di un centinaio di chilometri, questa volta invece sarebbero stati almeno mille! All’estremo opposto del Paese. Quel pomeriggio salutò i genitori e saltò sul treno; suo padre sorrideva soddisfatto, guardandolo con orgoglio, compiere un altro o per diventare uomo, la mamma invece si sforzava di sorridere, era pur sempre il suo ragazzo e per giunta un po’ inesperto. Antonio aveva usato poco il treno e non era molto pratico di coincidenze e orari ferroviari, così acquistò una guida con orari e linee ferroviarie cercando di capirci qualcosa. Le linee erano disegnate come uno schema, senza una cartina geografica con punti di riferimento chiari, ma solo incroci e nodi ferroviari con tanti numeri, uno per ciascuna tratta. Alla fine capì che da Bologna ava un treno che arrivava diretto a Lecce e decise di andare per quella via, ma sbagliò la lettura dello schema e decise di raggiungere Bologna per quella che sembrava la via più breve ovvero, Lucca-Pistoia, PistoiaPorretta-Bologna. Il treno viaggiava lento e aveva pochi eggeri, ma lui per non isolarsi si sedette davanti a uno di essi, dopo un po’ questi tirò fuori un pentolino come quello che Antonio usava in vetreria, vi chinò il capo e in silenzio cominciò a mangiare proprio davanti a lui; era un pendolare e non provava alcuna vergogna. Antonio era disturbato da quella scena, avrebbe voluto lasciare quella persona alla sua intimità ma non poteva spostarsi, temeva di offenderne la dignità, avrebbe voluto avere anche lui un pentolino per consumare la cena in compagnia, ma non aveva neanche un panino perché contava di prenderlo a Bologna; si limitò a sorridergli e ad augurargli “buon appetito!”, poi per non contargli i bocconi si mise a guardare fuori come se ci fosse qualcosa di interessante da vedere. Quando furono sull’Appennino, su una tratta a binario unico Antonio pensò: mi sa tanto che ho sbagliato linea! Lentamente il treno arrivò a Bologna giusto in tempo per la coincidenza, l’espresso che lo avrebbe portato a Lecce. In quel lungo viaggio, notturno e avventuroso provava una strana sensazione: una specie di eccitazione, di euforia, come fremiti di felicità frammisti di paura. Era contento di poter vivere un tempo prolungato con molti coetanei e lontano da casa, ma si sentiva impreparato; non si trattava di un semplice campeggio, ma di una lunghissima convivenza forzata, un’esperienza che poteva essere assai dura. Lungo il tragitto incontrò altri due ragazzi diretti alle caserme, uno di questi si sarebbe fermato a Bari ed era un nonno, l’altro invece andava a Lecce, come Antonio. Le due reclute vennero subito istruite dal nonno veterano, che suggerì perfino un modo per essere rimandati a casa: avrebbero dovuto semplicemente urinare a letto tutte le sere! “Dopo un po’ vi manderanno a casa, non possono mica cambiarvi le lenzuola ogni giorno!”
Le due reclute si guardarono incredule, poi all’insistenza del nonno annuirono dicendo: “E perché no?” Ma capivano benissimo che quello voleva prendersi gioco di loro. Si fece giorno, ed ecco la Puglia: ulivi, muretti a secco, fichi d’India. Arrivati a Bari il nonno chiese: “Sapete in quale zona dovete andare?” “In qualche modo la troveremo,” rispose Antonio. “Tranquilli, sono già ad aspettarvi alla stazione,” replicò il nonno, poi salutò e scese. I due si guardarono, e trovandosi soli strinsero un tacito accordo di complicità; organizzarono un piano per godersi le ultime ore di libertà lontani da casa. Antonio lanciò l’idea e l’altro acconsentì. “Scendiamo dall’ultima carrozza,” disse, “così, quelli che ci aspettano forse non ci vedranno e potremo farci un giro a piedi per la città.” Mentre il treno si fermava, dal vagone di fondo occhi furtivi scrutavano la banchina per individuare chi li stava aspettando; come era stato loro annunciato, alcuni soldati in divisa attendevano le nuove reclute, e alla discesa dei eggeri le individuavano prontamente e le accompagnavano ai camion. Era una scena del tutto pacifica, infatti i soldati fraternizzavano subito coi nuovi arrivati, ma Antonio fu un po’ disturbato da quella vista, gli ricordava tristi scene di film dei rastrellamenti di guerra. I due ragazzi attesero che tutti i eggeri fossero scesi e che fosse terminata la ricerca da parte dei soldati; appena questi si voltarono verso i camion, Antonio e l’altro saltarono giù dal treno e con una breve corsa uscirono da un cancello secondario, avviandosi a so per la città. Fra risa e smorfie di soddisfazione, se la godettero per un po’ eggiando sotto il sole; così combinati erano facilmente riconoscibili: giovani, disorientati, e con grandi valigie. Più volte vennero individuati da militari di aggio, ma facendo finta di essere turisti, furono lasciati in pace. Quello che non avevano considerato era il clima; in quei giorni, a metà mattinata il sole picchiava già forte e il termometro sudava quanto loro. Dopo neppure un’ora di eggiata, stanchi e accaldati, si arresero e fermarono una delle tante pattuglie militari che giravano coi camion. Salendo a bordo vennero accolti fra sorrisi e battute: “Volevate godervela eh? Non vi preoccupate, Lecce è una città piena di vita, e non si sta poi così male”.
Giunti in caserma vennero subito registrati e riforniti di equipaggiamento; dopo aver ato la capigliatura sotto le implacabili forbici del barbiere, si misero in fila per una prima visita medica, che si concluse per tutti con una massiccia dose di vaccini iniettati nel petto. Il primo giorno si concluse con le istruzioni e le raccomandazioni del sergente, circa la cura della branda e della camerata, nonché il rispetto di tutti gli orari e appuntamenti di ogni giorno. Il mattino seguente, di buon’ora furono richiamati dal suono della tromba che ordinava l’adunata; per Antonio era una vera novità: provenienti da ogni parte d’Italia, una moltitudine di coetanei, una molteplicità di volti, di storie di giovani come lui. In quei volti, in quelle storie, mille volte se stesso; l’aspetto più intrigante e più oscuro di quell’esperienza. Scendendo di corsa lo scalone comparve di nuovo in lui quel misterioso timore; aveva vent’anni, ma si sentiva ancora uno sbarbatello. Ripuliti e vaccinati, si presentarono all’appello schierati davanti al loro alloggio; centoquaranta ragazzi, apprendisti soldati.
XLIII
Luci nella notte
Tutto era nuovo laggiù, l’aria, la luce, i profumi, la città, il cibo, gli ordini… i compagni, la voglia di vivere. Tutti quei ragazzi pieni di baldanza, non perdevano occasione per ridere, scherzare, sfottersi; pareva proprio un’allegra brigata, eppure neanche si conoscevano, provenivano infatti da ogni angolo d’Italia. Quella continua eccitazione, quella esondante euforia, nascondeva però un bisogno, la stabilità. La distanza da casa, fuori dal controllo delle famiglie, offriva un’illusione di beata libertà. “Già, la mamma!” esclamò Antonio mentre andava a mensa. “Ma che dici? Che ti prende?” chiese il suo compagno. “Sono ati tre giorni e non ho ancora chiamato a casa!” confessò Antonio, si diresse di corsa al telefono e la chiamò prendendosi i solenni rimbrotti di sua sorella. “Sciagurato!” lo aggredì non senza ragione. “Che aspettavi a chiamare? La mamma è preoccupata e la notte non riesce a dormire.” Antonio borbottò una scusa, poi chiese che gli asse la mamma, la quale, come tutte le mamme, sentendolo tranquillo gli perdonò tutta l’ansia, la preoccupazione e la pura provata. Come per la famiglia, anche la lontananza dalla fidanzata era vissuta dai più come un’avventura, una specie di libertà di manovra, solo pochi parevano soffrirne davvero, e molti neppure avevano una morosa, lui certamente no. No! Quello che mancava davvero era proprio la stabilità; sempre all’erta, sempre sul chi vive, senza mai sapere fino a un attimo prima, se erano di corvè cucina o di ramazza, o magari di guardia; senza mai sapere se quello che facevano sarebbe
piaciuto, giusto o no, al loro comandante. Ciascuno cercava a modo suo un nuovo equilibrio, qualche tecnica per sopravvivere a quei lunghi e fastidiosi mesi, perché le vecchie buone abitudini e tutti i precedenti ritmi venivano stravolti, e la malinconia andava scacciata. Antonio aveva già vissuto piccole esperienze di caserma; lunghe giornate di ospedale, campeggi spartani, notti all’addiaccio, ma quella era decisamente una situazione nuova. Eppure lui aveva trovato anche lì un motivo di stabilità, qualcosa che non era mai cambiato: la notte. Già prima di allora aveva sperimentato ogni tipo di giaciglio; materassi morbidi o duri, a molle, di lana o di foglie, tavolacci, materassini gonfiabili o terra nuda, e dovunque era riuscito a soddisfare il bisogno di dormire, dovunque, nel silenzio notturno, aveva dato spazio ai sogni, quelli del sonno e quelli a occhi aperti. Non sarebbe stata una misera branda a rovinargli il misterioso rigenerante incontro col buio della notte. Alcuni suoi compagni invece non riuscivano a prendere sonno, erano quei pochi che avevano la morosa, storie vere, importanti, avevano voglia di scrivere, ne sentivano il bisogno, l’urgenza, ma non sapevano cosa scrivere; mica potevano raccontare la noia della naja! Un giorno uno di loro vide Antonio che scriveva e chiese: “Ma allora ce l’hai anche tu la ragazza?!” “Purtroppo no!” rispose lui. “E allora a chi stai scrivendo?” chiese l’altro sempre più incuriosito. “Scrivo a una ragazza di cui sono innamorato, ma lei non mi corrisponde, pare che stia con un altro, io però insisto.” “Che forza!” esclamò l’altro. “Ma allora potresti aiutare anche me a scrivere alla mia morosa! Sai, io non sono molto capace.” Antonio lo aiutò dettandogli alcune frasi sentimentali che piacquero tanto. Quando gli altri lo seppero andavano tutti da lui a farsi dettare le lettere per le morose, tanto che a volte il caporale di giornata, ritornava dopo il contrappello serale a intimare di spegnere le luci. Ogni giornata offriva esperienze nuove, sensazioni nuove, delusioni nuove, e ogni sera la libera uscita si contrapponeva alla rigida vita di caserma, sollecitando il loro ardore giovanile. Lecce era una città molto viva, piena di giovani e di luci scintillanti; coi suoi vicoli, le sue piazzette, le sue vestigia; pareva ricordargli la sua Lucca, ma aveva differenze sostanziali. Da molti giardini saliva un intenso, unico e inebriante profumo di
agrumi, mentre un altro più stucchevole, usciva da certe porte aperte su stradine, dove sedevano anziane donne a lavorar d’uncinetto; strani pertugi in cui ogni tanto si infilava qualche commilitone, immemore delle raccomandazioni del medico. Molti negozi di sera erano chiusi, così, strani traffici avvenivano dalla sua camerata; proprio sotto di loro, all’interno della caserma vi era lo Spaccio, un negozio fornito di soli prodotti essenziali, ma era sufficiente calare un cestino dalle finestre che davano sulla strada, per ottenere da donne compiacenti, prodotti particolari, per lo più riviste e cibo di ogni specie. Venne il tempo del giuramento e arrivarono anche i suoi genitori con sua sorella e suo cognato, dopo la cerimonia e il pranzo in famiglia, sotto il torrido sole salentino Antonio li guidò a visitare la sua caserma. Era deserta, tutti infatti erano in giro per la città oppure al mare, ma lui volle mostrare alla mamma che l’ambiente era accogliente, che lui stava bene ed era contento, era il primo maschio, il primo a partire militare, non erano venuti semplicemente per vederlo giurare, erano lì per saperlo sereno e sicuro di sé. Fra i vari servizi, erano chiamati a turni di guardia dentro e fuori la caserma; alcuni di loro ogni notte, a turno montavano di guardia a un deposito poco distante dal mare. Una sera toccò a lui in compagnia di un altro toscano; pensando di essere fortunati si salutarono sorridenti, avrebbero avuto molto di che chiacchierare, e non sarebbe servita nessuna traduzione dal dialetto, ma quando restarono soli, si resero conto di essere come dispersi in un luogo sconosciuto alla fine del mondo. Antonio non aveva alcuna paura della notte né di luoghi sperduti, nemmeno quando era solo, figurarsi in due e per di più armati! Ma che stavano a fare laggiù? Il senso di quella ronda di guardia sfuggiva alla loro comprensione, e per lungo tempo ragionarono di questo senza trovare risposta. Su quella spiaggia al di là della rete circolavano storie, sbarchi di contrabbandieri, spari nella notte, addirittura un assalto al deposito; storie vere? Mah! Erano solo ragazzi e magari anche un po’ sprovveduti, ma quelle storie non erano molto credibili. Però c’era anche la questione del nemico, al di là del mare, c’era Tito e il blocco comunista. Ma no! Quelle erano solo storie per giustificare gli armamenti! A un certo punto della notte però accadde l’impensabile; fasci di luce intermittente provenienti dal mare parevano segni dell’alfabeto Morse, dalla spiaggia altri fasci di luce risposero; pescatori? Poco probabile. Poi un rumore lontano come di piccola barca a motore. Trafficanti! Dunque quella storia era vera! I due si guardarono come a dire “e ora che facciamo?”; istintivamente controllarono le loro armi, i caricatori erano inseriti e i fucili a posto.
“Non credo ce ne sia bisogno! Ma meglio essere tranquilli!” esclamò Antonio abbozzando un sorriso. Per un po’ restarono fermi lì cercando di capire quello che succedeva, ma era troppo buio, non videro più niente, né udirono altri rumori. Gli ordini imponevano di fare più volte il giro completo della recinzione, così si avviarono con o lento e leggero, l’occhio vigile e l’orecchio teso. Completarono il giro, e tutto era di nuovo calmo, ne completarono un altro, poi, a metà del terzo giro si guardarono e con un cenno d’intesa si sedettero. Avevano trovato un buon punto d’osservazione, due grosse pietre per sedersi, nascosti sotto le fronde di una Tamerice, un posto già utilizzato da altri. Lì si misero di nuovo a parlare: “Che avranno avuto da contrabbandare?” chiese Antonio guardando verso il mare. “Chissà, forse sigarette,” rispose l’altro. “Già, è vero, dall’altra parte del mare c’è l’Albania,” ricordò Antonio. “Veramente c’è anche la Jugoslavia!” esclamò l’altro con un velo di preoccupazione. “No, ti sbagli, c’è l’Albania sono sicuro!” confermò Antonio; poi concluse: “Va beh, lasciamo perdere, parliamo piuttosto di noi!” Nessuno dei due fumava, ma riuscirono a stare svegli scambiandosi notizie, storie e racconti dei loro paesi, lentamente si fece chiaro; Antonio aveva già visto sorgere il sole, ma da dietro i monti, questa volta invece sorgeva dal mare. Il cielo non era limpido, ma lo spettacolo fu comunque grandioso; la notte era ata, e nonostante tutto, anche questa volta il buio non aveva fatto paura, almeno a lui. La luce del giorno li rese allegri, ma solo per un po’, i tempi si allungavano, l’ora del rientro era già superata e il camion che doveva venire a recuperarli ancora non si vedeva; i due cominciarono a preoccuparsi, avevano un gran sonno e anche una gran fame. Finalmente eccoli arrivare con oltre un’ora di ritardo. “Ma che è successo? Come mai siete arrivati così tardi?” domandarono i due salendo sul camion. “Scusateci, ma non è colpa nostra,” risposero quelli, “stanotte è stato dato l’allarme, e finché non è cessato non ci hanno fatto partire!”
Antonio e l’altro si guardarono sbalorditi pensando ma allora, quelle luci… la Jugoslavia?
XLIV
Profondo nord
Negli ultimi giorni di permanenza al sud, poté finalmente godere di una licenza, ma fu brevissima; un giorno meno degli altri, perché la caserma cambiava destinazione e si doveva dismettere tutto. Appena quattro giorni per assaggiare di nuovo il letto di casa, per un fugace saluto agli amici, per ragguagliare il nonno e ascoltare qualche suo racconto di guerra. Diciotto ore di treno per arrivare a Lucca, un’ora di automobile per raggiungere la stazione dei Carabinieri e annotare l’arrivo, e altrettante per annotare la partenza e il rientro; una vera maratona. Tornato a Lecce in piena notte trovò tutti svegli, in cima allo scalone era appeso l’elenco dei nomi e la loro destinazione; qualcuno piangeva, qualcuno rideva, lui invece trascorse le ultime ore della notte, cercando di capire dove diavolo fosse quel luogo della sua destinazione: Lenta. Lavorarono dal mattino fino a metà pomeriggio, smontarono tutte le camerate, poi raccolsero le valigie e salirono sul treno cantando addio Lecce addio…; ci vollero ventitré lunghissime ore di viaggio per arrivare a destinazione, dal sole brillante delle Puglie, alle risaie e alle paludi di Vercelli. Per la terza volta in pochi giorni attraversava tutta la penisola, a ogni stazione vedeva scendere persone e salirne di nuove, ma il suo viaggio pareva non finire mai, viaggiando tutta la notte senza mai riuscire a conciliare il sonno, pensò agli emigranti, alla dura vita dei pendolari e a quello che aveva incontrato sulla Porrettana. Cercò di immaginare cosa provavano tutti quei giovani, che affrontavano lunghissimi viaggi per ritrovarsi sulle trincee del fronte e concluse che quello che stavano affrontando era un disagio sopportabile; finché attraversando le risaie nel bel mezzo di una giornata piovosa si trovarono immersi nella nebbia. Dispersi nella Baraggia vercellese, fra boscaglie, radure fangose e acquitrini, erano radunati dentro grandi costruzioni, grigie, tristi e sparse in un vasto territorio, lontano dai centri abitati. In quel regno di umidità, la natura rigogliosa e ricca di fauna appariva inospitale per gli uomini; se lepri, fagiani e uccelli acquatici scorrazzavano starnazzando indisturbati in quell’ambiente selvaggio, i giovani
soldati immedesimandosi, trascorrevano le loro giornate dando sfogo a tutti i loro istinti primordiali. Le regole di caserma assai rigide imponevano comportamenti consoni al rispetto della convivenza pur senza troppi riguardi per spazi di cortesia, ma la regola che pareva prevalere fra quei gruppi di uomini acerbi o esacerbati da quella vita, era sopravvivere alla stupidità umana. Per alcuni era già stupido perdere un anno di vita per indossare la mimetica, per altri erano stupidi gli ordini da eseguire, per altri ancora era stupido non usare quel tempo per imparare qualcosa. La prima cosa da imparare, era dimenticare; i primi due mesi di addestramento erano volati via quasi come una vacanza, ora invece avevano davanti a sé dieci lunghi mesi di lontananza da casa, dalla città, dalla vita spensierata. Anche Lecce era ormai un luogo dimenticato e con essa tutti i ricordi si erano già cancellati, tranne alcuni. Laggiù in mezzo a tutti quei ragazzi, Antonio aveva trovato un amico, uno con cui si intendeva al volo, e prima ancora dei saluti dell’ultimo giorno, lui aveva quasi minacciato Antonio. “Guai a te se ci perdiamo come amici! Promettimi che non ci perderemo mai!” Antonio aveva promesso e voleva sinceramente tenere fede alla parola data, ma già sapeva che non ci sarebbe riuscito. Scrivere per lui era più difficile che parlare, e scoprì sulla propria pelle che le armi allontanano anche quando tacciono. Come un qualsiasi animale, per sopravvivere cercò di adattarsi all’ambiente circostante, e così quel fango che circondava le loro giornate, attaccandosi alle tute e agli anfibi oltre che ai mezzi corazzati, divenne motivo di gioco e di svago. Quasi ogni giorno venivano comandati a esercitarsi nella boscaglia e negli acquitrini, e questo li liberava dagli occhi e dal controllo diretto dei superiori; infatti per andare nella boscaglia c’era un solo aggio, un guado di acqua fangosa profondo un metro, attraversabile dai corazzati ma non dalle camionette. In quell’ambiente selvaggio si esercitavano come ordinato ma lo facevano giocando, e ai comandanti non importava se potevano riscontrare sviluppi nell’addestramento. Antonio aveva ricevuto il segno del comando, era stato promosso caporale, ma l’unico vantaggio consisteva in cinquanta lire in più al giorno sulla Decade, la paga della naja. Col are delle settimane e dei mesi, cominciò a sentirsi come in un reparto di lungodegenti di ospedale, dove regnavano spesso urla e lamenti, dove si faceva fatica perfino a pensare, tanto che talvolta si isolava nel bosco dove aveva trovato un angolo piacevole vicino a un fosso. Le giornate erano divise fra addestramento e stravaccamento, fra guardie notturne e ozio, e cominciò a rimpiangere le dure giornate di lavoro nei campi di casa, fino a scrivere nelle lettere indirizzate a casa, che avrebbe voluto fare il contadino come suo padre; l’incontro con un ragazzo piemontese che con
soddisfazione faceva il margaro, l’allevatore di mucche, aumentava la nostalgia del contatto con quella terra che ora si limitava a calpestare con i cingoli. In aggiunta gli mancava anche il contatto con la città, la cittadina più vicina di poche migliaia di abitanti veniva raggiunta solo col camion, che però li portava là in libera uscita quando i negozi ormai erano chiusi o stavano chiudendo, per cui gli unici locali sempre aperti erano i pochi bar e la sala giochi frequentati in prevalenza dai suoi commilitoni. Antonio voleva visitare le belle cittadine di quella parte del nord Italia e conoscere la gente del posto, ma non trovava aggregati e continuò ad arrangiarsi da solo; il pullman a loro disposizione era perennemente guasto, perciò viaggiando con l’autostop andò a Biella e arrivò fino al santuario di Oropa, la domenica successiva visitò Arona sul lago Maggiore, infine col treno si spinse addirittura fino a Como. Aveva voglia di casa, ma da quando aveva conosciuto Lucca, ogni grosso paese e ogni città era casa sua. Finalmente arrivarono due ragazzi con cui Antonio trovò interessi comuni, Massimo veniva dalla periferia di Milano e con lui poté visitare quella grande città. L’aveva immaginata come una metropoli e certamente un po’ lo era, coi magazzini e le scale mobili… come diceva la canzone, ma scoprì anche l’altra Milano, piena di gente che lavora… e che produce e questo a lui piacque ancora di più, e non trovò quella puzza sotto il naso che molti le attribuivano. Vincenzo invece veniva dalla Calabria, dalla Piana degli Albanesi, di origini d’oltremare; era un ateo convinto e discuteva con Antonio di ogni tema della Bibbia, ma il loro modo di vedere la vita e il mondo era più simile di quanto sembrasse. Con lui visitò Torino. “Vieni con me, voglio presentarti alcuni amici miei,” aveva detto ad Antonio e lui lo aveva seguito con grande curiosità, per gli amici e per la città. Come Milano, anche Torino lo accolse con una fitta coltre di nebbia, ma salendo sulla Mole vide tutta la città sotto di sé e gli parve ordinata; in effetti l’ospitalità piemontese era discreta, silenziosa e priva di eccessi, ma incontrando gli amici di Vincenzo tutto apparve sotto una luce nuova. Anche loro erano calabresi, emigrati lassù molti anni prima, accolsero Antonio come uno di famiglia e lui sperimentò il calore dell’amicizia, della ‘Nduja, di Lagane e Ciciari, e dei peperoncini. Di quella gente semplice colse tutta la nostalgia della casa e della terra natale, e fugò il loro scetticismo sulla sua comprensione, raccontando dello zio Ivo emigrato in America negli anni ’60, ritornato a casa da pochi anni, e ripartito di nuovo appena sposato perché qui non vedeva prospettive. Con loro si sentì davvero a casa, gente dura, avvezza alla vita dura, mai doma e mai disposta a rinunciare all’allegria.
XLV
La Messa è finita
El-Alamein; un luogo pressoché sconosciuto, perso nel deserto e difficilmente individuabile sulla cartina geografica. Una battaglia sanguinosa durante la seconda guerra mondiale, fra i protagonisti, un reparto del 15° Gruppo Squadroni Cavalleggeri di Lodi; decimato dal nemico soverchiante, oppose fino all’ultimo una strenua resistenza, una pagina gloriosa, un esempio limpido di sacrificio per la patria e per la bandiera. Ma che ne sa un giovane delle guerre lontane, dimenticate perfino dalle stesse istituzioni che le hanno sostenute? Che cosa ha avuto dalla patria un giovane orfano degli anni ’70, che deve provvedere ai fratelli più piccoli e alla madre ammalata? Che cos’è per lui la bandiera? Questi interrogativi ronzavano come calabroni nella testa di Antonio, che neppure credeva di vivere realmente quel momento. Erano stati richiamati dalle loro attività quotidiane, comandati a togliere la mimetica e a indossare l’alta uniforme; stavano inquadrati nel cortile del Comando pronti a salutare lo Stendardo del 15°, la Bandiera di quel Gruppo di cui facevano parte, la stessa, ricucita e rammendata, che sventolava ad El-Alamein. Dopo una lunga attesa, lo Stendardo esce scortato dagli ufficiali e dai carabinieri e tutta la truppa, sull’attenti lo saluta. Un’auto e una pattuglia di scorta lo porteranno a Milano, dove pochi giorni dopo sfilerà in una manifestazione militare dentro l’Arena. In quei momenti di attesa sotto il solleone, alcuni sono un po’ spazientiti e mormorano, un ufficiale se ne avvede, e con finta distrazione porge l’orecchio; sorprendentemente uno dei soldati, incurante della sua presenza, mormora una frase ingiuriosa verso la bandiera. L’ufficiale si avvicina minaccioso e provocante, ordina di ripetere la frase, ma quello nega, allora domanda agli altri intorno se hanno udito quelle parole; Antonio è subito dietro di lui e si sente raggelare, prega di non dover rispondere in prima persona, ha udito bene quelle parole e ne è rimasto sconvolto, ma non vuole dover mentire, perché conosce la drammatica realtà familiare di quel ragazzo come lui e ne prova pena. Un altro accanto a quel giovane viene interrogato direttamente, e
conferma “sì l’ho sentito”. Partito lo Stendardo, iniziano gli interrogatori, fra conferme e smentite, alla fine quel giovane ribadisce “sì, ho offeso la bandiera!” alla richiesta della motivazione risponde che la patria per lui e la sua famiglia è stata matrigna. La conseguenza è il carcere militare per “vilipendio alla bandiera”. È una brutta storia e tutti ne soffrono; pochi giorni dopo tutti sono invitati, a Milano, alla piccola parata, e Antonio a motivo della sua statura, viene invitato ad indossare una uniforme storica da ufficiale con tanto di sciabola. Per un giovane in cerca di novità, di avventure, di visibilità, è una specie di premio, è una soddisfazione, e Antonio sta proprio bene dentro quella divisa, ha un’aria e un portamento regale, ma si sente triste; continua a pensare al suo coetaneo. Per l’occasione della sfilata, anche i carrarmati si esercitano nella palude, nella boscaglia e nel piazzale; arriva perfino un elicottero Chinook a due pale, dovrà scendere nell’Arena e scaricare una squadra di assaltatori per un attacco di combattimento simulato. Giochi di guerra che Antonio ha sempre praticato da ragazzo e che ora giudica un po’ sciocchi; ma siamo ancora alla divisione dei grandi blocchi, URSS e USA, il pericolo di un conflitto sembra sempre presente e di certo l’esercitazione non è mai inutile. La notizia della carcerazione del ragazzo unita a quella della parata militare si scatena su alcuni giornali con le più varie interpretazioni, con esagerazioni e inesattezze, così il Colonnello in capo del reparto, convoca tutti quanti nel cinema e incarica uno degli ufficiali di illustrare le falsità scritte contro di loro. È domenica mattina, e al termine dell’intervento chiarificatore verrà celebrata la S. Messa. Antonio non è molto interessato a quella requisitoria, conosce bene i fatti e sa che talvolta i giornalisti scrivono in modo distorto, però ascolta con attenzione e soppesa le parole, ha ancora bisogno di capire, anche per questo è interessato alla S. Messa, ha bisogno di meditare e di pregare. Quando l’ufficiale conclude il suo intervento, il cappellano militare inizia a prepararsi per la celebrazione; nello stesso momento la maggior parte dei ragazzi si alza e se ne va, la domenica hanno libera uscita per tutto il giorno, c’è un bel sole e non vogliono perdere altro tempo. Antonio è ancora seduto, quando inaspettatamente l’ufficiale riprende a parlare; questa volta è una ramanzina per quelli che non si fermano a Messa, qualcuno mormora, qualcuno risponde con una battuta, l’ufficiale insiste e si dilunga in un sermone. Antonio trova sgradevoli quelle parole e quel modo di fare, non è quello che cerca e di cui ha bisogno, guarda i compagni che se vanno uno a uno, si alza ed esce con loro. Alcuni, stupiti dalla sua scelta, lo invitano: “Non ti fermi? Allora vieni con noi?”
Ma lui scuote le spalle: “No grazie, ho altri programmi”. Tornato in camera si cambia, indossa di nuovo la mimetica e va nel bosco, nel suo angolo di bellezza.
XLVI
La sentinella
Seduto su una pietra paracarro, fissava la pioggia che cadeva copiosa. I suoi piedi erano caldi e asciutti dentro i grandi anfibi ben tinteggiati e lucidati, il suo corpo ben riparato sotto l’ampio mantello impermeabile. Il suo viso, unica parte esposta al freddo, aveva la pelle contratta; ma era proprio quell’aria umida e sferzante che lui andava cercando. Intorno a lui solo il lieve scrosciare della pioggia e tanto silenzio; la notte era calata spegnendo via via tutti i rumori e tutte le voci, dentro e fuori la caserma tutti dormivano, perfino gli animali notturni tacevano rintanati all’asciutto. Quella notte lui era di guardia; ma non una guardia qualsiasi come quelle precedenti; quella sera lui era Capoposto. Vent’anni appena compiuti, un animo tranquillo, un tipo dimesso, eppure, forse anche per questo, il suo comandante gli aveva accordato grande fiducia, lo aveva giudicato abile al comando. Per la prima volta comandava un plotone di uomini, che come lui erano in realtà soltanto ragazzi; sette ragazzi, sei guardie e un autista. Le guardie in gruppi da tre, a turno stavano di sentinella al cancello d’ingresso e alla polveriera, l’autista, ogni due ore andava svegliato insieme alle guardie di turno; la polveriera era lontana qualche chilometro e il cambio di sentinella andava effettuato con trasporto con la camionetta. Sapeva bene cosa lo aspettava nell’espletamento di quell’incarico, ogni volta avrebbe dovuto svegliare guardia e autista, e ogni volta avrebbe ricevuto insulti, specialmente in una notte fredda e piovosa come quella; e se malauguratamente non avesse effettuato il cambio della guardia in orario, magari perché preso dal sonno, allora sì che sarebbero volati gli improperi da colui che era di sentinella. Come se non bastasse, quella sera l’ufficiale d’ispezione era il più solerte e il più esigente. “Tu sei responsabile per ognuno di loro!” aveva detto. “Controlla che facciano il loro dovere fino in fondo! Se non sono capaci, chiederò conto a te! Accertati che sappiano caricare e scaricare da soli la loro arma, e se non saranno capaci anche di questo chiederò conto a te!”
A nulla valse la timida e rispettosa ma ferma obiezione: “Signor Capitano, non sono io che li ho addestrati!” La replica fu ancor più perentoria: “Se non sono abbastanza addestrati dovrai provvedere tu stesso a insegnare loro!” Con la testa affollata di pensieri e preoccupazioni, decise che quella notte non avrebbe dormito affatto, anche solo sdraiarsi per un piccolo riposo non sarebbe stato prudente. L’acqua batteva incessante, nel bosco adiacente, sui fossi e sul viale debolmente illuminato; l’asfalto era lucido come uno specchio, al punto che lui riusciva a vedere la sua immagine riflessa. Anche così seduto, col viso infreddolito, ma col corpo asciutto e caldo, il sonno era in agguato. Avrebbe voluto adottare la stessa strategia di tutti quelli che lo avevano preceduto, farsi avvisare dalla sentinella al cancello quando serviva il cambio; il dormitorio del posto di guardia era vicinissimo al cancello, ma il rischio che la sentinella restasse addormentata, proprio non voleva correrlo e non chiuse occhio. La notte si annunciava lunga e opprimente, così si alzava spesso eggiando nervosamente su e giù per il viale, fermandosi talvolta a pensare. Gli tornarono in mente i bei tempi trascorsi al C.A.R., il canto corale addio Lecce addio… e quelle parole rivelatrici nel saluto del sergente “rimpiangerete Lecce!” Non era meteoropatico, anzi, amava la pioggia, ma quella notte così fradicia e nebbiosa, sospesa nella veglia silenziosa e solitaria, era l’immagine del tempo perso, di una vita persa, e metteva tristezza. Pensò a lungo alla sua decisione di optare per il servizio militare a scapito di quello civile, era davvero valsa la pena? Gli era stata concessa autorità e aveva il comando, la vita di quei ragazzi era affidata alle sue cure per quella notte, perciò arrotolò i suoi dubbi e li ripose; quello era il suo presente e andava vissuto da uomo, le risposte a domani. Fece appena in tempo a riprendersi da quei pensieri vaganti, che apparvero sul cancello i fari di una camionetta; era l’ufficiale d’ispezione, che nel cuore della notte, furtivo come un ladro, faceva visita alle sentinelle nel timore di trovarle addormentate. Antonio gli si fece incontro, presentandosi al cancello insieme alla guardia che dopo la richiesta della Parola d’ordine stava aprendo. Appena sceso l’ufficiale domandò sorpreso: “Come mai lei sta fuori vicino al posto di guardia? Non si fida dei suoi uomini?” “No signor capitano!” rispose prontamente Antonio. “è che non dormivo bene e mi piace eggiare sotto la pioggia” disse per tranquillizzarlo.
Dopo aver firmato il registro, l’ufficiale invitò caldamente il Capoposto a salire sulla camionetta per completare l’ispezione alla sentinella della polveriera. Giunti nei paraggi del posto di guardia l’autista fu fatto fermare, l’ufficiale scese e al suo ordine il Capoposto lo seguì in silenzio; senza far rumore, favoriti dall’aria ovattata, si avvicinarono alla sentinella, finché questa allarmata, gridò: “Altolà! Chi va là?” Non avendo ricevuto alcuna risposta, ribadì gridando più forte: “Altolà! Chi va là?” Ma tutto taceva, allora caricò il fucile, lo imbracciò e gridò di nuovo: “Altolà! Chi va là? Fermo o sparo!” Solo a quel punto l’ufficiale fece cenno ad Antonio di dichiararsi, e lui gridò: “Capoposto in visita d’ispezione!” La sentinella correttamente chiese: “Parola d’ordine!” Ottenuta la risposta abbassò il fucile e dette loro il permesso di avvicinarsi. L’ufficiale d’ispezione che era rimasto seminascosto nell’ombra si fece riconoscere e chiese alla guardia di togliere il proiettile che aveva messo in canna caricando il fucile. Con una certa apprensione, Antonio ribadì l’ordine al suo subalterno dicendo: “Fai vedere al signor Capitano come si esegue la manovra corretta!” E quello con sollievo di tutti eseguì la manovra alla perfezione. “Complimenti!” concluse l’ufficiale rivolto alla sentinella. “Il suo comportamento è stato ineccepibile, la proporrò per una licenza premio!” Antonio e la guardia si scambiarono un sorriso di soddisfazione, le risposte era ancora sospese, ma quella notte non era andata persa per nessuno di loro.
XLVII
Carla
Gentile, solare, sempre ben disposta, ma anche timida e riservata; una ragazza delicata Carla, per nulla appariscente sebbene dotata di un bel fisico; l’aveva incontrata varie volte, frequentando il gruppo giovani di quella parrocchia di città, ma forse a causa di quel carattere schivo, non ne era mai rimasto particolarmente colpito. Quell’anno tutta la sua attenzione era rivolta altrove, lui era già innamorato di un’altra e anche quella volta non era corrisposto, quella anzi era già impegnata; ma era uno zuccherino e lui non voleva arrendersi tanto facilmente, trovandosi lontano da casa in servizio di leva si struggeva al pensiero di lei, così, venuto in licenza, organizzò una gita al mare coinvolgendo alcuni amici comuni; voleva andarla a trovare. Di buon mattino, con l’auto di suo padre e con qualche palpitazione, si presentò davanti alla casa di Carla, il luogo di ritrovo. Scese e salutò cordialmente la sua mamma che stava sul cancello ad aspettarlo; una signora distinta, cortese, affabile, con un’aria un po’ demodé; Carla era dietro di lei, così lui le chiese notizie degli altri tre, ma lei non seppe rispondere perciò salì rapidamente in casa per telefonare. Rimasto solo con la mamma di lei, ne colse sul viso tutta la preoccupazione, una donna rimasta vedova anzitempo, madre di quell’unica figlia. Lui appariva come un ragazzo a posto, e forse meritava la fiducia dai suoi genitori, ma lei lo vedeva ora per la prima volta; per giunta la spiaggia si trovava a più di cento chilometri di distanza, voleva fidarsi ma non aveva tempo per conoscerlo, perciò lo fissò per un attimo con sguardo indulgente, e gli rivolse con tono materno alcune raccomandazioni: prudenza sulla strada, attenzione al bere, moderazione in spiaggia e in pubblico, e anche in privato. Antonio era abituato a ricevere quelle preghiere, perciò non oppose argomenti, anzi rassicurò la signora con un tono filiale che lei gradì. Proprio in quel momento tornò Carla correndo; brutte notizie, nessuno degli altri tre sarebbe venuto. “E allora che fate? Non andrete mica?!” esclamò la mamma di Carla.
Comprendendo il suo stato d’animo, Antonio guardando Carla rispose: “Mi spiace che sia andata così, io comunque ci vado lo stesso”. “Da solo?!” esclamò stupita la mamma di Carla. “Sì signora! Non mi spiace viaggiare da solo.” Aveva appena finito di parlare, che Carla, con sua sorpresa sbottò: “Mamma, voglio andarci anch’io!” La signora strabuzzò gli occhi e replicò: “No Carla! Non voglio!” E Carla delusa scappò in casa. “Mi scusi,” disse la signora ad Antonio, muovendo svelta verso la figlia. Lui restò immobile in mezzo alla strada, pronto ad andarsene, ma mai prima di aver salutato; non voleva essere sgarbato. Trascorsero attimi interminabili e più volte si chiese cosa fare, mentre dalla casa giungevano voci concitate. D’improvviso Carla uscì di nuovo e dietro di lei la madre, l’aveva convinta, sarebbe partita con Antonio. Lui fu assalito da strani turbamenti, Carla era solitamente riservata e contenuta nelle sue manifestazioni; come mai ora era così decisa e così felice di partire benché sola con lui? Aveva forse qualche interesse, qualche mira nei suoi confronti che aveva tenuto nascosti? E lui come avrebbe dovuto contenersi? Non aveva mai disdegnato la responsabilità, aveva sempre desiderato diventare uomo, e anche galantuomo, ma quel giorno avrebbe preferito un po’ di spensieratezza; tuttavia non perse tempo, guardò ancora una volta la mamma di Carla come a volerci mettere la faccia e ribadì: “Tranquilla signora!” O forse credette solo di dirlo. Senza mai nascondere le sue preoccupazioni, la signora salutò Carla col gesto della mano e sospirò: “Mi raccomando, prudenza!” Appena si furono avviati Antonio guardò Carla, fiducioso e sorridente volle verificare il suo stato d’animo. “Come va? Tutto okay? È preoccupata la tua mamma?” Carla sorrise e rispose convinta: “Tutto bene, la mamma si preoccupa sempre quando esco di casa, ma poi mi lascia fare”.
Quel breve scambio di convenevoli, pareva fatto apposta per aprire un discorso, togliere imbarazzo, mettersi vicendevolmente ad agio. Il viaggio era lungo e due ragazzi come loro, pieni di voglia di vivere, non potevano certo limitarsi a parlare del clima; in effetti parlarono di scuola, di progetti per il futuro, di amicizie, ma solo per un po’ e in modo abbastanza formale, come era del resto la loro amicizia. Antonio, trovandosi solo con lei ebbe voglia di conoscerla meglio; Carla era una di quelle ragazze con cui valeva la pena coltivare una vera amicizia, e lui era sempre pronto ad allacciarne di nuove, in particolare quelle femminili parevano a lui più affini e più stabili. Ovviamente, anche di fronte alle belle ragazze, riusciva a disporsi con più naturalezza se non si sentiva particolarmente attratto. Anche a quel tempo però l’amicizia fra ragazzo e ragazza era considerata da molti impossibile, e questo costituiva un tabù capace di influenzare la spontaneità dei rapporti. Antonio e Carla godevano di reciproca stima e ricambiavano un tacito rispetto, ma quel momento che stavano condividendo richiedeva di più, gesti spontanei e giovanile afflato e loro non se ne sentivano capaci. I loro cuori erano puri, i loro sguardi limpidi, ma erano soli e non si sentivano liberi; ogni gesto e ogni parola prima di prendere forma venivano soppesati, e questo anziché sciogliere il clima, lo riempiva di imbarazzo. La strada pareva non finire mai, tante le curve, troppe le insidie per concedersi distrazioni, Antonio si impegnò con scrupolosa concentrazione nella guida e pian piano la sua postura si irrigidì, fino a fargli assumere l’aspetto di un’autista professionista. Carla si zittì come a volerlo lasciare tranquillo nello svolgimento di quel compito, ma in realtà non sapeva cosa fare; anche lei avrebbe voluto conoscere meglio quel ragazzo intraprendente e tranquillo, si fidava di lui ed era contenta di aver insistito con la mamma per accompagnarlo. Fuori dal controllo protettivo della sua mamma si sentiva libera e si capiva che gioiva di quella piccola avventura; ma la conversazione difettava. Senza rendersene conto, con l’incoscienza dell’entusiasmo giovanile, si erano cacciati in una situazione pericolosa… non avevano interesse l’uno verso l’altra, ma la loro età, gli impulsi giovanili, il profumo della pelle, le braccia che si sfioravano, il respiro ravvicinato, il calore dei corpi, la perfetta solitudine… creavano un clima di intimità in cui l’uno poteva contare i battiti del cuore dell’altro. La strada che scivolava sotto di loro rappresentava l’unica vera protezione contro le giovanili pulsioni; il susseguirsi di curve, la mancanza di banchina per accostarsi e fermarsi, li costringeva a tenere fermo lo sguardo davanti a loro, cosicché l’argomento principale di conversazione si spostò su chilometri percorsi, incroci da non sbagliare, tempo mancante all’arrivo. Finalmente ecco il mare, parcheggiarono e scesero subito in spiaggia, e fu una vera liberazione; vennero subito accolti calorosamente da lei, lo zuccherino, e dalla sorella più piccola,
anche i loro genitori li salutarono cordialmente, ma si mostrarono assai stupiti di quel lungo viaggio in coppia. Il resto della mattina scivolò via fra tuffi, spruzzi, battute spiritose e pelle stesa al sole in un allegro clima di risate. Quel piccolo golfo dall’acqua limpida, protetto da due aspri bastioni e da un incombente castello, rappresentava una specie di nido in cui i ragazzi si sentivano protetti e coccolati; non più imbarazzi, ma solo spensieratezza, anche se gli occhi di Antonio ora erano tutti per lei, lo zuccherino. Venne l’ora di pranzo e i genitori delle due sorelle si accomiatarono presso i due ragazzi, con dispiacere li informarono, che nella piccola pensione dove erano alloggiati, i posti a tavola erano destinati solo agli ospiti e non c’era spazio per i visitatori. Antonio e Carla ringraziarono la famiglia rassicurando che avevano con sé panini e bibite in fresco e che volentieri si sarebbero accomodati sotto un pino per un picnic. Per trovare un luogo adatto però, dovettero spostarsi e l’ombra del pino sotto cui si sedettero li proteggeva a malapena dal sole a picco; il caldo era torrido perché dietro la collinetta di quel golfo così piccolo non giungeva neanche un alito di brezza. I due consumarono i loro panini fra sudore e silenzio in un clima surreale, era tornato l’imbarazzo, stavano da soli in mezzo al nulla e sembravano una coppietta che aveva appena litigato. La cosa tuttavia non li fece scomporre, anzi, su quei visi distratti dal timore dei reciproci sguardi, parvero disegnarsi accenni di sorrisi divertiti. Dopo quel pasto frugale si concessero un breve riposo sdraiandosi ciascuno sul proprio plaid; Antonio, fissando il cielo oltre le fronde del pino, riprese a considerare la possibilità che ci fosse un interesse fra loro che andasse oltre l’amicizia, ma concluse fra sé che, anche se Carla non era affatto male, lui non ne era attratto e che nemmeno lei aveva mire nei suoi confronti. Dunque perché tutto quel timore? Davvero le pulsioni della carne erano così potenti da poter esserne travolti anche in mezzo all’amicizia? Sì! Capì che era un pericolo reale e lui non era disposto a mettere in gioco nessuna amicizia, si acquietò e schiacciò un pisolino ristoratore. Poco dopo tornarono in spiaggia e rimasero ancora un po’ con le due sorelle chiacchierando di molte cose, in particolare della sua esperienza sotto le armi, finché di buonora decisero di rientrare. Al ritorno, la strada si presentò più lunga a causa del traffico, ma la conversazione finalmente si sciolse un poco, parlarono delle loro amiche e lui confessò che era innamorato di quello zuccherino, e che anche sapendola già impegnata, non riusciva a non pensare a lei. Carla aveva già capito come stavano le cose, forse la sua stessa amica gliene aveva parlato, perciò non fu molto convincente nel mostrarsi sorpresa, ma lui reggendo il gioco le raccontò delle lettere che le inviava, delle telefonate e delle immancabili visite, come a cercare conferma della bontà dei suoi approcci. Carla si mostrò come vera amica di
entrambi, e cercò di spiegare ad Antonio che avrebbe fatto meglio a diminuire i suoi contatti, rinunciando alle sue mire destinate al fallimento e salvare una bellissima amicizia. Antonio annuì e sorrise contento, era stata una splendida giornata; aveva goduto della presenza di grazie femminili, le aveva appena sfiorate, ma non se ne era approfittato e non aveva alcun timore che la cosa venisse risaputa, anche se questo gli sarebbe costato una brutta figura con alcuni suoi amici. Ma cosa più importante, aveva capito che l’amicizia consiste nel prendersi cura reciprocamente, e che a volte richiede la rinuncia ai propri bisogni. Riconsegnò Carla a sua madre e le salutò con un sorriso d’orgoglio, non era convinto di essere stato tanto furbo, ma era stato galantuomo e questo per lui contava moltissimo.
XLVIII
Nonnismo
Tutti sapevano che sotto la naja vigeva una regola gerarchica non scritta: il nonnismo. Ognuno cercava a modo suo di sopravvivere, adattandosi, nascondendosi, oppure mettendosi sotto l’ala protettrice, e quindi al servizio, di uno degli anziani, perché di nonni ce n’era più di uno e tutti diversi. L’unico atteggiamento poco conveniente era la contrapposizione, o peggio, la ribellione ai nonni, perché questi si arrogavano autorità su tutto, interpretando in qualche caso la figura di capoclan. Spesso l’esercizio del potere dei nonni, era circoscritto alle goliardate, a scherzi più o meno pesanti verso le reclute arrivate da poco, oppure si limitava a piccoli servigi, ma poteva accadere di finire sotto l’influenza di persone prepotenti, che giungevano perfino a umiliare i più giovani. Quando Antonio arrivò sotto le armi il clima stava cambiando, il nonnismo stava finendo, nondimeno ebbe la sfortuna di ritrovarsi di fronte un nonno assai ostile; costui aveva intorno a sé un bel gruppo di commilitoni che lo consideravano loro capo, più per il suo carattere autoritario che per la sua anzianità di servizio. Faceva parte dello stesso squadrone di Antonio, ma dormiva nell’ultima camerata dalla parte opposta dello stabile, perciò si incontravano soltanto durante il giorno. Dalla parte di Antonio governava un nonno abbastanza gentile e anziano quanto l’altro, e per un po’ Antonio e tutti quelli che dormivano nelle camerate vicine stettero abbastanza tranquilli. Peraltro quel nonno aveva preso in simpatia Antonio, e pur senza diventare mai veri amici, impararono a stimarsi; certo non mancarono anche lì scherzi pesanti e di pessimo gusto, ma il clima generale era sereno e difficilmente qualcuno dell’altra parte avrebbe osato invadere il campo. Da poco Antonio aveva ricevuto i gradi da Caporale, per lui era un onore, significava stima da parte del suo comandante, e apprezzamento da parte dei suoi vicini di stanza, ma ne avrebbe fatto volentieri a meno, perché temeva la difficoltà di esercitare quella piccola autorità. Infatti, senza che neanche se ne accorgesse, dall’altra parte era nata una gelosia nei suoi confronti; qualcuno lo considerava un ruffiano.
Il suo nonno lo mise in guardia: “Stai attento, perché ci sono certi tipi poco raccomandabili sempre pronti a qualche ripicca!” Lui rispose: “Grazie del consiglio, ma non devi preoccuparti, non mi voglio abbassare a piccole beghe di cortile, starò al mio posto e saprò tenergli testa”. “Bravo! Proprio questo volevo sentirti dire,” concluse il nonno. Ma i guai per lui arrivarono presto. Mentre il nonno ostile e prepotente si trovava in licenza, il suo braccio destro pensò bene di assumerne le veci, e per mostrare quanto era bravo, invase la camerata di Antonio. “Rivista cingoli! Attenzione, rivista cingoli!” Andava gridando da un camera all’altra seguito da un gruppetto di amici; uno aveva in mano una spazzola, un altro una scatola di lucido da scarpe nero. C’era già stato il contrappello e ormai tutti erano dentro le brande, qualcuno leggeva, qualcuno ascoltava musica, alcuni raccontavano storie; Antonio dormiva profondamente perché non si sentiva bene, e siccome l’indomani era di servizio come Caporale di giornata, non poteva e non voleva marcare visita, tantomeno apparire lavativo, perciò si era coricato presto. Quando entrarono in camera sua lo presero subito di mira e cercarono di svegliarlo, i compagni di stanza presero le sue difese dicendo: “Lui lasciatelo stare, si sente male”. “Non c’è scusa per nessuno!” disse il vice del nonno. “La rivista cingoli è per tutti!” Si trattava di uno scherzo innocente ma fastidioso, il malcapitato doveva mettere i piedi fuori dalle coperte, e anche se profumavano di pulito, a discrezione del committente il giudizio di solito era: “Cingoli sporchi, serve revisione!” E li spazzolava col lucido da scarpe. La vittima era costretta ad alzarsi e a recarsi al bagno in punta di piedi, per non sporcare il pavimento, e doveva faticare non poco per togliere quella tinta. Strattonandolo con più forza svegliarono Antonio e ribadirono: “Rivista cingoli!” Antonio svegliandosi di soprassalto allargò le braccia dicendo: “Abbiate pazienza, il gioco è simpatico, ma io mi sento male, e domani non vorrei marcare visita, potete are oltre per favore?” La risposta non si fece attendere: “Tutte scuse! Forza, tira fuori i piedi!”
“Non vi racconto storie, ho qualche linea di febbre, per favore lasciatemi stare,” chiese di nuovo Antonio. “Non ce ne importa niente!” rispose il vice del nonno. “Tira fuori i piedi!” A quel punto Antonio si mise seduto e disse: “Va bene, tiro fuori i piedi, ma ricordati, domani sono di servizio, vedi di non fare le tue solite bischerate, perché ti metto in punizione!” Sentendosi sfidato e minacciato l’altro si arrese: “Okay, niente rivista cingoli, ma questa la pagherai!” Dopo che lo scherzo fu concluso, il nonno che dormiva accanto, rivolto ad Antonio annotò: “è vero, sono stati prepotenti e vigliacchi, ma se li minacci in quel modo rischi le ritorsioni”. “E chi se ne frega!” rispose Antonio infilandosi tutto sotto le coperte. L’indomani, nonostante i timori del nonno, filò via tutto liscio fino al pomeriggio; a fine giornata, mentre stava salendo le scale, Antonio notò un movimento sospetto con la coda dell’occhio, intuì subito di che si trattava, ma non alzò lo sguardo, e proseguì del suo o; uno scroscio d’acqua gli piombò addosso bagnandolo completamente da capo a piedi, era la ritorsione. Come se nulla fosse accaduto, salì gli ultimi scalini e si avviò grondante verso la sua branda; quando lo videro arrivare in quelle condizioni si allarmarono. “Che ti è successo?” “Niente, è solo un po’ d’acqua,” rispose Antonio sorridendo. Ma quello era solo il preludio, alcuni giorni dopo rientrò il nonno ostile e subito fece convocare Antonio; era quasi ora di andare a letto ma lo aspettava un tribunale. “Veniamo con te?” chiese qualcuno dei suoi compagni. “No, state tranquilli!” rispose Antonio avviandosi, ma il nonno amico lo seguì. Erano seduti sopra le brande, riuniti tutti intorno al nonno capobanda, ma Antonio non aveva paura, almeno non fino a quando quello ebbe finito di
parlare. “Prima di tutto, vogliamo parlare solo con lui, tu torna pure in camera tua,” disse quello, cacciando l’accompagnatore di Antonio che restò solo con loro. “Ho saputo che ti sei comportato molto male, hai offeso e minacciato un nonno, credo che come minimo dovrai scusarti, ti pare?” disse il nonno puntando il dito verso di lui. “è vero, mi devo scusare, ma per la verità lo avevo già fatto due giorni dopo,” precisò Antonio. “Non basta, devi scusarti davanti a tutti!” ribadì il nonno alzando la voce. “Hai ragione, ho sbagliato a minacciare, ma quella sera stavo davvero male, e avevo perfino un po’ di febbre,” disse Antonio per giustificarsi. “Se stai male è un problema tuo, non devi provarti mai più a minacciare e a offendere nessuno!” tuonò il nonno. “Veramente, io ho abusato della mia autorità minacciando, questo è un fatto, ma non ho mai offeso nessuno!” cercò di precisare Antonio. “Qui sei davanti a un tribunale per essere giudicato, non puoi metterti a contestare!” tuonò di nuovo il nonno. “Va bene,” disse Antonio con tono arrendevole, resosi conto di non poter dire altro. “Allora, adesso come punizione, e come gesto di rispetto, mi rifai la branda come si deve!” concluse il nonno. Antonio non voleva discutere oltre, perciò gli rifece la branda. Quando ebbe finito, il nonno disse: “Bene, spero che d’ora in avanti ti comporterai come si deve, e che obbedirai sempre a quello che dice il nonno, perché i gradi che hai appiccicati sulla spalla non contano nulla! Qui conta solo quello che dicono i nonni!” “A dire il vero, contano di più gli ordini dei superiori,” contestò Antonio non riuscendo a trattenersi.
A quel punto il nonno si infuriò. “Vuoi metterti contro di noi? Tu sei solo una rospetta e devi obbedire, altrimenti la notte non riuscirai a dormire! Sono stato chiaro?” Antonio si sentiva bollire il sangue nelle vene, avrebbe desiderato starsene tranquillo e non mettersi contro nessuno, ma aveva sopportato fin troppo, si fece scuro in volto e con tono di sfida gridò: “Mi stai minacciando? Stai sbagliando di grosso lo sai? Nemmeno io accetto minacce, perciò sai cosa ti dico? Ti mancano due mesi per andare in congedo? Bene, per i prossimi sessanta giorni non dormire! E non fidarti di quelli che vegliano per te, tu cerca di stare sveglio!” Poi voltò loro le spalle, e senza indugio ma con o lento se ne andò. Con le budella attorcigliate, e il cuore in gola che batteva all’impazzata raggiunse la sua branda, e dopo aver preso fiato raccontò tutto ai compagni di stanza. La guerra era aperta anche se a lui non piaceva, ma non era preoccupato; non aveva alcuna intenzione di attuare le sue minacce, non avrebbe messo in atto nessuna ritorsione, nessuna punizione, anzi era deciso ad avere un occhio di riguardo, ma facendo intendere che decideva lui, che comandava lui. Sapeva bluffare, specialmente a poker, ma quello non era un bluff. La guerra però acceca anche le menti più lucide, così nelle settimane che seguirono, non accettava più consigli da nessuno; dovendo partire per la Sardegna ricevettero l’ordine di preparare gli zaini entro due giorni dalla partenza e Antonio come altri volle rimandare alla mattina seguente, che essendo ferragosto era libera dal servizio. Il nonno amico preparò il suo zaino come da ordini, ma a causa della rigidità di Antonio, non fu con lui prodigo di consigli, benché sapesse cosa li aspettava. A fine giornata il comandante ordinò l’adunata col controllo degli zaini, solo pochi avevano rispettato gli ordini, Antonio e gli altri furono puniti; l’indomani dovettero strisciare nell’erba simulando assalti, al termine dovettero di nuovo lavare le tute e lucidare gli anfibi; il ruolo di comando gli aveva tirato un brutto scherzo. Quando toccò a lui essere nonno, decise che avrebbe aiutato i più giovani a cavarsela bene, finché in camera sua arrivò un ragazzo un po’ scontroso; tutti lo erano stati appena arrivati lassù, perciò nessuno gli dette troppa importanza, ma al mattino, stanco per il viaggio quello dormiva sonoramente, mentre già era ora di adunata. Antonio cercò di svegliarlo con gentilezza, ma lui reagì: “Che vuoi da me, non vedi che sto dormendo?”
“Sì lo vedo, ma a minuti ci sarà l’adunata e l’appello e se non ti alzi farai tardi” rispose Antonio. Quello replicò seccamente. “Fatti i c… tuoi!” Antonio rimase sbigottito e i guardando gli altri compagni increduli, fece una smorfia con le labbra e se ne andò. Da quel giorno Antonio smise di preoccuparsi per gli altri, ma quel ragazzo ascoltò ogni consiglio che usciva dalla sua bocca, perché la punizione che il comandante gli aveva comminato per quel ritardo gli era bastata.
XLIX
La fine e l’inizio
Dopo aver dichiarato guerra al nonno prepotente, e aver temuto ritorsioni per quei due lunghissimi mesi, finalmente se ne era liberato al suo congedo. Era tempo per lui di godere di una nuova licenza, ma non la richiese, perché attendeva quella agricola, di cui suo padre aveva fatto richiesta in vista della vendemmia, che solitamente avveniva ai primi di ottobre. Perciò, quando venne comunicato che a fine settembre, sarebbero partiti per un nuovo campo di addestramento, ne fu contento, era una nuova gradita esperienza; proprio quello che serviva a rimuovere la tensione, subita per la presenza ingombrante e incombente del nonno congedato. Le solite manovre, coi soliti comandanti, scontenti dei loro giochi di guerra, ma fu divertente e rilassante. Rientrando da quella trasferta, il comandante si accorse che Antonio non aveva chiesto la licenza, pur potendosi evitare quel campo, perciò lo convocò e complimentandosi per la sua disponibilità e generosità, gli propose di partire subito come meritava. Antonio ringraziò, ma giustificò il suo ritardo nella richiesta, con l’attesa della agognata licenza agricola, peraltro più lunga delle solite. Il comandante si informò se quella licenza, fosse in arrivo, ma scoprì che non ve ne era traccia, perciò provvide ad assegnargli personalmente una licenza premio; a motivo della sua dedizione, aggiunse tre giorni alla normale licenza. Antonio era felicissimo, riceveva un premio pur non avendolo cercato, ma soprattutto sapeva di poter usufruire in un secondo momento della licenza agricola, cioè una in più degli altri. Per un disguido l’agricola arrivò proprio quando era già a casa, perciò rimase a casa ventidue giorni di seguito! Una pacchia, finché durò; quando rientrò fu come partire di nuovo e fu peggio; l’autunno era inoltrato e le nebbie del nord mettevano tristezza, inoltre, alcuni compagni con cui aveva fatto amicizia erano stati congedati e sostituiti da nuovi arrivati. Ora lui era quasi un nonno, ma faticò a riambientarsi. Il 4 novembre, da Palmanova del Friuli, arrivò l’invito per alcuni rappresentanti di quel reparto, per partecipare alla festa della vittoria e alla relativa parata; nessuno voleva andare,
così insistettero perché andasse lui. Antonio fece notare, che aveva già usufruito di una gita a Monza a settembre, ma gli altri lo spinsero. “Vai! Non ci pensare!” Era benvoluto da tutti, o quasi, perciò trovò anche un compagno di viaggio, ma la notte accadde l’impensabile; si svegliò con la testa appiccicosa, sul cuscino avevano spalmato un tubetto di dentifricio e una scatoletta di lucido da scarpe nero. Trascorse un paio d’ore in bagno, consumando un intero flacone di shampoo per potersi pulire i capelli; il viaggio andò bene e fu contento, ma non riusciva a capire cosa poteva aver fatto di così grave per meritare uno scherzo simile. Alcuni giorni dopo chiese lumi al magazziniere, se avesse udito qualche voce in proposito, e lui rispose in modo sibillino: “Dovresti saperlo il perché, pensaci!” Antonio trasecolò e non seppe replicare, quella era la ritorsione, come vendetta ritardata per la sua ribellione al nonno; una vendetta commissionata ad amici servizievoli! Venne Natale e con esso una licenza per tutti, ma non tutti potevano andare, dovevano scegliere fra Natale e Capodanno; con tutto quello che aveva ricevuto, licenza premio più agricola, gite fuori sede, gelosie e vendette, Antonio non scelse; lasciò decidere agli altri, per accettare solo quello che gli toccava di rimanenza. Gli toccò l’ultimo dell’anno, ma non avendo avvertito nessun amico, non sapeva dove e con chi festeggiare quell’ultima notte. La proposta gli arrivò, divertente e intrigante, Vecoli, comunità di recupero per tossicodipendenti; veglione di fine anno col primo ospite della casa, con alcuni amici operatori, e don Bruno, direttore del centro. Erano anni quelli, in cui l’uso di droga pareva espandersi come un’epidemia, e la lotta contro questa piaga sociale, veniva affrontata il più delle volte come una guerra; con la forza, la repressione, la coercizione, la prigionia. Al contrario, l’impegno di quegli operatori e di quel centro, di cui suo zio Ilio era una delle colonne portanti, si basava sull’educazione all’assunzione di responsabilità da parte degli ospiti; quello era un tipo di guerra gradita ad Antonio, che cominciava a essere stanco di armi e di sopraffazione. Quegli anni così turbolenti, dove il valore della vita pareva in declino, dove anche le rivendicazioni si vestivano di violenza, l’uso di droghe era forse solo l’ultimo degli eccessi. Quella sera perciò Antonio si sentì rinascere, assisteva all’inizio di
una nuova vita, alla rinascita di un giovane, e lui era lì con gli altri a festeggiare. Con sguardi mai abbassati, e mai penetranti, i pensieri sgombri da ogni giudizio, e i gesti aperti all’amicizia, la serata scivolò via serenamente; pasteggiarono in modo semplice, senza eccessi, e senza vino! Già, una delle regole del nuovo percorso di vita, escludeva logicamente le bevande alcoliche; sorseggiarono varie annate di: aranciata, cedrata, gazzosa, limonata… e finirono col botto, brindando all’arrivo del nuovo anno con le bollicine di coca! Una strimpellata di chitarra e tutti a letto, Antonio non poteva immaginare un inizio migliore, ora sì, era pronto a completare il suo anno di naja; il primo gennaio era la festa della pace, e lui ora era in pace col mondo.
L
Gli spari
Si era presentato in armeria con un po’ di titubanza dichiarando grado, nome e cognome, reparto; dopo la firma, ando davanti alla rastrelliera aveva ritirato l’arma che gli era stata assegnata, un fucile di precisione a tiro singolo, l’arma dei cecchini. Fino ad allora aveva sparato soltanto un paio di colpi con fucili da caccia, uno per prova contro il cielo sotto gli occhi vigili del nonno, con l’altro a sorpresa aveva colpito un uccellino; si era anche cimentato nel tiro a segno delle giostre con qualche buon risultato, ma quel fucile che ora stringeva in mano era tutt’altra cosa, un’arma da guerra concepita per uccidere uomini. Non era esperto di armi e questo lo preoccupava un po’, perciò fece molta attenzione a ciò che gli veniva insegnato. Lo fecero sdraiare a terra col suo fucile e un caporale gli fornì il caricatore, a un ordine del comandante lo inserì, puntò e fece fuoco; la sagoma raffigurava un soldato sdraiato come lui, col fucile puntato contro di lui, ma questo lo scoprì solo dopo, poiché si trovava a trecento metri di distanza e vedeva a malapena quella sagoma. Dopo i primi colpi sistemò meglio l’arma sulla spalla per non subire troppo il rinculo e cercò di fare centro; per un attimo pensò all’occorrenza, sarò davvero in grado di sparare ad un altro uomo?, ma il suo orgoglio lo spinse alla concentrazione, quella in fondo era solo di una prova di abilità. Sparò immaginando di essere al luna-park, e nonostante la distanza fece parecchi centri, ma la potenza di quell’arma che scuoteva le braccia, capace di colpire così lontano, lo spaventò. Faceva parte dei carristi, perciò dopo quell’esercitazione, dovette occuparsi un po’ meno delle armi leggere, e dedicarsi ai mezzi corazzati, così qualche tempo dopo partirono per la spiaggia con alcuni carrarmati, e in un’area riservata alle esercitazioni li schierarono coi cannoni rivolti verso il mare. Il suo incarico era quello di servente radiofonista; aveva il compito di caricare il cannone e sintonizzare la radio, e per strada si era esercitato un po’ con gli equipaggi degli altri carri, giocando con le comunicazioni, ora invece sui carri c’erano altri a caricare e a sparare, mentre lui col grosso della Compagnia stava a terra a
osservare. I cannoni sparavano proiettili di cemento a rimbalzo limitato, così aveva detto l’ufficiale istruttore, e lui aveva riso a quella definizione, ma all’apertura del fuoco una specie di tremito prese il posto del riso; il rumore era così assordante, che i colpi rimbombavano nel petto, e facevano vibrare le budella, tanto che non riuscivano a parlare fra di loro. A un certo punto uno dei carri ebbe dei problemi, così due piloti lo riportarono in deposito per sostituirlo con un altro, ma non tornarono, e il petto questa volta fu squarciato dal dolore. Quel giorno fu macchiato dal sangue; nel fare manovra all’interno del deposito, al pilota erano sfuggiti i comandi, e l’altro che lo guidava da terra coi cenni delle mani, era rimasto schiacciato contro il muro. Rimasero tutti turbati, ma Antonio stranamente meno degli altri; pareva assente, come se la cosa non lo riguardasse, come si trattasse di incidente stradale occorso a uno sconosciuto; in realtà, gettando il pensiero altrove cercava di difendersi da una incomprensibile atrocità, la morte di un ventenne come lui. Il lungo trasferimento al nord di poche settimane dopo, il cambio radicale di clima, e soprattutto il cambio completo di tutti i compagni, contribuirono ad attenuare quel brutto ricordo. Lassù, in quelle sterminate paludi dell’alto Piemonte, trovò perfino motivo di svago; le esercitazioni coi carri in mezzo al fango e alle pozzanghere apparivano a modo loro divertenti, e imparò perfino a guidare i carrarmati. Si ritrovò più volte a sparare, e prese confidenza con tutte le armi, poi andarono in Sardegna. Laggiù, nel caldo torrido d’agosto, fra bianchissime dune e spiagge da favola spararono ancora, e simularono anche azioni di guerra. Preceduti da un bombardamento aereo, avanzarono coi carri e finirono di distruggere i bersagli posti sopra un colle, ma nella manovra di nascondimento dal nemico il suo carrarmato finì in un largo fossato, e una cartuccia con proiettile esplosivo, rotolò sul pavimento della torretta col rischio di far saltare tutto in aria. Antonio gridò, imprecò, maledisse; in quegli attimi comprese chiaramente l’origine del timore misterioso che ogni tanto compariva. Come ogni soldato, anche lui, voleva riportare a casa la pelle. Nel corso dell’esercitazione sulla spiaggia, imbracciando la mitragliatrice contraerea immaginò le difficoltà di chi era costretto a sbarcare sotto quella pioggia di fuoco. Dovette sparare anche con la pistola, ma avendo la sagoma di un uomo a breve distanza, il risultato fu scarso come il suo interesse. Infine ebbe l’occasione di
provare anche il fucile mitragliatore, e sfuggendo all’attenzione dell’ufficiale istruttore, si prese la libertà di sparare a raffica in ginocchio come nei film di guerra, e rimediò una dura reprimenda. Non lo fece però per spocchia, né per pura soddisfazione; in realtà aveva voglia di sfogare tutta la rabbia accumulata in quei mesi, e riuscì a scoprire il vero potere delle armi. Con un’arma in pugno o in braccio, nessuno si sente fragile, anzi, molti credono di poter dominare il mondo, e forse è proprio così; ma non è la bocca di un fucile o di una pistola a incutere timore in coloro che vi si oppongono, bensì la voce che può uscirne, capace di rendere feroce la voce di chi impugna. Proprio questo era accaduto un paio di anni prima; un paio di cacciatori, avevano effettuato battute di caccia dentro il terreno coltivato di suo padre, e al suo severo rimprovero avevano risposto dapprima con le minacce, e poi con i pugni. Antonio non aveva fatto in tempo a intervenire in difesa di suo padre, e se ne era molto rammaricato; chissà, forse era stato proprio quell’episodio a minare la sua indole pacifica, a farlo optare per il servizio militare o forse era stato il clima rovente di quegli anni, in cui le armi parlavano più degli uomini; anni in cui i soldati sparavano alle sagome come fossero uomini e le bande armate sparavano agli uomini come fossero sagome.
LI
La Ronda
Le mostrine consunte sulle loro spalle, erano lorde dell’intrepido coraggio di molti Cavalleggeri di un ato glorioso; cimeli di epiche battaglie, di servizio alla patria fino all’estremo sacrificio, ate per El-Alamein. Le loro uniformi, impeccabili e lustre, trasfiguravano la loro condizione di ragazzi, rendendoli uomini in armi. Tutto trasudava di storia, anche il paese che si accingevano ad attraversare; ma più che altro loro, adesso, erano la storia. Erano così fieri nel portamento e nella loro speranzosa gioventù, che un commilitone li volle in posa per una foto prima della loro uscita. Era appena iniziata la primavera, un tiepido sole diffondeva una luce calda quasi irreale, e in quella limpida domenica di Quaresima pareva regnassero pace e silenzio… tanto, troppo silenzio. In quella parte dell’alto Piemonte tutto pareva deserto, ma la quiete era solo apparente, nei cuori di tutti, aleggiavano ansia, angoscia, e una inespressa paura; erano trascorsi infatti pochi giorni dalla strage di Roma e dal rapimento di Aldo Moro. Da quelle parti pareva che operassero attivisti delle BR, in paese apparivano talvolta manifesti e volantini che inneggiavano alla lotta armata; e anche uno dei loro ufficiali era stato preso di mira. La ronda era toccata a loro; chissà perché quel giorno non fu trovato alcun sottufficiale per comandarla, così toccò ad Antonio in veste di più alto graduato di truppa rivestire il ruolo di caporonda; era fiero di svolgere una mansione di più alta responsabilità, e aveva massima fiducia nei due compagni che gli erano stati assegnati, tuttavia era molto preoccupato. Si presentarono al posto di guardia con la baldanza e l’incoscienza dei ventenni, ma in fondo era solo un modo per esorcizzare le paure; insieme alle consegne (percorso e controlli da effettuare), ricevettero il benestare dell’Ufficiale di Picchetto, ma Antonio rimase un po’ ad aspettare, mancava infatti qualcosa: i caricatori per le pistole d’ordinanza! Quel capitano, fra tutti quelli del corpo ufficiali, pareva il più tranquillo, forse perfino un po’ tonto, ma in quel momento fissando il caporonda con uno sguardo fulminante chiese quasi indispettito: “Che volete ancora?”
“Capitano, i caricatori!” rispose prontamente Antonio. “Che cosa?!” replicò il capitano. “Macché caricatori! Andate, andate! E fate attenzione!” Antonio scattò sull’attenti e rispose: “comandi!” Poi voltatosi alzò le sopracciglia pensando perbacco che uomo!; non consegnando i caricatori, il capitano aveva infranto il regolamento, e stava esponendo i suoi uomini alla mercé di qualunque malintenzionato, ma Antonio aveva capito perfettamente che lo faceva per loro. Armati o no, restavano comunque un bersaglio, ma disarmati com’erano, non avrebbero rischiato di cedere al panico e sparare alle ombre. Senza caricatori, i suoi compagni si mostrarono molto preoccupati, ma Antonio li rassicurò dicendo: “A che ci servivano i caricatori, a chi dovremmo sparare? Con quello che è successo, e con la caccia all’uomo che è in atto, staranno tutti rintanati, perciò stiamocene tranquilli”. Fu abbastanza convincente, perciò il viaggio in paese filò via leggero, ma quando si ritrovarono soli cambiarono di umore. Iniziarono il loro giro dall’estremità del paese, avevano il sole in fronte e si lasciavano baciare da quel tepore, ma la mente correva a quei duelli nei film western, dove i più esperti sceglievano sempre la posizione col sole alle spalle. In effetti con quella luce in faccia non vedevano granché, ma del resto non c’era molto da vedere; davanti a loro il lunghissimo corso centrale, tagliava in due tutto il paese, ma in strada c’erano soltanto loro tre. Proprio come nei duelli, si sapeva che c’era il nemico in agguato, se ne percepiva la presenza, ma tutto era luce e silenzio; sì, in quel momento pareva proprio che la strategia del terrore avesse la meglio. Antonio era sempre stato un temerario, e anche quella volta si mostrava impavido, sicuro di sé, fiero nel portamento; quel piglio rassicurava gli altri due, accanto a lui non avevano più paura. In realtà lui sapeva ben governare la paura, anche quella che serpeggiava lungo la sua schiena; è vero, il capitano era stato prudente, ma se ora avessero avuto con sé i caricatori, avrebbero potuto sfidare il mondo. Accidenti a lui! pensò Antonio, ma fu il pensiero di un attimo, subito raddrizzò il busto e di nuovo si impettì, riposizionò meglio le braccia incrociate dietro la schiena, e sollevò di nuovo la fronte; non vi era un bel niente da controllare, gli unici soldati presenti in paese erano loro, ma bisognava recitare la propria parte, ed era vitale rappresentarla a dovere. Piano piano percorsero tutta la strada, poi tornarono indietro per un piccolo tratto e svoltarono a sinistra, verso la sala giochi e ancora indietro, di nuovo sul corso, poi a destra verso il cinema, infine
di nuovo a ritroso lungo il corso. Non incontrarono molte persone, qualcuno portava la spazzatura, altri erano usciti a prendere un caffè o le sigarette, ma la gente pareva scomparsa, e con essa i militari che solitamente scorrazzavano per quelle vie. Si fece buio e finalmente i tre vennero recuperati, rientrando arono a fare rapporto all’Ufficiale di Picchetto. “Niente da dichiarare?” domandò fiducioso il capitano. “Tutto a posto signore!” rispose Antonio sorridendo. Tornando verso il reparto, ricomparve sul loro volto il sorriso disteso, di chi sa di aver attraversato un deserto gremito di serpenti e scorpioni; erano solo le loro paure, o forse no, ma rientrati in camera, si sbracarono sulle loro brande, felici dei loro vent’anni.
LII
Ingenuità
I commilitoni particolarmente fastidiosi non c’erano più ed era più tranquillo, aveva preso le misure a tutti e ora si trovava completamente a suo agio, forse troppo, meno che per i negozi di Gattinara, arrivavano lì in libera uscita sempre troppo tardi, perciò volendo fare acquisti cessò in anticipo le attività e fece l’autostop. La pratica non era ben tollerata, ma la prima volta andò bene, lo caricò un ufficiale che si accontentò delle sue spiegazioni. La seconda volta invece venne beccato, terminata l’attività con largo anticipo si preparò e attese con impazienza l’ora di libera uscita; alle diciotto in punto si avviò a piedi verso l’uscita, pochi minuti dopo incontrò l’Ufficiale di Servizio e lo salutò con disinvoltura, ma questi voltandosi indietro lo fermò. “Non puoi essere qui pochi minuti dopo le diciotto, significa che hai cessato l’attività in anticipo, ritorna dentro e stai consegnato!” Che stupido! pensò, devo farmi più furbo! Aveva svolto il suo lavoro fino in fondo ma non replicò, non era conveniente. Qualche settimana dopo scambiò un turno di servizio, ma non si assicurò della trascrizione e questa volta a scoprirlo fu il suo stesso comandante che lo punì con cinque giorni di consegna; cosa mi sta succedendo? pensava, perché se la prendono con me che lavoro più degli altri? Se non si fidano di me, come fanno a fidarsi di certi altri? Aveva in mente alcuni scansafatiche lavativi che fingevano tutto il giorno di lavorare, e anche quel ragazzo del veneto, che era volenteroso, ma non si spiegavano come mai fosse lì. Tutte le sere a luci spente qualcuno raccontava una storiella, e una sera si udì in dialetto romanesco: “Pensierino daa sera: è mejio ave’ er culo gelato che un gelato ar culo!” Seguì una risata generale, poi silenzio; dopo circa un minuto si udì la voce di
quel ragazzo: “Xe vero, xe vero! Èl gelato xe jàzo!” Le risate divennero incontenibili e il romano replicò: “Dormi che è mejio!” Molti si chiedevano: come si può affidare un’arma a persone così?, Antonio aveva un’altra idea. Facevano sentire quel tale come un fesso in un battaglione di furbi, ma erano davvero tanto furbi? Quando ancora si trovava a Lecce, un suo compagno partì tutto felice, per quindici giorni di prova nei parà; Antonio lo invidiò, se avesse saputo di poter fare quella prova, l’avrebbe fatta volentieri anche lui almeno fino al momento in cui il compagno ritornò inviperito: tanto si aspettava e tanto si era trovato male. La loro vita si svolgeva in un contesto di regole rigidissime, ma per farle funzionare occorreva spesso trovare qualche espediente, il primo fra questi era quello più fastidioso per Antonio, la recita fedele della propria parte. Durante un’esercitazione, dovendo caricare esplosivi, lui e il suo compagno cercavano di maneggiarli con cura, ma vennero duramente richiamati per la lentezza; in realtà non erano affatto lenti, ma l’Ufficiale di Complemento, volendo mettere in mostra le sue qualità di comando, pretendeva più velocità. Antonio non voleva in alcun modo mettere a rischio la vita di alcuno, il decesso del compagno di Lecce era già terribile, perciò al secondo richiamo dell’Ufficiale si ribellò: “Io lavoro con prudenza, perché non voglio saltare in aria, se non è abbastanza veloce pazienza!” L’Ufficiale stizzito per quella risposta lo redarguì duramente, ma Antonio non sentì neanche una parola di quello che disse e continuò col solito ritmo senza subire alcuna punizione; anche l’Ufficiale si era adeguato. Non fu l’unica sua contestazione; avendo già lavorato per lunghi anni, era molto pratico e tutto ciò che era fasullo lo irritava; così quando arrivò la nuova prova di allarme, cercando di fare tutto come se fosse vero, come se dovessero partire per la guerra, si aspettava manovre vere con fucili veri, con attrezzature complete, ma non fu così. Ricevette l’ordine di andare in magazzino a prendere una parte di equipaggiamento che sapeva indisponibile. “Perché devo andare se non posso averlo?” chiese al suo comandante. “Perché glielo ordino!” rispose lui perentorio. “Ma è inutile!” replicò con azzardo Antonio.
“Ho detto di andare! Non discuta! Di corsa!” urlò il comandante. Al termine ripensò alle sue obiezioni e capì, era una simulazione e bisognava simulare tutto, anche il ritiro di materiale inesistente, in una parola, bisognava esercitarsi per essere pronti in tutte le circostanze, e per potersi fidare gli uni degli altri, era necessario recitare la propria parte fino in fondo. imparò la lezione e la mise in pratica. Quando rientrò dalla sua ultima licenza, pur essendo ormai esperto di linee ferroviarie, non poté far nulla contro il forte ritardo accumulato dal treno su cui viaggiava: non sarebbe potuto rientrare in caserma quella stessa sera e avrebbe dovuto dormire altrove. Guardando fuori dai finestrini, si immaginava la vita serena dentro quelle case illuminate che vedeva scorrere, e si consolò pensando che quello era il suo ultimo viaggio per dovere, ma se fosse rientrato al mattino seguente, quindi in ritardo, avrebbe certamente subito una punizione. Poco male! pensò, fra pochi giorni è finita, poi ci ripensò e non volle darla vinta ai burocrati, a Mortara mi farò timbrare la licenza a dimostrazione del ritardo del treno. Si preparò vicino alla porta centrale per essere il primo a scendere, la coincidenza per Novara era quasi immediata e non avrebbe atteso lui; prima ancora che il treno si fermasse aprì la portiera e saltò giù, corse dal capostazione che subito gli timbrò la licenza e uscì per salire sull’ultimo treno, stava già partendo e dovette correre per aprire la portiera col treno in movimento e saltare su. Riprese fiato e andò a sedersi accanto a due giovanotti che gli parvero familiari; erano due militari di Novara e chiese loro: “Avete una branda per farmi dormire stanotte?” “Senz’altro!” risposero i due, che avevano capito al volo il problema. “E con la licenza come fai?” chiesero. “Questa volta li ho fregati! Ho il timbro!” rispose Antonio mostrandogliela mentre rideva. Il giorno prima di congedarsi il comandante lo convocò come tutti gli altri, e guardando la sua scheda domandò dandogli del tu: “Hai capito perché ti ho affibbiato quella punizione per il cambio turno di servizio?” Antonio rispose sicuro: “Certo! Ho modificato un ordine senza averne il permesso”.
“No! Non è così,” replicò il comandante, e facendosi vicino come a volergli parlare nell’orecchio commentò: “Ti ho punito perché ti sei fatto beccare!” E proseguì: “ E che mi dici dell’incendio del carro?” “L’incendio del carro, lo sa, non è stata colpa mia,” rispose Antonio. E lui ridendo: “Sì, lo so, sono stati quei ragazzi. Per fortuna c’eri tu a comandarli e hai salvato la situazione, ma capisci che ho fatto carte false per farti congedare da sergente? E tu mi fai queste bischerate?! Comunque solo lieto di averti avuto con me, arrivederci e auguri!” Si alzò e lo congedò stringendogli la mano. Antonio ripensò a quell’incidente che aveva rimosso; qualcuno aveva tolto le batterie a un carro e non aveva innestato le protezioni ai cavetti, cercando di metterlo in moto coi cavi ausiliari, avevano rischiato di far saltare tutto in aria, solo la prontezza di comando di Antonio e gli ordini perentori gridati a squarciagola avevano permesso di spegnere l’incendio. Effettivamente in più occasioni aveva peccato d’ingenuità e così sembrava anche per il viaggio di ritorno, ma questa volta lui era preparato; aveva studiato nei dettagli un percorso alternativo alle solite coincidenze ferroviarie; tutti sapevano che il foglio di congedo veniva consegnato solitamente all’ultimo minuto, come un ultimo dispetto. Un camion li avrebbe portati in ritardo alla piccola stazione, col treno già partito lì avrebbero dovuto attendere ore per il successivo. Antonio convinse un suo conterraneo, a indossare un’ultima volta la divisa. Agli altri parve un’idea pacchiana poiché tutti tornavano a casa in borghese. Ma i due, decisi, misero in atto il piano e appena usciti dalla caserma saltarono giù dal camion. Come previsto, aiutati dalla divisa, trovarono subito un aggio. Con un pullman autostradale prima e un autobus cittadino poi, in breve giunsero alla stazione di Novara. Mentre gli altri, in borghese, ore dopo salivano sul treno, Antonio scendeva sornione e felice a Viareggio.
LIII
Firenze
Da qualche anno ormai, per Antonio, a ogni estate, corrispondeva un’esperienza di gruppo fra i boschi e le cime delle Apuane, e lui ogni volta sperava d’innamorarsi; non era difficile ma quell’anno non si innamorò, invece allacciò una nuova amicizia con una ragazza. Interessante, simpatica e matura, era arrivata fin lassù portata da un amico, ma abitava alla periferia di Firenze. Antonio conosceva ben poco di quella splendida città, l’aveva visitata solo una volta, in compagnia degli amici di Lucca, in una gita di un giorno, ne era rimasto affascinato; perciò, a costo di sembrare opportunista non perse l’occasione. “Firenze?!” chiese sorpreso appena gli fu presentata. “Mi piacerebbe conoscerla, magari potresti farmela visitare.” Chissà, forse a lei sul momento, sarà parso uno dei soliti tentativi di attaccare bottone, un preliminare delle tecniche di seduzione, ma Antonio era sincero e col are dei giorni lei lo avrebbe capito e apprezzato. Venne l’autunno e Antonio, assorbito dai tanti impegni non riuscì a mantenere fede al suo proposito. A primavera arrivò la cartolina del militare; dovendo partire per lungo tempo, chiese agli amici di Lucca di fare Pasquetta con loro, aveva una gran voglia di tornare a Firenze e sperava di avere un po’ di compagnia, ma loro avevano programmi diversi, chi a Viareggio, chi alle Cinque Terre, chi altrove e non lo accontentarono. Pazienza, pensò, vorrà dire che chiamerò l’amica di Firenze, starò con lei, è l’occasione buona, ma ancora una volta fece male i conti, lei andava altrove coi suoi amici. Era di nuovo solo, ma ormai aveva deciso, andò a Firenze, girovagò un po’ in mezzo alla gente, rivide qualche piazza e qualche monumento, poi, con una birra e un bel panino, si infilò nel giardino di Boboli. C’era altra gente, ma stranamente non era affollato, così fra piccolissimi gruppi e coppiette, Antonio riuscì a trovare un posticino al sole abbastanza appartato. Tutto sommato, non
fu male starsene da solo a pensare a quello che lo attendeva, mentre il sole gli scaldava il viso e la città bisbigliava ai suoi piedi. Nel pomeriggio fece ancora un giro in città, voleva portare con sé qualcosa di bello come il sorriso degli amici, si accontentò di portare la bellezza di quella città, che però ancora non conosceva. Di nuovo venne l’autunno, era da un anno che non rivedeva la sua nuova amica. Andò da lei con un amico, suo padre si trovava in ospedale gravemente ammalato, lei fu felice di vederlo, era abbattuta e aveva bisogno di amici a cui appoggiarsi; Antonio si offrì anche di donare il suo sangue se ce ne fosse stato bisogno, lei sorrise e replicò: “Sei molto gentile, ma non credo che sia necessario, comunque ti ringrazio tantissimo”. Ma lui insistette: “Promettimi che se ci sarà bisogno mi chiamerai”. “D’accordo!” concluse lei, grata di quell’offerta, ma rassegnata. Salutandolo lo pregò: “Mi avevi chiesto di farti conoscere Firenze, torna a trovarmi che ci facciamo un bel giro!” Lui l’abbracciò commosso e rispose: “Te lo prometto!” In primavera, ritornando dal servizio militare, pensava di ricominciare una nuova vita, ma suo padre lo frenò: “Mi dispiace, ma non ho trovato un nuovo lavoro come speravi,” disse rammaricato. “Niente di niente?” chiese Antonio. Enzo sospirò e riprese: “A dire il vero ci sarebbe un lavoro che mi è stato offerto per te, ma è pericoloso e preferirei che lo lasciassi perdere, si tratterebbe di lavorare sulle ruspe, sugli escavatori”. Antonio non capì subito tutta quella preoccupazione, i carrarmati erano bestioni d’acciaio ben più grandi delle ruspe e lui ne aveva acquisito esperienza di guida e di manovra, ma pensandoci meglio si ricordò alcuni episodi pericolosi per sé e per gli altri e dette ragione a suo padre. “Pazienza! Troverò di meglio!” concluse senza troppa convinzione, era disoccupato. Proprio mentre si logorava nel tentativo di ritrovare la sua strada, venne a sapere che il padre della sua amica di Firenze era morto da poche settimane, e andò
subito a trovarla. Era molto afflitta, ma la sua visita la rese felice; entrarono a piedi in città e lei cominciò a fargli da Cicerone, lo accompagnò a visitare i luoghi più belli e in qualche caso poco conosciuti di Firenze, e gli fece apprezzare le bellezza della città. Antonio non ebbe neppure bisogno di consolarla; camminavano parlando di tante cose e interrompendosi a ogni o, per sostare, osservare e compiacersi di tanta grazia artistica; mentre raccontava la sua città, il viso di lei brillava più della luce che irradiava i palazzi. Nonostante il lutto sembrava aver ritrovato la gioia di vivere e Antonio gioiva di quella luce, eppure motivi di tristezza ne avevano tutti in quei giorni; l’onorevole Moro era stato rapito e si temeva per la sua vita dopo quella perduta dagli uomini della scorta, e si temeva anche per il futuro del Paese. Entrambi avevano tanto bisogno di abbracciarsi, ma neppure si sfioravano, stavano bene così, fianco a fianco mentre si lasciavano abbracciare dalla città. Cercavano in quella armonia e in quella fantastica eredità artistica e culturale, una risposta alla tortuosità delle loro vite. Al termine della giornata, Antonio ricordava ben poco di tutto ciò che lei aveva raccontato e non ne aveva bisogno, lei invece aveva bisogno di ricordare tutto perfettamente, e il motivo era lo stesso per entrambi. Avevano condiviso e deposto i propri pesi, angoscia, mediocrità, solitudine, gustando la bellezza nello scambio di un’amicizia.
LIV
L’abbraccio
Tutti i bambini cercano il calore, le coccole, il contatto fisico, l’abbraccio tenero e protettivo, ma a lui pareva importasse poco, quasi non ne avesse bisogno. Crescendo sviluppò sempre più un carattere indipendente, stava con tutti, legava con tutti, ma mai troppo vicino. Somigliava a una calamita, tanta forza per attrarre e altrettanta per respingere; cercava di attirare gli altri a sé e si avvicinava a loro, ma quando le distanze si annullavano fino a toccarsi, pareva acquistare la stessa polarità di chi aveva vicino. Non aveva paura dell’amicizia, anzi la ricercava e la desiderava, ma avendo trascorso molto del suo tempo senza la compagnia di coetanei, si mostrava un po’ impacciato nelle relazioni affettive, comprese quelle familiari; ora che era cresciuto aveva la possibilità di incontrare coetanei, di intrattenersi con loro, di familiarizzare, ma era come prigioniero del suo corpo. Aveva sopperito alla lunga carenza di compagnie di gioco creandosi un mondo immaginario in cui spesso si rifugiava, e a volte lo sorprendevano a parlare da solo; non erano monologhi, ma dialoghi immaginari con persone reali, un amico, uno zio, una sorella, il papà, la mamma. Era un modo per esercitarsi a star bene con gli altri; sì, lui sapeva di essere benvoluto, ma spesso non veniva capito, e forse a causa di certe sue idee stravaganti non era molto ascoltato. I suoi genitori percepivano questo suo disagio, ma non sapevano come fare, avevano già affrontato i problemi dell’adolescenza con le due figlie maggiori, ma il primo maschio era diverso, e per loro era una nuova sfida. Una sera, avviandosi per andare a letto, salutò come al solito. “Buonanotte!” Suo padre lo richiamò dolcemente, “Tutto qui?” chiese sorridendo. “E il bacio della buonanotte, quello non ci tocca più?” Antonio restò interdetto e non sapeva che fare; l’età della scuola per lui si era conclusa, era entrato nel mondo del lavoro, roba da grandi, e anche se un po’ gli dispiaceva, pensava fosse ora di smettere di dare il bacio della buonanotte, però
si fermò. Sorrise come a chiedere scusa, baciò la mamma poi il papà, ma lui non contento lo abbracciò, trattenendolo per un po’ affettuosamente. Era forte e caloroso l’abbraccio del papà, Antonio si sentì fin troppo coccolato, e proprio per questo anche un po’ a disagio; le sue scuse infatti non riguardavano la dimenticanza, bensì la consapevolezza che quel bacio forse sarebbe stato l’ultimo. Andando a letto ci ripensò a lungo e non era per niente soddisfatto, anzi era proprio dispiaciuto e non capiva perché, in fondo che c’era di male a salutare senza smancerie? Eppure più ci pensava, più gli pareva di fare un torto ai suoi genitori, ma stranamente nei giorni e nelle sere a seguire, furono proprio loro a mostrarsi meno interessati a quel bacio di congedo; avevano capito che lui stava cambiando e non volevano forzarlo. Nonostante le molte amicizie strette in quegli anni, gli ci volle un po’ per sciogliere quell’atteggiamento schivo e impacciato. Suo padre, che era un uomo un po’ rude, ma molto espansivo, aveva capito il suo problema, e aveva anche capito benissimo che a lui piacevano molto le ragazze, perciò decise di portarlo a ballare, nella speranza che si sciogliesse un po’ incontrandone qualcuna. Il locale da ballo non era granché, semplice e un po’ disadorno come le case di campagna, ma proprio per questo, familiare e accogliente. La scusa era buona. “C’è Angelo che suona nella sala da ballo e le tue sorelle lo vanno a sentire, andiamoci anche noi, poi se ti ci garba ci ritorni da te!” Erano tempi di magra e non era il caso di spendere tanti soldi in divertimenti, così Enzo adottò una strategia, rivolto ad Antonio disse: “Tieni, questi sono i soldi per entrare, mettili in tasca, ma non tirarli fuori se non te lo dico io, lascia parlare me!” Antonio non capì bene ma seguì suo padre fiducioso; quando furono all’ingresso della sala, suo padre salutò calorosamente il titolare che stava alla cassa e si mise a parlare con lui del più e del meno, Antonio scalpitava un po’ e pensava ma che si fa? Entriamo o no? Alla fine del preambolo Enzo disse: “Ho portato qui il mi’ figliolo, è un provetto ballerino, vorrebbe vedere com’è l’ambiente, se gli garba è probabile che ritorni…” Il titolare borbottò qualche frase incomprensibile e sembrava scontento, come volesse dire “basta coi discorsi! Entrate o no?”
Con pazienza e con tono accomodante Enzo insistette: “Allora, non si può proprio dare un’occhiata? A me non interessa, mando solo lui, dentro ha già le sue sorelle, che ne dici?” Allargando un po’ la fronte, il titolare si arrese a malincuore, e stava per dare ad Antonio il permesso di entrare senza pagare, ma a lui parve restio, e stanco di aspettare mise le mani in tasca come a dire “se vuoi i soldi, ce l’ho!” Enzo se ne avvide, e prontamente bloccò la mano di Antonio, che lentamente la ritrasse. Forse fu l’insistenza di Enzo, o forse quella mossa di Antonio che mostrava determinazione, fatto sta che il titolare fece cenno con la testa e Antonio poté entrare in prova senza pagare. Dentro c’era un’atmosfera languida, luci basse, musica lenta e melodica, coppie che ballavano avvinghiate, e altre coppie abbracciate sui divanetti; ma qua e là c’erano altri ragazzi e ragazze che chiacchieravano e ridevano allegramente. Antonio si diresse verso questi ultimi, e dopo aver salutato le sorelle si mise a sedere vicino ad alcuni suoi ex compagni di scuola e cominciarono a parlare. “Come va?... Cosa fai?...” I soliti discorsi di rito, ma quando cominciarono ad alzarsi uno a uno per ballare, lui restò seduto, vedendolo sempre a sedere, le sorelle incitarono una delle loro amiche a invitarlo a ballare, ma lui rifiutò. “Non so ballare.” Poi se ne avvicinò un’altra: “Dai, vieni a ballare!” Ma lui rifiutò di nuovo. Era vero, a dispetto del suo amore per la musica e per il canto, pur avendo buon orecchio, non sapeva ballare; era rigido, e probabilmente questo era legato anche alla carenza di relazioni sofferta fino ad allora. Spostandosi di tanto in tanto da un divano all’altro per scambiare quattro chiacchiere, per tutta la sera non ballò mai. Alcuni anni dopo, venne invitato al veglione di fine anno dai ragazzi conosciuti all’Alpe, lì finalmente si sciolse, e ballò a lungo senza curarsi troppo del suo modo di muovere i i. Lì sperimentò per la prima volta il calore di un lungo abbraccio, cominciò a capirne l’importanza, scoprì quanto ne avesse sempre avuto bisogno, e cominciò ad affiorare in lui la nostalgia di quei baci e di quegli abbracci mancati coi suoi genitori; capì che quel tempo e quelle occasioni non si potevano recuperare, perciò decise che mai più avrebbe perso occasione per offrire o ricambiare gesti d’affetto. Scoprì che l’abbraccio era un modo di comunicare che non aveva bisogno di parole, che non poteva essere circoscritto ai familiari di un defunto o al vincitore di una gara, ma era parte integrante della vita sociale, il gesto più
puro dell’amicizia. Negli anni a seguire, notò altri tipi di abbraccio meno puri, ma non si lasciò distrarre e continuò a ricercare il calore degli affetti e dell’amicizia. Tornato dal servizio militare, un giorno si presentò a un raduno di giovani, e lì ritrovò un gruppo di amici che non vedeva da tanto tempo; provò tanta e tale gioia che si gettò fra le loro braccia stringendoli uno a uno. Al vedere quella scena, uno dei presenti osservò: “Vedi, ad Antonio non serve molto per essere contento, gli basta qualcuno da abbracciare!” “È vero!” rispose Antonio sorridendo soddisfatto. “Che c’è di più bello dell’abbraccio di un amico?”
LV
Ritorno al sud
“Miii u vikingu, ciao! Comu si? Un t’affienni si ti chiamu accussi’! Avutu, biunnu, uocchi azzurri, paru paru u vikingu!” Quell’ometto dal viso olivastro e dal sorriso splendente e contagioso che sta salutando Antonio, è Leopoldo, un cugino acquistato di Maria, ma per tutti semplicemente Poldo. Palermitano di nascita, di residenza, ma soprattutto di cuore, una vera forza della natura. Ha tutta la carica del caldo sole del sud, e sembra che ne abbia preso in sovrabbondanza, perché emana calore da tutti i pori, sa trovare gioia in ogni circostanza, e ha sempre una battuta pronta, irridente e sferzante come la schietta gente di Sicilia; per lui non esiste il bicchiere mezzo pieno, esiste solo la vita, poca o tanta ma sempre tutta da bere. Con Enzo e Maria si trova particolarmente bene riconoscendosi nell’allegria e nella medesima schiettezza, ha una figlia dell’età di Antonio, un’altra un po’ più piccola, e un maschietto ancora da crescere; guarda ad Antonio come a un modello, come fosse il suo figlio maggiore, così pare a lui, in realtà guarda così tutti i giovani desideroso com’è di vederli esprimere il meglio di sé. Vede ogni cosa in positivo ma non è uno sciocco, tutt’altro, osserva le cose con meticolosa attenzione e puntigliosa prudenza. Ha più volte invitato Antonio a visitare Palermo, e lui ogni volta ha risposto “verrò, prima o poi verrò”, finché giunge quell’estate; Poldo come sempre è venuto a trascorrere le vacanze dai suoceri ai piedi di Arsina all’imbocco della val Freddana, incontrando Antonio gli lancia la solita proposta, ma questa volta è immediata. “Devo tornare a Palermo per pochi giorni a sbrigare alcune faccende, vieni?” Antonio non si fa pregare e risponde felice: “Sono pronto! Quando si parte?” Partono solo loro due, il caldo è torrido e li attende un lungo viaggio, in compenso con Poldo la conversazione non sarà mai fiacca, ha sempre argomenti
da trattare così parleranno a lungo di tante cose. “Raccontami del militare,” dice a un certo punto Poldo interrompendo Antonio, pare assai interessato e lui lo accontenta raccontando fatti e misfatti, cose piacevoli e amare esperienze. È ancora disoccupato e non riesce a vedere chiaramente il suo futuro, parlando del servizio militare che ormai è ato, pare cercare risposte per il presente; è proprio quello che vuole Poldo, parlare del presente. “Ho parlato con tuo padre, mi ha detto delle lettere che hai scritto quando eri militare, del tuo desiderio di lavorare la terra, che mi dici in proposito?” Antonio prende fiato poi si confessa: “Sì è vero, ho scritto proprio così, sotto le armi ho vissuto brutti momenti e la nostalgia di casa è stata forte, ma non è per questo che ho scritto quelle cose”. Poldo ascolta con attenzione poi racconta una storia. “Conosci mio suocero vero? Onesto, serio, lavoratore, umile, una bravissima persona; un po’ di tempo fa è andato al mercato portando a vendere un po’ di verdure del suo orto, si è rivolto a un negozio del mercato dicendo Ho un po’ di fagiolini, volete comprare i miei fagiolini?” Mentre racconta Poldo ha un sorriso affettuoso e tenero, si capisce che vuol bene a suo suocero e che ne ha grande stima, ma lo vede come un bambino. “Sai Antonio, non si può campare andando al mercato a vendere un po’ di fagiolini, tuo padre è preoccupato, teme che tu faccia sul serio, il terreno che avete in campagna è aspro ed è poco per poterci vivere coi prodotti che puoi ricavarne.” Antonio è un po’ rattristato, aveva scritto quelle cose nella speranza di essere ato, di ottenere qualche consiglio, qualche dritta, invece pare che tutti siano contro di lui, non ci sta e prova a replicare. “Capisco le tue obiezioni, ma ricordati che tutti noi siamo cresciuti e abbiamo studiato solo grazie al lavoro dei genitori che erano e sono ancora contadini, perché non potrei farlo anch’io?” Ma Poldo lo interrompe di nuovo. “Tu sei giovane, forte e pieno di speranze, ma
i tempi sono cambiati, oggi servono mezzi e organizzazione, altrimenti si rimane schiacciati. È bello che tu voglia lavorare la terra, ma temo che potrai farlo solo come hobby, devi cercare un vero lavoro!” Per un po’ rimangono in silenzio, Antonio ha di che meditare e Poldo tace, accende la radio e via con po’ di musica che entrambi accompagnano canticchiando. Via veloci per grandi città, Roma, Napoli, infine Palermo, gente accogliente e ospitale più di quanto Antonio potesse immaginare; insieme visitano chiese, piazze, monumenti, incontrano persone e per tutti è il vikingo. Lui però non si accontenta, vuole conoscere a fondo la città, una mattina che Poldo ha da fare, domanda: “Vorrei farmi un giro da solo, a so per le vie e le piazze, non mi perderò stai tranquillo!” Poldo accoglie con favore la richiesta: “D’accordo, ci ritroviamo a pranzo, ricordati solo il nome della strada, se ti dovessi perdere ti daranno indicazioni”. Non sa dove poterlo rintracciare, non ha un numero di telefono, è solo, in una città che non conosce e che secondo i luoghi comuni è popolata da mafiosi; Antonio ama quel tipo di solitudine, senza guide, senza qualcuno che ti dice dove andare, e sa anche che in realtà non è solo. È come disarmato in un luogo che potrebbe essere pericoloso, ma avendo maneggiato ogni tipo di arma conosce la diffidenza verso gli uomini armati; chi invece come lui si presenta indifeso troverà sempre accoglienza, ne è convinto e così avviene. Con un buon o si allontana parecchio dalla casa di Poldo, e va verso la periferia quella più povera; i palazzi li vedrà con lui, ora vuole vedere la gente di Palermo quella sconosciuta, da nessuno presentata, per questo più vera. Camminando fra strade ben curate e altre abbandonate al degrado, si ferma a comprare il pane e subito viene riconosciuto, chiaramente non è uno di loro, ma quel suo modo fiducioso di avvicinarsi suscita immediatamente simpatia. Più avanti compra un po’ di carne per il pranzo anche se sa che verrà brontolato, lui è ospite. Anche il macellaio lo accoglie con simpatia, ma alla richiesta di indicazioni per tornare a casa di Poldo non sa rispondere ed è rammaricato, allora esce dalla bottega e invita Antonio a seguirlo; entrando in un’altra bottega il macellaio richiama l’attenzione: “Scusate, questo amico mio che viene dal nord sta eggiando per la città e vorrebbe sapere come ritornare dal parente dove è alloggiato”. Antonio ripete il nome della strada e tutti si prodigano a spiegargli la via più facile. Fra sorrisi e ringraziamenti si salutano come compaesani, era proprio
questo che Antonio cercava; per riflettere e capire meglio quale strada deve intraprendere non gli serviva la poesia del bosco o di una spiaggia, aveva bisogno dell’incontro con la gente. Nel viaggio di ritorno ha gli occhi pieni di meraviglia, ancora altri amici di Poldo, poi mare, boschi, monti e ancora mare, e castelli e regge, infine un’ultima proposta di Poldo, la visita a Montecassino. Antonio ricorda bene quel nome, suo nonno gliene ha parlato spesso, poco prima della grande battaglia ebbe la fortuna di essere trasferito da Cassino a Viterbo e si salvò; perciò accoglie con favore l’idea di visitare la grande abbazia ricostruita dopo la terribile battaglia, e vuole anche affacciarsi al grande cimitero di guerra che ospita caduti di tante nazionalità. Nella notte Poldo lo chiama, è ora di partire, se arriveranno presto a Montecassino potranno fermarsi anche per la S. Messa, Antonio si alza e si rade, ma appena è pronto arriva la sorpresa, Poldo ha guardato male l’orologio, sono solo le cinque ma ormai sono pronti, si parte lo stesso. Prima delle sette sono già a Montecassino e l’abbazia è chiusa, giusto il tempo di lanciare uno sguardo al di là del grande cancello che racchiude migliaia di croci, e subito si riparte. “Non vale la pena di aspettare tanto, arriveremo prima a casa,” così si giustifica Poldo. “Mi spiace, ma è quasi meglio così!” dice Antonio. “Non è il momento di struggersi in ricordi e commemorazioni, meglio pensare all’oggi e ai vivi.” Poldo lo guarda sorridente e silenzioso, pare abbia esaurito gli argomenti, allora Antonio prende il cruciverba e comincia a leggere le definizioni: “Vi si trova il Palazzo dei Normanni,” guarda Poldo e ride.
LVI
Scricciolo
Ormai era un esperto, aveva da poco concluso il servizio militare, aveva sperimentato il peso della responsabilità, provato la vita di gruppo, partecipato a varie esperienze giovanili, si era innamorato varie volte e aveva anche scoperto il valore della rinuncia; perciò i campi-scuola, e l’Alpe, quell’ambiente così magico, non avevano più segreti per lui. Stava affrontando ogni nuova esperienza come un veterano, e come tale, con maggior disinvoltura continuava a cercare l’anima gemella. Aveva smesso di illudersi di incontrare la donna dei suoi sogni, anche perché aveva capito che i suoi erano sogni malandrini; tuttavia confidava che l’amore si sarebbe presentato prima o poi, bussando al suo cuore, magari manifestandosi in un volto inatteso o sbocciando da un’amicizia come era capitato a un suo amico. Con questo spirito di pacata letizia affrontò l’ennesimo campo-scuola, ma questo era misto, ossia: giovani, adulti e anziani tutti insieme. Difficile beccare in mezzo a persone così! pensò, eppure… Fra tutte quelle persone c’erano volti amici, Carlo, Brunella, Giuseppe, Giovanna… e fra tutti quegli amici scorse una ragazza che non conosceva. Un gran sorriso le illuminava il volto, un gran ciuffo di capelli neri e ricci sopra un corpo minuto e magro, tutto pelle e ossa; uno scricciolo, un misto di fragilità e simpatia, una piccola donna che gli ispirava tenerezza. In tutte le ragazze apprezzava soprattutto le curve, e in quel fragile uccellino non ce n’era ombra, stranamente però ne rimase attratto. Niente palpitazioni né tremori, come invece era sempre accaduto riscontrando un forte interesse, ma non dette troppa importanza alla cosa, ormai sono cresciuto! So come contenermi pensò e così iniziò a corteggiarla, con garbo, sicuro del fatto suo. Con un fare distaccato e vagabondo, non perdeva occasione per incrociarla, seguirla, trattenersi con lei. Lei con altrettanto disinteresse stava al gioco, mostrando il suo bel sorriso in un portamento disinvolto.
Era una specie di strategia di caccia, dove il predatore cerca di mascherare la sua pericolosità e il suo interesse, mentre la preda da par suo mostra tranquillità e sicurezza, senza però mai perdere d’occhio le mosse del predatore. Non era la prima volta che lui prendeva parte a quel gioco eccitante, ma prima d’ora, le prede lo avevano sempre considerato come un cucciolo; di leone, di lupo, di aquila, ma pur sempre un cucciolo. Così a condurre il gioco erano sempre state loro, quelle deboli e facili prede, comunque sempre più forti di lui. Questa volta però era lui a condurre la danza, a imporre la sua legge, a fare paura o almeno così credeva lui. Con noncuranza si avvicinò più volte a lei sfoggiando un sorriso rassicurante, mostrò interesse verso le cose che faceva e che diceva, cercando di scoprire tutto ciò che amava, non tanto per trovare in lei punti deboli, ma più che altro per individuare punti d’incontro, interessi comuni, insomma tutto ciò che potesse servire a starle vicino. Era sempre stato un po’ ardito nel proporsi, malgrado le sue maniere da imbranato che lo facevano sprofondare spesso nella vergogna. Forse proprio per questo non aveva mai riscosso molta attenzione da parte delle ragazze, così il timore di essere scavalcato da un altro era sempre presente in lui. In quell’incontro, però, pareva funzionare tutto a meraviglia, così, una parola tira l’altra, l’ultima sera si ritrovarono seduti sul muretto, da soli a rimirar le stelle; a lui parve tutto molto romantico e lasciandosi trasportare finì per dichiararsi. Sul momento gli parve un po’ strano essersi sbilanciato fino a quel punto, infatti non sentiva un gran palpitare in mezzo al petto, ma pensò che fosse giusto così, infatti era ancora un po’ sbattuto dall’esperienza del servizio militare e dall’abbandono di ogni velleità verso colei che gli aveva fatto perdere il sonno. Adocchiava tutte le ragazze, ma non saltava da una all’altra tanto facilmente, per contro, sapendo di stare all’inizio di una nuova fase della sua vita, credette che un nuovo innamoramento potesse cominciare anche senza una vera cotta. Lei, con docile abbandono, si lasciò cullare dalle sue parole mostrando di gradire quell’approccio delicato, così, mentre i grilli si esibivano nel loro concerto notturno, lui ricamò frasi di rito frammiste a pensieri filosofici e valutazioni cosmiche; insomma discorsi senza senso e un po’ ridicoli. Aveva imparato che alle ragazze questo piaceva, forse le faceva sentire importanti, o forse gradivano avere ai loro piedi dei ragazzi pieni di smancerie, comunque con lei stava funzionando, infatti rideva divertita. A quel punto lui si dichiarò apertamente e lei, con un po’ di sorpresa e con dolce pazienza, cominciò a smontare quelle affermazioni. “Sei sicuro di quello che dici? Non ti starai sbagliando? Magari io ti piaccio, e questo mi fa molto piacere,” proseguì sorridendo, “ma a me non pare che tu sia
veramente innamorato.” Lui rimase colpito da quella reazione, poteva aspettarsi di non essere ricambiato o di non suscitare alcun interesse, ma essere contestato no, non gli andava giù, perciò, con rinnovata dolcezza insistette: “Ma sì, son davvero innamorato!” Quest’ultima affermazione e il tono soprattutto, lo fecero dubitare di se stesso e dei propri sentimenti. In un attimo, si immerse nel buio e nel silenzio della notte e cercò di mettere ordine nel suo cuore. Ma quel luogo aveva fama di riscaldare i cuori e anche quella volta non si smentì; solo davanti a lei, gli occhi negli occhi, le braccia intorno al suo esile corpo, e quel sorriso smisurato che splendeva nel buio; grande scompiglio nel suo cuore, e non riuscì ad aggiungere altro. Dopo alcuni attimi di silenzio lei lo incalzò: “Allora? Sei proprio sicuro?” Lui sorrise di nuovo e tentennando rispose con sincerità: “Non lo so, ma vorrei scoprirlo! Che ne dici se ci frequentassimo per un po’? Ti andrebbe di uscire con me? Di essere per un po’ la mia ragazza? Poi vediamo…” “Sì mi va!” rispose lei con ferma dolcezza. Lui spalancò il sorriso, era davvero felice; il suo cuore non batteva all’impazzata e forse non era davvero innamorato, ma per la prima volta una ragazza che a lui piaceva accettava di uscire con lui, di provare ad andare oltre l’amicizia. L’indomani, tornando a casa ripensò a lungo a quei momenti e promise a se stesso che avrebbe fatto sul serio; avrebbe cercato di fare chiarezza nel proprio cuore, tentando di conquistarla e di lasciarsi conquistare. Mai, assolutamente mai, avrebbe approfittato di lei, né mai l’avrebbe ferita. Uscirono insieme alcune volte nel breve spazio di poche settimane e tanto bastò perché lui apparisse cambiato; se ne accorse anche suo padre che un giorno gli chiese esplicitamente se avesse trovato una ragazzina, lui sorridendo rispose di sì dandogli soddisfazione, ma già sapeva che quella storia sarebbe finita di lì a poco. Proprio quello stesso giorno i due si chiarirono e lui accettò la realtà: lei gli piaceva molto e si era affezionato, ma non era innamorato. Non mancarono le occasioni per vedersi ancora, e con grande piacere scoprì che la loro amicizia era rimasta intatta. ò poco tempo e conobbe altre ragazze, una di queste lo prese di mira e a sorpresa, un giorno gli chiese un aggio per tornare a casa; lui capì immediatamente che quella richiesta non veniva dalla sola necessità, ma si
trattava di un invito e si trovò in difficoltà. Aveva già promesso un aggio allo scricciolo, che peraltro abitava lungo lo stesso tragitto, ma accampando una scusa, quella moretta lasciò intendere chiaramente che preferiva la sola compagnia di lui. Con sorpresa di Antonio, fu proprio lo scricciolo a toglierlo dalla difficoltà dicendo: “Stai tranquillo, trovo un altro aggio, vai pure! Accompagna lei, altrimenti arriva tardi! Ciao”. Così dicendo, lo guardò negli occhi un’ultima volta come a dirgli addio, e in un ultimo afflato gli sussurrò: “Buona fortuna!” Spalancò il suo sorriso e scomparve. Non c’era tempo per la nostalgia, lo scricciolo si era fatta da parte, iniziava una nuova storia, e questa sarebbe stata più seria e decisamente più lunga, perché il cuore questa volta batteva forte.
LVII
Le note di Ivano
L’arrivo di Antonio in vetreria, aveva portato una ventata d’aria nuova e un po’ di allegria; motivo di sollievo per gli operai che attendevano un aiuto e per i titolari che avevano acquistato un ragazzo volenteroso. Era ancora acerbo nello svolgimento dei vari lavori, e non solo per mancanza di esperienza, ma probabilmente anche a causa del tipo di materiale da trattare; il vetro infatti richiedeva delicatezza per sé e per l’operatore e lui non sempre riusciva dosare la sua forza. Era coccolato da tutti e tutti si prodigavano per insegnargli qualcosa, anche i titolari Ivano e Vito se lo contendevano quasi gelosamente come figlioccio. Cosciente dei suoi limiti e del o di cui godeva, Antonio sbrigava i compiti che gli venivano affidati applicandosi con particolare attenzione, e trattandosi per lo più di esperienze inedite, faceva tutto con una tale ione che pareva divertirsi. Ricordando il canto dei contadini curvi, provò a imitarli e scoprì che funzionava; cantare lo rilassava e gli facilitava la concentrazione, così il lavoro fluiva quasi senza pesare. Non era solo a cantare, anche gli altri canticchiavano lavorando, Ivano in particolare che amava molto la musica, soprattutto quella melodica degli anni ’40 e ’50, cantando con insistenza, aveva senza dubbio influenzato anche i figli. In realtà il suo cantare era frammentario e spesso non ricordava bene le parole, allora le sostituiva con aggi di coro muto per niente sgradevole; altre volte invece ripeteva lo stesso frammento con insistenza, risultando un po’ noioso. Antonio invece, pur avendo predilezione per gli autori di quegli anni, amava ogni genere di canzone, e ava con facilità da un autore all’altro seguendo
l’ispirazione. Dando sfoggio al suo repertorio, sollecitò colleghi e capi a presentargli richieste di canzoni, e poiché lui accontentava tutti, ben presto fu soprannominato il più gettonato della vetreria. Se fosse stato solo lui a cantare, Antonio si sarebbe sentito in imbarazzo; ma vedere Ivano sorridente che snocciolava le sue melodie, inframezzando con tanti uhm, uhm, uhm, uhm, uhm, e i figli che rispondevano da par loro, lo rese così sciolto da liberare completamente le sue corde vocali. Insomma tutti cantavano, talvolta perfino sovrapponendosi gli uni agli altri, fino a creare un clima surreale; proprio il contrario di quanto di brutto accadeva nel Paese. Quando il clima cambiò a causa delle divergenze fra i due soci, Antonio ne fu rammaricato. Cercò di rafforzare l’intesa con Ivano e tutta la sua famiglia, ma quando arrivò la cartolina rosa si licenziò. Tornando dal servizio militare non trovò subito un altro impiego, ma dalla vetreria lo cercarono ancora; i tempi erano cambiati e il lavoro anche, tuttavia era cambiato anche lui, era più maturo e lo sapevano anche loro; alla sua riassunzione Ivano fu di nuovo contento e ricominciò col suo solito canticchiare. Per un po’ le cose funzionarono bene, poi preso dalle responsabilità e dal calo di lavoro Ivano si rabbuiò, era meno allegro e cantava sempre più raramente. Anche Antonio aveva smesso quasi del tutto di cantare e di fare il juke-box; infatti ritrovandosi a lavorare da solo, davanti a una grande macchina molatrice che produceva un chiasso infernale, a mala pena udiva la propria voce. Fu caricato di maggiore responsabilità e questo non gli dispiaceva, ma si trovò a svolgere un lavoro sempre più solitario, scoprendosi perfino a parlare con la macchina. Col tempo si sentì sempre più schiacciato dentro quella grande famiglia, così, pur essendosi conservata fra loro reciproca stima, Antonio se ne andò di nuovo; questa volta per sempre e senza rimpianti, ma portò sempre con sé il ricordo di quella allegra combriccola, allietata dal suo canto e dalle note di Ivano.
LVIII
La Chitarra
Da sempre la musica faceva parte di lui e nessuno spazio della sua vita era mai stato privo di suoni, ritmi e silenzi. Lo scorrere del suo tempo, minuto per minuto, era sempre stato scandito da note musicali; il canto o il fischio di uomini e donne, i versi degli animali, i rumori degli attrezzi, il crepitar del fuoco o il rombo del tuono… fino al suono sublime dell’organo a canne della chiesa e alla profondità squillante delle grandi campane di bronzo, tutto ai suoi timpani era melodia. Immerso in quel miscuglio di piacevoli armonie, fin da piccolo aveva messo alla prova le sue corde vocali; non aveva una bellissima voce come quella di suo padre, ma si sforzava di darle risalto, di riempirla di gioia, perché il canto per lui era questo, gioia, profonda gioia; come quella che aveva conosciuto nei campi, nel canto che usciva dalla bocca dei contadini, piegati dal duro lavoro. In vetreria era lui stesso a riempire le proprie ore di lavoro, esprimendosi come un juke-box, “Antonio, il più gettonato della vetreria!”, così scherzava Alfredo dopo aver chiesto e ottenuto da lui una canzone ad alta voce. Partecipando a quei campi-scuola estivi lassù in montagna, aveva gioito ancor di più nel gustare il canto unanime di tanti giovani e a questo si era aggiunta la scoperta della chitarra. Lo zio Tonino, da tanti anni dedito allo studio della musica, cercava di insegnargli a suonare il pianoforte, sperando di lasciargli in eredità la tastiera dell’organo, e di sentirlo riempire di armonia la volta della chiesa come faceva lui. Era una cosa che desiderava anche Antonio, ma lo studio musicale, il solfeggio, l’applicazione continua, in quel momento non facevano per lui e faticava molto. La scoperta della chitarra lo distrasse definitivamente e in breve abbandonò lo studio del pentagramma. Quello strumento fu capace di sedurlo, aveva un suono dolce e profondo capace di arrivare al cuore, un’apparente semplicità di utilizzo che pareva alla sua portata, ma forse più di tutto si innamorò del modo di suonarla; avvinta in un abbraccio delicato, concedeva la sua voce suadente con le sole carezze delle dita, come un’amante. Udirla vibrare
fra le braccia di una ragazza, che quasi scompariva dietro di lei, lo fece infine decidere, avrebbe imparato a suonarla. Domandò più volte agli amici un aiuto per imparare, ma nessuno glielo dette; acquistò subito la chitarra come gli era stato suggerito, ma ancora non trovò attenzione, perciò decise che avrebbe fatto da solo. Provò e riprovò, e malgrado i risultati scadenti provò ancora, finalmente riuscì a riprodurre qualche piccolo brano ma niente di più; ascoltando le canzoni preferite continuò a giocare con la tastiera, a costruire accordi, ad accarezzare quelle corde per ottenere quelle melodie. La chitarra che aveva acquistato era un modello economico, da battaglia, lui non aspirava a fare concerti, ma voleva portarla con sé ovunque senza l’ossessione di graffiarla. Non si accontentava più di udire la propria voce, né di riprodurre poche note sulla tastiera. Voleva cantare per lei e udire la voce delle sue corde, voleva essere tutt’uno con la sua chitarra; era complicato ma lui cercava in lei complicità, lo voleva per sé e per gli amici che aveva accanto. Molti brani provocavano in lui forti emozioni risuonando continuamente nella sua testa; non sempre erano brani orecchiabili e facilmente riproducibili, ma con il capo chino su di lei, un giorno dopo l’altro e un brano dopo l’altro imparò a suonarla o meglio a strimpellarla, come usava dire. Più lei faceva la difficile, più lui cercava di capirla, più lei si negava, più lui l’accarezzava con dolcezza. La portò alle gite, sulla spiaggia, nei prati, perfino in cima alla Pania, ovunque vi fosse bisogno di gioia, ovunque vi fossero amici. Quando fu chiaro che un po’ se la cavava, cominciarono a chiedergli di accompagnare i canti durante la Messa e lui ne fu felice, era l’occasione per ripagare la rinuncia all’organo; la voce della sua chitarra era assai più delicata delle canne dell’organo, ma riempiva ugualmente le volte accrescendo la gioia. Ben presto però si rese conto, che suonare per gli altri non era poi così semplice come si aspettava; con la sua estensione vocale poteva cantare in tutte le tonalità, ma con gli altri occorreva cercare il tono giusto, quindi bisognava imparare anche gli accordi più difficili, inoltre occorreva imporre un ritmo perché nessuno andasse fuori tempo. Non sempre vi riuscì, anzi alcune volte fu un vero disastro, ora faceva coppia con la sua chitarra e armonizzarsi in due con la comunità era più difficile, ma come al solito non si dette per vinto, si lasciò alle spalle le brutte figure e si rimise sotto a provare e a studiare. Finalmente arrivò una grande occasione, la gita a Torino a visitare la Sindone. L’interesse di molti pareva rivolto solo a quel sudario misterioso, ma il suo fu rivolto soprattutto al viaggio; Antonio amava molto restare a lungo fianco a fianco, in compagnia di vecchi amici e nuove conoscenze, e ora poteva rallegrarli. Sul pullman l’atmosfera fu ben presto festosa e più giovani si
radunarono in fondo; Antonio stava seduto a terra sul bordo degli scalini con la chitarra tra le mani e gli altri tutti intorno. Iniziarono a cantare le canzoni conosciute da tutti, poi allargarono il repertorio, e infine risalirono a ritroso nel tempo, cimentandosi con quelle vecchie più famose. Fu un crescendo di emozioni, una vera delizia per le orecchie e per i cuori e Antonio se la cavò da mattatore; arrivarono a Torino prima di pranzo e celebrarono la S. Messa, la voce della sua chitarra riempì le volte di quella piccola chiesa e la gioia di tutti fu piena. Nel pomeriggio visitarono la sacra Sindone, e ripensando alle vicende di quei mesi, Antonio si interrogò a lungo sui misteri del dolore, del male e della morte; era ancora vivo il ricordo dei due papi, Montini e Luciani, e bruciava ancora il ricordo dell’uccisione di Moro e della sua scorta. Osservò con grande trasporto quel telo così misterioso e come altri ne rimase affascinato, sapeva che alcuni gli davano enorme importanza e che altri invece lo consideravano un falso, ma a lui le tesi non interessavano; non aveva bisogno di credere che lì era stato avvolto il Figlio di Dio, poteva essere anche un qualunque telo funebre, perché comunque lui di quel Figlio aveva fatto esperienza. Era grazie a Lui che aveva tanti amici intorno, era grazie a Lui che cantava e suonava con gioia, era grazie a Lui se era così tanto innamorato della vita. Nel viaggio di ritorno, in mezzo alle riflessioni su ciò che avevano visto e provato, si ripeté in fondo al pullman quell’atmosfera festosa e per Antonio questa volta fu galeotta; fra le note, i sorrisi e le emozioni struggenti, stava iniziando per lui una storia importante, che però stranamente, lo avrebbe separato dalla chitarra. Al tempo opportuno si accostò di nuovo a lei, ritornò su quelle corde e ne trasse nuove emozioni sfiorandola con le dita; sulle note di una vecchia canzone si legò a lei e questa volta fu per sempre.
L'Autore
Antonio Bini è nato il 25 maggio 1957 in provincia di Lucca, terzo di cinque fratelli. Dopo aver conseguito la Licenza Media, ha scelto di andare a lavorare per sostenere l’economia familiare, entrando così precocemente e definitivamente nella vita adulta. Per il piacere dello studio non ha mai abbandonato libri e quaderni, mantenendo da autodidatta il gusto per la ricerca e l’approfondimento. È sposato, ha due figli, e varie esperienze educative, soprattutto in campo ecclesiale. Nel 2012 ha pubblicato il romanzo Acquacheta, Giovane Holden Edizioni; nel 2014 la silloge Il torrente della vita, s.e.