Cane In Libera Uscita Notturna 411g

Cesare Elia Paralevio

Cane in libera uscita notturna

Cane in libera uscita notturna

Cesare Elia

Edizione digitale: giugno 2013

ISBN: 9788868550257

Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl

Indice

Atto Zero (La nascita)

Atto Primo (Il basilico)

Atto Secondo (La vita)

Atto Terzo (Le vie)

Atto Quarto (Il lavoro)

Atto Quinto (L’enfant perdu)

Atto Sesto (Feuilles d’automne)

Atto Settimo (Consumérisme)

Atto Ottavo (Doppio Pasto)

Atto Nono (Croyance)

Atto Decimo (Démission)

Atto Undicesimo (L’amour et à la maison)

Atto Dodicesimo (Père pardonne-moi car j’ai péché)

Atto Tredicesimo (Le Comportement Des Animaux)

Ultimo Atto (La vie)

Io sono venuto come un maestro severo, A cantare e celebrare i topi.

Sergej Aleksandrovič Esenin

Mi Piace Tutto Ciò Che Provoca Il Riso. Mi Piace Affrontare, Volontariamente, la mia sofferenza Con L’obiettivo Di Espandere La Mia Coscienza.

Tratto da: “Por Osmar” di Alejandro Jodorowsky

Personaggi

Cane

Marcus

Moglie

Ragazza

ATTO ZERO

(La nascita)

(Sul palco c’è un albero soltanto. Marcus, seduto per terra, con la testa reclinata, gli occhi chiusi, sta pensando. Il Cane, fuori scena, comincia a parlare).

IL CANE: Un cane muore quando scopre il volo, impara e tenta l’opera. Un uomo muore quando scopre ed impara ad amare e, sia che tenti l’opera, sia che non lo faccia, muore ugualmente.

Un cane muore quando è giunto alla fine del suo tempo. Un uomo muore quando nasce, all’inizio del suo tempo. Marcus morì quando imparò a comprendere. Quando iniziò ad amare.

Cominciò a capire il significato della vita e iniziò a soffrire, ma in ogni momento di sofferenza trovò sempre qualcosa di singolare e, a suo modo, di appagante.

Quando imparò a trovare felicità nei momenti tristi non ne poté più fare a meno.

Fu così che, restando fermo all’ombra di una pianta, con me soltanto ed i suoi pensieri, scandendo i secondi del tempo che gli piovevano addosso, che fanno dell’organismo qualcosa di sempre meno utilizzabile, comprese il vero significato della vita.

(Marcus si alza lentamente, e comincia a camminare lungo il perimetro del palco, annusando l’aria, con aria serena. L’albero esce di scena.).

Quando tornò in piedi, e, camminando lentamente, si avviò verso casa, scoprì che è sempre il vento a far volare le foglie, e che per quanto potesse osservarlo non sarebbe mai riuscito a trovare il suo colore. Si rese conto che è sempre il sole a scaldare la sua pelle, che negli occhi di chi lo amava e nell’odore di una pelle familiare avrebbe trovato casa. E che una volta tornato lì, avrebbe sentito un sapore dell’infanzia, ed un tocco gli avrebbe ricordato che era adulto ormai, e che davanti a se aveva un futuro senza sostegno.

Quando quel futuro, che odora di morte, sfiorò la sua mente, tornò alla staticità, come se non si fosse mai alzato da quella fronda. (Marcus si ferma d’improvviso, dando le spalle al pubblico.). Solo allora si rese conto di cosa è la vita: lo spazio che c’è tra un ricordo ed una speranza. Tra quello che sperava di diventare, quello che era diventato, e quello che già immaginava fosse il suo aspetto futuro.

(Sullo sfondo del palco appare un edificio).

Io lo guardavo ed intanto pensavo che tutto dipendesse dalla coscienza del tempo che scorre veloce; se lo vuoi puoi gustarti ogni attimo, ogni ombra, ogni primavera, ogni fiore, ogni sguardo, ogni mattina di sole, ogni odore, sapore, colore, ogni ricordo, ogni secondo di vento sul viso. Pensavo che puoi vivere finché avrai tempo per farlo, che il futuro non è come il ato, ed imprevedibile ti accoglie. Tra una coscienza in più ed una frustrazione in meno, carico di ricordi camminerai per la tua via, finché ci sarà ancora nel tuo futuro ogni attimo della tua vita, e qualcosa di bello da ricordare (Marcus si volta verso il pubblico e sorride, poi riprende a camminare ed entra in casa).

(Si chiude il sipario)

ATTO PRIMO

(Il basilico)

VOCE FUORI SCENA (IL CANE):Quanto è importante sapere chi esprime l’opinione? Direte..tanto.

Eppure a volte anche il più umile dei cani randagi cittadini sa dire il vero, ancor meglio dei mezzi lupi di razza, di matrice autarchica americana da milioni di dollari al pelo.

Forse però un cane impiegherebbe troppo a scrivere un libro, per vari motivi, banali o meno.

E che ne può sapere un cane degli uomini? Forse quanto ne sanno gli uomini stessi, e anche più.

(Si apre il sipario. E’ notte. Marcus è seduto in un angolo sul suo gabinetto chiuso, con lo sguardo immerso nel vuoto. Si capisce che è un bagno. Indossa un pigiama. Il Cane entra in scena dall’angolo opposto e si ferma davanti ad una ringhiera. Si trova su un balcone. Osserva Marcus dall’esterno).

IL CANE: Ebbene sì, ci sta pensando di nuovo. Ai momenti ati, e a quelli che verranno.

Pensa a questa catapecchia di casa dove abita ora, al quarto piano di una palazzina che sembra bombardata in centro città, e a quella dove invece abitava da ragazzo. Pensa a sua figlia e a quando era lui il bambino. Pensa alla moglie di suo padre, sua madre, e a quanta differenza ci sia con la donna che ora sta dando un educazione a sua figlia.

MARCUS (scrollandosi le spalle e sbuffando): Beh, se io sono venuto così bene con una madre del genere, di certo mia figlia sarà un genio! (Appoggia la testa sulle mani, e i gomiti sulle ginocchia, tornando a fissare il vuoto)

Silenzio.

IL CANE: Ci sono momenti in cui si sorride pur sapendo che c’è poco e niente di allegro di cui ridere; lui lo sa (indica Marcus con un cenno del capo) ed infatti non sorride. Ma, ugualmente, uno strano ghigno gli si forma sulla faccia contrita, un sorriso rimasto appeso, mentre cerca di non pensare a quella famiglia che così male, eppure così bene, lo ha formato, e di pensare che c’è sempre qualcosa di bene in un mare di male.

Riflette sulla famiglia che aveva lui all’età di sua figlia. Quanta differenza ci sia tra la famiglia creata dai suoi genitori e quella che ora lui stesso sta rappresentando.

(Marcus ha un sussulto, un tremito, che dura pochi secondi, per poi tornare con lo sguardo fisso davanti a sé, sempre seduto sulla tazza chiusa)

Odia dover pensare alle cose che gli erano care, per paura che la sua mente possa andare dove ancora c’è sofferenza, dove ancora ci sono i ricordi. Quegli stessi ricordi che ogni notte lo fanno rigirare fra le coperte sudate, estate e inverno, e che lo fanno stare male come fosse un reduce della guerra del Vietnam. Lui (indicando Marcus e ammiccando verso il pubblico) che ha sempre odiato la guerra e che l’unico muso giallo che ha visto in casa sua è stata la scamorza nel piatto con un sorriso formato da uno spicchio di pomodoro.

Squallido pensare a mente lucida e calma alle priorità della vita.

Ciò che colpisce me può non colpire te, e ciò che ti fa tanto soffrire stasera, forse domani mattina..ti farà ridere. (Alza le spalle con aria interrogativa).

Intanto Marcus non fa che pensare, pensare, pensare…

Probabilmente sta pensando a quell’abitazione che sapeva di casa, sapeva d’ infanzia, come dice sempre lui stesso. Dove la mattina presto, d’estate, la luce filtrava forte dalle finestre della sua camera da letto. (Facendo l’imitazione di Marcus) “Una luce divina perché tra lo spazio della finestra attraverso la quale ava, e la parete sulla quale si fermava, in quello spazio, si poteva vedere il raggio di luce, e tentare di afferrarlo (fa il gesto di afferrare con la mano) senza mai riuscirci, spezzandolo con le mani.

(Anche Marcus cerca di afferrare nell’aria qualcosa che non c’è, come un raggio di luce)

Quando si svegliava c’erano sempre gli stessi suoni e odori ad accoglierlo: pentole che sbattevano in cucina, un telegiornale alla televisione che parlava da

solo nel salotto vuoto, un profumo di acqua sulla terra bagnata nei vasi che penetrava dal terrazzo, dove la notte prima la madre aveva annaffiato le piante. Annaffiava sempre in quel momento in cui tutti dormono e non serve la luce della lampadina, perché c’è la luna ed è forte ogni sera.

Marcus su quel terrazzo avrebbe poi ato le seguenti ore della mattina, cercando di prendere il sole, sdraiato sulle mattonelle roventi, sentendo il calore sulla pancia, e sulla schiena, in compagnia del poco vento e delle lucertole che uscivano dai buchi sui muri per mettersi al sole. Proprio come lui.

Oppure a turbarlo a volte è il ricordo di una classica cena, sempre su quel terrazzo, prima che la madre desse l’acqua a quelle stesse piante che la sera, invece, emanavano un’aura fresca, ed il cui colore dei fiori rallegrava il grigio dei muri, ed il tono morto dei vasi.

MARCUS(con aria assorta, ricordando): Lì, in mezzo allo spazio vuoto, si apriva il tavolo bianco per fare posto a tutti. Lo si poteva pulire con la vecchia pompa di plastica e vecchi stracci, ed era strano sentire come da un tubo caldo ed indurito dal sole e dal tempo potesse uscire un forte getto d’acqua fredda. Quell’acqua, madre di tanti scherzi, e di tanti raffreddori. La usavamo per lavare le sedie, chiare anch’esse come il tavolo, che nelle ore più calde, quando il sole era più forte, poco prima dell’ora di pranzo, rifrangevano la luce in un bianco accecante.

Quando poi si rientrava in casa, dopo aver visto una luce così forte, e ci si dirigeva in cucina, nello sguardo rimaneva la figura abbagliante delle sedie e del tavolo (mette una mano davanti agli occhi, come a coprirsi da qualcosa). Ci si poteva divertire a sbattere velocemente gli occhi nell’ombra della stanza e vedere tante macchie di luce, che rimanevano solo pochi istanti e poi sparivano.

Silenzio.

IL CANE (spingendosi al limite del palco): Uno dei posti più cari era però la cucina, dove la madre tagliava tutti gli ingredienti per la pasta fredda. Tipica di quella temperatura così calda e così arida da toglierti la voglia di mangiare qualsiasi cosa, non fosse proprio per quella pasta appena uscita dal frigo. Marcus si apprestava ad osservare con quanta cura tagliasse la mozzarella con minuziosa scrupolosità, a dadini piccoli e soffici, mettendosi in ginocchio seduta sulla sedia, con i gomiti appoggiati al tavolo. Riusciva a tagliare allo stesso modo anche il pomodoro.

MARCUS (ridendo tra se e se): Io non avevo voglia di mangiare le verdure quando ero piccolo, e così mia madre le tagliava in modo tale che non potessi rifiutarmi di mangiarle. Il pomodoro nella pasta era tagliato così piccolo che scansare tutti i pezzettini sarebbe stato impossibile, e la maggior parte ero costretto a mangiarli.

IL CANE (indicando Marcus con un cenno della testa e ammiccando al pubblico): Ride al pensiero di quanto fosse stato divertente da bambini salire sulle sedie, ed in piedi guardare quel lavoro su quel tavolo. Tanti colori di tanti ingredienti, tutti vivi e accesi, in silenzio, perché lì non c’era un televisore a parlare, ma solo l’acqua che bolliva, il coltello che viaggiava sul tagliere simile alla vela di una barca sul mare, il fruscio di un vestito estivo. Come dice sempre lui.

MARCUS: Io ero troppo piccolo per aiutare a cucinare e maneggiare un coltello, così mi apprestavo a girovagare per la cucina e salire sempre su quella stessa sedia, dove osservavo i fratelli che aiutavano mia madre con il cibo.

(Ride sospirando) Il cibo, che ione!

Silenzio.

IL CANE: Ora lo stomaco di Marcus, seduto su quel gabinetto, brontola dalla fame, ed egli si dispiace per il fatto che nella sua mente i volti dei suoi fratelli non siano così nitidi quanto i ricordi degli alimenti. Come quello del.. basilico (evidenziando la parola con il tono della voce).

(Il Cane infila una mano in tasca e ne tira fuori una foglia di basilico, mostrandola al pubblico).

Il basilico. Puramente fresco e (lo spezza con le mani) spezzato con le mani.

MARCUS: Era così profumato che per tutta la serata le mani avrebbero avuto il suo odore. (Il Cane intanto si odora le mani). Riusciva a dare alla pasta quella sensazione che sembrava fosse puramente di fresco.

IL CANE: Può apparire come una contraddizione, ma era così buono che Marcus evitava di mangiarlo,e lo usava solo come profumo nel suo piatto.

MARCUS: Lo masticai fresco solo una volta in vita mia, e decisi che non lo avrei fatto ancora. Ero abituato a dare ad ogni cosa un talento, e lo sfruttavo solo per quello.

IL CANE: (Imitando Marcus) “Tutto ha un talento”, diceva, ed il talento del basilico era il suo immenso profumo.

(Si siede sul bordo del palco).

Lui era convinto, e lo diceva sempre, che se una cosa è così buona all’olfatto, non può essere altrettanto buona anche al gusto. Ed allora perché usarlo anche per quello? Si forza la sua volontà, la sua indole, la sua natura.

Infatti Marcus osservava come la maggior parte delle persone fosse come il basilico: riescono a fare benissimo una cosa, ed è impossibile che riescano a fare tutto e bene. Diceva sempre anche che suo fratello era un ragazzo strano, che si sforzava di fare tutto e non riusciva mai a fare niente! Così intento ad apparire, da non preoccuparsi di cosa davvero fosse portato a fare.

(Si mette a braccia conserte, con aria meditativa) D’altronde.. è così complicato riuscire a farlo da soli. Darsi una strada, autoindirizzarsi, che la maggior parte delle persone con un vero talento si perde in un nulla, arrivando a fare tutto ma male.

MARCUS: “Tutto e niente”, come diceva mia nonna.

IL CANE: (Imitando Marcus)”Come le persone che usano il basilico cotto”, ripeteva sempre Marcus. “E’ così buono da fresco e crudo che lo usano cotto credendo che sia altrettanto gradevole, temperato e fresco anche così, uccidendo il suo sapore e facendo diventare il talento del basilico vano”. Cotto non ha più un sapore, e figuriamoci un odore.

Il basilico ha un solo compito o meglio un solo talento, e lui solo quello gli

faceva assolvere.

MARCUS (sempre con lo sguardo fisso): Il basilico: un grande maestro di vita. Così era anche mia madre:una donna che si era adoperata per fare tutto nella sua vita, “per i figli” (sottolinea con un tono sprezzante della voce), diceva lei.

IL CANE: Ma l’aveva sempre incolpata -nella sua mente, è chiaro- di dire il falso.

In verità le persone non fanno mai le cose totalmente per gli altri, tutti hanno sempre almeno un tornaconto. C’è chi lo fa per sentirsi soddisfatto. Soddisfatto e con la coscienza apposto, affinchè poi la gente possa dire di loro che hanno fatto abbastanza. Ma tutti sanno che non è mai abbastanza.

C’è chi lo fa per paura. Per paura di essere giudicato dalle altre persone, o da Dio (si fa il segno della croce). E c’è chi lo fa perché, al contrario di altre persone, non ha talento, ed allora deve fare per forza tutto quello che può, per paura di rendersi conto, focalizzando il proprio sforzo in una sola cosa, che non riuscirebbe a farla al meglio, perché, appunto, senza particolari predisposizioni.

Ma non tutti gli uomini sono come il basilico. Le persone che hanno solo un talento devono sforzarsi di migliorarlo per migliorare la propria condizione e se stessi.

Se una persona focalizza la propria attenzione su di un talento, diverrà fiera di sè, soddisfatta, così da poter fare del bene, utilizzando come meglio crede il suo talento e facendone godere gli altri.

Altrimenti farebbe la fine della panna.

Marcus da piccolo accusava la panna di essere senza talento, come un alterego del basilico. Amalgamava ogni tipo di sapore, senza averne uno proprio, mettendo insieme le opinioni di tutti, senza averne una propria.

Lui diceva sempre che le persone con il talento, come il basilico insomma, devono essere spinte solo nella direzione del loro talento, poiché, riuscendo bene in tutto quello che fa, l’uomo con il talento si stanca presto, e cambia la sua occupazione lasciando tutto a metà, in cerca di quell’unica sensazione che lo appaga veramente. Non facendo niente, e facendo tutto. Diventando migliore della panna, ma senza essere specifico come il basilico.

Perché l’uomo talentuoso è capace, è cosciente di saper fare, di avere un’opinione, e va con l’istinto a tentare ogni via per trovare il proprio io, il proprio talento.

Marcus, da ragazzo, diceva che quando il talento non trova la sua via “è colpa dei genitori”.

Quei genitori che spesso non trovando un talento in loro stessi e nella loro vita oramai confusa e persa, fanno tutto e niente, per loro e per i figli; e quando un figlio cresce con dei genitori così, anche lui fa tutto e niente per se stesso.

Si, perché tutti sanno essere genitori, ma pochi sanno fare i buoni genitori.

Marcus aveva avuto un solo genitore. E non portava il suo sangue nelle vene. Avrebbe voluto, ed aveva sempre sognato, che il suo genitore perfetto, il suo eroe, fosse suo padre.

MARCUS (tirando su la testa ed il busto,con aria risentita, rispondendo ad un pensiero interiore): Beh, tutti i bambini vogliono che il loro eroe sia il proprio padre!E quasi mai è così. (Torna a fissare il vuoto)

IL CANE: Per lui però la cosa non era un’idea scontata e da scartare a priori, difatti il padre era un uomo sempre in viaggio, sempre virile, sempre curato, volgare quando si può e molto severo quando si deve.

Uno di quei padri che ti prende a schiaffi quasi mai, ma quella volta che lo fa la lezione la impari subito. E quella cosa è certa che non la rifarai.

L’autorità imperialista zarista, autoritaria, autocratica del padre era totale. L’abnegazione sua e dei suoi fratelli verso il loro padre era totale. Lui decideva e lui faceva. Il mondo girava da sé, ma lui stesso credeva che fosse suo padre a farlo girare…fino ad un certo punto.

La prima parte della vita di un giovane uomo è composta dalla volontà di diventare come l’uomo a lui più vicino e più simile. In questo caso per Marcus diventare come suo padre sarebbe stato molto difficile: le divergenze caratteriali erano fin troppo ben delineate e l’attitudine alla vita era completamente diversa.

A questo punto si può perfino pensare che nella vita di un uomo il fattore

caratteriale (in questo caso ben delineato fin dalla nascita) non possa essere intaccato da fattori esterni. D’altronde l’indole si definisce da sè.

Marcus da bambino aveva tentato spesso di andare contro la propria indole, tentando di emulare quel padre che si dimostrava sempre così fiero ed aitante. Infatti andava ad alzare le gonne delle bambine in estate quando non era nei soliti collegi e, quando invece c’era dentro, intraprendeva un periodo scolastico in cui era sempre il primo ad attaccar briga per qualsiasi cosa, pur di marcare il territorio e dimostrarsi un duro.

Beh, inutile dire che quel periodo finì e sia le bambine che i bambini si vendicarono.

(Marcus sospira con aria malinconica. Il Cane si alza in piedi)

Le bambine cominciarono ad evitarlo marchiandolo come davvero poco simpatico, ed i bambini cominciarono a riunirsi e a picchiarlo quando le suore non c’erano.

L’errore fu smettere di essere come il padre, poiché almeno così si sarebbe potuto difendere, mantenere il punto, ma, a seguito di una piccola riflessione personale, decise di cambiare atteggiamento e diventare “un po’ più come se stesso”,ovviamente nel momento sbagliato.

Per due anni, quando c’erano le vacanze, Marcus tornava a casa pieno di lividi, come un basilico masticato (pestando il basilico che ha lasciato cadere in precedenza spezzettandolo).

(Si chiude il sipario)

ATTO SECONDO

(La vita)

(Si apre il sipario. Città, è giorno. Sulla scena dei tavolini con persone sedute. Chi mangia, chi conversa, chi beve, chi legge il giornale. Si capisce che è un bar all’aperto. Il Cane è all’angolo opposto del palco,appoggiato con una spalla al muro,braccia e gambe incrociate. Osserva la giovane cameriera che sta prendendo l’ordinazione da un cliente al tavolo)

GIOVANE CAMERIERA (appuntando l’ordine sul block notes): Allora ricapitoliamo: due caffé, due spremute ed una birra chiara?(cenno di assenso da parte del cliente) Perfetto, arrivo subit.. (nel voltarsi si scontra con Marcus che nel frattempo è entrato in scena con una tazzina di caffè in mano, cercando goffamente un posto libero dove sedersi)

(Avviene lo scontro: la cameriera cade a terra ed il caffè finisce sull’impermeabile di Marcus. Momento statico. Tutto il bar li sta fissando)

IL CANE (al momento dello scontro): Baaaaaang!(accentuando il suono con il tono della voce e aiutandosi con un gesto delle mani) Che botto. La cameriera è rovinata a terra ed il vassoio vuoto ha fatto un frastuono infernale.

Ma d’altronde(ammiccando verso il pubblico).. Marcus è fatto così. Distratto, ma galante, tanto più che adesso si sta sincerando con la cameriera che non si sia fatta male (Marcus aiuta la cameriera a rialzarsi e si scusa con aria mortificata).

Quante risate mi fa fare. Oramai è una vita che lo seguo, vita mia, non sua ovviamente. E non credo ci sia persona migliore di me in grado di leggere le sue emozioni, nei suoi pensieri più nascosti.

Ora, badate bene, si sta vergognando, ma non di aver fatto cadere la cameriera, no (rimarcando il “no” con l’indice e con la testa). Si sta vergognando perché tutto il bar lo sta guardando, e perché gli è caduto il caffè che aveva in mano e che gli ha macchiato il soprabito (Marcus si guarda l’impermeabile cercando di pulire il caffè con espressione malinconica).

Ora, dentro la sua testa, si sta chiedendo (simulando una corsetta verso il bar) se rientrare e prenderne un altro, o (riprendendo a camminare lentamente, con aria disinvolta, nella direzione opposta) se fare finta di niente, da vero signore ed andare diretto a casa, a cercare di dimenticare l’accaduto. Io so già la risposta, ma voglio gustarmi ugualmente la scena (sfregandosi le mani, e appoggiandosi nuovamente con una spalla al muro).

Silenzio.

(Le persone sedute ai tavoli fissano Marcus, sempre più goffo e in imbarazzo, che sorride timidamente di rimando. Poi lentamente indietreggia e sparisce di scena)

Silenzio.

IL CANE (ridacchia tra se e se scuotendo la testa e torna a guardare il pubblico):

Qui, in questa città, ma soprattutto in questo vicolo, è pieno di caffè, è pieno di bar, ed è pieno di gente che fa avanti ed indietro, avanti ed indietro, quanti sono..! (con tono di dissenso e allargando le braccia)

Questi umani che come trottole fanno avanti e indietro nei vicoli della città (girando su se stesso con le mani sulla testa) mi fanno impazzire: (simulando i gesti) si spintonano, scivolano, usano male parole tra di loro e si odiano senza un perché.

(Entra un uomo sulla scena, con borsa in pelle da lavoro, vestito bene, cammina velocemente a testa bassa nella direzione opposta) Suvvia, è ora di rallentare! (cercando di stargli dietro e alzando il tono della voce) Correre così tanto fa molto demodé! Molto out! Molto anni novanta!» (l’uomo sparisce dietro le quinte). Niente (fermandosi, con aria rassegnata), tanto non mi ascoltano. Sarà perché non mi capiscono. Sono così nervosi e distratti che se a un aereo alzano tutti lo sguardo al cielo (alzando lo sguardo al cielo), ma non sanno vedere la merda che intanto stanno pestando, calda e fumante (abbassando lo sguardo a terra e saltellando su un piede come se avesse calpestato qualcosa).

Ma alla fine (verso il pubblico): valeva la pena vedere quell’aereo? E se fosse caduto? Che facevo, me lo perdevo? Ma nemmeno per sogno, meglio la merda!

(Pausa). Follia, o autodifesa?(riflettendo) Secondo l’opinione di un umile cane (indicando se stesso) è tutto frutto dell’accelerazione, della spinta rotativa. Della velocità insomma.

Sì, perché la rotazione fa girare, ed infatti loro girano (andando in giro sul palco in modo disordinato), girano, girano, girano continuamente. Tanto che a volte li vedi fermarsi (si ferma) e domandarsi dov’è che stavano andando (aria interrogativa), perché stanno girando. Strano, forse da nessuna parte in verità.

Ma questo non se lo dicono mai, dovessero mai risvegliare il loro subconscio. L’importante... (pausa) è non fermarsi mai. Non sia mai dovessero percepire l’inutilità che li colma fino all’orlo.

Marcus ha un problema sotto questo punto di vista, poiché, quando tutto gira velocemente e non si riesce a spiegare il perché, o si ferma, da solo, a guardare quella massa informe che gira, come un tornado fatto di corpi vivi ma esanimi, o si inserisce e gira con quella massa.

Quando si inserisce, però, tutto gira alla velocità della luce (facendo roteare l’indice); anche le interazioni sociali sono alla velocità della luce e quando si compie un’interazione tutto perde di senso e valore, poiché in quello strettissimo spazio di tempo bisogna cercare di condensare qualche minuto di conversazione banale ma non noiosa, scadendo nel solito: (velocemente ed enfatizzando le parole) “cavolochecaldooggi!Eddirechealleprevisionideltempoavevanodettoch…..”. Si... (pausa) appunto.

Lui,come tutti gli uomini, è sinceramente, costantemente, esilarante (sorridendo).

(Si siede sul bordo del palcoscenico) Incredibile quanto riescano a far leggere sui loro musi le loro emozioni, completamente incapaci di controllare i muscoli facciali, sfoggiando impressioni di ogni tipo, dalla gioia alla disapprovazione, dall’amore al disgusto. Questo su quasi tutto quello che li circonda; come bambini appena nati che si guardano attorno scoprendo le emozioni ogni volta, poco alla volta, e per la prima volta. Ogni fisionomia subisce delle contrazioni sempre diverse (facendo smorfie), o addirittura dei colori sempre diversi: c’è chi quando si vergogna per una battuta o per una situazione assume un color porpora sulle guance (indicando le guance), chi diventa viola sul collo (indicando il collo), chi perde completamente colore e sbianca a mo’ di lenzuolo candido della nonna (sbarrando gli occhi).

Le sopracciglia formano onde sempre diverse, sulle quali viaggiano le navi delle rughe della fronte (toccandosi la fronte), che a centinaia costellano questo, a volte ampio, spazio tra gli occhi e i capelli. Per non parlare dei piccoli tremolii delle gambe (muovendo le gambe che penzolano dal palco), delle mani (facendo tremare le mani), che uno è costretto a tenere una dentro l’altra (mettendo le mani una dentro l’altra) o addirittura in tasca (mettendo le mani in tasca), sentendo la pelle fredda ma umida per la tensione, dei piccoli tic (simulando dei tic con gli occhi e con il naso), e degli splendidi gesti di stizza (simulando un gesto di stizza).

È questo che nota un cane come me, durante le eggiate nei mercati cittadini. Ancora di più la notte, quando i vicoli brulicano di gente persino più diversa di quella diurna. Essendo, di media, un’età molto giovane quella che popola le strade di giorno, la sera si può cogliere una diversa e più complessa banalità. Difatti, si tratta di una banalità più imponente e più fisica, che si fa beffe di ogni cosa, ostentando il divertimento e la goliardia, in memoria di antichi baccanali, così sconosciuti ma ugualmente così cari. Per non parlare della fascia appena superiore d’età. Hanno poche varianti, loro, in confronto ai giovani abitanti della notte: a volte si accalcano nei luoghi più affollati, (gonfiando il petto) pavoneggiando una superiorità anagrafica che secondo loro dovrebbe concedere qualche privilegio pratico. (Allungando una mano aperta davanti a sé ad indicare l’orizzonte) Già lo vedo lui mentre si mette seduto, finalmente, come se non avesse mai aspettato altro in tutta la vita, tra la musica assordante e le luci eclettiche a intermittenza che non permettono né di ascoltare né di leggere il labiale e dopo dieci minuti si alza e se ne va, subito stizzito. Si sposta in locali sempre mezzi vuoti ora, quelli con la luce buia, (parte una musica jazz in sottofondo) con un sottofondo jazz, con il barista fisso a lavare sempre lo stesso bicchiere.

Fa sedere la sua compagnia e comincia a vomitarle addosso la sua indole paterna, la sua voglia di riscossa con la società, la sua amabile ex con la quale ancora è in contatto, perché lui ha il cuore grande, e non abbandona nessuno. E tutto questo.. (con sguardo ammiccante) con sguardo “piacionico”, elaborato

nelle tante giornate di solitudine davanti allo specchio del bagno.

Oppure vanno in soli maschi, in un vero e proprio branco da caccia, alla ricerca di giovani ragazze, con i ferormoni e gli ormoni che si muovono a velocità pazzesche, e che, vedendo nell’uomo con la barba accennata e il petto virile e villoso un’ottima esperienza da fare ad una certa età, diventano improvvisamente coscienti: (simulando una voce femminile) “e quando ci ricapita, fra dieci anni?”.

Silenzio.

(Si sdraia lungo il bordo del palco, appoggiando la testa sulla mano ed il gomito sul pavimento).

Io piscio dove sento odore del piscio di altri cani. Io mangio nella ciotola del gatto, perché non mi va di andare dal branco e fare a botte per lo stesso osso lanciato dalle sudice mani di un macellaio.

A volte sembrano loro i veri cani: coperti dallo stesso pelo pettinato e cotonato, leccando la stessa ciotola, si accalcano esalando ormoni da ogni poro, ammassati a rincorrere non proprio un osso, ma qualcosa di simile. Probabilmente tra questo e lo scambiarsi banalità in maniera civile, come gli adulti, non a molta differenza. L’importante, difatti, è fare qualcosa a seconda dell’età che si ha, assecondando l’indole di aggregazione. L’uomo, come spesso mi hanno detto, è un animale socievole, ed ha bisogno di perenne compagnia, o tende a morire. Mi viene in mente quando mi raccontavano che i tedeschi durante il nazismo fecero degli esperimenti su dei neonati, per studiare gli istinti umani. Uno di questi consisteva nel farli crescere in celle isolati gli uni dagli altri, e ognuno dal mondo. Venivano nutriti e lavati in maniera tale che nessuna pelle umana entrasse in contatto con loro. Di quei neonati nessuno ha visto mai altre

persone, e non perché l’esperimento non si sia protratto, ma, semplicemente, perché morirono, ed il test fallì dopo alcuni mesi dal suo inizio. Tutti morirono.

(Pausa) Eppure sono sicuro che tra lo stare da soli ad impazzire e l’ ammassarsi blaterando e guaendo abominevoli e banali conversazioni ci sono molteplici strade. Tanto più che a volte si ha bisogno di strizzare il proprio subconscio, prenderlo a calci nelle palle, legarlo e sbatterlo in un angolino buio per tenerlo fermo, sordo, e non sentirlo lamentarsi, perché essere presi per il culo dal proprio subconscio non fa piacere a nessuno. Se ogni uomo si rendesse conto di quanto si copre di ridicolo con le proprie zamp.. (si corregge) no, volevo dire mani, e di quanto in verità l’animo umano sia complesso ed abbia un’infinità di forme d’espressione, si renderebbero conto di quanto è lo spreco.

Quello che mi lascia turbato è che i cani non hanno scelta sull’osso da prendere e mangiare: il macellaio gliene lancia uno e su quello devono lottare. L’umano medio civilizzato ha cento e cento vie di scelta, eppure combatte anche lui per lo stesso osso, pisciando puntualmente sull’erba del vicino che è sempre più verde. Vuole il proprio ed il giardino del vicino, e l’erba di entrambi sempreverde.

Come io annuso il culo degli altri cani, anche loro si annusano, solo che io non giudico il cane a cui puzza il culo, gli uomini sì,(alzando le spalle) chissà perché.

(Pausa) Quello che non sentono più è la puzza delle strade, insopportabile; in tutto questo smog non riesco più a sentire l’odore delle cagne da seguire, i bastardi troppo giovani da cacciare, i vecchi in cerca di guai, il territorio da marcare insomma. C’è un’ora in cui è tutto vorticosamente ancora peggio:alle otto della sera. Un’ora in cui tutte le mamme e le nonne e i ristoranti di ogni etnia si mettono a cucinare e cucinare e cucinare… e nei bagni vengono versati sulle mani di migliaia di persone centinaia di gocce di profumo e deodorante, pronti per uscire.

E allora nelle stradine senti giungere una folata di vento (odora l’aria) che porta l’odore di una grigliata di pesce, una grigliata di carne, un sugo bruciato (odora meglio)…no, questa è merda…(continua ad odorare) fritto misto, mmmh, si un bell’arrosto, e poi soia, pollo al curry, e chissà quale altra mistura incomprensibile.

E tutti si mischiano dando vita ad una sinfonia di odori da voltastomaco, mentre per le strade si continua con gente che mangia la pizza (elencando velocemente) un gelato, un panino, carne, pesce, fritto, in scatola, congelato, surgelato, scongelato, dolce, salato, semifreddo, bollente.

Con calma …mai.

Vivono sette volte di più quello che può vivere il più longevo della mia razza, e con lo sguardo triste e malinconico mi guardano, pieni di invidia, dicendo che io me la prendo comoda, come se avessero loro un diavolo alle spalle che li frusta. Lamentarsi dei frutti seminati, che spreco.

Chi semina merda raccoglie merda.

E poi mi devo anche sentire in colpa perché faccio troppo poco; io la mia vita me la sono scelta, e nessuno mi ha mai dato un calcio senza essersi preso poi un bel morso. Non vivo in funzione di quello che faccio e, a quanto pare, nessuno ha mai obbligato loro al contrario. Tranne loro stessi, è ovvio. Non esistono le dieci tavole del lavoro, non esiste un precetto in nessuna religione o pseudo tale che lo dica. (Aria interrogativa) Ma allora perché si lamentano?

Silenzio.

(Torna in piedi, riprende a camminare sulla scena) E, come se non bastasse, quando ascolto le loro conversazioni hanno il coraggio di filosofeggiarci sopra a questa vita, di fare finta che esista un modo per vivere “alternativamente alla massa”. Come ad esempio fare le ferie in un mese diverso, andare in un locale invece che in un altro, vestirsi con un pantalone che andava di moda vent’anni fa piuttosto che adesso. (Rivolgendosi al pubblico) Sicuro che però hanno fantasia.

(Pausa)

(Fermandosi) Mia madre non l’ho mai conosciuta. Sicuramente deve essere stata una cagna. Però l’altra cagna che mi ha cresciuto diceva sempre che “gli umani la merda la chiamano in molti modi”. Ed è vero perché “può essere fresca”,diceva, “dura, morbida, secca”, ma non ho mai sentito dire a nessuno che la propria merda sia migliore. Perché la merda puzza tutta allo stesso modo.

E la merda sempre merda è.

(Camminando esce di scena. Si chiude il sipario).

ATTO TERZO

(Le vie)

(Si apre il sipario. Città, sta facendo buio. I lampioni lungo la strada sono accesi. Entra il Cane eggiando)

IL CANE: Sono le sette della sera e questo è il momento più bello del giorno. Il sole comincia a scendere, la fame comincia a salire, e la gente entra o esce dal cinema. Spendono, spandono e si lamentano. Nessuno pensa a chi nella merda ci vive, tipo me.

(Entra una famigliola, madre, padre e figlio piccolo “infagottato” per il freddo. Vanno a eggio. Il Cane si ferma in un angolo. Il bambino si stacca dalle mani della madre e va incontro al Cane) Eppure, ecco avvicinarsi una palla con due occhi. Man mano che si avvicina mi rendo conto che si tratta di un bambino, (con voce dolce) che carino! I genitori per paura del freddo lo hanno strizzato dentro una ventina di cappottini, sciarpe, cappellini e guantini, in modo tale che ora il suo girovita è uguale alla sua altezza. Si è allontanato dalla stretta della mano materna: quella baldracca sta guardando una vetrina di scarpe con sconti dal 30 al 50%. (Annusando l’aria) Alzo il muso per permettermi di sentire il suo odore, che riconosco e profuma di buono. (Accucciandosi per terra, all’altezza del bambino, che si sfila un guanto) Lui fa per togliersi un guanto, probabilmente ora mi accarezzerà e dirà in un linguaggio tutto suo che sono un bel cagnolino. È davvero dolce ora, ma non posso pensare a quando fra vent’anni cercherà di mettermi sotto con la macchina. (Riflettendo) Che faccio, lo mordo ora?

(Pausa) No… (il bambino inizia a grattargli la testa) lascerò che mi gratti ancora

sulla testa, mi piace così tanto.

(La famigliola esce di scena ed il Cane torna in piedi. Cambia lo scenario. Sullo sfondo appare l’entrata di un cinema) Di bambini e di mamme ce ne sono molti qui. Fanno spese e vanno spesso in giro per cinema. (Escono dal cinema due donne che chiacchierano sommessamente tra loro) E quando si commuovono vedendo i bambini delle favelas, o l’Europa dell’est bombardata e seviziata dai dittatori dai nomi troppo complicati per essere pronunciati per un cane come me, mi pento di non averle morse prima. Quei bambini che vivono non sulle strade, ma sotto le strade, senza nulla, che continuano a sniffare colla su colla, a vendere il loro corpo e la loro volontà.(Con tono ironico) Ohhhh come si commuovono a vedere la gente senza acqua, senza pane, senza il riscaldamento o senza la Mercedes!

(Simulando il tono di voce)”Che disgrazie che ci sono a questo mondo!”, dice sommessa una di loro. (Simulando di nuovo) “Le cose importanti della vita sono altre”,dice un’altra, guardando il figlio purulento di adipe in sovrabbondanza. Pensano che forse qualcosa di meglio l’avrebbero pure potuta fare, che forse loro si lamentano per nulla. Ma è un pensiero fugace, che vibra nell’aria percettibile come un battito d’ali di farfalla.

Dura poco, molto poco. Infatti, fuori da quella sala, (avvicinandosi ad una delle due donne che con aria sprezzante lo allontana con il piede) non ci pensano due volte a prendere a calci il mio sedere che li intralcia quando escono dal cinema.

(Pausa. Le donne escono di scena. Il Cane torna nell’angolo. Nel frattempo esce Marcus dal cinema, con il solito abbigliamento dimesso e l’aria stanca. )

Ecco, il signore che vedete uscire adesso dal cinema è uno di questi: Marcus, come lo chiamano da queste parti. Non so perché, so di certo che non è il suo

nome vero. Un tipo gracile, svogliato, silenzioso, e se lo vedessi oggi per la prima volta direi di lui che è (con aria sospettosa) un tipaccio. Uno di quei tipi loschi e silenziosi, che ano metà del tempo lavorando e l’altra metà chiusi in casa con Internet e una scatola di fazzoletti. (Espressione contrariata) Che brutta immagine. Proprio un tipaccio.

(Cominciano a susseguirsi sulla scena gruppi di persone - a simulare la folla che va in giro per la città - che entrano sempre dallo stesso lato ed escono tutti nella direzione opposta. Marcus eggia senza fermarsi –grazie all’uso di un tapis roulant- esattamente nel senso a loro contrario, con le mani in tasca, quasi senza accorgersi della loro presenza. Il Cane, appena dietro di lui, - anch’’egli sul tapis roulant- cerca di stargli dietro, ed intanto si rivolge al pubblico) Ed invece Marcus ha una moglie, genitori ed amici che lo circondano. Nonostante sia poco attivo, di cose ne fa. Metà del suo tempo lo a al lavoro, un quarto con gli amici, e un quarto a casa con Internet e due scatole di fazzoletti.

È uno di quei soggetti umani che hanno la schiena curva, quasi avessero un peso gravissimo sulle spalle, mani in tasca che non si vedono. Ogni volta che le tira fuori sono pallide e segnate per quanto forte le ha strette. Lo sguardo è dritto davanti a sé, difficilmente lo alza, d’altronde la sua via è quella, e anche se la conosce, le sorprese non gli sono mai piaciute. Nemmeno quella di un aereo che cade. Preferisce evitare la merda, e far piovere sulla sua testa canuta.

Un uomo fatto di pensieri. Se lo guardo bene sembra che sulla testa abbia una sfera con dentro un universo di frasi che girano e girano e girano. (Sorridendo) Sì, anche loro. Quella è la sua mente, i suoi pensieri ormai rovinati. Credo che se si a troppo tempo a pensare a troppe cose, molte di quelle cose perdono senso e spariscono dalla mente. Nonostante ormai abbiano sfiancato il pensatore, che ha sprecato molto del suo tempo per analizzarle.

Forse sarà l’inutilità dei suoi pensieri, e l’inutilità del tempo ato a pensarli quei pensieri, a far scorrere sul volto delle espressioni, che viaggiano e mutano

dall’accigliato, all’eccitato, con sempre un fondo di delusione, frustrazione, che lo caratterizzano. Ovviamente ognuna di quelle cose che pensa gli fa mutare aspetto, ma il suo corpo rimane fermo, immobile con i pugni in tasca.

Sembra quasi parlare con se stesso a volte. O forse parla a se stesso.

(Cessano di entrare le persone, Marcus ed il Cane continuano a camminare. Sullo sfondo appaiono dei palazzi) Mentre oltrea l’angolo del bar per avviarsi alla strada dove abita, prima di far fischiare il portone di legno massiccio, aprendolo nella caligine cittadina che cala la sera d’inverno, viene salutato dai baristi sempre con la stessa allegria, e sempre con la stessa mano (l’altra è puntualmente occupata dalla sigaretta). Lui di solito ricambia il saluto e, le rare volte che non lo fa vuol dire che è successo qualcosa di grave, poiché difficilmente una persona come lui è sgarbata e scortese con gli altri. Può pensare che le persone che saluta siano degli emeriti idioti, in verità. Ma li saluta ugualmente, sempre con lo stesso viso, con la stessa intonazione, con lo stesso movimento ondulatorio della testa, reverenziale con chi non lo merita.

Questa sera è una di quelle sere: (Marcus scende dal tapis roulant e corre velocemente verso i palazzi, per poi uscire di scena) in fretta e furia corre davanti al bar, senza degnare nessuno di uno sguardo, aprendo il portone e chiudendolo con un fracasso infernale.

(Fermandosi e voltandosi verso il pubblico) Di solito salgo sulle scale antincendio per vedere cosa fa lì, nel suo bagno al secondo piano. Se è serata di disperazione, se è serata di antidepressivi….ma questa sera preferisco andare in giro ancora per vie. A vedere gente, a fare cose. D’altronde la sera è così bella vista da quaggiù, che arla a rattristarmi per un uomo che stasera non mi ha nemmeno rivolto il saluto, (con spalle alzate e braccia larghe) non mi va.

(Si chiude il sipario)

ATTO QUARTO

(Il lavoro)

(Ancora notte. Al centro della scena tre persone sedute all’aperto, al tavolino di un pub, giocano a carte bevendo e fumando. Il Cane è seduto a terra, con le ginocchia tirate su e le braccia intorno alle gambe, e appoggia la schiena ad una delle gambe del tavolino. All’angolo opposto della scena c’è una pattumiera, rifiuti a terra)

IL CANE: (Enfatizzando le parole) “Scodinzolando se ne va per le strade un piccolo bastardino a pelo riccio”. Che poi sarei io. (Indicando il pavimento) Sono questi i ciottoli che così tanto ho amato,e che ora tanto odio.

(Guardandosi intorno con aria trasognata) Eh si che però sono belle le vie di sera, piene di gente che viene e che va. I pub e i bar pieni di persone che si divertono, e pieni di lavoro se ci si pensa. Le coppiette che si siedono ad un bar per farsi servire un cocktail da gustare mentre si riposano lo fanno perché sono stanche del lavoro. Ma la gente che lavora per far riposare quelle persone (ad esempio i camerieri), si affatica per potersi permettere un riposo simile a quello di coloro che ora sta servendo, resa stanchissima dal proprio lavoro. L’ho sempre reputato strano. È una catena senza alcuna via d’uscita: il lavoro porta fatica che necessita riposo, ma il riposo costa e per poterselo permettere bisogna lavorare e guadagnare, il che comporta che uno debba lavorare e poi stancarsi, per poi potersi permettere di lavorare…(pausa) divertente... A volte mi stupisco da solo.

(Alzando la testa verso il giocatore più vicino) Hey, e tu che ne pensi? Non siete un po’ pazzi? (Il giocatore lo guarda di rimando infastidito) Ah beh si che mi guarda male, non mi capisce: è umano.

Ma alla fine, si lavora di più per riposarsi meglio, o ci si riposa di più per lavorare meglio?

Bah, forse è meglio che io riprenda la mia eggiata per i vicoli, leccando la birra dalle bottiglie rovesciate, pisciando agli angoli, ringhiando ai violenti. Cose da cani. La retorica che mi frulla nella testa mi stanca e mi annoia (pausa)...ma prima che tutto muoia lentamente trovo necessario ricordarmi che a volte ciò che annoia è la verità, e dà così fastidio che l’indifferenza diviene una maschera spessa e impegnativa da oltreare. Mentre tutto ciò che mi sembra compiacere è solo ciò che mi aspetto di vedere o di sentire.

(Mentre cerca di alzarsi, il giocatore più vicino gli calpesta un piede)

(Gridando) Ahi! (Toccandosi il piede) Uno non può nemmeno pensar male degli uomini che subito cercano di acciaccarti una zampa! Leggono nel pensiero? Potessi sorridere lo farei, ed è tutto grazie a loro!

Molte volte mi sono fermato in qualche bar, ad ascoltare semplicemente le conversazioni medie di una mezz’ora giornaliera tipo (ormai il mio atempo preferito), scoprendo che: (contando con le dita) cinque su dieci parlano del (velocemente) disastro politico, naturale, economico, energetico globale, palesando la loro disapprovazione e ovviamente annunciando come sarebbe tutto facile da risolvere se dipendesse da loro stessi. Tre su dieci del disastro della Famiglia, palesando ovviamente la loro disapprovazione, e dichiarando quanto la loro di famiglia, invece, da generazioni sia rigorosamente attaccata alle tradizioni e all’onestà. Ed infine, due su dieci, se ne sbattono e parlano del disastro di loro stessi, giusto perché durante il giorno non pensano già abbastanza a sé.

Mi diverto molto ad ascoltarli, ma appena comincio a pensare che non è uno scherzo, che quello di cui parlano è vero, sale uno sconcerto da farmi venire la pelle d’oca. (Con ironia) Che su di un cane, è tutto dire.

(Si avvicina alla pattumiera all’altro angolo del palco, dalla quale trasbordano rifiuti di ogni genere, sparsi anche sul pavimento. Cammina cercando di non finirci sopra)

Ho sempre creduto che su questo pianeta gli umani siano gli esseri viventi più intelligenti, fautori di un destino e di un progresso, più veloci di qualsiasi immaginazione del più pazzo tra gli scrittori di fantascienza. Il disastro è nella testa di questi qui, che continuano a generare idee (a volte pressoché inutili) e a metterle in atto, consumando e consumando e consumando, continuando a perdurare nell’errore, coscienti di farlo. È come se ormai, sazi di cibo, continuassero ad abbuffarsi di nuove portate poste sotto il loro naso, sapendo benissimo che se continuassero morirebbero tra atroci dolori.

(Indicando i rifiuti) Tecnologia che non serve a nulla. Energia sprecata in quantità sopraelevata. Il consumismo ormai non è più un’idea, è un fatto. Vestono vestiti sempre più costosi, usano apparecchi acustici che superano le possibilità fisiche dei loro orifizi, comprano più scarpe di quante ne potranno indossare. Non prenotano solo i posti in cui mangiare con la famiglia, ma prenotano anche le vacanze per l’amante, il ristorante per l’amico, la casa per il figlio, l’università all’estero per la figlia, il progetto di un lavoro sicuro per il nipote maschio, e...(facendosi il segno della croce) dio ci salvi, sono così previdenti da prenotarsi anche il loculo dove mettersi quando saranno morti. (Avvicinandosi al pubblico e rivolgendosi agli spettatori con aria complice) Se Dio avesse un telefono lo chiamerebbero, per assicurarsi un posto in prima fila in paradiso, ne sono certo.

E nonostante tutto questo sia frutto della loro volontà, si lamentano. Prima si pestano di loro sponte il dito tra l’incudine ed il martello, e poi accusano il

destino infausto di avergli fatto male.

Pazzi, no?...( Fa per voltarsi ma poi si gira di scatto verso il pubblico con aria minacciosa e con il dito teso) E che nessuno provi a dire di no!

(I tre uomini si rinfilano la giacca, lasciano la mancia sul tavolo, escono di scena. Il Cane, guardandosi intorno con aria circospetta, va a sedersi su una delle tre sedie)

Pensavo (pausa).. è talmente grande questo giogo che non trainano soltanto il carretto della loro famiglia, ma il giogo è collegato ad altre persone, che è collegato ad altre persone, ed insieme trainano la civiltà. La globalizzazione? È questa io credo. Almeno così la pensa un cane.

Gli uomini in giacca e cravatta seduti al bar dicono che la globalizzazione è un bene, che serve all’economia. Le donne dicono che è un male, ma non sanno bene il perché. I bambini dicono che la globalizzazione è bella, perché la parola globale fa venire in mente una sfera, la sfera fa venire in mente un pallone. E niente diverte più un bambino di un pallone.

(Con aria interrogativa) Chi ha capito davvero cos’è la globalizzazione? Io credo nessuno di loro.

(Simulando il gesto di portare un peso sulle spalle) Forse il giogo deve essere così pesante che la loro vista è incastrata in basso, a terra, dove vedono solo la loro via, quella costruita, per altro, non da loro. Forse deve essere così faticoso portarlo da non riuscire ad essere lucidi, da non riuscire più a vedere la realtà. (Pausa) Nemmeno a dire che hanno gli occhi foderati di prosciutto: ormai se lo

stanno mangiando tutto. E molti sono vegetariani e se vedono il prosciutto svengono.

Forse ce li hanno foderati di plastica, quella sì che abbonda.

Sono così presi da loro stessi che si sono creati un vero e proprio muro, promiscuo di sentimenti contrastanti, di finzione, di fittizia volontà, di rassegnazione che li separa dalla realtà.

E siccome questo muro è comune alla maggioranza delle persone, non si accorgono della diversità, e pensano che tutto sia normale, nell’ordine naturale delle cose. La loro coscienza è assopita sotto un velo di vergognosa atarassia alla quale la volontà si sottomette.

Lavorare fino allo sfinimento per avere la possibilità di pagare per riposarsi. Perché, ovviamente, come devi riposarti - anche quello!- è dettato dall’opinione comune. Perché sotto un albero forse non ti riposeresti abbastanza.

Silenzio.

(Meditando) Povero il nostro Marcus, sembra sempre un totale disadattato tra la folla.

Forse lo sto seguendo un po’ troppo poco questo periodo, non ha più quel suo motivo di nervosismo che lo fa girare di continuo, sentendosi seguito da qualcuno perennemente. Che poi.. ogni volta che si gira non vede nessuno, o

meglio non vede esseri umani, ma ci sono io, (ridacchiando) il cane fantasma!

(Entra Marcus, con il solito impermeabile dimesso. Si tiene mano nella mano con una bimba vestita di rosa, con fermagli tra i capelli. Marcus si piega sulle gambe, davanti a lei, per sistemarle il cappottino stretto )

Maledetta la cagna della moglie che gli ha comprato quei vestiti, sembra trent’anni più vecchio, con quel pantalone, rigido e troppo corto che gli scopre la scarpa e una punta di calzino. Quel soprabito da maniaco del parco, e quelle scarpe che sembrano di legno tanto scricchiolano e tanto sono marroni. E poveraccia la figlia, con più fermagli nei capelli che capelli stessi, con quegli abitini troppo stretti. Profuma di caramella ed infatti si veste come tale. (Con tono dolce) Ma è così carina! E Marcus vorrebbe amarla di più, se solo non assomigliasse così tanto alla moglie.

(Escono di scena. Il Cane si trascina fino al limite del palco. Il sipario si chiude dietro di lui. Cammina lentamente, avanti e indietro) Oramai Marcus lo vedo stravolto, non cammina più, si trascina dal lavoro alla casa, dalla casa al lavoro. Un omino che cammina e si porta dietro un fardello gigantesco. Si sveglia presto, deve preparare la colazione alla figlia, lavarsi, vestirsi, andare a portare la figlia a scuola, andare al lavoro, tornare a casa, mangiare, riportare la figlia a scuola e tornare al lavoro, poi tornare a casa, preparare la cena, sorbirsi le strigliate della moglie, della tv, della radio, della figlia, della madre,che chiama tutte le sere, e dei fratelli, mangiare ed avere l’ultimo compito di andare a dormire sereno, per non farsi stressare anche dagli incubi. Io sono affaticato solo a pensarci. Infatti, spesso, la notte si sveglia, -io lo vedo dal terrazzo di fronte,va in bagno, abbassa la tavoletta del cesso e ci si siede sopra a fissare il rubinetto che perde una goccia ogni minuto. A guardarla così la scena sembrerebbe un film, e allora mi trovo a pensare che o io o lui stiamo peggio di quanto pensassi.

(Si apre lentamente il sipario. Sulla scena Marcus è seduto sul solito gabinetto,

con lo sguardo fisso)

(Fermandosi davanti alla solita ringhiera e guardandolo dall’esterno) Chissà a che pensa quando sta seduto lì, su quel cesso. Io sono un cane che guarda un uomo, e penso a quell’uomo, ma quell’uomo che guarda quel rubinetto.. a che pensa? Certo ce ne sarebbero di cose da pensare, ma perché a quest’ora della notte mi dico io. Strano che non si metta a piangere, io fossi in lui lo farei.

Vediamo.. (Imitando Marcus) “Ho una moglie che mi odia, una figlia che probabilmente aspetta solo che io muoia per lasciarle casa e la macchina, o forse, vista l’età, venderebbe tutto, compreso me stesso, per comprarsi caramelle e pony. Genitori che non mi sopportano e mi hanno sempre considerato strano, fratelli che tuttora mi considerano strano, un estratto conto che fa miseria, in ufficio un capo che non mi darà mai una promozione”. Che depresso della miseria! (Pausa)

O forse non sta pensando a niente. (Dandosi un colpetto sul viso) Io mi darei un cazzotto in faccia per vedere se mi sveglio. O forse no. Forse sarei troppo intorpidito, come lo è lui. Guardandolo è come se ci fossero due lui, uno che sta fissando il lavandino e sta pensando a quello che deve fare tra qualche ora prima di svegliarsi e ricominciare; l’altro che non sta fissando il lavandino ma la goccia che cade, ed immedesimandosi pensa a quello che dovrebbe fare. Sottile la differenza, ma è questo che differenzia un uomo da un cane: il lavandino dalla goccia.

E dire che è sempre stato un uomo che ha riempito gli spazi, della sua vita e di quella degli altri. Oh, beh, soprattutto la mia, dato che, osservandolo camminare, riempiva tutti gli spazi delle crepe sui muri, con il suo corpo marrone e la testa rosa.

(Pensieroso) Ma non solo per questo. La paranoia del non fare niente lo ha mangiato così tanto da farlo diventare un iperattivo dalla pressione alle stelle. Questo..a volte. Perché altrimenti, altre volte, in alcuni periodi di calo, la pressione si abbassava come il volume della televisione, ed allora lo si poteva ammirare in tutta la sua flemma, quando ciabattava per casa, sonnecchiando e leggendo i quotidiani, o quando se ne stava intere giornate davanti al suo portatile a guardare tutte le notizie meno allettanti della giornata accadute sulla terra. Mai le cose importanti lo colpivano seriamente. Riusciva a schivare ogni cosa. È difficile riuscire a schivare tutto. Per questo, poi, quando magari qualcosa lo colpisce lo fa in piena faccia, e lo fa risvegliare dal torpore come una secchiata d’acqua. Oggi, forse, é uno di quei giorni. (Si chiude il sipario)

ATTO QUINTO (L’enfant perdu)

(Si apre il sipario. Marcus è illuminato al centro della scena, seduto al contrario su una sedia, con le braccia appoggiate allo schienale. Il Cane, in ombra, seduto davanti alla ringhiera, ha la testa completamente rivolta verso di lui)

MARCUS : Chi la vita se la lascia scorrere sulle spalle raramente incontrerà problemi. Invece chi reagisce alle provocazioni, anche quando queste possono essere considerate marginali, beh, si, allora la vita comincia a diventare un po’ un problema.

Fin da piccolo ero un tipo taciturno, ma spensierato. Il triste faceva parte di ciò che vedevo e non di ciò che sentivo. Quando vedevo un’ingiustizia la riconoscevo e cercavo di combatterla proprio come i fumetti che leggevo. Si può dire che la consapevolezza della lotta all’ingiustizia crebbe in maniera lineare e direttamente proporzionale ai fumetti che seguirono quasi tutta la mia vita.

Se da piccolo, con Topolino, l’ingiustizia assumeva le forme di una torta rubata a Nonna Papera, la mia reazione verso le ingiustizie di quel genere era “combattere”. Esagerando a volte.

Da bambino ho frequentato un collegio. Quando qualcuno si intrufolava nella mia camera per sottrarmi la merenda, preso da un moto di giustizia, picchiavo selvaggiamente il ladro/compagno.

Questo mi costò non pochi guai, soprattutto quando una volta ruppi un dente ad un’educatrice lanciando una scarpa. L’educatrice stava recuperando le merende

che io per primo, questa volta, avevo sottratto ad altri. Il senso di ingiustizia è vago a certe età.

Nella crescita seguirono poi Superman, Batman, e i classici che prima o poi tutti leggono. Fino a trasportare la fittizia realtà del fumetto al mondo reale, cominciando a leggere libri sempre più grandi o sempre più da grandi, come il giornale sportivo, il giornale del quartierino e poi i grandi quotidiani, dai quali ognuno era libero di prendere un mito ed idolatrarlo come meglio credeva.

Beh, forse è per questo che da grandi si litiga molto più che da bambini: perché da bambini si può scegliere tra Batman o Superman, tra Calvin e Hobbes, ma la scelta poi è limitata. Invece,nella realtà, nessuno ha superpoteri, e per questo tutti hanno lo stesso diritto di essere venerati.

Se nessuno è speciale, tutti siamo speciali. È la regola e non fa una piega.

Nello stesso istituto in cui sono andato io c’erano andati anche i miei fratelli, molti, molti anni prima, vista la grande differenza di età fra noi tre. Tutti i professori si ricordavano di quei fratelli, ed ogni volta che incontravano periodicamente i miei genitori ai colloqui, tutti non facevano che lodare l’uno a discapito dell’altro. E le lodi non vanno mai ai più giovani, per principio: e non fa una piega.

L’ingombro di un fratello, nessuno ci pensa mai, non è cosa facile da superare. Sia che uno sia più grande o più piccolo. Se si è più piccoli si ha sempre un metro di paragone davanti gli occhi, se si è grandi si deve essere sempre da metro per il più piccolo.

E siccome sia io che i miei fratelli, in realtà, non volevamo essere, né avere, metri di misura, non ci facemmo mai molto caso, continuando a vivere ognuno la propria vita, a discapito di tutto e tutti.

Questo concetto, insito nella famiglia, lo compresi e delineai fin da subito.

D’altronde, dal momento in cui io ed i miei fratelli eravamo in un collegio ai piedi di un monte, ed i nostri genitori in un’altra città a condurre la propria vita vedendo i figli una volta a trimestre, una domanda me la posi. È la risposta che non giunse mai! O, per lo meno, l’unica che giunse fu la mia.

Il concetto che ognuno debba vivere la sua vita, e nessuno debba interferire, è un concetto stravagante, soprattutto se si pensa che quelli che non dovrebbero interferire sono i figli.

Uno un figlio lo fa per pochi motivi. Primo: per sbaglio. E allora una persona è legittimata a pensare solo a se stessa. Non è giustificata, ma quantomeno legittimata.

Secondo, e questo ha dell’esilarante: perché lo si vuole, ed allora non si può adottare un sistema di crescita a distanza, di amore a distanza, lasciando il privilegio della crescita di un figlio ad una persona di un’istituzione ecclesiastica che di figli propri non ne ha visti, nè ne vedrà mai l’ombra.

Tanto più che quel collegio puzzava di vecchio ed io ero già troppo vecchio di mio.

Tutto questo ragionamento fino al momento in cui non venni a sapere che mio padre aveva un’altra famiglia. Beh, una è quella certa, ma non si sa veramente quante fossero. Per cui l’imperialità e l’autorità di un padre sempre in viaggio per mantenere una famiglia non erano poi veramente così imperiali. I viaggi per mantenermi erano dunque ati tra le braccia di qualche altro bimbo. E poche persone sanno quanto questo possa davvero fare male ad un figlio. Però, ciò che il mio talento tirò fuori dalla vicenda, fu che era stato davvero utile un’ultima volta: mi dimostrò come un padre non dovrebbe mai essere eroe. Che, se mai avessi avuto dei figli, forse nemmeno io avrei saputo cosa fare e come essere, ma di sicuro ora sapevo come non sarei mai voluto essere e non sarei mai voluto diventare.

Avevo sempre vissuto un pò come un animale. Non in senso negativo, ma perché sono cresciuto con una spiccata sensibilità emotiva e ho sviluppato un confronto, che si potrebbe definire sentimentale, con quasi tutto ciò che respira. A volte bevevo dalla ciotola di un cane,o miagolavo con i gatti, abbracciavo un albero. Dicevo di volere ascoltare quello che aveva da raccontarmi. E altre volte me ne stavo sdraiato sui prati:dicevo di abbracciare la terra. In casa camminavo sempre a quattro zampe. Mi costruivo con le sedie e una coperta delle piccole capanne che sembravano tane, tane di un animale: vere e proprie grotte, al cui interno mettevo tutti i peluche. Imparai a parlare tardi e i miei genitori si lamentavano per paura che avessi qualche malattia. In verità avevo solo voglia di osservare. Una voglia pazza di guardare quegli esseri buffi che mi circondavano. Per un bambino ogni cosa è nuova, e con la stessa attenzione con la quale uno studente studia un libro, io osservavo le azioni che i grandi compivano attorno a me. Le studiavo e le capivo. Ma ciò che più capivo erano i sentimenti. Il corpo ha dei muscoli che non si conoscono ma si utilizzano sempre, e sempre quando non si vorrebbe. E osservavo proprio quei muscoli che un uomo non sa controllare, e da quelli riuscivo a comprendere. Comprendevo quando uno era triste e si sforzava di non esserlo. Capivo quando uno era allegro, ma aveva l’anima che sanguinava.

Allo stesso modo osservavo la casa in cui ero cresciuto. Quando ne ero lontano mi mancava così tanto! Sul famigerato terrazzo, dove le mura facevano angolo, mio padre aveva fatto montare un’amaca. Era bianca anche quella. Quando era

estate si poteva aprire. Quella, diventava un’altra tana. Dopo la cena, quando il cielo si faceva di un colore più simile alla notte che al giorno, in quel momento, la scodella con la pasta fredda era vuota.

Ciò che non sono mai riusciti a capire i miei genitori, come i genitori di tutti i bambini frustrati, è la mortificazione di un ragazzo che non vede ciò che i propri genitori fanno per il suo futuro, ma quello che fanno soltanto per loro stessi. Lavorare per dare da mangiare al proprio figlio, è diverso che lavorare per portarlo in giro a conoscere il mondo. È diverso dal perdere del tempo per insegnare ad un bambino che non conosce il mondo come si fa a suonare una foglia. Spiegargli perché gli storni di uccelli sopra le proprie teste non fanno mai le stesse figure, perché lavorare rende la loro vita piena, perché pur lavorando così tanto sembra sempre così vuota.

Ogni essere umano ha dentro di sé un genio. Per sua conformazione l’essere umano ha nel cranio una spugna pronta ad assorbire ogni informazione che gli viene somministrata. Può imparare come prima lingua una di un qualsiasi genere con la medesima capacità. Ed ogni essere umano può imparare tutto, sta solo a chi lo “governa” somministrare al suo cervello la quantità e l’esatta misura di quello che la piccola mente deve apprendere.

Silenzio.

Una breve sinfonia, per la precisione la numero Uno. Un allegro di violini che conducono una severa danza, sottomessa alla precoce forza prorompente dell’andante.

Chi non ha mai sentito ed apprezzato almeno una volta nella sua vita la prima sinfonia di Mozart?

E quanti si sono soffermati a pensare che le prime composizioni e, questa in particolare, sono giunte ben prima del suo decimo anno di età?

Mozart e Beethoven sono considerati dei veri e propri geni della musica, dopo più di duecento anni. Beethoven era sordo, e si presume anche Mozart lo fosse, e nonostante tutto all’età di tre anni Mozart suonava, all’età di cinque componeva e si esibiva in pubblico.

La capacità di suo padre, nell’indirizzare una mente con quel tipo di facoltà, è stata essenziale.

Il prodigio non è un evento, ma di certo il genio, in ogni ambito, essendolo per definizione, è capace, con il minimo dello sforzo di essere.

ATTO SESTO

(Feuilles d’automne)

(Si apre il sipario. Il Cane è accucciato davanti alla sua ringhiera del balcone di fronte. Al centro della stanza c’è un letto ricoperto di peluche dove sta dormendo la figlia di Marcus)

IL CANE: La mia famiglia vive in questo quartiere da generazioni. Bastardi di strada a pelo riccio, viviamo e prolifichiamo per queste strade, purtroppo non indisturbati.

Mia madre, come mio padre, è finita con un laccio al collo su di un furgone che li portava non so dove, mentre io ero a rovistare fra la spazzatura.

Di amici qui se ne vedono davvero pochi. Vige la regola della strada canina e chi arriva ultimo non mangia, non dorme e non scopa.

La mia famiglia è cresciuta con quella di Marcus, su questa stessa via, e sono stato abituato fin da subito a seguirlo, semplicemente perché mi ispirava curiosità.

(Pausa) Marcus, nonostante tutto, è un uomo buono e, se può, qualcosa ce la tira sempre.

Le abbuffate migliori, però, me le sono fatte con i bambini e con gli anziani che, seduti sulle loro panchine o sedie dei bar, prima ci attirano con qualche schiocco delle labbra, come fossimo dei cretini, poi con del cibo, per finire con una pacca sulla testa.

Guardo i comportamenti di Marcus da molto ormai, ma lui non si ricorda di me, forse perché fa poca attenzione a ciò che lo circonda o perché non mi reputa importante o particolare.

(Con slancio) A volte, invece di seguirlo, mi faccio trovare di fronte a lui, dietro i vicoli, o davanti al portone di casa sua, per vedere cosa fa, come reagisce.

(Pausa. Tornando serio) Non reagisce. Spesso non dice niente, mi a accanto e se ne va.

Altre volte, invece, si ferma a mi osserva con sguardo curioso, imitando i movimenti che faccio: a volte alzo le orecchie e (piegando la testa di lato) piego la testa di lato, (acquattandosi a terra) altre volte mi accuccio e lo guardo dal basso, altre volte invece mi avvicino e gli faccio capire di volere delle carezze. Non mi ha mai toccato però, ma spesso si è fermato a guardarmi, osservarmi.

(Pausa, riflettendo) Spero non pensi ch’io abbia le pulci!

Nella sua famiglia nessuno ha mai avuto un cane e nutro forti sospetti al riguardo: potrebbero anche odiarli! Ma non mi risulta che nessuno della mia famiglia li abbia mai morsi o abbia dato loro fastidio. (Risentito) Dovrei averli io

i traumi nei confronti degli umani che non fanno altro che guardarmi male, cercare di lanciarmi addosso cose per scacciarmi, prendermi a calci o tentare di accalappiarmi con un laccio!

Della famiglia di Marcus l’unica che mi segue e mi dà attenzioni è la figlia, una bambina molto affettuosa e affatto scortese. Quando il padre non guarda, o fa finta di non guardare, cerca sempre di gettarmi qualcosa da mangiare.

(Allegro, sfregandosi le mani) Oggi, forse, riuscirò a prendermi qualcosa per la colazione perché, a quanto pare, oggi Marcus porta la figlia al parco.

Silenzio.

Una mattina come tante altre, quando le foglie ancora non si muovono per il vento, o comunque stanno appena cominciando, quando la luce si alza e tutto prende vita intorno. Un buon caffè tostato, una lavata, e un’ora sul cesso ata a pensare su quanto sia miserabile la vita di uno schiavo e di quanto sia irrefrenabile la volontà di darsi delle giustificazioni.

(Con esclamazione) Dio, quel cesso quante storie ha visto! E quante ne vedrà!

Osservarlo questa mattina sarà divertente. Ogni volta che Marcus fa qualcosa di diverso è divertente: sembra più goffo.

(Entra Marcus sulla scena a i felpati. Si avvicina al letto della bambina, cauto e silenzioso)

Bussare alla porta di una bambina che dorme e svegliarla questa mattina ha un peso. Interrompere una mente giovane e incapace di violenza, mentre magari sogna il miglior sogno che Marcus, da adulto, ha fatto o potrà mai fare, è una prepotenza.

MARCUS (quasi mormorando): Sveglia, stamattina è ora di giochi!

(La bambina assonnata si porta il pugnetto ad un occhio, e se lo stropiccia appena)

IL CANE: Sembra quasi spaventata dal sole che le fa strizzare l’occhio scoperto.

(La bambina mugugna qualcosa) Un lamento perché l’hanno svegliata, ed un sorriso perché questa mattina è sorpresa. Questa mattina è niente scuola. Questa mattina è gioco.

(Marcus e la bambina escono di scena. Il Cane si spinge sul limite del palco. Il sipario dietro di lui si chiude)

Marcus da tempo si chiede quanto sua figlia si stia godendo poco la sua età; fra le mille cose da fare e da imparare alla perfezione non ha più tempo per il gioco. E se a formare la sua mente ci pensa la scuola, questa mattina lui penserà alla formazione del suo gioco.

(Si apre il sipario. Al centro del palco ci sono i tavolini di un bar, e sulla destra,

all’angolo opposto, un cancello chiuso) Così, appena vestiti, scenderanno al bar sotto casa, (ammiccando verso il pubblico)- una buona colazione è essenziale per giocare bene-. Un occhio strizzato, una complicità che farà sorridere la bambina, protetta da un padre, come sempre dovrebbe essere.

(Entrano Marcus e la figlia. La bambina sta mangiando un cornetto) Un isolato a piedi, giacca piegata su un avambraccio, una busta in una mano, e nell’altra una mano delicata di bambino, con la pelle di seta, che distrattamente si sporca il maglione facendo sbriciolare tutto il cornetto, guardando le donne anziane che si affollano al mercato dall’altra parte della strada. “Chi dovrò mai ringraziare per questo?”, penserà Marcus in questo momento.

(Marcus e la bambina si avvicinano al cancello chiuso. Il Cane gli va dietro)

Dopo aver ato l’angolo dove il negozio di musica sta alzando le serrande, sarà più deluso Marcus che la bambina, questa mattina, nell’accorgersi che il parcogiochi è chiuso.

MARCUS: (Amareggiato, leggendo un cartello) “Il parco resterà chiuso fino a data da stabilirsi per lavori”.

IL CANE: (Adirato) Su quel bel prato con i giochi dei bambini e il posto per far correre i cani, ora c’è una ruspa. Dei parcheggi anche lì, sotto il bel parco.

MARCUS: Chi dovrò mai ringraziare per questo?

(La bambina intanto tira il braccio del padre per avvicinarsi il più possibile al Cane e fargli dare un morso al suo cornetto)

IL CANE: (Rivolgendosi al pubblico) Lei questa strada la fa tutte le mattine e già lo sapeva che da settimane oramai il parco è chiuso: il comune si sta apprestando a creare nuovi parcheggi per residenti, assicurando che in seguito sistemerà sopra ai parcheggi anche un nuovo bellissimo parco.

Come spiegare ora ad una bambina che giocare in un prato è molto meglio che sul cemento?

Come spiegare che il futuro non è buttare giù alberi per fare buche dove mettere le macchine, ma buttare le macchine per fare posto a nuovi alberi?

Come spiegare alla propria figlia che suo padre era così preso dai suoi pensieri che, pur ando tutti i giorni per quella via, non si era mai accorto di nulla, che sta contribuendo anche lui, con il suo lavoro, a creare un mondo che mangia tutto e non regala niente?

(Marcus guarda la figlia tristemente e le stringe la mano. La bambina gli restituisce lo sguardo, interrogativa)

Le stringe la mano fino a farla preoccupare, ma non tanto da farle male. Con uno sforzo violento, contro la propria collera, non fa che guardarla.

(Dopo un debole sorriso reciproco, riprendono a camminare nella direzione da

cui sono venuti, ando davanti al Cane, come se non ci fosse, ma dopo pochissimi secondi Marcus rallenta il o, fino a fermarsi, con aria addolorata e meditabonda. La luce illumina soltanto Marcus ed il Cane. Il resto del palco è in ombra )

IL CANE: (Interdetto) Ha rallentato... (pausa). Un’insolita vertigine, seguita da una violenta consapevolezza, si è palesata come una morsa allo stomaco. (Incerto) Uno di quei momenti, forse, dove un attacco di panico sembra essere il momento di lucidità più forte della propria vita, per cui si riesce a cogliere i particolari con discernimento e consapevolezza, spaventandosi e spaventando, dicendo a se stessi di stare calmi, mentre il cuore corre come dovesse fuggire da chi lo insegue ed il respiro si fa faticoso.

(Marcus, con respiro affannoso, si guarda intorno quasi spaventato. Quando il suo sguardo cade sul volto della bambina, che lo osserva incuriosita con la testa all’insù, egli sorride di rimando, per tranquillizzarla. Scena immobile)

Sembra quasi sull’orlo di urlare. Cerca di rassicurare sua figlia, che è tutt’altro che una bambina sciocca. (Guardando il pubblico) Dato che in questi momenti l’ottimismo è l’ultimo aggio della mente, egli probabilmente comincia a vedere attorno a se solo segni di una catastrofe, un’umanità in declino: un uomo di strada vestito di stracci, con la pelle tanto sporca da non poterne vedere il vero colore mentre chiede da mangiare davanti ad un Mc Donald; tanta carta per terra da poter risanare un’intera foresta, gente che litiga e tanto caos, e tanta miseria. Se era questo quello che voleva per sua figlia, se è qui che voleva farla crescere, se è qui che avrebbe voluto farla camminare senza di lui, allora deve essere uno scellerato.

(Marcus prende la figlia in braccio e la stringe a sé, chiudendo gli occhi)

Silenzio.

(Commosso e con voce spezzata, portando le mani giunte al petto) Una mano mi avvinghia il cuore. Vorrebbe portarla via e farla crescere in un mondo migliore, vorrebbe chiederle scusa e di farlo tornare piccolo, di fargli rivivere la sua vita, poter porre riparo ai suoi errori, soprattutto quello di non essersi sforzato abbastanza per diventare un uomo migliore, un uomo diverso, un uomo consapevole, vorrebbe dirle che sarebbe stato meglio tentare ed aver fallito nel più misero dei modi, che non aver mai tentato.

In questo momento, (indicando un punto immaginario all’orizzonte), mentre due uomini litigano dall’altra parte della strada per un semaforo, (indicando un altro punto) mentre un anziano con in mano un cartello chiede del cibo davanti ad un fastfood, dal quale esce gente con in mano patatine e panini, in questo momento di caos, (indicando Marcus e la bambina) c’è un universo calmo, un universo fatto di due persone irripetibili ed uniche, due persone che stanno comunicando: una bellissima bambina che sta rassicurando un povero padre che le sta chiedendo scusa. Il mondo attorno a loro si è fermato e Marcus, ci scommetto, vorrebbe che durasse il più a lungo possibile.

( Entra un uomo di corsa, con in mano una valigetta da lavoro, che li urta bruscamente e Marcus si stacca dalla figlia, più calmo ma con le lacrime che gli rigano il volto. La bambina lo guarda e lui le sorride per rassicurarla)

Marcus comprende quanto la figlia sappia che queste non sono lacrime di gioia, e che forse questo momento lo ricorderà, forse a questo momento da grande poi ci penserà, e ragionerà sul perchè di quest’azione.

(Marcus e la figlia escono di scena, guardandosi, mano nella mano)

“È possibile che sia tutto qui quello che sto facendo per rendere questo un mondo migliore?”. Forse questo si chiederà Marcus nei giorni a venire. Fin da quando era piccolo invocava una risposta quando si domandava se l’uomo ed il suo stile di vita fossero la diretta conseguenza della società in cui viveva, o se la società in cui viveva l’uomo era la diretta conseguenza del suo stile di vita.

Era piccolo, ma la sua sensibilità aveva già colpito nel segno, per cui quando a scuola sui libri vedeva l’evoluzione umana da procacciatore di cibo a contadino, a feudatario,ad industriale, a creatore di guerre, in quegli anni e nei decenni successivi Marcus si rese sempre più conto che è palese quanto l’uomo non si sia affatto evoluto. L’uomo non si sta evolvendo, si sta ingannando, e sta raggirando la propria coscienza, prendendo solo scorciatoie per il baratro.

(Si chiude il sipario)

ATTO SETTIMO

(Consumérisme)

(Sipario chiuso. Parla il cane, fuori scena. Di lui neanche l’ombra, solo la voce)

IL CANE: Una buona storia è inutile, se non c’è nessuno a cui raccontarla.

Silenzio. Strana melodia in sottofondo.

(Con tono intenso) Vapore che esce dalle narici. Bocca chiusa. Orecchie protese, attente ad ogni singolo rumore. Occhio fisso, ma all’erta, cuore che batte costante, clamore fisso, che dà il tempo ad un sobbalzo prima del tuffo, una nota che riempie il cuore, un concerto ogni giorno che accompagna la vita stessa. La foresta che, fitta di alberi ed arbusti vecchi di secoli, accoglie, con il suo suolo umido d’inverno, i raggi del sole, che giocano a farsi filtrare dalla bruma del mattino, che si ferma nel sottobosco, e cresce dal terreno, come il primo respiro della terra.

Eppure, eppure, eppure…il cuore batte, batte, batte, e non smette. Ed il sottile rumore delle foglie che cadono, diventa poi rumore, un frastuono assordante, un rombo di tuono per ogni foglia, una luce abbagliante per ogni raggio nella bruma. La terra non ha nome, non ha padre, né madre, i suoi figli la calpestano e la usano, senza che lei chieda nulla, senza che nessuno pretenda nulla. (Con rabbia e stupore) Se la terra come dio non ha forma, razza e colore, differentemente da me, allora, qualcuno mi dica perché la terra balla e ride con me, nonostante io sia in una prigione di città, e nonostante io, una foresta, non

l’abbia mai vista. D’inverno l’uomo attende l’estate e d’estate ha paura che arrivi l’inverno, ma la terra ha sempre, da sempre, e per sempre l’avrà, la sua estate ed il suo inverno, (eccitato) ed io danzo con lei ogni momento.

(Pausa) È così tanto bella la terra che della città ne ho la nausea. Questo cemento, per quanto lo si possa logorare, non si scalfisce, e assorbe gli odori mandando in tilt il mio naso, facendo rimbalzare i rumori da un lato all’altro della strada, poi dei palazzi, tanto che alla fine rimbalza da una parte all’altra della città, diventando tutto un accozzaglia di suoni e rumori, ed io...vorrei solo sparire.

(Silenzio. Si apre il sipario. Al centro della scena c’è un ufficio: sedia, scrivania, computer, posacenere ricolmo di sigarette, e pile su pile di carte e documenti. Sulla destra la porta di un ascensore. Sullo sfondo una grande finestra che mostra una veduta della città dall’alto: palazzi su palazzi. Il Cane si trova davanti alla ringhiera di un balcone, di lato, sdraiato su un fianco)

È fra queste mura di città, lontano dal suo cuore e troppo vicino al suo culo, che Marcus ha cominciato ad intuire che qualcosa non andava. Mentre cambiava canale alla televisione e notava che c’erano sempre gli stessi volti agli stessi posti, cominciava a vedere che il mondo e tutti gli esseri umani si rassegnano, (risentito) e gettano la loro vita, da generazioni, chiusi nella mentalità di una società piramidale senza via d’uscita, dove ognuno ha il suo compito da dover svolgere e non da poter svolgere, con diligenza e con la bocca chiusa.

Ma è questa la vita? È per questo che si soffre sei giorni su sette per quasi l’intera esistenza?

(Tirandosi su e simulando la voce di Marcus, con fare “pomposo”) “I faraoni erano uomini, ed io potrei essere un faraone, un dittatore, un principe, un

monarca, un politico e potrei essere un Dio”. (Pausa) Ed invece, quando alza la testa dal bancone di lavoro, Marcus vede tante persone intente a prendersi solo le briciole, come i cani sotto il tavolo del banchetto.

Silenzio.

Ha cominciato ad alzare la testa, a vedere, a chiedere, e a darsi delle risposte. Si è come sdoppiato, e una parte di sé ora gli fa da confessore, da mentore, da istigatore, da diavolo ed angelo insieme, da protezione e da controbilancia. È lui ma non è lui, perché dentro di se la coscienza non ha più spazio per le cazzate che si racconta da una vita. Vuole uscire e urlarglielo in faccia.

Silenzio.

(Guardando l’ufficio) L’ufficio è a pareti bianche e puzza di carta stampata.

Tutti lavorano freneticamente al ritmo di dita sulla tastiera dei computer, telefoni che squillano, vibrazioni dei cellulari, carta stropicciata e cestinata, tic nervosi delle dita sul tavolo e le urla di un capoufficio, donna e misogina, grassa e spazientita, che fa parte di quell’elite di persone che può permettersi di guardarti con quell’aria da sufficienza che sembra parlarti e dire: “Continua pure a dormire, al resto ci penso io, beata sonnolenza che tutto immagina e che niente sa”.

(Sentenzioso) Le cose girano così: se non puoi espletare in maniera naturale i tuoi bisogni, sei frustrato. (Con tono elencativo) Entrare in una farmacia per comprare un carrello di clisteri perché mangi riso in bianco da una settimana, ti frustra. Comprare delle compresse per non andare in bagno perché tua moglie ti

porta dall’indiano tutte le sere, è frustrante. L’automasturbazione la sera, davanti ad un computer, con dei siti porno che avevi cercato la mattina in ufficio, è frustrante.

Non poter mai dire la verità è frustrante; e quando una persona è frustrata, cosa fa? Se la prende con gli altri. Ed ecco come diventa semplice vedere nella vita di tutti i giorni chi è scontento e frustrato e chi non lo è, chi scatta su tutti i nervi perché gli hanno portato un caffè freddo e chi no, chi lancia in aria un fascicolo intero di fogli perché l’ambiente non è adeguatamente scaldato e chi... (pausa, ripensandoci) no…si potrebbe andare avanti troppo a lungo.

(Si aprono le porte dell’ascensore ed entra Marcus, a testa bassa, con aspetto trasandato e aria dimessa. Va a sedersi dietro la sua scrivania) Sicuramente Marcus fa parte di quel gruppo di persone insoddisfatte. L’unica differenza vera che intercorre fra le altre persone e Marcus è che in verità a lui questa situazione non piace; dover dare ogni momento in escandescenze per sciocchezze lo riempie di malumore; guardarsi attorno e riconoscersi in alcuni atteggiamenti che sembrano fuori ogni logica lo lacera, lo angoscia.

(La radio trasmette “My love open the door”)

Chissà...magari tutto d’un tratto comincerà a porsi delle domande.

MARCUS:(con le mani tra i capelli ed i gomiti appoggiati alla scrivania, riflettendo, irrequieto) Possibile che da quando sono nato fino ad oggi, ando dai collegi ai posti di lavoro, ovunque io sia andato, l’angoscia è sempre stata con me? Perché la cosiddetta spina non si stacca mai? Sono io il mio diavolo, sono io la mia mela e sono io la donna che la coglie, sono sempre io il Dio e mi punisco. Ovunque vada quella mela sarà sempre con me finché non capirò qual è il mio peccato.

(Pausa) Il peccato è lo spreco. Sprecare la propria vita in funzione di qualcuno/qualcosa è un delitto, e la propria mela viene staccata ogni giorno e si viene puniti ogni giorno.

Vivere in funzione dei figli, del lavoro, dell’amore, di un principio quale esso sia, non dà mai tanta soddisfazione all’uomo come quando si lavora per evolvere se stessi. Ed anche io evolvessi me stesso, mi staccassi da questa placenta che mi lega qui a terra, come potrei trovare la mia via?

IL CANE: (osservando Marcus, rattristato) Guardandosi attorno, in questo momento, si sente estraniato, espulso dal suo stesso corpo e dalla sua stessa mente. Si rende conto di essere inserito in un contesto che non gli sta appartenendo, che si sta proiettando in un pensiero che non corrisponde al luogo fisico in cui si trova. Tutto si fa esponenziale, la paura lo sta fottendo.

(Marcus, fermo sulla scrivania, come in preda ad un attacco di panico, si alza d’improvviso con gli occhi sbarrati, quasi per non cadere dalla sedia, spaventato, vittima di un capogiro. Si massaggia le tempie, per poi spostarsi lentamente davanti alla grande finestra, in fondo, da cui si vedono i grattacieli, offrendo le spalle al pubblico. Immobile. A pugni stretti.)

(Con tono lento) Diciassettesimo piano di un grattacelo. Dentro più di venti uffici, che lavorano e lavorano, e dentro quegli uffici un numero imprecisato di persone (scandendo le parole) che fanno tutti lo stesso lavoro nello stesso momento.

(Pausa. Drammatico) Sta completamente perdendo il senso della vita. In questo momento potrebbe quasi morire, perchè si sente nascere una seconda volta. Sta

partorendo se stesso. La sua coscienza gli sta spezzando la placenta che ha intorno per uscire e volargli sopra la testa a bucare quel pallone di pensieri. Le frasi messe a caso nella sua testa trovano il proprio posto, ma questo in verità non lo rincuora. Con una vita a metà cosa si può fare? Una moglie, una figlia, una famiglia, un lavoro, amici e parenti da aiutare. Anche Marcus volesse sovvertire le regole del gioco, liberarsi dalle catene e far cadere a terra il giogo, cosa potrebbe fare? Dopo aver ato trent’ anni su una scrivania a lavorare, cosa rimane ad un uomo?

Non ha olfatto, non ha fiato, non ha la vista buona, ed il cervello sa solo contare, calcolare o fondersi come in questo momento. (Interrogativo) Che sia impazzito? La paranoia lo sta vincendo? A volte lo stress gioca brutti scherzi, e non sarebbe la prima volta vederlo costretto ad avvicinarsi a degli ansiolitici per placare la sua rabbia repressa e l’ansia immotivata.

MARCUS: (Sempre di spalle) Il cuore mi batte come un tamburo. Vorrei saltar giù da questo diciassettesimo piano e cominciare a volare; o correre, senza sapere dove né perché, l’importante è andare.

IL CANE: (Concitato) Andare a casa, forse, a dire a sua figlia che la vita non è tutta qui e che ogni uomo è libero e può davvero inseguire ciò che vuole, pagandone le spese, certo, però l’importante è capire che si può fare!

Silenzio.

(Marcus fa un o in avanti, verso la finestra)

(Preoccupato) Il cuore ha fatto un salto. Un salto forte.

MARCUS: Il mio cuore ha appena mancato un battito. Ho le vertigini.

IL CANE: E’ spaventato a morte.

(Marcus si ritrae velocemente dalla finestra da cui pochi secondi prima voleva buttarsi giù, respirando affannosamente)

Ha il fiatone e l’adrenalina nel sangue senza aver fatto niente, senza un vero pericolo imminente. (Marcus si volta di scatto e con aria sofferente corre a prendere il secchio dei rifiuti sotto la scrivana per vomitarci dentro) È la paura immotivata che gli fa salire i conati. (Marcus comincia a respirare a bocca aperta e rumorosamente, facendo entrare bene l’aria nei polmoni) Rallenta il cuore, che gli sembrava uscire dal petto.

(Si chiude il sipario)

ATTO OTTAVO

(Doppio Pasto)

(Si apre il sipario. Sulla sinistra, una porta posta di profilo delimita il pianerottolo, illuminato da una luce bianca, dal salone, separato a sua volta, tramite una seconda porta, dalla cucina, all’estrema destra. In cucina una grossa torta di cioccolato si erge maestosa sopra il bancone. Nel salone una grande tavola imbandita, e la figlia e la moglie di Marcus - una donna magra con i capelli neri raccolti - sedute, con cappellini colorati a forma di cono sulla testa. Il Cane osserva, accucciato davanti alla solita ringhiera)

IL CANE: (Sbadigliando e giocando annoiato con la coda) Stanco e affaticato dalla eggiata fino a casa, questa sera Marcus avrà salutato i baristi, come sempre, facendo un ampio gesto con la mano, a far cigolare il portone. E poi su per i piani di questo palazzo, salendo rigorosamente a piedi, per mantenere quella parvenza di fisicità che ostenta quasi con subdolo orgoglio, come a dire: (lo imita prendendolo in giro) “Non fatemi arrabbiare o vi strizzo contro il mio addome!”

(Spento) Sul pianerottolo la luce è quasi bianca ed il colore delle piante rinsecchite sembra neutro.

(Entra Marcus con aria stanca e con indosso il solito impermeabile. Si ferma dietro la porta, infila le chiavi nella toppa, ma, quando la luce che illumina l’abitazione si spegne di colpo – per opera della moglie e della figlia che intanto sono saltate in piedi per correre all’interruttore centrale- egli esita, immobile e interdetto.)

(Divertito e ridacchiando) La chiave nella porta ha provocato lo spegnimento delle luci dentro casa. Questo lo avrà fatto insospettire non poco! (Marcus apre timoroso la porta e resta sulla soglia. Cerca con la mano l’interruttore per accendere la luce, ma la luce non si accende) O la casa è viva e fa ciò che le pare, oppure la sua mano sull’interruttore non fa accendere la luce perché qualcuno non vuole farlo entrare! L’illuminazione del pianerottolo filtra attraverso la porta e sull’ingresso di casa si staglia la sua ombra gigantesca. Fa quasi paura!

(I personaggi sono immobili sulla scena)

(Riflettendo) Se c’è una cosa che le persone odiano da sempre è il buio. Quello spazio nero dove sai che c’è qualcosa ma non la vedi. Perché evidentemente, se hai paura del buio, non è del buio di per sé che hai paura, ma di quello che il buio cela. Non si può avere paura di un colore. Se il buio fosse giallo avremmo tutti paura del giallo!

(La luce si accende di colpo. Moglie e figlia gridano: “Sorpresaaaaa!”, saltando e battendo le mani. Anche il Cane fa un balzo in piedi e si mette a gioire festosamente, compiendo i medesimi gesti) (Guardando gli spettatori) Per fortuna la casa non è viva, la luce c’era!

(Pausa) È il suo compleanno ed è l’unico ad esserselo dimenticato.

(La figlia corre incontro a Marcus e lo abbraccia, mentre lui fa cadere la valigia da lavoro giusto in tempo per poterla prendere al volo. L’abbraccio è intenso e dura un momento, prima che la figlia si stacchi, prendendolo per mano e tirandolo verso la cucina)

(Annusando l’aria) Dall’odore di dolce che c’è nell’aria Marcus sa già benissimo che troverà una torta orrenda, ma buonissima.

(Marcus e la moglie si salutano con un debole bacio sulla guancia, mentre la figlia, con euforia, cerca di trascinarlo in cucina, per mostrargli ansiosa la torta tutta storta, simile ad una piramide, interamente ricoperta di cioccolato. Marcus sorride, senza stupore)

Una torta orrenda. Con in cima il numero sbagliato di candeline.

MARCUS: (Fingendo di essere meravigliato e con convinzione) È bellissima amore! (Affonda un dito nel primo strato di cioccolata e assaggia il dolce)

IL CANE: (Ridacchiando tra sé e sé) Mettendola in bocca scoprirà sicuramente che, a parte la consistenza cremosa, ha il sapore del cioccolato con mezzo chilo di zucchero!

MARCUS: (Guardando amorevolmente la figlia) Eccezionale amore, è la torta più buona che potessi mai fare!

(Voltandosi verso la moglie e accorgendosi che lo sta esortando con lo sguardo ad accendere e spegnere le candele) Al termine della cena, promesso!

IL CANE: (Ammiccando al pubblico) Cena che sarà brutta tanto quanto la torta, ma sicuramente molto meno buona. Un dolce.. (pausa) è dolce per definizione, si

può sciogliere la cioccolata e mischiarla con molte altre cose, ma sempre un sapore di cioccolato avrà. Di solito tutto quello che sa di cioccolato è buono. Mentre per il salato - quindi la prima e la seconda portata- i sapori sono sempre a rischio. Perché la divisione e l’unione dei sapori, la sperimentazione insomma, non è mai come quella dei dolci. Infatti non esiste un sapore salato simile alla cioccolata che si abbina sempre e comunque con tutto. Forse il basilico.

(Si siedono tutti insieme alla tavola imbandita, e cominciano ad assaporare le varie portate, mentre il Cane li osserva dall’esterno. Marcus trova dietro ogni posata dei bigliettini che legge a bassa voce sorridendo, mentre la bambina, autrice del gioco, lo guarda felice e trepidante)

Quei biglietti nascondono frasi dolci come la torta, e, come gli altri anni, svelano sicuramente alcuni degli ingredienti con i quali hanno cucinato. Marcus sorride, ma senza ombra di dubbio presagisce una nottata ata a vomitare! Questo pomeriggio la moglie ha infatti avuto la geniale idea di andare a prendere prima la bambina a scuola ed insieme a lei cucinare dopo la cena per Marcus. In verità, poi, si scoprirà, che è stata la figlia ad aver insistito con la madre perchè si mettessero a cucinare assieme per fare una sorpresa al papà. Tipico! (Con tono irrisorio) Fatto sta che durante tutto il pasto la moglie e la bambina non fanno altro che descrivere con cura il modo in cui hanno cucinato quello che stanno mangiando. Ma soprattutto quanto si sono divertite!

(Disgustato) Hanno fatto così tanto caos che è schizzato un pò di sugo del primo nel secondo, un pò di dolce nel primo e un pò di secondo nel dolce, così da avere dei gusti terrificanti in tutti i piatti, allo stesso modo.

(Fissandoli) Le posate ano sotto i loro nasi, (la moglie di Marcus si alza per cambiargli il piatto e gli fa una carezza sulla spalla) e, ogni volta che la moglie si alza per cambiare piatti, tocca la spalla del marito e lo guarda con un sorriso complice e dolce, che da tempo forse Marcus non gustava. (La bambina, intanto, tra una portata e l’altra, gioca con un orsacchiotto di peluche seduto al suo

fianco) (Ironicamente) Mentre la figlia parla con il peluche accanto, cercando di convincerlo che quello che vede galleggiare nel piatto insieme alla pasta non è un pezzetto di cannella, ma un pezzetto di ramo cadutole dai capelli.

(La moglie si alza lanciando uno sguardo di rimprovero al marito e si dirige in cucina)

MARCUS:(Alla figlia) Papà va a prendere un’altra bottiglia d’acqua in cucina! (Prendendo la bottiglia d’acqua vuota sul tavolo, si alza e si dirige verso la cucina, raggiungendo la moglie)

(Infastidito) Che c’è?

MOGLIE: (Esitando, triste) Ma niente…(pausa). (Risentita) È che potremmo are molte più sere così se tu lavorassi di meno e assi più tempo con la tua famiglia.

IL CANE: (Al pubblico) Ecco, ci siamo. Ma perché voler litigare sempre e comunque anche nei momenti meno appropriati?

MARCUS: (Nervoso, aprendo il frigo alla ricerca di una bottiglia d’acqua) Lavora tu al posto mio, così io posso are più tempo con mia figlia!

MOGLIE: (Incerta) Hai capito cosa intendo…(pausa) io…(pausa)

MARCUS: (Tagliando corto, lapidario) Si che ho capito. E hai ragione. Ma non è il caso di discuterne adesso. Abbiamo fatto insieme delle scelte ed ora dobbiamo portarle avanti.

(Marcus torna in salone a giocare con la figlia, mentre la moglie resta impietrita in cucina)

IL CANE: La moglie di Marcus in questo momento non si rende conto del peso che hanno quelle parole per lui. Se solo le potesse dire con serenità che poche ore fa è svenuto durante il suo turno di lavoro, e quando si è risvegliato si è trovato davanti il dito indice di una donna grassa e felice che lo ha aggredito dicendogli: (scimmiottandone il tono di voce ed il gesto) “Hai finito di svenire? Ieri ti sei recato dal medico e non sei più tornato! E sono giorni, settimane, se non mesi oramai, che non combini niente! (Ad alta voce) Licenziamento disciplinare per giusta causa!”, ha urlato mentre, intorno a lei, si sono ammassati tutti i colleghi di Marcus, che si sporgevano con il capo a formare un circolo di teste curiose per vedere come stava.

(Scimmiottandola di nuovo) “Rifiuto ingiustificato e reiterato di eseguire la prestazione lavorativa!”

(Facendo su è giù con l’indice) E il dito ha fatto su e giù di nuovo.”Rifiuto a riprendere il lavoro dopo visita medica che ha constatato l’insussistenza di una malattia!”. Ed il dito è salito e poi sceso, apostrofandolo con un movimento simile alla lama della ghigliottina. E sotto la lama c’era la sua testa, quando ha calato definitivamente la falange dicendo:(autoritario) “Io ti caccio, bello mio!”.

(Rassegnato) È svenuto almeno un altro paio di volte dopo quella frase. Purtroppo quello che gli ha detto la gerarca è del tutto vero, e lui lo sa bene.

(Nel frattempo, la moglie di Marcus ha raggiunto il marito e la figlia al tavolo)

(Guardando la famigliola) Ma nonostante tutto, sono tornati entrambi a tavola con il sorriso sulla faccia e, fra un boccone e l’altro, io, un cane solo, mi ritrovo a guardare un uomo che non è solo, ma che si sente terribilmente solo. Si vede da come, con il capo chino, da tempo si porti un peso dentro. La figlia si sta sempre più accorgendo che qualcosa non va e lo guarda curiosa, come un animaletto troppo furbo. Gli animali, a tal proposito, riescono a sentire se in un loro simile c’è qualcosa che non va! Riconoscono la malattia e la sofferenza e si allontanano o per spavento o per la volontà di non essere contagiati. Per gli umani a volte è ancora così, e la figlia di Marcus riconosce, sotto la buccia di buonismo del padre, che qualcosa non va.

FIGLIA: (Indicando l’orsacchiotto di peluche, vestito come un soldato, e con il nome di uno dei tre moschettieri) Aramis vuole sapere che cosa hai papà! Dice che ti vede triste. Non ti piace la cena?

MARCUS: (Cercando di rassicurarla) Ma no, non ho niente, perché?

IL CANE: “Ma guarda tu se devo essere scoperto da una bambina!” starà pensando fra sé e sé.

MARCUS: (Stroncando prontamente il discorso) Non mi vuoi portare la torta?

(La bambina, in preda alla felicità, sorride e corre maldestramente in cucina per prendere il vassoio della torta, ma dato che il bancone ancora la supera in

altezza, la madre la raggiunge prontamente per aiutarla)

IL CANE: (Scuotendo la testa amareggiato) Peggio di così la serata non poteva andare. Tutti si stanno accorgendo che qualcosa non va, però, stranamente, Marcus non sembra avere voglia di recuperare, anzi. Forse ha quasi voglia di sfogarsi e dire tutta la verità. Gli si legge sulla fronte canuta, oramai, che è sull’orlo del precipizio, ed io riesco a leggerlo bene.

(La moglie e la bambina portano cautamente la torta in salone e la poggiano sul tavolo)

FIGLIA: (Elettrizzata) Vediamo le foto papà?

IL CANE: (Stirando le labbra) Ahia.. un’altra di quelle notizie che può solo che non fargli piacere.

Guardate quella piccola peste, tutta contenta mentre tenta di salire e mettersi comoda sulla sedia, proprio come una bambina distratta che con la lingua fra i denti sorride e con il dorso di una mano si toglie i boccoli castani dal viso.

(La moglie, sorridente, fa un cenno di assenso con il capo e batte un colpetto di approvazione con la mano sul tavolo. Si alza felice e si dirige, sul fondo del salone, verso una libreria dove sono riposte le enciclopedie. Dallo scaffale più alto prende un album di famiglia impolverato e torna a sedersi. Marcus, sforzandosi di mantenere un’espressione dolce, non ha battuto ciglio)

(Distogliendo lo sguardo dalla donna e tornando a fissare il pubblico, pensieroso) Che poi... (pausa) se uno li mette in alto un motivo ci dovrebbe essere. Se sono riposti di fianco ad una cosa inutile come un’enciclopedia cartacea un motivo ci sarà.

(Pausa. Ironico) Però no. Quel pesantissimo tomo verde, dalle pagine ingiallite, è diventata la leva per finire il dolce. O si mangia tutto tutti, o niente foto. Il che potrebbe apparire la vera via di fuga per Marcus, che sta guardando la figlia con aria complice e il suo sguardo si posa sulla torta e risale sulla figlia, come a dire “dai non la mangiamo, vediamo che fa”.

(La figlia, proprio mentre Marcus la guarda sfidandola, si infila in bocca la prima forchettata di torta) O ha capito tutto,e allora è preoccupante, o non ha capito niente, ed è preoccupante lo stesso, perché in questo modo fa saltare l’ingenuità della moglie, che con crudeltà si stava già apprestando ad aprire quella sfilza di fogli ingialliti ai quali sono attaccate le foto, infilate per i quattro angoli in incastri sbilenchi, alcuni dei quali arrangiati con lo scotch.

Quelle foto in bianco e nero gli susciteranno sicuramente dei ricordi. Alcuni belli, ed altri che…(pausa, correggendosi). Ma forse nessun ricordo è brutto, se serve ad arrivare alla meta.

(Si chiude il sipario)

ATTO NONO

(Croyance)

(Si apre il sipario. Stessa scenografia dell’atto precedente: sul tavolo ci sono ancora i rimasugli della cena terminata e della torta. Nessuno ha sparecchiato. Marcus, con il cappellino a cono in testa, seduto a capotavola, si rigira tra le mani un bicchiere di vino, malinconico. Il Cane, davanti alla ringhiera, dorme sdraiato su un fianco)

MARCUS: (Quasi mormorando, scocciato) “Marcus, è a tavola!”. Frase per me rara da sentire in qualsiasi contesto sereno di una qualsiasi casa.

(Beve un sorso di vino) Fin da piccolo le uniche persone che mi chiamavano per il pranzo erano una suora e al massimo una camla. Quando poi ci si ritrovava a decine sugli stessi tavoli delle mense del collegio a mangiare tutti insieme, quei piatti non assomigliavano affatto a un buon pasto cucinato con amore dalla propria madre, ma anzi sembravano più un castigo,(con rabbia) un martirio pieno di spine da dover mangiare per scontare i peccati. Infatti, la preghiera mattutina spesso non si rivolgeva alle proprie famiglie o ai propri cari, di donargli salute e ogni bene, ma alla propria cuoca, che potesse avere un irrefrenabile attacco di bontà, o semplicemente che quel giorno nel piatto non ci fosse sempre lo stesso capello lungo ed unto nella minestra.

(Ride mestamente)

Per un bambino, e poi un ragazzo, vivere in un contesto come quello di un

collegio, non è poi così frustrante. La compagnia a qualsiasi ora non manca, gli orari sono quelli che sono e non cambiano mai, e si ha tutto il tempo di instaurare amicizie, disfarle, costruire inimicizie, o consolidarle.

Per un fattore caratteriale, io sono sempre stato portato a evitare la lite o comunque a cercare di non trovarmici in mezzo. Cosciente della mia stazza, non da guerriero vichingo, ogni volta che inevitabilmente, in un modo o nell’altro, mi ero trovato in mezzo ad una scazzottata le avevo sempre, tassativamente, prese. Per fortuna che nel collegio di ragazzi grossi e particolarmente poco svegli ce n’erano, così da poterli circuire e farseli amici. Indubbiamente c’era anche il tempo delle vere amicizie, fra i ragazzi della propria camera con i quali si organizzavano le uscite di nascosto sotto la pioggia, o i furti nella mensa, progettati a regola d’arte per poter far cadere la colpa sempre su qualcuno ed avere un alibi di ferro.

(Beve un sorso di vino) Non ero affatto un discolo, come penserebbe qualcuno, né un monello, o un approfittatore. Ma, anzi, una personalità che fin da subito ha compreso come gira il mondo, e senza creare danno a nessuno si muoveva sempre in direzione di Robin Hood: toglieva al padrone ciò che aveva in eccesso, e lo consegnava poi alle sue tasche. Si, è vero che Robin Hood le riconsegnava alle genti povere di Nottingham, però, in quel momento, (indicandosi il petto con una mano e guardando gli spettatori) chi poteva essere più povero di me? (Cenno di assenso con il capo e voce ferma) E, quindi, era giusto tenersele quelle cose.

Silenzio.

Le amicizie, sotto questo punto di vista, non sono mai mancate. Saper come prendere per la gola, per la gelosia, per l’istinto una persona e portarla dalla propria parte non era semplice, mentre lo era davvero di più imparare a fidarsi spontaneamente di una persona e rimanergli amico a lungo senza dubitare mai. Quando non si ha in mano la situazione e non la si può gestire, ma questa prende

la strada che vuole, e le responsabilità sono la metà di un amico e la metà dell’altro, beh.. allora è tutto un altro discorso. Fidarsi era sempre stato un problema. Spontaneamente non c’era motivo di fidarsi di qualcuno tanto quanto, o di più, di quanto ci si fidasse di se stessi. Per come la vedevo da piccolo, era impossibile che qualcuno potesse ottenere la fiducia senza pagare un prezzo parecchio alto.

Per questo e per altri motivi di veri amici d’infanzia non ne ho mai avuti e poiché il mio animo non è mutato nel tempo, nemmeno quando sono diventato un uomo ho potuto vantarne molte, di amicizie.

(Assorto) Quanto è stato difficile fidarsi di un amico, altrettanto è stato difficile fidarsi di una donna.

(Indispettito) Orrendamente segnato dalle mie esperienze familiari, fui involontariamente spinto a pensare che le donne fossero tutte come mia madre: poco colte, con la schiena curva dal lavoro e con unico interesse: la macchia sul tappeto del salotto che non se ne va via nemmeno se lo bruci. (Parodiando la voce della madre) “Ma perché non ce ne compriamo un altro che poi magari sta anche in tinta con le veneziane?”

Silenzio.

(Sbuffa) Ciò che avrei sempre voluto chiedere a mio padre è perché un uomo così apparentemente intelligente, anche un po’ belloccio, con molti interessi, un eccellente lavoro, sicuro di sé, avesse mai potuto incontrare, amare, e poi sposare con l’idea di metter su famiglia, una donna del genere. Non aveva alcuna logica.

(Ricordando) Le ragazze che ho conosciuto nella mia vita sono state metà la copia di mia madre, metà l’opposto diretto, e siccome a me gli estremi non sono mai piaciuti non mi sono mai apionato a nessuno dei due schieramenti. Eppure.. arriva un’età in cui, che uno lo voglia o no, qualcosa di una ragazza/donna comincia ad interessarti, e con un irrefrenabile moto spontaneo e diretto ci si ritrova a parlarci e a chiedergli di uscire. Mentre tutti i miei amici erano già fidanzati, o comunque avevano avuto le loro buone esperienze, io., più in là dell’amicizia, non ero mai andato. Un pò per volontà, un pò per casualità e destino, le ragazze erano tutte diventate grandi amiche. Purtroppo, però, poi diventavano così grandi amiche che ad un certo punto provavano un diverso interesse nei miei confronti, avvicinandosi in maniera ogni giorno diversa, fino a palesare i loro interessi. Bene, quello era il momento per me (gesto della mano) di mettere un segno rosso sull’amicizia.

(Beve un sorso di vino) Ero totalmente incapace di esprimere un sentimento che andasse oltre l’amicizia, per paura di dovermi trovare accanto, un giorno, una donna come mia madre.

Detto fatto, in pochissimo tempo la giovinezza è ata, mentre la consapevolezza sormontava come un cane rabbioso, mangiando gli anni sulla mia schiena, e facendo sentire il suo peso grasso e flaccido, costringendomi a due opzioni: (contando con le dita) morire solo come un cane, o con un cane.

Silenzio.

(Gioca con il bicchiere, poi si versa dell’altro vino) (Tono solenne) Il dramma: gli anni dell’università erano finiti e oramai trovare una ragazza che volesse solo diventare amica di un uomo single era difficile. Impossibile trovarne una che volesse essere amica per una sera e, nonostante tutto, il mio animo non voleva mettersi in pace.

La mia storia d’amore non inizia con un colpo di fulmine ad un concerto o nei bagni di un teatro, o con la casualità di una commedia d’amore anni novanta americana.

Lei era casalinga, figlia di casalinga, abitava al piano sotto al mio, nel quartiere dove sono nato. Era una ragazza con la quale ricordo d’aver giocato da bambino, insieme ai miei fratelli.

(Ricordando) Il tutto si ruppe quando, alla fine di uno di quegli interminabili pomeriggi d’agosto, quando saltare la corda è quasi una tortura, ed il cemento dove era disegnato il gioco della campana fumava come fosse un forno , uno dei miei fratelli più grandi mi guardò e, deciso, si alzò.

Nessuno seppe mai cosa gli frullò nella testa, ma si diresse a testa alta dall’altra parte del cortile, formato dai due palazzi, racchiusi in un comprensorio, che disegnavano un esatto quadrato. Al centro c’era una guardiola dove dentro non c’era nessuno, altrimenti con quel caldo si sarebbe sciolto, e tutto attorno panchine e aiuole coltivate e mantenute dalle casalinghe più volenterose.

Fatto sta che da una delle panchine in possesso al clan dei maschietti, mio fratello si alzò e si diresse verso la panchina in possesso del clan delle ragazze che, distratte dall’ultimo paio di scarpe verniciate, non si accorsero che un ragazzo si stava avvicinando. La sua andatura faceva quasi presagire un atto violento che invece si manifestò in un bacio, proprio a lei. L’urlo che seguì, qualche secondo dopo, fu agghiacciante. E agghiacciante fu l’occhio nero che il fratello maggiore di lei fece a mio fratello quando lo venne a sapere. Così i rapporti un pò si ruppero e gli incontri non avvenivano più tutti insieme.

L’altro mio fratello rimase comunque in buoni rapporti con lei ed il giorno del suo matrimonio la invitò, confinandola al tavolo, impossibilitato a fare

altrimenti, (indicandosi) con l’unico altro single della festa. (Con sarcasmo) Questo voleva dire solo una cosa: che se ad un matrimonio i tavoli sono da dieci persone e solo due persone, in tutta la festa, sono single, allora li si mette al tavolo dei bambini. Erano tutti piccoli parenti della mia famiglia e lei, con il suo carattere già da apparente buona mamma, in poco li conosceva già tutti.

(Seccato) A me,invece, quella sera non venne fatta alcuna richiesta di preferenza, e nonostante fossi il testimone, mi ritrovai alla cena di nozze al tavolo con otto bambini che urlavano ed una sconosciuta.

Silenzio.

(Si scola il calice di vino)

Quella serata si rivelò piacevole e con l’inganno, un pò dell’astinenza, un pò dell’età, un pò del vestito (pausa)... diciamo (pausa)... per un bel po’ di inganni, mi ritrovai anche io con una catena al collo il giorno del mio matrimonio, di lì a poco.

(Sardonico) Quella dolce e carina bambina con la quale amabilmente si poteva giocare, e che era così carina mentre interloquiva con dei bambini ad una cena di matrimonio, con gli anni si era rivelata una famelica donna di casa, in astinenza da libertà e bramosa di ciabatte di pezza. E se c’è una cosa che un uomo odia sono le casalinghe incazzate con le ciabatte di pezza!

Capelli sempre puliti ma arruffati, cucina sempre pulita e parquet senza una riga, obbligando tutti a volare con le pattine per il corridoio ed il salotto. Per nostra figlia è divertente usare delle pattine che le permettono di fare gli scivoli lungo i

corridoi, ma per un uomo adulto, con dei problemi di scoliosi e un ginocchio lussato, questo non è ciò che si era da sempre immaginato pensando alla casa in cui sarebbe ritornato stanco dal lavoro.

Non si può dire che la fame d’amore nella nostra coppia sia calata con gli anni. (Sentenzioso) Il desiderio, la libido, semplicemente non ci sono mai stati.

Silenzio.

(Versa altro vino nel calice, e lo osserva facendo roteare il bicchiere)

Ho scoperto che mia moglie era incinta in un giorno come gli altri, in un momento come gli altri e per puro caso, guardando semplicemente una pancia che si estendeva in maniera anomala per via di un rigonfiamento teso verso l’esterno, e in assenza di rotolini di grasso. Questo mi poteva far venire in mente alcune ipotesi: (facendo il conto con le dita) non poteva trattarsi di semplice adipe per via della forma e della consistenza, non poteva essere aria altrimenti sarebbe esplosa di lì a poco, e non poteva essere incinta perchè (pausa).... (imitando la propria voce) “Cara, sei incinta?”(imitando la voce della moglie) “Si, perché non te l’ho detto?”

(Fa un grosso respiro rumoroso)

In questo clima gioviale, dopo pochi mesi, avevo un’altra prospettiva di casalinga da mettere al mondo. Questa idea la odiavo perchè (categorico) se c’è una cosa nella vita, a partire da mia madre alle amiche di mia moglie, che ho sempre odiato e che odio, sono le casalinghe. Ma non si poteva fare altrimenti. Ero il solo in casa a lavorare, la bambina avrebbe ato molto tempo con la

madre, e di lì a poco avrebbe scoperto ed appreso i segreti per sgrassare il lavabo della cucina, trasformandosi anche lei in una casalinga.

(Alzando gli occhi e le braccia al cielo) Se c’è un Dio nei cieli è per grazia sua che mia figlia, nonostante stia crescendo sempre più viziata e addentro ai segreti casalinghi, non si è apionata mai ai lavori del “mettilosgrassatore,togliilsugodalfuoco”, e con uno sforzo sovrumano.

Silenzio. (Ragionando) Mi sono ripromesso di trascorrere molto più tempo con lei. Anche se questo dovesse togliere attenzioni a mia moglie. Il che, a pensarci bene, suona più come un incitamento, che come rinuncia.

(Si scola il bicchiere in un unico sorso, e si chiude il sipario)

ATTO DECIMO

(Démission)

(Si apre il sipario. E’quasi sera. Sul palco, all’interno di un bar, Marcus è seduto al bancone a sorseggiare una birra. Poche persone ai tavoli. Un barman anziano che pulisce i bicchieri con un panno sudicio. Il Cane, appena distante sulla destra, e appoggiato ad un semaforo -ad indicare che osserva la scena dall’esterno- sta mangiucchiando un osso.)

IL CANE: (Ciancicando, per via dell’osso) Questa città, questo quadro astratto! Il tramonto si mischia allo smog e l’omogeneità si fa maschera per i veri colori. Anche l’amore che provavo per essa è diventata maschera. Non si ama più per sentimento, ma per abitudine. Si ama perché si ha la necessita di amare, altrimenti moriremmo. (Indicando l’osso) Non amo l’osso che mastico ogni sera, ma lo devo fare, altrimenti morirei. Faccio finta che mi piaccia, come faccio finta che mi piaccia questa vita e la vivo ugualmente, come mastico quest’osso. Questa vita che continuo a masticare e masticare. Potrei ingoiare, è vero, e continuare a mordere e vedere che ne esce. Però non lo faccio perché tanto, ormai, continuo a masticarla, pensando ad un sapore da unire a questo grigio. Si, perché non c’è colore da vedere nel grigio, c’è solo da immaginare.

(Guardando Marcus) È così che fa lui con sua moglie: lui non la ama, non sa nemmeno se è ancora capace di amare. Sa solo che quello che dovrebbe provare è amore, e allora si costringe a provarlo nei suoi confronti, mettendo anche qui una maschera su di lei, pensando che sia un’altra cosa, un’altra persona. Forse più facile da amare, perché no. E ogni volta che lei rovina tutto con una frase senza senso, o una delle sue geniali accuse, questa maschera (pausa)... puff...cade, e si scopre quello che c’è sotto, e non piacendogli lui scappa a bere nel primo bar che trova:(derisorio) sempre lo stesso. Cancellando quel ricordo e

cercando l’immagine che aveva amato nella sua mente, non quella che lo attendeva a casa. Come io nella mia mente cerco la città che avevo amato e non quella che vedo ora, con quest’alba di smog e puzza.

(Getta l’osso lontano da sé, si siede a terra, osserva l’orizzonte. Un punto immaginario)

Non vedo l’ora che da questo cielo piova acido e sciolga tutti i colori grigi e tutte le loro maschere, e questa terra possa continuare a far vedere il suo colore. Quel colore che prende il posto del nuovo grigio, quel grigio che mi ottenebra il cuore, come se un macigno ci stesse sopra. Sono un cane che sta seduto sul suo culo fuori da un bar di una città, e guarda un uomo seduto al bancone che si è messo un bicchiere davanti ad un occhio. (Marcus si porta il bicchiere di birra vuoto all’occhio sinistro per guardarne il fondo. Entrano in scena delle ragazze giovani che stanno facendo jogging. ano davanti al bar per poi uscire lateralmente.) Marcus è uscito di casa e si è seduto qui, in questo bar, cercando forse di capire dove andranno mai al tramonto, e tanto di fretta, delle ragazze straniere in tuta che corrono e ridono. Si rende conto di non aver mai retto un gran che l’alcol, probabilmente.

Guardando il fondo del suo boccale, forse si sta accorgendo che attraverso la composizione del vetro lavorato le cose attorno a lui perdono la forma reale, e ne assumono delle altre, magari cambiando anche un pò colore, (disgustato) dato lo sporco che c’è sul fondo di quel bicchiere.

MARCUS: (Continuando a guardare il fondo del bicchiere, con aria interdetta) Chissà se anche la mente delle persone è come questo bicchiere. Io, magari potrei vivere tutta la vita con questo bicchiere sugli occhi, e chi mi dice che il barista, in verità, non ha la faccia ottagonale ma tonda? E anche qualcuno me lo dicesse, perché dovrei credergli? Intuizione geniale, ma non basta. E soprattutto (pausa)...sono stanco di avere sporadiche intuizioni geniali. A cosa mi stanno servendo? Sono troppo giovane per uccidermi e troppo vecchio per cominciare a

cambiare le cose secondo quell’intuizione geniale. A volte mi sento soddisfatto di me stesso per queste idee; altre volte, invece, vorrei essere come tutti gli altri, che fieri e contenti fanno il loro sporco lavoro, senza chiedere niente a nessuno, nemmeno alla loro coscienza. Magari arrivano a casa e trovano anche una moglie comprensiva che, oltre a fare bene l’amore, gli dà qualche soddisfazione facendogli regali e cose simili. (Assorto) La soddisfazione. Beh, qual è la mia?

IL CANE: (Al pubblico) Oramai parla da solo, sbrodolandosi i concetti addosso.

MARCUS: (Alzando il tono di voce in un crescendo, mentre le persone sedute ai tavoli cominciano a guardarlo) Io arrivo a casa, e cosa trovo? Una moglie in ciabatte che prepara la cena e si lamenta di quanto ha lavorato? Da bambino la mia soddisfazione era tornare a casa e trovare una madre in ciabatte che si lamentava di quanto aveva lavorato, potrebbe essere diverso da così? Qual è la mia soddisfazione? (Adirato) Sono davvero stato mandato su questa terra per soffrire a causa dei miei pensieri e sorbirmi donne che ciabattano e fanno finta di amarmi per loro compiacenza? Se ho fame, devo andare a cacciare e sono soddisfatto perché più caccio e più mangio, più lotto e più vinco, ma seduto ad una cazzo di scrivania, quale soddisfazione posso avere? Seduto sopra una poltrona con una donna-ciabatta, cosa posso avere?

IL CANE: (Alzandosi, preoccupato) Non si rende conto che invece di sbrodolarsi il discorso addosso lo sta sbrodolando a tutto il bar, e lo sta urlando a tal punto che tutti, ora, lo stanno guardando.

(Un uomo mette una mano sulla spalla di Marcus, ma l’unica reazione di quest’ultimo, troppo preso dai suoi pensieri, è quella di girarsi di scatto e puntare la propria mano, stretta in un pugno, all’altezza della sua faccia. Si chiude il sipario.)

ATTO UNDICESIMO

(L’amour et à la maison)

(Si apre il sipario. Mattina presto. Letto matrimoniale sulla sinistra: Marcus e la moglie stanno ancora dormendo. Sulla destra, separata da una porta, c’è la camera della figlia, che riposa nel suo letto. Fuori sta piovendo. Il Cane, rannicchiato davanti alla solita ringhiera, si copre con un cartone)

IL CANE: Marcus rimase piccolo per molto tempo. Per sua completa non curanza che, attenzione, non è menefreghismo, o vizio, ma è semplicemente la volontà di rimanere come si è perché si è soddisfatti. Si, perché quando si è piccoli, e si ha quell’età in cui tutto è dovuto, in cui chi ti circonda sa che tu non puoi ancora sapere, ti si perdona tutto. Anche se in verità intuisci già che se mordi la mano del papà lui farà una smorfia, lo fai ugualmente, con consapevolezza, e attendi con occhi dolci che il papà sposti il suo sguardo su di te e ti dia una carezza, perché…perché sei piccolo. Lui di queste cose non ne ha mai fatte, anche se il principio è stato lo stesso. Sapeva che se avesse fissato una persona a lungo prima o poi quella si sarebbe voltata, eppure ogni volta lo faceva. Sapeva che se avesse osservato gli alberi in autunno quelle foglie sarebbero cadute, che mentre fuori piove, se poggi il naso al vetro della finestra, si crea la condensa. Che se mentre fuori piove, ti appoggi alla finestra e guardi per terra, vedi migliaia di anelli concentrici che appaiono e spariscono nelle pozzanghere sempre con lo stesso ritmo, come fossero le pulsazioni di un cuore che corre. Lo sapeva, ma non smetteva di farlo, non si annoiava mai della pioggia e della condensa, non cambiava mai qualcosa, perché niente è mai uguale a se stesso. Gli anelli nelle pozzanghere non sono mai uguali, e la condensa è sempre uguale, ma i disegni che si possono fare sono infiniti, e come una lavagna naturale si può cancellare e ricominciare.

Se c’è una cosa che la società può obbligarti a fare è crescere, ma non può obbligarti a non adattare le tue sensazioni in base a quello che cambia intorno. E fu così che Marcus, oramai cresciuto, cominciò a fare disegni nella condensa, non più nella finestra di camera sua, ma sui treni che velocemente lo portavano da un lavoro all’altro, da un grigio all’altro. Quando ora fissava le persone, scopriva che, quando si voltavano, la loro espressione era inacidita e non più rassegnata ad una persistenza fanciullesca, ma anzi, disturbata da quello sguardo insistente, intento a scavare nel viso ed entrarci dentro, a comprenderne lo stato d’animo. Lo sguardo di un disturbatore.

È nei viaggi di fine settimana che continuò ad osservare gli alberi in autunno, e i cerchi nella pioggia. Gli alberi e le gocce, a differenza delle persone, non tradiscono mai, rimanendo sempre con l’animo romantico e sereno, immutabile, donando sempre la stessa sensazione, anche dopo molti anni ati. Anche a scuola queste piccole particolarità di Marcus furono spesso scambiate per forme di astrazione, o di menefreghismo, o di scortesia. Fissare troppo una ragazza voleva dire prendersi uno schiaffo, ed il fissare troppo a lungo una professoressa lo si pagava con un viso preoccupato, o un richiamo per disattenzione.

(Pausa) Quando si trova appagamento nel fare una cosa, si vorrebbe sempre che quell’azione duri il più a lungo possibile. Quando si corre per volersi sfogare, si corre fino a che non si ha fiato. Lo si fa con ione, e se ne ricava sempre una soddisfazione personale e interiore. Allora smettere di fissare le persone, o di fare disegni nella condensa sui vetri d’inverno, era come legare i piedi ad uno che vuole correre e correre per sfogarsi, come impedire ad un musicista di suonare. Però, forse, anche questo fu un aspetto che mutò nell’animo di Marcus, facendolo poi ritrovare, anni e anni dopo, nella stessa posizione, un pò prono, con l’espressione più sofferente.

Silenzio. (Marcus si sveglia, stiracchiando le braccia. Si infila le pantofole, con aria spenta, ed esce di scena ciabattando)

(Ragionando e guardandosi intorno) La pioggia può trasformarsi in un ottimo espediente: ovviare ad una giornata tediante per negozi, o in strada, standosene in casa a guardare le gocce che cadono sul vetro, vivendo un pò, finalmente, di sana aria familiare. (Pausa) Ora che ci penso, ti permette anche di rintanarti nel tuo appartamento per evitare qualcuno, là fuori, che magari ti sta aspettando.

(Rivolgendo lo sguardo a Marcus e poi al pubblico, rassegnato) Ha colpito quell’uomo, in quel bar, in piena faccia, con un pugno, e probabilmente gli ha rotto il naso.

Dopo aver sferrato il colpo, ed essersi guardato attorno per un pò, ha esaminato la mano che cominciava a diventare rosa nel punto in cui ha picchiato contro il viso dell’individuo, e subito dopo, barcollando, è uscito di fretta per tornare a casa. Non sa nemmeno perché lo ha fatto, perché ha colpito quell’uomo, ma la rabbia in quel momento gli era montata così tanto dentro che non poteva più contenerla. Era grave, e se lo avesse ucciso? Se fosse stato un ragazzo? E se gli fosse accaduto mentre era con la figlia, cosa avrebbe detto? Per sua somma fortuna non è avvenuto niente di tutto ciò, e l’uomo che ha colpito con un pugno nel bar è un viso conosciuto, della palestra all’angolo.

(Intanto si sveglia la moglie di Marcus. Si infila le pantofole anche lei, e subito comincia a rifare il letto, nervosamente e con pignoleria)

Ma l’aspetto negativo di questa giornata, in casa con la pioggia, sta sopraggiungendo al suono di ciabatte e la degustazione dell’aria familiare, (precisando) e domestica, si risolverà in pulizie, pulizie, pulizie.. anche se alla fine ti accorgi che v’è poco da fare in casa a parte il ciabattare stesso e il mettere apposto quelle cose che sono sparse per l’abitazione da quando ne hai memoria, dicendoti che se erano sparse e prive di valore un motivo forse c’era stato.

(La moglie esce di scena e rientra subito dopo con una scopa in mano. Comincia a spazzare il pavimento) L’uomo di sicuro non è un essere solitario, è un animale sociale e come tale deve interagire periodicamente con diverse persone, ma quando si stanca presto? Ci si stufa subito e si litiga. Ma anche su questo punto, quanto è un male litigare? Soprattutto quando si vive quelle giornate in cui il rodimento è qualcosa di socialmente utile. Ci si alza dal letto la mattina - magari è sabato o domenica- e ci si sente quel sentore di bruciore alla bocca dello stomaco tanto che litigare viene d’istinto. Si ciabatta un pò per casa, insonnoliti, ma abbastanza svegli per capire con chi prendersela. Si sta male e non si sa bene perché. (Marcus rientra con aria annoiata. Osserva la moglie che sta facendo le pulizie e riesce) A volte capita che si giri e rigiri per casa, presi da una strana sensazione di angoscia, anzi di insoddisfazione, ma senza sapere nè da dove venga, nè come sia nata, nè da cosa sia nata, nè come la si possa far cessare.

(Intanto esce di scena la moglie di Marcus) Però (pausa).. anche in questi momenti un pò di soddisfazione la si prova. Girare per casa e non degnare nessuno di nessuna carineria, prendersi la tazzina del caffè senza salutare i parenti seduti a tavola a pochi centimetri, e, se si viene interrotti con un buongiorno, rispondere con un bel mugugno, è una grande soddisfazione. Si, beh, la differenza tra un “ciao, buongiorno” ed un “mmhhpfhhh” non è molta. Basta solo vocalizzare, mentre dentro di te pensi “stamattina mi rode e non ti saluto, va bene?”

(Rientra Marcus, scocciato, seguito dalla moglie che gesticola nervosamente e gli parla senza interruzione. Scena muta, gli spettatori non possono sentire) A volte, però, capita di trovare chi dà seguito alle frustrazioni altrui, come a volte la moglie di Marcus, che lo segue nelle varie stanze dove egli va, elencandogli magari le cose da fare, e lamentandosi delle mancate risposte. Oppure lagnandosi dei lavori che ci sono da fare in casa e delle mancate risposte. “Ma se non ti rispondo un motivo ci sarà, no?”. Ed il litigio in casa parte sempre allo stesso punto del monologo della moglie, (ironicamente e simulando il gesto) ovvero quando lei lo tocca sulla spalla, e con un impercettibile scuotimento della mano pronuncia le fatidiche parole.. (interrotto)

MOGLIE: (Subito dopo aver toccato la spalla di Marcus, a voce alta,e scocciata) Ma mi senti? Ma mi ascolti?

(Da questo punto in poi Marcus e la moglie fanno avanti e indietro sulla scena, Marcus sempre in testa e la moglie subito dietro, che si dimena nervosa e parla da sola, sventolando oggetti da riordinare o strumenti per le pulizie domestiche )

IL CANE: E ogni volta nella mente di Marcus parte sempre lo stesso ragionamento:(schiarendosi la voce con un colpetto di tosse e parodiandolo) “Partendo dal principio che “ma mi” è abominevole, secondo te, sono diventato sordo che non ti sento?O sarà che non voglio risponderti? E se sono diventato sordo, perché me lo chiedi se ti sento? È ovvia la risposta. E se non sono sordo, ma non ti voglio dar retta, perché mi obblighi? Vuoi litigare?”

(Tornando in sé, ricomponendosi) Indipendentemente dalla risposta, puntualmente si litiga. Figlia o non figlia - dato che si mette in mezzo anche lei puntualmente- la discussione prende sempre le stesse pieghe. Lui si sposta ciabattando, cercando di evitare una discussione troppo accanita, e lei lo insegue, con in mano gli oggetti che sta usando per pulire o riordinare, azione che ha dovuto interrompere a causa della discussione con il marito. Anche qui la mente di Marcus parte con i suoi soliti pensieri di coerenza: (ricominciando la recita) “Ma se cambio stanza, ci sarà un perché? Ma vuoi litigare? Ma non ero io stamattina quello nervoso?”.

Strano ma vero, la moglie di Marcus è perennemente tesa. Ogni volta che le si fa notare un errore, o le si fa una battuta, magari su una sua azione o decisione, si offende a morte e, inalberandosi, parte con filippiche e discussioni senza freni inibitori. Se fino a cinque minuti prima non si poteva are l’aspirapolvere per non svegliare i vicini, o non si poteva ascoltare la radio, perché la signora del piano di sotto ha il figlio che fa il tranviere e dorme di giorno, cinque minuti dopo che lei si è inalberata, ogni regola viene dimenticata e si può fare ogni cosa, con toni che nemmeno le anatre del Campidoglio!

(Riflettendo) Si prova soddisfazione nel far provare inquietudine alle persone che ci incrociano, non si sa bene il perché ma soddisfa. Dà meno soddisfazione quando troviamo di fronte qualcuno che è più acido di noi e si finisce per litigare. “Va bene che è inverno, va bene che piove, va bene che stamattina sono scorbutico, ma certo anche tu…”. In questi casi bisognerebbe finire la discussione con un bell’abbraccio, un bacio, e si continua a stare in casa, come sempre, con armonia:(elencando) tua figlia in cameretta che guarda i cartoni mentre mangiucchia un dolcetto, tua moglie che rassetta casa, e tu, marito, che leggi il giornale mentre bevi il caffè, per poi dire con sorriso smagliante:(con furberia) “Amore, hai bisogno di una mano?”.

(Rientrano sulla scena Marcus e la moglie. Gesticolano furiosamente. La bambina si sveglia, e con l’orsacchiotto di peluche sotto il braccio si mette a sbirciarli da dietro la porta che separa la sua stanza da quella dei genitori) (Con aria triste) La figlia sicuramente non è felice di vedere i genitori litigare. Quando i genitori di Marcus litigavano, lui ed i suoi fratelli riuscivano a distrarsi con qualcosa, anche semplicemente parlando. Ma lei è sola e non può parlare con nessuno. Chissà perché si cambia così tanto con il tempo: fino ad un certo punto della vita si giura a se stessi che non si vuole diventare come i propri genitori, che giammai commetteresti gli stessi errori, che si sarà genitori diligenti, buoni e severi, perché ci si può far rispettare anche essendo buoni, e si può vivere bene anche senza litigare. Poi la vita cambia, non si sa quando, e non si sa perché, e ci si ritrova a fare esattamente quello che non si voleva. Forse perché una persona normale ha una memoria normale e se lo dimentica, o forse perché non litigare è impossibile.

Ma che non si può vivere senza litigare Marcus lo ha scoperto solo da grande, ed una figlia ormai già ce l’ha. Cosa starà pensando la sua bambina?

(Marcus si accorge che la bambina li sta guardando. Allargando le braccia, ferma con uno scatto le mani della moglie, che si muovevano nel fervore della discussione, e con un gesto d’impeto la bacia, zittendola. La moglie non cede, e

una volta staccatasi dalla presa del marito, lo guarda per qualche secondo. Marcus le risponde sfoggiando un sorriso finto ma convincente. Sbuffando e scuotendo la testa confusa, la donna esce di scena, bofonchiando qualcosa tra sé e sé. La bambina intanto è corsa nuovamente sotto le coperte per non essere sgamata. Marcus entra nella sua stanza, esitante, e si siede sul bordo del letto. La bambina sta giocherellando con i capelli di una bambola, accarezzandoli. Si scambiano un sorriso).

(Sorridendo, con sguardo dolce) Ora le racconterà la solita favola divertente, inventata sul momento, di come è difficile combattere con la “mamma” quando è arrabbiata. Le dirà che lui ha combattuto contro i draghi, quando era giovane, e ha imparato a sfidare cose ben peggiori della mamma arrabbiata, anche se la mamma “non è da meno di un drago, anzi è proprio come un drago”,e non servono spade ed urla per cacciarli o vincerli, (con tono commosso) “ma basta un bacino,e tutto a”.

Silenzio.(Sospirando) Lui non lo può sapere, ma dopo aver dato il pugno al signore, è uscito senza pagare e nessuno glielo ha impedito. In quel bar, di vista lo conoscono tutti, e sapendo più o meno caratterialmente come è fatto, sono rimasti incredibilmente stupiti da quella reazione. Il ragazzo si è rialzato e stava bene, ma è rimasto scosso per un comportamento del genere. Proprio lui ed il barista, non appena Marcus è uscito, si sono guardati ed insieme si sono messi a fissarlo mentre scompariva dietro la vetrina del bar. (Imitando le loro voci) “Una persona così per bene?!?”,”Ma lo ha lasciato la moglie?”,”Ma lo avranno licenziato?”.

Questo è tutto ciò che hanno saputo dire dentro quel bar quando Marcus è uscito. Probabilmente ora lo guarderanno in modo diverso per un paio di giorni, o forse no, non lo sapremo comunque mai, visto che in quel bar non ci metterà più piede. Ciò che si sono chiesti gli uomini in quel caffè è ciò che si sta domandando lo stesso Marcus in questi giorni: “È cambiato qualcosa?”.

(Si chiude il sipario)

ATTO DODICESIMO

(Père pardonne-moi car j’ai péché)

(Si apre il sipario. Sul palco l’interno di una palestra di yoga, con il simbolo dello ying e dello yang bene in vista. Al centro la reception e sulla sinistra i tappetini degli esercizi - ad indicare la sala- dove si stanno sistemando giovani donne con pantaloncini aderenti. I due ambienti sono separati da un pannello scorrevole. Sulla destra, il Cane, seduto su una panchina, guarda l’ingresso da fuori, sfogliando le pagine di un giornale)

IL CANE: Come le promesse di non litigare, da bambini ci si fa anche la promessa di non diventare come quello o come quell’altro, spesso vedendo il padre come punto di riferimento e cercando di emularlo. Ecco, per Marcus fu esattamente il contrario, poiché il padre fu esattamente quello che non voleva diventare. Voleva evitare di invecchiare diventando uno scorbutico che tenta di fare il simpaticone appena vede una gonna corta, anche in veneranda età. Voleva evitare di diventare arcigno, sempre torvo con i parenti e mai con la stessa gonna di prima. Voleva soprattutto evitare di invecchiare solo come un cane, con un bastone per camminare, vivendo una vita seduto a leggere le pagine dell’economia, con gli occhiali calati sul naso, e biascicando per mettersi apposto la dentiera. E invece sì, crescendo è diventato proprio come suo padre, senza saper resistere ad una bella gonna corta, (guardando le ragazze in sala e ammiccando agli spettatori) o ad un bel pantaloncino aderente. Marcus è uno di quegli uomini inetti che si innamorano ogni qual volta una donna dimostri un minimo di cortesia o interesse nei suoi confronti. Figurarsi quando si apionano sionatamente alla storia della sua vita, anche fosse per una mera cortesia.

A volte, sicuramente incoscientemente, le donne fanno così: (con sarcasmo) per

essere adulate e mostrarsi interessate ad un argomento, senza un preciso perché, parlano con quel bell’uomo curato e brizzolato, in giacca e cravatta, solo per sentirsi dire che sono diverse dalle altre, diverse dalla moglie del bel interlocutore, e che la moglie, sì, sono vent’anni che non gli fa una domanda su come i le sue giornate.

Di solito ci si incontra così, per caso. Magari è vero che le persone separate, con del tempo libero, vanno tutte negli stessi posti, così come fanno gli adolescenti che si affollano nelle discoteche, o gli anziani nei circoli per giocare a ramino. Forse i separati vanno tutti nei bar a bere qualcosa con degli amici, magari nemmeno tanto stretti, o si affollano nei cinema, per trovare quello svago che loro stessi non riescono a creare. Oppure si danno agli “hobby”. C’è chi si butta sul modellismo, chiudendosi in casa a costruire un veliero da diecimila pezzi in un anno. Chi va a correre tutte le mattine per buttare giù quei chiletti che si mettono sui fianchi. E chi (allusivo), magari, va a fare yoga per ritrovare se stesso. (Come a confidarsi con il pubblico) Che poi, se veramente vuoi ritrovare qualcuno, lo vai a cercare in uno spogliatoio? Comunque, sta di fatto che è questo uno di questi posti dove è più probabile fare conoscenza con persone della stessa età o, altresì, conoscere persone con gli stessi interessi. Anche perché se sono qui un motivo ci sarà.

Forse tutto può accadere quando cominci ad andare dal dottore per un bel problema alla schiena, che è diventato impossibile da sopportare. Non riesci più a chinarti, a giocare con tua figlia, prenderla in braccio. O forse quando cominci ad accusare disturbi nel sonno, oltre ai soliti momenti di ansia per il troppo lavoro, ma soprattutto per il lavoro svolto in maniera sbagliata.

Forse per Marcus è cominciata proprio così. Magari un giorno gli è stato consigliato di fare della ginnastica per muovere i muscoli e rilassarsi allo stesso tempo, e quindi, perché no, dello yoga. Proprio lui che, fino a questo momento, ha ripudiato tutti quei palestrati sulle fiancate degli autobus, che stanno a testa in giù sorridenti e rilassati. “Ma cosa avranno da ridere che ora gli scoppia la testa? Ma se lo buco, quel muscolo teso, cosa esce, acqua?”

Il primo periodo lo ha lasciato trascorrere, pensando che quel mal di schiena lo poteva sopportare proprio come aveva sempre fatto fino a quel punto. Una volta al mese dal dottore per farsi prescrivere degli antidolorifici e via, si tira avanti. Poi però arriva il momento in cui non si riesce più a prenderla sottogamba, la situazione fisica e psicologica, quasi convinti di tenerselo quello stronzo di un mal di schiena, che tanto, con tutti gli acciacchi che ci si ritrova, uno in più…

(Ridacchiando) Esilarante vederlo camminare per strada chinato in avanti, o appoggiato ai muri con una mano tesa, una gamba in avanti e una mano dietro il fianco, come le donne incinte.

Silenzio.

Marcus non ha messo in conto, però, che il caso può non giocare alla tua stessa partita, o meglio, che gioca con te, ma anche un po’ contro di te. Che gioca al tuo stesso gioco, ma con regole diverse, e che un pò voglia barare. E magari ha deciso di barare questa sera,(guardando sul polso un orologio immaginario) a quest’ora precisa della giornata, in cui non fa caldo e non fa freddo. Il crepuscolo della vita, quando si sta benissimo, e si raggiunge quel calore corporeo che è uguale alla temperatura esterna, in cui si ha bisogno solo di sdraiarsi e guardare il cielo che cambia colore, dall’azzurro, al rosa, al rosso, al blu. Un ora in cui magari quel cielo lo stai solo sognando, e lo avresti voluto guardare davvero, ma sei confinato in uno spazio risicato di marciapiede, e se ostruisci il aggio, sdraiandoti per terra, arriva la polizia a chiederti i documenti, perché pensa che tu sia un mendicante.

Magari il destino ha deciso che in quest’ora precisa Marcus i di fronte ad una porta bianca, anzi, non una qualsiasi, ma questa porta bianca, con il classico simbolo dello ying e dello yang che si inseguono in una eterna lotta. E mettiamo magari che il destino abbia deciso per te..

(Entra Marcus trafelato dalla parte della panchina, ando davanti al Cane senza badarvi, e scontrandosi con una ragazza bionda, entrata dal fondo della sala)

MARCUS:(Mortificato) Ops, mi scusi…colpa mia non l’ho vista!

IL CANE: (Beffardo) Però, effettivamente, con quel corpo è più probabile che si sia fatto più male lui che lei.

RAGAZZA: (Sorridendo) No, non fa niente!

IL CANE: In questo grigio marasma di gente che cammina sul marciapiede, lei è la sola vestita di bianco e d’azzurro. (Trasognato) Che colori rilassanti!

(La ragazza intanto raccoglie la borsa che le è caduta a terra, e guarda Marcus dritto negli occhi. Ha i biondi capelli lisci legati dietro la nuca, e grandi occhi azzurri, sorridenti)

In verità..tutto di lei è rilassante. So io cosa starà pensando il nostro Marcus in questo momento:(malizioso): “Ma quanti denti ha?”. Certo che c’è un silenzio imbarazzante.

RAGAZZA: (A Marcus) Stava entrando? Niente borsa? (Facendo l’occhiolino) È la prima lezione eh!

IL CANE: Beh, si, perché mettiamo che qui, su questo marciapiede, non solo questa sia una bellissima ragazza, ma anche un’osservatrice più bella che acuta, ed è molto acuta. Una bellezza forse non perfetta, ma irradiante: bionda con una lunga frangetta fino a metà palpebra, non magra ma sicuramente ben definita nei termini delle proporzioni maschili sempre apprezzate, e sicuramente due occhi che emettono luce propria.

(La ragazza si congeda con un ultimo sorriso, ed entra in palestra varcando la soglia. Si sente il suono tipico dei camlini che fanno rumore quando si apre e si chiude la porta. Marcus resta immobile)

Questo camlo è come un gong per Marcus, che si risveglia come da un sogno, e si ritrova solo sul marciapiede ad osservare una cosa che non c’è più, con un dito puntato verso il nulla,dopo aver cercato invano di dire qualcosa per togliersi dall’imbarazzo, ma ad ogni parola si è fermato, abbassando la testa di scatto a guardarsi i piedi, per poi tentare di dire un’altra parola verso la porta, con stizza e vergogna. Senza perdere altro tempo a farsi prendere in giro dai anti, deciderà finalmente di entrare a chiedere informazioni. Si, perché, come avete potuto notare, dopo tutte queste riflessioni, Marcus si è dimenticato di parlare, ed è accaduto ciò che accade a tutti in questi casi: si diventa rosa sul viso e ci si vergogna.

MARCUS: (Tra sé e sé) Ho pensato cosa dire, ma non ho detto niente.

IL CANE: (Divertito) Dal mio punto di vista, la situazione era divertente, ma dal punto di vista suo non credo altrettanto, visto che lei si è trovata davanti un uomo che zoppicava per il mal di schiena, con un classico spolverino da maniaco e che, sbattendole contro, è rimasto cinque minuti in silenzio a guardarla, anzi, a fissarla.

MARCUS: (Rimproverandosi) Diamine, che figura!

IL CANE: Un camlino e la porta aperta, come a delineare il confine tra un mondo sporco e uno pulito, uno nel caos e uno nell’armonia. Una volta aperta la porta, (annusando l’aria) lo accoglierà una secchiata in pieno viso di aromi quasi vomitevoli, dolci e amari, un ambiente illuminato, ma non abbastanza da poter vedere le ombre, che fa tanto new age. Non ci sono muri, ma sottili pannelli che scorrono su dei carrelli, quasi trasparenti. Dietro uno di questi, intravederà la giovane ragazza, che si appresta a sedersi a terra, per levarsi le scarpe.

Durante il loro incontro, nella mente di Marcus è partita la voce di Barry White (musica di sottofondo) che gli parlava e con un sottofondo musicale soft faceva andare tutto a rallentatore, punzecchiando il suo animo virile per una conversazione più che seria.

(Marcus varca la soglia. La ragazza si sta togliendo le scarpe appena dietro il pannello, per andarsi a sistemare su uno dei tappetini. Alza lo sguardo e lo osserva, mentre Marcus sembra completamente disorientato. Con la bocca semiaperta per lo stupore, la fissa.)

(Ironico) Indossa il suo classico soprabito da maniaco sessuale, e ha una ventiquattrore in mano: può essersi perso? Si. Non è proprio un bello spettacolo. Invece lei gli sorride e gli va incontro.

RAGAZZA: (Incuriosita, indicando il Cane) È suo? (Marcus si volta e fissa il Cane, confuso. Il Cane, dopo aver guardato il pubblico stupito, gli restituisce lo sguardo. Marcus torna a guardare la ragazza, ma non risponde. Lei lo prende per mano, e lo fa entrare in sala. Richiude il pannello dietro di lui, ed esce di scena)

IL CANE: (Sempre divertito) So perfettamente cosa sta pensando Marcus in questo preciso istante: “Ora mi porta in luogo appartato, in un camerino, mi spoglia e lì consumiamo il rapporto più bello della nostra vita, con ore e ore di ione!”.Con quel tocco delicato, un sorriso soave e un bel viso angelico, non è di certo un problema per Marcus seguirla con i delicati, mentre lei lo conduce sorridendo. (Nel frattempo entrano in sala, da destra, delle signore anziane, vestite con tutine attillate e colorate. Si sistemano sui tappetini) (Ridendo a crepapelle) Un’altra secchiata che gli arriva addosso, ma stavolta di acqua ghiacciata! (Derisorio) Guardate la signora dai capelli rossi e arruffati: che aspetto stravagante! Il colore che ha usato per truccarsi gli occhi varia dal marrone all’arancione/giallo, e unito ai capelli rossi non è di certo un bel vedere! (Quasi schifato) Ha i fianchi sporgenti,e, così chinata in avanti, la sua tutina bianca mostra ogni tipo di ingiustizia del tempo su un corpo umano, il suo adipe in abbondanza e tutta la cattiveria di madre natura. Queste orrende visioni lo faranno subito tornare con i piedi per terra, anche perché un conato è inevitabile. (Nel frattempo Marcus si è fermato, interdetto, davanti al pannello scorrevole. Ha gli occhi sbarrati, e si guarda intorno a disagio. Le donne lo salutano calorosamente con aria gioviale. Lo accolgono e sottovoce gli dicono di accomodarsi). È forse finito in un covo di ingorde ed avide vecchiarde? Il suo cuore batte ed egli lucidamente pensa a dove si trova in realtà, conscio che il suo corpo vorrebbe avere vent’anni di meno, per seguire la giovane ragazza, e che la sua mente vorrebbe trovarsi lontano da lì. Ovunque, ma non lì.

(Si chiude il sipario)

ATTO TREDICESIMO

(Le Comportement Des Animaux)

(Si apre il sipario. È l’alba. Il Cane sta rovistando di lato tra i rifiuti della spazzatura. Al centro del palco c’è una panchina. Vi è seduto un vecchio dalla lunga barba e con le mani giunte, appoggiate su di un bastone d’avorio. Accanto un cartello con scritto “Zoo”, e sotto due frecce che indicano la “gabbia del leone” da un lato, e la “gabbia dell’orso” dall’altro)

IL CANE: La gente si stupisce di come gli alberi fioriti siano ancora rosa e freschi, nonostante oramai la primavera sia finita da un pezzo. Poveri alberi, incastrati nei parchi e circondati dal cemento che li guarda e li minaccia. L’asfalto è un mostro cattivo, che con il freddo fa scivolare e con il caldo si scioglie e rovina le scarpe. Certo, io non ho questo tipo di problema. Però, a quanto pare, Marcus si, visto che la ghiaietta che forma l’asfalto gli si incastra sempre sotto le scarpe e una volta rientrato a casa riga tutto il parquet. Così è accaduto ieri e stamattina la moglie, appena sveglia, si è messa a cercare di levare le righe all’ingresso con la cera. (Allarga le braccia,e si picchietta la tempia con l’indice, ad indicarne la follia) Sicuramente Marcus come me starà pensando che a quest’ora solo gli spazzini e i fornai sono svegli. E invece no, anche sua moglie, che lo costringe a svegliarsi.

(Pausa) Però, ultimamente, osservandolo dalla mia solita finestra, ho notato che è meno arrabbiato.

L’incontro di qualche giorno fa lo ha rinvigorito. Se prima lo aveva sconfortato, ora si sente quasi ringiovanito. E questo non ha senso. Nella sua vita tutto sta cambiando e gli sta crollando addosso. Si è appena ripreso da un coma lungo

tutto una vita. Ha perso il lavoro, sta perdendo la famiglia e ha preso a cazzotti un uomo sconosciuto. Ma cosa più importante, proprio come me, sta perdendo la speranza e la ragione.

Questa mattina si è alzato ed è andato in cucina come sempre per fare colazione, evitando di svegliare la figlia, dato che, almeno lei, ha il sonno pesante. Mentre lo osservavo, ho notato che i suoi gesti ed i suoi discorsi erano continuamente distratti da alcuni pensieri che probabilmente lo martellavano. Quella bolla piena di parole non lo lascia mai e si sta ingrandendo sempre di più. (Mimando i gesti) Ha alzato la testa per controllarla un attimo, e poi ha continuato a girare il caffè nella tazzina. Forse avrebbe voluto gridare a tutti che è senza lavoro, ha dato un cazzotto in faccia a uno e che da qui a poco si toglierà la vita. (Riflettendoci su) Si, forse questa non è poi una cattiva idea. Il problema è solo questione di coraggio. In fondo la morte è un salto nel vuoto, è una scommessa al buio. Nessuno sa cosa c’è aldilà della vita, nemmeno il più focoso dei credenti di qualsiasi religione può saperlo. Ognuno degli uomini che vedo are e vivere probabilmente ha un’idea dell’aldilà, di cosa lo aspetta. C’è chi si aspetta un uomo barbuto e vestito di bianco, chi si aspetta settanta vergini, chi magari non si aspetta niente. Ed è strano perché, se dopo non c’è niente, come fai a non aver paura!

Silenzio.

Secondo me, Marcus è uno di questi. Ha così paura del niente che non ha il coraggio di uccidersi. Giustamente. Una volta che ti sei messo al tavolo verde gioca, e se poi va male almeno puoi dire di aver provato. E se poi va bene (pausa)... tanto meglio. Diciamo che ora non si trova proprio in vantaggio, anzi è parecchio sotto e gioca senza carte in mano. Però (pausa)...mai disperarsi.

(Silenzio. Torna a rovistare ma non trova niente di interessante. Sbuffa, si guarda intorno, e alla fine si siede sul bordo del palco) Marcus questa mattina ha esordito con un bel: “Tutti allo zoo!” In quel preciso istante, nel salotto lo

strofinio sul pavimento è cessato, e si è sentito solo lo strisciare di due pattine, come un trenino dell’orrore al luna park. “Cosa??”, ha risposto la moglie. “Hai sentito bene. Posa la pezzetta, mostro famelico di cera!”. Non credo che sua moglie abbia afferrato l’ironia. L’ho vista infatti mentre girava la testa di lato, proprio come fanno gli animali quando non capiscono cosa stai facendo.”Dai, sveglia la piccola, la portiamo allo zoo. Chiamo un attimo al lavoro e mi prendo un giorno di permesso. Hai ragione, iamo troppo poco tempo assieme. Le righe possono aspettare no?”. Finalmente la moglie ha capito, e ha raddrizzato la testa sorridendo.

Poche sere prima, proprio lei aveva costretto tutti a guardare le foto di famiglia, ed in una di queste sono ritratti i fratelli di Marcus, per mano, ed un uomo ed una donna, a fianco a loro, che sorridono, davanti alla gabbia delle scimmie. Quella foto ha fatto quasi rabbrividire Marcus, visto che lo zoo è stato un vero shock per lui. Era già abbastanza grande per capire che forse, nel poco tempo che trascorrevano fuori dal college, avrebbero potuto are le ore in un altro modo, e non andando a vedere degli animali agonizzanti. Le foto di famiglia sono sempre state un pò un trauma per lui, perché in ogni foto c’è un particolare che gli fa ricordare quanto era solo ed infelice anche da bambino. Una foto al mare da solo a fare castelli mentre i fratelli potevano nuotare. La gita fuori porta immortalata con il pollice leccato della mamma, stampato sulla faccia, per levare la macchia di gelato dalla guancia. E poi altre foto in cui è vestito da bambino e ha una faccia sofferente che poteva appartenere benissimo ad un uomo adulto. Come quella del padre.

Si assomigliano molto, e se a Marcus avessero dato una pipa ed un quotidiano, in molte foto sarebbero stati l’uno l’ombra dell’altro. Dietro un obiettivo, i fratelli hanno sempre cercato di apparire più simpatici di quanto in realtà non siano, facendo smorfie e connotandosi a vicenda con corna e pizzicotti, che facevano venire le foto sempre mosse o in pose strane. Come quella in cui, davanti ad una ringhiera che delimita la strada e la spiaggia, Marcus tenta di sorridere con tutte le sue forze, rosso in faccia per la camicia troppo stretta che gli segna il collo. I fratelli che alzano una mano per darsi uno scappellotto a vicenda, mentre uno guarda il padre che lo richiama e l’altro la madre che dice di guardare l’uccellino. È strano osservarla. Cosa potrebbero mai pensare i suoi genitori,

guardando quella foto? Cosa proverebbe Marcus se quei figli fossero i suoi?

(Pausa) Così pensando, ha scartato la possibilità di prendere con sé la macchina fotografica questa mattina, in modo da evitare le pose, e di immortalare le posizioni vere delle persone che, guardando in futuro quelle foto, sorriderebbero di loro stesse, notando quanto erano buffe ma sincere.

(Voltandosi e guardandosi intorno) Lo zoo è rimasto esattamente come era, ed è proprio come se lo aspettava: (calcando la parola) orrendo. Gli animali agonizzano e sono per lo più in posizioni statiche. Ovviamente gli incentivi e le attrazioni per i bambini sono molti. Alla fine sono distratti ed attratti quasi più dal contesto che dall’animale di per sé, che guardano sempre seduti a terra, come fossero dei santoni indiani. La figlia di Marcus, nonostante sia molto intelligente ed arguta, non ripete a pappagallo quello che le dice la madre, su come queste povere bestie soffrano. Resta intenta a sgranocchiare arachidi che non vuole dare all’elefante: (imitando la voce della bambina) “Scusa, ma le ho pagate!”. Però è ben disposta ad apprendere e a curiosare, ridendo del culo rosso dei macachi e spalancando la bocca davanti alla gabbia del leone che sbadiglia, temendo invece che stia per ruggire. Una sana curiosità che dovrebbe provare anche Marcus, invece di credere d’aver appreso tutto.

(Entra Marcus con moglie e figlia)

MOGLIE: Andiamo a fare un giro nella zona degli animatori! (Escono nuovamente di scena)

IL CANE: (Con sarcasmo, parlando agli spettatori) Ovvero ragazzi e ragazze vestiti da pagliacci che gonfiano palloncini a forma di animali e fanno divertire i bambini con dei siparietti comici.

(Marcus, intanto, si è seduto sulla panchina accanto al vecchio, spostando incuriosito lo sguardo intorno, come a cercare qualcosa. Il vecchio lo osserva con aria torva. Il Cane li guarda da lontano.)

VECCHIO:(Calmo) Che cerchi?

MARCUS: (Sorridendo e voltandosi verso di lui per guardarlo) Se tutte le mamme ed i figli sono lì,dove sono i papà?

(Il vecchio sorride di rimando con la sua bocca raggrinzita, poi stacca la punta della mano dal bastone in avorio ed indica un punto lontano davanti a sé)

IL CANE: (Seguendo il punto con lo sguardo) C’è un angolo di legno, proprio lì, e ammassati ci sono tutti i padri che con la borsa della moglie a tracolla e la giacchetta della figlia in una mano, sono intenti a fumare, con l’unica mano libera, quell’unica sigaretta che gli è stata concessa, da quando, due ore prima, le mogli si sono fiondate nei bagni, e loro sono corsi nell’angolo fumatori.

Si, perché nonostante lo zoo sia all’aperto, ci sono solo due angoli fumatori, che si possono riconoscere dalle aiuole con montagnole formate dai mozziconi di sigaretta ed un cartello enorme con scritto sopra:(enfatizzando)”Se devi fumare fallo Qui”!

VECCHIO: Noioso, vero?(Senza aspettare una risposta di cortesia, continua a parlare) Mia figlia e mio nipote sono andate più spedite dall’altra parte dello zoo a vedere i lupi. Se le dico che mi hanno lasciato qui perché le rallentavo, lei ci

crede?

IL CANE: Marcus sta sicuramente evitando di sorridergli in faccia. Sarebbe davvero poco gentile. (Con un risolino) Ma è quasi impossibile se si cerca di immaginare la scena.

MARCUS: Beh, è un po’ come quando chi ha finito prima di mangiare si alza e se ne va lasciando gli altri a terminare il proprio pasto. Sono sicuro che sua figlia non lo ha fatto apposta, ma ha preferito suo figlio a suo padre. È nell’ordine naturale delle cose, non crede?

VECCHIO: (Sorridendo) Me lo venga a ripetere quando succederà a lei. Quando sua figlia la lascerà seduto perché è vecchio. Ci divertiremo a ricordare questo momento.

IL CANE: (Colpito)Marcus è senz’altro stupito dalla risposta pronta e da come il vecchio sia riuscito a mascherare sotto la barba l’invidia e la nostalgia. Chissà se esiste un padre che non sia dispiaciuto che la figlia scelga di lasciarlo a casa. Un po’ come la prima volta che esce con un nuovo ragazzo e si fa accompagnare a casa da lui, che ha appena preso la patente, invece di chiamare papà a mezzanotte per chiedergli il favore di uscire. Che poi, in fondo, è un po’ un gusto, diventa una volontà propria, una soddisfazione.

IL VECCHIO: (Addolorato) Il papà che ti fa fare cavalluccio sulle ginocchia, ti porta sulle spalle, nel eggino, in macchina e all’altare. E poi lei ti mette da parte.

MARCUS: (Quasi a volerlo interrompere) Io sono appena stato licenziato. Ho

dei soldi da parte ma non dureranno a lungo. Sto cercando da tempo il modo giusto di dirlo a mia moglie e a mia figlia senza che loro si allontanino da me. (Con ardore) Ed il solo motivo per cui non l’ho fatto ancora, è perché io ho un estremo bisogno di loro, e quello che spero è che loro abbiano bisogno di me. Se domani non dovesse essere così, spero di poterlo capire e are oltre. Sarebbe brutto portare rancore alla propria figlia...Non crede?

(Rientrano la moglie di Marcus e la loro figlia. Il vecchio distoglie lo sguardo e torna a fissarsi le mani sul bastone, serio. La bambina corre tra le braccia di Marcus. In quel momento, il vecchio sorride con la bocca chiusa. Allunga una mano dietro la sua testa e ne tira fuori un fiore finto, che la figlia di Marcus prende con la sua manina, contenta e impressionata. Il vecchio continua a sorridere, sinceramente e intensamente.)

FIGLIA: (Avvicinandosi al volto del padre e parlando a voce bassa) Il signore è un mago?

(Marcus fa si con la testa)

MARCUS: Come mai non vi siete fatti fare un palloncino a forma di giraffa?

MOGLIE: C’era troppa fila. (Sedendosi sul bordo della panchina, accanto a Marcus, che cerca di farle posto, avvicinandosi ancora di più al vecchio) E sono davvero stanca!

(Entrano dal fondo due ragazze giovani con sottobraccio alcune signore e signori molto anziani, appena usciti dai bagni. Si dirigono verso l’uscita, in una fila lenta e costante. Una delle due ragazze sorride al vecchio seduto vicino a

Marcus, che guarda a terra un istante. Poi alza il capo per sorridere e, appoggiandosi al bastone, si tira su, camminando in direzione degli altri vecchi che si allontanano. Si gira solo un istante verso la famigliola, e fa un cenno con due dita alla fronte, come a togliersi il cappello.)

VECCHIO: Buon proseguimento! (Riprende a camminare, seguendo il gruppo).

(Si chiude il sipario)

ULTIMO ATTO

(La vie)

(Si apre il sipario. È notte. Sul palco c’è il solito bagno. Il Cane è davanti alla solita ringhiera. Si sente russare in sottofondo.)

IL CANE: Di nuovo notte, e di nuovo si è messo a fissare il lavandino. È diventato impossibile dormire oramai. Sua moglie emette un rantolo nella notte che assomiglia a quello che suo nonno faceva quando aveva più di cento anni, ed addormentandosi ovunque annunciava la sua presenza con un sonoro trionfo di sonnolenza. Quando era pronto il pranzo, essendo sordo, non sentiva i richiami che venivano dalla cucina per andare a tavola, quindi Marcus e i fratelli andavano a cercarlo, seguendo il rumore che emetteva quando russava.

Pensare che nell’altra stanza c’è la persona che hai sposato, e che russa come tuo nonno, non è un aspetto molto allettante della vita.

Si può morire d’insonnia? Probabilmente no, sarà altro che lo ucciderà.

Preso dall’angoscia, ha cambiato stanza, - lo si nota perché, odiando il buio, Marcus accende la luce del corridoio-. Giunto alla cameretta della figlia, avrà pensato: “Poverina, un mondo così grande, e dei genitori così piccoli”. Quando Marcus era giovane e pensava ai figli, come tutti i giovani che non conoscono la realtà, si immaginava una camicia bianca sbottonata, una bambina bellissima sulle spalle, occhiali da sole, una spiaggia fantastica in una giornata tersa, ed una moglie che li chiama perché è pronto il pranzo, con addosso un costume ed un

pareo mentre si affaccia da una veranda, anch’essa bianca. Ed invece si è ritrovato, pochi anni dopo, con una donna che di sogni ne ha ben pochi, anche perché con tutto questo rumore…E anche di fatti ne compie ben pochi. Conduce una vita piena e vuota, intensa ma svogliata. Tutto quello che Marcus ha sempre odiato. Lui che, piuttosto che non fare niente, ha fatto tutto. Quando la paura della mediocrità lo assale, quando si vede anche solo poco simile agli altri, lui deve cambiare, e fare qualcosa di attivo per non pensare, per non ragionare. Ha bisogno di credere che la sua vita non finirà in un cimitero comunale con una foto su una lastra di travertino, che sua figlia non lo piangerà conducendo una vita blanda, perdendo il senso dell’esistenza, vivendo nella casa che lui ha comprato controvoglia.

Un impulso irrefrenabile lo ha scosso questa notte. Un brivido lungo la schiena gli ha fatto credere che dietro la sua schiena la morte in persona gli ha posato la sua mano gelida su una spalla. Si è visto morto e ha visto la sua vita buttata al vento. Proprio quando stava cominciando a dimenticare il ato, la voglia di vivere, cose che fino a pochi anni fa sono state la sua spinta, la sua linfa vitale. L’amore non basta se resta in bianche parole, la vita deve prendere colore ed assumere movimento. Lui si è mosso ed è andato allo stipite della porta a guardare sua moglie che dorme. Ha richiuso la porta e si è diretto verso la camera della figlia dove, almeno lei, non fa rumore, e con la bocca aperta ed un peluche in mano sogna, chissà cosa, chissà dove. Si è piegato accanto al suo letto, ha nascosto una lacrima e gli ha detto di non fare rumore mentre si vestiva: è tempo di giochi.

(Si chiude il sipario e si riapre poco dopo. Strada di città. Un portone sullo sfondo. Il Cane, zoppicando, si spinge al centro della scena. Sembra invecchiato.)

IL CANE: Quella notte ho visto dei vestiti che vedo tutti i giorni uscire da un’abitazione qualsiasi. Ciò che mi colpì fu l’uomo che li indossava. Teneva per mano una bambina, perché non era lo stesso uomo che era entrato a fine giornata in quella stessa casa, e aveva messo a letto quella bambina. Era un uomo che

aveva paura, ma è stata proprio la paura a spingerlo a vivere, perché è nella paura della morte che ognuno trova la spinta frenetica verso la vita.

Per molto tempo mi sono chiesto cosa fece differenza quella sera, cosa la separava dalle altre sere che erano trascorse normalmente, quale fu quel pizzico in più che diede sapore alla vita di Marcus.

Così mi apprestai a seguirlo, mentre conduceva entusiasta per le vie della città una bambina che non capiva, una bambina assonnata, che con il palmo della mano si stropicciava un occhio. Una bambina che sotto la giacca vestiva ancora il pigiama, segno che di certo, per lei, quello non era tempo di giochi. Le vie della città erano fresche, ed i netturbini si apprestavano a pulire le strade dai cocci di bottiglia, le cartacce lasciate dai fazzoletti e quotidiani stropicciati.

Marcus portò sua figlia nei posti della sua città che adorava, fece godere i suoi occhi assonnati di quadri antichi, affreschi, piazze, chiese, fece godere le sue orecchie di storie goliardiche, di leggende anche un pizzico inventate. Camminava velocemente, con questa bambina in braccio, indicandole, entusiasta, con il dito teso, dove lei avrebbe dovuto guardare, e, ogni volta che lei non capiva o non gli piaceva, lui non si spazientiva, e ripeteva tutta la storia divertendosi, o lasciando in sospeso quel particolare, baciandola e andando avanti.

Pensai che aveva coraggio. Ogni uomo che si desta da se stesso ne ha.

Così presi coraggio anche io e mi avvicinai a loro, ma Marcus era troppo intento a parlare e ad indicare alti torrioni per notarmi. Fu un cuore di bambina a sorridermi e, facendomi segno di tacere con una mano, con l’altra si rimise nella tasca della giacca un ninnolo che teneva nella mano, e mi diede una carezza.

Marcus quella sera avrebbe voluto fare per sua figlia tutto ciò che suo padre non aveva fatto per lui, senza chiedersi se era giusto o sbagliato. Seduto nell’ultimo bar aperto della città, Marcus aveva le guance rigate dalle lacrime, ma non stava piangendo. Il suo sguardo era assente, fisso sulla sua adorata e così odiata città, o forse era in un altro luogo, ma sicuramente quella sera non stava fissando una goccia. Forse ricordava, forse immaginava, o forse desiderava. Stava chiedendo scusa per il tempo perso, a se stesso o a Dio. Stringeva sua figlia, che si era addormentata fra le sue braccia. La stringeva come se non l’avesse voluta far partire per un lungo viaggio, la stringeva con un amore intenso, proteggeva il suo sonno ed i suoi sogni. Una lacrima era anche per lei.

Il cammino del ritorno fu sotto un cielo che albeggiava, con il colore che Marcus desiderava. Io lo so perché il suo sguardo nell’ammirarlo era di un uomo felice, che osserva qualcosa di bellissimo. Fra le strade di una città che si sveglia, si fermò a comprare qualcosa per fare colazione, cornetti caldi appena sfornati, un pezzo di pane. La città si svegliava e lui aveva trovato la calma e la voglia di dormire.

La mattina successiva sarebbe rimasto a casa, a preparare la colazione alla figlia, avrebbe giocato con lei, insegnandogli non ciò che avrebbe voluto gli fosse stato insegnato a lui, ma ciò che riteneva giusto in quel momento, “perché la vita”, ripeteva sempre Marcus, “non è altro che un insieme di attimi, unici ed irripetibili”.

Mentre erano fermi sulla soglia del portone, la bambina si svegliò, muovendo appena la bocca, con un ritmo assonnato, e destandosi dalla spalla del padre, dove aveva poggiata la testa, rivolse il suo sguardo verso di me, seduto qui, come al solito, a fissarli, girò la testa di lato e mi sorrise, prima di entrare.

(Si chiude il sipario)

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