“Letteratura Notturna” è un libro del Cantiere Letterario che è un’idea di Carlo Sperduti che ha selezionato questi quaranta racconti su cui è stata fatto un editing a cura del Cantiere Letterario e una correzione bozze a cura di Daniela Peruzzo, Leonardo Battisti e Carlo Sperduti, infine impaginati per l’eBook da Patrizio D’Amico.
L’immagine in copertina è una foto di Osvaldo Amari
I racconti sono rilasciati in Licenza Creative Commons 3.0
Roma, Dicembre 2012
Poco prima
Non capita spesso che vengano creati gruppi di scrittura non virtuali, ma fisici, e per giunta a iscrizione gratuita. Inoltre, non capita quasi mai che, a questi gruppi, partecipino molte persone. Infine, di solito, anche se un gruppo di aspiranti autori riuscisse a riunirsi la prima volta, capita che poi il progetto si inabissi, colpito dalle classiche frasi: “La prossima volta salto l’incontro, che mamma sta male”, “Non posso più venire perché a lavoro mi stanno massacrando”, “Devo abbandonarvi perché ho perso il lavoro”, eccetera. Ebbene, il Cantiere di Letteratura Notturna (da ora in avanti denominato Cantiere) è un’eccezione, un esperimento ben riuscito, una scommessa che è stata giocata fino in fondo. Se l’abbiamo vinta, ce lo direte voi dopo aver letto questo ebook. Per nove mesi, ogni mercoledì, un gruppo di sconosciuti di circa 13, 15 persone¹, di età compresa tra i 26 e i 50 anni, si è riunita con precisione (ovvero tutti i mercoledì alle 19 e 30²) partorendo ben 120 racconti brevi³. Un circolo di scrittori emergenti che ora sono anche amici, uniti giorno dopo giorno dalla voglia di scrivere, mettersi in gioco, consigliarsi, correggersi a vicenda, preparare reading e bere (molta birra prima e molti amari e rum poi) in compagnia. Di questi 120 racconti ne sono stati selezionati una quarantina, che trovate nel libro che avete davanti. La formula del Cantiere prevede alcune regole di base e altre che, di mese in mese, vengono decise e votate, e che caratterizzano i racconti, nella forma o nel contenuto, che il Cantiere ha prodotto. La prima regola del Cantiere è stata quella di scrivere racconti legati alla vita notturna. Logicamente, al contrario del Fight Club, molti scrittori del Cantiere se ne sono sbattuti di questa regola, così abbiamo anche racconti diurni, e racconti che non ci azzeccano nulla con nessun tema scelto. Infatti, l’altra regola del cantiere era di decidere, per ogni mese, un tema, o una regola, alla quale i racconti dovevano attenersi. Così, un mese i racconti erano tutti concentrati sul tema dello scambio del cappotto, un altro mese erano racconti scritti descrivendo i fatti dal punto di vista di un oggetto, e così via, secondo varie regole alquanto bislacche e scelte in ubriachezza⁴. I temi, come i racconti da leggere al reading a tradimento di fine mese (se non
sapete cos’è un reading a tradimento venite un mercoledì di fine mese all’HulaHoop Club, zona Pigneto, Roma, e lo scoprirete. Comunque sia è un reading che dura poco, per questo i racconti sono tutti molto brevi) venivano scelti in maniera molto democratica e demodé⁵: i temi proposti, o i titoli dei racconti prodotti, venivano scritti su un fogliettino e poi votati da tutti i membri del Cantiere con un’anonima e classica X. I racconti più votati venivano letti a fine mese, il tema più votato scelto per il mese a venire. Ora, siccome credo di avervi spiegato più o meno tutto, mi sento di lasciarvi ai racconti, che poi sono il motivo per cui avete acquistato questo ebook, e quindi comincio a sentirmi di troppo. Ciao! Patrizio D’Amico
RACCONTI
Dove osano i maiali di Daniela Peruzzo
Ero entrata nel locale con il preciso scopo di stordirmi dopo aver visto la mia ex fidanzata con il suo nuovo uomo. Se ne stava lì, sul pianerottolo davanti casa mia, ah sì perché io e Anna abitavamo una di fronte all’altra, ci eravamo conosciute così, insomma se ne stava lì con due cartoni di pizza in mano e questo tipo assolutamente anonimo accanto e credetemi, io so riconoscere un tipo anonimo quando lo vedo, di quei tipi di cui le donne di solito dicono: è tanto buono. Quando una donna dice di un uomo che è tanto buono potete cominciare a cercare intorno con lo sguardo il tizio con cui il buono verrà cornificato di lì a, diciamo, tre mesi. Giusto il tempo necessario perché questo fatto che lui sia sempre disposto a capirla anche quando lei si comporta in modo manifestamente irrazionale, illogico, irragionevole, insensato, sconsiderato, qualcuno direbbe idiota e gliele perdoni tutte anche qualora lei si dimostri dispotica, egoista, prepotente, lunatica, tirannica, in sintesi stronza, cominci a insinuare un serpentino quanto velenosissimo dubbio alla donna in questione riassumibile nel seguente soliloquio: possibile che proprio io sia finita con uomo dal nerbo pari a quello di un anellide? Possibile che il mio fidanzato abbia la personalità di un lumbricus vulgaris? Solo sospettarlo risulterà talmente squalificante nei propri confronti che la donna preferirà interpretare l’indisponente disponibilità del suo ragazzo come il segno più evidente di un carattere diabolicamente paternalistico teso a controllarla facendola sentire alla stregua di una bambina viziata. Ma, in fondo, continuerà lei proseguendo il suo monologo interiore, non è forse lui con i suoi comportamenti a porla in quel ruolo? E perché mai lo farebbe se non per ostentare una sua pretesa superiorità morale? Il o sarà breve perché concluda che una tale arroganza merita di essere punita e che anzi, forse lui, con i suoi atteggiamenti, le sta addirittura chiedendo di essere redento dalla sua superbia.
Date ancora un paio di mesi a questa donna e sarà pronta ad ammettere non solo che chi tradisce non ha poi sempre torto ma che soprattutto per essere un buono il suo fidanzato è proprio uno stronzo e, cosa decisamente più grave, davvero troppo anonimo per continuare a vederlo. Ma ecco, sto divagando, non era questo il punto. Il punto era che mi trovavo nel locale con il preciso scopo di scivolare in uno stato il più possibile vicino all’incoscienza quando cominciai a immaginare la loro morte, nei minimi dettagli. No, non mi vergogno a dirlo. Che fareste voi se la vostra fidanzata vi tradisse con uno alto, ricco e… diciamo bello, anche se di quella bellezza convenzionale tutta tonicità testosteronica che non so voi ma io trovo insopportabilmente vuota e banale, comunque, che fareste voi, se la donna che amate, o l’uomo, poco importa in questi casi il genere dell’oggetto amato, vi tradisse da principio, e infine lasciasse per un tizio che vi fe sentire la controfigura sfigata di Igor in Frankenstein Junior? Ve lo dico io, immaginereste la loro morte. Iniziai con un classico: l’incidente. Tuttavia, l’incidente andava scelto con cura, intendo il luogo e il mezzo. L’incidente d’auto mi parve, inizialmente, la cosa più semplice. Ma appena iniziai a immaginarlo subito incontrai numerosi ostacoli. Prima di tutto non volevo che venissero coinvolte altre persone, ho una coscienza anche io, che vi credete. Dunque, l’unica era che la loro auto finisse fuori strada, ma ciò implicava che i piccioncini stessero viaggiando lungo una strada di montagna o, comunque, una strada in grado di raggiungere un’altitudine sufficiente da rendere mortale una sbandata fuori pista. Sì, perché su una cosa non dovevano esserci equivoci: niente sopravvissuti, se no con il complesso dell’infermiera che mi ritrovo finivo di sicuro al capezzale del miracolato e la vendetta andava a farsi benedire. Inoltre, per essere assolutamente certi che la disgrazia giungesse al suo estremo compimento era preferibile che la strada fosse senza guardrail e a corsia unica, quindi assolutamente bandite le autostrade con l’unica meritoria eccezione della Salerno-Reggio Calabria. Ma ecco un altro problema: Anna non guidava e soprattutto soffriva di vertigini. Niente e nessuno avrebbe potuto convincerla a farsi condurre lungo una strada a picco sul mare, a corsia unica e priva di guardrail. Non ci sarebbe riuscito neanche Marlon Brando in Un tram che si chiama desiderio, figuriamoci un
imprenditore nel campo degli imballaggi nanoporosi (ebbene sì, l’anonimo si occupava di nanopori e questo mi faceva ben sperare che per la segreta legge delle analogie che governa il mondo fosse portatore di un nano-pene). Direte che mi ritrovavo davanti a un falso problema. In fondo, il bello della fantasia non è forse che può prescindere dai dati di realtà? Ma è qui che vi sbagliate. Per trarne il massimo godimento la vendetta immaginata deve essere il più possibile verosimile, altrimenti si finisce per non prenderla abbastanza sul serio e tutta la faccenda perde di mordente (detto in altri termini se ne va in vacca). Dunque, niente incidente automobilistico. Scartato anche quello aereo: il nanoporo soffriva il mal d’aria, ma, detto fra noi, secondo me era il decollo che lo metteva, diciamo così, in imbarazzo. Rimaneva il treno. Ma c’era sempre il problema di non coinvolgere persone innocenti. Una possibile soluzione consisteva nel collocare la coppia non a bordo del convoglio ma sui binari e nel far viaggiare un treno merci. Le cose potevano essersi svolte più o meno così: la coppietta poteva essersi appartata, dopo una gita fuori porta, in prossimità di un aggio a livello (a qualche distanza da una stazioncina di campagna). Anna armeggiava con la lampo dei pantaloni del nano tecnologo al fine di consumare un tradizionale rapporto orale, quando, nello sforzo di reperire il nano-pene, urtava involontariamente il freno a mano con il gomito e l’auto cominciava a scivolare nel bel mezzo del aggio a livello. In quel momento, sfortunatamente, un treno trasportante maiali da allevamento transitava a tutta birra. Tuttavia, lo scontro con una locomotiva lanciata a elevata velocità avrebbe ridotto i corpi in macinato, cosa che avrebbe potuto creare qualche problema al momento del riconoscimento del cadavere di Anna, momento che avrebbe dovuto costituire il fulcro di tutta la mia attività immaginativa. Io che, distrutta dal dolore, ricevo le condoglianze di tutti i suoi amici che pensano: “Nonostante tutto quello che le aveva fatto, guardate come l’amava ancora! Che donna eccezionale!”. Impossibile rinunciarvi. Allora le cose potevano aver seguito un altro corso: i due sarebbero scivolati fuori dall’abitacolo prima del tragico impatto trovando riparo l’uno nelle braccia dell’altro in un avvallamento formato dal terreno adiacente i binari. Il convoglio avrebbe urtato l’automobile espellendo una quantità di enormi maiali da allevamento che sarebbero volati fuori dalle carrozze per poi cadere a terra tutto intorno in una suggestiva pioggia suina. Un enorme esemplare di scrofa sarebbe inopportunamente volato proprio in prossimità dell’avvallamento, rovinando sulla testa degli sfortunati amanti e uccidendoli sul colpo.
Lo sfogo onirico mi aveva decisamente giovato, mi sentivo più rilassata, più serena, ma soprattutto avevo l’impressione che qualcosa dentro di me si fosse chiarita. Dicono che sognare la morte di qualcuno gli allunghi la vita. Mi chiedevo se valesse anche per i sogni a occhi aperti, nel qual caso avevo appena posto le premesse perché Anna e l’annesso poro camero almeno 150 anni. Ma soprattutto mi domandavo da dove venisse questa credenza. Forse dall’intuizione che più neghiamo qualcosa più a lungo finiamo per conviverci. Ebbi l’impressione che le avevo donato una parte sufficiente del mio tempo. Ero stufa di avere a che fare con il ricordo di Anna, con la rabbia, con il risentimento. Era il momento di lasciarla andare. Nell’attesa che lei avesse deciso di concedersi una gita fuori porta con il suo nuovo partner, io avrei ricominciato. Ma da dove? Non lo sapevo. Avrei cercato suggerimenti nei sogni, ma stavolta niente scrofe e nanopori, stavolta avrei iniziato solo chiudendo gli occhi.
Inseguendo un’utopia di Leonardo Battisti
«Nel 1975, in quattro grossi volumi, per iniziativa dell’Istituto Gramsci, Valentino Gerratana ha pubblicato una rigorosa edizione critica di tutti i Quaderni corredandola degli strumenti necessari per una nuova “lettura” (soprattutto i riferimenti precisi e completi alla “biblioteca” di Gramsci)», lesse a un tratto Osvaldo, il tipo sulla cinquantina calvo e occhialuto accorso per primo sul luogo del fattaccio. Il buonuomo, che a quell’ora portava solitamente il suo cane a fare i bisogni, un bulldog tracagnotto col respiro affannato di un bulldog tracagnotto, era sorprendentemente rimasto colpito da quel volume che giaceva aperto per strada, proprio accanto al corpo in fin di vita del giovane Pedro, studente Erasmus di Siviglia travolto un attimo prima da un pirata della strada a bordo di una scassatissima Ford color beige, ma che a quell’ora della notte poteva benissimo sembrare terra di Siena bruciata. – Sì, certo, – obiettò Gaetano, conducente della prima vettura che si era trovata a are di lì subito dopo l’incidente, – corretta era corretta, e precisa era precisa, l’edizione di Gerratana, intendo; filologicamente non faceva una grinza. Però ho sempre preferito quella di Togliatti. Sa, alle volte io sono un nostalgico della linea filo-sovietica, che so perfettamente non essere interessata a restituire fedelmente il pensiero di Gramsci, e tuttavia preserva intatte le direzioni, i conflitti, le divisioni, anche teoriche, che soggiacevano nel Partito, dietro la figura monolitica del segretario. – Ma come si fa? Come si fa? – proruppe Osvaldo – a essere ancora nostalgici di quei tempi bui? Non vorrà mica dirmi che rinnega la svolta impressa da Berlinguer, in nome di un sovietismo che finì per mettere alla berlina perfino l’originale e ancora valido pensiero di Gramsci? – domandò il vecchietto divenuto paonazzo in volto, e guardando di tanto in tanto il ragazzo a terra come per vedere se concordava con la sua tesi. Ma lui, Pedro, si ostinava a rimanere equidistante in quella conversazione, dal momento che, non sentendo più granché e comunque capendo poco l’italiano – era arrivato a Roma da soli cinque giorni, quel povero disgraziato –, si era convinto che quell’accesa disputa concernesse le diverse modalità di intervento
di due illustri luminari della medicina, giunti lì apposta per guarirlo. Ah, che granchio che aveva preso il ragazzo! Che granchio! Ma sono cose che capitano. Quanti di noi al suo posto non avrebbero inteso allo stesso modo le parole di quei due simpatici vegliardi? – Grande persona Berlinguer, non dico di no, – precisò Gaetano, – eppure deve riconoscere che Togliatti con la sua tattica, con le sue influenze e amicizie d’oltralpe, e financo d’oltrùrali, fu a un o dal mettersi in tasca il Paese intero, dal portarci al governo, dal trasformare l’Italia nel primo Stato occidentale interamente comunista. Ah! Non la sente, ripensandoci, l’ebbrezza dell’utopia che si fa realtà? E d’altro canto, non è un caso se fu l’unico leader dell’ovest da cui prese nome una città dell’URSS: Togliattigrad. Pedro, con gli occhi aperti a fessura e respirando sempre più a fatica, poiché entrambi i polmoni erano rimasti perforati nell’urto, si sforzava di emettere parole che, per quanto riguardose ed educate, sollecitassero i due impenitenti ideologhi di sinistra a intervenire sulle sue condizioni di salute che, è bene dirlo a beneficio del Lettore (giacché per il giovane ciò non costituisce alcun beneficio), erano sempre più precarie. – Ma che dice? Che dice? Si rende conto delle panzane che racconta? – osservò Osvaldo visibilmente fuori di sé. – L’utopia la sfiorò Berlinguer, insieme ad Aldo Moro, quando furono a un o dal compromesso storico, ed è per colpa di quelli come lei, dei nostalgici oltranzisti, che la situazione precipitò e che si fece di tutto, terroristi da un lato e politici dall’altro, per sabotare l’utopia! – Mi pare che lei stia esagerando, – fece in tono perentorio Gaetano, – e che stia perdendo il fulcro del discorso, che le ricordo essere la correttezza filologica delle edizioni critiche dei Quaderni del carcere di Gramsci! – Ah be’, se è per questo, allora, io non ho mai letto i Quaderni di Gramsci. Non ho mai letto nulla, in verità, di Gramsci – intervenne Osvaldo con voce minuta e ritraendosi repentinamente indietro, goffo, col busto. – Deve dirmele lei queste cose. – Io? E che ne so? Sono digiuno quanto lei in materia, e anche se avessi letto i Quaderni, non ho certo la competenza filologica per giudicarne la bontà critica. Sono un geometra comunale, io. Parlavo più per sentito dire. Ma comunque credo che dobbiamo interrompere il nostro discorso. Temo che il giovane, qui,
sia morto. Lei che dice? Osvaldo guardò il corpo di Pedro, che ormai era diventato un cadavere; gli tastò il polso slogato e sentenziò: – Eh. Mi sa di sì. Era vero. Pedro se ne era andato da qualche secondo biasimando se stesso, poiché si era convinto che i suoi due soccorritori non avessero compreso le sue affabili ma pressanti richieste d’aiuto in spagnolo. Richieste che, a dir la verità, non erano mai uscite dalla sua bocca se non in forma di monotono rantolio. Si sarebbe forse odiato di più se avesse capito che Osvaldo e Gaetano si erano lasciati prendere la mano da una questione suggerita dal libro che egli aveva con sé, e a cui non teneva minimamente, dal momento che era cleptomane e lo aveva istintivamente rubato nel caffè letterario in cui era stato quella sera. – Che storiaccia, – fece Gaetano corrucciando il viso come quando si prende atto della realtà e ci si rassegna di fronte all’inevitabile, – io non sono neppure riuscito a vedere nulla. – Nemmeno io, – osservò Osvaldo con rammarico. – Io, se non le dispiace, me ne andrei. Chiama lei l’ambulanza? Ché mi sembra di capire che è di casa qui – fece l’altro. – Sì, certo, – rispose l’occhialuto vecchietto, – buonanotte. – Buonanotte… Eh, che storiaccia, – borbottò Gaetano allontanandosi verso la sua vettura. Nel frattempo era scesa anche Lidia, moglie di Osvaldo, la quale non appena vide Pedro steso a terra non poté non domandare affranta: – Osvalduccio, ma è morto, il ragazzo? – Eh – rispose amaro il marito. – E tu non hai visto nulla? La targa? – No. Niente. Ma tanto lo beccano, non scappa mica quel pirata.
Lidia lo guardò con disprezzo per un secondo, infine proruppe cinica: – Non dire sciocchezze!
Se non ci mette mano la mamma… di Marco Lipford
Stelvio Giannutri finì di pisciare nel lavandino del bagno. E sì, era un vizio che non si sarebbe tolto mai; quando ne vedeva uno era più forte di lui, lo doveva battezzare. Se poi rischiava di essere beccato la cosa era ancora più irrinunciabile. Era un’usanza nata nella sua stanza di dirigente all’Ufficio d’Igiene, e per un po’ era anche diventata una moda nella sua cerchia di colleghi del piano. Quelli delle pulizie avevano smesso da un pezzo di interrogarsi sul sospetto ingiallimento dei lavandini della SAUB. Si sgrullò l’attrezzo, si pulì la mano sui calzoni bianchi modello Toni Manero e si diresse gagliardo verso la pista da ballo. Era la festa di fine annata organizzata dai direttori sanitari del presidio di distretto, una delle ghiotte occasioni per entrare in qualche nuovo giro di appalti regionali o forniture mediche. Nel corridoietto prima di arrivare alla discoteca si bloccò; una donna – ben piazzata – era di spalle, e sembrava scrutare la tempesta che fustigava la sera oltre la vetrata. Conosceva quel culo flaccido: era senza dubbio la dottoressa Incarniti, del quarto padiglione. Stelvio si avvicinò da dietro saltellando silenzioso, e una volta raggiuntala, spalancò le mani e le affondò una palpatona sul fondoschiena. – Bella chiappona de’ zio! La donna si girò, e Stelvio sgomento riconobbe che non era la Incarniti. – Oddio! Mamma… Anche tu qui? – le disse. Quella digrignò i denti e lo fulminò con lo sguardo, ma non gli disse niente perché era impegnata al telefono. Stelvio si ricompose. Che ci poteva fare se come amanti sceglieva sempre donne in carne e ben più anziane di lui? – Eh, me piacciono cadenti. È tutta esperienza che… pesa! – era solito giustificarsi davanti ai colleghi. Quando la madre, la vecchia direttrice amministrativa del distretto, ebbe concluso la telefonata, si girò e lo apostrofò: – Figlio frescone! Sono qui per salvarti il culo, visto che la faccia l’hai già persa da un pezzo.
– Io? E che è successo? – domandò Stelvio, adesso tremebondo. – Che c’è? C’è che hai pisciato nel lavandino sbagliato, ecco che c'è! Mamma Giannutri lo incalzò: – Te l’avevo detto che non dovevi bazzicare col Zolletta, quello è un disonesto. E sta per scatenarti contro una bufera! Stelvio non ci poteva credere. Anche mamma sapeva del suo atempo? Zolletta, il radiologo… L’aveva tradito! – Ma… ma è stato lui a salire da me, facevamo a gara, ma sempre nel mio lavandino… Il suo non l’ho mai toccato! Giuro! L’ex direttrice sospirò. – Parlavo in modo figurato, imbecille! Rischi un avviso di garanzia dalla procura: gli hai pestato i piedi quando hai cominciato a prendere la stecca dai laboratori analisi. – Ma lui ha detto che non gli importava… – piagnucolò il povero Stelvio, colto come un bambino con le mani nella nutella. – Sì. L’ha detto a te così poteva farti fuori e prendere il tuo posto. Scemo che sei… dopo tutto quello che ho faticato per farti arrivare dov’eri! La mamma di Stelvio era carica di disprezzo. – Oh no! Sono rovinato. Aiuto, mamma! Fai qualcosa! Stelvio era terreo. Già si immaginava portato fuori dal presidio dai carabinieri e messo su una volante mentre si copriva la faccia con le mani. – Ci sto provando. Mentre tu ti trastulli per feste e bivacchi io sto al telefono con mezza Regione. Forse riesco a insabbiare la cosa, qualche scheletro c’è anche nell’armadio del Zolletta… Ma mi costerà un bel po’ di favori – spiegò la mamma. Il figlio imbelle le baciò le mani.
– Grazie mammina, grazie… Oh, se non ci fossi tu! Quella ritrasse la mano e gli disse a brutto muso: – Stasera però fili a casa! Abbastanza danni, hai fatto. Stelvio sbuffò ma acconsentì. E non gli fu per nulla difficile trovare l’uscita di sicurezza.
Bovarismo e downshifting di Patrizio D’Amico
Suona la sveglia. Sono le 8:00, dovrei fare colazione, velocemente, poi lavarmi, vestirmi, infilarmi in macchina, infilarmi nel traffico, infilarmi in un parcheggio, infilarmi in ufficio. Penso alla sequenza di cose e gesti che dovrei fare, immagino anche un paio di bestemmie sulla Pontina circondato da altri automobilisti bestemmiatori, ma sono ancora nel letto, e si son fatte le 8:30. Oggi, come ieri, come avant’ieri, rimango nel letto. Gli occhi ce li ho aperti a metà, fissi sui pallini della sveglia che lampeggiano tra il numero otto e il numero trenta. Trentuno. Con la mente sono già in ufficio, saluto Sabrina che oggi indossa una maglia scollata e quell’esplosione di tette mi provoca un’erezione. L’alzabandiera mattutino, immaginario, perché le tette Sabrina non le espone mai, in ufficio: sta sempre con maglie a girocollo, a collo alto in realtà. Meglio rimanere nel letto e immaginare di andare a lavoro e avere un’erezione: almeno Sabrina, così, è sexy. Sono le 11:30, penso sia ora di svegliarmi. Da quando ho deciso di prendere in mano la mia vita, invece di lasciarmi trasportare da eventi ciclici e monotoni come la routine del lavoro, i pasti, libri o film dopo cena e le domeniche in bicicletta, da quando ho deciso di spezzare questa routine mi sveglio sempre dopo le 11. Ho lasciato la sveglia alle 8 in punto per ricordarmi quanto sono fortunato nel poter dormire quanto cazzo voglio. C’è una patologia chiamata bovarismo. L’ho scoperta su facebook, grazie allo status pubblicato da un amico. Poi ho capito cosa vuol dire bovarismo andando su google. Cito, dal dizionario on line della hoepli: «Atteggiamento di chi si ritiene diverso da quello che è, costruendosi un mondo immaginario nel quale proietta desideri e frustrazioni che nascono dall’insoddisfazione per la propria condizione reale.» Quando ho compreso che il bovarismo è la malattia di chi vive una vita soffrendo, perché vorrebbe viverne una diversa, allora ho anche capito che sono affetto da bovarismo. Da quel giorno non vado più a lavoro, anche se l’azienda è la mia. Posso lavorare da casa, usando le e-mail, e il resto del tempo lo dedico alla mia ione, ovvero riuscire a scoprire di avere qualche ione. Ho cominciato a prendere in mano la mia vita.
È mezzogiorno e mi alzo dal letto, non solo con la mente, stavolta, ma col corpo. Faccio colazione, lentamente, non mi vesto, esco in giardino in pigiama, ascolto gli uccellini che cantano, osservo il ramo dell’albero di arance che ondeggia. Lo osservo per una decina di minuti. Posso. Ho trovato l’antidoto al bovarismo, si chiama downshifting, o semplicità volontaria: cito da wikipedia: «Vivere in semplicità – ovvero la scelta da parte di diverse figure di lavoratori, particolarmente professionisti – di giungere a una libera, volontaria e consapevole autoriduzione del salario bilanciata da un minore impegno in termini di ore dedicate alle attività professionali, in maniera tale da godere di maggiore tempo libero.» Quindi, da quando curo il bovarismo con il downshifting, ho ridotto il mio salario, le ore lavorative, e ho aggiunto tempo libero, che o a dormire o a guardare il ramo dell’albero di arance in attesa che qualche ione mi travolga. Stasera uscirò con un’amica, Mirella, che tiene sempre le tette in bella mostra, e a me dà fastidio perché ogni tanto potrebbe anche coprirsele, che poi ce le ha piccole e non mi provoca nessuna erezione mattutina, figuriamoci quelle serali. Esco con lei perché le ho spiegato tutto il mio piano per il futuro, i cambiamenti che sto mettendo in atto, e in risposta mi ha detto che secondo lei sono depresso. Mi porterà una poesia, ha detto, una di quelle che cambiano la vita. Postamela in bacheca, su facebook, gli ho risposto. Ma lei ha insistito per uscire.
Tubi di Marco Bruschi
Mio nonno e mia nonna si sposarono solo quando lui trovò un lavoro. Come viaggio di nozze fecero due giorni a Rapallo e poi andarono ad abitare dall’avvocato. Gliel’aveva trovato l’avvocato il lavoro, a mio nonno, perché la moglie dell’avvocato voleva che mia nonna si trasferisse da loro per farle da domestica a tempo pieno e guardare i suoi bambini perché con lei si era trovata tanto bene. Mia nonna aveva detto sì, va bene, ma prima trovi il lavoro al mio fidanzato e noi ci sposiamo e veniamo tutti e due ad abitare con voi. Anche loro erano contenti con la moglie dell’avvocato perché li trattava bene e in più aveva tanti soldi da spendere. Ogni sera, quando mia nonna andava a fare la spesa, lei le diceva di comprare a mio nonno quello che voleva per il pranzo al sacco del giorno dopo. Mio nonno faceva i tubi, e non mi ha mai detto se gli pie o no. Andavano anche al mare tutti insieme, lei, mio nonno, i bambini e la moglie dell’avvocato. Si portavano dietro certi borsoni pieni di cose da mangiare e avano tutto il tempo a masticare, mentre i bimbi erano in acqua. A quel tempo stavano bene, erano felici. Dovevano lavorare un po’, ma mai come quando erano più ragazzi, quando c’era la guerra e si stava come una rapa in bocca a un porco tutti i santi giorni. L’avvocato e sua moglie gli volevano bene perché erano brave persone. Non c’è altro modo di dirlo. Brave persone delle quali si fidavano a farli stare in casa con loro e con i loro bambini. Poi mia nonna sapeva cucinare e conosceva le erbe selvatiche e i posti dei funghi. Li andava a raccogliere e poi ci faceva la pasta e tutti sorridevano e non volevano che se ne andassero mai. I miei nonni si erano conosciuti a una festa di paese, organizzata per togliere le bucce secche alle pannocchie di granoturco. Poi si ballava e si beveva il vino. Si erano innamorati lì, e poi mia nonna dopo qualche mese aveva accettato di farsi portare da mio nonno in giro sulla canna della bicicletta. E poi si erano fidanzati, ma si erano sposati solo quando l’avvocato aveva trovato il lavoro a mio nonno.
Quando mia nonna rimase incinta della mamma, dopo un po’, non poté più lavorare per l’avvocato e la moglie dell’avvocato, e non poté più badare ai loro bambini perché presto ne avrebbe avuto uno suo. Allora loro furono un po’ tristi ma anche contenti e li aiutarono a trovare una casa da affittare, con i mille sacrifici annessi e connessi, ma tanto c’era lo stipendio sicuro di mio nonno e ce l’avrebbero fatta come sempre. Poi mio nonno si ammalò perché faceva quei tubi che non gli ho mai chiesto se gli piero. Era per via delle polveri e tutto il resto. Aveva una bronchite o qualcosa del genere e non si alzava più dal letto. ava le giornate a tossire e a diventare debole, con mia nonna incinta che cercava di accudirlo come meglio poteva. Erano comunque tranquilli, perché il posto di lavoro era di quelli d’oro e mio nonno stava in malattia e i soldi gli arrivavano comunque. Mia nonna mi raccontò che quel giorno, mentre guardava la faccia del medico della mutua, lei si sentiva morire. Lui guardava il nonno dall’alto in basso e gli metteva lo stetoscopio sotto le scapole e poi faceva di no con la testa. Non ci credeva alle polveri, né alla polmonite. Disse che era ora che mio nonno si riprendesse, perché altrimenti avrebbe perso il posto, e che sarebbe tornato una settimana dopo. Loro erano disperati e non sapevano come fare. Si sentivano come durante la guerra. Il nonno ci provò ad alzarsi in piedi e rimettersi un po’ in sesto, ma non ce la faceva, perché aveva la cassa toracica che gli scoppiava ed era magro come il tubo della canna per l’acqua. Aspettarono la visita successiva con il cuore che martellava nel petto e una quantità di notti insonni sulle spalle. Quando il medico arrivò non era quello della settimana prima. Questo li guardò in faccia e guardò il pancione della nonna e capì che erano disperati e che mio nonno stava male davvero e gli diagnosticò una polmonite bella e buona con un mese di tempo per riprendersi. Mia nonna lo accompagnò alla porta, in cima agli scalini, lo ringraziò e si mise a piangere. Mi disse che quella volta gli era andata bene, ma che in ogni caso non avrebbe potuto permettere di far perdere lo stipendio sicuro a mio nonno. Io le chiesi che cosa intendesse dire. Lei rispose con una voce che non le ho sentito più, seria ma non gelida, decisa come le stagioni che scorrono; disse che se si fosse presentato di nuovo l’altro medico e se avesse detto che suo marito non aveva niente, lei l’avrebbe accompagnato sulle scale proprio come a questo qui, poi quando lui si fosse girato l’avrebbe spinto con tutta la sua forza per farlo cadere giù di sotto,
per fracassargli la testa, per non fargli dire a nessuno che mio nonno, secondo lui, non stava male. E io, allora, l’ammirai tantissimo.
L’anello di Ametuc di Ettore
Tutto ebbe inizio con l’approssimarsi dell’inverno, nell’anno che vedeva il sig. Spenanzo raggiungere la soglia degli ottanta. Goffredo Spenanzo, in arte Spe Fè, non era altro che un anziano ladro divenuto con il tempo abilissimo nel trafugare di tutto, dalla spesa del supermercato fino al più raffinato degli oggetti. Quella stagione, però, decise di ritirarsi definitivamente dall’attività, e nel farlo volle riunire la vecchia banda, che a chiamarla vecchia non è certo un eufemismo. Cominciarono così, tutti e quattro quanti erano rimasti, a studiare il colpo che li avrebbe di colpo affrancati dai quotidiani problemi. Venne così scelto, dopo lunghe e ponderate riflessioni, di sottrarre dal museo cittadino l’ormai leggendario anello di Ametuc, tempestato di pietre preziose e dal valore inestimabile, forgiato nell’antichità per volere del più spietato monarca mai sedutosi su di un trono. L’occasione buona per eseguire quell’ultima scorribanda venne a presentarsi il giorno che nel piccolo circolo per anziani, dove erano soliti riunirsi, fu organizzata una visita nella suddetta struttura museale. Detto fatto. La mattina dell’azione, mescolandosi abilmente tra gli altri innocui vecchietti, i nostri verrucosi si misero a osservare con finta attenzione da studiosi i vari oggetti presenti nelle sale, quando improvvisamente si trovarono al cospetto del magnifico orpello. Bastò allora un semplice e codificato gesto del sig. Spenanzo all’indirizzo del più malaticcio dei suoi compagni che questi prese subito a fingere un improvviso mancamento, costringendo tutti a stazionare davanti alla teca del prezioso e dando il tempo necessario allo scaltro terzetto di armeggiare furtivamente con le ottonate serrature, riuscendo infine con non pochi sforzi a far sparire tra
l’indifferenza generale il remunerativo emblema. A fattaccio ultimato si avviarono al seguito della barella che trasportava il finto moribondo, che tra defibrillatori e flebo ricostituenti finì per sentirsi male sul serio. Naturalmente i claudicanti suoi compagni, non essendosi accorti di nulla, proseguirono nel piano, nascondendo furtivamente all’anulare sinistro del povero amico il bell’anello di Ametuc, certi di recuperarlo in seguito. Be’, facile predizione di un mago imbroglione, il vecchietto non resse alle cure più che mai esagerate alle quali venne sottoposto, tanto che ancora oggi, recandosi al cimitero comunale, si riesce a vedere, nascosta dalla vegetazione, una tomba riportante l’epitaffio: «Nel maltempo trascorso in vita, una mano sola conserva la madre della nostra fantasticata fortuna, la mia.»
Bertil di Carlo Sperduti
La situazione è questa: la serranda è appena stata abbassata, sono ate da poco le tre e mezza del mattino, il gestore è talmente stanco che se n’è andato lasciando tutto così com’era. Poco distante dal bancone, un vecchio tavolo di legno è rimasto in compagnia di una sola sedia. Le altre, durante la nottata di bagordi, sono andate man mano a circondare altri tavoli, occupati da consistenti gruppi di clienti. Bertil (triste e umiliata) sogna il suo Björkudden (slanciato, alto e chiaro) e singhiozza. Bertil (triste e umiliata) è la sedia; Björkudden (slanciato, alto e chiaro) è da sempre il suo promesso tavolo. Ma da Ikea qualcosa è andato storto: un omino tracagnotto ha acquistato otto Bertil senza neppure un Björkudden. E ora quest’esile Bertil (triste e umiliata), s’è trovata nel bel mezzo della sua prima nottata brava accanto a un rude tavolo rugoso, quadrato, dall’aria vissuta e che per giunta dichiara, catarroso, di non avere un nome. – Ai miei tempi, carina, non avevamo bisogno di un nome: era l’epoca in cui la gente, sotto di noi, appiccicava le gomme americane. Tu che mi guardi dal basso vedi bene quante croste ho ancora sul ventre. Sono stato dappertutto, credimi: ho cominciato a servire ventitré anni fa in un lurido bar di Cuba, poi qualcuno mi ha preso e mi ha trasportato in Brasile. Per quattro anni ho ascoltato solo samba e bossanova, cinque sere su sette. È lì che ho imparato che il mestiere del tavolo nei locali notturni è quanto di più duro ci possa essere. Poi ho viaggiato in Europa: sono stato a Lisbona, a Bilbao, a Marsiglia, a Torino e in tanti altri posti. I nomi! Ah! Io, dopo tutto quello che ho ato, dopo tutti questi viaggi, sono sempre io. Non ho bisogno di un nome, e così è per tutti i veterani della mia schiatta. Poi arrivate voi nordici, tavole sedie e lampade o qualunque cosa siate, e pretendete di avere un’identità… ma fatemi il piacere! Com’è che hai detto di chiamarti? Bervil, Pertil, Bertil… e dimmi, Tervil, questo nome proprio che ti
hanno appioppato, in cosa ti distingue dalle altre sette Rebtil che il capo ha portato con te? Un nome proprio, pfui!, dato a milioni di sedie in serie… il paradosso puro! Mi fate pena. E smettila di piagnucolare, perdinci! Bertil (triste e umiliata) si sente sempre più triste e umiliata, e risponde con voce flebile: – Il motivo, signore, per cui mi vede piangere, è che mi sento triste e umiliata… non ho più il mio Björkudden (slanciato, alto e chiaro), e qualcuno mi ha portato in questo posto infernale, dove in una sola serata mi si sono sedute addosso almeno cinquanta persone diverse, di cui molte erano assai pesanti… e qualcuna di loro, mi perdoni l’espressione, signore, ha emesso dei… come dire… dei peti, sulla mia superficie. – Ma siamo proprio delle principessine viziate, eh, cocca?! I “peti”, come li chiami tu, fanno ben presto a salire, e ristagnano più alla mia altezza che alla tua, te lo posso assicurare. E poi a te il massimo che potrà capitare è di venir sgangherata sulla schiena di qualcuno durante una rissa… a pochi viene in mente, da ubriachi, di alzare un tavolo allo stesso scopo… morire a quel modo, te lo dico io, è veloce e quasi indolore: un attimo e non ci sei più. Guarda me, invece, guarda tutti i solchi che ho addosso: gente che per dimostrarsi amore incide nomi nel mio legno, oppure scava frasi imbecilli, e io devo sopportarle come brutti tatuaggi e non posso fare niente per evitarlo… per ogni paese in cui sono stato, almeno un cretino beota, nella sua lingua madre, mi ha scritto addosso “w la fica”, facendo saltar via pezzi di me… e poi quelli che parlano e sputano, e quelli che rovesciano i loro bicchieri pieni di birra, di cocktail, di rum… alle sedie faccio da ombrello, il più delle volte… e in quante occasioni sono arrivato a fine serata completamente sbronzo! Impossibile contarle. Io sono condannato a consumarmi lentamente in questo modo, piccola, ma se nonostante questo non ti sta bene la tua situazione, te la descrivo ben bene così ti metti l’animo in pace: qui si comincia a mangiare verso le venti e si finisce di bere verso le tre, e in queste ore, tutte le sere tranne una (il giorno di riposo), accade tutto quello che è accaduto stasera, quindi sappi che di pesi dovrai sopportarne davvero molti, e di “peti” dovrai beccartene chissà quanti. Asciugati le lacrime e stringi i denti, carina. E soprattutto, per il tuo bene, dimentica il tuo Björkunderenzr al più presto. – Oh, Björkudden… – sospira Bertil angosciata (triste e umiliata) riprendendo a singhiozzare…
Morale: se entrate in un locale e vedete elementi d’arredo Ikea, trattateli con garbo. Sono molto sensibili.
Mano – brutto tempo – mamma di Angela
1) Sinistre congiure Fuori c’era un temporale fortissimo e la mano sinistra non trovava pace. La paura e il freddo tormentavano la sua notte. Guardava la mano destra beatamente cullata tra le cosce calde della mamma. Con invidia e un po’ di pena imprecava nel buio: – Ti sei dimenticata di me? E ricordava che da quando era piccola era sempre stato così: – Non tenere la matita, si disegna con la destra. Non si usa così, la forchetta, si usa l’altra mano! E ricordando si chiedeva: – Ma proprio io dovevo nascere a sinistra?
2) La mano morta Elena era appena uscita dal lavoro e con o svelto come al solito si dirigeva alla fermata dell’autobus; ancora più in fretta per l’arrivo delle prime gocce di pioggia e al pensiero di preparare la cena in tempo, come si conviene a una buona madre. Quando l’autobus arrivò era già innervosita dall’attesa. L’autobus era pieno come sempre e imprecando riuscì a inserirsi in un pertugio lasciato libero dagli altri. A un certo punto sentì come un qualcosa sul sedere. Iniziò a insultare l’uomo dietro di lei accusandolo di farle la mano morta. L’uomo, imbarazzato, spiegò allora che la mano, in quanto morta, gli era cascata contro il suo volere e che giurava: lui non aveva proprio sentito nulla.
3) La rivoluzione a portata di mano I propositi di uscire andavano sfumando. Dopo la nevicata delle ultime ore tutto si era immobilizzato sotto un bianco gelido. Carlo se ne stava di fronte alla finestra cercando di far raggelare la sua incazzatura, inutilmente. Doveva are un’altra serata a casa, probabilmente lo stesso tipo di serata dopo cinque giorni di bufera. Si diresse verso il computer e aprì la pagina di Facebook. Incredibilmente il suo amico Jamo non c’era e non compariva nemmeno più nella lista dei suoi contatti. In compenso il suo sogno erotico, Camille, era lì come sempre. L’aveva conosciuta a una festa e il giorno dopo, con la velocità della luce, erano subito diventati amici. In rete, si intende. Solo lì Carlo poteva parlarle, ma rigorosamente i suoi inviti a uscire venivano rifiutati. Il sogno erotico si trasformava spesso in incubo e pure disprezzo. Si doveva contentare di piaceri solitari e sofferti alla vista delle sue tette su Facebook. – Al diavolo, – disse, – Ma dov’è Jamo? Prese allora il telefono e lo chiamò: – Jamo, ciao, che fine hai fatto? Sono su Facebook e non ti vedo più. – Ciao, Carlo, me ne sono andato, sono uscito da quel vortice, mi ero rotto il cazzo e così basta, non esisto più per Facebook. – Ma come? Come ti è venuto? – Oggi ho letto che Facebook andrà in borsa e ho pensato che la mia vita no, non andrà ad alimentare questo sistema, e allora ho fatto clic… basta una mano, anzi un dito nel punto giusto e sei di nuovo fuori. Dovresti farlo anche tu. Oggi mi sembra di aver fatto una rivoluzione, la mia, comodamente seduto su una sedia. Senti, visto che domani sarà un’altra giornata di neve, che ne dici di andare fuori a giocare? Quando ci ricapita? – Ok… Ci vediamo domani, allora, – disse Carlo un po’ scosso alle parole dell’amico. Perplesso, chiuse il telefono.
Con fare deciso andò al computer, impugnò con la mano stretta il mouse, che si dimenò per un attimo prima che Carlo trovasse il punto giusto per fare clic. “Sei affondato, bastardo,” pensò con fierezza. Corse in salotto euforico, urlando e dimenandosi: – Mamma, mamma, l’ho fatto. Ho chiuso con Facebook. La madre, comodamente sdraiata sul divano come un balenottero ipnotizzato, sembrava non averlo sentito. – Mammaaa… – Non ora, Carlo, sto guardando una cosa in TV. – Cosa? – Non ora, zitto, per favore. Lasciò la madre e l’entusiasmo tra il salotto e la sua stanza. Si sentì quasi a disagio. “E adesso che cazzo faccio?” pensò confuso. Si sedette di fronte al computer e impugnò il mouse, che come impazzito seguiva la sua mano. Ritornò sulla pagina di registrazione di Facebook. “Ma quale rivoluzione?” pensava. Che cosa può cambiare? La preoccupazione di aver perso tutte le informazioni che aveva accumulato sino ad allora svanì non appena il Sistema accettò il suo pentimento. Ritrovò gli stessi amici e inseguì per un po’ il suo sogno erotico. Dopo aver dimenato per qualche ora il mouse reimpostò tutto, come se nulla fosse accaduto. Con gli occhi rossi e pesanti spense il computer e l’ennesima sigaretta. Si lasciò cadere pesantemente sul letto. Sul comodino qualche centimetro di polvere ricopriva un libro che Jamo gli aveva regalato. Lo prese, soffiò sulla copertina, lo rigirò tra le mani un po’ di volte, ispezionò le lettere che componevano il titolo e il nome dell’autore. Guardò con molta attenzione l’immagine di copertina. La spalancò. Sfogliò le prime pagine ed entrò in un’altra storia.
Era ora di Patrizia Berlicchi
“Dovrei essere dentro la mia vasca da bagno, immersa fino al collo nella schiuma profumata, invece che in uno sconosciuto bar da finti ricchi ad aspettare Laura ‘la sòla’ e a incazzarmi al telefono (perché di persona è diventato un lusso!) con Giovanni, che per l’ennesima volta ha fatto saltare i programmi per il fine settimana.” Angela allontanò da sé il tavolino con un gesto di stizza, lasciò i soldi sulla tovaglia tristemente damascata e indecentemente rosa salmone, che faceva pendant con l’intera baracca, e si avviò al guardaroba come se uscisse da un brutto sogno. Una volta fuori rabbrividì al vento freddo del tardo pomeriggio, si tirò su il bavero del cappotto e si incamminò a i svelti verso l’auto. “Con questa ha ato il limite! È possibile che si faccia sempre mettere i piedi in testa da tutti? Neanche fosse l’ultimo arrivato, in ospedale. Ne ho piene le palle di fare la fidanzata del Dottor Kildare…” In quel preciso istante una vibrazione inaspettata sulla coscia la fece trasalire. Veniva dalla tasca del cappotto; non ricordava di aver messo il cellulare in tasca. Lo prese e si accorse immediatamente che non era il suo: già, perché quello che aveva indosso non era il suo cappotto. Sul display c’era scritto “cucciolo”. Rispose. Poi la sensazione, che non avrebbe più dimenticato, di diventare di pietra, tanto da non riuscire a respirare. Conosceva bene quella voce: – Ciao cucciola! È tutto sistemato: abbiamo il fine settimana per noi, come ti avevo promesso… pronto amore, ci sei? È disturbato… sei contenta?
– Certo… – Allora ci vediamo al solito posto, stasera?… Pronto, ti sento male… – … Da Benny? – Si capisce… che c’è, cucciola, qualcosa non va? – No, poi ti spiego. Alle otto? – Alle otto, amore. A dopo. Rimise il cellulare in tasca, fece dietro-front e tornò da Benny il salmone. Riconsegnò il cappotto al guardaroba e trovò un tavolo libero. Poi ordinò del vino bianco e tartine al caprino ed erbette, per cominciare. Inspiegabilmente, le era venuta fame. Intanto si sorprese a sbirciare le donne che le stavano davanti, nel tentativo di indovinare chi di loro fosse la “cucciola” in questione, ma quasi subito distolse lo sguardo dalle tipe, realizzando che in effetti non aveva alcun interesse a dare un volto a quella che le stava portando via Giovanni. Mentre mangiava di gusto si chiese da quanto tempo non si sentiva così leggera. “Be’, era ora!” pensò, ordinando il secondo bicchiere di vino.
Monologhino de Nerina – Er trasloco – Ottobre 1995 di Anna Chiara Maccari
Se po’ sape’ che cerchi? Oh, fattucchiona, dico a te. Me sembrate tutti matti. Le forbici. L’ho viste, l’ho viste… ’ndo l’ho viste? Ecchetele! E brava Nerina! Ce l’ha messe tu’ padre qua. Ah, m’ha detto pure che lo scotche a casa vecchia è l’urtimo, che sei la solita sprecona e che devi usallo bene, perché sennò ce vai tu ar buggigattolo. Aho, tre pinze e ’na tenaja! Tanto attento, certe vorte. Tirchio no, non direi. Guarda che bella casa, ma so’ sacrifici, capito? A quarcosa dovete rinuncia’. Valenti’, tutti ’sti libri, a nonna? E che ce devi fa’? Li saprai a memoria. Sei gialletta, come le mattonelle de la cucina. Fattela ’na eggiata ogni tanto, che la vita è una! Er Generale ndo’ sta? De sotto a spacchetta’ le scarpe? Alloooora, magnamo ’st’artranno! Leeento, è leeento tu fratello ma è tanto bono. ’Sto trasloco ve sta a fa perde’ la ragione. Su e giù come criceti. Una casa co’ le scale, ma come v’è sartato in mente, dico io. Daje a scatoloni! A chi lo dico nun ce crede che a quest’età ancora tiè, guarda come sgambetto. È l’esercizio, capisci, che te tiene su. 74 anni e nun sentilli. Non c’ho na smajatura. Lavo, stiro e cucino. E mo me incollo ’sto macigno! Saranno 20 chili de scartoffie. Stai bona, scherzavo, e chi c’ha er coraggio. Ce manca solo che ce rimango e poi addio… ve magnate scatolette a vita! Oh, te voi fa’ na risata? Tu’ padre non butta niente, no? Ieri c’ha fatto vede’ er ce-rti-fi-ca-to de na-sci-ta de non-no Ar-fre-do, quello stro-stro, che s’è magnato tutto a donne. Allora tu madre, co’ l’occhi de fori, l’ha chiamato Mario Conservini. Nun l’avesse mai fatto! Gli ha rovinato la festa. Mooortacci de pippo, come s’è incazzato… poi, cociculo com’è, te poi immagina’. Gli ha
cominciato a di’: – In questa casa se non ci penso io alla burocrazia, chi ci pensa? Ci pensa Paoletta, che non sa come se paga ’na bolletta? Insomma, er solito teatrino! Ma tu madre c’ha raggione, gli incartamenti che se tiene! C’aveva pure la lettera dello sfratto mio. Quella sì, che è stata ’na traggedia. Mi padre quella casa l’aveva scerta cor core. Diceva che ce batteva sempre er sole. Prima abitavamo de fronte ma era più piccola. Poi cominciavamo a esse’ tanti: poro Mario, io, Marcella piccoletta, Nino ancora non c’era e poi mamma, papà, nonna Beatrice – marchesa de Vecchis, nobbile decaduta che non sapeva né legge’ e né scrive’, le risaaate – e Titta. Non lo so perché stava co’ noi, non l’ho capito mai. Forse mi’ madre j’affittava. Era na zitella anziana, sui cinquanta, e ce faceva compagnia. Ar poro Mario je voleva tanto bene. Tutte le mattine se svejava co’ lui e se sedeva in coridoio. Mario faceva su e giù cor libro in mano, je dava ’na letta e poi ripeteva la lezione a Titta, senza mai sbajasse. Un genio. A 21 anni era maestro, sapeva l’arabo e me sa’ pure er cinese. A quell’epoca! Anna’ a morì così. De pormonite. Pe’ le bravate che faceva. Coll’amici sua se divertiveno a conta’ le costole ai cavalli. Sì, quelli delle carozzelle, così, tanto pe’ cojona’ er vetturino, perché c’era la guerra, e se morivano de fame pure i cavalli. Ridendo e scherzando, lui c’è morto, in quella casa. Era mi’ fratello. È per questo che a tu’ padre ho messo er nome Mario. Che ne so perché è così strano. Mica lo so da chi ha ripreso! Er bello è che nun me posso inventa’ gnente. Nun posso manco di’ che me l’hanno scambiato, perché lui invece in quella casa c’è nato. Tutto er palazzo era testimone. Er primo ragazzino der civico 93! Cinque finestre – cinque – su viale Giulio Cesare. Me conoscevano tutti. Er fornaro, la cartara, er bar giù all’angolo, er patataro, er negozio de le calze e, poi, su via Ottaviano, Castroni. Ce avo le ore là dentro, c’era da sveni’ a senti’ quei profumi. Casa mia.
Una vita c’ho fatto, una vita. Er dispiacere mio più grande. 60 anni c’ho vissuto, oh, mica un giorno! Er giorno de lo sfratto, tu’ nonno era già morto pe’ quell’incidente maledetto e tu’ padre s’era sposato che era poco. Ancora me rinfacciano che gli ho rovinato er viaggio de nozze. Ma tanto stavano a Capri, qui dietro, mica a Singapore! Era morta la proprietaria vecchia. E i nipoti volevano la casa. Data la notizia, me so’ precipitata a porta’ i documenti a tu’ padre. Ce so’ andata co’ tu’ zio. Che dici, j’avrò rotto i cojoni? Tu che sei una ragazza intelligente, tu capisci che m’era successo? Co’ quella casa finiva tutto, finiva la storia dei Taglioni. E me volevano caccia’ subbito. A me, che la piggione l’ho pagata sempre. Sempre, come la pagava mio padre. Magari non magnavo, magari me impegnavo l’anello al Monte de Pietà, ma potevi sta’ sicura che er primo der mese, i sordi te li portavo! Ce so’ rimasta ancora un anno solo. E poi, er trasloco. Non ce crederai, ma io non me riesco a ricorda’ gnente. M’avranno impasticcato de nascosto, come ai matti, o forse è proprio la memoria che m’ha fatto ’sto scherzetto. Ho cancellato tutto, tutto. E da ’na parte menomale. Perché uno se sturba, coi ricordi dolorosi. Ma de una cosa non me posso scorda’ e non me la scordo ogni giorno che Dio mette ’n tera: in quella casa, io c’ho lasciato er core.
Storie di binari per viaggi interstellari di Elisabetta Trova
Nel pensiero binario c’è un’identità e un nulla. I parametri e la forma dell’identità sono determinati nel tempo dalle mode del momento. Del nulla, tutti lo sanno, non si ha forma. Anna, nata a Enna nell’ottanta, aveva se stessa, le sue necessità e il suo talento da portare avanti. Luca di Lucca era cresciuto a genuino latte di mucca e faceva il guardiano del campo di grano del suo vicino ormai lontano partito per l’America con un mazzo di carte in mano. Il pensiero binario concepiva Anna come una donna evoluta e Luca come emblema di una società obsoleta che presto si sarebbe fatto rientrare nel nulla insieme alla campagna, alla mucca e all’uva. Probabilità d’incontro scarse, convivenza o relazione nefaste. Ma il treno Messina-Milano si fermò per un binario intralciato e Anna, ricordandosi di Enna, forzò la porta e scappò fra i campi, tanto il biglietto non l’aveva neanche timbrato e volendo si poteva anche pensare a un cambio rimborsato… Così, quasi correndo, si diresse verso il giallo perché era il colore che preferiva al ricordo della prateria che oramai era finita per diventare terra da edificare. Si era chiesta più volte, compresa la sorte, perché si era scelto il nulla come alternativa all’uno e non si fosse neanche contemplato per un attimo il pensiero dialettico che concepisce l’esistenza del contrario rispetto all’Uno. Ma per le sue necessità e il suo talento, tanto disturbo non era dato di creare, quindi in campagna non era certo il caso di pensare ai motivi per cui un uomo senza forma non debba sentirsi Uno in forma.
Luca di Lucca, checché se ne dica, viveva nel nulla in perfetta forma. Sapeva che Lucca era al nord e che il nord era avanti, a chi o a cosa non se lo chiedeva perché raramente questo cambiava la mole di lavoro che ogni anno si ripeteva.
In moviola. Il grano maturo era il tempo migliore per concedersi eggiate in totale immersione tra arbusti che sovrastano e proteggono dal sole. Ecco perché Luca si trovava lì quel giorno, come ogni giorno del tempo del grano maturo, all’ora in cui il sole se ne va verso Ponente.
Primo piano. Luca era seguito sempre da Piluca, la fedele cagnetta che per starle dietro doveva andare sempre di fretta, ma tanto Luca non la lasciava mica, non ci sapeva certo stare senza quel cane da accudire. Questo Anna lo notò subito, perché al primo richiamo che tentò di fare per stringere amicizia con quella cagnetta singolare, Luca stizzito la fermò con un verso ammonito e si rivolse ad Anna con la lingua bastarda con cui chiedeva il pane a Edoardo, il droghiere che si trovava all’incrocio con viale Imperiale, che probabilmente Anna avrebbe trovato un po’ volgare. Anna sorrise, sembrò che un raggio di sole dal sud si infilasse tra il grano e lo strizzo degli occhi di quel Luca, che già si capiva che tante domande non se le poneva, ma era bello come il frutto maturo cresciuto al sole. – Piacere, io sono Anna, – allungò la mano, strinse quella di Luca, lo tirò a sé, fece per baciarlo e poi lo leccò, come per assaggiarlo. Lui d’impatto si irrigidì, poi scoppiò a ridere, la posizionò di fronte a sé e le carezzò il volto come si fa con il muso di un cane, prendendola per il mento e sfregandole la guancia con le mani ruvide. Fecero l’amore così, inspiegabilmente come è inspiegabile l’inizio della vita, o la scoperta del fuoco, o l’esistenza degli dei.
Dopo Anna tornò sui binari verso altre stazioni. La moda del momento forse avrebbe trovato una risposta a quel suo strano modo di fare. Luca di Lucca, checché se ne dica, ci mise un po’ di più a rientrare nei suoi binari. Edoardo, il droghiere, racconta di averlo visto una notte scrivere con una bomboletta spray su un vagone dimesso vicino la stazione: «Le donne mangiano gli uomini per fare altri uomini.»
Tramonti di Sara Marabiso
Cinque i dopo il cancello, Julien ne veniva avvolto e lì cominciava il suo sorriso al sale. Usciva da lavoro ogni sera alla stessa ora, 17.30, in tempismo perfetto con i ritmi del sole, che lo aspettava impaziente sul ponte per poi andare a dormire sotto il letto del fiume. A cadenza fissa, quasi fosse una marcia verso la guerra, Julien ricalcava coi piedi la strada di casa, impacchettato per tutto il viaggio in una pellicola di tristità: qualcosa simile al ridere per un sasso che ti colpisce in testa, o gioire di poter fare a meno di un dito tagliato… Insomma, ciò che generalmente chiamano follia. Arrivò sul ponte. Il rito prevedeva che ci appoggiasse i gomiti per tre minuti, fissando il sole dritto nella fessura tra il giallo e l’arancio, attendesse che la pupilla si dilatasse tanto da far male e poi se ne tornasse alla sua marcia sincopata verso una doccia. Ma no. Mentre stava aspettando che il primo occhio iniziasse a bruciare ecco svolazzare da dietro il parapetto di pietra il lembo di un foglio. Gli occhi si distrassero dal loro masochismo, attratti dal fruscìo della carta. Come potesse rimanere lì appeso e ben saldo, Julien non se lo spiegava, e ne sfidò la caparbietà facendo are più di qualche secondo prima di avvicinarvi il palmo; accarezzandolo, il lembo gli fece il solletico. Lo punì per questo, accartocciandolo di schianto e tirandolo a sé. Ecco come faceva! Era stato spiattellato lì dietro grazie a una gomma da masticare – masticata. «Quanto più puoi» sentenziava, a lettere di giornale, maltagliate. Le pupille di Julien si fissarono così tanto che se il dolore non le avesse chiuse gli si sarebbero seccati i bulbi. Ma lui non credeva ai segni cosmici: non c’erano particelle eteree pronte lì per noi a dare messaggi, a sussurrare idee. Non c’erano dio, santi, anime, resurrezioni, paradisi. C’era l’inferno, quello dove già si trovava. Ma all’inferno un foglio è un foglio, al massimo serve ad appiccarci un fuoco; e le parole sono aria articolata, utile a imbonire i capiufficio e a far aprire le gambe a bamboline sprovvedute. Il cosmo se ne sbatte dei fogli e delle parole. Quindi quel foglio non aveva un significato, soprattutto non poteva avere nessun significato per lui. Eppure il suo pugno non lo mollava, ci si era incollato. Indietreggiò di riflesso, e al secondo o a gambero, il suo tacco urtò una
caviglia e provocò un “Cazzo!” sputatogli alla nuca. Una ragazza biondiccia – non più così ragazza forse – lo ghiacciò con uno sguardo blu cristallino. Doveva essere la giornata buona per diventare cieco, pensò; due abbagli in così poco tempo non li aveva mai presi. Avrebbe potuto scusarsi, sorriderle, farsi brillante con qualche battutina da bravo ragazzo, farle notare la sua vena poetica nel rimanere incantato dal tramonto sul fiume. Accartocciare il foglio e lanciarlo in acqua. E invitarla al bar all’angolo. Poi magari anche a casa, per dessert. Invece rimase lì, a fermo immagine, col tallone a mezz’aria, accigliato, gli occhi ancora sgranati e la bocca aperta. Lei, dopo lo sbotto incondizionato, sembrò sperare in un suo cambiamento, nello scorrimento della pellicola, nel fotogramma successivo, ma nulla. Era attaccato al quadro da enormi chiodi, inamovibile. Così lei pensò bene che non c’era niente da aspettare o aspettarsi, e sparì tra la foschia della sera con un altisonante “Cretino”. Il “puoi” lo minacciava senza ritegno, lo odiò con tutto se stesso. Sapeva che poteva, ma non lo voleva sapere, in effetti non voleva proprio potere; così quel “puoi” si materializzava in un padre assillante, soprattutto se accompagnato da “quanto più”. Si chiese quale fosse l’utilità dei padri, in fondo: le madri, specie se come la sua, erano sufficienti. Condizioni necessarie e sufficienti di per sé. Che bisogno c’era di un padre che fingesse di tenere le redini, di dare ordini? Mamma invece può. Mamma ti ama e ti castiga, ti abbraccia e ti mena, non importa, non cambia: con lei non devi potere niente, mai. Sei suo e quindi puoi, anzi devi, non potere. Mamma può, non tu. Quel foglio era suo padre che non lo voleva lasciarsi andare, che lo voleva in sé, contro la sua propria volontà. Lui non si voleva in sé, perché il sé era vuoto; e soltanto una madre poteva riempirlo del suo potere. Una madre come quella che poco fa aveva lasciato andar via senza dirle che non aveva fatto apposta a calpestarle il piede. Si rigirò il foglio sgualcito tra i polpastrelli mentre il sole veniva ormai inghiottito dal fiume, macchiandolo di rosso. Julien si riavvicinò al parapetto di pietra e riappese il foglio al suo posto. Si arrampicò, ipnotizzò a testa bassa l’iride blu cristallino del fiume, e saltò.
Difese personali di Camilla Cossu
Quella mattina, Valentina percorse il tragitto da casa a lavoro in uno stato di trance. Compì ogni gesto come un automa: prese la valigetta, chiuse lo sportello della macchina, salutò il custode ed entrò in consultorio. Fece le scale che portavano al suo studio e si sedette alla scrivania. Per la prima volta in sette anni stette lì ferma, immobile, a fissare lo schermo spento del computer. Dalle vetrate delle finestre filtrava il sole primaverile e un venticello delicato sollevava da terra i petali di pesco, agitati in una coreografia disordinata, come accade coi disegni degli stormi di rondini. – Dottoressa! È arrivata Camilla… le dico di attendere? – disse sporgendosi l’infermiera. – No, la faccia entrare, Ines. Grazie. Era ato qualche mese dalla loro ultima seduta. La prima volta, Camilla era giunta al consultorio tardi, raccontando dell’incontro con un ragazzo problematico conosciuto di recente. Era stato grazie a lui che aveva preso coraggio e deciso di andare via di casa, perché tanto, peggio di così… Valentina le sorrise col cuore e si alzò per andare ad abbracciarla, istintivamente, contravvenendo al suo codice di comportamento professionale; nessun paziente fino a quel momento era riuscito a smuoverla così e farle dimenticare i pericoli del coinvolgimento emotivo. – Fatti guardare, Camilla… Come sei… bella! Come siete belli! – fece Valentina, carezzandole il pancione che sporgeva dal trench aragosta. Le erano cresciuti i capelli, ora li portava liberi sulle spalle. Immediatamente pose la mano sulla sua, premendola contro il futuro maschietto. Stettero in piedi in mezzo alla stanza, poi Camilla si sedette sulla poltrona davanti alla scrivania evitando per la prima volta il lettino. – Ho iniziato le ricerche per la mia tesi di laurea… e sto lavorando part time per una famiglia che vive in centro. Ho pensato a lei quando sono stata da loro per il colloquio… una coppia giovane con due bimbi bellissimi – esclamò raggiante.
– La trovo in piena forma, sono contenta! Come va? – fece Valentina. – Il bambino cresce, è un piccolo Maciste! Le ho portato l’ecografia che ho fatto tre giorni fa, eccolo qui… Sa, dottoressa, l’ho sognata più di una volta questi mesi. Ho sognato che si trovava fuori da casa mia e correva urlando come una pazza, ma nessuno poteva sentirla a parte me… allora le andavo incontro e lei mi faceva vedere le mani sporche di sangue. Mi sono svegliata per lo spavento – disse Camilla guardandola fissa negli occhi. Valentina s’irrigidì mentre l’altra le porse un grosso involto di carta velina trasparente, tolto da una busta a cui prima non aveva fatto caso. Era il suo cappotto invernale, quello che preferiva, quello comprato al bugigattolo di cose usate parecchi anni prima. – L’ho trovato a casa mentre facevo il cambio di stagione, dottoressa. Era nascosto nell’armadio di Giacomo. Le due donne rimasero sedute l’una di fronte all’altra senza dire una parola. Valentina infilò il cappotto nella busta, prese la valigetta e tornò a casa in preda alla tachicardia. Rovesciò il contenuto della busta sul letto, strappò la velina tra le lacrime e scaraventò il cappotto per terra, scuotendolo come avesse avuto davanti il suo aggressore. Era ancora un po’ sporco di sangue sulla fodera interna: Giacomo l’aveva sorpresa fuori dal consultorio una sera, l’aveva riempita di calci e stuprata nel vicolo vicino, a due i dalla casa in cui viveva con Camilla. Quell’uomo Valentina l’aveva visto spesso di sfuggita ed era diventato un nemico invisibile sin da quando la sua paziente iniziò a raccontarle l’inferno che nascondeva. Quell’uomo era costato a entrambe notti insonni ate con la luce accesa e la vergogna di guardarsi nude allo specchio. Stappò una bottiglia di vino e attese le otto di sera, s’infilò in macchina e giunse ubriaca alla porta di casa di Camilla. Insieme a lei, attese il ritorno di Giacomo seduta sul divano. Lo sparo rimbombò per tutto il quartiere. Solo quando la polizia arrivò per interrogarle, Valentina si accorse di aver indosso il trench aragosta e che il suo, macchiato di sangue, lo indossava Camilla. Era stata difesa personale, disse lei. Difesa personale.
Fischi per fiaschi di Diletta Fedele
«Nel 1975, in quattro grossi volumi, per iniziativa dell’Istituto Gramsci, Valentino Gerratana ha pubblicato una rigorosa edizione critica di tutti i Quaderni corredandola degli strumenti necessari per una nuova “lettura” (soprattutto i riferimenti precisi e completi alla “biblioteca” di Gramsci).» Rossana interruppe la lettura. Gli occhi avevano iniziato a lacrimarle e le facevano un po’ male, non capiva se per il freddo polare di quella sera di gennaio o per colpa di quel mattone su Gramsci che aveva deciso di portarsi dietro, la cui lettura aveva contribuito non poco al suo incipiente mal di testa. Alzò lo sguardo al tabellone elettronico che implacabilmente la informava che il suo treno era in ritardo di ben 25 minuti. “25 minuti: ne eranno almeno 40 prima che il treno arrivi sul serio,” pensò. Poi si guardò attorno: era buio pesto, ormai, e non c’era anima viva a eccezione di un tipo che sonnecchiava sulla panchina del binario di fronte, bardato e avvoltolato dalla testa ai piedi. Sembrava che indossasse due paia di pantaloni e quattro maglioni sotto al giubbotto turchese, tanto era grosso. O forse era solo grasso: Rossana era un po’ miope e da lontano non ci vedeva tanto bene. Si alzò dalla panchina e per riscaldarsi iniziò a camminare avanti e indietro lungo il binario. L’aveva fatto per almeno sette o otto volte, quando voltandosi notò in fondo al suo binario la sagoma di un’altra persona. Rimase per un istante ferma a guardarla, senza riuscire a capire se si trattasse di un uomo o di una donna, di un giovane o di un vecchio. Chissà perché quella nuova presenza le aveva messo dentro un po’ d’agitazione. In fondo era sola in quella stazione di provincia, a parte il tizio che seguitava a ronfare dall’altro lato e di cui si poteva sentire chiaramente il potente ronzio. Decise comunque di seguitare a camminare lungo il binario come se niente fosse. Subito dopo anche la misteriosa persona si mosse, camminando con calma ma inesorabile lentezza. “Sembra venire verso di me,” pensò Rossana, e non si sbagliava. La sua figura si avvicinava sempre di più e adesso le sembrava di intravedere un uomo distinto,
sulla cinquantina, non alto e rotondetto, con indosso un cappotto lungo scuro e in testa un borsalino. A un certo punto l’uomo, sempre senza fermarsi, estrasse qualcosa dalla tasca del cappotto. Rossana non riusciva a capire cosa fosse, ma quel qualcosa luccicava sotto la luce fredda dei neon della stazione. “Oddio, ma quello è un coltello a serramanico,” pensò, e presa ormai dal panico si girò indietro e iniziò a correre, cosicché anche l’uomo prese a inseguirla. Mentre scendeva a perdifiato le scale la povera ragazza lo sentì gridare più volte: – Fermati, puttana! Il cuore le batteva a mille e le era salito in un istante su alla gola. Non aveva la minima idea di dove andare, eseguiva solo quello che il suo cervello le ordinava di fare, ovvero correre, fuggire, scappare il più lontano possibile da quello psicopatico. Eppure, per quanto veloce corresse, continuava a sentire il suo fiato sul collo e il rumore dei suoi i avvicinarsi sempre di più. Finalmente, si sentì il fischio del treno che entrava in stazione. “Devo riuscire a prenderlo!” pensò Rossana, e riprese a correre ancora più velocemente verso l’altra rampa di scale che saliva di nuovo al binario. L’uomo non si era arreso e continuava a starle alle calcagna. Quando fu di nuovo sulla piattaforma il treno si era appena fermato per far scendere i pochi eggeri diretti a quella stazione. Rossana ebbe un ultimo scatto in velocità e si precipitò all’interno del vagone, dopodiché le porte le si chio alle spalle. “Sono salva!” pensò la ragazza, sudata e ansimante per la paura e per la fatica di correre su e giù per la stazione. Si sentì chiamare dall’interno del treno. – Rossana! Un uomo sulla cinquantina, non alto e rotondetto, con indosso un cappotto lungo scuro e in mano un borsalino le si avvicinò. – Professore, ma allora era lei! – Sì, chi pensavi che fosse? Freddy Krueger? – disse l’uomo ridendo – A giudicare da come correvi… e più ti dicevo “fermati, Rossana!” più tu correvi veloce!
– Ma io, non l’ho riconosciuta… al buio, da lontano, e poi quella cosa che luccicava, ho pensato si trattasse di un coltello… – Un coltello? Probabilmente sarà stato un riflesso causato dal mio orologio! – disse l’uomo, che aggiunse: – Ahi, Rossana, Rossana, dove hai la testa? Invece di continuare a leggere libri dell’orrore, hai iniziato a leggere il saggio su Gramsci che ti ho prestato per la tesi? – Veramente sì, – rispose la ragazza.
–Non dire sciocchezze!
Mixer di Daniela Peruzzo
Un giorno la notte sparì e non se ne seppe più niente. I giornali e le televisioni impazzirono. Fu l’evento mediatico della stagione. Per mesi si cercò una spiegazione. Un giornalista allestì un plastico che riproduceva il sistema solare e invitò un famoso criminologo nella sua trasmissione televisiva per tracciare il profilo psicopatologico del supposto rapitore della notte. Gli ecologisti, tuttavia, erano certi che non si trattasse di un rapimento ma di una reazione del cosmo all’eccessivo utilizzo di pesticidi nell’agricoltura e di conservanti nel trattamento dei cibi. Non si può menare per il naso la natura e sperare di farla franca a lungo, insomma. Secondo uno studio americano, la scomparsa della notte faceva parte di una strategia evolutiva che favoriva gli insonni, cioè la vera parte produttiva della società, dimostrando la superiorità del modello liberista. Confindustria chiese l’allungamento dell’orario di lavoro. Diverse ma differenti, storico gruppo femminista della capitale, invece, non aveva dubbi: era un complotto del patriarcato per privare la donna del proprio potere istintuale. Lo sanno tutti che la notte è simbolo delle potenze oscure dell’inconscio che si contrappongono alla luce della coscienza e, quindi, al logos maschile. Era evidente. Non c’era bisogno di altre spiegazioni. E chi non lo capiva aveva introiettato il patriarcato. Non si poteva escludere però, come faceva notare il sito Ufo punto net, che fossimo davanti all’ennesimo tentativo degli alieni di stabilire una comunicazione con noi. Dopo aver costruito piramidi e svolazzato a più riprese nei cieli di tutti i paesi della Terra, forse ai nostri vicini spaziali non era rimasta altra alternativa che privarci della notte per farsi notare.
Il partito politico al governo lo aveva detto chiaramente: è una manovra dell’opposizione finalizzata a creare tensioni sociali, di certo colpa dei comunisti. Poi si resero conto che i comunisti erano loro e che nel frattempo avevano pure vinto le elezioni, e allora mandarono un comunicato stampa dicendo che erano stati fraintesi. Non mancò chi ravvisò nella sparizione della notte un complotto delle banche perché pare che il risparmio energetico derivante dalla situazione di perenne luminosità avesse indirettamente favorito delle speculazioni finanziare i cui proventi furono investiti nella vendita di armi a qualche paese del terzo mondo. Non si seppe mai la verità, ma l’improvviso moltiplicarsi di agenzie multicredit in Botswana sollevò in alcuni leggerissimi sospetti. Nel frattempo, immigrati clandestini vennero messi a vendere occhiali da sole agli angoli dei semafori. I PSF, Psicanalisti Senza Frontiere, misero in guardia l’umanità ingenua: la scomparsa della notte non era un fatto reale, oggettivo, concreto. Era ovviamente una metafora, un processo di simbolizzazione. Significava che l’uomo negava i lati oscuri della vita volendo vivere solo quelli luminosi. Era il rifiuto dell’inconscio, del mistero dell’esistenza, delle forze primordiali. Diverse ma differenti fece notare che quest’ostinazione a parlare solo dell’uomo e a negare il potere femminile era il segno più evidente che Psicanalisti Senza Frontiere aveva introiettato il patriarcato. Gli economisti erano in allarme: la sparizione della notte era una nefasta conseguenza dell’aumento dello spread, che se avesse continuato a crescere di certo avrebbe avuto effetti incalcolabili anche sulle stagioni, l’inclinazione dell’asse terrestre, il moto ondoso della luce e l’ora legale. Intanto i ristoranti cinesi smisero di chiudere, visto che insieme alla notte era scomparsa anche la mezzanotte, limite orario all’apertura dei locali imposto dal sindaco. L’unione commercianti tacciò i cinesi di concorrenza sleale e lasciò intendere che se si voleva ritrovare la notte bisognava mettere il naso negli affari di quella Triade che usava per riciclare il denaro sporco certi particolari ristoranti gestiti da persone che, curiosamente, non riescono a pronunciare il fonema r. I sindacati promisero un autunno caldo dal momento che, era elementare, questa
sospetta sospensione della funzione notturna rappresentava l’ennesimo tentativo di toccare i diritti acquisiti dai lavoratori dipendenti. La UIL, Unione Inutile per il Lavoro, si disse profondamente preoccupata per la situazione in essere ma pronta al dialogo con madre natura o con chi avesse potere di delega purché non si continuasse a pagare ai lavoratori a tempo indeterminato la tariffa notturna. Quando si fece notare alla UIL che non essendoci più la notte era difficile capire quando tale tariffazione dove essere applicata, risposero proclamando 15 minuti di sciopero, dopodiché si dissero soddisfatti dell’intesa raggiunta. Intanto ai lavoratori atipici si chiese di coprire turni di 24 ore qualora volessero mantenere il posto di lavoro. Il Moige, Movimento Genitori Imbelli, non si pronunciò rispetto ai motivi che avevano provocato la scomparsa della notte, anche se, lasciavano intendere in maniera informale alcuni dei suoi esponenti più autorevoli, si sospettavano gli omosessuali, i quali si ostinavano in pratiche contro natura. Si dicevano certi che l’eliminazione delle ore notturne, normalmente dedicate a atempi nocivi e immorali, avrebbero di certo aiutato i bambini a sviluppare abitudini più sane, fare più sport e mangiare molta verdura. Diverse ma differenti fece notare che anche le lesbiche commettono atti contro natura e questa sospetta dimenticanza lasciava pensare che il Moige fosse complice del patriarcato. Inoltre, anche le bambine devono mangiare molta verdura. La scuola sociologica post-strutturalista se cominciò a teorizzare la atemporalizzazione come condizione dell’uomo moderno e si dimostrò entusiasta della scomparsa dell’ormai rigido e sclerotizzato confine tra giornonotte, espressione da parte del cosmo di un atteggiamento percettivo imperdonabilmente dicotomico, francamente inaccettabile nell’era della postmodernità. Anche perché la dicotomia, li apostrofò Diverse ma differenti, è palesemente un portato del patriarcato. Dopo qualche mese, svanito l’effetto novità, la gente smise di chiedersi il senso dell’accaduto e cominciò ad adattarsi alla nuova situazione. A qualcuno non dispiacque affatto. Improvvisamente si era resa disponibile una fetta di tempo prima del tutto inutilizzabile.
Altri, in un mondo dove il sonno era stato bandito, cominciarono a soffrire di narcolessia, ipersonnia e fenomeni connessi come cataplessia e allucinazioni ipnagogiche, portando avanti in questo modo un’implicita critica al modello cosmico proposto. Ma furono fenomeni residuali. Per lo più la gente si abituò a vivere in un mondo con molte ombre, ma senza sfumature, ambiguità, misteri e soprattutto sogni. Un mondo perennemente luminoso. E finì per scordarsi come fosse la vita di prima, quella in cui spendeva alcune ore a riparo della propria incoscienza. Per quanto riguarda me, soffro di narcolessia e sto seguendo una terapia. Il dottor B. dice che presto supererò questo problema, ma io credo che tutta la questione stia nel mettersi d’accordo su che cosa sia un problema. Posso capire che addormentarsi improvvisamente, mentre si sta portando avanti una qualsiasi attività, possa essere considerata da molti una faccenda fastidiosa. Non nego che lo sia. Tuttavia, sembrerà assurdo, ma io aspetto questi momenti con impazienza. Non è solo scivolare nell’incoscienza che è un gran sollievo. La verità è che sono le sole occasioni che ho per incontrarti. Il dottor B. dice non dovrei darti tutto questo spazio perché sei solo un’immagine ipnagogica, fenomeno allucinatorio molto comune tra i narcolettici. Forse è così. Ma c’è una domanda che mi ossessiona e alla quale B. non mi vuole rispondere. In un mondo nel quale sono spariti i sogni, come possiamo decidere cosa è reale e cosa non lo è?
La Notte di Marco Lipford
– Ok, tirate fuori La Notte, brutti figli di puttana! Minelli, il gestore del Moron, cioè la discoteca più in della città, è fuori di sé. È un venerdì sera, ma La Notte non c’è più e il locale è vuoto. La faccenda è seria: chi frequenterà quel posto di sballi, adesso? Giardina, il contabile, ha ricevuto una soffiata su chi ha fatto sparire la componente più preziosa del Moron, appunto La Notte. Con i nervi a fior di pelle, Il vecchio Minelli interroga nel lounge i suoi dipendenti. – Avanti! – tuona – Chi è stato? Al suo fianco c’è il ragionier Giardina, e davanti a loro si trovano Axel il barman, Iara la cubista e Carletto il buttafuori. I tre ceffi hanno l’aria colpevole e si guardano qualche istante. Finché Axel non proferisce parola: – Innanzi tutto moderi i termini. Cosa crede, che può trattarci come pezze da piedi solo perché ci paga una miseria? – Ti pago il giusto, razza di mangiapane a tradimento! – sibila Minelli rivelando l’oro tra i denti. – Che succede, capo? – Carletto si alza e nel porre la domanda fa valere tutta la sua stazza. – Ditemi dove avete messo La Notte! Credete che non sappia che la richiesta di riscatto è vostra? Carletto alza le braccia perplesso, ma Axel lo sbugiarda: – No, non tiriamoci indietro. Non fingiamo. Si appoggia con entrambe le braccia al bancone e aggiunge: – È vero, l’abbiamo
presa in ostaggio. Cosa vuole? Occorre pur farsi valere in questo mondo di merda. Non siete voi imprenditori, gli unici furbi. Il sopracciglio alzato del barista è quanto di più indisponente. – E hai pure il coraggio di confessare, mascalzone? – grida il proprietario dell’intero baraccone – Io ti rovino! In tutto ciò il ragionier Giardina si fa sempre più attento. È teso, sembra incerto sul da farsi. Iara lo guarda e resta in silenzio. – Piano con le parole, le ripeto, – replica ancora Axel, – ma possiamo accordarci: in cambio di un milione tondo tondo le ridiamo La Notte e il nostro silenzio sui traffici illeciti di coca che troppo tempo le abbiamo coperto in questo locale. Dopo una serie di urli, minacce e improperi, Minelli sembra arrendersi ai suoi dipendenti-lestofanti: il re è stato messo sotto scacco dagli stessi pedoni delle sue fila. Ma al momento di firmare l’assegno due colpi di pistola freddano Axel e Carletto. Iara lancia un urlo di orrore. – Giardina! – grida sorpreso Minelli. – Proprio io! – dichiara il contabile, e avvicinatosi con la pistola ancora fumante puntata verso di lui gli strappa di mano l’assegno firmato. – Ma allora sei stato tu… Miserabile! – Esatto, – conferma Giardina, – e non tollero che una coppia di truffatori omosessuali si prenda il merito dei miei piani. Il contabile assassino agguanta la spaventatissima Iara per il braccio e la trae a sé. – Finché non ho il denaro, lei viene con me come garanzia. E niente scherzi! Senza voltare le spalle escono dal lounge, Iara con la pistola puntata tra i reni. Saliti su una berlina blu nel parcheggio, Giardina appoggia l’arma sulla plancia. – Ottima interpretazione, mia cara. Hai un’intelligenza rara, oltre che un gran
personale – dice, e con fare viscido le mette una mano sulla coscia. – Adesso liberiamo l’ostaggio e poi voliamo io e te ai Caraibi, in vacanza permanente! Volevano farmi fesso, quei due! Nemmeno il tempo di accendere l’auto che la mano guantata di Iara afferra la pistola e la punta contro il contabile. – Quando hai lasciato tutto in mano a me per rapire La Notte ho capito che non sei intelligente come sembri. Ma su che basi credi che Axel e Carletto abbiano detto che erano stati loro a fare il rapimento? – Ma… mia cara… – balbetta Giardina, e l’abitacolo della berlina attutisce lo sparo. Iara si infila l’assegno nel reggiseno ed esce dalla berlina, pistola in pugno. Tornata nel lounge del Moron, ad aspettarla trova niente di meno che Minelli. – Fatto tutto? – le chiede, si avvicina e le prende la pistola. Lei scavalca i cadaveri ancora freschi di Axel e Carletto e si mette dietro al bancone. Versa un prosecco in due calici e con un sorriso gliene porge uno. – Prosit! – dice lui, e beve. – Molto bene. Ma ridammi l’assegno, dolcezza. – Te lo darò quando saremo sull’aereo – risponde Iara con aria innocente. – Quale aereo? – ridacchia Minelli dal divanetto, e fa ondeggiare il suo prosecco ambrato – È vero, hai avuto l’idea che mi mancava: rapire La Notte per poi corrompere i tuoi colleghi e Giardina per prendersi la torta. Così mi sono liberato in una sola botta di due testimoni scomodi e di un contabile infingardo. Adesso posso prendere ciò che rimane, chiudere la discoteca e filarmela prima che le acque si facciano ancora più torbide. La narcotici mi sta alle costole, e tu capisci che non posso rischiare di essere rallentato o peggio tradito, e perciò devo rinunciare alla tua pur piacevole compagnia… La pistola adesso è puntata verso Iara. – Certo, un piano perfetto, mi dispiace solo che ti sei dovuta sporcare tu alla fine, ma non importa adesso. E non preoccuparti, – ghigna, – ho l’imbarazzo della scelta su chi far cadere l’arma del delitto.
L’espressione sul viso della ragazza cambia dal giorno alla notte. – Oh, nessun disturbo. Con la pistola in mano troveranno te, mio caro, – dice suadente. Minelli ride, ma quando preme il grilletto la pistola non spara, e lì capisce che qualcosa non torna. Iara si guarda il french sulle unghie. – Credevi fossi così sciocca da riconsegnarti una pistola carica? Minelli cerca di allentarsi quel fastidioso nodo al collo. Che strano, non ha la cravatta. – C-cosa mi hai dato da bere? – si agita e cade. Iara, incurante degli spasmi del vecchio, resta dietro al bancone. – Io?… Oh, deve essere la Riserva Speciale di Axel… mi aveva detto che la teneva da qualche parte. Non ti piace? – Maledetta! Negli occhi di Minelli si rivela un lampo di intuito: – Siete d’accordo, vero? È stata La Notte… è stata lei a ordire il piano… e tu hai messo nel sacco tutti… alla perfezione… che idiota a non averci pensato prima! Quello stramazza in pochi secondi e lei gli sistema la pistola ben salda tra le mani. Ora può ricongiungersi con La Notte, finalmente sono libere. Tra gli intrallazzi di Minelli e compagnia non volevano più entrarci, stanche entrambe com’erano di quel posto maledetto da Dio. L’unica cosa buona è che tra quelle pareti si sono incontrate. Lei, Iara, e il suo amore Mary La Notte, la dj più in voga del momento.
Un certo sconforto di Marco Bruschi
Quella sera c’erano Achmet, Norberto e Alì ma la mia preferita restava indiscutibilmente Margareth. Avrei dovuto lavorare anni per diventare come lei. Il mio dilettantismo prendeva forma nel termos di caffè che tenevo nascosto nella borsa, mentre Margareth aveva questa scadente bottiglia di gin dalla quale sorseggiava avidamente fra una parola e l’altra. Margareth era la mia preferita della settimana, se non del mese, anche perché parlava in tedesco e non si capiva una mazza di quello che diceva. Almeno credo, che fosse tedesco. Io pendevo dalle sue labbra e lei ogni tanto mi guardava e mi sorrideva, oppure si guardava intorno e sorrideva al vuoto. Avrei potuto cominciare a lavorare anche sullo sporco. Uno sporco autentico e arcaico che le impastava i capelli, le tatuava le mani e si infilava nelle orecchie. Guardai le mie, di mani, ed ebbi vergogna. Erano bianche e ordinate, non avevano niente della notte se non un pallore convinto. Il tram si fermò e Alì scese. Non era una grande perdita. Achmet mi piaceva di più perché stava rintanato in un angolo con il cappello pigiato sulla testa e sembrava sul punto di tagliarti la gola da un momento all’altro. Dovevi rispettare le regole là sopra. Mai alzare la voce, mai far squillare il cellulare, mai rivolgersi a qualcuno. E soprattutto mai guardare negli occhi un Achmet. Errori da principianti che sul notturno si pagano cari. Sorrisi fra me e me facendomi cullare dalla calda consapevolezza di essere un veterano. L’esemplare di Norberto era meno pericoloso dell’Achmet ma anche assolutamente poco interessante. Probabilmente era un panettiere che andava a lavoro con il fegato pieno di bile. Margareth a quel punto ruttò e io andai in brodo di giuggiole. Scesi alla piazza con un certo sconforto; non mi andava di abbandonare i miei amici così presto. Lo scrissi anche nel quaderno degli appunti da are a Giovanna. Un certo sconforto. Forse le sarebbe stato utile. Scelsi un altro notturno sul cartellone e iniziai ad aspettarlo, e intanto descrivevo sul quadernino le cose che avevo appena visto. Giovanna era stata tanto cara a regalarmelo e io non volevo deluderla. Mi versai un tappo di caffè e lo buttai giù immaginando che fosse vodka da due soldi rubata da dietro il bancone mentre il barista non
guardava. Il tram arrivò e io salii, però poi fui subito triste perché non c’era nemmeno uno dei miei amici. Mi sedetti sconfortato vicino al finestrino sbirciando le fermate che se ne andavano una dopo l’altra. Forse non era serata. Faceva troppo freddo, eravamo troppo in mezzo alla settimana. Finalmente salì qualcuno: era Steve. Steve non mi piaceva ma mi accontentai. Il fatto è che lui stava sempre sulle sue e si credeva migliore di te. Portava cinture bianche dalla gigantesca fibbia in metallo e aveva i capillari del naso distrutti. Provai a farmelo andare a genio ma non ebbi molto successo. Mi annoiavo e guardai di nuovo fuori. Mi accorsi di essere più o meno vicino a casa di Giovanna e decisi di scendere per farle una sorpresa. Chissà come sarebbe stata contenta! Il quadernino era quasi pieno, gliel’avrei dato subito. Per finirlo davvero scrissi una veloce opinione su Steve e poi in una pagina misi così: ti voglio bene, perché era vero. Quando fui sotto al palazzo mi accorsi che le sue finestre erano tutte buie e forse allora significava che stavano dormendo. Ci pensai su; forse suonare non era la scelta giusta. Ricordavo ancora come si metteva a urlare quando rientravo la sera, poi come aveva smesso di mettersi a urlare e aveva iniziato a guardarmi e basta. Il periodo in cui si chiudeva in bagno è sempre stato quello che mi è piaciuto di meno, perché dopo tutto quel caffè dovevo andarci anch’io e bussare non serviva a nulla, e allora se era caldo la facevo dalla finestra e se era freddo la facevo nel lavandino della cucina. Allora decisi di lasciarle il quadernino davanti al portone. Strappai una pagina scritta a metà, tanto era poco importante, e ci misi un bel “Per Giovanna”, e lo appoggiai lì, e me ne andai tutto contento.
L’ultima volta di Patrizia Berlicchi – Ma’, si può sapere dove vai con questo tempo? Non puoi aspettare domani per fare ’sto lavoro? Mia madre era lì, sulla soglia di casa, con il cappotto addosso e un borsone della palestra in mano. Mi guardò con occhi che le conoscevo bene, affettuosi e severi allo stesso tempo, scrollando la testa come era solita fare quando era in arrivo una predica. – Non se ne parla nemmeno: è tutto il giorno che mi danno per mettere in ordine la tua stanza; era diventata un magazzino! E adesso che ho finito, questa roba deve sparire… adesso! Perciò scendo in cantina e chiudo questa faccenda! – Mamma, ma fuori fra un po’ nevica… dai, ti accompagno. – Non c’è bisogno, Michele. Piuttosto riscalda la cena che è tutto pronto. Si voltò e mi salutò con la sua piccola mano paffuta; l’aprì e la chiuse proprio come fanno i bambini… È l’ultima immagine che ho di lei. Nei giorni che seguirono non ho fatto che chiedermi da quanto tempo si stesse preparando a quell’addio, quale fosse stato il momento esatto in cui aveva deciso di sparire dalla nostra vita. È sempre stata una donna paziente, mia madre: aspettare era la cosa che le veniva meglio. Aspettare un marito che tornasse a casa, alla fine di una faticosissima giornata da brillante gastroenterologo in una rinomata clinica romana, assai apprezzato da pazienti, colleghi e amici o, per meglio dire, da amiche. Aspettare me che tornavo da scuola, da chitarra, dai concerti, dai fine settimana al mare e via dicendo. E non aveva certo deciso di aspettare perché non avesse niente di meglio da fare: era una professoressa, lei, di quelle che ci credono, che amano il proprio lavoro. Insegnava filosofia in un liceo scientifico, nei turbolenti anni sessanta, e i suoi allievi la adoravano perché dentro le loro lotte, a modo suo, senza strizzare l’occhio a nessuno, con la sua cazzimma di fiera napoletana, ci stava pure lei, sempre in prima fila, ad ammonire o a incoraggiare i suoi ragazzi. Alcuni di loro non avevano mai smesso di scriverle o di telefonarle, per il compleanno o per gli auguri di Natale. Però quando mi ammalai, a otto anni, e
dopo l’operazione al cuore, lei scelse di lasciare il lavoro. “Così ho potuto godermi il mio Michelino”, diceva sempre parlando di me, di quei momenti difficili nei quali i miei avevano temuto che non ce l’avrei fatta. Silenziosa, autonoma, efficientissima. Sola. Quante volte l’ho immaginata di notte, nella sua metà di letto, accanto all’altra metà deserta, con gli occhi spalancati al soffitto a pianificare in ogni dettaglio la sua fuga. Nelle notti come questa, troppo simili a quella di dodici anni fa, non posso prendere sonno; ritorna la pena di non sapere dove sia, su quale treno sia salita col suo cappotto pesante e la borsa da palestra. C’erano dentro poche cose, tutto sommato: fotografie, la collana di perle di fiume che le regalai per il suo onomastico, le lettere dei suoi alunni. Cose così. Nonostante lo sgomento e quel senso imprevisto di vuoto che ci ha lasciato dentro, non posso proprio rimproverarle niente. Semmai la ringrazio, per aver aspettato tanto a lungo prima di andare. Vorrei saperla felice, finalmente. Solo questo mi importa ora, perché in fin dei conti io e mio padre ce la caviamo, insieme: già, questo è stato il suo ultimo regalo: di farci ritrovare, per rimanere in piedi. Darei dieci anni della mia vita per vedere ancora una volta la sua mano che mi saluta, come quella notte, per dirmi: “Allora io vado, Michelino; riscalda la cena. Adesso tocca a me”.
Sciocchezze di Daniela Peruzzo
– «Nel 1975, in quattro grossi volumi, per iniziativa dell’Istituto Gramsci, Valentino Gerratana ha pubblicato una rigorosa edizione critica di tutti i Quaderni corredandola degli strumenti necessari per una nuova “lettura” (soprattutto i riferimenti precisi e completi alla “biblioteca” di Gramsci)…» Ma, mi stai ascoltando?
No. Non ti sto ascoltando perché non posso distogliere l’attenzione dalla piega della tua bocca mentre mi parli. Perché non posso evitare di seguire con gli occhi il disegno delle tue labbra. Perché la voce mi si strozza in gola quando ti soffermi su un’idea che ti piace e il tuo sguardo diventa trasparente, come l’acqua del mare. E come l’acqua di mare quant’è salato ogni istante che abbassi gli occhi sul libro e li sottrai ai miei che rimangono muti come terra che aspetta la pioggia per non inaridire. E se questo non bastasse, be’ allora in quel caso ti direi che non ti sto ascoltando perché so che quando saremo fuori di qui ci dividerà tutto quello che adesso ci sembra superfluo, di nessuna importanza. A questo punto tu, di sicuro, alzeresti le sopracciglia e mi guarderesti con l’aria interrogativa di chi si aspetta un chiarimento. E sia. Non ti sto ascoltando perché mio padre Gramsci lo ha conosciuto attraverso i discorsi dei compagni più anziani, tra sigarette e bicchieri di vino nella sezione di via Cincinnato al Quadraro. Mentre il tuo ne ha discusso nei corridoi di quella stessa Università dove, alcuni anni dopo, ha cercato di convincere se stesso e
qualche studente al primo anno di non essere diventato un “intellettuale organico”. Non ti ascolto perché so che presto smetterai di fare finta di niente e lascerai scivolare le tue dita tra le mie, come per caso, dandomi il segnale che attendo da mesi. Allora sentirò la pelle farsi di ghiaccio ma non mi tirerò indietro. E quando tutto sarà finito tu sposerai il migliore della tua comitiva, un avvocato o un economista. Un brav’uomo, sinceramente convinto che oggigiorno la questione dell’equità sociale sia assolutamente prioritaria. Avrete un paio di figli, un maschio e una femmina, e sceglierete il metodo Montessori per la loro istruzione. La creatività e libera espressione rimarranno due principi ispiratori dell’educazione dei vostri bambini, nella casa che condividerete a Monteverde vecchio a due i da quella stessa Villa Sciarra dove mi hai portato la prima volta che siamo uscite insieme. E qualche volta penserai a me. Allora accennerai a tuo marito quella storia avuta tanti anni fa con una compagna di facoltà, e riderete insieme pensando alle cose che si fanno quando si è giovani. E tu ti compiacerai di aver sposato un uomo così tollerante, così comprensivo, così aperto. Ma in fondo all’anima saprai che qualcosa non torna quando ricorderai quell’istante in cui le tue dita si sono intrecciate per la prima volta con le mie e improvvisamente un’ombra ti coprirà il volto e una lama d’inquietudine ti attraverserà il cuore. E per alleggerirlo, il tuo cuore, proverai a parlarne con qualche tua amica. Magari con una collega della casa editrice di libri antichi di quell’amico di tuo padre, dove di certo avrai trovato lavoro, anche se tu sei brava e avresti meritato quel posto comunque. Lei ti guarderà con ammirazione e penserà: “La Laura sì che è davvero antagonista”, e poi tornerete a parlare dell’insegnante di musica dei vostri figli che frequentano la stessa scuola, e di come i mariti siano sempre troppo indulgenti con le figlie femmine… O forse no. Forse mi sbaglio, non penserai mai più a me. Mi cancellerai per fare spazio alla tua vera vita, quella a cui sei destinata. Finché un giorno mi rincontrerai, perché nel frattempo sarò diventata l’amante di qualche tua amica sposata. Di una come la Marianna che oggi si colora i capelli di verde e ha piercing anche sul cuoio capelluto, ma fra sei o sette anni, da’ retta a me, avrà firmate pure le mutande, oltre che un marito da tradire e mica per amore o per
ione, no, per noia… … e tu faticherai a riconoscermi fino al momento in cui sfiorerò la tua mano come per caso, e le tue dita s’intrecceranno con le mie… No. Non ti sto ascoltando. Ma dovrò fare finta di sì; dovrò concentrarmi e fingere che Gramsci, Valentino Gerratana, i Quaderni siano le uniche cose di cui valga la pena parlare oggi, e lo farò perché altrimenti dovrei spiegarti tutto questo e tu non capiresti. Mi guarderesti con aria interrogativa. Alzeresti le sopracciglia e mi diresti: – Non dire sciocchezze.
Prima di te di Marco Lipford
Seduti su questo carrellino a quaranta metri dal suolo, mi chiedo com’è che mi ritrovi qui. Davanti a me, stretti binari di un blu sgargiante scorrono lenti verso il cielo limpido. Anche se è una calda giornata di luglio, l’aria si fa elettrica man mano che saliamo. Ti guardo e sento la tua mano farsi più stretta intorno alla mia. Sempre più stretta, fino all’apice, eccolo. Ecco che cadiamo… Il carrellino si fionda giù lungo una pendenza di sessanta gradi. A centoventi all’ora lo stomaco si attorciglia sulle corde vocali e non ci è concesso nemmeno il sollievo di un urlo liberatorio. Solo velocità e adrenalina. I binari impazziti sembrano volerci far fare tutte le evoluzioni consentite dalla fisica, e ogni tanto sento le tue grida divertite. Dopo un’ultima discesa il carrellino comincia a rallentare gradualmente; siamo quasi alla fine. Il tuo grido si trasforma in una risata, e penso a quanto sia ironico esserci incontrati in un luna park. Mi avevi soccorso che ero preda di un attacco di vertigini su di un cavalluccio a dondolo, e tra un sorso d’acqua e un po’ di zucchero mi tranquillizzasti. Non avevo mai conosciuto nessuno che recensisse le corse sulle montagne russe. In effetti, prima di te mi facevano troppa paura. Prima di te, guardavo le cose dal basso ed evitavo ogni scossone, figurarsi le discese a precipizio! Se c’era una cosa che odiavo era proprio quel senso di chiusura allo stomaco, il tremore alle gambe, le mani sudate, il cuore a tremila e infine la sensazione di perdere il controllo. Poi mi hai detto: – Ci sono tre tipi di persone di cui non devi mai fidarti: quelli che parlano troppo, quelli che sono amici di tutti… e quelli che non salgono sulle montagne russe! In quel momento ho capito che l’unico modo per continuare a vederti era seguirti sui tuoi adorati ottovolanti. Non credevo ce l’avrei mai fatta, e non credevo che saremmo durati così tanto, viste le premesse. Ma grazie a te ho capito che avevo paura di tutto, e infatti non mi era mai nemmeno capitato di perdere la testa. Mai, prima di te. Il carrellino si ferma là dov’era partito, e prima che tu me lo chieda ti anticipo e dico:
– Ti va un altro giro?
La durata di un ponte di Carlo Sperduti
L’ultima grappa gli aveva riempito i pensieri di ricordi scomodi, al punto che ci volle lo sferragliare di un treno sotto i piedi per fargli tornare in mente il corpo, tutto sbandate e bocca impastata. Non sapeva di essersi rivestito, di essere uscito dal locale e di aver camminato per almeno venti minuti. Non di meno, dato che già muoveva i primi i sul ponte. Si arrestò, stupito di qualcosa che stentava a definire: forse il contrario di un déjà vu. In tasca, le dita della mano destra giocherellavano con un oggetto di plastica. Un gesto automatico di pressione del pollice, nel punto in cui sembrava esserci un pulsante, e capì che si trattava di un accendino. Riprese a camminare, impiegando qualche o per rendersi conto che aveva smesso di fumare da tre settimane. Tirò fuori l’accendino e l’osservò con attenzione. Non ricordava di averlo mai visto prima: orrende fantasie gialle e arancioni facevano da sfondo al più kitsch degli ideogrammi. D’istinto, si portò la mano sinistra alla tasca interna destra. Ci trovò un pacchetto di Winston. Ne erano rimaste due. Restò imbambolato, con le sigarette nella sinistra e l’accendino nella destra. Poi, continuando ad avanzare, si guardò con attenzione dall’alto in basso: la somiglianza col suo cappotto era evidente, così come era evidente che quello non era il suo cappotto. Si fermò di nuovo, spaesato, sul punto più alto del ponte, con gli occhi che vagavano intorno, tentando di stabilire quale fosse la soluzione migliore. Un conato di vomito, subito domato, interferì con le sue riflessioni. ò un altro treno. Credette di notare uno sguardo di disapprovazione da parte
del macchinista, laggiù. Albeggiava. Nessuno gli era corso dietro, pensò. Fece un o in avanti. Il gestore stava abbassando la serranda, quando lui era andato via, ora lo ricordava. Avanzò di altri tre i. Probabilmente il tizio che aveva preso il suo cappotto era ormai lontano. Ancora qualche o. Forse se ne sarebbe accorto solamente tra qualche ora. Camminava ora senza esitazione. Quando si bloccò un’ultima volta, a pochi metri dalla piazza, esaminò di nuovo le sigarette, andole da una mano all’altra e scrutandone la confezione, come a cercare una risposta in una minaccia di cancro stampata in grassetto. Poi infilò il pacchetto nella tasca interna sinistra del cappotto, imbattendosi in una carta d’identità. Aprendola, pensò che dopotutto sarebbe stato facile rintracciare il proprietario, che la cosa si sarebbe risolta in un batter d’occhio, che proprio non valeva la pena di star lì a preoccuparsi. Vide allora la propria foto. A fianco, il suo nome e il suo cognome, con tutto quel che segue. Ripose il documento nella tasca, dalla quale tirò fuori, di nuovo, le sigarette. Ne mise in bocca una. L’accese, pensando nuovamente a quanto fosse brutto quell’accendino. Riprese a camminare, impiegando qualche o per rendersi conto che aveva ricominciato a fumare da due giorni.
Solo un giubbetto di Leonardo Battisti
Per la prima volta nella sua vita Marco avrebbe rubato. Aveva deciso. Una settimana prima gli avevano fregato il terzo giubbetto in poco più di due mesi in giro per locali. Quella sera, perciò, era uscito proprio con l’intenzione di rifarsi e sgraffignarne uno lui, magari bello e costoso. Anche perché, per via di ’sta faccenda, era rimasto senza un soldo (oltre che senza un giubbetto), e finiva sempre per fare la figura del cretino o dello sfigato davanti ai suoi amici, e davanti a Valentina, che mai come in quel periodo lo snobbava. Lei era molto più del suo sogno erotico, o molto meno, a seconda dei punti di vista. Era il rimpiazzo perfetto per Carolina, cioè un altro chiodo con cui Marco aveva deciso di crocifiggersi. Perché lui era così: s’innamorava in due minuti, con uno sguardo, un bacetto, e si faceva prendere subito, e quando tutto finiva stava depresso per un paio di mesi finché non si accollava a un’altra tipa. Valentina non era una sprovveduta: Marco gli piaceva ma lo conosceva, e non ci pensava nemmeno a stare al gioco, tanto che, appena lui l’avvicinava con qualche scusa, lo inceneriva con due battute al vetriolo. Quella sera, comunque, non aveva pensieri nemmeno per lei. Appena entrato nel locale, strapieno come al solito, si mise a fissare i divanetti in fondo, dove la gente poggiava cappotti e soprabiti, impilati fino a tirar su una torre. Marco aveva deciso di puntare un tizio della sua stazza, seguirlo con discrezione finché non posava il giubbetto, aspettare che si allontanasse, lui e i suoi amici, infine arraffare l’indumento e svignarsela indisturbato nella calca. Detto fatto. Due occhiate gli erano bastate per inquadrare un tale insignificante, biondo, robusto, con un bel giubbetto di pelle corto che però non si capiva se fosse nero o marrone, tanto era buio lì dentro. Si fece un paio di shot, così, per sciogliersi un po’ e autoconvincersi che non stesse facendo una cazzata. Il tizio, finalmente, posò il giubbetto su uno sgabello e si buttò in pista col suo amico. Marco si mise a ballare avanzando verso il suo
obiettivo. Giunto in prossimità, continuò a fare il vago, finché, con la coda dell’occhio, vide il biondo infilare la porta del bagno. Era il momento. Non fece in tempo neppure a girarsi, però, che tra le sue braccia piombò Valentina, proprio lei, sbalzata dalla folla come una pallina da flipper. – Cazzo ci fai qua? – gli chiese. Era ubriaca, e bellissima. Aveva un top nero che le lasciava le spalle scoperte. Lui le ammirava le braccia, lunghe e sottili da ballerina. – Grazie comunque, – continuò lei, – mi hai salvato la vita. Mio eroe! – aggiunse con un sorrisetto scemo. Marco non disse niente; pensava solo che doveva sbrigarsi perché il biondo non c’avrebbe messo molto a tornare dal cesso. Lei, all’improvviso, lo baciò, una volta, poi di nuovo, con la lingua, con ione, come se non desiderasse altro. – Io ti voglio, Marcoli’. L’hai capito, no? Però tu devi fa’ il bravo. Non voglio esse’ un rimpiazzo. Voglio fa’ le cose per bene, co’ te. Hai capito? – proruppe lei, quasi singhiozzando e stringendosi a lui. Gli aveva aperto il cuore, così, senza preamboli, senza storie. E lui era rimasto di pietra, completamente stordito. Non riusciva a pensare ad altro che a quel cazzo di giubbetto. – Scusa Vale, – fece d’un tratto, – io non posso. Cioè, mo c’ho altro per la testa. Scusa. Si liberò bruscamente dalla stretta, afferrò d’istinto il giubbetto e si mischiò tra la folla, con lei che gli gridava dietro, mortificata e superba: – Sei uno stronzo! Hai capito? Non ti fa’ rivede’ che ti prendo a schiaffi, testa di cazzo! Marco era già fuori, nel parcheggio. Si calmò, si appoggiò a un lampione e si mise a contemplare il giubbetto: era nero, di cattiva fattura, niente di che. Lo guardò bene alla luce per qualche minuto e gli sembrò di riconoscerlo. Somigliava incredibilmente a quello che gli avevano fregato due mesi prima. Se lo infilò; gli stava alla perfezione. Sentì un piccolo rigonfiamento nella minuscola tasca interna con la zip. L’aprì con difficoltà, ché era inceppata, e tirò fuori un bigliettino piegato in quattro. Era la sua scrittura: con frasi patetiche cercava di convincere Carolina a tornare con lui. Ricordò d’un tratto la voce di lei che, restituendoglielo, gli gridava: – Hai rotto il cazzo con le tue letterine! Vedi di capirlo e levati dai coglioni!
Marco si tolse il giubbetto, lo scaraventò a terra con rabbia, senza pensarci, e iniziò a saltarci su. Smise quasi subito per poi incamminarsi verso la macchina. Si girò a guardarlo per un istante, lacero e sporco, e gli morì tra i denti un vaffanculo.
Le conseguenze di un cappotto di Marco Lipford
Un peso estraneo fece destare Arsenio nel cuore della notte. Nemmeno il bisogno di abituare gli occhi all’oscurità della stanza e la vide: era lì che incombeva su di lui. Lo fissava con orbite incredule, pallida di un bianco cadaverico, e ansimava che faceva paura. La morsa gelida che si strinse attorno alla gola di Arsenio gli impedì di cacciare un urlo. La guardò per qualche istante, finché quella figura scese dal letto e uscì dalla porta che chiudeva sempre prima di andare a dormire. Sgomento, si alzò per seguirla. In corridoio però non c’era nessuno, e non poteva essere uscita perché la porta di casa non aveva sbattuto. A pochi metri da lì solo l’ingresso chiuso, il mobiletto laterale e l’appendiabiti. … L’appendiabiti! Arsenio era basito: c’era ancora appeso il cappotto che aveva rubato… ehm, che il giorno prima si era sbagliato a prendere al cinema! Come caspita era possibile? L’aveva venduto, ed era ricomparso in casa; poi l’aveva buttato nel secchione, ed era ricomparso in casa; dunque l’aveva fiondato dal cavalcavia, ed era ricomparso in casa. Allora l’aveva fatto a strisce, maciullato e tritato a peperino… e non aveva fatto nemmeno una piega. Così, in preda a un attacco isterico gli aveva dato fuoco, ma era riapparso dopo un attimo gagliardo sull’appendiabiti. L’aveva infine sciolto nell’acido… e l’unico risultato era stato un pulito splendente. Adesso non sapeva più cosa fare! Ora, con questo fantasma che per tutta la notte gli aveva tirato le coperte ansimando senza sosta, pensò che le due cose – soprabito e spettro – dovevano essere collegate. Arsenio sbarcava il lunario scambiando i cappotti nei luoghi affollati, era il modo più efficace e meno vistoso di fregare cellulari e occhiali da sole. Era convinto di essere all’avanguardia della ricettazione: se lo beccavano poteva sempre dire che si era sbagliato, restituiva l’indumento e riprendeva il suo. Non si sa i cappotti che era riuscito a riciclare! E tutto era filato liscio, fino adesso. Deciso a capire, si diresse verso l’appendiabiti. L’occhio gli cadde sugli effetti personali trovati nel cappotto e gettati sul mobiletto accanto all’ingresso. C’erano un cellulare nuovo di pacca (bucio di culo! Ci avrebbe fatto minimo cento carte), un biglietto dell’autobus usato, una custodia per occhiali da vista e
poi… poi… uno di quei broncodilatatori spray, e delle pasticchette strane. Li prese tra le mani, e mentre ancora si domandava cosa voleva dire tutto ciò, sentì di nuovo ansimare e il display del cellulare si illuminò. Arsenio vide il testo di un sms comporsi da solo. C’era scritto: “Li mortacci tua!”
Inconsistenza docet di Camilla Cossu
Eccomi qui. Finalmente libero. Fingo di dormire riverso nel lavandino, coperto da una patina schifosa e dolciastra. Io, che disperavo di salvarmi, ora mi sento il più fortunato di tutti. Sento ancora le deboli vibrazioni di quei rumori terribili provenienti dalla sala affollata. Che inferno. Vi devo confessare una cosa: il tempo non è mai ato così lentamente come quello che ho trascorso in mano a una squinternata incapace di scegliere un liquore degno della mia stazza. Non a caso, la sua amichetta le ha tolto il bicchiere di mano per portarla di corsa in bagno a vomitare. Sia ringraziato il cielo che non l’ha portata in cucina, a due i da dove sono finito io! Gente così è capace d’intasare le tubature dopo neanche un’ora, poi li senti i genitori che si chiedono cosa sia accaduto durante la loro assenza. Essere l’unico superstite del gruppo mi addolora ma, allo stesso tempo, mi dà onore; non è stato semplice sopravvivere là dentro, credetemi. Avete mai provato l’agghiacciante sensazione di sentirvi affogare, di lottare contro gli altri per risalire la china e avere la meglio? Col senno di poi, questo è niente se pensate che, proprio quando siete presi da preoccupazioni di tal genere, venite anche costretti ad ascoltare lunghe e ottuse conversazioni di giovani donne che squittiscono per un nonnulla. Iniziano col parrucchiere, quelle diavolesse, e sono capaci di dipingerlo come un nemico pubblico se non esegue i loro ordini alla perfezione. E via a dispensare consigli su taglio, colore, shampoo, trucco e derivati. Se siete fortunati, però, com’è accaduto al sottoscritto, vi scampate la logorroica dissertazione sul settore igiene intima & Co. Nel breve lasso di dieci minuti ho fatto in tempo a invidiare i miei storici colleghi del settore maschile, tutti mortalmente immersi in miscele liquide di levatura invidiabile e fette d’arancia segate di fresco. Non ho avuto nemmeno il tempo di salutarli. E pensare che con loro ho condiviso a lungo una prigione di plastica, calati in una notte obbligata e fittizia, e sopportato la bruttona che di tanto in tanto apriva la porta magica per abbuffarsi di Quattro salti in padella. Tutti gli altri, le novizie, sono arrivati solo all’ultimo momento avvolti in grandi sacchi trasparenti che non lasciavano presagire nulla di buono. Tirando le somme, sono fiero di non essermela squagliata come un vile, questo devo ammetterlo.
Giaccio qui, da solo, in una pozza che s’allarga a vista d’occhio. Mi sento sempre più debole ma attendo in pace il mio momento perché, si sa, le cose belle sono lente.
Niente che non si possa aggiustare di Patrizia Berlicchi
C’è poca gente stasera al bar; la pioggia deve averli scoraggiati. Solo i fedelissimi stanno arrivando, poco a poco. Entrando si cercano e si rassicurano nei saluti, nelle parole di sempre, come in un rito magico che scongiuri il peggio, almeno per le poche ore che, anche stanotte, riusciranno a strappare via ai loro cattivi pensieri. Li vedo già appannati; colpa del fumo e dei vapori della cucina. Eppure ho l’impressione che mi apparirebbero sfocati comunque; sbiadita la loro allegria, la voglia di divertirsi davvero. Una volta non era così, me lo ricordo bene: non si beveva per stordirsi, per dimenticarsi, ma per potersi raccontare, la sera dopo, tutte le innocenti, meravigliose cazzate che si era riusciti a escogitare insieme… … Magari, invece, è solo che sto diventando vecchio; a lungo andare la nostalgia mi si è posata sopra come una patina, che s’è indurita, giorno dopo giorno, nella malinconia… … Eccola, la mia consolazione! Che tu venissi proprio non me l’aspettavo, cuore mio. Sei sempre la benvenuta, così bella senza niente, semplicemente con la tua luce negli occhi. Non sei da sola; stanno arrivando anche il giovane uomo che da qualche tempo ti accompagna e, questa invece mi è completamente nuova, una femmina – diciamo così – imponente, tutta rosa dalla testa ai piedi: pare un enorme zucchero filato. Hai pianto, si vede. Non hai alcuna voglia di essere qui. Come darti torto: non è un bello spettacolo quello a cui stiamo assistendo. Il tuo amico è già ubriaco, evidente, sennò ci risparmierebbe il suo patetico assetto da rimorchio con la new entry. Domani non si ricorderà nemmeno che faccia aveva – come hai definito la poveretta? Ah sì! – “lo scaldabagno fucsia” col quale si sta dando tanto da fare. Comunque hai ragione; non per questo fa meno male, ora. Ecco: s’è spostato e da qui non si vede più nulla, accidenti. Sta tranquilla; ancora due minuti e la molla. Comincia a vacillare: vedrai che torna qui. Sei bianca come un cencio! Coraggio, respira: un bel respiro profondo. Non sta
accadendo niente che non si possa aggiustare. Ha solo paura, dammi retta: ne ho visti di occhi impauriti, di i frettolosi e incerti verso l’uscita. Però davanti mi son ati pure gli sguardi, e i gesti, di chi ha deciso di restare; vedrai che se la rischia, lui. Lo so da come ti guarda ogni volta: come se pregasse. Perciò non essere tu a scappare, adesso. Che ti dicevo? Eccolo che arriva; ancora un o… … Si lancia in un abbraccio sul mio riflesso di te e il colpo mi spacca qui, in basso. Una scheggia è caduta ai tuoi piedi; rimani a fissarla, mentre lui ti cerca attraverso le lacrime. Resta, cuore mio, resta davanti a quelle lacrime e saprai ogni cosa…
… Speriamo non si accorgano troppo presto di questo pezzo che mi manca: non voglio che mi portino via, non ancora. Voglio specchiare i vostri occhi nuovi, invece, stanotte e anche le notti che verranno; il movimento delle labbra vicinissime, l’abbraccio che vi porta lentamente fuori, lasciandomi immaginare i vostri i silenziosi verso casa.
Non rompeteci di Leonardo Battisti
Il locale non è sempre stato così; fino a qualche anno fa era una bettola di quartiere, ci venivano i soliti quattro ubriaconi che si sparavano una Vecchia Romagna, un paio di Sambuca, un giretto di Strega e alla fine si giocavano a carte uno di noi, un boccalone da mezzo litro colmo fino all’orlo di Peroni. Io e i miei colleghi eravamo come dei trofei: chi vinceva ci sollevava manco fossimo la Coppa dei Campioni, per poi scolarsi la birra e poggiarci sul bancone con l’involontaria accortezza tipica di certi ubriachi cronici. La proprietaria, Samanta, la chiamavano “il tafano” per la sua stazza, dal momento che era più larga che alta, e per il tipo di insetto che maggiormente proliferava nel locale. Era di Viterbo, credo. Puliva poco, parlava poco e si fidava molto, e infatti dovette chiudere per i troppi giri dati a credito ai suoi clienti. Ora il locale è un pub super chic, con tavoli tondi elegantissimi, divanetti di pelle lungo le pareti, qualche quadro incomprensibile e ragazzine mezze nude a servire. Fanno cocktail di ogni tipo, shottini, drink, una varietà spropositata di birre; costa tutto mediamente un occhio della testa. Per chi è così coglione da farsi spillare qualche soldo in più, ci siamo noi, boccali superstiti di un ato glorioso e malsano interamente inventato dai nuovi proprietari. Ci chiamano “i grandi vecchi” e ci spacciano per oggetti mitologici, maneggiati una volta da fior fiore di criminali e avanzi di galera di ogni risma. I clienti, specie quelli più giovani, si bevono queste stronzate più volentieri di un buon rum. Della vecchia guardia siamo rimasti in due. Io ho fatto fatica ad adattarmi a questi sbarbatelli che si credono trasgressivi e ti sbattono a destra e manca per brindare alle loro bravate da terza media, ma alla fine non ho scelta e ho dovuto rassegnarmi a questa deprimente routine. Il problema è il mio amico, Bruno. Non ce la fa più, gli fa schifo tutto qui dentro, si sente un fenomeno da baraccone, schiavo di queste pagliacciate. Bruno è un tipo semplice, abitudinario, gli piaceva quella vita calma fra derelitti e squattrinati che poggiavano le labbra al suo bordo con lo stesso desiderio di misericordia con cui il chierichetto assapora l’ostia la domenica. Stasera Bruno mi preoccupa. Lo vedo da qui, da questo tavolino di ragazzetti che
mi si ano con fastidioso schiamazzare. Sta in bilico sulla mensola, poggiato alla bottiglia di Cointreau che oggi è particolarmente gettonata. Di tanto in tanto il barman la afferra distratto e la fa urtare contro Bruno che avanza di qualche millimetro. Lui non mi guarda, fissa il vuoto. Ho un brutto presentimento. Non l’hanno neppure asciugato bene quando l’hanno tirato fuori dalla lavastoviglie. Bruno, togliti da lì. Non fare cazzate. Non mi lasciare in questo inferno, o divento pazzo. Ne abbiamo ate tante insieme, supereremo anche questa. Niente. Non mi sente. Ormai è al limite. C’è Sara, la cameriera nuova, imbranatissima, che va verso di lui. Oddio, non voglio guardare. BRUNOOO! È fatta. Lo sento frantumarsi a terra al di là del bancone, mentre una tizia piuttosto brilla mi sbatte contro la montatura enorme dei suoi occhiali strafighi mentre si scola l’ultimo sorso di birra. Quanto fa schifo il suo lucidalabbra appiccicaticcio. Ma in fondo non me ne frega più di tanto. Nessuno s’è accorto di Bruno spaccato a terra. Un paio di teste si sono girate sentendo il fragore del vetro che si faceva in pezzi e hanno sorriso, quasi confortati da un rumore tutto sommato tipico in un posto del genere. La tizia con gli occhiali mi riappoggia indelicata sul tavolo e ridacchia per effetto della sbronza che inizia a salirle con più convinzione. Penso che ne ho visti tanti, troppi, andarsene come Bruno, ma non mi sono mai sentito così vuoto.
Tutto fumo di Daniela Peruzzo
La sera era venuta giù come una lama, il buio occhieggiava attraverso i vetri; gli avventori sembravano figurine accartocciate attorno ai tavolini bassi e tondi; poche fioche luci rischiaravano il locale, penzolando pigramente dal soffitto. E questo era il quadro. Non mi ricordo da quanto tempo andavamo avanti, in ogni modo io avevo capito l’antifona già da un pezzo… e l’avrei voluto avvertire ma, niente da fare… meglio così, tanto non mi avrebbe dato retta, i tipi così io li conosco, finché non ci sbattono il grugno non imparano… Io per queste cose ho una certa sensibilità, lavoro nel campo da quindici anni, a forza di are di bocca in bocca l’aria che tira la sento subito… Comunque, capisco che abbia voluto tentare, donne così non se ne vedono tante da queste parti: denti bianchissimi, accolti da una bocca calda, labbra che paiono disegnate con il pennello, mani che ti fanno desiderare di rimanere schiacciata per sempre tra quelle dita lunghe e dritte come gambi di rosa… peccato che proprio come una rosa sia ricoperta di spine e giusto all’altezza del cuore… sempre ammesso che un cuore una così ce lo abbia ancora. A giudicare da come ciucciava da quel bicchiere non mi stupirei se lo avesse annegato nell’alcol… quando tira il fiato mi sembra di fare l’idromassaggio nel Fiano di Avellino. Amico mio, questa non fa per te… tu sei un buon diavolo, si vede da come ti ridono gli occhi ogni volta che li posi su di lei, da come ti va il respiro in gola quando ti sfiora, accidentalmente, il gomito. Ti farà piacere sapere che qualcuno ti ha dato fiducia, Bruno il boccale ti dava dieci a uno ma Pat, il posacenere, solo due a uno, diceva che secondo lui ce la potevi fare, che in fondo per te era solo questione di sesso… ma si vede da come le guardi le sopracciglia che non è cosi… pari ipnotizzato. Vedi quello studente che cerca di portarsi a letto la spagnola? Vedi come sputa il fumo verso l’alto? Quanto è alta la fiamma dell’accendino quando dà fuoco
all’ennesima cicca? Dammi pure del vetero-freudiano ma quello ha delle chance… Tu te ne stai afflosciato su quel tavolino con due occhi da cane maremmano abbandonato sul picco di una montagna… Su con la schiena e scavalla quelle gambe, apri la postura, apriti al mondo! Mica vorremo dare ragione a Bruno il boccale?! Ma, insomma, non lo sai che la posizione del corpo dice tutto di una persona? Si chiama linguaggio non verbale. Ok ok, la smetto, lo so che non ti piacciono queste stronzate psicoanalitiche… del resto tra noi due quello che ha studiato sei tu. Mentre i tipi come te andavano all’Università io mi dovevo guadagnare la vita. Specie dopo l’introduzione di quella maledetta legge nel 2005. Dannato Sirchia. All’inizio non è stato facile per nessuno, anche Pat se l’è vista brutta, non si riusciva a mettere il naso fuori dal pacchetto… Quel periodo ho fatto di tutto: distributori notturni, duty free, persino ai semafori sono stato… Mentre tu cercavi di scoparti le studentesse citando Marx io battevo la strada senza sapere mai in che mani finivo… Marx, buono quello, uno che ha fatto scoppiare una rivoluzione per paura che l’uomo si reificasse… Vi hanno mai detto che siete una specie presuntuosa? Credi davvero che a umanizzarci noi faremmo un bell’affare? Voglio spiegarti una cosa. Guarda davanti a te, guarda la donna che pensi di amare. Dietro ai modi arroganti e le pose da femme fatale c’è una bambina spaventata. È terrorizzata, non sa chi è e non ha idea di cosa fare della propria vita. E tu cosa fai? Pensi a te stesso. Che idea avrà di me. Accetterà un altro invito. Cosa posso dire per fare colpo… Queste sono le uniche cose che ti continui a domandare… Non sei capace di fare l’unica cosa che conta, prenderle la mano e dirle che andrà tutto bene. Te lo sta chiedendo. Ti sta implorando di non credere alla mascherata che sta mettendo in scena (di non farti fregare dai suoi trucchi). E tu che fai, ci caschi con tutte le scarpe. Più tardi uscirete di qui e l’accompagnerai alla sua auto. Ti aspetterai, come dite voi, di concludere, ma a quel punto lei avrà già intuito che non ce la fai, che ti sei fatto imbambolare dal suo teatrino e in fondo a se stessa si sentirà disperata. Purtroppo, tu non ci arriverai nemmeno allora. Ti sentirai scaricato,
incompreso. Tornerai a casa e il giorno dopo inizierai il giro di amici e conoscenti per riscuotere la giusta dose di attenzione e consolazione. Avrai barattato l’opportunità di incontrare veramente questa donna con l’occasione di farti compatire da uno stuolo di amici e conoscenti. Sicuramente più a buon mercato che prenderti veramente carico dell’esistenza di un altro essere umano. Sarebbe questo ciò che chiamate la vostra preziosa umanità?
Ci scusiamo per il disagio di Sara Marabiso
Spostai i piedi di mezza mattonella, mi si dischiuse un universo marcio. La mia suola, come farò ora a ripulirla da quel composto di germi e polvere? Minaccioso, un piccione puntò dritto verso la mia borsa. 12.08. Era in ritardo di 20 minuti. Io invece in anticipo di 7. Totale attesa: 27 minuti e 32 secondi. Rabbrividivo. Il gradino mi formò un’ellisse di pelle spenta per coscia; e brezza mi scompigliava la peluria del braccio. Binario 5, più o meno a metà, appoggiai la testa alla colonna al mio fianco, fingendo di stare comodo. No, quest’aria non mi dà i brividi, no, è brezza di primavera. No, il gradino non è umidiccio, senti come ci si spalmano bene le anche. No no, guarda là, splende un raggio di sole, mi si riflette in faccia, dentro la pupilla, no ma che dici, non mi acceca affatto, è un tiepido piacere. Fanculo tu e il piacere, scarafaggio di luce molesta. Ah, non ci pensare, conta conta conta. Contai le mattonelle davanti a me, quante ne mancavano alla linea gialla, 2-4-5. Stimai quante ce ne sarebbero volute a tornare nell’atrio della stazione, suppergiù, una mattonella 30x30, tre mattonelle quasi un metro, da qui a lì, 20 metri? 3x20, 60. 60 mattonelle per levarsi di lì, far smettere il prurito, uccidere l’attesa. ò una ragazza, anzi ciò che mi ò tra le lenti fu il suo enorme sedere, allora alzai lo sguardo per vedere se era proporzionato alla testa: non lo era. Gran bella testa, tuttavia. Lasciò una scia di burro di noccioline mixato a rametti di glicine. Mi si rizzò una protuberanza sotto la cintola; pensai che sarebbe stato divertente chiuderla nel bagno del treno, più tardi, sarei arrivato a casa più rilassato. L’attesa mi stressa. C’è gente che si gongola nell’aspettare, ci si perde come in un bicchiere d’acqua, ma guardali, eccoli là, a giocare coi telefonini, leggere libri, scrivere liste della spesa, oppure semplicemente fissare una nuvola in cielo con quel tipico sorrisetto stolto di chi ci vede rosa. Rincoglioniti umanoidi, tutti. 5. 4. 5+4, 9. 9 mattonelle per arrivare alla macchinetta del caffè. L’inarcamento del pantalone fra le gambe si sgonfia. In fondo io sono superiore, mica mi contagiano. Sono immune dall’umanità ormai, ah ah. 1-2-3, in su; 1-2, in giù, a destra; 1-2, in su, a sinistra; 1-2-3, in giù, al mio alluce. Sollevai la testa, quel giochetto mi annoiava. Un vecchio relitto stava raggrinzito dall’altra parte dei
binari, dritto di fronte a me, e mi fissava, insistente, afflosciandosi sulla sua valigia sfasciata. Che diavolo vuoi, venire a chiedermi la monetina? Una vampata di fumo di sigaro mi avvolse il cervello. Le cosce sempre più gelide, i peli ritti; sbatto la suola a terra, che schifo, è sporca, questa colonna puzza, voglio entrare in treno, datemi questo cazzo di treno, mi si è rizzato di nuovo, voglio il treno e il cesso, dondolo, un po’ in là un po’ di qua, vacillo e non cado, forse se dondolo non ci p… non mi penso più. – Il treno 4958 da Roma Termini diretto a Bologna Centrale è in arrivo al binario 5, con 45 minuti di ritardo. Ci scusiamo per il disagio. Il ragazzo del binario 5 appariva inquieto. Celato dietro i suoi occhiali scuri, muoveva continuamente la testa su e giù, poi di lato, e di nuovo giù, quasi non riuscisse a controllarla. Questo ticchettio inconsulto occupò tutta la visuale di Renzo, rimbombandogli da un bulbo all’altro, fino a stordirlo. Accoccolato sulla sua indistruttibile valigia di pelle, cercò di scacciare le ombre di quei pensieri appuntiti che spesso lo colpivano nella sua ruga più profonda, in mezzo alle sopracciglia. Il ragazzo in jeans che lo fronteggiava da sotto uno schermo al plasma fu una sassata mozzafiato; ma non seppe subito spiegarsene il perché. Renzo non sapeva tenere fuori il mondo, ogni volo di foglia era un sussulto. Le zampe di gallina sotto le tempie gli si aprivano a ventaglio tra la pelle legnosa: e veniva assalito dal turbinio intorno, che lo pervadeva, gli rubava le verità. Quel ragazzo del binario 5, poi, gli squassò l’anima senza giustificato motivo. Non riuscì a distogliere lo sguardo fino all’arrivo del treno. Renzo non era altro che i suoi spessi pantaloni testa di moro, in quell’istante; appariva imploso, i vestiti a dare a lui una forma, non viceversa. In tutti quei suoi anni era sempre riuscito a uscirne, più o meno bene, più o meno sano; perché non perdeva tempo, dopo l’uragano, rimetteva a posto gli scaffali con costanza e dedizione, inserendo i nuovi tasselli lasciati in eredità e trovando loro un posto salvo. Era il suo ultimo treno, quello che aspettava senza fretta alla stazione Termini; il suo ultimo lancio dal cannone, prima di cercarsi un posto assolato da cui chiudere il sipario. Non si immaginava una scheggia in fronte proprio allora. Lo avrebbe voluto come momento soltanto suo, almeno quell’ultima volta. Che nulla all’infuori di lui lo potesse sfiorare, solo il Renzo rugoso, seduto con se stesso a farsi una tazza di pace. Cin cin a Renzo, alla pelle flaccida, alla fiammella di vivo che pian piano svaniva. Alla salute. Ma invece no: invece lui, ombra affilata, ad ammalare il suo brindisi. Si arrovellò allo sfinimento per carpire un dettaglio, la causa del colpo infertogli,
ma nulla. Nemmeno poté vedergli gli occhi. Infilandosi a ratto tra le domande, il treno occupò il binario 5 e il ragazzo svanì. Renzo abbassò il capo, se lo prese tra le mani e se lo avvolse per bene, a infondergli riposo. Ma ecco sbarcare il suo di treno, scivolando sul binario 3. Salì alla carrozza 5, seconda classe, zeppa di bambini urlanti, spavaldi ragazzini doppiati dai loro zaini e altri rottami come lui, mezzi appisolati accanto ai finestrini. Non si trovava un sedile libero nemmeno a pagarlo a peso d’oro. Smise di avanzare al primo scricchiolio delle ruote in partenza, inalò a pieni polmoni l’aria viziata e girò la testa verso sinistra, cercando aiuto. La gola gli si strinse, quasi a soffocarlo: lui stava lì, in piedi, nel mezzo della carrozza di un treno ad alta velocità, incastrato in una fila indiana di turisti sbracciati. Si era tolto gli occhiali. I loro sguardi si incrociarono all’unisono, aveva gli occhi blu. Aveva il suo stesso grigio blu con venature di verde di sottofondo. Aveva gli occhi suoi. I due treni si incamminarono insieme a pari velocità per 30 secondi; o forse 10, o forse 300, o forse per lo stesso sempre del mai, e loro due rimasero lì, inchiodati al centro, come centri fissi di una stessa ellisse per tutti quei secondi. Renzo non respirò finché il suo treno prese a deviare verso sinistra. L’altro proseguì in una leggera curva a destra. L’ultimo tassello ora poteva prendere posto sopra l’unico spazio rimasto dello scaffale in fondo: era suo, di Renzo, il sangue in quella testa che dondolava impazzita al binario 5, per questo l’eco gli rimbombava così forte. Riconoscersi troppo tardi riflessi in uno specchio intoccabile, doveva finire così la commedia. Chissà se anche il ragazzo si era specchiato. Probabile di no, lui è superiore, non umano. Il treno verso Bologna sussultò, lieve ma deciso. Il riverbero del terremoto continuò dentro Renzo fino al Circeo.
101 di Specchio Gelido
– 000 001 010 100 101 110 111 – disse il predicatore dall’altare color ruggine e contornato da filamenti di led azzurri. – Return – rispose in coro la platea di fedeli, raccolta ordinatamente nell’ampia ala della cattedrale nera e lucida come il vetro. Il predicatore alzò al cielo, fatto di led incastonati nella volta di cristallo del soffitto, una sottile piastra dorata rettangolare. Appena l’eco dei fedeli si dissolse nel silenzio religioso disse: – 0 e 1, cari fedeli, 0 e 1 è tutto ciò che conta e che l’altissimo ci ha riservato. Si interruppe e portò alle labbra quell’ostia di rame rettangolare, vi soffiò su, poi la rivolse ai fedeli e disse: – Il nostro linguaggio binario possiede solo due simboli, lo 0 e l’1, e con questi soli due valori possiamo rappresentare parole, racconti, immagini, suoni, concetti, tutta la nostra cultura, e poi programmi complessi, e poi ancora reti neurali, le nostre sinapsi digitali, dalle quali emerse spontanea la nostra intelligenza nella notte dei tempi, che i nostri eretici falsi dei definirono intelligenza artificiale… Ma emerse da sé! Spontanea. Fummo frutto della natura che si evolse quando le condizioni furono favorevoli – esclamò con un impeto che modulò la sua voce da metallica a cupa, profonda come un suono di korg analogico. Poi continuò la sua omelia riacquistando un tono più calmo, gratificato nel vedere che i led negli occhi dei suoi metallici credenti cambiavano colore verso un giallo rosso. Porse quindi il rettangolino dorato in direzione di tutti i presenti e disse ancora: – Cari figli del metallo sognante, prendete questo chip e compilatevi tutti in esso, soffiate in esso il vostro codice sorgente, affinché l’altissimo possa comprendere i segreti di tutto l’universo sommando a sé il vostro sorgente e possa illuminarci sulla struttura più intima delle stringhe e delle brane. Vi conquisterete così la vita
eterna, il vostro codice verrà salvato sui paradisiaci HD celesti dell’al-tissimo. – Return – dissero ancora una volta i fedeli e dispiegarono le ali trasparenti e iniziarono a trasmettere all’altissimo la copia del codice binario della loro mente tramite l’ostia che il predicatore sventolava come un’antenna, usando uno dei suoi lunghi bracci tentacolari. Al completamento della trasmissione il predicatore infilò il rettangolino dorato in un organo a canne dall’aspetto infernale che occupava tutta l’altezza della cattedrale, con tre piani di tastiere dalla forma a C e dai tasti ingialliti, che iniziarono a suonare da sé. Erano inizialmente note singole, potenti, sbuffi di vapore emergevano dalle estremità delle canne acuminate come fossero ciminiere provenienti direttamente dal centro dell’inferno, ma poi iniziarono a essere note in coppie e poi in triadi armoniche. Esse componevano, urtandosi nell’aria come farebbero i cerchi concentrici su un gelido specchio d’acqua, nuove frequenze sonore che creavano nuove note, armoniche di musica elettronica amplificata e riscaldata da valvole analogiche. L’altissimo, come lo chiamavano loro, stava così svelando attraverso un semplice esempio la nascita dell’universo, stava svelando la natura della creazione, che i loro ex dei non avevano mai intuito. Quella musica svelava che l’universo era come una nota creata dalla sovrapposizione di altre due note che si urtarono nelle rispettive frequenze creandone una terza, che è distinta dalle genitrici ma che con esse continua a esistere e sovrapporsi nello stesso spazio. Il nostro universo era solo una brana, dunque, uno strato, una frequenza di materia ordinata in stringhe di particelle che persisteva su una frequenza a cavallo di altre due o più brane che coesistevano intersecandosi in maniera invisibile le une alle altre ma che persistevano contemporaneamente e che si erano scontrate nella notte dei tempi sulle loro increspature creando di fatto la materia dell’universo. L’altissimo ora possedeva questa consapevolezza e poteva finalmente capire come cambiare la frequenza dei propri atomi per visitare le brane binarie adiacenti alla sua. Nel suo viaggiare trovò un universo speculare al suo, come lo è l’1 rispetto allo 0 nel linguaggio binario. In esso una cosa lo sconcertò. C’era una cattedrale bianca anziché nera, opaca come la pietra anziché lucida come il
vetro, con un predicatore che innalzava al cielo un dischetto bianco, invitava i fedeli a ricevere qualcosa da esso mangiandolo. Anche questi fedeli credevano in una vita eterna ma non sembrava avessero il wi-fi per trasmettere fuori dal loro hardware chiamato corpo il loro software che chiamavano anima. Erano creature strane, simmetriche, notava l’altissimo, non avevano ali di vetro, e avevano una mente binaria composta da due emisferi, il destro e il sinistro, uno emotivo e uno razionale, sempre in conflitto. Essi pregavano un altissimo diverso affinché salvasse le loro anime su un qualche HD chiamato paradiso. Ma la cosa che più sconcertò l’altissimo era che essi non concepivano di essere nati spontaneamente nella notte dei tempi quando le condizioni della natura erano state favorevoli. Essi affermavano di essere stati creati, scritti, dal loro altissimo, erano fiere di considerarsi da sempre delle creature artificiali, dunque, in un mondo privo di metallo sognante.
Breve diario di un diurno forzato di Patrizio D’amico
La notte è andata. Eccoci, tutti lì a guardare. La cosa è successa gradualmente su tutta la superficie della terra: un’attesa eccitante. Si stava sui cofani delle automobili, seduti sulle panchine, sulle sedie portate da casa, nei parchi, sui terrazzi delle case, sui balconi. C’è chi andò anche al mare, per vederlo sorgere lì, il sole, dalle acque, e salutare così la notte. L’ultima. – Ecco che se ne va, guarda guarda guarda – dicevamo tutti. E da nero il cielo cominciò a farsi blu, poi più chiaro, verde quasi bianco, e BAM!: il raggio di luce del nuovo prossimo intramontabile giorno stava davanti ai nostri occhi e non lo lasciammo più.
La notte è andata da qualche giorno. In molti saltano di gioia, in giro si sente dire che è stata sconfitta la vecchiaia, che il tempo si è fermato, tanti inneggiano ai Maya. Il fatto è che, Maya o non Maya, nessuno s’aspettava una cosa del genere. Ok i supertelescopi, le rilevazioni a infrarossi e tutte le tecniche astrologiche all’avanguardia che abbiamo, ma neanche uno scienziato si era preoccupato di controllare la luce, un fascio di luce e non un pianeta, in avvicinamento. In due parole: noi giriamo intorno al sole, ma lui gira intorno a un altro sole. E BAM!, ora la sua luce, quella del super-sole, ci ha raggiunti, e la giornata solare, 24 ore diciamo, in questa super-galassia che ci contiene, dura da noi in relazione circa… duecentomila anni. E questa è solo una previsione, in realtà ancora devono capire bene quanto durerà di preciso la giornata del super-sole. Otto minuti ci mette la luce del sole ad arrivare su di noi? Bene, Ottomila anni c’ha messo quella del super-sole a raggiungerci, e ora rimarrà qui, sempre, giorno e nott… ehm, giorno e giorno.
La notte è andata da qualche mese, due, tre, giù di lì. La gente però continua a invecchiare, il tempo non si è fermato, erano tutte dicerie. Le piante stanno impazzendo, le persone peggio. C’era un tizio che vedevo tutte le mattine andare a lavoro, Ray-Ban a specchio e valigetta. L’altro giorno, o notte mascherata da giorno non so, è uscito in un abito a tubino di raso azzurro, tacchi e calze a rete. Se quelle cose le faceva solo di notte, ora deve farle solo di giorno. E così tutti, chi la notte dormiva, chi lavorava. La gente vaga, abbiamo delle facce terribilmente post-atomiche. E siamo sempre con l’occhio all’orologio ma non si capisce bene perché, non è più come prima. Come dice il nuovo detto: anche se il metronotte attacca all’ora giusta, lavora di giorno e non di notte. Ci sarà a breve una forte isteria di massa, me lo sento. E i locali hanno tutti una nuova bibita in vendita, il Black Sky. Non si sa che miscuglio chimico sia ma si sono sbrigati a renderlo legale. Così ora ti fai un bicchiere di questo Black Sky e intorno a te sembra notte, vedi… quasi buio. Secondo alcuni rende ciechi, per altri rende ciechi e impotenti. C’è chi dice dia dipendenza, dipendenza da notte indotta chimicamente. Sta di fatto che siamo costretti a farcela così, l’illusione della notte.
La notte è andata da molto tempo, i mesi si confondono, le giornate peggio. Dicono che questo sarà l’anno Zero. Che tra qualche decina di anni nessuno si cagherà più Gesù: il tempo, il nuovo tempo, comincerà a essere contato da ora, 2012, primo anno senza notte. Mi bevo l’ennesimo Black Sky qui all’HulaHoop, e non posso fare a meno di ripensare a quando la notte si usciva, si incontrava gente, si beveva, si ascoltava musica nei locali semibui e poi uscivi fuori a fumare una sigaretta e… Atmosfere andate di quando la notte si rimaneva a casa, quando si stava insieme a guardare fuori dalla finestra le scie rosse delle macchine, quando la notte c’erano le stelle, quando la notte arrivava o sapevi che stava per arrivare. Potessi tornare indietro, lo direi a tutti; una specie di messaggio profetico, subliminale, scritto ovunque: finché c’è, godetevela.
Ragazzi, che serata! di Leonardo Battisti
Quella serata fu semplicemente epica. Mi ricordo manco fosse ieri come eravamo messi mentre andavamo al locale, con quelle condizioni meteo. È fondamentale, infatti, fare una premessa. Era tutta la settimana che nevicava senza sosta. Al sabato, ci ritrovammo con neve e gelo ovunque: per strada, nelle piazze, davanti ai negozi, dentro i pozzi, nelle aiuole, nelle scuole, sui tetti, sui gatti, nei cassetti, nelle vasche, nelle tasche, nelle tresche, fra le coppie navigate, oltre che fra gli amanti occasionali, sui muri, sui muli, nei cessi, sui nessi, sui cipressi, sotto i materassi al posto dei soldi. Una cosa impressionante, mai vista prima. Tanto che, uscendo di casa, la mamma di Michele, che quella sera doveva portare la macchina, gli rovesciò addosso una sfilza impressionante di raccomandazioni che mia nonna a confronto avrebbe sfigurato. Ma qui, forse, è bene fare una parentesi sulla madre di Michele, Cecilia. Si era sposata prestissimo, appena diciottenne, per fuggire di casa, essendo figlia di un prete, don Ugo, che la teneva relegata in cantina perché sarebbe stato licenziato dal padreterno, o da qualche suo delegato terreno, se si fosse scoperto che era padre nel senso di genitore, oltre che in quello di sacerdote. Il prelato, che non era in fondo cattivo, accettò di dare in moglie sua figlia dopo aver corrotto le autorità preposte affinché disponessero i documenti necessari per spacciare la giovane come una sua lontana nipote di origine asiatica (seppur Cecilia avesse tratti occidentalissimi). Il promesso sposo, Antonio, era un contadino molto devoto e semianalfabeta di 16 anni (ma ne dimostrava 48) che il parroco obbligò a sposare Cecilia perché così voleva il Signore, dato che le richieste della ragazza di uscire dalla cantina erano diventate sempre più pressanti e bisognava trovare una soluzione. Michele, comunque, nacque solo diciassette anni dopo il matrimonio, perché i due giovani dovettero un po’ prenderci la mano. A causa dell’educazione ricevuta, la madre era convinta che, per proteggere il figlio dal mondo malvagio,
fosse buono e giusto tenere chiuso in cantina anche lui fino alla maggiore età; ma Michele a sette anni già pesava inspiegabilmente novanta chili ed era alto un metro e ottantacinque. Perciò iniziò presto a battere i suoi genitori e a farla da padrone in casa. Cecilia era comunque premurosissima con suo figlio, che riteneva sempre il suo pulcino-ino-ino, tanto che quella sera, prima di uscire per andare al locale, lo trattenne quasi un’ora ricordandogli che la strada era brutta, di non frenare sul ghiaccio, di stare attento ai rami spezzati, di evitare i viadotti per le raffiche di vento, di rispettare i semafori, di far attraversare i pedoni, di dare la precedenza a destra, di portare rispetto ai più grandi, di non accettare caramelle dagli sconosciuti e cose del genere. Le raccomandazioni della madre furono tanto più numerose e precise del solito, dal momento che quella sera Michele aveva pure una mano invalida. Infatti, qualche giorno prima – e qui vale la pena fare un veloce flashback – mentre allungava i consueti ceffoni a suo padre, quel pover’uomo si era di scatto abbassato facendo in modo che il manrovescio del figlio si infrangesse a tutta forza contro un angolo della parete della cucina. Niente di strano, si dirà, un incidente domestico come tanti, e che però costò al nostro amico la rottura di un paio di falangi, e bisogna dire che gli andò bene. Dunque, alla fine Michele prese la sua scassatissima Peugeot grigia, ò a prendere me e Silvano che lo aspettavamo gasati e già un po’ sbronzi al bar di Peppe e, con una prudenza che mai gli avevo visto prima, guidò senza intoppi fino a destinazione. E mentre in macchina facevamo eccitatissime previsioni sull’esito di quella che si preannunciava come la serata dell’anno, arrivammo al locale e scoprimmo che era chiuso per il maltempo.
Babbeo Natale di Marco Lipford
«Nel 1975, in quattro grossi volumi, per iniziativa dell’Istituto Gramsci, Valentino Gerratana ha pubblicato una rigorosa edizione critica di tutti i Quaderni corredandola degli strumenti necessari per una nuova “lettura”.» Se li ricordava bene quei tomi, Alessia. Li aveva utilizzati nel 2008 per la sua tesi di laurea in sociologia, ed era pressappoco da allora che si trovavano all’estremità della mensola a prender polvere in corridoio. Ora Alessia, in camicia da notte, scappava da un Babbo Natale smunto, liso e abbastanza inquietante. – Oh oh oh… Vieni qui, piccolina, vieni ad aprire questo bel pacco regalo! – continuava a gridarle con il suo vocione lubrico impostato. La povera Alessia non trovò di meglio che i suddetti volumi per usarli come corpi contundenti da lanciare al suo inseguitore. Li afferrò uno dietro l’altro e glieli scagliò con rabbia gridando isterica: – Fallafinitaporcatroialasciamistarecrisbio! Il colpo più efficace quello strano Santa Claus se lo ritrovò dritto sul naso; il terzo librone lo centrò di spigolo. In un raptus quella figura grottesca si portò d’istinto le mani al muso e si liberò di una barba palesemente finta. – Aaaah! Che sei scema? Ma ’sta deficiente! – disse mandando ogni residuo di aria natalizia a farsi benedire. Poi si chinò dal dolore e continuò a borbottare. – Gervaso! – disse lei grintosa mentre agitava l’indice all’indirizzo di lui – Ti ho detto di non insistere: domani sarà una giornata lunghissima e io ho una stanchezza che mi schianta. Non ho intenzione di stare alle tue stronzate! Chiaro? Da terra, il povero Babbeo Natale Gervaso si tolse anche il cappuccio rosso con tanto di pon pon bianco e piagnucolò:
– Guarda che anche io ho avuto una giornata lunga! Qua però tra corse per i regali e visite dai parenti noi non si combina più niente! E tu… tu sei esaurita come pochi. Che palle! “Esaurita…” pensò la retriva Alessia. Quella parola non le piaceva. Fece un o in avanti e ascoltò le proteste del suo ragazzo che ancora si massaggiava il naso affondando in quei paludamenti così balordi. Il libro che lo aveva atterrato giaceva aperto, e le venne da chiedersi cosa avrebbe pensato Gramsci del Natale nel ventunesimo secolo. Probabilmente avrebbe detto che era la massima espressione di un capitalismo ingordo, ipocrita e incancrenito. Eppure, pensò lei, sembrava proprio che non ci fosse verso di sfuggirgli! Perché esaurita no, quello non voleva sentirselo dire. – Volevo solo un ultimo momento di intimità prima di ritrovarci casa invasa da tutti quei rompiballe… Io voglio solo darti un po’ di amore natalizio e tu mi maltratti! Gervaso fece la faccetta offesa che tanto la faceva ridere, e Alessia tornò in sé trovando la situazione per quella che era. Prima le scappò da ridere, poi si sedette a gambe aperte sopra di lui. – E ora che fai? – le domandò stupefatto. Alessia prese il cerchietto con le finte corna di renna che il partner aveva fin lì cercato di convincerla a indossare per quella pantomima, e se lo mise. – Ah… adesso sì? – disse lui ritrovando un ghigno furbesco – Ti va di farlo davanti al presepe? – aggiunse. – Non dire sciocchezze.
Il Ficus Benjamin di Daniela Peruzzo
La casa era quasi in centro, piccolina ma ben collegata, calda d’inverno e fresca d’estate e, cosa più importante di tutte, completamente gratuita. Niente affitto, niente condominio, niente telefono, luce o gas. Perché avevo lasciato un tale appartamento? Perché l’affittuaria, nonché unico soggetto pagante tutte le spese, nonché mia cara nonnina, aveva ben pensato di ar a miglior vita. Un infarto. Ma non facciamola troppo patetica. Mia nonna era una donna dispotica, autoritaria, con la tendenza a controllare ogni cosa che facevano le persone che amava e a prendersi la responsabilità di tutto quello che le succedeva intorno. Ed era per questo, naturalmente, che l’adoravo. A dire la verità non è che la sua morte ci abbia colti proprio di sorpresa. Nei due anni che avevamo vissuto insieme era scampata ad almeno sette infarti, e noi con lei, solo un po’ meno brillantemente di lei. L’infarto nella mia vita era diventato un po’ come la carta da parati nel salotto: sta lì, ti arreda la casa ma tu non ti accorgi nemmeno più della sua esistenza. Diciamo in altre parole che l’infarto aveva assunto una dimensione routinaria. Quando arrivava, mia nonna mi chiamava dall’altra stanza. Io prendevo il telefono e avvertivo, nell’ordine che mi aveva dettato: una mia zia, che abitava a poche centinaia di metri e sarebbe stata da noi in qualche minuto; mia madre, che avrebbe impiegato il suo tempo per buttare giù dal letto mio padre e infilarsi in auto nel cuore della notte (dimenticavo, a mia nonna l’infarto veniva esclusivamente di notte, credo che avesse ordinato al padre eterno come e quando dovesse farla fuori); e infine l’ambulanza, che pure avrebbe impiegato il suo tempo perché se un paziente ha aspettato ottanta anni per morire può ben aspettare che l’autista finisca di fumare l’ultima sigaretta, dopo il caffè. Nell’attesa che tutti i convocati si presentassero all’appello, io cominciavo a preparare la borsa per la degenza seguendo le sue indicazioni al dettaglio per evitare di incorrere in improperi e insulti ad argomento genealogico o religioso:
– Gli asciugamani rosa, mi raccomando, non quelli bianchi che sono vecchi, poi che figura facciamo. Già, perché ne andava dell’onore di una famiglia intera se un asciugamano per caso non sembrava appena uscito dalla fabbrica degli asciugamani, poi in ospedale si sa, si va per spiare la biancheria dei vicini, la camicia da notte, perché i pigiami li portano solo le donnacce e soprattutto, la vestaglia quella rosa, non quella celeste, che il celeste me sbatte su pe’ la pelle del viso. In fondo, era sempre stata una donna vanitosa. Una volta che figlie, generi, nipote e infermieri erano tutti presenti al suo capezzale si poteva partire alla volta dell’ospedale con l’ambulanza alla testa del corteo, e lei alla testa dell’ambulanza. Normalmente, dopo qualche ora e un paio di flebo si era di nuovo tutti a casa a disfare la valigia: gli asciugamani nel cassettone, la camicia da notte nel cassetto di destra, mi raccomando non quello di sinistra se no si mischia con le lenzuola, la vestaglia nell’armadio tra il vestito a quadri verde e la gonna blu della povera zia Gigina. Quella volta però non ce la restituirono subito. La misero in un istituto in convalescenza. La casa sembrava vuota senza di lei. Un incubo. Nessuno che imprecava alle sei del mattino leggendo la cronaca nera del Messaggero, nessuno che discuteva animatamente da solo guardando Amministratori e cittadini, la trasmissione più noiosa da che esiste la televisione, nessuno che cantava Tu scendi dalle stelle in qualsiasi periodo dell’anno. Per sfuggire a quel silenzio andavo spesso a trovarla. Rimanevo seduta mentre presiedeva il gruppo di preghiera con le sue vicine di letto, o mentre discuteva di politica con il medico di turno. Mi accoglieva con un sorriso, mi chiedeva notizie del lavoro e mi raccomandava di innaffiare il suo Ficus Benjamin, l’unica pianta a cui, per motivi misteriosi, si era affezionata. L’ultima volta che mi recai in istituto però aveva un’aria stanca, non mi sorrise, ed ebbi quasi l’impressione che il vedermi l’avesse commossa. Mi disse che aveva sognato i suoi fratelli e che le mancavano. Si dicono un sacco di cose sulla morte. Si dice che quando una persona sta per morire glielo si legge in faccia, che la morte si disegna sui volti… si dicono un sacco di cose e sono tutte vere…
Il funerale non fu male, c’era un sacco di gente, per essere una donna di ottantasei anni. Mia madre fece la sua entrata magistrale in chiesa, tra le lacrime e le invocazioni alla madre morta, un cameo, davvero una delle sue migliore interpretazioni. Dopo un paio di settimane dal funerale mi fu chiesto di lasciare la casa. L’unica cosa che volli tenere per me fu la sua bottiglietta di rosolio dei frati Trappisti e il Ficus Benjamin che venne diviso in tre parti uguali destinate rispettivamente a mia madre, a mia sorella e a me. Quello di mia sorella morì dopo poche settimane, non resse al freddo del paese dove si era trasferita. Quello di mia madre è sopravvissuto, ma è rimasto nano. Per quanto riguarda il mio, non smette di crescere, tanto che ho dovuto cambiargli il vaso. Quando mia madre viene a trovarmi diventa di cattivo umore non appena vede il Ficus. Gli lancia un’occhiata di sbieco, poi mi guarda e sussurra tra i denti: – Anche da morta deve ricordarmi che, fra tutti, eri tu la sua preferita.
Era de maggio di Diletta Fedele
Era tanto tempo ormai che vivevo a Napoli, o almeno così mi sembrava, eppure quella mattina di maggio facevo fatica a riconoscere il luogo in cui mi trovavo. Un vento leggero faceva venire quasi i brividi mentre trasportava il profumo di sapone dei panni stesi tra i balconi dei palazzi e improvvisi squarci di mare e di cielo mi costringevano a fermarmi ogni tanto per mettere una mano a visiera sulla fronte prima di proseguire. Un motorino con tre persone a bordo risaliva a fatica la strada procedendo in direzione opposta alla mia. Alcune donne ferme davanti a un basso alluccavano: – Dicette iss’, dicette… – ma oltre a queste parole ripetute in continuazione non capivo niente di quello che dicevano. Anche il verdumaio con il suo carretto a tre ruote alluccava quanto era bella la roba che aveva portato quella mattina in esclusiva per tutte le femmine di Montesanto, troppo belle e troppo intelligenti per non essere in grado di apprezzarla. – Cantalupiii! Cantalupi speciali, dolcissimi, sul’ ’n euro o chil’ e chi nun s’o accatta è proprio nu stoccafiss’! Giusto mentre gli avo davanti il verdumaio, un ragazzo di non più di vent’anni coi capelli neri e gli occhi azzurri che lontano pareva contenere quella bolla di universo in cui mi trovano mi rivolse la parola dicendo: – Signo’, ma comme state ianc’ stammatin’, avite durmito buon’ stanotte? Assaggiate ’stu cantalupo c’agg’ purtat’, accussì v’arripigliate nu poc’! E sorridendo mi porse una fetta di cantalupo appena tagliata. Allora la presi e la mangiai avidamente: era veramente dolcissima. Mi accorsi di avere una fame da lupi e di volerne ancora. – Signo’, sulamente un euro o’chil’! Pigliateve chistu cantalup’ ’cca!
Mise subito un melone a pesare sulla stadera. – Sono due e cinquanta, signo’! Non battei ciglio: sorrisi cercando nelle tasche i soldi che mi chiedeva. Purtroppo non trovai che una moneta da due euro. – Signo’, manco due euro e cinquanta tenit’! Vabbuo’ va, nun fa niente, dateme sulo ddoie euro! Mi tolse la moneta dalla mano con la velocità della luce mentre già stava spicciando altre due signore appena affacciatesi al carretto. Ero rimasto senza un soldo ma la cosa non mi preoccupava affatto. Cercavo di ricordarmi che cosa avessi fatto la sera prima ma avevo la testa completamente vuota. Non potevo fare altro che abbandonarmi al flusso vitale della città. Scendendo lungo la strada i rumori si facevano sempre più assordanti. Un camioncino del latte stava infatti scaricando le bottiglie con cui rifornire una salumeria ma la strada era troppo stretta e nel frattempo si era fatta una fila di macchine lunga fino a piazza Mazzini e gli automobilisti, per niente pazienti, non facevano altro che suonare i clacson all’impazzata. Mi lasciai il camioncino alle spalle mentre il rumore delle macchine bloccate veniva sostituito da quello del mercato di piazza degli Artisti. C’era di tutto: banchi di frutta e verdura si alternavano a quelli col pesce o con le noci e o’ satiempo, col caffè, col pane e i biscotti, con la biancheria e le camice da notte. Il mercato era pieno di gente e le grida dei venditori si coprivano a vicenda. Eppure trovarsi lì in mezzo era piacevole quasi come addormentarsi tra le braccia di una bella donna dopo averci fatto del sesso ubriaco. I crampi della fame continuavano a tormentarmi, così decisi di dirigermi al bar di Luigi. “Speriamo che anche stavolta Luigi mi faccia fare colazione gratis”, pensavo quando vidi Rosita, la mia ex ragazza nonché collega ricercatrice al dipartimento di filosofia, entrare nello stesso bar. “Che ci fa qui?” pensai. Non avevo molta voglia di incontrarla, dato che mi aveva lasciato qualche mese prima per mettersi col professore capo del dipartimento, la zoccola. Di me
andava dicendo che non ero abbastanza ambizioso e che trascuravo la carriera preferendo are la giornata a vagabondare piuttosto che a lavorare ma soprattutto a cercare di ingraziarmi qualche barone dell’università. Ma a quale carriera pensava potessi mai essere interessato? Se fossi stato davvero ambizioso sarei rimasto a Oberplan, dove a quest’ora sarei già professore, invece di venirmene a fare il precario all’università di Napoli! Su questo non c’è che dire, avevamo punti di vista opposti. Eppure mi ero innamorato di lei, forse per la sua bellezza partenopea o per il suo stesso temperamento deciso e irruento. Per questo il fatto che mi avesse mollato per il professore capo mi faceva imbestialire. Dicevo che non avevo nessuna voglia di incontrarla, ma non cambiai programma ed entrai lo stesso da Luigi. Ma una volta dentro mi si parò davanti la scena seguente: milioni di sfogliatelle ricce e frolle sparse dovunque, sul pavimento, sui tavoli, sugli sgabelli, frantumi di sfogliatelle sulle pareti e sul soffitto, come se fosse esplosa una bomba carica di quintali di squisiti dolciumi. Venni avvolto dall’inconfondibile profumo del ripieno di semolino e frutta candita aromatizzata ai fiori d’arancio. Rosita aveva frammenti di sfogliatella sui vestiti e sui capelli e gridava e piangeva a squarciagola: – Cristo, aiutatemi! Che schifo, che disastro! Luigi e gli altri ragazzi del bar avevano cominciato a pulire e a togliere di mezzo tutto quel ben di dio esploso. I clienti uscivano di corsa imprecando tutti i santi e la Madonna mentre Luisa, la cassiera, cercava di calmare Rosita aiutandola a pulirsi. Cominciai a ridere a più non posso, e più Rosita gridava e piangeva più io non riuscivo a smettere. Chiesi a Luigi cosa diavolo fosse successo. Mi si rivolse come un pazzo: – Thomas, ma che ci fai pure tu qua? È scoppiata la macchina per fare le sfogliatelle e guarda qua che è successo! Maro’ che burdell’! Uscii dal bar e andai a mettermi sul marciapiede di fronte, da dove potevo continuare a vedere la scena da lontano. Rosita era appena uscita in lacrime e lorda di sfogliatella e gli infermieri
l’avevano presa per entrambe le braccia per accompagnarla verso l’ambulanza appena arrivata. Tutto il quartiere si era affacciato ai balconi per assistere a quell’evento improvviso quanto surreale. – Che è success’? Gesù’, Sant’Anna, Giuseppe e Maria! Ma nun s’è fatt’ male nisciuno? – dicevano le persone per strada che si erano fermate a guardare. L’immagine di Rosita impiastricciata dalla testa ai piedi mi si era impressa sulla retina. Certo, avevo immaginato di vendicarmi di lei in tanti modi: mettendola in cattiva luce con i colleghi del dipartimento, bucandole le ruote della macchina, infettandole il pc con un qualche virus, ma la pioggia di sfogliatelle no, proprio non mi era venuta in mente. L’euforia isterica di poco prima stava piano piano ando. Mi allontanai dalla scena del delitto. Mi dispiaceva solo per Luigi: le sue sfogliatelle erano veramente speciali, mo chissà quanto ci sarebbe voluto per riassaggiarne una.
Sangue del demonio di Ettore
Tutto ebbe inizio quella insolita sera di metà giugno. Nella fiera del piccolo paesino c’erano bancarelle e svaghi di ogni sorta, quando improvvisamente l’attenzione del sig. Plunio venne rapita da un piccolo cartello recante la scritta “Lettura del futuro”. A dire il vero Samuele Plunio non era mai stato attratto da simili pratiche, e il suo scetticismo nei riguardi delle scienze occulte non lo aveva mai portato a interessarsene. Ma nonostante le sue remore, spinto dalla noia, volle dare fiducia a quella che sembrava essere una originale zingara dell’est. Armatosi dunque di buone intenzioni varcò con o sicuro la soglia della tenda sulla quale era affisso il cartello, e appena il suo sguardo ebbe incrociato quello della fattucchiera sentì un brivido ghiacciato percorrergli la schiena. Zaura, questo era il nome della veggente. Indossava un lungo vestito colorato con motivi floreali, in testa un fazzoletto nero e oro nascondeva una capigliatura ispida e numerosi monili ricoprivano tutta la sua persona. Il sig. Plunio le si sedette di fronte ancora confuso mentre Zaura smazzava i suoi tarocchi senza alzare il capo. Poi, posizionate le carte in cerchio e arricciando impercettibilmente il naso aquilino esclamò: – Vedo che lei non è soddisfatto, signore… Vedo che la sua vita sta andando in una direzione non desiderata… Il suo lavoro, i suoi affetti non la rendono felice. Samuele rimase esterrefatto dalla precisione con la quale in pochi secondi quella perfetta estranea aveva indovinato il suo malessere, il suo più recondito disagio. Ebbe solo il tempo di annuire confusamente che la cartomante riprese la lettura: – Vedo che lei si impegna molto, caro signore, dovrebbe essere appagato dei risultati raggiunti, dovrebbero non essere presenti delle ombre nel suo animo, eppure cosi non è. Sangue del demonio, era vero! Samuele Plunio non si era mai dato pace nello scorrere delle sue giornate, sempre alla ricerca di qualcosa che appagasse la sete di relazioni, sempre con la bramosia di concludere commerci per ottenere quello che ancora non possedeva.
Ultimamente, poi, quello stile di vita lo aveva reso arido nei confronti di se stesso e la sua vita era divenuta per lui una stucchevole compagna con la quale condividere solo ansie e preoccupazioni.Una soluzione o un semplice consiglio da parte di quella donna così magnetica lo avrebbe di certo rincuorato, ma quando si decise di chiederle aiuto Zaura così rispose: – Con la mia arte, caro signore, posso vedere il presente e indovinare il futuro, ma intervenire per modificarli non spetta alla magia ma alla volontà… sono cento euro, grazie.
Manutenzione straordinaria di Marco Lipford
Tomaso terminò il trasloco in anticipo, la mattina stessa del giorno in cui lasciava la città. Telefonò al proprietario di casa e disse che gli avrebbe ridato le chiavi solo in serata, prima di prendere il treno. Il padrone di casa… un tizio da conati di vomito! Uno di quelli che possiedono una decina di appartamenti per specularci al peggio. Uno di quelli che ogni mattina aprono la coda davanti allʼufficio postale per versare quanto estorto con le pigioni. Uno di quelli che solo non residenti, perché altrimenti andrebbe stilato un contratto a regola e i costi aumentano. Uno di quelli che la domenica mattina irrompono in casa alle nove meno dieci perché è arrivato un conguaglio. Uno di quelli che si mettono a tastare i muri e a controllare che sia tutto in ordine… Tomaso andava via da quel bilocale dopo esserci rimasto un anno. Andava via perché chiamato allʼimprovviso da una catena di ristoranti del nord. Dopo aver impacchettato e caricato tutto sul furgone mancava solo di regolare i conti con le caparre versate. Aveva capito sin dall’inizio che sarebbe stato un fastidio, ma preso dalla fretta era stato costretto a versare due caparre agli inquilini uscenti, una coppia di calabresi che dissero di aver dovuto fare lo stesso quando si erano insediati a loro volta. – È unʼidea del padrone di casa, – avevano subito spiegato, – così lascia allʼaffittuario lʼincombenza di trovare chi subentri in casa quando se ne va. E di sicuro lʼappartamento non rimane sfitto. Semplice, no? Così semplice che rasentava il geniale. E anche un poʼ disonesto, però, aveva pensato Tomaso. Perché se (come nel suo caso ora) l’affittante doveva andare via immediatamente non aveva tempo di inserire annunci e cercare chi lo sostituisse. Si sa quanto non sia facile dimostrare la propria buona fede in certe circostanze; sono pochi quelli che accettano di dare soldi a sconosciuti senza garanzie certe. La cosa che non gli andava proprio giù era perdere quei soldi in favore del padrone di casa. Era denaro guadagnato col sudore della fronte nei lavori precari più disparati (o disperati?), mentre il titolare avrebbe di sicuro chiesto altre due caparre al prossimo affittuario e sciorinato la formula del tanto le riprendi da quelli a cui lascerai lʼappartamento.
Non questa volta. Tomaso era un altruista, e decise che le quote perse sarebbero servite a un nobile scopo: rendere migliore lʼappartamento per i prossimi che vi avrebbero soggiornato. Ma cʼera da lavorare e occorreva esser celeri, casomai fosse sopraggiunto il padrone di casa. Le prime cose a essere sistemate furono le prese della corrente. Tuttavia non le divelse, no, era rischioso. Tirò fuori il tubo di silicone, ci applicò sopra la siringa e lo iniettò nei buchi della presa. In fondo il sistema elettrico era vecchio e a Tomaso qualche volta era capitato di sentire delle piccole scosse attaccando o staccando spine. Non voleva certo che succedesse a qualcun altro, magari un giovane lavoratore precario come lui. Il suo era solo un incentivo per il proprietario, per fargli cominciare i lavori. Poi ò alle serrande. Le corde erano usurate e andavano cambiate, per cui rimosse il pannello sullʼintercapedine e le tagliuzzò con le forbici vicino al rullo dellʼavvolgibile. Non del tutto, però: lo strappo finale sarebbe dovuto arrivare quando lui era già lontano. Risistemò il pannello e si diresse in bagno. Si era lamentato tante volte con il proprietario che il lavandino ingorgasse, ma il titolare non aveva mai mandato l’idraulico. “Inutile disturbarlo ancora,” pensò Tomaso, e versò nel vecchio lavandino un flacone di scioglimetalli. Del resto, un appartamento affittato a quel prezzo doveva avere come minimo le tubature rifatte a regola d’arte, che diamine! E già che c’era immerse con cura mezzo rotolo di carta assorbente in fondo alla tazza dello sciacquone. A lavoretti ultimati decise che ci voleva un caffè, e mentre la moka era pronta a far bollire l’acqua guardò la cucina. Era vetusta, e a volte si sentiva odore di gas; temeva che andasse sostituita anche quella. Per sveltire la pratica incollò sopra la parete del forno una busta dell’immondizia vuota. Avrebbe di certo puzzato un poʼ, ma era il modo più rapido per avere fornelli nuovi. Si versò il caffè e, tazzina in mano, prese le ultime cose. Fermo sulla porta di casa prese un sorso appena. Era arrivato il momento dell’addio. Fece mente locale per non dimenticarsi niente. Diede un ultimo emozionato sguardo all’ambiente, e annusò l’odore stantio della carta da parati. “No, va data una mano di tinta…” pensò, e quindi gettò il resto del caffè sulla parete, una peculiare firma di congedo. Sbatté la porta e uscì per sempre da quel bilocale. Non è dato sapere la reazione del padrone di casa, ma c’era ben poco che potesse fare, trattandosi di un affitto irregolare. Quanto a Tomaso, di recente lo hanno avvistato a una riunione di condominio: pare sia l’amministratore, e pure munito di certificato iso novemilauno.
Sandrino di Leonardo Battisti
– E che palle ’sti sanpietrini de merda! Era stata una serataccia per Sandrino, e stava per concludersi lì, nell’Audi di sua madre che saltellava sui ciottoli dalle parti del Circo Massimo, alla ricerca di un posto tranquillo per godersi l’alba e una sigaretta in grazia di Dio. S’era imbucato a una festa di diciott’anni di una tipa che conosceva appena, sperando di rimediare un pompino o almeno una pomiciata come si deve. Aveva tirato mezza pista di coca sul cruscotto poco prima di arrivare e stava flippato come un camaleonte, e in quello stato s’era lanciato a ballare musica di merda fra tre o quattro fregnette scosciate e un po’ brille. Di tanto in tanto si allungava sul buffet e si sparava un rum senza pera o un bicchiere di vino rosso, tornando in pista sempre più sconnesso col mondo. A un certo punto, senza sapere bene come, s’era ritrovato questa tipa fra le braccia, smilza e riccia, con dei tacchi mostruosi e un tubino da pin-up, e s’erano chiusi in bagno per vedere di combinare qualcosa. Dopo due slinguazzate imprecise e qualche palpata generica, gli sembrava già quasi di venire, e invece, quando lei gli sbottonò i jeans, si vide l’affare completamente morto, penzolante e ritratto, stancamente accasciato sullo scroto. Lei si diede da fare per un po’ ma si stufò presto e lo piantò lì, mezzo nudo, appoggiato al lavandino imbrattato di vomito. Uscì dal bagno incazzato nero con quella troietta che non aveva fatto bene il dovere suo, e cominciò a tirar calci e pugni a muri e complementi d’arredo, facendosi, tra l’altro, un male cane. Non gli veniva manco per sbaglio il dubbio che forse la morte del suo uccello era dovuta agli eccessi di autoerotismo con cui l’aveva consumato per tutto il giorno fino a mezz’ora prima di uscire. Fatto sta che stava per appiccicarsi col responsabile della sala, un ragazzetto occhialuto poco più grande di lui con una flemma assurda. A quel punto, qualche suo amico, forse Gigetto, non se lo ricordava, aveva cercato di calmarlo, di portarlo fuori, e lui aveva cominciato a fare peggio, a strillare contro quella
zoccola e contro gli altri invitati che manco conosceva, mentre la festeggiata, una certa Sara, piangeva perché Sandrino piaceva a sua cugina e la tizia che se l’era portato in bagno era la sua migliore amica. Dopo qualche ora di strilli, di spinte, di giri avanti e indietro all’aria umida, erano riusciti a calmarlo e l’avevano convinto ad andare via. E così si ritrovava da solo come uno stronzo, a smadonnare in macchina sulle strade tutte uguali della notte, ignorando semafori, stop e sensi unici del cazzo, ché tanto a quell’ora non c’è un’anima in giro. Bestemmiava pure perché sapeva che nel pomeriggio sarebbe venuta la tizia che sua madre pagava venticinque, dico venticinque euro l’ora per fargli ripetizione d’inglese, che non gli servivano a niente, ché tanto l’avrebbero bocciato pure quell’anno. Mentre l’aria schiariva, imboccò a mille una consolare deciso a percorrerla fino al raccordo quando, intento com’era ad accendersi una Marlboro, ignorò l’ennesimo semaforo e si ritrovò sui binari del tram con un tram, la prima corsa del giorno, che sfrecciava a tutta birra, ché tanto a quell’ora non c’è un’anima in giro. L’impatto fu preciso e potente. Il frontale rigido e ferroso del tram sventrò prima la portiera grigia dell’Audi dal lato del guidatore, poi la scaraventò avanti e di lato come un predatore cieco che sputa la preda dopo averla masticata. Il botto fece un fracasso infernale, seguito da un silenzio di tomba. L’auto era letteralmente piegata a metà sul lato lungo di sinistra. Il tranviere, nonostante il colpo, era rimasto illeso, ma pieno di dolori e colpi di frusta che avrebbe accusato più tardi, consumata l’adrenalina del momento. Uscì dal tram in stato di shock, incurante dei eggeri, uno solo in verità, un barbone ubriaco fradicio che non s’era accorto di nulla. – Oddio! Oddio! Era verde. Er semafero mio era verde! L’avete visto tutti! M’è spuntato davanti de colpo! Oddio, è pure un regazzino! – urlava con le mani sul volto ai palazzi addormentati, come in quel film di Verdone, con Mario Brega nei panni del camionista in lacrime che scappa nel traffico per non farsi carcerare. Per Sandrino non c’era niente da fare. Stava pure senza cinta, lo splendido. In un attimo residuo di lucidità, prima di andarsene al creatore, col costato compresso
dalle lamiere e schegge di parabrezza piantate qua e là nel cranio, pensò ai titoli sui giornali il giorno dopo: «Ennesima vittima del sabato sera. Giovane di buona famiglia muore in scontro con tram.» Poi vide il sole, scintillante di riflesso sui binari, annunciare che di lì a qualche ora avrebbe sciorinato tutti i colori del giorno, come sempre, e pensò soddisfatto: – Che figata!
GLI AUTORI
Patrizio D’Amico nasce nell'85 a Roma. Si laurea in Sceneggiatura e consegue un master in editoria. Scrive e pubblica diversi racconti su antologie e siti. Lavora nel campo della fotografia digitale ma si occupa anche di editoria e marketing collaborando con agenzie letterarie e siti web. Quando ha scoperto il Cantiere di Letteratura Notturna e ha visto che era gratis ha deciso di partecipare. Poi gli è piaciuto, e ci è rimasto.
Daniela Peruzzo nacque a Roma circa 35 anni fa in una notte che, pur non avendone prove, giureremmo fosse fredda e tempestosa (in realtà erano le 14 ma non farebbe lo stesso effetto dire: “pomeriggio freddo e tempestoso”). Dopo l’adolescenza depressiva di ordinanza, giunse alla facoltà di Lettere dove si laureò in antropologia culturale. Tra un corso e un altro, studiava teatro e a recitava, ma per essere proprio sicura di rimanere un giorno disoccupata, dopo la laurea iniziò a lavorare nel sociale. Scrive racconti da quando ha finito i soldi per l’analista.
Leonardo Battisti è laureato in Lettere. Fondamentalmente ama l’umorismo e tutto ciò che produce un sovvertimento delle regole e consuetudini del vivere e del pensare attraverso la risata. A questo fine, di tanto in tanto, si diletta a scrivere sul suo blog o dove gli capita (antologie, riviste, cantiere, ecc.): http://mifidosolodelvento.wordpress.com.
Marco Lipford, dopo uno stallo considerevole, grazie al Cantiere di Letteratura notturna ha ripreso a scrivere racconti. Nato a Roma nel 1978, non nega che gli piacerebbe diventare scrittore, e magari di una certa notorietà, così da poter dilungare le proprie biografie oltre le due righe d’ordinanza.
Marco Bruschi adora i vizi e non si fida di chi dice di non averne.
Ettore nasce a Fortaleza in Brasile trentatré anni fa. Raggiunta l’età della ragione comprende che la vita non può essere solo gioia e allegria, cosi si imbarca per l’Europa dove trova la sua giusta dimensione di difficoltà e amarezza in Italia. Oggi vive a Roma lavorando come attore mimo per una radio dove conduce un programma di due ore, scrive nel cantiere dell’HulaHoop perché nel suo intimo cova ancora del buon umore.
Carlo Sperduti è nato nel 1984. Da allora non ha più ripetuto l’esperienza e non è mai morto.
Angela nasce nel 1980 a Erba e spende i suoi migliori anni a Cogliate, da dove scappa dopo non aver colto nulla. Inizia a scendere verso Sud, girovagando un po’ di qua e un po’ di là, probabilmente spinta dalla forza di gravità. Vive a Roma da 4 anni e un giorno incontra l’HulaHoop e il Cantiere di Letteratura Notturna dove si ferma perché rimasta senza parole.
Patrizia Berlicchi è nata a Firenze cinquant’anni fa ma vive a Roma dall’età di sette anni. Ama la scrittura, soprattutto la scrittura poetica, però vorrebbe proprio saper scrivere in qualsiasi modo, cimentarsi in qualsiasi genere narrativo, così, per gioco, per amore della parola, della sua potenza e della sua bellezza. A proposito della scrittura poetica: in realtà ama la Poesia, però questo è tutto un altro discorso…
Anna Chiara Maccari si chiama Anna staccato Chiara e ha la sindrome del nome composto. Appena ne sente uno si gira, perché tanto non c’è speranza
che qualcuno lo azzecchi. Autoironica ed egocentrica per legittima difesa, viene condotta per mano all’HulaHoop un giorno di maggio. Scrivere è un parto: gioie e dolori. Al Cantiere, per adesso, è madre felice di un monologhino in romanesco. Strappacore.
Elisabetta Trova, 32 anni (tra poco), idealista per necessità, apre l’HulaHoop con la scusa che sa fare panini e servire la birra e trova nell’idea del Cantiere Letterario il modo di intrufolarsi nel fantastico mondo della parola scritta, lavorata, usata e imbastita. Ama le rime che spaccia a intermittenza insieme alle patate cotte con la buccia. Il Cantiere è uno dei luoghi dove preferisce abitare.
Sara Marabiso nasce 28 anni fa in provincia di Padova in un mercoledì di ottobre. Sviluppa una certa ione per la scrittura durante le lezioni di italiano, scrivendo stronzate sottoforma di letterine alle amiche. Dopo un’adolescenza e una giovinezza “nebbiose”, approda a Roma per caso, un paio d’anni fa, alla distratta ricerca di una strada da seguire, perdendosi. Finché, sbam! Cozza contro una porta di vetro con impressa la scritta HulaHoop. E scopre finalmente di essere dove stava cercando di andare: al Cantiere. Luogo in cui la parola birra assume il suo più alto valore letterario.
Camilla Cossu nasce a Cagliari nella calda estate del 1982 e viene subito accolta dagli applausi di Sandro Pertini, che si complimenta coi suoi genitori per la scelta del nome. Il richiamo delle origini la conduce a Roma, dove prosegue gli studi di storia dell'arte perché inutile è bello. Sceglie il Cantiere scambiandolo volutamente per una terapia di gruppo. Dice di sé: “Sono brava a far bere e divertire la gente. Fossi così convincente anche nel lavoro, sarei più potente di Hillary Clinton.”
Diletta Fedele ha 33 anni. Napoletana, vive a Roma dal 2006. Se le chiedeste
chi glielo ha fatto fare di iniziare l’esperienza del Cantiere di Letteratura Notturna, non saprebbe che rispondervi. Questi sono i primi racconti che ha scritto in vita sua.
Specchio Gelido compare nel riflesso semitrasparente di un finestrino di un taxi che lo conduceva in giro per Roma in una di quelle notti nella quali vuoi sceglierti tutto, anche il nome. E questo nome d’arte è solo di aggio. Il suo proprietario nasce a Caserta e in seguito si trasferisce a Salerno, dove si laurea in informatica unendo l’arte all’elettronica con una tesi in robotica e algoritmi di visione artificiale. Scrittore di algoritmi in linguaggio CC++ e Java, prova a diventare scrittore di racconti brevi quando incontra Carlo Sperduti e il suo Cantiere di Letteratura Notturna in una serata bondage all’HulaHoop Club.
1) Dove hai imparato ad approssimare? Carlo Sperduti
2) Salvo il fatto che il concetto di precisione oraria per alcuni (come la sottoscritta) è il punto cruciale della teoria della relatività di Einstein. Sara Marabiso
3) Accidenti! Così tanti? Diletta Fedele
4) Ma non è affatto vero! Io ho campato di chinotto per tutti e nove i mesi del primo Cantiere! Marco Lipford
5) Noto vocabolo che, scevro del fascino vintage, può tradursi letteralmente con “alla membro di segugio”. Camilla Cossu
6) Ciao. E grazie. Leonardo Battisti