Tutti I Mondi Di Mondo9 8314

a cura di Franco Forte

Tutti i mondi di Mondo9

1.0 giugno 2014 ISBN versione ePub: 9788867753642 © 2014 su ambientazione e personaggio di Dario Tonani Copertina: Franco Brambilla Edizione ebook © 2014 Delos Digital srl Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano Versione: 1.0 giugno 2014 Font Fauna One by Eduardo Tunni, SIL Open Font Licence 1.1

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Indice

Colophon

Tutti i mondi di Mondo9

TUTTI I MONDI DI MONDO9

Introduzione

Folgori su Mondo9

I racconti selezionati per lo speciale Robot

Laila

Luciferro

I figli di Chatarra

Interludio finale

Gommerìa

Wendigo

Il Museo degli Automi

L’alchimista

Narvali

La regola dimenticata

Plaga

Mondo nuovo

Natale su Mondo9

Ciminiere

Dente per dente

Svago

Metallo prezioso

L'orfano

Q29

Ritorno dal Suq

Gli altri racconti di mondo9

Harabalia

L’abisso di Mecharatt

Manchadas

Eureka: Mondo9 esiste!

Il guardiasabbia Markus

L’occasione

Verso Ishra

Il Raccoglitore

Un errore gigante

Cantastorie

Io non volevo

Hotel California (but you can never leave)

Mondo9999

Ricambi originali

Metallica

Codice Robredo

Pelo di bronzo

La felicità

Nel bozzolo

Pasticche

Progenie

Una notte a Chatarra

Le ruote di Syracho

Un dono per lo Ghmor

Despero

Single Steel Whisky

L’invidia del metallo

Ascensione

Maree metalliche

La tuta

Segugi

Tabiade

La cosa nuova

Nómadas rodante

Sotto il ghiaccio

Paura indigesta

Decisione divina

Khir

Faust

La statua

In memoria del padre – Grembo d'acciaio

Oltre le dune

Apoteosi

Brevi memorie di un Avvelenatore

L’inseguimento

Esperanza

La poltiglia

In bilico

Pneumosnodo numero 1

Gli Iniziatori

Vieni da me

Tra la sabbia e il mare

Il Mercante

Ti svelo un segreto

Il Signore del Metallo

Onirica

Beatriz

Fenice di ferro

Demetra la città soterranea

Rompighiaccio Svjator

Guerra fredda

Mechania

Dulcis in fundo…

Tauromachia

MECHARDIONICA

Delos Digital e il DRM

In questa collana

Tutti gli ebook Bus Stop

TUTTI I MONDI DI MONDO9

Introduzione di Franco Forte

Un altro libro. Un’altra antologia. Un altro prodotto della “scuderia” di autori proveniente dal forum della Writers Magazine Italia, la “rivista scritta per chi scrive”. Ma soprattutto un altro esempio di come si possa conciliare una attenta e severa selezione editoriale con la possibilità, per gli autori che partecipano ai nostri contest letterari, di confrontarsi con il pubblico. Tutto parte con l’idea della Writers Magazine Italia di dare modo agli autori esordienti di confrontarsi con i profesisonisti, con chi ha già importanti pubblicazioni alle spalle. In questo caso l’autore scelto è stato Dario Tonani, uno dei più prolifici e conosciuti scrittori nell’ambito della fantascienza e del fantastico, per il quale Delos Books ha pubblicato l’antologia di racconti Mondo9. Abbiamo chiesto agli autori di provare a immergersi nell’universo allucinato creato da Tonani, e dare una propria interpretazione (narrativa) di ciò che Dario propone da tempo ai suoi lettori. Il tutto con la formula ormai molto apprezzata dei contest letterari di Delos: racconti di una sola cartella (massimo 2000 battute), da inserire per metà nel forum, nello spazio relativo al contest su Mondo9, e da spedire per intero alla redazione, che li valuta per la pubblicazione. In questo caso, i racconti preselezionati sono stati poi ati a Dario Tonani, che ha personalmente effettuato le scelte finali, che hanno determinato una rosa di 20 racconti (su quasi un centinaio arrivati) che sono stati pubblicati sulla rivista Robot. Nel frattempo, mentre le valutazioni dei racconti proseguivano, tutti i partecipanti e in generale i lettori della WMI e i frequentatori del forum, hanno avuto la possibilità di commentare le metà dei racconti pubblicate nell’area del contest, dando modo agli autori di farsi un’idea dell’impatto delle loro opere sul pubblico, e di ricevere commenti, pareri critici e tecnici, e di sviluppare discussioni propositive intorno al loro stile e ai loro racconti.

Ma l’esperimento non poteva chiudersi qui, e come sempre abbiamo pensato a un ulteriore banco di prova per gli autori che si sono cimentati nel contest. Quello più difficile e al tempo stesso più vero, più emozionante: aggirare la selezione editoriale effettuata dal nostro staff e provare a proporsi direttamente al pubblico per ricevere il loro “sommo” giudizio. Ecco dunque che nasce questa raccolta, che prevede l’inserimento dei 20 racconti selezionati dalla redazione e da Dario Tonani, ma anche tutti i lavori che hanno partecipato al contest, per dare la possibilità a chi legge di giudicare nella massima autonomia le proprie opere preferite. Naturalmente, gli autori hanno potuto scegliere quali dei loro racconti pubblicare (e se farlo), e la casa editrice ha editato tutti i testi, come avviene in qualsiasi publicazione professionale, ma non è stata applicata nessuna “censura” letteraria, e nessun racconto è stato scartato a priori, perché giudicato impubblicabile. Il che, prima di tutto, dimostra che la qualità dei partecipanti ai nostri contest è sempre molto elevata, e dall’altra che spesso la differenza tra pubblicare e non pubblicare dipende dalle situazioni del momento, dal gusto di chi è preposto a valutare e da tutto un insieme di elementi che è difficile razionalizzare. Ma se è vero che di solito chi viene escluso da una selezione non ha più chance di rimettersi in gioco, con i nostri contest letterari gli autori sanno che non è così. In quest’epoca di Indie, cioè di autori che si autopubblicano dandosi in pasto ai lettori, ottenendo a volte risultati sorprendenti in termini di apprezzamento e di copie vendute, la formula di queste nostre antologie, in cui i selezionati vengono proposti ai lettori insieme a tutti gli altri, per dare la possibilità al pubblico di formulare un nuovo piano di giudizi e di gradimento, senza rinunciare alla mano professionale dell’editore che cura i testi al meglio possibile, credo sia vincente, perché al o con i tempi e onesta fino in fondo. Noi abbiamo fatto le nostre scelte, e ve le riproponiamo. Adesso, cari lettori, voi fate le vostre. E fatecele sapere, se vi va, perché è proprio al parere del pubblico che l’editore dovrebbe dare massima attenzione. Basta venirci a trovare sul forum della WMI, a questo indirizzo: http://www.writersmagazine.it/forum/viewtopic.php?p=281283#281283

Folgori su Mondo9 Introduzione di Dario Tonani

Mondo9 ha dunque un nuovo, e per certi versi inatteso, seguito. Anche se a scriverlo non sono stato io. Quello che mi trovo a introdurre è un pastiche di storie nato dall’incursione veloce di un manipolo agguerrito di autori, che grazie alla Writers Magazine Italia e alla rivista Robot si sono misurati in un contest al quale hanno partecipato lo scorso anno un centinaio di scrittori. Ma andiamo con ordine. Che Mondo9 non dovesse esaurirsi in 170 pagine era abbastanza scontato, io stesso – in modo più o meno esplicito – l’ho sempre considerato alla stregua di un cantiere aperto, di un progetto in evoluzione costante. Forse pochi sanno che i lavori di scavo iniziarono 12 anni fa, nell’ormai lontano 2002, con la stesura della prima delle quattro novelette che compongono la mini–saga, Cardanica. Il racconto rimase al palo sei anni, senza che io abbia bussato alla porta di un solo editore per piazzarlo; mi sono chiesto spesso il perché di quel lungo stand–by e l’unica risposta che sono riuscito a darmi è che talvolta sono le storie stesse a essere un po’ pigre e a non sapere bene che strada imboccare. Sta di fatto che soltanto nel 2008, su Robot 54, trovò una sua collocazione. Vi risparmio l’evolversi dei i successivi, sappiate soltanto che da allora Mondo9 è entrato in una strana orbita, trasversale alla carta e al digitale. E, ora posso dirlo, trasversale anche al suo autore. Per arrivare all’oggi, confesso che l’iniziativa della Writers Magazine Italia e di Robot mi ha decisamente spiazzato. Ed esaltato. Non so quanti autori, almeno in Italia, si siano ritrovati nella straniante situazione di dover dare in prestito ad altri un appezzamento (anche solo di 2.000 battute) del proprio universo creativo. Aiutatemi a ricordare, perché a me non ne viene in mente nessuno. Quello che ne ho ricevuto in cambio è stato davvero impagabile, un po’ come veder colonizzare una fettina della mia fantasia. Con risultati che non esito a definire assolutamente sorprendenti.

Tutte le storie che avete tra le mani (non solo quindi i 20 spin–off selezionati per Robot lo scorso anno) sono folgori che illuminano ciascuna pochi attimi di vita su Mondo9, sono squarci di luce in un universo che d’ora in poi sentirò “diversamente mio”. Complici forse anche le splendide tavole di Franco Brambilla, a cui va il merito di avere probabilmente ispirato gli autori, queste brevi storie rivisitano quasi tutte le idee di Mondo9: il deserto, le navi a ruote, il Morbo, gli pneumosnodi, le uova, i mangiaruggine… E lo fanno con la ricchezza di una visione composta (e corale), come quella dell’occhio di un insetto. Ognuna vi porterà in volo su nuovi dettagli, che magari nel libro che le ha ispirate sono rimasti in ombra per le ragioni più diverse. Confesso che la tentazione di cimentarmi anch’io con la misura richiesta delle 2.000 battute (una cartella standard) era troppo forte perché potessi semplicemente voltare la faccia dall’altra parte. Per cui eccomi qui, con il racconto Tauromachia, che trovate in fondo al volume, immerso come tutti nel turbinio di sabbia alzato dagli stivali dei nuovi colonizzatori. Mecharatt, la gigantesca città–porto di Mondo9, era stata solo evocata nel romanzo (l’ho descritta poi molto più nel dettaglio in Bastian, quarta delle nuove storie); qui ce n’è un chiassoso assaggio. Un’arena, pubblico assetato di adrenalina, due creature che si sfidano in una tenzone all’ultimo sangue: in un angolo, un giovane e ruspante pneumosnodo, nell’altro, un taurofante. Urla d’incitamento, sbuffi di vapore rovente, fetore di pelo bruciato. Lamiera straziata. L’eterno conflitto globale tra carne e metallo, ridotto a scala teatrale, ludica. Un’ultima parola: desidero ringraziare pubblicamente Franco Forte e Silvio Sosio, che di questa piccola colonizzazione sono stati gli artefici e gli ispiratori. E tutti gli autori partecipanti; d’ora in poi su Mondo9 mi sentirò meno solo… What else? Che i mangiaruggine siano con voi!

I racconti selezionati per lo speciale Robot

Laila di Erika Adale

La Robredo si arrestò a pochi di chilometri dal paese, circondata da una nube di uccelli urlanti. Forse un guasto, forse la guardinga attesa di una nave nemica. Laila scrutò la figura che si stagliava sull’orizzonte. Era un’occasione unica, non se la sarebbe lasciata sfuggire. Legò al petto il fagotto di cenci umidi e si mise in cammino. La sabbia rovente penetrava nelle spaccature degli stivali e le artigliava i piedi, la luce squarciava le pupille. Raggiunse la Robredo stremata dal caldo feroce, stordita dalle grida delle aliquadre. Un uomo si affacciò dal ponte. Vestiva una vecchia divisa lercia, la barba grigia nascondeva a malapena le guance striate di metallo. – Che cosa vuoi? Laila sollevò la blusa e mostrò una coscia rosea. Una scala di corda si srotolò lungo il fianco della nave e la donna si arrampicò fino al ponte, attenta al fardello che custodiva. La nave portava le ferite di una recente battaglia, lamiere ritorte, camini spezzati, ombre oscure d’incendi domati a fatica. – Quanto vuoi? – chiese l’uomo sfregandosi la patta dei calzoni. – Un posto fra gli Interni. Laila aprì l’involto di lenzuola e scoprì un bimbo rannicchiato. Una guancia pallida era l’unico brandello di carne rimasto al piccolo corpo dilaniato dal

Morbo. Sembrava un idolo di metallo, solo gli occhi si muovevano alla ricerca disperata del volto della madre. L’uomo annuì e indicò uno squarcio che si spalancava sulle viscere meccaniche della nave. – Puoi buttarlo là, dopo. Dalla voragine esplodevano sbuffi di vapore e scintille. Un cigolio bramoso emerse dalle profondità della Robredo. – Ora pensiamo a noi – mormorò rauco l’uomo e fece scivolare la mano unta d’olio nei pantaloni di Laila. Lei rabbrividì, strinse il bimbo al petto e, premendo le labbra sulla piccola fronte lucida, si divincolò da quelle mani luride e saltò nel buio fumante. Fra le dita dell’uomo della Robredo restò solo un brandello di tessuto.

Luciferro di Valeria Barbera aka Recenso

Le aliquadre spruzzavano guano nei boccaporti, fiotti candidi come sperma. La nave stridette e sbuffò un orgasmo di vapore. – Sicuro che funzionerà? – affannò Carlos. Joss inspirò l'aria rovente: ruggine e olio marcio. – Fidati di me – replicò atono. L'alba gocciolava sulle nubi affilate. Scaglie di sole sfregiavano il cielo ferrigno, ma a Joss interessava solo lei. La Robredo era un ammasso di carne metallica acquattata nel veleno sabbioso. La cercava da tempo, dal naufragio sulle dune di Kanar. Mesi rinchiuso in uno pneumosnodo che aveva fagocitato gli altri sopravvissuti e la sua sanità mentale. Poi Tequan, dov'era stato liberato dagli Avvelenatori. Il loro dono. E di nuovo a Kanar, seguendo i sussurri degli Ghmor. Infilò la bisaccia a tracolla e s'inerpicò sulle lamiere, aggirando i portelli.

Se l'osmosi univa i morti al metallo, l'osmosi inversa li avrebbe restituiti alla vita. Addormentare la nave e agire. Era questo il piano concordato. Folle, come quel mondo che corrodeva l'anima. Come il mio amore per Zelda. Pur di riaverla, ero disposto a tutto. Anche a ingannare un amico.

L'addome di Carlos si sgonfiò come una vescica, rigurgitando le viscere sul ponte. Joss stringeva ancora il coltello, mentre l'uomo rantolava l'ultimo respiro. Vomitò. Pianse. Poi si accucciò vicino al cadavere. E attese.

Una vita in cambio di un'altra vita. La nave me lo aveva scritto sul diario col fuoco, al naufragio, prima che mi trascinassero nello pneumosnodo. L'avevo accontentata. Eppure Zelda non ricompariva. Battiti dal metallo: il codice dei marinai. Zelda? “Non so chi sia” rispose l'Interno. “Qui ci sono solo io”. Gridai, mi offrii alla nave: gracchiò che mi avrebbe avuto comunque. La Robredo mi ha usato ma ora rimedierò. Sarò il suo demone. La farò urlare. La tormenterò finché non ti risputerà, Carlos. Dopo, cercherò Zelda all'inferno. Perdonami, amico mio.

Joss inserì l'ago nella vena: la siringa–dono della Gilda si svuotò. Aprì le braccia e si lanciò nella stiva. Come un'esca avvelenata.

I figli di Chatarra di Scilla Bonfiglioli

Chatarra, avvolta in un sudario di nebbia, si preparava a diventare culla. Oscillava sul mare con un ritmo mai usato prima. Non respirava più col raschiare metallico dei moribondi, ma come chi muore per donare la vita. Un gabbiano batté le ali nella foschia. Planò nel nido di relitti e infilò la testa sotto l’ala. Poco dopo si squarciò a metà, senza un lamento. Aprì solo il becco alle nubi, poi morì in un fiore di sangue e di piume. Al suo centro rifulgeva un uovo di ottone puro. Assorbì carne e sangue della madre, lasciando che il vento spazzasse via le penne. Poi rimase a rilucere. Sul mare livido, Chatarra teneva la vita e la morte nel palmo della mano. E si preparava a stringere.

Chatarra aveva offerto i fianchi al mare e dal mare aveva ricevuto tutto. Aveva abbracciato gli annegati, risparmiati dal morbo; accolto gli uccelli caduti dal cielo. Aveva assorbito da loro quello che avevano da offrire, carne e sangue, e relitto dopo relitto l’aveva trasmesso alla lamiera di un guscio vivo. L’uovo era cresciuto quanto un gabbiano, poi come un’alaquadra e di più ancora, bevendo dal cielo tutta la luce febbricitante che poteva. Anche questo per Chatarra era una cosa nuova, perché la morte è più spesso indifferente alla luce. Poi l’uovo si schiuse.

Il figlio si fece largo oltre il guscio e mandò un grido. Sentendosi urlare si ritrasse, cercò di tornare dentro, ma non fu possibile. Pianse olio e sangue. Assetato, li raccolse sulla lingua. Strisciò sulla lamiera i tubi snodati degli arti anteriori e su quelli inferiori si allungò verso l’alto. Dispiegò le ali piumate al cielo e gridò ancora, questa volta per affermare se stesso. Chatarra gli rispose, in un’eco che vibrò sul mare. Poco lontano, un’alaquadra depose un uovo squarciandosi a metà, in un fiore di sangue e piume. Il figlio di Chatarra aspettò che il guscio sorbisse sangue e carne – e ne lappò un po’– poi se lo ninnò al petto. Quando si sarebbe schiuso, i figli di Chatarra avrebbero cercato cibo oltre il mare, affamati.

Interludio finale di Simonetta Brambilla

Metro dopo metro l’Afritania avanzava in una danza tremula e discontinua. Giunti, pulegge, cardani, ingranaggi, pistoni… il fracasso era un conforto. E Mecharatt compariva all’orizzonte. Così vicina eppure irraggiungibile, dietro una distesa di cardi famelici. Enormi lame mietitrici montate sotto la chiglia falciavano i mangiaruggine più piccoli nella sabbia. Dal ponte, le chele dentate tranciavano gli steli di quelli più grossi. Ma era rimasta un’unica Creatura: laggiù nel buio assoluto, Garrasco era solo, ormai assuefatto all’odore di putridume e morte. E le ossa scricchiolavano, i tendini erano tesi all’estremo. Sangue e carne macinata destinati ad alleviare gli attriti. Non sarebbe bastato. Con un clangore, lo sportello di poppa si spalancò e una lingua di gomma si dispiegò fino a terra. Una per una, uova grandi e piccole rotolarono nel deserto, lasciando una serie di righe nella sabbia velenosa. Lucide, perfette, senza un filo di ruggine. Nessun cardo vi faceva caso. Stridori e cigolii anticiparono la schiusa. Creatura era con loro. Lastre traforate, meccanismi, ruote dentellate e calotte d’ottone oliate di fresco, si assemblarono in perfetta simbiosi fino a formare un unico elemento. Sei tralicci fuoriuscirono da altrettanti fori laterali e s’impiantarono nella rena, sollevando il piccolo cargo. Le murate si sganciarono e si aprirono a ventaglio, poi si mossero piano finché la vibrazione non divenne costante.

L’immensa carcassa dell’Afritania gemeva in un frastuono assordante, scomparendo un pezzo alla volta tra le fauci dei giganteschi mangiaruggine. Lo scarabeo di metallo si drizzò in un ultimo saluto, poi zampettò veloce lungo la duna glabra alle sue spalle e si librò nel cielo, verso il cerchio di fuoco. Sul suo ventre, colpi ben assestati pronunciarono una scritta in rilievo: OCSARRAG.

Gommerìa di Marco Faré

Si sta facendo notte, pensò Luìz. A otto anni non temeva il buio, ma si era spinto troppo lontano tra dune e colline rocciose. La sabbia appariva sempre più scura. Sabbia velenosa, che Luìz doveva abbandonare se voleva continuare a vivere. Era uscito a cercare qualche animale da mangiare, ma non aveva preso nemmeno un topo delle rocce. Lora, Musjin, Carlota e gli altri della Colonia sarebbero rimasti senza cena. E Luìz avrebbe dovuto dormire fuori. Raggiunse la sua meta: il muro di cinta di Gommerìa, l’immensa area dove venivano prodotti i copertoni delle navi. Cercò un canale di scolo dove are la notte. In realtà, sperava di intrufolarsi all’interno per scoprire qualche meraviglia da raccontare, come quelle che si sentivano su Xtrax’X, le sue macchine, i suoi lubrificanti, e gli pneumosnodi. Sbucò in uno spazio immenso, forse un magazzino. L’odore di gomma penetrò le sue narici. Il chiarore che ancora filtrava dai lucernari mostrava le particelle polverose in sospensione nell’aria. Il magazzino era pieno di pneumatici; Luìz non ne aveva mai visti da così vicino. Erano alti tre o quattro volte un uomo, disposti in piedi uno accanto all’altro. Così silenziosi e immobili, parevano addormentati. Cercò un nascondiglio per riposare.

Midric osservò i copertoni sparsi per tutto il magazzino nel peggior caos che avesse mai visto. I suoi uomini perlustravano ogni anfratto tra le gomme, arrampicandosi e infilandosi. Sembravano vermi. Ancora qualche minuto, pensò. Poi li avrebbe fatti rientrare: era rischioso stare tra gli pneumatici. O infastidirli. O svegliarli. Sono fatti per rotolare, non amano stare fermi.

Respirava in fretta. Era inutile cercare ancora. Tra poco rientriamo. Li attendeva un lungo lavoro per rimetterli in piedi tutti. Era ora di dare il segnale. Portò il fischietto alla bocca con la mano sinistra. Con la destra stringeva una maglia di taglia piccola, forse di un ragazzino o di un bambino. Era sporca, strappata e insanguinata.

Wendigo di Antonino Fazio

A volte sogno di vagare come uno spettro nelle viscere metalliche della nave. Suoni privi di fonte echeggiano tra paratie invisibili, nell'oscurità densa di ruggine e guano polverizzato. Trascino i calcagni d'ottone sulle superfici corrose, inciampo sui bordi delle giunzioni tra le lamiere. A intervalli irregolari avverto una presenza sulla tolda. Per lo più si tratta di uccelli stanchi a caccia di cibo. Si posano su un traliccio contorto, pescano col becco dentro una sacca d'acqua piovana in cerca di vermi e larve d'insetto. Quando provano a ripartire scoprono di non poterlo fare. Le ali già si appesantiscono o la voce crudele della nave li chiama verso uno dei pozzi d'ingresso per cibarsene. Talvolta, nel tentativo di sfuggire al terrore, precipitano oltre il bordo esterno, seppellendosi ancora vivi nelle sabbie velenose. Ogni mille anni soggettivi la presenza è umana. Me ne accorgo dalle vibrazioni eccitate che la nave trasmette attraverso il metallo. Ciò che di me è rimasto vivo entra in fibrillazione. Comincio a battere su qualche tubo a portata di mano per far sapere a chiunque ci sia lassù che sono qui, inglobato nel ventre materno dell'Afritania. Quando l'umano risponde comincio a parlare, uso i cilindri vocali per dirgli che sono Garrasco e mi serve il suo aiuto. Se mi tira fuori gli rivelerò il segreto della vita, un'informazione che potrebbe fare di me e di lui i padroni di Mondo9, se solo riuscissi a venir fuori da questa sentina. Di solito mi credono perché la mia voce è sincera, il mio animo puro. Solo, dico, dobbiamo fare attenzione perché la nave non vorrà lasciarci andare. Così, lui mi chiede che deve fare e io dico che deve affacciarsi al boccaporto più piccolo e guardare giù, verso il fondo che s'inabissa. E poi la nave dannata lo tira sotto, e io urlo di disperazione e di rabbia, rabbia feroce contro la schifosa Afritania. Urlo talmente che di colpo mi sveglio

urlando davvero. Smetto solo quando mi ricordo che io non sono più Garrasco. Io sono la nave.

Il Museo degli Automi di Simonetta Fornasiero

Din din, din din, din din. L'automa si azionò. Gracchiò sulla ruggine. Rumore di ingranaggi. Cigolò il suo girotondo: un inchino, di lato, poi in avanti. Din din, din din, din din. La porta si schiuse, digrignando un soffio fetido. Un velo di sole sfavillò sui boccali polverosi: iridi umane vi nuotavano come pesci. Sottili cannule stillavano sangue sugli scaffali, dove cinghie e pulegge animavano serpenti d'acciaio. China sul tavolo, le dita insanguinate, Marta avvitava placche lucenti che rispondevano frustando l'aria. Esitò appena, all'accensione del congegno. – Prego – mormorò. – Avanti. etti incerti risuonarono sul pavimento d'ottone. – Come ti chiami? – domandò Marta, senza alzare lo sguardo. – J… Jonas – balbettò la vocetta temeraria. L'automa compì un giro fluido. Danzò fino al centro della sala. Il carillon si avviò, lanciando la sua filastrocca: – Io narro, io canto in diverse favelle, tu, bambino, ascolta le mie novelle. – Che carino! L'hai fatto tu? Marta annuì. – Puoi avvicinarti, se vuoi. Come sei arrivato fin qui? Jonas avanzò. Il cono di luce gli illuminò gli occhi sbarrati. Non doveva avere più di otto anni, pensò Marta. – Stavo cercando pezzi di ricambio con mio padre. C'è stato uno scontro tra due navi qui e… – s'interruppe, attratto dal menestrello meccanico. – Come funziona? – Ti piacciono le storie?

Ubbidendo a un tacito comando l'automa si mosse ancora. Intonò un nuovo ritornello: – Avvicinati a me, piccolo curioso. Il tuo profumo è dolce, delizioso. La risata di Jonas echeggiò tra i muri di bronzo. Il meccanismo scattò. Perfetta sincronia. I cardini scricchiolarono, aprendo la botola. Un urlo, poi un tonfo. Un fiotto di sangue tiepido gorgogliò nei tubi sul bancone e inondò le mani di Marta. Due piccoli globi si tuffarono in un boccale. Lei si alzò, li esaminò con cura per un istante; poi sorrise, annuì soddisfatta e tornò al lavoro interrotto.

L’alchimista di Massimiliano Giri

Alvaro Sainz, praticante dell’alchimista Ansierro Montal, entrò nell’oscurità della bottega. Ansierro non lo degnò di uno sguardo, continuò ad armeggiare con l’uovo di metallo aperto sul tavolo del laboratorio. L’alchimista prese da un contenitore l’embrione morto di un uccello e lo alloggiò all’interno dell’uovo, poi distillò dal beccuccio rugginoso di una macchina a vapore un liquido nero e nauseabondo. Il fluido sgorgò fumante in una fiaschetta di vetro. Ansierro lo versò sull’embrione. ‒ Cosa sta facendo, maestro? ‒ domandò Alvaro mentre l’alchimista chiudeva l’uovo meccanico. ‒ Creo la vita. Sorpreso? ‒ Com’è possibile, maestro? ‒ Con l’alchimia, ragazzo. Ho creato un morbo che porterà in vita il metallo. ‒ Ma a quale scopo? ‒ Per sentirmi come Dio, Alvaro. Il volto di Ansierro trasfigurò in un’espressione scellerata mentre azionava la leva d’accensione dell’uovo. Un groviglio di piccoli ingranaggi e pulegge cominciò a risuonare all’interno, spremendo olio da ogni bullone. ‒ Vedi? È già vivo! Si muove senza alcuna energia a vapore. Alvaro guardò quel piccolo miracolo di meccanica prendere vita proprio sotto i suoi occhi. Poi osservò le mani di Ansierro.

‒ Maestro, alcune delle sue dita sono di metallo! ‒ Non è niente, figliolo. È un effetto collaterale del morbo della vita. Lo sconfiggerò con l’alchimia, a suo tempo. Per ora è sotto controllo. ‒ Ne è sicuro? ‒ L’alchimista non rispose. Prese invece un panno con il quale ripulì la patina oleosa che fuoriusciva dalle sottili giunture dell’uovo, poi consegnò quella meraviglia ad Alvaro. ‒ Coraggio, ragazzo. Ora prendilo e corri al porto. Trova il modo di salire sulla nave e lascialo lì, l’uovo saprà cosa fare. Magari regalalo a qualche macchinista. Digli che è prezioso e che non puoi tenerlo. Vedrai, quei poveracci dell’equipaggio faranno a pugni per contenderselo. ‒ Come si chiama la nave, maestro? ‒ Robredo, figliolo.

Narvali di Giorgia Rebecca Gironi

Sotto il ghiaccio ò un'ombra lunga. Nessuno la scorse: turbini di neve confondevano la vista, riducendo gli occhi dell’equipaggio a fessure doloranti. L'orizzonte si perdeva nel grigio, l'aria gelida graffiava la pelle e anestetizzava i sensi. Quando la cosa emerse, però, nessuno poté non notarla. Era enorme; eruttò dal basso con un lungo scroscio e poi si ribaltò su uno dei lastroni più spessi, che avevano resistito all'impatto. La nave sterzò. Gli uomini si raccolsero a prua, stringendosi gli uni agli altri come formiche. Centinaia di occhi cisposi fissarono la cosa. Doveva aver sbagliato mira, la cosa – lo capirono tutti – infatti era emersa a due chilometri da loro. Probabilmente un sensore era andato e si muoveva alla cieca. Era un relitto sopravvissuto, una struttura grande una volta e mezza quella su cui erano imbarcati. Grigia e compatta, aveva sulla testa un lungo aculeo rompighiaccio, di quelli che montavano una volta. Metallo pieno. Se avesse centrato la nave, l'avrebbe smembrata con un colpo. E l’equipaggio… Gli uomini trattennero il respiro, indecisi sul da farsi. La paura cominciava a farli puzzare e più puzzavano più la cosa li sentiva. La fame faceva stridere i suoi ingranaggi asciutti. Lo udirono tutti, rabbrividendo. Se avesse potuto, lei li avrebbe divorati. Assimilati tutti, lubrificante prezioso. D'un tratto, una voce strillò. – Veloci! Virare a babordo!

Qualcuno rispose al comando. Dovevano allontanarsi fintanto che la cosa era arenata sul ghiaccio. Cosa stavano aspettando? Ma le ruote si rifiutarono di impostare la nuova rotta. Voltarono verso la cosa, dando fiato ai motori. Quasi a voler rispondere all’affronto, con un rumore stridente il relitto si mise in moto. Consumò centimetri sotto di sé, spruzzando gelo tutt'attorno, poi ricadde in acqua. L'equipaggio si immobilizzò, in ascolto. Nessun rumore, soltanto il sibilo di quel vento che tagliava. Questa volta, però, la videro. L'ombra. are sotto il ghiaccio, qualche secondo prima dell'impatto.

La regola dimenticata di Liudmila Gospodinoff

Il lamento risaliva le lamiere e straziava la mente. L’acciaio collassava in un miasma di prugne marce. Arlo schivò uno sbuffo di fumo nero e rise, come se fosse tutto uno scherzo. – Ci ha messo poco a morire – lo provocai. – Mi aspettavo di meglio da te, Distruttore. – Cosa vuoi dire? – Era già in fin di vita. Le vecchie carcasse le so uccidere da sola. – Ti mostrerò qualcos’altro, se proprio ci tieni. – Mi strizzò l’occhio, allusivo. Aveva tolto lenti e mascherina: lui delle regole se ne fregava. Arlo il Distruttore, una doppia leggenda tra gli Avvelenatori: il flagello di Chatarra e il donnaiolo più spietato della Gilda. Attraversò il ponte e scomparve dietro una ciminiera. Gli corsi dietro, trascinando la sacca. Regola n.1: restare vicini. Un traliccio si spezzò, rotolandoci addosso, e Arlo mi trascinò in un boccaporto. Il metallo andò a colpire un mucchio di rottami. Un rimbombo di tuono si propagò per lo scafo. Viti, bulloni, ingranaggi sparsi rotolavano sul ponte, mentre lui mi trascinava giù per una scaletta. Regola n.2: mai scendere nelle stive. – Sei pazzo! – protestai. – Lasciami preparare un’esca! – Ti ho appena salvato la vita – replicò. La sua bocca era dura, sulla mia, le mani cercavano i lacci della tunica. Sbirciai oltre la sua spalla. Un macchinario lanciava getti di scintille, una puleggia

girava. Ovunque fossimo, quella cosa era viva e cercava di avviarsi. Arlo non mi aveva portata lì per caso. Regola n.7: mai farsi prendere dal panico. Lo baciai con ione, mentre estraevo il pugnale, e lo colpii tra le scapole, poi all’addome. Arretrò, fissando esterrefatto il sangue che usciva a fiotti. – Credevi che nessuno avesse notato che i tuoi compagni non tornavano mai? – lo accusai. – E che dopo le tue incursioni le navi riprendevano il mare? Cadde in ginocchio, accarezzando i macchinari. – Loro… vogliono vivere – disse. – Lo so. – Conoscevo le regole, anche quella dimenticata dalla stessa Gilda. Vigila su te stesso: dell’acciaio ci si può innamorare.

Plaga di Daniele Imperi

Con un gesto cauto Gil spostò il rottame. Nulla. Eppure credeva che l'alaquadra avesse nascosto lì il suo uovo. Si alzò rassegnato e avanzò fra i rifiuti. Nella bisaccia i nigua si muovevano frenetici, cercando una via di fuga che non c'era. Proprio come me, pensò il ragazzo. In un mese di reclusione su Plaga, l'isola– discarica di Mondo9, aveva mangiato solo insetti. Di nigua quel posto abbondava e dopo un po' a quel sapore aggressivo si faceva l'abitudine. Gil ignorava la pena inflitta per il suo reato: nessuno la conosceva quando veniva gettato su Plaga come uno scarto della società. Restava in attesa del suo destino, prigionia a vita o morte tremenda. Era là che vivevano gli striscianti, Gil lo sapeva. Fibre ottiche organiche nate su quella landa di residui che serpeggiavano sottoterra in cerca di prede. Luminescenti come fili di energia, i tecnorettili guizzavano nel substrato metallico come un'onda sismica che faceva ribollire il suolo. Un solo morso e ti prosciugavano, lasciandosi dietro carcasse rinsecchite. Il ragazzo tornò al rifugio. La cabina arrugginita della ferronave non era comoda, ma almeno l'avrebbe riparato dalle piogge. Sedette, aprì la bisaccia quel tanto per infilarci una mano e afferrò un nigua con due dita. L'insetto si dibatté, le zampe che fremevano nel vuoto. Gil se lo ficcò in bocca e cominciò a masticare sovrappensiero. Un mese e nessun modo per lasciare l'isola, né per costruire una barca con la spazzatura che aveva attorno. E a nuoto era impensabile. Qualcuno aveva tentato, Gil ricordò gli scheletri sulla battigia iridescente e piena di schiuma solforosa. Rabbrividì. No, a nuoto non poteva fuggire. Da lontano un movimento attirò la sua attenzione. Un ingranaggio, che oscillò e cadde nel pattume. Gil scrutò davanti a sé. Come un lampo, una luce bluastra apparve e sparì. Poi una vibrazione, lontana ma distinta. Gil sbiancò. Il cuore perse un battito. Sotto di lui il terreno di scorie cominciò a tremare.

Mondo nuovo di Luisa Lajosa

Allora ero solo un bambino e promisi vendetta alla puttana di metallo, che si era presa tutto ciò che amavo; prima toccò a mia madre che in breve tempo si ridusse a una statua lucente, poi mio padre, uno dei più illustri avvelenatori della Gilda, un giorno partì per incidere la parola “fine” sulla Robredo e non fece più ritorno. Rimasi orfano nel giro di tre lune. I Ghitanes, nomadi del deserto, mi presero con loro, inutilmente vagammo per anni in cerca di un luogo libero da macchine carnefici. Divenni adulto e discreto avvelenatore, analizzai piante, ratti, insetti e non ultimi gli uccelli. I maledetti volatili coesione di metallo e piume, furono per me un’ottima materia di studio, ma non era facile catturare vivi quei bastardi. Estraevo il loro sangue infetto con l’aiuto di una macchina “amica”, un congegno fatto di tubicini, ingranaggi e pulegge. Gli alambicchi ribollivano giorno e notte, sbuffando un fetido vapore e stillando gocce di morbo originale. Sapientemente miscelavo il prezioso concentrato ottenuto con la linfa estratta dal cardo mangiaruggine. Gli uccelli che avevo liberato dopo la dialisi, avrebbero fatto il loro dovere deponendo uova infette. Oggi il vento soffia forte e alza la sabbia fina e velenosa che mi trafigge il volto. Ormai sono vicino alla fine. Il morbo mi ha risparmiato fino a qualche mese fa, come se volesse vedere di cosa sono capace. Finalmente sono di fronte alla bestia, si è accartocciata miseramente su se stessa, ridotta a un cumulo di lamiere puzzolenti e morchia secca, si lamenta e urla emettendo cigolii assordanti. Le uova schiuse hanno prodotto pezzi di ricambio corrotti, e questa volta l’ammorbata è lei! Condividiamo la stessa fine l’una di fronte all’altro, la mia temperatura è altissima per via del metallo esposto al sole, il poco sangue che mi è rimasto frigge corrodendomi dall’interno. Con l’occhio ancora buono la osservo morire, rido e godo soddisfatto attendendo che tocchi a me.

Natale su Mondo9 di Diego Lama

Il suo cuore batte forte, ma sta morendo. Morirà a Natale, al caldo, dentro la stretta grotta in cui si è nascosto. L'uomo osserva il deserto di sabbia tossica che lo circonda. Nella valle abbagliata dal sole, di fronte all'ingresso del rifugio, c'è uno pneumosnodo. Anche lui sta morendo: descrive un piccolo arco di cerchio, poi si ferma, emette una lunga scoreggia metallica, si avvicina, si allontana, si ferma di nuovo. È secco. Non ha più lubrificante per i suoi ingranaggi e la ruggine lo sta corrodendo. L'uomo si domanda chi morirà prima, se lui o la macchina. Se uscisse allo scoperto lo pneumosnodo potrebbe utilizzare il suo sangue, la sua carne, ingrassare le sue costose cinghie dentate e salvarsi. Invece l'uomo resterà nella grotta e il suo sangue, la sua carne, si prosciugheranno inutilmente. Uno spreco imperdonabile. Lo pneumosnodo emette un lungo ruggito di metallo, come se volesse invitare la carne a uscire, e a donarsi. Ma la carne resta nell'ombra del rifugio in ascolto del suo cuore che batte sempre più forte. È Natale. Non riceverà alcun regalo. Babbo Natale non esiste, su Mondo9. O forse no. Esiste. L'uomo sente un rombo lontano. Eccolo. È un altro pneumosnodo. Si avvicina lungo la valle abbagliata. L'uomo lo vede avanzare tra i vapori velenosi. Qualcuno è venuto a salvarlo. L'uomo urla. Sporge la mano oltre lo stretto ingresso della grotta. Lo pneumosnodo si dirige verso di loro. Anche l'altra macchina si gira e si muove lasciando una striscia di ruggine sulla sabbia. No, non è venuto a salvare l'uomo. L’uomo non esiste. Babbo Natale non esiste, su Mondo9, non per gli uomini. Lo pneumosnodo si accosta al suo compagno morente. Si solleva e lo monta. L'uomo sente il rumore del metallo e degli ingranaggi che battono, che pompano olio. Sembrano due dinosauri che fanno l'amore. Il suono del suo cuore accompagna il ritmo del loro accoppiamento, sempre più forte, sempre più forte.

Ciminiere di Fabio Lastrucci

Spingevo la piccola nave sulla spianata, stando ben attento a tenerla lontana dalla sabbia tossica che il vento soffiava sul cortile della fabbrica. Enormi e sporchi, i casermoni riempivano il cielo di fumate nere. Dai loro immensi spurghi si alzavano le vampe provenienti dagli altiforni. Non era un posto adatto a me, eppure amavo stare lì, a giocare con i miei modellini di legno e scarti aspettando che mio padre e i suoi compagni finissero il turno. Al calar della luce, quando tornavano a volteggiare le aliquadre, i rumori infernali e il rimbombo continuo diminuivano. Allora vedevo uscire quegli uomini stravolti, gli occhi arrossati, le guance segnate da nuove ustioni. Spesso qualcuno veniva portato a braccio dagli altri, una mano sanguinante, un piede fasciato da garze sudice d’olio. Era normale. Di quel mondo inaccessibile e misterioso conoscevo poco o nulla. Delle sue meraviglie nascoste mio padre non mi parlò mai. Meglio non sapere, diceva rabbrividendo. Stanne lontano. Io immaginavo altissime sale invase dalle fiamme, dorsi di vetture superbe che prendevano forma sotto i colpi dei magli e gli operai erano i miei eroi, signori del fuoco e della meccanica. Niente di più ingenuo.

– Bray, vieni qui – gracchiò il caposquadra Reverte, la sera che chiusi i conti con l’infanzia per sempre.

La sua faccia cotta dal calore appariva grigia. Più stanca del solito. Io avevo fame. Mi alzai dal mio angolo, guardando in giro per cercare tra la gente che usciva. L’uomo portava un involto con sé. Voleva dire qualcosa, ma pareva esitasse. Mio padre non arrivava ancora. Quel malloppo bruciacchiato mi finì tra le mani senza una parola. Brandelli di tuta. Vidi le spalle del caposquadra allontanarsi. Una piastra di riconoscimento scivolò per terra. La lasciai nella sabbia stringendo le dita sul mio giocattolo. Un’ultima fiammata arrossava il buio. Sembrava un fiotto di sangue. Meglio non sapere. Dalle fabbriche, i lamenti del ferro si sentivano a malapena.

Dente per dente di Marco Philip Massai

Avevo un compito facile, ma ormai è diventato un inferno. Mi fissa, mi fissa sempre, e io non lo sopporto più. Mi chiamo Esteban Mendoza, e sono un macchinista di primo livello sulla Bestia. Il mio unico incarico è alla troncatrice: serve un nuovo filettato? Taglio il pezzo. Una conduttura comincia a perdere e va sostituita? Taglio il pezzo. Un lavoro facile, finché non si è aperto. Da allora mi segue tutto il giorno. Infilo il materiale, e mi fissa. Serro la morsa, e la palpebra si stringe. Raccolgo una pennellata di lubrificante dal barattolo, e mentre ingrasso il nastro la pupilla si muove a destra e a sinistra, seguendo la mia mano. Dapprima era solo una fessura nel corpo principale della macchina: una sottile, innocua fessura orizzontale, che con l'andare dei giorni si è divaricata sempre di più, producendo ciglia, rivelando un iride azzurro come il cielo della mesa, piangendo sangue e guano, mentre mi fissa. È la Bestia che mi controlla, e studia il suo prossimo pasto: al primo o falso potrei finirci io, nel barattolo del lubrificante. Non lo sopporto più.

Stamattina devo tagliare cinquanta pezzi da ottantasei; diventeranno dadi per una ruota. Mi avvicino alla troncatrice, e l'occhio mi fissa. Oggi rimarrò qui per molto tempo, e lui lo sa. Infilo il materiale sul nastro, e mi fissa. Cosa vuoi da me? Serro la morsa, e la palpebra si stringe. Eccolo, che assottiglia le palpebre. Brama, desidera, invidia. Avvio il nastro, e taglio il pezzo. Sì, sta guardando dritto il mio volto. Il ferro cade fragorosamente vicino ai miei piedi. Dio mio, ora capisco.

Avvicino il viso a quel globo marcio e orripilante, e il fetore di guano e carne putrida mi stordisce. Ancora mi fissa. So cosa vuoi, bastardo. Una seconda fessura si apre accanto all'occhio. Ora sono due, le orbite che mi scrutano. E una è vuota. La Bestia ride, e io so cosa devo fare, se voglio sopravvivere. Nessuna lacrima, nessuna scenata: tiro fuori dalla tasca coltello e tronchesi, e taglio il pezzo.

Svago di Fernando Nappo

I tre giovani Ghmor si fermarono sulla cima di una duna, in vista della tana del mangiaruggine. – Sicuro di volerlo fare? – chiese il capobanda al più piccolo. – Sicurissimo – rispose questi. I tre si scambiarono un sorriso, si calarono il cappuccio in testa e, aiutandosi l’un l’altro, controllarono che i legacci delle tute antisabbia fossero ben serrati. Presero il grosso pezzo di lamiera arrugginita e scesero lungo il fianco della duna. Si fermarono a pochi metri dalla tana del cardo, piantarono il ferro nella sabbia e vi si accucciarono accanto. Pochi attimi e il deserto di fronte a loro si squarciò: in una nuvola di sabbia il mangiaruggine spuntò dal suo nascondiglio, ergendosi maestoso. I tre si misero a urlare come ossessi, in un misto di paura ed eccitazione. L’enorme corolla si tuffò sul metallo, inghiottendo con esso una grande quantità di sabbia e i tre piccoli nomadi. Si rialzò, imperioso, rimestò a lungo il saporito boccone, sballottandolo tre le gigantesche fauci, poi sputò il pezzo di lamiera. Poco dopo, con un secco starnuto, lanciò verso l’alto tre proiettili urlanti che solcarono il cielo in una stretta parabola e atterrarono poco lontano, tra sbuffi di sabbia. Il primo a rialzarsi fu il piccolo. – È stato bellissimo, non mi sono mai divertito tanto! – Saltava intorno ai compagni, eccitatissimo. – Lo possiamo rifare? Il capobanda si scrollò di dosso la sabbia. – Non subito – disse. – Dobbiamo prima recuperare un altro pezzo di lamiera arrugginita.

– Perché non facciamo un salto al vecchio relitto? – intervenne il terzo ragazzino. Si guardarono in faccia. – Io ci sto! – disse il piccolo, raggiante. – E tanto che siamo là, tiriamo anche qualche palla di sabbia agli uccelli. – Va bene – disse il capo. – Al mio tre. Uno… Senza aspettare, il piccolo partì di corsa. – Chi arriva ultimo ha il Morbo! Gli altri due scattarono subito all’inseguimento, ridendo e scalciando sabbia.

Metallo prezioso di Riccardo Restelli

Il Cercatore saggiò la consistenza della mammella sinistra del cadavere che, a differenza dell’altra, non si era ancora trasformata in metallo. Sembrava soffice. Sembrava ancora quello che doveva essere: una cara vecchia ghiandola mammaria avvolta in una fetta di grasso e cute. Appoggiò il bisturi sotto il seno e premette con forza. Il sangue cominciò subito a sgorgare, scuro e denso come un lubrificante esausto ato per mille pulegge, pistoni e ingranaggi arrugginiti. Incise fino allo sterno, saggiandone con la lama la consistenza. Metallo, come previsto. Le ossa erano le prime a essere intaccate dal Morbo, anche se pochi se ne accorgevano perché la metamorfosi dell’apparato articolare non causava dolore. Quello arrivava dopo, quando i muscoli delle gambe e delle braccia iniziavano a irrigidirsi e la morsa avida del metallo scorreva nelle terminazioni nervose fino a urlare la sua furia nel cervello. Il Cercatore cominciava a essere ottimista: su quel tronco il Morbo sembrava arrivato al punto giusto di maturazione. Con rinnovata lena applicò il divaricatore tra le costole e iniziò a spingere. Ci volle tutta la sua forza, perché la cassa toracica era in buona parte già trasformata in metallo, ma alla fine l’intrico di ossa appuntite e placche di ottone cedette di schianto. Come già intravisto, i polmoni erano ridotti a una massa spugnosa impastata di sabbia e ruggine. Rimosse con cura tutti i resti organici e metallici che ostacolavano la visuale. Eccolo, finalmente! Strappò il cuore dai vasi sanguigni ormai quasi secchi. Colore e consistenza sembravano quelli giusti. Ripulì il muscolo di metallo e cominciò subito a plasmarlo, pressarlo, stirarlo. Perfetto! Ancora una volta il Morbo aveva trasformato il tessuto cardiaco nella più resistente e malleabile di

tutte le leghe metalliche: il componente ideale per l’anima flessibile dei preziosi pneumosnodi di Mecharatt… Il Cercatore ripose il metallo prezioso nella bacinella e si trasferì sul prossimo cadavere.

L'orfano di Luca Romanello

Il cardo mangiaruggine straziò per l'ultima volta l'Afritania, tirando via metallo, olio e carne e sputando una pioggia di frammenti. Gran parte della salva finì sui ponti martoriati della nave, ma qualche proiettile fu lanciato a grande distanza. L'uovo traslucido era uno di questi ultimi, e lo schianto sulla sabbia ne provocò la rottura. L'essere che ne uscì non era ancora del tutto formato, ma abbastanza per protestare con un pigolio ticchettante: puntava il becco d'ottone in direzione della sua mamma, l'Afritania. Le piume incarnite nel metallo si piegavano tra gli ingranaggi, mentre il neonato zoppicava verso la nave. Superò alcune schegge, poi ebbe come un ripensamento e tornò indietro a raccoglierle col becco: aderirono alle zampe, rinforzandole, e la zoppia scomparve. Fu solo quando arrivò all'Afritania e si appoggiò alle paratie che cessò di emettere il proprio verso. Si strusciò contro lo scafo, come a cercare conforto. Ma la nave non rispose: il cardo mangiaruggine aveva colpito troppo a fondo. L'orfano lanciò un lamento stridulo. Un'alaquadra gli atterrò accanto, seguita da una seconda, una terza. Presto fu circondato. Il più sfacciato degli uccelli si avvicinò e gli tirò una beccata dove la carne era ancora esposta. L'essere reagì, staccando di netto la testa del volatile e masticando il resto del corpo. Nessuno degli altri provò ad aiutare il compagno; quando l'orfano terminò il pasto tutti si alzarono in volo. Li seguì con lo sguardo, il becco d'ottone sporco di sangue. Quando abbassò il capo, si strusciò un'ultima volta contro la nave e cominciò a incamminarsi verso il deserto. Una puleggia gli cadde davanti. La squadrò per un attimo, poi cercò di raccoglierla. L'ingranaggio si saldò all'istante, mentre il corpo dell'orfano si adattava al nuovo pezzo. Puntò il becco verso l'alto: le aliquadre lo osservavano

appollaiate sul relitto. Tutte trasportavano un brandello di metallo, tranne una. Avevano trovato un nuovo padrone da servire.

Q29 di Lia Tomasich

Ho in bocca il sapore del ferro, sputo saliva mista a sabbia di ruggine. C’è solo silenzio, intorno. Non sento più le urla strazianti degli uomini dell’equipaggio. Hanno smesso di soffrire, parte di loro sono già olio lubrificante per gli ingranaggi della Robredo. Lo pneumosnodo mi ha espulso come un corpo estraneo; ho trovato rifugio tra gli assi di trasmissione e l’impiantito del convoglio, in una cellula di riparazione fuori uso. Stringo in mano il diario che ho strappato a Cardanic, prima di scivolare qui sotto. Improvvisi schianti metallici rompono a tratti il silenzio: la Robredo è al lavoro. Ripara i danni. Credo di aver capito il significato degli schizzi: una spira tra due magneti, collegata agli alberi motore, trasforma l’energia cinetica prodotta dalle caldaie e distribuisce un flusso di elettroni su una rete di cavi che corre lungo la dorsale della nave. Una dinamo di backup, alimentata a vapore. Una vibrazione scuote il convoglio, i sifoni soffiano il vapore in eccesso. La Robredo si muove. L’apporto di nuovo combustibile è stato decisivo e fila già a trecento all’ora. Non conosco la sua nuova destinazione, ma ha senz’altro a che fare con il disegno. Intanto, sopravvivo. Quando le salite la fanno rallentare, mi allungo sotto gli scambiatori e bevo la condensa che gocciola dai tubi; quando posso mi nutro dei

vermi del ferro che si annidano nelle tubature rugginose delle caldaie, estirpandoli con un rampino. La Robredo è un gigante accecato, non sa dove io sia, unico superstite. Vuole realizzare il disegno, per poter riacquistare il controllo. I cavi la rianimeranno e le trasmetteranno i dati che le restituiranno il potere. Il colosso sobbalza, le sospensioni cigolano, i freni stridono, metallo contro metallo. La Robredo si è fermata. Fuori c’è un deserto di rame, sabbia rossa e ossido verde, pozze acide lucidano il metallo. Guglie di cristalli turchesi. A sud appare il profilo di una città–fabbrica, un cartello pencola dal filo spinato: Benvenuti a Cupronica.

Ritorno dal Suq di Alain Voudì

Perché noi non abbiamo città? chiese Yussouff al padre, seduto dall’altra parte del fuoco. Rashid strinse l’occhio sano e fissò il figlio in silenzio. Cosa ti ha colpito di più, oggi? domandò infine. Il bimbo, colto alla sprovvista, si fermò a riflettere. Era la prima volta che otteneva il permesso di accompagnare il padre al Suq, nella grande città che fino ad allora aveva solo osservato da lontano. Ricordava di aver spalancato la bocca, alla vista dei colossali pistoni che ne azionavano i portali, e di essersi emozionato, quando il mercante a cui avevano venduto le giovani aliquadre gli aveva donato una vaschetta con un piccolo cardo mangiaruggine; ma soprattutto era rimasto affascinato dai suoni e dai colori della folla. La gente, papà rispose. Ce n’era così tanta! Rashid annuì. ami il mangime. Yussouff, perplesso, tese la scatola. Rashid frugò tra i bocconcini arrugginiti e ne scelse uno. Me lo sviti, per favore? gli chiese porgendoglielo. Yussouff afferrò la vite tra le dita guantate e provò a disserrarne il dado. Strinse i denti, torcendo con tutta la sua forza, ma alla fine, imbronciato, dovette arrendersi. Con un sorriso, Rashid riprese la vite e la gettò nella vaschetta del mangiaruggine. Un attimo dopo la videro scomparire, risucchiata sotto la

superficie della sabbia. Vedi, Yuss disse i cittadini sono come quel bullone: la città li corrompe, saldandoli tra loro in un vincolo indissolubile. Un sonoro tintinnio segnalò la fine del pasto del cardo. Con cautela Rashid prelevò dalla sabbia la vite, luccicante come appena forgiata, e senza alcuno sforzo ne svitò via il dado. Noi, invece proseguì, tendendo i due pezzi al figlio lasciamo che il deserto ci purifichi: siamo liberi di unirci gli uni agli altri, ma allo stesso tempo conserviamo la nostra indipendenza, proprio come quella vite e quel dado. Ora ti chiedo: davvero abbiamo bisogno di città? Yussouff soppesò assorto i due pezzi di metallo, poi alzò gli occhi verso il padre e sorrise.

Gli altri racconti di mondo9

Harabalia di Valeria Barbera aka Recenso

Sulla soglia Tajra si voltò: aveva gli occhi lucidi. – Sei come le tue macchine, Al. Incapace di provare emozioni. Forse il tuo posto è con loro. Lui restò zitto. Poi guardò la porta richiudersi.

Ho deciso di tenere un diario. Non so perché. Non l'avevo mai fatto. Qui tutto è un enigma. Mi chiamo Al Roya, Guardiasabbia sul cargo Mirela, e sono l'unico sopravvissuto al naufragio. Da allora viaggio in questo pneumosnodo, una cella ottonata pregna di vapore e ingranaggi. È un po' diverso da come l'immaginavo, ancora intonso dalla ruggine. Le paratie trasudano un lubrificante dal sapore salino; a volte stridono, si deformano, e subito dopo si riassestano. Per cibo c'è una zuppa. Sempre la stessa. Sembra ratto, però lascia un retrogusto strano. Metallico. Vorrei almeno sapere dove stiamo andando, ma il parabrezza è serrato. Sono in balia della macchina. E solo. I primi giorni mi parlava tramite una pianola. Poi si è ammutolita. È successo nove mesi fa.

Lei… Stamane ha “muggito”, come se sbadigliasse. I pannelli in vetrosecco si sono alzati, svelando montagne di lamiere. Al sole rovente sfavillavano, stridevano. Si cOntorcEVANO! Mi sono girato: il fulgore dello pneumosnodo frustava l'aria e gli occhi.

Non è ottone. È oro. Immune alla ruggine. Ed è… VIVO. Lo stridio… sono GRIDA! È stato allora che l'ho sentito: un nodo alla gola! – DOVE SIAMO? – ho urlato. – Rispondi, MALEDETTA! – Caaasaaa–ah–ah–ah. Io… Non capisco! È questo il terrore? Un maelström di sabbia che brucia le viscere? Dev'essere stata quella brodaglia! La macchina mi ha donato le emozioni… PER TORTURARMI?!

Clangore metallico. Il parabrezza scivolò verso il pavimento, spodestandolo. Quando la plancia smise di ruotare, Al penzolava avvinghiato alla pelle della poltrona, le mani sudate. Udì la pianola gracchiare: – Oro. Più carne. Evoluzioooneee. Guardò giù: il vetrogel colava come albume sopra una pappa d'oro schizzata di sangue. Lui era il tuorlo. La prima lacrima della sua vita sapeva di sale. Come il lubrificante.

L’abisso di Mecharatt di Luigi Bonaro

Quando la macchina analitica verrà realizzata, necessariamente guiderà lo sviluppo futuro della scienza (ages from the Life of a Philosopher – 1864 Charles Babbage)

Mente impiegava un'aritmetica in base dieci a virgola fissa, perforava miliardi di schede, registrava enormi quantità di dati. La memoria, un’enorme cisterna rugginosa, presidiata dai pretoriani di Moloch, era grande quanto tutto il porto. La nave ci aveva scaricato nel pozzo di Mecharatt. Era lì che le Creature malate avrebbero alimentato la Macchina Analitica, fino a che l’ottone non gli avesse sottratto tutta la carne. Quanto a me… Babbage mi aveva guarito. Non ci avevo capito molto. Sembrava che l'acido nitrico e il potassio avessero sciolto lo zinco della lega lasciandomi addosso solo ossido di rame, causa del mio bizzarro nomignolo. Ero verde e immune al Morbo ma, soprattutto, ero ancora vivo. Poi, i Moloch avevano ucciso Charles e sulle dita di Vany era comparso l’ottone, era così che iniziava, dalle estremità. Eravamo ribelli, infiltrati tra le Creature dell’Afritania. Dall’Abisso di Mecharatt, lungo i tubi, che erano come strade, avremmo raggiunto e distrutto Mente, mettendo fine alla crudeltà delle macchine Moloch. Pochi minuti, poi il aggio del vapore, verso i miliardi di colonne di ottone che muovevano il congegno di memorizzazione, ci avrebbe bollito le chiappe. – Fai presto, Cuprum, apri il portello. Sento già il sibilo del vapore. – Vany, la leva è arrugginita. – Dai, manca solo questo.

– Se la mappa di Protesi non è tarocca. – Vapore, ottone, che importa… – Vivrai, prenderò la cura da Mente. Ecco! Vieni dentro. «Seguì con gli occhi i tubi del vapore e i fili tesi, (…) scintillavano dozzine di colonnine di ottone fornite di sporgenze, inserite in alto e in basso in sedi praticate all’interno di piastre lucide, con leve scintillanti, denti di arresto, e mille integrazioni di acciaio splendente. Odorava di olio di lino. (…) le prese il gomito, da dietro. Lei ebbe un sobbalzo… – È bello, vero? – Sì, è… bello.» – Sì, vivrai e sarai verde, proprio come me.

Manchadas di Claudio Bovino

Ramira e Caradosso proseguivano la loro discesa, scalino dopo scalino, attenti a non scivolare nell’oscuro abisso di Mecharatt. Il pozzo principale della città era l’enorme cisterna in cui venivano raccolte le Creature scaricate dalle navi per alimentare la Macchina Analitica, ma da uno dei pozzi di servizio si poteva giungere in un luogo segreto dove nasceva una pianta che forse poteva sanare i corpi dal Morbo. Nelle pergamene ritrovate da Caradosso, la pianta aveva dei fiori bianchi con delle macchie cremisi, flores manchadas de sangue. Sbocciavano solo nelle viscere di Mecharatt, dove l’acqua purissima delle cascate subiva una prodigiosa e misteriosa trasformazione. Caradosso sperava di trovarli in un punto in cui il pozzo si apriva, intercettando un corso d'acqua sotterraneo. Ecco. Rumore di acqua corrente. La torcia di Ramira illuminò un fiumiciattolo dai riflessi vermigli. Sulla sponda, una sorta di roseto con fiori simili a quelli degli antichi disegni ma ricoperti completamente dalle macchie rosse. Ramira si avvicinò, gonfiando il giovane petto col respiro. Caradosso, suo maestro e amante, era dietro di lei, in silenzio. All’improvviso, un tentacolo si innalzò dal roseto avvolgendo il braccio destro di Ramira. Caradosso balzò avanti per cercare di strapparlo con le mani, ma miriadi di piccoli e ferruginosi uncini erano già penetrati nella carne della sua assistente. Ramira, urlando e dimenandosi dal dolore, con la mano sinistra prese il machete appeso alla cintola. Zampilli di sangue caldo e brandelli di carne e ossa schizzarono dappertutto. Una, due, tre volte, sino a quando pianta e braccio non caddero a terra. Un lamento blasfemo di ingranaggi, pulegge e grida umane si levò nel buio. Centinaia di minute liane avvolsero Ramira, ancora viva, continuando a inoculare il Morbo, o una sua variante.

Caradosso, in lacrime, avanzò verso il roseto, ormai alto più di tre metri. Lentamente, la mano metallica di Ramira lo tirò dentro, accogliendolo in un dolce abbraccio.

Eureka: Mondo9 esiste! di Marco Canella

Sullo schermo scorrono i titoli di coda. ─ Papà, esiste davvero Mondo9? ─ chiede Marco a Silvio, speranzoso. ─ Certo che esiste ─ lo rassicura il padre. Marco ha sette anni, ed è un gran sognatore. È rimasto affascinato dalla storia che ha appena visto sul grande schermo. La sua bocca è ancora spalancata. Quelle navi immense e tutto quel metallo l’hanno colpito. Nel profondo. La Robredo e l’Afritania sono creature incantevoli, in grado di riempire i suoi occhi fino all’orlo. ─ Papà, mi compri una nave? Silvio sorride e accarezza il figlio sulla nuca. ─ Vedremo. Ora andiamo a casa. Si è fatto tardi. La mamma ci aspetta. La mattina dopo, Marco si sveglia e si sente differente. Si guarda attorno smarrito, senza essere in grado di mettere a fuoco quello che lo circonda. Getta una mano sul viso e lo sente diverso. Freddo. Duro. Forse di metallo. Scende dal letto terrorizzato per andare ad avvertire il papà, ma l’impatto col pavimento non è come credeva. I piedi sprofondano. Gli occhi puntano all’ingiù, e quello che vedono è solo sabbia. Si guarda attorno impaurito, e scopre che nulla è più come prima. ─ Ma dove sono? Ora Marco ha paura. Si sente solo. Perso in un mondo che non gli appartiene. ─ Papà, dove sei? Aiuto!

─ Sono qui! La voce è quella di Silvio, ma il bambino non lo vede nonostante i suoi occhi lo cerchino con insistenza. Finché uno splendido sorriso gli spunta sul volto, quando vede all’orizzonte la sagoma del padre che s’avvicina. Sfinito dalla corsa nella sabbia, l’uomo appoggia le mani sulle ginocchia e si china per recuperare fiato. Poi si alza, e osserva Marco. ─ Il morbo ha colpito anche te ─ constata deluso. ─ Come? ─ chiede ingenuamente Marco. Silvio non risponde, e alza il viso verso il cielo. Si chiede come sia potuto accadere, tutto questo. Lui e il figlio prigionieri del deserto. ─ Sai che ti dico? ─ Marco scuote il viso. ─ Mondo9 esiste. Eccome se esiste!

Il guardiasabbia Markus di Marco Canella

Chi ha detto che non si può sopravvivere, qui? Un deserto velenoso? Ma quando mai. I morsi degli insettoratti non sono affatto pericolosi. Fanno il solletico. E io me li mangio. Devo pure sfamarmi, in un qualche modo. E quella laggiù cos'è? Sembrerebbe una nave. Si sta avvicinando. Che c'è scritto? Robredo; ma che nome è mai, questo? La mia si chiamava Miverga. Quello sì che era un nome. Che dispiacere quando è sprofondata. Volete sapere chi sono? Sono il Guardiasabbia Markus ed ero il numero uno. Purtroppo la mia nave si è incagliata, e non me la sono sentita di salire su uno pneumosnodo. Ho preferito uscire. Temevo di meno il deserto, anche se il mio secondo pilota, Jesus Alvarez, me l'aveva sconsigliato, cercando di trattenermi. Voleva farmi desistere dal mio proposito, ma io non l’ascoltai. Chissà che fine ha fatto… E ora che accade? La Robredo si è fermata. E questo rumore cos’è? Non può essere. Quello è uno pneumosnodo che sta abbandonando la nave, per andare verso il primo porto. Un porto? Potrebbe essere una ghiotta occasione. Chissà se ricapiterà. Meglio approfittarne. Ma come fare? E se provassi… Sì, è l'idea giusta. Difficile. Ma non impossibile. Aspetterò il momento propizio. Lo pneumosnodo si sta muovendo. È ancora piuttosto lento; devo cogliere l’attimo. Forza, amiche gambe, non traditemi proprio ora. Che fatica correre in mezzo alla sabbia, ma dovrei farcela. Spero che questo piede che si sta appesantendo non mi provochi problemi. È da un po’ di giorni che lo sento freddo, come se si stesse staccando dal resto del corpo. Una cosa strana, ma erà. Ciò nonostante mi sto avvicinando. Due i e ci sono. Eccomi. Basterà un leggero salto, dando l’incombenza al piede buono. Presi! Sono riuscito ad

acchiappare i pioli. Mi tengo con tutta la forza che ho in corpo. Spero che il viaggio sia corto. Non so se riuscirò a reggere a lungo in questa posizione… Forza, Markus, ce la puoi fare. Ripeto: ce la puoi fare.

L’occasione di Riccardo Carli Ballola

Alba. Improvvisi rimbombi sulla murata della nave. Un’ombra gigantesca in cima alla struttura lotta contro un’alaquadra: sferza nell’aria un filo metallico che si attorciglia al collo del grosso uccello e affonda nella sua carne. L’uccello grida, si divincola, trascina il colosso, lo sbatte sul tetto, poi gli piomba addosso e gli becca la carne. Il gigante strattona il laccio e raddoppia la stretta. L’animale schizza in cielo sollevando il titano, poi lo molla sulle lamiere con un tonfo. Vedo sopraggiungere altre aliquadre. E poi gabbiani, nibbi…

I pannelli mobili si aprirono e l’omone spinto a morsi dagli uccelli precipitò dal tetto, a capofitto nel ventre bianco della Robredo. In un lampo Yussouff infilò in spalla lo zaino contenente le sedici mappe, si arrampicò sulla schiena del ciclope, scalò l’intrico dei tubi e giunse in cima. Camminò sul guano. Udì chiudersi i pannelli della Robredo e vide gli uccelli spiccare il volo. Si lanciò dalla sommità del relitto, atterrò sbilanciato sulla sabbia e prese a correre con il sole alle spalle. Un nuvolone nero volò sopra di lui. Molti uccelli gli planarono davanti, altri più indietro, certi sui fianchi. Alcuni zampettarono più vicini, altri rimasero immobili ad aspettare. Yussouff estrasse di tasca il coltellino a serramanico. Lo brandì, incitandoli ad avvicinarsi. Il primo attacco lo ricevette da dietro: becchi acuminati gli strapparono lo zaino, poi gli bucarono la schiena fino ai polmoni. Sgorgò sangue. Yussouff si voltò e rimase abbagliato. I volatili immobili si alzarono in volo per aggredirlo allo stesso modo. Gli squarciarono la carne e una massa rossa e bluastra uscì fuori. Yussouff sollevò l’arma, esanime. Gli uccelli scesero a valanga sulla sua faccia, aggrappandosi alla testa con gli artigli. Gli strapparono labbra e guance, poi si dedicarono agli occhi. Yussouff cadde in avanti sulla

sabbia. Si muoveva ancora quando la nuvola di metallo sbatacchiante si restrinse intorno a lui coprendolo interamente, per spolparlo.

Verso Ishra di Riccardo Carli Ballola

All’alba ho lasciato la carovana. Cavalco da ore assieme ad Akyra verso Isrha, la città sul mare. Porto con me un paramento sacro da consegnare a Rahel, il sacerdote del Tempio Avito. D’improvviso vedo nella luce feroce del mattino un’ombra caliginosa annidata nella sabbia. Lancio frecce contro le sue ruote ma si rifrangono, schizzando nel cielo. La macchina emette uno sbuffo e uno stormo di uccelli bruniti appare di colpo. Gira in tondo sulle nostre teste. Altre frecce infruttuose. I volatili piombano sui cavalli. Akyra viene sbalzata sulle rocce con un tonfo pauroso. Cado nella sabbia, mi rialzo svelto e roteo rapido nell’aria la fionda, stecchendone molti in volo e disperdendo gli altri.

Gli animali strapparono la carne ad Akyra ed Efrem corse furioso verso la nave. Lanciò una corda che si attorcigliò al corrimano e salì a bordo. Si tuffò dentro i pannelli dischiusi pensando alla vendetta ma si trovò faccia a faccia con Yussouf. Inerme e ignaro. I due giovani rimasero sbalorditi. Efrem impugnò la spada, Yussouf brandì il coltello a serramanico. Lottarono. Efrem colpì per primo. Per Yussouf nessuna possibilità. Nel crollare però ricambiò il colpo, procurando una grave ferita al petto di Efrem che, sanguinante e attonito, si aggrappò a un tubo sporgente fra altri dislocati sulle paratie. I pannelli della Robredo si chio. La nave si mosse. Le sue ruote gigantesche in un attimo giunsero davanti ai cavalli che furono schiacciati, rivoltati nella sabbia e risucchiati sotto la chiglia. Subito dopo fu la volta della ragazza. Pezzi di carne arono rapidi dai condotti sottostanti, attraverso turbine, dentro serbatoi nei vani superiori e tramite tubi oleosi furono di fretta incanalati nel reticolo digestivo. La Robredo si rigirò su se stessa e ringhiando si rimise in marcia verso il mare.

Il Raccoglitore di Andrea Cavallini

L’uccello, appesantito dal Morbo e dal cilindro legato a una zampa, rotola esanime sulla sabbia sollevando nuvole di polvere malata. Con le sue otto stampelle il veicolo frusta la sabbia, scollina la duna e si ferma emettendo sputacchi di vapore. Una figura alta, vestita di scuro e con stivaloni lunghi fino alle ginocchia, scende dalla Saltadune. Si dirige verso la carcassa del volatile senza badare al gruppo di nomadi che lo osservano immobili. Non osano avvicinarsi al cilindro. La mano avvinghiata alla tunica del padre, il bambino nomade è impaurito dalla sagoma della Saltadune, troppo simile a un minaccioso ragno gigante. È la prima volta che vede un Raccoglitore. – Cosa c’è dentro ai cilindri, papà? – Messaggi dai prigionieri degli pneumosnodi. Li infilano nei cilindri e li attaccano alle zampe degli uccelli che entrano in cerca di cibo. Solo i Raccoglitori e la Gilda sanno cosa c’è scritto. Il Raccoglitore ruota in senso inverso le estremità del cilindro e sfila il frammento di carta. Poche righe di una scrittura disperata si riflettono sulle lenti degli occhialini binoculari. Sono Asenath Nezi, Guardasabbia della nave Avluela, prigioniero di uno pneumosnodo disunito durante una tempesta di elettricità. Dopo un lunghissimo girovagare lo pneumosnodo è arrivato a Ligheia. Sì, la città della leggenda esiste veramente! Dai buchi nella lamiera ho visto un’immensa muraglia di acciaio. Paratie altissime si muovono di continuo. E il rumore è impressionante, mette i brividi. Non è il frastuono anarchico di Chatarra, di navi che combattono e si frantumano come in una rissa tra ubriachi. A Ligheia il rumore è di meccanismi perfettamente lubrificati, di caldaie sempre sotto pressione. Di febbrile attività industriale. Di sanguinarie diavolerie che all’unisono

perseguono progetti da realizzare in fretta…

Il bambino osserva l’uomo risalire, lungo i pioli di una stampella, nell’abitacolo della Saltadune. Una voce interna gli dice che quella è la sua vita. E così sarà.

Un errore gigante di Andrea Cavallini

I colpi sulle tubature segnalano l’arrivo del piscio. Azenath si prepara a quel suono insopportabile che si avvinghia a ogni singola fibra del corpo per mai più abbandonarle del tutto. Dopo pochi secondi un’eco infernale scuote la foresta semibuia di tubi roventi, valvole cigolanti, binari sospesi, rubinetti, cisterne rugginose di cui è composto il reparto miscelazione di Avluela, la fabbrica di pneumatici. È l’onda del caucciù bollente, ribattezzata piscio del gigante dagli addetti al rimescolamento, che percorre chilometri di tubature per miscelarsi con speciali additivi prima di raggiungere la sala dei Tamburi, dove enormi cilindri forgiano gli pneumatici. Azenath, fradicio dalla testa ai piedi di sudore e condensa torbida aziona le leve per la seconda bollitura. Avverte un colpo sulla spalla. Un addetto gli fa cenno di seguirlo. Non indossa la tuta, è un contabile. Il cuore di Azenath si blocca. Il capo sezione lo vuole vedere, e deve sperare che non sia per quella cosa.

Il dirigente lo squadra con occhi che vorrebbero frugarli il cervello. – Azenath Nezi, voglio sapere fino al più insignificante dettaglio che cazzo hai mischiato al caucciù la scorsa settimana. Azenath si piega sulle ginocchia, si fascia la testa con i gomiti e inizia a piagnucolare. – Non ho fatto apposta! Un getto di vapore mi ha bruciato gli occhi così ho sbagliato la sequenza delle leve, rilasciando i carrelli che erano sul binario scoperto inattivo da mesi, quello pieno di nidi di aliquadre. Vi prego, non cacciatemi, non mandatemi nel deserto! Il capo turno lo osserva corrugando le ciglia. – Vuoi dire che hai mescolato al

caucciù la merda delle aliquadre? Null’altro? Azenath scuote la testa con decisione. – Tornatene alle cisterne! – ordina il dirigente con voce secca ma non risentita. Mentre Azenath esce interrogandosi sulla sua sorte, il capo turno riflette ad alta voce: – Qualcuno ci dovrà un grosso favore per avere finalmente trovato una mescola ultra resistente alla sabbia.

Cantastorie di Pietro Chiappelloni

Sono solo un cantastorie. Che posso saperne, io, di astronavi e di guerre? Che posso saperne della realtà, intendo? Certo, storie di guerre, di uomini, di macchine, ne conosco a centinaia, a migliaia. Ma sono storie. Non realtà. Storie. ate di bocca in bocca, di generazione in generazione, di secolo in secolo. Astronavi che solcavano questo cielo? Giganteschi mostri di metallo che correvano sul deserto? Sì, saranno anche esistiti, forse. Ma io non lo so con esattezza. Conosco una storia bellissima, che narra di guerre e di astronavi viventi. Astronavi–soldato, astronavi assassine. Posso raccontarvela, se vi fa piacere. Ma non è realtà. È una storia, una favola. Volete che vi parli di uomini, di misere vite alla mercé di questi mostri? Ho giusto alcune avventure splendide da narrarvi. Uomini chiusi in navi naufragate nella sabbia, ragazzi inghiottiti dal metallo, donne trasformate in acciaio e ottone… Bello, bello. Quando volete vi racconto. Ma voi cercate verità. Voi cercate la storia. Anzi, la Storia, quella con la S maiuscola. Mi spiace, avete sbagliato persona. Io non ricordo, io invento. Io non conosco, io fantastico. Creo finzione, insomma. Ma voi volete sapere cos’è successo su questo pianeta nei millenni ati, volete capire che cosa viveva dove ora c’è solo sabbia morta. Non lo so, mi spiace. Ma se vi fa piacere posso inventare alcune storie bellissime. Di uccelli di metallo, per esempio. Volete sapere il nome che gli ho dato? Aliquadre. Quando avrete tempo vi racconterò di loro. Sono un cantastorie, del resto. Voi siete scienziati, archeologi, studiosi, biologi. Io no. Io vivo di fantasia. Purtroppo non posso esservi utile, per questa volta. Ma tornate a trovarmi, quando avrete tempo. Ho migliaia di storie da raccontarvi. Tornate, davvero, mi farete piacere. Il mio nome lo conoscete. Garrasco. Garrasco D. Bray. Ma anche questa è un’altra delle mie storie…

Io non volevo di Pietro Chiappelloni

Io non volevo. No, davvero, non volevo che finisse così. Mi credi, Garrasco, tu mi credi, vero? Siamo amici, noi. Lo sapeva anche lui. I nostri nomi non erano scritti come tutti gli altri. Non avere rimorsi. Non hai sognato, sono andato io di là. Non hai dovuto consegnarmi a lui. Non avere rimorsi, amico. Ti è piaciuto, il viaggio? Io ho fatto il possibile. Ho cercato di proteggerti finché ho potuto. Speravo di portarti in salvo, te n’eri accorto? Non era quella la rotta che lui voleva, ma non potevo nemmeno deviare del tutto. L’avrebbe notato. Ma così, un centimetro ogni tanto, un grado ogni tanto, non ci aveva fatto caso. Ci stavo riuscendo. Peccato. Ci stavo davvero riuscendo, a salvarti. A farlo insabbiare, a immobilizzarlo finché, per divincolarsi dalla presa liquida della sabbia, uno dei suoi movimenti ti avrebbe aperto una via di fuga. Una paratia alzata di colpo, un angolo del pavimento in trasformazione, qualcosa… Tu avresti visto un quadrato luminoso e avresti capito, ti ci saresti infilato. Io avrei fatto il possibile per distrarlo, per tenerlo impegnato finché tu non fossi stato fuori. Così doveva andare. Peccato. Ma tu sei ancora mio amico, vero? Però ho sentito, quando ti ha detto che io non ci stavo bene, qui. Che a me non piaceva, qui. Non è così. Forse in un primo momento, ma mi capisci, vero? Il sangue, e Tuono, e tutto il resto. Per forza stavo male. Tu no, amico, tu non stavi male come me. E mi hai lasciato andare. Ma io ti avevo perdonato, sai?

Peccato. Ci stavo davvero riuscendo, a salvarti. Ma lui mi ha raccontato tutto. Me l’ha raccontato, quello che pensavi. Io volevo salvarti, e voi vivevate perché io morivo. No, amico, non mi faceva male quando tu e Cardanic mangiavate. Ma ora ho dato anche l’ultima goccia di sangue. E ora che sto per morire davvero, finalmente riesco a capire. Ancora al timone, c’è scritto sul mio cilindro. No, non più. Ora tocca a te.

Hotel California (but you can never leave) di sco Citro

– Ascolta, Flor. È una cosa preziosa. Si chiama musica. – Musica? – Sì. Nemmeno io l'avevo mai sentita, prima. È bellissima, vero? – Najid le mostrò una sfera pulsante che emanava rumori. – Strana, direi. Dove l'hai trovata? – L'ha partorita lei, là sotto, insieme a uno sbuffo di ruggine. Credevo fosse morta e invece… – Najid indicò lontano, sotto la pancia della Robredo. Flor non aveva mai sentito niente di simile; le sue orecchie conoscevano solo gli urli, le strida, il frastuono delle ali. E il clangore dei metalli. Quei rumori, invece, erano diversi, si susseguivano e combinavano senza durezza, non davano noia, non facevano paura. Quella cosa, la musica, era bella e la faceva stare bene. – Questa è magia – mormorò Najid. – E tu come fai a conoscerla? La musica, Najid, che cos'è? Flor ammirava Najid e le voleva bene; amava carezzarle i pochi capelli bianchi, sfiorarne la pelle grinzosa e consumata, farsi baciare sulla fronte dalle sue labbra di rame. L'aveva cresciuta come una mamma, e insieme al fratello Rabi, l'avevano protetta. – Rabi, fu lui a parlarmene per la prima volta – si scosse Najid. – Mi spiegò che aveva letto dell'incanto della musica su un taccuino abbandonato, trovato in mezzo a quel groviglio di metalli. Era intelligente, Rabi, e intuì subito di cosa potesse trattarsi; ne parlava sempre, anche a te, per farti addormentare. Ne rimase affascinato ed era certo di averne capito la magia. Avrebbe desiderato tanto poterla ascoltare…

Flor vide le lacrime scendere sulle guance di Najid, inciampare sulle rughe. Le succedeva sempre così, ogni volta che pregava o che ricordava Rabi…

La musica, quella stregoneria, continuò per giorni e notti. Najid era impazzita. Non si curava più di me. Ballava sotto il sole e al freddo pungente della notte. Poi, all'improvviso, la sfera si zittì e la Robredo si aprì: un alito freddo e polveroso uscì dal suo ventre insieme alla musica, la stessa di prima. Najid entrò dentro danzando, senza nemmeno salutarmi.

Mondo9999 di sco Citro

Garrasco sentì scricchiolare i giunti. Un brontolio sommesso. La nave si muoveva. Il buio abbagliante gli impediva di ricordare, lo schiacciava. – C'è nessuno? – si chiese. – C'è nessuno? – si rispose. Sfiorò ancora una volta i bubboni sulle pareti di metallo. Erano diventati caldi; uno iniziò a pulsargli sotto le dita. Lo palpò, indugiò sorpreso, lo carezzò. Un grido silenzioso squarciò il buio e gli rimbombò nella testa: Papà? Dove sei? Non lasciarmi solo. Garrasco ritrasse la mano, sbigottito. S'inginocchiò. Quanto tempo era ato? Desiderava il suo mondo schifoso di prima. Ne aveva bisogno, sopraffatto da un istinto disperato, da una dolorosa, infinita volontà di sopravvivere. Si accasciò, scivolando lungo la parete gibbosa, la nuca appoggiata ai bubboni caldi. Un'altra voce, un brusio ovattato: Yussouff, figlio mio, perdonami ti prego. Garrasco pianse, incapace di comprendere. I pistoni scalpitavano, lo confondevano, correvano con le bielle, lo disorientavano, si accoppiavano, lenti, con i cilindri. La nave avanzava. Piano, ma avanzava. Sei al minimo, Victor. Ancora brusii nel buio, nella sua mente. Laraaa! Laraaa! Voci pulsanti e mute. Che fai, fratellino, scrivi? La parete friggeva, gridava. Ronzii, sussurri, fruscio d'ali, soffi di vita. Garrasco era stordito. Avvertì la mente aggrovigliarsi, tornare indietro, arrotolarsi nelle voci, riavvolgersi su se stessa come una pergamena.

Alla fine, stremato, si addormentò.

Quando Garrasco riaprì gli occhi, li sentì graffiare da una luce intensa. Fuori, l'orizzonte era vuoto. La nave che l'inseguiva era scomparsa. Volatilizzata. La sabbia era sua.

Ricambi originali di Diego Cocco

Nausea. Angoscia. Sofferenza. Maryam non era più in grado di seguire con gli occhi il piccolo stormo di aliquadre che svolazzava sopra la sua testa, perché stava per cedere a quelle sensazioni opprimenti. Erano trascorsi appena due giorni da quando aveva raggiunto il ponte di prua, l’ultima tappa della sua inutile fuga dal morbo che le aveva regalato nuove appendici di metallo lucente. Dopo essere rimasta a lungo priva di sensi, sopraffatta dal dolore, si era risvegliata obbligata in quell’assurda posizione, con braccia e gambe di ottone saldate in un corpo unico al ponte stesso. Una mezza statua di ferraglia ricoperta di grasso colante e merda di uccello, distesa supina ad aspettare una morte che non voleva arrivare, perché la malattia, che di solito aveva un decorso rapido, a un certo punto si era bloccata, risparmiandole il resto del corpo.

All'improvviso, un’alaquadra le planò sul petto e con un paio di beccate risolute la costrinse a schiudere le labbra. Era l’ora del pasto. Il volatile rigurgitò una poltiglia acida che sapeva di grasso e uova marce. Nelle ore precedenti Maryam aveva provato a ribellarsi, a rifiutare tanta grazia. Le aliquadre allora si erano prodigate in una convincente opera di persuasione, concentrandosi sulla delicata pelle del volto. Alla fine la bocca gliel’avevano fatta aprire comunque. Pareva quasi che quello strano comportamento venisse coordinato dalla nave stessa, come se gli uccelli fossero stati reclutati per un nuovo incarico dopo che le loro uova non avevano più prodotto pezzi di ricambio. Forse la Robredo, a modo suo, si era evoluta.

In preda ai conati di vomito, Maryam esaminò l’addome leggermente rigonfio: il fastidioso sfarfallio che avvertiva dalla notte precedente stava aumentando d’intensità, ormai sembrava più un cigolio regolare, uno stridio di frammenti metallici in movimento. Chiuse gli occhi inorridita e scoppiò in un pianto senza lacrime: doveva trovare al più presto un modo qualunque per porre fine a quel supplizio.

Metallica di Claudio Costa

La trovarono nel deserto. Gli uccelli non osavano avvicinarsi per beccarle quel poco di carne visibile. Lei pareva dormire nel suo carapace di metallo. Pettorali pronunciati… cosciali e schinieri, erano saldati sulla pelle. La falda a placche mobili sulla pancia era gonfia. Della testa rimanevano liberi: bocca, naso, occhi e i lunghi capelli. Garrasco era sceso dall’Afritania con Gonzalo e Martinez, in avanscoperta sulle sabbie velenose. Tutti erano a uno stadio avanzato del Morbo. Anche il loro ottone scintillava al sole. ─ E questa chi è? ─ chiese Gonzalo. ─ Se non avesse il metallo sul viso, forse potrei riconoscerla ─ disse Garrasco. ─ Con quel “sarcofago” è anche difficile capire se è viva ─ aggiunse Martinez. Garrasco le si inginocchiò accanto. Si strappò un lembo dalla giubba ormai logora e glielo mise davanti alle narici. ─ Respira ancora ─ affermò. La sollevarono e da una borraccia le bagnarono d’acqua le labbra. Lei si svegliò. ─ Come ti chiami? ─ domandò Garrasco. ─ … Non ricordo ─ tentennò lei. Lui notò, sul cosciale della donna, un marchio a fuoco – Robredo – e ordinò di portarla a bordo. Quella sera, Garrasco, reggendo un metro di tubo, era di guardia alla baracca di lamiere sul ponte di coperta, quando sentendo la donna gemere e lamentarsi, entrò.

Lei si alzò a sedere sul giaciglio. Poi, ebbe uno spasmo e ricadde indietro con la schiena. Una seconda scossa. Pausa. E una terza. Con una frequenza sempre maggiore le contrazioni s’intensificarono. Garrasco le guardò tra le gambe spalancate, la vagina di metallo si allargò e da lì spuntò il piccolo abominio. La donna ringhiò nella tenebra, comparvero le spalle del bambino. Garrasco prese e tirò. Poi tenendolo per il collo, uscì dal riparo e sbatté il corpicino di ottone sulla tolda. Gli infilò il palo in bocca, tenendogli un piede sul petto. E gli strappò la testa. Martinez si avvicinò. Garrasco gli porse il tubo col trofeo. ─ Appendila sulla polena ─ disse. C’era una guerra. L’Afritania ritornava a Mecharatt.

Codice Robredo di Manuela Costantini

L'Inferno. Ho provato tante volte a immaginarlo. Ero certo che non ne esistesse uno più atroce di quello che avevo vissuto. Mi sbagliavo. Qui è molto peggio.

L’ultimo ricordo erano le spiagge a sud di Mecharatt: sabbia e mare in una mescola collosa. Cuspidi d’acciaio ovunque, come i legni di un dio che gioca a mikado. Poi, buio. La vista gli era negata, gli altri sensi erano all’erta, tutti insieme. Sapeva dove si trovava. Questione d’istinto, lo stesso che lo aveva portato a scegliere di sopravvivere. E di morire. Doveva abituarsi all'oscurità. “Ci si abitua a tutto”, gli avevano detto. “Anche da morto?”. “Sì”, pensò, quando vide pulsare una tenue luce azzurra. C’erano due grossi cilindri, guardò attraverso gli oblò. Uno era vuoto, aveva una targa:

Victor Galindez, secondo ufficiale della Robredo. Missione terminata.

Garrasco aveva lasciato Victor sul Cardanic. Ma, in qualche modo, il suo “secondo” era tornato.

L’altro cilindro era colmo di un liquido luminescente. E non aveva iscrizioni. L’uomo prese il taccuino che aveva sempre tenuto con sé. Scorse le pagine, si soffermò sull’elenco con i nomi dell’equipaggio della Robredo. C’erano ancora gli strani segni tipografici che non era mai riuscito a interpretare. Un simbolo accanto a ogni nome. E una lettera. Il suo simbolo, come quello di Victor, era diverso dagli altri. Lo immaginò scolpito su una lapide. E la soluzione apparve nitida: indicava l’ultima destinazione. Fu allora che la nave si mosse. Un ruggito squassò le pareti. Ruote dentate, cinghie di trasmissione, giunti cardanici, pistoni e bielle, lavoravano in un forsennato movimento, lubrificati d’olio rosato. Gli ingranaggi erano a pieno regime. E poi un frastuono. Garrasco si voltò in direzione del cilindro luminoso. Lampeggiava una nuova scritta:

Garrasco D. Bray, Ufficiale di I Classe, Comandante della Robredo. Bentornato a casa.

Garrasco serrò il timone con le mani. La Robredo riprendeva il suo viaggio. All’Inferno.

Pelo di bronzo di Emiliana De Vico

Non voglio pensare. Non voglio vedere. Non voglio avere paura. – Spogliati, Rachela. Mi tolgo la canotta macchiata. Il lubrificante si è seccato in croste scure sul seno e sugli avambracci. Sento le mani di Marcelo are frenetiche sulla pelle, incuranti di tutto il sudiciume che vi si è depositato. Il mare non è mai stato così lontano come in questo momento! – Rachela, come ti desidero… – Lasciami respirare, Marc. – Non c’è tempo, piccola. Presto ci rimetteremo in viaggio e non avremo più questa deliziosa penombra. – Marc, io… Lascio che l’odore forte di Marcelo si mescoli col mio. Nel suo respiro c’è il vapore malsano delle navi, le unghie sono schegge di lamiera e la voce è un sussurro rugginoso che mi dà il voltastomaco. Mi sembra di fare l’amore con la nave stessa. Aspetto che tutto proceda come al solito: che il suo corpo si scaldi e che il mio si ammorbidisca; che la sua smania si intensifichi e che la mia si affievolisca. Permetto ai corpi di seguire le pulsioni e alle menti di raggiungere la quiete, fasulla come la sabbia dorata sotto il sole sanguigno. – Coraggio, Rachela. È una vita che non stiamo insieme. È una vita che non ci fermiamo, che non vediamo gente nuova. È una vita che… Aspetto che i movimenti diventino incalzanti, poi chiudo gli occhi e dimentico la

ruggine malevola nella gola, l’inquietante scricchiolio delle pulegge, gli occhi dell’equipaggio che ci osservano da ogni pertugio, i sussulti dei bulloni che godono della nostra unione. La stiva trema, percorsa dal nostro stesso piacere carnale, partecipe di un incontro che dovrebbe essere solo umano. Attendo che torni la calma e che il lubrificante smetta di colare dalle pareti metalliche. Sento la vischiosità calda della nave che mi coccola con mille carezze. Lei sa! Sa che ho trovato sul corpo un pelo di bronzo e mi guarda con gli occhi di un’amante. Sa che mentre Marcelo affonda in me in cerca di un’effimera pace, io pregusto un’unione che mi annienterà del tutto, cancellando, per sempre, la paura.

La felicità di Maria Rosaria Del Ciello

Ma che ne sapete, voi? Che ne sapete del mio dolore, del mio tormento? Mi odiate, lo so, e mi insultate, cercando da me cose che non vi posso dare, risposte che mai sarò in grado di darvi, perché io non sono vostro padre, non sono neanche vostra madre. Voi siete solo nutrimento, per me, e non conosco pietà, perché nessuno ha mai avuto pietà di me… La lucertola stava ferma, immobile, terrorizzata. Acquattata in un angolo nascosto, cercava di mimetizzarsi tra lamiere, pezzi di pneumosnodi, ferraglia varia che aveva imparato essere il suo nuovo habitat. Le sembrava quasi di udirla, la Robredo, con le sue invettive di nave–demonio, ma forse erano solo allucinazioni. Ora era sola e aveva paura che quella bestiaccia tornasse per uccidere anche lei. Era planata all'improvviso, dal nulla, l'alaquadra, e s'era portata via in un attimo, in un sol colpo il suo compagno. Lei l’aveva avvisato. Bisogna essere cauti, quegli uccellacci sono sempre in agguato e basta un niente, che ci si ritrova pasto per la Robredo, o come cavolo la chiamano. Lui invece, lucertolone maturo e un po' sfrontato, l'aveva provocata e la sua agilità tra i rottami e le ferraglie non era servita a nulla. L'alaquadra era scesa in picchiata, l'aveva afferrato nella morsa senza scampo del suo becco metallico, squarciato di netto il dorso e trascinato via per nutrire, insieme ad altri disgraziati, macchine, ingranaggi, pulegge. Non rimaneva altro, alla lucertola, che aspettare e nascondersi. E mentre aspettava che, chissà, magari a quella feccia della Robredo potessero ingolfarsi i motori o interrompersi il raffreddamento delle pulegge, ripensava ai giorni ati con il suo amato. Giorni felici su Mondo9, quando la Robredo era solo un timore lontano,

leggenda a cui molti credevano, realtà che solo pochi erano in grado di testimoniare. Giorni felici, già. Un ricordo, ormai, solo un ricordo. L’unica cosa che la Robredo, la nave–demonio, non poteva distruggere, l'unica che non sarebbe mai divenuta metallo.

Nel bozzolo di Luca Di Gialleonardo

Un mare di muco. A questo pensò Lila quando riaprì gli occhi. Una sorta di pellicola appiccicosa le impediva di respirare. Fece pressione con le mani, tese il muco lontano dalla faccia, tirandolo via dalla pelle. Vetrogel. Si accorse di essere in una specie di bozzolo, appesa nel vuoto. La membrana era così tesa da farsi opaca, lasciando trasparire solo la sagoma indistinta della fiancata sbilenca della Robredo piegata su un lato. Lila non sapeva come era finita contro quell’oblò. Ricordava lei e Gonzalo che alimentavano la caldaia numero 6 per spingere la corsa della nave, i sobbalzi, poi il pianto stridente del metallo, mentre il pavimento si inclinava. E poi il buio. Le braccia cedettero e lei precipitò di nuovo contro il vetrogel. Riuscì a girare la testa quel tanto che bastava per sentirsi succhiare solo metà faccia e avere uno spiraglio per respirare. Doveva uscire di lì, prima che la membrana cedesse partorendola nella sabbia, tra i veleni che l’avrebbero uccisa comunque, anche se fosse sopravvissuta all’urto. Sentì un urlo e il battere di colpi sul pavimento. Qualcosa le afferrò una caviglia, la tirò fuori dal guscio di vetrogel. Il terrore le serrò il petto, quando vide il tentacolo di acciaio che la stava trascinando verso la bocca aperta della caldaia. Gonzalo era già tra le fauci affamate con metà del corpo e gridava graffiando con le unghie il pavimento, mentre le fiamme si stavano ravvivando, nutrendosi delle sue gambe. Lila lo vide sparire in un sussulto carminio, paralizzata. Fu solo quando del collega non restò che un grumo fetido e pulsante che realizzò che la Robredo l’attirava a sé pregustando la seconda portata. Trovò la forza di gridare e ribellarsi. Scalciò, cercando un appiglio con le mani. Altri cavi giunsero ad abbracciarla schioccando nell’aria. Le strinsero la gola e le braccia, strattonarono

sollevandola da terra e sbattendola come un polpo appena pescato. La Robredo aveva fame di carne tenera.

Pasticche di Luca Di Gialleonardo

Nanuk si fece scappare una bestemmia quando il piede scivolò a pochi i dal relitto. Lo guardai allargare le gambe sperando che si lussasse una coscia o che almeno si congelasse le palle sul ghiaccio. – Cazzo guardi, puttana? – sibilò verso di me mentre si rimetteva in piedi. – Dammi una pasticca, piuttosto. Gliene misi una sul palmo inguantato. Il relitto eclissava il sole nascente e proiettava una lunga ombra verso la carovana accampata. Nanuk continuava a rumoreggiare sul perché non ci limitassimo a tenerci a distanza dai relitti che ammorbavano la zona. Da avvelenatore sapeva benissimo la ragione. Ma a lui piaceva lamentarsi in continuazione. – Hai controllato le esche? – Fatto – risposi agitando il sacco. I ratti non erano molto svegli, ma erano vivi. – Allora preparane una e amela – ordinò iniziando la circumnavigazione del relitto. Stavolta la nave catturata dal ghiaccio era piccola, non doveva arrivare a diecimila tonnellate di dislocamento. Probabilmente era stata utilizzata insieme ad altre sorelle per catturare mezzi più grandi, sfruttando la velocità. – Allora? – Nanuk agitava verso di me una mano aperta. Guardava una spaccatura nel metallo, con i bordi coperti di brina ghiacciata. Mi strappò il ratto mentre stavo ancora inoculando il veleno. – Non sai fare un cazzo. Non sei buona neppure come vacca da monta – borbottò scagliando la bestia nella fessura. E allora perché mi prendi ogni notte? avrei voluto chiedergli. Mi limitai a seguirlo alla ricerca di altri varchi da sfruttare. Nanuk si voltò a guardarmi,

tirandosi la mascherina sulla fronte. – Problemi? – ringhiò. Notai lo sfarfallio di luce sulla tempia. Solo un rapido riflesso del sole. Sorrisi e scossi il capo. – Un’altra pasticca? – gli chiesi, porgendogliela. Nanuk infilò la pasticca in bocca, prima di riabbassare la mascherina. Tra non molto avrebbe capito che da giorni le compresse che gli davo erano fasulle. Buon per me, era ormai troppo tardi: il Morbo aveva attecchito, finalmente.

Progenie di Cristina Donati

Emerse dalla sabbia tossica con uno sbuffo di vapore e attivò la vista stereoscopica. Le dune sembravano senza fine, ma la collocazione definitiva era incisa a ferro e sangue nella sua mente homo–meccanica: Robredo. Avvistò un cespuglio spinoso, il vento era quello giusto. Le articolazioni motrici inferiori s’irrorarono di lubrificante mentre correva per catturarlo. Mangiò la Ghmor che lo occupava assimilandone tessuti e annessi cutanei, poi si rannicchiò all’interno e si lasciò trasportare. – Io sono un errore – mormorò attraverso il fonocilindro che le dava voce – mi hai espulso, un piccolo uovo fecondato, assieme agli scarti che colavano fra i giunti. Sono sopravvissuta e ora sto tornando a casa, PadreMadre. Giunse davanti alla carcassa spiaggiata della Robredo e sgusciò fuori dal suo trasporto. Resti vetrosi sparsi sulla sabbia riflettevano come specchi anomali il suo corpo biomeccanico: capelli sbiancati dai veleni, gambe lunghe, occhi color carbone. Sull’enorme relitto, croste di ruggine e guano disegnavano misteriosi arabeschi. Sentì la pulsazione che si annidava dentro le lamiere morte. Puoi ingannare gli Avvelenatori ma non me, pensò. Una vecchia canzone di suo nonno Victor, ufficiale di bordo mai più tornato, s’inserì negli ingranaggi cerebrali di carne e ottone:

Dolorosa ci fu la partenza, Il ritorno per tutti non fu.

Pianse lacrime d’acqua purissima, poi si concentrò sul proprio compito: penetrò nella plancia della Robredo e attivò il detonatore che aveva nel torace. Notò uno pneumosnodo staccarsi e fuggire. Gli antichi neuroni umani ebbero un sussulto di memoria. – Cardanic – urlò – tu sia maledetto! Tu e tutti i tuoi simili! Poi il suo corpo esplose. Mille schegge impazzite sventagliarono ovunque perforando paratie, infettando ingranaggi, incastrandosi nelle ruote dentate. Subito dopo, tra aliquadre impazzite e fumi densi – colore e odore di prugne marce – uno sciame metallico volò fuori nel deserto e iniziò la caccia.

Una notte a Chatarra di Giovanni Faraone

Ramon si rannicchiò sotto una tettoia arrugginita e si guardò intorno. La pioggia cadeva fitta su Isla de Chatarra, un velo d’acqua avvolgeva ogni cosa nascondendo l’orizzonte. Tornare sulla terraferma era impossibile. Adagiò le sacche di iuta contro una parete e sedette sul pavimento. Le esche all’interno di uno dei fagotti squittirono nervosamente. Le dosi di veleno che aveva rubato erano al sicuro nella bandoliera. Il metallo risuonava cupo sotto i colpi pesanti della pioggia. Si sistemò la mascherina e cominciò a scrivere sul taccuino su cui teneva il resoconto dei relitti ispezionati.

Sono bloccato su questa maledetta isola. È stata una caccia faticosa ma alla fine ho trovato più reliquie di quanto mi aspettassi. Lasciò scorrere le dita guantate sulla sacca con il suo prezioso bottino.

La pioggia dopo qualche ora cessò, lasciando il posto al suono di una miriade di gocciolii lontani. Accese la lampada a olio che aveva portato con sé e al debole chiarore della fiammella riprese a scrivere.

Intorno a me solo buio fitto, sembra quasi una sostanza solida! Ho sentito un rumore strano, proprio adesso, sembrano dei i…

Un uomo stava ritto davanti a lui e gli puntava contro una piccola balestra. Non parlò, gli indicò una delle sacche. Ramon annuì, prese l’involto, poi le sue mani si mossero in fretta: lanciò la sacca. L’uomo premette il grilletto. Ramon si gettò di lato e la freccia si perse nel vuoto. Dalla sacca fuoriuscirono due ratti del deserto che si aggrapparono al collo dell’uomo. Il suo grido si levò furioso. Cominciò a correre, cercando di strapparsi di dosso i roditori. Lo vide sbattere con violenza contro una canna fumaria, che si sfondò lacerandogli i vestiti e la pelle; poi barcollò, e infine cadde con uno schianto al livello inferiore. Ramon strinse con forza l’involto con le reliquie. Era tutto finito, l’altro cacciatore non sarebbe tornato. Aveva visto le sue ferite, il morbo avrebbe fatto il suo corso.

Le ruote di Syracho di Salvo Figura

Dall’interno dello scafandro ne osserva il veloce arrampicarsi sulle dune. Granello dopo granello, l’insetto nero spazza via la sabbia davanti al muso, la trancia e la a alle zampette intermedie e da queste alle posteriori, pelose e lunghe. Le anteriori hanno ciascuna, sulla faccia esterna, quattro triangoli smussi e affilatissimi. È con quelli che spacca i granelli. Di giorno, nel fulgore solare, Syracho ne ha catturato più d’uno: – Scarabrena, insetti schifosi! Si nutrono di sterco ferroso e umori animali, umani inclusi. Ne schiaccia uno su un sasso e sente il crocchiare del carapace, quasi fosse un crostaceo. Ne schizza fuori un sangue scuro, puzzolente come olio bruciato e merda umana.

Il sole tramonta e l’insetto ha percorso in sei ore tre dune, lasciandosi dietro un binario di triangoli che il vento ricopre lesto. – Garrasco, costruirò dei triangoli simili ai loro e li applicherò alle ruote del Cardanic! – esordisce appena rientra. – Di gomma dura, li farò, e guadagneremo sei dune l’ora in velocità. Non c’è nave che potrà competere. Il Guardasabbia osserva Syracho, il suo fabbraruote. Sa quanto è bravo. Ha più intuito e crudeltà di chiunque altro. Lo osserva sventolare la zampetta tranciata allo scarabrena, come fosse un trofeo. – Perché gliel’hai strappata? Come farà adesso a camminare? – Che importa? Le tre dune verso casa le ha percorse e se i suoi piccoli moriranno di fame… poco male. Ce ne sono a migliaia, là fuori, accanto agli scarichi dei liquami.

La notte scende veloce e Syracho dorme nella brandina che fu di Victor. Ha tolto lo scafandro che lo fa sudare ma lo protegge dalle sabbie tossiche. Migliaia di scarabrena entrano dagli sfiatatoi e salgono lesti fino all’anca del dormiente. All’unisono tranciano di netto la coscia dell’uomo, come granelli di rena. – Come farà adesso a camminare? – accorre allarmato Garrasco. Tre lunghi fischi risuonano dal fumaiolo di prua. A modo suo Cardanic risponde: – Mi sono alleati! Che importa? Abbiamo percorso sei dune…

Un dono per lo Ghmor di Lorenzo Fontana

Un ventaccio marcio spazzava la mesa, trascinando migliaia di cespugli di salsola che rotolavano come batuffoli di polvere. Yussouff avanzava a fianco del padre, il busto proteso in avanti contro le raffiche e gli occhi puntati al terreno infestato di residuati bellici: metallo tagliente, rugginoso e infetto. Sulle spalle le aliquadre si dibattevano nelle gabbie, gridando senza sosta. Un enorme groviglio di rami cambiò traiettoria, rotolando verso di loro per arrestarsi a pochi i. Arbusti levigati avvolgevano un nucleo bronzeo dal quale emerse una figura vestita di borchie e pelle nera. Yussouff si nascose dietro Rashid, che sussurrò: – Non temere, è solo uno Ghmor. – Figli delle sabbie – disse lo straniero alzando il braccio nudo, sporco d'olio e di tatuaggi. – Salute a te, figlio del vento. Cosa ti spinge così a nord? – Affari miei, occhio guasto! Se non sbaglio mi devi qualcosa, no? Rashid ignorò l’offesa, districò l’arco dalla spalla e glielo porse. – Accettalo, è il mio bene più prezioso. Lo Ghmor alzò sulla fronte gli occhiali specchiati, rivelando due gemme d'acciaio che si puntarono su Yussouff. – Hai con te anche un bambino. Vale forse meno? – Mio figlio. Nessun prezzo è congruo per lui. – Lascia che venga con me e io gli donerò il sapere. Conoscerà il mondo. Rashid scosse la testa. Lo Ghmor esitò. – Allora dammi gli uccelli.

– Dobbiamo venderli in città – intervenne timido Yussouff. – Al Suq. Lo Ghmor sorrise sghembo. – Me ne basta uno. Il padre annuì. Yussouff staccò una gabbia e la consegnò allo Ghmor, che gli porse i suoi occhiali. – Il patto tra nomadi è rinnovato – proclamò. – Questi sono per te, marmocchio, affinché tu riconosca la verità in ciò che ti circonda. Yussouff li provò e le tenebre scesero a rivelare un mondo stremato. La luce di Rashid mutava d’intensità, come se l’avanzare della malattia spegnesse a tratti la scintilla della vita, mentre quella dell’altro uomo era luce pura. Yussouff la seguì, incantato, finché non scomparve nel misterioso veicolo.

Despero di Andrea Franco

Rumore. Di metallo che bacia metallo. Leyan alzò la testa e trattenne le lacrime. Poi si voltò verso Settimo. Il bambino la anticipò: – Sta tornando? – Graffi di emozione nella voce. Leyan trovò la forza per annuire, poi indicò l’apertura che la Despero aveva aperto. Non doveva dire nulla. Settimo sapeva quello che gli veniva ordinato, ma il sorriso si spense. – Quando potrò vederlo? – Quando sarai grande… va’. Tre i strascicati e sparì nell’incavo. E il pannello si chiuse. La Despero rispettava i patti, fino a che lei faceva altrettanto. Rumore, più vicino. E un altro pannello aperto, di fronte a lei. Leyan abbandonò la schiena alla paratia fredda. Meccanica più della nave stessa, chiuse gli occhi per non doverlo vedere ancora, poi afferrò i lembi della gonna e la sollevò sulle cosce. Settimo non poteva sentirla, ma cercò di non piangere.

La prima volta che lo vidi pensai che mi avrebbe divorato. Gli uccelli mangiano carne umana? Ma… compresi quasi subito. E provai a respingerlo. Fu allora che capii quanto male poteva farmi la Despero. La mano rimasta incastrata nel pavimento di metallo della nave l’ho dimenticata da tempo. Dopo dodici anni sembra normale essere prigioniera qui, senza potermi muovere. Mi porta animali morti. Ogni tipo di essere. Li mangio e faccio quello che vuole. Non so nemmeno se ha un nome, se ha una voce umana. Da tanto tempo ho smesso di piangere per i tagli che le piume di metallo mi infliggono tra le cosce e…

– È andato via, mamma? Leyan annuì, gli occhi lucidi. Non aggiunse altro. Tra le gambe sentiva ancora il caldo fuoco del pistone metallico che l’aveva invasa. Qualcosa le colò tra le cosce. La speranza di una nuova vita. La speranza insana della Despero. Guardò Settimo e sorrise, con amarezza. Così diverso dagli altri, eppure tanto simile. Chiuse gli occhi per non vedere le scaglie metalliche che ricoprivano il corpicino del figlio. Se faccio quello che vuole, pensò, lui non se lo prende. Lui no, stavolta. Devo solo resistere.

Single Steel Whisky di Andrea Franco

Slannnnnck! Lo pneumosnodo deve esseri mosso. – Mi fai… uscire? – Alzo appena la testa, senza riuscire ad aprire gli occhi. Il silenzio che segue è intenso quanto un’allucinazione. Provo a tirarmi sui gomiti, ma è un tentativo inutile. Il Morbo. Ricordi che tagliano la consapevolezza come lame roventi, rigettandomi all’indietro. Soffio via l’aria dai polmoni. Le labbra screpolate neanche sanguinano più. Ogni respiro è un rantolo che si arrampica lungo la gola, con unghie marce di catarro. Socchiudo gli occhi e metto a fuoco la bottiglia. Ancora pochi sorsi, merda. Era lì per festeggiare qualcosa, accompagna invece la mia morte. Allungo la mano, sibilando una bestemmia.

Ho fatto appena in tempo a raggiungere lo pneumosnodo. Non so cosa cazzo sia successo alla Robredo, ma nel deserto c’è poco tempo per le domande. Prima salvi le palle, poi ragioni. Osservo il busto di Ricardo. Cristo, ce l’aveva quasi fatta, prima che la paratia lo segasse a questo modo. Ho letto da qualche parte che a lui ci penserà la macchina. Aspetto solo di vedere come. Ho trovato una vecchia bottiglia. L’etichetta è rovinata. Leggo solo “GlenDr…”, e sotto: Single Malt Whisky. Sono salvo. La berrò per festeggiare l’arrivo al porto.

Swannnnk! Trshhhhhh! Un altro movimento nell’istante esatto in cui ho le dita sul collo della bottiglia. Lo scossone mi sospinge di lato. – Dannazione – sibilo. La bottiglia mi scivola, si inclina di lato. Torturo le ossa per afferrarla ancora, ma peggioro la situazione. Mi sfugge via e cade, in un lamento di vetri. Grido, con quello che mi rimane di una fottuta disperazione. L’odore del whisky esplode nell’aria. Lo respiro come una droga e spendo le ultime energie per voltarmi faccia al pavimento. L’acciaio grigio sta bevendo tutto. Lecco ogni

goccia, ignorando i vetri taglienti. Pochi sorsi ancora, cazzo. Il mio Single Steel Whisky, penso. E riesco pure a ridere. Trshhhh! Slannnck! Siamo di nuovo in marcia.

L’invidia del metallo di Giorgia Rebecca Gironi

Sapeva quanto la amassi, per questo la sorprese di spalle. Estese il contagio sulla sua schiena, giù fino alle ultime vertebre. La pelle allora si era fatta dura e lucente. Ottone, in contrasto con i suoi sguardi azzurri. Con i suoi occhi, che sorridevano anche d’inverno. Lei aveva un’anima bella. Ci scherzava sopra. – La nave mi ha abbracciata – disse un giorno, accucciandosi per afferrare un ricambio strisciato sotto uno snodo, e lo disse scoccandomi un’occhiata maliziosa. Non le risposi. Ero lì dai dieci anni, mi era familiare ogni forma di disperazione, ma la sua no, non la capivo. Per questo mi attraeva tanto. Mi tirava dal fondo dell’inguine, da un punto di rosso di cui prima ignoravo l’esistenza. Il punto di Lila. Da cui germinava la gelosia per il metallo che l’aveva toccata. Che era diventato parte di lei, come io non sarei stato mai. Lila era l’alba che riscalda le guance; ridente come le prime stelle, che lontano dai veleni del mondo fanno la ruota. Riconoscevo il suo o fra mille. Era così da sempre, l’orecchio teso alle eco lungo i corridoi, al vibrare dei ponti sotto ai piedi nudi. Anche se non lo disse mai, lei sapeva. E ne era felice. Ma anche lei sapeva. E non ammetteva felicità alcuna. Non so se la nave desiderasse Lila quanto me o se lo fece solo per capriccio, ma fu lei a condurmi fino al laboratorio, il giorno in cui la prese a sé. Fu allora che il punto di Lila si ruppe. Come fegato, disfacendosi in sangue. Quando la vidi. I capelli corti incollati alla fronte, gli occhi ridotti a muto vorticare di acque

grigie. La mia Lila, di spalle alla parete, che si lasciava abbracciare. Metallo su metallo, dolcemente la parete la traeva a sé. Dalle sue labbra non nacque un lamento. Era come se stesse nuotando a dorso in un mare d’oro scuro; pochi istanti e della parte emersa non sopravvissero che il viso, le gambe e gli avambracci. Fu allora che mi riconobbe. Le pupille si allargarono, la bocca si schiuse in un sorriso. O forse fu solo un sospiro.

Ascensione di Barbara Gisolo

– Perché non sull’Afritania? – Non finirò questo viaggio, e voglio tornare, almeno da Interno. Il viso del giovane era una maschera cangiante al riverbero acido dei pozzi. Il Morbo. Non era il caso di illuderlo che ce l’avrebbe fatta. Però quella dannata nave aveva bissogno di un pilota. – Ma che ti frega, allora? Questa o un’altra, cosa cambia? – Su questa si torna solo da vivi. – Il giovane abbozzò un sorriso. Terrificante. – Ho sentito una storia, una volta. Probabilmente risale a tantissimo tempo fa, quando le grandi navi non avevano ancora mostrato la loro demoniaca natura. I cantieri avevano schiere di fabbri che lavoravano per forgiare il metallo, e le loro famiglie vivevano in città stanziali costruite intorno. La più grande si chiamava Ascensione. Felipe e Dolores Bray abitavano lì, al modulo 6.

Un cicalino d’allarme e uno sbuffo di vapore nauseabondo. Dol riprese a camminare, così da tenere a bada il travaglio. Non aveva ancora deciso. Una fitta le strappò un grido. Alla sua sinistra un nastro traportatore si mise in moto gocciolando olio. Portava gli attrezzi per la Consegna. Un braccio meccanico le posizionò il secchio più o meno tra le gambe. Dol decise in quel momento. Con i primi tre parti aveva pagato il modulo. Questo sarebbe vissuto, anche se significava rinunciare alle finestre di vetrogel e ridurre il calore notturno.

– Che storia! – ghignò l’ufficiale.

L’altro continuò, serio: – Quando Felipe rincasò a fine turno, la settimana successiva, il modulo era irriconoscibile. La temperatura altissima. Due cinghie avevano sollevato il lavello e lo facevano oscillare anvanti e indietro, sferragliando come un meccanismo inceppato. All’interno un neonato era nutrito da un ago infilato nella pancia. Di Dol restava solo la voce. Si chiama Garrasco, ripeteva. Adesso dicono che Garrasco D. Bray sia tornato a casa e non accetti nessuno intorno a sé, tranne sua madre. I moduli di Ascensione furono usati per allestire le città mobili. Il 6 è la plancia dell’Afritania.

Maree metalliche di Miller Gorini

Le nubi si sono alzate, la luce delle lune le rende un deserto candido e inconsistente. Un deserto di trappole, di morte. Sono rimasto solo, l’unico a non essere stato inghiottito dalle voragini create dal metallo mobile. La sabbia e il veleno sono un ricordo. Lontano. Centinaia di metri più in basso, da quando il metallo ha conquistato il cielo, arrampicandosi con un grande arco. Un arcobaleno di ruggine e clangore. Sono al riparo, dentro la tenda di grafene. Isolato dai fulmini orizzontali. Li vedo correre, sfrigolano e schioccano come fruste. Attendo che finiscano, neanche la tuta e gli stivali di gomma possono isolarmi, quando sono così intense. Le lastre di ferro, sotto il pelo delle nubi, sembrano respirare. Si inarcano, attratte dalle lune che orbitano attorno a Mondo9. Alte e basse maree di metallo. Ci sono momenti in cui credo che la Robredo sia solo una leggenda popolare. Racconti gonfiati e costruiti per ravvivare la dura vita del deserto. Eppure mio padre mi ha insegnato a comunicare con gli Interni e le voci sembrano così vere, reali. Soprattutto quella roca e profonda del mio trisavolo: Garrasco D. Bray, comandante della Robredo.

I pensieri di Garrasco III erano vischiosi. Intossicati. Prese il tester dell’ossigeno, lo posizionò sull’indice e fece scattare l’ago. Il livello di anidride carbonica era troppo elevato. Ingoiò una capsula di ossigeno concentrato: la dose gli sarebbe bastata per una settimana. La sabbia non era l’unica cosa che scarseggiava, in alta quota. Rimanevano soltanto tre capsule ed era disperso in chissà quale parte di cielo. La rabbia lo assalì.

Tre colpi, pausa, due colpi. Le lastre di metallo scivolarono, lo sfregamento creò una ragnatela di fulmini. ‒ Ha un senso la mia ricerca? ‒ domandò disperato.

Mi chiedi se ha un senso. Hai evitato la morte grazie alla mia guida. Ti porterò alla plancia della Robredo, e porrai fine alla sua esistenza. Io, Garrasco D. Bray, sarò la tua mente. Tu, il mio giustiziere.

La tuta di Reginald Graham

Si chiamava Xtax’X, come la città a cui era addestrato a tornare. Grassoccio, pronto per il viaggio che l’aspettava, l’insettoratto sbatteva le ali per asciugarsi la pelliccia umida. A terra, poco distante dalle sue zampe rosse, un uomo grugniva di dolore e ira, premendo forte il lapis su un foglio, quasi forandolo.

Ho mangiato l’ultima barretta di destrocacao due giorni fa, da quando sto col culo a terra in questo fetido corridoio limbo. Immagino bene cosa accadrebbe se cercassi di raggiungere la sacca dei viveri con le gambe che non mi sento, come la spalla destra, del resto. Ho la lingua gonfia, le mani chiazzate e sto perdendo la vista. Il cibo, penso, sarebbe inutile. A Emanuid è toccata invece una puleggia sul collo. Gli ha troncato la testa, lasciando al suo posto corde di sangue che hanno sventolato un po’ per aria. Chatarra, questo rigurgito metallico putrescente, esala il fetore di mille coscienze, strette insieme in un fottuto amplesso necrofilo. Ha atteso ben sei giorni perché raggiungessimo un’autobotte sufficientemente forte da ammazzarci. Aveva capito quello che noi già supponevamo: le tute, ricavate dal bozzolo spinoso degli Ghmor, funzionano. Avremmo dovuto intuirlo prima, vedendoli attraversare indenni interi deserti. Come loro, siamo rimasti protetti dal Morbo, galleggiando tra gli incubi di Chatarra, mentre lei aspettava il momento giusto, peggiore del più infido dei mangiaruggine.

Con me ha usato uno scivolo che, staccandosi dalla sua sede, mi ha ferito una spalla, lacerandomi la tuta (irrobustitela, ma non ispessite troppo l’avvolgitesta). Finito. Lo scotto è stato alto, fate buon uso di ciò che ora sapete.

Stefhul, Uomo della Gilda

Post Yazili Nota personale: Ti amo, Nichò

L’Avvelenatore accartocciò la lettera, piangendo e facendo stridere i denti dalla rabbia. Mise la palla di carta nel cesto posto a tracolla di Xtax’X che s’immobilizzò, quasi caricandosi, prima di schizzare fuori dal vicino boccaporto, ronzando, in fuga verso il cielo color peltro.

Segugi di Claudia Graziani

Non so quanto di umano fosse rimasto in me. E neppure m’interessava saperlo. Il mio destino, ormai, era inciso nel cielo fulgido di Mondo9. Per sempre. Speravo però che Marlen si salvasse dalle fauci del colosso metallico. Era riuscita a fuggire, scatenando le ire della nave. La Robredo trangugiava cibo dal suo interno e macinando corpi aveva mutato il deserto in un olocausto di carni straziate. Anch’io, a modo mio, appartenevo al metallo. In me avanzava uno strano senso di riluttanza verso tutto ciò che era molle, organico. Vagavo per lande desolate e iniettavo sostanze letali. Poi trascinavo a bordo, nell’ombra, i corpi delle mie vittime. Diffondevo un morbo irruento, che agiva adagio logorando tessuti e sangue. In cambio mi assicuravo vitto e alloggio nel ventre di una delle unità autosufficienti della nave. La nostra simbiosi era nata per questioni di sopravvivenza reciproca. La Robredo però reclamava Marlene! E per questo sguinzagliò tra le dune i suoi segugi metallici, sentinelle gravide di ruggine e sabbia tossica. Sotto la luna, le saracinesche delle stive si erano alzate con un clangore di ferro vecchio. Bagliori di luci rosse pulsavano sulla prua di ciascuna unità. In marcia! Le dune al setaccio. Possenti ruote dentellate e ingranaggi affilati. Un tubo aspirava e centrifugava le prede, ma anche pietre e mangiaruggine. Clangore metallico e stridio di lamiere. Trovata! Carponi, le mani affondate nella sabbia tossica. Bave di sangue denso colavano dalle sue labbra. Osservavo il supplizio della povera disperata compiacendomi della mia opera. Una parte di me invece no, si torturava in silenzio. Ferite purulente gravide d’infezioni, carne cotta dal sole. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quell’agonia.

La donna rovesciò gli occhi all’indietro e si afflosciò sulla duna. Disputai il suo corpo ferito ai rostri aguzzi delle aliquadre e lo trascinai sulla Robredo. E intanto pensavo al tempo che avremmo trascorso in quel ventre angusto e oscuro. Soli io e lei.

Tabiade di Luisa Lajosa

Shania e la madre Hashian erano dirette a Tabiade, un piccolo agglomerato di vecchi pneumosnodi arrugginiti, tenuti dormienti dagli avvelenatori, dove vivevano stipate un centinaio di anime. In molti avevano contratto il morbo e attendevano solo di divenire “interni” a bordo del Nautilus, la nave che ogni mese attraversava le distese di sabbia tossica per recarsi verso le montagne. Lei e Hashian dovevano fare presto, non potevano permettersi di perdere la nave che le avrebbe portate via per sempre dal deserto. Erano di ritorno da Chatarra, dove avevano trovato ottimo materiale di scambio: una sacca da avvelenatore, contenente un paio di guanti zuppi di olio rancido, ampolle colme di veleni e tre uova di alaquadra ancora in buono stato, ma ciò che avrebbe garantito loro un posto a bordo, erano due corpi orribilmente mutilati, una giovane donna e un ragazzino. Lei galleggiava in mezzo alla schiuma grigiastra, lui era rannicchiato in fondo a un cumulo di lamiere. Li trascinarono a fatica nella piccola imbarcazione e si diressero verso il deserto. Tabiade era raggiungibile solo da terra, quindi dovettero proseguire a piedi rallentate dai pesanti fardelli. – Shania, ami il binocolo, mi è sembrato di vedere volteggiare dei maledetti uccelli, laggiù! –disse la madre. In lontananza videro un groviglio di rottami divenire sempre più grande a ogni o. – Che cos’è? – chiese Shania alla madre. – La Robredo – rispose Hashian. – Non farti ingannare dal suo aspetto morente, questa bestia è più viva che mai! Il tramonto imminente le costrinse a ripararsi in un antro della nave, tutt’intorno lamiere stridevano e si contorcevano.

– Stammi vicino, tesoro – disse Hashian. La puzza dei due corpi dava loro la nausea, ma provate dal lungo viaggio si assopirono. Il mattino dopo nella sabbia c’era solo la sacca, le tre uova si erano schiuse e le creaturine avevano trascinato tutti nelle viscere della bestia, che sbuffando un vapore fetido, soddisfatta ripeteva: – Stammi vicino, tesoro!

La cosa nuova di Fabio Lastrucci

Non ho occhi. Che lui sia fermo sotto di me lo avverto comunque: è carne (per lo più), materia umida. I miei ingranaggi, i miei assi rotanti ne hanno già fame. Da chilometri non macino altro che sabbia e calore. L’equipaggio mi ha servito bene, ma non abbastanza. Assorbire un naufrago inquinato dal morbo o un Ghmor fa poca differenza, ora. Sono materie prime, mi servono. Le ruote in attesa affondano nella sabbia venefica. I miei fianchi si muovono in una danza meccanica fatta di ascisse e ordinate. Girano cremagliere, metri di catene cambiano posizione dentro meandri nascosti, le piastre scivolano le une sulle altre. Sono pronto ad accoglierlo.

Il sole brucia il ragazzo tra le dune. Incuranti del deserto, i suoi piedi nudi mandano riflessi metallici. Poca la pelle a coprire ghisa e ottone. Sembra un nomade. Solo. Un fuscello che fronteggia una collina. La grande macchina sbuffante lo sovrasta, osservandolo con una flemma che sarebbe ingannevole scambiare per pietà. Mastica, il ragazzo. Rumina tranquillo producendo dei suoni striduli. Dagli stracci che lo ricoprono torna a estrarre qualcosa di spigoloso e lo porta alla bocca. Nel crepuscolo, la massa alta e scura della prua lo ha già seppellito d’ombra.

File di pistoni chiedono di riprendere la loro marcia. Tra i cilindri il vapore ruggisce. La percezione della forza trattenuta in ogni cardano parla con un

linguaggio tattile, che vibra negli ambienti invasi da fasci di tubazioni.

Lo sputo è improvviso. Le guance del ragazzo hanno espulso un bullone rosicchiato contro le lamiere producendo un lugubre rintocco. Al segnale emergono altri mutanti sbocciando da sotto la sabbia, si arrampicano veloci sullo pneumosnodo, strappano, predano e masticano. Sono centinaia di cannibali di carne e metallo. Locuste dalle salive acide, denti affilati, stomaci come crogiuoli.

Avverto il primo morso come un insulto. Indietreggio, slitto. Quando imparo la cosa nuova è tardi. Si chiama dolore, credo.

Nómadas rodante di Paolo Leonelli

Sputo nella sabbia infetta un dente raggrumato in un bolo di sangue e carne. Non credevo di sopravvivere alla caduta. Sento dolore su tutto il corpo, la testa mi esplode; e chiazze di ottone lucido hanno ricoperto la mano e l'avambraccio. Questa gente mi ha raccolto mezzo morto nel deserto. L'Afritania è un ricordo. Gli arcani Nómadas rodante, devoti dei cardi mangiaruggine: di quello gigantesco che ha distrutto la Robredo. Sono legati da un filo invisibile alle creature che adorano come dei. Lo seguivano. Raccattano gli scarti delle sue incursioni. La giovane donna avvolta in un pastrano di metallo e stoffa lurida mi porge un siero biancastro in una coppa metallica – non oso chiedere con cosa è fatto: il sapore è disgustoso, l'odore sa di olio caldo e carne putrefatta. Da ore sono sdraiato tra di loro, su una grande lastra di ottone brunito, legato con cinghie di cuoio secco; sono una squadra di tre, seduti su escrescenze del metallo. Uno è alla guida della slitta trainata da un globo formato da un intreccio di cavi, pulegge e lastre di metallo arrugginito che rotola sulla sabbia e sbuffa vapore misto a schizzi di materia rossastra. La donna si prende cura di me, non parla. Mi guarda contorcermi dal dolore scosso dai sobbalzi del viaggio. Muovo il braccio; sembra tornare la sensibilità delle dita, vedo il metallo regredire e la pelle tornare viva. Sono coperto di lividi e di tagli che da qualche minuto spurgano una poltiglia di sangue e metallo morto. Il ragazzo getta olio e acqua biancastra sul globo rotolante. Scorgo a poca distanza altri gruppi formati da tre o quattro nómadas. Comunicano a gesti. Sopra di noi alcuni gabbiani e un'alaquadra svolazzano in circolo, paiono sorvegliarci in attesa di un nostro o falso. Con la testa ciondoloni scorgo, nel riflesso del sole calante, un tubo di gomma attaccato all'ombelico del guidatore che scorre diritto verso il globo. Rifletto. Questo è uno dei loro segreti, dunque. Carne viva e metallo uniti.

Sotto il ghiaccio di Paolo Leonelli

– Mendigooos! L'urlo della vedetta squarciò l'aria gelida e la piccola carovana si bloccò all'istante. L'insieme di imbracature di cuoio e catene sfrigolò in una teoria di suoni e schegge di ghiaccio impazzito a contatto con la scocca del carroslitta. Le stalattiti di muco gelato attaccate alla barba del capofila dondolarono nell'aria mentre frenava con i talloni ficcati nel gelo. – Maledetti! – mormorarono quasi in coro gli uomini con lo sguardo piantato verso il basso. Per un breve istante, un silenzioso terrore circolare s'impossessò del gruppo.

Un lieve bagliore mattutino scivolò sulla banchisa. Saldado strizzò l'occhio, e fece cenno alla carovana di restare in silenzio. Immobili. Sotto i loro piedi si intravedevano le groppe metalliche di un trio di mendigos che zigzagavano in cerca di cibo. Le loro sagome quadrangolari avanzavano oscurando il ghiaccio maleodorante. Saldado imbracciò l'arco e scoccò, il più lontano possibile, una freccia con la puntavapore. I tre mendigos, attratti dalla forte esplosione, si lanciarono verso il punto d'impatto. – Presto! – bisbigliò. – Muoviamoci a o lento, senza far rumore. Gli uomini, stringendo i denti, si diressero dalla parte opposta facendo ruotare il carroslitta e il suo prezioso carico; Saldado si aggiustò la benda e puntò lo

sguardo sorvegliando le sagome scure.

Uno schianto. E capì che la tattica non aveva funzionato. Il più grosso dei mendigos, emergendo, aveva spezzato la lastra di ghiaccio dirigendosi verso di loro tra schizzi di acqua salmastra e sbuffi di materia putrida. Il rostro dorsale brillava in aria minaccioso mentre le pinne pettorali vorticavano raschiando la superficie gelata. – Disperdetevi! – urlò Saldado, agitando le mani in aria. – Ma il carico? – strillò il capocarro gettando a terra pulegge e cinghie di traino. – Chissenefrega! – rispose. – Pensa a salvarti il culo – disse correndo. – Di cadaveri infettati dal morbo per le Fonderie di Castedo ne troveremo altri…

Paura indigesta di Libera Schiano Lomoriello

D@t correva tra le dune, tutto ricoperto di metallo. Era ancora sano, l’armatura infatti sembrava del tipo usato dai cavalieri medievali. Nulla di vivo. L’antica lega non lasciava neppure un’unghia visibile. Visto il rischio, che una caduta nella sabbia tossica avrebbe comportato, era felice di averla indosso, nonostante il caldo sfiancante e il sudore che gli colava in ogni anfratto. Avvertiva di non essere al sicuro, lì, ma non sembrava braccato. Spesso muoveva intorno lo sguardo: nessun essere lo inseguiva, né in terra né in cielo. Era conscio solo di non potersi fermare. Da quanto tempo andava avanti in quel modo? Era quasi sicuro di non aver fatto altro nella vita. Quasi tentato di lasciarsi andare al veleno di quei granelli finissimi, pur di riposare. Quasi convinto ad arrendersi, qualunque fosse il pericolo da cui scappava. Quel deserto infinito non presentava montagne, neppure all’orizzonte, quindi nessuna caverna in cui rifugiarsi. Niente oasi in cui trovare ristoro. D’un tratto gli occhi trovarono un respiro di sollievo, e il riverbero giallo gli diede un attimo di tregua. Giusto per scoprire due orribili insetti, o quello che erano, che copulavano sui suoi gambali. Quella vista gli schiarì le idee e gli diede nuova carica.

Anche l’alaquadra, che gli aveva offerto quel battito d’ombra, assunse un diverso significato. Molto pericoloso. Le immagini di tutte le coppie improbabili che aveva visto provare a fare sesso, prima di iniziare la sua corsa, lo assalirono.

Non gli era ben chiaro cosa avesse spinto tutto Mondo9 a cercare il piacere carnale, ma quando aveva sentito quell’ermafrodito della nave emettere un gemito sinistro, aveva compreso che un morbo peggiore di tutti quelli conosciuti si era appropriato della SUA realtà.

D.T. si svegliò di soprassalto. Il sapore metallico dei peperoni, mangiati la sera prima, ancora in bocca e, davanti agli occhi assonnati, le immagini degli innumerevoli racconti letti, che si mischiavano all’incubo non del tutto svanito.

Decisione divina di Sandra Ludovici

Pronta al riposo, la Luna avvolse il corpo nelle grandi ali e spense il lucore del niveo diadema. A oriente, il carro del Sole attraversò il cielo inondando di raggi ardenti l’isola sacra dell’eterna armonia. Tra le trasparenze variabili, il consesso degli Dei era giunto al culmine. – Signore del cielo,ho fallito! – Il messaggero depose ai piedi del dio la verga sottile. Si guardava attorno irrequieto, consapevole di non essere riuscito nell’opera di conciliazione degli interessi degli umani e delle loro macchine dannate. Sentiva su di sé glisguardi degli Eletti: la dea dell’amore e della bellezza, la dea della vita e della concordia, il dio delle battaglie e del tempo, il dio delle acque e dell’oltretomba. Ma egli temeva il re degli uomini che scuoteva i destini dei viventi. Il Dio tamburellava con le dita sul rapporto del messaggero, condividendo telepaticamente le informazioni con tutti i presenti. – Il pianeta, un tempo fertile paradiso, è ora un fiume di dolore, di oblio, di lamenti, di fuoco, una cancrenosa palude di disperazione. È in corso una guerra feroce tra macchine senzienti che rivendicano il diritto all’esistenza ed esseri umani schiavi, mutilati e riciclati, spremuti come olive nei torchi: olio lubrificante e pensiero essenziali. L’aria contaminata da acidi raccoglie il volo di ibridi uccelli scaduti al rango di nutrici e le sabbie del deserto veicolano infezioni strazianti, il morbo che metallizza la carne viva. Tutt’intorno, tra il puz zo di lacrime marcite, i cardi mangiaruggine aggrediscono i metalli corrosi come gli Avvelenatori la ferraglia mostruosa. La paura e l’orrore si alimentano a vicenda. Unica soluzione: morte.”L’occhio che tutto vede mirò il pianeta e le sue molte lune. Un sospirosquassò il petto del Sommo. La voce risuonò possente: – Mondo9… mah, Mondo9. Un errore di creazione ridondante. Ma che nome è, perdinci?

Tirò verso di sé la mappa planetaria e cancellò, con un tratto deciso di pennarello, il pianeta corrotto.

Khir di Sandra Ludovici

Nel buio spettrale la nebbia corrosiva riempie i desolanti spazi, pregni di orrore e di paura, in cui ogni segno di vita sembra in antitesi con essa. La guerra tra le macchine senzienti e gli schiavi umani, carne e sangue da assorbire e riciclare per l’eterna sopravvivenza, è finita da tempo. Vincitori e vinti hanno inceppato il meccanismo di sabbia del male. I mostri, annientati nella mente, giacciono insepolti tra le dune infette del pianeta dannato. Le anime mute hanno trovato riparo tra le rovine della città,ai confini del deserto, in lotta perenne contro il tempo che darà forma al futuro.Noi, Khir, siamo le vittime collaterali della folliadi una civiltà alienante priva disognatori capaci di concedersi il lusso di sperare. Le nostre abitudini sono notturne; gli ultrasuoni emessi dalla bocca consentono di muoverci tra le concrezioni all’interno delle grotte, nostro rifugio. Non camminiamo, non corriamo ma voliamo e siamo in grado di gareggiare in ferocia con gli ibridi che infestano il cielo bastardo sopra di noi. Il conflitto ha sterilizzato l’ambiente privandoci delle prede che costituiscono il nostro cibo. Non siamo parassiti ma parassitoidi, costretti a uccidere per il nutrimento e la riproduzione. Il segnale ha raggiunto tutti i membri della colonia. Questa notte scoveremo gli umani, seguendone le tracce odorose. Il nostro veleno non conosce antidoto, non è mortale ma paralizza. Potremo,cosi, provocare le ferite da cui leccare il sangue, succhiare i gangli cerebrali e calmare la fame che non conosce tregua. Inietteremo nei loro ventri molli le uova da cui le larve usciranno per nutrirsi dei fluidi e poi dei tessuti, sciolti selettivamente. I corpi continueranno a vivere sino a quando i piccoli squarceranno l’incubatrice di carne e voleranno per iniziare fin da subito le danze del corteggiamento. Uno spiccato senso dell’universo sta per esplodere nella catena dell’evoluzione, entità vitale che non può essere distrutta, fonte di pianto e bava sanguigna.

Faust di Sandra Ludovici

Sono un cacciatore dello spazio e mi sono macchiato di una colpa imperdonabile. Ho spolpato un mio simile e la tribù mi ha scacciato dai terreni di caccia dell’universo. Sono stato abbandonato sul pianeta, con poche scorte e con Rel, la mia scimmia. Il luogo ha un fascino letale come gli aridi deserti dalle sabbie infestanti e le piante divoratrici di ruggine. Qui la morte si manifesta in strane forme, corollario di destini feroci al bivio di una guerra spietata tra macchine vive e un’umanità ridotta al rango di schiava nutrice. Rel soffre il caldo, la fame e la sete, come me. Dobbiamo allontanarci da quest’inferno o moriremo. La slitta arranca illuminando la pianura spazzata da un vento che s’attorciglia nell’aria gemmata di neve. In lontananza, il mare rumoreggia contro le scogliere bianche di spuma. Picchi di ghiaccio sfidano il cielo in un reticolo di lustrini scintillanti. La bufera corrode la carne; ho la mente intorpidita e Rel trema. La fenditura nella roccia sorprende e infonde sicurezza. Mi avvicino stringendo Rel al petto; per terra ci sono stracci macchiati di sangue e dal ghiaccio occhi spenti guatano i nostri corpi esausti e inzuppati. Dietro di noi, la spaccatura si richiude con uno stridio. Quella che pensavo fosse una caverna, in realtà è il ventre di una nave gigantesca del cui nome restano alcune lettere “R.br.d.”: c’è una gran puzza di carburante e macchie d’olio dappertutto. Ammassate sulle pareti, in balia di sentinelle in parte metallizzate, decine di misere creature si disperano, i volti divorati dal panico. Dall’alto, ibridi uccelli scendono in picchiata per afferrarle e buttarle dentro torchi giganteschi da cui, tra orribili urla, cola un liquido pastoso convogliato in tubi gocciolanti. Non provo comione per gli umani, né per me stesso. Farò un patto con la nave: in cambio della vita, le regalerò la mia anima dannata. La nave è sazia e sta per muoversi sulle grandi ruote.

Canticchia: … la guerra sia con voi, sino alla fine del tempo.

La statua di Sandra Ludovici

La missione è quella di interpretare la natura, la geometria e i manufatti del ato per svelare lo spirito, il senso della vita e ricostruire le sorti dei popoli scomparsi scovando i tesori di regni misteriosi e indecifrati. Io e Rick siamo archeologi, scienziati abituati a coniugare le nozioni di molte dottrine in una ricerca mai limitata da motivi temporali o spaziali. Abitiamo in un cassone antigravitazionale collegato al pianeta da un cavo a cui attracchiamo le navette per gli spostamenti a breve raggio. È obsoleto ma io cerco di tenerlo in ordine e di abbellirlo come posso. Oggi lo guardo con gli occhi di un amore diverso, quello che cresce dentro di me. Rick non osa chiedere, lo saprà a missione terminata. Manca poco, ormai. Questo mondo ha un fascino letale. Le sabbie, l’aria, tutto è contaminato; la fauna sembra composta solo da cheloni e la flora è disseccata. L’acqua è puro veleno; ricicliamo le urine, il vapore dell’alito e del sudore, sognando limpide sorgenti. Ha molte lune cangianti che saranno rese abitabili per le colonie che lasceranno la Terra sovraffollata. Da settimane frughiamo tra le rovine di un’antica città; abbiamo trovato papiri e tavole di metallo su cui sono rappresentati fiori tentacolari, navi enormi a ruote dentate, animali ibridi e figure umane con uno stile mai statico e dai molti contrasti di colore. C’è anche un labirinto di grotte. I corpi protetti da speciali scafandri, illuminiamo il buio e il terreno accidentato: il carrello, a guida automatica, servirà per portare fuori la statua. Finalmente l’ammiriamo alla luce del sole. È di metallo dorato, con sfumature azzurrine, ma il metallo non è compatto e lascia trasparire strisce di materiale sbiadito. Non ha occhi: è un enigma che sembra una minaccia. La mano di Rick mi stringe la spalla in una morsa: le sue urla sono strazianti, anche le mie. La statua si è risvegliata alla luce e ci avvolge con spruzzi di acido nitrocarico: siamo distrutti all’istante.

In memoria del padre – Grembo d'acciaio di Marco Phillip Massai

Faccio spesso sogni, in cui la luce del deserto è tanto intensa da impedirmi di vedere. Annaspo in una nebbia accecante, e grido una sola parola: papà! Dieci anni nel ventre oleoso della Robredo. Per ricordare il calore del sole non mi restano che questi incubi. Perfino l'immagine di mio padre comincia a sfumare: ne distinguo a malapena i contorni, ne odo la voce lontana, attutita, onirica. Ho memorie lucide di Rashid solo in quell'ultimo viaggio, prima della tempesta. Ripenso a quando avvistò l'alaquadra, alta nel cielo ruvido della mesa, e ci lanciammo in corsa dietro di lei, lasciando alle sabbie ciò che avrebbe potuto rallentarci. C'era un cespuglio di salsola, in distanza. Ci seguì lungo le dune, per tutto il tempo. (I diari di Yussouff)

Sono guarito, Yuss! Tu non mi senti, ma avrei tante meraviglie da raccontarti. Madre e carnefice, la Robredo ti ha avvolto nel suo grembo d'acciaio, e siamo ancora insieme. Batto metallo contro metallo, sotto il pavimento, e ti volti a guardarmi. Sono lacrime, piccolo Yuss? Vorrei stringerti, ma riesco soltanto a gocciolare giù dal soffitto, sporcandoti i piedi. Le uova: "Ti occuperai delle uova". Così ti lascerà vivere. Ti lascerà crescere. Ricordi il nostro ultimo viaggio? Io ricordo ogni cosa. Ricevesti un piccolo mangiaruggine, e sulla via incontrammo uno Ghmor, un figlio del vento. Ti chiese in dono, ma rifiutai: ti volevo accanto a me, volevo proteggerti.

Proteggerti… "Sarai il loro custode". Ritornando dal Suq avvistai l'alaquadra. Ora lo so: era il richiamo della madre, che planava nell'aria tersa del deserto. Ora scorro lungo le condutture del vapore, ti osservo mentre annoti le schiuse. Ho ucciso un uccello per te, stanotte, così potrai mangiare. Lo Ghmor ti avrebbe protetto? Forse. Ma non ti avrei più rivisto. Qui, invece, continuerò ad abbracciarti. Qui posso prepararti al mondo, posso essere tutto intorno a te, come il guscio di una nuova vita. Non è forse questo, ciò che un papà desidera per il suo bambino?

Oltre le dune di Paolo Ninzatti

– Madre, dicono che oltre le dune vivano altri esseri umani… Un ceffone, e la mia sfuriata: – A quindici anni credi ancora nelle favole, Alex! Sei figlio di Susan la Cacciatrice; è ora di crescere. Fuori dall'Oasi è impossibile vivere. Ricorda quel pazzo di tuo padre, ucciso dalla magia che trasforma la carne in metallo giallo! Gli tirai dietro un laccio. – Impara invece a usarlo, e porta a casa un po' di selvaggina, lazzarone!

L'indomani, qualcosa di ferroso e fumante sbucò da dietro le dune, su ruote. Ne uscì una folla che scortava una donna bellissima, che si presentò come la Pretessa della Dea Nave. Ella invitò la Tribù nel Suo Cuore metallico per il Sacro Banchetto. Il Cuore era una enorme sala, dove gli accoliti si prostrarono davanti alla Pretessa prima di uscire. Mio figlio se la mangiava con gli occhi, mentre la Tribù si abbuffava. Poi anch'ella uscì. Troppo in fretta. Sospetto. Presi Alex per mano e la seguimmo. Fummo fuori prima che la porta si chiudesse, in tempo per vedere enormi lame scendere dal soffitto. Dietro a noi la porta si chiuse, tra urla disperate. Maledetti adoratori di ferraglia! Volevo vendetta. Via per il corridoio vuoto, pedinando la Pretessa fino a una camera. Era sola. Scattai stringendole il collo col laccio.

– Non ucciderla, madre! Con lei come ostaggio possiamo impadronirci della Nave. Sapevo che non era per quello che la voleva viva, ma cedetti. – La Dea Nave vuole carne per vivere – protestò la prigioniera mentre la legavo, – ma sono io a decidere il suo cammino. Non oserete… Bavaglio e silenzio.

Fu più facile domare la potente Pretessa a suon di ceffoni, che mio figlio. Ella divenne nostra schiava, e noi padroni della Nave. Nuovi territori di caccia ci aspettavano, oltre le dune, nell'infinito sabbioso. Quel lazzarone la spuntò. Ottenne la preda migliore. La schiava divenne sposa. La felicità di Alex riempì il resto della mia vita.

Apoteosi di Paolo Ninzatti

Sentivo, quindi esistevo. Mi nutrivo, quindi vivevo. Godevo del contatto con la sabbia del deserto, delle sferzate del vento, delle gocce della pioggia. Temevo i grandi vegetali e i veleni. Creata nei cantieri dei Carnosi, vivevo in simbiosi con essi, come migliaia di altre sorelle di questo mondo. Noi trasporto, loro cibo. Come i nostri Creatori, ci guerreggiavamo e avevamo eroi e miti; come quello della Robredo. Ma io fui forse l'unica a ottenere l'Evoluzione. Dopo quarantatré anni ati a viaggiare, trasportare, combattere, fagocitare, un giorno sentii qualcosa di diverso dai soliti istinti primitivi. Come una luce. Ero una nave eggeri, quindi abituata a captare sensazioni di Carnosi, in una permanente rotazione, a servirli o nutrirmi. Una femmina, forse anch'essa un'evoluzione della sua specie, penetrò in me con lo Spirito, ella stessa sorpresa di tale divinazione. Io divenni la Dea Nave, e lei la mia Sacerdotessa. Ella mi guidò per il deserto. Predicò, e i fedeli divennero numerosi. Secondo i canoni dei Carnosi era bellissima. Attirava folle di suoi simili a bordo, procurandomi il Cibo del Sacrificio. Li ingannava promettendo loro un banchetto. Ma a banchettare ero io, la Dea Nave. Nella mia ingordigia divenni sempre più obbediente alla Sacerdotessa, anch'essa avida del potere che quella divina simbiosi dava. E i Fedeli, al sicuro dal mio appetito, la veneravano quasi fosse stata lei la Dea. Un giorno due Carnosi, madre e figlio, sfuggiti chissà come al Sacrificio, invasero le mie viscere e catturarono la Sacerdotessa, domandola alla loro volontà. Le sue direttive deviarono dalla Vera Via. Il giovane sposò la Sacerdotessa Schiava e divenne un comandante pirata. Io, Dea della Guerra, dovetti procurarmi il cibo combattendo. Il mito di Alex il Corsaro girò per Mondo9.

Per la prima volta, imposi la mia volontà alla Sacerdotessa, che sacrificò se stessa. La comunione con lei mi diede la forza di ammutinarmi. Non più dea, ma leggenda, come la Robredo.

Brevi memorie di un Avvelenatore di Catia Pieragostini

Mi chiamo Mizar Constantine e sono un artista. Con la mia ricetta segreta, sono l’outsider della Gilda. Riciclo microscorie di sabbia purificata, le amalgamo con le erbe medicinali ricavate dall’alga di lago, ne doso in modo perfetto la quantità da unire alla tintura di polvere di ruggine, aggiungo una parte di sangue animale… Creare il più potente “barbiturico per cargo” del pianeta richiede non solo perizia, ma anche un estro non comune. Il segreto del mio successo come alchimista non sta solo nell’inventiva, come non si può trovare tra le ampolle e i costosi alambicchi che maneggio con talento innato. Ciò che fa la differenza tra me e un Avvelenatore qualsiasi sono gli uccelli. Li ho osservati a lungo, li ho analizzati, li ho vivisezionati. Soprattutto, li ho usati. Perché ho capito. La loro empatia con le macchine è la chiave di tutto. Su Mondo9, uccelli e macchine hanno stabilito un istintivo patto di fratellanza. Patto che funziona appena coi gabbiani, ancora infettabili col Morbo, mentre trova perfetta soluzione con le aliquadre. Un’alaquadra trangugia qualsiasi tipo di carogna. Se è morta infettata, mangia le parti “sane”. Se trasuda veleno, non fa differenza: la inghiotte comunque. O la offre in pasto alle navi. Le alimenta come figlie. Per questo sono l’anello di congiunzione ideale tra me e le macchine da avvelenare. Tra me e la Robredo.

Ho peccato di presunzione. Lo capisco solo ora, quando è troppo tardi. Il veleno era efficace, ma le dosi non erano sufficienti. Avrei dovuto triplicare il numero di esche da spedire a questo cargo mastodontico con i miei “piccioni viaggiatori”. E avrei dovuto lasciare a qualcuno i miei quaderni. Morirò tra questi ghiacci senza che la Gilda conosca la formula giusta per avvelenare la Robredo. Fradicio, esausto, disperato, intravedo planare di fronte a me un paio di aliquadre e un gabbiano, forse. Sono qui per reclamare la loro vendetta. I dannati uccelli del malaugurio non hanno alcuna empatia con gli umani. Hanno solo fame.

L’inseguimento di Catia Pieragostini

Ansimanti, Rico e Haydid scivolano dietro la duna, illusione di un riparo. – Che conti di fare? – chiede il primo, col fiato rotto. – Non lo so. Non ce l’ho un piano B. L’ammissione strozzata di Haidyd arrivava troppo tardi. Lowna e Sara sono già precipitate tra gli ingranaggi della Robredo, nel ventre del cargo maledetto. La sacca piena di esche è caduta con loro e il veleno non era ancora stato inoculato. Sono morte per niente. Anzi no. Ancora peggio. Sono morte per svegliare del tutto la macchina. Ruggiti di lamiere scardinate, metallo che sfrega contro metallo. Rumori innaturali squarciano il silenzio torrido del deserto malato, oltre la duna, alle loro spalle. Gelo nelle vene e sudore che cola dalla fronte. Haydid è il primo a riprendersi. Grida: – CORRIAMO! E un’improvvisa folata di vento accompagna lo scatto della loro fuga. – Non arriveremo mai… alla carovana! – gorgoglia Rico. Non ha sciarpa sulla bocca. Granelli di sabbia infetta gli bruciano la gola. – Risparmia fiato! Dobbiamo tent… – La frase si perde dentro un altro colpo d’aria. Fragoroso. Repentino. Obliquo. Come una scudisciata mossa dal basso verso l’alto, in diagonale. Non è il vento. Da dietro la duna si è alzato lo stormo.

Manto d’ali così fitte e scure da occultare i raggi del sole rovente. Ombra nera sul deserto. Ombra di morte. I due tentano di aumentare la falcata, ma arrancano in modo sconnesso per improvvise vertigini, le mani alle orecchie, stringendo la testa. Grida di uccelli, a decine, a centinaia, lanciate con frastuono agghiacciante, irrompono nella mente. Una cascata di terrore. Poi iniziano le planate. A gruppi di due, tre, quattro. Evitando i volatili che frenano la loro corsa, Rico e Haydid procedono a zig zag per poco. Molto poco. Lo stormo che prima ammantava il cielo ora ammanta le dune. Avanza sulla sabbia verso gli uomini ormai immobili, schiena contro schiena, pronti a una lotta estrema quanto vana. Così gli abitanti della Robredo difendendo la loro casa, mettono fine all’inseguimento.

Esperanza di Giorgia Primavera

Dopo ventotto mesi a bordo di Esperanza, sono approdato al lago Bienvenido. Qua il metallo è ancora lega e gli uccelli piume e carne. Il Morbo è lontano milioni di dune. A Meccharat ci hanno detto che avremmo incontrato una colonia che lavora lamiere inerti. Il viaggio non è stato faticoso perché l’Esperanza ha chiesto solo un piccolo tributo plasmatico. Quando aveva fame, stendeva le braccia metalliche e infilava le siringhe nelle vene dei membri dell’equipaggio. Molte donne, per risparmiare le forze, l’hanno nutrita con sangue mestruale, e i tanti aborti spontanei hanno riempito la chiglia di feti attaccati al vetrogel come molluschi e cavallucci marini. Il lago è proprio come ce l’hanno descritto, una distesa verde muschio solcata da anguille che strisciano in superficie. Siamo arrivati al paradiso incontaminato di Mondo9? – Quante zanzare, papà – si lamenta Carlos. In effetti sono tante, ma è probabile che la zona lacustre sia paludosa. Sono bestie aggressive e le punture bruciano come schegge roventi. In ogni caso preferisco la malaria al Morbo. Decido di ripararmi il volto con un fez. Battendo qua e là le mani, riesco a ucciderne una. Osservo i palmi alla ricerca del sangue spiaccicato, ma l’insetto si è scomposto in una miriade di graffette. Cerco subito di ammazzarne un’altra. Il risultato è lo stesso: aste lucide, quasi fossero state ripulite dai mangiaruggine. – Papà – m’interrompe Carlos. – Che cos’ho? Non riesco a crederci. Le punture l’hanno trasformato in un bambino a pois, ricoperto di brufoli di ottone che sputano pus oleoso. Non ho bisogno di toccarmi per comprendere che la stessa cosa sta accadendo anche a me.

– Maledette! – urlo allo sciame. Ecco che le zanzare convergono al centro del lago per dipanarsi in una scritta: bienvenidos. Mi è chiaro perché nessuno è mai tornato. Non esistono insediamenti umani: solo metallo, ancora più assetato di carne. Forse questo è addirittura il luogo di coltura del Morbo. È ovvio che non avrò il tempo di appurarlo.

La poltiglia di Dino Rotoli

Tra lamiere insanguinate e corpi corrotti dal metallo, tutto era pronto. Quando la terza luna avrebbe raggiunto l’orizzonte insieme alla prima, per la diminuita attrazione, sarebbe stato il momento giusto. La struttura dell’antica buca iniziava a disfarsi. La sabbia della duna di Ponente si mescolava al sangue, infettandolo. Il rifugio, luogo sicuro, da difesa era diventato un laboratorio. – Siamo certi che quella roba funzionerà? – chiese Wolfer, ma Alwea non rispose. – Dico a te! – urlò, mostrando la lingua tagliente. – Sono giorni che misceli, mescoli e non spieghi nulla. Ora vuoi degnarti di rispondere? La risposta gli arrivò sulla faccia: una cucchiaiata di poltiglia.

Wolfer si riprendeva. Capiva che era disteso. Non sentiva più la lingua. Ricordava solo una sferzata sulla bocca e nulla più. Si ritrovò sul suo giaciglio. Di fronte a lui Alwea, dal viso mostruoso e beffardo, lo fissava con occhi verdi; con un balzo, l’afferrò per il collo. – Maledetta. Cosa mi hai fatto? – In bocca un sapore amaro e dolciastro lo spaventò. Lasciò subito la presa. Ricadde sul letto. – Il solito irruento. Ora non ti muovere, devo medicarti la lingua. Hai capito la risposta? Nella sua mente i pensieri vacillarono. “Irruento, medicarti la lingua… la risposta.” Le parole si susseguivano martellando la mente come metallo su metallo. Ritornò l’incubo vissuto fin dalla nascita. Provava una sensazione strana sulla lingua, la sentiva di nuovo morbida mentre lei la tamponava con delicatezza. La luce della comprensione esplose:

l’esperimento è riuscito. Il metallo poteva essere controllato.

Rumore di ferraglia e vibrazioni profonde: la nave doveva essere molto vicina. La struttura cedette, si trovò avvinghiato al corpo di Alwea. Erano sopravvissuti, del resto buona parte del loro corpo era indistruttibile. La sua mente si distese. Strinse forte a sé la donna, la posizione dei due corpi gli ricordava il loro amore, quando avevano le membra solo di carne. Bisognava ricominciare, la soluzione ora c’era.

In bilico di Franca Scapellato

Aspetto l’alba. Ho buttato una coperta sul corpo di Marcelo, così non vedo. Posso solo restare qui, nel buio, sull’orlo del precipizio, il più lontano possibile dal corpo del mio collega. Le gambe non mi fanno più male, ma non riesco a muoverle. Ho tolto le cuffie e li sento, nel silenzio. Denti, piccoli denti aguzzi che masticano, strappano, rosicchiano. Squittii, trapestii, zampette che graffiano il metallo. Poco fa mi ero assopita. Qualcosa mi ha sfiorato i capelli. Ho la torcia. Una mano stava strisciando vicino al mio viso. I topi l’hanno trascinata fino al baratro, poi sono corsi di nuovo verso il fondo del vagone. Ho illuminato la coperta, animata da piccoli scatti frenetici. Un musetto insanguinato è emerso appena, poi si è rituffato sotto zampettando sugli altri. Ho spento la luce. Non so perché lo Scavatore sia finito nel burrone. Stavamo penetrando le viscere del pianeta, sotto il deserto velenoso. Le cuffie sulle orecchie per non sentire l’urlo della trivella, i corpi scossi dalle continue vibrazioni. Ci si fa l’abitudine, come all’acqua che sa di ruggine, all’odore di lubrificante che condisce tutto quello che mangi. Lo Scavatore è enorme: centinaia di segmenti montati su cingoli, ma quasi tutto lo spazio è per il carico: minerale grezzo pregiato o semplice terriccio velenoso da vomitare in superficie come fanno i lombrichi. Il dannato verme ora è in fondo al burrone, nel tunnel è rimasto l’ultimo segmento, morto, aperto sul vuoto; ogni tanto sento muovere, là sotto: cigolii rugginosi, uno sferragliare cauto, scricchiolii soffocati dalla distanza. Sta rigenerandosi. Tocco il ginocchio; è freddo, insensibile. Metallo. Ho spento la torcia, non voglio vedere. Non voglio crederci. Sono umana, sono carne, sono viva.

Non finirò là sotto, non sarò un ingranaggio di quella macchina maledetta. All’alba arriveranno i gabbiani, forse le aliquadre. Uccelli grandi, affamati. Sarò cibo, buon cibo di carne. Spero che l’alba arrivi presto.

Pneumosnodo numero 1 di Mattia Nicolò Scavo

Mi hanno sempre parlato, all’Accademia, di uno spirito nelle macchine, tra ingranaggi e ammassi di metallo. Stringhe casuali di codice, sequenze invisibili portatrici di libere simbiosi senzienti. Ora che Cardanic si è rivelata nella doppia veste di automa carnivoro, tutto mi è improvvisamente chiaro: sotto la coltre di ruggine e olio scorrono impulsi e meccanismi fuori controllo, programmi e funzioni autonome destinate alla sopravvivenza. Lo snodo vive, Cardanic respira, lo sento, Cardanic…

* * *

Clic. Il cilindro metallico balzò fuori dall’alloggiamento, destando Garrasco dal diario sdrucito. Il Guardiasabbia alzò la testa di scatto, lasciando cadere il taccuino ammuffito. Erano trascorse dodici ore dalla scoperta di Tuono, ma Victor non dava segni di recupero: sudava esanime vicino alla paratia, farfugliando nel sonno. Raccolsi il marchingegno, inserendolo nella calotta accanto alla consolle: il sistema cominciò a girare. La pianola riprese il suono ferroso e una voce stridente piombò nella stanza. Victor sta male. Alimentazione: insufficiente. Sangue, sangue. Se lui muore, Cardanic muorrrrr…

Clic. Il meccanismo musicale s’inceppò, gracchiando pochi secondi prima di finire al suolo. – Perché? – ruggì il primo ufficiale. Una porticina si aprì alle sue spalle, rivelando una vasca di luce purpurea, e una sfera iridescente di impulsi elettrici connessi alla cisterna: il cuore dello snodo. Garrasco trascinò l’amico ai piedi dell’involucro, denso di materiale organico e stagno, avvolto in una poltiglia ossidata e sanguinolenta. Un altro clic. Il varco si chiuse.

Ogni macchina per esistere deve avere uno scopo, ogni cardo deve avere un significato, mi disse tempo fa uno della Gilda. Cardanic aveva il suo, io il mio. Victor Galindez era la chiave. Lo uccisi e distrussi la sfera. Poi tutto si mosse, disfacendosi, digrignando, morendo. Si aprì uno squarcio nella lamiera, e abbandonai la macchina illuminato dal sole, finalmente naufrago nel deserto velenoso.

Gli Iniziatori di Michele Scoppetta

Non so cosa fare. Sono ati pochi giorni da quando ho lasciato che Victor abbracciasse il metallo di questa nave maledetta. Non me lo perdonerò mai. Non riesco ad abituarmi all’idea di non essermi offerto al suo posto. Sono un vigliacco. Inferno. Vorrei che il mio corpo e la mia anima fragile bruciassero assieme all’ingordigia malefica dei motori, dell’olio e della ruggine. Non c’è coscienza, qui sopra. Mi chiedo quanto ne è rimasto della mia. Fino a quando non ci fermeremo, sarò ancora chiuso nella trappola. Anche dei miei ricordi.

Garrasco camminava avanti e indietro nervoso. Il cigolio continuo dei cardini e il calore continuavano a torturargli la mente e il corpo, assieme ai sensi di colpa. Ormai erano tre giorni che non mangiava, non ci riusciva. Si rifiutava anche di pensare. Voleva morire. Era quello che si meritava, in fondo.

Uno sbuffo di vapore improvviso e assordante lo fece sobbalzare. Una perdita, pensò. Si avvicinò e cercò di dissipare la folta nube bianca. Sgranò gli occhi davanti a una raffigurazione di un’alaquadra su una lastra di acciaio. La rimosse. Tirò fuori da un piccolo involucro alcuni fogli ingialliti dal tempo. Erano i disegni dei progetti della nave, con tutti i particolari tecnici. In ultimo, poche righe scritte a mano.

“La carne completerà la nostra creazione. Saremo la mente, e il metallo svilupperà i nostri pensieri. Ci sacrificheremo per il bene comune, altri saranno sacrificati per noi. Noi sette, Rolter, Otis, Banto, Razofa, Etta, Derranova e Olando, ci impegniamo a tener fede a questo patto. Per sempre”.

Garrasco rilesse più volte. Non ci volle molto per capire. Indietreggiò come se avesse visto un fantasma e inciampò in qualcosa caracollando a terra. Le iniziali dei sette costruttori prese in fila, rivelavano il nome di quella nave. Robredo! Ebbe paura. Da un oblò vide il cielo insanguinato dal sole che stava calando. La Robredo continuava a sogghignare nello sferraglio di catene e pulegge. Non era ancora mai riuscito a vedere la notte.

Vieni da me di Michele Scoppetta

Stormi di uccelli continuavano ad annerire il sole. L’arsura era forte. Rando scoprì quasi per caso la Robredo, un simulacro sinistro e infernale in mezzo al deserto. Sudava. Una strana tensione gli opprimeva le viscere, come se il Morbo si stesse facendo strada a sua insaputa. Non ci badò. Era più interessato a seguire il clangore insistente che aleggiava attorno alla nave. Non potevano essere gli uccelli. Le aliquadre stavano in cerchio attorno alla Robredo, minacciose. Rando fremeva. Era come se qualcosa lo attraesse. Fu tentato più volte di uscire allo scoperto e avvicinarsi per scoprire da dove provenisse quel continuo sferragliare. Sperava di trovare un compagno, qualcuno con cui poter di nuovo parlare. All’inizio vinse in lui la paura. Poi, stanco di attendere a vuoto, si alzò e si avviò a o svelto.

– Sono qui! – urlò Rando a pochi metri dalla nave. Il rumore di metallo battuto non si arrestò. Sentì una voce, arrugginita e lontana. – Ti sto aspettando. Vieni, vieni… Le aliquadre si aprirono e formarono due file parallele, il corridoio in cui Rando stava avanzando. Le paure erano lontane. A mano a mano che si avvicinava riusciva a sentire il cuore più leggero, rinfrancato. Non trattenne lo stupore quando vide lavorare degli uomini sul lato nascosto della Robredo. Le facce erano orrendamente scarnificate, d’acciaio. Così come le mani e il resto del corpo. Uno di loro si girò a osservarlo, conservando negli occhi un briciolo di umanità sciolto in una infinita tristezza. Poi si rimise a battere su una placca. Il Morbo non li aveva risparmiati. Erano uomini che la Robredo utilizzava come

operai. Dovevano riparare le falle. Utilizzavano pezzi di altri uomini contagiati. Rando si ò le mani tra i capelli e provò un brivido di freddo alla testa. Si guardò le mani e l’orrore lo assalì completamente. Le dita luccicavano al riverbero del sole. Cilindri e pulegge cominciarono a girare, stridendo forte. La Robredo sogghignava soddisfatta.

Tra la sabbia e il mare di Salvatore Stefanelli

Poggiata alla banchina, Elpìda spingeva il ventre verso l’alto ad allontanarlo dal pavimento di lamiera e dai piedi che non riusciva più ad alzare. La salsedine, che veniva dal mare limaccioso e dal cielo putrido di acqua rugginosa, aveva rallentato l’avanzare del morbo, ma lo sapeva: non c’era scampo. Sperava solo di riuscire a far nascere il bambino prima dell’inevitabile. Xénos l’aveva raggiunta quando ormai tracce color ottone brillavano sulle caviglie. Lei l’aveva pregato di non andarsene, che quel figlio, anche suo, aveva diritto a una possibilità. Invece, l’Avvelenatore era sparito nella notte lasciandole solo una manciata di pasticche. Ne aveva già consumate la metà e presto sarebbero finite. Persino la pioggia la stava abbandonando. Il cielo al tramonto, terso e tinto del rosso della sabbia desertica, erodeva l’ultima sua speranza. Mancava davvero poco al parto. Sentiva il bimbo agitarsi nel grembo. Doveva resistere: una possibilità che nascesse sano c’era. Il vento ringhiava dal mare di sabbia, le basse nubi erano diventate un velo traslucido che velocemente andava a sparire. La salsedine si era ritirata verso il largo. E il morbo stava risalendo con rapidità lungo le gambe, la mano sinistra aveva già preso il colore del metallo. Presto sarebbe stato troppo tardi, per il piccolo. Elpìda aveva accolto l’alba e quel viola all’orizzonte, di nubi cariche d’acqua, stremata ma con nuova speranza. Il travaglio era agli sgoccioli. Aveva aperto le cosce e liberato il ventre da ogni ostacolo. La mano destra, ancora sana, poggiata sopra nel tentativo di spingere fuori il bambino. Il freddo della lamiera ormai faceva parte di lei, non più l’odore del sale: svanito come ogni altro. Il cuore aveva iniziato a perdere colpi. Una lacrima era scesa a lambirlo, dissolvendosi nelle prime gocce di pioggia. Un sorriso amaro si stampò sul volto. Le pareti uterine, dilatatesi con troppa lentezza, stridevano. E un vagito disperato

rimbalzò nella sua prigione di metallo.

Il Mercante di Laura Tinti

Il nome di Coxacki il Mercante risuonava da secoli tra i sobborghi di Mecharatt. Quando Garrasco lo vide, la prima volta, aveva le sembianze di una ragazzina avvolta in una tunica color ruggine, il viso sporco e gli occhi lucidi come monete d’argento. – Cerco Coxacki – le disse, cercando di abituarsi all’oscurità della bottega. Gli sembrava di distinguere intrichi di tubi e ingranaggi sulle pareti, e un rumore sommesso di pistoni al lavoro sopra la sua testa e sotto i suoi piedi. Pensò, non senza timore, che la bottega sembrava viva. – Sono io – rispose la ragazza. Garrasco ebbe un sussulto. – Ma… non è possibile! Quanti anni hai? – Ti mostro la merce – disse lei, ignorando la domanda. Garrasco lasciò da parte il sospetto e la seguì in un retrobottega dall’odore indefinibile. Il caldo del vapore si mischiava al nero dell’olio bruciato e a qualcosa di dolciastro e ferroso che lì per lì il Guardiasabbia non riuscì a riconoscere. Si rese conto di cosa fosse solo quando Coxacki accese una lampada a olio e illuminò la stanza. Sulle pareti, appese ad asciugare, le pelli che un tempo appartenevano ai vivi sembravano arazzi, ancora lucidi dei ricami rosso carminio del sangue che sgocciolava. E sgocciolava. E si perdeva tra i tubi del pavimento, come bevuto dalla stanza avida. Garrasco trattenne un conato di vomito. – Ti faccio un buon prezzo. – La voce gelida della ragazza lo riscosse. – E porto i corpi e le pelli direttamente ai pozzi serbatoio destinati alla tua nave. Ci penserà lei a caricarli e a usarli quando ne avrà bisogno. Non dovrai occuparti di nulla.

Garrasco non riusciva a parlare. – Non ti fidi? So quello che faccio, ho ereditato il nome e il mestiere dai miei avi. Coxacki il Mercante esiste da quando esistono le navi. – Lo so. Già mio nonno parlava di voi, ma non sapeva cosa vendete. – Nessuno lo sa, finché non sopravvive a un naufragio e a un equipaggio morto. Quale nave ti ha lasciato vivo? – La Robredo. Devo andare a cercarla.

Ti svelo un segreto di Laura Tinti

– Se ti svelo un segreto prometti di non dire niente a nessuno? – sussurrò Ishim, accoccolato all’ombra di una duna. – Che un cardo mi divori e la sabbia mi sfracelli – risposi, segnandomi il petto. Ishim tirò fuori da sotto la tunica una lastra opaca grande quanto una mano. Strizzai gli occhi incuriosita. La prese alle due estremità e tirò. La lastra si allargò senza fatica e poi ritornò alla forma originaria. – Vetrogel! – urlai. – Dove l’hai preso? – Zitta, vieni con me. Schizzò via dall’ombra e si precipitò verso le sabbie aperte veloce come un topo delle rocce. Ishim si sapeva muovere tra i veleni. Suo padre era uno dei cacciatori più esperti e gli aveva insegnato tutti i trucchi per sopravvivere al deserto. Faticavo a stargli dietro. Lo raggiunsi quando già era arrivato in cima a un’enorme duna. Ansimavo e dovetti affrontare la salita quasi piegata in due, spingendo sulle gambe, cercando di non perdere l’equilibrio per non toccare la sabbia con le mani. – Syr-Da, sei più lenta di un’alaquadra zoppa – mi canzonò Ishim. – Guarda laggiù. Alzai gli occhi e rimasi senza fiato alla vista di un mostro di ruggine che sbucava da una spianata di sabbia bianca. Una prua, un groviglio di lamiere e vecchio vetrogel ormai rovinato dagli insetti e dalla polvere, forse riportato alla luce dall’ultima tempesta di sabbia. – È un vero tesoro, Syr-Da. In città pagano bene il vetrogel da rigenerare, domani sera torniamo a casa con del cibo vero.

– No, Ishim, è pericoloso. Il resto della nave sarà lì sotto e… – Sotto non c’è niente, scema! È solo un rottame morto. Andiamo. Spiccò un balzo verso il suo bottino. In pochi salti raggiunse la prua e con la sua selce appuntita cominciò a staccare pezzi di vetrogel. La sabbia intorno a lui si mosse in un attimo. Lo inghiottì senza che avesse il tempo di girarsi a chiamare il mio nome. Rimasi paralizzata dalla paura. E quando sentii un gorgoglio nella sabbia e mi sembrò che la prua cominciasse a emergere tirandosi dietro un’intera nave, scappai.

Il Signore del Metallo di Lia Tomasich

– Velacroma in vista! Al grido della vedetta, gli uomini si sporsero dai parapetti dell’Afritania. I velacroma rotolavano leggeri sulla sabbia, spinti dal vento rovente che ne gonfiava le vele, scivolando su un’unica ruota, una lucida sfera bilanciata da due scafi che alternativamente solcavano le dune a ogni virata. – Squadre alle catapulte! A bordo dei velacroma c’erano i Mogmen, i pirati delle dune che assaltavano i convogli per depredarli delle uova. L’Afritania provò una manovra diversiva, del tutto inutile. S’imbarcò su un lato impennandosi su una duna; uno sbuffo nero di aliquadre si alzò in cielo e una pioggia di piume ridiscese lenta sulla tolda. I Mogmen, giunti a tiro della nave, schierarono le cerbottane di piombo, pronte a sputare schegge affilate intrise di ruggine. – Bashir! Il bambino stringeva al petto un uovo; correndo scalciò un gabbiano che piroettava come un giocattolo rotto, appesantito dalle ali di ottone. Poi iniziò il diluvio di metallo tagliente: una dopo l’altra le gomme scoppiarono con un sibilo secco e l’Afritania s’inclinò su un fianco, poi sull’altro. Una scarica di ferraglia si abbatté sui ponti: un paio di uomini colpiti a morte volarono oltre il parapetto. Dai gusci dei velacroma spuntarono gli arpioni: all’unisono si librarono in aria conficcandosi in ciminiere, argani e pulegge. I Mogmen si issarono lungo le fiancate e inzepparono le bisacce di uova. Gli uccelli rimasero a volteggiare inquieti nel cielo.

Prima di allontanarsi, un Mogmen si accostò a un cadavere e con un colpo di scimitarra staccò un pezzo di carne risparmiata dal morbo; si guardò intorno e l’infilò nella bisaccia. Un’orda famelica di uomini laceri e uccelli si avventò sui resti per contendersi fino all’ultimo brandello di carne morta. – Papà, perché gridano? – piagnucolò Bashir. – Papà?

Quel giorno mio padre ò tra gli Interni. Mi ripeteva che le uova mi avrebbero salvato e aveva ragione: il mio nome è Bashir il Supremo, il mio potere è grande. Il metallo mi venera.

Onirica di Sonia Tortora

I motori erano surriscaldati e gli ingranaggi cigolanti. La bestia rivettata vomitava fumo da giorni. All'orizzonte solo sabbia tossica e fuliggine. Erano vicini a Onirica: una zona con pinnacoli sotterranei simili a giganteschi termitai. – Comandante, girano voci terrificanti su questo posto. – Non vorrete mica dare retta a sciocche credenze popolari, vero? – No, signore, ma dobbiamo stare allerta.

Il cargo avanzava sotto terra, strisciando come un enorme verme e facendosi largo tra la moltitudine di ferraglia arrugginita, teschi e funghi allucinogeni che infestavano i cunicoli. Le spore infette cominciarono a scatenare un irrefrenabile appetito di materia cerebrale, fomentando l'illusione che ingollare cervelli altrui fe acquisire il sapere divino. La stiva quindi si riempì di teste mozzate e lungo i corridoi gli Interni succhiavano con avidità le calotte craniche dei compagni spaccate a colpi di baionetta. La Robredo procedeva incurante di ciò che stava avvenendo a bordo, poiché il fermento era soffocato dal frastuono dei motori, e dopo mezzora riemerse da quella zona maledetta con l'equipaggio decimato. – Comandante, problemi in vista: alcuni boccaporti sono bloccati e la nave vacilla come se compiesse movimenti peristaltici. Pare che voglia mangiare! – Maledetta! Non mi farò fagocitare da uno stomaco di cingoli e pulegge che usa vapore e olio putrido per digerirmi. Dobbiamo fuggire.

Raggiunsero il ponte, ma si accorsero che sotto di loro la sabbia stava aprendo gigantesche voragini: era diventata senziente e vorace anch'essa. Dopo qualche attimo di turbolenza, troppo breve per reagire, il cargo li inghiottì e il deserto affamato a sua volta si richiuse sopra di loro, assicurando così nuovo nutrimento alle spore del sottosuolo. Poi tutto ripiombò nel silenzio, come se niente fosse mai accaduto.

– Comandante, mi ascolta? – Come, scusi? – Dicevo che dobbiamo stare allerta. – Ma certo… le credenze popolari hanno sempre un fondo di verità. Invertiamo la rotta!

Beatriz di Andrea Tortoreto

L’Afritania è metallo in fiamme e corpi maciullati. Una cattedrale di geometrie prive di senso. Obelischi d’ottone che si innalzano dalle dune come gli aghi di un enorme porcospino mutilato. Tanfo di gomma fusa. Un cimitero di piume, carne, olio e acciaio. Gli occhi di Beatriz bruciavano come vesciche aperte. Vedevano solo giallo: sabbia e sole ovunque. Il braccio destro prudeva da impazzire dove il metallo aveva cominciato a mangiare la carne. Caracollava tra le dune incendiate con un retaggio di consapevolezza. Sonno e veglia erano confini indistinti. Due aliquadre la scortavano in attesa di banchettare. Poi fu la sabbia a succhiarla in un maelstrom ruvido e incandescente. Le leggende narrano dei Sepolti canuti e ciechi. Talpe nel cuore terra. Nel ventre delle macchine. Si svegliò col puzzo di carne marcia nel naso. Il braccio sembrava trafitto da dardi di fuoco. Provò a tirarsi su: le giunture del suo corpo urlarono come il metallo dell’Afritania durante il naufragio. Ci mise un po’ ad abituarsi al buio ma poi i suoi occhi lo benedirono. Un conato di vomito la investì quando comprese di trovarsi su una pila di cadaveri. Ruzzolò dalla catasta di corpi poco prima che un enorme braccio metallico

luccicasse nell’ombra e ne afferrasse un paio. A terra la raggiunse un vociare animoso e oscuro. Uomini affusolati, con lunghe chiome bianche e sguardi vitrei, discutevano tra loro. Sonno o veglia. I Sepolti. Tornò cosciente mentre la trasportavano come un fantoccio. Attraversarono gallerie indistinguibili. Le pareti erano un groviglio di sifoni, pulegge, catene e ruote dentate. Macchinari vivi. Ottone che respirava vapore. Odore d’olio caldo e grasso. Sentore d’aria metallica sulla lingua. Servi di congegni arcani. Sudditi di un mondo al di sotto del mondo. La gettarono in una cella. Venti centimetri di acciaio temprato si chio dietro di lei. Vapore metallico e musica. Benvenuta. Sono Cardanic, signore di questo regno. Mi servirai appena avrò deciso cosa fare di te. Au revoir.

Fenice di ferro di Andrea Tortoreto

Il buio si mastica. È viscoso, mi cola addosso. Lo sento in ogni centimetro del corpo. Un corpo simbiotico. Si amalgama al metallo, confonde i suoi confini con gli ingranaggi, i pistoni e le pulegge della città meccanica. Si mescola nell’olio che scorre nella nave. Cuore che pompa vita nella fortezza d’acciaio. Mente e anima. E desiderio di vendetta.

L’Afritania era una sterminata cattedrale di vetro. Uno sconnesso susseguirsi di erelle, fumaioli e lamiere nerbate dal vento. Alle sue torri di metallo, il ghiaccio donava un flessuoso amplesso. I meccolupi ciondolavano, ibridi di peli irsuti e ottone, tra gli anfratti di quell’agglomerato. Vania li osservava volteggiando. Le grandi ali di piume e metallo, donategli dall’Interno, le permettevano di sentire le correnti e dominare la distesa di ghiaccio e acqua densa. Anche da lassù percepiva ciò che provava la metropoli di ferro, sentiva la volontà dell’Interno fin sotto la sua pelle metallica. Era nell’olio che scaldava gli ingranaggi e nel respiro ispido dei suoi soldati. Leccava la voglia di guerra e rivalsa. Nel gelo che smorzava il tanfo di olio caldo, sentiva vibrare la frenesia di uno scopo che non era più il solo vivere. Due corpi e un’anima. Lei e l’Afritania. Vania e l’Interno; ciò che era stato il comandante Garrasco.

Ti ho ridato la vita e ora sei il mio arcangelo. Splendida fenice metallica. Luogotenente del mio esercito.

Poi vide un’ombra gigantesca trasparire dal ghiaccio. Un pesce titanico, un essere mostruoso. Il ghiaccio esplose in un muggito metallico. Un grande verme meccanico, sputato dall’acqua, fronteggiava l’Afritania a non più di cento metri. Il clangore si confuse con i latrati dei meccolupi. Era un aborto di giunti e cardani. Un insieme di pneumosnodi e piastre che puzzava come un grosso pesce putrefatto. Vania planò verso il mostruoso anfibio. Vicino a quello che sembrava il muso di un sommergibile, quattro lettere occhieggiavano da una lamiera scolorita dal sale. R BR O La guerra era lì. La guerra non sarebbe mai finita.

Demetra la città soterranea di Alessandro Trap

Era vecchio; questo era sicuro. E quello che stava osservando era il Segno. Non poteva sbagliarsi. Con occhi stanchi e indagatori, continuava a fissare la sagoma dell’enorme vascello che stava scomparendo all’orizzonte, dietro le dune di sabbia. – Revocate l’allarme – disse sfiorandosi i capelli bianchi. Aveva mani tremolanti, e la pelle rovinata dall’esposizione all’aria velenosa. – Riprendete tutte le attività. Aprite gli scudi mimetici sopra le serre e fate filtrare la luce nei livelli bassi. Lui era il Duca, e dal torrione nascosto tra le dune stava fissando il lento transito della nave sopra l’antica città sotterranea. Era attonito e incredulo. Non aveva mai visto una nave così grande e mostruosa. Sul fianco metallico e arrugginito aveva letto “Robredo”. Avrebbe rammentato quel nome! Così come si sarebbe ricordato del brivido… generato dallo stridore degli ingranaggi in movimento. – Perché non l’abbiamo catturata, signore? – chiese il Ministro. – È ata proprio sopra il bacino? – Non siamo ancora pronti! – rispose il giovane adolescente a fianco del Duca. – In ogni caso era troppo grande, non saremmo riusciti a fermarla. – Hai parlato con saggezza, figlio mio – disse il Duca poggiando la mano sulla sua spalla. – Credo… sia giunto il momento di consegnarti il governo del Regno. Cosi come fece mio padre con me, e il nonno con lui, da tredici generazioni a questa parte. Calò il silenzio.

– Era il Segno! – disse. Fece un cenno e le Sibille intonarono l’invocazione alla Dea Demetra. Tutti s’inginocchiarono e si unirono al dolce canto delle sacerdotesse. Quando le navi d’acciaio appariranno e i fiori sbocceranno sulla scogliera morta Saremo pronti, e spargeremo nel mondo i nostri semi e gli animali Demetra risorgerà, stringendo tra le mani fiori, spighe d’oro e due serpenti Rinasceranno la vita e l’amore. Oggi, domani. Lungo i secoli Lontano, la grande nave correva verso il suo destino, lasciando tra la sabbia due profondi solchi scuri. Presto, la bufera del crepuscolo, li avrebbe cancellati.

Rompighiaccio Svjator di Alessandro Trap

– Capitano… Si vedono spesso le aurore australi, a questa latitudine? – chiese preoccupato il guardiaghiaccio Boris. Si strofinò con forza i guanti. Faceva freddissimo, sulla balaustra del ponte di comando. – Sì – rispose Galtero chiudendo la giacca di pelle imbottita. – Quaggiù, nell’estremo sud del mondo, ne ho osservate a decine. Però questa mi sembra strana: molto più energica del solito. La volta celeste era illuminata da strisce rosso sangue, che scendevano come rami di un colossale salice piangente verso il ghiaccio e l’oceano. – Il dottor Raimundo dice che si tratta di un fenomeno naturale. Secondo lui, è l’ossigeno molecolare presente negli strati alti dell’atmosfera che reagisce con il vento proveniente dal sole. – Tu cosa ne pensi? – Non gli credo. Per me è colpa del morbo. Ho sentito che si sta propagando ovunque. Io dico che presto arriverà anche qui… e ci ucciderà tutti. – No. Siamo troppo lontani; e il morbo non sa nuotare. Fece una lunga pausa, poi aggiunse: – Inoltre, questo freddo uccide tutti i germi. Sorrise e strizzò l’unico occhio ancora sano, batté i piedi per scaldarsi e guardò la banchisa. La sua attenzione fu catturata da una sagoma nera sulla superficie del mare. La cosa si avvicinava… e non era un iceberg! Si precipitò sul ponte di comando. – Ai cannoni! Ci attaccano! – ordinò urlando. – Macchine avanti tutta. Virata di bordo. Improvvisamente un suono sordo investì la nave. Un’enorme esplosione sventrò

la murata del ponte di prua. Una seconda e una terza distrussero i cannoni a poppa e la zona della barra del timone. Una pioggia di vetro e metallo trafisse uomini e cose. Urla e fiamme avvolsero tutta la Svjator. – Non possiamo più manovrare! – urlò Boris, stringendosi il viso trasfigurato in una maschera di sangue. – Non possiamo rispondere al fuoco! Le bordate cessarono di colpo. Galtero si alzo in piedi e osservò il vascello lucente che si avvicinava a tutta forza. Impugnò la pistola. – Non ci vuole affondare… – disse, e mise un colpo in canna.

Guerra fredda di Roberto Zago

Il nostro sangue è olio. Acciaio e ottone la nostra pelle e le nostre ossa. Le creature di carne sono cibo e le loro anime la nostra. Noi siamo una cosa sola.

L'orizzonte frastagliato di ciminiere, camini e guglie si estendeva fin dove occhio umano poteva scorgere. Charles B. Rose, Guardasabbia della Crisalia, sprofondò nel vetrogel. Sulla superficie esterna della finestratura, un nuovo volto di silicio, alcali e sali minerali iniziò a scrutare più da vicino la linea di navi nemiche che avanzava azzannando con ruote dentate la superficie del pack artico. Il cielo era una colata di piombo fuso pronta a riversarsi su ogni cosa. Il Guardiasabbia ritrasse il capo e tornò a respirare. – Prepararsi allo scontro! – gridò nei tubi portavoce. Le pareti vibrarono di ingranaggi in movimento e giunti cardanici sotto sforzo. Si udì lo scorrere di pannelli e paratie che si riposizionavano. Guglie e ciminiere divennero rostri pronti a straziare il metallo nemico. L'aria brulicò di schegge impazzite, una tormenta di frammenti affilati come rasoi. Le fila degli schieramenti cozzarono tra loro come magli sugli incudini, in uno stridore metallico che sovrastava appena i gemiti della banchisa. La Crisalia beccheggiò con violenza: uno degli argani della nave che stava affrontando si era schiantato sulla tolda e l'uncino era penetrato a fondo nel metallo. Un piccolo cilindro forato schizzò dalla sua sede emettendo suoni che erano

sbuffi di parole: Dateci nuove anime! Gli pneumosnodi si erano risvegliati dal torpore nel quale gli avvelenatori della Gilda li avevano costretti. Il Guardiasabbia cercò di urlare un ordine, ma fu preceduto da un tremendo schianto che per poco non lo fece cadere. – Hanno bucato la nave! – gemette uno degli uomini sul ponte di comando. Un boato sovrastò ogni altro rumore. Lastre di ghiaccio presero ad alzarsi dalla banchisa e a ricadere sugli scafi delle navi. La Crisalia iniziò a inabissarsi. Un nuovo cilindro lasciò il suo o. Ne uscì un solo suono: Chatarra.

Mechania di Roberto Zago

Sto per fotterti e non potrai fare nulla per evitarlo. Sto per fotterti e regalarti tutto il veleno del mio odio.

Quel che restava di Danny C. Brady, un tempo Guardiasabbia della Nostromo e ora prigioniero dello pneumosnodo 9 Mechania, fu scosso da uno spasmo di dolore che lo piegò in due come un libro chiuso di fretta. Le paratie crepitarono di ingranaggi in movimento e ruote dentate che si azzannavano rabbiose. Dal labirinto di tubature, condotti, grate e spurghi che suppuravano il soffitto come un sottobosco infetto, lo sgocciolare dell'olio si fece più intenso, butterando la morchia che lordava il pavimento. Inseguire la Robredo, più piccola e veloce, era stato un errore. La Nostromo si era rivelata troppo lenta e troppo goffa anche per evitare l'immenso mangiaruggine che l'aveva accartocciata come un giocattolo di latta. Salvarsi sul Mechania era stata una scommessa vinta per poco. Danny cercò di stringere la foto della moglie, Vania. Le dita, simili a palloncini sul punto di esplodere, non si mossero. Vania era stata il suo secondo per più di vent'anni, fino a poche settimane prima, quando il programma di sopravvivenza autonoma dello pneumosnodo aveva deciso di nutrirsi del suo corpo: il primo errore del Mechania. Il secondo, per lo stesso motivo, costringerlo a scendere per svuotare i corpi dilatati di un gruppo di nomadi uccisi dalla “sabbia pirica” vicino a un banco non inerte. Danny non era un avvelenatore della Gilda, ma l'odio gli avrebbe concesso la sua

vendetta. Si puntellò alla paratia dietro di sé e caracollò fino alle grate di riciclo in un ultimo soffio di vita. Ciò che cadde fu un'otre di pelle rigonfia che una volta era stata un uomo, da cui sarebbero ruscellate le cascate di sabbia che avrebbero finito per bloccare i meccanismi del Mechania, fino a ucciderlo.

Buio. Solo buio e un Inferno che sa di sabbia bruciata e metallo morente. Non so né chi sono né dove mi trovo. So solo che mi sento svanire, e ne sono felice.

Dulcis in fundo…

Tauromachia di Dario Tonani

Il taurofante caricò a testa bassa, colpì il metallo con furia ottusa e rimbalzò indietro annaspando sui quarti posteriori. Per qualche attimo dimenò furiosamente il capo per liberarsi del portello che gli era rimasto incoccato su una delle corna. Accecato da un mix di rabbia e dolore, mosse un o, crollò sulle ginocchia e sbatté il muso per terra. Il pubblico urlò, lanciò i pugni in aria. Trattenne il fiato. Non era ancora finita. Sprizzando sangue dalle froge, il taurofante si tirò dolorosamente in piedi. Zampe larghe e muso che penzolava nel mezzo, studiò l’avversario a occhi bassi: ruote e metallo rugginoso, una teoria infinita d’ammaccature lorde di sangue scuro. Lo sportello di destra divelto. Il cucciolo di pnemosnodo arretrò scorreggiando un filo di fumo nero e descrisse una lenta parabola nella polvere. Una delle sue ruote cedette di schianto. Il motore salì di giri, s’incarognì. Partì alla carica. L’animale scartò l’assalto per un niente. In una nuvola di polvere, lo pneumosnodo s’avvitò su se stesso e quasi finì in bilico su un fianco. La manovra rischiò di ribaltarlo e gli strappò nuovi pezzi dalla carrozzeria. Esplose una gomma. Un pistone decollò in cielo. Fu allora che il taurofante si lanciò all’attacco. Schianto assordante. Schizzi di sangue. Metallo che urlava. Frammenti di ferro grandinarono sulle file più basse degli spalti.

Il taurofante, quasi per intero, era sparito nella fiancata dello pneumosnodo. Silenzio. Poi un ronzio che faceva accapponare la pelle e vibrare i denti. Lame, pale, elica di raffreddamento… Fumo d’attrito. Prima le corna, fino alla base; una sospensione di pulviscolo bianco che si disperse nel vento. Quindi il sangue, una nube. Il muso, il collo, la gabbia toracica; arrivato al cuore, la macchina se lo bevve in un solo sorso. L’animale era incastrato nelle lamiere, le zampe che fremevano. Vaporizzato a poco a poco dalle lame affilate. Fetore di peli e carne macinata. Il pubblico lo stava respirando. Applaudì, qualcuno (lo) starnutì.

FINE

MECHARDIONICA

Le nuove storie di “Mondo9” di Dario Tonani, disponibili in ebook su tutti gli store.

Mechardionica

Sono trascorsi solo 119 minuti dallo scontro navale con la Robredo, e la titanica Afritania – semidistrutta e agonizzante – è alla deriva nel deserto. Il suo equipaggio è stato falcidiato e nonostante gli sforzi della nave per convogliare i cadaveri verso la sala macchine e utilizzarli come forza motrice, anche i morti non sembrano in grado di riavviare i motori. Il destino del leviatano appare irrimediabilmente segnato. Dal cielo si affaccia però una salvezza: poco più di un insignificante insetto a bordo di un trabiccolo volante. L’Afritania aspetta solo di averlo a tiro… Tra le dune intanto ecco apparire una coppia di ragazzini, innocui raccoglitori di mangiaruggine, affascinanti da quanto si para di colpo di fronte ai loro occhi. Che cos’è quell’ombra mostruosa che ostruisce loro la strada verso casa? Una nave, una città? Come aggirarla? E perché invece non are sotto la sua pancia, tagliando per il regno buio delle sue 9000 ruote, dove le leggende narrano di creature mai viste e orribili prodigi.

Abradabad

Dove sono finiti Naila e Walid? Com’è possibile che i due ragazzini siano svaniti nel nulla, inghiottiti dal deserto senza lasciare traccia? Dopo averli cercati per giorni, Samyr deve ammettere il proprio fallimento e fare ritorno ad Abradabad, piccola oasi nata sui rottami di una vecchia nave naufragata tra le dune. Il

villaggio sarebbe solo un inospitale cumulo di detriti arrugginiti se non fosse che – all’interno di un malconcio pneumosnodo semisepolto nella sabbia – abita Khaled, il miglior costruttore di pettinatori volanti di tutto Mondo9, nonché l’unico alchimista in grado di produrre un antidoto contro il Morbo, capace di ritrasformare il metallo in carne. Il tempo sta volgendo al brutto e c’è una tempesta in arrivo ma i due decidono ugualmente di fare un ultimo, disperato tentativo e di alzarsi in volo con un pettinatore ancora allo stadio di prototipo. Nel frattempo, un manipolo di Mechardionici si mette sulla scia dell’Afritania: obiettivo, fare razzia di cuori appena spirati. A un tratto, ecco spuntare due sagome gigantesche e minacciose. Là dove non dovrebbero esserci. Che cosa sono? Perché sono lì?

Coriolano

La giovane Naila non è morta, è solo prigioniera di un Mechardionico che l'ha vincolata a sé con un artificio meccanico da cui non potrebbe mai liberarsi se non a prezzo della vita… Ma dove stanno andando i due? Cosa sta cercando lo "Strappacuori" che l'accompagna e la tiene al guinzaglio come un animale? E perché marciano da giorni alla volta di un luogo misterioso immerso nella giungla pluviale, in uno degli angoli più ostili e remoti di Mondo9? C'è qualcosa laggiù, incastrato tra le pareti a picco di un canyon di roccia. Un inferno sospeso a oltre seicento metri di altezza, dove non saranno né i primi né i soli a voler arrivare, ma che li unirà molto di più della catena che tiene vincolati i loro corpi. Abbandonati i deserti tossici costellati di relitti, Mondo9 si apre a barlumi di struggente umanità e a una nuova intrigante ambientazione, che riporta il pianeta di ruggine indietro nel tempo, quando le grandi navi solcavano piste impossibili trasportando carichi pregiati e innominabili segreti. Machardionici e umani, navi e uccelli tornano sulle rotte del loro ato alla ricerca della chiave per la loro sopravvivenza futura.

Bastian

Recuperata sul relitto della "Coriolano" la preziosa mappa vocale in grado di guidarli al nascondiglio del misterioso vascello volante, Naila e il "mechardionico" Asur si mettono sulla scia di una curiosa nave. Il gigantesco porto della capitale, con il suo vorace quartiere mechardionico adiacente al labirinto di banchine, è un andirivieni continuo di transatlantici delle sabbie, ma anche luogo di superstizione, prodigi e strane genti che provengono da ogni angolo di Mondo9. Proprio qui, in uno dei locali più malfamati della città, approda il comandante Lacroix, vecchio lupo del deserto, roso dal Morbo e da una ione smodata per la bottiglia. La sua nave, come l'"Afritania", è appena scampata all'abbraccio mortale di un fulmine che l'ha tranciata di netto, assieme a parte del nauseabondo carico che trasportava in coperta. Intanto, chiacchiera dopo chiacchiera, la verità viene a galla: non sono poche le navi che approssimandosi a Mecharatt hanno avuto lo stesso destino: vascelli attaccati dal cielo, mutilati e dati alle fiamme, per poi essere razziati degli "Interni" e dei cuori dei loro equipaggi da bande di predoni acquattati tra le dune. Ma chi o che cosa è in grado di ordire simili agguati, per poi fuggire senza lasciare traccia? Lacroix, Asur e la giovane Naila decidono di scoprirlo, salpando dalla capitale a bordo della mefitica "Bastian", nave svogliata e codarda quanto il suo comandante ubriacone.

Delos Digital e il DRM

Delos Digital ha scelto di non imporre ai propri ebook protezioni dalla copia che costituiscano una limitazione all'uso da parte dell'acquirente. Siamo convinti che i sistemi di protezione basati sulla criptazione danneggino solo chi acquista il libro onestamente. Il lettore che ha speso i propri soldi per acquistare questo ebook deve esserne il proprietario: questo libro non diventerà illeggibile cambiando computer, o spostando il file su un lettore di ebook o su uno smartphone. Per usarlo non è necessario un software che si colleghi a un server di autenticazione. Fermo restando che la legge e l'onestà dell'individuo vietano di ridistribuire il volume acquistato - e in definitiva il buon senso lo sconsiglia, perché autori ed editori hanno bisogno di guadagnare per portare avanti il proprio lavoro - il lettore può sentirsi libero di leggere il file con il dispositivo o computer che vuole e deve sapere di poterlo conservare e convertire in eventuali formati futuri per salvaguardare il suo acquisto. Quando possibile, Delos Digital utilizza il social DRM, ovvero scrive all'interno del libro il nome dell'acquirente; una sorta di "ex libris" elettronico. La criptazione del file viene usata solo nei casi in cui è obbligatoriamente richiesto dal contratto con l'autore. Nel caso di questo libro non è stato necessario. È comunque possibile che al libro venga applicata un'encriptazione drm dal negozio da cui lo si è acquistato. Delos Digital vuole combattere la pirateria nel modo che riteniamo migliore: rendere i nostri ebook acquistabili in modo facile e rapido, e metterli in vendita al prezzo migliore possibile.

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Odissea Digital in questa collana

, Tutti i mondi di Mondo9 82 racconti brevi ambientati negli scenari claustrofobici del romanzo "Mondo9" di Dario Tonani ISBN: 9788867753642 Lanfranco Fabriani, Lungo i vicoli del tempo Il primo romanzo di uno dei cicli più intriganti della fantascienza italiana, Premio Urania 2001 ISBN: 9788867753659

Gli ebook rapidi ed emozionanti

Erotismo

Claudette Marceau, Io, Elisabeth - Senza sfumaturen. 1

Letizia Draghi, La sala delle punizioni - Senza sfumaturen. 2

Ledra, Il ladro - Senza sfumaturen. 3

Macrina Mirti, Il dolce sapore della vendetta - Senza sfumaturen. 4

Emiliana De Vico, Incontri protetti - Senza sfumaturen. 5

s Shepard, Il suo gioco - Senza sfumaturen. 6

Emiliana De Vico, Zona d'ombra - Senza sfumaturen. 7

Letizia Draghi, La guardia del corpo - Senza sfumaturen. 8

Emiliana De Vico, Seta nera - Senza sfumaturen. 9

Sapphire Diamonds, La notte dei cristalli iridati - Senza sfumaturen. 10

Letizia Draghi, Body Sushi - Senza sfumaturen. 11

Emiliana De Vico, Il braccialetto rosa - Senza sfumaturen. 12

Macrina Mirti, Finiamola qui - Senza sfumaturen. 13

Didì Chisel, Un profumo per tre - Senza sfumaturen. 14

Letizia Draghi, Rivelazioni - Senza sfumaturen. 15

Irene Vanni, Tramonti sul lago - Senza sfumaturen. 16

Nora Noir, La serva di Vienna - Senza sfumaturen. 17

Alexandra Maio, Non andare via - Senza sfumaturen. 18

Gioia Monte, Senza respiro - Senza sfumaturen. 19

Elena Vesnaver, Senza scampo - Senza sfumaturen. 20

Lisa Peray, Appunti di viaggio - Senza sfumaturen. 21

Luce Loi, Prima dell'alba - Senza sfumaturen. 22

Fantascienza

Robert Silverberg, eggeri - Biblioteca di un sole lontanon. 1

Walter Jon Williams, Elegia per angeli e cani - Biblioteca di un sole lontanon. 2

Franco Forte, Chew-9 - Chew-9n. 1

Franco Forte, La guerra coi Rems - Chew-9n. 2

Franco Forte, Sole giaguaro - Chew-9n. 3

Franco Forte, Sentenza Capitale - Chew-9n. 4

Franco Forte, Morte dell'Agglomerato - Chew-9n. 5

Franco Forte, Stazione 9 - Chew-9n. 6

Franco Forte, Acciaio - Chew-9n. 7

Franco Forte, Quinta dimensione - Chew-9n. 8

Franco Forte, Sono atomi di stelle - Chew-9n. 9

Ilaria Tuti, Cerberus - Chew-9n. 10

Franco Forte, Gli orizzonti del cerchio - Chew-9n. 11

Ilaria Tuti, Egemona - Chew-9n. 12

Diego Lama, Gli orfani di Ana-j - Chew-9n. 13

Roberto Zago, Inferno blu - Chew-9n. 14

Alain Voudì, Alla deriva - Chew-9n. 15

Daniele Pisani, Blue diamond - Chew-9n. 16

Ilaria Tuti, Profondo Alpha - Chew-9n. 17

Lorenzo Fontana, Guantoni rossi - Chew-9n. 18

Vittorio Catani, Tre per uno - Classici della Fantascienza Italianan. 1

Renato Pestriniero, L'ultima porta - Classici della Fantascienza Italianan. 2

Donato Altomare, Parabola - Classici della Fantascienza Italianan. 3

Giuliano Giachino, Lo scudo di Anghor - Classici della Fantascienza Italianan. 4

Carlo Bordoni, Fame da lupo - Classici della Fantascienza Italianan. 5

Mariangela Cerrino, Il segreto di Mavi-Su - Classici della Fantascienza Italianan. 6

Alessandro Fambrini, Arco iris de mi alma - Classici della Fantascienza Italianan. 7

Donato Altomare, Ogni nave deve incontrare le sue onde - Classici della Fantascienza Italianan. 8

Antonino Fazio, Ripiegamento tattico - Classici della Fantascienza Italianan. 9

Silvio Sosio, Uno nessuno centomila - Classici della Fantascienza Italianan. 10

Vittorio Catani, Storia di un uomo - Classici della Fantascienza Italianan. 11

Franco Forte, L'oscura anima del progresso - Classici della Fantascienza Italianan. 12

Enrica Zunic', Del nome dei numeri e della riparazione del cielo - La guerra di Ainn. 1

Enrica Zunic', Il dolore del marmo - La guerra di Ainn. 2

Enrica Zunic', La discesa interrotta dal rosa e dal blu - La guerra di Ainn. 3

Enrica Zunic', Seconda giustificazione: la macchina - La guerra di Ainn. 4

Dario Tonani, Mechardionica - Mechardionican. 1

Dario Tonani, Abradabad - Mechardionican. 2

Dario Tonani, Coriolano - Mechardionican. 3

Dario Tonani, Bastian - Mechardionican. 4

, Tutti i mondi di Mondo9 - Odissea Digitaln. 1

Lanfranco Fabriani, Lungo i vicoli del tempo - Odissea Digitaln. 2

Emanuela Valentini, La sindrome di Cappuccetto Rosso - Red Psychedelian. 1

Paul Di Filippo, Il demolitore di astronavi - Robotican. 1

Robert J. Sawyer, Mikeys - Robotican. 2

Barbara Baraldi, Paziente 99 - Robotican. 3

Robert J. Sawyer, Sherlock Holmes e l'enigma definitivo - Robotican. 4

Nancy Kress, I fiori della prigione di Aulit - Robotican. 5

Paul Di Filippo, Bleb - Robotican. 6

Vittorio Catani, Replay di un amore - Robotican. 7

Robert J. Sawyer, Le spalle dei giganti - Robotican. 8

Nancy Kress, Come nascono i bambini - Robotican. 9

John W. Campbell, jr, La cosa - Robotican. 10

Peter Watts, Le cose - Robotican. 11

Aliette de Bodard, Immersione - Robotican. 12

Barry N. Malzberg, Una galassia di nome Roma - Robotican. 13

Robert J. Sawyer, Carnifex Rex - Robotican. 14

Paul Di Filippo, La singolarità ha bisogno di donne! - Robotican. 15

Paul Di Filippo, Solomon Kane: Fenomeni osservabili - Robotican. 16

Dario Tonani, Le polverose conchiglie del mattino - Robotica.itn. 1

Denise Bresci, Nessun dubbio - Robotica.itn. 2

Giovanni De Matteo, Sulle ali della notte - Robotica.itn. 4

Vittorio Catani, La voce - Robotica.itn. 5

Alessandro Forlani, Sonno verde - Robotica.itn. 6

Giovanni De Matteo, Il lungo ritorno di Grigorij Volkolak - Robotica.itn. 7

Valentino Peyrano, Il castello e il viandante - Tecnomanten. 1

Valentino Peyrano, Bema - Tecnomanten. 2

Valentino Peyrano, La strada verso nord - Tecnomanten. 3

Valentino Peyrano, Il resoconto di Karl - Tecnomanten. 4

Valentino Peyrano, Korman - Tecnomanten. 5

Valentino Peyrano, Il monaco apocrifo - Tecnomanten. 6

Valentino Peyrano, Di là dal mare, tra le isole - Tecnomanten. 7

Valentino Peyrano, Campo di maggio - Tecnomanten. 8

Fantasy

Carlo Vicenzi, La fortezza - Fantasy Tales I Cento Blasonin. 1

Carlo Vicenzi, Il prezzo del mercenario - Fantasy Tales I Cento Blasonin. 2

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Luigi Brasili, Il tempio dei sette - Fantasy Tales I figli della notten. 1

Luigi Brasili, Stelle Cadenti - Fantasy Tales I figli della notten. 2

Andrea Franco, Il grande protettore - Fantasy Tales Il Canto delle Armin. 1

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Scilla Bonfiglioli, Specchi d'acqua - Fantasy Tales L'ultima soglian. 1

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Liudmila Gospodinoff, Nessuno è più ombra di me - Fantasy Tales La città delle ombren. 1

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Giallo

Maurice Leblanc, L'arresto di Arsenio Lupin - Arsenio Lupinn. 1

Maurice Leblanc, Arsenio Lupin in prigione - Arsenio Lupinn. 2

Maurice Leblanc, L'evasione di Arsenio Lupin - Arsenio Lupinn. 3

Maurice Leblanc, Lupin e il viaggiatore misterioso - Arsenio Lupinn. 4

Maurice Leblanc, Arsenio Lupin e la collana della regina - Arsenio Lupinn. 5

Maurice Leblanc, Il sette di cuori - Arsenio Lupinn. 6

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Samuele Nava, Sherlock Holmes e la sfida dell'astrologo - Sherlockianan. 2

Luca Sartori, Sherlock Holmes e l'ultimo preraffaellita - Sherlockianan. 3

Enrico Solito, Sherlock Holmes e l'avventura del Carro di Tespi Sherlockianan. 4

Luca Martinelli, Sherlock Holmes e l'avventura della corsa Londra-Brighton Sherlockianan. 5

Enrico Solito, Sherlock Holmes e il mistero delle Dodici tavole Sherlockianan. 6

Gianfranco Sherwood, Sherlock Holmes e l'avventura dell'enigma da Krakatoa Sherlockianan. 7

Samuele Nava, Il trovatello di Baker Street - Sherlockianan. 8

Enrico Solito, Sherlock Holmes Christmas Carol - Sherlockianan. 9

Patrizia Trinchero, Il gioco è cominciato, Holmes! - Sherlockianan. 10

Enrico Solito, Sherlock Holmes e il caso del giocatore di scacchi Sherlockianan. 11

Luca Martinelli, Sherlock Holmes e il caso dei fidanzatini sfortunati Sherlockianan. 12

Enrico Solito, Sherlock Holmes e l'avventura della tredicesima porta Sherlockianan. 13

Luca Sartori, Il cane e l'anatra - Sherlockianan. 14

Samuele Nava, Sherlock Holmes batte un colpo - Sherlockianan. 15

Gianfranco Sherwood, Sherlock Holmes e l'avventura della spia austriaca Sherlockianan. 16

Samuele Nava, La sindrome di Sherlock Holmes - Sherlockianan. 17

Enrico Solito, Sherlock Holmes e il caso della Calcutta Cup - Sherlockianan. 18

Luca Martinelli, Sherlock Holmes e l'avventura dello scrigno nero -

Sherlockianan. 19

Gianfranco Sherwood, Sherlock Holmes e l'avventura del demone cinese Sherlockianan. 20

Samuele Nava, Sherlock Holmes sull'isola dei cani - Sherlockianan. 21

Patrizia Trinchero, Punti di vista - Sherlockianan. 22

Enrico Solito, Sherlock Holmes e il mistero della slitta - Sherlockianan. 23

Gianfranco Sherwood, Sherlock Holmes e l'avventura del Villaggio silente Sherlockianan. 24

Stefano Attiani, Sherlock Holmes e l'avventura del licantropo Sherlockianan. 25

Enrico Solito, Sherlock Holmes e l'avventura del gemito del neonato Sherlockianan. 26

Gianfranco Sherwood, Sherlock Holmes e l'avventura del teschio deforme Sherlockianan. 27

Elena Vesnaver, Sherlock Holmes e il caso dell'unicorno nero Sherlockianan. 28

Enrico Solito, Sherlock Holmes e l'avventura del fantasma senza testa Sherlockianan. 29

Enrico Solito, Sherlock Holmes e il caso della deduzione errata Sherlockianan. 30

Elena Vesnaver, Sherlock Holmes e le ragazze di Madame Jai Sherlockianan. 31

Enrico Solito, Sherlock Holmes e l'avventura del Krisna di Kangra Sherlockianan. 32

Marco Paracchini , Sherlock Holmes e il licantropo di Huntingdon Sherlockianan. 33

Enrico Solito, Sherlock Holmes e il caso dell'omicidio in flagrante Sherlockianan. 34

Horror

Kealan Patrick Burke, Sepolto vivo - Halloween Nightsn. 1

Ronald Malfi, La casa in Cottage Lane - Halloween Nightsn. 2

Lisa Morton, La leggenda di Halloween Jack - Halloween Nightsn. 3

Simon Clark, Gerassimos Flamotas: un giorno di ordinaria follia + Alta tensione - Halloween Nightsn. 4

Brian James Freeman, Il mostro della notte - Halloween Nightsn. 5

Richard Chizmar, La notte del diavolo - Halloween Nightsn. 6

Norman Prentiss, La casa silenziosa - Halloween Nightsn. 7

Stewart O'Nan, I mostri - Halloween Nightsn. 8

Steve Rasnic Tem, Dolcetto o Scherzetto ad Halloween Street - Halloween Nightsn. 9

Romance

Mariangela Camocardi, Un angelo per me - ioni Romantichen. 1

Paola Picasso, Questione di pelle - ioni Romantichen. 2

Roberta Ciuffi, L'amore fa così - ioni Romantichen. 3

Ledra, L'abete perfetto - ioni Romantichen. 4

Angela Fassio, Brivido rosa - ioni Romantichen. 5

Roberta Ciuffi, Rob-S l'imperfetto - ioni Romantichen. 6

Paola Renelli, Un amore da prima pagina - ioni Romantichen. 7

Roberta Ciuffi, Grosso guaio al Peruviana - ioni Romantichen. 8

Mariangela Camocardi, Se perdo te - ioni Romantichen. 9

Serena Crescenzi, Il collezionista di ricordi - ioni Romantichen. 10

Macrina Mirti, Il canto del cuore - ioni Romantichen. 11

Emanuela Locori, Un tramonto a Thera - ioni Romantichen. 12

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Scrittura creativa

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Spionaggio

Stefano Di Marino, Peccati mortali - Sex Forcen. 1

Stefano Di Marino, Affari proibiti - Sex Forcen. 2

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Stefano Di Marino, Femmine carnivore - Sex Forcen. 4

sco Perizzolo, Hamburg Connection - Sex Forcen. 5

Romano De Marco, Chris Lupo: sesso e fuoco - Sex Forcen. 6

Stefano Di Marino, La preda - Sex Forcen. 7

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Stefano Di Marino, 100 femmine sul ghiaccio - Sex Forcen. 9

sco Perizzolo, Il morso del Kobra - Sex Forcen. 10

Stefano Di Marino, La contessa nuda - Sex Forcen. 11

sco Perizzolo, La vendetta del Kobra - Sex Forcen. 12

Romano De Marco, Missione Granny - Sex Forcen. 13

Stefano Di Marino, Profondo blu - Sex Forcen. 14

Stefano Di Marino, La sirena insanguinata - Sex Forcen. 15

Alessio Gallerani, Azzardo nucleare - Sex Forcen. 16

Andrea Valeri, La stretta del granchio - Sex Forcen. 17

Giampiero Guerra, Chi è senza peccato - Sex Forcen. 18

Sadie Löve, Una bambola per Amanda - Sex Forcen. 19

sco Perizzolo, Guerra fredda, sangue caldo - Sex Forcen. 20

Sadie Löve, Perversione di tendenza - Sex Forcen. 21

sco Perizzolo, La dama del dolore - Sex Forcen. 22

Marco Donna, Tango extasy - Sex Forcen. 23

Andrea Valeri, Fiore di ghiaccio - Sex Forcen. 24

Alessio Gallerani, Artiste della morte - Sex Forcen. 25

Steampunk

Roberto Guarnieri, Il Circolo dell'Arca - Il circolo dell'Arcan. 1

Roberto Guarnieri, La macchina delle vite perdute - Il circolo dell'Arcan. 2

Roberto Guarnieri, I misteri di Samotracia - Il circolo dell'Arcan. 3

Roberto Guarnieri, Fumo di Londra - Il circolo dell'Arcan. 4

Roberto Guarnieri, Il mistero della Divina Commedia - Il circolo dell'Arcan. 5

Alain Voudì, Arrivo a Trainville - Trainvillen. 1

Storico

Salvo Figura, La terra, il cielo e il costato - History Crimen. 1

Marco P. Massai, La maschera di Pietrasanta - History Crimen. 2

Manuela Costantini, Il ritorno del se - History Crimen. 3

Claudio Costa, Morgengab - History Crimen. 4

Marco Frosali, Chirone - History Crimen. 5

Maria Michela Lieto, Il peccato della sirena - History Crimen. 6

Samuele Nava, Caccia all'untore - History Crimen. 7

Tecnologia

Carlo Mazzucchelli, Tablet: trasformazioni cognitive e socio-culturali TechnoVisionsn. 1

Carlo Mazzucchelli, Internet e nuove tecnologie: non tutto è quello che sembra TechnoVisionsn. 2

Antonio Fiorella, Approdo della ricerca scientifica nella metafisica TechnoVisionsn. 3

Carlo Mazzucchelli, Tablet a scuola: come cambia la didattica TechnoVisionsn. 4

Carlo Mazzucchelli, La solitudine del social networker - TechnoVisionsn. 5

Luigi Pachì, Enterprise Mobility: l’interazione al centro - TechnoVisionsn. 6

Antonio Fiorella, DD - Il Drone di Dio - TechnoVisionsn. 7

Thriller

Franco Forte, Fuga d'azzardo - Delos Crimen. 1

Sergio Donato, Scorreva rabbia - Delos Crimen. 2

Annamaria Fassio, L'anno dello sbarco - Delos Crimen. 3

Carlo Parri, Si chiamava Nina - Delos Crimen. 4

Alain Voudì, RIG - Delos Crimen. 5

Cinzia Bettineschi, Cutter - Delos Crimen. 6

Diego Lama, La casa degli amori segreti - Delos Crimen. 7

Andrea Franco, Lo sguardo del diavolo: Jeffrey Dahmer - Serial Killern. 1

Fabio Oceano, La quarta vittima - Serial Killern. 2

Umberto Maggesi, Io, il mostro - Serial Killern. 3

Andrea Franco, Lungo la via del pensiero - Serial Killern. 4

Fabio Oceano, Freeway killer - Serial Killern. 5

Luca Di Gialleonardo, Big Ed - Serial Killern. 6

Manuela Costantini, Quasi sempre a ottobre - Serial Killern. 7

Fabio Oceano, Lo sciamano - Serial Killern. 8

Zombie

Franco Forte, Stazione 27 - The Tuben. 1

Ilaria Tuti, Carlo Vicenzi, La fame e l'inferno - The Tuben. 2

Antonino Fazio, Alain Voudì, Giorno Zero - The Tuben. 3

Ilaria Tuti, Ceneri - The Tuben. 4

Scilla Bonfiglioli, Progetto Bokor - The Tuben. 5

Antonino Fazio, Alain Voudì, Il bacio della morte - The Tuben. 6

Fabio Pasquale, Michela Pierpaoli, Legame di sangue - The Tuben. 7

Carlo Vicenzi, Roberto Zago, L'alveare - The Tuben. 8

Ilaria Tuti, Nido di carne - The Tuben. 9

Fabio Pasquale, Andrea Ferrando, Siamo legione - The Tuben. 10

Franco Forte, Stazione 28 - The Tuben. 11

Alain Voudì, Franco Forte, Rinascita - The Tube 2n. 1

Luigi Brasili, Il lupo - The Tube Exposedn. 1

Roberto Zago, L'antro di Jona - The Tube Exposedn. 2

Diego Lama, Il cacciatore - The Tube Exposedn. 3

Camilo Cienfuegos, I ripulitori - The Tube Exposedn. 4

Diego Matteucci, Il tempio della notte - The Tube Exposedn. 5

Luca Romanello, Via di fuga - The Tube Exposedn. 6

Luigi Brasili, Il ritorno del Lupo - The Tube Exposedn. 7

Andrea Montalbò, Paranoia Park - The Tube Exposedn. 8

Andrea Franco, Luca Di Gialleonardo, Di fame e d'amore - The Tube Exposedn. 9

Lia Tomasich, Family Reunion - The Tube Exposedn. 10

Luca Romanello, Veleno dentro - The Tube Exposedn. 11

Antonino Fazio, Survive - The Tube Exposedn. 12

Camilo Cienfuegos, I ripulitori e l'abisso - The Tube Exposedn. 13

Diego Matteucci, Il bianco e il nero - The Tube Exposedn. 14

Lia Tomasich, Rescue Team - The Tube Exposedn. 15

Andrea Montalbò, Paranoia Park - Il branco - The Tube Exposedn. 16

Alan D. Altieri, Cold Zero - Parte prima - The Tube Nomadsn. 1

Alan D. Altieri, Cold Zero - Parte Seconda - The Tube Nomadsn. 2

Danilo Arona, Ghost in the machine - The Tube Nomadsn. 3

Massimo Rainer, Katakombs - The Tube Nomadsn. 4

Andrea Novelli, Gianpaolo Zarini, Shockwave - The Tube Nomadsn. 5

Sonia Tortora, Dead Air - The Tube Nomadsn. 6