Memorie Di Mondi 4l1220

Memorie di mondi

Maurizio Vicedomini

Copertina: Nadia Mozzillo Prefazione: Antonio Lanzetta

EDS- Marchio GDS

Via Matteotti 23

20069 Vaprio d'adda-Mi

www.bookstoregds.com

TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

Prefazione di Antonio Lanzetta

Il tempo è un giocatore.

Mescola le carte, nasconde il volto dietro una nuvola di fumo e nel frattempo aspetta. Attende una nostra mossa. Il tempo non ha fretta, è consapevole che l’ultima scelta spetta comunque a lui. L’uomo vive di rimessa, si affanna cercando di afferrare lo scorrere degli attimi, di bloccare la cascata di sabbia dentro la clessidra. Chi controlla il tempo controlla tutto. Basterebbe inserire la chiave nel quadro della DeLorean di Ritorno al Futuro per fare un salto nel ato e rimettere a posto le cose che ci sono sfuggite di mano. Correggere gli errori, impedire crimini, sistemare quelle situazioni che avrebbero poi portato l’umanità a soffrire. Sarebbe stupendo, ma a quale prezzo?

H.G. Wells nel 1895 iniziava a stendere le basi del viaggio nel tempo, a delineare i contorni del futuro dell’umanità: le guerre mondiali, la catastrofe e regresso della società a un’epoca primordiale. Non possiamo far altro che impallidire se pensiamo a quanto questi temi abbiano influenzato la letteratura di genere negli anni. E il tempo è sempre al centro di tutto, dimensione con cui percepiamo gli eventi intorno a noi. Charles Dickens, in A Christmas Carol, aveva dato a questo fattore le sembianze di fantasmi del presente, ato e futuro, che si manifestano per tormentare il tirchio Scrooge e spingerlo a riflettere sul vero senso della vita, sui lati bui della società di cui lui stesso è parte.

Il tempo è un nemico. Sfoglio le pagine del giornale, leggo le colonne della cronaca e immagino d’essere Andrew Harlan, il protagonista de La fine dell’eternità di Isaac Asimov (1955). Sogno di appartenere alla casta degli Eterni, per eliminare dalla realtà tutte le imperfezioni e modificare la storia. Eppure so che anche in questo caso il tempo l’avrebbe vinta. Cancellare il dispiacere dalla storia significa privare l’uomo del libero arbitrio. Governare il tempo significa ergersi a divinità e lanciare un sassolino in uno stagno.

Osservare il movimento delle onde e ignorarne le conseguenze. Alla fine, lo scorrere degli attimi vincerebbe.

La guerra è impari e questo il tempo lo sa.

Memorie di mondi

Tempus edax rerum

Il tempo divora le cose

Ovidio (Metamorfosi XV, 234)

Rewrite

Il professor Nakolov batté ripetutamente la bacchetta di legno sulla cattedra, ogni colpo in un punto diverso. I dodici studenti che circondavano il ripiano osservavano circospetti i movimenti del docente, alla ricerca di qualche illuminazione.

«Dimenticate il fiume. Non è più un paragone adatto a descrivere il moto del tempo. Immaginate un piano, come questo» batté ancora la bacchetta. «per semplicità analizzeremo solo una struttura bidimensionale, ma va da sé che sarà poi necessario estenderlo a uno spazio tridimensionale».

Ethan annuì, prendendo rapidi appunti sul quadernetto.

«Partiamo dal principio» riprese Nakolov con accento inglese quasi madrelingua. «Questa cattedra è l’Omnicosmicon, la struttura esterna che contiene spazio e tempo. Il nostro universo si sposta in esso secondo una linea, ma badate che non sarà necessariamente retta».

Puntò la bacchetta sul bordo della cattedra e la spinse in avanti, verso lo studente che aveva di fronte. Senza alcuna logica apparente si spostò verso un altro studente, poi un altro, continuando ad avanzare. Raggiunse il bordo opposto.

Ethan annotò lo strano percorso della bacchetta-universo. Capiva che quello spostamento non era fisico. Si spostava lungo il tempo.

«Ora, immaginate questa cattedra come una griglia. Chiameremo Bolle Temporali tutti i punti di congiunzione. L’universo rappresentato da questa bacchetta si è spostato continuamente da una bolla all’altra, da un punto all’altro. È questa la dinamica dell’Omnicosmicon, e con essa del nostro universo».

«Cosa sono le Bolle, precisamente?» chiese uno studente alla destra di Ethan.

Nakolov sorrise. «Identità temporali».

* * *

Ethan si fermò davanti alla porta del centro di ricerca. Guardò in alto, verso una telecamera. Un bip l’avvisò di essere stato riconosciuto.

Un pannello di metallo si alzò al centro della porta, mettendo in mostra un tastierino numerico.

5-5-2-3-4-8.

Bip. Il pannello si richiuse e le porte si spalancarono.

Ethan avanzò con o svelto, salutando con un cenno del capo le due guardie

all’ingresso. Salì le scale per due piani, superò un corridoio ed entrò nel suo ufficio. Richiuse la porta alle spalle, poggiando la ventiquattrore sulla scrivania. Era fatta.

«Ethan». Una voce maschile lo chiamò da fuori la porta. «Avanti, ti ho visto entrare».

Il ricercatore sbuffò. Non era il momento adatto. Nascose la valigetta sotto il banco, indossò il camice e aprì la porta.

«Steve» salutò.

«Diavolo, Ethan. Si può sapere che fine hai fatto?»

«Ho avuto da lavorare».

«Non per noi, ritengo».

«Una ricerca importante. Lascia stare, è complicato».

Steve Matheson lo fissò per qualche istante. «Non ti starai mettendo nei guai, vero?»

Ethan negò con il capo. «Fidati, nulla di problematico».

«E di cosa ti staresti occupando?»

Il ricercatore esitò. «Idrodinamica».

«Scherzi?» Steve accennò un sorriso. «Uno specialista nella fisica quantistica che studia i moti dell’acqua?»

«Tutto è collegato, lo sai. È solo un esperimento».

Matheson alzò le spalle. Tornò sulla soglia. «Ti vedremo più spesso?»

«Credo di sì».

«Buon per te. Io non ti paro il culo un’altra volta. Vedi di non fare più l’assenteista».

«D’accordo».

Steve uscì, richiudendosi la porta alle spalle.

Ethan tornò alla scrivania e recuperò la ventiquattrore. L’aprì, estrasse un plico di fogli. Li poggiò sul ripiano e li sfogliò. Superò la griglia, i calcoli, i grafici, le formule evidenziate e gli appunti a piè di pagina. Trovò un foglio zeppo di appunti scritti in piccolo, con le righe quasi sovrapposte le une alle altre. Lo prese. Afferrò il telefono con l’altra mano e digitò #12.

«Interno area 12».

«Sono Simmons. Una settimana fa ho prenotato l’utilizzo del supercomputer».

«Sì, dottore, è a sua disposizione».

«Grazie» disse, e riagganciò.

Strinse il foglio fra le mani e aggirò la scrivania. Non sarebbe dovuto venire, lo sapeva. In molti avevano sospetti sulle sue ricerche, sin dal dottorato. Ma non poteva far altro per avere un qualche risultato. Gli serviva il supercomputer.

Afferrò la maniglia e la girò. La porta si aprì da sé, mostrando un vecchio in un lungo impermeabile fermo davanti al suo ufficio. I capelli bianchi, lunghi, lasciavano scoperta la sommità del capo.

«Buongiorno».

Ethan spalancò la bocca, senza riuscire a dire nulla.

«Entriamo un istante, se non è un problema» continuò l’uomo.

Il ricercatore si fece da parte, ancora in silenzio, permettendo all’altro di entrare. Quand’ebbe richiuso la porta, si voltò verso l’ospite come inebetito.

«Professore».

«Chiamami Andrej» rispose Nakolov. Stava osservando la pila di fogli sfusi sulla scrivania. «Non dovresti lasciare incustodita la tua ricerca. Occhi indiscreti potrebbero crearti dei guai».

Ethan raggiunse il ripiano di corsa, raccattando in fretta gli appunti. «Non è nulla di problematico, non si preoccupi».

«Non credere che non riconosca quella griglia. L’hai migliorata, ne sono sicuro, ma su quella base ci ho lavorato per anni».

Il ricercatore annuì, senza rispondere.

«Ad ogni modo, credo sia il caso che si esca da qui» disse Nakolov.

«Al momento sono impegnato».

«Lo so, il supercomputer. È quello il problema. Il tuo amico Matheson non è uno stinco di santo».

Ethan alzò lo sguardo sul professore.

«Ti ha venduto. Non so come abbia fatto a scoprire che lavori sulle Bolle, ma da come lasci in giro i tuoi appunti non dev’essere stata un’impresa così ardua».

«Che significa mi ha venduto?» chiese Ethan. «Che c’è di male in questa ricerca?»

«Tanto e nulla. Ma se andrai nell’Area 12, troverai degli uomini in doppiopetto ad attenderti. Ti consiglio, invece, di uscire con me. Poi saprò spiegarti».

Ethan strinse i denti. Di chi doveva fidarsi?

Guardò la valigetta. Le ricerche di anni si basavano su quelle dell’uomo che aveva davanti. Era uno scienziato, un uomo fedele ai suoi ideali. Un po’ come lui.

Tolse il camice e afferrò la ventiquattrore, riempita di nuovo di tutti gli appunti.

«E sia. Andiamo».

* * *

«Credo di non capire».

Il professore annuì un paio di volte. Si portò una mano al mento, come se stesse ragionando.

«Mettiamola così» rispose. «Ci sono fasi della nostra storia a cui potete dare un nome. Medioevo, Rinascimento, l’epoca delle grandi guerre mondiali, l’epoca del dominio di Roma, quello della Grecia, quello di Alessandro Magno. L’epoca delle rivoluzioni».

Guardò gli studenti, uno dopo l’altro, forse alla ricerca di un assenso. Ethan annuì.

«A ognuno di questi nomi, la vostra mente vi ha di sicuro fornito delle informazioni. Voi sapete di cosa stiamo parlando per ognuno di essi. Ecco, semplificando molto le cose, potremmo dire che queste sono identità temporali. Il nostro universo si è spostato nella bolla del medioevo, in quella del rinascimento, in quella delle guerre mondiali e via discorrendo».

Un altro ragazzo sollevò la mano. Nakolov lo invitò a parlare con un cenno del capo.

«È una semplificazione, giusto?» chiese il giovane. «Non c’è una bolla

“medioevo”».

«Esatto. Le Bolle non sono preformate. Non possiamo predire cosa ci sarà nella prossima Bolla. Ci sono eventi importanti, che possono cambiare la storia. E questi eventi scaturiscono sempre da una scelta: sì o no. A volte, addirittura, la scelta è multipla: allearsi con uno, allearsi con un altro, essere neutrale. Le possibilità sono infinite».

«È nel momento in cui viene posta la domanda che le Bolle ottengono una configurazione» commentò Ethan.

Nakolov lo guardò, sorridente. «Esatto».

«Dunque tutte le scelte importanti formano un numero di Bolle Temporali» continuò il ragazzo.

Il professore annuì ancora.

«E tutte sono attraversate da un universo?»

Nakolov inspirò lentamente. «Non possiamo saperlo. Non conosciamo ancora la correlazione fra il numero di universi e quello delle Bolle. Com’è ovvio, il numero di Bolle Temporali tende all’infinito. Se per ogni scelta ci sono almeno due opzioni, è assolutamente certo che il numero di Bolle cresca. Ma quanti universi esistano e come essi vengono generati, questa è una domanda alla quale nessuno ha ancora dato una risposta».

Un giovane dall’altra parte della cattedra scrollò le spalle.

«Forse ogni scelta non configura solo le Bolle seguenti, ma scinde anche gli universi a seconda delle possibilità. Due scelte possibili, due universi risultanti, ognuno in una Bolla».

«Possibile» annuì Nakolov, «ma improbabile. Se tu ripensassi alla quantità di energia necessaria per creare un nuovo universo, allora saresti più cauto nel formulare una simile ipotesi».

Lo studente abbassò il capo, ma Ethan non si sentiva di scartare con tale facilità la sua ipotesi. Ci aveva pensato anche lui, nonostante il problema dell’energia. Ma se c’erano tante Bolle, era plausibile credere che vi fossero più universi. Perché non uno per ogni Identità?

* * *

«Cosa vogliono da me?»

Nakolov mescolò lo zucchero nel caffé. Sospirò. «Non lo so. Dipende da cosa hai scoperto».

«Sto studiando le Bolle, questo l’ha capito».

«Sì, ma sono certo che in anni di ricerca tu sia giunto a un qualche risultato».

«Professore…»

«Andrej».

«Andrej» annuì Ethan. «Ho sempre riscontrato una falla nella sua teoria».

«E sarebbe?»

«C’era troppo caos nel rapporto fra universi e Bolle. Se le Bolle vengono configurate al sopraggiungere della scelta, cosa genera gli universi? Quanti sono? Non posso accettare un non lo so come risposta. È su questo che ho lavorato».

«E cosa hai scoperto?»

«Non c’è ancora nulla di comprovato. Mi serviva quel test al supercomputer…»

«Lo so, ma ipotizziamo che lo sia già».

Ethan annuì. «Un universo per ogni Bolla. La scelta configura le Bolle, e con esse scinde l’universo in forme quasi speculari, in numero esatto quante sono le

Bolle configurate».

«Un’ipotesi senz’altro affascinante, ma con un grosso problema di fondo».

«L’energia per generare nuovi universi».

«Già».

«L’ho trovata. Sono stato anche in grado di calcolarla».

Nakolov spalancò gli occhi, le labbra schiuse pronte ad aprirsi. «Dove?»

Ethan tenne la bocca chiusa. Si guardò intorno, poi si piegò in avanti, verso il professore.

«Ne parleremo più tardi. Ora voglio capire qual è il problema con questa ricerca».

«I risultati che può portare».

«Fin qui c’ero arrivato, Andrej».

Nakolov sorrise. «Per capire davvero devi fidarti di me ancora una volta».

Ethan si appoggiò allo schienale. «Di che si tratta?»

«Devi venire con me in un posto».

«Lontano?»

«Pochi isolati».

Il ricercatore annuì. «Andiamo a piedi».

«Naturalmente». Nakolov guardò distrattamente l’orologio. Parve stringere le labbra. «Muoviamoci».

Tre isolati salutarono l’ampio parco di un cimitero. Il luogo era deserto, e Ethan non era certo di volerci entrare. Poteva essere una trappola.

Il professore doveva essersene accorto. «Se può valere qualcosa, ti assicuro che nessuno ci sta aspettando».

Ethan guardò lui, poi di nuovo il parco. «E sia». Superò il cancello, avanzando sul viottolo di pietra. Il professore lo affiancò quasi subito, indicandogli una

strada secondaria che virava verso ovest.

«Cosa cerchiamo?»

«Cosa vuoi trovare in un cimitero?» rise Nakolov. «Una tomba». Avanzarono fra centinaia di lapidi, tutte identiche, fatta eccezione per il nome riportato.

Andrej lo superò, raggiunse una tomba interna. Si fece da parte, permettendo a Ethan di affiancarlo.

«Ci siamo». Il ricercatore fissò la lapide e fu incapace di distogliere lo sguardo. Non sapeva che pensare, né cosa dovesse fare. Restò immobile, pietrificato, a fissare quel nome.

Andrej Vasil'evič Nakolov

2010 - 2070

* * *

«Mi aspetto una domanda, ora» sorrise Nakolov.

Un ragazzo alla sinistra di Ethan alzò lo sguardo. «È possibile spostarsi da una

Bolla all’altra?»

Il professore annuì, invitandolo a continuare. «E di conseguenza…?»

«È possibile spostarsi da un universo all’altro?»

«Ecco il punto, ecco il problema. Cosa succederebbe se due universi dovessero incontrarsi? Non serve, naturalmente, un contatto spaziale fra i due».

«Che problemi potrebbe creare uno di noi che arriva su un altro universo?» chiese uno studente.

«Con le vostre attuali conoscenze… nessuno. Ma se voi sapeste i risultati dei miei ultimi studi…»

Ethan alzò il capo, fissando il professore con insistente curiosità.

«Devo supporre che abbiate esperienza – per lo meno teorica – di tachioni, e dunque non mi dilungherò. Ma in quanto particelle temporali, vi sarà evidente che se una Bolla si configura, tale configurazione avviene nei tachioni o nella struttura che essi formano. E quindi…»

«Siamo marchiati» sbottò Ethan. Lo sguardo dei presenti si spostò su di lui, e solo allora il ragazzo capì di aver parlato a voce alta.

«Una metafora poco elegante, ma veritiera. Le nostre particelle portano un marchio di fabbrica. Cosa accadrebbe se inserissimo una particella con tale marchio in una struttura temporale che non la riconosce?»

Silenzio.

«Nessuno azzarda un’ipotesi?»

«Non abbiamo dati a sufficienza per un’ipotesi coerente» fece Ethan.

«Azzarda».

«Rigetto. O forse nulla».

Nakolov annuì. «Ipotesi plausibili. Ma ve ne sono altre, infinite altre. È questo il problema, direi. Non sappiamo cosa caemmo. Un paradosso, forse. Un disastro fra universi. Chissà».

Ethan annuì. Strinse le labbra e mormorò: «o forse nulla».

* * *

«E allora?»

Ethan si sentì schiaffeggiato via dal suo tepore. Si costrinse a ragionare.

«Ha fatto credere di essere morto».

«Sbagliato».

La mente del ricercatore era già arrivata alla soluzione, ma tremava al solo pensiero di pronunciarla. Sarebbe stato un disastro.

«Non può venire da un’altra Bolla».

«Perché no?»

«Perché starebbe destabilizzando la struttura di questo universo!»

Nakolov strabuzzò gli occhi. «Non essere avventato».

«Mi dica che è uno scherzo e che non viene da un’altra Bolla».

«Se vuoi possiamo scavare qui sotto. A dieci anni di distanza non troverai il tuo Nakolov profumato di pino, ma forse potrai farlo analizzare».

Ethan si ò le mani fra i capelli. «Da quanto è qui?»

«Due mesi».

«Due mesi?» strillò il ricercatore. «Potrebbe essere troppo tardi».

«Ma di cosa stai parlando?»

«Forse non ho neanche il tempo per spiegarglielo».

«Provaci».

Ethan si lasciò cadere sul terriccio. «L’energia che l’universo assorbe per scindersi, proviene dal tempo stesso».

Nakolov sollevò il capo, pensieroso. «Mi stai dicendo che a ogni biforcazione l’universo divora il tempo per creare un nuovo sé stesso?»

«Qualcosa del genere. Divora il nostro tempo. Se invecchiamo è proprio per questo motivo».

Questa volta fu il professore a restare con la bocca spalancata. «Tutto tornerebbe… ma perché alcune cose invecchiano prima e altre più tardi?»

«È un po’ come il calore specifico. Ogni materiale, mettiamola così, ha un suo Indicatore di Tempo Specifico. A seconda della sua Permeabilità Temporale invecchia più facilmente o con maggiori difficoltà».

«E tutto questo cosa c’entra con me?»

«Nelle sue teorie – o almeno nelle teorie del mio Nakolov – era già chiaro che ogni Bolla marchiasse l’universo. Nel aggio fra una Bolla e la seguente un diverso marchio può aprire una falla nella nuova Identità temporale. Andrej, deve andarsene».

«Ma questo sarebbe vero solo se fossimo in procinto di cambiare Bolla e…»

«Lo siamo» sentenziò Ethan. «E lo sa anche lei».

Nakolov strinse le labbra.

«Ho visto come fissa quell’orologio, quel timer. Deve aver calcolato meglio di me il conto alla rovescia. Quanto manca?»

Il professore abbassò le spalle, sconfitto. «Mezz’ora».

«Deve andarsene».

«Non ne ho modo. Tutta la mia attrezzatura è dall’altra parte, nel mio universo».

«Maledizione!» imprecò Ethan. «Come può essere stato tanto sconsiderato?»

«Non hai idea di che mondo si trovi nella mia Bolla. Non è un posto dove voglio vivere. Ho fatto calcoli, una vita intera di ricerca per assicurarmi che non ci fosse pericolo».

«Lei è venuto qui proprio per are alla nuova Bolla con questo universo» capì Ethan. «Così sarebbe stato ormai troppo lontano dal suo, e tornare sarebbe stato impossibile».

«Sei sempre stato il più acuto fra i miei studenti» sorrise Nakolov.

«Ma ora?» chiese il ricercatore. «I suoi calcoli sono errati, e condurrà noi tutti alla distruzione».

«Io ho previsto un diverso futuro. Le possibilità erano tre».

«Quali?»

«La prima è quella da te individuata. La seconda vede una ripulitura da parte della Bolla degli oggetti estranei. In tal caso sarei solo io a morire, a scomparire».

«E la terza?»

«Quella che mi è più congeniale. La prossima Bolla cambierà il mio marchio, trasformandomi in un essere di questo universo. Sarò riscritto. È ciò che accadrà, fidati di me. È una vita di studi, dedicata a questo singolo atto temporale. L’universo non è così fragile come puoi pensare. Ingloberà ciò che è estraneo più che distruggersi».

«Una riscrittura» ripeté Ethan.

«Non temere. Abbiamo due possibilità su tre che vada tutto bene per voi. Per noi».

Ethan scosse il capo. «Peccato che la soluzione sia per forza una di queste. Che importa se le scelte sono mille? Se quella esatta è l’unica che vede la nostra distruzione, l’universo salterà in aria lo stesso!»

«Ethan, Ethan» disse Andrej, «Non potevo far altro, non capisci? Non ti avrei nemmeno informato della mia presenza, se tu non fossi stato in pericolo».

«Perché lo ha fatto? Ha messo a repentaglio il suo piano».

«Perché è mio desiderio proteggerti, proteggere tutti voi studenti, come ho fatto in ato».

«Cosa? Di che sta…»

Uno sparo.

Nakolov afferrò Ethan, lo fece abbassare.

Un altro sparo risuonò. Sangue dalla bocca del professore, gli occhi spalancati fissi all’orizzonte. Le membra ancora rigide che tenevano Ethan al suolo.

«Vai» mormorò. «Scappa».

Il ricercatore restò a terra, pietrificato. Chi aveva sparato? Quelli che gli davano la caccia, senz’altro. L’avrebbero ucciso.

«Vai!» urlò Andrej, e Ethan si mise a correre. Un nuovo sparo risuonò nell’aria, ma non vi diede peso. Corse a perdifiato finché poté, si lanciò verso l’entrata secondaria del cimitero e uscì in strada, ancora correndo. Non si diede tempo per pensare. Scappò fino a un caffé, qualche isolato più a sud. Non l’aveva mai visto, ma non aveva importanza. Entrò, prese un tavolino lontano dalle finestre e ordinò un tè.

Respirava ancora a fatica, quando si rese conto che i minuti stavano per scadere. In una manciata di secondi l’universo sarebbe ato a una nuova Bolla, forse l’ultima. Nakolov era morto, certo, ma non era la sua vita il problema. Era la sua materia, che ancora portava il marchio dell’universo parallelo.

La sua vita si era spenta per proteggerlo. Così come lo aveva già protetto in ato, aveva detto. Ma a che sarebbe servito se tutto l’universo – a causa sua – sarebbe andato in frantumi?

* * *

«Andrej, potresti uscire un momento?»

La voce della professoressa Smith, docente di fisica quantistica, risuonò limpida dalla porta. Ethan si sentì come appena risvegliato, e impiegò qualche attimo per notare il pallore che aveva dipinto il volto del professore.

«Dovrei finire la lezione».

«È importante, credo sia meglio tu venga subito».

Nakolov annuì, lentamente. Salutò gli studenti con un cenno del capo, avanzando verso la porta come fosse un patibolo.

«La lezione finisce qui, mi rincresce» annunciò. La Smith si scostò e il professore uscì dall’aula.

Ethan si mosse in silenzio, ma con rapidità. Appena la porta si fu chiusa, si accostò al legno per cercare di sentire le parole scambiate fra i due docenti. Il tempo di appoggiare l’orecchio alla porta e numerosi altri studenti lo affiancarono.

«Di che si tratta, Julie?» stava dicendo Nakolov.

«Il rettore vuole parlarti».

«L’avevo capito».

«Non so che dirti, Andrej. Sono un po’ in pensiero per te».

Ethan udì uno sbuffo. «Ho forse fatto qualcosa di illegale? Le mie ricerche sono limpide e portate avanti in sicurezza».

«Io non so di cosa tu ti stia occupando, ma è evidente che non piace ai piani alti. Oggi due uomini in doppiopetto hanno fatto visita al rettore. Si sono intrattenuti per più di due ore».

«Capisco».

«Mi dispiace, non posso fare altro».

«Una cosa». L’accento del professore parve di colpo più russo. «Una cosa la puoi fare».

«Se posso» annuì la Smith.

«Ti chiederanno la natura delle mie lezioni a quei ragazzi. Ti chiederanno se ho parlato loro delle mie ricerche. La risposta è negativa. Non lasciare che rovinino quei giovani per timore che possano sapere qualcosa. Non sono riuscito a introdurli alla teoria. Non sanno nulla di Bolle, di universi. Nulla di strutture univoche legate a una singola Identità. Sono ancora – buon per loro – felicemente ignoranti».

«Farò quanto in mio potere perché non siano toccati».

Silenzio.

«Grazie, Julie».

I i si allontanarono, cadenzati. Ethan in cuor suo aveva capito che quella lezione era stata unica e irripetibile. Un nuovo punto da cui partire.

Percepì i lontani i come un moto armonico, sentì la loro presenza svanire. E nell’aula rimase solo il silenzio.

* * *

Ethan si abbandonò sul tavolino, percependo il proprio battito come un orologio, un conto alla rovescia verso l’ignoto. Cancellò dalla propria mente lo sguardo di Nakolov mentre moriva. Non poteva pensarci, non in quel momento. Senza il timer del professore, non poteva sapere quanto davvero mancasse all’ora X. Poteva essere già ata senza che lui se ne fosse accorto. Un po’ come un compleanno. Tutti a festeggiare senza che in realtà cambiasse nulla. O forse assomigliava più a un capodanno. Solo che nessuno lo sapeva.

Gli portarono il tè. In cuor suo seppe che il momento che aveva aspettato per anni era sul punto di arrivare. Mancava poco, forse attimi fugaci.

Lasciò cadere qualche dollaro sul tavolo e prese a sorseggiare la bibita. Si scottò. Soffiò con cura sul liquido bollente, dissipando il fumo. Riprese a sorseggiare. Con calma, in silenzio. In attesa.

Reborn

Aprì gli occhi e respirò a pieni polmoni. Si sentiva come se l'avessero tenuto sott'acqua per troppo tempo. Si guardò attorno annaspando alla ricerca di un appiglio sicuro e cadde sul pavimento.

«Dottor Reller, per piacere si calmi» urlò una voce femminile, ma il dottore avvertiva spasmi dolorosi al petto e agli arti. Si sentì soffocare e portò le mani alla gola, voltandosi verso la donna in cerca d'aiuto. Il dolore lo stava sopraffacendo. Gli arti presero a indebolirsi, mentre la vista si offuscava, fondendosi all'oscurità.

* * *

Aprì gli occhi, respirando a pieni polmoni. Sbatté le palpebre e il mondo riprese forma. Era spaesato, riusciva a malapena a ricordare chi fosse. Ricordava però una stanza simile a quella, forse uguale. Ricordava anche dolori atroci…

«Dottor Reller, come si sente?» chiese una voce femminile.

«Bene, credo» rispose. «Mi sento un po' intontito».

«È normale, non si preoccupi». La donna sorrise. Vestiva un camice da dottoressa, sormontato da lunghi capelli biondi. Il volto era sottile, grazioso, dotato di luminosi occhi verdi.

«È normale per cosa?» chiese Reller. «Non so dove mi trovo».

«Le spiegheremo tutto appena ci saremo assicurati che sta bene. Si presenti, per piacere».

«Presentarmi?» chiese il dottore. «Tipo nome, cognome…?»

«Quello che vuole. Voglio testare la sua memoria a lungo termine».

Reller si portò una mano al mento. Impiegò diversi secondi per riordinare i propri pensieri. «Mi chiamo Adam Reller, ricercatore presso la UniBioGlobal nel campo delle cure per le malattie genetiche e infettive».

«Benissimo, continui».

«Che dire? Sono nato il 23 luglio del 2045, ho trentun anni, felicemente single».

La dottoressa rise. Stava appuntando la presentazione su una cartellina.

«E lei come si chiama?»

«Sono la dottoressa Hill, ma mi chiami pure Lily».

«Piacere di conoscerla, Lily. Mi spiegherebbe dove mi trovo?»

La dottoressa annuì, sempre sorridente, e si allontanò dal lettino. Prese un tablet da un ripiano e digitò a lungo. «Solo un momento» si scusò, «sto aggiornando il suo fascicolo».

«Faccia con calma» rispose Adam, quando una fitta al petto lo fece grugnire. La dottoressa Hill si volse di scatto con espressione allarmata e si avvicinò di corsa.

«Cosa sente?»

«Un dolore al petto» rispose lui, «insopportabile». Si tastò il torace, come se volesse strapparsi il cuore, ma non riuscì a far altro che balbettare parole insensate. Cadde di nuovo sul lettino, urlando e piangendo. Di colpo, appena per un attimo, il dolore svanì e la stanza si oscurò.

* * *

Aprì gli occhi e si mise a sedere.

«Lily» chiamò, «che è successo?»

«Nulla d'importante dottor Reller, non si preoccupi» rispose la dottoressa.

«Non si preoccupi? Ho sentito un dolore terribile, credo di avere il diritto di sapere cosa diavolo mi sta succedendo» urlò Adam.

«Vuole la verità, è giusto. Ebbene, sarò sincera» sospirò Lily. «Lei è stato riportato in vita grazie a una tecnologia di ultima generazione, la ReTec. È normale che abbia dei dolori d'assestamento, siamo certi che non dureranno a lungo».

«ReTec? Riportato in vita?» domandò Adam. «Di che diavolo sta parlando?»

«Reborn Technology» rispose la donna. «Mi rendo conto che può essere scioccante, ma la prego di calmarsi e constatare i fatti. Lei è morto il 12 Maggio del 2080, all'età di trentaquattro anni compiuti. La cellula che ci ha permesso di riportarla in vita è precedente di tre anni all'evento, ed è per questo motivo che ricorda di avere trentun anni.

Adam respirò a fatica, certo di essere preso in giro. Resuscitare le persone? Che diavolo di tecnologia faceva una cosa del genere?

«In che anno siamo?» chiese ancora scettico.

«3250 secondo la datazione del suo tempo» sorrise Lily.

«Perché, ora che datazione usate?»

«Siamo soliti riferirci all'anno 2350 come anno 0».

«Così ora saremmo nell'anno 900» constatò il dottor Reller. «Cos'è accaduto nel 2350?»

La donna sembrò reticente. Scambiò uno sguardo dubbioso con Adam. «La propulsione ultraluce» spiegò.

Adam annuì, poco convinto. Stava blaterando per non pensare a ciò che gli era stato rivelato, a ciò che davvero importava. Era morto, e ora riviveva in un tempo lontano, alieno. Aveva memoria di un mondo che non esisteva più, e il flusso dei secoli aveva reciso ogni legame che lo aveva legato a qualcosa o qualcuno. Era un punto isolato in un sistema in movimento.

«Perché mi avete riportato indietro?»

«Perché no?» sorrise la dottoressa. «La tecnologia era ultimata e avevamo un suo campione perfettamente conservato. Si ricorda? Lo ha immagazzinato lei stesso per testare dei vaccini.

«Ricordo le intenzioni, ma non di averlo fatto. Com'è possibile che la mia memoria si sia mantenuta intatta? In fondo era solo una cellula».

«La ricostruzione dei processi sinaptici e dei banchi di memoria del suo cervello sono stati possibili grazie ai dati reperiti in seguito alla sua morte. Il suo corpo è stato donato alla scienza, dottore».

Adam abbozzò un sorriso. «Insomma ero l'ideale per l'esperimento. Nessun parente a cui chiedere il consenso e tutti i dati necessari per la vostra ReTec. Io stesso sono l'esperimento».

«Non dica così, Adam» sorrise Lily. «Non a tutti è concesso di avere una seconda opportunità. Non vuole vedere il mondo che l'aspetta, prima di maledire questa sua esistenza?»

Adam abbozzò un cenno con il capo e si alzò dal lettino. Si sentiva in forze e i dolori sembravano svaniti. Del tutto, sperava, o sarebbe stata un’altra brutta cosa con cui convivere.

«Un'ultima domanda, prima di andare. Come sono morto?»

«Incidente stradale. Un pirata della strada ubriaco l'ha preso nella fiancata» rispose Lily, stringendo le labbra con fare mortificato.

Il dottor Reller si limitò a scrollare le spalle. Forse avrebbe dovuto dare di matto, gridare alla menzogna, affermare con certezza matematica di essere ancora nel 2113. Ma non sapeva che pensare. Le risposte, comunque, erano là fuori. Fissò la porta. La dottoressa era già lì. Gli fece un cenno e svanì dietro i battenti automatici.

Il centro di ricerca della ReTec era un vasto complesso formato da tredici padiglioni. Ognuno di questi era costituito da un grattacielo di almeno cento piani, a guardarlo, e due strutture ausiliarie, alte circa la metà del palazzo. Adam si ritrovò nel giro di pochi minuti in mezzo al complesso, in una sorta di chiostro alberato ricco di aiuole. Dal centro esatto dello spiazzo si diradavano tredici erelle automatizzate, numerate e distinte ciascuna da un colore differente.

«Vedo che in quest'epoca viene data maggiore importanza alla ricerca scientifica» commentò, portandosi al fianco della dottoressa.

«Con il are dei secoli la popolazione ha abbandonato le fedi cieche e con esse le religioni. Si è resa conto che lo sviluppo scientifico aveva da sempre permesso un miglioramento della vita e vi si è aggrappata. Oggi esistono numerosi centri di sviluppo come questo, dedicati ai più diversi ambiti del sapere».

«Niente più religioni?» ripeté Adam, poco convinto. «È una visione più che utopistica».

«In mille anni possono cambiare tante cose, dottore» sorrise Lily, «anche quelle che credevamo inamovibili».

«Un po' come la resurrezione» constatò Reller.

«Esatto».

«Mi spieghi un po', Lily» cominciò Adam. «Come funziona il processo?»

La donna strinse le labbra, di nuovo.

«Non voglio che mi spieghi mille anni di sviluppo tecnologico» la rassicurò Reller. «Mi faccia capire solo i procedimenti fondamentali».

«Vede, mi sembra superfluo spiegarle che il suo corpo sia andato ormai perduto, quello originale, intendo. La ReTec è in grado di estrapolare le informazioni genetiche da una sola cellula e ricalcolare l'intera struttura biologica dell'esatto momento in cui la cellula stessa è stata estrapolata. Naturalmente siamo in grado anche di ricostruire il corpo così calcolato in maniera pressoché perfetta, come lei stesso potrà constatare».

«E l'inserimento dei dati di memoria?»

«Quello non è competenza specifica della ReTec, ma di una tecnologia precedente. Oggi siamo in grado di trasferire informazioni dalla memoria artificiale a quella organica».

«Mi sta dicendo che potete gestire un cervello come fosse un semplice harddisk?»

«L'esempio calza» annuì Lily.

«Strabiliante».

«Questo, ne converrà, ha ristretto di gran lunga i tempi di apprendimento, rendendo obsoleto il sistema scolastico che lei ricorda».

Adam non riusciva a crederci. Una tecnologia simile era fantascienza. Bambini con le nozioni più complesse immagazzinate nel cervello, forse prima ancora che fossero in grado di comprenderle. La conoscenza dell’universo alla portata di tutti.

«E la vita media? Quant'è oggi?» chiese.

«Centotrent'anni, ma i più longevi raggiungono anche i centoquaranta».

Il dottor Reller sospirò, sentendosi del tutto fuori posto. Se era stato riprogettato come l'originale, non avrebbe vissuto tanto e in quel mondo evoluto sarebbe stato tutt’al più un fenomeno da baraccone.

«A cosa pensa?» chiese Lily.

«A come integrarmi, se mi sarà possibile».

«Non dica così, sono certa che saprà far fronte alle differenze».

«Esiste una sorta di corso base?» domandò Adam. «Come quello che fate ai bambini. Mi spieghereste in poco tempo come funziona questo nuovo mondo, come potrei adattarmi. Sarebbe un aiuto fondamentale, credo indispensabile».

«Non so come funzionerebbe sul suo cervello, dottore…»

«Avanti, posso capire l'evoluzione, ma siamo comunque lontani parenti. Che differenza può esserci fra il mio cervello e il vostro? Al limite siete in grado di utilizzarne una parte più ampia».

«Ne parlerò con chi di dovere. Venga, non c'è bisogno di aspettare».

Lily non attese nemmeno una risposta, si volse verso la erella gialla, la numero otto, e vi salì. Adam si affrettò a seguirla, mentre il aggio mobile li trasportava verso quel padiglione.

Raggiunsero l'ingresso, sprovvisto di sorveglianza. L'ampio atrio immetteva su due rampe per gli ascensori. Lily scelse quella di sinistra, fermandosi davanti alla prima porta sulla destra. Non appena si fu fermata, la porta si spalancò. La cabina era larga e disponeva di alcuni pannelli, otto in tutto, disposti a semicerchio. La dottoressa poggiò una mano su uno di questi e il display s'illuminò d'azzurro.

«Faccia come me» invitò.

Adam si avvicinò a un altro pannello e vi poggiò la mano destra. Non appena il

display si fu illuminato, le porte dell'ascensore si chio, per riaprirsi qualche attimo dopo.

«Siamo arrivati».

«Arrivati?» chiese Adam. «Dove?»

«Al novantacinquesimo piano» sorrise Lily. «Quel pannello è uno stabilizzatore. Abbiamo fatto circa duecentotrenta metri in un secondo. Se non avesse tenuto la mano lì si sarebbe fatto un po' male.

«Giusto un po', eh?» chiese Reller, sbiancando in volto.

Lily uscì dall'ascensore ancora ridendo, ma Adam si portò una mano al petto, seriamente scosso. Quando si decise a seguirla, la dottoressa si trovava dall'altra parte del corridoio, in compagnia di un uomo alto dai capelli corvini. Indossava un camice anche lui, ma gli calzava come fosse un mantello altezzoso.

Adam si avvicinò con calma e l'uomo si affrettò a porgergli la mano.

«Salve, dottor Reller, è un onore conoscerla».

«Piacere mio, dottor…?»

«Green. Henry Green. Sono… l'amministratore delegato, diciamo. Gestisco la ReTec e tutto il centro di ricerca» spiegò. «La dottoressa Hill mi stava esponendo la sua richiesta. Credo in tutta sincerità che non ci saranno problemi nell'accoglierla, dottore».

«Ne sono felice» sorrise Adam.

«Siamo a completa disposizione per farla sentire a suo agio» sorrise Green. «Le prepareremo una lezione personalizzata per il primo pomeriggio. Nel frattempo la dottoressa Hill le farà compagnia. Avete giusto un'oretta per mangiare.

«La ringrazio».

Il locale era una sorta di paninoteca. La dottoressa aveva ordinato per entrambi, specificando che per Adam andavano intese porzioni triple. Il dottor Reller non aveva compreso il motivo di quella scelta finché non si fu guardato intorno. Tutti i commensali, chi più chi meno, si limitavano a pranzare con degli spuntini. Due panini grandi quanto un anello e un sorso d'acqua.

Quando arrivarono i sei micro–panini, Adam sperò di saziarsi a sufficienza.

«Se ne vuole altri non abbia timore e chieda» disse Lily.

«Siete tutti a dieta o mangiate proprio così?»

«Il nostro metabolismo non è uguale al suo. Sa, sempre la faccenda dei mille anni».

«Di certo sarà un risparmio di risorse» annuì Adam, «avete a dir poco triplicato le scorte di cibo se ne mangiate un terzo.

Lily mangiò in un sol boccone il primo dei panini, mentre Reller ancora ci stava pensando su.

«Non si preoccupi. Mangi, dovrà essere in forze per studiare» consigliò Lily.

Adam afferrò un panino per volta e li divorò. Riscoprì una fame enorme, come se non avesse mai mangiato in vita sua. Quand'ebbe finito accennò un sorriso.

«Ne potrei avere altri sei?»

La sala era enorme, tappezzata di lettini rigidi. Dovevano essere almeno trecento, sormontati da caschi color argento. Davanti a ogni lettino c'era una postazione munita di tablet, dalla quale Adam era certo si comandasse l'inserimento dei dati.

Il dottor Green lo accompagnò al primo lettino della colonna centrale e gli fece cenno di stendersi.

«Devo fare qualcosa?» chiese Adam.

«Nulla di cosciente. Sarà collegato a questa macchina tramite il casco» rispose Green, indicandolo con un cenno, «e la trasmissione di dati avrà inizio. Le informazioni sono gestite sotto forma di immagini, che il suo cervello commuterà in automatico in dati mnemonici. Lei vedrà in rapida successione queste immagini come se le avesse davanti a sé. Per sicurezza inseriremo i dati in due momenti. Il primo, più breve, per testare il riscontro del suo cervello. Il secondo completerà il trasferimento».

«D'accordo, cominciamo pure».

Green prese il casco e lo fece aderire al capo di Reller, digitando alcuni comandi direttamente sulla sua patina argentata. Quand'ebbe finito si avvicinò alla postazione e configurò il tablet per lunghi secondi.

«Siamo pronti, dottor Reller. Chiuda pure gli occhi, così le sembrerà meno traumatico».

Adam obbedì e il primo flusso di immagini si riversò nel suo cervello. Vide la terra, dallo spazio, centinaia di satelliti in orbita a formare una rete compatta e decine di stazioni orbitanti grandi come città. Vide numerosi stati, poi metropoli dall'aspetto alieno. La sua mente gli comunicò che si trattava di Roma, Berlino, Londra, New York, che abbracciavano estensioni mai immaginate. Vide auto volanti, treni con stabilizzatori che raggiungevano velocità prossime alla luce, autostrade del cielo e ferrovie sottomarine. Scorse palazzi talmente alti da raggiungere le nuvole, strade curate e adornate con alberi e siepi, centrali energetiche, acque limpide, il cielo azzurro, il sole.

Il primo flusso di immagini terminò e Adam poté aprire gli occhi. Ebbe un

momento di smarrimento, ma subito riprese coscienza di sé e di dove si trovasse.

«Tutto bene, dottore?» s'informò Green.

«A meraviglia» sorrise Reller.

«Vogliamo continuare?»

«Quando vuole».

«Bene» annuì Henry Green. «Chiuda gli occhi».

Il secondo carico fu ancora più sfuggente. Le immagini si susseguivano a intervalli di tempo così ridotti che Adam non riuscì a coglierne alcune. Cominciò a vedere case, scuole, ministeri, industrie. Immagine dopo immagine il cervello gli suggeriva i diversi aspetti della società futuristica in cui si trovava, incastrando i tasselli di un enorme mosaico. Vide uomini e donne lavorare su palmari, robot coltivatori, bambini intenti a studiare così come stava studiando lui. Nel mezzo di queste immagini di vita quotidiana vide anche un luogo che non riconobbe. La sua mente non gli fornì alcuna spiegazione, sebbene ogni centinaio di immagini riapparisse quel luogo da angolazioni diverse. Era una colonna luminosa, spessa quanto un baobab, in una sala scura dal pavimento blu. La volta seguente vide diversi tablet posti su scrivanie a ridosso della colonna, ancora dopo si trovò fuori dalla sala vicino una finestra. Poteva vedere la città come se si trovasse sul più alto dei grattacieli. Scorse una sigla sul tetto del palazzo di fronte, forse l'insegna di una società: NBT.

Riaprì gli occhi quando anche l'ultima immagine fu assimilata dal suo cervello.

«Abbiamo finito. Come si sente?» chiese Lily.

«Bene, credo» rispose Adam. Ripensò a tutte le cose apprese e si stupì di come fossero ancora impresse nella sua memoria. La strana sala, invece, non era legata ad alcuna conoscenza. Ne possedeva le immagini come se l'avesse vista in un sogno.

«Qualcosa che non va?» il dottor Green interruppe i suoi pensieri.

«C'è un’immagine, una sala con una colonna di luce al centro. Non credo che quel aggio dati sia andato a buon fine».

Lily e Henry Green si lanciarono uno sguardo complice. «Dev'essere un'immagine inserita per sbaglio. Sa, il pacchetto dati è stato assemblato appositamente per lei. Mi scuso personalmente per l'errore» asserì Green.

«No, si figuri» rispose Adam, sempre meno convinto. «Ora che si fa?»

«Ha in mente qualcosa di particolare?» chiese Lily.

«Magari un giro in città. Voglio testare le conoscenze acquisite. Le prometto di tornare per il coprifuoco». Reller sorrise con tutta la naturalezza che gli riuscì di fingere.

«Da solo?»

«Ho più di mille anni, dovrei essere in grado di badare a me stesso».

«Non lo metto in dubbio, ma…»

«Starò fuori solo questo pomeriggio. Un giro nei paraggi, niente di più. So che lo fate per la mia sicurezza, ma credo di essere in grado di camminare per una città che ora conosco».

Lily e Green si guardarono di nuovo con fare complice, poi il dottore annuì. «Faccia una bella eggiata. Ci rivedremo al padiglione otto, nell'atrio. Facciamo alle 20:00?»

«Va benissimo» Reller s'inchinò in un saluto e si affrettò fuori dalla sala. L’ascensore era in fondo al corridoio. Si spalancò quando Adam vi si pose davanti, mostrando i pannelli degli stabilizzatori. Pochi istanti ed era al piano terra.

S'incamminò verso il padiglione uno, pensando al contempo dove sarebbe andato. La curiosità lo spingeva a cercare la sala blu con la colonna di luce, ma nei dati in memoria non era presente alcuna informazione in merito. Neanche la sigla NBT compariva.

Uscì dalla ReTec dirigendosi a ovest, verso il centro direzionale. Dopo meno di

un chilometro trovò un pannello a un lato della strada. Sapeva che era una sorta di mappa cittadina interattiva: era possibile fare ricerche, un po' come la vecchia internet.

Si avvicinò, digitando sullo schermo 'NBT'. Apparvero dodici pagine di opzioni, ognuna riguardante ambiti diversi della vita quotidiana. In alto sulla sinistra vide diverse possibilità: info, immagini, percorso. Selezionò immagini e dopo pochi attimi individuò il palazzo che ricordava. Si trovava proprio al centro direzionale, a meno di venti minuti da lì.

Chiusa la ricerca si avviò di corsa verso il suo obiettivo. Aveva ancora diverse ore prima del coprifuoco, ma voleva prendere più tempo possibile per studiare quella sala. C'era qualcosa che Lily e Henry Green non volevano dirgli e di certo riguardava la colonna di luce.

Raggiunse il palazzo della NBT e osservò la scritta sull’ultima cornice. Nell'immagine impressa nella sua memoria poteva leggere quella sigla in modo perfetto dalla finestra. Si volse alla ricerca di un palazzo posto di fronte, quando vide un cartello al centro dello spiazzo. Recitava: 'NanoBioTechnology: Metauomini per la salvaguardia degli uomini'.

Adam rimase immobile, leggendo e rileggendo quell'annuncio. Meta-uomini. Coloro che sono al di là dell'uomo. Una serie di idee cominciò a confluire nella sua mente. Oltre l'uomo… Non era forse un qualcosa che poteva essere creato in laboratorio? Non era forse qualcosa subordinato a soggezioni e caratteristiche ben precise, comandate dal creatore umano?

Se era così, di chi erano i ricordi che aveva in memoria? Chi era lui, se non Adam Reller? E chi era il dottor Reller? Qualcuno a cui avevano rubato l'identità per darla a lui, qualcuno morto da troppo tempo per essere ricordato?

Il respiro divenne affannoso e le gambe cedettero sotto il suo peso. Si sedette a terra, mentre i anti si accalcavano per aiutarlo. Adam li guardava senza riuscire a parlare, incapace di muoversi mentre dolori lancinanti gli attraversavano il sistema nervoso. Stramazzò al suolo con un urlo, mentre la coscienza si allontanava dal suo corpo.

* * *

Aprì gli occhi, terrorizzato.

Lily era di fianco a lui, come la prima volta che si era risvegliato nel nuovo mondo, ma le cose erano cambiate. Ora sapeva.

Si gettò a terra lontano da lei, cercando di tenere le distanze.

«Dottor Reller, si calmi la prego» disse Lily. «Ha subito un altro contraccolpo del processo, nulla di grave. Vedrà, ora starà meglio».

«Basta menzogne» sputò il dottore. «Ho visto il palazzo della NBT, ma sappiate che non starò al vostro gioco».

«Dottore, la prego. Ha capito male...»

«Ho capito male? Benissimo. In quanto libero cittadino posso andarmene da qui, giusto? Lei non può trattenermi».

«È per la sua salvaguardia che…» tentò di rispondere Lily, ma Adam la aggirò di corsa, lanciandosi fuori dalla porta. Raggiunse gli ascensori, sperando che non ci fosse un comando a distanza per bloccarli. Non aveva visto scale, doveva essere l'unica via d'uscita. Le porte si aprirono e Reller si gettò all'interno, poggiando una mano sullo stabilizzatore. Mentre le piastre scorrevoli si chiudevano, vide la dottoressa Hill corrergli dietro. Un attimo dopo le porte si riaprirono.

Certo di avere poco tempo, cercò di uscire subito dallo stabilimento, ando per le piattaforme mobili. Raggiunto il padiglione uno uscì per strada guardando verso ovest. Se c'era qualcosa da fare, in quel momento, era raggiungere la sala che aveva visto durante l'istruzione. Non ci avrebbe messo molto.

Corse a perdifiato fino al centro direzionale e si fermò solo davanti al cartello della NBT. Si volse, cercando di capire da che direzione potesse aver visto il logo della società. Due palazzi potevano fare al caso suo, grattacieli altissimi. Quale dei due? Sapeva che presto l'avrebbero trovato: se aveva l'immagine della sala in memoria era perché quel dato era presente sui computer del dottor Green. L'avrebbero trovato in pochi minuti. Doveva scegliere.

Guardò ancora una volta i due palazzi, ricordando come la finestra da cui aveva visto il logo fosse sopraelevata rispetto al palazzo della NBT. Decise di entrare nel più alto, cercando con lo sguardo eventuali uomini di guardia. Anche lì non c'era sicurezza e Adam poté sgattaiolare fino agli ascensori. Poggiò la mano sullo stabilizzatore e la cabina si chiuse.

C'era qualcosa di strano. Si accorse che in nessun ascensore aveva mai scelto il piano di arrivo, come se fossero stati programmati per rispondere a una sola

richiesta. Era possibile che nei padiglioni del ReTec fosse stato inserito un riconoscimento automatico per le sue impronte digitali, ma lì? Chi poteva sapere che avrebbe usato quegli ascensori?

S'inoltrò nel corridoio, mentre il dubbio gli lacerava la mente. Quando vide la finestra e subito dopo la sala blu, il respiro gli stava morendo in gola.

«Dottor Reller» chiamò una voce alle sue spalle. Era Lily.

«Non mi fermerà. Devo capire».

«Le spiegherò io. È arrivato dove volevamo che arrivasse».

Adam si volse a guardare la dottoressa e indietreggiò fino a entrare nella sala. «Si spieghi».

«Ci ha aperto la strada a questo luogo, che prima d'ora ci era preclusa. L'edificio è stato progettato per interagire solo con persone come lei. Se uno di noi avesse provato a forzare il sistema, quella colonna luminosa sarebbe stata spenta. Invece lei è qui e il sistema la riconosce, quindi posso esserci anch'io».

«Non capisco. Perché dovrebbe esistere un palazzo accessibile solo a me?» chiese Adam. «Solo ai meta-uomini?»

Lily rise di gusto. «Vuole sapere la verità, Adam Reller?»

«Sarebbe anche ora».

«Non è lei il meta-uomo. Noi siamo i meta-uomini».

«È una città di cose come voi?»

«È un pianeta di cose come noi» rispose Lily. «Lo stesso pianeta che un tempo era stato vostro».

Adam negò con il capo, diede le spalle alla dottoressa. Si avvicinò alla colonna e osservò i diversi tablet.

«La razza umana si è estinta nell'anno 2763 del suo calendario. E prima che possa pensare a male, non siamo stati noi a sterminarli. Si sono uccisi da soli con l'ennesima guerra batteriologica.

«E voi sareste sopravvissuti» fece notare Adam.

«Sembriamo umani ma non lo siamo. Siamo organici, ma differiamo dalla struttura umana. I batteri non ci contagiarono. Siamo gli unici esseri viventi rimasti sulla Terra. Tutto ciò che le ho detto da quando è qui, salvo un unico dettaglio, è vero».

«Quale?»

«Le ho spiegato che la nostra vita raggiunge i centotrent'anni. Aggiunga uno zero e avrà la nostra reale aspettativa di vita».

«Mille e trece…» bisbigliò Reller. «Vivete davvero così a lungo?»

Lily annuì.

«Oddio, questa è follia» si lamentò Adam, andosi una mano sul volto. «E si può sapere cosa diavolo volete da me? Mi avete ricreato solo per accedere a questa sala?»

«In parte, dottore» spiegò la donna. «Solo un uomo può entrare qui, e solo un uomo può salvare la nostra specie».

«Salvare da cosa?»

«Da un'umanità troppo meticolosa e vendicativa».

«Continuo a non capire».

«Quando i primi di noi furono generati, nel 2350 del suo calendario, fu creata

questa sala per controllarci. La colonna è la fonte di energia inesauribile che ci permette di esistere. Se la colonna fosse disattivata moriremmo tutti. Destino volle che antichi lungometraggi di fantascienza fero temere ai nostri creatori che ci saremmo ribellati. Così instaurarono un timer settato sui 1000 anni. Un conto alla rovescia per lo spegnimento della colonna. La loro intenzione era di rinnovarla ogni cinque o sei secoli, ma quando si distrussero l'un l'altro la colonna rimase con il conteggio iniziale, condannandoci a fine certa».

«È per questo che vi servo io? Devo cancellare il timer e farvi vivere in eterno?»

«Sì. Non avevamo altra scelta se non sviluppare una tecnologia come la ReTec capace di riportare in vita uno di voi. Non potevamo permettere che lei pensasse a male, così ci siamo finti umani, indirizzandola qui con tutti i mezzi possibili».

«Le immagini, le occhiate furtive… sono stato proprio sciocco».

«Non se la prenda, dottore. Non avevamo altra scelta e ormai il tempo è agli sgoccioli».

«Perché mai?» chiese Adam. «Se il timer è stato settato nel vostro anno 0, avete ancora cento anni di vita».

«La faccenda è un po' più complicata di così».

«Mi illumini ancora».

«Questo è l'anno 3350, a esattamente cinquantasei minuti dal millesimo anniversario della creazione di questo sistema».

«Perché mi ha mentito sull'anno? Che bisogno avevate di farmi credere di essere nel 3250?»

«Non le abbiamo mentito, dottor Reller».

Adam si ò una mano fra i capelli. Non ci stava capendo più niente. Ormai non sapeva cosa credere.

«Deve sapere un'ultima cosa sulla Reborn Technology» disse Lily.

«Sono tutt'orecchie».

«Il primo tentativo di riportarla in vita fu un fallimento. Avvenne nel 3109. Lei fu vivo per meno di un minuto, poi le sue membrane cellulari cedettero e morì. Un secondo tentativo fu nel 3220. Avevamo bisogno di tempo per riprogettare l'intero sistema e trovare gli errori di programmazione. Fu in quest'occasione che lei mi conobbe. Terzo tentativo, più lungo degli altri, fu trent'anni dopo, nel 3250. In quest'occasione lei ha saputo la verità sulla sua nascita, ha conosciuto il dottor Green e memorizzato i dati. Prima del quarto tentativo ci siamo accorti che la cellula che utilizzavamo si stava degradando e che avremmo avuto un'unica altra possibilità per riportarla indietro. Così abbiamo studiato e riprogettato la ReTec per altri cento anni. E lei è ora qui come quarto tentativo.

«Mi sta dicendo che i dolori al petto che ricordo…»

«L'hanno uccisa tre volte, dottore. Purtroppo non siamo in grado di rendere stabile il nuovo corpo e dunque abbiamo dovuto interagire con lei in più aggi».

«Ma ricordo perfettamente ciò che mi è accaduto nelle altre… vite» protestò Adam.

«È naturale. Abbiamo estrapolato i dati accumulati e in seguito reinseriti nel tentativo successivo. Altrimenti le esperienze ate sarebbero state perdite di tempo.

Reller perse l'equilibrio e si sedette a terra. Era un qualcosa troppo grande perché potesse sopportarlo, un peso enorme sul suo capo. Non era altro che una vita fugace, un Frankenstein del futuro, creato all'unico scopo di salvare una razza figlia dell'umanità.

Era atroce.

«i aiuterà, dottore?»

Adam non rispose.

«Dottore, la prego…»

«Mi dica una cosa, Lily» cominciò l'uomo. «Fra quanto morirò?»

«Non possiamo saperlo. Secondo i nostri calcoli potrebbe avere da una vita minima di venti minuti a una massima di venti giorni».

«Capisco».

Adam si alzò in piedi e si avvicinò ai tablet. Digitò più volte per ottenere una visuale del programma. Non serviva un esperto: le possibilità erano elencate in modo analitico.

Poteva distruggerli tutti. In fondo avevano giocato con lui, l'avevano ricreato quasi fosse un giocattolo.

Ma non lo fece. Digitò per annullare il countdown, poi tastò ancora una volta per confermare. Si volse e vide Lily con gli occhi carichi di aspettativa. Annuì.

«Grazie, dottore, davvero».

Adam annuì ancora, quando un dolore al petto lo costrinse in ginocchio. La donna fece per avvicinarsi, ma Adam le indicò l'ascensore.

«Ho disattivato il conto alla rovescia, non la limitazione sulla vostra presenza qui. Se io muoio mentre lei è nel palazzo la colonna si spegnerà. Vada».

Lily spalancò gli occhi e cominciò a correre verso l'ascensore. Vi salì con un balzo e le porte si chio dietro di lei.

Adam strinse i denti, sperando di resistere a sufficienza. Non era un male che le sue forze potessero sconfiggere. Si accasciò al suolo privo di rimpianti, soddisfatto della sua ultima azione cosciente. Anche quel dolore giunse come una benedizione: non voleva vivere in un mondo che non gli apparteneva più, fra creature non umane e che da essi discendevano. Che vita avrebbe avuto?

Era meglio che tutto finisse in fretta.

Il dolore divenne più forte e la stanza cominciò a vorticare. Prima che il mondo si oscurasse chiuse gli occhi, certo che non li avrebbe riaperti mai più.

Rewind

L’onda d’urto giunse prima ancora che l’esplosione fosse visibile. Portò con sé detriti e aria rovente, abbattendosi su una Londra ormai decaduta.

Jonathan abbassò la tesa del cappello sul capo, come se potesse proteggerlo, e si rannicchiò nell’angolo della piccola stanza, appena sotto la finestrella.

La luce proveniente dal mare rischiarò la cantina e l’uomo si costrinse in silenzio. Trattenne il fiato, certo che anche il più piccolo rumore avrebbe potuto condannarlo. Il battito cardiaco gli rimbalzava nelle orecchie, nonostante cercasse di rallentarlo con la respirazione controllata.

Silenzio. La cantina reggeva ancora.

Jonathan non si mosse. Respirò a pieni polmoni. La luce dell’esplosione si era dissipata e al suo posto cominciavano a filtrare i raggi del nuovo sole.

Ispirò di nuovo e si rimise in piedi. Come a ogni alba, gli tornarono in mente le parole di suo padre: Anche oggi non mi sono svegliato morto. Buongiorno.

Era vivo, non tutti potevano dirlo. Sembrava proprio che fosse un buon giorno.

Il suo orologio emise un bip sordo, e il display cominciò a segnare il conto alla rovescia. Jonathan lo guardò distrattamente. Aveva 58 minuti. Si avvicinò alla radio e l’accese, avanzando poi verso la dispensa.

«Buongiorno. Anche oggi noi di RadioSopravvivenza siamo vivi. Voi?» lo speaker si lasciò sfuggire una risatina. Jonathan ricordava quanto suo padre avesse trovato queste battute fuori luogo, ma a lui non davano poi tanto fastidio. Dovevano pur sdrammatizzare in qualche modo.

«Controllate i cronometri dei vostri orologi: 56 minuti e 34 secondi» continuò la radio. L’uomo lanciò un altro sguardo al timer. Era in sincronia.

«Tutto fatto? Bene. Al solito un quadro riassuntivo per chi avesse appena scoperto di non essere l’unico sopravvissuto. La nostra trasmissione va in onda esattamente due minuti dopo l’attacco mattutino e dura 53 minuti, così da lasciarvi 5 minuti per spegnere la radio. I neofiti forse non sapranno che l’Arma impiega un’ora esatta per ricaricarsi e risistemare il puntamento. Per questo motivo lasciate RadioSopravvivenza accesa! Vi informeremo quando sarà il momento di tacere per il prossimo attacco casuale».

Jonathan tagliò il pane e lo posò sul tavolino. Affettò un pomodoro, prese degli acini d’uva, una fetta di pera e sistemò tutto nel panino. Prese posto sullo sgabello e cominciò a mangiare con gusto.

Il sapore non era dei migliori ma non si poteva pretendere troppo, specie di quei tempi. Masticando il pane raffermo alzò lo sguardo sulla dispensa. Aveva ancora roba per qualche giorno, forse una settimana. Doveva decidersi a uscire un’ora o l’altra, magari dopo l’attacco pomeridiano.

«Welcome to the Hotel California…» cantava la radio, con il classico crrrrrrrr di disturbo tipico dei giradischi. I bei tempi dei cd-rom erano lontani. Restavano solo i dischi graffiati dei collezionisti più voraci.

“Per lo meno”, si trovò a ridacchiare, “Quella spazzatura che chiamavano musica negli anni doppio zero è andata perduta. Evviva l’apocalisse!”

Continuò a sorridere e guardò il cronometro. Aveva 40 minuti buoni per fare qualcosa di utile. Cosa, però?

Del cibo se ne sarebbe occupato durante il pomeriggio. Poteva are a trovare qualche vicino, ma non aveva molta voglia di chiacchiere. Forse in libreria. Se era fortunato qualche autore aveva messo a disposizione un nuovo manoscritto.

Sì, poteva essere un’idea.

La radio gracchiò.

«News della settimana: sembra che la resistenza in America sia stata del tutto annientata. Dobbiamo quindi considerare i Gu’Thai padroni delle americhe, in aggiunta all’Asia e all’Europa orientale. La resistenza Africana – che ricordiamo essere la più attiva – ha rivendicato due assalti riusciti ai centri di sbarco Gu’Thai. Il numero di vittime fra i pellegrigia è di trecento unità. Facciamo risuonare il nostro applauso per i fratelli africani!» Jonathan batté le mani più forte che poté. Sapeva che i pellegrigia avrebbero colto gli applausi, sia nei centri di sbarco che sulle astronavi. Se volevano tenerli sotto controllo, allora che sentissero come si burlavano di loro.

Era buffo, poi, che i Gu’Thai avessero imparato tutti i codici scritti e tutte le lingue su carta, ma non fossero in grado di comprendere in alcun modo le lingue parlate. Nemmeno conoscendone la trasposizione grafica. Bastardi limitati!

«E ora un altro classico targato anni ’80! No, creduloni, non 2080. Vi presentiamo un pezzo del 1980, direttamente per voi: Redemption Song di Bob Marley!»

Jonathan guardò ancora il cronometro. Aveva mezz’ora. La libreria distava dieci minuti. Se avesse corso, avrebbe avuto il tempo di guardare con calma fra i libri ma non se la sentiva di rischiare. Avrebbe rimandato all’indomani. Ancora.

Bussarono alla porta, due colpi secchi.

Possibile che qualcuno avesse deciso di fargli visita di primo mattino?

Si avvicinò con o svelto, afferrando il pomolo. No, doveva essere cauto. Accostò un occhio allo spioncino e osservò le scale che salivano fino in strada. Non sembrava esserci nessuno.

Inspirò. I pellegrigia non si erano mai spinti nelle città e nemmeno troppo lontano dai loro centri di sbarco. E di sicuro non avrebbero bussato. Cercò di controllare il respiro, riportando il battito cardiaco al suo normale, lento, pulsare.

Aprì la porta.

Non c’era nessuno. Cacciò la testa fuori dalla soglia, guardandosi intorno. Niente, nemmeno su per strada.

«Adesso immagino anche le cose. Figo» sbottò. Richiuse la porta e la serratura scattò senza il minimo rumore. Jonathan fece un o indietro, mentre alla radio continuava Redemption Song, e notò solo allora una busta bianca sul pavimento, come se fosse stata infilata da sotto la porta.

Il panico s’insinuò nel suo petto e il cuore riprese a battere fuori controllo. Un messaggio… scritto?

Era pericoloso, stupido oltre misura. Se quella lettera fosse stata intercettata, allora i Gu’Thai avrebbero potuto scoprire dove viveva e…

Strinse i pugni, costringendosi ancora una volta alla calma. Non era proprio un buon giorno, quello.

Si chinò, lentamente, afferrò la busta. Non recava scritte all’esterno, l’aprì e ne estrasse un foglio ingiallito: era la pubblicità di un fast-food.

Come se ne esistessero ancora, si disse. Che senso aveva mandargli un vecchio volantino…

Girò il foglio. C’era un messaggio. Sbatté gli occhi più volte, prima di capire in che lingua – o meglio, codice – fosse scritto.

['segwi il se'ɲ:ale || 'kwando mano'lenta 'kjama |

'ʃeʎ:i di aju'tare || vaj da ki suʤ:e'riʃ:e 'ʤimi]

Alfabeto fonetico. Gli avevano mandato una trascrizione della lingua parlata. Poteva essere geniale: se i pellegrigia avevano problemi con la realizzazione pratica delle lingue, allora un messaggio del genere sarebbe risultato impossibile da decifrare.

Jonathan abbozzò una traduzione: segui il segnale. Quando Manolenta chiama, scegli di aiutare. Vai da chi suggerisce Jimi.

Se la traduzione del messaggio era banale, lo stesso non si poteva dire per la sua interpretazione.

Se Manolenta era uno pseudonimo, Jimi sembrava un nome proprio. Peccato che non conoscesse né l’uno né l’altro. Gli balenò in mente che quel messaggio non fosse indirizzato a lui. Doveva avere a che fare con qualche sotterfugio, forse addirittura con la Bohemian Rhapsody, il reparto londinese della resistenza europea.

«News dell’ultim’ora! Sembra che l’ultima operazione della resistenza in Europa occidentale sia stata disastrosa. I guerriglieri sono dispersi e i reggimenti sbandati. Ormai anche la resistenza europea è storia ata. Pare che ci sia un tentativo di ripresa in Francia e in Italia meridionale. La Bohemian Rhapsody, invece, il più attivo fra i reggimenti europei, è stato annientato. Facciamo sentire

ai pellegrigia il nostro dissenso. Battiamo il pugno per i nostri fratelli ispirati dalle canzoni dei Queen».

Jonathan lasciò cadere il foglio, la bocca spalancata in un’espressione vuota. Se la Bohemian era caduta, allora la Gran Bretagna era sola, abbandonata a se stessa. Nessuno avrebbe attraversato la manica per aiutarli. Batté le nocche con foga sul tavolino, ancora scosso.

Non c’era stata una sola buona notizia quel giorno, se non le vittorie africane. Ed era ato solo uno dei quattro attacchi giornalieri.

Si abbandonò sullo sgabello, ripensando alle parole dello speaker. Era finita, per Londra e per l’Inghilterra. Erano morti, solo che ancora non se ne erano resi conto. Senza la Bohemian Rhapsody…

Alzò il capo, con tanta foga che perse quasi il cappello. La radio gli aveva ricordato un dettaglio, piccolo ma forse rilevante. Bohemian Rhapsody era il titolo di una canzone dei Queen. La resistenza europea aveva sempre fatto affidamento sulla vecchia musica, poiché rappresentava le lingue parlate per eccellenza, salve dal controllo dei Gu’Thai. Era tutto più chiaro, ora. Manolenta – Slowhand – era il soprannome di Eric Clapton. E l’altro… Jimmy Page?

No, era Jimi, non Jimmy.

Annuì fra sé e sé. Hendrix.

Era vicino a capire il senso del messaggio, ma gli mancava ancora un’informazione. Era abbastanza certo che il segnale sarebbe arrivato attraverso RadioSopravvivenza. Avrebbero parlato di Clapton o avrebbero suonato una sua canzone. Ma cosa significava la parte finale del messaggio? A chi suggeriva di rivolgersi Jimi Hendrix?

Non lo sapeva. Non era mai stato un grande apionato di musica e quel che sapeva l’aveva imparato alla radio nei lunghi anni di assalto planetario.

Si alzò, guardando la scatoletta con l’antenna. Era un caso che avessero ricordato agli ascoltatori l’origine del nome Bohemian Rhapsody?

Jonathan non lo credeva. RadioSopravvivenza doveva essere legata in qualche modo alla Bohemian. Forse non tutto era perduto, forse i partigiani londinesi erano ancora in forze e pronti all’azione.

Congiunse le mani, sperando di non sbagliarsi. D’ora in avanti sarebbe uscito il meno possibile e anche in quelle poche occasioni si sarebbe portato dietro la radio. Ripensandoci, nell’ultimo mese era stato detto almeno un paio di volte che Clapton era soprannominato Slowhand. Non c’erano dubbi, stavano preparando qualche adunanza.

Sperò con tutte le forze che fosse davvero la resistenza. In caso contrario, Londra sarebbe abboccata a un amo di dimensioni titaniche.

* * *

Era in silenzio da due ore quando l’onda d’urto arrivò. La cantina tremò mentre la tempesta di fuoco l’attraversava superando le pareti. Lo sgabello scricchiolò appena, un suono netto che riecheggiò nel silenzio di tomba. L’onda d’urto lo avvertì e il legno esplose in un turbine di schegge.

Jonathan rimase in silenzio, cercando di contenere ogni stimolo, ogni istinto. Un solo suono strappato dal terrore l’avrebbe condannato.

Attese con gli occhi chiusi finché l’orologio non emise il suo bip. Era tutto ato. Di nuovo.

Cinque giorni e la radio non aveva fornito indizi, né su Clapton né su Hendrix. Cominciava a pensare che non sarebbe arrivata alcuna conferma, che la resistenza londinese fosse davvero stata annientata.

Accese la radio, sistemando le razioni recuperate due giorni prima. Senza la resistenza nessuno avrebbe più fornito cibo, nessuno si sarebbe prodigato per gli altri. La loro era si stava avvicinando alla fine. La conquista era imminente.

La radio aveva appena finito l’usuale introduzione, lanciando la prima canzone della giornata. Un colpo di batteria, e subito dopo le parole: «Anger, he smiles tow'ring shiny metallic purple armour».

Una canzone che non conosceva. Non era un buon inizio di giornata.

Doveva decidere cosa fare della sua vita, era importante non abbandonarsi allo

sconforto e prendere in mano la situazione. Il centro di sbarco più vicino era in Scozia, quindi i pellegrigia non sarebbero arrivati così presto in città. Doveva pensare prima di tutto al cibo.

«Queen jealousy, envy waits behind him».

Se i rifornimenti fossero cessati, forse avrebbe potuto coltivare qualcosa. In quattro ore al giorno, le uniche sicure, sarebbe riuscito a portare in tavola qualche frutto e ortaggio.

«Her fiery green gown sneers at the grassy ground».

Jonathan alzò lo sguardo, prestando attenzione alla radio. Era Hendrix!

Si fiondò vicino all’apparecchio, ascoltando il testo con un groppo alla gola. La speranza si era risvegliata al suono della chitarra elettrica e di quella voce inconfondibile.

Attese, trattenendo il respiro. Ascoltò parola dopo parola.

«Yeah, they're all bold as love. Just ask the Axis».

Eccolo. Axis, l’Asse.

Jonathan si guardò intorno, cercando di mettere ordine nei pensieri. Cosa diavolo significava?

Ora ne era sicuro, si trattava di un messaggio della resistenza. La canzone andava in onda su RadioSopravvivenza, non poteva essere un caso. Doveva solo decifrare il messaggio.

Corse per la stanza a cercare il biglietto, nel delirio di fogli e frammenti di mobili sparsi al suolo. Si chinò, tastando con foga e pungendosi con le schegge di legno. Quando l’ebbe trovato lo rigirò fra le mani, rileggendolo avidamente: niente.

Girò il foglio, ritrovando il volantino. Recitava: Fast-food Axis’ Law. C’era anche l’indirizzo. A venti minuti da casa sua, forse quindici. Girò ancora una volta il foglio, rileggendo il messaggio in alfabeto fonetico.

Mancava solo Slowhand.

Per la prima volta negli ultimi cinque giorni Jonathan si chiese perché fosse stato coinvolto. Non aveva competenze né abilità particolari. Era sopravvissuto come tanti, con la speranza di svegliarsi l’indomani ancora tutto intero.

Guardò il cronometro. La sua vita era tutta in quell’orologio. Gli diceva quando vivere e quando accucciarsi in un angolo nel silenzio di una morte apparente. Aveva imparato a controllare persino il battito, il respiro. Il brontolio di uno stomaco affamato era cosa da libri di storia e gli starnuti potevano essere domati. Si erano evoluti per sopravvivere, in un’esistenza senza prospettive future. L’unica speranza era quella di campare qualche giorno in più.

Jonathan si rese conto di come quel breve messaggio gli avesse ridato la voglia di vivere.

Poteva davvero essere utile?

C’era da attendere Manolenta. Sperando di campare fino a quel momento.

* * *

Il riff di Layla salutò l’ora sicura successiva all’attacco pomeridiano, tre giorni dopo che la radio aveva ato Bold as Love di Jimi Hendrix.

Non poteva che essere il segnale.

Jonathan afferrò la vecchia giacca logora e l’infilò in fretta, sistemandosi alla meglio il cappello. Prese i guanti a mezze dita e li indossò, guardandosi intorno per vedere se aveva dimenticato qualcosa.

«Il volantino» si disse, cercando in giro. Lo trovò sporco di pomodoro sotto il tavolino, contornato da altri fogli imbrattati. Lo prese e uscì di corsa dalla cantina. Risalì le scale sotto la pioggia battente e continuò a correre.

Attraversò una Londra diroccata, con le strade invase da detriti e palazzi crollati.

Tantissime automobili erano ancora per strada, alcune con i vetri esplosi, altre in condizioni assai peggiori. La città era avvolta dal silenzio, così esteso da sembrare innaturale. Gli animali, inconsci del pericolo, avevano subíto l’attacco sonico fino a rasentare l’estinzione. Solo l’uomo si era salvato, riuscendo a sopravvivere come ombra di ciò che era stato.

Affannato e fradicio Jonathan raggiunse l’indirizzo del volantino. L’insegna Axis’ Law pendeva da un edificio brunito.

C’erano due finestre e la porta al centro. I vetri erano coperti da assi inchiodate all’intonaco – retaggio del primo periodo dell’invasione – ma la porta era insonorizzata e di ultima generazione.

Jonathan diede uno sguardo al timer: 36 minuti alla nuova fascia di pericolo. Non aveva tempo da perdere.

Si avvicinò alla porta, riparato da una piccola tettoia, e batté due colpi netti. i dall’interno. Silenzio. Jonathan guardò diritto nello spioncino, certo che lo stessero osservando.

«Che vuoi?» chiese una voce.

«Cerco Axis».

«Axis era il mio bisnonno, sei in ritardo di un secolo».

Jonathan strinse i denti. «Eppure Jimi mi ha detto di venire qui».

La porta si aprì, silenziosa. La voce apparteneva a un uomo di colore alto e muscoloso, che indossava un’uniforme sgualcita della polizia.

«Fa’ un po’ vedere» disse.

Jonathan gli consegnò il volantino.

«Benvenuto nella Bohemian Rhapsody» disse il poliziotto. «Chi era tuo padre?»

«William Parker».

«Professione?»

«Sua o mia?»

L’uomo lo guardò in tralice. «Perché, tu hai una professione?»

«Era docente di letteratura, un accademico.»

Il poliziotto contorse le labbra. «Sei sicuro che era destinato a te questo messaggio?»

«No.»

«Aspetta qui.»

L’uomo si allontanò a o pesante.

«Ehi, qualcuno ha mandato il codice al figlio di un certo Parker?» urlò dall’interno dell’edificio.

«Chi ha detto Parker?» chiese un’altra voce. «William Parker?»

«Sì, c’è il figlio qua fuori.»

Rumori di corsa sul pavimento diroccato. Un secondo uomo in uniforme si affacciò sulla soglia.

«Tu sei il figlio di Will Parker?»

Jonathan annuì. Il poliziotto era molto vecchio, sugli ottant’anni. I capelli bianchi scendevano incolti fino alle spalle.

«Cazzo, Wade, è il figlio di Parker!» disse, rivolgendosi all’uomo di colore.

«E chi diavolo è?»

«Ah, ignorante bastardo!» si lamentò il vecchio. Tornò a guardare Jonathan e allungò una mano. «David Jones, piacere. Conoscevo tuo padre.»

«Jonathan Parker, piacere mio. Ma qui alla resistenza siete abituati a perdere tempo?» guardò il cronometro. I decimi di secondo roteavano in una fuga troppo rapida.

David si fece da parte e lo invitò a entrare. Lo condusse lungo la ex sala del fastfood fino a una porta sul retro. Scesero tre rampe di scale, seguirono un corridoio, poi altre sei rampe.

«Dove mi state portando?»

«Sotto, al sicuro» rispose David.

«Niente è al sicuro» sbottò Jonathan.

«Non ti servirà più quel cronometro, non finché sarai qui. E voglia il cielo che non serva più a nessuno di noi» sospirò Wade.

«Potete spiegarmi cosa volete da me, almeno?»

«Più tardi, più tardi» fece David, aprendo una pesante porta di ferro. Entrò.

Era un immenso sotterraneo popolato da centinaia di persone, tutte stipate in altrettanti cubi a loro dedicati. Un letto e un paio di sedie ciascuno.

«Dove siamo, di preciso?»

«Nel centro di comando della Bohemian Rhapsody. Altre persone sono accorse al segnale. Meno di quante ce ne aspettassimo ma è sempre meglio di nulla».

«Vi prego, non vi seguo. Fatemi capire...»

David si fermò, facendo un cenno a Wade. «Vai a preparare tutto. Manca meno di mezzora. A 10 minuti dalla nuova fascia di pericolo voglio che sia tutto pronto». Il poliziotto di colore annuì. Svanì fra la folla silenziosa.

«La situazione è tragica, Parker. Abbiamo commesso diversi errori durante la guerra ai pellegrigia. Troppi».

«Ma avete l’alfabeto fonetico, no? Se i Gu’Thai non possono leggerlo, allora è possibile coordinare le operazioni a lunga distanza e…»

«Il codice è uno degli errori» disse Jones, «ma tu dovresti saperlo».

«No, non la seguo. Perché io?»

«Fu tuo padre a scoprire che i pellegrigia non riuscivano a comprendere le comunicazioni parlate, pur non essendo sordi» rispose. «Pensavo lo sapessi».

«Mio padre sparì un giorno troppo lontano perché voglia pensarci. So solo che è uno dei caduti».

Jones abbozzò un sorriso stanco. «Tutti abbiamo perso qualcuno, ragazzo».

Jonathan annuì. «Parlavamo dei pellegrigia».

Il poliziotto si grattò il capo. «Pensavamo che la loro fosse una sorta di menomazione mentale, qualcosa che avesse a che vedere con la forma, così abbandonammo le grafie convenzionali e cominciammo a utilizzare l’alfabeto fonetico. Fu la nostra rovina. Scrivendo in questo modo insegnammo ai pellegrigia la precisa codifica del parlato, ed essi lo impararono. Ormai è da più di due mesi che RadioSopravvivenza è spiata dai Gu’Thai. Non abbiamo più speranze per comunicare».

Jonathan percepì la gravità della situazione. L’unico vantaggio era andato perduto, proprio a causa di un errore di valutazione.

«Ma non è stato questo il nostro più grande errore, no»

«Quale, allora?»

«I pellegrigia»

«Non credo di capire».

«Non sono alieni, Parker. In un certo senso li abbiamo creati noi stessi. O meglio, li creeremo».

Jonathan non rispose. Non capiva.

«Il tempo domina la vita degli uomini. La nostra, più che quella dei nostri padri. È dal futuro che giunge la minaccia, creata da noi stessi. Fra duecento anni si avrà una scissione – o forse è meglio dire si sarebbe avuta, in un normale continuum spazio-tempo» riprese David. «Tale scissione politica porterà la confederazione americana ad approntare un nuovo piano per dominare il pianeta. I capi di stato approveranno una procedura drastica: spedire un agente patogeno nel ato, creato in laboratorio per colpire solo determinati geni. Uno sterminio delle mele marce direttamente alle radici».

«E l’hanno inviato in questo tempo?»

«Sessant’anni fa, per la precisione.»

«E cosa c’entra un patogeno con i pellegrigia?»

«Gli scienziati non avevano pensato a cosa poteva accadere se il patogeno si fosse combinato con altre malattie della nostra epoca. Ed è proprio ciò che accadde. Si legò all’influenza equina e divenne tanto forte da colpire l’uomo.»

«I pellegrigia sarebbero malati?»

«Già. Il governo centrale bloccò i primi infetti e si attivò per debellare l’epidemia. Quando ci riuscì, però, erano già mutati a milioni. Furono rinchiusi in un cargo e inviati nello spazio, dove non potessero diffondere il morbo».

«Gli abbiamo dato anche l’astronave?» Jonathan era incredulo, quella storia sembrava assurda.

«Non erano stati fatti studi, all’epoca. Nessuno sapeva che i pellegrigia avevano sviluppato un intelletto ben più acuto del nostro, oltre a diverse mutazioni genetiche. Riuscirono a tornare, costruendo l’arma che ci terrorizza ogni giorno e… il resto della storia lo conosci».

«Perché gli stati del futuro non sono intervenuti?»

«Perché non possono più, non esistono più. C’è una sola linea temporale, Parker,

una soltanto. Cambiando il ato, hanno irrimediabilmente mutato il loro mondo, ando da una Terra prosperosa a un pianeta conquistato. In pochi sono ancora vivi.»

«Allora… non c’è scampo» Jonathan si sentì mancare le forze.

«Non è detto.»

«C’è una cosa che non mi ha spiegato ancora. Come sa queste cose?»

David annuì. «Ce le hanno dette i nostri pronipoti. È qui che risiede la speranza.»

Ancora una volta Jonathan tacque.

«Riavvolgere il tempo, di generazione in generazione. Dal futuro è giunta la conoscenza che ci serviva».

«La tecnologia?»

«Non proprio, ma le cognizioni per costruirla.»

«Quindi torneremo indietro nel tempo? A che pro, se la minaccia viene dal

futuro?»

David gli posò una mano sulla spalla. «Capirai dopo. Ora vieni, abbiamo poco tempo. Tutto sarà fatto prima della prossima fascia di pericolo». Si allontanò di corsa, dirigendosi verso la folla radunata al centro della grande sala. Jonathan lo seguì facendosi largo fra altri sopravvissuti, mentre David prendeva posto su una sorta di palco, accompagnato da Wade.

«Fratelli miei. A ognuno di voi è stata spiegata la terribile situazione in cui ci troviamo» cominciò David. «é ora di fare qualcosa per risolverla. La conoscenza che ci giunge dal futuro non apre portali per viaggiare nel tempo. Non varcheremo soglie che a noi sono interdette. La nostra discendenza ci ha fornito i mezzi per costruire questa» disse, allungando una mano dietro di sé. C’era una piastra metallica, grande a sufficienza da essere scambiata per una parete. Jonathan la notava solo ora.

«Ciò che faremo sarà portare conoscenza – e coscienza – nei noi stessi di trent’anni fa. Saremo bambini, adolescenti o uomini ma tutti recheremo l’unica cosa che conta: la consapevolezza di ciò che accadrà e il modo per sventarlo. All’interno di quei cilindri c’è il progetto della macchina che avete davanti. Guardatelo con attenzione». Furono distribuiti dei cilindri di metallo. Jonathan afferrò il suo e srotolò il progetto che era all’interno. Sembrava molto complesso, non ne capiva il funzionamento.

«Guardatelo attentamente, poiché quando partirà la macchina esso sarà nella vostra memoria recente, impresso nell’io del ato. E voi, o meglio voi nei vostri corpi di trent’anni fa, spiegherete ai vostri padri cosa fare e cosa altrimenti accadrà. Alcuni saranno scettici, altri rifiuteranno l’evidenza, ma egualmente centinaia di macchine saranno progettate e costruite. Non potranno essere così ciechi. E anche essi, allora, porteranno le loro coscienze indietro nel tempo, in un nuovo riavvolgimento generazionale del continuum temporale. Fino al momento in cui i pellegrigia non esistono ancora, né il morbo sarà presente.

Allora, e solo allora, la situazione diverrà nota a tutti e sarà possibile impedire che il disastro avvenga».

«In che modo?» chiese una voce.

«Sempre il solito» rispose David. «Con la conoscenza. Non potranno ignorare tutti i segnali del riavvolgimento temporale. Capiranno che è in pericolo la nostra specie e, una volta nel futuro, impediranno che ciò avvenga. Cambieremo il nostro destino riscrivendo il ato.»

«Non funzionerà» disse un altro.

«Deve funzionare. Non possiamo sperare in altro.»

Jonathan continuò a fissare il progetto. Riavvolgere il tempo, portando con sé la conoscenza... Era come sviluppare un nuovo progetto avendo già l’esperienza per renderlo al meglio. Era davvero possibile? I loro figli e nipoti avevano lanciato quell’ultima carta dal futuro remoto che essi stessi avevano distrutto. Ed era arrivata fino a loro.

Era chiaro adesso perché fosse stato scelto lui, come gli altri. Era chiaro perché fossero stati necessari quegli inviti. Servivano tutte le persone possibili. Probabilmente la Bohemian Rhapsody aveva contattato ogni sopravvissuto di cui era stata a conoscenza.

«So che molti di voi pensavano di essere stati chiamati per le proprie capacità,

per dare un contributo unico e decisivo» stava continuando David. «Ma questa non è una battaglia per eroi. Non ci saranno nomi ricordati, né medaglie. Questo è un tentativo fatto con mano nuda, priva di armi, per fermare una guerra contro noi stessi che ci sta divorando da entrambi i sensi temporali. Questa è una battaglia per gente comune che ha famiglia, che l’ha avuta o che l’avrà, e vuole assicurare ai suoi cari una vita migliore di questa sopravvivenza a orologeria.»

Calò il silenzio. Jonathan guardò il cronometro: segnava 5 minuti. Gli avevano detto di non preoccuparsi finché fosse rimasto nella base, ma gli istinti di una vita intera lo spingevano a rannicchiarsi in un angolo e aspettare in silenzio l’onda d’urto, sperando di sopravvivere al nuovo attacco.

Non voleva più vivere così.

«Siate pronti, fra pochi istanti le vostre coscienze prenderanno il loro posto nel riavvolgimento temporale. Guardate i progetti a fondo!» disse Wade.

«Un secondo dopo, vi troverete con gli occhi chiusi. Percepirete il cambiamento ma ciò non vorrà dire che tutto sia andato necessariamente a buon fine. Potrebbero essere state variate poche vicissitudini personali, senza intaccare la situazione generale. A quel punto avrete solo una scelta davanti: aprire gli occhi e verificare in che mondo starete vivendo.»

Fu quello il commiato di David. La lastra del macchinario pulsò, sfrigolando. Un’onda d’urto, appena sufficiente a smuovere i capelli, li investì, e il mondo divenne buio.

Jonathan percepì il cambiamento, segno che David aveva detto la verità. Sapeva

che qualcosa era cambiato e si sentiva diverso anche dentro di sé. Riavvolgendo la coscienza nel tempo il continuum aveva dovuto rielaborare sia il ato che il futuro e Jonathan ne avvertiva l’impeto.

Fu una tempesta che investì i suoi sensi. Fu come nascere e morire mille volte nello stesso – infinito – istante. Regredire fino ad annullarsi e invecchiare nello stesso fermo-immagine, mentre ciò che sapeva e ciò che era, veniva riformulato in un nuovo paradigma biologico.

Quell’istante, infine, ò.

Il cuore batteva senza freno, avvolto dall’ansia e dal terrore di non essere riuscito nell’impresa.

Inspirò, cercando di calmarsi, ma non ci riuscì. Doveva sapere o gli sarebbe venuto un infarto.

Inspirò ancora. Espirò.

Strinse i pugni e aprì gli occhi.

Reload

Steve odiava queste cose.

Era una sensazione terribile, si sarebbe sentito svuotato di ciò che era, come una bottiglia pronta per essere gettata via. E poi, di colpo, nell’attimo di orrore, qualcosa sarebbe entrato. L’avrebbe riempito di nuovo, rimettendo le cose a posto.

Ma la sensazione di aver perso qualcosa non lo avrebbe abbandonato mai.

E succedeva di continuo.

Si avvicinò alla vetrata. Poggiò il palmo sul vetro gelido, lasciò che quelle sensazioni lo attraversassero. Lo facevano sentire vivo.

Il problema con gli squarci, in fondo, era quello. Sembravano fantasmi, fantasmi spaventati. Sembravano tutti morti.

Il timer sul tavolo lanciò tre sequenze di due bip ognuna. Era il segnale. Stava per accadere di nuovo. Era la terza volta questo mese, e ormai stava peggiorando. Se non l’avessero fatto sarebbero andati tutti alla malora, dicevano. Era necessario.

Cinque.

Steve raggiunse una sedia. Non serviva a nulla, ma farlo da seduto lo tranquillizzava.

Quattro.

Tutto sarebbe ritornato come prima. Cioè, più o meno. Cioè, più indietro.

Tre.

Tamburellò sul tavolo. L’attesa era la cosa peggiore in tutto il processo. Forse sarebbe stato meglio se non li avessero avvisati. Tutto indolore. O quasi.

Due.

Steve chiuse gli occhi. Ecco, ci siamo, pensò.

Uno.

Strinse i pugni. Si preparò a perdere se stesso, per poi ritrovarsi uguale. Diverso. Cioè, uguale ma diverso.

Bip.

* * *

«Sta succedendo troppo spesso».

Steve annuì. Portò la birra alla bocca.

«Facci caso. Più il governo centrale usa le nuove tecnologie, più i campi antitempo vengono estesi ai quartieri alti, tanto più spesso ci troviamo con gli squarci».

«Non puoi saperlo» obiettò Steve.

Jack scosse il capo. «Posso saperlo. Eccome se posso saperlo».

«Eh?»

«Tu lascia perdere che non ce lo dicono. Pensa con la tua testa. Stanno mandando a puttane la nostra linea temporale».

«Se fosse così avrebbero interrotto le forniture».

«Ma ci pensi?» Jack sbatté il pugno sul tavolo. «Il governo centrale beneamato che si prende una responsabilità? E che responsabilità: scusate, stiamo distruggendo il nostro universo».

Steve bevve ancora.

«Possibile che non te ne freghi niente, Steve?»

«Certo, certo, è solo che…»

«Cosa?»

«Non posso dirtelo».

«Ti hanno detto qualcosa».

«No» rispose Steve. «Cioè sì, ma ufficialmente no. È trapelato».

«E tu fallo trapelare anche qua».

«Non è così facile. Se si scopre vado nei guai».

Jack si alzò in piedi, andò alla finestra. Guardò il panorama che un appartamento al duecentoventesimo piano poteva offrire.

«Non credi che abbia il diritto di sapere se il nostro universo sta per collassare?» chiese.

«Non collassa niente, non ti preoccupare. Per adesso, almeno».

«Diavolo, Steve!»

«Sono un impiegato di sesto livello, cosa vuoi che sappia?» gridò Steve. «So solo che non è la tecnologia a peggiorare la situazione. Peggiora da sé».

«Ma è stato l’anti-tempo a crearla, no?»

«Questo non lo so».

Jack si ò le mani fra i capelli. La camicia si aprì sul petto, mostrando una maglia rossa.

«Sai nient’altro?»

«Che non possiamo ricaricare il tempo troppo spesso. Serve energia».

«E se si succedono due squarci?» chiese Jack. «Cosa accade se teniamo uno squarcio aperto troppo a lungo?»

Steve si rimise a sedere. «Non lo so».

Era stanco. Aveva lavorato per diciotto ore al file di backup temporale che avevano caricato in mattinata. C’erano dodici gradi di controllo: lui era il primo, il programmatore. Realizzava solo il file, non faceva altro. Poi sapeva il cielo come quell’ammasso di dati sarebbe stato calcolato e sparato nel continuum spazio-tempo. Non era nulla di più di un videogioco. Quando c’erano problemi, quando il sistema mostrava dei bug e non si poteva andare avanti, si ricaricava un salvataggio precedente. Nulla di più semplice. Nulla di più complesso.

Steve era l’artefice della struttura base. Prendeva il backup più aggiornato e metteva delle toppe nei punti in cui il flusso si era squarciato.

«Steve?»

«Sì».

«Devo preoccuparmi?»

Steve non lo guardò. «Sì, se vuoi. Ma non vedo come possa giovarti».

* * *

Ogni minuto e mezzo. Il computer eseguiva un backup della linea temporale ogni minuto e mezzo. Una lucetta diventava verde per qualche attimo a indicare che il salvataggio era riuscito. Era il file grezzo che poi avrebbe rielaborato in caso di ripristino.

Steve tamburellò sulla scrivania. Non aveva altro da fare fino al prossimo squarcio.

«Ehi Steve, hai visto i quartieri alti?»

Jimmy Suther aveva parlato con il capo poggiato sulle braccia. Sembrava avesse dormito.

«Che altro?»

«L’anti-tempo» rispose Jimmy. «L’hanno piazzato definitivamente».

«Politici e ricconi che non invecchiano. Proprio quello che ci voleva».

«Non dureranno».

«Figurati. Quella tecnologia può durare anche due secoli senza manutenzione».

«Non se distruggono i reattori».

Steve si girò con gli occhi spalancati. «Che hai detto?»

«Non ne so niente, eh» Jimmy alzò il capo. «Ma lo faranno saltare in aria. Già manomisero i primi prototipi».

«Ma di chi parli?»

«Ribelli, terroristi, gente qualunque» fece Jimmy, «chiamali come vuoi. Parlo di quelli che attentarono al reattore Delta due anni fa».

Steve ricordava a malapena la notizia. Non aveva importanza, comunque. Tutti gli impianti che avevano a che fare con la tecnologia anti-tempo erano sorvegliati e messi in sicurezza. Se davvero c’era qualcuno, non ce l’avrebbe fatta.

Le luci si spensero in sequenza, a gruppi di due dall’inizio alla fine della sala.

Steve guardò Jimmy Suther mentre le barre d’emergenza si accendevano.

«Ti giuro che non so nulla» disse Jimmy.

Steve guardò il computer. Spento.

«E ora?»

«Ci sono altri due centri di backup, che io sappia».

«E se sono spenti anche quelli?»

Steve lanciò uno sguardo al compagno. «Non lo so».

I suoi colleghi stavano cominciando ad alzare la voce. Non era mai accaduta una cosa simile, non in un centro di ripristino. Era inaudito. Non poteva essere una coincidenza: tre linee alimentavano i calcolatori e tutte e tre erano state disconnesse. Solo il vecchio impianto di emergenza sembrava reggere ancora.

Poteva essere dannatamente pericoloso.

Steve accese il flash del suo telefono. Si allontanò lungo la sala in penombra, schivando gli altri impiegati in preda all’agitazione. C’era qualcosa di sbagliato

in tutta quella situazione, e Steve cominciava ad aver paura. Dov’era la sorveglianza?

Raggiunse la sala di controllo.

Un colpo alla testa.

Si sentì svuotato, ancora una volta. Barcollò, cercando di resistere al dolore.

«Ehi, questo è un duro» scherzò qualcuno. Un secondo colpo. Il buio.

* * *

Strinse gli occhi ancora chiusi. Non riusciva ad aprirli, non riusciva a muovere un muscolo. Emise un gemito.

«Oh, Steve, sei dei nostri?»

Ancora un gemito.

«Apri gli occhi, Endimione bello».

Steve ci provò. Una linea di luce filtrò fra gli orizzonti scuri delle palpebre. Li richiuse.

«Che è successo?» biascicò.

«Ti hanno dato un colpo in testa» spiegò Jimmy.

Steve ricordò. «Due».

Sentì la sedia strusciare sul pavimento.

«L’hanno fatto, Steve». La voce di Jimmy era bassa, ma più vicina. «L’hanno fatto saltare».

«Cosa?»

«L’anti-tempo ai quartieri alti».

«E che problema c’è?» Steve aprì gli occhi. Si ò una mano sulla fronte a coprire la luce. «Faranno un ripristino e impediranno che accada. Ci hanno speso miliardi per quelle cose, figurati se non sfruttano i backup».

«È questo il bello, Steve» disse Jimmy. «Non ci sono più backup. I nostri server

hanno exa-byte di spazio libero ora. È stato tutto cancellato».

Steve sentì il cuore perdere un battito. «Squarci?»

«Nessuno, per fortuna. Hanno rimesso in piedi il sistema. Siamo a corto di energia, ma i computer hanno ripreso a salvare backup».

Poteva essere davvero un casino. Per distruggere l’anti-tempo avrebbero potuto causare… chissà cosa. Steve non avrebbe potuto sistemare le toppe senza un backup privo di anomalie.

«Cristo, Jimmy» commentò.

«Lo so» annuì l’altro. «Lo so».

Restarono in silenzio. Solo il ticchettio di un orologio riempiva il vuoto. Solo il tempo.

«Io devo tornare al lavoro».

«Sì, certo» sorrise Steve. Non si era reso conto di essere in ospedale. «Grazie di essere ato».

«Figurati» rispose Jimmy. «Vuoi che avvisi qualcuno?»

Steve scosse il capo.

«Bene allora. Ti o a trovare presto».

«Probabilmente ci vedremo al lavoro. Sto già bene».

Jimmy era sulla soglia. Alzò una mano per salutare, sorrise appena e uscì.

Steve si alzò. Si mise a sedere, aspettando che il giramento di testa asse, poi si diresse verso il bagno. Afferrò la maniglia. Sussultò.

C’era una donna. Era come se la vedesse attraverso un filtro viola, ma era lì, ed era viva. Steve lo sapeva. Era lì in un altro spazio-tempo. Da qualche parte sulla terra, da qualche parte lungo la linea temporale.

«Dottore!» chiamò. «Infermiere, qualcuno!»

Una donna in camice bianco si affacciò sull’uscio. Vide lo spettro disegnato a mezz’aria fra me e la porta del bagno e si portò una mano alla bocca.

«Avvisi le autorità» disse Steve. Guardò l’orologio. «Avvisi che lo squarcio è

stato individuato alle quattro e trenta del pomeriggio».

La dottoressa corse via.

Steve si volse a guardare ancora quell’apparizione. Uno squarcio aperto fra due punti casuali dello spazio-tempo. Una finestra su un mondo dimenticato. La donna sembrava impaurita. Doveva essere nel ato, doveva considerarlo un fantasma.

Steve aprì la bocca per rassicurarla, ma non disse nulla. Era inutile. Non l’avrebbe sentita. Solo l’immagine deformata nel filtro viola giungeva dall’altra parte.

Poco male. Quella stanza sarebbe stata chiusa al pubblico e la donna non avrebbe visto più nessuno, se non una sala d’ospedale vuota. E solo nei momenti in cui la finestra fosse stata aperta.

Ma la donna aveva paura. Indietreggiava tremando, una mano alla bocca. Inciampò. Steve allungò una mano d’istinto e sfiorò appena l’immagine. Non c’era nulla da toccare, nessun varco da oltreare. La finestra si richiuse su se stessa, collassando in un unico punto. Steve sentì una sottile scossa elettrica attraversargli il palmo.

«Che diavolo…» Non sarebbe dovuto succedere. Non c’era niente di tangibile, nulla di reale – se per reale si intendeva… Scosse il capo. Non era sicuro di avere una definizione.

Mosse la mano. L’aprì, la chiuse. Nulla di strano. Forse se l’era immaginato.

Raggiunse il letto e si rivestì. Se c’era uno squarcio avrebbero avuto bisogno di lui. Soprattutto dopo il casino appena successo, Steve non voleva lasciare il ripristino nelle mani di un sostituto.

* * *

Non si poteva fare. Tamburellò sulla scrivania, non sapendo come muoversi.

«Sei nervoso?»

Steve si riscosse. Si volse vero Jimmy. «Perché?»

«Di solito sei fastidioso con quelle dita. Oggi sei insopportabile».

«Scusa».

«Che succede?»

«Il ripristino. Non possiamo ricaricare alcun file finché non accumuliamo abbastanza energia».

Jimmy alzò le spalle. «Che vuoi che sia. Quanto può volerci?»

«Non lo so. Forse qualche giorno. Lo saprò più avanti».

«Che vuoi che sia» ripeté Jimmy.

Non era così, non per Steve. Non aveva idea di cosa poteva accadere se lo squarcio si fosse allargato. Non si era mai trovato in una situazione simile.

«Non puoi già lavorare al ripristino?» chiese Jimmy.

«No, devo tener conto anche del momento in cui sarà attivato. Devo avere più dati».

Steve si alzò. Guardò la stanza fitta, ascoltò il ticchettio delle dita sui pannelli, i colpi di tosse, i respiri pesanti. Gli girava la testa. Forse non si era ancora ripreso.

«Vado in bagno, torno subito» disse.

«Ok».

Si allontanò cercando di non barcollare, di tenere un’andatura sicura. Doveva solo attraversare la lunga sala. Forse era il caldo: un po’ d’acqua fresca l’avrebbe fatto sentire meglio.

Scivolò in bagno, mezzo piegato, e raggiunse il lavandino. Si buttò l’acqua sul volto, ma sentì la testa girare ancora più forte, per un istante appena.

Era ato.

Alzò lo sguardo sullo specchio, la mente di nuovo lucida. Trattenne il fiato. Era lì. Com’era possibile non riusciva a capirlo, ma era lì. La stanza dietro di lei era la stessa, eppure lo squarcio si era spostato, l’aveva seguito.

Steve si guardò le mani. «Sono stato squarciato» balbettò. «Sono io lo squarcio».

Non era mai successo, mai a memoria d’uomo da quando avevano cominciato a sviluppare la tecnologia anti-tempo. Le finestre erano sempre comparse in un luogo e a esso erano state ancorate.

Steve guardò la donna. Era più calma dell’ultima volta, forse stava cercando di razionalizzare. Forse si credeva pazza, forse pensava di vedere uno spirito tornato dall’oltretomba.

Gli si avvicinò, si avvicinò all’altro lato della finestra. Una mano lenta si sollevò per sfiorare la visione. Steve vide le dita, poi l’intera mano svanire dalla sua vista, nel momento in cui – dall’altra parte – la donna attraversava l’immagine

eterea.

Scosse il capo.

La donna lo guardò. Mosse le labbra. Articolò dei suoni che Steve non poteva cogliere.

«Non ti sento» provò a dire. Si toccò l’orecchio e scosse il capo.

Lei sembrò capire. Annuì. Scomparve dalla vista e riapparve subito dopo con qualcosa in mano. Stava scrivendo su un block-notes. Lo girò.

Chi sei?

Steve strinse le labbra. Non poteva risponderle, non aveva carta e penna, non aveva un tablet, nulla. Si ricordò del telefono. Lo prese.

«Messaggi» disse.

Bip.

«Scrivi».

Bip.

«Mi chiamo Steve. Come ti chiami?»

Bip.

Steve girò il display verso di lei, avvicinandolo quanto più poteva alla finestra. La donna si sporse in avanti. Strizzò gli occhi. Annuì.

Kate. Sei un fantasma?

Steve rise. Negò con il capo.

E allora cosa sei?

«È complicato».

Kate lesse e alzò le spalle.

Spiegamelo.

Steve annuì. Era un tempo non troppo lontano, o non avrebbe capito la sua scrittura. Erano abbastanza evoluti da capire. In fondo la sua linea temporale si affacciava senza permesso sulle loro vite. Era qualcosa che gli doveva… forse.

«Scrivi» comandò. Alzò lo sguardo su Kate, ma non la vide più. Nello specchio c’era solo il suo riflesso. La finestra era chiusa.

* * *

«Sono un uomo del futuro» disse. Si grattò il capo. «No, scoppierebbe a ridere».

eggiò avanti e indietro nel salotto.

«Partiamo dal principio: ciò che noi consideriamo come linea temporale…»

Scosse il capo.

Il cellulare cominciò a suonare. Il display riportava Jack.

Steve non rispose. Era insistente, ma un nuovo giramento di testa l’aveva investito. Se aveva intuito bene, Kate stava per tornare.

Una vertigine più forte. Svanì.

Kate era davanti a lui.

Le labbra della donna mimarono un ciao. Steve alzò una mano.

Stava scrivendo.

Allora, la smetti di scomparire e ricomparire?

Steve rise. Armeggiò con il telefono.

«Non è colpa mia. Non posso gestirlo».

Devi ancora spiegarmi chi sei, Steve.

Inspirò. «Una persona in carne e ossa, viva quanto lo sei tu, ma non quando lo sei tu».

Quindi vieni da un altro tempo. Dicevo bene: sei un fantasma.

Steve abbozzò un sorriso. «Se proprio vuoi, sono il fantasma del natale futuro».

Ora comincio a non capire.

«Dal tuo punto di vista io sono un uomo che non è ancora nato, che nascerà a breve o forse fra decenni. Dal mio punto di vista tu sei una donna vissuta in un indefinito periodo del ato recente».

Kate si portò una mano alla bocca. Masticò la matita. Girò foglio e riprese a scrivere.

Quindi mi stai mandando dei messaggi dal futuro.

«Più o meno, sì. È difficile da spiegare: la nostra linea temporale ogni tanto si squarcia, e così si apre una finestra su altri tempi, su altri luoghi».

Senza che tu lo voglia?

«Già».

E non potete fare nulla?

«Non ancora. Fra poco».

Kate sorrise.

È bello il futuro?

«Non può essere più bello del ato».

Perché?

«Il ato è sempre più bello, o non esisterebbe la nostalgia».

Io sto bene nel presente.

Steve annuì. «Ne sono felice».

Tu no?

Alzò le spalle.

Qual è il problema?

«Cosa sei, una specie di psicologa nel tuo tempo?» rise Steve.

No, scusa. Accennò un sorriso. Non avevo il diritto di chiedere.

Steve la guardò negli occhi, in quegli occhi viola come l’intera visione. «Non lo so qual è il problema. Sento solo che c’è qualcosa che non va».

Kate si limitò ad annuire. Gli sorrise.

Sta durando sempre di più, è normale?

«Cosa?»

La finestra. Ogni volta dura più a lungo.

Era vero. Steve controllò l’orologio a muro. Forse era quello che accadeva se non si correva subito ai ripari, se non si saldava lo squarcio al più presto.

«Vedrò di risolvere questa situazione».

Kate annuì.

Il cellulare riprese a suonare. Era ancora Jack.

* * *

«Diamine, mi farai arrestare».

«Ricorda perché lo stiamo facendo» disse la voce di Jack nell’auricolare.

«Perché lo sto facendo. Qua sono io che rischio le penne».

«Non lo scopriranno. Quella è la tua postazione, no?»

Steve non rispose. Inserì il drive nel computer.

«Quanti riesci a salvarne?» chiese Jack.

«Uno. C’è spazio per uno soltanto».

«Scegli bene».

Steve prese il backup automatico del giorno dell’attacco, uno dei primi dopo che

il sistema era tornato online.

«Preso».

«Sei sicuro che sia precedente allo squarcio?»

«Sì».

Era illegale. Era dannatamente illegale prelevare dei file dal computer della corporazione. Se l’avessero beccato sarebbe ato per uno dei terroristi che avevano fatto saltare l’anti-tempo ai piani alti. Sarebbe finito in guai seri.

«Jack, dimmi ancora perché mi fido di te».

«Perché non hai scelta» rispose dall’auricolare. «Perché se quello che ho sentito è vero… senza quel file siamo fregati».

Steve nascose il drive sotto la giacca. «Quando avverrà?»

«Prima che l’energia per il ripristino sia accumulata».

«Capito».

«Io invece no. Sei tu quello all’interno. Quanto tempo abbiamo?»

«Un giorno».

«Meglio così. Meglio che accada subito».

Steve sospirò. «Sarebbe meglio che non accadesse affatto».

* * *

Sorrise. Era un sorriso meraviglioso.

«Di che colore sono i tuoi occhi?»

Anche tu mi vedi “spettrale”?

«Sì».

Castani.

«Ti donano».

Kate rise. Non puoi saperlo.

«Abbiamo grandi doti di immaginazione nel nostro secolo».

Davvero?

Steve alzò le spalle. «Non più che nel tuo, immagino».

E tu di che colore hai gli occhi?

«Castani».

Ti donano.

«Lo so».

Kate rise ancora. Restò ferma, senza scrivere nulla. Fissava Steve.

Fra quanto finirà?

«Cosa?»

Questa esperienza.

«Non lo so. Ci sono dei problemi».

Che tipo di problemi?

«Terroristi».

Kate si portò una mano alla bocca.

«Vogliono far saltare i centri dedicati a risanare gli squarci, come hanno già fatto qualche giorno fa».

Perché?

«Non lo so. Forse credono che siamo noi a incrinare il flusso temporale, non ne ho idea. E forse è vero. Ma se non chiudiamo questo squarcio potrebbe succedere di tutto. Il nostro universo potrebbe collassare».

E non c’è nulla che possiate fare?

«Quello che potevo fare, l’ho fatto. Spero sia sufficiente».

Kate sorrise. Era bella quando sorrideva. Vedrai, andrà tutto bene.

«Sì» annuì Steve. Ricambiò il sorriso. «Andrà bene».

Un po’ mi dispiace di non poterti parlare più.

«Anche a me». Era vero. Steve ci stava pensando da un po’. Non voleva perdere quel contatto. Non sapeva perché. Aveva perso molti ricordi nei ripristini, attimi di esistenza cancellati dal flusso del tempo, eventi che di fatto non erano mai accaduti, emozioni mai provate. Non se ne ricordava. Sapeva solo di averne persi in quantità a ogni ripristino. Non era possibile ripristinare sul presente. C’erano ore, a volte un’intera giornata, che svanivano nell’oblio temporale. Un tratto di linea veniva cancellato e riscritto. E tutto era perduto.

Kate teneva il blocco alzato. Steve lesse:

Sarà stata comunque una bella esperienza. Ci rimarranno bei ricordi.

E Steve non si sentì di aggiungere altro.

* * *

Le luci si spensero.

«Ancora!» gridò Jimmy. Era sbiancato. «Se fanno pulizia anche ora…»

«Non ti preoccupare» gli disse Steve.

«Non ti preoccupare un cazzo!» disse Jimmy. «Come diavolo pensi di sistemare la linea temporale senza un backup sano?»

«Jimmy mi serve che non si diffonda il panico, per piacere. Non preoccuparti, ci penso io. So già come fare».

La luce tornò. Non erano ati che pochi secondi.

«Forse è stato un guasto, non un attacco» propose Steve.

«No».

«Già».

Lo sapevano tutti. Solo l’arrivo dei supervisori impedì che si scatenasse il caos.

«Si è salvato qualcosa?» chiese Jimmy.

«No» rispose l’incravattato. «Siamo qui per questo».

«Non possiamo fare niente senza un file di backup».

«Abbiamo l’energia. Fra dieci minuti saremo pronti al ripristino» continuò il supervisore.

«Ma…»

«Va bene» fece Steve. «Ma non fra dieci minuti. Fra…» guardò l’orologio, «due ore e sedici minuti. Alle quattro e trenta del pomeriggio in punto».

«Perché?» chiese il supervisore.

«Come diavolo pensi di fare?» chiese Jimmy.

Steve strinse le labbra. «Ho un file di backup. Già lavorato e impostato per le quattro e trenta».

«Com’è possibile?» chiese Jimmy.

«So che è illegale, ma ho preso un backup dal pc e ci ho lavorato a casa. Ho pensato che per aver fatto tutto quel casino, i terroristi devono avere una talpa all’interno. E quindi qualunque backup controllato dalla corporazione non sarebbe stato al sicuro. Io, invece, l’ho preso di nascosto».

«Cristo, Steve» fece Jimmy.

«Evitiamo che la notizia trapeli. Nessuno si muoverà da questa sala fino al ripristino. Quanto le serve per aggiungere i dati di questo attentato?»

«Pochi minuti. Ho già impostato le informazioni. Mi serviva solo conoscere il quando. Dopo il ripristino sapremo quando accadrà».

Il supervisore parve compiaciuto. «Molto bene. erò sulla sua violazione, per questa volta, viste le premesse».

«Grazie».

La testa cominciò a vorticare.

«Devo solo andare un momento in bagno» disse. «Non sto bene».

«La accompagnerà una guardia».

«D’accordo». Steve prese carta e penna.

«Quella?»

«Devo cominciare ad abbozzare un codice» mentì Steve. «Meglio non perdere tempo».

* * *

La guardia era fuori dalla porta. Steve scrisse:

È l’ultima volta.

Hai visto? Alla fine è andata bene, rispose Kate. Sorrise. Le si illuminavano gli occhi quando lo faceva.

Già.

Che c’è? Sei triste?

Steve annuì.

Anch’io.

Non mi ricorderò di te. Nascose il volto dietro il foglio. Non sapeva se guardare o meno Kate. Infine lo abbassò.

Perché?

Per chiudere lo squarcio dobbiamo ritornare a una situazione precedente alla sua apertura. Tutti questi momenti, questi giorni, saranno cancellati dall’esistenza. Non saranno mai successi.

Kate negò con il capo. Non per me. Io li ricorderò.

Steve accennò un sorriso. Sei fortunata.

Lo so.

Non scrissero più nulla. Restarono in silenzio. Steve teneva gli occhi bassi.

Li alzò.

C’è nulla che possa fare?

Steve scosse il capo. Nulla. Non c’è nulla che io stesso possa fare. Una parte di me sarà cancellata, e tu con essa. Questa dannata tecnologia mi sta strappando ciò che sono, un pezzo alla volta. Attimi irripetibili si perdono nelle pieghe del tempo. Non importa se rivivrò istanti simili. Non saranno quelli e io non lo saprò mai. Vivrò per sempre con la sensazione di aver perduto qualcosa di importante.

Kate finì di leggere e si alzò. Svanì dalla finestra e vi tornò dopo qualche attimo. Steve la guardò. Aveva in mano qualcosa.

Una luce.

Una macchina fotografica. Gli aveva scattato una foto.

Perché l’hai fatto? Chiese Steve.

Dimmi il tuo nome completo, l’indirizzo e la data di quando mi hai vista la prima volta.

Steve glieli scrisse, pur non capendo. Non aveva più importanza. Kate continuava a sorridere.

Avvicinò una mano alla finestra. Steve fece un o in avanti e avvicinò la sua a sfiorare l’immagine eterea.

Scandì: «Addio».

Kate capì il labiale. Mosse le labbra e descrisse un arrivederci.

* * *

Steve tornò a casa, stanco. Avevano ripristinato di nuovo, e la sensazione di aver perso qualcosa era più intensa, come se il tempo perduto fosse stato maggiore. Non aveva importanza, comunque. Era andato, e non l’avrebbe recuperato.

La situazione peggiorava, anche se nessuno voleva ammetterlo. Se si fosse andati avanti di questo o, forse si sarebbero ritrovati a rivivere in loop sempre lo stesso giorno nel tentativo di impedire nuovi squarci.

E nessuno sapeva cosa fare.

L’ascensore si fermò al duecentoventesimo piano. Fuori la porta un led indicava la presenza di posta in giacenza. Steve sbloccò la cassetta: c’era una sola busta. L’aprì. Un block notes, una serie di altri fogli ripiegati, una lettera e due fotografie.

Steve le prese. Nella prima c’era una donna. Non la conosceva, ma gli sarebbe piaciuto. Era molto bella. Ma più di tutto aveva gli occhi castani. Se ne stava seduta su uno sgabello in una stanza anonima. Se ne stava lì, immortalata in una vecchia foto. E sorrideva.

Postfazione

La fantascienza non è mai stata un mio impulso primario. Da quando ho cominciato a mettere le dita sulla tastiera (e prima ancora la penna sul foglio), ho sempre sentito affinità per il fantasy, per l’irrazionale. Era un tentativo, ora lo capisco, di plasmare in una forma coerente – di una coerenza interna, per lo meno – le mie fantasie di ragazzo. E l’apionata lettura di romanzi fantasy che ho portato avanti per un decennio non ha fatto altro che alimentare questo fuoco.

Ma le cose cambiano, le persone cambiano. Sento di aver chiuso il mio capitolo fantasy con la vittoria al concorso Mondadori Chrysalide. Già in quel periodo erano cominciate le sperimentazioni per una narrativa che potesse inglobare quella stessa fantasia, che ancora mi accompagna, in un contesto reale. Una sfida ben più ardua, per chi come me è abituato a non avere limiti nella definizione di un mondo.

Questo spostamento dal fantastico al realistico sarebbe stato troppo brusco se non mi fossi dedicato – in via del tutto naturale – alla fantascienza. Ne ho già parlato in un articolo[1]: la fantascienza è il lato del fantastico che più si avvicina al realismo. Dunque si è trattato di un impulso naturale per favorire la transizione.

Ma il cerchio non è ancora chiuso: il primo lavoro pubblicato – fuor di antologie – è Myrddin di Avalon, un racconto di fantascienza storica. Allora forse la fantascienza, la razionalizzazione plausibile anche se improbabile, c’era già. Nascosta dai miti arturiani che sempre mi hanno affascinato, la fantascienza ha accompagnato il mio viaggio in sordina.

Ora, in questo momento di transizione, è necessario che il tassello vada al suo posto. È questo il motivo principale per cui Memorie di mondi vede la luce, con lo stesso marchio che aveva visto nascere Myrddin. E non è un caso che si tratti di racconti, poiché la riscoperta della forma breve come forma a me più congeniale è andata di pari o con il resto.

Non so bene perché siano racconti basati sul tempo. Non ci ho pensato troppo, né sono tutte composizioni di uno stesso periodo: Reborn uscì nel 2012 nell’albo n°8 di Scritture aliene e Rewind nel 2013 nell’albo n°2 di Future alchimie. Entrambe le antologie, a cura di Vito Introna, sono ora irrecuperabili e comunque ebbero vita breve. Ma la tematica del tempo continua ad affascinarmi. Myrddin tratta di un viaggio nel tempo, come è tema fondamentale ne Il patto della viverna e Il richiamo della luna oscura.

Ancora oggi, con i nuovi progetti in cantiere, mi rendo conto che il tempo è sempre presente. In forma contenutistica o stilistica. In un modo o in un altro, è una delle mie costanti narrative.

In fondo il tempo scandisce inevitabilmente tutto ciò che siamo, ciò che vediamo, percepiamo. Siamo avvolti e trascinati dal flusso dei secoli, delle ore, degli istanti. Siamo in balia di una forza che non riusciamo a percepire distintamente, che procede più rapida o più lenta ai nostri cambi d’umore, quasi quella forza fosse dentro di noi, quasi generassimo noi il tempo e non ne fossimo soggetti.

Ho citato Ovidio in apertura del volume: tempus edax rerum. Ma il tempo non è solo un divoratore, può essere anche portatore di speranza. E in questi racconti ho provato a metterlo in scena. Da una parte la memoria di un mondo perduto, dall’altra una prospettiva futura. All’uomo non resta che immergersi nel suo fluire. Avanti o indietro. Al solito, è tutta questione di scelta.

Maurizio Vicedomini

L'Autore

Maurizio Vicedomini nasce a Napoli il 30 giugno del 1990. È laureato in Lettere Moderne presso l'università Federico II di Napoli. È editor, chitarrista del sabato sera e cintura nera di Taekwondo.

È vincitore della sezione fantasy del premio Mondadori Chrysalide (Prima edizione, 2013).

Ha pubblicato diverse opere di genere fantastico: Il Patto della Viverna (Ciesse edizioni, 2012), Il Richiamo della Luna Oscura (GDS, 2012) e diversi racconti in e-book. Ha inoltre pubblicato numerosi racconti in antologie.

Ha collaborato con diversi blog e magazine online ed è vicedirettore di Fralerighe - Fantastico.

www.mauriziovicedomini.com

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