Bianca Fasano
Milioni di mondi possibili. Racconti.
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Indice dei contenuti
"Milioni di mondi possibili"
Il risveglio
E' semenzelle.
C'era una volta un'idea.
Dio mio.
Schegge.
All’ombra dei cipressi?
Al di là dello steccato
Cambiamento
Vigevano
Altrove.
Il burattino.
Dedicata a Jane Austen
Breve ritorno.
Pinocchio non c’è più
Favola moderna
Possesso di tutto.
L’età delle favole.
Quante volte nella vita…
Profumo di cera.
Sei il mio frutto.
Un volto dal ato
Dedicato ad un libro.
Il bottone della camicia.
ione
Posso darti un bacio?
Il senso del tempo.
Il ballo in maschera.
Handicap: il piccolo mondo di Rosi.
Strade parallele
La tomba etrusca
Cara, cara.
Il ritorno di Aurora.
1979: Napoli e i suoi "mestieri".
Storia di un bastardo.
STORIA DI FUXIA
Il mal di denti.
Solidarietà.
Monna Lisa a Lagonegro.
La bambina nel buio
Storia di Sandra
Il seminarista
Nonn'Anna
Albinismo (1,2 e 3)
2) Albinismo nero.
3) In funicolare.
Infine...
“Io non mi vergogno di dire la verità.”
"Jessica Smith Association for Revival and Reliance".
Copertina di Valentina D'Aiuto
"Milioni di mondi possibili"
Racconti
Bianca Fasano "Milioni di mondi possibili" Racconti Con qualche poesia.
Il risveglio
Dedicato a zia Irma.
Lei era bionda, esile, minuta, con un bel sorriso bianco. Si guardò nello specchio, ma non si piacque poi molto. Intorno a lei il mondo era impazzito: si combatteva in un'Italia divisa di nuovo, dopo l'unità, laddove quello che era giusto in un luogo era sbagliato in un altro. Dal luglio del 1943, dopo che Mussolini era stato arrestato, le cose che erano state una realtà non ibile di cambiamenti erano precipitate nell'irrealtà. Forse per questa situazione complessa, Irma dormiva male e faceva strani sogni che le sembravano interminabili, da cui si risvegliava con grande difficoltà: lei diventava molto vecchia, giaceva in un letto, rattrappita e piena di dolori. Qualcuno si occupava di lei, la lavava e le cambiava la posizione. Nell'incubo lei non mangiava più ed a stento beveva qualche goccia d'acqua. A volte nel sogno compariva una donna che la chiamava zia e tentava di parlarle, ma lei, in quell'incubo ricorrente, neanche le rispondeva. La stanza l'opprimeva, il letto era una roccia dura e le coperte pesavano come macigni. Fortunatamente, però, si costringeva a risvegliarsi e tornava alla sua vita. Ecco: lavorava con gli americani ed era diventata per loro un punto di riferimento, perché trovava il modo di fare il caffè, di cucinare una sottospecie di dolcetti, anche a merito del fatto che gli stessi americani badavano a procurarle ciò che le occorreva. Il 1944 era oramai il quarto anno di guerra. Napoli aveva sofferto per i bombardamenti che avevano falcidiato case e popolazione e, all’indomani dell’arrivo in città degli alleati, erano cominciati i bombardamenti tedeschi. La più tragica delle incursioni tedesche avvenne nella notte tra il 14 e il 15 marzo del ’44. Lei l'aveva trascorsa in un rifugio e poi aveva saputo che c'erano stati oltre 300 morti. Ad aggravare la situazione alcuni giorni dopo si era risvegliato il Vesuvio. Tuttavia nel tempo ci si era abituati a vederlo di notte, con il suo pennacchio ed il rosso della lava incandescente e lei s'innamorava, terrorizzata da quello spettacolo straordinario. Irma era fiera di essere napoletana, visto che il suo popolo era stato capace di liberarsi da solo dai tedeschi e quando gli americani erano entrati a Napoli, non
avevano trovato neanche un tedesco. Il 28 settembre 1943 Napoli era insorta e lei ricordava di essersi trovata in mezzo a situazioni terribili, con le barricate per strada, gli spari, i morti, i feriti. Conosceva la madre di Gennaro Capuozzo, quello scugnizzo di dodici anni che aveva combattuto ed era morto. Non era stato il solo: nelle quattro giornate perirono 168 napoletani caduti in combattimento. Lei aveva lavorato nell'ospedale, dove erano stati ricoverati alcuni dei 162 i feriti. Molti di loro sarebbero poi restati invalidi. Già in quel periodo le capitava quello strano fenomeno: si addormentava, di colpo, ripiombando nell'incubo e tornavano i dolori, le gambe rattrappite, le voci di sottofondo. Lei, nell'incubo, apriva gli occhi e vedeva ben poco. Ombre. Quelle di una donna che le toccava le ossa fragili per cambiarle posizione. La voce che le chiedeva se volesse mangiare qualcosa. Mangiare? Lei voleva soltanto, con tutte le sue forze, tornare alla sua vita di giovane donna sana. Ritrovare la compagnia del capitano americano che le aveva messo a disposizione un locale dove provvedeva a rifocillare i giovani americani e quelli più anziani. Ritrovare Billy, che poi l'avrebbe attesa, dopo le venti, per accompagnarla a casa con la sua jeep, visto che rientrare da sola sarebbe stato molto pericoloso. Ecco: l'incubo le saltava addosso e doveva fare un terribile sforzo mentale per rifiutarlo. Si diceva soltanto: "Sto sognando, sto sognando, è un incubo, debbo svegliarmi!". Ma talvolta le riusciva così difficile! L'incubo sembrava tenerla in suo possesso. Rifiutava la voce, non voleva che le mani la toccassero, che la donna dell'incubo le cambiasse il pannolone. Rifiutava l'odore di malattia e di vecchiaia, la pelle che le prudeva come se fosse coperta da insetti che la divoravano, la terribile sensazione di secchezza alle labbra. Rifiutava tutto e riusciva, alla fine, a tornare alla sua vita: il suo giovane americano l'attendeva fuori e trovavano il modo di fare l'amore. Si scambiavano baci dolcissimi, con quella sensazione di vivere momenti incerti che potevano precipitare da un momento all'altro nel baratro e proprio per questo andavano vissuti più categoricamente, a testa bassa, senza pensare troppo al dopo. A testa bassa rientrava nel sole di Napoli, camminando per le strade distrutte della città, con via Toledo e le case abbattute dai bombardamenti. Era restata a Napoli, mentre la sorella, con i suoi figli e la nipotina, per evitare i continui bombardamenti, si era diretta, con i genitori, verso l'entroterra. Avrebbe dovuto raggiungerli, ma le riusciva difficile rinunciare a quel lavoro che si era costruita. I fratelli erano in guerra e sperava che sarebbero rientrati, ma non ne era certa. Sconvolti dall'essersi ritrovati alleati con i loro nemici senza preavviso, trattati da traditori.
Un giorno, per rientrare in città si era ritrovata su di un treno zeppo fino all'inverosimile, della Circumvesuviana e, come le capitava purtroppo spesso, fu catapultata nel suo incubo. Sparì la folla, sparì il paesaggio intorno al treno e si ritrovò nel letto, immobilizzata, con la sensazione di affogare: la donna del suo incubo tentava di versarle qualcosa in gola. Si ostinava Maria (era Maria), a volerla aiutare, salvare, farla vivere. Vivere? Ma era vita quell'incubo? Lei si rifiutava di prenderlo in considerazione. Mugolava parole incomprensibili, serrava le palpebre ardenti, si ripeteva:-"E' un incubo, solo un incubo. Adesso mi sveglio!"- Così si svegliava. Si ritrovava con le sue braccia giovani a spazzolarsi i capelli biondi, per indossare un cappello giallo di paglia. Era estate. Sapeva che molte donne di Napoli si erano date al commercio di se stesse, anche soltanto per un paio di calze di seta o un barattolo di qualche tipo, ma lei era stata fortunata: aveva un fidanzato americano, lavorava per gli americani ed era rispettata da tutti. Non si chiedeva cosa sarebbe successo quando lui fosse stato rimandato in patria. Se l'avrebbe seguito, se l'avrebbe perso. Cosa importava? Era viva. La guerra sarebbe finita, un giorno, e anche lei avrebbe potuto pensare al matrimonio, pure se non aveva potuto pensare al corredo, men che meno a una casa, a mobili di qualche tipo. Già era davvero tanto non avere fame e non avere necessità di vendersi. Neanche aveva dovuto fare la borsa nera, mentre in qualche occasione, raggiunta la sorella in un paese dell'entroterra, si era arrampicata sulle montagne per comprare cibo dai contadini, in cambio di lenzuola ricamate. D'altra parte c'era chi si arricchiva con le "semenzelle", quei chiodini con la testa grossa con cui ci si poteva risuolare le scarpe. Lei non voleva diventare ricca, ma restare viva. Viva, non come le capitava di sentirsi in quel maledetto incubo ricorrente. La vecchia che diventava in quei momenti, per fortuna brevi (i sogni sembrano eterni, ma non lo sono), diveniva sempre più debole. Non sentiva praticamente più il dolore, gli odori svanivano, la bocca si serrava e neanche rispondeva alla voce che le diceva:- "Zia, mi senti?" Neanche rispondeva. Non aveva sete né fame, né bisogni. Era un sogno, era un incubo da cui si doveva rifuggire subito. Ogni volta le riusciva più facile ritornare alla sua giovinezza. Quel bagno nel mare di Mergellina, dagli scogli, con il costume pescato chissà dove. Il tuffo nell'acqua fresca, l'acqua sul volto, il sole sul viso. Poi lui si era tuffato a raggiungerla, avevano nuotato assieme, come due delfini, per poi asciugarsi al sole sugli scogli cocenti. Un momento rapito alla morte, al dolore, alla paura. Lei lavorava ed era rispettata. Gli alleati avevano bisogno dei napoletani, come capitava con lei: servizi e funzioni di ogni genere, legali e indebite, somministrate dai civili ai singoli militari anglo-americani, erano un modo per
sopravvivere. Le donne, come lei, lavavano panni, oppure ospitavano nelle proprie case gli angloamericani e in cambio ricevevano viveri e merci di vario tipo. Ma lei conosceva che il mercato nero, la vendita di alcolici, e le donne che fornivano prestazioni sessuali circondava quel suo mondo più pulito. Si risvegliava dai suoi incubi sempre più forte e sana, sempre più vicina alla fine della guerra e al suo futuro prossimo. Un futuro che immaginava felice, con o senza la presenza del suo americano. Odiava quel suo incubo ricorrente e, nel tempo, divenne sempre più cosciente che l'unico modo di lasciarselo alle spalle, consisteva nel rifiutarlo determinatamente, lasciando fuori dal corpo malato in cui si ritrovava, ogni possibilità di collegamento: doveva resistere, non bere, non mangiare, non ascoltare le domande, non rispondere agli stimoli dell'incubo. Più andava avanti e più si rendeva conto che soltanto con la morte, nel suo incubo, della se stessa malata, scarna, dolorante, sarebbe potuta tornare alla sua vera vita di giovane donna. Così si ripromise di mettere in atto il suo piano e, nel suo incubo, determinatamente, si sottrasse a tutto. Sempre più spesso e più facilmente abbandonava l'incubo e rientrava nella sua vita vera. - "Zia, sei certa di non volere bere proprio nulla? Come ti senti?" - La figura nel letto sembrava rifiutarsi di ascoltare, come se si stesse allontanando dal dolore, ritraendosi in se stessa. Maria, la donna che l'accudiva, era disperata:- "Non mangia e non beve nulla." Ripeteva. Entravano in silenzio, guardavano il volto nascosto da una mano ed uscivano di nuovo, sempre in silenzio. Il corpo, piccolo e contorto, non si muoveva più da giorni. Soltanto le mani della badante lo voltavano, di tanto in tanto, per cambiarla, pulirla, controllare la respirazione. Più volte aveva temuto che fosse finita, ma un leggero vapore sullo specchio che poneva davanti alle labbra le faceva comprendere che la vita, se di vita si poteva parlare, resistesse. Ubbidiva al consiglio della nipote, per assicurarsi che non morisse senza sostegno di una parola, di una voce. I i delle due donne in quelle ultime ore neanche si sentivano. Certo non le sentiva la vecchia signora. Poi Irma, con un ultimo sforzo, lasciò l'incubo per sempre e tornò alla vita. Per sempre.
E' semenzelle.
Ricordando De Filippo, e quel suo saggio "adda à a nuttata", ci chIediamo quale nottata i l'oggi umano, se mai la erà. Strane storie raccontano i giornali, strane storie, le voci roboanti della TV che ce le vende a prezzo di mercato. Torneremo forse a risuolare le scarpe co' è semenzelle?
Ma se nemmeno sono di cuoio le tomaie, neanche quelle ci salveranno dal gelarci i piedi in un futuro. In cosa investiranno, dunque, i furbi d'oggi, che diverrà un domani come oro?
C'era una volta un'idea.
Nel ricco paese della fantasia di una bambina, nacque un'idea bellissima. Era anche lei una femminuccia e, come tale, portava un abitino di tulle rose e le scarpine lucide, nere ed un bel fiocco in testa. Quando venne alla luce, non sapeva esattamente cosa avrebbe voluto diventare, per cui alcun tempo (non giorni non ore perché nel paese della fantasia tutto ciò non esisteva), se ne stette un po' ferma a guardare nel vuoto. Ma si stancò presto, per cui decise che sarebbe stato davvero delizioso guardare fuori di una grande finestra e quindi, detto fatto, la pensò ed eccola li, con le lunghe tende e i vetri lucenti che lasciavano are la luce... della luna. Intorno alla finestra si aprì una parete e alle spalle dell'idea anche una stanza e poi una porta, di quelle altissime, che conducevano certamente verso qualcosa di speciale. Così l'idea, stanca di restarsene ferma, l'aprì e davanti a lei scorse un lunghissimo corridoio che prese a percorrere sulle sue scarpine lucenti. A destra c'era un'altra porta, questa volta socchiusa, quindi l'idea la spinse lievemente e vide un'altra stanza, tutta dipinta in rosa. Detto fatto, l'idea la riempì di giocattoli, poi ci mise una culla, quindi un bel tappeto caldo, di pelo e infine si rese conto che mancava la cosa più importante: un bimbo nella culla. L'idea si sforzò e si sforzo, ma proprio non le riusciva di riempire quella culla. Restò pensierosa qualche non tempo, poi decise di perlustrare il resto dell'appartamento: l'aveva pensato proprio grande, con scale che scendevano e scale che salivano, per cui si sentì quasi sperduta. Poi percepì una musica provenire dal piano superiore e salì lestamente, come soltanto un'idea può fare. La musica si faceva più forte e l'idea più curiosa, quindi si affrettò e scorse un'altra porta socchiusa. La spinse. L'idea restò perplessa, come soltanto un'idea può restare (specie l'idea di una bambina, nata nel mondo della fantasia): c'era una bella mamma, seduta davanti a un tavolo bianco, con le braccia incrociate. Ma, se era proprio una mamma, si chiese l'idea (come faceva a sapere che lo fosse?), dove era finito il bambino? O la bambina? Silenziosamente s'introdusse nella mente della giovane donna bionda e sussurrò: - "dov'é tuo figlio?". La giovane donna sussultò, come se qualcuno le avesse parlato davvero e si ò lievemente una mano sull'addome. Poi si alzò dalla sedia e uscì su di un balcone che si era spalancato a pochi metri da lei. In quel momento l'idea si rese conto che c'era un cagnolino, biondo anche lui, fuori il
terrazzo, che si gettò festosamente sulle gambe della padrona: aveva fame. La donna lo accarezzò sulle lunghe orecchie e lo condusse in cucina, poi gli mise davanti una ciotola di cibo e l'osservò mentre, scodinzolando felicemente, mangiava di gusto. L'idea restò delusa: non aveva avuto risposta. Quindi s'insinuò di nuovo nella mente della mamma per ripetere la domanda e la donna sembrò di nuovo colpita dall'idea. Scosse la testa e si diresse per le scale che portavano al garage. C'era una bella auto, molto grande, ma lei non la guardò, per uscire in giardino. L'idea neanche si meravigliò (come sono volubili, a volte, le idee...), che fuori adesso fosse giorno e splendesse un caldo sole, mentre, quando aveva "creato" la finestra c'era la luna. Seguì la giovane donna e si tolse le scarpe e le calze (che aveva bianche), per mettere i piedini sulla terra coperta d'erba verde. Carezzò il ramo di un albero, poi i petali di un fiore, sempre seguendo instancabilmente quella ragazza che eggiava per il giardino. Pure, nella sua testolina di idea, la domanda restata senza risposta continuava a disturbarla, per cui, senza nessuna educazione (le idee non sempre l'hanno), s'insinuò di nuovo nella testa della donna ponendole la domanda:-"Tuo figlio?". Neanche si accorse di come quella domanda avesse di nuovo fatto sussultare la donna, che stavolta sembrò davvero agitata. Ritornò sui suoi i, risalì le scale ed uscì di nuovo all'aperto, sull'altra porta che l'idea neanche si era resa conto di avere creata: era arrivato un uomo. L'idea lo trovò simpatico. I due cominciarono a parlare tra loro, raccontandosi i fatti della giornata e il nuovo arrivato tolse dalle mani della moglie (sì, l'idea comprese che fosse il marito), un contenitore pieno d'acqua con cui lei voleva innaffiare una pianta in casa, dicendole:-"lascia, faccio io". Lei sorrise, ma con un sorriso che non sembrava proprio allegro, dicendo: -"va bene... "- Poi rientrarono entrambi. La piccola idea si era fatta sempre più vivace. Oramai, padrona di quella casa, costruiva di qui e di lì tutta una serie di oggetti: posacenere, vasi da fiore, una porcellana, un'intera cucina con i mobili, le sedie, un altro tavolo e piatti, stoviglie... e chi la fermava più? Costruì gli sguardi dei due coniugi mentre cenavano assieme (intanto nel mondo delle idee si era fatto sera), quindi non si meravigliò, avendo pensato anche ad una grande televisione e comodi divani, che i due si sedessero a seguire un programma inventato sul momento dall'idea. Il paese della fantasia della bambina, a cui l'idea apparteneva, era davvero meraviglioso e vi si trovava di tutto, benché la bambina neanche conoscesse tutte le cose che l'idea realizzava. Ma, essendo in una favola, non possiamo meravigliarci del fatto che sia l'idea sia la bambina, sapessero più cose di quante dovessero sapere. A questo punto l'idea però decise di provare di nuovo a porre la domanda alla giovane donna, la vide
particolarmente pensierosa e s'insinuò di nuovo nella sua mente dicendole:"dov'é il tuo bambino?". Non restò affatto stupita quando lei sussurrò in risposta: -"L'aspetto, chissà che stavolta non arrivi davvero"- E l'idea seppe che la bambina a cui apparteneva, forse sarebbe realmente nata sulla terra.
Dio mio.
Dio mio, ammesso tu ci sia, se sei quello del vecchio testamento, non sei un Dio completo: commetti errori, ti penti, sei crudele, vendicativo, uccidi. Non se il mio Dio. Adamo, l’hai lasciato tentare da un’imperfetta Eva, che ci ha fatto nascere macchiati di un delitto non nostro. Caino lo hai creato, sin dall’infanzia invidioso e crudele e noi siamo figli di Caino perché è restato vivo. Hai cancellato Sodoma e Gomorra come con Hiroshima e Nagasaki
ha fatto l’uomo. Hai inondato di acqua quella terra testè creata, salvando pochi, ma tanta, tanta gente, l’hai annegata come nella tragedia del Vajont. Sei tu che hai fatto l’uomo come colui che ha ucciso Jara, o l’uomo che ha accoltellalo la moglie ed i suoi figli. Accade tutto questo perché noi siamo figlioli di Caino? Mia auguro invece, tu sia il padre di Gesù, del nuovo testamento che porge l’altra guancia e comprende il perdono… ma sempre misterioso resti Tu che permetti, che l’uomo uccida l’uomo.
Schegge.
A lei toccava cercare radici, raccogliere semi e frutta cadute dagli alberi più alti. Gli uomini andavano a caccia. Lei era “femmina”, cosa che, appena divenuta ragazza e, quindi anche fertile, aveva rappresentato, ad ogni ritorno della luna piena, trovarsi macchiata di rosso, sporca. Aveva anche significato, ma questo sin da piccola, assistere le donne che facevano nascere un nuovo individuo, tra urla e dolore. Gli uomini, invece, si allontanavano da tutto ciò, perché loro con quelle miracolose apparizioni di nuovi maschi e femmine, non c’entravano per nulla, non ne erano, in effetti, responsabili. Si allontanavano, sì, ma non dalle donne, appena queste fossero divenute fertili. Sembravano sentirlo dall’odore e si distraevano mentre ricavavano dalle grosse schegge di pietra strumenti per la caccia. Schegge, più grandi, che divenivano sempre più piccole ed appuntite ed altre, minuscole schegge, che volavano intorno alle mani forti, adatte a battere le pietre. Intelligentemente, perché erano divenuti sapiens sapiens. Era un lavoro, di solito, lasciato agli uomini più anziani o feriti e meno adatti ad affrontare gli animali fuori delle grotte. Da bambina ava ore ad osservarli. Seguiva in silenzio, badando a non disturbare, l’andatura un po’ sghemba di Ongo, che cercava intorno materiale adatto allo scopo. Dovevano essere rocce di una certa durezza, tale da potersi usare come strumenti di difesa e di attacco con le grosse belve dai denti lunghi, sulla punta delle lance, ma anche per scuoiare gli animali e ricavarne pelli. Le donne ripulivano le pelli dal grasso e dai residui e ne confezionavano indumenti, inoltre tagliavano la carne, staccandola dalle ossa. Inguto (questo era il suo nome), era stata sempre molto curiosa rispetto alle schegge di pietra: alcune erano bellissime, avevano venature colorate, altre erano morbide e potevano essere più facilmente lavorate, ma non risultavano utili per nessuno scopo pratico. Ongo le osservava, le batteva sulle rocce, le scheggiava e poi, per alcune di esse, decretava l’inutilità e le lasciava cadere. Erano proprio quelle dal colore più vivo e Inguto le raccoglieva per sé. Né Ongo, né Inguto sapevano di vivere nei Carpazi e che quel luogo in un tempo infinitamente lontano da loro si sarebbe chiamata a "Pestera cu Oase" (che in rumeno significa
«cava di ossa»). La caverna era stata dipinta con i colori della natura dal grande mago Timango, per aiutare gli uomini nella caccia. Ma a lei piaceva intagliare piccole figure umane ed altri oggetti nelle rocce e nelle ossa, ed aveva appreso osservando Ongo, seppure con finalità differenti. Lei era una femmina moderna ed oltre a ciò che risultava essenziale per l’ordinario, aveva un cervello adatto all’immaginazione. Ecco perché vedeva (come secoli dopo avrebbe fatto con più grosse schegge il grande Michelangelo), vedeva, dunque, in quelle piccole pietre, l’oggetto che vi avrebbe tirato fuori: una figura femminile dai grandi seni ed il ventre gonfio di un nuovo nato, per apportare fecondità alla terra, ma anche un animale agile come quelli che gli uomini cacciavano e le cui corna divenivano utili strumenti. Oppure, nei gradi denti degli animali più pericolosi Inguto ricavava pettini, da inserire come abbellimento, tra i capelli, dopo averli usati, con metodo, per renderli più docili e fluenti. Perché Inguto era divenuta bella. Era divenuta adulta. Un giorno, specchiandosi nel piccolo lago d’acqua vicino alla caverna, oltre al proprio volto vi aveva visto quello di un uomo che non era della tribù. Si era girata di colpo: ma dietro di lei non vi era nessuno. Lei viveva assieme a quella che si potrebbe oggi definire “famiglia allargata”, in un gruppo di non più di venti elementi. Da poco erano venuti al mondo e periti due cuccioli di uomo, cui le madri non avevano potuto dare il latte e che erano stati lasciati a morire nel fondo della grotta, sotto le pitture parietali; ma i corpi erano stati coperti perché i loro canidi frutto delle prime forme di addomesticazione, non li divorassero. Poi lo rivide, mentre si bagnava per levarsi via dalla pelle la polvere che si era procurata nel lavoro con le pietre. Lui l’osservò: trascinava dietro di sé una grossa preda. La guardò fisso e lei uscì dall’acqua senza vergogna e senza paura. Sapeva che il maschio giovane e sano cercava una compagna e l’avrebbe acquistata dagli altri con l’animale cacciato. Così fu. Ma gli uomini del villaggio preferirono restasse con loro: avevano bisogno di donne e di nuovi cuccioli d’uomo. Divennero una coppia ed ebbero uno spazio per loro e Inguto fece un focolare di pietre e vi accese un fuoco e restò a far sì che non si spegnesse, sempre lavorando le sue schegge colorate. Poi la sua pancia crebbe come la sua fame. Amobo, il suo uomo, le procurò il cibo e le accarezzò l’addome ogni sera, pronunciando il nuovo nome: Amoto. Voleva una femmina. Invece, nacque Boto e lei urlò per molte ore senza che lui si allontanasse come facevano gli altri maschi e poi lo pose al seno e il piccolo trovò latte per la vita. Amobo l’osservò con stupore, prese le piccole dita delle mani tra le sue e rise quando Boto le strinse, con lo stesso orgoglio che avrebbe avuto per una grossa preda e poi si batté la grande mano sul petto e disse qualcosa cui oggi daremmo il significato di “mio”. Inguto fece al piccolo un giaciglio di foglie e gli mise al collo una sottile pelle cui aveva attaccato la scheggia più colorata e bella che
aveva trovato: era del colore del sangue e sembrava brillare nel buio. Ne aveva una anche per il suo grande e forte compagno e sorridendo lo costrinse ad abbassare il capo per argli al collo la pelle che la sosteneva. Lui l’osservò perplesso, poi sembrò comprendere che quella scheggia, così come quella che splendeva al collo del cucciolo, erano il segno dell’amore che la donna aveva per lui e per la prima volta in quella caverna si vide un grande maschio adulto versare una lacrima, una sola, per la gioia.
All’ombra dei cipressi?
No: io non voglio essere all’ombra dei cipressi: sarò altrove. Se non fantasma errante, resterò nel pensiero di chi amai se vivo ancora. Sarò polvere dispersa al vento e particella infinitesimale del momento, dell’eterno fluire della vita. No: quando sarò partita oltre il tramonto mio, altre albe vivrò non mai vissute e per favore, se davvero m’ami
tu che mi amasti sai che mai sarò chiusa in una bara e non ritroveranno le mie spoglie amara ricordanza di una vita vissuta, in cui cercare un volto che non c’é. Se m’ami, un giorno, trovalo impresso in te.
Al di là dello steccato
Gli zoccoli risuonavano forte colpendo il terreno nel bosco deserto. -" Questa volta ho proprio sconfinato" - rifletté Valentina. Ma era davvero arrabbiata e aveva deciso di ignorare l'eterna raccomandazione di sua madre. A cavallo, sì, puoi anche andare nel territorio accanto alla strada, ma non superare mai la linea di confine dello steccato. E’ pericoloso, davvero pericoloso, quel luogo. Valentina aveva nove anni e un puledrino dal mantello color miele, cresciuto quasi con lei, che amava alla follia. In quel momento, udendo il ritmico e veloce rumore degli zoccoli, si rese finalmente conto che stava correndo troppo e che il suo animale, eccitato dalla velocità, aveva superato d’un salto quel famoso confine datole da sua madre. Aveva sempre un'espressione spaventata, quando ne parlava: un che di paura che le rendeva persino la voce più roca. Mansueto era sudato. Lei si era fatta troppo grande, sapeva bene che a breve avrebbe dovuto rinunciare a montarlo per lunghi percorsi. I cavalli erano intelligenti, sapevano riconoscere se era il caso di galoppare o mantenere il o: e Mansueto, anche se avvezzo a percorsi difficili, sembrava stanco. Anche Valentina era tentata di fermarsi, ma la sgridata ricevuta un’ora prima dalla madre le risuonava ancora nella testa, spingendola stizzita a proseguire. Il bosco, intanto, era divenuto più nero, fitto: le fronde degli alberi colpivano con violenza i fianchi dell’animale e le sue gambe strette attorno ad essi. Iniziò a sudare: gocce calde le scivolavano giù dai capelli e dalla fronte, s'insinuavano nelle sopracciglia e negli occhi, finché non poté fare a meno di chiuderli. Fu un attimo: qualcosa di duro la colpì alla fronte, vide come al rallentatore il cap saltarle di testa e… Si ritrovò in terra. Girò lo sguardo intorno, cercando dove fosse finito l’animale,
ma non vide né lui né il bosco: si trovava in una strana radura di un verde , dove l’orizzonte non mostrava più traccia della foresta che stava percorrendo momenti prima. Momenti? Provò ad alzarsi, preoccupata di essersi fatta del male, ma no, stava bene, anzi, si sentiva stranamente leggera. Guardò verso l’alto, al cielo di un azzurro tersissimo. - "Sei Valentina, vero?"Sussultò e vide alle sue spalle una ragazzina più o meno della sua età. A pensarci bene: da dove era spuntata? Come sapeva il suo nome? –"Sì, mi chiamo Valentina, come lo sai?"L’altra sorrise un po’ di sbieco con la bocca a forma di cuore, che per un attimo le ricordò un’altra bocca, ma non riusciva a ricordare di chi. -"Oh, beh, in effetti siamo parenti. Mi aspettavo che un giorno o l’altro ci saremmo incontrate"-" Parenti? In che senso? Come ti chiami?"-"Livia. Non preoccuparti, vedrai che tu tornerai indietro…"- "Indietro dove?"- "A casa. Per adesso starai un pochino con me, ti terrò compagnia. Lo so che hai ato il confine senza neanche rendertene conto…"- "C’era uno steccato, l’ho visto il confine."- Precisò in risposta. - "No, non lo si vede affatto. Io, quando l’ho ato, neanche l’ho realizzato. Ci ho messo un bel po’ a capirlo."- "Eri anche tu a cavallo?"- si accorse che indossava gli stivali da equitazione. - "Sì, a cavallo. Eppure mia madre me lo aveva detto che dirigermi nella parte del bosco più buia era un pericolo. Non l’ascoltai."-" Neanche io ho ascoltato mia madre! Ma non vedo che fine ha fatto il mio
cavallino. Si chiama Mansueto."- "Sì, pure io non ho più ritrovato la cavalla che mi aveva condotto nel bosco. Avrà continuato la sua corsa, sarà tornata indietro senza di me e qualcuno l’avrà vista. Così mi hanno cercata ed anche trovata, ma avevo oramai ato il confine..."- "Che esagerazione! Quante storie per uno steccato! "- proruppe alla fine Valentina. Solo in quel momento si accorse che la sua parente aveva uno strano segno, come un livido, che le attraversava la fronte. La fece rabbrividire, accentuando il mistero di quella situazione: quel prato immenso al posto del bosco, la caduta che l’aveva lasciata illesa, il cavallo scomparso. - "Cos’hai sulla fronte?"- "Sono caduta di cavallo urtando un ramo, proprio come te. Mia sorella me lo aveva detto, anche la mamma, ma io non le ascoltai ed ecco il risultato" - disse la bimba sorridendo, mentre si ava una mano sul volto toccando l’impronta bluastra. - "Mia sorella vedrai che ti trova, e tornerai a casa con lei. Dille che le voglio tanto bene e ti ho fatto compagnia."- "Ma che dici? Tua sorella? Io debbo trovare il cavallo e tornare a casa altrimenti la mamma…"- L'altra non le lasciò terminare la frase: -" Tua madre sta già venendo da te. Il tuo cavallo è tornato a casa e a momenti arriverà. Salutala per me."E fu mentre ascoltava queste parole che uno strano ronzio sembrò insinuarsi nelle sue orecchie. O forse no, non era un ronzio, erano parole. Poi si sentì scuotere, molto forte, tanto che chiuse gli occhi e li riaprì nello sguardo della mamma che sembrava terrorizzato. - "Valentina! Valentina, rispondimi!"La bambina sorrise. La testa le doleva maledettamente. La madre l’aveva raggiunta a cavallo, aveva con sé anche Mansueto. E oltre la sua figura, vide di nuovo il bosco, quello in cui si trovava prima di cadere.
– "Mamma, Livia mi ha detto che saresti arrivata. Mi ha detto che ho ato il confine, proprio come lei, ma che sarei tornata a casa."-" Livia?" - vide la madre cambiare sguardo. - "Livia, chi?"- "La ragazzina che è caduta, proprio come me. Ha battuto la fronte: aveva un livido nero. Mi ha detto che sua sorella mi avrebbe trovata e che dovevo farle sapere di essere stata con lei. Ma chi è la sorella?"- "Sei stata con Livia?" - chiese affannosamente la donna. - "Sì, anche lei era vestita da amazzone, e..."Non era preparata ai singhiozzi materni, invece sul volto della donna sembrava essere scoppiato un temporale. -" Livia, la mia sorellina, cadde da cavallo proprio in questo bosco"- sussurrò, come rivolta se stessa -" Io avevo sedici anni, lei nove. Il suo cavallo tornò indietro senza di lei. E la trovammo, sì, la trovammo... ma oramai era morta."Mentre le due figure si abbracciavano tremando, sul bosco calarono le ombre.
Cambiamento
Tu, volto giovane di mio nipote, viso nuovo, già ricco di personalità, sei il cambiamento. Sradichi, con il tuo sorriso infantile le vecchie storie, gli asti, le acredini sospese nel tempo. Sradichi, con le tue movenze ancora incerte le vecchie glorie del ato, nude ormai di sogni e di ragioni. I tuoi genitori, gli zii, le zie, son diventati mondi del ato che ti accompagnano nel presente e noi nonni, vecchi zii, già vissuti della nostra vita,
mausolei di ricordi divenuti polvere. Quanta gioia mi da Il tuo sorriso forte, quanta gioia, il tuo pretendere una vita che non sia quella, giusta o sbagliata, che vivemmo noi, canta, sorridi, pretendi godi, affronta il tuo futuro come un guerriero cui fornimmo l’armi noi. E’ la mia gioia, quel tuo modificare il nostro presente e con il tuo futuro relegare il ato dove è giusto che sia: in un ricordo dolce amaro da tenere caro ma da accettare come già finito.
Vigevano
L’aurora rischiarava le sagome dei palazzi della città. Iniziava ad albeggiare e una luce brillante rendeva tutto più definito, netto. La notte stava ritirando veloce il suo buio, come se il sole prepotente volesse scacciar via le tenebre. Elena socchiuse gli occhi e respirò a fondo l’aria ancora frizzante della notte. “E’ ora di muoversi”, disse. Ma non ne aveva nessuna voglia. Andò verso lo specchio nel piccolo bagno dell’albergo dove si era fermata una settimana e se lo ridisse, guardando se stessa, i suoi occhi che le sembravano come nuovi: - “Dai, Elena, è proprio ora di muoversi."Doveva ritornare nella sua città: Milano. Il lavoro l’attendeva. Si era nascosta al mondo per qualche giorno allo scopo di digerire la sua delusione per il tradimento del marito, ma non avrebbe potuto sfuggire per sempre. Niente computer, reso silenzioso il cellulare, la sorella l’avrebbe data per morta. Ma non le importava nulla. Dieci anni di matrimonio senza figli e poi scoprire che Paolo aveva una donna, “altrove” e che quella donna gli aveva dato un erede: un maschio di nome Marco. Se l’era trovata davanti all’uscita del posto di lavoro (era traduttrice dal Giapponese, per una casa editrice), bionda, esile, dall’aria smarrita, un po’ pallida in volto. Si chiamava Luisa. L’aveva fermata senza troppe cerimonie: “Tu sei Elena?”-“Sì, mi dica…”E lei aveva detto. Di Paolo, della loro storia che durava da tre anni, del bambino nato da sette mesi, che aveva gli occhi azzurri del padre…e… Sì, anche che aveva provveduto a fare le analisi per accertarne la paternità. Poi era arrossita:
-“No, io dubbi non ne avevo, ma Paolo, si sa, avrebbe anche potuto credere che non fosse suo…”- Arrossita fino alla cima dei capelli, che aveva di un biondo tenero. Non era riuscita ad odiarla neanche per un attimo. Soltanto le aveva chiesto: -“ Perché mi dice tutto questo?”. E lei, pronta: -“Perché Paolo ama lei e non la lascerà mai se non sarà lei a lasciarlo”. Già. Non l’avrebbe lasciata. Che dolce marito! Tre anni con un’altra donna, l’attesa di un figlio e, nel contempo, a fare l’amore con lei con la ione di sempre, ad accompagnarla in giro nel suo lavoro in quanto “lui era geloso”. A riempirla di regali: Lui l’amava. Però, per qualche momento, l’aveva assalita l’idea che la donna fosse una bugiarda e che tutto fosse frutto soltanto di una vendetta di qualche nemico di Paolo. Lui, giudice, di nemici ne aveva tanti. Si era illusa unicamente qualche istante. Luisa aveva precisato subito: -“Venga a casa da me, mi perdoni, ma deve farlo. Le farò vedere le foto che abbiamo scattato assieme, vedrà che nel certificato di nascita di Marco c’è il cognome di suo marito.”Ci era andata. Anzi, aveva preso l’auto dal garage ed erano andate assieme, in periferia, fino a Milano tre. Una bella galoppata in auto, con lei zitta ed il tom tom che le indicava la strada. Trovarono parcheggio, entrarono in un portone, salirono nel piccolo appartamento dove viveva la donna e lei vide: le foto del marito assieme a Luisa, il marito con il piccolo in braccio, l’interno della casa con il letto a due piazze e, nell’armadio, la camicia del marito che non le riusciva più di trovare, le calze nei cassetti, gli slip, il sapone da barba nel bagno… Vide. Luisa le camminava a fianco come uno zombi, cercando di comprendere le sue emozioni, scrutandola ansiosamente, come se la sua vita dipendesse da lei. -“Ha il suo numero di cellulare?"- Chiese, con un dolore sordo alla bocca dello stomaco. -“Sì”- Rispose lei. -“Lo chiami”- Lei lo fece, mettendo il “viva voce” e le permise di riconoscere subito la voce vellutata del marito. Lei gli parlò del bambino, disse che a breve sarebbe andata all’asilo a prenderlo. Lui domandò come stesse e promise che in
serata li avrebbe raggiunti con delle pizze ed il latte per il biberon. Logico: sapeva che la moglie, quella sera, sarebbe stata fuori sino a notte per l’incontro con un autore. Era libero. Così Elena aveva compreso che la giovane donna bionda non le raccontava favole. Per scrupolo controllò il numero di cellulare: esatto. Poi l’accompagnò a prendere il piccolo all’asilo: doveva vedere anche lui. Piccolo davvero. Magrolino e biondo come la madre, non assomigliava affatto a Paolo e questo le diede una stupida sensazione di gioia subito sedata. -”Che cosa farà?”. Le chiese Luisa rientrando a piedi verso casa, spingendo nel eggino il piccolo irrequieto. -“Vuole che dica che glielo lascio? Non sono certamente io a decidere. Io posso decidere soltanto di lasciarlo perché l’uomo che lei ama io non lo conosco. E’ un’altra persona. Dovrò lasciarlo per forza, ma poi sarà lui a decidere cosa vuole per sé, per suo figlio, per voi due…”-“Lei è una donna straordinaria!”- Sussurrò l’amante del marito. Non poté più restare, girò le spalle e corse a prendere l’auto. Quel giorno non era ritornata a casa e, con i soli abiti indosso, dopo essersi liberata telefonicamente dal lavoro scusandosi per un problema di famiglia, si era allontanata da Milano. Circa una settimana, in un piccolo albergo di Vigevano. Il padre, che aveva sempre potuto permettersi molto, le diceva, da piccola: -“Se hai denaro non ti servono valigie. Compri tutto sul posto”. Così aveva fatto. Quasi cinquanta minuti di viaggio e qualche giorno come il fantasma di una turista ad aggirarsi per le strade, dove le scarpe non mancavano. Ne comprò sei paia. Visitò il Castello Sforzesco chiedendosi se il marito la stesse cercando, disperato. Forse Luisa gli aveva raccontato… forse no. Malgrado il crampo allo stomaco, in quei giorni divorò di tutto nei ristoranti del posto. E bevve spumante. Le piaceva e le rendeva il sonno della notte meno difficile. Visitò la Torre del Bramante, raggiungendo a piedi il punto più alto della città e volse lo sguardo sullo splendido panorama che vi si godeva. Visitò il Piazza Ducale e seguì un gruppetto d'inglesi la cui guida parlava del Bramante che l’aveva progettata e di Ludovico il Moro che ne aveva deciso la realizzazione. Pensò che tanta gente nel tempo era nata, aveva vissuto ed era morta. Pensò che anche lei sarebbe sopravvissuta e un giorno sarebbe morta. Senza lasciare un figlio, mentre il marito… Fu nel Duomo che comprese come fosse giusto lasciare a Paolo la decisione. Non avrebbe potuto farlo lei.
Così, quell’ultimo giorno, riprese in mano il cellulare che trovò pieno di telefonate del marito e messaggi disperati, sempre di lui. Lo chiamò, schiarendosi la voce, prima di rispondere al suo: -“Pronto, Elena, dove sei? Stai bene?”- “Sono a Vigevano, rientro questa sera. Ci vediamo a casa. Dobbiamo parlare.”-
Altrove.
Ciascuno ha il suo “altrove”, laddove lascia momentaneamente, il proprio porto per vagare in mari sconosciuti. Un altrove che può durare poco, o perdurare ma comunque conduce a abbandonare il solito tran tran che incute sicurezza, perché chiamato “altrove”, anche se con periodi alternati ad un ritorno al solito.
Impegnati in un sogno da realizzare, in un conforto da offrire in un fine di cui si può far parte marginale, ma essenziale, si resta “altrove” e a chi “ci perde un poco” non si può che chiedere di saperci perdonare.
Il burattino.
C’era una volta (anzi, c’erano una volta e ci sono ancora),tanti e tanti anni fa, una giovane donna che compiva diciotto anni ed una mamma non più tanto giovane che le regalò uno strano burattino. Strano, perché fu acquistato in strane circostanze e misterioso, in quanto capitò nelle mani della mamma in particolari situazioni di vita. Il burattino (che era un bel pagliaccio), aveva, come tutti i burattini, dei lacci che lo legavano ad un elemento in legno destinato a farlo muovere a piacimento di chi lo stringesse in pugno. Aveva anche un bel faccino di porcellana, dall’aria allegra e non sopportava troppo i legacci. Fatto sta che, fosse perché le corde erano in una sorta di nailon, fosse perché i nodi non tenevano bene, quei lacci si slegavano di volta in volta, uno alla volta, dal legno cui erano legati e la mamma, di volta in volta, ristabiliva quei nodi. Ma poi si disse:- “perché legarlo di nuovo se lui si scioglie?”- Per cui, quando si sciolsero di nuovo i nodi, uno alla volta, non li rifece. Il burattino, soddisfatto, si disse libero. In realtà anche la figlia e la madre, trovarono che i nodi che le legavano a noie e problemi, si risolvevano un po’ alla volta ed anche loro cominciarono a sentirsi sempre più libere, un po’ come il burattino. Oggi la padroncina del burattino-pagliaccio compie gli anni. Quanti? Chiedetelo al pagliaccio che le fa compagnia mentre studia. Di una cosa lui la rassicura, silenziosamente, tenendo tra le mani il legno che un tempo lo legava: - “Vedrai che i nodi della tua vita, che incontrerai sul tuo cammino, si scioglieranno, uno alla volta come quelli che legavano me alla necessità di ubbidire alla volontà di un burattinaio.”- E, silenziosamente, aggiunge oggi:
-“Auguri per il tuo compleanno, Valentina!”-
Dedicata a Jane Austen
Mia Cara Jane, lontana dal mio tempo, ma non dal sentimento e l’emozione, non penso la tua vita ti abbia dato ciò che cercavi con il fiato e la ragione. Non penso: le eroine dei tuoi film fatti con l’intuizione e l’ironia, hanno alla fine vinto le battaglie, placato l’animo coi desideri vinti ma ciò non fu per te, amica mia. Film: non d’immagini di celluloide, ma fatti di fantasia ed inchiostro, scritti e poi da qualcuno realizzati. Storie di donne che non eri tu
a cui l’amore, invece, fu negato. Non tu, cui il tuo Thomas rinunciò in quanto preda di un altro destino, tu, le cui notti non rallegrò l’amore ed il calore di un altro respiro. La tua gioia, cara Jane, l’hai cercata e l’hai trovata, nei tuoi personaggi. L’hai regalata a noi, ricca di vita, di quella che a te stessa fu proibita. Non posso che abbracciarti, col pensiero come la perla di una immensa collana fatta di donne tutte come noi, che han combattuto i propri e gli altrui errori, immerse in tanti tempi differenti con un unico grande filo a unirle: il tentativo di essere se stesse e vive l’amore e la ragione, cui intorno il mondo tenta di fermare
l’arte, l’ardore, la forza e la visione.
Breve ritorno.
(Viaggio nel ato)
"Ciao, ci vediamo alle tredici davanti al portone della Clinica Ortopedica...” Disse Ed a Michela. Edmondo, detto Ed, laureatosi in medicina e chirurgia, stava ulteriormente specializzandosi nella sua branca chirurgica: quella di ortopedico, e per conseguenza seguiva i corsi e operava al Policlinico di Napoli. Affidata la piccola Fiammetta alle cure della nonna, Michela aveva seguito il marito in un breve ritorno nella sua città allo scopo di ritrovare un po' le sue radici. "Dove andrai in queste ore?” Chiese Ed nel congedarsi da lei con un bacio sulla guancia. "Non so. Farò un pellegrinaggio sentimentale per la città... e credo che spenderò qualcosa in follie!" "Divertiti!” La incitò il marito con un sorriso, dopodiché lei si allontanò a o svelto verso il centro. Aveva ventisette anni e tornava nella sua città dopo un’assenza di circa un anno, ma non provava una vera e propria nostalgia di quelle strade che pure ricordava così bene come scenario della sua fanciullezza. L’unica, profonda nostalgia che sentiva nell’animo era per il padre, anzi, per il ricordo di lui che quelle strade, quelle case, ogni particolare della città e l’aria stessa di Napoli sembravano riportare violentemente alla luce. La vecchia casa paterna stava per essere venduta, il contratto sarebbe stato firmato a giorni e dopo quella formalità altri avrebbero occupato le mura abitate per tanti anni dalla sua famiglia. Nel pensare a questo Michela infilò la mano in una tasca della giacca e qualcosa tintinnò. Quel qualcosa, ora stretto nella sua mano si rivelò per essere un gruppo
di chiavi. la giovane donna le espose alla luce per osservarle e riconobbe in esse le chiavi della “sua” casa. "Che strana combinazione!” Pensò. Nello stesso momento la sua direzione fu decisa. " Buon giorno signurì !” La salutò cordialmente il portiere dello stabile non appena ella si fermò ai piedi delle scale che portavano all’interno del palazzo. Nulla era ovviamente cambiato: le belle mura antiche ricche di storia, i ballatoi ornati di piante, le enormi finestre e gli alti balconi dalle persiane verdi e in alto il riquadro del cielo di un azzurro intenso. "Come state, don Pietro?” Chiese Michela in tono gentile. "Bene, grazie. Siete venuta a prendere qualcosa? Volete che vi aiuti?” Domandò il portiere. "No grazie, salgo soltanto a dare un ultimo sguardo prima della cessione.” Spiegò la ragazza. Poi entrò nell’ascensore. Si sentiva estremamente commossa nel rivedere quei luoghi che aveva abbandonato dopo la improvvisa morte del padre e fu assalita da un senso di timore inspiegabile misto a voglia di fuggire. Malgrado ciò, giunta al piano, diede uno sguardo alla fila dei balconi interni dalle persiane serrate del secondo piano e poi rialzò il volto per fissare il buio dei vetri delle finestre del terzo piano che erano state lasciate aperte chissà da chi. Non s’intravedeva ovviamente nulla e la casa naturalmente appariva silenziosa e tranquilla. Eppure, nel far girare la chiave nella serratura, un freddo senso di paura la avvolse, raggelandole i movimenti. -” Che mi succede?”Si domandò con angoscia Michela, restando ferma per qualche istante con la chiave nella serratura. Attese e poi infine si decise a dare uno strappo alla chiave e in quel momento la porta si spalancò. "Sono tornata a casa” Si disse. " Casa... casa... casa..." Una voce dolce sembrava parlarle all’orecchio. A occhi chiusi ascoltò i rumori della casa, la sua voce fievole e conosciuta e quella limpida di suo padre che la chiamava con affetto:” Michela!”
Aprì gli occhi smarrita, annebbiata, sorpresa. Suo padre la fissò con un’urgenza strana nello sguardo, come se temesse di vederla fuggire. "Papà!” Sospirò lei, facendo un o avanti, come per abbracciarlo. La dolcezza ironica degli occhi neri l’avvolgeva, la figura alta, l’atteggiamento sicuro di quell’uomo così conosciuto e amato sembravano riscaldare le pareti, far sparire la polvere dai mobili miracolosamente tornati al loro posto. Il vecchio, enorme orologio a pendolo dell’ingresso mandò un sonoro:- Dong... Dong... Dong...” e lentamente suonò le dieci. "Non è possibile che..." Disse incerta Michela. " Cosa non è possibile? Sei pallida, non stai bene?” Le chiese con ansia suo padre. Lei osservò il suo viso: com’era stato sobrio e austero, come era stato... "Sei tornata presto! Non ti aspetta dall’accademia prima delle dodici. Ma cosa hai? Sembri strana, come se fossi ammalata, oppure..." "Oppure cosa?” Chiese lei fissandolo assorta. "Oppure cresciuta, mutata..." Rispose lui, sorpreso dalle sue stesse parole. "Semplicemente non sto bene. Siamo in autunno, ma fa ancora tanto caldo e si fatica a ricordare che l’estate sia finita..." "Capisco” Rispose lui, scostandosi per lasciarla are. Nello sfiorarlo Michela ebbe un brivido di paura. Non capiva più niente di ciò che le stava accadendo: la vita, la SUA vita, che aveva appena lasciato fuori dall’uscio, la incitava a girare le spalle e fuggire, ma un’altra vita, quella in cui miracolosamente si ritrovava a vivere, la teneva prigioniera. "Stenditi un po' sul letto, ti farà bene un sonnellino prima di pranzo.” "E’ una buona idea, riposerò” La porta della sua stanza aveva il solito difetto alla serratura e lei spinse un po' per entrare; sulla carta da parato verde il suo sguardo incontrò subito il ritratto a olio di Edmondo dipinto anni prima.
"Che ci fa qui quel quadro? Chi l’ha riappeso sulla parete?” Quasi urlò Michela, facendo un o indietro. "Ma cosa dici? Lo ha appeso Edmondo appena ieri sera! Possibile che non ricordi?” "Ieri? Ma che giorno è oggi?”-Chiese lei ansiosamente. "Lunedì 12! Avresti bisogno di un calendario nella tua stanza e forse anche di una cura ricostituente. Sei così pallidina!” Nel dire questo il padre prese una mano di Michela tra le sue e sorrise mestamente fissandola negli occhi. Dio mio, quel gesto! Come ricordava quel gesto! ”Papà!” Sospirò quasi Michela nell’abbracciare il padre con immenso affetto. "Ma tu tremi!” Osservò lui preoccupato. "No, non è nulla. Forse un po' di febbre..." "Sei invece così fredda. Non sembrerebbe. Da dove vieni?” "Vengo dall’altra parte dell’uscio... ho camminato tanto, sono stanchissima.” "Riposati allora. Fermati nella tua stanza e dormi, quando ti sveglierai verrai su a pranzare..." "A pranzare?” Chiese lei con un soffio di voce. "Ma sì, per le tredici mamma avrà preparato, penso..." "C’è anche mamma su?” “No. E’ uscita. Deve essere andata a fare spese, dovresti saperlo. Sei proprio strana oggi..." "Sì, anch’io mi sento strana, papà... ma sono tanto felice di essere con te.” "Come mai così espansiva? Qualche dispiacere con Ed?” "No, nulla del genere, siamo felici e Fiammetta..." "Fiammetta?” Interrogò lui, come spaventato.
"Nessuna Fiammetta... no! Ho sbagliato... non era ancora nata quando tu..." Di colpo smise di parlare. Proprio in quel momento, mentre restava ferma con le mani in quelle di suo padre, così vicina a lui, affettuosa come mai le era riuscita di essere... in quel momento dunque, le prese una nostalgia struggente, terribile, della sua bambina di tre anni.”"Non posso!” Quasi urlò, tirandosi indietro. "Non puoi cosa?”-Domandò il padre, divenendo triste. "Non posso restare... c’è lei che mi aspetta fuori di qui... ha bisogno di me.” "Lei chi?”-Chiese il padre sempre più triste, fissandola e quindi la calda, dolce immagine venuta dal ato aggiunse ancora:- “ Resta! Dormi! E’ tutto così semplice... ”Tenendole una mano. Si divincolò quasi con furia e raggiunse d’un balzo la porta. "Perché vai via di nuovo? Non sei felice qui con me? Oggi sono a casa..." Sussurrò il padre guardandola con affetto. "Devo andare, papà, sono attesa. Vorrei tante restare con te, ma è troppo difficile tornare indietro e, se mi fermassi qui con te, non saprei più andare avanti. Comprendi?” "No!”-Rispose lui con ione. Ma poi sorrise, di nuovo calmo, come lo ricordava Michela. " Vai, figlia mia, so bene che la strada per te sarà lunga, ma alla fine del cammino ti accorgerai che era in realtà molto breve e ci ritroveremo” Concluse. -”Ciao, papà..." Michela chiuse con forza la porta e poi vi si appoggiò. Che silenzio. Nel compiere il gesto di chiudere a chiave si accorse di averle dimenticate in casa. Ma in quale spazio temporale? " Oramai non posso più prenderle” Concluse tra sé la giovane donna. Se anche avesse bussato, nessuno le avrebbe più aperto quell’uscio. Fece le scale di corsa, in un silenzio pieno di tensione e ò trafelata dinanzi al portiere che la fissò meravigliato: " Ve ne andate già, signurì? Tutto in ordine?” Chiese.
"Tutto come prima!”-Gli rispose di rimando, con un fremito di paura.
Pinocchio non c’è più
dice un “amico”, ma restano presenti nella vita di ciascuno la volpe e il gatto, sempre pronti a fare ciò che compete per poterti imbrogliare. Sono vestiti di panni alla moda e sembrano scorrere nel tempo, si adattano alle esigenze della vita ed hanno una competenza infinita. Pinocchio non c’è più perché il suo naso cresce con le bugie, invece non appare bugiardo quell’amico che ti tradisce e neanche quel politico simpatico, partito a fare soldi
facendo ridere che ha cambiato sistema per far soldi e suda ed urla per far del bene a te. Ma altri non ti fanno neanche ridere e col potere che non gli hai consegnato con un voto ti hanno giocato quel poco di guadagni in busta paga dandoti con la destra un contentino e togliendoti la vita con la manca. Ognuno, gatto e volpe, si assomiglia, in quanto appartenenti alla stessa famiglia. Famiglie di chi sa farsi i fatti suoi facendo credere di farsi i tuoi. Pinocchio, ti rimpiango, burattino di legno che sognavo da bambina
e canticchiavo ai figli nella culla, oggi nel paese dei balocchi ci siamo un poco tutti e rischiamo di diventare tutti un burattino.
Favola moderna
Favola moderna Era una sera limpida e fredda. Una moltitudine di stelle lampeggiava nel cielo oscuro e la campagna all'orizzonte dl confondeva con esso. Tre ombre camminavano; in quella notte, colpendo con le lunghe vesti le erbe. La stoffa pesante le impacciava e sulle loro teste non battevano i raggi della luna. erano l’invidia, l’incomprensione e la sete di denaro. L’invidia si guardava intorno continuamente, verde nel volto dalle labbra strette. L’incomprensione taciturna e grigia, camminava più in là, guardando a terra. La sete di denaro portava sulle spalle un sacco, pieno delle “piccole cose che riscaldano l’animo”: Il canto di un uccello, la prima parola di un bimbo, un soffio del vento di primavera. Ma lo teneva ben chiuso e non ci guardava mai dentro. Essa camminava curva sottobraccio all’invidia. Avevamo ato le ore del giorno in grande compagnia. In molti luoghi erano state presenti ed avevano potuto trovare lavoro. Ora che il sonno degli uomini le rendeva inutili, cercavano un luogo dove sostare la notte. Nel piccolo centro abitato fuori Roma, forse c’era ciò che cercavano. La gente di quel posto non doveva essere tanto contenta di quello che possedeva. Entrarono in un portone, incespicando, torve ed assonnate, salirono a caso alcune rampe di scale e, silenziosamente, penetrarono in un appartamento. Nell’ingresso c’erano pochi mobili, tutto era semplice e senza fasto. Già si apprestavano a compiacersene quando ecco che da un angolo sorse una fiammella rossa, blu e gialla. Era il "calore familiare"che li lambiva di luce. Inorridite, sgusciarono sotto la prima porta che trovarono. Si trattava della cucina. Si fermarono per riprendere fiato, affannando, ma non fecero neanche in tempo a farlo perché da una pentola usci in fretta la pace domestica e sorrise. L’incomprensione non ebbe scampo:- Quel sorriso la distrusse. La sete di denaro allora, tirandosi dietro l’invidia scappò via. Capitarono nella camera da letto, ma, ben visibile nell’aria, sopra i due giovani sposi addormentati e sul loro piccolo"primo nato", splendeva, tutta fatta di piccole sensazioni, la ”comprensione reciproca”. Per di più, dalla culla di vimini sbucò un piccolo genietto dagli occhi lucenti. Egli sussurrò: “Com'é dolce ciò che é mio!” E l’invidia divenne cera sciolta che fu assorbita dal suolo. La sete di denaro, allora cercò scampo nello studio. La
camera era graziosa, ma non c’erano mobili alti e lussuosi. C’erano però tanti libri, e, tra le pagine di tutti danzava lieve lieve la gioia del sapere e del far sapere. La sete di denaro scappò via senza più guardarla e si salvò uscendo di corsa dalla porta principale. Appena fu sul pianerottolo vi trovò accucciato l’odioe, benché ancora spaventata, gli domandò: perché non entri? Al che l’altro, guardandolo irritato rispose con un sorriso maligno:- Qui abitano una coppia di giovani con il loro bimbo, si amano e la pace vi regna sovrana. Nessun genio maligno di noi vi sopravvivrà mai.
Possesso di tutto.
C’è un filosofo intelligente che divide la gente d’avere e di essere. Chi è non è posseduto da nulla è un uomo di libertà, chi molto possiede, assai spesso non possiede il “sé”. Una casa, le mura, il calore, vogliono dire per chi vive di essere rientrare nel caldo tepore di un nido d’amore. Le rondini lo costruiscono spesso assai fragile, ma forte già tanto d’attenderle ancora la successiva primavera. Una casa dove vi sia lo spazio per ascoltare chi rientra a sera ed abbracciare con lui
le nostre e le sue delusioni, la dolcezza o l’amaro del giorno ato. Condividere aria, un odore che è proprio soltanto quello di casa. Una casa non è lo splendore da mostrare alla gente. La ricchezza, magari non vera, da fare invidiare. Da invidiare per quello che penso è soltanto l’amore che si sa donare a chi esce dalla porta di casa e vi torna. Uno sguardo, un sorriso, un invito a lasciare fuori di casa, con la polvere dello stuoino ogni amaro ricordo e trovare, fra le mura d’intorno sollievo e fiducia.
L’età delle favole.
Nata il giorno di S. Bruno, il 6 di ottobre a lei, terzogenita di dieci anni più piccola della prima sorella, misero nome Bruna Valeria. Come per magia mamma Michela si ritrovò giovanissima, per correre dietro a quella piccina che aveva, appunto, bisogno di una giovanissima mamma. E fu un incanto: crescerla, vederla vivere, balbettare, ciangottare, sorridere, conquistare lo spazio intorno a sé, non dormire, piangere (raramente). Un regalo della natura quell'ultimogenita venuta dal nulla. Bruna le regalò giorni di sole e scoperte e lei le insegnò il gioco e il canto come agli altri due amatissimi figli. eggiò con lei, cantò con lei, giocò con lei, divenne piccina con lei, divenne anche fantasiosa e credula. Tornò in casa Babbo Natale, rientrò dai tetti la Befana. Papà scrisse e rilesse con la sua bambina letterine a entrambi. Papà scrisse e rilesse con lei le loro impossibili risposte. Poi Bruna crebbe un po' di più ed assieme a lei cominciò a crescere la capacità di distinguere il vero dal falso, il certo dall’incerto e, purtroppo, ineluttabilmente, il sogno dalla realtà, la favola dalla vita quotidiana. Bruna, che intanto scriveva poesie, disegnava, amava la musica, cantava ed andava a cavallo, pur se puntigliosamente metteva alla prova ogni loro capacità di nascondimento dei doni acquistati e preparati per il 24 dicembre per “Babbo Natale” ed il 5 gennaio per l’Epifania, in fondo in fondo anche razionalmente non credendo, era ostinatamente desiderosa di credere. Cercava per tutta la casa i giocattoli che pensava nascosti dai genitori, ma in realtà non desiderava trovarli. Inseguiva il padre e la madre senza perderli di vista un momento per tema che le sfuggissero e comprassero i dolci per la calza della Befana, ma voleva sentirsi dire che la cara vecchina esisteva davvero. E gioiva nel trovare quei doni, lasciava bigliettini con strane richieste ed elenchi di domande sempre più complesse alla povera Befana, pretendendo foto segnaletiche ed impronte di mani. A Babbo Natale chiedeva ciocche di capelli bianchi, giocattoli sempre più misteriosi di cui gelosamente nascondeva agli adulti la tipologia, pretendendo che il povero “Babbo” le leggesse nel pensiero o che l’ascoltasse la Befana mentre, chiusa in una stanza, li elencava a bassa voce o scriveva lettere che si affrettava a imbucare lei stessa dopo aver chiesto l’indirizzo ai genitori: “Via degli Abeti Bianchi”... ed il numero civico nessuno lo ricordava più. Ogni anno il lavoro di mamma e papà, esecutori degli gnomi e dei folletti, diveniva più
complesso e faticoso; trovavano tuttavia il modo di capire a quale giocattolo fosse indirizzato il desidero della bimba e lo compravano compiendo salti mortali e missioni alla 007. Tutto perché quella piccola che ingenua non era, in realtà chiedeva con i suoi occhi dolci e un po' melanconici, che la si imbrogliasse per bene, per permetterle di credere ancora. Quando compì dieci anni tuttavia si profilò all’orizzonte “l’ultima Epifania”. Mai come era accaduto in ato i genitori si videro inseguiti, controllati nelle tasche e nei pacchetti con cui tornavano a casa quelle rare volte che era loro concesso di restare soli. Bruna, insomma, sembrò intestardirsi a non volere essere più presa in giro. Esasperò il padre, perseguitò la mamma con le domande, chiese insomma, pretendendo la verità, tutto ciò che si potesse sapere sulla Befana : "Dove vive? E’ brutta? E’ vecchia? E’ sposata? Chi è? Dove compra i regali? Chi le da i soldi? Esiste davvero ?” La mamma, più positivista, trovava anomalo mentirle ancora, e allora provava a farla ragionare: " Pensa un po', Bruna, questo Babbo Natale che vede tanti bimbi affamati e non fa nulla... pensa un po' anche alla Befana, possibile che si interessi dei tuoi regali, sapendo che hai mamma e papà che ti amano, e non doni nulla a tanti bimbi senza casa, che vivono magari una vita di stenti in mezzo alle guerre?” Lei non la lasciava neanche terminare: ”Non esistono! Non esistono, è proprio davvero impossibile!” Per poi aggiungere subito: “Mamma! Dimmi una bugia: esistono?”-Al che la mamma le diceva la bugia: ”Ma sì, esistono...” E lei ricominciava: " A scuola gli amici mi prendono in giro! Dicono che sono scema! Mamma, dimmi la verità, esistono?” “No, non esistono!”-Diceva la mamma. E lei si allontanava intristita: ”Non esistono!” Sussurrava tra sé, per poi ricominciare a credere sperando di sentirsi dire il contrario. Un bel problema insomma. Quell’anno comunque non fu possibile nasconderle l’acquisto dei dolciumi per la calza: li scoprì nelle buste, benché fossero stati ben nascosti, come fosse una detective. Li vide e pianse: ”Non esiste la Befana...Perché non me lo avete detto prima?” I genitori persero lo smalto e la pazienza : "Basta! Non ce la facciamo più! Vuoi credere che non esista? Va bene: non esiste!” Erano a corto di argomenti, stressati, pressati, inseguiti e anche indecisi sulla positività di quella favola che doveva pur un giorno trovare un termine. La bimba, malinconica, quel cinque di gennaio si coricò digiuna, ma prima sospirò tra sé :”Allora i vestitini di Barbie non arriveranno affatto!” E la mamma comprese quale fosse il desiderio nascosto fino a quel momento dalla bambina. Così decise velocemente di correre a comprarli, permettendo alla figlioletta quell’ultima santa Befana. Uscì come
una ladra malgrado l’ora tarda e fortunatamente li trovò. Ritornò su nascondendoli sotto il cappotto agli occhi di Bruna che già era saltata dal letto al rumore dell’uscio che si apriva. Li celò poi fuori la finestra del bagno...per prenderli più tardi. Stava quasi per tirare un sospiro di sollievo la povera mamma, ma all’improvviso la bambina, poco prima di crollare addormentata esclamò: " Oltre ai vestitini c’è un’altra prova che ho chiesto alla Befana e crederò in lei soltanto se domattina la troverò nella calza!” A questo punto mamma e papà si guardarono in volto senza più parole: cosa avrebbe mai potuto essere quella ultima cosa? Un altro giocattolo? Una foto? Una lettera? Il problema era irrisolvibile e senza dirselo, entrambi giunsero alla conclusione che per la loro piccina fosse proprio giunto il momento di farla finita con le favole. Bruna era davvero oramai una signorinella e doveva abbandonare per sempre il mondo magico e favoloso dell’infanzia per affrontare la realtà in tutte le sue sfaccettature. Verso le due del mattino mamma Michela silenziosamente aggiunse comunque alla calza con i dolciumi, che Bruna stessa aveva preparato con occhi tristi, i vestitini di Barbie e andò a dormire. L’indomani, come a ogni Epifania vennero però destati dalle grida di gioia della bambina : "Mamma! Papà! E’ venuta davvero questa notte la Befana! Mi ha portato anche la prova che le avevo chiesto!” Avevano sonno i genitori di Bruna, mentre il fratello e la sorella più grande dormivano il sonno degli adulti che non attendono più calze magiche. Tuttavia Michela si alzò, trascinando un po' le pantofole rosse, per vedere con i propri occhi cosa avesse trovato la piccina sotto l’albero, quale fosse insomma la famosa “prova” richiesta questa volta alla Befana. Trovò la figlioletta come frastornata, intenta a stringere tra le manine affusolate e lunghe un qualcosa che a una prima occhiata le parve fieno. Poi osservò meglio e si rese conto che si trattava di rami secchi. Ma no! Era saggina. Un pugno di saggina, di quella usata un tempo nelle campagne per fabbricare le scope. E intanto Bruna le diceva :- Guarda, mamma! Le avevo chiesto di lasciare per me un po' della scopa che usa per volare!” Si avvicinò la mamma per toccare quel materiale dall’aspetto usato e vecchio e costatò che sembrava proprio tirato via dalla scopa della Befana. Chi mai avrebbe potuto indovinare ed esaudire quell’ennesimo buffo desiderio di ragazzina fantasiosa? Tornò allora nel letto matrimoniale la mamma, per interrogare con frasi brevi il papà che sembrava disinteressato ai loro dialoghi e ancora addormentato. Lo scosse un po', ripetendogli nelle orecchie le domande, ma lui appena accennò a un movimento in quella meritata giornata festiva. " Sei stato tu?, Dimmi, sei stato tu a trovare la saggina della scopa e metterla sotto l’albero? Quando? Come?” " Che cosa ho messo sotto l’albero?”Chiese alla fine lui ancora intontito dal
sonno interrotto . "Dai! Svegliati! Hai messo tu il pezzo di scopa...?” “Quale scopa?” “Insomma! Non tentare di imbrogliare anche me! Come hai fatto a capire quale prova aveva chiesto Bruna alla Befana?” Il papà dopo uno sbadiglio che gli riempì la faccia, finalmente parve svegliarsi. Fissò i suoi occhi piuttosto annebbiati in quelli intensi della moglie e sorrise: come sembrava giovane sua moglie a quasi quarantacinque anni, mamma di una terzogenita tanto impertinente! Sorrise dunque, poi tornò ad abbracciare il cuscino girandole le spalle e brontolò : ”Non so nulla di scope, di fascine, di saggine e di richieste! Nulla! Lasciami dormire, per favore... naturalmente l’avrà lasciata cadere davvero la Befana quel suo benedetto pezzo di scopa vecchia!” E detto questo si riaddormentò.
Quante volte nella vita…
Quante volte nella vita lasciamo una strada. Che fosse in salita o la percorressimo lesti, col o felice non conta. L’abbiamo comunque lasciata ed era per noi un cammino intriso di fatti, persone, colore. Il nostro cammino. Quante volte svoltiamo, in un altro percorso… trovando altri visi, altri luoghi, altri amori piccoli e grandi,
da verificare. Le certezze proviamo a condurle con noi nella nostra pesante valigia di sogni, ma più spesso, a cercarle, scartando veloci non le ritroviamo e dobbiamo rifarle. Una fitta di nostalgia, ti può accompagnare a volte per la nuova via, un dolore sordo che, sei non stati attento t’acceca, t’impedisce di scorgere aurore e tramonti da svolgere nei nuovi giorni; t’assale nei sogni il ricordo delle cose perdute, s’intreccia con il presente ti rende affannate le notti
e i risvegli trascinano in sé qualche pezzo di te che abbandonasti per via. Può salvarti, se sai farlo la nuova armonia. Bozzolo da lasciare appeso al muro del ricordo finché non apra le ali la nuova farfalla che sei diventato.
Profumo di cera.
Va bene: era abituata ad essere inseguita da misteriose presenze. In realtà la cosa la tranquillizzava, da un lato: “qualcuno” veniva a dirle, nei modi e nei tempi che poteva sfruttare, di esserci ancora. Di presenze ne conosceva. Da bambina. Di sensazioni, impressioni, sogni, angosce, era stata piena anche la sua infanzia. Pure, a volte, avrebbe voluto essere lasciata tranquilla. La “proprietaria” del bed & breakfast aveva trovato molto bello raccontare a lei ed a sua figlia, che viaggiava, in quell’occasione, con lei, che la stanza da letto in cui avrebbero dormito in quei giorni di soggiorno, era antica, ossia, i mobili, lo erano, provenienti da una vecchia villa in disuso. Vero: primi novecento o qual cosina in più. Sotto i polpastrelli il legno annoso parlava di tocchi di mano, di oggetti posati, di cassetti in cui qualcuno aveva riposto oggetti. L’enorme armadio, dallo specchio antico, incombeva. Il materasso era comodo, ma il letto di legno scricchiolava, di notte, ai suoi movimenti e la luce, che teneva accesa, sempre, perché il buio la terrorizzava dalla fanciullezza, non riusciva a completare gli angoli. Insomma; dormiva male. La figlia rientrava sul tardi, in giro con gli amici nell’estate calda, riguadagnandosi la sua giovinezza e salute. Lei si addormentava senza le sue abitudini ed era inquieta sino al suo rientro. Okay, dunque, nulla di strano che trascinasse in quell’ombreggiatura scomposta immagini e pensieri, ma il vento quella notte, fece il resto: si levò, forte, spostando e trascinando con sé quello che poteva e facendo risuonare ambiguamente ciò che non poteva. Oltre le tre di notte, la figlia, che dormiva da poco, si destò innervosita e prese ad annusare l’aria. Annusò anche lei: un odore intenso di ceri accesi, di fumo denso che veniva fatto di assimilare a quelli, grandi, ardenti davanti alle
immagini sacre o nei cimiteri. Da dove proveniva? Non le riusciva di comprenderlo. Sembrava invadere l’ambiente. Naturalmente, se avessero potuto dire: “ecco, è quel cero a mandare l’odore”, ossia vederlo, tangibilmente, non se ne sarebbero tanto preoccupate. Ma non v’era cero. Le imposte: chiuse, i vetri: sani. Avrebbero volentieri evitato di destarsi completamente, ma la curiosità fu più forte ed accesero le luci accanto al letto. Nulla: niente poteva spiegare. Decisero di controllare, con un poco di nervosismo, fuori della porta. Buio, naturalmente. Da qualche parte c’era la cucina, c’era il bagno e una stanza che fungeva da soggiorno. Tutto tranquillo e l’odore non sembrava provenire da altre stanze. Richio. A chiave. Permaneva. Il vento forse lo portava dentro dalle fessure della finestra antica e dal balcone serrato? Non volevano aprirlo: le folate non si erano calmate e avrebbero certamente aperto le imposte, sbattendole o chissà che altro. Decisero di fingere che non vi fosse nulla di strano e tornarono a dormire. Luci spente, tranne quella che manteneva i suoi fantasmi lontani da lei. Ci volle un poco perché si riaddormentassero e al mattino l’odore era svanito. Facendo la colazione in cucina, ne parlarono con la donna che aveva portato cornetti caldi e preparato il caffè. Nessuna reazione alle loro parole. Quella “nessuna reazione” diede loro fastidio di più che se avesse sostenuto che avessimo avuto una allucinazione olfattiva. Dunque. Finita la storia, quel giorno lei e la figlia presero direzioni differenti: lei non amava il sole (?), no: il sole faceva male alla sua pelle, quindi evitava di andare in spiaggia, anche se, in realtà, quel giorno era grigiastro, ammesso che fosse giusto usare quel termine per descriverlo. Le piaceva girovagare, allontanarsi, conoscere cittadine vicine o meno vicine, che l’attiravano perché ne aveva sentito parlare, o vi era stata. Così si spostò di un poco, facendo un breve percorso per raggiungere una conosciuta cittadina di mare, più grande e ricca e affollata, di quella dove si erano fermate. Trovò, fortunatamente, un posto auto alle spalle del litorale, davanti ad un
cancello, dove non avrebbe dovuto pagare neanche la sosta. Poi, come sempre, prese a vagabondare. Al mattino molte persone, malgrado che il mare fosse decisamente mosso, si trovavano sulla spiaggia, zeppa di ombrelloni. I lidi si succedevano, con gli ombrelloni aperti, i lettini strapieni e qualche coraggioso che si dibatteva tra le onde saltandole. Dall’altro lato della strada e anche sul lato mare, si alzavano molti edifici. Praticamente si trattava soltanto di alberghi, i cui ingressi alternati lasciavano spazio a vetrine, locali zeppi di oggettistica ed abiti che aspettavano la eggiata serale dei turisti. Qualcosa, però, la colpì: una costruzione più bassa, decisamente in rovina, le cui colonnine dei terrazzi sembravano rari denti nella bocca di un anziano. Le finestre, dalle belle forme anni trenta (o almeno questo sembrava a lei),avevano le imposte chiuse e sconnesse, di forma curva nella parte superiore. Dal lato opposto all’ingresso principale, un lungo terrazzo ricoperto di piante, era sostenuto da colonne. Al di sotto c’era l’ingresso posteriore. Sul davanti quello più imponente, con le colonne di lato ed un vecchio portone sconnesso, conservava una cert’aria sontuosa. Intorno c’era stato un giardino curato, un muro elegante che si alternava con cancelli lavorati. Tutto disastrato, ora. Mentre osservava quello strano e solitario edificio, lei s’innamorò perdutamente della vecchia costruzione per cui, se avesse avuto il denaro, lo avrebbe utilizzato per comprare quel residuato di un tempo finito. Certo: abbattendolo e costruendo un altro di quegli alberghi che lo circondavano, avrebbe compiuto un lavoro decisamente più semplice e conveniente. Pure, se avesse potuto, lo avrebbe comprato per ristrutturalo, non per distruggerlo. Sogni. Per compiere una follia così, di denaro ne avrebbe davvero dovuto avere tanto da potersi permettere una stupidità. Fermo restando che ci doveva essere una ragione alle spalle di quell’abbandono: una eredità difficile o una vendita all’asta ostacolata da gruppi di potere economico locale… o chissà che altro. Intanto sapeva di dovere rientrare dove l’attendeva la figlia. Pensò di tornare e dedicarsi, il mattino dopo, alla ricerca di qualche notizia che riguardasse
l’edificio da cui si sentiva così stranamente attratta. IL mattino successivo (la figlia al mare, con gli amici, lei che il sole doveva evitarlo, a causa di una pelle particolarmente delicata), ritornò nel comune per conoscere a chi appartenesse la costruzione. Farlo in modo legale e completo? Difficile, tanto di più per lei che non era cittadina residente: Una visura catastale presso il Catasto, avrebbe previsto il possesso di foglio e particella . Impensabile, al momento. Oppure avrebbe dovuto servirsi di una Visura ipotecaria, ottenuta presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari. Una volta ottenuti i dati dal Catasto, la prassi sarebbe stata complicatissima e assolutamente assurda: a che pro? Si limitò ad interrogare in proposito, con l’aria della turista curiosa (cosa che in realtà era), qualche portiere d’albergo e un paio di ristoratori, senza successo. Intanto aveva percorso un bel tratto di strada, allontanandosi dall’auto, per cui pensò bene di ritornare sui propri i e, in una trentina di minuti, si ritrovò di nuovo davanti alla villa misteriosa. Aveva già notato che, all’interno dei cancelli, davanti all’ingresso, era stata accumulata una quantità non indifferente di materiale, evidentemente vecchi mobili quasi a pezzi, scatoloni e materiale che sembrava fosse stato messo li per lavori di restauro mai effettuati. Un altro sguardo veloce e… si rese conto che il cancello era aperto, così come la porta principale: dall’interno proveniva luce. Forse qualcuno, entrato, dato gli scuri chiusi, l’aveva accesa. Non avrebbe dovuto, ma la tentazione di entrare anche lei e chiedere notizie a chi doveva essere in grado di darle, fu troppo forte. Spinse il cancello, schivò l’ingombro dei pacchi polverosi, salì i pochi gradini e si trovò davanti al portone spalancato. Osservando con una punta di preoccupazione l’ambiente che si apriva al suo sguardo non ebbe modo di fare marcia indietro: una voce squillante di donna, che sembrava essere quella di una ragazza, la interrogò: -“Lo sa che è in ritardo?”-“Cosa?”-“Ci eravamo accordate per le nove e sono le undici.”-
-“Accordate?”-“Ma è da sola? Aspettavo almeno un altro paio di persone. Giovani, forti. Magari anche uomini…”A questo punto comprese che la ragazza (era una giovinetta di non più di venti anni, a guardarla bene, adesso che poteva scorgerla dietro un vecchio mobile che occupava in parte l’ingresso), l’aveva presa per qualcun altro. -“Credo mi abbia confusa con altri…”-“Personale di pulizia, no?”-“No.”-“E allora chi è, perché è entrata, scusi?”-“Mi perdoni, non avrei dovuto. In realtà mi sono innamorata di questa antica struttura. Avrei voluto saperne qualcosa di più ed ho approfittato…”-“Antica struttura?”-“Sì, la villa. E’ così bella e così malandata che…”-“Malandata? Scusi, ma a cosa si riferisce?”Restò perplessa. Le sembrava di avere parlato chiaro e inoltre lo stato dell’edificio non poteva essere definito diversamente. Però, quello che cominciava a stupirla era il fatto che l’interno non sembrasse affatto malridotto come l’esterno. -“E’ una villa abbandonata,no?”- Insistette timidamente. -“No, che dice? Io e mio marito ci stiamo venendo a vivere. Abbiamo bisogno di una governante, di una cuoca ed ovviamente di personale per le pulizie. Sopratutto per i lampadari. Sono antichi e di cristallo.”Vero: quello della sala lo era. Lucente, grande, pur illuminava l’ambiente fiocamente. Le lampadine sembravano vecchie. Neanche quelle di sua nonna avevano quel filino solitario e fragile all’interno.
Guardò meglio la giovane donna e si accorse che vestiva un abito premaman plissettato, calze piuttosto pesanti per agosto e scarpe eleganti dal tacco basso. I riccioli di un bel biondo naturale spuntavano anche da sotto al fragile cappellino con la veletta. Un insieme fuori moda e fuori stagione che la fece sentire sempre più a disagio. -“Bella la villa, vero?”- Disse la sposina in attesa. -“Bellissima, sì…”- Le rispose, facendo un o indietro. -“Il giardino mi ha incantata. Poi: quel terrazzino lungo, con le colonnine di quel bianco accecante…”-“Bianco, accecante? Terrazzino?”-“Ma allora lei non l’ha vista bene! Guardi, le voglio mostrare l’unica stanza che abbiamo già arredata: quella nuziale. Sono mobili in legno che ho fatto fare a mano da un mio amico falegname. Assolutamente deve guardarli. Resterà stupita!”Qualcosa le diceva che avrebbe fatto bene a girare le spalle e, scostumatamente, lasciare la donna, i lampadari e tutto il resto, dietro di sé, ma non poté farlo. La giovane sembrava essere stata presa da un’eccitazione malata, come se avesse fretta di farle vedere quei mobili Come se per lei fosse una cosa di vitale importanza. Quasi la prese per mano, quasi la spinse (in realtà non la toccò per nulla), costringendola a percorrere un largo corridoio e aprendo la porta di un’altra stanza. Fece girare rapidamente un vecchio interruttore nero, di quelli che ricordava avere ancora in casa sua nonna molti anni prima e il lampadario di cristallo diffuse la sua tenue luce nell’ambiente. La camera era arredata, davvero. Caldi mobili di un bel marrone lucido, con le maniglie di ottone, il grande armadio, un lettone alto, coi comodini eleganti ma senza sfarzo. Nuovo. Tutto nuovo, certamente, ma uguale identico a quello che stava usando nel bed & breakfast che divideva con la figlia. Ebbe un brivido. Davanti all’immagine di una Madonna in porcellana era un grosso cero multicolore, di forma strana. Emanava un profumo intenso. Fece quasi un balzo indietro. Prese, camminano all’indietro, la porta della stanza, poi si girò, infilò velocemente il corridoio e letteralmente fuggì oltre la porta d’ingresso che, fortunatamente, era restata aperta.
Fuori, nel giardino sporco, tra gli scatoli ed i mobili malandati, ritornò al suo tempo. Al di la del cancello, sulla strada gremita di persone che tornavano dal mare. Fuori. Guardò la vecchia costruzione cadente senza avere più nessuna voglia di acquistarla. Intanto il portone si era chiuso, così come il cancello (se mai erano stati aperti). Comprese perché nessuno l’avesse più acquistata, o avesse desiderato di abitarvi. Abbatterla. Bisognava abbatterla. Assieme ai suoi fantasmi.
Sei il mio frutto.
Sei il mio frutto, mi dice la foto di mio padre che oggi è un fratello più giovane ed ieri lasciandomi era mio padre. C’è un grande albero da cui siamo nati per genealogia Tanti rami, tutti importanti, lasciati cadere per via. Sei il mio frutto, mi dice il sorriso di mamma, se il seme era buono lo sei, altrimenti, se il seme caduto da me apparteneva ad un albero guasto, chi sei? Sei il mio frutto, ricorda di me ciò che di bello ho effettuato:
l’armonia che diffondevo intorno, la voce allegra, la forza, anche se adesso non torno. Sei il mio seme, lanciato lontano di ramo in ramo, mi dice il cognome che porto, ed ancora, quello che portava mio nonno. Siamo il seme, divenuto ramo, di un albero con molte radici e un fittone che traa i millenni, da non sradicare. E se siamo quello che siamo, nel bene e nel male lo dobbiamo a quei tanti rami di genetica che procede dall’ieri a quest’oggi che pure va via. Quindi ama dell’albero i frutti e difendili dalla tempesta
di parole offensive, preservali dall’ironia che uccide, siamo l’albero da cui procedesti, il seme di chi ci creò quello che ti darà figli ti diede nipoti e la famiglia a cui appartieni è parte di te.
Un volto dal ato
“Tremo”. Mi dico, sorpresa di potere ancora provare emozioni dimenticate. -” Arrossisco ”- E difatti le mie guance divengono calde. Affondo il volto nel folto collo di pelliccia e lo sguardo in quello dolce di lui. Che mi osserva in silenzio. Sembra un momento eterno, ma è invece un attimo, subito spezzato dal suono sempre uguale della sua voce che credevo dimenticata. -” Laura!”- Mi avvicino a lui come ipnotizzata, tenendo le mani serrate nelle tasche del cappotto di pelliccia nero. -”Che cosa ci fai qui?”- Domando in un soffio. Subito le mani lasciano l’asilo delle tasche per raggiungere quelle che lui mi ha teso in un gesto quasi di possesso. -” Ci vivo.”- Mi risponde lui. Poi non parliamo per qualche istante, scrutando l’uno il volto dell’altro, cercandovi il ato di un ricordo senza futuro e il ato sconosciuto del tempo trascorso lontani. -” Hai qualche minuto per scambiare due parole?”-“Sì. Per due parole e per un caffè... ”- Rispondo. Mi prende la mano sinistra e la nasconde nel suo palmo, come usava un tempo. Quasi che io non fossi una quarantenne e lui un uomo di mezza età. Camminiamo tra la folla sconosciuta di Roma, sotto un cielo magico color lilla e nel freddo vivo di febbraio. -” Mi hai dimenticato?”-“Mai, neanche quando m’illudevo di averlo fatto.”- “Mai, neanche io. Dove sei finita per tutti questi anni? Non pensavo che il tuo addio fosse così definitivo:"- “Non era definitivo. Ci siamo ritrovati oggi. Sai cosa facevo per strada? Osservavo i negozi per il secondo abito di mia figlia: si sposa tra meno di un
mese. “-“Tua figlia? Mi fai sentire terribilmente vecchio!”-“Dovrei sentirmi vecchia io... i ragazzi oggi sono peggiori di come non fossimo noi. Pensa che a Gloria non interessa l’abito bianco da sposa: vuole sposare in pantaloni... ”-“Ha ragione lei, cosa vuoi che conti il vestito? Deve essere diventata proprio una bella ragazza. E’ molto giovane, vero?”-” Sì, ma i ragazzi di oggi crescono in fretta... maturano sotto un sole artificiale... ”-" Parliamo di noi.”-“Di noi? Cosa vuoi che si possa dire di noi? Abbiamo avuto un momento magico e l’abbiamo gettato via come se potessimo farne a meno... ”-“Io non volevo buttarlo via!”- Risponde lui. Lo guardo, quasi con rancore e risento in me tutte le ragioni fredde e scontate che mi trattennero un giorno. Ma taccio. Ho vissuto un’intera vita senza di lui e non sono stata felice. -”Sei almeno vissuta felice?”- Mi chiede adesso, quasi che mi avesse letto nel pensiero. -”No, cioè, sì, credo di sì.”- “Rispondo, e la sua mano nella sua diviene fredda di malinconia. Lui la stringe quasi con forza. - “ No, non lo sei stata. Dov’è Matteo? Come sta?”-“Sta bene, ci vediamo di tanto in tanto per discutere i problemi di famiglia.”-“ Vi siete separati?”-“Sono già otto anni, ma non abbiamo ancora chiesto il divorzio. Lui è soddisfatto così.”-“E tu?”- “Io non ho bisogno di libertà, non ho intenzione di ripetere l’errore commesso sposandomi.”-
-“Insomma sei libera da legami seri...”-“Libera, sì, libera di crescere tre figli, di insegnare, di scrivere e di prendermi qualche momento piacevole con un uomo che non amo. Se questa è libertà”- “Fermiamoci un momento. Non riesco a seguire in pieno il filo delle tue parole se camminiamo: ”- Dice lui. Ci sediamo su di un muretto. Alle nostre spalle sporgono dal suolo alcune colonne antiche, illuminate dalla luce dei riflettori. Abbiamo camminato tanto da inoltrarci nella parte di Roma più antica. -” Hai freddo?”- Mi chiede adesso e il suo braccio mi avvolge con dolcezza le spalle. -“ E’ tanto che non mi sento così bene”- Dico convinta. E chiudo gli occhi. La sua bocca si abbassa sulla mia con dolcezza e ci ritroviamo abbracciati e silenziosi come due giovani amanti. -”Perché ho dovuto attendere quindici anni, questo bacio?”- Mi domanda adesso, con gli occhi lucidi di commozione. -” Sembrava tutto così irrealizzabile, allora! Possibile che non ricordi? Tu così giovane, io con i bambini e i miei problemi coniugali. Non ricordi?”-“No. Ricordo soltanto il mio dolore e il tuo e tutte le ore di silenzio e di domande che sono seguite alla tua partenza”-“Soffristi molto? Allora mi sembrava di avere preso l’unica decisione possibile.”-“Già. Anche a me sembrava così. Poi conobbi Luciana. Erano ati otto mesi dal nostro ultimo incontro. Non mi sono mai innamoraoa di lei, ma le ho voluto bene. Mi ha aiutato. L’ho sposata dopo un anno di fidanzamento”- Il silenzio all’improvviso sembrò piombare su di noi. Possibile che non avessi pensato mai a un’altra donna nella sua vita? Che ingenua! -”Dov’è tua moglie adesso? Avete figli?”- “Quattro.”- Mi risponde con un sorriso di soddisfazione. -”Luciana è a Torino, dai suoi. La madre è ammalata e ha voluto restarle accanto per un po'. I due più piccoli sono con lei e Luisella e Franco con me per non perdere la
scuola.”-“Dove abitate?”-“Poco lontano da qui”- Mi risponde con un gesto indicativo del capo. Poi ci fissiamo in silenzio. -” Cambieresti per me tutta la tua vita di adesso?”- Gli chiedo con dolcezza. Ma conosco la risposta. -” No, non lo farei” Afferma sincero. Il suo braccio intorno alle mie spalle diviene all’improvviso un peso insostenibile e non mi riscalda più. -”Non mi aspettavo altra risposta. Una volta per uno dunque. A quanto pare il nostro destino è quello di dirci addio”. Nel pronunciare queste parole mi alzo dal muretto su cui ci eravamo seduti e lui resta fermo, stringendo le mie mani tra le sue, quasi con imbarazzo. -”Non potremo vederci lo stesso? Amarci? Rubare alla vita un momento per noi due?”-“No. Non voglio rubare niente alla vita, è un furto che finirei per pagare troppo caro”-"Perché non avesti il coraggio di lasciare prima Matteo? Magari noi due assieme avremmo potuto essere pienamente felici...”-“Forse, ma chi può dirlo? Rispondo io. Poi ritiro le mani infilandole di nuovo nelle tasche del cappotto, al caldo. E’ un gesto che compio quando ho bisogno di conforto. Si alza, mi stringe a sé con rabbia, con dolcezza, con amore. Soltanto un momento. Ho il volto di ghiaccio. Guardo un istante ancora nei suoi occhi scuri che il destino porta di nuovo lontano con sé, poi abbasso il volto nel pelo caldo del colletto e, girandogli le spalle, mi avvio a i veloci verso il centro affollato di Roma.
Dedicato ad un libro.
Sei tornato a me, ma sei diverso, almeno quanto me mio "interlocutore muto", quanto tu parli, invece e quante cose dici, oggi, che non dicevi ieri quando vagabondavi come una nave senza vele e remi, nei miei pensieri. E oggi, invece? A ogni segno scritto qualcosa nasce e muore dentro me; luce di conoscenza ricordo dell'ignoranza, amore per quell'unità, nascosta, che porti in te.
Ti ho ritrovato, libro: non sei il mio, che giace in qualche polveroso scaffale di una casa in cui vissi, eppure sei l'uguale e mi riporti nello spazio/tempo del pensiero, con la forza di un flusso di coscienza, nuovo che nasce dentro me.
Il bottone della camicia.
L’uomo era fermo nella cornice formata dalla porta della cucina. La fissava irritato. In quei pochi attimi a Viviana riuscì di notare numerosi particolari: era un giovane di circa trent’anni, piuttosto di bell’aspetto. Sulla spalla destra, lasciata scoperta dalla canottiera immacolata che lo sconosciuto indossava, appariva una cicatrice sottile e pallida. L’uomo stringeva tra le mani una camicia e nell’entrare, indicando proprio quell’indumento, aveva urlato: -” Manca un bottone! Proprio alla migliore delle mie camicie manca un bottone! Tutta colpa del disordine che regna sovrano in questa casa!”- Ma adesso, finalmente, taceva. Viviana lo osservava perplessa, chiedendosi chi fosse e cosa desiderasse da lei. Chissà perché le tornò alla mente il ritornello di una vecchia canzone:-” Sei Rodolfo? Sei Marcello? Dopo tutto ciò che fu... com’è fatto mio marito io non lo ricordo più.”-”Viviana, ma ti sei rincretinita? Che hai da guardarmi con quell’aria da babbea?”-. Disse l’uomo con rabbia distogliendola dai suoi pensieri. Ma cosa aveva da gridare tanto? Dopo tutto non le era neanche simpatico: la gentilezza non doveva essere il suo forte! -”Viviana, vuoi smetterla di fissarmi così?”Aggiunse lo sconosciuto con voce più moderata. Cosa doveva rispondergli? Lei effettivamente si chiamava Viviana... ma non ricordava affatto chi fosse lui. -”Non mi ricordo di voi!”- Rispose allora con freddezza. Poi aggiunse, in un tentativo di cortesia :-”Scusatemi, ho un forte male al capo e mi sento un po' stordita... forse se mi dite il vostro cognome, riuscirò a ricordarmi chi siete... ”-. Le sembrava di essere stata gentile, ma evidentemente l’uomo non era
d’accordo. -”Se è uno scherzo, guarda che è durato anche troppo! E alla mia camicia migliore manca sempre un bottone!”- Gridò. -”Vi prego di non urlare. Ho mal di testa, come vi ho già detto! Inoltre la gente che grida mi ha sempre provocato la nausea... ”- Puntualizzò la donna. L’uomo sembrò finalmente comprendere che i suoi modi sgarbati non erano simpatici. Infilò la camicia senza chiudere l’ultimo bottone, (che effettivamente mancava) e uscì dalla cucina mormorando un rauco:-” Oh Signore!”-. Viviana decise di tornare alle sue faccende, ma a un tratto si rese conto con una punta di panico di non ricordare affatto cosa stesse facendo un momento prima. Anzi, fatto ancora più grave, non le riusciva di ricordare perché si trovasse in quella cucina. La sensazione di smarrimento che la colse la lasciò per un momento come paralizzata, ma dopo alcuni secondi le riuscì a riprendere il controllo dei propri nervi .-”Si tratta senza dubbio di un’amnesia momentanea, erà... ”- Disse a se stessa con poca convinzione sedendosi poi sulla sedia più vicina perché le mancavano le forze per l’emozione. Proprio in quel momento già così difficile per lei, lo sconosciuto decise di ritornare in cucina. Aveva indossato una giacca e la fissava indeciso. -” Viviana, ti senti bene?”- Le chiese a bassa voce. -”Non molto per la verità, ma deve essere colpa del male alla testa... come mai siete ancora qui? Preferirei davvero che tornaste un altro giorno, in questo momento ho tante cose da fare e...”Lasciò la frase a metà in quanto si rese conto in modo evidente che non sapeva affatto quali cose dovesse fare, e quello sconosciuto dall’aria stupida che continuava a fissarla! -” Smettetela di guardarmi come fossi un fenomeno da baraccone!”- Gli urlò in viso. Per qualche minuto nessuno dei due parlò, poi l’uomo le si avvicinò con cautela, quasi temesse di spaventarla. -” Ti ricordi di me?”- Le chiese, fissandola negli occhi e tenendola ferma con la stretta delle mani sulle spalle. -”No, mi dispiace, ve l’ho già detto! Ho una gran confusione in testa... e poi voi, con tutte quelle urla! Vi giuro che davvero non mi aiutate a ricordare. Entrate nella stanza sventolando una camicia, quasi che si trattasse di una bandiera, vi
mettete a urlare qualcosa sui bottini, sul solito disordine... tutto quel gridare mi rende stordita, se tacete è meglio, credete.”- Concluse. E lui tacque. Ma con quale espressione sul viso! Era pallido, le faceva persino pena. Ma per quale ragione pretendeva che lei dovesse sapere per forza chi era? Non si possono ricordare tutti gli uomini che s’incontrano! -”Vestiti, che usciamo.”- Viviana, nel sentirlo di nuovo parlare ritornò bruscamente alla realtà. Cosa voleva quell’uomo? Voleva che si cambiasse d’abito e uscisse con lui? -”Perché dovrei uscire con voi?”- Chiese ad alta voce. A questa semplice domanda lui sembrò traballare come sotto una forte botta sul capo. Impallidì ancora di più, (ammesso che fosse possibile...) e poi si diresse verso il fornello. Era di spalle ma Viviana intuì che stava versando del caffè dalla macchinetta nella tazzina. Poi intuì che lo bevve: amaro. -”Che gusti!”Pensò tra sé con un sorrisino interiore. Ma ecco che all’improvviso quel sorriso le sbocciò sulle labbra e divenne in pochi secondi una vera e propria risata. Irrefrenabile. le sembrava tutto così buffo! E che faccia aveva ora quell’uomo! Come la guardava! Ma che ridere! E rideva difatti, con molta energia. Splaff! Lo schiaffo la raggiunse in pieno viso, scaraventandola un metro più in là. Si resse in piedi a stento. Così, all’improvviso, le parve che niente più fosse capace di farla ridere. Non aveva proprio più voglia di ridere. L’uomo le si avvicinò lentamente e l’abbracciò con grande tenerezza. Che strano tipo! Prima la prendeva a schiaffi e poi... all’improvviso le prese una gran voglia di piangere. Non l’aveva neanche pensato che già lo stava facendo. Piangeva. A singhiozzi, a lacrimoni, come quando era piccola e si chiudeva in bagno per piangere abbracciata all’asciugamano. Piangere così le aveva sempre fatto bene, perché poi si guardava allo specchio e vedendosi tutta rossa e gonfia per le lacrime si scuoteva. Era diventata brutta! Il dolore la rendeva brutta e allora non valeva la pena di soffrire. -” Dov’è uno specchio?”- Chiese all’improvviso all’uomo che ancora le carezzava il capo. -” Lo specchio?”- Chiese lui di rimando, sorpreso. -” Sì, si! Uno specchio! Devo guardarmi!”- Aggiunse lei . L’uomo la prese per mano e la condusse davanti alla specchiera della camera da letto. Lei si osservò
per qualche lungo minuto con interesse quasi professionale. Non era poi tanto brutta! In quel momento, nel guardare la superficie dello specchio notò l’immagine dell’uomo alle sue spalle, che ancora le teneva una mano con sguardo affettuoso. Era tanto triste in volto, povero Marco! -” Marco?”- Disse ad alta voce, fissandolo come ipnotizzata. -”Si tesoro, sono io.”- Rispose lui sorridendo. -” Ma a questa camicia manca un bottone!”- Disse allora Viviana fissando l’orrendo filo bianco cui non era attaccato nulla. -”Che vuoi che sia un bottone?”- Chiese lui continuando a fissarla in uno strano modo. -”Non ti arrabbiare! Lo metto subito... ho avuto tante cose da fare... ”- Continuò lei. -”Non fa nulla ti dico”- Insistette lui, stringendola fra le braccia. - “Non fa niente?”- Disse lei, tirando un po' su col naso come faceva da bambina. -” No, tesoro, niente niente niente... e adesso vestiti che ti porto fuori”-“Per andare dove? Non vai a lavorare, oggi?”-“Oggi no.”- Le rispose lui sempre con quell’aria smarrita. - “ Come ti senti?”- Le chiese poi, fissandola negli occhi. -” Bene!”- Rispose lei. Poi si allontanò per andare a vestirsi.
ione
L’aveva lasciato mille volte: facile come smettere di fumare, se non si ricominciasse. Ciascuno di noi, quanto ama, è convinto che il suo sentimento sia il più determinato, il più forte, il più crudele, l’unico autentico, che colpisce il volto come può il colpo ben assestato di un pugile dei pesi massimi quello di un bambino. Lei aveva letto una volta su quegli stupidi bigliettini sentimentali che si trovano nei cioccolatini: “chi non ama troppo non ama abbastanza”. Ritrovò più volte questo bigliettino, a distanza di anni l’uno dall’altro e sempre in circostanze differenti. Ma già sapeva che quella frase l’aveva avuta sempre in se stessa:”Lui non l’amava “troppo”, e di conseguenza...” Sapeva bene che per liberarsi di lui radicalmente avrebbe dovuto attendere che una di quelle volte in cui l’avesse “lasciato” giungesse ad essere quella “di troppo”. Quella insomma in cui lui avrebbe accettato. Era sempre lei a “lasciarlo”. Quasi fosse stata lei, ad amare di meno, ma in verità era soltanto lei a soffrire di più. Lui procedeva come un direttissimo sui binari della propria esistenza e semplicemente si trovava millenni luce dal suo modo di intendere sia l’amore sia la vita. Può anche darsi che in fondo si somigliassero: forse persino troppo per sopravvivere assieme. Erano entrambi ionali ed orgogliosi. Si battevano in amore tra abbracci, baci, carezze sempre più intime e parole apionate con la stessa determinazione con cui, lei zeppa di parole e lui tremendamente muto, si battevano all’ultimo sangue quando la ione lasciava il posto al livore. Lei era per il “tutto o niente”, a parole. Nella realtà una intera vita, quanto in fondo era durata la loro storia, si era accontentata di meravigliose, intensissime, saporitissime briciole. In cuor suo aveva bestemmiato e maledetto più volte il
giorno del loro incontro. In cuor suo si era detta mille volte che senza quell’incontro non avrebbe mai conosciuto l’amore. Dio avesse voluto che fosse stato così... Oggi forse era giunto il tempo in cui lui non avrebbe voluto ricucire lo strappo. Forse aveva strappato troppo dall’animo di lui, o forse era stanco. Chissà? Se chiudeva gli occhi poteva sentirlo dentro di sé, come un figlio mai nato, doloroso a sopportarsi. Poteva sentire il sapore dei loro baci e la voce dell’amore e la dolcezza struggente di quelle briciole meravigliose che forse si era lasciata indietro per sempre. Eppure le pareva tuttora impossibile. Ma nella vita tutto è destinato a morire, in un modo o nell’altro e se quel loro sentimento così fisico era giunto al termine della sua crescita, inevitabilmente forse era giunto anche al termine della sua vita. Cosa provava? Una lacerazione, un distacco di cui già aveva provato troppe volte il sapore. Non sapeva se avesse lo stesso sapore per lui, ma immaginava di sì e la cosa più triste era che forse allo stesso modo anche lui intuiva che quella volta forse non si sarebbe giunti ad una riappacificazione. Si sentivano entrambi troppo stanchi di quella sfibrante guerra d’amore. Quel lancinante dolore si era smussato, assumeva i toni di un rimpianto, di un addio da accettarsi nonostante tutto. O forse questo lo provava soltanto lei? Difficile a dirsi: non riusciva a penetrare sotto la scorza della sua apparente gentilezza che oramai, da amico, esibiva davanti a tutti. Tuttavia dietro non c’era più la dolcezza nascosta di un sorriso. Intanto lo stringeva a se, col pensiero. Intanto carezzava il suo volto, baciava dolcemente le sue labbra e si preparava a dirgli addio. Addio, quasi che lui fosse morto e gie in una bara. Addio, e lo copriva con i fiori del ricordo. Addio: come farò a vivere senza di te? Eppure sapeva che se quello per loro era davvero l’addio, malgrado tutto, stringendo a se con ione struggente il suo ricordo, giorno per giorno, ora per ora, tra notti sempre meno insonni e giorni sempre uguali, sarebbe vissuta.
Posso darti un bacio?
-“Voglio raccontarti una storia”Dissi una sera a mia nipote Leila. Mi guardò sorpresa, tralasciando per un momento di sospirare sul suo amore infranto. Leila non ha ancora quindici anni; il giovanotto di cui si era innamorata con la forza e l’ingenuità del primo amore, è partito per l’estero con la famiglia, promettendole di non dimenticarla. -”Che storia? Un fatto vero o uno dei tuoi racconti?”- Mi chiede, cercando di mostrare un interesse che in realtà non prova. -” Un fatto vero. E’ accaduto a me circa venti anni fa. E’ una storia d’amore. “-”Triste?”-”Dipende dai punti di vista. Per me oggi non lo è più. Sono felice comunque di averla vissuta... ”-. -”Sentiamola dunque... ”- Accetta con un sospiro. In realtà anche lei sa che ha bisogno di distrarre il suo pensiero dall’esperienza che sta vivendo. Comincio: - “Avevo sedici anni. A quel tempo i miei genitori mi avevano condotto con loro in un piccolo ma piacevole paesino d’Italia. Ricordo come mi sentivo: ero euforica perché per me ogni novità era accettata con gioia. Sapevo che il paesaggio sarebbe stato l’ideale per dipingere e avevo portato con me colori a olio, pennelli di tutte le misure e tele di varie dimensioni, oltre alla mia solita voglia di vivere. Ero una ragazza snella, con lunghi capelli biondi. Sapevo di essere molto carina. L’albergo dove ci fermammo non si trovava al centro della cittadina, ma ai suoi piedi, in prossimità di una stazione ferroviaria, su di una strada di grande traffico e quindi per raggiungere il centro abitato si doveva usufruire dei mezzi pubblici. Durante la mia prima eggiata in paese mi accorsi di essere al centro dell’attenzione: ero evidentemente straniera, indossavo secondo il mio solito pantaloni chiari, attillati e magliette a coste che ponevano in luce il mio fisico snello. Quel giorno, in piazza, feci conoscenza con
Angelo. Era un ragazzo di diciassette anni, bruno di capelli, con grandi occhi espressivi e una gentilezza vecchio stampo. -”Come mai sei qui?”- Mi chiese . -”Sono venuta con i miei genitori per una breve vacanza. Mio padre segue le cure termali. Resteremo soltanto sette giorni, ammesso che niente richiami all’improvviso il genitore in città. Ecco perché ho fretta di dipingere qualcosa di questi luoghi, per ricordarli meglio quando ripartirò.”-”Conosco un posto bellissimo che farebbe proprio al caso tuo!”- Disse lui sorridendo.- “se vuoi, possiamo incontrarci al circolo del tennis, che si trova vicino al tuo albergo. Verrò a prenderti con la motocicletta di mio fratello e ti porterò a dipingere. Ti piacerebbe?”-”Certo! A me piace moltissimo andare in moto!”- Il giorno dopo, allegra per la eggiata che stavo per fare, andai a attendere Angelo al circolo. Vidi tanti ragazzi e ragazze nei loro completi bianchi giocare allegramente, giunsero e ripartirono molte motociclette, ma all’ora dell’appuntamento lui non venne. Attesi pazientemente per un po', poi cominciai a sentirmi ridicola e infine irritata. In quelle situazioni sono solita seguire l’istinto, che spesso mi ha procurato non pochi problemi, specialmente nel ato. Da rossa quale ero decisi di prendere il primo autobus, raggiungere il paese e trovare Angelo. Cosa avrei fatto dopo? Non lo sapevo con chiarezza. -”E lo trovasti?”- Domanda Leila. -”Aspetta a sentire il resto!”- Replicai, innervosita per essere stata interrotta. -”Dunque. Presi la mia tela e la cassetta dei colori e procedetti come deciso. Salita sull’autobus, pur se in uno stato d’animo che non era proprio lieto, non potei non ammirare lo scenario che si stendeva intorno: un verde brillante abbracciava la terra sino all’infinito e il cielo cadeva terso e azzurro sull’orizzonte. Provavo inoltre la sensazione di essere un’eroina e la tristezza che sentivo in me, da artista portata un po' a drammatizzare, mi piaceva. O almeno così mi appare nel ricordo. Al paese giunsi verso le undici del mattino. Percorrendo i giardinetti della villa comunale m’imbattei nell’oggetto delle mie ricerche. -”Alessandra!”- Chiamò lui emozionato.
-”Ciao, che piacere vederti!” Dissi io con una punta di sarcasmo nella voce. -” Non sono potuto scendere. Devi scusarmi. Mio padre mi ha chiesto un piacere e le richieste di mio padre sono ordini... non potevo dirgli che... ”-. -”Che un’insulsa ragazzina ti aspettava”- Completai io. -”Ma no! Il fatto che qui c’è mia cugina... ”-”Con cui sei fidanzato.”- Completai io di nuovo. -”Non proprio fidanzato...”-”Insomma sei impegnato con lei e avevi paura che ti vedesse con me. Paura di cosa poi, visto che tra noi non c’è nulla! Comunque se tu vuoi così, tanto di guadagnato!”- Terminai e mi avviai velocemente come per lasciarlo alle spalle. Lui invece, ben deciso a non mollarmi, benché io corressi quasi, mi si affiancò rosso in volto. Prendemmo una strada in discesa e, sempre senza parlare, giungemmo a un muretto. Da quel punto si poteva scorgere tutta la pianura e, in primo piano, un grosso arco di pietra di epoca romana. -”Proprio qui volevo portarti.”- Osò dire Angelo. -”Adesso ci siamo, tanto vale che dipinga!”- Risposi io. Detto fatto mi misi al lavoro. Quando dipingo, non penso a altro. Per circa un’ora lavorai di lena. Mia piaceva tutto di quel posto e i colori sembravano accoppiarsi da soli sulla tavolozza. L’arco assunse sulla tela una tonalità violacea, in contrasto con il verde delle piante che vi si arrampicavano. Angelo mi ava i pennelli in silenzio, osservandomi dipingere e metteva al loro posto i tubetti dei colori, man mano che non mi servivano più. A un certo punto mi fermai; ero stanca e dovevo riposarmi un poco. Mi girai a guardare solo allora il mio “cavalier servente”. Non dimenticherò più quel momento: un sole caldo, quasi estivo, ci riscaldava. Lui era disteso su di una roccia e fissava gli occhi nei miei con grande dolcezza. Le sue spalle giovani, messe in evidenza dal maglione, lo facevano assomigliare a una statua greca del Museo di Capodimonte. Mi sentivo un po' stordita. -” Posso darti un bacio?”- Mi chiese lui con dolcezza. -”Perché?”- Risposi io. Ma poi rinunciai a ogni discussione, avvicinando il mio viso al suo. Fu un momento delizioso, fragile, innocente...
-”E come finì, poi?”- M’interruppe di nuovo Leila, visibilmente affascinata dallo svolgimento del racconto. -”Adesso lo saprai, non avere fretta. Ti ho detto, dunque, che sarei dovuto ripartire. Quel giorno fu difatti uno degli ultimi che trascorsi al paese. Angelo mi riaccompagnò alla corriera tenendomi la mano in pieno pubblico. Ma né a lui né a me interessava più di quello che avrebbero potuto pensare gli altri. Tra noi, in effetti, il più coraggioso era lui, che sarebbe restato e non certamente io, che sapevo di dovere andare via. Quando salii sull’autobus, mi diede un rapido bacio su di una guancia e una stretta di mano. Lo salutai dal finestrino. Il giorno dopo ci rivedemmo e andammo di nuovo alle vecchie rovine, poiché dovevo terminare il quadro. arono assieme sulla strada a un’anziana donna, un uomo e un asino. -”Che bellu quadro, signurì!”- Disse l’uomo, fermatosi a guardare. -”Lassala sta, Vicienzo. Se o fidanzato se scoccia te pote menà!”- Aggiunse la donna ridendo. Poi se ne andarono. -”Ci hanno creduti fidanzati!”- Dissi a Angelo, felice, prendendogli una mano. -”Già, ma cosa conta se non è vero?”- Rispose lui tristemente. Ci baciammo di nuovo con amore. Forse proprio perché sapevamo di doverci lasciare, ogni momento vissuto assieme aveva più sapore: era perfetto. Terminato che fu il quadro e contro la volontà del mio ragazzo che mi pregava di lasciarlo a lui, m’incaponii di voler portare il mio capolavoro alla casa di quel vecchio che ci aveva creduto fidanzati. -”Ti prego, Alessandra, lascialo a me!”- Diceva Angelo con ione. -”No, a te lascio il ricordo dei giorni ati assieme...”- Rispondevo io e come volli, si dovette fare: il dipinto fu regalato al vecchierello il mattino successivo. Appena rientrai in albergo dopo quell’ultima mattinata trascorsa assieme, mio padre mi comunicò che una telefonata della Banca che lui dirigeva lo aveva richiamato in città. A pranzo non mangiai nulla. La sera, ottenuto il permesso dopo numerose discussioni, ottenni di salire al paese. Erano le diciannove, ma per strada non c’era più nessuno e il cielo andava scurendosi. Dopo molte indecisioni andai sotto la casa di Angelo e aspettai mezz’ora inutilmente, poi finalmente ò un uomo e gli chiesi se conoscesse Angelo. -”E’ mio figlio, signorina...”-
-”Oh! Sono stata fortunata! Per favore, può dirgli che devo parlargli? Lo so che è ora di cena, ma domattina devo ripartire e non posso rimandare... ”- Più che le mie parole dovettero convincerlo i miei occhi tristi. Inoltre si vedeva che ero in pena e... spaesata come un marziano. Salì in casa promettendomi che lo avrebbe fatto scendere. Forse fu soltanto la mia immaginazione a farmi sentire delle grida di donna o forse davvero la madre di Angelo fece storie. Attesi ancora dieci minuti. Era scesa la sera e un mucchio di stelle brillava intensamente nel cielo quando finalmente lo vidi scendere. -”Davvero parti domani?”- Mi chiese subito. -”Sì, domani alle sette del mattino”-”Allora non ci rivedremo?”-”Non credo... la nostra è una storia senza possibilità”- Appena ebbi detto questo, mi afferrò per mano e ci avviammo verso i giardini. Sovrastavano tutta la vallata. Un cielo blu cupo, pieno di stelle lucentissime ci copriva. Angelo si appoggiò contro il parapetto che ci divideva dal precipizio e io contro di lui, con la testa sulla sua spalla. Continuammo a parlare. -”Come faccio se ti perdo?”- Mi chiese d’un tratto. -”Non possiamo fare diversamente. Neanche a mio padre andresti a genio e in quanto ai tuoi mi devono credere una... ”-”Non dire sciocchezze!”- Esclamò lui. -”Bisogna rassegnarci.”- Terminai. Non volli dirgli che nella mia città mi attendeva un fidanzato ufficiale, figlio di un amico di mio padre, ricco e potente. Invece lo baciai teneramente sulle labbra e lui mi restituì il bacio come se fosse la cosa più importante del mondo e per noi, in quel momento lo era. Ripensandoci adesso mi rendo conto che si trattava di baci casti e dolci come solo i ragazzi, a volte, possono scambiarsi, ma che in noi c’era un’intensità di sentimenti tanto forte da farli divenire unici. Quando mi scostai da lui, vidi molte lacrime luccicare nei suoi occhi innamorati.- “Scrivimi! Ti darò almeno io l’indirizzo, anche se non vuoi darmi il tuo!”- Mi disse quasi implorando. -”Ma è inutile! Non faremo altro che prolungare questa agonia!”- Esclamai io.
Chissà quante volte quell’ultima sera dovette chiedermi di scrivergli. Ma fui irremovibile. Poi lo pregai di accompagnarmi all’albergo con la moto. Abbracciata a lui, sul sellino di dietro, sognavo di scontri mortali e di suicidi. Sentivo la sua vita tra le braccia con cui mi tenevo e lui guidava lentamente, come per prolungare quegli ultimi momenti. Arrivammo comunque all’albergo. Il cuore mi batteva in petto per la paura di essere sgridata da mio padre: erano le ventuno ate da un pezzo e io, per quanto fossi di città, non potevo affatto decidere di testa mia. Mi sentivo molto forte della mia decisione di lasciare Angelo senza “troppe storie”. Sapevo quando fosse inutile illudermi e illuderlo ancora su di un futuro che non c’era consentito e preferivo un taglio netto, doloroso ma efficace. Prima di andare via lo baciai di nuovo con dolcezza, a occhi chiusi. Il nostro era stato un amore breve e pulito. Oggi non sono più di moda, oggi ci sono gli happening, ma invece tra me e Angelo era tutta tenerezza. Forse per questo i nostri baci non posso dimenticarli. Girai le spalle ai giorni felici vissuti con lui di scatto e, senza più voltarmi, altrimenti mi sarebbe mancato il coraggio di andare via, corsi nella sala da pranzo dell’albergo. I miei genitori cenavano già, ma, al contrario di quanto mi aspettassi, non fui sgridata per il ritardo. Mio padre mi lanciò uno dei suoi sguardi sornioni e comprensivi e m’invitò a decidere su cosa ordinare. -”Hai poi salutato il paese?”- Mi chiese con dolcezza. -”Sì, l’ho salutato”-”Sei triste?”-”Un poco”- Risposi laconicamente per evitare che l’emozione che provavo divenisse troppo evidente. Quella notte nella mia stanza non riuscii a dormire. Pensavo e ripensavo a tutti i momenti ati con Angelo e avevo una gran voglia di piangere, ma la mia camera era posta a fianco di quella dei miei e temevo di essere sentita. Allora uscii sul balcone a guardare le stelle, alle porte dell’alba. Piansi, con i pugni stretti e a singhiozzi per non so quanto e soltanto alle sei del mattino rientrai per mettermi a letto. Non mi riuscì comunque di prendere sonno e feci le valigie ritrovando via via la calma interiore necessaria a partire senza perdere la mia dignità. Verso le sette anche i miei genitori furono pronti. Un discreto bussare all’uscio mi avvertì che ero attesa. Scendemmo dunque al bar dell’albergo per fare colazione, poi ci avviammo alla macchina. Quale fu la mia sorpresa nel trovare Angelo a attendermi? Non so dirlo. Mantenni la calma così faticosamente conquistata. -”Papà, mamma, questo è
Angelo”- Dissi con fermezza. Mamma e papà gli sorrisero e gli strinsero la mano, poi si allontanarono con discrezione fingendo di essere molto occupati con le valigie. -”Perché sei venuto?”- Gli chiesi. -”Volevo darti questo”- Rispose lui, mettendomi tra le mani un foglietto con poche righe che ancora ricordo col pensiero come potessi leggerlo:-” Angelo Bellizzi, via... ”-”Hai fatto bene!”- Dissi con convinzione. Così ci salutammo con la sensazione di non esserci del tutto perduti. Nel lungo viaggio di ritorno dormii come un ghiro. Ero spossata dalla tristezza e dalla notte insonne. Tornata nella mia città ripresi la solita vita dicendomi sempre:-” Se non ce la faccio più gli scrivo oppure lo raggiungo”- Ma lo facevo per darmi coraggio. In realtà gli mandai soltanto una cartolina con l’immagine della mia città e una breve frase:- ”Fate amicizia!”- Firmai con A e nient’altro. -”E lo hai più rivisto?”- Mi domanda mia nipote con gli occhi lucidi per la commozione- ”No.”- Mentisco io. In realtà lo rividi un anno dopo, recandomi nel suo paese per qualche ora ed era terribilmente irritato con me, tanto che mi stava ando innanzi senza salutare. Lo fermai io, per strada, per sentirmi accusare di non avergli mai scritto. Gli risposi che non era vero, che gli avevo spedita una cartolina. Ricordo ancora la sua faccia perplessa:- “ davvero?”-, mi chiese. Forse il padre gliel’aveva tenuta nascosta… chissà. Ma quell’incontro, ormai, non aveva più valore… -”E’ molto triste, zia!”-”Perché triste, Leila? E’ un ricordo dolcissimo! Lo tengo in serbo per i momenti amari. Mi aiuta a vivere.”-“Non ti sei mai pentita di averlo lasciato?”-”No. Mai. Eravamo troppo diversi e io non avrei saputo vivere un rapporto da lontano. Inoltre gli amori di quell’età, salvo rari casi, sono destinati a finire. Meglio dunque quando una separazione pone fine a tutto, lasciando il ricordo di qualcosa di romantico, altrimenti rischiano di finire molto stupidamente.”-”Perché devono comunque finire? Non potrebbero portare a un matrimonio?”-
-”Anche con il matrimonio finiscono. Il grande amore è quello impossibile.”Dichiaro io convinta. -”Allora è inutile? E’ tutto inutile?”Niente è inutile se ti lascia la voglia di guardare una notte stellata con tanta ione nell’animo e tanta dolcezza... ” Dico io e in quel momento o a mia nipote una poesia scritta qualche mese prima sussurrandole:- ”Leggi... ”-. “In ricordo. In ricordo di un attimo, fuggevole rimpianto del ato, un fiore di parole un po' apito davanti a una foto che non scattammo mai. L’azzurro si perdeva nel calore la sera discendeva lentamente sul verde delle zolle, sui volti della gente. are e riare nella via di sconosciuti in un paese amico, e un volto di ragazzo dagli occhi innamorati che, pieni di tristezza,
cercavano un amore senza tempo, sul mio volto. Una favola dal sapore di pianto nell’anima è restata, favola stupenda che non fu mai vissuta e che per questo resterà stupenda nei suoi occhi innocenti che resteranno tali soltanto dentro me. Le stelle mute e bianche erano in cielo quando gli dissi addio ed ai suoi occhi apparivo già come rimpianto, come sogno svanito prima di essere sognato.”-”Lo pensi ancora zia?”-”Sì, a volte mi chiedo se avrei potuto agire diversamente... mi chiedo se non ho lasciato in quel pezzo di cielo una vita da vivere in due con qualcuno che mi amasse davvero... ma sono soltanto domande, senza risposta.”-”E’ proprio una bella sera questa, vero zia?”- Dice Leila, indicandomi il cielo
pino di luci al di fuori dei vetri del balcone. Usciamo a goderci le stelle del firmamento e penso con dolcezza che sono le stesse di allora. -” Sì, è proprio una bella sera Leila. Una di quelle sere che paiono nate per ricordare”Termino. E sospirando alziamo assieme lo sguardo verso il nero illuminato dagli astri.
Il senso del tempo.
A guardarsi dentro, senza l’ausilio dello specchio che ci rimanda soltanto l’immagine esteriore, non sempre ci si rende conto dello scorrere del tempo su di noi. Mi ritrovo spesso immutata e piena di speranza come una fanciulla che non abbia conosciuto ancora delusioni. Gli anni invece ano o più semplicemente, iamo noi. Il senso del tempo è nello sguardo dei figli che da piccoli esserini rosa e urlanti si trasformano in esseri pensanti e autonomi, parrebbe all’improvviso, non sono più bambini. All’improvviso. Il senso del tempo è nelle persone che ogni giorno vivono con te lo scorrere imperterrito degli attimi scanditi dall’umano meccanismo del cuore e dall’inseguirsi implacabile dei minuti sull’orologio. Ricordo un uomo, proprietario di un supermercato, più anziano di me: capelli bianchi, aria distratta, completi grigi e occhiali. Sembrava invecchiare velocemente in contrasto con la crescita del figlio che diveniva uomo. Percepii che fosse malato. Seppi che era morto per uno di quei dannati mali che gli aveva attaccato le corde vocali. Negli ultimi tempi difatti la sua voce roca l’avevo udita spesso, mentre si mostrava preoccupato per mille particolari futili. Quasi senza traumi il suo posto fu occupato dal figlio: era giovane, vestiva di grigio e portava gli occhiali. A distanza di anni, divenuto presto bianco di capelli, a me, che avo veloce tra i banchi, sembrava il padre ringiovanito. Nel tempo divenne sempre più simile alla figura paterna, uguale nei modi un po' scostanti, nel raro sorriso, nell’aria padronale. Oggi mi accade a volte di dimenticare che quel posto fosse occupato da un altro e le due immagini si fondono. Anche il figlio da un po' ha assunto una voce roca, terrorizzante. La storia addirittura, si ripete. E io? Io che da estranea osservo la scena, che noto lo scorrere implacabile del tempo su quel volto, non sono forse anch’io nel vortice che annulla e crea? Polvere di anni sui volti dei miei coetanei... e inevitabilmente sul mio volto. Ogni vittoria sulla vita è un bluff, un gioco da poco, un’illusione? Si semina, si raccoglie e si spera in un domani che ci trascina verso la fine.
E allora? Oggi, disperatamente oggi, è la vita. Ora, il momento, il colore, la sensazione di gioia o di amarezza, di rabbia o di stupore. Ora. Quest’attimo, ci appartiene Respiro: i miei polmoni funzionano. Corro: i miei muscoli rispondono. Quali preziosismi filosofici possono mutare questa realtà? Chiusa nel suo guscio la sconosciuta amica vissuta in un polmone di acciaio diceva: ho amato. Quanta gente, padrona del proprio respiro, potrà dire lo stesso? Eppure il concetto più pieno dell’esistenza è proprio questa eroica capacità di amare: tutto si illumina di possibilità sotto il raggio dell’amore. Questa vita, vissuta con ione, vissuta anche nei momenti crudi del dolore, assaporata con rabbia, con fame, con curiosità... è tutta fatta di brevi attimi. Al di là c’è la speranza di un’energia che viva senza corpo? Aiuta a vivere questa speranza? Allora sfruttiamola. Ma non dimentichiamo che la certezza è nella nostra carne viva, che può godere e soffrire. Da questa carne, oggi, ora, nasce anche la speranza di un domani.-
Il ballo in maschera.
Non restava loro oramai altra alternativa che la separazione. Si erano amati tanto lui e lei, ma cos’é l’amore di fronte alle piccole noie quotidiane, al denaro che non basta mai, a due gemellini scatenati giunti al mondo quando il loro rapporto di ventenni era ancora tutto da forgiare, alla tensione del vivere di ogni giorno? Inoltre, pur amandosi da morire, erano decisamente incompatibili di carattere: lui, razionale, puntiglioso, matematico, lei invece artista, con la testa sempre sulle nuvole, pronta al sorriso e incapace di difendersi dalle brutture dell’esistenza. Si ha un bel dire da fidanzati, guardando gli altri sposi: - “ Noi no. Noi saremo diversi! Noi troveremo sempre il tempo e il modo per comprenderci... “. ma poi invece si precipita lentamente nella noia del quotidiano cui certamente sarebbe stato più adatto un affetto sereno, senza scosse, che non quel loro “grande amore” romanzesco e bruciante, geloso e ionale. Quella sera Stefania era stanca: Marco chissà dove se ne era andato, sbattendosi la porta alle spalle in un gesto che era divenuto quasi una consuetudine. L’ultimo litigio aveva superato ogni aspettativa! Come aveva potuto amare un uomo così brutale? Senza affetto per lei, senza comprensione per i suoi problemi! I bambini erano dai nonni, in campagna, per il fine settimana. Loro due invece avrebbero dovuto andare a un ballo in maschera. Da questo spunto avevano iniziato uno dei loro soliti litigi pieno di parole aspre e senza ritorno. Il disaccordo partiva dall’abito da indossare: lei voleva mascherarsi, prendendo in affitto un vestito dalla sartoria che cedeva abbigliamento per teatro. Lui naturalmente l’aveva definita “una pagliacciata”. Ma certo! Da quando si era laureato in legge e aveva cominciato la sua carriera brillante di avvocato, non accettava più neanche le briciole dell’allegria! Gli amici sarebbero ati a prenderli a casa. Come poteva spiegare loro l’assenza del marito? Diveniva sempre più difficile nascondere agli altri quel loro rapporto in rovina. Stefania a questo punto dei suoi pensieri ebbe uno scatto improvviso e andò a scrutare il proprio volto allo specchio. Quel suo viso sottile, dai grandi occhi grigi, i suoi capelli biondi e sottili che accarezzavano un collo sottile e la fronte alabastrina. Perbacco, sapeva di essere bella. Con un rapido scuotere delle spalle prese una decisione: lei al ballo in maschera sarebbe andata, e anche con
l’abito che aveva prenotato per la serata: un costume da gitana che, sapeva, l’avrebbe resa irriconoscibile. arono un paio di ore e quando ritornò a osservarsi allo specchio quasi non si riconobbe: la parrucca bruna, le sopracciglia scurite dalla matita, la bocca ingrandita dal rossetto e la pelle scurita dal fondo tinta. Pareva un’altra. Aveva scelto un profumo “da bruna”, forte e persistente, esattamente l’opposto di quello che era solito usare. Si sentiva diversa e quando gli amici la sollecitarono a scendere con il citofono non risparmiarono, vedendola arrivare, gli “Oh!” di ammirazione. Luigi, il collega di Marco, scapolo per vocazione e già suo corteggiatore, nell’osservarla ammirato partì all’attacco con decisione, concedendosi un tono quasi spinto nel parlarle. Fatto sta che lei non se ne sentì affatto offesa. Quando giunsero al locale da ballo, furono accolti da una bolgia di colore, calore, suoni e luci psichedeliche che non permettevano praticamente di scorgere nulla con chiarezza, inoltre, sospeso nell’aria, si percepiva un profumo pesante, nato dalla simbiosi di tutti gli odori presenti che rendeva difficile respirare e pensare. Riuscì a rendersi conto che si trattava di un salone immenso, ma diviso verso i lati da séparé che permettevano alle coppie di isolarsi su panchette e tavolini. All’improvviso dunque si trovò in una dimensione differente dove lei non era più lei ma una donna sconosciuta di cui si divertiva a osservare le reazioni con una punta di curiosità. La mascherina nera si confondeva con i riccioli che, abbondanti, le nascondevano il volto e coprivano le spalle nude. Molti la invitarono a ballare e così facendo si allontanò sempre più dal resto della comitiva, per ritrovarsi alla fine abbracciata a un “Aramis” con tanto di cappello piumato e baffetti neri, i cui occhi mandavano lampi da dietro la mascherina azzurra, che s’impossessò di lei come fosse stata una preda. Guancia a guancia con lui, percepiva il battere veloce dei loro cuori e un’improvvisa quanto sconvolgente sensazione quasi tangibile di desiderio. Non aveva bevuto nulla di alcolico, eppure si sentiva come ubriacata dall’attrazione che le giungeva attraverso gli abiti e la pervadeva tutta. Entrambi sembravano accesi da una fiamma che non bruciava, ma rendeva addirittura inutile le parole. Pure lui parlò, sussurrando con voce roca frasi senza senso. Sapeva che quella notte erano nati l’uno per l’altra e non importava chi fossero stati fino a poche ore prima né cosa li attendesse al di fuori di quella follia. Uscirono sulla terrazza del night, all’aria fredda di febbraio che non bastò a raffreddare il loro ardore: la notte era buia, ma una miriade di stelle ballavano mute sulle loro teste accostate. Stefania si accorse di piangere; lacrime calde e salate le scorsero sulle guancie, asciugandosi al vento. Sapeva che tutto era destinato a finire come in una favola triste alla luce della nuova alba. Parlarono della notte, della campagna che entrambi amavano e di ricordi d’infanzia mai morti, ma mai confessati. Accennarono anche a quel “lui” e a quella “lei” che li
dividevano. Scoprirono di essere entrambi legati a un partner con cui non c’era possibilità di comprensione: lui descrisse sua moglie; una donna non adatta a comprenderlo, che aveva perduto negli anni ogni stimolo al sentimento e dedicava se stessa soltanto ai figli. Lei gli descrisse il marito, che un tempo aveva ritenuto fosse il migliore di tutti e che invece si era rivelato arido, avido di denaro, deciso a farsi strada a ogni costo, anche calpestando la sua felicità. Dopo questo scambio di confidenze zittirono entrambi, consci di quella magia che li univa in quelle brevi ore. Quando il freddo della notte cominciò a pungere le carni, rientrarono al chiuso, per ballare sotto le luci sfuggenti, abbracciati e incuranti degli altri. Poi lui si allontanò per andare a prendere qualcosa da bere e fu la fine di tutto: la ritrovarono gli amici, la costrinsero ad allontanarsi dal posto in cui lui l’aveva lasciata e infine, sotto la pressione di una ragazza del gruppo che voleva rientrare a ogni costo, dovette lasciare il locale. Era senza auto propria e inoltre non poteva neanche spiegare il motivo per cui avrebbe desiderato restare ancora. Nella sua mente ritornò imperiosa la realtà della sua esistenza e questo bastò a farle comprendere quanto fosse folle continuare quell’avventura di carnevale iniziata così alla cieca. -” E’ meglio- si disselasciare in lui il ricordo di un’indimenticabile serata, piuttosto che distruggere tutto con l’acido della realtà”- Appena a casa pianse a lungo sfilandosi l’abito della sua notte di sogno, poi, quasi compiendo un rito, ripose tutto in un grosso scatolo e lo legò. A giorno fatto si addormentò oppressa da un dolore cupo e senza soluzione. L’indomani si destò tardissimo: Marco era ritornato e le dormiva accanto. Osservando il suo volto giovane, gonfio di sonno e dai capelli scomposti provò per qualche secondo la conosciuta sensazione di tenerezza ma questa ò, lasciandola di nuovo amara e triste. Si alzò per preparare la colazione come ogni giorno. Dopo un po' sentì un rumore di acqua provenire dal bagno e comprese che anche suo marito si era destato. Non lo attese e cominciò invece a bere il suo caffè, sfogliando una vecchia rivista. Sentì i suoi i, prima di vederlo, poi la sua corporatura slanciata si stagliò nell’arco della porta donandole per un momento la sensazione di un ricordo che le sfuggiva. Gli occhi di suo marito l’osservarono pensierosi, come pervasi di un qualcosa di imperscrutabile. Forse era dolore, forse rancore. Si osservarono senza parlare e quindi anche lui si sedette al tavolo per bere il caffè. La Gitana e l’Aramis, tolta la maschera, non si riconoscevano più.
Handicap: il piccolo mondo di Rosi.
C’erano due margheritine gialle, piccolissime, maltrattate, nate ai bordi di una strada di campagna. Rosi è quasi piccola come loro, con un buffo faccino orientale e due occhi a mandorla. Ma non è cinese. Porta due treccine strette strette, fermate da un nastro rosa. Parrebbe quasi che sia nata così: con le treccine. Sorride a tutti, agita le manine grassocce dall’alto del balcone anche quando a qualcuno per strada e neanche la guarda. Sorride lo stesso. Quando deve mangiare fa confusione tra forchetta e coltello e c’è rischio che si tagli. Occorre che qualcuno la guidi, pazientemente, senza sgridarla: piange per nulla. La mamma non ha sempre pazienza, una volta le è scappato uno schiaffo su quella guancia rosa. Ma lei quella volta non ha affatto pianto, anzi, è scoppiata in una strana risatina e poi ha messo l’intera paffuta manina nella minestra. Ma nessuno l’ha sgridata. Il mondo è pieno di grandi cose e di grandi menti. Pieno di grandi artisti e di grandi scienziati. Ma anche di immense vallate e lontanissime montagne viola, di dolcissimi cieli azzurri, velati a volte di nuvole stracciate, quasi appese ai campanili, come nei racconti. Appese ai campanili. Rosi allunga le mani, talvolta, perché “vuole liberarle”. Poi vuole afferrare le rondini che in autunno vanno via e piange perché non vorrebbe che andassero. Occorre dirglielo con delicatezza che hanno le ali. A, come Ali. E la manina, stretta nel pugno grande del papà, scorre sul foglio, incerta, e segna linee e trattini. Ma lei vorrebbe che A di Ali avesse uno svolazzo più lieto, come quello delle rondini. E ogni volta quel piccolo segno si allunga come un baffo sulla pagina. Poi c’è M, come Mamma. Lei sa bene chi è quella mamma che la veste al mattino e le insegna con voce stanca una volta di più: -” scarpe, lacci,
calzini...”- col sottofondo della vocina di Rosi che ripete -”cciiii... niii...”- e resta un momento sull’ultima vocale come l’eco di uno scamlio. Scamlio. Come il telefono. E’ grigio, si agita, suona, fa strani singhiozzi monotoni e speso parla. E’ strano quel telefono. Da prendere in mano con attenzione perché poi sfugge, anche, dalle mani, e cade in terra e si rompe con un buffo suono. E’ un suono, quello del telefono quando squilla, che ha il potere di incantare Rosi. Lo fissa e sorride. Parrebbe quasi che le ricordasse qualcosa di molto bello. Un tempo Rosi è andata a scuola. Era una bella scuola e si chiamava “asilo nido”. “Ilo ido” lo chiamava lei, seria. Non ci rideva su quei due suoni. C’erano tanti bambini in quella scuola, tutti più piccini di lei, ma tutti tanto più bravi. Lillo sapeva già far funzionare il trenino e con le sue manine sciolte e destre lo posava delicatamente sui binari e gridava:- ”Via!” Poi premeva un tasto e quel cosino tutto nero e lucente si metteva in moto e girava sempre in tondo per intere mezz’ore. Ma quello stesso trenino nelle mani di Rosi faceva il difficile: pungeva, si scuoteva, scappava dai binari, s’impuntava come un cavallino imbizzarrito ed infine Rosi indispettita gli appioppava un colpo. Arrivava subito la voce della maestra:- ”Devi portare “ pazienza”, usa “destrezza”, usa “ attenzione”, Rosi. Se solo volessi “davvero, ci riusciresti, ma sei troppo impaziente!”- Diceva la voce. Rosi proprio non capiva cosa dovesse portare, dove fosse “attenzione” sul trenino e “destrezza” poi... -” Non devi dargli le botte, altrimenti si rompe!”- Ritornava la voce. Botte lei lo capiva. Ma era troppo stancante capire tutto e c’erano sempre troppe cose difficili da capire. Era stato sempre così. Come le sue eterne treccine che lei si ritrovava in testa intatte, con il solito fiocco rosa che “ Non si deve toccare altrimenti si scioglie!”- Per carità! Chissà cos’era quel “scioglie!”. Fiocco rosa. Lo posero sulla porta della stanza che la mamma occupava in clinica. Si trattava di un fiocco gigantesco, allegro, da cui pendeva un bimbo di panno rosa. Lo appese la nonna che era testarda ed avendo atteso tanto quel primo nipotino precisò quasi con rabbia:-”E’ una femminuccia, credo? Almeno su questo sarete d’accordo!”- Rosa furono i confetti del battesimo, rosa i vestitini che le regalarono e rosa anche il velo di quella splendida culla che era stata fatta “tutta a mano” -prima che si sapesseMa le lacrime che versava la mamma, quelle erano trasparenti. Lei non sopportava di vederle, invariabilmente si metteva a piangere, “per simpatia”, diceva il medico. Ma in realtà piangeva per un nonnulla, quando non sorrideva.
Intelligenza. Che parola lunga! Difficile. L’aveva ripetuta un signore tanto simpatico che le stringeva la manina e la fissava negli occhi. I suoi occhi da orientale a cavallo sul nasino tondo. Poi c’erano tutti i cosi colorati che non trovavano mai sistemazione perché erano sempre diversi dalle loro “ tane”. poi c’erano tutti quei disegnini da fare o da indovinare:“Cos’è questo? Cos’è? Cos’è?”Era una mucca -”Ucca”- Poi un topo tutto giallo. No, era una “falfalla”. Di quelle che fuggono via appena tu allunghi una mano. Inoltre c’erano tutte quelle linee, quei buffi ghiribizzi arancioni e viola. Le “ macchie”. Gioca con me, Rosi, c’è nascosto qualcosa qui dentro. Gioca con me... ma non era un gioco e se lo era si trattava proprio di un gioco cattivo che serviva soltanto a farla sentire tutta triste e molto stupida. -”Upida!”- Upida era lei. Ricordava che il piccolo biondino con quegli strani occhi azzurri come il cielo le diceva sempre:-”Stupida!”. E lei con quel trenino proprio non ci riusciva. Però era divertente anche “upida!”- Sempre meglio che stare in casa sul balcone senza trenini ne bambini biondi. E sorrideva dunque al ricordo del camlo che chiamava tutti i bimbi a scuola, quando squillava quel benedetto telefono nero. A casa c’era il papà così serio che qualche volta la fissava con certi occhiacci, eppure si sa che ai bimbi piccoli capita di non fare in tempo ad andare al gabinetto. Ma lei non era più piccola. O forse si? per una strana magia, sempre piccola? Coi treccini ed il visetto a palla e le orecchie un po' a sventola e le manine paffute. Come in una fiaba un po' cattiva? Una lacrima è concessa, poi un sorriso ed addormentarsi con il grosso orsacchiotto di pelo, vecchio vecchio, che aveva condiviso con lei il primo biberon e non si lamentava dello strappo che gli aveva fatto nella pancia. Buffo come lei e come lei un po' troppo grande e troppo solo. Buffo. L’orsacchiotto e le treccine nere si addormentavano con lei ogni sera e si risvegliavano con lei ed i fiocchi rosa erano già li, come per incanto. Qualche volta si andava in auto e tutto diveniva tanto difficoltoso: - “Tieni chiusa la bocca ...”- diceva il papà. -”Lo sai che le è difficile...”- “Sì, ma non vuol proprio capire: è testarda”- “Che dici, non è colpa sua!”- “So io di chi è la colpa...”- “Torniamo di nuovo sulla storia del test che avrei dovuto fare.”- “Lo
sapevi che tua cugina...”- “Sì ma perché anche a me? Il medico...”- “Intanto non se la ritrova lui la figlia handicappata. E non ci casco più. Una e basta...”Vecchie storie che davvero lei ringraziando il cielo proprio non capiva, capiva soltanto che il volto del babbo era meno liscio di quello della mamma e le sue carezze rare. Il viso della mamma però a quelle parole si incupiva come un cielo quando è nuvolo. Eppure dopo tanti musi duri un bel giorno anche il volto del papà aveva sorriso. Dopo quei mesi in cui la pancia della mamma era cresciuta così tanto e lei faticava ad abbracciarla: tirava calci e le avevano detto che dentro c’era “ un fratellino”. “dentro in pancia?”- Incredibile! -”E’ piccino piccino”“iccino, iccino ome me?”- No! Tanto più piccolo, Rosi”- “io!”- Disse lei con un sorriso. E poi:- “Iccina...”- In auto il papà l’aveva osservata curiosamente. Si erano poi fermati un momento su quella strada di campagna e proprio allora era accaduto il miracolo:“ Gialla!”- Disse Rosi, ed allungò una mano in quel po' di prato al lato dell’asfalto per afferrare una margheritina tanto piccola e sporca di smog. -” Piccola!” Esclamò poi, un po' emozionata come le capitava spesso per ogni cosa che le sembrava straordinaria. E non le colse. Fu allora che il papà rise, con gli occhi che brillavano di pianto e le disse: -”Piccola come te, tanto piccola che nel mondo si trova un posticino anche per lei...”- Ed ancora, con una strana espressione sul volto, le aveva sorriso.
Strade parallele
Il portoncino era piccolissimo, quasi un buco; una scaletta oscura conduceva su: “Possibile che abiti qui?”- Si chiese Luisa con una sorta di angoscia. Eppure pensava che oramai Elio avesse fatto carriera nel campo della Fisica Teorica, magari come insegnante all’università. Lo ricordava così preparato, simpatico, alto, leggermente strafottente: un tipo unico al mondo. -” Abita al terzo piano ”- Le aveva detto il proprietario del piccolo ristorante all’angolo. -”Dove sarà poi questo terzo piano?”- Disse tra sé fissando il portoncino di ferro che sbarrava il o al 2° piano. Forse sopra c’era il terrazzo. Provò a bussare con la nocca delle dita contro quell’inviolabile parete che la divideva dalla possibilità di rivedere l’amico. Con sua grande meraviglia vide comparire da sotto l’uscio, alto una decina di centimetri dal suolo, un paio di grossi piedi calzati in ciabatte di feltro. -” Può trattarsi di lui?”- La porta di ferro si socchiuse e dallo spiraglio la fissò un volto barbuto e occhialuto. Si fissarono anzi, perché lei per un folle momento temette che quel volto appartenesse a Elio. Ovviamente non era lui. -”Cerco il dottor Elio Alberti, abita qui?”- Domandò Luisa, leggermente a disagio. --”Più su, ma credo che non ci sia... ”- Rispose il barbuto senza mostrare di volersi scostare di un millimetro. -”Vorrei provare a bussare, se permetti... ”-“Prova pure”- Asserì finalmente il cerbero con un’aria notevolmente scocciata. Poi si fece di lato per lasciarla are. Lei lo guardò con una punta di sospetto: non sembrava pericoloso, ma chi poteva dirlo, poi? Salì un altro paio di rampe di scale giungendo a quel famoso 3° piano che difatti esisteva per ritrovarsi di fronte a un’altra porta chiusa, questa volta di legno laccato in bianco. Bussò ripetutamente senza successo. -” Vedi che non c’è?”- Sembravano dire gli occhi annoiati del giovane. -” Vive solo?”- Domandò lei, che non voleva cedere di fronte all’evidente fallimento della sua missione. -”Con un paio di amici... ”-
-”Potrebbe essere andato all’Istituto di Fisica?”-”Non lo so... non lo conosco bene: ci parliamo appena.”-”Se mi dai una penna e un foglio gli lascio un biglietto”- Asserì Luisa con fermezza. Lui acconsentì con un gesto del capo. Discesi giù, la fece entrare in una stanzetta con scrivania: -” Studi medicina?”- Chiese per cortesia la ragazza, osservando i libri aperti sul ripiano. -”Si”-”Esame di anatomia patologica?”-“No. Patologia medica”- “Ah!”Avuto il foglio e la penna meditò su cosa scrivere. Non vedeva l’amico da circa sei anni. Decise per due parole di saluto, la sua firma e il numero telefonico dove avrebbe potuto rintracciarla.-” Riparto mercoledì.”- Aggiunse. Dopo avere risalito le scale, sempre sotto l’ironico sguardo del giovane, infilò il foglietto sotto l’uscio e si ritenne soddisfatta. Dopo tutto se Elio voleva, sapeva come rintracciarla. Appena in strada, (erano calate le ombre della sera), diede uno sguardo alle finestre e ai balconcini mal messi del palazzotto. -” Chissà perché vive ancora così poveramente”- Pensò con un sospiro. Poi andò via. Albeggiava quando Elio fece ritorno a casa. Fermò la vecchia Volvo sotto il portone e salì le scale nella quasi totale oscurità. -” Naturalmente quel fesso ha chiuso anche stavolta!”- Brontolò tra sé con una punta di dispetto nel notare che l’uscio di ferro al secondo piano era serrato. -” Chissà cosa teme che possano portargli via, magari i libri!”- Cercò le chiavi della prima serratura e quelle del suo appartamento. Dopo pochi minuti aprì la porta bianca e alla fioca luce che cadeva di sbieco dalla finestra, notò il foglietto lasciatogli da Luisa. -” Sarà per me?”- Pensò e infilò il messaggio senza leggerlo nei pantaloni di velluto. I suoi amici non erano tornati per la notte costatò, quindi lo sguardo gli cadde sul divano letto in disordine e sui fogli di appunti per il libro che stentava a scrivere, scaraventati un po' dappertutto in un momento di rabbia. Non gli riusciva a trovare il bandolo della sua vita e quanti avevano creduto in
lui, cominciavano a dubitare; tutto era cominciato quando, allo scopo di facilitarsi l’esistenza, aveva accettato “l’aiuto” di un’amica più anziana con cui aveva una relazione. Tre anni di “sussistenza” in cui non si era reso conto di scivolare nella disistima di se stesso. E ecco il risultato: del brillante laureando in fisica, oggi laureato a pieni voti, c’era soltanto l’immagine esterna; perduti gli stimoli, gli interessi, le speranze, le mete... Ragionando tra sé pose le mani sotto l’acqua del rubinetto per lavarle accuratamente finché anche le unghie risultassero candide. Era una sua piccola fissazione, quella di mantenere pulitissime le sue grandi mani rosee un po' grassottelle come quelle di un “bravo bambino”. In quel momento ricordò il biglietto lasciatogli sotto l’uscio e lo estrasse dalla tasca. Lo colpì la firma. Non si era ancora disegnata nella sua memoria il ricordo della ragazza che già soltanto quel nome aveva avuto il potere di fargli nascere nell’animo una sorta d’indefinito rimpianto, poi da qualche parte del suo ricordo sbucò l’immagine della ragazza cui il nome apparteneva. Luisa! Quanti anni erano ati... ma cosa poteva volere da lui? Il volto della giovane sembrava apparirgli innanzi a tratti, nebuloso come quello di un fantasma. Gli ricordava l’università, gli studi resi difficili ma non amari dalla mancanza di denaro per la sopravvivenza, l’amicizia con lei, le eggiate... e infine la delusione di saperla innamorata di un altro. Durante il loro ultimo incontro era allegrissima: era diretta a Torino, o Milano, col suo grande uomo. Non aveva mai capito nulla dei suoi silenzi, delle risate che suonavano false, dei suoi sguardi... -” Al diavolo! Ma cosa crede che faccia? Che mi precipiti al telefono per cantarle la gioia di saperla viva? O che persino,le chieda di uscire? Perché poi? Magari per sentirle dire quanto è felice con lui, oppure infelice... comunque sono fatti suoi!”- Il foglio, accartocciato, fece un volo per la stanza. L’indomani un sole estivo e insistente lo costrinse a lasciare il letto; era ancora vestito. Per un momento qualcosa di gioioso, come una speranza senza corpo, gli ballò nell’anima, lasciandolo stordito. Poi ricordò con lucidità e si chiamò cretino: dove diavolo aveva buttato il foglio? Intorno era un caos di coperte, indumenti, fogli e mille inutili cosa sparse in terra e sui mobili. Come trovarlo? Decise di mettere ordine. Si lavò il viso con una sensazione di pace e benessere che non provava da secoli. Il caffè ebbe il potere di ridestarlo del tutto e si pose all’opera. -” Che fai la servetta?”- Lo sfotticchiò amichevolmente Roberto che in quel momento rientrava. Non rispose e lui andò via fischiettando con un’alzata di
spalle. La ricerca del foglio appallottolato gli portò via circa un’ora. Ma intanto aveva anche raccolto i suoi appunti che rinchiuse nella cartelletta. Quando proprio non se l’aspettava, eccolo, finalmente! Era finito sotto il tappetino arrotolato ai piedi del letto. Rilesse le parole gentili e il numero telefonico della città e si convinse che l’avrebbe rintracciata; sì, ma prima voleva mettere ordine anche nella propria testa e magari comprarsi un maglione decente e un paio di pantaloni più presentabili di quelli con cui aveva dormito. Lasciò l’appartamento pieno di buoni propositi. -” Che ti aspettavi, cretina? Piombi nella sua vita dopo anni di assenza senza pensare che magari lui è innamoratissimo di chissà chi! Tu cosa gli hai dato? Soltanto delusioni. Sapevi da sempre che ti amava, ma fingevi di essere per lui soltanto una buona amica, per poi annoiarlo ogni vota che qualcosa ti andava storto. E lui zitto a sopportare le tue lagne! Che cosa pretendevi, ritornando così senza preavviso nella sua vita? Che fe salti di gioia? Magari il tuo numero di telefono l’ha già bello che stracciato!”- Dopo questi pensieri neri Luisa decise di lasciare la casa della sorella, visto che era restata in attesa tutta la mattinata, per andare a mangiare una pizza. Fu proprio a quell’ora che finalmente Elio decise di chiamarla al telefono. Ovviamente, nessuno gli rispose. -”Che sia partita?”- Da un telefono pubblico, mollando di tanto in tanto l’apparecchio per gli sguardi micidiali lanciatigli da altri che volevano telefonare, restò circa un’ora a riprovare con testardaggine. L’ora dal pranzo, perbacco, sarebbe dovuto rientrare almeno per il pranzo! -” Purché non pranzi fuori, e perché non con il suo lui?”- Gli disse il pensiero. Poi si diresse nella solita trattoria per calmare i morsi della fame. Quando il diavolo ci mette la coda noi ce la prendiamo con il destino: Luisa occupò parte del pomeriggio a chiamare il numero di Elio dal ristorante, per ascoltare il segnare di “libero” mentre lui, dalla strada, chiamava il suo senza che nessuno rispondesse. -”Come ho potuto illudermi di trovarlo pronto alle mie richieste?”- Pensava lei tristemente. -”Dove diavolo si sarà cacciata?”- Si diceva lui. Entrambi rientrarono ai loro appartamenti e, tra brevi pause, ritentarono più volte. Fatto sta che lo fecero all’unisono, trovando ciascuno occupato il numero dell’altro. Entrambi s’imposero un qualcosa che li tenesse distratti, ma quel maledetto telefono non squillava mai. -”Esco! Non posso are in casa i due giorni di ferie!”- S’impose Luisa. La sorella era in vacanza con il marito dai genitori di lui assieme alle bambine e quella grande casa vuota le metteva tristezza. Elio da parte sua s’impose di
recarsi all’Istituto di Fisica per il colloquio con un professore, già programmato, con l’intenzione di richiamarla di nuovo a ora di cena. Comunque fossero andate le cose gli era spuntata dal profondo una strana voglia di ordine e metodo, una volontà di recupero che portava impresso il volto del ato. Rientrò al suo alloggio che erano quasi le venti e il telefono, che fino a pochi momenti prima aveva fatto udire più volte la sua voce, ora taceva. -”Eppure il mio numero è sull’elenco, maledizione! Potrebbe sempre richiamare lei!”- Si avviarono quasi all’unisono verso l’apparecchio, ignari l’uno dell’altra, come per telepatia e il risultato fu che entrambi udirono di nuovo quel maledetto segnale di occupato. Anzi, no! A casa di lei uno squillo riuscì a sfuggire, proprio mentre Luisa abbassava la cornetta; la riprese in mano col batticuore! Macché. Lui aveva abbassato la propria. -” Al diavolo! Chissà come riderebbe di me se sapesse che sto trascorrendo queste ore di ferie nell’attesa di risentire la sua voce! Che mi aspetto da lui? Non mi starà neanche pensando.”- Proruppe la giovane ad alta voce fissando l’odioso telefono nero. In nome dell’orgoglio decise di uscire in strada a sorbirsi la seconda pizza della giornata. Uno sbattere d’uscio: ecco, l’appartamento è di nuovo vuoto. Elio riprova a telefonare e: il segnale di libero gli offre qualche secondo di speranza, poi nulla. Nessuno risponde. -”Ma com’è possibile? Un secondo prima è occupato e dopo poco nessuno più in casa?”Un bel mistero. Benché fosse di solito un tipo tranquillo, questo non gli impedì di mandare un paio di bestemmie in direzione del telefono. Poi uscì anche lui. Si giunge dunque alla mattina della partenza: il posto di lavoro attende, il viaggio per Milano è lungo e la ragazza malinconicamente già stringe nella sinistra la valigetta per poi chiudersi alle spalle la porta di casa. E eccolo! Quel telefono del diavolo incomincia a squillare proprio adesso! Le chiavi! Dove ha messo le chiavi? In borsetta, nel borsellino. Freneticamente Luisa le cerca, le prende, le infila nella serratura, apre l’uscio e si lancia verso l’oggetto... che improvvisamente tace. Tace, maledizione! Voglia di piangere? Sì, anzi, qualche lacrima scorre sulle gote pallide di delusione. -” Che faccio? Aspetto che richiami? No, chiamo io... ”- Segnale di occupato. Quel treno alla stazione può partire senza di lei... cosa da perderci il posto, oltre
che la pazienza. Dopo un rapido sguardo all’orologio da polso Leila torna a rinchiudere la porta d’ingresso; il telefono riprende a squillare mentre lei supera d’un balzo il portone del palazzo. -”Non era destino!”- Si dice con rabbia la ragazza e proprio per un pelo riesce a balzare sul pullman diretto alla stazione centrale.
La tomba etrusca
Da più di trenta minuti restavo ferma, seduta su di un letto tricliniare scavato nel tufo, osservando rapita, a circa sei metri sotto terra, i dipinti che la luce incerta di una lampada a pile mi permettevano di ammirare. Gli affreschi, risalenti al V sec. a.C. rappresentavano etruschi adiposi distesi su letti di bronzo, serviti da agili giovinetti cinti di alloro. Sui lati più bui dell’ambiente quadrangolare alcuni esili ballerini danzavano, facendo ondeggiare i chitoni trasparenti al ritmo di una musica muta. I suonatori erano alle mie spalle, esili anch’essi, e ricavavano con le lunghe dita affusolate note mute dai loro strumenti a corda. In tutta quella musicalità pittorica, regnava invece il silenzio e non si udiva altro respiro umano che il mio. Nessuno scalpiccio proveniva dai giovani danzatori muniti di sandali di pelle. Mi alzai per osservare più da vicino la pasta irregolare del colore steso senza grumi sulla parete. In alcuni punti si potevano chiaramente osservare i ripensamenti dell’artista che aveva allargato un polpaccio o reso più morbido un panneggio lasciando la traccia del disegno precedente in una linea color mattone appena visibile. Fuori era giorno. La piccola comitiva di giovani con cui avevo intrapreso da Napoli, sotto l’egida della facoltà di architettura il mio viaggio per l’Etruria, si era diretta poco lontano per consumare una rapida colazione. Mi trovavo a Cerveteri, nella necropoli Etrusca. Sin dalle prime ore della mia permanenza in quei luoghi mi ero sentita soggetta a una specie di misterioso richiamo, in compagnia di una presenza occulta che sembrava volesse invitarmi a un appuntamento. In parte sospettavo di essermi autosuggestionata, poiché per natura mi sento attratta da tutto ciò che sfugge alla realtà conosciuta e la mia ipersensibilità mi conduce spesso a essere tesa come la classica “corda di violino”, pronta a percepire tutto ciò che si astrae dallo svolgersi naturale delle cose fisiche. E’ forse proprio a questa caratteristica che devo la mia capacità di percezione che oserei dire extrasensoriale. Il pensiero degli altri a volte mi sconvolge come se penetrasse in me. L’avversione, o anche soltanto l’antipatica che “riconosco” in un altro essere umano nei miei confronti mi rende ansiosa, pronta a scattare.
Nell’entrare in un territorio gremito di un ato antichissimo mi era sembrato di poter percepire le voci di quanti erano vissuti in quei luoghi millenni prima. Le stesse sensazioni le avevo provate visitando Ercolano e Pompei, sentendomi trafitta a volte dalla disperazione di quanti, sopraffatti dall’evento improvviso dell’eruzione, avevano tentato la fuga senza successo. Ma nella necropoli le ombre erano più dense, forse a causa del mistero insito nella stessa società Etrusca. La tomba in cui mi trovavo non aveva niente di triste perché gli etruschi erano scevri, almeno nei secoli più fiorenti della loro civiltà, dal sentimento di paura e di disperazione che accompagna solitamente il concetto di morte. Tra quelle mura pesanti, somiglianti in parte agli ambienti domestici dei vivi, non ero sola: con me, in un angolo buio, o forse accanto a me, c’era un qualcosa o un qualcuno che mi teneva costretta al silenzio e alla meditazione; l’entità voleva pormi in grado di recepire la sua voce, silenziosa come gli accordi provenienti dagli strumenti dei musicisti e io facevo il suo gioco tacendo, socchiudendo gli occhi, estraniandomi dal ricordo degli eventi a me più vicini e da quello cocente delle braccia di Vittorio, il mio ragazzo, che mi aveva lasciato all’improvviso partendo poi per Firenze con la mia più cara amica. " Ti ascolto, sono qui per te... ”- Dissi a bassa voce rivolta al “lui” sconosciuto. La luce della lampada sembrò vacillare, ma forse era soltanto la mia lucidità di coscienza a ondeggiare mentre nel mio “io-pensiero” si apriva un varco sottile che avrebbe permesso all’entità psichica di parlarmi. ” Sono con te” Disse, difatti. Mi alzai, quasi in trance, per risalire la scala che mi aveva condotto giù nella tomba. La presenza mi seguiva a un o; potevo oramai vederla: era un giovane bruno, dai capelli ricci e neri. I grandi occhi sembravano sorridermi, la figura sottile era coperta da un chitone di un bianco azzurrino, con i bordi ornati da una linea spezzata. Aveva bruna anche la pelle, lunghissime mani e atteggiamento fiero. Appena fuori, benché illuminato dal sole, non disparve, ma prese a camminare innanzi a me; lo seguii in silenzio, calpestando le pietre della strada ingombre di erbe e sassi. Pur trovandoci vicini al tramonto, il calore era intenso. Ci dirigemmo insieme sullo stradone principale, fiancheggiato da tombe, sempre in silenzio, interrompendo a tratti il o per osservarci, occhi negli occhi. Il sole si abbassò sull’orizzonte lasciando una penombra calda. Dopo circa un’ora terrena ci addentrammo in uno spazio fuori le mura della necropoli, dove a vista d’occhio non si vedeva altro che un terreno arido, coperto di sterpi ed erbacce e interrotto a tratti da qualche stentata pianta di ulivo. Lui all’improvviso si fermò accanto a una collinetta di terreno e senza profferire parola udibile da orecchio umano o percepibile telepaticamente m’indicò con una mano una specie di anfratto nella collina. Mi sorrise e in quel momento
riaprii gli occhi alla realtà. Mi sentivo terribilmente stanca e la solitudine intorno sembrava immensa, ma poi udii distintamente, portate dal vento, le voci dei miei amici che chiamavano il mio nome. Non osando lasciare il luogo per timore di non essere poi in grado di riconoscerlo, mi lasciai cadere sull’erba. Le voci si avvicinarono e non appena fui certa che potessero udirmi cominciai a chiamare anch’io. Il gruppo mi raggiunse in pochi minuti; Alberto, il teorico dell’equipe, fu il primo a scorgermi e mi tirò su con uno strattone :-”Cosa diavolo ti succede? Ci era parso di intravederti innanzi a noi camminare come una sonnambula, poi ti abbiamo perso di vista perché tra te e noi c’era un velo di calore. Hai una faccia da far rabbrividire gli amanti del brivido!”-. "Devo scavare qui. Dobbiamo scavare qui!” Asserii, certamente con uno sguardo folle. "Per trovare cosa?” Chiese Alberto. "Qualcosa deve esserci: forse una tomba. Me l’ha indicata lui.” "Lui chi?” Domandò Rossana, una delle colleghe di “architettura”. "L’etrusco!” Affermai. Gli occhi di tutti si fermarono su di me perplessi e preoccupati. "Ehi, testolina! Ma lo sai che occorre un permesso per scavare buchi sui terreni degli altri? Per non parlare di cose come mezzi meccanici o operai... ” Precisò Alberto. "Sì, certo! Otterremo il permesso.” Decretai convinta. Naturalmente dovetti offrire loro tutte le spiegazioni, ammesso che di spiegazioni si potesse parlare, data l’inverosimile avventura che avevo da fornire. La cocciutaggine con cui mi battei diede comunque i suoi frutti, difatti, a meno di una settimana dall’evento misterioso riuscimmo a ottenere tutti i permessi necessari. L’aiuto ci venne soprattutto da Maurizio Fanti, un archeologo molto noto, amico di Alberto. Quando lo conobbi dovetti riconoscere che non usava con noi quel tono di superiorità tipica di alcuni professori della facoltà e inoltre sembrava egli stesso molto giovane per come vestiva e agiva. Ci fu d’ausilio per convincere le autorità competenti anche il fatto che il nostro gruppo di ricerca archeologica
godesse di alcuni privilegi, per cui riuscimmo a dimostrare in qualche modo su cosa si fondassero le nostre ipotesi. Naturalmente si trattava di favole: gli amici, che già conoscevano il mio intuito personale comprovato in altre occasioni da brillanti scoperte, costruirono un’inesistente teoria basata su alcuni scritti di autori latini, tanto per fornire una base alle mie intuizioni. Impossibile invece attendere lo stanziamento per i fondi necessari a un sopralluogo fatto a regola d’arte con operazioni di scavo; decidemmo dunque di procedere noi, con l’aiuto di un paio di robusti ed esperti operai fornitici dalla Soprintendenza e un mezzo agricolo scovato magicamente da Maurizio presso amici. Si era giunti il Venerdì del 15 luglio e decidemmo di attendere alle diciotto per porci al lavoro in modo da evitare il caldo ossessivo. Alle diciassette raggiunsi il luogo indicatomi dall’etrusco; mi sentivo presa da dubbi, timorosa di essere stata vittima di un’allucinazione. Che cosa avrei detto se, a scavo ultimato e dopo aver sollevato tanta attenzione, dal lavoro non fosse comparsa nessuna costruzione? Mi sedetti sull’erba arsa dal sole, incrociai le gambe e osservai stordita un discreto numero di formiche nere arrampicarsi impazzite su di me. Gli sterpi erano pungenti e l’aria odorava di cose morte. In quel momento, udendo dei i avvicinarsi alle mie spalle, ebbi un tremito, ma poi mi dissi che non poteva trattarsi ancora dell’etrusco, poiché non avevo mai percepito i suoi i. Si trattava invece di Maurizio che, in pantaloncini corti, camiciola e scarpe da tennis, si lasciò cadere accanto a me con un sospiro per la felicità delle già terrorizzate formiche. -” Ciao. Ami star sola?”"No, di solito no...” "Il posto è lontano dai luoghi degli altri ritrovamenti, inoltre non mi è riuscito a rintracciare alcun indizio che comprovi la tua tesi sugli autori latini. Marcella: fino a questo momento avevo davvero creduto che le vostre convinzioni si basassero su dati scritti di qualche iscrizione greca o romana, ma non ti sembra giunto il momento di spiegarmi più chiaramente la tua teoria, visto che mi hai tirato in quest’avventura e dovrò condurre le operazioni di scavo?” Parlava con calma e metodo, come si parla a qualcuno che non sembra disposto a capire e aveva perfettamente ragione. "Se vi dicessi su cosa si basa quella che voi definite “la tua teoria” probabilmente mi prendereste per matta” Asserii guardando in terra. "Basta con il “voi”. Sei l’unica del gruppo a non chiamarmi Maurizio. E’ una sorta di autodifesa?”
"Forse. Sono reduce da una delusione sentimentale e voi... scusa, tu, hai qualcosa che mi suggerisce di stare in guardia.” Gli risposi con franchezza. "Sembrerebbe, in modo contorto, un complimento. Vuoi forse dire che ti piaccio?” "Sì, a volere essere sinceri è questo il punto.” "Allora non posso sentirmi offeso. Cosa ti lascia credere che potrei causarti altri dispiaceri?” Chiese ancora, visibilmente interessato. "Sarò più sincera: non hai nulla di quello che mi è piaciuto nell’uomo che ho appena perduto, né l’età, né la superficialità, né l’immaturità; proprio questo mi spaventa: da te non verrebbero indecisioni o mezze misure... ” Conclusi. Maurizio non rispose, mi osservò di sott’occhi qualche minuto e poi, quasi a confermare la mia diagnosi, all’improvviso mi prese per le spalle spingendomi all’indietro sul terreno duro. Fuga pazza di formiche intorno a miei capelli e bacio altrettanto inaspettato con insospettata tenerezza e ione sulle mie labbra. Per qualche istante risposi, poi, molto stupidamente, cominciai a piangere silenziosamente. Infilando la mia testa nell’incavo della sua spalla per parlargli all’orecchio dissi : "Se non mi avevi preso per matta sino a ora, finirai per farlo adesso“ Quindi, migliorando ulteriormente la situazione, scoppiai in singhiozzi. Maurizio mi strinse a se con gentilezza, poi si sollevò, mi rimise a sedere, mi stropicciò il viso con un fazzoletto bianco asciugandomi per bene e decretò: " Dimmi tutto”. Il “tutto” che gli narrai partì dal mio infranto sogno d’amore, (fui il più breve possibile), per concretizzarsi infine nella storia fantomatica della mia esperienza con l’etrusco. Mi ascoltò in silenzio, senza mostrarsi stupito, poi, riferendosi evidentemente al secondo fatto :”Sembrerebbe trattarsi proprio di un rapporto extra sensoriale. Non è la prima volta che l’archeologia si serve di persone come te per le sue scoperte. D’altra parte lo stesso accanimento con cui molti archeologi quali lo Schliemann hanno compiuto ricerche seguendo il filo di un’intuizione per giungere poi a scoperte sensazionali può spiegarsi con quelle che io definisco “sensazioni immateriali.” Mi sorrise attirandomi di nuovo a sé ed eravamo ancora abbracciati, con il mio volto sul suo petto quando sentimmo giungere gli altri. In effetto non ci videro, tuttavia quando ci rimettemmo in piedi, io ancora con il volto rosso per l’emozione e lui con i capelli fuori posto, i
pantaloncini striati di terreno e la maglietta coperta di formiche sbandate non dovevamo rappresentare uno spettacolo edificante. Maurizio però, forse a causa della sicurezza che gli veniva dall’esperienza, non si scompose, anzi, andò incontro al gruppo per darmi il tempo di riprendere un atteggiamento più presentabile. Mentalmente gli fui grata di questo gesto. Malgrado ciò Alberto assunse un’espressione inquieta anche per il solo fatto di averci trovato assieme; dopo la mia rottura sentimentale si era forse fatta l’illusione di potermi consolare, ma non gliene avevo dato ragione. Dopo qualche minuto comunque riprese il sopravvento il motivo per cui ci trovavamo sul posto e ciascuno di noi si dedicò al compito che gli era stato assegnato. Infiggemmo paletti sul terreno per delineare la zona di scavo, mentre Rossana apriva il tavolo da tecnigrafo portatile per segnare in rosso sulla cartina la zona da verificare, riportando poi i dati sul suo taccuino. Gli operai appoggiarono pale e picconi sul terreno restando in attesa di ordini. Occorse circa mezz’ora perché, sotto le mie indicazioni, s’incominciasse a scavare e a portare via il terreno con la carriola; ci mettemmo tutti all’opera con determinazione, benché il lavoro fosse pesante e dopo un po' si instaurò quel tranquillo entusiasmo che nasce dalla convinzione di essere sulla strada giusta per una scoperta sensazionale. Alle venti, stanchissimi, con il calare completo del sole calarono anche le nostre speranze di ottenere un qualche risultato concreto che ci spingesse all’ottimismo: nessun muro di tufo ci aveva indicato la presenza di una tomba e ci rendemmo conto che conveniva attendere l’indomani per lavorare, all’alba con l’ausilio della piccola escavatrice che ci avevano promesso. Avremmo perlomeno potuto creare un solco intorno alla zona di scavo e non era poco. Maurizio ci assicurò che sebbene il giorno seguente fosse un Sabato, gli operai e il mezzo sarebbero giunti entrambi. Riprendemmo coraggio e ci accampammo nella zona degli scavi, dove mangiammo una cena a base di arrosto su legna, mezzo crudo ma reso saporito dalla fame. Ciascuno poi si ritirò, da solo o in compagnia, nelle proprie tende da campo e a me toccò una canadese. Alle ventiquattro tuttavia non avevo ancora preso sonno e mi sentivo invasa da una spiacevole sensazione di freddo. Si era di luglio, eppure battevo i denti. Scostai leggermente la stoffa della tenda per guardare fuori: la luna invadeva il cielo e creava bagliori biancastri sul terreno intorno. Strisciai fuori nell’aria tiepida saltellando per migliorare la circolazione del sangue agli arti inferiori, poi, come attratta da qualcosa, mi avviai verso la zona resa più bassa dallo scavo. Di un tratto seppi che Lui era lì. Mi guardai intorno alla ricerca di qualcosa che mi rivelasse la sua presenza e così lo vidi, immagine chiara, quasi trasparente, sullo sfondo del cielo buio. " Chi sei?” Gli chiesi sussurrando. ”Fui chiamato Ati dal nome del nostro antico
Re. Tirreno, suo figlio, condusse il nostro popolo a queste sponde e vi crescemmo i nostri figli. Amai Nerode, il cui respiro alla vita fu rapito dalla piccola Iride. Ella dorme sotto questa terra, separata in eterno da me.” Mi rispose. "Qual è il motivo che ti spinge a cercarmi?” "I miei resti giacciono lontani da lei e io non trovo pace. La mia ombra vaga da millenni. Tu, essere vivo, puoi riunire le nostre ceneri e i nostri spiriti” Concluse. "Ma come potrò compiere questo atto?” Gli domandai ancora. "Trova il mio canopo di bucchero. Ha la testa scolpita di un guerriero sul coperchio. Proviene dalla tomba che voi chiamate “delle Lire”. Un battere di ciglia e lui non c’era più. Di colpo mi accorsi di essere stanchissima, decisi quindi di rientrare nella mia tenda per cui adagio, per timore di svegliare Rossana che dormiva con me, ripresi il mio posto nella stoffa ruvida della brandina e mi addormentai. Alle prime luci dell’alba il chiarore che cominciava a filtrare mi trovò desta, attentissima e ben decisa a realizzare il desiderio di Ati. Si attendeva il ritorno di Maurizio che avrebbe dovuto portare con sé su di un camion l’escavatrice. Dopo un tempo che mi parve interminabile ato ad ascoltare il respiro regolare di Rossana e il groviglio di pensieri e sensazioni che mi trovavo a vivere decisi di uscire all’aperto. La cuoca di turno stava già accendendo il fornello a gas per preparare il caffè in grande quantità per la nostra tribù e fui la prima a fare colazione. Avevo fame: feci incetta di pane a fette e miele e dopo mi sentii più forte. Maurizio giunse alle sette portando con sé il mezzo promessoci e per quell’ora, puntuali, arrivarono anche gli operai. Tranne Hester cui toccava cucinare, anche Anna, Ludovica, Piera e Germana si posero al lavoro con gli uomini: Sergio, Roberto, Saverio, Alberto, Luciano e ovviamente Maurizio. I più esperti si occuparono di scaricare il mezzo agricolo e condurlo sul luogo degli scavi, dopo tutto divenne più facile, con una trincea di lavoro. La pala meccanica poi era di media grandezza e piuttosto maneggevole per cui non si correva il rischio di frane e, soprattutto, di rovinare le strutture murarie ancora coperte dal terreno e quindi non individuabili. Ma una traccia in realtà c’era e sin dai primi momenti credo l’avessero notata tutti per esperienza: il tipo di pianta a radici più corte che cresceva laddove presumibilmente al di sotto avremo trovato la parte circolare e per così dire “a
cupola” della tomba. Non si può immaginare la gioia che provammo tutti noi quando la pala meccanica dovette lasciare il posto ai picconi e alle pale, giacché dal terreno cominciava a spuntare qualcosa di evidentemente costruito in tufo e nel tufo: una tomba circolare, sul tipo di quelle che generalmente non avevano all’interno pareti dipinte; sarebbe però potuto somigliare a quelle della Necropoli della “Banditaccia”. Non mi azzardavo a sperare in una tomba come quella dei “Rilievi”, ma speravo comunque in qualcosa di speciale, visto il modo poco ortodosso con cui l’avevamo ritrovata, al di fuori dei circuiti soliti, sola e nascosta. Naturalmente questi pensieri dovevano essere un po' quelli di tutti noi e la volontà con cui ci dedicammo al pesante lavoro ci fu offerta adesso dalla certezza del risultato. Maurizio scelse un momento di sosta per prendermi la mano e attirarmi qualche metro più in là : ”Ci siamo!” Gli dissi felice ."E’ vero, la tua ipotesi assurda si è dimostrata esatta. Mi fai quasi paura... ” Rispose lui sorridendo. "Comunque mi sembra di uscire da un incubo! Adesso non mi resta che recuperare il Canopo di cui mi parlava Ati...” Maurizio mi osservò perplesso: " Non vorrei sembrarti troppo curioso: chi è Ati?” Aveva ragione: non lo avevo messo al corrente delle ultime novità e lo feci con la maggiore semplicità possibile, dando per scontato che mi credesse. Lui invece parve scettico: " Tutto questo sa molto di favola.” Commentò. " Inoltre in questa storia c’è qualcosa che non mi convince: come si spiega che due amanti siano stati sepolti lontano l’uno dall’altra? Per non parlare di questa strana tomba posta al di fuori delle mura, come se si trattasse di un essere particolare, che dire, un aruspice, un mago, un semidio. Non possiamo dire ancora a chi appartiene la tomba... ”Aveva ragione, ma io non dubitavo della mia visione per cui rimandai le risposte a quando avessimo potuto penetrare all’interno della struttura che oramai andava definendosi essere molto amplia, probabilmente con più di una stanza e somigliante, come in altri casi, alle abitazioni dei vivi. Più tardi, alla luce delle torce elettriche, trovammo l’ingresso che però era chiuso da una pesantissima lastra di tufo. Restammo ovviamente delusi: avremmo dovuto attendere l’indomani per spostarla con l’aiuto di una piccola gru e altri operai. Eravamo stanchissimi, pressoché digiuni a parte qualche panino mangiato in piedi e tazze di caffè, per cui, dopo avere consumato una cena abbastanza decente alle
ventidue, ciascun elemento la piccola spedizione dormiva oramai saporitamente. Tutti tranne me. Ero nervosa come la sera precedente, quasi convinta che Ati sarebbe tornato per darmi ulteriori spiegazioni. A mezzanotte, oltre me stessa sveglia nel buio non accadde nulla. Sgusciai fuori dalla canadese come avevo fatto la sera precedente e mi diressi alla tomba. La costruzione, la cui parte superiore in tufo era stata liberata per circa tre metri dal terreno, sembrava maestosa. L’ingresso era illuminato da fiaccole e accanto a esso scorsi Maurizio che sembrava effettuare un turno di guardia. -”Che ci fai qui?”- Gli chiesi non appena fui abbastanza vicina. " Aspetto” Fu la strana risposta. "Sapevi che sarei venuta qua?” “ Diciamo con una buona percentuale di probabilità conoscendoti, specialmente se provi le emozioni che provo io: non mi riesce a chiudere occhio.” “Lo sai che per un momento ti avevo preso per Ati?” “Gli assomiglio?” Chiese lui sorridendo. La sua mano prese il mio polso con decisione, costringendomi ancora una volta ad avvicinarmi. "Non so. E’ stata un’impressione fugace... ” “Descrivimelo” Propose lui. Lo accontentai : "E’ alto, bruno di carnagione e di capelli, un po' più snello di te e anche più giovane.” Lui si alzò in piedi e con un’autorità che non gli avevo ancora riconosciuto, mi strinse a sé. Avrei dovuto forse allontanarlo e prendere tempo per pensare, ma non riuscii a farlo. ”Vieni a dormire con me stanotte, staremo meglio entrambi.” Disse. Mi convinse una punta di umiltà che intuii nel suo tono di voce. Lo seguii in silenzio nella sua tenda e dormimmo davvero, anche se abbracciati, sino il mattino. Le occhiate divertite degli amici e quelle per nulla allegre di Alberto il mattino dopo mi convinsero che le nostre eggiate notturne non erano ate inosservate. Non mi curai comunque di spiegare nulla neanche in seguito alla frecciatina di Rossana: -”Dormito bene?”- Pensavo a altro. Occorsero Funi, ganci, piccoli traini a rotelle e una piccola gru, oltre all’attenzione di molti uomini, per spostare finalmente il tufo che ostruiva l’ingresso, ma alle dieci
potemmo finalmente entrare cautamente per compiere una prima esplorazione. Maurizio e io avemmo l’onore di entrarvi per primi, accompagnati da Luciano, l’esperto in fotografie, che aveva il compito di bloccare in immagini l’aspetto della tomba al momento del ritrovamento. Scendemmo nove scalini per ritrovarci in un ambiente di medie dimensioni che ci colpì per la sua stravaganza: pur essendo scavato nel tufo, con cornici, colonne di tipo protodorico, e vani tricliniari, era interamente dipinto. Non aveva forma circolare ma pareti arrotondate agli angoli e sulla destra un gruppo di giovinetti semi nudi danzava e suonava. Più in là si ergeva seria una figura femminile dalle lunghe trecce nere, posta a fianco di un treppiede sormontata da un grosso recipiente. Sul lato opposto invece, vi era dipinta l’immagine di una bambina, anch’essa con espressione severa. La piccola, come tutti gli altri personaggi, presentava il volto di profilo e corpo di faccia ma era delineata con una straordinaria grazia descrittiva nei folti riccioli di un caldo tono dorato, nel grande occhio bistrato e nella dolcezza imbronciata delle piccole labbra. Un po' più a sinistra da questa appariva invece una giovane donna distesa su di un letto tricliniare assieme a un uomo evidentemente anziano. Nelle mani stringevano coppe piene di nettare. Quest’ultima immagine mi stupì poiché non ricordavo di aver visto in altri dipinti figure femminili in tale atteggiamento. Ai lati dell’ingresso vi erano infine dipinti due Auguri in una posa simile a quella della tomba chiamata appunto “ Degli Auguri”, scoperta a Tarquinia. Restammo qualche minuto estasiati a contemplare la scoperta finché la luce dei flash non ci riportò alla realtà. Luciano puntigliosamente fotografò ogni particolare, noi compresi, poi ci indicò una piccola urna di marmo, scolpita a forma di giglio. L’iscrizione latina, che cominciava con un “ Mors acerba”, spiegava poi che vi erano contenuti i resti di una bimba morta a sette anni, rispondente al nome di Iride. Per quanto distasse secoli da noi quella morte precoce, ci sentimmo tutti partecipi come fosse accaduta sotto i nostri occhi, Il nome della bimba, qualora l’intero ritrovamento non fosse bastato a convincermi, mi fece comprendere che il dialogo avuto con Ati non era stato frutto di allucinazione. A fianco dell’urna trovammo anche un canopo scolpito a forma di testa femminile che doveva contenere le ceneri di Nerode e difatti un’altra iscrizione latina che iniziava con un mesto: ” Melioribus annis... ” e proseguiva poi con un lungo seguito di parole dedicate a una donna chiamata Nerode mi fece comprendere che ero giunta alla fine delle mie ricerche. In quel momento ebbi l’esatta sensazione che qualcuno oltre a noi stesse osservando la scena; qualcuno che non potevamo scorgere ma che era comunque presente. Potei quasi udire un singhiozzo soffocato e le grida e i pianti delle lamentatrici. Una volta effettuata la scoperta cui fu dedicato anche ampio spazio sui quotidiani e sui telegiornali delle varie antenne televisive,
dipendemmo direttamente dal Museo di Tarquinia e ci vedemmo costretti al noioso lavoro di classificazione dei reperti. L’ottavo giorno dal ritrovamento lasciai il campo di lavoro assieme a Maurizio per recarmi a telefonare a casa. Nel corso del viaggio per raggiungere un centro munito di telefono notai che era stranamente silenzioso: " Che hai?” Gli chiesi. "Nulla. Spero che tu sia soddisfatta del lavoro svolto. Non mi hai più accennato a presenze estranee... ” "Non ce ne sono state.” Risposi. Poi aggiunsi : "Questo in realtà mi meraviglia, mi aspettavo che Ati ritornasse per darmi ulteriori spiegazioni...” Maurizio fermò l’auto al lato della stretta strada polverosa, poi si girò a guardarmi dicendo: " Tornerai a Napoli una volta terminato il lavoro?” "E’ evidente! Devo preparare due esami per la sessione autunnale e non ho aperto un libro...” "Non resteresti con me se te lo chiedessi?” "Non me lo hai ancora chiesto.” Puntualizzai. "Bene, lo sto facendo adesso.” Disse lui quasi con durezza. "Potrei magari ritornare qui in novembre, dopo avere trascorso a casa qualche tempo. Ma la tua offerta è strana..." "Ti spiego subito: sono separato legalmente da mia moglie. Lei vive a Roma. Non ho legami seri. Vorrei averlo con te; vorrei che tu venissi stabilmente a vivere la tua vita con me. Non è una follia: il direttore del Museo cerca da qualche tempo una ragazza da adibire alla revisione e alla catalogazione dei pezzi archeologici e il lavoro non t’impedirebbe di continuare gli studi..." Maurizio disse tutto ciò quasi d’un fiato, apparentemente senza sentimentalismi, ma intuii comunque in lui un profondo turbamento; lo guardai: aveva gli occhi del colore dell’acciaio, la mascella forte e l’espressione del volto molto saggia. Ci dividevano diciotto anni. Non stavo forse lasciandomi prendere dal fascino dell’uomo maturo? Non sarebbe stato forse meglio per me incominciare, a suo tempo, un’esistenza a fianco di un ragazzo della mia età, come Alberto, libero da esperienze negative? Stavo ancora osservandolo mentre forse i miei pensieri
erano leggibili nello sguardo quando lui, senza attendere risposta aggiunse:-. “Capisco”- E mise in moto l’auto. Fu un viaggio silenzioso e triste e rientrammo al campo alle venti senza avere più ripreso l’argomento. Mi sentivo quasi male dal desiderio che provavo di abbracciarlo e cancellare dal suo viso quell’espressione amara, ma non ero ancora convita della portata dei miei sentimenti e di possedere la forza necessaria ad affrontare una nuova esistenza con lui. L’area archeologica di lavoro ritornò silenziosa verso le 22.30 e, come previsto, il sonno non venne. Provavo invece una sensazione di gelo come era accaduto alla seconda apparizione di Ati. Evidentemente mi chiamava. Fuori ardeva soltanto un fuocherello semispento laddove c’eravamo divertiti ad arrostire degli hamburger. Non mi stupii affatto nel sentirmi attratta o richiamata verso la tomba di Nerode. Ati era lì, la sua figura emanava un tenue chiarore. " Ti aspettavo.” Mi comunicò col solito mezzo telepatico. ” Ed io aspettavo te.” Gli risposi. " Ti ringrazio per aver portato a compimento quanto ti avevo richiesto; adesso ascolta attentamente: la mia vita e quella di Nerude non furono mai unite nel sacro vincolo. Ella fu concessa a un uomo che non amava: il Lucumone di Cere. Egli non poté mai farla sua moglie, tuttavia la tenne presso di sé privandola del mio affetto; ma io le diedi la piccola Iride. Gli dei punirono il nostro amore e alla nascita la figlia con il respiro portò via la vita alla madre. Nerude fu riportata ai suoi e io potei soltanto assistere tra la folla alla cremazione del suo splendido corpo. La mia Iride la seguì dopo sette anni a colpa di una maledizione che gli Auguri di Cere non riuscirono a fermare. Tu in questo tempo che ti appartiene e non è il mio dovrai unire le mie ceneri con quelle della mia donna e disperderle al vento che spira dall’ovest. Soltanto così i nostri spiriti disuniti potranno ritrovare la pace.” Ascoltai senza interrompere la sua spiegazione e non volli chiedergli come avesse trovato la morte in quanto intuii che l’avesse cercata. Tacqui dunque e lui, dopo avere accennato a un saluto con la mano a palmo aperto sparì, assorbito dall’aria stessa. Appena fui di nuovo sola provai soltanto un desiderio: quello di stringermi all’uomo che ormai sapevo di amare. A i felpati raggiunsi la tenda di Maurizio e sgusciai all’interno: dormiva, ma il volto, anche nel sonno, conservava un’espressione sofferente. Senza fare rumore mi stesi accanto a lui in modo da appoggiare poi il capo sul suo petto e ascoltare i battiti del suo cuore vivo. Si mosse e lo baciai dolcemente sulle labbra. Si svegliò e per un attimo mi fissò come se fossi una visione del sogno. Quando le sue mani si appoggiarono
sui miei fianchi e mi strinse a sé non opposi resistenza. Com’era da prevedersi al mattino Rossana tenne verso di me un atteggiamento molto distaccato; non ammetteva le mie “fughe” notturne e probabilmente pensava che stessi facendo soffrire Alberto, di cui in realtà era innamorata lei. Ma quei giorni di Cerveteri si erano succeduti all’insegna dello stupefacente per cui perdonavo a me stessa quel comportamento poco corretto. Mi sentivo comunque certa della comprensione e dell’affetto reciproco che legava me e Maurizio e pronta a cominciare con lui un rapporto serio, senza carte bollate almeno per i primi tempi, ma con molti diritti e doveri reciproci da rispettare. Il problema irrisolto era invece quello di accontentare Ati nei suoi desideri, cosa di cui mi sentivo stranamente obbligata. Ragionando con calma su tutta la situazione potei rendermi conto che per porre a compimento quanto desideravo avrei dovuto agire per vie illegali e con un piano ben prestabilito: innanzi tutto trovare il canopo proveniente dalla tomba di Ati e prelevarne il contenuto, quindi fare lo stesso con il canopo di Nerude e infine spargere al vento le loro ceneri unite. Mi recai quella stessa mattina a Tarquinia nel cui museo ero certa fossero conservati i reperti della tomba di Ati; non spiegai a Maurizio quali fossero le mie intenzioni, ma penso che lui le avesse intuite, pur fingendo di non capire. Il custode al secondo piano si mise subito a disposizione perché avevo il permesso di compiere studi sui pezzi etruschi. Quando ebbi tra le mani il vaso nero in bucchero lucente fui presa da un brivido: non mi divertiva l’idea di rubarne il contenuto. Mi lasciarono sola a studiare il pezzo, convinti che tentassi di scoprire la tecnica di lavorazione e il fatto non stupì nessuno tenuto conto che a tutt’oggi è ancora incerto il metodo di cottura e la qualità dell’argilla usata dagli etruschi mescolata con altri materiali per ottenere quel tipo particolare di vasellame lucente e duro come il bronzo. Maurizio ritenne opportuno lasciarmi sola per andare a salutare il direttore del Museo e io, appena potei, trassi dalla borsa una busta di plastica facendovi cadere con attenzione le ceneri contenute nel canopo. Dalla stessa borsa estrassi poi un’altra busta contenente finissima cenere di legna e la versai nel vaso. Soltanto un controllo accurato avrebbe potuto accertare che vi fosse stata una sostituzione. Una volta completata l’operazione, molto orgogliosa di me e molto tremante riconsegnai il canopo al custode e raggiunsi Maurizio. Non appena fummo di ritorno al campo, misi al sicuro la busta nella mia sacca personale e verso le 15, quando tutti riposavano, mi diressi cercando di are inosservata, alla tomba di Nerude per ripetere l’operazione che avevo portato a termine con successo quella mattina. Maurizio mi raggiunse pochi minuti dopo e io mi avvicinai a lui sorridendo.
"Tutto bene?”- Chiese, con un ironico sorriso nello sguardo. " Oh, benissimo!”- Gli risposi. "Allora credo che questa sera potrai anche rientrare a Napoli per qualche giorno, sistemando le nostre questioni..." "Certo, oramai mi sembra logico, ma fare il viaggio da sola sarà noioso!” "Niente paura: ti accompagnerò io; ho chiesto un mese di ferie proprio allo scopo di conoscere i tuoi genitori e affrontare con te le loro attendibili reazioni. Qualunque siano torneremo insieme a Cerveteri, sempre che tu non abbia cambiato idea..." Per convincerlo del contrario lo abbracciai baciandolo con dolcezza. Ma il mio compito non era ancora finito. Ricordai cosa mi aveva chiesto Ati: che le due ceneri fossero unite e quindi sparse al vento. Sapevo che avrei dovuto spiegare a Maurizio quale fossero le mie intenzioni, ma non mi decisi a farlo se non quando prendemmo la strada del ritorno. Ci dirigemmo verso “ l’autostrada azzurra”, superando tutta una serie di strade interne, a volte affacciate a terreni coltivati ed a volte circondate di ville e villette dai giardini ben curati. Maurizio taceva ed io anche. Nel sottofondo la musica di una radio locale si spezzava a tratti con le pubblicità. Maurizio si girava a guardarmi di tanto in tanto, perplesso: qualcosa del mio comportamento non lo convinceva. Alla fine si decise a chiedere.“Dimmi bella sognatrice: hai poi accontentato il desiderio del tuo spirito inquieto?” Queste parole mi dettero modo di entrare in argomento:“No. Non in tutto, insomma. Dovrai darmi una mano a farlo, però, altrimenti,
tenendo separati per l’eternità gli spiriti dei due amanti, come speri di tenere uniti i nostri in questa vita?” “Mi fai paura! Questa è una minaccia bella e buona!” Esclamò lui tra il serio ed il faceto. “Necessariamente collaborerò!” “ Allora ascoltami.” E, in breve, gli spiegai che avevo con me le ceneri di Nerode ed Ati e che avrei dovuto disperderle al vento, insieme. Non dico che non restasse sconvolto: frenò l’auto al fianco della strada e mi rivolse una occhiata quasi terrificata:- “ Dove sono?” “In questa busta…” Osai rispondere. Fortunatamente Maurizio dimostrava un sangue freddo notevole, perché accettò il fatto in modo abbastanza tranquillo, anzi, direi, pratico. “Bene, visto che si deve fare, facciamolo in questa strada di campagna, dove nessuno ci osserva e dove le ceneri si spargeranno sulle zolle dei campi coltivati. Non chiediamoci dove potranno finire le ceneri.” Così facemmo: Maurizio guidò lentamente, mentre io lasciavo volare via dalla busta la cenere sottile che formava nell’aria come un respiro scuro. Ci vollero circa sei minuti perché il sacchetto restasse vuoto. In quel momento il mio compagno diede un colpo di acceleratore e si allontanò da quei luoghi che ci avevano fatto incontrare sussurrando: “Una vita assieme adesso ce la siamo meritata, no?” Asserii in silenzio, commossa.
Cara, cara.
Valentina dormiva poco e quel poco sempre tra le braccia della mamma, tirandole i lunghi capelli. A sei mesi, ebbe in donno da una zia la prima bambola della sua vita: lunghi capelli, abiti eleganti e il corpicino di stoffa imbottita, morbido da stringere. La mamma fu soddisfatta di notare che, finalmente, la piccina non ava più le notti tirandole i capelli e rigirandosi inquieta nel letto matrimoniale: aveva la bambola e cominciò a dormire stringendola a sé con amore, come se fosse una cosa viva. La bambola, i primi giorni, fu battezzata “Angelina” ma, a dieci mesi di vita, Valentina la chiamava “Cara, Cara” e pretendeva, alle ore del sonno:-“Titti e Cara, Cara”. Così Angelina divenne “Cara, Cara” per tutti e la vocina della bimba, con lo squillo delicato all’ultima parola, fece sì che tutti in casa prendessero ad amare la bambola per amore della bambina. Cara, Cara divenne spettinata e scomposta e dovette subire un primo “intervento” perché la testa, troppo strapazzata dalle manine di Valentina, minacciava di staccarsi dal corpo. La mamma infilò un grosso spago alla base della graziosa testolina di plastica e lo reinserì nel corpo di panno e imbottitura. Così, “Cara, Cara”, cambiò d’abito, fu accuratamente lavata, pettinata e, restituita alla piccola padroncina, che, stringendola tra le braccia, serenamente si addormentò. arono ancora alcuni mesi. Valentina aveva preso a camminare e poi a correre e, ovviamente, trascinò con sé, nei suoi primi approcci con il “Mondo”, anche l’adorata bambolina di stoffa. “Cara, Cara” cominciò a deformarsi, divenne sempre più malandata e dové
subire un secondo “intervento”. Le fu praticato un lungo taglio nell’addome e la vacillante testolina fu più efficacemente inserita sul collo per mezzo di cordicelle argentate. Molti punti di sutura resero al corpicino le primitive sembianze e alla bambola vennero di nuovo cambiato gli abiti. Valentina, allo scuro di queste vicende, continuò a chiamarla “Cara, Cara” e a considerarla un essere vivente. Ogni sera, al momento di dormire, rifiutava anche le braccia materne purché le si consegnassero “Cara, Cara” e il suo succhiotto. La bimba aveva circa due anni quando, di ritorno da un viaggio, (“Cara, Cara” era partita con lei e tornava con lei), la situazione precipitò all’improvviso: alle tre di notte, mentre la mamma tentava di addormentare la discoletta che tardava a prendere sonno, il corpicino di stoffa si accartocciò tutto e la testa di “Cara, Cara” (orrore!!) si staccò dal corpo restando legata soltanto per un paio di fili argentati. La reazione della piccola fu straziante: chiamava la bambolina, la tirava per i capelli, le toccava il corpicino deformato e piangeva a singhiozzi. A quel punto, si doveva agire in fretta: la mamma tagliò i fili del cordoncino, prese dall’armadio una bambolina di plastica di morbida, la privò della testa e la sostituì con la testolina di plastica di “Cara, Cara”. Valentina, rivedendo il sorrisetto della sua bambola, dapprima parve calmarsi; ma poi, nello stringerla a sé, notò con stupore che la sua e arrendevole “Cara, Cara” era divenuta più lunga, pesante, nuda al di sotto dei panni e decisamente sconosciuta. Spossata, quella notte comunque, si addormentò tirando i capelli alla bambola, senza convinzione e con qualche singhiozzo nel sonno inquieto. Al mattino, osservò di nuovo quello strano essere che la mamma chiamava Cara, Cara e lo gettò fuori dal lettino. Chiamò con tristezza: “Cara, Cara”!” e la mamma le riconsegnò il mostriciattolo. Valentina la rigettò fuori dal lettino, con le lacrime agli occhi e implorò di nuovo:- “Cara, Cara”!”. Ma la richiesta sortì lo stesso effetto: le fu riconsegnato l’abominevole essere che, sì, aveva la testa della sua “Cara, Cara”, ma non era lei. A malincuore si arrese. Prese a dormire con la nuova bambola, ma sempre senza convinzione. La mamma, per consolarla, le fece notare che aveva i piedini, proprio come lei, e le manine e anche un corpicino rosa e un culetto. Valentina la toccò, la girò, sorrise e poi prese a dedicare le sue attenzioni alle altre bambole, che fino a quel momento non aveva mai neanche notato. Sorprese tutto quella sera addormentandosi assieme a una bambola dai capelli di lana che cantava le canzoncine. Ma la situazione non si risolse. Ostinatamente continuava a chiedere di “Cara, Cara” e a stringere con mestizia i lunghi capelli del nuovo essere che le ricordava vagamente qualcosa di familiare. Un altro disastro avvenne quando la
mamma condusse a mare Valentina con la sua bambola. Le insegnò a lavarla con l’acqua di mare (era di plastica, questa nuova “Cara, Cara!”), e, al sole cocente, la plastica riscaldandosi, perse elasticità. Fu così che nelle piccole mani di Valentina, a un suo strattone, restò una gambetta di plastica rosa e il resto del corpo finì sulla sabbia. La bimba sembrò restare indifferente, ma perse il sorriso. Ogni tanto chiamava tra sé e sé la bambolina adorata e osservava con una sorta di sentimento molto vicino al dolore ciò che restava di essa. Nel pomeriggio, la mamma addormentò la piccina tenendola in braccio e dicendole:- “Sono io “Cara, Cara”, prendi i miei capelli. Io sono la mamma e non cambierò mai, ti terrò sempre stretta!”. Quindi depose la piccola nel letto dove dormì sola sola, rigirandosi inquieta, per la prima volta senza “Cara, Cara”. Tuttavia la mamma ebbe un’idea e cercò tra le bambole in soffitta (quelle della figlia oramai grande), un nuovo corpo per “Cara, Cara”. Ma che fosse di stoffa imbottita, morbido, leggero e confortante. Lo trovò e con un paziente lavoro artigianale, mise assieme di nuovo la testolina con il “suo” corpicino. Sembrava proprio “Cara, Cara”!” Con dolcezza la mamma posò la bambolina accanto alla figlioletta addormentata, che, nel sonno, la strinse a sé. Poi scostò dalla fronte di Valentina una ciocca di capelli leggermente sudati, riassettò il lenzuolino bianco e si allontanò pensierosa, nella penombra della stanza. Pensava all’amore e a quanto fosse difficile farlo sopravvivere quando il corpo muta, anche se l’animo resta lo stesso. Pensava ai trapianti, pensava a un romanzo mai pubblicato e, soprattutto, pensava a suo padre e a quanto fosse difficile ammettere che qualcosa di molto amato, di certo e duraturo, possa abbandonarci una notte, all’improvviso, nelle braccia della solitudine.
Il ritorno di Aurora.
Me la restituirono “dopo San Patrignano”, ma non era più “la mia” Aurora. Tornò di sua volontà alla sua casa e sembrò riprendere la vita di sempre. Il mattino era una gioia risentire il suo o nella cucina grande dell'appartamento. Anche Gino si alzava più lieto, con un sorriso che non gli ricordavo. E i due ragazzi, senza bisogno della mia voce, si alzavano anch'essi, al suono dei i dl Aurora. Lei però non raccontava nulla della sua esperienza nella “Comune”, non diceva una parola sulla morte di Giacomo e questo mi convinceva della sua attuale incapacità di essere autenticamente, con il corpo e l'anima, assieme a noi e soprattutto a me: sua madre. Aurora non era stata in piano ”nel giro”. Non aveva rubato, non si era prostituita per la droga, non si era "bucata" con le siringhe infette ate di mano in mano. Aurora aveva appena sfiorato quel mondo e l'aveva fatto per amore di Giacomo, per capire lui, forse per finire come lui, non riuscendo a salvarlo. Morto Giacomo non aveva trovato molto difficile “venirne fuori". Ma inutile forse sì. In breve tempo Aurora riprese a studiare per gli esami universitari, a frequentare i corsi, ad uscire con i vecchi amici, a pranzare con noi e a giocare con i gemelli. Mio marito continuò a sorridere, disteso, illudendosi che nulla fosse accaduto. "Tutto” era invece accaduto e non si poteva fingere di ignorarlo. A circa un mese dal ritorno di Aurora la cercai io: entrai senza bussare nella sua stanza e la trovai con un libro tra le mani e lo sguardo oltre i vetri del balcone. Nel vedermi mi fissò seria. “Vorrei portarti con me per una decina di giorni ad Assisi”. Le dissi subito. “Ho gli esami”. Si oppose lei. “Hai prima di tutto te stessa ...” Risposi categorica. “Bene, mamma, immagino che tu abbia ragione, debbo proprio”. Tra me restai quasi sconvolta per Ia facilità con cui aveva accettato la mia decisione. Non era da lei. Ma non mi formalizzai. Assisi era stata per anni la meta dei nostri viaggi di fine estate. Partimmo alcuni giorni dopo questo dialogo. Gino era perplesso e perse il sorriso. I ragazzi protestarono perché non avrebbero potuto essere con noi. Facemmo il viaggio in
auto, io alla guida e lei con gli occhi fissi sulla strada. Senza una parola. Io pensavo a Giacomo, che era stato il ragazzo sbagliato e mi chiedevo perché la mia ragazza così saggia e gentile avesse dimenticato se stessa per lui e dove fosse in quel momento il Dio della mia fede. Ci fermammo come sempre in una pensione di Assisi: dalla nostra finestra si scorgeva tutta la pianura e la cupola di S. Maria degli Angeli, la Chiesa sorta sulla “Porziuncola". Anche Aurora guardò fuori con il viso disteso, ma come indifferente. - “Dovette avere molto coraggio sco per lasciare la sicurezza della sua città e della sua casa e recarsi nella vallata a riparare la piccola Chiesa... ” Disse come tra sé. - “Non aveva paura perché aveva fede”. Risposi. Aurora mi regalò un sorrisetto tirato e finalmente ammise: - “Io invece non ho fede più in nulla ed ho paura”. Poi uscì. Restai sola, nell'aria serena di un tramonto tersissimo, come lavato dalla pioggia che era caduta copiosa al nostro arrivo. Aurora rientrò verso sera e ci recammo a mangiare qualcosa. Quella notte la sentii rigirarsi a lungo nel letto, mentre fingevo di dormire. Si alzò all'alba e, dopo una rapida toletta rifece il suo letto: una abitudine presa alla “Comune”, certamente. Rimpiansi la mia figliola disordinata e serena che abbandonava maglie e pantaloni ovunque. La lascia uscire sola, perché nessun controllo poteva salvarla da se stessa. arono così due giorni. Io feci la turista, visitai la Basilica inferiore e superiore di S. sco ed osservai gli affreschi di Giotto, seguendo il segno dei restauri. In terza giornata Aurora mi propose di visitare di nuovo S. Damiano, il luogo presso cui si era rifugiato sco e nella cui chiesetta minuscola, innanzi al Crocifisso ligneo e dipinto, aveva trovato la "sua" strada. Finalmente mia figlia mostrava interesse di nuovo per qualcosa e, soprattutto, mi coinvolgeva in un suo desiderio. Giungemmo all'ora della massa e restammo incerte in piedi fuori dell’arco dell'ingresso. C’era un coro di voci giovanili provenienti dal fondo e sapevo trattarsi della voce dei monaci. Le panche erano tutte occupate da giovani stranieri in preghiera. La bellezza di Assisi sta anche nel fatto che sco sembra attirare ragazzi e ragazze con il suo entusiasmo e la sua fede senza tempo Una testa bionda, ornata da una lunga treccia, restò chinata fin dope la fine della funzione e non vidi in volto la donna, che intuii non dovesse avere più di venti anni. Guardandomi interno non vidi più neanche mia figlia. Un gruppo di persone parlava davanti all'ingresso: tra loro due frati che sembravano adolescenti, al massimo ventenni per l’espressione incantata, dolce, serena. Una
madre abbracciava il figlio vestito del saio e lui, gentile ma come distante, lasciava fare. I gruppi si sciolsero con uno stringersi di mani. Un scano forse diciottenne tornò indietro per ricordare agli amici: “...Mi raccomando la preghiera!” In quel momento della porta del Chiostro di S. Chiara venne fuori mia figlia. Quasi non la riconoscevo: il volto aveva perso la rigidità degli ultimi anni. Con lei avanzava un giovane bruno, alto e snello, con sul volto l’espressione che ogni mamma vorrebbe scorgere sul volto di sue figlio: un misto di allegria, innocenza e fiducia. Il ragazzo sarebbe parso a me in quel memento l'essere più adatto per la mia Aurora. Ma indossava un saio scano. Si avvicinarono al luogo dove ero io, parlando tra loro con grande spontaneità. Lui sembrava felice. -”Mamma, ti presente Roberto!”-“Molto lieto signora, la pace sia con voi..."-”Ciao Roberto...”- Osai appena rispendere. -“Mi dovete scusare adesso, sono atteso. Ma ci rivedremo, penso...” -“Ci rivedremo!”- Promise Aurora. E per la strada che conduceva ad Assisi lei mi parlò di Roberto, della sua famiglia, della sua casa, degli studi che faceva e di ogni particolare della sua vita. Poi aggiunse la sua età: ventisette anni! Non gliene avrei dato più di venti. Roberto dipingeva ed aveva diritti speciali e maggiori libertà. Roberto lavorava come decoratore di maioliche e conosceva tutti i segreti dell’arte perché era nato a Deruta, la “Città delle ceramiche”. Roberto scriveva versi ed accoglieva grandi personalità per visite guidate a S. S. Damiano. Roberto, infine, tra breve avrebbe conosciuto il Papa di persona, per regalargli un suo lavoro su terracotta, rappresentante S. sco che abbraccia il lebbroso. -“Mamma, tu pensi che per lui io sia come il lebbroso per S. sco?”- Restai qualche attimo in silenzio e poi dissi:-“Gli hai parlato di te e Giacomo?”- “...Sì..."- “ - Allora ti amerà di più...”-
- “Sì, lui dice che é una legge divina quella di amare.”-” Amare tutto e tutti..."-“Sì mamma, tutto e tutti!”-” E' difficile...”-“Sì, credo che per qualcuno possa essere difficile...”Non aprì più bocca sull'argomento "Roberto"per un paio di giorni. Assisi ci regalava la sua quiete, i suoi lunghi giorni di pace e nell’aria tersa dai temporali potemmo quasi ascoltare la voce di S. sco.Mio marito era inquieto: al telefono chiedeva: - "State bene? Vi sono noie?"- Non c'erano noie e stavamo bene. Aurora usciva al mattino con i suoi jeans consumati portando con sé matite “grasse” e pastelli colorati come faceva un tempo e tornava a pranzo con le immagini che aveva “rubato” in giro: niente da temere, era serena. Aurora usciva al primo pomeriggio ed ascoltava la messa in S. sco, poi prendeva la nostra auto e si recava a S. Damiano. Ero sempre sola con le mie domande. Un giorno volli seguirla, mi recai in S. sco alla prima messa e vidi mia figlia in ginocchio, pregare in silenzio. La seguii in S. Damiano con un taxi, come una spia: e la vidi dialogare vivacemente con Roberto. Lui sembrava un ragazzo: era come illuminato dalla innocenza. Tornai all'albergo sconvolta. Il sesto giorno finalmente Aurora mi parlò: -“ Mamma, credi che S. Chiara abbia seguito sco nel suo destino per amore?"-“Per amore, certo!”-”...Per amore di chi?"-“Di Dio, del genere umano e del Cristo.”-“Oppure per amore di sco? Per non perderlo, vivendo la sua esperienza?”- Sorrisi, mesta: - “Come tu hai seguito Giacomo intendi?”-
-"Sì, come io ho seguito Giacomo."-“Non lo so, potrebbe essere così."-“E se adesso mi fi Clarissa?”- “Forse ripeteresti lo stesso errore fatto per Giacomo.”- Risposi pronta. Lei tacque e mi sembrò che acconsentisse. Restai silenziosa per giorni, imponendomi di non scuotere la pace di Aurora, ma non ero in pace con me stessa. L’ultimo giorno ritornammo assieme a San Damiano. -“Mamma, Roberto mi ha chiesto di parlarti.”- Disse Aurora. lo tremai. Roberto venne fuori dall'uscio di legno antico con quel suo giovane sorriso fiducioso. Ci stringemmo la mano. -"Pace e bene.”-“Anche a te Roberto, sai che potrei essere tua madre?"-“Ma invece siete la madre di Aurora...”-“Sì."-"Ho chiesto ad Aurora di potervi parlare.”-“Lo so.”-“Ma non ho poi tanto da dirvi: lasciate che sia fatta la Sua volontà”-“Come posso sapere quale sia?"-“Lui non parla con la voce, ma chi ha orecchio per intendere intende.”Mi rispose Roberto. Ci scambiammo un abbraccio appena accennato e Aurora lo baciò sulla guancia. -“Arrivederci amica mia, se non avessi la mia Strada forse avrei scelto la tua...”Disse Roberto ad Aurora con estrema semplicità. -“Addio, Roberto!” - Rispose Aurora. E negli occhi scorsi le lacrime che non aveva pianto per Giacomo. Ci allontanammo assieme e ancora, in auto, lei si girò
di nuovo: ma lui non c'era già più.
1979: Napoli e i suoi "mestieri".
1979: Napoli e i suoi “mestieri” Oggi sono straniera in patria, proveniente dalle tranquille sponde del Cilento, dove l'auto si può ancora lasciare con le chiavi nel cruscotto e la porta di casa senza istallazione di meticolosi sistemi dall'arme. Sono a Napoli per risolvere una delle solite controversie personali tra conduttore e locatario. Ho condotto con me l'esperto del caso, ossia un idraulico di fiducia che saprà essere imparziale ma non condirà il "conto finale" con cifre astronomiche. Via Cilea si stende elegante ed affaccendata sotto i miei occhi mentre, dal sesto piano di quella che è stata la mia casa di bambina, ascolto distrattamente le considerazioni del mio inquilino. Sono richiamata all'ordine della precisa richiesta fatta dall'esperto: -"Mi occorre una bomboletta di gas per usare la saldatrice e delle mattonelle che si dovranno porre al posto di quelle che dovrò rompere... ”. Sembra facile! L'esperto mi guarda, io guardo mio marito e decidiamo di scendere in strada per risolvere i due problemi. La solita confusione napoletana ci accoglie appena giù. Dove trovare,in una città dove non si usano le bombole di gas per cucina il necessario per la saldatrice? Esponiamo il quesito (per noi degno della sfinge) al primo individuo scelto a caso e la risposta è immediata: -"C'e una botteguccia in Via… vicino alla ricevitoria de lotto. “La strada da percorrere entrando in una stradina laterale non é lunga, ma camminare speditamente é impossibile: troppa gente, troppe macchine, troppo ingombro di merci (le più svariate) poste in mostra sui marciapiedi strettissimi della “Via" che in realtà e un vicoletto contorto. Lungo il percorso torniamo più volte a chiedere indicazioni e infine giungiamo alla meta: una stanzuccia buia dal cui fondo un cane "pastore" vecchiotto e curioso ci fissa con occhi dolci. Il locale e zeppo di una quantità inverosimile di merce a carattere “casalinghi". Detersivi, bidoncini, tappi di sughero, imbuti, spremifrutta, matassine di cotone... c'e insomma da scegliere. Il bancone è sommerso di prodotti.
-“C'e nessuno?”- Chiediamo. Ed in risposta, da un’apertura seminascosta giunge un uomo. Ha l'aria simpatica e gentile, ci guarda e aspetta di sapere quello che vogliamo da lui. Gli esponiamo il caso e lui, continuando a sorriderci, tira fuori da non so dove proprio quello che ci serve:- una bomboletta di gas per idraulici e saldatori munita persino della saldatrice.- "dobbiamo lasciarvi una caparra?" Chiede mio marito. -“No... no… niente soldi, soltanto, per favore, riportatemela in giornata. “Non posso non meravigliarmi della fiducia illimitata che sembra dimostrarci. Dopotutto non ci conosce e non siamo in un piccolo centro del Cilento! Per questo insisto perché accetti del denaro “in pegno, ma lui rifiuta ancora categoricamente e, proprio per accontentarci, prende l'indirizzo ed il cognome che potrei anche dargli falsificati. Resta irrisolto il problema delle mattonelle di ricambio. Ne parliamo al nostro nuovo amico che ci dice subito: -"Andate da Don Vincenzo ad Antignano, basta are per sotto il ponte di Via Cilea..."E' inutile dire che seguiamo il suo consiglio. Dopo un minuto siamo di nuovo in cammino. Durante il percorso abbiamo l'opportunità di costatare l'esistenza di due "Don Vincenzo" di cui però soltanto uno, merita l'appellativo di "o'cavicaiuolo". Il termine vuol significare "colui che lavora con la calce" e forse se lo e meritato per uno dei suoi mestieri giovanili. Trovarlo non e facile, alla fine giungiamo in un vicolo su cui affaccia un palazzotto vecchio con "cortile". Il cortile, zeppo di materiale da costruzione,sembra reduce da un bombardamento di guerra: Calcinacci, detriti, mattonelle rotte e semirotte, pezzi di Water e cespugli di erbe polverose fanno da sfondo alla "eggiata" di un gruppo di pollastrelli giovani e sporchi che cercano il cibo tra i rifiuti ed ogni tanto s’inseguono vicendevolmente per strapparsi qualcosa dal becco l'uno con l'altro. Non appena "entrati" (o dovrei dire usciti?) sul cortile,ci viene incontro un vecchio magro,dall'aria affaccendata che domanda: - “Da dove siete entrati?"- Ma poi non ascolta la risposta, tutto intento a cercare un "pezzo di antiquariato" per il giovane che lo segue. Risolto il problema giunge il nostro turno. Ci ascolta meditabondo e poi borbotta: - "Siete stati fortunati, e’ mattunelle nere nun se trovano cchiù"- E ci tira fuori da un mucchio un paio di questi "gioielli",ancora incrostati di cemento e calce. Poi
si allontana. Lo inseguiamo per fargli notare che ce ne servono dieci e non due. Le scova dal mucchio e, rispondendo alla nostra `domanda, dice convinto: -"sono cinquemila lire". Io e mio marito ci guardiamo meravigliatissimi. -"Si nun'e’ vulite nun v'e pigliate! si e voglio dà e dongo subbito, so’ ricercate e chisto culore, nun se trovano"- Ci previene lui. Finiamo per prenderne sette, anche se poco convinti. In quel momento si avvicina al vecchio un “tipo" sconosciuto che stringe tra le mani un astuccio a forma di pipa, ne tira fuori proprio una pipa, ma davvero eccezionale, in corno, sulla parte superiore porta scolpiti a tutto tondo tre puledri in avorio ingiallito, fatti proprio bene. Osserviamo l'oggetto con attenzione perché davvero lo merita e ci avviciniamo. L'uomo più giovane é molto soddisfatto del "pezzo" che ha appena acquistato da qualche parte,"Don Vincenzo" scrolla le spalle e si allontana brontolando. Non sembra apprezzare né l‘antichità né l'arte dell'opera. Restiamo soli con "l’antiquario" il quale rivolge uno sguardo di compatimento ai vecchio che si allontana poi dice convinto: - "Chillo, o' verite? Tene é miliuni! Ma nun sé gode! A vita nun so' e soidi"- Si rivolge a mio marito e con un gesto rapido gli sfiora la camicia bianca dicendo: - “A' vita é sta camicia, é a freschezza, e’ sta cravatta nuova"- Poi, come un attore di De Filippo che conosca bene la sua parte rivolge la sua attenzione a me, cha attendo il secondogenito. Da un colpetto al "premaman" leggermente gonfio e aggiunge: - "A vita è stu piccirillo cha adda nascere! Chesta é a vita"Poi si gira a si allontana sorridendo con un’andatura leggermente ancheggiante. Napoli, l’eterno teatro di “Eduardo", non finirà mai di entusiasmarmi.
Storia di un bastardo.
Nell’aprire la porta di casa mio marito se lo trovò davanti, seduto, con gli occhi color nocciola fissi nei suoi. Era un cane di razza “mista", col muso lungo, la coda a fiocco e il pelo color miele macchiato di bruno. -“Sembrava aspettare che aprissi la porta!“- Mi disse Ed, alcuni giorni dopo quando "GUIDON" divenne parte della famiglia. Noi siamo i felici proprietari di un alano tedesco (o grande Danese) tutto bianco, col naso nero e gli occhi azzurri, che risponde al nome di MOSE’. Il nostro simpatico ed invadente bestione soffriva di solitudine e fu anche questa la causa del nostro pronto accettare la nuova presenza canina. Di campagna intorno casa ce né tanta… e un po' di "pappa in più" si sarebbe potuta trovare. Guidon aveva gli occhi dolci e un modo cocciuto e affettuoso di seguirmi anche quando lasciavo il villino per fare spese. Ci voleva bene, aveva un grande bisogno di essere amato. -"Sia ben chiaro che dormirà fuori!"- Aveva proclamato mio marito con molta serietà. Ma durò poco: alle prime piogge Guidon divenne comproprietario con Mosé della nostra "stanza cuccia". Le zampe del mia cagnaccio hanno spesso lasciato impronte di fango sul pavimento di casa e sul mia spirito, ma il doverne sopportare otto, col tempo divenne per me un peso troppo grande. Guidon non ubbidiva ai miei comandi e ciò mi rendeva nervosa. Ho avuto molti cani pastore tedesco, ubbidientissimi esemplari che mi rendevano amara la disubbidienza di Mosé, ma ancor più la cocciutaggine di questo nuovo cane capitatomi in casa. Però col tempo imparai a volergli bene. Era paziente con la mia piccola fiammetta e "buona spalla" per il mio Mosé. Lo accompagnava per continue escursioni nei campi più lontani. Ma, che rabbia provavo nel veder correre da me Guidon al primo richiamo, mentre Mosé continuava imperterrita la sua strada! Per di più mi resi presto conto che il vagabondo" di casa era l’alano, non l’ultima arrivato. Il bastardino preferiva restarsene in casa, forse per tema ai non ritrovarci più dopo una delle scorribande. Un giorno dovemmo partire Napoli, la mia città, per arvi qualche giorno a casa di parenti. Già era troppo pretendere che accogliessero Mosè, ma non potevamo certo portare con noi anche Guidon! La nostra assenza non si sarebbe protratta per molto, forse dieci giorni; dodici al
massimo. Il nostro orfanello se la sarebbe certamente saputa cavare! Almeno lo speravamo. In ogni caso ammo dieci giorni non molto allegri al pensiero di averlo lasciato solo e ritornammo con la certezza di non ritrovarlo ad attenderci. Ma ci sbagliavamo: appena la nostra macchina si fermò ai cancelli, una valanga marrone le piombò addosso. Guidon, affamato e sciupato, ma non domo, fece il suo ritorno in casa con aria da padrone. -"Andava in cerca di cibo, signò, ma poi ritornava subito davanti alla vostra casa!"- Mi disse più tardi una signora che abitava in un villino accanto al nostro. Ci affezionammo ancora ai più a quel vagabondo, ed io notavo sempre meno la sua testardaggine. Eppure fu proprio questa la causa della sua morte. Il ricordo di quelle ultime ore ancora mi riempie di rimorso, perché non avrei dovuto lasciargliela vinta: erano le una del pomeriggio, fuori pioveva a dirotto. Feci entrare in casa i cani, e chiusi la porta d’ingresso. Avevo da fare per il pranzo e mi allontanai verso la cucina. Ma Guidon sembrava nervoso. Girava inquieto per tutta la casa, riempiendola di impronte fangose. La mia "guerra con l’acqua", per impedire che asse da sotto la porta e dalle finestre malmesse mi aveva già annoiata abbastanza e quel giorno non ero in vena di tenerezze; gli ingiunsi ei tornare alla cuccia. Ma lui non ne voleva sapere, ogni volta che gli dicevo: - Guidon! Vieni a cuccia!"- Scappava verso la porta di ingresso (una delle due) come se volesse uscire da casa ad ogni costo. Persi quel po’ di pazienza che mi restava e lo accontentai, benché il tempo fosse pessimo. In seguito ebbi da fare e non pensai più a lui. Mio marito tornò a casa, pranzammo, ed eravamo ancora a tavola quando la signora a fianco bussò alla porta per avvisarmi: -" Il cane é finito sotto una macchina!"- Non avemmo il coraggio di affacciarci a guardare per alcuni minuti. Avevo un nodo in gola e una gran voglia di piangere. Poi mi feci coraggio e, preso un ombrello, uscii sul terreno dietro casa. Speravo che il mio "bastardino" fosse soltanto ferito, speravo che… Con le poche forze rimastogli Guidon aveva raggiunto un vialetto all’interno della strada. Era riverso su di un lato ed affannava visibilmente lo chiamai… ma non ebbe neanche la forza ai alzare la testa. Doveva avere le costole rotte ed i polmoni a brandelli. Visse pochissimo. Io non badavo più all’acqua che veniva giù a scrosci, soltanto, con l’immaginazione, vedeva qual povero cane are in strada per cercare rifugio sotto il portico della casa a fianco, vedevo una macchina correre sulla quella strada e non riuscire ad evitare di coglierlo in pieno. Poi vidi soltanto i suoi fianchi divenuti immobili. Era morto. Avevo perso
mio padre pochi mesi prima ed ancora non potevo accettare la morte, così definitiva e terribile. Mi avvicinai per carezzare il sua pelo marrone. Di quel simpatico cucciolone non restavano che le spoglie. Fu seppellito sotto un albero, nel mio terreno. In questa zona di cani ne ano tanti. I bastardi senza padrone non si contano. Ma come lui, simpatico, affettuoso, in eterna attesa di una carezza… non ne ho visti più.
STORIA DI FUXIA
Era bella, ma lei non “sapeva di esserlo”: probabilmente da qualche parte delle sue foglie o dei suoi rami percepiva di essere sana e di sentirsi bene. Si può parlare di propriocezione per una pianta? Cosa sappiamo davvero di loro? Le radici di “Fuxia” avevano trovato acqua in buona quantità e si erano estese con soddisfazione nel terreno, denso di nutrimento. Erano divenute radici forti, capaci di dare sostentamento ai tre forti e ben torniti rami verdi principali. Si erano anche sviluppati molti rami inferiori di diametro, di un verde tenero sui cui crescevano foglie larghe, che assorbivano bene i raggi del sole. La “fotosintesi clorofilliana” era perfetta, benché Fuxia non sapesse neanche l'abc della botanica. Agiva d’istinto e cresceva bene. Tra le verdi foglie nascevano bianchissimi fiori gonfi e pieni,dal profumo unico e distinguibilissimo. Quei fiori, che sul nascere sembravano calici verdi, divenivano via via più bianchi e arricciati e facevano la felicità della padroncina che li trovava deliziosi. Diffondevano il loro profumo anche nell’aria respirata dal marito di lei che invece li accusava di procurargli un fastidioso raffreddore allergico. Fuxia dunque stava bene. Il vento estivo la scuoteva e il sole la riscaldava, poi scendeva la sera e godeva la frescura respirandola con gioia. Si sarebbe detto che sapesse di essere amata e curata e che desse i suoi fiori a cento per la felicità di quelle mani che carezzavano le sue foglie. Era stata un tempo lontano soltanto un misero rametto strappato dalla pianta adulta, di notte le lumache ne avevano divorato le foglioline e il gelo aveva combattuto i suoi tentativi di crescita, però la primavera successiva era divenuta adulta contro ogni probabilità, forse perché il suo desiderio di vivere l'aveva salvata. Ma un giorno qualcosa colpì negativamente il suo essere. Essa percepì che una trama oscura la circondava. Fluidi negativi le facevano presentire che stava per accaderle un che di malefico, Rabbrividì più volte e le sue foglie
ricaddero un po’. Poi il fluido divenne più intenso e un senso di spossatezza la prese dalle radici che erano state in parte troncate. Per una notte restò sola, dolorante, sospettosa, aspettando il peggio. Il peggio giunse la mattina successiva sotto forma di oscure presenze che lavoravano attorno a lei. Ma le presenze divennero vive coi colpi di zappa che cominciarono a colpire le sue radici. Qualcosa di simile al vento la scosse con violenza nuova, mani dure e decise la divelsero dal suolo. Tra quelle mani intuì anche quelle pietose e amiche che ben conosceva e che irradiavano malinconia e desiderio di mitigare il suo spavento. Un tornado la portò in alto, un dolore freddo sconvolse le sue radici e la linfa vitale sembrò sospendere la sua corsa nei rami. Fuxia svenne. Le mani la portarono per metri e metri, fino a depositarla in un terreno sconosciuto, ma essa non percepiva nulla. Altra terra fu gettata sulle sue radici spezzate, l'acqua fu fatta scorrere per molto tempo su quella terra. Ma Fuxia restava inerte. Le foglie e i fiori pendevano esanimi dai tronchi e tutto il suo aspetto parlava di stanchezza, di dolore e di paura. “Su, su, piccina, vedrai che ce la farai. Su! Non abbatterti così! Sii forte! ” disse la voce amica mentre le mani l’accarezzavano ed essa percepiva un’energia positiva e dolce giungerle attraverso le foglie atterrite. “Povera pianta! Guarda com'è ridotta!” diceva una voce. “Non si poteva fare diversamente. Dovevano gettare le fondamenta proprio li!” diceva un'altra voce. Fuxia restava inerte, ma dal profondo del suo essere giungeva il desiderio di vivere a darle coraggio. “Vedrai che ce la farai!” concluse affettuosamente una voce. Il suono di i che si allontanavano da lei le giunse ovattato. Poi fu silenzio.
Il mal di denti.
Racconto collegato alla triste storia di Alfredino Rampi.
In un giorno imprecisato del maggio 2015, Michela, leggendo un po' a caso le notizie degli avvenimenti sul suo computer portatile, si ritrovò colpita da una notizia che per qualche ragione la fece tornare indietro nel tempo: - "Roma, è morto il fratello di Alfredino Rampi, stroncato da un infarto". Nel 1981 aveva circa trent'anni quando, l'11 di giugno, dovette recarsi dal dentista per una piccola operazione dentaria. Piccola poi non si rivelò, perché vi era stata coinvolta la radice e le insorse un violento mal di denti. Lontano dal luogo dove si trovava a vivere, la sera precedente, ossia il dieci, un bambino a lei sconosciuto (proprio Alfredino Rampi), uscito a fare una eggiata in una campagna con il padre nei pressi di Roma rientrava, percorrendo i prati, da solo. Alle venti non era ritornato e un'ora dopo i genitori lo cercavano disperatamente. Alfredino, si scoprì poi, era purtroppo precipitato (si presupponeva incidentalmente) in un pozzo profondo circa 80 metri, da poco scavato in un terreno confinante al proprio, dove si stava costruendo una nuova abitazione. Quando, durante le ricerche, si scoprì cosa gli fosse accaduto, si allertarono le forze dell'ordine finché i tentativi per tirare fuori il bambino non divennero più complessi e verso le una di quella prima allucinante notte, diversi tecnici della Rai, avvertiti per questo scopo, collocarono una telecamera nelle adiacenze e fecero discendere nel lungo buco, che aveva carattere roccioso, un'elettrosonda a filo, allo scopo di permettere a quanti operavano per salvare il piccolo, di colloquiare con lui. Michela, alle prese con i suoi due figlioletti ed il dente da curare, seppe della cosa soltanto la mattina dell'undici, cominciando a seguire, tra una faccenda e l'altra, lo svolgersi degli eventi. L'Italia intera, poi comprese, era davanti alla televisione per una diretta Rai che sarebbe risultata purtroppo lunghissima quanto infruttuosa. Sempre l'Italia, distrattasi momentaneamente da altri avvenimenti, quali l'arresto in febbraio di sca Mambro e i fratelli
Cristiano e Valerio [1] Fioravanti dei NAR, oppure, in marzo, la perquisizione della villa di Gelli, dove furono scoperte le liste della P2. Per non parlare, in aprile degli arresti di Mario Moretti e degli altri brigatisti rossi. Mercoledì 13 maggio ci sarebbe stato, certamente fortemente mediatico, l'attentato al Papa e la strana morte di Rino Gaetano in giugno [2]. C'era di che distrarsi, no? Tuttavia in quel giugno era giunta la circostanza di Alfredino Rampi e tutti dimenticarono altri eventi. Mettendo a letto i figli, verso le 21.30 dell'undici (il dente continuava a farle male nonostante l'antibiotico e gli antidolorifici e non le riusciva a dimenticarlo), seppe che si stava svolgendo un tentativo disperato di raggiungere il piccolino: Un certo Isidoro Mirabella si sarebbe calato per imbracarlo. Fu un nulla di fatto: poté parlare con il bambino, ma dovette tornare a mani vuote. In quel momento l'Italia viveva i suoi "soliti" momenti di difficoltà per il Governo, mentre l'On. Spadolini tentava di superare la crisi formando un nuovo Governo, ma l'attenzione di tutti sembrava rivolta soltanto ad Alfredino. Scavato un tunnel parallelo, purtroppo ci si rese conto che il bambino era scivolato molto più giù. I suoi, di piccoli, intanto erano andati a dormire e lei, mamma, aveva buttato giù per disperazione un altro antidolorifico, sedendosi poi sulla poltrona avanti al televisore: tanto, di dormire non se ne parlava proprio. Da madre, osservava quella povera donna, che non lasciava un momento lo spazio vicino alla buca, tentare di contattare il figliolo e disperarsi, sia quando ne udiva i lamenti, perché non era in grado di aiutarlo, che quando non li sentiva, pensandolo morto. Ma la notte tra l'undici ed il dodici giugno ò senza un nulla di fatto e la mattina del dodici la televisione le rimandò le immagini di una folla ancora presente e più numerosa e del continuare delle trivellazioni. Trivellazioni che sentiva, purtroppo, ancora anche nel suo dente. Intanto il piccolo recluso si lamentava per il rumore provocato dalla trivella, che tuttavia lasciava qualche speranza. Michela, trascinandosi il suo mal di denti, si dedicava, intanto, alle faccende di ogni giorno. La colazione per i figli, la preparazione del pranzo e l'orecchio teso a ciò che accadeva da un'altra parte del mondo. Mentre l'alano nero, di tanto in tanto, profittando della confusione entrava in cucina e cercava di agguantare qualcosa dal tavolo.
Intorno alla buca si era raccolta una grande folla, che certamente non era a vantaggio delle operazioni di salvataggio. Si era convinti che la profondità cui si trovava il bambino fosse di 32 metri e a ragione di ciò fu accelerato il raccordo orizzontale fra i due pozzi, con la convinzione di trovarsi, poi, a poca distanza da Alfredino il cui respiro, ore dopo, era notevolmente peggiorato. Peggiorato, si disse la Michela del 2015, anche perché, come il fratello che sarebbe morto anni dopo d'infarto, aveva un problema serio al cuore, di cui avrebbe dovuto essere operato a settembre. Il suo si chiamava tetralogia di Fallot. Qualcosa di complicato, che capita raramente: tre persone su diecimila nati vivi. Nel 2015, inoltre, Michela si chiedeva, a distanza di anni, anche come ci fosse finito quel bambino in un pozzo così stretto, che, secondo il proprietario, avrebbe dovuto essere pure pesantemente chiuso. Nell'ottantasette lo riportava "La Repubblica": - " ROMA La fine di Alfredino Rampi a Vermicino non é dovuta a una disgrazia, ma al disegno di un criminale che ha imbracato il bambino alla vita, lo ha calato nel pozzo con una corda a doppino e lo ha lasciato cadere. La sconvolgente ipotesi non ha ancora il crisma della certezza ma le prove documentali e testimoniali, riscontrate durante il processo contro il titolare che ha costruito il pozzo, lasciano poco spazio a possibili errori (...) ".Michela torna con il ricordo all'ottantuno, ai figli che corrono verso la porta finestra che da sul giardino e al suo mal di denti che non accenna a finire. Nel pomeriggio giunse sul posto anche Pertini. Un nonno preoccupato, un amico affettuoso, ma anche il responsabile di essersi fatto trasportare da un elicottero che, con il suo atterraggio, poteva essere stata la causa dei tremori nel terreno per cui il piccolo era scivolato più giù (si disse poi). Piaceva a tutti, anche se senza nubi non doveva essere stata, la vita di quell'uomo. A pensarci bene quante fesserie compiute durante quel salvataggio! Un'Italia intera a riflettere sul come tirare fuori il piccolo e una strombolata dietro l'altra, prima fra tutte quella tavoletta calata all'inizio dell'impresa nel buco, su cui si pretendeva che il malcapitato si afferrasse, che invece era restata incastrata, complicando la situazione. Era ancora giorno alto quando, dopo una serie di accadimenti che rimbalzavano dalla scena alla Rai, (ma s'intuiva che la disperazione andava crescendo), lo speleologo Claudio Aprile, provò ad introdursi dal cunicolo orizzontale rendendosi conto di non riuscire a arvi. Intanto nella sua casa del Cilento la
sua figliola più grande, tra una corsa in giardino e un'occhiata ai compiti estivi, prese a fare domande: la storia durava da ore, se non da giorni e la curiosità per l'interesse materno aveva reso attenta Fiammetta. Nel sentire che un bambino era sotto terra si era impressionata notevolmente e il padre, ato a chiedere alla moglie come stesse con il dente, preferì quindi portarla con sé. Male. Stava male. Si profilava sempre di più la necessità di tirarlo via, quel dentino scarognato, visto che non reagiva agli antibiotici. Si fece notte. Di dormire neanche se ne parlava. Dalla poltrona, che era divenuto il su punto di riferimento, Michela assistette, poco dopo la mezzanotte tra il dodici ed il tredici giugno, al tentativo di un uomo magrissimo, giunto sul posto per dare una mano. Sardo di origine, viveva a Roma e si chiamava Angelo Licheri. In seguito si ritrovò di mezzo anche all'inchiesta fatta per scoprire se vi fosse dolo, dietro la morte del bambino. L'indagine, difatti, per cui il medico legale fu chiamato a controllare la salma (che era stata fatta congelare, assieme al terreno che la stringeva), portò alla scoperta che sotto la maglietta a righe colorate, a partire dalla pancia, ci fosse una lunga fettuccia, sullo stile di quelle usate per trasportare gli zaini, divisa in due segmenti uniti con un anello metallico molto largo. Il Licheri affermò che fosse stato lui ad avvolgere con quella fettuccia il corpo del bambino, ma poi fu smentito. D'altra parte pareva strano, visto che ava anche sotto il braccio rimasto incastrato. Fatto sta che al tempo si fece calare nel pozzo artesiano per tutti i sessanta i metri che lo separavano dal bambino e rimase a testa in giù ben quarantacinque minuti, contro i venticinque considerati soglia massima di sicurezza in quella posizione. Tuttavia, tra un tentativo e l'altro, dovette tornare in superficie senza Alfredino. In quel momento, tenendosi una mano sul lato sinistro del volto, Michela giunse a due convinzioni. La prima, più tragica, che per il piccolo non ci fossero speranze, la seconda, meno tragica, che non ve ne fossero neanche per il suo premolare. Senza speranze di sonno, verso le cinque del mattino si fece una camomilla e lauro per consolarsi, tenendo d'occhio la tele che rimandava il tentativo di un altro speleologo, Donato Caruso. Nonostante il caldo di giugno, provò a porsi la tazza bollente vicino al lato dolorante del volto e si disse che avrebbe volentieri sofferto un altro paio di giorni, se questo avesse potuto permettere all'uomo di tornare su con il fardello ancora in vita. Chiudendo gli occhi le parve quasi di essere lei in quel budello fangoso e di potere essere d'aiuto a chi ci si stava calando, con la forza della mente. Ma, quale forza, se non le riusciva neanche di guarire un premolare? Niente da fare. Minuti che scivolavano con il contagocce
verso l'alba, il sole che sorgeva sulle campagne intorno e anche su quel maledetto terreno, che aveva inghiottito un fanciullo e dopo la voce del giornalista che tentava di spiegare all'Italia, intera cosa stesse accadendo: - "Caruso risale, no, chiede che lo tirino fino al cunicolo di collegamento. Pare voglia tornare giù e ritentare l'impresa. Vorrà soltanto riprendere fiato. L'emozione è forte... ""Gesù!"- Pensò Michela irritata: -"Sembra stia commentando un incontro di calcio!" Ma il poveruomo sotto terra non voleva arrendersi. Evidentemente si era reso pienamente conto che, se non ce l'avesse fatta lui, il ragazzino ci avrebbe lasciato la pelle in quel budello. Il giornalista spiegò che forse avrebbe tentato con delle manette, procedimento molto più azzardato anche per il soccorritore per la ragione che queste erano legate alla sua stessa corda di sicurezza. Nessuno si stupì però quando, risalì da solo e, con grande tristezza, precisò che il povero Alfredino, a suo parere, era morto. Che dire? Si era fatto mattino, da molte ore non dormiva e neanche ci sarebbe riuscita quest'altra notte, se non si fosse decisa a farsi tirare il suo disgraziato premolare. Un risultato desolante in tutti i sensi e la voglia di sperare ancora, quando speranza non ve n'era più. Il cadavere del bambino, cui sarebbero state legate successive favole, leggende, verità nascoste e terribili sospetti, sarebbe poi stato recuperato da tre squadre di minatori della miniera di Gavorrano l'undici luglio, ovvero ventotto giorni dopo la morte del bambino, in una palla di terra e ghiaccio, giacché Il pm Giancarlo Armati, dopo la dichiarazione di morte presunta, aveva prudentemente fatto immettere nel cunicolo gas refrigeranti, allo scopo di permetterne l'autopsia. Verso le nove di quel mattino del 13 giugno la mammina del Cilento, triste e dolorante si recò dal dentista, che abitava poco lontano e gli disse:- " Levatemi questo maledetto dente". Dopo l'anestesia ò il dolore.
[1] Dopo sei sentenze della Corte d'Assise d'Appello fu condannato, complessivamente, a 8 ergastoli, 134 anni e 8 mesi di reclusione,
tuttavia,come spesso avviene in Italia, Nel mese di aprile del 2009, dopo 26 scontati dietro le sbarre e a cinque anni dal conseguimento della libertà vigilata, è tornato ad essere un uomo libero la cui pena è considerata definitivamente estinta (!).
Solidarietà.
I miei occhi asciutti, spalancati nella notte fissi ad osservare di canale in canale la morte che si faceva beffe della pace tra gente inerme uscita nella sera per trascorrere ore di letizia, La morte blasfema, senza onore di chi si lascia esplodere ed uccide, la morte di chi si arma la mano e colpisce da vile quanti armati non sono. Non può esserci un dio
che possa fare asilo a quelle anime perdute che uccidono in nome di un dio che non esiste. A pezzi, nella polvere ne sussurrano il nome agonizzando ma non sanno, che un Dio universale volge gli occhi altrove disgustato, e non li ama affatto perché da vili hanno causato soltanto dolore.
Monna Lisa a Lagonegro.
Monna Lisa a Lagonegro. Mi trovavo a Lagonegro, quel limpido mattino invernale del 2014, per accompagnare mia sorella, che, come il suo solito, si andava ad infilare in situazioni sentimentali a dir poco complesse. Marianna, ventiquattro anni sulle spalle, si stava laureando in architettura, anzi, come lei precisava con sussiego, in: Ingegneria edile-Architettura. Si stava laureando è una parola un po' grossa, poiché, dopo essersi iscritta in Legge, a Napoli, per seguire le orme del fidanzato del momento (avevano frequentato assieme il liceo scientifico), aveva dovuto trovare casa a Napoli e ci aveva trascorso due anni. Diciannove anni e un sogno che ebbe presto fine, in quanto si lasciò sia con la giurisprudenza alla Federico II, che con il tizio barbuto e scorbutico (lui si sarebbe sì, laureato), decidendo di tentare un'altra strada dopo due anni persi. E siamo a ventuno. A ventidue, dunque, fece ritorno nella nostra città, ossia Salerno, scegliendo il corso appena attivato nel 2010. Tutto ciò detto allo scopo di definire mia sorella e il suo metodo di studio che in quel mattino invernale ci condusse (assieme al fidanzato del momento), in quel di Lagonegro. Una scarpinata di non poco, da Salerno, specie sulla provinciale. Lei doveva effettuare studi grafici e misurazioni nel borgo medioevale, per non so quale esame propedeutico a non so quale altro esame, assieme a Sergio, il compagno del momento e, guarda un po', l'amico non aveva l'auto e neanche la patente. L'aveva forse la mia sorellina? Neanche a parlarne, ragion per cui mi trovai costretto (dalle urla di mia madre), ad accompagnarli fino al piccolo promontorio su cui sorgeva il borgo medievale. In auto? Si fa per dire, in quanto a questi si accedeva attraverso una lunga scalinata, scomoda, che era stata costruita nel 1603 (e altrimenti il bello dov'era?). L'Università aveva fornito i suoi giovani discepoli di una documentazione che permetteva loro di fotografare e fare ricerche, su tutta la zona. Comunque, il fine ultimo, dopo aver oltreato la porta in ferro vecchiotta più delle scale era che, alla fine di un'altra bella gradinata, i due studiosi avrebbero potuto accedere alla Chiesa di San Nicola, se possibile più antica ancora. Motivo delle ricerche? Quei due folli si erano messi in testa di dimostrare che, proprio a Lagonegro, aveva soggiornato la modella di Leonardo da Vinci, denominata dai due "Lisa del
Giocondo". In effetti, per strada, mi avevano reso edotto (contro la mia volontà, visto che io sto per laurearmi in matematica e di queste cose mi interesso davvero poco) della morte di costei, che, a parere (senza prova alcuna), degli abitanti del luogo, era avvenuta proprio in quei luoghi, il 15 luglio 1542 , quando la signora aveva 63 anni. Io, nel corso del viaggio (circa due ore), avevo chiesto di controllare su google dove e come si credesse (storicamente), fosse morta la tizia. Avevano ammesso (in coro), che le teorie fossero "controverse" (il che è dire poco), giacché risultava: a) che Lisa si ammalasse nel 1538, morendo, quattro anni dopo nel convento di Sant'Orsola, all'età di anni 63. In Firenze. b) Che il marito morisse nel 1539, mentre Lisa spirasse nel 1551, quando lei avrebbe avuto 71 o 72. anni. Insomma. A Firenze. Che dire? Mi lasciarono solo, per effettuare le loro "ricerche vane" e, infreddolito, pensai di dedicare la mia attenzione alla grande navata ed al bellissimo altare maggiore della Chiesa di San Nicola, dove si diceva vi fosse sepolta la sorridente modella del Da Vinci. Non potei far altro dunque, che guardarmi intorno, intirizzito ed intorpidito e in tal modo ebbi maniera di notare che, proprio sotto l'altare, prima del cordoncino che ne vietava l'accesso, c'era una signora inginocchiata sui gradini. Detti uno sguardo distratto ad un paio di statue vecchie anche loro e poi tornai a fissare la donna. Aveva una certa eleganza: capelli lunghi nascosti dal velo che le donne portano a volte, in chiesa, abito di un certo pregio, anche se di colore scuro, una figura elegante, di cui si intuivano le braccia avanti, presso il volto, forse in gesto di preghiera. Mi dissi: guarda che stupidi e bofonchiosi i due studentelli: convinti che, senza il permesso dell'Università il custode del luogo non ci avrebbe permesso l'accesso. Quella signora (non proprio giovane, si intuiva), era entrata e se ne stava chiaramente libera da problemi, a dire il suo rosario e neanche l'aveva degnata di uno sguardo il vecchio prete, giunto poco prima per dare una sistemata ai ceri e ai fiori. Me, sì, mi aveva chiesto, a bassa voce come mai fossi entrato. Gli avevo spiegato brevemente le motivazioni ed aveva annuito brontolando qualcosa su " le noie anche ai defunti...", ma della donna non si era proprio curato. Anzi, che tipo strano! L'aveva urtata con la tonaca nera, spegnendo una candela accesa dinanzi a lei, senza neanche curarsi di chiederle scusa. La signora vestita di
violetto (sì, il tessuto dell'abito sembrava sul violetto, molto scuro, quasi un bruno), neanche si era girata. Cominciavo ad essere curioso di vederle il viso, per cui, lentamente, cercando di non fare rumore, decisi di spostarmi di lato, verso una porta in legno (chiusa), ando sopra una di quelle lastre di marmo che si usavano molto tempo addietro, quando ancora c'era la barbara abitudine di seppellire i cadaveri nelle chiese. Aveva un bel parlare Foscolo dei sepolcri, bene aveva fatto Napoleone a farli porre fuori delle mura delle città. Poi ci si meravigliava che, all'epoca, vi fossero tante epidemie... intanto ero riuscito a piazzarmi più avanti della donna, per guardarle il volto, ma restai deluso: aveva i palmi aperti proprio avanti la faccia. Da non credere: quasi un quarto d'ora e non si era mossa di tanto. Continuai a fissarla, cercando di comprendere quanti anni potesse avere. Neanche mi spiegavo perché fossi così curioso, tuttavia c'era qualcosa di particolare nella sua figura, che mi dava l'impressione di conoscerla. Come se l'avessi già vista altrove. Restai fermo, guardandomi intorno: mia sorella e il fidanzato parevano scomparsi. Chissà dove stavano prendendo misure e scattando foto. Certamente avrebbero dovuto fare la stessa operazione anche in chiesa, quindi non mi sembrava logico cercarli. Almeno lì dentro mi sentivo al coperto e avevo meno freddo. Mentre ero preso da questi pensieri la figura femminile si mosse. Quasi sussultai: non me l'aspettavo. Ponendosi in piedi, con molta grazia, scostò l'abito (che era davvero un tantino troppo lungo ed ingombrante), sistemandone le pieghe. Doveva essere una bella stoffa, pensai. Un raso traslucido che mutava di tono con il movimento. Forse non era proprio violetto, piuttosto un brunito con tracce di rosso che vi lampeggiavano di tanto in tanto. Ecco, finalmente si era girata e potei osservarla bene in viso. Davvero una bella donna. Certamente doveva avere i suoi anni, ma li portava con grazia. Sembrava triste, come pensierosa. Stringeva tra le mani quello che intuii fosse un libretto da messa, che poi infilò in una specie di borsetta di merletto. Fece una rotazione lieve, dopo essersi fatta il segno della croce e compresi che stava dirigendosi verso di me. Mi sentii colto in fallo, come se potesse pensare che la stessi osservando (difatti così era stato). Aveva un'andatura lieve, tale che sembrava non toccare le vecchie lastre del pavimento, ossia piuttosto le sfiorasse con le scarpe, che non mi riusciva di vederle spuntare di sotto l'abito.
Sorprendente: l'abito. Lungo, gonfio, bordato in basso di un raso più spesso e decisamente violetto. Nel guardarla camminare, in pochi minuti me la trovai di fronte che mi fissava: -"Avete visto i miei figli?"- Chiese. Fu tanta la sorpresa di sentirmi interpellato che non mi riuscì, da prima, comprendere cosa mi avesse chiesto. Come un babbeo risposi un : -"Eh?"Ma lei, di nuovo: -"Avete visto i miei figli?"Nel domandare aveva un'espressione così preoccupata e triste che mi fece pena. -"Sono piccoli?"-"Piccoli? No. Si chiamano Piero, Camilla, Andrea, Giocondo, e Marietta. Ma c'é anche Bartolomeo, che però è figlio di sco."Sembrava quasi che queste notizie le stesse soltanto dicendo a se stessa, senza curarsi di me. -"sco è andato per affari e mi ha lasciata qui. Mi diceva che, vicino, ci sono le coltivazioni dei bachi da seta. Lui proprio la seta, cerca, del tipo migliore, per i suoi commerci. E' stato a settembre alla fiera della Croce e sarà andato ora in terra di Gioi, lasciandomi in quanto ammalata. Questo paese è così freddo... Neanche ritorna. Lo aspetto, ma non ritorna."Davvero non sapevo cosa risponderle. Più le guardavo il volto, che, anche alla luce fievole proveniente dall'esterno, era come rilucesse di luce propria e più mi sembrava di riconoscerla. Adesso osservava mestamente la borsetta che teneva ancora tra le mani. Io guardavo lei, quasi incantato. -"Posso aiutarla? Posso accompagnarla da qualche parte?"-
-"No. Credo proprio di essere destinata a restare qui in attesa del ritorno del mio signor marito."Rispose lei, come distrattamente, aggiustandosi il velo sul capo. Mi sorrise. In quel momento ebbi come un fremito: Gesù! Quel sorriso! Io l'avevo già visto. Un po' triste, come velato. Si era detto che Leonardo avesse dipinto la Gioconda quando ella aveva da poco perso un figlioletto... se ne dicevano tante... Un rumore distrasse la mia attenzione: ecco che entravano in Chiesa mia sorella con il fidanzato. Finalmente! Si guardavano intorno, scattavano foto... si avvicinavano a me e mi girai verso di loro. Alle spalle, sentii un fruscio, come di stoffa che urtasse contro altra stoffa. Un fruscio di seta o di raso. Mi girai. La donna non c'era più.
La bambina nel buio
La bambina nel buio. Tempi difficili. Chi ci vive dentro quasi ci fa l'abitudine, forse in quanto, guardandosi intorno, gli altri non sembrano stare proprio meglio. Gelsomina, in quegli anni bui di guerra e di distruzione, cresceva quattro maschietti, cui cuciva i pantaloncini (corti, come si portavano all'epoca), ricavandoli dai calzoni del marito. Per lui il lavoro era un altro: rigirare i colletti sdruciti per migliorare l'aspetto delle camicie. Fortunatamente il cibo scarseggiava, ma c'era. Poco, che lei spesso neanche aveva il coraggio di mangiarlo e ava un dito sui bordi del piatto che dava ai figli, saggiandolo soltanto. Gaetano era smunto in viso, gli abiti gli ballavano addosso. Lei era bella lo stesso, ma magra, ascetica, con gli occhi grandi nel viso scarno. Vivevano in una casa antica, dove l'acqua era sì, corrente, ma nel bagno, altro che doccia e vasca idromassaggio! A stento c'era un lavandino minuto, dove non le riusciva di lavare i figlioletti, già troppo grandi per quelle misure. Lui tornava a casa e trovava un ambiente sereno, una moglie con cui discuteva del solido e dell'etereo. Dell'etereo facevano parte le loro discussioni sull'aldilà e sugli spiriti. Esistevano? Si potevano vedere? Forse la causa di quei discorsi era da ricercarsi anche nel fatto che lui era iscritto, quasi per dovere (sul lavoro, da bancario, i superiori al tempo lo esigevano), ad un gruppo massonico tipico dell'epoca di cui dovette in seguito (molti anni dopo), bruciare un bel po' di materiale, quando la massoneria cominciò a "puzzare di bruciato". Ebbene, Gelsomina intuiva che il marito seguisse qualche tipo di "seduta spiritica", senza tuttavia crederci. Però, di cose strane nella loro vecchia casa ne erano accadute. Di tutte la più
tremenda, collegata alla morte per una infezione puerperale, della loro giovanissima cognata, moglie del fratello. Ebbene: nelle ore in cui la povera donna si liberava della sua spoglia mortale, loro due erano a casa, quando, all'improvviso, un colpo di vento inatteso quanto inspiegabile, aveva aperto di botto il balcone del cucinino, spaventandoli, anche perché avevano visto la cosa come un segnale. In quegli stessi minuti la povera donna aveva esalato l'ultimo respiro e loro furono convinti che fosse ata a salutarli. Discutevano, dunque, sull'anima, sui fantasmi e sul fatto che fosse possibile vederli, nell'inquietante casa antica piena di ombre, laddove la luce elettrica era ridotta al minimo e a volte mancava, sostituita da candele. Una sera avevano trovato completamente attorcigliata la paletta per il fuoco della cucina a legna. In una di quelle sere, prima di porre a letto i suoi bimbi, Gelsomina era andata nel bagno per riempire d'acqua un recipiente, allo scopo di lavarli. Così, mentre il marito e i figli si trovavano in camera da letto, lei, alla fioca luce delle candele lasciate in giro per la casa, si era recata nell'ingresso, laddove affacciava il bagno e, con il bacile colmo, ritornata verso l'ingresso, aveva notato una bambina. Si era fermata, sorpresa, ad osservarla: aveva il viso in ombra, le trecce, un vestitino che le parve quello che all'epoca si definiva "da pacchianella", ossia in uso dalla ragazzine del popolo, con la gonna arricciata e gonfia, piuttosto lunga. Lei l'aveva guardata chiedendole, stupita: -"Ma cosa ci fai qua? Come sei entrata?"Soltanto guardandola meglio, giù, verso le gambe, si era reso conto che queste erano trasparenti e, dietro di loro, si vedeva il legno della porta. Così, spaventata, aveva gettato per aria il bacile con l'acqua, scappando verso l'interno per raggiungere il marito. Entrando, con aria di trionfo, perché la cosa comprovava le sue convinzioni, aveva urlato: -"Gaetano! Ho visto l'ombra!"-
Storia di Sandra
Da. "Il tempo degli eroi" Romanzo
Aurora non avrebbe mai potuto dimenticare il giorno in cui aveva incontrato la sua unica, vera amica, eppure erano trascorsi circa dieci anni da quel tempo: si trovava a Firenze per lavoro e, in un momento di relax decise di concedersi una eggiata per le vie antiche e dense di atmosfera, di quella città che amava; i ricordi sono qualcosa di particolare per ciascuno di noi, per la fisionomia che diamo alla nostra stessa individualità attraverso la chiave di rilettura. Aurora era stata sempre fin troppo legata ai ricordi, come a qualcosa che ancora respirasse in lei e non invece come immagini di tempi finiti. Ecco perché anche oggi non trovava affatto difficile ritrovare la sensazione di quei momenti ati: Si era recata all'Oltrarno, per il Ponte Vecchio, che le parlava di una delle zone più antiche di Firenze, aveva vagato per le sale del Museo di Palazzo Pitti, per rivedere i dipinti di Cimabue e soprattutto quelli di Giovanni Bellini, che amava per l’aria rarefatta e limpida e poi aveva percorso quasi senza pensare il declivio collinare che conduceva nel giardino di Boboli. Risalita a Ponte Vecchio aveva sostato infine qualche minuto, incantata, ad osservare il lento scorrere del fiume. Era Aprile, il cielo sembrava di cristallo sopra di lei, in aria il vento trascinava con sé semi come piume bianche, leggere, e socchiudendo gli occhi, ci si poteva tranquillamente tuffare in una realtà sfalsata, in cui qualsiasi magia pareva potesse accadere. Chiuse gli occhi, appoggiata al parapetto, per assaporare meglio quei momenti e dopo pochi istanti le giunse all’orecchio una voce, che sembrava sorta dal nulla. Il tono era basso e melodico, simile al recitare di una attrice di teatro in una tragedia di Shakespeare: “No. Non può essere la mia fantasia che mi oscura la mente come ad un folle! Non posso credere che gli oggetti si animino e si spostino a loro volontà negli armadi, oppure cambino di posto sui mobili, o anche si divertano a darmi le
allucinazioni i cappotti, le pellicce, lasciando a proprio piacere la mia stanza per farsi ritrovare mollemente adagiati sulle poltrone del salotto...” Riaprì gli occhi Aurora, per fissarli, stranita, in quelli nerissimi di una donna di circa trent’anni, che sembrava parlare proprio con lei, benché di fatto, fosse ben certa di non conoscerla. L’estranea pareva avere una necessità impellente di confidarsi con qualcuno e difatti continuò, quasi volesse convincerla: “No. Sono stata sempre una donna molto razionale. Non mi lascio coinvolgere in voli pindarici, non credo alle fate o alle streghe. Non credo neanche ai sogni, che svaniscono e lasciano il sapore della realtà e spesso ti fanno soffrire.... Mi spiego?” Aurora non si spiegava nulla, ma restò muta e attenta ad ascoltare e l’altra continuò: “Per natura sono ordinata. Un tipo d’ordine mio, personale in cui forse nessuno troverebbe nulla, ma io mi ci raccapezzo sempre. Capisci?” “ diciamo di sì” Rispose, ricavando sempre più la sensazione di vivere al di fuori della logica, in una commedia che si andasse realizzando via via che gli attori lei e la sconosciuta mettevano assieme battute e movimenti. “Magari mi credi matta, vero? Io mi chiamo Sandra.” Nel dire l’ultima frase la donna allungò la mano destra come per presentarsi e lei istintivamente la strinse sussurrando: “ Aurora, piacere”. La stretta vigorosa la colpì particolarmente, perché giungeva da una mano esile e da una figura di donna sottile, ma nella mano percepì immediatamente un che di forte, un carattere vivace e, in sottofondo, una grande insofferenza verso qualcosa che pareva torturarla. “Posso prendermi qualche minuto del tuo tempo, Aurora? Non ho amici veri in città e ho un bisogno terribile di confidarmi con qualcuno per non dare da matta.” “Nessun problema. Il tempo è splendido, possiamo eggiare un po’ e chiacchierare anche più di qualche minuto…”
“Il problema è proprio nell’ordine, come avrai capito…” Riprese subito Sandra: - “I o vivo con mio marito. Siamo soli in casa e nessun estraneo può entrarvi. Non ho neanche una donna a mezzo servizio perché, visto che non lavoro, mi sembra inutile. Ho un guardaroba enorme, pieno di abiti e cappotti. Inoltre, gioielli veri e falsi che dapprima lasciavo in giro senza preoccuparmene troppo, ma che oramai da mesi, controllo accuratamente… ” “Ti hanno portato via qualcosa?” “No. Nulla. Ma gli oggetti, i bijou , gli abiti, i cappotti e persino gli indumenti intimi, ossia… Beh… intimi insomma, cambiano di posto, ano da un cassetto all’altro, oppure li ritrovo maltrattati, rigirati…” “Scusa, ma non sarai proprio tu ad usarli e magari a dimenticare che… ” “No. Non dirmi questo. Anche io, le prime volte, sospettavo di me. Poi sono divenuta sempre più pignola, ho cominciato a mettere quelli di un colore tutti a destra, quelli di un altro al centro, con estrema precisione. Ma, niente da fare! Li ritrovavo sempre spostati!” - “Le chiavi di casa, le possedete soltanto tu e tuo marito?” - “Sì, i nostri parenti vivono in altre città, soltanto noi viviamo a Firenze. Abbiamo pochi amici e li frequentiamo poco… ” - “E da quando capita tutto questo?” “Non so di preciso, all’inizio non ci facevo caso, ma poi successe il fatto dell’abito da sera azzurro… ”- “Cioè?” - Chiese Aurora, che provava la sensazione di essere ata da una favola ad un giallo e ne era incuriosita. “Cioè da quando trovai bucato l’abito più bello, quello che Claudio, mio marito, mi aveva regalato con tanto amore. Devi sapere che io, per natura, non amo molto gli abiti eleganti. Neanche mi piace cambiare in continuazione ciò che indosso. In verità non amo i gioielli costosi e le pellicce… ti sembra strano?” - “No. Neanche a me piacciono molto tutte queste cose. Ho la ione per i mobili antichi… ” -
“Ed io per i francobolli da collezione. Per un Gronchi rosa, emesso nel 1961 in occasione della visita in Perù del presidente della Repubblica italiana venderei anche l’anima… magari l’anima no, ma qualche prezioso gioiello certamente! I confini del paese sudamericano sono indicati in modo sbagliato. ” - “Come si spiega allora che possiedi tanti gioielli e non il famoso Gronchi rosa? Li usi per andare a teatro, non so, per incontri di lavoro?” - Aurora, dopo avere pronunciato la frase, si rese conto di potere apparire eccessivamente curiosa e si scusò dicendo: - “Non occorre che tu risponda, ho chiesto così… ” - “Mi va di rispondere, che problema vuoi che ci sia? Usciamo pochissimo e io non frequento praticamente nessuno. Gioielli, abiti, borse e scarpe me li compra mio marito. Lui vuole vedermi sempre bella ed elegante… ” - “Anche se non fate vita di società?” - “Effettivamente gli abiti restano nell’armadio più tempo di quanto siano indossati. E’ uno spreco! Glielo dico sempre, ma lui appare sordo. Dice che lo diverte accompagnarmi a fare spese e anche sceglierli per me. Piacciono più a lui, insomma… ” - “E che tipo di rottura aveva l’abito? Non poteva essere stata causata dall’urto con un uncino degli appendiabiti? Non potevi averlo rotto in precedenza, senza essertene resa conto?“ - “No. L’abito era nuovo, non posso averlo rotto indossandolo. Tu pensi che si sia rotto nell’armadio? Ma è strano! Non li tocco che io e ci sto attenta… inoltre era proprio strappato, dietro la schiena, ai lati della chiusura lampo, come se l’avesse indossato a forza qualcuno più robusto del dovuto… ” A questo punto Aurora provò una sensazione vaga di ansia e non poté fare a meno di esporre il suo dubbio: - “Sei certa che… ” - Ma non completò il pensiero, incerta sul rischio di risultare troppo invadente. - Dimmi!” - Insistette la donna : - “ Hai una idea? Perché ti interrompi? Non vedi che ho un bisogno assoluto di capire, a qualsiasi costo?” -
- “Forse ti potrà sembrare offensivo…” - “Ti prego, ti prego… ” - “Mi è venuto il dubbio che tuo marito abbia un’altra donna, a cui, di tanto in tanto, presti i tuoi indumenti, oppure i gioielli, o altro… Magari potrebbe portarla con sé a casa e trovare gradevole vederla elegante… ” - “Non credere che non ci abbia pensato anche io, ma trovo almeno strana la cosa: perché non comprare direttamente a lei gli abiti, gli oggetti, che acquista per me?” - “Perché potrebbe cambiare di volta in volta la donna, cioè essere uno di quei tipi che invita a casa donnine allegre a cui piace di vedere indossare bei vestiti. Oppure... ” - “Oppure?” - “Che abbia una sorta di perversione, che gli piaccia mettere indosso a loro gli abiti della moglie... ” “Sempre più complicato! Inoltre, quando porterebbe a casa queste famose donnine? Io esco pochissimo e quasi sempre con lui...” “Che lavoro fa?” - “Potrei definirlo un “piccolo industriale”. Stiamo bene, a soldi. Lui ha una fabbrica di ombrelli che gli frutta più di quanto si possa immaginare. Naturalmente è impegnato nella sua attività e sta fuori casa molto tempo. Io mi distraggo facendo della beneficenza, ossia aiutando negli ospedali pediatrici, facendo compagnia ai bambini, organizzando vendite di beneficenza e inoltre leggo molto... ” - “Ma allora vedi bene che esci!” “Già, esco, ma sempre nelle ore in cui lui lavora!” - “Come sai che lavora?” - “E’ semplice! Lo avviso che sto per uscire e...” -
- “E lui potrebbe quindi sapere che la casa è vuota...” - “Gesù, mi sembri proprio una detective!” - Nel dire ciò Sandra si fermò di botto e, assieme, ritornarono forse per la decima volta, sui loro i. Intanto il sole stava calando lentamente all’orizzonte, riempiendo il cielo di un colore rosa che andava tramutandosi in rosso. - “Ho dimenticato proprio di chiederti dove abiti!” - Disse Sandra. - “Per la verità non sono di Firenze. Vivo a Napoli.”- “Che peccato! Avrei tanto voluto rivederti i prossimi giorni, e frequentarti, magari, se a te avesse fatto piacere...” - “Non dico che mi dispiacerebbe, ma sarà certamente un po’ difficile, ammenochè tu non mi venga a trovare nella mia città, o non si possa approfittare di qualche altra occasione, in avvenire...” - “Non sarà la stessa cosa!” - Asserì intristita la donna misteriosa. - “Puoi sempre scrivermi, no? Non vorrai lasciarmi con la curiosità inappagata sul mistero degli abiti vagabondi!” - “Hai ragione. Sempre che riesca a risolverlo io, il mistero... “ - “Ma, per il resto, con tuo marito, vai d’accordo?” - “Oh, senti. E’ già troppo averti raccontato tutto di me... parliamo anche di te, se lo desideri... “ Aurora avrebbe tanto voluto farlo, perché la ferita dell’aver perduto il bambino non si era rimarginata e inoltre la vita con Stefano non riusciva ancora a riprendere i contorni della normalità, ad un anno dall’incidente. Malgrado ciò non si sentì di parlarle di sé, per cui, intuendo che in quel momento era la nuova amica ad avere più bisogno di comprensione, insistette: - “Ti prego, continua a dirmi qualcosa della tua vita, chissà che non ti faccia bene, che non ti permetta di scoprire cose a cui, da sola non arriveresti affatto... “ -
Quella sera restarono a cena assieme e si divertì con Sandra come non le era capitato da tanto. Più tardi poté conoscere, sia pure per pochi minuti, il “famoso” marito. Non le piacque punto: asciutto, alto, con gli occhi sempre un tantino sfuggenti, agili e lunghe le mani, come quelle di un pianista (o di una donna?), l’abbigliamento serio, ma tuttavia con un tocco di “civetteria” nel cappotto aderente in vita, nelle scarpe a punta, lucide, nere, nel cappello a tese larghe con la striscia di velluto nero... si presentò: “ Permette? Claudio Rivelli” impettendosi quasi sull’attenti nel salutarla, sudata la mano che le porse, mentre con l’altra faceva il gesto di toccarsi il cappello, quasi a toglierselo di testa in suo onore. Non le piacque e di lui, negli anni a venire, poté sapere cose che la convinsero della giustezza di quella sua prima istintiva repulsione. Con Sandra difatti, nonostante la distanza dei loro mondi, si rividero piuttosto spesso e inoltre l’amica la tenne sempre informata delle novità a mezzo lettera. Una, in particolare, le era restata impressa: "Roma, 15 luglio 1954. Carissima, sono sola in albergo, a Roma. Sono proprio a terra così che ero stata quasi tentata di raggiungerti a Napoli, visto che mi trovavo qui, a mezza strada da te, ma il mio avvocato, con cui mi sono incontrata questa sera proprio a Roma, mi ha suggerito invece di fare ritorno a casa il più presto possibile altrimenti Claudio potrebbe accusarmi di abbandono del tetto coniugale. E poi avrei torto io, conosci la legge. Gesù, Aurora, in pochi giorni le cose sono così precipitate che non ci crederai. Avrei voluto proprio raccontarti tutto a voce, magari invece al telefono, ma così è più semplice. Spedirò questa lettera subito con il mezzo più veloce e sono certa che in due tre giorni al massimo la riceverai. Mi fa bene scrivere, è un po’ come chiarire e chiarirmi, ma non voglio tenerti più con il fiato sospeso. Ti avevo detto che mi ero divertita a seguire mio marito? Non ti dico le strane eggiate che faceva! Nell’orario in cui lo ritenevo in fabbrica! Girava per negozi, molti di abbigliamento femminile o di gioielli del Corso principale e della vecchia Firenze... un giorno l’ho seguito persino in un grande negozio per abiti da sposa! Ma la cosa non sembrava più che strana. Poi, come ti promisi, l’ho
finalmente tratto in inganno: ieri gli dissi che sarei stata fuori una intera giornata, (oggi) per accompagnare alcuni bambini con la Croce rossa, dei piccoli disgraziati poliomielitici che... ma quelli ci sono, purtroppo, davvero però io non ci sono andata affatto e questa mattina dalle nove ho atteso, come mi avevi suggerito, di fronte al portone di casa. Non puoi immaginare la mia sorpresa quando dopo poco ho visto Claudio arrivare verso casa nostra! Non era solo, sì, ma neanche con una donna, come sospettavi tu. C’era con lui uno dei suoi segretari, quello più giovane che qualche volta ha anche tentato... lasciamo andare sennò non finiamo più il racconto. Eccolo che entra in casa, guardandosi intorno come un ladro. Io resto fuori, che aspetto, chissà, l’arrivo di qualche bella fanciulla, ma poi: nulla! Mezz’ora d’attesa. Che fare? Così ho deciso di entrare in casa, che io potevo, se mi scopriva, dire di non essere più andata coi bambini. Ma speravo di entrare silenziosamente e coglierlo, non so neanche in che cosa o in che situazione, volevo essere anche io in casa, ascoltarlo parlare capire perché era a casa a quell’ora... l’ho fatto zitta zitta, sono salita per le scale, che in soggiorno al piano terra non c’era nessuno e neanche nel suo studio... sono andata diritta diritta, chissà per quale ragione, verso la nostra camera da letto che era socchiusa e mi si sono avvicinata e ho guardato dentro. Non si sentivano rumori, semmai, dopo un po’ come dei sospiri che so? Ho spinto l’uscio e ho osservato, perché la luce bastava: c’era la lampada grande in stile floreale sul cassettone, coperta da un panno. Sul letto dei vestiti, credo, da donna. I miei, penso. Ma poi, sul letto c’era, credevo che ci fosse una donna insomma, una di quelle donne di cui sempre parlavi tu. Ma mi sono chiesta: come ha fatto ad entrare? Invece poi ho visto che con lei c’era quel giovanotto di cui ti dicevo, Renato Bindi, il segretario di Claudio. Era steso accanto a questa donna, o che io così credevo, ma poi l’ho fissata bene e non era una donna. No. Era Claudio. Vestito con un mio vestito, anche con il cappello, figurati, che rideva e si muoveva come faccio io quando gioco a fare la donna di mondo. Sono restata di stucco senza fiatare. Loro due, sul letto, si sono anche baciati, ridendo e io come una scema, senza sapere cosa fare, o dire, finché ho deciso che forse avrei fatto meglio ad uscire e lasciare tutto quello schifo lì, senza girarmi indietro ed è per questo che, coi
soldi che avevo in tasca, ho preso un taxi, poi un treno per Roma e poi, mi sono infilata nel primo albergo che ho incontrato. Così dopo un’oretta di pianto che mi sono inzuppata pure le scarpe, mi sono ricordata di un mio amico, Giulio, l’uomo che mi voleva sposare prima che conoscessi Claudio e gli ho telefonato, perché lui vive a Roma. Ci siamo incontrati subito, perché lui ha capito che stavo dando di testa e... insomma, poi ti farò sapere il resto, in ogni modo mi tocca tornare subito indietro e poi vedremo il da farsi. Giulio mi ha assicurato che ci sono i presupposti per l’annullamento di matrimonio alla Sacra Rota e che devo riprendere il mio posto in casa, subito e che poi mi darà una mano. Mi ha detto di non dire a Claudio che l’ho visto, perché dobbiamo incastrarlo” e che non debbo metterlo sulla difensiva. Capisci? Mi sembra di vedere la tua faccia sconvolta. Che ingenue eravamo! Pensavamo ad una donna! E invece... Ti chiamerò appena possibile per farti conoscere il resto. Ti bacio e subito mangio qualcosa e torno a Firenze per non destare sospetti. Meno male che me ne sono uscita piano piano e lui non si è accorto di nulla! Era troppo preso a fare la cocotte! Mi sento pazza. Baci cari e a presto." Ovattato. Non poteva descriverlo in altro modo quel tipo di vita in cui lei, pur tra le macerie delle vite altrui, si era trovata a vivere. Finché non si era imbattuta nelle sue, di macerie. La storia di Sandra, che si era svolta a puntate come un racconto d’appendice, inserendosi a tratti nei suoi pensieri e nello scorrere del suo tempo soggettivo, l’aveva in ogni caso scaraventata in realtà cui lei non era stata affatto preparata. Uomini che indossano gli abiti della moglie e baciano altri uomini non avevano mai fatto parte del suo immaginario. Era preparata ai tradimenti di un marito con un’altra donna, ma mai avrebbe pensato che... Il resto della vita di Sandra, che pareva proprio predestinata a storie convulse e inquietanti, non si era svolto più linearmente: Dopo una combattuta separazione a base di fotografie scattate da un detective da romanzo giallo di terza categoria, testimonianze a porte chiuse e, infine
l’ammissione del marito di un amore verso l’abbigliamento femminile, Sandra era stata liberata dal matrimonio. Claudio, anni dopo, si era tranquillamente risposato e aveva avuto anche, dalla seconda moglie, un bambino. In giro sosteneva di aver finto, assieme alla prima moglie, tutta quella pagliacciata, per ottenere l’annullamento e che, per il resto, nulla contava. Sandra aveva lasciato Firenze con i suoi begli abiti, i suoi gioielli più falsi che veri e poche lire in tasca. Una donna che non aveva mai coltivato altro che l’hobby della filatelia, senza un diploma, senza parenti o amici, cosa avrebbe potuto fare della sua vita? Fu fortunata, trovò, per mezzo dell’interessamento del suo amico avvocato, un posto appunto in uno studio filatelico dove la sua ione la condusse almeno alla serenità nel lavoro. Ma, per le storie d’amore, non sembrava affatto portata alla normalità. Fa testo una sua lettera di circa cinque anni prima in cui raccontava all’amica: "... Ho cominciato ad uscire con lui per lavoro. Lo aiutavo nelle ricerche, nella raccolta di collezioni più o meno importanti, lo seguivo nei viaggi, per l’acquisto di collezioni in vendita per la morte di notai presso cui gli eredi svendevano il materiale degli studi, compreso vecchi scritti amanuensi, cartoline, lettere... Tu sai che, coi rapporti tra me e Claudio, io d’amore ne capivo poco o nulla. Non credevo neanche che potesse essere bello, o coinvolgente. Poi, con Sergio invece. Mi vergogno a dirtelo, ma da vicino forse sarebbe peggio. Ma, a chi dirlo se non a te? Ho scoperto l’amore fisico: è bellissimo. Al buio, ma anche alla luce, è bellissimo!" ...Con Sergio, stiamo mettendo su casa. Proprio una casa poi. soltanto tre stanze, ad Ostia, in un posto vicino al mare. C’è un giardino immenso, con gli aranci che, nonostante la salsedine, crescono proprio bene. Io vivo come un’accampata per ora, lui viene ad aiutarmi e stiamo giorni interi a mettere su un muro, a dipingere, ad imbiancare... e un anno dopo Sandra affermava: ... sono felicissima, lo vedo sul lavoro. La moglie forse sospetta, i figli chissà, il più grande mi vuole un gran bene, Pietro, ha quattordici anni, gli altri due sono ancora piccoli. Ora viaggiamo di meno assieme, per non creare sospetti, però ci
vediamo nella nostra casetta. Gli ho chiesto di acquistarla da lui, perché così mi sento come una mantenuta, ma Sergio invece sostiene che me la lascerà in eredità. Parla di morte come se dovesse accadere da un momento all’altro, eppure ha soltanto otto anni più di me! Le cose si complicarono, ovviamente quando: ... speravo che non accadesse, ma Luigia ha capito tutto. Deve esserci stata una scenata tremenda davanti ai ragazzi. Il più grande si è sentito male. Sergio mi ha pregata di non farmi vedere più in casa loro, almeno fino a quando tutto non si tranquillizza e intanto io ho perso il lavoro. Sono davvero nei guai, non ho una lira, la casa è ancora mezza incompleta e per di più temo di aspettare un bambino. Fu in quell’occasione che Aurora si sentì in dovere di correre dall’amica per scoprire come stessero realmente le cose. Giunse ad Ostia all’improvviso e non le fu facile trovare la villetta descritta, perché mancava di numero civico e in sostanza era immersa in una zona ancora poco o nulla popolata. L’unica cosa imponente era il cancello, nero, immenso, di chissà quale provenienza. Il muro di cinta, vecchio, con alcune parti cadute, era stato evidentemente collegato in modo approssimativo proprio con quel cancello. La casa, tre stanzoni l’uno sull’altro e senza tetto, non era ancora del tutto intonacata e le persiane di un verde intenso, enormi, facevano contrasto con il variegato grigio giallastro delle mura, in parte vecchie e in parte nuove. Aurora trovò l’amica in giardino. Si era in novembre e intorno le foglie si tingevano di giallo e di rosso. Faceva spicco su di un muro una larga macchia di piante rampicanti di un rosso intenso e, in un’aiuola, fiori gialli di quelli che nascono proprio al tempo dei defunti, di un giallo quindi poco allegro almeno a suo parere. Aurora si sorprese nel notare che Sandra splendeva letteralmente di giovinezza e di salute. Leggermente ingrassata, forse a causa della gravidanza, le saltò fisicamente al collo per la gioia, assalendola con mille notizie sulla casa, su Sergio, sulla moglie, su se stessa, come se le scoppiasse dentro una smania di renderla partecipe di tutto e subito. Poi le prese la valigia di mano e con l’altra la trascinò dentro uno stanzone asserendo: “Devi vedere subito cosa ho trovato!” E le mostrò, dopo avere spinto di lato la valigia su di una poltroncina, una cornice scura in cui capeggiava qualcosa di rosa. “Il Gronchi! Capisci? Il Gronchi rosa! Pensa che bello! L’acquistò Sergio qualche mese fa, lo trovammo presso una famiglia... neanche sapevano cosa
fosse, il nonno collezionava francobolli, poi è morto, poi Sergio me lo ha regalato, perché l’avevo trovato io! Vedi che meraviglia?” Lo sguardo d’Aurora fu intanto attratto da una foto in cornice argento, che faceva bella mostra di sé su un tavolino basso. Subito Sandra intervenne: “Hai visto? Li conosci? Sono Dario Fo e la moglie, lei si chiama Franca non so che cosa. Aspetta! Rame, si chiama Rame. Sono bravissimi! Li ho conosciuti con Sergio alcuni mesi fa, lui fa cose satiriche, specialmente sulla politica e scrive per la radio e adesso in minima parte anche per la televisione! Si sono trasferiti a Roma da pochi mesi e pensa che hanno l’intenzione di fondare una vera compagnia teatrale! Vorrebbero che andassi a lavorare con loro!”. Decisamente nulla di quanto accadeva a Sandra pareva normale. E lei navigava nell’incertezza, nello scompiglio più acuto, o forse cronico, con una semplicità e una convinzione da stupire. “E del bambino cosa dici?” “Il bambino? Già! Ti ho scritto del bambino... Sergio gli vorrebbe imporre il suo nome... ma la legge non lo consente: il bambino sarà a tutti gli effetti un figlio adulterino e l’avvocato ci ha detto che, poiché Sergio è sposato, neanche con il consenso della moglie potrebbe riconoscerlo come suo.” “E tu che farai?” Sandra assunse un atteggiamento improvvisamente pensieroso e inavvertitamente si ò una mano sull’addome, che appena appariva più voluminoso, come per proteggerlo: “Semplice, gli darò il mio cognome. Che posso fare? Se fossi ancora sposata, potrei tentare di dargli quello di mio marito, se lui non protestasse... ma il matrimonio è stato annullato, figurati... potrei anche tentare, ma immagina! Conosci le ragioni per cui ci siamo lasciati e poi è trascorso tanto tempo.” “Sergio non potrebbe dargli il suo cognome?” “ No. Non potrà fare nulla per lui, legalmente, dico. Neanche lasciargli qualcosa in eredità, volendo. Soltanto se intanto morisse la moglie, potrà legittimarlo nel testamento. E’ tutto molto complicato e preferisco non
pensarci... “. “Ma intanto, provvederà a lui?” La donna si sedette sul divano basso, osservando l’amica con sguardo carico di ansia e aggiunse: “Gesù, Aurora, certo che sì! Mi aiuterà a crescerlo e credo di avere capito che voglia intestargli qualcosa, forse questa casa, non so, forse del denaro su di una banca, per il domani... “. “È comunque una bella complicazione... ” “Io non ti capisco! Come fai a parlare di mio figlio come di una complicazione? Io l’ho voluto questo figlio. Non ho altro che lui, io. Di Sergio, se ci lasceremo, cosa mi resterà? E se morisse, poi?” “Già, ma non ti sarà facile vivere così: non hai un posto di lavoro, non hai soldi da parte, non... “. “Basta! Sei venuta a consolarmi, o che? Queste cose le so da me! Vedrò che posso fare. Finché Sergio e io stiamo assieme, lui penserà anche al piccolo. Credo che tra lui e la moglie le cose vadano affatto bene da tanto. Credo che lei sappia persino di me e del bambino e che accetti, purché non siano turbate le apparenze.” Aurora si rese conto che tutta la logica di questo mondo non avrebbe potuto modificare lo stato dei fatti e cercò quindi di mostrarsi più ottimista: - “Ma sì, scusami, vedrai che tutto in qualche modo si risolverà, o almeno troverà una sua logica. A limite, anche non lavorando per Sergio, potrai sempre continuare il tuo lavoro con i francobolli. Poi, cosa ci vuole per crescere un bambino? Ti aiuterò anche io. Ti sarò vicina, se proprio non vuoi chiedere aiuto a tua madre e tuo padre... ” “Potrei, volendo, chiedere aiuto a loro. Mi hanno scritto pochi giorni fa. Sanno dell’annullamento ed è molto che insistono perché torni a vivere con loro, ma io non posso. Ho vissuto una infanzia d’inferno in casa mia. Un silenzio opprimente, mio padre che comandava su tutto, mia madre sempre sottomessa, anche nel denaro. Mi sono sposata proprio per allontanarmi da tutto questo.
Come pensi che vi possa tornare? Mia sorella Livia vive in Australia e forse mi vorrebbe con lei. Ha una fattoria. M’immagini tra i canguri, in quegli spazi immensi? Eppure ci farò un pensiero, se proprio sarà necessario. Ma adesso, la sola idea di lasciare Sergio, mi uccide. Non hai capito che ci amiamo?” Per il resto della serata, a conferma di queste parole, Sandra non fece altro che parlarle di Sergio. C’era sul comodino, in una cornice a forma di fiore, una foto di lei al mare, stretta ad un uomo dall’aria docile e gentile. Ovviamente si trattava di lui. La camera di Sandra, una matrimoniale di tipo antiquato e familiare, faceva pensare alla vita a due di due coniugi molto “normali”. Nell’armadio c’erano abiti estivi e invernali di entrambi, e camicette di lei, camicie di lui e, nei cassetti, maglieria intima, fazzoletti... Sandra le aveva mostrato ciò come a verifica di quella “sicura presenza” di un uomo, del padre, appunto, di quel figlio che lei amava. Giocarono a scacchi, davanti al caminetto della stanza a primo piano, parlando di alcune cose, senza tuttavia creare più ragioni di nervosismo, ma ciò capitava di rado, perché invece, più spesso, alcune riflessioni di Sandra, la sorprendevano e le lasciavano dentro un alone di emozioni maldigerite. Questo anche a causa del fatto che si trattava di problematiche psicologiche scottanti, pungenti, difficili da affrontare. Una domenica, ad esempio, dopo averla accompagnata a seguire la messa nella chiesetta del paese, si ritrovarono assieme ad ascoltare il sermone del sacerdote, entrambe coinvolte e a disagio per le parole che il prete, un uomo anziano, dall’aria benevola, rivolgeva anche loro: “il nucleo della società è la famiglia. Oggi, come al tempo di Gesù noi non possiamo accettare che marito e moglie prendano vie diverse…”. Quindi lesse un o del Vangelo di Matteo sul divorzio (Cap. XIX): .- “E andarono i Farisei a tentarlo, dicendogli: È lecito all’uomo ripudiare per qualunque motivo la propria moglie? Egli rispose loro così: Non avete letto, come il Creatore da principio li creò
maschio e femmina? E disse: per questa lascerà l’uomo il padre e la madre e s’unirà con la sua moglie; e i due saranno una sola carne. Dunque non sono più due, ma una sola carne. Non divida pertanto l’uomo quel che Dio ha congiunto. Ma perché dunque – dissero essi – Mosè ordinò di dare la scritta di divorzio e separarsi? Dice loro: Per la durezza del vostro cuore vi permise Mosè di ripudiare le vostre mogli: però da principio non fu così. Io poi vi dico: chi rimanda la propria moglie, se non per fornicazione, e ne pigli un’altra, è adultero, e chi sposa la ripudiata, è adultero. I discepoli gli dicono: Se tale è la condizione dell’uomo rispetto alla moglie, non torna conto ammogliarsi. Egli disse loro; Non tutti, ma quelli a’ quali è stato concesso, capiscono questo. Ci sono infatti gli eunuchi, usciti tali dal seno della madre, e ci son degli eunuchi che sono stati evirati dagli uomini, e ce ne sono di quelli che si sono evirati da sé per il regno dei cieli. Comprenda chi può.” Anche se per ragioni differenti, (Aurora era in piena crisi matrimoniale, a causa della malattia di Stefano) entrambe ascoltarono queste parole con una sensazione di freddo al cuore. Ma fu Sandra, ore dopo, a ritornare sull’argomento. Si trovavano in salotto a parlare della loro situazione, quando all’improvviso sollecitò il problema: “Cosa ne pensi delle parole che ha detto oggi Don Giulio?” Lei comprese subito: “Intendi per la questione del divorzio?”_ “Sì…”
“Neanche la legge sembra pensarla diversamente, ti pare?” “Sì, ma sulla legge degli uomini ci sono tante variabili…e si può sempre sperare che cambi o anche soltanto non interessarsene affatto. Però è triste pensare che io, così come mi trovo a vivere, risulti fuori della mia religione…” “Per Dio, vuoi dire?” “No, per Dio non credo…” “ Di quale Dio parli? Il tuo Dio? Sei tu a Sua immagine o non piuttosto fai diventare lui a tua immagine, come dice Stefano? Spesso, rifiutando ciò che la Chiesa ufficiale ci dice, rischiamo di creare tante divinità differenti e ciascuno di noi chiama Dio quell’essere che si è costruito…”. “Vuoi dire che anche l’omicida si offre delle ragioni? Vuoi dire che il camorrista si sente figlio del suo Dio?”. “Qualcosa di simile…” “Io, sul divorzio, ho una mia teoria. Pensa bene: dice il Vangelo di Matteo che l’uomo non deve dividere ciò che Dio ha unito. Ma, cosa ne sappiamo di chi unisce Dio e con chi?” “Non capisco…” “Io credo in un Dio d’amore. Forse è anche il tuo. E’ comunque un Dio che unisce soltanto le coppie che si amano davvero, non quelle unite da un uomo che veste la tonaca e forse unisce anche persone che non sono nate per restare assieme.” “Come te e tuo marito” “Già. Ma la Chiesa ha ammesso che noi due avessimo sbagliato. Ci siamo sposati, però il mio ex marito non lo voleva davvero. Lui voleva una copertura, e io non lo sapevo. Quindi eravamo in errore, e la Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana ci ha concesso di avere commesso questo errore. Pensa bene: non può essere che, quando il mio uomo, l’uomo che amo più della mia vita, ha sposato la moglie, si trovasse anche lui in errore? Magari lui l’amore non sapeva neanche cosa fosse e Dio se ne è accorto, quindi non lo ha unito
affatto in matrimonio. Poi ha incontrato me, ci siamo amati davvero e in quel momento il mio Dio che dice? Ecco, questi due si amano davvero, formano una vera coppia e io li voglio proprio unire e che nessuno li divida!” “Certo che sei forte! Potrebbe anche essere una teoria interessante…”. “Pensa che ridere, nell’aldilà! Quante coppie, convinte di essere state unite, che invece non si sono mai unite davvero! Poi magari si ritrovano uniti all’uomo o alla donna con cui credevano di avere commesso adulterio e si sentono dire che è il loro compagno, o la loro compagna, per scelta di Lui!” “Vuoi dire che soltanto l’amore vero permette di essere uniti?” “Perché no?” Perché in questo modo come si troverebbero quelli che si amassero davvero per anni, e poi smettessero di amare e si innamorassero di un altro…” “No, scusa. Io questo non lo accetto. Se si ama, si ama per sempre, Non credi?” “Dovrei pensare che il mio amore per Stefano non fosse davvero amore? Neanche quando io credevo lo fosse?” “Già, io credo che l’amore vero sia eterno, indissolubile, fino alla morte e anche oltre…”. “Sarebbero ben poche le coppie sposate da Dio!” “E forse è proprio così!” “Ma c’è dell’altro!”replicò Aurora, come colpita da una idea folgorante“Pensa ai vedovi e alle vedove. Poniamo l’esempio di mio zio Lucio. Fidanzato per nove anni con la moglie Anna. Un amore immenso. Davvero. Lei, dopo nove mesi di matrimonio, ha una bambina. Dopo meno di un mese, muore. Questa storia è famosa nella nostra famiglia, perché davvero zio Lucio e la moglie si amavano teneramente…” “Quindi furono uniti dal mio Dio…” “Già. Poi mio zio, molti anni dopo, sposa la seconda moglie, Paola.”.
“No, Lui crede di averla sposata, In realtà l’ha sposata solo per la legge terrena, perché il mio Dio non li ha uniti… ”. “Tu immagina se invece lei, convinta di essere la moglie, si è poi ritrovata nell’aldilà, morto mio zio, morta lei, a cercare il marito, per sapere che invece il suo consorte, con cui ha diviso trenta anni circa, è sempre sposato con la prima moglie e che lei, quindi, ha vissuto con un uomo, in concubinato, per tutta una vita! Una donna così religiosa!” “Mo’ mi fai ridere!” “Sì, ma poniamo il contrario: un uomo sposa senza amore la prima moglie che poi muore. Poi ama la seconda e…” “E quella è la legittima consorte, perché la prima il mio Dio non l’ha unita in matrimonio. Ecco che la moglie, quindi, è la seconda!”. “Sandra, sembra tutto così evidente, però, a sentire te, i matrimoni uniti dal tuo Dio sarebbero proprio pochi!” “E chi ti dice che non sia così?”. Ecco, queste erano le riflessioni che avrebbe sempre ricordato, dei loro momenti assieme. Poi, finalmente, il figlio nacque. Il giorno del battesimo parve davvero una festa familiare senza nessuna difficoltà: Sergio fece da Padrino al piccolo, che chiamarono Sergio. In chiesa lo tenne in braccio come qualsiasi padre e Aurora gli fece da Madrina. Poi si recarono tutti a casa per festeggiare e c’era anche Stefano con loro. A quell’epoca Aurora aveva conosciuto da un po’ Valerio e aveva le idee più chiare su cosa si provasse a vivere una storia impossibile. Questo la costrinse a ritornare con la mente alle riflessioni fatte con Sandra sul matrimonio e anche a dovere convivere con tutti i suoi atroci dubbi e le sue debolezze. Poi, anni dopo, Sandra: la chiamò al telefono, si era nel 61, chiedendole di raggiungerla “subito, per carità, che altrimenti commetto una sciocchezza!”. E Aurora lasciò tutto e, in automobile, raggiunse l’amica al mare. Si era di nuovo in novembre e occorre aggiungere che la villetta aveva assunto nel tempo i
contorni di una eleganza alquanto sconcertante, ma piacevole: aveva, finalmente, un tetto, di color rosso , dove il comignolo fumava perenne perché il caminetto potesse scaldare gli ambienti. Il muro di cinta, coperto d’edera sempre verde, il cancello verde cupo come le persiane e le pareti bianche lucenti, tutto dava una sensazione di allegria. Ma non l’espressione di Sandra, quando la raggiunse all’ingresso con Sergio Junior in braccio. Era livida, con le occhiaie scure e lo sguardo folle. “Che cosa è accaduto?” Le chiese Aurora, togliendole il piccolo di braccio e ponendolo poi a correre nel giardino. “ Sergio! E’ gravemente ferito. Forse dovranno amputargli una gamba e neanche posso vederlo!” “Come è successo?” “Non so: erano tre giorni che non veniva a trovarmi, a casa dovevano essere successe storie più serie del solito. Non me lo ha detto, ma l’avevo intuito comunque. Poi ho capito che stava proprio venendo da me, due sere fa, quando...” Scoppiò in singhiozzi e questo per Sandra era del tutto una novità: non piangeva mai. Aurora fremeva di sapere come stessero in effetti le cose. La scosse leggermente insistendo: “Racconta, dai, magari piangeremo dopo, assieme...” “Sandra smise di colpo, tirando su col naso rumorosamente e intanto recuperò il piccolo che stava calpestando allegramente i soliti fiori giallo oro del tempo di novembre. Dopo un poco l’amica ritornò presso di lei, col bambino per mano: “Entriamo, è meglio, lo metterò a giocare nella sua stanza e parleremo dopo un caffè. Ne ho bisogno.” Così fecero e Aurora poté sapere come si erano svolti i fatti. Due sere prima Sergio si era recata a trovarla. Sulla strada, forse bagnata e pericolosa, aveva slittato e l’auto si era capovolta dopo essere precipitata giù da una breve scarpata. Erano le otto di sera, in casa non sapevano dove si stesse recando, nessuno l’aveva visto, nessuno sapeva dove cercarlo e l’uomo era rimasto, ferito, l’intera nottata nell’auto capovolta. Un miracolo che non fosse morto.
L’indomani mattina un camionista di aggio aveva intuito qualcosa e aveva intravisto l’auto. Soltanto dopo un ora, finalmente erano giunti i soccorsi. Sergio era stato trasportato in ospedale con una gamba sfracellata e si parlava di amputargliela. Anche salvandola, ci sarebbero voluti mesi di cure e un paio di operazioni almeno e gessi, in un centro specializzato a Bologna, per cominciare a parlare di rimetterlo in piedi. “Capisci cosa vuole dire questo? Non potrò vederlo, o anche parlargli, o scrivergli e lui, come potrà aiutarmi in qualche modo? E se morisse? Oltre al dolore, immagina, questa casa sarebbe venduta e lui non ha mai voluto che l’acquistassi io... “. In realtà i fatti erano davvero drammatici. Per di più, in qualche modo oscuro, Sandra inoltre si sentiva responsabile dell’incidente: “Non lo aspettavo! Non sapevo che dovesse giungere, altrimenti, che so, mi sarei preoccupata! Ma non lo aspettavo!” Aurora si fermò dall’amica per qualche giorno e riuscì anche, con l’inaspettato aiuto del primo figlio di Sergio a recarsi in Ospedale, per prendere notizie e salutare il malato personalmente. Lo trovò in uno stato terribile, sbiancato, magro, con lo sguardo perduto nel vuoto, incapace di pensare ad altro che al dolore che provava e alla paura. Provò a parlargli di Sandra e del bambino, ma lui, quasi con terrore, le fece segno di tacere. “Per carità! Già così è una tragedia! Mia moglie ha capito dove mi stavo recando e non mi perdona di essermi ridotto così... a causa di un’altra donna.” Tuttavia le mise in mano una busta, facendole comprendere che voleva restare solo. Aurora credette si trattasse di una lettera, ma poi, appena fuori dall’ospedale, si accorse che conteneva denaro. Sandra ne fece una tragedia, voleva buttarlo, bruciarlo o che so altro. Ci volle una grande calma e persuasione da parte di Aurora per convincerla che i soldi le avrebbero fatto comodo per il bambino. “ Nemmeno un rigo per me... ” Sussurrava Sandra di tanto in tanto. Sembrava ossessionata da questo pensiero. Poi aggiungeva: “Mi odia. Mi odia perché pensa che sia stata colpa mia. Che se non fosse venuto a trovarmi, quella sera... “. E in nessun modo fu possibile ad Aurora di convincerla del contrario.
arono così alcuni giorni e Aurora dovette ripartire; poté seguire la storia nei mesi a venire attraverso le lettere di Sandra. Parlavano quasi sempre del piccolo Sergio e, raramente, davano notizie dell’infermo. In una poi: “Finalmente mi hanno permesso di rivederlo. Grazie a Marco che sa tutto (il primo figlio di Sergio se non ricordi...) Ci sono restata dieci minuti e in quella stanza c’era un terribile odore di malattia, di medicine. Tu sai che non sopporto queste cose e forse anche per questo non sono riuscita a fargli capire cosa provavo. Ma lui, non sembrava più lo stesso. Mi ha detto di avere provveduto a depositare in banca a nome mio del denaro, per aiutarmi nei primi tempi. Che avrei potuto comunque rivolgermi al nostro amico avvocato, per altre cose, perché questi avrebbe poi parlato a lui. Aveva un viso diverso, come se fosse diventato indifferente a tutto. Non mi ha neanche chiesto, che so? Un bacio, o un abbraccio. Sull’incidente ha detto soltanto : “Si vede che era destino che noi due ci fermassimo... ” Che vuole dire, “destino”? E poi: “Ci fermassimo”? Avrebbe fatto meglio a dire “ che ci lasciassimo” . Perlomeno aveva un senso, no? Gli ho chiesto della gamba e mi ha spiegato che ci sono muscoli lacerati e scoperti, che dovrà subire delle operazioni di plastica, con la pelle presa dal fondo schiena, non so bene quando e dove, per provare a rimetterla assieme. Ma che non è ancora sicuro che ci riusciranno. Poi mi ha chiesto del bambino, se stava bene e altro, ma si capiva che non gli interessava veramente. Me lo dicevi sempre, vero, Aurora, che gli uomini amano i figli che crescono in casa, sotto i loro occhi? Che non hanno un attaccamento viscerale, per la prole, come noi donne che li abbiamo partoriti? Credo che tu abbia proprio ragione. Inoltre: io non l’ho riconosciuto. Non ho riconosciuto Sergio come l’uomo che ha vissuto con me tanto tempo. Mi è parso che quel Sergio fosse morto la sera dell’incidente, o forse in quelle maledette ore in cui, da solo, avrà ragionato su di sé sulla sua vita su noi due. Non ho avuto il coraggio di parlargli della casa. Ma lui ha poi detto che aveva provveduto alla casa, che non dovevo preoccuparmene. Così dopotutto forse potrei anche restare ad Ostia. Se avesse un senso restare, per lui. Mentre lo guardavo, però, l’ho sentito così estraneo! Quando, all’improvviso mi sono resa conto che soffriva, fisicamente che la mia presenza poteva soltanto disturbarlo, nel suo dovere sopportare quel dolore! Deve essere una cosa terribile, il dolore fisico! Abbiamo un bel dire che la sofferenza morale è brutta, ma quella fisica, che ti fa provare la voglia di morire, credo che rimetta in ballo tutte le emozioni del ato, oppure le uccide, le annulla… E’ venuto un medico e gli ha fatto una iniezione contro il dolore. Una delle tante, mi è parso capire. Forse anche per questo non sembrava normale . Non sono normale neanche io, sai? Ho il piccolo che mi fa compagnia, ma mi
sento proprio sola, finita, vecchia. Non ho fortuna vero? Oppure sono io che non so scegliere ? Ho scritto a mia sorella. Ricordi? In Australia. Avevo ragione, le farebbe piacere se la raggiungessi, hanno una fattoria e spazi immensi e bisogno di compagnia e di aiuto. Ho quasi deciso: resterò ancora qualche tempo qui, per sapere di Sergio, poi andrò via.” E così fece. Aurora seppe di un suo breve viaggio dapprima a Parigi, a casa di amici. Come di un uccello che provi le ali per il volo. Le giunse una lettera in cui Sandra, anche se con toni spenti, che poco le assomigliavano, le raccontava delle cose belle con cui era venuta in contatto. Aveva cominciato a vendere i mobili di casa, per ricavarne il più possibile, poi i gioielli, quelli veri, e gli abiti più importanti. Dopo Parigi si era trattenuta ancora un mese, per definire la situazione della casa. L’avvocato l’aveva informata che Sergio ne aveva fatto donazione al piccolo, per cui lei doveva deciderne il da farsi fino alla maggiore età di Sergio junior. Così non ebbe il coraggio di venderla. La chiuse come si fa coi ricordi divenuti troppo difficili da gestire e, dopo un breve saluto a Sergio, in ospedale, lasciò l’indirizzo all’avvocato, perché la tenesse informata sullo svolgersi degli eventi e organizzò la sua partenza per l’Australia. Fu così che Aurora perse completamente di vista la sua più cara amica. L’ospitò qualche giorno a Napoli e poi l’accompagnò all’aereo, a Roma. Nella confusione della partenza, tra documenti da mostrare e valigie da sistemare, quasi non si resero conto del fatto che lo spazio da percorrere per Sandra le avrebbe allontanate nel tempo. Poi, fu troppo tardi anche per piangere e si abbracciarono in silenzio. Sandra si avviò verso il suo nuovo destino, in compagnia di quel figlio che aveva avuto il coraggio di far nascere, mentre lei, pochi mesi dopo, non avrebbe avuto lo stesso coraggio.
Il seminarista
L'insegnante lo accolse in classe con una punta di curiosità: sapeva che quel giovane biondo, esile, di aspetto elegante e tranquillo, stava studiando per divenire prete. Si chiamava Flavio. Non aveva idea di cosa si celasse dietro l'apparente calma con cui quel bell'allievo affrontava le sue giornate scolastiche. Ne era un po' incuriosita e, doveva ammetterlo, le sembrava quasi "sprecata" quella vita giovane, che rinunciava alle tante cose facenti parte, appunto, della vita giovane e si apprestava a rinunciare anche alle tante cose che avrebbe potuto avere in futuro in nome di una fede. Ad insegnare religione in quell'Istituto c'era anche un prete. Giovane anche lui, relativamente: insomma, sui quarant'anni. Lei, l'insegnante, ne aveva una trentina e non era "impegnata sentimentalmente", per cui finiva per vedere in quell'uomo che si era dedicato al sacerdozio, soprattutto, appunto, un uomo. Divennero amici: Don Giulio era aperto, simpatico, attivo e colto. Non si nascondeva dietro la sua tonaca, anzi, a suo parere, sembrava essere così certo della sua vocazione da non doversi difendere da quelle che considerava improbabili tentazioni. Parlava con lei, nei minuti di stacco dal lavoro, l'accompagnava a prendere un caffè, discuteva sugli allievi che avevano in comune, ma non accennava mai ai "suoi" seminaristi. All'apparenza l'intenzione era proprio quella di lasciare loro liberi di scegliere, di condividere la vita sociale della loro età, di confrontarsi e magari cambiare idea sui i del proprio futuro. Flavio seguiva le orme del "maestro", bravo a scuola nei limiti di ciò che gli permettevano i suoi doveri extrascolastici, che dovevano pur esserci, partecipativo con la classe, senza nessuna differenza di atteggiamento tra compagnie maschili e femminili. All'uscita si fermava, potendo, a discutere con i colleghi, pur studiando da solo. All'epoca, incredibile forse a dirsi, non c'erano i cellulari (ma non stiamo parlando del mesozoico, piuttosto degli anni 90), per cui ci si organizzava tra telefonate da casa ed incontri tra amici nella piazza del paese, nei bar o sul classico "muretto", luogo, anni fa, dove ci si dava appuntamenti casuali, che
potevano essere un vago "dopo pranzo", o "dopo cena", ma anche "quando ho finito di fare matematica". In questo senso il tempo appariva variabile e trattabile. Flavio, a differenza di quanto accadeva anni prima, non indossava l'abito da prete, pur essendo un seminarista. Alcuni amici preti, insegnanti di religione, lo indossavano a volte, mentre in altre occasioni vi rinunciavano: pantaloni scuri, maglie scure a collo alto, mantenevano una sorta di cromatismo religioso che infondeva comunque rispetto. Don Giulio indossava sempre e soltanto la talare. Spiegò alla collega d'italiano (che si chiamava Roberta), che il suo nome proveniva dal nome della veste dei sacerdoti ebraici che giungeva al tallone e che soltanto dal IV o V secolo dopo Cristo era stata adottata dai sacerdoti cristiani. Non è giusto pensare che Don Giulio parlasse soltanto di temi religiosi, al contrario, trattava qualsiasi argomento, con molta disinvoltura, dando modo di comprendere che fosse un uomo colto, ma non ghettizzato nelle proprie nozioni di ambito religioso. L'insegnante d'italiano cominciò a trovare davvero piacevole la sua compagnia. Neanche si rese conto che il suo animo si rallegrava nel vederlo apparire nei corridoi. Alle riunioni scolastiche "di classe", ai collegi, lo ricercava con lo sguardo. Lui la raggiungeva con spontaneità, le sedeva accanto, le chiedeva della madre (che viveva con lei), parlando dei ragazzi che componevano le classi, di qualche problematica, ma anche di politica internazionale, di economia e di società. Roberta, però, non tardò ad accorgersi che mentiva a se stessa quando si diceva come quell'amicizia non avesse alle basi una sempre più profonda simpatia per l'uomo che indossava l'abito. Tenuto conto che era una donna intelligente, si chiese anche se le sarebbe piaciuto lo stesso, proprio lui, senza che fosse ammantato da quell'aura di negazione, d'impossibilità e di mistero. Non era certa della risposta. Ricordava un film che all'epoca era stato molto discusso: "La moglie del prete", di Dino Risi. Nel 1970 Sofia Loren e Marcello Mastroianni avevano affrontato l'argomento spinoso del rapporto tra una bella ragazza e un affascinante prete, teso a dimostrare come il problema fosse irrisolvibile. Anche quando il prete lasciava la Chiesa, per una scelta sentimentale, non era per nulla
detto che fosse la soluzione. Lei stessa aveva conosciuto un giovane prete, cugino della cognata: Don Paolo. Aveva celebrato il matrimonio del fratello, poi, anni dopo, si era svestito per sposarsi egli stesso, per poi divorziare dalla moglie entro pochi anni. Che confusione! La risposta del "suo" Don Giulio, una volta che lei aveva affrontato l'argomento donne, chiedendogli se mai si sarebbe sentito di vivere un rapporto sentimentale era stata: -"Sentirei di tradire Dio". Credergli? Conosceva molti preti dei paesi circostanti che "avevano famiglia", anche figli, sì, e donne disposte a restare nell'ombra. Meglio, sempre, si era detta, di quelli che disturbano i bambini. Intanto Flavio, fosse anche soltanto per quell'aura d'impossibilità di cui pensava l'insegnante, era divenuto il centro dell'interesse di Bruna. Neanche a dirlo, la più bella e corteggiata ragazza della classe. Come reagiva lui? Sembrava non rendersi neanche conto di questo interesse. Restava serio, tranquillo, un tantino distante, ma non così tanto da divenire scortese. Lei gli chiedeva aiuto per la matematica e lui glielo dava. Le ava i compiti, ma poi glieli spiegava per renderla indipendente. Accettava piccoli doni e ricambiava con libretti da messa, croci di argento e rosari. Poi venne il tempo della gita scolastica. Breve, in quanto il denaro dei familiari non era tanto da consentire lunghi viaggi. Neanche a dirlo, venne preso in considerazione Roma. Sei giorni, con la possibilità, resa tale da Don Giulio, che l'intera classe visitasse i Musei Vaticani. Si era in marzo e il tempo metteva al bello. La partenza, con un bus, dalla piazza del paese, avvenne alle sei del mattino di un martedì, in modo tale da permettere il rientro di lunedì e la ripresa delle lezioni il giorno successivo. Diciamo le sei, con i soliti rallentamenti ammissibili per i ritardatari, il saluto dei parenti (alcune mamme sembravano terrorizzate dalla separazione), l'appello sui due pullman e i controlli finali. L'insegnante d'italiano era tra gli accompagnatori. Per la sua classe, in due: lei e don Giulio. Controllori di undici vivaci ragazzine sui diciassette anni e quattordici ragazzini più o meno della stessa età, tranne un ripetente. Chiasso nel corso del viaggio, solita fermata sull'autostrada per il
bagno e rumoroso arrivo nella capitale durante la mattinata, con la ricerca delle stanze in albergo. I conosciuti: -" Vogliamo stare nella stessa stanza", degli allievi più affiatati, il caos delle valige, la consegna delle chiavi e quell'ora di tempo prescritta perché si potesse riprendere la marcia. Avevano prenotato ai Musei, tramite Don Giulio, in una fascia dalle 9.00 alle 13.00, a gruppi di dieci, lasciando fuori cinque elementi che sarebbero entrati con gli insegnanti. Manco a dirlo tra loro c'erano Bruna e Flavio. Roberta aveva intuito che la ragazza si sarebbe giocata tutte le carte possibili per quell'eccezionale possibilità di far abbandonare a Flavio il percorso religioso. Si sarebbe detto che l'avesse intuito anche il prete, il quale aveva preferito mantenere un controllo più stretto sulla coppia di amici, per fare sì che restassero tali. Roberta, dal suo canto, aveva perfettamente compreso l'opportunità di non guardare più a don Giulio come ad un uomo disponibile, per cui, pur restandogli simpatico, lo aveva inserito tra la fascia degli impossibili, assieme a suo cognato, ad alcuni mariti delle amiche e all'ultima delusione, che datava pochi mesi, ma continuava a farle male. Non aveva mai visitato i Musei Vaticani e prevedeva una grande emozione nel corso della visita alla Cappella Sistina. All'ingresso, come ci si aspettava, ci fu la solita confusione per quello che andava posato al guardaroba, ossia qualche ombrello, cibo o bevande che non avrebbero dovuto neanche essere lì, le borse troppo ingombranti e altro. I ragazzi furono avvisati che all'interno della Cappella Sistina non era consentito fotografare, filmare o videoregistrare, ma, chiaramente, pensarono di farlo lo stesso. Mancava l'insegnante di arte, tuttavia Roberta si sentiva in grado di farne le veci, con gli esami svolti in storia dell'arte e condusse gli allievi nel Museo Pio Clementino, dedicato alle sculture. Li aveva regolarmente preparati su quello che avrebbero visto e sperava di formare gruppetti interessati intorno alle principali opere esposte, ma il suo sogno svanì presto. Cominciò a spiegare, a voce bassa per non disturbare il pubblico, che era stato fondato da Papa Clemente XIV nel 1771 e ampliato dal suo successore Papa Pio VI, allo scopo di mettere assieme i più importanti capolavori greci e romani custoditi in Vaticano, ma le sale erano dodici e gli allievi venticinque, per cui già davanti al " Gabinetto dell’Apoxyomenos", laddove si trovava una copia romana di una statua greca in bronzo opera di Lisippo, gli allievi si erano allontanati e Roberta si ritrovò a spiegare soltanto a Don Giulio che la statua rappresentava un atleta che si detergeva il sudore con lo strigile, dopo la gara. Si sentì anche piuttosto stupida, quando lo stesso Don Giulio spiegò a lei e al prof di matematica dell'altro corso (che lei vedeva ben poco), come quell'immagine in particolare, a differenza del Discobolo di Mirone, potesse essere ammirato da ogni lato e fosse consentito girargli intorno. Lei concluse, vergognandosi un po': - "Si tratta, nell'originale, del primo tutto tondo dell'arte greca."-
- "Dove si trova l'originale?"- Chiese il prof. di matematica, forse per essere gentile. - "Non c'é l'originale, solo la copia, i romani ne facevano molte, specialmente per le palestre, ma gli originali forse erano in bronzo... "- "Che peccato!"- Disse il prof, che poi sentì il bisogno di presentarsi a lei e a Don Giulio: - "Ci vediamo sempre solo di sfuggita, eh? La scuola è tanto grande! Io sono Marco Luisi. Matematica corso D"Allungò la mano ad entrambi, ma quella di Roberta la strinse più a lungo precisando: - "Era tanto che volevo conoscerti!"Davanti al gruppo del Laocoonte (lei recitava trattarsi di copia romana del I secolo d.C. da un originale greco di bronzo del II secolo a.C.), Don Giulio si era defilato, prudentemente, forse convinto che tra i due sarebbe stato di troppo. Fatto sta che da quel momento, per tutta la durata della gita, italiano e matematica divennero inseparabili, come non accade nella vita scolastica e gli allievi dei due prof, non scattarono tanto foto alle statue, quanto lo fecero ai loro professori, divertiti dell'interesse che dimostravano l'uno per l'altra. Di tanto in tanto Roberta vide, soli soletti, isolati dal gruppo, Bruna e Flavio girare intorno. Parlavano. Lei più di lui, come il solito. Si capiva chiaramente che la ragazza tentava di tutto, cercando la mano del ragazzo, che dopo poco la mollava, oppure infilandosi sotto il suo braccio, che subitamente si scostava. Doveva essere per entrambi un'esperienza poco piacevole. Don Giulio evidentemente aveva deciso di lasciare fare alla vita, conscio, da uomo intelligente, che non sarebbe stato utile un suo intervento. Entrati nella Cappella Sistina, nonostante l'alto numero di persone presenti, ciascuno, forse, si sentì solo con il Giudizio Universale. Che pubblicità catastrofica alla voglia di commettere peccati, aveva creato Michelangelo! Lui e la sua religiosità costrittiva, lui e la sua alterata visione del bene e del male,
vissuto com'era in un'epoca dove la ricchezza della Chiesa aveva ben poco di religioso e lui chiedeva a Dio: - " De[h], porgi, Signor mio, quella catena Che seco annoda ogni celeste dono: la fede, dico, a che mi stringo e sprono, né mia colpa, n’ò gratia intiera e piena."Che impressione avrebbe avuto quell'immenso affresco sull'animo di Flavio? In un angolo, nascosto dalla gente, il giovane seminarista aveva gli occhi puntati sulla figura immensa e terribile del Cristo nel " Dies irae", mentre la ragazza che gli era a fianco forse chiedeva aiuto alla Madre, ma era una richiesta perduta in partenza, giacché Roberta osservò che Maria distoglieva gli occhi da ciò che faceva il Figlio. Non lo discuteva, neanche per pietà. Lui aveva il diritto di decidere qualsiasi cosa e aveva deciso di non avere pietà. Dov'era Don Giulio? Cosa pensava di quel Signore senza pietà? Marco sembrava innervosito da quell'enorme pubblicità al potere. - "Non penso che un Dio possa non avere pietà" - Sussurrò nell'orecchio di Roberta. Lei l'osservò perplessa e gli rispose a bassa voce: - "Ci ha dato il libero arbitrio. Che sia stata colpa di Eva al momento in cui fece mangiare la mela ad Adamo, o che ce l'abbia dato nella creazione, cosa importa? Se pecchiamo lo decidiamo noi. Se ci pentiamo, anche" - "Forse hai ragione"- Rispose lui. Uscirono. I giorni a venire i due nuovi amici trascorsero più tempo possibile assieme. Spesso erano con gruppi differenti, su mezzi di trasporto differenti. Non c'era un cellulare a tenerli uniti, ma si resero conto che li teneva uniti un sentimento nascente. Lui era separato, senza figli, in attesa di divorzio e viveva solo.
Roberta fu distratta dal pensiero di Don Giulio, di Flavio e di Bruna. Fino all'ultima notte, quando, stanca, preparandosi alla partenza del giorno dopo, era riuscita finalmente a ritornare nella sua stanza. Verso le tre del mattino qualcuno bussò all'uscio. Nulla di strano: gli allievi sapevano di poter contare sulla sua presenza. Aprì la porta e si ritrovò tra le braccia Bruna. Singhiozzava come non aveva mai pensato si potesse. Neanche riusciva a parlare e dovette attendere che si fosse calmata, per comprendere cosa la turbasse tanto. Le diede dell'acqua, attese che si sciacquasse il viso in bagno e che si riprendesse. Era convinta, Roberta, che Bruna avesse ricevuto l'ennesimo rifiuto da Flavio. Ma poi dovette ricredersi. - "E' entrato in camera. Io ero restata sola perché oramai mi ero arresa. Ho provato di tutto per convincerlo che la vita non si potesse sprecare. Volevo che capisse... ma lui sembrava così deciso!" - "E dopo? Cosa è successo, dopo?"- "No. Non dopo. Quando siamo andati nella Cappella Sistina all'improvviso ho capito..." -"Cosa, hai capito?"- "Che non avevo il diritto di intromettermi tra lui e Dio. Ho capito che io ero usata dal demonio, per portare via un figlio dal Padre. Così gli sono restata vicina, ma soltanto come amica. Non volevo più che cambiasse idea."- "Ma cosa è successo questa notte?"-"E' venuto in camera. Mi ha detto che non aveva mai avuto rapporti con una donna. Ha detto che non poteva decidere a cosa rinunciare se non sapeva neanche cosa si provasse. Voleva provare con me, per decidere, dopo, se rinunciare a me o alla Chiesa."- "Già. Non fa una piega. E tu?"- " Io non ho voluto. Non ho avuto rapporti con nessuno. Non voglio cominciare con qualcuno che rubo a un Dio, ma che potrebbe anche dirmi: Scusa, non è poi così eccezionale, ne posso fare a meno. Scelgo la Chiesa."-
-"Anche il tuo discorso non fa una piega. Penso che tu abbia fatto la scelta giusta. Lui dov'é?" - "Credo sia andato a confessarsi da Don Giulio"- "Di quale colpa?". - "Di essere caduto in peccato di desiderio, penso."- "Già. Neanche questo fa una piega"Intanto Bruna si era calmata, ma le chiese se poteva restare nella sua stanza fino alla partenza, per cui si divisero il letto a una piazza e mezzo sino il mattino. Il giorno successivo le classi ripresero la strada del ritorno. Flavio restò a fianco di Don Giulio e Bruna tra lei e Marco. La prima giornata del rientro a scuola Flavio non c'era. Neanche la settimana seguente. Roberta, senza spiegare le ragioni della sua curiosità, chiese a Don Giulio il perché di quelle assenze e lui, a testa bassa, disse che aveva chiesto di cambiare scuola. - "E' una fuga" - Si lasciò scappare l'insegnante di italiano. - "Pensi?"- "Sì"- "Può darsi." - Concluse il prete. Bruna, nei giorni successivi, si tranquillizzò. Qualche giorno prima della chiusura scolastica, le confessò di essersi sentita con Flavio e che lui le aveva chiesto scusa per il suo comportamento. Lei l'aveva perdonato e si erano detti addio. Alcuni anni dopo l'insegnante di italiano ricevette un invito. Proveniva da Flavio, che avrebbe voluto presenziasse alla sua prima messa. Ma non ci andò.
Nonn'Anna
Nonn'Anna Molti anni prima: Un ritorno a Napoli, con l'occasione di "ricercare" la tomba di suo padre. Come inizio della storia sembra macabro, ma questa è una storia di ato e presente e di amori ati che, in quanto "Amore", non hanno tempo. Aveva preso un pullman. Quale? Non lo ricordava. Si era ritrovata in uno spazio che in seguito avrebbe saputo essere quello che portava all'ingresso del Cimitero monumentale di Napoli. Insomma: si era sbagliata; il padre, ossia quello che restava fisicamente di lui, era al "Nuovissimo". Entrò dall'immenso cancello. La memoria di quelle ore le riportava la sua ricerca inutile, un vasto spazio verde e l'improvviso ritrovarsi dinanzi ad un bel monumento funebre su cui, con grande sorpresa, ritrovò i nomi di suoi avi: il nonno e la nonna della mamma, di cui lei le aveva parlato molte volte. L'amore. Gelsomina era fidanzata ad un "bravo giovane", si chiamava Ribelle, ma lo era soltanto di nome. Un artista, capace di farle un ritratto ad olio su tavoletta, che la fidanzata aveva trovato brutto (purtroppo: altrimenti sarebbe restato nel tempo, in famiglia), ed uno in argilla, con i suoi boccoli dorati, tendenti al rosso, il volto sottile, lo sguardo fermo, di cui era restata la copia in gesso dipinto colore del bronzo. Quello sì, rimasto in famiglia (a ricordo dell'abilità artistica di quel giovane non amato, ma non per questo non degno d'amore), assieme ad un piccolo ritratto dello zio Emilio adolescente, addormentato su di una sedia. Ribelle amava Gelsomina, ma lei non ricambiava e un giorno aveva conosciuto Gaetano, quello che sarebbe restato, fino alla morte di lei (lui morì prima, molto prima), l'unico, grande amore, della sua vita.
Gaetano era un giovanottino esile e delicato, dal carattere forte, dai capelli lunghi e neri come l'ala di corvo (che sarebbero, purtroppo, caduti ed avrebbero lasciato in figli e nipoti il "triste" destino genetico di una capigliatura bellissima, cui lasciava il posto, in breve, una più o meno forte, calvizie). All'epoca il papà di lei aveva capito presto che la figlia, ribelle (lei sì), aveva perso la testa per il giovinotto del piano di sotto, il quale aveva quattro anni meno di lei, cioè soltanto sedici. Ridicolo. Così le aveva detto che rischiava, lasciando il fidanzato, di "restare appesa al lampadario" del soggiorno. Sogghignando tra sé, ben compreso del fatto che la figliola non avrebbe cambiato idea. Non la cambiò; si lasciò corteggiare dal giovane Gaetano, per un tempo imprecisato, permettendogli di crescere almeno un po'. Intanto lui studiava "al classico" e, essendo decisamente agiato, possedeva in casa uno dei primi telefoni, per cui contattava una studentessa, anche lei "telefonomunita". La giovane Gelsomina era gelosa. Aveva fatto amicizia con la sorella del giovinotto e si recava in casa il più possibile. Cantava (aveva una bella voce, che avrebbe ato in dono ai nipoti), sembrava un'attrice nelle movenze, vestiva in modo elegante (lei cuciva bene), e faceva sì che il giovinotto non la dimenticasse. Fu gelosa anche di un'amica di lui, che, come accadeva spesso in quel tempo, sarebbe morta poi giovanissima, di tubercolosi. Intorno, di tubercolosi, si moriva spesso: era il cancro dell'epoca. Intanto in qualche modo c'entrava anche il ricordo della nonna Anna. La donna, proveniente da Agerola, un paesino al di sopra di Amalfi, era quella che al suo tempo (molto prima della storia di Gelsomina), si poteva definire una "ricca proprietaria terriera." L'amore. Anna viveva ad Agerola, seconda figlia femmina, quando l'affascinante Stanislao, che sarebbe poi divenuto Presidente di Corte d'Appello, si era dovuto
recare in quel paese, assieme ad un giovane che lavorava con lui (forse anche parente), per questioni legali. Lui, più anziano di lei, la conobbe e s'innamorò. Lei perse totalmente la testa. Ma il matrimonio risultava difficile, perché il matrimonio toccava, per turno, prima che ad Anna, alla sua sorella maggiore. La storia, raccontata da Gelsomina alla figlia Bianca, suonava più o meno così: -"Per sposare nonn'Anna, Nonno Stanislao convinse l'amico a sposare la sorella maggiore di lei, per cui si fecero due matrimoni."Questa nonna era stata molto amata da Gelsomina. Raccontava di lei una serie di aneddoti: Morto il marito, aveva comprato un terreno al Camposanto, facendosi costruire una bella tomba, con tante foto, di età differente di lui e di se stessa, come se gie già nella tomba. La gente che ava davanti al monumento la trovava seduta a ricamare (o a lavorare a maglia), stupendosi di vedere che la foto sulla tomba fosse la sua, per cui le chiedevano: -"Ma quella foto non è la sua?"E lei diceva che sì, era proprio la sua, ma per adesso non aveva ancora intenzione di entrare nella bara. Poi c'era la storia del nonno Cesare (nonno di Bianca), che amava la sorella e, al momento in cui morì il gallo più bello del pollaio di lei, fece del lunghissimo artiglio di questo un ciondolo in oro, che le regalò, facendola irritare. Ancora: questa nonna, che viveva un po' fuori di città (Poggioreale, vicino al cimitero), era stata biondo/rosso, per cui, quando i capelli le divennero bianchi, li tinteggiò con il mallo di noce, rendendoli di un candido biondo. Li portava lunghissimi sulle spalle. L'amore della Nonn'Anna per il suo Stanislao era geloso. Lui faceva vita di società e la portava con sé, ma quando lavorava, nel suo studio, molte belle donne, per ragioni di vario tipo, lo corteggiavano. Lei lo costrinse a fare un piccolo buco nella grande porta bianca, da cui lo controllava. Lui ben sapendo il fatto, non sapeva come frenare le irruenze delle belle donne che tentavano di sedurlo.
La notte, raccontava nonn'Anna alla giovanissima nipote, " era così bello allungare la gamba e trovare quella di "Stanislao mio". Nulla da stupirsi se la giovane Gelsomina volesse dalla vita niente di meno che "l'amore vero". L'amore vero si chiamava Gaetano e quando il bel giovinotto, stanco di attendere (intanto si era diplomato), la fermò per strada dicendole che avrebbe dovuto lasciare il fidanzato o lui sarebbe andato per la sua strada, lei gli strinse la mano. Si guardarono in viso e si dissero:-"Va bene". E lei lasciò Ribelle. La tomba. Intanto la nonna però era morta e lei, prima del famoso accordo sancito, si era recata proprio sulla tomba della nonna, scrivendovi nome e cognome con la matita, per chiederle aiuto. Forse l'aveva davvero aiutata, perché Gelsomina sposò il suo Gaetano e ne ebbe cinque figli, anche se lo perse troppo presto, scrivendo a sessanta anni per lui che l'aveva lasciata a cinquantasei: -"A Gaetano Tutto mi hai dato amore. Il folle desiderio la grande tenerezza l'abbraccio materno la gelosia l'acquietarsi dei sensi il calmo susseguirsi degli anni di conforto. Mi hai dato tutto,
amore, la mano forte la mente sempre vigile la tua presenza. Ma senza il tuo volere per folle mio destino anche il dolore atroce di non udire più la tua voce." Anni dopo, quindi, lei, Bianca, si era ritrovata davanti a quella firma a matita che, incredibile a dirsi, era ancora sul marmo. Ma la storia non finiva così. La mamma era morta. Lei era rientrata a Napoli, portando con sé le foto di Anna e Stanislao, da cui Gelsomina non si era mai separata. Con grande gioia, aveva ritrovato, complice facebook, i parenti della madre, ossia quelli che portavano lo stesso cognome del nonno Stanislao e anche lo stemma di famiglia. Desiderava, però, ritrovare quella tomba visitata anni addietro e non sapeva come fare. Napoli non le era poi tanto chiara nella rete viaria e a quel cimitero, tanti anni prima, era capitata "per caso". Ammesso che lei credesse al caso. Ma si lasciò guidare "dall'istinto" e decise dovesse trattarsi del Cimitero Monumentale. Mise un'indicazione sul Tom Tom. Fermò l'auto in uno spazio mutato, rispetto al ato, a causa della costruzione in atto di una fermata della metropolitana di Napoli.
Si avviò, con una sicurezza ben strana, verso l'enorme cancello seminascosto da palizzate provvisorie e giunse davanti ad una strada che portava in alto (per le auto) e una a destra, a basse e larghe scale, destinata ai pedoni. La memoria le rimandava quel monumento funebre in uno spiazzo, ma la memoria gioca strani scherzi: dopo una trentina di metri, sulla sinistra, "fermo" dal 1919, c'era il monumento che ricordava. Al suo fianco era stata edificata la tomba, decisamente più recente, dell'autore di "Luna rossa", ossia Antonio Viscione, in arte Vian, compositore italiano morto nel 1966. Quella degli avi era coperto di edera, sulla parte posteriore, di cui staccò un ramo con le radici (per ricordo) e sul davanti l'accolsero tutte quelle foto di Stanislao ed Anna. La firma di mamma Gelsomina era ancora sul marmo. Le venne fatto di pensare che, forse, la sua convinzione di farsi cremare, non fosse poi così giusta: magari qualche nipotina l'avrebbe cercata, un giorno, senza trovarla.
Albinismo (1,2 e 3)
Il mare di Pioppi
Il mare di Pioppi, quel giorno, appariva mosso. Il gruppetto di giovani, arrampicati sugli scogli, sembrava ben adatto a muoversi comunque con assoluta disinvoltura: le mascherine sul volto, si tuffavano dai punti più alti, insinuandosi, fuori vista, in cerca di polpi e di ricci di mare. Erano maschi e femmine sui sedici, diciotto anni. Una ragazzina bionda faceva incetta degli spinosi animaletti, salvandosi dalle punture con le scarpette di gomma. La rete che li conteneva mostrava il contenuto che si agitava, tra il colore bruno e il rossiccio. Un ragazzo scurissimo di pelle, con il costume arricciato sui fianchi per liberare meglio le cosce, con un coltellino corto, ne apriva alcuni, mangiandone la parte commestibile, per poi gettare il resto in mare, mettendo a rischio i piedi di chi non usava sandali di gomma. Altri corpi snelli o più grassottelli spuntavano a tratti dalle onde schiumose. Giusy, quella fine estate, era diventata di un bel color bronzo. Ben differente il colore di sco, che si riparava dal sole sotto un ombrellone. La pelle, malgrado l'abbondante dose di protezione solare -la più forte- era color gambero. Qualche ciuffo biondissimo di capelli, anzi, più che biondo, bianco, spuntava da sotto il cappellino a visiera. Gli occhi, di un azzurro che litigava con quello del cielo, erano comunque ombrosi. Si guardava intorno, evidentemente a disagio, mentre gli altri del gruppo, ragazze e ragazzi evidentemente a loro agio, saltellavano sugli scogli, si tuffavano, infilzavano sotto l'acqua polpi di piccole dimensioni, inseguendoli e punzecchiandoli fino alla resa. sco si era più volte bagnato, per non soffrire il caldo. Nuotare, per lui, era un gioco felice, in piscina, o durante le ore in cui il sole calava determinatamente
all'orizzonte, ma non poteva mostrarsi come gli altri al sole, pena scottature violente. Fissava apertamente Giusy, chiunque poteva rendersene conto: per lei aveva una vera e propria ione. Tanto da seguirla su quegli scogli, scendere per le rocce che portavano al mare, sotto il calore accecante e restarsene lì come un povero gambero che si trovasse fuori del proprio guscio. Si era portato un libro di Ernest Hemingway: For Whom the Bell Tolls (Per chi suona la campana). In inglese. La sua fotofobia poteva comunque essere ridotta impiegando normali occhiali da sole. I suoi erano ottimi e gli permettevano anche di leggere, protetto dall'ombrellone che si tirava dietro come avrebbe fatto una lumaca con il suo guscio. Difatti: volendo vivere l'estate assieme al gruppo di amici, doveva comunque proteggersi dal sole e cercare, anche, di are il tempo, mentre gli altri si divertivano in tutti i modi legittimi che si potevano trovare in estate. Studiava l'inglese, perché sognava di andare a vivere in Inghilterra, laddove, pensava, il colorito pallido, gli occhi glabri ed i capelli chiari, avrebbero potuto are quasi inosservati. Intanto seguiva le evoluzioni della ragazza sugli scogli. Era un maschiaccio: bruna di pelle anche d'inverno, con i capelli ricci che splendevano di ombre blu e gli occhi grandi e scuri, rappresentava il suo esatto contrario. Forse proprio per questo, l'attirava. Ma non accadeva il contrario. Giusy ammirava Giovanni. Alto, robusto, con i capelli di un castano rossiccio, che teneva legati in una codina che non diminuiva la sua aria di maschio, non era certamente bravo come sco, a nuoto. Ma non aveva paura del sole e questo lo rendeva più vicino a Giusy nelle giornate al mare. Il romanzo gli piaceva, così ricco d'amore, di disperazione e di sesso, così senza possibilità di soluzione positiva, lo faceva sentire partecipe del dolore dei protagonisti. Tuttavia di tanto in tanto lanciava occhiate preoccupate verso Giusy, che gli sembrava troppo poco attenta al pericolo. La testina bruna fuoriusciva a tratti dalle acque, mentre le onde sembravano sopraffarla. Poi il suo corpo aggrediva uno scoglio, ponendosi in salvo. Ma, nella sua ricerca, sembrava perdere ogni contatto con il gruppo. Si allontanava sempre di più e ogni volta che scompariva sotto l'acqua grigia e bianca sco si ritrovava più preoccupato. Misurava la distanza tra lui e lei, chiedendosi in quanto tempo avrebbe potuto raggiungerla, se fosse stata in pericolo. Un attimo: abbassò lo sguardo sulla pagina che appariva marrone per le lenti degli occhiali e quando lo rialzò, dopo una pagina, non gli riuscì più di vederla. Attese qualche istante, fissando l'ultimo scoglio laddove la ragazza era
scomparsa: nulla. Divenne ansioso. Si rialzò, gettando di lato il libro e guardò ancora nella direzione di lei: nulla. Pur comprendendo di correre il rischio che i suoi timori fossero inutili e si mostrasse ridicolo, uscì allo scoperto sotto il blando sole della giornata nuvolosa e si lanciò verso il mare. Si aspettava, da un istante all'altro, che lei riapparisse e la sua corsa divenisse inutile, goffa. Ma lei non comparve. I primi scogli bassi, le rocce, urtarono contro i suoi piedi, mentre fissava l'ultimo scoglio dove l'aveva vista infilarsi in acqua. Il cuore gli batteva all'impazzata, il tempo gli sembrava essersi bloccato, ma sapeva bene che non era così: per lei, se si trovava davvero sott'acqua, con la mascherina senza respiratore, ogni minuto poteva essere fatale. I suoi muscoli allenati in piscina ubbidivano veloci. Le ore ate a fare esercizio in palestra servirono a che superasse di slancio gli scogli, fino a raggiungere l'ultimo dove lei era scomparsa. Senza mascherina, si tuffò ad occhi aperti, disperato, guardandosi intorno nell'acqua melmosa. Era terrorizzato. Quei momenti ati sott'acqua poté affrontarli per l'abitudine a farlo in piscina. La vide. Era ferma, insinuata di sbieco dietro uno scoglio. Da un lato del capo fluiva come un filo rosso e comprese che si trattava di sangue. Doveva essere urtata violentemente contro una roccia a seguito di un'onda più forte. Raggiunse quel capo per trarlo fuori dall'acqua, mentre il peso morto dell'amica gli fece credere che fosse inutile, che lei non svenuta ma finita senza respiro, l'avrebbe portata a riva come un cadavere. Avrebbe urlato se avesse potuto. La condusse fuori, fece scivolare il corpo sul più vicino scoglio, la mise di fianco per fare sì che l'acqua fuoriuscisse dalla bocca, la scosse, poi, dopo averla girata col volto verso l'alto, le batté il petto ritmicamente con le mani unite: Poi di nuovo di fianco, per farle espellere l'acqua, mentre lei, finalmente, cominciava a tossire, agitandosi in modo dapprima senza senso, poi con maggiore logica. Tentava di mettersi seduta, tossiva, si ava una mano sul lato della fronte dove provava dolore. Ma, fortunatamente, il fiotto di sangue sembrava essersi bloccato. -"La testa. Mi fa male la testa."- Sussurrò. -"Sì, dobbiamo, tornare a riva. Dobbiamo portarti all'ospedale. Da solo non ce la faccio, devi aiutarmi."Lei parve accorgersi di lui all'improvviso: -"Cosa ci fai qui?"- Chiese-
-"Ti ho visto scomparire e sono venuto a salvarti."Rispose lui, semplicemente. Finalmente da riva sembrò che gli altri del gruppo si fossero resi conto del pericolo corso dall'amica: cinque o sei ombre si agitavano, vicine tra loro, ma nessuno sembrava intenzionato a raggiungerli. Comunque, fortunatamente, era oramai inutile. Un po' nuotando, un po' arrampicandosi di scoglio in scoglio, i due giovani raggiunsero gli altri. In pochi minuti, malgrado che il sole non sembrasse neanche esserci, la pelle di sco era divenuta di un bel rosso . Lei se ne accorse: -"Il sole ti fa male!". Gli ricordò. -"Fa nulla. erà."Non era intenzionato a mollarla in quel momento. Lui l'aveva trovata, lui l'aveva salvata e lui l'avrebbe accompagnato al Pronto soccorso di Vallo della Lucania, con la sua auto. Anche a Giusy la cosa sembrò logica. La afferrò per mano e si allontanarono, risalendo verso la strada a picco sul mare. Fu faticoso. Lui portava le chiavi dell'auto nel pantaloncino che indossava. La fece sedere di fianco al posto di guida e mise in moto. -"Grazie"- Disse Giusy, osservandolo attentamente, forse per la prima volta. Si accorse che era proprio un bel ragazzo, malgrado i capelli bianchi. -"Fa male essere albino?"Gli chiese. -"No. Ci sono nato e ci ho fatto l'abitudine"- Rispose lui sorridendo. Si rese conto che era proprio la verità.
2) Albinismo nero.
Dopo molto dolore nacque suo figlio e il suo uomo la lasciò, non appena l'infermiera lavò il piccolo e lo consegnò alla madre. Era bianco. Un padre nero come l'avorio non può accettare che dalla propria donna nera venga fuori un essere dalla pelle bianca. -"E' uno zeruzeru"- Decretò. Così erano definiti i piccoli diavoli bianchi (gli albini), nel villaggio di Maka. Si trovava fortunatamente in un clima mediterraneo ed era meno indigente di altri, ma questo non modificava le abitudini ancestrali. La vegetazione a macchia, era stata utilizzata dall'agricoltura, per cui vi cresceva la vite e l'ulivo e quindi la vera povertà non era di casa. Tuttavia l'ignoranza imperversava. Strinse al seno quell'essere bianco che subito dimostrò la sua voglia di vivere succhiandolo. Cosa ne avrebbe fatto? Secondo quando aveva sentito dire, era stato il diavolo a sostituire suo figlio, nel suo grembo, con un bimbo albino. Perché lei sapeva che suo figlio non poteva essere che albino. Lei non aveva tradito il marito con l'uomo bianco presso di cui lavorava come cameriera. La famiglia presso cui vivevano lei e il suo compagno era europea: una coppia di medici che a giorni sarebbe rientrata in Italia. Guardò il suo cucciolo e provò verso lui un amore feroce, ma sapeva bene che sarebbe stato condannato alla sofferenza: gli albini erano considerati contagiosi e potevano trasformare in pelle bianca chiunque li toccasse.
Lei sapeva, inoltre, che suo figlio sarebbe stato considerato un fantasma dei colonizzatori europei. L'avrebbero condannata: doveva per forza avere avuto un rapporto sessuale con un uomo bianco. L'avrebbero cacciata dal villaggio, sempre che lei non avesse ucciso e seppellito il piccolo mostro. Ma c'era di peggio: le avrebbero proposto di acquistarlo per prelevare al bimbo le orecchie, la lingua, il naso, ma anche i genitali e gli arti. Il suo uomo si era mostrato fin troppo buono: avrebbe potuto strapparle il figlio dalle braccia per rivenderlo a cifre enormi. Sapeva di bambini venduti, fatti a pezzi, la cui pelle era stata usata per confezionare talismani. Cosa avrebbe fatto di lui? Si addormentò, stanca e provata, con il bimbo a fianco, ma fu svegliata da un rumore. Aprì gli occhi e vide che il dottore e la moglie la stavano osservando. Era brava gente, venuta in Africa per aiutare. Avevano vissuto per molti mesi in una capanna del villaggio, migliorando l'ospedale che era stato realizzato con denaro proveniente dall'Italia. In quell'ospedale era nato suo figlio e Dott, con la moglie Irene, era venuto a salutarlo. Ma adesso l'osservavano. -"E' bianco"- Disse Maka. -"E' albino"- Disse Irene. Per qualche minuto tacquero tutti, tranne il piccolo che cominciò ad agitarsi e lanciare tenui strilletti pretenziosi: aveva fame. La moglie del dott allungò le braccia per prenderlo e lei glielo consegnò. Nel momento in cui il piccolo fu tra le braccia chiare di lei, sembrò essere al posto giusto. La pelle di lei e quella di lui erano uguali. Bianche.
-"Tu comprendi che non puoi tenerlo, vero?"Chiese l'italiana cullando suo figlio. -"Sì. Il mio uomo mi ha lasciata. Posso tornare a casa con voi?"-"Certamente. Ma tra quindici giorni noi ritorneremo in Italia. Allora cosa sarà di te? Cosa avverrà del bambino?"Tacque. Parlò il medico: -"Lo sai che ho studiato come sono trattati gli albini qui da voi. Li fanno a pezzi, perché la magia nera africana sostiene che se lo zeruzero soffre molto morendo, più urla, mentre gli sono amputati gli arti, più grande è il potere presente nell’arto amputato. Le Nazioni Unite hanno contato più di 70 albini uccisi in Tanzania negli ultimi mesi. E' un numero basso rispetto alla realtà. Vuoi venderlo? Vuoi ucciderlo? Vuoi vederlo fatto a pezzi? Lo sai che anche se vorrà studiare sarà trattato come un deficiente. Nelle scuole, ammesso che tu possa portarlo all'età scolare, nessuno capirà che deve stare vicino alla lavagna, perché vede male, perché il suo udito può essere basso."-"Cosa volete che faccia?"-"Dallo a noi. Non abbiamo figli e lo adotteremo."-"No!"- Urlò lei. Ma sapeva che l'offerta era buona. -"Lo faremo crescere e studiare. Sarà un bambino normale. Bianco tra i bianchi."-"Dimenticherà la sua gente. Dimenticherà sua madre!"-"Noi faremo in modo che non accada. Gli parleremo della sua terra e di sua madre. Gli diremo anche che tu hai fatto un grosso sacrificio a lasciarlo a noi, per farne un uomo felice. Studierà. Forse diverrà medico. Forse deciderà di tornare nella sua terra, da forte, da adulto, da italiano. Così potrà cambiare le cose. Se lo terrai morirà o ne farai un infelice.
Maka sapeva che avevano ragione. -"Portatelo a casa."- Disse. Così fecero e dopo una quindicina di giorni in cui ebbe modo di vedere come fosse amato, lo condussero via con loro. Lei non pianse. Poté tornare al villaggio, da sola. Il suo uomo la guardò e non disse nulla, ma poi l'abbracciò e la tenne con sé: aveva agito bene.
3) In funicolare.
Lui vendeva un po' di tutto in funicolare, ma con una cert'aria di serietà ed orgoglio. Penne, ventagli, contenitori per bibite. Cose di discreta qualità a prezzi bassi. Cominciava il suo discorso ponendo in luce il fatto di essere albino e di come fosse difficile vivere e lavorare essendolo. Molta gente comprava, non per pietà, ma per convenienza. Un giorno, verso le 14.00 in quel primo vagone, dove al momento si trovava, prese posto un piccolo gruppo di studentesse. Probabilmente universitarie al primo anno, allegre, spensierate, con l'aria di essere un pochino "figlie di papà". Tuttavia una di queste, nell'entrare, ebbe un sussulto violento, fu quasi tentata di spingere fuori le amiche, di condurle in un nuovo vagone, o, almeno, più in alto. Le amiche non se ne resero conto. Non si mossero. L'albino aveva cominciato a presentarsi e illustrare i suoi prodotti, ma all'ingresso del gruppo, parve che le parole gli restassero in gola. Le osservò, a disagio, poi abbassò per qualche minuto lo sguardo. Lo rialzò di nuovo, con un'espressione che sembrava di essere d'attesa, fissando gli occhi su una delle ragazze che ricambiò per qualche secondo lo sguardo, ma poi gli girò le spalle. A questo punto l'uomo sembrò ritrovare il sangue freddo e riprese il suo discorso da capo: -"Buon giorno a tutti, scusate se vi disturbo, ma non voglio costringere nessuno. Io sono nato albino e per questo non vedo molto bene e neanche sento molto bene. Sono anche particolarmente portato alle malattie e non posso stare molto al sole perché rischio tumori della pelle..."Le persone che lo conoscevano restarono piuttosto perplesse, in quanto non si era mai tanto dilungato sulle sue difficoltà. Continuò:
- "In effetti sono un commerciante al minuto. Non chiedo l'elemosina a nessuno, perché vendo oggetti utili e soltanto a chi desidera comprarli."- Sorrise. Una ragazza dal vagone più in alto si sentì chiamata in causa: -"E' vero! Le vostre penne sono buonissime ed uso sempre e soltanto quelle! Ne posso avere due?"-"Sì, certo. E con il ventaglio le donne possono rinfrescarsi. Però ho anche questo micro ventilatore a pile, per due euro, compreso le batterie..."Sorrise. Una signora chiese un ventaglio e lui le chiese di che colore lo volesse. Lo prese nero: un euro. Qualcosa lasciava pensare che probabilmente la donna a casa ne avesse altri, ma che le fe piacere aiutare quell'uomo gentile, che non chiedeva elemosine. Lui ò oltre e percorse il primo scompartimento. Alla fermata successiva scese, per raggiungere un altro scompartimento e rifare il suo tentativo di vendita. Le ragazze restarono nel primo. La funicolare fece tre fermate e ogni volta il commerciante al minuto cambiò vagone, per provare a vendere i suoi prodotti ad altri viaggiatori. Finalmente la funicolare giunse all'ultima fermata del vomero e l'uomo sembrò attendere prima di scendere dal vagone in alto. Pareva cercare qualcuno tra la piccola folla di persone che saliva lentamente le scale per raggiungere l'uscita. Aspettava le ragazze. Non tardarono a argli avanti e lui le tenne dietro fissando le spalle della più piccola: una brunetta dal colorito olivastro. Fu un momento. A pochi i dal raggiungimento dell'esterno, la ragazzina rallentò, poi si fermò fino ad affiancarsi all'uomo, che le fece una timida carezza sulla spalla, nascondendosi. -"Ciao papà. Buona giornata!"- Sussurrò la brunetta. Poi si lanciò per raggiungere le compagne.
Infine...
Milioni di Mondi possibili. C'è un'impalpabile velo sottile che separa la realtà dalla fantasia, ma anche infiniti mondi paralleli possibili che s'intersecano tra di loro. I nostri mondi possibili sono quelli di cui possiamo parlare o scrivere, che possiamo immaginare noi o che hanno immaginato altri. Possiamo ipotizzare che esistano, differenti dal nostro concetto di realtà. Possono essere migliori di quello in cui ci troviamo a vivere o peggiori di quelli in cui possiamo credere o che possiamo auspicare. Seguendo la logica sembrerebbe che non si possa mai giungere a credere in un mondo possibile che non sia quello in cui abbiamo modo di vivere, eppure molti racconti, narrati come reali, da persone simili a noi non hanno nulla a che fare con il mondo reale. Soprattutto quando lavoriamo di fantasia, precipitiamo in pseudo realtà, apparentemente plausibili e logiche. Realtà "altre", che si fondano su principi logici che le appartengono. Il nostro "mondo reale" è tale perché nasce dal punto di vista del nostro mondo condiviso. Ma cosa ci dice che non esistano altri modi possibili, condivisibili da persone che li abitino e li riconoscano come reali? Quando raccontiamo una storia, creiamo mondi vivibili e possibili e quanti ne fanno parte sono esseri viventi in quel mondo. Questa è creazione.
“Io non mi vergogno di dire la verità.”
L’angelo si fece da parte per permettere al suo protetto di sedersi al tavolo. Per le sue peculiari caratteristiche non avrebbe dovuto provare emozioni, ma era un angelo giovane: non più di duemila anni dall’assegnazione del primo essere umano, per cui non riusciva ancora a restare sereno di fronte all’impossibilità di “crescere” dell’essere che gli era stato assegnato. -“I non mi vergogno di dire la verità”- Ribadiva il vecchio una volta di più. -“La polenta non mi è mai mancata, polenta e fichi. Polenta e latte. Ma il latte non c’era sempre…”Bofonchiava. La coppia con i figli grandi, seduti al tavolo a fianco, lo ascoltava per l’ennesima volta. Cominciava ad annoiarsi di quelle parole. Ma l’angelo sapeva che il vecchio (diceva di avere 95 anni), aveva subito un paio di modici ictus, per cui la sua memoria a breve termine lasciava a desiderare. Ripeteva una storiella, ogni volta convinto di dirla la prima volta ed essere molto interessante, per chi lo ascoltava. Non era così. Annoiava. Persino lui, nell’ascoltarlo l’ennesima volta diede un rapido battito d’ali, quasi volesse fuggire via. Non poteva. Quell’essere gli era stato affidato e più volte era stato “richiesto” dal basso. Lui non voleva cederlo e chiedeva aiuto dall’alto ed altro tempo, perché “crescesse”. Ma non cresceva. -“Amore, amore, amore. Sì! Poi te lo mettono in c..lo! Le donne? Il 99% sono delle p…”Brontolava. Intanto, ben vestito, ben curato, anche se momentaneamente “abbandonato” dal figlio in un albergo, mangiava, beveva, bofonchiava e parlava con qualcuno che gli aveva dato ascolto, ma più spesso tra sé e sé.
Albergo a tre stelle, un mese di pensione, accudito, con la proprietaria che gli portava il cibo al tavolo e si assicurava che gli fossero fatte le iniezioni e prendesse le medicine. In una occasione gli aveva sentito chiamarla: -“Troia”: Doveva essergli scappato quel termine, perché generalmente chiamava le donne “bambola” ed i ragazzi “bambolo”. Vestiva bene qualche volta ed altre volte più casual: pantaloni corti e scarpe di gomma. Altre volte maglie a mezze maniche e pantaloni lunghi. -“Milionario! Sei un milionario imbroglione come Berlusconi! Vieni ad aggiustarmi la bicicletta!”- Poi aggiungeva: -“Ladri! Siete tutti ladri!”- Ad alta voce. Parlava, rivolto sempre allo stesso uomo, seduto ad alcuni tavoli di distanza, con cui sembrava avere impostato una sorta di dialogo. Offendeva. -“Era sempre meglio all’epoca di Mussolini! Eravamo poveri, ma…”- Faceva il gesto di allungare il braccio in un saluto fascista. L’angelo ebbe un sussulto e involontariamente guardò in alto, chiedendosi se Lui avesse sentito. Certamente: non perdeva un sospiro. Benché fosse “giovane”, sapeva del male fatto dall’uomo chiamato in causa e di come la sua anima fosse soggetta a non pietosi riguardi. Sperava che Lui non sentisse il suo protetto uscirsene di nuovo con quella frase che poteva costargli un lunghissimo periodo di punizione. La ragazzina che mangiava al tavolo a fianco, si era stufata di sentirgli ripetere, a pranzo e a cena, le stesse frasi, dette con quella assurda sicumera, come se il sapere fosse soltanto il proprio. -“Qui si mangia, si mangia. Io non mi vergogno di dirlo: polenta e fichi. La polenta non mancava mai. Il latte sì. Non sempre c’era il latte. Mia madre… già. Undici figli. Mia madre.”-
L’angelo sapeva che la madre di quell’anima era in un bel posticino in cielo, da molto ed ogni tanto perorava con Lui la causa di quel figlio. -“Poi ho fatto la guerra. Sono stato ad El Alamein. Ero paracadutista. Rommel era forte. Hitler era un pazzo, ma Rommel…. Montgomery poi.”- Ripeteva una volta di più. Intanto mangiava. Gli ponevano davanti di volta in volta il cibo, trattandolo come un bambino cresciuto. Lui mangiava. Erano i giorni del terremoto che aveva distrutto le tante case della zona tra le Marche ed il Lazio, nel centro Italia. Si parlava in quel momento al TG, del campanile di “Accumoli” (ristrutturato), che si era infranto sulla casa dove viveva una giovane coppia con due figli. Morti tutti. La TV parlava di 241 persone morte (al momento), dei tanti i cui non si sapeva ancora nulla, in un bilancio che peggiorava di minuto in minuto, sepolti sotto le macerie. Molti si trovavano anch’essi in un albergo, il “Roma”, nel paese di Amatrice, inghiottito dallo stesso panorama che lo aveva reso celebre; quei turisti che si trovavano al posto sbagliato, al momento sbagliato, tornati a visitare i luoghi di nascita o i parenti, assieme ai proprietari. Tanti, relativamente, e nelle zone disastrate, erano stati salvati da quanti si erano gettati nell’opera di soccorso anche a mani nude e nel rischio di ritrovarsi sepolti, per via delle scosse che ancora squassavano i cantieri, tra le case distrutte. Dei senza tetto, di chi si era salvato, a caso, sembrava. L'angelo pensò tra sé che non era il caso che chi si era, fortuitamente salvato, si definisse miracolato: Lui avrebbe fatto delle scelte? Qualcuno da miracolare ed altri da lasciare morire? Gli uomini dimenticavano sempre che erano liberi per mezzo del "libero arbitrio". Liberi, anche, di essere al posto sbagliato nel momento sbagliato. Liberi. L’Italia era in lutto. L’angelo si diceva che, dunque, non sembrava esistere una trama, una logica superiore, se non da ascrivere al caso, che prevedesse come il suo “protetto” dovesse trovarsi a mangiare e bere vino, brontolando, in quell’albergo/pensione, dove la scossa aveva portato soltanto paura, essendo lontano dall’epicentro del sisma, mentre tanti, bambini, giovani, vecchi, dovevano essere morti, feriti, oppure vivi e tristemente addolorati per avere perso parenti, amici, case… in altri luoghi. Non era il suo dovere porsi quei perché, ma, mentre percepiva volare verso l’alto l’anima sorridente di un bambino la cui mamma piangeva in terra la sua morte,
non riusciva a non porsi delle domande cui non c'erano risposte, e neanche riusciva a non trovare sempre meno simpatico il suo “vecchietto”. Ma Lui aveva detto:-" Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso."- Poteva mai disubbidire "al Figlio?". A proposito di figli, con la f minuscola, gli era parso di capire, dalle parole dell'anima affidatagli, che il giorno successivo il figlio, andato probabilmente in vacanza con la moglie ed i figli, sarebbe tornata a riprenderselo. Forse aveva inteso, lasciando il vecchio padre a pensione, di liberare la consorte almeno per le vacanze, dalla perenne presenza del suocero. Il quale, a 95 anni, sembrava sprizzare salute da tutti i pori. Come mai lui viveva e tanti giovani perivano? “ Muor giovane colui ch'al cielo è caro”, aveva detto, tempo prima, un giovane lirico greco, chiamato Menandro. Lo conosceva per essere stato il suo angelo custode fino alla morte. Certo, gli uomini non avevano ancora conosciuto "il Figlio", ma Lui già c'era da sempre, per cui anche Menandro, commediografo Greco, aveva avuto un angelo custode. “ Muor giovane colui ch'al cielo è caro”, aveva detto, a ragione, per cui si poteva far morire, adesso, il vecchio brontolone? No: si doveva lasciarlo vivere il più possibile e sperare che imparasse qualcosa. Ma l'angelo temeva non fosse facile: vederlo, al presente, nella sala del ristorante, guardare le immagini del terremoto, così indifferente e baldanzoso, gli lasciava proprio poche speranze. Mugugnava intorno, con atteggiamento sicuro. Ripeteva le sue parole magiche: -“Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Lo dicono i milanesi. No. I Milanesi non dicono così. Lo dicono i napoletani.”Ribadiva, con qualche variante, quella frase, convinto, ogni volta, forse, che fosse la prima e di essere divertente. Raccoglieva la sua lunga vita in quella polenta mangiata dal se stesso, bambino. Nella donna che lo aveva chiamato amore e poi tradito. Nel suo avere partecipato alla seconda guerra mondiale, tornando vivo e nella necessità (che lui non poneva in atto), di dimenticare e are oltre. Lui non ava oltre, ingoiato dal suo sicuro egocentrismo, mangiava, beveva, si replicava come in un angoscioso incubo, indifferente dal motivo per cui era stato lasciato solo, pur se accuratamente curato, dal figlio, che lo avrebbe ripreso con sé, dopo una meritata vacanza senza di lui. L’angelo, già sapeva, che lo avrebbe seguito al
rientro in casa, senza troppe speranze, attendendosi un miracolo di crescita spirituale di cui non riusciva a vedere alcun bagliore. Purtroppo.
"Jessica Smith Association for Revival and Reliance".
Risveglio. (Idea da un fatto di cronaca, che potrebbe divenire un romanzo)
Furono chiamati dalla "Jessica Smith Association for Revival and Reliance", meglio conosciuta come J.S.R.R. e decisamente non se l'aspettavano più. Riuscire ad ottenere l'affido di un relived per la quarta volta era praticamente divenuto un sogno per chiunque, ma grazie alle amicizie che la sorella di Luca vantava nell'associazione, evidentemente qualcosa si era mosso. Ludovica, rileggendo l'avvisat sul suo M.C.S. (master computer staff), rivolse un pensiero affettuoso sul quanto l'Information and Communication Technology avesse migliorato la vita sociale negli ultimi 500 anni. Chiaramente, prima di tutto, decise di ridare uno sguardo ai punti salienti della legge 4721, del 19/10/2098, su cui si erano dovuti accordare i parlamenti e le magistrature della "World Legislation", dopo il proliferare delle richieste in relazione alla "criopreservazione" del corpo mediante ibernazione, aumentate esponenzialmente dal 2020. Si era reso necessaria intervenire per legiferare in materia, fornendo un codice etico e legale a quello che era stato definito come "State of suspended life", specialmente dopo che dall'anno 2050 era stato permesso a quanti avevano la certezza della morte, invece dell'eutanasia, di lasciarsi ibernare da vivi. Naturalmente nei primi decenni la cosa era stata possibile soltanto a chi avesse avuto la possibilità economica, ma in seguito alla " New Universal Constitution", le legislazioni dei vari Stati si erano accordate sul fatto che si dovesse ritenere anticostituzionale privare chi lo volesse di questa possibilità, per cui si era provveduto ad istituire, a carico degli Stati che avevano accettato (Cina, Giappone, Germania, America, Francia, Inghilterra, Italia, Russia, Australia, Spagna e via via di seguito tutti gli altri 120 Stati aderenti), un fondo universale per ottemperare a quelle richieste divenute via via sempre più numerose.
Ovviamente, con il migliorare della scienza medica, contrariamente a quanto i pessimisti del 2020 avevano affermato, si rese possibile il risveglio dall'ibernazione di un numero sempre più elevato di "dormienti", con risultati differenti secondo lo stato in cui tali "dormienti" avevano ricevuto l'ibernazione. Ma a centinaia di anni di distanza dalla morte di questi. Nacquero gravi questioni legali risolte e non risolte, laddove un membro di una famiglia molto ricca, aveva preteso, "risvegliandosi", di riprendere la propria posizione in seno alla Società, con evidenti reazioni da parte di familiari che neanche ne ricordavano l'esistenza. Fortunatamente le legislazioni si erano, nel tempo, adattate, per cui in molti casi la posizione sociale del "risvegliato" aveva subito per questi uno stato di "Rebirth", trattandolo esattamente come un rinato, ossia nato di nuovo, privo di ogni collegamento familiare e sociale, adottabile, insomma. Chiaramente a seconda della situazione (si trattava di un vecchio, di un bambino, di un ragazzo o altro), si erano di conseguenza svolte le nuove vite dei rebirth. Appunto per quanto riguardava i rebirth al di sotto dei sedici anni, ne era stato deciso e previsto lo stato di "adoptability", ben differente da quello delle adozioni rispetto ai bambini restati orfani o altro ed erano stati "creati" i "Custodial", che lavoravano a coppia. Dapprima presi soltanto tra i giovani più adatti, cresciuti e acculturati allo scopo, successivamente programmati geneticamente prima ancora della nascita. Ecco quindi perché Ludovica, Custodial geneticamente programmata, quella mattina aveva ricevuto l'invito a recarsi presso la " Clinical Jessica Smith Association for Revival and Reliance", allo scopo di conoscere la giovane donna o il giovane uomo che le sarebbe stato affidato. Di certo c'era soltanto che si sarebbe trattato di un minorenne. Si precipitò ad informare il Custodial Luca, suo Momentary Spouse, della necessità inderogabile (non si poteva mancare ad un impegno preso in tal senso: non era obbligatorio prenderlo, ma, una volta assunto, qual ora si fosse verificato l'evento, l'adottato andava prelevato in giornata, al massimo nella giornata successiva), di recarsi a prelevare chi era stato assegnato loro. Luca non sembrò affatto lieto della notizia: era stata sempre lei in assoluto, a desiderare di potere adottare un quarto rebirth. Chiaramente, innanzi tutto per la
sua professione di psychologist time, cui era assegnato l'incarico di preparare gli astronauti per i viaggi spaziali e quindi aiutarli ad uscire dai propri ritmi temporali. Non le sembrava vero di potere costatare di nuovo su di una persona gli effetti di una trasposizione temporale così evidente come quella vissuta da chi, ibernatosi ad esempio nel 2020, si ritrovava a risvegliarsi nel 2540. Ossia alla data di oggi. Lei e Luca sarebbero divenuti, per i prossimi cinque anni, genitori adottivi del giovane risvegliato. Avrebbero dovuto assolvere al compito di abituarlo alla nuova vita, con l'ausilio, naturalmente, di un'apposita equipe. Dovevano reinserirlo nella società, trovargli un posto dove studiare, aiutarlo a storicizzare il lungo periodo di vuoto conoscitivo e in ogni senso reintegrarlo, facendo sì che divenisse, nei cinque anni, appunto, indipendente come qualsiasi cittadino dell'Associated World. Impresa certamente non facile. La mattina successiva, liberati ufficialmente dagli impegni di lavoro per trenta giorni, a merito di una "Parental holiday", si recarono presso la Clinica dove il risvegliato (maschio o femmina), aveva ricevuto le cure necessarie a liberarlo della malattia che lo aveva portato alla morte fisica. Si tennero per mano, lasciandosi soltanto per appoggiare la destra sulla hand knowledge, in cui era stata inserita la programmazione della loro presenza. L'ambiente in cui furono inseriti era psicologicamente freddo: colori sul grigio e bianco, smalti, superfici in duracrilion, vetri pressurizzati. Gelido. Poi, nel ripetere l'ingresso in un nuovo ambiente del tutto differente, furono introdotti da una musica di sottofondo. Le pareti erano ricoperte di quelle che al primo aspetto sembravano opere d'arte da museo del 2000. Le porte all'apparenza erano di un caldo legno ed i pavimenti sembravano di ceramica. Chiaramente tutto il reparto era stato preparato in modo che chi vi si fosse risvegliato non avesse dovuto subire l'impatto del cambiamento temporale. Finalmente venne loro incontro un essere umano. Almeno all'aspetto lo era. Declamò i loro nomi e cognomi, le date di nascita, l'indirizzo sociale, il numero della richiesta affido e poi attese che loro confermassero. Quindi, senza un'ulteriore parola oltre un "seguitemi", si avviò. Si trattava, all'apparenza, dicevamo, di una figura femminile, vestita come poteva esserlo stata, un'infermiera dell'anno 2000. Ne vedevano, adesso, l'uniforme bianca e blu alle
spalle, munita di una sorta di cappello bianco che sembrava fissato con un adesivo alla chioma, tanto si reggeva bene nei suoi movimenti. Li condusse davanti all'ingresso di un locale dall'aria antiquata quanto il resto, su cui campeggiava una scritta: "Adoptions department", affiancata da una piccola croce rossa. L'infermiera fece segno di entrare ed ubbidirono. Si ritrovarono in quella che appariva proprio come una segreteria ospedaliera, laddove una signora dall'aria gentile li invitò a sedersi ed espose in poche parole una sorta di presentazione della ragazza (si trattava di un individuo di sesso femminile), che sarebbe stata loro affidata. Intanto si collegò ai loro avvisat, per are in modo virtuale i dati in possesso del centro. -"Come sapete tendiamo a dare ai risvegliati un nome nuovo, che sia inserito nel novero dei cittadini quale sarebbe se l'individuo fosse nato all'oggi. Quindi parliamo di una "C2". Tra le possibilità la giovane donna ha scelto Carla. Naturalmente almeno per adesso, non le abbiamo raccontato nulla della sua provenienza: chiaramente la sua memoria è molto alterata, essendo stata ibernata nell'anno 2022. Stiamo parlando di circa 500 anni addietro."-"Un baratro."- Quasi sospirò Luca. Poi aggiunse: -"Ti rendi conto?". Rivolto a Ludovica, che fece finta di non averlo sentito. -"Sedici anni, vero? Guarita da un tumore all'epoca inguaribile?"-"Certamente. Sostituzione totale del sangue e degli organi colpiti. Fortunatamente non il cervello."- Precisò la donna dietro la scrivania. -"Memoria semi obnubilata?"- Chiese ancora Ludovica. -"Sì. Fino ad oggi quello che ha visto non l'ha particolarmente colpita. Non ricorda il suo vero nome, né la famiglia o altro."-"E' possibile che poi le ritorni con dei flashback?"- Chiese Luca. -"Possibile, sì. Anzi, molto probabile che nel tempo riacquisti la memoria e senta la mancanza dei suoi, diciamo così, parenti deceduti."-
-"Deceduti?"- Ludovica sembrò allibita. -" Psychology, parliamo di cinquecento anni..."-"E questi parenti, le hanno lasciato messaggi?"-"Video. Un video di saluti ed auguri. Molto suggestivo. Naturalmente le verrà fornito assieme alla giovane donna e toccherà a lei decidere se e quando somministrarglielo."-"Bene. Allora finiamo le formalità e procediamo. Vorrei portarla via con me."-"Sveglia o in stato di sonno indotto?"-"No: meglio che si abitui a me lentamente. Con opportune presentazioni. La condurremo nell'habitat col nostro family Helicopter. E' stazionato fuori la base, a pochi metri dall'ingresso. Mi hanno permesso di farlo."-"Sì, era stato programmato."-"Grazie, molto utile."Si alzarono come a comando e in ordine silenzioso seguirono la director of awakenings in un corridoio allegramente illuminato su cui si aprivano una decina di porte in similegno. Alla porta segnata C2 la donna si fece da parte, dopo averla spalancata con un gesto. Sembrava di essere tornati indietro nel tempo: la stanza era arredata come avrebbe potuto essere quella di una fanciulla dell'anno 2000 che si fosse recata all'estero per studiare. Ludovica lanciò uno sguardo intorno e si rese conto che "Carla" lavorava ad un PC. portatile, evidentemente connesso con una linea interna che rimandava il web antichissimo. Vestiva in modo inusuale: una sorta di tuta nera su cui aveva indossato una specie di maglia larga. Quando percepì che qualcuno aveva varcata la soglia si girò incuriosita: Aveva l'aria di una bambina, coi cortissimi capelli biondi che incorniciavano un viso affilato, dai grandi occhi azzurri. Vuoti. Vuoti. Questa fu la sensazione che me ricavò Ludovica osservandoli a fondo.
-"Sei tu?"- Chiese la giovane scrutandola con aria speranzosa. "Chi?"- Si chiese lei. Ma capì che intendeva dire "quella che era venuta a portarla con sé". Per cui rispose: -"Sì."- Brevemente. -"Ho già preparato tutto. Il computer mi hanno detto che resta qui. Mi sono salvato quello che mi riguarda su di una chiavetta..."-"Chiavetta?"La ragazza gliela mostrò: un affaruccio verde sconosciuto. Ma poi capì: doveva trattarsi di un vecchissimo metodo per salvare i dati. -"Non so se il PC che abbiamo nella stanza..."- Stava per dire, ma fu subito corretta dall'accompagnatrice:- "Stia tranquilla, abbiamo provveduto noi."- E nel dire questo le ò una volatile memory che avrebbe potuto contenere una vecchia enciclopedia. Sorrise. Le parve giusto avvicinarsi a Carla, che intanto si era alzata in piedi e rapidamente aveva raccolto un giaccone ed un borsone pieni di chissà quali panni scovati un museo dell'abbigliamento allo scopo. Si comprendeva bene che voleva lasciare quella stanza. -"Andiamo?"- Disse, difatti. -"Certamente."- Asserì tranquillamente Ludovica avviandosi. Fu stupita nel sentirsi presa per un braccio: la ragazzina le si era appesa addosso come se temesse di essere abbandonata. Provò un moto quasi di timore al pensiero che da quel momento, chiunque fosse quell'essere umano, era affidato a lei. Si girò a guardarla: pareva avesse un'ombra grigia addosso. Niente a che fare con quello che ci si attende da una adolescente. Finché si trovarono nell'ambito del conosciuto Centro, Carla camminò veloce, ma appena la director of awakenings, dopo avere consegnato a Ludovica alcuni file, le lasciò con quella specie di infermiera, rallentò, per dedicare la sua attenzione a Luca, di cui prima sembrava non avere neanche notata la presenza: -"E' mio padre?"- Chiese.
Luca spalancò gli occhi stupito: aveva una quarantina di anni, per cui sì, avrebbe potuto essere suo padre, così come Ludovica la madre, ma non si era mai visto in quell'ambito sociale. Non avevano figli. Niente di strano che non li avessero: erano geneticamente programmati come coppia d'affido prima della stessa generazione, per cui crescevano, se così si può dire, ogni cinque anni, un giovane "risvegliato", o "rinato" che dir si voglia e poi chiudevano con questo praticamente ogni contatto dopo averlo conciliato con la società. In effetti si era stancato di quel compito già dal primo e con Carla erano al quarto. -"No: non sono tuo padre. Neanche un lontano parente se mai fosse possibile. Sono un custodial di seconda categoria."-"Cos'é un custodial?"-"Di seconda categoria. Cioè a me vengono affidati i "risvegliati" come te, dall'ottavo al sedicesimo anno di età. Per cinque anni."-"Risvegliati?"-"Possiamo continuare nell'habitat questo dialogo?"- Intervenne Ludovica. -"Allora anche tu sei una custodial di seconda categoria?"- Chiese invece Carla, lasciandole il braccio ed allontanandosi di un o da lei. -"Sì, anch'io lo sono e no, non ho figli miei, prima che tu me lo chieda. Continuo a pensare che sia il caso di riparlarne più tardi."Carla si zittì, limitandosi ad osservare perplessa l'ambiente nuovo: si trattava di quello che Ludovica aveva definito dentro sé "gelido". -"Non mi piace qui. Dove andremo avrò una stanza come quella che avevo prima?"-"Sì. E' predisposta per il tuo spazio temporale di origine."- Disse distrattamente Ludovica. -"Predisposta? Predisposta per cosa?"-
-"Volevo dire che, sì, sarà simile a quella che hai lasciato."- Disse lentamente Ludovica chiedendosi se con questa numero quattro non avrebbero avuto più difficoltà delle precedenti. Sembrava troppo sveglia e troppo simile a se stessa. Non sembrò particolarmente colpita dal mezzo di trasposto, che probabilmente assomigliava a qualcosa di conosciuto, se non di persona, magari in qualche visione fantascientifica dell'anno 2000. Vi prese posto e cominciò a guardarsi intorno, senza proferire più parola per i successivi venti minuti. Insomma: quelli che occorsero per stabilizzare il mezzo nell'aria e farli giungere con il piccolo ma sicuro wheel lift, sulla piazzola di appartenenza. Carla si appoggiò distrattamente alla balaustra che pareva fatta di aria compressa, rassicurata dal fatto che la reggesse e lanciò uno sguardo, adesso sì, perplesso, sullo "strano" panorama che vedeva intorno, compreso i colori. Annusò l'aria con atteggiamento disgustato: -"Sembra odore di nafta."- Sentenziò. Ludovica si chiese cosa fosse "nafta", ma evitò di chiederglielo. Entrarono: avevano già programmato sulle pareti le immagini adatte al tempo della giovane e aggiunse un "tramonto dorato" per riscaldare l'ambiente. -"Sono virtuali?"- Chiese Carla osservandosi intorno. -"Virtuali?"- Rispose l'adulta. -"Le immagini! Troppo differenti da quelle di fuori. Nessuno mi ha voluto dire quanto tempo sono stata in coma. -"Coma?"-"Già, soltanto così si spiega che io non riconosca nulla di quello che mi circonda: devono essere ati anni..."-"Certo, sono davvero ati anni, ma allora perché tu non sei invecchiata?"La ragazza sembrò molto colpita. Per la prima volta qualcosa si mosse nella sua memoria, facendole mancare il terreno sotto i piedi. Ma non rispose più. La fecero entrare dalla porta che conduceva alla sua stanza, come avevano fatto per i tre che l'avevano preceduta, facendole notare che tutto era simile a quella che aveva lasciato. Le fecero vedere il suo bagnetto personale, con una vasca vecchio tipo e nell'insieme una buona copia, quasi da museo, dell'anno 2000 o
giù di li. -"Qui invece non sembra cambiato niente."- Disse più a se stessa che a loro. Ma poi aggiunse: -"E il resto dell'appartamento?"-"Lo vedrai un altro giorno. Forse domani. Per quest'oggi metti a posto i tuoi abiti e sistema i tuoi file sul P.C. che si trova sulla scrivania. Carla gettò uno sguardo sospettoso al computer dicendo, sempre a bassa voce; "Sembra finto."- Ma poi trasse la chiavetta Usb dallo zaino e la infilò al posto giusto, accendendolo. Il computer prese tranquillamente a ronzare e dopo poco apparve il vecchio marchio anni 2000. -"Questo sembra più ato del mio."- Sospirò. Poi aggiunse: -"Va bene, ma cosa ceno?"-"Ti piacerebbe un bel panino wurstel e maionese?"-"Già è pronto?"-"Sì."- Disse Luca sorridendole. -"Perfetto. Anche troppo perfetto."Fecero finta di non averla udita. Ludovica eseguì un gesto per l'apertura porte e rapidamente arono oltre lasciando dietro di loro la ragazza e la sua curiosità per adesso inappagata. Si girarono entrambi ad osservarla attraverso la parete frangimmagine. Non sembrava loro di essere violentatori di una privacy: la piccola era in una situazione instabile e per quanto la porta che imitava un balcone non si potesse aprire e nulla di pericoloso per il fisico o la psiche della giovane fosse stato lasciato nelle sue possibilità, occorreva tenerla d'occhio. Era sotto la loro tutela. Carla guardò la porta chiusa, che non assomigliava a nulla di conosciuto. Poi si avvicinò alla porta finestra da cui erano entrati, per trovare una maniglia o qualcosa di simile. Ma sembrava rotta. O finta. Ebbe la sensazione che quella stanza non differisse di molto dalla sorta di cella comoda in cui l'avevano tenuta fino a quel momento e si chiese perché le
riservassero quelle false premure, per poi trattarla come se lei avesse commesso una qualche colpa. Tirò fuori dallo zaino gli abiti, che sapevano leggermente di naftalina e si dedicò per qualche minuto ad appenderli. Gli appendiabiti sembravano strani, tutti in metallo, o troppo puliti o leggermente corrotti dal tempo. Quale tempo? Quanto tempo? Chiuse l'anta e si guardò allo specchio. Le parve che il suo colorito fosse spento, come se avesse avuto una qualche malattia. Era questo che le nascondevano? Era stata in coma per anni? Però ricordò la frase di Ludovica che le chiedeva se le paresse di essere invecchiata. Invece no: aveva i suoi sedici anni. Già. Sedici. Nata quando? Le avevano detto che li avrebbe compiuti il 14 di maggio. Si era a marzo, per quello che raccontava il calendario del computer. Marzo 2023. Non le tornava nulla alla memoria. Si sforzava di ricordare, ma appena cercava di fissare una immagine del "prima" c'era anche rischio che le scoppiasse un gran mal di testa, per cui andava cauta. Niente memoria. Le avevano detto che l'avrebbe recuperata, con il tempo. Che adesso sarebbe restata in affido, per poi, nei mesi, riprendere lo studio verso il diploma. Diploma di cosa? Le avevano lasciato modo di studiare la storia, la geografia, la matematica, sul computer. C'era google a disposizione, ma sembrava avere dei vuoti di memoria come lei. Si bloccava, a tratti, pareva stesse per darle dei file, ma poi compariva una immagine che la rimandava alle pagine precedenti. -"In lavorazione"- Diceva un volto sorridente che non aveva mai visto prima. "Prima, quando?"Si spogliò e infilò il pigiama che aveva trovato, ben piegato, sulla sponda del letto. Attendeva il panino promesso, ma non avrebbe mai immaginato che le
sarebbe giunto da una rapida apertura e chiusura nella parete; finì direttamente sul suo comodino, penetrato dal muro. Sconcertante. Lo guardò con diffidenza, anche se sembrava identico nel colore, l'odore, la consistenza, ai tanti che aveva mangiato... "quando?" Quando li aveva mangiati? Lo addentò svogliatamente, sorseggiando la cola che era spuntata assieme al panino nel suo bel bicchierone di plastica fornito di cannuccia. Buono. Il cibo, buono e anche la bevanda. Sorrise tra sé: dopo tutto forse era meglio fare quello che le aveva suggerito la donna. Mangiare, riposarsi e aspettare di capire meglio più in là. Aveva una strana nostalgia addosso. Ma non sapeva cosa le mancasse, chi le mancasse o se davvero dipendesse da una mancanza. Dopo una ventina di minuti ati a sistemare i file nel computer, che le parve davvero più lento del precedente, s'infilò tra le coperte e prese sonno. Sognò di un cane bianco e nero che le saltava in grembo scodinzolando. Il giorno successivo, nel risvegliarsi, si rese conto che qualcosa era cambiato: nella stanza c'era una televisione. Con il suo bravo telecomando. Moderna, decisamente migliore di quella già conosciuta. Evitò di porsi la solita domanda: conosciuta, quando? L'accese e si divertì a cambiare velocemente i canali. Notò qualcosa di strano, ma non immediatamente: niente pubblicità. Come era possibile? C'erano i telegiornale che ripetevano cose avvenute lei non sapeva quando: niente date. Un presidente in America, discorsi di politica in Italia, il Pil, il debito pubblico, qualcuno che si era lasciato esplodere in un supermercato non capiva bene dove e, si sarebbe detto, tutto un poco a casaccio. Con qualcosa di poco chiaro nelle tempistiche. Poi i soliti filmini, le telenovele, film vecchi di Totò e Peppino, qualche film con attori che aveva già visto i cui nomi però non le rimbalzavano alla memoria... Di tanto in tanto la TV sembrava andare in tilt e rimandava per giusto qualche secondo dei volti: una donna sulla cinquantina, un uomo dall'aria afflitta, un
ragazzino. Di tanto in tanto anche un cane, paesaggi, l'interno di una abitazione. Si sarebbe detto che quelle immagini fossero state inserite nel circuito e programmate per apparire. Perché? Non fece in tempo a porsi troppe domande: sul comodino apparve, per il solito miracolo, la sua colazione: latte, fette biscottate, marmellata, miele, cornetto alla crema e persino del caffè che sapeva di orzo. Aveva fame e mangiò, senza chiedersi che fine avesse fatto il resto della cena della sera prima. La porta finestra era chiusa, ma dal vetro (?) si poteva osservare fuori per un bel poco di spazio. Una strana città in lontananza. Strane vie che sembravano reggersi in aria, alzandosi ed abbassandosi con un ritmo che sembrava calcolato. Osservando con maggiore attenzione, benché queste strade fossero distanti, si rese conto che erano in grado di schivare degli oggetti volanti i quali s'infilavano tra di loro, come fossero prestabiliti anch'essi. Mai visto prima cose così. Sembrava un cielo mattutino. Forse le nove. Ma dov'era un orologio? Ah! Eccolo! Uno strano orologio a forma di paperino, con le lancette rosse, che faceva tic, tic, tic ed il pupazzetto ad ogni tic chiudeva un occhio come fe l'occhiolino. Di una cretineria, insomma, che se la mamma glielo avesse regalato, lei... La mamma? Quale mamma? La donna aveva detto di essere... che cosa? Una sorta di affidataria, insomma. Una guardiana? Certamente l'aveva chiusa dentro come alla Clinica. Ma questa non era una clinica e c'era soltanto lei, mentre alla clinica aveva visto almeno sei o sette ragazzi come lei uscire ed entrare dalle stanze, quando le capitava di uscire lei. Andavano forse, come lei, a farsi controllare dai medici, a
farsi fare qualche terapia, o esami. Chissà. Non le permettevano di parlare con loro e si scambiavano qualche volta, strani sorrisi perplessi. Ma qui era certa di essere sola. Ossia, nell'abitazione dei due che l'avevano prelevata. Mangiò. Poi tornò a guardare fuori, senza notare nulla di più di quello che aveva visto prima. Quindi si recò nel bagno e si lavò accuratamente i denti con lo spazzolino (elettrico), il viso, le mani. Asciugandosi con il rotolone di carta. In camera decise di vestirsi, anche se non sapeva con certezza che sarebbe uscita o qualcuno le avrebbe fatto visita e verso le 11, annoiata, decise di tornare a studiare dal computer. Restò perplessa quando gli anni le sembrarono essersi allungati: 2020, 2021, 2022, 2023... Premette a caso sul segno di spunta del 2050 e fece un salto sulla sedia: Brevemente si parlava di un tentativo fallito di rapire un Papa Giovanni XXIV. Sul 2070, ancora più sconvolta trovò che si parlava di una grande guerra, definita come terza guerra mondiale. Terza? Poi l'uomo più volte sulla luna, nel 2077, una base militare stanziata a difesa degli interessi terrestri a pochi centinaia di chilometri dalla luna... Pochi cenni di un qualcosa che era accaduto in anni che per lei non avevano senso: 2089, 2130,2220... C'era una sorta di girandola che, partendo dal conosciuto 2020 giungeva, punteggiata di avvenimenti di ogni tipo, sino al 2540. La girandola prese a girare nella sua testa. Ma lei, quanti anni aveva davvero? In che anno era nata? Perché non ricordava nulla del suo ato, mentre invece gli oggetti che le erano intorno le apparivano così consuetudinari? Ritornò alla televisione: i soliti film, ma questa volta le immagini che
riguardavano i telegiornale parevano essere trasformate: strani abiti, mutate città, allevamenti di coleotteri per scopo alimentare, sterminate distese di sabbia in climi che avrebbero dovuto essere verdi praterie... Erano spezzoni confusi di telegiornale che, come in un flashback le rimbalzavano nella mente mescolandosi a ricordi che forse le erano appartenuti: un cane che le scodinzolava. Il volto magro e asciutto di un uomo che lei chiamava papà. La donna dai capelli neri raccolti in alto che lei chiamava... mamma. Fu in quel momento che la porta si aprì e si ritrovò libera di uscire dalla sua cella. Restò perplessa. Le parve che potesse essere una trappola. Ma a che scopo? Mise fuori prima la testa ed osservò le pareti che le apparivano allo sguardo: sembravano di cristallo o di vetro. Le toccò: calde. Lanciando uno sguardo lungo queste scorse fino quasi all'infinito una città stranissima dove le strade camminavano sopra altissime torri lucenti per poi scomparire. Montagne viola in lontananza mandavano bagliori intermittenti e nel cielo, in parte terso e in parte nuvoloso vi era un via vai di veicoli che stavano in aria come mai ne aveva visti prima. Percorse quella sorta di corridoio e si trovò in un locale più grande, ma sempre aperto su orizzonti lontani. Strani animaletti si muovevano, alti quanto la metà di lei: sembravano organizzati, prendevano oggetti, li riponevano. Avevano una qualche funzione e la svolgevano. ò l'ambiente e si rese conto che le due persone giunte a prenderla in custodia stavano facendo colazione, serviti da altri "animaletti" con strane zampe munite di mani simili a quelle umane. Luca e Ludovica indossavano tute morbide di un viola carico, piuttosto larghe. Lei beveva da una specie di bottiglia capovolta, lui prendeva qualcosa, a pezzi, da un recipiente traslucido. Parlavano tra di loro allegramente e si girarono ad osservarla, per poi invitarla: -"Vieni a provare questi cibi realizzati nel nostro tempo"- Disse Luca. Lei si avvicinò cautamente e appena fu loro vicina si trovò dolcemente sollevata da una specie di sgabello, all'altezza del ripiano su cui questi poggiavano le braccia. -"E' proprio gelato. Saggialo."La donna le porse una coppa e una varietà di cucchiaio lucente. Proprio gelato. Aveva ragione. Sembrava al cocco. Il gusto che preferiva.
Timidamente allungò una mano per prendere quello che sembrava essere un biscotto: dolce. Sapeva di amarena. -"Buono?"- Le chiese l'uomo. La giovane annuì. -"Dove sono? Chi sono? In che anno stiamo vivendo?"Domandò, continuando a mangiare il gelato. -"Tranquilla, Carla. Una cosa per volta. Datti il tempo per ricordare il ato, quello per assimilare il presente e desiderare di vivere il futuro."Le disse La donna sorridendo. Noi siamo qui per aiutarti a farlo. Carla fissò lo sguardo oltre le pareti trasparenti sentendo su di sé una strana malinconica speranza. -"Ci proverò"- Rispose. Se sono qui, adesso, è certamente perché qualcuno mi ha voluta viva."Una lacrima di commozione le scorse giù per la guancia e senza neanche rendersene conto l'asciugò col dorso della mano. Qualcosa le diceva che non sarebbe stata l'ultima. [1] Gran Bretagna, 14enne malata di cancro si fa ibernare dopo la morte
Copertina di Valentina D'Aiuto