Titolo | Nuova terra - Il sangue dell'erede - Seconda parte
Autore | Dilhani Heemba
Immagine di copertina a cura dell’Autore
ISBN | 9788891114433
Prima edizione digitale 2013
© Tutti i diritti riservati all’Autore
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Dilhani Heemba
Nuova Terra
Il sangue dell’erede
SECONDA PARTE
© 2011 di Dilhani Heemba. Tutti i diritti riservati.
Copertina: Livia De Simone www.liviadesimone.com
Curiosità e note d'autore su
www.dilhaniheemba.com/curiosita.htm
Personaggi
Shayl’n Til Lech, ragazza orfana dalla nascita, rapita dalle Tigri Bianche
Umani
Erien - ragazza rapita insieme a Shayl’n
Hassan - autista del pulmino della creche
Ilai García - amico di Shayl’n
Khaled, Andrè, Elias - bambini rapiti insieme a Shayl’n
Latha - donna che lavora per Shiire Raja
Lechy García - madre di Ilai
Madre Brìgit Lech- la madre della creche di Roma, sorella dell’ordine mariano
Maryām - amica di Shayl’n
Nilmini Ferrara - bambina della creche di Roma che Shayl’n considera come una sorella
Shiire Raja - Sultano di Nayband
Pietro, Salina, Salvatore, Clarissa, Filìp, e Màrtin - bambini della creche di Roma
Tigri Bianche - Tiouck
Ahilan Dahaljer Aadre - Capo Branco
Dan/Danka Kijowski - donna soldato
Ifraen Gelov - soldato/guerriero
Jama - soldato/guerriero
Layo Luba - soldato/guerriero
Maliak Toivainen della dinastia Minse di Danubie - padre di Shayl’n e figlio di Teon Toivainen, mezzo Uomo e mezza Tigre Bianca (defunto)
Nalinika della dinastia Minse di Danubie - principessa orfana adottata legalmente da Tagron - cugina di Shayl'n
Nikolaos Kristoforos - dottore e tutore di Nalinika
Pasha Klein - soldato/guerriero
Ron Nawa- soldato/guerriero
Sophia Kristoforos - figlia di Nikolaos Kristoforos
Srei - soldato/guerriero
Sybil Kristoforos - moglie di Nikolaos Kristoforos
Tagron Toivainen della dinastia Minse di Danubie - attuale re dei Tiouck - zio di Shayl'n
Teon Toivainen della dinastia Minse di Danubie - legittimo erede al trono che ha abdicato per sposare un’Umana, padre di Maliak (defunto)
Tejii Weber - soldato/guerriero
Lupi Grigi - Bamiy
Antar Breel, soldato del reparto di difesa
Belden Wilém Monreau Harvey, della dinastia Erdreè - attuale re dei Bamiy
Barenì, nonna di Jean David
Caroline Monreau Harvey, della dinastia Erdreè - madre di Shayl’n, figlia di Belden (defunta)
Darie Menlue, primario dell'ospedale di Nuv Monàc
Jean David Monreau Harvey, della dinastia Erdreè - figlio di Belden, principe dei Bamiy - zio di Shayl'n
Peter Way, soldato del reparto di difesa
Riannè Sullivan, capo di uno dei battaglioni
Sanìt, Carlize, Brigitte, Hameline - bambini soldato
Tar Mechie, capo di uno dei battaglioni
Glossario
amma, mamma
appa, papà
baha-char, mercato
chèrie, cara, diletta
detské vojakov, bambini soldato
eshgh, amore
babr, tigre
gamine, ragazzina, monella
khanevade, famiglia
khorshid, sole
kindersoldaten, bambini soldato
mamnun, grazie
mon Dieu, mio Dio
moya lyubov, amore mio
petit, piccolo
shohar, marito
tytär, figlia
volk, lupo
zan, moglie
- parole inventate -
arindo ichslavo, lingua delle Tigri Bianche
bretençal, lingua parlata dai Lupi Grigi
iuropìan romanzo, lingua degli Umani
mude, stoffa di Lupi e Tigri per combattere il caldo o il freddo
POD meglev, mezzo di trasporto che sfrutta l’energia del campo magnetico
tapi, stoffa lunga portata intorno alla vita
I titoli delle parti del libro sono tratti dalle seguenti canzoni:
This is the life, Amy McDonald
Blue, A Perfect Circle
Breathe, Pearl Jam
Tumbalalaika, canzone ebrea della tradizione russa
Undertaker, Puscifer (Renholder Mix)
Star Of The Winds, Irfan
Fly Away From Here, Aerosmith
Zombie, Cranberries
Bring me to life, Evanescence
Così celeste, Zucchero
Truly Madly Deeply, Savage Garden
SESTA PARTE
Star Of The Winds
42
Le palpebre si aprirono appena, come se fossero incollate, sbatterono due volte e lasciarono apparire qualcosa di nero, lontano, sullo sfondo. Qualche pulsante, che forse avevo già visto, un pavimento e un soffitto. Doveva essere un POD, ma se non ero morta, il mio corpo non c’era. Allora le palpebre si richio, pesanti come sipari di teatro.
Fino a che madre Brìgit non mi raggiunse, con il suo bel sorriso sul volto splendente e i suoi occhi neri come la pece. «È pronta la pasta. Pensi di fare tardi? »
«No», mugugnai. «Ho una fame, e di pasta, mm, ne ho proprio voglia.» Le palme dorate ondeggiarono sulle nostre teste e sorrisi.
Lei diventò una Tigre Bianca con il muso rosa e si leccò i baffi, sapevo che stava sorridendo.
«Lo sapevo che neanche tu eri Umana.»
«Bene, Batuffolo. Allora andiamo.»
Fluttuai nell’aria di un giardino che doveva essere quello della creche nonostante fosse molto più grande e molto più verde, oh, quanto verde. Dahaljer mi chiese
ancora se volessi la pasta.
«Sì. Hai detto che è pronta, no?» Feci una giravolta. «Buona, buona, buona!» Pencolai con le braccia attorno a me stessa cullandomi e di nuovo le palpebre incollate si aprirono. Questa volta, raschiando sugli occhi e facendoli lacrimare.
Gemetti. Qualcuno mi cullava, eppure faceva tutto male.
Mi cullava piano, e poi a strattoni e poi piano; un colpo. Poggiando le mani su un pavimento duro e sporco, mi sollevai a sedere e mi sforzai di tenere gli occhi aperti. Non era qualcuno a cullarmi, era qualcosa, la cosa su cui ero stata sdraiata.
Le mie mani si mossero appena e un tuono mi rimbombò nelle orecchie. Oscillando come un filo d’erba al vento, presi coscienza di tutto il mio corpo e non solo del mio.
Accanto a me, alcune creature spaurite mi fissarono e poi parlottarono. Inebetita dalla consapevolezza di avere ancora un corpo, strinsi le palpebre un paio di volte e poi analizzai le creature nella penombra.
«Dove siamo?» domandai, con voce impastata.
Le creature, o forse solo una parlò e io non capii. Posi la stessa domanda in arindo e poi in bretençal. Mentre la creatura più vicino a me - che poi era una ragazza, nascosta in un velo - continuò a dire qualcosa nella sua lingua.
I suoni della sua voce mi risvegliarono. Parlava persiano, come l’amichetto di Nilmini, a Praha. Quella realtà mi fece capire nello stesso tempo che ero su una nave o su qualsiasi cosa si stesse agitando sulle onde del mare in tempesta. Un altro tuono rimbombò molto vicino a noi, scuotendomi. Se quello era il mio primo viaggio in nave, non era certo un bel battesimo.
Una serie informe di persone si spostò in un angolo appena mi mossi. Riflettei a lungo sul loro movimento, o quantomeno mi sembrò un tempo lungo, infine cercai di sforzarmi per riuscire a ricordare quali fossero le parole giuste per chiedere dove eravamo.
Dopo un attimo di esitazione, indicando fuori o quello che pensavo fosse fuori, chiesi: «Dove siamo? Koja hastim?» Immagino in un persiano infantile.
«Oh.» Fece la giovane di prima, che era indietreggiata con gli altri. Aveva la bocca coperta, ma i suoi occhi sorrisero. A dispetto delle mani che la trattenevano, si avvicinò carponi e mi rispose qualcosa di incomprensibile.
È davvero utile saper fare le domande in un'altra lingua se non si è in grado di decifrare la risposta.
«Ehm… Grazie», risposi in iuropìan, con tono gentile. Forse non aveva neanche risposto alla domanda, forse mi aveva detto che non lo sapeva, o forse mi aveva chiesto qualche cosa, visto che sembrava in attesa.
Cercai di sorriderle, perchè era stata gentile con me. Un movimento brusco della
nave ci fece perdere l’equilibrio e lei mi rotolò addosso. Prima di ritrovare dove fosse il sopra e dove il sotto, grida spaventate si erano alzate e la ragazza era corsa via.
«Eh, mica ti mangio», bofonchiai, offesa.
«Babr.»
«Babr.»
A quel punto un’altra donna disse una parola, in arindo, che conoscevo: «Tigre», ringhiò come se mi stesse insultando. «Tigre», ripeté.
Non mi faceva piacere sentire la sua voce arrabbiata, tuttavia quello mi sollevò. Ero una Tigre per loro, e loro non erano né Tigri Bianche, né Lupi Grigi, a giudicare dall’assenza di qualsiasi presenza nella mia mente. Questo spiegava la loro paura. «Oh, va bene, se la mettete così», brontolai come se potessero capirmi. «Ma è giorno o notte?»
Mi voltai per vederli meglio e mi resi conto di essere incatenata. Mi osservai. Avevo cerchietti di ferro ai polsi e alle caviglie e una delle due caviglie era incatenata alla parete. Mi toccai il collo e, come avevo immaginato un secondo prima, le mie dita toccarono un cerchietto di ferro anche alla gola. Ci avano dentro solo l’indice e il medio.
«Di certo non volevano correre rischi», feci notare al mio pubblico.
Le impaurite creature -dovevano essere cinque in tutto- mi stavano guardando, in silenzio ora, e lo trovai all’improvviso imbarazzante. Legata come un animale, ero una Tigre che parlava una lingua sconosciuta; e la parlava da sola, per giunta.
Tenendo la bocca chiusa, feci una rapida analisi dei danni. Oltre a essere legata, ero vestita con gli abiti che mi aveva regalato Dahaljer; avevo ancora tutte le parti del corpo, e mi era stata messa una benda al polpaccio e una sul braccio.
Per il resto, oltre a un indolenzimento diffuso e alla lingua gonfia, stavo bene. Avvicinai una mano al braccio e tolsi la benda, che era piuttosto sporca. Toglierla fu uno shock: dove mi avevano colpita i Lupi, nella corsa, c’era un affossamento rosato e appena incrostato.
Pur non essendo Umana, la ferita non sembrava certo del giorno prima, neanche per me. «Dio, da quant’è che sono qui?» esclamai a voce alta.
Mi risposero solo facce preoccupate.
Una serie di pensieri mi invase la testa: tutti insieme, uno di seguito all’altro, tanto che non riuscivo a seguire il filo di uno, che già un altro l’aveva spinto via.
Tagron che mi rincorreva sulla neve.
Dahaljer che se ne andava.
Pasha che… no, Pasha non poteva averlo fatto.
I Lupi che avevo ucciso, il mare, il POD - se non lo avevo sognato.
E Nilmini e Khaled. Chissà dove si trovavano.
Madre Brìgit, casa.
E poi di nuovo il mare. Dov’era il mare nelle Terre del Nord? E i giorni. Quanti ne erano ati? I miei occhi tornarono sul buco del vestito. Facendo mente locale sulle ferite che avevo visto ad altre persone, doveva essere ata almeno una settimana.
Mi morsi un labbro e mormorai un’imprecazione. Appoggiai la schiena alla parete fredda e appiccicosa dietro di me, e chiusi gli occhi, facendo uscire dalla visuale facce curiose e impaurite e mi concentrai sui movimenti ondulatori del mezzo in cui mi trovavo, mentre fuori continuava a tuonare.
Dovevo essermi addormentata, perché quando mi svegliai ero sdraiata a terra.
«Oh, Mia Signora, come sono finita qui?» dissi a bassa voce. Accanto a me c’erano acqua e cibo. «Non ho fatto nulla di male», continuai sottovoce. «O almeno prima non avevo fatto nulla di male. E lo so che non dipende da te, ma, ti prego, ascoltami e lasciami sfogare, perché questa è un’ingiustizia.» Divorai la focaccia, troppo salata, con pochi morsi e mi resi conto che in quel modo avevo
solo aperto una voragine nel mio stomaco.
«Ti assicuro che non volevo uccidere nessuno, ti assicuro che di tutto quello che è successo non volevo nulla, nulla.» Meditai per qualche istante sul pensiero di Dahaljer e poi lo respinsi. «Perdonami, ti prego, perdonami, intercedi per me, non volevo uccidere, io volevo… Io voglio solo tornare a casa. Mia Signora, Madre di Dio, voglio solo tonare a casa. Di cosa ero colpevole quando mi hanno strappata dalla mia famiglia? Di cosa?» Piena di sale in bocca afferrai la bottiglia d’acqua e la trangugiai continuando a rivolgermi a Maria, a bocca chiusa però. O quasi. A metà del contenuto, mi bloccai e sputai la parte che non avevo ancora mandato giù, che in effetti era ben poca.
Aveva un sapore strano e non ci voleva molto a capire che era acqua drogata. Guardai le mie coinquiline sdraiate a terra. Non stavano dormendo, come pensavo, erano state drogate o magari avvelenate, ma forse avvelenarci in quel luogo non aveva senso. «Oh, Signora, vedi questo…» la mente mi si annebbiò subito. “Di questo parlavo… non ne ho colpa, vero?” Un giramento di testa, parole sparse per la testa, per il corpo, da qualche parte. Rumori attutiti, occhi pesanti, movimenti smorzati. “Voglio solo tornare a casa. Dimmi che sto solo sognando, dimmi che…”
Di nuovo le palpebre si chio con forza.
43
Uno scossone mi risvegliò troppo presto, o troppo tardi. Non ero più sulla nave, sotto il mio sedere c’era della terra polverosa. Una barba, che puzzava d’alcol, parlava in persiano, facendo domande. Un'altra voce, più lontana, disse qualcosa, «Babr… touck… arind…», e la barba smise di parlare.
Rizzai la schiena e per l’ennesima volta tentai di capire dove fossi e, sempre per l’ennesima volta, quel poco che riuscii a capire non mi piacque. Il proprietario della barba si era allontanato e i miei occhi misero a fuoco tende color sabbia, luci color sabbia e sabbia. Che fantasia! mi dissi; ma l’idea di trovarmi in un deserto, quando mi venne alla mente, non mi fece ridere neanche un poco.
Ero chiusa dentro una tenda alta e beige, c’erano quattro pali a tenerla e nient’altro, fuori potevo scorgere un’altra tenda e la luce, che immaginai fosse quella del sole.
Spostai il corpo e qualche cosa si spostò con me. La ragazza che prima era nella nave era legata al mio polso. «Oh», dissi.
Lei mi guardò accigliata, tenendo il resto del suo corpo a una certa distanza, quella che il nostro legame le permetteva. Disse qualcosa, che non capii, e le risposi con qualcosa che fu lei a non capire.
C’era aria calda e stavo sudando, e mi stupii che il proprietario della barba mi
stesse venendo incontro con dei lenzuoli. Non erano lenzuoli, ma così mi parve. Me li buttò addosso, senza una parola.
La ragazza accanto a me si mise sulle ginocchia e mormorò qualcosa, prendendo la stoffa e guardandomi. Gesticolò.
«Me la devo mettere?» Gesticolai anche io, e ne imitai la posizione in ginocchio.
«Uhm», emise un suono buffo e io inclinai la testa da un lato come per tentare di capirla. Aveva il viso tondo, abbronzato, e occhi verdi. Quel particolare mi colpì. Era senza ombra di dubbio Umana, eppure i suoi occhi avevano il colore del prato, screziato, ma sempre verde era.
Stava dicendo qualche cosa e, visto che non capivo, si avvicinò e con fare pratico drappeggiò la stoffa sulla mia testa. «Ma fa caldo», mi lamentai.
Lei non mi diede retta e con le mani veloci e delicate mi coprì testa e corpo. Si mise in piedi e dovetti fare lo stesso. Era poco più bassa di me.
«Ok», disse piano.
Quella, se non altro, era una parola universale.
«Ok», le risposi, non che fossi contenta di indossare altre cose, tuttavia ‘ok’ era una parola che conoscevamo tutte e due e mi fece piacere dirla.
«Maryām», disse con una voce da uccellino.
Posai gli occhi su di lei. «Eh?»
Si indicò. «Maryām.»
«Oh, certo. Che stupida, non ci vuole mica una scienza per capirlo», ribattei come una sciocca.
Mi guardò sorpresa.
«No, stavo dicendo che…» Mi interruppi. «Ok.» Mi indicai a mia volta. «Shayl’n Til.» Pronunciai il mio nome lentamente.
Lei lo ripeté un paio di volte storpiandolo e io non la corressi. ‘Maryām’ era molto più facile e molto più famoso, stavo lo stesso per ripetere il suo, solo per farle vedere che avevo capito e apprezzato, quando il proprietario della barba e la sua barba tornarono da noi.
Prese il gancio che ci univa e ci tirò. Cercai di non incespicare sulle stoffe lunghe fin sotto i piedi. Notai che quelle di Maryām erano ancora più lunghe, eppure lei camminava con grazia.
Barba Nera con il suo bel turbante color sabbia ci portò fuori e dovetti sbattere le palpebre più di una volta, con la destra mi schermai gli occhi. Fino a che nella visuale non entrò un cavallo bianco con macchioline grigie.
Barba Nera parlò con Maryām con un paio di battute aspre e poi mi disse qualcosa, con fare imperativo. «Sì, come no», replicai.
Con un movimento veloce afferrò Maryām e la caricò sull’animale. Poiché eravamo legate, sbattei sul sedere del cavallo, facendo ridere Barba Nera. Che tentò di prendere anche me. «Hei!»
Lui senza demordere disse qualcosa che sembrava un’imprecazione e, stringendomi forte, mi sollevò mettendo a sedere anche me, subito dietro alla ragazza. Mi ritrovai sul quadrupede in una posizione scomoda, sia per le vesti, che per il gancio che univa il mio polso sinistro con il suo destro.
Doveva averlo capito anche lui perché lo sganciò e, afferrando la mia mano destra, lo rimise, legandoci di nuovo.
«Ok», disse Maryām rivolta a me.
«Ok», risposi insieme a Barba Nera e lui rise.
Gli lanciai un’occhiataccia. «Chissà che avrai tanto da ridere», commentai a muso duro.
Non ero mai salita su un cavallo e quando quello si mosse mi strinsi a Maryām. Non avevamo una sella e tenni i piedi penzoloni, cercando di stare il più lontano possibile dal sedere della bestia, con la ferma convinzione che sarei scivolata via.
Barba Nera tirò le redini e ci portò in un punto più aperto, dove c’erano altri cavalli e altri uomini, tutti vestiti color sabbia con i turbanti in testa e coperti su tutto il corpo.
«E pensare che muoio di caldo», dissi a me stessa.
Mi guardai intorno: eravamo davvero in mezzo al deserto, c’era sabbia ovunque, e il cielo era azzurro e intenso, senza una nuvola. Il sole picchiò sul mio volto, e dovetti spostarlo.
Maryām se ne accorse. «Khorshid… Sole. Vestito», disse in arindo ichslavo.
«Ah!» esclamai, poi risposi nella stessa lingua. «Allora conosci l’arindo, se mi avessi detto prima… anzi, no, sulla nave l’ho usato, ma tu non mi hai risposto.»
«M», fu l’unico suono che emise.
Dovevo aver detto troppe cose e troppo veloce. «Parli l’arindo ichslavo?» chiesi più piano.
Scosse la testa.
«Parola.» Sollevò la mano libera e separò l’indice dal pollice per dire ‘poco’.
«Bene», risposi a quel gesto.
E lei ripeté «Sole. Vestito.» Si voltò per quanto possibile verso di me e mi indicò la stoffa che le copriva il naso.
«Ah, dici che per ripararmi dal sole devo usare i vestiti.» Non rispose, ma glielo mostrai. «Ok?»
«Ok.» Annuì.
Tornai a guardare gli uomini in sella ai loro cavalli, mentre la nostra piccola carovana lasciava le tende alle spalle. Se non avessi avuto paura di cadere dal cavallo, mi sarei girata a guardare, per vedere quanto era grande e se oltre si vedeva altro, siccome non era così, me ne rimasi stretta alla ragazza davanti a me. Per essere un Lupo mezzo felino, forse non ero poi così coraggiosa.
Seguivo l’andatura del cavallo che sembrava tranquillo e rilassato sotto di noi. Tutti gli altri avevano una sella e le redini in mano. Immaginai che fosse un’ulteriore precauzione, quella di non darci modo di scappare con facilità con un cavallo. Sebbene non avremmo fatto neanche dieci metri, senza che ci recuperassero. Erano otto uomini e di loro vedevo solo gli occhi, ciò nonostante mi mettevano paura.
«Bang, bang», sussurrò Maryām. Seguii il suo sguardo, che puntava un uomo.
«Sono armati», dissi.
«Bang, bang?» rifece come a chiedere.
«Pistola?» azzardai, incerta.
«Oh, pistola», ripeté sottovoce.
Barba Nera ci raggiunse e ci offrì dell’acqua che gradimmo entrambe. Poi restammo in silenzio, ascoltando il chiacchiericcio delle voci profonde maschili.
Mi ritrovai a pensare che non avevo realizzato dove mi trovassi. Non perché non sapessi il luogo preciso, ma perché mi sembrava un sogno. Un incubo, per la precisione.
Chissà quanti giorni prima - non troppi, di certo - ero sulla neve, nelle Terre del Nord, tra Tigri Bianche e Lupi Grigi. Pasha mi aveva rivelato il suo tradimento, aveva spifferato ogni cosa di me a Tagron, permettendo al re di sfruttarmi per la sua guerra e di togliermi di mezzo qualora fossi diventata più un problema che un’arma. Lo ero diventata. Nel momento in cui non avevo ucciso i prigionieri, e li avevo sfamati a sue spese, nel momento in cui mi ero rifiutata di attaccare i paesi abitati e i suoi uomini avevano ubbidito a me invece che a lui, nel momento in cui avrei avvisato i Lupi dei suoi attacchi alle città.
Era la mia mente a essere pericolosa, perché avevo un potere di sangue sulle Tigri che lui non poteva togliermi in nessun modo. Però non mi aveva uccisa. Una volta Dahaljer mi aveva detto che per le Tigri, diversamente dai Lupi, era diffamante uccidere un appartenente alla famiglia reale. Tuttavia, mi chiedevo, cosa gli costava uccidermi e dire che non lo aveva fatto? E di Nilmini cosa ne avrebbe fatto? Sperai che l’avesse lasciata dove si trovava, così come per Khaled. Immaginavo che non gli dovessero costare più di tanto, erano dei bambini tra tanti ed erano stati lasciati tra altri bambini con altre donne, magari proprio quelle donne li avrebbero difesi.
Magari.
Se non fosse stato così, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Pensai che se non fosse riuscito a prendermi avrebbe anche potuto farli uccidere, per darmi una lezione. Chiusi gli occhi. Che fine avrebbero fatto i prigionieri? Erano ancora vivi? E in bambini soldato? Trovai un paio di soluzioni e mi dissi che erano vivi senza ombra di dubbio.
Di fatto, però, stavo facendo ipotesi inutili, non ero là e non lo avrei mai saputo. Mi aveva presa e non mi aveva dato molte spiegazioni. Esisteva solo la sua legge, io ero di intralcio, mi aveva spremuta come più poteva e non aveva voluto correre ulteriori rischi. Gli avevo bloccato le operazioni e sapeva che lo avrei continuato a fare, sapeva che le nostre volontà avevano lo stesso impatto sui Tiouck, dando loro la possibilità di scegliere e alcuni avrebbero scelto me.
Tagron aveva ancora cinquanta, forse sessant’anni da vivere e io sarei stata là con il suo stesso potere e lontana dall’essere fedele a leggi che non condividevo.
Per quanto i Lupi fossero il vero problema, l’origine della guerra che le Tigri stavano portando avanti, non avrei mai potuto dare il permesso di uccidere un numero indefinito di civili per questo. Non avrei mai condiviso la loro causa. Non così.
Avrei dovuto parlare con i Lupi e con Belden. Ci avevo pensato spesso. Tuttavia il re dei Bamiy aveva ucciso mia madre, la sua unica figlia, cosa avrei potuto ottenere da un uomo così?
Non sapevo dove fossi, né dove fossi diretta, né cosa ne sarebbe stato di me, eppure per un attimo pensai che, se proprio non potevo tornare a Roma, quella di essere portata lontano sarebbe stata la cosa più facile. La migliore.
Stavo evitando di pensare con raziocinio. Perché non c’è, argomentò la mia mente. Non c’è la logica, quindi non si può pensare con logica.
Aprivo gli occhi di tanto in tanto, per guardare dove ci trovavamo. Mi sembrava di essere sempre nello stesso posto. Mi chiesi come fero a non perdersi in mezzo a quel nulla.
In realtà stavo evitando anche un altro pensiero e mi stavo sforzando con tutta me stessa. Quando le gambe iniziarono a dolermi per la posizione, così come il sedere e le spalle - non ci eravamo fermati per pranzo, ci avevano dato una focaccia dura, pezzi di un frutto rosso, che non conoscevo, e fatto scendere solo per andare al bagno, osservate a vista, non ci avevano concesso neanche la possibilità di separarci - avevo già affrontato tutti i pensieri possibili, con relative congetture e contro congetture.
Le nostre ombre si stavano allungando sulla sabbia diventata rossiccia, i miei piedi bollivano dentro gli anfibi, che mi ero rifiutata di togliere. Riflettendo su questo, per l’ennesima volta cercai di resistere alla tentazione di pensare a Dahaljer.
Cedetti.
Qualsiasi altro pensiero mi riportava a lui e, alla fine, lasciai la mente libera di farlo. E fu un attimo, la testa mi si riempì di domande. Dov’era? Era vivo? Tagron l’avrebbe ucciso? Per che cosa, per un giuramento non rispettato? Rifiutai di pensarlo, era il Capo Branco, aveva un ruolo specifico, oltre che un determinato potere. Aveva l’esperienza e le capacità, forse sarebbe stata una perdita troppo alta, per un giuramento infranto. Io non c’ero più, cosa avrebbe potuto essere una sbandata per una principessa che non era più là quando le armi di suo figlio erano pronte al suo servizio? E poi era suo figlio, non poteva ucciderlo.
Mi sfuggì una risatina, che fece voltare Maryām. Scossi la testa, mesta, e lei mi guardò incuriosita. Il sole rosso del deserto entrò obliquo nei suoi occhi e, immagino, nei miei. Inaspettatamente, mi strinse una mano e sorrise con lo sguardo. Risposi alla sua stretta e al sorriso. Quando si voltò a guardare di nuovo avanti a sé, però, l’ironia di ciò che avevo pensato tornò a graffiarmi il petto.
Se Dahaljer considerava Tagron quasi come un padre, di fatto non era suo figlio, non era membro reale e il re avrebbe potuto ucciderlo senza troppi complimenti.
Non potei non domandarmi come sarebbero andate le cose se non avessimo discusso, se non se ne fosse andato. Il cielo assunse il colore dei suoi occhi e trattenni un gemito.
Se solo avessi tenuto la bocca chiusa, invece di inventarmi cose solo per il gusto di farlo arrabbiare!
Le stelle presero a brillare nel cielo e gli uomini non accennavano a volersi fermare. Mi chiesi se sarebbero andati avanti tutta la notte o magari per giorni senza una pausa. Dovevano avere le gambe d’acciaio.
Per fortuna Maryām richiamò la mia attenzione e indicò un punto nell’oscurità. Delle luci.
Dopo circa tre quarti d’ora, ero sazia e stesa a terra accanto alla mia compagna di avventura. Dove ci trovavamo c’era un pozzo, delle palme e due costruzioni, che apparivano fatte di fango, ma, per quanto ne sapevo, potevano anche essere in cemento armato, non me ne intendevo.
Attorno al pozzo si trovavano tre tende, sporche e consunte, immobili, nell’aria ferma della notte. Contro ogni mia previsione, faceva freddo.
Ci avevano dato una coperta, ma l’avevamo messa a terra e ci eravamo sdraiate su di essa.
Osservavo i nostri rapitori, con il sedere dolente per il tanto stare a cavallo. Borbottavano come se stessero discutendo, senza però alzare mai la voce, fumavano e di tanto in tanto ridevano. Portavano vesti lunghe, come se anche loro avessero avuto dei lenzuoli addosso e in testa alcuni portavano dei turbanti, altri delle kefiah. Pensai che non avevo neanche provato a ribellarmi; nulla del
mio comportamento tenuto con Ahilan, aveva avuto modo di ripetersi in quel luogo. Troppo lontana da casa, in una terra che non conoscevo, tradita da un amico, ferita e drogata, non avevo avuto neanche la forza di reagire.
Maryām tirò fuori il viso, mostrando un naso piccolo e una bocca a forma di cuore, tentò di dirmi qualcosa, che non capii. Indicò gli uomini ripetendo suoni che per me non avevano nessun significato.
«Rapitori dici?»
Sollevò appena il viso verso il mio, sorpresa. Se non era quello che stava tentando di dirmi di certo conosceva quella parola. Scosse la testa, li indicò di nuovo e disse: «No rapitori.»
Aggrottai la fronte, cercando di capire.
La luce arrivava sui nostri volti dalle tende, deformando le sue espressioni. «No, rapitori.» Mi chiesi come fe a conoscere quella parola: di tutte le lingue studiate è l’ultima che avrei imparato. Sembrò cercare un altro termine per definirli, poi si illuminò, indicò se stessa e poi me. «Merce.»
Sbattei le palpebre.
Lei pensò che non avessi capitò e ripeté: «Merce.»
Annuii.
Merce. Voleva dire che non eravamo state rapite, eravamo state vendute, sia io che lei. Mimai un broncio per dirle che mi dispiaceva e lei sorrise.
Di nuovo restammo in silenzio sotto il cielo stellato, un cielo che non avevo mai visto. Pensai che in meno di un anno ero stata portata contro la mia volontà in luoghi che non avrei neanche mai immaginato, io che tutta la vita non ero mai stata troppo lontana da Roma.
Maryām tremò per il freddo, credo, e, nostro malgrado, ci ritrovammo abbracciate, assorte ognuna nei propri pensieri, troppo difficili da poter condividere con qualche parola.
44
Al mattino nessuno ci svegliò, sebbene entrambe fossimo nel dormiveglia, per via dei rumori di voci, i, cavalli e, credo, pentole. Ci avevano tolto il gancio dai polsi ed eravamo libere di muoverci da sole. Per quanto Maryām potesse essere una presenza piacevole e di poco impaccio, andare al bagno con qualcuno è tutta un’altra esperienza. Ridataci quella piccola dignità, ci fecero mangiare della carne che non conoscevo - o per lo meno non conoscevo il modo di cottura - pane rinsecchito e frutta dolcissima.
Restammo tutto il giorno in quel posto, perso nel deserto, che con la luce del sole sembrava ancora più piccolo, insignificante e sperduto. Io e Maryām girammo in tondo sulla sabbia, seguendo l’ombra di tre palme, che si muoveva lenta, regalandoci apparente refrigerio.
Gli uomini non badarono mai a noi, se non per darci da mangiare, così io e Maryām iniziammo a cercare un modo per comunicare, sfruttando le quattro parole che io sapevo di persiano, le quattro che sapeva lei in arindo e i gesti. Sembravamo due bambine.
«Casa», dissi per la quarta volta indicando dei disegni che avevamo fatto a terra. «Mamma, papà, bambino.»
«Casa», ripeté lei. «Mamma, papà, bambino.» E li ripeté ancora in senso contrario. Lo feci anche io, nella sua lingua.
Indicò il suo petto.
«Maryām?» tirai a indovinare.
Scosse la testa e indicò di nuovo il petto toccandosi. Vedendo che non capivo unì il pollice e l’indice della mano destra con quelli della mano sinistra.
«Cuore», dissi.
«Cuore!» Scrisse il suo nome, con dei caratteri che mai avrei imparato, neanche quando il persiano divenne gestibile, da destra a sinistra. Accanto al nome disegnò un cuore e una casa, come se fosse un rebus. «Maryām, cuore, casa», disse soddisfatta.
«Amore», mormorai. «Ami la tua famiglia.»
Ripeté sia famiglia che amore, gustando le parole sulla lingua e alla fine annuì sorridendo. E dicendo le stesse parole in persiano: «Khanevade. Eshgh.»
La scrutai in volto. Era stata la sua famiglia a venderla, eppure lei li amava.
Aveva sedici anni e lo sguardo curioso sul viso tondo e abbronzato, sembrava felice, nonostante tutto e non riuscivo a comprenderla. A gesti e piccole parole ripetute innumerevoli volte, scoprii che suo fratello stava molto male e che lei era stata venduta per dare ai genitori i soldi per curarlo.
Capito il senso del discorso, non capivo il senso della sua felicità: l’avevano venduta come fosse stata un oggetto.
Disegnai la mia famiglia: la figura di una donna grande e quella di una bambina piccola, scrissi sopra i loro nomi, in iuropìan romanzo: Brìgit e Nilmini. Mamma e sorella. E lei sorrise.
Poi, più lontano, disegnai me stessa con i capelli lunghissimi, che non avevo, e un’altra persona, con tre capelli corti, entrambe stilizzate. Misi un cuore in mezzo, in quella che poteva essere una delle immagini più antiche del mondo.
«Ahilan Dahaljer», sussurrai e lei ripeté entrambi i nomi, forse pensando che fosse un’unica parola. Non le scrissi. Fissai l’immagine, mordendomi la guancia.
Maryām si chinò per guardarmi in viso e corrucciò la fronte. «Dove?» chiese.
«Oh, lui…» Alzai le spalle. «Non lo so. Abbiamo litigato e se ne è andato. E mi manca da morire. Io non so neanche se sia ancora vivo o che cosa pensi di me, gli ho detto delle cose che non dovevo dire e non so neanche se ci crede oppure no. Lui…» Mi interruppi. Non doveva aver capito molto di quello che avevo detto, non conosceva tutte quelle parole. Come si poteva spiegare a gesti la mancanza di una persona? Come potevo spiegarle un litigio che faceva male? Rimasi in silenzio.
Lei poggiò il mento sulla mano. «Parla», mi esortò a continuare.
Le raccontai di noi, in arindo, la nostra storia, chi eravamo, cosa avevamo fatto e detto, tutto. Come un fiume di parole, che scorreva lento e irrefrenabile dalla mia bocca. Lei studiava il mio volto, attenta, come se stesse capendo tutto ciò che le dicessi.
Seduta di fronte a me, mi aveva preso una mano e la teneva stretta. Alla fine, quando finii di parlare, ci fissammo per qualche istante e lei mi lasciò.
«Eshgh.» ‘amore’ disse in persiano. «Bello», disse in arindo. Ma i suoi occhi dicevano molto di più. Qualcosa che, se anche avessimo avuto le parole, non sarebbero bastate.
La osservai intensamente, con il cuore in tumulto, e cercai di sorriderle. «Mamnun.» Sussurrai nella sua lingua. E lo ripetei nella mia: «Grazie», in iuropìan. Il sole raggiunse il suo zenit a poi scese, caldo e silenzioso. Prima del tramonto, gli uomini ci rimisero a cavallo.
Guardavo le nostre ombre lunghe sulla sabbia, lei era un po’ più piccola di me, coperte di abiti lunghi, sembravamo due piccole montagne in movimento.
«Vorrei tornare a casa», dissi al suo orecchio scandendo le parole in persiano e in arindo. «A Roma.»
Maryām annuì appena. Lei non voleva tornare a casa, o, se lo voleva, non aveva importanza, era andata incontro al suo destino per il bene di suo fratello, aveva fatto qualcosa di buono.
L’ultima cosa che avevo fatto io era stata uccidere cinque persone.
In silenzio, viaggiammo tutta la notte. Faticavo a tenere gli occhi aperti e lo facevo solo per paura di cadere a terra. Maryām stringeva con le dita la criniera della nostra giumenta grigia e di tanto in tanto sembrava avere colpi di sonno anche lei.
C’era la luna sulle dune sabbiose e pensai che fosse strano come un paesaggio così diverso dalle terre gelate e innevate del Nord potesse sembrare molto simile sotto la luce lattea e intensa del nostro satellite.
La nostra cavalcatura affondava leggera sulla sabbia, muovendo una zampa per volta, nel suo o basculante, mi sentivo dondolata, mentre stringevo la ragazza alla vita e cercavo di respirare seguendo l’andatura dell’animale sotto di noi.
Avevo gli occhi appannati e di nuovo male alle gambe quando in lontananza, davanti a noi, iniziò ad albeggiare. Il cielo da blu notte diventò blu oltremare, prese delle tonalità del viola e dell’indaco e, prima di poter diventare del colore degli occhi di Dahaljer, si stemperò in un violento color rosso e si dipinse di rosa e giallo. Attratta, come per magia, continuavo a guardare l’orizzonte piatto e tremulo, in attesa di vedere il sole.
Non mi resi conto delle palme che iniziavano a spuntare alla nostra sinistra, fino a che Maryām non parlò. «Ammanir», disse con voce rauca per non aver aperto bocca da tanto tempo.
Non risposi e concentrai la mia attenzione su quella novità. Il sole spuntò e si sollevò sull’orizzonte e quando ci fermammo era mattino già da un’ora o poco più.
Ammanir era una città. Chiusa in un’oasi di diversi chilometri, aveva strade asfaltate, macchine, acqua corrente e elettricità. Nonostante questo, le sue abitazioni erano di fango, piccole e sporche.
Barba Nera ci tirò giù dal cavallo con fare deciso e ci lasciò nelle mani di alcune donne, tonde e con il velo che lasciava intravedere solo gli occhi scuri.
Ci portarono dentro delle case, dove non c’era niente, e ci spogliarono senza una parola, a parte qualche borbottio tra loro. Più tardi avrei scoperto che parlavano una lingua che neanche Maryām conosceva bene, una lingua tra il dialetto persiano e le lingue di origine sanscrita. Un’accozzaglia di suoni leggeri, che sembravano cantilenati sulle bocche delle persone.
Non volevo che mi togliessero i miei abiti, non tanto per pudore, quanto per non separarmi dai vestiti che Dahaljer mi aveva regalato. Maryām aveva compreso e tentò di spiegarlo alle donne. Una di loro, bassa e tarchiata, mi fece capire a gesti che li avrebbero lavati. Solo lavati, o così speravo.
Mentre due ragazzine dal viso delicato, ma dalle orecchie a sventola come se avessero avuto due manici, li guardavano incuriositi, emettendo gridolini stupiti, le donne ci misero in due grosse bacinelle, con acqua tiepida, sfregando la pelle con spugne rugose. Notai che Maryām aveva i fianchi grossi e le gambette tornite, la guardai e seguii la direzione dei suoi occhi. Erano fissi sulla mia cicatrice.
Bianca come il latte, sulla pelle ambrata, le tre linee, diverse per profondità ma parallele tra loro, erano il chiaro segno degli artigli di un animale. Il tocco in quel punto della donna che mi stava lavando, mi fece trasalire. Mi guardò, chiedendomi qualcosa.
Non conoscevo le parole, tuttavia sapevo che mi stava chiedendo cosa fosse. La fissai e risposi in iuropìan. «È una cicatrice, non ne hai mai viste?»
Lei ripeté la domanda a voce più alta e una serie di facce curiose si mise ad analizzare la mia pelle.
Infastidita da tanta mancanza di rispetto, mi liberai della sua presa e mi sedetti di peso nell’acqua sporca, aggrottando la fronte. Ciò portò la loro attenzione al segno, molto più leggero, che la pallottola aveva lasciato sul mio braccio.
Loro cantilenarono qualcosa e io imprecai, non troppo a bassa voce.
Maryām si lasciò pulire e sciacquare più volte, io, più volte, tentati di farlo da sola, creando una pozza d’acqua intorno a me e bagnando tutti coloro che mi assero accanto. Alla fine, molto alla fine, cedetti e mi feci lavare dall’acqua calda che usciva dal tubo.
Mostrai a più di una persona i miei cerchietti di ferro, chiedendo che mi fossero tolti, nella mia lingua. Se non mi rispondevano, facevano appena cenno di no con il capo, preoccupate e senza guardarmi. Il significato dovevano conoscerlo. In persiano continuavano a ripetere «Babr», ‘tigre’. Non ero nient’altro che una tigre.
Non capivo la necessità di avere ben cinque cerchietti, uno per arto e uno al collo, mi pareva una precauzione quanto meno esagerata. Sbuffai con ostentazione.
Ci fecero indossare dei vestiti fatti di tela leggera, gialla e verde per Maryām e gialla e arancione per me; avevano dei riflessi dorati che sotto il sole, quando uscimmo, brillavano come piccoli gioielli. Sul capo ci avvolsero, con vari giri, stoffe dello stesso colore. Una serie di piccole perline lucide pendeva sulla fronte, riflettendo luce a ogni minimo movimento. Ero sicura che saremmo state schiave, tuttavia eravamo schiave trattate bene, almeno in apparenza. Schiava, tra l’altro, era l’etichetta che mi mancava, dopo prigioniera, principessa, guerriera e dea delle nevi.
Ci portarono in un’altra stanza, l’aria era immobile e appiccicosa. Osservai le mosche sul tavolo, nessuna di loro volava, come se fe troppo caldo anche per loro.
Mangiando uova sode e lenticchie con un pane bianco e sottile privo di sale, notai che nella stanza, dalle pareti verdi e il pavimento bruno, c’erano un televisore, un ventilatore che ruotava silenzioso e dei mobili intagliati, che ritraevano degli animali. Sopra vi erano appoggiate delle boccette bombate del colore della terra bruciata, con disegnati piccoli fiorellini delicati. Ce ne erano almeno una ventina, di diversa grandezza, ma della stessa fantasia. Le finestre, anch’esse con legno intagliato a disegnare intrecci floreali, non avevano vetri.
Trovai che quel posto fosse strambo; ricordo che pensai proprio questo aggettivo. Sporco, povero e opprimente, era anche spazioso ed elegante con piccoli segni di ricchezza sparsi qua e là. Arte e sudiciume si mescolavano tra loro, come il bianco e il nero. Un insieme di contrasti che nel corso del mio soggiorno forzato in quei posti osservai più di una volta. E, del resto, il nostro
ruolo e il nostro trattamento rientravano con precisione nello schema di quel contesto.
Di sfuggita, ando davanti a uno specchio macchiato, lanciai un’occhiata alla mia immagine riflessa. Provai una piccola quanto intensa fitta di dolore, non riconoscendomi nella persona che vi appariva. I miei occhi, i miei disgraziati occhi bicolore, erano l’unica cosa che mi ricordasse chi fossi e non ero certa che fosse quello il particolare che più volevo ritrovare in me stessa; anzi, ero certa del contrario.
Come se non bastasse i miei occhi presentavano tutti i segni della tristezza e della mancanza di sonno.
45
Maryām mi chiamò e, distogliendo lo sguardo dal mio riflesso, io la seguii lungo piccoli corridoi dalle finestre senza vetri, accelerando il o e facendo svolazzare le mie vesti. Arrivammo in una stanza grande e arredata con cuscini damascati, sedie decorate e un lungo tavolo apparecchiato con una certa precisione ed eleganza.
ammo l’intero pomeriggio lì dentro a seguire le indicazione di quattro donne che ci illustravano come apparecchiare, come sparecchiare, come servire le pietanze, le bevande - esisteva un modo diverso per servire l’acqua o il vino e il tè e tutta un’altra serie infinita di infusi, che io non avevo neanche mai immaginato - come sistemare un narghilè, come riempirlo e pulirlo. Tutto con estrema grazia. Avevo già servito, obbligata, delle persone: i banditi, con Nalinika, ma non in quel modo. Dovetti riconoscere che, in effetti, schiava lo ero già stata e che anche in quello, però, c’erano notevoli differenze.
Alla sera, ero più stanca che mai e i miei piedi nudi avevano raccolto tutta la polvere presente sul pavimento. Prima di cena osservai le macchine in lontananza, dietro le palme, e mi chiesi dove andassero. Mi scoprii a rimuginare sulla vita che conducevano gli Uomini in quei posti.
Erano più ricchi degli Uomini delle mie terre e non erano sotto il potere di Lupi Grigi o Tigri Bianche. Sapevo che le Terre d’Oriente erano tra le poche ad avere ancora la bomba atomica, questo li rendeva di gran lunga più potenti. Non li rendeva migliori, però, perché dei loro fratelli Umani, sotto il gioco dei Bamiy da più di cento anni, se ne disinteressavano con spiccata indifferenza. I popoli d’Oriente pensavano ai fatto loro e lo stesso facevano Tigri e Lupi, che non avevano nessun interesse a inimicarsi popolazioni potenti e armate molto più di
quanto lo fossero loro.
I popoli d’Oriente avevano le loro terre poco sopra la linea dell’equatore, presentavano un miscuglio di etnie che dopo il ’12 si erano mischiate tra loro, come del resto era successo a noi, condividendo le ferite lasciate dai novant’anni di terremoti e malattie. Quella che un tempo lontanissimo era stata la culla della Mezza Luna Fertile si era scontrata e amalgamata con la culla delle Terre del Buddha dando vita a una cultura mista, moderna e antica come la Terra. Una terra di luce e sole, di deserti e montagne.
Si dice che Oriente e Medio Oriente fossero la terra delle contraddizioni e dei contrasti da tempi immemorabili. Se non potevo valutare tali tempi immemorabili, potevo valutare quelli che vedevo e affermare quanto questo fosse vero.
Ci portarono a dormire in una lunga stanza fatta di letti bassi e duri. Misi i miei vestiti neri sotto il materasso. Nonostante la stanchezza, non riuscivo a prendere sonno; il rumore dei ventilatori, che durante il giorno non sentivo, nel silenzio della notte frusciava scomposto, come un ronzio con un tic, e l’odore di citronella, che teneva lontano gli insetti, era troppo forte dentro il naso. Pensavo a Dahaljer e questo non mi aiutava nel tentativo di perdere coscienza.
Pensavo che, se era ancora vivo, con ogni probabilità desse me per morta. Per alcuni secondi immaginai che forse poteva anche non essere interessato a quella che era stata la mia sorte. Ero stata proprio io a dirgli che non lo avrei aspettato, a dirgli che lo avevo tradito, dandogli la possibilità di dire a me che non mi avrebbe più cercata.
Faceva male. Faceva ancora troppo male.
Se anche non lo avessi più visto in vita mia, e al momento mi sembrava assai probabile - sebbene mi rifiutassi di ritenerlo davvero possibile - non avrei mai potuto perdonarmi di essere stata così stupida. Di non aver tenuto a freno la lingua, invece di blaterare con il solo scopo di ferire. Una mossa proprio intelligente: avevo ferito entrambi con un colpo solo. Davvero degno di nota.
Voltai il viso sul cuscino, affondando il naso, come per soffocare. Senza aria, dovetti voltarmi di nuovo, dopo cinquantasei secondi precisi. Alzai il viso e colpii la federa bianca con un pugno insignificante.
Il momento prima di dormire è maledetto.
Qualche animale, forse un volatile, emise un basso suono lamentoso, che mi fece imprecare in risposta. Contai pecore e cavalli, mucche e asini, alla fine perdevo il conto e per mantenerlo mi concentravo così tanto che l’operazione mi toglieva ancora più sonno. Non so in che modo, alla fine riuscii ad addormentarmi.
I giorni seguenti furono una rutine di lezioni, tra come servire a tavola, come camminare, o come rivolgersi a donne e uomini di un certo rango. Lezioni di canto e danza, soprattutto danza. Trovavo ironico che tutti i miei rapitori mi volessero una provetta ballerina e mi lamentai più di una volta. Dovevo ammettere però che le danze orientali mi piacevano molto di più dei rigidi i, imparati in pochi giorni e con scarso successo alla corte di Praha.
Le danze orientali richiedevano l’elasticità del corpo, dei movimenti precisi, fissi, eppure morbidi e sensuali. Avevano il potere di evidenziare il corpo femminile, senza essere mai volgari. Richiedevano la forza dei muscoli e la leggerezza dei movimenti. Si accompagnavano a tamburi dalla pelle chiara, a
sonagli dalle mille dimensioni e forme, e a piccoli strumenti a corde, oltre che alla voce calda e femminile di una ragazza che non vedevo mai, se non durante le lezioni. La sua estensione vocale lasciava senza fiato.
Le ore di danza divennero presto un momento per rilassarmi, per ridere e per sentire la terra ferma sotto i piedi, mentre io per l’ennesima volta, durante quei miei infiniti venti anni di età, andavo a rotoli.
Persiano e sanscrito mi si confo nella mente, tuttavia riprovarono a me stessa che, nonostante odiassi imparare le lingue, ero portata alla loro comprensione. In realtà la comprensione era la parte più difficile. Conoscevo troppi pochi termini e loro tendevano a parlare veloci, pronunciando le frasi come fossero un’unica parola.
Sebbene continuassi a imprecare - e lo facevo piuttosto spesso - in iuropìan, parlavo solo la loro lingua. La notte, però, pensavo in arindo ichslavo, quando le immagini della guerra, dei bambini soldato, della neve, di Pasha e le armi si disegnavano nella mia mente ferita.
Fu in un misto di lingue che Maryām, una sera in cui faceva più fresco e le tendine della camera da letto erano mosse da una brezza leggera, mi disse che Shiire Raja, Sultano di Nayband, avrebbe cercato la sua quinta moglie tra quelle che danzavano meglio.
La ragazza stava mettendo dello smalto lucido sulle mie unghie e ritrassi la mano di scatto. «Cosa?» chiesi accigliata. «Io non voglio diventare la sua quinta moglie.»
Lei mi guardò incuriosita.
«Allora smetterò di ballare», commentai, convinta.
Scosse la testa e parlò con una serie di pause. «Tu non puoi. Tu già sei sua proprietà. Lui ha pagato per avere te. E noi balliamo e lavoriamo per lui, anche se tu non diventi moglie di lui.»
Sbattei le palpebre riflettendo su ogni singola parola, lo facevo sempre, poiché non ero mai sicura di aver capito bene cosa mi si stesse dicendo. «Io…» cominciai con un tono di voce molto alto.
«Zitte», ci intimò Kila, una delle nostre tante compagne di stanza.
«Io farò questo che tu dici», dissi abbassando la voce. «Io non voglio diventare moglie di lui.»
«Se lui sposa te, se lui diventa shohar di te e tu zan di lui, tu sei fortunata.»
Mossi la testa.
Maryām sorrise appena, tornando a guardare le mie dita e afferrandole per finire di are lo smalto. La luce della lampada tra i nostri letti, resa soffusa da un copri lampada di terracotta bucata qua e là da stelline, le illuminava il viso tondo, mentre si concentrava sulle mie mani.
«Tu vuoi sposare lui?» domandai nella sua lingua. «Vuoi che lui diventa tuo shohar?» ‘marito’.
Senza guardarmi lei annuì. «Se lui sceglie me, io sono fortunata.» Fece una pausa. «Lui cerca una zan che danza, una moglie che danza, perché le zan di lui non danzano. Lui uomo di armi, ricco, lui è rispettoso delle leggi.»
«Che leggi?»
«Lui non fa cose con donne che non sono zan di lui, lui fa cose solo dopo, solo con loro.»
«Vuoi dire che è fedele», dissi in arindo, cercando di non ridere.
«Fedele?» ripeté, non conoscendo la parola.
Mossi appena il capo, non volendo spiegare quella parola, ma dire altro. «Lui ha tante mogli non deve andare con altre», insistetti. «È facile questo modo.»
«Oh.» I suoi occhi brillarono riflettendo la luce alla sua destra. «No, uomini con forza. Lui rispetta le leggi di Nayband, leggi di Terre d’Oriente, legge di uomini buoni. Lui forse è buono.»
Alzai le spalle. «Io non voglio diventare zan di lui», risposi in persiano, per essere sicura che avesse capito.
Ci fissammo per qualche istante e lei fece un’espressione quasi felice. Non lo disse, ma compresi che era contenta di quella mia posizione: tentare di essere la migliore per farsi sposare avrebbe richiesto una lotta tra me e lei. Ero contenta anche io.
Volevo dire ancora qualche cosa, ma un’altra donna ci intimò di fare silenzio, così Maryām spense la luce, dopo aver dato una rapida occhiata alle mie unghie e mi augurò la buonanotte.
46
Il giorno dopo, mi bisbigliò all’orecchio che Kila le aveva detto che Shiire Raja sarebbe arrivato dopo tre giorni e che avevamo delle danze da preparare. Lo feci controvoglia e rimasi in silenzio sentendo il mio corpo rispondere alla musica, nonostante tutto.
Provai il forte impulso di scappare e guardai più volte verso i giardini fuori dalle nostre abitazioni povere e polverose, eleganti e spoglie. Se avessi avuto anche solo una possibilità di fuggire da qualche parte, di raggiungere qualche luogo sicuro, lo avrei fatto. Ripensai a quanto aveva detto Maryām la sera prima, a proposito degli uomini che ti prendono con la forza. Che io lo volessi o meno, ero più al sicuro in quel posto che in qualsiasi altro in quel deserto.
Forse, più di qualsiasi altra cosa, era questo a bloccarmi dove mi trovavo. Morire di sete e di fame non avrebbe avuto la stessa forza di persuasione, sebbene riconosca che avrebbe dovuto averne.
Il giorno in cui il Sultano di Nayband arrivò, fummo portate via dalle abitazioni di fango e paglia, raffinatie e sporche. Messe di nuovo a cavallo da Barba Nera chiesi a Maryām se sapesse dove era stato, ma neanche lei lo sapeva percorremmo una strada sterrata prima, e una asfaltata poi. Fu un tragitto di solo un’ora all’interno della vasta oasi, durante il quale incontrammo qualche macchina e diversi cammelli, che io non avevo mai visto. Quando penso al loro muso l’unico aggettivo che mi viene in mente è ‘curioso’.
Girando dietro a una serie di alberi dai fiori a pallini gialli come canarini, davanti a noi si stagliò un perfetto palazzo da sogno.
Rimasi senza fiato.
Le mura della costruzione si ergevano alte poco meno di cinque metri e dietro si innalzava un palazzo imponente con minareti e cupole morbide che finivano a punta, come fossero gocce appena poggiate, che qualcuno non si decideva a lasciar cadere. Erano di un celeste intenso e delicato. E afferravano la luce del sole con mille variazioni.
Un grande arco, che sembrava riprendere la forma delle cupole e permetteva di vedere dentro dei giardini rigogliosi, presentava un colore turchese e blu scuro, vi erano incastrate lamine dorate che disegnavano complessi intrecci floreali. Mi parvero brillare di luce propria.
All’entrata, che scoprii in seguito non essere la principale, sostava un gruppo di uomini armati, vestiti da militari, con macchine grosse, dalle ruote ancora più grosse e i vetri scuri.
Fecero un cenno di saluto a Barba Nera e ci squadrarono. Ringraziai la Nostra Signora per avere dei vestiti lunghi e larghi e il viso coperto.
Scendemmo dalla nostra cavalcatura in un giardino colorato e lussureggiante, irrigato da piccoli canali azzurri come il cielo.
Ci venne incontro una donna, vestita di verde e d’oro, che si presentò come Latha. Carnagione scura e lunghi capelli neri legati in una treccia, congiunse le mani e ci fece un inchino.
«Namastè», salutò in sanscrito e ci fece cenno di seguirla, senza degnare di uno sguardo Barba Nera, che senza scomporsi se ne tornò su i suoi i.
La seguimmo all’interno, fresco e ombreggiato, pieno di tappeti, raffiguranti scene di battaglie, e statuine di cavalli, elefanti, cammelli e pantere. C’era profumo di incenso, di cannella e qualcosa che non conoscevo.
Latha ci condusse in una stanza quadrata, con alcuni letti a baldacchino disposti a cerchio lungo le pareti. Indicò quelli che sarebbero stati i nostri letti e ci fece cenno di cambiare gli abiti. Misi il sacchetto con la mia tenuta nera, che mi aveva regalato Dahaljer, il mio unico bagaglio, da una parte, e tolsi quelli che indossavo.
Lei ci porse due abiti uguali.
Erano interi, fucsia, con le maniche larghe e la gonna lunga che cadeva a terra nello stesso modo in cui cadevano le maniche. Aveva dei ricami verdi e azzurri sui bordi e sulla scollatura tra i seni.
Ci arrotolò una stoffa uguale sul capo, più volte, a formare un turbante. E lasciò scivolare la parte finale accanto al viso sulla sinistra.
Lanciai un’occhiata a Maryām, mentre Latha, silenziosa, sistemava tra il mio capo e il turbante una fila di perline, che lasciò pendere sulla mia fronte. La perlina più grossa e luccicante scendeva leggera proprio al centro delle mie sopracciglia.
Attaccò qualcosa nelle pieghe del turbante alla mia destra e, con una mossa precisa ed esperta, prese il lembo che aveva lasciato penzoloni e lo incastrò, coprendomi bocca e naso.
Fece lo stesso con Maryām e poi ci ò due stoffe, più pesanti. «Siete fissati con i lenzuoli, voi», bisbigliai alla mia amica in arindo. Non so se lei capì, non rispose e mi domandai se fosse agitata. Latha invece, che doveva conoscere l’arindo, mi lanciò un’occhiataccia. Devo ammettere che i due mantelli che ci avvolgevano non erano affatto semplici lenzuoli, erano di broccato di seta e riprendevano i colori dei nostri vestiti.
Qualche attimo dopo eravamo di nuovo al seguito della donna nei corridoi ventilati del palazzo degno di un principe delle favole.
Raggiunse una porta di legno d’ebano intagliato con intarsi d’avorio e fece un cenno ai due uomini che la sorvegliavano sull’attenti, con il turbante sul capo, le mitragliatrici in mano e due pistole alla cintola. Ci fece entrare e ci mise al centro della stanza, una terrazza coperta, dai tappeti rossicci e i divani pieni di cuscini morbidi e squadrati.
Oltre la balconata si potevano scorgere le mura del palazzo che intuii avessero una forma esagonale e racchiudevano giardini rigogliosi e ordinati oltre che le infinite stanze del palazzo con i suoi corridoi e i suoi archi. Sembrava di essere dentro un castello e, fuori le mura, l’oasi di Ammanir si stendeva pigra e verde, molto più in basso di dove ci trovavamo.
Spostai lo sguardo all’interno del grande terrazzo coperto e stavo guardando un elefante in pietra dalla cui proboscide usciva dell’acqua quando, senza nessun
preavviso, entrarono due uomini, vestiti da orientali.
Ma non badai a loro, perché la mia attenzione, come quella di Maryām, era attirata dalla bestia nera che li accompagnava. Una grande, silenziosa e bellissima pantera nera, dal pelo lucido e lo sguardo penetrante. Si muoveva con raffinata eleganza e ci studiò solo qualche attimo.
Sia io che la mia amica facemmo un o indietro e Latha, che era rimasta dietro di noi, ci spinse di nuovo in avanti. I due uomini parlottarono e uno dei due, più tondo e dal viso simpatico, si andò a sedere su un divano, sprofondandoci dentro.
L’altro ci osservò.
Un turbante beige gli copriva il capo, nascondendo i capelli, ma gli lasciava libera la barba nera e folta che da sotto il naso scendeva a coprirgli la bocca. Aveva un naso che sembrava scolpito, tanto era perfetto, e dei profondi occhi neri. Era alto, magro e sembrava proporzionato, doveva avere trenta o trentadue anni al massimo. Era decisamente un bell’uomo.
«Grazie, Latha», disse in persiano, senza smettere di guardare noi due. Le fece un cenno e lei ci tolse i mantelli, fluttuando nell’aria intorno a noi. «Mi sembra di aver fatto un buon acquisto», osservò con una vibrante voce tenorile. E poi aggiunse qualche cosa che non compresi.
Si avvicinò a Maryām, che sostenne il suo sguardo, e le tolse il velo che le ricopriva il viso, chiedendole se sapesse ballare. «Sì, mio signore. Me la cavo.»
Lui indietreggiò di un o. «Quanti anni hai?»
«Sedici, mio signore», rispose lei con voce appena un po’ tremula.
Lui si toccò la barba squadrandola dall’alto in basso e dal basso verso l’alto. «Ballerai per me?»
«Certo, mio signore.» Le girò intorno e io concentrai la mia attenzione sul felino, che si era sdraiato davanti a me. Era sicuramente un animale e in lui non avvertivo nulla che potesse dirmi se dietro c’era un uomo. Ebbi l’impulso di accarezzarlo e nello stesso tempo pensai che mi avrebbe sbranata in un solo secondo, se ne avesse avuto voglia.
Forse come Lupo-Tigre ero più grande di lui, ma così, da umana, ero solo un pasto appetitoso.
Shiire Raja si mosse lento davanti a me e io abbassai il viso. Mi tolse il velo e con il pollice e l’indice mi prese e alzò il mento, inchiodando i miei occhi nei suoi. Se non ne avesse avuti un paio così belli, neri come il mare di notte, avrei distolto lo sguardo.
«Tu sei la Tigre», disse in perfetto arindo ichslavo.
Deglutii a forza. «Così dicono», risposi nella stessa lingua.
Fece uno strano sorrisetto, sotto la barba.
«Shayl’n Til Lech, se non erro.»
Era un po’ che non sentivo il mio nome completo, quello con cui ero cresciuta per venti anni, e non lo aveva neanche storpiato. Mi limitai a fissarlo.
Lui sembrò mettere a fuoco i miei occhi, piegò il mento e fece un’esclamazione incomprensibile nella sua lingua. «Il colore delle tue iridi ha l’intensità e la particolarità delle pietre di malachite.»
Ignorando come fosse la malachite, continuai a non rispondere.
«Sai ballare?» domandò, questa volta in iuropìan. Sicuramente le lingue le aveva studiate, a differenza di me, e altrettanto sicuramente, sapeva di me più di quanto io credessi.
«No.» Pensai che ero una stupida, che continuavo a fare gli stessi identici errori.
Lui accentuò il suo sorriso, mostrando perfetti denti bianchi, almeno quanto Tagron, rammentai a me stessa. «Ne deduco che non ballerai per me.»
«Lo farò, se me lo ordina. Ma non lo farò per lei, mio signore.» Immaginai che
la lingua tagliente me l’avrebbe messa a posto lui con qualche mossa violenta o magari facendomi mangiare dalla pantera.
Invece, Shiire Raja fece un o indietro e scoppiò in una sonora risata. Quando finì disse qualche cosa all’uomo sprofondato nel divano, lo disse in persiano e troppo velocemente per poterlo capire, l’uomo rispose con un sorriso divertito.
«Sai», riprese rivolto a me, di nuovo in arindo. «Ti ho pagata con un carico di mitragliatrici, spero che tu le valga.»
Dovevo avere una faccia stupita, perché lui continuò a guardarmi divertito e disse: «Non lo sapevi? Ho promesso a Tagron che ti avrei regalata al Sultano di Delhi, ho preferito tenerti con me e regalare al sultano una terra che si trova oltre i miei confini. Pazienza per le promesse fatte, il re non ne verrà a conoscenza.» Si avvicinò di nuovo e, con entrambe le mani, sciolse un qualche nodo del turbante che Latha aveva fissato poco tempo prima.
All’improvviso mi sentii il cuore in gola. Mi dissi che era troppo tardi, che pensavo tutto troppo tardi, che erano i guai a cercarmi e io a cercare loro. Le sue mani rotearono più volte sulla mia testa, con pazienza, fino a che il mio turbante scese a terra svolazzando e i miei capelli si sciolsero scomposti sulle mie spalle. Anche le perline caddero a terra.
Non mi mossi, mi sentivo paralizzata. Le sue dita toccarono una ciocca ribelle e mi accarezzarono il collo, fermandosi sul mio cerchietto di ferro. Fissai gli occhi della pantera che mi guardavano, senza esprimere il benché minimo sentimento.
«Stasera ballerai», disse in un tono che non ammetteva repliche. «Non importa
se non lo farai per me, ma ballerai.»
47
Ballai, quella sera, così come mi era stato ordinato, dopo aver servito la cena e aver candele profumate e offerto tisane calde, alcoliche e dalla dolce fragranza. Ballai con un abito portato in maniera molto simile a come le donne portavano i tapi e scoprii che era un abito portato nelle terre di quella che era stata l’India. Le donne di origine sanscrita lo chiamavano sarii. Sebbene per indossarlo si dovesse seguire una complicata serie di aggi, mi risultò piuttosto facile impararli. In realtà la sua semplice eleganza non è per nulla scontata come appare.
Nel palazzo del Sultano di Nayband tutto era d’oro, rosso e arancione, le piante erano tutte verdi, le statue di legno scuro o di pietra dura e i tappeti raccontavano storie di guerra e d’amore. L’aria era fresca e entrava dalle finestre senza vetri o sospirava leggera sui terrazzi illuminati dalle luci gialline delle lampade elettriche o dai riflessi rossi delle torce.
Latha ci aveva aiutato a prepararci e a servire in tavola quattro uomini e la prima e la seconda moglie del sultano. Con noi c’erano altre sei donne ed eravamo vestite tutte uguali, con i nostri mantelli di raso colorati, che avvolgevano il corpo, e i turbanti impreziositi da perline sul capo.
Alla fine della cena, quando anche le tisane erano state servite, Maryām, quattro di quelle donne e io, ballammo sui tappeti vellutati, che si stendevano sulle terrazze tra i cuscini, anch’essi vellutati, e i divani.
Ballammo seguendo le note di tre musicisti e una cantante, che non era la stessa che veniva a lezione, ma che cantava le stesse musiche con la voce di un
uccellino. Cercai di non impegnarmi troppo e non mi fu difficile perché notai che le quattro ragazze che piroettavano nella sala, erano molto più brave di noi. Non me ne preoccupai. Maryām, invece, era agitata e tesa come le corde di un violino, inciampò spesso sui suoi i e pensai che avrebbe potuto anche scoppiare a piangere. Le sfiorai una mano e le sussurrai qualche parola di incoraggiamento.
Le altre ragazze danzarono anche altre musiche che noi non avevamo mai sentito e si mossero aggraziate e seducenti, intrecciando con infinita armonia musiche che un tempo erano state del Medio Oriente e della più lontana India.
Andammo a letto molto tardi, stanche e sudate. Solo la mattina seguente riuscii a farmi una doccia e a rilassarmi. Latha ci aveva chiamate prima di servire a pranzo e ci aveva detto che il sultano, per metà primavera, avrebbe dato una festa per l’inizio ufficiale delle sue vacanze ad Ammanir. Alla metà della primavera mancava poco più di un mese.
Scoprii che Latha parlava un po’ di iuropìan romanzo e scambiai qualche parola con lei. Mi spiegò che quel posto era il luogo dove Shiire Raja era solito andare in vacanza e mi disse che, comunque fossero andate le cose, noi lo avremmo seguito a Nayband alla fine di quel periodo.
Mi illustrò una cartina, spiegandomi dove eravamo. La studiai a lungo. Come avevo supposto, il mare che avevamo attraversato era il mare degli Urali: un lungo golfo che aveva in parte separato l’Asia dall’Europa; a nord, sotto i ghiacci perenni, i due continenti erano ancora uniti. La parte a sud però non lo era, creando di fatto due placche del tutto separate tra loro.
Le sponde sud ovest del mare degli Urali - della placca di Nuova Eyropa facevano parte dei popoli Umani orientali; dovevamo essere partiti da qualche
porto di una delle città su quelle coste.
Avevo studiato tante volte la geografia nel corso della scuola, tuttavia non ricordavo quei posti e dovetti memorizzarli nella mente. Per l’ennesima volta mi chiesi perché mai non avessi studiato di più.
La routine che avevo nelle abitazioni di fango e paglia era la stessa che avevamo nel palazzo. Servivamo il sultano, però, e i suoi amici e le sue due silenziose mogli, che aveva sposato per dovere.
Shiire Raja era un uomo divertente e colto, disquisiva della politica del loro Paese, di musica e arte, giocava a scacchi e fumava il narghilè. Non capivo tutto quello che diceva con i suoi amici, nonostante pronunciasse tutte le parole, staccandole tra loro. Con le mogli si mostrava affettuoso, con tutt’e due, e loro non sembravano essere tristi, erano solo silenziose ed educate. Tuttavia le coglievo spesso a occhieggiare verso di noi e poi a parlottare sommesse.
Il sultano si rivolgeva a me solo in iuropìan e la cosa doveva divertirlo, forse perché parlandomi in quella lingua, sapeva che nessuno avrebbe potuto capire, a parte Latha.
Non era sempre a palazzo: era un imprenditore e si occupava di armi, si spostava spesso per motivi di lavoro e non sapevo dove andasse.
In quei sei giorni ballare fu strano, lo facevo perché mi piaceva, ma avevo quasi paura di farlo, perché sapevo cosa comportava. Mi dissi che era l’unica distrazione che avevo e che era una distrazione piacevole, non l’avrei rovinata per una cosa che non mi interessava.
Ballavo muovendo i fianchi, ancheggiando e muovendo le dita e le braccia come vedevo fare dalle altre donne. Ascoltavo i suoni dei tamburi, degli strumenti a corde e il tintinnio delle cavigliere, fatte di minuscoli sonagli, che ci mettevano sopra i piedi. I miei si incastravano sopra i cerchietti di ferro e facevano un suono diverso. Avrei preferito non averli perché mi ricordavano chi fossi anche in quei momenti, tuttavia la musica era forte e mi pulsava nelle vene, lasciandomi andare a movimenti spensierati.
Stavo muovendo i fianchi in maniera provocante, scherzando con Maryām, quando, volteggiando su me stessa con le braccia alzate, il mio sguardo si incrociò con quello di Shiire Raja, appoggiato a una colonna bianca della sala in cui ci esercitavamo.
Mi bloccai di colpo, bloccando anche Maryām, che mi finì addosso. «Scusa», mormorai.
I nostri insegnanti borbottarono e la musica si fermò.
«Buongiorno», disse il sultano in persiano. «Non volevo interrompervi.»
Latha doveva avergli già rivolto un saluto, perché non si voltò neanche a guardarlo. I musicisti, invece, lasciando i loro strumenti, unirono le mani e si piegarono appena; lo stesso fecero le ragazze.
Lui mi guardò e mi fece cenno di raggiungerlo. Poiché non mi muovevo, Latha mi chiamò dicendo di andare. Mi mossi con forzata lentezza e ostentata
indolenza; a poco più di un metro da lui mi fermai.
«Buongiorno», disse in iuropìan e riducendo la distanza tra noi.
Congiunsi le mani, senza inchinarmi. «Namastè», salutai in sanscrito.
«‘Qual è mai la freccia che il tuo sguardo ha piantato con forza in fondo al mio cuore?’»
Sbattei le palpebre senza capire.
«Hai mai letto Le mille e una notte, babr?»
«No, mio signore», sussurrai, perplessa.
Prendendomi un polso mi attirò a sé, i suoi occhi sensuali indugiarono sulle mie labbra. «Stavo pensando, Shayl’n, che se dovessi accettare una mia proposta di matrimonio, potrei fare anche a meno di fare una gara tra ballerine. Il tuo corpo segue la nostra musica abbastanza bene, per essere il corpo di un’occidentale, e io, oltre a desiderare una moglie ballerina, potrei desiderare una moglie che parla iuropìan romanzo e arindo ichslavo, di Razza mista e dagli occhi particolari come i tuoi.»
Avvicinò il suo viso al mio e sentii il cuore accelerare i battiti; pensai che riuscisse a sentirlo attraverso il mio polso stretto tra le sue dita. Non tentai
nemmeno di respirare. «Penso...», provai a dire, «penso che non mi interessi affatto sapere cosa lei desidera.»
«Nessuno qui ti chiede di pensare. Ti chiedo solo di dire sì a un matrimonio.»
Ci stavano guardando tutti, non so quanti di loro potessero capire quello scambio di battute in iuropìan.
Deglutii a forza. «Mio signore.» Mi costrinsi a fare una pausa per non balbettare. «Non dirò di sì, perché non ho nessun interesse a sposarmi con lei. Sono una sua schiava per forza di cose, sono stata venduta contro la mia volontà e provengo da una cultura molto diversa dalla vostra.»
«Questo non è un problema», obiettò, gentile.
«Lo è per me, però», ribattei osservando la sua mano stringere il mio polso.
Indicò con il capo verso Maryām. «Loro stanno lottando per avere questa possibilità.»
«Io non sono loro. Lasci che si conquistino le sue grazie, oltre che il suo letto, come aveva previsto per scegliere… quale? La sua settima moglie?»
«La quinta.»
«Oh, mi scusi», risposi sarcastica. «Ma vede, poteva anche essere la seconda o la prima, se vuole, non le avrei lo stesso detto di sì, a meno che lei non mi costringa, ma i vostri matrimoni, da quello che so, richiedono il totale consenso da parte della futura moglie.»
«Sebbene pochi lo rispettino, è vero.» L’angolo della sue labbra si increspò in un’espressione imperscrutabile. «È così, e io voglio il tuo sì, non il mio obbligo.»
«Bene.» Cercai di fare appello a tutta la mia fermezza. «Allora sappia che non avrà il mio sì, né ora, né mai, mio signore.»
Fece un movimento strano con la testa, che non riuscii a decifrare. «Se ci ripensi, hai due mesi di tempo, dopo di che, a malincuore, deciderò tra le ragazze che danzeranno per me. E una di loro dirà di sì.»
«Allora sarà felice», commentai adamantina.
Serrò la presa. «Non lo so, ma tu non dovresti esserlo.»
«Mio signore, mi lasci tornare a casa, nelle mie terre, quelle che lei ammira tanto. Solo allora sarò davvero felice. La mia felicità qui non esiste.» Di ciò ero talmente certa che le parole mi uscirono dalla bocca morbide, contro ogni aspettativa.
«Io credo che tu dovresti cogliere questa opportunità che ti sto offrendo, potresti anche non pentirtene. Mi rendo conto che non sia abbastanza per te, ma è pur sempre una possibilità. Ah, e ti consiglio di leggere Le mille e una notte, se trovo una versione nella tua lingua, te la darò.»
«Non la voglio.»
«Male, piccola babr. Potrebbe esserti utile. ‘Con l’inganno son stata data a lui, ignara di ciò che fosse amore. Poi, egli ha un fuoco nel mio cuore: il fuoco dell’esilio, che mi consuma il petto.’», citò.
Che ne sapeva lui della mia felicità? E dell’amore e del mio esilio? C’era una sola persona che mi aveva presa con l’inganno e che amavo nel mio esilio forzato. Avrei quasi voluto dirglielo.
Non risposi e lui lasciò la presa.
Quando uscì, seguito dalla sua pantera, da una guardia e con le vesti svolazzanti, presi a respirare normalmente.
«Cosa ti ha detto?» mi domandò Maryām la sera, prima di dormire.
Ero sdraiata sul mio letto e la guardavo tirare le tendine rosa della sua zanzariera. «Chi?» chiesi fingendo di non aver capito a chi si riferisse.
«Il sultano. Oggi, quando è venuto», spiegò.
«Oh, niente. Che… uhm.» In effetti non sapevo cosa risponderle, era lei che stava lottando per sposarlo. Cosa potevo dirle? Che aveva già perso la sua battaglia? Nella penombra mi morsi un labbro. «Sostiene che dovrei ballare meglio e credo che trovi scuse solo per parlare in iuropìan.» Incespicai nella sua lingua.
Lei sembrò crederci e io non aggiunsi altro.
48
Durante la colazione, mentre sbocconcellavo un biscotto al cocco, di cui non avevo particolare voglia, studiai le espressioni di Latha mentre guardava il telegiornale. Non lo seguivo mai, perché non ero abituata a vedere la televisione e sentirla blaterare in una lingua che non conoscevo mi innervosiva. Però fu in quell’occasione che la mia attenzione fu attirata da un’immagine conosciuta.
Restai con un pezzetto di biscotto a mezz’aria e la bocca aperta a guardare lo schermo sulla parete. «Quello è Belden», mormorai in arindo. «Belden Wilém Monreau Harvey.»
Latha si voltò a guardarmi e scosse la testa. «Il figlio.»
Il mio biscotto continuò a oscillare nell’aria ignaro del pericolo. «Il figlio? Lui aveva solo una figlia, che ha… che è morta diversi anni fa.»
«Dicono», indicò il televisore, «che ora tutti sanno che lui ha un figlio, ma prima lui non diceva. Venti anni ha, forse.»
Sollevai le sopracciglia. «Figlio o parente?» chiesi ancora.
«Figlio. Si chiama Jean David e Belden Monreau Harvey è il suo appa.» ‘Appa’, papà in sanscrito. «Non sanno chi è sua mamma, dicono che lui è contro il padre,
che non è d’accordo con quello che fa. Dicono che ora lui fa problemi, ma io non so perché. Hanno la guerra con le Tigri, tu lo sai, no?»
Annuii. «Sì. Ma del figlio…»
«Del figlio nessuno sa. Sapeva», si corresse.
Maryām scrutò il mio volto. «Nessuno sapeva. Loro comandano su voi, vero? A Roma e su babr.»
«Sì, ma…» Non sapevo cosa dire, se ciò che dicevano era vero, quello che avevo visto per qualche secondo era mio zio, era più piccolo di me, aveva avuto da poco la sua prima trasformazione ed era l’erede di Belden. Inoltre non era d’accordo con lui. Su cosa?
«Qui loro non ti raggiungono», mi rassicurò Maryām nella sua lingua.
Non le risposi e annuii di nuovo.
Nella rutine quotidiana non potei far a meno di pensare a quella notizia. Mi ronzava in testa più fastidiosa delle mosche che venivano a rinfrescarsi dentro le mura fresche del palazzo. Lanciavo spesso occhiate ai televisori, sperando di saperne di più, ma di rado parlavano di notizie che non riguardassero Terra d’Oriente.
Tentai allora di parlarne con Latha, che mi disse solo che i due uomini non avevano la stessa visione politica e che il figlio non voleva condurre la guerra contro le Tigri, bensì arrivare a un accordo con Tagron. Quest’ultimo, venni a sapere, aveva sterminato i Lupi delle città del nord est.
Un brivido di freddo mi percorse la schiena.
Con ogni probabilità Pasha non aveva mandato nessun prigioniero ad avvertire i civili. Nessuno di loro era pronto e forse nessuno era stato risparmiato.
Da quando ero stata rapita, il conflitto era divenuto più efferato, il mercato delle armi sembrava aver preso un ritmo molto veloce, tutte le armi ante’12 erano di nuovo in produzione. Io stessa nel breve periodo in cui ero stata sul fronte, avevo potuto notare i cambiamenti. Era grazie al lavoro del Sultano di Nayband che le Tigri e i Lupi combattevano con armi sempre più all’avanguardia e modificavano di conseguenza i loro combattimenti. Mi domandai quale situazione avrei trovato se fossi tornata indietro.
Con Maryām e Aisha, ci esercitammo nelle danze e poi ancora con la preparazione del narghilè. Nel palazzo di Ammanir, il sultano e i suoi amici erano soliti fumarlo quasi tutte le sere e noi lo riempivamo di tabacco e menta o altre spezie. A volte però gli uomini fumavano dal narghilè droghe sintetiche molto forti, li osservavo perdere la testa sotto gli effetti di quelle sostanze, ben più forti delle semplici spezie. Shiire Raja, nel suo essere pacato ed equilibrato, non ne abusava mai. Eravamo seguite da Latha per fare quel tipo di lavoro, anche quando imparammo a farlo da sole non mancava mai di controllare per paura che potessimo usare dosi sbagliate per nostra volontà.
In un momento di pace e di libertà dai miei doveri, uscii al caldo e mi diressi ai giardini anteriori. Li avevo visti solo due volte, quando eravamo arrivati e
quando Latha ci aveva mostrato la disposizione di camere e stanze, includendo i giardini.
Mi trascinai tra le fontane che spruzzavano acqua dalle proboscidi degli elefanti in pietra, ai canali azzurri che si diramavano in giochi geometrici e le piante verdi e grandi.
C’erano diversi tipi di fiori, alberi e cespugli e il prato, tagliato all’inglese, mi faceva il solletico sotto i piedi, regalandomi una sensazione piacevole. Vagando per quei posti, sotto il sole che picchiava sulla mia pelle, dove era scoperta, meditai a lungo su un mio zio da parte di madre. Meditai a lungo, tuttavia non meditai su niente in particolare, poiché non avevo molte informazioni e mi ritrovavo sempre a rimuginare sulle stesse quattro cose che mi aveva detto la donna e che avevo sentito in televisione.
Mi ritirai nel palazzo, frustrata e accaldata, e eggiai per i corridoi del primo piano, dove i ventilatori giravano senza smuovere un filo d’aria. Ero attratta dalle immagini dei tappeti a muro e mi chiedevo se ritraessero scene realmente accadute.
In molte di esse erano rappresentate battaglie di epoche troppo lontane per essere fotografate, in altre c’erano immagini di matrimoni e pegni d’amore, in un paio scorsi delle scene di caccia. Ne fissai qualcuno, pensando che sembrava si muovessero.
Infine, sopra un mobile di legno lucidato, con un piano di marmo rosato e delle statuette di cammelli in tek, notai, al muro, un tappeto di dimensioni più piccole degli altri. Raffigurava tre persone a cavallo: due -un uomo e una donna- erano sullo stesso cavallo e lei, avvinghiata a lui, lo guardava con occhi adoranti, aveva la pelle chiara e una veste che sembrava una camicia da notte; lui la stringeva
alla vita, tenendo le redini della cavalcatura e portando un turbante sul capo. Sulla destra, un po’ in lontananza, era disegnato un palazzo nel deserto; sulla sinistra, l’inizio di una foresta, una giungla con ogni probabilità, e un rigagnolo d’acqua su cui saltavano i cavalli. Sull’altro cavallo c’era un altro uomo, con un fucile in mano che si guardava indietro, come a vedere se qualcuno li inseguisse. Era notte, c’erano le stelle e uno spicchio di luna, il blu profondo e magico si stagliava per buona parte del tappeto superiore.
Osservavo quella scena con occhi rapiti e le mani poggiate sul piano del mobile, quando una voce calda e sicura si inserì tra i miei pensieri. «È il ratto di Marilù.»
Mi voltai a guardare il Sultano di Nayband, che scrutava il viso della ragazza del tappeto, con al seguito la sua pantera elegante. «Una donna inglese dalle origini si, che visse in India durante le colonie britanniche e che si era innamorata di un principe indiano. Fuggì con il suo amato in una notte d’estate, perché i genitori non avrebbero approvato i suoi sentimenti. Sai, come Giulietta e Romeo, ma si dice che loro si siano sposati, senza disturbare la morte violenta degli amanti di Shakespeare.»
«È una bella storia, allora», ammisi.
«Se è vera, lo è.» Si affiancò a me e contemplammo il disegno.
Mi voltai a guardare il suo profilo perfetto. «Dicono che lei non si sia mai sposato per amore.»
Fece un’espressione strana e ricambiò il mio sguardo per alcuni attimi, girando appena il viso. «Dicono molte cose su di me, a volte indovinano», commentò.
«Ma forse l’amore, quello vero, esiste solo nei testi di Shakespeare.»
«Forse quello di cui parlava lui, però, era ione. L’amore vero dovrebbe durare di più di qualche battito di cuore. Se Romeo e Giulietta non fossero morti, non sappiamo come sarebbe andata a finire.»
«Babr, non credevo fossi così cinica», disse in tono di canzonatura.
«La realtà è sempre cinica, mio signore», risposi seria.
Annuì. «Potresti avere ragione, bambina.» Questa volta si girò a guardarmi bene. «Ma alla tua età dovresti avere una visione più rosea della vita. Quanti anni hai, diciotto?»
«Venti, mio signore, e molto presto ne compirò ventuno», risposi con una leggera irritazione nella voce. «Ciò non toglie che la mia vita, seppur breve, mi abbia insegnato a non vedere le cose in maniera così rosea. Se conoscesse la mia storia, lo capirebbe.»
«Potresti parlarmene.»
Non mi aspettavo che me lo chiedesse. Aprii e richiusi la bocca un paio di volte, come se fossi un pesce. Lui non rise, anche se io al posto suo lo avrei fatto. «Non credo di sentirmela, al momento», replicai infine.
Inclinò la testa da un lato. «‘Al momento’ è già qualcosa.» Le sue dita ingioiellate si poggiarono leggere sopra la mia mano sul ripiano di granito.
Non la spostai. «Al momento sono solo una sua schiava in un’oasi del deserto, e mi creda se le dico che vorrei essere da tutt’altra parte.»
«Ti credo», disse con dolcezza. Il suo viso si avvicinò pericolosamente al mio e fui investita dal suo profumo di vaniglia, cannella e forse noce moscata e miele d’api.
«Non la sposerò, mio signore», dissi in un sussurro senza distogliere lo sguardo.
Lui strinse la presa sulle mie dita. «Lo hai già detto», replicò con voce bassa e calda. Con un movimento lento si portò la mia mano alla bocca e la baciò. La ripose di nuovo sul granito e, facendomi un cenno di saluto con il capo, se ne andò, seguito dal felino.
Tirai un sospiro di sollievo profondo e mi morsi un labbro. In un'altra vita, lo avrei sposato quasi volentieri. Ma non avevo un’altra vita e quella che stavo vivendo si nutriva con i riflessi di due occhi di zaffiro, e nella speranza inesistente di andarmene via da là, un giorno. Non ero una di loro e non lo sarei mai stata.
Strinsi una statuetta a forma di cammello, chiedendomi se non stessi vaneggiando, se non mi stessi illudendo con il ricordo di qualcosa che in realtà non esisteva più. Per quanto mi sforzassi di non pensarlo, Dahaljer poteva benissimo essere morto, e per quanto ne sapevo, potevamo benissimo essere come Romeo e Giulietta, morti prima che la ione fosse diventata amore. O
magari lui era vivo e stava pensando ai fatti suoi, forse aveva deciso di sposare Danka. Quel pensiero mi procurò una stretta allo stomaco. Mi convinsi del fatto che lui non fosse affatto tipo da matrimonio e in realtà neanche lei. Poi però, impiegai tutte le mie energie mentali per non pensare a cosa potesse fare, o aver fatto, anche senza arrivare al matrimonio.
Mollai la statuetta, per non romperla o, molto più probabile, per non farmi male. Dovevo solo contare sull’idea di dover andare via da là e tornare a Roma; se solo avessi saputo come! Ero in un luogo troppo lontano e nessuno mi avrebbe aiutata, come avrei fatto a superare il deserto e come avrei potuto superare il mare? Ero in trappola, né più né meno. Sarei stata là per tutta la vita a danzare per un sultano che avevo rifiutato più di una volta.
49
Da quando ero in quel posto non avevo mai visto una nuvola, scrutai il cielo come se cercassi qualcosa. Non lo stavo facendo e mormorai tra me una preghiera, dicendomi che se un giorno avessi dimenticato la mia lingua, non avrei mai scordato le preghiere che Madre Brìgit mi aveva insegnato, tanto ormai facevano parte di me. Le portavo dietro come portavo i miei occhi particolari, solo che quelle le conoscevo solo io e nessun altro.
Nelle Terre d’Oriente, come in tutta Nuova Terra dopo il Grande Terremoto, la religione era un fatto personale, per quanto poi potessero esistere monaci, preti, suore o qualsiasi altra figura dedita alla preghiera e a dettami vecchi come il mondo. Non esistevano gerarchie, eri sacerdote o non lo eri, seguivi i sacramenti oppure no. Il credo, la fede andava oltre.
Il Sultano di Nayband nutriva un forte interesse per le culture buddiste, benché fosse cresciuto in una cultura vicina all’islamismo, tuttavia non professava nessun credo, non in pubblico almeno. Si dimostrò l’uomo attento e cortese di cui mi aveva parlato Maryām, e si dimostrava intelligente e pacato, più di quanto io avessi immaginato.
Ma Terra d’Oriente era composta da sultanati che gestivano tutto il suolo che andava dal Mare degli Urali al Mare del Vietnam, a est, e chi comandava mi aveva detto una volta Tagron doveva essere un po’ pazzo. Cercavo la pazzia in Shiire Raja e la trovavo nelle sue piccole contraddizioni.
Era un uomo comprensivo, gentile, interessato all’arte e ai problemi delle
persone che vivevano nel suo piccolo impero. Era anche figlio della sua cultura e trattava spesso donne e sottoposti dall’alto della sua carica; mi domandavo spesso se fingesse.
Latha, che era la donna più influente che lui avesse accanto, si aggirava nel palazzo serva e sicura e la osservavo di sottecchi quando si incontrava con il marito, che lavorava per il sultano, scambiando delicate effusioni.
«Latha», la chiamai una sera, quando nel palazzo non c’era nessuno da servire. «Perché il sultano non ha sposato donne come te? Con la tua cultura e la tua intelligenza.»
«Vuoi dire che le mogli di Shiire Raja sono stupide e ignoranti?» mi rimbeccò, sorridendo.
Sollevai le spalle imbarazzata. «No. Non le conosco neanche bene, in realtà. Ma non sono come te, si vede.»
«Bambina», disse con dolcezza. «La nostra cultura è fatta di quello che vedi. A noi donne è concesso quasi quanto agli uomini, ma non per tutte è così. Appartenere a un sultano per contratto matrimoniale, vuol dire avere molto di più e molto di meno. Donne come me, cresciute con l’interesse per gli studi e con una famiglia alle spalle in grado di mantenerle, non hanno nessun interesse a sposare un uomo da condividere con altre donne e tanti altri impegni. Di rado i sultani si sposano per amore e di solito questo non avviene mai con la prima moglie.»
«Vuoi dire che i sultani sposano donne più sempliciotte perché sono le uniche
disposte a farlo?»
Lei annuì. «È un po’ triste, in effetti.»
«Sì, lo è.»
Mi diede un buffetto sulla guancia. «Però, se io fossi in te, penserei alla proposta di Shiire Raja.»
La guardai sorpresa e cercai di cambiare argomento. «Da quanto sei sposata?»
Lei fece un sorriso, quasi timido e avrei detto che le gote le si fossero arrossate, ma non c’era molta luce. «Da dodici anni.»
«Dodici anni? E tu quanti ne hai?» domandai stupita. «Se posso», aggiunsi per cortesia.
«Trentasei. Conosco Rashid da quando avevo diciannove anni, ci siamo sposati quando ho finito gli studi. Lui non è perfetto, ma va bene così.»
«Lo vedo», commentai. E lo vedevo davvero.
Le volte in cui li osservavo insieme, trovavo che fossero così affiatati da
sembrare fratello e sorella, se non fosse stato per quei baci morbidi e apionati che si scambiavano, quando pensavano di non essere visti. Li vedevo discutere e poi fare pace, parlare di cose serie e poi giocare a dadi come bambini.
Ero felice per loro, mi piacevano e spesso mi mettevano di buon umore, tuttavia a volte provavo una fitta di dolore che, inattesa, mi colpiva nel petto.
Non conoscevo le altre due mogli del Sultano di Nayband e pensavo che prima o poi ci avrebbero raggiunti ad Ammanir, invece non venivano mai e a volte anche le altre due sparivano tornando a Nayband.
Non c’erano quando lui mi mandò a chiamare. Maryām mi scoccò un’occhiata allarmata, mentre le lasciavo il narghilè da riempire. Scortata da una silenziosa guardia del corpo, raggiunsi uno dei terrazzi più alti del palazzo.
Si affacciava sul lato ovest ed era invaso da una magica luce del sole al tramonto. Sul limitare della balconata, sul soffitto erano appese piccole pietrine di vetro dalle mille sfaccettature, che catturavano i raggi del sole e li riflettevano in un’infinità di arcobaleni, che danzavano su tutto ciò che li circondava seguendo una leggera brezza del vento. La sconvolgente bellezza di quel momento sembrava il frutto di una magia.
«Bello, vero?» Il sultano mi raggiunse e fece cenno alla guardia di andare, mentre la sua elegante pantera mi scivolava accanto emettendo un leggero sbuffo, che forse solo le mie orecchie non Umane avevano sentito.
«Sì. È bellissimo», dovetti concordare.
Indicò un divano damascato. «Accomodati.» Era un ordine, cortese, ma pur sempre un ordine.
Esitai un istante, poi ubbidii. Si sedette accanto a me e mi offrì un bicchiere, pieno di un liquido giallo.
«Succo d’ananas. Latha sostiene che lo adori», spiegò, serafico.
Lo presi, chiedendomi se non stesse cercando di comprarmi con un succo d’ananas.
Il sole gli colorava la pelle, più scura della mia - anche ora che ero abbronzata con una bella tinta color cannella. I piccoli riflessi di arcobaleno vagavano su di noi come una carezza. Nell’aria c’era il profumo intenso e pungente di incenso e citronella.
«Non sono riuscito a trovare una versione delle Mille e una notte nella tua lingua», disse guardandomi bere con la cannuccia. «Ma posso leggerti qualche parte e tradurla.»
Sorrisi divertita. «Perché?»
«Perché è un bel libro e tu lo dovresti conoscere. La sai la sua storia?»
«Sì. C’è una tizia che sposa un re che uccide tutte le sue mogli dopo la prima notte di nozze, però lei gli racconta le storie e si salva, perché alla milleunesima storia lui è ormai innamorato di lei. O qualcosa del genere.»
Shiire Raja scoppiò a ridere. Aveva una bella risata. «Decisamente riduttivo», commentò bonario.
Mi strinsi nelle spalle, continuando a bere il mio succo.
«Ci sono molte storie dentro, parlano di furbizia, di amore, parlano anche dell’intelligenza delle donne, sai? Inoltre vorrei riprendere con te anche il discorso su Shakespeare. Insomma, poniamo che tu abbia anche ragione su Romeo e Giulietta, lui non ha scritto solo di loro, e tu dovresti cercare di essere più serena.»
Sollevai un sopracciglio. «Mio signore…»
«Ah, quasi dimenticavo», mi interruppe. «Questo è per te.» Mi porse una statuetta che raffigurava un elefante, era dura e liscia e aveva uno strano colore: striature di nero mischiate con diverse intensità di verde, verde chiaro, verde scuro, verde acqua, tutti molto forti.
Poggiai il bicchiere sul tavolino di vetro accanto a noi e la presi. Lui sfiorò le mie mani, ma solo per piegare un pochino l’animale così che potessi accorgermi di come era il suo dorso.
Un punto centrale quasi nero, un cerchio intorno verde acqua che si stemperava in un verde smeraldo e poi di nuovo nero.
«Questa pietra è la malachite. Come i tuoi occhi.»
Mi sforzai di chiudere la bocca, che avevo aperto come una sciocca. «È… è davvero stupenda», mormorai. E non sapevo che altro dire, aveva un colore bellissimo, tuttavia non era solo quello. Sollevai lo sguardo e lo incrociai con il suo. «Grazie. Io… veramente…»
«Non dire niente.» Aveva usato un tono troppo basso e caldo. Mi accarezzò il viso con una mano.
A disagio, mi scansai appena. «Mio signore, lei sta tentando di…» Non trovavo le parole giuste.
«Di corteggiarti?» concluse per me. Non avrei usato la stessa parola, forse avrei usato un più familiare ‘rimorchiarti’, tuttavia quella era perfetta.
Annuii.
«Sì, lo sto facendo.»
Scossi la testa e riconsegnai l’elefante. «Non posso.»
Non lo prese. «Lo so. Ma vorrei che la tenessi lo stesso.»
«No. Mi legga le favole se vuole, la starò a sentire, anche per mille e uno notti. Ma non posso accettare i suoi doni.»
Poiché non si decideva a prenderla, la poggiai sul ripiano di vetro del tavolino.
«Mi dispiace», disse. «Te l’avrei regalata lo stesso.» Sembrò riflettere su qualcosa. «Per quanto riguarda le favole, lo farò; quando avrò tempo ti chiamerò e te ne leggerò qualcuna o qualche verso al suo interno. Se tu lo vuoi. Lo vuoi?»
Lo volevo? In realtà non lo sapevo, l’idea mi piaceva tuttavia…
«Shayl’n, dove sei cresciuta tu, a Roma, in quelle terre c’è la culla della Divina Commedia, sai che non ho mai avuto il piacere di leggerla tutta? Qui da noi non esiste una versione completa. A me piacerebbe leggerla e mi piacerebbe se qualcuno potesse farlo per me, però se io leggerò qualcosa a te, sarà solo se tu lo vorrai.»
Mi morsi un labbro. Mi sembrava di avere a che fare con un bambino alle prime esperienze, non potevo dargli nessuna possibilità, eppure mi dispiaceva dirgli di no. Con qualche esitazione, acconsentii.
Ritrovai l’elefantino di malachite sul letto e io mi ritrovai a are con il Sultano di Nayband più tempo del previsto. A suo onore devo dire che non fece
mai altro che tradurmi il testo o parlare di qualcosa che gli interessava - e gli interessavano un sacco di cose - non c’era mai nulla di più. Lo guardavo stupita, eravamo molto diversi, per tantissimi motivi e non riuscivo a conciliare l’uomo amante della lettura e delle arti con l’uomo che forniva armi ai Tiouck in cambio di denaro sonante o di Dio solo sa cos’altro.
A volte provavo il desiderio irrefrenabile di parlargli, di raccontargli di me, di chi ero o di chi ero stata. Nonostante tutto, quando ero sola con lui, sognavo che mi abbracciasse e stesse a sentire la mia storia, volevo dirgli di Nilmini, di Madre Brìgit, del dolore di morti e feriti, del freddo insopportabile dell’inverno nelle terre del Nord. Volevo dirgli che ero stata tradita da un amico e che ne avevo visto morire un altro che mi avrebbe uccisa. Volevo parlare delle mie ferite sparse su anima e corpo. Visto che ci pensavo più spesso di quanto ammettessi, volevo anche chiedere di Jean David. E volevo raccontargli di Dahaljer, di quello che provavo per lui.
Poi però il ferro sbatteva sul polso o sulle caviglie o serrava la mia gola se facevo un movimento sbagliato e allora stringevo i denti e tenevo tutto per me. Mi era venuto in mente di dirgli che, per la prima volta in vita mia, avevo la sensazione che il mio corpo volesse trasformarsi. Sono un lupo, un lupo con il mantello di una tigre, ne ho bisogno. Invece non ne facevo mai parola. Con nessuno.
Andavo sui terrazzi, nelle sue camere private - mai nella sua camera da letto - e discutevo con lui di ciò che voleva, fingendo di essere una schiava spensierata. Ballerina del sultano, era la vera etichetta che mi mancava, ma dama di compagnia forse era più appropriato.
Per onestà, fui costretta a dirlo a Maryām, tuttavia fui chiara con tutti su quali fossero le mie intenzioni o forse su quali non fossero.
Non ero intenzionata a sposare nessuno. Se non desideravo essere da qualche altra parte o con altre persone, c’era una bambina a preoccuparmi, una madre in attesa e c’era solo una persona che volevo al mio fianco.
‘I miei occhi hanno davanti la tua immagine, le mie labbra dicono il tuo ricordo, e il mio cuore ha sepolto nel profondo l’amore di te: tu non puoi svanire!’ Così diceva uno dei versi delle Mille e una notte.
50
La metà della primavera arrivò dopo qualche giorno di pioggia. Non credevo che in quei posti potesse piovere davvero, invece aveva piovuto forte e tirato un vento caldo e appiccicoso. Per l’inizio delle vacanze del sultano e la festa ufficiale che le segnava, erano arrivate anche le sue due mogli, solo quelle che conoscevo. Le altre due non avevano piacere a uscire da Nayband e non piaceva loro girare insieme al marito che non sembrava stare mai nello stesso posto per troppo tempo. Lui le lasciava libere di scegliere, anche ora che sarebbe rimasto per due mesi ad Ammanir.
Continuavo a non capire le loro usanze e tradizioni o quello che erano.
Maryām mi richiamò all’attenzione, studiando i vestiti che Latha ci aveva lasciato sui letti. «Sono due pezzi», disse indicandoli. «Li metterai?»
Li guardai. Sapevo perché mi stesse facendo quella domanda: la parte sopra era un top che ci teneva scoperta la pancia, avrebbe messo in bella mostra la mia cicatrice. Sbuffai. «Chi li ha scelti?»
«Non lo so», rispose meditabonda.
«Li ha scelti il sultano», ci informò Aisha, una delle nostre compagne di stanza, nonché una delle ballerine, serve e schiave di Shiire Raja. «Io li trovo belli.»
Maryām mi guardò. «Mi dispiace.»
Scossi la testa. «Meglio, almeno gli piacerò ancora meno.»
«Non vuoi proprio ingraziartelo», commentò lei - ripeté la parola più volte, invero, e la spiegò perché non la conoscevo nella sua lingua.
Ci aiutammo nella preparazione, drappeggiandoci a vicenda le stoffe. Indossai il mio vestito. Era rosa, un rosa intenso non molto chiaro, con dei fiorellini verde acqua e dei ricami argentati che si intrecciavano tra loro, formando linee floreali. Era un tessuto leggero e morbido sulla pelle.
Allo specchio osservai la mia cicatrice bianca per qualche secondo, pensai che potesse essere un bel deterrente. Era il vestito che avremmo usato per ballare quella sera, alla festa che il sultano dava per iniziare le sue vacanze ad Ammanir in modo ufficiale. Ci sarebbero stati molti ospiti e forse lui si sarebbe vergognato un po’ di quel segno sulla mia pelle.
Avevamo abbinati i mantelli e i turbanti che avremmo indossato durante la cena e pensai che Shiire Raja avrebbe visto solo all’ultimo la mia cicatrice. Trattenendo più di un sospiro, con le ragazze ci dipingemmo le mani con l’henné, e le unghie di mani e piedi con lo smalto. Una serie di braccialetti colorati addobbava le nostre braccia. Ne fui contenta perché coprivano i miei cerchietti di ferro. Infine una cinta, fatta di piccole monetine, scendeva intorno alla vita, sui veli leggeri.
Quando l’intero palazzo era al culmine dei preparativi, e vedeva gente di ogni tipo affaccendarsi e correre su e giù per le scale e fuori nei giardini, sistemammo anche i nostri capelli, con perline argentate per alcune di noi e dorate per altre. Misi il kajal sugli occhi e mi rifiutai di mettere il mascara, che mi innervosiva. Applicammo sulle nostre fronti delle pietrine piatte e appiccicose a formare una linea in mezzo alla fronte che terminava in una goccia un po’ più grande poco sopra le sopracciglia. La mia era di un verde smeraldo che richiamava in parte le cuciture della stoffa del mio vestito e in parte il colore dei miei occhi. Devo ammettere che Shiire Raja, perché sapevo che era stato lui, faceva attenzione a diversi particolari.
La cena per la festa si teneva in uno spazio esterno, tra i giardini, che non avevo notato. Era un piccolo affossamento nella terra con lastre di marmo bucherellato, che sembrava formare l’interno di una piscina a gradoni. Al centro di quello spazio, c’era davvero una piscina, non molto grande, che aveva l’acqua azzurra illuminata dalle luci interne. Da una parte c’erano tavoli e sedie e subito accanto le pietanze che avremmo servito, dall’altra vi era un piccolo recinto con a terra la sabbia, che attirò la mia attenzione più di una volta, poiché non ne capivo il significato. Volevo chiederlo a Maryām, ma non riuscivo a trovare un attimo per farlo e per capire poi l’eventuale risposta. Vicino ai tavoli c’erano dei tappeti rossi, dove sapevo avremmo ballato, e subito alla fine i nostri musicisti, con due cantanti donne e un uomo.
Quando iniziarono ad arrivare gli ospiti, il sole era tramontato, nel cielo c’era solo qualche resto del giorno e nei giardini bruciavano torce di tutte le dimensioni. Nell’aria si diffo il profumo di oli bruciati e cibo raffinato, mentre i musicisti suonavano musiche leggere e spensierate.
Erano presenti almeno una quarantina di persone, tutte vestite in modo elegante, orientale, a parte un paio di uomini che indossavano completi con giacca e cravatta.
Per la fortuna di tutti noi spirava una brezza leggera, che muoveva i salici piangenti alle nostre spalle in un fruscio sommesso. Le stelle brillavano in cielo e più di una volta mi imposi di non sollevare lo sguardo. Tintinnavo a ogni minimo movimento del corpo e seguivo le altre per servire gli invitati.
Oltre a noi c’erano una dozzina di altri servi, tra domestici e camerieri.
Shiire Raja mi afferrò più di una volta tirandomi dietro di sé e presentandomi a qualche suo invitato, seduto ai tavoli o spaparanzato su un divano di vimini, tra i cuscini infiniti; mi mostrava come l’ultimo acquisto, mi faceva sentire un oggetto o un cavallo. Non so per quale motivo mi trattenni dal rispondere male a ognuno di loro, lui compreso. Gli occhi di Maryām erano fissi su di me e mi sentivo in colpa.
Le sue due mogli parlottarono tutto il tempo, con il velo sul viso e gli occhi saettanti e attenti. Mi domandai che cosa avessero da parlare due donne, mogli dello stesso uomo. Io non avrei mai accettato una cosa del genere.
Quando la cena stava volgendo a termine e rimanevano da servire bevande e dolci, ci alternammo nelle nostre danze, così come ci era stato insegnato. Pensai che a Praha fosse stato molto più difficile, nonostante avessi qualcuno che mi guidasse. Ballai senza pensare, isolando la mente e concentrandomi sulla musica. Volteggiavo leggera, fingendo di non essere mai stata meglio di così.
C’era solo una cosa che mi perseguitava nel mio tentativo di danza spensierata: erano gli occhi scuri come il mare di notte del Sultano di Nayband. Per quanto mi sforzassi di non guardarlo, di non guardare niente a dire il vero, mi accorgevo di incontrare il suo sguardo più di quanto volessi e se me lo ritrovavo di fronte non riuscivo a distogliere il mio.
Dopo il quarto ballo, e dopo aver servivo una tisana a base di cannella, mentre due nostre compagne di stanza danzavano una musica ritmata, Shiire Raja mi raggiunse su un angolo del prato, dove lasciavamo le caraffe vuote.
La mia pelle era ricoperta da uno strato di sudore misto all’olio di gelsomino persiano che avevamo messo dopo il bagno. Ma la sua mano mi prese sicura ed ebbi un brivido, non proprio di freddo.
Il mio corpo sapeva quanto, nella totale irrazionalità, quell’uomo mi pie. Non provavo nulla per lui, se non una vaga ammirazione per la sua personale cultura e per i suoi modi di fare eleganti e diversi dagli uomini del suo popolo e forse anche dagli uomini del mio popolo. Tuttavia a volte il corpo risponde a stimoli inaspettati. Dahal, Dahal, dove sei?
Mi voltò verso di sé e mantenni lo sguardo basso. «Ti prego», sussurrò. «Non guardarmi così o dovrò pensare che tu abbia cambiato idea riguardo la mia proposta.»
Evitando di mordermi una guancia, mi sforzai di alzare gli occhi su di lui e, non riuscendo a mentire, dissi l’unica cosa di cui ero sicura. «Non la sposerò, mio signore.»
Le sue dita sfiorarono la mia cicatrice per nulla intimorite ed ebbi la sensazione che quel tocco, su quel punto, bruciasse come ferro rovente. La sua mano scivolò dietro la mia schiena e mi attrasse a sé. Sprofondò la sua bocca barbuta sul mio collo tenendomi stretta per la vita. «Sei bellissima», mormorò al mio orecchio in iuropìan. «Posso dirtelo?»
«Lo ha appena fatto, mio signore», risposi e, con estrema facilità -perché lui era solo Umano e io no- mi liberai della sua stretta. Sorrise, con dolcezza, e io risposi meccanicamente al suo sorriso, poi mi defilai.
Se ballare continuò a essere semplice, cercare di non pensare divenne difficilissimo. Dahal, Dahal, dove sei? Iniziavo a essere stanca e non sopportavo le occhiate che Maryām mi lanciava di continuo; più di una volta dovetti tenere a freno la lingua per non dirle qualcosa di cui mi sarei pentita.
Per fortuna l’attenzione degli invitati si concentrò sul recinto che avevo visto più volte nel corso della serata e pian piano si spostarono, sedendosi sui gradoni, rivestiti di morbidi tappeti. Latha ci disse di seguirli e servire bevande, qualora ci fosse stato richiesto.
Stavo versando del vino freddo, quando iniziò uno spettacolo che non avevo previsto. Sulla sabbia, due grosse pantere si stavano fronteggiando, digrignando i denti. Si saltarono addosso, con uno slancio aggressivo, e la bottiglia di vino tremò nella mia mano.
Guardai gli spettatori e osservai le loro facce rilassate e incuriosite. Erano le stesse facce che poco prima stavano guardando noi e che ora si beavano di quella scena raccapricciante.
Lasciai la bottiglia su un tavolo e raggiunsi Shiire Raja che era seduto a terra, poggiando la schiena su un gradone, accanto a un uomo che vedevo per la prima volta. La sua pantera era seduta accanto a lui.
«Che cos’è?» chiesi nella mia lingua, in un tono tanto duro da suscitare l’attenzione del suo ospite.
«Un combattimento», rispose pacato.
Lo guardai torva. «Questo lo vedo, ma…»
«Shayl’n, siediti», mi ordinò perentorio e io, come una sciocca, presi la mano che mi stava porgendo e mi sedetti accanto a lui, nonché accanto alla sua pantera. «Sono anni, forse secoli che fanno questi combattimenti. Non sarò io a cambiarli.» Indicò l’uomo che si muoveva con attenzione all’interno del recinto. «La sua famiglia fa questo lavoro da generazioni.»
«È una cosa barbara», sibilai, sentendo i ruggiti e gli incitamenti.
«C’è qualcosa che non lo è qui, per te?» mi domandò pacato.
No. Non c’era.
Anche se oggi non ne sono più sicura.
Mi resi conto che la mia mano era sotto la sua e sopra la sua gamba e la ritirai infastidita. Rimasi seduta a guardare lo spettacolo, a braccia conserte, cosciente del fatto che le altre stessero ancora servendo. Ed ero cosciente dello sguardo incuriosito di Latha e dello sguardo rabbioso di Maryām, quanto del corpo
rilassato del sultano accanto al mio e del respiro caldo della sua pantera, che si perdeva sulle mie caviglie. Stavo però pensando a tutt’altro.
Stavo pensando alle Tigri Bianche e ai Lupi Grigi, stavo pensando alla neve azzurrina sotto il sole d’inverno. Pensavo alle mie cicatrici, a dove ero finita, a come ci ero finita.
La mia mente, arrabbiata e frustrata, si perdeva nei ricordi, mentre gli occhi seguivano i combattimenti, registravano i salti felini, i denti bianchi e il rosso vermiglio del sangue. Pensavo a Dahaljer e pregavo che ovunque fosse mi venisse a prendere, volevo che mi portasse via da là, volevo che mi portasse in qualsiasi posto di quel maledetto mondo dove nessuno ci conoscesse. Lo volevo con tutta me stessa, mentre tenevo i pugni serrati, poggiati a terra, accanto ai miei fianchi.
Fu così che, dopo una serie infinita di combattimenti, non mi resi conto della tigre che era entrata ruggendo nel recinto. Per più di un attimo, mentre il pubblico parlottava e l’uomo dentro il recinto gracchiava parole che non riuscivo ad afferrare, pensai di sognare.
C’era una tigre bianca nel recinto, legata a una lunga catena di metallo e, dopo un primo momento, si era avventata sulla pantera dal pelo nero e lucido. Le loro zanne affondavano nella carne con un impressionante rumore di strappo. Si muovevano con estrema eleganza, danzavano nell’aria, ruggivano, soffiavano e attaccavano, inesorabili. Mi riscossi quando mi resi conto dello sguardo di Shiire Raja su di me.
«Forse questo non lo dovresti guardare», azzardò a mezza bocca.
«È una Tigre Bianca», dissi priva di intonazione e, benché non fosse una domanda, lui mi rispose di sì con una nota preoccupata nella voce.
Il cuore iniziò ad accelerare i battiti, fino a che non riuscii a sentirmeli pulsare nelle orecchie e mi accorsi che potevo avvertire tutta l’aggressività e l’ostilità della bestia bianca. Tuttavia non riuscivo a sentire di più, o bianco o nero, nessuna sfumatura.
Mi alzai, seguita dallo sguardo della pantera e del suo padrone. Con o incerto raggiunsi la parte posteriore del recinto e mi appoggiai a un albero.
“Chi sei?” Chiedevo con la mente, ma sapevo che non mi avrebbe potuta sentire, solo una Tigre gerarchicamente pari a me o più su di me, avrebbe potuto sentirmi. Dahal, Dahal, dove sei?
Guardai l’animale mettere a terra tutti i suoi avversari, con violenza e disperazione, fino quasi a ucciderli. Veniva fermata dagli uomini che la pungolavano con le lance appuntite e provavo pena per lei.
Stava lottando con due pantere. Quando si attaccano tra loro non lo fanno ferendosi fino a sanguinare eppure la tigre aveva il mantello sporco di sangue e terra, su di lei si notava in maniera evidente per via del contrasto. Il pelo nero delle altre due bestie luccicava sotto la luce delle torce, tuttavia era solo il riflesso a tradire quelle macchie. Una delle due pantere era sdraiata a terra e uno degli uomini la spinse via.
L’altra pantera e la tigre si guardarono, le zanne affilate erano lunghe fuori le bocche. Studiandosi, soffiarono, spostandosi entrambe sul lato destro, senza
smettere di fissarsi. Più di una persona le incitò. Mi domandai se avessero mai pensato ad attaccarsi a vicenda, in un diverso contesto, se non obbligate.
La tigre fece due i indietro, appiattì il capo e saltò verso la pantera nera. Ruggirono tutt’e due con un suono che echeggiò in tutto il giardino. Si sollevarono entrambe sulle zampe posteriori e con quelle anteriori sembrarono abbracciarsi, ma le bocche erano spalancate. Sembrarono danzare per alcuni minuti in movimenti velocissimi. La pantera si ritrovò sotto la tigre, supina, e con le zampe sembrava volerla scacciare, le code frenetiche alzavano la polvere. La tigre riuscì ad afferrare l’altra bestia e i due animali si immobilizzarono. Non usciva sangue, nonostante avvertissi un parossismo di aggressività indescrivibile provenire dalla tigre. Ignoravo se a fermarla era il suo essere umana o il suo essere animale.
Due uomini la pungolarono con le lance, la tirarono con la catena e lei lasciò la pantera nera ruggendo nella loro direzione. L’altra si alzò e attaccò di nuovo. E lottarono ancora a lungo, la tigre era più forte, nonostante fosse dentro quel recinto da diverso tempo. La tigre era una Tigre Bianca, sapeva cosa diceva il pubblico e, portata ogni volta fino all’eccesso, concludeva i suoi attacchi affondando le zanne nel corpo dell’altro animale, allora la fermavano.
Mi stringevo l’addome con le braccia come se avessi avuto un forte mal di pancia, senza riuscire a staccare lo sguardo dell’interno del recinto.
Perché non si trasformava?
Perché non tornava in forma umana?
Poi, non so in quale modo, lo spettacolo finì. Il pubblico soddisfatto applaudiva e sorrideva, si alzava e si muoveva. La Tigre Bianca veniva immobilizzata e tre uomini si agitavano su di lei, che ruggiva.
Le infilarono una sorta di muola di ferro sul muso, che sbatteva sul naso rosato.
Le fecero i complimenti, come se stessero parlando a un grosso gatto e le accarezzarono il manto macchiato di sangue, con pacche amichevoli, alle quali lei rispondeva mostrando le zanne - molto lontana dall’essere amichevole mentre la trascinavano con delle corde. Claudicante, la bestia si fece portare fuori dal recinto. Potevo sentire tutta la sua ostilità e un vago senso di sottomissione. Sottomissione a chi? A quegli uomini che la stavano trattando come un oggetto poco più che animato. O forse a me, per la mia natura.
La tigre camminava a testa bassa, poi, a cinque metri da me, sollevò il muso come se si fosse accorta della mia presenza. I miei occhi si incontrarono con i suoi occhi tristi, azzurri come il cielo al tramonto, e io persi più di un battito nel petto.
51
Seguii la tigre e le pantere mentre le trascinavano nella parte posteriore dei giardini e scoprii che c’erano delle gabbie, poste lungo il muro di cinta e nascoste da una serie di siepi. Latha non ce ne aveva parlato.
Attesi che gli uomini sistemassero gli animali, ripulendoli e dando loro da mangiare - nessuno ripulì la Tigre - e poi, dopo che se ne furono andati, sgattaiolai tra le sbarre. I cancelli erano chiusi con dei semplici chiavistelli, tre per ogni cancello e nessuno di quelli aveva un lucchetto.
Avevo il cuore in gola e mille domande.
I miei piedi nudi si mossero silenziosi sulla terra polverosa, solo il tintinnio dei miei vestiti e delle mie cavigliere tradiva la mia presenza. Tirai i chiavistelli che rinchiudevano la Tigre Bianca, cercando di non fare rumore, e mi infilai dentro.
Mi avvicinai silenziosa e percepii la sua ostilità prima che lei si ritraesse da me. Ricordai che l’ultima cosa che mi aveva detto era che da me non voleva niente.
«Dahal», tentati, la voce tremolò.
Nessuna risposta.
Mi accucciai a terra a un paio di metri da lei. Non riuscivo a sentire nulla dell’uomo che amavo, tranne la sua ostilità. Sdraiata a terra leccava l’acqua da una grossa ciotola bassa.
Per una manciata di secondi, mi chiesi se fosse davvero lui. Portava la muola, tuttavia conoscevo la forza degli artigli della tigre, perché ne portavo i segni sul corpo. Ci avrebbe messo poco a uccidermi o a ridurmi in brandelli. Quella bestia aveva messo a terra tutti i rivali solo qualche tempo prima che io mi ritrovassi accanto a lei. Non ho mai saputo se riuscisse a percepire la mia paura, che non stavo nascondendo. Se non si fosse trattato di Dahaljer, Tigre Bianca o meno che fosse, avrei avuto molte probabilità di morire alla mia prossima mossa.
Però i suoi occhi si voltarono a guardarmi. “Che ci fai qui?”, domandò.
Mi rilassai. “Potrei chiederti la stessa cosa. Lo sai perché siamo qui.”
Inclinò la testa. “Devi usare la voce per parlare o non ti sentirò.”
Sgranai gli occhi. «Cosa? E perché?»
“Perché non siamo più sullo stesso livello di gerarchia.”
«Perché?» chiesi ancora.
“Pensavo che non ti avrei più vista.”, ribatté senza rispondermi.
«Io…» Poggiai le ginocchia a terra e mi sedetti sui talloni. «Io neanche. Io pensavo fossi morto o… Dahal, perché non ti trasformi?»
“Non posso. Tagron mi ha infilato dei ferri nella cassa toracica, se mi trasformassi, mi bucherebbero il torace.”, spiegò.
Spalancai la bocca. «Mio Dio!»
“Vedo che neanche tu puoi trasformarti.” Doveva aver notato i miei cerchietti di ferro.
Scossi la testa, lentamente. «Tagron ti ha venduto?»
Un’espressione di dolore ò sul suo muso. Ero stata tradita da una persona che per qualche mese avevo considerato un amico, lui era stato tradito da un uomo che per anni aveva considerato un padre.
Aveva una ferita aperta dietro l’orecchio e il mantello intriso di sangue. Lanciai un’occhiata a degli stracci e li andai a prendere. Li bagnai con il tubo dell’acqua con cui riempivano la sua ciotola e tornai da lui, che si spostò appena, come a scansarsi.
Mi inginocchiai di nuovo e mi morsi un labbro. «Sei arrabbiato con me?»
Poggiò la testa tra le zampe.
«Dahal, mi dispiace, hai ragione. Io non pensavo che sarebbe successo tutto questo. Io…» Faceva male, troppo male. «Ho detto cose che non avrei dovuto dire e mi dispiace, perché non è vero che non ti avrei aspettato, è quello che ho fatto per tutto il tempo, anche… anche qui.» Tentai di nuovo di allungare la mano verso di lui. Rimase immobile, solo una vena di ostilità tra i suoi sentimenti. Se solo avessi potuto sentire altro.
La mia mano si poggiò su di lui, imbrattandosi di sangue e terra appiccicosa. Il cuore mi batteva forte e contemplai le dita sporche tra il suo pelo. «Dahal», sussurrai. «Non sono mai andata a letto con Pasha.»
Soffiò con un rumore appena udibile dalle mie orecchie non Umane. “Lo so. Forse l’ho sempre saputo. Ma tu… volevi ferirmi e ci sei riuscita.”
Chiusi gli occhi. «Sì, è vero. Mi dispiace.» Li riaprii e con l’altra mano, in un movimento lento, avvicinai lo straccio bagnato e lo ai sul suo mantello. «Io…»
“Anche a me.”, mi interruppe. “Se io…” Gli occhi brillarono come zaffiri nel guardarmi, aveva uno sguardo così mesto, che avrei potuto pensare che quello fosse il modo di piangere di una tigre. “Oh, Shayl’n, se solo io non me ne fossi andato, le cose non sarebbero finite così. Forse ora non saremmo qui.”
«Forse», ammisi. «Ma siamo qui e in parte è colpa di tutt’e due.»
“È vero. Io non so perché fossi così accecato dal re, lo ero così tanto da non poter vedere cosa faceva, se lo vedevo lo giustificavo. E tu, non lo so, tu facevi di tutto per rompere ogni meccanismo; quando ho scoperto che si erano accorti di noi ho pensato che fosse solo colpa tua, ma poi ho capito che non era così. Anche quella era colpa di entrambi.”
Scossi il capo. «No. Siamo colpevoli per altri motivi, non per questo, non per quello che provavamo e lasciavamo trasparire, ce l’abbiamo messa tutta. Abbiamo chiesto troppo.»
Restammo in silenzio, mentre lo ripulivo dal sangue, da quello più fresco e da quello più secco. Lo sciacquai e lo strofinai più volte, dopo averlo liberato dalla muola, e infine pulii la sua ferita, per quanto possibile.
Poi i suoi occhi tornarono su di me. “Stai bene qui?”, mi chiese osservando i miei vestiti.
«Diciamo che sono stata molto peggio», risposi. «Tu, invece, forse non sei mai stato peggio di così.»
Si alzò e si spostò in un punto più asciutto. “Vieni.”
Lo seguii carponi e mi sdraiai accanto a lui, che mi cinse in modo buffo con una zampa grossa e parte del corpo. Mi rannicchiai sotto di lui. «Grazie.» Chiusi gli
occhi ascoltando il suo profondo respiro poi li riaprii. «Dahal», bisbigliai. «Dahal, sei davvero tu? Non ti sto immaginando, sei davvero qui.»
“Non lo so, Shay, non lo so più chi sono.” Non era la risposta che avrei voluto sentire. “Sono solo una tigre costretta a combattere ed è quello che faccio.”
Spinsi la testa contro il suo pelo, pur respirando male, e cercai di rimanere in quella posizione.
“Dimmi di te, come sei arrivata qui. Raccontami tutto, da quando sono andato via.”
Lo feci. Gli raccontati di Pasha, di Tagron, dei Lupi Grigi che avevo ucciso, della nave, di Maryām e delle danze. Di quello che facevamo. Gli raccontai del Sultano di Nayband. Non tutto, però. Gli raccontai anche di Jean David, mio zio.
Lui raccontò di sé. Era a Kolov quando il re lo aveva preso con l’inganno. Gli aveva chiesto di trasformarsi e lui lo aveva fatto, poi aveva perso conoscenza. Quando si era ripreso, Tagron gli aveva spiegato perché non potesse tornare in forma umana e gli aveva detto che lo avrebbe venduto.
«Ma perché non posso più sentirti?» domandai.
“Te l’ho detto.”
«Lo so, ma com’è possibile?» ribattei, perplessa. «Basta che Tagron dica che tu non sei più il Capo Branco e tu non lo sei più?»
“Non proprio. Il punto è che il fatto che lui non mi riconosca più come tale, vuol dire che neanche gli altri mi riconoscono un Capo Branco e di conseguenza il potere mi è tolto dagli altri.” Spiegò. “È il branco a decidere chi è il suo capo e fare di lui una figura autoritaria. Non hai potere in questa società, se non sono gli altri a dartelo.”
Parlammo a lungo e quando gli occhi iniziarono a chiudersi, il cielo era già molto chiaro sopra le nostre teste, e il cuore aveva ripreso a battere silenzioso.
Due grosse mani mi afferrarono, tirandomi a sé, forse un’ora dopo. Sbattei le palpebre, mentre i miei occhi mettevano a fuoco due lunghe lance puntate sulla tigre. Un colpo di pistola colpì la bestia.
«No!» gridai.
Cercai di dimenarmi, mentre cadeva a terra.
«È solo sonnifero», disse qualcuno in arindo fuori la gabbia. Mi portarono fuori, controllando il mio stato di salute. «Come stai?» Due uomini mi squadrarono e un altro rimise la muola a Dahaljer.
Parlottarono in persiano tra loro, con facce stupite e con la coda dell’occhio vidi Latha correrci incontro.
«Ma come sei finita qui?» chiese nella mia lingua.
«Io…» dissi. Io cosa?
Mi osservò. «Dio misericordioso, sei tutta intera?»
«Sì…»
Scambiò qualche parola con gli uomini. «Vieni. Ti stanno cercando tutti e il sultano vuole vederti.»
Lanciai un’occhiata a Dahaljer, sdraiato a terra e la seguii stropicciandomi gli occhi. Mi portò nella stanza dove avevamo incontrato Shiire Raja la prima volta e mi intimò di non toccare niente e di non sedermi da nessuna parte, lasciandomi sola.
Lui arrivò con o veloce e mi osservò incuriosito. Dovevo essere uno straccio, non solo per i vestiti sgualciti e sporchi, ma anche per gli occhi arrossati e il trucco sciolto sul viso. Mi sentii a disagio.
«Dicono di averti trovata sotto la tigre. Intera», precisò.
Sbattei le palpebre con pesantezza. C’era profumo di pane appena sfornato
nell’aria e pensai che fosse dalla mattina precedente che non toccavo cibo. La sua onnipresente pantera sembrò fiutare lo stesso profumo.
«Tu riesci a essere affascinante anche in questo stato.» Tentò di farmi un complimento e con molta probabilità era sincero.
«Vaffanculo», mormorai accigliata.
Sorrise. «Però quando hai sonno sei di cattivo umore.» Mi prese per mano e senza badare al mio stato mi fece sedere su una sedia. Mi tolse le perline dai capelli e i braccialetti da polsi e caviglie. «Sai, nessuno riesce ad avvicinarsi a quella tigre, senza che lei attacchi. Il tuo re me l’ha venduta - e a un prezzo molto più caro del tuo - per farla diventare una mia guardia del corpo, al posto della pantera, ma nessuno è riuscito a farla ragionare, neanche dei Tiouck che sono venuti da queste parti. Hanno rinunciato e l’hanno usata per i combattimenti. L’ho pagata cara e l’ho dovuta cedere.» Mi guardò. «E tu riesci a entrare, pulirla, toglierle la muola e dormire tra le sue zampe.»
Non risposi.
Mi fece rimettere in piedi di nuovo e mi trascinò dietro di lui, uscendo da un’altra porta, un paio di corridoi che non conoscevo e mi ritrovai in una grande stanza da letto. Lui continuò a parlare della Tigre Bianca e di quello che avevo fatto; o almeno credo: non lo stavo ascoltando. Non mi guardai troppo intorno, perché ero assonnata. Mi indicò un’altra porta ancora e mi spinse dentro. «Fatti una doccia, ti aspetto.»
«Ma io…» Tentai di protestare. La porta si chiuse alle mie spalle. «…ho sonno»,
dissi a me stessa.
Con gli occhi mezzi chiusi, mi spogliai e mi lavai. Mi guardai intorno solo per cercare il sapone e lo shampoo. E quando uscii, cercai solo qualcosa da mettermi. Poiché non c’era nulla, se non i miei vestiti di danza sporchi, misi un accappatoio bianco e con i capelli bagnati uscii dalla stanza.
Shiire Raja mi venne incontro, seguito dal felino. «Una bella doccia non ti ha svegliata?»
«No.» Ed era vero, avevo più sonno di prima.
«Va bene.» Mi guidò sul letto e l’unica cosa che notai era che fosse grande, molto grande. Quante piazze erano? Quattro? Mi gettai di peso e lui si chinò su di me. Mugolai qualcosa, scansandomi.
«Non ti faccio niente, Shayl’n, lo sai.» Però le sue labbra barbute scesero a baciarmi una guancia. «Dormi quanto vuoi», disse e mi lasciò sola.
Dormii quanto volevo e mi rialzai quando il sole stava tramontando. Mi misi a sedere e mi chiesi cosa stesse facendo Dahaljer, mentre io me ne stavo in accappatoio sul letto del sultano.
C’era uno dei miei vestiti accanto a me, qualcuno doveva averlo portato là. Sperai non fosse stata Maryām, o magari una delle mogli di Shiire Raja. Incrociai le gambe e poggiai il viso tra le mani, pensando a cosa avrebbe
fantasticato la gente sul fatto che avessi dormito là. Mi augurai che nessuno lo avesse saputo, o per lo meno che avessero visto Shiire Raja in giro per tutto il giorno.
Uscii dalle tendine della zanzariera del baldacchino e mi guardai intorno. Quella sì che era una bella camera. C’era troppo oro per i miei gusti, ma nell’insieme era elegante, completa e non esagerata - a parte il letto - e per essere la stanza da letto di uno dei Sultani d’Oriente, era confortevole. I tappeti rossicci erano a terra e lungo le pareti, e i vasi erano nel campo visivo dovunque ci si girasse, contenevano piante diverse tra loro, tutte verdi e dai fiori brillanti.
Dietro il letto, sulla parete, erano incisi in un bassorilievo una serie di elefanti. Io, gli elefanti, ancora non li avevo visti.
Mi vestii in preda alla fame e uscii dalla prima porta che riuscii a trovare. Girai a vuoto non conoscendo la strada e poi mi ritrovai in giardino.
«Shayl’n.» Era stata Maryām a chiamarmi; mi voltai sorridente. Lei guardò la mia capigliatura, dovevo essere spettinata e con molta probabilità avevo qualcosa di simile a un cespuglio sulla testa. La raggiunsi. «Sono stata a danza», disse. «Tu… so che hai avuto una notte con la tigre bianca.»
Nella sua voce c’era un misto tra accusa e curiosità. «Sì, io…» Pensai in fretta. «Lei era insanguinata e nessuno si è preso cura di lei. Io sono una Tigre e così mi sono avvicinata e l’ho pulita. Tutto qui.»
Lei annuì. «Dimentico il fatto che tu sia una tigre.» I suoi occhi verdi sembravano rilassati e pensai che per lei il colore dei miei non fosse il significato
di nulla. Mi disse che erano state a lezione e che si stavano preparando per servire la cena. Della sera prima non mi disse nulla e io mi guardai dal chiederle cosa ne pensasse.
***
Riprese il discorso del matrimonio, quando in stanza, in un momento in cui eravamo sole, la stavo aiutando a indossare un vestito per la sera. Le stavo stringendo sul fianco una stoffa gialla dai ricami bordeaux, che doveva scendere con delle pieghe.
«Se il Sultano sceglie me, avrò una ragazza personale che si occuperà di fare queste pieghe.»
«E sarà molto più brava di me», commentai allegra.
«Non volevo dire questo», si scusò in fretta.
«E io non volevo che ti scusassi.» Misi in bocca una spilla da balia e rifeci la piega, affinché fosse tirata al massimo e nello stesso tempo cadesse morbida sui suoi fianchi.
«Speriamo decida presto», disse con voce lagnosa, mentre riprovavo a infilare il filo d’acciaio nel tessuto. «Sai, durante il viaggio di nozze, potrei andare a trovare i miei genitori.»
«Dove?»
«A casa. I suoi genitori sono di Tabriz e lui inizia da là il suo viaggio di nozze. Lo inizia già dal giorno dopo, la mattina presto parte con la moglie e le sue guardie e sta là un paio di giorni, così io potrei andare a trovare i miei genitori e mio fratello e sapere se ora sta bene.»
Tenni gli occhi fissi sulla spilla da balia. «Quindi attraversa il mare degli Urali?» domandai con finto disinteresse.
Lei mi guardò e mi chiesi se avesse intuito cosa mi frullasse nella mente. «Sì», rispose solo. Poi allungò una mano e sistemò un risvolto del mio vestito. «Kila mi ha detto che per il momento il sultano non vuole figli e se dovesse desiderarne, la prima a dover procreare sarà la prima moglie, come di consueto.» Finse di tossire. «Non credo di essere pronta ad avere figli, ma se mi sposa, non avrò di questi problemi, per ora.»
Drizzai la schiena e incrociai il suo sguardo. «Ti piace il sultano?»
Alzò le spalle. «Non lo conosco. Di fisico non sembra male, anche se a me piacciono i biondi slavati.» Ridacchiò, poi il viso le si colorò di rosso. «A Tabriz c’è la prima vera notte di nozze. Là i suoi genitori hanno un posto grande quasi quanto questo, sul mare, e tutto viene preparato per quella notte, così è come se fossi a casa per quell’occasione, sarebbe bello.» Fece una pausa guardandosi allo specchio. «Shayl’n, tu lo hai fatto con il tuo Daljer?»
Mi sedetti sul mio letto fingendo di sistemarmi uno dei veli del vestito. Le avevo parlato di lui la prima volta che eravamo state insieme, nel deserto, quando
ancora eravamo legate da un gancio e arrancavamo sulle nostre diverse lingue. «Si chiama Dahaljer», la corressi. «Con due a un po’ aspirate.»
Lei annuì, lanciandomi un’occhiata dallo specchio.
«E sì, l’ho fatto con lui e solo con lui.» Sollevai lo sguardo su di lei. È strano come trattare di certi argomenti con una persona te la faccia sembrare più piccola o più grande a seconda delle sue esperienze. Ma Maryām aveva solo sedici anni, quando avevo pensato che fosse più grande?
Ancora rossa in viso, domandò: «È stato bello?»
«Sì, la cosa più bella del mondo, ma solo perché ero innamorata di lui.» C’era del biasimo nelle mie parole e me ne pentii: lei non sarebbe mai stata libera di innamorarsi.
Forse mi avrebbe chiesto qualcosa in più, ma Aisha entrò in stanza per finire di prepararsi. In silenzio, rimuginai su quanto la mia amica mi avesse detto riguardo il viaggio di nozze a Tabriz, dall’altra parte del mare degli Urali; mi chiesi se avrebbe portato anche noi. Ma le schiave venivano lasciate ad Ammanir o a Nayband.
52
Me lo chiesi però per diversi giorni, mentre la mia routine quotidiana cambiava un po’ per la presenza di Dahaljer e per la richiesta esplicita del Sultano di Nayband di occuparmi della bestia in modo che riuscissi a trasformarla in una guardia del corpo.
La Tigre Bianca girava avanti e indietro nella sua gabbia con i suoi lunghi i felini. Mi aveva detto di no, la prima volta, mi aveva detto che non avrebbe mai fatto una cosa del genere, che non avrebbe difeso un uomo che avrebbe sbranato lui stesso.
«Se lo sbrani, tu verrai portato chissà dove e io, beh, meglio che non ci pensi.» Avevo risposto a bassa voce.
Parlare con lui era quasi comico: sostenevo lunghe conversazioni con una bestia più grande di me, che non faceva altro che girare su se stessa, soffiare e miagolare. Da fuori non dovevo essere molto diversa da un pazzo che è sicuro di parlare con gli animali. Cercavo di non alzare mai la voce.
Quando si convinse, ne parlai con Shiire Raja, che divertito propose di fare qualche prova.
«Come?» chiesi.
«Di solito le pantere vengono istruite da quando sono piccole, sono sempre accanto a una persona e viene insegnato loro ad attaccare su comando vocale», mi spiegò. «Alla lunga sono in grado di capire anche da sole quando qualcuno minaccia la nostra vita e quindi di reagire.»
«Qualcuno ha minacciato la sua vita?» domandai sorpresa.
Rise. «No. Ma di tanto in tanto c’è qualche addestratore di pantere che lo fa solo con lo scopo di farle esercitare.»
«Oh, che cosa carina», commentai, sarcastica. «E intende fare lo stesso con questa?»
«Se tu sei in grado di farti capire da lei come affermi, le dirai cosa fare e faremo solo un paio di prove.»
Feci spallucce. «Come vuole. E cosa ne farà della pantera?» Lanciai un’occhiata al felino ai suoi piedi.
Lui fece il suo movimento ondulatorio con il mento, quello che faceva sempre quando pensava. «La darò a mio fratello. Ne ha sempre volute due.»
Sollevai le sopracciglia. «Lei ha un fratello?»
Annuì. «Sì, e anche due sorelle piccole.»
«Quante cose che non so, mio signore», osservai, ironica.
Lui, seduto alla sua scrivania di vetro e ferro battuto, roteò gli occhi con ostentazione e malcelato divertimento. «Se diventassi mia moglie, babr, ne scopriresti molte di più.»
Sorrisi. «Non ho mai detto di volerle scoprire.» Girai su me stessa e me ne andai seguita dai veli svolazzanti.
Dahaljer divenne la sua guardia del corpo e il sultano riscosse un notevole successo: durante le sue feste, l’animale era un’attrazione notevole, più di quanto non lo fosse stata come tigre da combattimento. Mai nessuno aveva avuto per guardia del corpo una tigre e bianca, per giunta. Ero contenta perché si curavano di lei, la pulivano, le davano da mangiare, non doveva scannarsi con qualche altra pantera e non se ne sarebbe andata via.
Però l’avevo sempre in mezzo, non potevo parlare con lei senza che qualcuno ci ascoltasse ed erano rare anche le volte in cui riuscivo a parlare con Shiire Raja da sola. La sera in cui mi ero intrufolata nella sua gabbia avevo detto a Dahaljer che il sultano mi aveva proposto di sposarlo e ne ero contenta perché lo avrebbe scoperto da solo. Shiire Raja invece non immaginava neanche lontanamente cosa fosse la tigre per me e credo non lo abbia mai sospettato.
Continuai a ballare e servire, e ad ascoltare la traduzione dei racconti de Le mille e una notte, ma nella mia mente si era insinuata un’idea e questo mi portò ad allontanarmi da Maryām il più possibile. Sapevo quanto potesse essere doloroso
il tradimento di una persona che ritieni un’amica e così cercai di recidere in tutti i modi possibili quello che tra noi poteva essere un legame di quel tipo.
La ferivo lo stesso, tuttavia mi ripetevo che era il danno minore. Poi quando una mattina Dahaljer era alle prese con le pulizie del suo bel mantello, mi intrufolai in una delle camere del sultano, seguita a vista dalle guardie delle sue stanze.
Lui fece loro un segno della mano e disse qualcosa in sanscrito. Aveva delle carte in mano e le poggiò sul tavolo dal piano di vetro, alzandosi in piedi.
«Hai deciso di sposarmi?» esordì, come faceva spesso, indicandomi una delle poltroncine di vimini.
Ero tentata di rimanere dov’ero, ma mi obbligai a sedermi. Indossavo un vestito nero e oro, a maniche lunghe, svasate. Lo sistemai con cura, prima di guardarlo. «Mi lascerebbe andare, se glielo chiedessi?» domandai infine; così a oggi non posso dire di non averci provato.
Sorrise incredulo. «No…»
«Mio signore, lei è un uomo pieno di cultura, è interessato alla politica e all’attualità, all’arte e alla letteratura, anche a quella del mio popolo, quella ata. Rispetta le donne, a modo suo, e non tocca i corpi che non le appartengono per vincolo matrimoniale, come fanno altri uomini. Perché dovrebbe tenermi qui?»
«Perché sono un uomo, oltre che un sultano e un imprenditore che vende armi. E non sono uno sciocco, fossi stato in Tagron io non avrei mai venduto un bottino come te.»
«Tagron però non è come lei. Non ha rispetto per nessuno.»
«Pensi che io ne abbia?» C’era malizia nella sua voce. «Non ti lascerò andare da nessuna parte, se è questo che vuoi sapere, se non altro per ciò che ti ho pagata. E poi perché so che lo rimpiangerei per tutta la vita. Auspico che prima o poi ti abituerai a Nayband e sarai in grado di vivere qui senza paura.»
Poggiai un gomito su un bracciolo della poltroncina, ostentando indifferenza, con gli Umani era assai più facile. «Se invece io la sposassi…» azzardai «cosa ne guadagnerei?»
Un lampo di divertimento balenò nei suoi occhi. «Stai tentando uno scambio, Shayl’n?»
«Sto tentando di capire cosa devo fare della mia vita.» E solo Dio sa quanto questo fosse vero.
Spostò un’altra poltroncina, mettendola avanti a me, e si sedette anche lui, piegandosi in avanti. Le nostre ginocchia si sfioravano. «Tratto bene le mie mogli. Le faccio studiare o fare quello che più gradiscono e se loro lo vogliono, le porto con me.»
«Ovunque?»
«Ovunque.»
Fui tentata di chiedere se ‘ovunque’ comprendesse anche al di là del mare degli Urali, ma era troppo rischioso. «Lei cercava una ballerina e io non lo sono.» Mi domandai perché non gli dicessi di sì e basta.
«Io cercavo un matrimonio che non fosse combinato e le donne che danzano mi affascinano. Tuttavia se tu dovessi accettare, lo preferirei di gran lunga. Nessuno mi obbliga a cercarne una quinta, ma voglio qualcuno di diverso accanto a me e tu lo sei, più di ogni ballerina che io abbia qui.»
«In ogni caso non sarebbe un matrimonio d’amore», replicai, asciutta.
«L’amore vero dovrebbe durare di più di qualche battito di cuore. Lo hai detto tu.» Mi accarezzò il viso con la punta delle dita. «Però a me tu piaci, e tanto.»
«Anche a me tu piaci», ammisi a bassa voce, in modo informale, ma non gli lasciai il tempo per rifletterci. «Tuttavia un matrimonio…»
«Shayl’n», mi interruppe. «Nessuna delle donne che sono qui, che sono in questo mondo, mi sposerebbe per amore, non vedono questo in me. Vedono la ricchezza, vedono quello che io sono e vedono unicamente la possibilità di una vita migliore. È una via di fuga che vogliono.»
Anche io, pensai. «Se decidessi di sposarla, la Tigre verrebbe con lei?» Accavallai le gambe e lasciai oscillare un piede, osservando con la coda dell’occhio un geco che correva lungo il muro.
«Stai barattando il tuo matrimonio per una Tigre?» Parve stupito.
Mi sforzai di mantenere la voce ferma e di non mordermi il labbro. «Mi ricorda casa.» L’ovvietà nel mio tono era esagerata, tuttavia non credo ci avesse fatto caso. «Mi ricorda chi sono e… mi sono affezionata a lei. Inoltre, mio signore, non credo che lei mi permetterà di togliere i miei cerchietti di ferro, neanche se io la sposassi.» Stavo solo tentando di spostare l’argomento.
Lui indugiò con lo sguardo sul mio collo. «Non subito. Ma forse tra un anno, o magari due, non lo so, quando mi fiderò davvero di te», confessò con la sua disarmante franchezza.
«Io non ho nulla, in termini di proprietà e anche in termini di identità, non esiste neppure un documento che dica chi sono.»
Si appoggiò allo schienale, guardandomi di sottecchi. «Sono uno dei sultani di Terre d’Oriente, mi occupo delle armi da fuoco, pensi sul serio che sia un problema per me l’inesistenza dei tuoi documenti?» Nella sua voce risuonò una virilità sicura di sé.
Mantenendo la schiena sulla mia poltroncina, scavallai le gambe, mettendomi dritta, lasciai un gomito poggiato sul bracciolo e con l’altra mano giocherellai con una ciocca dei miei capelli che avevo lasciato sciolti e privi di velo o turbante, contrariamente a quanto richiesto, anzi ordinato, da Latha. Lui si
protese verso di me e io mi sfiorai le labbra con un dito con finta distrazione. Stavo flirtando con lui e ne ero piacevolmente contrariata.
Stavo approfittando della sua serietà, della fiducia che riponevo in lui, malgrado tutto, e mi crogiolavo nel suo atteggiamento languido. Non era giusto da parte mia. Ruppi quel gioco chiedendo informazioni sul matrimonio; mi rispose spiegandomi qualche usanza e mi disse che lo avremmo celebrato ad Ammanir, e confermò che il viaggio di nozze avrebbe avuto come prima tappa Tabriz. Disse che i matrimoni dei sultani non erano di tipo religioso e che per organizzarne uno bastavano dieci giorni, anche meno se lui lo avesse chiesto.
«Sono tutti ai suoi ordini», commentai atona.
«O ai tuoi», ironizzò.
Feci un sorriso tirato. «Non credo di sbagliare, mio signore, se dico che gli ordini di una schiava valgono meno di zero, senza il suo padrone.»
«Ma gli ordini di una moglie di un sultano potrebbero valere molto di più», ribatté stringendo le palpebre.
Sollevai le sopracciglia. «In quale parte del mondo, esattamente?»
Rise e si raddrizzò. Tamburellò con le dita sul suo bracciolo, sollevando un poco il mento. «È questo che mi piace di te, oltre al tuo aspetto e alla tua intelligenza: sei deliziosamente scontrosa.»
Incrociai le dita delle mani e, spostandomi in avanti, ci poggiai il mento sopra. «Non mi conosce neppure, è certo di voler sposare una donna che neanche conosce?»
«Potrà sembrarti strano, ma con i tuoi modi di fare e le tue parole conosco più te che le mie mogli.»
Pensai che fosse triste, tuttavia non era abbastanza. «Ma loro non sono Tigri Bianche», obiettai. In effetti, non sapeva neanche che io lo fossi solo in parte.
Avvicinò il suo viso al mio, era vicino, molto vicino. «Shayl’n, se il re dei Tiouck ti ha venduta, la tua storia è più complicata e più dolorosa di quanto io possa immaginare. Non dirò che non mi interessa, perché mentirei. Tu parli meglio lo iuropìan romanzo che l’arindo ichslavo, sei cresciuta a Roma e io non so perché; hai gli occhi più strani che io abbia mai visto, il tuo corpo porta cicatrici che non raccontano nulla di buono, sei un mistero. Tuttavia a me basta, per ora.» La sua mano si poggiò sulla mia coscia. «Se accetti di sposarmi, potrei davvero avere qualcosa di diverso.»
Era così crudele da parte mia, eppure volevo solo che mi portasse a Tabriz. Serrai le mandibole, mentre lui indugiava con lo sguardo sulle mie labbra. Il mio corpo lascivo si scaldò e se il suo lo avesse percepito, avrei peggiorato la situazione. Stavo di nuovo approfittando di lui. Tornai ad appoggiare la schiena sulla poltroncina e abbassai lo sguardo sulla sua mano su di me.
Lui dovette accorgersene e la spostò, tornando a sua volta ad appoggiare la schiena. Si accarezzò la barba pensieroso. «Vuoi davvero sposarmi?»
Sostenni il suo sguardo, perdendomi nei suoi occhi neri come il mare di notte. I ventilatori giravano ronzando appena sulle nostre teste e muovendo l’aria che profumava di garofani e fiori d’arancio. Volevo davvero sposarlo? Io, Shayl’n Til Lech, avrei davvero fatto quel o? E Dahaljer cosa avrebbe detto? Quanto male avrebbe fatto? Era anche per lui che lo avrei fatto, che lui lo volesse oppure no. Forse non avrei sposato quell’uomo che risvegliava tutti i miei femminili sensi, se Ahilan non fosse stato là. Forse non lo avrei fatto se non avessi scoperto di avere uno zio materno che si stava ribellando al proprio padre o se quel o non avesse implicato un viaggio a Tabriz. Ma potevo unirmi in matrimonio con uno dei sultani persiani di Terre D’Oriente? Lo guardai a lungo, ma quando risposi, dovetti abbassare gli occhi. «Ci sto pensando.»
«Bene. Sai, non sei qui per pensare, tuttavia, per questa volta, te lo concedo.»
53
Quella sera avevo già preso la mia decisione e non avrei atteso ulteriore tempo, tuttavia non potevo fare quello che avevo deciso senza parlarne con Dahaljer, per quanto già conoscessi la sua risposta. Mentre il mio piano prendeva forma nella mia mente, lo vedevo muoversi mollemente dietro a Shiire Raja, lanciandomi di tanto in tanto qualche occhiata. A volte lo guardavo afflitta: per la seconda volta nella nostra breve storia lui era a due i da me, eppure troppo lontano.
I giorni scivolavano via lenti e infiniti e Maryām aveva smesso di parlare con me, chiudendosi in un silenzio doloroso. I miei sensi di colpa non mi permettevano di starle troppo vicina, ero triste e contenta al tempo stesso, perché ero riuscita nell’intento di spezzare il nostro legame in modo graduale, ma il suo cuore pagava con sofferenza, e lei si perdeva in isolamento e deconcentrazione. Di tanto in tanto, quando sul suo viso si disegnavano espressioni da bambina, avevo la sensazione che prima o poi avrei ceduto e l’avrei abbracciata spiegandole con dovizia di particolari le motivazioni del mio gesto. Invece stringevo i pugni e voltavo la testa.
Fu Dahaljer a cercarmi un giorno in cui nell’aria c’era profumo di limone, mentre mangiavo fette di ananas in un momento di riposo. Aylin, un’altra delle nostre compagne di stanza, stava contando i datteri rimasti e li divideva per loro, visto che a me non piacevano. Eravamo in giardino e le cupole azzurre si perdevano nel cielo sereno. «C’è la tua amica tigre», mi avvisò la ragazza.
Mi voltai. «Ehi. Non sei con il sultano?» chiesi in persiano. Lui non lo parlava mai, ma qualche cosa la capiva.
Si avvicinò e le grattai l’orecchio. “È in una conferenza e con lui c’è Ramasami.”
Ramasami era la sua guardia del corpo umana e di solito chiamava lei quando doveva fare qualche riunione di lavoro. Non risposi perché nessuno sapeva cosa mi avesse detto.
Mi alzai, afferrando una fetta d’ananas con le mani. «Vado a fare un giro.»
Camminai tra le siepi e gli alberi da frutta e mi diressi verso uno dei laghetti. C’erano delle scimmie che volavano da un albero a un altro con gridolini acuti. Da quando ero ad Ammanir, solo una volta ne avevo vista una da vicino, che camminava per nulla impaurita sul cornicione davanti la nostra stanza da letto, ci aveva lanciato uno sguardo indeciso, a me e Maryām, poi, dopo essersi grattata la testa con fare molto umano, aveva continuato per la sua strada
Mi misi a sedere sotto un salice piangente e Dahaljer si sdraiò accanto a me. Era un buon posto, non troppo esposto e neanche chiuso: sebbene parlassi con lui solo in iuropìan, volevo sapere se c’era qualcuno vicino a noi, intento a curiosare su cosa ci dicessimo.
“Cosa mi devi dire?” mi domandò la tigre, senza molti preamboli.
«Come fai a sapere che ti devo dire qualcosa?» chiesi sorpresa.
“Perché ti conosco, Shay. Anche se abbiamo cambiato modo di comunicare e
non ho più accesso ai tuoi sentimenti come un tempo, conosco il tuo sguardo e il tuo corpo.”
«Va bene», concessi; era vero e immaginavo di poter fare altrettanto con lui. «E, secondo te, cosa ti devo dire?»
“Non lo so, qualcosa che non mi piacerà.”
Sorrisi amara. Mi conosceva davvero bene. «Tagliamo la testa al toro, allora.» Lo guardai negli occhi. «Ho detto a Shiire Raja che l’avrei sposato.»
“Che cosa?” urlò nella mia mente emettendo nello stesso tempo un leggero miagolio per nulla affettuoso. Si alzò e iniziò a camminare avanti e indietro, come fosse ancora in gabbia; ne potevo avvertire l’ostilità.
Feci un profondo respiro. «Ascolta.»
“No!” sbraitò il suo pensiero. “No, Shay, no. Per favore, non puoi farmi questo, non mi importa quale sia il motivo. Non puoi e basta.”
«A parte che posso eccome», risposi piccata. «E poi se mi stessi a sentire, sapresti che lo faccio anche per te.»
“Per me? Ma cosa ti viene in mente?”
Lo guardai torva. «Dahal, stai zitto un attimo e ascoltami.» Strappai un filo d’erba con le dita.
“No.”
«E invece sì. E non farmi urlare, perché non voglio mi sentano. Dahal!» lo chiamai esasperata vedendolo vagare in cerchio come un ossesso. «Fermati. Fermati un attimo e stammi a sentire.» Soffiò, girò su se stesso un paio di volte e si fermò davanti a me. «Accuccia.»
“Piantala!” Ma si sdraiò.
«Dobbiamo andare via da qui, dobbiamo andarcene perché né tu né io resisteremo a lungo in questo stato. Inoltre devo trovare Jean David.»
“Jean David?”
«Sì, devo parlare con lui e sapere come risolvere la situazione. Sei stato tu a dirmi che potevo cambiare le cose, che forse ero l’unica a poterlo fare. E io conosco la realtà che vivono gli Umani e quella che voi vivete in guerra, quella dei bambini soldato, dei morti e dei feriti di qualsiasi Razza siano. Spetta a me dare una possibilità in più a tutti e se Jean David può aiutarmi, devo almeno tentare.»
Emise una sorta di sbuffo. “Tu sei del tutto matta, ti sei fumata il cervello a forza
di respirare le droghe profumate di questo dannato posto.”
«Stai zitto e fammi parlare.» Per la seconda volta trassi un respiro profondo. «Se sposo il sultano, lui mi porterà a Tabriz, dall’altra parte del mare degli Urali.» Feci una pausa e pensai che un tempo, prima del Grande Terremoto, Tabriz non avrebbe avuto un porto, perché non era sul mare. «Porterà tutti e due. È qui che mi sposerà, ma è là che faremo il viaggio di nozze e là potremmo scappare e raggiungere la zona delle Tigri Bianche, così qualcuno ci libererà da questi ferri. Capisci, ce ne andiamo e tanti cari saluti. Non posso farlo se non lo sposo.»
Mi fissò, i suoi muscoli dovevano essere tesi sotto il mantello. Il sole splendeva sulla sua lunga coda che usciva dall’ombra del salice. “Continuo a pensare che tu sia matta. È un matrimonio, Shay, sai che cos’è?”
Lo guardai sicura, immaginavo che me lo avrebbe detto. «Un contratto, un semplice contratto che per me non ha nessun valore. Non è neppure religioso.»
“E cosa altro comporta?” Sapevo cosa mi stesse chiedendo.
«Devo solo dire di sì…» mormorai.
Non c’era un filo di vento. “E?”
«E…» Distolsi lo sguardo. «E dovrebbe essere consumato a Tabriz, non prima.»
“Quell’uomo ti sbava dietro come una lumaca, credi che aspetterà?” mi rimbeccò.
Avevo pensato a lungo a quell’aspetto, tuttavia non mi aveva fatto cambiare idea, conoscevo le tradizioni dei matrimoni del Sultano di Nayband e speravo che seguisse le stesse regole. Non potevo, però, sottovalutare quanto Dahaljer stesse affermando. Accennai a un broncio infantile. «Non lo so. Cercherò di farlo aspettare.»
“Cercherai?” I suoi occhi si chio a fessura. “Shay, no, ti prego, dimmi che non lo farai. Per me. È per me che non puoi farlo.”
«Ma hai capito cosa ho detto?» La voce mi uscì lamentosa; spezzai il filo d’erba che avevo in mano. «È l’unico modo per andare via di qui e tentare una fuga, lo faccio solo per questo.» Ne ero convinta.
Sollevò il muso verso di me, come se stesse per saltarmi addosso. “Gli cederesti il tuo corpo per questo?”
Non risposi.
“Questa è prostituzione!”
«Oh, Dahal, per favore.» Lo guardai gelida, tuttavia non sapevo come argomentare la mia tesi.
“Per favore cosa?”
Mi strinsi le ginocchia e pencolai. «Per favore, non parlarmi in questo modo.»
“Le parole non cambiano i fatti.” E aveva ragione.
«Lui non mi sta usando per darmi qualcosa, credo che lui sia…» Non trovavo le parole.
“Innamorato?” suggerì sarcastico.
«Forse. Non è questo il punto. Il punto è che non mi sta offrendo qualcosa purché io gli dia me stessa in cambio. A modo suo, è una persona onesta.» Continuai a dondolare.
Si alzò e si scrollò qualcosa di dosso, forse solo la sensazione di impotenza. “Che me lo hai detto a fare? Ormai lui già lo sa.”
Abbassai la testa. «No. Devo dargli l’ultima risposta, io… gli ho detto che dovevo pensarci e l’ho fatto, ma ho aspettato perché volevo che tu lo sapessi.»
“Non avrai la mia benedizione.”
Spostai le gambe e, piegandole, le incrociai. «Lo so», ribattei. «Voglio solo andare via da qua, avere una possibilità per entrambi. Non ho preso questa decisione con leggerezza, non voglio ferire Shiire Raja e non voglio ferire te. Io non l’avrei fatto se tu non fossi stato qui, se non fossi stato vivo. Ma sei qui, lo siamo entrambi e lo sai che io voglio di più, lo hai sempre saputo», mormorai incrociando i suoi occhi.
Con un unico o mi fu sopra, ma non c’era ostilità nei suoi sentimenti, neanche aggressività. Solo una lontana sottomissione dettata dal mio ruolo naturale. C’era qualcos’altro, da qualche parte, che io non avevo il potere di decodificare.
Poggiò la grande testa sulla mia spalla e io lo cinsi con le braccia, affondando il viso sulla sua pelliccia striata. Dovevamo essere proprio bizzarri in quel momento. “Non riuscirei a farti cambiare idea in nessun modo, vero?”
Ascoltai il suo respiro lento, sotto il suo bel mantello. Una tigre. C’era un uomo dentro di lei, c’era un uomo che mi mancava come l’aria; un uomo che soffriva e a cui io stavo infliggendo l’ennesimo dolore. Che colpa ne avevamo? Perché eravamo sempre troppo lontani?
Ripensai ai versi che Shiire Raja mi aveva detto. ‘È vero che i nostri corpi conoscono la distanza: ma sanno i nostri cuori cos’è lo stare lontani?’
«No, non ci riusciresti. Ma mi dispiace, Dahal, davvero.» Feci una pausa. «E se te lo fossi scordato, ti amo.»
“Sei una stronza.” Non c’era ostilità nella sua mente, solo una sottomissione
pacata.
Sorrisi al suo pelo. «Dici?»
“Sì, sei una stronza e, se te lo fossi scordato, ti amo anch’io.”
54
Il Sultano di Nayband impiegò poco tempo a dare le direttive per organizzare il suo quinto matrimonio e relativo viaggio di nozze. Felice da mozzarmi il fiato, mi portò con sé per Ammanir a farmi conoscere dai suoi amici e conoscenti. Tutte persone che avevano già frequentato il palazzo in occasione delle diverse feste, ma che, a suo dire, doveva presentarmi in qualità di futura moglie.
Se lui non vedeva più cosa stesse facendo, gli altri lo vedevano benissimo e mi squadravano con aria di sufficienza, senza mascherare la loro attenzione per i miei cerchietti di ferro.
«Sai che avrai dei figli per metà Tigre, sai che questa qui ti farà dei fottuti mezzosangue?» gli fece notare qualcuno come se io non mi fossi trovata insieme a loro - eppure sapevano che capivo il persiano. Corrucciavo la fronte e piegavo le labbra dietro il velo leggero, mentre Dahaljer commentava nella mia mente con battutine tra il geloso e l’offeso e Shiire Raja rispondeva affabile che la cultura, come il sangue, dovevano essere condivisi.
«Ma ti fidi di questa schiava?» gli chiese una donna più scaltra di altri.
“Certo, è un allocco questo qui”, le rispose Ahilan, ma fui l’unica a saperlo. E fui anche l’unica a rimanere gelata dalle risposte adorabili che dava il sultano, con la sua voce gentile e sicura.
Giravamo per l’oasi, guardando vetrine e mangiando polpette di carne, mi indicava le piante e i luoghi religiosi. Giravamo con i suoi autisti e di solito eravamo noi tre: un sultano, una tigre bianca e una ragazza dagli occhi neri e verdi insieme e i vestiti orientali. Davvero un bel trio.
“E non sanno niente di noi due”, commentò una volta Dahaljer, osservando il nostro riflesso su un vetro lucido.
Poi mi persi tra i vicoli confusi del baha-char di Ammanir. Era il suo mercato, il luogo dei prezzi. Un posto tanto bello, quanto labirintico, una bolgia urlante di persone. Una mescolanza di colori, profumi, animali, suoni. Sembrava racchiudere in sé tutte le spezie possibili e i loro odori si attaccavano sulla pelle e sui capelli come sanguisughe. Donne e uomini sembravano volerti vendere anche l’anima dei loro morti. Stavo tentando di liberarmi da un uomo che voleva vendermi una borsa in pelle, quando Dahaljer mi chiamò, facendosi spazio con la sua grossa mole.
«Oooh, è tua?» mi chiese un bambino che indossava una lunga camicia a maniche larghe e dei pantaloni grandi come mongolfiere.
«Ehm.»
“Tu…”, cominciò la tigre, rabbiosa.
«Shayl’n!» lo interruppe il Sultano raggiungendoci. «Ma dove vai in giro da sola?»
«Oooh, allora tu sei del sultano», realizzò il bambino e il ‘tu’ era riferito a me. «Mia signora, mia madre vende pompelmi geneticamente modificati, vengono dall’Oceania e contengono un elisir d’amore.» Dalle labbra del bambino uscirono parole che non conoscevo, avrebbero dovuto spiegarmi l’essenza del pompelmo degli innamorati con termini scientifici che non potevo capire.
Nello stesso tempo, una serie di persone salutò Shiire Raja con rispetto e lui rispose, impaziente, tirandomi per un braccio e ignorando le insistenze del piccolo venditore.
«Siete voi che mi avete persa di vista», rimbrottai entrambi gli uomini, quando ci fermammo in uno slargo un poco più tranquillo.
«Non lo fare mai più», fu la risposta che ottenni da tutt’e due e a quel punto scoppiai a ridere.
L’uomo barbuto e la tigre baffona mi guardarono male e alzai le mani in segno di resa. «Per oggi possiamo anche tornare a casa.»
Non obiettarono.
La mattina del matrimonio, Dahaljer rimase lontano, almeno quanto Shiire Raja. Lo stesso fecero quelle che erano state le mie compagne di stanza. Da quando avevo detto al sultano che avrei accettato la sua proposta, avevo avuto una stanza tutta mia, ne ero grata per il semplice fatto che cogliere le loro occhiatacce e in particolare quelle di Maryām era più di quanto potessi sopportare. Perdere una sfida di danza con una ragazza che aveva appena iniziato a danzare era oltremodo ingiusto e le loro facce non risparmiavano di dirmelo.
Come potevo biasimarle? Non potevo; e cercavo solo di stare alla larga da loro tanto quanto loro cercavano di sfuggire da me. Però, mentre mi distraevo con i preparativi del matrimonio, una nuova idea si stava insinuando nella mia mente e così mi sentivo più allegra.
Quella mattina, una decina di donne rivoluzionò la mia camera, molto prima che sorgesse il sole. Tra di loro parlavano e borbottavano, senza curarsi di coinvolgermi nelle loro discussioni. Parlavano sia persiano che sanscrito e alternavano le lingue con disinvoltura. Sapevo che alcune di loro non erano d’accordo con il mio matrimonio con il Sultano di Nayband e non fingevano che non fosse così.
Tuttavia furono meticolose e, sebbene usassero una velata violenza nei modi di trattarmi, fu meno traumatico del previsto. Ringraziai il cielo perché, essendo quello che ero, avevo pochi peli, pensavo che in caso inverso mi avrebbero scuoiata viva; mi lavarono e mi cosparsero di oli seguendo complicati rituali di cui mi aveva accennato Shiire Raja. Poi mi misero in mezzo alla stanza e mi fecero indossare un sari di seta e dai fili d’argento e fucsia, la stoffa era dello stesso identico colore dei miei occhi. Lo avevo provato più volte quei giorni e non vi badai tanto.
Già dalla mattina avevo iniziato a ripetermi frasi come ‘no, non posso’ o ‘Dio, non posso’ o ‘ma cosa sto facendo?’ poco prima delle otto del mattino iniziai a contarle. Respiravo il profumo del cardamomo e osservavo le donne acconciarmi i capelli, tirati sulla nuca e fissati con mollette che mi facevano male. Infine mi ricoprirono con un velo di seta la testa e con un velo di raso la bocca e il naso.
In realtà, anche gli occhi erano coperti perché una serie di perline di vetro scendevano leggere dalla mia fronte, fino a sotto gli zigomi. Sono bellissimi da vedere, ma sono davvero poco pratici, perché tolgono la visuale. Avevo già
provveduto a lamentarmi con Latha, ma lei mi aveva risposto che non mi serviva guardare poiché avrei dovuto tenere lo sguardo sui piedi fino a che non fossi stata sposata. ‘Dio, non posso!’ Ed ero a centoquattordici.
Mi portarono in giardino, dove si trovava già una trentina di persone. Dei parenti del sultano c’erano solo il fratello e le due mogli. Trovavo la cosa davvero ridicola e quando tra una perlina e l’altra scorsi il pelo bianco e striato di Dahaljer, che brillava come se avesse avuto quintali d’oro cosparsi sul dorso, dovetti trattenere una risata isterica. Il sudore mi scivolava sulla schiena.
Il rito con cui Shiire Raja aveva deciso di sposarsi, prevedeva che io e lui fossimo seduti tra una brace di fuoco, una bacinella d’ottone piena d’acqua, del terriccio e un’ampolla vuota. Eravamo al centro dei quattro elementi: fuoco, acqua, terra e aria.
L’uomo che presenziava la funzione era grasso e pelato. Sulla sua testa non c’era neanche un capello e quando, nel primo pomeriggio, non avendo più le perline sugli occhi potei guardarlo bene, notai che il sole risplendeva sulla sua pelle liscia nello stesso modo in cui risplendeva sulle anfore di rame. In quel momento però non stavo pensando a lui. Con la coda dell’occhio, tra due perline, vidi Dahaljer accanto al sultano. Mi sto sposando. Mi sto sposando accanto all’uomo che amo, ma non con lui. Dio! Pensai.
Per mia fortuna la funzione prevedeva una serie di riti e letture in una lingua che io non conoscevo. Avevo imparato le mie battute a memoria e fingevo di non sapere cosa dicessero. Mi morsi il labbro sotto il velo di raso, mentre Shiire Raja mi prendeva la mano. Ero a duecentouno.
Intrecciammo le dita, palmo contro palmo e il funzionario cantilenò una nenia, unendo i nostri polsi con una ghirlanda di fiori. Ci fece alzare, mormorando
qualcosa, poi sollevò le nostre mani. Prese delle boccette e versò sulla ghirlanda la terra e l’acqua, con un gesto simbolico versò anche l’aria e infine con la fiammella di una candela dal forte odore di arancia, bruciò lo spaghetto interno alla ghirlanda, liberando i nostri polsi e dichiarandoci ufficialmente marito e moglie.
Ero a duecentoquarantatré.
55
I tamburi suonarono leggeri e così anche sonagli e camle, tra gli applausi degli invitati. Il mio nuovo marito mi tolse le perline e il velo sul viso con due mosse rapide, sapeva come fare molto più di quanto lo sapessi io. Con un tocco delicato spostò un poco anche la stoffa di seta sui capelli, così che parte del capo potesse essere ben visibile. Sul viso avevo kajal, fard e un punto di henné tra le sopracciglia.
Intorno a noi c’era confusione, musica, gridolini e richieste di un bacio. Mi guardò con espressione adorante, con i suoi stupendi occhi neri, e senso di colpa e frustrazione si mescolarono tra loro; mi sforzai di piegare gli angoli delle labbra verso l’alto e pregai di non cadere sulle gambe molli, ma Shiire Raja mi strinse a sé; con un sorriso abbassò il viso verso di me e le sue labbra si poggiarono sulle mie, dischiusi la bocca e ricambiai il suo bacio, mentre intorno a noi applaudivano e gridavano.
C’era aggressività nell’aria, controllata e dura, e sapevo da cosa, o meglio da chi, provenisse. Chiusi gli occhi, non per la magia del bacio, ma nel tentativo di togliermi dalla mente l’immagine della tigre bianca, dietro le spalle del Sultano di Nayband. Perdonami, Dahal, perdonami.
Shiire Raja sapeva di fumo e menta che doveva aver fumato nel narghilè. Mi baciò a lungo, come se fossimo solo io e lui, mi baciò come se aspettasse quel momento da troppo tempo e forse era così. La sua barba pizzicava sulla mia pelle e mi lasciò un piacevole prurito, quando si staccò da me, sorridendo come un bambino. «Nella tua vita avresti mai immaginato di diventare mia moglie?» bisbigliò raggiante.
«Mio signore, nella mia vita sono troppe le cose che non avrei neanche solo pensato per sbaglio.»
Con eleganza mi condusse dai suoi amici e dai suoi parenti, tenendomi stretta a sé. Si aprirono le danze, mentre ci spostavamo sul retro del giardino per il pranzo nuziale.
Mi offrirono piccoli dolci alle mandorle e alcolici che non conoscevo. Ne presi uno dai riflessi morbidi e perlati. Mi bruciò in gola e subito dopo alla bocca dello stomaco, e fu un peccato, perché aveva un sapore delicato e molto dolce, se fossi stata avvezza, me ne sarei presi altri dieci, tanto era buono sulla mia lingua. Poiché non lo ero, non arrivai neanche a un quarto del calice.
Il silenzio nella mente di Dahaljer, che ci seguiva luccicando, mi faceva male. Lo guardavo spesso, volevo dirgli con gli occhi quanto mi dispie, tuttavia lui non alzò mai lo sguardo su di me.
Non mi era molto vicino quando il sultano, in un momento di calma, seduto accanto a me si avvicinò con fare malizioso e mi sussurrò nell’orecchio: «Shayl’n, di solito la notte di nozze si svolge a Tabriz, è un luogo bellissimo e per quando siamo là è tutto sistemato in maniera stupenda. Tuttavia spero che non ti dispiaccia se ho fatto preparare la mia stanza qui ad Ammanir.»
Il sangue mi si gelò nelle vene e ringraziai Nostra Signora di avermi messo una poltroncina sotto il sedere e un pezzo di pane alle olive in mano, che contemplai con eccessivo interesse. E subito dopo imprecai perché la paura che si riversò dal corpo alla mente attirò l’attenzione della Tigre Bianca.
Solo lei sapeva cosa stavo vivendo, anche se non ne sapeva il motivo, mi guardò per la prima volta da quando ero stata unita in matrimonio al sultano e io, per la prima volta da quel momento, cercai di evitare il suo sguardo.
«Se ne è sicuro, mio signore», mi sforzai di dire cercando di non far tremare la voce e continuando a osservare il pane tra le mie dita. Avrei voluto gridargli che l’indomani me ne sarei andata, che lo avevo sposato solo per quello, che sarebbe stato peggio per tutti e due anticipare a quella sera.
Misi in bocca il pezzetto di pane.
«Certo che lo sono.» Ridacchiò in modo infantile. «E poi Tabriz è Tabriz, sarà bello lo stesso. So che ti piacerà.»
Suo fratello, la brutta copia di Shiire Raja, mi salvò dal prosieguo di quella discussione. Mandai a forza il boccone giù e non riuscii a mangiare altro per tutto il giorno.
I miei occhi si incontrarono con quelli di Dahaljer e lui capì. Ne sentii l’ostilità, l’aggressività e la paura. Reagendo in maniera del tutto opposta alla mia, cominciò a fare battute su tutto ciò che gli capitava a tiro. Ero l’unica a poterlo sentire, eppure non sembrava rivolgersi a me, ma ai diretti interessati.
Alcune erano battute divertenti, sarebbe stato bello se la situazione fosse stata all’altezza. Ma non lo era e io non le ricordo più.
In un momento in cui mio marito si trovava a ballare al centro della pista con suo fratello, mi allontanai un poco dai tavoli, voltai le spalle e guardai il cielo, poggiando una mano sulla corteccia di un albero come se potessi cadere da un momento all’altro. La nausea sembrava divorarmi lo stomaco e cercai di frenare le lacrime sul bordo delle palpebre.
Dahaljer si avvicinò e io chiusi gli occhi.
“Non voglio che tu vada a letto con lui. Shay, ti prego, non lo fare.”
Ispirai a forza. «Come faccio?» mormorai. «Dahal, come faccio? Non posso dirgli di no, non più.»
“Non lo so. Non lo so, ma non ci andare. Io… non lo so, uccidilo, lo uccido io…”
Mi uscì un singhiozzo e scossi la testa. «Ma che dici?» Lo guardai, se solo le sue mani avessero potuto stringermi. «Non puoi e io neanche; e lui non se lo merita.»
“Perché lo hai fatto? Perché ci siamo ritrovati così? Preferivo rimanere qui per il resto dei miei giorni.”
«No!» La mia voce si incrinò. «Non puoi dire questo, non dirmelo. Dimmi che è importante andare via di qui, dimmi che è l’unico modo per riavere le nostre
vite, la nostra vita.»
Scosse il grosso muso con gli occhi tristi. “Non voglio. Io ti supplico, non lo fare; non posso sopportarlo. È tanto difficile capirlo?”
Premetti le dita sulla corteccia ruvida. «No, non lo è. Ma non posso cambiarlo.»
Avrei pianto, avrei lasciato scivolare via le lacrime, se Latha non mi avesse chiamata, costringendomi ad asciugarmi in fretta. Studiò il mio viso per qualche attimo, poi mi disse il motivo per cui mi aveva chiamata; l’ho dimenticato.
Non so più neanche come arrivai alla fine di quella giornata, né come arrivai nella camera da letto del Sultano di Nayband. So che mi ritrovai là, tra mille candele e oli profumati che bruciavano nella notte tiepida. Non so cosa lui intuì di me, non l’ho mai saputo, forse solo paura, una paura giustificabile per lui.
«Penso che forse dovrebbe…» tentai.
«Non sei qui per pensare, bambina, o sbaglio?» lo disse in modo così delicato, che avrei preferito mille volte che fosse stato più duro.
«Non sbaglia, mio signore.» Avrei voluto stringermi nelle mie braccia e scappare o dopo o, lasciando tutto. Sostenni il suo sguardo languido e troppo dolce. Se il mio corpo aveva voglia di lui, la mia mente si rifiutava con ostinazione. Provavo qualcosa di molto simile alla paura.
Dahaljer si mosse impercettibilmente e il suo dolore mi investì come una ventata improvvisa in un campo dall’aria immobile. Strinsi le labbra e feci un o verso Shiire Raja.
«Posso chiedere solo un favore per questa mia prima notte di nozze?»
Lui mi scrutò. «Quale?»
«La tigre», dissi mantenendo la voce ferma. «La tigre può uscire, per favore?»
Sollevò un sopracciglio nero. «È la mia migliore guardia del corpo e sei stata proprio tu a renderla tale.»
«Non avrà bisogno di una guardia del corpo stasera. Sarà qua fuori, se serve.»
«Ti vergogni, moglie? Non era tua amica, la tigre?»
Annuii. «Io... è l’unica cosa che le chiedo, mio signore.» Abbassai la testa in segno di rispetto.
«Cosa mi darai?» Sapevo che stava giocando, lo faceva perché avevo iniziato io quel baratto continuo.
«Sono la sua quinta moglie, cosa altro potrebbe desiderare da me mio marito?» Volevo che la voce mi venisse fuori giocosa, tuttavia non lo era neanche un po’.
Ci pensò e poi fece un’espressione curiosa a metà tra la sfida e un sentimento d’affetto. «Fingerai di essere innamorata di me stanotte, se la bestia rimane fuori?»
Strinsi i pugni. «Mio signore, io già la amo.»
Sapeva che stavo mentendo. Girò lungo il suo grande letto, con fare meditabondo, e si ò le dita sul mento osservandomi. «Va bene», concesse. «Tigre, stai di guardia qui fuori.»
Lei oscillò con il corpo, come se stesse decidendo cosa fare. Sperai che non mi dicesse nulla.
«Tigre, non ho tutta la notte!» La guardò incuriosito.
Dahaljer si mosse piano, con i suoi i felpati, mi ò accanto guardandomi, ma io fissai gli occhi sugli elefanti del bassorilievo dietro il letto. Quando uscì e sentii la sua presenza a una distanza accettabile, respirai, perché avevo trattenuto l’aria senza rendermene conto.
«Vieni qui, moglie», mi ordinò il sultano con voce pacata.
Mi avvicinai ubbidiente e grata, e lui mi baciò.
Volevo fuggire, il più lontano possibile, correre via, al costo di morire. Via, via, via. Restai dov’ero. Mi serviva una notte, una sola notte e un viaggio, e poi sarei andata via da là; era così che mi stavo pagando il mio biglietto per Tabriz, il mio biglietto per l’occidente. Dahaljer aveva ragione, mi stavo vendendo. Nel mondo in cui ero cresciuta, nel mondo povero e pieno di sogni irrealizzati da cui provenivo, quella era una cosa che non avrei neanche mai pensato e che avrei rifiutato schifata. Non ero meno schifata adesso, ma io mi stavo vendendo e il mio acquirente non lo sapeva, non era la stessa cosa. Questo, forse, era anche peggio: lo stavo ingannando.
Mi concentrai sulla brama che la pelle aveva di lui, tuttavia il desiderio per un corpo che non era della persona che amavo, mi innervosì; per un attimo pensai che sarei scoppiata a piangere. Pensai che avrei dovuto lasciare il mio corpo in quel luogo e portare la mente altrove, avrei dovuto trovare un modo per farlo, perché non volevo vivere quella notte. Non volevo godere del tocco delle sue mani, non volevo che il desiderio mi tradisse e tradisse Dahaljer. Volevo lui accanto a me, volevo solo lui e lui non c’era. Doveva esistere un modo per non essere in quella camera.
Pregai la Nostra Signora con tutta me stessa per farmelo trovare, e lo trovai. «Oggi ho bevuto un liquore, aveva il colore delle perle ed era dolce. Mio marito non ne ha, qui?»
Sorrise, beato. «Tuo marito ha tutto ciò che desideri.»
E le mie labbra si poggiarono sulle sue, sui calici colmi di liquori dolciastri e sul suo grande e prezioso narghilè pieno di inebriante droga speziata e sintetica che conoscevo bene. Lui non sapeva, lui si fidava, le sue mani mi spogliarono con
gentilezza infinita; e io sprofondai nell’incoscienza ridendo di ogni sua delicata carezza.
La mia mente prima o poi sarebbe tornata, lo sapevo, e tornò pesante come un macigno, udendo gli ordini di Shiire Raja impartiti nel cortile, in una mattina di luce soffusa e brezza leggera.
Sbattei le palpebre sui lenzuoli di seta rosso bordeaux. Un dolore fisico mi si proiettò su tutto il corpo insieme a un intenso cerchio alla testa e alla nausea. Il grande letto era vuoto e riempì la mente di un dolore meno materiale, ma più violento.
C’era qualcuno accanto a me; mi voltai con lentezza. Una tigre bianca, dagli occhi azzurri come il cielo al tramonto, mi guardò e, salendo sulle lenzuola, si sdraiò accanto al mio corpo nudo. «Oh, Dahal.»
Da quanto era là? Cosa aveva visto di quella notte che la mia memoria non aveva registrato? Non glielo chiesi e non gliel’ho mai chiesto, né lui ne parlò mai. Se c’è una cosa che ho imparato è a non fare domande, se non si è sicuri di voler sapere la risposta.
Sollevai un braccio su di lui, affondandolo sulla sua pelliccia morbida, e lui mosse una grossa zampa su di me. Ci stringemmo in un abbraccio molto umano, nonostante tutto, e piansi in silenzio, per me e per lui.
SETTIMA PARTE
We Just Fly Away from Here
56
Mi vestii in fretta con degli abiti da viaggio. Dahaljer mi aveva lasciata sola per tornare al suo compito di guardia del corpo. Persa in mille pensieri, avevo paura che al momento giusto non saremmo riusciti a scappare. Di fatto, continuavo a non avere un piano.
Raggiunsi Shiire Raja in giardino e, schermandomi gli occhi dalla luce dorata del mattino, lo tirai per una manica. Mi baciò le labbra. «Buongiorno, bambina.» Dahaljer nella mia mente gli fece il verso.
«Mio signore, ho da chiederle un altro favore», dissi, stroncando qualsiasi tentativo del sultano di iniziare qualche altra conversazione, che non avevo intenzione di affrontare.
Sorrise divertito. «La tigre verrà con me, non la lascerei…»
«Un altro, mio signore», lo interruppi. Mi sentivo la testa pesante per i postumi di alcool e droghe di cui avevo abusato.
Mi prese per le spalle e mi guardò. «Dovevi dirmelo prima che avresti avuto così tante richieste, eshgh.» Troppe erano le cose che avrei dovuto dirgli prima. Inclinò il capo. «Cos’è che hai farfugliato la scorsa notte?»
Lo fissai per alcuni istanti percependo l’aumento dei battiti del mio cuore: non avevo riflettuto sul fatto che, nel mio totale stato di ubriachezza, avrei potuto aver rivelato di tutto. Mi morsi un labbro, intuendo di aver fatto più di un errore, come sempre dimenticavo di analizzare la situazione da ogni punto di vista. Sebbene oggi non vi sia quasi più nulla nella mia mente, quella mattina avevo ancora qualche ricordo confuso sulla notte che avevo ato con lui, solo piccoli barlumi di coscienza; però, di quei brevi istanti, nulla mi rivelava cosa avessi potuto dire.
«Ah, che volevi volare!» Sembrò soddisfatto e io mi rilassai. «Non posso fare miracoli, tuttavia per il resto ti accontenterò, se stanotte rimarrai sobria a godere della bellezza di Tabriz.»
“Sì, certo, proprio della bellezza di Tabriz!” commentò Dahaljer.
Trassi un lungo sospiro. «Oltre alla tigre, posso portare una persona?» domandai, cauta.
Fece un’espressione sorpresa. «Chi?»
“Già, chi?”
«Una mia amica. Una delle ragazze che ballavano con me, si chiama Maryām. So che non può venire, ma, vede, i suoi genitori sono di Tabriz e suo fratello è stato molto male, vorrei che avesse la possibilità di incontrarli.»
Mi regalò uno dei suoi bei sorrisi. «Ho sposato una moglie buona e altruista», approvò, compiaciuto.
“Hai sposato la mia ragazza, stronzo.”
«Va bene, se sarà pronta entro venticinque minuti. Non di più, però.» Mi baciò la fronte.
Hai sposato una vipera. Osservai io tra me; gli sorrisi e sgattaiolai di nuovo dentro al palazzo.
Fu così che Maryām preparò in tutta fretta un sacco e si unì al nostro viaggio per l’occidente. Se all’andata avevamo attraversato il deserto sul pelo di cavalli impolverati e sudati, al ritorno lo attraversammo in comodi fuoristrada neri ed eleganti. Non ero mai stata su una macchina come quella, erano completi di una tecnologia che io neanche avevo mai sognato.
Gli Uomini delle Terre d’Oriente non facevano che stupirmi. Ero consapevole di lasciare un luogo che era in grado di stregarmi.
Guardai Maryām, stretta accanto a me, sui sedili in pelle disposti a semicerchio nella nostra macchina; la vettura correva veloce sulla strada dritta e asfaltata che tracciava una linea nera tra le dune sabbiose. C’erano molte domande sul suo volto, ma non eravamo da sole, mi strinse una mano in silenzio e io ricambiai.
Con mia grande sorpresa, dopo qualche ora avevamo già raggiunto il porto. Il
mare degli Urali era scuro e agitato, le onde si infrangevano bianche e spumose sulla distesa d’acqua dal blu intenso. La nave sembrava aspettare solo noi e salpò dieci minuti dopo che eravamo entrati nelle sue fauci.
Le sue fauci erano grandi, buie e piene di altre macchine; seguiti da una serie di guardie del corpo e parte dell’entourage del sultano, fummo portati sul ponte, nella zona più alta. Era uno spazio riservato solo a noi. Nonostante il vento, che appiccicava sulla pelle e sui capelli l’aria salmastra, fu un viaggio tranquillo e la nave sembrava andare dritta e spedita senza oscillare minacciosa, come quella che aveva portato me e la mia amica in quelle terre.
Il Sultano di Nayband, avvezzo ai viaggi in nave che lo portavano dai suoi genitori, sedeva all’ombra di una tettoia in legno scuro ed era concentrato sulla lettura di un libro. Invero, aveva tentato di are il viaggio con me, parlando e abbracciandomi in modo affettuoso, ma mi aveva trovata scontrosa e irritante e vi aveva rinunciato.
Osservai Dahaljer guardarsi intorno, incuriosito. Con ogni probabilità anche il suo viaggio verso Terre d’Oriente doveva essere stato nel buio delle stive sottostanti. Forse anche per lui era la prima volta su una terrazza di una nave; sorrisi mentre si sdraiava sul pavimento per mantenere l’equilibro. Maryām intercettò il mio sguardo e io mi voltai.
Appoggiata alla battagliola con i gomiti, godevo del sole infuocato sulla mia pelle; lei mi raggiunse e mi guardò da sopra il bordo del suo velo. «Mia signora, perché…»
«Maryām, per favore, non sono la tua signora. Sto solo tentando di esserti amica, nei pochi modi che mi sono concessi», risposi nella sua lingua.
I suoi occhi verdi come il prato mi scrutarono. «Sì; perché?» La sua voce da bambina era ferma e seria.
Mi strinsi nelle spalle. «Perché no?» Non la stavo guardando.
Lei poggiò le mani sulla ringhiera bianca e strinse forte. «Tu, tu non volevi sposare il sultano, anche quando lui è diventato carino con te, poi però hai cambiato idea e lo sapevi perché mi hai allontanata. Lui ti piace, forse ti è sempre piaciuto, ma non era abbastanza, perché non lo ami, perché non condividi i nostri modi di vedere e vivere il matrimonio e perché, come mi hai fatto sempre presente, ami qualcun altro. Nei tuoi progetti non rientrava quello di sposarlo. Hai cambiato idea quando ti ho parlato di Tabriz; Tabriz per me è importante, lo sai il motivo poiché te lo avevo raccontato, per te invece non era nulla, eppure ho scoperto che lo è anche per te, ma non ne conosco il motivo. Cosa c’è qui che ti ha spinto a diventare sua moglie?»
Immaginai che quello fosse il discorso più lungo che le avessi sentito fare da quando la conoscevo. «Se siamo amiche, non dovresti chiedermelo», mormorai.
«Se siamo amiche, dovresti dirmelo tu.»
Feci un respiro profondo ascoltando i rumori forti e monotoni dei motori della nave e del vento nelle mie orecchie. Non sapevo cosa volesse rivelare la mia bocca e cosa no. L’ultima volta che mi ero fidata di una persona che ritenevo un amico, mi aveva tradita. Pasha era ancora qualcosa di fresco e doloroso, ancora non potevo credere che dietro ai suoi modi di fare ci fosse un inganno.
«Shayl’n, se stai pensando di andartene, manterrò il segreto. Se pensi che la nostra amicizia non sia abbastanza, pensa che te lo devo: Shiire Raja non avrebbe mai scelto me come sua sposa e qualsiasi altra ballerina non mi avrebbe dato questa possibilità.»
Osservai con scrupolo la schiuma bianca prodotta dalle onde che si rompevano sul fianco della nave, trovavo che fossero ipnotiche. «Non so ancora come, ma devo scappare e posso farlo solo da questo altro lato del mare. Devo andare via perché non posso vivere qui, devo farlo per me, per Dahaljer e perché ho una serie di responsabilità troppo complicate da poter spiegare nella tua lingua o in arindo, o, forse, anche nella mia.»
Con la testa indicò dietro di me. «La tigre è…» Non terminò la frase.
«Sì.»
Lei annuì con il capo. «Se posso aiutarti, chiedi pure.»
«Grazie», sussurrai con lieve imbarazzo.
«Il porto di Tabriz è a nord, fuori la città e vicino al deserto, dovete andare via quando siete là. Dopo sarà più difficile.»
Deglutii a forza, sentendomi il sangue pulsare veloce nelle vene. Dovevo farlo. «Accetteresti uno scambio di vestiti con me? Ho il mio mantello e il mio turbante. Possiamo entrambe nascondere il viso, ma per te sarebbe pericoloso.»
«Lo farò.»
Aggrottai la fronte, preoccupata. «Devi prima pensarci bene, perché quando lo scopriranno…»
«Lo farò, Shayl’n. Non ho mai avuto un’amica, credo ne valga la pena. Sarò contenta di rivedere la mia famiglia; se non ci riuscirò, sarò contenta di aver avuto un’amica che ha pensato a me, senza volere nulla in cambio. Sono una schiava del Sultano di Nayband, nessuno mi farà del male, comunque andranno le cose.»
Mi parve all’improvviso più grande della sua età. Sorrisi, grata. «Forse neanche io ho mai avuto un’amica.»
Ora che avevo una parte del piano, il viaggio mi sembrò più lento. Non avevo modo di parlare con Dahaljer e forse non ne avrei mai avuto. Nel momento giusto avrei dovuto imporgli un ordine con la mente, ma senza parole. Ignoravo se avrebbe funzionato, non lo avevo mai fatto e ne avevo solo sentito parlare. Una leggera morsa allo stomaco accompagnò il resto del tragitto verso Tabriz.
Il sole era tramontato quando la costa occidentale era davanti a noi e la nave si preparava ad attraccare con movimenti veloci, rullaggi e grida di marinai. Mi riempii gli occhi delle luci riflesse sul mare buio e tremulo e poi lanciai un’occhiata a Maryām.
Raggiunsi il sultano che guardava gli uomini sotto di noi, indaffarati con corde e
funi. Gli strinsi un braccio e lui mi guardò. «Vado a indossare le mie vesti, mio signore.»
Lui annuì distratto, allora lo strinsi più forte. La storia tra noi sarebbe potuta andare in modo diverso, se avessimo avuto la stessa cultura, se io fossi stata solo Umana, se lui non avesse avuto altre mogli; se lui non fosse stato un sultano e io una principessa. Se Maryām. Se Nilmini. Se Madre Brìgit. Se Dahaljer. Se Jean David.
Se, se, se. C’erano troppi se tra noi.
Lo attrassi a me e lo baciai. «Grazie di tutto», bisbigliai sulle sue labbra. «Scusami se ti lascio qui, devo andare», aggiunsi in maniera informale; non potevo farlo, neanche come sua moglie, ma era l’ultima volta che lo avrei fatto.
Mi accarezzò il viso con la mano, sorridendo. «Certo, vai, eshgh.»
Avevo già attirato su di me l’attenzione di Dahaljer, con i miei sentimenti di paura e con un bacio che avevo dato di mia spontanea volontà a una persona che non era lui. Ricambiò il mio sguardo e anche lui provò qualcosa che interpretai come paura. Forse era più complesso, ma non avevo il potere di leggere altro. O bianco o nero.
Abbassai le braccia e aprii le dita di entrambe le mani. Le richiusi e aprii le dita di una sola mano. Poi con l’indice indicai in basso. “Tra quindici minuti ti voglio giù”, dissi, anche se sapevo che non mi avrebbe sentita.
Il suo muso si sollevò appena, mentre gli avo accanto, seguita da Maryām.
“Se ci riesco”, rispose.
Lo fulminai con lo sguardo. “È un ordine!” E più di quello non potevo fare, entrai in coperta e scesi le scalette ripide dell’imbarcazione.
Dieci minuti dopo io e la mia amica avevamo ognuna i vestiti dell’altra e i volti coperti dal velo e le frange sugli occhi. Presi la sua sacca e tolsi tutto ciò che non mi serviva. Alla fine ci stavano quattro bottiglie d’acqua, i vestiti che mi aveva regalato il Capo Branco e l’elefantino di malachite, donatomi da Shiire Raja.
Presi le mani di Maryām. «Grazie, sono contenta di aver conosciuto una persona come te.»
«Anche io. Ora vai, io torno dal mio finto marito. E, Shayl’n, ti voglio bene, ti auguro il meglio.»
Non potevo vederla bene in viso e strinsi le sue dita. «Ti voglio bene anche io.» Mi voltai e andai nel ponte delle autovetture. Guardai i marinai che avevano già tirato giù il portellone prodiero, per me sarebbe stato facile uscire, perché mi sarei mescolata alle altre persone. Ma per Dahaljer? Mi guardai intorno cercandolo con gli occhi.
Forse avevo commesso un errore, avrei dovuto aspettare che il sultano ci portasse fuori entrambi e poi andarmene. Per allora, però, ci saremmo stati solo
noi e non avrei potuto allontanarmi senza essere vista.
Raggiunsi un gruppo di donne vestite come me e mi confusi tra loro. Nonostante lui non fosse là, io dovevo uscire in quel preciso momento o avrei rischiato di non avere un'altra possibilità. Quando i miei piedi toccarono terra, ebbi un sussulto. Ero arrivata a Tabriz, ero tra diversa gente ed ero sola. Mi allontanai prima che qualcuno mi potesse fermare e osservai da lontano le macchine che uscivano dalle fauci della nave.
“Dahal, dannazione, dove diamine sei?” Tolsi il velo perché volevo vedere meglio.
Sul ponte più alto non c’era più nessuno. Se il sultano era distratto come all’andata non si sarebbe accorto dell’assenza di Maryām, ovvero della mia. Ma si sarebbe accorto di quella di Dahaljer?
Una fitta di paura mi attanagliò le viscere. Non sapevo cosa avrei fatto se lui non mi avesse raggiunta, ormai non potevo tornare indietro come nulla fosse, ma non potevo andare via senza di lui. Mi appoggiai al muro sporco di un negozio chiuso e scrutai il molo illuminato. Io ero al buio e non avrebbero potuto vedermi. Mi morsi un labbro, incerta sul da farsi.
Maryām mi aveva detto di seguire delle stradine verso nord e poi svoltare a ovest, da là c’era il deserto. Pericoloso e buio, era l’unico nascondiglio possibile per due non Umani. Ma per una era troppo buio, non potevo andarmene senza di lui. E se fosse stato giorno me ne sarei andata?
Sulla banchina la folla stava scemando e io stavo tremando, non potevo
muovermi, anche volendo le mie gambe non avrebbero ubbidito.
Poi però avvertii la sua presenza e tirai un forte sospiro di sollievo. Senza neanche fermarsi a guardare, Dahaljer trotterellò oltre me. “Via da qui. Subito.”
«Dahal. Dobbiamo andare di là, verso nord.» Lui cambiò direzione e corse.
Era una tigre e correre in fretta era facile. Io invece ero in forma umana e per quanto potessi correre veloce non potevo mantenere il suo stesso o.
Arrancavo dietro di lui che si fermava di tanto in tanto ad aspettarmi. Avevo il fiato corto e il cuore che voleva uscire dal petto, per lo sforzo e la paura di essere scoperti. Ma nessuno ci inseguiva e, quando le strade asfaltate erano diventate polverose e le luci si erano allontanate dietro le nostre spalle per dare spazio al nulla, crollai sulle ginocchia e mi fermai.
“Shay.” La tigre tornò sui suoi i e mi si avvicinò.
«Scusa, sono esausta, ho bisogno di bere.» Presi l’acqua dalla mia sacca e ne mandai giù metà bottiglia. Cercando di recuperare un po’ d’aria. Lui mi girò intorno, nervoso.
Mi guardai indietro. Le luci del porto di Tabriz erano lontane e la città era molto più a sud. Non l’avrei mai visitata. C’era uno spicchio di luna nel cielo e bastava per illuminare il deserto infinito ai nostri occhi animali. «Andiamo», dissi, mettendomi in piedi.
Senza correre, mantenni un o veloce. In silenzio, senza riuscire a dirci nulla, camminammo tutta la notte. Puntavo a ovest, solo a ovest, verso il nulla. Il sole si sollevò rovente dietro di noi e ci disegnò le forme del nostro paesaggio. C’era una sabbia rossiccia, che si sollevava in basse dune, ma ovunque potevo scorgere l’orizzonte piatto, tranne a nord, dove, molto lontano da noi, si innalzavano delle montagne.
Con molta probabilità non erano neanche le undici quando mi fermai. Sempre sorvegliata dalla tigre, tolsi un po’ di abiti, ero un bagno di sudore e stavo perdendo troppi liquidi. Mi ai una lunga stoffa leggera intorno alle gambe, sul petto e sulla schiena, a metà tra come si portava un sari e un tapi. Tutto il resto lo tolsi e lo lasciai a terra. Presi il mantello di Maryām e mi ci avvolsi dentro, compresa la testa - ora priva del turbante - per non bruciarmi la pelle o prendere un’insolazione.
Presi la prima bottiglia che avevo già dimezzato e finii il suo contenuto. Mi sedetti sulla sabbia a gambe incrociate. Dahaljer mi si accucciò vicino. «Se muoio qui, potrò dire di averci provato.»
“Magra consolazione”, bofonchiò la sua mente.
In cielo non vi era neanche una nuvola. «Come si spiega il fatto che mi riesco a trovare nelle Terre del Nord in pieno inverno e nel deserto in piena estate?»
“Non te lo chiedere.”, ribatté pragmatico.
«Dahal, come hai fatto a raggiungermi? Per qualche momento ho pensato che non ci saresti riuscito, che sarei dovuta tornare indietro e rimanere a Tabriz.»
“L’ho pensato anche io. Anzi pensavo che te ne saresti andata senza di me e forse avresti dovuto farlo”, replicò, mesto.
Sorrisi, un sorriso amaro. «L’ho pensato», ammisi. «Ma non potevo farlo, se mi sono sposata con un sultano di Terre d’Oriente e sono scappata è perché c’eri tu.»
“Lo so e dobbiamo uscire vivi da questo deserto, tutti e due. Se tu muori, avrò accettato il tuo matrimonio per nulla, non puoi farmi questo.”
«Ma tu non lo hai accettato», lo corressi e allungai una mano verso di lui, che si spostò verso di me e si fece accarezzare.
“È vero. Ma non puoi farlo lo stesso.” I suoi occhi blu mi scrutarono. “Sono entrato in una delle macchine e mi sono fatto vedere da una delle guardie e poi quando erano indaffarati sono riuscito. Ho fatto lo stesso con un'altra macchina e altre due guardie, così che potessero credere tutti che ero almeno in una delle automobili. Poi mi sono arrampicato su un furgoncino e mi sono spiaccicato là dentro come una bella sogliola. Dovevi vedermi.”
Mi fece ridere, divertita. La sua lingua leccò le mie dita e non potei non guardarlo con tenerezza. «Mi manchi. Voglio dire, mi manca il tuo corpo. Mi manca vederti, mi manca stringerti, baciarti, tutto.»
Ruggì con un suono basso e profondo. “Non puoi neanche capire quanto io manchi a me stesso. Non la sopporto più questa pelliccia. Ho bisogno di tornare nella mia forma umana, prima che mi sbrani da solo.”
«Dahal, come faremo a liberarci? Se riusciamo a uscire da qua e a trovare qualche Tigre Bianca, non è detto che siano disposti a liberarci. Poi tu… hai bisogno di un medico per farlo.»
I suoi occhi brillarono. “Mentre tu ti gingillavi con il Sultano di Nayband io ho già pensato a come risolvere il fattaccio. Ma dobbiamo arrivare a Bursa, dopo Nuova Ankara, e non sarà facile.”
Aggrottai la fronte. «Chi c’è a Bursa?»
“Un dottore. Il tutore di Nalinika, lo conosco bene ed è una brava persona, lui ci aiuterà. Dobbiamo arrivarci, però.”
57
Dovevamo solo arrivarci. E non era per niente facile.
Viaggiavamo di notte, da prima del tramonto a poco dopo l’alba e il giorno sonnecchiavo sotto l’ombra del corpo di Dahaljer. Ma non avevamo da mangiare e il quarto giorno finì anche l’acqua. Sapevo che il corpo umano poteva resistere senza cibo per diversi giorni, ma non senza acqua, soprattutto in mezzo al deserto sotto il sole cocente.
Fu il vento che si alzò da ovest a peggiorare la mia situazione: era talmente secco da asciugarmi la lingua alla minima boccata. Anche gli occhi mi parvero disidratarsi sotto quel soffio graffiante.
Al sesto giorno da quando avevamo lasciato il porto di Tabriz, le mia mente iniziava a offuscarsi, il mio corpo a farsi debole e la mia bocca e la mia lingua si succhiavano a vicenda nel vano tentativo di bere saliva. Ero un Lupo Grigio e in parte una Tigre Bianca, gli Umani ci avevano creato per sopravvivere agli eventi catastrofici del duemiladodici, ma quanti giorni avrei resistito ancora?
Neanche Dahaljer sembrava stare bene, procedeva ondeggiando, mettendo una zampa dietro l’altra come per inerzia e non parlavamo più, perché era faticoso. Lo guardavo con le palpebre semisocchiuse e mi domandavo troppo spesso se potevamo arrivare alla fine di quel deserto vivi. Avevo tanto sperato che mi venisse a salvare ad Ammanir, avevo sperato che mi venisse a prendere e che mi portasse in un luogo fuori dal mondo dove poter vivere in pace soltanto lui e io, nelle splendide giornate di sole che io amavo, per il resto dei nostri giorni. Ero
stata io, però, a portarlo via da là e ora ci trovavamo davvero fuori dal mondo, soltanto io e lui, in una splendida mattina di sole.
Quel pensiero mi fece scoppiare a ridere.
E la risata isterica che mi uscì dalle labbra mi colpì la testa come uno schiaffo, una fitta dolorosa. Dahaljer si voltò a guardarmi e le mie gambe si sciolsero come burro fuso su una padella infuocata.
Non avevo fame, perché quando sei a digiuno per molti giorni, il corpo non avverte più il bisogno di cibo, ti dice solo che stai morendo. Con l’unica energia che mi era rimasta in corpo iniziai a ridere come se fossi ubriaca.
“Shay!” La voce preoccupata della tigre mi invase il corpo e le mie risate si trasformarono in un singhiozzo o forse due. Mi accasciai su di lei. “Shay. Shayl’n, resisti, per favore.”
Scossi appena la testa. Resistere per cosa? Per arrivare fino a dove? Avevamo preso la strada sbagliata ed erano troppi giorni che camminavamo. Avevamo fatto la scelta sbagliata, anzi l’avevo fatta io. Non potevamo arrivare da nessuna parte, eravamo persi in un deserto senza nulla, solo la sabbia si alzava ogni tanto mossa dal vento e danzava leggera sull’acquoso riflesso del sole sui granellini infiniti. Volevo dirglielo, ma dalla mia bocca non uscì nessun suono e i miei occhi si chio.
“Ti prego, Shay, mettiti in piedi. Non puoi mollare così, non puoi lasciarmi qui da solo. Amore, ti prego, per favore.”
Amore… com’era dolce la sua paura. Lo era sempre stata. Lasciai la presa su di lui e mi abbandonai a terra. Pensai a Màlica, pensai che mi aveva salvata, pensai che avrebbe potuto farlo di nuovo, e che avrebbe solo dovuto riportarmi in quel posto. Volevo dirgli anche quello ma non ci riuscivo, non ero in grado di muovere un singolo muscolo. Lo sentii afferrarmi i vestiti con i suoi lunghi denti affilati, mentre io volevo parlargli e raccontargli tante belle storie.
Il mio corpo liquido scivolava sulla sabbia, trascinato come uno straccio, forse avevo ancora voglia di ridere e mi innervosivo all’idea di non riuscirci, volevo solamente ridere, invece lui mi trascinava e la sabbia mi entrava negli abiti, bollente.
E lui non si fermava e il sole picchiava sulla pelle. E lui non si fermava e io volevo che mi lasciasse in pace. Ma poi si fermò e mi lasciò da sola.
Dahaljer se ne andava, se ne andava via, senza di me.
Andato via, mi aveva abbandonata e io volevo salutarlo, solo salutarlo, solo dirgli ciao e lui doveva dirmi ciao; cosa gli costava dirmi ciao? E lui se ne era andato. Senza dirmi ciao.
Poi tornò e prese i miei vestiti e io ero impigliata dentro e lui forse voleva solo i miei vestiti.
“Shayl’n, so come salvarti, ma dobbiamo scendere e là c’è la roccia. Farà male. Amore, non riesco a portarti meglio di così. Hai capito? Shay, per favore,
resisti.”
Non sapevo se stessi resistendo. Sentivo la sabbia sotto di me farsi dura, sentivo la pietra, sentivo che scottava, aprii appena gli occhi e vidi il cielo allontanarsi dietro un’alta parete giallina. Mi portava nelle viscere della terra, nell’inferno bollente. E io bollivo.
Richiusi gli occhi.
Volevo dormire, volevo pregare, volevo sognare, volevo volare, volevo ballare. Volevo, volevo, volevo. Non volevo niente. Niente. Ma poi di nuovo lui mi lasciò e io ebbi paura. Lui miagolò, mi strattonò, mi leccò il viso e miagolò di nuovo.
«Va bene», disse qualcuno in persiano. E il qualcuno mi raccolse da terra.
Socchiusi gli occhi e mi protesi verso la tigre, emettendo un suono profondo che vibrava nella mia gola come un piccolo lamento. Dahal, Dahal, Dahal.
«Viene anche la tua amica», mi assicurò Qualcuno, con un tono cantilenante. «Non ti preoccupare.»
“Sono qui, Shay. Ti seguo.” Chiusi di nuovo gli occhi e lasciai che Qualcuno mi portasse con sé, che mi sussurrasse parole di incoraggiamento e mi deponesse su qualcosa di morbido. Poi mi tirò su la testa e mi fece bere un po’ d’acqua. Ne volevo di più o forse di meno, non lo sapevo, ma mi fu tolta. Un altro uomo
parlò con Qualcuno e non capii.
“Puoi riposarti ora, amore, adesso ci pensano loro.”
Allora sorrisi o pensai di farlo e mi addormentai.
***
C’erano delle tende che svolazzavano leggere, le sentivo frusciare nelle orecchie. Aprii gli occhi e le vidi volteggiare morbide in una brezza fresca.
“Buon giorno, amore. Ben svegliata.” Dahaljer mi leccò. “È mattino, fuori fa caldo, ma qui dentro si sta benissimo e siamo vivi. Come stai?”
Mi stiracchiai e mi sollevai a sedere, incerta e intontita. Aveva ragione, faceva quasi freddo. «Dove siamo?» chiesi con voce roca.
“In un monastero. Ci sono dei monaci qui che ti hanno salvata. Per quanto mi riguarda ho mangiato come una tigre.”
Gli lanciai un’occhiata. «Sei una tigre», bofonchiai.
“Appunto.” Inclinò il muso. “Come stai?” ripeté.
Mi guardai. «Se sono viva come dici, sto bene. Se sto in Paradiso, anche.»
“Sei viva, sei decisamente viva.”
Annuii. «Per questa volta ci è andata bene.»
“Più che bene, direi. Mangerai anche meno di me, ma il tuo corpo reagisce molto male alla privazione di cibo e, per quanto possa piacerti il sole, mia cara, reagisci anche peggio alle insolazioni, l’avevo pensato già a Màlica. Tocca sempre a me salvarti dal tuo amato sole.” Fece una pausa. “Che dici, sono in pari con i miei debiti?”
Sorrisi al ricordo. «Credo di sì.» Mi appoggiai con la schiena alla spalliera del letto, osservando le pareti rocciose del lato interno della stanza.
“Bene.” Lui posò la testa sulle mie gambe e mi fissò.
ò del tempo prima che gli chiedessi a cosa stesse pensando.
Sembrò valutare cosa dire. “Alla prima volta che ti ho detto ti amo.”
«Oh», dissi stupita, facendo scorrere l’indice su una piega del lenzuolo. «In effetti non è stato molto romantico.»
“Non pensavo a questo. Penso… che non fosse vero. Credo che tu mi pii molto e fossi la cosa più bella che potesse capitarmi, che ti volevo e che non volevo perderti. Ma ho imparato ad amarti davvero solo dopo, solo quando eravamo a Màlica ed eri mia, e quando tu eri a Praha e io perso sulla neve e mi mancavi più dell’aria. Ho imparato ad amarti quando eri tanto vicina a me quanto lontana e facevi di tutto per mettere alla prova i miei sentimenti. E quando mi hai ferito con le parole più che con i fatti.” Mugolò. “E poi dopo, quando pensavo di averti persa per sempre e quando eri là, ad Ammanir, e io volevo portarti via, ma non vedevo via d’uscita; e tutte le dannatissime volte in cui ho pensato di perderti. Ho capito la differenza. Ho capito che avevo bisogno di te perché ti amavo e non l’incontrario.”
Sbattei le palpebre. L’amore vero dovrebbe durare di più di qualche battito di cuore. Lo avevo detto io.
“Shay, non fraintendermi, ero innamorato di te, solo che…”
«Lo so», lo interruppi con dolcezza. «So cosa vuoi dire, lo penso anche io. Ma sono contenta che tu me lo abbia detto allora. Non sarei potuta andare avanti senza.»
Restammo immobili a guardarci. È oltremodo difficile affrontare discorsi di tale portata con un animale di trecento chili che ha disteso il muso sulle tue gambe. Non eravamo solo Umani, tuttavia era quella la nostra specie e io desideravo avere le sue mani sulla mia pelle, le sue labbra sulle mie, udire la sua voce nell’aria, toccare i suoi capelli; potevo morire se mi fosse stato negato ancora a lungo, ne ero certa. Un leggero pizzicore mi salì agli occhi e mi sforzai per non lasciarmi travolgere da quel senso insopportabile di mancanza. «Non avrei mai immaginato che una tigre potesse fare di questa filosofia» scherzai, mostrandomi allegra. «Una tigre maschio, per giunta: un miracolo della genetica.»
Lui fece un movimento veloce, spalancò la bocca emettendo un bassissimo ruggito e mi azzannò una coscia con una leggera pressione. “Prima o poi ti mangio tutta, piccola ragazzina rompiscatole.”
Ridacchiai. «Fai il gradasso solo perché io non posso trasformarmi.»
“Meglio approfittare delle debolezze di una principessa.” Mi lasciò e scese dal letto, allontanandosi verso una finestra. Scivolai fuori dalle lenzuola anche io, esitante, e lo seguii.
Affacciandomi, rimasi senza fiato. Ci trovavamo in una gola lunga e stretta, in basso ava un piccolo ruscello, c’era qualche palma e qualche altro albero verde, il resto era di un color sabbia spento ma intenso. Il monastero si ergeva lungo le due pareti della roccia, arroccato in senso verticale, in torri, ballatoi e piccole cupole, tutto dello stesso colore della roccia.
«No, sono morta e questo è il Paradiso», commentai.
“Sei viva e questo è un posto fantastico”, mi corresse Dahaljer. “Loro se ne stanno tutto il giorno qui a meditare, parlano un vecchio dialetto dello iuropìan romanzo -che c'entra ben poco con le radici della tua lingua- il turco, credo. Non hanno parlato con me, sono Uomini. Ma sapevano che neanche tu lo fossi e non se ne sono preoccupati. Vieni, andiamo giù.”
Mi strinsi nel mantello e scesi con lui su ripidi scalini, interni e esterni alla struttura. Quel luogo sembrava da fiaba. Fuori, l'aria era più calda ma piacevole.
Una brezza leggera muoveva le foglie delle palme, verdi, contro il paesaggio dai colori tenui e omogenei. L'acqua del ruscello saltellava su piccole cascatelle, producendo un rumore festoso.
Una volta raggiunta la base del monastero, sentii delle cantilene. Mi voltai per vedere da dove venissero, ma mi trovai una persona di fronte e dovetti fare un o indietro.
“È lui che ti ha soccorsa”, mi assicurò la tigre.
«Buongiorno», dissi in persiano.
Lui chinò il capo pelato. «Buongiorno a te. Come stai oggi?»
«Bene. Meglio. Grazie», risposi quasi sulla difensiva.
Portava un lungo abito nero dalle maniche larghe e, tirando fuori una mano, me l’allungò. «Sono Aghatias e mi occupo di questo monastero.»
“Non è un nome persiano”, osservò Dahaljer.
Gliela strinsi. «Shayl’n Til.»
“In effetti il tuo nome non è proprio neppure umano, senza la u maiuscola, eh. Tua madre ne aveva di fantasia. Te l’ho mai detto?”
L’uomo mi mostrò un sorriso un po’ sdentato. «Vieni con me.»
Mi portò in una piccola rientranza del palazzo, dove mi fece sedere su una sedia in vimini scricchiolante e mi offrì un dolce ai pistacchi. Ne presi uno, incerta.
«Lo stomaco si chiude, quando non lo si usa per diversi giorni», mi informò. «Dove se ne va da sola nel deserto una donna dei Lupi Grigi con una Tigre Bianca?» L’uomo di fronte a me non era uno sprovveduto e mi guardava con curioso interesse.
“A fare una eggiata romantica.”
Non potendo mentirgli del tutto, per qualche motivo a me oscuro, gli spiegai che eravamo stati rapiti, per essere venduti in Terre d’Oriente, ma che a Tabriz eravamo scappati, che stavamo tentando di tornare nelle nostre terre e che dovevamo raggiungere Bursa.
«Ah Bursa, uno dei ragazzi più giovani è di quelle parti, nella zona degli Uomini, però. Vedrò cosa posso fare per voi. Di certo non potete rimanere qui. A meno che tu non abbia intenzione di farti eremita.»
Scossi il capo. «Non ne ho. Il periodo da sola nel deserto mi è bastato.»
“C’ero anche io.”
«Lo sospettavo.» Si alzò. «Mi piacerebbe parlare con te, ma ho alcune funzioni da svolgere; muovetevi come meglio credete, vi farò portare pranzo e cena in camera. Nessuno parlerà con te qui, quindi non fare domande, non ti risponderanno.»
“Come sono misteriosi. Sono qui a non fare nulla dalla mattina alla sera.”
L’uomo parve assorto per alcuni istanti. «Vi farò sapere come posso aiutarvi», disse infine. «Se ti si apre lo stomaco, ricorda di non esagerare con il cibo, non ti farà bene.»
“Se le si apre lo stomaco, mangerà pure te.”
«Va bene. La ringrazio.» L’uomo si allontanò e io rimasi seduta nel fresco della grotta. «Smettila di commentare tutto a mio discapito.»
“Perché mai?”
«Perché mi fai ridere e mi distrai.»
“Almeno ti faccio ridere, tu mi metti una tristezza quando gli guardi la bocca sdentata in quel modo così serio.”
Risi piano e gli lanciai un calcio, che lui evitò con un movimento fluido del corpo.
Fu così che rimanemmo in quel monastero costruito sulle rocce di una gola nel deserto, riprendendo le nostre forze e il nostro appetito - il mio perlomeno, poiché lui non lo aveva mai perso - e ascoltando le nenie dei monaci, vestiti di nero. Come da avviso, nessuno parlò con noi.
Poi Aghatias ci disse che uno dei ragazzi ci avrebbe accompagnati in un vicino villaggio e che da là altre persone ci avrebbero accompagnati a Bursa. Ero indecisa perché mi sembrava strana tanta cortesia, tuttavia non avevamo molta scelta. Il giorno seguente lasciammo il monastero e in groppa a un cammello seguii un ragazzo che doveva avere meno di diciotto anni.
Non era intenzionato a scambiare una conversazione con noi, in nessuna lingua, e quindi fu in viaggio silenzioso.
Faceva caldo e i nostri cammelli ondeggiavano sgraziati. Continuavo a pensare che l’aggettivo migliore per loro fosse ‘buffi’ e trovai più imbarazzante scendere che salire, poiché ebbi l’impressione che, piegandosi a terra sulle zampe anteriori, volesse buttarmi a terra da sopra la sua testa.
“Non è giusto, anche io voglio salire su un cammello”, si lamentò la tigre.
Il nostro accompagnatore parlò con degli uomini che squadrarono la tigre più di una volta e poi si concentrarono su di me. Parlavano iuropìan romanzo, ma
spesso usavano una lingua che non conoscevo e che mi faceva perdere il senso di molte frasi.
Alla fine ci fecero salire su un vecchio pulmino e viaggiammo per diverse ore. Ero stanca e mi facevano male i muscoli. Era notte quando si fermarono e ci fecero scendere.
«Signora, questa è Nuova Ankara, per Bursa dovete continuare da soli, perché è la vostra terra e noi Umani non possiamo arrivarci. Continuate su questa strada sempre dritto.» Un ometto dalla faccia squadrata si sforzò di parlare in perfetto iuropìan per farsi capire.
Lanciai un’occhiata a Dahaljer e poi tornai a guardarlo. «Va bene», replicai, senza sapere che altro aggiungere.
“Insomma, in piena notte chissà dove vuole che andiamo.”
Ma non potevamo fare altro. Quando ero andata a salutare e ringraziare Aghatias, lui mi aveva lasciato del denaro. A quell’ora e con una tigre al seguito, però, era poco utile.
In silenzio ci incamminammo lungo la strada buia. Ogni tanto ava una macchina e noi ci tenevamo lontani dal ciglio per non farci vedere. Pur essendo molto larga quella strada univa una zona abitata dai Tiouck con una abitata dagli Umani, le macchine che contammo non arrivavano neanche a dieci.
Nuova Ankara non aveva nulla a che fare con la città che era stata prima del duemiladodici, si trovava in un luogo diverso e come Roma e la maggior parte delle città degli Uomini in quella parte del globo, era per lo più fatta di piccole case e baracche. Nuova Eyropa era un continente che si era allungato e così camminammo verso nord. Le pianure del deserto si erano trasformate in montagne già dal nostro lungo tragitto in macchina e il paesaggio si riempiva di abeti. Per due giorni viaggiammo seguendo l’unica strada che univa le diverse terre.
Ero di nuovo stanca, questa volta però avevamo acqua e cibo e Dahaljer catturò qualche piccolo animale da mangiare. A volte rimanevamo in silenzio per parecchie ore, tuttavia era un silenzio confortevole. La notte l’aria cominciò a farsi fredda e io mi rannicchiavo sotto il suo corpo caldo e peloso, ascoltando i battiti del suo cuore e pensando che da qualche parte nel suo corpo c’era del ferro che gli impediva di tornare in forma umana e che faceva male per tutto ciò che significava.
Una sera mi disse che quando ero in prigione a Praha aveva discusso con Tagron. “Non è stato un caso che ti avesse lasciata là dentro per così tanti giorni. Non era solo perché lui era lontano e molti avevano paura di te, lo stava facendo per far capire come era fatto. Voleva che tu capissi con chi avevi a che fare. Stava giocando con te a tue spese.”
Mi strinsi a lui, non sapendo cosa dire.
“È stata la prima volta che lo vedevo in modo diverso, ma non è stato facile, non riuscivo ad accettarlo. Avevo un’idea di lui com’era, sapevo che non era perfetto, ma non avevo mai dubitato di lui da quando ero ragazzino. Ho finito per negare anche l’evidenza perché ammetterlo era troppo doloroso.”
«Mi dispiace.»
“Ora che lo so, però, anche se l’ho dovuto accettare a forza, sto meglio, so chi è davvero, vedo le cose da una giusta prospettiva e in qualche modo sto meglio. È solo che… è stato così difficile, io non volevo vedere in lui una persona diversa da quella che ho sempre creduto fosse. Desideravo solo che rimanesse ciò che avevo nella mente. Che corrispondesse a quello.”
«Lo so.»
“Ma c’eri tu e io non potevo sopportarlo. Lui, tu… Shay, mi dispiace, mi dispiace averti fatto questo. Se solo…”
«Dahal», strofinai il viso nel suo pelo. «Lo so. Lo so davvero. E ora le cose sono cambiate, più di quanto avessimo mai preventivato, ma la realtà è questa. Non importa cosa è stato prima, importa ora.»
Il nostro viaggio a piedi, tra i boschi, continuò in questo modo. Indossai gli anfibi e i vestiti che mi aveva regalato, ci fermavamo per mangiare o per dormire e mentre lui pensava al re dei Tiouck, io pensavo a Jean David, ai suoi lunghi capelli biondi e a come sarei riuscita a raggiungerlo.
Arrivammo a un bivio e seguimmo i cartelli svoltando verso ovest e di nuovo verso nord. Poi, quando ormai mangiavo la carne che Dahaljer catturava e bevevo nei gorgoglianti torrenti d’acqua, in una piccola valle dall’intenso color verde degli abeti, si disegnò il profilo di Bursa.
58
Dahaljer mi guidò lungo i pendii esterni alla città. Ero un Lupo Grigio e non potevamo rischiare di imbatterci in qualcuno che avrebbe fatto domande. Per una volta, la sorte era dalla nostra parte e la casa del tutore di Nalinika si trovava in periferia, alle pendici della montagna che dava verso nord.
Impaziente, la tigre aveva accelerato l’andatura e facevo fatica a tenere il suo o. Lo seguii nel cortile di un’abitazione su due piani, piena di gerani.
Il sole stava tramontando e la mia ombra si disegnò sulla porta. Bussai, incerta.
Percepivo la presenza di due persone, ma fu una terza ad affacciarsi alla finestra. Una bambina dai grandi occhi grigi e il naso schiacciato mi guardò corrucciata e lanciò un’occhiata alla tigre. «Chi sei?»
«Ehm…»
“Dille che stiamo cercando Nikolaos Kristoforos.”
«Sto cercando il dottor Kristoforos», le risposi.
Lei chiuse la finestra e sparì, senza dire una parola.
Dopo meno di un minuto una delle due presenze che sentivo aprì la porta. Un uomo alto come me e con il naso schiacciato come la bambina squadrò i miei occhi verdi e poi la tigre. «Tu…» esordì guardandola e aggrottando la fronte.
«Lui è Ahilan Aadre», dissi io. «E io sono Shayl’n Til Lech. Lei è il dottor Nikolaos Kristoforos?»
«Sì, sono io.» La tigre provò a comunicare con lui con la mente, ma non ci riuscì, dovevano essere su due livelli di gerarchia differenti. Mi sentii a disagio, perché dovevo fare da tramite e, nella mia posizione, non era facile come previsto. Sulla soglia della sua casa, gli spiegai in poche parole cosa fosse successo a Dahaljer.
Ci scrutò per qualche istante, poi ci fece cenno di entrare. Indugiai sulla porta, esitante.
«So che non menti riguardo ad Ahilan, perché lo sento che si tratta di lui e se lui è con te, mi fido», tentò di rassicurarmi.
La testa della tigre mi diede una leggera botta sulle gambe. “Entra.”
Ancora incerta seguii l’uomo nell’ingresso e nella sala. Aveva una casa grande e accogliente. Una donna dai fianchi generosi e la bocca a cuoricino raggiunse l’uomo che la presentò come Sybil e le riportò quanto io avevo detto a lui. Lei
rimase a bocca aperta tutto il tempo, poi si sedette per qualche secondo sul divano accanto a lui e si rialzò come se avesse dimenticato qualcosa. Tornò con dei biscotti e del succo di frutta e ci lasciò soli.
«Allora, raccontami tutto», mi invitò Nikolaos. «Dall’inizio.»
Presi un gran respiro e spinta da Dahaljer, lo feci. Non dissi, però, che ora ero una donna sposata e la tigre non me lo fece notare.
Il dottor Kristoforos era un uomo paziente, forse grazie alla professione che faceva; mi ascoltò senza interrompermi, lanciando solo qualche occhiata ad Ahilan quando lui parlava e io riportavo. Sapeva di Nalinika, lo sapevano tutti, era una principessa anche lei e la sua morte era di dominio pubblico. Sapeva della guerra e degli ultimi avvenimenti, invece non aveva nessuna idea di chi io fossi, né di che fine avesse fatto il Capo Branco in quel periodo.
Mostrava solo una leggera sottomissione, per natura. Mentre la moglie, che si aggirava per casa, mostrava un chiaro sentore di paura. La figlia appariva e scompariva sulla soglia, con la faccia incuriosita, ma senza disturbare e senza intervenire o entrare nella sala. Quando finimmo il racconto, era buio.
Il dottore si schiarì la voce. «Posso operarti, Ahilan, ma se non posso operarti in ospedale perché rischioso, dovrò farlo qui nel mio studio.»
“Va bene.”
«Dice che va bene.»
Nikolaos scosse la testa. «È pericoloso. Qualsiasi cosa dovesse succedere, non ho una sala rianimazione qua, inoltre sono da solo.»
“Oh, al diavolo, meglio morire”, borbottò la tigre.
Strinsi le labbra. Da quando ero entrata non ero riuscita a rilassare neanche un muscolo e ora provavo un intenso sentimento di paura, che doveva essere percepibile.
«Mi dispiace, io qui non ho altri mezzi e, per una cosa del genere, non posso fidarmi di nessuno.»
“Digli che va bene, Shay!”
«Dice… dice che va bene», ripetei, afflitta.
Il dottore lo guardò negli occhi. «Non posso farlo subito, ho bisogno di comprare delle attrezzature adatte e domani sarò a lavoro. Posso farlo dopo domani, se a voi va bene.»
Entrambi annuimmo.
«Potete rimanere qui. Ho una dependance in giardino, la usiamo come garage a dire il vero, ma il piano superiore ha un letto e un piccolo bagno. Non ho mai fatto il collegamento dei cavi quindi non c’è elettricità, non so se…»
«Andrà benissimo», dissi con gentilezza. «Le siamo grati. Io le sono molto grata», precisai.
“Oh, anche io molto.”
Non lo ascoltai. Sybil mi permise di fare un bagno in casa loro e io accettai di buon grado. Cenammo con loro, mentre lei e la figlia Sophia ci osservavano di sottecchi. Sybil mi prestò una sua camicia da notte e io e Dahaljer andammo a dormire presto, senza neanche accendere le candele che ci avevano dato.
Il giorno dopo il medico andò a lavorare e la bambina a scuola. Sybil rimase in casa e, senza nascondere la sua paura, mi preparò colazione e pranzo. “Che strana mogliettina”, commentò Dahaljer.
«Per quanto mi riguarda è la prima famiglia normale che vedo in vita mia», ribattei, distratta.
La nostra camera aveva un letto matrimoniale e una cassettiera di compensato a cui mancava un cassetto. Non c’era niente’altro e sembrava abbandonato a se stessa. Immaginai che non usassero mai quella stanza.
La sera mangiai con loro, mentre Sophia si alzava di continuo dalla tavola per
accarezzare la tigre. “Mi ha preso per un cane”, bofonchiò lui, senza però sottrarsi a quelle attenzioni. “Se si pulisce le mani appiccicose sulla mia pelliccia, la sbrano.”
Non potevo dargli torto e quell’aspetto sfuggiva dalla mia comprensione: tutti loro erano Tigri Bianche, i bambini non erano abituati a vederle?
Mi addormentai a fatica osservando Dahaljer sdraiato ai piedi del mio letto e feci sogni agitati. Il giorno dopo, a metà mattinata, il dottore addormentò la grossa tigre bianca. Non fui in grado di dire nulla, mentre lui faceva battute stupide; lo salutai con una carezza sulla testa e rimasi tutto il giorno in sala, senza riuscire a fare nulla.
Con qualche difficoltà, Sybil mi liberò dai cerchietti di ferro, facendoli scattare con degli strumenti che aveva comprato Nikolaos, mi osservò massaggiarmi il collo e i polsi e non mi disturbò più, mentre il marito nel suo studio trasformato in sala chirurgica apriva il petto a Dahaljer. Nel primo pomeriggio avevo i muscoli indolenziti per quanto erano tesi, non ero riuscita a toccare cibo e mormoravo qualche preghiera, senza pensarci.
Quando l’umore del dottore si calmò, mi calmai anche io e quando mi raggiunse con animo pacato, avrei quasi voluto saltargli al collo. Mi costrinsi a rimanere seduta sul divano, mentre sorridevo come un’idiota.
«L’operazione è andata bene. Ora deve solo riprendere conoscenza, quando lo avrà fatto, lo farò trasformare. E potrò continuare a curarlo.»
«Grazie.» La voce mi uscì in un sussurro.
«Mi piacete voi due.» Sorrise con tenerezza paterna. «Ora però riposati, va bene?»
Ero rimasta in tensione per così tanto tempo che riposarsi non era facile, l’adrenalina della paura viaggiava ancora nel mio corpo, ma dopo un’ora crollai e mi addormentai sul divano. Tuttavia feci sogni confusi e ansiosi.
Mi svegliò la voce squillante di Sophia, che parlava con sua madre di come era andata a scuola. Era buio e feci uno scatto, chiedendomi quanto tempo avessi dormito.
Andai in bagno e uscendo incrociai Sybil. «Oh, sei qui. Vai nello studio, Nikolaos ti aspetta.»
Non me lo feci ripetere due volte.
Bussai alla porta, ma non aspettai che mi rispondessero.
Il dottore mi sorrise.
«Svegliato e trasformato, ma ho dovuto riaddormentarlo e dargli qualche altro sedativo. In ogni caso ha bisogno di riposo.»
Imbambolata, fissai il letto.
«Vieni. Non si sveglierà, ma puoi stare qui.»
Raggiunsi Dahaljer e mi inginocchiai accanto a lui e il dottore ci lasciò soli. Con il cuore in gola contemplai il suo bel viso e respirai a fondo. Aveva la peluria della barba di qualche giorno, mi chiesi se fosse quella che aveva quando Tagron gli aveva ordinato di trasformarsi. Gli accarezzai il volto con le dita, notando che mi tremavano.
Feci scivolare una parte del lenzuolo verso il basso per osservargli il torace. Una benda doveva coprire il taglio del bisturi sotto le costole; non aveva altri segni a parte quello accanto al cuore, lasciato dalla lama del pugnale di uno dei banditi che lo aveva quasi ucciso. Una linea dritta sbiadita. Se non fossi stata con lui a distrarlo, quella volta, forse non l’avrebbe avuta, era a causa mia che aveva quel segno indelebile.
Era una Tigre, un paio di giorni e avrebbe potuto camminare e fare sforzi, doveva solo stare attento all’alimentazione e usare alcune pomate e altre medicine.
Strinsi una sua mano nelle mie e poggiai le labbra su una sua guancia. Sentivo il cuore scoppiarmi nelle vene e sorrisi, cercando di non piangere, continuando a baciargli il volto con tocchi leggeri.
Smisi quando una figura minuta si materializzò sulla porta. Mi voltai a guardarla. «Ciao, Sophia», la salutai con la voce incrinata dal nodo che avevo in gola.
«Guarda che è vivo», mi informò, seria.
Risi piano e annuii. «Sì, lo so.» Mi alzai. «Sei venuta a chiamarmi per cena?»
«Sì, è pronto», rispose senza smettere di studiare la mia espressione.
«Un minuto e vengo.»
Quella notte, dormii serena, sul mio grande letto, sopra il garage.
Il mattino seguente, andai a vedere come stava il paziente. Dormiva ancora beato e non lo disturbai. Rilassata, dissi al dottore e alla moglie che avevo bisogno di trasformarmi e di rimanerci per un po’. Ed era vero, non mi era mai parso così tanto una necessità come in quel momento. Avevo la mente libera e mi allontanai a quattro zampe, vagando per i boschi. Ero un lupo, striato, ma un lupo e non volevo incontrare nessuno. Rimasi sulle montagne tutto il giorno, sentendomi un tutt’uno con la natura come non mi era mai capitato.
Soffiava un vento leggero e il bosco sapeva di muschio e resina, di terra umida e di piccoli animali pelosi. Rumoreggiava assorto e vibrava di una vita che da Umana non avevo mai percepito così bene.
Tornai con il tapi che mi aveva dato Sybil stretto in vita e sul petto, prima che tramontasse. Salii in camera, mi vestii con un paio di jeans e una maglietta sempre presi da Sybil e riscesi per dire che ero in casa. In cortile percepii la
presenza di qualcuno non troppo lontano a me e mi voltai.
Rimasi immobile.
Dahaljer mi raggiunse quasi correndo. Restai senza fiato quando mi strinse a sé sollevandomi da terra. «Dahal», mormorai mettendogli le braccia al collo, ma lui mi riempì di baci e io non potei fare a meno di ridere con un gorgoglio simile a quello dei neonati. «Dahal», ripetei. «Non dovresti fare questi sforzi, oggi.»
Mi lasciò scivolare a terra. «Lo so, ma ti avrei stretta anche se avessi avuto le braccia impallinate e grondanti di sangue. Dio, non sai quanto avevo voglia di farlo.»
Lo guardai negli occhi incapace di realizzare cosa stessi vedendo, tanto lo avevo sognato. Incapace di ascoltare la sua voce calda e profonda risuonare nell’aria e nelle mie orecchie.
Lo strinsi, godendo delle sue braccia intorno alla mia vita, che mi avvolgevano sicure come le liane attorno agli alberi; poi mi scostai e lo guardai ancora. Anche lui indossava degli abiti che aveva comprato Sybil. Alzai il mento verso di lui. «La vita felina forse ti fa bene. Ti ricordavo bellissimo, eppure sei venti volte meglio.»
«Tu, invece, sei venti volte meglio ogni giorno che ti vedo.»
Ridacchiai imbarazzata. Inclinai la testa e lo squadrai, ancora incredula. Poi lo
abbracciai di nuovo. «Dimmi che sei tu», dissi. «Dimmi che sei tu, che sei reale e che mi stai abbracciando davvero.»
«Sono io, sono reale e ti sto abbracciando davvero», ripeté.
Allentai di nuovo l’abbraccio, senza lasciarlo. I miei occhi non sapevano su che punto del suo viso fermarsi, avevo desiderato rivederlo per così tanto tempo, di stringere il suo corpo umano così tante volte che ora pensavo non fosse altro che un sogno. Sbattei le palpebre. «Non riesco a crederci.»
«Lo so, neanche io, Shay. Ma sono qui.»
Mi strinse un’altra volta a sé, con il suo abbraccio forte e delicato; mi aveva sempre stupita come riuscisse a conciliare quei due aspetti, e quante volte avevo sperato che me ne regalasse uno così nelle terre innevate del nord, quando tentavo di ferirci entrambi a causa della frustrazione che la sua vicinanza mi procurava. E ora lui era lì e il mondo fuori poteva vorticare e frantumarsi in mille pezzi, ma lui non mi avrebbe lasciata andare.
Avevo una famiglia tra le piccole e povere costruzioni di Roma e ne ero conscia, era l’unica famiglia che consideravo tale, e che sempre avrei considerato tale, tuttavia quello che provavamo l’un l’altra, ora che mi avvolgeva con gentilezza, fermando il fluire del tempo, mi fece sentire a casa.
Una bimba ci osservava dalla finestra - piena di rossi gerani - del primo piano, sorridente. Glielo feci notare. «È incuriosita», commentò.
Annuii, scostandomi da lui. «Oh, sì, molto.»
Mi accarezzò il viso con gli occhi luccicanti e sereni. «Hai fame?» mi chiese.
«Una fame da lupi!»
Sorrise, il suo bellissimo sorriso. «Allora andiamo a vedere se è pronto.»
59
Sophia ci guardava affascinata, mentre il dottore spiegava a Dahaljer cosa mangiare e come. Poi gli disse di mettersi a letto presto e di prendere tutte le medicine che gli aveva messo sul comodino.
Lo aiutai a prenderle e poi mi ritirai nella mia stanza raggiante e sorridendo come una sciocca.
Il giorno dopo Nikolaos gli fece più di un controllo, le analisi e l’ecografia. Disse che era tutto perfetto e sembrava molto soddisfatto di sé. Dahaljer aveva ripreso un colorito normale e sosteneva di sentirsi benissimo. Parlò a lungo con il medico; ora che non dovevo fare da tramite, forse avevano modo di sentirsi più vicini. Non so di cosa parlassero, perché li lasciai soli e ai il pomeriggio a osservare Sybil che aiutava la figlia con i compiti. Era paziente e protettiva e anche quando la figlia si arrabbiava, la guardava con gli occhi traboccanti d’amore. La figlia aveva otto anni e mi fece pensare a Nilmini e Khaled, non sapevo più nulla di loro, ma volevo credere che stessero bene. Un modo per trovarli e portarli via con me doveva pur esserci. Il viso chiaro di Jean David riempì i miei pensieri.
Dopo cena, aiutai Sybil a sparecchiare e dopo aver dato la buonanotte a tutti, mi allontanai per farmi una doccia. Sophia venne poco dopo in camera mia, chiedendomi se volessi giocare a carte con lei. Non volevo, ma lo feci e lei si divertì perché la lasciavo vincere. Quando la madre la chiamò da sotto per andare a dormire, fece le boccacce nella sua direzione, tuttavia se ne andò ubbidiente, trascinando i piedi e augurandomi la buona notte.
Mi cambiai, mi misi la camicia da notte e spensi la luce, mormorando una preghiera.
Guardavo gli alberi muoversi fuori dalla finestra, quando la presenza di una Tigre si avvicinò al garage e, silenziosa e veloce, salì le scale che portavano alla mia stanza. Sorrisi tra me sapendo chi era.
«Dovresti usarla questa chiave nella serratura, non credo sia qui per bellezza», disse Dahaljer chiudendo la porta dietro di sé con una mandata e avanzando nella parziale oscurità.
«E poi come avresti fatto a entrare, ladruncolo?» lo canzonai, spostando il viso dalla sua parte. Il suo peso incurvò un poco il materasso.
«Non posso rischiare di dividerti con il primo che a da queste parti», si lamentò.
Gli toccai un braccio. «Sei tu il primo.»
Si piegò su di me e cercò la mia bocca con la sua, schioccandomi un bacio. «E devo essere anche l’ultimo.»
Il profumo della sua pelle mi inebriò. «Non dovresti essere qui», lo riproverai in un sussurro, mettendomi a sedere sul letto.
«Sì che dovrei.» Il bianco dei suoi denti e i suoi occhi felini si disegnarono nella stanza semibuia, illuminandogli il viso come un faro sicuro. Il mio faro sicuro. «Anche Nikolaos mi ha detto che potevo e mi ha sorriso malizioso.»
«Ah, davvero?» Lo attirai a me e lo baciai. La sua lingua infiammò tutto il mio corpo con un’ondata che il mio cuore avvertì quasi come se dovesse esplodere. Le nostre bocche si unirono, i nostri respiri si mescolarono e i nostri battiti presero a pulsare all’unisono, fino a far sparire tutto tranne che noi. C’eravamo solo noi, le nostre labbra, i nostri corpi, le sue mani tra i miei capelli. Non ci baciavamo davvero da molto, troppo tempo. Una vampata mi colse impreparata. «Allora posso farti ciò che voglio?» domandai sulle sue labbra.
«Tutto.» Mi baciò ancora. «Se vuoi. Ma tu mi vuoi?» La tenerezza nella sua voce mi sciolse.
«Oh, sì. Sì che ti voglio.» Lo strinsi, senza riuscire a smettere di baciarlo. Poi lui si staccò per spostarsi. Allungai una mano a terra per accendere un paio di candele con l’accendino.
«Ti servono?» mi chiese, indicandole con un movimento elegante del capo.
«Sì. Voglio vederti. Voglio vedere il tuo corpo e sapere che sei proprio tu.» Gli tolsi la maglia, osservando la sua ultima cicatrice sotto le costole che, per fortuna, era un piccolo taglio preciso e rosato e ricucito con pochi punti.
Lui mi tirò su la camicia da notte, sfilandomela dalla testa e mi accarezzò. «Ti ho vista vestita in tutti i modi possibili, ma nuda sei sempre tu. La mia piccola Shay.»
Slacciai i suoi pantaloni. «Oh, chissà chi stavi guardando invece che me, perché, sai, a dire il vero sono sempre io, anche vestita.»
Mi afferrò i fianchi e con una mossa mi tirò sotto di sé. «Sì, ma così sei mia e basta.»
Mi sentii liquefatta e quando si liberò di tutti i suoi abiti stavo morendo dalla voglia di sentirlo mio. Il desiderio pulsò nelle mie vene con la forza e la morbidezza del suono dei tamburi. Lo cinsi con le gambe, mentre scivolava dentro il mio corpo. Gememmo insieme.
Fissandoci, restammo immobili, increduli. Eravamo vicini, questa volta lo eravamo davvero; uno dentro l’altra, i nostri corpi combaciavano, così come le nostre menti, poiché, nonostante i cambiamenti, il nostro sentimento ava da una all’altro in un’osmosi intensa, in grado di donarci un indescrivibile parossismo d’amore.
Baciò il mio viso con dolcezza. «Mio Dio, Shay, non posso credere che sto facendo ancora l’amore con te», disse con una voce roca che mi avvampò una volta di più.
«Non importa», ribattei con tono malfermo, spingendomi verso di lui. «Fallo e basta.»
E lo fece. Affondando dentro di me con un ritmo impietoso, mentre lo imploravo di non fermarsi. Fece l’amore con me con il suo corpo privo di difetti, illuminato
dalle candele, e con i suoi occhi che brillavano come zaffiri. E io assaporai ogni attimo di quell’unione perfetta del mio corpo con il suo, pregando che finisse e nello stesso tempo desiderando che durasse in eterno.
***
Rimanemmo abbracciati in silenzio, dopo. Lo tenni stretto come se potesse scappare, dissolversi e sparire. Avvinghiata a lui, lo sentivo respirare nel dormiveglia; le nostre giugulari erano sovrapposte e battevano sincronizzate: eravamo vivi ed eravamo insieme.
Ignoravo quando si fosse spostato, mi risvegliai acciambellata accanto a lui, alle prime luci del mattino. Metà a pancia in sotto tra il letto e il suo corpo, mugolai assonnata. Le sue dita mi accarezzarono la schiena e sorrisi a occhi chiusi. Mi addormentai di nuovo.
Stava sorgendo il sole quando mi sedetti sul letto e mi guardai intorno. Il mondo può avere dei colori diversi, quando ti svegli felice.
Dahaljer mi prese un polso con gentilezza. «Dove vai, piccola Umana?»
Mi voltai a guardarlo con il sorriso sulle labbra. «Da nessuna parte, grande Tigre Bianca.»
«Vieni qui.» Mi tirò a sé e mi piegai su di lui, baciandogli una spalla.
«Il Capo Branco, nel mio letto, sembra un bambino», commentai, deliziata.
Mi afferrò un seno. «Non sono più il Capo Branco, piccola Umana rompiscatole.»
«Per me lo sei ancora.» Osservai il suo corpo nudo sulle lenzuola bianche. «Sai che non lo avevamo mai fatto su un letto?»
«Oh, tu lo faresti ovunque, anche su un tavolino sgangherato di una prigione sotterranea», mi ricordò.
Tirai fuori la lingua. «Non puoi certo dire che mi tiro indietro.»
«Come vuoi, non lo dirò, ma ora fammi dormire, la grande Tigre ha ancora un gran sonno.» Chiuse gli occhi, continuando ad accarezzarmi i seni. Tutte le volte che avevo desiderato le sue mani su di me e avevo provato un dolore intenso, in fondo al cuore, mi sembrarono sparire come per magia.
Io, del tutto sveglia, montai su di lui cavalcioni, sentendo il suo corpo reagire involontariamente al mio, tra le mie cosce.
«Mmm. Che fai?» chiese.
Prima di rispondere, mi sollevai appena e poi scivolai su di lui. «Sveglio il mio capitano», sussurrai, sentendolo rigido dentro di me.
Mi strinse le natiche con le mani. «Questo sì, che è un risveglio da re.»
Mi mossi lenta su di lui, beandomi della sua espressione. La luce dorata del mattino avvolgeva i nostri corpi e rendeva visibile il pulviscolo che danzava tra noi.
Lui si fece schermo con la mia ombra e mi studiò. «Un giorno devo gridare al mondo intero quanto sei bella, nuda, su di me.»
«Al mondo non gliene frega niente», gli feci notare. «Tuttavia io ora vorrei gridare quanto ti amo, in tutte le lingue e i dialetti che conosco e anche in quelle che non conosco.» Mi piegai a baciarlo.
«Di prima mattina non mi pare il caso che tu ti metta a gridare.»
Ridacchiai, baciandogli il collo. Le sue mani percorsero la mia colonna vertebrale in tutta la sua lunghezza, fino a scendere sui glutei, e mi mosse in avanti.
Lo bloccai. «Aspetta. Devo chiederti una cosa.» Mi tirai su.
«Oh, no. Perché so già che non mi piacerà?»
Non potei evitare di sorridere, poi mi morsi un labbro e presi coraggio. «Sei andato a letto con Danka, prima di conoscermi?»
Alzò gli occhi al cielo. «Oh, Shay, ti prego. Ti pare questo il momento giusto per chiedermelo?» Si lamentò, fingendo esagerata esacerbazione.
«Sì, perché in questo momento sei solo mio e sei esattamente sotto di me.»
Rise, la sua stupenda risata profonda. «Va bene, come desideri, principessa, però poi non dire che non te le cerchi.»
Inclinai il viso, in attesa. «Allora?» insistetti.
«Sì, è capitato. Ed era mille volte meno rompiscatole di te.»
«Ma io sono mille volte più innamorata di te», ribattei ostentando un risentimento che in realtà non provavo.
Le sue mani strinsero sul mio bacino. «Sì, ma se non ti muovi, giuro che te ne farò pentire.»
Mi mossi.
***
«Sei stata carina con Maryām, a fare in modo che venisse a Tabriz», disse quando il sole era già alto nel cielo e l’ora della colazione era ata da diverso tempo. Nessuno dei due portava orologi e nella stanza non ve ne erano. A me andava benissimo così.
«Spero solo che sia riuscita a farlo: dopo che siamo andati via, potrebbe essere successo di tutto.»
Non avevo idea di come potessero essere andate le cose quando si erano accorti dello scambio di vestiti tra me e la mia amica. Ero certa che non le avessero fatto nulla di male, solo perché si trattava di quel sultanato, se si fosse trattato di un altro, non avrei messo in pericolo la sua persona per la nostra fuga. Se si fosse trattato di un altro, pensai, molte cose sarebbero andate in modo ben diverso. Non era così, ed ero certa che lei non avesse subito conseguenze, tuttavia non ero altrettanto certa che fosse riuscita a incontrare i suoi familiari.
Ero a pancia in sotto e Dahaljer si puntellò su un gomito, mentre lo guardavo, con il viso in parte nascosto dal cuscino avanti a me. Faceva camminare le dita della mano sulla mia schiena, chiusi gli occhi per gustare quella sensazione di pace che pervase il mio corpo. «Quando ballavi, ad Ammanir, sembravi felice.»
«Ballare, mi faceva bene. E mi piaceva.»
Mi diede un pizzicotto. «Balleresti per me in quel modo, un giorno?»
Annuii senza aprire gli occhi. «Se è solo per te, sì.»
Mi stavo di nuovo addormentando quando lo sentii sdraiarsi su di me, dietro le mie spalle. La sua lingua disegnò forme strane sulla mia pelle e i suoi denti mi morsero più di una volta, leggeri. Mi aprì le gambe e per la terza volta sentii il mio corpo fremere e sciogliersi in umide colate; insaziabile.
Emisi un suono tra il respiro e il miagolio. Si spinse dentro di me, mentre intrecciava le dita della sua mano alle mie. Mi baciò la guancia con le sue labbra morbide. «Pensavo stessi dormendo.» Le sue parole erano poco più che un soffio delicato, come il vento leggero in primavera.
«Al mio corpo non è concesso riposo, accanto a te», ribattei, languida.
Gemetti sentendolo impossessarsi di me con piccoli colpi piacevoli. La voluttà dei miei sensi si gonfiò a poco a poco come la marea. Poi lui si fermò.
«Mmm, continua», sussurrai, risentita.
Prese anche l’altra mano e le portò entrambe in alto, oltre la mia testa, le tenne ferme tra le lenzuola e sempre intrecciate alle sue. La sua stretta era decisa ma tenera, un chiaro segnale di possesso e dolcezza. «A te Shiire Raja piaceva, vero?» chiese in un bisbiglio.
Aprii gli occhi. «Ma non hai altro di meglio a cui pensare in questo momento? Ne parliamo dopo.»
«No, ora, perché in questo momento sei solo mia e sei esattamente sotto di me», mi fece il verso.
«Oh, ‘fanculo, Dahal», replicai. Il suo braccio ava accanto alla mia bocca; glielo morsi. «Sì, mi piaceva, sebbene fosse molto lontano dal mio tipo ideale e poi aveva quell’odiosissima barba, però mi piaceva, aveva un suo fascino. Lui…»
Dahaljer si mosse con veemenza dentro di me e mi strappò un gemito. «Io però sono mille volte meglio di lui», disse e, dal tono, immaginai che stesse sorridendo.
Richiusi gli occhi. «Amore, tu sei duemila volte meglio di qualsiasi cosa su questa terra.»
«Anche dell’ananas?» si informò usando un tono di voce caldo.
Sorrisi. «Anche dell’ananas.»
Si chinò sulla mia schiena, il suo corpo contro e dentro di me. «E sei mia?»
«Se ti sbrighi a prendermi, sì.»
Si sbrigò.
60
La decenza ci consigliò di uscire dalla nostra stanza per ora di pranzo. Mangiammo con Sybil, che continuava a guardarci di sottecchi, pur non provando più paura. Dopo pranzo, mi legai i capelli in una coda di cavallo e l’aiutai a preparare un dolce. Per me torta voleva dire ricchezza e scoprii che la famiglia Kristoforos era ricca. Non era la ricchezza degli Uomini di Roma, né quella dei popoli di Terre d’Oriente, non era neanche la ricchezza dei Lupi grigi. Era la ricchezza dei Tiouck. A parte gli sfarzi che avevo conosciuto a Praha, per le Tigri Bianche essere ricchi voleva dire avere una casa propria, esercitare un lavoro, studiare, avere televisione e computer, macchina, POD e soldi; durante la guerra non tutti i Tiouck ne possedevano e averne voleva dire essere ricchi.
Loro avevano tutto questo.
«Questo non è essere ricchi, questo è stare bene. Ed è perfetto così», dissi a Dahaljer, mentre Sybil era in bagno.
Lui era cresciuto nel palazzo reale, lui aveva avuto tutto e oltre, eppure non aveva avuto niente. Mi infilò un ciuffo di capelli ribelli dietro l’orecchio. «Trovo che le donne in cucina siano troppo sensuali.»
«Io trovo che gli uomini in cucina siano sensuali al punto giusto, quindi quando avremo una casa, ci starai tu. Il troppo storpia, il giusto no.» Girai intorno al tavolo sfuggendo a qualsiasi cosa volesse farmi e Sybil entrò sorridendo.
Quando la torta fu pronta, arrivò anche sua figlia, accompagnata da un pulmino. Si fiondò su Dahaljer, stringendogli un braccio con le manine piccole e gli disse che gli aveva fatto un disegno. Non si era ancora spogliata e già aveva tirato un foglio di carta da fuori lo zaino.
Era un bel disegno, aveva disegnato anche se stessa ed erano alti uguali. Lo scrutai da dietro la spalla di lei e guardai Ahilan divertita.
Sybil ci chiese di sorvegliare la figlia mentre lei usciva a fare la spesa. «Va bene», risposi costringendomi a non fare boccacce come faceva Sophia.
Lei sembrò euforica, accese il computer nella sala e ci fece vedere le foto della sua famiglia. Il computer per me era pura magia. Per la bambina invece era solo un prolungamento di se stessa e con aria matura, drizzando la schiena, mi spiegò le sue mille funzionalità. Poi mise la musica e sgambettò, scendendo dalla sedia. Poggiò le manine sui fianchi e ci guardò. «Voi due siete sposati?» domandò seria, cercando di parlare più forte della musica.
«No», le risposi io.
«Oh.» Sembrò delusa. «Però vi baciate, vero? Dai, vi date un bacio?»
Spalancai gli occhi e, prevedendo il peggio, lanciai un’occhiata di avvertimento a Dahaljer, il quale finse di non capire, mi afferrò per un braccio e attirandomi a sé mi schioccò un bacio sonoro sulle labbra.
Sophia lanciò un gridolino e applaudì. «Balla con me.» Urlò a lui e lo afferrò per le mani costringendolo a prenderla in braccio.
“Non dire che me la sono cercata”, mi ammonì.
«Invece lo dico», gridai anche io, per farmi sentire.
Lei non badò a cosa avevo detto e si mosse tra le sue braccia, seguendo la musica e lui l’accontentò. Mi lasciai scivolare sul divano, battendo il tempo con il piede, fino a che Sophia non volle scendere giù. «Anche lei. Vieni!»
«No, no.» Scossi la testa con vigore.
«Sì, sì», dissero tutt’e due all’unisono e mi tirarono in piedi.
Ci ritrovammo tutti e tre a saltellare per la sala, seguendo la musica e ridendo. Poiché le canzoni non finivano, noi non smettevamo. Contro ogni mia aspettativa, fu divertente. Quel giorno ho imparato che a volte la felicità si trova nelle cose più semplici; banale, ma vero.
La guerra sembrava lontana, così come il freddo dell’inverno nelle terre del Nord e il caldo dell’estate del deserto. Erano lontani le armi, la povertà, il sangue, la morte, il tradimento, i re, i principi, le principesse e i capo branco. Eravamo solo noi tre, io, Dahaljer e una bimbetta di otto anni che neanche conoscevamo bene.
Ballammo così a lungo, come matti, che alla fine ero stanca e Sophia, che aveva cantato a squarcia gola tutto il tempo, non aveva più la voce. Sybil non ne fu contenta, tuttavia non riuscii a sentirmi in colpa. La donna si trovò a combattere con la figlioletta recalcitrante, per riuscire a farla calmare e studiare; Dahaljer si offrì per aiutarla e non lo vidi fino a cena.
Nikolaos lo visitò di nuovo, senza riscontrare problemi, e la nostra cena fu spensierata e scevra di pensieri. Poiché Sophia non era intenzionata ad andare a letto e sua madre stava per perdere la pazienza, ancora una volta Dahaljer si offrì di accompagnarla e stare con lei. Quando tornò, Sybil e io avevamo finito di sistemare la cucina, e ci sedemmo tutti e quattro nella loro confortevole sala.
Il dottore ci offrì del liquore e ci raccontò un aneddoto accaduto in ospedale, mentre io mostravo alla moglie il disegno che aveva fatto la figlia; poi però nella mente di lui ò della tensione e io sollevai lo sguardo sul suo volto.
Quel giorno ho imparato che a volte la felicità dura troppo poco; banale, ma vero.
«Allora», esordì con evidente imbarazzo. «Cosa volete fare ora?»
Dahaljer mi lanciò un’occhiata e tirai un profondo sospiro.
«Potete rimanere qui anche tutta la vita», si affrettò a dire lui, cortese. «Io e Sybil pensavamo giusto di fare un altro paio di mocciosi.» Lei arrossì. «Non credo però che vorreste rimanere segregati qui e da quello che mi avete detto l’altro giorno…» Mi guardò.
Poggiai il disegno sul tavolino di noce davanti a me. «Sì, quello che le ho detto è vero. Sarebbe bello rimanere qui, se potessimo avere una vita normale, tuttavia io sono un Lupo e non potrei vivere qui senza subirne le conseguenze. Forse non potrei vivere da nessuna parte, senza subire le conseguenze di ciò che sono. E devo cambiarlo, non solo per me. Non solo per noi.» Guardai senza accorgermene Dahaljer, che, seduto sul mio stesso divano, posò la sua mano sulla mia. «Quello che ho visto e vissuto nel mio ultimo anno non mi permette di stare con le mani in mano a guardare e, come se non fosse abbastanza, ho scoperto di avere uno zio, da parte di madre, che forse potrebbe essere dalla mia parte. È un erede diretto, quanto me, e forse insieme…» Lasciai la frase in sospeso, non sapendo bene cosa dire.
«Non hai pensato a un piano, vero?»
Scossi la testa, lentamente, trattenendo una smorfia. «So solo che devo raggiungerlo. E capisco che sia stupido, ma non posso non provarci. Devo are il confine e raggiungere le loro terre in qualche modo.»
«Andrai da sola?»
«Sì», mi sentii rispondere.
«Cosa?» Dahaljer mi fulminò con lo sguardo provando palese ostilità.
Avevo già pensato a quell’aspetto del mio prossimo spostamento. Anche se avevo rifiutato di dirmelo in concreto e di comunicarlo a lui. «Dahal», abbassai
il capo, a disagio. «Non puoi venire nella terra dei Bamiy: tu sei una Tigre, come pensi di…»
«E tu come pensi di andare da sola da qui al confine, nella terra delle Tigri?»
Ammetto che a questo non avevo pensato. «Non lo so. Potresti accompagnarmi tu», concessi. «Ma poi tu rimarrai qua, per lo stesso motivo per cui io…»
«Non esiste.» Mi stritolò la mano. «Tu da sola non vai da nessuna parte.»
Non volevo affrontare quel discorso in quel momento, non con altre due persone davanti. «Va bene, poi ne parliamo.»
«Non c’è nulla di cui parlare. Non ti mando in bocca a uno che ha ucciso sua figlia per niente, da sola.»
Mi morsi un labbro. «Non sto andando da lui.»
«Shay…»
«Va bene. Va bene, come vuoi», concessi solo per stroncare quel discorso e immagino che tutti i presenti percepissero che stessi mentendo. Dovevo fare un rio di indifferenza, atarassia e tutta quella serie di cose che a fatica avevo imparato a fare tra i soldati.
Il dottore, con ogni probabilità abituato alla discrezione grazie al suo lavoro, analizzava il fondo del suo bicchiere con interesse, senza apparire imbarazzato. La moglie, che invece non doveva essere avvezza a simili comportamenti, muoveva gli occhi da me a Dahaljer e, quando la guardai, le sue guance chiare si colorarono di rosso ancora una volta.
«Non sappiamo molto di Jean David, qui.» Nikolaos cambiò argomento. «Credo di non sapere più di quanto non abbia scoperto tu in Terre d’Oriente. Di certo sappiamo che ha superato i vent’anni da poco e con quelli la sua prima trasformazione. Sappiamo un’altra cosa, che direi è parecchio utile: spesso non vive a Nuova Auxerre. Sostengono che spesso viva a Nuv Monàc, proprio per via di questi dissidi con il padre. Ciò non toglie che le informazioni che abbiamo possano benissimo essere sbagliate, sia perché i Bamiy non condividono con noi queste informazioni, sia perché anche per loro è stata una novità. E Belden non sembra disposto a fornire molte spiegazioni. Ho sentito dire che si chiama Jean David Monreau Harvey, della dinastia Erdreè.»
«Chi è la madre?» Era una domanda inutile ai fini del mio progetto e le loro facce non mancarono di farmelo presente.
«Non lo sappiamo», rispose Sybil.
«Quanto dista da qui il fronte?»
Lei guardò il marito. «Siamo parecchio a est, forse tre o quattro giorni di macchina. Meno con i POD, ma non so se nelle terre di Ilvenya il campo magnetico sia adatto a farli viaggiare. Con la macchina è più scomodo, ma più sicuro, anche se da un certo punto in poi le strade non sono asfaltate. Ne era stata
fatta qualcuna dopo il duemiladodici, tuttavia la guerra che si protrae da più di cento anni in quei punti non ha permesso di costruirne altre. A dire il vero non sono sicuro che ci siano ancora delle strade.» Si girò il bicchiere tra le mani. «La situazione oltre il confine, se riuscite a superarlo, non so quale sia, è un’incognita.» Alzò lo sguardo verso di me. «Shayl’n, è bello quello che vuoi fare. Il motivo per cui lo vuoi fare. E capisco anche il fatto che tu non veda altra via d’uscita per riuscire a vivere in pace in qualche luogo su questo pianeta, mi sento costretto a dirti, però, di rinunciare, perché è una follia. Non hai un piano e arrivare fino al principe Jean David non è così scontato come credi.»
«Non lo credo, Nikolaos», ribattei con voce sicura. «Andrei nelle terre dell’Oceania, se esistessero i mezzi. In quei posti non sanno riconoscere Lupi e Tigri e io e lui potremmo sperare di are inosservati anche per tutta la vita. Ma tolto il fatto che arrivarci sarebbe altrettanto rischioso e improbabile, ho… delle responsabilità a cui rispondere.»
Ci fissammo per qualche istante.
«Abbiamo bisogno di armi», si intromise Dahaljer, guardando il medico. «So che ti abbiamo chiesto tanto, tra operazione, vitto e alloggio e che sarà difficile ripagare, almeno nell’immediato.»
«Non è un problema. Non mi intendo di armi, però», rispose lui.
«Se conosci qualcuno, verrò io con te. Dopotutto io sono una Tigre e non è detto che qui, lontano dalla guerra, mi conoscano.»
Evitai di guardarlo. Non volevo che rischiasse e non volevo neanche avere armi,
benché sapessi di non poter arrivare e superare il confine senza averne.
«Forse so come aiutarti, non ti prometto nulla, però. Mi servono un paio di giorni, Ahilan.»
Lui annuì. «Aspetteremo.»
«Aspetterete comunque, perché per tre giorni non ti lascerò andare da nessuna parte, in qualità di mio paziente.» Il tono era pacato e fermo, non ammetteva repliche. «Ah, e pensavo che potresti iniziare a pagare la tua parte, aggiustando il mio POD. Nalinika sosteneva che non te la cavassi male.»
«Nalinika sosteneva troppe cose, ma vedrò che cosa posso fare. Che cosa non funziona?»
Il loro discorso si perse su problemi che io non ero in grado di capire. In verità non ero interessata, perché la mia mente viaggiava molto più a ovest e non trovava punti d’appiglio su cui fermarsi.
Sapevo di dover affrontare il discorso lasciato in sospeso con Dahaljer e sono certa che anche lui ne fosse cosciente, tuttavia non lo affrontammo per tutta la serata e il giorno dopo, nonostante non perdessi occasione di parlare al singolare e lui al plurale.
Avevo programmato di partire con lui e di trovare un sistema per farlo tornare indietro una volta al confine, dove non avrei più trovato delle Tigri belligeranti.
Il problema, per quanto ne sapevo, era solo arrivare al fronte, perché per quanto potessi insospettire un Tiouck, quelle non erano terre di scontro diretto e io in parte ero una Tigre, non ultimo il fatto che fossi la prima in linea di successione al trono. Questo aspetto mi rendeva abbastanza sicura in quelle terre, forse più di quanto non lo fossi in quelle dei Bamiy. Il mio sangue, il mio ruolo, non mi rendevano una minaccia per un civile Tiouck, soprattutto se fossero stati uno o due. Non potevo dire altrettanto dei Lupi, se non altro perché non li conoscevo.
Ma se Dahaljer voleva accompagnarmi fino al confine lo avrei accettato, non avrei accettato invece di metterlo in pericolo nella terra dei suoi nemici. Nikolaos cambiò i miei piani o almeno li mise in dubbio.
Giocò con la figlia e Dahaljer a carte e mi chiamò quando la bambina fu portata a letto. «Penso di aver trovato un modo per far venire Ahilan con te senza problemi per nessuno dei due.»
Gli lanciai un’occhiata di disapprovazione e lui, con notevole sottomissione, arricciò il suo naso schiacciato con un sorriso, che non ricambiai.
«I Lupi non sanno che Ahilan non è più il Capo Branco e molti di loro lo conoscono. Portalo come ostaggio. Tu sei un Lupo e sei nipote di Belden, ti crederanno, crederanno al tuo sangue, e avrai il tuo lasciaare e lui il suo.»
«Questo mi piace», commentò Dahaljer.
«A me no.» Li guardai torva e scossi il capo. «Cosa faremo quando saremo là, da Jean David? Gli dirò semplicemente che mi sono sbagliata, che non volevo consegnarlo a nessuno? Anzi, è probabile che io me ne andrò da Jean David e lui
finirà dritto in pasto a Belden, che potrebbe essere l’unico interessato ad avere per le mani un Capo Branco. No.»
Dahaljer mi tirò una ciocca di capelli, senza rispondere alla mia ira. «Ma tu in ogni caso non sai cosa farai quando arriverai là, se ci arriverai; è solo un punto interrogativo in più, ma anche una possibilità in più per essere entrambi. Mai stare da soli con i Lupi. Altrimenti, hai un piano migliore?»
«Sì, tu rimani qui», ribattei, gelida.
«Shay, ascolta», provò a dire e il suo tono di voce si fece tagliente.
Lasciai che la mia ostilità invadesse i loro corpi. «No. Accompagnami al confine, se vuoi, così saremo entrambi al sicuro. Ma non verrai con me da Jean David, per nessun motivo.» La nostra cocciuta aggressività si scontrò nel silenzio che scese nella sala.
«Ragazzi», ci interruppe Nikolaos. «Io forse è il caso che vi lasci da soli e vada a letto. Se volete, potete continuare a discutere qui a bassa voce o in camera vostra, magari non troppo ad alta voce.»
Mi alzai, insofferente. «No. Questa è casa sua, rimanga pure. Quanto a te» guardai Dahaljer senza battere ciglio. «Visto che non bisogna stare da soli con i Lupi, non provare a seguirmi. Stanotte dormi qui.»
Frustrata e rabbiosa, uscii di casa e raggiunsi la nostra stanza sopra al garage. Mi
preparai per andare a letto e spensi la luce delle candele; non chiusi la porta a chiave.
Ero conscia che l’idea di Nikolaos fosse l’unica buona idea che avessimo, tuttavia non volevo ammetterlo. Dahaljer mi raggiunse a notte fonda, sapeva che ero sveglia, ma ebbe il buon gusto di non farmelo notare; senza mostrare la minima ostilità, si mise sotto le coperte in silenzio.
Non so per quale motivo la mattina dopo mi risvegliai abbracciata al suo corpo.
61
Poiché gli inverni nelle terre delle Tigri Bianche sono rigidi e infiniti, le estati sono miti e delicate.
ai la mattinata a guardare i fiori colorati del giardino di Sybil, mentre lei li innaffiava e li curava. Avevano un giardino grande con l’erba bassa e verde. L’esterno non era visibile perché grosse siepi ricoprivano la cancellata togliendo la visuale sulla strada o sulla casa a chi asse in quel punto. Mi crogiolai sotto gli amati raggi del sole.
Dahaljer era uscito con Nikolaos per andare a prendere le armi e io ero decisa a non volerci pensare, così chiesi carta e penna a Sybil e scrissi una lettera a madre Brìgit, non ero sicura che una lettera potesse viaggiare da Bursa a Roma, ma se era arrivata anche quella che aveva mandato Dahaljer, poteva arrivare anche la mia. Non risposi all’obiezione della mia mente secondo cui non sapevo affatto se l’altra lettera fosse in effetti arrivata.
Scrissi in maniera ordinata, prendendomi tutto il tempo necessario e gongolandomi sulla mia lingua madre. Non avevo mai scritto una lettera, perché quando ero alla creche non avevo mai avuto nessuno a cui scrivere. Pensai che avrei dovuto farlo più spesso per il semplice piacere di scrivere a qualcuno.
Il dottore e Dahaljer tornarono per pranzo, senza armi, e non ci dissero nulla; io mi guardai dal fare domande e Sybil non parve preoccuparsene. Nikolaos andò a riposare, poiché avrebbe dovuto are la notte in ospedale e sua moglie uscì, dicendomi che aveva una madre da andare a trovare. Sophia aveva una nonna e questo mi occupò il pensiero per qualche tempo, mentre Dahaljer in garage
cercava di sistemare il POD.
Lo osservai per qualche istante, prima di raggiungerlo con i lenti. «Vado a fare un giro.»
Si allarmò. «Dove?»
«Tra i boschi. Io ho…» Mi sentivo in imbarazzo e non ne conoscevo il motivo. «Io ho bisogno di trasformarmi, così pensavo di andare a fare una eggiata qui fuori, verso la montagna.»
«Da sola?»
Incrociai il mio sguardo con il suo e ci fissammo. Il sentimento di chi si preoccupa per te è piacevole e opprimente allo stesso tempo. Avevo voglia di sentire le sue emozioni più profonde, quelle che ero in grado di percepire quando eravamo allo stesso livello di gerarchia. Abbassai gli occhi. «Ti dispiace?» Era una piccola concessione da parte mia.
Ci rifletté per qualche istante. «No. Fai attenzione.» Immagino fosse una concessione anche da parte sua.
Annuii. «Sono stata nei boschi, l’altro giorno, e il posto è tranquillo, non c’è nessuno e… Non mi allontanerò, non ti preoccupare.»
Salii in camera a togliermi i vestiti e le scarpe, e rimasi con il tapi legato in vita nel modo in cui lo portano le donne. Scendendo gli feci un segno di saluto e uscii dal retro del giardino, dove nessuno mi avrebbe vista.
Mi arrampicai lungo il pendio e lasciai che il mio corpo prendesse la sua forma lupoide. Pensavo di aver bisogno di quella mia dimensione più di quanto volessi accettare e mi chiedevo se sarebbe lo stesso diventata una necessità altrettanto forte, se non fossi stata obbligata a farne a meno per tanto tempo, quando ero una ballerina del Sultano di Nayband.
Il sottobosco era umido sotto i cuscinetti delle mie zampe, mi riempii le narici di quell’odore antico e il profumo di tutta la montagna mi investì, forte e pungente. Non ero solo un’Umana, non lo ero mai stata, ed essere un Lupo, mescolarmi con la natura, mi piaceva; Dahaljer me lo aveva predetto. Però era stato faticoso e doloroso accettarlo. Perché gli Umani del ventunesimo secolo ci avevano trasformato in qualcosa che Iddio non aveva creato? Alzai il muso e guardai il cielo nascosto tra le foglie di abeti, betulle e piccoli faggi. Avremmo fatto la guerra lo stesso se non fossimo stati creati?
Trotterellai sulle foglie e mi abbandonai ai pensieri più oziosi, fino a che non mi ritrovai a pensare a Jean David. Avrei desiderato avere le idee più chiare, volevo sapere cosa fare, volevo una risposta alle mille domande che mi affollavano la mente e, per qualche secondo, pensai che avrei voluto svegliarmi alla creche e scoprire che era stato tutto un lungo sogno.
Io, Nilmini, Erien e i bambini eravamo a casa e lo era anche Ilai, come pure Hassan. Se mi fossi svegliata da quel sogno, avrei scoperto che le mie mani erano pulite e profumate. Mi fermai osservando una farfallina gialla girarmi intorno e mossi il muso su e giù come a voler giocare con lei. Se fosse stato solo un sogno, io non avrei dovuto sopportare il peso di sistemare la lunga guerra tra due Razze.
Mi sdraiai a terra a qualche o dalla farfalla che si era poggiata su un piccolo ramo spezzato e sembrava studiare i miei occhi. Poggiai il mento sulle zampe e restammo a contemplarci in silenzio, un lupo grosso come una tigre e una farfallina. Potevo non aver ucciso nessuno e pensare di non doverlo neanche fare mai più. Cosa avrei dato perché fosse solo un sogno?
Dahaljer.
Emisi un suono profondo, che rimbombò leggero tra le mie zanne, senza uscire fuori. Un morbido soffio di vento aleggiò tra i tronchi degli alberi e mi accarezzò il pelo per poi superarmi e risalire la montagna. Non potevo perderlo, non volevo, forse non ero in grado. Non volevo separarmi da lui e tuttavia non volevo neanche che rischiasse la vita per me, e quella possibilità nelle terra dei Lupi era reale.
La farfalla sbatté le ali e volò via con movimenti spezzati ed eleganti. Quando la persi di vista, ridiscesi il pendio, a o lento. Provare a mettersi dalla prospettiva degli altri non è sempre facile, ma è sempre utile, anche quando pensiamo di non esserne capaci, e se io fossi stata al posto di lui, non lo avrei lasciato andare da solo, non avrei neanche contemplato l’idea.
I miei sensi percepirono la sua presenza e mi voltai. Rimasi immobile, guardandolo venire verso di me con animo pacato. Io mossi la coda e piegai la parte anteriore del corpo verso il basso, senza toccare la terra, guardinga e con un vago senso di sottomissione, che provò anche lui e non per la mia natura.
Si inginocchiò accanto a me e mi sedetti, mentre la sua mano accarezzava sicura la mia gorgiera. Ci guardammo e tra me e lui ò una reciproca e volontaria
sottomissione che ci scambiammo con estrema sincerità. Si sedette e poggiai il muso sulle sue gambe incrociate, riempiendomi del profumo della sua pelle e godendo delle sue dita tra la mia folta pelliccia.
I rumori del bosco ci circondarono. Non c’erano parole tra noi, perché non ne avevamo bisogno, le nostre menti erano vicinissime, più dei nostri corpi.
ò un tempo infinito e troppo breve, poi mi trasformai, mi sistemai il tapi e, sedendomi sulle sue gambe, lo abbracciai con tutto il corpo.
«Mi permetterai di venire con te, vero?» domandò in un sussurro, usando la mia lingua, lo iuropìan - non la parlavamo quasi mai.
«Sì», risposi nella stessa lingua.
Mi dondolò, oscillando leggero. Nei suoi sentimenti non c’era nulla che potesse preoccuparmi. «Prima, però… Voglio sposarti, Shay.»
Immaginai di non aver capito. «Cosa?»
Mi allontanò un poco da sé per guardarmi in viso. «Voglio sposarti. Voglio che Dio benedica la nostra unione e voglio sapere che qualsiasi cosa dovesse succedere, sarai mia.»
Sbattei le palpebre conscia del tuffo al cuore. «Dahal.» Forse non ero in grado di
dire nient’altro.
Lui studiò la mia reazione stupefatta e inclinò la testa da un lato, una linea verticale che conoscevo bene si disegnò sulla sua fronte. «Se lo vuoi anche tu.»
«Io», deglutii. «Dahal, io sarò tua indipendentemente da questo; non sono sicura che mi faccia piacere ammetterlo, ma lo sono sempre stata, fin dalla prima volta che mi hai guardata negli occhi, anche se allora non potevo saperlo. Quanto a Dio, tu non credi in Dio.»
Scosse la testa, piano. «Credo in Dio. Forse ho qualche problema con tutta la storia del cristianesimo, forse ho più di un dubbio riguardo un po’ di cosette», ammise. «Ma credo in Dio e credo nella sua benedizione sul matrimonio. Sul mio e il tuo, perlomeno. E so che per te il matrimonio è questo e se per te è questo, lo è anche per me.»
Aprii la bocca e la richiusi. Lui mi sfiorò le labbra con le sue. «Sei cosciente» domandai «del fatto che sarà un rito mariano? Un rito cristiano?»
Annuì. «Sono una Tigre, Shay, non uno zotico.»
«Non sono sinonimi?» scherzai, tentando di spezzare la tensione.
Rise con un suono delicato e caldo, poi affondò i suoi occhi su di me. «Non mi hai ancora detto di sì.» Mi fece notare.
Sorrisi, abbassai la testa e poi la rialzai, fissando il mio sguardo nei suoi occhi azzurri come il cielo al tramonto. «Sì. Sì, Dahal. Voglio sposarti, voglio che Dio benedica quello che siamo insieme e che conceda al nostro amore un pizzico della Sua eternità.» Ricoprii il suo perfetto sorriso con la mia bocca. Lo volevo davvero. «Voglio tutto di te. E non potrei avere di più.»
Mi prese la testa tra le mani, con dolcezza. «Non potresti avere di meno, da me, ragazzina.»
Mi baciò, mentre un uccello picchiettava su qualche albero.
«Shay, ora che è ato tempo, ora che abbiamo imparato insieme il significato di ‘ti amo’, dimmi, cos’è l’amore per te? In poche parole.»
Inclinai il capo. «In poche parole. Sei tu.»
«Troppo facile», replicò.
«No, è che è troppo difficile. Come posso spiegare a parole un sentimento espresso in battiti?»
«Pensaci.»
Ci pensai. «L’amore è la mia ragione che scende a compromessi con il mio cuore per il mio progetto di vita con te, ovunque e comunque.»
«Questa è una buona risposta», approvò.
Gli morsi un labbro, leggera. «E per te? Cos’è l’amore?»
«Mmm» guardò il mio corpo appena coperto dal tapi. «È fare sesso con te, ovunque e comunque!»
Picchiai la sua spalla con un piccolo pugno. «Ma piantala! Come fate voi uomini a essere sempre così stronzi?»
I suoi occhi luccicarono. «Però è di un uomo che ti sei innamorata.»
«Certo, altrimenti che compromesso è?»
«Giusto.» Mi baciò le labbra. «Per me l’amore sei tu che sorridi quando mi vedi. Sei tu che hai paura e non ti tiri indietro quando devi difendere qualcuno. Sei tu che mi dici di no quando qualcosa non ti va e tu che mi dici di sì solo per farmi piacere. È il modo in cui ti appartengo pur rimanendo io; il modo in cui mi sento quando sono con te. Il modo di prenderci cura l’uno dell’altra. È il fatto che… posso rinunciare a qualcosa di me, pur di stare con te. E poi è il modo in cui fai l’amore con me, è fare l’amore con te. Posso dirlo?»
Ridacchiai. «Sì, te lo concedo. Ma queste sono di più di poche parole.»
«Voi donne vi lamentate sempre», sentenziò alzando gli occhi al cielo.
Gli tirai un altro piccolo pugno sul petto. «Mi sembra di capire che l’amore sia una contraddizione in termini.»
«Ma amore è un termine solo», osservò.
«Questo la dice lunga su quanto sia complicato. Il fatto è che amore è una parola, ma se ci pensi, racchiude in sé ione, affetto, ragione, volontà, determinazione. Non credi?»
«Sì, ma credo anche che tu, essendo donna, potresti parlare di questo tutto il giorno. Mentre io, essendo solo un uomo, vorrei are ai fatti.»
«Certo, perché sei un uomo, stronzo, per cui l’amore in fin dei conti è fare sesso con me.»
«Io l’avevo detto subito, vuoi negarlo? E poi fammi vedere come scendi a compromessi con il tuo cuore.»
Glielo feci vedere, sotto l’ombra dei faggi danzanti per la brezza estiva.
62
Onde evitare che qualcuno pensi che nel periodo in cui la fede era riconosciuta come qualcosa di personale e privato fosse semplice sposarsi, dirò subito che non lo era affatto. E non lo era soprattutto per noi, meno ancora per me che possedevo un unico documento, emesso in Terre d’Oriente e che oltre ad avere una data fittizia della mia data di nascita, riportava il mio matrimonio con il Sultano di Nayband.
Ancora una volta fu il dottor Nikolaos Kristoforos a risolvere i nostri problemi. Credo che tutt’oggi mi senta in debito con lui, come con nessun altro in questo mondo. Tramite l’ospedale e le sue molteplici conoscenze, riuscì a darci i nostri nuovi documenti in meno di dieci giorni e nello stesso tempo trovò un sacerdote, devoto a Maria - fatto non scontato nella Terra delle Tigri Bianche – disposto, suo malgrado, a sposarci.
A nostro onore va detto che non avevamo grosse pretese, anche se in effetti non ne potevamo avanzare molte. Non ho mai sognato così il mio matrimonio: quando lo immaginavo da ragazzina sognante, nella mia mente c’erano tante persone, c’era musica, c’erano tanti bei vestiti, come quelli che vedevo nei libri; c’erano un sacco di cose da mangiare, tante da sfamare tutto il quartiere di Roma in cui vivevo - tuttavia la mia immaginazione aveva un limite e ciò che avevo visto a Praha era molto di più di ciò che potevo semplicemente fantasticare da bambina - e c’erano tanti bambini che correvano vestiti con abitini eleganti. Nonostante allora non riuscissi a disegnare nella mia mente lo sposo, il resto era piuttosto nitido. Ora invece l’unica cosa chiara era il mio sposo, il resto non contava.
Fu Sybil a comprarmi un abito da sposa. In verità era un abito confezionato per
le feste in maschera e lo pagò molto poco, almeno rispetto a un vero abito da sposa. Fu lei a renderlo un capo prezioso, morbido e diverso da quello che era andata a comprare. La moglie del dottore cuciva meglio di qualsiasi persona io conoscessi e mi disse che prima di avere Sophia, aveva lavorato a lungo come sarta alla corte di Praha, era così che Nalinika e Nikolaos si erano conosciuti.
Il nostro sacerdote era un uomo di mezza età, piccolino e magrissimo, troppo per essere una Tigre. Aveva profondi occhi grigi e ci guardava con curiosità. Pur non negandoci la sua disponibilità, non faceva che ripetere se ne eravamo sicuri e nascose con difficoltà la sua totale disapprovazione, quando la nostra ennesima richiesta fu quella di svolgere il matrimonio nel giardino della famiglia del dottore.
«Bene», bofonchiò dopo averci riflettuto con calma. «Se la Nostra Signora ha partorito il Suo Santissimo Figlio in una mangiatoia, potrò celebrare le vostre nozze lontano da una cappella.»
«Non è certo un peccato, da quello che so», gli rispose Dahaljer, sornione.
«Se vuoi sposarti, io non farei battute», lo rimbeccò il sacerdote, comato, ma senza provare ostilità.
“Non era una battuta”, mi fece presente.
Non gli risposi perché non ero dell’umore giusto. Tuttavia la più agitata il giorno del nostro matrimonio fu Sophia: si era alzata presto e non mi aveva permesso di rimanere da sola neanche pochi minuti. Aveva osservato la madre vestirmi e sistemarmi l’abito e aveva canticchiato tutto il tempo.
Il mio vestito aveva un corpetto stretto e una gonna larga che scendeva morbida dalla mia vita. Aveva un merletto di tulle delicato che mi copriva le spalle e le braccia. Aveva il colore della luna piena nelle notti tiepide senza nuvole. Era un vestito semplice, ma lo trovavo bellissimo.
Non ci furono cerimonie o musica e a me non importava, l’unica canzone che fu intonata per noi fu l’Ave Maria e fu cantata dalla vocina bianca di Sophia che, tenendo le spalle dritte e il mento alto, muoveva le labbra più di quanto fosse necessario e ci guardava seria con gli occhi un po’ spalancati.
Era una giornata mite, non molto calda ma serena. Dahaljer non faceva che fare battute solo a mio unico beneficio, se di beneficio posso parlare. «Smettila», gli sussurrai esasperata, mentre il nostro omino religioso mormorava qualcosa.
“Ehi, sono io l’uomo, sono io che devo essere agitato perché faccio il grande o. Tu sei la donna, tu hai la fede e poi, che diamine, tu ti sei già sposata, che vuoi che sia un altro matrimonio?”
Lo fulminai con lo sguardo e poi sorrisi al sacerdote, affabile.
“Sei quasi credibile.”
Eravamo seduti su due sedie portate dalla sala dei Kristoforos, la famiglia che ci aveva salvato più di una volta in quei pochi giorni e che ora era seduta dietro di noi; e avanti a noi c’era solo un leggio con la bibbia e il sacerdote, che stava conducendo la sua funzione con voce cantilenante.
“Mi addormento prima della fine”, commentò Dahaljer. “Ti dispiace se mi addormento prima di sposarti? Non posso resistere a questa strabiliante ninnananna, ricordatela per quando dovrò mettere a letto i tuoi figli.”
Serrai le mandibole per non ridere.
“Va bene, rimango sveglio solo perché ho fame, e al pranzo del mio matrimonio ci devo arrivare per forza, no? Mangerò tutto quello che c’è e poi mangerò anche te.” Il vento venne ad accarezzarci i capelli e se ne andò. “Sybil ha fatto dei dolcetti buonissimi e li ha incartati, che li ha incartati a fare se poi me li devo mangiare?” Con la coda dell’occhio vidi che mi stava guardando. “Per esempio, tu perché sei incartata in questo bel vestito bianco? Se ti mangio, ti voglio nuda sul mio letto, anzi ti voglio nuda sul mio letto in tutti i casi.”
La sua mano sfiorò la mia. Abbassai il viso e sorrisi.
Nessuno di loro poteva sentire cosa mi stesse dicendo, ma tutti, tranne Sophia, sapevano che mi stesse dicendo qualcosa. Il giorno del mio matrimonio con l’uomo che amo, non seguii neanche un quinto di quello che disse il sacerdote. Avevo scelto io cosa dovevamo leggere, ma ero così distratta da lui che quando dovetti leggere la mia parte, scritta con caratteri piccoli in arindo ichslavo, balbettai.
Mi fermai, strinsi la mano di Dahaljer più forte che potei per dirgli di smettere e ricominciai. Per mia fortuna erano poche righe, poi girai la bibbia verso di lui e le sue parole uscirono dalle sue labbra nell’aria, invece che nella mia mente.
«⁸Vieni con me dal Libano, o sposa, con me dal Libano, vieni! Osserva dalla cima dell'Amana, dalla cima del Senìr e dell'Èrmon, dalle tane dei leoni, dai monti dei leopardi. Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana! ¹ Quanto sono soavi le tue carezze, sorella mia, sposa, quanto più deliziose del vino le tue carezze. L'odore dei tuoi profumi sora tutti gli aromi. ¹¹Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa, c'è miele e latte sotto la tua lingua e il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano. ¹²Giardino chiuso tu sei, sorella mia, sposa, giardino chiuso, fontana sigillata.
¹³I tuoi germogli sono un giardino di melagrane, con i frutti più squisiti, alberi di cipro con nardo, ¹⁴nardo e zafferano, cannella e cinnamomo con ogni specie d'alberi da incenso; mirra e aloe con tutti i migliori aromi. ¹⁵Fontana che irrora i giardini, pozzo d'acque vive e ruscelli sgorganti dal Libano.»
Aveva la voce ferma, profonda, sicura e virile. Non c’era esitazione né imbarazzo nel suo tono, come se per tutta la vita non avesse fatto altro che ripetere a me e ai presenti le parole di quel testo. Contemplai il suo bel viso per qualche istante, mentre lui spostava di nuovo la bibbia verso di me.
«¹¹Io sono per il mio diletto e la sua brama è verso di me. ¹²Vieni, mio diletto, andiamo nei campi, iamo la notte nei villaggi. ¹³Di buon mattino andremo alle vigne; vedremo se mette gemme la vite,
se sbocciano i fiori, se fioriscono i melograni: là ti darò le mie carezze! ¹⁴Le mandragore mandano profumo; alle nostre porte c'è ogni specie di frutti squisiti, freschi e secchi; mio diletto, li ho serbati per te.»
Intrecciai le mie dita con le sue e insieme recitammo l’ultima parte:
« Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l'amore, tenace come gli inferi è la ione: le sue vampe son vampe di fuoco, una fiamma del Signore! ⁷Le grandi acque non possono spegnere l'amore né i fiumi travolgerlo. Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell'amore, non ne avrebbe che dispregio.»
Il sacerdote ci tolse la bibbia dalle mani con gentilezza e la voltò verso di sé. Non ascoltai il vangelo secondo Matteo, che avevo sempre scelto io, ascoltai invece Dahajler che ripeteva le ultime parole del Cantico dei Cantici, come a volerle imprimere nella mente.
Lo guardai, il sole splendeva sui suoi capelli castani, rubandogli qualche riflesso biondo. Indossava un semplice completo nero, prestato dal dottore, con una camicia bianca e setosa. Il cuore mi batteva lento nel petto, ma lo sentivo forte dentro le orecchie. Stavo diventando moglie di una Tigre Bianca; meno di due anni prima avrei riso di una simile sorte e con ogni probabilità avrei combattuto con tutta me stessa con parole e botte per affermare il contrario, forse era proprio ciò che avevo fatto lungo tutto il percorso che mi aveva portato via da Roma. Poi però lui mi aveva baciata, mi aveva salvata, aveva cercato di proteggermi da qualsiasi cosa e io avevo fatto lo stesso con lui, e continuavo a farlo perché non potevo fare diversamente. Tutto ciò che ci aveva separato, tra i paesaggi innevati delle Terre del Nord e gli intensi profumi delle Terre d’Oriente, ci aveva unito ancor di più, più di quanto avessimo previsto.
Ci aspettava un nuovo inverno, ci aspettava Jean David e con lui l’incertezza di ciò che ci sarebbe successo. Saremmo stati braccati da Lupi e Tigri in misura molto simile, eppure non eravamo disposti a tornare sui nostri i. Stavamo rischiando noi stessi per noi stessi, e non solo.
La sera del giorno in cui mi aveva detto che voleva sposarmi mi ero rannicchiata accanto a lui sotto le lenzuola fresche di bucato e avevo detto in un sussurro: «A causa tua in meno di due anni mi sono ritrovata nei posti più impensabili e, sempre a causa tua, nel giro di due mesi mi sto sposando due volte.»
Lui aveva riso e mi aveva baciato la testa sui capelli. «Ti dispiace?»
Che Nostra Signora interceda per il mio perdono, no, non mi dispiaceva. Nel cortile dei Kristoforos, fui presente solo quando il sacerdote sorridendo ci dichiarò marito e moglie sotto la benedizione di Dio e di fronte alla legge.
Dahaljer mi attrasse a sé e mi baciò le labbra. “Mia.”
Sophia squittì di gioia dietro di noi.
LIBRO DUE
Il sangue dell'erede
OTTAVA PARTE
And Their Guns, In Your Head
63
Il nostro viaggio di nozze fu un viaggio in macchina verso il fronte sul confine della terra delle Tigri Bianche, molto più a nord di Roma. Eravamo sposati da un giorno e partivamo verso l’ignoto, a causa mia.
C’erano solo due cose che fin da piccola potevano rivelare chi ero sempre stata, ed erano i miei occhi verdi e neri come la malachite e il mio insolito nome, Shayl’n Til. Sono cresciuta tra i vicoli polverosi della città eterna, poco lontano dall’ombra del Colosseo e volevo solo vivere con Madre Brìgit e Nilmini, tuttavia sono la prima in linea di successione come erede al trono della dinastia delle Tigri Bianche e della dinastia dei Lupi Grigi, non posso cambiarlo in nessun modo.
Strappata dai luoghi e dalle persone che amavo, in meno di due anni sono stata trattata come una prigioniera ribelle, come una schiava insignificante, come una principessa delle favole, come una guerriera capace di lottare con i pugnali, come una ballerina di danze orientali e infine come sposa del Sultano di Nayband. A tutt’oggi non riesco a capacitarmi di tutto ciò: non posso negare nessuno di questi ruoli, tuttavia quando penso a me stessa, penso di essere solo Shay. Shay che ama il sole e l’ananas. Shay che ama Madre Brìgit Lech, Nilmini Ferrara e Dahaljer Ahilan Aadre. Mamma, sorella e marito, sebbene la prima non fosse mia madre e la seconda non fosse mia sorella e sebbene l’ultimo fosse mio marito da un giorno. Nella mia famiglia non vi erano legami di sangue.
Non ero in grado di festeggiare il mio matrimonio mentre da qualche parte, nelle terre del Nord, qualcuno moriva a causa della lotta tra Tiouck e Bamiy; ero io l’unica che forse poteva fare qualcosa e porre fine a quello scempio inutile ed ero certa di aver già perso molto tempo.
Dahaljer aveva affittato una macchina che con ogni probabilità non sarebbe mai tornata al suo proprietario. I nostri bagagli erano due zaini; nel mio c’era cibo in scatola e medicine, una coperta e il mio sacco a pelo, nel suo c’era una tenda, da bere, il suo sacco a pelo e un intero armamentario. Sybil aveva sistemato quanto più poteva gli abiti che molto tempo prima mi aveva regalato Dahaljer. Sostenevo ancora che fossero ridicoli e mi ricordavano un inverno che mi gelava il cuore più del freddo che avevo vissuto sulla pelle, tuttavia erano comodi e pratici e per niente al mondo li avrei lasciati a casa loro, quindi indossarli era la scelta migliore.
La strada seguiva curve e tornanti, lungo le montagne, per poi tornare dritta e pianeggiante fino a che non si spezzava di nuovo su qualche altura. Nei pochi giorni in cui eravamo stati dai Kristoforos, Dahaljer mi aveva insegnato a guidare; non voleva lasciarmi la macchina, tuttavia sosteneva che fosse utile per entrambi sapere che avrei almeno potuto metterla in moto e fare due i nel caso fosse stato necessario.
Mentre me ne stavo assorta osservando il paesaggio mutevole alla mia destra, lui era silenzioso e manteneva lo sguardo fisso sulla strada. Mi voltai a guardarlo: era vestito da militare, nonostante non indossasse gli abiti dei soldati/guerrieri, né quelli portati dai soldati al servizio del re. Portava già indosso due automatiche e due pugnali e in vita aveva legato un tapi verde. Lo stavo portando dritto all’inferno e avvertii una fitta di dolore.
Non aveva più accesso alle mie emozioni come un tempo, ma dovette accorgersi di qualcosa, perché mi lanciò un’occhiata preoccupata. Quante volte mi aveva chiesto se fossi sicura di quello che facevo? Gli avevo sempre risposto di sì, tuttavia la realtà era diversa e lui mi conosceva troppo bene per non sapere quale fosse. Comunicazione diversa o meno, non Umano o meno, a volte avevo l’impressione di essere un libro aperto per lui.
Fu un viaggio tranquillo e senza imprevisti; immagino che il tragitto per l’inferno sia dritto e invitante, ben più facile di quello per raggiungere il paradiso. Ciò che trovi a destinazione è un’altra storia.
La strada asfaltata finì di mattina e quella sterrata finì la sera. Caricammo gli zaini sulle spalle e lasciammo la nostra vettura sotto delle querce ombrose.
Dahaljer aveva calcolato un punto lungo il confine dove, se la situazione non era cambiata in quei mesi, avremmo dovuto accedere con facilità alle terre dei Bamiy. Secondo i suoi calcoli e la sua mappa, lo superammo dopo tre giorni di marcia. Ne fui sorpresa.
Benché l’estate non fosse ancora finita, in quelle terre la prima nevicata è sempre puntuale e precoce, e scese dal cielo morbida e silenziosa quando il confine era alle nostre spalle già da quattro giorni. Il nostro primo girone infernale mi congelò le dita.
«Non dovrebbe fare caldo all’inferno?» borbottai con voce querula, mentre Dahaljer mi riscaldava le dita con le sue mani.
«Dipende. Che inferni frequenti di solito?»
«Quelli dove non ci sono le ananas.»
Sorrise. «Allora quelli sono freddi.»
Restammo in silenzio e, al riparo della nostra tenda, le mie dita si scaldarono formicolando, tuttavia non ero intenzionata a toglierle dalle sue mani. «Quindi esisterebbero un solo paradiso e una moltitudine di inferni, secondo le tue supposizioni.»
«Sono sicuro che per te sia così», ribatté, fingendo serietà.
«Per te no?» volli sapere.
Si strinse nelle spalle. «Per me esiste il paradiso dove ci sei tu, il resto è inferno.»
«Cos’è questa bella frase, il mio regalo per la luna di miele?» lo stuzzicai.
Mi attrasse a sé e mi sfiorò le labbra. «Sono io il tuo regalo per la luna di miele. Bello, bravo e intelligente, non puoi desiderare di più di un regalo così perfetto.»
Sollevai le sopracciglia. «E sul tuo cartellino c’è scritto anche che sei modesto?»
«Sul mio cartellino c’è scritto che valgo un mucchio di soldi, perciò qualsiasi sposa mi desideri sta già avendo il massimo che io possa donare e pagare.»
«Sei troppo tirchio.»
«Sei troppo avida.»
Avvicinai il viso al suo, con una smorfia maliziosa. Chiuse gli occhi e aprimmo le bocche insieme, ma la mia si richiuse prima di toccare la sua con un sonoro toc prodotto dai denti che si serravano. Non so se fu quel rumore o il sentimento di paura che scaturì dalla mia mente a fargli riaprire le palpebre. «Che c’è?»
Mi allontanai e concentrai l’attenzione fissando le nostre mani. «Ci sono dei Lupi.» Inclinai il capo come se potessi avvertirli meglio. «A meno di un chilometro e mezzo da qui.»
Mi lasciò le mani e rinfoderò le pistole. «Quanti sono?»
«Cinque, forse sette.»
Annuì. «Dormi, rimango di guardia.»
«No. Non li sentiresti arrivare», protestai.
«Se tu dormi, non ti sentiranno e di conseguenza non arriveranno qui», replicò pragmatico.
«Credi davvero che potrei dormire e lasciare te ad aspettare che ci assalgano?» Avevo usato un tono di voce troppo duro.
Lui non si scompose. «Non lo credo, ma mi aspetto che tu lo faccia.»
«Aspetta pure, se ti fa piacere.» Per fargli intendere che l’attesa sarebbe stata lunga, anche io inserii le mie pistole nelle fondine sulle gambe. I nostri sguardi si sfidarono con fermezza per alcuni istanti, fino a che il mio corpo si rilassò, su ordine della mente, e cambiai espressione. «Non li avverto più.»
Annuì appena con il capo, senza smettere di fissarmi.
Mi morsi l’interno della guancia. «Dahal, il piano di Nikolaos prevede che tu sia mio prigioniero. Come puoi esserlo, se tu sei quello armato e io quella che dorme? E come puoi pensare che io sia così tranquilla da riuscire a dormire?»
«Non trovi che sia ironico che per una volta tanto sono io a essere tuo prigioniero?» Non c’era ostilità in lui.
Sorrisi, nonostante fosse un sorriso triste. «Mi dispiace costringerti a questo.»
Anche lui fece un sorriso mesto, benché fosse più dolce. «Ho deciso io di sposarti e ho deciso io di venire con te, nessuno mi sta costringendo. Sto seguendo il tuo senso di giustizia, ma sto anche cercando di avere una vita più facile e visto che al momento non ne abbiamo la possibilità, sto cercando di guadagnarmela. Poi chissà, un giorno finiremo a vivere in Oceania», concluse con voce ilare.
«Mi piacerebbe. Sai, il dottore mi ha detto che gli Umani là hanno gli aerei, li usano per spostarsi tra le loro terre.»
Sembrava sorpreso, non so se per l’improvvisa piega che aveva preso il discorso o se per ciò che gli stessi dicendo. «Da noi non ci vengono però, intendo dagli Umani.»
Sospirai e mi sdraiai sul mio sacco a pelo. «Ho fatto la stessa osservazione a Nikolaos, mi ha risposto ‘Se tu avessi una navicella spaziale, andresti su Marte, sapendo che ci sono i mostri?’»
Senza preavviso, Dahaljer scoppiò a ridere e io lo guardai stupefatta, senza capire. Quando smise, si sdraiò accanto a me e mi accarezzò una guancia. «Shayl’n Til Lech Aadre, qualsiasi essere umano o meno di questo mondo o di questo universo non ci andrebbe, ma mi gioco entrambi gli occhi che tu ci andresti lo stesso, solo per salvare qualcuno da quei mostri.»
Aprii la bocca per protestare.
«Oh, non dire che non è così», mi ammonì.
«Beh, ‘solo’ non è il termine che avrei usato. A ogni modo, dovrei pensarci: adesso ho te da perdere.»
«Tu, a volte, avresti perso la tua stessa vita per motivi meno importanti, di conseguenza…»
«Dahal», lo interruppi «ti è mai venuto in mente che forse tu, per me, vali più della mia vita?»
«Più di una persona, per te, vale più della tua stessa vita, ma è una sciocchezza, lasciamelo dire. Promettimi che non farai stupidaggini, non per me; promettimi che penserai alla tua, prima che alla mia.»
Gli pizzicai un braccio. «Piantala.»
«E promettimi che qualsiasi cosa succeda...»
«Oh, Dio, ti prego, non lo dire.» Alzai gli occhi al cielo, interrompendolo; poteva non sembrare, tuttavia ero molto seria. «L’ultima volta che lo hai fatto, è successo di tutto.»
«Quella volta non hai esattamente mantenuto la tua promessa.» Si riferiva alla notte che avevamo ato insieme prima di Miurn.
«È vero, te lo concedo. Ma questa volta ho fatto tutte le mie promesse davanti a un sacerdote, con la benedizione di Dio e di Sua Madre, fattele bastare, non te ne farò altre. Andremo da Jean David, fermeremo Belden e Tagron o per lo meno ci proveremo. Mi riprenderò Nilmini e Khaled, e questo è ciò che prometto.»
«Mai una parola dolce per me», scherzò.
«Non dovevi innamorati di un Lupo Grigio.» Forse volevo che uscisse come una battuta, ma mi uscì un mormorio incerto.
Mi stinse a sé. «Non dovevo innamorarmi di te. In ogni caso.» Le sue labbra si poggiarono sulla mia fronte. «Ma ora le cose sono diverse, ora so perché qualcuno può valere più della propria vita. Ora ti amo, lo sai, vero?»
Chiusi gli occhi, accoccolandomi addosso a lui. «Sì, e non smettere di farlo», sussurrai.
“Non potrei smettere di farlo.”
Poi anche quella notte ò e il giorno dopo la neve si sciolse, lasciando i prati bagnati e verdi sotto il sole.
Il nostro cammino all’inferno si aprì sui dirupi isolati prodotti dal Grande Terremoto. Nessuno viveva in quei posti: la terra si era mossa per più di cento anni, scontrandosi e sbriciolandosi e ora aveva creato altopiani e spaccature, dislivelli e vette appuntite, anche le piante erano rade in quel luogo.
Era un posto così particolare che neppure Bamiy e Tiouck ci facevano la guerra, motivo per cui eravamo così sorpresi di aver percepito la presenza di Lupi il giorno prima. Ora, però, non c’era più nessuno e i nostri piedi si mossero veloci, camminando e arrampicandosi e poi scendendo e di nuovo salendo. E ancora nevicò.
Se fossimo stati in grado di volare, sarebbe stato tutto molto più facile. Avremmo potuto percorrere quei luoghi impervi a gran velocità, semplicemente sorvolandoli. Avremmo guardato in basso in modo distratto, senza sapere quale gole o alture vi fossero sotto di noi e pochi secondi dopo non vi avremmo neppure più pensato. Fantasticavo sul mio volo nel cielo, immaginandomi librare nell’aria leggera e rapida, mentre nella realtà imprecavo contro quel suolo sconnesso e impraticabile.
Un aereo, desideravo un aereo.
64
La suola dei miei anfibi scivolava sulle pendenze ghiacciate, spesso per muoverci usavamo anche le mani, per avere più presa. Per fortuna i miei guanti erano nuovi, caldi e pelosi, e l’inverno era ancora molto lontano. Sarebbe stato più facile se avessimo usato la nostra forma animale per are quel punto, ma avremmo avuto problemi a portare gli zaini e soprattutto sarebbe stato impossibile usare le armi, così arrancavamo in silenzio nel nulla di quei luoghi.
Eravamo arrivati quasi alle pianure dei Piccoli Laghi, anch’essa una zona creata dal Grande Terremoto, quando i miei sensi mi bloccarono.
«Lupi?» chiese Dahaljer voltandosi a guardarmi.
Eravamo su un punto scosceso e puntai i piedi nella neve, drizzando la schiena. «Uno», risposi.
«Da solo?» Come ovvio, era sorpreso.
Annuii. «A meno che non sia con degli Umani.» Sapevo di dover sempre tenere presente quell’eventualità. «C’è qualcosa di strano, però. È un uomo, non è molto lontano da qui, come se si fosse svegliato in questo momento. Sta provando paura, solo paura.» Mi voltai appena, verso la direzione in cui percepivo la presenza del Lupo. Feci un o verso la cresta della montagna.
«Cosa vuoi fare?» C’era una palese nota di rimprovero nella sua voce.
Mi fermai e, sospirando, osservai il cielo brumoso. «Devo andare a vedere.»
«Devi andare a vedere cosa? Come tenta di farti fuori e come io tento di salvarti?»
Gli lanciai un’occhiata pensierosa. «C’è qualcosa che non mi torna. È lassù, dietro il crinale, neanche un quarto d’ora e sono arrivata. Se vuoi rimani qui; sta provando paura, niente sottomissione, niente aggressività.»
«Oh, piantala, proverà aggressività quando arriverai; e poi sai che verrei anche io.»
Mi incamminai senza ribattere, lui mi tirò per un polso.
«Dimmi che hai imparato a pensare, prima di agire.»
«Dahal, non succederà nulla, te lo prometto.»
Inspirò e mi lasciò libera. In silenzio, risalimmo l’altura e una volta in cima avvistammo una piccola zona pianeggiante. Sulla neve bianca c’erano una serie di corpi e sangue. Dahaljer mi afferrò e mi buttò a terra accanto a lui.
Alzai gli occhi al cielo. «Sono morti», sussurrai guardandolo, mentre lui osservava la scena immobile con la pistola in mano.
«Se stessero dormendo?»
«Ma non lo vedi il sangue?» Feci per rialzarmi, ma lui mi inchiodò. «Dahal, per favore, smettila.»
«Sei tu quella che andrebbe su Marte solo per salvare qualcuno dai mostri.»
Puntai i gomiti nella neve e avvicinai il viso al suo, tra i suoi sentimenti ò un senso di sottomissione dettato dalla natura della mia mente, e un vago senso di ostilità. «Smettila di fare così o giuro che ti lascio qui, e ò tutto il potere del mio dannato sangue per farlo. Ho detto che va tutto bene, quello che sento deve essere uno dei Lupi ancora vivo, deve essere ferito.»
«E tu lo vuoi salvare…»
Spazientita, feci uno scatto e balzai in piedi; senza dargli tempo di capire, corsi via, verso il centro della piana.
“Secondo me, invece, non hai affatto imparato a pensare.”
Mi raggiunse poco dopo e insieme guardammo i corpi dei Bamiy riversi nel sangue. C’erano una trentina di persone.
Dahaljer mi indicò alcuni di loro. «Queste sono Tigri.»
«Si sono uccisi a vicenda», osservai.
«Non è sopravvissuto nessuno, se fosse così i vivi avrebbero portato via i propri compagni.»
Raggiunsi l’uomo che percepivo nella mente e mi chinai su di lui. Portava un casco da militare in testa e glielo sfilai, facendolo gemere. Aprì appena gli occhi, gialli come il miele.
«Come ti chiami?» chiesi nella sua lingua per valutare quanto fosse cosciente.
«Tu chi sei?» La voce era debole, ma lui era abbastanza in allerta per non fidarsi del tutto di me.
Osservai le sue ferite, ne aveva su gambe e braccia e doveva aver perso molto sangue, tuttavia non sembrava così grave. «Una che sta per salvarti», risposi. «Dahaljer, aiutami a spostarlo.» Lo guardai accigliarsi con la sua automatica in mano. «E metti via le armi, sei un mio prigioniero», aggiunsi in persiano per non farmi comprendere dal ferito.
“Chi ti dice che io lo sappia ancora?”, domandò, tuttavia rinfoderò l’arma e mi aiutò a spostare l’uomo, che per alcuni attimi lo guardò preoccupato, poi emise un lamento.
“Chi è?”, chiese nella mia mente il malato.
«Non importa», gli risposi.
«Cosa?» chiese Dahaljer che non poteva sentirlo.
«Niente, fate silenzio tutti e due.» Scese qualche fiocco di neve e l’aria si fece umida, mentre l’uomo si addormentava di nuovo. Presi il necessario dal mio zaino e insieme Dahaljer e io tirammo fuori tutte le pallottole dal suo corpo e suturammo le sue ferite, disinfettandole.
Entrambi avevamo imparato da Nalinika, lui, però, aveva più esperienza di me. ai sulle ferite un unguento utile a farle cicatrizzare più in fretta e poi le bendai.
«E ora che vuoi fare?» mi chiese Dahaljer in tono accusatorio, quando ebbi finito.
Non vi badai. «Torna giù sulla nostra strada e cerca un punto dove sistemare la tenda. Poi vieni qui e mi aiuti a portarlo giù.»
Si alzò in piedi. «Non entriamo tutti e tre nella tenda.»
«Non importa, stanotte rimango fuori, così vedo…»
«Shayl’n! Quando la smetterai di fare la gran donna?»
Spalancai la bocca, sollevando il viso verso di lui. «Non sto facendo la gran donna. Io sono così. Lo sono sempre stata, non posso credere che te ne stia accorgendo adesso. Forse non sai bene chi hai sposato.»
Abbassò le spalle, cambiando espressione. «Lo so invece, ti amo anche per questo», sussurrò, chinandosi verso il Lupo. “In fondo hai cercato di farmi impazzire fin dal primo momento, no?” Mi guardò di sottecchi, sorridendo. «Farò come vuoi, ma non vi lascio qui: andiamo insieme giù e poi monto la tenda, manca ancora un po’ al tramonto.» Con la sua felina eleganza raccolse l’uomo da terra.
«Grazie.» Sorrisi appena, ma con gratitudine. «E io non ho cercato di farti impazzire, hai fatto tutto da solo. Fosse stato per me, sarei ancora a Roma.»
«Oh, zitta e seguimi.»
Sapendo che saremmo potuti andare avanti per ore, evitai di rispondergli a tono. Raccolsi le nostre cose, osservai i corpi senza vita, mormorando una preghiera, e mi incamminai dietro la Tigre e il Lupo.
Proseguimmo verso i laghi e solo quando ormai era buio, ci fermammo. Sistemammo il Lupo nella tenda e mangiammo qualcosa. Osservando le nuvole
creare uno spazio per la luna, convinsi Dahaljer a tenere le armi nascoste, gli feci tenere quelle nella fondina ascellare e quella dietro i pantaloni. Borbottando acconsentì e mi obbligò a tenere le mie automatiche sulle gambe, tre pugnali e una mitragliatrice a tracolla. Non ne avevo mai usata una, non ne avevo neanche mai toccata una, e non credevo l’avrei mai usata in futuro, tuttavia mi fece promettere di non pensare troppo e sparare se fosse servito. Mio malgrado promisi, con superficialità.
«Per colpa di questo qui», Dahaljer indicò con il capo dentro la tenda, «da domani cambierà tutto.»
«Sarebbe successo prima o poi, lo sai.» Il vento si calmò per qualche momento, la luna era piena e illuminava i nostri visi assorti. «Ricordi cosa ti ho detto a proposito dell’amore? Io e te, ovunque e comunque.»
Alzò il viso corrucciato a guardare il satellite su di noi, poi distese le linee del volto e spostò lo sguardo su di me. «Vieni qui», bisbigliò.
Mi avvicinai a lui, che mi prese tra le braccia e mi strinse a sé. Ci cullammo per qualche istante, poi alzai il viso verso il suo e sorrisi. La prima volta che mi aveva baciata c’era la stessa luna piena. Premetti le labbra sulle sue e chiusi gli occhi, le dischiusi sotto la sua leggera pressione, cingendogli il collo con le braccia; le nostre lingue si accarezzarono, mentre mi teneva la testa con una mano. Non potevamo fare altro e mi baciò a lungo, con dolcezza.
Con le prime luci del mattino il Lupo si svegliò e lo aiutai a mangiare. Si chiamava Antòn e mi raccontò di essere stato attaccato insieme ai suoi compagni dalle Tigri Bianche. Mi parve subito molto preoccupato, oltre che addolorato: mi disse che la situazione era diventata insostenibile, erano stati decimati e non era prevista una fine.
«Lo è mai stata?» chiesi distrattamente controllando le sue ferite.
«Non lo so», ammise. «Ora però sembra che l’unica strategia sia uccidere più nemici possibile. Quei bastardi dei Tiouck ci stanno schiacciando come formiche, tutti, tutti quanti.» Gli sfuggì un rantolo sommesso. «Più a nord hanno ucciso donne e bambini - civili! - come niente fosse. Beh, sicuramente lo saprai.»
«Sì.»
Mi scrutò. «Come avete fatto a catturare la Tigre?»
«A dire il vero non lo so, io non c’ero. Sono solo stata incaricata di portarla al principe Jean David.» I miei sentimenti erano custoditi sotto un perfetto strato di indifferenza, tuttavia Antòn mi guardò a lungo.
«Non sapevo ci fossero donne nell’esercito», commentò infine.
«Non faccio parte dell’esercito, sono solo molto vicina alla famiglia reale», spiegai laconica.
I lineamenti del suo viso si distesero, come se avesse capito qualcosa. «Ecco perché sento questo forte comando nella tua mente. Di chi sei figlia?»
«Non posso parlare di me», risposi con voce salda.
«Per la tua sicurezza?»
Sbattei le palpebre; non essendo certa di non scoppiare a ridere, annuii.
Mi guardò di sbieco. «Non è rischioso mandare un’unica persona con un Capo Branco dei Tiouck? Una donna, tra l’altro, senza offesa.»
«Sono addestrata a combattere», ribattei, secca.
«Non sapevo che Belden addestrasse delle donne di sangue reale.»
«In effetti, non lo sa nessuno. Tiene nascoste molte cose, come ha fatto con il figlio per tutti questi anni. Per esempio, a me non è stato detto perché ha voluto catturare questa persona, non so cosa possa ottenere da lui.»
«Oh.» Si guardò il braccio fasciato, riflettendo. «Sei delle zone del sud? Hai uno strano accento.»
Gli lanciai un’occhiata. «Non pensi di fare troppe domande a una persona di sangue reale?» Sembrò in imbarazzo. «Vado fuori a vedere se il prigioniero è ancora con noi.»
«Oh, sì, controllalo spesso, non lasciarti distrarre da me.»
Gli sorrisi.
Il giorno dopo, riprendemmo il cammino tutti e tre. Sia Antòn che Dahaljer mi parlavano con la mente, mentre io rispondevo al primo a voce, così che sembrava che parlassi da sola. Per fortuna Antòn faceva lunghi monologhi a cui non avevo nulla da ribattere, tuttavia era stancante averlo sempre tra i pensieri. Controllava spesso il prigioniero con palese ostilità, sosteneva che lo dovessi legare con delle manette e fu difficile per me, convincerlo del fatto che non ce ne fosse bisogno, lui aveva paura che ci rubasse le armi.
«E sei sicura che gli abbiano messo i cerchietti alla caviglia?» domandò a un tratto mentre superavamo un piccolo laghetto non ancora gelato.
“Che palle, che persona poco fiduciosa!”, borbottò la Tigre.
«Certo, ho controllato io stessa.»
Piegò la bocca in una smorfia. «Davvero?»
“Non si fida del tuo bel faccino?”
«Davvero», replicai senza guardare nessuno dei due.
Ma non si arrese. «E se…»
«Antòn, non pensi che si sarebbe già trasformato, se non fosse così? Lui è una Tigre, mi avrebbe già sbranata a quest’ora.»
“Giusta osservazione, avvocato. E solo io so quanto ti piace quando ti sbrano.”
Il Lupo evitò di incrociare il mio sguardo. «Hai ragione, scusami, è che io, beh, ecco…»
“Insopportabile. Perché non lo hai lasciato morire?”
Feci il sorriso più paziente che mi riuscisse. «Credo sia normale avere di questi dubbi. Non siamo abituati a farli prigionieri.»
“Tu sei abituatissima a farmi prigioniero.”
Antòn si sbrigò ad annuire. «Sì, forse è stato faticoso anche per te, all’inizio.»
«Già.»
“No, all’inizio era lei a essere mia prigioniera e ti assicuro che è stato faticoso per me.”
Il secondo giorno, oltre i piccoli laghi che riflettevano immobili il cielo plumbeo, da lontano udimmo il suono di spari da armi da fuoco.
“Shay, si stanno scontrando laggiù.”
Mi voltai a guardarlo, senza riuscire a dissimulare il mio stupore. Lanciai una rapida occhiata ad Antòn, che non sembrava altrettanto sorpreso. «Il fronte si è sposato?» domandai, con finto disinteresse.
«No, ormai è là da almeno due mesi. Per fortuna, perché sono solo loro ad avanzare.»
“Noi siamo via da più di due mesi.”
«Manteniamoci su questa traiettoria», continuò Antòn, «e tra due giorni arriviamo a Nricke, senza problemi. Spero.»
Arrivammo, almeno per una volta, senza problemi.
65
Giungemmo a Nricke, nella regione di Nuova Innsbruck, dove vi era un grande accampamento nascosto da due colline alberate. C’erano molti feriti, tra cui il capo, Riannè. Aveva un taglio lungo l’avambraccio, tuttavia non sembrava grave.
Avevo sottovalutato la situazione e prima che potessi fiatare, i Lupi avevano già messo un cerchietto al polso di Dahaljer e lo avevano ammanettato. Lo avrebbero torturato, se non avessi insistito per portarlo con me da Riannè Sullivan.
Con disinvolta precisione, ripetei a lui la versione che avevo fornito ad Antòn e il capo camminò avanti e indietro accanto al fuoco, pensieroso, ripetendosi perché non fosse stato informato. Dahaljer, ostile, ebbe il buon gusto di rimanere in silenzio, anche nella mia mente.
«Perché il principe Jean David, poi?» domandò toccandosi il mento con lo sguardo corrucciato. «A mio avviso è da portare dal re, chi ti ha detto che sia da portare dal principe?» Aveva gli occhi di un colore tra il grigio e il verde, sotto due folte sopracciglia castane e un naso troppo sproporzionato.
«Gliel’ho detto, mi è stato riferito. Eseguo solo i comandi.» Trattenni un sospiro. «Sono sicura che non sia per Belden.»
«Va bene, domani mattina, però, vedrò di inviargli un messaggio per sapere cosa ne pensa.»
«Domani mattina saremo già partiti», mi affrettai a ribattere.
Annuì, distratto. Si voltò e mi squadrò. «Belden dovrebbe tenere qualche segreto in meno, soprattutto se poi intende rivelarlo.» Si stava riferendo a me. «Nel tuo sangue scorre molta autorità, devi essere vicina al re, vero?»
Spostai il peso del corpo, senza rispondere.
«Hai mangiato, ragazza?» si informò, toccandosi i capelli.
«Non ancora.»
Le sue sopracciglia si distesero sulla fronte. «Lascia il prigioniero qui, ti…»
«Il prigioniero viene con me», replicai troppo in fretta.
“Calmati, Shay.”
«E tra l’altro deve mangiare anche lui. Riannè, nessuno di noi è abituato a fare prigionieri, a maggior ragione trattandosi del Capo Branco dei nostri nemici,
tuttavia abbiamo ancora un po’ di umanità, oppure no?»
“Oddio, dimmi che non gli vuoi fare la predica.”
Si incupì. «Shayl’n Til, così hai detto che ti chiami, vero? Non so quale sia il tuo retaggio, né come sia possibile che una donna sia finita qui, con un compito di tale importanza, ma a me non piacciono le donne qui. Non si tratta di umanità, siete solo troppo sentimentali.»
Alzai il mento. «Lo sa che il mio retaggio può imporre degli ordini anche a lei?»
Sorrise sornione. «Lo percepisco.»
«Il prigioniero rimane con me e non voglio che sia toccato. Fino a che non sarà consegnato, sarà sotto la mia responsabilità», sindacai con tono perentorio.
Lui fece un gesto con la mano, come a dire che non importava. «Come vuoi.»
Mangiammo in silenzio, sotto gli occhi di Riannè e altri due uomini dagli sguardi curiosi. Non ci fu nessun’altra obiezione, neppure sul fatto che dormisse nella mia tenda.
Guardai le sue manette, prima di spegnere la luce. «Mi dispiace», sussurrai appena in persiano, pur sapendo che nessuno era così vicino da poter sentire.
“Sbrigati ad arrivare da Jean David e a mettere fine a questa guerra, Shay.”
Nel buio, gli sfiorai una mano. «Siamo qui per questo. Se tutto va come mi ha promesso Riannè, domani andremo ai POD e dopodomani potremmo già essere e Nuv Monàc.»
“Non preoccuparti. Ora dormi.”
«Buonanotte, amore.»
***
Un rumore improvviso di armi che sparavano e grida mi fecero svegliare di soprassalto. Presi le mie armi, mettendomi a sedere sul sacco a pelo.
«Non uscire», mi ordinò Dahaljer.
«Ma…»
«Shay, rimani qui. Ascoltami per una volta tanto. E dammi una delle tue pistole.»
«No. Se ti vedono armato, salta tutta la mia copertura e non sono sicura che non ti facciano fuori alla prima occasione.» Cercai il suo corpo nell’oscurità. «Rimango qui.» Non riuscii a vederlo, lo sentii stringermi una mano.
Gli spari divennero frequenti e vicini, stavano attaccando Nricke e provai un’ondata di paura: questo non lo avevo previsto. Dahaljer mi attrasse a sé e mi abbracciò, lui provava ostilità verso qualsiasi cosa stesse succedendo fuori.
Mi liberai poco dopo, percependo la presenza di qualcuno che si faceva vicina. Prima che potesse farlo qualcun altro, aprii la tenda e mi ritrovai faccia a faccia con un Lupo che non conoscevo.
«Vieni. Lascia il prigioniero qui e digli di non muoversi. Se prova a uscire da qui, gli spareranno a vista.»
Voltai il viso verso l’interno e mi morsi un labbro. Non potevo dargli l’automatica in quel momento e mi pentii di non averlo fatto quando me lo aveva chiesto.
Sussurrai qualcosa all’oscurità.
“Ti aspetto.”
Mi investirono aggressione, sottomissione e paura. Paura per me. Carponi, sgattaiolai fuori dalla tenda e mi alzai. Corsi dietro all’uomo nel trambusto, non sapevo dove mi stesse portando; non l’ho mai saputo.
In una manciata di secondi, lui e due persone accanto a lui si accasciarono a terra urlando, e io fui colpita di striscio su una gamba. Prima di potermi chinare su di lui, qualcosa scoppiò a pochi i da noi.
Caddi sulle ginocchia e scossi la testa, cercando di ritrovare l’equilibrio. “Vattene.” Ignoravo chi lo avesse detto, tuttavia vedendo le Tigri Bianche a pochissimi metri da me, ascoltai il consiglio e sgattaiolai tra le tende.
Mi invase un senso di panico. In realtà non sapevo cosa dovessi fare, né dove andare. Se non fossi stata talmente frastornata dai suoni e dalla situazione stessa, sarei tornata da Dahaljer. Il mondo però vorticò intorno a me.
Una serie continua di scoppi mi fece perdere l’udito. Mi sdraiai sulla neve sporca, con le mie automatiche in mano, chiedendomi se dovessi combattere contro le Tigri. Nascosti tra tende e piccole costruzioni, Bamiy e Tiouck si stavano sparando con pistole, mitragliatrici e piccole bombe. Non mi ero mai trovata in quel tipo di battaglia. Con le dita tremanti, presi il caschetto di un uomo vicino a me, che fissava il cielo notturno, e lo misi in testa. Strisciai su un lato fino ad addossarmi su una parete, sopra di me c’era un finestra dai vetri rotti, mi alzai e facendo forza sulle braccia entrai dentro, tagliando una parte del guanto sinistro.
Rimasi immobile qualche istante. Non avevo idea di cosa ci fosse là dentro, cercai solo di individuare la porta e dopo un attimo la raggiunsi. L’aprii appena e guardai fuori. C’erano due tigri a neanche cinque metri da me. «Merda.»
Dalla posizione in cui ero, avrei potuto ucciderli con un colpo di pistola ognuno. Richiusi la porta, rinfoderai una delle due automatiche ed estrassi il pugnale.
Attesi, cercando, invano, di concentrarmi sui diversi rumori.
Potevo nascondere tutti i sentimenti che volevo, ma non la mia presenza, a nessuno di loro, perché avevo il sangue di entrambi. Uno di loro due si avvicinò, socchiuse la porta e un attimo dopo la luce era accesa.
Sbattei le palpebre. Spalancai l’anta e con tutta la forza che avevo gli strappai la pistola di mano, che però sparò un colpo a vuoto. Lui mi guardò, paura e aggressività si mischiarono tra le sue emozioni, insieme alla sottomissione per la mia natura. Ne approfittai per afferrarlo, lo voltai e gli puntai l’arma alla testa nell’attimo stesso in cui il suo compagno fuori veniva ucciso a colpi di mitragliatrice.
«Rimani immobile e non ti ucciderò», dissi nella sua lingua, e la mia voce tremò.
«Shayl’n. Tu sei Shayl’n Til.»
Lo guardai di sbieco. Non riuscivo a vederlo bene per via della posizione con cui lo tenevo stretto a me, né a scorgere il punto del suo tapi dove si trovava il nome, tuttavia ero certa di non sapere chi fosse. Nel momento in cui una serie di possibilità su cosa dire o fare balenò nella mia mente, uno dei Lupi che aveva ucciso il suo compagno entrò e, senza darci il tempo di comprendere le sue intenzioni, infilò la lama del suo pugnale nel collo dell’uomo. Il sangue schizzò e colò come la lava di un vulcano.
Mi mancò il respiro, il giovane si accasciò tra le mie braccia e io lo tenni stretto. L’uomo che lo aveva ucciso mi guardò aggrottando la fronte. «Che stai facendo? Devi fare tutti prigionieri?» Non lo avevo mai visto.
Scossi la testa, con troppa foga.
«Lascialo!» urlò. «Andiamo via da qui.»
Feci scivolare sul pavimento il corpo della Tigre, incapace di dire qualsiasi cosa. L’altro mi strattonò e mi portò fuori, dove c’erano altri uomini, avevano tutti le mitragliatrici in mano. Per una frazione di secondo pensai a Shiire Raja e alle sue armi che non avevo mai visto.
Qualcuno sparò e loro risposero ai colpi, l’uomo mi sbatté al muro e mi fece scudo con il suo corpo, sparando a sua volta. Non capivo dove stesse mirando, non capivo più nulla. Le vertigini lambivano il mio precario equilibrio. Mi sentivo incapace di afferrare la situazione e mi lasciai di nuovo tirare per un braccio, correndo insieme all’uomo e agli altri Lupi nell’accampamento.
Mi stavo dicendo che dovevo chiedermi dove stessimo andando, che quella era se non altro una domanda logica, quando qualcosa nell’aria fischiò e un attimo dopo esplose a pochissimi i da me. Mi coprii il viso con le braccia; non so se stessi urlando, non sentivo niente. Il casco che avevo in testa attutì la botta dietro la mia nuca; notai che il cielo era più chiaro, avrebbe albeggiato a breve, e decisi che fosse importante.
Come se qualcuno stesse pian piano alzando il volume della radio, iniziai a sentire gli spari e le urla, comprese le mie. Qualsiasi cosa fosse successa, faceva male sulle gambe. Molto male.
Tentai di respirare. Aria, aria, aria.
Dahaljer.
Il cielo si tinse di rosso. Rosso sangue.
66
Strinsi i denti per il dolore e aprii le palpebre, il bianco del soffitto mi ferì gli occhi.
«Shh. Non agitarti troppo.» Una donna castana, dagli occhi gialli, entrò nel mio campo visivo. «Ti ho appena dato della morfina, tra poco non sentirai di nuovo nulla.»
Ansimai appena. «Dove sono?» Non riconobbi la mia voce labile e incerta.
«All’ospedale militare di Innsbruck», rispose apprensiva.
«Dov’è… dov’è il prigioniero?»
Aggrottò la fronte. «Chi?»
«Il prigioniero. Il Capo Branco delle Tigri, Ahilan Aadre, dov’è?» sillabai, sforzandomi.
Mi guardò preoccupata. «Sai chi sei?»
Pensava che stessi delirando. «Sì, dannazione, voglio solo sapere dov’è il prigioniero.» L’effetto della morfina mi costrinse a concentrarmi per rimanere vigile.
Sorrise con dolcezza. «Non so di chi tu stia parlando. Chiederò al dottore e ti farò sapere.»
Serrai i pugni, o tentai solo di farlo. «Ora. Lo voglio sapere ora, è un ordine.» Fui invasa dalla sua sottomissione subito prima di riaddormentarmi.
Nilmini venne a trovarmi nel mio gelido giaciglio, i suoi neri occhi a forma di cerbiatto sorrisero, senza dire una parola. Era piccola, così piccola, forse non aveva neanche un anno. Le sue manine strinsero sui miei capelli e tirarono fino a farmi male.
Sorrideva e tirava, fino a che non urlai di dolore, implorandola di smettere. Il suo visino paffuto si contrasse in una smorfia e Nalinika l’afferrò e la portò via, lontano da me, entrambe lontano da me.
Continuarono a non esserci parole, solo visi, luci, ombre, il silenzio rotto dal mio grido infinito.
«Ehi. Va tutto bene.» Le ombre parlarono con gentilezza. «Svegliati, è solo un sogno.» Le ombre si ridussero a un ovale, con due occhi e una bocca e un naso e doveva anche avere una mano, che con del cotone mi asciugò il viso dalle lacrime. «Meglio?»
Annuii.
«Bene. Sono Darie Menlue, primario dell’ospedale del palazzo reale di Nuv Monàc. La tua situazione è stabile e le tue gambe a breve saranno come nuove. Il corpo di uno dei soldati ha impedito di fartele saltare via, hai avuto solo delle ustioni, ma scompariranno presto. Sei stata fortunata.»
Mi alzai a sedere. Ero da sola in una grossa stanza di ospedale, che però appariva come la stanza privata di qualche persona ricca. C’era un grande lume d’ottone accanto a me e sulle pareti c’erano dei quadri che raffiguravano personaggi della mitologia greca. «Nuv Monàc», dissi con voce impastata.
«Sì, mi hanno detto che dovevi venire qui. Un elicottero dell’ospedale ti ha portata qui. Sei di sangue reale, ma a quanto pare nessuno sa chi tu sia.»
Non ero mai stata su un elicottero. «Il prigioniero dov’è?»
«Oh, mi hanno detto di lui. Dovrebbe essere arrivato a destinazione, dal re.»
Ansimai.
Lui abbassò il viso a guardare il mio. «È tutto a posto.»
Scossi la testa e Darie mi guardò con aria preoccupata. «Doveva arrivare da Jean David, non da Belden.» La mia voce era talmente incrinata, che dovetti ripetere la frase due volte. «Era mia la responsabilità», aggiunsi.
«Mi dispiace. Io non l’ho neanche mai visto. So che il re e il principe non stanno conducendo la situazione allo stesso modo e immagino ci fosse un motivo preciso se era il figlio a volere il prigioniero, ma ora non puoi fare nulla.»
Repressi un singhiozzo. La testa mi doleva.
«Non è colpa tua.» Abbassai il mento e lui mi chiamò, storpiando il mio nome. «Non potevi sapere come sarebbero andate le cose a Nricke, non lo poteva sapere nessuno. Credo che tu abbia fatto bene il tuo lavoro, Jean David è un tipo comprensivo, capirà.»
Era la paura il sentimento che pervadeva il mio animo e non la stavo nascondendo. Mi coprii il volto con le mani, lasciandomi abbracciare dal dottore, che non poteva sapere quale dolore mi stesse invadendo il cuore.
Ero stata io a consegnare Dahaljer nelle mani di Belden Monreau Harvey. Io con la mia sciocca idea di cambiare il mondo.
Nelle braccia di uno sconosciuto, mi lasciai cullare a lungo e, infine, quando il silenzio si era fatto pesante, chiesi di vedere Jean David.
«Al momento non si trova in città. Dovrebbe tornare la prossima settimana»,
spiegò.
«Ho bisogno di parlare con lui, il prima possibile. Non ho modo di contattarlo?»
Lui si alzò dal letto. «Vedo se riesco a farti avere una comunicazione diretta con lui, ma non credo sia facile al momento. Cosa devo dire esattamente di te, chi sei?»
Concentrai la mia attenzione sull’intaglio scuro di un mobile color bistro. Il principe non sapeva nulla di me, qualsiasi cosa avessi detto per lui non avrebbe significato nulla.
«Gli dica solo che sono Shayl’n Til Lech, che suo padre ha nascosto la mia vita come ha fatto con la sua per tanti anni.»
Lui inarcò le sopracciglia. «Tu non conosci il principe?»
«No», sussurrai senza guardarlo.
«E lui non conosce te», concluse. «Come ha fatto a darti l’ordine di portare un ostaggio delle Tigri Bianche, se non sapeva della tua esistenza?»
Incrociai lo sguardo con il suo. Aveva le iridi dello stesso colore scuro degli aghi di pino, screziato di macchioline più chiare, verso la pupilla. «Non me lo chieda, per favore.»
Darie Menlue non mi domandò altro, neanche nei giorni a seguire, quando mi fece alzare dal letto, seguendo ogni mia mossa insieme a delle giovani infermiere incuriosite; non mi domandò nulla neppure quando mi disse di non avere avuto modo di parlare con il principe, ma di avere saputo che il prigioniero si trovava più a nord, forse a Tarane.
L’unica cosa per cui riservò curiosità fu la mia cicatrice tra pancia e fianco, quella che Dahaljer mi aveva procurato tanto tempo prima, quando mi aveva rapita e quasi uccisa. Non mi ero ancora trasformata per la prima volta e il segno era rimasto chiaro e ben visibile sulla mia pelle color ambra. «Hai l’impronta degli artigli di una tigre, sul corpo», commentò.
«Sì», risposi solo.
Non ero mai di molte parole. Pensavo a dove fosse il Capo Branco, pensavo al mio sogno su Nilmini che veniva portata via da Nalinika, non sapevo più nulla di nessuno e potevo averli persi tutti. Non avevo più nulla, non avevo gli abiti che Dahaljer mi aveva regalato e che per tanto tempo avevo conservato pur di averli con me; non avevo il mio zaino e con esso non avevo più né le armi, né i pugnali, né i documenti, né l’elefantino di malachite che mi aveva regalato il Sultano di Nayband.
Avevo perso tutto e per l’ennesima volta avevo perso anche la mia identità; solo il sangue rivelava agli altri una vaga idea. Mi affacciai alla finestra contemplando il mare di Nuv Monàc. Era una città che si estendeva lungo le coste, doveva essere molto grande e non riuscivo a vederne la fine.
Ricoperta di neve, dalla mia stanza del palazzo della dinastia Erdreè, la vedevo
srotolarsi silenziosa e piatta, oltre i giardini ammantati. Il mare sembrava immobile e aveva un intenso colore grigio, quasi metallico.
Ero in quel posto da una settimana, avevo una stanza tutta mia e non avevo nulla da fare, oltre a ricordarmi di mettere una pomata sulle gambe e di prendere una pillola dopo il pranzo. I segni sulla mia pelle non Umana stavano già scomparendo, lasciando solo degli aloni rossicci e l’epidermide un poco grinzosa. Tigri Bianche e Lupi Grigi erano stati creati artificialmente proprio per sopravvivere a lungo, per combattere le catastrofi che seguirono il duemiladodici, rammentai.
Uscii un paio di volte insieme a Darie, che mi comprò del pane caldo in un forno davanti alla battigia, sulla costa est. Indossavo dei pantaloni e una maglia in mude e, sopra a essi, dei pantaloni da neve azzurrini e una giacca dello stesso colore.
L’aria era fredda, ma non c’era vento. Sedemmo su una panchina, osservando le onde infrangersi lente.
«Ti fa bene uscire», osservò il primario, studiando il suo pezzo di pane fumante. «Ho un figlio della tua età, a le giornate a giocare con il computer, non fa nient’altro, non esce mai. Se sente i suoi amici li sente al computer. Studia molto, questo glielo riconosco, vuole diventare medico anche lui, tuttavia non lo vedo mai uscire di casa.»
Immagino che quando in camera hai un computer che ti apre la vita sul mondo esterno, invece che una moltitudine di letti da condividere con i bambini di una creche, la propria stanza diventi un luogo confortevole.
Il mondo, la nostra parte di mondo, era rinato solo negli ultimi venti anni. Prima era stata scossa dalla serie interminabile di terremoti e assestamenti durata per quasi cento anni, dalle malattie e dalla povertà, poi pian piano tutto si era ristabilito e solo di recente i suoi abitanti stavano ritornando alla vita ante ’12. Guardavo i POD, le automobili e i piccoli autobus muoversi lenti accanto a noi, e osservavo gli elicotteri volare di tanto in tanto sulle nostre teste.
«Tarane si trova sul fronte?» domandai senza preavviso.
«Un po’ prima, è una delle nostre roccaforti più a sud. Vedrai che quando Jean David tornerà, si risolverà tutto.»
Annuii.
Darie Menlue mi lasciò dei soldi e mi disse di farmi accompagnare da una delle infermiere a comprarmi qualche vestito; rifiutai il suo denaro, tuttavia lui insistette affermando che se ero della famiglia reale, prima o poi glieli avrei ridati.
Li accettai, titubante, e li tenni in tasca per diversi giorni. Non avevo nessun interresse ad andare a comprare dei vestiti. Guardavo distrattamente un film in televisione, quando seppi cosa farne.
La mattina dopo mi vestii molto presto, ai da una delle infermiere perché mi aveva detto di andare da lei a prendere la pomata che stava per finire. La ringraziai e uscii in giardino. Tirai il cappuccio della giacca azzurra sulla testa e dopo dieci minuti ero fuori dall’ospedale del palazzo.
Presi la strada che aveva condotto il dottore e me verso il mare e camminai lungo la costa, fino ad arrivare su uno slargo dove avevo visto parcheggiati autobus e POD.
Mi avvicinai a due uomini. «Quale di questi mezzi va a Tarane?» domandai.
Mi fissarono sorpresi. «Nessuno», rispose il più alto. «Tarane è in guerra, signorina, non lo sa?»
Sostenni il suo sguardo. «Lo so, ci devo arrivare.»
«Ci vanno solo i soldati», dichiarò, studiandomi.
«Va bene, allora un mezzo che vada da quella parte c’è?»
Si guardarono. «Forse il POD che va ad Asbri.»
«No, conviene l’autobus che va a Sanatiel», ribatté l’altro, quello più basso.
«Ah, è vero, se non è partito già.»
«No, è laggiù», indicò con il dito un autobus in lontananza. «Se…»
«Grazie», lo interruppi e corsi verso il mezzo. Aveva il motore e il suo guidatore era all’interno.
«Questo va a Sanatiel?» domandai, mangiando le parole.
Il guidatore si tolse i capelli dagli occhi. «Sì.»
«Vicino Tarane?» mi assicurai.
Accennò una smorfia. «Purtroppo, sì.»
«Come pago il biglietto?»
Si accigliò. «Come tutti: con i soldi del tuo portafoglio.»
Sbattei le palpebre. «Intendo dove.»
Indicò un box luminoso poco più avanti. «Con quello. Dici da dove parti e dove vai e metti i soldi. Poi, se sei fortunata, torni qui e mi trovi ad aspettarti.»
«Aspettami, per favore», lo implorai.
Io non sono pratica di tecnologia, non sapevo da dove iniziare per far funzionare quella macchina infernale. Cominciai a premere tutti i tasti, senza riuscire a fare nulla.
Mi voltai a guardare l’autista e scossi la testa. Lui si strinse nelle spalle e premette il piede sull’acceleratore.
Imprecai tra me, tornando a concentrarmi sulla grossa scatola luminosa, e dopo qualche tempo l’autista mi raggiunse. «Tu non hai mai viaggiato?»
«No», risposi senza guardarlo.
Lui, pratico, con un paio di mosse, infilò i miei soldi e mi consegnò il biglietto. «Di solito a quest’ora ero già partito, non aspetto mai.»
«Grazie.» Lo seguii a o veloce. «Grazie davvero.»
«Mmm. Sali.»
Salii e un buon numero di occhiatacce mi analizzò borbottando e manifestando palese ostilità. Andai a sedermi sui sedili posteriori, perché erano gli unici liberi.
Sprofondai nel mio posto e guardai Nuv Monàc allontanarsi con le sue luci elettriche e il suo mare argentato.
67
La strada che portava a Sanatiel era piatta e monotona, mi addormentai molto presto. Le persone salivano e scendevano dall’autobus e nessuna di loro rimase per tutto il percorso. A ora di pranzo, l’autista fece una pausa di mezzora e ne approfittai per andare al bagno e mangiare qualcosa. Comprai una sacca e ci misi dei pezzi di pane.
Risalii prima di lui e di nuovo sprofondai nel sedile.
Arrivammo a sera inoltrata. Lo capii perché il motore si spense. Scesi dal mezzo e mi guardai intorno, stringendomi nei miei abiti. «E ora dove vai?»
Era stato l’autista a parlare.
Mi voltai a guardarlo. «Devo arrivare a Tarane.»
«Non puoi arrivare a Tarane, non mi sembra un luogo per te», bofonchiò con fare paterno, nonostante avesse la mia età.
«Ci devo arrivare lo stesso», replicai secca. «Non ci va nessun mezzo da qui?»
«No, per quanto mi riguarda è già troppo costringerci a farci arrivare qui. Questa
zona è pericolosa», rispose burbero.
Ignorai la sua lamentela. «Dimmi che strada devo prendere.»
«Non puoi andarci da sola», mi ammonì di nuovo.
«Senti, non sai neanche chi sono. Non preoccuparti per me, dimmi che direzione prendere e quanto tempo potrei impiegarci.»
Sospirò e si morse un labbro. Inclinò la testa. «Continua su questa strada, poi forse dovrebbero esserci dei cartelli. Non so quanto ci possa volere. Quattro, forse cinque giorni a piedi, ma potrebbe essere anche di più, io ti consiglio di tornare a casa», aggiunse.
«Grazie», tagliai corto. Mi incamminai nella direzione che mi aveva indicato.
«Ehi, non ci sarà più nulla oltre quelle colline», mi avvisò.
Mi voltai. «Va bene. Grazie», gridai di rimando.
Quando le luci dietro di me sparirono e fui inghiottita dal buio della notte, mi fermai, presi coraggio e mi spogliai. Il gelo mi sferzò la pelle, mentre infilavo tutti i miei vestiti nella sacca; strinsi i denti e tolsi le scarpe, misi dentro anche quelle, chiusi la borsa e in fine mi trasformai.
Mi scrollai, non sapendo bene per quale motivo. Presi la borsa con le zanne e me la ai intorno al collo. Senza avvertire più tanto freddo, mi incamminai, tenendomi poco distante dalla strada. Camminai trotterellando sulla neve in forma di lupo per quattro giorni, trasformandomi solo per mangiare le provviste che tenevo nella sacca; anche se alla fine non mi trasformai più e catturai qualche animaletto che incontravo sulla strada, la quale era diventata solo un sentiero tra gli alberi privo di cartelli.
Come aveva detto l’autista, invero, non c’era nulla.
Iniziavo a pensare di avere preso una direzione errata, quando i miei sensi registrarono la presenza di una serie di Lupi Grigi. Poco dopo, li intravidi più sotto are con dei POD bianchi di tipo militare.
Se avevano percepito qualcosa di me, non si fermarono a controllare. Li inseguii di corsa per diversi metri, poi però li persi di vista e rallentai il o.
Seguii quella direzione per due giorni e poi avvisai la presenza di molti Lupi Grigi. Scendeva una neve fitta e veloce tra gli olmi e gli abeti e mi accucciai accanto a una roccia aspettando che finisse di nevicare. Dopo un’ora di paziente attesa, l’aria si fece immobile e io mi trasformai e mi rivestii.
Misi i guanti sulle mani intirizzite e mi coprii la testa, mentre qualche fiocco ancora scendeva leggero. Trassi un lungo, profondo respiro, che incanalò il freddo nei miei polmoni, e con o lento mi avvicinai alla roccaforte.
Da fuori, Tarane era un piccolo villaggio circondando da più reti e da diverso filo spinato. Alcuni uomini armati presiedevano l’entrata. “Fermati”, ordinò nella mia mente uno di loro, quando ero ancora lontana.
Mi fermai.
“Chi sei?”
“Non puoi sentirmi.” Non avrebbe capito le mie parole, ma avrebbe capito di non essere in grado di percepire il mio pensiero. Li vidi scambiare qualche parola tra di loro e tre uomini mi vennero incontro. “Vieni.”
Mi avvicinai, mascherando un nuovo senso di paura.
«Chi sei?» domandarono di nuovo, quando eravamo molto vicini.
«Sono Shayl’n Til. E devo vedere il vostro capo.»
«Il capo adesso ha le puttane a domicilio?» scherzò uno di loro rivolto agli altri.
«Le solite ingiustizie», ribatté quello che sembrava essere il più giovane. Mi squadrarono dall’alto in basso.
«Siete in guerra, non credo abbiate tempo da perdere qui, portatemi da lui.»
«Con calma, bambolina.» L’uomo dai capelli castani, raccolti in una coda, mi guardò in cagnesco. «Pensi che tutti quelli che arrivano qui possano entrare come fossero i benvenuti?»
«Tutti quelli che arrivano qui sono vostri militari o Tigri Bianche. Non credo abbiate delle regole per me, non sapete neanche chi sono.»
«So che la lingua ce l’hai lunga.»
Feci un o verso di lui, che mi puntò la mitragliatrice contro. «Devo parlare con il tuo capo. Ora», dissi con voce pacata, ma la nostra reciproca ostilità si scontrò e la mia natura avvertì la loro dovuta e involontaria sottomissione.
«Il capo si è scelto prostitute di alta gerarchia», commentò il terzo, che aveva gli occhi a palla. «Sei armata?»
«No.»
Era una domanda inutile perché mi avrebbero perquisita in ogni caso, e lo fecero facendo battute di dubbia finezza. Le mani dell’uomo con la coda si fermarono per la seconda volta sul mio seno e io gli afferrai i polsi. «Hai finito?»
Sorrise con malizia. «Per ora.» Con la mitragliatrice, mi fece segno di precederli.
Occhi A Palla mi spinse all’interno del villaggio e Coda Di Cavallo mi prese un braccio, avvicinandomi a sé. «Che ci fai in questo posto?»
«Te l’ho già detto, devo parlare con il tuo capo», ribattei con tono adamantino.
«Hai qualcosa di strano. Fai una sola mossa falsa e ti faccio saltare il cervello, bambolina.»
«Sono certa che molto presto ti pentirai di tutto ciò.»
Mi voltai verso Occhi A Palla che ci osservava accigliato e contrariato dalla perdita di tempo. «Allora?»
«Il tuo amico deve giocare a fare il duro.»
Non aveva intenzione di rispondere al mio spirito fuori luogo. «Muoviti», replicò, asciutto.
Finalmente raggiungemmo una grossa tenda marrone, situata in una piazza centrale del villaggio. Dentro, l’aria era calda e umida. Un uomo dalla barba folta e gli occhi gialli mi scrutò.
«Allora, chi è questa ragazzina che per parlare con me, si ritrova da sola a
Tarane?»
«Buongiorno. Sono Shayl’n Til. Sono stata mandata dal principe Jean David Monroe Harvey, sto cercando Ahilan Aadre, Capo Branco delle Tigri Bianche e vostro prigioniero.»
«Oh, petite, so chi sei. O meglio, so tutte le storie che circolano su di te, chi tu sia realmente non lo sa nessuno.»
Mi morsi l’interno della guancia, cercando di sostenere il suo sguardo. «Dov’è il prigioniero?» Per quanto mi sforzassi, la mia voce uscì incerta.
«Shayl’n Til, da dove inizio?» Ignorò la mia domanda senza batter ciglio. «Sei un Lupo, una spia delle Tigri Bianche o una spia del principe Jean David? Ti hanno vista combattere contro di noi lo scorso inverno, poi sei sparita nel nulla e nessuno ne ha saputo più niente: come sei apparsa sei scomparsa.» Mi fece segno di sedermi su una sedia accanto al tavolo. Spinta da Coda Di Cavallo, ubbidii all’ordine. «Quanto al Capo Branco dei Tiouck, pensavamo tutti che fosse morto, poiché nessuno aveva visto più neanche lui. Invece è riapparso insieme a te, come per magia. Tu che fai prigionieri, tu che vieni qui da non si sa bene dove e salvi un perfetto sconosciuto, che non sa neppure come si è salvato. Tutto ciò che a vicino a te diventa mistero.» Mi offrì del vino. «Poiché sei in questa tenda insieme a me, diventerò un mistero anche io?»
«Lo diventeremo tutti», sghignazzò Occhi A Palla.
«Confesso di aver a lungo avvalorato la tesi per cui avessi a che fare con il principe, poiché appena sei comparsa tu, è comparso anche lui, e il re, beh, se ci
credessi, penserei che neanche Dio abbia accesso ai suoi segreti. Tuttavia l’ho sentito qualche giorno fa - il principe, non Iddio» fece una risatina compiaciuta «e sembrava sinceramente sorpreso. Ti stava cercando in effetti, sapeva che saresti venuta qui, ma non sapeva neanche di chi stesse parlando. In qualche modo ti conoscono più sul campo di battaglia che tra i palazzi reali, nonostante, da quello che so, tu sia di sangue reale.»
Non sapevo cosa rispondere. Fissai il contenuto del bicchiere; guardando la mia storia dalla sua prospettiva, non vi erano sbavature nella sua descrizione dei fatti.
Tossicchiò. «Nulla da dire a tua discolpa?»
«Non ho colpe, signore.»
«Tar Mechie. Puoi chiamarmi Tar, gamine. E potresti illuminarci allora sulle tue non colpe?»
Il vino aveva un colore molto scuro. «No…»
«Oh, fantastico», ironizzò e quindi spinse il bicchiere verso di me. «Non è avvelenato, sai.»
«Non reggo l’alcool.»
«Lo terrò a mente.» Tar Mechie faceva buon uso di atarassia; dei suoi sentimenti
potevo leggere molto poco. Prese il vino che mi aveva offerto e lo mandò in gola con un unico lungo sorso. «Visto?» Rivolse l’attenzione verso Occhi A Palla. «Informati su dove sono. Sbrigati.»
L’altro uscì senza aggiungere una parola. Ignoravo a chi si riferissero.
«Gamine, gamine», mi studiò per alcuni istanti, chiamandomi con un appellativo con cui di solito ci si rivolge ai bambini, lo sapevo perché una volta me lo aveva detto Salina, non ricordo in che occasione, era una parola vecchia del bretençal, mi stava dando della monella o della ragazzina. «Saresti qui per il prigioniero, dunque. E cosa vorresti da lui?»
«Non posso dirlo.» La mia fermezza si ridusse a un mormorio incerto.
«E a chi puoi dirlo, di grazia?» Sentivo che si stava alterando.
Tentai di avere un tono più saldo. «Al principe, signore.»
Batté una mano sul tavolo. «Al principe! Non sa neppure chi tu sia.» Imprecò. «Che cos’hai tu che non va? Insomma, da dove sei spuntata?»
Non risposi.
Si alzò dalla sua sedia, fece un giro su se stesso e fece un cenno a Coda Di Cavallo, che girò sui tacchi e ci lasciò soli. Se la speranza è l’ultima a morire, la
mia si gonfiò in quel momento e morì subito dopo. «So perché sei qui a Tarane, so perché sei proprio qui a Tarane; me lo ha detto Jean David.» Fissò gli occhi nei miei, socchiudendoli un poco. «Darie Menlue ti ha dato un’informazione sbagliata: il prigioniero non è qui.»
Nel momento stesso in cui ricoprii le mie emozioni di uno spesso strato di indifferenza, dovetti abbassare lo sguardo e sforzarmi di non gemere.
68
Nessuno si preoccupò di fornirmi maggiori informazioni. Combatterono contro la forza del mio sangue e mi chio dentro una costruzione umida e buia. Ammetto che non esercitai nessuna resistenza. Il mio piano, il piano del dottor Nikolaos Kristoforos, non aveva tenuto a lungo e Dahaljer non era in quel luogo, anche se mi fossi rifiutata di assecondarli, non avrei cambiato nulla di quella situazione.
Mi accucciai addosso al muro della mia prigione, doveva essere stato un negozio un tempo, e pensai a Erien. Erien che era stata rapita con me, per colpa mia. Lei aveva sempre avuto il buon senso di non reagire, o di riflettere bene prima di farlo.
Oh, Dahal, vedi che brava che ho imparato a pensare, prima di agire? E tu che non ci credevi. Dahal, dove sei? Dove sei, dove sei, dove sei? Sono condannata a farmi questa domanda tutta la vita? Poggiai i gomiti sulle ginocchia e ficcai le dita tra i capelli. Mia Signora, ti prego, veglia su di lui.
Rimasi in quello spazio scuro e freddo tutto il giorno e parte della notte, poi Occhi A Palla venne a prelevarmi. Dovevo essermi addormentata e lui mi scosse con veemenza, tirandomi in piedi e spingendomi fuori. Sbattei le palpebre alla luce elettrica e lanciai un’occhiata torva all’uomo che mi teneva il braccio con una presa ferrea. Lui non vi badò. «Ringrazia il cielo che siamo Lupi e sappiamo riconoscere il sangue reale, altrimenti a quest’ora ti avevamo trasformato in una polpetta.»
«Una polpetta?» Coda Di Cavallo ci affiancò. «Tu non hai mai capito cosa farne della bellezza», lo redarguì. «Mmm, gamine, io non ti farei mai diventare una polpetta. Se capisci cosa intendo.»
Concentrai l’attenzione sui rumori provenienti oltre le tende davanti a me, un brusio di sottofondo e un forte senso di sottomissione.
I due uomini mi stavano conducendo proprio in quel punto.
Lo stomaco mi brontolò per la fame, nell’istante in cui si fecero spazio tra i militari ed entrambi fecero l’inchino a un ragazzo che si trovava al centro del gruppo. Lui rispose piegando appena il capo. Stava guardando me.
Ci fissammo per qualche attimo.
Era come lo avevo visto in televisione ad Ammanir: sopra il suo viso chiaro e delicato, aveva lunghi capelli, biondi come l’ananas sotto il sole, li teneva legati in una coda morbida. Ciglia e sopracciglia erano dello stesso colore e se ne stavano eleganti intorno a due profondi occhi verdi, dai riflessi grigi, che mi fecero pensare al mare metallico di Nuv Monàc. Doveva essere alto quanto me, indossava un lungo cappotto antracite, che con ogni probabilità nascondeva una figura proporzionata e longilinea.
Accennò a un sorriso e io feci una riverenza, così come mi era stato insegnato a Praha. Rispose con un inchino flessuoso. «E così finalmente conosco la leggenda dello scorso inverno, la Lupa delle Tigri Bianche.» Avevo una chiara percezione dei suoi sentimenti, solo con Dahaljer avevo vissuto quelle sensazioni.
“E io conosco te, il figlio segreto del re dei Bamiy.”
Mi guardò sorpreso, non so se perché mi ero rivolta a lui in modo molto informale o se perché lo avessi fatto attraverso i canali telepatici. Pur sapendo tutti che stessi dicendo qualcosa, era l’unico a potermi sentire.
“Senti la mia mente come io sento la tua?”, domandai.
Mi scrutò alcuni secondi. “Sì.”
Sorrisi, non so bene per quale motivo, tuttavia sorrisi di felicità e nelle sue emozioni arono curiosità, stupore e gioia, quest’ultima forse solo in risposta alla mia.
Gli altri ci osservavano senza capire.
“Devo parlarti, Jean David. Da soli. E ho bisogno di un po’ del tuo tempo.”
Lui si mosse verso Tar. «Torniamo a Nuv Monàc, la ragazza viene con me. Grazie per il vostro lavoro e la precisione con cui lo avete svolto.»
«Dovere, altezza.» Mi lanciò un’occhiata. «Mi raccomando, fai la brava, gamine.»
«Contaci», ribattei atona.
Quella fu la seconda volta che salii su un elicottero, questa volta però ero sveglia. Il cielo notturno sembrava limpido sopra di noi, ma guardavo in basso, guardavo la neve infinita stendersi sotto la pancia del nostro mezzo di trasporto. Ero incollata al mio piccolo finestrino e, con la coda dell’occhio, notai il principe osservarmi divertito.
“Non sono mai stata su un elicottero, non ho mai volato”, mi sentii in dovere di spiegare.
“Bello, vero?”
“Bellissimo!”, convenni con infantile entusiasmo.
Le mille abitazioni di Nuv Monàc e il suo mare calmo si disegnarono davanti a noi con le prime luci del mattino. Ero immobilizzata a fissare il sole sorgere sull’orizzonte, che si rifletté accecante sul vetro e io avvertii un inaspettato sentimento di affetto tra le emozioni di Jean David.
«Scusa, devo sembrare una vera gamine», bofonchiai.
Annuì. «Credo proprio che tu lo sia.»
«Può essere», concessi, imbarazzata.
Scendemmo sul tetto del palazzo reale e il principe mi condusse tra lunghi corridoi e su una grande scala. Il palazzo della dinastia Erdreè non aveva nulla dei moderni lineamenti di quello della dinastia Minse di Danubie, aveva una stile ricercato, vagamente barocco.
«Ho fatto preparare una stanza per te», disse il principe. «Spero ti vada bene. Fatti una doccia, cambiati e io ti aspetto qui fra un’ora, va bene?»
Per quanto avessi bisogno di lavarmi, quell’aspetto era lontano dall’essere una mia immediata preoccupazione, tuttavia sapevo che non ne sarei uscita in altro modo e mi costrinsi ad annuire. Non mi soffermai ad analizzare camera e bagno. ai in fretta shampoo e saponetta, asciugai solo la cute e infilai un abito vellutato color avorio e dalle rifiniture bordeaux, il primo che avevo visto. Ero fuori dalla mia stanza molto prima che asse un’ora e una donna dal naso arcuato mi fece cenno di seguirla.
Jean David mi ricevette in una grande stanza che si affacciava sul mare. Mi sedetti su una sedia vicino al tavolo, di fronte a lui.
«Bene, raccontami tutto ciò che hai da dirmi.»
Tamburellai le dita sul legno del tavolo. Se non volevo fidarmi di lui, ormai era troppo tardi. «È una storia lunga. Inizia quando tu non eri ancora nato, anzi quando tu non eri stato ancora neanche pensato.»
Si strinse nelle spalle. «Hai tutto il tempo che vuoi. E se lo desideri, prendi da bere e da mangiare.» Indicò un vassoio con bevande e dolci. «Serviti da sola, perché come hai visto ho mandato via tutti quanti.»
«Ti fidi di me?»
Fece un sorriso dolce. «Le mie guardie del corpo sono qui fuori.»
Lo sapevo, le percepivo. «Sì, è che…»
«Non ti preoccupare», mi interruppe serafico. «Racconta.»
Raccontai. Raccontai dei miei genitori, così come me lo aveva raccontato Dahaljer nella giungla, raccontai di me, della creche, di quando ero stata rapita, di Praha, della guerra, di Pasha, di Tagron, di Ammanir e della mia decisione di venire da lui.
Mi ascoltò con la mente attenta, in silenzio.
«E quindi, beh, eccomi qui», conclusi dopo parecchio tempo. Allungai una mano su una brocca e ne versai il contenuto in un calice tondo. Era un succo di frutta, non so che frutta.
«Mi dispiace, Shayl’n.» Anche lui si riempì il bicchiere, di acqua però. «So cosa vuol dire crescere in modo particolare, io sono cresciuto da principe, eppure
sono sempre stato tenuto nascosto al mondo. Tuttavia, la mia storia è la metà avventurosa della tua.» Mi fece l’occhiolino. «Ho diverse domande da farti, dei punti che non mi sono chiari, parli troppo in fretta quando parli.»
«Oh, scusami, io…», mi sentii una sciocca.
«Scherzavo. Non volevo renderti così nervosa, anzi forse vorrei l’esatto opposto.» Poggiò il viso su una mano. «C’è una cosa, però, che più di tutte non mi è chiara. Cosa c’entra Ahilan Aadre con te?»
«Ahhm… hem» non avevo quasi mai accennato al suo ruolo, mandai giù un sorso del succo. «Come ti dicevo, lui era ad Ammanir con me e siamo scappati insieme, è grazie a lui che non ho più i cerchietti al collo. E…» fissai gli occhi su un candito al centro di un dolcetto cremoso. «Beh, lui è stato tradito dal re Tagron Toivainen, così voleva condividere la mia causa per questa… per fermare la guerra, visto che io, che tu…» Stavo balbettando e ne ero cosciente.
«Va bene. Ma io so, tutti noi sappiamo che il Capo Branco era considerato come il figlio del re dei Tiouck, perché Toivainen lo ha venduto?»
«Non lo so», risposi troppo in fretta. Gli stavo nascondendo i miei sentimenti e con ogni probabilità lo sapeva.
«Non te lo ha mai detto?» insistette.
«Non gli piaceva parlarne.»
Mi squadrò per qualche istante. «E perché ti importa tanto di lui?»
«Ecco, è stata colpa mia se è venuto qui e dovevamo essere entrambi da te, sapevo che non gli avresti fatto nulla, ma se è finito da tuo padre…» Dovetti fermarmi per paura che mi si incrinasse la voce.
«Sì, potrebbe essere un problema.» Mi fissò, accigliato, poi distese le rughe come se stesse pensando ad altro, altro a cui non aveva ancora pensato. «Mio padre è tuo nonno?»
Mi appoggiai sullo schienale della sedia. «Sì.»
«Quindi, tu saresti mia nipote?»
Il tono incredulo della sua voce mi fece sorridere. «Temo di sì, principe.»
«Santo cielo, sono diventato zio da un giorno all’altro e a vent’anni e di una donna di ventuno.»
Non risposi, lasciando che riflettesse su quella notizia. Anche io avevo vissuto qualcosa di molto simile con Nalinika e come avevo fatto io con lei, lui mi analizzò con attenzione. Poi la tristezza attraversò le sue emozioni. «Io non sarei mai nato, se tua madre non si fosse innamorata di una Tigre.»
Accigliandomi, contemplai il suo bel viso del colore dell'alabastro. «Forse no, ma questo lo hai sempre saputo.»
Le labbra gli si piegarono verso il basso. «È vero, solo che tua madre, mia sorella, per me è sempre stata qualcosa di intangibile.»
«Non lo è più?»
«No, lo è ancora a dire il vero, ma tu sei tangibile, sei reale. Le cose sono davvero andate così. Mio padre l’ha davvero uccisa e ha messo al mondo me solo per avere un altro erede. È… è…»
«Terribile?»
«Disgustoso! Riprovevole, ingiusto, diabolico. E mi sto riferendo alla persona che mi ha messo al mondo.»
«Non sempre chi ci ha messo al mondo ci ama, Jean David, purtroppo non è così scontato; fidati, ne so qualcosa.»
Scosse la testa. «Tua madre ti amava.»
«Sì. Lei mi amava, mi amava davvero e l’ho capito solo adesso. Ma sono cresciuta in un orfanotrofio, conosco bene il significato della parola abbandono e l’abbandono di un genitore è qualcosa che non dovrebbe esistere. Non parlo
dell’abbandono fisico.»
«Lo so, un genitore può abbandonarti e amarti alla follia, oppure può non abbandonarti mai nella sua vita e non sapere cosa sia l’amore per un figlio.»
«Sì, parlavo proprio di questo.» Senza pensarci gli presi una mano e gliela strinsi nella mia. «Mi dispiace»
Fece spallucce. «Non è colpa tua.»
«Mi dispiace se ti sto facendo ripensare a tutto questo. Forse nella tua vita tante volte hai dovuto farci i conti e avere un padre come il tuo non deve essere facile.»
Di nuovo la sua bocca accennò a un broncio. «Se non altro non mi ha ucciso, per ora almeno. A te ha tolto tutto.»
«Che bella coppia che siamo!» Tentai di sdrammatizzare e lui rise, aveva la risata gorgogliante dei bambini. «Beh, sono qui per mettere un freno a tutto ciò. Il ruolo gerarchico delle nostre menti dovrebbe essere pari a quello del re. Possiamo far finire la guerra.»
«Dobbiamo. E insieme possiamo farlo, la maggior parte della popolazione è ormai provata da questa guerra infinita e molti dei soldati ubbidiscono per dovere, non ci credono più neanche loro.»
«Dobbiamo fermare Belden. E cosa forse più difficile, dobbiamo fermare anche Tagron. Sarò sincera, non sarà facile, il re delle Tigri Bianche non ha intenzione di finire la guerra, se non scenderemo a patti con lui, inoltre ha in ostaggio due bambini, si tratta di due bambini che sono stati rapiti insieme a me. Li usa per farmi fare ciò che vuole. Quanto al re dei Lupi, credo di non sbagliare, se dico che mi ucciderebbe volentieri su due piedi.»
«La situazione non è delle più rosee e io non sono addestrato a battaglie e strategie, non sul campo, almeno.»
«C’è qualche persona di cui ti fidi che ci possa aiutare in questo?» domandai.
«Di cui mi fido sul serio, poche, molte poche.»
«Iniziamo da loro.» Non avevo lasciato la sua mano e gliela strinsi più forte. «Jean David, solo una cosa.» Abbassai lo sguardo. «I bambini e il Capo Branco.» Deglutii a forza. «Per me è importate ritrovarli e metterli in salvo. Fa parte delle mie responsabilità, dei miei doveri. Sono qui anche per questo.»
Sospirò e rispose alla mia stretta osservando le nostre dita. La sua pelle era molto più chiara della mia e molto più rosata e lucida. «Va bene.»
«Perché tuo padre ti ha tenuto nascosto per tanti anni?»
Si strinse nelle spalle. «Non lo so. Sono cresciuto sapendo chi fossi, sapendo che nessuno fuori il palazzo di Nuova Auxerre fosse al corrente della mia esistenza.
Fin da quando ero bambino ha provato a insegnarmi a combattere, tuttavia ha sempre provato frustrazione nei miei confronti. Quando ho avuto l’età giusta per formulare alcuni pensieri, credevo che fosse perché il senso di colpa per aver ucciso la sua prima figlia fosse troppo grande. Ma ora» fece una smorfia «ora non ne sono più tanto sicuro. Non ero bravo a combattere e avevo paura di farmi male sul serio. Desideravo piacergli, fino a che non ho capito che non dovevo sostituire Caroline, sia perché non era giusto sia perché a lui non interessava neppure di lei. I suoi genitori, i miei nonni paterni, sono morti in uno scontro quando ancora si lottava solo con i pugnali, lui era ancora molto giovane; la vita di noi non Umani è lunga e lui vive la guerra come una continua vendetta, così raccontano qui. Avevo paura di lui, di tutto ciò che impersonava.»
Dal tono di voce con cui lo disse, immaginai che quella paura fosse ancora la stessa.
«Mi ha presentato al mondo perché io ho insistito», continuò. «Erano i giorni della mia prima trasformazione e in segreto pensavo che dovevo dire a tutti che esistevo e che volevo cambiare le cose. Lui sperava che fossi un suo asso nella manica, per questo credo abbia celato la mia nascita. Se ne deve essere pentito molto presto e mi ha nascosto per altri motivi.» Mi lanciò un’occhiata afflitta. «Oh, lo so, deve essere un ragionamento così contorto», mormorò con voce lamentosa.
Sospirai. «Devo parlare con tuo padre. Portami da lui.»
69
«No.» Il principe dei Bamiy scosse la testa con forza, e la sua chioma bionda ondeggiò.
«Per favore, devo parlare con lui», quasi supplicai.
«No. Ho rotto tutti i rapporti con lui, non ci parlo almeno da due mesi e non mi sembra che sia la mossa più sicura per te.»
Liberai la sua mano e premetti le dita sulle tempie, che iniziavano a dolermi. «Ho bisogno di andare da lui.»
«Perché? Sono i nostri ordini contro i suoi, riusciremo a farlo in ogni caso», asserì convinto.
«Ho bisogno di vederlo di persona, ho bisogno di sapere chi è. E, te l’ho detto, devo trovare Ahilan Aadre e ho paura che sia nelle sue mani.»
«Non posso, se lo vedo un'altra volta finiremo per ucciderci sul serio.» Mi parve caparbio quanto un bambino.
«Manda me, fai in modo di organizzare un incontro. Non voglio obbligarti, se temi per la tua vita, ma io devo andare, anche se non lo vorrei.»
«Tu non lo conosci, ti ammazzerà subito.»
«Jean David.» Trassi un profondo respiro. «Capisco cosa stai provando e anche che potrei sembrarti una pazza. Ti assicuro che non ho nessun desiderio di incontrare l’assassino dei miei genitori, se lo faccio è perché credo di non avere scelta.»
«È così importante il Capo Branco delle Tigri, per te?»
Sbattei le palpebre, ando la lingua tra le labbra. «Glielo devo.»
Sospirò. «Credo che il re sia al confine nord, so che le nostre truppe hanno subìto un efferato attacco qualche giorno fa. Non sarà così facile farlo venire qui.»
«Dimmi che ci proverai», insistetti.
«Va bene. Solo perché sei mia nipote.» Sorrise. Il principe dei Bamiy aveva il sorriso più dolce che avessi mai visto e lo mostrava spesso.
Poiché non avevo intenzione di cenare, mi accompagnò alla mia stanza e congedandosi con un inchino, mi lasciò sola.
Osservai per tutta la sera il mare nero che rifletteva le luci di Nuv Monàc, stregata, e mi abbandonai ai miei dolorosi pensieri. Andai a letto molto tardi e riuscii a prendere sonno con molta difficoltà.
Al mattino venne a chiamarmi una donna tonda e dal viso simpatico, di nome Netien. Mi fece la riverenza, imbarazzata, e mi domandò se avevo dormito bene.
Lasciai che mi vestisse e che fe lunghi monologhi che non seguii, poi mi portò a fare colazione in una sala ricca di pitture sulle pareti e sul soffitto.
C’erano due guardie alla porta e due camerieri, che mi servirono silenziosi e attenti, poi entrò un uomo che fece l’inchino. «Signorina Shayl’n Til.» Jean David, su mia richiesta, non aveva rivelato a nessuno chi io fossi in realtà, e nessuno sapeva che non ero più signorina, a parte una famiglia di Tigri Bianche, un sacerdote mariano e mio marito. «Il principe Jean David Monreau Harvey le manda a dire che tornerà in serata e che pensa di aver risolto quanto da lei richiesto, ma che con ogni probabilità vi dovrete spostare da Nuv Monàc. Mi perdoni le informazioni sibilline, ma non ha voluto rivelarmi nulla di più. Sostiene che lei avrebbe capito.»
«Sì, ho capito», ribattei. «Grazie.»
«Signorina, il principe desidera che qualsiasi sua richiesta sia da me realizzata. Sarò quindi a sua completa disposizione per tutta la durata del giorno.»
«Ha carta e penna?» domandai e poi lo guardai, bevendo un bicchier d’acqua.
Lui sembrò sorpreso. «Certo. Vuole prendere appunti?»
«Vorrei scrivere una lettera.»
«Oh, perfetto. Le porterò della carta appropriata. La preferisce qui o in camera?»
«In camera, grazie. Ho finito di fare colazione.»
Fece un altro inchino e si allontanò. Netien mi riaccompagnò in camera.
La sera mi portò a cena, conducendomi nella stessa stanza dove avevo fatto colazione e pranzo. Trovai a capotavola una donna anziana e lanciai un’occhiata a Netien, che le fece una riverenza. «Signora Barenì, buonasera.»
«Buona sera, Netien. E lei deve essere Shayl’n Til.» Mi guardò senza nascondere curiosità. Aveva profondi occhi grigi, chiusi nelle palpebre senza ciglia per la vecchiaia.
Le feci una riverenza per cortesia. «Sì, signora.»
«Si accomodi.» Incerta su dove sedermi, scelsi la sedia che mi indicava, accanto a lei. Netien uscì dalla stanza e la donna mi fissò. «Sono la nonna di Jean David», mi informò.
«Ah.»
Sorrise, nonostante l’età doveva essere molto lucida, dietro i capelli bianchi e cotonati e la pelle grinzosa.
Mi sentivo in imbarazzo e con le mani strinsi i bordi della mia sedia. «Non sapevo che avesse una nonna.»
«Da quel poco che mi ha detto di lei, forse non sa molto di lui.» Teneva le mani in grembo.
«In effetti, signora, credo di non sapere nulla di lui tranne chi è.»
Mi studiò per qualche istante. «Perdoni il ritardo della cena, ma stiamo aspettando il principe.»
«Oh, non è un problema.»
Fissai la tavola apparecchiata, mentre lei fissava me. Volevo trovare qualche cosa da dire, tuttavia non sapevo cosa potessi dire di me e pensavo che qualsiasi cosa avessi detto avrebbe potuto rivelare altro. Doveva esserci un pendolo da qualche parte e isolai il suo ticchettio da tutto il resto concentrandomi su di esso.
Poi la porta si aprì e un uomo fece l’inchino. «Jean David Monreau Harvey, della dinastia Erdreè», annunciò.
Lui entrò portando con sé un cane alto e dal pelo corto e ci salutò. «Nonna, buona sera.» Scese a baciarle una guancia. «Shayl’ Til.»
«Jean, siediti per favore, oggi ho una gran fame. Non vedo l’ora di mangiare questa minestra sciapa.» La donna mostrò il suo buon umore e guardò il nipote sedersi di fronte a me.
«Nonna, ti lamenti anche quando hai ospiti», la rimproverò bonario.
«Ho appena detto che non vedo l’ora di mangiarla.»
«Come se non ti conoscessi.»
Li osservai scherzare per qualche attimo. Non avevo grande esperienza di nonni.
«Sei stata bene oggi, Shayl’n?» mi domandò lui, mentre uno dei camerieri riempiva i nostri piatti di una minestra fumante.
«Sì.» Non avrei potuto rispondere altro.
«Ho qualche buona notizia per te. Poi ti spiego meglio.»
«Lo so che in mia presenza non parli mai», lo rimbeccò la nonna.
«Si tratta di mio padre, non credo ti faccia piacere sentire.»
«A me fa sempre piacere sentire, sei tu che non vuoi che lo mandi dove dovrebbe andare.» Mi lanciò un’occhiata. «O almeno non lo vuoi quando hai ospiti.»
«Per l’appunto, nonna.»
Lei lo ignorò. «Signorina, lei di dov’è?»
«Lasciala in pace. Vedi che sta mangiando.» Ma la donna mi guardò aspettando una mia risposta.
Poggiai il cucchiaio nel piatto. «Sono di Roma, signora.»
«Di Roma», ripeté. «Jean, ma dove l’hai pescata?»
Lui cercò di dire qualcosa, ma lei non gliene diede il tempo.
«Sa, sono stata a Roma un paio di volte, a vedere il Colosseo. Bellissimo. È tra le cose più antiche che abbiamo. Lei lo ha mai visto?»
Annuii. «Certo, ci andavo spesso.»
Si fece attenta e posò il tovagliolo. «Spesso? A fare cosa?»
«A pregare.»
Spalancò gli occhietti. «Ma lei non è Umana, signorina.»
«Nonna, smettila», la rimproverò il nipote. «Guarda, ho il doppio delle cose che hai tu e io sono già a metà.»
«Vorrei vedere te, se avessi una minestra sciapa e senza niente dentro, identica a quella della sera prima, e della sera ancora prima. Perché non posso sapere chi è la ragazza che hai portato qui?»
«Perché lei non ti sta facendo domande», replicò lui con convinta ovvietà.
«E cosa c’è da chiedere?» Si voltò a guardarmi. «Sono la madre di quella stronza che l’ha partorito.»
«Nonna!» Jean David apparve seriamente imbarazzato e io dovetti stringere le labbra tra i denti per non ridere.
«Possibile che non lo possa mai dire a nessuno? È così, e alla signorina qui, lo voglio raccontare, mi sta simpatica. E così poi lei mi racconterà di sé.» Mandò giù un cucchiaio di minestra, senza distogliere lo sguardo da me. «Non capisco se lei sia una parente di Belden o se sia la fidanzata di Jean David.»
«La prima opzione, nonna.»
Lei non nascose un broncio. «Oh, peccato.»
«Le sarò meno simpatica ora», osservai.
«Oh, no. Anche mio nipote è suo parente, ma davvero non mi è antipatico. Immagino sia una storia lunga la sua. Con Belden si tratta sempre di storie lunghe.» Aveva le spalle incurvate, tuttavia cercò di raddrizzarle. «La mia, signorina, è molto breve: mia figlia si è fatta mettere incinta dal re per soldi, è rimasta a corte un paio d’anni e poi se ne è andata perché lui non voleva sposarla e non le dava altro. La sconfitta più dura e triste della mia vita. Speri di argli tutti i tuoi valori e poi, basta niente per vederli fare stronzate.»
Jean David non si scompose questa volta e continuò a tagliare la carne di manzo nel suo piatto. «Mi dispiace, signora», mormorai.
«Pazienza, per fortuna ho questo bel nipote. È bello, non trova?» Lui alzò gli
occhi al cielo, arrossendo.
«Sì, signora.»
«E soprattutto è venuto su come volevo io, senza grilli per la testa, interesse smodato per i soldi o tutte quelle stupidaggini. E mi creda se le dico che con un principe è ancora più difficile, soprattutto se per padre ha Belden Monreau Harvey. Sono molto soddisfatta di me stessa.»
«E fa bene, signora. Immagino che sia grazie a lei se suo nipote sembra una persona ottima.»
Lo guardai di sottecchi.
«Io ho centonove anni, signorina, e un piede nella fossa.»
«Nonna, ma che dici?»
La donna lo ignorò di nuovo. «Spero di aver lasciato una buona discendenza, oltre che un buon futuro per questo popolo di Lupi Grigi sempre pronto alla guerra.»
«Sono sicura che sia così», la rassicurai.
«Signorina, stia attenta a Belden», disse cambiando argomento, «non è tipo da frequentare.» Osservò il mio piatto. «E mangi qualcosa di più, lei che può.» Con le dita ricurve fece un cenno a un uomo che stava alla porta.
«Signora.»
«Ho finito la cena. Lasciamo spazio a questi due giovani, io ho le mie medicine da prendere.»
L’uomo spostò la sedia e aiutò la donna a mettersi su una sedia a rotelle. Lei mi prese il gomito con le dita nodose, senza riuscire a stringere. «Buonanotte, cara. Grazie per avermi ascoltata.»
Poggiai la mano sulla sua, su di me. «È stato un piacere. Buonanotte, signora Barenì.»
Salutò il nipote e la portarono fuori.
«Perdonala», disse lui, sbucciando una mela rossa.
«Non preoccuparti, è simpatica. Non conosco nonni e non conosco persone della sua età. È stato piacevole.»
Scosse la testa, pacato. «Riesce sempre a mettere tutti in imbarazzo.»
«Il primo sei tu, mi sembra. Racconta sempre la tua storia in questo modo?»
«A dire il vero, no.» Mi allungò uno spicchio della mela.
«Grazie», dissi, sorpresa del gesto.
«Ha sofferto tanto per sua figlia e non lo racconta quasi mai. Se lo ha fatto con te, è perché è vero che le stai simpatica. Credo sia l’unica figura importante nella mia vita, e a volte penso che sia triste.» Mi porse l’altro spicchio della mela. «Ma parliamo di noi. Ho qualche novità.» Non so se ne fosse cosciente, abbassò la voce. «Mio padre ha concesso di vederci, tra quattro giorni, ma solo se lo raggiungiamo a Morch.»
«Va bene.»
«Morch è vicino al fronte. Non è uno dei posti in cui andrei in vacanza.» Mantenne gli occhi fissi sul frutto che aveva in mano.
«Sappiamo entrambi che non stiamo andando in vacanza, però, vero?» replicai, asciutta.
«Sì, piccola gamine.» Sorrise. «Così ti ha chiamata Tar Mechie, non è vero?»
«Già.»
«Riflettevo sul fatto che potremmo iniziare a dare i nostri ordini alle truppe, andando a Morch. Ma ammetto di non sapere da dove iniziare, né se li rispetteranno. Non so come funzioni, se obbediscono e basta o possono decidere.»
Provai una sottile comione per lui. «Beh, al momento siamo figlio e nipote del maschio alfa, possiamo sfruttare la nostra unione. A ogni modo nessuno è costretto. La natura dice loro di ubbidire, e di fare ciò che viene imposto, tuttavia non avviene nel senso umano del termine.»
Lasciò il coltello nel piatto, mordendo il suo spicchio. «Non sono riuscito a sapere nulla del prigioniero, per ora; mi dispiace.»
Non riuscii a rispondere.
Alzò lo sguardo su di me. «Hai gli occhi di tua madre.»
«Come fai a saperlo?» mormorai.
Sollevò le spalle, appoggiandosi allo schienale in velluto della sua sedia. «C’è ancora una sua foto nella sua camera, a Nuova Auxerre.»
«Mi piacerebbe vederla.»
«Te la mostrerò, quando avremo risolto tutti questi problemi. Tua madre era bella come te e, da quello che so, anche tuo padre.»
«Grazie.»
Ci fissammo per qualche istante, poi fui costretta a distogliere lo sguardo. «Credo di aver bisogno di armi. Non avrei mai pensato di doverlo dire, qualche anno fa. Ma ormai in questi posti, mi sento nuda, se non le ho. E» mi costrinsi a guardarlo «ti dispiace che le cose stiano andando così? Il fatto di doverlo rivedere a causa mia, intendo, e di dover scendere al fronte e tutto il resto.»
Sul suo volto ò una vena di infelicità che tuttavia non intaccò la sua algida bellezza. «Mi dispiace avere questo genere di vita e sì, mi dispiace tutto ciò che hai detto. Non è colpa tua però, sarebbe successo prima o poi, e io non sapevo come affrontare la situazione. Sono una persona poco avvezza alla lotta e alle armi e mio padre è un uomo che mi fa paura. Se tu non ci fossi stata, se non fossi venuta da me per prendere in mano la situazione, io sarei rimasto con le mani in mano, come faccio da una vita.» Il viso, però, si illuminò. «Mi dispiace, tuttavia sono contento che tu sia qui e che mi stia spingendo a fare quello che volevo fare da tutta suddetta vita. Da solo non avrei mai avuto il coraggio di affrontare mio padre. Forse sono solo un codardo.»
«L’intera Nuova Eyropa è sotto il giogo del re dei Bamiy: Umani, Tigri e Lupi sono diversi tra loro, ma se lo stato delle cose è ridotto all’esasperazione e all’odio, in buona parte è per come il potere da lui esercitato influisce su tutti noi. Lo sapevi che tuo padre faceva rapire bambini per ridurli in schiavitù e usarli come soldati? Io credo che sia da sciocchi non avere paura di lui, Jean David. E trovo, invece, che sia da ammirare il tuo desiderio di ristabilire un minimo di giustizia in questo lato di mondo.»
«Sei tu però che stai muovendo le fila del mio desiderio.»
«Solo perché ci sono di mezzo i miei sentimenti. La vita delle persone a me più care si è intrecciata con la storia di questo conflitto, senza nessuna previsione. È solo per questo che ho preso coraggio. Sono certa che se si trattasse di tua nonna, faresti altrettanto.»
«Forse hai ragione», concesse. «Dobbiamo andare avanti e possiamo farlo solo noi. Mi è sembrato di capire che sei credente; prega anche per me, se puoi.»
Strinsi appena gli occhi. «Posso. Ma se tu non sei credente, non dovresti avere interesse a chiedermelo.»
«Non sei tipo da mandarla a dire, tu», commentò.
«Devo inviare una lettera» cambiai argomento, riempiendo il mio calice d’acqua «a Roma, dove vivevo, alla suora che mi ha cresciuta. Posso affidarla a te?»
«Certo, portamela domani mattina e tra meno di una settimana sarà nella città eterna. A buon rendere.» Si toccò distrattamente i capelli. «Sei una continua sorpresa per me, e pensare che ancora non ti conosco.»
Il pendolo batté l’ora e restammo ad ascoltarlo, fino a che l’ultimo rintocco non echeggiò nella stanza.
70
Lasciammo Nuv Monàc in un bigio pomeriggio dall’aria immobile a bordo di un elegante elicottero della dinastia Erdreè. Atterrammo molto prima della linea del fronte e con i POD attraversammo piccoli paesi, che erano stati lasciati in fretta dai civili Bamiy. Un’atmosfera irreale avvolgeva qualsiasi cosa, non erano disabitati perché ora c’erano i soldati, tuttavia erano ancora pieni di vita e nello stesso tempo spenti e inquietanti.
Indossavo una tenuta militare chiara, uguale a quella che portavano il principe e gli altri soldati. Jean David spiegò di aver chiesto un armistizio a Tagron Toivainen di qualche giorno a cui sarebbe seguito un patto tra Lupi e Tigri, quando fossero finite tutte le ostilità.
«L’ordine è mio e non da parte del re», precisò davanti agli uomini. «Come sapete, non abbiamo la stessa visione e da tempo ci scontriamo sulla situazione bellica; ho deciso di far valere la mia posizione, perché la guerra non sta andando come dovrebbe da diversi mesi ormai, i civili ne stanno subendo le conseguenze e molti di voi hanno bisogno di dare una fine a questa situazione.» Mi lanciò un’occhiata. «L’ordine è imposto anche da lei. Non avete diritto a domande, sappiate solo che è di sangue reale, è pari a me e come me è stata tenuta nascosta da mio padre.»
Nell’aria si mischiarono sottomissione e ostilità, mi costrinsi a guardarli e a far valere tutta la forza del mio sangue.
«Altezza, dobbiamo rimanere qui ad attendere qualcosa?» domandò un uomo dai
capelli rossicci.
«Potete lasciare il confine e tornare alle vostre case, se volte.»
«Altezza», si intromise un altro. «Mi perdoni se le dico che è una cosa molto sciocca. Fino a che i patti non saranno stipulati con le Tigri Bianche, queste zone non saranno sicure e non lo saranno quindi neanche i civili: se lasciamo le basi, potrebbe succedere ancora di tutto.»
«Ha ragione», mormorai.
Jean David mi fece cenno di rivolgermi a tutti.
Mi morsi l’interno della guancia e riempii i polmoni d’aria prima di parlare. «Chi vuole può lasciare il fronte per tornare a casa. Gli altri potranno rimanere, con l’obbligo di non attaccare e di non avanzare, siete tenuti solo a difendervi.»
Un ragazzo dalla pelle diafana si fece avanti e mi indicò con il mento. «Lei non combatteva per le Tigri Bianche? Era la ragazza Lupo che stava con loro.»
«Sì, è così», gli rispose il principe. «La storia è lunga e garantisco io per lei.»
«Come possiamo fidarci di una persona che combatteva contro di noi lo scorso inverno?»
«Forse» ribattei «dovreste ricordare quello che si diceva su di me. Se non vado errata, nessuno di voi diceva che scendevo in campo per uccidervi.»
«Dicevano che ci facevi prigionieri.» Mi fece notare un giovane dagli occhi gialli e liquidi.
Inarcai un sopracciglio. «E ti dispiace?»
«Non è così onorevole.»
«Preferisci sapere che ho risparmiato la vita a un tuo amico o che l’ho ucciso dandogli una morte onorevole?»
«Perché ora sei qui?» A chiederlo fu un ragazzino che dimostrava poco più di diciassette anni, sapevo che ne aveva di più: potevo sentire la sua mente.
Jean David lo fulminò con lo sguardo. «Vi ricordo che non avete diritto a domande.»
Feci un cenno verso di lui. «No. Hanno ragione.» La mia voce tremò, l’ultima volta che avevo parlato a dei soldati, accanto a me c’era Dahaljer a sostenermi. Presi coraggio, ero lì anche per lui. «Non posso raccontarvi tutta la mia storia, non ora almeno. Ma sono qui perché, come voi stessi potete intuire, sono di sangue reale e, insieme al vostro principe, abbiamo deciso di porre fine a questo combattimento, che va avanti da troppo tempo. È stata colpa mia se le Tigri sono
riuscite ad avere la meglio su di voi, perché ho permesso loro di sfruttarmi.» Feci una pausa. «Non ho nessun interesse a far vincere loro o voi. Ho interesse a che finisca, perché per come è la situazione, voi tutti sapete bene che potrebbe andare avanti all’infinito: loro vogliono l’indipendenza e il vostro re non vuole dargliela perché sa che sono più forti e che domani potrebbero essere un pericolo. È per questo, e solo per questo, che è un secolo che combattete e ora la macchina da guerra che esisteva prima del duemiladodici è tornata a fornirvi armi che vi stanno solo uccidendo.» Sospirai. «Credo che ognuno di voi abbia perso qualcuno, tutti sapete cosa sia la morte, tutti sapete che più si andrà avanti più le cose non cambieranno, andranno solo peggio. Nessuno di voi si merita questo, neanche gli Umani che muoiono di fame per pagare la vostra guerra.» Tornai a guardare l’uomo che mi aveva posto la domanda. «Non sarà facile con il re Tagron, non lo nego e non si può abbassare la guardia, me ne rendo conto. Tuttavia da qualche parte dobbiamo iniziare e lo stiamo facendo da qui. Spero di aver risposto alla tua domanda.» Abbassai il viso, tradendo il mio disagio.
Si sollevò un mormorio, questa volta nella mia mente avvisai più sottomissione che ostilità.
L’ordine fu mandato attraverso più canali di comunicazione, usati dai Bamiy, tuttavia continuandoci a spostare verso nord, lungo la linea del fronte, io e Jean David tornavamo a ripetere sempre le stesse cose. E io continuavo a chiedere se sapessero dove si trovava Ahilan Aadre. Tutti sapevano di lui e nessuno era in grado di fornirmi una risposta certa.
A un centinaio di chilometri da Morch, tra le colline innevate, si trovava un piccolo accampamento con meno di cinquanta soldati. Arrivammo dopo cena e, dopo aver spiegato la situazione, ci preparammo per la notte. Il giorno dopo a piedi avremmo raggiunto Belden Wilèm Monreau Harvey, mio nonno, l’assassino dei miei genitori.
Non so se fosse la paura o la curiosità a tenermi sveglia, non riuscivo ad
addormentarmi. Il vento frusciava fuori la tenda e io non avevo sonno.
Misi la giacca e gli anfibi e uscii. Nel cielo le nuvole correvano veloci, lasciando intravedere di tanto in tanto qualche stella. Osservai le luci dei fuochi e gli uomini di guardia, stringendomi nella giacca per il freddo. Quando il gelo mi aveva del tutto infreddolito il naso decisi di rientrare, ma, nello stesso momento, la mia mente avvertì qualcosa nell’aria e mi bloccai.
Tigri.
Sussultai al pensiero. Sfoderai la mia pistola e corsi dal principe. «Jean David!» Lo scossi. «Jean David, svegliati.»
Lui si lamentò e borbottò, nel buio non potevo vederlo bene. Lo sentii rigirarsi. «Che succede?»
«Le Tigri ci attaccano.» Ma in quel momento si avvertirono i primi spari e lui capì. In fretta si vestì e uscì. Le sue due guardie del corpo erano già accanto a lui, vestite e con le armi in mano.
Fuori, il capo del battaglione ci aveva già raggiunto. Parlottarono concitanti ed ebbi un giramento di testa. Gli spari si fecero frequenti e vicini, così come le Tigri che dovevano essere intorno a noi, in un raggio di meno di cinquanta metri.
Jean David aveva con sé una sola pistola e non l’aveva mai usata, dovevano portarlo in un posto sicuro. Non ve ne erano in quell’accampamento fatto di sole
tende.
Avvertii la sua paura, mentre il capo e le due guardie del corpo lo circondavano. Percepii e vidi le Tigri in una sequenza troppo veloce; vidi e sentii spari a raffica. Una delle guardie accanto a me fu colpita in pieno in viso.
Un proiettile strappò la manica del principe, ferendolo; lo afferrai per l’altro braccio e lo tirai. Lui mi corse dietro, senza capire.
«Vieni con me», bisbigliai in un affanno. Ero intenzionata a raggiungere gli alberi e a nasconderlo, le Tigri avrebbero avvertito la mia presenza come una di loro e forse non si sarebbero preoccupati. Pregai con tutto il cuore che fosse così.
Al limitare del bosco, però, uno dei Tiouck ci fu vicinissimo e io mi voltai, mettendomi davanti a Jean David. L’uomo mi puntò la pistola e temetti il peggio.
Mi fissò per qualche momento di troppo, eravamo a pochi metri di distanza, aggrottando la fronte abbassò il braccio. Il principe sfuggì alla mia presa contro ogni mi aspettativa e si fiondò su di lui a mani nude, cercando di prenderlo a botte.
«No!» gridai.
L’altro aveva perso di mano l’arma da fuoco e ora aveva già tirato fuori il suo pugnale; e io il mio. Presi Jean David per le spalle e con tutta la forza che avevo lo spostai mandandolo a terra. La lama della Tigre mi sferzò il braccio. Lo colpii
con un pugno sotto la mandibola e lui vacillò.
«Non ti voglio ammazzare», ringhiai nella sua lingua, ma presi l’automatica e gliela puntai contro. Lui fece altrettanto.
Restammo immobili.
«Principessa», gracchiò.
Jean David si mise in ginocchio. “Stai fermo là”, gli intimai.
Studiai il ragazzo davanti a me, ero certa di conoscerlo, tuttavia il suo nome non mi veniva alla mente. Fu lui a fornirmelo. «Sono Valerj.»
Abbassai l’arma e lui mi imitò. Dalle mie labbra uscì uno sbuffo. «Quando uscirò da questa situazione di merda?»
Caddi sulle ginocchia udendo gli spari e premetti le dita sulle tempie, esasperata e frustrata.
“Basta! Smettete di sparare. Smettete di sparare”, dissi in entrambe le lingue. “È un ordine!”
Solo Jean David poteva capire le mie parole, ma chiusi gli occhi, isolai la mente sul mio comando e sugli spari e piano, piano, come per magia, li sentii smettere.
Un carico di sottomissione inaspettato mi investì tanto da parte dei Lupi quanto da parte delle Tigri. Il principe e il ragazzo che aveva detto che ero la dea dalle manine delicate mi stavano guardando a bocca aperta. Sollevai il viso e guardai gli uomini tra le tende.
Con i volti accigliati e con ancora le armi in mano, avevano rivolto la loro attenzione verso di noi.
Rinfoderai l’arma, mi tirai in piedi e presi Jean David; con poca grazia misi in piedi anche lui. “E chiudi la bocca”, lo redarguii, aspra.
Lui la richiuse subito, seguendomi. Riuscii ad avvertire un senso di sottomissione anche nella sua mente, mentre raggiungevo di nuovo le tende.
Bamiy e Tiouck, incerti e ostili, ci vennero incontro. Li osservai, poggiando le mani sui fianchi: la mia comunicazione non verbale trasmetteva sicurezza, i miei sentimenti erano nascosti. La verità era che a quel punto non sapevo bene cosa fare o dire.
Valerj mi venne accanto mi fece l’inchino. «Altezza, non pensavo fosse lei.»
Le altre Tigri lo imitarono e si piegarono in inchini sospettosi.
«Wow», commentò Jean David. «Per una volta tanto non ce l’hanno con me.»
Gli lanciai un’occhiataccia. “Ora sono costretta a spiegare chi sono ai Lupi.”
“Preferivi morire?”
“Preferivo se te ne fossi rimasto buono dietro di me.”
Ignorò il mio disappunto. «Bene», disse rivolto agli altri «non avrei mai pensato di ritrovarmi in questa situazione.»
“Figurati io.”
I soldati parlarono tutti insieme, come i bambini nelle scuole. Poggiai la mano guantata sul viso e scossi la testa.
«Va bene. Devo un po’ di spiegazioni a tutti voi», dissi a voce alta. «Prima, però, vediamo se ci sono feriti e li curiamo; secondo, nel fare questa operazione, non voglio che nessuno di voi finisca di fare quello che stava facendo. È un ordine, niente armi, niente botte, niente.»
Un paio di loro digrignarono i denti, scontenti.
“E poi facciamo due chiacchiere e prendiamo un tè.”
Jean David mi guardò e guardò il taglio sul mio braccio, all’improvviso appariva preoccupato.
«Vieni a vedere un po’ di sangue», mormorai andogli accanto.
71
Di feriti ce ne furono diversi; nella notte il silenzio era quasi totale, solo il vento fischiava nelle orecchie. La mattina arrivò in fretta e nessuno di noi dormì.
Disinfettai la ferita sull’avambraccio del principe e la suturai con due punti. “Shayl’n Til, sei sempre più una sorpresa, ti intendi anche di medicina?”
«No, so solo mettere qualche punto», ribattei, secca. «Non è poi così difficile», aggiunsi in modo più dolce.
“Io non lo so fare.”
Lo bendai. «Perché non hai mai provato.»
“Sai che non ho mai parlato con nessuno con la mente?”, cambiò discorso. “Da quando mi sono trasformato, solo mio padre poteva sentirmi, ma quando l’ho fatto mi ha ignorato.”
Ero in ginocchio accanto a lui, che se ne stava seduto sulla neve a gambe incrociate. Sospirai. «Mi dispiace.»
Feci per alzarmi, ma lui mi prese la mano. I suoi algidi lineamenti erano piegati in un’espressione fanciullesca, rovinata solo da alcuni schizzi di sangue raggrumato sulla tempia e sulla guancia. «Scusami.» Mormorò con le labbra. «Non ho pensato prima di agire o forse pensavo di esserti d’aiuto. Non volevo mettere in pericolo nessuno dei due.»
Sbuffai. «Sei una testa…», guardai la sua capigliatura chiara e scomposta. «Sei proprio una testa… d’ananas!»
Mostrò tutta la sua perfetta dentatura, «pineapple» disse in uno dei termini in disuso del bretençal. Poi tornò serio. «Davvero, non volevo mettere in pericolo nessuno.»
Annuii. «Lo so. Per questa volta sei perdonato.»
Di nuovo spiegai la situazione alle Tigri e ai Lupi e a questi ultimi fui costretta a spiegare chi fossi e la mia complicata storia.
Stanchi e con il peso della morte fresca e intensa dei loro amici, ascoltarono senza batter ciglio. In seguito le Tigri mi fecero molte domande e io ne feci a loro. Di vista li conoscevo quasi tutti. Mi dissero che Tagron non aveva detto loro dell’armistizio, ma che non avevano notizie di nessuno da quasi una settimana. Non sembravano avercela con me: per la prima volta né Lupi né Tigri mostrarono insofferenza per il mio ruolo indefinito all’interno di quel conflitto.
I Tiouck non nascosero la loro felicità in previsione della fine della guerra. La banalità di tale sentimento mi caricò di nuovo. Ordinai loro di tornare indietro e di non dire a nessuno di avermi incontrata, poiché non ero intenzionata a far
sapere al loro re della mia presenza.
Valerj mi disse di essere dispiaciuto per il taglio che mi aveva provocato.
«Potevi fare di meglio, soldato.» Gli sorrisi. «Pagherai con alcune informazioni: voglio sapere come stanno i soldati/guerriero che conosco.»
Fiocchi di neve scendevano girando in circolo sotto le folate di vento. «Chi in particolare?»
Ci riflettei. «Tejii, Ron, Danka, Layo… Pasha.»
«Li ho persi di vista un mese fa. Allora stavano bene. Però…», indugiò facendo posare la neve sul guanto della mano. «Ron ora è a Praha, ha perso una gamba.»
Sgranai gli occhi. «Una gamba?»
«Sì, non so nulla di preciso, so che era ridotta così male che gliel’hanno dovuta amputare.»
«Mio Dio.»
«Deve essere stato duro.» Mi toccò una spalla con le dita. «Io spero che riuscirai
a portare fino alla fine la tua missione, quello che stai facendo per questa guerra. Per noi, oltre che per te stessa. Non so bene che cosa tu abbia ato né cosa ti spinga così tanto, ma sono contento che tu ci stia provando.»
Non sapevo cosa rispondere e non lo feci.
Partii il mattino dopo, con Jean David e la guardia del corpo che gli era rimasta. Avevo bisogno di dormire, ma quel giorno dovevamo essere a Morch e lasciammo l’accampamento molto presto. Non avevamo preso in considerazione un elicottero perché in quelle terre sferzate dalla neve riuscivano a viaggiare di rado. Il campo magnetico invece non permetteva ai POD di volare in quel punto.
Le gambe affondavano sulla coltre bianca e morbida e il sole rimase nascosto dietro strati infiniti di nuvole basse e pesanti.
Arrivammo dopo pranzo, stanchi, infreddoliti e affamati.
Morch era un luogo inquietante. Le sue abitazioni erano state fatte ante’12, erano in pietra ed erano tutte senza tetti. Sarebbe stata una città fantasma, nessuno abitava più il paese da secoli.
Mi domandai se durante il duemiladodici fosse un posto abitato. Al centro del paese c’era una chiesa, del suo campanile rimaneva un lato sgretolato. Sulla Nuova Terra le chiese erano solo un ricordo, solo alcuni mariani, per lo più di Razza Umana, avevano costruito negli ultimi anni delle piccole cappelle, ma le chiese erano solo un ricordo di un pianeta profondamente cambiato.
ammo davanti a quella costruzione e notai che dentro, dove la neve non arrivava a coprire tutto, era rotolata una grande campana arrugginita. Mi sarebbe piaciuto entrare a vedere, ma l’agitazione nella mente del principe mi distrasse prima che potessi formulare quel desiderio.
I soldati ci circondarono facendo l’inchino, attraverso muri fatiscenti e tende bianche ci condussero in un piccolo capannone. Notai subito che all’interno c’era della luce elettrica.
La nostra guardia del corpo scambiò degli informali saluti con alcuni uomini e poi rimase fuori con le mie armi da fuoco e i miei pugnali. Il capanno era diviso in scomparti da pannelli di cemento e aveva porte e finestre.
Seguii Jean David avvertendo la sua malcelata paura e entrai con lui in una stanza dove c’era solo un tavolo di legno con due sedie. Quattro uomini erano sull’attenti e un quinto era seduto dietro il tavolo di fronte a noi.
Nessuno ci presentò con convenevoli. Solo il principe accennò a un inchino. «Padre…», cominciò.
L’uomo lo interruppe con un gesto della mano, che poi chiuse a pugno e fece scrocchiare. Elegante e aggraziato si alzò e, con un unico movimento fluido e due i, si diresse davanti a me. Tutta la mia indifferenza non poteva fermare l’irregolare battito del cuore che si rompeva nel mio petto troppo veloce.
«Che io sia dannato se non assomigli a mia figlia.» Aveva l’aspetto algido del figlio, ma la sua voce era calda e soave. «Se non l’avessi vista morta, penserei che tu sia Caroline; poiché invece l’ho vista, o sei il suo fantasma o sei la figlia
di Maliak Toivainen.»
In seguito, nel ricordare quell’attimo, avrei pensato che la dinastia di mia madre era davvero bella, tuttavia in quel frangente ebbi l’impulso di scappare senza voltarmi indietro.
«Sono Shayl’n Til Lech.» La mia voce tremò più del previsto.
«Padre…», tentò di intervenire Jean David, ma di nuovo il re gli fece cenno di fare silenzio.
«Shayl’n Til.» Belden schioccò la lingua come a gustare il mio nome. «Però, che fantasia che aveva mia figlia. E del resto non potevo aspettarmi nulla di diverso da una donna che era andata a cercare proprio una mezza Tigre reale e che è riuscita a farsi beffa di me mettendoti alla luce nonostante tutto, senza che nessuno sapesse nulla.»
«Signore…»
«Signore? Mon Dieu, chèrie, sono tuo nonno.»
Se Tagron aveva un sorriso bello e odioso, Belden possedeva il sorriso più dolce del mondo, come suo figlio. Questo aspetto riuscì a infastidirmi e a darmi la forza di rispondere. «A maggior ragione, non si fa neanche un po’ schifo per aver ucciso i miei genitori, per aver ucciso sua figlia?»
Fece un o indietro e con lo sguardo percorse il mio corpo dall’alto in basso per poi tornare a guardarmi. «Mia figlia era colpevole, la perdono solo per aver fatto cotanta bellezza.»
La rabbia mi divorò. «Lei, signore, è colpevole di omicidio, di genocidio, di menzogna, di istigazione alla violenza, di tortura, di adulterio, di sfruttamento di minori, di violenza sessuale su minori, di…»
«Ehi, ehi, tesoro, piano con le parole.» La sua mano si allungò verso il mio viso, la scansai con una botta del braccio che lui mi afferrò, contorcendolo. Cercai di liberarmi e lui con l’altra mano mi afferrò il collo e strinse.
Annaspai.
Ostilità e aggressività si sparsero nell’aria, nessuno si mosse. La paura di Jean David era troppo grande per essere quantificata, le guardie invece ci guardarono con attenzione, ma senza intervenire.
Con la mano libera stringevo il suo polso. Non riuscivo a respirare e la testa mi parve pronta per scoppiare in una bolla calda e pulsante.
«A quanto pare tu sei una santa e io no. Tu non mi uccideresti mai e io ti ucciderei su due piedi. E tu sapevi com’ero, mentre io non sapevo neanche che tu esistessi.» I suoi chiarissimi occhi gialli assunsero un colore grigio quasi liquido. «Perché sei qui?»
Aprii la bocca, ma non riuscivo neanche a deglutire tanto erano strette le sue dita sulla mia gola. Gli occhi mi bruciarono per il dolore. Belden mi spinse contro il muro, facendomi sbattere la testa, ma subito dopo mi lasciò.
Il mio corpo si piegò in avanti, nel tentativo di recuperare aria nei polmoni. Jean David, che era rimasto paralizzato, mi venne incontro e mi toccò la spalla.
Paura e sottomissione era tutto ciò che avvertivo nella sua mente.
«Allora?» incalzò il re, poggiandosi al tavolo e mettendosi a braccia conserte. «Posso sapere cosa ti porta da questo simpatico cattivone, quale sono?»
Mi scostai dalla parete, avvertendo tutta la paura nel mio corpo. «Io…»
Belden mi guardò con faccia annoiata.
«Siamo qui per fermare la guerra», disse tutto d’un fiato suo figlio.
«Oooh», suo padre ridacchiò con finta meraviglia. «E dovevate venire tutt’e due qui per dirmelo? Che teneroni. Ho un fantastico figlio, buono come un pezzo di pane, e tanto cretino? Non mi sembra una mossa molto intelligente. O forse la tua… cos’è, tua nipote? O forse tua nipote è ancora più cretina di te?»
«P-padre, a-ascoltami…», il principe balbettò.
«Siamo qui per colpa mia», dissi.
Il sorriso dolce del re era divertito. «Di questo ne ero certo.»
Feci un o avanti e alzai il mento, cercando di farmi coraggio. «Sto cercando una persona» sapevo che fosse sciocco da parte mia, ma era il motivo per cui ero di fronte all’assassino di mia madre e di mio padre. «Sto cercando un mio prigioniero, è una Tigre Bianca.»
«Oh, sì. Ahilan Aadre di Danubie. Il Capo Branco che tutti invidiano. L’ho visto un paio di volte negli scontri, ma non so perché lo immaginavo alto almeno due metri e grande il doppio.»
Non ero in grado di formulare frasi e rimasi zitta, aspettando che mi rivelasse dove fosse.
«Perché lo cerchi?» chiese, invece.
Distolsi lo sguardo. «Lui è un mio…»
«Un tuo prigioniero, questo l’ho capito. Ora puoi darmi qualche altra spiegazione che abbia un senso anche per noi? Per quale diavolo di motivo hai portato qui una Tigre, che né io né tantomeno mio figlio avevamo chiesto e che non è minimamente intenzionato a fornirmi informazioni sull’esercito di Tagron o sulle sue basi o qualsiasi altra cosa io gli chieda?»
«È qui?» mormorai, troppo a bassa voce.
«Non c’è più», disse con ostentata semplicità. «Puff! Sparito. Oggi ci sei, domani chissà.»
Aprii e richiusi la bocca, mentre lui studiava la mia espressione, senza batter ciglio.
«Perché stai rischiando la tua vita per la sua?»
Un fremito mi percorse sotto la pelle. «Perché lui ha rischiato la sua per la mia. Perché era il mio lascia are per raggiungere Jean David e si è offerto di accompagnarmi.»
«E allora perché lui si è offerto di accompagnarti?»
Avevo voglia di lasciare che le gambe cedessero, di crollare a terra e di piangere. «Tagron lo ha tradito e voleva rendersi utile condividendo la mia… causa.»
«Ovvero, darla vinta alle Tigri.»
«Mettere fine alla guerra», ribattei laconica.
Si attorcigliò un ciuffo di capelli biondi, uscito dalla coda, con le dita. «Perché Tagron lo avrebbe tradito? Era come un figlio per lui.»
«Non lo so.»
Gli occhi gli brillarono. «Oh, che coincidenza, neanche lui lo sa. Lo sapeva, neanche lui lo sapeva.»
Si avvicinò con il suo dolce sorriso e io dovetti fare un o indietro. Stavo tremando e non riuscivo a fermarmi.
Quando lui mi fu davanti e io di nuovo addosso alla parete, schioccò pollice e medio davanti al mio viso. «Scherzavo», disse la sua voce calda. «Chèrie, il tuo prigioniero si trova incatenato sulla neve, a meno di cinquecento metri da te. Sai, lo credevo anche più robusto, invece piange come un moccioso, quando le lame lo colpiscono. Devo dire a Tagron di Danubie di trovarsi un Capo Branco migliore di questo.» Girò su se stesso. «Per alcuni secondi ho seriamente pensato di farti fuori, di farvi fuori tutti e tre. Invece, ho avuto un’illuminazione.» Tornò a guardarci. «Shayl’n Til, non avrei mai pensato a te se non fossi venuta qui mostrandoti come il fantasma di mia figlia, ma visto che le tue regali gambette mi hanno voluto raggiungere con tanta dedizione, e visto che il collegamento con la leggendaria Lupa delle Tigri Bianche dello scorso inverno è ovvio, ho deciso di essere… come posso dire? Buono.» Imitò una faccia angelica, sbattendo le palpebre. «Tu in vita, mio figlio in vita, il prigioniero in vita. Ti concedo di andarlo a trovare, perché mi sento molto buono, se…» Con due i tornò verso di me. «Se, tesoro, potrò usarti come ti ha usata Tagron. E così riconquisterò tutte le terre che ci ha tolto con la tua preziosa mente da Mezzosangue.»
Deglutii.
«No.» Era stato Jean David a parlare. «No, noi non lo faremo, noi abbiamo deciso…»
«Sì», lo interruppi. E lui mi fissò meravigliato. «Jean David, non cambierebbe nulla, se ci ammazza è tutto perso lo stesso. Siamo comunque in trappola e non riusciremmo a fermare la guerra.»
«Oh, mon Dieu, lo sapevo che mia nipote era più intelligente di mio figlio. Caro, è tua nonna che ti ha reso così idiota?» Mi lanciò un’occhiata. «Questi nonni, sono la rovina dei figli, non trovi, nipotina mia?»
Ero al limite delle mie forze, fisiche e sopratutto mentali.
«Bene, mi sembra che i patti siano chiari, che la firma sia stata posta e che ora possiamo distenderci tutti quanti. Cosa volete fare, pargoletti? Un ristorantino romantico, una gita in barca, un bagno con idromassaggio?»
Mi schiarii la voce. «Possiamo vedere il prigioniero?»
«Oh, la mia tenera pargoletta. Come ho fatto a scordare già che sei qui per lui? Niente ristorantino, niente bagnetto, vuole vedere la Tigre Bianca dai possenti muscoli, lei. Non ti sarai invaghita di lui? Credo che non sia il tuo tipo, il Capo Branco è troppo tutto; cercherò un uomo adatto a te, tra i miei soldati, almeno mi sarai un po’ grata. Sto divagando?»
Il principe e io lo fissammo.
Sorrise dolce e compiaciuto. «Adoro lasciare le persone senza parole.» Prese la sua giacca e indossandola mi venne accanto. «Soprattutto le donne.» Mi strinse il braccio e mi tirò dietro di sé. «Jean David, per favore, fai gli onori di casa.» Lo spinse avanti.
Le quattro guardie del corpo del re ci furono subito dietro e noi uscimmo fuori. La neve ancora scendeva vorticosa e instancabile. Io mi reggevo a malapena sulle gambe.
Il re chiamò tre uomini e ordinò di accompagnarci dal prigioniero. Disse loro di tenerci le armi puntate e di non permetterci di scappare. Prima di andarsene mi tirò i capelli e mi fece l’occhiolino.
72
Tirai il cappuccio fin davanti alla fronte, per non permettere alla neve di scendere sul mio viso. Jean David era silenzioso e imbronciato, i tre soldati nascondevano molto bene i loro sentimenti. Belden aveva accanto a lui uomini fidati e ben scelti. Per nulla intimoriti dal nostro potere di sangue, ci spinsero tra le tende e le mura di pietra.
Prima di arrivare avvertii la presenza della Tigre e tremai. Eravamo in un piccolo spazio quando lo vidi e dovetti mordermi un labbro che, gelato, si tagliò subito sotto la pressione dei denti. Volevo correre da lui, ma i Lupi procedevano con un o lento e mi tenevano per un braccio. Infine mi lasciarono.
«Non hai tutto il giorno», mi ammonì uno di loro.
Non badai alle sue parole, i piedi andarono più veloci del pensiero che mi imponeva la calma.
Dahaljer era a petto nudo in mezzo alla neve, era legato con i polsi a un palo di legno umido, la testa china e le gambe piegate in una posizione innaturale. Il corpo pieno di tagli, escoriazioni e lividi violacei.
Mi inginocchiai di fronte a lui, trattenendo a stento le lacrime. «Dahal», mormorai.
Lui alzò appena il viso mostrandomi un labbro rosso e spaccato, sotto la barba rada ma di diversi giorni, e un occhio gonfio e scuro. Ingoiai un singhiozzo e ansimai. «Scusami. Amore, perdonami. Perdonami, se puoi.»
Mi tolsi la giacca e con qualche difficoltà gliela misi sulle spalle.
“Sono belli i sogni in cui ci sei anche tu.”
«Non sono un sogno. Sono qui, sono davvero qui e troverò un modo per portarti via da questo posto.» Gli presi il viso tra le mani. «Amore mio, ti giuro che ti porterò via», sussurrai.
“Perché sei qui?”
«Per te.» La neve scendeva sui nostri corpi, ma io ero impegnata a toglierla dai suoi capelli, dalle sue sopracciglia, dalla sua barba. Con le dita, cercando di essere delicata. Lo asciugai e tirai il cappuccio sulla sua testa.
Jean David si accucciò accanto a me. Non lo guardai e presi la neve da terra, cercando di pulire le ferite sul corpo della Tigre, senza riuscirvi. La sua pelle era così fredda da sembrare morto.
Lo abbracciai cercando di trasmettergli il calore del mio corpo, lui gemette sotto la mia stretta. Voltai il viso e incontrai lo sguardo del principe. «Non posso lasciarlo così», bisbigliai. «Dimmi che c’è un modo per curarlo.»
Abbassò gli occhi, imbarazzato e pensieroso.
Mi scostai un poco da Dahaljer per potergli spostare le gambe. «Jean David, aiutami. Sposta le sue ginocchia.»
Lui ubbidì senza protestare; mosse prima una gamba, con gentilezza e un po’ di fatica. Poi prese l’altra, ma quando la poggiò a terra, la Tigre emise un suono che voleva essere un urlo, scivolò tra le mie braccia e io non lo sentii più.
«Jean David!» rantolai. «Vai da tuo padre. Per favore vai da lui, digli che se il Capo Branco muore, io non farò nulla per lui.»
Lui provò paura e sul viso si disegnò il suo broncio.
«Ti prego. Fallo per me.»
Mosse appena la mandibola e dopo un attimo di esitazione annuì e si alzò. Lo ascoltai parlare con i tre uomini, che manifestarono una certa ostilità, poi lui si allontanò con uno di loro e gli altri due mi si fecero più vicini.
Uno dei due ci puntò contro la mitragliatrice. «Per quanto ne hai ancora?»
Non gli risposi. Mi concentrai sul battito debole e appena udibile di Dahaljer e lo cullai. Sentii appena la sua mente e capii che era semicosciente. «Resisti», dissi a voce bassa in persiano. «Sai che venderei l’anima all’inferno per averti vivo
accanto a me. Dahal, ti amo, lo sai, vero?» Gli accarezzai la testa. «Mi hai capita?» Domandai nella sua lingua.
Però la sua mente non mi rispose e neanche le sue labbra.
«Se il re non viene tra cinque minuti, ti portiamo via.» Mi fece presente il soldato a cui prima non avevo risposto.
Feci cenno di aver capito con il capo e pregai con tutta me stessa che Jean David fosse riuscito a convincere il padre, senza farsi ammazzare.
Sentii arrivare delle persone, tra loro non c’erano né il principe né il re. «Toglietela da lì.»
Quattro braccia mi afferrarono. «Lasciatemi», protestai, stringendomi a Dahaljer e facendo forza con il corpo; ma altre braccia mi tirarono e per quanto potessi ribellarmi, mi strapparono da lui e mi bloccarono sulla neve, mentre scalciavo e mordevo e la felpa di mude si bagnava, facendomi rabbrividire. «Stai buona» all’improvviso quella voce era dolce nelle mie orecchie. «Lo stanno liberando. Calmati.»
Guardai il proprietario della voce, era un ragazzo poco più grande di me; in seguito mi avrebbe detto di chiamarsi Antar Breel. Aveva gli occhi verdi e cristallini e sorrideva rassicurante. Con la coda dell’occhio, vidi due uomini sciogliere la catena con cui avevano legato il prigioniero e distenderlo su una brandina.
«Va tutto bene» mi rassicurò il giovane.
Smisi di lottare e giacqui immobile sulla neve. Poi di nuovo la paura si fece strada dentro di me. «Dove lo stanno portando?»
«All’ambulatorio da campo.» Antar si piegò sulle ginocchia. «Ti va di mangiare qualcosa?»
Scossi la testa. «Portami con lui.»
Inclinò il capo, poi mi tese la mano e mi sollevò da terra.
Seguimmo uomini e prigioniero fino dentro a una piccola costruzione calda e dal forte odore di alcol.
Dentro, una donna guardò la Tigre e si accigliò. «Chi lo ha ridotto così?»
«Fai quello che devi fare e dopo mettigli le manette.» Le rispose secco uno dei soldati.
«E tu chi sei?» mi chiese la donna.
Alzai il mento. «Shayl’n Til. Posso rimanere?»
Si strinse nelle spalle. «Se non hai nulla di meglio da fare.»
«Grazie.»
Il ragazzo mi diede una leggera botta. «Sono qua fuori.»
Anche i due che mi avevano sorvegliata, rimasero fuori, li percepivo bene e potevo sentire anche qualche parola che si scambiavano.
Osservai la donna pulire il corpo di Dahaljer. «Posso aiutarla?»
Incurvò solo la fine del sopracciglio destro e mi indicò una spugna in una bacinella d’acqua calda. La presi e, seguendo i suoi movimenti, pulii la pelle del prigioniero che sollevava appena il torace per respirare.
La cicatrice lasciata dal dottor Nikolaos Kristoforos era piccola, leggera e aveva lo stesso colore del resto della pelle; l’altra cicatrice, quella del pugnale dei banditi che lo aveva quasi ucciso, era invece ancora ben visibile, sebbene fosse molto meno netta rispetto a quando l’avevo vista la prima volta a Màlica. Era ato quasi un anno e mezzo da allora.
«Tu sei la Lupa che appartiene alle Tigri?» chiese disinfettando le ferite. Da alcune di esse usciva del pus.
«Sono in parte Lupo in parte Tigre e non appartengo a nessuno», ribattei atona.
Mise dei tubi nelle braccia di Dahaljer e azionò delle macchine.
«Come avete la corrente qui?»
«C’è una grande cascata poco più a est. Sfruttano la forza dell’acqua. Non chiedermi come, non me ne intendo.» Analizzò la caviglia della Tigre. «Questa è fratturata.» Mi informò dopo poco. «Ho bisogno di fare una lastra.»
Sarei rimasta in quel piccolo posto che puzzava d’alcol a guardare, in effetti non mi sarei mai allontanata da Dahaljer, però Belden Monreau Harvey mi mandò a chiamare e io non ebbi scelta.
Jean David e io ci trovammo dentro un’altra costruzione fatta di pannelli prefabbricati, seduti a un tavolo, e aspettammo parecchio tempo, mentre io fremevo di rabbia.
«Sei certa di aver fatto la scelta migliore?» domandò a un tratto il principe, che era rimasto taciturno accanto a me.
«Non avevamo un'altra scelta.» Mi poggiai allo schienale e incrociai le braccia. Mi avevano dato la giacca di uno dei soldati e mi stava molto grande.
«Pensi che ci avrebbe uccisi davvero?» Nella sua voce c’era una tale tristezza
che fui costretta a guardarlo.
«Non lo so. Con ogni probabilità Ahilan e io non gli serviamo, se non avesse pensato a me come qualcosa di utile, gli saremmo solo stati d’impiccio. Tu…» Mi morsi l’interno del labbro. «Beh, la tua morte non avrebbe cambiato nulla, in nessun caso. Forse ti avrebbe risparmiato.»
«Lo dici solo per consolarmi.»
Sospirai. «Jean David, cosa vuoi che ti dica? Sono stanca, stanca di tutto questo. Avevo una vita a Roma, era povera ma era mia e non dovevo sforzarmi di pensare a come non vedere sangue. Il mio sangue era solo sangue, come quello degli altri e poi tutto è cambiato e io non l’ho mai chiesto.»
«Non credere che non mi dispiaccia», puntualizzò. «Ma perché poi sei venuta a cercarmi? Cosa ti ha spinto a rischiare?»
«Lo sai perché. Tagron ha con sé due bambini che devo portare via. Io e te siamo gli unici a poter cambiare qualcosa e, infine, io non avrei avuto un posto dove vivere. Sono una Mezzosangue, vuol dire che per i Lupi non sono abbastanza Lupo e per le Tigri sono da combattere, anche se ho sangue reale. Per gli Umani, te lo devo dire? Ho qualcosa in meno per ognuno di loro.»
«Non sono d’accordo. Non dico che sia una vita più facile, ma non credo tu abbia qualcosa in meno, tu hai qualcosa in più. Tu sei tanto Umana, quanto Tigre, quanto Lupo, non importa come ti vedono gli altri, tu hai qualcosa di ognuno di noi nelle tue vene. Io lo trovo bello.»
Con le dita di una mano seguii il solco di una vena sul legno del tavolo, riflettendo su ciò che aveva appena detto il principe, poi però i nostri sensi registrarono la presenza del re e tutt’e due ci concentrammo sulle nostre emozioni.
Belden entrò nella stanza togliendosi la giacca e riponendola sulla sedia senza troppi convenevoli. Sbatté i piedi a terra facendo cadere la neve dagli anfibi e si sedette, stiracchiandosi. Non era tipo da cerimonie.
«Allora, pargoletta, come sta il tuo prigioniero?»
«È nell’ambulatorio da campo», gracchiai infastidita.
Fece un cenno a una delle sue guardie, che fece un inchino e uscì. «Lo so, me lo hanno detto.»
«Allora saprà anche come sta, non è necessario chiedermelo, signore.» Il tono della mia voce era fermo e adamantino, non tentai di nascondere tutta la mia ostilità.
«Devo ammettere che hai ragione.» Riempì i nostri bicchieri di vino dal colore molto scuro. «Mi hanno detto che chissàchi lo ha riempito di botte e tagli su tutto il corpo. E la dottoressa sostiene che la sua frattura abbia fatto infezione e che se fosse stata curata prima, ora non rischierebbe la vita.» Fissò gli occhi nei miei. «Dovevi arrivare prima.»
Abbassai lo sguardo sulla bottiglia.
«Con gli antibiotici si può curare», mi rassicurò Jean David.
Suo padre rise, una risata leggera. Poi scosse la testa, mandando giù il contenuto del suo bicchiere. «Tesoro», disse sporgendosi verso di me. «Con mio figlio non c’è più gusto, ma con te è un piacere prenderti in giro. Sei adorabile. Sì, davvero.»
«Come fa a essere così?» mi sentii domandare.
«Non saprei, ci vuole un duro allenamento», ribatté serio. «Con te mi riesce facile, sei talmente uguale a mia figlia. So che sei brava a combattere, anche Caroline lo era, sebbene non sia mai stata al fronte. Portava i capelli come te, così arruffati, nonostante fossero castano chiaro. Quando è morta li aveva tinti di nero.»
Pensai a Madre Brìgit e a tutte le volte che me l’aveva descritta.
«Anche lei usava i pugnali e ci riusciva bene, non come mio figlio che non sa tenere neanche una pistola in mano.» Lo disse come se lui non fosse con noi. «Caroline era bella, era una ragazza coraggiosa.»
«Perché ne parla come se non l’avesse uccisa lei?»
«Perché è stata lei a tradire la mia fiducia. Poteva fare tutto, le davo tutto ciò che chiedeva, ma non doveva unirsi a una Tigre Bianca, a un mezzo Umano, e per giunta alla discendenza della dinastia Minse di Danubie. Non doveva farlo. E poi essere incinta di te» apparve delusione sul suo volto, reale e incomprensibile. «Il suo sangue non sarebbe stato più puro e neanche quello della mia discendenza. Il peggiore degli insulti, non potevo permetterlo. E quella Tigre, Maliak, come aveva potuto sedurla così? Non potevo perdonarlo a nessuno dei due.» La sua lunga coda ondeggiò.
Lo guardavo atterrita, senza sapere cosa rispondere. Parlava come se il suo discorso avesse una logica, come se ci credesse davvero, e non c’era pentimento, solo delusione per quello che altri avevano fatto.
«Ma parliamo del presente.» Il suo dolce sorriso scintillò. «Il tuo prigioniero è vivo e anche voi due, quindi da domani sarai al fronte con me. E tu», aggiunse guardando il figlio, «puoi tornare a Nuv Monàc, se ti fa piacere.»
«Vorrei che Jean David rimanesse con me», dissi.
Ridacchiò. «Pensi che possa proteggerti?»
Non risposi e guardai il ragazzo, che spostò lo sguardo da me al padre e viceversa. «Rimango.»
«Sarai di impiccio, e tu lo sai. Non hai forza e non hai abbastanza fegato», lo schernì.
Mi mossi appena sulla sedia. «Penserò io a lui.»
«Non sarai armata, chèrie, neanche per andare in guerra.»
Due uomini entrarono portandoci la cena.
«Non importa, verrò lo stesso», insistette Jean David, fissando il padre sicuro.
Il re sbuffò. «Questi figli sono una tortura. Pargoletta, non ne fare mai, te ne pentirai subito.» Prese una forchetta e l’agitò nell’aria. «Va bene, domattina si parte e non voglio storie, bambini.»
73
Jean David e io parlammo tutta la notte. Lui aveva chiesto a Tagron un armistizio che non avrebbe rispettato e insieme avevamo dato l’ordine ai soldati su tutto il confine sud di non attaccare. Belden, invece, non aveva intenzione di fermarsi e noi due ci trovavamo in mezzo al suo delirio. Non solo, io ero parte del delirio.
Mi crucciai a lungo quella notte su tutti gli sbagli di valutazione che avevo commesso. E Jean David cercò di consolarmi dicendo che non potevamo fare nulla e dovevamo solo seguire gli eventi.
Impaziente mi alzai prima di lui e, seguita da alcuni soldati, raggiunsi l'ambulatorio da campo. Bussai, ma nessuno mi rispose. Una delle guardie che sorvegliava il prigioniero mi lanciò un’occhiata poco amichevole.
«Entro e basta», dissi. «Non dobbiamo andare da nessuna parte.»
«Buon per te», replicò, asciutto.
Entrai e chiusi la porta. Tentoni cercai la luce e l’accesi.
Dahaljer era sotto le coperte e aveva fuori solo il viso, la caviglia ingessata e un polso legato con delle manette alle sbarre di ferro del letto. Mi sedetti accanto a
lui e lo osservai.
Aveva una benda sopra l’occhio e un punto di sutura sul labbro. Gli sfiorai i capelli con la mano e lui emise un mugolio. «Dahal», lo chiamai in un sussurro.
Lui aprì l’occhio sano e dischiuse appena l’altro. Fece una breve smorfia di dolore, poi tirò fuori un braccio dal lenzuolo e con le dita mi accarezzò il viso. “Shay.”
Sorrisi. «Ti vedo morire così tante volte che alla fine morirò prima io di crepacuore», dissi nella sua lingua.
“Vale anche per me.”
Indugiai sulle sue emozioni, troppo lontane, ora, da quelle che avevo potuto afferrare una volta come fossero mie. «Avrei un sacco di cose da dirti, ma non ho tempo. Sto andando via.»
“Dove?”, si allarmò.
«Non ti preoccupare, sono al sicuro», mentii. «Sarò con Jean David, mi fido di lui. Ma sarò via un po’ di giorni, non so quanti. Poi torno. Tu pensa solo a guarire. Ho fatto un patto, non ti faranno più del male.»
Aggrottò la fronte. “Che patto?”
«Niente che abbia a che vedere con matrimoni.» L’angolo sinistro della sua bocca si piegò in un breve sorriso. «Ti amo, Dahal, ricordalo quando non sono qui.» Mi alzai. «Devo andare adesso.»
Mi prese una mano e annuì.
«Dimmi qualcosa», bisbigliai. «Con le labbra.»
Sollevò gli occhi sul mio volto e si schiarì la voce. «Torna da me.» Il flebile suono che uscì dalla sua bocca mi commosse. La sua mano si strinse sulla mia.
«Ovunque e comunque.»
Le giornate che seguirono si confondono nella mia memoria, mi parvero tutte uguali. La neve, il freddo, l’inverno che avanzava sulle colline, la guerra che ricominciava e che ancora una volta cambiava direzione a causa mia.
Non partecipavo agli scontri, perché Belden mi teneva nascosta dalle Tigri, mi portava con sé prima di muoversi, mi chiedeva dov’erano e quanti erano e non perdeva occasione per ricordarmi che, se avessi mentito, avrebbe ucciso sia il prigioniero che Jean David.
Il figlio se ne stava nelle tende del campo tutto il giorno, imbronciato e sconsolato e solo quando io ero di buon umore e disposta a parlare, sembrava estrarre se stesso da quel luogo e chiacchierare come un bambino.
Dopo qualche giorno, avevo un’ idea piuttosto chiara dei soldati e di quello che avveniva negli accampamenti. Come avevo già avuto modo di notare, Belden era circondato da uomini fidati; quello che lui definiva ‘reparto di difesa’ era composto di uomini selezionati che ubbidivano al re, senza interferire o fare domande. Il potere del re dei Bamiy era in parte offerto dagli attacchi continui delle Tigri, poiché lui basava la sua politica di scontro diretto e continuo sull’incitazione a rispondere al nemico bellicoso. Quasi tutte le mattine il re radunava gli uomini dando loro una carica fatta solo di parole. Sapeva parlare, questa era, con mia grossa sorpresa, un’arma al pari delle altre. Tutti i giorni riusciva a convincere i suoi uomini a continuare il loro operato, e quando era possibile, attraverso la tecnologia, inviava i suoi messaggi lungo tutta la linea del fronte. Le Tigri attaccavano, le Tigri erano esseri inferiori, le Tigri andavano sterminate. Avevo pensato che la sua propaganda rasentasse la follia, tuttavia fui costretta ad ammettere che era una propaganda fatta con estrema intelligenza ed efficacia. Ciò, però, non rendeva meno folle tutta la guerra e le sue motivazioni.
I Lupi Grigi usavano gli Umani, e spesso li incontravamo, sebbene Belden non li lasciasse mai stare con noi. A parte me e Jean David, non c’era nessuno tra i soldati a lui più vicini che non avesse selezionato con cura.
Tra le altre cose, studiandolo, avevo anche notato che, se non era occupato in qualche attacco, spariva con una guardia del corpo per tre o quattro ore. Se c’era il sole o una tormenta in atto, non faceva differenza.
Non nasconderò che gli uomini del reparto di difesa fero paura, tuttavia quando il re non c’era ne approfittavo per schernire in qualche modo i suoi soldati. Non so quanti giorni fossero ati quando uno di loro mi rispose a tono.
«Perché non ti fai gli affari tuoi e tieni chiusa quella boccaccia una volta tanto?»
Peter Way aveva gli occhi gialli infossati e accesi.
Non stavo facendo nulla, come al solito, il sole splendeva sulla sua automatica metallizzata, attraverso una nube, e il gelo pungeva sulle mie guance. «Perché vorrei tanto capire come fate a stare agli ordini di un uomo come Belden. Come fate ad avere questa fiducia?» ribattei senza batter ciglio.
«Siamo addestrati per questo», replicò pacato Antar.
«Anche io sono addestrata a starmene in pace a Roma, eppure so usare i pugnali se voglio.»
Peter rise, caustico. «Questo è quello che dicono, io non ti ho mai vista combattere.»
«Vuoi vedere?»lo sfidai.
Antar ci lanciò un’occhiata di avvertimento, Jean David invece si strinse nelle braccia e fece il broncio, mentre Peter rispondeva alla mia sfida con tutta l’ostilità della sua mente. Sguainandolo, mi lanciò ai piedi uno dei suoi due pugnali; lo raccolsi e con la punta indicai le sue fondine.
«Ad armi pari. Io ho solo un pugnale, quindi sei pregato di togliere le altre armi che hai.»
«Io non posso ammazzarti.»
Strinsi le palpebre. «Non lo farò neanche io.»
Con deliberata lentezza lasciò tutte le sue armi vicino ad Antar. Era alto come me, ma era anche più tozzo. Mi si avvicinò e mi fece cenno di aspettare. «Dico una cosa in privato al principe e vengo.»
Nell’istante in cui comprendevo che fosse una menzogna, mi colpì il braccio destro con la lama. Trattenni un grido di dolore e stupore.
Cercò di buttarmi a terra, ma afferrai il suo polso e tirai; mirai contro di lui e il suo pugnale parò il mio attacco.
Lo lasciai. «Sei sleale.»
«Ti sto solo insegnando come si combatte per davvero.»
I nostri corpi si mossero agili sulla neve in una sequenza veloce di attacchi, affondi e parate. Le lame dei pugnali si scontrarono più e più volte vibrando e producendo un suono stridulo. C’erano altri soldati a guardarci.
«Quando combatti per davvero, tutto è valido. Non c’entra essere sleali.» Il mio braccio destro sanguinava e lo sentivo indebolirsi a ogni mossa.
Peter avanzò verso di me, senza lasciarmi tempo per respirare. Indietreggiai evitando un suo colpo all’altezza del bacino. Cercavo di colpirlo, tuttavia la presa sull’impugnatura non era abbastanza forte; se avessi avuto un altro pugnale sarebbe stato diverso. La mia lama roteò nell’aria, fluida come a disegnare un cerchio con un pennello, ma il movimento si interruppe brusco, a causa del dolore che proruppe dal mio taglio. Dovetti stringere i denti.
Peter si allontanò, tornò verso di me, evitò un mio colpo e mirò alla mia gola. Con la mano sinistra afferrai il suo polso e lo bloccai. Con l’altra mano mi strinse il braccio dove mi aveva ferita e mi costrinse a lasciare la presa sulla mia arma.
Avvicinò il suo viso al mio. «Vedi? Tutto vale.»
«Adoro mettere in pratica quello che ho imparato», ribattei, e con il ginocchio lo colpii tra le gambe.
Lui lasciò la presa, piegandosi su se stesso. Gli sferrai un pugno, mandandolo a terra e, evitando di pensare al dolore sulle nocche, gli fui sopra. Con i denti, premetti alla base del suo pollice e lui lasciò cadere il pugnale.
Con le dita della mano destra strinsi sul suo collo e con quelle della mano sinistra presi l’impugnatura della sua arma che puntai sotto il suo sterno. «Grazie per la lezione.»
Mi alzai e infilai il pugnale in una cinghia dei miei pantaloni. Presi della neve
pulita e la poggiai sulla ferita, serrando le mascelle. Jean David corse ad analizzare il taglio.
«È un graffietto», borbottai.
Lui non lasciò la presa. «No che non lo è, è profondo e va disinfettato e anche cucito e poi...»
«Ehi, da quand’è che te ne intendi?»
«Ora che sappiamo che sai combattere?» ci interruppe Antar.
Sollevai il viso a guardarlo. «Sai che non sono addestrata a farlo, ma che posso decidere di testa mia cosa fare della mia vita.» Guardai anche gli altri. «Non vi rendete neanche conto di quello che fa il vostro re, fate solo quello che vi ordina come pecore. La dittatura non esisterebbe se non ci fossero degli idioti come voi.» Mi divincolai dalla stretta di Jean David e mi apprestai a dirigermi alla nostra tenda.
Antar mi bloccò. «Vieni con me, Sam sa rattoppare questa roba.»
Sam, che come gli altri avevo già conosciuto, suturò la mia ferita con tre punti, mentre mi ascoltava imprecare sui Lupi. Nessuno raccontò a Belden Monreau Harvey di quel pomeriggio, quando tornò; non so per quale motivo.
La sera il cielo era del tutto limpido e mi fermai a esaminare le stelle tremule, sopra le nostre teste. Jean David si affacciò dalla tenda e mi chiamò.
Mi lasciai sedere sulla neve, accanto all’entrata. «Credo di poter vedere le stesse costellazioni che vedevo a Roma.»
«È probabile. Dovrei riare qualcosa di astronomia.» Il principe rimase gattoni, a metà tra dentro e fuori la tenda.
«Sei mai stato a Roma, a vedere il Colosseo?»
Posò lo sguardo su di me. «Ti sembrerà strano, ma non ci sono mai stato.»
«Molto male, principe. Devi vedere la Città Eterna, almeno una volta nella vita.»
Mi tirò la manica. «Smettila di fare l’Umana patriottica e vieni a dormire al calduccio.»
Lo seguii all’interno e tolsi le scarpe, mentre lui cercava di districare un nodo dai capelli. «Jean David, dove va tutti i giorni tuo padre quando sparisce? Tu lo sai?» domandai all’improvviso.
«Certo che lo so. Lo sanno tutti. Diventa un lupo e se ne va in giro a scaricare la sua tensione animalesca o quello che è.» Mi osservò come se avessi fatto una domanda sciocca, poi osservò la mia espressione e si accigliò. «A cosa sta
pensando la tua mente irrequieta, piccola gamine?»
Frugai nel nostro zaino e tirai fuori una spazzola, che non avevo ancora mai usato. «Vieni, hai i capelli pieni di nodi.»
Perplesso ci pensò, poi si mise seduto dandomi le spalle e io mi inginocchiai dietro di lui, dividendogli i capelli in diverse ciocche. «Non credo di aver mai avuto i capelli così mal ridotti», bofonchiò.
«Lo immaginavo. Io li ho sempre avuti mal ridotti, invece.»
«Mia nonna me li pettinava sempre, come stai facendo tu. Non le piacevano così lunghi e non mancava mai di farmelo presente, tuttavia adorava are le serate a pettinarli. Mi raccontava delle storie che inventava lei e mi intrecciava le ciocche in piccole trecce, poi le disfaceva.»
Restammo in silenzio e continuai a lisciare i suoi capelli di seta a lungo. Pensavo a Maryām, perché era stata l’ultima persona a cui avevo pettinato i capelli, una mattina nelle stanze calde del Sultano di Nayband. Poi tornai a pensare a Belden, che quasi tutti i giorni aveva necessità di trasformarsi in lupo, domandandomi se quello potesse essere il suo punto debole, il suo tallone d’Achille.
Tutte le sere prima di andare a dormire ci pettinavamo i capelli a vicenda, come due bambini, costretti a prenderci cura l’uno dell’altra nei piccoli gesti. E io, ogni volta che ne avevo occasione, insinuavo il dubbio nei soldati, su ciò che facevano.
Antar Breel che era il più giovane di tutti, fu il primo a darmi ragione. Peter invece, continuava a difendere il loro operato con insistenza, lasciandomi pensare che lo dicesse più per motivi d’orgoglio che perché ci credesse davvero. Alcuni di loro, come avevano fatto le Tigri, accusavano i loro nemici per quello che erano diventati. La vendetta sembrava l’unica vera buona causa, non importava che mezzi usasse il re o come li trattasse.
Ubbidivano al potere del maschio Alfa per natura e sottostavano alla sua crudeltà perché era lui a condurre la guerra contro chi li attaccava da più di cento anni. Mormoravo sempre qualche preghiera quando il re tornava con i feriti, spingendoli tra le mani di Sam e insultandoli. Li guardava rabbioso e diceva loro di essere bambini piagnucolosi.
Stavamo cenando nella tenda del re, dopo una lunga giornata ata a curare i feriti. Nella notte i Lupi avevano attaccato le Tigri su un altopiano e dai racconti che giunsero alle mie orecchie compresi che era stato un attacco finito male per entrambe le parti. Belden, illeso, mangiava la sua porzione di carne come in qualsiasi degli altri giorni.
Antar entrò nella tenda e fece un breve inchino. «Altezza, perdoni il disturbo a ora di cena.» Ci guardò. «Principe. Signorina.» Chinò il capo in segno di saluto.
Il re sbuffò. «Antar, muoviti.»
«Signorsì. Volevo avvisarla che Mattew Petrò è in gravi condizioni e che avrebbe bisogno urgente di essere portato a Nuova Auxerre o per lo meno in città, una delle più vicine. Rischia…»
«Antar» lo interruppe Belden «non mando nessuno da nessuna parte. È sempre stato così, cosa sono all’improvviso queste strane richieste? O è forse perché sei giovane che non sai come vanno le cose?» Lo squadrò da dietro il bicchiere di vino.
«Lo so, signore, so come funzionano le cose qui sul confine, so come funzionano con lei, credo però che potreste cambiarle e in tal modo guadagnarne in stima.»
«In stima?» Finse di tossire. «In stima da parte di chi, figliolo? E quanti anni hai?»
Il ragazzo parve spaesato. «Ventiquattro, signore.»
«Mmm, Antar, pensavo fossi più piccolo, forse appena trasformato, lo pensavo per come combatti. Sai, hai un modo ingenuo di tirare fuori i pugnali e a volte le pistole tremano nelle tue mani. Sì, diciamo venti anni solo perché non prendo con me bambini più piccoli. Ma, dicevi? Devo guadagnare la tua stima, secondo te?»
«Non dicevo questo, signore», mormorò.
Il re poggiò la schiena sulla sedia e lo guardò con aria di sfida. «No? E cosa allora, Breel?»
Trasse un profondo respiro. «Signore, sappiamo tutti che comanda lei, per suo diritto, per diritto di sangue. Noi le obbediamo, lo vede con i suoi stessi occhi:
non mettiamo in dubbio quello che fa, neanche quando dovremmo, quando calpesta i nostri diritti.» Antar si interruppe perché nelle nostre menti l’ostilità e l’aggressività del re erano così intense da poter essere tagliate a fette.
«Chi ti mette in testa queste idee, soldato?»
Contro ogni previsione Jean David si alzò, pur provando palese paura, fissò il padre negli occhi. «Io credo…»
Belden Monreau Harvey, della dinastia Erdreè, con un movimento fluido del braccio estrasse la sua semiautomatica e sparò due volte, colpendo Antar alla gola e al viso.
Sussultai e rimasi senza fiato. Jean David crollò sulla sedia, bianco in volto e con bocca e occhi spalancati.
«Cosa stavi dicendo?» gli chiese il padre rinfoderando la pistola.
Il figlio cercò di balbettare qualcosa, mentre calde lacrime presero a scorrere sul suo viso e le mani gli tremavano sul bordo del tavolo.
«Bene. Immaginavo.» Belden si alzò da tavola, poggiando il bicchiere che aveva in mano con calma e mi ò vicino. Mi strinse una spalla. «Finisci di mangiare e impara a tenere la bocca chiusa, tesoro.» Fece cenno a due guardie che senza una parola presero il corpo della vittima.
Restai interdetta per qualche attimo, poi mi alzai anche io e mi avvicinai a Jean David, che afferrò i miei fianchi e sprofondò il viso nel mio grembo singhiozzando disperato. Esitai e poi lo strinsi a me. Non aveva mai visto morire nessuno in quel modo, neanche quando ci avevano attaccato le Tigri, non aveva mai visto uccidere a sangue freddo, con due colpi secchi che toglievano la vita in meno di un battito d’ali e non poteva immaginare che la prima volta sarebbe stato suo padre a farlo.
Provai comione per lui e chiusi gli occhi, chiedendo pietà per tutti noi. Antar era morto a causa mia, era morto per le idee che avevo messo nella sua testa, era morto perché io avevo suggerito di ribellarsi a un uomo che diffondeva la sua dittatura attraverso i suoi fidati soldati. Pencolando, strinsi le braccia del principe, perché anche io avevo bisogno di qualcuno a cui aggrapparmi. Perché anche io ero al limite della soglia di sopportazione.
74
Il broncio infantile sul viso di Jean David divenne perenne. Nessuno parlò di Antar Breel, come se non fosse mai esistito. Io non ero riuscita a sapere neppure dove lo avessero portato o chi lo avesse fatto.
Silenziosa e forte, la rabbia pulsava nelle mie vene con tutta la carica d’odio che provavo per il re dei Bamiy, l’assassino dei miei genitori, il padre di mia madre, il padre di mio zio, che la notte piangeva nel sonno e si stringeva a me.
Pregavo. Pregavo continuamente, chiedevo perdono, pietà, chiedevo di mantenere la sanità mentale e non capivo. Perché la Madre di Dio poteva stare a guardare quello scempio? Perché uno dei parenti più prossimi che hai può ridursi a quello che faceva Belden? Nella sua mente c’era la follia più pura, l’egoismo, la superbia. La sua anima aveva ceduto a qualcosa più grande di noi e i suoi soldati lo veneravano come un dio, senza scomporsi, senza ribattere.
Mi usava come un oggetto; trattava il figlio come se fosse un animale o forse peggio.
I colpi delle loro pistole risuonavano nella mia testa, morte e vita sembravano perdere di senso. Il mondo mi sembrava impazzito. Il mio sangue mi sembrava sporco, colpevole di tradimento, colpevole di omicidio, colpevole di tutto ciò che avveniva nelle terre ghiacciate del Nord.
Fino a che una sera, in uno dei pochi momenti di lucidità - o forse non lo era neanche quello - mentre le mie dita intrecciavano una delle ciocche di Jean David, trassi un profondo respiro e dissi: «Ho un’idea, ma non sono sicura che ti piacerà.»
Sollevò il capo, nonostante non potesse vedermi, poiché ero dietro di lui. «Che idea?»
Osservai la sua capigliatura color dell’ananas, quel nostro piccolo rituale aveva cambiato le cose tra noi, ci aveva reso più intimi, così come avevano fatto il dolore, l’odio e il terrore nel gelo dell’inverno. «Noi non siamo armati e tuo padre di solito ha quattro guardie con sé. Però, ecco, pensavo… lui va quasi tutti i giorni da solo, senza armi, quando è un Lupo.»
La sua mente si fece attenta, sottomessa e impaurita. «E?»
«E pensavo che noi, se ci trasformassimo, saremmo ad armi pari.»
«Cosa stai cercando di dirmi, Shayl’n?»
Lasciai la spazzola sul suo sacco a pelo. «Sto tentando di dirti che abbiamo un modo per fermare tuo padre, se lo vogliamo. Che possiamo e dobbiamo farlo. Io devo farlo. Si tratta solo di attaccarlo quando sarà da solo e senza armi e noi saremo Lupi come lui, non dobbiamo ucciderlo, dobbiamo solo ferirlo in modo che sia fermato.»
Poggiai le mani sulle sue spalle e lui le sfiorò con le dita, allora scesi su di lui e lo abbracciai, poggiando la mia guancia sulla sua e piegando il viso in avanti. “Ti sto chiedendo troppo, vero?”
Strinse le mie braccia e ascoltai i battiti del suo cuore, erano lenti e ritmati. ò molto tempo prima che mi rispondesse. Allentò un po’ la presa, si scostò e poggiò le labbra sul mio collo. “Mi fai paura, gamine.”
“Lo so, perdonami. Posso farlo da sola se non te la senti, ma devi sapere che lo farò. Non ti nasconderò nulla di questo, non voglio che tu lo faccia per forza, voglio che tu lo sappia.”
“E io voglio farlo con te. È un compito che spetta a entrambi. Sì, non mi piace questa idea, non mi piace neanche un po’; tuttavia mi fido di te, so che hai pensato a lungo a un’altra soluzione prima di giungere a questa.” Staccò le labbra dalla mia pelle. «E poi, se finisce la guerra, non posso lasciarti tutti i meriti.» Sussurrò, sforzandosi invano di risultare allegro.
Sorrisi, aprendo le palpebre. Mi voltai un poco a guardarlo. I suoi profondi occhi verdi, dai riflessi grigi, che mi ricordavano il mare metallico di Nuv Monàc, erano tristi. Mi spostai e la mia bocca scese a baciare la sua pelle bianca e liscia della guancia. “Grazie.”
Per chi pensasse che il principe dei Bamiy fosse un codardo, dico che dimostrò molto più coraggio e forza d’animo di quanto io potessi sperare. Non dirò che non fosse mosso da ira e frustrazione, tuttavia non era aduso a combattere, né alla violenza e, in un modo che io non potevo comprendere, era legato a suo padre da un sentimento d’affetto non meno violento di quello dell’odio.
Non lasciai are più di un giorno da quando avevo comunicato a mio zio le mie intenzioni. Speravo di agire sulla scia dell’adrenalina prodotta dalla mia nuova illuminazione e, sebbene sperassi in un minimo di saggezza, pregavo che l’obiettività non venisse a reclamare il suo punto di vista.
Avevamo un uomo sempre alle calcagna, non ricordo più il suo nome. Ricordo solo che era tarchiato e aveva il naso grosso e rubicondo. Non era felice di farci da balia, come faceva notare spesso, ma continuava a farlo, senza mai riporre la sua pistola, che il più delle volte era puntata verso di me e di rado verso Jean David.
Misi in mano il pugnale che avevo rubato a Peter e lo infilai nella manica della giacca, ero certa che non mi sarebbe servito, tuttavia non volevo privarmene, prima di poterlo confermare. Lanciai un’occhiata a Jean David che stava chiedendo con preparata indifferenza dove fosse suo padre a uno dei soldati che era di guardia alla sua tenda. Non se la cavava granché con l’atarassia della sua mente, ma poiché per la maggior parte del tempo provava paura, nessuno ne fu sorpreso. Mi allontanai verso gli alberi che si trovavano a est del nostro accampamento, seguita da Naso Rubicondo.
Dopo qualche istante il principe ci raggiunse. «Possibile che io non possa stare un attimo senza voi due?»
I due uomini si guardarono perplessi.
Guardai oltre le loro spalle, eravamo a un centinaio di metri dalle tende, gli altri erano in grado di percepire sia la nostra presenza che i nostri umori, ed erano le emozioni di Naso Rubicondo a preoccuparmi, non potevo permettermi che provasse paura. «Sai mantenere un segreto?» gli domandai.
Si accigliò. «Che segreto?»
Se non vi siete mai spogliate nude davanti e due uomini allampanati e mentre nevischiava, beh, vi consiglio di non farlo mai. Io lo feci. Lentamente. Naso Rubicondo prima mi puntò l’arma poi la ripose nella fondina come avevo sperato e quando anche il principe aveva il viso rosso come un pomodoro, lo fulminai con lo sguardo perché non stava facendo quello che doveva fare.
Ringraziando il cielo anche lui era un Lupo Grigio e la natura artificiale gli aveva donato un minimo di agilità. Sfilò le armi da fuoco dalle fodere dell’uomo che mi guardava a occhi sgranati e che con gli stessi occhi guardò Jean David, il quale lo colpì in testa con il calcio della semiautomatica, sulla tempia.
Naso Rubicondo crollò a terra. «Oh, mio Dio, l’ho ammazzato.»
«Non l’hai ammazzato», mentii, poiché in realtà non lo sapevo. «Muoviti, spogliati.» Mi finii di togliere i vestiti anche io, questa volta più veloce, e qualche attimo dopo mi ero trasformata. Non guardai Jean David fare altrettanto. Mi piegai sull’uomo e lo annusai. Il suo cuore mi parve battere e tirai un sospiro di sollievo.
Sperai che si svegliasse il più tardi possibile.
Un lupo dal manto marrone e grigio mi guardò. “Di là.”
Lo seguii correndo sulla neve, che iniziava a cadere dalle nuvole basse e grigie più grossa e fitta.
Lui si girava spesso, ma sapevo che se qualcuno fosse stato sulle nostre tracce lo avremmo avvertito molto prima di vederlo. Percorremmo il costone sud di un’altura consci della presenza del re e di quella poco distante della sua guardia del corpo, che ci venne incontro dopo qualche minuto con fare circospetto.
Sapendo che non avrebbe potuto udire le nostre voci in termini umani, lo sorai con affettazione.
I suoi occhi gialli mi fissarono, ignoravo se fosse stupito dalla nostra presenza o dalle mie dimensioni feline, nonostante avessi la mia forma di lupo. “Fermati.”
Mi concentrai sulla sua mente. “Rimani qui e non seguirmi”, ordinai e Jean David fece lo stesso.
Ero conscia, però, che fosse Belden a venire verso di noi.
I miei muscoli si tesero e le mie zampe si arenarono, sprofondando nella neve morbida per qualche centimetro, mentre lui ci fissava, per nulla intimorito. “I figli non ubbidiscono mai”, osservò, abbassando il muso e studiandoci.
Digrignai i denti e abbassai il muso anche io. Ero più grande di lui in quella forma; dovevo saltargli addosso e spezzargli una gamba, sembrava semplice. Solo l’aggressività che volò nell’aria mi avvisò qualche attimo prima che la sua
guardia del corpo stava per saltarmi addosso. Non mi servì a molto, perché piombò sul mio corpo facendomi ruzzolare. Aprii la bocca mostrando le zanne, mentre lui cercava di azzannarmi. Il re con tre i ci raggiunse e mi fu addosso anche lui.
Non avevo considerato di dover combattere con due di loro. Credevo che la sua guardia del corpo lo aspettasse in forma umana da qualche parte con i suoi vestiti e le sue armi, invece era lì e mi stava mordendo una gamba. Scalciai e con i denti cercai di afferrare il suo corpo. Belden affondò le sue zanne sulla mia pelliccia e io lasciai la presa e guaii.
Caddi a terra supina e entrambi mi furono sopra. Con le zampe tentavo di tenere lontano le loro bocche, che latravano e ringhiavano, mentre sangue e neve si mischiarono sul mio pelo. Di nuovo la sua guardia del corpo prese la mia gamba, questa volta riuscì a traarmi con i denti. Con uno scatto mi spostai, mi rotolai e cercai di prenderlo, salendo su di lui con le zampe anteriori. Lo buttai al suolo e strinsi sulla sua gola.
Belden fece lo stesso con me, con le zampe anteriori mi prese, cercando di buttarmi a terra. Lasciai l’altro che rimase disteso, tramortito. Il re saltò via e ringhiando mi fissò, stavo cercando un modo per riuscire a fargli male, lui però mi balzò addosso. Mi sollevai sulle zampe posteriori e ci scontrammo, entrambi con le bocche aperte; una delle due gambe, quella ferita, cedette un poco e dovetti riabbassarmi. Perdevo molto sangue.
Affondai con le zampe nel pelo del re, lui girò su se stesso, ringhiò e guaì quando riuscii a stringere le zanne fin sotto la sua pelle. Mi spinse via. Riprendemmo fiato e di nuovo rotolammo l’uno contro l’altra lasciando macchie di sangue intorno a noi.
Nevicava forte ora e io stavo perdendo davvero troppo sangue. La mente cominciava ad annebbiarsi e il mio corpo reagiva sempre meno. Belden mi scaraventò a terra e con un’unica mossa, schiacciandomi. Aprì la bocca sulla mia gola.
“Sei una sciocca. Pensavi di vincere, solo perché sei più grande?”
“Avrei vinto se fossimo stati io e te.” Non ero sicura che fosse vero, ma lo dissi come se ci credessi.
“Non credo, tesoro. Perché tu non mi avresti ucciso. Io sì. Ma non sei migliore di me, Shayl’n Til. Per i tuoi motivi personali, ti stai facendo usare per una guerra che a parole rifiuti, a fatti non metti in gioco te stessa.”
“Non è vero…” replicai, ansante.
“Lo è; e tu lo sai. Pensaci.”
Non risposi. Le sue zanne nel mio collo facevano male, i miei muscoli non rispondevano. L’aria mi mancava e la tempesta vorticava dentro la mia mente. Guaivo forte, ma avevo la sensazione di voler piangere, piangere come avrei fatto se fossi stata in forma umana. Piangere per tutto ciò che significava morire, per tutto ciò che significava per me; per Dahaljer, per Nilmini e Khaled, per Madre Brìgit e Jean David e per la guerra. E perché la morte mi faceva paura. Non lo negherò mai. E mi faceva paura pensare che Belden Monreau Harvey potesse avere ragione e che io potessi non essere molto migliore di lui. Chiusi gli occhi, mugolando. L’odore di sangue e cane bagnato penetrarono le mie narici.
Poi la presenza del principe si manifestò oltre le mie palpebre. La sua rabbia, l’ostilità, l’aggressività e l’odio. La disperazione e l’amore. Era mio zio e avevo una chiara percezione di tutti i suoi sentimenti. Strappò via suo padre dal mio corpo, ringhiando. “Non ucciderai anche lei. Non davanti a me.”
Ho ricordi confusi di quello che successe in seguito, forse perché la mia mente non era più lucida. Ricordo la lotta tra Jean David di Erdreè e il re dei Bamiy e io che tentavo di tenere le palpebre aperte per vedere. Il principe balzava, affondava, vorticava insieme e contro la tempesta. Provavo paura per lui, nonostante non fosse mai a terra. Sentivo che parlavano, senza riuscire ad afferrare il senso. Non avrei mai potuto immaginare che Jean David fosse tanto agile e caparbio, né che suo padre potesse soccombere sotto di lui.
Ricordo, esclusivamente nella mia mente, la presenza soffusa della sua guardia del corpo che di nuovo attaccava. Ricordo l’arrivo di altri Lupi, che si affollavano nelle immagini buie della mia psiche. Ricordo di aver pensato che avrebbero ucciso Jean David. E ricordo i fiocchi di neve che scendevano pesanti come fossero sassi sul mio muso insanguinato.
Rabbrividii.
PARTE NONA
Call My Name And Save Me From The Dark
75
Quando si diventa dei fantasmi, il corpo diventa una parte di te inesistente, che tuttavia aneli più dell’aria che respiri o per lo meno che respiravi. Il mondo diventa all’improvviso leggero, ovattato, come quando sei nell’acqua, ma senza il peso dell’acqua. È una sensazione nuova, tutto deve essere scoperto e soprattutto bisogna abituarsi a tutto ciò, e non è facile come si potrebbe pensare. Gli oggetti ti sfuggono e in qualche modo anche i pensieri.
Si fanno rapidi, senza barriere. Schizzano via come lampi e con la stessa luminosità attirano la tua attenzione.
Quando la morte si prende gioco di te, bloccandoti a metà nella tua non vita, ti senti perso. Per noi esseri da laboratorio, creati dagli Umani ante’12, deve essere un fatto strano, ma non più di quello per cui siamo nati. Per essere a metà.
Per quanto mi riguarda ero più che a metà, ero divisa in tre.
In quello che era stato il mio sangue, avano tre Razze, il potere di due diverse dinastie e ora aleggiava la mia non vita. Dovevo trovare un nome per quello stato, perché fantasma non mi è mai piaciuto e neanche non morto, poiché in fondo ero morta. Forse si dovrebbe dire non viva, tuttavia mi si accapponava la pelle al pensiero.
La pelle.
Il viso pallido e delicato del principe dei Bamiy entrò nel mio campo visivo. «Ehi, gamine. Ce l’hai fatta a svegliarti.»
Borbottai qualcosa, tirandomi su le coperte.
Si sedette sul letto. «Cosa dici?»
«Dico: si può dire che sono non viva?» ripetei con voce impastata.
Sbatté le palpebre, perplesso. «Assolutamente no. Sei più viva di mia nonna Barenì, nipote.»
«Oh! Non è carino da parte tua, piccolo principe da strapazzo», lo redarguii schiarendo la gola, e lui ridacchiò. «Dimmi solo una cosa: stai bene?»
Si strinse nelle spalle. «Io? Sì, più o meno. Fisicamente sto bene.»
Annuii. «E il prigioniero come sta?»
«Queste sono due cose», replicò serio.
Spostai gli occhi a guardarlo.
Lui strinse i suoi, come a voler leggere dentro di me e io fui costretta ad abbassare i miei. «Sta bene, è qui. Gli hanno tolto l’ingessatura e ora sta facendo fisioterapia. Beh, siamo quello che siamo dopo tutto, sarà una cosa veloce.»
«Grazie», mormorai.
«Shayl’n, ho diverse cose da dirti», continuò. «Come vedi siamo a Nuv Monàc. Hai perso molto sangue, ma ora stai bene e io ho bisogno di parlare con te. Che ne dici di alzarti con calma, vestirti e venirmi a trovare in camera quando sei pronta?»
Sospirai in modo impercettibile. «Va bene.»
Lui si alzò, si piegò su di me, a baciarmi una guancia, e uscì dalla stanza. Io feci tutto ciò che mi aveva detto, con la calma che mi aveva consigliato. Avevo mille domande nella testa e non volevo pensare a nessuna di quelle, non subito.
Lo raggiunsi, dopo aver osservato a lungo tutti i segni sul mio corpo. Il più grande e profondo rimaneva quello degli artigli di Dahaljer, non avevo ancora venti anni allora e quindi non avevo superato la prima trasformazione. A tutt’oggi ammetto di essere felice che il segno più grande su di me sia suo, anche se lui sosteneva che io fossi matta, per questo.
Una guardia del corpo allampanata e cortese mi accompagnò da mio zio e poi ci
lasciò soli a un suo gesto delicato.
Lui era seduto dietro una sorta di scrivania in noce, lucidata e dai ritagli floreali sulle quattro gambe. Rimasi impalata a guardarlo, portava una camicia nera che risaltava la sua pelle chiara.
«Vieni.» Mi fece cenno si sedermi sulla sedia davanti a lui.
Avvertii un senso di imbarazzo, sedendomi, e mi domandai se la nostra intimità, costruita a forza tra la neve, si fosse sciolta.
Spostò il suo computer portatile e poi lo chiuse più volte su se stesso. «Shayl’n, cosa ricordi?»
ai il dito sul bordo del tavolo. «Di cosa?»
«Lo sai di cosa.»
Mi sentii all’improvviso sotto osservazione e lo guardai accigliandomi. «Ricordo che hai attaccato tuo padre, che mi avrebbe uccisa, se tu non lo avessi fatto. Ricordo che hai combattuto a lungo, che… sei stato bravo.»
Cercò di trattenere un sorriso, senza riuscirvi. Poggiò i gomiti sul ripiano e incrociò le dita appoggiandole sulle labbra. Poi le scostò. «Belden è morto.»
Non so che effetto fecero su di me quelle tre parole, ne ero contenta, ma avevano il sapore di un pugno nello stomaco, per motivi a me sconosciuti. Abbassai il volto, aprii la bocca, ma non fui in grado di farne uscire nulla.
«Non è stato per merito mio. Sono arrivati altri Lupi e hanno ucciso la guardia del corpo del re, così io sono riuscito a combattere con lui.»
Deglutii e mi sforzai di guardarlo negli occhi. «Lo hai ucciso tu, vero?»
Liberò le dita e sbatté i polpastrelli di una mano contro l’altra un paio di volte, poi prese una brocca piena d’acqua e la versò in un calice. «Vuoi?» domandò.
Scossi il capo. «Chi è il re adesso?»
Avvicinò il bordo del bicchiere alle labbra. «In teoria, tu.»
Feci un sorriso tirato, per nulla felice e di nuovo scossi il capo, con più vigore. «No.»
«Sei la prima in linea di successione.» Mandò giù l’acqua e poggiò il calice con delicatezza.
Ci fissammo per alcuni istanti, spostai lo sguardo dal suo occhio destro al suo
sinistro e viceversa, mentre lui faceva lo stesso con me, infine voltai la testa a guardare verso la finestra e per la terza volta scossi il capo. «Non posso», dissi. «Non posso e non voglio. Jean David, tu sei cresciuto tutta la vita sapendo che saresti stato tu l’erede al trono, al contrario di me; è un ruolo che ti spetta.»
«Se lo stai facendo per me…»
«Non lo sto facendo per te, lo sto facendo per me!» lo interruppi, più brusca del dovuto. «Davvero», aggiunsi più dolce.
Si allungò sul tavolo e prese la mia mano, portandosela alle labbra, ma senza baciarla; incrociò lo sguardo con il mio e in un attimo tutta la nostra intimità si materializzò di nuovo tra noi. «Va bene. Pensaci.»
Tentai di ribattere, ma mi interruppe.
«Promettimi che ci penserai. Su, Shayl’n, non fare la gamine. Promesso?» Mi lasciò la mano. Si alzò e girando intorno alla scrivania, si inginocchiò accanto a me. «Qualsiasi cosa dovessi decidere, resta con me. Ne ho bisogno. Ho ucciso mio padre e mai, mai nella mia vita avevo pensato a una cosa così grande. Tu hai cambiato tutto. Lungi da me il volerti incolpare di questo, ma rimani a ricordarmi perché l’ho fatto.»
Mi inclinai verso di lui e lo strinsi con le braccia. Lui si lasciò coccolare. Jean David era ciò che avessi di più vicino a un fratello. «Mi dispiace per ciò che hai dovuto are, tesoro», bisbigliai sui suoi capelli profumati.
Lui mi cinse la vita e restammo così per un po’ di tempo fino a che non gli domandai di Tagron Toivainen. Sciolse l’abbraccio e si sollevò sui piedi, meditabondo. Questa volta riempì il calice di vino rosato e si diresse verso la finestra.
«Non sono stato in grado di dare nessun ordine. Ho chiesto al re dei Tiouck un altro armistizio, ma questa volta lui non ha accettato. Mi ha detto che lo avrebbe fatto se fossi sceso a patti con lui, ma non ero sicuro di riuscire ad affrontarlo e così ho lasciato le cose come stavano. Dal fronte dicono che sono tre giorni che le Tigri stanno attaccando. Ora hanno smesso, sai come funzionano queste cose», lo disse così a bassa voce che dovetti concentrarmi per capirlo.
Sapevo come attaccavano le Tigri Bianche, conoscevo i loro tempi, per lo meno, perché Tagron mi aveva sempre nascosto le sue strategie. Mi alzai anche io e presi un bicchiere d’acqua, svuotandolo, quindi lo lasciai sulla scrivania e mi diressi alla seconda finestra della grande camera. Dava sul mare e lo guardai pensierosa.
«Prima di fare qualsiasi cosa dobbiamo eleggere qualcuno come successore. Non possiamo rimanere senza, questa è una delle poche cose che ho imparato.»
Poggiai il palmo della mano sul vetro che era freddo. «Sai come la penso. Non cambierò idea. Puoi eleggerti anche domani, se vuoi. Non so come funzionino certe regole o i preparativi, ma, davvero, per me lo puoi fare anche in questo momento.»
Mi spostai senza staccare la mano dalla finestra, osservai la sua schiena e poi anche lui mi guardò. «Non dirò a Tagron che sei qui, ma mi aiuterai a stipulare con lui i patti?»
«Sì. Forse non sono la persona adatta, tuttavia lo farò. E tra l’altro tra i patti c’è quello di riprendermi Nilmini e Khaled.» Feci un breve pausa. «Eleggiamo te come nuovo re, sentiamo le richieste di Tagron e infine diciamo le nostre. Mi riprendo i due bambini e poi… poi vediamo», cercai di riassumere. «Giusto?»
«Va bene. Spero che le cose vadano così come le hai descritte.»
Morsi l’interno della mia guancia un paio di volte e studiai la mia mano sul vetro. «Jean David, ti dispiace se entro questa sera vado a vedere il prigioniero?»
«È ancora tuo prigioniero? Se lo è mai stato.» Il tono indagatore della sua voce mi fece abbassare il volto sulla gonna che portavo.
«Non credo. Ho bisogno di parlare con lui. Io…», la voce mi tremò, mentre toccavo distrattamente le pieghe della tenda.
«Cos’è per te il Capo Branco delle Tigri?»
Scrutai il suo sguardo per qualche secondo, indecisa su cosa dire. Il futuro re dei Bamiy era più vicino al mio cuore di quanto volessi ammettere.
Mi regalò il suo bel sorriso dolce e dorato. «Lo capisco se non ti fidi di me. Se avessi dovuto vivere la metà delle esperienze che hai vissuto tu, io non mi fiderei più di nessuno. Non importa, Shayl’n, però credo che dovresti nascondere meglio cosa provi per lui.»
«Non ci sono mai riuscita», mormorai.
Si rigirò il bicchiere nelle mani e guardò fuori dalla finestra, verso il tramonto. «Lo posso immaginare. Tuttavia ormai non mi sorprende più nulla di te.»
«È mio marito.»
Si voltò a guardami, inarcando le sopraciglia bionde. «Allora ho appena detto una stupidaggine, questa è una cosa che mi sorprende. È tuo marito! Siete sul serio sposati? Hai solo ventuno anni. »
Mi strinsi appena nelle spalle, facendo una smorfia innocente.
Sorrise incredulo. «No, forse tu non finirai mai di stupirmi, devo accettarlo. Alla tua età sei sposata e per di più con una Tigre Bianca. Il Capo Branco, o quello che è.»
«Se può riconsolarti, mi stupisco da sola di ciò che sono oggi», commentai, tamburellando le dita sul davanzale.
«Lo credo bene. Da quanto vi conoscete?»
«Da poco, se avessimo avuto una vita normale; ma non l’abbiamo avuta.» Feci
una pausa. «È stato lui a rapirmi prima della mia trasformazione, quando avevo diciannove anni. Più o meno alla fine di questo inverno saranno due anni che ci conosciamo, per certi versi, mi sembra ieri, per altri, mi sembra di conoscerlo da una vita, se capisci cosa intendo.»
Sembrò rifletterci sopra. «Forse avrei dovuto innamorarmi di qualcuna per capirlo, ma credo di poter comprendere. Per fortuna gli ho dato una stanza decente, degna del marito di mia nipote», scherzò. «Ora capisco perché ha chiesto così tanto di te e si è lasciato condurre qui, senza obiettare. E quando vi siete sposati?»
«Alla fine dell’estate.» Mi avvicinai un poco verso di lui. «Jean David, il tempo è stato breve, ma la storia è lunga, se hai pazienza di sentirla, te la racconterò.»
I suoi occhi brillarono, incuriositi e infantili. «Non l’hai mai raccontata a nessuno, vero?»
Arrotolai una ciocca di capelli attorno a un dito. «No…»
«Sono contento che tu ti riesca a fidare di me.»
«Tu ti sei fidato di me.»
***
Rapida percorsi il corridoio dell’ala nord del palazzo reale di Nuv Monàc, seguii Jean David nell’ascensore e poi di nuovo lungo un corridoio, fino a superare una porta, che conduceva a delle scale a chiocciola e che giravano all’interno di una torre, dalle pareti lisce e bianche.
«Ho detto che l’ho messo in una bella stanza, non che potevo fidarmi di lui», si giustificò.
Non risposi. Non avevo voglia di discutere con lui della sicurezza di un prigioniero. Avvertivo la presenza di quest’ultimo e guardai impaziente la guardia aprirci prima un cancelletto interno alla torre e poi una porta.
La guardia tornò sui suoi i a un cenno di Jean David, mentre io spalancavo la porta. Lui era al centro della stanza, con l’espressione di chi sta aspettando qualcosa. Stava aspettando me.
Aprì le mani e io saltellai verso di lui come una scolaretta, gettandogli le braccia al collo; lui non esitò neppure per un istante; mi strinse a sé.
«Pensavo che non saresti più tornata», sussurrò nella mia lingua.
«Ovunque e comunque», ribattei, ebbra d’amore.
Mi allontanò un poco e io lo baciai sulle labbra; continuai a schioccare piccoli baci, fino a che lui non mi prese il viso con una mano, in una carezza, poggiò la bocca sulla mia e la dischiuse. Mi baciò dolcemente.
Quando cercò di staccarsi, feci resistenza. “Forse dovresti presentarmi qualcuno, prima di saltarmi addosso”, mi fece notare nella mia mente.
Acconsentii sorridendo e mi voltai a guardare mio zio, fermo sulla porta e per niente imbarazzato, ci osservava con la curiosità dei bambini. «Dahal, lui è il principe Jean David Monreau Harvey, futuro erede al trono.» La Tigre abbozzò un inchino. «E, Jean David, lui è Dahaljer Ahilan Aadre, mio marito.» Non negherò di aver gonfiato il petto nel dirlo.
Le bionde ciglia di Jean David sbatterono, poi si ricordò di fare anche lui un inchino. «In verità, già ci conosciamo», replicò. «Ci siamo visti al fronte, quando era prigioniero di mio padre.»
Dahaljer mi strinse al suo fianco, studiandolo. «Mi perdonerà, altezza, se ricordo solo il volto di mia moglie?» ammise, usando l'arindo.
Il principe fece una smorfia. «Solo perché sua moglie è la più bella donna che io conosca.» Mi lanciò uno sguardo e mi fece l’occhiolino. «Vi aspetto giù.» Quindi si voltò. «Prenda le sue cose, micione», aggiunse sempre nella lingua di Dahaljer, scendendo le scale.
“E quello sarebbe tuo zio?”
Mi sollevai sulle punte dei piedi a baciarlo. «Mi sono affezionata a lui. Trattalo bene.»
“È lui che mi tratta male.”
«Hai iniziato tu, però», gli rammentai, lasciandolo.
Si diresse al suo letto e sollevò i cuscini. «Ho solo detto la verità.» Mi porse qualcosa. «E questo è tuo.»
Aprii la bocca, sconcertata. «Dahal, questo è…», farfugliai.
«Lo vuoi o no?»
Allungai le mani e presi un elefantino di pietra, verde e nero. Era di malachite. Era un dono del Sultano di Nayband. «Perché lo hai tenuto?» chiesi, senza riuscire a mascherare la mia gratitudine.
Si sedette sul materasso e si piegò ad allacciarsi le scarpe. «Mm.» Sembrò imbarazzato. «Giuro che se avessi avuto qualsiasi altra cosa, lo avrei lasciato dov’era. Ma a Nricke, quando ho capito che la situazione si stava mettendo male e ho svuotato il tuo zaino in cerca di qualcosa di tuo, ho trovato solo quello. È graffiato e, beh, l’ho tenuto nella tasca dei pantaloni tutto il tempo, ma te lo cedo volentieri.»
Mi sedetti accanto a lui. «Giuri troppo spesso.»
«Pensi che lo avrei preso lo stesso?» tentò di provocarmi.
«Penso che sono contenta che tu lo abbia fatto.»
ò un braccio sulla mia spalla e mi baciò i capelli. «Mi sei mancata così tanto.»
Piegai il capo sul suo petto, e ne ascoltai i battiti morbidi e regolari. «Anche tu.»
Dahaljer in realtà non aveva nulla con sé, oltre i vestiti, i suoi documenti e l’elefante, che ora era tornato alla sua legittima proprietaria. Io e Jean David spiegammo quale fosse la situazione attuale e la Tigre ascoltò attenta e meditabonda.
Cenammo insieme, davanti agli occhi incuriositi dei servi del re e della signora Barenì e dopo parlammo ancora a lungo, fino a notte fonda. Quando ci apprestammo a ritirarci nelle nostre stanze, il principe aveva già stabilito la data dell’incoronazione e inviato qualche ordine e relativi inviti.
Lasciò le sue guardie del corpo alla fine del corridoio e ci accompagnò alla porta della mia camera. Sulla soglia prese la mia mano e strinse le labbra. «Questa è stata una giornata un po’ lunga», cominciò. «Io, uhm, non lo so, vorrei dirti un sacco di cose, ma in verità non saprei neanche da dove iniziare, sono una frana in questo.» La sua pelle chiara si arrossò. «Io spero, io vorrei…»
Lo attrassi a me e lo abbracciai, affondando il viso nei suoi capelli in parte
sciolti. «Qualsiasi cosa tu voglia dire, la so già», bisbigliai. «Ti voglio bene, pineapple.»
I suoi sentimenti d’affetto scaturirono come piene nella mia mente, lo lasciai e le sue guance rosso vermiglio mi fecero sorridere. Abbassò il mento, ma a suo onore devo dire che lo rialzò quando mi rispose. «Anche io ti voglio bene, gamine.» Si schiarì la voce. «Beh, queste smancerie non fanno per me. Domani mattina avremo un bel po’di cose da fare.» Lanciò un’occhiata a Dahaljer, che lo osservava allegro. «Dunque, sei suo marito, non posso certo dire che non puoi dormire con lei. A ogni modo, uhm, non farle fare troppo tardi.» Di nuovo, con veemenza, arrossì. «Ah, e piacere di averti conosciuto, micione.»
La Tigre si sforzò di non ridere. «Piacere mio, lupacchiotto.»
Il principe inclinò il capo. «Buonanotte.»
«Altezza.» Dahaljer fece un inchino elegante e fluido e mi spinse con una mano dentro la stanza. Chiuse la porta e strabuzzò gli occhi. “Accipicchia, che parenti che hai.”
Camminai all’indietro guardandolo nella sua interezza. «Sai che i miei parenti ormai sono anche i tuoi?»
Scosse il capo. «Non ci provare, il sangue è il tuo.»
«Non puoi tornare indietro», ribattei, sedendomi sul letto a baldacchino e
lisciandomi la gonna di velluto.
Mi guardò a lungo, osservando ogni parte del mio corpo. «E così saresti una monella?» domandò venendo verso di me, lentamente.
«A quanto pare.»
Si sedette accanto a me. «Hai un sacco di cose da raccontarmi, allora.»
«Dahal», mormorai, incrociando il suo sguardo, «ho troppe cose da raccontarti, ho bisogno di farlo e voglio farlo. E vorrei che tu mi raccontassi le tue; tutto ciò che hai da dirmi. Ma stanotte… Dahal, stanotte…»
«Stanotte ci sei solo tu, amore», bisbigliò in iuropìan; e io, ancora una volta nella mia vita, ringraziai la Nostra Signora perché potei ripararmi tra le sue braccia e bearmi di tutto ciò che lui significava per me.
76
La festa per l’incoronazione del nuovo re dei Bamiy fu scevra di esagerazioni. Jean David si sentiva a disagio e non era abituato a essere al centro dell’attenzione in quel modo poiché, nonostante fosse cresciuto da principe, il padre lo aveva sempre tenuto all’ombra.
Tutti sapevano che aveva ucciso Belden e che lo aveva fatto grazie all’aiuto di una donna dal sangue reale di cui, però, si sapeva ben poco. Tutti sapevano anche che era stato aiutato dagli stessi membri del Reparto di Difesa del re, o almeno da una parte di esso.
Dahaljer e io seguimmo la cerimonia dalla televisione, anche se potevamo sentire le musiche e il discorso del re da dove eravamo. Ed eravamo nella stanza di mia madre, a Nuova Auxerre. Nonostante tutti a palazzo sapessero chi fossi e quasi tutti sapessero di avere una Tigre tra le mura, non avevamo desiderio di spargere la voce, né della mia né della sua esistenza.
Il palazzo di Nuova Auxerre, costruito quasi cento anni prima, aveva ricami barocchi e trasudava di oro e pietre preziose. Era assediato da due giorni da giornalisti e curiosi. Li sbirciavo furtiva dalle finestre, mentre Dahaljer si dilettava a sentire le tante versioni che circolavano in televisione della donna leggendaria che aveva aiutato Jean David a uccidere suo padre.
Immagino che quello sia stato uno dei giorni più importanti per mio zio. Agitato e confuso, mi ispirava un forte senso di tenerezza. Due giorni prima, Dahaljer era stato fuori tutta la giornata e io neanche me ne resi conto tanto ero distratta
da Jean David, che provava e riprovava il suo discorso e mi interpellava ogni volta su come fosse la sua voce o il suo sguardo o se le mani fossero nel punto sbagliato. La nonna lo guardava sorridendo dalla sua sedia a rotelle, con l’orgoglio dipinto sul volto.
Per quanto mi riguarda, ricordo quel giorno anche per un altro motivo. Madre Brìgit aveva risposto alla mia lettera. Non sapevo che quando l’allora principe dei Bamiy aveva inviato la mia missiva, l’aveva inserita in un’altra busta dove aveva dato un indirizzo affinché la religiosa potesse rispondere, senza che la lettera venisse persa tra le tante che arrivavano a palazzo.
Era un indirizzo che i reali davano a poche persone e serviva a selezionare i mittenti importanti. Non me lo aveva detto e io non avevo fornito recapiti alla suora; fu per me una totale sorpresa. Mi scrisse di lei, delle suore, dei bambini, di ciò che accadeva alla creche, in realtà non diceva nulla di particolare, eppure osservando la sua scrittura tonda e precisa, mi commossi e provai un forte senso di malinconia.
Accoccolata accanto a Dahaljer, osservavo la neve scendere fuori dalla finestra, tenendo il foglio in mano. Lo avevo tenuto in mano quasi tutto il giorno e avevo letto il suo contenuto ad alta voce più di una volta.
L’ora della cena era ata da diverso tempo e la televisione era spenta già da un’ora. Ascoltavamo le musiche festose che venivano dalla grande sala delle cerimonie, in silenzio. L’orchestra suonava con i violini, poi ava ai bassi e a volte lasciava che qualcuno suonasse da solo la batteria. Jean David adorava la batteria e aveva programmato che ci fossero degli assolo. Fatto che faceva molto ridere mio marito.
Io, invece, ero catturata dalle cornamuse, poiché erano strumenti che non
conoscevo. Dal televisore ne avevo viste due e le sentivo suonare all’unisono, prima piano e poi sempre più veloci.
Dahaljer giocherellava con i miei capelli e io lo guardavo assorta. Avevo una chiara percezione dei suoi sentimenti, come quando eravamo a Màlica, pensavo che fosse la sensazione di vivere di nuovo con lui tutti i giorni. Non mi preoccupai di quel cambiamento, perché pensavo fosse una mia piacevole illusione.
In quel modo ò per noi la festa per l’incoronazione del nuovo re dei Bamiy, che avrebbe dovuto durare due giorni e che, invece, a causa della necessità di scendere a patti con Tagron, fu ridotta a un unico giorno.
Dopo tre giorni, fu di nuovo chiesto l’armistizio e al suo quarto giorno da re dei Bamiy, Jean David della dinastia di Erdreè con il suo consiglio si incontrò, attraverso uno schermo, con il re dei Tiouck e il suo Consiglio Superiore. Era un pomeriggio bigio e dall’aria immobile, Dahaljer rimase in camera nostra, mentre io, nella sala delle conferenze, rimasi fuori dalle telecamere, ascoltando la voce di mio zio paterno e immaginando il suo sorriso mozzafiato.
Tagron Toivainen, dall’alto della sua decennale esperienza, in perfetto bretençal si rivolse al suo rivale con inquietante entusiasmo, complimentandosi con lui per l’incoronazione, la bellissima festa e per aver avuto il coraggio di ribellarsi a suo padre, ottenendo in questo modo la possibilità di mettere fine a quella lunghissima guerra.
“Che faccia da schiaff.”, commentai, infastidita, nella mente di Jean David.
Lui, però, non mi badò. Impacciato e poco aduso sia agli incontri diplomatici, sia a trattare con Tagron, annuiva in continuazione, ripetendo ‘grazie’ e ‘certo’.
“Stai andando benissimo.” Lo rassicurai, vedendo la sua mano tremare su un foglio di carta.
“Perché non finisce mai?”
“Lascialo blaterare, si stancherà di ascoltarsi, prima o poi.”
“E se mi chiede di lasciargli il trono? Che faccio?”
“Ma ti pare? Non fare la testa d’ananas, Jean. Non è tanto stupido. Sarebbe una follia.”
Quando il re delle Tigri Bianche ebbe finito il suo monologo, concluse con un: «Bene, ora prima di salutarci, dovremmo vedere i patti, vero?»
Jean David alzò una mano verso i capelli, come a volerseli toccare, ma fermò il gesto a metà e la riabbassò. «Sì, io e il mio consiglio chiediamo, a nome di tutto il popolo dei Lupi Grigi, la fine del conflitto, a partire da oggi», cantilenò.
“Bravo. Ora deve per forza arrivare al dunque.”
Sentii Tagron sospirare nel suo microfono, a Praha, e prolungare l’attesa della sua risposta. «Come dicevo, sono lieto di questa vostra decisione, tuttavia, poiché eravamo molto vicini alla vittoria e poiché, se volessi potrei arrivare a Nuova Auxerre in brevissimo tempo, per fermarmi e fermare il mio esercito, vorrei stabilire dei compromessi e stabilire degli accordi.»
Il re dei Bamiy non rispose.
Tagron si schiarì la voce e continuò. «Voglio le terre che abbiamo occupato, tutte quelle dove ora sono ancora i miei soldati. Inoltre, desidero la totale indipendenza delle Tigri Bianche dai Lupi Grigi a partire da ora.»
Per un attimo Jean David apparve più sicuro di quanto la sua mente potesse essere. E la sua bellezza apparve ancora più algida. «Sarà fatto.»
«Inoltre, altezza, avrei un altro desiderio da esprimerle: voglio che lei mi consegni Ahilan Aadre.»
A quelle parole trasalii. “Non guardarmi”, lo ammonii, sapendo che tutti gli occhi del consiglio erano già su di me.
Lui si morse un labbro, accigliandosi. Non sapevo cosa dirgli perché non ero in grado di formulare parole che avessero un senso. Lui, per fortuna, tergiversò. «Come sa della sua presenza qui?»
«Me lo ha detto suo padre, altezza. Qualche tempo fa mi contattò dicendo:
‘Toivainen, ho qui tuo figlio in ostaggio; se veniamo a patti, non gli toccherò un capello’. Mi sono fatto una bella risata, gli ho risposto che se gli avesse toccato un solo capello, non sarebbe stato da lui, che poteva fare molto di meglio e poteva tenerselo. Poiché non gli dissi il motivo per cui non lo volevo, mi rispose che lo avrebbe tenuto in vita fino a che non ci avessi ripensato.» Fece una pausa. «Ora ci ho ripensato, lo rivoglio.»
«In cambio di qualcosa, però.» Tentò il re dei Bamiy.
Tagron rise. «Si è già scordato che in cambio sta ottenendo la fine degli attacchi, Harvey?»
Jean David abbassò gli occhi.
«A lei non servirà, me lo consegni. Lei non ha figli e non può capire, ma quando ne avrà, sono certo che questa richiesta le apparirà ovvia.»
“Shayl’n?”
Lanciai un’occhiata al consiglio, che mi stava guardando, in attesa. Deglutii e annuii. “Digli di sì.”
“Coosa?”
“Digli che per te va bene, che in cambio vuoi Nilmini e Khaled, perché suo
figlio lo ha promesso a una persona.”
«Allora?» lo pressò Tagron
«Sto pensando.» “Shayl’n, non è credibile.”
«Cosa c’è da pensare? Per quale motivo tenerselo? Le sarà solo di impiccio e invece così tornerà a casa, non credo che per lei valga così tanto.»
«Non vale granché, in effetti, ma visto che per lei vale molto di più, glielo cederò a una condizione.»
«Ovvero?» Tagron non riuscì a mascherare la sorpresa.
Jean David abbassò gli occhi e poi li rialzò. “Mi devi un favore, Shayl’n.”
“Te ne devo più di uno, a dire il vero.”
«Suo figlio mi ha detto, tempo fa, che aveva promesso a una persona di trovare due bambini di Razza Umana, si chiamano Nilmini e Khaled, e sono in sua custodia.»
«In mia custodia», ripeté assai divertito. «Ah, ha detto così?»
«Sì, mi consegni i bambini e io le consegnerò suo figlio.» Il gelo e la fermezza della sua voce mi stupirono.
Il re dei Tiouck tossì lieve. «E cosa se ne fa dei bambini?»
«Lei che se ne fa di un ex Capo Branco?»
Senza preavviso, nelle casse della sala risuonò la risata ilare di Tagron Toivainen. «Lo ucciderò, ovvio.»
Sussultai.
“Shayl’n?”
Chiusi gli occhi. “Ti ho detto che va bene.”
«Bene, io poi vedrò cosa farne dei bambini, non credo sia un suo problema, altezza.»
«Ah, questa sì che è una risposta degna del suo sangue, stavo iniziando a dubitare del nuovo erede di casa Harvey. Va benissimo, allora. Dobbiamo solo decidere dove e quando per lo scambio.»
«Tra tre giorni a Nuova Auxerre.»
«Oh, no. Decisamente no. Sì, forse ha bisogno di allenamento, altezza.» Ridacchiò in modo infantile. «Scelgo io. Nei pressi di Marienè, poco più a sud, sul mare c’è un castello diroccato. Direi che è il luogo adatto. È una zona degli Umani, mi sembra diplomatico, no? Le manderò le coordinate precise, se per lei e il suo consiglio va bene.»
«Va bene, tra tre giorni. Lo scambio si svolgerà secondo le regole dello scambio tra Razze, già stipulato in altre occasioni.»
«Certamente. Le chiederei solo un'altra cosa. Mandi due uomini con il suo ostaggio e io manderò due uomini con i miei. Non di più.»
Jean David fissò lo schermo attonito. «Va bene. Mi aspetto che lei rispetti le sue stesse regole.»
Con una serie di battute formali, la comunicazione si interruppe. Il consiglio vociò soddisfatto, mentre il re li congedava e, dopo una decina di minuti, quando tutti furono usciti, si voltò a guardarmi, spalancando gli occhi. “Gli consegnerai Dahaljer?”
“No.”
“Ma se ho appena…”
«Jean David», lo interruppi e mi protesi sul tavolo al quale ero rimasta seduta. «Fai in modo che lui non lo sappia, per favore.» Osservai il mio riflesso sul ripiano lucido. «Mi consegnerò io a Tagron.»
«Ma che cosa stai dicendo?»
Alzai gli occhi su di lui. Credo fosse il tono di voce più alto che gli avessi mai udito. «Esattamente ciò che hai sentito. Se glielo avessi detto ora, ci avrebbe chiesti tutti e due. Invece così vado io, al posto suo. Non mi ucciderà, non può farlo e non ha mai tentato di farlo. Le Tigri Bianche hanno una visione diversa dell’assassinio dei reali, e Tagron lo sa. Ha regole improbabili ma ferree.»
Si sedette di fronte a me, di peso. «Tuo marito non ti lascerà andare», osservò.
«Non ho detto che glielo dirò. E non lo farai neanche tu.»
«E cosa pensi di fare? Sparirai nel nulla? Ti rifiuterai di andare con loro? Non sarai neppure armata, quando sarai là. Le regole dello scambio tra Razze prevedono che una Tigre e un Lupo si incontrino prima tra loro, per perquisirsi l’un l’altro, e poi ognuno di loro va a perquisire il resto dei partecipanti allo scambio, compresi gli ostaggi. Nessuno deve avere armi, di nessun tipo.»
«Non intendo attaccare. Prendo i bambini e li mando qui, voglio che siano al sicuro. Solo dopo vedrò come liberarmi di lui. Jean David, te l’ho detto, nessuno mi ucciderà, avrò tempo per gestire la situazione, sono una principessa del sangue anche per le Tigri, me la caverò.»
Scosse la testa. «Sei pazza.»
«Cosa vuoi che faccia, che gli lasci Dahaljer, oppure i bambini? Li ucciderebbe prima di subito e non rischierò che questo avvenga.» Gli presi una mano. «Promettimi che non gli dirai nulla.»
Fece il broncio. «E come glielo spieghi?»
«Gli dirò che tu hai chiesto i bambini e che io andrò a prenderli da sola, perché sono l’unica che non ucciderebbe. Lui non sa che Tagron sa di lui. Jean, per favore, puoi farlo?» lo supplicai.
Si massaggiò le tempie con le dita. «Tu chiedi sempre così tanto a tutti?»
«Sì. Quello che la vita chiede a me.»
77
I tre giorni che mi separavano da Nilmini e Khaled li trascorsi in un mutismo assorto, calibrando ogni sentimento della mia mente e dosando ogni gesto e parola. Jean David invece era distratto e imbarazzato e ci evitava di continuo, tranne quando non poteva farlo, nell’ora del pranzo e della cena. Sua nonna era il nostro punto di incontro: tutti e tre parlavamo con lei, scherzando e fingendo di bisticciare.
Dahaljer era contento e non badò ai miei gesti calcolati. Mi faceva battutine simpatiche a cui cercavo di replicare a tono, senza però riuscire a farmi distrarre. Sosteneva che solo io avevo potuto far finire quella guerra, diceva che aveva ragione quando al tempo di Màlica mi convinceva di quella realtà.
Di tanto in tanto lo scoprivo a fissarmi pensieroso. Una di quelle volte glielo feci notare. «Cosa a per la tua testolina, tesoro?» domandai arruffandogli i capelli.
Esitò qualche secondo, poi sorridendo mi prese per la vita, attirandomi a sé. «Pensavo che questi vestiti da Maria la Sanguinaria ti stanno proprio bene», disse, facendo scorrere un dito sul mio corpetto.
Stava mentendo a proposito di cosa asse nella sua testa, eppure non glielo feci notare. «Oh, mi sto abituando, ma trovo che i jeans siano imbattibili», ribattei. «E i tuoi vestiti, che non ho più? Non li rimpiangi neanche un po’?»
«Oh, quelli li rimpiango tutti i giorni della mia vita.» Mi baciò le labbra. «Inoltre penso che dovresti allenarti con me la mattina, invece di poltrire a letto.»
«Oh, non vorrai che mi metta a fare i piegamenti insieme a te?» replicai liberandomi.
«No. Ma un paio di combattimenti con i pugnali, sì.»
Abbassai il mento e lo sfidai con lo sguardo. «Ci penserò.»
La sera prima dello scambio, Jean David e io gli spiegammo che lui era riuscito a convincere Tagron a farsi consegnare Nilmini e Khaled, e che io sarei andata a prenderli.
Dahaljer non sembrò sorpreso. Annuì meditabondo, piegando distrattamente il tovagliolo sul tavolo. Lui era cresciuto in quell’ambiente e il suo posto era sempre ordinato, come quello di Jean David, non come il mio che non avevo ancora imparato a riporre le posate nel modo corretto. «Non vuoi che venga con te?» chiese dopo parecchio tempo.
Lanciai un’occhiata a mio zio. «Vorrei, ma non credo sia la scelta migliore. A ogni modo, possiamo parlarne dopo?»
In camera ci preparammo per la notte, in silenzio. Entrambi stavamo tenendo a freno le nostre emozioni e lo sapevamo tutti e due. Chiusi la porta del bagno e poi quella dell’anticamera.
Lanciai uno sguardo alla neve che scendeva fuori dalla finestra e raggiunsi il nostro letto a baldacchino, in legno massello.
«Dahal», mi sdraiai accanto a lui. «Se Tagron scopre che sei qui, se ti vede, lui non ci metterà molto a ucciderti. Capisci?»
«Sì.»
«Non posso tornare indietro, io… Amore, si tratta di Nilmini, non posso, non posso proprio.»
Mi cinse le spalle con un braccio. «Lo so.»
Poggiai una mano sul suo petto. «Qualsiasi cosa, qualsiasi cosa succederà, sarò qui, te lo ricordi?»
Una linea verticale si disegnò tra le sue sopracciglia scure, la conoscevo molto bene. «Perché lo stai dicendo?»
Mi sforzai di guardarlo negli occhi. «Ti amo, Dahal.»
«Shay, voglio che tu vada a riprenderla. Lo voglio davvero, sia lei che Khaled e voglio che torni qui da me. Va bene?»
«Sì. Anche io.» Lo attrassi a me e lo baciai.
«Fai l’amore con me stanotte?» domandò a voce bassissima.
«Faccio l’amore con te tutte le notti che vuoi.»
E lui sorrise, anche nella mente.
Le sue dita gentili mi spogliarono, delicate e leggere, agili e flessuose. Le sue labbra seriche si posarono su ogni parte di me e indugiarono a lungo sulla cicatrice che dal mio fianco scendeva sulla pancia, con la forma dei suoi artigli. E anche le mie labbra scesero su ogni parte di lui, senza esitazione, desiderose e decise. Il mio cuore scoppiava d’amore e dolore. Il suo corpo perfetto era l’unico a saziare la mia brama, era l’unica cosa fisica su questo mondo che desideravo come un assetato desidera l’acqua.
«Se Dio ci ha donato quel pizzico di eternità che Gli hai chiesto, sei mia, sarai mia oltre tutti i confini del tempo e dello spazio.» La sua bocca sul mio seno, la mia schiena che si inarcava spingendo il petto verso di lui.
Presi il suo viso tra le mani e i nostri sguardi si legarono tra loro. «Sarò tua, Dahal, sarò tua oltre tutti i confini del tempo e dello spazio. Sarò tua ovunque e comunque, lo sono sempre stata.»
Si spinse dentro di me, facendomi ansimare di piacere.
Mi baciò le guance. «Non essere triste, quando fai l’amore con me», sussurrò. «Le grandi acque non possono spegnere l'amore, né i fiumi travolgerlo», mormorò cintando il o del Cantico dei Cantici che avevo scelto per il nostro matrimonio. «È così, Shay. Per tutta la vita.»
Le mie gambe lo cinsero e lo trattennero. «La vita è troppo breve. Oltre, abbiamo detto oltre, vero?» bisbigliai.
«Sì, oltre.»
Lo sentivo pulsante, nelle mie viscere, tuttavia scese a baciarmi il collo e mi strinse a sé. Mi conosceva bene Ahilan Dahaljer Aadre, sapeva quanto adorassi quel momento, sapeva che potevo perdermi nella nostra unione e che l’amore soffuso del cuore sarebbe scaturito dalla mente come un ruscello dai monti delle Terre del Nord e che come balsamo profumato avrebbe riempito tutto di noi, fino a che non lo avessi supplicato di farmi sua.
I nostri battiti accelerarono insieme, nello stesso modo in cui avevano accelerato insieme le cornamuse durante la festa dell’incoronazione del re. E suonando la nostra sinfonia, il nostro sentimento si sciolse nell’aria, tra le lenzuola calde della camera del palazzo reale della dinastia di Erdreè.
Tra le nostre menti unite.
***
La mattina mi alzai presto, prima che albeggiasse, mi preparai e indossai i vestiti da militare dei Lupi Grigi. Mi piegai ad allacciare gli anfibi, sentendo gli occhi di Dahaljer su di me. Gli diedi le spalle e aprii il cassetto più basso dell’armadio, dove tenevamo le nostre armi. Presi due pugnali d’acciaio e li inserii negli anfibi, quindi presi due automatiche Walther P2000 e le caricai.
«È terribilmente eccitante vedere una donna che prepara le armi», commentò Dahaljer con voce impastata.
Mi voltai a guardarlo, inserendo la sicura e mettendo nella fondina la prima pistola.
«Ma darei la luna, se potessi tornare indietro, a quando non sapevi neanche da che parte afferrarle.»
Rinfoderai anche la seconda e strinsi le labbra.
«Vieni qui», disse con voce dolce e calda.
Lo raggiunsi e mi sedetti su letto prendendogli una mano, che portai alle labbra e baciai. «Vado a fare colazione, dopo mi accompagni all’elicottero?»
Annuì. «Un giorno compro una casa, una di quelle grosse, su tre piani e un bel giardino con tanti fiori, dove non c’è la neve. Non ci faccio entrare neanche un coltello da cucina, ti porto a vivere là.»
Gli accarezzai le dita, sorridendo. «Ma se l’altro giorno dicevi che vuoi allenarti con me con i pugnali, soldato», lo rimbeccai.
«Preferisco quando facciamo la lotta a mani nude.»
«Così, non rischi che ti squarci con qualche bel fendente?»
«Anche.» Chiuse gli occhi. «Vai a fare colazione, principessa, dopo ci vediamo all’elicottero.»
Scesi a mangiare, ma non avevo appetito, così mi alzai da tavola poco dopo. Il sole stava sorgendo e i suoi raggi colorarono di rosso la mia pelle, facendomi provare un brivido che percorse tutta la mia colonna vertebrale.
Quando raggiunsi l’elicottero, i due Lupi e il guidatore erano già arrivati e Jean David parlava con Dahaljer - anche lui portava vestiti da militare - mostrando tutta la sua agitazione. Lo tirai per una manica. «Ehi, zietto, smettila di parlare», lo canzonai con voce squillante.
Lui emise un suono sordo.
Lo guardai con tutta la sicurezza che avevo in corpo e gli baciai una guancia del colore dell'alabastro. “Grazie.”
“Un corno.”
«Ci vediamo stasera, pineapple», mentii. Mi voltai verso Dahaljer; e una morsa improvvisa mi strinse lo stomaco. I suoi occhi azzurri come il cielo al tramonto mi fissarono e io fui costretta ad abbassare i miei. Il suo amore investì ogni parte di me; alzai il viso, sorpresa, tuttavia lui non si scompose.
Poggiò la mano sul mio viso e io poggiai la mia sulla sua, come quando mi aveva baciata la prima volta, sotto la luna piena. «Ovunque e comunque», sussurrò.
Annuii soltanto, poiché temevo di non riuscire a parlare.
Sfiorai le sue labbra con le mie, ma lui le dischiuse e mi baciò; infine mi allontanò da sé. «Vai.»
Salutai lui e Jean David con una mano e salii a bordo dell’elicottero, che si sollevò rumoroso, muovendo l’aria intorno a sé.
Uno dei due Lupi che mi facevano da scorta, Sebastian, mi ricordò le regole dello scambio tra Razze. Annuii, dicendo che avrei lasciato le armi nel aerogiro, e per il resto del viaggio non aggiungemmo altro.
Marienè si trovava parecchio a sud, era una città di confine tra la terra dei Lupi e la Terra degli Uomini e non vi abitava nessuno. La superammo e l’elicottero iniziò ad abbassarsi. Sulle terre verdi di quei posti non c’era la neve e quel
giorno il sole spuntava da dietro piccole nuvolette ovattate, riflettendosi, abbagliante, sul mare e sui laghetti della terra ferma, che si stendevano subito dopo i pendii boscosi.
Sebastian mi indicò un punto in basso e intravidi una costruzione grigio antracite, di pietra e sassi, che si ergeva solitaria su di un’alta scogliera.
«Deve risalire al periodo ante’12», commentò Sebastian.
«Lo credo anche io», convenni, mentre giravamo intorno al rudere.
Uno dei fianchi nord era crollato, così come quelle che dovevano essere state delle torri, tuttavia la costruzione appariva quasi integra e stabile. Mi domandai dove potesse trovarsi quel posto, quando Nuova Eyropa era solo Europa.
Percependo i Lupi in attesa, scrutai a terra e ne intravidi uno, che ci aspettava sul prato verde poco avanti al maniero. Era un soldato/guerriero. L’elicottero girò su se stesso una volta e, lentamente, scese al suolo.
Sebastian mi scavalcò e io inspirai a fondo. Nilmini e Khaled, dovevano essere là da qualche parte. Li dovevo solo stringere e mandare sull’elicottero, il resto avevo tempo per deciderlo.
Ne ero convinta; o fingevo di esserlo.
78
Sebastian scese dall’elicottero e mi fece cenno di fermarmi e togliermi le armi; lo seguii con lo sguardo mentre si avvicinava alla Tigre Bianca che lo attendeva davanti all’entrata del castello. Conoscevo quel soldato, era Layo Luba.
Non lo sapevano, ma entrambi stavano provando una reciproca ostilità. Li osservai scambiarsi qualche parola e perquisirsi a vicenda, quindi entrambi comunicarono con la mente la sicurezza dell’altro. Quella era la parte positiva di non avere legami mentali con il nemico.
Sebastian entrò nel rudere e Layo si diresse verso di noi. Lanciai un’occhiata dietro di me dove avevo lasciato le pistole e i pugnali e con l’altro Lupo gli andai incontro. Sapeva che fossi io, eppure finse stupore nel vedermi.
«Altezza, che piacere. Tagron sarà contento di rivederti.» Mi perquisì, fece lo stesso con l’altro uomo e, senza aggiungere altro, si voltò in direzione del castello. Attesi che Sebastian mi desse il via libera e corsi dietro di lui.
Quando entrai in quella che doveva essere stata la stanza principale del maniero, Tagron sapeva già che fossi io e non Dahaljer. Nello stesso modo in cui sapevo che lui non aveva rispettato i patti ed era venuto, nonostante avesse stabilito lui le regole. Con il re c’era Pasha Klein con il suo viso da bambino; strinsi i denti e lo guardai appena, lui fece altrettanto.
Tagron invece, con la sua altera bellezza, fece un profondo inchino e mi squadrò dall’alto in basso, sornione. «Tu e Ahilan siete diventati una cosa sola?»
Lo guardai negli occhi. «Più di quanto crede.»
«Mi fa piacere, piccioncini. Sapevo di non potermi fidare dei sultani. Quando vi ho venduti, quel bugiardo mi aveva giurato che ti avrebbe regalata al Sultano di Delhi, ma a quanto pare non è andata così. Gli Umani non mantengono mai le promesse e si beffano dei giuramenti. Se non fosse stato per le armi che mi vendeva senza fare domande, avrei ucciso la tua amata Tigre molto tempo prima. Lo ricorderò se ci dovesse essere un’altra occasione, per me, di trattare con lui.»
Nella sala c’era una grossa sedia in pietra bianca. Un tempo doveva aver avuto degli intagli, di cui rimaneva traccia solo su pochi centimetri dello schienale. Ora era liscia e bucherellata. Tagron vi si sedette sopra con fare cerimonioso. «Bel posto ho scelto, vero?» Mi fece cenno di avvicinarmi.
Rimasi accanto ai due Lupi. «Dove sono i bambini?»
«Oh, vai sempre al sodo tu. Allora ti dirò subito che il bambino non c’è, è scappato diverso tempo fa, sarà morto sui ghiacci.» Non stava mentendo maledizione! «Quanto alla bambina, è qui. E visto che volevo assicurarmi la situazione, l’ho messa al sicuro, qui sotto. Molto sotto. Per la precisione si trova in una grotta del castello, da dove, in chissà quale epoca, si accedeva al mare e dove c’è l’alta marea. Io sono uno che va sempre di fretta e volevo essere certo che le cose fossero fatte senza perdere tempo. Tuttavia mi sembra di capire che ne perderò parecchio, perché tu non hai Ahilan con te, vero?»
La domanda era prevedibile e in realtà doveva essere retorica, tuttavia lui rimase in attesa. «No», risposi.
«E allora quali patti stiamo rispettando?»
«I miei.» La mia voce era salda e ne fui lieta. «La bambina in cambio di me, invece che del Capo Branco», chiarii con fermezza.
Tagron mi fissò e io mantenni il suo sguardo. Celò tutti i suoi sentimenti, riflettendo, e io lasciai che si prendesse tutto il tempo per farlo. Infine si voltò e guardò le piccole nuvole bianche nel cielo, oltre le pietre sgretolate di quella che era stata una finestra. «Sarei tentato di dirti di no. Perché posso uccidere lui, ma non te.» Di nuovo mi guardò. «Tuttavia, visto che si tratta di cambiare i patti, te ne farò un altro che mi sembra di gran lunga migliore e ti consiglio di decidere in fretta, se vuoi sbrigarti.» Strinse le palpebre. «Consegnerò la bambina a Jean David e non chiederò di Ahilan, se sarai disposta a darmi un figlio.»
Dischiusi le labbra e questa volta dovetti spostare gli occhi.
Anche Pasha e Layo lo guardarono sorpresi, mentre percepivo l’agitazione della mia scorta. Eravamo tre contro tre, ma solo io, se ci fossimo trasformati, avrei potuto tenergli testa, non eravamo pari. «Perché?» mormorai come una sciocca.
Si strinse nelle spalle. «Mi sembra ovvio: avrei un figlio di sangue reale, per metà Lupo e per metà Tigre, o forse due o tre. Oltre che il tuo bel corpo.» Mostrò il suo splendente sorriso, con affettazione.
Incapace di dire altro, scossi un poco la testa.
«Allora voglio Ahilan, o niente bambina. I patti del nuovo re dei Bamiy a me andavano benissimo. Rispettali, Shayl’n.»
Deglutii. «Devo pensarci», concessi.
Piegò la bocca, sornione. «Lo sapevo, è per questo che Nilmini è già in parte in acqua, a questo punto…» Finse di guardare l’orologio. «La marea sale, tytär. L’acqua è fredda per una bambina; per una bambina Umana, tra l’altro.»
La paura mi attanagliò lo stomaco e serrai le mandibole. Non potevo perdere Nilmini, avevo fatto tanto e non l’avrei lasciata morire ora; avrei dovuto accettare i patti imposti e mandare i Lupi a salvarla. Poi la presenza di alcune Tigri, nelle nostre menti, attirò la nostra attenzione. Ne fummo tutti stupiti, tutti tranne i Lupi, che non potevano sapere, e Pasha.
Conoscevo una delle Tigri, la conoscevo come conoscevo me stessa. Strinsi i pugni, osservando il re dei Tiouck spostarsi in modo impercettibile sul suo trono di pietra.
“Padre, ho un po’ di conti da chiarire con te.” Dahaljer entrò nelle nostre menti. “Ma poiché andiamo tutti di corsa, sarò rapido. Lascia libere Shayl’n e la bambina e mi consegnerò io.”
Scossi di nuovo la testa, con più vigore, come se potesse vedermi.
“Oh, Ahilan, sei sempre stato un romanticone, in fondo”, commentò Tagron, poi incerto domandò: “Puoi sentirmi?”
“No”, risposi io.
“Sì”, rispose Dahaljer. “Sì, Shay, posso sentire entrambi.”
“Come è possibile?” chiesi, senza capire.
“Padre, sai che io e Shayl’n Til ci siamo sposati? Buona parte dei Lupi lo sa e anche parte delle Tigri. Quelli che contano, per così dire.”
Tagron aggrottò la fronte. “Sposati? Sei un infame, l’hai sposata per riacquistare il tuo livello di gerarchia.”
“L’ho sposata per un motivo che tu non puoi capire. E rimandiamo la discussione su chi è infame a un momento più consono”, rispose pacato.
Pencolai sui piedi. Nessuno poteva sapere cosa stessimo dicendo, oltre noi tre. Con la coda dell’occhio vedevo Sebastian muovere le mani a tradire l’ansia che avvertivo nella sua mente. “Dahal, dove sei?” domandai. “Perché non avverto i Lupi con te?”
La sua risposta tardò ad arrivare e appresi di aver appena fatto un grave errore: avevo rivelato a Tagron l’assenza dei suoi nemici. Dahaljer non mi rispose. “Padre, sono pronto a fare un giuramento, ma lascia che Shayl’n vada a prendere Nilmini, adesso.”
“NO!” urlai nelle nostre menti e mossi gli occhi come se potessi vederlo apparire da qualche parte, nonostante sapessi che era a una distanza che lo collocava fuori le mura. “Dahal, no. Per favore.”
“Shay, pensi davvero che ti lascerei andare con lui per sfornargli figli?”
“E tu pensi davvero che ti lascerei morire senza fare nulla?”, protestai.
Tagron si alzò. “Per la dea delle nevi, ragazzi, siete di uno sdolcinato insopportabile!” commentò. “Basta blaterare, sono io che decido cosa mi piace di più.” Mi lanciò un’occhiata maliziosa e si avvicinò a me, senza badare ai Lupi, né a nascondere i suoi sentimenti.
“Toccala e ti ammazzo”, minacciò Dahaljer.
“Non essere melodrammatico, Ahilan.” Con due dita mi sfiorò il mento, restai immobile fissandolo in cagnesco. “A proposito, tua moglie ti aveva fatto una domanda: dove sei? Non hai il coraggio di farti vedere?”
“Lasciala andare e te lo dirò.”
Tagron mi afferrò e mi strinse a sé con le braccia, premendo il viso contro i miei capelli. “Come faccio a sapere che sarà così?”
“Sono pronto a farti un giuramento.”
“No, Dahal, no.” Ero incastrata nell’abbraccio del re e guardavo Pasha e Layo osservarci oltre le sue spalle. Layo era attento e non tradiva nessuna preoccupazione; Pasha, invece, mi guardava perplesso e preoccupato e, per una frazione di secondo, pensai che fosse preoccupato per me.
«Mi spiace non potermela sare con te, tytär», sussurrò nelle mie orecchie il re dei Tiouck. «Ma, vedi, ho un conto in sospeso con tuo marito, e inoltre penso proprio che se scegliessi te, non avrei vita facile.»
Premetti le mani sui suoi fianchi, cercando di allontanarlo, ma lui serrò la presa. «E credi che io, invece, ti permetterei di avere vita facile, se lo uccidessi?» ribattei, gelida.
«Saprò come gestire la situazione, stanne certa», replicò sibillino. “Ahilan, la marea sale, non hai a cuore la sorte della bambina? Fammi il tuo giuramento, figliolo”, concluse con tono mellifluo.
Il cuore pulsava nelle orecchie, gli occhi bruciavano. “No...”
“Giura sui tuoi genitori, su Nalinika e su tua moglie di rispettare i patti, di farti trovare fuori del castello entro cinque minuti e di farti condurre ovunque vorrò,
senza ribellarti. Giuralo a me, Tagron Toivainen, della dinastia Minse di Danubie, re dei Tiouck.”
Battei i pugni contro di lui. “Non lo fare, Dahaljer.” Se avessi comunicato con la bocca, la voce mi si sarebbe incrinata.
“Tagron Toivainen, della dinastia Minse di Danubie, re dei Tiouck, in rispetto del tuo nome, faccio solenne giuramento sui miei genitori, su Nalinika e su mia moglie, di rispettare i patti, di farmi trovare fuori il castello entro cinque minuti e di farmi condurre ovunque tu vorrai, senza ribellarmi. Giuramento valido, se e solo se lascerai Shayl’n Til Lech libera di trovare la bambina, Nilmini Ferrara, con l’aiuto di Pasha Klein e lascerai tornare le due donne e i Lupi a Nuova Auxerre, senza ulteriori disagi.”
“Lo farò.” Tagron mi tirò per i capelli, facendomi piegare la testa all’indietro e poggiò le labbra sul mio collo; mi divincolai, ma lui lasciò la presa su di me tutt’insieme e guardò i Lupi. «Siete liberi di tornare a casa con la ragazza e la bambina.» Si voltò verso Pasha. «Accompagnala giù.»
“Shay, ovunque e comunque. Ti amo.” Dahaljer parlò in persiano, incespicando sulle parole. Non gli risposi neppure.
Dapprima mi mossi lentamente, spostando un piede in avanti, poi la sequenza successiva fu, per contrasto, troppo veloce. Saltai addosso al re, percuotendolo. Con i pugni lo colpii ai fianchi e lui con eleganza e agilità sollevò un gomito, colpendomi la mandibola; i miei denti, stridendo, dovevano aver morso qualcosa nella mia bocca, che si riempì di sangue. Layo ci venne incontro e Sebastian cercò di bloccarlo. Entrambi si trasformarono nello stesso momento e, ruggendo e ringhiando, si scontrarono. L’altro Lupo e Pasha mi strapparono dal re nell’attimo stesso in cui nella stanza entravano tre uomini armati - che non avevo
percepito - uno dei quali sparò alla mia guardia, uccidendola sul colpo e lasciandomi senza fiato.
«Portala dalla bambina», sbraitò Tagron.
Pasha mi tirò via. Scalciai e lui mi attrasse a sé. «Seguimi, Shayl’n, salva Nilmini, ora è più urgente», bisbigliò. «Poi penserai a salvare Ahilan.»
Il re uscì fuori, seguito dagli uomini - che dovevano essere Umani, -mentre Pasha mi afferrava per la vita, trascinandomi dietro un muro e dentro un buco scuro, che si apriva nel pavimento con delle scale scivolose e consumate.
Mi resi conto di non essere in grado di pensare e respirare insieme, e stavo facendo troppa fatica nel tentativo di mandare aria nei polmoni. Quando il ragazzo mi lasciò, all’inizio di un tunnel, mi avventai contro di lui.
Bloccò il mio pugno. «Shayl’n, smettila, sono dalla tua parte.» Cercai di colpirlo con la sinistra. «So che ti sei sposata con il Sultano di Nayband», disse senza riuscire a evitarmi.
«Cosa?» gracchiai incredula.
«Me lo ha detto Ahilan», mi spiegò, massaggiandosi la spalla dove lo avevo colpito. «Perché sapevamo che non ti saresti fidata. Sostiene che non lo sappia nessuno qui, a parte voi due.»
Nel buio lo guardai con circospezione, non mi fidavo di lui, mi aveva già tradita una volta. Ma perché Dahaljer gli aveva detto di Shiire Raja? E perché nel suo giuramento aveva detto che sarei andata con Pasha? «Ti aspetta al tramonto alle Grotte Bianche, verso sud. Non ha intenzione di mantenere il giuramento fatto, ma tu devi andare a prendere Nilmini, è vero che è nell’acqua. Shayl’n, non hai tempo.» Allungò una mano verso di me, ma mi scostai.
«Fammi strada», dissi solo.
Annuì e si voltò. «Il percorso per scendere giù è complicato, poiché non ci sono più le scale e in alcuni punti le mura hanno ceduto. Dobbiamo sbrigarci e fare attenzione.»
Troppi, troppi pensieri.
Lo seguii in silenzio, nei cunicoli sotterranei, poi si fermò e piegandosi tastò il suolo. «Che stai facendo?» Mi insospettii.
Si tirò in piedi e mi porse un pugnale, mentre inseriva una pistola nella sua cintola. «Le avevo lasciate qui per sicurezza, purtroppo è tutto quello che ho.»
Presi l’arma e di nuovo lo seguii a o veloce, fino a che la strada non si fece ripida e scivolosa sotto i piedi, e fummo costretti a tenerci con le mani al muro e a rallentare. L’oscurità si fece totale anche per i nostri occhi non Umani e procedemmo tentoni a piccoli i, poi di nuovo ci trovammo nella semi oscurità. Sentivo il mare infrangersi sulle mura, calmo e monotono e compresi che la marea era già salita di molto.
Il cunicolo si fece orizzontale, poi però si interrompeva e dovevamo saltare per circa un metro e mezzo. Pasha andò avanti e poi si voltò a porgermi una mano. Di nuovo lo ignorai, mi piegai sulle ginocchia e saltai giù. Ero quello che ero, l’altezza non era tanta e non avevo bisogno del suo aiuto; tuttavia non avevo considerato che, sotto, il terreno fosse un accumulo di pietre franate.
Le mie scarpe si appoggiarono su un sasso che schizzò via e io persi l’equilibrio. Pasha mi prese al volo tenendomi dritta.
Ci fissammo per qualche istante. «Va bene, grazie», borbottai, distogliendo lo sguardo.
«Shayl’n, se potessi cambiare quello che ho fatto, lo cambierei», mormorò, senza lasciarmi.
Feci una smorfia. «Pasha, mi sto fidando di te solo perché Ahilan si sta fidando di te», ribattei con voce perentoria. «E io mi fido di lui.»
«Lo so.» Questa volta mi lasciò. «Muoviamoci. Non siamo lontani.»
Lo sapevo poiché sentivo l’acqua rimbombare sulle pareti intorno a noi. «Com’è arrivato qui sotto Tagron?» domandai.
«In barca, con la marea bassa, questa mattina presto.»
Trasalii, pensando che Nilmini era in quel posto dalla mattina. La vidi da lontano, quando ancora il cunicolo non si era aperto sulla grotta, in cui filtrava la luce del sole da molto in alto. L’acqua le arrivava alla vita. Era immobile, con il viso abbassato e i capelli lunghi. Mi si strinse il cuore.
Superai il ragazzo e corsi oltre la fine del tunnel. In quel momento qualcuno sparò, colpendomi le scarpe. Pasha con una mossa rapida, mi nascose dietro di sé e rispose al fuoco. I colpi rimbombarono nella grotta e premetti i palmi sulle orecchie piegandomi dietro il suo corpo, per proteggermi.
I due uomini, due Umani, crollarono a terra e uno dei due finì in acqua con un tonfo. Alzai il viso a guardarlo oltre la spalla di Pasha. Lui lasciò la pistola, che sbatté su una pietra e poi su un’altra.
«Ma che fai?» chiesi brusca.
Ma le sue gambe si piegarono e lui si accasciò. Lo afferrai.
«Pasha!»
Grondando sangue, lui emise un mugolio sommesso. Lo voltai e lo distesi a terra, con le mani tremanti.
«Pasha…», ripetei di nuovo. Dal suo giubbotto usciva sangue. Lo aprii in fretta, sei colpi erano solo sul torace. «Mio Dio», ansimai non sapendo cosa fare. «Non
avevi un giacchetto antiproiettile?» domandai come se fosse ancora importate.
Lui boccheggiò. «Me lo ha dato Tagron… lui… io non… sapevo che… Tu … stai bene?»
Gli occhi mi si velarono di lacrime, prendendo coscienza della situazione. «Pasha, sei un idiota. Perché lo hai fatto?»
Chiuse e riaprì le palpebre come se gli costasse fatica. «Era un ordine.»
«Ma non avevi l’ordine di proteggermi», precisai e premetti le mani su di lui, come se avessi potuto chiudere tutti i buchi e tapparli in quel semplice modo.
Lui poggiò le mani sulle mie. «Mi dispiace. Shayl’n, volevo solo dirti che mi dispiace.»
Scossi la testa. «Piantala. L’ho capito. Ti porto via adesso.»
«No. Prendi… bambina. …rca Tejii, Danka …» La sua voce era troppo flebile. “Vai alle Grotte...”
«Pasha, sei un idiota.» Stavo singhiozzando, ero piena di sangue e lacrime. «Scusami, io… Dispiace anche me. Dispiace anche me. Pasha Klein, hai capito?»
“Sì…”
Lo tirai su e lo abbracciai. «Pasha, mi dispiace. Mi dispiace tanto.» Ma la sua mente non c’era più e le sue mani scivolarono via. «Non puoi morire così, non puoi morire adesso». Lo strinsi ancora più forte. «Ti prego, Pasha… non fare l’idiota». Piangevo, tossivo, le parole uscivano senza senso dalla mia bocca. Mi aggrappai al suo corpo esanime cullandolo e non so più quanto tempo ò. Non so più quante volte Nilmini mi chiamò, disperata, piangendo anche lei.
Quando lo lasciai e mi voltai verso la bambina, l’intero mondo mi sembrava qualcosa di impalpabile. L’acqua era salita di molto e il aggio che avevo visto all’inizio, era sotto l’acqua. Tolsi la giacca e la felpa di mude, poi presi la pistola e tirai fuori il pugnale. La luce entrava da diversi punti e avevo un’idea precisa di dove dovessi are, senza trovarmi del tutto immersa. Entrai nell’acqua, cercando di non scivolare. A fatica, raggiunsi la roccia dove si trovava la bambina. La osservai per qualche istante.
Oggi me ne vergogno, ma in quel momento pensai che fosse una perfetta estranea. I capelli le arrivavano fin sopra le spalle, erano sporchi e infangati. Aveva la pelle schiarita da tanto tempo senza prendere il sole, non era più la bambina paffuta che amavo, aveva le spalle sottili e doveva avere cinque anni e mezzo. Era per lei che Pasha era morto, era per lei che ero arrivata a scendere a patti con Tagron Toivainen.
Provai un vago senso di odio e indugiai sulle corde che la tenevano legata, erano bagnate e ci avrei messo del tempo in più per tagliarle. Tremò. Per me l’acqua era molto fredda; per il suo corpo Umano, doveva essere ghiacciata. Con la lama del pugnale, in silenzio, la liberai. Alzò il viso e i suoi impauriti occhi da cerbiatto mi graffiarono il cuore.
La presi e lei si aggrappò a me. «Shay», mormorò con una voce che non le conoscevo.
«Sono qui», mi sforzai di dire.
Tornai indietro. Il corpo di Pasha era davanti a me, l’acqua mi arrivava sotto il seno e le gomme degli anfibi non avevano presa sulle rocce immerse. Tentavo di tenere l’equilibrio con l’altro braccio e stringevo i denti per non pensare alla ferita che avevo sul piede.
Pensavo che dovevo solo concentrarmi e respirare; che se fossi riuscita a respirare, sarei riuscita a fare tutto. Arrivai dall’altra parte e lasciai Nilmini a terra. Aveva le gambe di un colore opaco. Inginocchiata, con la felpa di mude cercai di asciugarla, sfregandola, e poi le misi la mia giacca. «Ora andiamo via.» La rassicurai a voce bassissima.
Mi alzai, presi il corpo di Pasha e lo trascinai sulle rocce immergendomi di nuovo con lui nell’acqua. Lo guardai in volto, studiando il suo viso da bambino. «Che Nostra Signora interceda per te, ti perdoni e ti protegga, Pasha Klein.» Nel punto più alto, dove la roccia sembrava scendere in profondità, lo spinsi un poco e lo lasciai affondare nell’acqua melmosa e sporca di sangue.
Feci un o indietro, perché quel barato mi metteva paura, tuttavia rimasi a fissare il punto dove era sceso il corpo.
«Grazie, Pasha.»
79
Risalire al castello diroccato fu difficile, tanto per la mente quanto per il corpo. Percepivo la presenza di un solo Lupo ed era lontana, invece non percepivo le Tigri, benché sapessi di avvertire la loro presenza solo se molto vicine. Ignoravo se ci fossero Umani, non sapevo neanche per chi combattessero. In lontananza, però, sentivo ogni tanto degli spari.
Nilmini si stringeva a me con le braccia e con le gambe, ma sentivo che aveva poca forza e la sorreggevo con un braccio. Eravamo bagnate e infreddolite e, se mi era sembrato faticoso scendere, salire con una pallottola nel piede e una bambina a carico, mi apparve spesso impossibile.
Superato il punto più buio, mi fermai. Nella penombra mi sedetti a terra, senza lasciare la bambina, che tenevo sulle gambe, addosso a me. Puzzavamo di melma e salsedine. Tolsi la scarpa e mi guardai la ferita. Non sentivo tanto dolore, ma solo perché l’acqua fredda che mi impregnava calzini e anfibi lo attutiva.
Fissavo il buco del proiettile, quando Nilmini starnutì. La strinsi e la strofinai con le braccia. «Fa freddo, eh?»
Lei annuì con il capo contro di me. «Stiamo tornando a casa? Da Madre Brìgit?»
Strinsi le labbra, ma di nuovo le lacrime riempirono i miei occhi e scesero sulle
guance. Erano così calde. Rimisi la scarpa e mi issai in piedi. Quel viaggio verso l’alto mi sembrò infinito.
Dovevo aver sbagliato strada perché finii in un vicolo cieco. Tornai indietro; seguivo il muro strusciando la mano libera sulla parete. Quando la luce si fece più forte, mi resi conto che non c’erano le scale che avevo fatto all’andata con Pasha, tuttavia proseguii, senza fermarmi e infine uscii fuori.
Tirai un profondo respiro. Nel cielo le nuvole si erano diradate e il sole scivolò su di noi.
Il castello si trovava a una ventina di metri da noi. Sul pendio. Stavo valutando il da farsi quando un Umano ci raggiunse da destra.
Meccanicamente gli puntai contro la pistola, senza neanche sapere se fosse ancora carica. Lui si bloccò di colpo, mentre Nilmini affondava il visino su di me.
Alzò le mani. «Sei Shayl’n Til? Dov’è Pasha? Devo portarti da Tejii Weber. Non mi ammazzare.»
Lo squadrai incerta, aveva un aspetto trasandato, i capelli mossi fino alle spalle. «Posa l’arma a terra.»
«Sono dalla tua parte», cercò di spiegare, risentito.
«Posala!»
Esitò, poi la poggiò a terra. Gli feci cenno di spostarsi e io mi avvicinai all’arma.
Baciai i capelli di Nilmini. «Ti faccio scendere un attimo, poi ti riprendo subito, va bene?»
Lei non rispose e io la feci scivolare a terra, mentre si aggrappava alla mia gamba. Non persi mai di vista l’uomo, infine mi chinai a prendere la sua automatica.
«Dov’è il ragazzo che doveva essere con te?»
«Non c’è più. Perché Tejii ha mandato te qui?» ribattei nella sua lingua, lo iuropìan.
Indicò un punto non ben definito. «Hanno cambiato il posto dove dovevano incontrarsi con voi. Non so bene cosa sia successo, mi ha mandato ad aspettarvi.»
Di nuovo caricai Nilmini sulle braccia. «Vai avanti, ti seguo. E giuro che se mi stai mentendo, ti ammazzo.»
Lui si voltò. «Mm, belle cose da dire davanti a una bambina», borbottò.
Morsi l’interno della guancia, non tanto perché avesse ragione, quanto perché, nella sua breve vita, Nilmini aveva visto e vissuto cose ben peggiori di una semplice minaccia di morte.
Camminai dietro all’uomo per più di mezzora. Quando raggiungemmo un bosco e il sole sparì dietro gli alberi, ero esausta. Avvertivo le Tigri, sapevo chi fossero e fu l’unica cosa che mi fece fare l’ultimo tratto in salita. La roccia di fronte a noi era bianca e su un lato si apriva una rientranza, che doveva essere l’accesso alle grotte. “Se queste sono le Grotte Bianche, perché non ti sento?”
«Vieni», disse l’uomo.
Tejii mi venne incontro. «Shayl’n.» Abbracciò me e la bambina, e il suo corpo caldo mi fece provare un brivido per reazione. «Dov’è Pasha?»
Emisi un singulto involontario.
Lui sciolse l’abbraccio, mi guardò e tolse Nilmini dalle mie braccia. Lei gemette. «Fen, porta due coperte, questa bambina sta per congelare.» Tejii guardò una delle Tigri, che con rapidità sistemò le coperte a terra e poi sulla bambina.
Con la coda dell’occhio intravidi un altro giaciglio e mi voltai. «Danka!»
Lei sollevò il mento in un gesto di saluto. «Altezza.»
Mi avvicinai. «Cosa hai fatto?»
«Oh, un testa di cazzo ha pensato bene di impallinarmi il polpaccio. Ma il signore, laggiù, me l’ha già suturati.» Aveva indicato la tigre che si chiamava Fen e che adesso stava dando qualcosa di fumante a Nilmini. «Alcuni Umani ci hanno attaccato dove dovevamo incontrarci con voi e Pasha, per questo ci siamo dovuti spostare: io avevo bisogno di essere curata e abbiamo lasciato Pedro.» Si riferiva a l’Umano che ci aveva portate da loro.
«Non ho ancora capito con chi stanno gli Umani», commentai, meditabonda.
«Dipende dagli Umani», rispose lei secca.
Tejii mi ò una coperta sulle spalle. «Prendi anche tu un po’ di minestra.»
Scossi il capo. «Non credo di esserne in grado.»
«Vorrà dire che te la ficcheremo in pancia a forza. Sei gelata e ne hai bisogno. E, buon Dio, togliti questi pantaloni di dosso, giuro che non guarderemo.» Osservò la mia scarpa perforata. «Immagino che là ci sia qualcosa da ricucire.»
«Tejii, dov’è Dahaljer?» chiesi di punto in bianco.
«Arriverà», rispose in modo brusco.
Presi il suo braccio, stringendolo con la forza che mi era rimasta. «Pasha è morto.» Lo avevano già compreso tutti, non era necessario che io lo chiarissi ad alta voce.
Tejii fece segno di aver capito con il capo. «Arriverà», ripeté, questa volta in modo più dolce. Mi guidò in un angolo buio della grotta, allungandomi i pantaloni bucati ma asciutti di una vecchia tuta. Poi si voltò. «Cambiati.»
In silenzio, ubbidii; in seguito mi obbligò a mangiare, poi Fen mi estrasse il proiettile e suturò la ferita, disinfettandola e bendandola.
Mi accoccolai accanto a Nilmini che ora dormiva tranquilla, rannicchiata su un fianco. Le accarezzai i capelli, sospirando e avvertendo un frustrante senso di attesa.
Tejii si sedette di fronte a me. «Allora, signora Aadre, vuole raccontarci qualcosa?» Ammiccò.
Sollevai lo sguardo su di lui, poi tornai a osservare la chioma scomposta della bambina, scuotendo la testa. «Credo che sappiate anche troppo. Forse siete voi a dovermi raccontare qualcosa. Da quanto siete qui? Da quanto Dahaljer vi ha detto dei patti? A me non ha detto nulla.»
Sorrise. «Tuo marito non ti ha detto nulla perché ti conosce bene, sapeva che
avresti cercato in tutti i modi di opporti e lui non avrebbe potuto muoversi come credeva. In queste grotte ci troviamo da ieri. Sapevamo che sareste arrivati oggi.»
Un fuoco non molto grande ma allegro scoppiettava in mezzo alla grotta. «Da quanto era in contatto con voi?»
Si grattò la testa, pensieroso. «Una decina di giorni.»
Da poco prima della festa per l’incoronazione, pensai, infastidita. «Come è riuscito a trovarvi?»
Con la testa indicò Danka. «Alcuni Lupi gli hanno raccontato di aver visto una donna tra le Tigri e lui è risalito a Dan e a dove fosse. Ha chiesto al nuovo re di poter andare con due dei Lupi dove era stata avvistata e così è cambiato tutto. Si è presentato all’accampamento, quasi come se nulla fosse. Sentivamo che era lui e non lo avremmo mai attaccato.»
«Che stupida che sono stata», esclamai. «Anche Jean lo sapeva e me lo aveva tenuto nascosto.»
«Non biasimarti. Ha fatto di tutto per tenerti fuori.» Era stata Danka a intervenire.
«Non è riuscito a ingannare Tagron, ma è riuscito a ingannare me. Come facevo a essere così cieca?» domandai più a me stessa che a loro.
«Tagron?» Fen mi guardò da dietro la spalla di Tejii.
Un broncio contrito mi piegò le labbra. «Pasha è morto perché non aveva un giubbetto antiproiettile, mi ha detto che glielo aveva dato il re. Immagino che Toivainen sospettasse qualcosa, se lo ha fatto.»
Sui loro volti si disegnò sorpresa. «Chi glielo ha detto?»
«Chi di voi lo sapeva?»
«Della presenza di Ahilan, solo noi di quell’accampamento», rispose Tejii «sebbene l’aiuto per oggi partisse solo da noi quattro: Danka, Pasha, Fen e io.»
«E Layo?» domandai, accigliandomi.
«Non ne sapeva nulla. Però…» Danka osservò gli altri due. «Ci siamo scordati di Srei, lui è dei nostri.»
«E non è ancora tornato», precisò Fen.
Mi sollevai, puntellandomi su un gomito. «Cosa state dicendo?»
«Che Srei potrebbe averci tradito.»
Spostandomi avevo mosso il corpicino di Nilmini. Lei aprì gli occhi e, mettendosi seduta, li stropicciò. Tossì come se il catarro le avesse invaso tutto l’apparato respiratorio.
«Odio i bambini», commentò Danka.
Nilmini la guardò, piegando gli angoli della bocca verso il basso e girò il capo per guardare gli altri. Doveva essere più cosciente, adesso, di dove si trovasse.
Mi misi a sedere anche io e, prendendola per la vita, l’attirai verso di me. «Ehi, tutto bene?»
Ancora imbronciata, ci pensò su. «Chi sono?» Aveva la voce impastata e lagnosa e mi trattenni dal sospirare.
«Amici.»
«Dove sei stata? Perché mi hai lasciata sola per un sacco di anni?» Si allontanò da me, il viso contorto in una smorfia di dolore che non le conoscevo.
Non avevo mai pensato a quella sua possibile reazione e non ero preparata; aprii e richiusi la bocca, senza riuscire a risponderle.
«Tu sei andata via, tu non mi volevi più», piagnucolò.
«Non è colpa mia.» Mi difesi e dalle mie labbra uscì un tono di voce molto simile al suo. Strinsi un lembo della coperta e mi dissi che avevo ventuno anni e potevo fare di meglio. «Tesoro, è una storia lunga e prima o poi te la racconterò tutta, te lo prometto, ora non posso, ma sappi che non ho mai pensato di non volerti. Mai ti avrei lasciata da sola, se fosse dipeso da me.» Allungai le mani verso di lei, che, però, non si mosse. «Ehi, pulcino, sono qui per te. E anche loro.» Indicai gli altri. «Sono tutti qui per te, perché io dovevo venirti a prendere.»
Lei si voltò a guardarli e Tejii annuì prontamente. Abbassò il viso. «Dov’è Khaled?»
«Non lo so», ammisi. «Ma presto troveremo anche lui.»
Si accigliò ancora di più. «Andiamo a Roma?»
«Sì, molto presto.»
«Tutto ‘presto’», mi fece notare. «E ora? Ora che cosa facciamo? Perché siamo qui?»
Sbattei le palpebre incerta. «Io… noi stiamo aspettando una persona. E appena arriva, andiamo in un bel posto e quando tutto si sistema, andiamo a Roma da
Madre Brìgit e gli altri bambini. Va bene?»
«Chi stai aspettando?» Si piegò in avanti, gattoni.
«Una persona di cui forse non ti ricordi. Si chiama Dahaljer e un sacco di tempo fa l’hai conosciuto anche tu.»
Si tolse i capelli dal viso. «È più importante di me?»
I bambini non si risparmiano mai nessuna domanda. La fissai nella penombra, i suoi occhi erano tutto ciò che ricordavo della bambina che amavo tanto. «È importante quanto te», replicai, sincera.
Non era soddisfatta della risposta e pencolò qualche secondo da destra a sinistra e viceversa. Infine, venne verso di me e si fece prendere in braccio. «Però ora resti con me?»
Inspirai, guardando il viso di Tejii, che ci osservava con la tenerezza negli occhi che gli avevo sempre immaginato. «Sì, pulcino. Ora non ti lascio più.»
Restai in silenzio, cullandola e ascoltando gli altri che riprendevano il discorso che la bambina aveva interrotto. Non giunsero a una conclusione, poiché non sapevano come erano andate le cose e non avevano mai sospettato nulla.
Nilmini si addormentò di nuovo e Tejii mi disse che, dopo la prima richiesta di
armistizio da parte di mio zio, il Consiglio Superiore si era sfaldato. Mi disse che in realtà, già ai tempi in cui ero con loro, le cose non andavano più bene e che quando avevano attaccato i paesi abitati c’era stata una prima rottura. Alcuni dei membri avrebbero lasciato il posto, se questo avesse significato qualcosa.
«E invece?» domandai.
«Invece non sarebbe servito a nulla. Se rimanevano potevano ancora votare e dire la loro, se se ne fossero andati non ci sarebbe stata neanche più questa possibilità. Tagron ne rimpiazzerebbe volentieri qualcuno, ma sono là e non può farlo, sa benissimo che si darebbe la zappa sui piedi. Sono tutti stanchi della guerra, Shay.»
«Oh, era ora», borbottai.
Sorrise. «Pasha diceva sempre che ce lo avevi ripetuto un sacco di volte, sai, che questa guerra era stupida e tutte queste cose qui.» Mi guardò di sottecchi. «Pasha ha fatto un sacco di errori, ma ti voleva bene.»
Distolsi lo sguardo. Non sono certa che in quel momento fossi cosciente della sua morte, mi parve tutto ancora ovattato. «Lo so. È morto per proteggermi, questa mattina, e non so neanche se abbia capito che lo perdonavo. Non volevo che morisse in questo modo, per me.» Poggiai Nilmini sul suo giaciglio e la coprii con le coperte.
«Non è morto per te, è morto perché anche lui era convinto che dovesse finire questa guerra.»
«Sei un bugiardo, Tejii Weber», dissi tirandomi su in piedi e guardando verso l’uscita della grotta.
«Nossignora, non lo sono», replicò, risentito.
Non lo ascoltai e uscii. Il sole era tramontato e il cielo, proprio sopra la mia testa, aveva il colore degli occhi di Dahaljer.
“Dahal, dove sei? Torna da me.”
80
Ero stanca e mi sentivo debole, fuori faceva freddo e la mia ferita pulsava. Mi assopivo qualche minuto e poi all’improvviso mi svegliavo, pensando a Pasha o a Dahaljer, oppure a Nilmini. Quando il buio della notte fu completo, Tejii uscì per dirmi di rientrare.
«Buon Dio! Sei ancora anche una Tigre, lo sentiresti da fuori come da dentro», mi rammentò.
«Tejii, è tardi, forse dovremmo andarlo a cercare», proposi.
Addolcì lo sguardo. «E dove, bambina?»
Scossi il capo. «Non lo so. Siete voi che avete organizzato tutto. Io pensavo solo che, forse… dovrei almeno provare.»
«Lui sa che deve venire qui, se ti sposti come farai a sapere che è arrivato?»
Sotto di noi il paesaggio si disegnava in boschi e prati in maniera confusa, fino a rivelare il mare a sud est. «E se non arriva?»
Sfiorò i miei capelli con una mano. «Vedrai che arriverà e tu ti dimenticherai pure della mia bella faccia. Vieni dentro, vieni a mangiare e a parlare con la bambina. Non posso certo fargli io da bambinaia.» Mi diede un buffetto.
«Tra un po’ vengo», sussurrai, ma non andai e non mangiai. Le stelle si mossero su di me, Nilmini si acciambellò accanto al mio corpo con le sue coperte sporche, e poi rientrò lamentandosi del freddo. Tutti, a turno, mi chiesero di entrare e a tutti risposi che sarei entrata a breve.
Albeggiò e gli uccelli del mattino levarono i loro canti. Il sole spuntò sull’orizzonte e io ancora non avevo chiuso gli occhi. “Dahal, dove sei?”
La paura di non vederlo tornare mi aveva attanagliato lo stomaco tutta la notte e ora non sapevo più se stessi tremando per questo motivo o per il freddo.
Pedro mi portò una tazza piena di un liquido caldo, se mi avesse detto che era acqua e zucchero bollito ci avrei creduto, non aveva altri sapori. La mandai giù piano, senza rifletterci, e mi lasciai scaldare le viscere, che presto, però, tornarono fredde.
Mi ai le dita sugli occhi assonnati e fissai tre uomini in fondo al pendio. All’improvviso li spalancai. «Tejii!» chiamai, mettendomi in piedi in fretta.
Lui si affacciò.
Indicai in basso. «Ci sono degli uomini che stanno venendo. Tu li percepisci? Io
non sento nulla.»
Mi raggiunse e guardò insieme a me aggrottando la fronte. Erano in tre, ma uno di loro era trascinato dagli altri. Una fitta mi colpì la pancia.
«Pedro, vieni fuori per favore.»
Dopo qualche attimo, tutti erano fuori, fatta eccezione di Nilmini. «Santi Numi, quello è Geremia.» A grandi i scese giù e noi lo seguimmo.
Il sangue mi pulsava troppo veloce nelle vene. Non sapevo chi fosse Geremia, né chi fossero gli altri; mi concentrai sull’uomo che trascinavano, ma quando fummo tutti molto vicini, seppi che non era chi speravo.
Tejii prese l’uomo che rantolò tra le sue braccia, mentre gli altri due uomini, con gli occhi cerchiati e rossi, cercavano di spiegare, senza riuscirci. Sembravano in stato confusionale e non parlavano bene l'arindo ichslavo.
Alle grotte mandarono in gola dell’acqua e quello che si chiamava Geremia, con più calma, tentò di spiegare.
«Io non lo so cosa è successo, c’è stato un attacco, ma non so da parte di chi. Dovevo cercare il vostro amico Srei, ma non l’ho trovato. Ci siamo trovati in mezzo al fuoco e al fuoco abbiamo risposto. Non so neanche contro chi.»
«Erano Lupi o Tigri?» domandai in iuropian.
Lui mi squadrò e anche l’altro uomo. «Non lo so», ripeté in arindo. «Pensavo solo che sarei morto. Mi sono riparato in un bosco, poi il POD di Tagron è esploso.»
«Cosa?» La voce mi uscì strozzata.
Strinse le palpebre. «Tu sei Shayl’n Til?»
Tejii sembrò correre ai ripari. «Ragazzi, cosa sapete di come sono cambiate le cose?»
«Cosa sappiamo? Che domanda è? Tutto è cambiato. Tagron non ha seguito la direzione prestabilita, c’è stato uno scontro, Srei non c’era», indicò l’uomo a terra «lui ha battuto la testa e stanotte gli ho ricucito una ferita come meglio potevo, aveva…»
«Voi dovevate prendere Ahilan Aadre?» lo interruppi, non so se in modo brusco, ma lui si accigliò.
La paura che avvertii nelle menti delle Tigri mi agitò ulteriormente e vacillai.
«Dovevamo incontraci con lui e Srei», rispose l’altro uomo di cui oggi non ricordo il nome.
Lo fissai. «E non lo avete fatto?»
«Ha capito cosa abbiamo detto? Srei non c’era e il POD di Tagron è esploso.»
ai la lingua sulle labbra secche. In loro non c’era la minima traccia di sangue di Lupo o Tigre e io non potevo leggere le loro emozioni. «Cosa stai tentando di dire?» La mia voce tremò.
Il silenzio che seguì mi spezzò il cuore prima ancora che mi rispondesse. «Signorina, signora», si corresse. «Sto tentando di dire che non sono bravo con le parole, ma che suo…» Si morse il labbro inferiore, già spaccato da una botta che doveva aver preso. «Sto tentando di dire che suo marito… che suo marito…»
Chiusi gli occhi per frenare le lacrime, senza riuscirci; una voragine mi si aprì nel petto, strappandolo in brandelli. Gemetti.
«Shayl’n…» Tejii mi prese un braccio.
Sbattei le palpebre più volte. «Avete visto il suo corpo?» La domanda uscì soffocata.
Geremia mi fissò, poi distolse lo sguardo. «C’erano dei corpi a terra, erano bruciati.»
Bloccai un singhiozzo. «Hai visto il suo corpo o no?» Sapevo che il suono stridulo che uscì dalla mia bocca non aveva nulla di umano.
«Il POD è esploso», disse come se mi bastasse. «C’erano quattro corpi, signora, ed erano salite quattro persone, tra le quali suo marito. Mi spiace, ma Ahilan Aadre è morto insieme agli altri.»
Non c’era una parte di me che non mi dolesse.
Nonostante Tejii mi stesse sostenendo, le mie gambe cedettero e mi accasciai sulle ginocchia. Tejii e Danka si piegarono su di me, mi coprii il volto con una mano a nascondere lacrime, muco e la smorfia di dolore che mi deformava il viso; ignoravo chi dei due mi stesse stringendo a sé. Credo che qualcuno stesse dicendo che gli dispiaceva, ma udivo solo me stessa che chiamavo il nome di Dahal, in un verso disumano. Sentivo solo la morsa dentro di me che mi squarciava in spasmi lancinanti.
Le parole graffiavano su di me come filo spinato sulla pelle arida, come le spine dei roseti, senza sosta, senza fine.
Neanche le manine di Nilmini e il suo pianto spaventato riuscirono a portarmi fuori dal quel mondo che vorticava, esplodeva, si frantumava in infinite, taglienti parti.
Non c’era nulla, nulla che avesse senso, nulla che avesse un verso; non ero in grado di capire neanche da dove venissero quei singhiozzi che rimbalzavano
dentro di me con un dolore acuto. Non sapevo neppure se era il cuore a farmi così male o la testa o lo stomaco, o qualsiasi altra parte del corpo.
Sapevo che l’aria mi mancava.
Sapevo che non riuscivo più a respirare e stilettate intense laceravano i miei polmoni; la mia bocca cercava ossigeno e io non volevo, non volevo che entrasse.
Non so se sia vero che quando stai per morire la vita ti i tutta davanti. Tuttavia io ebbi tutte le immagini di Dahaljer Ahilan Aadre davanti a me. Tutte.
E seppi che non volevo, per nessun motivo al mondo, vivere senza di lui.
PARTE DECIMA
Mi Fa Vivere E Accende Il Giorno
81
A Santa Idnak nevica di rado.
È terra giovane, poiché la sua valle erbosa è venuta alla luce solo dopo il Grande Terremoto. Piccole case colorate punteggiano il paesaggio e il mare si stende a ovest, verso il tramonto, dove un tempo si trovavano le Americhe. A est si sollevano piccoli monti disabitati e a nord e a sud si allungano i laghetti di Nuova Eyropa.
Santa Idnak è terra di confine. È terra di pace, è terra di mezzosangue. Non è riportata sui libri, perché negli anni del conflitto è stata tenuta nascosta. Un luogo prezioso per chi era in fuga, per chi, discriminato, cercava solo di proseguire la propria vita. La principessa Caroline Monreau Harvey, della dinastia Erdreè, e il principe Maliak Toivainen, della dinastia Minse di Danubie, avrebbero avuto un luogo in cui vivere se avessero saputo dell’esistenza di tale posto.
Sono stati uccisi e nessuno può più dire loro che la primavera, qui, profuma di mimose.
Gli occhi neri e liquidi di Madre Brìgit luccicarono sotto il ciliegio del giardino della nuova creche. «Jean sostiene che le votazioni siano state una prova per tutte le Tigri Bianche e che tu abbia avuto una buona idea.»
Inspirai a fondo, riempiendo le narici del profumo dei fiori.
«Non dici nulla?» insistette prendendo in braccio Beatrice, una bimbetta di due anni dagli occhi grigi e la pelle diafana.
Mi strinsi nelle spalle. «Ha organizzato tutto lui.» Ero seduta su una poltroncina in frassino, tenevo le gambe accavallate e feci oscillare un piede, fingendo spensieratezza.
«L’idea, però, è stata tua», asserì, sicura.
Voltai il capo e osservai l’orfanotrofio di Santa Idnak. Una costruzione lunga, di un solo piano. Era lì da diversi anni, ma nessuno l’aveva usata mai, così Madre Brìgit e le sorelle avevano radunato in quel posto i bambini orfani di Umani, Lupi, Tigri o Mezzosangue. Quasi tutti erano figli della guerra, vittime di soprusi e testimoni di violenze e peccati che l’uomo non dovrebbe mai compiere. Quando Jean David aveva conosciuto Madre Brìgit lo aveva sistemato con lei, usando i soldi della sua dinastia - la nostra. «Non credo di aver avuto molte idee, negli ultimi tempi.»
«Sai che non è vero», ribatté, senza lasciarsi scomporre dal mio tono gelido. «Sei stata tu a decidere di far eleggere il nuovo Consiglio Superiore delle Tigri, sei stata tu a mettere la parola fine al conflitto e a proporre la democrazia per il popolo dei Tiouck. E lo hanno apprezzato in molti, i risultati ne sono la prova. A differenza di te, ho seguito tutta la vicenda in televisione, e ho parlato diverse volte con Sybil al telefono, so cosa pensa la gente. Anche se sei il loro capo solo di nome, ti ammirano tutti. Ed è merito tuo, solo tuo.»
«Non sono il capo di nessuno», replicai atona, ma a voce troppo bassa.
«Smettila di fare così, Batuffolo», protestò. «Il dolore che provi non deve prevalere su quanto di bello c’è in te e su tutto ciò che hai fatto, anche se fa male.»
Gli occhi mi si riempirono di lacrime e dovetti abbassare il viso per nasconderle allo sguardo della religiosa.
«Sei troppo giovane.»
Ero troppo giovane, troppo giovane per cosa? La mia mano strinse il bracciolo della poltroncina.
Lei lasciò scivolare la bambina sul prato e, dandole una piccola pacca sul sedere, le indicò gli altri bambini. Beatrice mise il pollice in bocca e li raggiunse ondeggiando come una paperella. «Shayl’n, io credo che tuo marito volesse…»
«Non voglio parlare di lui», la interruppi brusca.
Allungò una mano e la poggiò sulla mia. «Lo so. Pensavo che fosse giusto così e per tutto questo tempo ho sperato che cambiasse qualcosa. Non dico che avresti dimenticato e non dico che la sofferenza possa già essere minore, perché non sono ati neanche tre mesi, ma quando ti sei alzata da quel letto…» La sua voce tremò. «Pensavo che saresti potuta stare meglio.»
Le sue dita scure mi accarezzarono la pelle e la mia mente ritornò a quei giorni
di totale oblio. Volevo vedere il luogo in cui era avvenuta l’esplosione, eppure fui portata contro la mia volontà di nuovo a Nuova Auxerre, perché c’erano ancora degli scontri. Erano state le Tigri ad attaccare Tagron Toivainen, insieme ad alcuni Umani. Tra le fila dei soldati si era diffusa la voce che la principessa fosse tornata e che volesse la pace, tutto ciò che serviva fare, secondo quanti erano stremati dalla guerra, dalle violenze, dalla morte, dalle notti di freddo ate nelle tende, era uccidere il re e far eleggere la nuova erede.
Non potevano sapere quei soldati. E io non potevo sapere che i miei desideri si erano diffusi in quel modo tra loro. Ma non ava giorno in cui una parte di me si convinceva del mio ruolo, colpevole, nella morte del Capo Branco dei Tiouck. Non mi ero alzata dal letto per più di dieci giorni.
Avevo versato tutte le lacrime del mio corpo e con esse tutta la forza che mi era rimasta; il tempo stillava il mio essere fuori da me. Avevo l’impressione che il mio fisico fosse molliccio e freddo e speravo tutte le sere di non doverlo sentire più come mio. Desideravo solo che sparisse tutto. Chiedevo di lasciarmi sola, incapace di affrontare qualsiasi cosa viva, che mi guardava preoccupata e comionevole. Non era la loro comione a farmi male, non desideravo che fingessero indifferenza o di essere forti per me e non volevo neppure che mi trattassero come se nulla fosse successo. Semplicemente non volevo che mi guardassero.
Mi ricordavano che ero viva. Che ero sopravvissuta a lui.
Mi lasciarono sola. E il silenzio invase la mia camera; il rumore del cuore rimase ad assordare le mie orecchie sofferenti. Bramavo che l’oblio mi prendesse con sé, che mi portasse via da quel dolore che spingeva sul petto senza tregua. Mi avrebbe divorata l’oblio, ne ero certa, ero a un o dalle sue fauci spalancate.
Le sue zanne invitanti furono richiuse con forza dalle mani che aprirono le mie finestre sul giardino interno del palazzo di Nuv Monàc; dalle mani che mi tirarono fuori dalle coperte, facendo forza sul mio corpo fiacco e appiccicoso; dalle mani che pettinarono i miei capelli sporchi e nodosi; che mi nutrirono con delicatezza e ostinazione. Le zanne furono richiuse dalla vocina squillante di Nilmini; la caparbietà di Madre Brìgit; la tenerezza di Tejii; la durezza di Danka; le divertenti figuracce di Ron, che con la sua gamba finta, pretendeva che lo aiutassi; dai bronci scontenti di Jean David, che mi chiedeva cosa dovessi fare del mio regno delle Tigri.
In qualche modo, devo loro la vita.
Ma i graffi sanguinanti e invisibili del cuore sono difficili da curare. Mi rifiutavo di parlare di Dahaljer, mangiavo poco e le lacrime scendevano sulle mie guance senza che io me ne rendessi conto. La neve scendeva copiosa e io stringevo il cuscino su cui mio marito aveva dormito l’ultima volta.
La signora Barenì aveva un fratello, che aveva sposato un’Umana e vivevano a Santa Idnak. È in quel modo che venimmo a conoscenza di quei luoghi. Jean David prese una casa non troppo lontana dal mare e, contro la mia volontà, mi mandò a vivere là con Nilmini, alcuni servi e chiunque volesse stare con me.
Era una casa piuttosto grande e per quanto fossi stata qualche mese nei grandi palazzi reali delle due dinastie a cui appartenevo, non ero abituata ad averne una tutta per me, con tutti quegli spazi. Tuttavia sembravano non bastare: non eravamo mai sole. Jean David sosteneva che l’abitazione di una principessa doveva essere grande e sempre piena di gente, oltre che allegra. Non ero del tutto convinta del suo punto di vista, soprattutto dell’idea che io dovessi vivere come una principessa; lui insisteva, si arrabbiava, finiva per imprecare come facevo io e io finivo per ridere.
Rinacqui a Santa Idnak, giorno dopo giorno, ascoltando il rumore del mare, il fruscio del vento tra gli alberi e le lunghe telefonate del re dei Bamiy. Basandosi sulle mie idee, lui non perse tempo: aveva organizzato, con l’aiuto di Tejii, le elezioni nelle Terre delle Tigri, la nuova creche per i bambini vittime della guerra, e stava studiando un modo per riorganizzare l’economia di Lupi e Umani di Nuova Eyropa, tutto in pochissimo tempo.
Jean David non ha più voluto toccare un’arma in vita sua e a volte, invece di farmi coraggio, si era sciolto in lacrime insieme a me; eppure sa essere puntuale e deciso quando si tratta di stabilire regole e prendere decisioni. Nonostante tutto, in politica e tutto ciò che ne consegue, sa cavarsela molto bene. Lo ammiro per questo.
Nilmini soffriva di insonnia e incubi, almeno quanto me. Spesso dormivamo insieme, bisognose di un contatto fisico e di un abbraccio nel buio della notte. Il momento prima di dormire è maledetto, lo sapevo molto bene. Mi spezzava il cuore ascoltare i gemiti di una bambina così piccola e non osavo immaginare i suoi incubi. A volte me ne parlava e io l’ascoltavo, cingendole le spalle minuscole. Una volta mi chiese se Dahaljer fosse morto per colpa sua.
«Ma no, pulcino, non pensare queste cose, lui…» Mi stavo sforzando di tenere lo sguardo su di lei, rannicchiata sul mio letto a due piazze. «Nessuno è morto per colpa di nessuno.»
«Neanche Pasha?» Sul grande copriletto dai ricami di seta, Nilmini sembrava troppo piccola e il suo sguardo, invece, mi feriva per quanto era adulto. Lo aveva visto morire nella grotta dove era stata legata, mi aveva visto piangere per lui nel suo sangue, e noi eravamo in quella grotta per lei.
Avevo scosso la testa. «Neanche Pasha, amore. Nessuno.»
Madre Brìgit voleva che la mandassi a studiare da loro; al momento stava in casa con me e avevo ancora diversi mesi per pensare ai suoi studi. Sebbene fosse ato parecchio tempo, era ancora molto piccola.
Avevo contattato la famiglia Kristoforos e loro chiamavano spesso. Sybil aveva chiamato una volta in cui in casa c’era Madre Brìgit e per caso avevano iniziato a parlare come vecchie amiche, così, spesso, la moglie del dottore chiamava la suora alla creche e ogni tanto le inviava ciò che poteva servire ai bambini. Nella loro semplicità, i Kristoforos erano ricchi.
Nella biblioteca di Nuova Auxerre avevo trovato un’edizione in iuropìan romanzo della Divina Commedia e l’avevo spedita a Shiire Raja, allegando una lettera nella stessa lingua. Non ricordo quanto dissi di me in quella prima missiva, né so quanto lui potesse già sapere di me: ero una principessa del sangue ed ero sulla bocca di tutti, già prima di essere sui mezzi di comunicazione. Ero certa che non mi avrebbe risposto, sicché fui sorpresa nel vedermi recapitata -più di un mese dopo- una busta con una scrittura elegante e fine, che portava la sua firma. Avremmo potuto entrambi usare il telefono per conversare, tuttavia non lo abbiamo mai fatto; senza accorgercene, abbiamo iniziato una relazione epistolare molto affettuosa. Non credo mi abbia mai perdonata per ciò che ho fatto lui - e non posso biasimarlo per questo - tuttavia lo ha accettato. Le lettere viaggiavano in pochi giorni e la nostra corrispondenza era settimanale. Nella grande sala del piano inferiore della nostra casa, tengo tutt’oggi l’elefantino di malachite. Di Maryām mi disse che era ancora una sua ballerina e che avevo rischiato davvero grosso la sua vita.
Sapevo di apparire solo un poco taciturna a chi non mi conosceva. Ero conscia di quale fosse la realtà del mio stato e lo era anche Madre Brìgit, l’unica persona che avessi mai considerato mamma: non ero molto reattiva, continuavo a rifiutarmi di parlare di Dahaljer, mangiavo un po’ di più, ma negli ultimi tempi avevo sempre la nausea e finivo per rimettere quel poco che mandavo nello stomaco.
Tornai a guardarla, ora. «Mi dispiace», sussurrai.
Scosse la testa, lentamente. «Non è per me che devi dispiacerti. Io non sono un dottore o uno psicologo o qualsiasi altro esperto che potrebbe aiutarti, però penso che forse potrebbe farti bene parlare di lui.»
Strinsi le labbra.
«E anche fare una visita medica, Batuffolo. Non puoi stare male tutti i giorni, o quasi tutti giorni, non è normale e tu lo sai. Dimmi che lo farai.»
«Quale delle due cose?» sussurrai osservando la sua mano sulla mia.
«Entrambe.»
82
Jean David entrò nella sala facendo un inchino morbido e aggraziato. «Principessa», mi salutò.
Ero seduta in modo scomposto a capo tavola, poggiando una guancia su un palmo. Mi limitai a rispondere con un gesto della mano.
“Sei una terribile gamine, Shayl’n Til. Cambierai mai?” criticò con affetto nella mia mente, avvicinandosi.
«Troppa fatica.»
Nilmini scese dalla sua sedia e si fece sollevare dalle sue braccia. «Per fortuna qualcuno meno pigro di te viene ancora a salutarmi.» Strofinò il naso su quello della bambina che gorgogliò allegra.
“Spupazzatela finché te lo permetterà”, replicai.
Si sedette con Nilmini in braccio accanto a me, mentre le sue guardie del corpo rimanevano sulla porta. «Dov’è Tejii?»
«È fuori, da qualche parte con Danka.» Sebbene ufficialmente il loro ruolo fosse quello di guardie del corpo della principessa, molte volte uscivano in forma felina e facevano lunghe camminate a cui, nonostante fossi invitata, non partecipavo mai.
«C’è del tenero tra i due?»
Feci una smorfia. «Dove c’è Danka Kijowski non può esserci del tenero.»
Nilmini saltellò sulle sue gambe e lui le rivolse il suo dolce sorriso. «Non ti piace proprio?»
Tamburellai con le dita sulla tavola. «È un bravo soldato ed è fedele ai suoi ideali di giustizia, guerra e onore. O forse era solo fedele a Dahaljer.»
Jean David ignorò i miei sottintesi. «Ho appreso», tentennò, «che sei tornata a parlare di lui.»
Distolsi lo sguardo, percependo chiaramente il suo stato d’ansia. «Perché tutti sapete sempre tutto di me?» Cercai di scherzare.
Lui arrossì in imbarazzo e tentò di dissimulare con un colpo di tosse. «Oh, questo è il prezzo del successo.» Nonostante tutto, aveva imparato a rispondermi a tono.
“Credo che il successo di cui parli tu sia una cazzata”, sentenziai indecisa se essere seria o meno.
Lui mi lanciò un’occhiata e poi tornò a giocare con le guance della bambina. “Oh, mi mancava sentirti fare uso di qualche colorita parolaccia. Il tuo forbito linguaggio è balsamo per le mie orecchie.”
“Fottiti, oh, mio re!” Gli sorrisi. «Quale onorevole motivo vi ha spinto al nostro accogliente e dolce focolare, altezza?» lo canzonai.
Lui si rivolse a Nilmini. «Ho la vaga impressione che la principessa non mi voglia qui, tu che dici?»
Lei strinse le manine sulle guance di lui, obbligandolo a fare la bocca da pesce. «Lei ti vuole sempre qui. Solo che voi volete sempre che risponda alle vostre domande e che sorrida sempre, sempre a tutti.»
Jean David e io ci guardammo e scoppiammo a ridere. «Oh, abbiamo la Bocca della Verità, in questa casa», commentai.
«Che cos’è la Bocca della Verità, Shay?»
Le accarezzai la testa scompigliandole i capelli. «Appena ho tempo cerco un libro dove ci sono le figure di Roma ante ‘12 e te lo faccio vedere.»
Lei si strinse nelle spalle, poco interessata.
«Quanto a te, potrei sapere per quale motivo il re ha lasciato il gelo di Nuova Auxerre per recarsi in casa mia? E soprattutto, quanto si intratterrà?»
«Credo di rimanere tre o quattro giorni. Voglio vedere se alla creche della Madre sono arrivate tutte le provviste che ho inviato qualche giorno fa, e come se la cavano i bambini.»
«Credo stia andando tutto per il verso giusto, anche i medici sono soddisfatti della loro salute. Alcuni di loro ci metteranno molto a superare alcune ferite, lo sai, soprattutto quelle dell’anima. Tuttavia sono seguiti, io credo che se la caveranno.»
«E tu? Te la caverai?» Gli occhi verdi di Jean David mi scrutarono.
La mia risposta ci mise alcuni minuti ad arrivare. Nilmini prese le nostre mani e le unì, analizzando i diversi colori della pelle. «Io… mi manca», sussurrai. «È che io… Io non posso credere che non lo rivedrò più. Fa male e a volte spero che arrivi qui, che bussi alla porta e mi dica che è stato tutto un malinteso, che lui…» la voce mi si incrinò.
«Lo so, Shayl’n.» Il re strinse al petto la bambina. «Tutto quello che abbiamo vissuto ha dell’incredibile. Io spero tutte le mattine di non aver fatto ciò che ho fatto. So che non potevo evitarlo, me ne rendo conto, prima o poi sarebbe successo: o noi o lui. Farci i conti è un’altra cosa.»
Annuii. «Sì. Però… Non lo so, Jean, forse non sarebbe cambiato nulla, ma se solo avessi visto il suo corpo. Invece…» La frase mi si spezzò il gola.
«Non potevi andare lì, gamine, e tu lo sai. Non solo perché il corpo sarebbe stato irriconoscibile, ma ti saresti trovata in mezzo ai conflitti. Sarebbe stato inutile.»
Non risposi. Il re aveva ragione.
Da quel momento e per tutto il periodo di tempo in cui io ero stata assalita dall’oblio della morte di Dahaljer, le Tigri Bianche avevano portato avanti una guerra civile priva di qualsiasi strategia.
Non avevano nessuno a guidarli, Tagron Toivainen era morto e i soldati si erano divisi tra coloro che credevano ancora nella lotta contro la repressione Tiouck e coloro che, invece, volevano solo mettere fine a quelle battaglie durate troppo a lungo. Anche nelle città vi erano stati diversi scontri e il Consiglio Superiore si era trovato spaesato e incapace di gestire la situazione.
Le Tigri Bianche non lo sanno, ma era stato il re dei Lupi Grigi, Jean David Monreau Harvey, della dinastia Erdreè, a ristabilire la loro situazione prima che scoppiasse del tutto. Lo aveva fatto attraverso di me, tuttavia era lui il vero artefice.
Spero che un giorno saranno riconoscenti.
Al momento, le Tigri sono riconoscenti a me, perché ho dato al loro popolo la
democrazia e la fine dei conflitti. Molti di loro, però, temono ancora i Lupi e i loro attacchi, e non si fidano del figlio di Belden. Anche per loro, per molti di loro, è ato troppo poco tempo e la strada per una vera pace è ancora lunga. Inoltre, alcuni dubitano anche della loro principessa, come forse è giusto che sia.
Sono arrivata dal nulla, circa due anni fa, e su di me circolano più storie inventate che reali.
Ero una Mezzosangue, non ero né Umana, né Lupo, né Tigre, il potere della mia mente e del mio sangue tuttavia aveva un significato che poteva spaventare. Come potevo biasimarli? Io non mi ero sentita né carne né pesce per tanto tempo. Era stato mio zio, Jean David, a farmi vedere la mia essenza in modo diverso. Era stato lui a dirmi che avevo un di più di tutto, invece che un di meno di tutto.
Avevo qualcosa di ognuna di quelle Razze.
Ora lui mi guardava di sottecchi, mentre nella sua mente avano ansia, sottomissione e curiosità.
«Che c’è?» domandai.
Lui e la bambina si fecero le boccacce. “Come stai? Fisicamente, intendo.”
“Bene”, risposi, laconica.
“Tutto? Voglio dire le ferite, le cicatrici…”
“Sono quello che sono, pineapple. Sono guarita prima di quanto io potessi immaginare. Forse prima di quanto io volessi.”
Sollevò le braccia di Nilmini facendole il solletico e lei ridacchiò, cercando di fare altrettanto. “Però mangi poco, non ti piace nulla e hai sempre la nausea”, sintetizzò.
ai il dito sul bordo del bicchiere. “E tu mi snervi parecchio.”
Mi lanciò un’occhiataccia. “Quando ti farai vedere da un medico?”
“Quando mi andrà, se mi andrà.”
Nilmini scivolò a terra e rise sguaiata, mentre lui su di lei continuava a solleticarla. Sembravano avere la stessa età. In modo poco decoroso per un re di una dinastia secolare, si ruzzolò sul pavimento con la bambina e alla fine furono entrambi senza fiato e piangevano dalle risate.
Li osservai pervasa da un’improvvisa carica d’affetto. Erano come fratelli per me. Eravamo uno strano branco, noi.
Jean David recuperò l’aria e attrasse Nilmini a sé, abbracciandola con dolcezza, quindi mi guardò. “Quando è stata l’ultima volta che sei stata male?”
“Stamattina”, ammisi.
“Shayl’n, per favore, vai da un medico. Guarda come ti sei deperita. Finirai per non reggerti più sulle tue gambe, diventerai un mucchio d’ossa e io non voglio una nipote che assomigli a un mucchio d’ossa.”
“Se è per questo, tu non volevi una nipote.”
Fece un broncio e incurvò le sue chiarissime sopracciglia, mettendosi a sedere. «Nilmini, vero che verrai a vivere con me, se Shayl’n Til non andrà da un medico?»
Lei sbatté le palpebre.
«Questo è un ricatto!» sbottai.
«No, questo è l’unico modo che mi lasci per dirti che devi farti vedere da un dottore. Ce ne sono tanti qui a Santa Idnak e non puoi continuare a far finta di stare bene. Ti accompagno io se vuoi, oppure vai con Madre Brìgit o da sola, come preferisci. Se vuoi mando qui Darie Menlue, ma ti prego, dimmi che lo farai.»
Lo guardai in cagnesco, trasmettendo tutta la mia ostilità verso di lui, che mi rispose con mente pacata e per nulla sottomessa. Nilmini spostò lo sguardo da me a lui e viceversa, senza capire. «Se mi stai obbligando lo farò, altezza.» Mi
alzai da tavola, intenzionata ad andarmene.
«Smettila di fare la gamine; lo farai perché devi guarire, non perché ti sto obbligando», rispose deciso. «E grazie per avermi risposto a tono, sono contento.» Nei suoi sentimenti ò un reale stato di allegria.
«Cosa?» domandai.
«Beh, qualche giorno fa avresti semplicemente evitato di rispondermi. Invece questa è la Shayl’n che conosco.»
Sollevai un piede e lo schiacciai sul pavimento. “Vaffanculo, Jean David Monreau Harvey, o come diavolo ti chiami”, replicai scocciata. Poi lo lasciai e uscii dalla stanza.
“Con piacere, Shayl’n Til Lech Aadre Toivainen Monreau Harvey, o… come diavolo ti chiami.”
***
La nostra casa era molto vicina al mare. Si accedeva alla spiaggia percorrendo un sentiero tra i pini prima e le palme di Cocco Giallo poi.
All’inizio della primavera l’aria era mite e, nelle giornate senza vento, potevo indossare un vestito con una semplice giacca sopra. Ero vestita in quel modo,
mentre guardavo Nilmini Ferrara rincorrersi con Sophia Kristoforos.
La sua famiglia era venuta a trovarmi da qualche giorno e, nonostante i ricordi dolorosi, ero stata bene. Sybil si era sentita subito a casa e, ondeggiando sui suoi fianchi larghi, aveva trovato molte cose da cucire per me e Nilmini. Il marito, gentile e discreto come sempre, aveva chiacchierato molto per togliermi da qualsiasi imbarazzo; infine aveva arricciato il suo naso schiacciato e aveva detto: «Shayl’n, so che non stai ancora molto bene.»
Avevo sbattuto le palpebre due volte. In realtà, sapevo che Madre Brìgit ne aveva parlato sia con lui che con Sybil, quando chiamavano a casa o alla creche, tuttavia mi metteva a disagio.
«Se vuoi parlarmi di cosa ti senti», aveva continuato, «ti ascolterò volentieri; se pensi di esserne in grado. Prometto di farlo gratis.»
La risata cristallina che era uscita dalla mia bocca aveva sorpreso anche me stessa. «Sì, credo quasi di esserne capace. Ma, la prego, non mi dica che farà gratis anche questo. Ho già diversi debiti da pagarle. Mi prometta, invece, di accettare tutto quello che ho da offrire come legittima erede di ben due dinastie e mi prometta soprattutto di avere un po’ di pazienza con me, dottore.»
Lui aveva annuito. «E se all’ospedale di Santa Idnak mi permettessero di usare le loro strumentazioni, potresti permettermi di farti visitare da me e farti fare una visita completa?»
«All’ospedale non credo facciano entrare il primo arrivato.»
Un sorriso sornione gli aveva illuminato il volto. «Il re dei Lupi Grigi sostiene di avere il permesso di farmi entrare in qualsiasi ospedale io voglia, se è per visitarti.»
Avevo alzato gli occhi al cielo, ma senza alterare il mio buon umore. «Vedo che continuano tutti a tramare dietro di me, a mia insaputa. Va bene, Nikolaos, se non sarà doloroso e se sarà ancora più paziente con me.»
Ero entrata in ospedale con lui il giorno dopo; la mattina, molto presto, avevamo preso un POD meglev, poiché a Santa Idnak nessuno usa le automobili e non vi sono elicotteri; ero rimasta in un’unica stanza e a lungo avevo parlato di quello che sentivo. Avevo lasciato il sangue, le urine e fatto diverse ecografie. Non era un ospedale della Terra delle Tigri, aveva una tecnologia che risaliva a prima del Grande Terremoto, ma il dottore non se ne lamentò. Dopo pranzo ero tornata a casa solo con una guardia del corpo, a piedi. Kristoforos era rimasto a fare gli esami e mi aveva lasciata con animo pacato, nonostante stesse nascondendo qualcosa che non potevo afferrare. Mi dissi che non poteva essere nulla di grave, vista la calma delle sue emozioni e mi convinsi a rimanere tranquilla.
Seguii con lo sguardo la corsa veloce delle due bambine, che avevo portato in riva al mare, mentre Sybil riposava, e sorrisi sentendole ridacchiare. Mi sedetti sulla sabbia e abbracciandomi le ginocchia le osservai a lungo, fino a che Sophia non iniziò a canticchiare, ricordandomi quando aveva cantato l’Ave Maria al nostro matrimonio.
Il mio cuore perse un battito e strinsi più forte le gambe, piegando il corpo in avanti, come se mi avessero colpita nello stomaco, come il vento gelido che inesorabile piega i fili d'erba.
“Mio Dio, Dahal. Quanto fa male. Fa troppo, troppo male. Come faccio senza di te?” Fissai lo sguardo sul riflesso del sole sul mare. “Posso ascoltare l’Ave Maria senza pensare a te che ripeti le parole del Cantico dei Cantici? A te che parli di continuo nella mia mente, invece di farmi ascoltare il sacerdote? Non posso. Non è possibile. Non posso guardare il mare e non pensare a Màlica, a te che fai l’amore con me nell’acqua trasparente, nella tenda sulla neve. Non posso pensare a te che fai l’amore con me con i tuoi occhi che brillano come zaffiri, senza che il cuore mi si spezzi. Torna, torna da me.
Mi manchi. Mi manchi più dell’aria.
Non ce la faccio. Non ho più nulla, non mi hai lasciato nulla. E io volevo di più, lo sapevi, lo hai sempre saputo, eppure non chiedevo niente di impossibile. Perché te ne sei andato? Perché mi hai lasciata da sola con tutti i nostri ricordi? Fanno così male. La tua risata profonda, le tue armi pronte a difendermi, le tue zanne che mi trascinano nel deserto, le tue labbra su di me… La strada per Sania, Màlica, Praha, Ammanir, Bursa, Nuv Monàc, Nuova Auxerre, la sabbia, la neve, la giungla. Dove sei?
Se solo ci fosse un posto dove raggiungerti. Questo è l’inferno, il mio inferno senza di te, dove posso impazzire. Vedi, alla fine sei tu che hai fatto impazzire me… Non mi basta, amore, lo sai. Ma tu non ci sei e io devo lasciarti andare. Lasciarti oltre la guerra, oltre il freddo che congela le dita, oltre il caldo che mi scioglie. Oltre le Terre dei Lupi Grigi e delle Tigri Bianche. Lasciarti oltre Marienè. Posso farlo, capitano, posso farlo. Ma qui, nel cuore e nella mente, ci sarà ogni parte di te. L’eternità non ha confini.
Oltre, Dahal, abbiamo detto oltre, vero? Ovunque e comunque.”
Asciugai le lacrime in fretta, tirando su con il naso e percependo la presenza di
Nikolaos Kristoforos venire presso la spiaggia. Avevo le mani piene di sabbia e mi sporcai il viso. Espirai e lanciai un’occhiata alle bambine, distese a terra, mentre con le manine indicavano le nuvole rosate sopra le nostre teste.
Era ato diverso tempo, il sole era basso e grande sull’orizzonte; tirai un profondo sospiro, cercando di ristabilire il controllo delle emozioni e mi sforzai di respirare a bocca aperta.
Il dottore si sedette accanto a me, incurante dei minuscoli granelli che gli sporcavano i vestiti. Non lo guardai: benché fossi certa di aver quanto meno celato i sentimenti, non ero altrettanto certa che i miei occhi potessero fare altrettanto.
«Sembra che vadano d’accordo», esordì guardando Nilmini e la figlia davanti a noi.
«Sì, credo sia così. Hanno giocato tutto il pomeriggio.»
«Oh, se è per questo hanno giocato anche tutto ieri e tutto l’altro ieri. Sophia è figlia unica e quando si trova in compagnia non perde tempo a fare altro.»
Voltai un poco il viso verso di lui. «Non volevate darle dei fratelli?» domandai.
«Sybil e io pensavamo di adottare un bambino di queste zone. Jean David dice di aver pensato ad aprire le adozioni anche tra diverse Razze, ma sostiene che al momento sia ancora troppo presto per vedere dei cambiamenti così radicali.»
«Credo abbia ragione, ma credo anche che voi potreste essere quel cambiamento che lui si aspetta.»
Abbassò il mento e sorrise. «Speriamo.»
Restammo in silenzio, poi la sua mente si fece attenta, pur rimanendo sottomessa e tranquilla. «Cosa c’è?» bisbigliai.
«Ho bisogno di un paio di giorni per finire di controllare le tue analisi», disse un po’ incerto. «Però ho dell’altro da dirti, Shayl’n Til.»
Osservavo il sole rosso sul pelo dell’acqua e con la coda dell’occhio vidi Nikolaos sorridere.
«Nell’insieme il tuo corpo sta bene. Sta molto bene, più di quanto tu creda, o di quanto credano le persone che si stanno tanto preoccupando per te; però… credo che dovresti iniziare a mangiare molto di più, a mangiare almeno per due.»
Feci un gesto di disapprovazione con la mano, che lui ignorò.
«Vedi, negli ultimi tempi il tuo corpo ha subito profondi cambiamenti, ha sopportato sbalzi notevoli di temperature, privazioni piuttosto importati, e ha dovuto tenere fronte a ingenti perdite di sangue e tantissime ferite, oltre al forte stress psicologico. Di certo lo sai meglio di me, ma forse lo hai lasciato un po’ andare e non lo hai più controllato come avresti dovuto, perdendo il suo ritmo.»
Mi guardò. «Da una prima analisi il tuo corpo risulta identico a quello di un umano geneticamente modificato e per questo presenta tutti gli aspetti dei Lupi e delle Tigri. Tuttavia… il tuo apparato riproduttore è tipico di quello degli Umani.»
Mi guardai le punte dei piedi che uscivano da sotto la sabbia bianca e fine. «Ehm, io non credo; è che, vede, io e Dahaljer… già un sacco di volte… beh, noi…»
«Shayl’n, sei incinta.»
Rimasi in silenzio e deglutii. Uno spicchio di sole scivolava sull’orizzonte, sul mare che si srotolava ozioso sulla battigia liscia. “È questo che mi hai lasciato, amore?”
«Sei già alla tredicesima settimana, tesoro.» Nonostante fosse all’apparenza poco agile, era una Tigre, e si alzò con un'unica mossa flessuosa, poi mi accarezzò i capelli. «Chiamo le bambine. Rimani qui quanto vuoi. Ti aspettiamo per cena.»
Li ascoltai allontanarsi spensierati. La voce di Nilmini che rideva, risuonando in un’eco allegra nella mia mente, e il sole che spariva e tingeva il mondo di rosso, mentre la mia mano scivolava sul ventre.
Sollevai il viso a guardare il blu intenso del cielo al tramonto dipingersi sopra di me. “Ovunque e comunque, vero, Dahal?”
Postfazione
'Cos I'm Counting On A New Beginning
Tejii e Danka mi seguono in silenzio nello studio e dopo circa una quindicina di minuti entrano nella stanza due guardie con Stefano Vasileo. Lui accenna a un inchino imbarazzato e incerto. Ha il copri abito, la sacca a tracolla e le scarpe bagnati; gli stivali hanno lasciato del fango umido sul pavimento in marmo rosa.
Lui segue il mio sguardo. «Oh, mi scusi», balbetta in bretençal.
Tengo le braccia incrociate e scuoto appena la testa. «Signor Vasileo, se è uno scherzo potrebbe finire molto male.»
È una minaccia assai vana, tuttavia lui indietreggia e corruga la fronte. «Signora… altezza, se fosse uno scherzo, non sarei venuto in casa di Lupi o Tigri o quello che c’è qua dentro.»
Mi pare un ragionamento logico. «Cosa ha di mio marito e come fa a sapere che è suo?»
Stefano apre la sacca, o almeno ci prova. Tejii e Danka scattano insieme, estraendo le pistole. È da tantissimo tempo che non vedo usarle e il cuore mi si gela.
Vasileo trasale. «Oh…»
Danka Kijowski lo raggiunge con due i. «Non le dispiace se lo faccio io, vero?» Lo fissa con lo sguardo più duro che le riesce e le riesce molto bene.
«Mi hanno già perquisito», protesta Stefano, ma la lascia fare. «Mm, è quello», borbotta guardando nella sacca insieme a lei.
Lei aggrotta la fronte e tira fuori un tapi arancione.
«Perché pensi che sia suo?» chiedo.
«Beh, perché c’è il suo nome, quello che hanno detto alla televisione qualche tempo fa.»
Faccio un o indietro e poggio le mani sul tavolo in frassino.
«Signorina», dice a Danka. «Guardi qui.» Indica un punto del tessuto e lei annuisce. «Vede? È il suo nome: Aaahilan Dalje Adre», storpia.
Mi schiarisco la voce. «Mio marito non aveva un proprio tapi, l’ultima volta che lo ho visto.»
«Sì, lo aveva», mi contraddice dolcemente Tejii. «Quello glielo abbiamo dato noi.»
«Perché?» domando come se fosse importante.
Danka me lo porge. «Era un modo per dirgli che era ancora dei nostri. Il tapi con il nome lo indossano i soldati», risponde.
«Lo so.» Me lo aveva spiegato proprio Dahaljer. Prendo la lunga stoffa, sporca e sgualcita, e stringo le labbra, ando le dita sul suo nome ricamato e stampato e stringendo la placca al suo interno. «Mio marito è morto in un’esplosione, come può essersi salvato il suo tapi?»
L’uomo si stringe nelle spalle.
Giro intorno alla scrivania e mi siedo, facendo cenno agli altri di fare lo stesso. Stefano pencola sulle gambe, incerto; gli indico una poltroncina davanti a me. «Prego.»
Guardandosi attorno con fare furtivo, si siede anche lui. Ha gli occhi, le sopraciglia e i capelli dello stesso colore delle castagne.
«Signor Vasileo», dico nella sua lingua - la mia. «Mettiamo che per qualche motivo che mi sfugge lei abbia davvero visto mio marito e che abbia preso il suo tapi. Perché me lo ha portato qui? Cosa le importa?»
Lui alza il mento. «Perché anche mia figlia ha perso da poco suo marito e darei la luna per portarglielo indietro», replica anche lui in iuropìan.
Lo fisso per qualche istante e poi distolgo lo sguardo. «Mi dispiace.»
Stefano annuisce.
«E dove mai avresti visto Ahilan?» chiede Danka in arindo ichslavo. Lui non capisce.
«Le sta chiedendo dove lo ha visto. Di preciso.» La lingua degli Umani di Nuova Eyropa è ancora la mia prima lingua; non mi dispiace usarla.
«Nelle isole di Taormina, sign… altezza.»
«Perché le avrebbe dato il suo tapi?»
Lui si agita sulla sedia. «Non me lo ha dato. Gliel’ho preso.»
Inarco un sopracciglio.
«Beh, sign… altezza, loro erano Tigri ed erano incatenate. A quel tempo ci stava la guerra e, insomma, a me non piacciono le Tigri; non mi piacevano, ecco. Lo aveva indosso e io gliel’ho tolto.» Deve accorgersi della mia espressione e aggiunge: «Mi dispiace.»
Inspiro. «Cosa ci facevano delle Tigri incatenate nelle isole di Taormina, signor Vasileo?»
«Sicuramente le portavano a Nuova Sousse. Ma io non li ho visti partire.»
Sgrano gli occhi e lo stesso fa Tejii. «Gli Umani portano i Tiouck a Nuova Sousse?» gli chiede.
«Sì, anche i Bamiy.»
«Perché?» domanda Danka.
«Beh, ecco… per un sacco di motivi: per degli scambi, per traffico d’organi, per prostituzione, per divertimento, per sfruttarli nelle miniere. Voi siete più resistenti di noi.»
Nella stanza scende il silenzio.
«In realtà», continua Stefano, «ora non lo fanno più. Da quando lei ha fatto finire la guerra tra Lupi e Tigri, ecco. E ora abbiamo altri problemi, lo sapete, credo.»
Poggio i gomiti sul tavolo e mi tiro avanti. «Signor Vasileo, potrebbe descrivermi l’uomo che indossava questo tapi?»
«Non molto. È ato parecchio tempo, saranno quasi due anni, e non mi sono messo certo a studiarlo. Uhm…» si tocca la testa. «Aveva i capelli scuri, gli occhi chiari.»
«Il che è tipico delle Tigri», osservo comata.
«Uhm, ecco… aveva gli occhi azzurri e la pelle come la sua. Era alto, ma erano tutti alti quel giorno. Aveva i capelli corti.»
Tejii tira fuori dalla tasca un portatile, lo apre in quattro volte, formando una superficie piatta, e dopo un po’ mostra all’uomo una foto. La conosco perché me l’aveva mostrata una volta a Leion. C’erano circa trenta persone, tra soldati e soldati/guerrieri. «Saprebbe riconoscerlo tra questi?»
Stefano Vasileo la osserva a lungo, seguendo i movimenti di Tejii che con le dita ingrandisce e rimpicciolisce tutti i visi.
Cerco di analizzare le sue espressioni, ma non dà a vedere nulla, solo un movimento ripetuto del piede tradisce la sua agitazione. È un Umano e non posso avvertire nulla di lui.
«Signore…», sussurro.
L’Umano mi scruta e scuote il capo. «Non lo so. È ato troppo tempo e loro si assomigliano tutti», dice a voce bassissima. «Uno gli assomiglia, ma non sono
sicuro che sia lui.»
Mi mordo un labbro. «Chi?»
Si china di nuovo sul portatile di Tejii e con un dito tozzo tocca un punto dello schermo - come aveva visto fare alla Tigre - che ingrandisce il viso di Dahaljer.
Mi appoggio allo schienale della sedia e abbasso il viso a guardarmi le mani tremanti. Battiti troppo veloci, che stordiscono ogni parte di me; le labbra secche, prosciugate da una speranza a cui non voglio cedere; il cuore in un tumulto lacerante. La mente capace di formulare un’unica domanda: Dahal, dove sei?
Ringraziamenti
Non vedevo l'ora di arrivare a questa pagina!
Un grazie speciale ai miei genitori che sono venuti a prendermi nello Sri Lanka tanti anni fa e che mi hanno permesso di tornarci e vivere tutte le emozioni che da quel posto scaturiscono. Grazie ai miei genitori biologici, perché hanno pensato di darmi una vita migliore, nessuno può sapere se sia vero o meno, ma di certo ci hanno provato. Per lo stesso motivo, grazie alle suore che mi hanno cresciuta, accolta e riaccolta, in particolare a Sr. Emmanuela e Mother Pushpa.
Ringrazio Chiara Venturini e Silvia Giannone perché sono le mie prime lettrici da sempre.
Ringrazio David Ranieri, perché ha saputo consigliarmi oltre ogni mia aspettativa, perché ci ha creduto insieme a me e a volte più di me e perché ha letto un libro molto lontano dal suo genere, quasi senza lamentarsi. E poi perché tu sei un po’ il mio tigrotto.
Ringrazio Kajal Fallah per avermi aiutata con le parole in persiano nei caratteri a me incomprensibili.
Un doveroso ringraziamento anche a Veruschka, mia prima simil-editor. Grazie per non esserti arresa all'ennesimo 'mozzicare'.
Ringrazio sco Falconi, perché non volendo mi ha fatto scoprire, qualche anno fa, il mondo del fantastico, con i suoi bei romanzi. E grazie per tutte le dritte che mi hai fornito in modo da potermi buttare nel mondo dell'editoria.
Grazie a Luca Tarenzi, per avermi letta ed apprezzata, per avermi considerata una sua collega; grazie ai suoi , alle sue conoscenze in tanti campi davvero interessanti, come la glottologia, e alle chiacchierate, nonostante il suo "rifiuto" per le chiacchiere.
Non posso non ringraziare il gruppo de "Gli eletti di NT", di cui fanno parte oltre le citate Chiara e Silvia- Eleonora Giorgi, che ha letto questo libro in tre giorni, Sabina Scaletta, la mia prima intervistatrice, Silvia Bonfrate, la mia prima fan, Valeria Augugliaro, che non naviga questo genere ma ci ha provato: grazie a voi per avermi letta, per aver analizzato e contro analizzato trama e personaggi, ma, soprattutto, grazie per avermi sopportata.
Grazie infinite a Chiara Messina, perché non ha mai smesso di darmi consigli da quando la disgrazia l'ha messa sulla strada della mia tesi!
Grazie a Manuela, compagna di blog e altra povera vittima dei miei mille dubbi. Grazie alla blogger letteraria Debora Magini, detta Nasreen, per essere stata la prima a chiamarmi 'autrice' in via ufficiale. Grazie a Daniela Barisone per avermi illuminato il mondo del pod. In generale, grazie a tutti i blogger e meno blogger che mi seguono in rete e hanno fatto il tifo per me.
Grazie e soprattutto scusa a Daphne Xiris Marasca, giovanissima artista che produce disegni fantastici, alla quale ho rubato lupi e tigri usciti dalla sua matita. In bocca a lupo!
Un ringraziamento doveroso a sca Orelli per aver creduto in questo romanzo.
Grazie a tutte quelle persone che, pur non sapendolo, mi hanno fornito notizie su malattie, cure, armi, lupi e tigri. E che sia benedetto internet e i suoi motori di ricerca.
E un grazie-bau ad Ares, King Jakim e Leo.
Ringraziamenti musicali vanno a (in ordine alfabetico):
Aerosmith, Avril Lavigne, Bryan Adams, Celine Dion, Cranberries, Dead Can Dance, Emmylou Harris, Enya, Evanescence, Gianna Nannini, Hans Zimmer, Irfan, Johann Strauss, Pearl Jam, Pëtr Il'ič Cajkovskij, Trevor Jones, Zucchero.
Last but not least: grazie a te, lettore, che ti sei fidato e mi hai letta. Perdonami se ci sono errori, perdonami se il libro è costato caro, perdonami il carattere o la formattazione che potrebbero lasciare a desiderare. Perdonami se la storia non ha soddisfatto le tue aspettative, io spero sempre di migliorare.
Note
La prima e la seconda parte di Nuova Vita e lo spin off saranno pubblicati, molto probabilmente, per l'autunno del 2013.
Per informazioni
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