Dilhani Heemba
Nuova Terra
Gli occhi dell’erede
PRIMA PARTE
Ai bambini delle creche dello Sri Lanka,
che da anni vivono nella povertà
in una terra stupenda, distrutta dalla lotta infinita
tra militari singalesi e le ribelli tigri tamil.
A voi perché sorridete.
Titolo | Nuova Terra - Gli occhi dell’erede - Prima Parte Autore | Dilhani Heemba ISBN | 9788891111784 Prima edizione digitale 2013
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Curiosità e note d'autore su www.dilhaniheemba.com/curiosita.htm
Personaggi
Shayl’n Til Lech, ragazza orfana dalla nascita, rapita dalle Tigri Bianche
Umani
Erien - ragazza rapita insieme a Shayl’n
Hassan - autista del pulmino della creche
Ilai García - amico di Shayl’n
Khaled, Andrè, Elias - bambini rapiti insieme a Shayl’n
Latha - donna che lavora per Shiire Raja
Lechy García - madre di Ilai
Madre Brìgit Lech- la madre della creche di Roma, sorella dell’ordine mariano
Maryām - amica di Shayl’n
Nilmini Ferrara - bambina della creche di Roma che Shayl’n considera come una sorella
Shiire Raja - Sultano di Nayband
Pietro, Salina, Salvatore, Clarissa, Filìp, e Màrtin - bambini della creche di Roma
Tigri Bianche - Tiouck
Ahilan Dahaljer Aadre - Capo Branco
Dan/Danka Kijowski - donna soldato
Ifraen Gelov - soldato/guerriero
Jama - soldato/guerriero
Layo Luba - soldato/guerriero
Maliak Toivainen della dinastia Minse di Danubie - padre di Shayl’n e figlio di Teon Toivainen, mezzo Uomo e mezza Tigre Bianca (defunto)
Nalinika della dinastia Minse di Danubie - principessa orfana adottata legalmente da Tagron - cugina di Shayl'n
Nikolaos Kristoforos - dottore e tutore di Nalinika
Pasha Klein - soldato/guerriero
Ron Nawa- soldato/guerriero
Sophia Kristoforos - figlia di Nikolaos Kristoforos
Srei - soldato/guerriero
Sybil Kristoforos - moglie di Nikolaos Kristoforos
Tagron Toivainen della dinastia Minse di Danubie - attuale re dei Tiouck - zio di Shayl'n
Teon Toivainen della dinastia Minse di Danubie - legittimo erede al trono che ha abdicato per sposare un’Umana, padre di Maliak (defunto)
Tejii Weber - soldato/guerriero
Lupi Grigi - Bamiy
Antar Breel, soldato del reparto di difesa
Belden Wilém Monreau Harvey, della dinastia Erdreè - attuale re dei Bamiy
Barenì, nonna di Jean David
Caroline Monreau Harvey, della dinastia Erdreè - madre di Shayl’n, figlia di Belden (defunta)
Darie Menlue, primario dell'ospedale di Nuv Monàc
Jean David Monreau Harvey, della dinastia Erdreè - figlio di Belden, principe dei Bamiy - zio di Shayl'n
Peter Way, soldato del reparto di difesa
Riannè Sullivan, capo di uno dei battaglioni
Sanìt, Carlize, Brigitte, Hameline - bambini soldato
Tar Mechie, capo di uno dei battaglioni
Glossario
amma, mamma
appa, papà
baha-char, mercato
chèrie, cara, diletta
detské vojakov, bambini soldato
eshgh, amore
babr, tigre
gamine, ragazzina, monella
khanevade, famiglia
khorshid, sole
kindersoldaten, bambini soldato
mamnun, grazie
mon Dieu, mio Dio
moya lyubov, amore mio
petit, piccolo
shohar, marito
tytär, figlia
volk, lupo
zan, moglie
- parole inventate -
arindo ichslavo, lingua delle Tigri Bianche
bretençal, lingua parlata dai Lupi Grigi
iuropìan romanzo, lingua degli Umani
mude, stoffa di Lupi e Tigri per combattere il caldo o il freddo
POD meglev, mezzo di trasporto che sfrutta l’energia del campo magnetico
tapi, stoffa lunga portata intorno alla vita
I titoli delle parti del libro sono tratti dalle seguenti canzoni:
This is the life, Amy McDonald
Blue, A Perfect Circle
Breathe, Pearl Jam
Tumbalalaika, canzone ebrea della tradizione russa
Undertaker, Puscifer (Renholder Mix)
Star Of The Winds, Irfan
Fly Away From Here, Aerosmith
Zombie, Cranberries
Bring me to life, Evanescence
Così celeste, Zucchero
Truly Madly Deeply, Savage Garden
LIBRO UNO
Gli occhi dell'erede
PRIMA PARTE
Thinking This Is The Life
1
C’è stato un tempo in cui ero una bambina dai capelli neri sempre arruffati, le gambe magre che correvano veloci sulle strade polverose e si arrampicavano agili sulle palme ondeggianti della Città Eterna; la mia pelle, esposta spesso al sole, aveva il colore della crema caramellata. Ero una bambina ubbidiente, allegra e pensierosa, con un esagerato e spesso falloso senso di giustizia, che animava la maggior parte dei miei scontri con gli altri bambini. Quello era il tempo in cui me la prendevo quando mi dicevano che i miei occhi avevano un difetto nel colore: un cerchietto verde che circondava la pupilla, nera e liquida come il resto dell’iride. In futuro, mi dissero che i miei occhi erano come due pietre di malachite, ma era un altro tempo, un tempo in cui non era un difetto.
Ed era, invero, un difetto notevole in un mondo dove gli Umani avevano gli occhi neri o marroni.
C’è stato un tempo in cui mia madre era una donna alta, mora, dagli occhi neri, che mi aveva lasciato perché gravemente malata; e mio padre era un uomo senza nome, che non appariva mai nei miei sogni. Il tempo in cui famiglia era Madre Brìgit, l’unica persona che mi conoscesse dalla nascita, l’unica che guardasse oltre i colori, le lacrime e talvolta le parole. La sola che mi crescesse come fossi figlia sua.
Il tempo degli studi, delle sbucciature, il tempo in cui giocare alla guerra con Ilai García, il figlio dei vicini, era una guerra fatta di pugnali di legno e pistole di cartoncino, o il coltellaccio di una cucina. Le armi da fuoco non rientravano neppure nei miei pensieri. Era il tempo della preghiera prima di mangiare, il tempo di un’infanzia povera e serena.
E c’è stato un tempo in cui amore era quello che provavo per Madre Brìgit, era silenzioso e scevro da ogni compromesso; e odio era una parola priva di un significato effettivo.
Quel tempo finì l’anno in cui vivevo i miei diciannove anni.
2
La strada per il picco d'Adamo era piena di curve, polverosa e sembrava disegnarsi al lato della montagna in modo pigro, sopratutto nelle giornate calde come quella.
Nilmini Ferrara, tre anni e mezzo, si accoccolò accanto a me, guardando fuori dal finestrino del nostro pulmino. Si era alzata presto, quella mattina, e non si era lamentata: non uscendo mai, doveva essere incuriosita. Non sembrava avesse voglia di dormire. Eravamo in viaggio da tre quarti d'ora e i nostri compagni dormivano silenziosi. Anche Erien, che insieme a me accompagnava i bambini in gita, teneva gli occhi chiusi stringendo per un braccio Andrè, che poco prima era sovraeccitato.
Udii il rumore lontano di un motore, che doveva appartenere a un elicottero. Tornai a guardare fuori dal vetro, osservando la valle del Tever: una distesa di casette minuscole e terreni che si perdevano nella foschia del mattino; Nilmini non le aveva mai viste da così in alto e gliele indicai.
La strada costeggiava la montagna ripida e sulla sinistra aveva uno strapiombo che mise le vertigini alla bambina. «È altissimo qui», osservò.
Sentii l'elicottero avvicinarsi, faceva un rumore molto forte. Nilmini si stiracchiò e sbadigliò, e fece sbadigliare anche me, che le sorrisi.
«C'è un elicottero», fece presente.
«Sì, pulcino. Salutalo quando a.» Mi voltai a guardare da dove veniva, sentendolo troppo vicino.
Fu questione di attimi: tutti si svegliarono per il forte rumore e le vibrazioni; Hassan, che guidava, rallentò la corsa e infine inchiodò.
L'elicottero si posizionò davanti a noi bloccando il aggio mentre un altro si affiancava a noi sulla nostra sinistra.
Erien urlò nel momento stesso in cui io mi resi conto che erano Tigri Bianche.
«Vattene, Hassan! Torna indietro!» gridai.
L'autista sembrava paralizzato, fece per mettere la marcia, ma una raffica di colpi di pistola ci prese in pieno, frantumando i finestrini, bucando le gomme e colpendo Hassan ed Elias, che era seduto sul sedile anteriore.
Urlarono tutti, i bambini si misero a piangere.
In preda a una paura che non avevo mai provato, non riuscivo a mettere a fuoco la scena.
Tentai di respirare. C'erano quattro Tiouck, che venivano verso di noi, altri
sull'elicottero stavano combattendo con il secondo elicottero, dovevano essere Umani, ma non ebbi tempo di soffermarmi su quel pensiero: da qualche parte sbucarono anche due macchine e fu tutto molto veloce. Andrè uscì fuori di corsa, in direzione dell’elicottero degli Umani, urlando, ma fu colpito dal fuoco e cadde a terra.
Nilmini si gettò tra le mie braccia e rimase immobilizzata dalla paura e lo sgomento fino a che un Tiouck non si materializzò accanto allo sportello che Andrè, uscendo, aveva lasciato aperto.
«Fuori!» gridò, cercando di coprire il rumore di spari ed elicotteri. Rimasi ferma, come se non fossi in grado di pensare o muovermi.
Per un attimo ragionai sul fatto che, se avessero vinto gli Umani, forse non avremmo avuto problemi a salvarci, tuttavia quella speranza morì subito, quando l’elicottero si infiammò con una vampata. Cadendo venne verso di noi e il Tiouck dovette chiudere gli occhi e ripararsi con un braccio. Il tonfo sonoro mi riscosse o forse fu la mano dell’uomo che si allungava verso Nilmini, a riscuotermi.
Lei gridò un disperato «no», stringendo le manine alla mia vita; fui io a scostarla da me, l’allontanai con una mano e con l’altra cercai di dare un pugno alla Tigre. Nel cercare di uscire dal pulmino, il sedile davanti mi frenò nel movimento e caddi insieme all’uomo.
Troppo grande e forte per me, lui mi scansò con facilità e cercò di afferrarmi. Scartai di lato cercando di evitare la sua presa; il cuore mi batteva troppo forte nel petto, come se volesse esplodere. Se fossi riuscita a prendere il mio pugnale, forse sarei riuscita anche a ferirlo.
Mentre facevo questo pensiero, l’uomo mi colpì in volto con il dorso della mano e sentii il sapore del sangue in bocca. Mi coprii il viso per non ricevere un secondo schiaffo.
«Jama, prendi i bambini. A lei ci penso io.» Nel trambusto udii questa voce in lingua arindo ichslavo, subito sopra di me. Un ragazzo mi prese la mano e, inginocchiandosi, me l’ammanettò.
Cercai di reagire sollevandomi a sedere. Lui ne fu sorpreso. Aveva i capelli corti, castano scuro, e la pelle appena ambrata. I suoi occhi azzurri, dal colore intenso, incrociarono i miei, ci fissammo per un attimo, ma indugiò sul mio viso per un secondo di troppo e ne approfittai per voltarmi carponi e scappare. Lui riuscì ad afferrarmi una gamba facendomi cadere a faccia in avanti.
«Lasciami!» strillai, tra paura e rabbia.
«Non ci penso proprio», disse atono nella mia lingua, lo iuropìan romanzo. Mi salì sulla schiena con un ginocchio e mi immobilizzò, facendomi respirare a fatica, con la guancia schiacciata a terra. Mi prese l’altra mano e la legò alla prima. «Visto? Non vai da nessuna parte.» Mi sollevò da terra come se fossi un fuscello. «Muoviti», mi ordinò, spingendomi avanti.
Osservai la strada: sembrava un campo di guerra, l’elicottero bruciava in un fumo nero, pervaso da un odore acre, a terra c’erano vetri rotti e sangue. Mi cedettero le gambe quando vidi Andrè, disteso a terra, in modo innaturale.
Il Tiouck mi sorresse e mi condusse alla macchina, dove un altro uomo ci stava aspettando, mi gettò dentro con violenza e io battei il capo, perdendo i sensi.
***
Mi svegliai di notte, in una foresta.
Notai subito lo sguardo fisso di Erien, a un metro da me. Aveva pianto, e parecchio: occhi gonfi e guance sporche, capelli sciolti e testa inclinata.
«Dove siamo?» le chiesi, sommessa.
Lei scosse appena il capo e guardò a terra.
Non potei fare a meno di notare che Nilmini e Khaled erano abbracciati a lei. Voleva dire che non avevano libertà di movimento; mi sentii troppo distante.
Intravidi il fuoco poco lontano, c'erano sei Tiouck, che mangiavano e ridevano, questo mi fece provare una rabbia infinita. «Eeehi», urlai.
«No, lasciali perdere», mi supplicò Erien.
Non la ascoltai. «Ehi, voi!»
Uno dei Tiouck si alzò, fu fermato dall'altro, che si alzò a sua volta. Posò qualcosa a terra e si avvicinò.
«Ben svegliata», disse raggiungendomi.
«Lasciateci liberi!» sbottai.
«E perché mai?» Il ragazzo si accovacciò accanto a me, era controluce e non riuscii a vederlo bene, dalla voce riconobbi quello che mi aveva ammanettata.
«Siete delle bestie. Lasciateci in pace.» Lo guardai in cagnesco.
«Non sai neanche di che parli.» Sorrise e intravidi i suoi denti bianchi e perfetti. I denti di una Tigre.
«Loro sono solo dei bambini, che te ne fai?» Cercai di insistere.
«Niente. Ho bisogno di te. Se vuoi li lascio qui da soli nella giungla.» Aveva una voce profonda e stava usando un tono pacato che gli avrei volentieri rificcato in gola.
«Riportali a casa!»
«Ahilan, ci sono problemi?» domandò qualcuno in arindo ichslavo.
Il ragazzo si alzò. «Fai troppe richieste, ragazzina; ti consiglio di startene buona.» Non c’erano inflessioni nel suo iuropìan romanzo. Si voltò e si allontanò di qualche o.
«Scordatelo. Non ci voglio stare qui. Avete ucciso dei bambini, dei bambini che non hanno fatto nulla. EEEHI!» gridai con tutto il fiato che avevo in gola.
Lui tornò indietro con un unico balzo, si chinò all'improvviso, digrignando i denti. «Faresti bene a stare zitta, se non vuoi fare la stessa fine!» mi intimò. Fece per voltarsi, ma iniziai a dibattermi e a urlare per essere liberata.
Accorse uno dei Tiouck, che mi ficcò uno straccio in bocca senza tante cerimonie, facendomi sbattere la testa per terra. Sentii mancarmi l'aria per la violenza, vidi Nilmini affondare il viso sul petto di Erien e rimasi immobile, buttata per terra.
Vidi tre Tiouck prendere i bambini e la ragazza e trascinarli via, tirandoli per le braccia, mentre loro singhiozzavano. Non era giusto, non era giusto. Erano solo bambini. Mi maledissi per aver portato Nilmini con me, avevo insistito tanto. Come mi era venuto in mente? Perché non l’avevo lasciata a casa?
Allora mi sentii persa come non mi ero mai sentita in vita mia.
***
Il giorno seguente, dopo quattro ore di macchina su alcune strade sterrate, ci fecero scendere. Ci porsero un pezzo di pane per uno e dell’acqua, poi lasciarono le macchine parcheggiate al lato della strada e si addentrarono con noi nella foresta.
L’aria era umida, faceva molto caldo e fastidiosissimi insetti ci pizzicavano la pelle, con un'insistenza tediosa.
Le Tigri indossavano dei pantaloni da militare. Portavano degli zaini ed erano armati di pistole e pugnali. Uno di loro aveva invece un fucile. Tutti loro portavano una sorta di foulard, legato intorno alla vita, che avevo visto anche ai Lupi, in seguito scoprii che si chiamavano tapi.
Seguirono quello che doveva essere il capo, Ahilan, che apriva la fila, e Jama, subito dietro di lui. A chiudere la fila c’era Layo Luba, che ci seguiva con una pistola in mano puntata su di noi. Gli altri tre non seguivano la fila e camminavano accanto a noi, sparendo di tanto in tanto dietro le felci verdi.
Khaled, un bambino di dieci anni, era stato legato con una corda alle manette di Erien, mentre Nilmini era stata legata a me con una cordicella non troppo robusta che mi circondava la vita. Mi stava attaccata, silenziosa come non mai e il pollice in bocca. Non avevamo nessun legame di sangue, tuttavia la consideravo come una sorella fin da quando, durante i miei sedici anni, era arrivata all’orfanotrofio. Per lei fu amore a prima vista.
Potrei raccontare che il mio amore fosse irrazionale e disinteressato, tuttavia,
dovendo essere onesta, dirò che mi innamorai di Nilmini per un motivo in particolare. Arrivò da noi quando aveva solo pochi giorni, come era successo a me, e mi sentii in diritto di avanzare una qualche pretesa su di lei, che altri non potevano avere, perlomeno secondo il mio punto di vista.
Fu portata da un uomo, che non la riconosceva come figlia e sosteneva di averla trovata in strada, una sera in cui il tempo era mite e nel cielo c’erano strisce di nuvole filiforme. Il nome le fu dato da me, il cognome invece era dell’uomo che l’aveva portata da noi, un cognome tipico della zona in cui abitavamo.
Nilmini Ferrara era così piccola che avevo paura di romperla solo a sfiorarla. I primi mesi sembrava avere gli occhi del colore dell’antracite, con il are dei giorni, divennero due profondi occhi neri, che le invidiavo più di ogni altra cosa. Aveva ciglia lunghe e folte e un taglio da cerbiatta. Anche il colore della pelle poteva essere oggetto della mia gelosia, in quanto più scuro del mio, e per questo più simile a quello di Madre Brìgit: era il colore morbido e intenso di un dolce al cioccolato con le sfumature vive e rossicce della cannella.
Le sorelle dicevano che sembrava sempre troppo piccola. Io non mi intendevo di neonati, per me era perfetta e me la tenevo stretta tra le braccia come fosse di mia proprietà.
Piccola e paffuta, con gli occhi gonfi e rossi, ora sembrava ancora più piccola della sua età.
Ed era troppo piccola per camminare a lungo, quindi si stancò presto. Iniziò a piagnucolare prima in maniera sommessa poi sempre più forte.
«Arriveremo presto», cercavo di incoraggiarla.
«Tra quanto?»
Non ne avevo idea. «Non so, dieci minuti.»
Ma i dieci minuti avano e loro non accennavano a fermarsi. La prendevo in braccio, poi, esausta, la facevo camminare di nuovo. «Shay. Shay, quando arriviamo?»
Uno degli uomini, Srei, gettò il proprio zaino a terra e scattò verso di lei. «Ora basta.» Sfoderò un pugnale ricurvo. La bambina si immobilizzò all’istante e sgranò gli occhi.
«Ma che cazzo fai?» sbottai. Scacciando la stretta di terrore parossistico che mi strinse lo stomaco, cercai di pararmi davanti a lei, ma fui spostata con una spinta. «Nooo!» gridai. L’uomo, però, aveva già la lama a un soffio dal bacino della bambina e, con un taglio netto, spezzò la corda che ci legava.
La sollevò di peso, afferandola per l’elastico dei pantaloni e la ficcò dentro allo zaino. «E ora non ti voglio più sentire.» La strinse con i lacci dello zaino, lasciandole testa e braccia fuori. «Va bene?»
Nilmini lo guardò con le lacrime agli occhi e annuì.
«E neanche a te», disse rivolgendosi a me e caricandosi lo zaino sulle spalle. Anche io annuii, ancora stupefatta, e lo raggiunsi subito, mettendomi dietro di lui in modo da poter essere accanto alla bambina. Le lanciai un bacio con le labbra e le sorrisi, cercando di infonderle un coraggio che non avevo.
Camminammo per ore interminabili. La giungla era infinita, buia e poco incoraggiante, i suoi alberi si chiudevano su di noi come un involucro opprimente e vivo. I sei uomini non sembravano stanchi, ma Erien, Khaled e io eravamo distrutti. Avevamo le gambe indolenzite e i piedi facevano malissimo. Nilmini si era addormentata nello zaino, con il dito in bocca.
Quando Ahilan si fermò, verso sera, nessuno disse nulla. Sapevano tutti cosa dovevano fare, senza doversi dire niente, come fossero una persona sola. Scorreva un fiume di piccole dimensioni vicino a dove ci eravamo fermati e noi tre corremmo a bere sulle sue rive, seguiti a vista da Layo. Un colibrì volò via, sentendoci arrivare.
Tornai indietro dopo essermi riempita la pancia con troppa acqua, e cercai di tirare Nilmini fuori dallo zaino, facendola svegliare. Avevo le mani legate e non ci riuscii.
«Jama», disse Ahilan «aiutala.» L’uomo mi aiutò e mi mise in braccio la bambina, che si aggrappò a me con le manine, silenziosa.
Mi sedetti a terra con le gambe incrociate, le misi in bocca qualche pezzetto di pane che avevo conservato. Anche gli altri si misero a terra e mangiarono.
Poi il capo mi avvicinò con il suo o sicuro e felino. «Alzati», ordinò
perentorio.
Feci finta di non sentire.
Lui mi puntò una pistola sulla testa. «Ho detto alzati», tuonò.
Mi issai Nilmini in braccio e mi alzai con deliberata lentezza.
«Lei rimane qui.» Fece per prenderla in braccio.
«Non la toccare!» ringhiai.
Lui tirò indietro le mani e le alzò, in segno di resa. «Come vuoi, basta che ti muovi.»
Lasciai la bambina in braccio a Erien e, cercando di deglutire, lo segui in mezzo alla vegetazione. Il sangue mi pulsava nelle tempie. Avevamo percorso poche decine di metri, tuttavia la vegetazione ci teneva nascosti dal resto del gruppo. «Dove stiamo andando?» domandai, cercando di mantenere la voce ferma.
«Ti devo parlare», rispose laconico.
«Parlare?» chiesi scettica. «A volte siete anche in grado di parlare, voi?»
Lui si voltò e mi attaccò la pistola alla tempia, che se fosse stato possibile avrebbe pulsato fino a scoppiare. «Vuoi fare qualcos’altro? Sai, siamo in grado di fare tante cose con voi donne, noi.»
Lo fissai con occhi sicuri, sapendo che la mia bocca era appena un po’ imbronciata tradendo la paura che mi divorava a morsi.
Lui non batté ciglio. «Siediti», comandò adamantino.
«Qui?» riuscii a dire.
«Qui.»
Mi sedetti di peso tra le radici di un tulang.
Lui rinfoderò l’arma e tirò fuori una torcia. Si piegò accanto a me e me la puntò nell’occhio destro. «Tu ti chiami Shayl’n Til?» chiese, asciutto.
Ci pensai alcuni istanti perché solo Nilmini mi aveva chiamata, e mai con il nome intero, forse Erien mi aveva chiamata così, per forza, mi dissi, o forse no? «Tu come lo sai?»
Lui guardò l’altro occhio, poi mi fissò per alcuni istanti. «Credo di sapere più
cose di te, di quante ne sappia tu stessa.»
«Incantata», commentai sarcastica. «Io invece scommetto che tu ti chiami Ahilan.»
Lui ripose la torcia nella tasca. «Scommetti male. Mi chiamo Dahaljer, Ahilan è solo un altro nome.»
Aggrottai la fronte. «E che senso ha?»
«Senti, sono io che sono armato, sono io che ti ho portata qui, e sono io che faccio domande. E mi piace ribadire queste cose il più possibile, ah, mi piace anche sentirmelo dire, sai?» Si sforzò di non ridere.
Lo guardai con astio. «Le Tigri come te mi fanno schifo.»
«Non mi interessa.» Tornò serio. «Anche a me fanno schifo le ragazzine Umane, soprattutto quelle che parlano troppo, come te.» Fece una pausa, senza smettere di guardarmi. «Shayl’n Til, sai se tua madre si chiamasse Caroline e tuo padre Maliak?»
Sul volto mi si disegnò un’espressione stupita, che non riuscii a dissimulare, e scossi la testa. «Non so nulla di loro. Solo che mi hanno salvato la vita, lasciandomi all’orfanotrofio. O almeno così mi è stato detto.»
«È molto probabile che sia vero. Sei nata a metà estate?» mi chiese senza lasciarmi il tempo per pensare.
Piegai la testa da un lato. «Sì…»
«Sai con certezza di che Razza sei?»
«Razza Umana», risposi sicura.
Lui annuì appena. «Hai avuto conati particolari e immotivati, negli ultimi tempi?»
«Ma che ne sai?» Scattai. «Cosa vuoi da me?»
«Lo prendo per un sì.»
«No, invece.» Unii le mani a pugno e cercai di colpirlo con tutta la forza che avevo, tuttavia Ahilan si spostò rapidamente. «Mi devi delle spiegazioni», gridai.
Lui si alzò. «Non ti devo proprio niente.» Mi tirò su con uno strattone e, tenendomi stretta per un braccio, si piegò leggermente per guardarmi dritto negli occhi. «Al massimo, sei tu che mi devi qualcosa. Per esempio, la vita.»
3
L’inverno più freddo che si ebbe su Nuova Terra, dopo il duemiladodici, fu nel duemiladuecentoquarantaquattro, quando nelle regioni del nord i Lupi Grigi attaccarono con ferocia alcuni villaggi al confine est.
Io non lo sapevo ancora, né me ne preoccupavo. Avevo quattro anni, le mani piccole e sulle labbra il sorriso di chi non vuole preoccuparsi della vita. E, infatti, di quella volta non mi preoccupai, tanto che il peggior problema che affollava la mia testolina mora era riuscire a fare una torta degna di essere chiamata tale con Madre Brìgit.
«Batuffolo, vedi che la stai buttando ovunque», mi fece notare la religiosa. Batuffolo è un appellativo di cui non conosco l’origine; da che ho memoria, la Madre mi ha sempre chiamata così.
«Lo so», risposi divertita. «Vola via.» Risi, mostrando i dentini bianchi.
«Non ci giocare», mi riprese Madre Brìgit con voce sicura e il timbro caldo che riusciva ad avvolgermi come un abbraccio. «Non si spreca niente qui. Versala piano.» Quell’anno eravamo ricchi, perché potevamo fare una torta, senza dover festeggiare nessuno. Anzi, eravamo ricchi perché potevamo fare una torta.
In quel momento entrò Lechy García, una donna giovane, bassina e tarchiata, che accese la radio. «Ascolta, Madre.»
«Cosa c’è di nuovo?»
Lechy fece segno di fare silenzio.
«…hanno colpito nella notte», diceva la radio «quando tutti dormivano e nessuno delle Tigri ha potuto fare nulla. L’attacco era stato programmato da alcuni mesi dal re Belden Wilém Monreau Harvey, poiché il confine a est contava ormai troppi Tiouck stabiliti sulla frontiera, che potevano diventare pericolosi per la popolazione. Il responsabile delle Comunicazioni del Re ha dichiarato di essere soddisfatto, sottolineando l’importanza di tali attacchi per i Bamiy. Ha rivelato, inoltre, che questo potrebbe essere solo l’inizio.
Il re dei Tiouck, Tagron Toivainen, sembra aver ricevuto molte critiche da parte della sua popolazione. Non erano presenti molti loro guerrieri, in quel punto, e ora per loro potrebbe essere l’inizio della repressione. Signor Fay, lei che ne pensa?»
Lechy spense la radio e guardò la Madre.
La donna, di trentasette anni, continuò a mescolare l’impasto nella ciotola. «Cosa vuoi che dica, Lechy?» domandò distratta. «Sappiamo bene quanto questo sia folle, ma noi non abbiamo voce in capitolo, nessuno di noi», aggiunse guardandola di sottecchi.
«Lo so, ma dovremmo fare qualche cosa», provò a dire lei.
«Sono Lupi e si ammazzano con le Tigri. Faremo una preghiera per i morti che muoiono senza avere colpa, e anche per quelli che hanno colpa», precisò. «Ma noi Umani non possiamo fare nulla», concluse in tono cupo.
Allora, non sapendo nulla della vita, sapevo molto poco anche della lotta tra Lupi Grigi e Tigri Bianche; oggi posso dire di esserne felice. Quelle vicende avrebbero tanto complicato la mia vita, che sapere di avere avuto un’infanzia povera, ma esente da ogni problema legato a loro, mi rincuora.
«Non è giusto», gracchiò Lechy, con esacerbazione. «I Lupi ci trattano come bestie. Noi. Noi capisci? Si tengono tutto loro, solo perché sono di più. Comandano loro e va avanti da troppi anni. Anzi, che dico, secoli!» gemette, accasciandosi sulla sedia.
Qualche anno più tardi, sui banchi di scuola, avrei studiato la storia dall’inizio dei tempi, altri tempi. C’era stato un periodo molto più lungo della nostra epoca in cui Nuova Terra, il nostro turbolento pianeta, si chiamava solo Terra, aveva infinite distese di acqua, ma il ghiaccio presente era un quarto di quello presente attualmente; in compenso, gli Uomini che l’abitavano erano molti di più e l’unica Razza esistente era proprio quella Umana. Era a quello che si riferiva Lechy, in quel momento.
La Madre non rispose e si rivolse a me: «Hai messo tutto dentro, Batuffolo?»
«Sì. Però mi hai detto di ricordarti di aggiungere un goccio di liquore di cocco.»
«Hai ragione, me ne stavo dimenticando.» Si alzò da tavola e aprì la credenza dietro di me. La stanza era piccola ed era facile raggiungere tutti i posti dal tavolo.
«Madre, mio marito diceva che questa situazione doveva essere cambiata», continuò Lechy, imperterrita.
«Tuo marito è morto lasciandoti sola con tuo figlio», replicò lei asciutta. «E tu è a lui che dovresti pensare. A proposito, dov’è?»
«Sta di là, sta giocando con Pietro.»
La Madre annuì versando un goccio di liquore chiaro nell’impasto. «Tieni», mi disse. «Versalo dentro la padella.»
Noi abitavamo a Roma, nella valle del Tever. Era un’immensa città di baracche, governata dai Bamiy, i Lupi Grigi. Tutto, a dire il vero, era governato da loro, tranne alcune regioni molto a nord, che si estendevano poi verso est, dove vivevano i Tiouck, le Tigri Bianche. O almeno così pensavo.
Dopo il 2012 dell’anno del Signore, una serie di cataclismi aveva cambiato volto al nostro infelice pianeta. A seguito degli eventi di quell’anno, la crosta terrestre si era mossa così tanto che nulla o quasi era rimasto come prima. Il quasi era l’Oceania. Dalla parte opposta del mondo, era più grande e più a nord; trovandosi ora proprio sotto la linea dell’equatore, l’Oceania era rimasta molto simile nel tempo, ed era abitata solo dalla Razza Umana. Le Americhe non esistevano più, tranne una consistente fetta di quello che un tempo era stato il Canada, che oggi era intrappolato sotto i ghiacci perenni. L’Africa, con forme
diverse, si era spostata molto a sud, e, un continente che allora era considerato tra i più caldi, oggi era in buona parte ricoperto anch’esso dai ghiacciai. Tranne la zona nord, peraltro governata dai Bamiy.
L’Europa, oggi Nuova Eyropa, si era allungata di molto, creando pianure e montagne che un tempo non esistevano; era diventata più lunga che larga e io non sono mai riuscita a immaginarla in modo diverso. Tra noi e il Medio Oriente c’era un mare a dividerci, il Mare degli Urali.
Praha un tempo distava da noi poco meno di mille chilometri. Oggi era oltre i duemila e tra di noi si stendevano pianure infinite e isolette piatte e disabitate. Praha era la capitale dei Tiouck; in seguito avrei scoperto che la neve da quei luoghi andava via solo per pochissimi giorni dell’anno.
Al momento, la neve non sapevo neanche cosa fosse, così presi la ciotola che la Madre mi porgeva con due mani e versai il contenuto. Insieme mettemmo la padella nel forno e chiudemmo lo sportello.
«Ora dobbiamo aspettare cinquanta minuti», mi avvisò.
«Va bene, però rimango qui», dissi con voce querula.
«Non vai a giocare con gli altri?» domandò con fare indagatore.
Scossi appena la testa, fingendo interesse per una macchiolina sul pavimento bianco.
«Perché?» volle informarsi.
Sapevo che me lo avrebbe chiesto e che non avrei potuto evitare di rispondere, così ostentando indifferenza dissi: «Ilai dice che sono un Lupo.»
«Cosa?» sbottò Lechy. «Ilaaai», chiamò con voce stridula. «Vieni subito qui!»
Il bambino accorse, seguito da un bimbo più grande. Aveva gli occhi del colore delle nocciole che tendevano a scurirsi all'esterno; la pelle chiara, nonostante stesse spesso al sole. I capelli neri gli incorniciavano il viso ovale e dall'espressione tracotante, nonostante l'età.
«Chiedi scusa a Shayl’n», ordinò sua madre.
Lui piegò l’angolo della bocca. «Che ho fatto?» chiese, perplesso.
«Cos’è questa storia dei Lupi?»
Il bambino guardò Pietro e sorrise sornione. «Ah, quella. Stavamo solo scherzando. È che lei ha quel giro verde negli occhi.» Mi indicò con la testa.
«È vero. Proprio come i Lupi», sentenziò Pietro.
Lechy si alzò con l’intenzione di picchiarli. Madre Brìgit la fermò. «Lasciali stare. È vero, Shayl’n Til ha un cerchietto verde negli occhi, ma lei è Umana, come voi due, vero, piccola?» Mi attirò a sé per prendermi in braccio e mi baciò la guancia accarezzandomi i capelli neri. «La nostra Shayl’n Til ha degli occhi stupendi e voi non dovreste prenderla in giro.» Uscì fuori e gli altri ci seguirono.
Nel cortile l’erba era secca e gialla. L’inverno più freddo a Roma aveva solo portato un’aria più mite, ma non pioveva da giorni e il terreno era arido. Il cielo limpido sopra di noi era quello che scorgevamo tutti i giorni; infinito e terso.
«Oggi abbiamo studiato che, prima di questa epoca, ci stavano macchine volanti, un sacco veloci», disse Ilai, rivolto alla Madre, con l’intento di cambiare argomento.
«Oh, lo so. Doveva essere bello, vero?» replicò lei sedendosi su una panchina di mattoni insieme a Lechy.
«Io non ci salirei mai. Meglio i POD, che vanno bassi e veloci. Quelli di prima sono pericolosissimi, io lo so», affermò lui dall’alto dei suoi sette anni.
I POD maglev, mezzi di trasporto a levitazione magnetica, erano dei veicoli in grado di volare a qualche metro dal suolo, grazie all’energia magnetica esercitata dalla terra; erano fatti per due guidatori e di solito avevano uno spazio posteriore dove riposare e un bagno. Erano pensati per lunghi viaggi, nonostante non potessero essere usati ovunque per via del diverso capo geomagnetico. Non eravamo stati mai dentro uno di quelli, perché agli Umani non era concesso averne.
«Io invece sì», azzardai. «Così vi vedo dall’alto.» Scivolai dalle gambe della Madre, intenzionata a giocare con la terra del giardino.
«Ma tu sei scema», mi schernì Pietro. Lo avevo a un o da me e lo spinsi, senza fargli nulla. Aveva dieci anni, i capelli a caschetto e l’aria seria. «Scema, scema», mi canzonò.
«Non è vero», insistetti non troppo convinta, mentre la Madre lo riprendeva.
Ilai si sentì escluso e credo pensò in fretta a cosa dire. «È vero, i tuoi genitori ti hanno abbandonata per questo.»
Un minuto dopo, Pietro era in punizione, Ilai si era preso un ceffone dalla propria madre e io ero in lacrime in braccio a Madre Brìgit, nel salotto che faceva da ingresso all’istituto.
«Tu non devi credere a tutto ciò che ti dicono», stava dicendo la donna, asciugandomi le lacrime. «Quante volte ti ho raccontato come stavano le cose, eh?» Cercò di consolarmi. «Non smetterò mai di dirti quanto tua madre ti volesse bene.»
Era vero. Non ho memoria di quando lei iniziò a parlare di mia madre, quella naturale, perché me ne aveva sempre parlato. Non era mai stato un mistero: sapevo con dovizia di particolari com’era vestita quando mi lasciò all’istituto, come fossi vestita io e cosa disse. Tuttavia l’unica cosa tangibile che quella donna mi avesse lasciato - a parte un nome insolito - era un cerchietto di un
verde intenso attorno all’iride di ogni occhio, che si separava in modo netto dalla zona nera, come fossero due parti ben distinte.
Questo era considerato un difetto nella razza Umana perché, da quando la Terra aveva deciso di cambiare il suo aspetto, la maggioranza della popolazione Umana aveva gli occhi scuri, neri o castani, pochissimi sfortunati li avevano chiari e spesso erano frutto di un incontro deprecabile tra un Umano e un Lupo Grigio oppure tra un Umano e una Tigre Bianca.
Queste ultime avevano, in forma umana, gli occhi blu, azzurri o grigio chiaro, in tutti i casi mai neri. I Lupi, invece, possedevano grandi occhi gialli oppure verdi, pochissimi grigi.
«E se non fosse così?» Non la guardai, tenendo il broncio. Ero la più piccola dell’orfanotrofio e a quattro anni affrontavo la mia storia con la consapevolezza di una persona adulta e tutta l’immaturità di quell’età.
«È così, invece», insistette con dolcezza Madre Brìgit. Portava i capelli corti, neri, dentro un velo di cotone bianco e leggero, che le avvolgeva il capo con semplice candore; non era né alta né bassa, era magra, i fianchi appena accentuati, e con la pelle scura, più scura della mia, aveva la tonalità della terra bagnata. La parte più bella di lei erano gli occhi, neri come la pece, liquidi come il mercurio; desideravo solo averli come lei. «Mi hai capita?» stava chiedendo. «Io lo so, perché lei è venuta qui e ti ha lasciata, chiedendomi di prendermi cura di te. Lei era molto malata e solo per questo ti ha lasciata. Voleva solo salvarti la vita e ti voleva bene, Batuffolo, perché ha fatto tanta strada per portarti da me.» Le sue parole erano balsamo per le ferite del mio animo, le ferite con cui ero venuta al mondo. Mi guardò. «Non ti devi mai scordare di questo che ti dico. Promesso?»
Annuii con riluttanza e poi feci seguire la solita serie di domande che le ponevo in queste circostanze. Com’era mia madre? Mi assomigliava? Come si chiamava?
Mi addormentai quando in forno la torta era pronta.
***
Ilai García mi fece cenno di fare silenzio; eravamo sgattaiolati fuori le strade del quartiere con fare furtivo. Udii il chiacchiericcio di alcuni bambini che stavano giocando a palla. Ilai mi afferrò per un braccio e mi tirò dietro alcune siepi, facendomi accucciare.
Osservai dall’altra parte, tra le foglioline di una pianta che non conoscevo, dove c’era un piccolo campo di calcio polveroso, tra alti alberi di Cocco giallo. C’erano quattro bambini, tutti più alti di me. Ne avevo visto solo uno una volta, gli altri non li conoscevo. Stavano giocando con il pallone, tirandoselo con dei aggi improbabili. Il pallone era di Ilai, glielo avevano rubato qualche giorno prima mentre ci giocava in strada.
Lui era venuto a piagnucolare da me. Non ero brava con la palla e non era un gioco che mi pie fare. Non sono mai stata una persona molto coraggiosa, tuttavia avevo un innato odio per l’ingiustizia, per i soprusi.
Ilai lo sapeva, era così che mi convinceva a fare un sacco di cose
Aveva organizzato tutto. Mi prese per una spalla. «Sei pronta?» Il cuore mi batteva forte e mi si strinse lo stomaco. Feci cenno di sì col capo e lui mi mise i manici di una sacca di plastica intorno al collo. «Devi rimanere là finché non vanno via.»
«Lo so, mica sono così cretina», bofonchiai risentita.
Li osservammo giocare per un po’ di tempo, poi il pallone rotolò a qualche metro da loro. «Ora!» sussurrò Ilai deciso.
Scattai in piedi e corsi verso la palla. La raccolsi, senza fermarmi, e corsi via, mettendo il bottino nella sacca. Non sono neanche una persona molto veloce a correre.
Dopo un attimo di perplessità i bambini mi vennero dietro e uno di loro mi avrebbe acciuffata, se non fossi balzata sul tronco di una palma; mi aggrappai con mani e piedi e salii su.
Non guardai giù. Sapevo che non mi stavano seguendo, tuttavia non mi fermai fino a che non fui arrivata in cima. Rivolsi lo sguardo a terra verso di loro, che gridavano tutto ciò che potevano gridare.
Mi aggrappai all’albero e non dissi nulla. Nessuno mi ha mai insegnato a salire sulle palme, l’ho imparato da sola da bambina. Ne avevamo tante nel terreno dietro la creche e avevamo tanto cocco. Li raccoglieva un giovane che veniva una volta ogni mese e, guardandolo, avevo imparato.
Quella era stata la parte più facile; ora il problema era aspettare là che loro se ne andassero. Mi stavano gridando di scendere, dicendo di ridare loro il pallone, che mi avrebbero riempita di botte appena fossi scesa. È molto probabile che fosse vero, per questo motivo l’idea di scendere non era contemplata.
Volevo dir loro che erano degli idioti, che il pallone non era il loro, che era di Ilai e che lo dovevano lasciare in pace. Mi morsi le labbra per tenere la bocca chiusa. Lui non voleva: diceva che si sarebbero vendicati su di lui e così sarebbe stato tutto inutile, tanto valeva che fosse andato lui a riprenderselo.
Continuarono a gridare e a tentare di lanciarmi sassi, mentre me ne stavo lassù come una scimmietta. Cercai di non badarvi, se avessero tirato bene e in alto, sarebbe stato un problema.
Guardai davanti a me: una distesa di casette, piccole e sconclusionate si stendeva sulla valle del Tever. Si chiamava così perché un tempo c’era un fiume con quel nome. Ora non ve ne era traccia. A Roma, Caput Mundi - così dicevano? - dopo il Grande Terremoto, nulla era rimasto come prima.
C’era una grande spianata e a sud, molto lontano, tanto da non essere visibile agli occhi, il mare. Alla mia sinistra, verso est, degli altopiani si ergevano su un dislivello assai ripido. Distavano da noi ottanta chilometri, forse meno, ma li vedevo sempre in maniera nitida, si stagliavano all’orizzonte come un avvertimento.
Da qualche parte in quel posto si era formata una grande montagna, il picco d’Adamo. Ignoravo perché si chiamasse così, sapevo solo che se mi fossi girata un poco l’avrei scorta e con la stessa certezza sapevo che sarei anche caduta.
Strinsi più forte gambe e braccia sull’albero. Mi doleva tutto. La corteccia era ruvida, e mi pungolava in diversi punti del corpo.
Lanciai un’occhiata al cespuglio dove doveva trovarsi Ilai. Non c’era. Aggrottai la fronte e strinsi le palpebre per vedere meglio. Era andato via. In compenso i bambini erano ancora là, e si era radunato un gruppetto di persone.
Sebbene potessi sentire benissimo cosa stessero dicendo, facevo orecchie da mercante e canticchiavo una canzoncina che non ricordo più. I minuti però avano con una lentezza tediosa e, se chiudevo gli occhi, potevo sentirli scivolare sulla pelle come lumache. Stavo morendo di caldo: a quell’ora, agitata, tesa e aggrappata con tutta la forza che avevo, stavo sudando come fossi in un forno. I capelli sciolti scendevano un poco sotto le spalle e mi tenevano ancora più caldo. Ma dov’era Ilai? Se n’era andato, quel codardo.
Non gli avrei fatto mai più un favore come quello. Mai più.
«Scendi, scendi», dicevano sotto di me. E poi il mio nome echeggiò sul campetto arido come un tuono troppo vicino. «Shayl’n Til Lech! Scendi subito da quella palma!»
Sgranai gli occhi e guardai sotto, sapendo con precisione chi fosse stato a pronunciare quelle parole.
‘Lech’ non era il mio cognome, o meglio, non lo era sempre stato. Mia madre, quella che mi aveva messa al mondo, quando mi aveva lasciato alla creche, aveva chiesto per favore di farmi mettere un cognome che non fosse mio e aveva fatto promettere a Madre Brìgit di mettermi il suo. Lei lo aveva promesso.
Ed era lei che ora mi chiamava a gran voce. Voce arrabbiatissima. Mi osservai velocemente intorno, come se potessi fare qualche altra mossa, magari saltare da un albero all’altro.
Non avevo valutato la sua presenza nella mia discesa - in realtà, non avevo considerato la presenza di nessuno: nel piano di Ilai, dovevano andarsene tutti via, annoiati e stufi di aspettarmi. Meditai su questo, mentre le mie gambe iniziavano a muoversi verso il basso - e la mia gonna a salire verso l’alto.
Lanciai un’occhiata di sotto, evitando lo sguardo furioso di Madre Brìgit, e mi sembrò che ci fosse tutto il quartiere. A ogni modo non potevo più evitare il fatto: dovevo scendere e pure in fretta. Lo feci.
Non avevo ancora messo un piede a terra quando le braccia forti della Madre mi afferrarono per un gomito. «Cosa diamine stavi facendo lassù?» domandò sillabando ogni parola.
«Mi nascondevo», mormorai con il cuore in subbuglio.
Inarcò le sopracciglia. «Ti nascondevi?» Non si piegò a incrociare i miei occhi, rimase dritta con le spalle larghe, guardandomi dall’alto. A nove anni le arrivavo alla vita, forse poco più. «E da chi ti nascondevi, di grazia?»
«Dai bambini. Quelli là.» Li indicai con la mano, erano un po’ nascosti in mezzo alla folla, ma li vedevo bene. «Avevano preso il pallone a Ilai e…»
«Shayl’n Til, non potevi nasconderti dai bambini. Sapevano benissimo dov’eri!»
Sbattei le palpebre. Il suo discorso filava liscio. Feci un sospiro teatrale e iniziai a spiegarle la situazione; prima che potessi finire la prima frase, lei mi tirò via, attraverso la folla che ridacchiava. Imponendomi il silenzio, mi tirò fino alla creche.
Ilai non era neppure là.
Mi fece entrare dentro, mentre un gruppetto di bambini si accalcava alla porta, lei lanciò loro un’occhiata significativa e loro se ne andarono. Si sedette di peso su una delle poltroncine all’ingresso, dove le pareti erano intonacate di giallo. Mi tolse la sacca con la palla, che era rimasta appesa al mio collo. «Quante volte ti ho detto che non voglio che salga sulle palme?»
La fissai per qualche secondo, il suo tono non era arrabbiato, era preoccupato. «Mi dispiace», mugolai.
Da seduta il suo viso era all’altezza del mio. «Batuffolo, so che sono cose che fai per Ilai, so benissimo che non lo fai per farmi arrabbiare e preoccupare, ma è una vita che ti dico di non dargli retta.»
Pencolai sulle gambe. «Sì, lo so, solo che non era giusto che…»
«Non dico che lo fosse, Batuffolo. Dico che non ne caverai nulla di buono. Sono
nove anni, nove anni che ti ripeto le stesse cose», asserì. «So che è difficile.» Aggrottò la fronte. «E tu, beh, tu devi crescere, e solo il buon Dio sa quanto crescete veloci qui alla creche. Non posso fare altro, posso solo cercare di farti crescere intera e al meglio. Ilai non sembra avere la stessa intenzione.»
«Ma lui è mio amico», protestai «Lo stavo aiutando.»
«Un vero amico, se ti chiede aiuto non mette nei guai te, lasciandoti da sola, quanto meno perché tu non hai lasciato solo lui. Un amico affronta i guai con te, non ti usa per i suoi comodi», sospirò. «Ti chiedo solo di non fare tutto ciò che lui ti dice, di non metterti nei guai. Anche se credi che sia la cosa migliore, per favore, Batuffolo, prima parlane con me.»
Grattai la testa, annuendo appena.
«Quando qualcosa non va bene e quando qualcuno fa un’ingiustizia a te o a qualcun altro, per favore, vieni a dirmelo. Va bene?» insistette.
Annuii di nuovo guardandomi i piedi.
«E ora, per favore, vatti a lavare», concluse guardando la mia pelle sporca e appiccicata dal sudore.
Non vidi Ilai per diverso tempo. Non seppi cosa ne pensava né cosa gli avessero raccontato e non riebbe più indietro il pallone, che finì tra i giochi della creche.
4
«Shay.» Nilmini attirò la mia attenzione e si arrampicò su di me. Farmi chiamare batuffolo da una bimbetta piccola e paffuta mi procurava una certa insofferenza, sicché le avevo detto io, qualche tempo prima, di chiamarmi 'Shay'. «Chi sono?»
«Non lo so, pulcino.» La feci entrare tra le mie braccia allargandole. Ero ancora ammanettata e potevo fare solo in quel modo.
Dovevamo essere in viaggio almeno da una settimana, forse dieci giorni. L’aria era diventata più fresca e un uomo e una donna ci avevano raggiunti nella mattinata. Poi ci eravamo fermati per mangiare e riposare.
Ci trovavamo al centro di due alture, lo sapevo poiché in mattinata avevamo ato un punto alto con poca vegetazione e che ci aveva permesso di guardare il paesaggio. Non avevo idea di dove ci trovassimo, la giungla era diventata fitta ed eravamo costretti a farci largo tra il fogliame. In quel momento eravamo fermi in un punto poco più aperto, a forma di esse, tra lunghe liane. Erien si stese accanto a me e si addormentò. Anche Khaled si stese vicino a noi, ma tenne gli occhi aperti. Era un bambino vivace, tuttavia da quando ci avevano presi, era rimasto muto tutto il tempo.
Le Tigri non sembravano mai stanche e, ora che c’era una donna, sembravano anche più di buon umore. Si chiamava Nalinika, portava i capelli sciolti sulle spalle, erano neri, scendevano come una cascata di raso e splendevano come pietre preziose a ogni raggio di sole che si intrufolava nel fogliame. Aveva gli occhi di un luminoso azzurro chiaro e avevano una forma che ricordava proprio un felino. La trattavano con rispetto e spesso accennavano a un inchino cortese
quando le si rivolgevano e lei, di tanto in tanto, rispondeva con un accenno di riverenza elegante e composta.
Li osservai a lungo. Erano tutti molto rilassati e chiacchierarono in arindo come se fossero a un raduno tra amici. Osservai Dahaljer - o Ahilan, o come diamine si chiamava- sedersi accanto alla donna e arle un braccio sulle spalle, avvicinare il proprio viso a quello di lei e dirle qualcosa. Erano proprio di fronte a me e potevo vederli bene. Mi aspettai che la baciasse e mi scoprii a rimanere con il fiato sospeso. Però lui non la baciò, le sorrise in modo dolce. Pensai di non averlo mai visto comportarsi a quella maniera, in quei giorni, e ne fui sorpresa.
Lei rise con una certa eleganza di quello che lui le aveva detto, rise anche qualcun altro, non con altrettanta eleganza.
La donna era alta come gli altri uomini, a parte Layo, e poco più bassa del capo, quindi, pensai doveva essere due o tre centimetri più alta di me.
Constatai che Ahilan fosse senza dubbio il più bello e mi amareggiai per averlo pensato.
Nalinika disse qualcosa indicandoci e fui costretta a distogliere lo sguardo. Tesi i muscoli quando vidi Ahilan e Srei venire verso di noi.
«C’è qualcuno là», esordì Dahaljer «che pensa che dovreste avere le mani libere.»
Erien si alzò a sedere. Io lanciai un’occhiata a Nalinika, che mi stava guardando, e lei sorrise.
Srei si chinò a liberare Erien, che lo ringraziò, mentre io facevo scendere Nilmini dalle mie braccia. Mi alzai in piedi allungando i polsi verso Ahilan. «Anche se riusciste a scappare, non potreste raggiungere niente e nessuno da qui», disse.
Mi massaggiai i polsi segnati e meditai su quanto mi stesse dicendo; quando mi fermavo a riflettere sulla nostra situazione una stilettata colpiva le mie viscere: i giorni avano e noi ci allontanavamo da Roma, dalla nostra vita, verso l'ignoto, poiché nessuno voleva fornirci altre spiegazioni. Il dolore di quella realtà era in grado di farmi perdere l'equilibrio come se ricevessi frustrate che poi mi intorpidivano i pensieri. Cercavo di mantenere la quiete di mente e corpo, ma qualcosa mi fece scattare, quando lui disse: «Non potete fare niente. Siete in trappola.» Feci un balzo e gli saltai addosso, lo strinsi con le braccia e cercai di calciarlo.
Lui, sorpreso, si beccò una ginocchiata nello stomaco esclamando un «Ehi.» Mi afferrò per la vita e cercò di togliermi di dosso, ma strinsi forte, continuando ad agitarmi e cercando di graffiarlo. Anche lui serrò la presa e mi allontanò, evitò per un soffio un pugno in viso che stavo per assestargli e mi gettò a terra, cadendo insieme a me.
Mi bloccò con una gamba e mi fermò le braccia stringendole con le mani. «Bel ringraziamento.»
«Fottiti!» Lo guardai in cagnesco con il respiro affannato. «Questo è quello che ti meriti per avere ucciso Andrè, Elias e Hassan», dissi con voce strozzata. «Anzi, ti meriti di peggio, brutto pezzo di merda.»
Accanto a noi i bambini e Erien erano ammutoliti, Srei osservava la scena divertito. Anche Nalinika ci aveva raggiunti e mi guardò preoccupata.
«Lasciala, Ahilan, le fai male», disse in arindo ichslavo.
Lui non si mosse. «Ti ascolto troppo, non vedi che è lei?»
«È solo una ragazzina.»
Lui la fulminò con lo sguardo. «Lo sai che non lo è.» Poi si rivolse a me: «Se ti lascio libera, starai buona?» Mi premette il ginocchio sullo sterno, senza lasciarmi molta scelta, e io annuii. «Sicura?» Insisté.
«Sì…» Che cosa voleva che gli dicessi?
Lui scattò in piedi e se ne andò, guardandosi il braccio dove lo avevo graffiato, seguito da Srei. Io rimasi sdraiata riprendendo fiato finché Nalinika non mi aiutò ad alzarmi.
«Tutto ok?» mi chiese nella mia lingua - come Ahilan, aveva una pronuncia perfetta.
«Potrei stare meglio», risposi togliendomi la terra dalla maglietta. «È il tuo
ragazzo quello stronzo?»
La donna mi scrutò, spostando lo sguardo dal mio occhio destro a quello sinistro, facendomi sentire in imbarazzo. Poi abbassò la testa.
Ci avevo visto giusto, era poco più alta di me. «Se serve qualcosa, chiamatemi pure», disse Nalinika senza rispondere alla domanda. Raggiunse gli altri.
Nilmini mi abbracciò una gamba. «Perché fai così?» mi chiese, tirando su la testa a guardarmi.
Le scompigliai i capelli e la presi in braccio. «Non lo so», ammisi. «Non mi piace stare qui. Non mi piace questa situazione e ho solo voglia di tornare a casa»
All’improvviso, Khaled mi cinse la vita. «Anche io voglio tornare a casa», si lamentò.
Lo strinsi a me con un braccio. «Lo so.»
Anche Erien si era alzata e ci osservò. «Forse, però, ormai dobbiamo accettarlo, altrimenti non ne usciamo.»
La fissai. Perché era sempre così giusto ciò che diceva? Mi stupii quando anche lei ci strinse in quell’abbraccio strano. Rimanemmo così per qualche minuto,
cullandoci a vicenda.
Poco dopo riprendemmo il cammino e i due giorni a seguire furono calmi e rilassati, una quiete insolita, che, ne ero cosciente, poteva rompersi in qualsiasi momento, almeno da parte mia. Rapitori e rapiti mangiavano insieme e riuscirono a farsi anche qualche battuta. Tuttavia non riuscivo a realizzare quella situazione, tanto era assurda.
Anche Khaled iniziò a chiacchierare, come era solito. Si appiccicò a Jama e non lo mollava un attimo, gli raccontò di sé, delle suore, di come si era rotto un braccio l’anno prima. L’uomo lo ascoltava senza interromperlo.
Con Erien notammo che ogni tanto uno di loro spariva per una mezza giornata e tornava indossando solo un tapi, indossato come una gonna lunga, arrotolata intorno alla vita. Ci chiedemmo dove andassero, ma non trovammo risposta.
Avevamo una notevole libertà di movimento, per quanto di solito rimanevano a pochi i da loro. Seguivamo il corso di alcuni fiumi, alcuni poco più che ruscelli.
Decisi di allontanarmi per andare al bagno, e dopo decisi di seguire le anse di un fiume largo e basso; era un bel posto, la vegetazione si apriva sull’acqua lasciando entrare raggi di sole che brillavano sulle rocce bagnate; l'aria sembrava scintillare di una magia spirituale. Feci un sospiro profondo, accucciandomi sulle gambe per contemplare quel posto. Non potevo credere di essere in un posto così bello in una situazione così inaccettabile. Mi chiesi cosa avesse saputo Madre Brìgit, se aveva appreso che eravamo stati rapiti, o se ci avevano dato per scomparsi e basta. Ah, se solo avessi lasciato Nilmini a casa! Pensai.
Ero sovrappensiero e sussultai sentendo un rumore dietro di me. Era l’uomo che era venuto con Nalinika, non sapevo neanche il suo nome, non era spesso con noi. «Che fai qui?» chiese nella mia lingua con un accento sbagliato su ogni parola.
«Niente.» Mi alzai di scatto. «Stavo tornando indietro.»
«Aspetta.» Avrei potuto correre, oppure estrarre il coltellino dai miei anfibi, oppure saltargli addosso e riempirlo di botte. Non feci nulla. Mi afferrò un braccio prima che potessi rendermene conto e io, terrorizzata, non riuscii a muovere un muscolo. «Forse aspettavi me.» Sogghignò.
Nell’istante in cui le mie palpitazioni iniziarono a martellarmi nello stomaco, fece una mossa con le gambe che mi mandò a terra, spezzandomi il respiro. Mi salì sopra; la luce dorata a illuminargli il volto nella penombra.
«Lasciami.» La voce mi si ruppe in gola.
«Perché, altrimenti che fai?» Le sue pupille si dilatarono, mi accarezzò il viso con le dita. «A nessuno importa di te. A me però potrebbe importare qualcosa, qualcosa in particolare.» Di colpo le sue pupille diventarono due fessure, gli occhi grigi, quasi bianchi, luccicarono.
Lanciai un grido conscia del fatto che nessuno mi avrebbe sentita, nessuno in grado di aiutarmi. Lui mi chiuse la bocca con la mano. Se non fossi stata divorata dalla paura gliel’avrei morsa, ma ero bloccata in ogni movimento da un senso di puro terrore. Chiusi gli occhi. No, ti prego, questo no.
Stava dicendo qualcosa, qualcosa che non mi piaceva sentire, poi fece scattare una pistola.
Saltai un battito. Mi avrebbe uccisa prima o dopo?
«Non la toccare.» Aprii gli occhi.
Dahaljer gli stava puntando un’arma addosso. Non potei fare a meno di pensare che fossero le stesse parole che avevo detto io a lui qualche giorno prima, quando stava per prendere in braccio Nilmini. Con la stessa nota sicura e indignata nella voce.
L’uomo gli rispose in arindo, senza lasciarmi, sorrise divertito e Ahilan non si mosse di un o. Non capii tutto quello che si dissero, solo che l’uomo disse qualcosa come «ti serve viva» o una frase molto simile, ma alla fine si alzò. Rimasi a terra, paralizzata, mentre loro due continuarono a dirsi qualcosa a denti stretti.
L’altro si allontanò di un paio di metri, guardandoci, Dahaljer mi prese la mano e mi mise in piedi con facilità e senza che io fi resistenza. Si voltò di nuovo verso di lui. «Vattene!» sibilò. Quello ubbidì continuando a sorridere.
Non sapevo quanto fe caldo, tuttavia mi ritrovai a tremare come una foglia, mentre lo guardavamo sparire dentro la giungla, oltre il fiume, oltre la magia. Dahaljer si voltò a guardarmi, sembrava imbarazzato, il viso corrucciato; eravamo soli. Feci un o indietro, serrando i pugni e smettendo di tremare. Mi
tese una mano, in silenzio.
La fissai per qualche istante e lentamente scossi la testa. Lui annuì, abbassandola. «Mi dispiace», disse solo.
Avevo le gambe molli e il battito ancora accelerato, le ginocchia mi si piegarono e lui mi afferrò al volo. Mi fece sedere a terra, con delicatezza. Piegando la testa, mi misi le mani nei capelli e chiusi le palpebre, facendo un respiro profondo a bocca aperta. Nonostante la sensazione di freddo avevo il viso caldissimo.
Ahilan fece alcuni i indietro e si sedette a qualche metro da me, senza guardarmi, come per darmi un mio spazio. «Quando vuoi, torniamo dagli altri», disse.
Non so cosa raccontò lui agli uomini e Nalinika, io non dissi nulla di quel fatto. Strinsi Nilmini a me e restai stretta a lei per due giorni, portandomela in braccio, ovunque andassimo. Come se fosse lei a dover salvare me, come se fosse lei a potermi proteggere. Dopo quattro giorni iniziò a chiedermi di «non fare così.» La lasciai libera, tenendola sotto controllo con lo sguardo.
Mi muovevo sempre con Erien, andavo con lei ovunque, più di una volta mi chiese cosa avessi, non le fornii nessuna risposta e lei non insistette. Aveva sedici anni, era arrivata alla creche due anni prima e tra di noi non c’era mai stata una particolare amicizia, tuttavia mi conosceva abbastanza per sapere quando non avrebbe dovuto continuare a chiedere.
Non vidi più l’uomo che era arrivato con Nalinika.
Qualcuno disse che mancavano quattro notti di marcia alla prima tappa. Erano guardinghi e meno rilassati di prima, perché, da quello che riuscii a capire, era una zona pericolosa.
Una sera Erien sembrava particolarmente affettuosa, si spupazzò Nilmini per un po’ di tempo e contro ogni previsione mi disse che mi voleva bene. Sorrisi e dormii un sonno tranquillo. Mi chiesi se stessi accettando quella situazione.
Ma la mattina dopo cambiò tutto di nuovo.
Aprii gli occhi svegliata dai rumori degli uccelli che all’alba erano sempre molto forti e striduli. Eravamo in una radura e potevo scorgere il cielo sereno e profondo.
Guardai Khaled addormentato, sdraiato a una decina di metri da me. Nilmini era in braccio a Nalinika e stava mangiando qualcosa che la donna le stava dando; era vestita anche lei con il tapi, che le girava intorno alla vita e sul seno, coprendola. Notai che anche Srei e Layo avevano solo il tapi, mentre Jama aveva i vestiti da soldato. Le armi erano lasciate da una parte, vicino agli zaini.
Mi stropicciai gli occhi. Erien non era accanto a me e non c’erano neanche gli altri due uomini dai nomi impronunciabili.
Osservai Ahilan fare una carezza a Nilmini e poi allontanarsi nella giungla. Mi voltai dall’altra parte, volevo dormire un altro po’, chiusi gli occhi e rimasi ferma qualche minuto. Nel dormiveglia qualcosa, però, mi turbava. Notai che le
scarpe che Erien metteva solo per camminare non c’erano. Mi svegliai del tutto di soprassalto e mi tirai su a sedere guardandomi intorno. Ma dov’era andata?
Mi alzai in piedi e senza neanche indossare gli anfibi raggiunsi gli altri, che non mi badarono.
«Dov’è Erien?» chiesi senza giri di parole.
«Se ne è andata.» Fu Nilmini a rispondere.
«Dove?» le chiesi con troppa foga e la bambina si spaventò. «Dove?» ripetei rivolgendomi a Nalinika.
Lei mi guardò con un’aria strana, un misto tra preoccupazione e senso di colpa e quello mi agitò. «Jama», chiamai «dov’è Erien?»
«Ahilan l’ha mandata con Tkkgler e Himawdda.»
«Dove?» Sentii crescere la rabbia.
Si strinse nelle spalle. «Dove vivono loro. Non conosci il posto.»
Mi accigliai. «Perché?»
«Perché sì.» S’intromise Srei. «E non tornerà, quindi calmati.»
«No. Voglio sapere perché e dove.» La rabbia montò del tutto dentro di me, come un fiume in piena.
Non risposero.
«Dov’è Dahaljer?» dissi nel tono più duro che mi riuscì.
Jama indicò il punto dove l’uomo era andato. «Tornerà tra poco.»
Salii su tutte le furie e, senza pensarci, agguantai una pistola, sfoderandola; prima che potessero muoversi, gliela puntai contro.
«Shayl’n…» iniziò Nalinika.
«Ferma dove sei», l’interruppi. «Devo parlare con tuo marito.»
Srei si mosse e mi puntai l’arma addosso. «Sono io che vi servo, no? Se mi seguite, mi sparo.» Lui alzò le mani in segno di resa, sorpreso, benché ancora oggi mi chieda se dovessi essere davvero credibile in quel frangente. Mi voltai veloce e presi la direzione indicata poco prima.
Corsi per cinque minuti tra le fitte felci della giungla, mossa più dalla rabbia che da altro. Non sapevo con esattezza dove stessi andando, ma poi davanti a me si parò una tigre bianca, grossa come non ne avevo mai viste, né immaginate. Esclusa la coda superava i due metri di lunghezza, doveva essere alta un metro e soprattutto doveva pesare molto più di duecento chili.
Il suo naso rosa, contornato da vibrisse sottili, era rivolto verso di me, come i suoi occhi, che splendevano come zaffiri illuminati. Una sensazione di paura mi strinse lo stomaco, premetti le labbra tra i denti. La tigre mi guardò, aveva intorno al torace un tapi arancione. E io la riconobbi, era Dahaljer. Deglutii.
«Ti stavo cercando», dissi incerta. Poteva capirmi?
La Tigre si avvicinò e io gli puntai la pistola, fermandola.
«Non dovevi farlo! Non dovevi mandare via Erien e senza dirmelo, poi. Mi sono stufata di questa storia», urlai in preda alla disperazione. «Io ti ammazzo.» La pistola mi tremò in mano, non ero sicura di sapere come si usasse, la analizzai un istante e feci per caricarla.
La bestia fu più veloce e mi saltò addosso, con un colpo mi mandò a terra e ruggì forte. Trasalii e persi l’arma nella caduta, ma cercai di rialzarmi e riprenderla, non appena lui si spostò. Afferrai la pistola e feci per sparare.
Ahilan allora mi diede una zampata e affondò su di me; mi sentii squarciata. Lui si rese conto di avermi perforata con gli artigli e li ritirò immediatamente.
Lanciai un urlo di dolore, mentre il sangue scivolava fuori dalla ferita e le lacrime dagli occhi.
La Tigre rimase interdetta, mugolò e si spostò quando Nalinika iniziò a gridargli di togliersi.
Continuai a urlare sentendo un dolore immenso propagarsi dal basso ventre e il fianco. E non smisi finché non mi si annebbiò la mente.
5
A dieci anni ero ancora la bambina più piccola dell’istituto.
Da quel che ricordo, ho sempre dormito con Salina; Clarissa era arrivata quando avevo sette anni. Era Salina a insegnarmi le buone maniere. La guardavo di sottecchi, quando andavamo al centro a pregare e lei faceva profondi inchini ai Bamiy. Tutti i nostri centri religiosi erano presidiati dai Bamiy, loro non condividevano il nostro credo, e si limitavano a osservare con attenzione le nostre mosse all’interno dei luoghi di culto.
Una volta all’anno andavamo al Colosseo, tutti quanti. Era il centro religioso principale. Era frequentato da Umani e Lupi Grigi, perché se per i primi era un luogo di culto, per i Bamiy era un luogo archeologico molto importante, uno dei pochi che era rimasto in piedi sulla faccia della Nuova Terra.
Mi piaceva molto quel posto. Per secoli era rimasto in piedi, per un periodo ne era rimasta solo una parte. Dopo il duemiladodici, quando i superstiti del Grande Terremoto avevano ripreso a vivere una vita normale - ci vollero più di cento anni - fu interamente ricostruito anche il Colosseo.
Un giorno, mentre rimuginavo su questi fatti, appollaiata sul davanzale della cucina, Lechy García venne da noi correndo. Salina e Clarissa stavano tagliando a fettine delle zucchine, canticchiando una canzoncina che la mattina avevano insegnato ai bambini più piccoli, quando la donna entrò di corsa.
«Ci sono i Bamiy che girano nel quartiere!» esordì agitata. «Stanno facendo delle parate sulla via principale e ci stanno facendo andare tutti là.»
«Tutti?» Era stata Madre Brìgit a parlare, era sulla porta che dalla cucina dava al giardino anteriore.
«Sì, tutti.» Lechy sbatté le palpebre «Dovete venire», insistette. «Preparatevi perché altrimenti vi vengono a prendere.»
Fu così che quel giorno andammo tutti quanti a quella sorta di parata.
Era inverno, ma sulla Città Eterna, un tempo dal clima mite, la temperatura non scendeva mai sotto i quindici gradi. Portavo una maglietta verde con un cuoricino e dei pantaloni neri che mi arrivavano a metà ginocchia e mi stavano un po’ larghi.
Come aveva detto Lechy, furono i Lupi Grigi a venirci a prendere, e ci portarono tutti in strada, con i fucili puntati su di noi. Fecero una parata, erano militari, e poi, sulla piazza principale, il capo fece un lungo discorso di cui non ricordo molto. Non feci molta attenzione, ero distratta dai pensieri che mi balenavano per la testa.
Li guardavo preoccupata e incuriosita nello stesso tempo. I Lupi Grigi, come anche le Tigri Bianche, erano esseri che prima del duemiladodici non esistevano. Erano Umani geneticamente modificati dagli Umani stessi, prima che arrivasse il Grande Terremoto. Prima, però, era una faccenda segreta e soprattutto ristretta, a cui lavoravano diverse Nazioni, oggi inesistenti - se non di fatto, almeno di nome. Con il Grande Terremoto cambiò tutto, furono loro a diffondersi per il
mondo, o per lo meno per il mondo occidentale. Nel continente oceanico non esistevano, motivo per cui molti Umani cercavano di emigrare in quei posti.
Lupi e Tigri si erano fatti guerra per lunghi anni e nonostante le seconde fossero più forti, i primi erano più numerosi.
Di loro c’era dato sapere ben poco.
Avevano tutto quello che volevano, avevano rimesso in piedi le città - le loro, almeno - ristabilito comunicazioni, economia e politica. A noi tutto ciò, però, non era stato concesso. Avevamo la radio, dove loro trasmettevano solo ciò che credevano dovessimo sapere. Avevamo le strade asfaltate, solo dove loro credevano fosse giusto che ne avessimo. Della moderna tecnologia, del benessere e delle comodità che gli Uomini, alcuni Uomini, avevano conosciuto prima del Grande Terremoto, a noi non era dato nulla. Neppure la televisione, oggetto che mi affascinava e che desideravo tanto avere.
Avevano una forma di governo monarchica che seguiva regole che noi non conoscevamo e, a loro dire, non ce n’era bisogno. Noi eravamo degli schiavi e basta. Non eravamo trattati come tali, non come si erano considerati gli schiavi per secoli di storia, tuttavia era quello il nostro status. Liberi di fare, nei limiti di ciò che loro ritenevano giusto fimo.
I Lupi avevano le loro città e i loro lussi al nord. A est, sempre a nord c’erano le Tigri Bianche, i Tiouck. Entrambe le Razze vivevano là perché il clima rigido di quelle latitudini li faceva sentire a loro agio, sebbene riuscissero a sopportare il caldo più degli Uomini. Questo non toglieva loro il potere di avere il dominio su di noi.
A scuola, nell’ora di storia, studiavamo tutto ciò che era successo post ’12 come fosse storia contemporanea. Erano ati più di duecento anni da quel momento terribile e molti avvenimenti erano diventati pura leggenda.
Rimaneva leggenda anche la creazione di Tigri Bianche e Lupi Grigi. Alcuni sostengono che fossero già tra noi prima del Grande Terremoto e che i capi di stato delle Nazioni esistenti ne fossero a conoscenza, così come sapevano della clonazione di animali e umani non autorizzata. Altri sostengono invece che la modifica di alcuni geni sia stata fatta dopo quegli eventi catastrofici proprio al fine di riuscire a dare agli Uomini maggior possibilità di sopravvivere ai cento anni di sconvolgimenti climatici e terrestri, di malattie e crimini.
Negli ultimi tempi si era anche pensato che forse nei due anni precedenti il duemiladodici, basandosi unicamente su una previsione fatta dai Maya secoli orsono, qualche scienziato avesse pensato di irrobustire il delicato sistema del corpo Umano, unendo diversi geni di animali che avevano dato vita poi alle Razze dei Bamiy e dei Tiouck. - Io oggi propendo per quest’ultima ipotesi.
Insomma, ce l’eravamo cercata. Questa era l’unica conclusione di Madre Brìgit.
Quel giorno, dopo un lunghissimo discorso che non seguii, giustiziarono Uomini accusati di aver rubato armi da fuoco e alcuni Bamiy accusati di favoreggiamento. Sentii solo le grida perché Madre Brìgit ci fece voltare, sebbene riuscì a farlo solo con me, Filìp e Màrtin; Clarissa non guardò di sua spontanea volontà.
In seguito, Ilai García mi raccontò nel dettaglio come li avessero messi in fila, senza neanche bendarli, e come fossero stati uccisi dalle armi da loro stessi rubate. Quel tipo di armi, quando io ero piccola, erano una rarità che i Lupi si tenevano molto stretta. L’industria delle armi da guerra stava tentando, a quel
tempo, di ingranare di nuovo. Solo molti anni a seguire avrebbe ripreso a lavorare a pieno ritmo. Ilai mi disse che lui non aveva bisogno di armi da fuoco, che li avrebbe ammazzati tutti con un pugnale.
Attirata dalle sue fantasie omicide, lo ascoltai quando lui la sera venne a illustrarmi il suo armamentario: un pugnale prestato da un fabbro e un coltello da cucina. Sapevo che il fabbro in questione, che abitava due traverse più in fondo alla nostra, non glielo avrebbe mai regalato e che molto probabilmente se l’era visto sottrarre nottetempo. Saltellando qua e là, Ilai mi fece vedere come muoverlo.
Eravamo fuori al cancello della creche, era molto tardi, e da un bel pezzo mi credevano addormentata. Nel buio, lo guardavo fare i strani e movimenti sconclusionati, quanto i suoi ragionamenti. C’era anche Pietro con noi, che inscenava con lui una battaglia all’ultimo sangue con il coltello da cucina.
Nella sua totale assenza di grazia, Ilai riusciva a battere Pietro solo perché era più piccolo, più cocciuto e meno preoccupato di un possibile rimprovero. Fu per quello che finì per ferirlo a una gamba.
Pietro ansimò, più per la vista della ferita che per il dolore in sé, pensai. Non doveva essere molto profonda. Se ne andò imprecando contro il suo compagno di giochi, dicendogli che dovevamo giocare con le nostre armi di legno.
Non giocò più con Ilai e, nelle notti di luna piena, ero io a combattere con lui brandendo un coltello da cucina, forse da formaggio. Più di una volta finimmo per tagliarci davvero, ma erano sempre poco più che graffi. Dopo le prime volte, però, riuscii a convincerlo a giocare con le armi di legno, con la scusa, reale, che se mi fossi fatta male sul serio, Madre Brìgit non mi avrebbe più fatta giocare.
Io ero sempre il Lupo Grigio, non potevo fare altro visto i miei occhi, e lui era sempre l’Umano che salvava la nostra Razza dai soprusi. A volte inscenavamo delle storie dove entrambi eravamo Umani e dovevamo liberare qualche nostro simile dalle fauci dei terribili Bamiy o dei Tiouck.
Non capitava spesso che giocassimo così: non mi era facile uscire di notte, sgattaiolando sulle scale buie della creche, senza svegliare nessuno. E il giorno dopo era ancora più difficile riuscire a tenere gli occhi aperti.
Non smettemmo mai di farlo, però.
A diciotto anni Ilai ancora veniva a combattere con me. Io ne avevo quindici e lui riusciva sempre a convincermi, facendomi arrabbiare per qualche motivo, come rubare qualcosa a qualcuno o offendere qualcuno, e chiedendomi di risolvere la questione con le armi; a volte risolvevamo la diatriba a mani nude, il primo a finire a terra perdeva.
«Attacca, Shayl’n, non hai paura, no?» Mi incitava come fossi un cane. Questo mi rendeva ancora più furiosa e rispondevo puntuale saltandogli addosso.
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Sebbene a scuola riuscissi a cavarmela, non mi piaceva studiare e in effetti non lo facevo. Avevo un certo rifiuto per lo studio del bretençal, la lingua parlata dai Bamiy - la nostra era iuropìan romanzo - e l'arindo ichslavo, la lingua dei Tiouck. Le rifiutavo perché ritenevo che fosse inutile dover avere gli strumenti
per comunicare con loro.
L'unico piacere a mio favore era la lettura: amavo leggere e le suore me lo lasciavano fare. Però, benché i libri fossero presenti solo nelle scuole, ne possedevamo assai pochi e mi trovavo a rileggere sempre gli stessi.
Mangiare non mi piaceva. Nonostante questo, pativo spesso la fame, perché nei periodi di crisi, quando i Bamiy decidevano di punirci abbassando tutti i nostri stipendi, nessuno si preoccupava di offrirci qualcosa. Gli unici ricavi erano dati dalla scuola che avevano le suore della creche, ma capitava che i genitori più poveri non pagassero e essendo l’istruzione l’unica arma che avevamo, a quanto sosteneva Madre Brìgit, non si poteva rifiutare di dare lezioni a qualche bambino.
Quelli erano i momenti in cui ero più arrabbiata. Lei, silenziosa e stoica, non toccava cibo, riempiendo i nostri piatti con quello che aveva. A volte pensavo che avrei finito per mangiare le cortecce degli alberi, per rompere tutti i denti e mandare giù la coccia del cocco. Poiché amavo l’ananas, mi scoprivo a mettermi in bocca anche la buccia e succhiarla fino a che non diventava molliccia e amara. Delle volte mi faceva venire i crampi alla pancia.
Le popolazioni di Nuova Eyropa credevano e pregavano Maria, la Madre di Dio. Questo culto era il più forte di tutti. Non aveva un nome, dicevamo di essere mariani. La nostra religione, come la nostra lingua, era un mescolarsi continuo e privo di senso di antichi credo, che si era protratto per più di duecento anni.
Nonostante fosse Dio il Creatore di tutto, era la Nostra Signora, Umana, che aveva dato alla luce l’incarnazione dell’unico Dio, quella a cui ci rivolgevamo, quella che nei secoli era apparsa ai Suoi figli, portando amore e speranza e comportandosi come una madre.
Tuttavia la religione era un tema attuale e personale, Madre Brìgit sosteneva che fosse allo sbaraglio, ma non se ne lamentava, pregava e aiutava i più reietti con le sue stesse mani e questo le bastava.
Fu a quindici anni che Ilai García mi baciò. Non era una cosa a cui avevo pensato, eravamo molto amici, ma lui parlava spesso delle ragazze che gli piacevano e io non ero tra quelle. Avevo quindici anni e parlavamo dell’amore con fare sognante e disincantato, come di qualcosa di irraggiungibile. Una mia compagna di classe, che non viveva alla creche, raccontava spesso, durante la ricreazione, tutto ciò che si poteva fare con un ragazzo e noi altre l’ascoltavamo affascinate. Tuttavia non ero invidiosa: se il mio corpo mi dava determinati stimoli, la mia mente vagava molto più lontana, su qualcosa di non esistente.
Andai a prendere Ilai alla stazione dell’autobus. Lo facevo quasi tutti i giorni, perché lui tornava dal lavoro quando io avevo finito i miei doveri. In verità, avevo quasi sedici anni, tuttavia, in seguito, mi raccontavo di averne meno, così che il primo bacio cadesse nell’età media delle mie compagne.
Non mi ricordo come andarono le cose di preciso. Lo avevo bloccato a terra con tutto il mio corpo. Mi aveva fatto arrabbiare per qualcosa, che in quel momento neppure ricordavo più, e stavo vincendo io. Eravamo in strada, il luogo di ogni nostro scontro, vicino al finto campo di calcetto.
Mancava poco all’ora di cena e non c’era nessuno in giro. Il cielo a est era buio e profondo, a ovest schiariva in tinte cremisi e rosate. Si liberò di me, sapendo di aver perso, e si appoggiò al muro di cinta del giardino, scrollandosi la polvere dai vestiti e dai capelli che portava lunghi fino alle spalle. Mi sedetti accanto a lui. «Stai perdendo i colpi, Ilai», lo stuzzicai.
«Ti ho solo fatta vincere», mentì risentito.
«Sì, certo, lo dici sempre», replicai, divertita
I suoi occhi color nocciola si voltarono a guardarmi, mentre mi ava un braccio sulle spalle. Gli diedi una gomitata leggera sul fianco, e lui rise. «Sei un animale selvaggio, Shayl’n Til.»
«Senti chi parla. È colpa tua se sono così», dissi con troppa ironia nella voce.
«Oh, bene.» Con la mano voltò il mio viso verso di lui e i suoi occhi furono vicinissimi ai miei. «Allora sei una mia creatura», bisbigliò.
Non risposi osservando le sue labbra sottili piegarsi in un sorriso; doveva averle prese dal padre. Quando sollevai lo sguardo a incrociare il suo, le avvicinò alle mie, baciandomi l’angolo della bocca. Lo stomaco mi si strinse in una morsa.
Prima che riuscissi a chiudere gli occhi, la sua bocca si aprì sulla mia, che si dischiuse senza che io glielo comandassi. La sua lingua rapida e sicura esplorò la mia, incerta e sorpresa. Potevo sentire i miei battiti accelerati, e risposi a quel bacio imitandolo.
«Mi piaci», disse lasciandomi.
In risposta sbattei le palpebre tre volte, lui fece un’espressione divertita e si mise
in ginocchio per poi alzarsi.
Tenendomi la mano, mi tirò su. «Se non arrivo a casa entro breve, mia madre mi ammazza.»
«Tua madre ti avrebbe dovuto ammazzare per cose ben diverse», commentai asciutta e ancora scossa.
Ci incamminammo verso la nostra strada, mantenendo una certa distanza.
Pensavo spesso a Ilai in termini poco casti, ma se potevo mi tenevo lontana da lui. Quando eravamo con gli altri, mi guardava con occhi vispi e curiosi, celando qualcosa che in verità mi innervosiva.
I quindici anni furono l’età in cui mi sforzavo di essere adulta e nello stesso tempo mi crogiolavo nel mio essere ancora bambina; furono i sedici anni a rendermi più responsabile, perché arrivò da noi Nilmini.
Nello stesso tempo iniziai a essere insofferente verso i bambini dell’istituto. Non ero io la più piccola da un bel po’ di tempo e trovavo i bambini detestabili, quanto dover lavare i panni sporchi a mano. Eravamo in una creche e per questo, per quanto vivaci, avevano per lo più toni sommessi e non piangevano quasi mai. Quando si è in tanti, con poche persone che ti ascoltano, la necessità di avere un ordine costante e l’impossibilità di rimanere da soli, si impara presto che piangere serve a poco.
Ma i bambini possono guardare un difetto e non prenderlo per tale o ritenerlo un difetto senza guardarlo davvero. Succede così che alcuni bambini notano il colore fuori posto dei tuoi occhi, senza che sia un problema, oppure possono prenderlo come un problema - il tuo - e non sapere con esattezza di che cosa si tratti. La loro ingenuità sa essere crudele, se istigata. Mi ricordavano Ilai quando era piccolo, ma lui di solito era da solo.
Ci furono un paio di anni in cui i Bamiy dimezzarono gli stipendi a tutti e l’effetto fu un abbandono continuo di marmocchi. Come cani, venivano lasciati lontano da casa e i genitori rimanevano impuniti, perché a nessuno importava nulla, non a chi faceva le leggi, almeno.
Sebbene mi incuriosissero, li trovavo appiccicosi, arroganti e ingestibili. In particolare, il fatto che fossero ingestibili metteva a dura prova il mio senso di responsabilità e onde evitare i relativi problemi, me ne stavo alla larga, a meno che non mi fosse richiesto di occuparmene.
Purtroppo, vivere in una creche ed essere una delle più grandi, non ti permette di fuggire con facilità a questo tipo di incombenze e di conseguenza spesso ero di malumore. Nilmini, la mia piccola bambolina dagli occhi da cerbiatto, mi dava modo di manifestare il mio buonsenso e la mia responsabilità, tuttavia ero nel pieno dell’adolescenza ed erano di più le volte in cui manifestavo solo tutta la mia impaziente turbolenza.
6
La prima volta che avevo usato un termine di dubbia finezza avevo undici anni e stavo litigando con Ilai. Madre Brìgit mi aveva preso per le braccia e spostato di peso dal corpo del bambino, dicendomi di finirla subito, e per la seconda volta nel giro di una manciata di minuti, dalle mie labbra uscì una qualche volgarità, questa volta diretta a lei.
«Chi ti ha insegnato a parlare così?» Mi aveva rimproverata con gli occhi sgranati.
Avevo avuto il buon senso di rimanere in silenzio, ma Ilai García, che non era molto furbo e di certo non aveva buon senso, come del resto sua madre, rispose al posto mio. «Io!» Aveva gracchiato, mettendosi in piedi. «Sono stato io, e allora?»
Madre Brìgit non aveva voluto cogliere il suo tono di sfida e ci aveva detto solo di tornare ai nostri compiti. Solo in seguito mi aveva rivelato quanto non le pie il mio linguaggio da “scaricatore di porto”. Giacché non conoscevo il porto, ne approfittai per farmi dare delucidazioni su cosa intendesse per l’esattezza.
Ero ancora una bambina ubbidiente, o tentavo di esserlo ai suoi occhi, e così, per molti anni, cercai di fare attenzione a cosa uscisse dalla mia bocca in sua presenza. Questo voleva dire che quando lei non era a portata di orecchio, mi lasciavo sfuggire qualche termine imparato per strada o dallo stesso Ilai e quando ero arrabbiata per qualcosa o quando facevo a botte con lui, imprecavo snocciolando una serie di improperi più o meno osceni. Tuttavia con l’età, smisi
di farne largo uso, anche quando ancora litigavo con Ilai. Lui invece continuava a dirne parecchi, soprattutto per riferirsi ai Lupi.
Quando lo faceva, istillava in me tutto il suo odio per quelle creature dannate, abominio della Nuova Terra ed esseri senza cuore. Loro facevano la guerra e noi ne pagavamo il prezzo.
Le armi che loro prendevano - a suo tempo ignoravo da chi - erano pagate con la nostra povertà. Sostenevano la loro causa affermando che noi eravamo fortunati perché non erano i nostri figli a pagare con la vita. Il che era vero, ma non eravamo stati noi a dire loro di fare una guerra e non eravamo noi a beneficiare dei brevi momenti di pace che si presentavano a tratti nel corso dei decenni.
La pace era una parola priva di significato in una lotta che si combatteva da più di cento anni. Le Tigri Bianche e i Lupi Grigi che vivevano sui confini del Nord, dovevano saperlo bene, perché erano loro i primi a rimetterci la pelle, a volte di intere famiglie.
La violenza ha il grande potere di innescare altra violenza, e al re dei Bamiy, come al re dei Tiouck, questo andava fin troppo bene. Mantenere quello stato delle cose voleva dire mantenere sempre la miccia accesa, pronta a esplodere e, di conseguenza, avere sempre la percezione di non essersi mai arresi. Nessuno di loro voleva arrendersi, per orgoglio o per semplice follia, e lo scontro procedeva negli anni, nutrendosi delle sue stesse ceneri.
Non ho mai capito, neanche in seguito, come si possa arrivare alla violazione dei diritti basilari di ogni essere vivente, pur di esercitare il proprio potere. Sebbene, nel corso della mia vita, le armi siano ate tra le mie mani con lo scopo preciso di uccidere, non mi riesce di afferrare la logica che guida gli uomini, di qualunque Razza siano, nella prevaricazione dell’altro a qualsiasi costo.
Comprendevo, però, l’odio di Ilai, perché ne condividevo l’insopportabile senso di frustrazione di fronte all’ingiustizia e rimanevo ad ascoltarlo anche per molto tempo, quando raccontava cosa avrebbe fatto a quelle bestie bastarde, che vivevano nella bambagia alle nostre spalle. Con l’approvazione, se non l’istigazione della madre, lui sognava di farli sparire tutti dalla faccia del nostro pianeta così da ripristinare la situazione presente ante ’12, quando noi Umani eravamo gente civile.
«Però le guerre ci sono sempre state», obiettavo di tanto in tanto. Lui scrollava le spalle come a dire che stessi parlando di noccioline. Non capivo l’attinenza alle noccioline, a dire il vero, ma una volta mi aveva risposto che lui parlava di guerra, di guerra vera, e io invece gli parlavo di noccioline; così sapevo che ogni sua espressione voleva dire proprio quello.
A volte tenevo le noccioline per me e mi limitavo ad ascoltare i suoi commenti su questo o su quell’altro fatto che avevano riportato alla radio. «Quelle merde delle Tigri non la smettono di ribellarsi», diceva.
«Però sono i Lupi a calpestare i loro diritti», ribattevo; oppure mi limitavo a fargli presente che la radio che ascoltavamo riportava solo le informazioni che i Bamiy volevano darci e poiché l’unica madre che avevo avuto mi aveva insegnato che prima di accusare qualcuno dovevo sentire entrambe le versioni, io lo ripetevo.
«Devono morire tutti», concludeva, allora, fendendo colpi nell’aria con il suo coltello da cucina, il suo pugnale di legno o qualsiasi cosa avesse a portata di mano.
Madre Brìgit non era dello stesso avviso. Sosteneva che dovevo farmi gli affari miei e dire un paio di preghiere in più.
«Che ci fai con due preghiere, mica ci salvi il mondo», le rispondevo, esasperata.
«E invece con le chiacchiere che fai con Ilai che cosa ci fai?» Mi guardava accigliata.
«Mi stai dicendo che devo impugnare le armi e fare fuori tutti?»
«Per l’amor del cielo, sto dicendo che dovresti chiudere la bocca e aprire la mente.» E poi sospirava pensierosa.
Aprire la mente, a mio parere, non serviva a nulla. E così mi barcamenavo tra le imprecazioni e le promesse di vendetta di Ilai e le preghiere di perdono che mi sussurravo a mezza bocca.
Avevo iniziato a lavorare in una fabbrica di vestiti senza quasi accorgermene. Prima o poi tutti iniziavamo a lavorare da qualche parte, potevamo tenere i soldi per noi, purché dessimo una mano con i bambini e la vita in generale nella creche. Poiché per tutta la vita avevo fatto solo quello, lo facevo, senza pensarci troppo. Mi sembrava che avrei fatto quello per sempre e in cuor mio pregavo di non dover mai andare via da quel posto.
Insofferente com’ero, avevo un’unica certezza, non volevo abbandonare Madre Brìgit né Nilmini; non rientrava nei miei progetti di vita. Quando ero bambina
volevo guidare gli aerei per vedere le persone dall’alto, ora che sapevo che non era possibile, visto che non esistevano, credevo che il mio solo scopo fosse prendermi cura delle persone care.
Di tanto in tanto pensavo che, se avessi avuto un qualche vago sentore di una vocazione, mi sarei fatta suora anche io. Poi sorridevo e scuotevo la testa perché la mia spiritualità era decisamente limitata e la mia pazienza fin troppo povera. Sarei rimasta alla creche e basta, per aiutare chi ne aveva bisogno, quello lo potevo fare.
Rifiutavo solo di dovermi occupare da sola dei marmocchi e andavo poche volte in giro con loro; però capitava. Quando c’erano un po’ più di soldi, si faceva qualche gita con i più grandi. Il nostro autista, che era il cognato di Salina, spendeva un po’ del suo tempo per accompagnarci a fare qualche eggiata.
Andare fuori mi piaceva, tuttavia dover pensare ai bambini era un compito troppo impegnativo per me, anche se si trattava di portare solo i più grandi; di solito declinavo. Cercavo di attirare la loro attenzione solo raccontando qualche storia inventata, ma finivo per aggiungere sempre qualche particolare cruento per studiare le loro reazioni, così come Ilai faceva con me. Le rare volte in cui iniziavo a ottenere un loro interesse, mostrando come combattere con i pugnali o arrampicandomi su qualche palma, finivo sempre per essere rimproverata.
***
Scesi dal tetto dell’orfanotrofio dove mi rifugiavo spesso per stare da sola. Era una notte calda, senza vento, e una luna rossastra si levava lenta sull’orizzonte, illuminando la valle del Tever e disegnando nello stesso tempo ombre lunghe e minacciose tra le case, le distese di palme, le fogne a cielo aperto e i ruderi popolati da fantasmi mai visti.
Sbuffai all’improvviso e mi intrufolai nella finestra che dava sul corridoio della mia stanza.
Il giorno dopo avrei dovuto portare i marmocchi più grandi in gita, e trovavo la cosa molto irritante. Avevo resistito alla tentazione di non andare, per il semplice fatto di aver vinto la mia battaglia di portare con me Nilmini. L’intera creche aveva espresso il proprio dissenso, ma Madre Brìgit, alla fine, esasperata, mi aveva detto che potevo portarla con me, se l’avessi smessa di farla sembrare una punizione divina. Contenta di averla avuta vinta, mi sentivo all’improvviso raggirata, perché di fatto avevo acconsentito a portare i bambini in gita.
Sbuffai di nuovo. Perché io? Insomma, lo sapevano tutti che non era un compito per me, che odiavo andarmene in giro con i bambini e odiavo lasciare le strade della mia città. Inoltre odiavo l’ordine e l’ultima cosa che sapevo fare era impartirne a dei marmocchietti urlanti.
Sbuffai ancora.
«Smettila!»
Mi voltai di scatto, presi al volo il coltellino che tenevo da qualche anno sempre negli anfibi - rubato a Ilai qualche tempo prima - e lo puntai nel buio a due centimetri dal viso di Erien.
La ragazza, capelli sciolti e arruffati a incorniciarle il viso a forma di cuore, fece un balzo indietro e grugnì. «Quando la pianterai di comportarti come un
animale?»
Abbassai l’arma. «E tu quando la smetterai di spiarmi?»
«Non stavo spiando. Sono solo andata in bagno.» Aprì la porta della camera, facendomi segno di entrare.
«Sì, come no.» Rinfoderai il coltellino e mi diressi verso il mio letto.
«Vorrei solo che la smettessi di far uscire sul tetto e raccontare ai bambini storielle macabre, di spaventarli e soprattutto di sbuffare!» È vero, facevo tutto questo.
«Io sbuffo quanto mi pare» risposi, risoluta.
La sentii coricarsi sul suo letto. «Allora non lamentarti se poi io la notte non dormo», replicò.
Mi distesi anche io. «E chi si lamenta.»
«Ma perché sei così?»
Nel buio ematite alzai gli occhi al cielo. «Così come? »
«Così. Perché mi odi? E perché odi i bambini? E perché non vuoi portarli in gita? E odi tutti? »
Sbuffai di nuovo, pensando che quella era la notte giusta per discutere con qualcuno. «Io non odio nessuno. Solo non so gestire tutti quei bambini, è un mio limite e lo riconosco.» Mi sembrava una risposta sensata.
«Ma, Shayl’n, domani sono solo in quattro.» Immaginai che stesse spostando gli occhi verso destra, in un tic, come faceva sempre quando mi diceva cose come quelle.
«Più te.» Per una frazione di secondo pensai che avrei avuto tutta la notte per argomentare la mia posizione con lei, dovevo solo decidere se farlo oppure no.
«Appunto. Tu non farai niente, come al solito, farò tutto io. Di cosa ti lamenti?» La sentii tirare su un lenzuolo, frusciando con le gambe.
«Non lo so, Erien. Se fai tutto tu, e lo fai benissimo, io che vengo a fare?» Non avevo per niente voglia di mettermi a litigare, in effetti.
«Non dovresti chiederlo a me.»
«Allora buonanotte.» Mi voltai nel letto ficcando la testa sotto il cuscino.
«Shayl’n, non pensi che lo facciano per te? Per farti uscire da qui ogni tanto, per evitare di farti fare a botte con qualcuno?»
Nessuno le rispose.
«E magari», insistette lei con voce molle, «perché sanno che potresti proteggere i bambini.»
A quel punto sbuffai per l’ennesima volta. «Sì, Erien. Dormi va!»
«Ok, come non detto. Buonanotte, allora.»
Il mattino seguente Nilmini, Elias, Khaled e Andrè si trovavano già in giardino, aspettando il pulmino che ci avrebbe portati fuori per tutto il giorno. Anche Erien era in giardino a controllare che vi fossero sette sacchi con il pranzo.
Corsi giù per le scale; mi ero lavata in fretta, avevo messo i miei soliti jeans e gli anfibi ai piedi. Uscii dal portone senza guardare e finii addosso a Madre Brìgit. «Oh!»
«Sì, oh.» La donna mi guardò, con aria di rimprovero. «Non fai colazione, ovviamente.»
«Ovviamente.»
«Prima o poi morirai di fame.» Con un gesto affettuoso la donna mi ò le dita tra i capelli.
«Prima o poi, moriremo tutti», replicai senza scansarmi da quel gesto che sembrava delicato come un raggio di sole al tramonto.
Guardai quella che per anni era stata la mia unica madre con un’espressione di sfida, che la donna, ormai più bassa di me di un palmo, finse di non cogliere. «Fate attenzione oggi», raccomandò.
Sollevai le spalle e mi voltai verso la comitiva. Era arrivato il pulmino e i bambini sembravano frenetici, mentre Erien dava loro il sacco del pranzo e li faceva salire.
«Perché non mandi solo lei?» domandai all’improvviso.
«Perché ti farà bene.» Allora forse Erien aveva ragione, pensai.
Tornai a guardarla, i suoi occhi neri luccicarono amorevoli. Se l’amavo era anche per quello, perché nonostante tutto rimanevo la sua preferita. Meditai sul fatto che avrei dovuto farglielo presente, quando mi avesse di nuovo accusata di preferire Nilmini agli altri.
Mi distolse da quel pensiero chiedendomi: «erete al Colosseo prima, vero?»
«Sì, del resto Hassan ci a sempre.»
La suora annuì. «Che Nostra Signora vi benedica. Tornate per cena.»
Giunsi i palmi delle mani. «Benedica anche te.» Le baciai una guancia. Non lo facevo più tanto spesso e lei sembrò esserne felice.
Presi il mio pranzo al sacco e corsi al pulmino cercando di sorridere, sapevo che sarebbe durata poco. «Buon giorno, Hassan.» Dissi al conducente con esagerata euforia.
«Buon giorno, Shayl’n. Siamo di buon umore oggi?» chiese, avviando il motore.
«Durerà poco, non disperare.» Ma sorrisi nel dirlo.
«Bene, altrimenti mi preoccupo.» Mi osservò dallo specchietto, mentre io mi sistemavo in fondo, sui sedili più vecchi e logori di non si sa quale anno. Quattro bambini. Solo quattro. Miluna, quasi tredici anni, aveva contratto la febbre e l’aveva attaccata ad altri due maschietti. Potevo resistere con solo quattro bambini.
«Io non sono mai uscito in gita», esordì Khaled.
«Davvero?» rispose Hassan «Allora vuol dire che ora sei grande.»
Sperai che nessuno avesse nulla da aggiungere sul fatto che ci fosse una bambina di tre anni con noi. Per fortuna il bambino stava pensando alla sua età. «Sì, un mese fa ho fatto dieci anni», spiegò.
Il furgoncino traballò sulle buche della strada sterrata e Hassan imprecò, cercò di evitare rifiuti e persone buttate a terra e si asciugò la fronte con un fazzoletto vecchio.
«Il mio prossimo mezzo sarà un POD o un elicottero. Niente più rottami del duemila, ho una reputazione da difendere io.»
I bambini guardarono istintivamente verso l’alto dove volavano elicotteri silenziosi.
«Se ti fai un elicottero, noi non potremmo più permetterci di venire in gita con te», fece notare Khaled.
«Ma no, ragazzi, io vi ci porto allo stesso prezzo», rassicurò lui, asciugandosi ancora la fronte.
«Davvero?» Scattarono tutti quanti.
«Allora voleremo!» strillò Andrè.
Elias fece un gesto di sufficienza con la mano. «Sì, per allora avremo duecento anni», si lamentò.
«Beh, però voleremo», insistette Andrè.
«Certo e sulla Terra ci saranno solo gli Umani», lo prese in giro lui.
Khaled sgranò gli occhi. «Ti immagini?»
«Tu sogni. Mio nonno ha combattuto la guerra e l’abbiamo persa clamorosamente», affermò il ragazzino con voce da veterano, capelli color cenere, carnagione chiara e sguardo da furbetto. «Siamo nella merda noi.»
«Elias!» lo riprese Erien.
«Oh, scusa. Ma è così, per la Razza Umana non c’è più niente da fare. Guarda.» E indicò la strada, la povertà. «A quelli là non gliene frega niente di noi, siamo così inutili ai loro occhi che si fanno la guerra solo tra di loro. Con noi, non ne vale neanche la pena.» Elias stava parlando del tentativo di alcuni Umani di combattere i Bamiy, nel ato era successo, ed erano stati sterminati come formiche.
«Non sono discorsi che dovresti fare, ometto», lo redarguì Hassan, bonario.
«Già», concordò Erien «Nessuno di noi dovrebbe farne, tanto parlare non serve a nulla.»
«Mio nonno diceva che serviva. Serviva a ricordare chi siamo e da dove veniamo e da dove non siamo mai andati via.» Questa frase avrei dovuto rivendermela con Madre Brìgit, la memorizzai.
«Chi siamo?» chiese Andrè.
«Siamo Umani.» Rispose pronta Nilmini con un gridolino infantile. «Siamo i più fighi dell’universo», sentenziò dall’alto dei suoi tre anni e mezzo, sventolando i suoi capelli castano scuro.
«Sì, e quelli più sfigati», puntualizzò Elias.
«Basta, bambini», intervenne Erien. «Siamo quasi arrivati, vero Hassan?»
«Sì, dietro l’angolo.» E indicò davanti a sé a destra e poi svoltò.
Maestoso davanti a noi si innalzava il Colosseo, silenzioso, imponente, magico. La sua facciata di travertino sembrava catturare il sole, nei suoi infiniti archi. Chi non lo ha mai visto, non può capire.
Intorno gente indaffarata, andava veloce, saliva e scendeva da elicotteri e macchine, camminava in fretta parlando in apparecchi invisibili, gesticolando e
borbottando.
Nonostante tutti sul pulmino conoscessimo bene quel posto, restammo a guardare, catturati da quell’immagine fantastica, che riportava a gioie e dolori che solo l’umanità aveva potuto conoscere.
Deglutii. Quel posto mi emozionava sempre. Quel luogo aveva visto battaglie, romani, tigri, meteoriti, guerre. Quel posto aveva conosciuto l’umanità e non era mai crollato, non importava che la Terra non fosse più la stessa, non importava che i continenti non fossero più gli stessi, che Roma non fosse più la stessa, che tutto intorno non avesse più a che fare con la Terra che era esistita fino a duecento anni prima. Tutto questo non era servito a distruggere quell’immenso edificio.
Mi sarebbe piaciuto avere quella forza.
Hassan parcheggiò accanto a un edificio diroccato, non poteva andare oltre, da là dovevamo procedere a piedi. Scendemmo in silenzio.
«Ci vediamo qui tra tre quarti d’ora», ci ricordò l’uomo.
Erien annuì e raggiunse i bambini e me che eravamo già avanti. Lungo la strada, a destra, dei palazzi trasmettevano le immagini di quelli che erano stati i fori romani, Bamiy molto silenziosi li guardavano sorpresi.
La ragazza mi si avvicinò. «Non ho mai capito cosa abbiano da guardare. Fosse
roba loro, poi.»
Scrollai le spalle. «Se non altro, apprezzano.»
«Se non altro, non ci hanno fatto fuori il Colosseo», aggiunse Elias.
«Appunto. Forse dobbiamo accontentarci.»
Un gruppetto di Bamiy si trovava sulla nostra strada, quando li raggiungemmo, il gruppo si scansò alla svelta, digrignando i denti. Chiusi una mano a pugno come per tenermi pronta, ma quelli borbottarono qualche cosa e si allontanarono.
«Bambini, laggiù.» Erien indicò il lato destro del Colosseo dove una fila di persone vestite alla meglio aspettava il proprio turno per entrare.
Dalla parte opposta un gruppo di persone vestite in modo molto diverso, aspettava il suo.
Il nostro gruppo si mise in fila, Andrè sembrava stupefatto. «È tanto che non vengo qui, non me lo ricordavo così alto.»
La fila scorreva in fretta e ci avvicinammo alla base del monumento. A terra settanta anni prima era stata incisa questa scritta di Beda il Venerabile: ‘Finché esisterà il Colosseo, esisterà anche Roma; quando cadrà il Colosseo, cadrà anche Roma; quando cadrà Roma, cadrà anche il mondo.’
I Bamiy avevano rafforzato le fondamenta del Colosseo con un impiastro che noi Umani non conoscevamo, sembrava morbido, nonostante fosse durissimo, aveva l’aspetto del mercurio liquido e il mio corpo vi si specchiò dentro. Dal riflesso scorsi sia me stessa che le persone intorno a me, ero l’unica ad avere i capelli neri come la notte e soprattutto gli occhi per metà chiari. Sospirai e guardai altrove, il peggio in realtà doveva ancora arrivare
Quando raggiungemmo l’ingresso, la sicurezza ci controllò senza tralasciare nulla, ci fece are dentro a dei tubi e poi parlò con noi. Un Bamiy dall’aria poco socievole fissò i miei occhi, mentre sostenevo il suo sguardo. Il riflesso verde delle mie iridi lasciava pensare che fossi un incrocio con i Lupi, ma io non lo ero, ne ero sicura.
Rimanemmo all'interno del Colosseo meno di dieci minuti per pregare la Nostra Signora, i bambini lasciarono dei piccoli fiori di loto che aveva dato loro Madre Brìgit e in ordine uscirono fuori per tornare al pulmino.
Andavo a pregare in quel posto almeno tre o quattro volte l’anno da quando ne avevo memoria, lanciai uno sguardo alla struttura e non pensai neanche per un attimo che non lo avrei rivisto per tanto tempo.
SECONDA PARTE
I Didn’t Want To Know
7
Mi risvegliai a notte fonda, quando lo stesso dolore mi fece riprendere conoscenza. Nalinika mi fece cenno di stare ferma, mi tirò su la testa e mi fece bere un liquido dolce. Dopo un po’ il dolore si placò.
«Non muoverti troppo», mi ammonì con dolcezza. «Ti ho ricucito la ferita come meglio potevo, ma qualsiasi movimento basta per riaprila.»
Guardai oltre il corpo della donna, dove le felci erano più rade. Eravamo nella radura dove ci trovavamo la sera precedente e gli altri stavano dormendo.
Aprii gli occhi dopo qualche tempo, ma mi accorsi di essermi addormentata perché era giorno. Non c’era nessuno, a parte Nalinika seduta a qualche o da me, e Dahaljer, alla mia destra.
Aveva una leggera linea verticale disegnata tra le sopracciglia, che non presagivano nulla di buono. Mi domandai come potesse essere arrabbiato lui, mi avrebbe potuto uccidere e forse lo avrebbe anche fatto. In ogni caso mi aveva bloccata in diversi movimenti e procurato una bella ferita. Mi sentivo frustrata, impotente e furiosa. Cercai di fargli capire quanto lo odiassi con un’occhiata truce.
«Senti, ragazzina», iniziò.
«Vaffanculo!» sbraitai.
Mi guardarono tutt’e due perplessi, sulla bocca di Nalinika si disegnò un’ombra di un sorriso che cercò di reprimere, distogliendo l’attenzione. Lui invece tornò a guardarmi in cagnesco e io ricambiai. «Tu…»
«Io non voglio sentire niente», sibilai. «Se non posso tornare a casa, almeno lasciami in pace.» Spostai di poco la spalla e una fitta intensa si diffuse sui miei nervi. «Altrimenti uccidimi.» Anche se non avessi appena sentito dolore, la frase non sarebbe suonata lo stesso convincente.
Ottenni, però, quello che volevo: se ne andò via con uno scatto del corpo che mostrava tutta la sua ira.
Con la coda dell’occhio vidi Nalinika scuotere la testa. Mi aiutò a mangiare in silenzio e mi disse che nel cadere avevo preso una botta alla spalla o forse avevo fatto un movimento brusco che mi bloccava la muscolatura e doleva se la muovevo.
Mi lasciò riposare e qualche ora più tardi mi chiese con ostentato disinteresse di ascoltare quanto avesse da dirmi Ahilan, che si avvicinò a noi due. Non risposi, accigliandomi appena. La donna si alzò, lo guardò dritto negli occhi e lui annuì, poi lei si allontanò.
Si inginocchiò accanto a me e mi guardò. «Senti, mi dispiace.»
Mugolai chinando il capo.
«Pensavo mi avresti sparato davvero», si giustificò.
«È così», bofonchiai senza guardarlo.
«Non volevo farti male, Shay», continuò. «Davvero.»
Mi chiesi, incredula, se si stesse davvero scusando. «Non chiamarmi Shay», dissi infine.
«Nilmini lo fa.»
«Solo lei può farlo.» Spostai di poco il bacino e ancora una volta sentii il dolore invadermi il corpo. Feci una smorfia. «Loro dove sono?»
«Li ho mandati avanti. Ma sono nelle vicinanze», spiegò, riluttante. «Mi stai rallentando di molto, Shay.»
«Non ti ho chiesto io di rapirmi.»
Lui non rispose, osservò la ferita. «Ti fa male?»
Finalmente incrociai il mio sguardo con il suo, sembrava davvero preoccupato. Scrutando i suoi occhi notai quanto fossero belli e mi morsi l’interno del labbro.
Dahaljer sospirò. «Pensavo…» cominciò. «Pensavo che dovremmo iniziare da capo. So che questa situazione non ti piace, so che la tua libertà è limitata e che ti ho tolto dalla tua casa e, puoi non credermi, ma non mi fa piacere.» Fece una pausa. «Ho bisogno, anzi, abbiamo bisogno che tu venga con noi, Shay. Perché sappiamo chi sei e per te non sarà facile accettarlo. So perché stai male da qualche tempo e ti devo delle risposte e devi essere pronta ad accettare il fatto che non sei Umana… non completamente almeno.»
Gemetti e chiusi gli occhi. Avrei voluto spaccargli la faccia, ma lui mi prese una mano e io non la spostai.
«Prima voglio dirti un paio di cose. Erien sta bene. Ha chiesto lei di andarsene mentre dormivi, perché sapeva come avresti reagito. Non era contenta di separarsi da voi, ma non ha fatto storie. Capisco che sia una magra consolazione.» Mi strinse la mano. «I tuoi amici, quelli che erano in macchina con te» disse «non sono morti a causa nostra, non in modo diretto perlomeno, perché il fuoco che li ha uccisi è stato quello degli Umani. Non voglio giustificarmi, so che, se non ci fossimo stati, non sarebbe successo nulla, ma volevo fartelo sapere.» Fece un respiro profondo. «Shay. Shay, guardami.»
Aprii gli occhi.
«Tua madre si chiamava Caroline, era figlia di Belden, il re dei Lupi.»
Guardai altrove.
«Capisci cosa sto dicendo?»
«Sì…» risposi con voce flebile. Non sapevo se fe male più la ferita o le sue parole.
«Lei è stata uccisa perché si era innamorata di un Umano e per dei prìncipi non è accettabile. Neanche per noi lo è», precisò. «Come se non bastasse, lui era mezzo Umano e… mezza Tigre. Lui si chiamava Maliak e non era una persona qualunque perché era discendente dei re dei Tiouck. Tu quindi sei in parte Lupo Grigio, in parte Umana e in parte Tigre Bianca. Il tuo sangue è quasi interamente reale, nonostante sia di due Razze diverse. Anzi tre. Ed è stato lui a fare... l'errore di parlare di te. Solo qualche piccola informazione che ha portato il re a trovarti a Roma.»
Scossi la testa. «Perché mi stai dicendo questo? Non volevo saperlo. Non l’ho mai voluto sapere. Stavo bene prima, Dahaljer. Non avevo tutto ciò che volevo, ma stavo bene, avevo un posto dove stare, avevo una madre. Non era una mamma di sangue», fissai i suoi occhi di cielo, «ma era mia madre, l’unica che abbia mai conosciuto e questo mi bastava. Sono cresciuta come un’Umana e non posso sentirmi diversa da così. Quello che dici è aria fritta… che mi brucia lo stomaco!»
«Stai male, Shay», mi disse, poi sembrò misurare le parole. «Quando compirai vent’anni il tuo corpo si trasformerà per la prima volta e non ti chiederà il permesso.»
«Lasciami sola», dissi, pacata. «Per favore.»
Ahilan si mise in piedi, non troppo convinto. «Chiama, se serve e chiedi tutto quello che vuoi, se hai domande.» Andò via e rimase nella giungla per diverso tempo.
Tornò prima che il sole tramontasse e trovò Nalinika a disinfettare una mia ferita. Ci osservò parlare a bassa voce e sembrò studiarci mentre ci scambiavamo poche parole con serenità, come se ci conoscessimo da sempre; non nutrivo particolare odio per lei, sebbene non sapessi spiegarne il motivo. Il fuoco era e potevo vedere il viso di lui con la coda dell’occhio illuminarsi e muoversi con le ombre gettate dal fuoco. Nalinika si voltò a guardarlo incuriosita e fu costretto a rivolgere l’attenzione da un’altra parte.
Prima che spuntasse una nuova alba Nalinika andò a cercare delle piante di cui non ricordo il nome, utili per la mia ferita. Era carina, delicata, si muoveva sempre con eleganza. Disse a Dahaljer di rimanere con me e di farmi bere un goccio d’acqua ogni dieci minuti, lui obbedì e rimase seduto accanto a me.
«Sei fortunato ad avere una moglie come Nalinika», dissi all’improvviso.
«Non è mia moglie», rispose, tirandomi su la testa per farmi bere. «Non siamo neanche proprio fidanzati. »
«Che cosa sciocca. O sei fidanzato o non lo sei», sentenziai allontanando le labbra dalla borraccia.
«Non è tutto bianco o nero, Shay, forse dovresti accettarlo ogni tanto», replicò con voce assai comata.
Aggrottai la fronte. «Allora spiegati.»
«È mia sorella…»
«Cosa?» Sollevai le sopracciglia scettica.
«Ecco, non è proprio mia sorella», si corresse. «Ma è come se lo fosse, siamo cresciuti come fratelli da quando avevamo nove anni.»
Pensai che fosse imbarazzato e riflettei su quell’evento. «Perché allora dici che siete fidanzati?»
Si strinse nelle spalle. «Perché lo siamo; siamo ufficialmente fidanzati. Ma non lo abbiamo scelto noi, ci è stato imposto.»
Nella giungla qualcosa gracchiò. «Davvero? E da chi?»
«Dal re, che più o meno sarebbe nostro padre. È stata una sua scelta e non potevamo rifiutare, per un’infinità di motivi, che non ti elencherò.»
«È la cosa più idiota che abbia mai sentito», commentai secca.
«Lo è, infatti», ammise. «Abbiamo fatto un patto, tra di noi. Per cui ci saremmo sposati, ma saremmo stati liberi di avere la nostra vita.» Mi osservò di sottecchi.
«Siete strane voi Tigri.»
«E chi non lo è?» ribatté allegro, mostrando la sua dentatura.
Rimanemmo in silenzio alcuni minuti.
«Lei non può sposare chi vuole?» volli sapere poi.
«No. Non può farlo. È una cosa d’altri tempi, lo capisco. Tutto sommato di solito non va male. Le principesse frequentano un gruppo ristretto di uomini, oltre ai parenti, conoscono le guardie del corpo e i soldati/guerrieri. Sono i soldati che hanno raggiunto un livello molto alto e vantano una certa libertà di azione.»
«Tu sei uno di quelli?» domandai.
«Sì. Loro di solito conoscono questa cerchia da una vita, di solito i soldati guerrieri, entrano a far parte di questo sistema dall’età di dodici anni. In un modo o nell’altro sono persone molto vicino a loro.»
«E loro non potrebbero scegliere tra questi, allora?» insistetti.
«No. Quando diventiamo a tutti gli effetti soldati/guerrieri, a sedici anni, facciamo un giuramento, nel giuramento è compreso il dovere di non avere nessun tipo di rapporto con le donne di sangue reale, né fisico né sentimentale.»
«È ridicolo.» Lo dissi in tono sommesso. Non ottenendo risposta, chiesi: «Spiegami questa storia del tapi, che indossate quando siete delle Tigri.»
«Sì. Noi ci trasformiamo raramente e di solito sappiamo quando succede. Indossiamo il tapi perché può essere legato in un certo modo alla vita, durante la trasformazione la stoffa a attraverso un nodo e rimane legato al corpo dell’animale. Inoltre» aggiunse facendo scorrere una piega del suo con le dita «noi soldati abbiamo scritto il nostro nome sui lati.» Mi indicò un punto in cui vi appariva la scritta Dahaljer Ahilan Aadre, cucita e stampata. All’interno doveva essere inserita una placca metallica. «È l’unico modo con cui possono riconoscerci se dovessimo morire mentre siamo in forma animale. Tutte le Tigri e i Lupi, però, lo indossano, anche senza nome, per i motivi che ti ho spiegato prima.»
«Sembra fico», dissi con tono più piatto di quanto avrei voluto.
«È utile. Così quando torniamo in forma umana, abbiamo qualcosa per coprirci. Ti insegnerò a legarne uno, quando starai meglio.»
Meditai su quella possibilità e ci misi qualche minuto a formulare la domanda successiva «Dahaljer, perché mi avete rapita? Voglio dire, non è certo per prepararmi alla trasformazione, che avete fatto tanta strada.»
Il ragazzo non rispose, mi fece bere un altro sorso d’acqua e si dondolò per qualche istante sui talloni, ascoltando i rumori striduli della giungla attorno a noi. «Sei un ostaggio», disse infine. «In quanto nipote di Belden Wilém Monreau Harvey, della dinastia Erdreè, sei l’erede al trono, e questo va a nostro vantaggio. Con te possiamo chiedere tanto. E», soppesò le parole, «puoi esserci utile, se condividerai la nostra causa.»
«La vostra causa? E quale sarebbe, uccidere gli Umani?» ironizzai, stizzita.
Mi lanciò un’occhiata di disapprovazione. «Hai una visione distorta della cosa.»
«Raddrizzala allora», lo provocai, socchiudendo appena le palpebre.
«Shay, sono i Lupi che comandano, lo sai. Sono loro a fare il bello e il cattivo tempo. Dobbiamo cercare di cambiare questa cosa, e non saranno certo gli Umani a farlo.»
Non replicai. Abbassai il mento e studiai la ferita.
Tre strisce mi andavano dal fianco destro subito sotto le costole, fino all’osso del bacino, con una leggera incurvatura. Avrebbe potuto farmi uscire fuori le viscere e uccidermi. La striscia centrale era quella più profonda. Ahilan seguì la direzione del mio sguardo. «Mi dispiace. Non avrei mai pensato di lasciarti un segno simile.»
Inclinai la testa da una parte. «Forse me lo meritavo», ammisi.
«No. Non è vero. Ci sono cose che non ci meritiamo. Capitano e basta.» Piegò le labbra in un sorriso triste.
«A me dispiace di averti graffiato.» Indicai il braccio, dove aveva una leggera linea più chiara.
«Non è vero che ti dispiace», mi accusò sempre sorridendo, più divertito. «Avresti fatto di peggio se avessi potuto.»
«Oh, è vero», ammisi. «Ma mi dispiace.»
«È solo un graffietto. E io sono una Tigre, non mi rimarrà neanche il segno.» Mi prese la mano e incrociò le sue dita tra le mie. «Facciamo pace?» chiese con una voce sensuale e nello stesso tempo colpevole.
Feci un sospiro profondo e lento, gli strinsi la mano, con un movimento leggero delle dita. Ci fissammo per qualche istante, poi fui costretta a distogliere lo sguardo e a spostarmi.
La sera, lui accese il fuoco e Nalinika preparò una minestra densa e dal sapore dolciastro, che mangiai solo io. Per loro due mise sul fuoco della carne, che profumò l’aria, facendomi venire l’acquolina in bocca.
Quando ebbero finito, lei si mise a preparare un impasto verde, che avrebbe applicato sulla mia ferita.
«Studia medicina», mi informò Dahaljer, sedendosi accanto a me a gambe incrociate.
«Oh, non è esattamente medicina questa», fece presente lei.
«No, certo, ma lo studio delle piante curative rientra nelle medicazioni che sai fare, quindi…»
«Oh, taci», lo interruppe lei con tono dolce, concentrandosi sulla ciotola sulla brace.
Lui mi guardò, mentre giocavo con un elastico che aveva lasciato Nalinika. «Fa la modesta», sussurrò, «ma è bravissima e serve a curare i nostri uomini, oltre a te.» Sorrise, il più bel sorriso che avessi mai visto.
Spostai l’attenzione sull’elastico tra le mie dita, cercando di creare una figura. Lui lo prese. «Ti insegno un gioco.» Lo fece scorrere tra le dita, con movimenti veloci. Notai che avevamo la stessa tonalità della pelle. Né troppo chiara né troppo scura.
Creò un rettangolo con dentro due diagonali incrociate tra loro. «Prendi le due estremità con i pollici e con le altre dita il resto.» Ubbidii a quanto mi aveva detto, e continuammo per un po’ seguendo le sue istruzioni, finché le mie dita
non si intrecciarono con l’elastico e le sue dita. «Non così!» esclamò fingendo insofferenza.
Risi. «Non lo so fare, è troppo complicato e non ho pazienza.»
Mi riconsegnò l’elastico. «Ti insegnerò un’altra volta. Quando avrai più pazienza.»
Lanciai un’occhiata a Nalinika e sospirai. «Dahaljer, nessuno ti chiama così, perché? »
Si strinse nelle spalle. «A nove anni, quando sono finito tra le truppe del re e sono stato accolto da sua moglie, non avevo molta voglia di parlare. Avevano ucciso i miei genitori, chiuso in una finta parete di casa mia, ho visto uccidere mia madre a sangue freddo. Non ho parlato per diversi giorni e qualcuno mise in giro la voce che forse ero il figlio di uno che conoscevano, il figlio si chiamava Ahilan, mi hanno chiamato così tutti quanti per tanto tempo.» Giocherellò con una fibbia dei pantaloni «Solo dopo tre anni, ho detto che quello non era il mio nome. »
«Tre anni? Non hai parlato per tre anni?» Lo guardai incredula.
«No, no. Ho parlato molto prima, dopo qualche giorno, con lei.» Indicò Nalinika con la testa. «E solo con lei per un po’ di tempo. Lei… non lo so, poteva capire. Anche i suoi genitori erano stati uccisi, aveva la mia età e si era dimostrata comprensiva, vicina nel dolore e nello stesso tempo non interessata ai fatti, come invece facevano tutti gli altri.»
«Mi dispiace.»
«È stata dura, ma ho cercato sempre di riscattarmi. È così che sono diventato soldato/guerriero e poi il capo.» Alzò le spalle.
«Però non dovresti provare qualcosa per lei, secondo quanto mi hai detto.»
«Sì, è vero, e in effetti non provo qualcosa per lei che sia diverso da un affetto fraterno. E poi è diverso, lei è stata adottata dal re e la regina ufficialmente, sono i suoi zii e io, beh, io non sono stato adottato, ma è come se lo fossi stato. Non condividiamo l’idea di doverci sposare, tuttavia era una decisione sensata.»
«Se lo dici tu.»
Nalinika ci raggiunse e restammo in silenzio. Mi tolse, la benda sulla ferita e la sentii pizzicare. Con una pezza pulita e bagnata tamponò sulla pelle e con le dita graziose stese la mistura che aveva preparato. Era calda e scivolosa e aveva un vago profumo di limone.
Osservai la ragazza concentrata su quello che stava facendo, meticolosa e seria, la carnagione chiara, i riccioli morbidi che le accarezzavano le guance. Mi chiesi perché Dahaljer la considerasse una sorella. Mi chiesi cosa volesse dire, avere una sorella.
Alla fine sembrò soddisfatta. «Bene», disse «Stai guarendo in fretta, si sta
rimarginando bene. Però ti rimarrà la cicatrice, per quello non posso fare molto.»
«Non importa. È… carino che ti preoccupi per me.»
Lei sorrise. «Vado sciacquarmi le mani.» Mostrò le dita appiccicose e ricoperte dalla sostanza che mi aveva messo.
«Shay», disse Ahilan guardando la sua chioma sparire nel buio. «Mi dispiace davvero. Non volevo ferirti, non così. Mi spiace per la cicatrice.»
«Oh, beh», mossi appena un braccio verso di lui. «Avevamo fatto già pace, per questo, no?»
Annuì.
«Dahal.» Gli sfiorai un ginocchio. «Non… io non ti ho mai ringraziato per l’altra volta.» Aggrottai la fronte, fissando la mia mano sulla sua gamba. «Sai, quando io mi sono allontanata, quando eravamo, quando lui…» Non trovavo le parole.
Lui mi tolse dall’imbarazzo. «Non devi ringraziarmi. Non per una cosa del genere.» Prese la mia mano tra le sue. «Ho visto uccidere uomini, donne e bambini, e ho ucciso uomini, tanti, troppi, perché è sempre troppo. Non ti abitui mai, ma inizi ad accettarlo, per te e quelli intorno a te. Ci sono cose, invece, che non si possono accettare, che vanno al di là. E quelle non le accetto. Da parte di nessuno e su nessuna vittima, fosse anche la figlia del mio peggior nemico.»
Ritirai la mano e sorrisi. «Cioè io?»
Lui rise con una certa eleganza. «Sì, in effetti, in un certo senso.»
Il giorno dopo ero sola con Nalinika che tentava di massaggiarmi la spalla e il braccio destro. Mi faceva così male che scattavo a ogni tocco e alla fine rinunciò per non sentirmi. Quando Dahaljer ritornò era preoccupato. Parlò con lei in arindo e riuscii a capire solo qualche frammento del discorso. C’era qualcuno che aveva incontrato che aveva bisogno della ragazza.
In seguito mi spiegò che uno dei soldati lo aveva rintracciato per dirgli che un gruppo di loro aveva subito un piccolo assalto da parte di Umani e c’erano due feriti. Nalinika partì quel giorno stesso, dandoci ordini precisi su cosa fare.
Controllò più volte la ferita, con meticolosità e me la fasciò stretta, per non farla muovere troppo, mi fece infilare un corpetto di mude nero e dei pantaloni della stessa sostanza. Mi sarei alzata dopo due giorni, se non avessi avuto grosse difficoltà a muovermi. Prevedendo pioggia - il cielo era cupo già da qualche tempo - disse di non bagnarmi il taglio.
ati i due giorni, Dahaljer mi mise gli anfibi logori e mi fece fare qualche o, l’unica cosa che faceva ancora male era la spalla.
Ahilan sospirò, era indietro sulla tabella di marcia e disse che iniziava a pensare che la faccenda fosse più faticosa di una normale battuta di caccia, di uno scontro con i suoi simili e forse anche di quelli con i Lupi. Non rischiava la vita ora, ma iniziava a pensare che stesse facendo una cosa ridicola, lo disse a se stesso, come se stesse pensando a voce alta. Aveva lanciato un’occhiata
all’orologio e aveva detto che da Roma a Praha avevano previsto un viaggio di quindici giorni, invece ora, a quanto pareva, avevamo superato i ventiquattro giorni e dovevamo ancora arrivare alle grotte.
Gli feci notare che non potevo averli fatti ritardare così tanto e lui ammise che non fosse tutta colpa mia; mi spiegò che quello era un territorio dove c’erano molti Umani, poco più che banditi, giravano per la foresta sapendo che ci stava un traffico di merci e armi delle Tigri Bianche, questo voleva dire che spesso loro erano costretti a deviare il percorso. Non avevo idea di che tipo di Umani potessero essere i banditi e non commentai.
Prima che iniziasse a piovere aveva trovato una piccola grotta, che ci era stata indicata dalla stessa Nalinika prima di partire.
Mise le nostre cose dentro quella rientranza nella parete rocciosa e accese il fuoco, mentre fuori iniziò a scendere una pioggerellina tenue e appiccicosa. Tolse pantaloni e maglietta per rimanere con il tapi. «Rimani qua», mi ordinò.
«Dove vai?» volli sapere.
Lui mi guardò come a dire che stavo facendo una domanda inutile. «A prendere qualcosa da mangiare.»
«Con questo tempo?» chiesi sorpresa.
«Questo tempo non mi farà niente. Rimani qua e aspettami.»
Aspettai a lungo quel giorno. Pioveva forte e un vento caldo e appiccicoso soffiava forte dai buchi della grotta. Era uno spazio ampio che doveva avere qualche altra uscita, da dove entrava l’aria. La sera iniziai a pensare che sarebbe stato molto facile fuggire. Non ero legata, Dahaljer non tornava e fuori la pioggia avrebbe coperto le mie tracce. Inoltre avevo le sue cose con tanto di zaino e medicine.
D’improvviso il tempo peggiorò, il vento sembrava impazzito, gli alberi si piegavano con veemenza e l’acqua scendeva da dietro la roccia come fosse un torrente. Dopo un po’ si calmò e uscii a guardare fuori quasi per caso.
Stavo esaminando quale sarebbe stata la direzione corretta da prendere, quando scorsi un corpo gettato a terra a una decina di metri dall’entrata della grotta. Di istinto feci un o indietro.
Compresi che fosse un corpo umano perché non poteva essere altro. Un tapi azzurro infangato non mi lasciò dubbi, era Dahaljer.
Sbattei le palpebre più di una volta, cercando di dirmi che non me lo stavo sognando. Me ne vergogno, ma pensai che quello fosse un segno, che potevo e dovevo scappare. Mi tenni in piedi appoggiando una mano alla parete rocciosa e umida. Oh, Signore, perché mi metti davanti a questi bivi?
Un fulmine squarciò il cielo e mi riscosse, non pensai alla ferita. Non pensai neanche al dolore alla spalla, né a coprirmi. Mi gettai fuori, attenta solo a non scivolare sulla terra viscida in pendenza.
Quando lo raggiunsi ero già completamente bagnata, il rumore del vento e della pioggia rombavano nelle mie orecchie e catturarono le mie parole quando, chinandomi su di lui, lo chiamai.
Non si mosse, un taglio scendeva lungo la fronte, seguendo l’attaccatura dei capelli. Lo presi sotto le ascelle e con tutta la forza che avevo lo trascinai in salita, fin dentro al nostro riparo.
Lo lasciai a terra, esausta con la spalla dolorante che pulsava come se fosse ferita anche quella. La feci scrocchiare e osservai il mio taglio. Non sembrava avere problemi.
Tornai a guardare Dahaljer. «Merda», sussurrai a me stessa non sapendo cosa fare. Frugai nel suo zaino in cerca di bende e medicine che Nalinika aveva lasciato per me. Gli tastai il polso che batteva debole e continuo e con la sua maglietta gli asciugai il viso seduta sui talloni e lui riprese i sensi.
Fece uno scatto indietro con la testa. «Merda», brontolò quasi a farmi eco. Sollevò una mano per toccarsi la testa.
«No, fermo.» Gli bloccai il braccio. «Hai un taglio.»
«Mmm.» Aggrottò la fronte guardandosi intorno. «Mi hai portato tu qui?»
Inarcai un sopracciglio. «No, è stato l’uccellino.»
«Mmm», ripeté.
Mi trattenni dallo sbuffare. «Senti, dimmi quale di queste medicine posso usare e poi te lo bendo.»
Fece un rapido inventario silenzioso delle boccette sparse a terra, tirandosi a sedere sui gomiti.
«Quella.» Indicò una boccetta rossa. «Prendi quella per disinfettarla con il cotone.»
La presi e dopo averla aperta versai il liquido sulla ferita, poggiandoci sopra una pezza di cotone e tamponando. «Questa ferita non può averti fatto perdere i sensi», dichiarai.
«Non so come mi sia procurato la ferita, è stato qualcosa che mi è caduto sulla testa a farmi perdere i sensi. Era…» Ci pensò. «Credo ci sia stata una tromba d’aria, non l’hai vista?»
Scossi la testa. «Però hai ragione, potrebbe essere stato il vento, ha iniziato a correre forte con raffiche continue.»
Mi prese un polso. «Basta», disse allontanando la mia mano. «Devo avere un bozzo sulla nuca», ipotizzò toccandosi la testa. «Ci deve essere qualcosa di alcolico nello zaino, dentro una borraccia grigia, prendilo.»
Inarcai di nuovo le sopracciglia, entrambe. «Alcolico?»
«Sì, Shay, alcolico!» Si mosse un po’ fino a poggiare la schiena sulla roccia, mentre prendevo la borraccia. Svitai il tappo e gliela porsi. Mandò giù il contenuto, con movimento veloce del pomo d’Adamo. «Come hai fatto a vedermi?»
Mi ai una mano sui capelli bagnati, li strinsi e dell’acqua gocciolò a terra. Fuori i rumori si erano affievoliti, pur continuando a piovere e tirare vento. «Stavo pensando di andarmene.» Non so perché glielo stessi rivelando.
Fece un verso divertito. «E perché non lo hai fatto?»
Grattai il mento con le dita. «Beh, tu… eri là.»
Mi allungò la borraccia. «Bevi.»
«Io non…»
«Bevi. Forse non hai salvato la vita al tuo aguzzino, ma ci sei andata vicino.» Sorrise mentre afferravo la borraccia. La appoggiai alle labbra e mandai giù due sorsi di quella sostanza morbida che, però, grattò sulla gola. Sbattei le palpebre.
Dahaljer rise. «Grazie, ragazzina.»
Gli lasciai la borraccia e sistemai medicine e bende nella tasca dello zaino.
«La prossima volta ti lascio dove sei. Non sono stata molto furba.» Scossi la testa osservando il fuoco che si spegneva, privo di legna da bruciare. «Per niente furba. Sono stata un’idiota, davvero. A quest’ora potevo essere lontano da qui e tu a fare il bello addormentato sotto la pioggia.»
«Non so se saresti andata molto lontano con questo tempo», disse in un sussurro.
«Non abbiamo neanche da mangiare», ribattei.
«Avevo catturato una lepre, chissà dove sarà finita.»
«Non qui.»
Non rispose e, sentendomi il suo sguardo addosso, mi voltai a guardarlo, era a meno di due metri da me e si teneva la testa nel punto dove si era gonfiata, sotto i capelli umidi del colore del bistro. Avrei voluto chiedergli che diamine avesse da guardare; non lo feci. Mi voltai e dandogli le spalle mi sdraiai a terra, sulla mia felpa, in posizione fetale. Solo in quel momento mi ero resa conto che eravamo soli da due giorni e che dentro alla grotta, per forza di cose, eravamo troppo vicini.
Lo sentii picchiettare a terra con le dita per un po’ seguendo un motivetto che doveva avere in testa; quando smise, fuori era completamente buio e del fuoco
era rimasto solo qualche tizzone rosso che brillava appena.
«Sei sveglia?» domandò.
Chiusi gli occhi. «No.»
«Hai più avuto conati immotivati?» chiese, ignorando la mia risposta.
«Qualcuno.» Mi voltai facendo attenzione a come poggiare a terra la mia spalla destra, che ancora doleva. I vestiti si erano asciugati, ma erano umidi e pieni di terra. Lui si alzò, prese una coperta da dentro lo zaino e me la mise addosso.
«Stanotte potresti avere freddo.» Ne tenne una per sé, che mise a terra, e si sdraiò accanto a me, facendo attenzione a non toccarmi. Nel buio, lui poteva vedere molto meglio di me.
«Perché vi trasformate al compimento del ventesimo anno?» domandai.
«Perché il corpo raggiunge la piena maturità e la mente inizia un processo di accettazione dello stesso. A ventuno il processo finisce.»
«A ventuno sei una Tigre fatta?» chiesi stupita.
«Sì. O un Lupo, per loro è uguale e mi verrebbe da pensare anche per un Umano.»
«Ma noi maturiamo prima», obiettai sorpresa.
«Nel senso in cui lo intendi tu, anche noi.»
Rimuginai su quanto avesse detto e mi mossi appena per spostarmi su una parte meno indolenzita. Fuori il vento si era placato, la pioggia invece scendeva costante e monotona. «Quanti anni hai?» chiesi sovrappensiero.
«Venticinque.»
Riuscivo a sentirlo respirare. «Come è stato quando ti sei trasformato, la prima volta?»
Si spostò un poco, non so verso dove. «Non so, forse come lo immaginavo, improvviso nonostante tutto. Doloroso.» Ci pensò «Strano. È una sensazione strana, non stai chiedendo al tuo corpo di farlo, come avviene in seguito. Avviene e basta. Di solito è una madre a prepararti a quel momento, ti dà consigli su come respirare, su come reagire ai conati e ti sta vicina durante la trasformazione.»
«Però?»
«Però… io una madre non l’avevo. Tutti si prodigarono in consigli e pareri, eppure l’unica a starmi davvero vicino fu Nalinika, forse perché lei ancora non c’era ata, tuttavia essendo di qualche mese più giovane di me, anche lei aveva vissuto i primi sintomi e condividevamo insieme quel momento di dubbi e timori.
Fu lei a prendersi cura di me il giorno prima del mio ventesimo compleanno. Ricordo che mi preparò una zuppa calda, con dentro pezzi di carne tenerissimi e mi somministrò più di un composto fatto da lei, per anestetizzare i dolori allo stomaco. Rimase con me tutta la notte e parte della mattinata.
Il re era di ritorno dal fronte, ma erano in ritardo a causa della neve che era scesa copiosa. Credo che quando mi trasformai, Nalinika ebbe paura. Dopo la mia trasformazione, la vidi appiattita contro la parete.» Non potevo vederlo, ma credo stesse sorridendo. «Tagron mi festeggiò per due sere di seguito e si disse più volte dispiaciuto per non essere stato accanto a me in quel momento. Dopo una settimana mi spedì a caccia per tre mesi e così non potei rimanere accanto a Nalinika, quando anche lei si trasformò.» Nel suo tono una nota di dissenso. «Quello fu anche l’anno in cui fu definito il mio ruolo tra i soldati/guerrieri.»
«Come capo?»
«Sì. Noi diciamo ‘Capo Branco’.» La cosa lo divertiva.
«Perché siete delle bestie.» Lo dissi con voce divertita anche io, nonostante non fosse mia intenzione.
«Non posso negarlo. E se ti trasformerai, non potrai negarlo neanche tu.» Fece
una pausa, aspettando che dicessi qualche cosa. «Ti piacerà», concluse infine.
«Ah, non lo so. Forse dovrà piacermi per forza.»
Tacemmo per qualche tempo. «Ho un gran mal di testa», disse Dahaljer quando stavo per addormentarmi.
«Non mi stupisce», borbottai assonnata.
«Dormiamo. Se domani mattina è bel tempo, ce ne andiamo. E, hum, grazie ancora per oggi.»
«Prego», risposi a bassa voce, prima che il sonno mi reclamasse.
8
La mattina non era bel tempo; tutto sommato, però, non pioveva e Ahilan non aveva intenzione di rimandare ulteriormente. Si vestì con i pantaloni da militare, controllò la sua testa con le dita corrucciando la fronte e radunò le sue cose. Ci mettemmo in marcia sotto un cielo plumbeo e assorto.
Secondo i suoi calcoli saremmo dovuti arrivare la sera, due o tre ore dopo il tramonto, e saremmo arrivati alle grotte, dove saremmo rimasti solo pochi giorni, poiché doveva sistemare alcune faccende che riguardavano le armi. Mi raccontava questi fatti come se pensasse che mi interessassero sul serio.
Io lo ascoltavo distratta, con un vago senso di apatia che talvolta sembrava annebbiarmi la mente. Non riuscivo ancora a comporre tutti i pezzi del puzzle, faticavo a capire dove fossi e chi fossi, poiché per quanti giorni potessero essere ati di troppo, secondo il mio rapitore, per me erano troppi pochi per realizzare ciò che era successo.
I rumori della giungla rimbombavano nelle mie orecchie; da quando ci eravamo addentrati nella foresta non c’era mai stato un momento di silenzio, eppure non ero riuscita a vedere nessuno dei suoi abitanti, a parte insetti e qualche martin pescatore che si librava veloce tra le piante con le sue piccole ali blu, del tutto indifferente alla nostra presenza.
Stavo morendo di fame, poiché il giorno prima e a pranzo non avevamo toccato cibo, e il mio stomaco non mancò di farmelo notare e lo fece presente anche ad Ahilan, nel caso non fosse stato ascoltato dalla sua proprietaria. Lui mi stava
ponendo una serie di domande sul mio credo a cui io stavo rispondendo a monosillabi e nell’udire il gorgoglio irrequieto della mia pancia sorrise e si fermò.
«Hai fame?» domandò.
Gli scoccai un’occhiataccia. «Scherzi. Ho appena divorato un bue intero, ma tu eri impegnato a chiedermi di Dio e di tutti i sacramenti in cui credo e non te ne sei accorto, tanto eri preso dalla mia complessa argomentazione.»
Si tolse lo zaino. «Oh, peccato, mi pareva di aver sentito brontolare qualcosa dalle tue parti.»
«Dalle mie parti?» finsi di guardare dietro di me. «Credo sia stato quel simpatico ragnetto peloso. Sai, sono tanto piccoli, ma non vedono l’ora di sbranarci.»
Mi fissò così a lungo che alla fine scoppiammo a ridere entrambi. «Va bene. Mentre tu sfami il ragnetto in questione, io vado a trovare qualcosa da mettere sotto i denti, visto che, poiché ero distratto dalle tue complesse argomentazioni, non ho avuto modo di partecipare al tuo lauto pranzo.»
«Oh, beh, dovresti essere un po’ più altruista e condividere con me il banchetto, non per me, ma per quella bestiola, che così potrà mangiare una carne ben più consistente.»
Si tolse le scarpe e la maglietta, mostrando un petto liscio e un addome ben
scolpito. «Vedrò cosa posso fare. Aspettami qui e non ti muovere.» Depose il suo armamentario nello zaino, prese una pistola e, rigirandosela veloce nella mano, me la porse. «Usala se qualcuno o qualcosa ti minaccia.»
La osservai, incerta. «Anche su di te?»
«Lo faresti davvero?»
Presi l’arma. Non sapevo se lo avrei fatto davvero, ne avrei avuto voglia, però, lui si stava fidando di me e stava sbagliando, oppure no. Immagino che se avessi voluto fargli del male, lo avrei già fatto, avendone avuta l’occasione, tuttavia era stupido da parte mia dire che io mi fidassi di lui tanto da non ritenerlo una minaccia. Solo una volta avevo preso in mano una pistola, prima che Dahaljer mi ferisse con gli artigli, e non lo avevo fatto a mente lucida. La guardai, riluttante: potevo uccidere una persona con quell’oggetto, bastava premere il grilletto. Non sapevo cosa dire. «Ho fame», risposi.
Rimase con il suo tapi e sparì tra le foglie, lasciando me e il ragno a contemplarci incuriositi tra i rumori striduli della foresta.
Credo fosse ata più di un’ora quando sentii in lontananza delle urla che non appartenevano alla giungla. Mi ero appisolata sullo zaino e mi sollevai di scatto. Allarmata strinsi l’impugnatura della pistola e mi guardai intorno, senza notare niente, tranne che il ragno non c’era più.
Presi lo zaino e lo issai sulle spalle con un po’ di fatica, guardai solo se avevo preso tutto e mi diressi a o veloce verso la direzione da cui erano arrivate le urla.
Quando sentii parlottare mi bloccai di colpo. Qualcuno stava venendo verso di me e per qualche secondo rimasi immobile indecisa su cosa dovessi fare. Se erano Umani avrebbero anche potuto salvarmi e portarmi a casa, oppure uccidermi senza che io riuscissi a spiegare chi fossi e cosa fi in quel posto. Se erano i banditi di cui mi aveva accennato Ahilan, potevano essere capaci di tutto.
Mi accucciai sotto dei cespugli, tra le radici nodose di un albero che pullulava di formiche, con il cuore in gola. Da frammenti dei loro discorsi, capii che avevano preso Dahaljer.
Dovevano essere morti degli Umani e loro non sembravano neanche dispiaciuti. Le loro voci si allontanarono e io non riuscii più a capire cosa si stessero dicendo.
Uscii dal mio nascondiglio, furtiva. Nel momento in cui io pensavo che quello fosse l’ennesimo segno divino che mi diceva di scappare il più velocemente possibile, pensai anche che ero armata e che con un po’ di fortuna avrei potuto liberare il mio rapitore. Il che era una contraddizione.
«Dannazione», borbottai.
Presi a camminare nella direzione opposta di dove erano sparite le voci e mi fermai quando sentii qualcun altro che parlava. Il cielo, da qualche parte sopra gli alberi, si stava facendo più scuro.
Se mi fossi avvicinata di più avrebbero potuto vedermi, avrei dovuto aspettare che scendesse la notte, per riuscire a capire qualcosa in più della situazione. Rimasi ad aspettare, cercando di capire cosa dovessi fare, benché il mio cervello si rifiutasse di ragionare in maniera logica. Dovevano esserci almeno due persone, a giudicare dalle loro voci.
Doveva essere ato da poco il tramonto, quando decisi di lasciare lo zaino e gli anfibi sotto le foglie larghe di una pianta senza fiori. Presi due pistole e mi avvicinai di più. Avevano il fuoco e stavano mangiando. Un altro brontolio provenì dal mio stomaco facendomi sussultare. Non riuscivo a vedere meglio. Lanciai un’occhiata in aria e decisi di arrampicarmi su una palma per vedere qualcosa in più.
Misi una delle due pistole dentro i pantaloni, dietro la schiena e l’altra la tenni in mano. A fatica, mi arrampicai nel buio fino a che non riuscii ad avere una buona visuale.
Gli uomini erano tre e Dahaljer, in forma umana, aveva i polsi legati dalle manette e il suo corpo era legato a un albero con una corda. Era scuro in volto e mi chiesi come mai non si trasformasse. Aveva una serie di tagli orizzontali sull’addome e sulle braccia e ne potevo scorgere il riflesso del sangue fresco. Non capivo come fosse riuscito a farsi delle ferite in quel modo.
Cercai di capire dove fossi, tuttavia non avevo nessun punto di riferimento: il sole era tramontato dietro una coltre fitta di nubi e ignoravo anche dove fossero il nord o il sud.
La Tigre era legata al posto mio e gli Uomini con tutta probabilità sarebbero andati a dormire molto presto. Dovevo approfittarne e fuggire: né le Tigri né gli Umani mi avrebbero cercata. Feci per scendere dalla palma quando uno degli
Uomini si mosse verso il prigioniero.
«Tigrotto, per caso, le ferite non ti fanno più male?» Aveva una pentola in mano. «Un po’ di acqua e sale farà bene.» Lanciò il contenuto sulla pancia di Ahilan, che fece una smorfia.
Mi mancò il fiato, intuendo cosa stessero facendo: lo stavano torturando. All’improvviso mi sentii arrabbiata. Scesi giù veloce, recuperai gli anfibi e mi avvicinai a lui carponi dal lato destro. Mi fermai.
Dalla mia posizione non potevo vedere Dahaljer, tuttavia intuii che gli stavano tagliuzzando la pelle, con l’unico scopo di divertirsi. Lui non emetteva neanche un suono.
Strinsi i pugni e feci un respiro profondo estraendo il coltello che avevo ancora negli anfibi.
Attesi che gli Uomini lo lasciassero in pace e questo avvenne dopo una mezzora abbondante.
Uno di loro si allontanò per andare al bagno, mentre gli altri due fumavano.
Strisciando a terra, mi portai subito dietro l’albero e studiai le corde che stringevano la Tigre. Lasciai la mia pistola a terra, mi scostai verso sinistra, appoggiai il viso sulla corteccia e sussurrai: «Dahaljer, sono io, non dire niente. Ti tolgo la corda e ti posso are una pistola.» L’ombra del suo viso si mosse
appena.
Ci impiegai qualche minuto prima di tagliare la corda. L’uomo che era andato via era tornato e un altro si allontanò a sua volta, mentre il terzo si allontanava, forse per lo stesso motivo, in un’altra direzione, molto vicina a noi. Però questo andava a nostro vantaggio. Feci scivolare l’arma da fuoco tra le gambe della Tigre, vicino ai polsi con le manette e credo fu proprio quel movimento a tradirmi, forse con un riflesso della pistola.
«Ehi tu.» Gli Uomini avevano solo delle frecce e dei coltelli, ma in quel momento lui non aveva nulla a portata di mano. Ahilan fu più rapido. Afferrò l’arma e scattò in piedi, sparandogli un colpo secco.
Strabuzzai gli occhi, non so se per la vista di quella morte o per via delle mani che mi sollevarono da terra. Qualcuno mi aveva afferrata, cercai di divincolarmi, avrei potuto fare qualsiasi cosa e liberarmi facilmente, ma ora mi stava puntando la pistola che avevo lasciato a terra sotto la gola, sollevandomi un poco il mento.
Per una manciata di secondi nessuno si mosse.
Dahaljer, sempre velocissimo, puntava l’arma su di noi, mentre l’uomo mi stringeva a sé e io non riuscivo neanche a respirare, tanta era la paura. Sarei dovuta scappare e lasciarli nel loro inferno.
Mi fece fare due i indietro per vedere meglio la Tigre. «Getta l’arma o uccido la tua bella», ringhiò nelle mie orecchie. Puzzava di alcol e sudore.
Ahilan fece un sorriso quasi dolce. «Non è la mia bella, è una mia prigioniera e potrebbe anche non interessarmi se l’ammazzi.»
«Sì? E come mai non hai già sparato?» Con l’altra mano mi strinse un seno. «Potrei ammazzarti e scoparmi la tua puttanella, una tigrotta mi manca.»
Volevo gridargli che ero un’Umana.
«E come mai non mi hai già sparato?» gli fece il verso Dahaljer con voce ferma. Si studiarono a vicenda.
«Sei un bel giocattolo e preferirei riuscire ad averti vivo, un bel bottino di guerra.» Mi scosse. «Io posso rinunciare a lei, ma tu evidentemente no. Getta l’arma o giuro che l’ammazzo.»
Lui valutò la situazione; non lo conoscevo bene allora, per sapere che l’ombra che gli ava in viso era paura. Se l’uomo mi avesse uccisa, Dahaljer non ci avrebbe messo molto a farlo fuori e si sarebbe salvato. In caso inverso, forse non avrebbe salvato nessuno dei due, ma mi avrebbe dato una possibilità in più. Mi chiesi se valessi così tanto come ostaggio delle Tigri o se valessi qualcosa per lui, non era certo tipo da farsi problemi a vedere morire qualcuno, anche se lo avevo appena liberato.
Incrociò il suo sguardo con il mio e le sue mani si mossero lente verso il basso. Qualcosa oltre le sue spalle luccicò nel buio, veloce. «Dahaljer!» urlai.
Si voltò rapido e sparò dietro di sé. L’uomo che mi teneva, mi tolse la pistola da sotto il mento e fece per sparare su di lui; gli sferrai una gomitata nello stomaco e il suo colpo finì in alto tra gli alberi; voltandomi gli mollai un pugno che mi fece male sulle nocche. Inciampammo sulle radici e rotolammo a terra; mordendolo, riuscii a prendere la sua pistola. Mi bloccò, ma doveva essersi reso conto solo ora di aver perso l’arma, perché per un attimo non seppe cosa fare.
Tuttavia non avevo il coraggio di sparare e rimasi paralizzata. Una grossa mano lo prese per le spalle, sollevandolo per un istante e ributtandolo a terra. «Mai rapire l’ostaggio di qualcun altro», gli disse Ahilan, prima di premere il grilletto.
«Nooo!» gridai.
Lui si voltò appena, senza perdere d’occhio l’uomo. «No cosa?»
«Non lo ammazzare.» Lo raggiunsi carponi. «Ti prego, legalo, lascialo qua, ma non lo uccidere così a sangue freddo.»
«A sangue freddo? Ma se questo qua… Tu sei matta.» Anche l’uomo strabuzzò gli occhi, in un misto di paura e sorpresa.
«Per favore», supplicai.
Sospirò, guardò lui e poi di nuovo me. «Va bene. Vai a prendere le corde e pure le chiavi delle manette.»
Eseguii gli ordini senza sindacare e tornai a liberare Dahaljer dalle sue manette per metterle all’uomo. Con la corda gli legammo i piedi e la Tigre gli ò tra i denti un pezzo che era rimasto, per non farlo parlare.
Ero macchiata del sangue di Ahilan e gli lanciai una rapida occhiata. «Sei due volte in debito con me. E per due volte non sei riuscito a portarmi da mangiare», aggiunsi fissando le sue mani vuote.
Lui mi afferrò il braccio e lo studiò. Avevo una scheggia di legno dietro al gomito di cui non mi ero accorta, la tirò via con un colpo preciso che mi rubò un lamento. «Ti ho salvata da due uomini malintenzionati e ora ti ho tolto questa roba, ma non ti chiedo nessun debito.»
Lo guardai in cagnesco. «Mi hai lasciato l’impronta dei tuoi artigli e mi hai quasi uccisa, e se non lo avessi notato, mi hai anche rapita. Vuoi essere in pari con me?»
«Va bene, uno a zero per te», concesse. «E per la prossima volta ti cerchi da mangiare da sola.»
«Direi almeno dieci a due per me. E per la prossima volta ti ho già trovato da mangiare.» Indicai il bivacco dei tre Uomini.
Lui recuperò le armi e con mia sorpresa mi porse il mio coltello, che non avevo mai usato fino a quel momento. Disse di allontanarci da quel punto in fretta, perché altri Uomini sapevano dove eravamo e potevano aver sentito gli spari. Solo a notte fonda, si fermò, si curò appena le ferite e mi raccontò come i banditi lo avessero aggredito in dieci. Gli chiesi perché non si fosse trasformato e mi
rispose brusco che lo avevano ammanettato. Non capii, tuttavia ero stanca e l’idea di un'altra notte all’addiaccio mi metteva di cattivo umore. Benché avessi mille pensieri per la testa, mi addormentai in fretta.
Senza ulteriori problemi, il giorno dopo, prima che tramontasse arrivammo alle grotte, dove le Tigri Bianche avevano una base, quasi invisibile dall’esterno. Jama e Nalinika erano fuori ad attenderci.
«Tutto bene?» chiesero.
«Sì», rispose Ahilan senza dare troppe spiegazioni. «Qui è tutto sotto controllo?» s informò.
«Come sempre.» Jama mi lanciò un’occhiata. «La bendo?» domandò indicandomi con il mento.
Lui sembrò pensarci. «Sì.»
«Ma a che serve?» si lamentò Nalinika.
Jama sollevò un sopracciglio e guardò Ahilan. «Per sicurezza», disse quest’ultimo.
Lei non si arrese. «Ma…»
«Nalinika, per favore», la interruppe.
Feci un o avanti e Jama mi puntò contro il fucile. Mi bloccai di colpo, stringendo le labbra. L’uomo fissò Ahilan con il volto che formulava una domanda.
«Va bene», concesse Dahaljer. «Portala dentro così, ma non esci più, ragazzina. Fino a quando non lo dico io.»
Una serie di cunicoli si districava dentro la montagna, l’aria era umida, ma più fresca, scorreva l’acqua in alcuni tunnel e la luce entrava a tratti come se fosse un singhiozzo soffocato.
Quando ci fermammo avevo contato due svolte a sinistra, due a destra e una nuovamente a sinistra. Potevo ricordarmelo. Lì si trovava uno spazio molto ampio. Diverse fiaccole illuminavano l’interno e l’aria non era per niente pesante, pensai che ci dovessero essere alcune prese d’aria. Al centro di quello spazio si trovava un tavolo lungo, di legno scuro, alcune brandine e una serie di armi da fuoco.
C’erano tre uomini che non avevo mai visto, che scambiarono qualche battuta con Ahilan. Jama era sparito.
Nalinika mi controllò al volo la ferita, sembrava soddisfatta. Sedemmo a tavola a mangiare qualcosa, poi lei si alzò e se ne andò. La seguii con lo sguardo, desiderando ardentemente che mi portasse via con sé.
Non stavo ascoltando i discorsi che stavano facendo, fino a che uno di loro non attirò la mia attenzione. «Dico a te, dolcezza», diceva. «Sei tu la nostra nuova regina dei Lupi?» Si sedette accanto a me. Rimasi immobile.
«Guarda che morde», gli fece presente Ahilan, che era seduto a capotavola alla mia destra.
«Lo so. Le leggende raccontano che vi ha dato filo da torcere, la lupetta.» I tre risero.
Li guardai con astio sincero.
Uno di loro accennò a un ululato che fu ulteriore motivo di ilarità. «Secondo te il sangue Umano l’ha infettata?» chiese il secondo.
«Chissà, proviamo a toccarla.» Il primo fece per protendere una mano.
«Lasciala in pace, Ron», intervenne Ahilan. «Morde davvero», aggiunse, allungandosi con la schiena sulla sedia in modo scomposto.
Fui lieta del suo intervento e voltandomi a guardarlo, lo ringraziai con gli occhi. Lui accennò a un sorriso all’angolo della bocca.
«Peccato, davvero un gran peccato. Tanta bellezza sprecata per una lupetta vorace.» Ron ritirò la mano.
«Come mai non l’hai legata?» chiese il secondo.
«Nalinika», disse solo Dahaljer, bevendo un secondo bicchiere di vino. Me ne offrì un po’, ma io rifiutai.
Arrivò Layo e i tre uomini furono distratti. Ahilan mi sfiorò appena un braccio. «Hai ancora fame?» mi domandò. Scossi la testa, mentre lui si alzava. «Andiamo.»
Lo seguii e a sua volta ci seguì Layo.
«Ciao, lupetta», mi salutò uno degli uomini e gli altri di nuovo risero.
«Abbiamo sistemato di là per lei», ci informò Layo quando fummo nella prima galleria. «Va bene», disse Ahilan fermandosi. «Vai con lui.»
Layo si incamminò, ma io non si mossi.
Dahaljer mi prese il mento con la mano. «Va’ con lui. Non ti succederà nulla. Non fare danni, però.»
Gli fissai le labbra per qualche secondo, poi lo guardai.
«Fidati.»
Annuii controvoglia e seguii Layo, che mi stava aspettando.
Sinistra, destra, destra. Segnai mentalmente.
Layo aprì una porta e mi fece cenno d’entrare, prima che richiudesse gli chiesi di Nilmini e Khaled.
«Domani», rispose lui secco, senza aggiungere altro e chiuse la porta.
La stanza in cui mi trovavo era uno spazio non molto grande; a un lato un letto e all’angolo c’era una lanterna accesa, che non spensi.
Non dormivo su un vero letto da troppo tempo, mi sdraiai e mi addormentai subito, senza neanche spogliarmi.
Il mattino dopo, un uomo che non avevo visto la sera precedente, mi fece uscire verso ora di pranzo. Mi trascinò alla caverna grossa e mi fece sedere a terra, in un angolo. Mi fece mangiare. C’erano Ron e i due della sera precedente, ma non vidi né Nalinika, né Ahilan, né i bambini. Dopo un’ora fui riportata dentro. Notai che la mia porta era chiusa da una pietra, non troppo grande, posta subito dietro.
Rimasi sul letto per un po’ di tempo, poi iniziai a fare avanti e indietro per la stanza. Ero stanca di stare là, sarei solo voluta tornare a casa, fare la vita che facevo tutti i giorni, andare in fabbrica, giocare con i bambini, aiutare la Madre e pensare a un futuro banale. Ora invece il futuro era disegnato da altri e io non sapevo neanche di cosa si trattasse.
Mi accucciai in un angolo, diedi un’occhiata veloce alla ferita, stretta sotto il corpetto di mude e feci un grosso respiro.
Quando la sera la stessa faccia sconosciuta di prima aprì la mia porta gli chiesi dei bambini.
«Non lo so.» Fu tutto ciò che disse, mi riportò dagli altri e mi fece mangiare a terra.
Arrivò Layo Luba e io saltai in piedi. «Dove sono i bambini?» chiesi con impeto.
«La lupacchiotta ha perso i lupetti», mi canzonò Ron, dal tavolo.
«Non ci sono», mi rispose Layo sedendosi a tavola.
Lo seguii. «Che vuol dire?»
«Che non ci sono!»
Non mi arresi. «Dov’è Nalinika?» provai a chiedere.
«Non c’è nessuno, sono fuori. Quindi stai calma e mangia la tua roba», ribatté Layo a denti stretti.
«No, voglio sapere dove sono i bambini. Ora.»
«Ma, Layo. Diglielo che li abbiamo fatti fuori, tanto prima o poi lo scopre.» Era stato l’uomo della prima sera a parlare.
Layo sospirò e non disse nulla.
Lo afferrai per una spalla, lui scattò in piedi. «Non mi toccare, volk!»
«Dove sono?» insistetti.
«Non hai sentito? Li abbiamo uccisi, perché erano fastidiosi come te», ringhiò.
Lo lasciai, chiedendomi se fosse vero. «Non è così…»
«È così, sei solo tu che ci servi, e sei già un bel peso, lo vuoi capire?» Quello poteva essere vero.
Mi sentii persa tutt’insieme, volevo urlare, piangere e disperarmi, invece gli saltai addosso e lo morsi su un braccio. Mi furono tutti addosso in meno di qualche secondo.
Puntandomi un’automatica, Layo e un altro uomo, mi trascinarono nella mia prigione e mi spinsero dentro. «Dopo domani te ne vai da questo posto, ma fino ad allora non metti più piede fuori di qui. Chiaro?»
Indietreggiai meccanicamente fino ad arrivare alla fine della parete rocciosa. Mi incastonai là piegando le gambe e, senza volerlo, piansi. Piansi per me stessa, piansi per Nilmini e Khaled, per Erien, Hassan, Andrè e Elias, che erano stati coinvolti solo a causa mia, perché ero un volk, un Lupo in una vecchia lingua arindo ichslava, così mi aveva definita Layo. Piansi per Madre Brìgit, perché ormai ci dava per dispersi. Maledissi i miei genitori, per avermi dato quella stupida vita, poi piansi amaramente anche per loro. Mia madre era stata uccisa, uccisa per essere incinta di me, una bastarda.
Mi sciolsi in singhiozzi che mi sconquassavano il petto e non smisi fino a notte fonda, quando, esausta, mi addormentai a terra.
9
Era quello il momento giusto per la fuga, e se non era quello giusto, molto probabilmente sarebbe stato l'unico possibile o l’unico in cui avrei avuto coraggio.
Qualcuno mi aveva portato da mangiare una zuppa e del pane, che avevo messo in tasca, mi avevano lasciato le mani libere, come sempre. Ora dovevo solo forzare la chiusura della porta, ma sarebbe stato un gioco da ragazzi, non erano molto furbi questi Tiouck.
Sapevo la strada, ricordavo le svolte da fare per lo meno; dovevo solo sbrigarmi, sarebbero stati a mangiare solo un'ora, poi chiunque poteva accorgersi della mia scomparsa.
Come avevo previsto, riuscii ad aprire subito la porta. La richiusi risistemando la pietra. Mi voltai, rimasi ferma a sentire i rumori, poi mi girai verso il cunicolo di destra e iniziai a camminare lenta per non fare rumore.
Potevo udire i chiacchiericci delle Tigri a cena e ne ero confortata, sopratutto quando iniziarono a farsi lontani.
Con il cuore in gola, accelerai il o e svoltai più di una volta sperando che fosse la direzione giusta.
Dopo poco mi trovai fuori, all'aria fresca della notte.
Il sole doveva essere tramontato da poco più di un'ora, avrei dovuto affrontare tutta la notte nella giungla, da sola, avrei dovuto puntare a nord, perché il sud era troppo prevedibile.
A cosa fare dopo essermi allontanata, avrei pensato in seguito. La cosa importante da fare ora era correre veloce. E così feci.
Corsi il più veloce possibile, trovandomi subito immersa nella vegetazione. Non mi fermai per almeno un'ora e quando lo feci fu solo per sentire se qualcuno mi stava seguendo, ma non udii rumori che non fossero di uccelli notturni e gracchiare di animali sconosciuti.
Corsi per tutta la notte cercando di andare dritta e mi fermai solo quando vidi albeggiare, rallentai il o fino a fermarmi. Avevo i piedi caldissimi e doloranti e le pulsazioni accelerate che mi rimbombavano tra le tempie. Avevo fame e sopratutto avevo sete. Decisi di fermarmi a prendere un cocco giallo e riposarmi, perché non avrei potuto proseguire a lungo se non lo avessi fatto. Mi sembrava strano che nessuno mi stesse seguendo, tuttavia pensavo veramente di essere libera, ma non mi rilassai.
Mi arrampicai a fatica su una palma che sembrava avere del Cocco Giallo maturo e cercai dall'alto di scorgere qualcosa, senza vedere altro che giungla. Colsi un frutto che mi sembrava succoso e lo aprii con il mio coltello. C'era molto liquido al suo interno e non lo finii neppure.
Il sole era già in alto quando scesi e ripresi il cammino. Andai avanti a lungo mordicchiando bocconi di pane e tendendo le orecchie a ogni minimo rumore sospetto di tigre o di qualsiasi altro animale che potesse aggredirmi.
Scacciavo gli insetti dalla pelle scoperta e sudata e pensavo che se mi avessero detto anche solo qualche settimana prima che sarei stata da sola nella giungla con una maglietta, i jeans e un pugnale a serramanico, avrei riso. Spesso dovevo tornare sui miei i perché la vegetazione verdissima e fitta mi bloccava il aggio.
Poi però la giungla finì.
Questo non lo avevo calcolato. Arrivai fino alla fine della vegetazione e osservai le distese d'erba davanti a me. Non potevo proseguire per quella direzione, sarei rimasta scoperta in quel modo.
Tuttavia dietro di me avevo solo le montagne e con le montagne i Tiouck. Dovevo attraversare quella distesa e continuare dritta per almeno altri due giorni, doveva esserci un fiume poco lontano, perché lo vedevo disegnare un lungo serpente su quel vasto prato. Lo avrei raggiunto, poi avrei potuto voltare verso est e puntare nuovamente a sud, verso la terra degli Umani.
Sospirai, non potevo farlo di giorno, mi avrebbero scorta subito. Mi sarei riposata per qualche ora e poi con la notte avrei iniziato la lunga camminata verso il fiume. Mi dissi che aspettare il buio era utile anche ai miei muscoli stanchi e mi stesi a terra, rannicchiandomi su me stessa, dopo aver controllato l’assenza di insetti sconosciuti. Senza accorgermene mi addormentai.
Mi svegliai di soprassalto e ci misi qualche secondo a capire dove mi trovassi, furono i miei piedi ancora dolenti a ricordarmelo. Stiracchiandomi, notai che stava tramontando e non potevo perdere altro tempo.
Divorai l'ultimo pezzo di pane che mi era rimasto, poiché avevo una gran fame e m'incamminai ancora insonnolita tra l’erba alta. Quel prato mi metteva in soggezione quanto la giungla, sotto i ciuffi lunghi e le grandi foglie verdi di cui non conoscevo i nomi, doveva esserci una vita che io non vedevo e con molta probabilità era invece consapevole della mia presenza.
Pensavo che, se non fossi morta di fame, avrei dovuto sperare di incontrare un qualsiasi essere Umano e spiegare la mia situazione. Forse non sarebbe stato così facile, visto il colore dei miei occhi, spiegare chi fossi e come fossero andate le cose. Volevo tornare a casa, alla creche e in qualche modo ci sarei riuscita. Sarei tornata da sola, pensai trattenendo un lamento. A mani vuote, con una cicatrice a testimoniare la crudeltà che avevo dovuto sopportare, senza i bambini, senza Erien e senza Nilmini. Cosa avrei detto a Madre Brìgit? Cosa mi sarei detta io per il resto della mia vita? Proprio Erien la sera prima di partire mi aveva detto che potevo proteggerli. Quanto si sbagliava! Non avevo mai voluto essere responsabile di loro, non riuscivo a gestirli e ora mi piangeva il cuore, perché l’unica cosa che avrei potuto fare non l’avevo fatta.
Immaginai Madre Brìgit sulla sedia di paglia all’ingresso della creche e pensai che mi sarei inginocchiata davanti a lei e avrei poggiato la testa sulle sue ginocchia, come facevo quando ero più piccola. Lei mi avrebbe accarezzato la testa e sussurrato tutte le parole di conforto che conosceva, poi mi avrebbe tenuta stretta e cullata.
Però entrambe avremmo saputo per sempre che ero tornata solo io da quella gita. Mi avrebbe chiesto di parlare, mi avrebbe fatto raccontare le cose tante volte e io le avrei detto della giungla, degli elicotteri, delle Tigri Bianche, del medico Nalinika e del Capo Branco Ahilan e le avrei raccontato il dolore, la rabbia e la
disperazione.
E di me cosa avrei detto? Le avrei raccontato ogni cosa, tutto quello che Dahaljer mi aveva raccontato e le avrei chiesto di dirmi che non era vero, lei sapeva la mia storia, lei mia madre l’aveva vista con i propri occhi.
Mi crogiolai in quella vaga speranza.
Quando arrivai al fiume la luna era di molto sopra la linea dell'orizzonte, mi fermai a bere e mi lavai il viso e le braccia osservando i graffi che la vegetazione mi aveva lasciato. Avrei fatto vedere a Ilai ogni cicatrice e lui mi avrebbe vendicata, riflettei per qualche attimo. A quel pensiero sorrisi, mio malgrado.
L'acqua forse era troppo profonda da poter essere attraversa, quindi pensai di dover finalmente andare verso est, seguendo le anse del fiume. Guardai le montagne che si disegnavano lontane nella notte illuminata.
Solo allora mi resi conto che stavano accendendo un fuoco lungo il fiume e non era neanche lontano. All'improvviso mi sentii il cuore il gola, c’erano delle figure che giravano intorno a quel punto, le vedevo in maniera nitida e due uomini stavano venendo verso di me.
Maledissi la luna per tutta quella luce, sapevo che mi avrebbero vista, mi sforzai di pensare in fretta a cosa fare, tirai fuori il pugnale e iniziai a correre veloce verso est. Forse sarebbe andata male lo stesso, se mi fossi solo accucciata tra l’erba aspettando che se ne andassero, non lo sapevo; di sicuro mentre correvo con tutta la forza che mi era rimasta nelle gambe, li sentii urlare e neanche cinque minuti dopo tre tigri mi erano addosso.
Un dolore lancinante sulla schiena mi fece urlare e subito dopo caddi a terra. Una grossa tigre mi ruggì nelle orecchie, rintronandomi.
Mi trovai con la faccia a terra, il respiro corto e una paura che forse non avevo provato neanche la prima volta che mi avevano attaccata - o almeno lo pensavo in quel momento. Un’altra tigre ruggì, poi un Tiouck, la terza tigre che avevo intravisto correre, mi voltò con violenza e mi legò i polsi con una corda molto lunga.
Ora c'erano due uomini, uno era Layo, e una tigre, e mi stavano urlando, benché mi stessi accorgendo di iniziare a sentirli solo ora, il ruggito mi aveva stordita a tal punto da farmi perdere momentaneamente l’udito.
«Dove credevi di andare?» Era questo il senso di quello che dicevano, mi stavano insultando imprecando nella loro lingua e quando meno me l'aspettavo, mi arrivò un calcio in pancia che mi tolse il fiato.
Qualcuno mi tirò su urlando e mi diede una sberla con il dorso della mano così forte da farmi voltare la faccia. Cercai il pugnale, o meglio, pensai di cercarlo, in realtà non sapevo neanche dove fosse la terra e dove il cielo. Il qualcuno in questione, però, lo capì e mi disse qualcosa in proposito che non capii tanto mi dolevano le orecchie.
I miei occhi iniziarono a pizzicare e poi a piangere per il bruciore senza che me ne rendessi conto. Cercai di scagliare calci, ma avevo pochissima forza, tutto il corpo gridava dolore e mi pareva di muovermi come una bambina. L'uomo che mi aveva presa, doveva essere Layo, sebbene non riuscissi a mettere a fuoco, mi gettò per terra. L’impatto mi provocò un dolore sottile e intenso sulla spalla, che
non si era del tutto sciolta da quando Ahilan mi aveva colpito.
Disperata, strinsi i denti e accennai a una fuga, il tentativo mi procurò solo altri calci e insulti che mi tolsero ancora una volta l'aria. Fu allora che sentii un ruggito più forte degli altri. Doveva essere Dahaljer. Mi avrebbe sbranata in un secondo, facendomi a pezzi talmente piccoli che non si potevano neanche immaginare, non sarebbe rimasto nulla di me, fu l’unica certezza che mi balenasse in testa in maniera nitida come se riuscissi a vederlo.
Sarei finita in quel modo, sbranata in un patetico tentativo di fuga. Una paura profonda mi attanagliò, come avevo potuto anche solo pensare di essere riuscita a scappare? Di raggiungere Madre Brìgit e di rifugiarmi tra le sue braccia? Non avrebbe saputo più nulla di noi, di me, e non avrebbe potuto confutare la tesi che mi voleva non Umana.
Aprii gli occhi giusto in tempo per vedere che mi stava per arrivare un altro calcio, che, però, non arrivò. Una tigre bianca era saltata addosso a Layo.
Lo vidi trasformarsi e per un attimo non capii più chi stava attaccando chi. Vidi due tigri rotolare a terra una sopra l’altra, prima di sparire nell'erba alta, le sentivo ringhiare e mordere e piangere.
Una delle due mugolò. Poi ci fu silenzio.
Sentii dei i umani avvicinarsi.
«Andatevene!»
«Ahilan... »
«La riporto io. Mancava poco che la uccideste. Srei, lasciami quello.»
«Ma…»
«Dammelo!» tuonò.
Una stoffa morbida arrivò sul mio viso.
Li sentii andare via e sentii Dahaljer piegarsi accanto a me. «Come stai?»
Ma che domanda è? Non risposi. L’avrei morso, se avessi avuto la possibilità di farlo.
Lui fece per prendermi e io mi dimenai con quel poco di forza che mi era rimasta, così lui mi afferrò e mi caricò di peso su una spalla. A me scricchiolarono le ossa e cercai di trattenere un grido, che uscì fuori in un gemito spezzato.
Mi ritrovai dentro l'acqua; mi avrebbe affogata. Per un attimo ne fui sicura,
quando l’acqua mi ricoprì del tutto e la corrente del fiume sembrava volermi portare via. Poi, però, mi tirò fuori e mi stese a pancia in giù.
Non mi mossi, non ne avevo la forza, non avevo neanche la forza per pensare di farlo. Rimasi distesa con la faccia tra l’erba che mi pizzicava il volto. Lui mi finì di strappare la maglietta e ò un panno sulla schiena, con delicatezza.
«Ma cosa ti è saltato in mente?» cominciò, con tono autoritario, senza rabbia. «Non hai capito nulla di quello che ti ho detto. Non dirmi che è stato tutto fiato sprecato. E poi, Nalinika si fidava, ci è rimasta male e si è anche beccata una bella strigliata.» Parlava con la sua voce profonda e bassa, lentamente.
Dopo un paio di minuti mi voltò e mi guardò, con un’espressione un po’ divertita. «Tu mi farai impazzire. Come pensavi di affrontare la trasformazione da sola?» Con i denti strappò la stoffa, doveva essere il tapi di Srei, e dopo avermi sollevato un braccio me lo fasciò.
«Vado a caccia un giorno e guarda cosa combini.»
Tre. Tre giorni che non c’eri, spariti tutti, pensai io, ma non lo dissi.
«Credevi veramente che avessero ucciso Nilmini e Khaled? Perché sei fuggita per questo, vero?»
I miei vestiti dovevano essere laceri oltre che bagnati. Lo vidi strappare quelli dei pantaloni e pulirmi i polpacci con cura. Aveva le dita lunghe sulle mani
grosse, ma le muoveva con eleganza e agilità.
«Non pensavo saresti scappata, non ora», disse pronunciando la frase con eccessiva lentezza. «Forse ti ho sottovalutata. O forse», aggiunse ponderando le parole, «pensavo di averti capita.»
Aveva un tocco leggero, e mi chiesi come fosse possibile. La luna, ora alta nel cielo, illuminava il suo corpo, il suo aspetto era quello di sempre: un ragazzo alto, muscoloso, agile, ma non avrei mai immaginato che potesse essere così delicato nel toccarmi.
Mi mise a sedere, srotolò la stoffa che aveva in mano e la fece are sulla mia schiena. La unì davanti al mio seno, per lasciarmi un minimo di dignità e tolse la maglietta già strappata e imbrattata di sangue, poi con un nodo legò la stoffa sul petto, strappandone un pezzetto alla fine.
Tirava un vento leggero, caldo e morbido. Sentivo l’acqua scivolarmi dai capelli sulla schiena, che pizzicava. Non avevo idea delle mie condizioni.
Ahilan bagnò ancora la pezza nell'acqua, la strizzò con una mano e la posò sullo zigomo sanguinante, con delicatezza, osservandomi.
Nel sentire il dolore, feci uno scatto indietro con il corpo.
«Non è nulla», disse lui paziente e riprovò, trattenendomi il viso con una mano.
Spostai gli occhi nei suoi. «Perché lo fai?»
La risposta tardò ad arrivare. «Mi servi intera», rispose a voce molto bassa, poi si soffermò a vedere se il sangue si era tolto.
Doveva essere tardi, eppure non sembrava stanco, con molta probabilità era abituato a ben altri ritmi.
«Però non è solo questo, vero?» insistetti, anche io con voce quasi impercettibile.
Lui non rispose, piegò il panno e lo lasciò a terra, sollevò lo sguardo verso le luci dell'accampamento, poi lo rivolse verso di me. Mi accarezzò la guancia con il pollice, indugiando sulla ferita. «Domani probabilmente avrai un bel livido.»
Gli sfiorai la mano che mi teneva il viso. Volevo dire qualcosa, ma non mi veniva nulla di sensato, né nulla di razionale. Incrociando il suo sguardo, avvertii un senso di vuoto nello stomaco. Cos'è che lui aveva capito? Rimasi a gambe incrociate sul prato, nel silenzio della notte, a guardarlo, senza voler ammettere nulla a me stessa di cui dovermi pentire.
Non mi aspettavo nulla di avventato da parte sua, ma lui lo fece: mi si avvicinò così tanto da poter sentire l'odore della sua pelle, così tanto da sentire le sue labbra calde sfiorare le mie, da poter percepire il respiro lento, da poter muovere le mani legate e prendere il suo viso.
Ero conscia del mio corpo dolorante e dei battiti accelerati, conscia della pazzia, del rischio, della stupidità, dell'insensatezza di tutto ciò. Niente di questo, però, riuscì a fermarmi quando le nostre lingue si intrecciarono, quando lui mi attrasse a sé e le bocche si unirono in un unico respiro.
Lo stavo baciando. Lo stavo davvero baciando.
Le sue labbra morbide e vellutate come petali di rosa incendiarono il sangue nelle mie vene. Per pochi istanti pensai che non avrebbe mai dovuto smettere, che avrebbe potuto essere infinito, poi, però, lui mi guardò, spostando il viso.
Sorrise nel modo dolce che gli avevo visto raramente. «Devo essere pazzo», commentò in un sussurro.
«Sì, devi per forza...» Deglutii e lo guardai, incredula, come se fosse all'improvviso un'altra persona; anche io dovevo essere pazza. Non era la stessa persona da cui poco prima stavo scappando? La stessa che pensavo mi avrebbe sbranata ponendo fine alla mia breve vita? Sapevo chi era?
Lui mi baciò di nuovo, a lungo.
Sentii le mie mani liberarsi dalla corda stretta sui polsi, mentre mi sdraiava a terra, tra gli alti fili d'erba che si schiacciavano sotto la mia schiena indolenzita. Incerta, lo cinsi con le braccia e, per la prima volta, lo abbracciai senza dover combattere con lui, percependo i suoi muscoli rilassati.
I muscoli di una Tigre.
Lo sapevo chi era, lo sapevo molto bene. Era quello ad attrarmi? O erano le sue dita che mi sorreggevano la testa, le sue labbra morbide, il suo sapore delicato? O i suoi occhi troppo profondi, che ora mi fissavano?
O il fatto che lui forse si stesse chiedendo le stesse cose? Perché stavamo commettendo tutt'e due un grosso errore, di questo ero sicura.
Ahilan mi contemplò brevemente, osservando il mio viso sotto i raggi della luna piena. Volevo baciarlo ancora, ma lui voltò la testa e qualcuno dalla direzione in cui stava guardando - come se se lo aspettasse - lo chiamò. A lui sfuggì un sospiro. «Dobbiamo andare», disse più a se stesso che a me, e si alzò con un unico, agile movimento; mi tese una mano. «Vieni.»
La presi e mi misi in piedi, senza dire una parola, mi feci rimettere la corda ai polsi e lasciai che lui mi trascinasse per un braccio verso gli altri.
10
Quando il mattino seguente mi svegliai indolenzita e debole, vidi per prima cosa le manette ai polsi, poi scorsi Nalinika. Portava una gonna lunga e leggera, sopra un top stretto.
Era chinata accanto a una ciotola e stava intrugliando qualcosa. Non sapevo cosa dirle e mi limitai a osservarla.
«Ti sei svegliata», disse poi quando si alzò e si avvicinò.
Era arrabbiata? Delusa? Se lo era, non lo mostrava. Mi sorrise e mi disse di non muovermi.
Per la seconda volta quella donna si stava occupando delle mie ferite ed ebbi il buon gusto di sentirmi in imbarazzo. Spostai lo sguardo.
L’altra appoggiò la ciotola accanto al mio giaciglio e mi aiutò a mettermi seduta.
«Quanto brucia…», mormorai, come riscossa da una serie di pruriti sparsi sulla schiena.
Nalinika annuì. «È normale, ma la ferita dell’altra volta era anche peggio di questa, quindi non dovrebbe andare poi tanto male.»
Già, ma l’altra volta me lo sono tenuto per me, pensai accigliata. «Senti» cercai di iniziare a dire «mi spiace se se la sono presa con te, io…»
La donna fece un gesto con la mano come a cancellare qualcosa nell’aria. «Lo posso capire. Credo.» Mi tolse la fascia sul braccio e applicò un unguento, senza dire nulla.
Vergognosa come un bambino che ha appena rubato la cioccolata dalla credenza, me ne rimasi in silenzio, mentre lei mi pettinava con delicatezza. Poggiò il pettine e mi studiò il viso nel punto dove ero stata colpita.
Avevo la testa come ovattata e all’improvviso mi ricordai della sera prima - se era stata la sera prima - e di quello che era successo con Dahaljer. Improvvisamente il cuore iniziò a battermi forte. Cosa sapeva la mia silenziosa infermiera di quello? Cosa pensava? Cosa nascondeva? O forse non lo sapeva. E lui cosa pensava? E sopratutto dov’era? Non ebbi il coraggio di chiederglielo, temevo di tradire troppe emozioni. Mi morsi l’interno della guancia.
Chiusi gli occhi mentre lei finiva di curarmi e prendersi cura di me, come una cara amica. Chiamò il mio nome con una nota tenera nella voce. «Se riesci a stare seduta posso farti una sorpresa. Ci riesci?»
«Sì», le risposi, ancora senza guardarla negli occhi.
«Bene. Allora torno subito, non ti muovere troppo.» Le sue gonne svolazzarono nella stanza e fuori la porta.
Mi guardai intorno, non era cambiato nulla, non avevano pensato di avermi persa neanche per un secondo, e non si erano sbagliati.
Ero abbastanza sicura di veder spuntare Dahaljer da un momento all’altro e fui molto sorpresa di vedere il faccino solare di una bambina.
Spalancai la bocca. «Nilmini!»
«Shayl’n!» La bimba mi corse incontro, inseguita da un «piano!» di Nalinika, del tutto inascoltato.
La strinsi a me a dispetto di tutte le ferite, i tagli e i lividi doloranti che avevo sparsi sul corpo. «Ehi, pulcino, come stai?»
«Bene. Ho avuto la febbre, ma ora sto bene, hai visto? Khaled invece ce l’ha ancora e non è potuto venire. Ahilan dice che non possiamo attaccarti niente, perché sei una principessa. Ma è vero?»
Se prima avevo spalancato la bocca ora stavo spalancando gli occhi, guardai Nalinika, che non batté ciglio e continuò a fare quello che stava facendo: piegare delle bende in fondo alla stanza con cura e la sua solita eleganza. «Non credere a tutto ciò che ti dicono.»
«Allora non è vero.» Sembrava delusa.
La tenni stretta. «Chissà… Ma non è importante, l’importante è vederci, vero?»
«Sì.»
Nilmini rimase con me circa un paio d’ore. Chiacchierò e giocammo con le mani come facevamo alla creche. La bambina sembrava stare bene, aveva il visino paffuto e birichino di sempre e non lamentò nulla in particolare, lasciandomi pensare che forse le era stato detto di non chiedere nulla. Non importava in quel momento, la cosa importante era davvero vederla e vedere che stava bene. Quando ero scappata qualche sera prima, ero convinta che non l’avrei mai più rivista. Quel pensiero, mi provocò una stretta allo stomaco e nello stesso tempo mi fece sospirare.
Se ne andò con Nalinika per pranzare e io rimasi sola per qualche ora, ponendomi duemila domande, senza riuscire a rispondere neanche a una di esse.
Quando verso sera la porta si aprì ero certa fosse Dahaljer, tuttavia ancora una volta era solo la figura slanciata e flessuosa di Nalinika, che fu di poche parole. Mi porse la cena e mi fece qualche domanda sul mio stato di salute. Parlammo di Nilmini e Khaled e la donna si disse dispiaciuta per quella situazione, le credetti. Poi mi sistemò sul fianco e andando via mi augurò la buona notte. Nalinika sapeva rendere quei momenti piacevoli come se fossi stata a casa mia sotto la protezione di madre Brìgit.
***
arono altri due giorni in quel modo. Ora stavo bene fisicamente, nonostante la schiena mi fe ancora molto male quando la muovevo o l’accostavo alle lenzuola del letto. Non era quello a preoccuparmi, però. Pensavo di essermi sognata tutto con Dahaljer e me ne stavo convincendo sempre di più.
Mi sentivo stupida per aver sognato una cosa del genere, mi sentivo anche in torto, ma non sapevo bene nei confronti di chi o di cosa. Ricordavo tutta la mia fuga come qualcosa di inconsistente, come se mi si intorpidisse la mente al solo pensiero.
Quando il pomeriggio del terzo giorno Ahilan entrò nella mia stanza, io non me lo aspettavo più.
Mi alzai a sedere di scatto emettendo un leggero gemito di dolore e lo guardai sorpresa. «Ciao.» Cosa dovevo dirgli?
«Ciao.» Lui si chinò accanto al mio giaciglio ed esaminò il mio corpo. «Come ti senti?»
Non mi ero mai sentita così, neanche io sapevo dire come mi sentissi, avevo lo stomaco chiuso e il battito leggermente accelerato. Era quello che lui voleva sapere?
«Dove sei stato per tre giorni?» gli chiesi alla fine, con una nota di disapprovazione che avrei voluto non rivelare.
«Per due giorni siamo stati a caccia e… ieri ero qui.» Mi osservò lo zigomo gonfio, senza toccarmi. Lo aveva già fatto, lo aveva sfiorato con le dita e poi mi aveva baciata, non lo avevo sognato, eppure mi sembrava un ricordo confuso, proprio come avviene nei sogni. «Fa male?»
«No», mentii in un sussurro.
«Nalinika mi ha detto che finalmente hai avuto modo di are del tempo con Nilmini questi giorni. Spero ne sarai contenta.»
Annuii. «Sì. Dov’è?»
«Sarà con Khaled, dopo…»
Lo interruppi, pacata. «Non lei, Nalinika.»
«Ah. È uscita a fare un giro con Srei. Sai, è una tigre anche lei e ha bisogno di uscire da qui ogni tanto.»
Annuii di nuovo, pensando a Srei e agli uomini che stavano con lui e che mi avevano braccata come un animale. Quando ero a terra, Ahilan li aveva assaliti, per farli smettere di picchiarmi. «Layo… come sta?»
«Layo?» Lui sembrava sorpreso.
«L’altra volta, al fiume pensavo…»
«Sta bene», ribatté brusco Dahaljer, mi fissò a lungo e io fui costretta a distogliere lo sguardo, mi sentivo spogliata dai suoi occhi. Lui mi prese distrattamente una mano. «Di cosa stiamo parlando esattamente?» chiese con una nota più bassa del dovuto, avvicinandosi al mio viso.
Deglutii. «Cosa intendi?»
«Stiamo forse divagando su qualcosa?» domandò.
Lo guardai con un’espressione smarrita. «No…»
«Dio, quanto sei bella!»
Socchiusi le labbra per lo stupore, sentendo il rossore salirmi come un’onda calda sulle guance. E lui mi baciò inaspettatamente, facendomi sentire più fragile che mai. Inerme, lasciai che la mia bocca si aprisse sotto la sua e contraccambiasse. Chiusi gli occhi, mentre lui mi traeva a sé e il corpo si rilassava.
Era caldo e sapeva di menta. La gentilezza delle sue labbra contrastava con l'avidità dei suoi movimenti; il sangue defluì veloce da ogni parte di me, mentre
il suo respiro carezzava la mia pelle come una piuma assorta.
Ahilan mi mordicchiò un labbro, aprì gli occhi e mi guardò continuando a baciare e mordicchiare, osservò il livido sullo zigomo e lo sfiorò con le labbra. Mi baciò la tempia, i capelli, poi mi abbracciò, facendo attenzione a non farmi male e mi cullò con delicatezza per qualche minuto. A parte quelli facciali, non avevo mosso un muscolo, inebetita.
«Cosa devo fare?» mi chiese sotto voce.
Non risposi e lui mi scostò per guardarmi.
Mi scrutò con attenzione. «In questo momento sembri così piccola e indifesa. Non pensavo che lo avrei mai potuto pensare di te, considerando tutti i graffi e le botte che hai cercato di darmi. Eppure sembri molto più piccola adesso, che quando tentavi di saltarmi addosso, senza avere la minima possibilità di vincere.»
«Nessuno», accennai io, incerta. «Nessun uomo mi aveva detto che ero bella, prima d’ora.» E Dio solo sa quanto mi sentissi stupida nel sentirmelo dire.
Ahilan sollevò le sopracciglia e scosse la testa. «Non ci credo», disse, serio. «Io l’ho sentito dire anche dagli altri. L’ho sentito dire anche da Nalinika.» Abbassò la testa, per vedermi meglio in viso. «Shay, sei la cosa più bella che io abbia mai visto. La ragazza più bella che io abbia mai visto.»
«Lo dici solo perché ti sei invaghito di me.»
«Io… No, lo pensavo anche prima e non sono il solo a pensarlo. Perché dovrei mentirti?»
Lo scrutai in volto, come se potessi leggere qualcosa di diverso e lui mi sorrise. «Dahal, perché io?»
Si strinse nelle spalle. «Non lo so.»
«Non mi piace che tu non lo sappia…»
«Tu», provò a spiegare, «mi piaci, fisicamente e come sei: come combatti, come cerchi di avere ciò che vuoi, come difendi le persone a cui vuoi bene. Il resto, non so, forse è chimica. O follia.» Aggiunse lentamente. «Io… Io non posso», mormorò, studiando la mia reazione. «Io non posso averti e tu lo sai.»
Abbassai lo sguardo, nascondendo il viso. Un pugno nello stomaco avrebbe fatto meno male. Ma aveva ragione, io lo sapevo già. Era la follia ad attrarci, il banale gusto del proibito.
«Lo so», ammisi.
Ahilan mi sollevò il viso. «Ma forse in qualche modo faremo. Qualcosa.»
Mi domandai cosa. Cosa ci avrebbe dato una possibilità e quale possibilità cercavamo davvero, non ero certa che noi due sapessimo cosa stessimo cercando l’uno nell’altra. Io, perlomeno, non lo sapevo.
Annuii, conscia di mentire. Il ragazzo più forte del suo branco, l’uomo più importante per il re, non era libero di fare ciò che voleva. Quanto a me, ero una prigioniera, a dispetto di tutto quello che si poteva inventare sulle mie origini, rimanevo un ostaggio.
«Shay, sono venuto a dirti che la partenza è stata rimandata, come avrai capito. Nalinika e i bambini partono stanotte, con Srei, Layo e Jama. Siamo in ritardo sulla tabella di marcia e tu hai bisogno di riposarti per almeno altri tre giorni. Poi partiremo anche noi due, con due ragazzi che non conosci. Vorrei sapere che per te va bene.»
Fui sorpresa da quanto richiestomi: da quando importava il mio parere? «I bambini non possono venire con me?»
«Preferirei che rimanessero con Nalinika, anche perché per noi sarà una corsa e tu potresti iniziare a sentirti male, il cammino per le terre del Nord è lungo.»
«Quindi mi pare di capire che in realtà sia uguale se a me non va bene», commentai, all’improvviso stizzita.
«Shayl’n, se non vuoi, cambierò programma.»
Corrucciai la fronte. «Sento che mi stai fregando, ma va bene, forse è meglio che vadano avanti con Nalinika.» Non ne ero certa, tuttavia non avevo voglia di pensare, né di iniziare ad argomentare una qualsivoglia mia opinione in merito a dove stessero meglio i bambini.
«Non ti sto fregando.» Si alzò, flessuoso come la sorella. «Sapevo che saresti stata sensata.» Fece una pausa, poi aggiunse: «Nalinika non lo sa, nessuno lo sa e deve rimanere così.»
Spostai lo sguardo e alzai le spalle, non avevo voglia di pensare proprio a nulla. Lui si piegò velocemente a baciarmi una spalla. «Questo vuol dire che devo lasciarti le manette. Perdonami.» Non aspettò nessuna risposta e uscì dalla stanza chiudendomi dentro.
11
Partimmo una mattina molto presto. Quattro giorni prima era partito l’altro gruppo, avevo salutato i bambini e avevo sperato di vedere qualche volta in più Dahaljer, ma era ato solo una volta e con un altro ragazzo.
Ora mi aspettava all’uscita delle grotte parlando con altre persone che io non avevo mai visto. Quando mi vide mi disse di seguire Valir e iniziare la strada con lui, non mi diede nessuna possibilità di protestare e tenni per me il mio risentimento.
Valir aveva diciannove anni, quindi non aveva ancora affrontato la trasformazione. Però era molto alto e andava a o spedito, conosceva bene la giungla e procedeva sicuro. Portava il mude per ripararsi dal sole, doveva avere la pelle molto chiara, non fu di grande compagnia.
Dahaljer e un altro uomo ci raggiunsero verso ora di pranzo e neanche loro furono particolarmente loquaci. Stabilirono a grandi linee le tappe da percorrere. Dahaljer spiegò che ci volevano otto o nove giorni per arrivare alla città di Sania, dove avrebbero trovato una macchina ad aspettarli.
Dopo quattro giorni di viaggio, iniziai a sentirmi stanca, non fisicamente, perché il mio corpo si era rimesso in sesto del tutto, segno che la trasformazione si stava avvicinando, mi dissero, bensì psicologicamente divenne insopportabile.
Tra di loro non scambiavano mai troppe parole, a parte quando ci fermavamo a mangiare e potevo immaginare che ci fosse una qualche comunicazione non verbale tra di loro per cose molto pratiche.
Ahilan, guardava sempre avanti, sembrava tenere attenti tutti i sensi in qualsiasi ora del giorno e della notte. E gli altri due parlavano con lui come fosse il capo assoluto. Mi sentivo fuori posto, ero praticamente costretta al silenzio e a tenere le manette. Avevo molto tempo per pensare, quando era l’ultima cosa di cui avevo bisogno.
Pensavo che molto presto avrei finito per esplodere, non sono sicura che Dahaljer se ne fosse accorto, tuttavia il quinto giorno disse che potevamo rallentare il o e che avrebbe iniziato a insegnarmi qualche cosa. Lo avrebbe fatto la mattina presto, all’alba, prima di incamminarci.
Fu così che imparai a parare i primi colpi.
«Questo è tuo», mi disse la prima volta, mostrandomi il mio pugnale. «Non posso lasciartelo, però.»
Annuii, rigirandomelo tra le mani. Mi era servito solo ad aprire il cocco, non era stato utile come avevo auspicato quando lo avevo lasciato nascosto nei miei anfibi.
Valir non era dello stesso parere riguardo il fatto che mi insegnasse le tecniche con cui combattevano le Tigri, lo sapevo perché lo disse senza complimenti durante un pasto. Il Capo Branco, però, non gli rispose neanche.
Grata di quei momenti tra di noi, ne approfittai per porgli qualche domanda, mentre tentavo di sfuggire ai suoi assalti aggraziati. «Cosa hanno di diverso le Tigri dagli Umani?» chiesi. «A parte la possibilità di trasformarvi, intendo.»
Mi roteò intorno, mi afferrò le braccia e mi rigirò verso di lui stringendomi per la vita, dove la punta del suo pugnale toccò la mia pelle. Non reagii, tenendo il mio viso a qualche centimetro dal suo. Lasciò la presa e fece un o indietro. «E a parte gli occhi?»
Annuii.
Rinfoderò il suo pugnale nella cintola. «Direi la durata media della vita, più lunga di almeno trent’anni.» Mi mostrò il braccio dove lo avevo graffiato e non c’era più nessun segno. «Guariscono prima e non riportano il segno, a meno che non si tratti di ferite profonde.» Mi tirò per un gomito e indicò il mio braccio con il mento. «Assenza della peluria; in forma umana, ovviamente.»
«Ah», commentai. «E io che pensavo di essere fortunata.»
«Potresti esserlo, ci sono gli Umani glabri; tuttavia, la maggior parte delle Tigri e dei Lupi non presenta una peluria folta, se non per i caratteri sessuali.»
All’improvviso, mi tirò un destro, lo parai e d’istinto lo ricambiai, mirando al suo addome. Lui mi afferrò il pugno con la mano e mi spinse indietro, allontanandomi da sé. Sorrise. «L’agilità di solito è tipica delle Tigri e anche i riflessi pronti, anche se tu» si ò una mano sui capelli, distratto «tu sei
cresciuta da Umana, a volte non pensi a quello che fai. Questo non significa che sia un difetto, a volte il secondo che si impiega per pensare è traditore. In realtà, tutte le Tigri Bianche che non sono avvezze al combattimento, compiono questo tipo di errore. Siamo umani dopo tutto.»
«Ci sono Tiouck che non combattono?» chiesi scettica.
Rise di gusto. Sfoderò nuovamente il pugnale e mi venne incontro in un unico movimento. Aprii la bocca sorpresa, tirando fuori il mio e parai i suoi colpi, secchi e precisi. Le lame si incontrarono con un rumore metallico. Finsi di attaccarlo, lui parò e io feci un o indietro così lui si trovò a difendersi dal nulla, ne approfittai per far are la lama sotto il suo braccio, mirando al cuore. Si scansò, mi prese un braccio con la mano libera e lo piegò, strappandomi un gemito oltre che un respiro. Mi attrasse a sé. «Brava», disse al mio orecchio con una voce morbida come glassa sulla lingua. Quindi mi guardò cambiando intonazione. «Però devi sapere attaccare una Tigre. Con un Umano avresti vinto. In ogni caso, alcune Tigri non saprebbero farlo e le avresti vinte lo stesso. Sai, ci sono alcuni di noi che sono semplici civili. Hanno la forza delle Tigri e cacciano per mangiare carne, ma conducono una vita fatta di studio, di famiglia, di impieghi negli uffici, puoi capirlo?»
Mi divincolai e lui mi lasciò. «Lo so, a dire il vero», concessi. «Ma ammetto che noi Umani non pensiamo mai a voi in quel modo.»
Abbassò il mento, sornione. «E come pensate a noi?»
«Come a dei fottuti bastardi!» ribattei. «E lasciami dire che, da quello che vedo qui, lo siete davvero.» Mi chinai sulle scarpe e notai un graffietto sul polpaccio che dovevo essermi fatta con qualche pianta. Portavo dei pantaloni larghi e leggeri, che si gonfiavano come mongolfiere, erano azzurri e non mi facevano
soffrire molto il caldo. Di certo meno di come ne soffrivo con i jeans, che, ridotti a brandelli, Nalinika aveva buttato, quando ero ancora alle grotte. «Altre differenze fisiche?» I miei anfibi non avevano nulla a che vedere con l’abbigliamento. Drizzai la schiena.
«Non mi viene in mente altro al momento, ma so che ci sta dell’altro.» Ci pensò. «Beh, la riproduzione. Le donne delle Tigri Bianche sono fertili solo sei o sette giorni l’anno, come le tigri, gli animali. E i Lupi solo alcuni giorni tra la metà e la fine dell’inverno. E la durata della gestazione può variare di molto da donna a donna» Dovevo avere un’espressione sconcertata, perché lui mi lanciò un’occhiata divertita. «Non lo diciamo in giro, in effetti, perché in questo senso, voi avete molto più potere di noi, in termini, diciamo, matematici?»
«Matematici?» , ripetei attonita.
«Nel senso…»
«Ho capito il senso», lo interruppi. «Non credo sia solo in termini numerici lo svantaggio. Voglio dire, noi possiamo avere figli quando vogliamo. Più o meno», aggiunsi.
«Vedila così, gli Umani hanno più possibilità, ma non tutte riescono. Noi ne abbiamo una, ma di solito è una certezza.»
Un raggio di sole che ava indisturbato tra le foglie, colpì la lama del suo pugnale e di riflesso il mio viso. Sbattei le palpebre per il riverbero e mi spostai. Dahaljer si mosse veloce e mi afferrò, guardandomi dritto negli occhi.
«Hai solo un quarto di sangue Umano puro, devi considerare il fatto che anche tu avrai determinate caratteristiche. Come gli occhi, anche se i tuoi occhi sono strani, pure per noi.»
Mi liberai, infastidita. «Non ci posso fare niente. Giuro che se potessi, me li caverei dalle orbite, per quanto li odio.» A un o da lui, gli puntai il pugnale contro.
Inarcò un sopracciglio. «Ne dici di cazzate», rispose alla mia sfida, attaccando; sfuggii ai suoi colpi. Inciampai su una radice. Dahaljer mi trattenne e ne approfittai per attirarlo a me, di nuovo le nostre lame si incontrarono stridendo all’altezza del bacino. Il mio pugnale si incastrò tra la lama e l’impugnatura del suo, se lo avessi spostato per liberarlo lui avrebbe potuto sfiorarmi la pancia, se lui avesse tolto il suo avrei vinto io. Rimanemmo bloccati, ma lui sorrise.
Solo in quel momento mi resi conto che un'altra lama era puntata a tre centimetri dalla mia gola. Non mi ero accorta che l’avesse sfoderata. «Non vale», dissi.
«Oh sì che vale. Devi sempre pensare a tutto.»
Annuii. «Va bene, allora.» Mi spostai appena, sentendo la punta della lama spingere sulla pelle del collo e gli morsi la mano con un morso veloce e forte all’altezza del tendine del pollice. Il pugnale gli scivolò dalle dita, finendo a terra.
Imprecò. Fece un o indietro per liberare l’altro pugnale, afferrò una liana per
spostarsi, poi tornò verso di me; prima che avessi tempo di fare qualsiasi cosa, mi voltò e mi afferrò tra il collo e la clavicola, facendo forza e costringendomi a inginocchiarmi. Respirando a fatica, puntai alla cieca il pugnale contro l’inguine, chiusi gli occhi per la posizione innaturale che dovevo tenere. Annaspai, sapendo, però, che in qualche modo lui era sotto la mia lama, stavo sorridendo. Ma quando riaprii gli occhi, la punta della sua pistola era in mezzo alla mia fronte. Sorpresa, feci uno scatto indietro, che lui bloccò, tenendomi la testa.
Facendo attenzione al mio pugnale, si piegò verso di me. «I tuoi occhi vanno benissimo così come sono. Non fare la ragazzina complessata.»
«Non sono complessata.» Tentai di dire pur non riuscendo a parlare bene. «Capiresti se fossi un mezzosangue con gli occhi a metà.»
«Se tu invece ti vedessi da fuori, capiresti quanto sono belli, per la forma, l’espressione e il loro maledettissimo colore.»
Spostò l’arma e le sue labbra si poggiarono sulle mie in un soffio. Mi lasciò e l’improvvisa libertà mi fece perdere l’equilibrio. «Non vale», sibilai, poggiando le mani e terra per non cadere. «Hai detto che usate i pugnali solo quando non potete più usare la pistola.» Mi rimisi in ginocchio.
«E tu ti fidi di me?» domandò, porgendomi la mano.
La scansai e mi alzai da sola, furiosa. «No!»
«Brava.» Aprì le braccia come a dimostrazione di qualcosa. Guardò l’orologio. «Stiamo facendo tardi e Valir e San non ne saranno contenti.» Tirò fuori le manette per rimettermele.
«Chi se ne frega!» Provai a colpirlo e lui mi afferrò il polso.
Fece un’espressione strana, pacata e allegra, la mia ira non intaccò il suo buon umore. «Continuiamo a litigare domani mattina.»
Ma la mattina dopo non litigammo. Si allenò con me, vicino ai nostri compagni di viaggio, illustrandomi con scrupolo i nomi di alcune posizioni di difesa. Non seguivo tutto ciò che mi spiegava, perché ero distratta e più di una volta mi soffermai a osservare le sue labbra, desiderando di toccarle.
Durante il tragitto mi parlarono di Praha, del freddo e della neve e quella notte sognai Madre Brìgit. Ero contenta perché l’ultima volta che l’avevo vista, le avevo dato un bacio.
Eravamo in cammino da sette giorni e, trovandoci vicino a un fiume, mi fu concesso di rimanere da sola e lavarmi con una saponetta che mi avevano dato. Pulita e rilassata, mi offrii di fare io il turno di guardia, tuttavia Valir e San non si fidavano e Ahilan disse che l’avrebbe fatto con me.
Dopo cena i due guerrieri/soldato si misero a dormire e Dahaljer mi condusse su una piccola altura con l'erba bassa che si insinuava tra le rocce lisce.
Mi liberò dalle manette e mi insegnò a riconoscere alcuni rumori, a scandire il tempo durante la notte e a respirare più piano del minimo suono della foresta. Dal basso i rumori echeggiavano assorti e lui sembrava poter vedere cose che io non ero in grado di visualizzare. Mi mostrò la sua semiautomatica nera e mi disse come togliere la sicura, nel caso mi fosse servito, e di mirare sempre al cuore o qualsiasi altro punto vitale, così uccidevo in fretta e con certezza. La allontanai da me, infastidita.
Non si muoveva una foglia, ma non faceva particolarmente caldo. Indossavo sui pantaloni un top leggero che mi copriva il petto e la schiena, lasciando scoperte braccia e parte della pancia e delle spalle. Ahilan invece indossava i pantaloni militari e una maglietta, aveva con sé il suo tapi e lasciò che mi ci si sedessi sopra.
«Se vuoi dormire», disse Dahaljer dopo un po’ di tempo, poggiando le braccia sulle ginocchia «non mi offendo.»
«Mi offendo io, sei tu quello che dovrebbe dormire.»
Scosse la testa. «Ma io posso rimanere anche sveglio, sei tu l’Umana.»
«Ancora per poco, se non erro», rammentai. «Dahal, quando succederà, se succederà, sarò uguale a ora?»
Mi guardò divertito e mi diede un pizzicotto sul braccio. «Sarai comunque la mia preferita.»
Cercai, invano, di sfuggire al pizzico. «Idiota, dico davvero.»
Lui mi prese il viso con una mano e si avvicinò a me. «Anche io: se solo fosse possibile, saresti solo più bella di ora.» Mi baciò, sorprendendomi anche questa volta.
Con una leggera pressione della mano mi fece sdraiare sul tapi e si sdraiò accanto a me tenendosi su un gomito. «Voglio insegnarti a ballare, ragazzina», disse accarezzandomi un braccio.
«Non credo di essere un granché», borbottai.
«Tutte le Tigri sanno ballare.» Disegnò il contorno del mio viso con le dita con la pressione di un pennello di seta su una tela.
«Ma io lo sono solo in parte.»
Ahilan rise. «Beh, ci sarà qualche Lupo e qualche Umano che sa ballare, o no? Dobbiamo provare.»
Sorrisi e rimasi a contemplarlo mentre la sua mano mi carezzava la pelle. «Suoni tu?»
Inclinò il capo. «Se vuoi. So suonare solo la chitarra, però.»
«Davvero? Da quanto la suoni?»
«Da che ne ho memoria.» Guardò la foresta sotto di noi e più in lontananza il deserto che si srotolava piatto fino all’orizzonte. «Mi insegnò mia madre a suonare. La sera, prima di andare a letto, scioglieva i capelli dalla treccia che portava durante il giorno e mi chiedeva di suonare con lei. Vivevo a nord, a Geania, c’era la neve quasi tutto l’anno e lei la sera accendeva il fuoco nel camino e suonava con me. Si chiamava Alexis.» Osservò il cielo. «Sembra ieri.»
Guardai le stelle. «Alexis. Dove pensi si trovi adesso?»
Lui invece guardò me, poi volse di nuovo il capo al cielo. «Lì, dove stai guardando tu, da qualche parte.»
Gli strinsi un braccio. «Mi spiace, per i tuoi genitori.»
«Aveva ventinove anni quando l’hanno uccisa. Era solo una madre che voleva proteggere suo figlio e in qualche modo ci è riuscita, pagandolo con la vita.»
«Chi l’ha uccisa?» chiesi, apprensiva.
«I Lupi. Lo vidi con i miei occhi.» Sospirò.
Restammo in silenzio per qualche minuto. Poi lui si chinò a baciarmi i capelli. «Dahal», lo chiamai. «Baciami.»
Mi baciò dolcemente. Lo cinsi al collo e lo attrassi a me.
«Finirai per farmi impazzire», mi sussurrò all’orecchio.
«Mi piaci», gli risposi, mentre lui si sdraiò sopra di me con uno spostamento impercettibile.
«Anche tu. Mi piaci da morire.» Mi baciò le guance, il collo, una spalla. Le dita della sua mano percorrevano il profilo del mio corpo. Mi aprì il top e mi baciò un seno, io gemetti appena a quella sensazione che si infrangeva su di me come lava calda e indolore; e lui si fermò a guardarmi.
Aprii gli occhi e gli sorrisi. «Ho paura che», dissi corrugando la fronte, «che potrei innamorarmi di te.» Mi pentii subito di quello che avevo detto, e mi morsi l’interno della guancia.
Lui chinò la testa e mi baciò la pancia stringendomi un fianco con la mano.
Forse non dovevo dirlo, forse avrei potuto tenerlo per me, forse lui aveva ben altre cose a cui pensare, forse ero andata troppo di corsa. Che idiota! Lo conoscevo appena. Eppure quella era la verità e gliela avevo appena detta.
«Shay…» Si sollevò per mettersi con il viso davanti al mio e incrociammo gli sguardi.
«Non è importante», lo interruppi, invasa da un senso di irrequietezza.
«Sì che lo è.» Mi schioccò un bacio veloce sulle labbra. «Io… ho paura di essermi già innamorato di te.»
Stava mentendo? Mi stava guardando negli occhi e sembrava la persona più sincera del mondo. Non sapevo se fossero le miriadi di stelle dietro la sua testa, o il suo sguardo magnetico, ma credevo a ogni singola parola. E volevo di più. Credevo di volere tutto di lui, lo volevo così tanto che mi faceva male il cuore. «Dahal, io… io non ho mai…» Mi sentii sciocca e inadatta.
Sorrise. «Lo so.»
«Mi scordo sempre che sai più cose tu di me che io stessa», borbottai aggrottando la fronte.
Mi baciò il naso. «Non lo so per questo. L’avrei capito comunque: sono un uomo e sono anche una Tigre. Tu… ti ecciti con un bacio.» Non so quale espressione preoccupata feci, ma lui mi rassicurò: «È la cosa più bella che abbia visto.» Mi baciò con ione, tenendomi il viso con una mano. «Non farò niente che tu non voglia fare», aggiunse.
Non lo dire. Non lo dire. «Voglio te.»
«Shay…»
Puoi ancora tornare indietro. «Davvero.» Un tremito nella voce.
I suoi occhi indugiarono sui miei lineamenti. «Non voglio che tu lo faccia solo perché ti ho detto che sei bella.»
Lo guardai, gli accarezzai un bicipite sfiorandolo con la punta delle dita; c’era una piacevole morsa tra lo stomaco e la pancia. «Non mi è mai interessato, mai come ora. Pensi davvero che lo farei con te solo per questo?»
«No. Solo che…» Ci pensò un momento. «Fai in modo che nella tua vita tu non debba avere rimpianti.»
Gli presi il viso tra le mani, il cuore che rimbombava nel petto. «E tu fai in modo che non sia tu uno dei miei rimpianti.» Gli leccai un labbro e lo osservai sorridere a occhi chiusi. Quando li riaprì aveva l’iride di un azzurro intenso, perfettamente visibile nella notte, come quando era una Tigre. Mio Dio, voglio fare l’amore con una Tigre Bianca, pensai. E lo voglio adesso.
«Ti adoro, piccola capocciona», mi sussurrò.
È strana e piacevole la paura che si diffonde nel tuo essere, quando sai che stai per fare qualcosa da cui non puoi tornare indietro, qualcosa che ti rimarrà addosso come un tatuaggio, che sai che farà male e speri che sia il dolore più
dolce e intenso della tua vita. Chiusi gli occhi e lasciai che lui giocasse con il mio seno, lasciai che mi baciasse sul collo, sulla cicatrice che lui stesso mi aveva provocato. Lasciai che mi togliesse ogni vestito, che mi baciasse ovunque volesse. Permisi al mio corpo di tendersi e rilassarsi, di gemere e accelerare tutti i suoi battiti, di provare piacere e smarrimento.
La sua bocca si insinuò tra le mie gambe; strinsi i pugni, mentre il desiderio si scioglieva liquido. «Ti prego…» la mia voce mi sembrò lontana.
«Ti prego cosa?» La sua invece era vicina, ferma e mielata.
Non sapevo come fosse un uomo, non lo sapevo nella realtà, almeno. Aprii gli occhi e lo vidi davanti a me. Mi morsi un labbro, tremando appena. «Ti prego, se non mi uccidi, fai qualcosa, qualsiasi cosa.»
Si chinò a baciarmi le labbra. «Dimmi se ti faccio male. Me lo dirai?»
Indugiai con lo sguardo tra le sue gambe. «Sì.»
«Shay, non voglio ucciderti.» E potevo sentirlo tra le cosce, potevo sentirlo scivolare dentro; mi aggrappai alle braccia di Ahilan. Si fermò. Respirò a fondo, mi guardò e mi uccise. Mentre lo avvolgevo come un guanto, mi squarciò. Socchiusi la bocca tra dolore e piacere, nel sentirlo dentro di me.
I suoi occhi non si staccarono dai miei. Sorrisi. «Ti sento», sussurrai.
Lui si sollevò un poco sulle braccia. «Anche io, ogni parte di te.» Mi prese una mano, se la portò alle labbra e la baciò.
Tutto quello che venne dopo, non fui in grado di separarlo in modo razionale, per quanto fosse tutto molto cadenzato, respiri, gemiti, battiti del cuore. Poi lo strinsi forte a me, conficcandogli le dita sulla schiena, e tremai di piacere fino a che non lo sentii vibrare dentro di me.
***
«Hai la pelle morbidissima, tesoro», mi disse in seguito, guardando il cielo.
Non risposi e sorrisi tra me, arrotolata accanto a lui, che mi stringeva con un braccio. Potevo avvertire un dolce bruciore tra le gambe, il resto del corpo era inconsistente. Mi sentivo a un metro da terra e non avevo intenzione di scendere.
«Non pensavo fosse così bello fare il turno di notte.» Ridacchiai dopo qualche minuto. «Lo devo fare più spesso.»
«Basta che sia solo con me.»
Mi sollevai a guardarlo «Dici?» Sorrisi.
Mi tirò per un braccio. «Assolutamente sì!» Mi accarezzò il viso. «Immaginavi fossero così i turni di notte?»
Appoggiai la guancia sul suo petto. «No. Non credo si possa immaginare davvero.» Riflettei. «Io almeno non potevo immaginarlo davvero.»
«Cosa non immaginavi esattamente?» Mi tenne abbracciata.
«Non so. Pensavo fosse più lento; non immaginavo la velocità, il fuoco dentro… e te.»
Ahilan rise. «Me? Io invece è una vita che ti immagino qui, su questa altura, di notte, che aspetti solo me.»
Gli morsi, leggera, un dito. «Bugiardo.»
«Aspettavo che una cosa divertente e piena di energia mi travolgesse. Qualcosa di misteriosamente dolce, ingenuo e puro. Aspettavo che qualcosa di bello ci fosse anche nella mia vita. Sì, aspettavo proprio te.»
Lo strinsi forte e lui mi carezzò i capelli. Forse anche io aspettavo solo lui. «Dahal, che ne farai della mia verginità?»
«La tengo sotto chiave nel mio petto, e fino a che sarai con me e solo con me, sarà al sicuro.»
Mi sollevai a scrutare il suo volto delicato e virile ed ebbi la sensazione di una vertigine. Poggiai la mia mano sul suo torace, accanto al cuore, la distesi e con il palmo esercitai una leggera pressione. «Sono qui.»
Quando scendemmo giù, San era già pronto per darci il cambio. Chiese solo se fosse andato tutto bene e poi si allontanò, mentre io mi sistemai sul mio giaciglio, accoccolandomi con un sorriso sulle labbra, e dormii serena come non dormivo da molto tempo.
Oggi so di aver corso troppo. Oggi so che quello sconvolgimento fisico e mentale è stato un errore dettato dalla situazione assurda che stavo vivendo, dall’immaturità, dalla fretta, da una ione che voleva essere bruciata per quello che era; dal capovolgimento del mio mondo. Oggi so che quell’errore, con ogni probabilità, mi ha salvato la vita più di una volta.
12
L’indomani mattina partimmo molto presto e le mie lezioni furono rimandate alla sera.
Prima del tramonto trovarono una sistemazione accanto a una radura di pochi metri e quando Valir e San si allontanarono per andare a caccia, Ahilan riprese a insegnarmi qualche tecnica per combattere e per difendermi.
Ancora una volta, non lo stavo ascoltando. Mi sentivo leggera e fresca, come se fossi ancora un metro da terra.
«Shayl’n Til!» mi riprese. «Mi stai ascoltando?»
«Sì, sì», ridacchiai.
Lui rivolse gli occhi al cielo. «Ok, ascolta bene. Quando ti arriva una freccia, di solito la senti. Hai meno di un secondo di tempo per cercare di evitarla, ti devi muovere veloce.»
Sgranai gli occhi. «La sento?»
Mi guardò come se fossi un bambino poco intelligente. «Sì, la senti, emette un fischio distinto. La senti se non sei solo un Umano», spiegò comato. Mi puntò un dito addosso. «Evitami. »
«Ma non è una freccia!»
Ora mi osservava come fossi una gallina, poco intelligente. «Lo so, ma lo sto facendo avanti a te, la puoi vedere.»
Avrei voluto ribattere qualcosa, non ricordo con precisione cosa, tuttavia lui mi attaccò con il suo dito e io iniziai a muovermi veloce evitando tutti i colpi. Saltellavo con agilità e con la coda dell’occhio vedevo il tapi avvolto sulla mia vita fluttuare seguendo i miei movimenti. Era il suo, quello che mi aveva dato la sera prima, a malincuore lo avevo lavato del mio sangue e lui mi aveva detto di tenerlo.
«Brava!» Se non altro ero tornata a essere una ragazza, ai suoi occhi. «Ora proviamo senza vedermi.»
Gli lanciai un’occhiata titubante. «E come faccio?»
«Te lo dirò io, ti dico solo che lato sto per colpire, ok?»
Scossi il capo. «Ma non vale», mi lamentai.
«Non deve valere», ribatté, spazientito «Proviamo?»
«Va bene», mi arresi.
Ahilan si mise dietro di me e iniziò a darmi una serie di colpi, avvisandomi con un “destra” o “sinistra” mischiati tra loro, che io non riuscii a evitare.
Lui mi afferrò sui fianchi. «Non così. Devi muovere il bacino, non tutto il corpo.» Mi spinse a destra e sinistra. «Tieni le spalle ferme.»
Lo trovavo esasperante, oltre che ridicolo. «Dahal.»
«Non ti fermare», incalzò. «Hai veramente un bel culo!»
Mi voltai e scoppiai a ridere. «Ma piantala! È per questo che lo stai facendo, vero? Non mi devi insegnare un bel nulla in questo modo sciocco.»
Lui accennò a un sorriso. «No, è così che si fa. Lo giuro», aggiunse, osservando il mio viso torvo. «Solo che non sei ancora trasformata, non hai gli stessi riflessi. E poi è vero, si fa con le frecce vere di solito, immagino sia diverso.»
Mi avvicinai al suo volto. «Posso baciarti?» sussurrai.
Ahilan si scansò un poco. «No, Shay. Non me lo chiedere.»
Mi allontanai di un paio di i, mesta. «Certo, hai ragione. Ma per oggi basta guardare il mio corpo.» Sorrisi, decisa a non voler rovinare il mio buon umore.
Lui alzò le mani in segno di resa. «Come desidera, signorina.»
Mi feci seria. «Dahal, se mi trasformerò, sarà doloroso?» chiesi, pensando che quella mattina avevo avuto un paio di conati.
La sua risposta ci mise qualche attimo prima di arrivare. «Ti trasformerai di sicuro.»
«Ora ne sei certo?» domandai, incuriosita.
«Sì. Ieri sera tu…» Fece una pausa, corrucciando la fronte. «I tuoi occhi erano quelli di un Lupo. Hai occhi verde smeraldo. Sei sicuramente un Lupo, Shay.»
Come per protestare a quell’idea, feci un o indietro e lo guardai interamente. Lui, però, si avvicinò e mi prese una mano. «Prima o poi ti abituerai all’idea.»
«Cosa avevano i miei occhi di particolare ieri?» chiesi, temendo di conoscere già la risposta.
«Beh, erano...» Pareva perplesso. «Erano più accesi, più verdi, ma non più chiari o più scuri, solo più intensi, come se un raggio di luce ti entrasse negli occhi.»
Sapevo di cosa stava parlando, lo avevo visto nei suoi, di occhi. Annuii, meditabonda. «Perché proprio ieri?»
«Perché non è lontano quel momento - anche se ora è strano, in effetti è lontano e ieri, beh, ieri ha prevalso l’istinto animale.»
«Animale?!» Mi voltai, andomi una mano sul viso con un gesto nervoso, e mi allontanai di qualche metro.
«Non è una cosa brutta, è la tua natura. Lo capirai a tempo debito.» Mi spiegò raggiungendomi.
Non risposi.
«E sì, può essere doloroso», continuò per rispondere alla mia prima domanda. «Avrai frequenti conati, perché il corpo si trasforma da dentro, e cercherà di farlo, ma la tua mente inconsciamente lo rifiuterà.» Mi lanciò un’occhiata, indagatrice. «Hai tre mesi di tempo per preparati, non solo psicologicamente. E io sarò con te.»
Scossi la testa in un gesto di impotenza. Lo invidiai perché nonostante tutto, lui aveva sempre saputo chi fosse.
Ci rimettemmo a fare qualche esercizio con i pugnali, fino a che non tornarono Valir e San e ci preparammo per cenare insieme, al calar del buio. Quella notte non facemmo il turno di guardia e io ai il sonno in rumorosi sogni agitati, pensando alla mia trasformazione, ai miei occhi di Lupo e a tutto ciò che non volevo essere.
La mattina seguente all’alba, poco prima di partire, facemmo qualche esercizio con San e Valir, poi ci incamminammo con o veloce. Si fermarono per pranzare in un punto molto fitto e scuro della giungla e li seguii pensierosa. Non eravamo lontani dalla città, saremmo dovuti arrivare il giorno dopo in mattinata.
San era di umore solare e aveva voglia di chiacchierare.
Parlò di Sania, la conosceva bene, i suoi genitori erano di quel posto e per lui era un po’ come tornare a casa. Bevendo forse troppo vino, ci raccontò molto di sé, di come si era arruolato e della sua famiglia, composta da madre, padre, una sorella e due fratelli che avevano deciso di intraprendere entrambi la strada dell’avvocatura, nonostante la disapprovazione del padre.
Chiese a Ahilan di dove fosse originario.
«Di nessuna parte in particolare» rispose lui vago. E io pensai che a me lo aveva detto, la sera precedente.
«Ovunque va è casa sua», intervenne Valir.
«È vero. C’è un posto dove non lo conoscano?» insistette San, con fare cospiratorio.
«O una donna che non lo abbia accolto nel suo letto?» rincarò l’altro, attirando la mia attenzione.
Volsi velocemente lo sguardo verso di lui. Ma lui non mi guardò. Poggiò la ciotola a terra e sorrise, mentre gli altri due ridevano.
«Chi ti aspetta a Sania questa volta?»
Chi, Dahal?
«Povera Nalinika, con un diavolo come te», lo riproverò bonariamente San.
Lui fece un gesto con la mano che io non riuscii a interpretare. «Nessuno. State solo facendo troppo casino.»
«Non sei molto credibile, Ahilan Aadre, le tue gesta sono molto famose, ogni donna le racconta.» San gli donò un sorrisone, gioviale e da volpe, come a dire che lui ne sapeva parecchio.
Io volevo solo che Dahaljer mi guardasse, lo fissai nella penombra aspettando che alzasse lo sguardo su di me, per assicurarmi che stavano solo scherzando. Non lo fece. Lo osservai bere un bicchiere pieno di vino, per niente imbarazzato,
neanche nei miei confronti e questo mi indispettì o forse mi fece solo male.
Mi alzai di scatto, senza un filo di grazia, e mi voltai per allontanarmi.
«Dove vai?» si allarmò Valir.
«A fare un giro.» Gli scoccai un’occhiata torva. «Non sono discorsi per me.»
San rise. «Scordatelo!» insistette Valir e con la coda dell’occhio vidi scattare in piedi anche lui.
Accelerai il o, facendolo uscire dal mio campo visivo.
«Lasciala andare.» Udii dire a Dahaljer, «Non andrà troppo lontano.»
Non sarei potuta andare da nessuna parte in effetti, tuttavia la voglia era quella di fuggire il più lontano possibile. Iniziai a correre senza accorgermene. Che stavo facendo? O cosa stavo pensando di fare? Dahaljer era un Tiouck, una Tigre, una maledettissima Tigre Bianca e io ero solo la sua preda esotica. Rallentai il o. Ero bloccata in quel posto, con quelle persone, e non avevo scelta, anzi quel po’ di scelta che avevo l’aveva complicata, era quello il problema. Come mi era venuto in mente di farmi venire il batticuore come una sciocca adolescente?
Lo sentii arrivare con o veloce e morbido, nonostante tutto. «Fermati.»
Non lo ascoltai.
Ahilan mi prese per un braccio e mi bloccò facendomi voltare con uno strattone. «Che diavolo stai facendo?» Ringhiò a bassa voce avvicinando il suo viso al mio.
Lo guardai dritto negli occhi, furiosa. «Non lo so, dimmelo tu.»
«Cosa ti aspettavi, Shay? C’era una vita anche prima di te.»
Mi liberai dalla sua stretta e intravidi sul suo viso della sorpresa, come se non si aspettasse che potessi liberarmi. «Chi ti aspetta a Sania?» tagliai corto.
Aggrottò la fronte e una linea verticale gli si disegnò sulla fronte. «Non mi sembra un discorso da affrontare ora.»
Senza demordere, alzai il viso verso di lui. «Sono solo una delle tante, Dahal, è questo, vero?» Se gli apparivo come una marmocchia isterica, avrebbe avuto ragione, non riuscivo, però, a controllare la mia frustrazione.
Scosse la testa, quasi incredulo. «No…»
«Sono solo una preda molto interessante. E per te è stato facilissimo: sei tu il
guerriero famoso, sei tu il capo del branco, tu quello che fa girare la testa a chissà quante donne. E io sono la ragazzina ingenua, priva di esperienza. Che ci vuole per uno come te a far perdere la testa a una come me?»
«Ti stai sottovalutando.»
Fui io a scuotere la testa adesso, come a non volerlo ascoltare. «Puoi dire di esserti fatta anche un Lupo, una principessa probabilmente. Una creatura che prima di ora forse non è mai esistita. Un piccolo trofeo nella tua collezione.»
«Piantala, Shay, sai che non è vero.»
«No, non lo so!» gridai.
«Abbassa la voce!» mi intimò. «Non possiamo discuterne ora.» Ridusse la sua a un sussurro. «Ma non sei una delle tante, sei molto di più.»
«I tuoi occhi non dicevano questo prima. Anzi i tuoi occhi non dicevano proprio niente, non si sono neanche voltati a guardarmi.»
«Che volevi che fi? Tu…» Ahilan si bloccò, i suoi occhi si fecero di un blu intenso. Tutti i suoi muscoli si tesero. «Ci stanno attaccando!»
Io non capii. Vidi i lineamenti di Dahaljer distorcersi, il viso riempirsi di peluria bianca, il naso rosa. Si trasformò a pochi centimetri dai miei occhi. Allora
compresi. Ma nessuno dei due era pronto a un attacco. E io avevo le mani legate.
Una freccia inaspettata scoccò verso di me, ma Dahaljer si mise in mezzo facendomi cadere sulle ginocchia, con un colpo veloce, ma controllato, e fu colpito in pieno su una coscia. Altre tre frecce colpirono Ahilan, conficcandosi nella pelle, tra il pelo bianco, che cominciò a sanguinare. Lui ruggì.
Quattro uomini sbucarono tra le foglie e subito dopo altri due. Erano banditi. Vidi Dahaljer combattere e morsicare e artigliare, lo vidi prendere uno degli Uomini e scaraventarlo lontano.
Ero rimasta immobile dove ero caduta, bloccata dalla paura e dalla rapidità degli eventi. Qualcuno mi afferrò da dietro, la lama di un coltello mi toccò la gola, ma non mi traò. «Stai buona.» Urlò una voce dietro di me, tuttavia il mio corpo reagì, come se vivesse di vita propria. Radunai tutte le mie forze, iniziando a spostarmi a destra e a sinistra per liberarmi, e fu facile riguadagnare la libertà.
Mi voltai a guardare l’uomo, visibilmente sorpreso.
Se non avessi avuto le mani legate e se avessi avuto con me il mio pugnale, sarei riuscita a colpirlo e a combattere. Ma avevo le manette ai polsi ed ero priva di armi, maledissi le Tigri una volta di più.
Poi sentii Dahaljer e fui distratta. Mi girai e lo vidi a terra. Quattro uomini gli erano sopra, l’avevano bloccato con una rete.
«Dahal!»
Il suo nome mi uscì in un urlo di disperazione e il bandito dietro le mie spalle mi diede una botta in testa, con qualcosa di pesante. Boccheggiando, crollai tra le sue braccia. «Dahal.»
“Scappa”.
Sbattei le palpebre. “Dahal…”
“Scappa, Shay. Ti prego”.
La testa mi ronzava, la vista si fece offuscata. “Dahal?”
Gli occhi della Tigre mi guardarono, quando uno degli uomini affondò il coltello su di lui.
“Ti amo, Shay…”
Lo osservai afflosciarsi nella pozza di sangue sotto di lui e fu l’ultima cosa che vidi.
TERZA PARTE Let’s Just Breathe
13
Un movimento lento, cadenzato, mi dondolò per qualche minuto. L’aria era umida e calda, sotto di me c’era della paglia secca che mi pizzicava la faccia, avrei potuto pensare di essere nel mio letto alla creche, se non fosse stato per quel prurito sotto il viso. La mia mente annebbiata mi diceva che avrei dovuto dormire ancora, rigirarmi per sistemarmi comoda sull’altro fianco e sprofondare di nuovo nel sonno profondo e senza sogni che avevo appena interrotto. Ne ero convinta. All’improvviso sobbalzai, aprii gli occhi, sbattendo le palpebre, ero dentro un furgone e doveva essere appena ato sopra una buca.
Mi tirai su a sedere, con un gran mal di testa. Mi stropicciai gli occhi.
«Shayl’n…» Una donna dai capelli sciolti, neri e lunghi mi lanciò un’occhiata apprensiva.
«Nalinika!» esclamai, sorpresa e con voce rauca. «Dove siamo?»
Lei mi guardò preoccupata. «Come stai?» La sua vocazione era quella di essere un medico, pensai.
«Non lo so. Credo bene», farfugliai guardandomi e notando che avevo ancora le manette delle Tigri ai polsi.
«Sono banditi», mormorò.
«Chi?» Mi spostai, incerta sulle ginocchia, per raggiungerla.
«Loro.» Con il capo indicò la fine del furgoncino, dove probabilmente c’era il guidatore. «Ahilan come sta?»
«Ahilan sta… Lui…» Mi fermai gattoni a pensare, fissando la parete del veicolo. «Non lo so.» Ma l’immagine della Tigre Bianca mi tornò alla mente con forza, come se mi avessero dato un pugno nello stomaco e piegai la testa. Era riversa a terra, sanguinante, braccata e con un coltello ficcato nel petto.
Aggrottai la fronte e mugolai.
«Shayl’n, tutto bene?» si allarmò la donna.
«Io, io…», balbettai. «Io non ne sono sicura. Credo l’abbiano ferito.»
Nalinika ebbe una reazione molto simile alla mia.
«Oh, Dio. Spero stia bene», mugolò anche lei.
Restammo in silenzio, ascoltando il rumore delle ruote che avanzavano sul
terreno come se strusciassero.
Mi misi a sedere e nella penombra i suoi occhi chiari incrociarono i miei. «Ci hanno attaccato all’alba, stavamo andando via da Sania. Ce lo aspettavamo. La città è ridotta a una baraonda, stanno attaccando da qualche giorno. Non sono organizzati. Lo fanno per rubare e basta.»
«I bambini… come stanno?»
«Non lo so, Shayl’n, mi dispiace.»
Imprecai. «Dove ci stanno portando?
La donna scosse la testa. Poi indicò l’orologio, notai che lei non era legata con delle manette. «Sono ati già tre giorni.»
«Tre giorni!» esclamai. «E nessuno è venuto a prenderci? Nalinika, non sei mai uscita da qui?»
«Mai, ma mi sono svegliata ieri, sono stata un po’ sveglia, qualcuno ha portato da mangiare.» Indicò un pezzo di pane. «Poi sono crollata.»
«Ci hanno drogate», riflettei.
«Non lo so. Non so cosa ne sarà di noi, ne so quanto te».
Rimanemmo a lungo in silenzio, sentivamo ogni tanto qualche voce fuori, il rumore monotono del motore che viaggiava su una strada non asfaltata. Potevamo scorgere l’esterno solo da piccole fessure tra gli sportelli. Sapendo che erano chiusi, provai lo stesso ad aprirli, senza successo.
Quando si fece sera, il furgoncino si fermò e spense il motore, delle persone fuori si salutarono e parlottarono per un po’ nella mia lingua. Dopo una ventina di minuti si aprì la porta posteriore.
Un uomo secco e piccolo ci puntò un fucile contro e un altro salì a prenderci. «Fuori», disse, portandoci all’aria aperta. Tentai di colpirlo e lui mi puntò la pistola sulla pancia con un ghigno. «Cosa vorresti fare?»
Spaccarti la faccia, pensai; tuttavia, il suo dito era sul grilletto e io avevo poche speranze di sopravvivere. Ero arrabbiata e avevo paura, ma mi ricacciai la lingua in gola solo perché lo sguardo di Nalinika si posò su di me, terrorizzato «Shayl’n», mormorò solo e immaginai quanto ci fosse dietro. Shayl’n, questi uomini non scherzano, ti uccidono; Shayl’n, non mi lasciare da sola; Shayl’n non voglio vederti morire; Shayl’n, non fare nulla.
«Fausto, non mi ammazzare la puttanella dopo che ho fatto tanta fatica per portartela», lo redarguì l’altro. Fausto però non lasciò la presa, fino a che io non strinsi i pugni e mi guardai intorno. Era un piccolo paesino, tra la vegetazione tropicale. C’era profumo di salsedine. Il mare non doveva essere lontano. L’uomo mi puntellò con l’arma e mi guidò dentro una delle abitazioni.
Era uno spazio ampio e lungo, con una serie di tavoli, sporchi e disordinati e una cucina. In fondo c’era una brandina e un’altra porta che poi scoprii essere un bagno. Ed era l’unica intimità che ci fu concessa.
Ci ordinarono di pulire e cucinare. Lo facemmo, perché un uomo puntava contro di noi una pistola appena provavamo a disubbidire - appena provavo – e quando mi arresi, lui smise di puntarcela contro.
Un gruppo di dodici o tredici persone veniva a pranzo e a cena a mangiare rumorosamente. Ridevano e parlavano scomposti. Non sembravano notare la nostra presenza, non più di quanto non si notano un paio di cani randagi. Parlavano la mia lingua madre con un’inflessione dura nella pronuncia, tipica del loro dialetto, che non conoscevo, ma che nell’insieme capivo. E ne ero disgustata.
Eravamo legate alla caviglia destra a due lunghe catene in ferro. Non ci permettevano di uscire, dormivamo in quella stessa stanza, su l’unica brandina a disposizione, che ringraziando il cielo era abbastanza larga per entrambe. Dalla finestre si scorgevano solo piante alte.
Mi sentivo spenta, e avevo spesso la nausea. Le ultime immagini di Dahaljer mi ritornavano sempre alla memoria, pensavo che non fosse sopravvissuto, tuttavia non volendo accettarlo, scacciavo dalla mente quel pensiero, convincendomi di averlo sognato. Che mi ero sognata tutto. Poi però mi crogiolavo nel dolore che mi procurava il pensare che l’ultima cosa che avevamo fatto fosse stata discutere. In silenzio imprecavo e pregavo come fossero un’unica cosa, straziandomi tra dolore, ricerca del dolore e fuga da esso.
Cercavo di distrarmi imparando qualcosa di erbe e cibi che Nalinika mi mostrava, tuttavia anche lei spesso era silenziosa e assorta e io avevo tempo a
sufficienza per scontrarmi con i capricci della mia mente.
Pensavo alla vita di Dahaljer che non conoscevo, fantasticavo su di lui e su quello che faceva di solito e rivivevo la mia ultima notte con lui quasi a consumarla. Ogni respiro, ogni bacio, ogni movimento, fino all’esasperazione. La notte, quando mi capitava di non essere abbastanza stanca da dormire appena coricata, ascoltavo il respiro lento e ritmato di Nalinika che dormiva accanto a me.
Mi scoprivo ad accarezzare il tapi che Ahilan mi aveva regalato, quello dove gli avevo donato me stessa, lo lisciavo, lo slegavo e poi lo riannodavo come mi aveva insegnato. Le mie dita si fermavano a stringere la placca con il suo nome. La scoperta della mancanza di Dahaljer accanto a me, forte quanto la mancanza di Madre Brìgit e Nilmini, fu talmente brusca, che dovetti concentrarmi per non farmi sommergere.
E poi pensavo a cosa avevo sentito, alle ultime parole di lui, quelle che non mi aveva detto e mi convincevo ancora di più di averle sognate. Come avevo fatto a sentirlo? Lui mi aveva detto di scappare, ma ero io che me lo ero immaginato, eppure i suoi occhi color zaffiro mi stavano guardando.
Avrei voluto parlarne con Nalinika, tuttavia non trovavo un modo accettabile per spiegarle la situazione, era troppo complicata, troppo complicata per il nostro rapporto e troppo complicata perché lei era la futura moglie del Capo Branco e sua sorella.
Ringraziavo tutti i giorni il Cielo per avermi messo a fianco una donna come lei, perché non mi faceva sentire sola, perché lei era determinata e sapeva insegnarmi molte cose e quando cucinavamo, mi rivelava molte proprietà del cibo utili per curare. Una volta le chiesi se fosse gelosa di Dahaljer, ma la sua
risposta fu molto vaga. Nalinika mi raccontò di alcuni ricordi che aveva di lui, delle storie che si inventavano da ragazzini e della prima volta che lui partì per combattere, di quanto lui fosse carino e premuroso nei suoi confronti, nonostante ciò si scontrasse con l’immagine che gli altri avevano di lui. La osservavo di sottecchi, quando si parlava di lui, senza riuscire a leggere nulla sul suo volto che lei non volesse condividere. In un momento di tranquillità, dopo un pranzo chiassoso, mentre pulivamo la stanza, le chiesi con ostentata indifferenza se si fossero mai baciati e lei mi rispose solo di no, troncando ogni mio tentativo di cercare uno scambio di opinioni riguardo la faccenda. Poiché non sarebbe stato un vero scambio, rinunciai fingendo distrazione. Più tardi, però, provai anche a chiederle se fosse innamorata di qualcun altro; lei non rispose.
Quando avevo attacchi di mal di stomaco, Nalinika mi dava sempre qualcosa per farmi stare meglio e mi diceva che potevano dipendere dall’imminente trasformazione, anche se mancavano due mesi e secondo lei erano troppo frequenti.
Talvolta mi faceva ridere e avamo dei momenti di quiete a raccontarci aneddoti della nostra vita. Rimaneva però una persona distante, c’era qualcosa tra di noi, che non riuscivo ad afferrare.
Una sera, prima di andare a dormire, mi chiese cosa ne pensassi di quella situazione. Mi strinsi nelle spalle. «Cosa devo pensare?»
«Per quel poco che ti conosco, non è da te startene così buona», commentò, mentre mi sdraiavo.
«Cosa dovrei fare? Non sono più padrona della mia vita, da quando mi avete rapita», dissi con una leggera nota di accusa e la guardai mentre cambiava i vestiti per indossare quelli della notte. Una maglia lunga, da uomo, sgualcita e
consunta, come lo era la mia.
«O forse non lo sei mai stata», ribatté senza guardarmi.
«Forse», concessi. «Non mi sembra che le cose siano migliorate, a ogni modo.»
Nalinika si stese accanto a me. Il nostro unico letto era vecchio e scomodo. «Mi dispiace per quello che hai dovuto are; per come sei stata trattata, per la tua vita. Mi dispiace davvero.»
«Lo so», mormorai. Ed era vero. Me lo aveva detto più di una volta e me lo aveva dimostrato altrettante volte. Mi misi a sedere e poggiai le spalle al muro, spensi la luce da un interruttore accanto a letto e rimasi a fissare il buio, aspettando che gli occhi si abituassero all’oscurità. «Nal», ripresi senza sapere perché lo stessi per dire. «L’ultimo ricordo che ho di Dahaljer, beh, ecco, è un’immagine di lui, cioè, è lui… è di lui gravemente ferito», balbettai, incerta.
La donna si sollevò a osservarmi nella notte.
E io percepii qualcosa spezzarsi dentro di me, come un rametto secco piegato in due che emette un toc. Soffocai un singhiozzo e una lacrima mi rotolò lungo una guancia; abbassai il viso e non l’asciugai, sperando che l’altra, con i suoi occhi di tigre, non se ne accorgesse. «È per lui che piangi o per te?» mi chiese, invece.
«Io…»
Nalinika mi sfiorò una mano. «Credo», disse piano «che Ahilan fosse sul serio innamorato di te.»
«Che cosa?» Spalancai gli occhi.
Ti amo, Shay…
Lei voltò il viso altrove, come se io avessi potuto vederlo in maniera nitida quanto lei vedeva il mio. «Lo conosco troppo bene, so come si comporta di solito con le donne.»
Davvero? «Io…»
«Lui per me è un fratello, siamo cresciuti insieme ed è la persona più cara che io abbia, più di mio padre o di mia madre. Amo Ahilan.» Ora si era girata a guardarmi. La luce filtrava dal tetto e le finestre, tuttavia per me non era abbastanza. «Ma non come lo ami tu.»
«Io…»
«Lo amo come amerei un fratello. E lo conosco come si conosce un fratello con cui si condivide tutto, una persona che si vede crescere. Sapevo che avrei dovuto sposare un uomo che non avrei scelto io e sono contenta che quell’uomo sia lui. Forse per lui non è lo stesso; lui non avrebbe dovuto avere imposizioni su questo.» La sentii giocherellare distrattamente con la piega del lenzuolo. «Non pensavo avrebbe accettato. Ma è stato costretto, per le circostanze e… per non
ferirmi.» Fece una pausa e la sua mano nel buio trovò la mia e la strinse. «Verrà a salvarti.»
«Io…»
«Smettila di dire io», sospirò.
Tacqui. Ero contenta di aver spento la luce, mi sentivo le guance infiammate e dovevo avere un’espressione angosciata e sorpresa.
«Verrà anche per me, ovvio. Non ci lascerà qui.»
Sbattei le palpebre due volte, come se potessi schiarirmi le idee con quel semplice gesto. «Sì, ma se fosse morto…», provai a dire.
«Morto?» La voce di Nalinika si allarmò.
Le raccontai l’ultima scena di lui, che avevo impressa nella mente, con precisione, omettendo, però, quello che avevo pensato o creduto che lui mi avesse detto. Non ne ero sicura. Anzi ormai ero sicura di averlo immaginato. Tuttavia non era l’incertezza a trattenermi, quanto il mio amor proprio.
«Non me lo avevi detto», mi accusò con gelo.
Avrei voluto vederla in viso. «Non potevo farlo, non senza evitare di manifestare i miei sentimenti. Io… Perdonami.» Mi mossi verso il suo corpo e l’abbracciai e lei lasciò che la stringessi poi ricambiò, incerta.
Questo cambiava tutto. Cambiava tutto nella nostra situazione, cambiava tutto nella nostra relazione. Pianse e io la tenni stretta, trattenendo le mie, di lacrime.
14
Il giorno dopo, mentre mettevo a cuocere una pentola di ceci dal colore sbiadito e poco invitante, riflettevo sulle domande che avevo posto a Nalinika, senza sapere che lei si fosse accorta di suo fratello e me, e mi davo della sciocca per essere stata così meschina con lei. Ero talmente soprappensiero, che sussultai nel trovarmela accanto.
«Sai», disse in un sussurro. «Siccome mia madre e tuo padre erano cugini, di fatto anche io e te siamo cugine. Di sangue.»
Abbassai il fuoco sotto i legumi, poiché era ancora molto presto, e mi voltai a guardarla con deliberata lentezza, riflettendo su quanto mi avesse detto e anche sul modo in cui lo aveva fatto. Dahaljer mi aveva detto chi lei fosse e anche chi fossi io, eppure non avevo mai fatto quel genere di collegamento.
Alla luce di quel fatto analizzai il suo viso. Sebbene avessimo all’incirca la stessa altezza e lo stesso colore scuro e intenso dei capelli dai vaghi riflessi blu, non eravamo molto simili. Lei aveva capelli mossi e ordinati, molto più dei miei, nonostante i miei fossero lisci; aveva la carnagione chiara come il marmo rosato e gli occhi di un azzurro più chiaro di quello di Dahaljer, era il celeste del cielo nelle giornate limpide, e spiccava con estrema bellezza sotto le sopracciglia nere e un poco oblique. Indugiai sul suo sguardo e pensai che forse di simile avevamo anche le ciglia, non particolarmente folte, erano lunghe e ricurve, come le mie. Le sue labbra erano più fini delle mie, ma avevano un rosa più delicato, però avevamo lo stesso collo lungo e magro.
Inclinai la testa, decisa a continuare la mia ricerca di differenze e similitudini, mentre lei, appoggiata al bancone, scrutava i miei occhi, però mi fece un segno con la mano, come a richiamare la mia attenzione. «Ti dispiace?»
«Cosa?» domandai, senza capire.
Fece spallucce. «Saperlo. Vedere per la prima volta un tuo parente di sangue, forse non è stato carino da parte mia fartelo notare.»
Scossi la testa. «Sei troppo cortese tu», la canzonai. «Invece è interessante e mi piace sapere che sei proprio tu, tra tanti, a essere mia cugina.» Le sorrisi, incoraggiante. «Pensi che ci assomigliamo?»
«In qualcosa. Ma soprattutto, assomigli a mia mamma, a come me la ricordo. Quando ti arrabbi, pieghi le sopracciglia come faceva lei e poi», aggiunse spostando lo sguardo sulla mia bocca «hai lo stesso modo di sorridere di mio nonno, che non conosco, ma ho visto in foto, e hai i suoi stessi denti lunghi e fini.» Mostrò i suoi in un sorriso. «I miei sono più larghi e tondi, per quanto possano essere tondi i denti.»
Risi piano alle sue ultime parole, sentendomi in imbarazzo per quello che invece aveva detto prima. «Tuo nonno era il fratello del mio, vero?»
Annuì.
Un dubbio si insinuò tra i miei pensieri. «Quindi… quindi Dahaljer è mio
cugino.»
Scoppiò a ridere. «No. Né di sangue né per adozione. Tagron ha adottato legalmente solo me.»
«Perché lo ha fatto?» domandai, curiosa. «Tu sei lo stesso l’unica erede al trono esistente.»
«Non lo so. In realtà, penso lo abbia fatto perché andava fatto: io ero l’unica erede, i miei genitori non ci sono più e neanche i suoi due figli, sembrava corretto. Inoltre, non sono la prima in linea di successione, per sangue. Sei tu la prima, perché lo erano tuo padre e, prima di lui, tuo nonno; e i figli di Tagron sarebbero stati il secondo e il terzo.» Spostò lo sguardo oltre le mie spalle, pensierosa. «Tuttavia per i Tiouck è una faccenda complicata. Le tigri in natura non seguono questa gerarchia, essendo creature solitarie, non presentano complesse relazioni sociali di branco. Noi, nel nostro essere umani, abbiamo però riportato le nostre relazioni e probabilmente quando gli Uomini del ventunesimo secolo si sono divertiti a fare Dio con i nostri geni, devono aver combinato tra loro più di una specie.»
«Davvero?» chiesi, stupita.
«Beh, questo è quello che penso io. Di fatto siamo molto legati ai rapporti di sangue e parentele varie e riconosciamo i nostri capi per natura o per ‘acclamazione’.»
«‘Acclamazione’? E che vuol dire?»
«Oh, è solo un modo per dire che se sei più forte e il gruppo lo riconosce, ottieni un certo potere e, in questo modo, puoi arrivare anche molto in alto. È per questo che Ahilan, beh, che Tagron…»
«…ha deciso di farvi fidanzare», conclusi per toglierla dall’imbarazzo.
«Sì. Io ero l’unica erede, ma in termini di sangue ero lontana dalla successione naturale, lui è il Capo Branco e questo rinforzerebbe la posizione di entrambi.» Fece una smorfia. «Sai, da quando esistono le Tigri Bianche, è esistita una sola dinastia, quella Minse, e a parte la morte precoce di qualcuno nella battaglia con i Lupi Grigi, non ci sono mai stati problemi di successione, perché erano tutti di sangue reale. Ora però, tuo nonno ha sposato e generato un figlio con un’Umana e il sangue - che si impone per natura, solo nelle Tigri Bianche e non nelle tigri va perso.» Mi parve ancora più a disagio di prima.
«E tu non sei d’accordo con questa teoria», affermai, cauta.
Si toccò il mento, come se stesse meditando su cosa rispondere. «Non lo so. Io credo che la paura di perdere il sangue puro sia stata più forte di quella di fare una semplice prova. Tuo nonno è stato bandito, senza possibilità di verifica e tuo padre è morto per mano di Belden Monreau Harvey, e a nessuno qui è importato davvero. Quando successe, fu solo un pretesto in più per combattere i Bamiy, a nessuno importava di un reale infettato da sangue Umano puro. Gli Umani non hanno dettami nel corpo.»
Avrei aggiunto qualcosa o chiesto altro, ma lo stomaco mi si contrasse in una stretta, costringendomi a piegarmi. Appoggiai la mano sul tavolo, mentre lo stomaco si distendeva di nuovo come una molla.
«Respira», consigliò Nalinika, apprensiva e pratica come sempre.
Non lo feci, perché con uno spasmo involontario l’intestino mi si richiuse e io mi piegai ancora di più. Lei mi afferrò un braccio e mi trascinò sul letto, nel momento in cui anche un giramento di testa mi confuse i sensi. «Respira», ripeté con decisione e dolcezza. «Respira tra un conato e l’altro. Prendi l’aria e riempi i polmoni, così allarghi il torace. Shayl’n, hai capito?»
Se anche fossi stata in grado di capirla, e non ne ero certa, non riuscivo a fare quanto mi diceva. Il tempo di pensare a respirare, e già ero di nuovo piegata in due. Alla fine ansimai, a bocca e occhi spalancati.
Nalinika mi osservò accigliata, offrendomi un bicchiere di acqua, che non riuscivo ancora a prendere. «Ti capita così spesso», mormorò, mesta.
Feci forza su un braccio e mi tirai su a sedere con il suo aiuto, feci un respiro profondo, sentendomi scrocchiare la schiena. Presi il bicchiere e mandai giù il contenuto. «Vuoi dire che mi devo preoccupare?»
Scosse la testa, ma aveva il viso contratto. «È solo che mancano ancora due mesi pieni e non dovrebbero essere così frequenti.» Mi prese il polso per sentirne le pulsazioni. «Inoltre, per allora, dovremo andar via da qui.» Indicò le nostre catene. «Non puoi trasformarti con quella alla caviglia.»
«Perché?»
«Perché ti romperebbe le ossa nella trasformazione. Non so se gli Umani ne siano al corrente, ma se non vuoi far trasformare una Tigre – o un Lupo – basta mettergli un qualche cerchietto di ferro o qualcosa di simile intorno a un arto.» Piegò il viso a guardarmi. «È anche per questo che io non l’ho ancora fatto. Avrei dovuto farlo quando potevo, quando eravamo nel furgone e forse avrei anche potuto salvarci.»
Mi massaggiai distratta sopra la pancia. «Perché non lo hai fatto?»
Dondolò la testa. «Oh, io non sono come te. Avevo paura, credevo che ci avrebbero ammazzate e credevo di non farcela. Vedo molto spesso il sangue perché mi piace fare medicina, ma mi piace toglierlo, non farlo venire. Non sono tipo da attaccare, anche quando vado a caccia, nutro qualche riserva, ma è diverso.» Fece un sorriso impacciato. «Forse è anche un po’ colpa mia, se siamo ancora qui.»
«Oh, Nalinika. Ma che dici, non è colpa tua. E…» voltai la testa sulla cucina. «I ceci!»
Si alzò, dandomi un buffetto sulla guancia. «Me ne occupo io. Tu stai qui e riposati un pochino.»
«Ma…»
Il suo sguardo mi inchiodò, perentorio, e io annuii.
Dovevo essermi addormentata, perché mi svegliai di soprassalto al cincischiare di parole molto vicine a me. Sobbalzai sulla brandina e i miei occhi misero a fuoco gli uomini seduti a tavola e già ubriachi. Osservai Nalinika liberarsi dalla stretta di uno di loro, che rise sguaiato. Conoscevo il suo nome, si chiamava Samuel e spesso veniva a mangiare da noi, poi spariva e tornava raccontando aneddoti improbabili su come aveva ucciso le persone, su come si era difeso o su come avessero scuoiato una Tigre Bianca.
La prima volta che glielo avevo sentito dire, un brivido mi aveva percorso tutta la schiena. Nalinika, mi aveva detto che a volte capitava, tuttavia era molto raro, come era raro che avessero delle prigioniere come noi. Gli Umani di solito perdevano in quel tipo di scontro perché le Tigri Bianche sono molto più forti. Tuttavia la zona a sud di Sania era pericolosa, perché i Banditi si aggiravano in quel posto sempre in molti, mentre le Tigri usavano le grotte come punti in cui fermarsi quando si trasportavano le armi e spesso si girava da soli.
Mia cugina si spostò in cucina e vi rimase, lavando i piatti che doveva aver già preso prima. La raggiunsi e le presi le stoviglie dalle mani. «Scusami. Non pensavo mi sarei addormentata», dissi in un sussurro.
«Hai fatto benissimo», ribatté anche lei sotto voce, ma con tono fermo. «Ce la caveremo, Shayl’n, dobbiamo solo resistere. Loro non sanno chi siamo e ora tutti ci staranno cercando. Tagron ha due eredi da cercare.» Mi lanciò un’occhiata indagatrice, mentre le mie mani affondavano nell’acqua saponata e sporca. «Se Ahilan... se lui è ancora vivo, verrà di certo a prenderci, non ci lasceranno qui.»
Se, pensai. E quel se mi grattava alla bocca dello stomaco con tutta la carica di ciò che provavo per lui e tutta la rabbia che provavo per le Tigri Bianche, con l’affetto che provavo per Nalinika e la frustrazione delle mia situazione. Se fossero venuti a liberarci, sarei stata lo stesso loro prigioniera.
15
Eravamo in quel posto da troppo tempo, mi mancava l’aria, mi mancava correre. Subito prima della cena, udii due uomini fuori casa parlottare su di noi. Feci cenno a mia cugina - mi piace dire che era mia cugina, forse perché non ne avevo mai avute e perché le volevo bene - di ascoltare e di tenere chiusa la bocca.
«Andiamo a Nuova Belgrado e torniamo tra una decina di giorni», diceva una voce rauca.
«Ho capito, ma Samuel le vuole qui.»
«Non interessa a nessuno cosa vuole Samuel», puntualizzò Voce Rauca. «Le Tigri vengono con noi. Verso nord, al confine, ci sono stati diversi scontri questi giorni e poi qui torneranno le altre ragazze, non sarete soli.» Nalinika mi lanciò un’occhiata.
«Fate come vi pare», concesse il secondo. «Fatemi solo sapere quando partite.»
«Te l’ho detto, domattina presto. Andiamo con il camion di Fausto e la mia macchina.»
«Portami quei fucili che ti ho chiesto.»
Voce Rauca non rispose o per lo meno non a parole. Poi iniziò a parlare di alcuni fucili che venivano da est. Non era di nostro interesse.
Mi allontanai dalla finestra, pensierosa. «Dobbiamo andarcene.»
Lei piegò la fronte in un cipiglio turbato. «In che modo?»
«Non lo so», ammisi. «Domani, quando saremo nel furgone. Avremo solo le mani legate, niente catene. Hai detto tu che era nel furgone che avremmo avuto possibilità, no?» La osservai. «Anche se non dovrai fare niente, solo cercare di uscire e scappare. Dobbiamo provarci, va bene? »
«Va bene», rispose, riluttante. «Ma non capisco come sia possibile.»
Mi strinsi nelle spalle. «Neanche io, ma tieniti pronta, va bene?»
Lei annuì.
Non riuscimmo a dire più nulla, prese dall’idea di dover andare via da quel posto e soprattutto da quello stato di schiavitù. Restammo in silenzio fino a dopo cena, quando iniziai a sentirmi male. Cominciai a tossire, dapprima solo qualche colpo, poi sempre più forte, fino a dovermi appoggiare a un tavolo per non cadere. I colpi di tosse mi venivano dalla bocca dello stomaco, come se fossero conati che mi uscivano fuori in colpi d’aria.
Nalinika si preoccupò molto, non lo dava a vedere, ma lo percepivo in maniera molto netta. La tosse mi scuoteva in tutto il corpo e mi lasciava tremante come se avessi la febbre alta. Mi sentivo bollente e sudavo come se ci fossero stati cinquanta gradi.
Con la pelle madida, volevo solo uscire e respirare l’aria fresca, avrei dato tutto per poter stare un po’ fuori.
Nalinika mi accompagnò di nuovo a letto, mi asciugò il corpo e mi preparò una tisana, che quando riuscii a bere, non mi fece nessun effetto. Vegliò su di me tutta la notte, poi mi addormentai e credo anche lei.
La mattina arrivò prima del tempo, quando Fausto e un altro uomo armato di pistola ci fecero alzare su tirandoci per un braccio. Ancora scossa dalla notte insonne che avevo ato, li osservai toglierci le catene.
Ridevano divertiti e facendo molto rumore. Ci spinsero fuori, dove c’era già un camion e una macchina e un altro uomo.
Il sole ancora non era sorto.
All’improvviso mi sentii sveglia come se non fossi mai andata a dormire, il che in parte era vero, tuttavia mi sentii in forze e studiai velocemente la situazione. Due uomini armati accanto a noi, uno in macchina che ignoravo se fosse armato e un uomo che in apparenza non aveva armi, a parte l’arco e le frecce. Se fossero stati solo loro quattro, una volta nel furgone avrei dovuto trovare un modo per
aprire gli sportelli e correre veloce, così che se anche ci avessero raggiunto, erano solo in quattro. Erano le armi da fuoco a preoccuparmi.
«Hei, Samuel, mi dispiace tanto», cantilenò Fausto, strattonandomi. «Ma queste due servono altrove, mentre tu te ne rimarrai qua a rimuginare.» Quindi l’altro uomo armato non sarebbe stato con noi nel viaggio, calcolai di avere almeno il doppio di possibilità in più.
Samuel grugnì. «Un vero peccato.» Si avvicinò a Nalinika. «Questa qui, starebbe molto bene nel mio letto.»
«Hei, amico», ribatté l’uomo che mi teneva. «Sono Tigri, non ti fa schifo?»
«Fausto, mi stupisco di te», lo rimbeccò l’altro. «Sai quante schifose MezzeTigri ci sono in giro? Si vede che non fa così schifo. E poi con tale bellezza per la mia carne come potrebbe essere diversamente?»
Fausto non era dello stesso parere, scosse la testa con espressione disgustata, poi però rilassò i muscoli del viso e fece un sorriso sornione sotto la barba brizzolata. «Samuel, non condivido, ma potrei lasciartela per qualche minuto, se mi azzeri il debito che ho con te.»
«Mm», mugugnò Samuel e toccò una ciocca di capelli di Nalinika, la quale si ritrasse impaurita. Lui l’afferrò per la vita. «Sei sempre stato un bastardo taccagno e potrei non accettare l’offerta per altri motivi, ma questo motivo in gonnella potrebbe interessarmi.»
Fausto mi tirò dietro di sé. «Hai dieci minuti.»
«Lasciala!» sbottai in preda alla collera e percepii un conato salirmi dallo stomaco.
Loro mi guardarono divertiti. «Sennò che ci fai, bambolina?» Rise Fausto.
Anche gli altri risero.
Trattenni un colpo di tosse. Non ora, ti prego!
Guardai Samuel stringere a sé Nalinika, che aveva sgranato gli occhi ed era paralizzata, lo vidi tentare di baciarla sulla bocca e fui colpita da una stilettata di dolore che mi invase come un fiume in piena. «Non la toccare!» urlai e all’improvviso tirai Fausto che mi teneva stretta.
Mi voltai rapida, poi con il corpo mi mossi prima che il pensiero mi dicesse cosa fare. Con entrambe le mani colpii il mento del mio sequestratore. Sentii mia cugina urlare e gli altri uomini gridarle di stare ferma, ma Fausto prese la pistola e quello gli fu fatale.
Fui molto più rapida di lui, gli sferrai una gomitata nello stomaco, lui vacillò e io gli presi la pistola di mano, misi a fuoco l’immagine di Dahaljer che mi mostrava come togliere la sicura, in un pensiero veloce come un lampo. Qualcuno sparò dietro di me nel momento esatto in cui io sparai a Fausto, premendo il grilletto in un’azione disperata. Con un’espressione di incredulità
dipinta sul volto in una smorfia dolorosa, lui si accasciò con un tonfo.
Sebbene non abbia mai cancellato quell’immagine dalla mia mente, in quel momento mi girai veloce, con un bruciore acuto alla spalla. Vidi Nalinika liberarsi dalla presa e trasformarsi, sparai due volte alle gambe dell’uomo che prima era in macchina e che stava correndo verso di noi.
Gli altri due erano terrorizzati da Nalinika e Samuel le sparò tre colpi prima – o mentre? – di sentire una spinta fortissima nello stomaco che mi fece perdere la pistola e l’equilibrio; per mia fortuna lo recuperai subito dopo e piombai addosso all’uomo con un balzo.
Lo scaraventai per terra, mentre il quarto uomo fuggiva e Nalinika guaiva dolorante.
Le mani troppo grandi per riuscire a gestire lo spazio, guardai Samuel, immobilizzato sotto di me.
Ringhiai e lo morsi tra il collo e la spalla, quando sentii il sapore del sangue, lo lasciai di colpo e indietreggiai, mentre lui, in preda al panico, continuava a mormorare ‘basta, basta’. Mi sentii persa per un attimo, guardai Nalinika osservarmi preoccupata e sorpresa.
“Andiamocene.”
Seguii mia cugina, sentendomi goffa e impacciata, e corremmo via a quattro
zampe.
16
Corremmo per un tempo infinito, nascoste dalla vegetazione, fino a che dietro a me, Nalinika non rallentò il o. Percepivo la sua presenza, pur non vedendola, sapevo che era dietro di me, come se avesse un’aura solida capace di toccare il mio corpo anche a distanza. Rallentai anche io, per non mettere troppa distanza tra noi due.
“Shayl’n”, mi chiamò. “Shayl’n, fermati.”
Mi fermai e la guardai. Il suo bianco mantello striato era rosso di sangue. “Quanto è grave?”, chiesi, ma le parole non uscirono dalla bocca, solo dalla mente.
Lei mi raggiunse. “Shayl’n, non mi parlare, non posso sentirti io. Ascoltami. Ho bisogno di trovare un corso d’acqua dolce. Ho bisogno di tornare in forma umana e di valutare la mia situazione, sto perdendo troppo sangue.” Spostò il grosso muso verso sinistra. “C’è il mare là. Costeggiamolo e preghiamo di trovare un fiume o un ruscello. Poi ti dirò cosa fare. Poi, poi devi trasformarti anche tu.”
Non sapendo cosa fare o dire, la guardai muoversi in avanti, mentre il suo corpo felino lasciava strisce di sangue tra la terra e le foglie.
La seguii in silenzio, senza essere in grado di portare a termine un pensiero in
maniera coerente e logica. Guardavo le mie zampe grosse e bianche poggiarsi sul terreno, silenziose e morbide. Avvertivo la paura di Nalinika come se la stessi provando io. Mi voltavo a guardare dietro di noi per vedere se qualcuno ci stesse inseguendo.
Quando trovammo un piccolo ruscello, il sole era alto sopra il mare, mi chinai sull’acqua e mandai in bocca lunghe sorsate, imitando Nalinika. Scorsi una piccola insenatura dove l’acqua ristagnava immobile. Incerta mi avvicinai e allungai il collo.
Sbattei le palpebre. Un grosso muso bianco, allungato e peloso, con due occhi verdi, mi stava fissando. Un lupo senza ombra di dubbio, ma scorgevo subito sopra la fronte e accanto a quelle che potevano considerarsi delle guance, delle strisce nere.
Mi voltai ed emisi un suono lamentoso, nel vedere il mio corpo lungo, bianco e nero.
Scorsi mia cugina sdraiata a terra, in forma umana, si stava sistemando il tapi, con il volto sofferente. La raggiunsi.
«Shayl’n», mormorò, «trasformati.»
La guardai titubante e mossi il muso su e giù, senza sapere perché. Lei sorrise. «Basta volerlo», mi spiegò con un filo di voce. «Chiudi gli occhi se vuoi, io lo facevo le prime volte. Chiudevo gli occhi, mi concentravo e mi ritrovavo in forma umana.»
Lo feci; chiusi gli occhi, emisi un profondo respiro e pensai di voler tornare umana. Immaginai di esserci riuscita subito, seppur con qualche remore, eppure quando mi ritrovai gattoni, nuda come un verme e il tapi che scivolava a terra, ne fui sorpresa.
Nalinika si voltò dall’altra parte. «Meglio se ti copri. Arrotola il tapi come ti ha mostrato Ahilan e lasciane un lembo lungo per arlo sul seno e la schiena.»
Imbarazzata e goffa seguii le sue istruzioni.
«Più facile del previsto», commentai, quando ebbi sistemato al meglio la stoffa sul mio corpo. «La trasformazione, intendo.»
Lei mi guardò, bianca in volto. Provai una strana fitta di dolore. Volevo dire molte cose, ma nell’osservare il suo viso pallido e dolorante, le parole mi vennero meno.
Spostai appena il tessuto insanguinato che le copriva la pancia e strinsi le labbra tra i denti, due colpi di pistola le disegnavano due fori nella pelle che continuavano a sanguinare, lenti e inesorabili. Poggiai le dita sui buchi come a volerli tappare. «Guarirai», dissi più a me stessa che a lei. «Vero?» aggiunsi, incerta.
Lei spostò una mano e sfiorò la mia. Notai un'altra ferita. Una pallottola le aveva colpito di striscio il braccio. Non sanguinava, ma era un taglio aperto e sanguinolento.
«Io non pensavo che… io non avrei reagito così, se avessi saputo, se io avessi…», balbettai in preda all’ansia.
«Shh», mi fece cenno di fare silenzio. «Sei una brava amica, Shayl’n, una brava cugina. Ti dirò quello che devi fare, ma qualsiasi cosa succeda, non è colpa tua. Sono contenta che tu mi abbia evitato una sorte peggiore.» Spostò gli occhi su di me. «Hai capito?»
Annuii appena.
«Ascoltami. Cerca sul mio tapi, dovrebbero esserci tre aghi. Sciacquali nell’acqua e poi torna qui.»
Aveva un voce così sottile e bassa che faticavo a sentirla; cercai sulla stoffa, ma trovai un ago solo. Mi disse di pulire quello, perché forse gli altri li aveva persi. Ubbidii e poi lei mi disse di tirare un filo del tapi.
In silenzio, seguii tutte le sue istruzioni. Le mani mi tremavano così tanto che non riuscivo a inserire il filo. «Shayl’n, calmati», bisbigliò «è tutto a posto. Hai delle belle dita, sai?»
Sorrisi mio malgrado. «No, il medio e l’anulare sono storti.»
«Sono belle mani, cugina.» Prese l’ago e infilò il filo al primo tentativo, facendomi sentire una sciocca. «Lo sai che noi non portiamo mai anelli o collane
o qualsiasi altro gioiello? Lo facciamo durante le feste o le occasioni particolari, ma non li portiamo spesso, per lo stesso motivo per cui basta metterci un cerchietto per non farci trasformare. A volte portiamo catenine leggere, ma rischiamo di romperle, se ci scordiamo di indossarle. Ricorda di non portarne mai addosso, va bene?»
«Sì.» Presi l’ago, senza soffermarmi troppo su quanto stesse dicendo.
«Ho un taglio da coltello sull’altro fianco. Inizia da quello.»
Trassi un respiro profondo, non lo avevo neanche notato. Mi spostai e cercai di non farmi assalire dal panico. Era un taglio netto di sette o otto centimetri e doveva essere profondo. «Non ho mai fatto una cosa del genere.»
«Non preoccuparti, non è difficile come sembra.»
Della terra era mischiata con il sangue lungo i bordi della ferita. «Forse devo pulirla prima.»
Lei annuì. «Strappa un pezzo del tapi e bagnalo nell’acqua. Non lo disinfetterà, ma sarà meglio di niente. Poi descrivimi la ferita.»
Lo feci. Feci tutto.
«Ora cerca di avvicinare i due lembi di pelle.»
La mano mi tremò. «Non sono mai stata brava a cucire.»
«Non devi essere brava, non ho bisogno di un bel lavoro, ho bisogno solo di richiuderla; qualsiasi cosa farai, andrà benissimo. Shayl’n, davvero. Svuota la mente e segui quello che ti dico.»
E feci anche quello, feci tutto.
La sua debole voce mi diceva come muovermi, dalle sue labbra le istruzioni uscivano come da molto lontano, flebili e accurate. Io tenni chiuse le mie e cucii, tolsi i proiettili, ai la stoffa bagnata del tapi e richiusi piano, piano tutti i buchi del suo corpo.
Poi mi lavai le mani e, mettendole a coppa, le riempii d’acqua e feci bere Nalinika. Lei chiuse gli occhi e io la guardai a lungo, seduta sui miei talloni, incapace di spostarmi.
«Non succederà niente», disse verso sera. «Ma ci tenevo a dirti che sono contenta di averti conosciuta. Sapevo di te da molto tempo, ed ero curiosa di vedere com’eri. Per quanto abbia avuto una vita diversa dalla tua, forse non era poi così diversa. Non avevo parenti vicino a me e di amici ancora meno; strano, vero?» Aprì le palpebre e mi guardò.
«Non lo so. Io non ho mai pensato ai miei parenti. Tanto meno a una cugina.»
Le sue labbra esangui si piegarono e, a dispetto di tutto, mi regalò un sorriso radioso. «Ti voglio bene, Shayl’n. Non lo dico mai e ci conosciamo da così poco tempo.»
«Ne avremo tanto per conoscerci», mi affrettai a puntualizzare.
«Sì.» Mosse una mano verso la mia e me la prese. «Devi mangiare, però. Trasformati e vai a caccia. Anche tutta la notte se ti serve, non sarà facile; prendi quello che capita, una lepre, un uccello, qualsiasi cosa, e per mangiarlo rimani un Lupo, ti farà meno schifo. Avresti dovuto avere qualcuno con te per questo, avresti dovuto avere una situazione diversa per la tua prima trasformazione, mi dispiace.»
«Non è colpa tua.» Mi spostai verso di lei. «Tu come farai per mangiare?»
«Non riesco a mangiare al momento. Domani quando starò meglio, vedremo come risolvere anche questo. Un problema alla volta, va bene?»
«Va bene.» Indugiai con lo sguardo sul suo viso, indecisa su cosa dovessi fare, poi presi coraggio e mi piegai a baciarle una guancia. «Cerco di tornare presto.»
Cacciare non era per me. Sentivo qualche rumore e vedevo molto meglio di quando ero solo Umana, nonostante fosse notte, eppure mi sembrava di non riuscire a individuare nulla di commestibile. Pensavo a Fausto, lo avevo ucciso e sentivo che non mi sarei mai perdonata, sentivo che avevo le mani sporche del suo sangue. Niente, niente lo avrebbe cancellato. Con lui era morta la mia innocenza, con lui non ero più Batuffolo. Io non ero solo Umana, ero una Tigre, un Lupo, ed ero un’assassina.
Avvistai un esserino peloso saltellare, ma era sparito dentro a una tana e non aveva intenzione di uscirne, nonostante tutti i miei sforzi. Stava albeggiando, quando riuscii ad afferrare un topolino.
E il sole era sorto, quando in fine mi decisi a mangiarlo. Poteva essere meglio nella mia forma di lupo, tuttavia lo trovavo comunque rivoltante. Non lo guardai e lo mandai giù quasi intero.
Schifata e per niente soddisfatta, tornai al fiume e mi sistemai il tapi.
«Cugina?» chiamai in un sussurro. «Scusa se sono stata via così a lungo, io…» La osservai e mi morsi un labbro. Mi obbligai a deglutire e a guardarla meglio. Respirava, di questo ero sicura. Mi sdraiai accanto a lei e mi addormentai.
I suoi lamenti mi svegliarono non troppo tempo dopo. Sollevandomi di scatto a sedere, ebbi un giramento di testa.
«Shayl’n, forse dovremmo andare via da qui» sussurrò lei, guardandomi appena. «La ferita sul fianco…è calda.» Mi sembrava che non riuscisse a parlare. «Credo si stia infettando. Devo trovare qualcuno che possa curarmi… Shayl’n. Tu…»
Non riuscivo a capire cosa stesse dicendo. «Non posso lasciarti sola qui, e poi ci sono gli Umani qui.»
Lei chiuse gli occhi. «Vai lungo la costa, sempre dritta, non lasciare il mare,
non…» Sembrava che avesse i brividi. Poi sembrò rilassarsi e dormire, più come se avesse perso i sensi.
«Nalinika?» la chiamai.
Le presi il polso, aveva un battito debolissimo.
Ignoravo cosa dovessi fare e mi morsi le labbra fino a farle sanguinare. Dovevo fare qualcosa e non sapevo cosa, non potevo lasciarla da sola e non potevo lasciarla morire. Mi guardai intorno in fretta.
Dopo più di un’ora e mezzo avevo radunato delle grandi foglie e con delle piccole liane avevo legato la donna sopra di esse. Mi chiesi perché le brandine improvvisate delle illustrazioni dei libri fossero sempre perfette: la mia era storta e informe, e poteva cedere da un momento all’altro.
Nalinika tremava e il sole tramontava, mentre mi trasformavo in Lupo Grigio dal pelo bianco striato, per la terza volta nella mia vita, e afferravo con i denti la mia improbabile carrozza.
Non lo so dove trovai la forza: per tutta la notte, camminai lungo la costa, avvolta da un senso di paura, fame e frustrazione. L’immagine di Fausto e i suoi occhi spalancati riempiva il mio tragitto senza meta. Lo avevo ucciso, avevo sparato a un uomo, avevo messo fine a una vita. Ero colpevole, colpevole di omicidio. Camminai per tutta la notte e tutta la mattina, lasciando una scia lunga sulla sabbia dorata. Quando il sole si fece caldo e insopportabile, mi spostai nella giungla senza fermarmi, trovai un ruscello e mi fermai a bere. Aiutai anche Nalinika a bere, ma sembrava non esserne in grado.
“Va tutto bene, Shayl’n; vedrai che ce la caveremo.” Ma aveva paura e io lo sentivo, lo sentivo bene.
«Perché puoi parlarmi con la mente e io no?» le chiesi incrociando le gambe e guardando la sua fronte sudata.
“Non ha importanza il perché. Cugina, Shayl’n, non ti fermare.”
Mi trasformai ancora, e ancora la trascinai e camminai a quattro zampe. Ancora l’immagine di Fausto davanti a me, ancora il senso di colpa che bruciava con intensità. Ho ucciso, ho ucciso un uomo. Ero un Lupo, un lupo bianco. E il sole tramontò di nuovo e Nalinika tremava e io provavo un dolore nel petto che mi faceva respirare male. Neanche la fame mi distraeva da quel dolore. Anche quella notte ò, poi Nalinika iniziò a mugolare sempre più la sua sofferenza e io mi fermai. Mi trasformai e cercai di parlarle. Lei non diceva nulla né con la bocca, né con la mente.
Sapevo cosa stesse succedendo perché lungo il taglio prodotto dalla lama di un coltello, dove erano ancora i miei punti, un liquido bianco e purulento colava come resina.
«Come posso salvarti?» sussurravo. «Dimmi cosa posso fare, Nalinika… per favore, cosa posso fare?» Se avessi avuto un po’ delle sue conoscenze, se avessi saputo come usare le piante, quali raccogliere, come mescolarle per farla stare meglio o se lei fosse riuscita a dirmelo. Se ci fosse stato Dahaljer, lui forse avrebbe potuto salvarla, lui aveva imparato a usare ciò che la natura offriva.
Ma lei gemeva, oppure perdeva i sensi. Mi arrampicai su una pianta con del cocco, ne raccolsi uno, lo ruppi su di una pietra e ne bevvi il contenuto. Per due giorni non feci altro. E neanche Nalinika, che tremava, gemeva o perdeva i sensi, mentre io la guardavo impotente, spaventata, oscillando il mio corpo avanti e indietro. Sono un lupo, sono un lupo e ho ucciso un uomo. Con una pistola.
Non sapevo cosa fare e tutto quello che feci fu pregare. L’unico strumento che avevo per non impazzire. Pregavo. E pregavo ancora; e poi la sua ferita divenne scura e maleodorante, le lacrime solcarono le mie guance, le ore si confo, l’infezione sembrò mangiarsi il corpo della donna ora dopo ora o forse giorno dopo giorno, perché il sole ogni volta risorgeva; finché lei non gemette più, non tremò più e non respirò più.
***
Non avevo più parole, neanche per pregare. Non ricordo neppure in che forma ero, quando scavai una buca nella sabbia. Scavai con rabbia, con forza, benché me ne fosse rimasta poca. Scavai, scavai, e infine mi addormentai. Il giorno dopo con delicatezza misi il suo corpo dentro la buca e lo coprii. Mi sdraiai accanto al bozzo sulla spiaggia e di nuovo mi addormentai. Avevo perso il conto delle ore e dei giorni, avevo perso il conto delle bacche che mangiavo e del numero di cocco che bevevo. Poi scemò anche la forza per raccogliere il cocco.
Camminai lungo la costa, perché lei mi aveva detto di camminare lungo la costa, tuttavia ignoravo dove mi trovassi, o dove stessi andando. Le immagini mi si confondevano nella mente, persone, cose, luoghi. Il sole scendeva su di me come un macigno. Nalinika non c’era più, Dahaljer non c’era più.
Non erano accanto a me e neanche nella mia mente. Erano nella mia mente, come potevano essere nella mia mente? Lo avevo sognato, avevo sognato tutto.
Volevano solo il mio corpo, volevano fare di me un ostaggio, ero stata rapita e chiunque mi avesse trovato, Umani o Tigri che fossero, non avrebbero voluto la mia salvezza, bensì solo usarmi. Allora li odiai, odiai tutti loro, o dopo o, giorno dopo giorno.
Il vento intriso di salsedine era caldo e appiccicoso, caddi sulla sabbia, sfinita, osservai le onde del mare nella loro lenta danza spumeggiante e, voltandomi lentamente supina, guardai le nuvole; chiusi gli occhi sentendo che il respiro si faceva leggero e tenue. Quando poco dopo li riaprii, un’ombra scura e ovale ò sopra di me o accanto a me. Stavo morendo, stavo morendo e quell’ombra mi portava via.
Pregai la Nostra Signora di farmi incontrare con Dahaljer, nell’aldilà, di poterlo vedere almeno una volta nel suo eterno inferno, quello in cui mi aveva portata, perché era una Tigre, una maledetta Tigre Bianca.
Sorrisi quando il mio desiderio fu ascoltato.
Ahilan mi guardò preoccupato, parlava, ma io non lo capivo. Il mio traghettatore di anime era arrivato. Mi tastò e mi sorrise. Il suo bel sorriso. Poi parlò di nuovo, lontano, preoccupato; non capivo. C’era una parola che continuava a ripetere, poi capii: era Nalinika.
«Anche lei è morta», fu tutto quello che riuscii a dire.
17
Aprii gli occhi, sbattendo le palpebre più volte, ero sdraiata su un fianco e la testa poggiava su un cuscino. Un cuscino, una sensazione davvero piacevole. Feci un sospiro profondo mettendo a fuoco la figura di Dahaljer, seduto a circa un metro da me, i gomiti poggiati sulle ginocchia, la fronte aggrottata, sembrava in attesa.
«Non credo di essere morta», dissi con voce flebile.
I suoi occhi del colore del cielo al tramonto brillarono, e distese le sopracciglia; sorrise. «Non lo sei.»
«E neanche tu…»
Scosse la testa. «No, non siamo morti.» C’era tenerezza nella sua voce.
Mi tirai su a sedere. «Dove siamo?»
«Nei pressi di Màlica. Ho avuto qualche problema con il carburante. Devono venirci a prendere. Come stai?»
Sollevai le spalle debolmente. «Sono stata meglio.» Rivolsi lo sguardo verso di lui. «Ma anche peggio. E tu?» Aggiunsi.
«Sto bene, Shay. Soprattutto ora che ti sei ripresa. Vi ho cercate per giorni.»
Lo stesso sguardo che avevo rivolto su di lui, lo distolsi a quelle parole, Nalinika non c’era più, mi sentii improvvisamente in colpa e nello stesso tempo arrabbiata, perché mi aveva chiesto di lei sulla spiaggia. «Come ci hai trovate?»
«Vi ho sentite.» Fece una pausa. «Ti ho sentita.»
Annuii con un movimento lento del capo.
«Shay, ti sei trasformata prima del tempo, vero?»
Non risposi perché lui già conosceva la risposta.
«Questo vuol dire che non sei nata a metà estate, ma in primavera, tua madre deve aver mentito.»
Mi infastidii a quelle parole, feci un rapido movimento della mano e mi sdraiai, supina. «Sono stanca.»
Lui si alzò. «Riposati», rispose a voce bassa. «Quando vuoi, sono fuori. Puoi prendere l’acqua e usare il bagno. È piccolo ma funzionale.»
ò un’oretta prima che mi decidessi ad alzare, non avevo voglia di fare nulla, avrei soltanto dormito; tuttavia non riuscendo nell’intento, fissavo solo il soffitto del POD e non mi riusciva di stare là dentro, troppe domande mi riempivano la mente. Neanche il veicolo su cui stavo per la prima volta suscitava la mia attenzione, mi faceva pensare a un camper, tuttavia non ero mai stata neanche in un camper. Poggiai le gambe a terra, incerta, notando il tapi avvolto sul mio corpo. Mi alzai e lo assicurai con un nodo al lato del seno. Uscii fuori.
Era giorno e il sole era alto nel cielo. A una ventina di metri da dove ci trovavamo le onde si infrangevano sulla sabbia bianca. Faceva molto caldo.
C’erano palme ovunque. Accanto al POD notai i resti della legna bruciata e più in là un letto improvvisato. Scesi tre gradini della scaletta e feci qualche o verso la spiaggia dove intravidi Dahaljer seduto al margine della foresta, su un masso piatto. Lo raggiunsi.
«Come va?» mi chiese vedendomi arrivare.
Non risposi subito, c’era qualcosa in lui che non riuscivo a capire, era pacato, preoccupato e lo sapevo come se lo stessi provando io stessa, avrebbe dovuto essere piacevole, invece mi spaventò. «Meglio.» Lo osservai pulire una semiautomatica e mi sedetti accanto a lui, sulla sabbia, in silenzio. «Ho ucciso un uomo, con quella.» Indicai l’arma con il mento.
Ahilan incrociò i miei occhi, poi tornò a rivolgere l’attenzione alla pistola. «Non
avresti dovuto.» Non c’era biasimo, solo tristezza.
«Tu lo fai», replicai, asciutta.
Smise di pulire l’arma e tornò a guardarmi. «E…»
«E cosa?»
«Cosa hai provato?»
Sapevo con esattezza cosa avevo provato, ci avevo già fatto i conti troppe volte quando stavamo scappando. Niente mi toglieva quella sensazione di peccato imperdonabile che avevo addosso, ma non volevo parlare di quello. «Nilmini e Khaled, ne sai nulla?»
«Stanno bene, sono stati portati a Praha.»
Bene, ora potevo continuare. «Ti ho visto mentre ti accoltellavano», iniziai.
Lui posò l’arma su un panno, tra i piedi. «Stavo per morire.» Indossava dei pantaloni corti ed era a petto nudo. Mi indicò un punto accanto al cuore, una grossa cicatrice, una linea retta, appariva chiara e ancora fresca disegnata sulla pelle. «Mi ha salvato Layo. Mi ha recuperato prima che lo fero gli Umani. Devono avermi lasciato nella giungla per venirmi a prendere con più calma; due ore di più, forse, e Layo non mi avrebbe più trovato. Due centimetri di più e mi
avrebbero colpito il cuore. Ho perso molto sangue. Non ce l'avrei fatta se lui non fosse venuto.»
Provai un senso di paura. «E Valir e San?»
«Sono morti. Erano già morti quando li hanno trovati. Non è stato facile. È stato un attacco stupido, ma ho perso cinque uomini, Nalinika, te e per poco anche la vita.»
«Sei venuto per lei?» chiesi a brucia pelo.
Lui mi scrutò in volto «Cosa vuoi sapere?»
«Quello che ti ho chiesto: se sei venuto per lei.» Mi abbracciai le ginocchia. Ero pronta alla risposta?
«Sono venuto per tutt’e due.»
Alzai di poco il mento. «Cosa vuoi da me?»
Ci pensò un attimo prima di rispondere. «Lo sai già.»
«Forse so solo una parte.» Feci una pausa. «Tu mi hai parlato, nella foresta,
prima che ti accoltellassero. Non lo hai fatto con la bocca e io non me lo sono sognato, vero?»
«No», rispose. «Non lo hai sognato.»
«Quando mi sono trasformata sentivo nitidamente cosa mi diceva Nalinika, percepivo ogni suo sentimento, ogni umore. Ma per lei non era lo stesso. Inoltre lei poteva parlare con me quando era una Tigre, io no. Non mi ha spiegato nulla in merito, perché? »
«Perché non doveva. Non è compito suo. Era compito mio.»
«Oh, Dahal, per favore», sbottai. «Voi e i vostri giochini di ruolo, che…»
«Si tratta di gerarchia, Shayl’n!» M’interruppe, poi mi guardò con un’espressione dolce. «Superati i vent’anni, ogni membro di un livello gerarchico superiore a un altro può entrare in contatto con tutti coloro che sono sotto di lui per comandare. Tu sei in parte Tigre Bianca, sei figlia di Maliak, discendente del re Teon e per questo, gerarchicamente parlando, sei superiore a Nalinika; tu puoi solo comandare su di lei, con comandi che non hanno parole in senso umano. Gli altri invece possono rivolgersi a te con parole umane, tu puoi sentire loro, e loro non possono sentire te.»
«E tu?»
Lui guardò il mare.
«Perché posso sentire te e tu puoi sentire me?» insistetti.
«Perché», rispose «gerarchicamente parlando, siamo allo stesso livello.» Tornò a guardarmi.
“Quindi puoi sentire i miei pensieri?”, chiesi formulando la domanda nella mente.
“Sì…”
“E sapere tutto ciò che penso?”
“No, solo ciò che tu vuoi farmi sentire”, «ma posso percepire il tuo umore. Posso sapere se menti, se ti stai preparando all’attacco o se hai paura. È così che funziona tra animali della stessa specie.»
«Cosa sto provando ora?»
Ahilan osservò le proprie mani. «Rabbia.»
Fui sorpresa, non solo perché era vero, ma anche perché non me n’ero resa conto finché lui non l’aveva detto. «Perché non mi avevi parlato di questo aspetto?»
«Non era questo l’aspetto importante. In termini matematici, sei per un quarto Umana e per un quarto Tigre Bianca, per il resto sei un Lupo, Shayl’n. E quello che è importante è il fatto che tu sappia cosa pensano e fanno loro, i Lupi.»
«Ah, ecco. Ora tornano i pezzi del puzzle. Ecco a cosa servo davvero», commentai, gelida.
«Sì», ammise. «Ma non sappiamo se questa cosa sia possibile, se veramente sarà così. Se davvero lo fosse», continuò, «saresti una creatura unica, per il tuo sangue misto, per il tuo sangue reale e le tue potenzialità.»
Abbassai il capo, pensierosa. Lo rialzai. «Tu, però, non hai sangue reale», gli feci notare.
«No, ma sono il Capo Branco. Solo il re ha accesso alla mia mente e io alla sua. Inoltre le Tigri hanno un branco diverso dai Lupi, sono animali solitari, ma noi siamo umani.»
«E i Lupi? »
«I Lupi anche in natura vivono in branco e hanno una gerarchia molto più forte della nostra. Tu sei figlia della coppia Alfa e nei Bamiy questo non cambia con il tempo. Tuo… nonno, il re, lo sapeva bene. Ti ucciderebbe con le sue mani, se potesse.»
Mi alzai infastidita da quell’ultima realtà. «Un discorso davvero nauseante. Siete bestie mosse da istinto e basta.» Mi scrollai la sabbia dal tapi.
Anche Ahilan si alzò. «Le bestie sono molto meglio, ragazzina. Se siamo così è grazie alla componente umana, quella che tu veneri tanto.»
Non avevo voglia di ascoltare e feci per tornare al POD, poi mi fermai. «Quanto dobbiamo rimanere qua?»
«Finché non vengono a prenderci. Rimarremo qua vicino al fiume. Abbiamo bisogno di acqua dolce per il POD e per bere.»
«Se io mi rifiutassi di venire con te? Se mi rifiutassi di prendere la vostra parte e aiutarvi?» domandai.
«Lasceresti tutti noi, anche gli Umani, sotto la dominazione dei Lupi.»
«Cosa cambierà quando sarete voi ad avere la meglio, per loro? »
«Non lo so, ma potresti essere tu a decidere per tutti.»
Lo squadrai. “Non sei molto credibile.”
«Fidati, ogni tanto, di me.»
Non risposi e tornai alla piccola radura a grandi i.
Mangiammo carne in silenzio, studiandoci l’un l’altra.
Era strano percepire emozioni e stati d’animo di un’altra persona, soprattutto se l’altra persona era Dahaljer. Lui alla fine disse che sarebbe andato a perlustrare la zona e si allontanò.
Restai sola tutto il pomeriggio, sistemai il mio tapi intorno alla vita e sul seno, come mi aveva insegnato Nalinika e mi studiai le nuove cicatrici sul corpo, la più brutta era quella dove Fausto mi aveva sparato, sulla spalla, non era più un rosso vivo da diversi giorni, ma sembrava bruciarmi quando la osservavo. La più grande, però, rimaneva quella che mi aveva lasciato Ahilan, l’ultima volta che mi aveva colpita.
Rimasi a fissare il mare, chiedendomi cosa dovessi fare e se avessi una vera scelta da poter prendere.
Aspettai Dahaljer, poi, non vedendolo, mangiai con rabbia quello che era rimasto da pranzo e, quando il sole era tramontato già da un’ora, mi misi a dormire dentro al POD, dove c’era il mio giaciglio.
Il mattino seguente, mi alzai molto presto, prima che albeggiasse. Bevvi un po’ d’acqua e mi feci una doccia. Non ne avevo mai fatte in un POD, lo spazio per
muoversi era davvero poco, tuttavia l’acqua era fresca, pulita e mi rigenerò. Mi sistemai il tapi a mo’ di gonna, lasciando scoperte le ginocchia. Presi una stoffa lunga, che trovai all’interno del POD, ignoravo che materiale fosse, né a che servisse; senza preoccuparmene troppo, lo feci girare intorno al seno e lo legai. Trovai Ahilan fuori, intento a osservare parti del motore del POD, indossava pantaloni militari e un tapi attorno alla vita.
Ci salutammo appena con un cenno del capo.
Brutta la percezione di sapere che c’era dell’astio, sebbene sapessi che in buona parte dipendesse da me. Mi allontanai verso il mare con deliberata indifferenza e mi bagnai i piedi nudi. L’acqua era poco fredda e piacevole sulla pelle.
Ero stata pochissime volte al mare, un paesaggio che mi piaceva e mi metteva soggezione nello stesso momento. Osservai il cielo turchese stemperarsi nel rosa purpureo che precede il giorno e aspettai che il sole sorgesse lontano, dietro di noi. La spiaggia da dove ero venuta, a sud, si perdeva a vista d’occhio, verso nord era interrotta dal fiume che si riversava nell’acqua salata per poi continuare e perdersi in lontananza dietro a una curva. Il vento appiccicoso dal mare mi scompigliava i capelli.
Decisi all’improvviso che dovevo chiedere qualcosa ad Ahilan e m’incamminai più spedita di quanto volessi verso di lui.
«Che c’è?» mi anticipò.
«Avevamo un discorso in sospeso noi, o sbaglio?»
Lui lasciò un attrezzo che aveva in mano e che non conoscevo e rise sarcastico. «Non posso credere che tu ci stia tornando sopra.»
«Faresti meglio a crederci, perché lo sto facendo.» Mi avvicinai.
«Cosa vuoi sapere, Shayl’n? Con chi sono andato a letto?» ringhiò «Con quante, meno ingenue di te, ho ato le mie notti migliori? O quante verginelle sedotte e abbandonate sono sparse per il mondo, quante ne amo e quante ne ho abbindolate come ho fatto con te?»
Sapevo che stava mentendo, perché me lo diceva il suo corpo, raschiò lo stesso all’altezza dello stomaco.
«Vuoi sapere questo?» Fece un o verso di me.
«Voglio…» Cosa volevo? Mi morsi un labbro, incerta. «Voglio sapere se sei stato sincero. Voglio sapere cosa sono per te», mormorai sentendomi una bimbetta stupida.
«Non so, fai tu, un ostaggio? Un compito? Un’arma? Sì, la migliore arma che abbia dovuto prendere per il mio re. E meglio ti conservo, più lui sarà contento. Tutto qui.» Si avvicinò ancora e io feci un o indietro.
«Stai… mentendo», mi sfuggì un tono stupito.
Lui aprì le braccia. «Cosa posso farci? La verità la sai già.»
«Come faccio a saperla?»
«Perché te l’ho già detta. Ti ho già detto che ti amo.»
Mi costrinsi a deglutire: quanti significati in una parola, quante emozioni; oggi sorrido a quella ennesima dichiarazione di un sentimento incerto e affrettato, ancora vuoto, ancora da riempire di vita, eppure in quel momento così potente per la bambina che ero. «Non è vero.» Mossi la mandibola, imbarazzata. Non ero certa di ciò che stessi dicendo. «Non lo hai mai fatto.»
Sentii che si stava innervosendo. «L’ho fatto, Shay, e tu lo sai. Lo sai benissimo.»
“Non è vero…”
«Ma perché menti?» mi urlò contro. Colpì con un pugno la parete del POD. «Io non ti capisco. Cosa vuoi? Vuoi sapere di essere stata usata? Vuoi essere in pace con la tua lotta perenne contro tutto ciò che non è completamente Umano? È questo? Ti fai schifo perché sei stata con me?» Si indicò.
Non risposi aggrottando la fronte, accigliata. Mi afferrò per un braccio e mi trascinò dentro. «Dahal…»
«Guarda.» Mi indicò la stanza dove mi ero risvegliata, indicò tutte le bende che aveva usato per me, indicò gli unguenti, le foglie, alcune siringhe. Mi strattonò. «Lo avrei fatto se tu fossi stata davvero solo un’arma? Solo un oggetto? Solo una delle tante?»
«Non puoi dire di amarmi e comportarti così», lo riproverai liberandomi con facilità. «Tu pensi solo al vostro tornaconto, fai tutto quello che fai perché per voi io sono un’arma perfetta e se dici di amarmi lo dici solo per cercare di comprarmi. Il tuo è solo un inganno», sibilai.
Lui mi afferrò per il collo e mi sbatté con veemenza sulla parete sollevandomi da terra; se fossi stata solo Umana, mi avrebbe quasi uccisa. «Basta!» gridò a pochi centimetri dal mio volto. Credo percepì la mia improvvisa paura, il respiro corto, e allentò la presa di poco, senza lasciarmi. «Non lo dire mai più», disse, minacciandomi a voce più bassa ma dura.
Ero abbastanza certa che sapesse che mi stesse facendo male e anche che fossi abbastanza forte da potermi liberare, e credo se lo aspettasse, ma non lo feci e non dissi nulla. A una spanna da terra, cercando di respirare con la bocca semiaperta per far entrare più aria, tenendo le mani strette sulla sua che mi stringeva il collo, puntai gli occhi nei suoi, sfidandolo.
Sapevo con una certa precisione le varie emozioni che stavo provando: un’ondata di paura, amore e fiducia insieme mi avvolgevano in maniera chiara e confusa tra loro. Non ho mai scoperto cosa riuscisse ad afferrare Dahaljer di quel groviglio, né io riuscii a far luce su cosa stesse provando lui. Ignoravo cosa mi avrebbe urlato.
Mi baciò. All’improvviso, con avidità e ione.
Ancora una volta, fui sorpresa dai suoi baci senza preavviso. Ricambiai con altrettanta avidità e lo cinsi con le braccia e le gambe, rilassando i muscoli e rendendomi conto di quanto avessi anche solo bisogno di toccarlo, di sentirlo mio. Percepii il desiderio incontenibile di lui, come se lo stessi vivendo io, forse anche in maniera più nitida, e lo condivisi.
Scivolammo a terra, senza smettere di baciarci. Ahilan mi sollevò il tapi con una mano e, prima che me ne potessi rendere conto, era già dentro di me. Sentii un bruciore tra le cosce, ma lui si spinse dentro più che poté, e io inarcai la schiena e gemetti. Pensai che era questo che volevo davvero. Lui: il suo corpo e la sua mente; e in quel momento avevo entrambe le cose.
Ci muovemmo veloci con desiderio, i nostri respiri si fecero eccitati e spezzati, come il rumore del treno a vapore sui binari. L'aria mi mancava, eppure i suoi baci bagnati mi bastavano. Nonostante il periodo di fame e privazione che avevo ato, sentivo il mio corpo molto più forte rispetto all’ultima volta che avevamo fatto l’amore. Stringevo il suo verso me stessa e muovevo il bacino verso di lui, che si lasciò andare finché entrambi non raggiungemmo l’apice del piacere.
Poi si accasciò su di me e, quando tutti e due tornammo a respirare regolarmente, mi baciò una guancia. «Dubita di quello che vuoi», mi sussurrò all’orecchio, «ma non di quello che provo per te.»
Gli appoggiai le labbra su una spalla e le tenni premute. Restammo abbracciati così, uno sopra l’altra, a lungo. Poi Ahilan si sollevò a guardarmi. “Sei perfetta.”
Aprii gli occhi, sorridendo. «Ti amo, Dahal.»
Solo il futuro può dire quanto siano vere queste parole: innamorarsi è facile, amare è un combattimento in cui credere, e vivere l’amore è sempre una scommessa; cosa ne sapevamo a quel tempo?
Mi baciò all’angolo della bocca. «Sai, sei tu quella che non lo aveva mai detto.»
“Possibile?”
“Sì.”
“E pensare che me lo sono ripetuta tante volte.” Lo strinsi in un abbraccio.
Prima di uscire fuori per mangiare qualcosa, facemmo l’amore un’altra volta, lentamente, con dolcezza.
18
L’aria salmastra mi riempì i polmoni, mentre me ne stavo seduta sulla spiaggia a disegnare cerchi con le mani.
Era stata una mattinata difficile, avevamo parlato di Nalinika, e Dahaljer si era permesso di piangere. Non lo avevo mai visto piangere, non avrei mai neanche potuto immaginare che potesse farlo, invece il suo bellissimo viso si era increspato in smorfie di dolore, rigandosi di lacrime salate. Inoltre potevo sentire la sua disperazione come fosse mia, mi fece sentire impotente e non potevo in nessun modo cambiarlo, perché di fronte alla morte siamo tutti impotenti.
Mi aveva parlato a lungo di lei, di quando erano bambini, di quanto fosse brava in medicina e dei suoi sogni che non si sarebbero più realizzati.
Per la prima volta, e anche l’ultima, gli parlai di Fausto e di quello che era successo. Mi sfogai anche io e, per quanto la sensazione di colpa rimanesse intatta, mi sentii più leggera.
Nelle ore calde del primo pomeriggio ci eravamo addormentati sotto le palme, che frusciavano sopra le nostre teste, stretti in un abbraccio delicato.
Quando ci eravamo risvegliati, mi aveva chiesto di trasformarmi e lo avevo fatto. Mi aveva osservata stupefatto, accarezzando il mio pelo lungo, bianco e nero.
Ora stava finendo di riparare il POD, visto che la mattina aveva interrotto quel lavoro. Cercandoci, era stato attaccato da alcuni Umani che lo avevano colpito e avevano bucato una parte del serbatoio, facendo uscire il carburate. Era quello il motivo per cui eravamo bloccati là. Erano partiti quattro POD, ognuno con due persone a bordo, ma erano stati attaccati più volte, due ragazzi erano rimasti uccisi nello scoppio del proprio POD e due erano stati feriti. Li aveva rimandati tutti indietro e lui aveva proseguito. Mi disse che quando mi aveva trovata, stava quasi per fare marcia indietro. Eravamo un ago in un pagliaio e lui era da solo e senza carburante.
Lo percepii arrivare, quando il sole era poco sopra la linea dell’orizzonte. «Riparato?» chiesi.
Si sedette accanto a me. «Credo di sì», rispose «ma di fatto il serbatoio è quasi vuoto, non saprei dire se ne esca qualcosa adesso.»
Abbracciandomi le ginocchia voltai il viso e incrociai il suo sguardo, ammirando i suoi occhi chiari, penetrati dai raggi obliqui del sole, che gli coloravano il volto. I suoi capelli castani luccicavano appena. «Layo arriverà tra non più di sei, sette giorni e devo dirti una cosa, prima che arrivi», disse. «Esiste un modo per nascondere, o per lo meno riuscire a camuffare un po’, i propri stati d’animo.»
«Davvero?» chiesi sorpresa.
«Sì. Possiamo riuscirci se noi stessi non li lasciamo affiorare.» Mi prese una mano sporca di sabbia. «Puoi provare rabbia per una persona, ma se convinci te stessa che non è vero, quella persona o chiunque sia in un raggio tale da poterti percepire, non lo capirà.» Fece una pausa. «Non è facile. Nessuno te lo insegna
perché è controproducente. Lo impari crescendo. Anzi non sono sicuro che tutti riescano a cogliere questa possibilità.» Fece un sospiro. «Mi è capitato di usarlo di tanto in tanto. Non si tratta di scambiare un sentimento con un altro, ma di nascondere quello che stiamo vivendo con uno strato di indifferenza. Una sorta di copertura che non permette agli altri di entrare.»
«Perché me lo stai dicendo?»
Pareva divertito dalla domanda «Perché sei tu…»
«Ma c’è un altro motivo…»
Furono proprio le sue emozioni a confermarmelo prima che me lo dicesse. «Sì. Perché devi imparare a nascondere i tuoi sentimenti.» Vedendo che non rispondevo nulla, continuò: «Ora che hai ato la trasformazione, sono tutti in grado di leggere dentro di te. Leggono la tua rabbia e non va bene, perché per loro tu sei prima di tutto un Lupo, e non tutti si fideranno di te.» Voltò il viso sul mare nel momento in cui il sole toccava l’acqua, mi voltai a guardarlo anche io. «Leggono la tua paura», continuò senza voltarsi, «anche se cerchi di mordere. La tua insicurezza e la tua ingenuità e io non voglio.»
«E non vuoi che leggano quello che provo per te», mormorai.
Mi lanciò un’occhiata scrutatrice. «Sì.»
Restammo in silenzio, ascoltando il mare infrangersi svogliato davanti le nostre
gambe. Il sole sparì oltre la linea dell’orizzonte, lasciando il cielo tinto di rosso.
Era difficile quello che chiedeva e non mi piaceva, non mi piaceva che dovesse farlo lui, né che dovessi farlo io. Sempre che ci fossi riuscita. E se non ci fossi riuscita?
«Non aver paura», disse.
«Io non ho…» stavo mentendo, e lui sorrise.
«Shay, riguardo a quel discorso…», disse dopo qualche minuto.
«Che discorso?» Mi allarmai.
«È per questo che non ti ho guardata quella volta», disse senza rispondere alla mia domanda «Non è facile coprire certe emozioni, certi stati d’animo. Ero dispiaciuto, ma se ti avessi guardato, quel giorno nella foresta, forse non sarei risultato così indifferente.» Si voltò a guardarmi; io non feci lo stesso. «Non sono un santo, Shay, sicuramente c’era una vita prima di te, anche se non mi piaceva e non mi piace, ma esisteva. C’erano delle persone che conosco bene e ricorrono nella mia vita molto spesso. Solo una però era davvero importante, era una donna.»
Mi obbligai a fissare il mare. Con la coda dell’occhio vidi che sorrideva. Cosa percepiva della mia stretta allo stomaco?
«Era Nalinika. Era lei l’unica cosa importante. Non c’era altro spazio o se c’era, era vuoto. E tu sai bene quali sentimenti mi legassero a lei.»
Mi rilassai e voltai il viso verso di lui.
«Non ho mai sentito una persona come sento te», continuò. «Non so se questo dipenda solo dal fatto che abbiamo lo stesso livello di gerarchia. Se non fosse così, potrebbe essere che anche per gli altri sia così. La mia percezione dei tuoi sentimenti va al di là di timori e paure, di rabbia e sottomissione. Vorrei che almeno ci provassi.»
«A fare che cosa?»
«A nascondere quello che stai provando. Nascondilo. Cerca di ricoprirlo di indifferenza, di scacciarlo e sentirti leggera.»
Non sapevo da dove iniziare. Anzi non sapevo neanche cosa stessi provando e quindi cosa dovessi nascondere. Giocherellai con la sabbia disegnando linee curve con i talloni e pensai a quanto mi avesse detto. A tutto, anche a Nalinika.
«Provaci», mi esortò dopo qualche minuto.
Sospirai e mi alzai in piedi. «Aspetta.»
«Dove vai?»
«Aspetta. Devo fare mente locale.»
«Ma non funziona così», obbiettò con un sorriso.
Mi allontanai un poco. «Facciamo una cosa: faccio un giro, tu mi raggiungi e mi dici cosa sto provando.»
Rise con leggerezza, poi fece un cenno con la mano. «Va bene, come vuoi.» Uno sguardo divertito gli ò sul volto.
Mi incamminai lungo il bagnasciuga, facendo grossi respiri. Poi cercai di provare indifferenza ogni volta che pensavo di vivere un certo stato d’animo. Ripetei quell’operazione più volte, tanto da sentirmi stupida. Quando Dahaljer mi raggiunse, mi venne da ridere. Sorrideva anche lui, mostrando i denti bianchi. «Non va bene così, Shay», cominciò. «Stai ridendo. »
«Ma non sai cosa provo dentro», lo corressi.
«Ansia.»
Corrugai la fronte. «Ma…»
Mi prese i fianchi e mi attirò a sé, scuotendo la testa.
«Lasciami, così non ci riesco», borbottai.
Le sue mani sulle miei reni. «Divertimento», proseguì.
Gli misi le braccia intorno al collo e sorrisi. «Non vale. Non vale mai quando si tratta di te.»
«Desiderio.» Appoggiò la sua fronte alla mia.
«Non vale», ripetei con un mezzo broncio.
Mi baciò le labbra. Chiusi gli occhi e aprii la bocca, ma lui allontanò il viso, con aria di rimprovero. Mi prese in braccio e girò su se stesso. Cercai di liberarmi, ma gli feci perdere l’equilibro e cademmo sulla sabbia. Gli montai sopra, mentre ridevamo. Gli mollai un pugno leggero sul braccio e mi chinai a baciargli il petto.
«Non sei per niente brava», disse, sollevandomi.
«E tu non sei per niente un buon maestro.» Gli presi le mani tra le mie, rimanendo cavalcioni su di lui. Con il sole che avevo preso tutti quei giorni, la mia pelle aveva assunto una tonalità più scura della sua, la sua però era liscia e tesa sui muscoli ben delineati.
«Mmm… Tanto, tanto desiderio. E malizia.»
«Ah, si?» dissi «Te lo faccio vedere io.» Mi chinai di nuovo e lo baciai a lungo, con tenerezza, mentre i miei capelli scivolavano su di noi.
Mi strinse con le braccia e si mise a sedere.
“Non posso certo dire che non mi piaccia quello che provi, Shay.”
Continuai a baciarlo, divertita, finché non mi allontanò da sé. «Prendi fiato ogni tanto.»
Inarcai le sopracciglia. «Dahaljer Ahilan Aadre di Geania, non reggi i miei ritmi?»
Mi gettò con le spalle a terra, ma cercai di riprendermi la mia posizione. Ci rotolammo sulla spiaggia, ridendo e mugolando e alla fine mi inchiodò. «Shayl’n Til Lech di Roma, figlia dei Lupi Grigi e delle Tigri Bianche e mia dolcissima piccola Umana, posso portarti a ritmi ben più elevanti.»
Risi, ebbra d’amore. «Fallo. Fallo, mio amato, perché, che Nostra Signora mi perdoni, è solo te che voglio.»
Mi baciò dolcemente. “Ti perdonerà. Ogni tuo desiderio è un ordine.”
Entrò dentro di me quando il colore del mare di Màlica era diventato più scuro di quello del cielo.
***
Dopo una doccia, la notte restammo a dormire fuori, accanto al POD, perché dentro non c’era posto per due persone. Era una bella sensazione. Da quando ero piccola, avevo sempre dormito in camera con qualcuno ed era un’abitudine a cui non facevo caso. Avevo condiviso il mio letto con Nalinika in un’imbarazzante e dolce intimità. Dormire con Ahilan era tutta un’altra cosa, lasciai che mi abbracciasse e mi tenesse stretta.
Per quanto tempo avrei potuto godere di quei momenti di pace e libertà? Prima di addormentarmi pregai che Layo non arrivasse mai.
Alle prime luci del mattino mi alzai, svegliata dagli uccelli della giungla. Mi stiracchiai e osservai Dahaljer dormire accanto a me, pensai che non fosse giusto farlo finire e che avrei dovuto dirglielo. Quando si svegliò, dopo aver mangiato pane e marmellata - da quanto tempo non ne mangiavo! - decisi di sputare il rospo, esercitando tutta la mia indifferenza.
«Tra poco arriverà Layo», cominciai.
«Sì.» Mi guardò di sottecchi.
«Cosa succederà dopo?»
Alzò un poco il mento. «Non lo so con esattezza. Non so quale sia la situazione in questo momento.» Sistemò dei legnetti sulla brace spenta della sera prima. «Nalinika non c’è più», aggiunse con un lieve cambio di tono, che notai solo per aver percepito il sentimento che vi era legato, «e questo potrebbe cambiare molte cose, essendo lei l’erede, forse l’unica, se non ti riconoscono in linea di successione. Non so bene neanche se il fatto si sia venuto a sapere, o se lo sa solo una cerchia ristretta del Re.»
Appoggiai il mento sulle mani. «E tu? Qual è il tuo ruolo?»
Si strinse nelle spalle. «Ti ho detto: al momento non so nulla. Essere il Capo Branco non vuol dire poter decidere tutto. Quello che mi dicono di fare io faccio.»
«Chi te lo dice?» volli sapere.
Fece una leggera smorfia. «Il Re. E il Consiglio Superiore.»
«E io? Cosa dovrei fare? »
«È probabile che prima di tutto vorranno vederti in forma di Lupo, vorranno capire che cosa puoi fare e che ruolo hai in natura.»
«In natura?» chiesi sollevando un sopracciglio.
«Sì. Quello che ti spetta come diritto di nascita. Non quello che uno si guadagna, come me.» Non c’era orgoglio nella sua voce.
Mi trattenni dal fare un respiro profondo.
Indifferente. Indifferente. Indifferente.
Non credo mi riuscì perché lui mi guardò preoccupato un attimo prima che aprissi la bocca. «Dahal, tu…» cercai le parole «Noi non potremmo rimanere qui per sempre? Voglio dire…»
«No», mi interruppe.
Tentai di decifrare la sua espressione. «Ma…»
«Questo posto è troppo pericoloso per noi due soli.»
«Sì, ma io…»
«Anche se gli Umani sono solo Umani e noi siamo quello che siamo. Quindi scordatelo. Non…»
“Dahal!”
Si fermò.
Sospirai. «Io non dico che dobbiamo rimanere qui. Magari possiamo spostarci, andare verso nord. Forse non sarà facile, però…»
“Shay”, «Quello che dici non è possibile. Ho fatto un giuramento, che devo rispettare. E se non lo farò, me lo faranno rispettare a forza.»
«Io non ho fatto nessun giuramento», sentenziai indignata.
Mi guardò perplesso per qualche secondo, poi rivolse il palmo della mano in su e lo mosse indicando intorno. «Allora vai.»
Sospirai di nuovo. “Scusa. Non intendevo questo.”
«E cosa allora? »
Mi misi le mani tra i capelli, pensierosa. «Non è giusto.»
«In secoli e secoli di storia dell’umanità, quando mai c’è stata giustizia?»
«Non voglio parlare dei massimi sistemi, Dahal. Vorrei solo parlare di noi, di me e te. Ritengo che non sia giusto dover sottostare alle scelte di qualcun altro su di noi. E», aggiunsi, «Non vedo come sia possibile che un Capo Branco come te e… una discendente come me, non possano decidere come vogliono, su cosa fare della propria vita.»
Fece un sorriso amaro. «Non è così facile. Esistono meccanismi nella società che vanno rispettati, esistono degli obblighi che se non rispettiamo noi, ci faranno rispettare gli altri. A maggior ragione a due come noi.»
«Se è vero questo che dici, allora prendiamo in esame la mia ipotesi: andiamo in un posto isolato, andiamo dove nessuno ci possa trovare. Non so.»
“Tu vaneggi.”
Scrutai il suo guardo. “Perché ti spaventa?”
«Cosa?» Sembrava stupito.
«Posso sentire anche io le tue emozioni, sai?» Poi lo sentii, sentii quello strato di indifferenza che gli copriva l’anima, mentre lui corrucciava la fronte. Aprii la bocca, sorpresa; e la richiusi, indignata. Mi alzai in piedi di scatto e, senza sapere bene perché, mi trasformai in Lupo. Questa volta fu lui a rimanere a bocca aperta. Gli lanciai un’occhiata furibonda e me ne andai.
Il fiume disegnava anse dolci e parallele alla costa a una trentina di metri massimo da questa. Percorsi la riva addentrandomi nella foresta, tra le mangrovie, dapprima di corsa, poi rallentai.
Sentivo scoppiarmi la testa. Provavo rabbia, rabbia per quella situazione, rabbia per quello che ero, per quello che era Dahaljer, rabbia anche per lui che mi nascondeva i suoi sentimenti. Pensavo che la rabbia mi avrebbe divorata insieme allo sconforto e avevo una gran voglia di ululare. Ululare? Non ci pensai più di tanto, in effetti, riempii i polmoni d’aria e lanciai un ululato potente, ci misi tutta la forza che potevo, poi abbassai il tono lasciando che il suono fosse lungo e lamentoso.
Quando smisi, notai un varano di medie dimensioni a cinque metri da me. Mi avvicinai incuriosita.
“Shay.” Una grossa Tigre Bianca con un tapi azzurro mi osservava. “Che diamine stai facendo?” Lanciò un’occhiata al varano a pochi metri da me.
“Niente”, risposi acida.
“Non ti avvicinare.”
Presi la palla al balzo per far arrabbiare anche lui. “Che vuoi che mi faccia? Sono grande il doppio di lui, forse di più.”
“Non ti far mordere”, mi ammonì, sentii la preoccupazione nel suo corpo. Pensai che fosse un motivo in più per disubbidire.
Feci per avvicinarmi.
Con la coda dell’occhio vidi fargli fare due lunghi i, poi mi balzò addosso.
Guaii. “Dahal!”
“Allontanati. Subito!” In quel momento, fu il varano a muoversi: con un movimento lento, si buttò in acqua.
Ne approfittai per mordere Ahilan, lui rispose mordendomi a sua volta. “Sei un’idiota!” Si voltò e tornò verso il mare, correndo.
Lo inseguii. Non poteva liberarsi della questione così.
Lo raggiunsi ai margini della sabbia e con un salto gli fui sopra. Da Lupo e metà Tigre ero grande come lui.
Non si lasciò intimorire. Aprì la bocca mostrando le zanne lunghe e affilate. Ci azzuffammo per qualche minuto, mordendo, ringhiando e guaendo.
Alla fine lui si arrese, poco convinto, e si fece prendere alla gola da me. “Smettila, Shay!”
“Perché mi hai seguita?”, domandai risentita.
“Hai ululato, pensavo ti fosse successo qualcosa. Poi ho visto il varano.”
“Che te ne importava del varano?”, chiesi senza lasciarlo andare. “Non mi avrebbe fatto nulla.”
“Sei un’idiota. Un morso del varano può essere letale. Si nutre di carogne, la sua bocca è infetta e i suoi morsi diventano velenosi.”
Lo lasciai andare, senza fidarmi troppo.
Si alzò e si scrollò di dosso la polvere.
Alzai una zampa, con l’intento di dargli una pacca, che sembrò più una botta sull’orecchio. “Scusa.” Cercai di recuperare.
Lui ringhiò.
Feci un o indietro e mi ritrasformai. Presi al volo il tapi, che mi stava
scivolando via e guardai accigliata Dahaljer. «Fai come vuoi.» Corsi verso il mare, sentendo la sabbia che scottava sotto il sole ormai sorto da un po’ di tempo.
“Dove vai?” La sua voce preoccupata mi raggiunse mentre entravo nell’acqua.
“Via.” Non mi voltai.
“Shay!” Era preoccupato.
Presi una boccata d’aria e mi tuffai lanciando via il tapi.
Pochissime volte in vita mia ero stata al mare e molte meno avevo fatto il bagno. Credo di poterle contare sulle dita di una sola mano. Non si può dire che sapessi nuotare, ma le basi le conoscevo.
L’acqua era fresca, chiara e scivolava sulla mia pelle come seta.
Ritornai in superficie e presi aria. In quel punto non toccavo, scalciai e con le mani mi tolsi l’acqua dagli occhi; li sbattei e mi voltai a guardare verso la spiaggia.
Era vuota.
«Dahal?» chiamai, senza troppa convinzione. Doveva essersene andato via, anche se percepivo la sua presenza. Mi avvicinai a riva con l’eleganza di un barboncino più che di un lupo bell’e fatto, e quando toccai la sabbia con i piedi, un’ombra si materializzò accanto a me, afferrandomi per la vita.
«Tu sei matta, vero?» Ahilan, prendendo una grossa boccata d’aria, mi tenne stretta guardandomi con la faccia preoccupatissima. Ero arrabbiata, eppure non potei fare a meno di scoppiare a ridere.
«Cosa ridi? Che volevi fare?» chiese con voce perplessa, lasciandomi.
«Niente, Dahal, solo un bagno.» Mi allontanai da lui osservandolo.
«Tu… tu non sei normale. Poco fa eri nella giungla a ululare, poi volevi farti ammazzare da un varano e poi ora, uhm, sei qui in mare. E ridi, per giunta.»
Trovai la cosa piuttosto divertente e dimenticai i motivi per cui ero arrabbiata. Tornai verso di lui. «Sei buffo, Dahal.»
«Pure?» Lo disse con un tono duro, tuttavia non c’era aggressività nei suoi sentimenti.
«Sì.» Lo cinsi attorno al collo e lo strinsi con le gambe.
Lui mi attrasse a sé con una mano, con l’altra mi accarezzò il viso. «Tu mi farai
impazzire.» Eravamo entrambi nudi e potevo sentire il suo desiderio crescere in senso fisico.
«È da quando mi hai rapita, che non fai che ripetermelo.»
Mi ò il pollice sul labbro inferiore. «Allora deve essere vero.» Mi baciò.
Quando mi staccai dalla sua bocca, lasciai galleggiare le braccia sull’acqua. «Sai di sale», dissi.
«Anche tu.»
«Dahal…» Immersi un po’ il viso nell’acqua senza staccare gli occhi da lui e tornai fuori. «Scusami. È solo che vorrei che fosse così per sempre.»
«Lo so. Lo vorrei anche io.»
Rimasi in silenzio. «E non mi chiedi scusa?» domandai infine.
Sorrise, inginocchiandosi sulla sabbia sotto l’acqua, senza lasciarmi, le sue mani sulle mie natiche. «Scusami.»
«Eh no, così non vale più.» Buttai le spalle indietro, immergendole un poco.
«Per questa volta, però, potrei perdonarti», dissi rivolta al cielo. Un sorriso che non vidi ò tra le sue emozioni. Lui si chinò su di me a baciarmi il seno. Tornai su e mentre mi baciava il collo scivolai su di lui, lo spinsi dentro di me con le gambe e lo sentii gemere.
«Tu sei più di quanto io meriti», sussurrò.
Lo cinsi di nuovo con le braccia e lo baciai.
“Non so cosa meriti tu, ma tu sei tutto quello che voglio io, amore.”
“Amore…”
19
«Se ogni volta che litighiamo, poi facciamo l’amore, devo litigare con te più spesso», mi disse la mattina dopo, mentre giocherellava con una ciocca dei miei capelli.
Ancora cinque giorni.
Cinque giorni in una vita non sono neanche un battito di ciglia.
Chiesi a Dahaljer di parlarmi solo in arindo ichslavo, in modo da esercitarmi. Gli chiesi di spiegarmi come fossero fatte Praha e il castello e lui me le disegnò sulla sabbia; una bozza sommaria della città e una piantina piuttosto dettagliata del castello. Mi illustrò l’ala delle camere da letto, le cucine, i giardini e tutta l’ala relativa alla politica, compresa la sala dei ricevimenti. Mi spiegò che quello non era il castello come era stato fatto prima del duemiladodici, ma che era una sua ricostruzione, in quanto quello era stato perso come tutto il resto. Mi disse che l’unica cosa rimasta intatta erano le prigioni sotterranee. Quelle risalivano al 1800 dell’Anno del Signore.
Ci ritrovammo a parlare di Roma e del Colosseo e non potei fare a meno di parlare di Madre Brìgit. Mi mancava molto e soprattutto mi faceva stare male l’idea che ci pensasse tutti morti. Avrei voluto farle sapere come stavano le cose e farla stare più serena, per quanto possibile.
«Quando arriveremo a destinazione, vedrò che cosa posso fare», disse Dahaljer.
«Non ti prometto nulla, però.»
«Grazie.»
Mi riconsegnò il pugnale, che non sapevo dove mettere non avendo anfibi, né vestiti, né tanto meno cinte. Lo lasciai nel POD, senza pensarci troppo.
La mia mente macinava pensieri, idee, fughe, storie, domande e non arrivava mai a niente. Se Ahilan non fosse stato là o se non avessi provato per lui quello che provavo, sarei impazzita. Impazzita di nulla, di vuoto. Frustrazione e impotenza.
Sabbia dorata, grandi foglie verdi, aria tiepida; tra l’azzurro violento del mare e l’azzurro infinto del cielo, era il turchese cangiante degli occhi di Dahaljer a darmi pace. Mi abbracciò, nel tardo pomeriggio, mentre scrivevo distrattamente sulla sabbia parole in arindo non collegate tra loro.
«Mi dispiace, Shay», sussurrò. «Davvero.»
Non risposi, mi raggomitolai tra le sue braccia e le sue gambe e, piegando la testa, appoggiai la guancia sul suo petto. Respirai a fondo, inebriandomi del profumo dolce della sua pelle.
«Se potessi portarti indietro, lo farei.» Appoggiò le labbra sui miei capelli. «Non cambierebbe nulla, però. Non mi importerebbe sapere che fine faccio, ma, Shay, verrebbe qualcun altro a prenderti, ne sono sicuro. Preferisco gestire io la
situazione. Preferisco sapere di poter controllare io cosa succede. Ma giuro, giuro che se potessi tornare indietro e cambiare le cose, lo farei.»
Gli strinsi un braccio.
«Lo sai, vero?» La sua voce risuonò morbida sopra il fruscio delle onde.
«Lo so.» E dopo qualche minuto aggiunsi: «Se fosse così, non ci saremmo mai conosciuti.» Incespicai sulle parole in arindo.
Questa volta fu lui a non rispondere, mi cullò in silenzio.
Non so per quanto tempo rimanemmo così. Il sole era tramontato, quando mi alzai e andai a fare una doccia. Pulita e con i capelli bagnati, uscii e lanciai un’occhiata al fuoco che bruciava allegro e scoppiettante sotto dei pezzi di carne di non so quale bestia, che lui aveva cacciato quel giorno. Li mangiammo in silenzio e dopo aver sciacquato le mani mi sdraiai accanto a lui, al margine della foresta, dove l’erba si confondeva con la sabbia.
«Nilmini non voleva mai mangiare carne», dissi guardando le stelle sopra di noi. «Non ne avevamo in abbondanza, era una rarità, la costringevo e a volte gliela mettevo a forza in bocca. Madre Brìgit non era contenta, mi diceva di lasciarla in pace.» Sospirai. «Ne conservavo sempre un po’ per lei, prima di darla agli altri bambini e cercavo di rifilargliela nei giorni seguenti.» Osservai quella che doveva essere la Via Lattea. «Deve aver compiuto quattro anni in questi giorni.»
Ahilan alla mia sinistra si sollevò su un gomito a guardarmi. «Sono sicuro che starà bene.»
«Se non dovesse essere così, vi stacco le braccia a tutti, a morsi», replicai. «E senza bisogno di trasformarmi.» Accennai un sorriso al cielo.
«Non mi è difficile crederti.» Mi accarezzò una guancia con le dita. Si piegò a sfiorarmi le labbra con le sue, come una brezza di vento su un fiume immobile.
«Non è mai stata da nessun’altra parte, Dahal. Non era neanche mai uscita. È stata colpa mia, se quella volta era con noi. Madre Brìgit non fa uscire i bambini piccoli in gita, sono stata io a insistere tanto e non era giusto. Non era giusto per gli altri bambini, quelli più grandi. Avevo insistito e garantito per lei, non volevo che non vedesse il mondo fuori, dov’era nata. Oh, Dahal, se solo avessi saputo, se solo....» Soffocai un lamento.
«Ma non lo sapevi, amore.»
«No, non lo sapevo, eppure non me lo perdono. Non me lo perdonerò mai. Dio non mi perdonerà mai per la mia cocciutaggine e tutto quello che ho fatto.»
Lui appoggiò l’orecchio sul mio petto, i rumori della giungla e quelli del mare si confo nella mia mente. Sollevò il mento a guardarmi. «Il tuo cuore batte così piano», disse. «Veloce, ma piano, un rumore appena udibile. Dio ti perdonerà, Shay, perché hai un cuore forte e buono e Lui ti perdonerà, ne sono sicuro.»
Sorrisi incrociando il mio sguardo con il suo. Gli presi il viso tra le mani e lo attrassi a me, baciandolo. Mi spostai un poco per stringerlo con le braccia, mi strinse anche lui, scivolando su di me e poi si sollevò. Sciolsi il nodo del top sul petto, lasciando che mi baciasse i seni. Sciolsi il nodo del mio e del suo tapi.
«Io no», mormorai nella mia lingua madre. «Non ne sono tanto sicura.» Sospirai. «Oh, Dahal, io… Sono il frutto indicibile di un miscuglio di Razze! Sono… una snaturata che mette in pericolo i bambini. Sono una prigioniera che trema di piacere sotto le braccia del proprio aguzzino. Sono una Tigre Bianca dai denti affilati e un Lupo Grigio che gira con un pugnale. E sono un’Umana, che ha ucciso un suo simile con un’automatica che brucia ancora nella mia mano. Che perdono può esserci per una dannata come me?»
Mi baciò le guance. «Tu non sai di cosa parli.» Baciò i miei occhi, la mia fronte. «Tu i veri dannati non li conosci.» Si sollevò a guardarmi con il suo sguardo adorante, pieno di una luce che imparavo a conoscere ogni giorno di più. «Tu sei il frutto di un amore che non ha guardato a dettami inutili, Shay. Sei una ragazza che difende gli altri prima di se stessa. Sei una Tigre coraggiosa e un Lupo forte. Sei un’Umana che ha ucciso per salvare se stessa e un suo simile.» Mi baciò il naso. «E sei innamorata. Innamorata come una bambina: dolcemente, ingenuamente, completamente.» Poggiò la fronte sulla mia e chiuse gli occhi. «Dio ti perdonerà, Shay. Non potrebbe fare altro, perché il mondo che meriti non è questo. È la pace del Regno di Dio e per questo ti perdonerà.»
Lo strinsi forte a me, mi aggrappai a lui con tutto il corpo. Gli baciai le guance, il mento e scesi sul collo. Amore. Lo baciai a lungo e le mie membra si rilassarono eccitate e inermi. Le mie gambe si arrotolarono sulle sue, il mio corpo languido era pronto a riceverlo e lui, con occhi felini e azzurri come il mare di Màlica, scivolò dentro di me, riempiendomi.
Emisi un sospiro leggero.
Si sollevò sulle braccia e spinse piano, gemetti a occhi chiusi. Socchiusi la bocca ascoltando il rumore veloce e soffuso del mio cuore, inondato dal piacere che dal mio basso ventre si diffondeva a ogni movimento del corpo di Ahilan. Lui discese sulle mie labbra dischiuse in un muto grido, baciandole con sensuale lentezza.
“Oh, Dahal…”, dissi in una supplica, senza riuscire a parlare.
Lo sentii trattenere un respiro, mentre il suo corpo accelerava i colpi e i suoi muscoli si tendevano sotto la pelle delle mie dita. Lo sentivo amante e desideroso dentro la mia mente. Vivevo ogni suo movimento, ogni sua emozione. Mi impossessai di ognuna di loro, lasciando che il mio corpo fosse sempre più caldo, lasciando che dentro si sciogliesse.
Non smisi di stringerlo e lo supplicai di nuovo senza aprire bocca. “Dahal… ti prego.” Sollevai appena il bacino e lui fece un movimento veloce di mente e corpo, afferrai entrambi fino a che nel cielo non esplose tutto, il suo corpo, il mio, la mia mente e la sua in una colata calda e intensa.
Un respiro profondo uscì dalle mie labbra a coprire appena i suoi respiri veloci.
Il cuore, lo stomaco e gli occhi mi si riempirono di schegge. Credo che lui lo abbia potuto vedere, vedere con la stessa chiarezza con cui vedevo io quelle schegge. Quando aprii gli occhi per incrociare il suo sguardo stupito, un velo tremolante di lacrime mi appannò la vista.
Mi abbracciò nel momento stesso in cui un singhiozzo mi fece sussultare il corpo. Il primo di una serie inesorabile di spasmi che rimbalzarono su ogni muscolo sotto la mia pelle, sotto il cielo blu notte.
Non disse nulla e gliene fui grata. Mi tenne stretta, la mia guancia appoggiata sulla sua, invasa dalle mie lacrime irrefrenabili.
QUARTA PARTE A Harts Kon Benken, Wejnen On Trenen
20
Il giorno in cui arrivarono Layo Luba e gli altri, tirava un forte vento da sud ovest, che ergeva e ribaltava grandi onde sul mare, il cielo era plumbeo e non si vedeva un raggio di sole. Mi chiesi se fosse un segno.
Ahilan avvertì la loro presenza, poco prima che arrivassero. Non ero pronta, non ero per niente pronta. Non volevo andare via e non volevo vederli. Inoltre non ero preparata a costringere le mie emozioni a incanalarsi sotto un qualche strato di indifferenza. Ero preoccupata, molto preoccupata.
Questo però si rivelò un bene: i Tiouck potevano avvertire la mia paura e la presero come tale, senza farsi troppe domande.
Si fermarono sulla spiaggia con i POD, tre in totale, e rovinarono il paesaggio, seppur grigio, immacolato.
Si aggiornarono con Ahilan e, nei loro limiti di virilità, si mostrarono molto affettuosi con lui. Parlarono in arindo, veloci e per nulla preoccupati dalla mia presenza. Non riuscivo a seguire tutto ciò che dicevano e, se in prima battuta mi concentrai a tradurre, poi quando dissero qualcosa sul POD del Capo Branco, ci rinunciai, andandomi a sedere sul masso dove sedeva di solito Dahaljer.
Notai subito come anche io riuscissi a percepire in maniera diversa i loro stati d’animo: nella mia mente sembravano ovattati, sbiaditi, e per tutti avvisavo solo un vago senso di sottomissione e fiducia.
Quando sentii l’umore aggressivo di uno di loro, mi voltai. Era Layo che mi stava raggiungendo. «E così saresti un bel grosso Lupo dal pelo bianco e nero, principessa?» Fece un inchino forzato.
Lo guardai in cagnesco e lui scoppiò a ridere.
«Ah, che bello riuscire a sentirti. Sei terrorizzata.» Si mise davanti a me con le gambe allargate e le braccia conserte. Con la coda dell’occhio vedevo che gli altri ci stavano guardando. «Davvero piacevole da sentire, un Lupo, un Lupo terrorizzato. Sì, davvero una bella sensazione.» Mi mostrò un cerchio sottile, di ferro, sapevo cosa fosse. «Il buon vecchio Ahilan ti ha trattata bene, principessa, e non so cosa lui ti abbia lasciato credere per tenerti buona, ma ora i giochi sono finiti.»
Indifferenza. Stupore. Indifferenza. Paura.
Fece scattare il cerchietto, aprendolo, e me lo avvicinò alla gamba, piegandosi sulle ginocchia. Non provai neanche a reagire, me lo strinse sulla caviglia e lo richiuse con un sonoro click metallico.
Tornò in piedi e mi prese il mento con una mano, mi strinsi nel tapi senza pensare e incrociando i nostri sguardi. «Siete di una bellezza straordinaria, principessa», esclamò con enfasi. «E mi dicono che il vostro regale pelo sia tra i più belli esistenti, tuttavia non possiamo fidarci della vostra bellezza, quando nelle vostre vene scorre sangue Bamiy.»
Indifferenza. Paura. Indifferenza.
Mi strinse una spalla. «Ora si torna a casa, principessa. Non avrai più molto da fare», mi informò di nuovo in maniera informale.
Chiusi i pugni per non reagire. Indifferenza. Indifferenza. Paura.
Layo mi strattonò e mi tirò per un braccio facendomi alzare e portandomi ai POD, fermi sulla spiaggia. «Quale sceglie, principessa volk?» Folate appiccicose di vento mi scompigliavano i capelli.
«Layo», era la voce di Ahilan, dietro di me. «Lei viene con me.»
Lo guardò con aria interrogativa e sorpresa.
Indifferenza. Paura, paura terribile.
«Potrebbe essere di mia proprietà, Layo. Non ti sfiora neanche la mente?»
Registrai una minor tensione nel corpo di Layo. E anche nel mio. «Benissimo.» Mi lasciò e alzò le mani. «Se è un nuovo giocattolo, la legge mi impone di lasciartelo. Ma dovresti pensare anche a noi ogni tanto.» Sorrise sornione. «E anche al fatto che, se è in linea di successione, non potrai accampare più questi diritti.»
«Pensi davvero che io non conosca le leggi?» Dahaljer mi prese un gomito e mi tirò via. Non lo guardai, mentre Layo rispondeva qualcosa in arindo. Indifferenza. Indifferenza. Salimmo sul POD che era atterrato per primo e mi lasciò libera. «Resta qui», disse soltanto.
Rimasi dentro, esaminando il POD: era identico all’altro, un piccolo spazio su cui si trovava un lungo sedile delle dimensioni di un letto singolo e una porticina che nascondeva il bagno e davanti, chiuso da un separé, doveva esserci l’abitacolo per la guida. Mi sedetti e attesi. Ero sicura di viaggiare con Ahilan e di avere il tempo di parlare con lui, scoprendo così qualche informazione su ciò che mi sarebbe successo.
Non fu così. Viaggiai con lui e con Pasha Klein, un ragazzo dalla pelle chiarissima, i capelli ricci castano chiari e con il viso di un quindicenne, aveva un paio d’anni più di me. La mia tensione rimase tale e la mia curiosità non fu placata.
Fu un viaggio di cinque giorni, noioso, e con poche soste. Cercai di analizzare i loro comportamenti e soprattutto le loro emozioni, ciò che il corpo trasmetteva.
Nessuno di loro copriva il proprio umore con indifferenza, tranne Dahaljer. Li sentivo con chiarezza, tuttavia ero certa che fosse molto lontano dal modo in cui percepivo Ahilan, non c’erano sfumature. Era tutto molto netto: o tranquillità o aggressività o paura. O bianco o nero.
La paura era uno stato d’animo strano, in termini umani non saprei spiegarlo: l’istinto mi diceva che alcuni di loro, pur assumendo un tono spensierato o di semplice ubbidienza, manifestassero una sorta di sottomissione. Quando
parlavano con Layo o con Ahilan era evidente. La mia, credo, era proprio paura.
Mi chiesi se si rendessero conto di ciò che provavo nello stesso modo in cui io avevo percezione di ciò che provavano loro, o se fosse diverso, più forte. Se anche per loro era bianco o nero, percepivano paura, solo paura.
Pasha mi spiegò che a causa del diverso campo magnetico, stavamo allungando di oltre mille chilometri e che, a causa di zone “infestate” – espressione che ricorreva spesso tra loro - da Umani banditi, ne stavamo facendo in più almeno altri quattrocento. Mi illustrò la funzione di qualche comando del POD meglev e mi raccontò di quando lo aveva guidato la prima volta.
«Avevo quattordici anni e smaniavo dalla voglia di provare. Ero a Praha e avevo un buon maestro. Ci portarono in un posto vuoto e molto grande. Ce ne sono molti al nord, sai, in quelle terre ci sono chilometri e chilometri di distese di neve dove non c’è nulla. E io, come tutti gli altri, provai là per la prima volta. Questi veicoli partono velocissimi e di solito, quando si è ragazzini, commettiamo tutti lo stesso errore, partiamo di corsa e freniamo di colpo.» Rise e io ricambiai con un sorriso. Si dimostrò più carino del previsto e quando ci addentrammo nelle zone fredde del nord mi prestò i suoi anfibi.
Le sue scarpe erano di due taglie più grandi della mia, non glielo dissi perché ero contenta che avesse pensato a me. Sebbene rimanesse in stato d'allarme, mi trattava con rispetto e mostrava curiosità: fu l’unico a provare a parlarmi telepaticamente, mi chiese se volessi la sua giacca. Sapevo che potevano sentire tutti in ogni caso, risposi di no a voce. Da quel che mi aveva detto Ahilan e da ciò che avevo provato con Nalinika, lui non avrebbe sentito la mia risposta, avrebbe percepito solo il mio diniego e non volevo che si offendesse. «Grazie, Pasha, sei molto gentile. Ma non ti preoccupare, mi accontento delle coperte, sto bene. Davvero», aggiunsi notando la sua espressione dubbiosa.
«Va bene. Ma, Shayl’n, se dovessero servirti, chiedi pure.»
«Lo terrò a mente, ma non mi serviranno.» Però fui costretta a ripensarci, quando il freddo si fece pungente e costante. Fu così che indossai scarpe, pantaloni e giacca molto più grandi di me.
Dahaljer seguiva le nostre conversazioni in silenzio, non fece trapelare nessuna delle sue emozioni, rimanendo stoico e imperscrutabile per tutta la durata del viaggio. Gli altri continuarono a trattarmi con distacco, aggressività e divertimento, punzecchiandomi ogni volta che ce n’era l’occasione. E di tanto in tanto li sorprendevo a osservarmi di sottecchi. Non so quali fossero le leggi di cui aveva parlato Layo sulla spiaggia, so solo che nessuno mi toccò, neanche senza volerlo.
Arrivammo a Praha di notte, scendeva dal cielo una neve fitta e piccola. Non avevo mai visto nevicare e sarei rimasta a fissarla per ore, se gli eventi non mi avessero portata a pensare a ben altre cose.
Ci fermammo in quello che mi parve il giardino del castello, uscii dal POD con i vestiti di Pasha e uno strato di coperte di lana strette addosso, le mani nude mi si gelarono all’istante e il freddo sembrava riempirmi l’apparato respiratorio di spilli. Ci vennero incontro alcuni uomini, che parlarono in arindo, erano in troppi a parlare e afferrai qualche pezzo qua e là. Cercavo di afferrare cosa dicessero a Dahaljer, ma era troppo distante e coperto da altre voci. Si voltò a parlare con Layo, mi lanciò un’occhiata corrucciata e si allontanò con cinque persone.
Il cuore iniziò a battermi forte, congelata sotto la neve, iniziai a battere i denti. Pasha mi chiamò da lui e per un attimo cercai di tranquillizzarmi; quando mi disse di seguire Sarèm, tornai a battere i denti, se possibile, più forte di prima.
L’uomo era così imbacuccato che potevo vederne solo gli occhi, tra il grigio e l’azzurro. Mi spinse davanti a sé e mi fece camminare lungo il giardino, mentre la neve si depositava senza sosta sui nostri vestiti e le ciocche dei miei capelli che uscivano dalla coperta.
Camminammo per un quarto d’ora buono, nel buio. Ignoravo dove stessi mettendo i piedi, fino a che non sentii del pavimento duro sotto le scarpe. Sarèm aprì una porticina e mi fece entrare. Tirai un sospiro di sollievo sentendo che dentro l’aria era più calda.
«Seguimi», disse a bassa voce.
Lo seguii per diversi corridoi e per delle scale in discesa; lui aprì e richiuse diverse porte. Non potei fare a meno di notare che più scendevamo più le pareti cambiavano consistenza.
Le ultime erano di pietra massiccia, nera e molto levigata. Ricordai che Ahilan mi aveva detto che le prigioni del castello di Praha erano le uniche mura antiche, ante ’12. C’era una luce soffusa e immaginavo che là sotto per gli occhi di un Umano sarebbe stato quasi buio pesto. Deglutii, pensando di essermi considerata tale fino a poco tempo prima.
ammo davanti a una guardia di cui individuai una sorta di curiosità e sottomissione nella mente. Sarèm gli fece un cenno col capo e mi condusse in un lungo corridoio, sui cui lati a destra e sinistra c’erano diverse porte di ferro battuto.
Ne aprì una e mi spinse dentro. «Trovi dei vestiti, da mangiare e un bagno solo per te, principessa. Approfittane, potrebbero ripensarci.» Mi chiuse dentro senza aggiungere altro, girando più volte la chiave.
Mi guardai intorno. Una stanza di tre metri per tre, dalle pareti grigie e uniformi, una luce blu sopra alla porta era il massimo dell’illuminazione. C’erano un tavolino, senza sedia, un materasso buttato a terra e accanto una ciotola con una minestra.
Sul letto erano piegati una felpa e dei pantaloni di una tuta. Dietro a una parete di legno c’era un bagnetto. Rimasi immobile per qualche minuto e alla fine decisi di cambiarmi i vestiti. Tutto sommato non faceva così freddo e non mi nevicava addosso.
Mi sciacquai il viso e provai a lavarmi, ma l’acqua era fredda e non riuscii nell’intento. Anche la minestra era fredda, e dal sapore forte. La toccai appena. Poggiai le coperte bagnate sul tavolino e mi sdraiai sul letto, rannicchiandomi e cercando di muovere le dita congelate dei piedi.
Non ho idea di quanto tempo dormii, mi svegliai quando qualcuno mi ò un altro piatto di minestra bollente, acqua e un pezzo di pane, da una finestrella sotto la porta, che in un primo momento non avevo notato.
«Ehi?» chiamai. La mano si ritirò prima che potessi dire altro e sentii i i allontanarsi, non avvertivo la presenza della persona che aveva infilato dentro il braccio. Mangiai la minestra con una certa foga, per quanto avesse un sapore troppo forte per me, la finii tutta, mi sentii riscaldata e provai a lavarmi, con più successo.
Mi cambiai e notai che l’altro pasto non c’era più e le coperte erano state cambiate con altre, asciutte. Qualcuno era entrato e io non me ne ero neanche accorta. Indossando gli abiti che avevo trovato, mi percorse un brivido sulla schiena a quel pensiero.
Non faceva molto freddo, ma era molto umido in quel posto. A tratti provavo momenti di panico, per la situazione e per il senso di claustrofobia. Non c’erano finestre e l’aria entrava da un paio di bocchettoni posti sul soffitto. Il silenzio era assordante, mi domandai se ci fossi solo io.
Veniva qualcuno due volte al giorno, o almeno credevo fossero due volte al giorno, mi portava da mangiare e bere e si faceva ridare le altre ciotole. Provavo a parlarci, a fare domande, nessuno mi rispondeva, riuscivo a individuare solo una sorta di ostilità e non ci riuscivo sempre, come se non fosse sempre la stessa persona e quella che non avvertivo, non doveva essere una Tigre.
Iniziai a non dare indietro le ciotole per far sì che qualcuno entrasse a prendersele, tutto ciò che mi dissero è che sarei morta di fame se non gliele avessi ridate. Risposi che ne sarei stata felice.
Ed era vero.
Dentro a quelle quattro pareti fredde, stavo iniziando a impazzire. Avevo troppo tempo per pensare, per farmi domande a cui non avevo risposte e per pensare a Nilmini, per pensare Dahaljer. Troppo tempo per pregare e chiedere perdono e troppo per maledire e imprecare. Troppo per biasimarmi e troppo per inveire contro il mondo intero. Il silenzio assoluto mi lacerava i timpani e la luce blu fissa sulla porta si concentrava al centro del mio campo visivo per ore come se avesse il potere di ipnotizzarmi e, stregandomi, mi teneva incollata a sé. Dovevo sbattere la testa al muro per distogliere l’attenzione e spesso ricadevo in quella
sorta di trance, appena voltavo il capo.
Mi ero tolta le scarpe e mi sorprendevo a osservare il cerchietto di ferro sulla caviglia e a cercare un modo per riuscire a romperlo. Provai con tutto ciò che avevo a disposizione, compreso il cucchiaio, il sapone per renderlo più liscio e la parete di roccia, dove iniziai a sbattere il piede, come se non fosse stato mio.
Ignoravo se fosse razionale o meno: anche se fossi riuscita a trasformarmi, non sarebbe servito a nulla; diventò lo stesso un’ossessione. Se non pensavo ad altro, dormivo o mangiavo, ero attratta da quel cerchietto, che volevo aprire a tutti i costi.
Quando si accorsero che oltre a non dargli le ciotole stavo anche tralasciando di mangiare, iniziarono a preoccuparsi. Lo sentivo nella loro mente. Non erano preoccupati per me, lo sapevo, erano preoccupati di quello che sarebbe successo a loro, se io fossi morta. Era una preoccupazione egoistica la loro, eppure ne ero felice. Una felicità strana. La disperazione porta a essere felici del danno altrui, a scapito della propria lucidità.
Sotto questo effetto, pensai di provare a rompere il mio cerchietto con del vetro e ruppi un bicchiere sbattendolo a terra. Si frantumò in più pezzi e io ne presi uno a mani nude strusciandolo sul ferro, nella improbabile speranza di segarlo. Non badai al dolore, né al sangue che usciva dalle mie mani, né alle lacrime che si sciolsero sul mio viso. Imprecai contro le Tigri Bianche, i Lupi Grigi e tutto il genere Umano. Imprecai contro i miei genitori, le prigioni e Dahaljer, con tutta me stessa, ad alta voce.
Non so cosa si potesse dedurre del mio stato d’animo di quel frangente, non me lo chiesi in quel momento, quando un ragazzino entrò nella mia cella, con il viso preoccupato puntandomi una pistola contro. «Che diavolo state facendo,
signora?» L’arma gli tremò nella mano.
Fuori c’era più luce e io sbattei le palpebre. Rimasi immobile a guardarlo, aveva al massimo sedici anni. Mi fissò sbigottito spalancando la bocca e corse via, non prima di aver chiuso la porta a più mandate. Lasciai i pezzi di vetro cadere a terra, rannicchiandomi sul letto contro la parete e mi guardai le mani insanguinate e i tagli sulle dita, sul palmo della mano destra e sulla caviglia.
Non fu il liquido rosso e viscido a farmi tremare, bensì la totale assenza di dolore.
21
Non so quanto tempo fosse ato, quando sentii dei i avvicinarsi, potevano essere minuti, giorni, anche anni. Mi riscossi avvertendo una preoccupazione netta non mia.
Sapevo chi fosse prima che entrasse.
«Dove diavolo eri?» tentai di urlare e dalla voce mi uscì un suono stridulo e querulo.
Non era solo. Si avvicinò a me e senza dire niente, senza provare niente, mi prese le braccia e mi aprì lentamente le mani, che iniziarono a formicolare. Con lui c’erano il ragazzino di prima e un uomo, si rivolse a quest’ultimo in arindo, gli disse di portare delle bende e qualcosa che non capii.
Quando rimase solo il ragazzino, la sua preoccupazione, il suo senso di colpa e il suo amore mi colpirono come uno schiaffo. Non saprei dire come sia possibile che l’amore colpisca come uno schiaffo. Non è possibile forse, o forse non è possibile in condizioni normali. Quelle non lo erano.
“Shay”, disse mentalmente.
«Oh, Dahal…» mormorai tra le lacrime.
“Non parlare ad alta voce. Ora lui non può sentirci.”
Era vero, il ragazzino non aveva l’età per comprendere l’uso della comunicazione telepatica e non aveva, e forse mai avrebbe avuto, la gerarchia per sentirci parlare.
“Shay”, continuò “Non farti questo, per favore.” Sciacquò una delle ciotole con l’acqua e la riempì, mettendoci dentro le mie mani tagliate.
“Dov’eri, Dahal? Sto impazzendo, sto impazzendo davvero.”
“Lo so. Perdonami.” Tolse il sangue dalle mani e dalle braccia e osservando la pelle pulita analizzò i tagli. “Non ero qui fino a ieri e prima di ora non potevo venire. Non potevo neanche ora, a dire il vero.” Tirò fuori una mano e con le sue dita prese una scheggia di cui non mi ero neanche accorta. “Mi dispiace davvero.”
“Perché?”, chiesi solo.
Rimise la mano sanguinante nell’acqua, che si era fatta rosata. «Tal», disse in arindo rivolto al ragazzino. «Prendi una scopa e vieni a pulire questi vetri.» Tal annuì e uscì; non riuscivo a leggere tra i suoi sentimenti per via della sua età.
Ahilan appoggiò la ciotola a terra accanto al materasso e mi baciò una tempia. «Il re è al fronte e nessuno vuole farti uscire da qui. Neanche il Consiglio
Superiore. Aspettano di parlarne con Tagron, non sanno come comportarsi con te e non ti nego che qualcuno abbia paura di te.»
Dalla bocca mi uscì una mezza risata di disperazione. «Paura», ripetei perplessa.
Lui si allontanò un poco e mi fece cenno di fare silenzio. Sentimmo entrambi arrivare l’uomo di prima. Egli porse delle bende e dell’acqua ossigenata a Dahaljer, che me la mise sulle mani e la caviglia. Mi bendò il palmo della mano destra, in silenzio, e sospirò. L’uomo mise dei vestiti piegati sul tavolino, che traballò.
Tal tornò a pulire i vetri, poi uscì fuori con l’altro uomo. Ahilan si alzò. «Tornerò domani. Non fare stupidaggini.» Non aggiunse nient’altro, non sentii nulla, nel suo sguardo ò solo un velo di preoccupazione.
Abbassai gli occhi e annuii.
***
Mi portarono un brodo di carne e l’acqua in un piatto e in un bicchiere di plastica. Dopo mangiato, sciacquai i capelli con il sapone e mi rimase in testa un cespuglio nodoso, che quando si asciugò pareva secco. Se non altro profumavano. Mi tolsi i vestiti sporchi di sangue e li accantonai da una parte. Quelli nuovi erano troppo grandi per me. Il sopra era una maglietta enorme, felpata e morbida, mi arrivava poco sopra le ginocchia, immaginai che dovessero appartenere a un gigante. I pantaloni, della giusta lunghezza, erano troppo larghi e mi scendevano giù, alla fine li tolsi e li gettai a terra con un calcio, frustrata. Rimasi con il sopra. Pregai che domani arrivasse presto, ma quando domani deve
succedere qualcosa, domani arriva sempre dopo troppi giorni!
Contai i pasti. Erano tre quando Dahaljer tornò indietro, sebbene mi sembrasse ata una settimana, doveva essere davvero il giorno dopo.
Entrò chiudendo la porta a chiave dietro di sé, si voltò inclinando il viso, pensieroso, mentre la luce blu gli illuminava i capelli da dietro, come avesse un’aura elettrica sul capo. Ero nella posizione in cui mi aveva lasciata, forse pensava che non mi fossi mossa da quel punto. «Shay, alzati per favore», mi ordinò con dolcezza.
Controvoglia, ubbidii.
Mi squadrò con attenzione, indugiando sulle mie gambe nude e infreddolite. «Dicono che mangi poco», disse. «Non pensavo che ti avrebbero messa qui, e di sicuro non è un posto per te, ma cerca di mangiare.» C’era una strana tensione nella sua voce e immaginai che sapesse qualcosa che io, invece, non sapevo.
Mi sentii in soggezione. Ero al centro di quella piccola stanza, stanca, con i capelli arruffati, una mano bendata, una vecchia felpa sproporzionata addosso, con le gambe gelate e probabilmente l’espressione di una che stava per impazzire. Arretrai di un paio di i, fino a incontrare il tavolino. Afferrai il bordo con le mani, come se potessi cadere da un momento all’altro. Dio, com’erano dolci i suoi sentimenti e come erano fuori luogo. Stava dicendo che avevamo un’ora e mezza, che aveva mandato le guardie a mangiare, che potevamo parlare di ciò che volevo, che avrebbe risposto a tutto e chiarito tutto. Avrebbe risposto a tutte le mie domande e non mi sarei dovuta preoccupare, almeno per quel poco di tempo che ci era concesso.
Dolci come il miele, pensai. Un cucchiaino di miele gettato nel fango.
«Mi stai ascoltando?» Si fermò davanti a me, mentre facevo quei pensieri e mi guardavo i piedi. «Shay, guardami», sussurrò.
Sollevai il viso e gli cinsi il collo con le braccia, stava dicendo qualcosa, non so cosa, ma lo baciai.
“Shay…”
“Per favore…”
“Shay.”
“Per favore!”
Non lo so come successe, successe e basta. Feci tutto da sola, questo lo so. Almeno all’inizio. Credo che fosse la prima volta che lo vedevo impacciato nei movimenti. Nella sua mente rimbombava il mio per favore e fu con quello in testa che facemmo l’amore su un tavolino traballante di una prigione di altri tempi.
Dopo lo tenni stretto, forte per qualche minuto, respirando il profumo fresco dei suoi capelli, poi lo allontanai da me e lo guardai.
«Stai diventando pazza qui dentro, vero?» domandò tra il preoccupato e il divertito.
«No.» Era la prima cosa che dicevo ad alta voce, da quando era entrato; schiarii la gola. «Sto impazzendo, sì», mi corressi «ma volevo te. Voglio te.» Scesi dal tavolino, facendo cadere giù la felpa. «Dahal, prego Dio che tu sia reale, prego Dio che quello che tu provi sia reale. Perché in questo momento mi sto aggrappando a questo, posso aggrapparmi solo a questo.» E mi aggrappavo anche in quell’istante, perché il suo cuore batteva e io lo sentivo. Poi la paura ò tra i suoi pensieri e feci un o indietro, di nuovo contro il tavolino. «Lo so», mormorai, «so che non puoi, che non è facile, io…»
«Shay», mi interruppe. «Aggrappati, se serve a farti rimanere in vita.» Mi prese la mano sinistra e la strinse. «Resisti quanto puoi e… prega il tuo Dio di darci una vita più semplice.»
«Oh…»
«Domani tornerà Tagron. Sono già partiti. Per prima cosa vuole vederti», mi informò.
Mi strinsi nelle spalle.
«Dì quello che senti, digli quello che vuoi e chiedi quello che vuoi. Deciderà come meglio crede lui e anche il Consiglio, ma almeno sapranno che non menti.»
«E tu?»
Scosse appena la testa. «Non sarò presente.»
«Cosa dico di te?»
«Niente.» Sorrise come se avesse di fronte a sé una bambina. «Il panico che ti prende quando cerchi di mascherarlo, coprirà tutto il resto.» Mi attrasse a sé, guardandomi negli occhi. «Tagron è furbo, crudele e non si farà fregare da te, non tentare di farlo. Ti tratterà bene.»
Feci una smorfia. «Stai parlando dell’uomo che ti ha fatto da padre per tanti anni?»
«Proprio lui», ribatté senza inflessioni.
Avevo troppo da dire o da ridire e alla fine non dissi nulla.
Lasciandomi, si sedette sul materasso a terra e mi misi accanto a lui, stringendomi le ginocchia. «Nilmini e Khaled dove sono?»
«Sono qui, chiedi a lui di incontrarli. Stanno bene. Hanno chiesto spesso di te. Davvero, stanno bene.» Mi accarezzò i capelli con una mano. «Sul confine c’è
guerra aperta. Da due settimane a questa parte, la situazione è precipitata. Lupi e Tigri fanno uso di armi da fuoco, se non possono arrivano al corpo a corpo, nessuno di loro fa prigionieri.» Rabbrividii e lui mi strinse.
Appoggiai la testa sul suo petto e regolai il mio respiro sul suo. Il silenzio della mia prigione era rotto dal battito costante che udivo scaturire dal suo corpo.
Il suo mento sfiorò il mio capo. «Forse il mondo doveva davvero finire nel duemiladodici…»
Sollevai lo sguardo, stupefatta. «Sì, sarebbe stato meglio», convenni. «Secoli e secoli di storia non ci hanno insegnato niente, eh?»
«No. Ma puoi combattere per la tua di storia.»
Non ci credevo.
«Le Tigri vogliono la democrazia e non rinunceranno facilmente, non lo hanno mai fatto.»
«La democrazia?» chiesi scettica. «La democrazia è un eufemismo in un mondo di monarchia, anzi di dittatura. Una doppia dittatura, la vostra e la loro.»
Mi aspettavo che si opponesse, che mi dicesse che non sapevo di cosa stessi parlando, invece annuì. «Sì, è una dittatura e sarà difficile cambiare il mondo.
Ma se riusciamo a destabilizzare il potere dei Lupi, forse riusciremo ad aprire una breccia e magari un domani anche gli Umani ne trarranno beneficio.» Mi lanciò un’occhiata.
«Come no?» esclamai sarcastica.
Piegò il mento e mi scrutò. «Come pensi di cambiare il mondo se neanche ci credi?»
«Come posso credere a un’utopia?» ribattei, gelida.
«Un tempo in alcuni Paesi la democrazia esisteva. Non era un’invenzione fantastica, c’è stata nella realtà. Non era un’utopia.»
«È durata troppo poco e in troppi pochi Paesi per essere meno di un’utopia», obiettai.
Mi sfiorò le ginocchia nude con le dita e guardò l’orologio al polso. «Shay, non importa se pensi di non poter cambiare il mondo. Promettimi, però, che tenterai di cambiare il tuo. Puoi farlo?»
Fissai i suoi occhi profondi. «Tu lo hai fatto?»
«No», ammise con sincerità.
Mi uscì un sorriso amaro. «Devi andare, soldato?»
Annuì appena. «Promettimi di provarci.» Si alzò. «E… un’altra cosa, promettimi di metterti il sotto dei pantaloni per quando verranno a prenderti», aggiunse, osservando le mie gambe.
Mi fece ridere. Mi alzai anche io e lasciai che prendesse la mia mano bendata e la baciasse. «Dahal, prometto solennemente di provarci.» Mi avvicinai un poco. «Ma non posso prometterti di indossare quel sacco informe che tu chiami pantaloni.»
Mi pizzicò una coscia. «La mia signora ama il rischio.»
«La tua signora ama la vita tranquilla e un mondo giusto accanto alle persone care», risposi ridendo.
«Solo questo ama la mia signora?» Mi sfiorò le labbra con un bacio.
Avrei potuto piangere per quanto il mio cuore era pieno di lui. E lo feci.
«Shay.» Parve stupito, immagino che le mie lacrime, tremule sul bordo degli occhi, gli dicessero una cosa e i miei sentimenti un’altra. «Felicità?» domandò. Chi non ha mai pianto di felicità non può comprendere quanto dolce e incontenibile sia il suo frutto.
«Miele…» risposi.
«Miele?» Apparve ancora più sorpreso.
«Sì, miele… nel fango.»
22
Avevo i pantaloni quando venne Tal a prendermi il giorno dopo. Non disse nulla, tranne di seguirlo. Immaginavo che il posto fosse un castello grande, non pensavo ci avrei messo ben venti minuti per arrivare dove voleva portarmi.
Il buio soffocante dei corridoi sotterranei si stemperò pian piano nella luce del giorno, nei colori tenui delle pareti, nelle rifiniture d’oro dei ghirigori lungo il soffitto. «‘E quindi uscimmo a riveder le stelle’», mormorai nella mia lingua. Prima o poi potevo arrivare in paradiso, forse ando per il purgatorio.
«Questa è la vostra stanza, principessa», mi informò aprendo un’anta color verde pastello, decorata con fiorellini beige, poi mi fece entrare e mi chiuse dentro, girando la chiave nella serratura.
«Fantastico», borbottai tra me. Una stanza grande, lussuosa, un letto a baldacchino, tre finestre, tre armadi, un lampadario di altri tempi, ma di nuovo chiusa a chiave.
Non sapendo cosa dovessi fare, cominciai a guardarmi intorno. Non avevo mai visto un posto così, sbirciai fuori dalla finestra e vidi un giardino pieno di neve. Il cielo era plumbeo e immobile, nonostante dovesse ormai essere estate.
Voltandomi notai che c’era un televisore.
Quella fu una bella scoperta. Un televisore. Cominciai a girarci intorno e a tentare di farlo funzionare. Senza riuscirci. Mi arresi e mi gettai sul letto, analizzando gli intagli del baldacchino.
Qualche minuto dopo, la porta si aprì e una ragazzina dell’età di Tal, mi fece la riverenza. La guardai imbarazzata.
«Ehm, ciao», dissi.
«Vostra altezza, ho l’ordine di lavarla e vestirla.»
«Lavarla?» Scoppiai a ridere.
Lei mi guardò sorpresa.
Mi alzai dal letto e mi avvicinai. «La sai la mia storia?»
Guardò in basso, unendo le mani. «Un po’.»
«Bene, allora saprai da dove vengo e potrai immaginare che mi laverò da sola.»
Non potevo vederla in volto, ma capii che stesse arrossendo. «Io…»
Mi avvicinai. «Come ti chiami?» le domandai.
Tirò su il mento. «Karin, altezza.»
«Karin, senti, io non so neanche bene perché stia qui. A ogni modo, non chiamarmi altezza, ero giù nelle prigioni fino a qualche minuto fa.» La guardai, aveva i capelli rossi, gli occhi grigi e le lentiggini sul naso, mi chiesi se avessi mai visto le lentiggini dal vivo, prima di allora. Una sottile linea era disegnata tra la sue sopracciglia, corrucciate. «Shayl’n, puoi chiamarmi Shayl’n, anzi, devi.»
Non rispose.
«Karin, accompagnami al bagno, poi tu rimani fuori e io farò quello che devo fare. Ok?»
Non si mosse.
Misi le mani sui fianchi. «Karin?»
«Sì, vostra altezza?»
Sbattei le palpebre. «Mi accompagni alla porta del bagno?»
«È quello, vostra altezza.» Indicò una porta in fondo alla stanza, accanto a un armadio.
«Oh», feci. «Va bene, mi era sfuggito.» Mi grattai la testa. Immagino che la scena fosse molto comica o per lo meno a me faceva ridere. «Bene, allora.» Indicai la porta con il pollice. «Allora, io vado, mi aspetti qui?»
«Vengo con voi, vos…»
«No!» Sospirai. «Karin, tu rimani qui, io mi faccio una doccia veloce e poi esco e mi aiuti a… non so, vestirmi, a fare due chiacchiere. Va bene?»
«Come desiderate», rispose titubante, spostando gli occhi da me alla porta del bagno e poi di nuovo su di me. Trovai la cosa curiosa e trattenni un altro sospiro.
Entrai in bagno e chiusi la porta. «Come desiderate», ripetei a bassa voce. Mi veniva di nuovo da ridere.
Mi voltai e mi venne ancora più da ridere e, se fossi stata sicura di non essere sentita, l’avrei fatto. Un bagno grande quanto tre stanze della creche, bianco e oro, una vasca dove potevano entrare due persone comodamente o addirittura tre, specchi ovunque. Appoggiai le spalle alla porta e lo contemplai.
A terra c’era un tappeto morbido color crema che avevo già sporcato con i miei anfibi. C’era un’altra televisione. Io che avevo voluto per tanto tempo una cosa irraggiungibile, come un televisore, adesso ne avevo due, di cui uno in bagno, un bagno tutto mio. Non era il paradiso, perché non ero ancora stata in purgatorio, lo sapevo.
Profumi, creme e oli profumati erano ovunque. Rimasi sotto l’acqua calda almeno tre quarti d’ora, lavandomi con meticolosità e provando la metà dei prodotti che erano dentro quella stanza. Poi Karin bussò. Alzai gli occhi al cielo. «Vengo, vengo.»
Con un accappatoio candido la raggiunsi nell’altra stanza. Ancora più perplessa di prima, la ragazza mi osservò accigliata. «Posso asciugarvi i capelli, vos…»
«Sì, va bene», la interruppi con un tono più sgradevole di quanto volessi. «Va bene, Karin, asciugameli tu, vieni», aggiunsi più affabile.
Rimanemmo in silenzio, mentre lei si dava da fare con phon e spazzole. Non avevo mai avuto i capelli così lindi, setosi e ben pettinati in tutta la mia vita. Karin si muoveva veloce e silenziosa e io mi persi nei miei pensieri. Pensai a Dahaljer, mi sarebbe piaciuto averlo con me in quel momento. Pensai anche a Nilmini e Madre Brìgit, e tutti gli abitanti della creche, sarebbe stato interessante far vedere loro quella stanza. Uno so.
Karin mi condusse nuovamente in camera e mi fece vedere una serie di vestiti, lunghi e pomposi. Dissi a tutti di no. «Non c’è qualcosa di sportivo? Di più semplice?»
Karin scosse la testa. «Questo dovete scegliere. Re Tagron è stato categorico, è lui che andate a incontrare tra un paio d’ore.»
Sospirai. «Oh, beh, allora…»
C’erano tanti bei vestiti, con dei colori molto belli, scelsi l’unico che non fosse troppo vistoso, come modello e come colore. Ne presi quindi uno verde, il colore del muschio, come i miei occhi, così aveva detto una volta qualcuno, sebbene quando in seguito scoprii quale fosse il colore del muschio, pensai che fosse lontano dal colore delle mie iridi.
Maniche lunghe, tessuto vellutato e una gonna non troppo ampia, che si allargava un poco sotto il corpetto. Non avevo mai indossato un vestito così, mi osservai più volte nello specchio, senza riconoscermi.
Karin si diede da fare con lampo, fili, capelli, orecchini e collane, che con suo grande rammarico non indossai.
Nonostante tutto, alla fine parve soddisfatta. «Siete bellissima», mormorò.
Accennai a una riverenza, come avevo visto fare a Salina, per ringraziarla, e lei diventò rossa.
Alle sei del pomeriggio Karin mi aveva portata in una sala lunga con un tavolo altrettanto lungo, di legno lavorato, color ebano. Ogni posto aveva una penna, un blocco di fogli e un microfono dorato.
Sulla parete di sinistra vi erano una serie di quadri incomprensibili. Schizzi di rosso e blu su uno sfondo bianco che si intrecciavano tra loro in modi diversi in ogni tela. Sulla parete di destra vi era un'unica lunga finestra, che affacciava sulla città. Stavo contemplando palazzi e grattacieli coperti di neve fuori dalla finestra con una certa ansia, quando entrò qualcuno che tossì appena per farsi notare. Mi voltai.
«Sua altezza, il re Tagron Toivainen della dinastia Minse di Danubie», preannunciò a gran voce. Fu così che entrò il famoso re dei Tiouck che dovevo conoscere.
Non saprei dire cosa mi aspettassi, forse un uomo vecchio, paffuto, e dall’aria severa, vestito da gentiluomo del Rinascimento, con i baffetti pettinati all’insù e un moschetto alla cintola. Entrò un uomo alto, che dimostrava quarantacinque anni invece che sessanta, snello, dalla faccia furba, accattivante, con un pizzetto castano chiaro intorno alla bocca e vestito in giacca e cravatta.
In un’altra occasione avrei riso. Il cuore mi batteva forte nel petto e rimasi impalata dove mi trovavo. Mi raggiunse con i decisi, mi fece l’inchino e mi porse la mano. Allungai la mia, priva di benda, e con un taglio ben visibile sul palmo, guardandolo come un’idiota.
«Shayl’n Til», esordì con un sorriso mozzafiato. «Siete di una bellezza sconvolgente.»
Sbattei le palpebre, senza riuscire ad allentare la tensione. Nel suo corpo percepivo curiosità e comando. Questo non lo avevo mai sentito. Comando: percepire il comando è una cosa davvero strana, un misto tra sicurezza,
determinazione e aggressività.
«Finalmente riusciamo a conoscerci. Gradite qualcosa?» Parlava la mia lingua senza esitazioni.
Continuai a fissarlo, impacciata.
Sollevò un sopracciglio divertito, come facevo io, e ricordai che eravamo parenti. Ahilan mi aveva detto che non potevano leggere il pensiero, ma lui indovinò. «Sei mia nipote», disse con meno enfasi. «E, se possibile gradirei sentire la tua voce, mia cara.»
«Sì, io… mi scusi. Io…», biascicai.
Lui fece un sorriso sornione. «Deve essere emozionante conoscere la tua vera famiglia, moya lyubov.» ‘amore mio’ un corno, pensai.
«La mia vera famiglia è rimasta a Roma», ribattei in modo brusco. «E una parte di essa è qui, in qualche posto. Non mi è stato ancora detto dove.» L’accusa era poco più che velata.
Continuò a sorridere e fece un o indietro. «Oh, la bambina dice di essere tua figlia.»
Spalancai gli occhi per lo stupore e Tagron si fece una grossa risata. «Della
verità di una famiglia parleremo un'altra volta.» Spostò una sedia. «Prego.»
Mi sedetti, attenta a non rovinare il vestito, senza riuscire a poggiare la schiena per l’agitazione. Anche lui si mise a sedere, a capotavola, accanto a me. «Shayl’n Til», pronunciò il mio nome come se lo stesse gustando sulla lingua. «Prima di tutto perdonami per il trattamento che ti è stato riservato fino a oggi. Non ero qui ed è stato difficile coordinare la tua presenza al castello.» Stava mentendo, ignoravo su cosa e ignoravo perché avessi accesso a quella verità, tuttavia ne ero certa come se me lo avesse detto. «I Lupi Grigi non hanno buona fama da noi.» Mi strizzò l’occhio. «Nonostante questo piccolo inconveniente, spero che ora ti abbiano sistemato in una camera confortevole e degna del tuo sangue blu.» Fece una pausa, non avendo risposta continuò. «Non so cosa ti sia stato detto fino a questo momento, né cosa abbia detto tu.» Fece un cenno all’uomo che lo aveva annunciato e che sparì fuori la sala. «Con tutta onestà, non mi interessa. Sei figlia di Maliak, figlio di Taon, mio zio e diretto discendente della corona, che ha ceduto il trono per sposare un’Umana. E sei figlia di Caroline, figlia di Belden Monreau Harvey, della dinastia Erdreè, attuale monarca dei Bamiy.
Sei un improbabile incrocio di Razze e sangue reale, il caso, o la stupidità di qualcun altro, ha voluto che tu fossi la legittima erede di due diverse dinastie, due diverse Razze, che non sanno come conciliare le loro terre e i loro poteri.»
«O non vogliono…» commentai, gelida.
Lui appoggiò il mento sulla mano, avvicinando il viso al mio. «Ti hanno mai detto che sei una bellissima donna, moya lyubov?»
Dahal… Indifferenza. Indifferenza. Paura.
«Qualcuno.»
Mi osservò a lungo, mentre fissavo le mie mani sul tavolo. Paura. Indifferenza. Paura.
«Ad ogni modo», riprese appoggiandosi con lentezza allo schienale «questi sono i fatti. Come certamente saprai, la nostra piccola porzione di mondo è sotto le leggi dei Bamiy, a noi Tiouck spetta una parte di tale mondo, che abbiamo conquistato con il sangue. I Bamiy sono così avidi da non volercela lasciare, vorrebbero avere tutto. È per questo che stiamo lottando. Negli ultimi cento anni, abbiamo visto alcuni ribelli scontrarsi con le forze armate Bamiy, negli ultimi anni però sono stati loro ad attaccare noi, forzando tutti i confini, per cercare di metterci a tacere tutti quanti. Trovi che sia giusto?»
Lo squadrai. Vorrei solo parlare di noi, di me e te. Ritengo che non sia giusto dover sottostare alle scelte di qualcun altro su di noi. Non risposi.
Mi sfiorò una mano con le dita e io mi irrigidii. «Shayl’n, capisco che sia difficile per te: sei vissuta con gli Umani per così tanto tempo senza sapere nulla di te e della tua storia. Ma ora la sai. Tuo nonno non sa nulla di te, ti ucciderebbe forse, come ha fatto con tua madre. È stato stupido da parte sua, avrebbe potuto sfruttare questo fatto a suo favore, invece non ha pensato, e ora si trova senza eredi, senza eredi diretti.»
«Voi avete fatto la stessa cosa, però, con Teon», obiettai.
«Non è la stessa cosa, lui se ne è andato di sua spontanea volontà.»
«Questo perché la legge non gli permetteva di sposare una donna Umana e di avere il trono.»
«Sì, era la legge a dirlo», ammise con un'alzata di spalle.
«E chi le fa le leggi, se non voi?»
Eluse la mia domanda con un gesto della mano. «Il punto è che io non ho altri eredi, l’unica che mi era rimasta, l’hai vista morire tu. Non voglio fare l’errore di Belden, voglio darti la possibilità di essere trattata come devi, come una principessa, futura regina.» Strinse gli occhi. «Vorrei recuperare su quanto non hai avuto per tanti anni, qui al palazzo puoi avere tutto.»
«Perché?» chiesi.
«Perché sei mia nipote.» Ostentò un’aria dolce; ora non riuscivo a sentire nulla di quello che provava davvero, solo comando.
«Se non lo volessi? Se volessi tornare a casa? La mia vera casa.»
Sogghignò. «Oh, Shayl’n Til, sei molto divertente. Casa tua è qui, o al massimo è a casa di Belden Monreau Harvey, e io sono abbastanza furbo da non lasciare che lui ti uccida, o peggio che capisca la portata del tuo potere. Il tuo potere di
sangue, quello che scorre nel tuo corpo e nella tua mente. Tu puoi leggere le emozioni di entrambe le Razze e sei abile nei movimenti come un nostro soldato allenato da anni, e hai autorità per natura. Le Tigri ti ascolteranno perché sei sangue reale e i Lupi, ah, i Lupi, almeno alcuni di loro, faranno lo stesso.»
«Se ho il potere di cui sta parlando, cosa le dice che accetterò di rimanere qui?»
«Nilmini.»
Paura.
Sorrise, conscio e soddisfatto di aver colto il mio punto debole. «Principessa, potrai vedere la bambina quando vuoi, non le sarà toccato un capello; ma se tu andrai via, non sono sicuro di poter mantenere questo stato delle cose. Non sono certo ti sia facile portarla via; se, tuttavia, dovessi riuscirci, risparmierò la tua vita, non la sua. E lo stesso vale per il bambino, che potrai vedere a giorni, ma non sarà qui, li terrò separati, per precauzione.» Un’espressione compiaciuta dipingeva il suo volto. «Shayl’n, potrai fare ciò che vuoi, davvero. Farò in modo che tu venga trattata come una principessa, ti insegneranno a esserlo, nei modi e nel pensiero, e sebbene non sia mai stato fatto prima d’ora con una donna, se lo vorrai, ti farò addestrare a combattere. Sarai libera di andare dove vuoi, qui a Praha, sarai libera di trasformati, se lo credi giusto o necessario. Ma non ti lascerò andare da nessuna parte. Mi servi qui e, quando lo dirò io, mi servirai al fronte.»
«È una prigione», replicai in modo asciutto. «Anche in questi termini.»
«Oh, no. Lo sarà se la sentirai così, ma è casa tua e così dovresti considerarla,
tytär.»
Risi con amarezza. «Lei è un pazzo, nessuno l’ha mai detto?»
«Per comandare bisogna essere pazzi. Il comando è puro e vero, forte e risolutivo, solo se si è un po’ pazzi. E se non lo sei, lo diventi, o non comanderai mai. Il sangue Umano, da cui siamo stati forgiati, complica di molto le cose, moya lyubov.» Nei suoi occhi ò uno sguardo felino, che brillò di un azzurro intenso macchiato d’argento.
Nella sala fu annunciato il Consiglio Superiore: era composto di undici membri, di cui due erano donne. Credo che gerarchicamente fossimo a un livello simile; nonostante questo non riuscivo a percepire le sfumature che sentivo in Dahaljer. Sentivo sottomissione e nello stesso tempo sicurezza.
Mi fecero un sacco di domande, su come mi chiamavo, dove vivevo e con chi. Tutte cose che già sapevano. Mi chiesero se avessi figli, se avessi contratto matrimonio e se avessi mai avuto rapporti sessuali. Negai. Forse avevano potuto cogliere la negazione, ma se mi avessero chiesto con chi, sarebbe stato ancora più difficile mentire.
Illustrarono tutta la discendenza reale delle Tigri Bianche, dal ’12 fino a quel momento e poi quella dei Lupi Grigi, sciorinando una serie di nomi che non avrei mai ricordato. Illustrarono su lavagne luminose come fosse il palazzo reale, guardandosi bene dal parlare delle uscite. Spiegarono in maniera piuttosto dettagliata la situazione del conflitto, dove erano le diverse linee del fronte, quali terre avevano perso e quali conquistato. Le armi usate, quelle ordinate e quelle che stavano cercando di fare.
A quel punto non li seguivo più. Li osservavo parlare e discutere di tanto in tanto tra loro. Avevano un età che variava dai trenta ai sessant’anni, carnagione per lo più chiara, tranne per un uomo dalla carnagione scura come l’ebano che faceva risaltare i suoi occhi grigi, particolare che mi incuteva una certa ansia.
Gli uomini erano vestiti in giacca e cravatta, le donne, con abiti come il mio. Parlavano in iuropìan, forse perché ero presente io.
Non persero comunque tempo a dirmi i miei doveri, cosa dovevo studiare, quali comportamenti avere, come e quando dovevo farlo, compreso il come e il quando vedere Nilmini. Non ribattei a nulla e loro non mi chiesero di ribattere. Tagron diceva la sua opinione raramente, per lo più li guardava compiaciuto.
Non ero sicura di sapere di cosa stessero parlando quando conclo dicendo che ci sarebbe stata una festa in mio onore da lì a dieci giorni. Strabuzzai gli occhi, perplessa. «Una festa?»
«Sì, e per allora dovrete essere pronta, altezza.»
La riunione si concluse in questo modo.
23
Un uomo che non conoscevo mi accompagnò alla mia stanza senza dire una parola.
Dentro c’era una tavola imbandita solo per me, e Karin che mi aspettava, mostrando appena un senso di disagio. Non riuscii a mangiare e mi buttai sul letto.
«Dovreste mangiare, altezza», si preoccupò subito lei.
Chiusi gli occhi. «Non ho fame», biascicai con la voce attutita dal cuscino.
«Capisco, altezza, però…»
«Karin!» Mi misi a sedere sul letto e le feci segno di sedersi accanto a me. Restò a fissarmi per qualche attimo, prima di ubbidire. «Karin, senti, io sono dentro questa palla di cristallo, non so bene chi io sia, non lo so più, ma giuro su quanto ho di più caro che vorrei essere altrove e con altre persone.» Scrutai i suoi occhi apprensivi. «Purtroppo non ho modo di cambiare le cose, non ora almeno e ci terrei ad avere vicino a me una compagnia discreta e… non so, simpatica.» Sostenne il mio sguardo in silenzio. «Da quello che riesco a capire sarai sempre qui, per me.»
Lei drizzò la schiena. «Sì, altezza. »
Assunsi un’espressione pacata. «E ubbidirai ai miei ordini.»
«Sì…»
«Bene, allora tra i miei ordini c’è quello di chiamarmi Shayl’n, solo Shayl’n, va bene?»
«No.» Scosse la testa con vigore. «Non posso, se mi sentissero, io... loro…»
«Va bene. Va bene. Va bene!» Sospirai. «Facciamo una cosa, quando siamo qui, io e te sole, mi chiamerai come dico io e cercherai di non essere così formale, fuori o in presenza di altri, farai come dici tu, così va meglio?»
Inclinò la testa da un lato pensandoci sopra. «Va bene», concesse. Era già qualcosa.
«Perfetto. Allora adesso mi tolgo questo vestito spocchioso e poi forse mangerò qualcosa.» Mi alzai. «Karin, che cosa significa tytär ?»
«Mmm, tytär.» Si alzò anche lei e mi aiutò a togliere il vestito. «Significa ‘figlia’ se non sbaglio, in antico arindo ichslavo. In norvegese. No, no, in finlandese, ecco.»
«Ah.» L’abito mi scivolò sulla pelle.
Lei lo prese al volo. «Perché lo chiedete? Cioè perché me lo chiedi?» si corresse.
Mi strinsi nelle spalle. «Mi ci ha chiamata Tagron.»
«Oh…»
Lanciai un’occhiata al cibo. «Vieni, mangia con me.»
«Io non…»
«Mangia con me e basta, Karin, altrimenti non mangio neanche io.» Presi due piatti, li riempii e li portai a letto. La ragazza non disse nulla e seguì i miei ordini. Mangiammo sul letto. C’era della carne morbida, saporita e succulenta, con delle verdurine grigliate altrettanto gustose e delle patate al forno buonissime.
«Quanti anni hai?» le chiesi leccandomi le dita.
«Diciassette», rispose drizzando le spalle come per dimostrarlo.
Presi un fazzoletto di cotone ricamato. «Io ne ho venti.»
«Lo so.»
«Certo, non avevo dubbi.» Le feci un sorriso divertito. «Ho una festa tra dieci giorni.»
Tossì per finta. «So anche questo.»
Alzai gli occhi al cielo. «Allora dimmi qualcosa di te, così io di sicuro non la so.»
«Per esempio?» disse assaporando le patate.
«Non so, se hai fratelli o sorelle, da quanto lavori qui…»
Gli occhi le si illuminarono. «Ho due fratelli e una sorellina, vivono non molto lontano da qui. I miei fratelli mi hanno insegnato a leggere e scrivere lo iuropìan romanzo, è così che sono venuta a lavorare per voi. Per te. Fuori dalla corte poche persone studiano iuropìan, quindi è stato per questo che mi hanno scelta, circa un anno fa quando loro avevano deciso che tu…»
«Un anno fa?» chiesi, sorpresa.
Annuì. «Un anno fa mi hanno presa a lavorare qui.»
«Quindi avevano deciso di venirmi a prendere almeno più di un anno fa.» Pensai ad alta voce.
«Mi spiace che sia andata così», sussurrò. «Com’era dove abitavi? Roma?»
«Era bello, caldo. Ci sono le palme e non c’è mai neve. Il sole è alto nel cielo e rimane lassù per dodici ore tutto l’anno.» Mi sentii malinconica all’improvviso, e le parlai della creche, dei bimbi delle suore, di Madre Brìgit, del Colosseo. Credo fosse parecchio tardi quando mi disse che doveva andare via e che l’indomani, avrei dovuto misurare il vestito per la festa e imparare un po’ di cose, non meglio definite.
Sistemò la stanza e portò via le stoviglie e gli avanzi del cibo. Quando uscì non chiuse la porta a chiave, ma sapevo che fuori c’erano due guardie all’estremità del corridoio. Non riuscii a dormire, il letto era troppo morbido e troppo largo, c’era silenzio e avevo troppi pensieri per la mente. Mi rigirai più volte sui fianchi, finché non vidi albeggiare; qualche raggio di sole illuminò la stanza e poi sparì dietro le nuvole.
Per i dieci giorni seguenti, la mia stanza si trasformò in un vero e proprio manicomio; provai abiti su abiti, studiai due ore al giorno di arindo ichslavo, due ore di buone maniere - non saprei come altro definire, il come fare la riverenza, il baciamano e stare a tavola - e quattro di ballo. All’inizio mi rifiutai categoricamente e li mandai a quel paese senza mezzi termini. Poi, costretta, ci presi gusto. Non che avessi imparato veramente a ballare, ma se non altro avevo imparato a seguire qualcuno che lo sapesse fare. Una moltitudine di gente entrò e uscì dalla mia stanza, affabile e un po’ spaventata. Erano così tanti che non ricordavo neppure i nomi.
La sera ero distrutta, cosa che mi fece dormire per le notti a seguire sette ore filate. Non avevo molto tempo per me, tuttavia non potei fare a meno di pensare a Nilmini e Khaled e a Madre Brìgit. Non potei fare a meno di pensare a Dahaljer anche se, riflettendo sul fatto che potesse essere al fronte, cercai di concentrarmi il più possibile sul mio arindo o sui i di danza.
Chiesi a Karin di spiegarmi come funzionasse la televisione e lei lo trovò divertente: con poca pazienza, vista la mia “impossibile inesperienza” con tale mezzo di comunicazione, mi spiegò come usarla. L’avevo desiderata così tanto che scoprirla fu una delusione. Dopo i primi tre giorni, rimase spenta.
Era uscito il sole e come per magia la neve si era sciolta, mostrando un giardino verde e argentato. Quel poco che potevo vedere della città di Praha mostrava tetti di palazzi dai colori più disparati.
Il giorno della festa in mio onore, arrivò prima del previsto e di nuovo quella notte nevicò. Indossai un abito azzurro, dal tessuto morbido e setoso, i riflessi argentati che scintillavano come il mare sotto il sole e un corpetto troppo stretto per i miei gusti. La base della gonna era tempestata di piccoli diamanti che sfumavano sul celeste. Aveva un bel decolté e le spalline rigonfie. Fui obbligata a indossare anelli, orecchini e collana d’avorio e un paio di guanti di raso anch’essi color avorio, e dalle rifiniture color argento.
Fui portata alla sala da ballo, nella zona nord del palazzo. Lo ricordavo dal disegno che mi aveva fatto Ahilan sulla sabbia, non dalla piantina che avevo visto qualche giorno prima.
Era una sala da sogno, come quelle che vedevo nei libri: era bianca e dorata,
piena di specchi, dalle volte alte ed elaborate. Il pavimento era di marmo rosa. Mi fece pensare agli zar della Russia e mi chiesi a quale stile si rife, senza darmi una risposta.
Ai lati c’era così tanta roba da mangiare che penso di non averla mai vista in vent’anni di creche. Al mio ingresso c’era già qualcuno e fui annunciata come Altezza Reale Shayl’n Til Lech della dinastia Minse di Danubie. Giuro che mi veniva da ridere. Era la cosa più idiota che potessi sentire di me. Ma avrei riso per poco tempo e mi trattenni. Mi furono presentate una serie di persone con cui ero in parte imparentata e una serie di soldati/guerrieri che manifestarono più ostilità che altro. Cercai di rimanere indifferente e di essere elegante come mi avevano insegnato in quei giorni. Sforzandomi di farlo, pensavo a Nalinika.
Tagron, in un completo blu, mi raggiunse quando ero al centro della sala, facendo l’inchino. «Tytär, la nostra dinastia è tra le più belle che conosca e a malincuore anche quella di Belden: tu non potevi che essere una stella, la più bella di questo cielo.» Lo guardai in cagnesco e feci la riverenza. Sorrise divertito, porgendomi il braccio, che afferrai controvoglia.
Che cosa ridicola!
Mi indicò un ragazzo avanti a noi, in completo nero, che stava parlando con qualcuno. «Conosci…»
«Pasha!» esclamai. Per un attimo pensai di saltargli al collo.
«Lo conosci.» Mi strinse a sé.
«Altezza.» Pasha Klein si voltò con il suo visetto da bambino e mi sorrise facendo l’inchino; io dimenticai di fare la riverenza.
«Come stai?»
«Bene e voi?»
Fu in quel momento che intravidi Dahaljer sulla pedana in fondo alla sala, anche lui in completo nero, accanto al trono. Mi concentrai su gli occhi di Pasha cercando di respirare. Indifferenza. Indifferenza. Indifferenza. «Bene, più o meno.» Era la verità e non avrei insospettito nessuno.
«Vi aspetto per un ballo.»
«Oh, sì.» Non aggiunsi altro per non inciampare sulle parole.
Un cameriere ci offrì dei dolcetti di marzapane e ne presi uno, cercando di pensare solo a come andava mangiato un dolcetto, che io avrei messo in bocca tutto intero.
Non calcolai nient’altro se non le varie presentazioni, fino a che Tagron non mi fece accomodare accanto al suo trono, a due metri da Ahilan. Non stava provando nulla.
Dopo qualche minuto il re prese un microfono in mano e cominciò a parlare rivolgendosi alla sala. Mi stavo concentrando sull’indifferenza e non afferrai il senso delle prime parole che disse.
«…così abbiamo deciso di fare questa festa per quella che considero una figlia, lei che sarà vostra Regina.» Stava dicendo questo, Tagron Toivainen della dinastia Minse di Danubie, in piedi davanti a me, volgendomi le spalle. Mi concentrai sul viso di una donna, che da lontano sembrava avere gli occhi scuri, mi chiesi chi fosse.
Trovai tutto quello che vedevo di fronte a me ridicolo. Stavano facendo una guerra, una guerra altrettanto ridicola, e nello stesso tempo stavano facendo una festa, piena di ogni ben di Dio, con vestiti costosi più di tutto il cibo che avremmo usato per la creche o forse per tutta la città di Roma, per festeggiare me. Una ragazzina che non sapeva bene neanche chi fosse, una prigioniera, un’arma e una persona per la quale la maggior parte degli ospiti, provava un senso di ostilità e paura.
Pensai che intorno a me c’erano tutte Tigri Bianche, tigri; mi avrebbero sbranata in meno di un minuto, se avessero voluto o potuto.
Mi riscossi quando Tagron parlò dei miei diritti e dei miei doveri nonché di quelli degli altri nei miei confronti. E a oggi, vorrei non averlo fatto, sarebbe stato cento volte meglio continuare a pensare ai fatti miei con il sorriso più finto che potessi inscenare sulle labbra, tinte di rosa.
«Secondo la legge, dunque, come legittima erede al trono ed effettiva futura erede al trono, potrà sposare un uomo scelto dal Consiglio Superiore e da me. In quanto Lupo Grigio, non sarà facile scegliere.» Qualcuno nella sala rise. «Sempre secondo la legge, nessuno di voi potrà farle la corte o chiedere la sua
mano, se non autorizzato da me e dal Consiglio Superiore.» I suoi occhi indugiarono sugli uomini presenti, in particolar modo sui soldati/guerrieri, tra cui riconobbi molti dei miei rapitori. Si voltò a guardarmi con un sorriso smagliante. «E che a nessuno venga in mente di innamorarsi della mia splendida tytär.» Voltandosi guardò me e poi Dahaljer e poi di nuovo me. Se lui riuscì a mantenere il suo strato di indifferenza integro e inaccessibile, io non riuscii a fare altrettanto. Dopo un primo sussulto, pregai Nostra Signora di aver fatto trapelare solo paura.
Dopo questo, disse qualcosa della situazione al fronte e concluse chiedendo agli invitati di non pensarci per quella sera e di pensare solo a festeggiarmi, dando inizio alle danze. Quando mi raggiunse per chiedermi di ballare, stavo ancora stringendo i braccioli della sedia con tutta la forza che avevo.
Non potendo fare altrimenti, acconsentii e ballai con lui il mio primo imbarazzato e agitato ballo.
Indifferenza. Indifferenza. Indifferenza. Indifferenza.
Lui continuò a parlare, senza interruzioni. Non lo so cosa disse, mi chiesi in seguito cosa avesse avuto poi da dirmi in quei dieci minuti infiniti. Il secondo ballo mi fu chiesto da un uomo più basso di me, che doveva essere un lontano parente e intavolò una discussione sulla discendenza delle Tigri Bianche e la loro creazione da parte degli Uomini. Layo Luba fu il terzo a chiedermi di ballare e mi trattenni dal dirgli di no, nei modi che conoscevo alla creche.
Non fu facile seguire i suoi i. Mi tenne stretta a sé, bacino contro bacino, la sua mano troppo in basso sulla mia schiena. Se avessi saputo ballare meglio, anzi, se avessi saputo ballare e basta, mi sarei mossa e comportata in modo diverso. «Davvero un peccato che nessuno ti possa portare a letto, principessa»,
sussurrò nelle mie orecchie con un sorriso beffardo.
«Davvero», ribattei con lo stesso sorriso.
Per fortuna il ballo successivo mi fu chiesto da Pasha. Tirai un sospiro di sollievo e mi lasciai trasportare dalle sue mani lisce e leggere, mentre parlottava di POD e scarpe grandi. Nel bel mezzo del suo monologo mi disse che l’azzurro dell’abito sulla mia pelle ambrata era come acqua in mezzo al deserto sabbioso, e risaltava sia l’acqua che il deserto misterioso, mi fece ridere e gli chiesi se ne avesse mai visto uno, di deserto del genere. «Mai, altezza.» La sua faccia pallida da ragazzino arrossì.
«Oh, Pasha, non importa, apprezzo il complimento.»
«Non è un complimento, è un dato di fatto.» Inclinò la testa, notando i miei piedi sbagliare i i sotto la gonna. «Voi avete qualcosa in più», disse tenendo stretta la mia mano per non farmi cadere. «Come discendente Minse di Danubie, siete bella per natura, tuttavia il colore intenso dei vostri occhi esprime una profondità dell’anima che qui non ho mai visto. Il vostro corpo esprime un misto di sensualità e forza, che le donne Tiouck non hanno e neanche le Bamiy.»
«Oh, per favore», lo interruppi con una voce da bambina che, in verità, non volevo usare. «Primo, fai troppi complimenti e il re potrebbe non esserne contento. Secondo, parla come mangi, soldato, e lascia perdere i convenevoli.»
Il suo visino angelico accennò a un broncio. «Altezza…»
«Terzo», lo interruppi ancora. «Fino a qualche giorno fa ero Shayl’n, e sono ancora Shayl’n. Shayl’n e basta.»
«Bene, Shayl’n e basta. Posso anche parlarti in un altro modo, questo non toglie che il tuo corpo, i tuoi occhi e qualsiasi cosa di te mettano in subbuglio la metà dei presenti in questa sala.»
«Immagino di sapere quale sia la metà a cui ti riferisci.»
Quando ebbi finito di tentare di ballare con lui, ero già stanca. Troppo concentrata nel mantenere il mio strato di indifferenza, mi feci spazio per tornare al mio minuscolo trono, ripetendomi che stavo solo sognando, che forse avevo chiesto troppe volte di avere un televisore.
Agile e sinuoso, Tagron mi bloccò, facendomi are un braccio sulla vita e offrendomi da bere un alcolico che mi bruciò in gola. «Tytär», disse avvicinandomi al trono. «Conosci Ahilan.» Lui ci guardò. «È venuto a prenderti lui.» Era un’affermazione, non una domanda.
Mi limitai ad annuire, per non tradirmi con la voce.
«Sai, anche lui per me è come un figlio. Dovresti conoscerlo meglio. Ahilan, vieni, non chiedi alla principessa di ballare?»
Lui si avvicinò con eleganza e fece l’inchino. «Permettete questo ballo, altezza?»
Mentre il mio cuore rotolava da qualche parte frantumandosi, il suo non perse un colpo. Risposi con una riverenza impacciata e lo guardai. «Con piacere», mormorai.
Mi prese la mano e mi portò giù dalla pedana. Riempii il naso del suo profumo di menta e lo seguii in mezzo alla folla, mentre la musica iniziava un nuovo brano. Mi strinse a sé e mi guardò negli occhi. «Non dire niente», sussurrò.
Non dire niente. Potevo anche non dire niente, il problema era non far parlare il resto del corpo.
Le sue mani erano al posto giusto, anche il suo bacino, né troppo lontano, né troppo vicino. I suoi muscoli tesi erano solo quelli che usava per ballare, i miei erano tutti irrimediabilmente tirati come corde di violino. Tutti i sentimenti che provavo per lui si squassavano su di me come fulmini di una tempesta, il suo sguardo calcolato sembrava voler uccidere ogni mio battito. Volteggiavo nelle sue braccia come se non fossi in quel posto.
Stavo ballando con lui e, per quanto fossi impacciata, stavo facendo del mio meglio con successo. Stavo ballando con lui fissando i suoi occhi turchesi del cielo al tramonto, mentre gli altri fissavano noi. Stavo ballando con lui ed eravamo a chilometri di distanza l’uno dall’altra.
Stringendo i denti e richiedendo uno sforzo di indifferenza notevole a tutto il mio corpo, arrivai anche alla fine di quel ballo. Dahaljer mi lasciò come se bruciassi nelle sue mani. Fece l’inchino e, sollevandosi, nei suoi occhi si disegnò una vena di dolcezza inaspettata, «Màlica.» Più che udire la parola, la lessi sulle sue labbra.
Non risposi e non feci niente, neanche la riverenza. Si allontanò e rimasi imbambolata in mezzo ad altre persone.
Miele.
Miele nel fango.
24
Il giorno dopo nessuno venne a svegliarmi e io dormii a lungo avvolta nelle lenzuola rosse del mio letto a baldacchino. Nel dormiveglia mi sforzai di non pensare, tuttavia il tentativo non solo non funzionava, ma iniziava a tenermi ancora più sveglia. Alla fine sospirai e mi alzai per andare in bagno.
La mia faccia insonnolita si riflesse sui mille specchi della stanza e non ne fui contenta. Nonostante questo, avevo il viso di una persona sana e felice. Analizzai i miei lineamenti, poggiando i gomiti sul piano del lavandino e tenendomi il mento sulle dita incrociate.
Se ero cambiata, era solo in meglio e questo non mi piaceva. La pelle, privata del sole, il mio amato sole, si era scolorita, per quanto ne dicesse Pasha, non aveva nulla del colore ambrato che avevo a Roma, era di un color sabbia tenue e faceva risaltare i miei capelli neri per contrasto. Gli occhi non avevano cambiato forma, avevano cambiato colore però, non che fosse molto diverso da prima, forse qualcun altro non lo avrebbe notato, erano semplicemente più verdi, un verde strano, più chiaro ma più intenso. Dahaljer sosteneva che fossero un verde smeraldo, mi aveva detto che quando provavo un’emozione intensa, che fosse negativa o positiva non aveva importanza, il nero si perdeva quasi del tutto rimanendo all’estremità dell’iride. Non avevo idea di come fossero i miei occhi in quei momenti, non avevo mai visto occhi tra il verde smeraldo e il verde acqua, con una linea nera intorno, e a quanto pareva non li aveva mai visti nessun altro, di solito il verde degli occhi è un colore tenue e delicato. Uno degli insegnanti di danza mi aveva detto che quel colore poteva derivare dall’unione dell’azzurro tipico delle Tigri, quindi con tutta probabilità era il dono di mio padre.
Le sopracciglia nere e dritte erano rimaste uguali, così anche il naso e la bocca.
Mi stavo chiedendo se Madre Brìgit avesse potuto cogliere quelle differenze, quando arrivò Karin, dicendomi che quel giorno avrei incontrato Nilmini.
Lo sapevo e non lo avevo scordato.
Nel pomeriggio, dopo avermi imbacuccata bene, Karin mi portò fuori la stanza seguita a vista da due guardie. Percorrendo corridoi che iniziavo a memorizzare, e scendendo con ascensori luccicanti che tanto mi affascinavano - non ero mai stata in un ascensore prima di Praha - mi fece uscire in un giardino innevato dove erano fermi dei POD. Non riuscii a capire se fosse il posto dove eravamo arrivati il primo giorno.
Salimmo dentro il veicolo lei, le due guardie, un uomo che avrebbe guidato, e io. Un tragitto di dieci minuti appena che non mi lasciò neanche tempo di pensare.
Ci fermammo davanti a una costruzione marrone, molto grossa, compatta e triste. «Qui vivono domestici e camerieri», spiegò Karin.
«Tu abiti qui?» le chiesi, seguendola verso l’entrata.
«Sì, ma noi veniamo qui a piedi.» Sorrise.
All’ingresso una donna mi fece la riverenza e ci fece entrare. Osservando il suo
grande sedere oscillare mentre ci faceva strada, sentivo che il cuore mi stava per scoppiare. Sentii qualche gridolino infantile prima di arrivare in una stanza, piuttosto grande e molto colorata.
Un uomo che ci aveva seguito mi sorò e mi annunciò sulla porta; ammutolirono tutti: una ventina di bambini e due persone adulte. All’unisono fecero la riverenza e rimasero immobili.
I miei occhi incrociarono quelli di una bambina magra alta come gli altri bambini, occhi neri e capelli scuri, il visetto tondo e la pelle color cioccolato. Si mosse prima che riuscissi a focalizzarla davvero.
Nilmini Ferrara mi corse incontro, nonostante qualcuno le avesse appena detto di non muoversi.
Portavo una lunga gonna pomposa e di lana pesante che scendeva a terra allargandosi in un cerchio rigido; impacciata nei movimenti, mi piegai e afferrai la bambina nel momento in cui lei si lanciò su di me.
«Shay», mormorò tra le lacrime.
Non riuscii a dire neanche mezza parola. La strinsi a me e le accarezzai i capelli, cercando di non piangere a mia volta; la allontanai per baciarle il visino umido.
Una delle donne che era dentro la stanza si avvicinò e mi disse che potevamo andare fuori, che c’era una stanza per noi. Karin mi guardò e io annuii.
«Shay, Shay, andiamo in giardino, oggi c’è il sole.» Guardando la donna che ci aveva portato là, annuii di nuovo e la seguimmo verso una porta che dava su un giardino interno.
Prima di uscire coprirono Nilmini con una giacca azzurrina, il cappello e i guanti. Pensavo che una volta fuori, l’aria fredda mi avrebbe gelato il naso, invece era una giornata calda e la neve si scioglieva, gocciolando dai tetti. C’era un giardino grande, senza alberi, al lato sinistro c’era un’area per i bambini con i giochi, le altalene, lo scivolo. I bambini delle Tigri Bianche erano come i bambini Umani. Guardai la bambina che sembrava solo felice.
A chiudere il giardino c’erano tre piani di mura marroni dello stabile, a forma di esagono, che nascondevano il paesaggio.
Karin e la donna rimasero dentro. Le due guardie ci seguirono fuori a cinque metri da noi, mentre Nilmini si arrampicava su una panchina libera dalla neve. Immagino che più che guardie del corpo pronte a difendermi, fossero là per impedirmi di fuggire, evitai di preoccuparmi.
Notai che alcune persone ci osservavano incuriosite dalle finestre. Mi sedetti accanto alla bambina e la strinsi ancora, infine la guardai.
Era cresciuta, dimostrava la sua età adesso, aveva gli occhi svegli e le guance paffute, stava bene e provai un senso di colpa nel pensare che avrei voluto vederla meno sana. Il suo aspetto, la sua felicità, tutto di lei trasmetteva un benessere che forse non aveva mai avuto prima.
Era in gabbia, come me, eppure stava bene, benissimo.
Mi schiarii la gola annodata. «Mi sei mancata tanto», dissi in iuropìan.
«Anche tu, Shay, tanto, tanto, tanto.»
Sostenne il mio sguardo come avrebbe fatto un adulto. Restammo a guardarci in silenzio, sotto il sole pomeridiano che faceva brillare il giardino silenzioso.
Con i guanti bianchi le presi il visino tra le mani. «Stai bene?»
Annuì con vigore. «Sì.»
«Come stai qui? Cosa fai?»
«Niente.» Alzò le spalle. «Vado a scuola e sto con gli altri bambini, sono i figli di quelli che abitano qui, quelli che lavorano per te.» Ridacchiò.
Aggrottai la fronte. «Per me?»
«Sì, ora tu sei una principessa.» Osservò il mio cappotto e giocherellò con un bottone dorato. «Sei ricca, Shay?»
Sorrisi. «Non proprio.»
Lei sollevò le piccole sopracciglia, strabuzzando gli occhi come fanno i bambini. «Ma sei la principessa!»
«Lo so, ma essere principesse non vuol dire essere ricche. Vuol dire avere tante belle stanze e tanti obblighi.» Avrei detto anche tante responsabilità, ma poiché non ero chiamata in causa per quello, non aggiunsi altro.
«Però sei più ricca di quando stavamo alla creche», insistette con una vocina querula.
«Non saprei, Nilmini.» Le presi le braccia facendola dondolare avanti indietro, come potevo spiegarle che ero una prigioniera? «Ho tante cose, ho dei servi, ho due televisori, sai?»
Lei spalancò gli occhietti per puro stupore.
«Ma credo che sia un tipo di ricchezza che non mi piace. Ero più ricca quando ero alla creche, perché ero libera di gestire la mia vita, nei suoi limiti. Ero più ricca perché potevo stare vicino alle persone che amavo, come Madre Brìgit, le suore, te… Ora», mi morsi un labbro. «Ora non ho più tutto questo. Non ho te.»
Fece avanti e indietro con il corpicino. «Faresti a cambio?»
«Oh, sì.»
Sorrise mostrando tutti i dentini. «E staresti sempre con me?»
«Certo, pulcino.»
«Sempre, sempre?»
Sospirai, poiché mi doleva il cuore. «Sì, Nilmini, sempre.»
Si sollevò sulle ginocchia e mi gettò le braccia al collo, poggiando la testa su una mia spalla. «Perché allora non torniamo a casa?»
Casa… sorrisi, perché anche per lei la creche era ancora casa, l’unica vera casa che conoscevamo.
«Non possiamo. Io… devo rimanere qui, anche se scapperei via. E anche tu sei bloccata qui.»
Sciolse l’abbraccio per guardarmi. «Ma tu sei la principessa, tu puoi fare quello che vuoi. Io, io magari rimango, ma tu fai come ti pare.»
La mia Nilmini era una bambina, era solo una bambina di quattro anni. «Non è così.»
«Perché?» Gli occhi ancora sgranati.
Se ho il potere di cui sta parlando, cosa le dice che accetterò di rimanere qui?
Nilmini.
La voce di Tagron Toivainen che pronunciava il suo nome con semplicità mi echeggiò nelle orecchie.
«È complicato. Però…», non ero sicura ci fosse un però. «Però» ripetei «però rimarrò qui vicino e potremmo vederci spesso. Non sempre, ma spesso.»
«Quando vuoi tu?» domandò imbronciata. Il sole basso le illuminava la chioma castana scuro, quasi mora, e le donava un'aura brillante e magica intorno al capo.
«No. Non quando voglio io, quando il re me lo permette.»
«Il re è una Tigre Bianca, il re è cattivo?»
Non sapevo cosa risponderle, anche la persona di cui mi ero innamorata era una
Tigre Bianca e sebbene non fosse un santo, non lo avevo mai visto agire con cattiveria. Tagron era crudele, intoccabile, determinato, come potevo spiegarglielo?
Fu Karin a risolvere la questione, mi raggiunse a o veloce e mi disse che era arrivato Khaled. Prima che riuscissi a realizzare, Nilmini era già scesa dalle mie gambe. Corse verso la porta da cui eravamo entrati e vidi un bambino magro e sorridente raggiungerla di corsa.
Mi alzai in piedi e rimasi ferma osservandoli abbracciarsi e ridere come due buoni amici; lui la sollevò e la scosse con fare dolce, mentre lei rideva con suoni leggeri e felici. Mi strinsi nelle braccia. Quante ne avevano ate insieme? Quanto erano diventati amici nel percorso tortuoso che li aveva portati a Praha? Per un attimo provai un infantile senso di gelosia.
Dandomi della sciocca, sollevai la mano verso di lui che mi guardava e che, rimettendo la bambina a terra, mi raggiunse, stringendole la manina. Mi arrivava allo sterno, il viso si era schiarito, ma i suoi capelli erano più scuri. Mi abbracciò, stringendomi alla vita.
«Ciao, Khaled», dissi accarezzandogli la testa. Lui si scostò e mi fece l’inchino.
«Altezza.» Un sorriso furbetto illuminò il suo viso.
Lo afferrai per le spalle e ridendo gli strofinai la testa con la mano chiusa. «Ma smettila.»
Rise con un suono profondo. Anche lui stava bene, stava maledettamente bene.
Mi raccontò un poco del posto dove si trovava, di come era andato il viaggio. Mi domandai se a Sania avessero visto morire qualcuno, ma non glielo chiesi, avevano visto morire dei loro amici, quello era già troppo.
Dopo poco si arrampicarono sui giochi e io e Karin li osservammo ridere e scherzare, fino a che sotto i raggi obliqui del sole che stava per tramontare iniziarono a prendersi a palle di neve. Non sono sicura che non fosse stato fatto apposta, mi arrivò una massa di neve dura e dalla forma ovale sul cappotto. Entrambi i bambini risero, per niente intimoriti: ero Shayl’n e potevano farlo.
Mi accovacciai a terra, litigando con la gonna, e con le mani presi un po’ di neve morbida e fresca. La guardai affascinata per qualche secondo e poi alzandomi la lanciai a Karin, che non se lo aspettava.
A quel punto sia lei che i bambini mi ritirarono la neve addosso e io ne raccolsi altra per lanciarla al primo che mi fosse a tiro. Continuammo a tirare palle di neve per diverso tempo, ridendo come matti, sotto il tramonto, mentre alcuni occhi curiosi ci osservavano dalle finestre.
Rincorrendoci, Karin finì per scivolare sul ghiaccio e venirmi addosso, andammo a terra entrambe ridendo e Khaled mi saltò sulla pancia imitato da Nilmini. Stavo ridendo così tanto che non notai una delle due guardie venirmi a recuperare. I bambini si allontanarono e lui mi tirò per un braccio mettendomi a sedere.
Sollevai un sopracciglio. «Ehi, sono viva. E sono qui», dissi. Guardai i miei
vestiti bagnati e infangati. «È tanto che non mi divertivo così», aggiunsi.
«Anche io», convenne a bassa voce Karin, guardandosi le mani sporche.
Fu una bella giornata, una delle poche. Portammo Nilmini insieme ai bambini e lei mi presentò i suoi amici. Uno di loro parlava una lingua che non conoscevo. Era figlio di un Umano e una Tigre Bianca, aveva la pelle scura e gli occhi intelligenti, con Nilmini parlava la propria lingua e lei rispondeva come se la conoscesse da sempre, o almeno a me dava quella impressione.
La felicità dura sempre troppo poco e andarmene mi richiese uno sforzo notevole.
In camera Karin mi tolse i vestiti ricoperti di fango e umidi, il calore della stanza era confortevole e lei sembrava raggiante. Mi disse che ero simpatica e non se lo aspettava.
«Davvero?»
«Sì», rispose piegando un fazzoletto. «Tu…» Si voltò a guardarmi. «Tu sei Umana, ma soprattutto sei un Lupo Grigio e io, beh, io avevo paura di te e non sapevo come potessi essere.» Arrossì «Non così.»
«Un bel pregiudizio», commentai, pacata.
Lei abbassò il viso. «Sì, ma…»
Mossi la mano come a dire che non importava. «Abbiamo tutti dei pregiudizi. Ne ho anch’io e credo sia nella natura delle cose; insomma, è con i pregiudizi che cataloghiamo la vita per renderla più semplice e sicura, no?»
Non rispose.
«L’importante è saperli prendere per quello che sono e riconoscere che siamo così tanti, così diversi, da poter cambiare idea. E tu lo hai fatto, non è facile.»
«Come lo sai?»
«Perché…», per una frazione di secondo fui tentata di parlarle di Dahaljer, poi pensai a Nalinika. Alzai le spalle. «Perché ci sono ata anche io.»
La settimana che seguì fu ripetitiva e insignificante. Studiai arindo ichslavo, bretençal, danza, la storia delle Tigri Bianche e la loro politica. Mi sembrava di essere tornata a scuola. Per fortuna Tagor mi aveva concesso le mattine dei giorni dispari per poter andare da Nilmini. Ero in classe con i bambini dell’asilo e giocavo con loro.
In quel modo iniziai a imparare il persiano. Il bambino amico di Nilmini parlava con lei quella lingua, un misto tra lingue ante ’12 che in effetti non era il persiano che si era parlato fino ad allora, come per noi, dopo il Grande Terremoto le lingue furono mischiate e accorpate tra loro in dialetti che prima
del duemiladodici non esistevano.
Nilmini parlava persiano e arindo ichslavo come se parlasse iuropìan romanzo, la invidiai. Sebbene fossi portata per le lingue, ero grande e la mia mente era già formata, rispetto alla sua.
Dopo la notte della mia festa non nevicò più e il giardino sbocciò in piccoli fiorellini rosa e gialli che non conoscevo.
In una palestra interna al palazzo un uomo più basso di me e tre volte più agile mi insegnò a combattere con i pugnali. Andavo in tuta e mi sentivo a mio agio. Lui mi pressava con i suoi movimenti fluidi, girava intorno a me, incalzava con le lame e solo dopo molto tempo sembrava iniziare ad avvertire la fatica. Se c’era un uomo in grado di farti credere che potesse volare, era lui. «Sei forte e sei veloce, perché sei giovane e nel tuo sangue c’è sangue… beh, lo sai», mi disse il secondo giorno. «Sai anche difenderti bene. Chi ti ha insegnato?»
Dahaljer.
«Combattevo per gioco con un amico, quando ero a Roma.» Era vero e non richiedeva particolari veli di indifferenza da parte mia.
«Alcune però sono tecniche che usiamo noi», insistette roteando un polso.
«Le ho viste ai soldati/guerrieri, quando mi hanno portata qui.»
Lui annuì, non sembrava crederci. Le sue emozioni non mi rivelarono nulla di utile. «Non sai attaccare, però», disse infine. «Muovi il corpo per istinto, senza pensare. Su questo dobbiamo lavorare.»
A volte il secondo che si impiega per pensare è traditore. Mi aveva detto Dahaljer una volta.
«Va bene», acconsentii.
In quei giorni ascoltai diversa musica classica e trovai la cosa particolare, visto che sia per ballare sia per combattere usavano le stesse musiche, oltre che lo stesso luogo. Non credo che avessi mai ascoltato tanta musica classica in vita mia, soprattutto musiche ante’12, che per gli Umani erano un lusso non da poco.
Le Tigri erano ricche, non potevo fare a meno di pensarlo. Tigri Bianche e Lupi Grigi erano in guerra, si ammazzavano lungo tutti i confini, combattendo tra monti, nevi e talvolta sui ghiacci perenni, eppure erano loro a essere ricchi, ad avere tutto e anche di più, poiché era il superfluo a farmi male. Avrebbero potuto vivere in pace, molto più di quanto potevano gli Umani, tuttavia non bastava. I Bamiy esercitavano il loro potere con crudeltà e dispotismo e i Tiouck rispondevano con crudeltà e determinazione.
Un periodo tranquillo e apatico non sempre è un periodo privo di tristezza e frustrazione. Prendevo i giorni per quello che erano: infiniti e irreali. Avevo tutto e non avevo nulla. Tagron faceva sapere della sua presenza solo attraverso comunicazioni ufficiali; i soldati/guerrieri erano tutti i giorni a combattere e non sapevo nulla di loro, tranne che stavano attraversando un momento di calma dovuto a degli scontri che avevano causato perdite in egual misura a Bamiy e Tiouck. Il Consiglio Superiore faceva riunioni a cui prendevo parte, dove nessuno però mi interpellava.
Indossavo vestiti costosi, firmati da persone che neanche conoscevo, li portavo con malcelata disapprovazione. Di tanto in tanto facevano piccole feste con una ventina di persone a cui ero costretta a partecipare. Non conoscevo nessuno e mi trattavano con un distacco che non nascondevano.
L’estate stava avviandosi verso la fine e io avevo bisogno di sole. Anche se ero al chiuso, al caldo come in una serra, avevo bisogno del tepore del sole diretto, di aria leggera.
Non mi era permesso vedere la città, se non dalle finestre del palazzo e potevo solo intuire quanto fosse grande. La notte le sue luci rischiaravano il cielo e le nuvole silenziose assumevano un color fumo dai diversi riflessi beige. Quando Nuova Terra era solo Terra, Praha era una città molto più a nord, tuttavia per quanto fredda e innevata, era più calda di ora e io non riuscivo a immaginarmela.
Un dolore soffuso e muto si nutriva delle mie viscere ogni notte, dopo che Karin usciva dalla stanza e spegnevo la luce. Le finestre erano chiuse così bene che da fuori non riuscivo a sentire nessun rumore. Mi sentivo avvolta dal nulla, non ricordavo i sogni e se li ricordavo erano incubi.
Pensavo che avrei finito per non alzarmi più dal letto, pensavo che un giorno non avrei trovato più l’utilità di quell’azione e non l’avrei più fatta.
Tornai a riflettere sul fatto che era come quando mi avevano messo nelle profondità del castello: stavo impazzendo, solo più lentamente.
Ancoravo i miei momenti di lucidità a Nilmini Ferrara e tentavo di fare lo stesso nel combattere. Per la prima volta pensai di non avere un vero amico, non uno con cui scambiare quattro chiacchiere o con cui uscire, qualcuno di cui potessi fidarmi indipendentemente da quanto riuscissi a frequentarlo.
Karin era una buona amica e si era sciolta con me, tuttavia non poteva capire e lei lo sapeva. Per quanto parlassimo e per quanto spesso i nostri corpi si toccassero, tra di noi c’era uno strato sottile e impenetrabile che ci manteneva molto distanti.
Nilmini rimaneva la mia salvezza.
Dahaljer, ah, Dahaljer aveva la consistenza di un sogno e come un sogno mi sforzavo di ricordare tutto di lui, per non doverlo dimenticare, quando il sole si faceva più alto nel cielo. Talvolta il dubbio che mi avesse illusa davvero, che mi avesse ingannata per un scopo più ampio, mi sfiorava la mente e con tutte le forze cercavo di scacciarlo.
25
Un pomeriggio, dopo un allenamento serrato e una doccia rigenerante, qualcuno bussò alla porta. Quella era una novità.
L’estate non era finita, ma le giornate erano più corte nelle regioni del nord e la differenza era tangibile. Stavo cercando di ricordare il nome della moglie di Tagron, madre adottiva di Nalinika, ma non mi tornava alla mente. Mi sarebbe piaciuto conoscere la donna che Dahaljer considerava quasi come una madre e riuscire a comprendere come potesse aver sposato un uomo quale il re dei Tiouck. Purtroppo era morta a causa di una malattia che aveva da tantissimi anni e non l'avrei mai conosciuta.
Anche Karin sollevò il viso stupita. Si schiarì la voce e andò ad aprire, senza dare la possibilità al nostro visitatore di vedermi, parlottò con lui.
Percepii tranquillità e sottomissione oltre l’anta della porta.
Il capo riccioluto e vermiglio di Karin si voltò verso di me, chiudendo la porta e tenendo una mano sulla maniglia. «Altezza, c’è un soldato/guerriero che chiede permesso di entrare.»
Senza rendermi conto della stretta allo stomaco, annuii pensando che avrei dovuto sentire arrivare Ahilan, che avrei dovuto avvertire la sua presenza, non so, la sua aura o qualcosa di simile. «Fallo entrare.»
Mi squadrò. «Forse, dovrei pettinarla meglio prima.» I miei capelli erano ancora bagnati e sbarazzini.
«No, Karin, fallo entrare.» Non so in che modo, mi trattenni dal correre alla porta. «Ora!»
Aprì l’anta, lentamente, troppo lentamente, citando il mio nome completo: «Sua Altezza Reale Shayl’n Til Lech Minse di Danubie.» Maledissi sottovoce quelle formalità e mi costrinsi a rimanere dov’ero.
Sbattei le palpebre un paio di volte, mentre lei presentava l’uomo alla porta. Era vestito da militare, magro, dita lunghe, occhi grigi e viso da bambino.
«Pasha.» Espirai.
Lui avanzò di un paio di i nella stanza e fece l’inchino; accennai a un segno di saluto formale con la testa, poggiando una mano sul legno piatto e liscio del tavolo per sostenermi.
Emisi un leggero sospiro e sorrisi. «Vieni, Pasha. Come stai?»
«Altezza», esordì ricambiando con un sorriso delicato che gli illuminò il volto. «Shayl’n, perdona l’intrusione improvvisa, forse avrei dovuto avvertirti. O forse qualcuno avrebbe dovuto farlo per me.» Osservò la mia capigliatura spettinata.
«Oh, no.» Indicai una sedia. «Non ti fare paranoie inutili, non te l’ho mai chiesto, lo sai.» Usai una forma dialettale arindo, che usava a volte Karin in privato, per fargli capire che non ero in vena di convenevoli.
Lui si sedette dove gli avevo indicato e poggiò a terra un borsone che aveva con sé. Rimasi in piedi.
«Come mai sei qui?» domandai.
Sorrise di nuovo, più rilassato. «Non ti fa piacere vedermi?»
Risi sciogliendo un po’ della tensione che avevo in corpo. «Certo che mi fa piacere.» Era vero. Mi avvicinai.
Inclinò il capo alzando appena il mento e mostrando la pelle rosata del collo. «Al fronte, dove mi trovavo questi giorni, si dice che presto sarai là anche tu.»
«Ah, sì?» Spalancai gli occhi in modo poco elegante, per fortuna nessuno dei miei insegnati era là a farmelo notare.
Mi lanciò un’occhiata guardinga. «Non lo sai?»
«No.»
Fissò i miei occhi per qualche secondo, le sue emozioni non rivelarono cambiamenti.
«Il re vuole portarti davvero sul fronte, la situazione non è delle più rosee. Dopo una breve pausa, la battaglia è ricominciata, non so se tu ne sia a conoscenza.»
Scossi il capo.
«Ci sono molti Bamiy e non riusciamo a prevedere le loro mosse, vuole sapere se tu hai un potere in questo.»
«Oh.» Feci un’espressione sarcastica e cercai di riprendermi. «Non ce l’ho con te, Pasha. È solo che non ne sapevo nulla e…» non sapevo cosa dire. Non avevo voglia di andare dove stavano combattendo, non avevo neanche voglia di aiutarli, non avevo voglia di essere usata.
Tacqui.
Lui indugiò sul mio viso e sul mio corpo, ora per nulla imbarazzato. Un attimo di più e avrei pensato che si sarebbe alzato e mi avrebbe mangiato come si mangia un cioccolatino piccolo e invitante. «Ti ho portato una cosa.» Cambiò infine discorso. Prendendo la borsa e mettendosela sulle gambe, l’aprì con una controllata lentezza. Credo lo fe apposta e mi fece provare una certa rabbia che trattenni solo per me.
Un abito incellofanato uscì fuori e venne poggiato sul tavolo. Pasha si alzò e poggiò il resto sulla sedia. Maneggiò l’oggetto osservandomi di sottecchi.
Aprì del tutto il suo contenuto e lo sistemò con attenzione.
Un paio di pantaloni stretti di pesante mude, neri, una maglia attillata di mude a maniche lunghe, dalla superficie liscia, sembrava pelle finemente lavorata e lucidata. Un corpetto altrettanto stretto, senza maniche, con una zip davanti; non sapevo di che materiale fosse, ma era simile al mude e doveva essere molto morbido.
Sul tavolo c’erano anche una cinta con una fodera per una pistola e una per un pugnale. Tutto rigorosamente nero.
Stavo proprio meditando su questo particolare del colore quando Pasha disse: «Te lo ha mandato Ahilan.»
Ringraziai il cielo perché tenevo gli occhi abbassati sul tavolo. Mi morsi l’interno della guancia ricoprendo ogni mia emozione. Indifferenza. «È ridicolo.» Lo pensavo davvero e non mi costò fatica. «E io odio il nero.»
«Ti muoverai di notte e ti sarà utile.» Lanciai un’occhiata ai suoi abiti bianchi e lui sembrò cogliere. «Noi ci muoviamo di giorno, di solito, e sulla neve il bianco è la miglior cosa per mimetizzarsi.»
Pasha frugò di nuovo nella borsa tirando fuori un’altra cintura, più piccola,
sempre per una pistola, e degli anfibi. Almeno quelli potevano piacermi. Mi fece notare che su entrambe le scarpe potevo mettere dei pugnali.
Fantastico, mi vogliono armata fino ai denti. Pensai con ironia. Ero una prigioniera, che non avrebbe mai ammazzato nessuno e avevo armi ovunque, o almeno presto le avrei avute. Sì, davvero fantastico.
«Provali», disse Pasha.
Con la coda dell’occhio osservai Karin, che era rimasta tutto il tempo ferma accanto alla porta in silenzio, muoversi leggera e pratica verso di noi.
«Ora?» domandai con una nota infastidita nella voce.
Lui aprì le mani come a dire ovvio.
«Lei dovrebbe uscire», gli fece notare Karin incerta.
Scossi la testa. «No», dissi. «Andrò in bagno io. Pasha, aspettami qui.»
Annuì. «Va bene.»
«Altezza, la aiuto.»
Guardai la ragazza e alzai le spalle. Non ero sicura che sapesse come si indossava quella roba, ma sarebbe stata utile: non lo sapevo neanche io.
Vestirmi, però, mi riuscì più facile del previsto. E mi stava tutto alla perfezione; mi chiesi se Dahaljer l’avesse fatto fare su misura e in caso come vi fosse riuscito: io non sapevo neanche che taglia portasse. Da fuori non lo avrei mai detto, era un guanto morbido sulla pelle, anche il corpetto, che tuttavia ritenevo davvero ridicolo.
«Pasha?» Lo chiamai dal bagno. «È proprio necessario indossare questo corpetto?»
Credo fosse divertito. «Sì. È antiproiettile», rispose. «E sì, credo sia necessario.»
Bene, un corpetto, nero, attillato, con intagliati dei disegni tribali, era un giacchetto antiproiettile, il che spiegava perché fosse più rigido. Sospirai guardandomi allo specchio. Karin mi fissò nel riflesso con aria preoccupata.
«A stare mi sta», le dissi. «Questo non toglie che preferirei un paio di jeans e una maglietta colorata.» Ricambiai il suo sguardo e le sorrisi.
Immagino che Pasha si aspettasse che uscissi fuori a fargli vedere come stavo con quella tenuta. Non lo feci, mi spogliai e rimisi in fretta il mio vestito, dalla stoffa pesante di velluto. La delusione era palese nei suoi occhi e lo riempii di domande prima che potesse dirmelo.
Rimase con noi per un po’, raccontando qualcosa di quello che faceva e rispondendo alle mie curiosità in maniera gentile e poi, guardando l’orologio, disse di doversene andare.
«Se non ci dovessimo vedere prima, ci vediamo al fronte», disse sulla porta.
Annuii.
«Cosa dico ad Ahilan?» chiese a bruciapelo, guardandomi negli occhi.
Aprii la bocca e la richiusi. Sostenni il suo sguardo cercando di pensare velocemente, cosa voleva che gli dicessi? Nulla avrebbe potuto avere un vero significato, senza tradire altro. «Ringrazialo» dissi a voce troppo bassa.
«E basta?» insistette.
«Màlica», mi uscì dalle labbra.
Corrucciò la fronte. «Eh?»
«Màlica», ripetei a voce più alta. «Digli Màlica e basta. Per favore.»
«Come vuoi», acconsentì facendomi un inchino. Risposi con una riverenza e piegai la bocca in una smorfia che voleva essere un sorriso.
26
Partire per il fronte fu traumatico come arrivare a Praha. Non è esatto dire che preferissi l’incertezza del mio destino alla certezza di un’esperienza che non avevo interesse a vivere, tuttavia non avevo scelta, come sempre, e questo, più di ogni altra cosa, mi innervosiva.
Avevo salutato Nilmini senza saperle dire dove stessi andando di preciso, in parte perché non lo sapevo e in parte perché dire che ero sulla linea dove combattevano, non mi sembrava una notizia da condividere con una bambina di quattro anni, nonostante l’abbandono che viveva fosse ben più doloroso.
Khaled non riuscii a salutarlo e me ne rammarico.
Karin sembrava agitata e si comportava in maniera esageratamente svampita. In realtà, nessuno a parte Tagron voleva che partissi, neanche il Consiglio Superiore era d’accordo, non tutti almeno.
Il re non si fece nessun problema a dire che era lui, e solo lui, a dover decidere dove e quando mandare la sua tytär al fronte.
Venne a prendermi vestito con abiti militari, bianchi con macchie grigio perla e azzurro, gli stessi che avevo visto addosso a Pasha, e un paio di occhiali neri inforcati sulla nuca. Se possibile, sembrava ancora più giovane, non riuscivo a credere che fosse cugino di mio padre e men che meno che fosse più anziano di
lui.
Partimmo una mattina in cui nevischiava sulla terra bagnata dalla pioggia, utilizzando i POD meglev, e fu un viaggio più lungo di quello che avevo immaginato. Un giorno e mezzo con solo tre soste.
L’ultimo tratto dovemmo percorrerlo senza i POD, poiché c’era un cambiamento nel campo magnetico. Proseguimmo su alcuni veicoli cingolati che loro chiamavano gatto delle nevi. Erano poco meno che autobus in grado di arrancare sulla neve morbida o di rompere il ghiaccio senza scivolarci sopra.
Immaginavo il fronte come un luogo buio, pieno di fumo, di sangue e dall’atmosfera macabra. Era un posto pieno di neve e per questo bianco, un bianco che accecava sotto il sole di mezzogiorno. Il cielo, terso sopra le nostre teste, faceva male agli occhi.
Il mio respiro volava in fumate di vapore fuori dalla mia bocca congelata. Indossavo gli abiti che mi aveva portato Pasha, quelli che mi aveva regalato Dahaljer, tenevano caldo contro ogni mia aspettativa. Tagron, urlando ordini di continuo con elegante aria di comando, mi aveva dato dei guanti bianchi impellicciati e mi aveva dato una giacca militare bianca, da mettere in caso di neve.
Fu lui a darmi le mie armi, due pistole e due pugnali. Ammirandomi come se fossi un’opera appena uscita dal lavoro faticoso delle sue mani, aveva detto: «Tytär. Questa è un’automatica e questa è una semiautomatica. Conosci la differenza?» mi aveva chiesto. Avevo annuito. «Bene. Questa automatica è una Walther P2000, vuol dire che il suo primo modello è stato progettato nel 1994, ma questa è molto meglio, un vero gioiello. Vedi, moya lyubov, è un’arma corta, e spara a raffica. Fanne buon uso.» Tutt’ora non sono sicura di quale sia il buon
uso di un’automatica o di una pistola in genere.
Mi lasciò alla roccaforte continuando a urlare e imprecare.
La roccaforte, Kolov, non era altro che un insieme di tende da accampamento, all’interno di un paio di cerchi concentrici di cemento alti più di due metri in cui si trovavano diroccate case un tempo abitate da civili. Le mura poste a cerchio servivano a tenere fuori nemici e vento.
C’erano tre costruzioni di mura e cemento funzionanti e intatte: i bagni, le cucine e l’armeria. Le poche donne che si trovavano in quel posto si occupavano della cucina o dei feriti. Vestivano pesanti giacche da neve e pantaloni imbottiti, larghi e morbidi.
Nelle tende c’era una temperatura quasi piacevole e questo mi stupì. Ero dentro una di quelle da due giorni quando un uomo mi venne a chiamare. Avevo sentito diversi uomini animarsi e lanciare urli e solo ora ne scoprivo il motivo. Avevano catturato un Lupo Grigio.
Hansel, l’uomo che era venuto a chiamarmi, mi accompagnò in una delle poche costruzioni in cemento del posto. Nell’aria vi era un vago senso di ostilità e sottomissione, sapevo che era diretto verso di me. Sbattei le palpebre entrando nella costruzione e dovetti abituare gli occhi al buio, quando ci riuscii quello che vidi non mi piacque.
Un ragazzo che doveva avere la mia età era appeso per i piedi al soffitto, come fosse carne da macello, e alcuni Tiouck lo stavano torturando con i pugnali. Notando il sangue, dovetti ingoiare un conato.
Mi fecero spazio con eleganza e malcelata disapprovazione. «Gli stiamo chiedendo di riferirci le prossime mosse dei Lupi. Dice che non le sa e non gli crediamo», disse uno dei soldati.
Hansel mi spinse appena verso il giovane. «Tagron vuole sapere se riesce a sentirlo, altezza. Se sa che mente.» Tutti gli occhi si voltarono su di me, compresi quelli del ragazzo, che mi guardava a fatica.
«Quali punti volete attaccare?» chiesi non sapendo come si esprimessero i militari sulle strategie.
«Non so niente, già l’ho detto», mugugnò in arindo slavo.
Un’ondata di terrore mi invase e non mi apparteneva. Lo squadrai, aveva la testa rossa per il sangue che affluiva, tagli visibili sulle braccia ed era bagnato, i suoi occhi mi fissarono sicuri, suo malgrado.
«Non sta mentendo.»
Gli uomini, increduli, si scatenarono in imprecazioni e affermazioni maschiliste. Mi concentrai sul ragazzo. «Come ti chiami?»
Non riuscivo a capire cosa stesse tentando di fare, muovendosi e penzolando, ma nella sua mente apparve stupore. Aveva capito che potevo sentirlo, percepirlo.
«Sei un Lupo», disse piano in bretençal.
«Zitto», lo ammonì l’uomo di prima. «Sei uno schifoso bugiardo.» Prima che io potessi dire qualcosa, lo ferì con una lama sul fianco.
«Lascialo in pace», sbottai.
Ancora più sorpresi, gli uomini mi guardarono. Tra le menti balenarono ostilità, aggressione e, in modo sottile, sottomissione.
«Non sta mentendo, ve lo assicuro.»
«Non le crediamo, principessa», disse una voce dietro di me, che non identificai. «Torturatelo», disse qualcun altro. «Sì, torturatelo finché non parla.»
Un uomo accanto a lui estrasse un pugnale e fece per segnargli il viso.
Senza pensarci estrassi la mia automatica e gliela puntai contro. Un secondo dopo una serie di armi da fuoco era puntata contro di me. Sempre molto furba! Mi dissi. Potrei dire che mi sentivo sicura di me e di quello che stavo facendo, la verità è che non sapevo per niente cosa stessi facendo. Magari non tutti, ma qualcuno di quei soldati mi avrebbe sparato volentieri e io gliene stavo dando la possibilità.
Sentivo il cuore pulsarmi in gola, ma non abbassai l’arma, ormai avevo fatto la mia mossa, feci appello a tutta la mia indifferenza. «Liberalo.» Mi stupii del mio tono piatto e misurato.
«Altezza…» provò a dirmi un uomo piccolo e biondo.
«Non mi chiami altezza, se mi sta puntando contro la sua pistola», lo interruppi continuando a guardare la mia possibile vittima. «Liberalo», ripetei.
«Se lo ammazza, noi ammazziamo lei.» Ignoravo chi lo avesse detto.
«Se lo libera, non ammazzo nessuno», replicai con un tono di voce ancora più fermo che non mi riconobbi e che mi diede più grinta. «Muoviti!»
«Principessa…»
«Se volete ammazzarmi, fate pure. Renderete conto a Tagron.» Non ne ero sicura, ma pensavo che stessi già sfidando la fortuna, non poteva andare peggio di così. Non sapevo come sarei riuscita a uscire da là, viva. Speravo solo che a quelle persone interessasse più la sorte di un loro soldato, che quella di un prigioniero. Ciò non toglieva che quella farsa avrebbe dovuto avere una fine, cosa avrei fatto quando avessero realizzato i miei ordini? Avrei semplicemente ringraziato tutti per la collaborazione?
L’uomo cui stavo mirando si mosse per liberare il ragazzo. L’ostilità e la sottomissione erano palesi dentro la sua mente, quasi quanto la paura. Immagino
che nessuno invece stesse percependo la mia, di paura. Ero brava a cacciarmi nei guai, Madre Brìgit me lo ripeteva spesso.
C’era un silenzio carico di tensione, che sarebbe stato identico se fossimo stati anche tutti solo Umani.
«Voglio che gli pulisca le ferite con una pezza bagnata.» Sì, ero brava a cacciarmi nei guai con i problemi degli altri, era la mia specialità.
I miei sensi registrarono un cambiamento nell’aria. Non mi voltai e mi trattenni dal chiudere gli occhi.
«Che diamine state facendo? Abbassate tutti le armi!» Ci fu un momento di confusione, una carica di sottomissione si sparse per la stanza e le armi si abbassarono. «Anche tu.» A quel punto mi permisi di chiudere gli occhi e abbassai la mia pistola, che tremò appena nella mia mano, prima di essere rinfoderata. Feci un sospiro profondo e il più silenzioso possibile, ascoltando la sua voce profonda nel buio delle mie palpebre. «Che succede?»
Fu un uomo dietro di me a spiegarlo in maniera sintetica. Aprii gli occhi quando Dahaljer mi si piazzò davanti. «Altezza.» Fece un breve inchino.
Odiavo la sua totale atarassia. «Ahilan», risposi atona. Non avrei fatto una riverenza neanche se me lo avesse chiesto per favore.
«Portate il prigioniero nelle tende e curatelo», disse a tutti e a nessuno,
continuando a guardarmi. «Tu vieni con me.»
Lanciai un’occhiata al ragazzo, steso a terra, nella cui mente intravedevo solo confusione e rabbia, e mi lasciai spingere fuori dalla mano di Dahaljer sul mio gomito.
Mi trascinò fino alla tenda dove era stato a dormire Tagron la prima notte che era rimasto al campo. Dentro, l’aria era calda e umida, due lati posteriori erano in cemento beige. Dietro un paravento si intuiva un letto, un letto vero. Dove ci trovavamo noi c’erano un tavolo e alcune sedie. Pensai che da fuori sembrava più piccola.
«Che cosa ti salta in mente?» disse a bassa voce. Se potevano percepire la nostra mente, non potevano percepire le nostre parole e la sua mente non diceva niente di diverso dal solito.
Alzai il mento. «Ciao, Dahal, quanto tempo, tutto bene?» risposi ironica.
«Shayl’n, non ti hanno dato le armi per usarle su di noi», sibilò eludendo la mia frase.
Aggrottai la fronte. «Non lo avrei mai ammazzato e tu lo sai.»
«Sì, hai ragione, io lo so, ma loro non lo sanno e ti assicuro che ti avrebbero potuto fare fuori in meno di niente.»
Serrai le mandibole, perché aveva ragione. Eravamo a un metro circa di distanza. Scrutai i suoi occhi color del cielo al tramonto, erano preoccupati. Qualcuno dice che gli occhi siano lo specchio dell’anima. Ah, quant’è vero! Non avevo accesso alla sua anima in quel momento, ma ai suoi occhi sì, e mi dovetti mordere un labbro per non saltargli al collo.
Fece un o indietro e mi squadrò dall’alto in basso e viceversa. Avrei voluto ficcare le mani in tasca fingendo noncuranza, ma non avevo le tasche e infilai i pollici nella cintola della fondina. Stava osservando il completo che mi aveva inviato tramite Pasha o forse non solo quello, in ogni caso pareva soddisfatto.
«Stavano già avvisando Tagron. Dicono che riesci a percepire anche i Lupi, è vero?»
Annuii. «Non sembravano credermi, però. E tu non sembri contento.»
Si accigliò anche lui. «Se non ci fossi riuscita, saresti tornata diretta a Praha. Ora ti manderanno sulle prime linee e non mi fa piacere.»
Mi strinsi nelle spalle. «Ma almeno così non mi ammazzeranno.»
«Non ti avrebbero mai ammazzata, Shay. Tagron non è così stupido da non sapere che alcune delle Tigri ti considerano sangue del suo sangue. A differenza dei Lupi, uccidere i reali o peggio gli eredi, è diffamante.»
Feci un gesto con la mano di cui non conoscevo il significato neppure io. «Beh,
di fatto la situazione non è questa.»
«Già e non posso difenderti, qui», si rammaricò.
«Non voglio che tu mi difenda.» Non ero sicura che fosse vero.
Lanciò un’occhiata all’orologio e sollevò di nuovo lo sguardo su di me. «Tieniti lontana dai guai, per favore.»
«Oh, sanno trovarmi benissimo.» Feci un sorriso amaro.
Socchiuse appena le palpebre. «E tu non andare loro incontro.»
Alzai gli occhi al cielo e lui accennò un sorriso, questo mi incitò ad avvicinarmi a lui. Gli sfiorai una mano, cercando di prenderla e lui la spostò.
«Non farlo», sussurrò.
«E che vuoi fare?» Senza volerlo, fissai la sua bocca.
Si spostò all’indietro. «Devo andare a fare rapporto. Tu rimani qui.»
«Dahal…» lo chiamai, mentre si allontanava.
«Rimani qui», ripeté, perentorio.
Rimasi lì per parecchio tempo, senza pensare a nulla di preciso, priva di ogni concentrazione. La sera scese nel brusio prodotto dagli uomini. Due donne con le guance rosse per il freddo mi vennero a chiamare per la cena.
Controvoglia le seguii in silenzio, osservandole: sotto gli strati di vestiti dovevano essere magre. Mangiai con le donne e questo mi fece stranamente piacere, nonostante mi trattassero con eccessivo rispetto. Divorai carne, patate e frutta con un certo appetito.
Prima che potessi finire l’ultima mela, un vociare concitato si diffuse fuori, tra le tende. Immaginai che fosse arrivato il re ed era proprio così.
La tenda del re, il lato dove ero stata io nel pomeriggio, era stato aperto. Il tavolo posizionato dietro verso il paravento e le sedie davanti, in fila una accanto all’altra, su una di quelle mi fece sedere una delle guardie di Tagron, che iniziò a parlare dopo un segno di saluto agli uomini radunati intorno.
Si disse felice della scoperta - il fatto che potessi percepire i Lupi quanto le Tigri - e il suo sorriso smagliante rimase sulla sua bocca tutto il tempo. Gli uomini erano in piedi e io ero l’unica seduta, misi le mani sotto le cosce storcendo la schiena in una posizione tutt’altro che elegante.
«Qualcuno la deve accompagnare a Miurn», disse rivolgendosi ai suoi uomini.
Non potevo vederli tutti, tuttavia Dahaljer era in prima fila e ne studiai la figura. Nell’insieme sembrava rilassato, ma teneva le braccia incrociate sul petto, qualcuno mi aveva detto che, secondo la psicologia più spicciola, quello era un segno di chiusura.
Tagron indicò un uomo dai capelli biondi e riccioluti. «Il tuo battaglione non va da quelle parti?» domandò.
«Sì, signore, ma ci fermiamo prima, molto prima, per Miurn ci vuole almeno un altro giorno e mezzo, forse due.»
«E nessuno di voi vuole prendersi la briga di accompagnarla per un altro giorno e mezzo?»
Mi guardarono e cercai di sostenere i loro sguardi; se alcuni di loro provavano qualcosa di diverso dall’ostilità, provavano però un senso di paura. Ancora non lo potevo credere reale.
«Su, siete uomini con i coglioni o donnicciole?» Nel dirlo Tagron non perse il suo sorriso. «Se non decidete voi, deciderò io.»
«Altezza», fu Dahaljer a parlare. «Con il suo permesso, la principessa non può andare a Miurn, non è un posto per lei.»
Dalla mia posizione potei scorgere il re sollevare un sopracciglio. «Non ho chiesto il tuo parere su questo.»
«No, ma potrebbe essere di impiccio.»
«Potrebbe anche essere utile, anzi è per quello che la mando», tagliò corto Tagron. «Se non hai una proposta per accompagnare la ragazza, direi che possiamo parlare di questo un’altra volta. Anzi non parlarne più sarebbe meglio.» Lo fissò come a sfidarlo a continuare.
Lui raccolse la sfida e non mollò. «Se è così, io tra qualche giorno tornerò a Miurn, dal mio battaglione. La principessa può venire con me.»
«Capitano, so benissimo cosa devi fare.» Non lo avevo mai sentito chiamare capitano. «E so anche che per ora devi rimanere qui, perché mi servi qui. Non posso credere», disse rivolto agli altri. «che nessuno si stia offrendo per accompagnare la principessa, la vostra principessa.»
«È un Lupo, altezza, non fa piacere a nessuno trovarsi da solo con lei.» Era l’uomo biondo di prima.
Tagron si mostrò spazientito, sebbene lasciasse pensare che stesse recitando una qualche parte che conosceva bene e che non fosse la prima volta che lo faceva. «Avete paura di un Lupo da solo? Una donna, per giunta?»
«Gerarchicamente la sua mente è più potente della nostra.»
Il re stava per ribattere, ma Dahaljer si intromise. «Altezza, come sa io e la principessa siamo sullo stesso livello di gerarchia e…». Non trovava le parole? «E abbiamo già fatto un viaggio insieme, da soli. Se partiamo domattina all’alba, tra tre giorni sarò di ritorno.»
«Per la dea delle nevi, non posso credere di trovarmi per soldati degli uomini così paurosi.» Mentre scagliava improperi, meditai sulla dea delle nevi, ma che divinità venerava? Immaginai che non gli ci volesse chissà quale forza o potere per obbligare uno dei soldati ad accompagnarmi, tuttavia il suo sguardo si posò su di me, accondiscendente. «Tytär, credo proprio che il tuo rapitore avrà altri giorni da are con te, ti dispiace?»
Dispiacere non era neanche lontanamente la parola giusta, avrei potuto riempirlo di baci per quello. «Se per lei va bene», ribattei senza inflessioni nella voce, pregando che la mia bocca non sorridesse.
I suoi occhi luccicarono con fare furbo e si voltò verso Dahaljer. «Ti voglio qui tra tre giorni, Ahilan. Non uno di più.»
Lui accennò a un inchino.
Gli uomini si sparpagliarono e io fissai la schiena del re, per non guardare qualcun altro.
27
La notte c’era sempre molto rumore e, abituata ai silenzi della mia camera a Praha, non riuscivo a dormire bene. Ciò nonostante, o proprio per questo, la mattina seguente arrivò presto. Mi svegliò una donna dal viso tondo e bianco come la neve.
Mi vestii in silenzio e appena pronta uscii fuori. Dahaljer e un gruppo di cinque uomini mi stavano aspettando, con gli zaini già in spalla. Tagron mi raggiunse con lunghe falcate aggraziate e decise, consegnandomi quello che sarebbe stato il mio di zaino. Lo misi senza fiatare ascoltando la sua voce che diceva cosa c’era dentro.
Mi afferrò per le spalle e mi guardò negli occhi. «Mi aspetto che tu faccia il tuo dovere, tytär.» Mi mise il cappuccio impellicciato sulla testa, come se fossi una bambina. Strinse gli occhi con un’espressione seria, che probabilmente non gli avevo mai visto. «So che lo farai.»
Sostenni il suo sguardo senza rispondere.
L’angolo della sua bocca si piegò nel suo solito sorriso e le mani mi formicolarono: avrei avuto tanto voglia di farglieli rimangiare, una volta tanto, quei denti che mostrava così spesso con fare affabile. Con le Tigri, e con Tagron Toivainen in particolare, ho capito quanto mostrare i denti possa nascondere tanto un sorriso, quanto un ringhio di delicata minaccia. Mi lasciò. «Capitano, mi aspetto che tu faccia altrettanto.»
«Lo farò», rispose Dahaljer.
Senza preavviso, Tagron lo abbracciò e lui ricambiò. «Lo so, ragazzo mio.» Per un attimo sembrò una vera scenetta famigliare. O forse lo era davvero, tuttavia io non riuscivo a inquadrarla come tale. Infastidita, dovetti spostare lo sguardo sul resto dei soldati, fingendo interesse per i componenti del gruppo che mi avrebbe accompagnata.
Gli uomini partirono di buona lena, seguendo un sentiero invisibile che sembravano conoscere bene. Nel freddo c’erano poche piante, per lo più cespugli bassi, privi di foglie larghe, e diverse alture che chiudevano la vista sul paesaggio. Dahaljer mi rimase lontano insieme ai suoi sentimenti e gli altri fecero lo stesso.
La neve era dura e i piedi non affondavano con facilità, però era facile scivolare sullo strato di ghiaccio. Guardai a terra per la maggior parte del tempo. A stancarmi non fu il percorso lungo e senza soste, quanto il freddo. Immagino che, se fossi stata Umana, solo Umana, con il tipo di vestiti che avevo addosso, sarei morta congelata.
Pranzammo con una zuppa calda e insapore che tuttavia mi rigenerò. Mezzora dopo gli uomini presero la loro strada, facendo battutine poco intelligenti e gesti ancora più stupidi, rivolti a me e che non ricordo. Non diedi loro nessuna soddisfazione.
Non c’era stato un raggio di sole quel giorno, ma l’aria mi sembrava meno pesante ora. Tuttavia Ahilan non disse nulla per diverso tempo, neanche quando la presenza del gruppo svanì dalla vista e dalla mente, e continuò a marciare con
un o veloce e ritmato, come se sotto i suoi piedi ci fosse stata una strada asfaltata, piatta e in discesa.
Ero rimasta qualche metro indietro rispetto a lui e feci una corsa per raggiungerlo. «Conosci bene questi posti?» domandai solo per iniziare a parlare.
«Non tanto», rispose, secco.
Lo osservai con la coda dell’occhio. «Siamo io e te, potresti anche rilassarti», dissi riferendomi al suo umore celato, oltre che alla sua risposta asciutta.
Continuò a guardare avanti a sé e a marciare come un treno sui suoi binari dritti. «Sai, dicono che fidarsi è bene e non fidarsi è meglio.»
«Non pensavo che fossi così paranoico, sai?» lo stuzzicai.
Dietro i suoi occhiali da sole neri, si accigliò. «Non sono paranoico.»
«Certo.» Restammo in silenzio e dovetti ammettere a me stessa che era un silenzio confortevole. Dopo un’ora di cammino sembrò più sereno ed ebbi accesso alle sue emozioni, che si aprirono piano, piano, come se stesse sbocciando un bucaneve.
Il sole era molto basso sull’orizzonte - non che fosse mai troppo alto come a Roma in quei luoghi - e Dahaljer si fermò per preparare la tenda per la notte. Fu
veloce e pratico. Pensai che io non avrei saputo neanche da dove cominciare e mi augurai di non rimanere mai da sola in quel posto sperduto e gelato.
Dentro, la tenda era calda e asciutta, potevo starci in ginocchio senza toccare con la testa e riusciva a contenere due sacchi a pelo aperti e un angolo per mangiare e gli zaini. Il tessuto interno del nostro riparo aveva un color pesca, solo un poco più intenso.
Dahaljer accese un fuoco con dei tronchetti che si era portato e degli arbusti trovati là vicino. Aveva un piccolo forno per cucinare, tuttavia sostenne che fosse meglio usare quello che dava la natura e risparmiare per quando la natura non prometteva nulla di buono. Mi sedetti accanto a lui, stringendomi nella giacca bianca e lo guardai riscaldare dei legumi.
Mi porse un pentolino in acciaio e un cucchiaio. «Vai dentro a mangiare.»
Guardai il contenuto. «Sono anche per te?»
«Sì, tra poco ti raggiungo.»
Mi alzai e mi infilai nella tenda, lasciando aperta l’entrata, ma avvicinando i lembi per non fare entrare l’aria fredda. Accessi due lampade dal colore rossiccio e mi tolsi la giacca e gli anfibi. Aprii il mio sacco a pelo, dentro era peloso e morbido e mi sedetti a gambe incrociate per mangiare.
Ahilan entrò portando un termos fumante e facendo più o meno le stesse azioni
che avevo fatto io qualche attimo prima.
«Quanti uomini sono a Miurn?» gli chiesi andogli il pentolino.
«Trentotto.» Mi porse un pezzo di formaggio e del pane. «Ti conviene mangiare bene ora, dopo non sarà così facile.» Sebbene fossero dei legumi in scatola precotti, non osavo immaginare cosa avrei mangiato nei giorni a seguire.
«Ho voglia di ananas. Ti ho detto che adoro l’ananas?»
«Sì. Lo hai detto almeno un milione di volte, ma non ne ho qui.»
Mi strinsi nelle spalle. «Lo so. Se arrivo viva alla fine di questa storia, mi comprerò quintali di ananas.» La bocca mi si piegò in un sorriso a quel pensiero. Nello scambiarci un pezzo di pagnotta le nostre dita si sfiorarono e avvertii un cambiamento nella sua mente, che non riuscii a identificare.
Lo guardai pulire la pentola con un pezzo del suo pane, poi fece per uscire fuori. «Vado a lavarla con la neve.»
Annuii.
Di ritorno mi allungò il termos. «Prendi. Scalda lo stomaco e pulisce la bocca.» Chiuse la cerniera della porta della tenda.
«Mm, interessante», commentai. Il liquido aveva un sapore simile alla menta e doveva contenere qualche goccia di alcool. «Che cos’è?»
«Non lo so, un intruglio che ha inventato Nalinika.»
Lo guardai. «Sarebbe bello se fosse qui», dissi, sovrappensiero.
«Le donne non vengono mandate qui.» Una nota di scontento si inserì tra le parole.
Gli ridiedi il termos e bevve anche lui. Toccai la sua mano, priva di guanti, aspettandomi che la spostasse. Non lo fece. Osservò il palmo della mia mano, dove mi ero tagliata con i vetri nelle prigioni. C’era una riga sbiadita. «Ho incontrato Nilmini, a Praha.»
Finì di bere e richiuse il contenitore. «Me lo ha detto Tagron. Sta bene?»
«Sì, più di quanto immaginassi, e anche Khaled.»
Un sentimento curioso ò tra le sue emozioni. «Ho… mandato una lettera a Madre Brìgit.»
«Cosa?» domandai in tono stupito.
«Le ho detto che eri viva e stavi bene, che le mancavi e che stavano bene anche i bambini, non ho specificato i nomi. Ho detto che eri stata tu a chiedere di mandare la lettera.» Mi guardò di sottecchi.
«È bello che ti sia ricordato. Grazie.» Mi avvicinai e lui si irrigidì, poi si rilassò.
«Ti ho detto che ci avrei provato.»
«Sì, lo avevi detto.»
Mi sembrò a disagio, non so se per la mia vicinanza o per quello che aveva detto. Mi stupì quando mi accarezzò i capelli. «Non dovresti essere qui, non dovresti proprio», disse più a se stesso che a me.
Cercai di sorridere. «Sembra che tu mi stia portando al patibolo.»
«Forse è proprio così. Vorrei poterti portare da qualche altra parte. Da qualsiasi altra parte.»
«Sì, e vorresti non avere un giuramento da rispettare, un sentimento da reprimere ogni secondo, e la paura di essere scoperto sempre alle calcagna», sintetizzai pacata.
Annuì.
Gli lanciai un’occhiata. «E vorresti stare in un posto come Màlica, solo con me, per sempre con me e fare tutti i giorni l’amore con me.»
Rise di gusto, sciogliendomi il cuore. «Non mi sembra affatto male, tesoro. Hai comprato i biglietti?» Premette le labbra sulle mie, poi si allontanò come se avesse osato troppo. Si buttò sul sacco a pelo e sospirò. «È vero, i guai sanno trovarti benissimo.»
Mi inginocchiai accanto a lui. «Però è vero anche che a volte vado loro incontro.» Spostai il termos, sopra la sua testa, fuori dal sacco a pelo. «Non avrei mai pensato che dentro queste tende, in mezzo alla neve, a più di dieci gradi sotto zero, potesse fare così caldo», osservai.
Sorrise. «Sono davvero utili.»
«Sì», convenni con fare malizioso.
Spostai il viso verso di lui, che mi bloccò. «Può sorprenderci chiunque, qui.»
«Li sentiresti, Dahal, e tu lo sai.»
Mi chinai su di lui a baciarlo e non fece resistenza. Alcune ciocche dei miei capelli ricaddero sul suo viso e la luce della lampada disegnò ombre filiformi.
Mi allontanò da sé. «Stai giocando con il fuoco», mormorò.
«Saresti tu il fuoco?» ribattei con voce volutamente sensuale, salendo su di lui cavalcioni.
Mi accarezzò il viso con la mano. «Che fine ha fatto la Shayl’n ingenua e insicura che ho rapito a Roma?» sussurrò.
«Non sono mai stata insicura», mentii con lo stesso tono, basso e caldo, che avevo usato poco prima. Gli aprii il giacchetto e gli sganciai la fondina ascellare.
«Devo averla lasciata a Màlica.» Fece scivolare giù la lampo del mio corpetto antiproiettili.
«Oh, no. L’hai lasciata molto prima: sulla strada per Sania o forse alle grotte. Non a Màlica.»
Lo aiutai a togliere la maglia di mude felpata e lui tolse la mia. Chinandomi a baciargli il petto, armeggiai con i pantaloni e il resto delle sue armi. Ne aveva troppe addosso, tuttavia mi rifiutai, in quel momento, di riflettere su tale particolare e, benché lui fosse sempre pronto per me, mi concentrai sul lavoro di dita e lingua.
Dahaljer mi afferrò i fianchi e, con un movimento fluido, mi sollevò e mi voltò a terra, supina. “Non puoi fare così.”
“Così come?”
«Mm», poggiò le labbra nell’incavo tra il collo e il viso. «Io sono un uomo e tu sei troppo bella, non è giusto.»
Ridacchiai.
«Sei una droga a cui sto cercando di resistere.»
«Sono molto meglio di una droga, capitano», miagolai attirandolo sul mio seno. La sua bocca scivolò bagnata sulla mia pelle e raggiunse la cicatrice che mi aveva lasciato con gli artigli; con la lingua disegnò cerchietti sempre più piccoli e provocanti, e spogliandomi scese tra le mie cosce. Gemetti.
Risalì lento fino alla base del collo e succhiò. «Sì, sei molto meglio di una droga.» Mi mordicchiò un labbro. “Ma la droga non mi vuole morto.”
«Morto?»
Si sollevò a guardarmi. «Tu mi vuoi morto, è per questo che fai così.» Il suo sguardo era serio, ma tra le sue emozioni c’era una nota divertita.
Poggiai le mani sul suo petto, riempiendomi gli occhi di quel contatto, che mi
infuocava e nello stesso tempo placava ogni mia tempesta. «Sai che ti amo?»
«Lo so. E tu? Lo sai che ti amo?»
«Sì. Sarei già morta se non lo sapessi.» ai le mani dietro la sua nuca e lo attrassi a me per baciarlo, lo cinsi con le gambe ed entrò dentro di me. Ansimò entrando e uscendo e lo fermai. «Aspetta.» Dio, quanto era bello percepire ogni sua emozione! «Aspetta», ripetei. Osservai il suo bel viso tinto di rosso dalle lampade accanto a noi.
“Che c’è?”
“Niente. È che io…”, presi aria respirando con la bocca. «Dahal, non so quando mi ricapiterà, quando avremo un’altra occasione. Tu mi sfuggi ogni momento.» Gli sfiorai con le dita il contorno del viso. «Concedimi almeno questo. Resta qui, dentro di me, ora; mente e corpo. Puoi farlo?»
Si spinse un poco di più verso di me. «Sì.» Se non fossero state le sue sensazioni, i suoi occhi mi avrebbero rivelato tutta la sua brama. Non già la brama del mio corpo, bensì la brama di me, di tutto ciò che ero.
Ascoltai i suoi respiri lenti e ritmati, il fruscio morbido delle sue emozioni,
«Shay.» Mi sfiorò le labbra con le sue. «Promettimi che qualsiasi cosa succederà, ti ricorderai di questo», sussurrò. «Ti ricorderai di quello che percepisci, di quello che sono quando sto con te. Promettilo.» Ignoravo, allora, quanto quelle
parole potessero contenere un presagio.
«Te lo prometto.»
Incrociammo gli sguardi e avrei potuto continuare a guardarlo per ore; non ero sazia, non lo sarei mai stata, ma il mio bacino languido si mosse lento verso il suo e il suo corpo rispose al richiamo dei sensi.
Quella notte mi tenne stretta, quella notte, per la prima volta, pensai che fosse lui ad avere bisogno di me.
QUINTA PARTE I’m Severing The Heart Line
28
Arrivammo a Miurn prima di pranzo, era bel tempo e mi chiesi perché non avessi anche io gli occhiali da sole. Miurn era un insieme di tende e piccole costruzioni in legno e cemento, un tempo doveva essere stato un paese abitato. C’erano Pasha, Layo e Ron, gli altri non li avevo mai visti. Erano là da una settimana, a quanto pare quel posto era stato preso con la forza e i Bamiy erano stati costretti a ritirarsi, tuttavia, la situazione si era arenata, perché qualsiasi movimento fero verso di loro venivano attaccati a sorpresa.
In mancanza di Ahilan, facevano capo a un tale, chiamato Irfaen. Un uomo alto quasi due metri, possente, dalla pelle più scura della mia e gli occhi di un grigio gelato. Portava i capelli brizzolati legati in una coda di cavallo. Non mi era facile capire l’età delle Tigri perché di solito dimostravano di meno, di lui avrei detto che aveva una quarantina d’anni.
Dahaljer pranzò e se ne andò. Ci eravamo detti tutto prima, quindi mi fece solo un cenno col capo al quale risposi alzando appena la mano in un movimento fin troppo rigido. Tenevo le braccia conserte e lo osservai perdersi dietro la prima collina.
C’era un uomo ferito in una delle costruzioni e qualcuno mi aveva chiesto di andargli a portare da bere. Eseguii l’ordine per non pensare alla schiena di Ahilan che si allontanava.
L’uomo era disteso su una brandina malconcia, aveva la gamba immobilizzata. Uno di loro era un medico e lo aveva curato con un’ingessatura sommaria.
L’uomo mi sorrise. «Sogno o vedo una donna?» mormorò.
«Non sogni e vedi una donna», risposi porgendogli una bottiglia.
Si tirò su a sedere. Mi toccò un braccio con il dito, come se credesse veramente che fossi finta. Bevve l’acqua. «La prossima volta, principessa, mi porti della vodka.»
Se non altro, sapeva chi ero. «Che le è successo?» domandai.
«I suoi fratelli Bamiy mi hanno sparato a una gamba ieri mattina.»
«Non sono i miei fratelli», protestai.
Sorvolò. «Così non sono neanche potuto andare con il capitano, per riposarmi in un luogo più sicuro.»
«Mi dispiace», concessi.
Annuii e si distese. «Li sorprenda, a quei bastardi, stanotte.»
«Pulwy, lascia in pace la principessa.» Pasha Klein entrò facendomi l’occhiolino. Gli sorrisi. «Vieni, Shayl’n, ti illustro la mappa della zona.»
«Mm», fece Pulwy. «Come mai hai tutte queste confidenze con la nostra principessa?»
«Perché è mio amico», dissi alzandomi.
«Oh, male, molto male», commentò meditabondo.
«Non essere invidioso», lo rimbeccò Pasha. «E vedi di riposarti.»
Sollevò le spalle. «Perché, posso fare altro?» Fece notare, scontroso.
Uscimmo sulla neve e raggiungemmo una piccola tenda, non molto diversa da quella di Dahaljer: bianca fuori, arancione dentro. Pasha aprì dei fogli e mi spiegò quale fosse la situazione, dove si erano bloccati e dove era stato aggredito Pulwy. Dovevano superare un fiume e l’unico ponte esistente era sorvegliato dai Bamiy.
L’idea era quella di percorrere il fiume di notte e trovare un punto per superarlo, solo che le anse del fiume erano molto scoperte. A quel punto dovevo essere io a dirgli se c’erano Lupi o meno.
Sembrava facile tutto sommato.
Calato il buio, Ifraen spedì me e Pasha in avanscoperta. Era stato lui a proporsi. Percorremmo il fiume in silenzio, trotterellando come gatti, tra dossi e piccole depressioni del terreno. Pensai che il paragone con i gatti per una Tigre e una mezza Tigre fosse quantomeno inappropriato.
Pasha non ripose mai la pistola e io lo imitai. Vedevo le luci di un piccolo accampamento vicino al ponte di cui mi aveva parlato nel pomeriggio, percependo le presenze dei Lupi, e per il resto non sentivo nulla.
La neve brillava nella notte, nonostante fosse luna nuova. Il cielo era sereno e nitido come non mai. Mantenni la bocca chiusa per non far entrare l’aria fredda nei polmoni e seguii il ragazzo. Trovò un paio di punti dove secondo lui si poteva superare il fiume.
Tornammo indietro prima dell’alba. Ero stanca e avevo un gran sonno. Pasha riferì la situazione e io dissi solo che non c’erano Lupi.
***
«Vieni», dissi a Pasha.
Eravamo all’interno di un solco nella terra con un gruppo di soldati, tra cui Ifraen Gelov e Tejii Weber. Eravamo a circa un paio di chilometri dal punto in cui il fiume diventava basso e ghiaioso. Sarei dovuta andare avanti e fare strada, c’erano collinette con qualche betulla a cespuglio e poi il terreno diventava piatto e scoperto, prima di arrivare alle anse del fiume. Dall’altra parte potevo
scorgere una serie di colline che salivano e scendevano come dune nel deserto. Volevo incamminarmi prima, mentre gli uomini si armavano, per studiare il luogo alla luce del giorno.
«Ci vediamo oltre il fiume», disse Pasha al suo comandante e mi raggiunse.
Mi seguì in silenzio, mentre ascoltavo il rumore sordo dei nostri i. «Odio essere qui», dissi di punto in bianco, camminando. «Vorrei essere in un bel posto caldo a litigare con i vestiti della fabbrica. »
«Che fabbrica?» mi chiese, curioso.
«Quella dove lavoravo. Facevano dei vestiti.»
«La classica principessa dalle umili origini», mi prese in giro.
«Zitto!» esclamai a bassa voce. Non ero offesa, stavo solo ascoltando qualcosa dentro di me. E lui, essendo una Tigre Bianca, lo colse subito.
«Che succede?»
C’era qualcuno, da qualche parte, e non era una Tigre. Lo percepivo abbastanza chiaramente. Avanzai di qualche o verso l’ultima collina prima del tratto pianeggiante. Era una sensazione che conoscevo, quella di percepire la presenza di qualcuno che non fosse Umano, tuttavia era diversa, il mio corpo sapeva che
non si trattava di una Tigre. Ripensai al ragazzo che avevano catturato e torturato a Kolov e fui certa di quello che stavo sentendo.
Non stavo guardando a dove mettevo i piedi e sprofondai in una buca nella neve di circa trenta centimetri. Pasha cercò di afferrarmi e mi mancò. Imprecai. Mi tirò fuori. «Tutto bene?»
«Sì.» Ma mi ero tagliata con un sasso appuntito all’altezza degli anfibi. «Dobbiamo avvertire gli altri, Pasha, ci sono dei Lupi oltre quella collina dopo il fiume e credo siano anche molto vigili.»
Corrucciò la fronte. «Sei sicura?»
«Sì. Muoviamoci.» Tornammo sui nostri i, ma non riuscivo ad appoggiare il piede. «Merda.» Mi piegai a studiare la ferita che sanguinava a ogni o. «Pasha, corri, vai a dire di non are il fiume.»
Lui ci pensò.
«È un ordine, Pasha, muoviti!»
Lanciò un’occhiata al mio taglio.
«Non è nulla, vi raggiungo subito», cercai di tranquillizzarlo. E lui scattò via.
Mi voltai ad analizzare la situazione e, sicura di non essere vista, mi alzai. Raggiunsi claudicante la trincea naturale un quarto d’ora dopo.
Ifraen era armato di tutto punto e stava uscendo con altri uomini. Alzai gli occhi al cielo e lo raggiunsi, evitando di pensare alla ferita. «Dove diamine sta andando?» sbraitai.
Lui neanche mi guardò. «Oltre il confine, al fiume.»
«No!»
Si avvicinò di un o. «Non prendo ordini da una donna, tanto meno da una ragazzina, neanche da Sua Altezza Reale!» ringhiò.
Lo acciuffai per il giubbetto e per la sorpresa non reagì. Mi superava almeno di venti centimetri. «Guardi.» Indicai la collina verso sud. «Guardi là. Ci sono dei Lupi là e non vedono l’ora che voi facciate questa cazzata.»
Mi fissò senza batter ciglio. «Quanti?»
Ci pensai. «Non lo so, cinque o sei.»
«Come fa a saperlo?»
Aggrottai la fronte e, fissandolo a mia volta, lasciai che i miei occhi verdi lo spiegassero, luccicando.
Lui si liberò della mia presa. «Va bene.» Guardò gli altri. «Layo, tu e voi tre rimanete qui con me. Pasha riporta lei a Miurn e voi quattro andate con loro.»
«Che farete qui?» chiesi.
«Vediamo come va la situazione. Per qualsiasi cosa vi faccio chiamare. Va bene, altezza?» L’ostilità delle sue parole era pari a quella delle sue emozioni.
«Non oltreate quegli alberi», ribadii.
«Ho detto che va bene», ribatté. Guardò la ferita sulla mia gamba e fece un gesto seccato. «Pasha, portala via, te lo devo ripetere?»
Il ragazzo mi venne incontro e con la mano mi fece cenno di seguirlo. Lanciando un’occhiata di avvertimento a Ifraen, zoppicai dietro a Pasha e gli altri uomini. Rimasi indietro perché non sapevo come appoggiare la gamba, lo stivale mi sbatteva contro la ferita. Alla fine Pasha si voltò, mi ò le mani dietro alle gambe e alla schiena e mi prese in braccio.
«No, ti prego», dissi con voce querula.
«Non pregarmi, non sono un santo: andiamo troppo piano», ribatté perentorio.
Sbuffai. «Così ti rallento il o lo stesso.»
«Pesi meno del mio zaino, Shayl’n, e ora neanche ce l’ho, quindi stai zitta, per favore.»
Sospirai cingendogli il collo con le braccia.
Si decise a lasciarmi solo quando mi poté mettere seduta sul tavolo di una delle casine di Miurn. Mi tolse le scarpe e tirando su la stoffa dei pantaloni della gamba destra, analizzò la ferita. «È poco più che un graffio», gli feci notare. «Se mi dai un po’ di neve pulita, vedrai che smetterà di sanguinare in un batter d’occhio.»
Ron Nawa entrò nella stanza, porgendomi una benda. Non mi aspettavo da lui quel gesto. «Grazie, Ron. Forse, basta un cerotto», azzardai. «E magari potresti prendermi della neve», aggiunsi per non farlo sentire inutile.
«Va bene.» Uscì fuori.
«Se cammini ti sanguina?» s’informò Pasha.
«Ma che dici? Certo che no. Sanguinava a contatto della pelle degli anfibi. Fammi scendere.» Annuì e io mi appoggiai alla sua spalla per poggiare piano il
piede a terra. «E comunque sei un soldato, non puoi preoccuparti per un graffietto.»
«Io sono un soldato, tu no. »
Con un gesto impaziente lo allontanai. «Oh, ho sofferto di peggio. Ahilan mi stava quasi per ammazzare con gli artigli.»
«Lo so.» C’era una nota stonata nella sua voce; lo guardai. Non si scompose, neanche nei sentimenti, si abbassò a rimettermi la scarpa sinistra e lo lasciai fare.
Ron tornò con cerotto, pezza, neve e acqua ossigenata. Pulii la ferita e ci poggiai la neve sopra che me la rinfrescò all’istante. Prima di mettere il cerotto, ci ai l’acqua ossigenata, che al contatto fece le bollicine.
«Ifraen è rimasto?» chiese Ron a Pasha, mentre provavo a rimettere l’altra scarpa.
«Sì, ma se succede qualcosa ci manda a chiamare. Per oggi non c’era molto da fare. C’erano i Lupi e sorvegliavano quel punto del fiume.»
Mi alzai e valutai il dolore, che come prevedevo era inesistente.
«Come lo sapevano?»
Pasha mi guardò. Sbuffai di nuovo. «Dai, ragazzi, ma davvero? Mi avete fatta venire sulla linea del fronte di una guerra del cazzo per questo motivo e poi non credete a quello che dico!»
Ron si rabbuiò. Non tentai di cambiare la frase: era tutto vero.
«Ma, cioè.... secondo te, perché dovremmo fidarci?» Nella voce di Ron c’era curiosità e nei suoi sentimenti non c’era nessun tipo di ostilità.
Sollevai le spalle. «Forse perché a me non me ne frega niente di questa storia e vorrei essere a più di mille chilometri a sud da qui e pensare ai fatti miei. Quindi se non volete credermi, potete anche rimandarmi a casa.»
«Io ti credo.» Ron sembrava sincero. Aveva il naso largo, il viso squadrato e profondi occhi azzurri sui capelli castani. Di viso non era bello, ma aveva un bel corpo.
«Non eri tu che mi chiamavi ‘lupetta vorace’?» gli rammentai con palese disprezzo.
«Sì», ammise. «Cioè... mi dispiace.»
Lo osservai indecisa se continuare a dargli addosso.
«Però è vero, principessa», commentò Pasha, facendo sorridere tutti e tre.
Al calar del buio, avevo solo voglia di mangiare e andare a dormire, invece anche quella fu una notte molto lunga. Non erano ate neanche due ore da quando mi ero addormentata.
Pasha, accanto a me, scattò in piedi e uscì. Tra il sonno e la veglia sentii gli uomini parlare animatamente e percepii un senso di paura. Brontolai e mi tirai a sedere. Indossai gli anfibi e uscii anche io.
Seguii le voci in una delle costruzioni ed entrai. Lo scenario che mi si presentò era raccapricciante: due uomini a terra, morti, e uno ferito gravemente, messo a terra anche lui, su un lenzuolo.
Indietreggiai fino a scontrarmi con una persona. Era Tejii, che mi spostò in un angolo come fossi un oggetto che si trovava in mezzo alla stanza. Uno degli uomini raccontò concitato cosa fosse successo.
Con il buio Ifraen, Layo e gli altri avevano cercato di attaccare i Lupi che avevo visto, per garantirsi il aggio. Nella lotta, un corpo a corpo per non fare troppo rumore, Ifraen e l’altro uomo, che poi scoprii essere il medico, erano rimasti uccisi. Layo invece era stato ferito con un taglio netto sull’avambraccio e varie escoriazioni. I Lupi erano stati uccisi.
Layo sanguinava copiosamente, mentre Tejii cercava di porre un freno all’emorragia.
Nel frattempo Ron stava medicando l’altro uomo, quello che aveva raccontato la storia, una ferita da arma da fuoco più leggera.
Nella confusione, portarono bende e medicine, mentre Layo gridava come un ossesso. Rimasi da una parte a guardare finché Tejii non imprecò. «Buon Dio! Non c’è qualche brutto bastardo che sappia cucire questa ferita?»
Nessuno di loro fiatò. Si guardarono a vicenda con aria preoccupata.
«Io.» Mi sentii dire.
Tejii si voltò a guardarmi con il viso contratto, poi rilassò i lineamenti. «Sicuramente una bastarda. Bella, ma bastarda», disse sorridendo. Nella sua mente non c’era ostilità e ricambiai il sorriso, impacciata. Si alzò. «Se ne è certa, principessa.»
«Mi ha insegnato Nalinika», spiegai
«Allora, si accomodi.» Mi fece spazio. «Nalinika ha insegnato anche a me, ma ho le dita troppo grosse e non ho mai davvero imparato.»
Tra me e Layo ò rancore e lui mugolò, forse per il dolore, o forse perché ero io a doverlo curare. Non trattenni la mia insofferenza nei suoi confronti.
Tejii ci studiò. «Layo», lo ammonì. «Fatti mettere le regali dita addosso, perché
credo sia l’unico modo in cui potrai averle.» Qualcuno alle mie spalle rise. «E piantala, se non vuoi morire dissanguato.»
Lui voltò il viso stizzito e lasciò che gli ricucissi la ferita in silenzio. Era sudato e pallido come un fantasma, non fece e non disse altro per tutto il tempo, mentre le mie dita facevano are il filo sterilizzato nella sua pelle. Avrei voluto averne avuto uno anche per Nalinika, forse le sue ferite non avrebbero fatto infezione e a quest’ora sarebbe potuto essere ancora viva.
Quando ebbi finito di suturare i lembi mollicci del taglio, fu Tejii a ringraziarmi.
Uscii nel gelo della notte a pulirmi le mani e Pasha mi seguì. Disse qualcosa a proposito delle mie dita e a proposito di quello che era successo, non lo ascoltai perché avevo un gran sonno e un cerchio alla testa che richiedeva la mia mente nelle braccia di Morfeo quanto prima. Erano quasi tre giorni e due notti che non dormivo davvero e non ero abituata, la mia parte Umana pretendeva un minimo di riposo.
Alzarsi, all’alba, fu altrettanto faticoso.
Il campo era in subbuglio, Ifraen era morto e, non essendoci Dahaljer, non c’era un vero e proprio capo. Inoltre i Lupi che impedivano il aggio sul fiume erano stati uccisi, quindi in quel momento si poteva oltreare quel posto e forse era l’unico momento buono.
Così Layo e Pulwy rimasero insieme a due uomini, mentre noi altri ci apprestavamo a are il fiume e uno di loro andava verso Kolov.
Prima di superare il fiume, ci fu una strana tensione, percepibile dai nostri istinti animali. Da fuori eravamo un gruppo di persone guardinghe e armate fino ai denti. Avevamo tre cavalli da soma e le facce un po’ stanche.
La corrente d’acqua scendeva con un rumore cristallino e aveva tutta l’aria di essere troppo fredda per poter essere toccata con la pelle nuda. Il fiume, che doveva avere la sua sorgente in qualche ghiacciaio a nord, in parte era ricoperto dalla neve e appariva meno largo, tuttavia la fossa che disegnava nel paesaggio si distingueva con chiarezza.
Era giorno e chiunque avrebbe potuto vederci, però gli altri contavano su di me per qualsiasi ‘avvistamento’. Forse è così che mi ritrovai alla testa di una trentina di uomini, dieci volte più addestrati di me.
Raggiungemmo senza intoppi un vecchio paese saccheggiato, in cui dovevano aver soggiornato anche i Bamiy. Montarono le tende all’interno delle costruzioni e si prepararono a una cena festosa.
Nel paese c’era una piazzetta e ci concentrammo là. Erano molto felici, perché finalmente avevano superato il fiume. Non condividevo quella felicità, poiché non volevo essere là e non volevo sapere che uomini che avevo avvisato, erano morti lo stesso.
Non c’erano Lupi Grigi nei paraggi e gli uomini si permisero di cantare e brindare davanti a un fuoco grande e caldo che pizzicava sulla mia pelle infreddolita. Brindarono a me, a Ifraen e alla morte dei Lupi, brindarono a Nalinika e a chi aveva creato le Tigri Bianche. Io ero stanca e volevo dormire, rimasi con loro perché con tutto quel baccano non avrei potuto chiudere neanche
gli occhi. Inoltre, se fossero arrivati i Bamiy, non li avrei sentiti.
Pasha mi mise un braccio sulle spalle, andomi della vodka che rifiutai. «Potresti farlo un sorriso», mi bisbigliò nell’orecchio.
Gli lanciai un’occhiataccia e lui mostrò i denti splendenti con fare infantile, il suo viso da bambino si illuminò. Giocherellò con una ciocca dei miei capelli.
«I Lupi sono rimasti tutti uccisi?» chiesi senza guardarlo, mentre gli uomini cantavano una canzoncina sconcia in un dialetto arindo che non conoscevo bene.
Si strinse nelle spalle. «Sì, certo.»
Mi abbracciai tentando di non disperdere il calore della giacca. «Non poteva andare diversamente, vero?»
Dondolò appena il capo. «Cioè?»
«Non hanno provato neanche a catturarli, a non ammazzarli.»
«Non penso proprio.» Il suo tono era rilassato, ma la sua mente si fece attenta. «Non facciamo prigionieri, Shayl’n, e neanche loro, mai.»
«Non mi piace questa cosa.»
Mi tirò piano i capelli. «Perché sei una donna.»
«O perché sono un po’ più Umana di te», ribattei seria.
Con il visino serafico mi sorrise. «Oh, molto poco, principessa.»
Sbuffai. «Non posso credere che state facendo una guerra così. Insomma vi ammazzate davvero, non è un gioco, e per cosa? Sono secoli che va avanti, non vincerete mai e neanche loro.»
Mi strinse. «Ora abbiamo te.»
«Non adularmi, Pasha, non attacca. Sai benissimo che sono qui solo perché costretta», replicai aspra.
«Lo so.» Cambiò tono di voce. «Ma stasera non pensarci.»
Appoggiai la testa sulla sua spalla, giocherellando con la placca nel tapi che conteneva il suo nome, e annuii. “E quando?” chiesi nella mente, ma solo Ahilan avrebbe potuto sentire quella domanda così formulata. Pasha si limitò a tenermi stretta e ad accarezzarmi il viso.
Mi addormentai. Mi accorsi appena delle sue braccia che mi portavano nella tenda.
29
Il mattino avrà anche l’oro in bocca, ma io al mattino in bocca avevo un sapore insopportabile e la voglia di dormire per almeno dieci giorni. Fuori faceva freddo, c’era vento e il sole era sbiadito e basso. Avevo voglia di pane e miele e per la prima volta pensai che avevo quasi più comodità alla creche che in quel posto.
Guardai gli uomini farsi una sorta di toletta ed ebbi l’impulso irrefrenabile di parlare con una donna o di averla vicina. Mi strinsi nella giacca, tirando il cappuccio sui capelli.
«Altezza», esordì Tejii. «Buongiorno. Ha dormito bene?»
Piegai i lineamenti in una smorfia. «Ho dormito, il che è già tanto.»
Fece cenno di aver capito. «Parlavo con i ragazzi e pensavamo di fare un sopralluogo delle zone qua intorno. Tra quattro, massimo cinque giorni, avremo dei rinforzi, così da creare una nuova base qui e lungo il fiume e poterci addentrare. Se per lei va bene.»
Per me? Sollevai le sopracciglia e scossi la testa con fare indifferente.
«Da dove vuole iniziare?» Mi illustrò la mappa.
Alzai le spalle. «Beh, facciamo un giro circolare. »
Annuì. «Preparo sette uomini e partiamo.»
«Ora? » Oh, no…
Mi lanciò un’occhiata sorpresa. «Quando?»
«Sì, no, quando vuole.» Mi grattai il naso, che non prudeva affatto.
«Bene, la chiamo quando siamo pronti.»
Di certo Tejii Weber era una persona pratica e non perdeva tempo. Immaginai che potesse essere mio padre. Aveva gli occhi di un grigio scuro che trovavo particolare per una Tigre. Aveva folte ciglia nere e capelli neri, mi chiesi se non fosse un bastardo anche lui e se quindi non avesse sangue Umano nelle vene. Mi ripromisi di chiederlo a Pasha e di chiedergli se tra i soldati/guerrieri erano accetti i mezzosangue.
Feci in tempo giusto ad allontanarmi per andare in bagno, dopo di che venni richiamata all’ordine. Girammo in tondo tutta la giornata, fermandoci solo per pranzare.
Gli uomini sembravano ancora di buon umore, questo però mi rendeva irritabile.
Ron, che era con noi, mi sorrise. «Secondo me dovrebbe essere contenta, perché, cioè... prima eravamo tutti un po’ abbattuti.» Mi guardò. Era sottomesso, ma non provava paura, chissà quanto del mio buon sangue paterno aveva a che vedere con quella storia. «Ci ha dato una possibilità per continuare, anche se non ha fatto niente, ci ha dato coraggio, capisce?»
«Cosa sono, Giovanna d’Arco post’12?» Sapevo di trasmettere aggressività pura.
Sgranò gli occhi. «Giovanna d’Arco?»
«Ma la studiate un po’ di storia voialtri?» Sembrò offeso. «Lascia perdere.» Il mio tono era ancora troppo brusco.
«So chi fosse Giovanna D’Arco», si difese con un borbottio.
«Va bene, lasciamola perdere.» Trovai ironico che le mie peggiori offese non volute finissero tutte su Ron Nawa, forse risentivo dei suoi attacchi iniziali. Sospirai. «Scusa, non ce l’ho con te. Questa situazione non mi piace e trovo inutile da parte vostra volermi convincere a farmela piacere per forza.» Lo guardai negli occhi. «Preferirei non parlarne per niente e basta.»
Gli altri ci stavano ascoltando e lanciai loro un’occhiata stanca.
Per quanto mi riguarda, in quelle zone faceva buio troppo presto -e non era ancora inverno-. Stavamo tornando indietro quando qualcosa mi bloccò. Tejii mi raggiunse con tre falcate. Sollevai una mano. «Ci sono dei Lupi», sussurrai.
«Quanto lontani?»
«Non so, uno, massimo due chilometri da qui.» Indicai un punto, verso sud ovest, contro il sole morente. «Da quella parte.»
«Sa quanti sono?»
Scossi la testa. «È troppo lontano, non credo tanti però.»
«Cosa intende per tanti?»
«Non più di una dozzina.» Mi concentrai. «No, meno; forse otto, però, non sono sicura. È molto lontano.»
Avevo valutato la loro prossima mossa, prima che me la dicessero, perché potevo sentirla crescere nei loro umori come un fiume in piena. Sarebbero andati in quel momento ad affrontarli.
Cercai di fermarli e di rimandare al giorno dopo, ma nessuno di loro mi ascoltò. Erano in otto anche loro e dovevano considerare l’effetto sorpresa, oltre al fatto che l’indomani sarebbero potuti essere troppo vicini, o troppo lontani.
Durante il percorso che ci separava, Tejii mi chiese se loro potessero sentire me. «Immagino di sì. Non so neanche io come funzionino queste cose.» Gli scoccai un’occhiataccia. «Se non lo sapete voi.»
Ignorò la mia velata accusa e mi chiese se confermavo il numero. Risposi di sì, che forse erano anche meno.
Il cielo era cupo, sull’orizzonte, il sole era tramontato e le nuvole sulle nostre teste erano di un vago rosso sangue. Mi imposi di non fare tali similitudini. Un rosso ciclamino o un rosso fragola potevano adattarsi.
Non volevo attaccare nessuno, e non volevo stare a vedere loro che lo facevano. Se mi fossi fermata prima, però, sarei rimasta sola e non mi sembrò un’alternativa allettante.
Ron mi bloccò quando eravamo molto vicini. «Tejii», chiamò. «Se sentono la ragazza siamo fregati. Io e lei ci spostiamo sulla destra e voi li attaccate da qui. Cioè... se a voi va bene.»
Tejii annuì. «Qualcosa da dire?» mi chiese prima di allontanarsi.
Stavo per scuotere la testa, poi dissi: «Li voglio vivi.»
«Cosa?»
Lanciai un’occhiata a ognuno di loro. «Li voglio vivi. A meno che non stiano per ammazzarvi.»
«Buon Dio! Ma staranno per ammazzarci, se non spariamo prima noi.» Anche gli altri mi guardarono sbigottiti.
«Cercate di fare in modo che non sia così. Sfruttate questo benedetto effetto sorpresa per cui mi avete portata qui», dissi con il tono più severo che mi riuscisse.
«È un ordine?»
Guardai Tejii negli occhi. «Sì.»
«Bene. È lei il capo.»
Non risposi. Non ero il loro capo e non volevo esserlo, tuttavia la gerarchia mi dava quel potere e lo dovevo sfruttare.
Dovetti ammettere che era stata una mossa intelligente dividerci. Seguii Ron lungo il pendio, cercando di non scivolare sulla neve. Gli occhi erano abituati al buio e vedevo con chiarezza dove mettere i piedi.
I Bamiy si accorsero di me prima del previsto. Non c’era ostilità nei miei confronti, quanto stupore. Pensai che dovessero sapere che ero una donna, perché io sapevo che loro erano uomini, un particolare interessante, visto che con le Tigri Bianche non mi succedeva.
Eravamo a poco più di trenta metri da loro, quando si voltarono a guardarmi e uno di loro si alzò. Aggrottai la fronte, indecisa sul da farsi perché non erano meno di otto, erano in dieci, ma non riuscivo a sentire gli altri componenti del gruppo.
Mi fermai e Ron si fermò accanto a me. Prima di vederlo con gli occhi, sapevo che i Tiouck stavano attaccando. Restai immobile osservando la scena.
Tejii si muoveva veloce e agile, nonostante la mole del corpo, sembrava volare a un filo da terra. Gli altri non furono da meno. Imprecai perché i Lupi spararono più volte. Neanche loro facevano prigionieri. Mai.
Il sangue schizzò ovunque, anche al buio lo potevo vedere nitido sulla neve bianca, immacolata, macchie indelebili dell'anima, e mi costrinsi a respirare, perché per qualche attimo il mio corpo mi fece capire di non esserne in grado. Ron accanto a me fremeva. Era un fascio di nervi pronto ad attaccare. «Se vuoi, vai», gli dissi dopo il terzo colpo di pistola. Eravamo in minoranza e non avremmo ucciso, questo era uno svantaggio notevole. Quando lui scattò nella mischia, estrassi il mio pugnale.
Seguendo la scena, mi ritrovai a pregare la Nostra Signora, ripetendo la stessa preghiera più di una volta. Era una preghiera di perdono. Per quanto mi sembrasse lungo e infinito, l’attacco durò poco e lasciò a terra quattro di loro e nessuno dei nostri, sebbene Valerj riportò una ferita da arma da fuoco sul braccio e Ron un’escoriazione sul viso.
I Lupi erano disarmati e circondati e sarebbero stati uccisi se avessero provato a trasformarsi. Quando li raggiunsi erano stupiti e ostili, e mi guardarono con odio. «Sei una traditrice!» mi apostrofò uno di loro con una rabbia che mi entrava nelle vene.
«No.» Non aggiunsi altro, sarebbe stato troppo lungo e complicato spiegare in quel momento e non ero sicura che nelle vicinanze non vi fossero altri Bamiy.
Poco prima della mezzanotte eravamo di nuovo in paese. Esausta e priva di ogni voglia di parlare, estrassi dal braccio di Valerj una pallottola e lo medicai. Medicai anche alcuni tagli da pugnale dei Bamiy e scoprii perché non li avevo contati nel modo corretto, neanche quando ero molto vicina: quattro di loro erano Umani e ora avevano i geloni sulle dita.
In quel momento al campo c’erano cinque Lupi e due Umani. Si rifiutarono di dire qualsiasi cosa e io non avevo nessuna intenzione di forzarli a dire qualcosa, né tanto meno di stare a discutere. I loro sentimenti nella mia testa facevano già troppo rumore.
Tecnicamente il mio sangue voleva che fossi un capo anche per loro, se non di più, tuttavia il loro odio e la loro diffidenza erano tangibili e fastidiosi.
Le Tigri non approvarono il fatto che li avessi voluti fare prigionieri e, ascoltandoli dire che non volevano dargli da mangiare o fargli da balia, mi rifugiai nella tenda di Pasha, premendo le mani sulle orecchie e chiedendomi se esistesse un modo per fare altrettanto anche per la mente. Mi addormentai prima di rendermi conto che stavo morendo di fame.
Un’altra mattina, un altro giorno di freddo e un’altra giornata infinita e brumosa. Dopo un silenzioso allenamento, si raccolsero tutti intorno a me in una sorta di consiglio in cui di fatto venivo eletta a capo del loro battaglione, nonostante non tutti fossero d’accordo. Vorrei precisare che io ero tra coloro che non erano d’accordo, tuttavia rifiutare avrebbe voluto dire la morte dei miei prigionieri e di quelli futuri. Vietai qualsiasi tentativo di tortura nei loro confronti e mi sforzai per dare uno scopo a una missione non mia.
Seguendo le linee della mappa e ponendo un freno a tutte le mie emozioni, decisi che non appena fossero arrivati i rinforzi di cui mi avevano parlato il giorno prima, avrei spedito i prigionieri a Kolov e sarei partita verso sud, dove avevamo attaccato i Bamiy insieme a un gruppo di Tiouck.
L’intento era quello di penetrare le zone dei Lupi Grigi e avvicinarci a Nuova Auxerre, capitale dei Bamiy. L’intento di Tagron, perlomeno.
I rinforzi arrivarono la sera stessa, erano tanti e pieni di vita. Mi morsi la lingua perché non ne ero affatto felice. E cercai di infilarmi la lingua ancora più giù, per non chiedere informazioni su Ahilan.
Avevamo aperto un varco nel confine dei Lupi e Tagron Toivainen non avrebbe perso questa occasione, trovai sotto di me almeno duecento uomini, che con mia grande sorpresa non sindacarono sul mio ruolo. Ne rispedii tre a prendere Pulwy e Layo, qualora fossero stati bene - lo avevo promesso loro - e una decina di nuovo a Kolov per portare là i prigionieri.
Con il beneplacito di Sua Altezza Reale la Principessa di Minse di Danubie, ovvero io, per quattro giorni le Tigri attaccarono lungo il fiume, per sfruttare
l’effetto sorpresa e lasciare libero più di un aggio sul fiume. Scesi a sud, ci stabilimmo una nuova base, ben collegata con Kolov.
Non riuscii però a contare i morti, né tra i Lupi, né tra le Tigri, riuscii invece a contare una quarantina di prigionieri e mi appellai a questo per sentirmi soddisfatta e in pace con me stessa, mio malgrado.
30
Erano successe così tante cose e così in fretta che sembrava fossero ati mesi e mesi, invece non erano neanche venti giorni che Ahilan se n’era andato. Qualcuno mi disse che si trovava molto più a sud con Tagron a difendere i confini più deboli. Quello che era stato il suo battaglione non ne era sorpreso e immaginai che non ci fosse nulla di strano.
Più di una volta Tagron spedì l’ordine di non fare prigionieri, ignorai ogni sua velata minaccia in merito e continuai a imporlo ai soldati.
Nevicò per quattro giorni di seguito, con tormente rumorose e sferzanti. Restammo nelle tende in attesa.
Chiacchierai con Pasha, raccontandogli della mia vita, e lui mi parlò di sé.
«Come hai deciso di diventare un soldato/guerriero?» domandai facendo una trecciolina con una ciocca dei miei capelli.
«Non l’ho deciso, a dire il vero.» Si stava mordicchiando un’unghia con attenzione. «Mio padre desiderava che uno dei suoi figli fe parte di questo corpo del re e, poiché ero l’unico figlio maschio, mi ci mandò senza troppo pensarci.»
Lo guardai, sorpresa. «Hai delle sorelle?»
Sollevò lo sguardo su di me. «La cosa ti stupisce?»
«No, ma confesso di non aver mai pensato al fatto che potessi avere sorelle.»
«Ne ho due, entrambe più grandi.» Pensai che Pasha riuscisse ad avere sempre una voce pacata e tranquilla, trasmetteva una certa serenità.
«Ti assomigliano?»
«Mmm», si guardò le dita e contemplai il suo viso da ragazzino. Era per lo più glabro, la pelle era rosata e sul capo aveva dei piccoli riccioletti che lo rendevano ancora più infantile. «La più grande sì, siamo praticamente identici, ci iamo quattro anni, ma quando siamo cresciuti alcuni ci chiedevano se eravamo gemelli. Con l’altra no, assomiglia molto a mia mamma, noi a mio padre.»
«Ti dispiace aver dovuto lasciare tutto per fare una cosa che ti è stata imposta?»
Scosse appena il capo. «No. Mi piace quello che faccio.»
«Uccidere?» lo stuzzicai.
«Difendere», rispose piccato.
Sorrisi analizzando la mia treccia informe e lui ne approfittò per cambiare discorso, facendomi domande sui miei gusti, su cosa mi pie mangiare, bere o fare, un piccolo terzo grado a cui fui felice di rispondere perché non avevo voglia di pensare a nulla di serio o triste. Un gradevole scambio superficiale di informazioni era ciò che ci voleva in quel momento.
La bufera di neve finì e noi ci addentrammo nei territori dei Lupi, verso sud. La vegetazione diventò una presenza costante. Alti alberi dal verde scuro, che oscillavano sotto il vento come se danzassero, e betulle di ogni tipo riempirono il paesaggio bianco e desolato.
Di solito ci muovevamo a blocchi, io partivo sempre con il primo per avvisare la presenza dei Lupi. E talvolta, quando il paesaggio era privo di alberi e troppo esposto, facevo un sopralluogo di mezza giornata, la sera o la mattina, insieme a Pasha.
I Bamiy erano disorientati e lo sapevo, in pochi giorni avevano perso molte delle loro basi e da alcuni di loro che erano rimasti prigionieri avevo scoperto che qualcuno aveva parlato di me a Belden. Non sapevano chi fossi e, ben presto, nonostante non avessi mai alzato un’arma su nessuno dei Bamiy, tra le loro linee si sparse la voce di una ragazza guerriera che poteva leggere nella mente dei Lupi. Questa era l’ultima novità che riguardava le mie etichette, da prigioniera a principessa, a guerriera, la prossima sarebbe stata dea delle nevi. Lo dissi a Pasha che scoppiò a ridere e lo disse in giro, così divenni davvero anche dea delle nevi.
I soldati che stavano con me mi prendevano in giro chiamandomi dea e chiedendomi di fargli qualche bel servizio, che badai a non indagare. Valerj, a
cui avevo tolto una pallottola dal braccio, disse anche che ero la dea dalle manine delicate, che fu un motivo in più per ricamare sopra qualche battuta e qualche storiella di me mai esistita. Scoprii che molti di loro sapevano suturare ferite in maniera impeccabile -e, di certo, meglio di me: cosa potevo aspettarmi da uomini di guerra che vedevano ferite tutti i giorni?- ma volevano che fossi io a cucire la loro pelle lacerata; i dottori che erano con noi non avevano nulla da ridire.
Più di uno di loro mi disse che avrei dovuto lasciar perdere tutte le loro leggi e le imposizioni che la dinastia Minse portava avanti da troppi anni e che avrei dovuto innamorarmi di uno di loro - o più di uno.
Dahaljer mi aveva insegnato abbastanza della sua atarassia da permettermi di poterci scherzare sopra con loro, senza rivelare nulla di me. Si inventarono qualche canzoncina, qualcuna di dubbie intenzioni e altre molto divertenti. Una di quelle diceva che avevo a cuore la sorte dei famelici Lupi catturati e le mani di una fata, ma il cuore di ghiaccio come la dea delle nevi.
Loro malgrado, erano una piacevole compagnia.
Un pomeriggio, dopo l’ennesimo pranzo a base di legumi, io e Pasha ci avventurammo su una pianura con pochissime, basse colline e ancor meno vegetazione. Dovevamo are là per non allungare troppo la marcia e lui e io andammo in avanscoperta.
Il paesaggio era per lo più pianeggiante e solo in alcuni punti si abbassava in piccoli laghi congelati. C’erano alberi privi di foglie, arbusti piccoli e desolanti e resti di alberi a terra, come se qualche tempo prima ci fosse stata una tempesta tale da buttarne a terra più di uno.
Quella invece era una giornata priva di vento, con nuvole basse e immobili.
Risalendo una piccola collina, i nostri occhi furono attirati da un movimento. Ci bloccammo entrambi.
«Lupi?» chiese Pasha.
Io non avevo percepito niente. «Non credo. Non li sento.»
Impugnò la sua pistola e io feci lo stesso. Guardò l’orologio. «Andiamo avanti un’altra mezzora, poi torniamo indietro.»
Annuii.
Qualcosa corse verso di me e lo percepii come percepivo le frecce scoccate dagli Umani. Mi voltai giusto in tempo per vedere l’uomo che sollevava un bastone per darmelo in testa. Mi colpì sulla fronte, stordendomi.
Finii a terra e cadendo allungai una gamba verso il mio assalitore per fargli perdere l’equilibrio, riuscendo a farmelo cadere addosso. Qualcuno sparò un colpo e sapevo che era stato Pasha e che aveva sparato all’uomo che aveva attaccato lui. Rotolai con il mio sulla neve, senza avere il coraggio di usare la pistola. Urlò un insulto nei miei confronti nella sua lingua - la mia - con un movimento goffo mi afferrò la testa sbattendomela a terra, la neve era morbida e accusai il colpo solo sul collo. Avevo l’indice destro sul grilletto, tuttavia non
riuscivo a premere. Alla fine Pasha me lo tolse di dosso, e poiché l’uomo non mollò la presa su di me, ci ritrovammo tutti e due in piedi; ci fissammo per alcuni istanti, in seguito avrei pensato che aveva gli occhi di un bel color cioccolato, ma in quel momento Pasha gli sparò a meno di qualche centimetro di distanza dalla tempia.
Liberandomi della presa delle sue mani ormai prive di vita, voltai la testa per non guardare e sentii qualcuno urlare oltre la collina. Pasha lasciò cadere l’uomo e mi afferrò un polso. «Via da qui», mi urlò nelle orecchie.
Corsi appresso a lui e sapevo cosa stava pensando, che avremmo dovuto attraversare un punto privo di coperture e che i nostri inseguitori ci avrebbero messo poco tempo a vederci e spararci, se avessero avuto armi da fuoco. Erano Umani e io ignoravo quanti fossero, rischiavamo di essere troppo esposti. Stavo riflettendo su questo, quando Pasha mi tirò per un braccio e mi buttò per terra.
Rotolò nell’incavo di una corteccia gettata sulla neve, spingendomi, e mi fece cenno di fare silenzio.
Sentimmo vociare e urlare, trattenni il respiro per paura di essere sentita e anche per le grida di disperazione che mi squassavano le orecchie. Erano morte due persone e dovevano essere loro amici, li aveva uccisi Pasha, li aveva uccisi per non far morire noi, ma erano pur sempre persone. Chiusi gli occhi stretta tra le braccia del mio salvatore e recitai qualche preghiera a mente.
Restammo sotto quel tronco in silenzio e ammutoliti per diverso tempo, fino a che le voci iniziarono ad allontanarsi.
«Secondo te dovremmo uscire?» chiese sotto voce.
«No, sono Umani e non posso sentirli, non so se sono nelle vicinanze. Aspettiamo il tramonto.» Gli toccai la spalla sporca di sangue, non sapevo se fosse suo. «Sei ferito?»
Alzò il braccio, muovendolo appena nello spazio ristretto in cui eravamo e cercò di guardarsi. «Non credo.»
«Va bene. Riposati. Stiamo qui ancora un paio d’ore, poi proviamo a uscire.»
Mi cinse la vita con il braccio libero, non sapendo dove metterlo. «Come vuole, altezza.»
«Spero siano morti sul colpo», mormorai.
«Lo sono di sicuro, Shayl’n», asserì in un sussurro. «Sei troppo buona per essere qui.»
Aggrottai la fronte. «Non si tratta di bontà.»
Mi accarezzò la testa con una mano. «Hai ragione e mi dispiace che tu debba viverlo, per quello che vale.»
Avrei voluto stringermi nelle spalle, ma non avevo spazio a sufficienza. «Vale. Almeno un po’.»
Il suo sguardo preoccupato mi riempì di un calore simile al sole sulla pelle in una giornata di nubi. «Stai meglio ora?»
«Sì. Mi sono abituata a vedere la morte, anche se non mi abituerò mai al dolore che porta.»
«Forse è vero. Anche se, quando uccidi, è diverso, entri in una dimensione diversa. Non è piacevole.» Fece una pausa. «Non so come spiegarti.»
Mi uscì un broncio involontario. «Non c’è bisogno. Lo so.»
Strinse gli occhi. «Cosa?»
«Uccidere. Cosa vuol dire, lo so. Lo so anche io», dissi scandendo i suoni.
«Hai ucciso?» Parve sorpreso.
Chiusi gli occhi e deglutii. Gli occhi di Fausto, sorpresi e fissi, erano ancora nitidi nella mia mente. «Sì, una volta, per salvare un’amica, ma… non ne parlo mai e non mi piace pensarci.»
«Allora non lo fare.»
Non ribattei per qualche minuto, poi tornai a guardarlo e dissi: «Grazie, sei sempre carino con me.»
«Non lo meriti?» scherzò con voce cristallina.
Sorrisi. «Certo che lo merito.»
I nostri corpi erano decisamente troppo vicini, potevo sentire la sua cassa toracica gonfiarsi sotto i respiri leggeri. C’erano sottomissione e tranquillità ora nel suo corpo. Desiderai potergli leggere davvero nella mente.
In quel momento, però, nella mia di mente ò qualcos’altro o qualcun altro. Feci segno di fare silenzio, lui annuì e mi strinse più forte. Non era una percezione, erano rumori.
Tenni stretta la pistola, poi chiunque fosse stato là fuori si allontanò.
«Andati.» Fece presente con voce appena udibile.
«Sì.»
Restammo in silenzio per diverso tempo, stretti sull’erba umida e fangosa. Pasha profumava di muschio o forse era quella tana improvvisata. Dovevano essere ati almeno venti minuti quando lasciò la sua arma sopra le nostre teste e si scostò un poco per guardarmi; i suoi occhi non erano neanche a una dozzina di centimetri dai miei. «Mi spiace per la botta. Temo ti verrà un bozzo», commentò studiando la mia fronte.
«Oh, non importa. Si aggiungerà agli altri trofei», ribattei sarcastica.
«Rimarrai bellissima.»
Distolsi lo sguardo. Non avendo molta scelta su dove spostarlo, mi trovai a osservare le sue labbra, sottili e rosate. «Non lo so se hai ragione», sussurrai «ma grazie per avermi salvata.»
Sorrise. «Prego.»
Sollevai il viso a incrociare i suoi occhi. Non sarei sincera se dicessi che non me lo aspettavo, tuttavia rimasi in attesa, dicendomi che non lo avrebbe fatto davvero. Che non poteva. Invece, poteva.
Le sue labbra, che un momento prima stavo fissando, si posarono sulle mie, fresche e delicate. Dischiuse la bocca e, facendo pressione con la lingua, aprì la mia, accarezzandomi.
«Pasha.» Mi riscossi al contatto tra le nostre lingue, spostai la testa all’indietro e
lo bloccai con una mano premendola sul suo petto, appiccicato al mio, in maniera maldestra. «Qualcuno potrebbe ucciderti per questo.»
«Il re… o qualcun altro?» mormorò.
Ci pensai qualche secondo di troppo. «Il re, ovvio.» I suoi occhi si agganciarono ai miei, ancora troppo vicini.
«E se non fosse per il re? Se non fosse per le leggi assurde che esistono? Lo faresti?» domandò. «O c’è qualcos’altro?»
Cosa dovevo rispondergli? Nella penombra il suo sguardo argentato e sincero mi bloccava, la sua mente tranquilla, sottomessa e pacata mi bloccava. Tutto mi bloccava dentro a quel tronco senza vita.
Cosa avrei dovuto fare?
Era un ragazzo in gamba, intelligente, era stato fedele e discreto, meritava di più.
«Non posso», fu, però, tutto quello che riuscii a dire. Cosa poteva leggere dentro di me non lo sapevo, non lo sapevo neanche io cosa si potesse leggere dentro di me. Lui annuì con un movimento impercettibile del capo.
Scese il silenzio e mi concentrai sui rumori all’esterno. Iniziai a contare i secondi, raggruppandoli in minuti e poi i primi cinque minuti e i secondi e i terzi
fino a che non persi il calcolo.
All’imbrunire sgusciammo fuori, guardinghi e analizzando ogni rumore e corremmo sulla neve come se fossimo ancora braccati. Tornammo alla base che era molto tardi, gli uomini si stavano preoccupando e avrebbero preparato un piccola spedizione da lì a breve. Fu Pasha a spiegare l’accaduto e alcuni di loro stabilirono che non dovessimo più andare solo io e lui, visto che gli Umani stavano diventando un pericolo.
Non dissi niente, a me andava bene.
31
Quella notte Pasha non dormì nella tenda, ma a suo onore devo dire che dal giorno dopo si comportò da persona estremamente matura e non cambiò nulla nel suo modo di relazionarsi con me.
Armi e cibo arrivavano spesso con uomini e cavalli.
Ci spostammo verso est, sempre scendendo a sud e di nuovo ci addentrammo verso ovest. Gli alberi si fecero più fitti e spesso eravamo nel bosco, le colline però avevano lasciato posto a una serie di pendii e discese che di rado ci permettevano di accamparci in piano.
L’autunno era rigido e secco e speravo di scendere a latitudini più basse, evitando di pensare che a Miurn, dove avevo iniziato il mio nuovo ruolo tra le Tigri Bianche, l’inverno sarebbe stato oltremodo insopportabile. Immaginai che il fiume che tanto non riuscivano a are sarebbe stato coperto da uno spesso strato di ghiaccio e che l’acqua avrebbe continuato a scorrere solo sotto per parecchio tempo.
Giocavo a fare il fumo con il vapore che usciva dalla bocca, come se fossi una bambina, e nei momenti di tregua lo facevo spesso, suscitando l’ilarità di qualcuno. Non riuscivano a capacitarsi di come non avessi visto la neve per più di diciannove anni e di come non potessi essere adusa al freddo.
Tejii mi raccontò una storiella sui pupazzi di neve che faceva da bambino. Ne faceva uno alto come una persona tutti gli autunni insieme alla sorella e poi fino alla primavera inoltrata si occupavano di lui per non farlo rompere. Un lavoro meticoloso e maniacale, che impegnava loro tutti i giorni, perché anche se non si scioglieva, ogni volta che nevicava o tirava vento, il pupazzo cambiava forma.
A volte lo guardavo di sottecchi perché non riuscivo a capire come una persona come lui combattesse per una guerra così sciocca. Era preciso e intelligente, tuttavia sembrava più adatto a fare il perfetto padre di famiglia, per quanto non avessi un’idea di come fosse un perfetto padre di famiglia. Solo il mio amor proprio mi impose un minimo di decoro ed evitai di chiedergli di fare un pupazzo di neve con me, benché quell’idea mi asse nella mente molto spesso.
La sua figura massiccia mi sembrava paterna e rassicurante, e trovavo piacevole parlare con lui, nonostante tutto. Pasha mi disse che non era un mezzosangue e per qualche istante ne fui delusa.
A Sarapia, il nostro gruppo si incontrò con quello di Dahaljer. Tagron non era con loro e lui fece rapporto a me di quello che stavano facendo.
Per quanta indifferenza potessi sforzarmi di usare, il mio cuore batteva dieci volte più veloce e non ascoltai una parola di quello che disse.
Nel bosco, sotto gli alberi dalle punte ondeggianti, i miei uomini mi stavano intorno quasi come a proteggermi e i suoi e Dahaljer erano poco sotto di noi, mantenemmo tutti una distanza irreale. Non so per quale motivo, sembravamo due squadre pronte a giocare una qualche partita, amichevole, ma pur sempre partita.
Rimanemmo in quel posto tre giorni aspettando che arrivassero cibo e munizioni. Era difficile avere Dahaljer a due i e dormire con Pasha, mi innervosiva e dovetti mascherarlo prima di tutto a me stessa.
Notai che il mio gruppo era molto meno formale, era più allegro e caciarone termine usato da Ron - forse perché Dahaljer era il Capo Branco, lo era davvero, e non perché qualcuno ce lo aveva messo a forza da un giorno all’altro. Trovai ironico il fatto che quelli che Ron aveva definito caciaroni erano, qualche tempo prima, uomini che seguivano i diretti ordini di Ahilan.
Sfruttando il mio regale retaggio imposi anche a lui l’ordine di fare prigionieri dove era possibile. Non obiettò; i suoi uomini sì. Non ci badai.
Badai, invece, a studiare le espressioni di Dahaljer ogni qualvolta tutte le canzoncine e gli aneddoti che circolavano su di me raggiungevano le sue orecchie.
La seconda sera, analizzando insieme una mappa, mi resi conto che eravamo molto vicini e che accanto a noi non c’era nessuno, non a portata di sussurro. Lo doveva aver notato anche lui perché in un momento di silenzio, mentre indicavo con l’indice un nome, disse: «E così dicono che hai le dita di una fata.»
Sollevai lo sguardo dal pezzo di carta che tenevo in mano e incontrai i suoi occhi. Sorrise.
«A curare qualche ferita me la cavo, e i dottori non sono mai troppi.» Mi stavo
difendendo, senza riuscire a comprenderne il motivo, e mi morsi l’interno del labbro, ostentando indifferenza.
Mi guardò sornione. «Lo so.»
«Ti sei informato?» domandai con un risentimento che non avrei voluto dare a vedere.
Si strinse nelle spalle. «Non dovevo?»
«No. Cioè, sì, come vuoi», balbettai come un’idiota.
Le sue emozioni non cambiarono neanche quando sorrise mostrando i denti bianchi e perfetti.
Abbassai gli occhi di nuovo sulla mappa. «Come stai?» chiesi per cambiare argomento.
«Potrei stare meglio. Tu?»
Continuai a fissare la carta. «Potrei stare molto meglio.»
«Però, da quello che so, hai fatto strada.»
Tentai di non rispondere in maniera brusca. «Che non vuol dire stare meglio, anzi non vuol dire stare bene.»
«No, lo so. Però vuol dire sopravvivere nonostante tutto. Vuol dire che sei forte.»
«Se fossi davvero forte, me ne andrei da qui», ribattei, secca.
«No, Shay, quello sarebbe stupido», obiettò, pacato.
«Dahal», dissi in tono perentorio, tornando a guardarlo. «Dobbiamo discutere?»
Non finse neanche sorpresa. «No.»
Ci guardammo per alcuni attimi e le viscere mi si ingarbugliarono. Quello che c’era tra noi era lì a unirci e nello stesso tempo a dividerci. Dovetti aprire la bocca per fare uscire l’aria e inspirare di nuovo.
Gli sfiorai una mano con la mia, lui la spostò. «Ti voglio più di quanto credi.» Lo disse a voce così bassa che se fossi stata solo Umana, forse non l’avrei sentito.
Si mosse appena e vidi Tejii raggiungerci. Ci chiese cosa avessimo deciso e di
illustrarglielo. Io non avevo deciso nulla, tuttavia Dahaljer, puntuale come sempre, spiegò con precisione cosa secondo lui fosse meglio fare. Acconsentii senza dire nulla, a conti fatti non ero io l’esperta di strategie.
La sera dopo, quando arrivarono le scorte - cibo, alcune nuove armi con il silenziatore e delle mitragliatrici - ci preparammo a partire e all’alba del giorno seguente ci incamminammo nel sottobosco. Aveva nevicato e la neve era morbida e fresca, faticai parecchio a camminarci sopra, ogni o affondavo fino a metà polpaccio. Per fortuna camminammo tutto il giorno senza particolari problemi.
C’era un sottile entusiasmo tra i soldati, che io continuavo a non condividere con una certa ostinazione. Dal loro punto di vista stava andando tutto molto bene: il confine che per anni non erano riusciti a are era stato superato, e di molto; lungo tutta la linea che da nord scendeva verso sud a separare i loro territori da quelli dei Bamiy, i Lupi erano sotto un forte attacco e avevano perso molto terreno.
Gli scontri erano diventati efferati, veloci e occasionali. I Lupi non mostravano nessuna pietà, il fatto che fossero fatti prigionieri, invece che uccisi, non faceva loro piacere e il fatto che stessero cedendo su punti vitali li rendeva più aggressivi.
Lontana dagli attacchi diretti, potevo sentirlo con precisa chiarezza come se fossi stata là.
Se Tagron guidava i suoi uomini parecchi chilometri più a sud, i suoi messaggi e i suoi ordini non impiegavano mai troppo tempo ad arrivare. Alcuni di tali ordini venivano ignorati con molta semplicità dal mio volere. Sentivo spesso gli uomini, soprattutto i più anziani, discutere su questo e discuterne spesso con
Dahaljer. Lui, dal canto suo, evitava di rispondere.
Immagino che si trovasse tra due fuochi o forse fu proprio lui a dirlo a qualcuno durante uno spostamento, ma a essere là ero io, non Tagron Toivainen. Tutti noi, però, sapevamo che il fuoco del re avrebbe bruciato molto di più, qualora ci avesse raggiunto.
Camminavo in silenzio accanto ad Ahilan, forte delle nostre insospettabili e reciproche posizioni. Scambiavamo solo qualche battuta e lui era restio a ogni mio tentativo di avvicinamento, contatto o relazione che fosse. Lo detestavo per questo; trattenevo la mia ostilità, tuttavia, di tanto in tanto, non vista da altri, gli lanciavo un’occhiata bieca. Lui era imibile.
Una sera dopo cena, alcuni uomini del mio gruppo - sebbene ormai si fossero integrati, poiché molti di loro si conoscevano da molto tempo prima che io fossi rapita - iniziarono a cantare canzoncine innocue, che facevano parte del repertorio tradizionale delle Tigri Bianche. Formarono coppie dove in ognuna un uomo fingeva di essere la donna e ballarono saltellando come bambini.
Pasha mi tirò per le mani e poi, quando puntai i piedi, per le braccia e mi costrinse a ballare con lui. Imbarazzata e a disagio fui coinvolta in una serie di balli sfrenati e senza senso, che mi fecero saltare da una persona a un’altra. Distrutta e con giramenti di testa, li lasciai a ubriacarsi e mi allontanai. Li osservai per qualche tempo da lontano, mentre alcuni di loro cercavano di ricomporsi, ridendo, per andare a dormire. Raggiunsi Dahaljer, che quella notte rimaneva di guardia sul lato ovest, e alzai gli occhi al cielo. «Sono tutte così le Tigri Bianche?»
Mi sedetti a gambe incrociate accanto a lui, che se ne stava appoggiato a un albero dal tronco grande e scuro, con una mitragliatrice nuova in mano. Le
mitragliatrici erano armi nuove e rare. Le fabbriche di armi, rinate da soli pochi anni, producevano armi piccole. Lupi e Tigri preferivano le armi corte, più pratiche per il loro modo di combattere, e avevano concentrato le loro richieste su quel tipo di armi.
Eluse la mia domanda con noncuranza. «Con me non ci balli?» C’era biasimo nelle sue parole.
Aprii la bocca, sorpresa e contrariata. «Oh, Dahal, vaffanculo!» Madre Brìgit mi avrebbe mollato un ceffone per quello.
Ahilan si limitò ad accigliarsi. «Hai bevuto?»
«Se lo avessi fatto?» ribattei, seccata.
«Sarebbe la prima volta?»
Lo guardai torva. «Capitano, smettila di farmi domande e non rispondere alle mie.»
Mi afferrò una mano e se la portò alle labbra, poi la lasciò. Come riuscisse a essere rapido e delicato nello stesso tempo non sono mai riuscita a capirlo. «Vado avanti con quello che tu provi per me», disse. «E con quello che io provo per te.» Ahilan allungò una mano verso il mio viso sfiorandolo appena. «Posso resistere per altri cento anni.»
«Io no», replicai, gelida.
«Cosa vuoi da me?» Era una domanda dolce e la sua voce era calda, troppo calda.
«Tutto!» risposi prima di pensare.
Inclinò la testa. «Ma in questo momento?»
«Tutto», ripetei. Mi spostai per guardarlo meglio, sedendomi sui talloni e lui chiuse gli occhi poggiando il capo all’albero rugoso. «Tutto, Dahal», ripetei per la terza volta e, non avendo risposta, quasi lo aggredii con quello che avevo per la testa. «Voglio stringerti, voglio baciarti, respirarti. Voglio il tuo corpo e la tua mente, voglio fare l’amore con te per dieci giorni di seguito, voglio guardarti senza dover chiedere il permesso.»
«Shay…»
«Voglio parlare con te per ore infinite, voglio respirare il tuo profumo e toccare la tua pelle, voglio leccare ogni parte di te e ballare tutta la notte...»
«Basta», disse come se lo stessi soffocando.
«Voglio correre lungo la spiaggia e vederti ridere, voglio sentire ogni singola emozione che ti attraversa quando sei con me, voglio ridere quando mi abbracci
e dici…»
«Shayl’n! Basta.» Spostò la mano che avevo messo sul suo ginocchio e mi guardò con un’espressione di dolore sul volto. «Per favore, basta.»
Studiai il suo viso contratto e mi accigliai. «Non dirmi che potresti resiste per altri cento anni, perché non è vero.» Mi uscì un tono caustico, che non avevo previsto, ma che forse non rimpiangevo.
«Va bene», ammise, mesto. «Forse non è vero, ma è vero che con quello vado avanti, fino a che non finirà tutto questo.»
Gli lanciai un’occhiata astiosa. «Quando?»
Abbassò il viso.
Se fossi stata un lupo, avrei arricciato il naso sul muso e digrignato i denti, senza emettere suoni; nella mia forma umana, quella che sapevo gestire di più, mi limitai a fissarlo senza muovere un muscolo. «Quando, Dahal?»
Non rispose.
Sentendo la rabbia montare dentro di me, restai in attesa cercando di percepire i suoi sentimenti, un cambiamento, qualsiasi cosa che potesse fornirmi una risposta o concedermi una speranza a cui aggrapparmi. Il silenzio imperterrito di
una persona può essere dolente come uno schiaffo. «Vai a farti fottere.»
Mi alzai con uno scatto e lo lasciai dov’era. ai accano al fuoco che avevano , e che ora sembrava scoppiettare annoiato, senza guardare i pochi uomini che erano rimasti ancora in piedi a chiacchierare ubriachi.
Mi infilai nella mia tenda e Pasha si spostò nel buio. «Sei stata da Ahilan?»
«Sono cazzi miei dove sono stata.» La mia aggressività si scontrò con la sua sottomissione e imprecai tra me e me, sospirando. «Scusa, Pasha. Ho solo sonno.»
«Buonanotte, allora», sussurrò.
«Buonanotte.»
Non mi tolsi neanche le scarpe, restai sdraiata a lungo prima di addormentarmi con un sentimento che non sapevo definire e che mi logorava dentro.
32
Mi svegliai sentendo Pasha uscire e mi imposi di far andare bene quella giornata, scansai i lembi del tessuto della porta, sforzandomi di sorridere al mondo. Quella giornata fu una delle più tristi della mia vita, una di quelle che ricorre nei miei incubi, una giornata che vorrei dimenticare e che nello stesso tempo so che non dovrei mai scordare.
L’inverno si apprestava a stringerci nella sua morsa e le giornate erano più corte, un cambiamento impercettibile che mi sforzavo di non notare. Potevo essere anche nata nelle terre gelide dei Bamiy, questo non cambiava che fossi vissuta tutta la vita in uno dei luoghi più caldi di Nuova Terra, dove il sole sorgeva con forza e correva nel cielo attraversandolo nei suoi punti più alti. Ero cresciuta senza aver mai visto la neve e le distese monotone e desolate di ghiaccio, e non lo rimpiangevo. Amavo il sole, i suoi raggi che pizzicavano sulla pelle, rendendola viva. Forse mia nonna paterna era un’Umana dalla pelle scura come la pece, che si crogiolava sotto i raggi come una lucertola sui sassi arroventati. Il Consiglio Superiore quando parlò e illustrò tutta la mia discendenza e anche quelle di gradi superiori al quarto, non si era mai soffermata a parlare degli Umani che avevano “infettato” il loro sangue prezioso e il mio. Mi domandai se ci fosse qualcuno che avesse conosciuto la donna che mio nonno aveva amato e se in tal caso, avrebbe accettato di descrivermela. Per la prima volta mi chiesi se mia nonna potesse essere ancora viva, nessuno me ne aveva parlato, non mi avevano detto però che era morta. Forse avrebbe avuto intorno ai cento anni, ed era una semplice Umana, tuttavia avrei potuto informarmi anche su quello, in qualche modo.
Per rispettare la mia promessa di far andare bene la giornata, mantenni una certa distanza dal Capo Branco. Sapevamo tutti cosa dovessimo fare quel giorno, e lui e io non avevamo bisogno di scambiarci nessun tipo di informazione.
Fu prima di pranzo che ci scontrammo con un gruppo di Umani numeroso e determinato. Armati di semiautomatiche e pugnali, combatterono come Lupi e non ebbero paura di arrivare al corpo a corpo con persone due volte più forti di loro, che avrebbero potuto sbranarle in un secondo, se si fossero trasformate.
C’era il sole quel giorno, da qualche parte sopra le chiome degli alberi. Avevano attaccato senza preavviso, come se ci aspettassero. Mi trovai nello scontro senza volerlo e vidi morire alcuni di noi di cui non conoscevo neppure i nomi. La morte e il suo odore riempirono la foresta. Non potrò mai abituarmi a vedere il rosso cremisi del sangue caldo e fresco sparso sulla neve bianca e immacolata.
Tenendo in mano la mia automatica, cercai di allontanarmi dal centro dello scontro perché, a meno che non avessi ucciso io stessa, sarei stata solo di impiccio e non nascondo il fatto che non volessi vedere. Sapevo sempre quello che succedeva, se non lo percepivo, mi veniva riportato, tuttavia vederlo lo rendeva reale e tangibile con una veemenza che non sopportavo.
Risalii il pendio per potermi trovare su un punto alto e poter controllare meglio la situazione. Mi mossi camminando all’indietro e mi resi conto solo all’ultimo di qualcuno che mi stava per pugnalare.
Pur non vedendolo, scartai a destra e con la mano sinistra afferrai il mio avversario, che barcollò. La lama del suo pugnale, però, si mosse veloce e luccicò a un centimetro dal mio volto, togliendomi il respiro. Lui ne approfittò per spingermi, cademmo a terra e persi l’arma nel momento stesso in cui il suo pugnale tagliò la stoffa esterna del mio corpetto, sul fianco sinistro. Non riuscendo a prendere le mie armi, cercai di immobilizzare il mio avversario con le mani. Riuscii a rivoltare la situazione e a bloccarlo sotto di me, facendo forza sulla sua mano, gli feci lasciare il suo coltello.
Imprecò in iuropìan e mi afferrò il collo con una mano. Gli fu facile poiché la sua voce mi aveva distratta e gelata. Gli puntai il suo stesso pugnale sulla giugulare e presi fiato. «Ilai…» mormorai.
Respirava a fatica e i suoi occhi saettarono sul mio viso mettendolo a fuoco. Per un attimo, forse l’unico, lo vidi indeciso sul da farsi. Aggrottò la fonte. «Che diamine stai facendo tu qui?» sibilò, sprezzante.
Spostai la lama dalla sua pelle, lui, però, non mollò la presa su di me. «Che diamine stai facendo tu?» chiesi sorpresa. Restando cavalcioni su di lui ammorbidii la mia espressione, lasciando cadere il suo pugnale.
Ilai mi guardò schifato. «Per chi combatti?»
«Per nessuno, combatto per me, per non morire.»
Le sue dita si strinsero sulla mia gola, costringendomi ad aprire la bocca per respirare meglio. «Uccidimi, allora.»
Non riuscivo neppure a deglutire e parlai con voce roca e stridente. «Che dici, Ilai? Sono io, sono Shayl’n.»
Lui non si scompose. «Se combatti per non morire, uccidimi, altrimenti ti ucciderò io stesso.»
«Ti è saltato di volta il cervello?» dissi in un suono strozzato dalla sua mano.
Strinse le palpebre sugli occhi color nocciola. «Cosa sei?»
Quella era una bella domanda e la risposta era troppo complicata e lunga. «Se mi lasci, te lo spiego.»
«No.»
Stava iniziando a farmi male. «Ilai…»
«Sei un Lupo e combatti per le Tigri», mi interruppe. «Sei una traditrice. Due volte traditrice.»
Lo guardai. Intorno a noi il rumore degli spari e delle grida vibrava tra gli alberi, affievolito rispetto a qualche minuto prima; la scena mi parve irreale, come in un sogno.
Tentai di avere un tono minaccioso, tuttavia la mia voce usciva sottile e bassa. «Lasciami. Sono sempre stata più forte di te e ora lo sono ancora di più, ma non ti ucciderò, lo sai che non lo farò. Lasciami libera.»
«Questo non è un gioco.» Mi strattonò. «Combatto per i Lupi, per quello che ci
danno in cambio e quando avremo fatto fuori le Tigri faremo fuori anche i Lupi.»
«Tu vaneggi, non sai neanche di che cosa stai parlando.» Con un colpo degli addominali e facendo forza sul mio corpo, si tirò a sedere. Avvicinò così tanto il suo viso al mio che avrebbe potuto baciarmi.
Con la mano libera mi colpì con un pugno sul lato destro subito sotto le costole. Nonostante avessi un corpetto rigido, boccheggiai piegandomi dal dolore e scivolai a terra come una foglia; immagino fosse la sorpresa ad avermi fatto più male. Mi si sdraiò sopra veloce, bloccandomi un braccio con il proprio peso e l’altro con una mano in una posizione innaturale, che me lo portava da sinistra a destra.
«Mi fai ancora più schifo perché te ne sei andata.» Il suo sguardo del colore della nocciola non ammetteva repliche.
«Sono stata rapita», cercai di dire.
«Loro uccidono, non rapiscono.» Ignoravo a chi si riferisse, potevo solo immaginarlo. Estrasse il pugnale dalla mia cintola e ne potei sentire la punta sul mio fianco all’altezza del cuore.
Mi chiesi se il giubbetto antiproiettile avrebbe retto alla lama affilata della mia arma. Non credo lo sapesse, ma era puntato proprio tra le uniche cuciture presenti sotto lo strato di pelle.
«Smettila, Ilai.» Mi salirono le lacrime agli occhi per la rabbia. «Fammi spiegare, invece di fare l’idiota. Non potresti uccidermi e uscire vivo da qua.»
«Non sono qui per uscirne vivo, sono qui per uccidere quelli come te.»
Cercai di capire quanto ero lontana da qualsiasi persona che potesse vederci, ma ero girata verso la parte opposta da dove ero venuta e potevo solo sentire rumori e aggressività che sgorgava a fiotti dalle Tigri, in maniera troppo confusa per stabilire la distanza. «Quando sei diventato così?» mormorai, forse per cercare di prendere tempo.
La lama si insinuò nel corpetto, proprio nel punto in cui avevo temuto - o forse ci sarebbe finita in tutti i casi, perché in altri punti sarebbe scivolata via - e la sentii fredda sulla pelle.
«Non sei tu a potermi fare la morale. Odio le Tigri e odio i Lupi, se mi conoscessi, lo sapresti bene.»
«Lo so. Lo so bene», dissi cercando di mantenere la voce ferma. «Ilai, se solo mi lasciassi spiegare cosa…»
«Non mi fido di te perché sei peggio di tutti loro. Forse mi dispiace, ma ti ucciderò.»
Gli sentii fare pressione sull’impugnatura, il corpetto cedette appena e, mentre il suo corpo faceva un movimento strano, come se fosse stato punto due volte, il
sangue entrò caldo e vischioso. Entrò, non uscì. Il cuore mi batteva fortissimo, lui mi guardò sorpreso e a occhi sgranati si accasciò su di me, senza emettere suoni. Una presenza che conoscevo mi raggiunse correndo, mentre mi toglieva il corpo inerme di Ilai da dosso; rimasi immobile.
Stefvan, uno degli uomini di Dahaljer, mi si accovacciò accanto. «Principessa, tutto bene?»
Tutto bene? Chiusi gli occhi.
«Tutto bene?» urlò nelle mie orecchie come se non avessi sentito. Lo udii gettare a terra la sua pistola, una di quelle silenziose, altrimenti l’avrei sentita, e toccarmi il collo.
Scattai. «Non mi toccare!» Mi sollevai a sedere, ero piena di sangue, il sangue di Ilai. Non mi soffermai sul suo sguardo stupito, né sulla sottomissione della sua mente, guardai il corpo del ragazzo che mi aveva dato il mio primo bacio, riverso a terra in modo scomposto e privo di vita.
La foresta si era fatta silenziosa e un gruppo di uomini ci aveva raggiunti. Non so cosa si sentisse delle mie emozioni lasciate libere, ma nessuno si avvicinò nel raggio di cinque metri.
«Perché lo hai ucciso?» chiesi a denti stretti.
Non rispose e mi fissò. Forse pensava che fossi matta: mi aveva appena salvato
la vita e stavo ponendo la domanda più stupida che un condannato a morte potesse fare. «Perché?» urlai e la mia voce rimbombò come un’eco nella mia mente e tra le foglie. Mi mossi appena verso di lui, cambiando posizione, e cominciai a riempirlo di botte; non reagì, forse perché preso alla sprovvista. Lo colpii ovunque potessi, con una furia cieca, senza guardare, fino a che una serie di mani non mi sollevò da terra.
Non sentivo e non vedevo niente, scalciai e urlai con quanto più fiato avevo in gola. Tentarono di bloccarmi più volte, senza riuscirci, perché appena mi lasciavano ricominciavo con forza e ostinazione. Nel mio ricordo mi sembra di aver lottato per ore, non so, però, quanto tempo fosse ato quando alla fine, esausta, come un motore impazzito a cui finisce il carburante, mi accasciai tra le braccia di qualcuno, piangendo.
La mente dei soldati si era fatta insolitamente silenziosa e l’uomo che mi stringeva mi ò tra le braccia di Pasha con un movimento delicato e attento.
«Shayl’n», mormorò il ragazzo. «Shayl’n, è tutto a posto. Sei viva.»
Io non volevo essere viva. Non ebbi la forza di reagire. Se l’avessi avuta, avrei urlato per un giorno intero. Rimasi ferma, inerme, con le ginocchia puntellate a terra sulla neve fredda e Pasha mi accarezzò i capelli, baciandomi la testa. Oltre la sua spalla i miei occhi si fermarono su Dahaljer, era arrivato in quel momento e gli stavano spiegando cosa fosse successo. La paura nei suoi sentimenti, mista a qualcos’altro, mi invase il corpo, rubandomi un gemito di dolore.
“Dahal.” Lo chiamai. Mi raggiunse con tre lunghe falcate e si inginocchiò accanto a noi. Mi liberai dalle braccia di Pasha e mi strinsi a lui. Dopo un attimo di esitazione, ricambiò la mia stretta e mi cullò. Non mi baciò e non mi accarezzò, come aveva fatto Pasha, non disse neanche nulla, ma sapevo che quel
gesto implicava uno sforzo e un amore tali da riuscire a confortarmi più di mille baci.
«Era mio amico», mormorai nell’incavo del suo collo. «Era mio amico da sempre.»
Restammo in silenzio.
«Capitano», si intromise una voce. «Abbiamo sistemato i feriti e i morti.»
Dahaljer annuì. «Andate, ragazzi, rimango qui.»
“Non farlo portare via, per favore, lascialo qui.”
Lui lo disse ai propri uomini e poi disse a Pasha di preparare dei vestiti puliti per me e di far scaldare l’acqua. Il ragazzo ubbidì riluttante e se ne andò stringendomi una spalla con un gesto affettuoso. Da soli, il vento soffiò leggero sui nostri visi. Mi scostai un poco e poggiai le labbra alla fine dell’attaccatura della sua mandibola in un bacio silenzioso. «Grazie», dissi in un soffio.
Fu scosso da un fremito, che mi sorprese. Si sollevò in piedi, continuando a tenermi in braccio. «Ti porto giù», sussurrò con dolcezza.
Nel silenzio che segue ogni battaglia, quando vincitori e vinti contano le proprie vittime sacrificali, non c’è spazio per le parole. I vinti erano stati tutti uccisi,
erano di Razza Umana, troppo debole per sopravvivere. I vincitori seppellivano i loro amici o curavano le loro ferite.
Per permettermi un minimo di intimità, Pasha aveva fatto sistemare tre teli ad altrettanti tronchi, per farmi cambiare i vestiti e lavare il sangue di dosso con dell’acqua calda. Nessuno mi disturbò, restarono tutti lontano, concedendomi un filo di dignità.
Mi sciacquai a pezzi perché, sebbene fossi quello che ero, il freddo era intenso anche per me. Facendo are delle pentole sotto i teli, Dahaljer mi dava la possibilità di avere acqua pulita e sempre calda.
Non piansi più. Non avevo lacrime da versare e mi sentivo come svuotata e pregai di far durare a lungo quell’apatia perché, in caso diverso, avrei provato rabbia. Una rabbia intensa, che arrivò troppo presto, quella sera, quando rifiutando di mangiare, mi rannicchiai sul mio sacco a pelo senza riuscire a dormire. Tutto vacillò, ogni mia certezza, e solo due cose mi occupavano la mente solide e acuminate come spine: Ilai era morto; Ilai mi avrebbe uccisa.
Lo avrebbe fatto davvero e faceva male tanto quanto saperlo morto. Mi aveva lasciato una minuscola escoriazione sulla pelle, sarebbe scomparsa in fretta, almeno nel fisico.
Qualcuno aveva recuperato il mio pugnale, oltre che la mia pistola, e li aveva messi nella tenda di Pasha, ora me lo rigiravo tra le mani, pensando a quello che Ilai mi aveva detto dei Lupi.
I Bamiy assoldavano Umani in cambio di armi, armi che gli Umani fabbricavano
per loro, armi che gli Umani avevano sempre accomunato a Tigri e Lupi. Gli Umani non erano tanto diversi da loro. Dahaljer, l’uomo che amavo, aveva dannatamente ragione! La crudeltà nasce nella natura dell’uomo e si alimenta della sua superbia.
Volevo tornare a casa.
33
Ci volle tutto il giorno seguente e una lunga, faticosa giornata per ridarmi l’appetito. La mattina, molto presto, avevo raggiunto il corpo di Ilai e lo avevo osservato a lungo. Qualcuno gli aveva chiuso gli occhi e lo aveva disteso supino lungo il pendio, con le braccia dritte lungo i fianchi. Avrei anche potuto illudermi che dormisse, ma non era così e lo sapevo troppo bene per fare di questi giochi con la mia mente.
Farfugliando a mezza bocca preghiere imparate a memoria e preghiere inventate in quel posto, lo ricoprii di neve usando solo le mani, senza usare i guanti, come fosse una punizione. In piedi, in ginocchio, piegata, vagai intorno al suo corpo tentando di ricoprire ogni singola parte di lui.
Era morto per niente. Ilai García che mi chiedeva di fare giustizia per conto suo, quando eravamo bambini, e a cui avevo rubato il mio primo pugnale.
Prima di farle sparire per sempre sotto la neve, toccai con le dita le sue labbra, gelate e indurite dalla notte fredda di quelle terre selvagge e troppo rigide per un Umano come lui; ritirai la mano un attimo dopo con l’impressione di aver toccato qualcosa di molto più freddo della neve.
Indossavo una divisa militare bianca, grigia e azzurra, che qualcuno mi aveva prestato. I miei vestiti erano stati puliti dal sangue ed erano ancora umidi, poggiati fuori sulla mia tenda.
Un vento leggero e scomposto mi scompigliò i capelli, mentre mi alzavo in piedi guardando la protuberanza sul terreno creata dal corpo di Ilai e dalla neve. Pensai a sua madre: se fosse stata diversa, lui sarebbe morto in quel modo?
Forse ora che lo immaginava perso nelle terre del nord non era più sicura delle sue posizioni o forse sarebbe stata fiera di lui e avrebbe pianto suo figlio come un eroe. Si può morire da eroi, solo se si mette in dubbio il fatto di esserlo. E lui non lo aveva fatto. Mi avrebbe uccisa per niente, mi avrebbe uccisa non sapendo nulla di me, non sentendo ragione, lo avrebbe fatto con cieca convinzione e senza troppo rancore. Pregai la Nostra Signora di intercedere per i suoi peccati, perché io non riuscivo a farlo, ero troppo arrabbiata per chiedere con sincerità il suo perdono.
Ero sola in quel punto del bosco, per mia volontà, e ne fui contenta, non avrei versato una lacrima e non avrei provato un dolore troppo forte da essere compatito, i miei sentimenti sarebbero stati troppo silenziosi, tanto da sembrare insensibile alle menti altrui. Non volevo are per quella che non ero.
Mio malgrado, però, meditai a lungo quel giorno su ciò che in effetti ero.
I i innevati, tra le alture delle terre dei Lupi, erano silenziosi e irreali. I giorni scorrevano come in un sogno nonostante succedesse sempre qualche cosa. Altri gruppi di Umani, sebbene meno numerosi, ci avevano attaccato ed erano morti tutti, tranne tre, che riportarono ferite così gravi da indurmi a pensare che forse sarebbe stato meglio per loro morire. Uno di loro si spense dopo quattro giorni di agonia, spero nella totale incoscienza data dalla morfina, che alcuni dei nostri medici gli iniettarono nelle vene. Un altro restò in vita senza una gamba, che presentava una tale necrosi da dover essere amputata.
Lo avevo deciso io - volevano sparagli - e per quello mi costrinsi a guardare,
tenendogli una mano, mentre un paio di Tiouck, veloci e pratici si muovevano intorno al suo arto privo di vita.
Pasha non approvò. Dahaljer non commentò.
Non sapevo cosa mi fe alzare ogni mattina e andare avanti o dopo o sulla neve scivolosa. Non sapevo neanche cosa mi fe dormire, a dire il vero, in quanto, sebbene opposte tra loro, le due azioni mi risultavano difficili in egual misura.
Stefvan, l’uomo che aveva ucciso Ilai e che mi aveva evitato dal ritrovarmi una lama affondata nel cuore, mi stette lontano il più possibile. Lo avevo ringraziato per quello che aveva fatto, dopo due giorni, e gli avevo chiesto anche scusa per quello che io avevo fatto a lui: nella foga ero riuscita a spaccargli un labbro, neppure me lo ricordavo. Non credo lo fe per me, ma ero grata della sua lontananza dal mio corpo e dalla mia mente.
Per l’ennesima volta, trovai conforto nella massiccia figura di Tejii Weber, cortese e gentile non sembrava mai disturbato dalla mia presenza e mi prendeva in giro con eleganza e una strana tenerezza. Gli domandai se avesse figli.
«Oh, buon Dio, no», ribatté, mantenendo un tono spensierato. «Ci sono già tante disgrazie a questo mondo, che non ne aggiungerei di nuove.»
Inarcai un sopracciglio, incuriosita. «Davvero non lo fa per questo?»
«Principessa, ho amato una donna che sarebbe stata una madre perfetta e che mi disse chiaramente che io, invece, non sarei stato un padre perfetto, che avrei lasciato i miei figli soli per troppo tempo e che forse li avrei lasciati orfani ancor prima di vederli crescere.» Mi scoccò un’occhiata. «Immagino avesse ragione. Il figli sono una bella responsabilità.»
«È onesto da parte sua», commentai con una punta di stupore.
Si strinse nelle sue grandi spalle. «Oh, beh, non lo so, forse avevo solo paura.» Mi scompigliò i capelli. «Se fossi stata una vera tigre, di quelle create dalla natura, forse sarei stato più coraggioso. Tuttavia sono solo un uomo e nelle mie vene non scorre sangue naturale.»
«Naturale?» ribattei incredula.
«Se rinasco, voglio essere un Umano, solo un Umano. A cosa serve essere delle bestie a metà? Ci trasformiamo solo per cacciare, solo perché a volte ne abbiamo voglia, ma siamo uomini.» Indicò i soldati con il pollice. «Lo siamo tutti. Forse siamo più forti, siamo stati fatti per questo, viviamo di più, guariamo prima e divoriamo carne in quantità, ma cosa abbiamo delle tigri? Di quelle vere? Quando ci hanno creato nessuno forse aveva pensato che avremmo potuto trasformarci. Una sorta di effetto collaterale, non trova anche lei?»
«Non lo so», ammisi. «Ancora non capisco come sia possibile. Non capisco neanche come sia possibile che io stessa possa farlo. Ma di solito a voi piace essere Tigri Bianche.»
«Oh, no. A noi piace essere più forti e fare paura e anche ai Lupi Grigi. Essere
umani è molto più facile per certi versi. Non è per niente, che combattiamo in questa forma, invece che in quella animale. Abbiamo i vestiti, tante belle armi che sparano, i coltelli, perché usare le nostre lunghe e affilate zanne?»
Lo guardavo ammirata e stupefatta. Incredula che tali parole potessero venire da un soldato/guerriero adulto che per anni era stato al servizio del re dei Tiouck. «Mi sarebbe piaciuto aver avuto un padre come lei», dissi distrattamente.
«Oh», bofonchiò in imbarazzo. «Non per niente lei è una disgrazia, principessa.»
Risi e i suoi occhi grigi si illuminarono.
***
Non ricordo come iniziarono le frecciatine tra me e Ahilan e me ne dispiace, vorrei trovare un punto nel tempo in cui erano cominciate, un punto dove poter stabilire che avevamo sbagliato e soprattutto vorrei trovare un punto nel tempo in cui iniziai a godere del dolore inflitto. Non servirebbe a nulla e ne sono cosciente, ma mi piacerebbe sapere che sia esistito un momento in cui avrei dovuto dire basta. O forse no, farebbe solo più male.
Sepolto nel suo strato di indifferenza, lui non commentava mai niente, se non qualche decisione su dove andare e quando farlo. Io dal canto mio, invece, avevo da ridire su tutto quello che faceva e diceva, salvo poi difenderlo dai commenti degli altri.
In quei giorni ci raggiunsero Layo e un gruppetto di dieci persone. Con malcelato disprezzo, Layo Luba mi ringraziò per quanto avevo fatto per la sua ferita. Il diversivo però non fu il suo arrivo, bensì quello di una donna. Non si era presentata come tale e non faceva parte dei soldati/guerrieri, tuttavia era addestrata all’esercito e si faceva chiamare Dan. Portava una treccia bionda perennemente nascosta dai vestiti e aveva gli occhi del colore del cielo terso sulla neve; le labbra morbide, una bellezza algida, eppure assai femminile. Era la sorella di uno dei soldati/guerrieri che non avevo conosciuto, morto di recente parecchi chilometri più a sud.
«Chi l’ha addestrata?» chiesi a Pasha una sera, davanti al fuoco.
«Suo fratello», rispose, bevendo un sorso d’acqua.
«E lo poteva fare? »
Si rigirò la bottiglia tra le mani. «Beh, lo ha fatto.»
«Voglio dire…»
Sorrise. «So cosa vuoi dire. Le donne non vengono addestrate in questo esercito, non per combattere, almeno. Come hai potuto vedere tu stessa, alcune di loro ne fanno parte, ma per fare i medici e rimangono alle basi, quelle fisse.»
«Sì, a Kolov ne ho viste diverse», dissi pensierosa.
«È brava e suo fratello se la portava sempre dietro. Erano gemelli, sai?»
Il fatto che fossero gemelli, per me non significava nulla di più. «Come le va?» commentai meditabonda.
Lui fece spallucce. «La loro famiglia è stata uccisa dai Lupi.»
«Per molti qui è così», notai.
Annuì. «Sì, hanno dei buoni motivi.»
«Hanno dei motivi», puntualizzai, aspra. «Se siano buoni non ne sono sicura, nessun buon motivo può spingerti a uccidere a sangue freddo.»
«Non è a sangue freddo.» Pasha si sentì tirato in causa. «Lo vedi anche tu cosa succede.»
«No, certo, quando sei qui non lo è più, ma quando decidi di arrivarci lo è.» Mi abbracciai le ginocchia.
Pasha non rispose, avevamo affrontato quel discorso diverse volte, rimanendo delle nostre opinioni, non tentavamo neanche più di convincerci a vicenda.
Immaginavo che, essendo l’unica donna, oltre che la principessa, Dan Kijowski sarebbe venuta da me; non lo fece, così andai io da lei. Stava ancora mangiando e strappò con i denti un pezzo di carne. Senza alzarsi, con il capo accennò a un inchino, al quale risposi meccanicamente con un accenno di riverenza e mi sedetti accanto a lei.
«Altezza, è qui per un motivo preciso?» domandò dopo aver mandato giù il suo boccone.
La scrutai. Aveva usato un tono formale e posto una domanda secca, senza preamboli. Come Ahilan faceva buon uso di atarassia e in lei non riuscii a percepire nulla, tranne una lontana ostilità e un vago senso di sottomissione dettato dalla mia natura, più che da una sua volontà. Era la prima volta che potevo sentire una tale raffinatezza nella gestione delle emozioni e sorrisi pensando che gli uomini sono molto meno complicati, più diretti e meno attenti a certi particolari.
«La faccio sorridere?» domandò, piccata.
«No. È solo che è tanto che non vedo donne.»
Guardava il suo cibo. «Ha importanza?»
Mi morsi un labbro, perplessa. «Sì, ogni tanto ne ha.»
Fu il suo turno di squadrarmi. Analizzò il mio volto e scese lungo i miei vestiti,
così diversi da quelli che avevano gli uomini e lei. «Il nero è un colore decisamente opinabile sulla neve», commentò, mordace.
«È un regalo. Non l’ho scelto io.»
«Può anche essere, ma nessuno la sta costringendo a indossarli, mi sembra», sibilò.
Tentai di balbettare una risposta sensata e, non trovandola, lei tornò a parlare.
«Non sono qui per farle da dama di compagnia.»
«Non le ho chiesto di farlo.» Trovai che fosse esasperante. Mi rizzai in piedi agile, ma troppo veloce, come se mi avessero punto. «Spero che il suo soggiorno con noi sia come lo desidera.» Avrei quasi potuto ridere di quelle mie parole, invece la fissai.
Si limitò ad annuire, sollevando appena un sopracciglio.
Dan non era la presenza femminile che avevo richiesto. Delicata e sensuale nei movimenti, aveva i modi di fare volgari tipici degli uomini quando sono per tanto tempo insieme; non era quello a darmi i nervi, però, quanto il fatto che rifiutasse con ostentata insistenza il suo ruolo di donna. Più in là avrei anche scoperto che uccideva con la stessa facilità con cui lo avevo visto fare agli uomini.
Era lì per quello.
Non per farmi da dama di compagnia.
Il fatto che non fosse un soldato/guerriero non turbava minimamente la sua posizione e i soldati la rispettavano con ammirazione e sottile sottomissione. Non trovandola piacevole come avevo sperato, ne presi le distanze e a peggiorare la situazione ci si mise il fatto che lei e Dahaljer andassero d’accordo.
Si conoscevano da tempo e dovevano avere la stessa età, mi chiesi se ci fosse mai stato qualcosa tra loro e mi tribolavo nel pensiero di cosa potesse essere. Come aveva detto lui stesso, prima di me aveva una vita, e probabilmente era una vita movimentata. Pasha mi disse che dovevo smetterla di sbuffare, cosa di cui non mi ero accorta e che ora, pur sapendolo, non riuscivo a non fare. All’improvviso mi sentii una scolaretta alle prese con l’amore e iniziai a maledirmi da sola, brontolando tra me.
Una sera in cui Dahaljer stava facendo il suo turno, lo osservai da diversi metri di distanza. C’era una luce soffusa, data dai fuochi accesi nell’accampamento, non nevicava da molto e l’aria era meno rigida, nonostante fosse sempre sotto zero. Il mio corpo però, mi permetteva di sopportare quelle temperature pur rimanendo immobile per diverso tempo. Non che lo trovassi piacevole.
Con lui c’era Dan Kijowski - solo quel giorno avevo scoperto che si chiamasse Danka - non potevo sentire cosa si dicessero e, non essendo Lupi, non avevo chiaro neanche i loro sentimenti da quella distanza. Sembravano entrambi rilassati e questo mi bastava a farmi ingelosire.
Mi abbracciai le gambe e cercai di concentrare l’attenzione su altro, pensando a Nilmini, ma non essendoci novità in quel che potevo pensare della sua situazione, mi distraevo con facilità e continuavo a fissare la schiena di Ahilan. Alla fine Danka se ne andò. Dopo alcuni istanti, lui si girò verso di me, come se i miei occhi gli stessero bussando sulle spalle.
I nostri sguardi si incrociarono nella penombra e ci fissammo per qualche momento, fino a che non fui costretta a spostare gli occhi verso terra. Quando li rialzai, lui si era già voltato e accovacciato sulla neve.
Pensai che era stato durante un suo turno di notte, che avrebbe dovuto essere mio, che avevamo fatto l’amore la prima volta, in una notte calda. Quel ricordo mi graffiò il cuore senza preavviso.
Andai a dormire prima che Pasha tornasse da dovunque fosse andato.
34
Le luci di un villaggio stretto in una lunga valle piegata a gomito ci bloccò il cammino. Non era segnata sulle nostre mappe e non sapevamo né se fosse abitata, né quante persone, in caso contrario, potessero esserci. Montammo le tende molto prima, tra alte betulle e scure conifere, nascosti da un’altura molto ripida, che ci riparava dal vento e dalla vista dei nemici di cui non conoscevamo l’identità.
Prima che si fe del tutto buio, Dahaljer, Pasha e altri due uomini, mi accompagnarono a vedere se fossero Lupi. La neve a terra era di qualche giorno ed era in parte indurita nel gelo della notte, se non si affondava, si scivolava con estrema facilità.
Procedemmo furtivi tra gli alberi, in silenzio, sapendo che chiunque fosse stato là lo avremmo dovuto affrontare, perché era l’unico punto in cui poter are, senza doversi arrampicare sulla cime frastagliate delle montagne.
Ci muovemmo lungo un costone e ci fermammo sulla cima di una collina priva di vegetazione da dove potevamo scorgere il fondo della valle, anch’essa senza alberi che ne impedissero la visuale. Non era un vero e proprio villaggio: erano delle costruzioni basse e quadrate, come se fossero dei semplici box senza finestre, ma illuminati con luce elettrica. Fuori c’erano dei cavalli che sembravano congelati dal freddo e stavano immobili come statue. Potevano esserci una ventina di persone o per lo meno erano quelle che si potevano scorgere, mentre uscivano fuori. Non avevo idea di quante altre potessero essere dentro le costruzioni.
A cinquecento metri di distanza io non riuscivo a percepire nulla, tranne la presenza di due o tre Lupi, eppure neanche gli altri si muovevano come gli Umani, erano piccoli, agili e aggraziati. Ci accucciammo a terra studiandoli per alcuni minuti. Entravano e uscivano nella notte e fuori alcuni di loro facevano la guardia. La mia vista felina, o lupoide che fosse, mi faceva distinguere bene ogni figura e movimento, tuttavia non era abbastanza per capire chi fossero.
«Shayl’n.» Il mio nome sulle labbra di Dahaljer era sempre un tormento. Mi voltai a guardarlo e seppi che aveva compreso qualcosa che non mi sarebbe piaciuto. Mi allungò un binocolo, mi spostai di qualche o e, inginocchiandomi con grazia, ci guardai dentro.
Le persone che stavamo guardando portavano armi e sembravano prepararsi alla cena. Erano vestiti con abiti invernali, gonfi e impermeabili, e alcune portavano il cappuccio sulla testa. Pensai che i loro movimenti felini fossero lenti e tristi. Nessuno di loro stava guardando nella nostra direzione e non potevo vederli in viso, tuttavia ero cosciente che ci fosse qualcosa di anomalo.
Erano quasi tutte figure esili e piccoline. Alcune erano basse come nani. «Cosa sono quelli?» domandai, incerta se voler sapere o meno la risposta.
Per qualche secondo nessuno disse nulla e percepii uno strano senso di sottomissione nei miei confronti, che non riuscivo a ricondurre a un motivo in particolare.
«Detské vojakov. Kindersoldaten.» Era stato Pasha a rispondere. «Bambini soldato.»
Scrutai nelle lenti per qualche attimo ancora, poi scossi la testa. «No.» Guardai i quattro uomini nel buio. «No. No. No!» Distolsero lo sguardo, tranne Dahaljer. «Voi non volete combattere con dei bambini, ditemi che è così.» Stavo ancora scuotendo la testa, come se non riuscissi a smettere. Non ci fu risposta. Bloccai il capo con le mani e trassi un profondo respiro che sembrò gelarmi i polmoni. «Capitano, li voglio prigionieri, tutti.» La voce mi uscì più tagliente del previsto.
«Non è così facile», replicò lui, assorto.
Lo raggiunsi carponi. «È un ordine», sibilai.
Non si scompose neanche un po’. «Sono addestrati a combattere, e lo faranno, se anche riuscissimo a non ucciderli e a non farci ammazzare, molti di loro si uccideranno.»
«Cosa?»
«Hanno delle fialette al collo e prima che tu possa togliergliele, le avranno ingoiate.» Mi guardò negli occhi. «Veleno.»
Mi sedetti sui talloni. «Non posso credere che lo faranno davvero.»
«Lo fanno», sussurrò uno degli uomini che era venuto con noi. «L’ho visto con i miei occhi. Sfuggi alle loro armi, alle loro mani, cerchi di salvarli perché sono solo dei ragazzini e loro ingoiano quella roba e ti muoiono tra le braccia.»
«Mio Dio.» Mi sentii sussultare. «Alcuni di loro avranno sì e no dieci anni!» Nessuno replicò, confermando quanto fosse vero ciò che avevo sperato non lo fosse. «Non possiamo are da nessuna altra parte?»
«No, anche se andassimo più in alto ci vedrebbero, sono bambini, ma sono delle macchine da guerra, ci attaccherebbero comunque. E altri valichi non ce ne sono.»
«I Lupi Grigi fanno questo?» chiesi. «Non mi stupisco se accettano come capo un uomo che ha ucciso sua figlia per essersi innamorata.» Ancora una volta nessuno aveva riposte da darmi. Era un fantomatico mio nonno di cui stavo parlando ed era loro acerrimo nemico. «Possiamo tentare di attaccare di notte. Così dormiranno.»
«No, è vero il contrario», ribatté Pasha. «Di giorno dormono, di solito, perché attacchiamo di notte. In realtà, negli ultimi tempi hanno cambiato spesso orari e abitudini proprio per non essere colti di sorpresa. Non possiamo sapere come si siano organizzati.»
«Sono dei bambini», ripetei come per convincermi dell’impossibilità della cosa.
«Allora attaccheremo domani mattina, in questo modo o staranno andando a dormire o si staranno per svegliare.» Il tono di Ahilan era così calcolato che mi diede ai nervi.
«Però non possiamo saperlo con certezza», obiettò l’uomo che aveva avuto a che fare con loro, insinuando l’ennesimo dubbio.
Ahilan guardò me e Pasha lo imitò.
Sospirai osservando le ginocchia premere sulla neve. «Va bene», mormorai, afflitta. «Ma voglio che siano fatti prigionieri, dovete almeno provarci.»
Dahaljer annuì. «Andiamocene.» Annuii anche io di rimando e loro si alzarono silenziosi e leggeri, perché erano Tigri. Rimasi ferma e feci a Pasha segno di andare. «Ora vi raggiungo.»
Io non volevo macchiarmi di quel sangue. Perché dovevo essere io a prendere quella decisione? Mi stavo chiedendo. La presenza di Dahaljer era assai consistente accanto a me. Sollevai il viso e incontrai i suoi occhi.
Perché in una situazione diversa l’avrebbe presa lui ed era assai probabile che non avrebbe pensato a fare prigionieri. Era un soldato, un guerriero, una Tigre, aveva ucciso e lo avrebbe continuato a fare. Quando mi ero innamorata di lui? Di uno come lui. Fece due i verso di me e riabbassai il capo, unii le mani come se stessi pregando; non lo stavo facendo, però. Avrei voluto avere qualche potere magico e far sparire tutto, creare una sfera intorno a me e tenere il mondo fuori.
La mano di Ahilan si poggiò sulla mia testa e scese ad accarezzarmi i capelli. Mi scostai. Lui non poteva capire, lui era parte del mondo che avrei voluto tenere fuori dalla mia vita. In termini di emozioni, quel movimento mi costò fatica.
Tra i suoi sentimenti rigidi e calcolati aleggiò una sorpresa, tuttavia, quando lo
guardai, annuì. «Vieni a cena», disse come fosse un ordine, ma sapevo che mi avrebbe lasciato il mio spazio. Non poteva capirmi, ma sapeva rispettarmi.
Attesi qualche minuto, inginocchiata nella notte gelida come a scontare qualche pena; alla fine mi alzai, non era una pena sufficiente e sarebbe stata inutile. Pensare a volte non risolve niente. Li seguii a distanza.
Dahaljer radunò gli uomini - e le donne - e spiegò punto per punto cosa volesse che fero. Illustrò il luogo che avevamo visto con dovizia di particolari, che io non avevo neanche notato.
Quella notte restò a fare un nuovo turno, stoico come sempre. Anche Pasha faceva il primo turno, nel lato sud dell’accampamento. Non avendo nessuna voglia di dormire, andai con lui.
C’era un piccolo dislivello del terreno, che formava una sorta di barriera al nostro accampamento. Si sdraiò a terra e puntò la sua mitragliatrice verso la distesa di neve, oltre la fine del bosco. Mi misi accanto a lui, appoggiata su un fianco, e con la spalla poggiata all’altura, come fosse una trincea con un solo lato.
Non guardavo verso l’esterno, ma tirai fuori la pistola, per fingere di essere utile. Osservai le cime alte degli alberi, che sembravano toccare il cielo stellato, ne seguii i contorni e percorsi con lo sguardo tutto il bordo del bosco visibile da quel punto.
Lontano, verso est, potevo scorgere la figura di Dahaljer, più rientrata rispetto a noi. Strinsi le palpebre per riuscire a vederne i lineamenti, però i miei occhi
felini e lupoidi non riuscivano a fare di più a quella distanza.
Pasha si mosse appena. «Lo ami?» chiese senza guardarmi.
«Cosa?» La voce mi uscì più stridula di quanto avessi voluto.
«Ahilan. Lo ami?»
Fui io a voltarmi e lo osservai puntare la sua mitragliatrice, con determinazione e concentrazione, come se mi stesse chiedendo in quale punto doveva mirare o quale fosse la mia nuova strategia.
«È questo che significa ‘Màlica’, che lo ami?» insistette. «È rischioso e capisco che sia pericoloso, ma io me ne fregherei delle leggi. Immagino che sia dura, vero?»
Chiusi la bocca, che non mi ero resa conto di aver aperto, e tornai a guardare il bosco e le tende che nascondeva ai suoi piedi. «Fai troppe domande, soldato.» Il mio strato di indifferenza vacillò. Con la coda dell’occhio, lo vidi sorridere.
«Lo prendo per un sì.» Si piegò appena sul suo fianco destro, per guardarmi meglio.
«No. Non prendere nulla, prima che ti prenda io a calci nel sedere.»
«Shayl’n, se lo sono chiesto tutti qui.»
Esasperata, mi voltai verso di lui e gli appoggiai la mia semiautomatica sulla pancia. Rimase immobile, ma un’ombra di paura ò tra i suoi sentimenti, poi si rilassò. Mi conosceva troppo bene Pasha. «Tutti qui si sono chiesti troppe cose, Klein, ma non sarai tu a fornire loro una risposta.»
Sghignazzò soddisfatto. «Certo che no, Altezza.» Guardò la mia mano armata su di lui. «Però ora mi tolga quella roba di dosso.»
Studiai il suo volto da ragazzino per qualche secondo e spostai l’arma; da qualche parte stava sorgendo una falce di luna. Ero di pessimo umore e l’ultima cosa che volevo fare era parlare con Pasha di Dahaljer, restammo in silenzio ad ascoltare il fruscio del vento, fino a quando non vennero a darci il cambio.
35
La seconda parte della notte, dormii male, come se avessi un macigno sul corpo; e il giorno, come sempre da troppo tempo ormai, arrivò prima del previsto. Ahilan mi toccò appena la spalla. «Sei sicura di venire con noi?»
Sbattei le palpebre. C’era qualcosa di cui fossi sicura in quel dannatissimo posto? Annuii perché la mia voce mi avrebbe tradita.
Camminai in silenzio dietro di loro, era una bella giornata e il cielo aveva un azzurro così intenso da fare male agli occhi. Come mi era già capitato, seguii la scena da lontano, perdendo i singoli movimenti e registrando solo una confusione di fondo. Dovevano esserci dei Lupi adulti perché ne sentii la presenza, che presto sparì. Quelle che si sollevarono in cielo, però, furono grida di bambini.
Mi si strinse il cuore. Come potevano trovarsi là al gelo armati come e più degli adulti? Chi li aveva mandati? Come avevano potuto? Quello era il peccato più grave che avessi visto compiersi su quelle terre innevate, più della morte e delle torture, più dell’odio e della rabbia. Erano bambini!
Di nuovo, la neve bianca si macchiò di rosso sotto i miei occhi. Furono i più grandi a morire, furono loro a combattere fino all’ultimo e furono loro a ficcarsi in bocca, veloci, la loro fatale dose di veleno. Di poco più di una trentina di bambini non se ne salvarono neanche la metà. Dodici di loro erano illesi e vivi, uno era gravemente ferito e un altro aveva ingerito una parte del veleno che lo stava uccidendo con una lentezza feroce e spietata.
Non sapevo che veleno fosse e non conoscevo una cura, nessuno di noi la conosceva. Avrei voluto fargli rimettere tutto lo stomaco sul pavimento dei loro piccoli e freddi box, ma il ragazzino si agitava con spasmi violenti senza permettere a nessuno di toccarlo. Aveva tredici anni, si chiamava Sanìt e, dopo più di tre quarti d’ora di sofferenza, mi morì tra le braccia, rantolando scomposto. Una bambina di neanche dieci anni, la più piccola del gruppo, mi fissò con il viso pieno di lacrime da un angolo della stanza. Scoprii più tardi che era la sorella di Sanìt e fu proprio lei a dirmi il nome e l’età di lui.
Le Tigri spostarono veloci tutto l’accampamento alla base dei bambini. Per due giorni ci fu un gran movimento. Sebbene scoperto, quello era un punto importante, perché era un aggio tra le montagne da tenere stretto.
Ci raggiunsero altri uomini, altre armi e altro cibo. Per fortuna, ebbero il buon gusto di non festeggiare. Nell’attacco con i bambini erano morti cinque soldati, ne conoscevo solo uno, era quello che la sera prima ci aveva accompagnati in avanscoperta.
I bambini, legati mani e piedi, furono silenziosi e cupi per tutto il tempo. Nessuno di loro osò lamentarsi e piansero in silenzio. Sapevo perché. I bambini che crescono senza nessuno che si occupi di loro, imparano a piangere in silenzio, fare rumore non serve a nulla, se non a prendere botte.
Due di loro avrebbero usato il veleno, se non glielo avessero impedito, e io avevo paura che potessero rimediare con qualche altro metodo. Parlavano solo il bretençal dei Bamiy e con alcuni dei soldati non potevano comunicare, non che avessero urgenza di farlo. Erano restii a farsi toccare o anche solo avvicinare, più per paura che per rabbia.
Carlize, la sorella di Sanìt, aveva gli occhi verdi e le lentiggini, i capelli castani e boccolosi. Sembrava una bambola. Sudicia e con la bocca perennemente piegata in un broncio, si avvicinò a me più di quanto gli altri volessero. A parte Nilmini, i bambini non mi erano mai piaciuti troppo, e tolta una pena infinita per quei volti impauriti e resi quasi brutti dalle violenze subite, mi relazionai a loro con qualche riserbo.
Danka Kijowski rimase lontana da loro e così alcuni degli Uomini. Pasha Klein seguiva, invece, tutti i miei spostamenti interagendo con loro quasi quanto me. Era molto dolce con loro e sapeva trattarli.
«Ho un nipotino, sai?» mi disse, mentre porgeva da mangiare a uno dei bambini. «Credo abbia undici o dodici anni ora. È il figlio di mia sorella grande.»
Dahaljer Aadre veniva solo per controllare la situazione, era impacciato e diffidente, tuttavia era un calamita per i bambini. In parte perché dovevano aver capito il suo ruolo e quindi alcuni di loro gli si avvicinavano solo per saltargli addosso e cercare di picchiarlo. Uno di loro, Hameline, finì più volte a terra, continuando a scalciare e menare pugni senza sosta. Ahilan alzava gli occhi al cielo e lo legava, mentre il bambino strillava come una iena. In una di quelle occasioni gli ai accanto e lui mi lanciò un’occhiata di sbieco. «Ma è tuo parente questo?» mi domandò.
Sollevai appena un sopracciglio, sapendo benissimo cosa intendesse dire.
Seppur goffo, anche lui sapeva farsi accettare dai mocciosi, forse più di me, considerando che io mi stavo prodigando a farmi piacere, mio malgrado, mentre lui tentava di toglierseli di torno.
C’era una cucina in quel campo e funzionava bene. Aveva acqua corrente ed elettricità. Gli uomini ridevano di quel fatto perché erano servizi pagati dai Bamiy.
Io invece non riuscivo a ridere. Le bambine erano terrorizzate e si avvicinavano solo a me. Pensavo che fosse per via del colore dei miei occhi, tuttavia alla fine dovetti accettare una realtà ben più dura. Quando un uomo si avvicinava a loro, si piegavano su loro stesse come a proteggersi.
Nella mia totale incapacità di saperli gestire, serrai le mandibole e cercai di mostrarmi forte per loro. Brigitte aveva tredici anni e mi chiedeva se doveva cucinare, diceva che avrebbero ucciso la sorella o i genitori se non lo avesse fatto. Le chiedevo dove si trovassero e lei non sapeva rispondermi, il labbro inferiore tremava con veemenza e io la cullavo come meglio potevo.
Mi angustiavo tutto il giorno perché non sapevo come risolvere quella situazione. Erano bambini che avevano bisogno di qualcuno che si occue di loro, di qualcuno che curasse le loro ferite, non quelle del corpo, quelle dell’anima. E io mi sentivo impotente, non avevo un posto in cui mandarli e nessuno che fosse in grado di aiutarli. Giocavo con loro e cercavo di distrarli, non li facevo uscire perché fuori c’erano troppi uomini e armi e a volte quando si avvicinavano dei Lupi - che non sapevano che la base era stata presa dalle Tigri si combatteva senza esclusione di colpi.
***
Dopo qualche giorno attaccarono una grande roccaforte alla fine della lunga vallata, si chiamava Leion. Non avevano bisogno di me e me ne rimasi con i bambini a inveire contro il genere umano nella sua totalità. Nessuno di quelli che tornò sulle proprie gambe era stato esentato da sangue e ferite.
I Tiouck avevano conquistato un punto nevralgico e i Bamiy avevano subìto una grossa perdita, sia in termini di vite che di posizione strategica. Tra la base dei bambini e la roccaforte iniziò una lenta processione di uomini, cibo, vestiti e medicinali.
Leion era un luogo davvero grande. Le sue case si arroccavano lungo i due pendii della valle, coperte di neve e silenziose. Tra i Lupi, i pochi sopravvissuti erano donne e bambini, mogli e figli dei soldati Bamiy. Mi sforzai di non vomitare nel vedere lo scempio di corpi morti, sangue e urla strazianti.
Un tempo c’erano state sulla Terra bombe e granate, che facevano saltare le persone come pupazzi, mutilandole. Dopo il duemiladodici, Bamiy e Tiouck avevano preferito non usarne, trovandole poco pratiche per il loro modo di combattere, almeno fino a quell’inverno. Questa era una fortuna perché le persone non venivano mutilate. Nonostante questo, guardare andava oltre le mie capacità fisiche, non ero un medico, né lo sarei mai stata, non ero in grado di osservare asciutta e preparata a tutto e non ero in grado di lavorare a mente lucida. Cercai di aiutare dove potevo con piccole ferite, abrasioni e lividi. Come una macchina che fa sempre la stessa operazione, cucii lembi di pelle e somministrai medicine, acqua e cibo. Leion sembrava un ospedale a cielo aperto. Dalle terre più a nord e a est arrivavano in aiuto uomini e donne, inviati da Tagron, tuttavia nessuno di noi aveva tempo per dormire e se anche ne avessimo avuto, sarebbe stato difficile farlo.
Nonostante le Razze delle Tigri Bianche e dei Lupi Grigi avessero gli occhi chiari, avevano da sempre avuto una varietà incredibile di lineamenti e colore della pelle. Eravamo tanti e Leion era un misto di gente molto diversa tra loro. Ciò non toglieva il fatto che fossi una delle poche ad avere una parte degli occhi neri come pece. Ero riconoscibile anche là. Inoltre parlavo ormai fluentemente sia l’arindo ichslavo che il bretençal, nessuna delle due era la mia lingua madre la prima che avevo parlato e con cui ero cresciuta - e sapevo di avere un accento diverso. I Lupi avevano sentito parlare di me e alcuni di loro ci misero poco a
riconoscermi; a odiarmi ci misero anche meno. Alcuni di loro mi chiedevano di che Razza fossi; non sapevo mai cosa dire. «Non lo so», risposi una volta a una donna con un bambino piccolo in grembo – era nato proprio durante l’attacco – che stava in una stanzetta piccola e sudicia, non ricordo il suo nome. «Non sono un Lupo, se è questo che vuoi sapere», mormorai dandole dell’acqua.
«Ma non sei neanche una Tigre», disse, dopo aver bevuto.
Scossi il capo. «No, non lo sono.»
«Però puoi trasformarti?» I suoi occhi di un giallo scolorito, scrutarono i miei, incuriositi.
«Sì. Non sono neanche Umana.»
Inclinò la testa, pensierosa.
«Il re delle Tigri non ti vuole morta, per questo?» La domanda era stata posta come se Tagron Toivainen mi avesse concesso una benedizione. Loro e il loro re -mio nonno- mi avrebbero uccisa, pur ignorando chi fossi o, se lo avessero saputo, mi avrebbero anche torturata.
«No.» Me ne andai senza aggiungere altro. Avrei potuto dire che tra le Tigri Bianche era diffamante uccidere i discendenti della casata reale, ma non potevo parlare di me e non volevo neanche farlo, inoltre Tagron non mi aveva certo graziata per bontà sua.
Non ero niente, non ero un Lupo, non ero Umana e non ero una Tigre. Non avevo gli occhi chiari e non avevo neanche dei veri occhi scuri, non ero una vera principessa e non ero neanche un soldato, non ero un’infermiera, né una vera prigioniera. Non ero né carne né pesce. Sapevo solo di essere un’orfana e, tra tutte, era l’unica cosa che mi lasciasse libera nelle mie decisioni; il resto mi richiamava a degli obblighi che non sentivo come miei.
I soldati che non avevano ferite da armi da fuoco o pugnali si contavano sulle dita di un’unica mano e tra quelli non c’erano né Pasha, né il Capo Branco. Pasha aveva le braccia bucate da pallottole e qualche graffio, la sua figura magra e longilinea era distesa su un letto, non si lamentava mai. Ero andata a trovarlo subito dopo la fine dell’attacco, quando ancora non erano riusciti a metterlo su una brandina. Tutte le persone che conoscevo, Tejii, Danka, Layo, Valerj, Ron e tanti altri, avevano qualche ferita. Non riuscivo a provare una vera comione per loro. Ero ata a salutare tutti e a vedere come stavano e continuavo a valutare la loro situazione anche quando potevano alzarsi e dare una mano.
Mi dispiaceva per i loro fisico torturato, tuttavia una rabbia profonda per quello che avevano fatto, per quello che facevano da una vita, non mi permetteva di provare una reale pena nei loro confronti. Dahaljer non era escluso, né dalle ferite né dalla mia mancata commiserazione.
Aveva le gambe piene di pallottole quando lo avevano trovato, e aveva perso molto sangue, tanto da essere semicosciente. Avevo provato un dolore del tutto egoistico nel vederlo martoriato e bianco come un fantasma. Me ne vergogno, perché sono meno crudele di quanto davo a vedere in quei momenti, ma non posso cambiarlo e se tornassi indietro, vivrei le stesse emozioni. Amavo un uomo che aveva scelto il suo destino, diversamente da me. Avevo avuto paura di perderlo quando nelle sue vene scorreva troppo poco sangue e i medici del reparto militare di Tagron gli avevano infilato aghi e fili e fatto flebo. Non volevo e mi davo della sciocca, eppure avevo avuto paura perché non sarei riuscita a fare a meno di lui.
Non potevo toccarlo, senza tradire le mie emozioni e così lo avevo guardato da lontano, controllando ogni singolo sentimento che vagava nelle mie viscere, e pregando la Nostra Signora, perché da qualche parte avevo ancora un cuore. Quando si era ripreso, non ero andata a trovarlo, sollevata e più leggera, pensavo che ora potesse crogiolarsi da solo nelle sue pene.
Da roccaforte dei Bamiy, Leion divenne una base efficace ed efficiente dei Tiouck. Tagron mandava messaggi tutti i giorni, ordini precisi; solo uno contava, dovevamo rimanere là e aspettare. Aver conquistato quei posti era un ottimo risultato e il Consiglio Superiore aveva iniziato trattative con la difesa di Belden Monreau Harvey. Forse c’era una speranza che qualcosa cambiasse. Forse, pregai, tutto questo finirà.
C’era un altro ordine che contava davvero per me, ma che non rispettavo: uccidere i prigionieri, uno al giorno fino a che Belden non avesse deciso cosa fare.
Dei prigionieri non importava né al re dei Bamiy né tanto meno al re dei Tiouck e io non li avrei uccisi per niente. Per ora potevo permettermelo, il mio ordine era di non uccidere o torturare nessuno di loro e soprattutto di non farlo sapere a Tagron. Fino a quando non sarebbe stato là, non avrebbe potuto sapere se lo stavo facendo davvero oppure no.
A quel suo ordine avevo risposto che lo avrei eseguito solo perché obbligata. Rispondere che non lo avrei fatto sarebbe stato pericoloso come rispondere che l’avrei fatto e basta. Non era uno stupido, Dahaljer me lo aveva ripetuto più volte, sapeva che non avrei detto “sì, va bene, lo farò”, senza ingannarlo.
Quando Pasha si riprese, avevo dato ordine a lui di fingere quelle uccisioni. Sebbene il mio ordine fosse forte del mio sangue reale, non ero sicura che nessuno spifferasse quello che facevo, o meglio, quello che non facevo. Lasciarlo credere ai soldati guerrieri era una precauzione a cui non volevo rinunciare e all’inizio fu facile, perché i primi giorni qualcuno moriva per le ferite riportate e Pasha lo faceva are per prigioniero ucciso su mia richiesta. Dopo alcuni giorni divenne più difficile, ma il ragazzo mi disse che se ne sarebbe occupato lui e di non preoccuparmi.
Il Capo Branco si alzò dal suo letto e riprese le sue posizioni e il suo ruolo, era una Tigre e sembrava stare meglio di prima. Sapeva quello che facevo, non potevo non dirglielo e non per paura che mi scoprisse, ma perché era lui e, che io sia dannata, era l’unica persona di cui mi fidassi senza remore.
Avevo lasciato i bambini soldato alla loro base, per quanto più isolata era un ambiente più adatto a loro di quanto non lo fosse Leion. Avrei inviato là anche i bambini e le donne della roccaforte, ma questo rivelava parte della mia mancata osservazione degli ordini. Mandai solo due ragazze, che non sembravano avere subito particolari perdite, affinché si occuero di loro.
Tornarono giornate uggiose e fredde, e nevicò. Con l’ordine di rimanere dove stavamo e aspettare, i soldati erano liberi di avere una pausa da molte cose e spesso si allontanavano per trasformarsi e gironzolare tra le montagne con addosso solo la folta pelliccia. Li osservavo da lontano vagare soli e beati e pensavo che a volte sembrassero davvero dei gattini innocenti, tuttavia non erano gatti, tanto meno innocenti. A volte giocavano tra loro, come ragazzini, zompavano sulla neve e si rotolavano sonnacchiosi. Chi prima e chi dopo, lo fecero tutti. I prigionieri, con i loro cerchietti alle caviglie, li guardavano invidiosi.
Il mio sangue Umano, invece, mi faceva desistere e non ne sentivo la necessità. Farlo mi faceva sentire nuda; inoltre, con il corpo da lupo e le strisce e le
dimensioni da tigre, ero una bestia particolare anche in quella forma. E, per quanto cambiate rispetto ai primi tempi, l’attenzione e la curiosità nei miei confronti non finivano mai.
A parte quando ero stata costretta dal Consiglio Superiore di Praha, che mi aveva analizzato con attenzione e sorpresa, l’ultima volta che mi ero trasformata era stato a Màlica, il giorno prima che ci raggiungesse Layo. Ero saltata contro il muso di Dahaljer e gli avevo leccato il naso rosa. Sorrisi a quel ricordo.
36
Nelle giornate rigide dell’inverno, mentre mi sforzavo di tenere la bocca chiusa per non farmi congelare i polmoni alla prima boccata d’aria, Tagron ci tenne bloccati a Leion, senza preoccuparsi di mostrare i suoi piani o di spiegare cosa stesse succedendo. Non ero sicura che in parte questo non dipendesse dalla mia presenza. Dahaljer come tutti noi non ne sapeva nulla e sono convinta che in un mondo dove io non fossi stata in quel posto, il re dei Tiouck lo avrebbe reso partecipe delle sue mosse.
Tuttavia il Capo Branco non si preoccupava.
Lo trovai per caso in uno dei capannoni dei Lupi Grigi, dove avevano sistemato i cavalli da soma. Era una costruzione di legno e lamiere, che si trovava subito fuori Leion, in quel momento di calma nessuno andava là, tranne due ragazzi che avano la mattina presto a dare da mangiare e bere alle bestie. Mi capitava di andare a vedere, perché i cavalli mi facevano credere che esistessero ancora degli animali degni di essere sulla Nuova Terra.
Non pensavo di trovarci qualcuno e quando percepii la sua presenza, mi bloccai. Non tornai indietro solo perché immaginai che anche lui avesse avvertito la mia.
«Ciao», mi disse, senza neppure voltarsi.
Per un attimo pensai di salutarlo e andarmene; rimasi impalata a qualche metro da lui, che stava spazzolando un cavallo dal manto nero e dai riflessi ocra. Allora
si girò e mi guardò.
Mi avvicinai titubante. «Non pensavo ti piero i cavalli.»
«Ne avevo un paio quando ero piccolo, sono degli animali stupendi. Tu sai cavalcare?»
Scossi il capo. «No.» All’improvviso pensai che fosse un perfetto estraneo e mi sentii a disagio. Accarezzai il muso del quadrupede con la mano, subito sotto i suoi occhi.
«Soffia.»
«Cosa?»
Il Capo Branco indicò un punto. «Soffia. Qui, sul suo naso, così ti farai conoscere e lui poi ti riconoscerà.»
Aggrottai la fronte e gli lanciai un’occhiata. «Mi prendi in giro?»
«No. Perché dovrei?»
Feci quanto mi aveva detto e il cavallo soffiò dalle narici in segno di risposta,
poi alzò la testa avanti e indietro, piano, e spostò il peso del corpo. «Bravo», sussurrai, non sapendo bene per quale motivo.
Poggiai una mano sulla sua guancia e Ahilan mi colse di sorpresa, poggiando la sua sulla mia. «Mi manchi», sussurrò anche lui.
Non sapevo cosa dire. ‘Mi manchi’ era un eufemismo. Osservai le nostre mani una sopra l’altra; in assenza di sole, la sua pelle era schiarita e diventata molto più chiara della mia, non avevamo più lo stesso colore. «Dahal» Non lo chiamavo così da un po’ di tempo. «Tagron non ti informa di quello che fa perché ci sono io?»
Si irrigidì e si spostò, rompendo il contatto e facendomi pentire della domanda. «Non lo so. Forse lo avrebbe fatto comunque. Se vuole dirmi qualcosa, lo fa.»
«Perché ti fidi di lui?»
«Non mi fido di lui, semplicemente è mio padre. Se non mi avvisa per via della tua presenza avrà un buon motivo.»
Mi morsi un labbro. «Dahal.» Ripetei il suo nome come per gustarlo. «Tu… non sai neanche se so andare a cavallo. Credi che sia giusto che lui ti faccia soffrire per questo?»
«Che c’entra?»
«Non lo so. È che mi sembra tutto così insensato. Tu oscilli da me a lui e forse non conosci bene né me né lui.»
Si spostò indietro. «Tu dubiti sempre di qualcosa.»
Accarezzai il cavallo, con distrazione. «Non è sbagliato farlo.»
«Di te dubiti mai?»
Feci un sorriso amaro. «Un sacco di volte.»
«Shay. Io vorrei solo che tu stessi bene, non importa dove, come e quando, vorrei solo questo.»
Abbassai lo sguardo. Anche io volevo solo quello? Volevo solo che lui stesse bene? Io volevo lui, essere parte di lui ed esserlo in un altro posto. Non capivo perché per lui fosse così semplice e per me così complicato.
Forse dovevo rivedere cosa provassi per lui, forse se lo avessi amato un po’ di più, sarei riuscita ad accettare tutto, come faceva lui. Però, non fu questo ciò che dissi. «Io so che Tagron viene prima di me. E immagino che dovresti rianalizzare i tuoi sentimenti nei miei confronti.» La mia voce ferma, mentre il cuore sussultava, sbalordì anche me.
Il dolore che si disegnò sul suo viso mi colpì alla bocca dello stomaco. Provai
un’emozione contrastante: il pentimento per averlo fatto soffrire e la gioia di sapere che il suo dolore mi faceva ancora male. Mi faceva male perché anche io volevo che stesse bene.
Tuttavia, se io ero in grado di vedere quell’emozione da due diverse prospettive, lui ne colse solo la crudeltà. Non posso biasimarlo, lo avrei fatto anche io.
«I miei sentimenti sarebbero molto precisi e chiari, se tu non li mettessi sempre sotto giudizio. Se tu la smettessi di infliggermi con i tuoi stupidi giochi e se per una volta tanto ascoltassi solo me, invece che quello che succede con Tagron. Se lo fi, potresti vedere che tu e lui siete due cose ben distinte.»
Mi avvicinai a lui e gli toccai il petto con la mano, poggiando il palmo. La mia durezza si sciolse come un fiocco di neve nella mano calda. «Scusami… io… Dahal, se il tuo cuore ascoltasse oltre le mie…»
Mi prese il polso con forza, mi strattonò ed entrambi ci accorgemmo che da qualche parte si avvicinava la presenza di Pasha. Parlò in un sussurro. «Il mio cuore lascialo in pace, Shay. Se davvero provi per me quello che dici, risparmiami…» Si interruppe perché il ragazzo era troppo vicino. Potevo vederlo con la coda dell’occhio.
Tuttavia Ahilan non riuscì a trattenersi, con il volto in fiamme, mi spinse contro il palo di legno a cui era legato il cavallo, per farsi spazio e uscire. So che non era intenzionato a farmi male, tuttavia la mia colonna vertebrale accusò il colpo con una fitta.
Si voltò, nel momento in cui Pasha Klein mi raggiungeva. «Capitano…»
cominciò quest’ultimo con voce stridula. Erano più o meno alti uguali, sebbene fossero di corporatura molto diversa: Pasha per quanto muscoloso era la metà di lui, era secco e slanciato, tuttavia tendeva a ingobbire la schiena. Più di una volta avevo pensato che se non fosse stato un soldato/guerriero di Razza Tiouck, avrebbe finito per essere troppo magro e dinoccolato. Il Capo Branco, nonostante non fosse troppo grande, non come Tejii, accanto a lui sembrava una montagna, dalle spalle dritte e le proporzioni eleganti. Ricordai che aveva una muscolatura delicata e mi rifiutai di indugiare sull’immagine di lui senza vestiti.
«Togliti, soldato. La principessa ha solo qualcosa da ridire sul re Tagron.» Lo superò e uscì dal capannone.
Rimanemmo immobili per alcuni istanti, mentre sentivo la sua presenza allontanarsi e svanire.
«Io», esplose Pasha. «Io lo ammazzo di botte. Io…»
Vedendo che stava per seguirlo, lo afferrai per la giacca. «Tu cosa?» Aggrottai la fronte.
«Shayl’n, dimmi solo che posso farlo e lo farò. Non è giusto che…»
«No.» I miei occhi saettarono su di lui minacciosi. «Non ci provare neanche.»
«Ma lui…» provò a dire.
«Non sono affari tuoi», lo interruppi, brusca.
Sostenne il mio sguardo, sicuro, poi addolcì l’espressione. «Non lo dico per me. È che lui non può…»
«Sì che può.»
«Solo perché è il Capo Branco?»
Restai interdetta, stava sovrapponendo più di una questione. «No.» Cercai di ammorbidire la voce anche io. «Non so se riguarda un problema tra te e lui, Pasha.» Scosse la testa. «O se riguarda me e te.» Si morse un labbro. «Ma in ogni caso, questo riguarda me e lui; quindi, grazie, ma no.»
Mi guardò torvo. «È uno stronzo e tu finirai per...»
«Pasha!» ringhiai di nuovo. «Smettila subito e torna al tuo lavoro.»
«Come vuoi, principessa.» Non era soddisfatto di come fossero andate le cose, non lo ero neppure io, ma non mi interessava e non avevo nessuna voglia di discuterne anche con lui in quel momento. Non avevo nulla da ribattere, così se ne andò.
Guardai il cavallo, che si era spostato rispetto a noi, forse percependo pericolo. Sembrò guardarmi male. «No. Non ti ci mettere anche tu», dissi. «Lo so, sono
una sciocca.» Mi avvicinai e soffiai di nuovo sul suo naso. «Devo parlare con lui e chiedergli scusa», mormorai alla bestia a voce molto bassa. «Forse non sembra, forse non siamo in grado di dimostrarlo, ma so cosa provo per lui e so anche cosa lui prova per me. Se solo fosse tutto più facile; perché non ci è concessa una vita più facile?» Esso annuì con il capo nel gesto tipico che fanno i cavalli. Sorrisi mio malgrado.
Non riuscii a trovare un altro momento per parlare con lui, perché era sempre con qualcuno. Purtroppo era quella la nostra situazione, momenti per noi non ce ne erano.
Ignoravo dove fosse quando Tejii mi raggiunse con il suo o lungo e veloce. «Principessa, il re ha mandato un nuovo ordine. Non è stato chiaro su tutto il piano, ma dobbiamo andare qui.» Dispiegò una mappa e indicò un punto segnato a penna.
«Giù per queste valli?» chiesi distratta.
«Sì. Domani qui e, se va tutto come previsto, dopo domani, invece, scendiamo di qua. Deve venire in avanscoperta con noi e vediamo quale sia la situazione. Ho paura che tra Tagron e Belden non si sia arrivati a nessun accordo.»
Lo guardai in volto. «Non mi sembra una novità. Sperava che fosse finita?»
«Lei no?»
Feci spallucce. «Ho perso le speranze diverso tempo fa. Forse Leion è solo un punto come un altro.»
Mi strinse una spalla con fare affettuoso. «Mi dispiace.»
«Sono sicura che quando questo incubo finirà, me ne renderò conto, tuttavia non credo che sia vicino quel momento. Tejii, se non me ne dovessi accorgere, mi svegli lei. Me lo promette?»
Sorrise pacato. «Promesso. A patto che mi faccia un sorriso.»
Sorpresa, feci una strana espressione.
«Buon Dio! Un sorriso, non una smorfia da ‘mi hanno ucciso il gatto’», mi fece notare.
Alla fine gli sorrisi. «Affare fatto, allora.»
I Bamiy avevano tolto l’elettricità a tutta la zona di Leion, così non avevamo più luce né acqua calda. Se i primi giorni, quando la roccaforte sembrava più un ospedale che una cittadina, imprecammo un po’ tutti, poi di nuovo ci abituammo. Le Tigri raccoglievano la legna e facevano grandi fuochi.
Anche quella sera c’erano dei fuochi e subito dopo cena eravamo attorno a uno di essi. Erano ancora tutti sobri, ma gli uomini riescono a fare battute idiote in
ogni occasione, senza il minimo pudore. Layo Luba aveva deciso di fare queste battute a scapito di Danka Kijowski. Lei sapeva difendersi da sola, nonostante più di una persona la stesse pungolando chiedendole perché non avesse deciso di stare a casa e di sposarsi.
Seduta a terra a gambe incrociate e tenendo i gomiti poggiati sulle ginocchia, osservavo la scena, contenta che, per una volta tanto, non fossi io l’oggetto della discussione.
«Avresti dei bellissimi figli», stava dicendo Ron, serio.
«E tu vorresti essere il padre, vero?» ribatté lei sarcastica.
Lui parve sorpreso, sembrò sentirsi in colpa, poi si riprese. «Oh, beh, cioè... non mi dispiacerebbe avere il dubbio di essere il padre di uno di loro.»
«Neanche a me», esclamò Tejii. «Buon Dio, siamo tutti bei maschioni qui, mica vorrai lasciarne qualcuno a bocca asciutta.»
Gli occhi di lei incrociarono i miei e io distolsi lo sguardo. «Quali maschioni, per la precisione? Io vedo solo bambini che si bagnano il pannolino», lo apostrofò.
Jama, seduto accanto a me, si agitò e io sorrisi.
«Se è per questo, Dan», intervenne Srei, ammiccando verso di lei, «noi
potremmo sapere cosa di te non è asciutto. E anche perché.»
Mi trattenni dall’aprire la bocca e fare la faccia stupita. Era uno scambio di battute troppo ridicolo, fossi stata in Danka, me ne sarei andata. Lei però era quello che era e se non avesse avuto quel viso così sensuale, sarebbe stata tanto uomo quanto quelli che ci circondavano. Era assai più probabile che gli saltasse al collo e lo fe secco in un secondo.
In quanto donna, forse, avrei dovuto dire qualche cosa, per puro spirito di coalizione femminile, tuttavia non la potevo soffrire e lei non poteva soffrire me. Inoltre quelli che erano radunati intorno a quel fuoco, in quel momento, erano la punta dei soldati/guerrieri e si conoscevano da una vita, compreso Pasha, che era il più giovane; con ogni probabilità, in quello scambio di battute c’era del non detto che tutti loro conoscevano, tranne me. Nei loro umori non c’era la benché minima traccia di ostilità, neppure in Danka.
Immaginai che quello fosse un argomento che si ripeteva ciclicamente e che ognuno di loro fosse in grado di sapere quando si stavano solo divertendo o quando era troppo. Anche per questo mi sorpresi quando fu Dahaljer a intervenire. «Perché non la smettete di romperle le palle? Non avete un minimo di buone maniere.» Tra me e lui era seduto solo Ron.
«Oh, buon Dio. Perché, tu ne hai mai avute, Ahilan?» lo rimbeccò ridendo Tejii.
Lui lo guardò con pacata aria di sfida. «Sicuro ne ho più di te.»
«Da quando parlare di sesso non è avere buone maniere?» Srei parlò con tono minaccioso, le sue emozioni erano rilassate e tranquille. Non capivo.
«Sai, chi parla troppo di sesso, non lo fa.» Anche Dahaljer aveva usato un tono pungente pur non mostrando segni di aggressività.
«Vorresti dire che scopi dalla mattina alla sera, tu?» Era stato Layo a parlare, mentre afferrava una bottiglia già mezza vuota.
Se è vero che nessuno può toccare le persone che amiamo, è anche vero che noi ci arroghiamo il diritto di trattarle come meglio crediamo. Mi stupii, però, nel sentire la mia voce. «O forse dovresti scopare di più anche tu, capitano», dissi con una deliberata crudeltà, carica di sottintesi.
Il suo sguardo pieno di odio si fissò su di me. «O magari sei tu che dovresti farti sbattere da qualcuno, altezza.» Questa volta nelle sue emozioni non c’era nulla di pacato, però aveva giocato male la sua carta.
Feci un sorrisetto amaro, senza staccare gli occhi da lui. «Se è un consiglio, lo farò.»
Layo Luba tossì, ma l’ostilità tra di noi non cessò, neanche quando Ron Nawa prese a parlare di una donna che sognava da anni di sposare, dando inizio a un’altra serie di battute volgari. Questa volta Pasha Klein non intervenne e Danka Kijowski, dalla parte opposta di dove mi trovavo, mi fissò per nulla grata.
Per quanto in seguito fe male, non riuscivo mai a ricacciare la lingua in bocca e soprattutto non riuscivo mai a non provare un vago compiacimento nell’infliggere sofferenza a una persona che amavo quanto la mia vita. Quando
non puoi avere ciò che desideri, finisci per volerlo rompere. L’amore è troppo complicato per essere bianco o nero, troppo affamato per saperlo apprezzare in un solo sguardo sfuggente e ha confini troppo labili per farli combaciare con i confini della bontà.
Se non ti chiede il permesso di entrare, l’amore non ti chiede neanche il permesso di distruggerti. L’ho imparato a mie spese.
37
C’era un sopralluogo da fare e richiedeva la mia presenza. Il giorno dopo partimmo molto presto, superando alcuni i e la cresta di alcune alture. Il sole si levò tremolate dietro le nuvole basse che, la mattina, avevano portato nuova neve e per ora di pranzo splendeva in cielo, regalandoci una bella giornata. Il giro di ricognizione fu noioso e lento, nonostante camminassimo veloci. Non c’erano Lupi Grigi, non c’erano abitazioni, non c’era nulla tra quelle valli. Sulla strada del ritorno rimasi in fondo alla fila, con la voglia di buttarmi a terra a prendere il sole. Non indossavo la giacca e neanche i guanti, si stava così bene, che avrei quasi potuto giocare a palle di neve, spensierata.
Fu l’illusione di un attimo: Dahaljer venne verso di me e mi disse che il giorno dopo avremmo fatto un altro sopralluogo, che mi avrebbe mostrato sulla mappa per vedere quale giro avremmo dovuto fare. Frustrata, sbuffai.
Mi guardò da dietro gli occhiali da sole, senza provare nulla, nulla che volesse rivelare.
«Sei davvero stressante», dissi, senza fermarmi.
«Oh, scusa tanto», ribatté, piccato.
Non risposi e lui si allontanò. Lo vidi tornare davanti alla fila e poi proseguire parlando con Tejii, presero a camminare svelti, e immaginai che fosse Ahilan a
stabilire il o. Il resto del gruppo mantenne la stessa velocità tenuta fino a quel momento e Danka Kijowski mi raggiunse quando loro due erano almeno seicento metri più su. Camminò al centro della valle accanto a me come una gatta guardinga. Era ostile e controllata, mentre la osservavo di sottecchi aspettando che mi dicesse quello per cui era venuta, che, tra l’altro, non immaginavo. «Forse potresti trattarlo meglio», esclamò infine.
«Forse sono affari miei», replicai, infastidita.
Si voltò per osservarmi, l'espressione dura come l'acciaio. «È il Capo Branco, sai cosa significa?»
«È il vostro Capo Branco, non il mio.»
«A volte sembra che tu abbia dieci anni.»
Mi fermai a guardarla e dovetti schermare gli occhi dal riverbero della neve. «Spiegami per quale diamine di motivo ti sto così sul cazzo.»
«Oh, di motivi ne ho diversi, ma non ho intenzione di chiarirtene neppure uno.» Si era fermata anche lei e mi stava fissando divertita. In entrambe aleggiò un’ondata di ostilità e aggressività tale da far voltare la testa a tutti. Ci guardarono incuriositi.
Pensai che avrei potuto saltarle al collo e riempirla di botte fino a tapparle la bocca. Tuttavia, non ho mai attaccato una persona con lucidità, l’ho sempre fatto
quando ero fuori di me, e in quel momento mi sentivo molto controllata, mio malgrado. Fu lei, però, a prendere l’iniziativa.
Con un balzo degno della Tigre che era, mi fu addosso in un attimo; persi l’equilibrio e, per non cadere, afferrai un suo braccio, che non vacillò di un centimetro. Nelle sue mani, come per magia, apparvero due pugnali d’argento. Feci un o indietro e la imitai, sguainando i miei con la stessa rapidità. Se era la guerra che voleva, l’avrebbe avuta. Benché aborra la guerra, sono Shayl’n Til, cresciuta sulle strade polverose di Roma, se minacciano me o ciò che mi è caro, non mi tiro indietro: mi difendo e combatto. E al diavolo la lucidità.
Affondò una serie di colpi verso di me, che scartai uno dopo l’altro, senza troppa fatica. Mi domandai se, nel caso avesse vinto lei, mi avrebbe uccisa. I suoi sentimenti non promettevano nulla di buono.
Risposi all’attacco con fendenti precisi e mirati e lei li bloccò tutti, con altrettanta facilità. Io avevo un vantaggio su di lei: l’avevo già vista combattere e sapevo come si muoveva, mentre lei non mi aveva mai vista farlo. Lo svantaggio era che lei era cresciuta uccidendo, e mirava ai punti vitali del mio corpo, con ostinazione. Capovolsi il fatto a mio favore: gli attacchi su braccia e gambe la sorpresero.
Eravamo abbastanza leggere da riuscire a non scivolare sul ghiaccio, ma era comunque un equilibrio precario. Se ci fossimo trasformate, sarebbe stato più facile avere la presa sul terreno, ma non lo avremmo fatto e non solo per i vestiti.
Mi afferrò un gomito, mossa che non avevo previsto, e la sua lama mi tagliò il corpetto sul fianco, là dove la pelle riportava la cicatrice che aveva lasciato Dahaljer; lei non riuscì a raggiungerla, però, perché lo strato che fungeva da antiproiettile era troppo rigido per essere tagliato al primo tocco. Un suo pugnale
diretto sul mio volto mi fece abbassare con rapidità e ne approfittai per colpirle una coscia con l’arma; qualche secondo dopo, mi ero già alzata e difesa da un suo colpo e, con la coda dell’occhio, vidi la sua gamba sanguinare.
Seppure intorno a noi, nessun uomo ci fermò. Immaginai che tutto sommato dovevamo essere un bello spettacolo. Due donne molto diverse, l’una bionda e l’altra mora, una vestita da militare l’altra da… mmm... Roteando su me stessa, pensai che non sapevo come definire il mio abbigliamento.
Mi concentrai su di lei.
Sotto il sole la sua treccia bionda e lucida brillò. Ripensai alle lezioni che avevo preso a Praha, all’ironia di farle nello stesso posto dove imparavo a danzare e lo trovai meno ironico. Con movimenti precisi e aggraziati stavamo facendo il nostro ballo; potevo quasi sentire la musica, oltre i sentimenti di tutti noi e oltre lo sferragliare dei nostri pugnali, quando si incontravano.
Danka doveva aver pensato di risolvere la questione in meno tempo: sebbene non fosse stanca, né stufa, la sua aggressività crebbe come una marea.
Saremmo potute andare avanti per tutto il giorno.
La neve dura sotto i piedi mi tradì. Scivolando, barcollai e dovetti pensare in fretta a come non cadere; lei si intrufolò in quella perdita di concentrazione e la sua destra mirò pericolosamente alla mia pancia.
Potei solo abbassarmi a terra e riuscii ad avere la meglio su di lei con una mossa molto banale, credo che ancora oggi se ne penta con amarezza.
Mi lasciai cadere all’indietro e con le gambe scivolai sulle sue, facendole una sorta di sgambetto. Io sapevo che sarei caduta un momento prima di farlo, lei invece non lo aveva messo in conto. Quando lo capì, le ero già sopra.
Il mio pugnale luccicò sotto il sole, nel ferirle la mano che mirava al mio addome. Con un mugolio impercettibile, mollò la presa sull’arma. Lasciai il pugnale anche io e con la mano libera le bloccai il polso ancora armato.
Lei era più muscolosa di me e quindi dovevo essere più leggera di lei, premetti con tutto il peso del corpo il mio ginocchio sul suo sterno, e le puntai la lama alla gola. Mi guardò in cagnesco. A me venne all’improvviso da ridere, mi morsi l’interno del labbro inferiore per evitarlo. Ci fissammo riprendendo fiato entrambe. «Non me ne frega niente dei tuoi innumerevoli motivi», dissi con voce bassa ma dura. «Ma pretendo che tu mi lasci in pace, puoi farlo?»
Non mi ero di certo guadagnata la sua amicizia quel giorno, tuttavia avevo guadagnato il suo rispetto e mi bastò. Le avrei curato le ferite, però non me lo permise, non lo permise a nessuno e se le sistemò da sola.
Tornate a Leion, dopo un lauto pasto, Dahaljer ci chiamò ai bordi delle tende, dove il terreno si faceva scosceso. Le stelle brillavano tremule e un vento silenzioso soffiava lungo la valle da sud verso nord. Ci imbastì una sorta di ramanzina alla quale né io né lei demmo ascolto, tanto era inutile e ridicola.
«A me non importa un accidenti, se morite per dei vostri problemi», stava
sbraitando. «Mi importa, invece, se fermate la marcia per delle scaramucce tra donne.»
Lei lo guardò, braccia conserte e l’espressione di chi pensa che stia perdendo tempo. «Non abbiamo detto noi di guardare lo spettacolo.»
Lui la fulminò con lo sguardo. Io rimasi in silenzio, con i pollici ficcati nella cintola e la stessa aria assunta da Danka. Non mi sarei scusata per una cosa che non avevo neanche cercato, a maggior ragione visto che lei non lo aveva fatto.
Dahaljer le si avvicinò. «Sei una donna, Dan, e io non ho problemi ad averti qui, sei brava come e più di un uomo.»
Alzai gli occhi al cielo e girai i tacchi, non avevo intenzione di ascoltare i suoi complimenti a una donna che con molta probabilità mi avrebbe uccisa volentieri e in fretta.
Il tempo di concentrare l’udito su qualcosa di diverso e fare venti i verso i boschi, sui pendii, che la presenza di Dahaljer era già accanto a me. «Shayl’n.»
Mi voltai a guardarlo con la stessa aria di strafottenza che avevo assunto prima. «Ahilan.»
«Puoi smetterla, per cortesia?» Danka era tornata verso le case.
«Cos’è che per cortesia dovrei smettere?»
«Di avercela con il mondo intero.»
Era così evidente? «Ah, quello. Non lo so. Sai, al momento non mi va.»
«E smettila di fare la ragazzina.» Era la seconda volta che me lo dicevano, quel giorno.
«Certo, detto da uno che rispetta tutte le leggi del suo papino, come un cucciolo, non fa testo», commentai, sgarbata.
«Shayl’n!» Usò un tono duro e nello stesso tempo controllato.
«Sì, signor capitano?» risposi senza scompormi.
Sospirò. «Avevo ragione a dire che mi avresti fatto impazzire», disse tra i denti.
Quell’affermazione mi riportò a tempi e luoghi molto diversi. Abbassai la testa e la scossi, stringendo i pugni. «No, Ahilan, non farlo.» Questa volta mormorai. La mia ostentata indifferenza traballò. «Non rovinare anche questo.»
Qualcuno ò a portata di umore e tentai di frenare le emozioni. Lui spostò di
pochissimo il peso del corpo, abbassando il viso verso il mio. «Scusami.» Un filo di voce che si perse nel vento.
Le sue dita si appoggiarono sulle mie braccia rigide lungo i fianchi e i nostri sguardi si incontrarono. I suoi occhi fremettero, brillando come zaffiri, e una piccola, silenziosa, onda di desiderio e amore mi investì. Sorpresa, rimasi senza fiato per qualche istante, e anche lui, glielo potevo leggere sul volto contratto.
Deglutii e chiusi gli occhi. «Vai.» Sussurrai anche io al vento.
Nonostante non ci fosse più nessuno nelle vicinanze, non se lo fece ripetere due volte.
Mi sedetti a terra con i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani, e all’improvviso sentii freddo, così misi le mani a coppa sulla bocca e soffiai per riscaldarle. Non mi bastava, volevo di più, volevo baciarlo e fuggire. Non era possibile stargli così vicino e nello stesso tempo così lontano, ma dove altro potevo andare? Decisi che il giorno dopo sarei andata alla base dei bambini, non era molto, ma era qualcosa.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Non sempre è vero, ma a volte lo è e speravo fosse quella la volta.
Con la scusa che non vedevo i bambini da un po’ di tempo e che ero preoccupata per loro, partii la mattina, subito dopo l’alba, sotto la neve gelata e con Pasha al seguito come un cagnolino. Sebbene a volte lo trovassi insopportabile, non mi dispiaceva affatto la sua costante presenza.
Rimandai il secondo sopralluogo di qualche giorno, che non definii. Lo ai come un ordine e, nonostante i borbottii, nessuno riuscì a bloccarmi. Avere il mio sangue aveva i suoi vantaggi.
Trovai qualche motivo per ridere. Prima di tutto Carlize. I suoi dolci occhi verdi mi sorrisero prima che lo fero le labbra; il linguaggio dello sguardo può rivelare davvero tanto. Fui contenta di scoprire che non era l’unica felice di vedermi.
La notte avevano incubi e due bambini avevano degli attacchi di panico che nessuno era in grado di gestire. Nell’insieme, però, mi sembrarono più sereni, per quanto possibile. Tutti chiedevano di tornare a casa, dalle loro famiglie, anche chi una famiglia non l’aveva, nelle loro menti era un appiglio sicuro e potevo capirlo.
A me la mia famiglia mancava tantissimo. Volevo stringere Nilmini e farmi stringere da Madre Brìgit, desideravo sapere cosa fero o semplicemente come stessero. Disegnai su pezzi di carta rubati qua e là i loro visi e li mostrai ai bambini, mentre loro disegnavano quelli dei loro parenti, vivi o morti che fossero. Per loro, però, erano tutti ancora vivi, anche Sanìt, il fratello di Carlize, che era morto tra le mie braccia ormai da diversi giorni. Nessuno di loro le fece notare che lui non c’era più e, benché non sapessi se fosse giusto o sbagliato, non ebbi il coraggio di farlo notare neppure io.
38
Fu un ordine perentorio e indiscutibile di Tagron Toivainen della dinastia Minse di Danubie a farmi tornare a Leion, sotto una neve che scendeva fitta e silenziosa. Le Tigri dovevano andare in avanscoperta e dovevo andarci anche io, del resto ero sempre stata il loro uccellino pronto a sentire il gas nelle grotte. Se ero in quel luogo freddo e bianco per la maggior parte dell’anno era solo per questo motivo, il re dei Tiouck non si perdeva certo in smancerie da bambini.
Nonostante non fosse mai stato con noi, era come se lo fosse; in particolar modo sapeva sempre cosa facevo e dicevo e mi pareva di averlo sempre accanto come la mia ombra. Mi domandavo se non avesse un qualche potere soprannaturale, dettato dalla sua posizione. Ma per quanto i mutaforma siano stati per secoli parte di storie magiche e leggende incredibili, lì di magico non c’era nulla. Creati artificialmente dalla mano dell’Uomo, era la natura a guidare i nostri istinti ed era lei a renderci così particolari. Beffata, si beffava di noi, tuttavia giocava senza barare.
Tornai alla roccaforte con o lento e controvoglia, affondando i piedi sulla neve morbida che si era posata tra Leion e la base dei kindersoldaten.
Le abitazioni arroccate di Leion mi misero di cattivo umore ed ero mal disposta nei confronti di tutti, tuttavia rivedere Dahaljer, contro ogni mia aspettativa, mi rese meno irritabile.
Accennò a un inchino quando mi vide e io gli concessi un sorriso morbido, senza mostrare i denti. Più di una volta, durante il nostro sopralluogo, i nostri corpi si
sfiorarono e immagino lui ne fosse cosciente quanto me.
Mangiammo l’uno accanto all’altra per due giorni e mantenemmo un atteggiamento quasi famigliare. Dai suoi sentimenti non trapelava nulla e neanche dai miei, sebbene il mio cuore tamburellasse felice quando ero accanto a lui e in effetti non c’era momento in cui non lo fossi.
Però non c’era mai nulla di più. Uno sguardo, una gentilezza, una cortesia soppesata, le mani che si sfioravano per una manciata di secondi, tutte cose che facevo anche con altre persone. Tejii aveva preso l’abitudine di picchiettare con un pugno sulla mia testa, quando ero sovrappensiero, e Ron aveva preso il vizio di togliermi i capelli da davanti gli occhi. Una sera mentre alcuni di loro raccontavano barzellette, Pasha mi mise un braccio intorno alle spalle, io piegai il capo e sonnecchiai rilassata.
Tagron mandò il suo ultimo ordine e qualcosa nell’aria cambiò. Non, però, tra me e Dahaljer: come se avessimo stipulato un tacito accordo, sembravamo decisi a mantenere quel precario equilibrio. C’era qualcosa tra i nostri corpi che si muovevano aggraziati, ignoravo cosa fosse, eppure riuscivo quasi a vederlo, perché non eravamo mai troppo lontani e mai troppo vicini per più di qualche battito di ciglia.
L’ordine del re fu come sempre senza possibilità di replica. Non riuscivo a capire quali piani seguisse, che schemi vi fossero nella sua mente, né come riuscisse a sapere di tutti i nostri spostamenti. Il Capo Branco sosteneva di non avere un diretto contatto con lui e io gli credevo. In realtà, non mi era concesso credere altro, il mio cuore me lo impediva con sottile caparbietà.
Le direttive del re cambiarono l’aria perché prevedevano l’attacco diretto di centri abitati. Rifiutato un compromesso con Belden Wilém Monreau Harvey, di
Erdreè, di cui non conoscevo le richieste, Tagron aveva deciso di tornare all’attacco e di farlo puntando su città e paesini a ovest di Leion. Secondo lui, l’attacco non era finalizzato a entrare con la forza nelle zone abitate da civili, bensì ad attaccare quei posti dove si trovavano rifugiati i soldati Bamiy, i quali si stavano organizzando per venire a riprendersi la loro roccaforte.
Vidi quei posti, che si stendevano sotto le montagne su zone pianeggianti e isolette frastagliate e numerose, da diversi chilometri di distanza, in una giornata in cui il cielo era terso e non presentava un filo di foschia. L’ordine era quello di lasciare Leion e marciare verso sud ovest, senza inutili ripensamenti. Ma se l’ordine era del re dei Tiouck, io con il mio sangue misto, ero una pari del regno.
Dissi ad Ahilan che non lo avrei fatto.
«Lo immaginavo», mi rispose quando glielo comunicai in un breve momento in cui eravamo soli. «Non posso fare niente, Shay, se non decidere di ubbidire al tuo ordine in qualità di principessa, finché ne ho la facoltà.»
Assorta, giocherellai con il mio labbro inferiore, torturandolo con le unghie. «Lo so.»
Con uno dei suoi gesti veloci e delicati, mi scostò le dita dalla bocca e poi mi lasciò. «Gli uomini conoscono l’ordine e io posso obbedire al tuo senza dover dare spiegazione, ma sarai tu a doverlo dire loro. Non si tratta più di semplici prigionieri, si tratta di bloccare questa guerra e puoi avere tutte le ragioni del mondo per farlo, ma prima o poi una fine ci sarà e non credo rimarremo qui a lungo.»
Non risposi.
«Raduno gli uomini nel capanno a ovest e tu dirai quello che devi dire.»
Provai un forte senso di imbarazzo a parlare davanti ai soldati/guerrieri riuniti attorno a me. I soldati semplici non erano con noi, tuttavia si trattava di circa cento uomini e questo mi mise a disagio. Parlai ad alta voce, veloce e senza quasi prendere fiato tra una frase e l’altra.
Dahaljer era accanto a me, un o appena indietro, rimase lì tutto il tempo e gliene fui grata. Quando alcuni di loro obiettarono le mie decisioni, ripetei comata: «Sono paesi abitati, non li attaccherò, e non lo farete neanche voi.»
«Il re ti obbligherà.» Era stato un uomo dai capelli radi e dai profondi occhi azzurri a parlare. Lo conoscevo di vista, come conoscevo di vista ognuno di loro.
C’era un’aria immobile e ghiacciata, il grigio era il colore predominante. Il grigio delle nuvole basse che si rifletteva sulla neve, il grigio del capannone dalle mura sporche e opache, e il grigio delle divise degli uomini. Sebbene fosse un bel grigio, tra il perlato e l’argentato, desiderai di rivedere i bei colori della mia terra, dei frutti e dei fiori, dei vestiti e della pelle, delle case e degli animali.
«Lo so», ribattei atona. «Ma il re al momento non c’è e questo è il mio ordine, per ora.»
Layo Luba, a qualche metro da me, tirò su il mento e mi fissò. «E cosa
dobbiamo aspettare, che venga lui? Attacchiamoli ora che siamo in vantaggio, è un nostro diritto oltre che un nostro dovere, principessa.»
«No. Non posso farlo. Ci sono donne e bambini in queste città e ce ne sono da là fino a Nuova Auxerre, non li ucciderò per un diritto, o un dovere che sia, privo di umanità. Non siete qui per veder scorrere il sangue di innocenti e se lo siete, non lo sono io.»
Strinse le palpebre. «I Lupi lo hanno fatto con noi.»
«Soldato, risparmiami questo tipo di giustificazioni.» Lo fulminai con lo sguardo, poi presi coraggio e aggiunsi: «Nessuno di voi avviserà Tagron di quello che succede qui. È un ordine. Verrà da solo, quando capirà che non stiamo attaccando; sappiamo tutti che lo farà, ma fino ad allora ci sarò solo io qui.»
Ci fu un improvviso borbottio, non troppo sommesso, tra gli uomini. La mia mente fu riempita da sottomissione quanto da forti dosi di ostilità e aggressività, che non lasciavano nulla all’immaginazione. Con la coda dell’occhio, vidi il Capo Branco poggiare le mani sulle pistole; avrebbe ucciso qualcuno di loro per difendermi? Serrai le mascelle, consapevole di avere chiesto il massimo a loro, a lui e a me stessa.
Volevo mandare uno dei Lupi che avevamo catturato verso i paesini ad avvertire la popolazione di spostarsi a sud, o da qualsiasi altra parte che fosse più sicura, ma avevo bisogno di tempo. Questo non lo dissi. Contavo sul fatto che il mio ordine fosse indiscutibile in qualità di ordine diretto da parte della prima erede in linea di successione e contavo, o speravo, sul fatto che nessuno avesse avuto un ordine contrapposto al mio; se ci fosse stato, forse, avrebbero anche potuto decidere con più leggerezza. In caso inverso c’era solo un mio ordine preciso da rispettare. Il libero arbitrio è il libero arbitrio ovunque e per qualsiasi Razza,
tuttavia il potere di un ordine di quel tipo tra loro era insindacabile e pressante. Non lo avevo mai sfruttato davvero e ora lo stavo facendo.
Con una forza che non mi conoscevo, risposi a tutte le loro obiezioni. Ammetto, però, che non furono in molti a obiettare e scalciare come tori incatenanti, così come avevo previsto. Dopo un primo mormorio, la maggior parte degli uomini si limitò a rispettare gli ordini senza commentare. Non sapevo se per via del mio sangue o se perché pensassero che potessi avere una parte di ragione.
Anche se ne avessi avuta - e ne ero convinta - li stavo tenendo al gelo, al nord, sopra le montagne e in pieno inverno. Inoltre, come mi aveva fatto presente Dahaljer, prima o poi la situazione sarebbe dovuta cambiare e io ignoravo in che modo questo sarebbe successo. Benché, forse già allora, sapessi che se fosse cambiata, non sarebbe stato per merito mio. Non nascondo che questo aspetto in parte mi rincuorasse, poiché qualsiasi cosa fosse successa in futuro, non ne sarei stata la diretta colpevole, perché sapevo che si trattava di colpe.
Non parlai con il capitano dei Tiouck di ciò che era successo, perché non avevamo momenti per affrontare il discorso da soli. Quella sera dopo cena, chiesi a un ragazzo di cui mi piaceva la voce, intonata e pulita, di cantare qualcosa per me, affinché l’aria potesse diventare più leggera sotto la coltre di nuvole. Lusingato, lo fece con entusiasmo. E così, per due sere, le Tigri Bianche si dedicarono a canzoni, vino e racconti senza senso.
39
Da quando avevo dato il mio ordine di non attaccare erano ati tre giorni ed erano ati anche i primi due giorni consecutivi senza che nevicasse, così i soldati impiegarono l’intero rituale della cena a brindisi alla neve che non era scesa.
Quella sera due di loro intonarono una canzoncina stonata che parlava di una principessa innamorata di un capo branco. Benché non ci fossero nomi, il sangue mi si gelò nelle vene; guardai Dahaljer per vedere se aveva capito e quando alzò lo sguardo su di me, dall’altra parte del fuoco, seppi che aveva fatto il collegamento anche lui. Non ci voleva molto a farlo, del resto. Nell’ilarità della situazione, i suoi occhi rimasero imibili, fissi su di me, in un’accusa silenziosa. La canzone finì a singhiozzo sulle labbra dei soldati ubriachi, dovevano averla inventata già da un po’ di tempo per conoscere tutti le parole nonostante la sbronza.
Ahilan si alzò e si allontanò. Rimasi interdetta qualche istante e lo seguii tra le tende dell’accampamento fino a che non entrò in una delle costruzioni più a sud. Non la usava nessuno e non c’erano molte tende nelle vicinanze; era ovvio che avesse scelto quella sapendo che lo avrei seguito e che avrebbe potuto parlare con me. La sicurezza di quel fatto mi fece provare una rabbia sottile.
Indugiai davanti alla porta, percependo la sua collera. Per una frazione di secondo, pensai di andarmene; poteva venirmi a cercare lui. Se lo avessi fatto, sarebbe cambiato qualcosa? Non potrò mai saperlo.
Entrai in quel piccolo stabile. C’erano solo tre sedie e un lungo tavolo. Su un lato c’era il piano di una cucina e sul lato opposto una serie di finestre incrostate dalla sporcizia. La luce delle torce di fuoco entrava da fuori, tetra, o forse era solo soffusa.
Il Capo Branco delle Tigri era fermo in mezzo alla stanza, con le braccia conserte, a guardarmi. Chiusi la porta dietro di me e ci appoggiai le spalle, senza lasciare la maniglia.
«Come ti è venuto in mente di dire a questi uomini di noi?» cominciò.
«Io non ho detto un bel nulla. Lo hanno capito da soli», mi difesi infastidita dalla sua accusa priva di prove.
«Ma come?» Sembrava perplesso.
«Ma come? Dahal, e me lo chiedi? Non sono brava come te, io. Anche se non leggono nella mia mente come fai tu, qualcosa in tanto tempo l’avranno capita. O forse vista…»
«Cosa?»
Mi scostai dalla porta. «Non lo so, uno sguardo, una carezza, un sentimento che ci è sfuggito…»
Abbassò il mento. «Cosa di preciso?»
Era bravo a esasperarmi. «Non lo so!»
«Ma sai cosa vuol dire questo?» La sua voce si alzò.
«Sì, che sei un idiota, che dovresti fregartene ogni tanto di tutte le vostre leggi del cazzo.»
Parve stupito.
«Tu sparisci, te ne vai, ti fai quasi ammazzare e io rimango appesa a un filo, senza neanche poterti guardare. E tu non fai nulla. Te ne frega solo delle leggi, del cinismo di un uomo che non si merita il tuo rispetto.»
Alzò di nuovo il viso, come se lo avessi colpito. «Sai che non è così.»
«No!» sbottai «È proprio così.»
«Tu un padre non ce l’hai.» Non lo disse con cattiveria, ma la frase mi colpì nel vivo.
«Non essere meschino», sibilai.
«Non lo sono affatto, è la verità. Non hai un padre, non hai avuto la figura di un padre che si è comportato come tale per te, che ti ha trattato come un figlio, che ti ha dato tutto pur di non lasciarti da solo al gelo e senza genitori.»
Alzai le mani con i palmi rivolti verso di lui, come a dirgli di smettere. «Sta di fatto che qui non tutti rispettano il giuramento come fai tu, tutti hanno una mente per capire da soli cosa fare della loro vita, tranne te.»
«Questo non puoi dirlo, Shay. Sono leggi che esistono da secoli e fino a ora nessuno le ha mai infrante.»
«Ma se io sono la prova che sono state infrante più di una volta», ribattei.
«E con quale risultato? I tuoi genitori sono morti, li hanno ammazzati, se non te lo ricordi.»
Feci un gesto scomposto con la mano, intendendo sorvolare su quell’argomento. «Dahal, perché non sei venuto via a Màlica?» chiesi con un tono più pacato ma amareggiato.
Non si aspettava quella domanda, mi scrutò in volto prima di rispondere: «Lo sai perché.» Le sue emozioni erano in tensione, non riuscivo a decifrarle, nonostante non le stesse nascondendo.
«Potevi provarci, dannazione!»
«E tu? Non puoi provarci? Loro», disse indicando fuori con un dito. «Alcuni di loro ti adorano, ti riconoscono come la prima in linea di successione al trono e come una di loro. Ti considerano come quella che cambierà le sorti di una storia che va avanti da troppo tempo. Ti considerano una persona che sa cosa fare in battaglia, nonostante tu stia rompendo tutti i loro schemi.»
«E allora?»
«E allora provaci. Dai loro la possibilità di cambiare la situazione, di trarla a tuo vantaggio. Un giorno sarai tu a dettare i giuramenti.»
«Oh, Dahal, dacci un taglio!» protestai, frustrata. «Non voglio arrivare a novant’anni per chiederti il mio giuramento. Per allora se non sarò morta, sarò stanca e odierò tutto ciò che è in questo mondo, il tuo mondo.» Feci una pausa. «Se non ti fossi accorto, ho venti anni, un cuore e una vita di merda. Lasciami dire che non ho scelto nessuna delle tre cose. Più di una volta ho pensato che avrei fatto meglio a riconsegnarle a chi di dovere e farla finita con questa storia, in qualche modo.»
«Lo so.»
Scossi la testa. «No, non lo sai; non lo sai davvero, se ti comporti in questo modo. Io ho infranto tutto ciò che ero, per colpa tua. Forse sarei morta prima, ma non avrei avuto le mani sporche di sangue.»
«Non ho deciso io di venirti a prendere», si difese, aggrottando la fronte.
Mi sedetti su una sedia e appoggiai i gomiti sul tavolo nascondendo il viso tra le mani. «A volte penso che avresti fatto meglio a uccidermi, quando mi hai ferita.»
Mi raggiunse con due falcate e mi prese per la vita. La forza e l’agilità dei suoi movimenti non smetteva mai di stupirmi, non l’avevo mai vista in nessun'altra Tigre Bianca, e forse era per questo che era lui il Capo Branco.
La sedia cadde a terra e lui mi poggiò sul tavolo, guardandomi negli occhi a pochi centimetri dal mio viso. «Pensi che, a conti fatti, non ne sia valsa la pena?» domandò con un tono imperscrutabile.
Sostenni il suo sguardo e deglutii. «Baciami», dissi. Dopo tutto, non ero sicura che l’avrebbe fatto.
Mi prese il viso tra le mani; chiusi gli occhi, lo sentii divorarmi. Mi baciò con foga, ione e violenza. La sua presa sulla mia testa mi faceva male, i suoi denti sbattevano sui miei e mi sentivo soffocare, cercai di liberarmi. “Dahal!” urlai nelle nostre menti. Serrò di più la presa, ma il suo bacio si fece più morbido e dolce; non riuscivo a districarmi tra i suoi sentimenti: frustrazione, desiderio, amore, rabbia, comione.
Lo respinsi spingendolo con entrambe le mani sul suo petto, con forza. Per un attimo il suo sguardo mi chiese se ne avevo abbastanza. «Mi stai dando il contentino?» domandai con astio.
«No.» Corrugò la fronte allontanandosi di un paio di i.
«Puoi fare di meglio. Potresti, se volessi, ma tu rimarrai della tua idea, vero?»
Le sue emozioni erano calme e controllate adesso. «Sì.»
«Non posso sopportarlo, lo capisci?»
Strinse gli occhi. «Sì…»
Afferrai il bordo del tavolo con le mani. «Ma non basta…»
«No.»
«E piantala di dire sì e no.» Lo fulminai con lo sguardo, scendendo a terra.
«Che altro vuoi che ti dica, Shay? Non infrangerò il giuramento, non rischierò neanche di offendere il re.»
«Dahal!» Mi uscì un suono stridulo. «Offendere? Ma di cosa stai parlando? C’è gente che si farebbe ammazzare per scopare con me.» Non era molto lontano dalla verità, ma sentirmelo dire in quei termini mi mise a disagio. Spostai lo sguardo verso sinistra, sul muro, e tacqui.
«Tu non vuoi che mi ammazzino per scopare con te, tu vuoi molto di più e quello che vuoi non posso dartelo. Non ora per lo meno.»
Frustrata, mi avvicinai a lui e lo fronteggiai. «Cosa vuoi che faccia, che continui ad aspettare qualcosa di indefinito?»
Mi osservò dall’alto. «Ti costerebbe tanto?»
«Sì!» lo urlai e sapevo che c’era qualcuno nel raggio di azione delle nostre voci oltre che delle nostre emozioni. Ahilan stava usando tutta la sua maledetta atarassia e io stavo sfruttando tutta la mia aggressività per non crollare. «Mi costa tanto perché non lo condivido, non la sopporto, questa situazione, io non sopporto di averti sempre intorno e non poterti guardare, di fingere continuamente e di sentire quanto lo fai tu. Finirò per non sopportare più te. E non starò qui ad aspettare che accada, non starò qui ad aspettare te.»
«Ah, davvero?» lo disse in tono sarcastico.
«Sì, Dahal.» Cercai di sostenere il suo sguardo e faticai. «Sei tu che l’hai voluto e tu che stai giocando con me. Fuori c’è altro e mentre tu sei qui a rispettare cose in cui non credi neanche tu, io sono andata a letto con Pasha!» Non lo so perché lo dissi, di certo per farlo ingelosire, ma non so come mi venne in mente, e non so come ci credessi tanto io stessa, da non farla uscire come una menzogna. Forse se Pasha non mi avesse baciata, non avrebbe avuto lo stesso effetto.
E l’effetto fu che, prima di rendermene conto, Dahaljer mi colpì in pieno volto con la mano aperta. Sul suo viso e nei suoi sentimenti si disegnò un senso di sorpresa profondo almeno quanto il mio, ma quando io reagii provando odio, lui
reagì provando rabbia.
«Allora vai a letto con tutti quelli che si farebbero ammazzare per te. Io non ho più nulla da dirti, né da darti e non voglio darti più nulla, né voglio niente da te. Intesi?» Parlò con un tono basso e misurato, ma la voce gli uscì a denti stretti. Non attese una mia risposta, girò sui tacchi e, sbattendo la porta dietro di sé, se ne andò.
Fino a quel momento non mi ero resa conto di aver poggiato una mano sulla guancia, dove mi aveva colpita. Avrei voluto lanciare qualcosa, qualsiasi cosa, qualcosa di solido, che potesse infrangersi in mille pezzi al posto mio. Gli occhi mi si riempirono di lacrime, cariche solo di nervosismo, sbattei le palpebre e serrai la mascella, per non farle scendere, non volevo farle scendere per nessun motivo. Se non mi voleva, non mi avrebbe avuta e non avrebbe avuto neanche le mie lacrime, se fosse tornato indietro non mi avrebbe trovata a piangere per lui.
Il cuore mi pulsava forte nelle orecchie, avevo gola e stomaco del tutto annodati in una morsa stretta e dolorosa, pencolai avanti e indietro per un’infinità di minuti, senza guardare nulla. Strinsi i denti tanto da sentirmi la bocca indolenzita; non percepivo la sua presenza già da diverso tempo, eppure guardavo la porta credendo che tornasse sui suoi i.
Poiché i polmoni chiedevano più aria, cercai di respirare meglio e un singulto mi si ruppe nel petto, costringendomi a poggiarmi alla parete più vicina. Mi raggomitolai a terra, percependo un dolore fisico più forte di tutti quelli che avevo provato sulla pelle. Il naso mi si chiuse e dovetti respirare con la bocca aperta, le lacrime salate invasero le mie labbra. Mi coprii gli occhi con una mano, come se qualcuno mi avesse potuto vedere o come se io stessa non volessi vedere. La premetti sulle palpebre tentando di bloccare qualsiasi cosa ne stesse uscendo. Non riuscii a frenare nessuna lacrima, nessun singhiozzo o spasmo che fosse, piansi così tanto che mi iniziò a far male la testa.
Ogni singola parte del mio corpo faceva male. Tremavo come se fossi stata nuda in una tempesta di neve, ripensando a quello che avevo detto e chiedendomi come avessi potuto farlo. Sbattei debolmente la testa al muro su cui mi ero accasciata, come un automa. Se mi avessero squartato il petto con un pugnale, avrebbe fatto meno male.
Se fosse tornato, mi avrebbe trovata in uno stato pietoso, tuttavia desideravo che tornasse, desideravo solo che tornasse. Che diamine avevo fatto? Dovevo andare da lui, dovevo cercarlo e spiegare le mie ragioni, dirgli che non era vero, dirgli che lo avrei aspettato anche in eterno.
Mi asciugai il viso con il dorso delle mani, alzandomi, e incerta uscii dalla porta; mi diressi verso le costruzioni centrali. Sentivo la presenza di tanti uomini, nessuno di loro era Dahaljer. Non riuscivo a percepirlo da nessuna parte, nonostante fosse la mente che avvertivo meglio. Intuii che, se non riuscivo a sentirlo, era perché non era là: era già andato via. Dove poteva essere andato di notte, da solo?
Barcollai tra le tende, percependo presenze preoccupate, nella mia mente, e sguardi sospettosi, sulla pelle. Una di quelle presenze si avvicinò veloce, sapevo chi fosse e non volevo che mi raggiungesse, non volevo parlare con nessuno e soprattutto non volevo parlare con lui.
Pasha mi afferrò per le spalle e mi voltò verso di sé. La luce delle torce mi illuminò il volto, non fu difficile per lui scorgere i miei occhi rossi e gonfi o la mia faccia stanca. «Shayl’n», disse con un tono di voce troppo duro.
Cercai di divincolarmi premendo sulle sue braccia, lui mi prese i polsi
stringendoli con una mano e l’altra la ò dietro la mia schiena, sia per trattenermi che per sorreggermi. Non avrei avuto la forza di combattere, neanche se ne fosse andata della mia vita.
«Shayl’n, non ne vale la pena.» La voce si era fatta dolce, quasi sussurrata. «Davvero.»
Scossi solo la testa, non riuscendo a dire altro. Le sue labbra si poggiarono sulla mia guancia troppo vicino alla mia bocca. Mi opposi.
Non stavo applicando nessuna delle mie strategie di indifferenza e provavo un forte senso di desolazione, rabbia, tristezza e odio. Il mio odio in quel momento era indirizzato a lui. «Pasha, per favore.»
Non c’era sottomissione dentro la sua mente, ma mi strinse a sé con un abbraccio più innocuo, che non ricambiai. «Non ti merita.» È una frase che diciamo tutti, tanto vera quanto inutile, non ho mai sentito nessuno amare con sincerità una persona solo perché se lo merita. L’amore è un pugnale senza impugnatura: devi tenerlo sempre in equilibrio per non ferirti.
Mi scostai da lui e mi guardai intorno. Che cosa stavo facendo in lacrime, al gelo, circondata da soldati/guerrieri? Cercai di ristabilire il controllo delle emozioni e poi quello della voce. «Dov’è andato?» domandai senza guardarlo.
«Non lo sappiamo. Forse a nord, verso...» Studiò la mia espressione. «Ma vedrai che tornerà, se non stanotte, domani.»
Non tornò.
E neanche il giorno dopo.
40
Mai avrei creduto di avere in corpo tante lacrime. Piangevo di rado e quando lo facevo, lo facevo per il nervosismo, nonostante questo aspetto di me non mi pie. Le persone non capiscono quando piangi per motivi diversi dalla debolezza, ti guardano con comione o peggio pensano che tu lo stia facendo per fargli provare comione. Questo, di solito, mi faceva stringere i denti e ricacciare indietro ogni lacrima.
Quella volta non ci riuscii.
E non riuscii neanche a evitare la comione degli uomini intorno a me: non era un sentimento che sentivo nella mente perché era complicato -molto più che bianco o nero-, tuttavia i loro occhi la manifestavano con chiarezza.
Se il giorno trovavo qualcosa da fare per non pensare, la sera, prima di dormire, nulla era in grado di distrarmi. Il momento prima di dormire è maledetto, ti tradisce con sconvolgente precisione, attaccandoti con ogni arma possibile e spezzando tutte le difese che durante il giorno ti sei costruito con tanta fatica. Ti pieghi al suo volere e lasci al dolore lo spazio per divorarti. Io non ne ero immune.
Evitavo Pasha in tutti i modi possibili, lui però mi seguiva ovunque. Non parlava con me e non tentava di farlo, tuttavia mi era sempre intorno, non capivo che cosa si aspettasse da me. La barriera che ponevo tra me e lui era palese, tangibile anche dagli altri. Mi dicevo che, se avesse avuto un minimo di amor proprio, mi sarebbe stato lontano anche lui. Non sapeva quale fosse il motivo per cui lo
stessi evitando e con ogni probabilità ne immaginava un altro, che era vero solo in parte. Qualsiasi cosa pensasse di me, non era corretto come lo stessi trattando, né come lui stesse insistendo.
Avevo preso le mie cose e il mio sacco a pelo e le avevo spostate in quella che doveva essere stata la casa di una famiglia con bambini. Ora non c’era nessuno, era silenziosa e fredda, ma mi rintanavo là nel momento in cui mi sentivo più vulnerabile, quando pregavo la Nostra Signora di farmi dormire e di non farmi sognare.
Se le canzoncine che avevano inventato su di noi nascevano da supposizioni, ora avevamo confermato tutte le loro ipotesi. Bloccati a Leion da un mio ordine, nessuno di loro stava facendo qualcosa di reale; potevano occuparsi dei prigionieri e delle provviste, delle armi e degli animali da soma, ma non c’erano veri e propri compiti da fare. Avevo messo in trappola anche me stessa e non ne vedevo via di uscita.
Se la situazione non avesse preso quella piega, avrei detto al Capo Branco di cercare un Lupo Grigio in grado di arrivare da solo verso le zone abitate, per avvisare la popolazione, così come avevo stabilito, ma lui non c’era e io non sapevo a chi chiedere. Lo avrei detto a Pasha, in una situazione diversa, tuttavia mi ostinavo a evitarlo.
Non essendo stata cresciuta come una principessa, non pensai neanche a mantenere il decoro che si addice al mio lignaggio. Frustrata tra il dolore della perdita di Dahaljer, l’ingiustizia di dovermi trovare in quei posti con persone che conoscevo da meno di un anno, tra il desiderio pungente di voler tornare da quella che da sempre era stata la mia unica famiglia e il senso opprimente di chi non ha nulla da fare, in un momento di particolare rabbia, tirai fuori la mia semiautomatica e sparai al lampadario della sala della casa che mi ospitava.
Era un bel lampadario, non molto grande, ma aveva cinque bracci e piccoli vetrini che pendevano per una decina di centimetri; erano impolverati, ma immaginai che una volta puliti e illuminati dovessero riflettere la luce in mille punti. Poiché lo avevo mancato, premetti di nuovo il grilletto. Colpii di striscio il cavo che lo teneva e quello oscillò. Ero seduta contro la parete e contemplai il movimento per alcuni istanti, poi risollevai l’arma, presi la mira e sparai di nuovo. Avevo quindici colpi nella pistola. Me lo aveva detto Tagron. Li sparai tutti, con calma, tenevo l’arma con due mani e miravo con la mente lucida. Avvertii la presenza di qualcuno nel momento stesso in cui il cavo stava cedendo.
Il lampadario cadde a terra con un tonfo e un suono stridente di vetri rotti, che schizzarono ovunque. Chiusi le palpebre con forza, senza muovermi.
Quando le riaprii, qualche secondo dopo, Tejii Weber spalancò la porta, che era solo accostata, poiché in realtà non si chiudeva. Rimase attonito sulla soglia. «Buon Dio», esclamò.
Gli lanciai un’occhiata e gettai l’arma tra i resti del lampadario. «Nomini troppe volte Dio, per essere un miscredente», commentai, pacata.
«Non sono un miscredente, altezza. Vuole che le reciti l’Ave Maria?» ribatté, anche lui pacato.
Feci un sorriso amaro. «Risparmia le tue preghiere per quando ne avrò davvero bisogno.»
Si avvicinò, facendo attenzione a dove metteva i piedi. «E ora non ne ha?»
Non risposi.
Si accovacciò accanto a me, anche da quella posizione sembrava una montagna. «Non le chiedo come sta, perché lo vedo con i miei occhi. Vorrei chiederle, però, se si è accorta che sono più di due giorni che non mangia?»
Sollevai un sopracciglio. No, non me ne ero accorta.
«Lo so che rispetto a tutti noi lei mangia come un uccellino, ma so anche che così morirà di fame. Sa, ha presente quel meccanismo che prevede che un corpo per sopravvivere debba nutrirsi, mettere qualcosa in bocca, mandarlo giù, dentro lo stomaco? Ecco, non sono mai stato forte in biologia, ma scommetterei la mia testa che anche lei fa parte del mondo animale.» Abbassò il viso in maniera curiosa. «Beh, ok, magari fa parte di quello vegetale, ma se così fosse ha bisogno di un po’ di terriccio, un raggio di sole e acqua. Tutti abbiamo bisogno di acqua, a meno che lei non sia una pietra, ma ho qualche riserva in merito. Insomma, faccia ciò che vuole, ma non vorrei averla sulla coscienza, la mia è già così pesante.» Sorrise.
Tejii aveva sempre avuto un sorriso contagioso e così ricambiai. «Voglio l’ananas.»
Sbatté le lunghe ciglia nere. «Oh, beh, ne deduco che lei sia viziata, principessa: non abbiamo ananas qui.»
«Tejii, fammi un favore», risposi cambiando argomento. «Tu sei uno dei pochi
che ammiro in questo maledettissimo posto, potresti trattarmi solo come Shayl’n, invece che come sua altezza di Vattelappesca?»
Ciondolò la testa, quasi come se fosse un bambino e come un bambino piegò il labbro inferiore sotto i baffi scuri. «Sua Altezza Reale, la principessa Shayl’n Til Lech, Minse di Danubie», precisò. «Potrei anche farlo, se vieni a mangiare, invece di stare qui a uccidere poveri lampadari innocenti. Che ne dici?»
Scrutai il suo volto e afferrai la sua mano tesa. «Va bene, potrebbe essere un buon patto. Se non lo rispetti, sappi che morirò di fame.»
Mi tirò su. «Oh, beh, questo è un ricatto, non un patto. Non si fa così», mi redarguì bonariamente.
«Chiamalo come vuoi e fammi strada.»
La mia semiautomatica rimase tra i cocci, per quanto ne so, potrebbe ancora essere là. Il digiuno di cui non mi ero resa conto, non mi aveva aperto di più lo stomaco. Sbocconcellai qualche pezzo di carne e del pane indurito, cercando di seguire i monologhi di Tejii.
C’era la solita coltre di nuvole basse sulle nostre teste, faceva freddo e tirava un leggero vento umido, che sembrava infilarsi sotto i vestiti fino a insinuarsi nelle ossa. Faceva così freddo che portare i guanti non serviva solo a riscaldare le mani, ma anche a non farle appiccicare agli oggetti che toccavamo. Mi stavo chiedendo dove fosse il Capo Branco e come fosse possibile che se ne fosse andato. Volevo chiedere a Tejii se fosse una cosa possibile o rispettabile. Ero certa che un Capo Branco non potesse andarsene dal fronte a suo piacimento per
i suoi problemi personali.
Rimasi con la bocca chiusa ad ascoltarlo, perché non avevo voglia di parlare e soprattutto non avevo voglia di parlare di qualcosa che fe male. Forse, dovevo solo stare zitta e guardare avanti.
Non credo che Pasha Klein sapesse che stavo pensando questo, quando si sedette accanto a me con fare incerto e accennò a un inchino con il capo.
«Come stai?» si informò, cauto.
Avrei potuto rispondergli male in così tanti modi. La domanda era sciocca, Tejii era stato molto più saggio, tuttavia provai un’improvvisa comione per lui e, se dovevo guardare avanti, dovevo cominciare da qualche parte.
«Meglio», mi costrinsi a rispondere. «Fa freddo», aggiunsi, perché se dovevo parlare, preferivo spostare l’argomento su qualcosa di meno scivoloso.
Incoraggiato dalle mie poche parole controllate, Pasha analizzò al dettaglio il cielo plumbeo e pesante, osservando che quell’inverno non era poi così freddo, che ce ne sono di peggiori nelle terre del Nord, e si arrischiò a dire che fossi stata io a portare fortuna. Tornai a dormire nella sua tenda, sebbene non riesca a ricordare come questo avvenne.
Una sera, nella nostra tenda, gli spiegai quello che volevo fare e che mi serviva un aiuto per cercare un prigioniero tra i Bamiy. Per alcuni istanti rimase in
silenzio, poi mi disse che ci avrebbe pensato lui, volevo aiutarlo e parlare con il Lupo che avrebbe scelto, così da poter capire le sue emozioni, ma il ragazzo mi disse che avrebbe pensato a tutto lui, che non dovevo preoccuparmi di niente.
L’attesa del nulla è tanto oziosa quanto frustrante. Cercavo di convincermi, però, che fosse un momento rilassato e spensierato per tutti noi.
In cuor mio sapevo che non lo era, sapevo che da qualche parte stava arrivando la bufera, sebbene ne immaginassi una diversa da quella che avrei vissuto.
Layo Luba, che tanto non sopportavo, Layo Luba che aveva salvato la vita a Dahaljer, si fece silenzioso e cortese, per motivi che tutt’oggi ignoro. Danka Kijowski, invece, iniziò a parlare con me, per nulla esitante. Sicura di sé come sempre, non mostrò di essersi chiesta cosa fosse meglio fare, lo fece e basta e io non rifiutai la sua presenza.
A dire il vero non rifiutai la presenza o l’assenza di nessuno: tutto scivolava su di me così come veniva offerto, prendevo ciò che mi era dato e non mi preoccupavo di ciò che mi era tolto. Dopo una cena dai toni soffusi, Danka, seduta accanto a me, parlò di suo fratello gemello, tradendo una sofferenza che non le conoscevo. Non eravamo sole, tuttavia eravamo spostate rispetto al gruppo e notai che si era creata una precaria ma delineata intimità tra noi, che non sapevo spiegare, nonostante avessi paura di perderla. Non sarebbe mai stata la persona che avevo immaginato di avere accanto quando era arrivata nel gruppo, tuttavia sapeva rendersi più piacevole di quanto riuscisse a dissimulare.
Mi colse di sorpresa chiedendomi se i miei abiti fossero stati un regalo di Dahaljer. Dovetti pensarci prima di rispondere, domandandomi se mi stesse chiedendo qualcosa di diverso da quelle che erano le parole.
Infine annuii e lei rimase assorta per qualche minuto.
«Io, se fossi stata in te, avrei sopportato.»
All’improvviso qualcosa di lei si illuminò come un raggio di sole che spunta dalle nuvole diretto nelle tenebre di un pozzo. Osservai il suo viso, duro come la guerriera che era, e nello stesso tempo morbido come le sue labbra carnose. «Perché è quello che hai fatto tu, vero?»
Piegò la testa verso il basso, ma riuscii a vedere un sorriso piegarle l’angolo della bocca, in una smorfia che era più di dolore che di altro. «Forse ha solo bisogno di tempo, ma ti ama e tornerà.»
Sbattei le palpebre; non aveva risposto alla mia domanda, tuttavia decisi di non insistere. «Non ne sono tanto sicura.»
«Del fatto che ti ami o del fatto che tornerà?» Sollevò lo sguardo su di me e io lo distolsi.
«Di entrambe le cose.»
Fece spallucce. «Della prima sono sicura, della seconda, ammetto di non saperlo con certezza. Alcune persone devono fare i conti con il proprio orgoglio.»
Scrutai il suo sguardo, avvertendo un senso di oppressione e il battito accelerato del cuore. «Perché?» Non sapevo come altro formulare la domanda.
«Perché so che ti ama?» Un’espressione divertita le ò sul viso, nei suoi sentimenti invece era più ostile. «Perché lo conosco da tanto tempo e non è facile con lui. Non so spiegartelo meglio di così.»
«Sei stata a letto con lui?» La frase mi uscì di bocca prima che potessi fermarla.
«In ato, dici?» Soppesò le parole, guardandomi, sapevo che stava prolungando l’attesa della risposta con deliberata crudeltà e immagino che me lo meritassi. «Dovresti chiederlo a lui», disse infine.
«Lo farò.» Ed era vero; sono donna e la curiosità fa parte di me, anche quando non è buona consigliera.
Mi ò una bottiglia di vodka e alzò la propria. «Al Capo Branco.» Senza rispondere, sbattei la mia bottiglia sulla sua, che tintinnò, e mandai giù tre dita d’alcool che mi infiammarono gola e stomaco, bruciandomi gli occhi. Lei se la scolò tutta.
41
Sarei anche potuta sopravvivere.
Ne ero fermamente convinta e pensavo che se non mi fossi macchiata del sangue dei civili delle terre dei Bamiy, avrei addirittura potuto vivere cento anni di pace. Era probabile che fosse solo un’illusione preventiva della mia mente, tuttavia non obiettai contro le manipolazioni del mio cervello. E dalla mattina alla sera mi sforzavo di sorridere e di rimanere calma qualsiasi cosa succedesse. Eludevo ogni pensiero che potesse farmi male e chiacchieravo spensierata e con eleganza con chi mi stava intorno, chiunque fosse.
Se potevo tenere a freno ogni parte di me che recalcitrava nel profondo dell’anima, potevo sopravvivere e andare avanti.
Però poi Pasha mi raggiunse.
Arrivò correndo nell’abitazione che avevano trasformato in cucina - non ricordo per quale motivo fossi là - con il volto rosso e il mio zaino stretto tra le mani affusolate.
«Shayl’n, ascolta quello che ho da dirti. Ascolta bene e fai quello che ti dico.» Aggrottai la fronte, c’era una paura marcata nella sua mente e non ne capivo il motivo. «Sta venendo Tagron, qui a Leion, e tu devi andartene.»
«Perché?» Mi sembrava impazzito.
«Perché non ha buone intenzioni.» Si sforzava di rimanere calmo.
«Lui non ha mai buone intenzioni», osservai, sapendo che ero preparata, o fingevo di essere preparata, al suo arrivo.
Lasciò a terra il mio zaino e alzò le mani verso le tempie con esacerbazione, come se non riuscisse a spiegarsi. «Questa volta non è uguale. Lui è arrabbiato con te e pensa che tu non gli sia più utile.»
Questo poteva essere pauroso. «E perché mai? Perché ora?» Avevo bloccato la sua corsa verso le terre dei Lupi, ma lui ancora non lo sapeva.
«Shayl’n, non me lo chiedere, fai solo quello che ti dico, una volta tanto.»
Mi chiesi quando mai mi avesse detto cosa fare. Scossi la testa, dove sarei dovuta andare? E come avrei fatto a dirlo a Dahaljer? E poi perché? «Non capisco. Non capisco perché tu sia così spaventato, non capisco perché, a quanto dici, lui ce l’abbia con me ora e come faccia a essere già qui.»
Prese un grosso respiro. «Per via di questa storia dei paesi e delle città e dei civili. Hai bloccato le sue operazioni.» Stava balbettando e soprattutto stava mentendo, era piuttosto palese nei suoi sentimenti. Il fatto che mentisse mi rendeva ansiosa, tuttavia focalizzai l’attenzione sulle sue parole e non sulle sue
emozioni.
Sollevai le spalle. «Beh, verrà qui e farà quello che deve fare.»
«No.» Questa volta si mise le mani nei capelli, si voltò, poi con una calma finta e mal controllata tornò a guardarmi. «Senti, lui sa che tu hai bloccato tutto, sa che non hai ucciso i prigionieri, sa di te e Ahilan, del Lupo che dovevi mandare ad avvertire e poi… sa che molti di noi ubbidirebbero a te, in certi casi.»
Tralasciai l’ultima frase e mi soffermai sulle prime. Quelle sì erano un problema, ma non era solo quello a spaventarmi e a farmi male. «Come?» mormorai, mentre un turbinio di emozioni mi traava il cuore graffiandomi come spine di una rosa. «Come fa a sapere queste cose?»
I suoi occhi avevano assunto un colore tra l’azzurro e il grigio e mi fissarono, poi sbatté le palpebre.
Allora cambiai domanda. «Chi? Pasha. Pasha Klein, chi glielo ha detto?»
Si morse le labbra così forte che gli si tinsero di rosso. «Io.» Era quasi un sospiro, ma lo avevo sentito bene.
Scossi la testa, con veemenza, rifiutandomi di fare l’ultimo collegamento, ma era là davanti a me, anche se non lo avessi fatto, era una cosa troppo chiara.
Allungò una mano verso di me e mi scostai.
«Perché?» Ero stata io a chiederlo?
«Perché me lo ha chiesto subito, quando non ti conoscevo. Perché mi ha detto che poteva pensare a me per un eventuale fidanzamento, perché io credevo di essere nel giusto, ma ora…»
«No, Pasha.» All’improvviso scoppiai a ridere. «Stai scherzando, vero?»
Mosse gli occhi in maniera strana, a scatti, e ci pensò, come se avesse potuto o forse voluto rispondere altro. «No…»
«Tu, tu non puoi averlo fatto. Tu… tu hai finto tutto il tempo, la tua amicizia, quello che provavi per me, tutto quello che mi chiedevi di Ahilan, tu…»
«No, non è così», mi interruppe. «Lo so che ora è difficile dimostrarlo, ma mi piaci davvero.»
«Oh, ti prego!» La rabbia stava montando dentro di me, dovetti fare dei i indietro per mettere spazio tra me e lui.
«Davvero, non ho mai finto su certe cose, mi piaci, io ti voglio bene e avrei voluto di più e Ahilan, beh, ero geloso di lui, più di quanto tu potessi capire e questo mi ha spinto a continuare quello che stavo facendo, perché magari un
domani…»
«No, no, no. Non ti voglio sentire!» Misi le mani sulle orecchie e strinsi.
Se avesse parlato lo avrei sentito lo stesso, ma non usò la voce. “Sono tuo amico, Shayl’n, lascia che te lo dimostri.”
«Mio amico?» sbraitai. «Sai che cos’è l’amicizia? Pasha, io mi fidavo di te! Come hai potuto?»
Il suo sguardo si fece triste. «Mi dispiace.»
«Ti dispiace? Cos’è, la parola magica? Pensi di risolvere tutto con un mi dispiace?» Ero furiosa.
«No, hai ragione. Se tu mi ascoltassi... Ti sto dicendo che te ne devi andare.»
C’era qualcuno nelle vicinanze, sapevo chi era, entrò veloce e senza esitazioni. «Che succede qui?»
Senza pensarci le mie mani sfoderarono la mia automatica e la puntarono su Pasha. «Tejii, ti dispiace se perdi uno dei tuoi giovani soldati?»
Lui restò sorpreso e si spostò avanti al ragazzo facendogli da scudo con il suo grande corpo.
Afferrai l’arma con entrambe le mani. «Tejii, se non ti sposti giuro che sparo anche a te.»
«Va bene, ma dimmi almeno perché, buon Dio.»
Perché? Se anche lui la pensava come Pasha, per lui non era un traditore, era un bravo soldato, magari un eroe del suo popolo. Uno che rispettava la legge e il suo re. Dissi l’unica cosa che poteva avere un valore universale: «Perché ha finto di essere mio amico e mi ha tradita.»
Pasha sospirò. «Tejii, spostati. Ha ragione.»
L’uomo sembrò ancora più sorpreso.
Il ragazzo fece un o di lato, provava una forte paura e un’intensa sottomissione e potevo sentirlo, questo però non mi riconsolò. «Devi andare via da qui, prima che arrivi», disse con voce ferma. «Poi odiami e fai quello che vuoi. Ma te ne devi andare, non posso garantire per te, se rimani ancora qui.»
«A quanto ne so, non hai mai potuto garantire per me. A quanto tu stesso hai ammesso, ti sei comprato un posto nelle grazie del re a mie spese, a spese dei miei sentimenti e della mia fiducia. Perché dovrei farlo?»
«Non mi piace dirlo, ma puoi solo fare questo adesso e io posso darti una mano, prendi le tue cose e vattene via.»
«Dov’è Ahilan?» chiesi d’impulso.
«Non lo so, è vero; non ti sto mentendo. Non so dove sia andato e non l’ho mai saputo.»
Li scrutai entrambi. Non avevo molte possibilità, tolto il fatto che non sapevo se avrei avuto davvero il coraggio di sparare, anche se lo avessi fatto, cosa avrei fatto dopo? Purtroppo Pasha aveva ragione: ora che di lui meno mi fidavo, ora che, a dire il vero, per la prima volta non mi fidavo di lui, dovevo farlo per forza.
Abbassai l’arma continuando a stringerla nelle mani, mentre Pasha mi porgeva il mio zaino. «Ci ho messo tutto», mi informò. «Acqua, cibo, mappa. Vai a sud, e cerca di farti aiutare dai Lupi, solo se ne hai bisogno.»
«Bell’aiuto», commentai sarcastica.
Non si scompose. «Dirò che sei andata da un’altra parte.»
Piegai la bocca in un sorriso amaro. «Come se ci fossero tante altre possibilità», feci notare.
«Dirò che stai tornando a Praha, per Nilmini.» Anche questo sapeva; provai
qualcosa di molto simile alla vergogna, per me, per quanto ero stata stupida e ingenua, e per lui, per quanto meschino poteva essersi dimostrato.
Afferrai lo zaino con una mano, senza rinfoderare la pistola, e me lo misi su una spalla, poi afferrai anche l’automatica che mi stava dando, dalla parte dell’impugnatura, e la infilai nella fondina di quella che era stata la mia semiautomatica. «Tejii.»
«Altezza.» Se ne stava con le mani sui fianchi, come se stesse assistendo alla solita litigata tra bambini; per una frazione di secondo pensai a Madre Brìgit. «Questo è il momento in cui devi pregare per me e… Fatti raccontare tutto. Se non lo farà, per favore dì ad Ahilan di me. Digli che sono… Digli che sono…» che cosa? Non sapevo neanche io dove stessi andando. Merda!
«Va bene.» Sorrise quasi divertito. «Gli dico che sei fuggita, che non si sa dove sei, di farsi vivo e che lo ami tanto.» Sintetizzò.
Strinsi le labbra. Avrei voluto ridere, ridere perché era divertente, ma c’erano troppi altri pensieri per la mente e nessuno di quelli faceva ridere. Una moltitudine di umori stava arrivando. «È qui», dissi.
Sapevano a chi mi riferissi.
«Vai, su.» Pasha indicò fuori, verso i piedi del bosco. Alle pendici della montagna che segnava il lato occidentale della vallata. Non dissi niente. Corsi solo fuori, allacciando tutti i ganci che tenevano fermo lo zaino sulla mia schiena. Avrei voluto dire altro, pensare se avevo tutto, se potevo cambiare qualcosa, avrei anche voluto riflettere sulla possibilità di ucciderlo, in effetti.
Ma ogni secondo di più significava dare a Tagron il modo di rintracciare la mia mente, che come sua consanguinea e sua pari, percepiva più degli altri. Se anche una sola cosa detta da Pasha fosse stata vera, ero morta o forse anche peggio. Così, infilata la porta, sgattaiolai fuori e corsi più veloce che potei.
Non mi voltai indietro, mi arrampicai tra gli alberi, cercando di non scivolare, rinfoderai l’arma e mi aiutai con le mani salendo più in alto che potevo. Non sentivo la loro presenza, solo quella dei Lupi che avevamo ancora prigionieri. L’aria umida, il sole sbiadito, il vento fresco. Dahal, dove sei? Avevo paura. Paura di essere presa, paura perché non potevo fidarmi di nessuno, paura, paura, paura.
Nilmini.
Salivo seguendo una direzione confusa, scivolando sul terreno più ripido, poi smisi di salire perché gli alberi finivano e mi avrebbero vista. Corsi a perdifiato lungo il limitare frastagliato del bosco. Forse avrei dovuto cambiare direzione, cercare di tornare a Praha come aveva detto Pasha e cercare di riprendermi Nilmini, cercare Khaled e sparire da quei posti per sempre; forse Karin mi avrebbe aiutata, con un po’ di fortuna. Per quanto ne sapevo, però, neanche di lei potevo fidarmi. Respiravo a bocca aperta e l’aria fredda mi entrava in gola. Era troppo pericoloso tornare a Praha, ammesso che fossi riuscita a tornare laggiù.
Seguendo quella strada potevo sperare di mischiarmi tra i Lupi e stare lontana per qualche tempo prima di riuscire a trovare un modo per recuperare Nilmini e Khaled.
E se Tagron li avesse uccisi subito? Mi bloccai di colpo e la frenata improvvisa
mi fece scivolare, cercai di recuperare l’equilibrio, ma avevo troppi pensieri, stavo tentando di coordinare troppi fili e finii a terra. Con il cuore in gola ripresi a correre. Se li avesse uccisi, non me lo sarei perdonato, ma se mi avessero presa loro, sarebbe finita nello stesso modo. Qualcuno doveva aiutarmi. Dahal, dove sei? Seguii gli alberi come se fossero l’unica via, non sapevo se stessi andando a sud, perché seguivo solo i tronchi infiniti che si ripetevano diversi e tutti uguali. Mi rifiutai di pensare a Pasha.
Stavo correndo da quasi due ore ed ero scivolata più di una volta, quando il mio intuito animale mi avvisò della presenza di alcuni Lupi maschi. Indecisa se andare loro incontro o allontanarmi decisi di mantenere una distanza media. Loro, però, si stavano avvicinando a me, se avessero avuto cattive intenzioni, la mia fine non sarebbe stata molto diversa.
Proseguii dritta per la mia direzione e qualcuno nella mente mi disse di fermarmi. Ero stanca, ma aumentai l’andatura. Se mi fossi trasformata, avrei avuto più possibilità di sfuggire loro, ma avrei dovuto lasciare vestiti e zaino oltre che le armi.
Sentendoli molto vicino a me, di mente e di fisico, mugolai. Estrassi entrambe le automatiche, la mia e quella di Pasha, e mi voltai, pensando di spaventarli e fermarli. Erano cinque e due di loro spararono nella mia direzione. I colpi mi finirono dritti sul petto, persi l’equilibrio e caddi a terra, come se mi fossi seduta. Senza pensare, spinta solo dalla disperazione, sparai anche io.
Le pistole automatiche spararono a raffica, senza mira. Con tutte e due le mani davanti a me, i colpi rombarono nell’aria e nella mia testa; muovevo le braccia in modo disordinato, con il solo intento di sparare a tutto ciò che era davanti a me.
Poi i colpi finirono e le pistole smisero di sparare. Scese il silenzio più tetro, reso
pesante dal contrasto del rumore precedente. I miei occhi focalizzarono il massacro davanti a me e mi voltai per vomitare.
Presi un grosso respiro, mossi qualche o carponi e mi pulii la bocca con la neve pulita. Avevo il fiatone.
Poi realizzai. Ero viva.
Battei un pugno sulla neve. Ero dannatamente viva; e non ero sicura di esserne felice.
Mi guardai.
Sul mio corpetto erano conficcati cinque proiettili tra il petto e l’addome. Uno invece era molto in alto, sotto la clavicola. Neanche due centimetri più su e mi avrebbe perforato la gola.
Uno dei proiettili mi aveva preso il braccio sinistro, che sanguinava. Un altro mi aveva appena sfiorato la gamba, strappando il tessuto che ora mostrava una leggera striscia di pelle rossa e aperta.
Ero ferita e avevo colpito cinque uomini, uccidendoli. È tutta colpa tua, Pasha. Imprecai. I colpi sul torace dovevano avermi creato degli ematomi, e avrei dovuto dare uno sguardo oltre che sistemare la ferita al braccio. Lo avrei fatto, mi sarei spostata per allontanarmi dai corpi inermi dietro di me, e avrei controllato lo stato di salute in cui versava il mio corpo. Per quello in cui versava
la mia mente, invece, avrei dovuto rinunciare perché non ne ero in grado. Stavo rimuginando su questo quando la presenza delle Tigri mi attraversò i pensieri con la stessa intensità dei proiettili. Non avevo tempo di controllare, né di fasciare le ferite.
Rinfoderai le armi e pensai che ora erano scariche, non avrei avuto altro che i pugnali. Mi sollevai con uno sforzo notevole, come se avessi potuto perdere l’equilibrio da un momento all’altro. Per sfuggire ai Lupi, mi ero ritrovata molto lontana da alberi e coperture. Era un punto piano e c’era solo neve, feci un respiro profondo e ripresi a correre. Avevo ucciso cinque persone e non potevo averlo fatto per niente, dovevo allontanarmi da là. Non mi voltai mai indietro, non saprei dire a quanti metri fossero dietro di me. Non molti.
Nella corsa, il sangue dal braccio mi uscì copioso, avrei dovuto mettere qualcosa che funzionasse come laccio emostatico, però per farlo avrei dovuto frugare nello zaino e non avevo il coraggio di fermarmi.
Nella mia mente Tagron Toivainen Minse di Danubie mi chiamò pur senza pronunciare il mio nome, prima di potermi raggiungere; erano più veloci di me e non sapevo perché. Pensai di fingere di essere armata, fermarmi e puntare loro le pistole contro, ma sarebbe stato troppo rischioso. Sopra la paura, la rabbia e la frustrazione, si levò un unico pensiero: avevo ucciso invano. Mi avrebbero presa comunque.
Tagron mi chiamò più volte fino a che non sentii i rumori dello scalpitare di cavalli attutiti dalla neve. Questo spiegava perché fossero molto più veloci di me.
Caddi a terra, in ginocchio. Mi avevano colpita su un polpaccio con una pistola con silenziatore. Qualche attimo dopo un uomo mi afferrò per le braccia,
togliendomi la pistola dalla cintola. Prima che potesse farlo lui, estrassi il pugnale e voltandomi lo colpii in pieno volto.
Se Tagron mi avesse voluta morta mi avrebbe già uccisa, mirando alla testa. Non lo aveva fatto e dovevo sfruttare questo vantaggio. Un altro soldato mi si avventò contro e riuscii a colpire anche lui, prima con l’arma, sferrando fendenti rapidi, poi con un pugno. Il mio braccio sinistro non reagiva in modo corretto.
Pensai che se fossero state una o due persone, avrei avuto qualche possibilità, ma erano in sei e mi avevano raggiunta. In meno di cinque minuti mi disarmarono, bloccandomi a terra e, prima che potessi anche tentare di trasformarmi, mi avevano stretto un cerchietto di ferro al collo e uno sul polso destro.
Ero a terra, supina, con il respiro corto. Tagron si stagliò su di me con il suo sorriso beffardo. «Sei forte come una Tigre e veloce come un Lupo, te lo riconosco, tytär, ma sei sciocca come un Umano.»
Volevo urlargli che era la frase più ridicola che avessi mai sentito. Ma non feci in tempo. L’ultima cosa che vidi fu l’ago di una siringa avvicinarsi al mio collo.
Note
La seconda parte di Nuova Terra sarà pubblicata, salvo imprevisti, a giugno 2013.
La prima e la seconda parte di Nuova Vita e lo spin off saranno pubblicati, molto probabilmente, per l'autunno del 2013.
Nuova Terra, Nuova Vita e Bruci il mare sono disponibili in formato cartaceo presso l'autrice.
Per informazioni
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