Fabio Columbano
Arrivederci, Tavolara
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Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com) un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Presentazione
Vittorio ha 43 anni. È il proprietario dell’Angedras, un boutique hotel a ridosso dell’incantevole spiaggia di Nodu Pianu, nel Nord Sardegna. È un self-made man. Divide il suo tempo tra lavoro, sport, mare e serate con gli amici. Manola di anni ne ha 29, nipote dell'Emiro del Qatar, ha appena terminato gli studi quando decide di fare una vacanza solitaria in Sardegna, lontana da chiunque possa riconoscerla ed etichettarla come la figlia di uno degli uomini più ricchi al mondo. Vittorio e Manola si incontreranno nell'hotel di Vittorio e da quel momento in poi avvieranno una romantica storia d'amore che avrà come scenografia le spiagge e le zone più belle della Sardegna: Capo Ceraso, Tavolara, l’Ogliastra e l’arcipelago della Maddalena. La vita di Manola e i suoi doveri nei confronti di un padre austero e rigoroso, riportano però i due giovani con i piedi per terra, come a ricordare che certe storie d'amore esistono solo nei film. Mentre Manola si ritroverà ad affrontare un nuovo inizio e una nuova vita a Milano, Vittorio dovrà superare una grande prova a causa della tragedia che ha messo in ginocchio la Sardegna: il ciclone Cleopatra.
I personaggi e i fatti narrati in questo romanzo sono frutto di fantasia. Ogni riferimento a personaggi realmente esistiti o esistenti, o a fatti accaduti, è puramente casuale.
La foto di copertina è di Giacomo Altamira
Ai miei genitori, a miei fratelli, a Paola, ai miei adorati nipoti Matteo, Luca e Luisa.
Ai miei amici. A “Nico”, in particolare.
Arrivederci, Tavolara
Romanzo
Capitolo 1
I kayak avanzavano paralleli nell’ultimo tratto di mare. A poche centinaia di metri, la spiaggia di “Nodu Pianu” attendeva i concorrenti di quella insolita gara. Le schiene dei due canoisti luccicavano, madide di sudore, mentre i colpi incessanti delle pagaie agitavano l’acqua con spuma e mulinelli. Neanche gli ultimi metri riuscirono a stabilire un vincitore: le due prue toccarono la riva nello stesso istante, quasi una fune invisibile le tenesse legate. «Certo che non molli, vecchio mio», disse Vittorio. «Pur di evitare i tuoi sfottò, questo e altro», rispose Nico, ansimando. «Se solo mi seguissi un po’ di più, butteresti giù quella pancetta in poco tempo». «Te lo prometto. Quest’anno farò anche qualche gara». «Seee… I soliti buoni propositi, come metterti a dieta, smettere di fumare…» «Hai ragione», rispose Nico sfoderando uno dei suoi sorrisi e lisciandosi il ventre. «Il problema è che seguire i tuoi ritmi è troppo faticoso. E poi, al gentil sesso un po’ di ciccia piace». «Su questo hai ragione, visto il tuo curriculum. Ma secondo me le incanti con quella faccia da culo e la parlantina sciolta». «E chi lo sa… Comunque t’invidio. Non hai un filo di grasso e sembri sempre un ragazzino. Neanche quando segnai il goal nel derby Olbia – Torres ero così in forma!» «Ricordo. Una “bicicletta” all’incrocio e venne giù il Nespoli. Che spettacolo!» «Ogni tanto ci penso. Sembra ato un secolo. Eppure ho smesso solo cinque anni fa».
«Comunque il segreto è solo uno: Mens sana in corpore sano , amico mio. Non ci vuole granché. Allenamento costante e un po’ di attenzione a tavola». «E, naturalmente, non abbuffarsi ma spizzicare con il becco», aggiunse Vittorio ironizzando sul suo naso aquilino. La chioma castana spruzzata di grigio, la carnagione olivastra e due occhi scuri come l’ebano completavano il quadro. Anche Vittorio piaceva alle donne ma non era un rubacuori. «Ti manca l’istinto del killer !», gli ripeteva Nico. Ormeggiarono i kayak a delle boe poco distanti dalla riva e raggiunsero “L’Isolano”. Era così chiamato il bar a ridosso della spiaggia e riparato da cespugli di lentischio dove avano le estati. Traversine in legno scuro, veranda affacciata sull’arenile, ombrelloni di canne tutto intorno, tavoli e sedie di plastica rossa, erano il contorno dove Ugo, il proprietario, riceveva i suoi clienti. «Buongiorno, Ugo! Per me solita colazione», disse Vittorio. «Per me una bottiglia di Santa Lucia grande e un caffè. Al tavolo, naturalmente», aggiunse Nico. «Se non vi alzate, fate male!» rispose il padrone di casa. D’altronde, il biglietto affisso sulla parete parlava chiaro: “Non facciamo servizio ai tavoli. Se possiamo, volentieri. Ma non pretendetelo!” Ma, per Vittorio e compagni, Ugo aveva sempre un occhio di riguardo: arrivò sbattendo il vassoio sul tavolo con un frullato di frutta, l’acqua e il caffè. « Voilà, messieurs ». «Sempre gentile ed elegante», commentò Vittorio osservando il petto nudo del gestore e i logori bermuda in jeans . «Vacci tu in cucina, al mio posto: cinquanta gradi! Vediamo in quanto schiatti». «Il solito esagerato! Cinquanta gradi». «Ad ogni modo, se vuoi un servizio a cinque stelle, la Costa Smeralda è a due i».
Vittorio e Nico si lanciarono uno sguardo d’intesa e, con una rapida mossa, presero Ugo per le braccia e lo costrinsero a sedersi su una sedia. «Ma che diavolo state facendo?» protestò l’uomo, inarcando le sopracciglia. «Riposati pure, garzone! Ai clienti pensiamo noi», disse Vittorio, ando dietro il bancone. «Prego, signori. È iniziato l’ happy hour . Per la prossima ora tutto a metà prezzo!» urlò Nico, sotto lo sguardo infuocato di Ugo. Tempo un minuto e “L’Isolano” era pieno di bambini a reclamare gelati e avventori attratti da quell’improvvisa offerta. Nell’ora successiva, al povero gestore non rimase altro che rassegnarsi a ricevere i ringraziamenti dei clienti. «Questa me la pagate, brutte carogne», «Il solito permaloso. Lo sai che ti vogliamo bene. E poi, hai visto com’erano contenti? Ci avrebbero fatto un monumento!» «Certo, così son bravi tutti!» Amavano quel posto. Da giugno in poi, dopo il lavoro, si ritrovavano lì per un tuffo ristoratore dopo la calura del giorno. A quei tavoli, aspettavano il tramonto sorseggiando una birra fresca tra una chiacchiera e l’altra. E, magari, prolungando la serata con un piatto di spaghetti ai ricci o una frittura. Dava loro un senso di libertà poter cenare, in tenuta da spiaggia, con i piedi a contatto con la sabbia. «Ugo, niente da segnalare da queste parti?», chiese Nico, scrutando la spiaggia affollata. «In verità, in settimana, qualche movimento interessante si vede. Il pomeriggio viene sempre una tedesca. Solitaria, parla poco l’italiano. Ordina un cappuccino e si trattiene fino al tramonto. Avrà più o meno la tua età». «Bella notizia. Domani sono qui». «Le informazioni si pagano, caro mio. Vedrai il conto che vien fuori, oggi!»
«E allora conti separati, grazie!», intervenne Vittorio. Prima di pranzo arrivò Giovanni, il fratello minore di Vittorio. Nonostante la differenza di età, frequentavano gli stessi amici. Vittorio provò un moto di affetto, guardando la sua zazzera bionda. Quando i genitori gli comunicarono l’arrivo di un fratellino, stentava a crederci. Aveva dodici anni e non aveva mai pensato potesse accadere, visto che la madre aveva superato i quaranta. Finché, un giorno di primavera, quel fagottino arrivò a casa a riempire i suoi pomeriggi. Spesso rinunciava ai giochi con gli amici per are il tempo con lui: lo caricava sul eggino e lo portava in giro, quasi fosse un nuovo giocattolo da esibire. Nessuna invidia ma solo tanto amore per quel nuovo arrivato con cui dividere le attenzioni dei genitori. Lo aveva visto crescere e gli aveva fatto da padre, quando questi morì. A volte anche con durezza. E a distanza di anni, ripensandoci, si pentiva di aver calcato un po’ troppo la mano. Erano già seduti a tavola quando li raggiunse Paolo, un collega di università di Giovanni: molto sveglio e sempre pronto quando c’era da far baldoria. Ugo preparò uno dei suoi piatti migliori: zuppa di pesce con crostini di pane. «Ragazzi, tutta roba pescata stanotte, naturalmente». «Ottimo, capo. Anche se un pizzico di peperoncino in più non guasterebbe…», mentì Nico. «La prossima volta vai tu ai fornelli, Casanova!» Dopo il caffè, sistemarono gli asciugamani sull’arenile per le solite chiacchiere da spiaggia: il calciomercato, le ragazze e le aspettative per le ferie, ormai alle porte. La spiaggia era affollata di gente. Gruppi di giovani che arrostivano al sole, altri che giocavano a beach volley o con i racchettoni. Bambini costruivano castelli di sabbia nel bagnasciuga con genitori vigili sotto gli ombrelloni. Una moto d’acqua piroettava tra le tante barche a vela ancorate in rada. L’atmosfera annunciava che agosto era alle porte e la Sardegna avrebbe accolto come ogni anno orde di vacanzieri. Vittorio si era ormai assopito quando fu risvegliato dal suono di una trombetta
seguito dalle urla di una voce maschile: «Granite! Granite!» Aprì gli occhi e vide un ragazzo che, in riva, spingeva un carretto colorato. Non fece in tempo a togliere dal frigo i gelati per due bambini festanti che una voce richiamò la sua attenzione: «Giovane, fuori dalle scatole. Veloce!» Un’espressione incredula si dipinse sul volto del ragazzo che guardò in direzione di Ugo e rispose: «Ce l’hai con me?» Con le narici ingrossate e l’indice puntato, il proprietario de “L’Isolano” ribatté: «Certo che ce l’ho con te. L’ho detto anche a un tuo collega, l’altro giorno. Alla larga dalla mia concessione!» Sulla spiaggia scese un silenzio imbarazzato. I bagnanti assistevano incuriositi alla scena senza che nessuno intervenisse. Il giovanotto si strinse nelle spalle, arricciò il labbro inferiore e, scuotendo la testa, consegnò le granite ai bambini prima di cambiare aria. «E non costringetemi ad arrabbiarmi. Se no, divento cattivo!» Nel giro di qualche minuto la situazione tornò alla normalità. Vittorio continuò la pennichella prima di essere svegliato dal gavettone di Nico che diede il via a una guerriglia che coinvolse ragazzi e ragazze di altri gruppi. La giornata andò avanti così, tra scherzi, sfottò, giochi e la solita corrida di birre. Era buio quando Vittorio rientrò a casa. Dopo il clima goliardico vissuto per tutto il giorno, una strana sensazione di vuoto, ormai sempre più frequente, accompagnò i suoi pensieri prima di addormentarsi.
Capitolo 2
Le strade di “Trastevere” brulicavano di gente. Uno dei quartieri storici di Roma accoglieva, anche quella sera, visitatori affamati di cibo e di “romanità”. I tavolini delle osterie sfruttavano ogni metro quadro della strada, le insegne facevano a gara per attrarre, al primo batter di ciglia, quella fiumana di turisti: “Nerone”, “La tana de’ Noantri”, “Il trono dei Re”. Camerieri palestrati, fuori dai locali, si sfidavano per catturare l’attenzione dei clienti promettendo le migliori specialità della cucina romana. Manola e Louise avevano scelto un posticino nascosto, lontano dalla confusione, grazie alle indicazioni di un amico. Era il ritrovo della borghesia romana che ne apprezzava la buona cucina e l’atmosfera informale. «Cacio e pepe per me e Amatriciana per la mia amica» disse Manola al cameriere. «Prima, però, un carciofo alla romana e due mozzarelline». «Da beve?», rispose il giovanotto con tipico accento locale. «Una bottiglia di acqua naturale e un fiaschetto di vino dei colli». «Grazie, signori’. Ottima scelta». «Sembrerebbe che abbiamo fatto colpo» commentò Louise, una volta rimaste sole. E, in effetti, era raro che assero inosservate. Manola era la classica bellezza mediterranea. Pelle ambrata, denti candidi e due occhioni neri, dal taglio vagamente orientale, catturavano l’attenzione al primo impatto. Ma ciò che colpiva di più era un caschetto di capelli nero corvino che incorniciava il viso. Un taglio demodé che su di lei sembrava attualissimo. Louise aveva, invece, sembianze più nordiche: dei capelli ramati e ben pettinati circondavano un visino delicato, dalla pelle chiara, e due occhi da gatta.
Avevano scelto Roma per are qualche giorno insieme prima delle ferie di agosto. Louise avrebbe girato un po’ l’Europa: Grecia, Malta, Croazia e Costa Azzurra. Era vagabonda per natura, incapace di fermarsi in un posto per più di due o tre giorni di fila. Era fatta così e Manola ne invidiava lo spirito libero e la vita fuori dagli schemi. Lei, invece, aveva un’unica destinazione: la Sardegna.
* * * *
Era la figlia minore di Safiy, fratello dell’emiro del Qatar, uno dei cento uomini più ricchi al mondo, secondo l’ultima classifica della rivista americana “Forbes”. Petrolio, energie alternative e investimenti immobiliari negli angoli più esclusivi del pianeta, avevano consentito al principe di accumulare un patrimonio stimato in diversi miliardi di dollari. Manola era il suo gioiello ma anche il suo tormento per quel caratterino e l’indole ribelle. Forse a causa del sangue latino che le scorreva nelle vene: la madre Carmen era una ricca ereditiera spagnola e Safiy se n’era innamorato durante un viaggio in Spagna. L’anno dopo, tra la sorpresa generale, l’aveva portata all’altare. Quella vacanza in solitaria era emblematica del carattere di Manola. Spiazzando i genitori, aveva comunicato il desiderio di disertare la loro mega villa di Porto Cervo per trascorrere le ferie da sola. Ne sentiva la necessità, dopo la rottura del fidanzamento con Fadi, avvenuta l’inverno precedente. Sarebbe stata la sua ultima estate spensierata: terminati gli studi, era giunto il momento di decidere cosa fare “da grande”. Inoltre, avrebbe soddisfatto la voglia di conoscere più a fondo la Sardegna. Fino ad allora, le sue vacanze nell’isola avevano seguito sempre il solito tran tran: sveglia tardi, uscita in mare con lo yacht di qualche amico, cena in uno degli esclusivi ristoranti della Costa Smeralda e, per finire, il solito tavolo in discoteca al “Sottovento” o al “Billionaire”. Durante una di quelle estati aveva conosciuto Fadi, il figlio di un petroliere arabo. Era nata una storia durata anni. Ora, alla soglia dei trent’anni, sentiva il bisogno di altro, di prendere le distanze da un mondo in cui non si ritrovava più, che la soffocava. Si sentiva fuori luogo
in quell’ambiente intriso di perbenismo e culto dell’apparenza. Sembrava che, da un giorno all’altro, le avessero levato una benda dagli occhi ed ora, finalmente, poteva vedere chiaro. E poi, era troppo forte il desiderio di novità, di conoscere persone e luoghi diversi, di non dover rendere conto a nessuno delle sue azioni. Il padre, all’inizio, aveva storto il naso. Non sopportava che la sua “bambina” potesse allontanarsi così dal suo controllo. Ma, grazie ai buoni uffici di Carmen, Manola riuscì nel suo intento. Aveva quindi curiosato su “Trip Advisor” e scelto l’hotel per quel mese di agosto: intimo, discreto, lontano dai riflettori e a due i dal mare. Sarebbe stata la base da cui muoversi verso altre mete.
* * * *
«Brava chérie », disse Louise a Manola. «Una vacanza da sola è un atto di coraggio. Significa mettersi in gioco e affrontare nuove esperienze». «In effetti sono impaziente. È la prima volta che mi capita e non vedo l’ora. E poi in Sardegna… Ha così tanti angoli da visitare che avrò solo l’imbarazzo della scelta. Tanti pensano che ci sia solo la Costa Smeralda». «È vero. Quando ero piccola, girammo l’isola in camper, con la mia famiglia. È uno dei ricordi più belli che mi porto dentro». Manola aveva letto tanto sugli angoli nascosti dell’isola e sentito i racconti di alcuni colleghi. L’ultimo inverno milanese era stato pesante. Sembrava che quella città avesse avvolto col suo velo grigio la sua voglia di vivere. Studio, soliti giri, aperitivi, casa, tv. Manola era entrata in quella routine quasi senza accorgersene. Una sorta di anestesia dal dolore per l’epilogo amaro della sua storia con Fadi. Nei weekend andava spesso a Parigi, a far visita ai suoi genitori. Era il suo porto sicuro dove trovare amore e comprensione. Faceva lunghe eggiate con la madre, confidandole le sue pene.
«Il tempo, mi amor. Per le delusioni e i dolori, è l’unico rimedio. Vedrai, sarà così anche per te», le ripeteva Carmen.
* * * *
Manola e Louise continuarono la serata sul Lungotevere. La riva del fiume sembrava una grande festa paesana con banchetti, bancarelle, birrerie e bazar. Romani ma anche turisti e studenti di ogni parte del mondo: un miscuglio di accenti tra birre, cocktail , tiri al bersaglio e zucchero filato. Rimasero affascinate da quel viavai di gente e l’atmosfera di festa. Erano in vena di goliardia e non sembrò loro vero quando incontrarono un gruppo di ragazzi intenti in una sfida al pungiball. Sembravano fatti a stampino: cresta, brillantini alle orecchie, sopracciglia ad ali di gabbiano e bicipiti gonfi. «Insomma, la fate suonare questa sirena o dobbiamo farlo noi?», disse Manola, irrompendo sulla scena. I giovani si voltarono insieme e le guardarono con un’espressione di stupore. «Certo bella, vedrai ora come canta. Piuttosto, perché non vi unite a noi?», rispose uno di loro. Le due ragazze non si fecero pregare e furono elette capitane di due squadre improvvisate. Ci diedero dentro con energia e la gara andò avanti per una buona mezzora, tra pugni, sirene e risate. Vinse la squadra di Louise dopo un divertente testa a testa. Esauste ma divertite, declinarono l’invito dei giovani per proseguire la serata e decisero che era ora di rientrare. «Ammazza, che fighe!», commentò uno dei ragazzi nel seguirle con lo sguardo mentre salivano su un taxi. «E anche simpatiche. Piuttosto, cosa diceva la moretta ogni volta che sferrava un cazzotto?» «Fadi. O qualcosa del genere. Sì, mi sembra dicesse Fadi…»
Capitolo 3
«Via Margutta 51», disse Louise al tassista. «Certo, signorine. Vi ci porto subito», rispose un omone dalla faccia simpatica. Avevano visto “Vacanze romane” almeno una decina di volte. La bella storia tra il giornalista Gregory Peck e la principessa Audrey Hepburn, in vacanza nella capitale, era uno dei loro film preferiti. Via Margutta 51 era appunto l’indirizzo della casa in cui Joe aveva ospitato la principessa Anna. Da quel lontano ‘53 era diventata la meta di centinaia di visitatori sognanti di trovarvi l’amore, come i due protagonisti del film. «Che bello, sembra di rivivere quei giorni. Quasi, da un momento all’altro, i due attori debbano arrivare a bordo di una Vespa, come nel film», disse Manola, arrivate a destinazione. Riconobbero subito i luoghi resi celebri da quel capolavoro del cinema: il cortile, la scalinata e il balconcino della casa di Joe. «Mi sarebbe piaciuto essere qui durante le riprese. Si dice che il regista si fidasse molto delle opinioni del pubblico. Se sentiva commenti di approvazione, teneva la scena. Altrimenti, la girava di nuovo», disse Louise. Proseguirono il tour per via dei Fori Imperiali, il Colosseo, Piazza di Spagna e Fontana di Trevi: Roma era splendida come sempre, nonostante il caldo. Arrivarono poi in uno dei luoghi dove fu ambientata una delle scene più famose: la Bocca della Verità. «Sai che la scena, così com’è stata girata, non era nel copione?», disse Louise a Manola. «No. Perché?» «Fu una trovata di Gregory Peck, quella di nascondere la mano nella giacca, facendo finta di averla persa. Senza dire niente alla Hepburn. Ecco perché la
reazione preoccupata della ragazza è così reale». Terminarono la gita stanche ma felici. Si salutarono alla stazione Termini: Louise prese il treno per Bari, da dove sarebbe partita per la Grecia, Manola lo shuttle per l’aeroporto di Fiumicino. «È stato bello, amica mia. Divertiti, ci vediamo a Milano», disse Manola, con l’aria un po’ triste. «Anche tu, chérie . E mi raccomando, torna con qualche bel sardo», la incoraggiò Louise. «Non credo, basta con gli uomini. Voglio rimanermene tranquilla, per un po’. Niente amore». «Questo non si può mai dire. Il dio Eros non avverte, quando bussa alla tua porta». E con quelle parole in mente e una crescente eccitazione, Manola prese la navetta per Fiumicino.
Capitolo 4
Il lunedì mattina, Giacomo e Vittorio s’incontrarono in hotel per programmare la settimana lavorativa. L’Angedras era un boutique hotel: quattro stelle, trenta camere tutte con vista mare, piccola piscina e spazio riservato per i clienti, sull’arenile di “Nodu Pianu”. Intonaco bianco, tegole invecchiate, infissi di legno, architettura dalle linee semplici. E grande cura degli esterni: prato inglese a bordo piscina, cespugli di buganvillee e ibisco, piante di mirto e corbezzolo per inebriare l’olfatto. Era un modo per ricordare all’ospite che si trovava in uno dei paradisi del Mediterraneo. La clientela era ormai super selezionata: russi, scandinavi, qualche arabo e pochi italiani, per lo più del nord. L’hotel Angedras offriva un servizio a quattro stelle ma prezzi accessibili rispetto alla vicina Costa Smeralda. Dopo anni di lavoro, Giacomo e Vittorio erano riusciti a trasformarlo in una macchina perfetta. Sebbene fossero intercambiabili, si erano divisi i compiti in modo da massimizzare il vantaggio di essere in due. Vittorio curava la vendita e l’amministrazione, i rapporti con i fornitori e gli aspetti burocratici; Giacomo si occupava della gestione sul campo e del ristorante. Su una cosa, avevano visioni differenti: la gestione del personale. Vittorio professava una linea professionale, distaccata mentre Giacomo privilegiava un rapporto più confidenziale. Questo, alla lunga, aveva creato un po’ di tensione nel loro rapporto. L’amicizia nata sui banchi di scuola e consolidatasi in anni di lavoro spalla a spalla, ne aveva risentito. Entrambi esigevano tanto dai loro uomini, in termini d’impegno e di attaccamento al lavoro, ma mettevano sul piatto gratifiche importanti. Se i risultati della stagione erano buoni, premi in denaro e benefit erano la giusta
ricompensa. E dopo gli errori iniziali legati all’inesperienza di chi, dall’oggi al domani, a dal ruolo di dipendente a quello di datore di lavoro, potevano vantarsi di aver creato una squadra di lavoro eccellente. La loro nuova sfida era però quella di allungare la stagione di apertura dell’hotel da sette, a dieci mesi. Per questo, negli anni avevano reinvestito parte degli utili per dotare l’albergo di due servizi importanti: la spa e un ristorantino aperto anche a ospiti esterni. E ora erano contenti del risultato: il ristorante funzionava bene, attraeva clientela anche da altri hotel della zona ed era tappa obbligata per i vacanzieri degli yacht ancorati in rada. Nel pomeriggio erano seduti a bere un caffè in giardino quando il maître si avvicinò con un’espressione corrucciata al loro tavolo: «Abbiamo ospiti, signori». Sul vialetto, che dalla spiaggia portava alla reception , si materializzò un gruppo di sei persone: due uomini sulla cinquantina, con buffe camicie a fiori e dei lunghi boxer colorati avanzavano sbandando abbracciati a quattro giovani ragazze. «Sono arrivati gli Unni!», disse Giacomo a bassa voce andando loro incontro. Quello che doveva essere il capo della spedizione tolse il sigaro dalla bocca e, con la voce impastata, si rivolse a Giacomo: «Vodka!» «Certo signori, accomodatevi». Le due ore successive impegnarono il personale a soddisfare le richieste più disparate: caviale del Mar Caspio, Magnum di Cristal, ostriche si e scatola di Montecristo. Una coppia di ballerini di tango venne fatta arrivare appositamente da Olbia per accontentare una delle signorine, nostalgica della lontana Buenos Aires. E, per chiudere la serata in bellezza, improvvisarono un Karaoke: i due uomini, stonati come campane, non mollarono il microfono per un solo istante e conclo l’esibizione con un’interpretazione “memorabile” di Oci ciornie e Kalinka . Vittorio li osservava sornione, badando che non dessero troppo fastidio agli altri ospiti. Finalmente, verso mezzanotte, arrivò l’ora dei commiati. Presentò loro il conto con molti zeri e attese, con espressione imibile, la reazione del russo. Ma questi non fece una piega: tirò fuori l’American Express Platino e, dopo aver saldato il conto, iniziò a distribuire banconote da cinquecento euro agli increduli
camerieri.
Capitolo 5
L’MD82 Meridiana atterrò con qualche minuto di anticipo all’aeroporto di Olbia. Era notte e un accenno di occhiaie si profilava sul viso di Manola. Avvicinò un taxi e diede il voucher , con l’indicazione dell’hotel, all’autista: «Che tariffa mi fa?» Un omino dalla faccia simpatica le rispose con un sorriso: «Cinquanta euro». La ragazza ribatté con uno sguardo che incenerì l’uomo: «Guardi, ho già visto tutto su Trip Advisor e conosco bene la posizione dell’albergo, appena cinque chilometri da qui. Se le va bene, le do la metà, altrimenti mi arrangerò diversamente». Il tassista abbassò gli occhi in segno di resa: «Ok, solo perché è simpatica e ha avuto il coraggio di contrattare, la negoziazione è un’arte che apiona anche me». Manola salì in macchina senza ribattere. Dal finestrino poté constatare che i giardini dell’aerostazione erano tenuti con la solita grande cura. Il taxi imboccò la sopraelevata che conduce al centro di Olbia e il viso di Manola s’illuminò: la luna color arancio sembrava darle il benvenuto specchiandosi nelle acque calme del golfo. Imboccarono il tunnel che smista il traffico verso la Costa Smeralda e nel giro di pochi minuti giunsero a destinazione. «Arrivati!» disse il tassista alla ragazza che si era leggermente assopita. «E mi raccomando, questo è il mio numero, qualora le occorresse per il ritorno o per qualche escursione nei dintorni», fece l’uomo porgendole il suo biglietto da visita. «La ringrazio, ne terrò conto. Buonanotte». «Buonanotte a lei signorina, si goda la nostra isola».
Manola varcò l’ingresso dell’hotel quando era quasi giunta la mezzanotte. Benché assonnata e leggermente stordita, rimase a fissare incantata i lucidi pavimenti in cotto della hall , i rivestimenti con le coloratissime ceramiche della Cerasarda e le ringhiere in ferro battuto. «Buonasera, signorina Montero. Benvenuta», esordì Giuliano, l’addetto alla reception . «Salve, ecco il mio aporto», rispose la ragazza mentre un velo di apprensione le si dipinse in volto. Quella di nascondere la sua identità era stata una condizione imposta dal padre: presentarsi come la figlia di un multimiliardario la considerava fonte di pericolo. Benché il fenomeno dei sequestri di persona fosse ormai scomparso, in Sardegna, Safiy era stato perentorio: “Meglio non svegliare il can che dorme”. Manola acconsentì a malincuore a quella richiesta. Riconosceva di essere fortunata ad appartenere a una famiglia ricca e potente, milioni di persone sarebbero voluti essere al suo posto. Ma non avere la libertà di viaggiare come una ragazza qualunque era un prezzo alto da pagare. “Chissà come sarebbe la mia vita se appartenessi ad una famiglia normale”, pensava in quei momenti. L’unico compromesso che raggiunse col padre fu di mantenere il nome di nascita, le avrebbe reso più naturale il cambio temporaneo d’identità. Quanto al aporto, non fu certo un problema: con i soldi era molto semplice procurarsene uno fasullo senza correre il rischio di essere identificati. La mattina seguente si alzò tardi, fece una doccia e andò al balcone: un’espressione di meraviglia apparve sul suo volto alla vista del golfo di “Nodu Pianu”. Rimase incantata a fissare l’azzurro del mare per qualche minuto e poi decise che era ora di muoversi. Preparò la borsa e dopo un’abbondante colazione si diresse verso la spiaggia. Abituata a posti esclusivi, rimase colpita da tutta quella ressa: intere famiglie sotto gli ombrelloni ricordavano gli accampamenti dei beduini nel deserto, giovani palestrati eggiavano in riva mettendo i muscoli in bella mostra, orde di bambini che si rincorrevano con pistole ad acqua e ambulanti che urlavano gli slogan più curiosi. Sorrideva come una bambina, stordita da quella confusione.
Deliberatamente, evitò la concessione balneare dell’hotel. Ci sarebbe stato tempo per socializzare con gli altri ospiti, pensò. Si diresse verso la parte opposta della spiaggia. Aveva già preso un po’ di sole in due week end ati a Capri, ma amava un’abbronzatura molto intensa. Si svegliò, dopo un paio d’ore, sudata e con la gola secca. Annodò il pareo intorno alla vita e raggiunse il chiosco poco distante. «Buongiorno, mi darebbe una Coca light, con ghiaccio e limone?», disse al barista. Ugo la guardò senza darle troppa importanza: «Prego». Nonostante l’aspetto un po’ burbero, quell’uomo, le fu subito simpatico. Sembrava uno di quei marinai che, dopo anni di navigazione per mari pericolosi, trovano un porto sicuro. «Bel posto qui. Come sono le altre spiagge del litorale?», chiese Manola. «Tutte molto belle. Ma da nessuna parte troverà il pesce come si mangia a “L’Isolano”», rispose Ugo, pavoneggiandosi un po’. «Vorrà dire che proverò la sua cucina. Starò un mese da queste parti e le occasioni non mancheranno». «Ottimo, l’aspetto per mettermi alla prova. Faccia buone vacanze». Prima di pranzo, Manola indossò gli occhialini e decise di dedicarsi a una delle sue grandi ioni: il nuoto. Da ragazza aveva fatto parte della squadra agonistica del liceo vincendo diverse gare ma, ati i vent’anni, aveva deciso che poteva bastare con cloro e piscine. Ogni volta che tornava al mare, però, l’amore per quella disciplina risbocciava e si dedicava a lunghe nuotate, anche di ore. Adorava il senso di distacco dalla realtà che il nuoto le dava, la possibilità di scaricare le tensioni o i cattivi pensieri e la sensazione di benessere fisico e di tonicità che provava dopo ogni nuotata. Inoltre, trovava il nuoto un ottimo sonnifero. Quando nuotava la sera, riusciva ad addormentarsi pochi secondi dopo aver poggiato la testa sul cuscino, appagata e serena. Non amava le acque profonde per cui era solita seguire direzioni parallele alla costa, senza mai allontanarsi troppo dalla riva.
Per pranzo attinse alla piccola borsa frigo che le avevano preparato la mattina in albergo: panino con rucola e bresaola e, a seguire, pesche e albicocche. Decise di dedicarsi alla lettura: aveva scoperto da poco Fabio Volo e s’immerse nel romanzo che le aveva regalato Louise, “Il giorno in più”. Resistette solo cinque minuti: “Ci sarà tempo per leggere”, pensò nel riporre il libro nella borsa. Vide che diverse persone abbandonavano la spiaggia e si dirigevano verso la scogliera. Decise di imitarle. Migliaia di piedi, prima di lei, avevano tracciato un sentiero tra rocce, cespugli di mirto, lentischio e ginestre. La mano generosa di qualche improvvisato giardiniere aveva ricavato dei aggi all’interno dei cespugli. Sembravano delle trincee e Manola vi si immerse inebriata dal profumo delle piante. Aspirò a pieni polmoni quelle essenze ed emerse dopo una cinquantina di metri in un punto in cui il sentiero costeggiava la scogliera. Si fermò qualche istante a contemplare il mare calmo dall’alto con, di fronte, la maestosità dell’isola di Tavolara. Proseguì la eggiata perdendosi nei suoi pensieri. Decise di fare un bagno ed abbandonò il sentiero per cercare un accesso al mare tra gli scogli. Arrampicandosi alle rocce, vide in lontananza una piccola spiaggia dalla sabbia bruna. Era quasi arrivata quando, dietro una roccia, vide due ragazzi che prendevano il sole. Avevano entrambi i capelli rasati, nessuna peluria sul corpo e dormivano, uno accanto all’altro, su un grande telo da mare. Ad uno sguardo più approfondito, Manola notò un particolare: i due si tenevano per mano. Li osservò con una espressione di tenerezza e decise di non disturbarli. Riprese il sentiero e tornò in spiaggia. Le ore arono veloci e, senza che se ne accorgesse, arrivò il tramonto. Decise di fare un ultimo bagno e, quando ormai la spiaggia era deserta, rientrò verso l’hotel. ò davanti a “L’Isolano” e salutò Ugo che preparava i tavoli per cena: «Aveva ragione, questa spiaggia ha proprio qualcosa di magico». L’uomo si compiacque del commento e rilanciò: «Ha visto? E ancora non ha provato il piacere della nostra cucina. Chissà cosa penserà, allora». Manola a quel punto capitolò: «D’accordo, mi riservi un tavolo per domani, a pranzo. Vediamo se saprà stupirmi». «Mangerà il pesce più buono della sua vita. Si accettano scommesse. A domani, i una buona serata».
«Grazie, anche lei. A domani».
Capitolo 6
Vittorio si mise in viaggio per Cagliari dove aveva programmato alcuni appuntamenti di lavoro. La Carlo Felice era poco trafficata e lanciò il BMW cabrio ad alte velocità sperando che gli uomini della stradale avessero di meglio da fare che appostarsi ai bordi di quell’asfalto bollente. Gli piaceva guidare e quella macchina era uno dei primi sfizi che si era concesso, dopo anni di sacrifici. Percorse i quasi trecento chilometri in un paio d’ore e dopo un riposino e un massaggio rigenerante alla spa del “T Hotel”, prenotò un tavolo da “cucina.it”. Amava l’intimità di quel ristorante con la cucina in bella mostra. Rimaneva incantato guardando lo chef ai fornelli, le tante leccornie sugli scaffali o le composizioni sui piatti. « Tartare di tonno di Carloforte, crudités di scampi e insalata», chiese alla giovane cameriera che si presentò al suo tavolo. «Ottima scelta, signore. Si vede che conosce le nostre specialità. Gradisce anche del vino?» «Giusto un calice. Non è necessario che mi mandi il sommelier. Un bicchiere di Buio andrà benissimo, grazie». Apprezzava molto quel Carignano del Sulcis: oltre al gusto, adorava la bottiglia dal vetro scuro e dal particolare disegno dell’etichetta. Il giorno seguente, ò negli uffici della regione per le pratiche di rinnovo della concessione balneare di “Nodu Pianu”. Sarebbe scaduta alla fine dell’anno ma preferiva muoversi con grande anticipo: le urgenze lo infastidivano, specie se erano determinate da una mancata programmazione. Nel pomeriggio incontrò il Dottor Baldini, area manager di “Italy Tourist”, un tour operator. Dovevano accordarsi sulla possibilità di ospitare in hotel, per un
week end di novembre, un gruppo di medici tedeschi. Vittorio e Giacomo la consideravano un’opportunità importante: spostare la chiusura dell’albergo dopo quell’evento significava allungare ulteriormente la stagione. Decise di finire la serata facendo shopping. Raggiunse via Manno, la zona di Cagliari dei negozi alla moda, e iniziò a osservare le vetrine. Amava vestirsi bene e ne approfittò per rifornire il guardaroba di polo “Burberry”: ne aveva di mille colori ma non bastavano mai. Le indossava anche agli appuntamenti di lavoro con pantaloni eleganti: riteneva che quel caratteristico motivo a tartan le rendesse adatte per ogni occasione. Concluse il suo giro alla Rinascente, dove sapeva di trovare una vasta scelta di profumi e commesse carine. Rientrò in hotel che era già buio. Mangiò un boccone al ristorante e salì in camera. Raiuno dava per la milionesima volta “Pretty Woman”. Quella versione moderna di Cenerentola era uno dei suoi film preferiti. Lo aveva visto tante volte e ne conosceva a memoria diverse battute. Decise che quella era un’occasione per impararne delle altre e per lasciarsi andare all’immancabile lacrima finale. Il venerdì mattina, dopo una visita di cortesia a un amico albergatore di “Costa Rei”, un tratto del versante sud-orientale dell’isola, prese la Carlo Felice per fare rientro a casa. L’asfalto sembrava squagliarsi sotto il sole. Ogni pochi chilometri, l’immancabile bandiera dei quattro mori segnalava la presenza di un venditore di frutta. All’altezza del bivio di Arborea decise di fermarsi. «Buongiorno. Come sono le angurie?» Il venditore non si scompose. Rimase nella sua sdraio sotto l’ombrellone e rispose: «Più dolci dello zucchero, signore. Venga all’ombra. Questa basca squaglia le cento lire in tasca!» Aveva una voce nasale che gli ricordò Desolina, uno dei personaggi creati da Benito Urgu. Vittorio provò un moto di nostalgia ripensando all’adolescenza quando, con gli amici, ava i sabati sera girando in macchina per Telti ad ascoltare le cassette del comico sardo. Con mani esperte l’omino prese un’anguria e, con la “Pattadese”, fece un tassello al frutto offrendolo a Vittorio. Era nettare ma Vittorio rispose: «Insomma… dalle nostre parti trovo di meglio».
«Ma cosa sta dicendo signore?», esclamo l’uomo assaggiandone un pezzo e alzandosi in piedi. «Le angurie di Arborea sono le più buone della Sardegna». «Scherzavo. Me ne dia una cassa». Rientrò all’Angedras e, dopo aver esposto a Giacomo i proficui risultati della trasferta cagliaritana, decise di prendersi un pomeriggio libero.
Capitolo 7
“Nodu Pianu” era una bolgia: agosto aveva portato la prima ondata di vacanzieri ed era difficile trovare posto per stendere un asciugamano. Con lo zaino a tracolla, Vittorio s’incamminò verso il chiosco di Ugo; prese l’Iphone e lanciò uno dei soliti inviti sulla chat di WhatsApp: “Croccante a “L’Isolano”? Chi mi ama mi segua”. Ripose il telefono e arrivò al bar. Qui, a un tavolo, Giovanni e Paolo avevano appena letto il messaggio e si apprestavano a rispondere quando videro Vittorio avvicinarsi: «Allora, tutti a zonzo e nessuno mi avvisa? Temete la concorrenza con le ragazze?», li sgridò con fare bonario. «Ciao, Zio», risposero all’unisono, con il nomignolo che gli avevano affibbiato anni prima. «La verità è che nei giorni lavorativi, in certi orari, non osiamo disturbare il grande capo», lo canzonò Paolo. In effetti, il venerdì pomeriggio era raro vederlo libero: benché i picchi di lavoro si concentrassero nei mesi invernali, in cui era sempre in giro per fiere e workshop , durante l’estate cercava di essere presente comunque in hotel. Salvo prendersi il giorno libero la domenica e, talvolta, il sabato. «Due croccanti per i giovanotti e una per me, garzone», ordinò Vittorio, rivolgendosi scherzosamente a Ugo. «Ecco qui, ragazzi. Fra un po’ anche due tranci di pizza, se mi chiedi scusa per il “garzone”», rispose Ugo sorridendo. Mentre lo sfottò andava avanti, ci fu un silenzio generale: una morettina abbronzatissima, con un bichini bianco e un pareo solo ornamentale, si materializzò sulla scena.
«Ciao Ugo, avresti qualcosa da sgranocchiare?», disse Manola che, dopo le frequenti puntate a “L’Isolano”, era ormai in confidenza con Ugo. «Come no, Senõrita . Se aspetti un attimo, arrivano due tranci di pizza appena sfornati». Proprio in quel momento Manola si girò verso il bancone, dando le spalle ai tre giovani: “un lato B”, tondo e perfettamente sodo calamitò i loro sguardi avidi. «Cosa c’è? Vi è mancata la voce?», li apostrofò bonariamente Ugo. «Fate tanto i play boy e, quando poi si avvicina una bella ragazza, non spiccicate parola. Vieni cara, ti presento i miei amici». Dopo le presentazioni, Ugo chiese ai giovanotti: «Visto che aspettate la pizza anche voi, perché non invitate Manola al tavolo? O devo pensare a tutto io?» I tre non si fecero pregare e dopo l’ ime iniziale, il gruppo diede inizio a una conversazione vivace e giocosa. Manola raccontò di essere figlia di un arabo e di una spagnola, di aver vissuto fino ai quindici anni a Valencia, per poi trasferirsi a Parigi con la famiglia. Dopo la laurea, si era spostata a Milano per un master in Interior Design, al Politecnico. Giovanni e Paolo misero in campo tutte le tecniche di seduzione del loro repertorio: «Hai vissuto a Parigi? Magnifica, la città dei miei sogni», attaccò Giovanni. «Hai studiato a Milano? La adoro: i Navigli, gli aperitivi, i locali, la moda», ribatté Paolo. La ragazza, a sua volta, faceva domande sulla Sardegna, sui posti da vedere e sui segreti di quella terra. Vittorio si estraniò dalla bagarre mentre la conversazione proseguiva tra i complimenti e le battute dei due e il fare civettuolo di Manola. Provò, ogni tanto, a inserirsi nella conversazione ma la ragazza lo snobbava sfacciatamente. Si alzò dal tavolo e si diresse verso la spiaggia: «Ragazzi, vado a fare due bracciate. Arrivo a Cala Banana e poi torno a piedi. Ci vediamo dopo», disse
prendendo gli occhialini dallo zaino. Paolo e Giovanni non fecero in tempo a esultare per un potenziale contendente che si ritirava dalla lotta, che Manola li spiazzò: «Se posso, vorrei unirmi anch’io. Altrimenti, tra birra e pizzette, metto su ciccia». «Un’altra volta volentieri. Oggi ho un programma di allenamento da rispettare». E nel dire quelle parole, Vittorio si allontanò in direzione della riva. Il viso di Manola diventò paonazzo, mentre la bocca non proferiva parola. Paolo e Giovanni scorsero un lampo di furore nei suoi occhi mentre guardava Vittorio andar via. Poi estrasse dalla borsa degli occhialini specchiati e si rivolse loro: «Ma chi crede di essere quel pallone gonfiato? Ora vedrà chi è Manola Montero».
* * * *
Vittorio fece un po’ di riscaldamento a secco, prima d’immergersi. La sua espressione non riusciva a celare un ghigno di soddisfazione mentre ripensava all’affronto di qualche attimo prima: “facevi tanto la figa, Miss Spagna. Vediamo se così torni a volare basso”. Tenne un ritmo moderato, all’inizio. Amava osservare il fondale, mentre nuotava. Nonostante ci fosse un po’ d’onda, era possibile scorgere qualche simpatica triglia dai baffi bianchi che esplorava la sabbia. Iniziava a rilassarsi in quel lento incedere che ebbe un sussulto: qualche metro alla sua destra una figura indefinita quasi lo urtò. ato lo spavento iniziale, cercò di osservarla meglio. Gli bastò solo qualche secondo per riconoscere quelle gambe ben tornite. Manola continuava incessante la sua bracciata quasi volesse schiaffeggiare l’acqua ogni volta che affondava il braccio. Aveva affiancato Vittorio e, nel superarlo, non lo degnò di uno sguardo. “Sei uno spettacolo, bellezza. Ma ora vediamo di mostrare i muscoli”.
E, con una brusca accelerata, Vittorio la raggiunse, nuotandole a fianco per i successivi cento metri. Nessuno dei due era disposto a cedere di un millimetro e quando il giovane stava iniziando ad acquisire un piccolo vantaggio, sentì una fitta lancinante al polpaccio. Immediatamente si bloccò e iniziò a tirare le dita dei piedi per combattere il crampo. Ci volle poco per capire che ormai la sfida era andata e decise di rientrare a ritmo blando per sciogliere il muscolo. Arrivò alla spiaggia di Cala Banana ancora dolorante ma della ragazza nessuna traccia. Fece qualche esercizio di stretching e s’incamminò verso “Nodu Pianu”. Ad attenderlo, Paolo, Giovanni e Manola che avevano ricomposto il terzetto. «Stavolta, hai trovato pane per i tuoi denti, Zio!», esordì Paolo. «In effetti, la signorina mi ha sorpreso. Complimenti. Non che ti manchi il fisico ma, tenere certi ritmi, non è da tutti». «Grazie, Zio. Anche tu, per la tua età non te la cavi male. A proposito, quanti anni hai?», ribatté Manola. «Quarantatré appena compiuti. Tu, se è lecito chiederlo a una signora?» «Appunto, non è elegante chiederlo. Ma a me non importa. Ventinove». Continuarono lo scambio di battute punzecchiandosi a vicenda mentre Paolo e Giovanni intervenivano, di tanto in tanto, a dar man forte alla ragazza. Si trattennero a “L’Isolano” ancora un’ora, tra birre, sfottò e risate. Vittorio si offrì di pagare per tutti, visto che era lo sconfitto della giornata. «Ugo, portami il conto, grazie. Sperando che i ragazzi non abbiano esagerato». «Giudica tu, caro. Settantaquattro euro, comprese le ordinazioni di prima». «Alla faccia! Vi siete scolati mezzo chiosco?» Giovanni e Paolo risero di gusto per il tiro mancino giocato all’amico e l’alcol in circolo. Manola, nel frattempo, aveva radunato le sue cose e si preparava a rientrare: «Ciao ragazzi, grazie per i drink e la compagnia. Ci vediamo domani, se siete
qui». «Vado anch’io. Ciao, giovanotti. E fate da bravi, mi raccomando». «Ciao Zio, ciao Manola». Abbandonato l’arenile Vittorio, si diresse verso l’hotel, incurante di Manola che camminava alle sue spalle. «Hai da accendere?», chiese la ragazza. «No, non fumo, mi dispiace. Dove alloggi?» «Qui vicino, a qualche centinaio di metri. Sto in un hotel molto carino, probabilmente lo conosci: Angedras». Vittorio scoppiò in una risata fragorosa: «Certo che lo conosco. Sono uno dei proprietari». «Ahah. Questa si che è una notizia. L’avessi saputo, avrei nuotato più lentamente…» Proseguirono il cammino insieme con Vittorio che cercò di rimediare all’atteggiamento strafottente di qualche ora prima. “Dopo tutto è una mia cliente”, si ritrovò a pensare. All’ingresso del giardino dell’Angedras, ò l’ora successiva a raccontare la storia dell’albergo. Era una di quelle cose che lo apionavano di più, un po’ come una madre che incontra una vecchia amica e le racconta dei successi del figlio. Lo aveva rilevato da un’asta fallimentare, qualche anno prima, con Giacomo, il suo socio in affari. Si erano conosciuti sui banchi delle superiori e dopo anni di lavoro insieme avevano deciso di lanciarsi in quell’avventura. L’albergo era stato realizzato negli anni successivi al boom della Costa Smeralda. Dopo i fasti iniziali, era andato in decadenza a causa della politica “mordi e fuggi” delle successive gestioni. Scaltri albergatori si erano succeduti negli anni, con alterne fortune. Dopo varie peripezie, anni di abbandono e aggi di proprietà, l’hotel versava in pessimo stato di manutenzione ed era stato affidato al curatore fallimentare. Vittorio e Giacomo, con l’aiuto delle rispettive famiglie e
indebitandosi fino al collo, lo avevano rilevato. Erano stati anni di grandi sacrifici e duro lavoro. La ristrutturazione era costata fior di quattrini e, risparmiando sul personale, i due amici avevano dovuto sostenere ritmi di lavoro forsennati per far funzionare l’albergo. Dalla loro avevano, comunque, una grande esperienza nel settore. Ora, nonostante la crisi generale, l’hotel incrementava le presenze ogni anno e i due soci vedevano un futuro roseo per il loro gioiello. Se i crampi della fame non fossero sopraggiunti, Vittorio sarebbe potuto andare avanti per giorni. «Bene, si è fatto tardi. Sarà meglio che vada a farmi una doccia», disse Manola. «Anche io ho un certo appetito. Stasera svuoto il ristorante». «Io mi farò portare un po’ di yogurt e frutta in camera. Sono un po’ stanca». «Quello è perché ti metti a lanciar sfide ai vecchietti». «Non è mia abitudine. Lo faccio solo quando trovo qualcuno che se la tira un po’ troppo…» «Touché. Devo ammetterlo: non sono stato un vero galantuomo. Tra l’altro con una cliente del mio albergo. Spero di potermi far perdonare». «Hai tutto il tempo, visto che mi tratterrò qui per un po’». «Bene. Ti lascio il mio numero». Manola lo segnò sulla “Moleskine” che tirò fuori dalla borsa: «Ho la batteria scarica, dopo ti mando un messaggio così memorizzi il mio». «Ok». «Dimenticavo: una curiosità. Da Ugo non avete fatto altro che ordinare “croccanti” tutto il pomeriggio. Ricordo che, quand’ero piccola, il “Croccante” era un gelato. Ma di gelato, no è arrivata neanche traccia...». Vittorio esplose in una fragorosa risata, prima di rispondere: «Hai ragione. È una cosa bizzarra, tutta nostra. “Croccante” sta a indicare la birra alla temperatura
ideale: né tiepida né troppo ghiacciata. In origine lo usavamo come aggettivo: birra croccante. Siccome siamo gente pragmatica, ormai diciamo semplicemente “Croccante”». «Voi siete scemi...» «Concordo. a una buona serata, buonanotte», concluse Vittorio con espressione divertita. «Anche a te». Vittorio la seguì con lo sguardo, cercando di non ammirarne troppo sfacciatamente la silhouette. Dopo una doccia, ancora avvolta nel suo accappatoio, Manola si sedette sul balcone. Di fronte a lei, la luna piena sembrava poggiata sull’isola di Tavolara. Aveva il viso rilassato e lo sguardo ipnotizzato da quel panorama. Aveva ato un bel pomeriggio e ora si godeva quel momento di solitudine.
* * * *
Vittorio cenò con dei clienti ma, dopo qualche chiacchiera, si ritirò nella dépendance . A Cagliari aveva comprato un libro che avrebbe iniziato a leggere quella sera: “La vita è un viaggio” di Beppe Severgnini. Sfogliava le prime pagine quando l’Iphone trillò: “Questo è il mio numero. Dimenticavo: grazie per la nuotata. Manola”. “Domani replichiamo, se ti va. Ce la fai a essere pronta per le otto?” “Certo. Ma dove mi porti?” “Fidati di me. E mi raccomando: fai il pieno di carboidrati a colazione. Ti serviranno, ci sarà da faticare”. “Mi fido. Anche se forse non dovrei… D’accordo, alle otto nella hall.
Buonanotte”. “Anche a te. A domani”. Vittorio continuò la lettura ma i suoi pensieri erano già rivolti al giorno dopo mentre l’adrenalina invadeva il suo corpo.
Capitolo 8
Manola era splendida, nella sua semplicità: indossava shorts bianchi attillati, una canottiera e le immancabili “Havaianas”. Vittorio la osservava da lontano mentre chiacchierava con i ragazzi del ricevimento. Non sapeva definire quella sensazione ma era come se la ragazza elettrizzasse l’ambiente con la sola presenza. Sembrava appartenere ad un mondo dorato, tutto suo. Fu Giacomo a rompere l’incantesimo invitandolo a bere un caffè. «Mattiniero, socio. Che programmi hai?» «Porto la spagnola a fare un giro. Ieri ho fatto una gaffe non sapendo che era nostra ospite e oggi cerco di rimediare». «Non ti invidio. Deve essere molto spiacevole…», disse Giacomo con espressione divertita. «Concordo. Ma a volte è necessario immolarsi alla causa. Grazie per il caffè», rispose Vittorio strizzando l’occhio all’amico. Raggiunse Manola che lo accolse con un sorriso. «Buongiorno signorina. Pronti?» «Buongiorno. Prontissima. Ma dove mi porti? E cosa significa che ci sarà da faticare?» «Nessuna anticipazione. Non le piacciono le sorprese?» «Certo, le adoro». Caricarono i bagagli nel cofano e raggiunsero Olbia in pochi minuti. «Mi fermo un attimo qui, devo are in farmacia».
Manola replicò con uno sguardo interrogativo: «Che c’è, stai poco bene?» «No. Niente di grave». Vittorio rientrò in macchina con una bustina che ripose nel vano portaoggetti. Ripresero la strada e dopo dieci minuti svoltarono per Porto San Paolo. Parcheggiarono l’auto, presero gli zaini dal cofano e s’incamminarono in direzione del porto. Nessuno dei due parlava, quasi un velo d’imbarazzo fosse sceso su di loro. Svoltato l’angolo di una delle viuzze che conducono al molo, si rivelò agli occhi di Manola la sorpresa che Vittorio aveva tenuto in serbo per lei: una miriade di corpi luccicanti era in attesa sulle banchine del porto. Nuotatori con costumi di tutti i generi e colori, chiacchieravano e ridevano riuniti in piccoli gruppi. Ragazzi e ragazze di tutte le età con una cuffia color arancio e un numero disegnato sul braccio destro. Un vero spettacolo per gli occhi: corpi scolpiti, esaltati da una strana lucentezza, come fossero stati unti con dell’olio. «Ma dove andiamo?» chiese la ragazza con un’espressione di gioia negli occhi. «Non leggi?», rispose Vittorio indicando uno striscione sopra il banchetto per le iscrizioni: “Settima traversata a nuoto Porto San Paolo - Tavolara”. Manola osservò la sagoma dell’isola di Tavolara, in lontananza. Tante volte, arrivando in Sardegna, era rimasta incantata nell’osservare dall’aereo quel massiccio calcareo che sbucava dal mare. Un lungo cuneo dai riflessi azzurri che incuteva rispetto per la sua imponenza. Consegnati gli zaini a una delle barche appoggio e formalizzata l’iscrizione, Vittorio tirò fuori dalla busta che aveva preso in farmacia un barattolo di vaselina. Lo porse a Manola: «Impiastrati bene, soprattutto sotto le ascelle e nell’inguine. La distanza è di quasi cinque chilometri e con il sale, altrimenti, rischi di arrossarti la pelle». La ragazza ringraziò e iniziò a spalmarsi la pasta nelle zone indicate. «Come vedi serve per tante cose…» disse Vittorio con voce maliziosa.
Manola arrossì e replicò sorridente: «Ma smettila! Pensiamo alla traversata, piuttosto: quanto ci s’impiega?» «Dipende. I primi, meno di un’ora. Il mio miglior tempo è di un’ora e venti ma, con una lepre come te, sono certo di migliorarlo». In quel momento Manola realizzò di dover nuotare, per lunghi tratti, in acque profonde e confessò a Vittorio le sue paure. «Non ti preoccupare. Solo il tratto centrale rimane scuro. Il resto è sabbioso e con poco fondale. Sarò al tuo fianco, se questo può darti coraggio». «Grazie capo». «Prenditi dei punti di riferimento. Quella che vedi laggiù è “L’isola di mezzo”. Ce la lasceremo alla nostra sinistra. A quel punto saremo a metà percorso. Poi raggiungeremo Spalmatore che è la striscia di terra dove ci sono le uniche spiagge di Tavolara. Dalla punta all’arrivo ci sono altri ottocento metri». «Bene, ora è più chiaro». «Dimenticavo una cosa importante. Guardandola dall’acqua, la sagoma dell’isola ti sembrerà sempre a portata di mano. Quasi manchino poche bracciate per raggiungerla. È una sensazione ingannevole. Modera le forze e segui i miei ritmi». «Ok, sarò la tua ombra». Alle nove in punto, lo start: un centinaio di nuotatori mulinarono contemporaneamente braccia e gambe in un frastuono assordante. Il tragitto era ben delimitato, con grandi boe rosse e un corridoio creato dalle barche appoggio che seguivano la carovana. Vittorio e Manola procedevano paralleli al centro del gruppo. Partirono a o moderato ma, dopo un chilometro, con i muscoli caldi, iniziarono a forzare l’andatura. A metà del tragitto, come Manola temeva, il fondale iniziò a farsi scuro. Si avvicinò a Vittorio che gli fece un cenno d’intesa, con il pollice. Nuotavano a ritmo sincronizzato, sfiorandosi ogni tanto, quasi fosse una cosa naturale per due che, fino a ventiquattro ore prima, erano degli sconosciuti.
Vittorio indugiava nel contatto sentendo delle vere e proprie scariche elettriche. Si trovò a fantasticare sulla possibilità di scoprire quel corpo. Adorava le caviglie sottili, la schiena eretta, le spalle muscolose. Sembrava che il buon Dio si fosse imposto il rispetto maniacale delle proporzioni, nell’assemblare quel fisico. E, come tocco finale, aveva disegnato due fossette nella parte bassa della schiena, che rendevano Manola così sexy. Quei pensieri lo eccitarono. Quasi imbarazzato, sorridendo, penso tra se: “Vecchio mio, il tuo corpo risponde sempre agli stimoli di una bella donna. Evidentemente non stai poi invecchiando granché!” Manola si rassicurò quando l’acqua si fece più calda e il fondale più chiaro. Osservava rapita l’ondeggiare dei ciuffi di Posidonia che spuntavano dai banchi di sabbia. Superata “Punta Spalmatore”, quasi contemporaneamente, aumentarono l’andatura superando altri nuotatori ormai stremati. Gli ultimi 100 metri furono un vero e proprio sprint con Vittorio che lasciò che fosse Manola a tagliare per prima il traguardo. Un po’ come al Giro d’Italia quando la maglia rosa, dopo chilometri di fuga, lascia la vittoria di tappa a un comprimario. Un improvvisato comitato d’accoglienza, composto dai bagnanti incuriositi e dai nuotatori che li avevano preceduti, li salutò con un applauso: «Complimenti, un’ora, tredici minuti, quaranta secondi», disse Graziella, una delle organizzatrici. «E vai! Record polverizzato», gridò Manola stringendo Vittorio in un abbraccio. Lo sguardo di Vittorio mostrò tutto il suo stupore nel ricevere quella manifestazione di entusiasmo. Gli spettatori che erano a riva notarono la sua goffaggine nel reagire a quel gesto: «Merito tuo, sei stata un’ottima lepre. Anzi, in alcuni tratti un polpo, per come mi nuotavi attaccata…» «Non mi pare ti abbia causato questo gran dispiacere». Il siparietto fu interrotto da Matteo, uno dei vecchi compagni di piscina di Vittorio: «Ragazzi, venite a bere. Abbiamo acqua, bibite, integratori». «Preferirei un’Ichnusa ghiacciata, se c’è», disse Vittorio. «Fai due, allora», seguì a ruota Manola. Brindarono alla loro impresa sbattendo le due bottigliette. Un sorrisetto
malizioso comparve sul viso di Matteo quando si rese conto di quanto durasse a lungo quell’incrocio di sguardi. Ma il giovane preferì non commentare. La giornata proseguì in un’atmosfera di grande allegria. L’organizzazione aveva allestito un vero banchetto: salumi, formaggi, pizzette, torte salate e ogni ben di Dio erano sui tavoli. Negli igloo pieni di ghiaccio, la birra alla temperatura ideale. Manola divenne subito la beniamina del gruppo con la sua risata argentina che echeggiava nell’aria. «Dove l’hai beccata una figa così?», chiese Matteo a Vittorio. «In hotel. È ospite da noi. Ma è solo un’amica». «Un’amica. Dicono tutti così…» Nel pomeriggio, Vittorio abbandonò il gruppo per fare due i. Manola lo raggiunse e chiese: «Ti dispiace se mi unisco? Così mi riprendo un po’. La traversata mi ha messo un appetito niente male e, a pranzo, ci ho dato dentro». S’incamminarono verso l’istmo di “Spalmatore” e incontrarono un piccolo cimitero. Manola volle entrare per dare uno sguardo e nel vedere quelle lapidi chiese a Vittorio: «Bertoleoni? Non mi sembra un cognome sardo. O sbaglio?» «L’origine è ligure. È la famiglia reale di Tavolara». «Come sarebbe a dire la famiglia reale?» «Sì. Storia e leggenda s’intrecciano su questa vicenda ma i Bertoleoni ritengono di essere discendenti del primo re di Tavolara». «Raccontami. Sono curiosa». «Strano, le donne raramente lo sono. Comunque sei fortunata. Proprio l’altro giorno ho letto su “La Nuova” un articolo sull’argomento. Diceva che la famiglia Bertoleoni partì da Genova verso la fine del ‘700 per stabilirsi a Tavolara dopo alcune tappe, tra Corsica e l’arcipelago della Maddalena. Qui decise di dedicarsi all’allevamento delle capre selvatiche, numerose sull’isola. Capre molto particolari, definite dai “denti d’oro” per la colorazione dei denti». «Non dirmi che erano d’oro sul serio?»
«No, il colore era dovuto alle foglie di una rara pianta di cui si cibavano». «Ah, ok». «Qualche decennio più tardi, il re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia, di aggio per delle battute di caccia, volle scendere dalla barca e dare uno sguardo all’isola. Qui leggenda narra che alla sua presentazione come re di Sardegna, Giuseppe Bertoleoni rispose: “E io sono il re di Tavolara!” Carlo Alberto rimase ospite per una settimana e nell’andar via, oltre a donare un orologio d’oro, promise che avrebbe nominato la famiglia Bertoleoni sovrana dell’isola. Si dice che una pergamena reale arrivò alla prefettura di Sassari con la nomina promessa ma di tale documento non vi è traccia. La notizia però fece il giro d’Europa e suscitò l’interesse della stampa estera. La regina Vittoria d’Inghilterra, appresa la notizia, inviò a Tavolara i suoi fotografi personali per immortalare la famiglia al completo. Foto che sarebbe esposta a Buckingham Palace insieme a quelle di tutte le famiglie reali del mondo». «Caspita, che storia. E che fortuna, per me, aver incontrato Alberto Angela». «Mi prendi pure in giro? La prossima volta ti lascio con la curiosità». Proseguirono la eggiata finché trovarono uno schermo gigante posto davanti a centinaia di sedie. «E questo?» «Questo è lo spazio in cui si svolge il Festival del cinema di Tavolara: “Una notte in Italia”. Ogni anno proiettano, per circa una settimana, un paio di film a serata. Sono invitati, come ospiti, i migliori registi e attori italiani che, dopo la proiezione, sono intervistati dai conduttori. Qui sono ati i migliori: Salvatores, Sorrentino, Favino, Zingaretti, Gabriele Muccino, Margherita Buy e tanti altri». «Bello, immagino lo scenario, la notte». «Un incanto. Sono venuto diverse volte. Purtroppo, i tagli alla cultura colpiscono anche questa manifestazione. Spero tanto gli organizzatori non decidano di mollare».
«Voi italiani, a volte, non vi capisco. Avete un paese tra i migliori al mondo per risorse paesaggistiche e culturali. Eppure non siete in grado di sfruttarle. Misteri». «Hai ragione. Campioni del mondo in autolesionismo». Il pomeriggio volò via veloce tra commenti sulla traversata e qualche bagno rinfrescante. Arrivò l’ora di lasciare l’isola e la comitiva iniziò a sciogliersi. Alcuni rientrarono in gommone, altri con il traghetto che faceva la spola con Porto San Paolo. Vittorio e Manola preferirono quest’ultimo. Manola si sistemò a poppa. Portava un cappello di paglia che le avevano regalato sull’isola e che la rendeva ancor più irresistibile. Il suo sguardo era diviso tra la scia della barca e l’immagine dell’isola che, a quell’ora, si tingeva di rosa. Aveva occhi sognanti e emanava una sensazione di estasi. Vittorio la osservava furtivamente, da lontano. Cercava di scrutarne i pensieri. Non resistette all’impulso e le si avvicinò. «Tutto bene, señorita ?» «Certo, molto bene. Sto ancora cercando di assimilare tutte queste emozioni. E di portarmi appresso la magia di quest’isola». «Bene, ti lascio alle tue meditazioni». Manola si rese conto di provare sensazioni che da troppo tempo non conosceva. La sorpresa iniziale, la stupenda traversata e l’ospitalità sarda avevano riempito di gioia la sua giornata. L’arrivo in porto giunse troppo presto. Rivolse un ultimo sguardo all’isola cercando di catturarne l’immagine. «Arrivederci, Tavolara».
* * * *
Sulla via del rientro, Vittorio decise di allungare fino a Porto Taverna. In un angolo della spiaggia, c’era un bar dove andava ogni tanto. Rimasero in silenzio a osservare Tavolara da una parte e il sole che, dall’altra, si specchiava nelle acque dello stagno con gli ultimi bagliori del giorno. Lasciarono il locale mentre Dj Trasko suonava musica lounge per i turisti seduti ai tavolini. Durante il viaggio di ritorno, Vittorio si rese conto di provare un’inconsueta euforia. Ma non riusciva ancora a capire se il motivo erano le emozioni di quella giornata o la presenza della ragazza seduta al suo fianco. Varcarono il cancello d’ingresso dell’albergo: «Sveglia Principessa, siamo arrivati». «Caspita, mi sono addormentata. Non mi accadeva da una vita». Presero i bagagli dal cofano e si diressero verso la hall . «Grazie mille di tutto, è stata una giornata fantastica. Mi sarebbe piaciuto continuarla ma degli amici mi attendono per cena, a Porto Cervo». Decise di tenere nascosto, a Vittorio, che sarebbe andata a trovare i suoi: non voleva alimentare domande sulla loro presenza a Porto Cervo. «Capisco, sarà per un’altra volta», disse Vittorio. «Piuttosto, sei a piedi. Prendi pure la mia auto, se vuoi». «Ti ringrazio, chiamerò un taxi. Stanca come sono, rischierei di addormentarmi alla guida», rispose Manola. E nell’avviarsi verso la sua stanza, lo salutò con due baci sulla guancia.
Capitolo 9
Manola arrivò a Porto Cervo per cena: i genitori erano ospiti di amici ma, esausta, decise di non raggiungerli. Mangiò una caprese e andò a dormire. La mattina dopo si godette le loro coccole tra i racconti di quei primi giorni di vacanza. La sera, per il suo arrivo, Safiy e Carmen avevano organizzato una cena a bordo piscina per una cinquantina di amici. Era una consuetudine del jet set, durante l’estate, dare delle feste. Erano momenti di relazione in cui si stipulavano o si rinsaldavano rapporti d’affari e in cui i padroni di casa sfoggiavano il lusso più sfrenato o esibivano amicizie importanti. Per cui, era frequente incontrare personaggi della televisione, star del cinema o dello sport. Safiy non aveva badato a spese anche stavolta. Il giardino, illuminato con torce e candele, era stato arricchito da eleganti tende in tessuto pregiato ispirate agli accampamenti dei califfi nel deserto. La servitù in livrea serviva le specialità di uno dei migliori chef italiani assoldato per l’occasione, mentre bottiglie di vini d’annata venivano stappate senza sosta ai tavoli. Manola era splendida nel suo tubino da sera. Lo aveva comprato a Porto Rotondo, nell’ atelier di un giovane stilista sardo conosciuto a Milano. La schiena nuda catalizzava gli sguardi maschili mentre i tacchi dorati luccicavano slanciando ulteriormente la sua figura atletica. Il viso abbronzato, senza un ombra di trucco, sembrava un insulto alle facce di plastica di molte delle ospiti. «Vieni mia cara. Ti presento un amico», disse Safiy richiamando l’attenzione della figlia. «Piacere. Carlo Crassi Marini», disse un giovane biondo porgendo la mano e facendo un leggero inchino. Era imponente per l’altezza fuori dal comune e il corpo muscoloso. «Manola», rispose la ragazza con espressione imibile. Nella mezzora successiva Safiy tessé le sue lodi citando quasi a memoria le tante imprese sportive, tra traversate atlantiche, scalate himalayane o partecipazioni
alla Parigi – Dakar. Il ragazzo impreziosì i racconti con qualche aneddoto ma a Manola non sembrò vero quando Carmen li raggiunse chiedendole di accompagnarla alla toilette. «Papà ci prova sempre. Quando conosce qualche rampollo di nobili origini, prova a rifilarmelo in tutte le salse». «Lo so. Ma questo almeno è un bel ragazzo e sembra anche interessante. Ricordi quando combinò l’incontro con quel principe saudita?» «Certo. E chi se lo dimentica? E ricordo anche il suo disappunto quando venne a sapere che l’avevo buttato vestito in piscina a una festa, per raffreddargli i bollenti ardori. Che risate!» «Vero. Ti tenne il muso per una settimana. Ma ancora sembra non aver imparato la lezione». Tornarono alla festa che, nel frattempo si era animata tra magnum di champagne e la musica disco di una vecchia star americana. Carlo continuò la sua corte serrata ma elegante, adulando Manola in ogni modo. La ragazza conduceva il gioco, incoraggiandolo a volte o ritraendosi quando il giovanotto si faceva troppo baldanzoso. Brindarono di fronte ai fuochi d’artificio ma, ata la mezzanotte, Manola, adducendo un pretesto legato ai troppi drink, decise di rientrare lasciandolo con un palmo di naso. Per il giorno seguente, il padre aveva organizzato un’uscita con il suo yacht: destinazione isola di Cavallo. Per Manola fu l’occasione per rivedere il fratello Alì, presentatosi con la sua nuova fiamma, una modella russa conosciuta qualche mese prima a Montecarlo. arono la giornata all’ancora tra tuffi, nuotate e giri in moto d’acqua, dove Manola sfidava il fratello con le manovre più spericolate. Verso sera, al rientro, si appartò sul ponte di poppa. Con lo sguardo seguiva il sole che, lentamente, si abbassava all’orizzonte. «Che c’è cherie ? Che ci fai tutta sola?», chiese Carmen avvicinandosi. «Niente, mamma. Tutto bene. Resto un po’ qui e vi raggiungo».
Era stata una bella giornata, Manola era felice di quel ritorno in famiglia. Ma ora, col calar della sera, sentiva una strana malinconia impossessarsi di lei. Non riusciva a decifrare quella sensazione ma si ritrovò a pensare all’Angedras. Quel posto l’aveva stregata e ora non vedeva l’ora di tornarvi. Forse c’era anche dell’altro ma, con un sorriso, scacciò via quei pensieri. Rientrati a Porto Cervo, mangiò un boccone con i genitori e si congedò. Non prima di aver promesso loro che sarebbe tornata a trovarli. Un taxi la riportò all’Angedras, quando era ata da poco la mezzanotte e tutti gli ospiti erano già andati a dormire.
* * * *
Per Vittorio la giornata era stata un ritorno ai suoi doveri d’imprenditore tra appuntamenti e riunioni di lavoro. Al rientro in hotel, poco prima di pranzo, ò alla reception e chiese al ragazzo di turno: «Dovrei consegnare dei biglietti alla signorina Montero, sai se per caso è scesa in spiaggia?» «No signore, non è rientrata a dormire, questa notte». Decise di fare un bagno e si avviò alla dépendance per cambiarsi e prendere occhialini e asciugamano. Prima però controllò l’Iphone: l’ultimo accesso di Manola a WhatsApp, risaliva a dieci minuti prima. Il pomeriggio lo ò in ufficio per rispondere a delle mail che in quei giorni aveva trascurato. Non riusciva a concentrarsi e a rimanere seduto per più di cinque minuti. Una forza irresistibile sembrava attrarlo verso la finestra per sbirciare in direzione della hall . Decise di fare una corsetta: indossò pantaloncini e le Nike, applicò al braccio l’Iphone facendo partire “Runtastic” e si avviò in direzione Golfo Aranci. Ultimò i consueti dieci chilometri in neanche un’ora e al rientro andò direttamente in spiaggia. Adorava fare il bagno a quell’ora, con l’acqua calda a tonificargli i muscoli.
Rientrò nella sua stanza che era quasi buio e trovò sul telefono un messaggio di Nico. “Ciao Clooney. Da quando ci siamo fidanzati, trascuriamo gli amici? Radio Olbia parla di una morettina dal culo a zainetto... Ci vediamo per una pizza? Così mi racconti”. “Culo a zainetto? Ma, come parli, vecchio porco?” “Certo, dicono che rimanga su, come se fosse appeso”. “Ahahah, non saprei, non l’ho osservato… Lascia perdere le voci di corridoio, è solo un’amica. Ok 21.30 al “KK”, prenota fuori. A dopo”. Nico. Ecco ciò che ci voleva, pensò Vittorio. Il corso di Olbia era un via vai di gente, quella sera. Ragazzi e ragazze sorseggiavano Spritz o prosecco nei tavolini dei bar; coppie con eggini gustavano un gelato per strada per combattere l’afa. Nico e Vittorio si accomodarono all’esterno del “KK”, accanto a un gruppo di turisti inglesi. Ordinarono due pizze con birra e si aggiornarono sulle ultime novità. Nico faceva il barman in uno dei locali più “in” di Porto Cervo e in piena stagione era molto impegnato con il lavoro. Fu lui a iniziare il discorso: «Quindi ‘sta mora? E proprio stratosferica come dicono?» «Si, carina. Ma è molto giovane. E poi, è un po’ particolare. Insomma...» «Strano… Da ciò che mi hanno detto, eravate molto affiatati, a Tavolara. Proprio due piccioncini». «Macché! É solo una cliente che ama il nuoto e mi è sembrato carino invitarla alla traversata». «Capisco. Comunque, fossi in te, se ti piace, ci proverei: cos’hai da perdere?» «Ma smettila! Tu, piuttosto, che mi racconti? Com’è in Costa, quest’anno?»
«Solito tran tran. In giro solo qualche ex vip sfigato. E frotte di “ragazze immagine”, per non dire altro, in cerca di russi da spennare. Non è più la Porto Cervo di una volta». «Vero. Ricordo gli anni Novanta. Locali pieni, soldi dappertutto. Sembra ato un secolo». «Già. Altre epoche… Com’è che si chiama la spagnola?» «Manola». «Bel nome. Mi sa di ione, di Flamenco». «Caliente, sembrerebbe esserlo». «E quindi, cosa aspetti?» «Ma scherzi? Ho quasi quindici anni più di lei». «E cosa vuol dire? Sei un ragazzotto. Giovanile, atletico, interessante. Alle trentenni intrigano i quarantenni». «Questo è vero ma sono un po’ fuori allenamento, non sono più abituato a corteggiare. E poi, non ho più pazienza». «Secondo me hai paura ripensando a quello che ti è successo anni fa». Vittorio fissò l’amico. Un velo di tristezza scese sul suo volto ma durò un istante: «Può essere, con te non ho segreti». «Coraggio. Sii te stesso, lusingala, falla sentire importante, stupiscila. Giochi in casa, no? E noi italiani, non siamo i latin lover per eccellenza?» «Se lo dici tu… » Dopo qualche altro drink chiesero il conto e si avviarono al parcheggio, poco distante da Corso Umberto. «Ah, dimenticavo», disse Nico. «Anche io ho una per le mani». «Tanto per cambiare… Non è una novità. Turista?»
«No, di Olbia. La conosci». «E chi sarebbe questa nuova fiamma?» «Letizia, la sorella di sco del bar Umberto». «Cazzarola, quella con la quinta piena?» «Già, è da un po’ che le stavo dietro. Stiamo uscendo da due settimane». «Addirittura? Per te credo che sia un record». «Stavolta è diverso. Ho deciso di fare le cose seriamente, mi piace». «In verità a te piacciono tutte. Il problema è che, dopo un po’, ti stanchi». «Non questa volta. Ne riparleremo», concluse Nico accendendo il motore del suo “Ducati Monster”. E così si salutarono. Quella notte Vittorio tardò a prender sonno. Si rigirava nel letto, senza trovare una posizione comoda. Ancora gli risuonavano in mente le parole di Nico: “sorprendila, falla sentire importante, stupiscila.” “E se faccio una figura di merda colossale? E poi, non mi ha incoraggiato minimamente. Sicuramente punta a ragazzi più giovani. Chissà quanti le corrono dietro”, si ritrovò a pensare. Ma ogni tanto l’immagine di Manola nuda al suo fianco, si affacciava tra i suoi pensieri. Finché, finalmente, si addormentò.
Capitolo 10
La mattina seguente Vittorio, contrariamente al solito, decise di fare colazione in albergo. Era abituato a mangiare qualcosa nella dependance e poi prendere un caffè in un bar lì vicino: ne approfittava per fare due i e leggere “La Nuova”. Accese l’Ipad e iniziò a navigare tra quotidiani locali, Corriere e Repubblica sbirciando ogni tanto in direzione del vialetto. Stava quasi per andar via quando una figura familiare apparve in lontananza. Manola aveva un’aria felice, radiosa. Sembrava che, in quei pochi giorni, chissà quale magia l’avesse resa ancor più bella. Il cuore di Vittorio prese a battere forte. Fu sorpreso da quella reazione, era da troppo tempo che non la provava. “E adesso?”, si chiese in una frazione di secondo proprio mentre la ragazza alzava lo sguardo nella sua direzione. Prese coraggio e, con malcelata indifferenza, le andò incontro. I piedi sembravano pesare un quintale, mentre faceva quei pochi i. Giuntole di fronte, balbettò: «Bentornata, Principessa. Com’è andata la trasferta? Eravamo preoccupati, pensavamo non rientrassi più». Se Manola si accorse dell’imbarazzo, non lo diede a vedere. «Bene, grazie. È stata una bella rimpatriata tra amici ma l’Angedras mi mancava troppo e quindi, eccomi qua. Non vi libererete così facilmente di me. Tu?» «Solite cose. Mi divido tra lavoro e qualche tuffo. Bene, comunque. Ti lascio alla tua colazione, ho un po’ di cose da sbrigare. Magari ci vediamo più tardi». «Volentieri, credo di restare in spiaggia tutto il giorno. Buon lavoro». Vittorio era combattuto. Da una parte era felice che Manola fosse tornata. Dall’altra era turbato da averla vista così raggiante.
“E se ha rivisto qualche vecchia fiamma? O conosciuto qualche nuovo pretendente?”, si ritrovò a pensare. Durò un attimo: “Scaccia le paure, Vittorio. Non sei più un ragazzino. Se una t’interessa veramente, hai solo una strada di fronte: fare di tutto per averla”. Arrivò in ufficio e si chiuse in un silenzio inconsueto, davanti al pc, mentre i polpastrelli torturavano la tastiera. Giacomo negli ultimi giorni lo aveva visto diverso. Inoltre, i rumors dell’hotel, circa la sua frequentazione con la bella spagnola, erano arrivati anche a lui. «Che c’è Vittò? Qualcosa non va?» «No, solo un po’ di stanchezza. Non sto dormendo benissimo». «Strano, eppure c’è un bel fresco, la notte». «Vero. Però tardo a prender sonno». L’amico allora gli si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla: «Non è che il motivo sarà la nuova ospite che sta facendo impazzire tutto l’hotel? L’ho incrociata un paio di volte: è veramente uno schianto!» Vittorio lo guardò con aria colpevole. Per un attimo pensò di negare ma alla fine decise di confidarsi: «Credo di sì. Ci siamo conosciuti in spiaggia e il giorno dopo siamo andati insieme a Tavolara. È stata una bellissima giornata». «Si ho saputo, il mondo è piccolo. E un hotel, anche di più». «Il problema è che poi è sparita un paio di giorni e non si è più fatta sentire. Insomma, non ci sto capendo nulla». «E quindi, cosa aspetti? Lei è in spiaggia e tu qui a rompere le scatole! Fammi il piacere, raggiungila immediatamente. E ricorda: certi treni ano una sola volta, nella vita». «Lo so, solo che ho un po’ di mail a cui devo rispondere. Magari più tardi». «Alle mail rispondo io. Un socio, specie se è un amico, serve anche a questo.
Hai lavorato tanto quest’inverno e sono certo che farai altrettanto il prossimo. In tutti questi anni non ti sei mai risparmiato e hai dedicato tutte le energie a questo albergo. Siccome sono in grado di sbrigarmela da solo, ora prendi costume e asciugamano e te ne vai in spiaggia. Fino a che la signorina Montero rimarrà in quest’albergo, ti nomino ufficialmente… sua guardia del corpo!» «Veramente…» «Veramente un corno. Tanto anche Mary d’estate lavora: faremo le vacanze d’inverno, quando tu sarai alle prese con le fiere, il booking e le manutenzioni». Nel sentire quelle parole, Vittorio si sentì liberato di un peso. «Grazie, sei un amico. Per qualunque emergenza, basta un fischio». Raggiunse Manola in spiaggia, dove la ragazza prendeva il sole a poca distanza da “L’Isolano”: «Cambio di programma. Ho deciso che, con questa giornata, sarebbe un delitto rinchiudersi in ufficio. E poi, senza di me ti annoi», le disse. «Confermo, proprio una noia mortale. Non vedi che sto per piangere?», ribatté la ragazza, sorridendogli. «Dai, Zio. Sei autorizzato a stendere l’asciugamano accanto al mio. Così puoi fare anche un po’ di “vetrina”, non credo ti accada ogni giorno». «Capirai! Frequento ragazze più giovani, per tua informazione. E anche più carine». «Vorrei vedere qualche foto». «Sembri Viola, mia nipote. Anche lei, ogni tanto, mi chiede foto di qualche amica». «E tu?» «Le dico che preferisco tenere l’immagine in mente anziché su un telefonino che potrei perdere». «Sei un furbastro Zio. Hai sempre una risposta pronta per tutto». «Può essere. Non ci avevo mai pensato, in realtà».
E così Vittorio stese l’asciugamano accanto a quello di Manola con un’espressione compiaciuta sul volto. Manola preferì mantenere il segreto sulla sua falsa identità. Raccontò di essere figlia di due medici e di aver vissuto un’infanzia felice, tra gli affetti dei genitori e dei nonni. Durante l’adolescenza, il rapporto con il padre era cambiato. Era molto possessivo e mal tollerava lo spirito ribelle e indipendente della figlia. L’università giunse come una liberazione: la possibilità di vivere fuori di casa le assicurò la libertà di cui aveva bisogno. E il master al Politecnico le aveva dato la possibilità di vivere in una splendida città come Milano. «Mi piacerebbe rimanere lì, è una città che m’intriga. Le più grandi aziende d’interior design vi hanno sedi. A settembre, ne incontrerò alcune». Vittorio raccontò, invece, un’esistenza molto meno movimentata: era il secondo di tre fratelli di una famiglia comune. Il padre aveva lavorato come cameriere, dagli anni settanta fino alla pensione, in uno dei ristoranti più noti di Olbia. Qui Vittorio, durante i mesi estivi, dava una mano come garzone. Rinunciava volentieri ai giochi con i coetanei per contribuire al bilancio familiare. Il ristorante fu una bella palestra. Gli piaceva quel mondo, così decise di proseguire gli studi all’istituto alberghiero dove conobbe Giacomo, con cui nacque una grande amicizia. Il rapporto si era consolidato, dopo il diploma, lavorando insieme in diversi hotel della Costa Smeralda e durante un’esperienza a Londra presso una catena alberghiera internazionale. Il resto era storia recente: l’acquisto dell’Angedras era stato una sfida ambiziosa ma estremamente intrigante. Ancora, riteneva di avere tanto da fare ma vedeva un futuro roseo. «Caspita. Un uomo di successo così sarà attorniato da un nugolo di donne, immagino», chiese Manola. «Ti sbagli. Sono single e sono felice di esserlo». E così dicendo Vittorio si diresse verso l’acqua per un tuffo. “Ah, sembrerebbe argomento tabù”, pensò Manola seguendolo con lo sguardo. Ritornò dopo una mezzora, con le gocce d’acqua che luccicavano sui muscoli tonici.
«Caro Lord, visto che per pranzo abbiamo mangiato solo un gelato e un po’ di frutta, che dici se andiamo a far visita a Ugo?», propose Manola. «Buon idea: un toast e una Ichnusa ghiacciata. Cosa volere di più dalla vita?» Si era fatta l’ora dell’aperitivo e, tra una chiacchiera e l’altra, arono dalla birra allo Spritz. Piaceva a tutti quel drink a base di prosecco e Aperol e, dopo una lunga discussione se fosse più buono quello con aggiunta di acqua gassata o seltz, arrivò l’ora di cena. La spiaggia era semideserta: solo qualche pescatore che tentava la fortuna con il suo armamentario di canne da pesca o qualche vacanziere che faceva jogging . «Molta gente non la capisco», disse Manola. «ano tutto l’anno a poltrire e ad abbuffarsi. Poi, come vanno in vacanza, si danno alla corsa come se fosse questione di vita o di morte». «Vero, a me fanno ridere», continuò Vittorio. «Li vedi che sbuffano, sudati, rossi in viso, con l’illusione che quei cinque chilometri al giorno li rimettano in forma. Salvo riprendere le vecchie abitudini al rientro a casa». Ugo stoppò quelle considerazioni con il suo intervento: «Ragazzi, si è fatto tardi ma per voi “L’Isolano” continua», disse, parafrasando il conduttore di una nota trasmissione televisiva. «Perciò, se vi va, ecco la mia proposta: tonno leggermente scottato alla griglia con verdure di stagione e una bottiglia di Vermentino ghiacciato». Vittorio trattenne il fiato mentre aspettava la risposta di Manola ma cercò di non darlo a vedere. «Veramente aspettavo l’invito da Vittorio ma, visto che ogni tanto dimentica di essere un Lord, se per lui va bene, posso concedergli l’onore della mia presenza». Vittorio rilassò l’espressione e rispose: «Hai ragione, Principessa. Ogni tanto, dimentico l’ABC del buon cavaliere. Cercherò, a cena, di farmi perdonare». Si ritrovarono nella hall , dopo una doccia veloce ed essersi vestiti: bermuda blu e camicia bianca per Vittorio, una gonnellina a fiori con una canotta bianca per Manola. Ai piedi, per entrambi, le “Havaianas”.
«Ormai, d’estate, non potrei farne a meno», disse la ragazza indicando le infradito gialle ai suoi piedi. «Vero, anch’io. Mi danno un grande senso di libertà». «Sai delle loro origini?» «Solo che sono brasiliane». «Sono nate oltre cinquant’anni fa in Brasile ma prendono spunto da un sandalo tradizionale giapponese. Agli inizi, hanno avuto un grande successo perché, oltre la resistenza e la comodità, la gente ne apprezzava il prezzo a buon mercato. Tant’è che qualcuno le soprannominò “le scarpe del popolo”. Poi, grazie al marketing e a nuovi design, sono diventate un vero fenomeno di moda». «Caspita, come siamo informate, Prof». «Sfotti, sfotti, Zio. Sono certo che ti rivenderai la storia raccontandola a qualcuna delle tue miss, giusto per fare colpo. Comunque è solo un caso. Sono state oggetto di studio durante un corso». E tra una punzecchiatura e l’altra, arrivarono a “L’Isolano”. Qui ebbero una gradita sorpresa. Angela, la moglie di Ugo, aveva apparecchiato un tavolo sulla sabbia, a pochi i dal mare. Su una tovaglia immacolata, faceva bella mostra un vassoio di ostriche poggiate sul ghiaccio, il secchiello con il vino e le posate delle grandi occasioni. Sulla sabbia, intorno al tavolo, dei lumi diffondevano una luce soffusa dall’interno di alcuni sacchetti di carta. In lontananza, la sagoma di Tavolara sembrava vegliare su di loro. Chiacchierarono del più e del meno trovando sempre più cose in comune: il mare, i libri, lo sport, le commedie romantiche al cinema, i viaggi. Il tempo sembrò volare tra racconti, risate e confidenze. Fu Ugo a rompere l’idillio: «Signori, per me potreste rimanere qui tutta la notte. Ma domani la sveglia suona presto. Devo buttare le reti, se volete mangiare i conneri, per pranzo». «Parenti di Sean?», chiese ridendo Manola.
«No, di Roger Moore!», rispose prontamente Ugo, che aveva risposto centinaia di volte così, a quella battuta. «Ok, 007. Fammi il conto. E mi raccomando, che quei Mangiattutto siano buoni, domani». Ringraziarono Ugo e Angela e decisero di fare due i, in riva. Camminavano molto vicini, nessuno dei due parlava, quasi imbarazzati da quel momento d’intimità. «Forse è meglio rientrare. Tra birra, aperitivi e vino, mi gira un po’ la testa», disse Manola. Arrivarono in hotel che era già ata la una. L’Angedras era uno spettacolo anche di notte, con le lampade che emanavano fasci di luce bianca sulle pareti e i led della piscina che si tingevano, in sequenza, di mille colori. «i da me a bere qualcosa? Ho anche la moka, se ti andasse un caffè fatto con le mie mani». Manola lo guardò alzando leggermente le spalle. «Ti ringrazio ma è meglio rientrare. Magari un’altra volta. È stata una bella serata, grazie ancora. Ci vediamo domani». «Anche per me. Buonanotte». Manola gli diede due baci sulle guance e si congedò. Un velo di delusione calò sul viso di Vittorio. “Eppure non è una ragazzina. Magari ho detto qualcosa che non le andava. O chissà cosa?”, rimuginava dentro di se. In quel turbine di pensieri, trovò la soluzione: lo specialista, Nico. Prese l’Iphone ed andò su WhatsApp: “Ciao, Casanova. Ancora a lavoro?” “Appena terminato, vecchio. Parto ora da Porto Cervo. Tu matando turiste spagnole?”
“Macché! Ero con lei fino a mezzora fa. Ma ora lei è nella sua camera, io qui a messaggiare con te. Per carità, con tutto il rispetto…” “Ho capito, ti raggiungo. Tira fuori il Filu ‘e ferru dal freezer, un quarto d’ora e son da te”. “Vai piano, Rossi”, scrisse Vittorio citando il Valentino nazionale. Sapeva che era inutile: quel pazzo di Nico era veramente in grado di coprire quella distanza in quel tempo. Nico fu di parola: quindici minuti esatti e il rombo della sua moto ne annunciò l’arrivo. «Quindi? Cilecca? Stai invecchiando, vecchio mio…», disse a mo’ di saluto. «Che dire, per il momento: gioco spettacolare, tiki-taka, cross, tiri in porta ma, finora, nessun goal!», rispose Vittorio, con un sorriso. «Caro mio, eri abituato troppo bene. Ti bastava un aperitivo, al massimo una cena intima, qualche sms galante e il gioco era fatto. Ma la spagnola, mi sembra un osso duro». «Puoi ben dirlo. Neanche il nostro granito lo è altrettanto!» «Raccontami tutto, anche i dettagli. Come un buon detective, per risolvere il caso, devo conoscere ogni particolare». «Ok, Perry Mason». Vittorio stava iniziando il racconto quando Nico lo interruppe: «Stai dimenticando una cosa fondamentale. Il Filu ‘e ferru , prima che si scaldi». E mentre facevano un primo brindisi alle donne, un secondo alle donne spagnole, un terzo alle spagnole ospiti all’hotel Angedras, Vittorio raccontò gli ultimi giorni. «Molto semplice», concluse Nico: «Sparisci!» «Come sarebbe a dire?»
«Certo, vai via per uno, due giorni senza lasciare traccia. Mi sembra che la spagnola ti stia dando troppo per scontato. Sparisci». «E dove vado?» «Puoi dormire a casa tua in campagna. L’importante è che non ti faccia vedere nei dintorni. Volatilizzati!» «Se lo dici tu…» «Non sto dicendo di fare l’eremita. Domani, ad esempio, puoi venire con noi. Abbiamo organizzato un’uscita in gommone con Giovanni e Paolo». «Ok. Appuntamento?» «Alle nove al circolo nautico». «Ok, seguirò il tuo consiglio. Mi unisco a voi». Nel ripensarci, Vittorio fu contento di quella mossa. Era un po’ come sparigliare a “ Mariglia” , il gioco di carte denominato il bridge sardo. Per uscire da una situazione d’ ime , una mossa imprevista era ciò che ci voleva. E, d’altro canto, era contento di rientrare, per qualche giorno, nella casa di campagna. Con i guadagni dei primi lavori aveva acquistato, nelle campagne del suo paesino, Telti, un piccolo “ stazzo” , la tipica costruzione rurale del nord est dell’isola. Lo aveva ristrutturato, reso accogliente e, nel terreno adiacente, aveva piantato una decina di filari di vigna e un frutteto. Quando poteva li curava ma in sua assenza aveva affidato il compito a un vicino. Era la sua oasi, il suo rifugio, dove are i mesi invernali.
* * * *
Manola tardò a prendere sonno. Si rigirava nel letto senza riuscire ad assopirsi. Sentiva ancora addosso il profumo di Vittorio. E ora lo aspirava a pieni polmoni. Quell’uomo era rassicurante. Si sentiva bene in sua compagnia e la attraeva anche fisicamente. Rimuginava sul possibile epilogo che avrebbe potuto avere la
serata, se avesse accettato il suo invito. E, soprattutto, non capiva se esserne felice o delusa. Chissà se i genitori avrebbero apprezzato un uomo così. Chissà cosa ne avrebbe pensato Louise. “La notte porterà consiglio. Come sempre”. E, finalmente, Morfeo arrivò a cingerla con il suo abbraccio.
Capitolo 11
Il gommone “Novamarine” era lustro come la vetrina di una gioielleria: benché avesse oltre vent’anni, Paolo lo curava ancora come una sacra reliquia. Era uno degli ultimi esemplari di quella straordinaria epopea della nautica olbiese degli anni ottanta e novanta. La felice intuizione di costruire dei gommoni con la chiglia rigida aveva completamente trasformato il mercato mondiale. Perfino la Marina statunitense si era affidata alla Novamarine per realizzare dei natanti da usare nelle azioni di guerra. Equipaggiata con un potente motore Yamaha da 250 cavalli, la barca permetteva a Paolo di raggiungere, in poco tempo, tutte le principali mete balneari del nord Sardegna. «Buongiorno. Ho portato qualcosa da mangiare e da bere. Non vorrei che, con la calura prevista per oggi, morissimo disidratati», disse Vittorio arrivando al molo del Circolo Nautico. «Ottimo!», rispose Paolo nel caricare le buste di plastica a bordo. «Anche tuo fratello e Nico stanno facendo spesa. E, conoscendoli, dovremmo avere viveri per almeno una settimana». Fu buon profeta: i due amici arrivarono con due casse di Ichnusa, diverse bottiglie di vino, due buste dal contenuto imprecisato e una cesta di frutti di mare. In quelle loro escursioni, era più facile rimanere senza carburante che con la cambusa vuota. Pronti, via ed erano già fuori dal golfo di Olbia. Prima tappa: Capo Ceraso. Paolo accostò ad una delle tante insenature, dando ordine a Nico di gettare l’ancora. Sfilarono t-shirt e occhiali da sole e si distribuirono sul tubolare del Novamarine. Al segnale di Nico, si tuffarono all’unisono secondo lo stile prescelto: capriola per Giovanni, volo d’angelo per Vittorio e Paolo e la classica “bomba” per Nico. Due bracciate, qualche immersione ed erano di nuovo a bordo. Qui, come da tradizione, il primo rituale della giornata: brindisi con birra ghiacciata a stomaco rigorosamente vuoto. Batterono il vetro delle quattro Ichnusa e trangugiarono il liquido in pochi sorsi. Per parare il colpo, si misero subito all’opera. Paolo tirò fuori tagliere e coltello mentre dalle borse saltarono
fuori mortadella, gorgonzola, salsiccia e pane carasau. Mangiarono con grande appetito e si spostarono verso la seconda meta: le piscine di Molara, lo spicchio d’acqua antistante l’omonima isola. Cercarono spazio tra le tante imbarcazioni all’ancora e ormeggiarono il gommone tra due panfili. Fecero il secondo bagno tra gare di tuffi e nuotate e tornarono a bordo ancora euforici. «Quella cesta è solo coreografia o contiene qualcosa d’interessante?», chiese Paolo. «Uomo di poca fede. Dove trovo i coltelli?», rispose Nico togliendo dalla cesta ostriche, tartufi di mare e cozze. «Ecco qui, ho preso anche il limone». «Che bontà!», disse Vittorio dopo aver assaggiato la prima ostrica. «Ottime», commentò Paolo seguendo a ruota. «A San Teodoro ci sanno fare, con l’allevamento». «Le cozze le ho prese da un amico pescatore: sono di scoglio». «Sarebbe a dire?», chiese Giovanni. «Sono quelle che nascono spontaneamente sugli scogli. Inoltre, mi ha detto che va anche a raccogliere quelle che si staccano dai filari dei vivai e si depositano sul fondo. Per effetto della risacca o della corrente, immagino». «Capito», rispose Giovanni, «anche se mi suona strano che si stacchino». «Te lo spiego io», intervenne Nico. «Se non si staccano da se, probabilmente le aiuta il suo amico pescatore, magari la notte, al buio. In poche parole, stiamo mangiando cozze rubate!» E scoppiarono tutti in una sonora risata. «Non ci avevo pensato. Ma, riflettendoci bene, non lo escludo», concluse Vittorio. «Ostriche e champagne!», intervenne Nico stappando una bottiglia di “Veuve Cliquot” ghiacciato e versandolo nei flûte in plastica.
«Ehilà, non ci facciamo mancare niente», disse Giovanni invitando al brindisi gli amici. Dopo Molara, tappa a Tavolara. Anche qui, bagni, tuffi e urla: sembravano dei ragazzini in gita domenicale. L’unico un po’ sulle sue era Vittorio il quale, ogni tanto, sbirciava sull’Iphone. Nico se ne accorse e mentre Giovanni e Paolo avevano raggiunto la riva a nuoto, chiese all’amico: «Notizie della miss ?» «Niente. Infatti stavo proprio pensando di scriverle». «Cosa? Non se ne parla neanche. Piuttosto tagliati la mano. Fai in modo che sia lei a cercarti». «Sono sparito senza lasciare traccia. Chissà cosa potrebbe pensare… » «Pensi quel che vuole. Fai in modo di mancarle. E se per caso ti scrive, non rispondere. E ora, goditi la giornata». «Ok, farò come dici... dimenticavo: tu con la nuova fiamma?» «A meraviglia. E a dire la verità ho una sensazione: sarà la ragazza che sposerò». «Ahahaha, sposarti tu? Ma smettila». «Ok san Tommaso. Vedremo chi ha ragione». Dopo un riposino pomeridiano, decisero di spostarsi per l’ultima tappa della giornata: Cala Moresca. Tirarono su l’ancora ma Paolo, anzi che puntare verso destinazione, con il motore a minimo si avvicinò ad un barcone carico di turisti in gita. «Paolo, fai da bravo», disse Vittorio mentre gli amici si scambiavano sorrisini d’intesa. «Certo, come al solito. Ma visto che andiamo via, è buona educazione salutare», rispose l’amico. E così dicendo, iniziò a fare cenni in direzione del barcone,
seguito da Nico e Giovanni. Gli occupanti il ponte risposero sbracciandosi e mostrando sorrisi compiaciuti. «Lo sapevo, non crescerete mai», disse Vittorio scuotendo la testa e ridendo. «Cosa mi fate fare…» Giunti a pochi metri dall’imbarcazione tutto l’equipaggio del gommone, tranne Paolo rimasto ai comandi, a un segnale concordato diede le spalle al barcone e al grido “buon divertimento!” si tirò giù il costume mostrando le candide chiappe agli increduli gitanti. Tutto si svolse in una frazione di secondo, come in un film. Poi Paolo diede gas e il gommone schizzò in avanti tra le risate irrefrenabili dei ragazzi e le imprecazioni e le urla dei gitanti. Percorsero il tragitto in pochi minuti: la potenza dei 250 cavalli del motore garantiva una velocità di crociera di quasi cinquanta nodi. Si ancorarono a Cala Moresca, una piccola insenatura tra Capo Figari e l’isola di Figarolo. Il mare era un piatto d’olio e gli ultimi bagnanti abbandonavano la spiaggia e la vicina pineta. Qui il gruppo di amici decise di dedicarsi agli ultimi bagni e alla meritata merenda.
* * * *
Nel frattempo, Manola si dedicava alla sua nuova lettura: “Ti prego lasciati odiare”. Aveva seguito un’intervista tv dell’autrice, Anna Premoli, dipendente di una banca d’affari e scrittrice per diletto e, incuriosita, aveva comprato il libro. Sistemò il telo da mare in uno spazio vicino al bagnasciuga e cercò d’immergersi nella lettura. Ma non riusciva a concentrarsi. Benché fosse un romanzo rosa, spesso era costretta a rileggere la pagina per capirne il contenuto. L’immagine di Vittorio ogni tanto si insinuava tra i suoi pensieri. Più di una volta le sembrò di sentire la sua voce, in lontananza. Salvo alzare la testa e rendersi conto che era tutto frutto dell’immaginazione. Cercò di dormire ma, mentre si assopiva fu
svegliata da un pallone da beach volley che le cadde sulla schiena. «Ma non potete andare da un’altra parte?», urlò alla ragazzina che, timorosa, le si avvicinò a riprendere la palla. «Ha ragione, ci scusi», rispose quest’ultima con un’espressione contrita. In quel momento Manola realizzò che, anni prima, quella scena le era capitata decine di volte nella spiaggia di “Liscia Ruja”. Solo che allora era lei al posto della ragazzina. Al pensiero, avvampò di vergogna. Ogni pochi minuti controllava il display dell’Iphone. Ma, ogni volta, una smorfia di delusione le si dipingeva sul volto. Giunto il tramonto decise di rientrare. Dopo giorni di euforia e belle sensazioni, un velo di malinconia la avvolse mentre camminava verso l’hotel.
* * * *
Vittorio e gli amici arrivarono all’imbrunire alla banchina del Circolo Nautico. Scaricarono il gommone e, nonostante la stanchezza, Nico lanciò l’idea: «Pizza al KK?» «Why not? Se po’ fa», rispose Giovanni. «Ok andate, pulisco la barca e vi raggiungo», aggiunse Paolo. «Voi siete matti! Siamo in giro da stamattina. Abbiamo bevuto fiumi di birra e vino e mangiato come “uomini grandi”. E ora volete continuare? Io mi ritiro, per me basta così», concluse Vittorio. «Corrida notturna con la spagnola?», lo punzecchiò Paolo. «Macché, è da ieri che non la sento. Sono semplicemente distrutto. Vado a nanna».
«Ok Zio, non hai più l’età. E domattina ricorda di are alle poste per ritirare la pensione…», sentenziò Nico, tra le risate generali. Vittorio si arrese a quella raffica di sfottò ma non cambiò idea. Tornò a casa, in campagna. Fece una doccia rigenerante e accese la TV. Decise per un film che aveva registrato su MY SKY: “Argo” di Ben Affleck. Dopo neanche metà visione, il letto diventò un richiamo irresistibile. Era ancora in dormiveglia quando sentì il trillo di WhatsApp sull’Iphone. Il cuore prese a battere più forte mentre allungava la mano a cercare il cellulare. “Ciao Zio, uccel di bosco? Non ti si è visto per niente, tutto bene? Se avessi perso il mio numero, sappi che non l’ho cambiato. Manola. P.S. Scherzo, naturalmente”. Stava per risponderle quando gli tornarono in mente le parole di Nico: “Piuttosto tagliati la mano…” E così decise di seguire il consiglio dell’amico.
Capitolo 12
Neanche la mattina Vittorio rispose al messaggio di Manola. Svegliatosi presto, decise di iniziare la giornata con una corsetta. Fare jogging tra il profumo di mirto, corbezzolo e ginepro gli dava sempre belle sensazioni. Approfittò della giornata di libertà per andare a trovare la madre. Nonostante l’avanzare dell’età e qualche acciacco, era ancora in ottima forma. «Ciao fiddolu me’ . Era ora che ti fi vedere. Ma non starai dimagrendo un po’ troppo?», gli disse abbracciandolo. «Settanta chili, come da vent’anni a questa parte». “Chissà per quale strano motivo le madri si preoccupano che i figli muoiano di fame”, pensò Vittorio. «Il lavoro come va?» «Bene, abbiamo l’hotel al completo». «Sono contenta. Per il resto, altre novità?», chiese la madre alludendo a qualche ragazza che sperava avesse fatto breccia nel cuore del figlio. «No, solite cose», rispose Vittorio sfogliando la posta che continuava ad arrivare al vecchio indirizzo e che la madre gli metteva da parte. Quello di non affrontare apertamente il discorso sulla vita sentimentale di Vittorio era un accordo tacito. Vittorio era sempre molto ermetico e la madre rispettava la sua scelta. Preferiva parlare dei nipoti, figli di sco, il fratello più grande. Si adoravano a vicenda e Vittorio aveva con loro un legame molto stretto. “Se un domani avrò figli, vorrei che fossero così”, pensava spesso. A pranzo arrivarono anche sco e Giovanni. Lavoravano insieme nell’azienda di giardinaggio di sco e, quando capitavano ad Olbia all’ora di pranzo, avvisavano la madre di aggiungere due posti a tavola.
«Ravioli, insalata e poi una seadas. Non ho fatto altro. Mi avvisate sempre all’ultimo momento», disse la madre a mo’ di rimprovero. Il pranzo era il modo per continuare a coccolare i figli e non poterlo fare con almeno cinque pietanze diverse era per lei un piccolo dramma. «Tranquilla ma’. Anche oggi son sicuro non moriremo di fame», rispose sco, strizzando l’occhio ai fratelli. Mangiarono con appetito, discutendo di Grillo, Renzi e Berlusconi. Dopo il caffè, Vittorio salutò tutti e decise che era arrivato il momento di far rientro in albergo.
* * * *
Manola aveva scelto di are la giornata nella concessione balneare dell’hotel. Chiese un lettino al bagnino e, dopo un tuffo e un po’ di tintarella, si diede alla lettura, sotto l’ombrellone. A poca distanza dal suo, una coppia di anziani giocava a carte. Li aveva incrociati spesso, nella hall dell’albergo o a colazione e aveva provato subito una naturale simpatia. «Scusate, posso chiedervi “La Nuova” in prestito?», disse loro indicando il quotidiano che avevano sul tavolino. «Certo signorina, lo prenda pure. Piacere, Mario Bignardi. Lei è mia moglie Gaia». «Manola Montero. Piacere mio». «Spagnola? Prima volta all’Angedras?», continuo l’omino. « Seguro . Di Valencia. Ma ho vissuto anche molti anni a Parigi, dove abita la mia famiglia. Sì, prima volta. Voi?» «Noi siamo di Treviso. Veniamo in questo hotel dall’anno in cui Giacomo e
Vittorio lo hanno riaperto». Raccontò di averli conosciuti in un albergo dove lavoravano da ragazzi. Ricordò di esserne stato colpito dalla professionalità e dalla capacità di entrare in empatia con le persone. Era nata una bella amicizia e Mario li aveva incoraggiati nella loro scelta imprenditoriale. Aveva anche dato loro dei consigli su come andasse gestita un’azienda: «Non è difficile prendere decisioni quando sai quali sono i tuoi valori», ripeteva spesso. In quei giovani rivedeva un po’ se stesso: aveva iniziato come garzone in un negozio di ortofrutta e, grazie a immani sacrifici, poche ore di sonno e all’amore incondizionato della moglie, aveva realizzato un vero e proprio impero della grande distribuzione. Ogni anno prendeva in affitto due stanze dell’hotel, per tutta l’estate, e oltre a arci buona parte del mese di agosto, ospitava amici, clienti e dirigenti dell’azienda. avano le ore e Manola si sentiva sempre più a suo agio in compagnia di Mario e Gaia. Provava un affetto spontaneo nei loro confronti, quasi si conoscessero da una vita. «Perdonate la mia sfacciataggine. Oggi vi ho osservato molto. Vi guardate ancora come due ragazzini e siete pieni di attenzioni l’uno per l’altra. Posso chiedervi qual è il vostro segreto?» «Bella domanda», rispose Mario. «In verità non saprei neanche io. Ci siamo scelti che eravamo ancora alle superiori e abbiamo deciso di sposarci molto giovani. Erano altri tempi ma quello di metter su famiglia ci sembrò la cosa più naturale del mondo. Abbiamo affrontato insieme mille difficoltà e forse questo ci ha avvicinato ancor di più. Ma il vero segreto credo sia quello di corteggiarci ogni giorno, di non darci per scontati, di alimentare il nostro amore con le piccole cose, i gesti quotidiani». «Ma non credere che sia tutto rose e fiori, bambina mia», aggiunse Gaia. «Anche noi siamo ati per litigi, arrabbiature, delusioni. Ma abbiamo affrontato tutto con intelligenza. Capiamo entrambi che siamo umani e che si può sbagliare. E pur alzando i toni, a volte, non abbiamo usato parole offensive nei confronti dell’altro. Le cattiverie pesano come macigni e noi le abbiamo sempre evitate. E alla fine, il letto è un ottimo terreno dove firmare la pace». «Farò tesoro delle vostre parole. Grazie. Sempre che un giorno abbia la fortuna che un cavaliere con la C maiuscola bussi alla mia porta».
«Busserà, mia cara. Sicuro che busserà», rispose Mario strizzando l’occhio alla moglie. Nel pomeriggio, all’ennesimo controllo sul cellulare, Manola ebbe un sussulto: “Ciao, Principessa. Sei pronta per nuove sorprese? Tieniti libera per le 18. Prendi pareo, una t-shirt e le infradito. Ci vediamo di fronte a “L’Isolano” “. “Chi non muore si rivede. Quale onore!” “Ho avuto un po’ d’imprevisti con il lavoro. Ora, finalmente, libero”. “Vediamo. Aggiorniamoci più tardi”. “Bene, a dopo”. Vittorio non insistette. In quel momento gli tornò in mente uno dei consigli di Nico. “Corteggiare una donna è un po’ come la pesca dell’Orata. Ogni tanto devi dare lenza. Poi recuperare. Senza strattoni perché il filo potrebbe spezzarsi e il pesce sarebbe perso per sempre. Ci vuole pazienza, molta pazienza. Dare lenza e recuperare, dare lenza e recuperare. E non aver fretta di tirare il pesce a bordo”. Le ore successive sembravano non are mai. Cercò di distrarsi ma intorno alle diciassette e trenta era già in spiaggia. Portò in riva i due kayak che teneva a “L’Isolano” e iniziò a prepararli. Alcuni bagnanti si avvicinarono a curiosare mentre qualche bambino chiese di poter montare sopra per una foto. Arrivarono le sei e di Manola nessuna traccia. “Non verrà. Ma forse è meglio così, almeno torno con i piedi per terra”, pensò Vittorio. Era intento a pulire con la spugna uno dei due bolidi quando una voce familiare echeggiò nell’aria: «Ciao, Mister Mistery. Immagino che uno sia per me. Evidentemente eri sicuro che venissi», lo salutò Manola. «Ciao Principessa. In verità non è ero così convinto. A volte, sei più imprevedibile delle finte di Cristiano Ronaldo». «Spiritoso. Guarda che ci metto un attimo a cambiare idea…» «Lo so. Ma rosicheresti nel sapere che sto andando in Paradiso mentre tu rimarresti qui».
«Addirittura in Paradiso? E dove sarebbe?» «Fidati. Finora mi sembra che sia andata bene». «Ok. Ma sarò in grado di arrivarci con le mie forze?» «Certo. Considerate le tue abilità di nuotatrice, pagaiare sarà un gioco. Il movimento è molto simile allo stile libero». «Qualche volta ho usato qualche canoa da noleggio ma su uno di questi non sono mai salita». «Bene, te la caverai. Sicuro. Anzi, sono convinto che mi terrai testa anche qui», la incoraggiò Vittorio. Sistemò borsa e asciugamani nel gavone di poppa del suo kayak, aiutò Manola a salire e le diede le prime istruzioni: «Impugna la pagaia nel punto in cui è ricoperta dal nastro colorato. Quando la affondi in acqua cerca di tenere le braccia distese. Magari cerca di osservare me, ti aiuterà». «Agli ordini, capo», disse Manola facendo il saluto militare. «Sfotti pure? Non c’è più rispetto per i più grandi». Attraversarono il corridoio al centro della spiaggia e furono in mare aperto. Manola se la cavava e in venti minuti incontrarono due boe, una rossa e una verde, che definivano il canale di transito delle navi. «Alla nostra destra, si arriva a Olbia. Noi, invece, dobbiamo andare dalla parte opposta, in direzione Tavolara. Prima prova, Principessa, qui dobbiamo attraversare. Come vedi, c’è un bel traffico di barche che rientrano al porto di Olbia. Per questo, non è molto sicuro sostare all’interno del canale. E quella laggiù, è la nave della Tirrenia», disse Vittorio indicando con la mano. «Ok, sarò un missile!», replicò Manola, con un’espressione che tradiva una leggera apprensione. «Bene, al mio via, seguimi». Percorsero il tragitto tra le due boe in un minuto ma a Manola parve un’eternità.
Gli yacht che si avvicinavano a tutta velocità erano uno spauracchio anche per una ragazza intrepida come lei. ati in prossimità dell’altra sponda, la ragazza si rilassò e riuscì a godere la magia del momento. Il mare era un piatto d’olio, il sole si apprestava al tramonto e lei era lì, in quel paradiso. Percorsi diversi chilometri, Vittorio l’affiancò e le porse una bottiglietta di integratori: «Stanca, Principessa? Siamo quasi arrivati. Cinque minuti». «Lamentarsi tra queste rocce, con questo mare e con una serata così, sarebbe irriguardoso. Tutto bene, grazie. Ma piuttosto, visto che avremo, sì e no, un’altra mezzora di luce: come facciamo a rientrare?» «E chi ha parlato di rientrare?» E con lo sguardo furbetto Vittorio accelerò il ritmo per affrontare gli ultimi centro metri che li separavano da una piccola insenatura. «Dove siamo?», chiese Manola arrivando a riva e tirando in secca il kayak. «Capo Ceraso». Per sgranchirsi le gambe, nuotarono fino a un isolotto poco distante dalla riva. Si sdraiarono sulle rocce godendo degli ultimi raggi di sole. Il paesaggio era da film. La costa rocciosa coperta da una fitta vegetazione era interrotta ogni tanto da insenature con scogli tondeggianti immersi nel mare blu cobalto. Scaricarono i bagagli e Vittorio condusse Manola per un sentiero tra cespugli di lentisco. Arrivarono in una minuscola radura, dove dei giovani preparavano per cena. «Ciao ragazzi», esordì Vittorio. «Finalmente, ormai non ci speravamo più», li salutò Giovanni andando loro incontro e presentandosi a Manola. «Lei è la fidanzata di Giovanni, Sandra. Loro sono Raimondo e Sara», i padroni di casa.
Manola iniziò subito a chiacchierare rendendosi disponibile a dare una mano. «Ci mancherebbe altro, bellezza», le disse Raimondo. «Piuttosto, sistemate la roba nelle tende. Vittorio ti indicherà la tua». Percorsero una decina di metri e trovarono due tende canadesi, sotto cespugli di mirto e corbezzolo. «Non è il massimo, per una Principessa ma, per una notte, si può fare», disse Vittorio. «Scherzi? È un paradiso. E poi, da piccola, nel giardino avevo una tendina anch’io. Era il mio mondo, ci avo interminabili pomeriggi con le mie amiche. Sarà come fare un tuffo nel ato. Piuttosto, se mi avessi avvisato, mi sarei portata qualcosa da vestire». «Servizio completo, signorina». Vittorio tirò fuori dalla sua sacca un completo intimo, una tuta canadese, uno spazzolino da denti con del dentifricio e li porse a Manola. «Tu mi sorprendi, Lord. Pensi sempre proprio a tutto», gli disse con un sorriso che gli scaldò il cuore. Al loro ritorno, dopo una doccia, trovarono il tavolo apparecchiato. I padroni di casa offrirono del prosecco ghiacciato e li invitarono a tavola. Il menù era succulento: spaghetti allo scoglio, verdure di stagione, cozze gratinate e calamari alla griglia. «Sento le papille gustative che fanno la ola », disse Manola, suscitando l’ilarità generale. Il Vermentino fresco contribuiva a rendere gaia l’atmosfera e a rendere loquaci i giovani. Ogni tanto Vittorio e Manola si lanciavano sguardi d’intesa, come due ragazzini in gita scolastica. «Qui avete proprio tutto, come siete organizzati?», chiese Manola. «Di ciò che c’è… non manca niente», rispose Giovanni, strappando la risata ai commensali. «Scherzi a parte, per stare bene non sono necessarie tutte le comodità del mondo. Quelle le abbiamo tutto l’anno. Basta poco: un gruppo elettrogeno, delle cisterne
di acqua dolce, un bagno chimico, tavoli e sedie, le tende, un barbecue, dei fornellini a gas e il gioco è fatto. E poi, Olbia è a pochi chilometri per qualunque necessità». «I miei genitori campeggiavano qui, quarant’anni fa. Niente di strano che sia stato concepito nella loro tenda», continuò Raimondo. «Ceraso è una vera oasi, un modo un po’ retrò di godersi il mare». Per coronare la serata, Raimondo tirò fuori la ciliegina sulla torta: una chitarra acustica. “La canzone del sole” di Battisti fece da apripista a tutti i classici della musica italiana: da Mina a Celentano, da Baglioni a Renato Zero, da Laura Pausini a Eros. Avevano delle belle voci e un’intesa naturale. Raimondo rese omaggio all’ospite con alcuni brani dei “Gipsy King”, in uno spagnolo improbabile che suscitò le fragorose risate di Manola. «Vittò, perché non ci fai un pezzo tu?», chiese Raimondo porgendogli la chitarra. «No, grazie. Sono anni che non la tocco. E poi lo sai, sono un cantante melodico». «Ottimo», intervenne Manola. «Perché non finire una serata come questa con una bella canzone d’amore?» L’espressione di Vittorio tradì il suo imbarazzo mentre prese la chitarra. Fece qualche accordo per ritrovare manualità. Sembrava quasi volesse prendere tempo. “E ora che faccio? Questa è la volta che faccio una figura barbina”, si ritrovò a pensare mentre guardava Manola di fronte a lui. Alzò lo sguardo al cielo stellato. L’aria calda profumava di ginepro e quel posto aveva qualcosa di magico. Manola gli sorrise. E la canzone, nascosta nei meandri della memoria, venne fuori da se…
Ricordi sbocciavan le viole
con le nostre parole «Non ci lasceremo mai, mai e poi mai», vorrei dirti ora le stesse cose ma come fan presto, amore, ad apire le rose così per noi l’amore che strappa i capelli è perduto ormai, non resta che qualche svogliata carezza e un po’ di tenerezza. E quando ti troverai in mano quei fiori apiti al sole di un aprile ormai lontano, li rimpiangerai ma sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato, per un amore nuovo. E sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato, per un amore nuovo.
Manola lo ascoltava rapita. Fino a quel momento aveva considerato Vittorio come un uomo quasi distaccato, molto controllato nel far trasparire le emozioni. Ora invece aveva gettato la maschera mettendo cuore e ione in quel canto. E
una voce potente da baritono. Alla ragazza vennero gli occhi lucidi e quando la canzone finì si unì al coro di giubilo e agli applausi del gruppo. «Troppo buoni, grazie. Ma la prossima volta avvisatemi, così mi preparo». Si era fatta l’una e dopo aver rimesso in ordine, l’allegra brigata si diede la buonanotte. Vittorio, con la “torcia” dell’Iphone, fece strada a Manola verso le tende. «Complimenti, sei stato bravo. Mi sono commossa». «Il merito è di Fabrizio De André, un poeta», rispose Vittorio. «Ti andrebbe di fare due i, prima di andare a dormire?» «Certo, così ne approfittiamo per dare uno sguardo ai kayak». Tornarono alla spiaggia. Il mare era calmo mentre la luna, specchiandosi, emanava riflessi color arancio. Si sedettero sulla sabbia, poggiando la schiena sugli scogli ancora tiepidi. «Vuoi fare un tiro?», chiese Manola porgendo la Marlboro a Vittorio. «No, grazie. Fumo qualche volta ai matrimoni o alle feste. Giusto per fare lo spiritoso con gli amici». «Immaginavo. Mister Perfezione non ha vizi. Solo virtù». «Sfotti, sfotti. Ho vizi e difetti, come tutti, ma riesco a camuffarli bene». «È vero. Ma così, non rischi di diventare schiavo? Hai mai pensato che lasciandoti andare, saresti più libero? Più naturale?» Vittorio rimase in silenzio. Il buio riuscì a coprire la sua espressione accigliata. «Veramente non credo di essere così “perfettino” come dici. Certo che mi lascio andare. Ci deve essere l’occasione giusta, però». «Bene, facciamo un test. Faresti il bagno con me? Ora». Silenzio…
«Ma… intendi…ora-ora?» «Certo. Il mare è un “brodo”. E poi, quando ci ricapita un’occasione come questa?», disse Manola che, nel frattempo si era avvicinata alla riva per immergere la mano in acqua. «Dovrei andare a prendere il costume, in tenda…» «Macché costume! Domani li laverai in acqua dolce quei boxer “D&G”». E così, la ragazza fece qualcosa che Vittorio non avrebbe mai più scordato. Tirò via la t-shirt e i pantaloni e si diresse verso l’acqua ancheggiando con calcolata lentezza. Nel buio della notte, il bianco delle mutandine striminzite brillava sul suo corpo sinuoso. Vittorio sperò che quella visione durasse in eterno ma, prima che potesse reagire o dire qualcosa, Manola si era immersa nella piccola baia. «Dai Zio, ce la puoi fare. È caldissima!» Vittorio ebbe un attimo di esitazione. Era una vita che non faceva il bagno a quell’ora. E quell’idea gli sembrava così strampalata. Ma pensò che a volte, nella vita, si tratta semplicemente di cogliere l’attimo. Scaraventò polo e bermuda in aria e, prima che ricadessero sulla sabbia, si era già tuffato. «E ora che faccio?», pensò nel riemergere. Per fortuna Manola gli venne in soccorso: «Bravo Zio! Visto che meraviglia? Dai, facciamo due bracciate». La seguì al largo. L’eccitazione e l’adrenalina lo spinsero a mille: nel giro di pochi secondi la raggiunse e nuotarono affiancati per un lungo tratto. Tornarono a riva ansimanti e uscirono dall’acqua con i corpi che si sfioravano. Nessuno dei due parlava ma un ascoltatore attento avrebbe potuto percepire il ritmo dei loro cuori che battevano all’impazzata. E in quell’istante, Vittorio ebbe la consapevolezza che il momento era arrivato. Avvicinò la ragazza e fece qualcosa che sorprese anche lui: le cinse la vita, la attirò a se e la baciò. Fu un bacio bello, prolungato, corrisposto. Ancor più bello perché spontaneo, inaspettato. Rimasero così, abbracciati, mentre la luna faceva
da spettatrice silenziosa a quell’inizio. Vittorio la condusse alla tenda e fecero l’amore incuranti del poco spazio. Per troppi giorni avevano rinviato quel momento e quella notte, era arrivato. Rimasero distesi mentre la luce della luna filtrava nella tenda a illuminare i loro corpi. Parlarono per ore, con il canto delle cicale a fare da sottofondo. Si raccontarono delle loro vite avventurandosi in confidenze che si fanno solo in momenti d’intimità. «Dimenticavo. Com’è che sapevi che indosso boxer “D&G”?», chiese Vittorio con voce ormai assonnata. «Perché per me sei un libro aperto, Zio. Un bellissimo libro».
* * * *
Si svegliarono con il sole già alto e il piccolo campeggio deserto. Fecero colazione e raggiunsero la spiaggia. «Buongiorno, Lord. Buongiorno, Principessa», disse Raimondo. «Dormito bene?» «Buongiorno. Alla grande. Abbiamo fatto proprio bene, a scegliere la suite », rispose Vittorio, con un sorriso contagioso. «Programmi per la giornata?» «Stavamo pensando a un bel cocktail di ozio e dolce far niente». «Mi sembra una proposta interessante», commentò Manola. «Ci avete convinto!» «Se avete un attimo di pazienza, dovrebbe arrivare Giovanni con una sorpresa», disse Sandra. E dopo qualche istante, il fidanzato uscì dall’acqua con una cesta di ricci. Si sistemarono in un angolo dell’insenatura e iniziarono ad aprirli.
«Tieni, Principessa. Il primo è per te», disse Vittorio porgendo il primo riccio fatto a metà a Manola. La ragazza prese con un cucchiaino la polpa color arancio e se la mise in bocca. «Mmm… Che bontà!» Continuarono a mangiare, accompagnando i ricci con un Vermentino fresco che Raimondo aveva nel frattempo recuperato. Sia Vittorio che Manola non osavano commentare ciò che era avvenuto quella notte. Ogni tanto, tra un tuffo e l’altro, si scambiavano dei baci apionati quasi a confermare che ciò che era accaduto qualche ora prima fosse vero. Fu una giornata di vero relax, in quel paradiso, e quando giunse l’ora di rientrare, lo fecero a malincuore. Mentre andavano via, Sandra si avvicinò a Giovanni: «Eppure mi sembra di averla già vista da qualche parte». «Stavo per dirti la stessa cosa. Anche per me è un viso familiare». «O magari assomiglia a qualcuno che conosciamo». «Può essere». E con quella sensazione di dejà vue , lasciarono la spiaggia per rientrare alle tende.
* * * *
Vittorio e Manola arono la notte insieme, nella dépendance . Stavolta fecero l’amore tra le comodità di quell’alcova. Erano instancabili, quasi volessero sfruttare ogni minuto. «Quindi, Lord ? Raccontami di tutte le donne che hai avuto», chiese Manola, mentre giacevano abbracciati.
«Non basterebbero tutta la notte e l’intero giorno di domani». «Caspita, allora devo ritenermi fortunata, per essere entrata nel tuo album». Manola gli prese la testa sul grembo e iniziò ad accarezzargli i capelli. «Sono single da anni, ormai. Ho trovato un mio equilibrio. Avere una storia per non soffrire la solitudine, non fa per me. Vedo troppe coppie che stanno insieme per abitudine, altre per convenienza o per paura del futuro. Non lo sopporto. L’amore è qualcosa di molto serio, di nobile, di romantico». «Vero, anch’io ho tanti amici separati, diversi con figli piccoli». «La cosa triste è che, dopo la separazione, diventano “campioni del mondo del dispetto”. E a soffrirne, sono sempre i figli, purtroppo». «Sì, l’egoismo è talmente forte che, pur essendo consapevoli di far del male ai bambini, iniziano una guerra crudele che non farebbero neanche al peggior nemico…» «Tristezza. Però non vorrai dire che pensi di rimanere solo, tutta la vita?», chiese Manola fissandolo negli occhi. Vittorio inspirò profondamente. Rimase in silenzio per qualche istante, prima di rispondere. «Spero di no, sarei ipocrita a dire il contrario. Ma per condividere la mia vita con un’altra persona deve esserci qualcosa di forte, di molto profondo. Di unico». «E poi, una che mi sopporti veramente… non credo sia ancora nata», concluse ridendo e salendole a cavalcioni. «Anche su questo, sono d’accordo. E poi, con l’avanzare dell’età… non prevedo miglioramenti». Vittorio le strinse i polsi e inizio a mordicchiarle il collo: «Ti sembro proprio così anziano?» «Lasciami, Mister Perfezione. Mi fai il solletico».
«Ora ti faccio vedere cosa accade alle ragazze poco rispettose delle persone più grandi».
Capitolo 13
Manola aveva dormicchiato tutto il tragitto. Quei giorni di vacanza l’avevano impigrita. Dopo oltre un’ora di viaggio, imboccata la galleria che da Dorgali porta a Cala Gonone, Vittorio la svegliò: «Ci siamo quasi, Principessa. Inizia lo stretching ». Sulle prime la ragazza non reagì. Sembrava non aver sentito. Ma pian piano iniziò a stiracchiarsi e ad aprire gli occhi. All’uscita dal tunnel una luce accecante la colpì: un sole di una rara lucentezza si rifletteva su un mare calmissimo. A valle, sotto un dislivello di diverse centinaia di metri, un paesino con il suo porticciolo. Una serie infinita di tornanti li accompagnò in quell’ultimo tratto di strada ma, in pochi minuti, arrivarono a destinazione. “Cala Gonone” recitava il cartello all’ingresso. Parcheggiata la macchina e fatta un po’ di spesa, si recarono al molo. Qui la formazione era al gran completo: Giovanni e Paolo in compagnia di due ragazze sconosciute e una coppia di brasiliani amici di Paolo: Rafael e Gabi. Dopo i saluti e le presentazioni si avviarono ai due gommoni presi a noleggio. Il porto di Cala Gonone sembrava la tangenziale di Milano la domenica sera. Centinaia di gommoni rischiavano la collisione mentre sfrecciavano verso il mare aperto. Puntarono a sud e dopo pochi minuti, il primo stop: Paolo si avvicinò alla costa e fece cenno a Giovanni, alla guida dell’altro gommone, di seguirlo. In un tratto della falesia, l’erosione aveva ricavato una piccola grotta, quasi interamente sommersa. Il gruppo fece il primo tuffo e raggiunse a nuoto la piccola insenatura. Arrivati all’interno, Manola s’imbatté nella prima meraviglia della giornata: un gioco di colori tra l’azzurro e il verde acqua riempiva la grotta. Allungando la mano era possibile toccare la volta perfettamente levigata mentre in basso il fondale era coperto da ciottoli bianchissimi. Il viso della ragazza era ancor più bello, illuminato da quelle luci naturali.
Vittorio la osservava e lo intenerì vederla felice come una bambina. Le diede un bacio fuggevole e rientrarono al gommone. Risalirono la costa e dopo alcuni chilometri raggiunsero Cala Goloritzè. La riconobbero da lontano con il suo pinnacolo di roccia che sovrastava la piccola spiaggia e lo scoglio a forma di arco. «Vedi quel cuspide di roccia? È quello del record di Brumotti di “Striscia la notizia”», disse Vittorio indicandolo a Manola. «Sarebbe? Non guardo “Striscia”». «Brumotti è un campione mondiale di bike trial che fa l’inviato per il programma. Qualche anno fa, dopo aver scalato la guglia, ha saltellato in cima, con la sua bici, per non so quante volte. Su una superficie di pochi metri quadrati». «Non è roba per me. Soffro di vertigini da una scala a pioli». «Esagerata!» Proseguirono e, ogni volta che vedevano un’insenatura invitante, si fermavano per un tuffo o per raggiungere la riva. Gli occhi di Manola brillavano nel calpestare quei “confetti” e la sabbia color crema. Alle loro spalle, sulla costa coperta da una fitta vegetazione, era frequente scorgere qualche arrampicatore o degli apionati di trekking. Si fece ora di pranzo e i due gommoni si ancorarono paralleli in un tratto di mare poco trafficato. Dalle borse frigo emersero panini, tramezzini, insalata di riso e pasta fredda. «Dopo la ruota e la birra, a mio giudizio, l’ igloo è la più grande invenzione dell’uomo», disse Paolo estraendo delle Ichnusa che distribuì agli altri. «Per me la ruota è al terzo posto», rispose Giovanni, tra le risate generali. Dopo pranzo, un po’ tutti iniziarono a prendere in mano il telefono e a scattarsi foto. «Ah, è scoccata l’ora dei selfie », disse Vittorio a Manola.
«Perché sei contrario?» «No. Credo che i social abbiano cambiato il mondo, migliorando la comunicazione. Ma trovo che ne abusiamo. Specie i più giovani. Magari più presi a mostrarsi su Facebook che a godersi il momento». «Concordo. A Milano mi ha colpito un cartello all’esterno di un locale: “Non abbiamo il wi-fi . Parlate tra di voi” ». «Simpatico. E soprattutto reale». Le due ragazze, che Vittorio aveva saputo poi essere delle universitarie romane in vacanza a Olbia, ebbero la felice idea di schiacciare un pisolino rigenerante. Purtroppo lo avevano deciso nel luogo e nel momento meno indicati. I due giovanotti che le avevano invitate, in queste occasioni si trasformavano in veri e propri “Giamburrasca”. Così, con uno sguardo d’intesa, Paolo e Giovanni le inondarono con due secchiate d’acqua e si allontanarono a nuoto, tra le urla di protesta delle due ospiti. Il pomeriggio proseguì in quella gaia atmosfera fino all’ultima tappa: Cala Luna, definita da molti “la regina del Mediterraneo”. Manola rimase a bocca aperta osservando i sei grottoni aperti sull’arenile e il bosco di oleandri colorati dietro la spiaggia. La raggiunsero a nuoto mentre uno dei barconi che facevano la spola con Cala Gonone scaricò un’orda di vacanzieri festanti. «Torneremo a settembre, Principessa. Gli angoli suggestivi come questo vanno goduti in silenzio, senza confusione», disse Vittorio. «Questa terra è baciata da Dio. Fate in modo di ricordarlo sempre. E ora offrimi un caffè», disse Manola indicando un cartello che segnalava la presenza di un bar. Verso le cinque, rientrarono a Cala Gonone. Qui Vittorio e Manola salutarono il resto del gruppo e si misero in macchina. «Pensavo restassimo a dormire a Cala Gonone», disse Manola quando furono soli.
«E perché mai? C’è ancora tanto da vedere. Facciamo due tappe e siamo arrivati». «Bene Lord, sono nelle tue mani». E così gli incollo le labbra alla guancia per un bacio prolungato. Sprizzava allegria da tutti i pori. L’ultimo anno con Fadi era stato un vero calvario. Il giovane cavaliere che l’aveva fatta innamorare era diventato un uomo arrogante, insensibile e dedito alla bella vita e ai vizi. Manola era diventata il suo giocattolo, da esibire alle feste o in vacanza. Era stata dura lasciarlo ma, alla fine, ce l’aveva fatta. Ora, dopo mesi difficili, era apparso Vittorio. Le piacevano i suoi modi galanti, l’attenzione con cui l’ascoltava e il senso di sicurezza che le trasmetteva. I suoi pensieri vennero interrotti dalla sua voce: «Villagrande Strisaili», disse nel leggere il cartello. E così dicendo, si addentrò in quel paesino arrampicato su un pendio del monte Suana. Trovato un parcheggio, invitò la ragazza a seguirlo. «Dove mi porti?», chiese Manola incuriosita. «Vieni, facciamo due i. Osserva». «Cosa dovrei osservare?» «Tutto. Le case, le strade e, soprattutto, le persone». «E cos’è, un’indagine poliziesca?» «No. Dopo capirai». E fatti pochi metri, s’imbatterono in tre vecchietti che, seduti su delle panchine, chiacchieravano tra di loro. «Buonasera», li salutò Vittorio. «Bel posto, Villagrande». «Buonasera. Noi ci stiamo bene. Da dove arrivate?» E così la coppia, dopo i convenevoli di rito, iniziò a chiacchierare con il
gruppetto di anziani. Parlarono di tutto: della Sardegna, dei tempi andati, del turismo e dei giovani. Finché Vittorio, ad un certo punto, chiese loro: «Scusate ma, visto che non siete delle signore, che magari potrebbero risentirsi, vorrei farvi una domanda. Quanti anni avete?» «93», «90» e «96», risposero in sequenza con un’espressione divertita. Manola sgranò gli occhi, di fronte a quella notizia; avrebbe dato non più di 80 anni a tutti e tre. Il più loquace dei tre, allora chiese: «Non sarete degli studiosi anche voi?» «No», rispose Vittorio. «Io faccio l’albergatore mentre lei ha appena terminato gli studi». «Pensavo foste venuti anche voi per delle interviste. Ormai, arrivano da tutto il mondo per studiare i centenari dell’Ogliastra». Gli occhi di Manola tradirono il suo stupore, nel sentire quelle parole. Vittorio raccontò di aver letto diversi articoli sull’argomento che parlavano di quel territorio come quello con la più alta concentrazione di centenari del pianeta. «Gli scienziati le chiamano “zone blu”, dal colore del pennarello utilizzato per delimitarle sulla carta geografica. A Perdasdefogu, un centro poco lontano, vive la famiglia più longeva al mondo con nove fratelli che raggiungono la cifra record di oltre ottocento anni. Studiosi di numerose università vengono in visita, tutto l’anno, per carpire i segreti di questa straordinaria longevità. Le teorie sono diverse: dall’alimentazione, al “senso dei luoghi”, cioè gli spazi che si vivono e l’aria che si respira. Ma, soprattutto, la mancanza di stress, il senso di “comunità” di questi centri, il calore e la vicinanza degli affetti. E poi la morfologia del territorio che impone, agli abitanti, spostamenti a piedi in tratti di faticose salite». Manola rimase affascinata da quel racconto e sentenziò: «Insomma, fanno tutto il contrario delle persone di città!» «Proprio vero».
Salutarono i tre vecchietti e, quando ormai era buio, arrivarono a Santa Maria Navarrese. Per la notte Vittorio aveva scelto un alberghetto sul porto: vi era già stato alcune volte durante qualche fuga d’amore. Ma non lo disse a Manola. Mangiarono del pesce in un ristorantino poco distante e dopo una eggiata sul molo, mano nella mano, decisero di rientrare. Ignari che, a poca distanza, un uomo nascosto dietro una siepe stava immortalandoli con la sua macchina fotografica.
* * * *
La mattina seguente decisero di rientrare. Vittorio fece una deviazione per mostrare a Manola un altro angolo di Sardegna: Orgosolo. Quel paesino colpì molto la ragazza per i caratteristici murales che ricoprivano le facciate delle case. Affreschi con scene di vita o avvenimenti storici o sociali. Vittorio raccontò che il paese era meta di un gran numero di turisti desiderosi di addentrarsi nella Sardegna più autentica. Inoltre, durante l’autunno, nella zona veniva organizzata, una manifestazione chiamata Cortes apertas a cui partecipavano migliaia di visitatori. «Ad ottobre ti ci porto», disse Vittorio. «Vediamo se, nel frattempo, ti comporti bene, Lord». «Finora mi sembra di sì. Sia di giorno che di notte…», disse con un sorriso birichino. «Di giorno benissimo. La notte… sufficientemente bene, direi». «Ok. Allora stanotte farai ritorno alla tua bella camera, all’Angedras». «Non riusciresti a dormire, ormai ti conosco. Mi sforzerò di farti compagnia,
ancora una volta». E accompagnò quelle parole con un bacio affettuoso.
Capitolo 14
Il lungomare di Golfo Aranci era un via vai di gente, quella sera. Anziani che eggiavano, giovani coppie a rimorchio dei loro marmocchi, runner sudatissimi che zigzagavano tra la gente. In un punto, però, le persone si erano accalcate. «Come mai quella folla? Sarà successo qualcosa?», chiese Manola con voce preoccupata. «Niente di grave, Principessa. Credo di sapere di che si tratta. Andiamo a vedere». La prese per mano percorrendo il centinaio di metri che li separava dalla meta. Arrivarono nel momento in cui le note di “No poto reposare” accompagnavano l’uscita dall’acqua di una statua in metallo. Manola aguzzò la vista e riconobbe una sirena. Gli occupanti il lungomare, armati di smartphone , l’accolsero con un applauso, quasi fosse una star del cinema. «Wow, che bella», commentò Manola. «Cosa rappresenta?» «Non saprei. So solo che funziona. Una statua di bronzo alta tre metri e mezzo che attira turisti e curiosi. Fino a qualche anno fa, Golfo Aranci era un luogo di aggio, poco accogliente. Un porto commerciale. Ora, invece, è una meta di villeggiatura a tutti gli effetti. Ma ora andiamo, altrimenti facciamo tardi». «Dove mi porti?» «Seguimi. Sempre a fare domande, questa spagnola», le disse pizzicandole il fondoschiena. Quell’uomo era un susseguirsi di sorprese. Spesso Manola si chiedeva se era così con tutte le sue conquiste o se fosse l’unica fortunata. E comunque si
sentiva lusingata dalle sue attenzioni e estasiata da tante scoperte. Era in uno stato di grazia mai provato prima. Raggiunsero delle banchine dove ad attenderli c’era una coppia. Lui doveva avere, più o meno l’età di Vittorio mentre la sua compagna sembrava molto più giovane. Erano entrambi in splendida forma e abbronzatissimi. «Ciao Vittò, lei dev’essere Manola, immagino», disse il ragazzo. «Bella, Albè. Ciao sca. Sì, lei è Manola». «Piacere». Si scambiarono i soliti convenevoli, per familiarizzare un po’. Alberto era un amico d’infanzia di Vittorio. Faceva l’avvocato e sca era la sua dolce metà: si erano conosciuti nello studio legale dove lei lavorava come segretaria e, dopo anni, il buon Cupido li aveva colpiti con i suoi dardi. «Ciao ragazzi, scusate il ritardo», disse Paolo arrivando con il gommone. «Tranquillo, siamo appena arrivati», rispose Vittorio. Salirono a bordo e in pochi minuti furono fuori dal porto. Paolo, con il motore al minimo, si avvicinò a dei tubolari neri che, galleggiando, formavano dei grandi cerchi. «E quelli cosa sono?», chiese Manola con la consueta curiosità. «Allevamenti di pesce, orate, per lo più. Prestate attenzione: all’interno potreste vedere qualcosa d’interessante», rispose Paolo. Pochi secondi e le pinne di due delfini emersero dall’acqua. «Wow, che belli», esclamò Manola. «Ma come facevi a sapere che li avremmo visti?» «Di solito, a quest’ora, vengono a banchettare. Qui intorno trovano sempre da mangiare con poca fatica». Rimasero per qualche minuto ad osservarli, prima di ripartire. Raggiunsero
l’isolotto di Figarolo, un tavolato calcareo a qualche chilometro al largo di Golfo Aranci. Quella sera, i riflessi rosa del tramonto rendevano ancor più suggestiva quella minuscola isola. Il golfo era popolato da decine di imbarcazioni, tra cui i caratteristici “gozzi”, le barche dei pescatori golfarancini. «Perché tutti salutano?», chiese Manola. «Non stanno salutando», rispose divertito Vittorio. «Pescano calamari». «Non preoccuparti, ho fatto la stessa domanda, la mia prima volta», disse sca. Paolo tirò fuori delle lenze alle cui estremità erano attaccate delle strane forme con degli aghi d’acciaio. «Si chiamano totanare. Il filo di nylon di cui sono ricoperte, sott’acqua, le fa brillare. I calamari le scambiano per sardine e cercano di catturarle con le loro grinfie. E, a volte, ci rimangono attaccati, se abbiamo fortuna». «Naturalmente tutto questo in teoria», intervenne sca. «Capitano serate senza pescare un calamaro dopo aver tirato il braccio su e giù centinaia di volte». «La solita pessimista», commentò Alberto. «Vedrai, Manola ci porterà fortuna». «Bene, questa è la tua, Manola. Butta la totanara a fondo e lasciala sospesa ad un metro e mezzo o due dal fondale. A intervalli regolari di pochi secondi, tira su la lenza con uno strattone e poi rilasciala. Quando il calamaro si attacca, sentirai un peso. Recupera la lenza senza interruzioni e senza strattoni: altrimenti potresti perderlo. In superficie, tienilo distanziato dal bordo della barca e tiralo su», la istruì Paolo. «Grazie, capitano. Farò del mio meglio», rispose Manola. Iniziarono la pesca quando ormai il sole era tramontato e le prime lampare punteggiavano il golfo di luci. Fu sca a incocciare la prima preda: con uno scatto si alzò dal bordo del gommone e iniziò a recuperare la lenza, incoraggiata dai compagni di pesca. In
pochi attimi riuscì ad issare a bordo un calamaro di bella taglia, tra le felicitazioni del gruppo. «Forza ragazzi, potrebbe esserci uno sciame. Chi sarà il prossimo?», li incoraggiò Paolo. Non ebbe neanche terminato la frase che lo strattone di Manola venne stoppato da una forza: «Cosa è?», esclamò la ragazza. «Recupera, veloce», la esortò Vittorio. Il cuore della ragazza iniziò a battere all’impazzata. Un peso notevole era attaccato alla lenza, fino a un istante prima leggera e in balia della corrente. «Ma… è pesante!», riuscì a dire la ragazza con voce stridula. «Tanto meglio», la incitò Vittorio. Per i secondi successivi a Manola sembrò che il tempo fosse dilatato. La paura che il calamaro si staccasse era tanta e la lenza sembrava non finire mai. Finalmente, a una decina di metri dalla barca, iniziò a vedere un corpo fluorescente che si avvicinava. «Ci siamo quasi», la incoraggiò Vittorio. Manola non rispose, sentiva la bocca asciutta e lo stomaco contratto. Il calamaro si gonfiava e sbuffava, in un ultimo tentativo di sganciarsi da quell’arnese letale. Quando arrivò ad un metro dalla barca, Vittorio le lanciò l’ultimo incitamento: «Tiralo su!» Con un ultimo movimento, la ragazza tirò il calamaro fuori dall’acqua. Con le grinfie distese il mollusco formava una lunghezza di oltre mezzo metro. Manola lo osservò e vide gli occhi sporgenti che sembravano fissarla in tono di rimprovero. Sospesa a mezz’aria, la preda fece l’ultimo disperato tentativo di salvezza: emanò un getto d’inchiostro che colpì in pieno viso la ragazza. La forza d’inerzia riuscì però a farla ricadere all’interno del gommone, tra le urla festanti dell’equipaggio.
«Grande!», le disse Vittorio stringendola in un abbraccio. «Che bestia!», commentò Paolo nel raccogliere quell’esemplare di rara grandezza. «Brava Manola!» La ragazza, con la faccia ancora impiastricciata, rispose all’abbraccio del suo uomo con il cuore ancora a mille. Vittorio le pulì il viso con un asciugamano e la baciò: «Brava, amore mio». «Grazie! Che botta di adrenalina!» Continuarono la pesca mentre la luna, in lontananza, faceva capolino sopra Tavolara.
Capitolo 15
“La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi.” Con queste parole Fabrizio De Andrè commentò, negli anni Settanta, la sua scelta di stabilirsi nell’isola. Lontano dai riflettori, nel cuore della Gallura, in una tenuta chiamata “L’Agnata”. Vittorio e Manola vi arrivarono un pomeriggio di agosto. Parcheggiarono l’auto e seguirono le indicazioni di un cartello posto ai bordi della strada sterrata. Arrivarono in una radura e gli occhi di Manola tradirono tutta la sua meraviglia nel vedere quella perla immersa tra querce e graniti: una stupenda costruzione in pietra ricoperta di edere, con fiori di mille colori ai bordi del prato e una piccola piscina incastonata tra le rocce. E, a inebriare l’olfatto, i profumi di glicine, fico, mandorle e fieno mescolati tra loro. Alle diciotto in punto la tromba di Paolo Fresu diede inizio al concerto. I mormorii della folla si placarono come d’incanto. L’omaggio a De André era anche quell’anno uno degli eventi più attesi del “Time in jazz”. L’atmosfera era surreale: a pochi chilometri dalla cacofonia di suoni delle spiagge sarde, un migliaio di apionati ascoltavano in religioso silenzio un quintetto jazz. Alcuni brani di apertura e arrivò il momento più atteso: Cristiano, il figlio del cantautore genovese, salì sul palco.
Questa di Marinella è la storia vera che scivolò nel fiume a primavera ma il vento che la vide così bella dal fiume la portò sopra a una stella…
A Vittorio tornò in mente il padre. Mancava da anni ma lo sentiva presente ogni giorno. Manola si accorse dei suoi occhi lucidi e lo avvolse in un abbraccio, in silenzio. Per la prima volta, ebbe la tentazione di svelargli la propria identità. Ma preferì tacere. Seguirono il resto del concerto mano nella mano, estasiati dalle evoluzioni dei jazzisti. L’esibizione finì all’imbrunire, tra applausi scroscianti. Vittorio e Manola si unirono alla carovana che rientrava verso le macchine. Erano in prossimità del BMW quando una voce richiamò la loro attenzione: « Compà, e tu da queste parti?» Si voltarono e videro un giovane tarchiato, con i capelli a spazzola e la faccia simpatica con indosso la t-shirt dell’organizzazione. Un’espressione confusa tradì Vittorio. Conosceva quel viso ma non riusciva a dargli un nome. «Siamo apionati di jazz e su “Olbianova.it” abbiamo letto del concerto. Lei è Manola». «Piacere, Salvatore. Ajò, che vi cumbido una birra fresca». Ora Vittorio collegò: Salvatore era uno dei giovani che frequentava “L’Isolano”. Lo avevo visto spesso a “Nodu Pianu” in compagnia della moglie, una bella ragazza un palmo più alta di lui. Non ebbero il tempo per replicare che il ragazzo aveva aperto il cofano del suo fuoristrada ed estratto tre Ichnusa ghiacciate da una borsa frigo. « Ajò , non venite a Berchidda? In piazza c’è il concerto finale», chiese il giovane. «No, grazie. Rientriamo. Abbiamo già un impegno», rispose Vittorio. «Capisco. Allora vi aspetto a fine mese, per la festa del paese».
«Non si sa mai, è probabile». Ringraziarono e si misero in macchina. Quando furono soli, Manola commentò: «Non sapevo avessimo un impegno…» «Certo, Principessa. Mica la serata finisce qui. Una mezzora di pazienza e scoprirai il resto». Lasciarono il sentiero di campagna e, dopo aver attraversato Calangianus, imboccarono una serie infinita di tornanti. Finalmente, dopo un rettilineo, le luci di un centro abitato: Telti, recitava il cartello. «Questa è casa mia, Principessa. Spero ti piaccia», disse Vittorio. La via principale era gremita di auto parcheggiate da ambo i lati. Uno striscione bianco appeso sulla carreggiata preannunciava: Sagra del mirto. Parcheggiarono in una via laterale e si diressero, a piedi, verso il centro. La gente eggiava per le strade affollando le numerose bancarelle. Svoltarono a destra dove una strada pavimentata con sanpietrini di granito conduceva a una bella chiesa, illuminata a giorno da potenti fari. Raggiunsero un box della Proloco dove alcuni giovani li accolsero con un sorriso: «Buonasera e ben arrivati». «Ciao. Vorremmo mangiare qualcosa. Hai qualche consiglio da darci?», chiese Vittorio. «Certo. Lu caminu di li cosi boni. È un percorso di venti stand dove troverete le specialità locali», rispose il ragazzo consegnando un volantino alla coppia. «Wow, ho un certo languorino», intervenne Manola. «Ma possiamo girarli tutti?» «Dipende dall’appetito», rispose una delle ragazze. «Dubito riusciate a visitarne più di due o tre. Le porzioni sono abbondanti». «Bene, grazie mille, ragazzi», li salutò Vittorio. «Seguiremo Lu caminu . Buona serata», disse Manola con accento improbabile. «Vediamo un po’ che prelibatezze prevede questo itinerario», disse Vittorio
leggendo il volantino. «Non ti anticipo niente. Fidati di me». «Mi è venuta un’idea. Giriamo gli stand e ordiniamo una porzione per volta. La dividiamo, così assaggiamo più cose». «Sempre pragmatiche, ‘ste donne. D’accordo, vada per la porzione divisa a metà». Iniziarono dalla zuppa gallurese. Chiesero due forchette e si imboccarono tra mugolii di piacere nello sciogliere in bocca quella fusione di formaggio, pane raffermo e brodo di pecora. Continuarono con la mazza frissa e li chjusoni, i caratteristici gnocchi di farina conditi con sugo di pomodoro e pecorino. Trovavano sensuale il gesto di nutrirsi a vicenda e continuarono il gioco lanciandosi sguardi apionati tra un boccone e l’altro. E accompagnando le pietanze con vino rosso locale. Dopo cinque stand erano sazi ma non rinunciarono al dolce: le seadas, dolci di pasta sfoglia, formaggio e miele o zucchero, tanto diffusi in Sardegna. Dopo il caffè si spostarono al “Mirto Village”, la piazza centrale della manifestazione dove diverse aziende proponevano assaggi del loro liquore. Tra un bicchierino e l’atro una voce arrivò dalle loro spalle: «Vittò! Chi non muore si rivede». «Giovanni Pinducciu! Sembri quasi un turista, così abbronzato». Così dicendo Vittorio abbracciò un uomo un po’ paffutello che, all’apparenza, doveva avere sì e no la sua età. «Che piacere. Erano anni che non ti vedevo. Sei sempre uguale. Lei è Manola», disse Vittorio, «Piacere», disse la ragazza. «Il piacere è mio», rispose Giovanni. «Venite, andiamo a bere qualcosa». Manola lanciò uno sguardo d’intesa a Vittorio e gli sussurrò all’orecchio: «Qui si mette male». Andarono in un bar poco distante che dava sulla piazza del “Mirto Village”, dove un trio rock stava suonavano un classico dei Beatles. Erano bravi e quel
chitarrista, con un cespuglio al posto della chioma, sapeva veramente il fatto suo. Giovanni raccontò a Manola di essere stato un compagno delle superiori di Vittorio e di essersi trasferito a Torino, dopo la maturità, per amore di una ragazza, Piera, che aveva poi sposato. «Solo grazie a lei ho resistito alla tentazione di mollare tutto e tornare in Sardegna. Troppo grande la città per uno abituato a vivere nella tranquillità di un paese. È una gran donna e ringrazio ogni giorno il Signore di averla incontrata. È rimasta a casa. Mia madre sta poco bene e ha voluto farle compagnia. Mi sarebbe piaciuto farvela conoscere». Manola rimase colpita da quella palese dimostrazione d’amore. E provò per quell’uomo una naturale simpatia. “Quindi l’amore esiste”, si ritrovò a pensare. Com’era lontano l’inverno precedente quando aveva perso ogni fiducia negli uomini. Giovanni e Piera avevano due figli e gestivano un ristorante nella città della Mole. Ma ogni anno non rinunciavano ad un mese di ferie a Telti, in una casetta di famiglia che avevano ristrutturato. Dopo alcune birre, arrivarono altri amici di Giovanni e Vittorio. La serata andò avanti tra i ricordi nostalgici dei tempi ati. Manola rimase colpita dal suono dolce del gallurese, lo trovava familiare. Finalmente riuscirono a smarcarsi con il pretesto di visitare il resto della sagra. Si fermarono a chiacchierare con alcuni artigiani che producevano lavori in legno che descrissero Telti come un paese tranquillo e ospitale. «Sicuramente abbiamo potenzialità turistiche. La natura incontaminata delle nostre campagne e la vicinanza da porto e aeroporto rappresentano per molti una meta alternativa al caos della costa», disse uno di loro. Continuarono la conversazione per un po’ finché una musica in lontananza attirò la loro attenzione. Percorsero un tratto di strada e arrivarono in una piazza dove la “Bandabardò” stava trascinando la folla in un ballo collettivo. Dei giovani invitarono Manola a unirsi al loro cerchio mentre ballavano all’impazzata. La ragazza esitò, indecisa. Vittorio la prese per le spalle e la spinse dolcemente verso la pista. Rimase a guardarla, con un’espressione estasiata sul viso, mentre
Manola si lanciava nella danza. Il suo corpo sinuoso si muoveva con fare aggraziato in quella bolgia e Vittorio provò un piacere sensuale, nello scrutare ogni suo o. Il ritmo cresceva così come la sua voglia di partecipare alla festa. Finché brillo e euforico per la serata, la raggiunse in pista.
* * * *
Tornarono da Giovanni per salutarlo e ringraziarlo dell’ospitalità. La comunità era, nel frattempo, aumentata e giovani giravano per la piazza con caraffe di birra che offrivano a chiunque capitasse loro a tiro. «Più che una fiera del mirto, ora mi sa tanto di “sagra della birra”», commentò Manola. «Puoi ben dirlo, ho la pancia che mi scoppia», rispose Vittorio che, benché abituato alle bevute in compagnia, era disabituato a quei ritmi. E dopo un numero imprecisato di “bicchieri della staffa” e l’aurora che colorava il cielo di arancio, riuscirono, finalmente, a rientrare in hotel.
Capitolo 16
A vederla dal mare, la spiaggia di Marinella sembrava una tavolozza di colori. Centinaia di ombrelloni distribuiti sull’arenile con le tinte più sgargianti. Vittorio e Manola avevano appuntamento con Nico e Letizia per are una giornata insieme. Dario, il proprietario di una delle concessioni balneari, era amico di Nico e aveva riservato loro uno spazio in prossimità della riva. «Siete fortunati. I clienti che occupano solitamente quest’area hanno deciso di fare una gita in gommone. Altrimenti eravamo al completo», disse loro facendoli accomodare. «Buon per te, amico mio», rispose Nico. Tra Letizia e Manola fu amore a prima vista. Scoprirono di essere coetanee e di avere in comune uno spiccato senso dell’umorismo che, ben presto, misero in campo nei confronti dei loro compagni. Fu Letizia ad aprire le danze: «Amò, non startene tutto il giorno sotto l’ombrellone. Prendi un po’ di sole, che ti fa bene ai reumatismi». «Mai sofferto, grazie a Dio. E non vorrei iniziare ora…» «Tranquillo, ci sono io. Il bastone della tua vecchiaia». E, così la ragazza prese a spalmare la “Lancaster” sulla schiena del suo uomo. «Difenditi, amico mio. Se no questa ti fa nero», commentò Vittorio. «Sfotte tanto ma ha dovuto rivolgersi a un quarantenne, per trovare fidanzato…» «La mia è una missione. Certo che una botta di gioventù così non l’avresti immaginata neanche nei sogni più belli». «Guarda che le mie ultime conquiste erano tutte più giovani di te, mia cara».
Continuarono a punzecchiarsi con Vittorio e Manola che ogni tanto intervenivano per dar man forte a uno dei contendenti. Mangiarono un panino in un bar poco distante e presero a noleggio un pedalò. Zigzagarono tra i tanti yacht all’ancora, alternandosi ai pedali, prima di tornare agli ombrelloni. «Bella socio, aggiornati!», urlò, in perfetto slang olbiese, un giovane di colore, rivolgendosi a Vittorio. «Ciao bello, che ci fai da queste parti?», rispose Vittorio dando “il cinque” al giovane. «Ogni tanto bisogna cambiare spiaggia, socio. La vendita è come la pesca: se vedi che in un posto il pesce non abbocca… ti sposti e provi da un’altra parte». «Parole sagge, amico mio. Vieni che ti presento. Lui è Mansour, l’ambulante numero uno di tutta la Sardegna!» «Ambulante sarai tu, socio. Io faccio il sales manager », rispose il giovane, suscitando l’ilarità generale. Sopraggiunse un gruppo di bambini che circondò Mansour tra urla festanti. Il più alto di essi estrasse da una borsa sportiva delle magliette colorate. «Sono arrivate, finalmente!» «Grandi! Guardate un po’», rispose Mansour mostrando a Vittorio una maglia da calcio con impresso il suo bel faccione e la scritta “Mansour football club”. «E che sarebbe?» «I miei giovani amici parteciperanno ad un torneo di beach soccer e io li sponsorizzo». «Geniale!» Il ragazzo si fermò a chiacchierare riuscendo a vendere dei racchettoni da spiaggia a Nico e un pareo alle ragazze. Dopo averli salutati, Vittorio commentò: «È incredibile! Se i nostri giovani avessero metà della sua intraprendenza, avremmo molti meno disoccupati».
Il pomeriggio ò tra chiacchiere e coccole. «Nico aveva ragione. Non l’avevo mai visto così preso da nessuna», confidò Vittorio a Manola, mentre facevano una eggiata sulla battigia. «Stanno bene, insieme. Alla fine ogni Superman trova la sua criptonite. Un po’ com’è accaduto a te». «Ah, questa è bella. Senti, senti. E chi ti dà questa convinzione?» «Tu. Ogni volta che mi guardi. O mi parli. Non è così?» «Diciamo che… mi piaci e che con te ci sto sufficientemente bene…» «Addirittura sufficientemente? Il Lord sta perdendo punti…» «Scherzo, amore mio. Se dovessi esprimere ciò che provo in questo momento sarebbe molto semplice: pura felicità». La condusse in acqua e la baciò dolcemente, incurante degli schizzi dei bambini poco distanti e di un gruppo di ragazzi che giocava a pallavolo. «Ho avuto la fortuna di aver vissuto da spettatore una bellissima storia d’amore: quella tra i miei genitori. Pensa che continua nonostante mio padre non ci sia più da dieci anni. Ogni volta che lo citiamo, a mia madre luccicano ancora gli occhi. Se dovessi desiderare qualcosa, sicuramente vorrei che il nostro amore fosse così». «Grazie, amore mio», disse Manola ricambiando il bacio con ione. Tornarono dai loro amici proprio mentre, a poca distanza, un suono potente portava con se una melodia conosciuta.
La mia sigaretta brilla rossa insieme a luci di periferia zampate della vita sulle mie ossa
sei più sincera quando dici una bugia…
«È la voce di Carlo, la riconoscerei tra mille. Annuncia che al Blu Kris è scoccata l’ora dell’aperitivo», disse Letizia. «Andiamo a dare uno sguardo. Così saluto anche il proprietario», propose Nico «Per me va bene. Ci son stata, con le mie amiche, la scorsa settimana. Carino, un sacco di giovani. Ops… scusate… non vorrei inibirvi», disse Letizia. «Tranquilla, sapremo cavarcela», rispose Vittorio, con un sorriso. «Certo, una ventata d’esperienza farà solo bene all’ambiente», concluse Nico. I lettini bianchi erano già stati presi d’assalto da una moltitudine di giovani. Ragazzi e ragazze in costume che ballavano, con pose avvenenti, le hit dell’estate. Il dj, che nel frattempo aveva preso il posto della band, le proponeva a rotazione scatenando una ressa di corpi sudati. I camerieri correvano sulla sabbia per portare ai tavoli secchielli di Spritz e Mojito, da cui spuntavano cannucce colorate. Il locale era una bolgia ma trovarono posto in un tavolino. Ordinarono un prosecco mentre alcune ragazze avano a pochi metri da loro. «Viola, che ci fai qui?», disse Vittorio rivolgendosi ad una morettina dall’aria familiare. La giovane lo guardò aguzzando la vista e gli rispose: «Veramente che ci fai tu, zio. Io vengo spesso. E ti ricordo che ho appena compiuto diciott’anni. Piuttosto sei tu quello fuoriluogo». E così lo abbracciò con affetto. Vittorio ricambiò il gesto dandole un bacio. «Ah, dimenticavo. Lei è mia nipote Viola. Che… come vedete, cresce, ahimè», disse Vittorio presentandola alla comitiva. Poi offrì da bere a lei e alle amiche e poco dopo le congedò: «Andate pure,
chissà quanti cavalieri vi aspettano». «Grazie zio, ci vediamo presto. E mi raccomando, non fare tardi!» «Ahahah, non c’è più religione».
* * * * Nel frattempo, su un gommone ancorato a poca distanza, uno sconosciuto controllava le decine di foto che aveva scattato quel pomeriggio.
Capitolo 17
La spiaggia Bianca era invasa dai bagnanti, anche quella domenica. La sabbia bianchissima e le acque striate di verde e azzurro attiravano sempre migliaia di visitatori. Vittorio e Manola vi arrivarono in kayak, dopo un’oretta di pagaiata da “Nodu Pianu”. Insieme a loro, su altri kayak, due coppie di amici: Alex e Serena, milanesi e Miriam e Ivan, di Napoli. Tutti e quattro, in vacanza all’Angedras. Scaricarono le borse e gli asciugamani e ormeggiarono i kayak a delle boe a poche decine di metri dalla spiaggia. «Che bolgia, ragazzi! Sembriamo in tangenziale al rientro dal week end», commentò Alex. «Più o meno…», rispose, ironicamente, Vittorio. Sistemarono i teli da mare incastrandoli in un piccolo spazio libero vicino alla battigia. Dopo un bagno rigenerante e un po’ di tintarella, andarono al bar della spiaggia per un’insalatona. «Tu Alex, di cosa ti occupi?», chiese Manola. «Faccio il mental coach ». «Ah. E… precisamente, di che si tratta?» «Aiuto le persone a raggiungere degli obiettivi». «Ma alleni degli sportivi?» «Anche, ma non solo. I miei clienti sono manager , imprenditori, professionisti. Chiunque mi chieda o per raggiungere un traguardo. Aiuto le persone a tirar fuori il meglio di se».
«Figo!» «È un lavoro che faccio con ione e che mi da grandi soddisfazioni. Tu invece?» Manola raccontò agli altri commensali il suo percorso e le aspettative per l’immediato futuro. Miriam era invece un ingegnere informatico che lavorava in Enel: era stata selezionata tra i giovani di talento per un progetto di sviluppo legato alle energie rinnovabili. Aveva grandi prospettive davanti a sé e quella vacanza le serviva per ricaricare le pile, in vista di un autunno molto impegnativo. Rimasero per un po’ a chiacchierare mentre, a fianco al bar, dei bambini giocavano in un baby parking . «Vedi, questo è un bel modo di fare turismo. Così i genitori possono rilassarsi al sole e lasciare i bambini nelle mani degli animatori», commentò Vittorio. «Molto intelligente. Troppo spesso, in Sardegna, i turisti vengono spennati senza avere in cambio servizi adeguati», rispose Alex. Nel tardo pomeriggio decisero di rientrare facendo tappa in alcune delle altre spiagge del litorale. «Qui venivo a trovare miei zii, da bambino. All’epoca, una quarantina di famiglie avevano costruito dei casotti in legno, a ridosso della spiaggia», disse Vittorio, arrivati a Bados. «Ma erano costruzioni autorizzate?», chiese Manola. «Erano gli anni settanta e c’erano meno tutele ambientali rispetto ad oggi. Ad ogni modo, quando hai dieci anni e puoi rimanere a giocare in spiaggia anche la notte delle autorizzazioni t’importa ben poco». «Immagino. Dev’essere stato un paradiso». «Lo era. E non sai quanto invidiassi i miei cugini che avevano la fortuna di rimanervi da giugno a settembre. Io ci avo solo qualche settimana ma quanta sofferenza quando dovevo rientrare a casa. Ricordo la notte gruppi di ventenni
che si ritrovavano nella veranda di qualcuno e avano ore a cantare, accompagnati dalle chitarre. Le case erano costruite su dei piloni di cemento e sollevate sulla sabbia. Io e i miei cugini ci nascondevamo sotto per rimanere ad ascoltare. Ricordo un anno, in particolare. Era l’estate de “L’anno che verrà”, di Lucio Dalla. Nel nostro gruppo stava una ragazzina milanese, Antonella. Mi piaceva ma non ebbi mai il coraggio di dirglielo». «Caspita, come siamo nostalgici, amore mio». «Non che ci pensi spesso ma riare qua mi ha evocato tanti ricordi». Rientrarono all’Angedras in tempo per la cena. Gli amici si ritirarono in camera, esausti, mentre Vittorio e Manola decisero di cenare al ristorantino dell’hotel. Nicola, lo chef, quella sera aveva preparato delle linguine ai ricci. «Che bontà! Si sciolgono in bocca», disse Manola dopo le prime forchettate. Dopo cena si spostarono verso il bar all’aperto. Qui Vittorio invitò al loro tavolo i coniugi Bignardi. «Tutto bene, signori?» «Divinamente, come al solito», rispose Mario. «Un vero peccato che a questo paradiso abbiano accesso pochi fortunati». Quello del caro trasporti era uno dei temi di discussione frequenti, tra i due uomini. Entrambi non si capacitavano come una regione, a vocazione turistica molto spinta come la Sardegna, non riuscisse a far arrivare gli ospiti a prezzi abbordabili. «Potremmo star tutti molto bene e avere un’economia florida. Abbiamo trecento giorni di sole l’anno, un clima mite, bellezze naturali uniche al mondo, prodotti enogastronomici di una bontà unica e monumenti archeologici ultra millenari. Eppure, le presenze turistiche continuano ad essere di molto inferiori rispetto a mete meno attraenti». La discussione andò avanti per un po’, finché i coniugi Bignardi li salutarono per andare a dormire. Nel frattempo li raggiunse Giorgio, un amico di vecchia data di Vittorio. Anni
prima avevano lavorato insieme e da allora erano sempre rimasti in contatto. Ora faceva il direttore in un hotel 5 stelle, a Roma. Si abbracciarono mentre Vittorio fece le presentazioni: «Lei è Manola. La miss che ha rapito il mio cuore». «Onorato, madame », rispose Giorgio con tanto di inchino e baciamano. «Piacere, Manola», rispose la ragazza, visibilmente colpita da quelle lusinghe. «Devi sapere che Giorgio viene a trovarmi abbastanza spesso, nell’arco dell’anno. Ebbene, oggi è la prima volta che lo vedo da solo!» «Solo per stasera, caro mio. Domani mi raggiunge un’amica inglese per qualche giorno di vacanza». «L’inglese mi mancava. Pensa che i ragazzi della reception lo odiano un po’: quando arriva un ospite ricorrente, fare il check-in è un attimo, visto che i dati li abbiamo già. Nel suo caso, è impossibile: la dama che lo accompagna… è sempre diversa!», concluse Vittorio tra le risate generali. «Esageri, come al solito! Non vorrei che Manola mi attribuisse una fama che non ho». «Non preoccuparti, Giorgio. Ma se Vittorio dice così un fondo di verità deve pur esserci». «Eccome se c’è», concluse Vittorio. Conclo la serata mantenendo quel clima goliardico che solo il piacere di ritrovarsi tra vecchi amici riesce a infondere.
Capitolo 18
I pontili del porto di Cannigione sembravano un alveare di api a lavoro. C’era chi caricava vivande, altri che rifornivano di carburante i serbatoi, altri ancora che, con la manichetta dell’acqua e una spugna, tiravano a lucido lo scafo. Manola e Vittorio raggiunsero uno dei bar lì vicino e si accomodarono. «Due caffè e due bicchieri d’acqua frizzante», chiese Vittorio al cameriere. Manola, fino ad allora insolitamente taciturna provò a sondare il terreno: «Quindi? Si può sapere dove andiamo?» «Ancora un attimo di pazienza, Miss Curiosity», le rispose Vittorio, dandole un buffetto sulla guancia. «Eccoli che arrivano», disse Vittorio guardando in direzione di Alberto e sca che, carichi di borse e borsoni, si dirigevano verso di loro. «Ehilà, bomber», disse Vittorio rivolgendosi all’amico. «Bella Vittò!» rispose il giovane. «Ciao bionda». «Ciao ragazzi. Ben trovati. Come va?» «Benone, grazie. Finora il vostro amico si sta comportando abbastanza bene», rispose Manola strizzando l’occhio alla coppia. Si avviarono verso il molo dove, a metà di uno dei pontili, Alberto salì a poppa di quella che doveva essere la loro compagna di viaggio: una barca a vela nuova di pacca. «Che bella», disse Manola. «Tutta per noi?» «Certo», rispose sca. «Ma Vittorio non ti aveva avvisata?»
«In verità, Vittorio è una sorta di agente segreto. È da quando ci siamo conosciuti che mi porta dappertutto tenendomi all’oscuro della destinazione e della compagnia». «Figo!», intervenne Alberto. «E dove siete stati di bello?» Manola raccontò i tanti episodi che avevano riempito le loro giornate. Nel mentre Alberto, con l’aiuto di Vittorio, portò l’imbarcazione fuori dal porto e si diresse a nord con il motore a minimo. «Quella è Caprera», disse Vittorio indicando un’isola alla loro destra. «Sì, ne ho sentito parlare. Ma non ricordo in quale contesto», rispose Manola. Vittorio raccontò che l’isola era stata l’ultima dimora di Giuseppe Garibaldi. Dopo mille battaglie, vi si era ritirato per dedicarsi alla cura della terra e all’allevamento. Dopo la morte, la residenza, la famosa “casa bianca”, era diventata un museo frequentatissimo tutto l’anno dove era possibile visitare la tomba dell’eroe dei due mondi. Una leggera brezza di levante annunciò il momento di spiegare le vele. Tutto l’equipaggio si mise al servizio di Alberto e in pochi minuti la barca viaggiava spedita. Lasciarono l’isola de La Maddalena alla loro destra e arrivarono in prossimità di un’altra isoletta: Spargi. Qui gettarono l’ancora. Lo scenario era da brividi: la sabbia bianca e finissima dei fondali dava all’acqua un colore smeraldo. Il tempo di allungare la scaletta a poppa e i quattro giovani si tuffarono tra grida di gioia. Vittorio e Manola raggiunsero a nuoto la riva e si sdraiarono al sole. Vittorio si avvicinò e la baciò. «Mi assicuri che sia tutto vero?», chiese Manola rispondendo al bacio. «Certo, Principessa. Siamo in paradiso con la sola differenza che siamo vivi e vegeti». «Credo di non essere mai stata tanto felice. Tu?» «Vuoi la verità?» «Certo, qualunque essa sia».
Il viso di Vittorio assunse un espressione seria: «Sono stato altrettanto felice… solo la notte di Berlino, quando abbiamo vinto i Mondiali del 2006». Poi scoppiò in una fragorosa risata. «Brutto pezzo di …», lo apostrofò la ragazza con uno sguardo di fuoco ed un sorrisino che celava desiderio di vendetta. E, allontanandosi, gli tirò addosso una manciata di sabbia. «Ed io che mi sono sbilanciata con parole dolci!» Con un inaspettato colpo di reni, Vittorio balzò in piedi e la rincorse. In pochi i le fu addosso e, dopo averla presa in braccio mentre Manola scalciava per divincolarsi, la buttò in acqua cadendole addosso. Iniziarono una lotta tra spruzzi e risate, come bambini. Vittorio aveva scoperto che la ragazza soffriva il solletico e prese a torturarla in tutti i modi. Rientrarono alla barca dove i padroni di casa avevano steso il tendalino e apparecchiato una tavola in coperta. Crudités di gamberi con olio, limone, pepe nero e arancia, ostriche e tartufi di mare già aperti e una bottiglia di vino rosso erano in bella mostra. «Che meraviglia», commentò Manola. «Wow! Così ci viziate», esclamò Vittorio. «Forza ragazzi, asciugatevi che si inizia. sca tra un po’ scola gli spaghetti». Divorarono i gamberi e i frutti di mare in un baleno. Continuarono con la pasta “arselle e bottarga”, accompagnandola con un Cagnulari fresco. Tra una portata e l’altra, Vittorio e Alberto raccontarono aneddoti di quando avevano giocato a calcio nella stessa squadra. «Ma almeno, era bravo?», chiese Manola ad Alberto. «Tecnicamente non era un gran che. Ma aveva una resistenza fisica invidiabile. Arrivati al novantesimo avrebbe potuto giocare un’altra partita». «Scommetto che aveva qualche sostenitrice che veniva a fare il tifo per lui». «Non ricordo. Tu Vittò?»
«Neanche io. La signorina qui presente dovrà recuperare qualche rivista di gossip di quegli anni, per saperne di più…» «No, era così per dire», concluse Manola strizzando l’occhio a sca. Nel pomeriggio, dopo un pisolino, si spostarono nei pressi dell’isola di Budelli. Qui, in lontananza, una striscia di sabbia dai riflessi rosa si parò ai loro occhi. «E quella?», chiese Manola. «È la Spiaggia Rosa. La perla dell’arcipelago», rispose sca. «Il colore è dovuto a un mix di frammenti di corallo, conchiglie, gusci di molluschi e piccolissimi pezzetti di granito. Balzò agli onori della cronaca quando il regista Michelangelo Antonioni vi girò il film “Deserto Rosso”, con Monica Vitti come protagonista». «L’ho visto quest’inverno ed ero curiosa di sapere dove fosse stato girato». Come un flashback, il film le tornò in mente. Ricordò di essersi sentita molto vicina alla protagonista, una donna depressa e insoddisfatta in fuga da un mondo a cui sentiva di non appartenere. Si destò da quello stato ipnotico richiamata dalla voce di Vittorio: «Tutto bene?» «Si, scusa. Ripensavo al film. Una storia triste». «Si vedeva dalla tua espressione». E così dicendo Vittorio l’avvolse nel suo abbraccio rassicurante. «Come mai non ci si può avvicinare?», chiese Manola osservando delle boe che delimitavano lo spicchio d’acqua intorno alla spiaggia. «Semplice: per la stupidità dell’uomo», rispose Alberto. «Vero», intervenne sca. «Da una parte, gli ancoraggi selvaggi stavano compromettendo la vita della Posidonia. Dall’altro l’ingordigia umana». «Cioè?» «I visitatori, non paghi di godere con gli occhi di una meraviglia unica al mondo, la stavano saccheggiando, portando via bottiglie e secchielli stracolmi di
sabbia». «Non ci posso credere!» «Finalmente le autorità del parco hanno posto fine a questo scempio vietando la balneazione, il transito e l’ancoraggio. E pian piano la spiaggia sta tornando ai fasti di una volta». «Avete ragione. A volte l’essere umano è capace delle peggiori cose», concluse, amara, Manola. Buttarono l’ancora. Le ragazze fecero un tuffo e si stesero al sole mentre Alberto e Vittorio si dedicarono allo snorkeling. Era una vera goduria osservare quei fondali: distese di sabbia bianca e pesci di ogni specie. Nuotavano vicini quando la loro attenzione fu attirata da un potente rombo di motori. Alzarono lo sguardo e videro due moto d’acqua che, a tutta velocità, raggiungevano l’arenile incuranti dei divieti. Con un cenno d’intesa decisero di andare a vedere. Qui, due coppie di giovani, a cavalcioni sui bolidi sorseggiavano una birra. Sembravano fatte con lo stampino: i maschi con la testa rasata, orecchini e tatuaggi equamente distribuiti su una montagna di muscoli. Le ragazze, invece, indossavano dei mini bikini colorati su un corpo abbronzatissimo. «Scusate ragazzi, non avete visto i segnali? È zona protetta, l’accesso è vietato», disse Vittorio. « A nonno! Perché non ti fai i cazzi tua », rispose il più grosso dei due, suscitando l’ilarità degli altri. «Sì dà il caso che siano cazzi miei, preservare la mia terra da quattro imbecilli. Avete un minuto per levarvi dalle palle!» « Ahò, io a questo ‘ie meno! », disse il ragazzo dirigendosi verso Vittorio con o deciso. Il viso di Vittorio sembrava una maschera di gesso. Gli occhi non tradivano alcuna emozione mentre il corpo sembrava dimesso, quasi a voler aspettare l’inevitabile. Attese che l’avversario fosse ad un metro da lui e scattò. In una frazione di secondo lo prese per le spalle e lo colpì, con potenza inaspettata, con
una testata sul naso e una ginocchiata nelle parti basse. Un fiotto di sangue iniziò a sgorgare dalle narici mentre quella montagna di muscoli stramazzava al suolo, contorcendosi. L’amico, con lampi di fuoco al posto delle pupille, si alzò fulmineo dalla moto e si diresse verso Vittorio. Alberto era rimasto a guardare. Era maestro di karate ma molto raramente usava quell’arte marziale al di fuori dalla palestra. Per sfortuna del ragazzo, decise che era ora di farlo. Si frappose fra i due contendenti e, con un calcio rotante, lo colpì al mento tra il rumore di denti che si spezzavano. Il giovane cadde a poca distanza dall’amico, senza avere il tempo di capacitarsi di ciò che avveniva. «Ora, prendete questi due cialtroni, caricateli sulle moto e sparite prima che ci arrabbiamo per davvero», disse Vittorio rivolgendosi alle ragazze. Le poverine, con lo sguardo terrorizzato, andarono in soccorso dei malcapitati. Li aiutarono ad alzarsi a fatica e li caricarono sulle moto, mentre due scie di sangue coloravano l’arenile. «Però, Vittò. Non ti avevo mai visto all’opera. Dove hai imparato quei colpi?», chiese Alberto, mentre recuperavano maschera e boccaglio. «Se hai la fortuna di crescere in strada come me, non c’è palestra migliore». Tornarono a bordo dove, nel frattempo, le ragazze avevano continuato a familiarizzare. sca aveva raccontato com’era iniziata la sua storia con Alberto. Stavano insieme da un paio d’anni e sarebbero andati a convivere a settembre. «Ebbè, Francy. È stato duro l’interrogatorio delle SS?», esordì Vittorio. «Il solito egocentrico. È convinto che si parli sempre di lui», rispose Manola. «Ma no. Solite chiacchiere femminili. Magari abbiamo sfiorato l’argomento ma, più che altro, parlavamo di uomini in generale». «Se potessero parlare, queste vele…»
«Lo vedi? E continua, questo testone», replicò la sua donna. «Vorrà dire che, appena conoscerò qualche tua amica, la interrogherò ben bene sulla tua vita». «Scordatelo. Le mie amiche sono tutte molto carine. Anzi, delle gran fighe, direi. E preferisco ti stiano alla larga…» «Macché. Lo sai che non ci so fare, con le donne. Sono timido…» « Riu mudu…trazzadore », esclamò Alberto. Tutti scoppiarono a ridere, tranne Manola. « Riu , che???» «È un detto sardo che significa che il fiume silenzioso è quello che trascina di più. Ed è riferito a una persona tranquilla solo in apparenza». «Ah! Rende proprio l’idea». «A proposito di tranquillità», disse sca. «Ma avete visto due moto d’acqua sfrecciare verso la spiaggia Rosa?» I due amici si scambiarono uno sguardo d’intesa. Fu Alberto a rispondere: «In verità no…» «Cafoni. Due coppie di giovani ci sono ate a fianco a tutta velocità e, credo, abbiano raggiunto l’arenile. Ho chiamato la guardia costiera e hanno risposto che avrebbero mandato qualcuno». «Bene, speriamo gli diano una lezione…», concluse Vittorio, con un sorriso sornione. Il sole volgeva ormai al tramonto mentre la brezza, che aveva soffiato leggera per tutto il giorno, aveva esaurito le sue energie. I riflessi rosa del crepuscolo si specchiavano in quel piatto d’olio. Mentre le ragazze continuavano le loro chiacchiere, i due uomini scesero in coperta per emergere poco dopo con quattro Mojito ghiacciati.
«Wow, con tanto di bicchieri in vetro e cannuccia. Così ci viziate», ringraziò Manola prendendo il bicchiere dal vassoio. «È il minimo per due dame come voi», rispose Alberto. «Anche se dovete ringraziare Vittorio». «Però, quando finirai di stupirmi?», disse Manola baciandolo affettuosamente sulla guancia. «Anni di lavoro in albergo. Ho conosciuto tanti barman bravissimi e ho cercato di rubare i segreti per un Mojito bevibile. Il segreto è azzeccare le giuste dosi. C’è un bar del centro storico, a Olbia, dove lo fanno meglio che a l’Havana. Lo adoro». «L’ho bevuto anch’io», intervenne sca. «Molto buono. Ma questo non è da meno». «Grazie, bionda. Ai tuoi complimenti non so resistere. Facciamo il bis?» «Mah, se proprio vuoi… Vediamo se sai ripeterti». Cenarono sul ponte. Alberto e sca si erano superati: aragosta alla catalana, crostini di pane con bottarga e dentice al forno, annaffiato con un Vermentino fresco di Surrau. Ogni tanto lanciavano del pane in mare. Era uno spettacolo vedere centinaia di “occhiate” che accorrevano per divorarlo. Ascoltarono un po’ di musica e il dopo cena fu altrettanto piacevole. Arrivata l’ora di andare a dormire, Vittorio raggiunse Alberto in coperta mentre le ragazze sbarazzavano la tavola. Emerse con due sacchi a pelo che andò a sistemare sopra la cabina. «E quelli?», chiese Manola. «Non ti vorrai rinchiudere in cuccetta con questo cielo stellato? Quando lo rivedi, a Milano?» Non ci volle molto per convincerla.
Rimasero così, uno accanto all’altra, a scambiarsi promesse d’amore, stregati da quella magia in cui erano immersi. Parlarono di loro, delle loro famiglie, degli amici e di quella meravigliosa estate. In quegli attimi di grande intimità Manola fu sul punto di svelare a Vittorio il suo segreto e raccontargli di essere una ricca ereditiera. Ma rimandò ancora una volta, inconsapevole delle conseguenze che avrebbe avuto quella scelta…
* * * *
«Buongiorno Principessa. Era ora», disse Vittorio dando un tenero bacio sulla fronte di Manola che cercava a fatica di aprire gli occhi. «Ciao amore», rispose la ragazza stiracchiandosi nel sacco a pelo. «Che ore sono?» «Le sette e mezza. Hai dormito come un ghiro». «Sei sveglio da molto?» «Una mezzora. Ma non trovavo il coraggio di alzarmi». Restarono così, abbracciati, a guardare il sole che pian piano iniziava a disegnare il suo arco. Fu Vittorio il primo ad alzarsi. Scese in cabina e tornò con i costumi in mano. «Avanti, Principessa. Seguimi e ti assicuro che ci metterai un attimo a svegliarti completamente». Indossò il costume e si avvicinò alla scaletta di poppa per toccare l’acqua con la mano. «Mmm… Ma non è fredda?», chiese la ragazza che, messasi a sedere, non trovava l’energia per mettersi in moto. «Macché! È una meraviglia».
«Ok, vai prima tu. Ti seguo». Vittorio si avvicinò al bordo della barca e, con un preciso volo d’angelo, s’immerse in acqua. “Però… Sa anche tuffarsi”, pensò Manola ammirandolo entrare in acqua. Fu uno choc are dal tepore di qualche attimo prima all’acqua fredda. Ma nel riemergere Manola provò un’euforia inaspettata. Cercò Vittorio con lo sguardò e gli andò dietro in direzione della riva. Nuotava con vigore un po’ per scaldarsi, un po’ per scaricare l’adrenalina. Si sentiva viva come non le accadeva da molto e provava un piacere sensuale nel ricevere l’abbraccio dell’acqua. Raggiunse Vittorio e guardandolo con due occhi colmi di desiderio lo prese per mano e lo condusse in un angolo nascosto. Fecero l’amore in acqua, dimentichi di tutto e di tutti rimanendo avvinghiati per un tempo indefinito. Fu Vittorio a rompere il silenzio: «Se questo non è il Paradiso, è qualcosa di molto simile». Tornarono alla barca dove Alberto e sca avevano preparato la colazione. «Ciao ragazzi. Già operativi?», li salutò Alberto. «Buongiorno. Sì, non abbiamo resistito alla tentazione», rispose Vittorio strizzando l’occhio a Manola. Mangiarono con particolare appetito che, se destò i sospetti di Alberto e sca, non lo diedero a vedere. Levarono l’ancora e raggiunsero Razzoli, l’isola più a nord dell’arcipelago affacciata sulle Bocche di Bonifacio. Manola rimase colpita dall’aspetto aspro: molte rocce e poca vegetazione. La circumnavigarono, lasciando alla loro destra il vecchio faro, e si ritrovarono davanti una leggera strozzatura che la divideva dall’isola di Santa Maria. «E quel canale?», chiese Manola. «È il o degli Asinelli. Purtroppo, con il nostro pescaggio, non riusciamo a are», rispose Alberto.
«o degli Asinelli, nome bizzarro». «In ato, nelle giornate in cui il forte vento non consentiva l’attracco a Cala Lunga, era il luogo in cui avano gli asini con le provviste per il guardiano del faro e la sua famiglia». Continuarono la navigazione per raggiungere un piccolo fiordo nella costa orientale dell’isola di Caprera: Cala Coticcio, chiamata anche Tahiti, per il richiamo a paradisi lontani. Manola non volle credere ai suoi occhi: rosee sculture di rocce sopra fondali trasparenti formavano un anfiteatro naturale. Quasi a esagerare con l’omaggio ai sensi, la natura si era superata: raggiungendo la riva, un intenso profumo di ginepro inebriava l’olfatto. «Possiamo rimanere qui tutta la vita?», chiese al suo uomo. «Certo, facciamo il remake di “Laguna blu”», rispose Vittorio, citando il film cult degli anni Ottanta che aveva reso celebre Broke Shields. Rimasero lì tutto il giorno, incuranti del traffico di barche che prendeva d’assalto l’arcipelago.
Capitolo 19
L’sms era perentorio: “Tuo padre vuole parlarti di una questione molto delicata e urgente. Siamo a Parigi, ti aspettiamo qui. All’aeroporto di Olbia c’è un aereo pronto al decollo. Appena leggi, organizza la partenza. Ti voglio bene. Mamma”. Manola lesse e rilesse quelle parole. Sembravano scritte da un’altra mano, non certo da quella di Carmen. Si alzò dal letto ma il capogiro la costrinse a sedersi. Sentiva una strana sensazione allo stomaco ma non riusciva a identificarla. Pensò a quale scusa inventare con Vittorio per quella partenza improvvisa. Fece una doccia veloce ed elaborò un piano. Lo svegliò dolcemente e gli annunciò: «Lord, cambio di programma. Ho ricevuto una mail da una società di Milano che mi invita a presentarmi nel pomeriggio per un colloquio di lavoro. È una di quelle che avrei dovuto contattare al rientro. Evidentemente hanno accelerato i tempi. Rientro domani». «Bene. Stendili, mi raccomando». «Sarà l’occasione per disintossicarti un po’. Troppa gioventù così concentrata potrebbe nuocerti», gli disse baciandolo sulla fronte. «Hai già controllato i voli?» «Sì, il prossimo è tra un paio d’ore. Ho già fatto il biglietto e il check in online ». «Miracoli della tecnologia. Bene, il tempo di una doccia e ti accompagno». Manola tentò di contattare i genitori. Sia i numeri di Safiy che di Carmen squillavano liberi. Provò più volte ma non ebbe risposta. Nel tragitto verso l’aeroporto il suo silenzio insospettì Vittorio: «Tutto a posto? Qualcosa non va?» «No, amore. Solo un po’ di apprensione. Poter lavorare in quell’azienda sarebbe
una grandissima opportunità e ci terrei a fare una buona impressione». «Tranquilla, sii te stessa ed andrà tutto bene». «Come diceva Oscar Wild non c’è mai una seconda occasione per fare una buona prima impressione». «Rende il concetto. Ma sono sicuro che li conquisterai al primo impatto». All’aeroporto Manola insisté perché Vittorio non scendesse ad accompagnarla: «Ti ringrazio, galantuomo, ma sono abituata a portare il trolley da me. Ti chiamo stasera». E nel dargli un ultimo furtivo bacio, si avviò alle partenze. Vittorio trovò strano quel rifiuto ma non volle essere assillante e ripartì. Guardò l’immagine di Manola nello specchietto retrovisore quasi avesse il presagio di qualcosa di spiacevole. Rimasta sola, la ragazza si diresse verso l’aviazione generale, la zona degli aerei privati. Ad attenderla, un luccicante Boeing Business Jet con il logo di una delle aziende di famiglia. «Buongiorno, signorina Harandi. Come sta?», le chiese il comandante. «Bene Jack. Vacanze paradisiache, finora. Piuttosto, hai qualche messaggio da parte dei miei?» «No, signorina. L’unica disposizione che ho avuto è quella di accompagnarla a Parigi». «Bene. Sono pronta, andiamo pure».
* * * *
In una delle boutique nei pressi delle partenze, Sandra, la commessa, stava chiacchierando con il fidanzato Giovanni. Anche lui lavorava all’interno dell’aerostazione, come agente di dogana. «Ma quella non è la ragazza di Vittorio che abbiamo conosciuto a Capo Ceraso?», disse Sandra indicando Manola che, superati i controlli doganali, si avviava verso uno degli aerei del piazzale. «Certo che è lei. Ma che ci fa qui?» «Non saprei…» «Ok. Vado a chiedere notizie ai miei colleghi». «Scusate, ragazzi. Ma chi è la ragazza che ha appena ato il controllo?» «Manola Harandi, nipote dell’emiro del Qatar». Un’espressione di stupore si dipinse sul viso di Giovanni, ma cercò di dissimularla: «Ecco chi era. Ma non ne ero sicuro». Ora gli fu tutto più chiaro: la sensazione di déjà vu che lui e Sandra avevano avuto a Capo Ceraso era fondata. Manola era ata chissà quante volte all’aviazione generale ma, avendola incontrata in un altro contesto, non aveva realizzato fosse lei. Riferì tutto a Sandra la quale ricordò di averla vista in più di un’occasione nella boutique. «Chissà perché non ce l’hanno detto. Con Vittorio ci conosciamo da una vita». «E se anche lui ignorasse la sua identità?», disse Sandra con un’espressione dubbiosa sul volto. «Dici? Questo lo scopriremo presto». Prese il cellulare e compose il messaggio: “Ciao campione. O devo chiamarti… Emiro?”
* * * *
Vittorio era appena rientrato in albergo e nel leggere il messaggio pensò che l’amico avesse sbagliato destinatario. Era capitato anche a lui, in ato, e una volta gli era costato una figuraccia. “Ciao Giò. Cosa stai farfugliando? O hai sbagliato numero?” “Nessuno sbaglio. Ma visto che esci con una ragazza di sangue blu, ho pensato avessi ricevuto qualche nomina reale”. Vittorio avvertì una sensazione strana, non riusciva a identificarla. Dove voleva andare a parare l’amico? “Ma hai bevuto o sono principi di Alzheimer?” “Solo un cappuccino. E mi pare di capire tu stia cadendo dalle nuvole. Si chiama Manola Harandi ed è la nipote dell’emiro del Qatar. E suo padre è uno degli uomini più ricchi del pianeta. È appena partita dall’aviazione generale per Parigi”. Quelle parole gli entrarono dentro come frecce appuntite. L’Iphone gli cadde di mano mentre la nausea lo colpì. Iniziò a sudare freddo. Si sedette, aspettando che asse. Come si fu ripreso, scrisse a Giovanni: “Aspettami al bar: dieci minuti e sono da te”. Cercò di riordinare le idee. Qualcosa non quadrava. Ripensò all’atteggiamento strano di Manola di quella mattina. Cercò su Google il nome della ragazza. Trovò poche notizie ma una foto inequivocabile: lei con la famiglia reale al completo a un evento di gala. Coprì la distanza in un lampo, cercando di scaricare sull’acceleratore la tensione crescente. “Perché non me l’ha detto? Capisco all’inizio, ci sta che volesse mantenere l’anonimato. Ma perché dopo non mi ha svelato il segreto? E che ci farà a Parigi?” pensava vorticosamente.
Arrivò al bar dove Giovanni e Sandra si scambiarono uno sguardo preoccupato nel vederlo con il viso pallido e la mascella serrata. Gli raccontarono tutto cercando di tranquillizzarlo: «Magari voleva dirtelo ma non ha trovato il coraggio», esordì Sandra. «Proprio non capisco. È da un po’ che ci frequentiamo, gli ho raccontato cose che mi tenevo dentro da anni e lei, per contro, mi ha nascosto la sua vera vita. Chissà quante altre bugie mi ha raccontato». «Non è detto», intervenne Giovanni. Vittorio non aveva la forza per guardarli in faccia. Aveva le spalle ricurve e lo sguardo spento. «Non saprei, sono molto disorientato. Scusate ma ho bisogno di stare solo. Grazie di tutto». «Vedrai, come ritorna si sistemerà tutto. Stai tranquillo», concluse Sandra.
* * * *
L’aeroporto “Le Bourget” di Parigi aveva il piazzale pieno di jet privati. Manola vi arrivò prima dell’una e trovò, ad attenderla, un Mercedes CL con vetri oscurati. «Buongiorno, Laurent», disse nel salutare un omaccione di colore con il sorriso amichevole. «Bonjour mademoiselle. Bentornata a casa». Arrivarono a “Villa Montmorency” poco prima di pranzo. Nonostante la tensione delle ore precedenti, era rassicurante attraversare quella zona di Parigi denominata “il quartiere dei ricchi”. Le erano familiari i lussuosi condomini, le mega ville da sogno, le ambasciate, i consolati, e le sedi delle principali multinazionali del mondo. E a poca distanza la maestosità della Tour Eiffel.
Un quartiere blindato, sorvegliato e protetto ventiquattr’ore su ventiquattro da un esercito di guardie giurate In quest’oasi del lusso, la famiglia Harandi possedeva una delle sue residenze: Villa Carmen, in onore della padrona di casa. La dimora, costruita nei primi del ‘900, era stata acquistata e poi ristrutturata negli anni settanta da Safiy. Disposta su cinque livelli, disponeva al piano terra di una spaziosa cucina dal design moderno con annessa un’elegante veranda coperta. Al secondo e terzo piano, la zona notte, con due luminose master suite matrimoniali, pavimenti in parquet, bagni in marmo di Carrara con vasche Jacuzzi e uno spogliatoio privato. Al quarto piano, le camere da letto di Manola e Alì collegate a una terrazza con un’ineguagliabile vista sulla capitale se. E poi il piano interrato con sala da poker, angolo bar, cantina climatizzata e uno studio dotato delle migliori tecnologie. Qui i genitori accolsero la figlia: «Ciao tesoro», disse Carmen abbracciando Manola e carezzandole la chioma. «Ciao mamma, ciao papà», rispose la ragazza con un’evidente apprensione. «Ma mi spiegate cosa è successo?» «Certo. È successo questo», le rispose Safiy aprendo una cartella sulla scrivania. Il volto di Manola diventò paonazzo nel vedere il contenuto. Decine di foto ritraevano lei e Vittorio in atteggiamenti inequivocabili: i baci in acqua a Capo Ceraso, la eggiata mano nella mano di Santa Maria Navarrese o le carezze affettuose a Nodu Pianu. Un turbine di pensieri le avvolse la testa mentre sentiva montare nelle viscere una rabbia crescente: «Ma come ti sei permesso di violare la mia intimità? La mia vita?», urlò al padre mentre le lacrime le segnavano il volto. «Neanche fossi una delinquente o una ladra!» Manola prese le foto e le scagliò sul tavolo con una forza inaspettata. Lo sguardo di Safiy mostrò rabbia e incredulità di fronte alla reazione della figlia. Alzò ancora il tono della voce: «L’ho fatto per proteggerti, non capisci? Tu non sai chi è quell’uomo!» «Certo che lo so: è l’uomo che amo. È una persona stupenda e la cosa più importante è che anche lui ama me».
«Con tutti i principi o i milionari che ti corteggiano, vai a scegliere uno che non potrà mai darti quello che una ragazza del tuo rango deve, giustamente, pretendere. Ho fatto un’indagine bancaria e tutte le sue proprietà, tra cui l’albergo, sono ipotecate». Padre e figlia sembravano due spadaccini in duello, ognuno deciso a parare il colpo e a controbattere. Si lanciavano sguardi di fuoco, nessuno dei due disposto ad arretrare di un millimetro. «Come hai potuto? È normale che sia così: è uno che si è fatto da sé, a costo di mille sacrifici». «Proprio non ti capisco. Potresti avere il meglio e ti accontenti di un misero albergatore». «Ho già il meglio: un uomo che mi rende felice. Per cui, sarà meglio che ti rassegni all’idea». Un lampo d’ira comparve negli occhi di Safiy mentre il pugno serrato sbatté sulla scrivania. «Come osi rivolgere queste minacce a tuo padre? Io non mi rassegnerò a una figlia che, per una sbandata, butta alle ortiche la sua vita». «Bene, per i miei gusti questa discussione è già durata abbastanza». Così dicendo Manola uscì dallo studio sbattendo la porta, seguita dalla madre che aveva assistito in silenzio alla discussione. «Figlia mia. Conosci tuo padre, sai com’è fatto», esordì Carmen «Sai anche che ti vuole bene». «Non è certo questo il modo per dimostrarlo. Non sono più una bambina, è giusto che decida io cosa fare della mia vita. E poi non può giudicare una persona senza neanche conoscerla». «Hai ragione. Tra l’altro, a vederlo dalle foto mi sembra proprio un gran bell’uomo». Manola raccontò alla madre la sua vacanza e la felicità provata accanto a Vittorio. Ma fu risoluta: «Torno in Sardegna fino a fine mese. Poi andrò a
Milano dove ho ancora l’appartamento e le mie cose. Lì deciderò il da farsi. Quando mio padre realizzerà che sono una persona adulta, saprà dove cercarmi. Tanto, la sua intelligence riesce a scoprire sempre tutto…», commentò con un’espressione amara sul volto. «Capisco, tesoro. Verrò a trovarti appena ti sarai sistemata. Nel frattempo teniamoci in contatto». «Ti voglio bene, mamma». E nel baciarla, si congedò. Raggiunse in taxi l’aeroporto “Charles De Gaulle”, dove avrebbe preso il primo volo di linea per l’Italia. Mentre era in fila per il check in , arrivò la chiamata di Vittorio. Benché fosse ancora agitata, decise di rispondere. Sperava che sentire la voce del suo uomo l’aiutasse a rasserenarsi. «Ciao, tutto bene? Hai già fatto il colloquio?», disse con voce fredda e distaccata. «Non ancora, me l’hanno fissato per le 17:00. Forse riesco a rientrare stanotte con l’ultimo volo». «Capisco. Devi dirmi altro? Forse qualcosa che non mi hai mai detto?» Quelle parole le arrivarono come una stilettata. Cosa significavano? Possibile che avesse scoperto il suo segreto? Restò in silenzio, cercando di riordinare le idee. Per la prima volta il senso di colpa la raggiunse. Vittorio era l’uomo che amava e solo ora si rese conto di avergli mentito per troppo tempo. Si sentiva in preda alla paura di perderlo e decise di procrastinare ancora una volta. Gli avrebbe raccontato la verità al rientro in Sardegna. «No, non credo. Perché mi fai questa domanda?» «Odio essere ingannato. Perché mi hai nascosto la tua identità? Forse volevi trattarmi come un giocattolo per le vacanze e poi dirmi “grazie e arrivederci”? Vi comportate sempre in modo così bizzarro, voi miliardari?»
Vittorio disse quelle frasi tutte d’un fiato, con la voce dura. Le sue parole ebbero il potere di dare il colpo di grazia a Manola. Non ebbe neanche la forza di rispondere: chiuse la telefonata e scoppiò in un pianto irrefrenabile, mentre una lama sembrava avesse trafitto il suo cuore.
Capitolo 20
Manola arrivò a Milano in serata. Aveva gli occhi gonfi e una brutta cera. I giorni felici ati con Vittorio le sembravano un ricordo sbiadito. Ogni tanto ripensava alle sue parole. Ancora non si capacitava che fossero giunte dalla stessa persona che l’aveva conquistata con i suoi modi gentili. Entrò in casa con la testa che le esplodeva. Mille pensieri l’avvolsero: delusione, rimpianto, sensi di colpa. Flashback dei tanti momenti in Sardegna. Fece una doccia e preparò una tisana. Ma fu inutile: avrebbe ricordato a lungo quella notte insonne. La mattina mandò un messaggio a Vittorio: “Arrivo a Olbia alle 11.00 Ho bisogno di parlarti”.
* * * *
Anche Vittorio non riuscì a chiudere occhio. Si rigirava nel letto senza riuscire a trovare pace. Un dolore alla bocca dello stomaco lo costrinse a sedersi, quando la mattina cercò di alzarsi. Prese di telefono e trovò il messaggio di Manola: “Ok, vengo a prenderti”, rispose. Prese un caffè al bar dell’aeroporto e attese il volo da Milano. Manola fu tra i primi a uscire dalle porte della zona arrivi. Due grandi lenti da sole nascondevano gli occhi ma Vittorio rimase colpito dall’espressione tirata della bocca. «Ciao», le disse. «Ciao». Il viaggio verso l’hotel sembrò irreale. Nessuno dei due parlava e quella fiamma che aveva accompagnato le loro giornate sembra essersi spenta.
Entrarono nella dépendance e fu Vittorio a rompere il silenzio: «Perché?» Manola si tolse gli occhiali e guardò Vittorio con un’espressione sofferta: «Perché avevo paura di perderti. Perché volevo essere apprezzata per la ragazza che sono, non per la famiglia da cui provengo». Vittorio strinse i pugni fino a che le nocche divennero bianche. Il suo sguardo si fece duro: «E quindi, fin quando sarebbe andata avanti questa farsa se non ti avessi scoperta?» Manola abbassò lo sguardo: «Non lo so. Solo ora capisco di aver sbagliato. E mi dispiace». «Ah, ti dispiace. E hai pensato a come mi son sentito quando ho scoperto la verità?» «Lo immagino. Non volevo ferirti. Ho avuto mille volte la tentazione di dirti tutto. Ma non trovavo mai il momento adatto. E ora ti chiedo scusa di non averlo fatto». «Troppo facile, adesso». «Sono andata a Parigi perché mio padre voleva parlarmi. Ha scoperto la nostra storia e voleva che non ci vedessimo più. Abbiamo litigato, sono andata via sbattendo la porta. Perché per me sei la cosa più importante. Ti amo». Vittorio rimase in silenzio. Strinse gli occhi scuotendo lievemente la testa. Poi la guardò negli occhi: «Il problema è che non riesco più a fidarmi di te. Mi dispiace». Manola cercò di replicare ma la voce le venne meno. Inspirò profondamente e con le lacrime agli occhi riuscì a dire: «Capisco».
* * * *
Preparare le valigie fu un calvario. Il profumo di Vittorio era intriso in ogni
angolo della camera e più di una volta Manola non ebbe la forza di ricacciare indietro le lacrime. Appena ebbe terminato, Vittorio la aiutò a portar fuori i bagagli fino al taxi. Si era offerto di accompagnarla ma la ragazza aveva preferito di no. Quando fu l’ora dei saluti si fece forza. Lo guardò e vide un uomo imbarazzato con un velo di amarezza negli occhi. «Allora io vado», riuscì a sussurrargli. «Fai buon viaggio».
* * * *
“Sembrava troppo bello, per essere vero; certe storie succedono solo nei film” pensò Vittorio mentre eggiava tra i filari della vigna. Aveva deciso di are qualche giorno in campagna per riflettere. Al suo ritorno in hotel Giacomo si rese conto del cambiamento. In pochi giorni l’amico sembrava improvvisamente invecchiato. Capì che era successo qualcosa. Chiese notizie della ragazza ma Vittorio rispose laconicamente: «È partita». Decise di non insistere. Dopo qualche giorno fu Vittorio a confidarsi. Gli raccontò gli sviluppi inaspettati degli ultimi giorni. «E ora, cos’hai intenzione di fare?», chiese Giacomo. «Semplice: dimenticarla». I giorni successivi furono una pena. Vittorio interruppe gli allenamenti e declinò tutti gli inviti degli amici. Controllava ossessivamente l’Iphone ma, dalla ragazza, nessun segnale.
Capitolo 21
La telefonata arrivò una mattina, mentre Vittorio era a lavoro: «Un certo signor Lamberti chiede di te. È in linea», disse Giuliano dal ricevimento. «amelo». «Buongiorno, signor Spano. Sono Giovanni Lamberti dello studio legale Lamberti e associati di Milano. Vorrei discutere con lei una questione legata all’hotel». «Certo, mi dica. Di che si tratta?» «Preferirei parlarne a voce. Ma le anticipo che riguarda una proposta d’acquisto da parte di un mio cliente». Vittorio aggrottò la fronte, prima di rispondere. «Capisco. In verità l’hotel non è in vendita». «Non vorrei essere indelicato, signor Spano. Ma tutto ha un prezzo su questa terra. Le chiedo solo la disponibilità ad incontrarmi». Vittorio guardò Giacomo con aria perplessa. Poi rispose: «Ok ma più in là. In questo momento siamo ancora in piena stagione». «Perfetto. La richiamerò più avanti». «Arrivederci». Giacomo lo guardò con aria interrogativa: «Chi era?» «Un avvocato di Milano. Vuole proporci la vendita dell’hotel. Ha detto che “tutto ha un prezzo su questa terra”. Lo stavo per mandare a quel paese ma mi son trattenuto».
«Hai fatto bene. Sentiamolo».
* * * *
Per Manola furono giorni difficili. Louise l’aveva invitata a Nizza per trascorrere gli ultimi giorni di vacanza ma dopo averle raccontato sommariamente la fine della storia con Vittorio, declinò la proposta. Ne approfittò per prendere contatto con alcuni studi di design che sperava le dessero la possibilità di uno stage. Ma non riusciva a togliersi Vittorio dalla testa: da una parte si sentiva in colpa; dall’altra era ferita. Una cosa non poteva comunque negare: le mancava da morire. Settembre portò con sé delle novità: il direttore di un importante studio di Milano voleva vederla. Aggiornò il curriculum e attinse dal web tutto ciò che c’era da sapere su quella realtà. Essere occupata su qualcosa la aiutò a distrarsi: il colloquio andò bene, lo studio era in espansione e stava ampliando lo staff. Avrebbe iniziato come stagista per un anno con possibilità di un successivo inserimento. La prima bella notizia dopo una settimana da incubo. Anche Louise, nel frattempo, era tornata a Milano. Avevano appuntamento in un bar del centro, il loro solito ritrovo. « Cherie , come stai?», le chiese l’amica stringendola in un abbraccio. « Comme çi, comme ça … Tu? Fatti vedere… Ma sei in gran forma!», rispose Manola, con un espressione affettuosa. «In effetti, ho preso tanto di quel sole che spero l’abbronzatura duri fino a Natale. Tu invece che mi racconti? Dimmi una cosa, per iniziare: stai mangiando?» «Poco. Non ho appetito. Pian piano tornerò in forma, vedrai».
«Su questo non ci piove. A costo d’imboccarti! Sentiamo, raccontami tutto. Al telefono sei stata troppo evasiva, voglio sentire i dettagli». Manola riportò la cronaca degli ultimi tempi. Il solo fatto di parlarne iniziava a darle sollievo. Le descrisse i giorni da sogno ati in Sardegna, le sorprese, i sospiri. E l’amore inaspettato di un uomo maturo. «Vedrai, il tempo guarisce tutte le ferite. Ti basterà distrarti un po’, conoscere gente nuova e buttarti sul lavoro. E tutto erà». «Ci spero con tutto il cuore».
Capitolo 22
Per Vittorio le cose non cambiavano. Il senso di vuoto e la malinconia erano i compagni di viaggio delle sue giornate. Una sera mentre faceva zapping alla TV vide uno speciale su Domenico Modugno. In un video in bianco e nero interpretava una canzone che suo padre canticchiava spesso quando lui era bambino:
La lontananza sai è come il vento, che fa dimenticare chi non s’ama è già ato un anno ed è un incendio che, mi brucia l’anima. Io che credevo d’ essere il più forte. Mi sono illuso di dimenticare, e invece sono qui a ricordare . . . a ricordare te
Il ricordo del padre affiorò in un moto di nostalgia. Lo rivide felice, tra i tavoli del ristorante, a chiacchierare con i clienti. E poi sulla poltrona di casa che riposava al rientro da lavoro. Era morto da anni e Vittorio aveva sofferto molto. Chissà che consiglio gli avrebbe dato in quel momento. Senza neanche rendersene conto, le lacrime iniziarono a rigargli il volto.
* * * *
Manola si buttò a capofitto sul lavoro. L’apionava e poi si rendeva conto che più la mente era impegnata, meno il pensiero andava a Vittorio. Benché l’ambiente fosse molto competitivo, i colleghi la accolsero a braccia aperte. Dal canto suo era sempre disponibile ad aiutare gli altri. Erano un bel team : energici e professionali a lavoro ma sempre pronti a organizzare un aperitivo o una pizza appena fuori. In particolare, Manola strinse amicizia con Paolo, un giovane designer alla prima esperienza di lavoro come lei. Era un bel ragazzo: alto, biondo e con un abbigliamento sempre alla moda. Stava molto sulle sue ma Manola lo sorprese qualche volta che la osservava, furtivamente. E nel sorridergli, lo vedeva arrossire. Quasi ogni giorno vedeva Louise per un caffè o per cena. Anche lei era soddisfatta del suo lavoro. «Il problema è che gli stilisti sono tutti pazzi. E l’ entourage non è da meno. Ma è quella sana pazzia che produce la creatività e quei capi di abbigliamento che adoro. Chissà se anch’io, quando diventerò una stilista, sarò altrettanto pazza», disse Louise. «Tu non avrai questo problema: lo sei già!» «Ahahah, hai ragione. Che bello vederti ridere. Finalmente la Manola che conoscevo sta tornando». «Già, anche se non ti nascondo che è dura. Ci sono notti che non riesco a dormire». «Capisco, Cherie. Evidentemente doveva andare così». «Già, magra consolazione». «Ad ogni modo, allontana le nubi. Sei giovane e hai tutta la vita davanti. A proposito c’è un collega niente male che vorrei farti conoscere». «Grazie, ho già dato. Per il momento preferisco starmene per i fatti miei. Ma apprezzo la proposta. Sei un angelo».
* * * *
L’avvocato Lamberti era un bell’uomo sulla cinquantina. Abito blu in fresco di lana, capelli rasati, fisico atletico e sguardo sicuro. Salutò Vittorio e Giacomo con una stretta di mano decisa e si accomodò nella sala riunioni dell’Angedras. Dopo i convenevoli, tirò fuori dalla valigetta Samsonite un plico di documenti: «Bene signori. Come vedete il mio cliente si è ben documentato, prima di questo incontro. Questa cartella contiene dati progettuali dell’immobile, visure di bilanci, analisi di mercato e, soprattutto, una perizia di un importante studio tecnico di Milano». «Vedo, rispose Vittorio», con espressione neutra. «Arriviamo al nocciolo. La perizia stima il valore dell’hotel in circa cinque milioni di euro. Il mio cliente ne offre il doppio per acquisirne la proprietà. Ma a una condizione». Lo sguardo dei due soci tradì il loro stupore, nel sentire quelle parole. Un’offerta del genere rappresentava la possibilità della pensione anticipata per entrambi. Fu Giacomo a rispondere: «Offerta generosa, senza dubbio. E anche bizzarra, aggiungerei. Ha parlato di una condizione. Quale sarebbe?» Il legale assunse una posa teatrale. Quasi volesse alimentare la suspense che era calata sulla stanza. «Il mio cliente, il signor Safiy Harandi, pretende che il signor Spano interrompa immediatamente qualsiasi rapporto con la figlia». Il viso di Vittorio diventò paonazzo mentre serrava la mascella. Fissò l’avvocato con lampi di rabbia negli occhi ma non proferì parola. Fu Giacomo a intervenire: «Ci scusi un attimo, avvocato. Avrei necessità di scambiare due chiacchiere con il mio socio, in privato». E così dicendo invitò Vittorio a seguirlo nel suo ufficio.
L’avvocato fece un cenno d’assenso con la testa. Prese una scatola di sigari dalla giacca e aprì la portafinestra che dava sulla veranda. Il suo viso celava un ghigno di soddisfazione. In ato quella situazione gli era capitata tante volte. Incontrare persone, come Giacomo e Vittorio, e metterle in crisi con il peso dei soldi e del potere prima di vederle capitolare. Rientrò nella stanza sorridendo al pensiero della parcella che quella trattativa gli avrebbe fruttato. «Allora signori? Cosa devo riferire al mio cliente?» Vittorio ora aveva i lineamenti rilassati mentre Giacomo lo fissava divertito. Tossì lievemente, prima di rispondere: «Riferisca al signor Harandi di andare al diavolo».
Capitolo 23
«Io getto la spugna, per oggi ho dato abbastanza. Tu hai intenzione di rubare il lavoro alla guardia?», chiese Paolo sorridendo a Manola, ancora alle prese con il suo “Mac”. «Ops , sono le nove. Non mi ero accorta fosse così tardi». «In effetti il tempo è volato. Se spegni il pc ti aspetto. E anche tu cerca di seguire il consiglio di mio nonno». «Sarebbe?» «Quando qualche volta mi lamento perché sono stanco e stressato, mi prende da una parte e dispensa le sue pillole di saggezza: “Figlio mio, il rimedio c’è ed è molto semplice. Ciò che non riesci a concludere la sera, lascialo al giorno dopo” » . «Ahahah, è vero. Ha ragione. Dev’essere un bel personaggio » . «Certo, lo è. Ha fatto la guerra, perso molti amici in battaglia e visto la morte in faccia in più di un’occasione. Per questo ha una dimensione dei problemi molto soggettiva. Quella che a me può sembrare una montagna da scalare… per lui è un sassolino». «Immagino. Comunque grazie per avermi aspettato » . E continuando a chiacchierare arrivarono all’uscita. «Che dici se mangiamo un boccone da qualche parte?» Manola rimase in silenzio. Era da tanto che non usciva con qualcuno. E non che le mancassero gli inviti. Cercò di farfugliare una scusa ma alla fine sorprese anche se stessa: «Perché no? Ma senza far tardi. Altrimenti domani non riusciremo a fare le cose che non abbiamo concluso oggi. E disubbidiremo a tuo nonno!»
Il viso di Paolo si illuminò. «Ok, affare fatto. Qui vicino c’è un wine bar molto carino». «Per me va bene » . Ordinarono un tagliere di salumi e un Chianti di “Antinori”. Il posto era accogliente, con grandi botti di rovere a mo’ di tavoli e delle candele accese. Chiacchierarono amabilmente, raccontandosi molte cose che durante il lavoro non si erano detti. Parlarono dei colleghi e di possibili relazioni all’interno dello studio. Manola aveva un’espressione serena. Rideva alle battute di Paolo e trovò irresistibile la sua imitazione del direttore. Rientrò a casa un po’ brilla. Fece una doccia e si mise a letto. Si sentiva rilassata. Ripensava alla serata e a quanto fosse stata piacevole la compagnia di Paolo. “Forse dovrei vederlo più spesso”, pensò prima di addormentarsi.
* * * *
Vittorio ò una notte agitata. Sognò di essere diventato l’assistente personale di Safiy Harandi e di vivere in un grande castello dorato. L’offerta del padre di Manola gli aveva fatto capire quanto quell’uomo fosse potente e determinato. E soprattutto quanto fosse difficile per una figlia tenergli testa. Ripensò all’epilogo della loro storia e, per la prima volta, il tarlo del dubbio si insinuò nella sua testa: “E se fossi stato io al suo posto, son proprio sicuro che mi sarei comportato diversamente?” La mattina, osservando allo specchio le occhiaie e il corpo smagrito prese una decisione. “Così non posso andare avanti”. Arrivò a Milano con il primo volo del mattino. Dalla pagina Facebook di Manola era risalito allo studio presso cui lavorava e tramite alcuni amici aveva fatto un po’ d’indagini. Arrivò in Corso Como e decise di prendere un caffè in uno dei bar vicini a dove la ragazza lavorava.
Per lui, così razionale, quella situazione era anomala. Non aveva un piano d’azione e, pensandoci ora, gli sembrò un azzardo presentarsi così all’improvviso. Inoltre provava ancora rabbia ripensando all’arroganza di Safiy e alla sua “clausola contrattuale”. Dopo un’ora di attesa prese il coraggio a due mani e decise di agire: si sarebbe presentato nell’ufficio di Manola e avrebbe chiesto di lei. Si alzò per pagare il conto quando, osservando dalla vetrina, vide una scena che gli tolse il fiato. «Tutto bene?», gli chiese il cameriere nel vederlo sbiancare improvvisamente. Vittorio fece un lungo respiro e rispose con voce flebile: «Si grazie. Devo solo avere un po’ di febbre». Il giovane non poteva sapere che la ragazza che Vittorio fissava, con un cavaliere che le cingeva le spalle, era Manola.
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«Caffè e croissant ?», chiese Paolo affacciandosi nell’ufficio di Manola. «Perché no? Dammi un secondo, chiudo il file e son da te». Per Manola e Paolo fare colazione o pranzare insieme stava diventando una consuetudine. Ma capitava anche la sera di ritrovarsi con i colleghi per un aperitivo o mangiare un boccone. Paolo le faceva una corte discreta ma la ragazza non lo incoraggiava granché. «Come usciamo devo chiederti una cortesia», disse Manola. «Certo signorina. Di che si tratta?» «Niente di particolare. Il proprietario del bar di fronte mi sta’ dietro da un po’. Ho rispedito al mittente i suoi inviti ma sembra non voglia arrendersi. Se ti
fingessi il mio boy friend ?» Paolo avvampò ma cercò di mascherare l’imbarazzo: «Per te questo e altro, amica mia. Andiamo». Scesero in strada con Paolo che le stringeva la mano mentre Manola rideva divertita. Due finti innamorati tra le tante coppie che eggiavano per Corso Como.
* * * *
Vittorio rientrò a Olbia in serata. La testa gli scoppiava mentre mise piede in casa. Decise di prepararsi una camomilla, prima di mettersi a letto. Sentì un trillo e prese il telefonino. Era Nico, l’unico insieme a Giacomo, a cui aveva confidato la sua trasferta milanese. “Quindi? Com’è andata?” “Stavolta è finita per davvero. Domani ti racconto”. * * * *
Safiy guardava l’avvocato Lamberti con occhi di fuoco. Lo aveva convocato a Parigi per sentire dalla sua voce il resoconto della missione fallita in Sardegna. L’incontro durò un’ora e terminò solo quando l’avvocato ebbe compilato un documento fasullo dietro ordine del cliente. Lamberti tirò un sospiro di sollievo, quando Safiy lo congedò. “Non vorrei essere nei panni di Vittorio Spano e di chiunque si permetta di tenere testa a quest’uomo” pensò, mentre lasciava Villa Carmen.
Capitolo 24
Il Cannonau luccicava al sole. Grappoli maturi sorridevano sui ceppi, pronti per essere colti. Vittorio aveva invitato una trentina di persone per la vendemmia: amici, familiari e qualche ospite dell’hotel. L’aria era calda, nonostante fosse ottobre. «Ottimo lavoro, Antonio. Grazie a Dio, non si trova un grappolo malato», disse Vittorio al contadino che curava la vigna. «Grazie. Ma il lavoro non basta, ci vuole anche fortuna. A volte il caldo esagerato o una grandinata estiva possono vanificare le fatiche di mesi. E ora al lavoro», disse l’uomo. Si divisero i compiti: le donne, in coppia, a tagliare i grappoli mentre gli uomini ad occuparsi della raccolta delle ceste. Lavoravano di buona lena, qualcuno cantava, altri chiacchieravano. In poche ore terminarono la raccolta e, mentre le donne preparavano il pranzo, gli uomini macinarono l’uva. La sistemarono in una grande cisterna dove il mosto avrebbe fermentato per una settimana, prima della torchiatura. Finirono che era ormai l’una. All’ombra di un ulivo secolare, era stato allestito un banchetto su un enorme tavolo di granito. Salumi, formaggi e sottaceti fatti in casa erano in bella mostra sui vassoi di sughero. Il pane appena sfornato prometteva dolci fragranze. Dopo gli antipasti, arrivò in tavola la zuppa gallurese preparata dalla madre di Vittorio e il porcetto cotto allo spiedo. Mangiarono allegramente: in Sardegna ogni occasione è buona per la convivialità. La festa proseguì nel pomeriggio tra canti e sfide a “morra”, il gioco in cui i due contendenti devono cercare d’indovinare la somma delle dita mostrate da entrambi simultaneamente.
Per Vittorio fu una bella giornata anche se la sera, prima di dormire, il pensiero di Manola gli riportò la solita malinconia. * * * *
Carmen arrivò quella mattina, da Parigi. Dopo mesi di attesa, avrebbe trascorso il week end a Milano. Manola raggiunse Piazza San Babila districandosi tra gruppi di turisti che andavano a visitare il Duomo o milanesi, con grossi bustoni in mano, che raggiungevano la stazione della metro. « Mi amor , come stai? Fatti abbracciare, bambina mia». «Ciao mamma, che bello vederti. Mi sei mancata». «Anche tu, non sai quanto». Si accomodarono in uno dei tanti caffè intorno a Piazza Duomo. Carmen andava pazza per il cappuccino italiano, Manola le fece compagnia con un espresso. Parlarono di quegli ultimi mesi. Nonostante si sentissero al telefono quasi ogni giorno, fu l’occasione per farsi mille domande. «Come sta papà?» «Bene, sempre molto indaffarato. Gli manchi tanto». «Anche lui manca a me. Ma deve capire che non sono più una bambina». «L’ha capito, ne sono certa. Prima o poi ti chiederà scusa. Non immagini quante volte cerchi di farlo ragionare». «Lo so, mamma. Ma non fartene un cruccio. Il tempo sistemerà tutto». Chiacchierarono per un po’ finché non decisero di lanciarsi in quell’attività che due donne senza impegni particolari trovano irresistibile: lo shopping . Arrivarono al Quadrilatero della moda e presero d’assalto le boutique e gli atelier delle griffe più prestigiose.
Sembravano due amiche di vecchia data mentre indossavano decine di capi di abbigliamento, scarpe e accessori. Carmen era convinta che riempire gli armadi della figlia con tutte quelle meraviglie avrebbe lenito i suoi dolori e reso meno amaro il distacco dalla famiglia. Rientrarono a casa di Manola esauste e cariche di pacchi. Per loro fortuna, un raffinato giovanotto incaricato da una delle boutique, diede loro una mano.
* * * *
Manola girava e rigirava il biglietto tra le mani. Glielo aveva lasciato Carmen, al momento dei saluti: «È di tuo padre. Non mi ha voluto rivelare il contenuto. Dice che è una cosa tra te e lui». Lo aveva letto decine di volte ma il significato era chiaro: Vittorio aveva venduto l’Angedras a Safiy a condizione che s’impegnasse ad interrompere ogni rapporto con lei. E il compromesso di vendita sottoscritto da un certo avvocato Lamberti ne era la prova. Manola non sapeva se provava più rabbia o delusione quando decise di bruciarlo. Di una cosa era certa: era il segnale definitivo che Vittorio faceva ormai parte del ato.
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Il tempo ava ma per Vittorio le cose non cambiavano. Guardare il telefono continuamente era diventata un’ossessione. Spesso controllava il profilo Facebook di Manola ma la ragazza lo aggiornava molto di rado e non pubblicava mai notizie o foto personali. ava gran parte del tempo in ufficio e aveva ripreso a fare sport con assiduità. Ogni tanto incontrava Nico e gli altri ma aveva
smarrito quella verve che lo rendeva tanto brillante in compagnia. La parola “rassegnazione” iniziò a prender forma nella sua mente. Una mattina, arrivò una chiamata di Nico: «Ciao Zio, come stai?» «La verità vera? Da cani». «Vedrai, erà vecchio mio. Non esiste un unguento migliore del tempo, per guarire le ferite». «Stavolta ne occorrerà una cisterna». «So che questo è il momento meno adatto. Sembra quasi una mancanza di delicatezza nei tuoi confronti. Ma devo dirti una cosa, vorrei che fossi uno dei primi a saperlo. A maggio mi sposo». Per Vittorio quelle parole ebbero il potere di riaprire una ferita aperta. Ripensò a qualche anno prima, sembrava ata una vita. Ricacciò i brutti pensieri e si fece forza: «Wow, che notizia! Son felice per te, davvero. Era ora che mettessi la testa a posto». «Hai ragione. Con Letizia sto bene e mi sento pronto a fare il grande o». «Sì, mi sembra una ragazza in gamba. Anche troppo, per te», scherzò Vittorio. «Dimenticavo, inizia a scegliere un abito con tutti i crismi. Dovrai essere molto elegante: sarai il mio testimone. Sempre che ti faccia piacere». «Ma veramente? Ne sono onorato». «Bene, magari ci vediamo stasera per un aperitivo». «È il minimo: bisogna festeggiare».
* * * *
Se in amore era un periodo nero, non altrettanto si poteva dire per il lavoro: la stagione era stata ottima ed era appena arrivata la conferma che un gruppo di medici tedeschi sarebbero stati ospiti in hotel per una settimana. Significava che l’albergo avrebbe chiuso i battenti il dieci novembre, un risultato straordinario.
Capitolo 25
Natale arrivò con il suo carico di gelo. Da quando aveva preso in gestione l’Angedras, era il periodo in cui Vittorio partiva per le vacanze. Cuba, Messico, Thailandia erano alcuni dei paesi che aveva visitato nel tempo. Quell’anno gli amici sarebbero andati in Brasile. Ma, nonostante le loro insistenze, decise di rimanere a casa. «Perché non parti? Ti farebbe bene», disse sco, una sera al bar. «Perché l’umore è sotto i tacchi. E non vorrei condizionare la vacanza degli altri». «Lo so. Ti vedo. A casa ne parliamo spesso». «Và così, erà». «Coraggio campione. Per qualunque cosa ricorda che ci siamo». «Lo so. Grazie».
* * * *
Cortina accolse Louise e Manola la sera del ventidue dicembre. Le vetrine di Corso Italia erano addobbate con le fantasie più trendy mentre luminarie colorate abbellivano le facciate dei grand hotel. Aveva pensato Carmen a quella vacanza, sarebbe stato il suo regalo di Natale per la figlia. Si era messa d’accordo con Louise e aveva prenotato in uno dei migliori alberghi del centro. Per le ragazze sarebbe stata anche l’occasione per rivedere tanti amici che avevano scelto le Dolomiti per le vacanze.
Furono giorni spensierati tra shopping , ore sulle piste e l’immancabile aggio nei tanti “Après Ski” a fine giornata. La mattina di Natale Manola scartò il regalo che le aveva fatto Louise: un portafogli di Gucci di cui si era innamorata in una vetrina a Milano. Lei invece aveva scelto una sciarpa di cashemere per l’amica. Si abbracciarono e mentre Louise si preparava per le piste, Manola prese il telefono per inviare i messaggi di auguri o per rispondere a quelli ricevuti. Scorreva la tastiera quando rivedendo il contatto di Vittorio, il ricordo riaffiorò all’improvviso. Sarebbe potuto essere il loro primo Natale insieme ma chissà dov’era in quel momento? Fu un flash ma ebbe il potere di richiamare la malinconia e il rimpianto. E la rabbia ripensando a come l’uomo che aveva amato si era fatto comprare da Safiy. Cercò di farsi forza e scacciare i brutti pensieri.
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Per Vittorio, il pranzo di Natale fu un momento piacevole. sco e la moglie Maria avevano deciso di invitare lui, la madre e Giovanni a casa loro. Dopo lo scambio dei regali, si lanciarono sulle tante leccornie che Maria aveva preparato. Stapparono diverse bottiglie e Vittorio rientrò a casa un po’ brillo. Aggiunse legna al fuoco, indossò la tuta e si sistemò sulla poltrona di fronte al camino. Aveva registrato diversi film su “My Sky” e decise di sceglierne uno. Prese il telefono per rispondere all’ennesimo messaggio quando, chissà quale impulso, lo spinse a cercare quel nome che negli ultimi mesi aveva cercato di cancellare con tutte le forze. Come un vulcano che erutta dopo anni di quiete, le immagini di Manola esplosero nella sua mente. Sembrava quasi di sentirne il profumo o di poter toccare la pelle serica. “Chissà dove sarai, Principessa”.
Capitolo 26
La primavera arrivò con la sua ventata di novità. Manola continuava la sua vita a Milano immersa nel lavoro. Pian piano stava ricomponendo i cocci del suo cuore. Non c’era settimana che non ricevesse inviti da giovani baldanzosi ma nessuno destava il suo interesse. Sempre più spesso frequentava Paolo ma fino a quel momento lo considerava solo un amico. « È carino , non posso negarlo. E poi è cortese e pieno di attenzioni nei miei confronti», disse a Louise mentre gustavano del sushi comprato in un take away vicino a casa. «E quindi? Cosa aspetti a concederti?» «Non lo so neanche io. È che, dopo la storia con Vittorio, sono molto frenata». «È normale. Magari frequentarlo può aiutarti a sbloccarti. E non per forza devi giurargli amore eterno». «Questo è vero. Ma lo vedo molto preso e non vorrei fargli del male». «Ti preoccupi troppo e ti fai già i tuoi film. Non è un ragazzino, parlaci chiaro e, se ti va, frequentalo». Manola guardò l’amica con espressione poco convinta: «Ci penserò. Grazie dei consigli, sei un’amica » . «Non ringraziarmi. L’amicizia è un conto corrente aperto. Si può andare a credito o a debito ma mai all’incasso». «Bella metafora. Te la rubo » . E quella sera, nel buio della sua camera, rifletté sulle parole dell’amica.
* * * *
Il cuore di Vittorio, invece, non vedeva nessuna timida ripresa. Sembrava aver perso ogni interesse per le altre donne, quasi fosse anestetizzato dopo la fine della storia con Manola. Un sabato sera era solo, a casa. Alla TV davano un documentario sull’arcipelago della Maddalena. Il ricordo della gita in barca con Alberto e sca giunse in un secondo. Le immagini si fecero così nitide che quasi si rivide sul ponte a fissare le stelle accanto a Manola. Sembrava fosse ato un secolo. Fino ad allora aveva resistito ma quella sera prendere l’Iphone gli sembrò l’unica cosa da fare: “Ciao Manola. Mi dispiace per quel che è successo, ho sbagliato. L’ho capito solo ora. So che è ato tanto tempo ma ti chiedo la possibilità di poter recuperare. Vittorio”. Manola era a cena con Louise e degli amici conosciuti al Politecnico. Vide il display del telefono illuminarsi e il suo viso assunse un’espressione turbata. Louise se ne accorse e le chiese: «Tutto bene?» «Si, scusate. Era mio fratello, è stato poco bene ed ero un po’ preoccupata. Ma era solo un falso allarme, ora va meglio». «Bene così e allora brindiamo», propose Matteo, uno dei ragazzi al tavolo. Manola rimase silenziosa per il resto della cena. Disse agli amici che aveva mal di testa e si congedò. Louise l’accompagnò alla porta del ristorante: «Era Vittorio?», le chiese. «Sì, era lui. E ora non so proprio che fare». «Stai tranquilla. Domani ne parliamo». A casa leggeva e rileggeva l’sms. Proprio ora che stava iniziando a star meglio, il ato era tornato a bussare alla sua porta.
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La risposta non arrivò neanche la mattina dopo. Ogni pochi minuti Vittorio controllava l’Iphone ma di Manola nessun segnale. Accese la TV ma non trovò niente che lo interessasse. Provò a leggere un libro ma dopo pochi minuti lo ripose.
* * * *
«Pronto, Cherie , come va? Peccato sia andata via, ieri. È stata proprio una bella serata. Piuttosto, raccontami del messaggio», disse Louise, al telefono. «Vuole ricominciare. Ha ammesso di aver sbagliato e mi ha chiesto scusa. Il problema è che, in questo momento, non so proprio cosa fare», rispose Manola. «Ti capisco. La sofferenza degli ultimi mesi ti innesca sicuramente grandi paure». «Sì, penso di non sentirmi abbastanza forte per rivederlo. Anche se il desiderio di farlo è grande». «No, cara. Tu sei una ragazza molto forte. È che, in questo momento, sei particolarmente vulnerabile. E questo complica le cose». «Probabilmente hai ragione. Ci penserò su». «Qualunque decisione prenderai, sarà quella giusta. Ti voglio bene». «Ancora grazie, sei un’amica». Manola decise di rimanere a casa quella domenica. Aveva diverse cose di lavoro da sistemare, così declinò diversi inviti per una gita fuori porta. Lavorava al pc a quando il telefono trillò: “Mi dispiace non avere almeno una risposta ma non importa. Ho deciso: domani vengo a Milano. Sarò ad aspettarti
al “Seventy”, a Brera, per un caffè. Ho bisogno di vederti e di parlarti”. Manola depose il telefono e andò al guardaroba. Negli ultimi tempi aveva rimandato ma quello gli sembrò un buon momento per il cambio di stagione. Aveva decine di abiti da riporre o da tirar fuori. Terminò il lavoro solo in serata. A quel punto prese la sua decisione. “Ciao. Apprezzo il tuo sforzo e accetto le tue scuse. Ho sbagliato anche io. In questi mesi sono stata molto male ma ora credo di aver ritrovato un certo equilibrio. Preferisco chiudere così. Mi dispiace”. E nello scrivere quelle poche parole iniziò a piangere. Un miscuglio di emozioni l’avvolse mentre sentiva di aver fatto un o definitivo. “Capisco. Ti auguro un futuro radioso, lo meriti. Ti voglio bene”.
Capitolo 27
I Navigli erano affollati, quel primo venerdì di giugno. Giovani che, con il bel tempo, si riversavano in quella zona di Milano per il rito dell’aperitivo. Paolo aveva scelto una trattoria tipica per quella prima vera uscita con Manola. Le altre volte erano sempre state situazioni estemporanee, improvvisate. Il classico boccone dopo il lavoro, come avviene tra colleghi. Quello invece era un appuntamento a tutti gli effetti. Dopo mesi di corte velata, quella mattina aveva rotto gli indugi. Durante una pausa caffè, aveva azzardato l’invito: «Impegni per stasera?» «Veramente no. Pensavo di riposare anche perché non ho sentito nessuno parlare di aperitivi o pizza». Per un attimo, lo sguardo di Paolo mostrò esitazione. Ma poi le chiese: «Pensavo d’invitarti a cena. Da qualche parte». Manola rimase in silenzio, aggrottando la fronte. Fino a quel momento Paolo era stato un corteggiatore molto discreto. La riempiva di piccoli doni come cioccolatini, bracciali colorati o una margherita lasciata sulla scrivania, ogni tanto. Manola apprezzava, ringraziava ma non faceva niente per incoraggiarlo. Era il suo confidente quando aveva qualche problema a lavoro o la necessità di qualche consiglio. «Ma io e te soli?», rispose con voce titubante. «Certo. O meglio, con i proprietari del ristorante, i camerieri e altri clienti, immagino», rispose il ragazzo sorridendo. «Scusami, è che, ultimamente, non sono abituata ad accettare inviti». «Quindi?» «Quindi per te posso fare un’eccezione».
Il viso di Paolo arrossì mentre la sua voce tradì l’emozione: «Bene, o a prenderti sotto casa per le 21:00». Rientrarono in ufficio in un silenzio un po’ imbarazzato. Durante il resto della giornata si scambiarono, ogni tanto, sguardi furtivi di complicità. “L’attesa del piacere è essa stessa piacere” recitava un vecchio adagio. Paolo ò una giornata di pura felicità aspettando la sera. Per mesi aveva sognato quel momento. Ora si trattava ti tirar fuori tutte le sue abilità di seduttore. Non che non fosse bravo ma, con Manola, era tutta un’altra storia. La ragazza invece aveva subito informato Louise su “WhatsApp”: “Brava! Era ora, avevo il timore che ti volessi votare a castità!” “Ahahah, esagerata! È che finora non mi andava”. “L’importante è che abbia accettato”. “Ok, ci sentiamo più tardi. Baci”. Anche per Manola l’attesa fu piacevole. La prospettiva di qualcosa di nuovo la solleticava, dopo mesi di sofferenza. Ultimamente il pensiero di Vittorio era meno presente, anche se rimaneva l’amarezza di un cammino non percorso fino in fondo. Ora, seduti in quella trattoria, l’imbarazzo era palpabile, quasi fossero due sconosciuti. Finalmente arrivò il cameriere per le ordinazioni. Due prosecchi di Valdobbiadene riuscirono a rompere il ghiaccio. Così i due giovani iniziarono a parlare di tutto: delle loro famiglie, della loro adolescenza o di episodi legati al lavoro. Per il dopo cena si spostarono in un pub poco distante. “È un bel ragazzo. Intelligente, ironico, gentile. Chissà quante ci andrebbero a letto. Però…”, pensò Manola, mentre Paolo pagava il conto. Sulla via del ritorno, erano di nuovo taciturni. Paolo l’accompagnò sotto casa, spense il motore e la guardò fissa negli occhi. Poi, senza dire niente, la baciò. Manola non sapeva ancora se quel bacio l’aveva desiderato o temuto. Un insieme di sensazioni s’intrecciarono: eccitazione ma anche paura, vertigine,
desiderio. Rispose al bacio con naturalezza. Salirono in casa continuando a baciarsi e, appena dentro, fecero l’amore senza arrivare alla camera da letto. Più tardi, fu Manola a interrompere il silenzio: «Forse questo è il momento meno opportuno. Ma preferisco essere chiara». «Certo, dimmi pure». «Se siamo qui, è certo per una scelta consapevole, non fraintendermi. Solo che vorrei che ci sentissimo entrambi liberi. Sono reduce da una storia che mi ha lasciato con le ossa rotte. E non vorrei impelagarmi in qualcosa di impegnativo. E, soprattutto, creare false aspettative». «Capisco, non preoccuparti. Mi piaci da morire e farò di tutto per rubarti il cuore». «Addirittura, rubarmelo?» «Sì, ma sarò molto discreto. Lo farò senza che tu te ne accorga». Prima di dormire Manola ripensò a quelle parole. Era bello che qualcuno la desiderasse a tal punto. Ma un velo di tristezza le attraversò la mente. Aveva quasi la certezza che i momenti di felicità provati con Vittorio non sarebbero più tornati.
Capitolo 28
Una mattina di agosto, un bus varcò i cancelli dell’hotel per accompagnare un gruppo di manager di una multinazionale svedese. Vittorio era nella hall per accogliere gli ospiti quando una visione attirò la sua attenzione: una ragazza dai capelli biondo platino e due enormi occhi azzurri gli si parò davanti. «Piacere Heidi, sono la guida». «Salve, Vittorio, il proprietario. Benvenuti all’Angedras». «È bellissimo, qui. Complimenti». Vittorio sorrise: «Grazie, ci abbiamo messo la massima cura. E fa piacere quando ciò viene apprezzato». La ragazza gli descrisse il programma della settimana: i manager avrebbero unito la vacanza ad alcune esercitazioni in outdoor, quelle attività di gruppo mirate a migliorare il clima aziendale. Per cui chiese a Vittorio alcune indicazioni logistiche, benché la spedizione fosse stata programmata nei minimi dettagli. Si sedettero al bar a bere un caffè. La ragazza cercava in tutti i modi il contatto fisico, a volte con la gamba che toccava quella di Vittorio, altre con la mano che sfiorava la sua. Era consapevole della sua bellezza e sembrava conoscere molto bene i meccanismi della seduzione. Vittorio rimase al gioco. Indugiava con lo sguardo sui seni della ragazza e ogni tanto aggiungeva un sorrisino malizioso alla sua espressione. Dopo mesi bui, quella presenza aveva portato un po’ di sole nel suo cuore. La sera, prima di dormire, si trovò a fantasticare su quel corpo sinuoso bramando di desiderio.
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«Pensavo di fare un salto a San Pantaleo. Il programma di domani prevede un’arrampicata sulle rocce poco distanti dal paese. Ti andrebbe di accompagnarmi?», chiese Heidi a Vittorio, di ritorno dalla sua seduta di jogging . Il viso di Vittorio tradì la sua sorpresa. Pensò a qualche scusa su improbabili impegni ma rispose: «Perché no? Il tempo di una doccia e d’indossare un paio di jeans». Arrivarono nel tardo pomeriggio raggiungendo la piazzetta centrale, con le sue case basse e la chiesetta in granito sullo sfondo. Il bar posto su un lato della piazza era già affollato per l’aperitivo. Nicola, il proprietario, girava tra i tavoli offrendo assaggi ai suoi clienti. Vittorio lo conosceva da una vita: «Ciao Nik, come va? Ti trovo in gran forma. La caccia?» «Bella masciò . La caccia benone, anche se in giro c’è poca selvaggina. Tu?» «Bene. Stagione positiva in hotel. Lei è Heidi». «Piacere, Nicola. Accomodatevi, prego. Cosa posso prepararvi?» «Per me uno Spritz», rispose la ragazza. «Fai due», aggiunse Vittorio. «Due Spritz all’Aperol per i signori», disse il proprietario rivolgendosi alla barista. Insieme agli aperitivi arrivò un tagliere di formaggi con delle marmellate e del pane carasau. Heidi era una compagnia interessante. Era molto giovane ma aveva già fatto
diverse esperienze in giro per il mondo. Vittorio scoprì che dietro una bellezza fuori dal comune si celava un’intelligenza acuta. Tra una chiacchiera e l’altra l’aperitivo si protrasse oltre l’ora di cena finché Heidi propose di rientrare in hotel. Sulla strada del rientro Vittorio era silenzioso. Nonostante avesse trascorso una bella serata, la sua mente andò a Manola: “Un vero peccato non averla portata a San Pantaleo. Sicuramente avrebbe apprezzato”. Heidi si accorse di quel cambio d’umore: «Stanco? O pensieroso?», gli chiese a bruciapelo. «Sì, un po’. Pensavo ad alcune questioni di lavoro da risolvere » . «E se ci pensassi domani? E per stasera ti occui della signora al tuo fianco?», gli disse avvicinando la bocca al suo orecchio e poggiandogli la mano sull’inguine. Vittorio rimase un attimo in silenzio. L’audacia della ragazza lo aveva eccitato all’istante. Riordinò le idee e rispose: «Hai ragione, rimedierò». «Bene, così va meglio». “Caro mio, qui la cosa si fa interessante” pensò, mentre la ragazza abbandonava l’inguine per esplorare territori limitrofi. Arrivarono in hotel e Vittorio la condusse direttamente alla dépendance. Non fecero in tempo ad entrare che erano già avvinghiati in una stretta. Fecero la doccia insieme, come amanti di vecchia data. Vittorio rimase paralizzato nell’insaponare quel corpo statuario. Ore di palestra lo avevano reso sodo e muscoloso ma con grazioso equilibrio. La prese in modo selvaggio, quasi a scaricare in quell’atto, i dolori e le malinconie degli ultimi mesi. La ragazza rispondeva alle sue sollecitazioni e proponeva nuovi temi. Fecero sesso più volte finché un sonno ristoratore arrivò a placare i loro ardori. Vittorio si svegliò con le prime luci del mattino che filtravano dalla tenda. Disteso a letto, osservava il corpo nudo della ragazza. La pelle vellutata, le forme perfette. Sentiva che la sua autostima riprendeva quota, dopo i picchi negativi dei mesi precedenti. Ma non si sentiva sereno, era combattuto. Il ricordo
di Manola gli apparve all’improvviso. E una brutta sensazione lo invase. Cercò di decifrarla e alla fine si rese conto che era qualcosa di molto vicino ai sensi di colpa.
* * * *
Gli incontri notturni tra Vittorio e Heidi proseguirono anche nei giorni successivi. Dopo cena, senza dare troppo nell’occhio, la ragazza raggiungeva la dépendance di Vittorio. Benché fosse in ottima forma, quelle maratone notturne riuscirono a sfiancarlo e quasi benedì il giorno della partenza della ragazza. «Verrai a trovarmi, quest’inverno? Sono spesso in giro per il mondo ma ogni tanto mi piace stare a casa», gli chiese Heidi l’ultimo giorno. «Molto probabile. Sicuramente parteciperò alla fiera del turismo di Goteborg. Mi farebbe piacere rivederti anche se ho un po’ di timore: magari quando giochi in casa sei anche più instancabile…», rispose con un sorrisetto malizioso. «Però, non mi pare ti sia risparmiato anche tu. Ad ogni modo, se vorrai hai il mio numero». E così dicendo gli diede un ultimo bacio apionato. “Chissà se è un arrivederci o un addio?”, pensò Vittorio. Anche se, in realtà, non lo riteneva molto importante.
Capitolo 29
L’isola di Santorini accolse Paolo e Manola un pomeriggio di agosto. Dal molo, la ragazza guardava incantata le cupole azzurre spuntare dall’intonaco bianco delle case. «Ti piace?», chiese Paolo. «Da morire. Era una vita che sognavo la Grecia. E ora eccoci qua». Presero i bagagli e raggiunsero il piccolo hotel dove avrebbero alloggiato. Era molto intimo e sarebbe stato il loro nido d’amore per le due settimane di vacanza. Poggiarono le valigie e, dopo un riposino e una doccia, raggiunsero uno dei tanti bar vicini all’albergo. Era l’ora del tramonto e centinaia di turisti affollavano le terrazze del villaggio di Oia. Il sole che s’immergeva nell’Egeo e colorava di rosa le casette bianche sarebbe stata l’immagine simbolo delle loro vacanze.
* * * *
L’incontro con Heidi ebbe il potere di sbloccare Vittorio. Riprese a frequentare altre ragazze e a guardare al futuro con più ottimismo. Anche a lavoro le cose andavano bene. Il meteo favorevole garantì il pienone all’Angedras anche nei mesi di settembre e ottobre. Arrivò, così, metà novembre. L’hotel non aveva più ospiti e per lo staff era giunto il momento di riporre lettini e ombrelloni nei magazzini, proteggere con del cellophane il bancone del baretto esterno e coprire con il telone la piscina. L’allegria era palpabile: pochi giorni ancora ed ognuno sarebbe tornato a casa dopo mesi di fatiche.
«Certo che questi ragazzi hanno lavorato sodo anche quest’anno», commentò Vittorio nel vederli all’opera. «Vero, sempre gentili, sorridenti. Molti clienti mi hanno fatto i complimenti in diverse occasioni. Anche per le camere, sempre linde e ordinate», rispose Giacomo. «È una fortuna, avere gente così. Anche se, in verità, la fortuna ce la siamo un po’ cercata, selezionando negli anni i migliori e riuscendo a trattenerli». La tradizione voleva che, l’ultimo giorno, Giacomo e Vittorio offrissero il pranzo in un ristorante della zona. Era il momento della celebrazione e della festa in cui le gerarchie tra datori di lavoro e dipendenti venivano annullate. Era anche il momento delle prese in giro e dei pettegolezzi: si parlava dei clienti, delle loro richieste bizzarre, di tradimenti avvenuti in albergo o di qualche nottata ata da qualcuno dei ragazzi in camera di un’ospite desiderosa di servizi particolari. Non era politicamente corretto ma Giacomo e Vittorio sapevano che andava così, se non altro per esser ati anche loro per quelle esperienze. Tra un bicchiere e l’altro venne eletta “Miss Angedras”: la spuntò Heidi distanziando di un voto una ragazza romana tra i commenti più maliziosi del gruppo. Antonello, il barman, ormai alticcio, si lanciò anche in un intrepido affondo: «Poverina, la svedese soffriva d’insonnia. Più di una volta, la notte, l’ho vista abbandonare la sua camera per dirigersi verso la dépendance di Vittorio. Le davi la tisana, capo?» Ci fu un attimo di gelo. Vittorio assunse un’espressione enigmatica mentre guardava Antonello dritto negli occhi. Poi rispose: «Siccome la signorina mi ha detto di averti fatto la stessa richiesta al bar, richiesta che non sei riuscito a soddisfare, è toccato a me. E non sai che ti sei perso!» Scoppiarono tutti in una fragorosa risata e in un mare d’insulti verso il povero Antonello. La serata si concluse in uno dei tanti bar di Olbia. Dopo i saluti e i ringraziamenti i due soci si salutarono: «Ciao Jack, sono proprio soddisfatto. Giornata da album dei ricordi», disse Vittorio. «Anche per me. Finalmente la barca va a vele spiegate», rispose Giacomo. Non sapeva quanto si sbagliava.
Capitolo 30
La pioggia era venuta giù ininterrotta. L’allarme meteo indicava un livello critico ma nessuno pensava che, in poche ore, sarebbe piovuta la stessa quantità d’acqua che, in stagioni normali, cadeva in sei mesi. Nel pomeriggio Vittorio, dalla sua casa di campagna, chiamò Giacomo: «Ciao Jack». «Ciao Vittò, che combini?» «Sono a casa. Tutto il giorno al chiuso, con questa pioggia. Com’è la situazione a Olbia?» «Sembra non voglia smettere e il livello dei canali sta salendo». «Sì, ho sentito il notiziario. Infatti volevo andare in hotel a dare uno sguardo». «Ho avuto lo stesso pensiero. Vediamoci al “By Marine” per un caffè, da lì ci muoviamo con la mia macchina». «Bene, dammi un quarto d’ora». Arrivato a Olbia, Vittorio si rese conto che la situazione era molto più critica, rispetto a casa sua. L’intensità della pioggia era più forte e si andavano già formando grandi pozzanghere nelle zone più basse. Presero il SUV di Giacomo e al loro arrivo ebbero la prima brutta sorpresa: tutto il terreno antistante all’hotel era un immenso pantano. Dal vicino stagno, il livello dell’acqua stava per raggiungere il cancello d’ingresso, in posizione rialzata rispetto al terreno circostante. Con il fuoristrada riuscirono, comunque, ad accedere all’albergo. Fecero un giro di ricognizione e si assicurarono che il seminterrato non avesse subito infiltrazioni. La situazione sembrava tranquilla: sia la SPA che la lavanderia non mostravano segni di umidità.
Il mare, in lontananza, non prometteva niente di buono. I nuvoloni scuri non facevano presagire una tregua di quella pioggia incessante che, anzi, aumentava con il are dei minuti. Il livello dell’acqua saliva sempre più e aveva raggiunto la soglia del portone d’ingresso dell’hotel. A questo punto, per evitare che l’acqua entrasse all’interno della hall, i due soci tamponarono con stracci e asciugamani le fessure del portone. Erano intenti in queste operazioni quando un boato proveniente dalla strada che collega Olbia a Golfo Aranci li fece sussultare. Non ebbero il tempo di realizzare cosa stesse succedendo che un’ondata di acqua e fango si abbatté su di loro. Vittorio si ritrovò sott’acqua mentre il buio lo avvolgeva. Urtò qualcosa con il petto e rimase senza fiato, tramortito. Con la forza della disperazione riuscì a riemergere e ad aggrapparsi alla ringhiera delle scale che conducevano al piano superiore. Ancora in stato confusionale urlò con la poca aria rimasta nei polmoni: «Giacomo! Giacomo!» Ma dell’amico nessuna traccia. Salì qualche gradino per avere più visuale mentre il livello dell’acqua aveva raggiunto quasi i due metri. Intravide Giacomo che lottava in mezzo al fango per tenersi a galla. Si levò i jeans e la felpa e li annodò insieme creando una sorta di fune che fissò alla base della ringhiera. L’altra estremità la tenne in mano, immergendosi in acqua. A fatica raggiunse l’amico e, con un braccio, riuscì a cingerlo da dietro. Facendo appello a ogni stilla di energia, tirò la fune improvvisata con tutte le forze. La corrente andava in direzione opposta e, più di una volta, pensò di non farcela. Ma, in un ultimo disperato tentativo, riuscì a tirarlo sul pianerottolo delle scale. Esausto, rimase supino per diversi minuti, con l’adrenalina ancora in circolo. Pian piano recuperò le forze e si occupò dell’amico: «Come stai?» Ma Giacomo non rispondeva: respirava a fatica e aveva perso conoscenza. Guardandolo bene Vittorio si rese conto che aveva un grosso bernoccolo in testa con una lacerazione da cui perdeva sangue. Cercò di ragionare. Ricordò di aver lasciato il cellulare al piano di sopra così corse a prenderlo. Chiamò i Vigili del Fuoco e, dopo diversi tentativi, riuscì a chiedere aiuto. Tornò dall’amico e gli sfilò gli indumenti di dosso. Lo coprì con alcune coperte e lo medicò con delle garze trovate al piano superiore. «Coraggio», gli sussurrò. «Tieni duro».
L’amico con cui aveva condiviso mille sfide giaceva al suo fianco. Vittorio si sentiva impotente. E così, dopo tanto tempo, si ritrovò a pregare. Aveva uno strano rapporto con la religione. Con gli anni si era allontanato dalla Chiesa. Aveva perso fiducia. Ma continuava a credere in una vita dopo questa. E in quel momento appellarsi a un Dio misericordioso gli sembrò naturale. Dopo un tempo che parve interminabile, delle luci in lontananza annunciarono i soccorsi. «Siamo qui!», urlò Vittorio quando sentì delle voci provenire dall’esterno. ò qualche minuto e un piccolo battello gonfiabile entrò nella hall con due vigili del fuoco che puntavano delle torce nella sua direzione; poco oltre, due sommozzatori li seguivano. «Ha preso un colpo in testa. Ho cercato di medicarlo alla bell’e meglio. Per fortuna, respira». «Ha fatto un ottimo lavoro. Ora lo lasci a noi, dopo torneremo a prenderla». I quattro uomini caricarono Giacomo e lo portarono all’esterno dove, ad attenderlo, c’era un’ambulanza che partì a sirene spiegate verso l’ospedale di Olbia. Rientrarono e aiutarono Vittorio a raggiungere l’esterno. Lo rifocillarono e gli diedero degli indumenti asciutti. «Che Dio vi benedica. Ora sto bene. Recupero la macchina e vado in ospedale. Andate pure, grazie di cuore», li rassicurò Vittorio. «Purtroppo Olbia è stata sommersa da una bomba d’acqua. Abbiamo molte richieste d’aiuto», rispose il comandante nell’avviarsi verso il camion. Vittorio prese la macchina che, chissà per quale miracolo, era uscita illesa da quel pandemonio. Prima di partire diede un ultimo sguardo all’hotel: sembrava uscito da una scena di guerra. Imboccò la tangenziale e in pochi minuti raggiunse l’ospedale. Chiese informazioni e fu indirizzato all’ultimo piano.
L’odore di disinfettante gli invase le narici mentre camminava nelle corsie. Raggiunse la sala d’attesa, dove trovò Mary, avvertita dell’accaduto da uno dei Vigili del Fuoco, suo amico. Si abbracciarono con forza e la ragazza scoppiò in un pianto a dirotto. Vittorio le raccontò i fatti e cercò di rincuorarla: «Vedrai, ce la farà. Ha la pelle dura, il tuo uomo». Informò dell’accaduto i fratelli e la madre i quali, fortunatamente, non avevano subito danni dall’alluvione. Le ore arono mentre Vittorio e Mary si raccontavano tanti episodi della loro vita e di quella di Giacomo. Erano immersi nei ricordi quando la porta della sala d’aspetto si aprì. Un medico dall’espressione stanca andò loro incontro. «Aveva un ematoma in testa, abbiamo dovuto operarlo. L’operazione è riuscita e ora non ci resta che attendere», disse loro. «Cosa intende, dottore?», chiese Mary con un filo di voce. «Che non è in pericolo di vita. Ma non possiamo sapere se e quando si risveglierà. E, soprattutto, non riusciamo a valutare ora eventuali danni cerebrali». Vittorio abbracciò Mary e le sussurrò: «Coraggio. Ora si tratta di aspettare ed essere fiduciosi». Raggiunsero le corsie del reparto di terapia intensiva dove, da un vetro, poterono osservare Giacomo che, intubato e con un’evidente fasciatura in testa, giaceva in un letto. Furono rimandati a casa e, nel salutarsi, Vittorio cercò d’incoraggiare la ragazza: «Va e riposa. L’operazione è andata bene. Vedrai, si riprenderà presto». «Speriamo, pregherò per lui. Grazie di tutto». Nel tragitto verso casa, Vittorio era pensieroso. In poche ore, alcune delle certezze che pensava di avere erano state spazzate. Rientrò che erano ate da poco le due. Non riuscendo a prendere sonno,
accese l’Ipad per connettersi a Facebook. Video e foto gli diedero idea di ciò che era accaduto: auto sommerse dall’acqua, gente caricata sui gommoni, case e strade allagate riempivano le pagine dei social. Il gruppo di Facebook “Emergenza Sardegna” iniziava a coordinare gli aiuti. Richieste di soccorso, informazioni utili, disponibilità di assistenza s’incontravano sul web agevolando le operazioni di soccorso. Era una gara a prodigarsi per i più sfortunati. Vittorio rimase a osservare quel via vai finché non crollò esausto.
Capitolo 31
Si alzò presto, dopo un sonno agitato, con in testa un pensiero fisso: molto probabilmente erano rovinati. Fece un aggio veloce in ospedale a trovare Giacomo: le condizioni erano stazionarie e la prognosi riservata. “Qui posso fare ben poco, per aiutarti. La mia presenza sarà più utile all’Angedras”, pensò mentre osservava l’amico. Nel tragitto dall’ospedale, contattò la protezione civile: urgeva l’ausilio di elettropompe per svuotare il seminterrato. Risposero che erano alle prese con una marea di chiamate ma presero nota della richiesta. A Olbia comprò tutta l’attrezzatura necessaria per i primi interventi: idro pulitrici, secchi, stracci, detersivi, varecchina, tira acqua, scope e guanti. Arrivò all’albergo e provò la prima grande emozione di quei giorni: Nico, Paolo, Giovanni e sco lo attendevano armati di badili e carriole. Li abbracciò uno a uno ma un groppo in gola gli impedì di parlare. Raccontò i fatti della sera prima e li guidò all’interno dell’hotel. Durante la notte, l’acqua era defluita dal pianterreno ma quello interrato era completamente allagato. Fu sco a rompere il silenzio: «Allora, signori belli, sapevate di essere stati assoldati dalla “Mission Impossible”? Ebbene sì! Da questo momento abbiamo tutti un solo obiettivo: rimettere a lucido questa bomboniera per il 1° maggio!» Vittorio trattenne a stento un sorriso osservando i muri, un tempo di un bianco immacolato, che riportavano tracce di fango a due metri di altezza. E, tutto intorno, un ammasso di arredi inservibili. Anche gli uffici avevano subito la stessa sorte: i computer, le stampanti, le scrivanie erano una catasta di rottami. Molte porte erano state divelte, così come
le finestre. Nel frattempo giunsero le prime notizie. Il bilancio era tragico: sedici morti e un disperso, intere famiglie tra cui alcuni bambini. Il gruppo di amici si apprestava a iniziare il lavoro quando arrivò l’autocarro della protezione civile. «Buongiorno e grazie di essere venuti», disse Vittorio nell’accoglierli. «Salve. Gran brutto affare», commentò quello che doveva essere il responsabile. «Già, per fortuna l’albergo era chiuso da qualche giorno. Fosse successo una settimana fa, ci sarebbero stati seri pericoli per l’incolumità delle persone». Nel dire quelle parole Vittorio realizzò, per la prima volta, che il bilancio sarebbe potuto essere ben più tragico. «Bene, ragazzi. Ora avviciniamo l’autocarro e iniziamo a tirar fuori l’acqua», disse il capo dei soccorsi, dopo un giro di perlustrazione. Vittorio e gli amici si misero all’opera. Per prima cosa c’era da spalare il fango: la sabbia argillosa si era insinuata dappertutto, rendendo ancor più difficile il loro compito. Si alternavano con pale e badili portando all’esterno, con le carriole, cumuli di materiale. Verso l’ora di pranzo, un fuoristrada varcò il cancello: erano i volontari della Croce Rossa che distribuivano pasti caldi. Consumarono un pranzo veloce cercando di recuperare le forze. Nico li intrattenne con alcuni aneddoti, riportando un po’ di allegria in quel luogo disastrato. Mentre pranzavano, una troupe di SKY si avvicinò all’hotel. L’inviato fece delle brevi interviste mentre il cameramen filmava l’albergo. Quelle immagini avrebbero fatto il giro del mondo. «Forza giovanotti, si riprende», disse sco rivolgendosi al gruppo. E nel
dirigersi verso la prima idro pulitrice, disse a Giovanni: «Prendi l’altra e inizia dall’altra parte della hall». Così indirizzarono due potenti getti d’acqua verso i muri, mentre gli altri con i tira acqua e le scope spingevano l’acqua sporca all’esterno. Proseguirono il lavoro tutto il pomeriggio cospargendo di varecchina i muri puliti e riandoli con l’idropulitrice dopo averla fatta agire. Il ciclo veniva ripetuto più volte fino a che non ottenevano l’effetto voluto. Arrivò la notte e un gran lavoro era già stato fatto. Anche il piano inferiore era ormai quasi vuoto e l’indomani sarebbe stato possibile pulirlo. I giovani, esausti, si salutarono. Tornato a casa, Vittorio ebbe modo di riflettere dopo gli eventi degli ultimi giorni. Per la prima volta si rese conto di avere paura. Paura di perdere l’amico e, insieme a lui, il frutto di tanti anni di sacrifici. Prese il telefono e, quasi senza accorgersene, iniziò a sfogliare le foto. Molte erano state scattate all’Angedras. Una ritraeva lui e Manola abbracciati. “Sembra ato un secolo”, pensò. Prima di dormire, scrisse su WhatsApp agli amici e ai fratelli: “Senza di voi non so come avrei fatto. Ancora grazie”.
* * * *
La vita di Manola stava tornando alla normalità. Aveva ripreso ad andare a correre: ogni mattina, con Louise, l’appuntamento all’alba per un’oretta di running al parco di Trenno. Spesso incrociavano Linus, il conduttore radiofonico. Louise gli lanciava sguardi ammiccanti ma senza alcun risultato. A lavoro le cose andavano sempre meglio: la ragazza stava scalando le gerarchie all’interno dello studio, grazie alle competenze unite ad una vera ione per quel mondo. Quella mattina, il direttore la chiamò nel suo ufficio. Era la prima volta che accadeva e Manola bussò intimidita. «Accomodati. Gradisci un caffè?», le chiese. «No, grazie. L’ho appena preso al bar».
«Ok. Dimmi: Come ti stai trovando?» «Molto bene, grazie. Il lavoro mi piace e ho un buon rapporto con i colleghi». «Si, ho sentito. E la cosa mi fa piacere». «Grazie. Amo questo lavoro e, spesso, arriva sera senza che me ne accorga». «Veniamo al punto. Siccome vediamo in te grandi qualità, pensavamo di trasformare il tuo contratto a tempo indeterminato. Che ne pensi?» Manola arrossì. Da ciò che sapeva era un caso più unico che raro all’interno dello studio. Si schiarì la voce e rispose: «Certo, mi piacerebbe molto. Grazie». «Non devi ringraziarmi. Te lo sei meritato. Domani ti fisso un appuntamento con l’ufficio risorse umane per formalizzare e discutere l’accordo. Congratulazioni». «Grazie, direttore. Non la deluderò». Quella sera organizzò un aperitivo con i colleghi per festeggiare; invitò anche Louise. Andarono in uno dei locali alla moda di Brera. All’ingresso si fermarono al bancone del bar, per attendere i ritardatari. Manola era splendida nella sua semplicità. Indossava dei jeans e un dolcevita di cashemere . Ai piedi le nuove “Louboutin”. Paolo pendeva dalle sue labbra. Era felice quanto lei della promozione ma cercò di stuzzicarla: «Quindi ora dovrò chiamarti capo?», le disse. «Certo. E ogni sera dovrai mettermi in ordine la scrivania», rispose la ragazza, dandogli un bacio. Dopo i dubbi iniziali, il loro rapporto filava. Giorno dopo giorno crescevano l’intesa e la complicità. Spesso la notte Paolo si fermava a dormire da Manola ma non avevano mai parlato di convivenza. Arrivarono gli altri amici ma mentre Manola andava loro incontro, si fermò dopo pochi i. Paolo si spaventò nel vederla sbiancare in volto mentre la ragazza osservava il video all’interno del locale. Si chiese il motivo e le andò a fianco. Il notiziario di SKY stava mandando in onda delle immagini con il sottotitolo “Alluvione Sardegna”. Il ragazzo non poteva sapere che l’uomo intervistato era Vittorio e l’edificio ricoperto di fango era il suo hotel.
* * * *
Il giorno dopo, in albergo, iniziò la fase più dura: ripulire il piano interrato. Qui i danni erano maggiori: la lavanderia, la SPA, i server informatici, le celle frigo, gli impianti di condizionamento e altre costose attrezzature erano andate perdute. Vittorio e i suoi aiutanti si diedero da fare cercando di salvare il salvabile ma dovettero, a malincuore, caricare molta roba sul camion per trasportarla in una delle tante discariche improvvisate. Olbia ne era piena e osservare quei cumuli di macerie dava il senso della sciagura che si era abbattuta sulla città. Mentre erano intenti in quelle operazioni sentirono delle voci all’esterno: «Buongiorno, c’è nessuno?» Vittorio uscì fuori e la sua espressione s’intenerì: una decina di ragazzi e ragazze che non dovevano avere più di sedici, diciassette anni, erano lì armati di secchi, scope e stracci. «Buongiorno. Che ci fate qui?», chiese Vittorio, ancora incredulo. «Cerchiamo di dare una mano anche noi. Tanta gente ha necessità e ci piacerebbe renderci utili». «Che Dio vi benedica. Siete nel posto giusto, c’è tanto da fare. Avanti». I ragazzi si misero all’opera, coordinati da sco. Erano studenti del Liceo Gramsci di Olbia che, vista la loro città in ginocchio, si erano messi a disposizione. Una delle ragazze si rivolse a Vittorio: «Se avete biancheria, tende, indumenti o altro sporchi di fango, potete darli a me. Al mio paese, Berchidda, degli altri volontari si occupano di lavare e asciugare tutto». «Ti ringrazio. Vicino alla hall abbiamo ammucchiato asciugamani e accappatoi. Sarebbe veramente un grande aiuto, riaverli puliti». In città, nel frattempo, si era scatenata una gara di solidarietà senza precedenti. Gruppi di volontari da tutta l’isola avevano raggiunto Olbia. Nei centri di raccolta arrivavano tir carichi di vestiario o prodotti alimentari. Squadre di
elettricisti erano disponibili gratuitamente per ripristinare gli impianti elettrici mentre i militari ripulivano le strade dal fango. C’era chi metteva a disposizione il furgone per qualunque tipo di trasporto, chi il carroattrezzi per portare in officina le tante macchine bloccate per le strade. Un panificio offriva gratis il suo pane. Un’azienda di arredamenti si era impegnata per far arrivare gratis dalle fabbriche centinaia di materassi e blocchi cucina. Tanti i vicini di casa che ospitavano gli sfollati o preparavano loro da mangiare. Ma c’era anche chi, in quel momento terribile, volle lanciare un messaggio di grande sensibilità: alcuni saloni di parrucchieri offrivano gratis i loro servizi alle donne colpite dall’alluvione. Le esortavano a recarsi da loro e a non vergognarsi se, per qualche ora, si sarebbero occupate di curare la loro femminilità. Emersero anche alcune notizie legate a quei tragici eventi. I giornali riportavano il caso di una donna, precipitata da un ponte con la sua auto e trascinata a valle dalla piena, tratta in salvo quasi per miracolo da due giovani capitati lì per caso e da alcuni poliziotti. Furono anche i giorni del lutto. La sera dei funerali una folla commossa diede l’ultimo saluto alle vittime di quell’inspiegabile disastro. Prima di andare a dormire, Vittorio ripensò agli avvenimenti della giornata. Ricordò un vecchio detto sui sardi da parte di un arcivescovo spagnolo, molti secoli prima: “ Pocos, locos y mal unidos ” e pensò che quei giorni avevano dimostrato proprio il contrario. Nonostante la situazione, era felice di aver ricevuto tante manifestazioni di affetto e solidarietà da tante persone. Diede uno sguardo a Facebook e lesse una notizia che lo commosse: il presidente del team di volley “Hermaea” annunciava che la sua squadra avrebbe cambiato nome. Sarebbe diventato “Angeli del fango” in onore ai tanti volontari mobilitatisi in quel disastro.
Capitolo 32
La mattina seguente Vittorio iniziò di buon’ora. Si teneva aggiornato sulle condizioni di Giacomo da Mary, al capezzale dell’amico. Ad aiutarlo, solo Nico, sco e Giovanni perché gli altri avevano dovuto riprendere il lavoro e potevano dare una mano solo nei ritagli di tempo. Benché avessero lavorato duro nei giorni precedenti, c’era ancora tanto da fare: il piano interrato e il ristorante erano ancora sporchi di fango. All’esterno, delle voci familiari attirarono la sua attenzione. Ci mise un po’ a riconoscerle mentre si precipitava fuori. Rimase senza parole: tutti i dipendenti al gran completo erano lì di fronte a lui. Li abbracciò uno a uno, commosso. I giovani raccontarono di aver appreso la notizia vedendo le immagini di “SKY”, ignorando che anche quella zona di Olbia fosse stata colpita dal ciclone Cleopatra. Il tempo di coordinarsi ed erano partiti alla volta della Gallura. Abitavano a diverse centinaia di chilometri ma avevano lasciato a casa le loro famiglie per essere lì. «Ragazzi, non so come ringraziarvi. Ma, per onestà, debbo dirvi che difficilmente riusciremo a riaprire l’hotel. Da una stima sommaria, abbiamo danni per diverse centinaia di migliaia di euro e, purtroppo, non abbiamo le risorse necessarie per ripartire. Per cui, apprezzo molto il vostro gesto ma ritenetevi liberi di tornare a casa, se volete». Tonio, il più anziano del gruppo, prese la parola: «Coraggio, è stato un brutto colpo ma non lasceremo nulla d’intentato per riaprire quest’hotel che tutti sentiamo come nostro. Ora ripuliamolo e poi… in caminu s’acconza bàrriu ». Vittorio rifletté su quel vecchio adagio e lo trovò incoraggiante. “È vero, l’importante è partire. Poi il carico si assesta man mano”, pensò. Quelle forze fresche diedero nuovo slancio ai lavori: tutti gli interni furono tirati a lucido e, nel giro di due giorni, poterono iniziare il ripristino del giardino. La piscina aveva subito seri danni: i motori e l’illuminazione erano inservibili.
Ogni tanto Vittorio rifletteva: “Come facciamo a recuperare tutti quei soldi? Difficilmente le banche concedono ulteriore credito a chi si trova in una situazione come la nostra”. Rientrò a casa sconsolato. Il fallimento era dietro l’angolo. L’Angedras si finanziava con gli introiti della stagione ma, nel caso non fossero riusciti a riaprire per quella a venire, non avrebbero potuto evitare il tracollo. Fece una doccia e accese il fuoco: sperava che le fiamme potessero tirargli un po’ su il morale. Decise di leggere ma alla fine della pagina doveva ripartire dall’inizio. I suoi pensieri vagavano tra l’Angedras e l’immagine di Giacomo nel letto di ospedale. Si destò al trillo del cellulare, era un messaggio di Giovanni. “Ciao Vittò, ancora sveglio?” “Si, stavo leggendo. Dimmi”. “Volevo raccontarti un fatto che mi è capitato oggi, mentre rientravo a casa. Posso are?” “Certo ti aspetto”. Trascorsero dieci minuti e i fari della macchina di Giovanni annunciarono il suo arrivo. «Entra, tutto bene?», chiese Vittorio con tono preoccupato aprendo la porta. «Si, tutto ok. Wow che bel fuoco», disse Giovanni entrando in casa. «Quindi? Questo mistero?» «Una cosa che mi è capitata oggi e che volevo condividere con te. Ricordi quando morì babbo?» Vittorio guardò il fratello con un velo di tristezza negli occhi: «Certo. Era una domenica mattina». «Ricordi che avvisammo subito i vicini?»
«Si, si precipitarono a darci conforto». «Già. Insieme a loro c’era un loro parente che quel giorno avevano invitato per pranzo. Come gli altri si occupò di nostro padre: lo lavarono, lo vestirono e lo deposero nella bara». «Ricordo. Zio Gonario mi pare che si chiamasse. Fecero quello che noi non avemmo la forza di fare. Gliene sarò grato per sempre». «Bene. Oggi, mentre rientravo, ho visto degli amici che stavano aiutando in una casa colpita dall’alluvione. Ho parcheggiato la macchina e sono entrato. Mi son messo anch’io all’opera. Eravamo in tanti e in un paio d’ore abbiamo rivoltato l’appartamento come un calzino rendendolo agibile. Era di due vecchietti, così mi è stato detto, senza figli a Olbia e con il morale sotto i tacchi perché nessuno andava ad aiutarli». «Immagino. Ma cosa c’entra con la morte di nostro padre?» «C’entra, c’entra. Come abbiamo finito, sono scesi dal piano superiore e ci hanno ringraziato in mille modi. Mi hanno fatto tenerezza. Ed è qui che li ho riconosciuti». «Cioè?» «Zio Gonario e sua moglie. Mi sono presentato e ci siamo commossi nel ricordare nostro padre». «Che bello. Evidentemente le buone azioni hanno la memoria lunga». «Già. Anche io ho fatto la stessa riflessione». Rimasero a chiacchierare di fronte al fuoco, ricordando i tanti episodi familiari che li accomunavano. Poi Giovanni si congedò dando appuntamento a Vittorio al giorno dopo. Vittorio decise di andare a dormire, l’indomani lo aspettava una giornata altrettanto intensa. Si stava per mettere a letto quando un rumore all’esterno attirò la sua attenzione. Riconobbe il rombo di una macchina che si avvicinava. Aprì la porta e vide un taxi bianco fermo a poche decine di metri dalla casa. I
vetri erano oscurati. I fari illuminavano una pioggerellina leggera quando il tassista scese e aprì la portiera posteriore. Il cuore di Vittorio iniziò a battere all’impazzata nel riconoscere una figura dalla silhouette familiare scendere dall’auto.
Capitolo 33
Si abbracciarono, senza dire niente, incuranti della pioggia. I loro cuori a contatto battevano all’unisono. Manola non seppe per quanto tempo, trenta secondi o cinque minuti: accarezzava la chioma scompigliata di Vittorio stringendolo a se. Vittorio immerse il naso nel caschetto di capelli di Manola. Pensò a quanto le era mancato e iniziò ad aspirarne il profumo a pieni polmoni. Sul viso sentiva il sapore delle sue lacrime mischiate a quelle di Manola. E sorrise nel pensare che niente sarebbe potuto essere più dolce. Fu lui a rompere il silenzio, dopo averla condotta in casa: «Bentornata, Principessa. C’è voluta la pioggia, per riportarti qui». «Ho visto le immagini in tv. Il tempo di chiedere un permesso a lavoro ed eccomi qui. Come va?» Vittorio raccontò le vicissitudini degli ultimi giorni e la tragedia che aveva colpito la sua terra. Parlò di Giacomo e dell’apprensione per la sua salute. Si emozionò nel descrivere le scene di solidarietà di quei giorni e la voglia dei sardi di tornare alla normalità. Non nascose le difficoltà in cui si trovava e la grande probabilità di perdere l’Angedras. «Vedrai, si sistemerà tutto», disse Manola. «Questo è il più bel regalo che potessi ricevere. Quanto al resto, non lascerò niente d’intentato. Lo devo a Giacomo, oltre tutto. Devo recuperare tanto denaro per comprare un sacco di cose andate distrutte. Per ora stiamo ripulendo l’albergo per bene, poi penserò al resto». «Scusa ma devo chiederti una cosa. L’hotel è ancora vostro?» Vittorio inarcò le sopracciglia e la guardò:
«Certo. E di chi se no?» Manola raccontò a Vittorio del biglietto di Safiy e del documento di acquisto dell’Angedras. E del suo dolore nel sapere che suo padre era riuscito a comprarlo. «Ecco perché non ho accettato di rivederti». Vittorio le raccontò dell’incontro con l’avvocato Lamberti, del suo viaggio a Milano e di come fosse scappato vedendola abbracciata a Paolo, in Corso Como. Capirono di essere stati vittime di malintesi e del disegno di Safiy di riuscire a separarli. Fecero l’amore con dolcezza, a ricomporre quell’armonia che il destino sembrava avesse spezzato. «Avrei voluto dirti la verità, dopo Capo Ceraso. Ho avuto la tentazione tante volte ma il momento adatto non arrivava mai. Stavamo vivendo dei giorni bellissimi e avevo paura di spezzare l’idillio. So di aver sbagliato… ma è andata così». «Ho sbagliato anche io. In ato ho vissuto tante brutte esperienze e pensavo che il mio sogno mi fosse sfuggito un’altra volta. Ecco perché ti ho aggredito così. Ma me ne sono pentito un milione di volte». «L’importante è che ora sia tutto alle spalle». Manola raccontò i fatti di Parigi, la lite con il padre e l’inquietudine di quegli ultimi mesi. «La cosa curiosa è che, comunque, ci ho quasi azzeccato nel chiamarti Principessa». «Più o meno. Nelle mie vene scorre sangue blu ma i titoli non m’interessano. Mi basta essere la tua Principessa». Parlarono per ore finché, abbracciati, si addormentarono.
* * * *
A Manola venne un groppo in gola, nel vedere l’hotel così mal ridotto. Il giardino, la piscina e i muri, un tempo di un bianco abbagliante, erano irriconoscibili. Tutto lo staff dell’Angedras la salutò con affetto. «Sei incredibile, riesci a farti ben volere da tutti. Ma come fai?», le chiese Vittorio, divertito. «Non saprei, tu che dici? Secondo me mi vogliono bene perché sono la tua donna». «Capisco, tutto merito mio, allora». La sera, Vittorio riunì lo staff: «Ancora grazie di cuore, ragazzi. Non dimenticheremo ciò che avete fatto per noi. Ma è ora di tornare dalle vostre famiglie, il grosso è fatto. Rimane da sistemare la piscina e gli esterni. Sono lavori che, in parte, posso fare da me. Per il resto dobbiamo affidarci a dei tecnici». Fu Tonio a replicare: «Era il minimo che potessimo fare, Vittò. L’Angedras è casa nostra, non potevamo restare con le mani in mano». «Lo apprezzo tanto. Ma iniziate a guardarvi intorno per la prossima stagione. I danni sono tanti ed è difficile che riusciremo a riaprire». Un silenzio imbarazzato scese sul gruppo: la consapevolezza che quell’avventura potesse concludersi causava a tutti una profonda tristezza.
Capitolo 34
Le settimane successive furono le più difficili. L’hotel era stato ripulito a dovere: le mura, tinteggiate di fresco, avevano ripreso la solita lucentezza e il pavimento in cotto, dopo la lucidatura, sembrava ancor più bello. Il problema era che mancavano le risorse economiche per gli interventi strutturali: le cucine del ristorante, l’allestimento della SPA, i motori, il sistema di depurazione e l’illuminazione della piscina. Inoltre, tutti gli arredi del piano terra e del seminterrato erano andati distrutti. Ogni giorno Vittorio aveva diversi appuntamenti con le banche ma nessuna era disposta a concedere ulteriori prestiti. Anche i fornitori erano restii a fare credito e il tempo scorreva inesorabile. Se non fosse riuscito a ottenere una qualche forma di finanziamento nell’immediato, non ci sarebbe stato il tempo per effettuare i lavori e gli acquisti che mancavano per poter riaprire l’albergo. E questo avrebbe comportato l’inattività per la stagione estiva e l’inesorabile fallimento. “Possibile che le banche non ci vengano in aiuto, in un momento così?”, pensava Vittorio nei momenti di sconforto. “Purtroppo danno i soldi a chi li ha. E quando sentono puzza di bruciato, scappano a gambe levate. Dovrebbe intervenire lo Stato ma non accade. E gli aiuti, sempre se ci saranno, chissà quando arriveranno. E in quale misura”.
* * * *
«È andata così. Non sai quanto mi dispiaccia vederti soffrire ma non posso farci niente», disse Manola con gli occhi lucidi. Paolo cercò di replicare ma la voce gli venne meno. Avevano scelto un bar del centro per vedersi e chiarire le cose rimaste in sospeso. Dopo l’alluvione, Manola era partita all’improvviso spiegando che Vittorio aveva bisogno di lei e in quel momento Paolo aveva capito che la loro storia era al capolinea.
La guardò con tenerezza, come piegato ad un destino ineluttabile. Prese coraggio e riuscì a sussurrarle: «Lo sapevo che eri sempre innamorata di lui. Ma in cuor mio pensavo di farti cambiare idea». «Ho cercato di dimenticarlo in tutti i modi. Ma tornare da lui mi è sembrata la cosa più naturale di questo mondo. Spero possa trovare anche tu una persona che meriti il tuo amore». Il giorno dopo Paolo rassegnò le dimissioni e partì per Londra. Non si sarebbero più rivisti.
* * * *
Il telefono squillò un pomeriggio. Vittorio non riconobbe il numero tra quelli in rubrica ma rispose: «Pronto?» «Buongiorno, sono Matteo Colucci. Parlo con Vittorio Spano?» «Sì, sono io. Mi dica». «Salve, signor Spano. Mi occupo di ricerca del personale e sono stato incaricato di contattarla dalla catena “Luxury Hotels”. Immagino la conosca». «Certo. Chi lavora in questo settore non può non conoscerla». «Arrivo subito al punto, signor Spano. Il mio cliente, nell’ambito della sua strategia di sviluppo, sta acquisendo la gestione di diverse strutture alberghiere, in Sardegna. Parliamo esclusivamente di alberghi a quattro, cinque stelle». «Si, avevo sentito qualcosa». «Tra i nomi dei papabili manager è emerso il suo. In questi giorni sono in Sardegna per reclutare nuove figure». Ci fu un attimo di pausa. L’espressione di Vittorio divenne pensierosa. «La ringrazio, dottor Colucci. Come saprà, però, sono proprietario dell’hotel
Angedras. E quindi, già impegnato». «Sono al corrente, signor Spano. Ho preso informazioni approfondite, prima di contattarla. Ora, non vorrei essere indelicato ma, nell’ambiente, è risaputo che vi troviate in una situazione di oggettiva difficoltà, dopo l’alluvione». Vittorio strinse con forza il telefono. Ma si controllò e rispose con voce pacata. «Vedo che è ben informato. Saprà, quindi, che stiamo rimettendo in sesto l’hotel per la prossima stagione». «Certo. Quello che le chiedo è di poterla incontrare. Così, per scambiare due chiacchiere. Senza alcun impegno». «Guardi, è tempo perso. Tutte le mie attenzioni e le mie energie sono concentrate sull’Angedras». «Su questo non ho dubbi. Ma le ripeto, la “Luxury” mi ha incaricato di presentarle un’offerta». Vittorio rimase in silenzio per qualche attimo. Poi acconsentì: «Come vuole. Se per lei va bene, possiamo vederci al “By Marine” intorno alle 16:00. Conosce il posto?» «Certo, ci vediamo lì». Il dottor Colucci fu molto professionale. Presentò a Vittorio il progetto della “Luxury Hotels” e poi tirò fuori dalla cartelletta che aveva sul tavolo un documento. «Questa è la nostra proposta, signor Spano. La invito a leggerla e a esprimermi sue considerazioni. Come vedrà il mio cliente sa essere molto generoso, quando vuole». In effetti, l’offerta era veramente allettante: contratto a tempo indeterminato con una retribuzione e vari benefit che avrebbero assicurato a Vittorio il triplo del reddito che percepiva. Inoltre, l’incarico gli avrebbe riconosciuto massima autonomia operativa con possibilità di ulteriore crescita nell’ambito della società.
«È un contratto molto generoso, ve ne do atto. Come le dicevo, però, l’Angedras ha bisogno di me». «Valuti bene, signor Spano. E ricordi che certi treni ano poche volte nella vita. Si prenda qualche settimana di tempo, non voglio una risposta immediata. Ci risentiamo dopo le feste». «D’accordo, ci penserò su. Per il momento, la ringrazio». Quella notte Vittorio non chiuse occhio. Si girava e rigirava nel letto, senza riuscire a dormire. In sequenza: accese la tv, iniziò a leggere un libro e fece parole crociate. Solo all’alba riuscì ad assopirsi per qualche ora.
Capitolo 35
Fin da bambino, per Vittorio il Natale era la festa più bella. Il presepe, l’albero, i regali rendevano l’atmosfera così emozionante che viveva quei giorni con grande intensità. Ma quello che si profilava quell’anno era un Natale sottotono. Si sforzò di affrontarlo con serenità, sperando che in qualche modo le cose potessero migliorare. Giacomo non accennava a risvegliarsi e il tempo ava. L’unica buona notizia era che Manola sarebbe rimasta una settimana in sua compagnia. «Che dici, andiamo da qualche parte, il giorno di Natale?», chiese a Vittorio, la mattina della vigilia. «No, amore mio. Quest’anno, se sei d’accordo, Natale in famiglia. Sarà anche l’occasione per conoscere mia madre. Ci saranno anche Giovanni e sco, con la famiglia». «Tua madre mi reputerà all’altezza?», ironizzò Manola. «Certo, Principessa. Conquisterai anche lei». arono la giornata a fare spese per il pranzo e a comprare gli ultimi regali. La sera rientrarono stanchi, dopo quella maratona in giro per negozi. Vittorio, allora, preparò l’idromassaggio per Manola con candele e oli profumati. «Però, Lord. Riesci sempre a stupirmi. E io che volevo farti da geisha ». «Fai pure un bel bagno, Principessa. Avrai tutto il tempo stanotte». Accese il fuoco e adornò la tavola con addobbi natalizi e candele accese. Nel decanter versò un Turriga d’annata. Preparò la graticola e, dopo una doccia veloce, sistemò sulla brace una Fiorentina gigante.
Manola lo raggiunse con indosso un elegante pigiama di seta e i capelli avvolti in un asciugamano. Non nascose il suo stupore nel vedere la tavola così imbandita: «Ehilà, mi sa tanto che qui sto scoprendo un uomo da sposare?» «Attenta, Principessa. Potrei chiedertelo». Manola avvampò nel sentire quelle parole. Per sua fortuna un po’ di fumo che giungeva dal camino le venne in soccorso: «Attento, la Fiorentina, brucia!» «Appena in tempo, qualche altro secondo e avrei rovinato questo ben di Dio». Accompagnarono la carne con un contorno di patate al forno condite con olio e rosmarino. Il Turriga fu fedele alle promesse e consumarono la cena in quella intima atmosfera che solo il Natale riesce a creare. Fecero l’amore lì, davanti al camino, su un piumone che fece loro da giaciglio e con le luci dell’albero ad illuminare i loro corpi. «Ti amo, Principessa. E non mi sarei mai perdonato il fatto di averti persa», bisbigliò Vittorio abbracciando Manola. «Ti amo anch’io. E, nel profondo, durante i mesi di lontananza, ho sempre sperato che tornassimo insieme». Arrivò la mezzanotte e fu il momento di scartare i regali: Vittorio ricevette un coloratissimo pullover a rombi in cashmere doppio filo mentre Manola una borsa griffata che Vittorio aveva scelto dietro consiglio di Mary. Si scambiarono coccole e promesse d’amore, godendo ogni attimo di quel loro primo Natale insieme.
* * * *
Gli ospiti arrivarono a mezzogiorno. La madre di Vittorio con Giovanni e, a seguire, sco, Maria e i figli: Marco, Andrea e Viola.
Manola fu accolta come una di famiglia. Iniziò a chiacchierare e dopo dieci minuti aveva già conquistato tutti. Vittorio la osservava da lontano, compiaciuto. «Però, zi’, hai bei gusti. Ma con Marco ci facevamo una domanda: non sarà troppo giovane per te? Perché, se ti servissero rinforzi…», disse Andrea maliziosamente, mentre gli uomini erano appartati in una stanza. «Ma smettetela, poppanti. Vent’anni e poco più: Ma dove volete andare?», rispose Vittorio, ben propenso a stare allo scherzo con gli amati nipoti. «Dovete mangiarne panini, figli mie’!», esclamò sco. Le donne, nel frattempo, confabulavano intorno al camino. «Ragazzi, a tavola!», esclamò la madre di Vittorio, poggiando un vassoio di zuppa gallurese fumante. Alla quale seguì ogni ben di Dio, come da tradizione. Dopo pranzo, lo scambio dei doni e la tradizionale tombolata natalizia. Vittorio ricordò quante volte, da piccolo, quel momento aveva riunito la famiglia intorno al tavolo. Ripensò alle cartelle di cartoncino colorato, ai fagioli per ricoprire i numeri, alle monete da cinquanta e cento lire ammonticchiate come montepremi. Manola lo osservava con tenerezza mentre teneva in braccio la nipote o scherzava con i fratelli. Lo vedeva sereno, come se i tormenti dei mesi ati non fossero mai esistiti. E la sera, quando rimasero soli, gli confidò i suoi pensieri: «Hai una famiglia splendida. Ti invidio un po’». «Lo penso anch’io, mi ritengo molto fortunato. Con i miei fratelli, mai uno screzio. Idem con mia cognata, sempre molto carina e affettuosa, con tutti noi. E poi i miei nipoti: dovessi avere un figlio, un giorno, lo vorrei come loro». «E di tua madre, che mi dici? Credi che abbia superato il suo esame?» «Superato a pieni voti, direi. Pendeva dalle tue labbra». «Addirittura! È una donna molto carismatica, se siete così uniti credo abbia dei
grossi meriti». «Certo, lei e mio padre ci hanno cresciuti trasmettendoci il valore della famiglia. Ce ne fossero oggi, genitori così». I giorni successivi arono in grande tranquillità. Vista la presenza di Manola, Vittorio si concesse un po’ di tregua dal lavoro. Ci sarebbe stato tutto il tempo dopo la sua partenza. In uno di quei momenti, le confidò la proposta della “Luxury Hotels”. «Mi sembra molto interessante», disse la ragazza. «Lo è. Specialmente in questo momento. A gennaio darò loro la risposta». «Qualunque sia, sarà quella giusta. Mi piacerebbe poterti dare una mano. Ma da quando abbiamo rotto i rapporti, mio padre ha congelato tutti i miei conti». «La tua presenza qui è già una grossa mano. Il resto si aggiusterà». Ma anche lui era poco convinto.
Capitolo 36
Era stata una lunga notte insonne. Vittorio aveva provato in tutti i modi a dormire: camomilla, un libro, un film in tv, una doccia. Ma non ci fu nulla da fare. La mattina scrisse un messaggio a sco: “Facciamo colazione insieme? Alle 8:00 al By Marine?” “Ok, paghi tu naturalmente”, rispose il fratello. sco trovò Vittorio con una brutta cera. Ma non commentò e aspettò che fosse lui a spiegare il motivo dell’incontro. «Stanotte non ho chiuso occhio. Sono combattuto. Accettando l’offerta della “Luxury” risolverei i miei problemi. E avrei un futuro senza preoccupazioni. Ma è difficile pensare di abbandonare tutto. Specialmente in questo momento». «Ti capisco. Ma non devi fartene una colpa se le cose sono andate in un certo modo. A Olbia e dintorni tante aziende hanno difficoltà a risollevarsi dopo l’alluvione». «Magra consolazione. Ci penserò su ancora un po’ e poi prenderò una decisione». «Coraggio, chiamami per qualsiasi cosa». «Grazie ancora, un bacio a Viola».
* * * *
«Pronto, dottor Colucci. Come sta?»
«Bene signor Spano. Felice di sentirla. Allora, ha pensato alla nostra proposta?» «Certo, in questi giorni ci ho riflettuto molto». «Quindi, cos’ha deciso?» «Come le dicevo, l’offerta è molto allettante. Però ho deciso di non accettarla. Sarebbe come tradire il mio socio e le persone che lavorano da noi. Finché c’è un filo di speranza, cercherò di riaprire l’Angedras». «Questo le fa onore, signor Spano. Ha tutta la mia stima. Non insisto oltre e le auguro buona fortuna».
* * * *
Gennaio e febbraio arono veloci. I tour operator volevano garanzie concrete sulla riapertura dell’hotel, altrimenti non avrebbero accettato prenotazioni. Ci vollero tutte le capacità negoziali di Vittorio per tenerli buoni ma, se non fosse cambiato qualcosa nel giro di poco tempo, sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbero dirottato i clienti da un’altra parte. Vittorio aveva fatto l’ennesimo tentativo di richiedere un finanziamento presso una banca straniera che aveva aperto una sede in città. «Niente da fare. Neanche loro accettano la mia casa, in garanzia. Con il mercato immobiliare bloccato, non vogliono correre il rischio di accollarsi un immobile a cui non riconoscono un grande valore», disse con voce amareggiata durante una telefonata a Manola. «Prima o poi qualcuno vi darà fiducia», cercò d’incoraggiarlo la ragazza. «Ci spero anch’io. Anche se potrebbe essere troppo tardi».
Capitolo 37
Quel week end Manola arrivò carica di bagagli: oltre al trolley , un grande borsone. Vittorio la accolse con un abbraccio: «Quindi, stavolta, hai deciso di trasferirti definitivamente?» «Perché non ti farebbe piacere?», rispose la ragazza inarcando le sopracciglia. Vittorio la cinse per i fianchi e la guardò negli occhi: «Certo, amore mio. Perché hai dubbi?» «No. Ma volevo sentirtelo dire. Allora, come sono andate le cose in mia assenza?» Benché si sentissero più volte al giorno, Manola era di una curiosità insaziabile. Non si accontentava mai di risposte generiche ma andava a fondo a ogni cosa. Uno degli aggettivi con cui Vittorio la definiva era “impegnativa”. Ma lo diceva in senso non offensivo proprio a sottolineare questa sua peculiarità. Per cui doveva sempre stare attento a ricordare ogni episodio nel dettaglio, per poterglielo raccontare per filo e per segno. arono in hotel per vedere come procedevano i lavori. Rispetto alla prima visita post alluvione di Manola, l’Angedras stava recuperando il suo antico splendore. Il giardino era stato ripulito dal fango così come la piscina. «Però, ogni volta noto dei progressi. State facendo un buon lavoro». «Grazie. Il problema sono i soldi che mancano. Stiamo bussando alla porta di tante banche ma nessuna è disposta a farci credito. Abbiamo utilizzato tutti i risparmi che avevamo. Purtroppo, se non si sblocca qualcosa, nel giro di qualche mese arriveremo al collasso finanziario». «Mi dispiace, amore mio. Coraggio». «Quello non manca ma a volte non basta».
arono tutto il giorno in hotel a lavorare. Con instancabile tenacia, Vittorio aveva completato tutti i lavori di manovalanza che non richiedevano grande specializzazione. Rientrarono a casa stanchi, dopo l’intensa giornata. «Facciamo una doccia e poi un riposino? Stanotte abbiamo bisogno di essere in forma», propose Manola, con espressione misteriosa. «E perché mai? Non possiamo dormire dopo cena?» «Assolutamente no. Dimentichi cosa è oggi?» «Sabato. E domani domenica, per cui possiamo dormire fino a tardi». «Si vede che invecchi, Zio». E nell’aprire il borsone che aveva portato da Milano, continuò: «È il sabato di carnevale. E questi sono i nostri costumi». Così dicendo tirò fuori due splendidi vestiti da pirati: «Questo è il tuo, mio caro “Jack Sparrow”. Mentre io sarò “Will Turner”». «Ma tu sei fuori. Sono anni che non mi maschero. E poi, sono stanco». «Questo lo so, infatti ora andiamo a nanna. Mangeremo qualcosa e saremo pronti per la nostra serata danzante. Abbiamo appuntamento con Nico e Letizia a mezzanotte a Olbia». A quel punto, Vittorio dovette capitolare. L’idea gli suonava bizzarra ma forse, proprio per questo, affascinante. «Ok, Principessa. Non so perché ma non riesco a dirti di no».
* * * *
Il Carnival Party era, anche quell’anno, l’evento principe del carnevale olbiese. Era la serata a cui nessuno voleva mancare. Giovani e meno giovani si davano appuntamento in un locale in periferia la notte in cui Olbia si metteva in maschera.
Letizia si era occupata dei biglietti e, d’accordo con Manola, aveva organizzato tutto. Al loro arrivo, il locale era già animato da centinaia di maschere. Un gruppo proponeva “La carica dei 101”, altri ancora le maschere tradizionali come “Zorro”, “Cenerentola” o “Spiderman”. Nico e Letizia, in due bellissimi costumi da “Stanlio e Ollio”, li attendevano all’interno con altri amici. «Wow, che meraviglia», esclamò Manola nel riconoscerli. «Grazie, cara. Anche voi siete bellissimi», rispose Letizia. Il patron dell’evento era impeccabile, nel suo costume da donna. Ma quello che veramente lo rendeva unico era il trucco, con tanto di ciglia finte. «Ciao tesoro, come sei bella!», disse accogliendo Letizia. «Ciao caro, anche tu stai benissimo. E complimenti per la festa, anche quest’anno un successone». «Grazie, amore. E tu, Jack Sparrow, come sei tenebroso», disse a Vittorio, con uno sguardo divertito. Bevvero un drink insieme, prima che il giovane li lasciasse per accogliere altri ospiti. «Aveva un trucco raffinatissimo: che spettacolo», commentò Manola. «Sempre impeccabile. Credo sia opera sua. Fa anche il truccatore per le spose». «Però, gran personaggio». «Si, è simpaticissimo. E anche molto schietto. Si narra che a un matrimonio, la sorella della sposa gli chiese di far bella anche lei. Essendo piuttosto bruttina, le rispose “no bella mì: per i miracoli… da Padre Pio!”» Tutti esplosero in una fragorosa risata. Dopo un altro drink di riscaldamento, si lanciarono nella mischia. Vittorio partì in sordina ma pian piano si rilassò e la tensione degli ultimi mesi,
per una sera, si sciolse. Si lanciò in pista e strinse Manola a se mentre il dj lanciava “La vida es un carnaval”. La ragazza rideva divertita mentre Vittorio la guidava nelle evoluzioni più inaspettate. «Ma dove hai imparato? Non dirmi che hai fatto scuola di “latino”?» «Diciamo di si. Perché, ti sembra strano?» «Questa poi… Non ti ci vedo proprio a frequentare lezioni di ballo. Magari facendo da cavaliere a signore attempate». «Erano lezioni private. Per un periodo ho frequentato una maestra di “Salsa”, una ragazza cubana. È stata lei ad insegnarmi». «Ok, ora è più chiaro». «Mi ha iniziato al ballo e al Mojito. A proposito, andiamo a prenderne due». «Va bene. A condizione che mi racconti a cosa l’hai iniziata tu…», disse Manola con occhi maliziosi. «Ahah, che curiosa. Come rientriamo ti racconto. Anzi, ti faccio una dimostrazione pratica…», rispose Vittorio lanciandole uno sguardo furbetto. Proseguirono la serata incontrando altri amici e divertendosi come ragazzini. Per una sera Vittorio si riscoprì ballerino e al rientro a casa, nonostante fosse un po’ alticcio, diede a Manola la dimostrazione promessa.
Capitolo 38
“El Jardì del Turia” era affollato, quella mattina: runner urbani, ciclisti, coppie con bambini a eggio, anziani seduti a chiacchierare sulle panchine. Un polmone verde di oltre cento ettari al centro della città con annesse strutture sportive di prim’ordine: campi di calcio, calcetto, rugby, tennis e baseball. Al suo interno anche la famosa “Città delle arti e della scienza”, un complesso architettonico ludico-culturale simbolo di Valencia nel mondo. Un gioco di colori tra l’azzurro dei grandi stagni d’acqua a cielo aperto e il bianco del cemento delle strutture disegnate da Santiago Calatrava. In quel momento di estrema difficoltà, Manola aveva organizzato un week end per festeggiare il compleanno. Malgrado non fosse dello spirito giusto, Vittorio aveva accolto l’invito. Rimase colpito da quello splendore: era stato diverse volte in Spagna ma mai a Valencia. «Che spettacolo, ignoravo fosse così bella». «Concordo, ci ho vissuto gli anni della mia infanzia, prima di trasferirci a Parigi. E in parte rimpiango il fatto di essere andata via. Sai che da bambina venivo qui ogni giorno? Era il luogo di ritrovo per me e i miei amici: gli anni della spensieratezza, dei giochi, del divertimento puro». «Quindi riuscivate a divertirvi anche senza Iphone, Ipod, Ipad? Possibile?», ironizzò Vittorio. «Certo. E anche senza foto, selfie, Facebook. Al limite, al rientro a casa un po’ di TV. O meglio, cartoni animati: “Candy Candy”, “Mila & Shiro”, “Lupin”, “Holly e Benji”. E tu?» «Io? Un vero uomo non guarda cartoni animati!» «Ahaha, conoscendoti, è probabile. Secondo me, anche da bambino, guardavi
cose da grandi. Tipo “Il mondo di Quark” o “Porta a porta”». «Dai, non è vero. Anch’io ho avuto un’infanzia. E ora ti dico i miei. Il primo che mi viene in mente è “Jeeg Robot”. Ricordo ancora la sigla».
Corri ragazzo laggiù vola tra lampi di blu corri in aiuto di tutta la gente dell’umanità
corri e va per la terra vola e va tra le stelle tu che puoi diventare Jeeg…
Manola osservava Vittorio. Sembrava un ragazzino felice. E provò un moto di tenerezza. Gli lisciò i capelli e gli baciò la fronte. «Che memoria! E poi?» «Vediamo un po’… Ah, certo: “Goldrake”, “Mazinga Zeta”, “Huk e Finn”. Ma anche “Remì”, “l’Ape Maia”, “Pinocchio”». «Che tenero…» «Dimenticavo: i telefilm. Che so: “La banda dei cinque”, “Mork e Mindy”. E poi il mitico “Happy Days”. Ricordo ancora l’orario in cui andava in onda: 19.20. Che personaggi: Fonzie, Richie Cunningham, Ralph Malph». «Ehilà, questo Vittorio nostalgico, non lo conoscevo. Ci voleva Valencia, forse». «Ogni tanto è bello aprire il cassetto dei ricordi».
E così la baciò. Restarono abbracciati incuranti dei anti che affollavano il parco. Poi Manola lo prese per mano e lo condusse su una panchina. Si sdraiò e poggiò la testa sulle sue gambe. «Conosci la storia di questo parco?», chiese la ragazza. «Veramente no. Ma, visto che sei la mia guida turistica, mi piacerebbe sentirla». «Quindi non sai che, fino a qualche decennio fa, qui ava il fiume “Turia”?» «Come sarebbe a dire? E che fine ha fatto?» «Dopo l’alluvione del 1957 che causò morte e distruzione, il governo decise la realizzazione di un’opera faraonica: deviare il corso del fiume, intercettandolo a sud della città per creare questo polmone verde. Lavori che son durati decine di anni ma hanno portato a questo risultato straordinario». «Geniale. Un modo responsabile per trasformare un evento nefasto in una grande occasione di rilancio. Spero che anche da noi possa succedere altrettanto». «Volere è potere. Credo che ognuno sia artefice del proprio destino». È in quel momento Vittorio realizzò che quella gita non era stata fatta a caso. Manola l’aveva pensata per trasmettergli un messaggio di speranza. E nel guardarla con gli occhi lucidi e la voce rotta dalla commozione, riuscì solo a sussurrarle: «Grazie». «Grazie a te di aver accettato l’invito, amore mio. Ma ora bando alle ciance, mi è venuta fame. “Jamon serrano” e vino Tinto ?»
Capitolo 39
Nell’aprire la porta di casa Vittorio provò un brivido di freddo. Decise di accendere il fuoco mentre preparava qualcosa per cena. La casa gli sembrava vuota e inospitale. Manola era rientrata a Milano e il week end a Valencia gli sembrava ormai un lontano ricordo. Accese la tv ma non trovò niente d’interessante. Benedì il momento in cui si rese conto di dormire sulla poltrona. Il lunedì mattina si alzò presto. Fu una telefonata a destarlo dalla sua apatia: il direttore della banca lo aveva convocato per le 12:00. “Non prevedo niente di buono”, pensò. Sapeva di aver saltato le ultime due rate del mutuo e di altri prestiti. E immaginava fosse scattato qualche sorta di allarme rosso. Il direttore gli fece fare un po’ di anticamera, prima di riceverlo. Fatto inusuale visto che, in ato, gli aveva sempre riservato un approccio da top client . Dopo i convenevoli di rito, arrivò al sodo: «Carissimo, purtroppo non ho buone notizie. Dalla direzione centrale, abbiamo ricevuto disposizioni di verifiche accurate sulle situazioni considerate a rischio. E la vostra è una di queste». «Quindi?», replicò Vittorio con tono deciso. «Abbiamo l’ordine di ridurre i fidi del 50% ed iniziare gli atti per il recupero delle rate insolute». «Scusi, direttore. Sono anni che lavoriamo con la vostra banca. Siamo sempre stati puntuali nell’onorare gli impegni. E ora che abbiamo un’oggettiva situazione di difficoltà, ci riservate questo trattamento?» «Non dipende da me. Devo solo attenermi a rispettare gli ordini dall’alto». «Ho capito, ci voltate le spalle» disse Vittorio, con l’amarezza negli occhi. «Ribadisco, non dipende da me».
«Quanto tempo abbiamo per rientrare?» «Venti giorni, a partire da oggi».
* * * *
Manola aveva chiesto un permesso, quel lunedì. Da Milano aveva preso il primo volo per Parigi dove Carmen le aveva fissato un incontro con Safiy. Arrivò a casa alle undici e dopo aver salutato la madre entro nello studio dove l’attendeva il padre. «Ciao papà, come stai?» «Bene», rispose freddamente Safiy. «A cosa devo l’onore di questa visita?» «Spero a chiarire il nostro rapporto, papà». «Conosci bene le condizioni, figlia. Lascia perdere quell’uomo e tutto tornerà come prima». «Ma perché ti ostini a non voler capire? Come puoi giudicarlo se nemmeno lo conosci? E hai mai pensato ai sentimenti che provo per lui?» «Non mi interessa conoscerlo. Tra l’altro ho saputo delle ultime vicissitudini. Lascialo stare altrimenti trascinerà anche te nel baratro». «Toglitelo dalla testa. Vittorio mi ha raccontato del tuo tentativo di allontanarci cercando di comprarlo. Ma ti ha dimostrato che con lui i tuoi giochetti non funzionano. Lo amo e sarà bene fartene una ragione. Sempre che voglia ristabilire un rapporto con me». Le vene sulle tempie di Safiy s’ingrossarono. Il volto divenne paonazzo mentre guardò la figlia con tutta la determinazione possibile. «Speravo che questi mesi ti avessero ri il lume della ragione, Manola. Invece ho il dispiacere di constatare che la situazione è ancora peggio di come la
immaginassi. Temo che non ci siano le condizioni per riprendere un dialogo». «Concordo con te, papà. Addio». Salutò la mamma con un intenso abbraccio e lasciò Villa Carmen con le spalle dimesse. Il padre la osservava dalla finestra mentre varcava il cancello della villa. Una lacrima gli rigava il volto mentre beveva il suo bicchiere di Bourbon.
* * * *
Elio, il commercialista, era un amico d’infanzia di Giacomo. Era uno dei più noti professionisti di Olbia e aveva uno studio molto ben avviato. Ricevette Vittorio in un pomeriggio di fine marzo per definire i dettagli della chiusura dell’Angedras. Indossava il solito abito sartoriale con dei mocassini “Tods”. La mascella pronunciata dava la sensazione di un carattere deciso. Dopo i convenevoli di rito, arrivò al sodo: «Il consiglio che posso darti è quello di concordare con la banca, per quanto è possibile, una soluzione soft. Posto che avete delle insolvenze, conviene che cerchiate con loro una via d’uscita più indolore possibile». Vittorio lo guardò quasi intimidito. Un po’ come un imputato davanti al giudice che gli comunica la pena. «Credo sia inevitabile che facciano valere l’ipoteca sull’hotel», commentò Vittorio. «Purtroppo non vedo alternative, mi dispiace», disse Elio. L’espressione decisa di qualche minuto prima si era trasformata in un misto tra dispiacere e imbarazzo. Vittorio lo ringraziò e rientrò in hotel a capo chino. Vagò per le stanze per un po’ quasi a salutare l’oggetto di tante fatiche prima di affidarlo ad altri. Il giorno dopo avrebbe preso un appuntamento in banca, disdetto tutte le prenotazioni
dell’hotel e avvisato i dipendenti di trovarsi un nuovo lavoro.
* * * * Manola arrivò a Treviso in un assolato sabato primaverile. Raggiunse Piazza dei Signori rimanendo colpita dalla bellezza dei palazzi, con le loro arcate aperte e gli accoglienti caffè. Da quando aveva ripreso la sua storia con Vittorio era il primo week end in cui non si vedevano. Aveva giustificato l’assenza con un impegno di lavoro improvviso e ora, seduta in un bar all’aperto, si sedette ad aspettare. I coniugi Bignardi arrivarono nel giro di pochi minuti con la loro carica di simpatia. Le vacanze ate insieme all’Angedras avevano dato vita a una bella amicizia con Manola che, dopo tanto, aveva accolto il loro invito. «Ci spiace solo che Vittorio non sia dei nostri ma abbiamo rispettato la tua volontà di non invitarlo e di mantenere il riserbo su questa tua visita». «Vi ringrazio di cuore. Avremo il tempo per spiegarvi i motivi di tanta discrezione». Raccontò loro degli avvenimenti degli ultimi mesi e delle vicissitudini del suo uomo. I signori Bignardi furono molto colpiti dai racconti della ragazza. «Ma ora basta con le cose tristi. Andiamo al “Casamadre”, dove fanno lo Spritz più buono del Veneto, anzi d’Italia», disse Mario. Manola ò due bellissime giornate in loro compagnia e, prima di partire, si fece promettere che avrebbero contraccambiato la visita a Milano.
Capitolo 40
Vittorio si alzò di buon’ora. Il tempo era splendido e gli sembrava uno strano scherzo del destino, in un giorno tanto sfortunato. Dopo colazione chiamò la banca: «Buongiorno, sono Vittorio Spano. Vorrei parlare con il direttore, grazie». Pochi secondi d’attesa e, dall’altro capo del filo, la voce allegra del direttore: «Carissimo, come va? Stavo per chiamarti io, congratulazioni vivissime. Alla fine ce l’avete fatta, son felice per voi». Silenzio…. «Come sarebbe a dire? Mi sta prendendo in giro?», rispose Vittorio alzando la voce. «Assolutamente no. Stamattina è arrivato un bonifico di trecentomila euro sul vostro conto. Abbiamo già saldato gli insoluti e sistemato la vostra situazione». Ancora silenzio… «Un bonifico di trecentomila euro? Ci dev’essere un errore. Può verificare il mittente?» «Certo. Bignardi Group – Treviso. Causale: acconto affitto camere Hotel Angedras». ò del tempo prima che Vittorio rispondesse. Faticava a realizzare ciò che aveva appena udito. «Che mi prendesse un colpo! Diavolo di un Mario Bignardi. Grazie direttore, ci vediamo presto». Immediatamente Vittorio raggiunse l’ospedale. Arrivò al capezzale di Giacomo e con occhi lucidi gli disse: «Ce l’abbiamo fatta, vecchio mio. Vedrai, tornerai a dirigere il nostro albergo. Coraggio. Ora tocca a te».
Subito dopo chiamò in rapida sequenza Manola, che pianse dalla felicità, e Bignardi: «Ciao Mario, come stai?» «Come i vecchietti in attesa delle vacanze al sole. Voi?» «In verità, ancora incredulo di ciò che hai fatto per noi. Ti sarò eternamente grato. Ma cosa ti è saltato in testa?» «Gli amici servono per questo, ragazzo mio. E poi, non ho fatto niente di particolare. Ho pagato in anticipo le mie vacanze dei prossimi dieci anni. Così mi son tolto il pensiero…» «Il pensiero l’hai tolto a noi. Ormai ero rassegnato a perdere l’Angedras. Veramente grazie di cuore». «Non devi sentirti in debito. Nutro per voi una grande stima. Ho visto con i miei occhi i sacrifici che avete fatto per quell’albergo. E sarebbe stato un peccato perdere tutto, anche perché non avete colpe». «Questo è vero, ce l’abbiamo sempre messa tutta. Senza il tuo aiuto, però, i nostri sforzi sarebbero stati vani». «Bene, ora bando alle chiacchiere. Voglio l’hotel tirato a lucido, quest’estate». «Ci puoi contare. Sarà una lotta contro il tempo ma, a costo di non dormire, saremo pronti per la stagione. Ancora grazie e saluta la signora». «Ricambio. Un grosso in bocca al lupo, anche per Giacomo. Ah, dimenticavo. Hai una gran donna, Vittorio. Vedi di non lasciartela sfuggire». «Ne sono consapevole. Farò del mio meglio». Ancora carico di adrenalina Vittorio informò Mary, la madre, i fratelli e gli amici più stretti di quel felice e inaspettato epilogo. La sera, quando risentì Manola per raccontarle gli avvenimenti di quell’effervescente giornata, tirò fuori un pensiero che gli era rimasto in testa dalla mattina: «Quando l’ho chiamato, Bignardi mi ha raccomandato di tenerti ben stretta».
«E c’era bisogno che te lo dicesse lui?» «No. È strano, però. Sembrava volesse alludere al fatto che, magari, c’è il tuo zampino, in questa vicenda. È così?» «No, ma che dici. Probabilmente l’ha detto perché mi adora». «Bene, come tutti d’altronde. Ti amo amore mio». «Anch’io, mi amor ».
Capitolo 41
La positiva soluzione dei problemi finanziari dell’Angedras fu un’iniezione di grande entusiasmo per Vittorio. Si lanciò in quella volata come un ciclista in prossimità del traguardo. Aveva un mese di tempo per organizzare la riapertura e sapeva che ogni istante era prezioso. Per prima cosa prese contatto con i tour operator , i clienti abituali e i dipendenti comunicando che l’hotel avrebbe regolarmente riaperto il primo maggio. Solo alcuni clienti si dissero dispiaciuti, ma per quell’anno, avevano prenotato altrove. Promisero che sarebbero tornati per un week end fuori stagione. Come seconda cosa, convocò i fornitori per rimettere a nuovo l’hotel. Stipulò contratti con penali pesanti per ogni giorno di ritardo sulla consegna dei lavori. Era una corsa contro il tempo ma stavolta molto sarebbe dipeso dalle sue capacità organizzative e dalla tabella di marcia che si era imposto, fatta di lavoro ininterrotto anche per quindici ore al giorno. La differenza stava nel fatto che lo scenario era cambiato e alla fine della giornata, seppur provato dalla fatica, era felice del progredire dei lavori. I giorni bui erano ati e la settimana successiva sarebbero arrivati i rinforzi: i dipendenti, tutti ben felici di riprendere l’avventura. Ogni notte Vittorio faceva a Manola il resoconto della giornata. Era diventato un rito e durante il giorno annotava mentalmente le cose da raccontare alla ragazza. Condividere la quotidianità gli dava grande piacere e la possibilità di rimettere le cose in ordine prima del sonno. «Oggi son venuti i tecnici per vedere la piscina. Ci hanno fatto alcune proposte per risistemarla. Nei prossimi giorni dovremmo definire», le disse al telefono, quella sera. «Bene, voglio inaugurarla io con il primo tuffo». «Certo Principessa. Sarai la madrina, un po’ come al varo di una nave. A te, com’è andata?»
«Bene, lavoro sodo ma mi sento valorizzata. È una bella palestra, il posto migliore dove imparare». «Diventerai una star, ne sono certo». «Non lo so. Ma farò di tutto per affermarmi. È un mondo che adoro». Nel sentire quelle parole, Vittorio provò un senso di colpa: da un lato era felice dei successi professionali della ragazza, dall’altro aveva paura che fossero un limite al suo trasferimento definitivo in Sardegna. Avrebbe dato priorità alla sua storia con lui o al suo lavoro? E trasferendosi, sarebbe stata veramente felice?
* * * *
Anche Manola era turbata dagli stessi pensieri. Milano rappresentava la realizzazione sul lavoro, la carriera, avere successo in un mondo che la affascinava. E anche tutte le opportunità offerte da una grande città. Ripensava a quando da bambina ava ore a disegnare. Aveva una mano precisa e si divertiva a modificare gli oggetti. Il disegno le dava la possibilità di dare sfogo alla creatività e difficilmente, in Sardegna, avrebbe trovato qualcosa che potesse sostituire questa grande ione. Trasferirsi avrebbe rappresentato altro: una vita tranquilla a contatto con la natura e la possibilità di stare accanto a Vittorio. Magari, in futuro, crearsi una famiglia. Fino a quel momento si era accontentata di aver ripreso la sua storia d’amore. Ma era consapevole che avrebbe dovuto risolvere quel conflitto. Inoltre, la disorientava il fatto che Vittorio non le avesse mai chiesto niente in proposito. Lo vedeva felice ma difficilmente si sbilanciava sul loro futuro insieme.
* * * *
Il tempo volava e i progressi all’Angedras erano evidenti. Vittorio coordinava i lavori e incoraggiava gli operai. E, alla fine, finalmente, i suoi sforzi furono premiati. L’hotel era pronto: la piscina ancor più bella con un avveniristico impianto d’illuminazione che, la notte, proiettava giochi di luce multicolori; il giardino adornato con piante di ogni specie. La SPA fu arricchita delle più moderne tecnologie per il benessere mentre il ristorantino valorizzato con un’elegante cucina a vista. Cleopatra era ormai un brutto ricordo e quel maquillage aveva reso ancor più bello l’Angedras.
Capitolo 42
Quel primo maggio sarebbe rimasto impresso per sempre, nella mente di Vittorio. Gli sforzi immani dei mesi precedenti avevano dato i loro frutti: l’hotel Angedras, contro ogni più rosea previsione, riapriva i battenti. I primi ospiti arrivarono la mattina. Nonostante le corse dell’ultimo minuto, era prevista una buona affluenza già per l’apertura: ospiti fissi ma anche nuovi clienti. Vittorio era soddisfatto del risultato e confidava nelle sue abilità di venditore per aumentare il numero di prenotazioni. Per festeggiare l’evento aveva organizzato, per la sera, una cena di gala. Sarebbe anche stata l’occasione per celebrare l’addio al celibato di Nico e al nubilato di Letizia. Contrariamente alla tradizione, i promessi sposi avevano voluto un evento congiunto per gli amici e Vittorio si era detto ben lieto di accogliere tutti in hotel. L’Angedras era vestito a festa: luci e candele adornavano il giardino, la piscina emetteva giochi d’acqua colorati, i camerieri indossavano la divisa delle grandi occasioni mentre i tavoli del ristorantino erano addobbati con composizioni floreali. «Grazie di cuore, ragazzi. Il modo migliore per celebrare il o che stiamo per compiere», disse Nico rivolgendosi a Vittorio e Manola. «Sì», intervenne Letizia. «Non avremmo potuto desiderare location più bella». «Per noi è un piacere, credo di parlare anche a nome di Manola. E non mi sembra vero potervi ospitare in un luogo che ormai mi ero rassegnato a perdere». «È bellissimo. E questa serata sembra fatta apposta per voi», aggiunse Manola. Ben presto tutti gli invitati raggiunsero l’hotel e la serata poté avere inizio. Tutto si svolse alla perfezione e fu una giornata memorabile per tutti. Alla fine
della serata, Vittorio coinvolse nei festeggiamenti tutto lo staff: se l’albergo aveva ripreso la sua attività gran parte del merito era anche di quei ragazzi.
Capitolo 43
«La situazione è stazionaria ormai da mesi. Abbiamo progressivamente ridotto i farmaci e alcune risposte sembrano positive. Il coma farmacologico ha l’obiettivo di mantenere il cervello in una condizione di consumo energetico quasi nullo, al fine di proteggerlo. Purtroppo, fino ad oggi, il paziente non ha dato segni di risveglio», disse il medico che aveva in cura Giacomo. «E quindi, dottore?», chiese Mary che, quella mattina, aveva voluto che Vittorio la accompagnasse a quel consulto. «Non si può far altro che aspettare. Ogni paziente reagisce in modo diverso e, sinceramente, non possiamo assicurarle che il suo compagno si sveglierà né quando questo succederà. È difficile da accettare ma non possiamo fare altro». «Capisco. Riconosco che state facendo il possibile e che gli assicurate il massimo delle cure». «L’augurio è che possa riprendersi e tornare a una vita normale quanto prima». Vittorio e Mary lasciarono l’ospedale con una forte sensazione d’impotenza. Vedere Giacomo in quello stato e non poter far niente era una tortura. Mary lo assisteva con amore, parlandogli e raccontandogli le sue giornate. ava interminabili ore al suo fianco, cercando di scorgere segnali di ripresa. «A volte mi chiedo se servirà a qualcosa. Cerco di farmi forza in tutti i modi ma ci sono giorni in cui penso che non si sveglierà più o si stancherà di vivere. Lo so che non è giusto ma è così». «Non biasimarti. È umano. È una situazione snervante ma ti stai comportando da grande donna quale sei. Le giornate no sono comprensibili ma, vedrai, Giacomo ce la farà». «Grazie, sei il miglior amico che possa desiderare. E per me una grande fonte d’incoraggiamento».
«Coraggio. Son sicuro che quel “testone” tornerà a romperci le scatole molto presto». Anche se, in cuor suo, non era poi così convinto.
* * * *
La sera, Vittorio confidava le sue paure a Manola che, dall’altro capo del telefono, cercava di rincuorarlo. Quanto le mancava, la sua donna, pensava Vittorio in quei momenti. Nonostante si vedessero tutti i week end, quella situazione iniziava a pesargli. Anche perché era come vivere in un limbo, non conoscendo le intenzioni della ragazza per il futuro. Chiederle di trasferirsi in Sardegna, definitivamente, era un o importante per entrambi. Anche Manola viveva quella condizione con disagio. Ogni volta che lasciava l’isola e rientrava a Milano, provava una malinconia che, ormai, stava diventando una costante. Non riusciva ancora a razionalizzare quella sensazione e, per il momento, la accettava senza cercarne le cause.
Capitolo 44
Letizia era bellissima, nel suo abito color panna. Il decolté a forma di cuore metteva in risalto le spalle e la linea del collo. I capelli, raccolti in uno chignon elegante e retrò, ricordavano Grace Kelly. Gli invitati la accolsero con un fragoroso applauso quando si affacciò sul balcone. «È bellissima», sussurrò Nico a Vittorio. Lo sposo non era da meno, nel suo abito classico, con gilet. Negli ultimi mesi si era messo a dieta e si era presentato per l’occasione tirato a lucido. Ora, con il bouquet che gli sudava tra le mani, aspettava che la sposa scendesse le scale accompagnata dal padre. Nel giro di qualche minuto l’attesa fu premiata e poté, finalmente, baciare Letizia tra gli incoraggiamenti degli amici. La cerimonia si svolse in una chiesetta di campagna, immersa all’ombra di ulivi secolari. Non poteva accogliere tutti gli oltre trecento invitati ma Letizia era stata risoluta nella scelta. Fu un’omelia molto semplice, con Nico che balbettò per l’emozione nel leggere la sua promessa d’amore, suscitando l’ilarità degli ospiti. All’uscita da chiesa gli sposi furono sommersi da chicchi di riso, petali di fiori e dalle urla festanti degli amici. Il banchetto nuziale ebbe luogo in un hotel a pochi chilometri da Olbia. La posizione era invidiabile: posto su un’altura alle spalle della costa, offriva un panorama che abbracciava l’intero golfo di Olbia fino a Golfo Aranci. L’atmosfera era frizzante, con gli immancabili “hip hip” di qualche improvvisato urlatore, accompagnati dal tintinnare di posate e bicchieri. Il pranzo andò avanti per tutto il pomeriggio con decine di portate e bicchieri di buon vino.
Dopo il taglio della torta e le foto, la band diede inizio ai balli, con gli sposi scatenati in prima fila. Vittorio e Manola preferirono rimanere in disparte, osservando divertiti la bolgia in pista. «Bella festa. Certo che, anche in queste occasioni, partecipate con grande enfasi». «Sì. È raro che ci siano matrimoni con meno di tre, quattrocento invitati». «E al nostro, quanti ce ne saranno?» Vittorio rimase spiazzato da quella domanda. Anche lui stava facendo gli stessi pensieri ma sentirselo chiedere da Manola provocò un effetto inaspettato. Dopo un attimo di esitazione, recuperò la situazione: «Il nostro sarà un matrimonio a corte, visto che sposerò una Principessa. Per questo, invitando amici e parenti e tutte le teste coronate del mondo, credo che supereremo i mille!» «Dubito, visti i rapporti incrinati con mio padre. Se le cose rimarranno così dovremo rassegnarci a qualcosa di molto più sobrio». In quel momento Vittorio, che giocherellava con l’Iphone, si rese conto di avere sette chiamate senza risposta. Da un unico numero: quello di Mary. «Dev’essere successo qualcosa a Giacomo», disse agitato. Provò a mettersi in contatto con la ragazza ma il telefono era staccato. «Andiamo a vedere». Con discrezione lasciarono la festa e si avviarono verso l’ospedale. Manola gli prese la mano e cercò di rasserenarlo: «Vedrai. Non sarà niente di grave». Vittorio non rispose, quasi in trance , con un pensiero fisso in testa: quello di aver perso un amico.
* * * *
I pochi chilometri che li separavano dall’ospedale gli parvero una distanza immensa, quasi lo spazio si fosse dilatato. Una miriade di ricordi gli avvolse la mente: gli anni della scuola, le giornate di lavoro fianco a fianco, l’inaugurazione dell’Angedras e i tantissimi momenti vissuti in simbiosi con Giacomo.
* * * *
Si precipitarono al reparto di terapia intensiva, preparati al peggio. Arrivarono alla stanza di Giacomo con un senso di ansia crescente: il letto era vuoto. «Mi scusi», chiese Vittorio all’infermiere. «Ha notizie di Giacomo, l’occupante di quella stanza?» «No, mi dispiace. Ho appena iniziato il turno». Non fece in tempo a chiedere a un’altra coppia d’infermieri poco distante che, in fondo alla corsia, apparve Mary. Aveva un aspetto indecifrabile con un’unica certezza: piangeva. La raggiunsero di corsa, con il cuore che batteva all’impazzata. Vittorio strinse forte la mano di Manola, quasi a farsi coraggio. Tra un singhiozzo e l’altro, finalmente, Mary riuscì a parlare: «Si è svegliato!»
* * * *
Si abbracciarono come bambini, con lacrime di gioia che rigavano i loro volti. «Ce l’ha fatta», riuscì a dire Vittorio.
«Vi ho visto arrivare dalla finestra e ho pensato di trovarvi qui», disse Mary. La ragazza raccontò i fatti di quella giornata e li condusse al reparto, dove era stato trasferito Giacomo. La camera alloggiava altri pazienti; sembrava innaturale trovarlo lì, dopo mesi d’isolamento. Nel vederli, gli occhi di Giacomo si illuminarono: nonostante non parlasse, era chiaro che li avesse riconosciuti. Rispose con dei gesti accennati ad alcune battute di Vittorio. Mary raccontò loro le parole del primario: la situazione dava segnali incoraggianti, il percorso di riabilitazione sarebbe stato lungo ma la tempra dura di Giacomo era una buona base da cui partire.
* * * *
Rientrarono alla festa stralunati e con l’adrenalina ancora in circolo. La buona notizia fece il giro della festa e rese l’atmosfera ancor più gioiosa. La musica andò avanti fino a mezzanotte, con fiumi di birra e i tradizionali lanci del bouquet e della giarrettiera. Gli sposi salutarono gli ultimi invitati e si ritirarono in una delle suite dell’albergo. Vittorio e Manola li abbracciarono rinnovando gli auguri e si diressero alla macchina. «Che c’è amore? Nell’ultima ora avrai spiccicato si e no tre parole», chiese Manola. «Niente, Principessa. È stata una giornata densa di emozioni. Ti va se, prima di rientrare a casa, facciamo un giro a “Pittulongu”?» «Certo. A condizione che apri la cappotta». Vittorio azionò il meccanismo di apertura e raggiunse la spiaggia in pochi minuti.
Arrivarono a metà e parcheggiarono la macchina. Dal mare arrivava una calda brezza di scirocco mentre i grilli facevano da sottofondo alla serata. Un gruppo di ragazzi aveva un falò, sulla sabbia. Alcuni avevano fatto il bagno e si riscaldavano di fronte alle fiamme. Manola poggiò la testa sulle gambe di Vittorio e si mise a osservare il cielo. Si avvicinava la notte di San Lorenzo e ogni tanto qualche stella cadente suscitava i suoi gridolini di meraviglia. Vittorio la osservava, rapito, lisciandole i capelli. Tante volte, in ato, aveva pensato a cosa avrebbe provato in quel momento. E soprattutto, se un giorno sarebbe arrivato. Ora che era giunto, non riusciva a decifrare bene le sue emozioni: gioia, paura, vertigine. «C’è una cosa che non ti ho mai detto». Manola si alzò. Inspirò e guardò Vittorio con lo sguardo incuriosito: «Dimmi, mi amor ». «È successo una decina d’anni fa. Si chiamava Anna. Era una ragazza di Olbia, ne ero follemente innamorato. Sembravamo fatti l’uno per l’altra. Stavamo insieme da un po’ di anni quando le chiesi di sposarmi». Manola ascoltava in silenzio, rapita da quella confessione. «Lei accettò e decidemmo anche la data: 25 Aprile 2005, otto mesi dopo. Iniziammo subito i preparativi: corso prematrimoniale, ristorante, abiti, bomboniere. Mi sembrava di toccare il cielo con un dito. Saremmo andati ad abitare in campagna, da me. Il nostro nido d’amore». «E poi?» «Più si avvicinava la data, più la trovavo cambiata. Diversa, distaccata, nervosa. Le chiesi se fosse successo qualcosa ma mi rassicurò dicendomi che era solo un po’ di stanchezza per tutte quelle corse. Poi, il giorno prima del matrimonio, venne a trovarmi il fratello. Mi disse che Anna aveva cambiato idea. Che non se la sentiva di affrontare quel o. E, soprattutto, che si era resa conto di non amarmi più. Era partita per Milano da una sorella quella mattina».
Manola strinse a se Vittorio mentre continuava il suo racconto. «Mi chiusi in casa per una settimana. Non volevo vedere nessuno, non mangiavo. Ero arrabbiato con il mondo, avevo il cuore a pezzi. Fu dura riprendermi. Ho ato qualche anno a curarmi le ferite. E da allora non ho più avuto una storia degna di questo nome». «Il destino a volte è beffardo amore mio. Ma se non fosse accaduto questo, probabilmente non ci saremmo mai incontrati». «“Dio non toglie mai ai suoi figli una gioia, se non per dargliene una più grande”, diceva Manzoni. E credo che a me sia successo così», disse Vittorio accarezzando il viso di Manola. «Piuttosto, ho un po’ di mal di testa. Dovrebbero esserci delle pastiglie nel cassettino. Ti dispiace prenderle?», le chiese. «Certo, mi amor ». La ragazza aprì lo sportellino. Quando realizzò cosa aveva davanti, le mancò il fiato: una scatolina blu con un fiocco bianco. Il cuore prese a battere all’impazzata e con mani tremanti la ò a Vittorio: «E questa?» Vittorio aprì il pacchetto, mostrandole l’anello che brillava nel buio della notte. La guardò negli occhi per un lungo istante e con voce ferma le chiese: «Vuoi sposarmi?» Manola, ora, lo guardava serena. Una miriade di flashback le arono davanti: gli anni della gioventù, i volti dei genitori, gli scorci di Valencia e Parigi, i ricordi della stupenda estate ata con lui. Solo in quel momento si rese conto di aver acquisito una consapevolezza fino allora sconosciuta. Lo fissò e, con un cenno del capo e un sussurro, rispose: «Sì». Ciò che avvenne dopo, lo avrebbe ricordato per sempre. Il bacio, le lacrime, l’abbraccio interminabile. E la radio che, per chissà quale mistero della vita, suonò quella canzone che tante volte avevano canticchiato nel rivedere “Notting Hill” e che, da quel giorno, sarebbe diventata la loro canzone:
She may be the face I can’t forget The trace of pleasure or regret May be my treasure or the price I have to pay She may be the song the summer sings May be the chill the autumn brings May be a hundred different things Within the measure of a day…
Capitolo 45
Ottobre. L’aria era calda, sembrava che quella bellissima estate non volesse finire. Vittorio era alle prese con il primo travaso del Cannonau. Era stata una buona annata e ora si trattava di curare il vino in modo che, dopo qualche mese, sarebbe stato bevibile. Giacomo, seduto in una panca, osservava l’amico alle prese con quelle delicate operazioni. Era bello vederlo così, pensò Vittorio. Grazie a una volontà di ferro e alle cure dei fisioterapisti stava rimettendosi in sesto. Sarebbe occorso ancora del tempo ma, continuando così, c’era da essere fiduciosi. La stagione dell’Angedras era andata a gonfie vele e quel pranzo era il modo per celebrare quel successo. Le ragazze, invece, erano ai fornelli. Da quando Manola si era trasferita in Sardegna, lei e Mary erano diventate buone amiche. Pur di non perderla, il suo direttore le aveva proposto di fare la responsabile nella nuova filiale di Porto Cervo. Quella sfida l’aveva entusiasmata: la possibilità di continuare a fare il lavoro che le piaceva unita a quella di vivere accanto all’uomo che amava era la soluzione migliore che potesse augurarsi. Si era lanciata in quel progetto con la solita ione e i risultati erano arrivati di conseguenza. La succursale aveva, già dalla prima stagione, prodotto un fatturato che aveva ripagato l’investimento, con grandi prospettive di crescita per il futuro. Manola si rendeva conto di vivere un momento di grazia e il matrimonio, previsto per la fine dell’anno, sarebbe stato il coronamento di quella fase della sua vita. L’unico cruccio era il rapporto deteriorato con il padre ma ormai se n’era fatta una ragione. «Per festeggiare, oggi berremo un Cannonau affinato in barrique. Ne son rimaste poche bottiglie ma una la stappo con grande piacere», disse Vittorio mentre si accingevano a sedersi a tavola.
«Un bicchiere di Cannonau al giorno… toglie il medico di torno, diceva mia nonno», rispose Giacomo strappando una risata agli altri commensali. Mangiarono in veranda in un clima gioviale e rilassato. Verso sera, Giacomo e Mary li salutarono, ringraziando per l’ospitalità. Vittorio e Manola stavano rimettendo in ordine la veranda quando, in lontananza, avvistarono una macchina che si avviava nella direzione della casa. «Abbiamo ospiti», esclamò Vittorio. «Chi sarà a quest’ora?» Neanche finita la frase che un Doblò giallo si fermò davanti a loro. L’autista scese e Vittorio riconobbe un viso familiare. Un giovane con un paio di occhiali da sole tra i capelli ricci e il sorriso pulito andò loro incontro. «Ciao Giampa’. E tu da queste parti?» «Buonasera signori, avrei una consegna da fare. È lei la signorina Harandi?», disse rivolgendosi a Manola. «Si, sono io», rispose la ragazza aggrottando la fronte. «Bene. Vittò, mi daresti una mano?» «Certo, arrivo», rispose Vittorio raggiungendo il giovane sul retro del furgone. Manola li osservava in silenzio, sempre più curiosa. Ma, dopo pochi secondi, i suoi occhi s’illuminarono di stupore: Vittorio e Giampaolo emersero con la più grande composizione floreale che avesse mai visto. Centinaia di fiori assemblati da mani esperte in una combinazione che doveva essere costata una fortuna. «Che meraviglia!», disse Manola aspirandone il profumo e accarezzando una delle tante orchidee. I due uomini poggiarono i fiori sul tavolo della veranda seguiti dalla ragazza che guardava Vittorio con aria interrogativa. «No, Principessa. Non è opera mia». Giampaolo non lasciò loro il tempo per fare domande: da un borsello che teneva
a tracolla estrasse una busta dalla carta patinata che consegnò alla ragazza. «Questa è per lei. Ora devo andare, ho delle altre consegne da fare. Naturalmente , più modeste di questa», disse sorridendo. «Immagino. Grazie mille, buon lavoro», rispose Vittorio. «Gr..azie», balbettò Manola fissando la calligrafia sul plico. Vittorio accompagnò il fioraio al Doblò e tornò dalla ragazza: «Tutto bene?» «Si», rispose lei con gli occhi lucidi. «Mio padre». «E allora che aspetti? Apri. Per me sarà un onore conoscere il grande Safiy», le disse abbracciandola. «L’onore sarà suo, mi amor ».
RINGRAZIAMENTI
Quando si arriva ai ringraziamenti, evidentemente, il libro sul quale hai lavorato per oltre un anno e mezzo è pronto per la stampa. Strana sensazione, non lo nascondo. "Il dado é tratto", mi viene da pensare. Se queste 200 pagine sono arrivate alla pubblicazione, devo dire grazie a tante persone. A quelle con cui ho condiviso tanti degli episodi che hanno ispirato il romanzo e a quelle che hanno letto la bozza senza cestinarla (spero...). Ricordo queste ultime in ordine sparso: Melania, magica donna del sud Giuseppe, gentleman d’altri tempi Marcello, filosofo e formatore (per hobby) Giovanni, specialista della mente umana Massimo, teorico e non solo Simonetta Ricciu, prof di lettere delle medie, che ho avuto il piacere di trovare ancora in splendida forma, dopo 30 anni. Grazie anche al "maestro" Giacomo Altamira per la foto di copertina. E, infine, grazie ai tre professionisti dell’editing, il lavoro più pesante quando si ha a che fare con un principiante come me: sco Izzo, “Il mestiere di scrivere” Valeria Gentile, scrittrice, blogger, imprenditrice... e tanto altro Luana Scanu, splendida editor, “Voltalacarta editrici”.
A lei, un grazie particolare, per la pazienza. Luglio 2015
Biografia
Fabio Columbano è nato a Sassari nel 1969 ma vive, da sempre, a Telti (OT). Si occupa di consulenza e formazione in ambito "risorse umane". Tiene un blog: fabiocolumbano.it Ama il mare, leggere, viaggiare, ascoltare DJCI, praticare sport e vivere in Sardegna, il privé del mondo (cit. M.B.). “Arrivederci, Tavolara” è il suo primo romanzo.
Contatti
Blog: fabiocolumbano.it
Facebook: Arrivederci, Tavolara
Indice
Presentazione Arrivederci, Tavolara Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16
Capitolo 17 Capitolo 18 Capitolo 19 Capitolo 20 Capitolo 21 Capitolo 22 Capitolo 23 Capitolo 24 Capitolo 25 Capitolo 26 Capitolo 27 Capitolo 28 Capitolo 29 Capitolo 30 Capitolo 31 Capitolo 32 Capitolo 33 Capitolo 34 Capitolo 35 Capitolo 36 Capitolo 37
Capitolo 38 Capitolo 39 Capitolo 40 Capitolo 41 Capitolo 42 Capitolo 43 Capitolo 44 Capitolo 45 RINGRAZIAMENTI Biografia Contatti