Alessandro H. Den
Memorie di Talarana - La Sinfonia del Rinnegato
UUID: e72dd328-fa0a-11e3-a891-27651bb94b2f
Questo libro è stato realizzato con BackTypo (http://backtypo.com) un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Indice dei contenuti
Memorie di Talarana
Disclaimer Introduzione La Crociata dei bambini Il Pifferaio di Hamelin
Prologo
Prologo
Movimento n.1
Capitolo I Capitolo II Capitolo III Capitolo IV
Capitolo V Capitolo VI Capitolo VII Capitolo VIII
Movimento n.2
Capitolo IX Capitolo X Capitolo XI Capitolo XII Capitolo XIII Capitolo XIV Capitolo XV Capitolo XVI Capitolo XVII Capitolo XVIII Capitolo XIX Capitolo XX Capitolo XXI Capitolo XXII
Movimento n.3
Capitolo XXIII Capitolo XXIV Capitolo XXV Capitolo XXVI Capitolo XXVII Capitolo XXVIII Capitolo XXIX Capitolo XXX Capitolo XXXI Capitolo XXXII Capitolo XXXIII Capitolo XXXIV Capitolo XXXV Capitolo XXXVI Capitolo XXXVII Capitolo XXXVIII Capitolo XXXIX Capitolo XL
Capitolo XLI Capitolo XLII Capitolo XLIII Capitolo XLIV Capitolo XLV Nota biografica Contatti
Memorie di Talarana
La Sinfonia del Rinnegato
Memorie di Talarana La Sinfonia del Rinnegato Alessandro H. Den PUBBLICATO DA: Alessandro H. Den on Narcissus.me Memorie di Talarana – La Sinfonia del Rinnegato Le Pietre di Talarana Copyright © 2012-2014 by Matteo Berilli
Disclaimer
La vendita e la ridistribuzione da terzi non autorizzati costituisce violazione ai sensi delle normative vigenti in materia di diritto d’autore. Eventuali errori o imprecisioni presenti nell'opera non comportano responsabilità dell’autore che ha posto la massima cura nell'elaborazione e nell’editing dei testi.
Introduzione
L’autore (io), ancor prima che essere scrittore, è da sempre un apionato di fiabe, miti e leggende, nonché un amante della Storia (quella con la S maiuscola, appunto). Cercare di dare una plausibilità ai suoi scritti con un’interpretazione storica era solo questione di tempo. Questa ricerca, tutt’altro che forzata (le cose, a mio modesto parere, “vengono da sole”) costituisce un arricchimento non solo della visione complessiva della saga ma anche di quello che può essere inteso come un percorso storico le cui radici continuano a crescere e a intrecciarsi tutt’ora. Questo romanzo, come il precedente, indaga una delle pagine più oscure della storia e ne rappresenta uno dei momenti cardine. I due approfondimenti che seguono questo breve preambolo possono essere saltati tranquillamente a pié pari oppure interpretati come appunti di scrittura, utili, quantomeno, per comprendere ciò che vi apprestate a leggere. Diversamente, come accennato, se tanto a lungo avete atteso il momento di leggere Memorie di Talarana II siete dispensati dalla lettura e potete proseguire direttamente al Prologo. Alessandro H. Den
La Crociata dei bambini
La crociata dei bambini (o dei fanciulli come a volte è conosciuta) è un evento non troppo noto che si inserisce nella corrente delle crociate “non canoniche” (non bandite dalla Santa Sede) datato 1212. Nella fattispecie, rientra tra quelle che vengono normalmente definite Crociate dei Pastori, una serie di movimenti nati in Francia che avevano come comune denominatore apparizioni e promesse di liberazione della Terra Santa (a differenza di Giovanna D’Arco che, al contrario, era stata chiamata a liberare la Francia per mettere fine alla Guerra dei Cent’anni). Diversamente dalle altre, i cui capi erano di solito adulti o preti spretati, ciò che contraddistingue questo avvenimento è il fatto che un bambino (insieme a molti altri) a portare avanti la missione. Stefano (questo pare fosse il nome del fanciullo) si presentò alla Corte di re Filippo II per raccontargli la sua visione. Il re lo congedò senza molte remore (dopotutto non era il primo né l’ultimo caso) ma Stefano perseverò, promettendo ai suoi proseliti che una volta giunti al mare le acque si sarebbero spalancate così come avvenne per Mosé. Radunò qualche migliaio di volenterosi e con loro giunse a Marsiglia, dove attesero invano che le acque si aprissero. Accettarono quindi un aggio da parte di due mercanti e su sette navi che furono viste partire da Marsiglia, due naufragarono mentre i bambini imbarcati sulle altre cinque furono successivamente venduti come schiavi a dei Mori. La storia (che molto pare si sia fusa con la leggenda e il misticismo prima di giungere a noi così come è conosciuta) ha sempre esercitato una certa suggestione sul sottoscritto.
Il Pifferaio di Hamelin
Cosa lega una leggendaria crociata al Pifferaio di Hamelin? Se ricorderete bene la fiaba la risposta sarà alquanto ovvia: i bambini. Se la crociata dei fanciulli ha un finale tragico, la leggenda del pifferaio sembra alluda a fatti ancora più spaventosi. Dopo aver allontanato i topi, come è noto, gli abitanti di Hamelin si rifiutarono di versare il compenso al giovane pifferaio che, infuriato per il trattamento ricevuto, si vendicò portando via nella notte tutti i bambini della città per nasconderli in una grotta. Le molte versioni della storia (probabilmente per esigenze di lieto fine) a questo punto differiscono: secondo alcune tradizioni nessun bambino si sarebbe salvato, per altre un bambino, rimasto indietro, sarebbe riuscito a liberare da solo i compagni e a riportarli sani e salvi in città. Al di là della fiaba, le ricerche storiche, nonostante la povertà di cronache certe sull’accaduto, sembrano concordare sul fatto che di quei bambini si siano perse le tracce. Le supposizioni sulla loro sorte a questo punto sono tra le più disparate e, secondo alcuni (neanche a farlo di proposito), il pifferaio sarebbe stato il reclutatore di una nuova Crociata dei bambini. Per maggiori informazioni riguardo la genesi di Minstrael e al suo legame con il pifferaio, vi rimando a questo articolo presente sul blog della saga.
Prologo
Prologo
Domini sotterranei
«Renodia? Per quale motivo?» Le dita bianche tamburellavano da lunghi istanti sul bracciolo della poltrona. «Perché non Renodia, sarebbe più lecito chiedersi». Due paia di occhi bianchi e traslucidi si incrociarono e sostennero il gelo della reciproca vista, il vuoto rivoltante che solo la sensazione del nulla era in grado di generare. E che solo un potere come il loro era in grado di sopportare senza che la mente varcasse i limiti della ragione. «Brucia ancora, in fondo al tuo sguardo, la memoria del fallimento, non è vero? » Il contorno ossuto di un cranio brillò, la pelle secca e tesa divenne sottile come tela di ragni. Al di sotto, nella fredda luce della stanza, le vene pulsavano lentamente, disegnando mostruose fantasie sul volto dell’essere. «Se ogni volta che discutiamo le tue parole dovessero toccarmi, scalfirmi o tagliare il mio spirito, Adramelech, temo che a quest’ora di me ben poco sarebbe rimasto. Eppure, per un’ironia che reputo nient’affatto sgradevole, le tue labbra si muovono senza suono ed è un bastone a parlare per te». Le labbra del Pari si incresparono, deformi divennero i tratti consunti e dunque un sorriso si posò sulla bocca tumefatta. La tinta di Lord Adramelech variò di tonalità e la bocca si piegò di lato, imitata in questo dal simultaneo movimento della testa sul bastone. «Ironia la chiami? È un dono, quello che mi è stato fatto».
«Da come manifesti il tuo sdegno credo che tu lo consideri tutt’altro. Non è forse la tua una maledizione troppo crudele? » «Quanto dici avrebbe peso se per me, come per te, il ato avesse valore. Quale mistero è più grande, ti chiedo adesso, Astaroth: ciò che ci siamo lasciati dietro e che abbiamo perduto oppure la promessa di ciò che ci attende? » Il demone incrociò le dita, lasciando che i polpastrelli premessero con forza sul dorso delle mani. «Non è con me che dovresti fare propaganda. Il peso di quelle parole, la loro capitale importanza, è stata la colonna portante di ogni mia azione». «Anche quando hai fallito? » «Anche quando sono stato il solo a crederci fino alla fine». Lord Adramelech sorrise compiaciuto. «Eppure non si è trattato di una fine ma di un nuovo inizio. Per quanto disastrosa sia stata la nostra sconfitta siamo ancora qui». «Inizio e fine differiscono di poco nella loro essenza ultima. Solo le transizioni tra di esse sono in grado di determinare cosa accadrà». «Perché quindi ti opponi alla missione a Renodia? Senti il peso, una responsabilità nei suoi confronti? Oppure covi rancore e invidia? » Reclinò la testa all’indietro, seguito nel gesto dal guizzante ondeggiare dei capelli corvini. La testa sul bastone, rimasta immobile, proruppe in una sincera risata. «Niente di ciò che dici. Mi chiedo perché colpire ancora lì, perché non Selthon, o Naren. Ancor meglio, perché non Junatar? » «Conosci la risposta al tuo dubbio. Talandria». *** Avrebbe voluto sorridere, ma non lo fece.
“Talandria”. Ciò che nei Domini Sotterranei faceva di Lilith una guida, un’icona e una madre, sopra la superficie faceva di un esperide una minaccia. Talandria, colei che governava su una nazione florida e potente, la regina guerriera e l’unico essere che fosse stato in grado di tenere testa alla Sublime in battaglia. Nonostante la cosa non lo riguardasse e potesse considerarsi a suo modo immune da quella disputa, qualcuno non doveva pensarla come lui. Talandria era un pericolo che andava cancellato, una pianta da estirpare, una condottiera in grado di elevarsi, ancora una volta, a protezione degli esseri umani. Un altro tassello, insieme agli angeli dorati, che li separavano dalla nuova gloria. Riflettevano, in silenzio, portando avanti lo studio reciproco il cui inizio si perdeva tra i meandri della memoria. «Cosa sei venuto a chiedermi dunque?» Adramelech distese il volto, come se quelle parole avessero decretato un’assoluzione. Aveva ceduto. «Lo accompagnerai? » Lord Astaroth distolse lo sguardo. «Lo farò». *** Sul fondo della sala, coperta dal manto dell’oscurità, gli occhi di Astaroth scorsero quella che, a prima vista, aveva scambiato per una statua. C’era una figura, assisa su di un trono, dai lunghi capelli che ne coprivano le forme voluttuose e la pelle eburnea sembrava emanare una propria luce. In grembo, rannicchiato contro il suo seno, un esserino gracile, intento a nutrirsi di quel petto tondo e pieno, ad assaporare un latte intriso di un potere terribile, in grado di rendere ancora più affamato chi ne beveva. Fu allora, dopo un nuovo e lungo sorso, che la creatura voltò la testa nella direzione del Pari, ricambiandone lo sguardo cereo. La lingua si mosse veloce a raccogliere un po’ del prezioso
nettare rimasto sulle labbra mentre la tetra reggente reclinava la testa e si distendeva contro il trono. La Sublime ò una mano sulla testa della creatura. «È giunto il momento». Lui si strinse con più forza contro di lei. «Non vuoi andare? Ne abbiamo parlato a lungo, ricordi? » Scosse la testa. «Non voglio che lui mi veda. Nessuno deve vedere il mio volto». Lord Astaroth ruotò la mano e in essa comparve un pezzo di legno piatto scolpito rozzamente. Le dita di Lilith si mossero a sua volta e la primitiva maschera si sollevò senza peso per volteggiare fino a lei. «È la stessa di allora, l’abbiamo conservata per questo momento». Le mani scarne di lui si tesero nel tentativo di afferrarla, le dita si contraevano convulse e quasi cadde in quel disperato tentativo. Astaroth osservò con pena la scena mentre Lilith rideva di quello che ormai era divenuto un bambino disperato. «Non così in fretta, piccolo mio. Non di rozzo legno ma di nobile metallo sarà fatta la tua maschera e ogni uomo, donna e bambino rabbrividirà nel vederla. Sarai temuto, sari grande, sarai per tutti l’incubo alla fine della notte. Va, figlio mio, prendi questo dono e rendi tutti noi orgogliosi del tuo operato». Lui prese la maschera, scostò dal viso i capelli intricati e sporchi, lasciò che la luce delle fiaccole tracciasse i contorni infelici del suo viso, poi la adagiò, lasciò che le guance provassero il freddo contatto, che le labbra deformi fossero sostituite da un farsesco sorriso e che gli occhi atroci divenissero riflessi alla fine di due profonde cavità. Scese dalle gambe della Sublime, nudo ed emaciato, raccolse il flauto adagiato di fianco al trono e si mosse verso Lord Astaroth. Il Pari tese la mano, l’altro la evitò ma, sulla porta, ebbe come un ripensamento e si voltò, dirigendo il terribile
sguardo verso la Sublime reggente. «Tu non sei mia madre». *** «È ato molto tempo dall’ultima volta che ci siamo visti». «Non più di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi». «Per quale motivo hanno voluto che mi accompagnassi? Sei stato nominato mio tutore? » Lord Astaroth socchiuse gli occhi. C’era qualcosa di profondamente irritante in quel nuovo demone e quella vaga sensazione non era dovuta alla voce acuta. «Devono aver pensato che un volto familiare avrebbe potuto renderti più semplici le cose» ironizzò. L’altro non rispose e finì di vestirsi. Gli stessi abiti, lo stesso consulto cappello: solo la grottesca maschera era diversa. Lord Astaroth fu convinto di trovarsi davanti lo stesso impaurito ragazzino che aveva raccolto secoli prima. «Dove andiamo adesso? » «Alla Breccia». *** Se la devastazione avesse avuto un luogo in cui concentrarsi per dare mostra del suo indiscusso potere, quel posto sarebbe stato la Breccia. In quel coacervo di ricordi abbandonati si era tenuta l’ultima battaglia della precedente Era, l’atto finale dello scontro che aveva portato alla caduta di Talarana. Era un mausoleo di distruzione, una tomba di rovina e insieme l’unico luogo dal quale era possibile attraversare lo spazio che separava i Domini Sotterranei dalla superficie. Si muovevano veloci, come se la sola vista dello sconfinato e desolante
paesaggio non fosse un prezzo accettabile da pagare per la risalita. Tra rupi tortuose e irte di rovina si rincorrevano sospiri e lamenti, echi deliranti e urla di dolore che salivano insieme ai due Pari verso l’angusto aggio. La Breccia si stagliava davanti a loro, come una ferita bluastra dalla quale scendevano grappoli di stelle. Ad Astaroth sarebbe bastato tendere una mano per coglierne e assaporarne la dolce ebrezza. Fu colto da una vertigine improvvisa, una sensazione di perdita dell’equilibrio che lo fece vacillare e tinse la sua vista acuta di nero. La “vendetta di Zanktel”, così la chiamavano. L’ombra del potere dell’angelo dorato aleggiava ancora, un manto che avvolgeva i domini sotterranei e condannava i suoi abitanti a quella perpetua oscurità. I demoni comuni, in prossimità di quell’apertura sullo spazio aperto, scappavano, vittime di una paura insensata e sconosciuta. I Pari a loro volta la evitavano e mal ne tolleravano la presenza. Il più grande errore commesso dagli Angeli Dorati, la caduta che ne aveva spezzato a metà il popolo, aveva trasformato la vittoria mutilata in una trappola. Era stato un processo lento che aveva finito per ricacciare i demoni nella profondità di quel mondo dal quale erano stati rigettati. Privati del sole e delle stelle, del verde dei prati e dell’azzurro dei cieli, i demoni avrebbero finito per essere sopraffatti dalla loro stessa brama, sepolti nel mondo che avevano costruito con le proprie mani. Minstrael non aveva mai provato quella sensazione prima d’ora. Lui non c’era, non era presente. Era arrivato dopo, nel momento in cui la vendetta diveniva un morbo e il terrore assaliva i demoni, costringendoli alla ritirata. Barcollò e si lasciò andare a un gesto infantile quanto naturale: afferrò la mano del compagno e la strinse. Durò solo un attimo e nessuno dei due parlò. Minstrael emise un sospiro poco poi fece un o. Ne fece un altro e altri ancora, fino a quando la sua sagoma non fu che un’ombra contro il cielo e i suoi occhi, quando si voltò, solo due stelle pallide dietro una maschera di atroce dolore.
Movimento n.1
Nel mondo dei tuoi sogni, Seguì ciò che più agogni. La strada è ancora molto lunga, Prima che l’alba sopraggiunga. Il bosco e le sue creature, Per noi son compagne sicure. Con fiori il capo adorneremo, Altri compagni presto troveremo. La nostra grande missione, Sarà per voi la giusta punizione. Ognuno di noi bimbi è soldato Di Minstrael, l'esperide rinnegato.
Capitolo I
Il raccolto
«Dari…è ora di alzarsi piccolo». Era un sussurro, dolce, una mano che scuoteva gentilmente la spalla, nella penombra di una stanza modesta. Attraverso il tetto di paglia, i raggi del sole filtravano come dita sottili, camminando lente sul pavimento di legno. «Mamma…» bisbigliò il bambino dopo essersi voltato dall’altra parte. Il ragazzo ritirò la mano e si incupì. Anche lui, se ci pensava, se si lasciava andare al ricordo che solo la pesantezza delle palpebre del mattino erano in grado di suscitare, nei giochi di luce e nell’illusione di odori noti…anche lui, negli ultimi tempi, si era trovato a chiamare il nome dei suoi genitori. Represse i pensieri che, dal petto, premevano per salire e rischiavano di spezzare gli argini che aveva costruito nelle ultime settimane. Ci sarebbe stato un momento per piangere le perdite, per portare fiori e per affrontare l’argomento con serenità. Quel giorno avrebbe trovato il modo e le parole giuste per farlo ma, per il momento almeno, l’unica cosa che poteva fare era guardare avanti. Si alzò, leggero, e arrivò a sfilare un ramoscello di paglia dal tetto: come suo padre prima di lui, iniziò a solleticare l’orecchio e le guance del fratello con una delle estremità. Dari si rigirò, cercando di combattere quello che doveva essere diventato un sogno piuttosto fastidioso. Poi, quando il fratello iniziò a stuzzicargli la punta del naso, si svegliò di colpo per ritrovarsi seduto e imbronciato sul letto. «Ran! Dovevi proprio svegliarmi in quel modo? Sono grande adesso!»
Il ragazzo rise di gusto fissando l’espressione seria e corrucciata del fratello che non smetteva di squadrarlo con le braccia conserte. «Buongiorno Dari» ò una mano sulla testa e scompigliò i suoi lunghi capelli castani. «Non è ancora troppo presto?» poco convinto sbirciò fuori dalla finestra e, in tutta risposta, Ran gli fece cenno di no. «Hai dimenticato che giorno è oggi? Dobbiamo finire il raccolto». Il bambino sgranò gli occhi, meravigliato per aver scordato qualcosa di così importante e si portò una mano alla fronte, battendosela due o tre volte. «Vuoi venire ad aiutarmi? Insieme faremo prima e, se lo vorrai, potremmo cantare qualche canzone. Ti piace cantare, non è vero?» Dari annuì alcune volte «Sì! Come quando papà…» si interruppe e poi chinò la testa. Il ragazzo capì di aver calcolato male la reazione che la proposta avrebbe potuto suscitare nel fratello. Lo abbracciò, stavolta senza che ci fosse protesta, lo tenne per un po’ premuto contro il petto, senza parlare, in silenzio, stretti l’uno nel dolore dell’altro. «Ehi, piccolo, mi è venuta un’altra idea. Facciamo così, se verrai ad aiutarmi questa sera potrai andare con i tuoi amici alla festa. Va bene?» Gli occhi di Dari si riempirono di luce, in grado di ricacciare indietro le lacrime sul punto di sgorgare copiose. «Vuoi dire che posso andare da solo? Tu però verrai, non è vero? Me lo prometti?» Ran sapeva che il lavoro sarebbe stato più duro del solito quel giorno e anche che si sarebbe spezzato la schiena nell’assolvere da solo il compito di molti uomini. Da quando loro non c’erano più i soldi non bastavano mai e sembrava che persino i campi volessero rendergli la vita più difficile e mesta. Tornava a casa, tutte le sere, col pensiero di non aver mai dato abbastanza, la consapevolezza di aver fatto quanto appena sufficiente per provvedere al
sostentamento minimo per sé e il fratello. La vita, però, per quanto ingiusta e crudele doveva andare avanti. Se fosse stato solo, aveva pensato più di una volta, se ne sarebbe andato, in cerca di fortuna. A ovest magari, verso la ricca Selthon. I suoi genitori, morendo, non gli avevano lasciato solo una fattoria di cui prendersi cura. C’era Dari, la cosa più preziosa che aveva e che non poteva perdere, anche al costo di ammazzarsi di lavoro. Deluderlo non rientrava dunque tra le sue possibilità di scelta, non la prima volta che avrebbero partecipato alla festa del raccolto da orfani. Sarebbero rimasti un poco, l’avrebbe portato a vedere i funamboli e magari qualche gioco di prestigio. Dopotutto era un compromesso soddisfacente per entrambi. Anche lui aveva bisogno di qualche distrazione. «Certo, l’hai detto tu che sei un ometto grande, no? Verrò anche io, te lo prometto». Scesero nella cucina al piano di sotto. Era grande, spaziosa e fumosa, come quando erano bambini. Dari gli si avvicinò con la scodella in mano, pronto a ricevere parte della zuppa avanzata dalla sera prima. «Sai che oggi è ancora più buona, Ran?» mentiva, il ragazzo sapeva riconoscere con quasi assoluta certezza ciò che si nascondeva dietro all’espressione gentile del fratello. Gli scompigliò ancora i capelli e sorrisero entrambi. «Sai che stai diventando davvero un bravo ragazzo?»
Capitolo II
La terra nelle mani
Lavorarono tutto il giorno sotto gli ultimi giorni del sole estivo. Ran tirava l’aratro mentre Dari lo seguiva cantando per lui, recidendo, di tanto in tanto, le spighe sfuggite al loro aggio. Il piccolo intonava le canzoni dei campi, della terra e del sudore, saltellava, faceva ruote e capriole. Si fermarono solo per pranzo, quando Ran estrasse dalla bisaccia un pezzo di pane vecchio e alcune fette di carne salata e consumarono il pasto al riparo di un vecchio albero, silenzioso osservatore del loro lavoro. Sotto le sue fronde, Dari intrecciò due corone, una per sé, l’altra per il fratello. «Stasera» disse mentre gliela adagiava sulla testa «sarai il più bello, Ran. Nessuna ragazza potrà fare a meno di guardarti». Il ragazzo arrossì. Non aveva dimenticato i sorrisi e gli sguardi delle ragazze, a dire il vero ci pensava continuamente. Solo che adesso non era il momento. Dari sembrò accorgersi che qualcosa non andava e si imbronciò. «Certo, la metterò di sicuro. Vedrai che, grazie a te, troverò una bella ragazza questa sera. Ne saresti contento?» «Si, certo che sì! Ti meriti un po’ di felicità. Mamma e papà capirebbero se, per una sera, pensassi a divertirti». Ran rimase per un lungo istante fermo, imibile, chiedendosi se veramente non fosse cresciuto più in fretta di quanto pensasse. Dari gli fece l’occhiolino e scappò, attraverso i campi maturi di sole e di vita, incitando il fratello ad acchiapparlo. No, era sempre lo stesso ragazzino. Se non lo era, sapeva fingere molto bene.
Capitolo III
Il musicista
Il sole scendeva dietro le ondulate colline, decretando così la fine della lunga giornata di lavoro. Ovunque, nella cittadina, si accendevano fiaccole e candele mentre le donne ornavano finestre e davanzali di coccarde e fascine profumate. Solo Ran, solitario, proseguiva il suo lavoro, instancabile e determinato. Dari lo fissava e, impaziente, saltellava da un piede all’altro. La coroncina era ormai ridotta a rametti spezzati e iniziava a comprendere, rammaricato, che per loro non ci sarebbe stata nessuna festa quell’anno. Ran ne scrutò l’espressione rammaricata e ne indovinò i pensieri. Fermò l’aratro e si concesse un istante di tregua, mentre il crepuscolo scendeva, insieme alla stanchezza, sulle sue spalle. Si ò la manica sulla fronte e un sorriso appena accennato comparve sul suo viso. «Dari?» «Sì?» rispose, come se fosse stato svegliato da un lungo sogno. Ran gli rispose con un cenno della testa. «Vai intanto, ti raggiungerò tra poco». Dari corse ad abbracciare il fratello con un impeto tale da farlo quasi cadere a terra. «Non farmi preoccupare, resta insieme ai tuoi amici e non cacciarti in nessun guaio, capito? Quando arrivo voglio trovarti nella piazza per assistere insieme al falò, ci siamo intesi?» Diversi “sì” e “grazie” echeggiarono nella sera estiva mentre il bambino si
allontanava attraverso i campi arati. Soltanto le lune, grandi e stranamente brillanti, erano rimaste a vegliare l’instancabile lavoratore. Il ragazzo si concesse un istante in più di riposo e si adagiò a terra, con la schiena appoggiata all’aratro. Una brezza lieve aveva iniziato ad accarezzare i campi: ne assaporò la fragranza e socchiuse gli occhi, godendo di quel raro momento di pace. Un lento e costante scalpiccio di zoccoli lo riportò alla realtà, scosse le spalle e girò velocemente la testa: forse il carro era arrivato prima? Se fosse riuscito a caricare ciò che restava del raccolto avrebbe potuto sperare in un intero giorno di libertà. Fu sorpreso e, allo stesso tempo, deluso, di scorgere nel vialetto che costeggiava il campo e seguiva l’ansa del ruscello, un carretto bizzarro, spinto da quello che gli parve uno strano incrocio tra un cervo e un cavallo. Alla guida c’era un tipo basso, con un grande cappello a falde e infagottato in un mantello sdrucito. Il carro si avvicinò a o lento e si soffermò a qualche metro da Ran. Il conduttore si voltò, dal fagotto di stracci che lo ricoprivano, emerse una vocetta acuta e squillante che al ragazzo sembrò quella di un bambino. «Per caso è questa la giusta strada per Mersilia? Sono un artista girovago e non conosco la via. Sono qui per portare un sorriso ai fanciulli». Ran socchiuse gli occhi, nel tentativo di studiare meglio il nuovo arrivato. Era minuto, smagrito, pensò di offrirgli qualcosa da mangiare, frugò per alcuni istanti nella bisaccia ma si rese conto di non avere nient’altro che briciole. Gli rivolse un’occhiata dispiaciuta poi alzò la mano e col dito indicò la direzione. «È la strada giusta. Prosegui tutto a dritto e arriverai nella piazza». Inclinò la testa di lato «Non ti avevo mai visto, non sono molti gli artisti che vengono ogni anno e credo di ricordare bene ognuno di loro». L’altro levò il cappello e fece un inchino, saltando agilmente sulla cassetta del carro. «Sono Minstraello, piacere di conoscerla, signore. Sono un musicista, un girovago errante che gode della sola compagnia del proprio flauto. E della carità dei benefattori che incontra». Ran sorrise, il musicista portava una maschera graziosa sul viso, un largo sorriso
che ne nascondeva le fattezze. «Molto piacere, il mio nome è Ran. Purtroppo non ho niente da darti qui con me ma sono sicuro che se chiederai di mio fratello Dari saprà come aiutarti. Lo troverai alla festa». «Troppo gentile, mio signore, prendersi tutto questo disturbo con me…lo cercherò, comunque. Ho molto in serbo per quei bambini. Sono in molti?» Ran scoppiò in una risata, battendosi la mano sulla gamba. «Ci puoi scommettere. Mersilia è piena di bambini». Sotto la maschera, l’espressione del musicista divenne euforica, tanto che iniziò a saltellare e a battere le mani entusiasta. «Le sue informazioni, mio signore, sono state davvero preziose. Lasci che sia io a farle un regalo, adesso». Ran inarcò le sopracciglia, confuso. «Non posso accettare regali, non ho fatto niente, dopotutto. Fa’ divertire quei bambini, è tutto quello che chiedo». Ran era felice, Dari avrebbe avuto una bella sorpresa. Minstraello portò un dito davanti alla bocca poi scosse la testa: «Lo prenda come un omaggio, un ringraziamento speciale. Parlare con lei è stato davvero magnifico». Il ragazzo sorrise e si sedette a terra mentre il piccolo musicista imbracciava il flauto e iniziava a suonare la più struggente melodia che avesse mai sentito.
Capitolo IV
La festa
Non c’era giorno tanto sospirato a Mersilia quanto la Festa del Raccolto: era più atteso della visita della regina e si festeggiava fino alle prime luci del mattino, quando i balli e i corteggiamenti si interrompevano per rendere grazie alla terra della sua fertilità. Maghi, saltimbanchi e funamboli volteggiavano tra tetti e i comignoli muschiosi, fiaccole tremolanti e ombre grottesche, esibendosi in giochi e facezie. «Ridammela, è per mio fratello!» tuonò Dari mentre con le mani cercava di afferrare la coroncina che un ragazzo più alto teneva tra le mani. Erano in tre e sembravano annoiarsi davvero a morte. Il bambino aveva il volto rosso e gli occhi lucidi, come se fosse sul punto di scoppiare a piangere. «Se non me la restituirete, quando arriverà mio fratello lui…!» e, con sguardo minaccioso, sfidò il più alto dei tre. Lui si mise a ridere e, per un istante, si piegò, arrivando col viso alla stessa altezza di quello di Dari. «Avanti, cosa ci farà tuo fratello? Siamo in tre, la mammina non ti ha insegnato a contare?» Uno degli altri gli rivolse un’occhiata storta. «Giusto, giusto. La tua mammina è morta e tuo fratello deve spaccarsi la schiena ogni giorno nei campi per darti da mangiare. Hai ragione, questi rametti intrecciati saranno per lui la più grande delle ricompense» concluse con una risata e gettò la coroncina ai suoi piedi, calpestandola. Dari si chiese cosa avrebbe detto e fatto suo fratello in quel momento. Se lo
domandò per alcuni secondi, durante i quali non aveva smesso di guardare attonito quel ragazzo che rideva con tanto gusto. Il suo corpo si mosse però più veloce e, prima che riuscisse a ricordare qualunque avvertimento perentorio del fratello, colpì, con un calcio alla gamba, il suo aggressore. Questi, dimenticato il senso della misura, afferrò il bambino per il collo e lo scagliò a terra, facendolo quasi finire sotto le ruote di un carretto che ava di lì in quel momento. Dari aveva urlato per lo spavento e il carro aveva frenato quasi istantaneamente, senza che il bambino ricevesse danni. Il ragazzo si mosse a grandi i, l’ombra lunga disegnata sulla terra battuta l’aveva trasformato in un mostro agli occhi del bambino. Dari arretrò mentre le mani cercavano qualcosa con cui difendersi o un posto dove nascondersi. Si accucciò sotto il cavallo che trainava il carro, sperando, almeno per qualche istante, di essere al sicuro. Ne era sicuro, Ran sarebbe arrivato presto e l’avrebbe tirato fuori da quel pasticcio. «Esci fuori da lì, orfano! Ti darò la lezione che tuo fratello non ti ha mai dato!» L’animale non si mosse, imibile. Dari cercava di evitare le mani che volevano afferrarlo, tirando e strappando i già consunti vestiti. Si aggrappò a una delle zampe dell’animale, in un tentativo disperato di salvarsi mentre l’aggressore, ormai infuriato, si dimenava con tutta la forza che aveva in corpo. Fu allora che l’occupante del carro decise di scendere dal mezzo. Era piccolo e minuto, a conti fatti sembrava avere la stessa età del bambino nascosto tra le gambe dello strano cavallo. Sotto il cappello una maschera dai mille colori brillò per un istante. «C’è qualche problema?» squittì una vocina. Il ragazzo riemerse col volto sporco di terra e sudato per lo sforzo «Mi chiedi se c’è qualche problema? Non sono affari che ti riguardano, sposta il carro e lasciami punire questo bambino». Il nuovo venuto lo fissò senza replicare poi rise con un fastidioso falsetto. «Non
era con te che parlavo, bifolco. Era col bambino sotto la mia cavalcatura». Si chinò, mettendosi carponi, sotto gli occhi dell’attonito assalitore. «Tutto bene? Ti sei fatto male?» Dari lo fissò stupito e riuscì solo a scuotere la testa. «Molto bene, mi occuperò io di questo problema, va bene, Dari?» Il bambino, se poco prima era rimasto stupito, cominciò a sospettare di dover temere qualcosa anche dal nuovo venuto. «Stai tranquillo, è stato tuo fratello a mandarmi. Mi prenderò cura di te, è una promessa».
Capitolo V
Uomini come bestie
I due emersero da sotto la cavalcatura tenendosi per mano. Dari non era certo che l’altro potesse competere con l’assalitore ma la stretta, forte e decisa, l’aveva fatto smettere di tremare. Le dita erano dure e fredde ma la consapevolezza di quel contatto era la cosa migliore che gli fosse successa quella sera. Cercò di dare una rapida occhiata intorno, nel tentativo di scorgere la sagoma del fratello ma di lui non c’era traccia. «Stavolta rivolgerò a te la domanda. Qual è il problema?» squittì la voce sotto la maschera. «Prendi il tuo carro e sparisci da qui, questo piccolo bastardo deve avere ciò che merita». Un orfano, come lui: Minstraello aveva sentito abbastanza. Mantenne la calma, abbassò il tono di voce e ripeté con gentilezza forzata la domanda. «Credo di aver capito male. Posso sapere quale problema giustifichi il suo comportamento, mio signore?» «Problema? Non vedo nessun problema» rise, tenendosi la pancia per sottolineare lo sforzo. «Vedo solo due insetti da schiacciare. Hai trovato la persona sbagliata alla quale opporti» disse liberandosi le braccia dalle maniche della camiciola. Sotto la maschera comparve un largo sorriso. «Oh, mio signore, non sa quanto è vero ciò che dice. Vede, tra poco avrà molto di cui pentirsi».
Si chinò appena e dalla spalla calò un fagotto cilindrico piuttosto lungo. «Vorresti farmi paura con quel rametto?» il ragazzo si avvicinò a grandi i, mostrando i pugni pronti a colpire. Dari ricominciò a tremare, si nascose dietro all’altro e sperò che avesse una buona idea. Altrimenti sarebbe stato peggio per entrambi. «Tranquillo Dari. Minstraello mantiene sempre le sue promesse. Tappati le orecchie, per il momento». Tornò a fissare l’assalitore. «Domando scusa per l’attesa. Nessuno di noi vuole alzare le mani, questa sera. È una bella notte, piena di allegria e festa. Lasciate che vi allieti ». «Togliti di mezzo, non intendiamo ripeterlo» disse un altro, scocciato. Minstraello era altrove, non li ascoltava. La sua voce aveva perso la nota infantile, si era fatta profonda e cupa, roca e piena di un risentimento innaturale per una persona così fragile. «Uomini, quest’oggi festeggiate il raccolto facendo festa, indossate maschere sui vostri volti e chiedete favori ai vostri dei. Nonostante questo, osate prendervi gioco di un bambino solo al mondo». I tre si fissavano perplessi: Minstraello non attese oltre e imbracciò il flauto. Sotto la maschera brillarono di piacere occhi bianchi e pallidi come le lune, specchiati nelle torbe dell’anima inquieta che ribolliva tra le pieghe del suo essere. Era come un ordigno, era pronto a esplodere, a farlo ancora e, stavolta, la sua lezione sarebbe stata tremenda. I due ragazzi, fino a quel momento rimasti in disparte, si mossero. Trascinati dalle prime note accerchiarono il terzo, rimasto invece fermo e inebetito. Le dita del musicista si animarono quindi con un tocco più veloce: Dari, alle sue spalle, vide, in un grottesco contorcersi di membra, i due saltare addosso al terzo e malmenarlo, senza che questi emettesse il minimo rumore. Qualcosa che la sua mente di bambino non riusciva ancora a concepire si stava svolgendo davanti ai suoi occhi, senza che riuscisse a muoversi o a distogliere lo sguardo.
Uno dei due raccolse una roccia e, in sincronia con i trilli acuti usciti dal flauto, la abbatté sulla testa del ragazzo a terra. Una, due volte, senza fermarsi. Dari contò dieci colpi prima di essere in grado di togliere le mani dagli orecchi per portarsele davanti agli occhi. La musica si spense. Minstraello abbassò il flauto e rise di gusto poi iniziò a saltellare da un piede all’altro in preda all’eccitazione, improvvisando una danza sgraziata. «Bestie, non siete altro che bestie».
Capitolo VI
La voce dei bambini
Dari fissava il corpo esanime del ragazzo. Qualcosa di impercettibile gli sfiorò la mente in quell’istante, come se gli occhi sbarrati e la bocca semi aperta gli riportassero alla mente un’immagine dolorosa e ben nota. Coprì gli occhi, strofinandoli come per cancellare quel frammento dalla memoria. Si voltò di nuovo, il ragazzo era ancora lì, disteso e agonizzante, con una macchia purpurea che si allargava sotto il volto. Il suo corpo fece alcuni brevi scatti, poi, dopo una violenta convulsione, più niente. Minstraello aveva nel frattempo imbracciato ancora il flauto e, dopo un breve trillo, i due ragazzi rimasti si chinarono per assumere una posizione a quattro zampe. Senza scomporsi, si avvicinò a uno dei due, gli carezzò la testa e con un salto sgraziato gli fu in groppa. «Avanti, sali anche tu, fai come ho fatto io». Dari scoppiò a ridere. «Papà lo faceva sempre quando ero piccolo. Diceva che era troppo pericoloso farmi montare un vero cavallo e allora mi portava in giro per la stanza». «Questo ragazzo farà lo stesso. Sarà il suo modo per scusarsi per ciò che ti hanno fatto prima» suggerì il musicista. «Ci faranno giocare a cavalluccio?» «Certo. Faranno tutto ciò che vogliamo, fino a quando lo vorremo». Dari si limitò ad annuire, grato al suo salvatore ma al tempo stesso inquieto, seguendolo a cavalcioni del ragazzo verso la centralità della piazza, dominata dal
tempio eretto in onore di Demetrya. In onore della protettrice del raccolto e delle messi era stata eretta una grande colonna di fascine di grano, adornate da fiori ed erbe profumate, pronta per essere incendiata e brillare fino al mattino. Fu lì che Minstraello, nello stupore che aveva seguito il suo ingresso, scese dal ragazzo e quindi salì, con o spedito, i gradini del tempio mentre Dari si apprestava ad imitarlo. La piazza sembrava aver trattenuto il respiro, scalino dopo scalino, seguendo con sguardo curioso il bizzarro ragazzino. Giunto sulla sommità della gradinata, si levarono voci che domandavano chi fosse e da dove venisse. Minstraello osservava i volti sotto di lui e si compiaceva di avere tanti spettatori. Accadeva di rado, ormai. «Il mio nome è Minstraello e sono qui per intrattenervi e parlare al vostro cuore». «Non è quello il posto per i saltimbanchi! Torna in piazza come tutti gli altri!» gridò una donna corpulenta dalla folla. Il suonatore la ignorò mentre altri iniziarono a rivolgergli male parole. «Sono qui per darvi la possibilità di vivere in pace e armonia. Questo mondo è immerso nel dolore che voi stessi avete contribuito a costruire. Pensavate di aver creato il più bello dei mondi in cui dimorare ma avete in realtà scavato per voi e i vostri figli il più cupo dei sepolcri». Qualcuno iniziò a infuriarsi e afferrò dalle ceste alla base del tempio alcuni dei frutti votivi per poi scagliarli in direzione del gracile musicista. «Fate che siano i vostri figli lo strumento del cambiamento, il seme di un mondo nuovo più bello e vero. Sacrificate la vostra esistenza nel loro nome e sarete ricompensati con la certezza di non aver sprecato la vostra vita». La donna di poco prima agitò un pugno in direzione di Minstraello mentre con l’altra mano afferrava il figlio e lo nascondeva dietro la schiena. «Non celate i vostri bambini. Io posso sentire la loro voce e loro mi seguiranno,
ovunque io vada. La loro voce è ciò che manca a questo mondo e solo loro potranno là dove voi avete fallito». Alcune grida interruppero il comizio mentre dal fondo della piazza alcune persone correvano in direzione della folla. «Omicidio! Omicidio!» gridavano, battendosi il petto con sguardo disperato. Minstraello sorrideva sotto la maschera e, nel clamore generale, la voce del suo flauto finì per sovrastare tutte le altre. «So io chi sono i responsabili. Sono questi due ragazzi, ai piedi del tempio. Li ho visti accanirsi contro di lui poco dopo il mio arrivo». La folla piombò nel silenzio, poi fu percorsa da un brivido che fece indietreggiare Dari. Minstraello portò di nuovo il flauto alla bocca e i due ragazzi, dopo aver ripreso conoscenza, si alzarono, guardandosi stupiti l’uno con l’altro, inorridendo per il colore delle mani. Nuova musica si udì allora e, come un’unica grande bestia, uomini e donne si avventarono sui due, calpestandosi a vicenda, menando pugni e mordendo qualunque cosa gli capitasse a tiro. «Ti prego, smetti di suonare, ho paura» Dari gli si avvicinò, la sua voce era poco più di un sussurro soffocato. Minstraello lo degnò appena di uno sguardo e, per la prima volta, il bambino prestò attenzione al colore dei suoi occhi. Indietreggiò, fece per scappare e fu solo a quel punto che il suonatore interruppe la propria melodia. Gli abitanti del villaggio si fermarono contemporaneamente, trovandosi, senza che se ne fossero accorti, a formare un cerchio attorno a resti sfigurati, col sangue che macchiava i loro volti e i vestiti. Grida si levarono dalla piazza: nascoste dietro la maschera grottesca di quel piccolo demonio, l’orrore e la follia sembravano essersi intrufolate nella pacifica cittadina. «Guardatevi, uomini, osservate l’abisso nel quale siete caduti. Voltatevi adesso e guardate in faccia le vittime del vostro odio». Una fila, compatta e terrorizzata composta di figli, nipoti e fratelli, li fissava
pietrificati mentre su ognuno di quei volti, fino a poco prima trasfigurati, scendevano adesso lacrime. Madri e padri, fratelli e sorelle corsero nella loro direzione ma i bambini arretrarono, impauriti e stretti l’un con l’altro, rifiutando di rispondere ai richiami. Minstraello imbracciò il flauto e stavolta anche Dari avvertì qualcosa di strano, come se un altro si fosse impadronito del suo corpo e della sua voce. Si vide ridiscendere i gradini e camminare, oltreando il muro di adulti, per unirsi agli altri che, dopo qualche istante e sulle note di una melodia struggente, avevano preso a cantare. Dal mondo dei tuoi sogni, Seguì ciò che più agogni. La strada è ancora molto lunga, Prima che l’alba sopraggiunga. Il bosco e le sue creature, Per noi son compagne sicure. Con fiori il capo adorneremo, Altri compagni presto troveremo. La nostra grande missione, Sarà per voi la giusta punizione. Ognuno di noi bimbi è soldato Di Minstrael, l'esperire rinnegato. Adulti caddero in ginocchio mentre i bambini avano tra di loro, rifuggivano le mani e gli abbracci mentre madri disperate si gettavano a terra per trattenerne i i e padri furiosi si alzavano con i pugni alzati e le forche bene in vista. Il canto dei bambini, si convinse Minstrael, era l’arma più potente a sua disposizione.
Capitolo VII
La scoperta
Non era certo di quanto a lungo avesse dormito e l’unica cosa di cui era sicuro era che, poco dopo l’inizio della melodia, aveva provato la sensazione di scivolare nella strana forma di torpore che solo ora stava abbandonando il suo corpo. Gocce di pioggia scendevano sul suo viso e sulla terra, scorrevano sul collo e sulle braccia, incollando la maglia sdrucita al petto. A o veloce fece ritorno al paese, attraverso i sentieri e i vicoli della sua infanzia. Percorrendo le prime strade di Mersilia fu colto da una sensazione di disagio e di anormalità palpabile che cresceva a ogni o. I suoi sospiri si fecero ritmici e sostenuti, il suo o svelto divenne una corsa. Tutto taceva, nessun fuoco brillava a rischiarare il cielo notturno e le risate della festa, i boccali non cozzavano tra loro e nessuna ragazza procace fingeva un laccio del busto allentato per mostrare la spalla nuda. Il raccolto e le sue genti tacevano e Ran comprese il perché di quel bizzarro avvenimento solo nel momento in cui entrò nella piazza. Addormentati, tutti quanti sprofondati nello stesso sonno che Ran aveva già sperimentato. Strinse i pugni mentre il suo corpo iniziava a tremare sotto la pioggia. Un nuovo e più tremendo moto di orrore lo invase mentre ava attraverso quei corpi privi di sensi. Erano uomini maturi, donne e madri: di bambini e ragazzi non c’era traccia. Imprecò tra i denti e quando l’alba tinse di verde il cielo a est, corse verso la modesta dimora, pregando di ritrovarvi il fratello. Le luci erano spente, il giaciglio ancora integro. Dari era scomparso e con lui ogni altro bambino di Mersilia. Tornò alla piazza, bianco in volto e con le mani che menavano pugni all’aria. Il suo piede calpestò quindi una corona di fiori bagnata e malridotta, la raccolse e la strinse tra le mani. Non c’era traccia neppure del giovane musicista.
Che avessero preso anche lui? Cercò con più attenzione nella piazza e poi le vide, sulla terra divenuta fangosa, due lunghe e spesse linee, accompagnate da molte impronte sparse, come se da Mersilia fosse partita una strana processione. Si chinò a terra per esaminarle meglio, erano piccole e alcune più che impronte di scarpe erano i segni lasciati da piedi nudi. Piedi di bambini.
Capitolo VIII
Il ladro di bambini
Il sole sorse sulle colline di Mersilia, Ran lo attese rannicchiato nella piazza come si attende l’arrivo di una madre per sapere che quello appena vissuto era soltanto un incubo. Membra e corpi iniziavano a rianimarsi con lentezza, richiamati fuori da quel torpore che li aveva sopiti. Ciondolavano, con volti spauriti, come se quel sonno avesse raschiato via tutte le energie. I loro vestiti, sporchi di sangue e terra, sembravano parlare di storie e fatti inauditi, cose che solo le finestre della città avevano osservato dalla posizione privilegiata e ora ben si guardavano dal raccontare. Tutti, scrutandosi attorno, ripetevano i gesti e gli stati d’animo che Ran aveva attraversato qualche ora prima. Dalla strana sensazione di torpore erano ati all’incredulità e da quella alla preoccupazione, precipitando direttamente nell’orrore della scoperta. I bambini erano spariti: nessuno, al di sotto dei quindici anni, era stato risparmiato. Tutti parlavano ma allo stesso tempo tacevano, timorosi che la versione di un altro avvalorasse il terrore che ognuno aveva provato quella notte. Ran si alzò e uscì dalla posizione defilata, chiedendo a questo e quello se avessero visto suo fratello. Solo alcuni ricordavano di averlo visto in compagnia di uno strano ragazzo poi, tutti improvvisamente si dicevano confusi o troppo impegnati a cercare i propri figli per prestargli ascolto. Improvvisamente Ran ricordò. Era stato lui a indicare a quel giovane suonatore la strada, consigliandogli di cercare il fratello. Erano stati visti insieme, con tutta probabilità lo erano ancora. Grida dal fondo della piazza lo distrassero da quelle congetture e fu l’immagine
di una madre che piangeva sul corpo massacrato del figlio ad attirare la sua attenzione. «Confessate, bestie, dite cos’è successo! Solo perché il sole è sorto anche quest’oggi non vuol dire che siate degni di ciò che è accaduto stanotte. L’avete visto anche voi quel bambino terribile e i suoi occhi bianchi, vero? Ricordate la sua melodia e come i nostri figli si sono rivoltati contro di noi per seguirlo!» Un’altra donna si era avvicinata, gli occhi gonfi di lacrime e il volto rosso per la rabbia. «Voi avete ucciso i miei figli, bestie assassine!» iniziò a percuotere con unghie e pugni i primi uomini che le capitavano a tiro, poi fu immobilizzata e portata via. «L’incubo di stanotte non è finito e perdura anche agli occhi del mattino» intervenne un uomo dal tono profondo e autorevole alle loro spalle. «Qualcosa di terribile è accaduto stanotte, occhi bianchi e un flauto demoniaco sono giunti in questa cittadina, insieme a voci e presagi dimenticati». Si fece silenzio, qualcuno si inginocchiò in preghiera. Ran lo conosceva, era un sacerdote di Demetrya dal profilo solenne e parlava con greve saggezza. «Ovunque quell’essere andrà porterà via i nostri figli. Deve essere fermato, prima che sia troppo tardi». Ran ebbe un fremito e la rabbia verso sé stesso crebbe fino a esplodere. «Riporterò a casa i vostri figli. Se perdessi anche mio fratello non avrei nient’altro a questo mondo per cui vivere». Tutti quelli attorno si contrassero, ritirandosi verso il vicino per scambiare due parole e capire chi fosse quel ragazzo. Il sacerdote annuì con fermezza e diede ordine affinché fosse sellato un cavallo e date al ragazzo armi e viveri. «Segui le tracce che hanno lasciato, fermalo prima che colpisca un altro villaggio. Presta attenzione, Avoran di Mersilia, solo questo posso dirti» gli bisbigliò il vecchio mentre montava la cavalcatura. Nel primo sole dell’anno nuovo, dopo la notte più terribile che Mersilia ricordasse, un ragazzo galoppava da solo, seguendo il ladro di bambini venuto dalla notte.
Movimento n.2
Nel fondo dei tuoi occhi La strada nuova imbocchi Il cammino si fa tortuoso Resta vicino, non è pericoloso Tra campi e spighe di grano La nostra missione ci porta lontano Da mamma, casa, papà e focolare Presto saremo pronti a guerreggiare La nostra grande missione Sarà per voi la giusta punizione Ognuno di noi bambini è votato A Minstrael, esperide rinnegato.
Capitolo IX
La caccia
Fin da piccolo era stato abituato ad andare a caccia e a seguire le prede anche per i territori più fitti e impervi. Seguire una carovana di centinaia di bambini sembrava adesso molto più semplice. Seguì le impronte e le orme fino a quando il sole non fu alto nel cielo. Non potevano essere andati molto lontani in così poche ore. Fece mente locale, pensando a quale avrebbe potuto essere il loro prossimo obiettivo. Renodia era un regno vasto ma non erano molti gli insediamenti di grandi dimensioni. Mersilia era considerato poco più di un villaggio se confrontato alla capitale, dove un albero gigantesco toccava il cielo e gli uomini come lui convivevano insieme agli esperidi, esseri dei quali aveva soltanto sentito parlare. Arrivato in prossimità di un fiume, ridotto a torrente durante la stagione estiva, smontò da cavallo e si avvicinò per osservare l’andamento delle tracce. Quell’essere, chiunque fosse, era stato furbo. Le impronte terminavano sulla riva ed erano totalmente assenti sulla sponda opposta. Ran imprecò con rabbia e lanciò un sasso in acqua. La ricerca stava prendendo una brutta piega.
Capitolo X
Lungo il fiume
Rimontò a cavallo, la bestia chinò la testa ed emise un nitrito sommesso. «Dobbiamo proseguire» disse più a sé stesso che all’animale, poi si rimise in cammino e seguì l’andamento lento del corso d’acqua. Il fiume aveva uno strano corso, in certi punti si allargava creando ampie anse sassose, sulle quali crescevano esili sterpi, in altre parti diventava appena una lingua d’acqua coperta da un sottobosco di fiori sgargianti, espressione di quanto la natura potesse essere bizzarra e creativa. Ran iniziava ad avvertire i primi segni della stanchezza, non mangiava dal giorno prima e la testa gli doleva. Chiuse gli occhi, strizzandoli come per ordinare al proprio corpo di resistere e smettere di fare i capricci ma ciò servì solo ad acuire la sensazione di malessere che gravava sulle sue tempie. Decise di fermarsi, smontò da cavallo e si sciacquo il viso più e più volte, fino a quando l’acqua fresca non sembrò concedergli un po’ di sollievo. Si massaggiò le tempie a lungo, come gli faceva sua madre da piccolo poi sentì un calore familiare e piacevole invadergli la testa. Mentre mangiava del pane e un pezzetto di carne, si chiese se quella pausa non avesse potuto compromettere la missione, salvo poi realizzare che un guerriero esausto non avrebbe mai potuto sostenere il peso di uno scontro. Crollò su un letto di felci mentre le lune, alte nel cielo, arridevano a Minstrael e ai suoi giovani seguaci.
Capitolo XI
Giocattoli
Ran si svegliò con il muso del cavallo ad annusargli il viso. Allontanò gentilmente l’animale e si rese conto di aver dormito troppo a lungo. Imprecò numerose volte mentre con il cavallo lanciato a folle velocità seguiva ancora il corso del fiume che via via sembrava assumere connotati più artificiali. Un dettaglio lo costrinse ad arrestare quella marcia, una coroncina, appesa a un basso ramo, attirò la sua attenzione. Girò il cavallo e lo diresse verso l’albero, raccolse la ghirlanda e riconobbe istantaneamente i fiori e le mani che l’avevano intrecciata. La strada era giusta e Dari era ato di lì. Forse per sbaglio o per lasciare un indizio del aggio, aveva deciso di appenderla. Ran sentì le lacrime salirgli agli occhi e ringraziò Espereador per quel segno inaspettato. Ovunque fosse in quel momento, ne era certo, suo fratello era vivo e lo stava aspettando. L’intuizione riguardo all’andamento del fiume non si rivelò errata e fu il ponte in pietra che incrociò poco dopo a dargliene la definitiva conferma. I pittoreschi tetti a punta di Gorgana furono in vista pochi minuti dopo, sopra le chiome degli alberi, rossi del cielo del mattino. Ran spinse di nuovo il cavallo e dopo poco si ritrovò a vagare per una cittadina di persone terrorizzate e impaurite. Scese con un balzo e osservò i volti sconvolti di quelle persone: tutti erano in cerca di qualcuno e tutti sembravano troppo preoccupati per rivolgersi la parola. Donne si battevano il petto, altre erano piegate in due ai margini delle strade. Ran avanzava con o lento tenendo le redini del cavallo, fino a quando un battito ritmico non lo convinse a svoltare in una strada tortuosa che saliva leggermente. Vide alcune canne fumarie di metallo e riconobbe quella che doveva essere l’officina di un fabbro. Dentro si lavorava alacremente,
probabilmente quelle persone avrebbero saputo dirgli qualcosa di più di quello che era successo, magari fornirgli indicazioni su dove i bambini si erano diretti. Entrò, annunciando più volte il suo arrivo ma senza ottenere risposta: avanzò tra fumi e sbuffi, si fece strada attraverso mantici e barre incandescenti. Fabbri imponenti maneggiavano attrezzi che solo due uomini normali insieme sarebbero stati in grado di sorreggere. Ran si avvicinò, cercando di farsi notare ma al tempo stesso di non disturbare il loro lavoro. Poi, quando i fumi si furono diradati per effetto dei mantici, capì. Armature delle dimensioni ridotte ed elmi di uguale proporzione, spadini, martelli e scudi tutti sparsi attorno. Troppo piccoli per un uomo adulto, forse più adatti al corpo di un nano, sembrava fossero intenti a costruire dei bizzarri giocattoli. I robusti fabbri avevano gli occhi iniettati di sangue, gonfi e spaventati, le membra arrossate e i pesanti martelli come incollati alle mani. Ran indietreggiò mentre uno degli uomini, vedendo la sua reazione, ruppe in un grido disperato e rabbioso. «Cosa vi è successo? Per chi sono le armi che state forgiando?» Di nuovo l’uomo proruppe in un altro sfogo. «Quel demonio, ci ha obbligato. Ha preso i nostri figli e ha suonato quel flauto. Ci ha incantati e costretti a fabbricare per lui queste armi senza che potessimo opporci. Ha preso i nostri figli, tranne quello del capo che…». Si ammutolì, abbassando lo sguardo, imitato dagli altri. L’uomo, alto e nerboruto, sedeva solo in un angolo, con il martello a terra e un corpicino tra le mani. «Quel bastardo ha ucciso mio figlio. Non volevamo rispondere ai suoi ordini, ci ha minacciato di farci del male. Bambini soldato, siamo pazzi? Quale uomo avrebbe mai accettato una cosa del genere» si strinse il bambino al petto, doveva essere poco più piccolo di Dari e Ran provò una morsa al petto terribile, tanto che sentì gli occhi inumidirsi. L’uomo ruggì in preda al pianto «Mio figlio, ha ucciso mio figlio, capisci? Ci ha incantati col suo flauto e ci ha obbligato a saldare i ferri del nostro mestiere alle mani» il fabbro mostrò la mano scorticata e la carne viva che pulsava e sanguinava al ritmo della sua incontenibile rabbia. Ran chinò il capo, in segno di rispetto. «Che ci fai tu qui? Non sei di queste parti, non è vero?» chiese uno degli uomini dietro di lui. «No, signore. Vengo da Mersilia. Ho promesso alla mia gente di riportare a casa
i loro figli e giuro di riportare anche i vostri se solo potrete indicarmi la strada che hanno preso». Il fabbro iniziò a ridere sommessamente e lo stesso fecero gli altri, fino a quando la loro risata crebbe fino a riempire l’officina. «Sciocco, hai idea di chi sia quell’essere? È un demone, uno di quelli veri».
Capitolo XII
Occhi bianchi
«Un demone?» ripeté più volte Ran. «Sì, ragazzo, hai capito bene. Un demone, uno di quelli delle leggende e che compaiono nelle storie per bambini. Vedi la differenza è che questa non si tratta di una storia per bambini, nossignore, è la realtà. I demoni esistono davvero e non è la prima volta che ne vediamo uno da queste parti». Ran rammentò qualcosa a riguardo. I demoni erano i cattivi usati come spauracchio dai genitori per far andare a letto i bambini o per fargli mangiare qualcosa di poco appetibile. I suoi genitori avevano sempre evitato di parlargliene e quando ne aveva chiesto il motivo, loro avevano sempre risposto che non erano cose su cui scherzare. «Anni fa un altro di quei mostri venne da queste parti. Iniziò attaccando villaggi di piccole dimensioni, facendo sparire tutti gli abitanti. Si muoveva da solo e nessuno sapeva che fine fero le persone che rapiva. Si iniziò a pensare che le mangiasse o le seppellisse vive. L’essere arrivò a Siranna e fu allora che su un albero qualcuno, prima di sparire, ne incise il nome sulla corteccia di un albero. Solo a quel punto giunse un mago, dal nord e lo sconfisse, facendo tornare tutti quanti a casa. Nessuno ricordava cosa gli fosse successo ma tutti ricordavano gli occhi bianchi e il pallore mortale di quella creatura». Ran aveva sgranato gli occhi, allibito. Non erano leggende, a quanto pare. I suoi genitori dovevano averne saputo qualcosa, visto la loro reticenza. «Siete sicuri di ciò che dite?» «Sicuro quanto lo sono del fatto che non andrai da nessuna parte in queste condizioni. Che speranze puoi avere tu, un contadino, contro un mostro del
genere?» Ran strinse i pugni. Era la sua missione e non avrebbe permesso a nessuno, per quanto forte, di opporsi al suo giuramento. Il fabbro comprese le sue intenzioni e lo fermò appena con una mano, rivolgendogli un sorriso paterno. «Vieni con me, ragazzo, ho qualcosa da mostrarti».
Capitolo XIII
L'unicorno verde
Uscirono dalla costruzione e si diressero verso un capanno defilato sul retro. Il fabbro estrasse una chiave da sotto la camicia e aprì il lucchetto, sciogliendo la catena. Entrarono in uno spazio buio, pregno di resina e polvere. Sul fondo dell’unico stanzone, Ran pensò di vedere uno strano cavallo verde fare un cenno nella sua direzione e levarsi sulle zampe posteriori. Cercò lo sguardo del fabbro chiedendosi cosa diamine avesse nascosto là dentro ma l’uomo non lo notò, o almeno, così gli era sembrato. Avvicinandosi, il ragazzo capì che l’effetto della luce e dell’ombra dovevano averlo suggestionato. Non era un cavallo ma un’armatura di un particolare colore verde, con un elmo dai tratti equini e un grande corno in mezzo alla fronte. «Espereador?» azzardò. Il fabbro annuì, soddisfatto e le girò intorno, grattandosi la barba. «Ilmerite, la lega più resistente e leggera del mondo. Mio padre ne vinse una grossa quantità a carte con una mano fortunata e ci abbiamo lavorato insieme per quasi dieci anni. Era il suo lascito, la sua eredità», concluse commosso. «Quest’armatura è degna di un principe ed io te ne faccio dono. Fanne buon uso, riportaci i nostri figli». Ran le si avvicinò e ne sfiorò la superficie, carezzandone il muso proprio come se fosse un vero animale. «È un dono troppo grande, non ne sono degno, signore. Un’armatura comune andrà benissimo» disse con un mezzo sorriso Ran. Il fabbro non era della stessa idea. «Ragazzo, ascoltami bene. Hai deciso di prendere sulle tue spalle un peso
enorme e io ti rispetto per questo. Se vuoi prestare fede al tuo giuramento e riavere ciò che ti è stato tolto, devi accettare il mio regalo. La vita di mio figlio è stata spezzata, cosa faresti tu al mio posto?» Ran gli restituì uno sguardo imbarazzato. Sapeva cosa avrebbe fatto, avrebbe aiutato chiunque fosse stato pronto a dare la caccia al responsabile di quel crimine. «Accetto. Vendicherò suo figlio» disse Ran tendendo la mano. Il fabbro scosse la testa. «La vendetta non porta a niente. Può essere necessaria, un buon fuoco che arde e che spinge a combattere contro i propri limiti e paure, per fare cose fino al giorno prima impensabili. È un incendio potente ma che consuma la vita più in fretta, lasciando dietro solo un’eredità di cenere. Non combattere per vendetta, lotta per la giustizia. Solo allora l’anima di mio figlio e di altri come lui sarà davvero in pace».
Capitolo XIV
Il signore dei bambini
Ran era ripartito da Gorgana in tarda mattinata. L’armatura era come un vestito fatto su misura, gli aderiva perfettamente, non gli impacciava i movimenti e il suo cavallo non sembrava aver notato alcuna differenza di peso. Era riuscito a ottenere indicazioni sommarie sulla direzione presa dai bambini ed era più che certo che l’attesa per le armi e il peso che portavano li avrebbero rallentati notevolmente. Continuò a percorrere il fiume verso ovest, risalendone il corso fino al pomeriggio inoltrato, quando fu costretto a fermarsi per far riposare il cavallo. Il paesaggio attorno a lui era mutato, si era fatto più selvatico e trascurato, il fiume aveva lasciato spazio ad acquitrini stagnanti, dove felci e salici ne sfioravano le superfici con dita vanitose. Il cavallo affondava nella fanghiglia fino a metà zampa e procedeva lentamente. Il ragazzo si mordeva continuamente le labbra, il tempo ava e non c’era traccia del aggio di nessuno. Più a lungo gli dava la caccia più gli era chiaro che, come ogni grande gruppo, avrebbero dovuto accamparsi da qualche parte per mangiare. Abbandonò la ricerca nelle paludi e si diresse verso l’entroterra, dove fu costretto a smontare da cavallo per procedere più agevolmente. La foresta era stranamente silenziosa, come se tutti gli animali fossero spariti o diventati improvvisamente muti. Sempre più convinto che la sua brutta sensazione fosse più concreta di quanto credesse, sentì un rumore di sottofondo farsi strada attraverso il vento dei suoi pensieri. Musica, ne era quasi certo. E risate, tante. Legò il cavallo a un albero, concentrandosi per ricordarne bene la posizione, poi si accucciò nel sottobosco e procedette, strisciando silenzioso. La musica cresceva di intensità attraverso i cespugli e le fronde. Ran avanzava accucciato, cercando di mantenere memoria dei suoi spostamenti. Giunse sul limitare di una radura e finalmente scoprì da dove veniva. Dimenticò la sua missione e tornò per un attimo bambino, sgranò gli occhi e spalancò la bocca davanti a quello spettacolo: animali che danzavano, facevano capriole e si improvvisavano equilibristi davanti a una platea di bambini sognanti e dagli occhi accesi di
meraviglia. Al centro, nell’incavo di un albero marcio, sedeva Minstraello con il flauto tra le mani, intento a tessere melodie di ultraterrena bellezza. Bambini e bambine di tutte le età gli giravano attorno tenendosi la mano mentre altri intrecciavano ghirlande e gliene facevano dono, poggiandole ai piedi di quel trono improvvisato. Ran provò a contare le teste di bambini che accompagnavano con canti e battiti di mani quell’inusuale serraglio. Cercò di riconoscere il volto o la figura del fratello, poi un fruscio lo colse di sorpresa e poco dopo si trovò a fissare un paio di occhi curiosi e divertiti. «Era da molto che ti aspettavo, fratellone».
Capitolo XV
Il flauto demoniaco
Ran si alzò di scatto e abbracciò per un lungo istante il fratello, guancia contro guancia. «Dobbiamo andarcene al più presto, Dari! Tu e gli altri bambini siete in pericolo!» Dari si staccò, rivolgendogli un sorriso. «Va tutto bene, fratellone. Minstraello è buono, non farà del male a nessuno di noi. Ti aspettava, ha detto che desidera parlarti». «Dari, tu non capisci, ti prego, resta qui nascosto e mi occuperò io di lui». Il bambino si imbronciò, incrociando le braccia. «Sei tu che non capisci, Ran. Lui è un mio amico, un amico di tutti noi e nessuno può fargli del male. Vieni con me e ascolta cosa ha da dirti. Sa che sei qui». Il ragazzo si sentì cogliere dal panico. Era stato davvero lui a trovarli o era stato il demone a lasciare che li trovasse, disseminando indizi e guidandolo inconsapevolmente fino a quel luogo? Dari agì prima che potesse trovare una risposta a quegli interrogativi e, preso per la mano, fu trascinato fuori dagli arbusti. Gli animali smisero di danzare e come risvegliati da un sogno, alla vista di così tanti esseri umani, balzarono via, disperdendosi in tutte le direzioni. I bambini smisero a loro volta di ballare e cantare, tutti, compreso il loro signore, osservavano adesso i due fratelli avvicinarsi. Minstrael interruppe quindi la bassa melodia e chinò la testa in segno di saluto, rivolgendo, sotto la maschera, un largo sorriso.
Ran lo studiò brevemente, per la prima volta lo vedeva alla luce del giorno: era basso, sottile come un’ombra e dai contorni taglienti, il cappello floscio a larghe falde e il mantello lurido gli davano un’aria patetica, quasi ridicola. Anche se quella creatura fosse stata veramente un demone, come il fabbro diceva, gli sarebbe bastato una forte stretta delle mani per ridurlo in fin di vita. I suoi pugni si aprivano e chiudevano al ritmo cadenzato del suo cuore e dei suoi pensieri. Il musicista, riposto il flauto, iniziò a parlare: «È un vero piacere rivedervi insieme. Sono felice che tu, giovane Ran, abbia deciso di unirti a noi e alla nostra missione». «Missione? Di cosa stai parlando? Lascia liberi questi bambini o io…» le sue mani corsero veloci al fodero della sua spada. Uno stuolo di bambini si parò davanti a Minstrael con le braccia a scudo mentre altri, armati di tutto punto, sbucarono da dietro pronti a circondarlo. Dari stesso si unì a loro, frapponendosi per primo al desiderio del fratello. «Ran, ti chiedo di ascoltare ciò che Minstraello ha da dire. Dopo puoi anche traarmi con la tua lama ma prima, ti prego, ascoltalo». Ran alzò gli occhi lucidi e fissò quelli algidi dietro la maschera. «Schifoso bastardo, con la tua musica hai incantato tutte queste creature. So cosa sei e posso annientarti». Fu Dari a rispondere nuovamente, con gli occhi brillanti e le guance arrossate per lo sforzo. «Non sono qui per suo volere ma per mia libera scelta. Ascolta, ti imploro, quello che ha da dire e insieme ci uniremo alla sua causa, Ran! Lui può ridarci mamma e papà!» Gli occhi di Ran andarono dal fratello al demone. «E così l’hai incantato promettendogli tutto ciò? Quanto si può essere malvagi per illudere un bambino con questa promessa? Nessuno può fare una cosa del genere». Minstrael rise. «Tu lo dici, umano. I miei signori, i miei Dei, possono questo e altri cento miracoli che sfuggono tanto alla tua quanto alla mia immaginazione. Quello che ti chiedo è di unirti a noi per ridare di nuovo fede a questo mondo».
«Quali Dei utilizzerebbero dei bambini come esercito? Dimmelo! Chi oserebbe venerare divinità che tollerano l’omicidio? Questa è pura follia e ti rimanderò dall’incubo dal quale sei nato, ovunque si trovi». Dari iniziò a piangere, si gettò ai piedi di Ran e ne abbracciò le gambe, mugolando preghiere e parole intrise di lacrime. «Ti prego, fratellone, è la nostra unica speranza di rivederli. Fallo per loro. Fallo per me». Gli occhi di Ran si riempirono a loro volta e il compiacimento di Minstrael aumentò a dismisura. Era pur sempre un orfano senza genitori, senza nessuno al mondo tranne il fratello. Sarebbe ceduto, li avrebbe aiutati. Sentiva i suoi pensieri, le paure e i suoi dubbi affiorare, immergersi e rialzarsi di nuovo con forza maggiore come indomiti cavalli bradi. Un “No”, risuonò nella radura, Ran si liberò facilmente del fratello e fu sul punto di attaccare Minstrael con un fendente diretto. I bambini gli furono addosso pochi istanti dopo, si aggrapparono alle braccia e alla schiena, dimostrando una forza e una tenacia inaspettate. Il ragazzo respirava a fatica mentre sempre più bambini gli davano l’assalto e provavano a bloccarlo. Minstrael si era alzato e lo osservava, tranquillo, ai piedi del suo trono contorto. Imbracciò il flauto con lentezza esasperante mentre Ran si dibatteva senza posa, fino a perdere persino la spada. Cadde in ginocchio mentre bambini armati di tutto punto si avvicinavano pronti a colpire. Il demone iniziò a muovere veloce le dita, fino a quando esse si confo nel mezzo a una nebbia verde che scendeva liquida e densa dal flauto. Ran trovò la forza di alzarsi e liberarsi da quelle strette ma la spada era ormai nascosta da piedi e mani che cercavano di afferrarlo e trattenerlo. Dopo aver preso posto al fianco di Minstrael, Dari ricacciò indietro le lacrime e lasciò spazio a un’espressione assorta e indecifrabile. La nebbia voluminosa si contrasse e si dilatò: Ran, caduto di nuovo a terra, cercò di evitarla, scalciando e muovendosi all’indietro. Di nuovo altri bambini furono sopra di lui e la nebbia ne distorse i volti e le membra, tramutandoli in esseri bestiali e dagli occhi rossi. Ran iniziò a correre,
senza guardarsi indietro, senza voler vedere o anche solo pensare a ciò che aveva appena visto. Sentiva le urla dei bambini alle sue spalle, cercò di seminarli, entrò di nuovo nella foresta, provò a ripercorrere la strada all’indietro, trattenuto da ogni ramo e ogni albero. Perse il senso dell’orientamento, smarrì il proprio cavallo, la nebbia verde si spargeva come un alito fetido nel sottobosco e ovunque comparivano artigli pronti a ghermirlo. Ran si difendeva cercando di staccarseli di dosso e al tempo stesso sperava di non ferire nessuno. Si sentiva spinto e braccato come una bestia: giunto al limite delle forze, cadde, all’indietro e rotolò lungo una scarpata, prima di finire tra le acque limacciose di una palude.
Capitolo XVI
La caverna
Si trovava immerso fino alle ginocchia nella terra nera e fangosa e tutto intorno piccole bare di legno chiaro conficcate e pronte a sprofondare. Dalle casse uscivano pianti e gemiti soffocati e Ran, immobilizzato, cercava di scavare con le braccia per afferrare quelli a lui più vicini. Poi, di colpo, tutti i piccoli feretri si aprirono e Ran si trovò circondato da un tribunale di fanciulli che lo fissavano e lo indicavano senza dire parola. Poi vide il fratello, cercò di chiamarlo, di rassicurarlo, ma prima che la terra sommergesse il suo volto, l’unica cosa che vide fu uno scheletro di bambino. Respirava, a fatica, la bocca impastata, il volto intriso di melma e acqua putrida, i capelli appiccicati alla fronte. Gli occhi si abituarono lentamente all’oscurità, fino a cogliere verdi bagliori tutto intorno, pezzi di armatura che si erano staccati durante la caduta. Si mise a sedere, bagnato e ancora confuso, sotto lo sguardo di Masir riflesso nella palude. Era fuggito, sconfitto e il sapore del fallimento gli era sceso lungo la gola insieme ai resti marci della torba. Si ò le mani tra i capelli e si alzò, barcollando, nel tentativo di recuperare ogni pezzo sparso e di riordinare le idee. Non aveva più un cavallo o un’arma e non era riuscito a sostenere un confronto diretto. Quali speranze aveva adesso? Tempo dopo sorse anche Kalef all’orizzonte, una falce sottile piegata in un sorriso beffardo, nascosta poco dopo da nuvole gonfie. Il vento si alzò alle sue spalle, una sensazione di disagio che non comprese fino a quando non si fu voltato, trovandosi davanti l’ingresso di una caverna. Alberi contorti si avviluppavano tutto intorno la spelonca e stritolavano la terra e i sassi tra le radici bitorzolute, come sadici torturatori. Poco dopo lampi graffiarono il cielo e da ferite luminose si riversarono sulla terra gocce di sangue celeste.
Ran non amava i luoghi chiusi, anzi, li aveva sempre evitati. Si affacciò all’ingresso e sul fondo vide un chiarore tremolante. Non era particolarmente invitante ma non poteva dirsi assolutamente certo che ci fosse stato davvero. Stare là dentro, al riparo, era pur sempre meglio di trovarsi fuori, sotto la pioggia, disarmato e senza una via da seguire.
Capitolo XVII
Il mostro
Ran si accucciò in un incavo nella parete, fuori il temporale cresceva di intensità, inghiottendo tutto dietro un muro di notte e d’acqua. Scorse di nuovo il bagliore e si avviò in quella direzione, abbandonando l’ingresso presso il quale era rimasto a pensare a lungo. Avanzava piano, con cautela, quasi in punta di piedi, sperava di non spaventare chi o cosa occupava quel posto e di non essere quindi aggredito. Il bagliore crebbe di intensità, le sue mani percorsero la superficie umida della grotta, saggiandone le viscide asperità e le levigate pietre. La grotta curvava, lenta, scavata nel fondo di oscuri millenni: mentre scendeva tra le sue viscere ne avvertiva il sinuoso movimento, quasi l’avesse inghiottito vivo. La luminosità divenne abbagliante quando davanti a lui si stese un letto di cristalli che variavano di tonalità, dal bianco al verde, creando sagome e contorni fantastici. Gemme degne di un sogno vitreo, conficcate a varie altezze e cresciute come funghi variopinti. In un’occasione diversa avrebbe osservato rapito quello splendore naturale e avrebbe cercato di imprimere nella mente lo stupore che quella visione gli concedeva. Non ne ebbe il tempo e anzi, la fitta allo stomaco che provò un istante dopo lo fece sentire uno sprovveduto. Una sagoma enorme e contorta giaceva rannicchiata al centro, un groviglio di arti e corna sgraziate, dissimile da ogni bestia esistente ma allo stesso tempo chimerico esempio di ogni creatura del pianeta. Fu sul punto di tornare indietro ma non ebbe il tempo: mentre un odore nauseante gli penetrava in profondità nelle narici, si trovò faccia a faccia con la bestia antica come la terra e le radici, l’acqua e la foglia, sepolta e nascosta là dentro, in attesa. Provò a scappare ma era come se la terra e la pietra l’avessero reso parte di loro,
i cristalli ne impedivano a ritroso la fuga, irti aculei conficcati nel dorso di quella spelonca dormiente. Cadde, trovandosi attorniato da ossa e teschi di altri che, come lui, avevano cercato rifugio e avevano poi trovato la morte nelle fauci della creatura. Ran osservò la bestia ergersi nella sua poderosa statura, la schiena poderosa e gobba urtò il soffitto della grotta, sradicando stalattiti di cristallo che caddero tutte intorno. La bestia ansimava e dalla bocca, se Ran poteva definirla tale, uscivano grandi quantità di miasmi e bave. Gli occhi, piccoli e acuminati, risiedevano al centro di un volto tumefatto e deformato dalle piaghe e dal quale spuntavano, senza apparente logica, ciuffi di pelo e corna acuminate. Il ragazzo corse a nascondersi, rintanandosi in un anfratto mentre gli artigli raschiavano con avidità, cercando di cavar fuori la giovane preda. Ran prese a calci l’arto, fece leva sulle braccia e calò su di esso entrambi i piedi con vigore. Sentì uno scricchiolio familiare, qualcosa si era rotto, approfittò dell’urlo della bestia per uscire dal nascondiglio e afferrare una stalattite, l’unica misera arma di difesa. Non attese che la bestia liberasse il braccio dall’angusta fenditura e calò la stalattite più e più volte sul braccio della bestia, colpendo con la forza della disperazione. Il mostro si contorse furioso, uno strattone fece volare Ran per alcuni metri e con un boato parte della grotta crollò, bloccando l’uscita. Il petto di Ran si muoveva con irregolarità, si rialzò con fatica, barcollò e si addentrò nel cunicolo mentre la bestia iniziava una carica alle sue spalle. Ran correva, inciampò in resti che non aveva il coraggio e il tempo di osservare, la sua vita era appesa a un filo e il terrore iniziava a farsi strada nel suo corpo, annebbiandogli la vista. Cadde per l’ultima volta, con il rumore della bestia sempre più vicina, pronta a reclamare il pasto e a mettere fine a quel gioco. Ran si accorse di piangere, contratto dal dolore e dalla delusione. Falliva, una volta ancora, nei confronti di chi amava e voleva proteggere. Sentì una voce chiamarlo, la colossale bestia era sopra di lui pronta a banchettare, riversando sul suo petto bava collosa e nauseante. Pensò che fossero i suoi genitori che venivano a prenderlo, echi immortali giunti a rassicurarlo prima della fine. Sentì il suo cuore sollevarsi e chiuse gli occhi mentre una luce abbagliante percorreva i cunicoli come una folgore. Il mostro urlò, reclinò la testa all’indietro e Ran si guardò intorno, trovandosi sulla sponda di un lago. Al centro, su un isolotto fatto di pietra, c’era una donna dai lunghi capelli argentei. Si strusciò gli occhi, si alzò in piedi e si tuffò, senza pensarci due volte. Riemerse, la testa a pelo d’acqua, muovendo le braccia e le gambe quanto più velocemente gli fosse possibile.
«Coraggio, Ran, ancora poche bracciate». La voce parlò di nuovo, tirò su la testa e la donna era sparita. Un’allucinazione? Era possibile che la sua mente, annegata nel terrore, avesse immaginato tutto? La bestia, tramortita dalla luce, sembrava essersi ripresa e non del tutto pronta a rinunciare alla preda. Ran si voltò appena per vedere la gigantesca sagoma avanzare aggredendo l’acqua con le membra deformi. Ricominciò a nuotare con più vigore ma l’acqua sembrava volerlo trattenere e le sue braccia si fecero pesanti, pesantissime. Il cuore gli rimbombava nelle orecchie mentre la creatura, dietro di lui, afferrava l’acqua con dita avide. Ran non sentiva più le voci e sul masso non c’era nessuno ad attenderlo. Le ultime bracciate furono esasperanti, il respiro si era fatto difficile, sembrava che il suo corpo si stesse ribellando e al tempo stesso volesse prepararlo alla resa.
Capitolo XVIII
La Spada si smeraldo
«Ancora uno sforzo e sarai in salvo». Nel torpore in cui era caduto il suo corpo, di nuovo la voce oltreò la sua mente. Ran vide una mano tesa verso di lui, le si aggrappò, con tutta la forza e si sentì sollevare in alto, sfuggendo al primo attacco del mostro alle sue spalle. Guardò verso il suo salvatore, vide di nuovo il volto della donna bellissima che fluttuava leggera, rivolgendogli un sorriso rassicurante. Con la vista annebbiata finì per pensare che fosse lo spirito della madre. Sentiva la dolcezza e il calore di quando era un bambino e trascorreva giorno sotto il sole, correndo nei campi. L’immagine di sua madre era sempre lì, sulla porta di casa, ad attendere il suo ritorno, con lo sguardo indulgente e il sorriso appena accennato sul volto arrossato dal sole e dal duro lavoro. Quella mano, la figura che adesso stava davanti a lui, era come il porto sicuro in cui trovare riparo e ristoro. Il mostro cercava di afferrare l’incredibile natura di ciò che accadeva davanti ai suoi occhi, solo un gesto della dama splendente era bastato per alzare una barriera impenetrabile. Si girò, contemplò e riuscì a osservare, per la prima volta, la creatura che lo aveva assalito. La bestia multiforme e terribile abbatteva i suoi pugni e digrignava i denti ma la barriera non ne veniva scalfita. Sotto ai bagliori dorati, Ran bisbigliò qualche parola di ringraziamento e preghiera ma la donna sembrò non sentirlo, limitandosi a fissarlo assorta. Solo allora, dopo che ebbe preso di nuovo il controllo del suo corpo e dei pensieri, vide una spada conficcata tra due rocce. La lama palpitava, rimandando bagliori simili agli stessi che Ran aveva visto all’ingresso della caverna. Pulsava, al pari del suo cuore, ne seguiva il ritmo, lo invitava ad avvicinarsi e a toccare l’elsa ingioiellata. Ran ne sfiorò la superficie
ed essa reagì, aumentando la potenza del suo bagliore. «Prendila. È tua» la dama aveva parlato di nuovo, oltreando i limiti della conversazione verbale, attaccandosi di nuovo ai lembi dei suoi pensieri. Ran si voltò, quasi a chiederle il permesso di liberarla, la conferma che quell’arma fosse per lui. Di nuovo, la dama si limitò ad annuire, senza aggiungere altre parole, eterea e lontana come un ricordo. Ran aveva creduto si trattasse di un fantasma, dello spirito di sua madre inviato dalla pietà di Espereador per dargli aiuto ma aveva dovuto correggersi, non senza che le lacrime salissero di comunque ai suoi occhi. Cercò di estrarla con una sola mano ma incontrò la resistenza della roccia. La spada era conficcata in profondità, come se fosse tutt’uno con l’isola e con i massi. Si puntò con i piedi e impugnò l’elsa ingioiellata con entrambe le mani. Tirò, con tutte le forze che gli restavano in corpo, la lama prese a brillare con un’intensità accecante che lo sommerse e spezzò le pietre che la imprigionavano. Ran ricadde all’indietro con l’arma in grembo, irradiato dal verde bagliore. Il ragazzo si voltò verso la sua salvatrice ed ella annuì compiaciuta. «Ero sicura di non sbagliarmi. Quest’arma è in grado di compiere miracoli». «Mia signora, so a malapena come si impugna una spada». «Tu no ma lei sa esattamente cosa fare. Lasciati guidare, senti la forza che tramite essa scorre nel tuo braccio. diventa parte di te, capisci? La nostra fiducia sarà in te ben riposta. Il mio compito è finito» lo guardò, con un sorriso distante. «Preparati a combattere con l’arma degna di un re. Buona fortuna, Avoran di Mersilia».
Capitolo XIX
La Regina solitaria
«Capisco le sue motivazioni ma…Si tratta del mio popolo, della mia gente. È di loro che stiamo parlando». «Non sono la sua gente, maestà. Sono umani, se mi è concesso ribadire il fatto» l’uomo ruotava senza interesse il pomello del bastone tra le mani, senza distoglierne lo sguardo. «Non diversi dagli umani che mi hanno scelto come guida, gli stessi che hanno accettato di far parte del mio regno. Non ho dimenticato le tribolazioni ate e nemmeno loro». «Nessuno crede che le notizie giunte possano giustificare il suo intervento diretto, mia signora. Lasci andare l’esercito regolare a fare le dovute verifiche. Sono sicuro che tutto si risolverà…». «E se così non fosse? Se non fossero semplici mercanti di schiavi i responsabili di tutte queste sparizioni? Già una volta ci siamo sbagliati in proposito». «Me lo conceda, maestà, quella volta era diverso. Villaggi interi spariti, nessuna notizia, solo un nome. Dovrà ammettere che le somiglianze sono meno di quante sarebbe lecito supporsi». «Dimentica gli occhi bianchi. Ora come allora potrebbe essere opera di un Pari e stavolta temo che nessun mago giunto dal nord possa intervenire a salvare il mio popolo. Devo essere io a sporcarmi le mani per prima». «Per quale motivo? Pensa che così facendo loro inizieranno ad amarla? A rispettarla? Verseranno le tasse e i tributi col sorriso sulle labbra per aver fatto sì che si ricongiungessero i loro figli? Maestà, Talandria…» nessuno la chiamava
mai per nome «Per quanto possa sforzarsi o essere determinata, non c’è modo per conquistare la loro fiducia. Continueranno a mentire sui raccolti, a versare un po’ meno di quanto sia loro richiesto. Sono umani». Poggiò le mani sul tavolo sopra al quale era stata srotolata una grande mappa del regno. Renodia, il regno silvestre, il luogo nel quale le diversità trovavano riparo, dove umani ed esperidi vivevano in armonia. Così le era sempre piaciuto credere che fosse ma sotto lo sguardo aspro del consigliere, la sua certezza vacillava. «Quand’è divenuto così cinico Messer Octorbo? » «Da quando la sua vita è per me la priorità, mia signora. Non posso permetterle di unirsi alla squadra. Gli Esperidi hanno bisogno di lei, della loro guida». «Una guida o una statua? Cosa mi viene chiesto di essere? Se devo assolvere la mia funzione, dimostrarmi degna di essere ciò che sono non è rimanendo tra i marmi e le pietre preziose che posso dimostrarlo». «Cosa intende fare, dunque? » «Andrò con loro e non lo ripeterò ancora. Sono stata chiara?» ll suo tono non lasciava spazio a fraintendimenti e i suoi occhi color ambra risplendevano di una luce ferina. L’uomo che, inutilmente, aveva cercato di prodigarsi per convincerla, si fece da parte e chinò la testa, non senza mostrare un lieve sospiro di disapprovazione. Lo sguardo della donna si addolcì, rilassò le spalle e il petto si riabbassò. Le labbra divennero sottili, incerta se rivolgere al consigliere qualche parola di conforto. Ciò che disse invece suonò strano persino ai suoi orecchi. «Faccia ultimare i preparativi, desti gli uomini. Partiamo immediatamente».
Capitolo XX
Il respiro dell'alba
Il sole sorgeva su Renodia attraverso le fronde del grande albero, scacciando la notte giù dai tetti, lustrando le guglie e le fredde pietre della polvere del sonno. Città millenaria, fondamenta antiche, così come lo era la sua solitaria regina. Talandria l’esperide, colei che si diceva fosse la creatura più bella che avesse mai calpestato, se non fluttuato, sulla nuda terra. L’introversa sovrana che da sola, contro tutto e tutti, aveva raccolto attorno a sé un popolo di orfani e fuggiaschi che, come lei, avevano accettato di seguire il fato degli Angeli Dorati. Un debito arcano legava a doppio filo lei e la sua gente con coloro che dimoravano il cielo, gli eterei guardiani che vegliavano su ogni cosa. O almeno così aveva sempre pensato che fosse. Tacevano, da lungo tempo, dalla fine dei giorni bui dell’era precedente, quando il mondo era stato sull’orlo di un baratro e lei aveva rifiutato l’impero. L’impero, l’apice che quel mondo era stato in grado di segnare, il sogno più grande portato a compimento e al quale ella stessa aveva contribuito. Erano altri giorni, altri tempi e altri volti. Niente di ciò sarebbe tornato, non prima di aver affrontato prove che ancora sfuggivano alla sua comprensione. Sarebbe stato atroce, terribile, come colei che nell’ombra ordiva e tramava. L’unica certezza, mentre indossava di nuovo la veste da battaglia e l’ilmerite splendeva alla luce del giorno nuovo, era che qualunque cose la aspettasse là fuori, lei l’avrebbe affrontata. Glielo diceva il vento, il trepidare delle foglie nel tepore dell’alba, glielo ripeteva il suo respiro lento e controllato. Sarebbe sopravvissuta per vedere il mondo nuovo e avrebbe contribuito a dare a quel pianeta la pace che meritava.
Capitolo XXI
La strada tortuosa
Il tempo e il suo mistero, fino a quel momento trattenuti e cristallizzati dall’apparizione, furono rilasciati una volta sopraggiunto il crepuscolo della sagoma. Ran ruotò su se stesso, vagamente impacciato dall’ingombrante presenza stretta tra le dita. La mano sudava, al pari della fronte. Aveva freddo, una sensazione profonda e terribile che lo attraversava da parte a parte. Non era stato l’improvviso e disperato tentativo di fuga attraverso l’acqua né il gelo della grotta o l’umido della sua aria. Era paura, autentica, maledetta paura quella che Ran provava in quegli istanti. Le parole della dama erano state un conforto dolce, una musica ristoratrice ma dall’effetto così breve che quasi gli pareva di averlo sognato. Solo la spada, rimasta incollata alle sue dita impastate di fango, gli diceva che tutto quello che aveva visto era vero. Alla colossale creatura, la bestemmia del creato che si ergeva davanti a lui in tutta la sua atrocità, non importava gran che se adesso brandisse un’arma. Sapeva che aveva paura e ciò era abbastanza. Il ragazzo ne cercò il muso, gli occhietti affossati e la mascella deforme calata nel buio, proprio come avrebbe fatto davanti a ogni altra creatura selvatica. Quella era ben lungi da esserlo. Ran ne ignorava la natura, la storia e l’antica memoria che quella bestia aveva seppellito con sé in quella tomba di pietra e morte. Ran conosceva però la fine alla quale sarebbe andato incontro, l’aveva vista per un fugace attimo negli occhi dei suoi genitori, l’aveva vista nei suoi stecchi occhi, riflessi nella torba in cui era sprofondato dopo la fuga. Le sue dita si strinsero attorno all’elsa in un gesto istintivo. Vinse la paura, ebbe un fremito e arrivò all’unica e sola certezza. Lui non sarebbe morto in quella grotta. L’aria vibrò e artigli si mossero nella sua direzione: d’impulso la lama percorse
un arco e si frappose all’attacco, cozzarono ma la bestia non interruppe l’impeto. Parata dopo parata, davanti a quegli artigli, Ran aveva perso la percezione del suo corpo mentre arretrava sulle rocce dell’isolotto. Sentì le pietre graffiargli la schiena, strinse i denti e parò un nuovo assalto. Stretto in quella fessura si sentì in trappola. La dama gli aveva dato una spada in grado di compiere miracoli eppure, nonostante quella disperata difesa non fosse poca cosa, era ben lungi da potersi definire tale. Che fosse lui incapace, inadatto a quella missione? Con le pietre puntate alla schiena, accerchiato e con le speranze che morivano una a una, impugnò la spada con entrambe le mani e menò fendenti alla cieca. Il responso ai suoi dubbi e il miracolo atteso, giunsero assieme, intrecciati in un’unica e devastante risposta. La lama mancò il bersaglio ma si abbatté repentinamente sulla roccia. Fendette strati di sassi e squarciò a metà l’isolotto, corse fino al mostro e dalla sua gola si alzò un urlo atroce mentre un arto cadeva a terra morto. Alle sue spalle la corsa del colpo non si arrestava e tingeva le acque di verde: esse, obbedienti al suo volere, si spalancarono al pari degli occhi confusi di Ran, stupefatti di fronte a tale prodigio. Il ragazzo colse un barlume sul fondo della grotta individuato dal aggio, superò la bestia e ne evitò la furia. Saltò giù dall’isolotto e rotolò sulla sabbia umida mentre alle sue spalle, con rinnovata collera, latrava la sua vendetta contro la volta oscura. Il giovane corse sul fondale limaccioso e scivoloso della grotta, salì quelle che ai suoi piedi sembrarono un ammasso molto ordinato di pietre ma la bestia era ancora alle sue spalle, un’ombra deforme che non aveva intenzione di abbandonare la sua preda. Notò appena l’arco di pietra e le scale che o dopo o prendevano forme e luce come i cristalli della grotta prima di loro. Ran non aveva tempo per pensare, la mente pensava febbrilmente a un modo per terminare quello scontro.
Capitolo XXII
Gli occhi della bestia
Salivano, non scendevano: là fuori potevano esserci ancora le stelle insieme alle lune. Immerso completamente in quel mare di oscurità aveva finito per dimenticare l’esistenza del sole. Gli sarebbe bastato vederlo, scorgerne un raggio, solo quello sarebbe stato in grado di dargli la certezza che quell’incubo poteva finire. Cercò di ricordare da quanto tempo si trovasse là dentro mentre la furiosa creatura abbrancava ogni scalino come se fosse una nuova preda. Le scale divennero tortuose, il corpo del giovane contratto allo stremo. Non c’erano finestre o cavità, l’ascesa proseguiva in un cunicolo infinito: era ancora preda e non cacciatore. Il suo cuore mancò un battito e un altro ancora poco dopo. Si voltò e vide gli occhi della bestia, nelle cavità affossate rilucevano nuovamente gemme rosse come il sangue. Non sarebbe fuggito, non più. L’avrebbe affrontato e ricacciato giù in quell’incubo vorticante dal quale erano risaliti. Con le forze che solo la disperazione e non il miracolo sembrava volergli concedere, Ran si lanciò contro la bestia. L’urto fu disumano: lui e l’animale vennero sbalzati attraverso un muro di pietra. Si ritrovarono all’esterno, alla fine del crepuscolo, quando l’alba era prossima ad annunciarsi in tutta la sua sfolgorante potenza. Ran si rimise in piedi e levò la spada in alto. Gridò perché gli venisse concesso un nuovo miracolo, perché la vita sua e dei suoi cari trovasse, sul fondo della disperazione, un senso, perché quella spada e la disperata azione che era in procinto di fare, fossero la prova che lui era esistito per davvero. E se avesse sconfitto quel mostro, niente, nemmeno un demone, avrebbe potuto fargli paura. Saltò, colpito dai raggi del sole vittorioso sulla notte di tempesta, dal mostro si levò un grido poi la spada, guidata da mani invisibili, si conficcò nel petto della bestia. Cessarono le urla, venne il silenzio. E l’incubo finì.
Movimento n.3
Il fine della nostra guerra Ci porta in cima a questa terra Renodia, malvagio reame Vedrà il rosso sulle lame Il mondo nel dolore immerso Vaga solo in questo universo Privato è stato del suo dio Del peccato pagherete voi il fio Talandria, triste regina La tua fine è ormai vicina Il tuo destino sarà segnato Da Minstrael, l’esperide rinnegato.
Capitolo XXIII
L'oasi nella tempesta
La truppa raggiunse Siranna all’imbrunire punteggiato delle prime stelle solitarie mentre dalle praterie si levava il vento tiepido che avrebbe danzato tutta la notte tra fronde e frutti maturi. Siranna era ricca, probabilmente, ricordò Talandria, la città più ricca dopo la stessa capitale. Ben diversa dall’industriosa Gorgana o dalla rurale Mersilia, si ergeva davanti a loro avvolta in uno sfavillio di luci, lasciandosi contemplare e al tempo stesso rendendosi invitante con le molte attrazioni in grado di offrire. Tutto le appariva calmo e sereno, così come nella sua mente secolare si era ormai abituata a considerare il suo regno: un’oasi di pace e tranquillità in un mondo in balia di forze avverse. Rimosse l’elmo, sciolse i capelli al vento e si voltò verso i soldati. «Non entreremo in città come militari. Cercheremo di are inosservati e verificheremo l’eventuale presenza di sospetti». Non ci furono obiezioni, la regina spronò il cavallo e tutti la seguirono sulla strada rischiarata dalle lune che li separava dalla cittadina. Anni dopo, Talandria avrebbe a lungo ripensato a quegli istanti, alla falsa sensazione di sicurezza nella quale si era cullata, all’illusione che era in procinto di dissolversi davanti ai suoi occhi. Dopo quel giorno, era giunta ad ammettere, non sarebbe più stata la stessa.
Capitolo XXIV
L'esperide rinnegato
Siranna era agghindata a festa, come fosse preparata ad accogliere un'ospite di riguardo lungamente atteso. Ovunque vide ghirlande fiorite e bandiere appese ma non una voce o un canto attraversavano l’aria. Solo il vento accompagnava con il suo alito il ritmico. Presa dai rapporti sempre più allarmanti pervenuti in quei giorni, Talandria aveva finito per dimenticare l’annuale festa di Finestate. Vista la ricorrenza, non era strano non incrociare nessuno per strada ma la totale mancanza di musica e canti destò più di un sospetto sia in lei che nei suoi uomini. Decisero di scendere da cavallo per proseguire a piedi: ò alla guida del gruppo un soldato che aveva fatto parte della guarnigione cittadina anni prima e che si diceva sicuro di non aver mai assistito a niente di simile. Li guidò svelto nelle strade sempre più strette e della cittadina, l’occhio acuto di Talandria non mancò di notare altri segnali sospetti che qualcosa di strano si fosse verificato anche a Siranna: c’erano ceste con cibo abbandonate per terra, caraffe e brocche rotte e tavoli rovesciati, come se la festa fosse stata improvvisamente interrotta da un evento inaspettato. Agghiacciata, portò la mano al fianco quando, oltreata una porta scolpita, lei e i suoi soldati entrarono nella piazza della festa. Aveva mantenuto i nervi saldi in situazioni più cupe e disperate, quando non di un paese o di un regno ma di un mondo intero si erano decise le sorti. Eppure, in quel momento, si sentì sola e impotente. File di bambini immobili sopra corpi di adulti dagli occhi chiusi e i volti disperati, sudici e bagnati da lacrime. Fermi, inermi, occhi stralunati che si agitavano in cerca d’aiuto e bocche chiuse e gonfie, come se trattenessero urla e disperazione. Sopra tutti loro, assiso su un carro con le gambe accavallate, c’era un ragazzo col volto nascosto da una maschera. Si alzò e con un gesto affrettato, si sfilò il cappello e si esibì in un ossequioso inchino.
«Infine ci incontriamo, zia Talandria». Attraverso le fessure avvamparono gli occhi bianchi e terribili di Minstrael.
Capitolo XXV
L'esercito dei bambini
Scappava, fuggiva nella notte. Sola, spaventata, i suoi piedi sfioravano il terreno, quasi volasse rasoterra. Era stata una disfatta, una totale disfatta: i suoi uomini erano stati assaliti e annientati da bambini. A un trillo del suo flauto, quelle creature innocenti si erano mosse e avevano agito con efferatezza e crudeltà che non credeva immaginabili. Si era vista circondata, incapace di rispondere, di difendersi. I suoi soldati le si erano schierati attorno in un atto di estrema difesa ma erano caduti uno ad uno, con i volti rigati di lacrime, senza riuscire a combattere. Si erano lasciati sopraffare, increduli e sconcertati, ancor prima di sapere che le armi credute giocattoli erano davvero affilate e in grado di straziare le loro carni. Solo l’istinto di autoconservazione l’aveva salvata in quel momento, la parte più profonda della sua mente l’aveva scossa, aveva fatto sì che i suoi occhi si chiudessero e che i suoi piedi la trascinassero via veloce. Nonostante gli occhi chiusi e il rifiuto per ciò che con tanta atrocità aveva segnato quella notte, la vista di quegli occhi era rimasta così come la consapevolezza della propria colpa. Lo sguardo celato sotto la maschera, l’espressione indecifrabile, il mistero che l’aveva tormentata a lungo in tutti quegli anni e la sofferenza che nemmeno il lento volgere dei secoli era riuscito a lenire si era manifestato quella notte con la violenza di un incubo. Lui era vivo. Lui non l’aveva dimenticata. Lui era diventato un Pari. Corse, senza voltarsi indietro, perse il respiro e la cognizione del tempo. Cadde, sopra di lei il cielo stellato e le lune, nelle narici entrò prepotente l’odore di erba e terra. Nonostante il tempo trascorso, il destino era stato un creditore paziente ed era giunto infine a presentarle il suo. A quel pensiero chiuse gli occhi e tutto divenne nero.
Capitolo XXVI
Memorie disperate
«Eri convinta che non sarebbe mai successo, non è vero? Questo è un mondo bizzarro e oscure sono le leggi che ne reggono l’equilibrio. E talvolta si finisce per credere che nemmeno nella morte ci sia certezza». Una risata di scherno la destò dal torpore nel quale era piombata, Talandria si puntellò sui gomiti e si alzò. Davanti a lei, persa in una nebbia verde, una donna la osservava con gli occhi sbarrati. Era ammantata di una bellezza consunta, il viso tirato e la chioma striata, solo negli occhi splendeva ancora una scintilla Quel fuoco ardente fu sufficiente per far sussultare Talandria. E non solo lei: trasalì la terra, si scossero le radici degli alberi e le foglie tremarono. «La memoria è una compagna crudele. Da e prende a suo piacimento, proprio come vita e morte. Hai visto la morte, ne ricordi anche l’aspetto? Aveva il mio viso, l’hai letta nei miei occhi, in quelli di mio figlio. Sono bianchi, adesso, non più di giada come lo furono i miei». «Tu non sei qui, non puoi essere qui». «Da cosa proviene questa tua assoluta certezza?» Finse di ponderare, socchiuse gli occhi come se fosse particolarmente concentrata ed essi divennero due fessure strette. «Giusto, mi hai uccisa, condannando mio figlio a una vita tremenda. L’hai strappato a sua madre, l’hai privato degli affetti. Ma l’amore che tu non sei capace di provare è stato tanto forte da unirci al di là dei limiti dell’esistenza. La disgraziata prigione nella quale siamo stati confinati è finalmente caduta, le catene spezzate e rotti gli indugi. Erryl cammina di nuovo tra coloro che sono stati suoi simili e vendicherà entrambi». «Ti imploro, Garlandia, fermalo. Cessa questa pazzia. Posso salvare entrambi, lascia che lo faccia, lascia che ti aiuti» Talandria tese le mani per afferrare
l’impalpabile nebbia che ormai le ruotava intorno, si sentiva soffocare e sopra di lei era rimasto solo un tenue spiraglio di cielo. «Implori me come a suo tempo provai a fare io con te. Chi perdonerà le tue mani, Talandria? Chi mai sarà tanto magnanimo da accettarti? Chi ti salverà adesso, dannata sorella?»
Capitolo XXVII
Il Cavaliere solitario
Aveva ripreso i sensi dopo aver dormito molte ore: sopra di lui il cielo imbruniva e si chiudeva come una coperta tessuta da mani celesti, la cui sapienza aveva intrecciato per lui filamenti di nubi e stelle cremisi. Nei tenui raggi del crepuscolo aveva recuperato i pezzi sparsi dell’armatura di ilmerite nel malsano acquitrino. Stordito e affamato si mosse poi con estenuante lentezza, alla ricerca del cavallo disperso. Quando si era svegliato gli era parso di aver dormito cent’anni ma adesso, mentre avanzava nel bosco, avvertiva gli echi del combattimento farsi strada nel suo corpo per divenire fitte atroci. Diviso tra il senso di frustrazione e d’impotenza, credette di avere un’allucinazione quando scorse il destriero tranquillamente intento a pascolare nel sottobosco. Lo chiamò con un breve fischio, il cavallo alzò di scatto la testa, avanzando verso di lui e leccandone la mano. Ran si issò faticosamente in groppa e si accasciò sul collo dell’animale con le braccia appena strette attorno. La solitudine era una bestia forse ancora peggiore di quella affrontata nelle grotte, un mostro capace di farlo sentire insicuro e inquieto. Adesso, seppure incapace di parlare, il contatto con un'altra creatura fu capace di rasserenarlo. «Portami via da qui». Si mosse appena per raggiungerne l’orecchio, poi perse di nuovo i sensi e la sua testa ciondolò assieme alle braccia al ritmo dolce dell’andatura dell’animale.
Capitolo XXVIII
L'incontro
«Vuoi uccidermi adesso, Garlandia? Cosa ti trattiene dal mettere fine immediatamente a questa messa in scena?» Talandria le rivolse uno sguardo di sfida e gli occhi incandescenti si animarono. L’essere rise, nella trepidante impalpabilità che la avvolgeva, un suono basso, profondo e gutturale si levò dalla sua gola. «Oh no, non così facilmente. Vedi, Talandria, tutto ciò non si fermerà, la Sinfonia di Erryl risuonerà da qui alla fine dei tempi. Il suo eco giungerà fino a Renodia e lì si compirà la mia vendetta. Uomini e donne saranno massacrati e per ultimi giungeranno i bambini. E tu, sorella mia, assisterai impotente a tutto ciò. Solo allora, nell’apoteosi del tuo fallimento, sarai privata della vita e della Pietra che gelosamente custodisci». Era come se l’avesse colpita in pieno petto con una lama. Renodia, sconfitta, fallimento. Quella successione di parole l’aveva sconvolta, i suoi occhi avevano roteato e il petto si era gonfiato come per urlare. Non era stata lei a urlare, a squarciarsi a metà. Era stata la nebbia e l’essere che dentro di lei dimorava, aperta in due da un improvviso fendente, giunto a dissolvere l’incubo. Davanti a Talandria ancora stremata a terra, c’era solo un ragazzo che, come lei, pareva aver ato la notte peggiore della sua vita.
Capitolo XXIX
Sotto mentite spoglie
«Chi sei?» Il ragazzo scosse la testa, come per convincersi che ciò che aveva appena visto fosse vero. «Mi chiamo Ran, vengo da Mersilia». Tese una mano per aiutarla ad alzarsi e nonostante questo gesto non riuscì a distogliere lo sguardo dagli occhi della donna. «Sono in debito con te, allora». «Nessun debito. Non so nemmeno cosa sia realmente successo né sono certo di cosa abbia visto in quella nebbia. A dire il vero non sono più certo di niente». Finalmente distolse lo sguardo e Talandria provò un attimo di sollievo. «Cosa ti porta fino qua? Mersilia non è molto vicina e tu non hai l’aria di essere un soldato». Ran conficcò la spada a terra e fece appena una breve smorfia. «Vorrei che esistesse una risposta semplice alle tue domande. Non sono un soldato ma so difendermi e difendere gli altri, all’occorrente. Un essere sta girando il regno, rapisce i bambini e li porta via con sé, sono sulle sue tracce da giorni». «Puoi descrivermelo?» L’espressione del ragazzo divenne confusa, gli occhi della donna davanti a lui si
erano stretti. «Basso, esile, occhi bianchi, con una maschera sul viso e un flauto. Ha iniziato da Mersilia, ha proseguito con Gorgana e a quest’ora probabilmente si trova già a Siranna». Talandria abbassò gli occhi. «Giungi troppo tardi, Ran di Mersilia». «Cosa intendi dire? » Talandria indietreggiò appena e diresse poi il suo sguardo lontano, dove il cielo si schiariva appena. «Siranna e i suoi bambini sono già perduti». Ran imprecò, poi raccolse la spada e si diresse verso il cavallo. «Dove vai adesso? » Lei lo raggiunse e ne bloccò la salita. «Ti ho chiesto dove stai andando». «Ma non capisci? Mersilia, Gorgana e adesso Siranna. La prossima volta toccherà a Renodia ed io non posso permettere che quel mostro prosegua la sua avanzata. Devo avvertire la regina, giungere alla capitale prima di loro. Anche se è un esperide non può essere sorda al mio allarme». Ran salì ma lei trattenne le redini con forza. «Lasciami andare, non farmi perdere tempo». Talandria si morse le labbra. avrebbe voluto dirgli chi era, che era perfettamente a conoscenza del pericolo a cui andavano tutti incontro ma non lo fece. Quel ragazzo, nonostante i modi bruschi, sembrava animato da una sincera volontà. «Stammi a sentire: io posso aiutarti, posso portarti a Renodia e farti parlare con la regina prima che faccia giorno. Ti chiedo solo di fidarti di me».
Il ragazzo la fissò stranito, poi le sue sopracciglia si unirono e calò l’elmo a nascondere il volto. «E come intendi fare? Volando? » «Esattamente».
Capitolo XXX
Colpe da espiare
Talandria si sarebbe aspettata una risata di scherno invece il ragazzo non rise. Si limitò a fissarla dritta negli occhi attraverso le fessure dell’elmo per alcuni istanti, poi scese da cavallo. «Tu non sei come me, non è vero?» Ran alzò la mascherina. «I tuoi occhi non sono come i miei. Ne ho già visti di simili, tanto tempo fa, ero molto piccolo e da Mersilia ò un contingente di esperidi» lo disse senza nascondere la sua amarezza, riportando alla memoria gli sguardi altezzosi di quegli esseri e le espressioni contrite dei suoi genitori. Sospirò. «I tuoi occhi sono come i loro. Sei un esperide anche tu». Talandria era rimasta in silenzio e aveva trattenuto il fiato, timorosa che l’avesse riconosciuta. «Il tuo disprezzo, oltre che immotivato, è fuori luogo. Ti ho già detto che voglio aiutarti». «E cosa vuoi in cambio per il tuo aiuto? Terra, cibo? Pensi che solo perché vivo in un paese non sappia come gira questo mondo? La tua gente si è presa tutto quello che ha desiderato e ha lasciato a noi gli scarti e terreni aridi. Mio padre e mia madre si sono spaccati la schiena tutta la vita per trasformare la terra brulla in un campo fertile, solo per poi dover dare parte del raccolto alla regina. Come pensi che mi senta, in questo momento, a dover ricevere un favore da te? » L’esperide chiuse gli occhi. Octorbo aveva ragione, per quanto si sforzasse di agire per il bene comune, il suo popolo non avrebbe mai capito. Ai loro occhi
sarebbe sempre rimasta una straniera, giunta da chissà dove per esercitare un potere che non le apparteneva. I giorni della concordia e dei patti tra uomini ed esperidi erano divenuti solo un appannato ricordo. «Lascia che ti dica una cosa, Ran. Hai detto che hai una missione da compiere, ritrovare quei bambini e fermare un mostro. Se non sei disposto ad accettare aiuto da chi è disposto a darlo, per quale motivo lo stai facendo? » Ran strinse i pugni e distolse lo sguardo. «Perché è colpa mia. Ho guidato io quel mostro a Mersilia, convinto che fosse un artista girovago. Lui si è preso mio fratello! Ne sono responsabile, per lui e per tutti gli altri che insieme a lui sono divenuti il suo esercito. È una faccenda che devo concludere da solo ma dubito tu possa capire». Talandria capiva, eccome se capiva. Posò una mano sul suo braccio, il ragazzo scattò appena ma la presa dolce lo bloccò. Sembrava sul punto di piangere e la regina provò pena per quel giovane. «Ti assicuro che capisco. Sono stata inviata a Siranna per fermarlo alla testa di un drappello di soldati. Di loro non ne è rimasto nessuno. Abbiamo visto i bambini e non siamo riusciti ad agire, ci hanno sopraffatto e io sono scappata. Conosco la sensazione di impotenza che provi e non sono qui per condannarti. Ognuno di noi ha la propria dose di colpe da scontare ma insieme, se me ne darai la possibilità, potremo espiarle e dimostrare a tutti quanti che uomini ed esperidi sono disposti a lottare insieme». Ran lasciò ricadere le mani lungo i fianchi, in segno di resa. Per Talandria fu un gesto sufficiente. Lo tirò a sé e mentre mormorava parole al ragazzo sconosciute, un paio di ali si aprì sulla sua schiena.
Capitolo XXXI
Un mondo visto dall'alto
«Non ti ho chiesto come ti chiami» Talandria provò un senso di imbarazzo. «Mylaetra, il mio nome è Mylaetra” rispose senza aggiungere altro. «È così che le stelle devono vederci». «Scusa? » Con il corpo compresso contro quello dell’esperide, Ran arrossì appena. «Niente, intendo dire che non credevo potesse essere così…così bello». Talandria sorrise. Era un ragazzo e doveva aver visto ben poco nella sua giovane vita. Eppure c’era tanto risentimento e inquietudine dentro di lui, una grande sofferenza che premeva per emergere. «C’è tutto un mondo da scoprire, basta volerlo. Quando tutto questo sarà finito potrai vederlo con i tuoi occhi». «Ne dubito fortemente. Ho un fratello a cui badare e campi di cui prendermi cura». «Cosa ne è stato dei tuoi genitori? » «Sono morti, l’autunno scorso. Erano in viaggio insieme con altri contadini per Renodia, dovevano trasportare un carro di viveri. Il ponte che stavano attraversando ha ceduto e per loro non c’è stato niente da fare, sono annegati».
Rimasero in silenzio e Talandria si pentì per quella domanda. Avrebbe dovuto intuire che la risposta avrebbe potuto tramutarsi in uno spiacevole ricordo. «Sai, anche io ho perso molti cari. Se ne sono andati tutti. È stato molto tempo fa ma io, come te, non…» «Grazie” la interruppe lui “so cosa stai per dirmi, Mylaetra. Che ti dispiace e che provi pena per me. Me l’hanno detto in molti e le loro sono state solo parole. Tu sei la prima che fa qualcosa di concreto per aiutarmi. Sei diversa da come credevo fossero gli esperidi». Talandria sorrise ma, allo stesso tempo, si chiese se avrebbe detto la stessa cosa se si fosse presentata con la sua vera identità.
Capitolo XXXII
La via sotterranea
Minstrael sedeva con le gambe incrociate, contemplando le fiamme che danzavano su Siranna. «Sono tornata, Erryl» una voce lo distrasse ma i suoi occhi si mossero appena. Al suo fianco, in un’impalpabile nebbia verde, era comparsa una sagoma alta e consumata. «È stata una notte proficua, per tutti, spero». La presenza si contrasse per poi piegarsi in un abbraccio attorno al figlio. «Non quanto avrei voluto. Un giovane uomo si è frapposto tra me e lei». Le spalle del Pari si irrigidirono di colpo mentre al suo fianco una testa si girava di scatto. «Era in armatura, per caso?» «Sì e brandiva una spada». «Era Ran!» Dari si alzò in piedi e il suo sguardo felice fu intercettato da un paio di occhi vitrei. «Ti sei fatta spaventare da una spada che non può ferirti?» «Può farlo. Può ferirmi, eccome». La voce dell’ombra divenne appena un sospiro, tanto che Minstrael fu costretto a girare completamente la testa.
Il petto di sua madre era aperto a metà e fluttuava nell’aria, straziato e mutilato come se fosse stato fatto di carne e sangue. Le dita di Minstrael si strinsero attorno al flauto. «Quale sarà dunque il prossimo o, madre?» «Viste le circostanze, Talandria non starà ferma a guardare. Si aspetterà uno scontro frontale, un assalto a Renodia. Esiste una fitta rete di gallerie che si snodano sotto la capitale. Noi la faremo attendere invano sui bastioni della città e quando sbucheremo dalla terra sarà ormai troppo tardi e a quel punto sia la Pietra che la città saranno nelle tue mani». Minstrael scoprì i denti e aggiustò le falde del cappello. «Dari, dà l’ordine di partire». Il bambino chinò la testa e increspò le labbra. «Minstraello…quando torniamo a casa? Mi manca mio fratello». Posò una mano sotto il viso del bambino e con un piccolo sforzo lo obbligò a guardarlo negli occhi. Non era stato sedotto dalla sua magia, lui l’aveva seguito di sua spontanea volontà, legati a doppio filo fin da quando si erano conosciuti. E, per una strana ragione che continuava a sfuggirgli, provava una sorta di affezione nei confronti di quel piccolo umano. «Tuo fratello è nostro nemico, piccolo Dari. Presto faremo del mondo intero la nostra casa e vivremo tutti assieme». «Potrà venire anche Ran, però?» Gli occhi di Minstrael divennero incandescenti e le dita afferrarono la mandibola del bambino. «Non nominare mai più quel nome. Sarò io a prendermi cura di te e nessun altro. Obbedisci ai miei ordini, adesso. Quanto prima lo farai tanto prima tutto questo finirà. E tu, quel giorno, vorrai ancora rivedere i tuoi genitori, vero Dari?»
Capitolo XXXIII
Il prescelto di Gorgon
Ran e Talandria discesero lentamente tra rami e fronde per atterrare al centro di una terrazza aerea che si sviluppava come un grande fiore. Il cielo era tinto di verde e Renodia si sviluppava sotto di loro in un groviglio di case e lumi tenuamente accesi. Più sotto, nella quiete notturna, le navi ormeggiate ai Porti di Smeraldo beccheggiavano impercettibilmente tra le soffuse lanterne. La città dormiva, ignorando, beata che qualcosa di oscuro, potente e, al tempo stesso, disarmante, si stesse agitando contro di lei. Il nervosismo e la tensione segnavano il volto contratto di Ran ma Talandria manteneva una composta freddezza e i suoi occhi si muovevano veloci come per cogliere un segno. Il ragazzo raccolse le mani a coppa e le poggiò contro la vetrata, dopodiché avvicinò la testa e scrutò all'interno. Batté un pugno e un altro ancora, il terzo fu trattenuto dalle mani dell'esperide. «Che stai facendo?» «Se non attirerò la loro attenzione non si accorgeranno mai di noi. Perché siamo venuti qui invece che are dall'ingresso principale?» «Fidati di me. are dall'ingresso ci avrebbe solo fatto sprecare tempo e a quest'ora, con tutta probabilità, avresti già perso le staffe». Avoran le rivolse un'occhiata tagliente, liberò la mano dalla presa e batte ancora, con più forza.
«Non mi ascolti, allora» sbottò. «Il patto era che tu mi portassi fino a Renodia e mi fi incontrare la regina. Hai rispettato metà del tuo impegno, all'altra penserò da solo». «Pensi che lei ti ascolterà agitato come sei? Ti vedrà come l'ennesimo invasato, scontento rivoltoso». Avoran corrugò la fronte ma lasciò ricadere il braccio. «Sua maestà potrà vedere in me ciò che preferisce. Potrà pure disprezzarmi, fare della mia vita ciò che desidera. Prima però dovrà ascoltarmi e credere in ciò che i miei occhi hanno visto. Se dovessi venire interpellata in merito ai fatti di stanotte ti prego di riferire quanto appena detto». L'esperide sorrise "credo lo potrei fare tu stesso tra poco. Voltati». Delle luci si accesero lentamente alle spalle del giovane e una sagoma appena intuibile si mosse veloce verso la finestra. «Devono essersi accorti di noi». «Sicuramente si sono accorte di te». L'uomo comparso dietro la soglia mostrò un'espressione indecifrabile, boccheggiò per alcuni istanti, poi si risolse a far scattare la serratura. Saettò fuori, evitò Avoran e quasi saltò al collo della sua accompagnatrice. «Ero molto in pensiero per lei. Lo eravamo tutti». «Posso solo immaginare» ammise, chinando leggermente la testa. «Per quale motivo non siete rientrato a palazzo in modo che potessi immediatamente sapere?» «È quello che mi chiedo anche io» s'intromise Avoran dopo aver osservato la scena in disparte. L'uomo lo guardò da testa a piedi e di nuovo nella direzione opposta, gli si fece vicino e calò gli occhiali sul naso per meglio osservare il fodero e l'arma che
pendevano dal suo fianco. Represse un'esclamazione e fece alcuni i indietro. «Chi è questo giovane?» «Un ragazzo di Mersilia che mi ha soccorso nel momento del bisogno». «Oh no, lui è molto di più». «Credo di non avere ben compreso» risposero i due quasi all'unisono. Messer Octorbo tolse gli occhiali e si massaggiò l'incavo degli occhi con lenti movimenti circolari. «Mio caro ragazzo, tu sei il prescelto da Gorgon, il protettore del regno».
Capitolo XXXIV
Sotto la maschera
«Il prescelto da chi? » ripeté Avoran. «Come ho già detto non c'è tempo». Messer Octorbo proseguiva attraverso il palazzo senza rivolgergli altre parole. Per il ragazzo era troppo: quanto oltre avrebbe dovuto attendere? Raggiunse con un balzo l'uomo, lo afferrò per le spalle e lo inchiodò al muro. «Mi ascolti bene, adesso. Devo parlare con la regina in questo preciso momento. Non interessa se dorme o se non può essere disturbata, Mylaetra ha detto che mi avrebbe portato da lei. Il vostro, il nostro regno è in pericolo». Messer Octorbo rivolse un'occhiata torva all’esperide, poi mise le mani su quelle del giovane nel tentativo di fargli mollare la presa. «È vero quanto afferma?» «In un certo senso, sì». «Mio caro ragazzo, credo che ci sia stato un fraintendimento» sospirò. «Qualcosa mi dice che la regina sia già a conoscenza di quanto hai da riferirle». «Dubito fortemente» serrò insieme le mani e i denti. «Avoran, lascialo al andare. Messer Octorbo ha ragione». Il ragazzo si voltò di scatto «Ah davvero? Cos'è, i talenti esperidi sono così grandi da renderli capaci di conoscere il futuro? Per quale motivo non siete accorsi a salvare i miei genitori, dove eravate quando il mostro ha portato via
mio fratello e gli altri bambini?» «Non capisci. Quello che sta cercando di dirti è che…» Le parole faticavano a uscire dalla gola. Rivelare la sua identità avrebbe significato ammettere di aver mentito e allo stesso tempo perdere la fiducia di quel giovane. «Colei che hai davanti è la tua regina» disse in un sussurro il consigliere reale. «Mi hai mentito». «Ho dovuto farlo. Dopo ciò che hai detto della mia gente, su di me, come avresti potuto accettare il mio aiuto? » «Ciò non cambia la sostanza. Ti vergogni di se stessa, hai preferito indossare una maschera invece di rivelare la tua identità». «Cosa avresti fatto tu, al mio posto? » lo incalzò lei portandogli il dito sul petto. Rimase in silenzio e lei proseguì. «Se avessi fatto fin da subito ciò che adesso mi contesti non avresti mai accettato il mio aiuto e adesso non saresti qui. Non capisci? Ho creduto in te, insieme possiamo fronteggiare questa minaccia». Avoran estrasse la spada dal fodero e la puntò sul pavimento, lasciando che l’elsa ruotasse tra le sue mani. «Puoi spiegarmi per quale motivo quell'uomo era tanto interessato a questa? » Talandria strinse le labbra. «Come Messer Octorbo ha accennato prima, hai tra le mani la spada di Gorgon, forgiata dal dio stesso». «Questo mi renderebbe speciale ai vostri occhi? Degno di maggiore attenzione? » La regina roteò gli occhi, raramente le capitava di avere a che fare con elementi così imperscrutabili e cocciuti. «In un certo senso sì» ammise «quell'arma è in grado di fare cose che nessuno
nemmeno io sono stata in grado di fare». «Davvero? » «Mettere fine ai miei errori».
Capitolo XXXV
Sorelle
«Ti ho già mentito una volta, non voglio farlo una seconda» la regina distese le braccia fino a toccarsi le ginocchia, quasi volesse racchiudere in se stessa il proprio dolore una volta ancora. Era giunto, quella notte, il momento per tutti di affrontare le proprie paure i propri incubi. «Molto, molto tempo fa aveva una sorella» le parole roteavano nell'aria tra i due, compiendo circoli che solo la fervida immaginazione di Ran era in grado di cogliere. Alzò le sopracciglia, sorpreso da quella rivelazione. «Qual era il suo nome? » si allungò in un gesto istintivo e, senza accorgersene, aveva finito per cercare la sua mano. «Garlandia» i suoi occhi si mossero verso la parete alle spalle di Avoran e si posarono su un punto preciso. «Cosa c'è dietro quel tendaggio?» Talandria non rispose, scelse il nodo di vista, piegò la testa di lato con rammarico si alzò, con lentezza esasperata, lasciando che i capelli ondeggiassero dalle spalle fino al petto, sfiorandone appena le guance. Aveva la gravità e tutto l'aspetto di una regina. Si mosse, veloce e ferina, fino alle spalle del ragazzo e subito fu davanti al drappo. «È ato molto tempo dell’ultima volta che l’ho rimosso». «Perché?»
«La sola vista mi faceva soffrire. Dopo stasera, in ogni caso, non avrà senso far finta che non sia successo». Ci fu un fruscio e tra le mani della regina si posò il drappo, lui le fu accanto e la cinse con un braccio all'altezza della vita: se poco prima le era sembrata superiore, adesso gli appariva come una donna triste e sola. Comprese, alzando gli occhi, il motivo di tanto dolore: nel quadro c'erano quattro personaggi reali, due dei quali assisi sul trono scolpito. Gli apparvero felici, immortalati in un momento di eterna felicità, coronati di fiori e ornati di foglie, come se niente, davanti a loro, potesse turbarli. «Io sono questa» sussurrò indicando la prima figura a sinistra. «E questi sono… I tuoi genitori? » Annuì, grave, con gli occhi di giada socchiusi dietro a un muro di palpebre ciglia. «Aurora e Sargon di Esperia». Avoran scosse appena la testa. «So cosa stai per chiedermi. Sono morti, anche loro, tanto tempo fa» sorrise mesta «è ato così tanto tempo da allora che ciò che ricordo di loro sembra quasi una leggenda. Eppure è stata anche parte della mia vita». Si spostarono di un o, trovandosi sotto l'ultima figura. Dimostrava la stessa età di Talandria, con capelli scuri e un'espressione che chiunque avesse dipinto quel quadro era riuscito a rendere vivida e vibrante. «È lei, non è vero?» Avoran le si avvicinò «ho la sensazione di aver già visto quegli occhi». «Il tuo intuito non ti tradisce». «Temo ci sia dell'altro, qualcosa che ancora non mi hai detto. Come è morta?» Talandria indugiò.
«È stata colpa mia». Scoppiò in un pianto incontrollato, che lasciò Avoran confuso. Posò una mano sulla testa e se la strinse al petto, proprio come avrebbe fatto con suo fratello. Fu allora che si accorse che lei, come lui, era sola al mondo. Salvare suo fratello, salvare quei bambini, contava per lei non solo in qualità di regina ma soprattutto, come essere vivente. Portarli in salvo l'avrebbe redenta, qualunque fosse la motivazione di quel gesto.
Capitolo XXXVI
La maledizione degli esperidi
«Credo a questo punto dovresti dirmi come è successo». «Ne sono consapevole». «Cosa ti trattiene allora?» «La paura" ammise, distogliendo velocemente lo sguardo. «Di che cosa? Se metà delle leggende su di te sono vere non dovresti aver paura di niente e di nessuno». «Ti sbagli. Da quando ti ho incontrato, non posso fare a meno di avere paura, di me stessa, Avoran». Il ragazzo indietreggiò. «Di te? Se c'è qualcuno che dovresti lecitamente temere è quel mostro là fuori». «E se il mostro fosse anche qua dentro? Se ciò che nascondessi fosse così tremendo da non conosce le parole per descriverlo e finisse per farti fuggire via?» Prese quindi le mani di lui e le poggiò sul petto, in corrispondenza del cuore. Avoran arrossì ma non si scompose. «Faccio fatica a crederti. Tu sei diversa da come credevo i tuoi simili. Sei gentile, caparbia e…» «…umana?» Avoran piegò la bocca, imbarazzato, lei proseguì scrollando le spalle.
«Ciò che hai visto e conosciuto oggi è ciò che sono diventata: Talandria Silva Plantagena di Renodia. Ciò che sono realmente, quello che la mia natura mi ha chiesto di essere è tutt'altro. Non è solo il colore degli occhi o la longevità a distinguerci, Avoran. C'è molto, molto di più. L’ho imparato a mie spese del prezzo di quell'insegnamento perdura ancora adesso». Sospirò, schiarendosi la gola. «Secoli fa mia sorella ebbe un figlio, la gioia a palazzo era incontenibile, si trattava del primo nato nella famiglia da anni. La sorpresa sostituì la gioia non appena il parto si fu concluso. L’essere nato dal suo ventre era un bimbo deforme, una creatura triste alla quale non vennero prospettati che pochi giorni di vita. Garlandia e suo marito erano straziati dal dolore così intervenni personalmente» fissava le sue mani, come se ripercorresse di nuovo quei momenti. «Dopo giorni di atroce attesa riuscimmo a stabilizzare le sue condizioni. Una vita, era ciò che mi ripetevo, era pur sempre un dono. Quanto sbagliavo…». Sospirò, con amarezza, mentre metteva le mani sulla fronte. «Il bambino crebbe, contro ogni aspettativa era in grado di camminare e parlare, pareva che la sua anomalia si fosse confinata tutta nella deformità. Garlandia tornò quella di un tempo, un figlio da accudire, nonostante tra lei il marito si fosse creato un divario incolmabile, mi appariva felice, realizzata. Infuse nel bambino la ione per la musica e gli fece dono del flauto di nostra madre. È stato proprio in quell'occasione che il figlio dimostrò un talento innaturale: le sue dita pallide erano colonne mosse da una volontà superiore e il suo viso quel giorno, si era di una gioia incontenibile. In quei giorni lontani la musica risuonava nelle aule del palazzo e a tutti pareva che fosse giunto il momento della rivalsa per quella triste creatura. Iniziò così per madre e figlio un periodo felice, almeno questo è ciò che ho sempre creduto. Il bambino fu chiamato più volte a suonare per intrattenere cerchie ristrette di nobili e dignitari, la voce del suo talento si sparse in tutta la città prima in tutto il regno poi, finendo per fare di lui una celebrità. Nonostante questo il piccolo sviluppò anche uno strano comportamento, una mania». «Una mania?» La regina annuì.
«Spariva, per giorni interi, nessuno sapeva dove andasse a nascondersi. Quando tornava, portava con sé sempre qualcosa per nascondersi il volto. La prima volta ricordo fosse qualcosa di simile al fango, una densa maschera che non lasciava visibili appena gli occhi. Garlandia si arrabbiò molto in quell'occasione, sosteneva che non fosse necessario nascondersi quando si ha un dono tanto grande. Successe di nuovo, ancora e ancora: ogni volta era sempre più difficile fargli rimuovere lo spesso strato dal viso. Mia sorella era esasperata e io non fu in grado di consigliarla a dovere. Erano giorni difficili e non credevo sinceramente che la mia distrazione avrebbe potuto portare una catastrofe». «Cos'è successo?» «Erano i giorni precedenti alla festa di Finestate e Renodia si preparava per le celebrazioni. Garlandia insistette perché suo figlio costituisse l'attrazione principale e organizzammo quindi un grande concerto. Quella sera salì sul palco con una maschera calata sul volto, ricordo che qualcuno tentò di dissuaderlo ma il piccolo fu irremovibile. Quella sera il regno assistette alla più grande esibizione musicale mai intonata, una sinfonia tanto celestiale da sembrare un miracolo se confrontata alla figura deforme che la suonava. Molti piansero, rapiti e in estasi, tanto da non accorgersi che, nel frattempo, tutti i bambini presenti si erano uniti al musicista sul palco. È stato allora che la situazione sfuggita al mio controllo». «Penso di poter indovinare cosa sia accaduto». Lei scosse la testa "Puoi forse immaginare i primi istanti ma non credo comprenderesti il resto. I bambini iniziarono a danzargli intorno fino a quando uno, con un gesto improvviso, decise di privarlo della maschera. La sinfonia si interruppe e con esso la danza festosa, uno dopo l'altro i bambini iniziarono a schernirlo e a prendersi gioco di lui. Non ò molto che loro si unirono anche alcuni adulti. Ammetto di provare ancora vergogna per tanta inciviltà ma niente lasciava presagire cosa sarebbe accaduto da lì a poco". «Tua sorella?» «Precisamente. Garlandia impazzì, attraversò i presenti furiosa, balzò sul palco in soccorso del figlio umiliato. Lo chiamavano mostro, deforme e bestia: nessuno sembrava ricordare i prodigi di cui era stato artefice. Mia sorella perse ogni inibizione, ruppe le catene della sua coscienza e divenne ciò che rifiutammo
di essere in nome del progresso. Divenne un vero esperide e, come tale, diede libero sfogo alla sua furia. Cosa succede quando un animale pensa che il proprio cucciolo si è in pericolo?» «Attacca per difenderlo». «Uccide» rispose lei secca. «Il silenzio si riempì di urla e il palco divenne il teatro di una carneficina, così feci ciò che allora reputato giusto. Persi a mia volta il controllo e feci di tutto per difendere il mio popolo. Mi trasformai, divenni una furia cieca, animata dalla morte e dal dolore. Tali furono i miei sentimenti quando anche la mia follia si esaurì e mi ritrovai tra le braccia il corpo esanime di mia sorella». Nel buio solo i suoi occhi erano rimasti aperti vigili, diretti contro quelli di calandra. «Il piccolo fu affidato al padre da allora rifiutò di togliersi la maschera. Visse isolato e solitario, spariva a lungo, in compagnia del flauto, l'unica cosa che lo legasse alla madre. Anni dopo, quando Renodia e i suoi alleati erano sul punto di scendere in guerra, mio nipote mise in scena l'atto finale della sua vendetta. Durante i mesi solitari trascorsi nei boschi doveva aver perfezionato le sue doti fino a trasformarle in armi letali. Una sera fatale la sua musica suonò tra le mura del palazzo nel quale un tempo viveva. Di suo padre degli ospiti che si trovavano al suo interno rimasero solo carcasse. Di lui e del flauto non ci fu traccia" intrecciò le dita «ingenuamente allora ero convinta che fosse tutto finito e che, senza le cure di cui necessitava, sarebbe morto in breve tempo. Non avrei provato pietà in suo nome, neanche in memoria di mia sorella. Non mandai nessuno a cercarlo, su di lui ricevetti solo sporadiche segnalazioni. Poi venne la guerra e, con essa, la caduta del glorioso impero. Credevo fosse perito in quel periodo, almeno questo era ciò di cui mi ero convinta». Si sporse quindi verso il giovane e fu lei a cercarne stavolta la mano. «Mi dispiace Avoran. Se quella volta fossi stata più lungimirante adesso non ci troveremmo in questa situazione» scansò la mano, poi si ritrasse e abbandonò la seduta. «Cosa ti prende adesso?» «Cosa mi prende? Sai cosa penso, maestà?» aveva il fiato mozzato e la gola
secca, tanto che ogni parola era una fitta che raschiava dolorosamente la sua gola. «Credo che ieri notte avrei dovuto lasciarti morire là dove ti ho trovata».
Capitolo XXXVII
Angoli bui
Era rimasta sola, immobile e con gli occhi vacui mentre fuori dalla finestra il cielo era ormai fatto da sfumature azzurre. Il sole tagliava le fronde con la sua luce e illuminava ogni parte della reggia. Tutto tranne lei, tutto tranne il suo cuore. «Posso?» chiese una voce alle sue spalle, preceduta da un lieve rumore di i. «Ho provato a bussare parecchie volte ma non ho ricevuto risposta. Mi spiace essere entrato nelle sue stanze all’improvviso». Talandria fece appena un gesto della mano. «Va tutto bene?» «Sono stanca» poggiò le mani contro lo scrittoio e premette con forza. «Non ne dubito. Posso sapere cosa è successo a Siranna?» Talandria si voltò, aveva gli occhi gonfi e pesanti, Messer Octorbo non ricordava di averla mai vista in quelle condizioni. La abbracciò, andole una mano sui capelli. Lentamente iniziò a raccontare della notte precedente, dal suo incontro con Minstrael fino all’apparizione di Avoran. Octorbo rimase in silenzio, con le mani giunte all’altezza del mento, annuendo e stirando i muscoli del viso di tanto in tanto. «Dov’è adesso? Se ne è andato?»
«Mi spiace darle questa notizia. Ha chiesto di avere un cavallo, è partito poco dopo essere uscito dai suoi appartamenti». «Capisco». «Gli ha raccontato tutto? È per questo motivo che si è allontanato così?» «Mio malgrado ho compreso quest’oggi le conseguenze di fornire verità incomplete». Octorbo alzò un sopracciglio e gli occhi dietro la montatura si accesero. «Non ha detto niente della spada, di ciò che significa, vero?» «No» scosse con forza la testa «assolutamente no». «Ma la leggenda…» «È tutta la vita che sento parlare di profezie e miracoli e tutto ciò che finora ho raccolto sono tristezza e miseria». «Ci rifletta un istante, maestà. Non sarebbe la prima esperide a farlo ma, fatto da lei, questo gesto porterebbe risultati impensabili. Pensi a quanto crescerebbe il consenso verso la corona, in quanti finalmente vedrebbero in lei una guida. Non più una regina degli esperidi ma finalmente una sovrana di un regno forte e glorioso». Talandria sorrise «Quando tutto questo sarà finito, se lui lo vorrà, potrà restare a Renodia, insieme a me. Non posso obbligarlo così come non ho potuto impedire la sua fuga. Una volta ancora, siamo rimasti soli».
Capitolo XXXVIII
Madre e figlio
Sedeva da solo, in disparte, tamburellava le dita sui piccoli fori praticati lungo il flauto. I polpastrelli ne conoscevano a memoria ogni incisione e figura che ne costituivano l’anima, la storia che esso stesso, sotto gli occhi lunari, era pronto a narrare. Era la voce di sua madre la nenia che fuoriusciva dallo strumento ogni volta che lo poggiava sulle labbra. Gli bastava appena chiudere qualche foro, in quello che era divenuto un gioco di abilità contro sé stesso, perché lei giungesse. Nonostante fossero ati anni, ricordava con nitidezza inattesa la prima volta che lei era tornata. Era solo, al buio della sua stanza, suo padre altrove, assente, sempre con gli occhi socchiusi, come se non volesse vederlo. Il flauto che a lungo aveva tentato di evitare, l’aveva chiamato a sé e lui, incapace di resistergli, aveva poggiato su di esso le labbra, ripetendo quel gesto istintivo, divenuto l’unica ragione di vita. Come un bambino allattato al seno, lui ne aveva assaporato la consistenza etera, inspirandone a pieni polmoni la silenziosa quiete per poi riversare note terribili, tali da farlo sobbalzare e riportare così alla sua memoria le urla bestiali di quella notte. Il flauto era caduto a terra e da ogni foro si era propagata una spirale densa. A quella vista era indietreggiato, quasi sul punto di urlare, sopraffatto dal terrore e pronto a rompere il silenzio nel quale si era rinchiuso. Mani emersero allora dal fumo, pronte a ghermirlo in un terrificante abbraccio. Non aveva chiuso gli occhi, era troppo spaventato per farlo, anche quando le dita gli erano scivolate addosso e l’avevano sfiorato. Una voce soffocata aveva attraversato la barriera del fumo, una nenia che gli ordinava di togliere la maschera. Aveva obbedito, tremante nel muovere le mani gracili. Quel gesto di coraggio inaspettato l’aveva premiato. Quando ebbe tra le mani l’involucro infame, la seconda pelle che ormai odiava quanto e più della
prima, gli occhi che si era trovato davanti erano quelli della madre. Era stata lei, proprio come quando era in vita, a sussurrargli segreti e indicazioni, disponendo ogni dettagli di quella che sarebbe stata la loro vendetta. Una voce avvelenata, ammorbante, che aveva deciso di assaporare fino all’ultima goccia. Sua madre era e sarebbe stata sempre lì, per lui. «Togliti la maschera, Erryl». Senza rendersene conto, inondato dal fiume delle memorie, si era ritrovato a comporre le consuete note del richiamo. «È giunto il momento di sferrare l’ultima mossa. È il destino che ce lo chiede». «Non siamo pronti. Ho bisogno di molti altri bambini per…» «Ti sbagli. Qui c’è tutto ciò di cui hai bisogno». La voce di Minstrael salì di grado. «Non saranno mai abbastanza, Renodia non cadrà con poco. Ne voglio di più». «Dimentichi che hai me dalla tua parte» le mani dello spettro sfiorarono i capelli del figlio. «Eppure non è stato sufficiente l’altra notte. Talandria è sopravvissuta». «Fortuna, nient’altro». «Non mi è permesso fare affidamento alla sorte, non per vincere questa guerra. Ho bisogno di una strategia». «Sono qui per dartene una. Ti ho mai deluso?» Minstrael scosse la testa, deciso. «Molto bene. La tua analisi è corretta, non potrai mai abbattere Renodia, non di certo con un attacco frontale». «Qual è il tuo piano quindi?» Garlandia sorrise.
«Quand’ero giovane, sotto Renodia furono scavate delle gallerie minerarie e, in quell’occasione, la terra rivelò molto di più che pietre rare e metalli preziosi. Riesci a immaginare di cosa sto parlando? » Il pari contrasse le labbra, sovrappensiero ma poi scosse la testa, ignorando la risposta. «Un tempio, tanto vasto e magnifico da essere ribattezzato Cattedrale delle Rocce. Ignoravamo chi l’avesse costruito, in questo mondo esistono segreti tanto atroci e oscuri sui quali non è bene indagare. I minatori scoprirono molte gallerie e di nuove ne furono scavate, avevo forse la tua età quando mi persi in una di esse. Ero curiosa o avventata, come avrebbe detto mia sorella, percorsi quel cunicolo fino a quando non mi trovai fuori dalla finestra. Da allora ho utilizzato quella via segreta ogni qual volta volessi scappare da palazzo». «Hai mai fatto parola a nessuno riguardo questa strada?» le iridi bianche brillarono entusiaste. «Solo con tuo padre, era lì che ci incontravamo». Minstrael sputò a terra, disgustato. «Così è deciso. eremo attraverso la via segreta e da lì colpiremo Renodia». Madre e figlio si abbracciarono poi la nebbia svanì e il Pari si ritrovò di nuovo solo.
Capitolo XXXIX
La voce interiore
Sicuro di aver fatto la scelta giusta? Avoran sbuffò. Gli accadeva sempre così: parlava da solo, sviscerava i fatti fino a quando non avesse avuto ragione di sé stesso, al punto da mettere a tacere la voce insistente. Era successo più di una volta in ato, quando erano morti i suoi, si era chiesto se la vita fosse giusta, se ci fosse un modo per tornare indietro e riportare tutto alla normalità che mai, prima di allora, gli era sembrata così felice. Le voci sparivano al sorgere del sole, quando una nuova voce, quella dei campi, giungeva a chiamarlo, lasciandolo solo, con un fratello da crescere e senza risposte. «Mai stato più sicuro di così». Ne sei sicuro? Per quale motivo non stai galoppando allora? «Non so dove andare». Te lo concedo. Sai però dove potresti essere. «Non voglio avere niente a che fare con i suoi problemi. Ho già i miei a cui pensare». Dovresti riflettere bene prima di giungere a conclusioni così avventate. Sai che sono diretti a Renodia e tu ti stai muovendo nella direzione opposta. Là avresti avuto una certezza, qua no. «E se invece li trovassi?»
Le voci tacquero e Avoran provò un istante di sollievo dalla pressione opprimente provata fino a quel momento. Cosa farai se, dopo averli trovati, Dari si rifiuterà di nuovo di venire insieme a te? O peggio, se si unisse agli altri e ti attaccasse, se non vedesse più in te un fratello ma un nemico…Saresti pronto a sacrificare la tua vita in nome della promessa? Il ragazzo provò una fitta allo stomaco, così forte da piegarlo in due. Cosa c’è, hai perso l’uso della lingua? O forse ti sei reso conto che questa non è una battaglia che puoi vincere da solo? Avoran si tolse l’elmo, poi, come nel timore che qualcuno potesse vederlo, si coprì il viso con le mani. Si lasciò andare ad un pianto sommesso e rabbioso, nel quale il dolore si mescolava alla sensazione di delusione e impotenza che lo coprivano adesso come un’oscura armatura. La spada al suo fianco divenne, tutto ad un tratto, una prospettiva di fuga allettante. Vuoi finirla così? Mettere fine alla tua vita con un atto di codardia? «Se questo servisse a far tacere la voce del mio cuore…Se ciò potesse interrompere la confusione che sento dentro, se fossi certo che tutto finisse per il meglio, allora la mia vita sarebbe un prezzo ragionevole». Parli proprio come lei adesso. Avoran distolse lo sguardo per dirigerlo verso un punto imprecisato tra le fronde. Inutile che fai finta di non sapere a chi mi riferisco. «Cosa dovrei fare allora? Tornare indietro? Chiederle scusa?» Sarebbe un inizio. Ogni storia deve averne uno, lo diceva sempre tuo padre quando volevi che te ne raccontasse una. «Non metterli nel mezzo, non loro». A chi pensi che appartengano le voci che agitano il tuo cuore? Sono tuo padre e tua madre. Sono tutti coloro che ti vogliono bene.
«Perché non posso unirmi a voi allora?» Perché la tua storia è appena iniziata. Chinò la testa e ripose la lama nel fodero. «Vi voglio bene». La voce si addolcì. Anche noi. Te ne vorremo sempre, figliolo. Avoran sorrise, le voci erano nella sua mente ma i pensieri fuoriuscivano dal suo cuore. «Cosa faccio adesso?» Sei un guerriero, non puoi combattere per la tua vita a testa bassa. Comincia col rialzarla, guarda dritto davanti a te e il resto verrà da solo. Il giovane obbedì alla richiesta e davanti a lui vide aleggiare una nebbia lattiginosa, impregnata da verdi bagliori. Il cuore iniziò a battergli a ritmo serrato, tirò le redini del cavallo e si inoltrò nella foresta. Profonda giunse una nenia simile a quella che aveva già sentito e al suo crescere, ne comparvero anche i responsabili: centinaia di bambini che avanzavano nel sottobosco, in fila e per mano, armati ma allo stesso tempo animati da una gioia innaturale e incontenibile. Scese da cavallo, ne seguì i movimenti, corse veloce fino a raggiungere la testa di quella processione. Ne vide il comandante, intento a suonare l’accompagnamento, seguito a breve distanza da un altor bambino. Non sarebbe servito a niente acuire la vista o tirare a indovinare: era Dari, ne era certo e seguiva Minstrael, come tutti gli altri, in quella folle avanzata, diretti verso il cuore della foresta. Continuò a tallonarli a distanza, ben attento a rimanere nell’ombra, camminando carponi e strisciando nel sottobosco fino a quando non gli apparve chiaro che il gruppo aveva deciso di fermarsi nei pressi di una montagnola solitaria che spiccava oltre le cime e le chiome degli alberi. Si chiese cosa sarebbe accaduto e la risposta arrivò poco dopo quando, sulle note di una nuova melodia, la nebbia
acquistò solida consistenza e mutò in due spaventosi arti. Questi, grotteschi e dal profilo deforme, si fletterono un istante per poi avventarsi contro la terra. La montagnola tremò, le rocce franarono, il ritmo crebbe fino ad un culmine che l’orecchio non fu in grado di cogliere per poi cessare bruscamente. «Bambini miei, fedeli soldati. Quella che vi aspetta è una notte gloriosa. Tutti uniti, insieme, coglieremo il nemico dove meno se lo aspetta. Dilagheremo per Renodia e libereremo tutti i nostri fratelli. Seguitemi ancora nell’abbraccio della terra, camminiamo nelle sue viscere per risorgerne tutti insieme, per vedere infine l’alba sorgere su un mondo nuovo». Dalla processione si levò un unico grido e, uno dopo l’altro, la terra inghiottì i bambini soldato. Minstrael li osservava, al limitare di quell’apertura tetra, sparire in centinaia in quelle oscure viscere, uniti e compatti, al suono del suo flauto sulle note del suo volere. Per ultimo giunse Dari, solo allora il Pari abbandonò la posizione per are al suo fianco e guidarlo personalmente in quella discesa. Il bambino si trattenne un istante, rallentò per sollevare lo sguardo verso il cielo e volgerlo poi nella direzione da cui il fratello ne seguiva le mosse. Si portò un dito alle labbra, nel gesto infantile del silenzio e ammiccò, divertito. Avoran perse allora il controllo del proprio corpo, si trovò a correre senza più timore di esser scoperto. Quando giunse davanti all’apertura la trovò chiusa: per quanto scavasse e sanguinassero le dita, non trovò altro che sassi e argilla. Come nel sogno, la terra aveva finito per divorarli tutti.
Capitolo XL
Il ritorno del Cavaliere
«Possiamo resistere per settimane ad un attacco frontale, mesi forse. In questo caso, credo riusciremmo a ridurli alla fame nel giro di pochi giorni». La regina si ò la testa tra le mani. «Per Espereador, sono bambini! Non possiamo permettere che succeda loro niente id male! Hanno madri e padri che li attendono a casa!» «Sono manovrati dal nemico, che differenza potrà mai fare?» ribatté asciutto l’uomo. Talandria si alzò dal trono «Vuole sapere che differenza c’è, Comandante Tauris? Lei ha figli, vero?» L’ufficiale annuì «Un maschio e una femmina». «Che effetto le farebbe essere costretto a piantare la lama nei loro corpi? Sarebbe capace di farlo senza esitazione?» L’uomo fece per aprire la bocca ma la regina sollevò una mano. «Pensi molto bene alle parole con cui intende rispondere. Non tollero simili leggerezze». «Lo farei, senza pensarci due volte» disse, mantenendo alto lo sguardo. «Questa è la sua personale opinione, Comandante. La mia è che combattere non sia neppure da prendere in considerazione». «Allora a Renodia non resta che capitolare» ribatté l’uomo dopo aver
riacquistato compostezza. Talandria strinse i pugni «Comandante, lei…» le parole si estinsero allo spalancarsi improvviso dei battenti della sala, un giovane calato in un’armatura di ilmerite fece il suo ingresso, seguito da Messer Octorbo visibilmente turbato. «Perdoni l’interruzione, Maestà, gli avevo detto che non era il caso ma…Ha insistito e non contento ha creato disordine alle porte della città, nonostante i preparativi per la difesa. » Talandria non si mosse dalla sua posizione ma alzò la mano verso il consigliere. «Non ci sarà nessun assedio, l’attacco non verrà dalla foresta». Il Comandante gli rivolse un’occhiata torva. «Posso sapere chi è costui e da dove viene questa sua certezza? Maestà, esigo sia fatta chiarezza». La regina ignorò la protesta e avanzò verso il giovane. «Ne sei sicuro?» «Li ho visti con i miei occhi sparire nella terra». «Questo è inammissibile» tuonò il Comandante «è assolutamente indispensabile approntare le difese e stiamo qui ad ascoltare i suggerimenti del primo venuto?» Talandria e Avoran si scambiarono un rapido sguardo, poi lei si rivolse verso l’ufficiale ormai paonazzo. «Non mi sono dimenticata di lei, tutt’altro. Credo che la situazione necessiti però di un diverso approccio». L’uomo gonfiò il petto e il colore del suo volto virò verso il violetto. «E prima di affrontare il problema con l’importanza che merita, lasci che le dica una cosa, comandante. Questo è il mio regno e intendo difenderlo anche a costo della mia vita» gli si era avvicinata tanto da sentirne il respiro pesante e quando le labbra furono vicine all’orecchio, la sua voce fu appena un sussurro.
«Un’ultima cosa, Comandante Tauris. Si consideri pure sollevato dal suo incarico».
Capitolo XLI
Le regole dell'ingaggio
Gli occhi color giada di Talandria incontrarono quelli di Avoran. «In quanto a te» disse andandogli incontro «sono felice sia tornato». «Qual è il piano? Vuoi davvero dar retta a quell’uomo?» Talandria scosse la testa. «Credo di potermi fidare del tuo resoconto». «Esistono davvero delle gallerie sotto la città» «Più d’una a dire il vero ma l’eventualità che venissero utilizzate contro di noi era così remota che non sono mai state sorvegliate». «Per quale motivo il tuo Comandante ne ha negato l’esistenza?» «Esistono cose che sono ignorate persino dai miei vertici e la cui segretezza non può essere compromessa” ammise pensierosa «solo i membri della famiglia reale ne erano a conoscenza». «Garlandia?» «Sono più che certa sia lei a guidarlo». «Ho la sensazione che tu mi abbia detto solo metà del segreto. Voglio conoscere anche l’altra». Le dita della regina tamburellarono sul bracciolo poi annuì, più a se stessa che al giovane. «Voglio che mi guardi dritta negli occhi. Sei tornato da me di tua spontanea
volontà, se vuoi restare la regola di ingaggio è semplice». Si schiarì la gola. «Quella che ci aspetta non è una battaglia campale, una di quelle che rimarranno nella storia. Saremo solo io e te, contro di loro, per loro e per il futuro di Renodia. Accetti di combattere a queste condizioni?» Lui le rivolse un lungo sguardo, carico di parole che non aveva il coraggio di dire e di pensieri dettati dalle voci nel suo cuore. «Accetto». «Possiamo andare allora». Talandria lo prese per mano ma lui la trattenne. «Dove?» «Non volevi conoscere l’altra metà del segreto?»
Capitolo XLII
Il segreto
Discesero le scalinate da soli e in un silenzio che rendeva l’attesa ancora più snervante. Imboccarono quindi un corridoio defilato e disadorno che molti avrebbero scambiato per un collegamento di servizio. La discesa si fece quindi più ripida e scoscesa, segno che il suo utilizzo volesse esser reso quanto più sconsigliato possibile, mentre le pareti divenivano umide e coperte da morbide escrescenze, sulla cui natura Avoran preferì non interrogarsi. Giunti davanti ad un portale rozzamente scolpito, memore di un’era lontana e dimenticata, sulla quale poco o niente si ricordava, Avoran parlò e ruppe il silenzio. «Siamo arrivati?» «No ma non manca ancora molto» rispose Talandria vaga. «Se loro fossero già qui?» «Molto improbabile. Ho posto io stessa delle difese e barriere, incantesimi sui quali esercito un continuo controllo». «Saresti capace di bloccarli dunque?» «No» ammise «ma sono in grado di rallentarli abbastanza da darci il tempo di organizzare adeguatamente la difesa». La regina portò una mano alla fronte, come colpita da un capogiro. «Che ti succede?»
Scosse la testa, le labbra si erano strette in un'unica sottile linea rossa. «La prima barriera è caduta. Sono ati attraverso la prima difesa». «Quante ne restano?» Talandria poggiò la schiena contro la parete e sospirò a fondo. «Non più di tre. Andiamo». I i si fecero veloci, fino a trasformarsi in una corsa: Talandria era come una fiamma nel buio che guizzava instancabile, era come se il suo corpo emettesse una debole luminescenza. Avoran, alle sue spalle, ringraziava in silenzio il fabbro che gli aveva fatto dono della leggerissima armatura che gli consentiva di seguirne il ritmo. La sovrana arrestò la corsa davanti a un precipizio e il giovane le fu poco dopo alle spalle, scivolando sul pietrisco con una brusca frenata. «Possiamo andare avanti volando?» «Temo di no” rispose pensierosa «sarebbe troppo pericoloso». «C’è un’altra via?» «Non tale da farci guadagnare tempo. Anche se…» la sua sagoma luminescente si mosse verso la parete rocciosa, alla quale era fissato un pannello scuro. «L’antico sistema di trasporto è ancora attivo» uno schermo si animò e su di esso comparvero dei simboli sui quali la regina impresse ripetutamente le dita. Udirono un clangore, seguito da un monotono sferragliare metallico. Poco dopo dall’oscurità comparve un carrello che si muoveva incerto sopra due binati che Avoran non aveva precedentemente notato. Talandria salì a bordo e fu colta da un nuovo malessere che la costrinse a sorreggersi al bordo. «Ne restano due». Il carrello ripartì e per un tempo indefinito ai due parve di restare immobili nell’oscurità. La pelle di Talandria aveva smesso di brillare e Avoran riusciva appena a scorgerne i contorni, nonostante si trovasse appena al suo fianco. Il buio venne sorprendentemente squarciato dall’apparizione di una costruzione
di pietra, mastodontica e tanto alta da perdersi nel buio dell’enorme e rischiarata caverna. «Benvenuto nel luogo più segreto di Renodia, dalla cui esistenza dipende ben più della mia o della tua vita. China la testa davanti alla Cattedrale delle Rocce». Avoran obbedì alla richiesta ma non poté fare a meno di sorridere con amarezza. «È per questo che dobbiamo combattere? Un cumulo di pietre nascosto nella terra?» «Non è l’apparenza ciò che devi rispettare di questo luogo ma il suo sacro contenuto. Vieni con me e vedi con i tuoi occhi il grande segreto sul quale Renodia e il mondo poggiano le fondamenta». Discesero dal carrello e ne raggiunsero l’ingresso dopo aver salito alcune rampe di scale, trovandosi sopra quella che apparve ad entrambi come un’isola solitaria sospesa su un mare di nulla. Sulla soglia, Talandria avvertì un nuovo mancamento e stavolta fu Avoran a sorreggerne il corpo. «Dove si trova l’ultima barriera?» chiese consapevole di cosa fosse appena successo. L’espressione della regina era raggelata e un’ombra di terrore era comparsa sui suoi occhi di giada. «Ce l’hai davanti. Noi siamo i baluardi, l’ultima barriera» sospirò a fatica «adesso è il momento che tu veda il segreto». Oltrearono la soglia e si fecero largo attraverso il silenzio della navata centrale che culminava con un baratro sul quale trovava posto un altare scarno e privo di ornamenti. Le mani di Talandria si mossero, incerte e tremanti, verso il semplice cofanetto in legno poggiato sull’altare. Le dita fecero scattare le serrature con un movimento secco e lo scrigno si dischiuse tra bagliori tali da costringere Avoran a pararsi il viso.
«Una luce?» «No, una Pietra. E tu sei il primo a vederla dopo quasi mille anni». «Tutto ciò…solo per questa?» Lei lo guardò di sfuggita. «Ciò che stiamo affrontando non è niente se paragonato a ciò che potrebbe accadere se questa gemma finisse nelle loro mani». Il ragazzo si allontanò di qualche o, dubbioso mentre Talandria richiudeva il cofanetto. «Non capisco come tu possa affidare l’esistenza del tuo regno a una cosa tanto futile». «Vorrei tu avessi ragione, Avoran, vorrei poter considerare ciò che ho tra le mani come un inutile capriccio. Purtroppo non posso. Ho visto ciò che questa Pietra è in grado di fare e ciò che uomini e demoni sarebbero capaci di ordine per entrarne in possesso». Gli si fece vicino poi cercò la sua mano e insieme intrecciarono le dita. «Ti sto chiedendo di fidarti di me». Fidarsi di qualcuno. Avoran cercò di riflettere su quelle parole, capire le implicazioni che quelle mani unite avrebbero potuto costituire in un’altra occasione. Non ne ebbe il tempo e, forse, capì che non ne avrebbe mai avuto, non quando si trovò con le labbra di lei a contatto con le sue. Come l’assetato vacilla davanti all’abbondanza della fonte, così Avoran sentì la sua mente vagare in un mare infinito, cullato da una sinfonia soave. Le labbra si chio, la musica non cessò ma le mani si unirono ancora. Minstrael era giunto ai piedi della Cattedrale.
Capitolo XLIII
La Battaglia della Cattedrale
«Restami vicina» Avoran mise la mano sull’elsa della spada, pronto a sguainarla. Lo faceva senza pensarci, con lo sguardo proiettato oltre la navata, oltre i portali e i battenti. I suoi occhi cercavano il bambino con la stessa avidità con cui Minstrael, dalla parte opposta, cercava la Pietra. «Attendi il mio segnale». Bambini ovunque, armati e con i volti trasfigurati, come se si trovassero al centro del più incredibile dei giochi. Avoran provò la sensazione di sentire il sangue gelarsi nelle vene, insieme all’irrigidimento di tutti i muscoli. Avevano armi, elmi e scudi, erano soldati ma pur sempre bambini e quel pensiero pressante non lo abbandonava. «Non posso» mormorò a Talandria e a se stesso. Uscirono da portale centrale, davanti a loro, schierati e pressati tra bagliori metallici, si dipanavano tutti i loro aggressori. Alla testa, in una nebbia verde e densa, vi era il demone dagli occhi bianchi, il ladro di bambini, l’esperide rinnegato. Una nota, seguita da un urlo, i bambini si mossero come un fiume in piena e si riversarono contro l’ingresso della Cattedrale. Talandria allargò le braccia e alle sue spalle si udì un boato. Avoran sentì il corpo attraversato da un’onda, colse appena una scintilla opalescente ma davanti a sé l’effetto fu stupefacente: la barriera divenne un muro solido luminoso e i bambini furono sbalzati indietro di parecchi metri, creando scompiglio tra le fila. Era quello il segnale.
Avoran scattò in avanti, le mani si mossero da sole e la spada colpì con il lato piatto armature ed elmi, tramortendo i piccoli soldati. Urlò di rabbia mentre l’orda umana ricomposta si propagava e dilagava oltre l’immaginazione, sovrastata da una mefitica nebbia verde. Il contrattacco di Minstrael e del suo esercito fu altrettanto terribile: una nuova melodia si levò dal suo flauto e negli occhi dei bambini si creò il vuoto. Simili a belve si mossero a quattro zampe, inferociti e bestiali saltarono addosso ad Avoran e ne impedirono i movimenti. Denti e unghie si avventarono contro la corazza di ilmerite e grande fu il terrore del giovane al pensiero di riconoscere il volto del fratello tra quello degli aggressori. Guardò in alto, avvertì come una nuova ventata e sentì il corpo sollevarsi privo di peso. Talandria aveva poggiato le mani a terra e alle sue preghiera essa aveva risposto. Mille braccia fatte di radici sbucarono da tutte le direzioni, spaccarono la roccia e crearono mura e impedimenti, aggrovigliandosi attorno ai piccoli soldati. Avoran rotolò a terra e volse un cenno di ringraziamento alla compagna. Quando si voltò di nuovo, davanti a sé vide due occhi verdi, grandi e luminosi, che lo fissavano con insistenza. «Ciao Ran». Il ragazzo gettò la spada a terra, balbettò alcune parole e abbracciò il fratello. Tolse l’elmo, ne baciò la fronte e le lacrime dei due si mischiarono con la terra. «Andrà tutto bene. Ci penso io qui». Avoran fissò il bambino con sorpresa. «Cosa intendi?» Il bambino si limitò a sorridere. «Perdonami fratellone». Avoran si piegò in avanti, accasciandosi a terra, riverso in una pozza di sangue, una scia che nasceva dal suo fianco e dal coltello in esso conficcato. Cadde con la faccia a terra, mentre il fratello si dirigeva verso la Cattedrale. Sentì un peso sopra la sua schiena e una risata echeggiare, la bocca si faceva nel frattempo
amara e piena del disgustoso sapore del proprio sangue. «Osserva, giovane Avoran. Resta con me, resta fino a quando tutto questo sarà finito». *** Talandria muoveva le radici del grande albero con tocchi decisi della sua volontà ed esso, obbedendo al richiamo, bloccava gli assalti e l’avanzata dei piccoli soldati, senza provocare loro danni e sofferenza. Tutto intorno le si era fatto silenzio, nascosta in quello che era divenuto un impenetrabile muro di radici disposte attorno all’ingresso. Sentì il grido disperato di Avoran e temette per la sua incolumità tanto che le radici si abbassarono e si sciolsero i nodi impenetrabili. Il ragazzo era più avanti, disteso e inerte, schiacciato dallo stivale di Minstrael e dalla densa presenza verde. Talandria aveva visto e sofferto troppo per sopportare ancora. I suoi occhi brillarono di una luce spaventosa e l’aria attorno al suo corpo divenne elettrica. La regina aveva rotto di nuovo le proprie catene. *** Talandria era irriconoscibile: il corpo esile era divenuto ferino e scattante, muscoli e nervi tesi che palpitavano in fasci uniti e compatti. Solo i suoi occhi, rimasti color giada, rivelavano all’agonizzante compagno la vera identità. La regina balzò, pronta a colpire, Minstrael imbracciò il flauto e si librò sopra Avoran. La nebbia si ritrasse dentro allo strumento per poi fuoriuscirne di nuovo tutta insieme, nelle forme e nell’aspetto di un essere vivente. Talandria interruppe bruscamente l’attacco, i suoi artigli slittarono sulla roccia e si bloccò: davanti a lei si ergeva la sagoma contorta di Garlandia.
Capitolo XLIV
La maschera spezzata
Dari si era mosso veloce attraverso l’intricato labirinto di radici avviluppato attorno ai suoi compagni. Correva, con le mani ancora tremanti e grondanti di quel gesto atroce, per aver tradito la fiducia del fratello. Minstrael era stato chiaro nelle sue indicazioni: doveva farlo e prendere ciò che si trovava dentro la rocciosa struttura. Se l’avesse fatto avrebbe potuto non solo riavere i suoi genitori ma anche sperare nella salvezza del fratello. Gli dei di Minstrael erano misericordiosi e l’avrebbero premiato. Arrivò davanti all’ingresso e si bloccò, timoroso di essere anche lui spinto indietro. Mosse un o in direzione della porta ma chiuse gli occhi, preparandosi al peggio. Non accadde niente: fece quindi un altro o, attraversò il portale e si trovò dentro. Era ato. *** La vista di Avoran era offuscata ma la scena a cui aveva assistito era stata tremendamente nitida. Dari era scomparso nella Cattedrale per riemergerne poco dopo con il cofanetto tra le mani. Urlò, nel vano tentativo di attirare l’attenzione di Talandria, poi provò a rialzarsi ma cadde di nuovo a terra. La regina combatteva contro qualcosa che era più di un’eterea presenza: vera, reale e tangibile, sua sorella era comparsa con la stessa rabbia dell’ultima volta. E, come lei, combatteva per uccidere. Avviluppate l’una contro l’altra, in una tempesta di artigli e zanne, scambiavano ringhi e maledizioni intrise di follia. Talandria fu sbalzata contro la parete di roccia, affondò in essa come se fosse stata melma, schiacciata dalla pressione del corpo della sorella. Il suo corpo, teso allo stremo, la abbandonò e con essa l’aspetto ferino. Piegata a terra si accorse di piangere: non era solo dolore fisico
il suo. C’erano disperazione, sofferenza, l’orrore profondo di chi comprende di aver fallito. «Garlandia, ti prego». «Tu che preghi me? Pensi che ciò basti?» «Non basterà mai” proseguì «qualunque cosa tu faccia». Talandria sollevò appena la fronte. “Ho tolto un figlio all’amore di sua madre. Ciò che stai per fare tu è togliere una regina al suo popolo». «Nessuno ti ama, sciocca bambina. Mio figlio sì». «Ti sbagli. Esiste qualcuno che mi ama. Lui…lui è qui, per me». «Un umano?» «Tu non ami tuo figlio nonostante non sia più un esperide? Non lo ami anche se la vita e la morte vi separano?» le lacrime rigavano il viso della regina. «Ti prego Garlandia, lascia che io trovi la forza, dammi la possibilità di lasciare a coloro che verranno un mondo migliore. Guarda i volti dei bambini, uno per uno, pensa ai loro genitori, ai loro cari, a tutti coloro che li attendono. Aiutami Garlandia e ti prometto che un giorno salverò anche tuo figlio». La grotta fu inondata da un bagliore e, allo stesso tempo, da un grido di dolore e di trionfo. *** Minstrael aveva ruggito, il suo petto si era gonfiato e dal flauto erano fuoriuscite le note più ardite che il mondo avesse mai ascoltato. Nella sua mano gracile, stretta in un pugno serrato, c’era la Pietra di Renodia. Al suo fianco Dari osservava con meraviglia il concretizzarsi del desiderio del musicista. Sorrise a sua volta e si attaccò al braccio del Pari, convinte che fosse giunto anche il momento del suo premio. Fu sbalzato lontano, vicino al fratello, con il viso paonazzo.
«Vuoi tuo fratello? Eccolo lì. Lui si unirò presto ai tuoi genitori, proprio grazie a te». «Hai detto che li avresti riportati in vita, che i tuoi dei l’avrebbero fatto!». Minstrael sorrise. «Tu pensi di essere tanto importante? Che degli dei si preoccupino di esaudire le tue richieste?» Tra i singhiozzi, Dari afferrò la spada impugnata precedentemente dal fratello. «Avevi detto che non avresti mai tradito le tue promesse, che saresti stato per me come un fratello. Mi sbagliavo. Ho già un fratello e non sei tu». Il bambino si lanciò contro il Pari con la Spada di Gorgon pronta a colpire. Avoran rantolò disperato ma il suo lamento si perse nella luce divampata alle sue spalle. Talandria ne fu investita al pari della nebbia che la avvolgeva, Minstrael gridò inorridito il nome della madre e Dari fu colpito in pieno petto da un’energia senza nome sgorgata dal Pari. *** Avoran si alzò e, arrancando, raccolse la spada da terra. Vide l’orrore negli occhi del Pari e tutto ad un tratto, il volto della bestia celato dalla maschera gli si rivelò. Minstrael urlò tutto il suo straziante dolore, con le mani tentò invano di nascondere il viso ma la luce emessa dalla lama era tale da oltre are ogni sua difesa. Avoran abbatté la lama senza pietà per il mostro che aveva davanti e per tutto ciò che egli rappresentava. La pietra scivolò dalle sue mani in un tentativo disperato di appoggiare il flauto alle labbra. Il ragazzo si preparò all’ultimo affondo, la lama penetrò nella carne ma sul volto nudo di Minstrael si dipinse un ghigno di gioia. Mentre la sua sagoma perdeva i contorni e la consistenza, tra le sue braccia, traato dalla Spada di Gorgon, rimase il corpo di Dari.
Capitolo XLV
La fine dell'incubo
Al suo risveglio, Renodia si trovò invasa da bambini. Nessuno era certo di sapere da dove fossero arrivati ma nelle piazze e nelle strade si udirono per tutto il giorno cori, canzoni e risate. A Messer Octorbo spettò il compito di organizzare il ritorno a casa di tutti i piccoli ospiti, convogli affollati e festanti partirono dalla città verso sera. Nessuno, tra i piccoli, ricordava niente di ciò che era accaduto loro nelle settimane precedenti. Avoran osservava dall’alto dell’Albero la partanza, salutando con lacrime incontrollate la fine della sua missione. Aveva vegliato il corpo del fratello per tutto il giorno e, da ultimo, aveva intrecciato per lui una coroncina. Avrebbe voluto dirgli tante cose, forse più di quante avrebbe potuto dirgliene in una vita intera. Affidò le parole silenziose alle lacrime, alla disperazione e alla delusione per non essere riuscito a rispettare la promessa fatta a se stesso e ai suoi genitori. Il ragazzo aveva barcollato col cuore pieno di rabbia attraverso il palazzo e si era inerpicato sui rami più contorti. Lì aveva infine preso coscienza di quale fosse l’ultimo o che gli restava da compiere. Solo un o, un breve dolore e poi, finalmente, sarebbero stati di nuovo tutti uniti. Nella vita come nella morte. «Non farlo, ti prego». «Perché? È tutto finito, ho fallito».
Talandria approfittò di quel momento di indecisione e si avvicinò. «Anche io ho pensato spesso a prendere questa scorciatoia, a mettere fine a tutte le mie pene in questo modo». «Cos’è che ti ha bloccato?» «Non so cosa fosse prima ma so cosa lo farebbe adesso. Sei tu, Avoran» gli sorrise e afferrò con forza il suo braccio. «La nostra storia non può avere adesso un lieto fine ma possiamo prolungarne la durata e cercarlo insieme, per entrambi e per coloro che verranno dopo di noi. Vuoi restare con me?» *** Il sole si era levato su Mersilia e i suoi raggi avevano accarezzato le praterie e le cime degli alberi. Avoran e Talandria, mano nella mano, lessero insieme le parole incise su una piccola lapide posata sul terreno. A Deidar, piccolo eroe Possa tu infine trovare la pace e la strada di casa Poggiarono su di essa una corona fiorita, intrecciata con fiori di campo. Così come erano venuti se ne andarono, galoppando oltre l’orizzonte e il tempo, contro la vita e la morte, verso il sogno di un mondo migliore. *** «È un maschio» Talandria sorrise verso il compagno. Era stanca ma il suo volto era sereno. Avoran si sporse verso il bambino, l’espressione stanca si sciolse e gli occhi si inumidirono come non accadeva da secoli. «Come lo chiameremo?» «Deidar. Il suo nome sarà Deidar».
Nota biografica
Nato e cresciuto a Firenze inizia a scrivere alle elementari anche se alcuni tentativi di scarabocchi sono documentati fin dall’asilo. Famoso per aver lasciato segni pittorici del suo aggio ovunque (fogli, banchi, persone), crescendo si apiona a troppe cose per sceglierne solo una quindi si iscrive e si laurea presso la Facoltà di Design dove può esprimere e sperimentare il suo essere poliedrico. Inizia a scrivere il primo libro della Saga a sedici anni ma inizia a crederci solo dopo averlo cestinato e ricominciato dall’inizio per la quinta volta. Attualmente frequenta il secondo anno di laurea magistrale in Architettura e lavora alla stesura del quarto romanzo della Saga Le Pietre di Talarana. Se il romanzo vi è piaciuto potete trovare gli altri in tutti i maggiori store online. Di prossima uscita: Le Pietre di Talarana IV
Contatti
La pagina facebook: Le Pietre di Talarana Fan Page Il blog della saga: Le Pietre di Talarana blog