Le Pietre di Talarana
II
L’Erede di Talarana
Alessandro H. Den
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SMASHWORDS EDITION
PUBBLICATO DA: Alessandro H. Den on Smashwords
Le Pietre di Talarana II – L’Erede di Talarana Copyright © 2012-2013 by Matteo Berilli
A Olimpia, fonte inesauribile di amore e ispirazione E a Maria Elena, incredibile compagna di avventure
Indice Parte Terza - Naren
Prologo Capitolo I – Una scelta difficile Capitolo II – Vento di cambiamenti Capitolo III – La principessa del deserto Capitolo IV – Profezie Capitolo V – Venti di guerra Capitolo VI – Il segreto svelato Capitolo VII – Le Ali di Flammaria Capitolo VIII – Trame di Palazzo Capitolo IX – Scontro nel Leviros
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Cime di monti, Colli lontani, Gemiti di pianti, Raggi diafani. Il vento del mondo ha cambiato il destino. Mai più di un uomo è certo il cammino. Heinar divino, degli astri il creatore Sul giovane mondo inviò il segno dell’amore La coppia divina, scesa nel mondo, Il suo compito svolse fino in fondo. La vita fu così originata Di spiriti, piante e animali la terra fu fecondata Ma se nel segno d’amore il disegno divino si consacrava Nel cuore dei figli del padre diletti l’invidia strisciava Mentre la madre nel suo grembo proteggeva la stirpe amata I demoni condussero un’esistenza sbagliata Moglie e marito si divisero allora Mentre le due razze fiere combattevano allora. Fin quando un giorno la bontà della dea fu ingannata La sua anima imprigionata, l’umanità condannata.
Nel nome del male si erse un nuovo impero Senza che l’uomo vi si opponesse fiero. Behel, il Nemico, dei Pari il Gran Signore Sotto il giogo servile mise l’uomo inferiore. Il suo volere era legge sul pianeta ancestrale Il desiderio di potere fu padre del male. La vita dell’uomo infine tramonta Per nessuno dei Pari questo conta: Un servo valoroso divenne l’araldo Da quel giorno il suo spirito divenne più saldo. Del secondo la voce ammaliava un ruscello Ma la sorte lo cambiò per volere di quello Che del mondo fu la piaga Cosicché quando parla il caos dilaga Si levan tempeste, Frutto di Adramelech, la Voce Celeste. Occhi dal nulla scrutano il fato All’onnisciente Argo niente è celato. Kaliban il possente, Fu dai Draghi dilaniato, Il suo desiderio morente
Dal Signor fu realizzato. Iblis l’infido, Bocca del Male, A scorpi e serpi bramò somigliare. Hyperion l’invincibile ha forma gradita, All’occhio umano pare amica. Ali iridescenti, macchiate di sangue, Svelan ben presto la sua fame che langue. Delle melodie Silvestri fu Minstrael l’allievo Ma nel suo flauto certo non troverai sollievo. Illusioni e magie esso può generare, Su presto, sii svelto, non farti incantare! Giungono infine gli ultimi due, Insieme e per mano camminan perché Di dolore e morte dan prova di sé. Colei che Sublime conduce le schiere Di Sangue per il Signor colma il bicchiere Tutto il Creato risponde ai suoi appelli, Ella è Lilith dai cerulei capelli. Della Morte l’effigie porta sul volto, Non rivelarti con lui un essere stolto. Della conoscenza infinita ha aperto le porte,
Quello è Mefistofel, Signore della Sorte. Il ritorno dei Pari fu la Prova Che il Fato sul pianeta posa non trova. Il glorioso impero cadde a sua volta, Dal cielo gli Angeli trovaron risposta: Le Pietre del Potere, grandi alleate, Andavano infine per sempre celate. A Junatar la fredda riposò tra i ghiacci, Nella Verde Renodia scelse i crepacci, Del Fuoco di Flammaria un’altra scelse il mantenimento, Di Zolon vorticante provocò il movimento. Ma una sola Pietra rifiutò la decisione, Cantò ai saggi la propria opinione. Di un bimbo il destino decise di mutare, Poiché nel suo cuore si poteva sperare Di portare la pace ed un Mondo diverso, Dove il destino non sarebbe stato avverso Ausel il Grande benedì il bambino, Ne scrutò il futuro e questo fu il vaticinio: Nella tenebra Oscura la tua Luce porterai, Nei giorni dell’oscurità la tua Verità troverai,
Dall’abisso dell’oblio la tua forza si sprigionerà, Malgrado tutto il male prevarrà. Dure prove ti aspetteranno Per battere infine l’antico Tiranno La sua fine non è lontana: Questo è il tuo destino, Figlio di Talarana.
Prologo
C’è una filastrocca, conosciuta da tutti coloro che sono stati bambini, usata dalle nutrici e dalle madri come spauracchio quando fanno i capricci e non intendono mangiare la verdura . Viene mormorata, additando il cielo e i due satelliti del pianeta, Masir e Kalef, le lune gemelle, a Selthon come a Naren, fin nel più piccolo e sperduto villaggio.
Se le Lune brillan di giorno, Il demone è qui intorno, E guastando le feste È meglio sprangar le finestre! Quando le Lune son spente, Il male è assente In piazza tutti andiamo Evviva, giochiamo!
Gli adulti tra loro ne ridono, ricordando come a loro volta i genitori l’avessero raccontata nelle giornate in cui le lune, grandi nel cielo, brillavano di luce strana e sinistra. Sono in pochi a non riderne affatto e non senza una buona ragione. La filastrocca, ben lungi da essere un espediente creativo per terrorizzare i bimbi, è vera. Maledettamente autentica, in ogni sua parte. Anche Greg Oltan, la ricorda, ogni tanto, pensando all’infanzia e al giorno in cui la sua tutrice Eleona gliela canticchiò, per la prima e unica volta. Pensava fosse un buffo modo per mettergli paura e quasi avrebbe riso se non fosse che l’espressione della ragazza, solitamente allegra e solare, era assolutamente seria e preoccupata.
Parte terza. Naren
Capitolo I
Una scelta difficile
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Il grande Impero era caduto. La guerra scatenata in seguito al ritorno del male e dei suoi luogotenenti non aveva lasciato che ferite in un pianeta già provato da una storia fatta di schiavitù e sofferenze. I mille anni di pace erano terminati quando il nuovo e terribile conflitto aveva rigettato il mondo nel più profondo dei baratri. La perdita di una forte guida centrale metteva adesso a rischio la stabilità dei regni rimasti, dopo che con fatica e al costo di perdite enormi, sconfitto temporaneamente il nemico. Anche gli Angeli Dorati, coloro che, per la seconda volta, avevano aiutato gli uomini a porre un freno all’avanzata del male, avevano subito una grave frattura all’interno della loro gente, cosa che non li rendeva certo meno esposti al pericolo. Quel mondo tanto lontano dal loro antico pianeta natale e del quale mai avrebbero pensato di dover prendersi cura, sembrava di nuovo sull’orlo di cambiamenti radicali. E loro, autoproclamandosene tutori, non potevano fare altro che cercare di ristabilire un ordine laddove esso stentava paurosamente a riaffermarsi. Al Consiglio mondiale, che raccoglieva i sovrani dei quattro regni più la delegazione dei saggi di Zolon, la tensione era palpabile e per gli Angeli, persino per i quattro Custodi del Trono, mettere d’accordo tutti si era rivelato un compito più duro del previsto. Era appena terminato il conflitto ma ogni regno pareva avesse le proprie idee su
come gestire il vuoto di potere, causato dal crollo dell’Impero. Uther Selthon VI, re dell’omonimo regno, reclamava per sé il titolo e la corona imperiale, non del tutto a torto: aveva, infatti, sposato Briallian Rigel Aidalar Talarana, unica figlia del defunto Imperatore Kelthor Aidalar III. Per linea dinastica, anche se, nelle altre famiglie reali presenti, tutti vantavano parentele più o meno dirette con la famiglia Imperiale, la sua richiesta sarebbe stata accolta con relativa tranquillità ed assenso da parte delle altre delegazioni, se non fosse per il fatto che essa ne contenesse implicitamente un’altra, molto più importante di un titolo o di una corona. Millenni prima, quando ancora non esistevano né i regni né l’impero gli Angeli avevano sconfitto per la prima volta il male. Gli esseri umani avevano salutato con gioia il loro arrivo nel mondo e, da parte loro, gli Angeli erano stati felici di poterli aiutare a costruire una civiltà dove prima vi erano solo schiavitù e morte. Grazie all’impegno congiunto fu fondato l’Impero, a cui venne dato il nome di Talarana che, nell’antico linguaggio di Mideree, significava “Gemma sulle Acque”, a causa dell’ubicazione della sua capitale, Oonanai Talarana, situata al centro dell’Oceano. Coronamento di tale alleanza fu la donazione, da parte degli Angeli, di cinque pietre, ciascuna delle quali avrebbe assicurato agli uomini un’era infinita di pace e benessere. Le pietre svolsero il loro compito e, per quasi mille anni, fino a quando esse non furono rubate per permettere al male di tornare di nuovo a calpestare la terra, l’Impero si accrebbe fino ad abbracciare quasi tutto il pianeta, tranne alcune zone che, per antichi e sofferenti ricordi, non furono occupate e andarono in rovina. Non fu difficile intuire, per i saggi Angeli, quale fosse il vero intento dietro l’accanimento degli uomini di spartirsi territori o di contendersi il titolo Imperiale con motivi futili. Ogni regno, fatta eccezione per la città libera di Zolon, reclamava per sé le pietre, convinto di poterle custodire meglio degli altri e, soprattutto, di poterle sfruttare meglio. Al sesto giorno di trattative, che fino ad allora non avevano prodotto altri effetti che aumentare la tensione internazionale, spingendo i regni quasi a dichiararsi guerra l’un con l’altro, Midrael, Generale dei Celesti, in quanto primo Custode, prese in mano la situazione: «Non possiamo proseguire oltre nella trattativa finché ciascun regno non cesserà di pensare solo al proprio desiderio e alle aspirazioni territoriali o ereditarie»
tuonò, la voce maestosa che, pur non invadendo gli spazi, occupava molto più efficacemente le menti dei corpi diplomatici. I delegati avrebbero voluto sollevare alcune proteste ma non lo fecero, dopotutto era proprio a quegli esseri che dovevano la loro presenza lì in quel preciso momento. «La guerra appena conclusa avrebbe dovuto far nascere in voi il desiderio di ricominciare, di collaborare con ancora più decisione affinché il nemico non riprenda nuovamente il sopravvento. Voi, che tanto detestate i demoni, siete animati dai loro stessi desideri e siete portati a commettere i loro stessi errori. I vostri popoli stanno soffrendo la fame perché le vostre scorte, i vostri campi e i vostri animali sono stati distrutti dall’avanzata del nemico mentre voi qui date fondo ai vostri metodi più subdoli per prevaricarvi l’uno sull’altro» le sue parole furono lapidarie e andarono visibilmente a segno: lo si poteva leggere chiaramente negli occhi dei regnanti e dei delegati che ora tenevano la testa bassa e accettavano con umiltà le dure parole di Midrael. L’ammonimento del Custode proseguì: «Là fuori i vostri popoli hanno dato la vita perché i loro figli, i vostri stessi figli, possano vivere in un mondo migliore, affinché non debbano più temere che i loro incubi e le loro paure più nascoste tornino per scuotere le loro case, le loro terre e privarli di tutto, non ultima la loro esistenza».
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«… la loro esistenza» nella sua mente echeggiarono le parole dure del fratello. Uriadrel, il Signore delle due Lune in disparte, osservava la scena: i suoi occhi dalle iridi dorate andavano continuamente dal consiglio al solitario interlocutore. Sorrise dentro di sé ma senza piacere, solo perché tale avvenimento confermava, una volta ancora, il suo giudizio ed egli adorava sapere che le sue previsioni si avveravano con precisione impressionante. Gli uomini non avrebbero mai imparato a comportarsi amichevolmente: l’egoismo del singolo avrebbe sempre cercato di schiacciare la volontà dell’altro. Numerose volte aveva fatto presente il suo pensiero ai fratelli e ad Ausel e Zanktel, Signori degli Angeli Dorati e Diarchi della città celeste di Mideroa ma essi erano fin troppo convinti, anche dopo la nuova sconfitta degli uomini, fatta eccezione per il traditore, che ormai con i suoi fedeli si era confinato nella città fortezza di Zedarcalan, che in essi vi fosse ancora la chiave per cambiare definitivamente un mondo così giovane ma già tanto triste.
E per un motivo che solo in parte era chiaro, quel bambino umano era stato prelevato ed era mantenuto in stasi temporale a bordo di Mideroa: i suoi genitori che, con rammarico, avevano accettato la separazione, erano consci di non vederlo mai più, nella speranza che egli, ancora nessuno aveva la minima idea di come, avrebbe potuto, un giorno, liberare definitivamente il mondo dalla minaccia di Behelstedor e dei suoi generali. Dal pulpito, dal quale Midrael si era affacciato per denunciare la dilagante ipocrisia del Consiglio, si fece improvvisamente silenzio e dei tendaggi rossi ne coprirono l’ingresso. Uriadrel corrugò la fronte, ignaro di ciò che stava per verificarsi: di sicuro un fuori programma del quale non era stato informato stava per verificarsi. Si chiese se, dalla platea del Consiglio, qualcuno non si fosse alzato per proporre una soluzione democratica maturata dopo aver sentito le parole di suo fratello. Con stupore nessuno mancava, tutti i posti erano occupati, compreso quello di Talandria: era ella un personaggio autorevole e riscuoteva all’unanimità massima stima e rispetto, tanto che, in un primo momento, si era pensato di affidare a lei e al suo consorte Avoran la guida dei regni. Ma lei aveva rifiutato, dopotutto, aveva detto, lei non era originaria di quel pianeta e, come gli Angeli Dorati, si trovava lì, insieme alla sua gente, come fuggiaschi: non si sentiva, quindi, in diritto di esercitare più potere di quanto il suo popolo non considerasse indispensabile. La risposta all’interrogativo di Uriadrel arrivò poco dopo, non con un certo stupore: da dietro i tendaggi era apparso, nelle sue vesti magnifiche e sgargianti, l’ultimo sovrano di Mideroa, Ausel il Grande. Costituiva la sua presenza un evento così eccezionale che a qualcuno del Consiglio parve che un secondo sole fosse apparso all’orizzonte, affiancando il primo e equiparandosi a lui in luce e in splendore. Il Consiglio fu percorso da un brusio di incredulità: molti di quegli esseri umani lo consideravano non meno potente di un dio e le sue apparizioni non facevano altro che aumentare, nel cuore di tutti, tali supposizioni. Sapere di poter contare su di un essere simile costituiva per molti l’unico motivo per pensare ancora ci fosse un briciolo di speranza affinché con la sua luce scendesse a rischiarare le tenebre. In mano teneva un ampio cuscino candido che, al suo confronto, pareva piuttosto
grigio, sul quale erano adagiate cinque pietre. Nuovi brusii, questa volta più accentuati, si levarono dalla Sala. Le Pietre di Talarana, il nerbo che impediva al consiglio di deliberare una decisione unanime, si trovavano a pochi metri da ogni rappresentante e, ovviamente, furono da essi immediatamente riconosciute. Ausel levò un braccio e dispiegò davanti a sé il palmo della mano, intimando, con gentilezza e pacatezza, alla platea di mantenere il silenzio e, soprattutto, la calma. La sua voce eterea non tardò a riempire il Consiglio con la sua armoniosità e melodia: benché ciò di cui stava parlando non fossero argomenti piacevoli, nessuno riusciva a fare a meno di ascoltare ammaliato quelle parole. «Per giorni ho diretto il mio sguardo su questo luogo di riunione, che, almeno nei miei intenti iniziali, avrebbe dovuto essere pacifica e fraterna. Invece ciò che ho visto mi ha enormemente rattristato, costringendomi a giungere qui, in mezzo al vostro Consiglio, per mettere fine alla vostra disputa». L’Angelo Dorato indicò il cuscino. Qualcuno, nella platea, cominciava a comprendere il proposito di Ausel. «In mancanza dell’istituzione Imperiale, della sua sede fisica almeno», incrociò lo sguardo di Selthon VI, piuttosto contrariato dall’affermazione, la cui delegazione aveva già iniziato a protestare non proprio silenziosamente e proseguì, senza curarsene più di tanto, dopotutto, ognuno avrebbe avuto la sua parte. «le Pietre saranno fra voi spartite». Il brusio sommerse la sala mentre i Custodi si scambiavano fra loro sguardi allibiti, cercando a loro volta di scrutare lo sguardo imperturbabile di Ausel e di capire che cosa avesse in mente.
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La Darlidan, con il suo profilo slanciato, navigava quasi volando sulle acque, in direzione sudest mentre il cielo, a est, cominciava a tingersi dei colori dell’alba. Il gioiello dei Cantieri imperiali di Selthon da settimane mancava ormai
all’appello della Marina, non senza che il legittimo proprietario dell’imbarcazione, il Cancelliere Samarlec, mostrasse evidenti segni di fastidio. Nessuno però aveva il coraggio di ricordare proprio a quest’ultimo che, se era stato privato della sua lussuosa imbarcazione personale, non doveva attribuire la colpa ad altri che a se stesso. Per fortuna aveva sufficienti capri espiatori per la sua collera. Proprio uno di essi, un ragazzo alto con lunghi capelli castani, si stava adesso godendo la brezza mattutina dalla prua della lussuosa imbarcazione. Quella nave, da qualche settimana almeno, era divenuta la sua casa e in essa vi ritrovava, in scala ridotta, tutte le sue normali attività: aveva i suoi amici a bordo, il suo maestro e soprattutto l’Oceano, con le sue albe ed i suoi tramonti, che, sempre più spesso, osservava in solitudine in quell’angolo del ponte. Gettò uno sguardo alle acque, vide la schiuma delle onde spezzate dal aggio della nave, in lontananza qualche movimento, forse un branco di pesci, seguiti a distanza da uno stormo di gabbiani, attirò la sua attenzione. Amava l’Oceano, il Thalassiah, così era chiamato dai sacerdoti del culto di Leviathan, Signore delle acque e dell’Ovest e di ogni cosa che in esso dimorasse. Avvertiva una sintonia profonda con quell’ambiente così diverso dalla terraferma, come se una parte consistente del suo io preferisse far parte di quel mondo piuttosto che di quello in superficie. Ripensò a quanto aveva detto, forse il giorno prima che la sua vita, le sue certezze, si sconvolgessero, a Andrew, il suo migliore amico. Desiderava conoscere il mondo, avventurarsi per foreste sconosciute e scalare cime innevate piuttosto che sottostare al volere di suo padre ed impegnarsi a studiare a fondo libri e libri di contabilità per poterlo poi, un giorno, sostituire nell’importantissima mansione di amministratore in capo delle attività di Selthon portuale. Provò di nuovo la dolorosa fitta al cuore che compariva puntualmente quando i suoi pensieri si dirigevano con forza alla sua famiglia. Ancora una volta, forse la milionesima da quando aveva lasciato Selthon, rivedeva il volto di suo padre, almeno di colui che, proprio fino a quel giorno aveva creduto tale, mentre la Darlidan si allontanava a tutta velocità per tentare di sfuggire alla collera del Cancelliere. Scosse la testa, forse sperando di dimenticare quell’immagine e quel peso che non cessavano mai di abbandonarlo. Era avvenuto tutto troppo in fretta, si disse, quasi con rammarico, come se, nel caso avesse avuto più tempo e tranquillità, avrebbe potuto accettare con meno difficoltà le verità che, con o senza la sua approvazione, aveva dovuto incontrare nei primi momenti del suo viaggio. Sospirò profondamente: avevano lasciato Renodia da giorni ma il ricordo della battaglia e, in special modo, dell’ultimo
dono dei suoi abitanti, tardava ad abbandonarlo. Le parole del canto gli si erano come impresse nella memoria e da giorni lo assillavano, tormentandolo in continuazione, non lasciandolo in pace nemmeno quando dormiva o mangiava: davanti a lui si aprivano scenari mostruosi di un ato lontano, più remoto ancora di quello del quale aveva appreso di far parte. Behelstedor, era quello il nome del nemico al quale si sarebbe dovuto opporre e che tutti speravano avrebbe potuto sconfiggere definitivamente. Corrugò la fronte. La consapevolezza di quel confronto lo preoccupava non meno delle verità che voleva a tutti i costi conoscere. La canzone, per quanto, a tratti, difficile da comprendere, era stata chiara: il Signore dei Pari aveva spadroneggiato sugli uomini e presto, sarebbe tornato sulla terra per reclamare il posto che millenni prima gli era stato tolto, avvalorando ciò che, settimane prima gli aveva raccontato il proprio maestro a proposito dell’Età oscura. Greg sorrise mestamente mentre nelle sue orecchie, immaginarie ma chiarissime voci proseguivano per lui la triste canzone che aveva accompagnato l’uscita della nave dai Porti di Smeraldo di Renodia: risentì di nuovo narrare dei nove Pari, due dei quali, Lord Astaroth e Lord Minstrael, aveva già affrontato nella difesa disperata della città Silvestre. Poi, alla fine, la canzone divenne più lenta, come se le voci desiderassero che Greg la ascoltasse con maggiore attenzione. “Come se ce ne fosse bisogno”, pensò tra se Greg mentre non poteva fare altro che ascoltare con la mente l’ultima parte del canto, quella che, più delle altre, lo aveva tormentato durante quei giorni di viaggio.
…Ma una sola Pietra rifiutò la decisione, Cantò ai saggi la propria opinione. Di un bimbo il destino decise di mutare, Poiché nel suo cuore si poteva sperare Di portare la pace ed un Mondo diverso,
Dove il destino non sarebbe stato avverso. Ausel il Grande benedì il bambino, Ne scrutò il futuro e questo fu il vaticinio: Nella tenebra Oscura la tua Luce porterai, Nei giorni dell’oscurità la tua Verità troverai, Dall’abisso dell’oblio la tua forza si sprigionerà, Malgrado tutto il male prevarrà. Dure prove ti aspetteranno Per battere infine l’antico Tiranno La sua fine non è però lontana: Questo è il tuo destino, Figlio di Talarana.
Il canto lo abbandonò mentre le ultime sillabe rimbombavano ancora nella sua mente: era più che certo che quell’ultima parte così enigmatica si riferisse specificatamente a lui e faticava ad accettare l’idea che esistessero persone che sapevano sul suo conto più di quanto egli avesse mai potuto supporre. E poi quella pietra menzionata, cosa aveva a che fare con lui? Se non ricordava male nel canto erano citate altre quattro pietre, una di esse appartenuta a Renodia che presentava caratteristiche incredibilmente simili a quella rubata tempo prima dal nemico, per quale motivo esse rivestivano una così grande importanza sia per il bene che per il male? Figlio di Talarana. Quella frase l’aveva lasciato perplesso: per quanto sapesse di appartenere ad un’altra epoca, mai e poi mai avrebbe pensato di non essere nato a Selthon. Fissò la medaglietta che il giorno prima di partire la regina Talandria gli aveva donato e che i suoi genitori avevano voluto che lui avesse in loro ricordo. Se era a lui che si riferiva quella parte del canto queste tre parole e per quanto fossero irrisorie rispetto all’incredibile mole dei dubbi che ancora non avevano soluzione, gli consentiva almeno di sapere dove fosse nato. Talarana, la capitale dell’antico Impero, dal quale erano derivati tutti i
regni attualmente esistenti, questo quello che sapeva dalla storia, e proprio da essa e dalla sua caduta dipendeva l’attuale attribuzione del titolo imperiale a Selthon. Respirò rumorosamente. Aveva imparato che le verità era meglio non cercarle con la forza ma lasciare che esse si svelassero poco a poco: ogni volta che veramente scopriva qualcosa di importante su se stesso erano sempre situazioni di grande pericolo, per lui e soprattutto per gli altri. Avrebbe trovato quelle risposte, sì, ne era certo: sembrava che ultimamente il mondo cambiasse con la stessa velocità con cui egli apprendeva nuovi capitoli sul proprio conto. Non poteva mancare poi molto affinché egli conoscesse appieno ciò che, nebuloso, sorrideva beffardo nascosto tra le pieghe della sua mente. E per allora anche il mondo sarebbe cambiato. Naren quasi lo chiamava a sé, ogni giorno cresceva in lui il desiderio di arrivare quanto prima in quel luogo e ogni giorno non poteva fare a meno di gettare, almeno due o tre volte, il suo sguardo verso sud, impaziente di vedere la sagoma del Vulcano Sacro, simbolo da sempre di quel regno. Una voce da dietro lo distolse dai propri pensieri. Greg ne aveva riconosciuto senza ombra di dubbio il proprietario che, con una punta di sarcasmo, non mancava, per l’ennesima volta, di intromettersi nei pensieri dell’amico: «Vedo che fai fatica a perdere le vecchie abitudini, amico mio. Ora che non puoi più dormire sui moli di Selthon al chiaro delle Lune dormi sul ponte della nave? Cosa direbbe tuo padre se…» disse Andrew, iniziando la commedia che ogni tanto provava gusto nel ripetere e che avrebbe recitato anche questa volta se Greg, con un’occhiata piuttosto accigliata, non gli avesse intimato silenziosamente di finirla lì. La messa in scena cessò immediatamente, poi socchiuse gli occhi per mettere a fuoco l’amico: la sua espressione era greve ed era la medesima che da giorni lo accompagnava regolarmente e che non mancava di essere oggetto di discussioni, rigorosamente segrete, che si tenevano nella cabina di Andrew in compagnia degli altri tre compagni di viaggio, Greg escluso naturalmente. Forse era giunto il momento di parlargli o almeno di tentare visto che loquacità pareva aver abbandonato il suo migliore amico da qualche a tempo a quella parte. «Qualcosa che ti preoccupa?» chiese dopo qualche istante di silenzio durante i quali Greg aveva continuato a fissarlo, chiedendosi se c’era qualcosa che volesse dirgli o se la sua venuta doveva esser interpretata come il solito buongiorno.
Greg si ravviò un ciuffo di capelli che, a causa della brezza, aveva abbandonato l’ordinata pettinatura, poi, con un abbozzo di sorriso scosse la testa. «Va tutto bene, sono solo impaziente di raggiungere Naren. Sono molto preoccupato per la situazione che potremmo trovare al nostro arrivo». Cercò di mostrarsi seriamente preoccupato per la cosa, sperando che il suo migliore amico si credesse alla scusa inventata sul momento. Andrew dal canto suo, alzò di un millimetro il sopracciglio destro, fissando con sguardo indagatore Greg, poi scosse la testa. «Non mentirmi Greg. Qualcos’altro ti tormenta, non è vero? È ancora quel canto? Perché non vuoi parlarne nemmeno con Dovan?» chiese, preoccupato. Greg annuì debolmente, con gli occhi fissi: «Voglio sapere, Andrew. Gli Esperidi hanno cantato, per me. Se solo io ho udito, se solo a me si sono rivolti è perché così doveva essere», disse laconico. Andrew annuì: era stato con Greg fin dall’inizio, sapeva quanto fosse stato per lui difficile accettare le verità che progressivamente gli si erano rivelate e soprattutto accettare quelle taciute da coloro che, per seguire un piano vecchio di millenni, avevano l’ordine di tacere. Di nuovo il silenzio era sceso sui loro pensieri, erigendosi a cortina per separare i due giovani: Andrew avrebbe voluto, come gli altri del resto, fare di più per Greg, alleviare in qualche modo i suoi pensieri, riavere l’amico di sempre, l’altro viveva nella costante preoccupazione di non riuscire nella sua missione e di mettere così a repentaglio la vita delle persone a lui care. Poi Andrew si decise a parlare di nuovo, questa volta sperando di ottenere qualche reazione da parte di Greg: «È quasi ora di colazione, perché non scendi con me? Credo che Dovan si sia già messo all’opera…E poi, come pensi di poterti allenare se non metti niente sullo stomaco?». Greg stava quasi per declinare l’offerta, poi rifletté, osservando l’espressone di Andrew: sapeva quanto tutti cercassero di tirarlo su di morale e di distrarlo dai suoi allenamenti estenuanti, sapeva pure dei loro ritrovi per decidere come agire nei suoi confronti. Era giunto il momento di tornare, anche se per poco, ad essere se stesso, di dimenticare le sue domande, i suoi dubbi e le incertezze. Annuì alla proposta ed il volto di Andrew, dopo tanti rifiuti, divenne finalmente raggiante.
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La cucina era immersa nei fumi e nei vapori quando Greg e Andrew vi entrarono. Il soffitto basso e la mancanza di finestre lo rendevano un luogo soffocante: a nessuno sarebbe venuto in mente di impiegare quella nave per viaggi lunghi, si disse. Riconobbe, in mezzo al vapore, i suoi compagni, affaccendati a disporre, su un tavolo basso, le vivande appena preparate, proveniente dalle scorte che avevano imbarcato a Renodia giorni prima. Mark, mentre posava un piatto di biscotti sul tavolo, cosa che non mancò di attirare l’attenzione di Andrew, lo salutò con un cenno della testa, poco dopo Deidar di Renodia, ultimo entrato a far parte del gruppo, gli tirò una pacca amichevole sulla spalla, seguito dal suo buongiorno, chiedendogli se avesse dormito bene. Greg sorrise ed annuì ad entrambi di rimando per poi voltarsi verso la fonte di quel fumo, a pochi i da lui, dove vide la sagoma di spalle del suo maestro affaccendato, forse in difficoltà. Il mago si voltò appena e, con la coda dell’occhio, riconobbe l’allievo: si lasciò scappare un’esclamazione di finta sorpresa, poi gli chiese: «Immagino tu fossi sul ponte visto che in camera tua non c’eri». Greg riconobbe il tono di voce di quando, a Selthon, lo aveva sorpreso, più di una volta, ad osservare il tramonto delle Lune e il Sole nascente. Il clima, con sua sorpresa, era festoso e tranquillo, quasi si trattasse di una piacevole escursione in uno degli arcipelagi selthoniani tanto rinomati piuttosto che una missione rischiosa: solo lui sembrava ricordare di quanto stava per accadere e di quanto importante fosse il compito che li attendeva nel regno dove erano diretti. Si mise seduto in disparte mentre le ultime stoviglie erano disposte sul tavolo e l’ultima assente alla colazione faceva il suo ingresso nella stanza, rivolgendo a tutti un dolce e caloroso buongiorno. Una ragazza minuta, con lineamenti dolci, capelli biondi ed occhi coloro fiordaliso, si era soffermata sulla porta d’ingresso e ora rivolgeva a Greg un ampio sorriso. Gli si avvicinò, radiosa, e prese posto accanto a lui. «Buongiorno Lisa» disse il ragazzo con un sorriso lieve. In altre occasioni, in un altro tempo, un tempo così lontano che ora sembrava far parte di un’altra vita, sarebbe stato felice sopra ogni altra cosa di sapere che lei ricambiava i suoi sentimenti. Purtroppo ora non era più parte di quella vita e quei sentimenti, quelle emozioni, credeva non gli appartenessero più, o almeno appartenessero a qualcuno che non era più, ad un altro Greg e comunque, malgrado ciò, non poteva evitare di percepire il nodo alla gola tutte le volte che
le compariva davanti, quasi come se si sentisse colpevole nei suoi confronti. L’espressione della ragazza da radiosa si era fatta seria e triste ed evitava con quanta più attenzione possibile di incrociare lo sguardo di Greg. Ora che i suoi sentimenti erano finalmente chiari, era l’oggetto di essi ad essersi fatto oscuro, pensò. Era certa che soffrisse, glielo leggeva in fondo agli occhi, la consapevolezza di non riuscire a smuoverlo, quasi fosse divenuto di pietra, non la fermava ed ella non era di certo il tipo di ragazza che si lasciava abbattere da qualche sconfitta. Dall’altra parte del tavolo Mark e Andrew suscitarono l’ilarità generale, compresa quella di Greg, furono lieti di osservare gli altri commensali, a causa del piatto di biscotti che Andrew non era proprio disposto a cedergli. Alla fine Mark, più forte ma non esattamente più furbo, forse ancora assonnato, gli strappò di mano il piatto, facendo volare in aria i biscotti che caddero a terra, rompendosi, sotto lo sguardo inconsolabile di Andrew che, per vendicarsi della perdita, somministrò all’amico una gomitata dritta nello stomaco. Dovan rise di gusto, seguito da Lisa, Greg e Deidar, anche se l’ultimo, memore dell’etichetta di corte che era restio ad abbandonare, cercò di trattenersi educatamente per qualche istante, poi, visto il clima collettivo, si lasciò andare, partecipando con la sua risata alla scena. Si sentiva più a suo agio adesso che avevano smesso di chiamarlo principe e di dargli del lei tutte le volte che dovevano rivolgergli la parola: la corte non gli aveva mai permesso di frequentare altri giovani che non fossero quelli appartenenti all’accademia militare e pure quelli, anche se più volte li aveva pregati di trattarlo come se fosse un cadetto non diverso dagli altri, si erano sempre ostinati a rivolgersi a lui con deferenza, quasi temendolo, sicuri del fatto che un giorno sarebbe stato loro superiore e gli avrebbero dovuto pur sempre portare il rispetto che si doveva ad un appartenente alla famiglia reale. Era stato diffidente verso i suoi nuovi compagni al loro arrivo a Renodia, con Greg era addirittura arrivato alle mani ma poi, da entrambe le parti, vi era stata l’apertura, condizionata sì dalla consapevolezza di dover combattere schiena contro schiena per fronteggiare il nemico comune, ma anche dalla certezza che proprio quel nemico comune, che tanto desiderava che divisione e odio serpeggiassero tra gli esseri umani, sarebbe stato sconfitto se l’armonia fosse tornata a governare gli intenti dei popoli che, per tanto tempo, erano rimasti isolati gli uni dagli altri.
La guerra imminente non avrebbe fatto altro che spianare la strada al ritorno del male sulla terra, il giovane principe ne era certo e lui, in quanto Paladino di Renodia, avrebbe fatto il possibile perché ciò non accadesse. Lanciò un’occhiata a Greg, chiedendosi se anche lui, con la sua espressione assorta, non stesse pensando alla stessa cosa.
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Dovan non poté fare a meno, una vota ancora, di fermarsi ad osservare Greg: il suo allievo, l’unico che ancora non avesse perso l’interesse per la magia, era assorto e mangiava lentamente. Non aveva certo bisogno di sondare la sua mente o di provare a percepire le sue emozioni per capire cosa lo turbava: sarebbe stata solo fatica sprecata e Greg se ne sarebbe di sicuro accorto. Da quando erano partiti da Renodia Greg, contrariamente a quanto sarebbe stato più che lecito supporre, nemmeno una volta gli aveva rivelato ciò che avevano cantato gli Esperidi e, per quello che gli era stato possibile intendere, nemmeno a Andrew. Quanto tempo ancora sarebbe dovuto are prima che scoprisse il significato del segreto che celava dentro di sé? Ricordava il primo incontro, mesi prima: pareva ato un secolo da quella mattina, si disse mentre masticava un pezzo di pesce. Una mattina non diversa da tante altre e niente gli avrebbe lasciato supporre che proprio quel giorno avrebbe trovato colui che invano aveva atteso negli ultimi mesi. Inutile per lui era stato negare l’evidenza: aveva per mesi studiato il moto dei due satelliti del pianeta e la conclusione era stata semplice quanto terribile. Il tempo dei miracoli stava per tornare, e con esso il Custode del segreto. Ma niente, fino agli ultimi avvenimenti almeno, gli aveva lasciato supporre che fosse proprio Greg colui che era stato descritto dagli Angeli Dorati come “Il salvatore del mondo”. Lo aveva trovato, sonnolente, accovacciato su uno dei moli mercantili, gli occhi semichiusi ad osservare il sole nascente. Da poco tempo aveva scelto, così almeno gli piaceva ancora credere, mentendo in maniera piuttosto evidente a se stesso, di abitare a Selthon portuale e si era dedicato alla ricerca di giovani che desiderassero apprendere le arti magiche. Non molti, per la verità, si erano detti disponibili a tale istruzione: benché alcuni tra i personaggi di spicco di Selthon appartenessero alla casta dei maghi, primo dei quali il Cancelliere Samarlec, nessun giovane pareva esserne particolarmente attratto. Coloro che potevano permetterselo, sia per ceto che per tradizione,
entravano a far parte dell’Accademia Imperiale e Selthon portuale non poteva certo dirsi particolarmente famosa per aver ingrossato le file dei suoi allievi. Furono probabilmente, con tutta sicurezza non poteva dirlo nemmeno adesso, gli occhi di Greg a spingerlo a rivolgergli la parola. Il maestro gli aveva chiesto se avesse casa e famiglia e il ragazzo, svogliato, gli aveva risposto affermativamente, senza neppure degnarlo di uno sguardo. Dovan non si era dato per vinto, aveva mosso il bastone e l’acqua, modellandosi, aveva riflesso, con poca gentilezza, i primi raggi del sole mattutino sugli occhi di Greg, attirando di prepotenza la sua attenzione. Il ragazzo era sobbalzato dallo stupore, provocatogli da ciò che, fino a poco prima, aveva giudicato non degno di attenzione. L’uomo che gli aveva rivolto la parola galleggiava sopra le acque. Le parole, stentate e confuse, erano uscite dalla bocca di Greg come una rivelazione: «Lei è un mago?», domanda alla quale Dovan non aveva potuto fare a meno di rispondere sorridendo e annuendo. Da lì a convincerlo a partecipare a delle lezioni il o fu immediato: negli occhi del ragazzo brillava la gioia di chi avrebbe fatto di tutto per apprendere ciò che gli veniva insegnato. Quella gioia, la stessa che si era più volte trasformata in rabbia come a Renodia, compariva sempre più raramente ad illuminargli il volto, lasciando più frequentemente spazio alla meditazione e alla tristezza. E lui lo lasciava meditare benché avrebbe preferito parlargli: era sicuro che Greg volesse conoscere la verità anche se l’unica fonte di preoccupazione che aveva mostrato durante i giorni di navigazione era quella di aumentare il proprio potenziale magico. Dopo il confronto con Astaroth, rendersi conto di non essere all’altezza di combattere neppure contro il primo dei Pari, l’aveva motivato oltre ogni limite, sembrava che la volontà lo spingesse a diventare potente anche senza l’ausilio del segreto che custodiva. Era proprio la disparità tra le sue due fonti di potere che lo spingeva a sottoporsi ad allenamenti estenuanti, ne era certo. E il potere di Greg era cresciuto, quasi smisuratamente, tanto che, quasi sicuramente, pensava Dovan, il suo allievo lo avrebbe presto superato. C’era Naren poi, a preoccupare quotidianamente il maestro e di sicuro anche il suo apprendista: Samarlec aveva dichiarato la guerra totale al regno d’oltreoceano, aveva mobilitato l’intero apparato navale dell’impero per schiacciare il nemico di sempre e, al loro arrivo, avrebbero trovato un regno sospettoso e poco incline ad accogliere dei visitatori, anche se portatori di pace. La guerra era, forse, dopo i demoni, la più grande piaga del loro mondo e i primi ne erano ben consapevoli. Scosse la testa impercettibilmente ed una ruga di preoccupazione gli comparve sul volto: non poteva fare a meno di incolpare, in
parte, se stesso per i problemi a cui stavano per andare incontro. La sua scarsa capacità di prevedere il corso degli eventi e, soprattutto la troppa fiducia che aveva riposto in elementi sbagliati, Samarlec su tutti, si erano ripercossi su di lui e, soprattutto, ed era questo pensiero a dannarlo, sull’intera popolazione di Selthon. Se fosse riuscito ad evitare la guerra, se fosse riuscito ad evitare un nuovo eccidio di innocenti, avrebbe potuto, per quanto in ritardo, rimediare agli errori di anni prima. Non voleva una redenzione, quella non gliela avrebbe potuta dare nessuno: alleviare la sua pena, ciò che, dal profondo, lo attanagliava e non lo abbandonava, però, quello sì. Dovan voleva fare pace con se stesso, smettere di indossare la maschera che portava con i suoi allievi e sulla quale, tutti quelli che sapevano, preferivano tacere. Andrew, in maniera piuttosto brusca, dopo aver rinunciato ai biscotti ma già con la bocca occupata a trangugiare un tozzo di pane, gli chiese di argli le aringhe affumicate. Poi, un bip, insistente e rumoroso, proveniente da un congegno fissato al muro, collegato con il computer di bordo, attirò la sua attenzione. Andrew, precedendo l’azione del maestro, scaraventò il piatto con le aringhe sul tavolo e salì, con lunghe falcate, le scalette, raggiungendo il ponte. Greg e gli altri alzarono la faccia dal piatto quasi simultaneamente, seguendo con lo sguardo Andrew che spariva al piano superiore, fissando poi Dovan, in attesa.
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Il progetto Leviros, uno dei primi piani varati dall’imperatore all’interno del rinnovo dell’apparato navale, sotto la non troppa velata influenza del suo giovane Cancelliere e tenuto segreto alla maggior parte della popolazione, tranne a quei pochi che, per loro perizia, erano stati impiegati nella sua realizzazione, si stava rivelando decisivo in quell’occasione. La costruzione di una base navale mobile in pieno Oceano Centrale era un’idea azzardata ma rivoluzionaria: il fatto che essa, poi, fosse celata a tutti coloro che non fossero autorizzati a trovarla la rendeva la postazione perfetta dalla quale attaccare Naren. Samarlec stesso aveva seguito la sua costruzione, terminata da alcuni anni: gli ingegneri e gli architetti
selthoniani si erano ispirati alla natura per quel vero capolavoro, purtroppo celato alla vista degli estimatori del genere. Una grande conchiglia a spirale, coperta da quello che chiunque avrebbe potuto scambiare per madreperla ma che era, in realtà, un sofisticato e di provenienza non esattamente umana, materiale che consentiva di schermare la base da ogni tentativo di individuazione. A rendere la base ancora più impenetrabile vi era la sua seconda caratteristica: come una conchiglia, essa aveva la facoltà di utilizzare l’aria contenuta all’interno di alcune sue parti per emergere in superficie o per inabissarsi. Il Cancelliere Samarlec ammirava, dall’alto del suo studio, le numerose piattaforme a livelli che componevano la struttura e, più in basso, l’ampio bacino di carenaggio, dove si stavano radunando le navi della flotta. La sua flotta, tenne precisare tra sé e sé. Non poteva essere più soddisfatto di così: quell’armata navale era stata da lui completamente rinnovata poiché la precedente, vecchia ormai di cinquant’anni, era ridotta nel numero e di dubbia efficienza ed affidabilità. Guardò di nuovo in basso e sul suo volto comparve un sorriso: centinaia di persone, a diverse decine di metri sotto di lui, lavoravano alacremente. Da secoli l’Impero di Selthon non registrava un afflusso di nuove reclute come quello che nelle ultime settimane aveva addirittura costretto il Cancelliere ad aumentare le tasse per mantenere quella grande quantità di persone. Di nuovo le sue previsioni si avveravano con successo: niente faceva presa su un giovane selthoniano quanto il patriottismo. E combattere come fedele suddito dell’imperatore in quella che aveva promesso, in mondovisione, essere, “l’ultima battaglia contro il nemico di sempre”, era un’occasione fin troppo allettante per non essere colta al volo, soprattutto quando circolavano voci che, finita la guerra e conquistato definitivamente il regno di Naren, l’imperatore avrebbe ceduto spontaneamente la sua corona a Samarlec, designandolo così, in mancanza di eredi diretti, suo successore. Naren sarebbe stata schiacciata, ne era assolutamente certo e lui avrebbe fatto la storia. Un lieve picchiettio alla porta lo richiamò al presente, a poche ore dal suo trionfo: con voce piuttosto seccata e decisamente contrariato per quell’interruzione disse: «Avanti». Un giovane, calato in una divisa di recente fabbricazione e piacevolmente curata, entrò nello studio di Samarlec. Il Cancelliere, dalla parte opposta della sala, vide
il ragazzo guardarsi attorno piuttosto imbarazzato, poi, dopo aver convenientemente emesso un piccolo colpo di tosse, si mise sull’attenti e con tono insicuro disse: «Cancelliere, ho avuto l’ordine di informarla che il divino Imperatore è appena giunto in visita. La sua mongolfiera sta attraccando alla piattaforma numero tre». Gli occhi di Samarlec si spalancarono grottescamente: non era da lui esibirsi in un’espressione di stupore, ed emise un profondo sospiro mentre la mano destra si chiudeva in un pugno serrato. La visita a sorpresa di quello sciocco poteva causargli non pochi problemi. Poi, recuperata la calma, fissò di nuovo il giovane: era ancora sull’attenti, intimorito di essere, per la prima volta nella sua vita, al cospetto di un uomo tanto importante e rispettato. Gli sorrise gentilmente, la sua voce si fece tranquilla ma risoluta: «Sarò lì in pochi istanti. Desidero che, nel frattempo, sia organizzata un’accoglienza degna del nostro amato sovrano. Riferisci immediatamente ai tuoi superiori». Il ragazzo si rimise sull’attenti ed uscì silenziosamente dallo studio, Samarlec si voltò di nuovo, questa volta verso la veduta panoramica: l’Oceano si estendeva per molte miglia marine in tutte le direzioni ma a sud, la sagoma del Parbaanam, già occupava una buona parte dell’orizzonte. Il Cancelliere sorrise mentre, a qualche decina di metri da lui, la mongolfiera imperiale si adagiava lentamente sulla piattaforma.
‡ La ridiscesa di Andrew nella cucina fu piuttosto maldestra e a tratti divertente ma, come scoprirono poco dopo i presenti, non era dettata da qualcosa di estremamente piacevole, anzi, tutto il contrario. Andrew era paonazzo in volto, gli occhi sgranati: Dovan non ebbe nemmeno il tempo di chiedergli cosa fosse successo che Andrew lo precedette: «Il globevisor ha rivelato la presenza a tre miglia da noi di navi selthoniane. Ci sono alle costole». Mark si alzò di scatto, seguito poco dopo da Greg e da Dovan. «Non possiamo azionare i motori a propulsione?» chiese poco dopo. «E a cosa ci servirebbero, genio? Siamo ancora a molte miglia dalle costa di
Naren e tra breve, motori a propulsione o meno, saremo sotto il loro tiro». Mark emise un grugnito di disapprovazione: valeva almeno la pena tentare, per come la vedeva lui. Fu Dovan a prendere in mano la situazione: salì le scale e fece cenno agli altri di seguirlo. Dietro di loro si potevano chiaramente osservare le sagome di parte consistente della flotta selthoniana. Greg, e non solo lui, iniziò a sudare freddo. Il suo potere si era accresciuto, era vero, ma non abbastanza per affrontare metà della marina imperiale. «Cosa facciamo, maestro?» chiese Deidar, di fianco, con sguardo non meno allarmato degli altri. Dovan socchiuse gli occhi, meditabondo: nemmeno la magia li avrebbe salvati da un attacco, per quanto distanti potessero essere. «Dobbiamo rendere invisibile la nave. ò l’incanto camaleo ma dobbiamo spegnere assolutamente i motori. La scia non sarà altrettanto invisibile ma almeno, se avremo fortuna, riusciremo a far perdere le nostre tracce». Poi, da dietro le spalle di Greg e Deidar, intenti ad ascoltare le parole di Dovan, emerse la voce di Andrew nel tono che, ultimamente, piaceva sempre di più a Greg: quella delle intuizioni fulminee e delle idee geniali. «Non servirà a niente, probabilmente ci avranno già individuato e da quello che so per certo quell’incantesimo non fa sparire le cose nel nulla: calcolare la nostra rotta sarà stato per loro uno scherzo». Attese qualche istante mentre gli occhi di tutti si posavano su di lui, curiosi di sapere quale fosse la ragione di quel giudizio. Sfoggiò il suo sorriso migliore mentre gli sguardi dei suoi compagni si facevano impazienti: amava tenerli sulla corda, soprattutto quando la situazione stava per diventare problematica. Lo faceva sentire importante ed indispensabile. Gli sguardi divennero minacciosi molto in fretta e il ragazzo, che si era visto sfumare troppo velocemente il suo gioco preferito, rispose a malavoglia: «Le vele della Darlidan la rendono invisibile a ogni tentativo di individuazione, basterà spiegarle, spegnere completamente i motori, che lei maestro getti il suo incantesimo e la flotta imperiale rimarrà con un pungo di mosche». Dovan parve notevolmente sollevato e lo stesso accadde agli altri: il sorriso compiaciuto di Andrew si estendeva, adesso da un orecchio all’altro. Greg, Deidar, Mark e Lisa si dettero da fare per spiegare le grandi vele dal colore
perlaceo che splendettero cangianti alla luce del sole mentre l’altro disattivava i motori. Dovan, con un ampio gesto delle braccia, coronò l’opera di copertura gettando su tutta la nave l’incanto camaleo.
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A solo poche miglia di distanza, il secondo ammiraglio della flotta imperiale e comandante del Veruna, Albireo Wessler, che aveva rilevato la presenza della nave privata del Cancelliere e che stava per informarlo, immaginando già una lauta ricompensa, rimase di stucco quando il vascello, di medie dimensioni, era scomparso da un secondo all’altro dai globevisor e, soprattutto, dalla loro visuale. L’ammiraglio picchiò il pugno sulla consolle: chiunque avesse rubato quel mezzo o era un mago oppure doveva essere piuttosto astuto, si disse, incollerito per dover rinunciare alla ricompensa e agli elogi del Cancelliere.
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Sei teste, da diverse altezze, osservavano incuriosite il globevisor della Darlidan: a quanto pare il piano di Andrew doveva aver funzionato perché le navi stavano virando, quasi tornassero indietro. Che si trattasse di una semplice missione di perlustrazione prima della guerra? Si chiese Dovan mentre vedeva le navi, segnalate da triangolini azzurri, virare verso est. Si domandò se la flotta di Selthon fosse stata radunata presso qualche isola prima dell’attacco, anche se un dubbio iniziava ad insinuarsi nella sua mente. Decise di chiarire subito quel presentimento: «Andrew, potresti visualizzare la mappa di questa zona, diciamo per un raggio di venticinque miglia?» Andrew lo guardò interrogativo, poi eseguì l’ordine: visualizzò una mappa sullo schermo della consolle, poi ingrandì fino a mostrare al maestro la porzione di Oceano che gli aveva richiesto. Dovan scosse la testa più volte mentre le sue labbra bisbigliavano: non è possibile, non è possibile, osservò Greg, di fronte a lui. «Cosa c’è maestro?» chiese Deidar non comprendendo cosa lo turbasse.
«Nessuna isola o base selthoniana nel raggio di miglia e miglia e a sud solo le terre nareniane. La distanza ha sempre reso difficile un attacco in massa verso Naren e viceversa, di solito le battaglie navali si sono sempre combattute in mezzo all’Oceano, tutt’al più a qualche decina di miglia dalle costa o dell’uno o dell’altro regno. Samarlec deve aver trovato il modo per ovviare a questo problema e ho intenzione di scoprirlo» concluse risoluto. «E Naren? Il tempo è agli sgoccioli» disse Greg con tono di protesta, cercando di mascherare la sua crescente impazienza. Ogni minuto trascorso oziosamente lo allontanava dalle verità che cercava. Dovan obiettò con forza: «E’ per il bene di Naren che voglio seguire quelle navi. Un attacco preventivo della flotta nareniana alla base verso la quale si stanno dirigendo quei vascelli potrebbe ribaltare le sorti del conflitto. Non sono dirette lontano da qui, impiegheremo solo qualche ora in più per giungere a destinazione.» disse rivolto a Greg, poi proseguì, dopo aver fatto una pausa. La sua voce divenne amara: «So di essere antipatriottico ma è la verità: desidero che Selthon venga sconfitta per il suo bene, anche se ciò dovesse significare tradire il mio popolo». Per Greg fu impossibile non cogliere la sfumatura particolare che Dovan aveva usato nel pronunciare le parole “mio popolo”: da giorni era certo che Dovan fosse preoccupato per qualcosa che lo riguardava intimamente. Lui e gli altri si erano però fatti ormai una ragione a proposito del suo mutismo e riguardo a ciò che pareva turbarlo: tutte le volte che provavano a chiedergli cosa non andasse, Dovan cambiava espressione ed un largo sorriso gli compariva sul volto mentre rassicurava il suo interlocutore, dicendo solo di pensare a ciò che li avrebbe attesi a Naren, ma di non preoccuparsi assolutamente per lui. Esattamente come stava facendo da qualche giorno lui stesso, pensò Greg. Annuendo, imitando meccanicamente gli altri, alle parole appena pronunciate dal maestro, si chiese se presto anche Dovan si sarebbe trovato, volente o nolente, a fare i conti con il proprio ato.
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Materializzarsi in superficie durante una fase di potere decrescente si era dimostrato molto faticoso, costringendolo a concedersi un po’ di riposo. La stanza nella quale era stato alloggiato era scarna ed essenziale ma non gli interessava. Dopotutto presto sarebbe dovuto ripartire per assolvere la sua missione. Cercò di pensare solo ad essa, di concentrarsi solo sull’incarico affidatogli dalla Sublime Lilith, ricacciando indietro le immagini che la sua mente millenaria si ostinava a mettergli davanti agli occhi. Lottò per qualche istante contro la sua mente, poi, sedendosi sulla branda, così diversa dall’elegante ottomana dei suoi appartamenti nel Baiamondo, lasciò che quella scena rivivesse davanti ai suoi occhi. Per un intero giorno, anche se chiamare con quel nome un approssimativo lasso di tempo, della durata di ventiquattro ore, di crepuscolo perenne era un po’ azzardato, era rimasto chiuso nella sua biblioteca cercando di trovare una spiegazione a ciò che aveva visto nelle ultime settimane: per ore interminabili aveva sfogliato distrattamente centinaia di volumi alla ricerca delle sue risposte e percorso più volte in lungo e in largo il maestoso salone, con la testa china e le mani ossute conserte. Poi, quasi scoraggiato dalla deludente ricerca, si era risolto a raggiungere l’unico che avrebbe potuto dissipare i suoi dubbi poiché il solo tra i Pari ad avere il potere di farlo: certo, sarebbe stato rischioso rivolgersi a lui, ne era più che consapevole. La Sublime non avrebbe probabilmente condiviso quella scelta ma, per una volta, avrebbe potuto contraddire il suo volere, opporsi alla sua volontà ferrea. Era uscito dai sui appartamenti, verificando più volte di non essere seguito né osservato, anche se, nel Baiamondo, non era mai certo di potersi definire solo. La vastità di quel palazzo era incommensurabile: avrebbe potuto ospitare tutti i Pari con il loro rispettivo seguito se essi l’avessero desiderato ed ancora ci sarebbero stati saloni e stanze libere per molti altri. Inoltre quella fortezza, in costante movimento, era dotata di incredibili armi difensive e di dispositivi di sicurezza grazie ai quali nessuno, non accetto, vi si sarebbe potuto introdurre. Lord Astaroth aveva percorso decine di corridoi e scale, evitando più possibile l’incontro con altri che, insospettiti dalla sua presenza in luoghi tanto lontani da quelli che di solito frequentava, avrebbero potuto farne parola con Lilith. Giunto ai piedi della Torre ebbe un fremito: la sua altezza svettava su tutte le altre torri del palazzo, quasi metafora del potere di colui che in essa vi dimorava e che da essa mai usciva. Aveva esitato per qualche istante, guardandosi attorno: probabilmente la Sublime era già a conoscenza della sua presenza in quel luogo che ella tanto detestava. Ma lui aveva dovuto sapere, anche a costo di essere punito per quell’azione.
Aveva varcato la soglia del grande porticato alla base della costruzione, la porta di pietra si era aperta da sola, lasciandolo penetrare nel dominio di Lord Mefistofel. Erano centinaia d’anni che non vi entrava e, malgrado ciò, niente al suo interno era variato o faceva percepire il minimo segno del are del tempo. Benché nessuno vi abitasse, appena ebbe varcato quella porta migliaia di occhi parvero osservarlo e seguire i suoi i fino ai piani superiori e quindi fino alla porta, oltre la quale era sicuro avrebbe trovato il suo Pari. Normalmente sarebbe stato scortese non farsi annunciare da un servo e nessuno tra i Pari avrebbe mai accettato una visita imprevista, anche se per un demone era impossibile non accorgersi della presenza di un altro suo simile. Aveva indugiato nuovamente, in quell’istante era ancora in tempo per tornare indietro e non contraddire l’ordine perentorio di non fare mai visita a Lord Mefistofel. Poi la sua sete di verità aveva preso il sopravvento e ad un comando invisibile la porta si era spalancata, rivelando una stanza spoglia, i cui muri, composti da imponenti pietre, si perdevano nel buio della sua vastità. In un angolo della stanza, vicino all’unica finestra, aveva scorto una forma oscura, più buia della notte, seduta su un trono dalle modeste dimensioni, davanti al quale vi era un tavolo, anch’esso povero e privo di ornamenti. Lord Astaroth si era inchinato frettolosamente poi, dopo che ebbe intravisto un movimento impercettibile provenire dalla forma scura, aveva alzato la testa. Il silenzio fu rotto dopo qualche istante, quando la forma parve scuotersi e trasalire. «Ben arrivato Lord Astaroth. Era molto tempo che aspettavo la tua venuta». «Lord Mefistofel, niente le può essere celato, come sempre d’altronde. Da settimane rinvio questa mia visita, immagino sia a conoscenza degli sviluppi in superficie…» aveva detto, cercando di nascondere la voce incerta, ancora non del tutto sicuro di aver compiuto la scelta giusta. La sagoma pareva avesse annuito, poi aveva ripreso a parlare: «Anche non possedendo i miei poteri, il Baiamondo è un luogo ove è impossibile tenere qualcuno all’oscuro di qualcosa. Anche se devo ammettere che Lilith fa di tutto per non mettermi a parte dei suoi piani» la sagoma si scosse, manifestando disapprovazione per il comportamento della Reggente. «Eppure tutti qui non vorremmo altro che la rinascita del nostro Signore» fece una lunga pausa. Il conflitto sotterraneo trai due Sommi Pari aveva più volte lasciato temere all’intera Helassiah, il mondo sotterraneo, che il loro signore non sarebbe mai più tornato in vita una volta che la guerra civile li avesse completamente annientati. E lui, in qualità di Araldo e da sempre devoto a Lilith, non avrebbe potuto fare altro che schierarsi dalla sua parte. Non era sicuro che molti altri tra i
Pari avrebbero imitato il suo gesto, sbilanciando così i rapporti di potere tanto difficoltosamente mantenuti per millenni. Probabilmente, in caso di guerra intestina, Lord Mefistofel e la sua fazione o almeno coloro che avrebbero scelto di polarizzarsi dalla sua parte per ottenere in cambio qualche beneficio, avrebbe finito per prevalere su quella della Sublime, instaurando un nuovo ordine nel sottosuolo. La voce del Sommo Pari lo aveva distolto da quei pensieri. «Ora dimmi, Lord Astaroth, poiché vorrei sentire ciò che ti turba dalle tue parole, non solo apprendendolo dalle Vie del Fato». Lord Astaroth aveva riflettuto un istante, cercato le parole adatte per definire il suo turbamento poi aveva parlato, lentamente, a bassa voce attraverso la sua bocca mummificata: «Nelle mie ultime missioni in superficie ho fatto un incontro particolare, qualcosa che non mi sarei mai aspettato di trovare. Un essere umano, per essere precisi, un giovane contro il quale mi sono trovato a confrontarmi e che per due volte, dimostrando un potere innaturale, mi ha sconfitto. Eppure, malgrado l’onta subita, mi sento spinto, quasi da una forza estranea a me stesso, a fronteggiarlo ancora, a cercare il confronto con il suo potere. C’è qualcosa di familiare in lui, qualcosa di antico: quando ho tentato di annientarlo la prima volta, la sua mente non corrispondeva a nessun’altra che avessi sondato con il mio potere. Un’incredibile protezione avvolge quella mente, la stessa che, una volta risvegliatasi, gli ha permesso di sconfiggermi in due occasioni». Si era fermato per cogliere qualche movimento proveniente da Mefistofel. «Lord Mefistofel, chi è quel giovane?». La sagoma, alzatasi dal suo seggio, si era voltata verso la finestra dalla quale provenivano bagliori spettrali, tanto diversi dalla calda ed avvolgente luce solare. L’appellativo di Signore del Fato l’aveva sempre segretamente divertito: tutti lo evitavano perché niente poteva essergli tenuto nascosto. Nemmeno Lilith era immune, lo temeva come un topo teme il gatto più astuto ma senza che, da parte di Mefistofel, ci fosse un intento al di là del semplice scherno. Nessuno conosceva la natura dei suoi poteri. E lui non avrebbe mai fatto niente per far sì che qualcuno potesse anche lontanamente comprenderli. «Sei cambiato Lord Astaroth ma ancora non sei consapevole di ciò. Ciò a cui hai ubbidito per millenni senza fare domande ti teme e ti controlla adesso perché consapevole del tuo mutamento. Strane sono le vie del fato e strani sono gli esseri che, con il are dei secoli, possiamo incontrare. Hai già combattuto contro lo stesso sangue di quel ragazzo, ma se in tempi lontani fosti tu il
vincitore adesso le parti si invertono: tu perdi il confronto ed egli lo vince» aveva concluso, secco. Astaroth aveva emesso un leggero grugnito: non aveva bisogno di conoscere ciò che già sapeva ma di svelare ciò che ancora non gli era chiaro. Aveva già fronteggiato un consanguineo del ragazzo e, a pensarci bene non era cosa tanto difficile a dirsi: nei secoli molti uomini erano caduti sotto Bordinger, la sua lama di ossidiana nera. Ricordarne uno in particolare non era certo facile. Il suo Pari, prevedendo i suoi pensieri, gli era giunto poco dopo in aiuto. «Credevo che di quell’uomo in particolare tu serbassi la memoria, malgrado i quasi mille anni trascorsi. Un duello formidabile, devo essere sincero, ad armi pari fino alla sua conclusione: mai umano si era battuto così valorosamente e all’altezza dei migliori dei nostri», aveva fatto una pausa, il suo tono era divenuto leggermente concitato, come se lo scontro stesse rivivendo, proprio in quel preciso istante, sotto il suo sguardo onnisciente ed egli, non conoscendone ancora il risultato, fosse indeciso per quale dei due combattenti parteggiare. «Ma ecco, infine, la svolta» il suo tono si era fatto grave e asciutto, «Uno dei due, è superfluo dire chi visto che si trova di fronte a me in questo preciso istante, si sfila la maschera e decide di porre fine allo scontro». Le iridi bianche di Astaroth erano strette nelle fessure profonde del suo cranio ossuto, qualcosa di familiare aveva rivissuto e stava rivivendo anche in quel momento nella sua mente, immagini dapprima sfuocate poi sempre più nitide avevano preso vita dalla narrazione di Lord Mefistofel. «Una lama, un singolo istante e tutto finisce, più veloce di quanto il vincitore si sarebbe aspettato da un avversario così valoroso eppure fragile nella sua umana natura», la voce del Sommo Pari aveva raggiunto il massimo, anch’egli forse rapito dal raccontare quello scontro, poi era scesa, si era fatta quasi un sussurro per poi tacere del tutto, come riassorbita dalla sagoma oscura dalla quale proveniva. «Ricordi, adesso?» aveva risposto infine, scandendo lentamente le parole. E come poteva Lord Astaroth non ricordare? Aveva avuto un sussulto poi gi occhi da socchiusi si erano fatti sgranati, increduli per la rivelazione che gli era appena giunta per bocca del Sommo Pari. La Stirpe esisteva ancora, più forte di quando governava sul mondo. Ed era questione di principio che lui finisse ciò che aveva cominciato. Improvvisamente, come se il suo incarico di Naren fosse ato in secondo piano, in parte sconvolto da quella verità così incredibile da accettare e dal
timore del cambiamento che, secondo l’infallibile Pari, lo stava attraversando, si era congedato da Lord Mefistofel e frettolosamente aveva percorso a ritroso la strada per i suoi appartamenti. Ora, poco più di sette giorni da allora, stava per mettersi in viaggio di nuovo, il suo riposo all’interno di quell’enorme base era quasi giunto al termine, attendere ancora avrebbe potuto destare dei sospetti in Samarlec, far sì che lo credesse vulnerabile e quindi una buona merce di scambio per ottenere prima ciò che desiderava maggiormente. Dall’ombra dell’unica finestra della Torre, questo Astaroth non poteva saperlo, la sagoma del Signore del Fato aveva sorriso soddisfatta. Era giunto per lui il momento di fare una visita di cortesia.
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Da due ore la Darlidan seguiva, a una distanza normalmente piuttosto azzardata, la flotta imperiale diretta verso una meta ignota ma che Dovan aveva tutto l’interesse di conoscere. Miglio per miglio aveva costantemente, coadiuvato da Andrew, monitorato la rotta dei vascelli da guerra, senza però ottenere alcuna informazione utile. L’attesa incerta iniziò a snervarlo: se si fosse sbagliato avrebbero perso solo del tempo prezioso e Greg non avrebbe di certo saputo fare a meno di ricordarglielo, lui che aveva, inascoltato, insistito per dirigersi senza indugi verso Naren. Greg fissava con occhi vacui le acque scure dell’Oceano, i suoi pensieri, tutt’altro che sotto controllo, erano liberi di viaggiare e, per la prima volta da quando erano partiti, era sicuro di non pensare a niente. Si voltò pigramente, guardando verso la consolle di comando: Andrew e Dovan erano ancora intenti a seguire la rotta della flotta e di essi scorgeva a mala pena le teste chinate. Sbadigliò, annoiato, mentre dall’altra parte della nave Deidar e Mark, per ingannare l’attesa, si allenavano con la spada: sorrise in cuor suo e sulla bocca gli si impresse un’espressione ironica. Anche cambiando disciplina d’interesse e, di conseguenza, avversario, Mark non riusciva mai a rivaleggiare e a competere veramente, quasi fosse condannato al titolo di eterno secondo. Proprio in quell’istante l’amico cadde a terra, ingannato da una mossa agile e sottile di
Deidar: indugiò per qualche istante prima di rialzarsi, la fronte sudata sopra i lineamenti marcati mentre il suo respiro si era fatto affannato. A pochi metri di distanza Deidar appariva invece fresco e riposato, quasi quel duello fosse stato per lui, abituato da anni all’esercizio delle armi, un semplice gioco. Si pentì per aver riso ironicamente di Mark e distolse lo sguardo mentre il soggetto in questione si rialzava e porgeva la mano in segno di amicizia e stima al giovane esperide: accettare una cosa del genere non doveva essergli facile eppure, malgrado ciò, metteva sempre tutto se stesso anche se consapevole di non poter aspirare né al livello magico di Greg né, tanto meno, all’agilità e alle prodezze dell’arte delle armi di Deidar. E poi c’era stata Lisa. Dopo anni di incertezza, alla fine aveva fatto la sua scelta: anche in quell’occasione Mark si era fatto da parte e lui, Greg, aveva scelto di non cogliere quell’occasione tanto desiderata per perseguire e portare a termine gli obiettivi e la missione che gli erano stati affidati. E non poteva dirsi certo che, malgrado lo storico rivale fe finta di niente, la cosa non lo fe soffrire. Greg scosse la testa e poco più in là qualcuno, che lo sapesse o meno, lo stava bizzarramente imitando. Impossibile non riconoscere i riccioli scuri della testa di Andrew che, attonito, si era allontanato di qualche o dallo schermo della consolle. Strano, si disse tra sé, non aveva mai visto l’amico in un simile atteggiamento. Si alzò, incuriosito, e lo raggiunse: nel frattempo le labbra gli si erano stirate e le sopracciglia incurvate, rendendolo scuro in volto. Qualcosa doveva preoccuparlo, era innegabile. Vedere Andrew inquieto per qualcosa che non fosse il cibo o la sua statura ridotta era un evento assai raro e Greg non era sicuro che si trattasse di buone notizie.
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Impossibile si trattasse di un errore, quelle coordinate gli si erano marchiate a fuoco nella mente nel preciso istante in cui lui e sua madre avevano ricevuto la fredda e burocratica, con tanto di firma apposta dall’illustre Cancelliere Samarlec, comunicazione della morte di suo padre. Non avrebbe mai pensato di trovarsi, un giorno, così vicino al luogo indicato
della morte del genitore, bizzarramente coincidente con quello nel quale parevano essersi fermate le navi selthoniane che, da inseguitrici, si erano fatte, a loro insaputa, inseguite. “Drammatico incidente” aveva sentenziato la lettera, “tragica fatalità” aveva detto l’emissario Imperiale che quel giorno era stato incaricato di portare la lettera e conforto, alla famiglia del “fu” tenente della Marina Imperiale, Enif Olinori. Occupato da quei pensieri e allo stesso tempo colpito dalla strana coincidenza, si accorse solo dopo alcuni istanti che, da un numero imprecisato di secondi, i cursori lampeggianti che rappresentavano i vascelli, fermatisi in quel punto, erano scomparsi dallo schermo senza lasciare traccia. Si allontanò di qualche o dalla consolle mentre Dovan, a sua volta perplesso, reimpostava la ricerca delle navi tramite il globevisor. Come poteva essere successo? si era chiesto Andrew. La flotta alla cui testa vi era l’ammiraglia Veruna che, ne era più che certo, non possedevano la tecnologia di occultamento della Darlidan, era scomparsa dalla schermata nello stesso modo in cui, verosimilmente, proprio quest’ultima era sparita degli schermi della flotta selthoniana. Un’idea insensata balenò nella mente di Andrew in quel momento, si chiese se anche a quelle navi fosse toccata la sorte di quella dove era impiegato il padre, che quel punto individuato da quelle coordinate non fosse, forse, la tana di un mostro. Non si era accorto neppure di Greg che, con sguardo indagatore e voce preoccupata, gli aveva già chiesto due volte che cosa non andasse. Quando, pochi istanti dopo, le grida di richiamo a guardare l’Oceano di Deidar e Mark gli fecero temere seriamente l’esistenza di qualche mostro marino, si risolse, senza poter fare altrimenti, a guardare a sua volta. Quando vide ciò che prima di lui aveva attirato l’attenzione degli altri due compagni quasi non credette ai suoi occhi: un mastodontico guscio madreperlaceo si ergeva a poche migliaia di metri dalla loro posizione, in prossimità del quale le navi della flotta imperiale, parevano sassolini. L’espressione di Dovan nel costatare la stessa apparizione si fece dapprima meravigliata poi sconcertata mentre il guscio cangiante apriva la sua spira per fare entrare la flotta: i pugni gli si strinsero involontariamente mentre un pesante senso di rassegnazione iniziava ad insinuarsi tra le pieghe della sua mente. La chiara appartenenza selthoniana della struttura rivelava, una volta ancora, la spiccata abilità di Samarlec nel tenere nascosti i propri progetti, soprattutto quelli potenzialmente più pericolosi. Per chi, selthoniano o meno, avesse cercato di opporsi al suo volere, naturalmente. Quella struttura in mezzo alle acque, a meno di un giorno di navigazione da Naren, controbilanciava efficacemente il
problema dell’armata di sopportare per troppo tempo, senza alcun appoggio logistico, un attacco. Per questo Samarlec era così sicuro di schiacciare una volta per tutto il Regno di Naren: con il suo ingegno era riuscito a coprire quell’unica falla e, in un momento di malcontento come quello che incombeva sulla popolazione di Selthon, una vittoria del genere gli avrebbe dato un’autonomia senza pari, addirittura garantito, e questa era la peggiore delle ipotesi ma non per questo la meno possibile, la sua prossima investitura a Imperatore. Fremente dalla rabbia, fu tentato dallo scagliare un pugno contro lo schermo della consolle poco distante ma poi abbandonò quel proposito, preferendo, al contrario, suggerire a Andrew di reimpostare la rotta, questa volta diretta verso Naren. Con un po’ di fortuna sarebbero giunti a Naren per la tarda mattinata seguente, il giorno prima della scadenza del proclama del Cancelliere. Andrew ci mise un po’ a comprendere l’ordine, forse era distratto da quell’immensa opera, pensò Dovan che aveva iniziato a comprendere che l’interesse principale del migliore amico di Greg fossero le macchine e in special modo le navi. Poco dopo la nave eseguì una lieve virata e la prua puntò nuovamente verso sud: Greg si unì agli altri, tutti già raccolti intorno a Dovan. Pensandoci bene non era stata un’idea sbagliata compiere quella piccola deviazione, si disse, mentre il maestro spiegava che entro un giorno sarebbero giunti a Naren, sempre che potesse servire a qualcosa avvertire la popolazione che, proprio sotto il loro naso, una base sottomarina avveniristica nascondeva l’intera marina da guerra selthoniana, pronta a radere al suolo il loro regno. Scosse la testa impercettibilmente ma non poté giurare che Dovan, con uno sguardo fugace, non se ne fosse accorto. Anche se ciò fosse avvenuto, non diede segno di averci fatto caso e si ritirò nella sua cabina per meditare. Andrew, accusando un forte mal di testa, dopo aver inserito il pilota automatico, imitò il maestro. Fin troppo strano quel duplice ritiro, disse tra se Greg, ancora determinato a capire che cosa avesse tanto turbato l’amico. Poi, senza idee sufficienti per trovare una risposta soddisfacente alla domanda, a meno di non rivolgerla al diretto interessato, si sedette e riprese ad osservare le onde dell’Oceano: Naren si faceva, finalmente, sempre più vicina e con essa, la guerra. Si alzò quindi, quel pensiero non gli consentiva di occupare ancora il tempo ad osservare le acque, benché ciò accrescesse il suo legame con la magia, non senza però dare un’ultima occhiata a quest’ultime prima di iniziare i suoi allenamenti. Nel riverbero del sole mattutino, in lontananza, scorse un bagliore
ed un brivido gli corse lungo la schiena. Qualcosa di malvagio si stava muovendo e sicuramente sarebbe giunto a Naren prima di lui.
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Capitolo II
Verso Naren
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In poco meno di un’ora tutto era stato sistemato per accogliere degnamente sul Leviros sua Altezza Imperiale Levian Dorhanaelius VII: dai tre Grandi Ammiragli fino ai marinai semplici, tutti avevano riassettato le proprie uniformi e lucidato i bottoni o le mostrine e poi, ordinatamente, si erano disposti lungo la piattaforma d’atterraggio formando file compatte e serrate. Per quanto la piattaforma fosse spaziosa non poté accogliere che una minima parte degli occupanti della base, così fu dato l’ordine che le altre piattaforme fossero poste tutte attorno affinché tutti gli uomini vi prendessero posto: lo spettacolo a cui avrebbe assistito l’Imperatore scendendo dalla propria mongolfiera sarebbe stato incredibile e senza pari, tanto che, sebbene di natura privata e non propagandistica, si sarebbe trattata della più grande manifestazione di forza che l’Impero avesse dimostrato in più di un millennio di gloriosa storia. Samarlec, che di tutto ciò era stato la mente, si trovava a pochi metri dalla porta della mongolfiera, più impegnato a cercare una risposta plausibile per non aver avvertito l’imperatore di quella sua iniziativa piuttosto che onorato della sua presenza. Non poteva negare di essere preoccupato per quell’imprevisto: anche se ormai era lui il padrone dell’Impero, seppur nominalmente, ma pur sempre tale agli occhi delle migliaia di sudditi radunati in quel luogo, il vero signore restava Levian Dorhanaelius Aidalar VII. Se avesse sconfessato pubblicamente quel gesto, lui non avrebbe potuto fare niente per negare quell’incredibile evidenza, per non parlare del polverone che si sarebbe potuto sollevare in seguito a quella vicenda, rallentando non poco l’adempimento della sua missione e, conseguentemente a ciò, la riscossione della sua completa ricompensa. Il giovane Cancelliere strinse i pugni mentre l’augusto sovrano, con i solenni e misurati, scendeva le scalette della sua mongolfiera, seguito da alcuni tra gli uomini che egli stesso aveva incaricato di sorvegliare il monarca, con l’ordine di tenerlo assolutamente confinato nel suo palazzo di Pian del Sole fino a quando la
guerra contro Naren non fosse praticamente già vinta. Uno scroscio di applausi sommerse la discesa dell’Imperatore e da tutte le piattaforme si levarono cori unanimi di saluto verso il divino figlio di Leviathan: ingobbito dall’età e non esattamente in forma a causa della lunga vita ata in modo sedentario, colui che almeno in teoria, possedeva la più grande potenza militare esistente sulla faccia del pianeta, avanzava dispensando bonari saluti verso i suoi sudditi e guardandosi attorno annuendo così sorpreso da quell’enorme struttura che per poco l’ingombrante corona non gli cadde di testa. I pensieri di Samarlec lo abbandonarono per un istante per lasciargli vedere quello che altri non era che un semplice uomo, raddrizzarsi sbadatamente la Corona Imperiale, quasi fosse solo un peso formale, un inutile fronzolo che avrebbe preferito non indossare. Il disprezzo per quell’uomo scomparve per un attimo quando ricordò a sé stesso che, presto, molto presto, quella corona non sarebbe stato più un cruccio per Levian Dorhanaelius VII ma il simbolo di una rinnovata istituzione Imperiale sotto la guida dell’uomo più valido della nazione: lui. Cercò di allontanare, almeno per il momento, quei propositi futuri, per prestare attenzione al presente e all’accoglienza di colui che, ancora per qualche tempo, sarebbe stato il suo diretto ed unico superiore: sfoggiando uno delle sue migliori espressioni solenni si inchinò profondamente al cospetto del monarca, aspettando, come da etichetta, che quest’ultimo gli desse il consenso per alzarsi e rivolgergli la parola. «Mio caro Samarlec! I suoi prodigi non hanno mai fine e mai mi stancherò di ringraziare il giorno in cui le concessi la prima udienza a palazzo!» «Vostra Maestà, a nome della Marina Imperiale vi do il benvenuto a bordo del Leviros, sono certo che qualora volesse ispezionare la struttura troverà tutto di suo…» disse Samarlec sempre restando chinato come il più fedele dei sudditi di Selthon. «Prego, si alzi pure, cosa sono tutti questi convenevoli? Sono certo che potremo rimandare a più tardi la visita di questa, questa…» cercava di trovare le parole per nominare quel luogo, e sbrigativo allargò le braccia come per abbracciare l’intera costruzione, poi continuò. «Abbiamo molto da discorrere a proposito di questioni della massima importanza, non è vero?» l’intonazione dell’imperatore
si era fatta lievemente di rimprovero: il Cancelliere ebbe un attimo di incertezza poi si alzò, avendo cura di mascherare il suo timore con un ampio sorriso. «Certamente vostra maestà. Comprendo benissimo, ma di sicuro vostra Maestà vorrà prima are in rassegna gli ufficiali della Marina» rispose il Cancelliere, nella speranza di guadagnare un po’ di tempo affinché l’imperatore potesse, impressionato dall’immane organizzazione, essere meglio disposto ad accettare le sue spiegazioni. L’imperatore si voltò e guardò il suo interlocutore dritto negli occhi: non c’era niente di bonario in quegli occhi, anzi, brillavano di risoluzione e determinazione. Uno sguardo che non si addiceva propriamente all’imperatore in questione ma che, sicuramente, era una caratteristica peculiare all’interno della famiglia e chi più chi meno, aveva dato prova di possederla. «Anche se non siamo a Selthon sono io che comando in questo luogo sopra ogni altro ufficiale. Desidero essere scortato nei miei appartamenti e una volta lì le concederò udienza, Samarlec: ma la prego, da ora in poi, di ricordare che i miei ordini non si discutono». Il Cancelliere deglutì e, con riluttanza, fu costretto ad obbedire e a disporre affinché i suoi appartamenti privati fossero preparati per accogliere l’imperatore: le premesse non erano delle migliori e se qualcosa fosse andato storto e fosse stato costretto a recedere dalla sua iniziativa sarebbe incorso in serie conseguenze. Il suo già pessimo umore peggiorò notevolmente e per poco non reagì bruscamente quando, dalle file, fu raggiunto dallo stesso giovane che, appena qualche ora prima, l’aveva avvertito dell’arrivo dell’imperatore. Provò un moto di rabbia verso il ragazzo ma poi, venendo a conoscenza del fatto che recava due messaggi, uno dei quali della massima importanza, decise di rimandare qualsiasi esplosione di rabbia. Il giovane in questione pareva aver inteso la difficile situazione nella quale versava il primo ministro dell’Impero o almeno soltanto adesso comprendeva il compito ingrato a cui era stato delegato: se la notizia della massima importanza si fosse rivelata, agli orecchi del Cancelliere, una pessima notizia, lui avrebbe verosimilmente subito le ire di quest’ultimo. Con voce incerta riferì la notizia con meno priorità “il suo ospite ha da pochi
minuti abbandonato il Leviros” e Samarlec, apprendendola, parve in minima parte, sollevato. Poi, dopo un paio di sguardi piuttosto eloquenti da parte del Cancelliere, il giovane si decise ad informarlo della seconda notizia, quella etichettata come “ di prioritaria importanza”. «Signore, gli uomini del Veruna hanno avvistato, a poche miglia da qui, il vascello con codice di identificazione DRLDN001 e riferiscono che esso, presumibilmente dopo essere stato individuato, è riuscito a sparire dai globevisor di tutte le navi simultaneamente». In qualsiasi altra situazione avrebbe detto al giovane di considerarsi consegnato per una settima per aver scambiato l’ordine di priorità delle due notizie ma, in questo caso la notizia appena appresa era così entusiasmante che dimenticò quel proposito e congedò con un cenno sbrigativo il ragazzo, che, a sua volta sorpreso, si allontanò in fretta prima che il Cancelliere avesse il tempo di ripensarci. Mentre entrava in uno degli ascensori in vetro per dirigersi a quelli che erano stati i suoi appartamenti per l’udienza con l’imperatore, Samarlec sorrise in direzione dell’Oceano e alla sua immagine tenuemente riflessa e parzialmente deformata nel vetro della cellula ascensoria. La presenza delle sue vecchie conoscenze rendeva ogni aspettativa più eccitante, soprattutto se si trattava di chiudere in maniera definitiva una partita che durava da fin troppo tempo.
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Il giorno dopo la partenza della Darlidan dal porto di Renodia, la nave e il suo equipaggio si erano trovati nel bel mezzo di una burrasca che, almeno a detta di Andrew, se solo Dovan gli avesse dato ascolto, avrebbero potuto evitare con facilità. Ma su quell’imbarcazione, era ormai risaputo da tutti, Andrew, almeno in fatto di rotte, aveva sempre torto. Così, dopo che il vento ebbe raggiunto una potenza tale da rendere difficile restare in piedi sul ponte, si spostarono tutti sotto coperta. A quel punto accadde l’impensabile: Dovan affidò al contrariato secondo navigatore il controllo della nave dalla consolle di sottocoperta. Durante quell’attesa, da quasi tutti, tranne Andrew naturalmente, gli occupanti
della nave considerata snervante, Dovan aveva chiesto a Greg di parlare a quattrocchi. Data l’impossibilità di dedicarsi agli allenamenti che tanto gli premevano e più propenso quindi a stare nella sua cabina per raccogliere le energie, l’allievo era piuttosto riluttante all’idea della chiacchierata con il maestro. Lo seguì nella cabina che, come non era difficile intuire, era quella che il Cancelliere aveva fatto preparare apposta per sé e che rispecchiava perfettamente i suoi gusti: quando vi entrò la sua vista fu sommersa dai colori accesi delle stoffe variopinte che rivestivano i muri e da un arredo esuberante ed eccessivo che culminava con un immancabile letto a baldacchino con le finiture in lamina d’oro che, vincendo l’ardua sfida con gli altri bizzarri mobili della stanza, torreggiava maestoso nel suo centro, quasi come se da esso si irraggiasse tutto il resto. Non vi era mai entrato poiché, come a Selthon, anche sulla Darlidan vigeva l’assoluto divieto per chiunque di entrare nella stanza di Dovan. Si chiese adesso come fe il suo maestro, abituato alla sobrietà dell’umile casa al di fuori delle Porte di Selthon, a are del tempo in un luogo simile. Il maestro gli indicò un tavolo in legno abilmente decorato e due sedie di uguale fattura e gli pregò di sedersi. Meccanicamente l’allievo si sedette mentre l’altro, avvicinatosi a una libreria, stranamente l’unico elemento sobrio e proprio per questo invisibile, dell’ambiente, ne estraeva un tomo. La copertina era spessa e lucente, doveva essere piuttosto nuovo o particolarmente ben curato e, trattandosi di qualcosa appartenuto a Samarlec, anche di prezioso. Non recava titolo sulla copertina ma era sicuro che non si trattasse di nessuno dei libri che avesse visto in precedenza. Molti dei libri di Dovan trattavano di storia o di magia e spesso, soprattutto agli inizi dell’apprendistato, li aveva utilizzati per spiegargli le basi dell’arte. L’ultima volta che aveva osservato un libro era il giorno prima della sua partenza da Selthon ed era lo stesso che, più volte, aveva osservato di nascosto. «Come avrai inteso questo era l’alloggio di Samarlec e questo libro, di conseguenza, fa parte della sua libreria personale, almeno di quella che adora portare con sé nei suoi spostamenti» Greg aveva indugiato sul libro, il maestro ne aveva intercettato lo sguardo e indovinato i suoi pensieri. «No, non si tratta di un libro di storia: un uomo come Samarlec, convinto che sia necessario
dimenticare il ato per poter agire con spregiudicatezza nel presente e condizionare il futuro non può apprezzare i libri di storia». «Non devo temere nuove rivelazioni, quindi. O aspettarmi che lei mi chieda qualcosa a proposito del canto» rispose distrattamente, distogliendo l’attenzione dal libro. Dovan aveva sospirato, poi con sforzo aveva proseguito: «Non è più mio compito rivelarti il ato, anzi, non lo è mai stato, se proprio devo essere sincero. È stata solo una forzatura degli eventi quella che mi ha portato a parlare in momenti non proprio ideali. Mi sono reso conto solo da poco quanto sia impossibile sperare che un piano architettato millenni fa possa essere ritenuto valido tutt’ora, ignorando le complesse variabili del comportamento umano. Mi rincresce anche che tu non voglia ancora dirmi cos’hai sentito in quel canto e che pare abbia potuto turbarti tanto» sospirò di nuovo. «Non era di questo che volevo parlare, sono argomenti che nemmeno io conosco appieno: se gli Angeli Dorati hanno voluto che così accadesse, così sia. Anche se non credo che avessero programmato la nuova arma schierata da Samarlec.» i suoi occhi vagarono per la stanza per un attimo, poi tornarono sul libro. Il tono della sua voce era piuttosto risentito e Greg fu dispiaciuto che quella sua semplice affermazione avesse potuto colpire così profondamente il suo maestro. «Mi spiace, non sta certo a lei giustificare quel piano. A lei e al resto dei pochi alleati che possediamo è affidato il compito di interpretarlo al meglio, non è vero?» aveva detto Greg. Dovan era rimasto per un istante interdetto, poi annuì lentamente, dovendo riconoscere l’acutezza delle parole dell’allievo. «Immagino che tu abbia avuto modo di riflettere su ciò e non sbagli. Mi vedo costretto ad ammettere che, tranne per alcuni capisaldi, procediamo alla cieca. Paradossalmente, proprio a noi manca una visione d’insieme completa degli eventi. Conosciamo il nostro nemico ma non le sue risorse: non sapevamo niente della base marina e credo non sia la sola cosa a noi sconosciuta. Le incertezze derivano da ciò: siamo uomini ma il destino ha voluto che seguissimo un cammino trasversale, diverso da quello che, forse, ci era stato predestinato» Dovan si era incupito, seguito immediatamente da Greg. Entrambi, in quell’istante, provavano la medesima cosa ma solo uno dei due era al corrente di ciò che provasse l’altro. «Ed è proprio per questo siamo portati all’errore» terminò Dovan.
Greg annuì, ancora negli occhi la scena di quando, durante l’assedio di Renodia, il suo maestro l’aveva rinchiuso in un incantesimo muro, l’halos major, per impedirgli di combattere e di mandare all’aria il piano sul quale invece adesso mostrava tanta perplessità. Nel frattempo Dovan aveva sfogliato alcune delle pagine del tomo per poi fermarsi, dopo qualche istante, su una in particolare. Ed era proprio su quella che desiderava che Greg prestasse attenzione. Ruotò il volume ed inclinò il libro, in modo che l’altro riuscisse a leggere quello che c’era scritto sulla pagina. «Incantesimi superiori» aveva declamato a voce alta, accogliendo l’invito di Dovan. Lesse velocemente alcuni capoversi scritti in caratteri non molto chiari, più che altro zeppi di parole ricercate e non parlavano chiaramente di ciò che invece dovevano essere l’argomento di quel capitolo. «Non capisco maestro, cosa dovrei fare con un libro di magia? Che aiuto può darmi un volume pieno di paroloni che non spiegano niente? Legga qua “…si deve però guadare che non vada il presente libretto Tesoro di Segreti, in mano di sciocchi…imperochè niun arte, e niuno esperimento di qualsivoglia condizione, potrà esigere il desiato fine, e se tutti quelli che faranno l’arte di mago, e non avranno in loro la volontà e la facoltà, in questa opera certamente non potranno vedere la verità o successo di cosa alcuna…”» aveva fatto una pausa, cercando di far trasparire da suoi occhi, quel giorno molto più vicini al castano che al consueto verde scuro, la sua perplessità riguardo quelle parole. «Le trovo vuote e prive di senso, se devo essere sincero, maestro» e, incrociando le braccia, la sua espressione si era fatta corrucciata, pensando tra sé e sé che se era un libro ciò che Dovan voleva mostrargli avrebbe fatto meglio a lasciarlo riposare nella propria cabina. Il sorriso bonario, che tanto spesso era comparso sul volto di Dovan, non aveva tardato a seguire di qualche istante le parole e la posa assunta dall’allievo. «È proprio qui che ti sbagli. Malgrado tu lo abbia letto chiaramente pochi istanti fa, devo ricredermi sulla tua argutezza. Per puro caso, hai scelto forse il capoverso che io stesso avrei adoperato per spiegarti l’utilità di questo libro: “…se tutti quelli che faranno l’arte di mago, e non avranno in loro la volontà e la facoltà, in questa opera certamente non potranno vedere la verità o successo di cosa alcuna”. Non sono le parole che fanno la magia ed un mago, Greg, dovresti averlo imparato. Si deve andare oltre l’apparenza per rivelarci ciò che, a prima vista, può parerci occulto, sconosciuto, addirittura vuoto, inutile. La magia è
verità: in essa vi è vita, potere, saggezza, bene e male. Non vi è spazio per l’illusione, quella è attribuibile solo ai buffoni di corte, a coloro che mistificano la magia, la rendono oscura ai più, la infarciscono di rituali obsoleti e formule complicate per far calare un muro tra loro e gli spettatori dei loro trucchi da due corone. Questo libro è frutto di ciò: malgrado i termini arcaici esprime un messaggio chiaro e vivissimo, allontana dalla sua consultazione tutti coloro che non siano mossi da altro fattore che la falsità. È proprio con questo avvertimento che richiama invece a sé le persone che credono fermamente nel potere della magia» voltò delicatamente la pagina, ed essa scivolò sull’altra come un velo. «Capisci adesso?» Greg aveva rimuginato un attimo. La magia è verità, ripeté tra sé. Le forze che, prestandogli il loro potere, gli consentivano di sferrare incantesimi esistevano davvero, certo, non sul piano materiale dove tutti gli uomini vivevano. Anche se non riusciva a vedere altro che il prodotto del loro potere, dato dall’unione della loro essenza con la sua duplice natura, materiale e spirituale, essi esistevano, erano veri. Quel libro e le conoscenze in esso contenute lo avrebbero portato alla verità ed a una comprensione migliore della magia. Aveva annuito e poi soggiunto: «Che tipo di incantesimi vuole che apprenda?». «Mi accontenterei che tu riuscissi a padroneggiare adeguatamente gli incantesimi della quarta catena entro il nostro arrivo a Naren. È un’impresa ardua, devo confessartelo: io ci ho impiegato quasi un mese per apprendere il primo ma allora…» i suoi occhi avevano puntato verso il soffitto, come se cercasse di ricordare avvenimenti indefinitamente lontani nel tempo: «… frequentavo i ben altri ambienti dell’Accademia Imperiale di Selthon e non dovevo certo fronteggiar pericoli più grandi di qualche Aquila delle Torbe o delle Falci di Calver. Ma questo non è certo il tuo caso e nemici infinitamente superiori attendono di misurarsi con te» aveva detto, alludendo così alle parole pronunciate da Lord Astaroth prima di svanire nel cielo di Renodia. Non che ce ne fosse stato bisogno: poco dopo la loro partenza Dovan gliele aveva riferite, dandogli, di conseguenza, un impulso ancora maggiore ad allenarsi. «Ma io riesco già ad evocare gli incantesimi della quarta catena. A Renodia l’ho fatto, credo per due volte. La prima nella foresta quando ho congelato l’Albero dei goroi, poi contro Lord Astaroth…» aveva lasciato a metà la frase, Dovan aveva iniziato a scuotere percettibilmente la testa. Ciò lo infastidiva ma
dopotutto lui era l’allievo e l’altro il maestro. «Tu non hai evocato gli spiriti della quarta catena, non consapevolmente almeno. Hai intuito la loro esistenza e loro, attratti dalla tua forza hanno deciso autonomamente di cederti parte del loro potere. Ma il risultato non è stato sufficiente, come potrai ben ricordare dallo scontro con il Pari. Anzi, quell’iloraba, l’incantesimo della quarta catena delle acque, ha prosciugato quasi interamente la tua energia, lasciandoti praticamente inerme e certamente sconfitto dal potere smisurato di quel demone». Greg aveva replicato, in parte offeso da quell’affermazione ma in parte ben consapevole del fatto che, senza attingere a quella sua “riserva segreta”, così dentro di sé aveva preso a chiamarla, non sarebbe stato possibile per lui avere un confronto alla pari con Astaroth: «Ma quando ho congelato l’Albero non mi è successo niente!» «In quel momento non eri in pericolo e hai avuto tutto il tempo per rilassarti e per disporre meglio delle tue energie. Ma in una situazione di emergenza come quella del duello contro Lord Astaroth non ti è stato possibile fare ciò». «Ma senza usare il potere che proteggo non potrò mai rivaleggiare alla pari con nessuno dei Pari, ci rifletta maestro». Dovan era rimasto un attimo in silenzio, pensieroso. «Non aggiungere altro» aveva risposto poco dopo «capisco dove vuoi portare la discussione. Vuoi sapere quanto ancora dovrai attendere prima di poter fare pieno uso di ciò che proteggi. Ma non è questo il punto nodale del nostro incontro. È un cammino lungo e periglioso il tuo, il nostro anzi, e Leviathan solo sa cosa ti riserva la fine del cammino che è stato tracciato per te» aveva emesso un profondo sospiro. La mano di Dovan si era poggiata sulla spalla dell’allievo e l’aveva stretta amichevolmente, cercando di infondergli sicurezza e appoggio. «Porta pazienza Greg e tutto, prima o dopo si rivelerà con la sua verità, proprio come l’arte magica che da mesi apprendi» aveva concluso, conciliante. Non aveva atteso che l’allievo rispondesse o che controbattesse quell’affermazione e aveva interpretato, non poi tanto a torto, quel silenzio come un tacito assenso ad iniziare quella lezione. Lasciò che le sue dita lunghe scorressero per un attimo sulla pagina per poi girarla. La nuova pagina era radicalmente diversa da quelle precedenti e aveva
colpito decisamente l’attenzione di Greg: un’immagine colorata e vivida ne riempiva la metà di sinistra. Larghe spire attorcigliate, ricoperte da numerose branchie e altrettante pinne, una testa affilata, con appendici membranose e due occhi rossi come la brace. In alto, in caratteri svolazzanti, opera di un abilissimo amanuense, era scritto probabilmente il nome della creatura, seguito dall’incantesimo. “Ichtion o de Iloraba”. Fu come se una luce si fosse fatta piano, dapprima fioca e poi più forte, per illuminare, portandovi chiarezza, la mente di Greg. «È questo lo spirito che ho invocato a Renodia, non è vero?» chiese a Dovan, che, osservandolo di là della scrivania, annuì. Il pomeriggio ò velocemente e sotto i suoi occhi scorsero anche le miniature di Forneis del Fuoco e di Barbas del Tuono, seguite dalle accurate descrizioni sia di Dovan che del libro. Per dire la verità Greg non era riuscito a progredire molto in quelle ore, sia a causa dei ripetuti movimenti dei marosi che sballottavano la nave sia perché, in un ambiente chiuso e limitatamente spazioso come quello sarebbe stato rischioso evocare il potere di entità così grandi. Fu solo in quel momento che Andrew, con tocco lieve, annunciò la sua presenza alla porta, dicendo che la tempesta era ormai ata da qualche ora e che lui e gli altri attendevano Dovan e Greg per la cena. Dovan disse ad Andrew di rimando che cominciassero pure a preparare la tavola, loro sarebbero arrivati immediatamente. Greg si alzò e poco dopo lo fece anche il maestro che, chiudendo il libro, lo consegnò a Greg. «Desidero che tu lo legga prima di dormire e che mediti sugli spiriti dei quali da domani inizierai ad invocare il potere». Greg aveva risposto affermativamente, poi sulla porta, il dubbio che si era insinuato nella sua mente trovò forma verbale: «Ma se gli spiriti non si trovano sul nostro pano materiale, come ha fatto Dalagoth, sebbene mi disse che appartiene anche lui ai geni delle acque, ad apparire nella realtà e a proteggerci dall’attacco delle Torri di Cristallo?» Dovan era rimasto stupito da quella domanda, poi aveva risposto :«Certi spiriti, i più potenti, vantano un’esistenza anche in questo piano della creazione tanto è forte il loro potere spirituale. Per invocarli, per reclamare la loro esistenza corporea occorre un’energia più che eccezionale. Ma avremo modo di riparlarne più avanti, Greg. La cena ci aspetta». Così dicendo aveva infilato la porta, dirigendosi verso la cucina, seguito, dopo aver depositato il libro nella propria cabina, dal suo allievo.
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Le stanze appartenute a Samarlec furono preparate con incredibile solerzia per accogliere i numerosi bagagli al seguito di Levian Dorhan VII, Imperatore di Selthon e Signore dell’Ovest. Numerosi marinai si occuparono di tale oneroso e soprattutto delicato incarico, fatta eccezione per un unico bagaglio a mano, una sacca di velluto celeste coperta di numerosi disegni ricamati con fili d’oro e d’argento che l’imperatore stesso provvide a trasportare gelosamente. Samarlec non poté che essere incuriosito della sacca ma fu solo quando, dopo essersi fatto doverosamente annunciare, che riuscì a conoscerne il contenuto. L’imperatore sedeva, comodamente adagiato su una pila di cuscini predisposti appositamente, dietro la scrivania che fino a solo qualche ora prima gli era appartenuta. Il globevisor, di norma continuamente in funzione, era adesso spento e la sua superficie era divenuta di un opaco colore madreperlaceo. Molti degli oggetti che avevano adornato la sua ex scrivania giacevano a qualche metro di distanza in un angolo, ammassati alla bell’e meglio. Il Cancelliere digrignò, non tanto a torto, i denti bianchi e perfetti: la sollecitudine dimostrata nel preparare le stanze per l’arrivo dell’imperatore era toccata anche allo sgombero suoi oggetti personali. Qualcuno, poteva giurarlo, l’avrebbe pagata cara: molti di quegli oggetti erano per lui di inestimabile valore sia affettivo che finanziario, oggetti che, in gioventù, aveva raccolto nei suoi viaggi attorno al pianeta. «Prego, caro Samarlec, si avvicini pure, prenda posto» gli disse, indicandogli una sedia posta di fronte alla scrivania, notevolmente diversa da quella che occupava abitualmente. Non riuscì a fare a meno di osservare di nuovo la superficie dello scrittoio: stoffe preziose ricoprivano il cristallo puro che lui tanto aveva ammirato al momento della commissione, nascondendolo completamente. E, torreggiante sopra i numerosi broccati, vi era la misteriosa sacca azzurra. «Maestà se volete discutere del mio progetto di guerra vi prego prima di ascoltare i pareri del mio gruppo di consiglieri e anche il parere dei Grandi Ammiragli della flotta che, senza alcuna indugio, non hanno esitato a…» non avrebbe mai pensato di dover, un giorno, giustificare davanti a quel burattino le
proprie azioni. Soprattutto se in gioco c’era qualcosa di più del suo prestigio. La poltrona su cui sedeva pareva instabile e traballante. Si augurò che si trattasse unicamente di un difetto di fabbricazione e non dei cattivi presentimenti riguardo il futuro della propria posizione istituzionale. Ma l’imperatore, con un secco gesto della mano, interruppe il flusso delle parole e dei pensieri del Cancelliere. Indicò il sacco. «Desidero che esamini attentamente il contenuto di questa borsa e mi dica cosa ne pensa» disse con voce imperiosa e controllata. Samarlec fremette: se si fosse trattato delle prove cartacee, a suo tempo debitamente e personalmente distrutte, dei numerosi prelievi al tesoro imperiale per la costruzione del Leviros, per lui sarebbe finita. Con mano tramante afferrò la sacca, ne slacciò l’estremità superiore e lasciò che il contenuto si riversasse sulla spaziosa scrivania. Decine di fogli di pergamena ricoprirono i tessuti, nascondendone i preziosi ricami. Ne prese uno e, con timore, lo esaminò: era scritto in una calligrafia minuta ed intricatissima, difficilmente decifrabile benché quasi sicuramente si trattasse di Thalassiano Antico, forma arcaica del corrente Thalassiano, le ultime vestigia di un ato ormai sepolto da millenni. Strano, pensò poi tra sé: i documenti dell’amministrazione imperiale erano scritti in Thalassiano corrente, non in arcaico. Qualcosa non quadrava, si disse, mentre notava, con stupore, che le pergamene erano di recentissima fabbricazione. Dunque non si trattava nemmeno di elementi d’archivio. Inarcò le sopracciglia di pochi millimetri e gli occhi andarono per un attimo da un capo all’altro della pagina. Poi, dopo qualche istante, si decise ad alzare il volto da quella carta, e con sguardo tra l’incerto e il frainteso, cercò gli occhi del sovrano. Quest’ultimo, abbandonata la seduta accomodata, si era allungato sulla scrivania, giungendo a poco più di una decina di centimetri dal volto del Cancelliere. Il suo viso tradiva a mala pena la trepidazione: sembrava che fosse in attesa di essere giudicato per il suo operato. Per qualche istante Samarlec fissò alternamente il foglio, che ormai si era incollato alla sua mano, e lo sguardo speranzoso dell’augusta maestà, poi, quasi nauseato, comprese. La domanda che poco dopo gli rivolse, impaziente di giudizio, l’imperatore, confermò in pieno la sua scoperta: «Allora, mio fido Cancelliere, cosa ne pensa del proemio della mia opera somma?» Samarlec, da sempre auditore prediletto, inutile dire che egli non volesse
assolutamente considerarsi tale, per le sue composizioni, represse a stento sia un respiro di sollievo che l’ennesimo conato di vomito, reazione spontanea ed estremamente fastidiosa che si ripeteva con tragica puntualità tutte le volte che l’imperatore sfoderava penna e pergamena. Sorrise, avendo cura di tendere al massimo labbra e muscoli del viso, poi, con assoluta falsità, disse: «Magnifico Maestà, veramente magnifico». L’imperatore al quale solo la rigida etichetta impedì di salire sulla scrivania e di dimenarsi per l’approvazione appena ricevuta, si esibì in un larghissimo e gioviale sorriso, per poi rimettersi comodamente seduto. Poi il suo volto largo e paffuto malgrado l’età, indice di una vita ata nell’ozio, divenne corrucciato: «Ero molto dispiaciuto, all’inizio almeno, del fatto che voi non mi aveste avvertito dei suoi piani. Ma immediatamente dopo è nata in me l’ispirazione per il Poema che entrerà nella storia, splendendo sopra tutti gli altri autori dell’antichità» la sua voce si fece carica di enfasi e una luce sfolgorante brillo nei suoi occhi, persi nella contemplazione della sua opera. Se avesse potuto avrebbe desiderato far notare all’altezza imperiale che le sue composizioni erano divenute zimbello presso tutte le corti del pianeta. Nessuno ignorava l’attitudine dell’Imperatore di Selthon e nessuno poteva fare a meno di deriderla: per un Cancelliere convivere con un’ombra del genere poteva dimostrarsi lesivo alla propria immagine internazionale. «E, mi dica, Maestà, vista l’enorme pericolo della guerra che incombe, per quale motivo siete giunto qui? Ritengo che la vostra divina persona debba essere mantenuta sana e salva» disse Samarlec con riacquisita sicurezza. L’imperatore assunse un’espressione supplicante: «Avrei potuto scriverlo dovunque ma, se lei me lo concede, vorrei partecipare in prima persona alle azioni di guerra, vorrei essere in prima linea per assistere allo spettacolo». Samarlec era sul punto di perdere le staffe ed obbligare, anche con la forza, l’imperatore a fare immediatamente ritorno a Selthon. Poi, nella sua mente, iniziò a formarsi un progetto ardito: forse il momento di rimettere tutti i conti era ormai giunto. La corona era ormai prossima, questo inaspettato cambiamento dei piani avrebbero reso lo spettacolo più entusiasmante. Le sue labbra si stirarono in un larghissimo sorriso, la voce divenne mielosa e accondiscendente: «Maestà, come vostro umile servo non posso altro che acconsentire alla vostra richiesta.
Sarò lieto di godere della vostra presenza mentre dirigo le azioni di guerra. Vi assicuro che il poema sarà ricco di colpi di scena sensazionali». Si esibì, alzandosi, in un profondo inchino. «Entrerà nella storia» disse raggiante l’imperatore. Samarlec annuì. Entrerò nella storia, soggiunse con un sibilo, lasciando gli appartamenti, decisamente di buon umore.
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«Greg, c’è bisogno che ti ricordi cosa ha promesso Lord Astaroth a proposito di un vostro futuro scontro?» La Darlidan aveva proceduto velocemente, coprendo, in poco più di sei ore, metà della distanza tra la base imperiale e la città di Ivas Naren, capitale dell’omonimo regno. Quando, ata da qualche ora mezzogiorno, la nave dapprima aveva iniziato a rallentare e poi era fermata del tutto, Greg era tornato sul ponte per cominciare il suo allenamento quotidiano sotto il sole ardente del primo pomeriggio. E di nuovo Dovan l’aveva sottoposto a uno degli allenamenti più sfiancanti che avesse mai sostenuto: al confronto quelli a cui si era sottoposto durante il viaggio tra Selthon e Renodia erano stati una eggiata di piacere per le vie della capitale Imperiale. No, anche se non lo aveva udito direttamente non poteva non ricordare quelle parole minacciose, il suo maestro gliene aveva parlato la mattina stessa della partenza. “Desidero affrontarti di nuovo ma la prossima volta né il cielo né altri dovranno intromettersi nel nostro scontro. Continua ad allenarti perché quando ci rincontreremo non indugerò più”, questo aveva detto il Pari prima di abbandonare l’assedio. E, con suo mal celato stupore, doveva ammettere a se stesso che le risorse di Dovan per tenerlo in allenamento erano praticamente inesauribili: il libro che giorni prima gli aveva consegnato era solo una piccola parte, benché
importantissima, del nuovo programma di allenamento che il maestro aveva architettato per lui. Da bravo allievo l’aveva studiato e letto più volte: ma non era la teoria che rendeva un mago potente, lo studio gli aveva portato beneficio, ma ciò che in caso di pericolo o di scontro gli avrebbe permesso di sopravvivere era l’allenamento intenso, non un tomo appartenuto al Cancelliere. Dovan, in qualità di maestro, non ignorava tutto ciò, lui che, al contrario del suo allievo, aveva potuto contare su un apprendimento lungo e faticoso. Iniziato all’età di dodici anni alle arti magiche, aveva frequentato per i dieci anni successivi l’accademia imperiale per poi partire alla volta di numerosi viaggi di perfezionamento, che gli avevano fatto toccare praticamente tutti gli angoli del pianeta. Aveva compiuto una scelta che, sebbene allora non ne fosse del tutto consapevole, avrebbe finito per condizionare il resto della sua esistenza. L’allievo, ansante e provato per lo sforzo, si era appoggiato alla balaustra per riprendere fiato, causando così la reazione di Dovan che, addossato all’albero della nave, non mancava di ricordargli il pericolo a cui sarebbe andato in contro. Greg alzò la mano destra in direzione del suo maestro, poi, con un filo di voce, disse: «Un attimo maestro, mi faccia riposare un istante». Poco lontano Deidar era intento a lucidare l’armatura dalla quale non aveva voluto separarsi, Lisa osservava il mare invece, con aria assorta come da molti giorni spesso l’aveva sorpresa a fare: cercò di incrociarne lo sguardo ma il fiordaliso del mare si fondeva con quello delle sue iridi. Mark e Andrew, dalla parte opposta della nave, continuavano ad allenarsi, sperando di potersi, in un prossimo futuro, dimostrarsi più utili di quanto lo erano stati a Renodia. Tutti erano assorti nei loro pensieri o nelle loro occupazioni giornaliere, gli allenamenti di Greg non erano più considerati un avvenimento del quale essere spettatori. Quegli istanti preziosi sarebbero dovuti servire anche a loro: avrebbero potuto, presto o tardi non ne erano certi, fare la differenza tra la vita e la morte. «Possiamo ricominciare l’allenamento? Tra poco i raggi del sole cesseranno di splendere sulla superficie dell’oceano con la giusta intensità e non mi sarà più possibile creare altre illusioni» disse, con una nota d’impazienza nella voce. Greg annuì, gocce di sudore gli rigavano il volto, staccò le mani dalle gambe e si mise ad una decina di metri di fronte a Dovan. Il maestro si voltò e, per la terza volta nell’arco di quelle due ore, scelse una
porzione della superficie acquatica: i raggi del sole parvero concentrarsi in quel punto e l’acqua iniziò ad evaporare. Greg si preparò a sua volta, tendendo davanti a sé il palmo della mano destra mentre già nella sua mente ripeteva le parole per invocare il potere del quarto spirito della catena del fuoco. Il calore emanato dai raggi sembrò volesse far bollire letteralmente quella parte dell’oceano, le spire di vapore che si levavano da esse si erano moltiplicate nel giro di pochissimi istanti. Una figura, prima un’ombra lunga poi via via sempre più corporea iniziò a prendere forma dal vapore in salita: due game, due braccia e una testa dalla quale, prepotenti e minacciose, si allungavano quattro corna, attorcigliate due a due. Infine, un mantello e una grande vela multicolore, anch’esse originate dal vapore, coprirono la sagoma che, animandosi improvvisamente, si mise in posizione d’attacco. Se Greg, e con lui tutti gli altri occupanti della nave, non fosse stati assolutamente certi che quella non era altro che un’illusione creata da Dovan grazie alla condensazione del vapore acqueo, sarebbero tutti caduti in preda al panico. Ma, si da il caso, quell’esercitazione fosse stata studiata appositamente per supplire quell’eventualità e per permettere, a Greg soprattutto, di agire a mente fredda contro il primo dei Pari, senza incorrere nel rischio di svelare il segreto che custodiva. Il ragazzo si concesse qualche istante per analizzare la situazione mentre la copia di Lord Astaroth planava lentamente verso di lui: concentrò un attimo la sua energia mentre in un istante entrambe le sue braccia fino all’altezza delle spalle vennero coperte dalle fiamme. Trattenne il respiro per qualche secondo e, con esso, la potenza del colpo. Da un lato Dovan con le braccia conserte sorrideva ma, d’altra parte, era preoccupato anche per la struttura ignea della nave. Greg, notò con la parte della sua mente non preoccupata che da un momento all’altro la Darlidan potesse ridursi ad un mucchio di cenere, iniziava a padroneggiare molto bene gli incantesimi della quarta catena, la mejraba soprattutto data la sua incredibile potenza d’attacco e la possibilità che essa forniva di lanciare molti proiettili di grande potenza. Greg lasciò che l’energia fluisse liberamente ed indirizzò due proiettili infuocati verso la forma di vapore acqueo, mancandolo il primo e sfiorandolo appena il secondo: anche se si trattava di una copia rispecchiava piuttosto bene le abilità straordinarie dell’originale. Peccato che bastasse un brusco calo di temperatura per spezzare quell’illusione. E, naturalmente, Dovan aveva severamente vietato a Greg di utilizzare qualsiasi incantesimo della catena del vento per sbarazzarsi
dell’avversario: mai, nella realtà, sarebbe bastato un singolo incantesimo, per quanto potente, per sconfiggere un Pari. Anzi, se ci pensava, a conti fatti non sapeva in quale modo Greg avrebbe potuto fronteggiare i Pari senza il o del segreto o, al massimo, degli insegnamenti derivatigli dalla Scalata Angelica. Per il momento gli incantesimi della quarta catena sarebbero dovuti bastare, almeno finché l’abilità magica di Greg non fosse cresciuta fino al punto di esprimere al meglio il suo già grande potenziale. Cercò di scacciare le preoccupazioni riguardo la preparazione del suo allievo ma esse continuarono a persistere. Entro pochi minuti, ancora ne era all’oscuro, avrebbe dovuto ricredersi su quell’argomento e, non con poco sgomento, ammettere finalmente che l’allievo stava superando in potenza il maestro. La copia roteò intorno alla Darlidan, esibendosi in una serie di complicate acrobazie a ripetizione, scansando abilmente i colpi violenti che l’avversario corporeo le scagliava con una violenza e una rapidità impressionanti, tanto che Mark e Andrew furono costretti ad appiattirsi contro il parapetto mentre un proiettile piuttosto rasente cercava di colpire la sagoma che, con una straordinaria prontezza di riflessi, si trovava praticamente già dalla parte opposta della nave. Andrew alzò un braccio minaccioso in direzione dell’amico impegnato nell’allenamento il quale, incurante della preoccupazione dell’altro, emise un sonoro mugugno di insofferenza per aver mancato per l’ennesima volta il simulacro. Di rimando il primo, adirato per l’attentato alla vita della sua imbarcazione, gli diede il suggerimento migliore che Greg potesse chiedere. «Cambia tattica, genio!» “Tattica”? Quella parola gli brillò nella mente, rilucendo come se si trattasse di lettere cubitali forgiate in oro massiccio. Aveva imparato a lanciare gli incantesimi appartenenti alla quarta catena di notevole potenza era vero, ma faceva tutto ciò senza adoperare una strategia precisa di combattimento: in confronto ai millenni di esperienza di un Pari la sua conoscenza del combattimento era praticamente pari a zero. Rifletté per una manciata di secondi e le cose gli si fecero progressivamente più chiare, fino a prendere la forma di un’idea sensata: la magia gli dava il pieno controllo dell’elemento dal quale desiderava aiuto. Questo voleva dire, di conseguenza, che esso poteva essere sfruttato in molte più direzioni rispetto a quelle canonicamente consigliate sui
pochi testi di magia che aveva consultato in vita sua. A lui restava solo da immaginare un nuovo modo per utilizzarlo, lasciando che la sua inventiva trovasse la soluzione migliore per affrontare il problema. Già, ma il problema in questione, che nel frattempo si era stancato di fuggire dai suoi attacchi a ripetizione pietosamente andati a vuoto, aveva deciso di contrattaccare, atterrando sul ponte della nave e sguainando la spada. Le braccia iniziavano a pesargli per lo sforzo mentre, lentamente, l’illusione gli si avvicinava. I suoi colpi sarebbero stati efficaci ma comunque troppo lenti: se solo avesse potuto avere un paio di braccia in più avrebbe potuto sferrare attacchi più numerosi, circondando il suo avversario in una nuvola esplosiva. L’illuminazione, che non era riuscito a definire in alto modo che con la parola geniale, parve restituirgli di colpo il vigore perso nel primo attacco ma per poco, quell’idea eccellente non aveva distolto l’attenzione dal problema. Problema che, al contrario, mosso dal solo ordine di attaccare, con un fendente stava mirando al fianco scoperto di Greg che, riavutosi quasi all’ultimo momento, riuscì a scansarlo per un pelo, provocando in tal modo, la fuoriuscita dalla bocca di Dovan di un numero imprecisato di commenti insoddisfatti non proprio a bassa voce. Greg fu sul punto di lanciargli un’occhiata esasperata quando un secondo fendente seguì il primo, mancando di pochissimo il proprio bersaglio. Incurante dei nuovi improperi rivoltigli dal maestro ed anticipando l’avversario, scansando il colpo successivo, richiamò mentalmente il potere legato a Forneis e le sue braccia avvamparono di nuovo delle fiamme incandescenti della mejraba. La copia, temendo uno sbalzo di temperatura, indietreggiò di qualche o: Greg fra sé e sé concordò nel fatto che non fosse proprio un’azione ortodossa prendere tempo in quel modo ma pur di sperimentare la tecnica che aveva in mente era pronto anche a correre il rischio di un nuovo rimprovero da parte di Dovan. Quest’ultimo, sempre in disparte, fu sul punto di commentare di nuovo ad alta voce la scelta dell’allievo ma il grido gli morì in gola non appena vide lo strano cambiamento che si stava verificando sul corpo del ragazzo: le fiamme sulle braccia crebbero a dismisura assumendo una curiosa forma cilindrica sopra le spalle per poi quasi contrarsi alle estremità superiori, fino ad assumere le sembianze di mani. Il resto dell’azione si svolse in un arco di tempo assolutamente impensabile, tanto che il resto degli osservatori dovettero chiedere diverse spiegazioni a ciò che avevano visto. Un nuovo paio di braccia elementali, dalle fattezze ferine e letali ma allo stesso tempo colossali rispetto
alla figura umana di Greg, generato sopra l’attaccatura del primo, scatenò, in perfetto accordo con l’altro paio, un attacco devastante: quattro proiettili di fuoco deflagrarono sulla copia, dopo averla circondata, emettendo un boato che squassò la nave ma che, per fortuna, non le provocò danni, tranne un lieve annerimento di una parte del ponte ma del quale Greg, almeno per il momento, evitò di preoccuparsi. Una frazione di secondo dopo l’esplosione Greg guardò in alto, certo di aver captato un movimento impercettibile da parte della copia che, evidentemente, non aveva voglia di tornare ad essere vapore acqueo tanto in fretta. La vide qualche metro sopra di lui, probabilmente aveva compiuto un salto notevole per schivare gli effetti devastanti del colpo, e, senza perder tempo, aveva sguainato la spada per calare un fendente su Greg, cogliendolo impreparato. Ma di nuovo la lucidità e l’inventiva del ragazzo ebbero la meglio sulle doti della copia del Pari: le seconde braccia, rese di nuovo fiammeggianti da un rapido comando della mente di Greg, acquistarono la forma di due tralicci robusti che, con le loro propaggini incandescenti, avvolsero la copia mentre essa stava per calare su Greg, immobilizzandola ed annullando l’attacco mentre due palle di fuoco generate dal primo paio di braccia completavano l’opera, disgregando l’incantesimo che animava il simulacro ormai sconfitto. Il ponte della nave si ricoprì così di una miriade di gocce d’acqua nebulizzate che Greg, dopo aver richiamato il potere di Forneis, avrebbe molto gradito se non si fosse trattato di acqua salata. Non riusciva a capire la natura dell’accaduto, era come se lo spirito del fuoco, tramite il suo corpo fosse riuscito a manifestarsi nella realtà, esprimendo al massimo delle possibilità il suo grande potere. Si ripromise di chiedere a Dovan spiegazioni in merito quanto prima. Respirò profondamente, allontanando le immagini dello scontro recente, il fiato corto per lo sforzo intenso così prolungato, le orecchie pulsanti ed il battito del cuore accelerato. Si guardò le mani, e le spalle, dove, fino a poco prima, ve ne era stato un secondo paio. Annuì, soddisfatto per il risultato, chiedendosi cosa ne avessero pensato gli altri della sua tattica. Nel silenzio degli sguardi sbigottiti dei suoi amici, in mezzo al vapore che ancora calava sulla nave, un battito sommesso di mani attirò l’attenzione di Greg: Dovan, a pochi i da lui, batteva lentamente, ma con fermezza, le mani in gesto d’encomio, radioso in volto.
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I colori malva della sera si erano posati dolcemente sui monti e sulla sommità del Par Banam, il vulcano Sacro di Naren, vero e proprio fulcro di ogni attività del regno. Di esso gli Alti Prelati nareniani avevano imparato a sfruttare il calore prodotto dall’attività del magma, trasformandolo in energia, garantendo, fin dai tempi più antichi, illuminazione e anche venerabile rispetto. Gli Alti Prelati, infatti, costituivano una casta rigidamente chiusa ed elitaria tanto che il titolo si trasmetteva di padre in figlio. Molti di quei potenti uomini, nel corso della storia del paese, avevano occupato cariche civili importantissime, compresa quella, come nei giorni odierni, di Primo Ministro del Regno. Per secoli i popoli stranieri, avevano tentato di scoprire il segreto che permetteva a quegli uomini di imbrigliare la forza del fuoco e, soprattutto, malgrado la costante attività del vulcano, ad impedire che esso costituisse un pericolo per la numerosissima popolazione che, crescendo a dismisura, aveva finito per abitare ben oltre le pendici del principale camino. Il segreto della casta era rimasto saldamente in mano al regno, protetto al costo della vita da ognuno dei membri dell’elite che mai e poi mai avrebbero desiderato che un altro regno, soprattutto se si trattava dell’Impero oltreoceanico di Selthon, fosse venuto a conoscenza del loro metodo di sfruttamento dell’energia magmatica. Piuttosto di vendere la loro arte si sarebbero suicidati in massa, buttandosi nella lava del loro amato vulcano affinché quel prezioso segreto morisse con loro, anche se questo avrebbe conseguentemente messo a repentaglio la sopravvivenza dell’intera popolazione. Naren aveva basato, attraverso i secoli e i re e le regine che si erano avvicendati sul suo trono dorato, la sua economia sull’agricoltura, sviluppata su ampi terrazzamenti di terra vulcanica, ricchissima di elementi minerali e sulla produzione di Bobolcan, pianta nativa del continente di Miria e solo in esso coltivabile le cui foglie, arrotolate ed essiccate e lavorate in imponenti manifatture, divenivano sigari esportati in tutto il mondo. Sulla Città Splendente, questo il nome con il quale era spesso menzionata nei poemi più antichi, gravavano adesso ben altri problemi e molti di essi, oltre che sulla numerosa popolazione, pesavano sulle spalle delicate ma allo stesso tempo
coriacee della sua regina, Nailie Miraldes V Auroseide. Abile stratega e negoziatrice, in gioventù, prima di essere incoronata, era stata una delle donne più corteggiate dai nobili di tutto il pianeta ma ella, dotata di grande carisma e personalità rifiutò tutte le offerte, non riuscendo ad accettare la subordinazione ad un marito. Doveva molte delle sue capacità alla decennale assistenza di Luckmann Rifean, il fedele Primo Ministro e Archimandrita degli Alti Prelati. La nascita, diciassette anni prima, della figlia, la principessa Yasheira, aveva alimentato numerose voci sulla possibilità di una relazione tra i due, seccamente smentite dai membri del Palazzo ma mai totalmente dissipate, soprattutto agli occhi della politica internazionale che, malignamente, metteva in discussione addirittura il merito della carica ricoperta da Rifean, supponendo che essa fosse più che altro dovuta all’imposizione del volere della regina. Se non totalmente smentita, soprattutto per via dell’accusa mossa alla presunta coppia, dalle numerose voci che si levarono comunque in difesa della legittimità dell’elezione furono i numerosi risultati in politica estera ed interna a mettere definitivamente a tacere quelle voci insistenti. Sua fu la bozza di risoluzione poi approvata in seguito agli incontri di pace della terza guerra del Varnelio, suo il recentissimo piano per costruire mezzi e sviluppare tecnologie di trasporto alternative che potessero permettere spostamenti più veloci senza continuare a sfruttare i cristalli di Varnelio. Mal visto dal Cancelliere Samarlec, soprattutto per via dei suoi numerosi interventi sulla scacchiera della politica estera che, specialmente nell’ultimo periodo, aveva visto la progressiva crescita dell’impopolarità dell’impero selthoniano e, in special modo del suo Cancelliere, era riuscito più volte a sopprimere iniziative belliche o le rivendicazioni territoriali fittizie di quest’ultimo. Ora, avvolto nel suo mantello rosso cremisi con sei ali dipinte si dirigeva verso gli appartamenti privati della sua regina, latore di importanti notizie. Sul volto non più giovane, coperto dal turbante bianco, simbolo della sua carica, chiunque avrebbe potuto scorgere tracce di preoccupazione. Un nemico che aveva dichiarato brutalmente guerra ma che ancora, quasi allo scadere dell’ultimatum, non appariva all’orizzonte avrebbe reso inquieto chiunque. E adesso doveva portare un messaggio appena giunto, da parte del regno Silvestre. Tutti conoscevano la delicata situazione nella quale versava il regno ma consegnare un messaggio del genere nelle mani di un semplice portaordini, soprattutto se il portaordini in questione non avesse resistito alla tentazione di
aprirlo, avrebbe rischiato di far sprofondare la città nel caos totale. Una rivolta interna ed un nemico alle porte potevano dimostrarsi una miscela esplosiva: se poteva risparmiarne una, supponendo ipoteticamente che la guerra potesse essere evitata, preferiva evitare almeno il tracollo interno. L’unità di un popolo in guerra poteva dimostrarsi, in caso di un conflitto nei propri territori, un valido o morale, almeno fino a quando il malcontento non si fosse irrimediabilmente insinuato in ogni casa del regno a causa dei danni e delle carenze che ogni guerra finiva inevitabilmente per portare al popolo. Le guardie lo fecero are senza indugi e la sua presenza fu annunciata alla regina che, dopo qualche istante lo ricevette nei suoi appartamenti. Rifean si sfilò il copricapo, rivelando il soprannumero dei capelli grigi su quelli un tempo neri e lucenti. Nailie, seduta su un semplice triclino, gli sorrise, rispondendo all’inchino: erano stanchi entrambi malgrado l’ora non tarda, se lo lessero reciprocamente negli occhi mentre il Primo ministro prendeva quella che era il suo seggio abituale e si sedeva davanti alla sovrana. «Tra due giorni avrà termine l’ultimatum dei sette giorni dichiarati da Samarlec prima della guerra. La tensione è salita vertiginosamente in città, ho sentito che molti sudditi richiedono una cerimonia per scongiurare il pericolo incombente. Sperano che Flammaria nasca di nuovo e che spazzi via in un sol colpo la flotta di Selthon». Scosse mestamente il bel viso, sul quale, col are degli anni, si era posato un velo di tristezza e severità incancellabile, poi disse: «Ma ciò non avverrà in ogni caso, purtroppo, il tempo dei miracoli pare non sia ancora giunto». Rifean socchiuse gli occhi ed annuì lentamente: «Qual è il tuo parere in merito?» alludendo alla funzione. «La popolazione avrà ciò che chiede. Sei tu l’Archimandrita, organizza la celebrazione come meglio credi» si soffermò sugli occhi scuri dell’uomo poi, sorridendo aggiunse: «Ti conosco troppo bene Luckmann, non era solo per chiedermi l’autorizzazione ad una festa che sei venuto, vero? Qualcosa di cui preoccuparsi?». «Si tratta di Renodia. La regina Talandria desidera parlarti. Tra poco riceveremo la richiesta del suo colloquio». Nailie inarcò le sopracciglia. «Qualcosa non va?» chiese il Ministro.
«Solo un presentimento, mio caro. Ignoro ciò che Talandria abbia da dirmi ma negli ultimi giorni strane notizie sono giunte da Renodia, molte parlano di una battaglia e di un gruppo di fuggiaschi ricercati dall’Impero. Non sono molto incline a credere alla prima ma la seconda mi incuriosisce alquanto. Sappiamo qualcosa di più su quei fuggiaschi?» chiese, allungandosi sulla sedia ed incrociando le dita lunghe e sottili. Rifean scosse la testa «Credo che sapremo presto anche a tal proposito, L’ora del collegamento è giunta» disse mentre il globevisor incassato al centro della stanza, dopo aver emesso un breve ronzio, proiettava il consueto schermo. Dopo qualche istante la trasmissione fu stabilita completamente e su uno sfondo verde sul quale campeggiava un unicorno rampante d’argento, comparve la sagoma della regina Talandria. La millenaria regina chinò lievemente il capo: «Salute a lei, Stella del Sud». Nailie e Rifean ripeterono il lieve inchino della testa. «Salute a lei, Regina degli Esperidi». Per un attimo entrambe le regine si fissarono intensamente negli occhi poi, la regina silvestre iniziò il suo discorso. «Mi scuso per avervi potuto contattare solo adesso ma credo siate a conoscenza dei numerosi disagi che io e il mio popolo abbiamo affrontato nelle ultime settimane». «Ci è giunta voce, maestà» annuì il Primo ministro. Nailie incalzò: voleva sapere fino a quanto fossero vere quelle voci e quale fosse il rischio concreto per il suo popolo. «Le voci non sono mai il fedele resoconto dei fatti, maestà». Talandria sospirò profondamente: Nailie era degna di quel nome. Come le altre Nailie che erano state sedute su quel trono prima di lei si dimostrava acuta e caparbia, mai pronta ad accettare un fatto senza prima vagliarne l’assoluta certezza. Sorridendo dentro di sé le venne da chiedersi se anche la figlia avesse la medesima tempra. Decise di colpire a fondo, evitando giri di parole inutili. Dopotutto era questo che la regina voleva: «Il tempo dei miracoli è infine giunto, i Pari di Behelstedor sono tornati per terrorizzare il mondo e per spianare la strada della sua rinascita». Le parole controllate echeggiarono numerose volte nelle menti dei due nareniani. Rifean parve perdere il controllo della propria sedia ma Nailie,
dopo aver socchiuso gli occhi ed aver emesso un profondo sospiro rispose: «Ne siamo certi? Non si staranno ripetendo gli accadimenti della Guerra Artica?». «Ne siamo più che certi: il Signore dell’Est, intervenendo nella battaglia ha designato mio figlio, il principe Deidar come suo paladino» fece una pausa brevissima, con l’intento di preparare la regina alla successiva rivelazione: «Non è tutto. L’erede è tra noi. Anzi, secondo i miei calcoli, dovrebbe trovarsi a mezza giornata di viaggio da Naren». Questa volta non solo Rifean ma anche Nailie sobbalzò sulla sedia. Si ò una mano sugli occhi, lasciando che poi essa fluisse tra i capelli della lunga chioma nera. «Ebbene, era destino che questi giorni terribili giungessero durante il mio regno. E così sia, da tempo ero preparata a questa eventualità» annuì incrociando gli occhi del primo ministro «Altro non possiamo fare che accettare quello che da mille anni di generazione in generazione la famiglia reale si ripete. Il tempo dei miracoli è giunto.» disse amara. Rifean le strinse calorosamente la mano che teneva posata in grembo. «Renodia e il mio popolo hanno scampato la distruzione grazie all’erede e all’intervento del Signore dell’Est, oltre che di mio figlio. Voglia il cielo che tale miracolo accada anche al vostro regno, maestà». «Dunque è l’erede uno dei fuggiaschi di cui si mormora» soggiunse a bassa voce Rifean come se, dai ricordi della giovinezza affiorassero informazioni e ricordi celati, che a volte aveva creduto addirittura mitici. «Sì, egli viaggia su una nave battente bandiera selthoniana e con lui vi sono alcuni suoi compagni di Selthon, mio figlio Deidar e il maestro Dovan». A quel nome gli altri due interlocutori si rasserenarono. La fama della saggezza del maestro Dovan era presso ogni corte, tranne quella selthoniana dalla quale era stato bandito, sinonimo di sicurezza e di speranza. «Vorrei che il nostro colloquio potesse durare più a lungo» disse Talandria sinceramente dispiaciuta, proprio mentre grandi bande scure iniziavano a coprire lo schermo, nascondendo l’immagine della regina, della quale adesso si poteva udire solo la voce «ma a quanto dicono i miei tecnici, sembra che un’interferenza piuttosto grande intralci la comunicazione». Il Primo ministro e la Regina si fissarono attoniti per qualche istante, ignari del problema a cui faceva riferimento la sovrana mentre dal globevisor uscivano le
frasi smozzicate di Talandria che, augurando su di loro e sul popolo la benevolenza dei Quattro Spiriti protettori, si congedava. Il globevisor si chiuse pochi istanti dopo, lasciando i due nareniani perplessi e preoccupati. Di quale interferenza stava parlando? Nessuno aveva segnalato problemi di comunicazione, non fino a quel momento. Qualcosa diceva ad entrambi che un nuovo problema si sarebbe presto profilato all’orizzonte. Fu Rifean a rompere quel silenzio: «Vuoi che faccia qualcosa?» La regina chiuse gli occhi per qualche istante mentre nella sua mente cercava di condensare tutte le informazioni da lei possedute e quelle appena ricevute per trovare uno spiraglio in quel momento tanto oscuro. Quando li riaprì fornì la risposta al fedele Primo ministro: «Desidero che venga organizzata la più grande celebrazione che Naren abbia mai visto. Domani non sarà solo La Signora del Sud ad essere festeggiata. C’è ancora speranza». Sì, aveva trovato lo spiraglio. A pochi chilometri dalle sontuose stanze del Palazzo reale un essere oscuro, strisciando sulla sabbia di una piccola spiaggia alla periferia della città, si ergeva in tutta la sua altezza, celando, all’ombra di un pesante cappuccio molto simile ad una vela le sue protuberanze ossee che, istantaneamente, parvero ritrarsi nell’oscurità del pesante copricapo. Due occhi vitrei ed eterei, rilucendo nell’oscurità, fissarono le luci della città. Una risata, lunga, maligna e tetra echeggiò nell’imbrunire: quella notte molti nareniani si rigirarono inquieti nei loro letti, stentando a prender sonno, sicuri di aver avvertito un brivido malvagio cavalcare la brezza notturna.
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La Darlidan oscillava placidamente sul mare scuro, in lontananza, il litorale luccicante di Naren illuminava con un alone perlaceo l’atmosfera che gravava sulla città. Tutto sembrava stranamente calmo ed irreale, un’atmosfera degna di essere immortalata dal più abile dei pittori, l’aria leggera solleticava la mente con profumi speziati e colori sconosciuti, appartenenti ad una popolazione con tradizioni e costumi diversi. A questo pensava Andrew, assiso con le gambe fuori dal parapetto della nave, mentre con lo sguardo vagava in lontananza, dove adesso il cielo era scuro e nebuloso. Le sopracciglia nere si unirono in una sola
linea, gli occhi profondi assunsero lo stesso colore dell’oceano. Non sentì Greg che, con o leggero, gli si era avvicinato e lo aveva osservato a lungo, chiedendosi quale fosse stato il motivo del suo ritiro sotto coperta di qualche ora prima. Gli posò una mano sulla spalla e, cercando di intonare una domanda con il tono più spensierato che riuscisse ancora a modulare gli chiese: «Cos’è, non dirmi che non hai fame proprio stasera che Dovan ha dato il meglio di se in cucina! Se non sbaglio anche Deidar ha fatto il possibile per farci assaggiare il celebre “spezzatino di cervo alla renodiana”. Dice di aver rubato la ricetta dalle cucine del palazzo anni fa e di averla conservata in caso si fosse trovato un giorno lontano da casa: non lo vuole ammettere ma non è molto convinto del risultato. Il tanto decantato sugo nel quale avrebbe dovuto “sguazzare” ogni pezzo di quella carne tenerissima è scuro e denso, purtroppo molto simile a della melma…» Andrew, dopo un silenzio fin troppo lungo per la sua indole di solito pronta , rise. «Avrebbe dovuto aggiungere del latte» aggiunse ma le parole si erano trascinate una dopo l’altra con fatica, zoppicando, quasi come se la mente fosse altrove. Greg mormorò qualche parola: vedere l’amico in quel modo, benché si trattasse di un periodo cupo e difficile per tutti non era piacevole. Andrew lo precedette, si voltò sul parapetto, mettendosi in piedi sul bordo e facendo l’equilibrista. Greg fece per avvicinarsi, stupito da quel gesto inconsulto. «Quel luogo» disse «dove abbiamo visto quel mostro tecnologico. Ho letto le coordinate, da qualche ora che tenevo d’occhio la mappa sulla consolle: in quel luogo, tre anni fa è morto mio padre. Almeno questo diceva il dispaccio». «Qualcosa non va?» chiese Greg, continuando a non capire. «Sono perplesso. Mio padre era un soldato e nessuno ha mai sentito parlare di quella base. Sono confuso, Greg» disse poi, scendendo con un balzo e atterrando a piedi uniti sul ponte. Greg alzò le spalle: «Non credo che fino al nostro ritorno a Selthon potrai scoprire qualcosa in più. Sfortunatamente non so quando potrà accadere ciò. Che ne dici se concentriamo la nostra attenzione su fatti più certi invece?» disse sorridendo. Andrew, sebbene le parole di Greg non fossero state un capolavoro di
comprensione, era pur sempre un ragazzo pratico e convinto che, fino a quando un problema non avesse presentato una risoluzione logica, non sarebbe valsa la pena spaccarsi la testa per esso. In questo era radicalmente diverso dall’amico. Il suo umorismo non tardò a manifestarsi nuovamente quando di nuovo si insinuò, in cima alla sua lista delle preoccupazioni, il timore di restare a stomaco vuoto. «Vediamo se con il mio aiuto un certo spezzatino diviene mangiabile…» disse e in un attimo raggiunse a grandi i le scalette della coperta.
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La cena si svolse nel consueto caos degli altri pasti giornalieri: molti i piatti preparati da Dovan anche se la portata più importante della serata, lo spezzatino di cervo cucinato da Deidar si pose al centro della discussione tra lui e Andrew, secondo il quale l’aggiunta di latte avrebbe potuto migliorare notevolmente la ricetta mentre secondo il principe l’aggiunta di tale ingrediente avrebbe distrutto tutto il suo lavoro. Fu Andrew ad averla vinta, quando, stanco di discutere, Deidar gli concesse di farne quello che voleva, tanto, malgrado l’impegno profuso, era venuto malissimo. Andrew, raggiante, lo rimise sui fornelli e vi aggiunse il tanto desiderato latte: inutile dire che fu così soddisfatto del risultato ottenuto che non volle farlo assaggiare a nessun altro, elogiando Deidar come molto vicino a diventare uno chef professionista, previo, naturalmente, dar retta ai consigli di un palato sopraffino come il suo. E se lo diceva lui, aveva aggiunto leccandosi le dita copiosamente unte dal sugo, poteva fidarsi ciecamente. Dopo cena il gruppo si spostò sul ponte della nave, vicino al braciere allestito da Dovan: quel fuoco era stato per settimane il luogo di discussione e dibattito, non solo a proposito della missione. Attorno a quelle braci il maestro raccontava cosa aveva visto nei suoi viaggi e Deidar, qualche volta, all’inizio spinto da Dovan, cantava alcune delle canzoni tradizionali del suo popolo. E quella sera, incitato anche dagli altri, cantò nuovamente, scegliendo una delle canzoni più tristi che conoscesse. Come tutti gli Esperidi aveva una seppure vaga consapevolezza degli eventi futuri e la sua scelta non fu affatto dovuta al caso.
Stelle del cielo a noi sconosciute Brillate su di noi come mute Due lune ha questo nuovo mondo Mentre il nostro ne era abbondo
Diteci dov’è Esperia, il nostro pianeta Diteci se questa è la nostra meta!
Verdi prati abbiamo abbandonato Per un pianeta finora mai visitato Le nostre case e i nostri boschi abbiam lasciato Per un pianeta che non per noi è stato creato.
Diteci dov’è Esperia, il nostro pianeta, Diteci se questa è la nostra meta!
Quando contro di noi fu emessa l’ardua sentenza Triste fu il momento della partenza Gli angeli amici decidemmo di seguire Perché il nostro popolo non dovesse, in schiavitù, morire.
Diteci dov’è Esperia, il nostro pianeta, Diteci se è questa la nostra meta!
Terre malsane ci circondano ora Quando un tempo di verdi valli godevam ognora. Stanchi siamo per il lungo viaggiare I nostri cuori non possono smettere di sognare
Diteci dov’è Esperia, il nostro pianeta, Diteci se questa è la nostra meta!
Un Tiranno in pugno tiene questa terra Sulla sua falce riluce lo spettro della guerra Una nuova battaglia noi Esperidi aspetta Su questo mondo che, ahinoi, cambia così in fretta!
Diteci dov’è Esperia, il nostro pianeta, Diteci se questa è la nostra meta!
Noi che dalle stelle attendiamo risposta
Nei nostri cuori la speranza teniam ben riposta Di poter un giorno ritrovare Le vallate di Esperia e la pace universale.
Dovan, in disparte come spesso accadeva quando la voce melodiosa di Deidar riempiva l’aria, fu raggiunto da Greg, pensieroso. L’allievo scorse per qualche istante una luce sognante negli occhi del maestro, bagliore che, appena consapevole di essere stato intercettato, sparì molto velocemente. «Volevi chiedermi qualcosa?» disse quindi mentre i residui sognanti lasciavano i suoi occhi definitivamente. Greg, sul punto di tornare a sedere accanto agli altri decise comunque di parlare, preoccupato: «Cosa mi è successo durante l’allenamento? Come ho fatto ad utilizzare quei poteri?» Dovan rise: «Non preoccuparti, è tutto più o meno normale» disse. «Stai solo imparando a sfruttare al meglio le tue potenzialità. Oltre al potere magico sei riuscito anche a materializzare parte del corpo di Forneis, in particolare le Braccia e le Fruste. Si tratta di magia molto avanzata» disse battendogli due pacche sulla schiena. Le perplessità di Greg non si erano ancora esaurite: «Perché prima non mai successo? Vuol dire che potrebbe accadere per ogni altro incantesimo che so invocare?». Dovan annuì. «Il tuo potere è cresciuto smisuratamente: in te vi è abbastanza potere magico per portare sul piano materiale ciò che si trova sul piano astrale, proprio come è successo oggi. Più forte sarà il tuo potere più potenza potrai ricevere in aiuto dagli spiriti che invocherai». «E Dalagoth? Riuscirò mai a utilizzare il suo potere portando parte di lui in questo mondo?»chiese Greg dopo qualche istante. Dovan rifletté un attimo. «Non so risponderti Greg, posso solo immaginare che questo dipenda solo da te. Furono gli Angeli Dorati a far sì che egli potesse apparirci e proteggerci. Lo stesso immagino debba essere avvenuto quando
salvarono tuo padre dalla tempesta diciassette anni fa e gli consegnarono te in custodia. Personalmente non ho mai provato niente di simile, la quinta catena è ciò che separa gli uomini da quelle divinità, se un giorno tu infrangessi quel limite ben poche sarebbero davvero le cose che non potresti fare» disse, grattandosi il mento, pensieroso. Greg annuì diverse volte, soddisfatto dalla spiegazione del maestro. Effettivamente, messo sotto questa luce, l’avvenimento della mattina aveva un senso. «Ci sono speranze che ora sia in grado di fronteggiare almeno Lord Astaroth?» chiese poi, prima di tornare accanto alla brace. Questa volta il maestro non ebbe bisogno di riflettere, probabilmente aveva avuto molto tempo per ponderare attentamente la cosa: «Non possiamo esserne assolutamente certi ma credo che, almeno per quanto riguarda il primo dei Pari, il tuo potere si sia sufficientemente sviluppato da non doverlo temere più come in ato. Rimarrà sempre un avversario formidabile, ma sono convinto che potrai sostenere molto meglio un combattimento contro di lui in futuro». Greg sorrise mentre, alle sue spalle una voce si accingeva a sostituire quella di Deidar per intrattenere gli altri attorno al fuoco. La sorpresa fu grande in quelli che l’avevano davanti ma più grande ancora fu in colui che di spalle ne udiva solo la voce. Lisa stava cantando.
In un tempo lontano da noi non vissuto Vi fu un amore come mai più fu conosciuto Due anime in una erano i due amanti Occhi negli occhi, splendore di diamanti
Lo spettro della guerra investì quell’amore L’una fianco all’altro combatterono con valore Il mondo fu scosso dalle fondamenta
Ma all’orizzonte brillava ancora la stella non spenta Di quell’amore.
Ma la sorte maligna e avversa Per loro aveva scelto una sorte diversa Lui l’agguato alle spalle non riuscì ad evitare Proprio mentre la guerra stava per cessare
Lei a pochi metri si buttò a capofitto Il suo corpo al posto del suo amore fu trafitto Il veleno dei dardi non lasciava sperare Mentre la giovane a terra si lasciava andare
Sul giovane la disperazione prese il sopravvento Mentre il cuore della ragazza si affievoliva ogni momento. Tutti i rimedi tentò per salvare Del suo amore la vita mortale Ma niente nel mondo poteva ridare A quel giovane amore il soffio vitale.
Nemmeno l’essere più potente e perfetto
Poté allontanare della morte lo spettro Solo una promessa, seppur lontana Poté dare una speranza sia pur vana Due spiriti in un sol corpo sarebbero un giorno nati Affinché più amori fossero salvati.
Il giovane in lacrime accettò la soluzione Mentre la ragazza della morte andava in direzione Sul cuore le catene presero il sopravvento Il suo ardore e il suo spirito divennero un fuoco spento. Un giorno l’amore sarebbe tornato E del cuore le catene avrebbe infine spezzato.
La sua voce, tutti stentavano a crederlo, aveva superato per soavità e bellezza quella di un esperide. Mark e Andrew parevano estasiati dalla voce dell’amica e a quella constatazione si era unita anche l’espressione incantata Deidar. Solo Dovan e Greg, ammutoliti nello stesso istante in cui Lisa aveva iniziato a cantare, si guardavano ora perplessi mentre la ragazza, ancora in piedi, pareva piuttosto imbarazzata per l’effetto provocato dalla sua melodia. Alle domande da parte di tutti su dove lei avesse sentito quella canzone visto che non era selthoniana ella rispose vagamente, dicendo di averla inventata qualche tempo prima dopo aver fatto uno strano sogno. Tutti, tranne Greg, accettarono di buon grado quella spiegazione, attribuendo alla ragazza una notevole fantasia e facendole numerosi complimenti. Il ragazzo, ancora perplesso, incrociò gli occhi di Lisa ed ella subito li abbassò, dichiarando di essere molto stanca, preferendo perciò ritirarsi nella sua cabina. Era sicuro che
non fosse un semplice sogno e quella reazione non faceva altro che confermare la sua supposizione. Come prima del loro arrivo a Renodia qualcosa stava turbando Lisa e, sebbene non stessero attraversando il Mare dei Sogni, luogo famoso per provocare ai marinai sogni inspiegabili, i sogni della ragazza e il suo strano comportamento non erano cessati. Non avevano più parlato dei fatti accaduti durante la battaglia di Renodia poiché lei aveva sempre cambiato argomento o si era ritirata ogni qual volta che il gruppo si accingeva a parlarne. Alzando distrattamente le spalle decise di imitare gli altri che, scendendo sotto coperta, si preparavano per la notte. Presto, nessuno ancora lo sapeva, anche la ragazza si sarebbe dovuta trovare a fare i conti con se stessa e per allora molte cose, in lei e negli altri, sarebbero dovute cambiare.
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La sala non era di dimensioni ragguardevoli ed in sé piuttosto scarna: per quanto essa si trovasse nel reparto riservato agli alloggi degli ufficiali e del Cancelliere essa non aveva di certo gli stessi agi e lussi che si potevano godere appena qualche porta più avanti. Ad ogni modo a tarda notte, quella sala era un luogo di incontro perfetto. Con tempismo impeccabile sette persone entrarono nella stanza e si sedettero attorno al tavolo, circolare e con esattamente otto sedie, sopra ognuna delle quali vi era una tenue luce bianca. Senza scambiarsi neppure una parola mentre solo si udiva il frusciare delle ricche vesti che ognuno di quei sette uomini indossava, si sedettero. Solo allora, mentre i loro volti appena si intravedevano nella luce bianca, coperti da quelli che erano copricapo e cappucci più che altro d’ornamento, parvero rilassarsi un po’. Seguirono, per qualche istante, sussurri non ben precisati, due di loro, un terzo poi subito dopo, si accesero dei lunghi sigari di Bobolcan, di sicura provenienza nareniana. Merce lussuosa, una delle poche produzioni nareniane che i ricchi ed altolocati selthoniani ammettevano apertamente di apprezzare. Quella segretezza, in quel luogo, a bordo della base più tecnologicamente avanzata del pianeta trovò spiegazione quando, qualche istante dopo mentre l’aria sopra il tavolo era già coperta da una leggera nebbia
bluastra, fece il suo ingresso l’ottavo componente del gruppo, l’ultimo occupante della sedia. I sette si alzarono brevemente e poi si sedettero, levandosi ognuno il proprio copricapo. Sette diversi fruscii riempirono il silenzio mentre l’ultimo arrivato prendeva posto sul proprio seggio. Si schiarì la voce mentre ogni brusio cessava e le volute bluastre quasi si cristallizzavano in quei pochi istanti. L’ansia e la trepidazione del momento erano palpabili. «Signori, come sapete bene, il momento è giunto». Ci fu una breve pausa, durante la quale sette teste annuirono brevemente, manifesti, negli occhi di ognuno, orgoglio e fiera approvazione. «Tutte le indecisioni, i dubbi e le incertezze sono ormai dissolti. La profezia ci assiste. Tra due giorni Naren cadrà per mano dell’Imperatore Santo e Selthon di nuovo regnerà sopra tutte le acque». Nella mente di ognuno dei presenti la profezia si ripeté, lenta e scandita.
Nel tempo dei miracoli La mano di un Santo Imperatore Rimuoverà tutti gli ostacoli E di Naren sarà il conquistatore
L’acqua sul fuoco prevarrà infine Un nuovo Impero sulle acque si estenderà Di Naren rimarranno solo rovine Il potere di Flammaria così cesserà
Per molto tempo si era discusso dell’autenticità della profezia e su quanto essa non fosse solo retaggio e conferma della secolare aspirazione dell’Impero a
riacquisire il suo antico dominio, soprattutto a causa del suo carattere estremamente vago, per quanto riguardava il termine “tempo dei miracoli”. Ma se questa versione era quasi universalmente nota, ne esisteva un’altra che, fatta eccezione per coloro che, direttamente interessati, ne avevano volontariamente omessa una parte, risultava sconosciuta e che rivelava invece l’altra faccia della medaglia. Non era certo quella la versione che adesso Samarlec, al pari di un’arma, brandiva davanti ai suoi sette eptarchi, l’elite delle alte cariche di Selthon: alla sua destra, Albireo Wessler primo Grande Ammiraglio della flotta e comandante del Nethun, seguivano il fratello Albireo e Mezner Janov, secondo e terzo Grandi Ammiragli della flotta e comandanti del Varuna e del Rodon, poi venivano i tre maghi di corte: Kaitos Sora, Nair Al Imzra e Dubhe Nhol, le massime autorità in campo magico presenti a Selthon dopo il Cancelliere. Infine alla sua sinistra, vi era l’ultimo degli eptarchi, il primo ingegnere di Selthon, Enif Olinori, artefice del progetto del Leviros e della Darlidan, sano, salvo ed in perfetta salute. Alto, con la carnagione scura, sembrava la copia in formato più grande di suo figlio. Tutti annuirono, la profezia, almeno quella che conoscevano, era inequivocabile e nessuno pareva certo dubitare, o voler dubitare, dell’identificazione di Levian Dorhanaelius VII con il Santo Imperatore. Anche se non tutti, in privato almeno, parevano essere convinti della cosa, essi erano innegabilmente attratti dalle laute prospettive prefigurate dalla probabile e successiva incoronazione di Samarlec a nuovo Imperatore. Il Cancelliere non avrebbe certo scordato la fedeltà mostrata dai suoi uomini di fiducia in quel momento di tribolazione e, come aveva spesso promesso loro, a tempo debito sarebbero stati ricompensati. E la distruzione di Naren era un prezzo che, per il loro prestigio, non avrebbero esitato a pagare. Infine la notte calò sul Leviros e sugli otto che, in segreto, si erano riuniti ed essi, si congedarono tra loro ma uno, Kaitos Sora indugiò più a lungo col Cancelliere. Come tutti i maghi di corte portava i capelli lunghi oltre le spalle raccolti in alcune grosse trecce. Sebbene il bianco della chioma non potesse essere considerato come sinonimo di vecchiaia lo si poteva dedurre, nell’ombra, dai numerosi solchi che gli attraversavano il viso. Alto e incurvato, si avvicinò al orecchio e, con un filo di voce ma assolutamente udibile dall’uomo, disse: «Maestro, il tempo è ormai prossimo, la profezia potrebbe non…». Gli occhi di Samarlec quasi scintillarono nel buio mentre, con pari tono di voce, freddo e controllato, interrompeva l’uomo, ponendogli una mano sulla spalla e poi uscendo, lasciandolo da solo nell’oscurità della stanza. «Ogni cosa a suo
tempo: tutto per quel momento sarà compiuto. Anche contro il volere del cielo e della terra sarò io il Santo Imperatore». In lontananza, nel corridoio illuminato da luci opache, la sagoma e l’ombra del Cancelliere si erano fuse in una figura deforme e orribile. Poco in lui vi era ancora di umano.
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Capitolo III
La principessa del deserto
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Le dense nubi che, come presagio di imminente sventura, avevano coperto Ivas Naren, parevano non aver interessato un altro luogo a qualche decina di chilometri più a nord, quasi all’inizio del deserto Cremisi che, come un mare interno, copriva una grande porzione del continente di Miria. Scolpito nella roccia calcarea del luogo, un edificio imponente e disadorno, dalle forme pesanti e massicce, che non lo rendevano certo una delle più alte espressioni dell’architettura nareniana, si ergeva contro il sole nascente. Era una costruzione a forma di parallelepipedo, con quattro torrioni massicci ai suoi spigoli: in tutta quella pietrificata severità l’unico fronzolo era costituito da due bandiere, la prima aveva una fenice d’oro in campo rosso, l’altra un fiore scarlatto in campo bianco, simbolo dell’unico fiore che cresca nel deserto, l’aurosa. Coloro che lo abitavano erano già da tempo al lavoro: donne di diverse età coperte da militaresche vesti purpuree o arancio erano occupate nei compiti più disparati: alcune, molto giovani, si occupavano della pulizia delle stanze comuni o di servire alla mensa, altre invece erano affaccendate presso le numerose gabbie che occupavano alcuni dei cortili. L’Ordine dell’Aurosa era il fiore all’occhiello dell’esercito nareniano: da quando, secoli prima, era stato istituito con il compito di guardia personale della famiglia reale aveva accolto tra le sue fila, oltre a numerose volontarie di ogni rango e ceto sociale, tutte le principesse della casata dei Miraldes. Nei secoli, oltre alle varie tecniche di combattimento, si erano aggiunte anche altre forme di lotta, come quella, ormai entrata a far parte della tradizione, di allevare ed utilizzare in battaglia uccelli rapaci. Era un ordine severo e intollerante: non vi era ammessa presenza maschile e le ragazze non potevano abbandonare il convitto prima di aver compiuto il diciassettesimo anno di età, dopo il quale potevano scegliere di fare della loro
vita ciò che volevano: alcune, dopo aver ricevuto una solida istruzione bellica, rimanevano per istruire le giovani aspiranti, altre occupavano prestigiose posizioni tra le file dell’esercito. Infine, oltre a quelle che poi esprimevano il desiderio di condurre una vita civile, ve ne era un ristrettissimo circolo che diveniva la guardia personale del sovrano o della sovrana. Solo una delle tante ragazze che terminavano il periodo di apprendistato, durante il quale era trattata come le altre compagne e senza alcun privilegio, sarebbe tornata a Palazzo, in attesa di divenire, un giorno, principessa o, nel caso fosse lei l’erede diretta, regina. E, come nella precedente, anche nell’attuale generazione, una ragazza, di diciassette anni quasi compiuti, stava mettendo a dura prova se stessa, le sue convinzioni e le sue paure per prepararsi, un giorno, a essere regina del suo popolo. Ma, a differenza di sua madre, lei avrebbe dovuto fare molto di più che attendere l’abdicazione in proprio favore per essere incoronata sovrana: il suo trono se lo sarebbe dovuto guadagnare, avrebbe dovuto combattere per averlo, questo era ciò che, da quando aveva memoria, le era stato ripetuto. Sua madre non l’aveva mai illusa della prospettiva di una vita agiata e spensierata: costituendo un vero precedente nella storia dell’Ordine dell’Aurosa aveva spedito sua figlia ad appena quattro anni in quel luogo alle propaggini del deserto Cremisi. Le istitutrici, venute a conoscenza della regia decisione, avevano storto il naso: tutte le altre allieve entravano nell’ordine dopo aver compiuto il settimo anno di età e avere una lattante, per di più la principessa ereditaria, come nuova recluta era un rischio che non avrebbero accettato facilmente. Dopo un braccio di ferro di qualche giorno, la decisione fu accettata poiché, per quanta autonomia potessero vantare le componenti dell’Ordine dell’Aurosa, Nailie restava pur sempre loro Regina e Comandante e la sua affermazione “potreste un giorno, quando sarà troppo tardi, rimpiangere di aver disubbidito a un mio ordine tanto lungimirante”, aveva finito per travolgere le difese e le prese di posizione delle componenti più intransigenti dell’ordine. E di certo la piccola Yasheira non aveva avuto un’infanzia principesca, il suo carattere era stato forgiato per essere una combattente dura e aggressiva ma, al contempo, le istitutrici avevano cercato di curare anche la sua femminilità e le sue maniere: dopo che ebbe imparato a leggere, grazie agli insegnamenti di una compagnia più grande, Ifiria, ebbe accesso a molti dei testi che componevano la fiorente produzione letteraria nareniana, dai poemi epici a quelli cavallereschi. Crescendo, tutti le avevano riconosciuto il fascino innato acquisito da sua madre, nonché un’indubbia acutezza che, spesso, era stata motivo di discussione con
compagne più grandi o le istitutrici. Tutto ciò, accompagnato da una particolare attitudine al combattimento e nella cura delle creature faceva prevedere per lei un futuro radioso come regina. Sempre che, quando fosse stato il tempo di combattere veramente, su un campo sconosciuto e contro prove che sfuggivano alla sua immaginazione, fosse riuscita a prevalere. Durante il lungo periodo di apprendistato aveva fatto ritorno molte volte a Ives Naren e alla vita di corte che, con tutta franchezza, non aveva esitato a definire poco adatta alla sua persona. Sua madre, d’altro canto, non aveva fatto niente per rendergliela meno opprimente: se da un lato comprendeva bene i disagi della figlia ad adattarsi a un mondo di rituali e convenzioni, dall’altro era anche fermamente convinta che la figlia dovesse, diventata una ragazza, capire quale fosse il suo posto, per cosa, un giorno, avrebbe dovuto combattere. Questo, fortunatamente, non cambiò il comportamento di Yasheira nei confronti delle sue compagne, cosa che, dalle istitutrici, fu vista con favore. Così, tra periodi ati nel deserto ed altri tra i fasti della corte, era cresciuta la principessa che, senza averne il minimo sospetto, stava per essere chiamata ad assolvere il più grande esame della sua vita. Si era svegliata, come tutti i giorni molto prima dell’alba insieme alle sue compagne, aveva consumato una colazione corroborante e poi si era recata ai recinti per prendersi cura dei due animali che, da quando aveva iniziato l’ultimo periodo del suo allenamento, erano divenuti compagni di battaglia. Si era avvicinata alla prima voliera, dalle dimensioni piuttosto grandi. Al suo interno, in un continuo susseguirsi di sbatter d’ali e fischi striduli, stavano una ventina di uccelli. Attraverso un’apertura vi infilò dentro il braccio, debitamente coperto con un manicotto di pelle robusta, agganciato al braccio tramite cinghie regolabili che la ricopriva fino alla spalla appena scoperta sopra la quale era posto uno spallino metallico. Riconoscendo il braccio della padrona, un uccello, poco più grande di un cigno e dalla coda lunga e fluente, si posò sulla protezione. La creatura, dal muso lungo e affilato e dal becco di una consistenza molto simile all’acciaio ed ugualmente resistente, così come gli artigli che, con una morsa avevano fatto presa sul braccio, le mostrò il suo affetto lasciando che i lunghi ciuffi che adornavano il dorso della testa sfiorassero le sue guance. Come le era stato insegnato, i simurgh erano uccelli intelligenti e fedeli che, molto spesso, erano portati a provare una sorta di gelosia verso la propria addestratrice, per questo dovevano essere sempre gratificati per il loro aiuto. Se un simurgh
non era in volo o non si trovava impegnato a combattere, voleva stare rigorosamente appollaiato sul braccio della sua padrona. Molte delle sue compagne, specializzate nel combattimento con rapaci piuttosto che con le armi comuni, sceglievano un simurgh per la loro grande affidabilità, e stando a quanto riferitole dalle istitutrici più anziane, anche sua madre ne aveva uno, del quale il suo discendeva direttamente. Yasheira ricambiò la dimostrazione d’affetto con un boccone di carne che l’uccello, in poco più di un istante, fece sparire dentro il becco, emettendo un verso di soddisfazione. Compiuta così la prima fase la ragazza ò alla successiva, leggermente più complicata della prima ma che l’abitudine quotidiana gliel’aveva ormai resa consueta. La seconda creatura che ò a prelevare era invece una delle più temute dalle compagne dell’Ordine dell’Aurosa e addirittura da alcune delle istitutrici. Oltreò due gabbie, dentro alle quali si affollavano aquile delle torbe e avvoltoi blu. All’inizio del suo addestramento li aveva scartati come compagni a causa delle loro eccessive dimensioni, ritenendoli molto più adatti alle più robuste sorelle che avevano basato l’addestramento sull’incremento delle potenzialità fisiche, che, oltretutto, finiva per renderle ben poco femminili. In quello che sembrava un pollaio vi erano cinque gabbie di medie dimensioni, due delle quali vuote, coperte da vetri oscurati ma con numerose aperture che consentivano agli animali dentro alloggiati di respirare comodamente. Le precauzioni, rammentò a se stessa, non erano mai troppe quando si trattava di uccelli tanto pericolosi. Aprì con circospezione la gabbia e lasciò che fosse la creatura a uscirne. Dapprima una testa serpentina, poi una spira fuoriuscì dalla gabbia. Seguirono svolazzo di piume nell’aria e un tonfo attutito. A terra, molto più in basso, un gallinaceo dal piumaggio variopinto e con la coda squamosa aveva iniziato a dimenare le ali poco sviluppate. Un kocatrix non aveva bisogno di volare: durante la lunga selezione naturale erano state preferite altre qualità, che, sebbene privassero del volo la specie, la rendevano molto più pericolosa, facendo delle ali una caratteristica sacrificabile. Proprio a queste facoltà era dovuta la mascherina che copriva temporaneamente gli occhi della seconda testa, quella da gallo. Sebbene fosse un evento raro che non la indossasse, quella mascherina era un accorgimento che poteva salvare la vita ad un addestratore inesperto. Starnazzò per qualche istante mentre dalla bocca serpentina fuoriusciva, velocissima e biforcuta, la lingua. Quest’ultima,
dopo aver dato una veloce occhiata, fissò la padrona dritta negli occhi, emettendo un lungo sibilo acuto che la ragazza interpretò correttamente come una richiesta di cibo e al quale rispose sommesso anche il simurgh. Dalla sacca che portava sempre con se estrasse tre pezzi di carne essiccata che distribuì equamente, due al kocatrix e uno al simurgh, per poi avviarsi verso una costruzione bassa, discosta rispetto ai recinti, l’Arena. Costruita in pietra granitica, malgrado la differenza di materiale era stata progettata nello stesso stile del grande edificio: là dentro le novizie avano gran parte della loro giornata, confrontandosi l’una con l’altra o con le istitutrici. Yasheira guardò il cielo, dal rosso dell’alba degradava dolcemente verso l’azzurro del mattino, una brezza tiepida e leggera le scompigliò appena i capelli. Una mattina come molte altre, pensò tra se mentre ava sotto il portale di pietra e, si avviava verso la fila di armadietti personali, nei quali ogni allieva teneva il necessario per la giornata di allenamento. La ragazza raccolse le proprie armi, accuratamente riposte, fissandosele alla cintura di cuoio che le cingeva i fianchi. Considerava la sue armi tra le cose più preziose che possedesse: una frusta lunga e flessibile ma allo stesso tempo micidiale quando fendeva l’aria, intessuta con gli steli delle aurose e un pugnale la cui lama era lunga pressappoco come il suo avambraccio, leggero e maneggevole. In anni di allenamento era divenuta esperta nell’uso combinato di entrambe e per quanto fosse esigente e dura con se stessa, ammetteva in cuor suo che pochi erano in grado di combattere al suo livello, specie se uomini. L’Arena, che in realtà era costituita da molte stanze circolari adatte all’allenamento, si snodava soprattutto sottoterra poiché, nel deserto, il calore della superficie poteva essere davvero insopportabile, soprattutto mentre si era impegnati in uno scontro. Percorse rampe di scale e qualche corridoio, alle sue spalle, non senza un po’ d’impaccio, la seguiva kocatrix mentre simurgh, sul suo braccio, pareva immobile, con gli occhi socchiusi e la testa leggermente reclinata verso la spalla della padrona. Incrociò, di sfuggita, alcune compagne che, come lei si preparavano a raggiungere le proprie arene di combattimento e che, ricambiate, le rivolsero un veloce saluto, poi, raggiunse anche lei la sua. Probabilmente Ifiria, l’istitutrice con la quale da tre mesi aveva iniziato la fase
finale del suo allenamento e che si sarebbe conclusa solo tre mesi dopo con l’assegnazione del titolo di Combattente dell’Aurosa, l’attendeva già da qualche minuto, con il suo splendido esemplare di aquila nera, un rapace molto raro e poco prolifico che proveniva dai territori proibiti, molto a sud dell’Impero di Selthon. Aprì la porta e con la testa bassa, proprio mentre stava per chiedere scusa alla donna, una voce, diversa da quella ben nota di Ifiria, le disse di entrare e chiudere la porta. Yasheira alzò gli occhi di scatto, guardinga e, per una volta, spiazzata. Davanti a lei, al centro della sala, sotto al foro circolare che permetteva ad una modesta quantità di luce di illuminare la sala, stavano due persone: la prima, che riconobbe immediatamente, era Adelia, comandante dell’ordine ed un tempo compagna di sua madre, oltre che sua zia. Era a lei che l’ordine doveva un incredibile aumento di prestigio, soprattutto grazie alla difesa, durante l’ultima guerra del Varnelio, di importanti avamposti nelle isole Azzurre. Non molto alta e dalla corporatura robusta, aveva votato la sua vita al comando e alla gestione dell’ordine. La sua uniforme era in ordine ineccepibile, così come lo erano la spada che pendeva dal fianco e la frusta che, voluminosa, teneva arrotolata e fissata alla cintura. L’altra, avvolta in un mantello da viaggio che copriva tutto il corpo, e con un turbante bianco sulla testa superava di una buona spanna l’altezza della comandante dell’Ordine. Mentre fu immediato il riconoscimento della prima persona, quello della seconda le costò qualche secondo in più: benché stupita da quell’inaspettata presenza, ricordò il rituale di corte e si inchinò. «Alzati pure, principessa» disse Aledia poco dopo. Nell’alzarsi Yasheira ebbe un sussulto: nessuno là dentro la chiamava col suo titolo, men che mai il suo massimo superiore. Qualcosa non andava, disse tra sé mentre osservava, a fasi alterne, le due presenze in attesa di ulteriori spiegazioni. Rifean rimase silenzioso mentre nuovamente Aledia prendeva la parola. «Il tuo addestramento è concluso» disse, lapidaria. La frase fece eco per qualche istante nell’arena mentre si protrasse molto più a lungo nella mente della ragazza. Concluso. Era stata chiara, non c’era probabilità di aver frainteso le parole. «Com’è possibile?» chiese poco dopo «Non ho terminato il mio allenamento con
Ifiria, l’esame è tra tre mesi, non capisco…». Fu allora che, poggiando una mano sulla spalla di Aledia, Rifean prese la parola, non senza che la donna gli rivolgesse prima uno sguardo piuttosto eloquente di chi non tollera essere interrotta, specie se da un uomo. «Ciò ti aspetta è molto più impegnativo dell’esame conclusivo dell’ordine. Naren ha bisogno di te. Immediatamente. Ogni istante a partire da adesso è tempo prezioso sprecato. E nessuno può permettersi di sprecarne ancora». Il tono secco del Primo Ministro la fece sussultare: la questione doveva essere piuttosto grave. «Il mio addestramento non è concluso, non vedo come potrei essere utile al Regno senza possedere l’allenamento necessario». Le sue parole, sebbene guardasse dritto negli occhi Rifean, non erano dirette a lui. «Ho parlato con le altre istitutrici, inclusa Ifiria. Contro ogni precedente nella storia dell’Ordine ti abbiamo giudicata idonea all’unanimità. Sei una Sorella dell’Ordine dell’Aurosa adesso» rispose asciutta la comandante. Nessuna soddisfazione trapelò da quelle parole: l’impegno che la donna si era accollata anni prima divenendo comandante dell’ordine l’aveva resa granitica. Per anni aveva sognato il giorno della fine del suo lungo apprendistato e adesso che, per cause di forza maggiore, era concluso prima del tempo, tutto le sembrò improvvisamente diverso. La vita che per anni aveva vissuto si era finita, definitivamente. Cercò di reprimere quel turbine di emozioni. Si riprese dopo qualche istante: «Tra quanto devo partire?» chiese. «Immediatamente» rispose Rifean «Ivas Naren dista da qui una giornata di viaggio. Giungeremo a Palazzo questa sera». «Tutte le mie cose?I miei animali? Non posso nemmeno salutare le mie compagne?» chiese Yasheira preoccupata. «Il Primo Ministro ha ragione, dovete partire immediatamente ma non preoccuparti di ciò: sei stata autorizzata a portare il tuo simurgh e il tuo kocatrix con te anche se arriveranno a Ivas Naren con i tuoi effetti personali al più tardi domani mattina. Alle tue compagne sarà tutto spiegato stasera, anche loro dovranno raggiungere la Capitale al più presto» disse Aledia, la sua voce non
aveva cessato di essere autoritaria anche se vi era una vaga nota di preoccupazione. Non aveva mai brillato per eloquenza o per la particolare capacità di rendere una conversazione accomodante ma certo la tensione del momento doveva averla agitata oltre il normale. La situazione doveva stare a cuore anche a lei, si disse Yasheira che, per la prima volta, vedeva turbata la sua comandante e non impiegata a combattere e a tenere lezioni. Ormai, dopo i primi minuti di smarrimento, anche lei aveva iniziato a comprendere la portata della situazione, prese perciò la parola.«Ebbene, pare sia giunto anche il mio momento, non è vero?» il simurgh gorgheggiò sulla sua spalla mentre, a qualche o, la testa serpentina di kocatrix non riusciva a stare ferma. Primo Ministro e comandante annuirono brevemente. «Sarò in grado di rispondere alle aspettative del Regno?» «Solo i fatti potranno dircelo. Quello che è stato possibile fare è stato fatto. È giunto il Tempo dei Miracoli, il momento in cui tutti noi dovremo combattere per ciò che più ci sta a cuore, per ciò che ci è stato tolto e poi riconsegnato affinché di nuovo possiamo considerarci liberi. Non dovremo combattere solo per il nostro regno, ma per il bene di tutti. Questo è ciò che dovrai capire anche tu se vogliamo veramente poter vivere senza ombre» disse Rifean deciso, scambiando un’occhiata lunga e profonda con la ragazza. Yasheira annuì mentre giungeva ormai il momento, per lei ed il Primo Ministro, di congedarsi da Aledia la quale, dopo un attimo di incertezza, estrasse dalla cintura la frusta arrotolata e la porse a Yasheira. La comandante, la principessa non seppe giudicare in quel momento se la donna coriacea fosse davvero commossa, reclinò appena la testa: «Questa è Rosencrux, la frusta che, di generazione in generazione, si tramandano le comandanti dell’Ordine» ci fu un momento di silenzio, durante il quale Yasheira non credette ai suoi occhi mentre la frusta ava dalle mani della sua superiore alle sue. «Sebbene sembri quasi in tutto simile alla tua il suo potere d’attacco e di difesa è enormemente più grande. Molte delle Comandanti del ato credevano che essa assorbisse parte dei poteri e dell’abilità di coloro che la usavano. Per questo quando viene ata da una comandante all’altra viene versata qualche goccia di sangue». Adele prese la lama che portava al fianco, si recise la punta dell’indice e lasciò che qualche goccia cadesse sul manico della frusta. Yasheira non poté dirsene sicura, ma in quel momento le sembrò che l’aria fosse pervasa dal dolce odore delle aurose in fiore. Emettendo un semplice fischio, fece sì che il simurgh lasciasse la sua spalla per adagiarsi su quella della donna. Per la prima volta in anni di vita collegiale scambiò un breve abbraccio con sua zia, poi dopo aver rivolto ad
entrambi gli animali una carezza d’affetto, seguì il Primo Ministro ed uscì dall’arena e, dopo essersi curata di non essere vista e solo per un attimo, lasciò che le emozioni, fino a quel momento represse, uscissero all’esterno e le velassero gli occhi.
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Due piccoli incrociatori da ricognizione avevano scortato la Darlidan durante l’ultimo miglio che separava lei ed i suoi occupanti dal porto di Ivas Naren: l’equipaggio della nave aveva tentato numerose volte di avviare il contatto tramite globevisor con il porto ma una strana interferenza, che si era protratta fino alle ultime tre miglia dalla costa, aveva impedito da entrambe le parti, di stabilire il contatto. Quando, finalmente, sullo schermo della consolle era comparso il volto di un ufficiale della capitaneria di porto, furono avvertiti dell’imminente arrivo dei due ricognitori che li avrebbero scortati fino al loro approdo già predisposto. Probabilmente, come aveva sostenuto subito Dovan, erano stati avvertiti del loro arrivo. In caso contrario e in mancanza di un contatto, una nave selthoniana in piene acque nareniane sarebbe stata immediatamente oggetto di attenzioni tutt’altro che amichevoli. I soldati a bordo dei due incrociatori, piccoli e agili ma non adatti alla navigazione in Oceano aperto, come aveva detto Andrew, non avevano scambiato una sola parola con gli occupanti della Darlidan, ma si erano limitati ad affiancarla da ambo le parti. Greg iniziò ad avvertire la calura del luogo, poco sotto la linea equatoriale del pianeta, così diverso dal clima più mite di Selthon. Non era solo il clima la differenza principale tra le due potenze, si trovò a pensare poco dopo. Per quanto i porti di entrambe le capitali si somigliassero in maniera impressionante, colori ben diversi da quelli che era abituato a vedere a Selthon tingevano lo spazio che, partendo dalle banchine, si ergeva fino alla sommità del Par Banam: vi era l’arancione delle vele e dei tetti delle case, il rosso della pietra con cui erano costruiti gli edifici, l’acciaio delle turbine delle possenti centrali geotermiche
istallate alle sommità del vulcano infine vi era l’oro rosso delle grandi cupole che adornavano il palazzo reale, certo più piccolo rispetto al pomposo palazzo imperiale di Selthon. Elegante e slanciato, si stagliava sopra la città, al culmine di una serie di ampi terrazzamenti a giardino, sorretti da serie di lunghe colonne che affondavano direttamente nel fianco del vulcano. «Ebbene, ora siete diventati dei girovaghi, cosa ve ne pare di Ivas Naren?» chiese Dovan, non con una certa ironia, indicando, con una mano, un punto imprecisato dell’ampio spazio abitato. «Mi sembra tutto così irregolare. Non c’è traccia di logica nella distribuzione delle abitazioni. Molte si arrampicano sui fianchi del vulcano, anche quello che dovrebbe essere il palazzo. Non è pericoloso?» disse Andrew in tono critico. «Credimi Andrew, il vulcano è l’ultima preoccupazione della popolazione fin dai tempi antichi, da quando riuscirono ad imbrigliarne la potenza per convertirla in energia utile. I nareniani considerano il Par Banam un po’ come il loro protettore, molti addirittura sostengono che più una casa si trova vicina alla sua bocca, maggiore è il prestigio che i proprietari avranno nella loro vita. Non è un caso se il palazzo si trova proprio nel punto più alto e vicino rispetto al vulcano» rispose sorridendo il maestro. Andrew fece roteare gli occhi, aggiungendo che mai avrebbe compreso un nareniano, Mark alzò le spalle in segno di disinteresse, Lisa, assorta, si limitò ad annuire. Deidar e Greg espressero un parere positivo ma non dissero niente di significativo. Dovan, si limitò a sospirare, dicendo che lui, la prima volta che vi giunse, la trovò semplicemente splendida.
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L’accoglienza che ricevettero una volta ormeggiata la nave non fu certo una delle più calorose che Dovan ricordasse nel corso dei suoi numerosi viaggi. Molti volti scuri li circondavano, scrutandoli con malcelata ostilità ma nessuno si soffermava ad osservarli per un tempo maggiore di quello impiegato a mormorare qualcosa tra i denti e proseguire per la propria strada. A poco era valso ammainare la bandiera selthoniana che non aveva mai smesso di sventolare sulla cima dell’albero maestro. La notizia di una nave proveniente
dall’Impero doveva aver fatto il giro della città in poche ore ma poco più di un drappello di persone attendeva il loro arrivo. Il resto della popolazione, malgrado gli sguardi che ogni tanto saettavano in loro direzione, parevano interessati a ben altre faccende. I quattro uomini che li attendevano non si dimostrarono molto più cordiali del resto della popolazione: erano quattro soldati armati di tutto punto, con tanto di elmetti. Andrew e Lisa, ancora memori del trattamento ricevuto a Selthon, malgrado si trattasse di demoni travestiti, si tennero ad una certa distanza, preferendo lasciare in prima linea Dovan, Greg e Deidar. Il primo di essi, dalla pelle scura e con una barba fulva ben curata, dopo che tutti ebbero modo di scendere dalla nave fece cenno ai suoi uomini di perquisirli. Greg incrociò lo sguardo di Dovan mentre il maestro socchiudeva gli occhi e impercettibilmente annuiva. Alle sue spalle Andrew emise un inconfondibile sospiro mentre Lisa, nervosa, si irrigidiva. Il controllo durò qualche istante, alla fine il soldato che aveva dato l’ordine di perquisizione parlò: «Siamo spiacenti di avervi sottoposto ad un controllo ma è stato già difficile farvi sbarcare considerando la delicata situazione in cui si trova il nostro regno». Dovan rispose affabile: «Comprendiamo, non desideriamo arrecare fastidio al vostro popolo più del dovuto» dietro di lui altre cinque teste annuirono. Il soldato parve soddisfatto della risposta e l’espressione granitica parve distendersi. «Io e i miei uomini abbiamo ricevuto l’ordine di scortarvi immediatamente a palazzo» disse poi, facendo cenno a Dovan e ai suoi compagni di seguirlo mentre gli altri tre uomini si disponevano ai lati ed in fondo al gruppo. «Precauzioni necessarie. La popolazione è molto tesa e la regina non vuole che niente turbi l’ordine» mormorò, colui che doveva essere il capitano, in direzione di Dovan. Lasciarono il porto circondati da brusii e da occhiate sospettose mentre i anti adesso, dopo averli guardati insistentemente, si allontanavano con circospezione per poi unirsi a parlare con altri che già avevano assistito al loro aggio. Greg ebbe la sensazione, per la prima volta in vita sua, di sentirsi odiato. Odiato per qualcosa che non dipendeva da lui e che lui, anzi, avrebbe fatto di tutto per impedire. A quanto pare per i nareniani non c’era differenza tra coloro che si presentavano come amici e coloro che, invece, sarebbero presto sbucati dal niente per annientarli. arono attraverso una piazza dalle modeste dimensioni dove, oltre ad alcune bancarelle che vendevano un po’ di tutto, dalle piantine di Bobolcan e scatole di sigari a mantelli dalle tinte rosse, vi si era radunato anche un nutrito gruppo di persone, mentre un’altra, salita su quella che pareva essere una statua o una fontana, pareva intrattenerle. Immediatamente si sentirono tutti gli occhi puntati addosso mentre, dall’alto,
l’uomo puntava contro di loro un dito e con voce stridula e adirata urlava alla folla. «Guardate coloro che sono giunti a noi per spiarci, guardate come la nostra regina li accoglie. Essi portano la sventura da noi. Sono i messaggeri del male!» Lisa si aggrappò al braccio di Greg mentre tutto avveniva in poco più di qualche istante: la folla, fomentata dalle parole dell’uomo e soprattutto libera di poter finalmente sfogare la rabbia contro degli “invasori” materiali, ormai stanchi e provati da giorni di terrore e di minacce che li avevano tenuti svegli la notte, si lanciò sul gruppo come bestie inferocite. Greg fu sballottato in ogni direzione dalla confusione che li stavano travolgendo mentre insulti rivolti a loro e all’Impero piovevano da ogni direzione da volti nei cui occhi si leggeva la disperazione. Le quattro guardie che, a quanto pare, erano adesso chiamate ad assolvere il loro compito, tentarono più volte di richiamare all’ordine la folla. Greg si sentì afferrare per le spalle e tirar indietro mentre altre guardie accorrevano a bloccare la folla, dietro a lui Dovan continuava a trascinarlo. Proprio mentre stava per voltarsi e per proseguire attraverso la strada che il maestro indicava loro, vide qualcosa tra la folla che ancora non accennava a placarsi. Fu appena una visione fugace ma era abbastanza certo di ciò che aveva scorto: due iridi bianche, sotto un cappuccio lo avevano seguito con lo sguardo per un istante, poi, poco più sotto, due labbra si erano piegate in un ghigno di soddisfazione. Quando poco dopo si voltò di nuovo la figura incappucciata, fino ad un momento prima in mezzo alla folla, si era dileguata.
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Appena fuori dalla Base del Deserto non c’era nessun mezzo di trasporto ad aspettarli. Yasheira guardò con impazienza il Primo Ministro chiedendosi se non fosse giunto fin laggiù a piedi. Poco dopo alcuni strani movimenti in una duna la fecero sobbalzare e mettere istintivamente mano alla cintura per afferrare la frusta ed il pugnale. Prima due enormi chele dentate poi due paia di enormi zampe emersero dalla sabbia. Yasheira, prima che Rifean potesse far qualcosa, gli si parò davanti intimandogli di mettersi al riparo mentre faceva schioccare la frusta nell’aria e con un rapido movimento la faceva arrotolare intorno ad una delle enormi chele. Contemporaneamente, assicurando la presa e sguainando il lungo coltello, spiccò un salto, atterrando sul dorso dell’insetto e colpendolo
svariate volte sul dorso. Solo dopo alcuni affondi si rese conto che la corazza del mostro era troppo dura per essere normale e che, qualche metro più indietro, Rifean stava ridendo non proprio educatamente. Yasheira saltò giù dal dorso dell’insetto e si fermò per un attimo ad osservarlo, cercando di capire che cosa avesse destato tanta ilarità al Primo Ministro. Quando poi emerse un soldato in uniforme nareniana dal dorso che invano aveva provato a trafiggere, comprese ed arrossì. Ripose accuratamente la frusta e rinfoderò il pugnale mentre Rifean la raggiungeva. «Se fosse stato vero ti sarei stato molto grato per l’immediato intervento» disse divertito. Il colorito di Yasheira stentò a tornare normale. Rifean proseguì, avvicinandosi all’insetto che, nel frattempo, era totalmente emerso dalla duna. «Questo, altezza, è un Mekabeus. I nostri ingegneri l’hanno progettato perché consentisse rapidi spostamenti nel deserto. Questa è ancora una versione sperimentale, l’ho dovuto strappare delle mani dell’ingegnere capo per poterla utilizzare» Ne esaminò il dorso per vedere se vi fossero segni di scalfiture nella corazza. «Almeno abbiamo constatato che è abbastanza resistente» aggiunse, non trovandone. Yasheira fu fatta salire sul mezzo tramite l’apertura: dentro era piuttosto largo e con sua sorpresa, anche abbastanza comodo. Quando anche il Primo Ministro prese posto e il Mekabeus iniziò a muoversi Yasheira, ancora crucciata e a testa bassa disse: «Mi spiace» Rifean scosse bonariamente la testa. «Va tutto bene, non è successo niente» fece una pausa. «Non preoccuparti, tua madre non saprà niente di tutto ciò». Yasheira finalmente rise di gusto, lo stesso fece Rifean. Gli occhi di entrambi, così simili, non l’avevano mai ingannata. Sapeva benissimo che l’uomo che le stava di fronte era suo padre per quanto a corte tale argomento fosse proibito. Ricordava i giorni in cui, da piccola, sua madre ed il Primo Ministro la portavano, avendo cura di non attirare su di loro sguardi indiscreti, sulla cima del Par Banam per farle ammirare il rigoglioso giardino che era stato costruito proprio sulla bocca principale del vulcano. Erano trai ricordi più felici che possedesse, un ato che, era consapevole, non sarebbe tornato, a meno che non avesse fatto la sua parte per riguadagnarselo. «Riposa adesso, ti attendono momenti faticosi» le disse. Lei annuendo, proprio
come quando era piccola, distese la schiena sul sedile imbottito e chiudendo gli occhi, adagiò la testa sulla spalla del padre.
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Gli stretti e numerosi vicoli della città avrebbero reso l’orientamento impossibile a chiunque, si trovò a pensare Greg mentre, a o spedito, seguiva Dovan. Alle sue spalle continuavano ad avanzare i suoi compagni mentre al suo braccio era ancora saldamente stretta Lisa. Si voltò in quella che credeva fosse almeno la direzione della piazza mentre sentiva ribollire dentro di sé il desiderio di combattere contro, era certo fosse lui a nascondersi là in mezzo, Lord Astaroth. Se da un lato però attendeva ormai da giorni quello scontro, era certo che lui, almeno in quel momento, non volesse combattere ma che piuttosto volesse accertarsi della sua presenza a Ivas Naren. Abbozzò un sorriso obliquo mentre poco dopo urtava per sbaglio Andrew. La strada iniziava finalmente a salire, Dovan rallentò il o ed il gruppo si fermò in uno spiazzo sterrato. «Ce la siamo vista brutta» esordì Deidar, voltatosi ad osservare la parte della città della quale erano scappati e che, adesso, si trovava sotto di loro. Fino a quel momento nessuno aveva ancora parlato, il principe si guardò attorno per vedere le reazioni degli altri. Mark e Andrew si lamentarono di non aver avuto con sé le proprie spade, anche se non le avessero usate avrebbero avuto almeno la certezza di non essere totalmente disarmati. Il volto preoccupato di Dovan era invece diretto verso il porto, dove la loro nave avrebbe potuto costituire un facile bersaglio per coloro che, insoddisfatti per non aver potuto sfogare la loro rabbia contro i nuovi venuti, si sarebbero potuti accanire contro di essa, lasciandogli senza un vitale mezzo di trasporto. «Dobbiamo comprendere, per quanto possa esser stato pericoloso, lo stato d’animo della popolazione. Sta per terminare l’ultimatum e anche per loro questa guerra sta prendendo una strana piega. Sia il nostro impero che il loro regno sono abituati da secoli a combattere guerre lunghe e sfiancanti, il proposito di Samarlec di una guerra senza preavviso deve essere, da giorni, motivo di agitazione pubblica. Naren non sta ando uno dei periodi migliori della sua storia» disse, mentre un’espressione di profonda preoccupazione compariva sul
suo volto. Allargò le braccia e lanciò sulla Darlidan una halos per proteggerla fino a quando non vi avrebbero fatto ritorno e da lontano la nave risplendette per un attimo. «Non sono sicuro che le ragioni di quella sommossa siano tutte dovuto alla guerra. Sono più che certo che ci sia stato qualcosa di più dietro» intervenne Greg incrociando lo sguardo di Dovan. Il maestro alzò un sopracciglio. «Cosa vuoi dire?» Andrew e Mark si voltarono in direzione di Greg, imitando l’espressione sorpresa di Dovan. Greg sospirò, poi si morse la lingua. Non era sicuro che mettere tutti al corrente della cosa sarebbe stata una buona idea. La presenza della loro vecchia conoscenza a Naren complicava notevolmente la loro permanenza. Avere un nemico alle porte che da un momento all’altro sarebbe sbucato fuori senza preavviso era pur sempre un solo problema, per quanto grande, da affrontare. Lord Astaroth tra le mura della città era un problema notevolmente più grande rispetto alla marina Imperiale. Diresse un’occhiata preoccupata verso Dovan, poi parlò. «Credo che l’uomo che parlava alla folla e non escludo la folla stessa, siano state condizionate ad agire così». Dovan dissentì. «No Greg, è impossibile. Pensi forse che ci sia bisogno di un condizionamento per fare agire così la folla? E quell’uomo che la agitava era solo uno dei tanti risentiti, ti assicuro che ve ne sono ovunque, anche a Selthon ho visto cose simili» Gli occhi di Greg rotearono mentre scuoteva la testa. «No che non è impossibile, non se vi è un Pari nascosto tra la folla». In un attimo gli occhi dei suoi amici furono puntati su di lui. «Lord Astaroth è qui. L’ho visto mentre scappavamo» disse, serio. Dovan rise educatamente, Greg lo guardò con stupore. Poco dopo il maestro dette la sua spiegazione. «Vedi le Lune Greg? In questo momento il potere dei Pari è in fase calante, nessun bagliore le circonda. Per loro comparire in superficie sarebbe senza dubbio molto difficile. E anche in quel caso sarebbero troppo deboli per correre il rischio di attaccare», sorrise conciliante, avvicinandosi all’allievo.
«Credimi, in questo momento l’unico problema che dobbiamo affrontare è esser sicuri di aver seminato la folla». Deidar, Lisa, Mark e Andrew parvero notevolmente rassicurati dalle parole del maestro, lo stesso non poté dirsi di Greg che, mentre si rimettevano in marcia verso il palazzo, si chiese se i suoi occhi, giocandogli un brutto scherzo, non avessero voluto assecondare il suo desiderio di confrontarsi ancora col demone.
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Capitolo IV
Profezie
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Nel Galassiah, la dimensione al di fuori del tempo e dello spazio, il cui varco era situato sulla cima del pinnacolo di Mideroa, la Città Celeste, il confine tra realtà e spirito non era molto bene definito. Erano stati gli Angeli Dorati a scoprirne l’esistenza attraverso secoli di studi: esso non constava né di materia né di antimateria, niente al suo interno si poteva esser certi che esistesse veramente. Solo esseri con grandi poteri ed un enorme controllo mentale potevano dirsi al sicuro dalle insidie segrete che abitavano il silenzioso limbo. Non era impossibile perdersi nella sua indefinita vastità: l’uscita era, infatti, certa solo per coloro che possedevano il potere di rievocare la propria esistenza al di fuori di quel luogo, reclamare, per così dire, la propria spazialità e temporalità. Esso si estendeva per l’eternità in ogni direzione ma poteva essere ristretto e contenuto nel più piccolo granello di sabbia. Eppure, anche in quel caso, avrebbe continuato a presentare le medesime caratteristiche, restando invariabile ed immutabile. Ciò che in esso dimora non cresce, o meglio, non è intaccato dallo scorrere del tempo, per quanto il tempo, inesistente in quella dimensione, potesse assumervi un significato. Questo pensava colui che, solo, si aggirava nelle sue immensità: era giovane, almeno per la vita della sua gente, le sue fattezze perfette e delicate, la grande saggezza che traspariva da ogni gesto ed atteggiamento della sua persona. Gli occhi dalle iridi dorate perlustrarono in lungo e in largo la vastità incalcolabile di quel luogo mentre, con una mano, carezzava gentilmente un germoglio. E, come lui, nemmeno quel germoglio poteva dirsi un comune essere vivente. Triste era stato il destino con quelle due essenze vitali, il giovane ed il germoglio, amaro era stato il viaggio che li aveva condotti in un mondo alieno e lontano. Ausel, il Signore di Mideroa non era mai guarito dalle ferite indelebili del suo ato poiché lo stesso germe malvagio si annidava anche in quel luogo così lontano dal suo mondo ormai perduto.
Un nuovo Tiranno, non dissimile negli intenti da colui che aveva portato alla distruzione il suo antico mondo, imperversava e dominava anche quel giovane pianeta. E, con rammarico, doveva ammettere che nemmeno lui, il più saggio degli Angeli Dorati, sapeva porvi un rimedio, ricacciare quel mostro dal profondo abisso dal quale era sorto per dominare gli esseri più indifesi e numerosi del pianeta. Fissò il germoglio: nei suoi occhi dorati vi erano, allo stesso tempo, amore, comione, gioia, tristezza e dolore. Esso, non meno di lui e della sua guida, rappresentava per il popolo esule la speranza. La speranza, ciò che, fin dai primordi, aveva guidato la sua gente, lo stava abbandonando poiché i tempi divenivano ogni giorno più cupi e dolorosi: un’ombra scura, una nuova minaccia, stava calando sui suoi simili e presto sul mondo intero. La sua sofferenza era silenziosa, sperava nel miracolo, che la speranza tornasse ad animare le azioni del suo popolo e degli uomini. Scosse la testa, sul suo volto comparve una lacrima rosso rubino: essa non sarebbe tornata e l’inevitabile sarebbe di nuovo accaduto. Il sovrano iniziò a mormorare tra se, dapprima a bassa voce, poi sempre più concitato: il terrore si stava infiltrando in lui come un tarlo, cercando di far mente locale sulla grave situazione che certamente si profilava in un vicinissimo futuro. «La mia guida, come quella di mio fratello, non è salda perché possediamo troppa poca esperienza. Questo mondo ci è avverso e gli uomini, sebbene abbiano riconosciuto la nostra conduzione, sono troppo deboli per fronteggiare la razza del sottosuolo e noi, d’altro canto, troppo pochi per combattere il loro nemico adeguatamente. Strani fermenti agitano il consiglio e gli uomini del mio venerabile fratello» fece una pausa mentre la bocca gli si riempiva d’amaro. «Questo mondo ci sta portando infine alla rovina predetta dall’Usurpatore». Non poteva accadere di nuovo, il divino Heinar non avrebbe dovuto permetterlo, pensò, prima che la dimensione fosse attraversata dal suo urlo di dolore. La rabbia gli divampò dentro come una fiamma. Rivisse gli ultimi attimi di vita di quel mondo un tempo felice e benedetto. Città rase al suolo, interi continenti devastati dalla furia dell’Usurpatore, milioni di vittime, la pace tanto a lungo e faticosamente cercata polverizzata, pianeti interi ridotti a cumuli di asteroidi, cancellati per sempre insieme ai loro abitanti, dall’universo.
Il Galassiah, squarciata da esso, tremò per alcuni attimi, come partecipe della sofferenza del suo visitatore. Ausel si accasciò a terra, il volto tra le mani: «Divino Heinar, Saggi Antenati, Nalar padre mio, perché avete abbandonato i vostri figli? Le nostre azioni hanno offeso la vostra memoria a tal punto?» disse, con la voce rotta e tremante, così diversa da quella ferma e controllata che era stato istruito ad usare. Non era più il momento di seguire regole antiche di comportamento, quel momento di estrema solitudine nel quale non aveva voluto altri, neppure i quattro che nella vita gli erano stati accanto come fratelli e amici, era una sfida contro tutto ciò che fino ad allora non era stato in grado di cambiare, persino contro se stesso. E il miracolo, l’evento che, pur non confessandolo mai a se stesso, aspettava con trepidazione, avvenne davvero. Dal profondo della dimensione, una luce, un raggio dorato, più potente dell’esplosione di mille stelle, attraversò quello spazio in tutta la sua estensione. Ausel si riprese immediatamente dallo stato di prostrazione nel quale era caduto e si mise in piedi, guardando affascinato la luce ignota che si era manifestata. Sorrise, era certo della benigna natura di quell’apparizione che con altro nome che divina non poté definire e le andò incontro, immergendosi completamente. Sentì il proprio spirito dapprima rinfrancarsi poi avvertì crescere le proprie percezioni, la vista si abituò, discernendo una figura, grande e maestosa, contornata da altre di non meno gravità. Figure maschili e femmininili si avvicendavano in quella visione: non poteva dirsene assolutamente certo ma in quei pochi istanti vide molti dei volti che avevano circondato la sua infanzia. Marsiel di Ambriel, la grande legislatrice accanto Barubel di Tarossa suo sposo, Issael di Bryna chiamato l’Architetto, Orosiael di Ultharias il più grande Oniromante mai conosciuto, più splendente di altri vide Godrael, il primo a ricevere il titolo di Padre degli Angeli e a ricevere la benedizione di Heinar e poi, commosso, riconobbe la sagoma delicata e diafana di sua madre, la bellissima Cassiel di Carmissa. Si inginocchiò infine, questa volta non piegato dal dolore ma commosso da quella visione quando, in quella sfavillante miriade di luci, vide il volto di suo padre. Lacrime copiose color rubino iniziarono a rigargli il volto perfettamente ovale mentre sul viso di Nalar, incorniciato da una folta barba, appariva un sorriso mesto, comprensivo ed una mano eterea si allungava per sfiorare la testa del figlio. «Non siamo sordi alla tue preghiere, figlio mio. Dal luogo del nostro
riposo io e tutti gli altri grandi che fecero del nostro popolo il più saggio dell’Universo, ascoltiamo e vegliamo su di voi, nostri ultimi figli». Ausel avrebbe quasi giurato di aver avvertito il calore della mano del genitore, poi alzò gli occhi e ne incontrò lo sguardo. «Padre, mio, Saggi Avi, cosa sarà infine di noi ultimi vostri figli esuli su un pianeta così lontano dalla nostra ata grandezza?» chiese. Le molte persone comparse parvero riunirsi, divenendo un’unica massa dorata e sfavillante, le loro sagome si confo mentre, come un gioco di luci, si congiungevano e si allontanavano, quasi danzando. Poi tutto parve tornare al suo posto e Nalar fu di nuovo davanti a suo figlio mentre, di lato, era comparsa Marsiel, madre dei quattro reggenti del trono. In quel momento il sovrano desiderò che anche coloro che considerava come fratelli minori fossero lì con lui per vedere una volta ancora l’amata madre, colei che alla fine dei giorni del loro glorioso pianeta natale si era sacrificata combattendo contro l’Usurpatore affinché l’albero del Sud non cadesse definitivamente nelle sue mani e uno sparuto gruppo di fuggiaschi, tra cui, appunto, i suoi figli, riuscisse a mettersi in salvo sul remoto pianeta da poco scoperto e raggiunto dalle propaggini dell’albero. Poi Nalar parlò: «Quello che dirò ora è ispirato dai pensieri del grande Heinar, creatore del tutto e noi, come suoi emissari in questo luogo e ai tuoi occhi, le riporteremo fedelmente». Un coro, che pareva giungere da ogni direzione del Galassiah ma allo stesso tempo era sicuro provenisse dalle figure comparse e quasi uscisse anche dalla sua bocca, si levò, celestiale ma allo stesso tempo chiaro e limpido come la materia che costituiva quel piano fuori dalla realtà.
Nell’anno in cui le Lune oscureranno il Sole Gli uomini combatteranno i demoni con valore, Niente fare potrai Per impedire ciò che poi vedrai
E dopo tanta sofferenza Qui in questo mondo, capirai, sta la vera esistenza.
Colui che un tempo ti fu fratello Vedrai scendere al più infimo livello. Un altro ne prende il posto Ma di lui sappiam poco un velo lo rende nascosto.
Un altro ancora perderà qualcosa Nel suo cuore da allora la bestia riposa Con lacci e catene essa sarà limitata Fino a quando l’anima con l’amore non sarà liberata. Riportalo a noi, questo ti è chiesto Anche se da molti sarai poi contesto.
Un nuovo mondo giungerà alle porte Nuove speranze nell’uomo dovranno esser riposte L’erede da Sopra le Acque dovrete salvare Poiché è nel suo cuore che dovrete sperare Di portare la pace ed un mondo diverso Dove il destino non sarà più avverso.
L’Uomo e la Pietra, rammenta il aggio Dovrete proteggere con amore e coraggio Altri eredi valorosi lo accompagneranno Per battere infine l’antico Tiranno.
Soffrirai e sarai grande figlio mio Anche se con il Lungo Sonno pagherai il fio Che da te non fu commesso Ora va perché ciò che ti abbiam professo Della somma volontà è il riflesso. Và figlio mio, che il tempo non aspetta Laddove il mondo cambia troppo in fretta La ruota del destino vola nel vento Gira, gira non si ferma mai un momento.
Alcune di quelle parole resero perplesso il giovane sovrano altre invece, tristemente, confermarono alcuni suoi cattivi presentimenti. La sua mente straordinaria cercò di associare logicamente quelle parole a persone esistenti ma esse sembravano non aderire o aderire solo in parte ad alcuni degli esseri menzionati nella profezia. Confuso e disorientato, non si accorse di quel soffio di vento etereo, quasi un coro che lo investiva, scompigliandogli appena, impercettibilmente, le ampie volute delle preziose vesti. Si alzò, attorno a lui, come se tutto fosse durato lo spazio di un battito di ciglia, il vuoto, o meglio, l’impalpabile materia che costituiva il Galassiah. Suo padre e i saggi che, in
tempi remoti, lo avevano istruito erano stati latori di una grave profezia che adesso gli pesava sul cuore più di ogni altro pensiero che fino a quel momento avrebbe potuto credere di sopportare. Si era reso conto, definitivamente e per la prima volta da dall’inizio di quell’esilio che non aveva scelto né lui né la sua razza, di quanto fosse difficile governare, prendere scelte, costituire il faro per un popolo intero, anzi, per un intero mondo. I suoi occhi vagarono nuovamente per lo spazio, cercando qualcosa, qualcosa che, ne era assolutamente consapevole, non avrebbe mai trovato là dentro: la Speranza. Ma contrariamente a quanto avrebbe potuto supporre la trovò: la profezia non era stata il solo dono dei suoi predecessori. Là dove, fino a poco prima si trovava un tenero germoglio vi era adesso un albero dalle dimensioni incredibili. Gli ci volle qualche istante per realizzare la cosa, poi un sorriso, tanto opaco adesso per quanto, in un altro tempo, avrebbe potuto essere radioso: il germoglio, in un’evoluzione miracolosa, era fiorito dapprima poi cresciuto ed infine, in un fenomeno esponenziale, si era trasformato in un colossale ed imponente albero i cui rami si perdevano negli spazi della dimensione in un senso mentre, diametralmente opposte, estese forse quanto i rami, vi erano le nodose radici. I rami, in un istante che cambiò quasi radicalmente l’atmosfera del luogo, si coprirono di gemme verdi per poi sbocciare in fiori argentati dai petali minuscoli. Al soffio di quel vento etereo che ancora spazzava come un’anima viva quella dimensione, si sparsero in ogni direzione, brillando del potere e della stessa luce che, dal punto più remoto dell’universo, aveva dato inizio alla Creazione.
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Percorsero alcune delle numerose rampe che, come avevano visto da lontano, costituivano l’accesso al palazzo reale. Alcune di esse, sorrette da altissimi colonnati, lasciavano spazio, più in basso, a rigogliosi giardini. La salita durò più di quanto Greg avrebbe mai immaginato: molte volte si erano trovati così vicini al palazzo che quasi potevano sbirciare attraverso le ampie finestre, a volte abbastanza lontani da poterlo vedere per intero. Andrew chiese più volte a
Dovan se per caso non avesse dimenticato la strada per arrivare all’ingresso principale, il maestro, spazientito dopo la quinta volta, gli intimò di stare zitto. Oltrearono infine, un lungo corridoio ai cui lati erano poste due lunghe processioni di statue raffiguranti Flammaria, la divina protettrice del regno. Le ultime due statue del corridoio giacevano però con le ali spalancate, impedendo loro, di fatto, di are oltre. Greg restò per qualche secondo sbigottito quando gli occhi rubino delle due statue si illuminarono e dalle loro bocche uscì una voce metallica. «Prego annunciarvi» dissero in coro. Mark gli si avvicinò «Che razza di magia è questa?» chiese. Greg alzò le spalle, non aveva mai visto niente di simile prima d’ora e di solito le cose più strane che avesse visto in vita sua erano opera di qualche magia. «Non è opera di magia» disse quindi Andrew dando dei colpetti con una nocca a una delle statue. «Si tratta di tecnologia». Dovan annuì mentre le statue ripetevano di nuovo l’invito ad annunciare la loro presenza. «Maestro Dovan e i suoi allievi» disse quindi con voce chiara. Le due statue, simultaneamente, ritrassero le ali, aprendo davanti a loro il aggio e quello che, probabilmente, data l’impressionante maestosità, doveva essere l’ingresso del palazzo reale. Un lungo viale con due lunghi porticati con colonne plasmate a foggia di fiamma accolse i sei mentre scendevano una monumentale scalinata. Dovan rise divertito nell’osservare i volti finalmente stupiti dei suoi allievi: potevano non condividere e contestare il suo giudizio sul panorama di Ivas Naren ma la bellezza del palazzo reale li avrebbe per forza colpiti. Un paio di persone, vestite di rosso, e occupate a parlare gli arono accanto senza prestargli molta attenzione, poi, arrivati alla fine del lungo viale due guardie, in uniforme non dissimile da quelle che indossavano i soldati che li avevano scortati poco prima, aprirono per loro la colossale porta, sulla quale campeggiava, scolpita, l’immagine di Flammaria.
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Sebbene avesse trascorso gran parte della propria esistenza in un palazzo reale, Deidar si accorse di quanto diversa fosse la concezione che ogni popolo, e quindi ogni re e regina, aveva a proposito del titolo e dell’istituzione reale. Se in quella che era casa sua si respirava tranquillità e ogni elemento trasmetteva e infondeva calma a chiunque vi entrasse, si stupì di vedere invece di quanto in ciò differisse il palazzo reale di Naren. Dopo l’ingresso monumentale e l’attraversamento del portone si erano trovati dentro ad una sala circolare dalla quale si snodavano tre rampe di scale, incorniciate da tre grandi volte. Come all’esterno colonne di marmo rosato decorate come fiamme ornavano le pareti della sala e, riprodotte in piccolo, anche le balaustre delle scale. Immancabili, ma Deidar non si stupì poiché anche il suo palazzo ne esibiva molti, lunghi arazzi pendevano dal soffitto, ognuno recante come simbolo un fiore simile ad una rosa oppure un volatile con numerose paia di ali che non poteva che essere Flammaria. Si fermò, insieme agli altri, al centro di essa e attese che Dovan scegliesse la scala da salire. Attorno a loro eggiava qualche dignitario, altri invece sembravano portantini che, di corsa, percorrevano a lunghe falcate le gradinate. C’era del fermento a corte, pensò tra sé il principe, ma c’era troppa calma, almeno in quel luogo, perché tale frenesia fosse dovuta alla guerra imminente. Dovan scelse quindi la scalinata centrale che, coperta da un lungo tappeto rosso, faceva un’ansa e poi saliva verso l’alto, dentro quello che sembrava uno dei torrioni che avevano visto da lontano. Infine, quando davanti a loro si pararono due statue molto simili a quelle che avevano chiesto loro di annunciarsi, furono certi di essere in prossimità della sala del trono. Gli occhi delle due statue si illuminarono, lasciandoli questa volta are senza chiedere la loro identità. Le ali si ripiegarono con un movimento veloce, svelando una scalinata questa volta più piccola che li portò davanti ad una porta, sorvegliata da due donne in armatura che, inchinandosi, li fecero are. Deidar le guardò un attimo: non aveva mai visto, fatta eccezione per le sue sorelle, due donne in uniforme e che, a quanto pare, assolvevano una funzione più importante di quella dei colleghi uomini. Sospinto alle sue spalle da Andrew, entrò, insieme agli altri, nella sala del trono.
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Nailie aveva da poco ricevuto la notizia dei disordini che avevano avuto luogo in città. All’ingresso dei suoi ospiti nella sala li accolse con espressione accigliata. Le sei persone che vi entrarono percorsero qualche o per poi inchinarsi al suo cospetto: in prima linea riconobbe immediatamente Dovan, ai suoi lati altri giovani e se non si ingannava vi era pure Deidar di Renodia. I suoi occhi acuti e penetranti cercarono di indovinare quale di loro fosse il tanto atteso Erede: forse il ragazzo con i capelli scuri a spazzola? O forse quello riccioluto che stava accanto ad un altro con i capelli castani lunghi. «Alzatevi pure» disse dopo esser giunta alla conclusione che l’Erede potesse essere chiunque di loro. Dovan incrociò il proprio sguardo con quello della regina: non la vedeva da qualche anno, forse due, cercò di ricordare ma, fatta eccezione per la lunga chioma corvina che iniziava a mostrare i segni dell’età, non era affatto cambiata. Sul suo viso campeggiava sempre l’espressione dura e pungente che aveva posseduto fin da giovane e che adesso, maturata, non dava segno di voler abbandonare. «Maestà, è un piacere ritrovarla in piena salute. Possa la Signora del Sud mantenerla sempre vigile ed in buona salute» disse Dovan esibendosi in un nuovo inchino. «Vorrei poter dire lo stesso, maestro Dovan, ma mi sono appena giunte notizie che funestano ulteriormente la vostra venuta nel mio regno. Vorrei ricevere dirette spiegazioni per una sommossa scoppiata a causa vostra in città». Greg, al fianco del maestro strinse i pugni. Non era stata affatto causa loro. «Niente che non si sia visto prima di ogni guerra, maestà» rispose fermamente Dovan. «Guerra mi dici? Questa non è guerra, questa è follia. Non vi è niente di simile ad una guerra in ciò che il mio popolo sta vivendo da quando Samarlec ha fatto la sua dichiarazione. Lui è forte di quella Profezia e niente potrà distoglierlo dai suoi intenti, nemmeno la tua presenza» ribatté col tono di voce che saliva parola
dopo parola. Le sue mani strinsero i braccioli del trono su cui sedeva ed il suo busto si sporse in avanti, lasciando che la folta chioma le ricadesse sulle spalle. Controbatté Dovan. «Le Profezie si smentiscono maestà. L’imperatore sacro non esiste e credimi Levian Dorhan VII non gli corrisponde di certo. Samarlec sta solo usando a suo vantaggio una credenza vecchia di secoli». «Se pensi che io ti faccia entrare nel mio regno per dirmi come agire e a cosa credere, Dovan, ti sbagli di grosso» disse mentre i suoi occhi saettavano in direzione del maestro. Greg si ritrasse, lo stesso fecero i suoi compagni dietro e accanto a lui. Solo Dovan avanzò di qualche o, non facendosi intimorire dal tono della regina. «Nailie, questa è guerra. Tu e il tuo popolo non ne avete affrontata mai una simile. Samarlec sta facendo molto di più che radunare la flotta Imperiale e lanciarla al macello contro la tua. Non ripeterà gli errori che in secoli di conflitti non hanno mai permesso all’una o all’altra potenza di prevalere definitivamente». Fu Nailie questa volta ad arretrare e ad appoggiarsi allo schienale del trono. «Cosa intendi?» la sua voce aveva perso un po’ della sua forza. «Da quanto non ricevete informazioni dai domini che possedete sulla costa?» Nailie ebbe un fremito. Possibile che fosse a conoscenza dell’interferenza che da alcuni giorni rendeva impossibile ogni comunicazione tramite globevisor? «Da alcuni giorni» rispose secca lei. Dovan sospirò profondamente.«Samarlec ha costruito una base sottomarina invisibile ad ogni globevisor a meno di un giorno da qui. Dentro di essa, in attesa, ha raccolto tutta la marina Imperiale». Nailie riacquistò un po’ della sua forza. «Impossibile, ce ne saremmo accorti. Una base delle dimensioni che tu dici non può are inosservata facilmente. Oppure pensi che io sia diventata cieca?» sorrise ironica. «Vedo che non è possibile ragionare e che non solo la cecità ma anche la sordità si è impadronita della regina di Naren. Dov’è il Primo Ministro Rifean? Conferirò con lui» chiese, alzando di un tono la voce. Greg si stupì nell’udire tali parole uscire dalla bocca di Dovan. Normalmente
sarebbe stato rispettoso nei confronti di un monarca, ne aveva avuto la prova durante il loro soggiorno a Renodia. Questa volta, invece, aveva trattato la regina quale sua pari. Nailie parve a sua volta infastidita dalla richiesta di Dovan. Si alzò dal trono, le due donne che stavano ai suoi lati si guardarono l’una con l’altra, chiedendosi che cosa avesse in mente la loro regina. «Il Primo Ministro tornerà a palazzo stasera. Nel frattempo desidero che tu con i tuoi allievi vi congediate. Riceverete istruzioni più tardi». Dovan abbozzò un sorriso poco convinto e si inchinò, imitato immediatamente dagli altri cinque. Dall’esterno della sala le due donne che li avevano accolti riaprirono i battenti della porta. Dall’estremità opposta, la voce, questa volta divertita, di Nailie li raggiunse. «Desidero conferire con colui che custodisce il segreto». Una testa si voltò, se non si sbagliava doveva trattarsi del ragazzo con i capelli castani, gli altri cinque si fermarono a loro volta. Dovan bisbigliò alcune parole nell’orecchio del proprio allievo poi, insieme agli altri, sparì dietro la porta.
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“Vediamo se tu riesci a convincerla”. Greg ripensò alle parole che qualche istante prima Dovan gli aveva sussurrato mentre avanzava lentamente verso il trono sul quale era di nuovo seduta la regina. Lei gli sorrise mentre era sicuro che con gli occhi lo stesse studiando accuratamente. Per la seconda volta in vita sua si trovava a dover parlare con un monarca. Credeva che, superato l’imbarazzo della prima volta la seconda sarebbe andata meglio, invece si vide costretto a ricredersi. Nailie era incredibilmente diversa da Talandria, se ne era accorto poco prima. Quanto la regina di Renodia era calma, a tratti si era dimostrata materna nei suoi confronti, tanto adesso era incerto di quello che avrebbe dovuto aspettarsi dalla regina di Naren. «Quindi tu saresti colui nel quale sono riposte tutte le speranze del nostro mondo». Greg si limitò ad annuire, aveva scorto, nelle parole della regina, un velo di ironia. Probabilmente avrebbe creduto di trovarsi davanti un guerriero piuttosto che un ragazzo.
«Confermi ciò che ha detto il tuo maestro poco fa? Saresti pronto a giurare sulla missione che ti è stata affidata?» chiese lei mentre le lunghe dita tamburellavano sui braccioli del trono. Greg annuì nuovamente. «Con i miei occhi, maestà, ho visto ciò di cui il maestro Dovan parlava». L’espressione della donna non mutò, nemmeno per annuire brevemente. Con poco più di un sussurro la regina congedò le due donne che sparirono da una porta su un lato della sala. Dovevano essere piuttosto giovani si trovò a pensare Greg mentre le seguiva con lo sguardo. La voce di Nailie riportò la sua attenzione a lei. «Qual è il tuo nome?» chiese, guardandolo dritto negli occhi. «Greg…volevo dire Gregris maestà» rispose. Gli occhi della regina si fecero ancora più acuti. «Non mi pare un nome consono per colui che, se ne avesse il potere e l’ambizione, potrebbe rivendicare per se e i suoi discendenti la corona imperiale» disse dopo qualche istante. Greg fece un o indietro. ‘Corona imperiale’?
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I raggi del pomeriggio afoso non accennavano a placarsi. In un primo momento avevano deciso di attendere il ritorno di Greg sotto uno dei porticati fuori dal palazzo, poi, per iniziativa di Dovan, si erano spostati verso un’altra zona di Ivas Naren che, aveva detto il maestro, sarebbe riuscita a far dimenticare addirittura la fame a Andrew. Quest’ultimo, che fame aveva davvero, brontolò qualcosa in direzione del maestro, suscitando l’ilarità generale. Quando, mezz’ora dopo, giunsero nel luogo che Dovan aveva scelto di mostrare loro, Andrew perse non solo la cognizione del pranzo, ma di tutti i pasti della giornata. Davanti a loro, imponenti e gremite, si stagliavano le Officine Militari di Naren, luogo nel quale venivano messe a punto e studiate i frutti della ricerca militare del regno. Dovan li fece attendere per un attimo poi entrò in tutti i capannoni, come se stesse cercando qualcosa. Al terzo tentativo riemerse con un uomo alle sue spalle. Alto, massiccio e dalla carnagione scura, portava un turbante rosso e numerosi
orecchini pendevano dal naso, dalle orecchie e dalle labbra. Quando tornò dai suoi allievi presentò quello che sembrava essere un suo amico di vecchia data. «Permettete che vi presenti Abares Bugh Dail, ingegnere capo di Naren». L’uomo, sebbene l’aspetto fe presumere modi brutali, si inchinò educatamente davanti a Lisa e poi strinse, sorridendo, le mani di Mark e di Deidar. Quando giunse ad afferrare la mano di Andrew ebbe un sobbalzo mentre dalla sua bocca usciva un’esclamazione. «Per le piume di Flammaria. Qual è il tuo cognome, ragazzo?» Gli occhi di Dovan, Mark, Lisa e Deidar andarono dall’ingegnere a Andrew numerose volte finché quest’ultimo, non comprendendo cosa avesse suscitato nell’uomo tanta sorpresa disse: «Olinori. Sono Andrew Olinori». Bugh Dail proruppe in una risata tanto forte che il ventre sobbalzò diverse volte, poi assestò una pacca alla schiena di Andrew e gli strinse calorosamente la mano. Andrew era ancora intontito dal colpo quando l’ingegnere, con voce entusiasta disse: «Avevo visto giusto allora, ero sicuro di non sbagliarmi. Tu sei il figlio del grande Enif! Sono mesi che non ho sue notizie. Come sta il tuo vecchio? Sempre indaffarato?» Fu Andrew adesso ad essere stupito: come faceva l’ingegnere capo di Naren a conoscere suo padre, un tenente della marina imperiale? «Mi scusi signore, ma non capisco» disse, mentre alle sue spalle Mark e Lisa continuavano a scambiarsi occhiate perplesse. Solo Dovan, tralasciata l’iniziale sorpresa cominciava a comprendere la situazione, così prese la parola. «Andrew, non sai chi è tuo padre?» Il ragazzo lanciò un’occhiata in tralice al maestro. «Mio padre è morto tre anni fa. E so benissimo chi era. Era il tenente della marina Imperiale Enif Olinori» il suo volto si era e la sua pelle olivastra divenuta rossa «Non era niente di più» concluse secco, allontanandosi seguito dagli altri tre. Bugh Dail parve rammaricato e biascicò qualche parola di scusa, dicendo di essersi sbagliato. «Nessun errore, Abares. Lui è davvero suo figlio. Avevo notato anche io una certa somiglianza, ma non ne sono stato certo fino a quando non hai riconosciuto la somiglianza anche tu». «Non mi risultava che fosse morto, intendo, non da così tanto tempo». «Non è morto, infatti. Fa parte della cerchia degli uomini più fedeli a Samarlec e
credo che sia stato lui a progettare il mostro tecnologico con cui Samarlec vuole mettere in ginocchio il vostro regno» concluse Dovan. Bugh Dail mormorò qualcosa a bassa voce, stringendo furente uno dei grossi pugni e levandolo in alto, verso il mare.
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Il chiasso dell’enorme hangar in cui era entrato sperava potesse allontanare i pensieri che adesso, come colpi di artiglieria, lo colpivano senza sosta. Suo padre, l’uomo che aveva adorato come un semidio, per la cui morte non aveva avuto pace non era chi aveva sempre creduto che fosse. E soprattutto, almeno da quanto era riuscito a scorgere dall’espressione attonita di Bugh Dail e dalle parole di Dovan che ne aveva parlato al presente, era ancora vivo. Nessuno prestò attenzione a lui quando, furente, indirizzò su una delle pareti numerosi pugni, ognuno per un motivo diverso: per gli anni ati senza un padre, per sua madre, per tutte le menzogne che gli aveva raccontato. Stava per sferrare un nuovo pugno ma la stretta di Deidar e di Mark lo bloccarono. Provò a divincolarsi ma poi lasciò perdere. «Come stai?» gli chiese Lisa, sopraggiunta in quel momento. Andrew la guardò, inespressivo, gli occhi la oltreavano senza soffermarvisi. «Vuoi sapere come sto? Uno schifo. Credevo che le menzogne riguardassero solo il ato di Greg, non il mio. Ora capisco cosa deve aver ato, capisco persino alcune delle sue reazioni più azzardate. Se avessi i suoi poteri adesso anche io sarei tentato di inchiodare un demone ad un muro» replicò amareggiato. Gli altri ammutolirono il mezzo al frastuono dell’hangar. C’era poco da dire, non potevano fare altro che annuire silenziosamente alle parole dell’amico. Furono raggiunti poco dopo da Dovan e Bugh Dail, entrambi si scusarono con Andrew per non essere riusciti a metterlo a conoscenza della cosa senza scatenare in lui quella reazione. Andrew cercò di smorzare i toni mostrando un sorriso stirato. «Anche io avevo avuto dei sospetti» disse «quando siamo ati di fronte alla base ho letto le coordinate dalla mappa della Darlidan. Erano le
stesse indicate come luogo della morte di mio padre». Dovan inarcò un sopracciglio e a bassa voce disse quanto tutto ciò gli sembrava strano, certo doveva trattarsi di una svista colossale. Bugh Dail, sentendosi ancora colpevole di quell’episodio, sperò, conoscendo il padre, che ugualmente suo figlio sarebbe stato impressionato da ciò aveva intenzione di mostrargli. Uscirono dal magazzino utilizzando una porta secondaria e percorsero uno stretto e lungo corridoio coperto che sembrava scendere nel sottosuolo. Alla fine di esso una porta metallica sul quale, stilizzata, campeggiava l’immancabile immagine di Flammaria. Per tutto il tragitto Bugh Dail aveva mantenuto lo stretto riserbo su cosa stesse per mostrare ai suoi ospiti ma non poteva fare a meno di sorridere ampiamente tutte le volte che si voltava verso di loro. Andrew iniziava a trovare simpatico quell’uomo e lo trovò ancora più simpatico quando, estraendo due chiavi dal mazzo che portava al collo, aprì la porta, rivelando un hangar dalle dimensioni almeno triple di ogni altro che si trovasse in superficie. Nel suo ventre enorme un numero impressionante di uomini lavorava senza sosta attorno ad una macchina imponente, interamente di metallo, sorretta da numerosi bracci meccanici. Andrew la osservò a bocca aperta e fece alcuni i in avanti, staccandosi dal gruppo. Dietro di lui Bugh Dail non aveva ancora smesso di sorridere. «Benvenuti nel luogo dove prendono vita le mie magie» disse, strizzando l’occhio in direzione di Dovan che rispose con un sorriso. Con orgoglio indicò la forma ancora indefinita che i suoi uomini stavano assemblando. «Vi presento il Laas Flammaria, la prima macchina volante che Naren abbia mai progettato». Indicò loro la copertura di Eritrelio che rendeva la nave resistente ai colpi di artiglieria a calori insopportabili, la cabina di pilotaggio progettata a forma della testa di Flammaria e le grandi ali che, depositate in un angolo dell’enorme hangar, attendevano di essere montate. Lisa guardò scettica l’ingegnere. «Davvero questa macchina potrà volare?» L’espressione soddisfatta di Bugh Dail scivolò dal suo volto in un attimo. «Effettivamente ancora non siamo in grado di farla volare. Ci stiamo provando…» disse, biascicando confuse spiegazioni. «…ma non riuscite a farla volare perché anche un motore al Varnelio tra i più avanzati pesa troppo o comunque sottrarrebbe troppo spazio all’abitabilità del mezzo, rendendolo, di fatto, inutile».
Il volto di Bugh Dail si illuminò «Sono senza parole. Sei veramente il degno figlio di tuo padre». Andrew arrossì, non dalla rabbia questa volta: per la prima volta qualcuno apprezzava le sue intuizioni. Qualcuno che non fosse suo padre, naturalmente. Poco dopo Dovan prese da parte l’ingegnere capo, mentre Andrew, seguito dagli altri, faceva un giro della nave volante. «Avete adottato delle misure di controllo ulteriori per proteggere la Pietra?» gli chiese a mezza voce. Bugh Dail rise di gusto. «Vecchio mio, ma per chi mi hai preso? Io stesso ho migliorato e studiato le protezioni. La pietra non è mai stata più sicura». Dovan non parve soddisfatto. «Niente magia, non è vero?» chiese. L’altro aprì le braccia, dietro di se il continuo sferragliare metallico. «A Naren sosteniamo che la tecnologia sia impareggiabile. La magia è un retaggio dei tempi antichi. Se vogliamo seriamente proteggere qualcosa di così prezioso è alla tecnologia che dobbiamo guardare». «Insisto perché domani possa visitare il Santuario» disse Dovan, apprestandosi a raggiungere Andrew nel giro intorno al Laas Flammaria mentre a Bugh Dail non restava che annuire alla richiesta dell’amico. ‡
Nailie scese lentamente i gradini che separavano il suo trono da Greg che, attonito, la fissava senza parlare, solo muovendo le labbra, incapace di dire qualcosa. «Seguimi» gli disse mentre si affacciava alla vetrata che occupava un quarto della sala del trono e dalla quale entrava generosamente la luce del sole. Sotto di loro come tanti sassolini colorati di rosso, si stagliava Ivas Naren, più lontano il porto non meno colorato, dove l’arancione si fondeva con i toni dell’azzurro fino a degradare nel blu dell’Oceano lontano. «A me e alla mia dinastia è stato affidato millenni fa il compito di portarti a conoscenza del tuo ato. Sai dove sei nato?». «Credo di conoscere già la risposta. Pensavo di essere nato a Selthon, invece qualche tempo fa ho scoperto di essere nato nell’antico Impero».
Gli occhi di Nailie ebbero un guizzo.«Immaginavo che Talandria avrebbe cercato di prepararti alla cosa. Gli Esperidi hanno cantato, non è vero?» Greg annuì. «Tu sei il primo nato dell’ultima coppia Imperiale legittima di Talarana. Tua madre era figlia dell’imperatore e tuo padre regnava su Selthon, allora niente più di un regno» disse, non potendo fare a meno di parlare con voce sprezzante. Greg la interruppe. «Non capisco perché dovrei reclamare il titolo imperiale. Selthon ha già un imperatore» disse convinto. «Certo, ha un imperatore ma non è detto che sia quello giusto». Nailie rise di gusto e Greg pensò che stesse per dire qualcosa a proposito di Levian Dorhan VII o della profezia che aveva menzionato prima mentre parlava con Dovan ma non lo fece. Anzi, parlò di tutt’altro. «Le radici del conflitto tra Selthon e Naren sono molto antiche, risalgono a circa sedici secoli fa quando, per l’ultima volta, si cercò di ricostruire il Glorioso Impero» con la mano indicò qualcosa di vago in direzione dell’Oceano. «Nethun III sposò una mia ava, la principessa Mitares in una delle cerimonie più sfarzose che il pianeta ricordi. Tutto sembrava propizio per una nuova rinascita, per allontanare una volta in più lo spettro di nuove guerre causate dalle rivendicazioni territoriali» si voltò verso Greg, il suo tono divenne sarcastico. «Purtroppo non fu così. La concordia durò che qualche anno, dopo i quali, in mancanza di un erede legittimo il borioso Nethun III ripudiò la mia antenata, suscitando sdegno in tutto il mondo e causando una serie infinita di guerre che, come tutti sappiamo, continuano ancora oggi» Greg si chiese per un attimo se l’imperatore non avesse ripudiato l’antenata della regina anche a causa del pessimo carattere. «Non credo che Selthon e Naren combattano ancora per gli stessi motivi di un tempo» disse inarcando un sopracciglio. «Non capisco cosa abbia a che fare ciò con il mio ato» disse infine. Nailie sorrise raggiante. «Niente, assolutamente niente. Voglio solo assicurarmi che ciò non accada di
nuovo».
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Greg si era dimostrato incredibilmente reticente riguardo al colloquio con Nailie. Dopo che lei le aveva assicurato che Naren avrebbe combattuto fino all’ultimo dei suoi uomini, era stato congedato, dicendogli avrebbe ricevuto istruzioni per la serata. Se i suoi amici si accontentarono di parole vaghe, Dovan, prendendolo da parte, lo insidiò fino a quando Greg non gli ebbe raccontato le sue vere origini. Alla fine del racconto, al termine del quale Greg gli aveva chiesto di non rivelare a nessuno dei suoi amici il suo titolo, fu l’allievo a rivolgere una domanda al maestro. «Di che profezia stavate parlando prima?» Il maestro restò sul vago poi lo sguardo eloquente di Greg lo costrinse a parlare. «E’ una vecchia storia, se Samarlec la sta utilizzando adesso è solo per raccogliere un maggior numero di consensi per la sua politica. Secondo una dubbia profezia, sarebbe sorto un imperatore santo che, con il suo potere, avrebbe potuto opporsi a Naren, vincendola definitivamente.». Greg soppesò un attimo le parole. «Secondo la regina non si tratterebbe di Levian Dorhan. Dice che potrebbe essere un altro». Dovan si oscurò un attimo ed annuì. «Vi è infatti un’altra strofa della profezia che molti comunque non considerano autentica. Accade spesso quando una parte vince sull’altra, si tende a scordare l’altra faccia della medaglia». «Perché?» «Essa smentisce tutto ciò che viene detto nella prima parte. In parole povere renderebbe nulla la pretesa che l’Impero possa avere la meglio su Naren» Dovan
si schiarì la voce.
«Ma se il Santo Imperatore La distruzione non vorrà Naren combatterà con onore E Flammaria risorgerà»
«Credo che sia proprio per questo motivo che intenda ribaltarla a suo favore. E credo che tu, Greg, sia appena diventato una pedina nelle sue mani». «La regina crede che sia io il Santo imperatore?» domandò sgranando gli occhi. Dovan sorrise a mezza bocca. «Dopotutto anche Samarlec sta facendo di tutto perché la stessa profezia possa riferirsi anche a lui. Chiedo scusa, riferirsi all’imperatore» non mascherò un sorriso storto «Ha costruito il Leviros, rimuovendo l’ostacolo costituito dall’Oceano e, in questo momento, nessuno può fare a meno di identificarlo come il Santo Imperatore. A lui manca una cosa che però tu e l’imperatore avete in comune: il sangue, per questo probabilmente ha ingannato Levian Dorhan, facendogli credere che il santo imperatore sia lui». «Samarlec non è l’imperatore, fino a prova contraria. La profezia potrebbe riferirsi davvero a Levian Dorhan». Dovan abbozzò un sorriso. «Credo che questo sia da escludere. Samarlec troverà presto il modo di farsi incoronare. E per allora potrà far sì che la profezia, fosse anche falsa e riferirsi a lui o meno, avverare tutto ciò che predice».
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La sera giunse presto sopra Ivas Naren e la città si accese di numerose lanterne
rosse ed arancio. Fuori dal palazzo reale ed in ogni vicolo della città si respirava un’atmosfera di attesa e trepidazione. Dopo il tramonto del sole numerosi cortei si snodarono per le strade e tutti conversero verso le propaggini del Vulcano da dove, una volta tramontato definitivamente l’astro, si levarono numerose fiamme dorate che, convergendo e combinandosi in un abile gioco di luci, diedero vita ad un imponente quanto spettacolare fenomeno pirotecnico che rischiarò per più di un’ora il cielo sopra la costa. In lontananza, dalle stanza provvisorie che aveva occupato sul Leviros, Samarlec si chiese il perché di quell’assurda manifestazione di gioia e rise, pensando che tutte quelle persone si stessero probabilmente gustando uno spettacolo indimenticabile prima di are a miglior vita. Se solo avesse saputo cosa invece aveva in mente la regina Nailie, forse avrebbe iniziato a preoccuparsi. Ad ogni modo, con la flotta già in partenza per la capitale e con alcuni tra i porti principali del regno già occupati, si lasciò ricadere placidamente sullo schienale della poltrona. C’era tempo per il divertimento personale prima di infliggere un altro colpo a quegli sciocchi. Da una terrazza del Palazzo reale Greg osservava rapito quei fuochi d’artificio, non ricordando di averne visti di più belli nemmeno in occasione dei festeggiamenti del compleanno dell’imperatore. Gli venne da ridere spontaneamente. Ripeté più volte dentro di sé quella parola mentre con una mano afferrava il cordino a cui era appesa la medaglia che la regina Talandria gli aveva dato da parte dei suoi genitori e che adesso risplendeva sotto quella miriade di fiammelle incandescenti. Andrew gli fu accanto poco dopo. Da quando era tornato dall’udienza l’aveva visto per un attimo, poi si era chiuso nella stanza che avevano preparato per lui. Erano stati Mark, Deidar e Lisa a spiegargli la ragione del suo comportamento: sebbene in un primo momento fosse stato felice per l’amico che finalmente avrebbe avuto di nuovo un padre, comprese solo più tardi cosa avesse significato ciò. «Cosa è successo?» gli chiese dopo qualche istante in cui entrambi erano rimasti in silenzio ad osservare maestose girandole che percorrevano il cielo. Andrew lo guardò di traverso. «Credo che tu sappia già, gli altri devono avertelo detto». Era buffo, per una volta le posizioni si erano invertite ed entrambi parevano saperlo. Greg annuì ed attese che fosse Andrew a parlare di nuovo.
«Sai, ora so quello che devi aver provato. Ho capito solo adesso quanto possa essere stato difficile per te». Greg annuì nuovamente, si chiese se veramente fosse stato un bene che un altro, il suo migliore amico, avesse provato sulla propria pelle ciò che significava, da un giorno all’altro, scoprire che nel proprio ato c’erano misteri di cui non si sospettava nemmeno l’ombra. «Com’è andato il tuo colloquio con la regina?» chiese poco dopo. Greg sospirò ma rimase in silenzio. Il tono di Andrew si fece ironico. «Cos’è, non ti avrà mica detto che un tuo antenato era un’anfisbena?» Greg rise di gusto, seguito da Andrew. «No, figurati. I miei antenati, i miei genitori erano esseri umani» rispose, allontanando l’immagine alquanto orribile di sé in fasce cullato tra le spire di un’anfisbena. «E allora, cosa c’è che ti preoccupa?» chiese Andrew, continuando a non capire. «Prometti di non dirlo agli altri?» Gli occhi di Andrew rotearono, seguiti da uno sbuffo. «Certo, ma per chi mi hai preso?» Nell’oscurità illuminata ad intervalli Greg alzò appena il sopracciglio destro. Dire qualcosa a Andrew equivaleva a farlo sapere nel giro di un’ora a mezza Selthon. «I miei genitori, quelli veri intendo…erano l’ultima vera coppia imperiale. Questo farebbe di me, in pratica, l’erede dell’impero». Andrew represse a stento un ‘ per Leviathan!’ poi si mise a ridere. «Greg, in tutta franchezza, non ti ci vedo proprio sul trono». Greg sorrise a sua volta. «Poteva andarti peggio, immagina se tua nonna fosse stata un’anfisbena! L’ultima volta potresti aver carbonizzato senza volerlo un tuo cugino» disse ridendo tanto di gusto che dovette appoggiarsi al parapetto della terrazza.
Poco dopo Dovan si affacciò alla porta, chiedendo se per caso si era appena perso qualcosa di divertente e di prepararsi perché la regina li attendeva al banchetto. Andrew lo sorò mentre ancora rideva a proposito di un nonno e di un’anfisbena. Continuando a non capire, osservò Greg che, non riuscendo a smettere di ridere, si era stretto nelle spalle. In alto gli ultimi fuochi d’artificio illuminarono il cielo, lasciando poi spazio al silenzio. Rifiutando ormai di capire che cosa avesse fatto ridere entrambi aveva scosso la testa e, seguito da Greg, era sceso per partecipare al banchetto.
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Il Mekabeus era giunto a Palazzo poco prima dell’inizio della festa in onore di Flammaria e Yasheira non poté che godere in minima parte di quell’evento incredibile. Rifean stesso aveva ammesso di non aver mai visto niente di simile in tutta la sua vita, poi aveva affidato la principessa alle cure di due sorelle dell’Ordine dell’Aurosa e l’aveva fatta condurre nei suoi appartamenti per farla preparare a dovere per il banchetto. La principessa aveva avuto appena il tempo per fare un bagno veloce, poi era stata vestita con uno degli abiti ingombranti che avesse mai indossato. Era bello, doveva riconoscerlo, ma le impediva qualsiasi movimento. Rivolse un’occhiata malinconica alla comoda uniforme che adesso giaceva su un appendiabiti. Le due ragazze le acconciarono con maestria i capelli e la truccarono, cosa che, in diciassette anni di vita era un evento frequente quanto le sue visite a palazzo. A risultato concluso stentò a riconoscere se stessa. Fu sul punto di chiedere il motivo di tutta quella premura: sebbene non fosse la prima festa in onore di Flammaria alla quale assisteva, non le era mai capitato di essere sottoposta ad un simile trattamento. A chiarire ogni suo dubbio ci pensò sua madre che, entrata nei suoi appartamenti, congedò le due Sorelle e, preso un triclino, si sedette accanto alla figlia. Allo specchio entrambe si somigliavano i modo impressionante, fatta eccezione per gli occhi della più giovane, scuri e profondi, ereditati dal padre. «Cosa sta succedendo madre?» chiese, incrociando gli occhi della regina attraverso lo specchio. «Cosa faresti per salvare la tua gente, figlia mia?» chiese a sua volta la madre,
imitando lo sguardo che poco prima le aveva rivolto Yasheira. «Tutto, madre» aveva risposto dopo qualche attimo di stupore. La regina aveva annuito, soddisfatta. «Era ciò che volevo sentirti dire» disse mentre si alzava e apriva uno scrigno che Yasheira non aveva mai notato prima. Le mani di Nailie ne riemersero con quello che sembrava un diadema di cristallo, quasi una copia della corona che lei indossava durante le occasioni importanti, che sulla parte anteriore raffigurava, stilizzata, la testa di Flammaria mentre su quella posteriore si sviluppava in una ruota di piume. Glielo pose delicatamente sulla testa e, chiudendo delicatamente la porta ricordandole che in pochi minuti sarebbe iniziato il banchetto, lasciò la figlia da sola ed estremamente confusa.
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Per quante cose Dovan avesse visto nell’arco della sua vita, poche eguagliavano lo splendore della Sala delle Feste. Tavolate imbandite di tutte le specialità nareniane sembravano perdersi all’infinito, incredibile il numero di invitati. Per lui e per i suoi allievi era stato riservato posto nella tavolata d’onore al cui centro erano stati posizionati tre troni. Prese posto insieme ai suoi allievi in fondo al tavolo, da lontano scorse Luckmann Rifean, il Primo Ministro. Avrebbe voluto parlargli quanto prima ma aveva ragione di credere che avrebbe dovuto attendere la fine del banchetto. Con stupore egli non prese posto su uno dei tre troni ma, alquanto accigliato e silenzioso, aveva preso posto accanto a Dovan, al quale si era poi aggiunto anche Bugh Dail. Lo spazio davanti alla tavolata si era fatto vuoto mentre tutti gli ospiti prendevano posto. Stava per chiedere il motivo di ciò al Primo Ministro quando, in un lampo, si accorse che Greg non era seduto insieme a loro e che da un impreciso numero di minuti i suoi allievi stavano cercando di attirare la sua attenzione per cercare di capire dove si fosse cacciato. Solo adesso, mentre avanzava nel corridoio centrale in mezzo alle tavolate con accanto la regina Nailie e sua figlia, ancora non comprendeva cosa avesse voluto intendere Dovan quando gli aveva detto di essere diventato una pedina nelle mani della regina.
Poco prima che fe il suo ingresso nella sala insieme ai suoi amici la regina l’aveva preso da parte, con la scusa di presentargli sua figlia. La prima impressione che Greg ebbe della principessa fu quella di una ragazza che, pur di bellezza notevole, si sentiva alquanto imbarazzata e a disagio in quella situazione. La regina aveva rivolto ad entrambi sorrisi di incoraggiamento e poi li aveva pregati di seguirla per fare ingresso nella Sala. Al loro aggio tutti gli ospiti si alzarono e rivolsero loro ampi inchini: solo Nailie dei tre, proseguiva con o sicuro, alle sue spalle sia Greg che Yasheira si scambiarono numerosi sguardi imbarazzati. Scorse dal tavolo principale le occhiate perplesse dei suoi compagni nonché lo sguardo fisso e preoccupato di Dovan. Con un filo di angoscia incrociò gli occhi di Lisa che, più di tutti, sembrava non capire che cosa stesse accadendo. Greg fu invitato a prendere posto alla sinistra del seggio reale mentre Yasheira sedeva alla destra di sua madre. Greg era troppo lontano per comunicare con i suoi amici e mentre nella sala facevano comparsa una dozzina di donne coperte da numerosi veli provò a sporgersi numerose volte in loro direzione ma tutte le volte Nailie, fulminea, intercettava il suo sguardo, chiedendogli se tutto fosse di suo gradimento o se desiderasse qualcosa di più forte da bere. Nello spazio sottostante i veli delle ballerine caddero uno dopo l’altro durante la loro danza sensuale. Dall’estremità del tavolo alla quale sedevano né Andrew né Mark o tanto meno Deidar avevano perso un solo istante di quella danza e quando essa terminò si unirono ai molti altri che, scattati in piedi, avevano applaudito a lungo. Quando anche gli ultimi applausi ebbero termine si fece improvvisamente silenzio mentre, alla sua destra, Nailie si era alzata in piedi, tenendo in mano il prezioso calice dal quale aveva bevuto. «Ringrazio tutti coloro che stasera si sono uniti e ritrovati in questa sala per omaggiare una volta ancora la Signora del Sud» alle parole della regina tutti gli ospiti si levarono dai loro seggi ed, imitandola, levarono i propri calici. «Come sapete, per quanto la situazione sia difficile, il nostro popolo festeggia anche nelle più oscure occasioni e nelle più intricate difficoltà» numerosi brusii d’assenso si levarono dalle tavolate. Poco dopo la regina riprese la parola «Sempre che esista un motivo valido per festeggiare, naturalmente» disse mentre guardava alternamente prima a Yasheira e poi a Greg. «Ebbene, tutti i miei ottimi ospiti e i miei uomini più fidati conoscono la triste profezia che l’Impero di Selthon e il suo Cancelliere brandiscono contro di noi»
questa volta rivolse una lunga ed eloquente occhiata verso Dovan che, una volta di più, era prossimo ad avere ragione. «Ma tutti voi conoscete altrettanto bene che la speranza esiste comunque per Naren» l’incertezza era caduta sulla sala. Non avrebbe atteso oltre, era giunto il momento di giocare la propria carta. «Desidero perciò, in questa occasione di festa, che tutti voi rendiate omaggio a mia figlia, la principessa Yasheira…» fece una pausa mentre la sala si riempiva di nuovi applausi e la ragazza si alzava in piedi inchinandosi davanti alla sala «… e al suo futuro consorte, il legittimo e futuro Imperatore Aelthas Aidalar». Un coro di stupore percorse tutta la sala, dall’estremità del tavolo dove sedevano Dovan e gli altri una sedia cadde in terra mentre un’altra oscillava. Dal suo posto, Greg, dal quale pareva non riuscire ad alzarsi malgrado l’invito di Nailie, vide una chioma bionda scappare attraverso il corridoio centrale. Le sue gambe precedettero qualsiasi riflessione dettata dal buonsenso: in quel momento nient’altro aveva importanza per lui, nemmeno un titolo imperiale o la sua missione. Urtò Dovan che nel frattempo, scuro in volto, si era alzato avanzando a grandi i verso il trono di Nailie che fissava perplessa la scena ma evitò di fermarsi, scansò i suoi amici che, tra il divertimento e lo stupore, gli chiedevano se avesse già scelto chi di loro gli avrebbe fatto da damigella. Corse dietro a Lisa per quanto gli fu possibile, poi ne aveva perso le tracce. Alla fine, dopo aver guardato in ogni parte del palazzo, si era ritrovato negli appartamenti che erano stati preparati per lui ed i suoi compagni. Raggiunse, nell’oscurità rischiarata da qualche tenue lampada, la porta della camera di Lisa e, contravvenendo a quanto gli era stato insegnato a proposito di entrare senza bussare, provò a girare la maniglia ma la porta, chiusa a chiave dall’interno, non si aprì. Provò ad origliare e ciò che sentì pareva molto simile ad un pianto sommesso. Strinse un pugno, stava quasi per bussare, chiederle di farlo entrare, di parlare ma non lo fece. «Mi dispiace, non ne sapevo niente» mormorò nel buio. Dall’altra parte non udì nessuna risposta, solo un singhiozzo. La sua reazione involontaria era stata così veloce ed istintiva che non aveva nemmeno avuto il tempo di riflettere alle reazioni che la sua fuga avrebbero suscitato negli altri e, soprattutto, nella regina. Lasciando gli appartamenti e con un brutto presentimento, tornò verso la Sala delle Feste ma a metà del tragitto, una voce che aveva sentito solo poche volte,
lo chiamò. Era Yasheira, con ancora indosso il vestito del banchetto. Aveva perso la cognizione del tempo, non sapeva per quanto tempo era stato assente. La raggiunse e le presentò le poche scuse. Lei si limitò a scuotere la testa. «Non preoccuparti, capisco quanto la cosa possa averti turbato. Ho visto che sei corso dietro alla ragazza bionda» lasciò a metà il discorso e a Greg non restò altro che annuire, lasciando intendere tutto ciò che, non detto, evitava ad entrambi una buona dose di imbarazzo. «Come procede il banchetto?» chiese qualche istante dopo Greg. Yasheira fece una smorfia. «Quando te ne sei andato c’è stato un po’ di trambusto, ma niente in confronto a quello che è accaduto solo qualche minuto dopo. Ti assicuro che la tua fuga al confronto è ata inosservata» c’era qualcosa di amaro nelle parole della ragazza, Greg lo riconobbe immediatamente. Non ebbe bisogno di chiedere maggiori spiegazioni, proprio mentre la principessa accennava a chiarire la situazione, Dovan, trafelato e di pessimo umore li raggiunse. «È quasi un’ora che vi cerchiamo, dove vi eravate cacciati?» Greg guardò torvo il proprio maestro. «Ci siamo appena incontrati, stavo facendo ritorno alla Sala delle Feste. La principessa mi stava appunto dicendo a proposito di qualcosa avvenuto poco dopo che ho lasciato il banchetto». Dovan, piuttosto agitato, annuì ripetutamente. «Samarlec si è di nuovo collegato tramite globevisor. La Marina Imperiale ha già occupato tutti i porti strategici di Naren». «C’era da aspettarselo» disse Greg mentre anche Yasheira stava diventando agitata. «A ciò, almeno in parte, eravamo preparati. La marina nareniana di stanza a Ivas Naren è già stata schierata ma non conta nemmeno la metà delle unità che invece potrebbero accerchiarci. Ma non è tutto. Samarlec vuole scendere a un compromesso» terminò guardando l’allievo dritto negli occhi.
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Dormiva? Era sveglia? Aveva pianto e singhiozzato più di quanto avesse mai
creduto di poter fare in vita sua. A poco era valso che lui le corresse dietro, non c’erano scuse per spiegare una dichiarazione pubblica del genere. Era forse questo ciò di cui aveva parlato con la regina? Rituffò la testa nel cuscino. Aveva appena avvertito un rumore e qualche tempo prima, anche se non poteva dirsene totalmente sicura, qualcuno aveva provato a far girare la maniglia della porta della sua stanza e aveva mormorato qualche parola, ma niente di più. E adesso, cosa poteva più fare si chiese mentre, nel dormiveglia, si alternavano sogni vaghi e confusi. Udì di nuovo un rumore indistinto, poi chiuse gli occhi, o almeno credette di chiuderli. Tutto intorno a lei era divenuto più buio di quanto ricordasse. Una voce, profonda, le parlò. «Cosa faresti pur di non veder soffrire le persone che ami?». A quelle parole seguì, davanti ai suoi occhi, una processione di sagome evanescenti, tra cui riconobbe tutti coloro a cui voleva bene. I loro volti erano però straziati dal dolore, le loro vesti lacere, ai polsi, al collo e alle caviglie trascinavano con se pesanti catene. Quando sembrarono accorgersi della sua presenza le si avvicinarono e alcune iniziarono a supplicare, altre a piangere. In quella disperazione che la stava sommergendo, dove i volti a lei noti si fondevano l’uno con l’altro in un’unica maschere di dolore, vide, in disparte, una figura solitaria, i lunghi capelli impiastricciati di sangue e straziata da numerose ferite. Le lacrime salirono spontanee mentre tutte le altre figure svanivano per farle vedere meglio la sofferenza della figura in disparte. Non poteva sostenere a lungo tutto ciò, se poteva evitare tutta quella sofferenza e quel dolore lei avrebbe fatto qualsiasi cosa. Tutto svanì e Lisa si addormentò, placidamente, senza ricordo di ciò che aveva appena visto. Due occhi eterei, una volta in più soddisfatti per il loro operato, svanirono dalla stanza, dopo essersi assicurati che la ragazza, finalmente addormentata, respirasse regolarmente.
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Capitolo V
Decisioni
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Le iridi dorate di Ausel, ormai unico sovrano di Mideroa, osservarono la sala dalla posizione sopraelevata dal quale aveva fatto il suo ingresso nel Consiglio. Ampi tendaggi coprivano in parte le larghe finestre, aperte sull’oceano, ma quello che riusciva a scorgere, di là dagli spessi vetri di cristallo, non riusciva a calmarlo: i raggi del sole parevano più rossi del solito, il cielo, in prossimità del tramonto, sembrava un unico grande braciere. Soffermò i suoi occhi su quello spettacolo così bello ma allo stesso tempo terrificante: anche il cielo testimoniava quel periodo così tragico. Nella luce sanguigna pochi avevano avuto il coraggio di sostenere il suo sguardo, solo alcuni, per personale curiosità o, più probabilmente, consapevoli di avere gli oggetti della loro lunga discussione a pochi metri dalle loro mani, avevano indugiato più a lungo di quanto si sarebbe mai aspettato sul cuscino sul quale, luccicanti ed eteree, erano state adagiate le cinque pietre. Sospirò: c’era ancora molto da fare. Quel o per gli uomini sarebbe stato il primo di altri, molti altri, che nei mesi e negli anni a venire avrebbero ricostruito il loro mondo. «Ogni pietra assicurerà ai vostri popoli un lungo periodo di benessere, risanerà laddove si sono aperte ferite, riporterà la fertilità dove è stato sparso il sangue» gli sguardi furono nuovamente calamitati su di lui, solo alternamente qualcuno posava ancora gli occhi sul cuscino. «A nessuno di voi sarà permesso accumularle, né sottrarle ad altri regni» percorse a lungo la platea di coloro che da accaniti rivendicatori di diritti si erano fatti silenziosi uditori. Il tono di Ausel si fece severo, la luce che emanava da ogni lembo della veste e quasi dalla pelle parve affievolirsi per poi splendere ancora, più forte, come se volesse imprimere quelle parole col fuoco: «Nessuna guerra dovrà scoppiare a causa di queste pietre. Né adesso né in futuro. Non fate che esse tornino ad essere strumenti di morte. La mia preghiera, le mie parole, fate che esse non si perdano nel vento, fate che si tramandino di generazione in generazione» di
nuovo il suo compito era quello di instradare altri esseri viventi a non commettere sbagli antichi, creando piaghe insanabili. Avrebbe avuto la forza di compiere un nuovo miracolo, di far sì che davvero, una volta per tutte quel mondo, e con esso la sua gente, potesse trovare la pace? No, non era quello il suo compito. Ben altro era stato riservato per lui. Incrociò lo sguardo di Midrael e di Uriadrel, sapeva che da un numero imprecisato di istanti essi lo stavano fissando, cercando di penetrare i suoi pensieri, di prevedere la sua reazione. Scorse un fuoco negli occhi di Midrael, un fuoco di speranza. A lui avrebbe lasciato il compito di governare gli Angeli Dorati in sua vece. Negli occhi di Uriadrel vide l’oscurità, profonda e buia quanto i suoi occhi erano al contrario splendenti, accanto all’inquietudine e alla consapevolezza, dovuta ad anni di irrigidimento, che nemmeno quell’espediente avrebbe portato gli uomini alla pace. Ebbene, lui, sovrano di Mideroa, condivideva, non poteva fare altro, le opinioni di coloro che più di ogni altro, fatta eccezione per suo fratello, gli erano stati accanto nella sua esistenza. La sua riflessione, agli occhi dei presenti, non durò più che un battito di ciglia. Per Ausel, che sapeva quanto quel momento fosse gravoso e fondamentale, era durato un’eternità. «Sappiate che il male non è stato sconfitto. Esso continua a vivere, a strisciare nelle tenebre. Molti tra i vostri fratelli giacciono ancora come sepolti vivi nelle fortezze sotto la superficie» nessuno, nemmeno lui che col suo potere le aveva viste, poteva capire che cosa vi fosse sotto la superficie, cosa provassero coloro che, a decine di migliaia, vi si trovavano ancora imprigionati: un mondo brullo e difficilmente ospitale, costellato da città fortezza, il luogo nel quale i peggiori incubi prendevano forma, il baluardo delle impenetrabili difese del nemico. Era proprio grazie a quelle difese se i demoni ed il loro sconfitto signore continuavano a rappresentare un enorme pericolo. «Non dimenticateli. E non dimenticate il mio monito». La platea fu scossa da quelle parole. Non si aspettavano parole così dure, non credevano possibile che dopo tutto ciò che era stato fatto ancora vi fosse da temere. Il regnante celeste aveva parlato di generazioni, almeno, molti ne furono pavidamente rincuorati, non era un pericolo imminente. Vi sarebbe stato del tempo. Qualcosa si sarebbe potuto fare forse, magari dimenticare. Sì, l’oblio sarebbe stata la scelta giusta. Tutto dimenticato, tutto sarebbe sprofondato nelle sabbie mobili della memoria. Gli Angeli Dorati, Behelstedor, i nove Pari, la schiavitù: tutto sarebbe rimasto nel mito, forse sarebbe stato sussurrato per
qualche secolo. Poi sarebbero sopraggiunti nuovi miti, quelli di un’umanità nuova, più saggia, fatta di nuovi eroi e nuove speranze. Ausel leggeva tutto ciò nelle menti e nei cuori dei presenti, per quanto cercasse di mantenersi imibile, come se la sua pausa fosse solo momentanea, in realtà sentiva il suo cuore stringersi e soffocare. Era tutto inutile, ma così aveva deciso. In pochi battiti di ciglia osservò dritto negli occhi ognuno dei cinque regnanti o, nel caso di Zolon, rappresentanti, poi li chiamò a se. Uno ad uno i regnanti si alzarono, si presentarono al suo cospetto, si inchinarono e poi si misero in attesa di ciò che spettava loro. La prima a ricevere la pietra fu la regina Talandria di Renodia alla quale seguirono Van Arkeon II Basileo di Junatar, re Nassir di Naren e Mosmaimonid, Primo Saggio di Zolon. Fu perciò il turno di Uther di Selthon, accompagnato dalla sua consorte. Di nuovo gli occhi di Ausel si posarono su quella coppia, coloro che avevano donato al futuro la cosa più importante che possedevano. Sorrise, i suoi occhi, incrociando quelli nocciola della donna, si addolcirono. Non c’era bisogno di leggere in quella mente, mentre lacrime silenziose e dignitose giungevano agli occhi dell’imperatrice, le labbra sottili si inarcavano impercettibilmente, ma abbastanza per conferire al suo volto la palese testimonianza della sua interiore sofferenza: suo figlio, era di lui che voleva sapere. Non era più l’ultima erede dell’impero sopra le acque, l’imperatrice di Oonanai Talarana, era una donna, una madre che, inginocchiatasi davanti a colui nel quale suo padre e i suoi avi prima di lei, avevano ciecamente creduto. Lo sguardo di Uther, imibile e fiero, di un orgoglio che gli era stato conferito dalla certezza della corona imperiale e di un potere che come re di Selthon non avrebbe mai sperato di avere, seguì la moglie nel suo gesto di preghiera e di prostrazione, ne sorresse l’inginocchiarsi, le afferrò una mano, serrandogliela, sentendone le vene palpitare, un calore che non sentiva da quando avevano detto addio a loro figlio riaffiorare sulla pelle e nelle membra della moglie. Ausel emise un lungo sospiro mentre con le dita lunghe ed affusolate, carezzava paternamente le testa della donna. Questa volta le sue parole furono udibili solo dai due coniugi: «Vostro figlio sta bene. È con noi e lo sarà fino a quando non giungerà il suo momento. Uno dei Custodi si occuperà di lui per tutto questo tempo. Non abbiate timore, quando sarà il momento saprà delle proprie origini. E voi non sarete dimenticati». Fu in quel momento che accadde qualcosa che né i presenti, né i Custodi, tanto meno Ausel in persona, si sarebbero aspettati. La pietra, dalle mani di Ausel, si
librò in aria, lentamente, fino a salire in altezza, portandosi quasi al centro della sala. L’espressione di Ausel non mascherava il suo stupore, alle sue spalle Midrael e Uriadrel non erano meno sbigottiti. Alzatasi a loro volta, anche la coppia imperiale di Selthon si voltò a vedere la pietra sospesa in aria, che lentamente ma con crescente vitalità, aveva iniziato a pulsare e a brillare, diffondendo nella sala un bagliore che niente aveva a che vedere con nessuna delle luci viste fino a quel momento. Una voce, qualche istante dopo, parve sprigionarsi dalla pietra e riempire la sala. «L’erede sopra le acque sarà il mio legittimo proprietario» qualcosa che nemmeno Ausel sapeva spiegarsi stava accadendo. Qualcuno, anche se faticava a comprendere come, stava modificando la sua decisione. E se la pietra, emanazione del potere del dio dell’universo parlava a quel titolo, lui non doveva far altro che prostrarsi ed accettare quel volere. Gli affiorarono alla mente le parole che gli erano state dette nel Galassiah e per le quali non aveva trovato una spiegazione.
L’Uomo e la Pietra, rammenta il aggio Dovrete proteggere con amore e coraggio Altri eredi valorosi lo accompagneranno Per battere infine l’antico Tiranno.
«Troppo di incerto vi è nel futuro di Selthon per far sì che il potere che proviene da questa pietra venga affidato all’Impero. Sarà perciò l’erede, colui che veramente ha bisogno di me, a custodirmi con il suo corpo, meglio di quanto potrebbe fare chiunque altro o qualsiasi nascondiglio». L’uomo e la pietra, era l’erede, non vi era dubbio, pensò Ausel mentre nella sua mente millenaria si ripeteva la profezia dei suoi antenati. La pietra riprese a parlare, mentre sulla platea muta rilucevano i suoi bagliori.
«Questo è il volere del Padre dell’Universo». Detto ciò la pietra brillò ancora per qualche istante mentre planava davanti ad Ausel. Poco dopo una lacrima color rubino sgorgò dal suo occhio destro. In quel secondo in cui essa era stata davanti, prima che il suo bagliore si dissolvesse, ai suoi occhi essa, e solo a lui, aveva parlato ancora.
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Un corpo a tratti straziato sedeva su una poltrona che, confrontata al suo corpo pallido e all’oscurità della stanza, pareva stesse cercando di inghiottirlo. I nervi contratti e tesi si distesero appena mentre il corpo sussultò per qualche secondo. L’uomo, con o incerto si avvicinò verso quelli che erano i suoi vestiti da camera. Si rivestì lentamente, i movimenti impacciati ancora dai nervi tesi ed induriti. Si maledisse nuovamente per non essere ancora riuscito a convivere con quel dolore, poi sedette di nuovo sulla poltrona. Sorrise tra sé mentre ava in rassegna i volti che, qualche ora prima, erano apparsi sullo schermo del suo globevisor. Le sue mani scorrevano veloci sul liscio velluto del quale era stata rivestita la poltrona, dandogli una sensazione di piacere ulteriore. Aveva appena rivisto, con gli occhi della mente, l’espressione attonita del Primo Ministro Rifean che, oltraggiato dalla sua dichiarazione, era stato pronto ad intervenire sputando fuori tutta la sua indignazione per quelli che, senza mezzi termini, aveva definito egli stesso due ultimatum. Accalorato ma subito bloccato da uno sguardo di colei che gli stava accanto, la regina Nailie. Un brivido di piacere maggiore percorse la schiena del Cancelliere mentre affondava ancora di più nell’imbottitura della poltrona. Vestita di quelli che probabilmente erano le vesti delle grandi cerimonie, aveva avanzato fino a quando non si era trovata che a pochi i dallo schermo. La rabbia che le donne sapevano tirar fuori in certi momenti lo aveva sempre affascinato, ora come allora non aveva potuto fare a mano di sorridere ed i suoi denti bianchi e perfettamente disposti si erano scoperti a scherno sullo schermo. Aveva ripetuto nuovamente le due richieste, al termine delle quali per Naren e per i suoi abitanti non ci sarebbe stato scampo. Eppure, malgrado ciò, lei aveva rifiutato entrambi, ordinando di chiudere la conversazione. Affondò più profondamente le dita nel
tessuto. La memoria lo portò di nuovo ai presenti: Dovan, in seconda fila, non aveva smesso di fissarlo nemmeno un istante, i suoi occhi grigi erano duri come lame d’acciaio, lame che senza dubbio non avrebbe esitato a ritorcergli contro e a ficcargli nello stomaco pur di vederlo morto. Ogni cosa, nel momento propizio sarebbe accaduta e per quanto desiderasse vederlo morto, voleva, anzi, desiderava ardentemente che la sua sofferenza terrena, il suo inferno personale, si protraesse più a lungo possibile. La morte, la fine di ogni pena e sofferenza, sarebbe giunta solo quando lui, Samarlec e nessun altro, neppure Lord Astaroth o Lilith in persona, lo avesse ritenuto giusto. Per quanto non vi avesse parlato, era sicuro che egli non fosse altro che d’accordo con l’opinione della regina. Accanto a Dovan quello che, se non si sbagliava, doveva essere l’Ingegnere Capo reale, colui che, ne era sicuro, più di tutti non avrebbe resistito alla consapevolezza che tutte le sue difese erano destinate a crollare davanti alla sua avanzata. Per l’ennesima volta volse il suo sguardo verso alcuni dei globevisor che, spostati in tutta fretta ma non con altrettanta velocità rimontati, mostravano gli ultimi preparativi della marina ed un nuova e protratta sensazione di piacere lo invase, alleviando, almeno per un po’, il dolore che dentro di sé si faceva sempre più acuto. Nell’oscurità della stanza una luce bianca brillò per qualche istante, illuminando una voce si diffuse dalla fonte di luce, un globevisor si era appena messo in funzione. Il Cancelliere si mosse appena mentre i suoi occhi, infastiditi dalla luce, cercavano di mettere a fuoco il volto di colui che desiderava parlargli. «Perdoni la mia impudenza signore, ma c’è una cosa che desidero osservi coi suoi occhi. Le immagini che sto per trasmetterle sono state girate oggi pomeriggio a Selthon». Samarlec non ebbe tempo di redarguire il suo sottoposto, le immagini proiettate non solo gli fecero immediatamente morire le parole in gola ma acuirono la sua rabbia che, frammista al dolore che dentro di lui divampava nuovamente malgrado le cure che si era appena somministrato. Si alzò faticosamente dalla poltrona aggrappandosi con le sue forze a uno dei braccioli. Altre strade di Selthon scorrevano sullo schermo sferico mostrando sempre
nuove ed oltraggiose immagini. La sua rabbia divampò, gli occhi brillarono di una luce ignota, che poco aveva di umano e dalla sua mano una fiamma si sprigionò, avvolgendo l’apparecchio sul quale le immagini divenivano contorte e grottesche. “Samarlec impostore, non sarai mai il Santo Imperatore” campeggiò per l’ultima volta sullo schermo che inesorabilmente si scioglieva a causa del calore mentre le fiamme divampavano anche sulla scrivania. Un allarme antincendio suonò da qualche parte ma lui non se ne curò mentre, recuperate un po’ di forze, si alzava. Qualcuno, qualcuno che sapeva bene ciò che aveva in mente si stava divertendo alle sue spalle. E quel qualcuno probabilmente stava tramando contro di lui.
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Oltre il Deserto Cremisi, in uno dei luoghi meno ospitali presenti sopra la superficie del pianeta, un centinaio di uomini, al termine della notte, si trovava di fronte a quello che, chiunque vi fosse ato davanti, avrebbe scambiato per una bizzarra conformazione rocciosa, le cui architetture erano dovute all’azione di millenni di desertificazione. Silenziosi ed imibili, attendevano qualcosa, mentre le loro vesti bianche e purpuree acquisivano vivacità nei colori diafani dell’alba. Da est giunse, poco dopo, ciò che attendevano, mentre i volti che nell’ombra sembravano scolpiti, schiarivano nella luce mattutina: i primi raggi del sole colpirono in pieno un punto imprecisato sopra a struttura rocciosa. Da qualche decina di metri più in basso, dove si trovavano quegli uomini, si alzò una nenia di preghiera, simile ad un canto. La luce divenne più forte con il lento sorgere del sole, mentre le rocce alle loro spalle divenivano inspiegabilmente più chiare, come se a loro volta riflettessero i raggi. Uno spiraglio, poco più di una lama nella roccia, comparve a scalfire la parete mentre quelli che erano divenuti altro che battenti di una porta enorme e scolpita. Un esiguo numero entrò all’interno, mentre le porte rivelavano lentamente il contenuto della costruzione. Semplice quanto maestosa nelle sue proporzioni essa era costituita da un lungo colonnato interno che, al contrario di quanto si poteva supporre, era tutt’altro che oscuro e tenebroso.
Alla fine del corridoio una breve scalinata, sulla cui sommità, retto da due sculture raffiguranti draghi in marmo rosso, era posto uno scudo del diametro di un metro: due uomini lo issarono delicatamente, portandolo all’altezza delle spalle. Per quanto esso potesse apparire pesante per essere trasportato da due uomini la cui età non era certo quella di giovani nel pieno delle forze, essi lo sollevarono senza difficoltà ed insieme lo portarono fuori dove fu portato al cospetto degli altri mentre dalla sua superficie colpita dai raggi del sole nascente si irradiavano potenti raggi luminosi. La litania crebbe di intensità mentre allo stesso modo cresceva l’intensità della luce emanata dallo scudo. Il bianco incandescente che esso emanava iniziò a contrarsi e a contorcersi mentre serpeggiando ava attorno agli uomini in preghiera, la luce era divenuta qualcosa di più, si era trasformata prendendo vita, ripetendo un rituale che da millenni costituiva uno degli momenti fondamentali della vita sei Saggi di Zolon. Amon Ardeon, principe del Sole, si era nuovamente manifestato alle loro preghiere per mezzo della sua arma divina, e su di essi aveva dispensato la sua benedizione. La cerimonia si protrasse più a lungo del solito mentre egli, nel suo incandescente candore continuava a serpeggiare trai suoi fedeli che, con le braccia verso il cielo immobili, proseguivano la loro preghiera. Infine egli salì verso il cielo mentre ad est il Sole brillava ormai del suo consueto splendore, appena ombreggiato da nubi grigie. Il deserto e la costruzione di roccia riacquistarono il loro consueto colore mentre, lentamente e ancora mormorando i Saggi si ricomponevano ordinatamente per osservare la deposizione dello scudo nel suo tabernacolo, concludendo la cerimonia. Mosmaimonid aveva osservato tutto come se fosse la prima volta che vi prendeva parte: malgrado fosse il primo saggio di Zolon da sempre, sapeva, come lo sapevano anche tutti i suoi compagni, che quella volta era stato diverso dal consueto. Amon Ardeon aveva protratto a lungo la sua presenza tra loro, il suo calore si era fatto a tratti insostenibile. Le rughe che numerose segnavano la fronte dell’uomo si rilassarono per qualche istante, come per assaporare di nuovo il tepore che il dio aveva concesso loro. Per quanto isolati dal resto del mondo non aveva molti dubbi in proposito di quello che stava accadendo nei regni. La situazione era precipitata in fretta, troppo in fretta per essere di nuovo attribuibile ad un incidente o al caso. Non si trattava della stessa sensazione che aveva avvertito secoli prima in prossimità della guerra Artica, la sua era una
preoccupazione molto più antica e molto più temibile. Osservò lentamente gli altri saggi che, inchinandosi, gli sfilavano davanti a coppie di due, prima di tornare a Zolon, dalla quale solo in casi eccezionali, come le cerimonie in onore di Amon Ardeon, era consentito loro allontanarsi. Qualcosa, mentre con regolarità avano davanti ai suoi occhi, colpì la sua attenzione: aveva visto troppe volte quei volti per non essere certo che ciò che aveva notato fosse frutto di un errore. Due saggi mancavano all’appello. Si sincerò che essi non fossero già ati, sicuro che non fossero tra quelli che ancora dovevano rendergli omaggio, poi cercò con lo sguardo il secondo dei saggi di Zolon mentre con velocità crescente i suoi piedi affondavano nella sabbia purpurea del deserto. Scorse Abadir nella sua veste da cerimonia poco più avanti e lo raggiunse a grandi i. Il secondo saggio riconobbe subito negli occhi dell’altro la preoccupazione crescente che qualcosa di tremendo stesse per accadere. «Mancano due saggi all’appello» la voce di Mosmaimonid era leggermente alterata dalla corsa, non gli capitava frequentemente di dover camminare ad un o così serrato. Abadir annuì gravemente. «Erano presenti alla nostra partenza da Zolon ed erano presenti anche poco prima della cerimonia. Non riesco a credere che siano scomparsi, non è possibile. Chiunque di noi si allontani più di quanto ci è concesso da Zolon, inevitabilmente…». Ma il secondo saggio non ebbe tempo di terminare il suo discorso. Da dietro una duna giunse un richiamo d’aiuto di due voci. Mosmaimonid scattò con una velocità difficilmente attribuibile ad un uomo della sua età e Abadir gli fu immediatamente dietro. Giunti sull’orlo della duna scorsero finalmente i due saggi, non certo in pericolo di vita che, in leggera difficoltà, stavano trasportando quelli che non potevano altro che essere due nomadi svenuti.
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Il primo ultimatum era ormai agli sgoccioli, ma di ciò solo un ristretto numero di persone ne era a conoscenza mentre la vita dei nareniani, sebbene consapevoli dell’ormai imminente nemico di sempre alle porte, proseguiva quasi normalmente. La notte era trascorsa agitata per tutti: almeno osservando per bene i volti, dovevano aver dormito o molto poco o per niente. La colazione era stata servita nelle camere degli ospiti, con l’invito a presentarsi al più presto nella sala del trono per una nuova udienza con la regina. Solo Lisa, di tutti, sembrava avere il volto riposato, benché taciturna. Greg provò a rivolgerle la parola una o due volte ma lo sguardo della ragazza era del tutto assente, lo stesso scarso successo nel comunicare con la ragazza fu ottenuto dagli altri, anche se, talvolta, era possibile che rispondesse alle domande con un “sì” o con un “no”. La colazione si era svolta in modo piuttosto diverso dal solito: Andrew aveva evitato di abbuffarsi, era arrivato al punto di are il vassoio con i biscotti a Mark e a Deidar di sua spontanea volontà, senza provare nemmeno a discutere su quanti ne spettassero a testa. Dovan, piuttosto pensieroso, la fronte corrugata e le labbra tese, gli occhi arrossati per il poco riposo, scambiò poche parole con tutti. Silenziosi e taciturni, fecero ritorno nelle proprie camere per cambiarsi d’abito, tranne Dovan che, alzatosi prima di tutti gli altri dal tavolo si era soffermato ad osservare il panorama dalla terrazza degli appartamenti. Le membra stanche e la schiena dolorante gli ricordavano la notte appena ata insonne, la mente occupata da troppi pensieri, dalle tante preoccupazioni che andavano ad aumentare giorno per giorno, gli ricordava invece di quanto fosse arduo il compito che aveva deciso di assumersi. Le parole di Greg del giorno prima, quando asseriva di aver intravisto nella folla Lord Astaroth avevano contribuito a mantenerlo sveglio: era vero che non si trattava di un momento propizio quello, ma l’ultimatum di Samarlec aveva risvegliato in Dovan il timore che anche questa volta sarebbe stato proprio il primo dei Pari ad avere l’ordine di agire. Le mani strinsero il parapetto: da dove traeva tutta quella forza di andare avanti, di proseguire con i suoi intenti? Aveva cercato di mostrarsi sempre come un punto di riferimento: tra la sua gente, fra popoli stranieri, coi regnanti e adesso con i suoi allievi. Aveva vacillato a Renodia, era stato sopraffatto dai pesi che portava costantemente addosso ma del quale sapeva essere lui stesso l’unico responsabile. Nessuno avrebbe mai potuto ascoltare le sue personali sofferenze
poiché, e ne era certo, chiunque tranne i pochi che già sapevano, fosse mai venuto a sapere la verità che nascondeva e che tutti avevano contribuito a celare, l’avrebbe disprezzato. Eppure, malgrado questo, proprio quei pochi che già sapevano erano tra quelli che non gli avevano voltato le spalle, che avevano insistito perché svolgesse comunque il suo compito poiché reputato l’unico in grado di farlo al meglio. “Cos’era meglio fare in quel momento?” si chiese, aspettando che il saggio maestro Dovan, colui nel quale i suoi alleati riponevano aspettative di poco inferiori rispetto a quelle di Greg, trovasse la risposta giusta, che intervenisse con una parola rivelatrice. Ma il maestro Dovan era lui stesso ed erano settimane che si poneva questo interrogativo frustrante, al quale per il momento, non era riuscito a trovare una soluzione che fosse realmente definitiva. Il suo pensiero, prima di essere interrotto dalla voce di Andrew, andò per un attimo di là dall’Oceano, attraversò i flutti e si diresse verso Renodia dove l’immagine di colei che aveva deciso di amarlo per l’uomo che era e non per quello che aveva fatto della sua vita, comprendendo anche ciò che le aveva taciuto, fu per lui come un vento di primavera, un raggio di sole che, per un piccolo istante, cancellò le distanze e le nubi che, sopra Naren, costituivano molto di più di un semplice cattivo presagio.
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«Maestro, dobbiamo andare» ripeté con insistenza Andrew appoggiato alla finestra che si affacciava sulla terrazza dei loro appartamenti. Dovan si scosse, abbandonò la presa della balaustra e si voltò, lo sguardo ancora opaco, l’espressione vaga di chi probabilmente, non avendo dormito molto stava adesso sognando ad occhi aperti. Lo superò qualche istante dopo, lo sguardo ancora trasognato: incuriosito Andrew si sporse di qualche o sulla terrazza, guardandosi attorno, alla ricerca di ciò che aveva provocato la momentanea assenza di Dovan. Non trovando niente, si trovò a pensare, sorridendo tra se e se sicuro di non aver sbagliato, che maestro ed allievo in alcuni frangenti si somigliassero davvero in una maniera impressionante.
Lasciarono gli appartamenti seguiti da una piccola scorta della quale tutti, tranne Lisa che non si era espressa in merito ma aveva continuato a mostrare un’espressione piuttosto vaga, ritenevano di poter fare a meno, sperando di non dover considerare anche il palazzo un luogo a rischio dell’assalto di folle fomentate da predicatori. Il palazzo iniziava ad assomigliare a quello di Renodia, si accorse ad un tratto Deidar quando, giunti nella sala del trono, la trovò occupata da numerose persone indaffarate, con molti più portaordini del giorno prima che andavano e venivano. Greg sembrò pensare la stessa cosa mentre un portaordini lo superava urtandolo per dirigersi verso il tavolo che occupava il centro della sala, sul quale, proiettata da un oggetto simile a un globevisor, vi era la costa nareniana. Ciò che maggiormente differenziava, almeno per il momento, i due conflitti, era la diversa reazione che le due regine avevano dimostrato: se Talandria, anche nei momenti più duri, aveva cercato di mantenere il controllo di se stessa e di non lasciarsi sopraffare dalla tensione, Nailie, al momento, sbraitava ordini contro chiunque non si stesse impegnando al massimo per portare a termine la propria mansione. Dal più semplice portaordini allo stratega, tutti avano continuamente sotto l’occhio vigilie della regina. Nessuno, nemmeno il Primo Ministro Rifean, fu esonerato da rimproveri. E i rimproveri non mancarono nemmeno per Dovan e i suoi allievi. Erano appena entrati che già Nailie avanzava verso di loro con gli occhi infuocati. Scoccò un’occhiata in tralice a Greg per poi lamentarsi con tono piuttosto seccato con Dovan per il loro ritardo. Dovan, conciliante, porse le scuse a nome suo e dei suoi allievi, poi si limitò ad avvicinarsi al tavolo, seguito a pochi i da Greg e da Deidar. Yasheira, dalla parte opposta del tavolo, accanto al Primo Ministro, li salutò brevemente mentre, a quanto pareva, erano in via di discussione e approvazione le ultime misure per controbattere l’offensiva di massa di Selthon. Poco dopo si fece silenzio, le poche voci, quelle di Mark e di Andrew che parlottavano, furono messe a tacere dal tono della regina:
«Come tutti ben sapete, mancano meno di due ore alla scadenza del primo dei due ultimatum lanciati dal Cancelliere» fece una pausa mentre osservava tutti i presenti e serrava la presa delle mani sui braccioli del suo trono. «Non c’è bisogno di dire che Naren farà di tutto per impedire al Cancelliere di portare a termine il suo assurdo proposito. Non avrà mai il nostro segreto, non lo avrà senza quantomeno combattere o tentare di invaderci. Ma fare questo andrebbe direttamente contro il secondo ultimatum. Noi ci prepareremo ad ogni evenienza. Le difese del porto devono essere ulteriormente incrementate, così come le truppe schierate in prima linea» Bug Dahil acconsentì, per sparire per qualche minuto, probabilmente per comunicare gli ordini della regina mentre quest’ultima riprendeva la parola. «Se sarà necessario fate evacuare dal porto il maggior numero di abitanti, anche a costo di strapparli dalle loro case, non voglio che ci siano perdite inutili trai civili, radunateli in alto, dove saranno al sicuro». «E’ necessario inoltre che siano avvertite tutte le navi mercantili o battenti bandiera nareniana di non fare ritorno ad altri porti per evitare di essere catturate. Quelle vicine a Ivas Naren facciano se possibile ritorno al porto, le altre invece si dirigano se possibile verso le Isole Koronne dove saranno al sicuro. Ci sono notizie dai porti occupati?» Quello che probabilmente doveva essere un tecnico delle comunicazioni, abbigliato in modo molto simile a quello del capo ingegnere, scosse con rassegnazione la testa. «No, mia regina, le comunicazioni sono ancora interrotte, probabilmente tenteranno di mandarci dispacci via terra ma per allora credo che la situazione, in un modo o nell’altro, si sarà già risolta». La regina annuì brevemente poi incrociò gli occhi di Dovan che, nel frattempo, si era limitato ad ascoltare pensieroso. Nailie poi gettò il suo sguardo su Greg e, alternamente, di nuovo su Dovan, poi parve soppesare per qualche istante un’idea, la sua espressione si fece pensierosa, mentre il Primo Ministro Rifean si manteneva a distanza e sua figlia Yasheira osservava la madre e la sala, non essendo certa di ciò che stava per accadere. Poco dopo, con un gesto secco, la regina chiese a tutti di allontanarsi dalla sala. Senza chiedere ulteriori spiegazioni, Dovan aveva infatti lanciato un’occhiata perplessa ai suoi allievi, anche loro si apprestavano ad uscire dalla sala del trono.
Andrew e gli altri fecero spallucce, Greg incrociò Dovan e gli fu accanto con pochi i. Poco dopo, avendo il maestro compreso che il suo allievo voleva dirgli qualcosa, abbasso di quel poco la testa per poter udire l’allievo senza voltarsi. «Perché ce ne stiamo andando? Non possiamo fare niente per questa situazione?» chiese in un sussurro. Dovan mostrò un’espressione divertita, poi bisbigliò a sua volta, sempre tenendo il volto dritto davanti a se, torcendo la bocca. «Aspetta e vedrai, tu continua a camminare dritto davanti a te. Probabilmente la regina si aspettava che io la contraddicessi o che volessi darle dei consigli, ma così non è stato. Questo l’ha lasciata perplessa e, adesso, vuole sapere per quale motivo nessuno di noi ha parlato». Poco dopo fu proprio la regina a fermarli con la sua voce: quando si voltarono lei si era alzata, aveva sceso qualche gradino e si era posizionata accanto a sua figlia. «Maestro Dovan, sbaglio o ha qualcosa da dire?» Dovan si inchinò brevemente, probabilmente stava nascondendo qualcosa di simile ad un sorriso, poi parlò, sempre restando nella propria posizione. «No maestà, sono totalmente in accordo con le decisioni prese» disse mantenendo un’espressione convinta e risoluta. Nailie scosse qualche volta la testa, la chioma di capelli neri ondeggiò leggera, poi reclinò la testa all’indietro e una risata spontanea le salì dalla gola, riempiendo per qualche istante la sala. «Dovan, con chi credi di parlare? Non credevo di essere mai apparsa sciocca ai tuoi occhi, né di aver mai lasciato supporre di poter essere trattata come una sciocca. Non sei tenuto a farlo nemmeno adesso per nascondere quella che tu chiami “umiltà”». Gli occhi di Greg andarono prima ai suoi compagni, poi a Yasheira che a sua volta pareva non avere la minima idea di cosa stesse dicendo sua madre, poi si risolsero ad osservare lo sguardo di sfida di Nailie e il volto tranquillo sul quale era abbozzato un mezzo sorriso di Dovan. «Ebbene, se non vorrai farlo tu, allora te lo ordino. Parla dunque, lascia che
anche i nostri orecchi sentano quello che la tua lingua ha da dire ma che confessa alla tua sola mente». Dovan fece un respiro, gli occhi incrociarono quelli di Nailie ma sembrarono traarli, per poi gettarsi oltre, verso il Vulcano. «Ho paura che le misure di protezione che avete preso contro possibili furti non sia sufficienti. La tecnologia può molto ma non tutto, maestà». Nailie arricciò il naso mentre la linea delle sopracciglia si univa in un’espressione contrariata e allo stesso tempo pensierosa ma ugualmente non parlò. Dovan aveva atteso che dicesse qualcosa per alcuni istanti, poi, notando l’espressione di vaga attesa comparsa sul volto della sovrana, preferì proseguire nella sua spiegazione. «Temo che Naren non sia più un posto sicuro per proteggere la pietra. Ho il timore che un Pari si aggiri in città». Le parole del mago caddero nella sala come biglie d’acciaio e come tali risuonarono fino a quando, qualche istante dopo, non si furono posate. Dovan, che nel confessare quello che non era altro che il timore che Greg gli aveva confessato il giorno prima, aveva chinato la testa, decise di rialzarla. Greg aveva iniziato a percorrere a grandi i la sala con i pugni serrati e bisbigliando tra sé, Nailie aveva aperto gli occhi e la sua espressione di sorpresa si era fatta immediatamente amara, quasi disgustata da quelle parole. Ora, finalmente, capiva da dove provenisse tutta la sicurezza delle parole di Samarlec. Per quanto i mezzi posti a difesa della pietra fossero eccellenti, la presenza di un Pari in città poteva pur sempre fare la differenza. «Deve essere scovato, immediatamente» disse risoluta, scambiando un’occhiata con il Primo Ministro, il quale si stava già ritirando per organizzare la ricerca. Dovan scosse la testa ma fu Greg a precedere ogni sua parola. «Impossibile trovarlo maestà. Sarà lui a farsi trovare al momento giusto. È me che cerca» Dovan annuì per un istante, durante il quale incrociò gli occhi di Greg. «E per avere un confronto con me sarebbe disposto a radere al suolo da solo anche tutta la città. Devo andare dove sarà sicuro di trovare sia me che quello che cerca». Nailie parve interdetta, la prospettiva di vedere rasa al suolo la sua città da un unico essere non l’aveva lasciata del tutto sconvolta per toglierle anche la
capacità di giudizio. «Non posso permettere che si acceda al Santuario senza la presenza di altre persone. C’è il rischio, non tanto immaginario, che tu fallisca. E la tua morte non sarebbe solo la fine per Naren, ma per tutto quello per cui ci stiamo battendo». Greg aggrottò le sopracciglia e controbatté all’affermazione della regina: «Maestà io vi andrò con o senza il vostro permesso. Lord Astaroth non si farà molti scrupoli, ucciderà chiunque si frapponga tra me e lui. Non è il tipo che rinuncia per così poco ad uno scontro» disse con voce tagliente mentre l’idea dello scontro imminente iniziava a piacergli sempre di più. Nailie scattò dal trono, i suoi occhi scintillavano, aveva ascoltato troppo per non ribattere: «Non permetto a nessuno di contraddire ai miei ordini, sia chiaro» disse mentre anche il suo volto prendeva colore. «Vedo che Dovan, oltre ad averti insegnato le sue arti deve averti insegnato anche come essere ribelle» disse dopo una breve risata di scherno. «La mia parola è stata chiara, non metterò in pericolo…» una presenza le ò davanti richiamando la sua attenzione mentre il suo dito lungo ed affusolato tagliava l’aria come se brandisse una lama. «Andrò io con lui. Nessuno potrà mai tollerare che un selthoniano protegga il nostro regno. Ne va dell’onore della nostra famiglia e della nostra gente. Se può realmente fare qualcosa dobbiamo credere in lui, far sì che tutto questo non sia più leggenda» Greg annuì alle parole svelte di Yasheira che, davanti alla madre, era in attesa di una risposta. Nailie sospirò profondamente incrociando gli occhi della figlia poi si voltò, questa volta fu lo sguardo del suo Primo Ministro a parlare. «Così sia. Andrete al Santuario per proteggere la pietra» per la prima volta, dentro di sé, iniziava a comprendere che quella in gioco, oltre alla sua e del suo popolo, fosse la vita di sua figlia.
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«E’ una follia, follia pura!» ripeté per l’ennesima volta Greg mentre, inascoltato, procedevano verso il Santuario. Si voltò di nuovo cercando lo sguardo di Dovan mentre Lisa, Mark e Andrew li seguivano con poco distacco. «Perché siete dovuti venire anche voi? Le mie parole non contano proprio niente?» si fermò di colpo, per poco sia Dovan che gli altri non gli finirono contro. «Cerca di capire…» Greg serrò le mascelle. «Ascoltatemi bene, tutti quanti. Se Lord Astaroth attaccherà, e state certi che lo farà, io non potrò difendervi dai suoi attacchi. L’ha dimostrato a Selthon con Mark. Non si farà scrupoli ad attaccare le persone che mi sono più vicine». «Ascoltaci tu adesso» Andrew emerse da dietro il muro formato da Dovan, Mark e Deidar e afferrò non proprio delicatamente la spalla dell’amico. «Abbiamo deciso di seguirti, di condividere con te la tua missione e tu hai accettato, ricordi?» disse, voltandolo. «Se anche potremo, per un solo istante distrarre Lord Astaroth dai suoi piani e far sì che tu possa attaccarlo e sconfiggerlo, noi ci proveremo» disse Mark deciso, annuendo. «Hai la mia spada dalla tua parte amico mio, la spada che ha fermato Lord Minstrael, ricordi?» aggiunse Deidar, sguainando dal fodero l’arma dalla quale non si separava mai. «E come sempre avrai tutto il mio aiuto, per quanto mi sarà possibile almeno» aggiunse Dovan mentre Lisa, in disparte, sorrideva annuendo. Una volta in più i suoi compagni gli stavano dimostrando la loro solidarietà, una volta ancora, tutti insieme, si sarebbero opposti a ciò che avrebbe fatto di tutto per rendere il loro mondo un luogo terribile e Greg, di fronte a ciò, non riuscì a fare altro che a sorridere, dimenticando per un istante il pericolo del conflitto con il Pari, e a dire “grazie”.
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Nell’ombra nel quale si era nascosto per raccogliere le proprie energie, Lord Astaroth arricciò le labbra sottili e prosciugate in un’espressione di soddisfazione. Tutto stava andando secondo i suoi piani. Finché fosse restato quieto nessuno si sarebbe accorto di lui, e anche quando se ne fossero accorti sarebbe stato troppo tardi per rimediare all’errore. Sapeva che gli stavano andando incontro al completo, numerosi come mai avrebbe creduto. L’espressione di soddisfazione non accennava a diminuire: purché il suo avversario fosse stato in grado di combattere al massimo delle sue potenzialità non si sarebbe affatto risparmiato anzi, per onorare quell’occasione, avrebbe combattuto anche lui al massimo. Si alzò e da uno spiraglio nella roccia intravide il sole, una visione rara per un Pari ma alla quale stava iniziando ad abituarsi, data la frequenza con la quale ultimamente veniva inviato in superficie. Si interrogò sul motivo per cui Lilith lo usasse per ogni missione quando altri sei Pari attendevano di poter fare la loro parte, quantomeno, se non tanto per la causa comune, per proprio diletto dopo secoli di noia. Forse era lui il primo ad essere chiamato proprio perché ben poco si occupava dei propri possedimenti e preferiva vivere all’interno del Baiamondo, ma non era il solo a farlo, anche Lord Adramelech, seppur in minor misura, risiedeva spesso nei suoi appartamenti a corte. Lasciò che i suoi turbamenti gli scivolassero addosso, preferendo rinviare quei pensieri ad un momento più quieto. Occupare la mente prima di un combattimento, l’aveva imparato ormai, poteva compromettere la sua prestazione, quantomeno concedere al suo avversario l’illusoria speranza di poterlo sconfiggere. Sorrise, mentre, dall’alto, vide chiaramente un gruppo di persone avvicinarsi al suo nascondiglio, argli poi a pochi metri di distanza senza che prestassero attenzione alla sottile crepa nella roccia, e proseguirono verso il lussureggiante giardino, da quale, tramite un maestoso ingresso, sarebbero entrati infine al Santuario dell’Anima del Fuoco.
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Capitolo VI
Il segreto svelato
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Arrivare sulla cima del Par Banaam era stato piuttosto rapido, a differenza del vero e proprio viaggio costituito, il giorno prima, dall’arrivo al palazzo: Greg, e non solo lui, pensò che ciò era dovuto al fatto che non fosse Dovan a guidarli ma Bugh Dail in quanto sovrintendente, nonché ideatore, delle imponenti misure di sicurezza del Santuario. Nessuno aveva parlato molto da quando avevano lasciato il palazzo da una terrazza privata dalla quale avevano avuto accesso a questa rampa che, a detta dell’ingegnere capo di Naren, era quella utilizzata soprattutto dagli Alti Prelati per raggiungere in fretta il Santuario. L’uomo si era inoltre prodigato in ulteriori spiegazioni di come Naren fosse comunque preparata a resistere anche a ripetuti attacchi da parte della marina selthoniana e, se fosse stato assolutamente necessario, anche a rispondere al fuoco. Bugh Dail indicò numerose torri durante il tragitto, molte di esse, che Greg aveva creduto fossero per lo più monumenti, erano in realtà rocche armate con cannoni pesanti a lunga gittata. Proseguirono, il cielo era appena velato da qualche nuvola, il vento tiepido, come una qualsiasi giornata di primavera. Perso nell’osservare il cielo, per poco non inciampò e perdendo l’equilibrio, si aggrappò alla spalla di Yasheira che lo precedeva. Lei, colta di sorpresa, per poco non perse l’equilibrio a sua volta nel tentativo di afferrare la frusta. Quando si accorse che non era stato altro che Greg lo squadrò severa, come se avesse commesso un reato. «Stai attento, non vorrai perdere l’equilibrio per così poco?» Greg, non comprendendo il perché di quella reazione, si scusò più volte, dicendo di essere sovrappensiero. Non parve una risposta soddisfacente per la principessa che, riappesa la frusta alla cintura, si voltò e proseguì la salita al Par Banaam. Deidar gli fu accanto poco dopo. «E’ tesa, non intendeva reagire in quel modo» disse in un sussurro.
«Non capisco, eppure è stata lei stessa a convincere sua madre» ribatté Greg alzando di poco la voce mentre riprendeva a camminare. «Perdonami Greg ma si vede che hai molto da imparare ancora sulle nareniane» rispose sorridendo il principe di Renodia. «Eh? Cosa c’è da sapere sulle nareniane?» chiese interdetto. Deidar scosse la testa. «Qui a Naren le donne assumono più spesso ranghi di comando rispetto agli uomini. Lo stesso vale per il loro esercito, anch’esso è per tradizione comandato da una donna, molto spesso si tratta della stessa regina. E Yasheira, proprio come me qualche settimana fa, si troverà presto ad assumersi tutti i doveri di principessa. E non solo temo. Ciò che mi rende diverso da lei è il fatto che, probabilmente, questa è per lei la prima vera prova, il primo scontro che deve fronteggiare». «Credo di capire. Non deve farlo solo per se stessa, ma per tutta la gente che crede in lei. Questa è la prova che spetta a voi principi in questa situazione. Dovete mostrarvi degni di ricevere ciò che un giorno vi spetterà per discendenza, non è vero?» Deidar non poté fare altro che annuire a quelle parole. «È così. Ognuno, in questa storia deve affrontare ciò che gli si oppone per se stesso e per chi lo circonda. Mark, Lisa, Andrew e Dovan per Selthon, io e Yasheira per Renodia e Naren e a te…» Greg sorrise, per la prima volta riuscì a scherzare sulla propria missione: «…a me tocca farlo per il mondo intero». Risero brevemente, oltreando una parete rocciosa, per poi giungere in un luogo totalmente diverso da quello dove erano appena stati: per quanto sapessero tutti che Naren fosse costituita in gran parte dal Deserto Cremisi e che non fosse particolarmente rigogliosa fatta eccezione per le piantagioni di Bobolcan, quello che lussureggiante e rigoglioso occupava l’intero cratere del Par Banaam era il giardino più bello che avessero mai visto. Deidar conosceva la bellezza della Foresta degli Esperidi, era quasi la sua casa e aveva sempre creduto non potesse avere pari: ma lì, quel giardino meraviglioso, collocato proprio in uno dei luoghi forse più inospitali, gli fece, se non proprio cambiare idea, almeno riconoscere che esistessero altri luoghi che potevano
rivaleggiare con il suo regno. Fiori variopinti e piante maestose circondavano tutto tranne alcuni vialetti ben puliti e lastricati, utilizzati nelle processioni cerimoniali: Bugh Dail imboccò proprio uno di questi, sparendo per breve tempo nella vegetazione, ma tornando visibile una volta che tutti ebbero voltato l’angolo. A qualche decina di metri dal punto in cui l’ingegnere capo aveva svoltato, tutti videro e riconobbero due cose. La prima, piuttosto usuale, era un ingresso, al quale erano poste due statue di Flammaria. Il secondo, con lo stupore di quasi tutti, era l’uovo più grande che avessero mai visto. La principessa si inchinò prontamente, imitata pochi attimi dopo dall’ingegnere reale poi, senza scomporsi o dare spiegazioni, precedettero tutti gli altri all’ingresso del santuario. Due guardie salutarono il loro arrivo, ad un cenno di Bugh Dail la terza guardia, appena comparsa per effettuare il saluto, sparì nuovamente. L’ingegnere si voltò verso Dovan, non prima di essersi guardato attorno con circospezione, e disse: «Le difese sono temporaneamente disattivate, non c’è stato tempo di preparare anche per voi i dispositivi di accesso, ad ogni modo le difese saranno ripristinate non appena saremo entrati». Dovan annuì brevemente, facendo cenni all’amico per affrettarsi nell’ingresso nel Santuario. «Intendono chiuderci dentro a quel vulcano?» chiese Andrew a mezza voce sporgendosi verso Greg, visibilmente timoroso. Greg non fu il solo ad udire il commento dell’amico, poco distanti anche Mark e Deidar avevano iniziato a scambiarsi sguardi perplessi mentre Yasheira e Bugh Dail iniziavano a scendere i primi gradini di roccia della scala che, ando attraverso le pareti del vulcano, li avrebbe condotti al Santuario.
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Il aggio dalla luce del giorno a quella dell’interno del vulcano fu piuttosto graduale, così come il lieve ma costante aumento della temperatura. Percorsero un lungo corridoio che scendeva sempre più in profondità lungo il fianco del vulcano, illuminato tutto lungo i lati tubi trasparente che sembravano trasportare lava luminescente.
Infine giunsero all’unica porta presente nel corridoio, davanti alla quale si fermarono per consentire a Bugh Dail di aprirla. Il calore iniziava a farsi molto meno sopportabile adesso: nessuno era del tutto asciutto in viso, malgrado Yasheira e l’ingegnere non mostrassero di soffrirne più di tanto. Quello che al contrario pareva tollerarlo meno di tutti era proprio Deidar che non poteva fare a meno di ricordare di nuovo il calore intenso che aveva avvertito quando Greg per poco non l’aveva attaccato. Dovan fissava pensieroso la porta davanti a sé, qualcosa doveva essergli sfuggito, non era ancora accaduto niente e l’ultimatum se non era scaduto doveva essere realmente prossimo al suo termine. Dov’era Lord Astaroth? Impossibile che fosse già all’interno del santuario, doveva per forza entrare da qualche parte, l’idea che potesse in qualche modo penetrare le pareti di roccia del vulcano era troppo assurda quasi anche per un Pari. Greg non sembrava pensarla allo stesso modo: iniziava a sentirsi strano, sapeva che stava per accadere qualcosa ma non riusciva a capire se l’agitazione che stava salendo dentro di sé fosse per lo scontro o piuttosto per la stranezza di trovarsi in un luogo che non poteva dirsi certo ospitale. Gli altri attorno a se sembravano solo piuttosto accaldati ed ansiosi che la porta si aprisse: Mark sentiva i vestiti incollati al corpo e iniziava a sbuffare rumorosamente mentre Lisa restava in disparte, non dando segno né di fastidio né di preoccupazione. Dopo qualche minuto di attesa, durante i quali Bugh Dail aveva lavorato ad un pannello posto sul muro adiacente alla porta, e dopo qualche rumore di non chiara natura, la porta si aprì. Un vento caldo, così caldo da uguagliare quello del Deserto Cremisi, li investì mentre, poco dopo, varcarono infine quella soglia, questa volta però, subito dopo l’ingegnere e la principessa fu Greg ad andare, seguito a pochi gradini da Dovan, Deidar e dagli altri. Una nuova scala che percorreva la parete interna del vulcano fu la loro nuova strada: la mancanza di un corrimano li costrinse a procedere mantenendo il contatto con la parete rocciosa, contatto poco piacevole dato il calore che impregnava anche le pietre. Sotto di lui, pur parandosi per qualche istante gli occhi per resistere ai bagliori, vi era una piattaforma circolare, anch’essa fatta in pietra che, vincendo la forza di gravità, apparentemente fluttuava su quel mare di lava. Guardando meglio si accorse che la piattaforma circolare si elevava a qualche
decina di metri dal magma incandescente. In pochi, ad eccezione degli Alti Prelati, potevano entrarvi: se all’esterno, per il popolo, quello che accadeva nel vulcano era frutto di misticismo e rituali complicati, al suo interno emergeva la sua vera anima tecnologica. Tranne Yasheira e Bugh Dail, il resto si era bloccato in contemplazione di quell’opera tanto maestosa. Un pilastro centrale si elevava dalla piattaforma di pietra, sostenuto da piccole colonne, fino a raggiungere la bocca del vulcano mentre un’infinità di cavi luminescenti partivano da esso per poi innestarsi nelle pareti. Centro di tutta la fervente attività del santuario vi era, a prima vista, uno scintillio di indefinito colore, deposto proprio al centro della piattaforma. Il o successivo fu costituito dalla discesa: grazie a quello che Andrew non esitò a definire “un grosso montacarichi”, divisi in due gruppi scesero probabilmente nel punto di massima sopportazione del calore infernale prodotto dal vulcano. Dovan si guardò attorno, estese i suoi sensi fino a scandagliare l’intero luogo ma non rilevò nessuna presenza oscura. Sorrise sollevato poi, l’attenzione dei suoi sensi fu attratta da Greg. Qualcosa in lui si stava muovendo, sentiva il suo potere espandersi riuscendo addirittura a sopraffare i suoi sensi. Ebbe appena il tempo di voltarsi per vedere Greg che, esterrefatto, fissava il suo petto emettere una luce in perfetta risonanza con quella prodotta dal pilastro. Si accovacciò al suo fianco, lo sostenne per qualche istante mentre il suo allievo gli chiedeva, balbettando e con sforzo, cosa gli stesse accadendo. il silenzio che intercorse tra la domanda di Greg e la risposta che stava per dargli Dovan fu però spezzato da una risata lunga e profonda che risuonò in tutto l’antro. Quando si voltarono e si accorsero che quella voce proveniva da dietro di loro era troppo tardi: Lisa era riversa a terra priva di sensi e un’ombra multicolore si era levata da lei emergendo, inconfondibile, osservando divertita i presenti con i suoi occhi dalle iridi bianche. «Dunque, ragazzo, ho scoperto il segreto della tua forza».
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Il primo ad accorgersi che qualcosa non andasse per il verso giusto era stato Greg: il suo respiro si era fatto rapido e il suo battito aveva accelerato troppo
velocemente per trattarsi di semplice paura o nervosismo. Era appena sceso sulla piattaforma insieme a Dovan, Bugh Dail e Yasheira quando, con le mani, aveva iniziato a tastarsi il petto febbricitante, sentiva qualcosa pulsare proprio sotto il cuore ma sembrava diffondersi in tutto il resto del corpo. Era stato Dovan, poco dopo, a rendersi conto di quello che stava accadendo mentre, con gli occhi, andava dal pilastro al centro della piattaforma sospesa al petto di Greg. Immediatamente dopo se ne accorsero anche l’ingegnere reale e la principessa, questione di qualche attimo e Andrew indicava spaventato l’amico mentre Mark restava a bocca aperta e Deidar faceva il gesto istintivo di metter mano all’elsa della sua spada. Il petto di Greg aveva iniziato a brillare, in perfetto accordo con ciò che si trovava posto sotto la teca di cristallo posta sul pilastro. Si era portato una mano al petto, l’altra l’aveva poggiata a terrà mentre si era inginocchiato con fatica, la bocca contorta per il dolore ma impossibilitata ad urlare. Dalla prossimità del montacarichi usato per scendere sulla piattaforma si alzò, in quel silenzio governato dal panico, una risata lunga e divertita, di cupa e oscura soddisfazione. Lisa, rovesciando gli occhi, era caduta a terra come un sacco vuoto, sopra di lei un manto iridescente coronato da un cranio mummificato dal quale, intrecciate, prendevano forma due paia di corna, era appena sorto in tutta la sua terrificante statura. Nessuno si era dato peso di rispondere a Lord Astaroth: uno dopo l’altro erano balzati davanti a Greg, formando un circolo di difesa.
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«Voi umani credevate seriamente di poter ingannare il mio Signore così a lungo? Credevate forse che il segreto che avete nascosto in lui avrebbe potuto esser nascosto per sempre, che l’idea di strapparlo dal petto di un ragazzo ci avrebbe allontanato dal proposito di portare a termine i nostri piani?» rise di nuovo, mentre, finalmente, dopo fin troppo tempo, tutto, nella sua mente millenaria, iniziava a trovare una spiegazione, la soluzione ad un enigma che da troppo tempo lo angosciava era infine giunta per una vera e propria coincidenza. Dovan, forse l’unico che era riuscito a comprendere fino in fondo il significato delle parole del Pari, era troppo sconvolto per ribattere in qualche modo. Non ebbe
molto tempo per pensare come agire, prima che accadesse l’irreparabile, che in un colpo solo il nemico potesse impossessarsi di due pietre, lanciò contro Lord Astaroth il demonretro. Il demone si levò in un salto inumano, evitando appena l’incantesimo del maestro e a sua volta rispose, concentrando nei suoi palmi ossuti e pallidi due sfere di fuoco nero. Dovan indietreggiò, urlò a Mark di proteggere con l’incantesimo muro chi si trovava accanto a lui mentre lui, correndo, si buttava sopra a Greg che, ancora piegato, sembrava non essersi ancora accorto dell’incalzare degli eventi. Le mejranigra di Lord Astaroth percorsero lo spazio con lunghe traiettorie per andare a detonare contro gli anelli posti sulle pareti del vulcano. La piattaforma oscillò pericolosamente mentre due delle otto catene pendevano nel vuoto, ormai inservibili. «Andatevene e avrete salva la vita, frapponetevi tra me e colui che custodisce la pietra e morirete» continuò Astaroth, planando proprio sopra Dovan, la sua voce imperiosa si diffuse nel vulcano rimbombando. «MAI!» urlò Dovan mentre, alzandosi in piedi, iniziava a far fuoco contro il demone, poco dopo seguito da Mark. L’effetto sortito dall’attacco congiunto fu solo un’altra risata del demone mentre parti delle pareti del vulcano si staccavano e cadevano più in basso, sollevando colonne di magma. Deidar scattò, sguainò la spada, con una rapidità che solo i combattenti Esperidi possiedono poi balzò con altrettanta velocità sopra al Pari ma questi, estratta a sua volta la sua spada riforgiata, si era già spostato a qualche metro di altezza, scuotendo pigramente la testa. Il principe non esitò, mentre il demone, con velocità incredibile, si spostava nell’antro, corse a sua volta lungo la piattaforma poi balzò su una delle catene che la ancoravano alle pareti del vulcano. In equilibrio sulla grande catena menò fendenti e affondi contro il demone, sbaragliando la sua difesa e cacciandolo indietro fino a quando egli non scomparve di nuovo con un ampio movimento del suo mantello cangiante, ricomparendo molti metri più in alto. Deidar sbuffò, si guardò intorno, infine afferrò uno dei cavi che si innestavano nel vulcano e lo tagliò, tenendosi ben aggrappato. Il cavo si spezzò con un rumore secco e il principe con l’arma stretta nella mano libera, si abbatté su Lord Astaroth. Il demone lo afferrò, immobilizzandolo, approfittandone per privarlo della sua arma. «Non si coglie mai un Pari impreparato due volte principe» disse, fissandolo
dritto negli occhi. «Se non le spiace» aggiunse beffardo indicando la spada «questa la prendo io» prima che, con rabbia, lo scagliasse contro il pavimento della piattaforma. Deidar, privo di sensi, giacque sulla pietra, raggiunto immediatamente da Mark e da Andrew. Dovan, non potendo abbandonare Greg, urlò a Mark di erigere una barriera poi, mentre stava per attaccare a sua volta Lord Astaroth, fu superato da Yasheira che, furiosa, aveva estratto la frusta che teneva sul fianco e l’aveva fatta schioccare. Il Pari, da qualche metro sopra il livello della piattaforma, troneggiava su di loro: la ragazza che aveva usato per entrare nel Santuario era sempre priva di sensi ed era circondata da altri mentre il principe, raggiunto da Dovan e da Greg, ancora bloccato dal dolore, veniva curato dopo lo schianto. Fra lui e la pietra restava solo la principessa. Scese sulla piattaforma a qualche metro dal pilastro e da lì si avvicinò, con i lenti e misurati. Giunto a poco più di qualche metro si inchinò alla principessa che, saldamente controllata, si era parata davanti al pilastro, stretta lui e la pietra restava la Rosencrux. «Vostra altezza, non sono incline a misurarmi con lei, la invito a levarsi di mezzo e lasciarmi prendere la pietra» questa parve intendere tutto l’opposto a proposito del lasciarlo are. Nessuno, uomo o demone che fosse, poteva rifiutarle il confronto. «Fate come li dico e avrà salva la vita, almeno per ora, intendo». Yasheira non attese che il demone terminasse il suo discorso, alzato il braccio destro aveva fatto roteare la frusta nell’aria ed essa aveva schioccato contro il pavimento. Il generale rise di nuovo: «Suvvia principessa, mi ha preso per una bestia da circo? Se è un confronto quello che desidera, ho paura che dovrà impegnarsi un po’ più di così». La ragazza si sentì toccata nel profondo, se nessuno poteva negarsi allo scontro nessuno avrebbe potuto schernirla. La frusta roteò di nuovo, una fragranza di rosa, per qualche istante, parve riempire ed alleviare il calore presente nell’aria, l’arma agì come se possedesse vita propria e, allungandosi oltre la sua normale lunghezza, saettò contro il demone, avvolgendo le sue braccia. Un istante più tardi Yasheira, tendendo la frusta, aveva sguainato il suo lungo coltello e aveva iniziato il suo assalto, lanciandosi contro il demone momentaneamente immobilizzato. Il Pari evitò agilmente i colpi della lama che la principessa gli
inferiva con la mano destra mentre con la sinistra, i muscoli e i tendini del braccio tesi allo spasmo, cercava di trattenere la presa sulla frusta. Fu poi la volta di Lord Astaroth che, forzando i tralci che gli immobilizzavano le braccia, era riuscito a ruotarle per poi colpire con un pugno la principessa che, accasciata al suolo, fu soccorsa dal fido ingegnere. «Come potete constatare con i vostri occhi non resta altro di voi. Siete stati annientati. Arrendetevi, cessate i vostri sforzi e avrete salva la vita. Non intendo ripeterlo nuovamente, sono stato fin troppo paziente con voi» disse mentre, con la coda dell’occhio, vide il ragazzo che custodiva la pietra, rifiutare l’aiuto del suo maestro e alzarsi, pur se debolmente, in piedi. Il Pari era impaziente, tra le sue mani iniziò a turbinare il fuoco oscuro: non era certo con loro che voleva un confronto, il fatto che fossero pronti a dare la loro vita per quel ragazzo li rendeva onorevoli ai suoi occhi ma allo stesso tempo degli sciocchi. Lasciò che la mejranigra si estinguesse nelle sue mani poi parlò: «Non ho nessuna intenzione di continuare a misurarmi con voi. Colui che voglio affrontare è colui che vi ostinate a proteggere, l’unico che può mettere fine a quella che, vi prometto, potrebbe essere una vera carneficina. Lasciateci combattere da soli e potrete uscire di qui. Restate, continuate a intromettervi e ritrovarvi privi di sensi sarà, al confronto, la cosa migliore che vi sarà capitata quest’oggi». Dovan, attese che finisse di parlare poi, messo da parte Greg, avanzò vero Astaroth. «Sarò io il tuo avversario». I proiettili di fuoco raggiunsero Lord Astaroth producendo detonazioni esplosive, quest’ultimo, ripetendo le acrobazie di poco prima scansò quasi tutti i colpi, tranne gli ultimi due che, andando a segno, lo costrinsero a fermarsi per riprendere fiato. «Umani, quando imparerete? Vi avevo offerto di uscire da qui vivi in cambio di uno scontro leale contro quel ragazzo. Ma voi non capite MAI!» in risposta due sfere di fuoco oscuro, lanciate ad incredibile velocità oltrearono Dovan che ebbe appena il tempo di vederle sfrecciare all’altezza dei suoi occhi, si riunirono in una sola, diretta verso la barriera che, generata da Mark, proteggeva anche i principi feriti durante lo scontro.
Al termine del bagliore che la detonazione dei due enormi proiettili aveva prodotto colpendo la barriera, Dovan non ebbe il coraggio di voltarsi. Nella sua mente regnava il caos, l’attimo in cui i due incantesimi l’avevano oltreato aveva compreso che essi non fossero per lui ma ogni cosa avesse fatto sarebbe stata vana. La barriera di Mark non avrebbe mai potuto reggere un confronto tanto impari e nessuno sarebbe sopravvissuto. Il suo sguardo rimase fisso ed immobile per lunghissimi istanti, davanti a lui si prospettava forse il più oscuro dei futuri che aveva mai immaginato in quei mesi, la completa disfatta del piano, la perdita di vite umane innocenti. Fu l’espressione stranamente soddisfatta di Lord Astaroth a convincerlo a girarsi, unita ad una voce che conosceva molto bene che pochi istanti dopo aveva iniziato a parlare.
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«Desidero che seguiate gli ordini di Lord Astaroth. Mettetevi in salvo, avvertite Naren del pericolo. Questa è la mia battaglia» Greg, in piedi, teneva ben salde nelle mani le due mejrama nigra di Astaroth. Lo sforzo che aveva compiuto per alzarsi non era niente in confronto a ciò che, all’interno del suo corpo, avvampava senza sosta. Lord Astaroth aveva anticipato di poco la verità alla quale era giunto dopo l’ingresso nel santuario. Quando a Selthon aveva usato quel potere per sconfiggere il Pari non aveva idea di cosa fosse successo, quando gli Esperidi avevano cantato avevano forse alluso alla cosa in maniera velata ma non del tutto chiara: ora lo capiva, il dolore al petto ne era la prova lampante. Possedeva lui stesso una delle Pietre che il nemico cercava. Quelle Pietre, ancora non gli era chiaro in che modo, potevano decretare la loro rovina ma anche la loro vittoria. Prima però dovevano cadere nelle mani del nemico. Deidar si sollevò appena e lo trattenne per una gamba: «Non possiamo fare quanto ci chiedi. Abbiamo promesso, la nostra vita perché tu possa portare a termine il tuo piano, non puoi chiederci di obbedire ad un ordine simile» disse con voce debole ma ferma. «Qui non si tratta solo della mia vita e del compito a cui sono stato destinato. La vita di migliaia di persone è in pericolo e voi dovete fare di tutto perché possano mettersi in salvo. Qui non potreste fare niente, mi sareste solo d’impedimento e
non potrei in nessun modo salvarvi nel caso vi trovaste in pericolo» rispose mentre nelle sue mani le due mejranigra sparivano in piccole esplosioni. Greg osservò Dovan per la prima volta dopo che era riuscito a bloccare gli incantesimi di Astaroth. «Maestro, lei sa che ho ragione. Quello che vi chiedo di rispettare non è solo la richiesta di un Pari. È anche il mio volere. La situazione presto sarà molto peggiore di quanto ognuno di voi possa immaginare. Fate quanto vi è stato chiesto e quello per cui abbiamo lottato e sofferto fino a questo momento non sarà stato vano». Dovan non poté fare altro che chinare il capo ed annuire, Deidar a sua volta allentò la stretta sulla gamba di Greg e annuì verso l’amico. Poco dopo, davanti all’espressione soddisfatta di Lord Astaroth uno ad uno, chi con aiuto chi con le proprie forze, si era rimesso in piedi ed era sfilato davanti a Greg. Per ultimo venne Dovan con in braccio Lisa, ancora priva di sensi. «Là fuori c’è bisogno di voi. Per quanto riguarda me, il mio posto è qui. Non gli permetterò di avere entrambe le Pietre». «Hai capito dunque?» Greg annuì. «Non fallirò». Scostò una ciocca di capelli dal volto di Lisa e prima che Dovan si allontanasse con gli altri sull’elevatore, le sfiorò la fronte con le labbra. «Niente in contrario se surriscaldo un po’ l’atmosfera? I combattimenti sostenuti fino a questo momento mi sono risultati assai tiepidi» furono le prime parole che gli rivolse direttamente dopo che i suoi amici ebbero lasciato l’antro. Greg rimase in silenzio per qualche istante. «Non credo che se mi dicessi contrario alla tua proposta farebbe qualche differenza». Lord Astaroth increspò le labbra in un ghigno poi gli fu appena davanti. «Immagino ti sia preparato adeguatamente a questo scontro, non vorrei avere un’altra delusione». Greg iniziò a supporre che si trattasse di una specie di gioco tra loro due, di una consuetudine ormai accettata e alla quale sembrava impossibile rinunciare. Lo
guardò con la coda dell’occhio, senza neppure spostare la testa per guardarlo dritto negli occhi freddi ed eterei. «Fa ciò per cui sei stato mandato. Non ti fermerò. Poi giudicherai tu stesso». Non si era neppure voltato mentre il demone, a o deciso, si era avvicinato alla teca che conteneva la pietra luminescente e dalla quale partivano le miriadi di cavi. «Sai bene che nel momento stesso in cui preleverò questa pietra il Vulcano si risveglierà» «Ne sono consapevole». «Pensi di essere migliorato al punto da poter confrontarti con me e tenere a bada il magma nello stesso tempo?» «Credo questa sia una preoccupazione che non spetta a te». «Spero che il tuo potere sia migliorato più della tua modestia, ragazzo».
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Il Vulcano aveva ripreso vita. Era stato come se dalle profondità della terra si fosse levato un ruggito così potente da sconquassare tutto. Greg l’aveva avvertito chiaramente negli istanti che avevano preceduto il prelievo della pietra dal luogo nel quale per secoli era stata custodita. Lord Astaroth l’aveva osservata per qualche istante, soppesandola nelle mani scarne e pallide, poi l’aveva nascosta nella sua uniforme. Non erano stati momenti d’attesa vani, non l’aveva lasciato agire indisturbato senza uno scopo. Aveva avuto bisogno di concentrazione ma alla fine, in quel risveglio così repentino aveva scorto qualcosa che senza dubbio non poteva are inosservato. C’era qualcosa di potente in quel magma: non era tanto la potenza della terra, neppure quella del fuoco. Vi era qualcosa di diverso, di mistico. L’aria avvampò del magma che, senza più freni, spingeva per aprirsi una strada verso la superficie, travolgendo ogni cosa.
Il demone, per la prima volta da quando era comparso, slacciò la fibbia che teneva agganciato il suo mantello ed esso si dissolse arrotolandosi su se stesso. Malgrado le condizioni avverse Greg rimaneva imperturbato, le braccia appena sollevate dai fianchi. Poi, l’istante successivo, strinse i pugni in una morsa ed il magma che, inesorabilmente, si stava arrampicando lungo i bordi del Santuario, si arrestò per poi indietreggiare. «Hai preso ciò che volevi, ti ho lasciato compiere la prima mossa. Se non ti spiace, quindi, sarò io il primo ad attaccare». Lord Astaroth ebbe appena il tempo di guardarsi attorno prima che fosse investito in pieno da un’offensiva che non credeva fosse possibile scatenare. Le spalle di Greg si erano curvate in un attimo mentre dal nulla compariva un altro paio d’arti, enormi e sproporzionati rispetto alla sua figura. Lingue incandescenti gli attraversarono il corpo senza provocargli ustioni mentre le due possenti fiamme prendevano consistenza e, in accordo con gli arti umani, lanciavano contro il demone proiettili di fuoco. Astaroth fu colpito in pieno senza poter opporre resistenza mentre Greg, inesorabile, proseguiva avvicinandosi a lui. La piattaforma fu scossa e le catene oscillarono pericolosamente, cigolando mentre il magma, nei livelli inferiori, ricominciava ad infuriare con maggior forza. Greg iniziò a vacillare per l’enorme dispendio di energia che gli occorreva per placare il magma che, governato da un potere sconosciuto, premeva per sfondare la sua resistenza mentre Astaroth, tornato in piedi e visibilmente danneggiato, sembrava pronto a contrattaccare. «Vedo che per quanto la tua modestia lasci a desiderare lo stesso non si possa dire del tuo potere» disse rimettendosi in piedi e aprendo le braccia. L’oscurità avvolse le sue mani bianche e ossute con fiamme nere dai riflessi amaranto, addensandosi e divampando come se fossero vive. «Immagino debba considerarlo un complimento. Stai cercando di guadagnare tempo?» rispose Greg incrociando le braccia umane mentre quella superiori, al contrario, preparavano a loro volta un nuovo attacco. Lord Astaroth increspò le labbra in un nuovo ghigno. «No, solo di renderti le cose più difficili».
Nello stesso istante fece fuoco contro due dei sei agganci che sostenevano sospesa la piattaforma sopra il magma e subito dopo una nuova raffica ne danneggiò pericolosamente altri due . La lastra di pietra circolare sulla quale era posata la colonna oscillò vertiginosamente, Greg sentì mancarsi il terreno sotto i piedi e scivolò, facendo dissolvere le due braccia che aveva invocato. Un terzo attacco di Astaroth colpì direttamente il pilastro centrale che, disintegrandosi a metà, rimase tronco. La parte inferiore della colonna perse l’appoggio e rotolò, evitata da Greg per un soffio, nel magma che, adesso, cresceva a velocità vertiginosa, raggiungendo per pochi metri l’altezza della piattaforma. Greg, con le mani strette a morsa attorno ad una pietra sporgente della piattaforma, osservò il magma da vicino, tanto vicino da fargli paura. Un’altra esplosione, la piattaforma restò appesa ad appena tre catene. «Stai perdendo il controllo della situazione, ragazzo?» gli urlò Lord Astaroth, perfettamente in equilibrio dalla parte opposta sul ciglio della base del Santuario. Greg mormorò tra sé un’imprecazione, tastò un’altra pietra e trovò un appiglio nell’intercapedine. Fece forza arrancando sulla piattaforma inclinata, afferrando una pietra dopo l’altra percorse alcuni metri mentre sotto di lui la piattaforma finiva per inclinarsi sempre di più, divorata dal magma in salita. Stava perdendo il controllo della situazione, Astaroth aveva maledettamente ragione. Quello che più lo faceva fremere di rabbia era che, malgrado avesse avvertito una presenza dentro al vulcano, la possibilità di domare quella potenza, lui c’era riuscito appena e per pochissimo tempo. Se la pietra di Naren era della stessa potenza di quella che, come aveva scoperto era dentro di lui, un modo ci doveva essere. Doveva provare, per la salvezza dei suoi amici che, con tutta probabilità, al momento stavano dando l’allarme del pericolo. E, con tutta franchezza, doveva farlo anche per la propria.
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Nella città aerea di Mideroa la luce era l’elemento principale. Di giorno i cristalli
di Lunoctio, che componevano la sua struttura celeste, riflettevano i raggi solari mentre di notte sfavillavano di luci calde ed avvolgenti. Nella sala del trono, posta sopra il cristallino Mare di Vetro, l’enorme lastra sul quale era costruita la città volante, un essere sfavillante si era appena alzato dal suo trono al quale se ne affiancavano altri tre, ognuno recante un diverso simbolo. La sua luminosità non era certo minore a quella del cristallo baciato dal sole e le ampie vesti lo circondavano come le nubi soffici che volteggiavano nel cielo vicino alla città. Diresse il suo sguardo oltre la superficie cristallina, ciò che i suoi occhi vedevano chiaramente era un pericolo enorme che ogni istante si faceva sempre più grande. Era ormai impossibile che ce la fe da solo, era escluso. Dopo che la pietra era stata sottratta, addirittura col suo assenso, la situazione era drasticamente peggiorata. Era stata la sua gente, secoli prima, ad installare la pietra nel camino del Vulcano ed erano stati loro ad insegnare agli uomini come ammaestrare l’energia del magma, renderla una potente alleata piuttosto che un pericolo. Era stata percorsa da fremiti nel vedere Aelthas arrampicarsi. Sarebbe stata una questione di pochi minuti e tutto sarebbe stato inghiottito da un mare di fiamme. Non aveva indugiato, anche gli attimi che le erano serviti per raggiungere la Sala erano preziosi. In quegli istanti si poteva decidere il destino di un mondo intero. La sala dei Custodi era poco lontana e la sua esile ed elegante figura era scattata, seguita dalla moltitudine dei veli delle vesti verso una cupola allungata dalla quale si innalzavano quattro grandi pilastri, ognuno simboleggiante uno dei quattro spiriti. Le guardie alla porta, vedendola arrivare e intuendo l’emergenza, avevano aperto per lei i battenti. Adesso era davanti al pilastro di Flammaria ma, malgrado le sue preghiere, sembrava che qualcosa, sebbene la situazione si aggravasse col are dei minuti, trattenesse lo spirito dal manifestarsi. Ci aveva riflettuto brevemente, niente del genere era accaduto prima d’ora, né a lei né ai suoi fratelli. Qualcosa, o qualcuno, estremamente potente per impedire che lei, la terza dei quattro Custodi del Trono, assolvesse il suo compito interferendo con i suoi poteri. Socchiudendo gli occhi diresse il suo sguardo oltre il pilastro, la sua vista trafisse il Mare di Vetro, l’unico grande cristallo sul quale poggiava Mideroa e, si diresse nuovamente all’interno del Santuario per controllare la situazione. Ciò che vide
la sconcertò: al centro della piattaforma Aelthas era riuscito a rimettersi in piedi. Era lui che controllava il vulcano adesso. Il segreto era stato scoperto irrimediabilmente.
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Più potente che a Selthon, l’energia della pietra lo aveva attraversato, irradiandosi dalle sue mani, come un’onda l’aveva sommerso, privandolo dei sensi. Non esisteva più un vulcano in eruzione, non esistevano nemici né un piano millenario. Esisteva solo il potere che, in quegli istanti, si era impossessato di lui. Greg non poté osservarlo direttamente, la sua schiena si contorse, si allungò, una dopo l’altra sei enormi braccia andarono a conficcarsi nelle pareti del vulcano proprio mentre la piattaforma di pietra cedeva spazio alla lava e alle fiamme L’ultimo dei sei, un braccio possente e squamoso afferrò Lord Astaroth con tanta violenza da pressarlo contro la roccia e farlo, per la prima volta dopo secoli, sussultare. «Questo…è l’incantesimo proibito…hai scatenato l’Esatherion» disse, in un sussurro mentre la gigantesca mano che lo aveva afferrato proseguiva ad affondare nella roccia come se fosse argilla. Il Vulcano, in un nuovo sussulto, si placò. Greg non poteva vederlo, ma fuori, all’esterno, in ogni angolo di Ivas Naren, decine di migliaia di persone, intente a fuggire, avevano levato gli occhi verso l’alto ed erano ammutolite, arrestando la loro fuga verso un luogo sicuro. Il corpo di Greg, sospeso e trattenuto dalle immense braccia si scosse ma non riprese conoscenza. Lentamente la sua schiena si mosse come poco prima, un bagliore, accecante come la luce del sole si diffuse nella bocca del Vulcano e fuori da esso, trafiggendolo. Lord Astaroth chiuse appena gli occhi, una luce del genere avrebbe potuto facilmente accecarlo, malgrado ciò, quando li riaprì, si chiese se quello strano fenomeno non fosse riuscito a rovinarli comunque. Per i primi istanti vide solo un bianco uniforme, poi, dal bianco erano emerse forme confuse, prima di tutti il braccio che, senza allentare minimamente la presa, continuava ad inchiodarlo saldamente al muro.
Sopra il corpo apparentemente esanime si era levato un nuovo busto, al quale, adesso, erano attaccate le sei poderose braccia. La somiglianza con il ragazzo era incredibile, al centro del suo petto brillava adesso con incredibile fulgore il segreto che tanto avevano sperato di riuscire a proteggere per impedire il ritorno del suo Signore. «Ebbene» disse il volto etereo che, con le braccia umane incrociate lo stava osservando da parecchi metri di distanza, «sembra che siamo giunti alla resa dei conti».
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Dovan aveva in braccio Lisa ancora addormentata, Yasheira furiosa faceva di tutto per tornare indietro, Andrew e Mark trasportavano Deidar che, disperato, mormorava qualcosa sulla sua spada. Erano appena tornati a palazzo per dare l’allarme e la situazione sembrava peggiore di quanto avessero solo potuto sognare. La marina Imperiale aveva occupato il porto con gli incrociatori Scylla mentre appena fuori incombevano le sagome delle tre ammiraglie della flotta. Poco più lontano, enorme, si stagliava rilucendo contro il cielo il ventre madreperlaceo del Leviros. Nailie li aveva accolti insieme al Primo Ministro Rifean ma dimostrava difficoltà a parlare mentre il secondo aveva fatto deporre i feriti nel bel mezzo della Sala del trono e continuava ad insistere affinché fossero tutti visitati. La regina non aveva un attimo di tregua, continuava ad andare a destra e a sinistra per la sala ma sembrava che non ascoltasse nessuno, le parole del fedele Ministro e di Dovan le scivolarono addosso mentre continuava a farfugliare tra se. A niente erano valse le scosse che sempre più frequentemente percorrevano il palazzo reale: la situazione le stava scivolando di mano, l’idea che la pietra fosse stata rubata la sconvolgeva, che tutto fosse riposto nelle mani di quel ragazzo mentre lei ed il suo popolo si trovavano stretti nella peggior morsa della storia del suo Regno. Da una parte il Vulcano, ormai privo di freni, dall’altra la marina da guerra più potente del mondo. Nessuno era a conoscenza di cosa stesse
accadendo adesso all’interno del Santuario. Fu Dovan ad arrestare il suo movimento, obbligandola a sedersi. «So che sei sconvolta per il furto della pietra ma so altrettanto che se non usciremo in fretta di qui non sarà quella l’unica cosa andata persa oggi. Questo paese ha bisogno di una guida, di una voce che li sappia guidare con l’Impero alle porte. Greg sta facendo del suo meglio là dentro» disse, fissandola dritta negli occhi, cercando con quelle parole, di infondere sicurezza anche a se stesso «Ma qui chi potrebbe fare meglio se non tu?» Nailie scuoteva la testa, le mani non riuscivano a star ferme, sembravano cercare di afferrare qualcosa nell’aria, poi si ò una mano sugli occhi, nascondendoli alla vista dei presenti e reclinando il capo sul petto. «Sono stata sciocca. Fin troppo sciocca. Per un attimo ho creduto che combinare un matrimonio potesse metter fine a qualsiasi spettro di guerra, che avere il vero erede al trono fra noi avrebbe avuto lo stesso effetto di un miracolo, lo stesso che tutti adesso attendono» lacrime pesanti le scorrevano sul viso bruno adesso, appesantito dalla consapevolezza di aver fallito con i suoi intenti. «Se coloro che dovrebbero far avverare la nostra preghiera non fanno niente, dove mai troveremo la forza per contrastare questa situazione?». La porta dalla quale erano entrati sbatté con un tonfo. Yasheira aveva ascoltato fin troppo. Starsene lì con le mani in mano, attendere e commiserarsi insieme: non le era stato insegnato questo negli anni che aveva trascorso nel deserto. Perché sua madre, colei che sempre aveva mostrato a tutti il suo volto duro ed inflessibile, sicura fino a sfiorare la presunzione delle proprie decisioni e delle proprie iniziative, si stava adesso commiserando? Lei avrebbe combattuto. Nessuno avrebbe mai più dovuto allontanarla dallo scontro. Il suo posto non era a palazzo, non era suo il compito di mettere in salvo la popolazione. Sua madre le aveva chiesto cosa sarebbe stata disposta a fare per il suo popolo. Le aveva risposto “tutto”, naturalmente. Solo adesso, sebbene fossero ate solo poche ore da quando glielo aveva chiesto, sapeva cosa doveva fare per esaudire il “tutto” che aveva promesso. ‡
Greg non era assolutamente cosciente di ciò che il suo corpo stava facendo in
quegli istanti. Se lo fosse stato non avrebbe potuto fare a meno di chiedersi da dove fossero venute fuori quelle braccia e, meno che mai, come avesse fatto ad inchiodare Lord Astaroth alla parete del vulcano. Tutto gli pareva confuso, ogni tanto sentiva qualche parola, qualche rumore poi, il buio. Al contrario,il busto etereo che si era levato dal suo busto pareva saperlo benissimo mentre, senza perdere un solo istante aveva afferrato il Pari e l’aveva avvicinato. In quell’istante un altro braccio, rugoso e grigio, si staccò dalla sua presa sulla roccia per andare a rinforzare la presa sul demone. «Cosa sei?» chiese Lord Astaroth mentre, finalmente vicino, riusciva ad osservare dettagliatamente la sagoma che lo stava imprigionando. Era il ragazzo, non c’era dubbio ma era la pietra che, adesso, si stava servendo di lui. «Tutto. Più di quanto tu potresti comprendere» rispose la sagoma eterea, muovendo lentamente le labbra bianche mentre gli occhi, rilucendo, producevano bagliori blu profondi. «Non era la risposta che speravo di ottenere. Sai chi sei?» chiese mentre, nervosamente, cercava di dibattere le gambe. «La mia risposta non sarebbe diversa da quella che ti ho fornito precedentemente. Per quanto riguarda il ragazzo tu credo sappia bene chi egli sia». «Perché ne hai preso il posto? Pensavo di poter avere la soddisfazione di un confronto ad armi pari». La forma eterea rise divertita «Armi pari? Il divario non è neppure lontanamente quantificabile. Non hai scelta, la tua esistenza si concluderebbe qui, in questo vulcano». Fu Astaroth, adesso, a ridere divertito: «Non te ne sei accorto? La pietra non è più qui. Pensavi forse che avrei corso il rischio di perderla?» Poco dopo si pentì per ciò che aveva detto, la stretta su di lui si fece ferra: se il suo bisogno d’aria fosse stato strettamente necessario come quello di un essere umano, probabilmente sarebbe già morto. Tese i muscoli del collo all’inverosimile mentre cercava di emergere almeno con le spalle dalle dita che lo stringevano a morsa. Aveva poco tempo e non più di
due tentativi per liberarsi da quella situazione. Decise di partire dal primo, facendo leva sull’orgoglio del ragazzo. «Tu…sei potente…anche più grande dei migliori di noi…ma…non riesci a controllare il tuo stesso potere…se fossi con noi…potresti imparare…e saresti grande…grande!» Greg colse l’intero discorso. Le parole di Lord Astaroth lo colpirono profondamente. Gli era quasi impossibile aprire gli occhi, cercò di muovere un braccio, poi l’altro ma ciò che avvertì fu uno strano tepore, seguito da un lungo e fastidioso formicolio. Poi una voce, un paio di occhi che, attraverso la foschia, comparvero vividi e lucidi come l’oro. «Aelthas. Stai rischiando molto più della tua vita. Interrompi questa follia o non potrò assolvere il tuo compito. Il potere che stai tenendo a freno non ti appartiene». Greg, per un attimo, avrebbe creduto di mettersi a ridere. Sapeva a mala pena come tutto ciò aveva avuto inizio e cosa stava accadendo. Adesso gli era stato chiesto di smettere, di lasciare che il vulcano esplodesse di nuovo in tutta la sua forza. La voce ripeté molte volte lo stesso messaggio, sembrava una preghiera più che una vera e propria conversazione. Non aveva torto. E non era l’unica persona che, al momento, stava pregando.
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Era lì perché doveva accadere qualcosa. Ne era certa. Non si era curata del fatto che qualcuno la stesse seguendo o meno, era piuttosto sicura che nessuno l’avrebbe fatto. Suo padre avrebbe capito, non l’avrebbe permesso. Indugiò davanti all’entrata per qualche istante, indecisa se scendere e combattere ancora sulla piattaforma. Sempre che ne esistesse ancora una sulla quale combattere, si corresse.
Fu però un baluginio, appena un bagliore ad attirare la sua attenzione. Le parve fosse un bizzarro riflesso del sole ma, dopo aver scrutato il cielo per qualche secondo, si accorse che tutto ciò sarebbe stato impossibile. Le nubi che, dalla sera precedente, non avevano mai smesso di ristagnare sopra Ivas Naren non lo avrebbero di certo concesso. No, il riflesso dorato che aveva appena attraversato la superficie liscia dell’immenso uovo non era dovuto al sole. Si chiese se non fosse un’allucinazione, se per caso, nell’urto, avesse perso qualcosa di più che coscienza. Qualche attimo dopo smise di credere che i suoi sensi si stessero prendendo gioco di lei e si soffermò con più attenzione davanti all’uovo. Poi iniziò a comprendere e sorrise. La stava chiamando. Voleva lei.
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«Loro…loro non farebbero mai tutto questo per te…ne ho scorto i cuori, lo sai?» disse Lord Astaroth in poco più di un sussurro. La seconda possibilità sembrava aver avuto più successo della prima. Il busto etereo gli si avvicinò ulteriormente, fu costretto a socchiudere gli occhi mentre i bagliori azzurri si riflettevano sulla pelle arida del demone. «Non sai cosa si cela dentro di loro. Tu li conosci da sempre. Ma non sai di loro poco più di niente. Sei troppo occupato a pensare a te stesso, a ciò che rappresenta per te questo compito». Le stretta iniziarono a cedere e il vero Greg iniziò a contorcersi. La voce della forma eterea, per la prima volta da quando era comparsa, parve alterarsi. Di rabbia. «Taci. La tua lingua è portatrice di calunnia». Lord Astaroth fremette un istante. Quello che stava facendo era pericoloso ma se avesse avuto fortuna, se, con la carta che si stava per giocare, fosse riuscito a penetrare le difese del ragazzo allora non avrebbe rischiato invano. «Colui che tu chiami maestro…mente…da molti anni ormai…anche con te ha mentito…oserei quasi dire che…Ti invidia…» Qualcosa si era incrinato. Greg lo aveva avvertito troppo distintamente per aver sognato le parole appena udite e perché la sensazione che lo stava attraversando fosse fittizia. L’Esatherion, l’incantesimo che nemmeno il più grande mago umano sarebbe stato capace di lanciare anche dopo una vita di allenamento, si
era dissolto braccio dopo braccio, allo stesso modo, era sparito anche il controllo che era riuscito a stabilire sul vulcano. Lord Astaroth, in poco più di un istante, parve inghiottito dal buio, davanti a lui Greg, facendo forza sull’ultimo braccio che lo teneva ancorato al muro, era riuscito a raggiungere uno degli anelli e vi si era aggrappato con tutte le sue forze. La lava che fino a pochi minuti prima era riuscito, non sapeva nemmeno lui come, a controllare a far arretrare, era adesso tornata ad infuriare, questa volta senza possibilità di essere interrotta sul suo cammino. Pochi istanti e la lava si trovò presso a poco laddove si trovava anche la piattaforma di pietra. Ancora qualche istante e avrebbe raggiunto anche il livello dell’anello al quale si era aggrappato. Era la fine.
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«Dalla fine sorga un nuovo inizio. Flammaria splenda una volta ancora» era una preghiera sciocca aveva pensato Yasheira, una delle poche che, mandata a memoria da bambina, era in grado di ricordare anche in un momento come questo. Si era inginocchiata davanti all’uovo, l’aveva osservato per quella che le era parsa un’eternità mentre i riflessi dorati che ne attraversavano la superficie si facevano sempre più intensi. Avrebbe voluto trovare le parole giuste quando, dal nulla, il vulcano aveva ricominciato a scuotersi. Si rimproverò, si disse di essere solo una sciocca proprio mentre la cantilenava per l’ultima volta, di aver sbagliato a soffermarsi presso l’uovo mentre avrebbe dovuto penetrare di nuovo nel Vulcano e affrontare il Pari. Si era appena alzata a fatica in piedi, la terra sotto i piedi stentava a sorreggerla, sembrava che tutto fosse prossimo alla distruzione totale. Si voltò verso il palazzo mentre, con orrore, vedeva crollare alcune delle vie sospese che lo mettevano in comunicazione con la città, compresa l’unica che avrebbe potuto metterla in salvo velocemente. Si guardò attorno, in cerca di un luogo dove mettersi al sicuro, proprio mentre, sotto di lei, il terreno iniziava ad aprirsi e vaste aree del giardino cedevano di
sotto. Si trovò sul ciglio dove era stato deposto l’uovo. Per un attimo si chiese se l’avesse urtato o ne avesse provocato la caduta con un movimento maldestro. Yasheira fu attraversata da un moto di rabbia: per secoli la sua gente aveva creduto che da quell’uovo, nel Tempo dei Miracoli, sarebbe risolta la loro protettrice, la divina Flammaria. Questo era il momento peggiore perché una leggenda del genere si dimostrasse il frutto di un errore o di uno sbaglio. Non riuscì a trattenersi, stava diventando tutto troppo assurdo perché fosse reale. Non aveva più diciassette anni, era tornata bambina, stava piangendo e aveva iniziato a prendere a pugni ripetuti il guscio dell’uovo. «Non abbandonarci. Non abbandonare il tuo popolo. Non hai sentito quello che ho detto? Dalla fine sorga un nuovo inizio!» Lo ripeté come una filastrocca mentre continuava ad indietreggiare, più in basso aveva iniziato a vedere la lava. «Dalla fine sorga un nuovo inizio» cantinelò di nuovo. Guardò di nuovo in basso: nessuna traccia di combattimenti in corso. Non si vedevano né il demone né Greg. La piattaforma era sparita. Probabilmente inghiottita dalla lava in continua salita che, ormai, toccava quasi il livello degli anelli che sostenevano le catene della lastra di pietra. Da alcuni pendevano brandelli di catene, altri erano del tutto assenti. Da uno, come ebbe modo di constatare, non senza stupore e un certo sollievo che le permisero di scordare il ritardo dell’apparizione, pendeva invece un essere umano, a dire il vero incredibilmente somigliante al suo promesso sposo.
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Capitolo VII
Le Ali di Flammaria
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La decisione di lasciare le stanze della torre nella quale aveva risieduto stabilmente per secoli senza mai allontanarsi, o senza che nessuno mai se ne accorgesse, destò sospetti e stupore in tutto il Baiamondo. Il fatto che tale visita, formalmente di cortesia, fosse la richiesta di un’udienza con la Sublime Lilith aveva, se possibile, aumentato in modo impressionante le voci di quelli che sostenevano che nel Baiamondo fosse tempo di grandi cambiamenti. L’udienza era stata breve e nessuno, tranne i due Sommi Pari, era stato ammesso a parteciparvi. Oltretutto nessuno era stato certo di essersi realmente imbattuto in Lord Mefistofel, né al momento del suo ingresso nella sala di Lilith, né al momento del suo congedo. Secondo molti si era trattata di un’udienza importantissima, dopo la quale la Reggente era scomparsa per alcuni giorni dalla sua sontuosa reggia senza che nessuno, neppure il maestoso ed imponente corteo che la accompagnava, l’avesse potuta seguire. Il compito di Lord Mefistofel non si era però esaurito: aveva avuto molto da fare e tutto avrebbe dovuto compiersi nei tempi previsti. Il fatto che proprio nei giorni di assenza della Reggente avesse convocato il Flauto Demoniaco al suo cospetto non fece altro che aumentare il clima di inquietudine. Lord Minstrael non era mai entrato nella torre del suo Pari e mai avrebbe creduto di dovervi entrare: era sempre stato alle dirette dipendenze di Lilith e per tutto il viaggio che aveva compiuto, in sella al Servo del Flauto, per rientrare al Baiamondo si era interrogato sul motivo della chiamata.
La discesa nel piazzale di entrata della Torre era stata lenta e controllata, la nebbia verde che si diffondeva dalla sua cavalcatura aveva creato una scia luminescente, osservabile da chiunque si trovasse all’esterno del palazzo. Non si curò di essere visto: scese dall’indefinibile forma alata con un salto poi, imbracciato il flauto, suonò alcune rapide note e sia la nebbia che il Servo fecero ritorno al suo interno. Entrò, provando sensazioni non dissimili da quelle provate da Lord Astaroth appena qualche giorno prima: il buio completo pareva avere occhi e orecchie ovunque e, malgrado i Domini Sotterranei fossero normalmente dei luoghi molto caldi, si accorse di avere freddo. Si strinse nelle vesti, il fedele flauto accuratamente riposto nella tracolla che, sproporzionata data la sua minuta statura, gli pendeva sulla schiena. Salì le scale a chiocciola lentamente, fermandosi qualche volta per riprendere fiato: il suo corpo fragile e corrotto non gli concedeva che sforzi fisici ridotti. Nelle sue condizioni persino una scala a chiocciola come quella costituiva una seria difficoltà. Si trovò infine di fronte all’unica porta della Torre che, socchiusa, lasciava spazio a un gelo quasi maggiore. Aprì la porta lo spazio necessario per scivolare dentro alla stanza e lì rimase perplesso dalla povertà dell’ambiente: pietre scure e fredde come ghiaccio al posto delle sontuose decorazioni, polvere invece dei preziosi dipinti presenti nel Baiamondo. «Avanza, piccolo Erryl, non sostare sulla porta» disse una voce lontana, distogliendolo dai suoi pensieri. Minstrael provò una fitta, la maschera sul volto parve vacillare. Da secoli non sentiva pronunciare quel nome. Il suo nome. Serrò i denti e raccolse l’invito, camminando lentamente per la stanza e inchinandosi brevemente dopo averne raggiunto il centro. «Le porgo i miei omaggi, Lord Mefistofel». La sua voce acuta risuonò nella stanza parecchie volte, come se il soffitto della stanza si perdesse per diversi metri nell’oscurità. L’attesa si protrasse per qualche istante, un’ombra si era destata da un seggio scarno e privo di decorazioni al quale non aveva badato attenzione. «Sono lieto che tu abbia accettato il mio invito. È ato molto, molto tempo
dal nostro ultimo incontro» la voce fece un attimo di pausa, come se il suo proprietario stesse cercando di ricordare in quali circostanza si fossero visti l’ultima volta. «Mille anni o quasi» squittì Minstrael. L’ombra si alzò dal suo seggio e fece alcuni i, il gelo pareva muoversi con lui. «Sì, ricordo bene quella infelice circostanza. A quel tempo eri molto giovane, se non erro. Spero perciò di non contrariarti o tantomeno di offenderti se ho deciso di farti un regalo». L’altro rimase alquanto stupito, gli occhi sottili e acuti celati dalle fessure della maschera si aprirono per la sorpresa. «Un regalo?» L’ombra non si mosse, tanto che Lord Minstrael ancora stentava a capire se il Sommo Pari lo stesse guardando dritto negli occhi o se gli stesse rivolgendo le spalle. Il mantello che copriva Lord Mefistofel si sollevò appena e dei fogli immacolati planarono dolcemente ai piedi di Minstrael. Dopo che li ebbe raccolti e studiati per alcuni istanti, con la voce rotta dall’emozione, parlò di nuovo: «Questa musica…è bellissima. Non credevo potesse esistere niente di simile… Lord Mefistofel, il suo dono mi omaggia oltre ogni mia parola ma non posso in ogni modo accettare…» «N c’è motivo per rifiutare un dono, Erryl. Quegli spartiti sono tuoi. Li ha composti tua madre». Lord Minstrael non aveva mai provato sensazioni simili in tutta la sua lunga esistenza: poco prima aveva singhiozzato mentre adesso, malgrado la maschera lo nascondesse efficacemente, stava piangendo. Si strinse al petto gli spartiti. «Devi solamente farmi un piccolo favore in cambio» aggiunse la voce poco dopo. Lord Minstrael annuì, ormai certo che l’altro lo stesse osservando, i suoi pensieri colmati dalla musica che aveva appena letto. Il mantello si mosse nuovamente, due fogli scuri si adagiarono ai piedi di colui che un tempo era stato un esperide. Ascoltò le istruzioni e promise che le avrebbe eseguite alla lettera poi, con un umore nemmeno lontanamente
paragonabile all’euforia che provava sul campo di battaglia, uscì dalla torre. Gli venne quasi da ridere, la maschera sul quale era dipinto un volto sogghignante una rara volta rispecchiò la sua vera espressione. “Che buffo” disse fra sé e sé “non credevo che Lord Astaroth gradisse la musica”.
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L’aveva stretta nelle mani per lunghi ed interminabili istanti, ne aveva sentito il calore diffondersi attraverso la pelle, percorrere il suo corpo come attraversato da una brezza leggera. Allo stesso tempo aveva avvertito il potere del terremoto e della tempesta, le stesse forze della vita e della morte concentrate in quella gemma che, con occhi scintillanti, non riusciva a smettere di osservare. Lord Astaroth era ricomparso sul Leviros più tardi del previsto: se non fosse stato per il risveglio del Vulcano avrebbe temuto il peggio per il suo piano. Era comparso davanti a lui, atterrando sulla terrazza principale della base: sembrava piuttosto malridotto, doveva aver trovato qualche difficoltà ma non se ne era curato. «Dov’è la pietra?» aveva chiesto con insistenza mentre quest’ultimo sembrava concentrato più sul Vulcano che sulla richiesta. Il demone lo aveva fissato attraverso i suoi occhi bianchi e freddi. Per la prima volta aveva creduto di provare pietà per quell’uomo. “No”, si era corretto subito dopo mentre dalle sue pallide e scarne mani ava, avvolta in un lembo della sua veste, la Pietra a Samarlec, “i demoni non sanno cosa sia la pietà. Pensa di poter piegare il nostro popolo, usarlo per i suoi obbiettivi. Quest’uomo si sta distruggendo con le proprie mani”. Per i primi istanti Samarlec aveva tremato, i suoi eptarchi, gli uomini che in quegli anni gli erano stati più vicini, gioivano accanto a lui, restando pur sempre a debita distanza da Lord Astaroth. Il demone schioccò le dita ossute e dinoccolate, il mantello che aveva lasciato prima del combattimento ricomparve sulle sue spalle come una nebbia. Tirò il cappuccio ed esso ricadde pesante sopra il suo cranio e le corna incrociate, proprio mentre una nuova presenza,
riccamente ed eccessivamente addobbata, faceva il proprio ingresso nella terrazza. La grande corona poggiata sulla sua testa impose il silenzio sulla folla festante. Samarlec fece un cenno stizzito verso i tre maghi imperiali affinché si prodigassero e accogliessero l’Imperatore mentre, con un nuovo cenno, questa volta più misurato, chiamò a sé l’Ingegnere Imperiale. «Dai ordine affinché sia immediatamente posizionata, non voglio perdere altro tempo» disse in un sibilo quando questi gli si fu avvicinato. «Sarà fatto immediatamente, Cancelliere» disse annuendo. «Non mi basta che sia posizionata. Deve funzionare questa volta» aggiunse mentre, con la coda dell’occhio, constatava l’incompetenza dei tre maghi nel tenere impegnata sua altezza imperiale. Enif Olinori trasse un profondo sospiro, scelse con calma le parole. «Signore, l’incidente delle Torri di Cristallo è stato casuale, ogni previsione lasciava intendere che avrebbe avuto successo. Lo stesso accade qui sul Leviros» «Cosa stai cercando di dirmi?» chiese afferrandolo per un braccio, il suo tono si era fatto minaccioso, i suoi occhi avevano lampeggiato. «Non potremo esserne sicuri finché non l’avremo provata, Signore». «Se vuoi che onori il nostro patto, Enif, sarà il caso, per il bene tuo e di tuo figlio, che questa volta non vi siano intoppi. Il nuovo Cannone Celeste deve poter colpire Naren in ogni momento a partire da adesso, sono stato sufficientemente chiaro?» Non ci fu bisogno di risposta, aveva capito fin troppo bene la richiesta. Il terrore era l’unica vera arma che conosceva quell’uomo per imporre il suo volere. Si allontanò dopo aver nascosto la Pietra, proprio mentre l’Imperatore entusiasta, si era avvicinato al Cancelliere per sapere quale fosse il motivo per quell’esplosione di gioia improvvisa.
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Yasheira cercò di valutare la situazione come le era stato insegnato in anni di Accademia militare, tentando di mettere da parte emozioni e pensieri irrazionali. Provò a scordare il numero di vite che dipendevano dalla scelta che avrebbe dovuto fare nei pochi istanti successivi, balzò in piedi, si frugò nell’uniforme e trovò ciò che cercava: un oggetto metallico di piccole dimensioni, con tre fori incisi su una parte ed una cavità più grande sulla quale appoggiò le labbra. Prese aria, riempì i polmoni più che poté poi, tappando due dei tre buchi con le dita, emise un lungo e potente fischio. Lo ripeté altre due volte fino a quando, sopra il palazzo, non le parve di scorgere una sagoma. Sorrise e, dopo aver messo mano alla frusta, si lasciò cadere nel vuoto. Greg appeso all’anello, aveva appena intravisto la sagoma della principessa sporgersi poi, mentre cercava nuovi appigli più in alto, aveva udito tre poderosi fischi. Infine, mentre la lava era quasi giunta all’altezza dei suoi piedi, aveva evocato un incantesimo muro proprio nel momento esatto in cui Yasheira, presa un brevissima rincorsa, si era gettata nel vuoto. Greg non era riuscito ad aprir bocca mentre vedeva il corpo della principessa scendere dall’alto verso il basso ad incredibile velocità, per poco perse la presa mentre la caduta, in una frazione di istanti, rischiò di terminare nelle fiamme. Una seconda sagoma saettò nel Vulcano e, scendendo a folle velocità, afferrò la ragazza tenacemente per le spalle mentre, con poca difficoltà, aveva iniziato a sbattere le ali poderose e robuste. Yasheira avvertì una sensazione di vuoto allo stomaco e si sentì immediatamente sollevata: ancora pochi istanti, forse poco più del tempo sufficiente perché battesse ancora le palpebre e non avrebbe visto più niente. Simurgh schioccò due volte il becco in segno di approvazione, sollevandola e portandola a diversi metri dal livello della lava. Yasheira indicò un punto poco sopra la sua testa mentre, con difficoltà ancora maggiore Greg con una mano cercava di resistere con l’incantesimo halos alle fiamme e alla lava che lo stavano circondando. Simurgh si diresse velocemente fino a qualche metro sopra l’anello. Yasheira, saldamente afferrata per le spalle, srotolò la frusta, lasciandola penzolare verso
Greg e incitandolo ad afferrarne immediatamente l’estremità. «Aggrappati, non c’è più tempo!» gli urlò mentre muovendo il braccio cercava di avvicinare la frusta più possibile a Greg. Quest’ultimo le ricambiò uno sguardo di ringraziamento. «Credi che quella cosa che ti tiene per le spalle sia in grado di reggere entrambi?» disse mentre, sorprendentemente, la frusta si piegava e si attorcigliava al suo braccio. Yasheira gli scoccò un’occhiata infastidita «Fossi in te mi preoccuperei solo di uscire da qui vivo, al resto dei dettagli posso badare io». Greg non trovò assolutamente niente da obiettare a quella risposta e, dopo aver lasciato l’anello, vide finalmente il suo corpo allontanarsi dalla lava: poco sopra di lui Simurgh, sbattendo le poderose ali, li stava portando fuori dal vulcano.
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Nella sala dei custodi Shadriel era stata bloccata e costretta ad osservare la scena. Suo fratello Feadrel era intervenuto prima che portasse a compimento la chiamata di Flammaria ed insieme, avevano assistito al salvataggio di Aelthas da parte di Yasheira. «La principessa ha senza dubbio mostrato il proprio valore» esordì Feadrel asciutto. «Perché mi hai interrotto? Avrei potuto salvarli entrambi senza che fosse tutto così a rischio» disse lei, risentita. Feadrel scosse la testa: «Non è questo il punto. Questa è una guerra degli uomini e fin dove riescono è loro compito provvedere a se stessi». «Non è stato un uomo a rubare la Pietra, fratello» rispose secca. «Flammaria da sola potrebbe annientare tutta la flotta Imperiale. Non desidero che accada ciò».
Gli occhi di Shadriel lampeggiarono, l’oro dei suoi occhi divenne incandescente. «È questo dunque? Temi che io possa mettere fine a questa guerra annientando il regno che tu proteggi?» Feadrel non fu da meno, i suoi occhi si accesero e afferrò la sorella per un braccio: «Non lo faresti se te lo lasciassi fare?» «L’Impero ha compiuto la propria scelta e non è certo noi che il suo popolo ha deciso di seguire. Chi lo governa ha dimenticato le parole di sire Ausel, ha abbracciato il male, l’armata alle porte di Naren ne è la prova evidente» Shadriel ne sostenne lo sguardo e si liberò dalla sua stretta. «Farò ciò che è giusto, che tu lo voglia o meno». Gli occhi di Feadrel divennero ancora più incandescenti quando, nella sala, irruppero altre due presenze. Midrael fissò la scena allarmato, Uriadrel dopo aver guardato entrambi i fratelli negli occhi diede loro le spalle, incrociando le braccia. «Cosa accade in questo luogo santo?» chiese Midrael, la voce normalmente calma si era innalzata verso l’irritazione. Nessuno aveva risposto, lo sguardo di Midrael aveva attraversato la sala e si era posato sul Pilastro di Flammaria. «Shadriel, perché la Signora del Sud non è ancora stata destata?» Lei non rispose, si limitò a fissare per qualche istante Feadrel e questi fu sul punto di abbandonare la sala. «Non muoverei un altro o, fratello Feadrel. Qualcosa di gravissimo sta accadendo, è necessario che tutti siano presenti in questo momento. Devi fermare l’Impero, devi invocare il potere di Leviathan». Feadrel scosse la testa: «Voi non capite, io non posso farlo». Midrael annuì greve. «Samarlec sta per utilizzare le due Pietre che possiede per radere al suolo Naren, dobbiamo intervenire» «NO!» proruppe Feadrel girandosi di scatto. «Non posso fare una cosa del genere a coloro che lo venerano. Quegli uomini, quelle donne…Valgono forse meno di coloro che abitano Naren o Renodia? È giusto sacrificare migliaia di
selthoniani?» Uriadrel si mosse in un battito di ciglia, velocissimo anche per l’occhio di un angelo dorato sguainò il falcetto che teneva dietro la schiena ed in un momento la lunga e arcuata lama si trovò a cingere il collo nudo di Feadrel. «Farai quanto ti è stato chiesto. Oppure Shadriel agirà come meglio crede» disse in un sibilo. Una terza mano li divise, Midrael si mise nel mezzo allargando le braccia. «Con le vostre parole e le vostre azioni state profanando questo luogo sacro. Dall’inizio dei tempi ci siamo considerati la razza più saggia e civilizzata dell’universo, abbiamo perso tutto ciò che avevamo per quegli ideali di verità e giustizia. Guardiamo la realtà delle cose adesso: non siamo divinità, non possiamo decidere delle vite umane. Non ripetiamo gli errori del ato, gli stessi che ci hanno condotto alla rovina» nella sua voce c’era profondo rammarico, la sua richiesta somigliava a una supplica. Tra i custodi vi fu il silenzio: Uriadrel abbassò la falce per poi riporla dietro la schiena, Midrael con lenta cautela aveva abbassato le braccia, Feadrel si era placato e i suoi occhi erano divenuti vacui. Fu la voce di Shadriel a richiamarli all’attenzione. «Colei che riceverà la consacrazione ha chiesto l’aiuto di Flammaria. E ho intenzione di prestar fede al nostro patto». Poi, con voce lenta e sommessa, il volto rigato da lacrime color rubino, aveva iniziato l’invocazione di Flammaria.
Regna a Sud, l’Anima del Fuoco, La fiamma eterna dell’uomo, L’ardore della guerra e della battaglia. Il fuoco purificatore che riporta alla vita La landa deserta fiorisce nell’abbondanza della prosperità.
Ella nel fuoco si annega, da dove rinasce con il canto della vita eterna.
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L’atterraggio di Greg accanto all’uovo non fu dei migliori, la frusta si era srotolata prima che toccasse terra con i piedi e lui si era trovato quasi con la faccia a terra. Sospettò che la sua salvatrice l’avesse fatto volutamente mentre, con leggerezza, toccava terra e il grosso volatile che la teneva per le spalle le si appollaiava sul braccio. «Grazie per avermi tirato fuori di lì» disse indicando un punto impreciso al di sotto. Lei non lo guardò neppure «Gli hai concesso di prendere la Pietra, non hai fatto niente per impedirglielo». «L’avrebbe fatto comunque. E sarebbe stato sparso del sangue» rispose Greg alle sue spalle. Aveva compreso una cosa là dentro e per quanto a molti fosse parso insensato il suo gesto lui aveva agito seguendo la sua intuizione. Solo il tempo avrebbe potuto dargli ragione ma non era certo quello il momento per discuterne. «Il sangue sarà sparso comunque e saranno le tue mani ad esserne coperte» controbatté lei lasciandolo ricadere a terra e voltandosi. «Il vulcano è prossimo ad esplodere, il mio popolo rischia di essere cancellato dalla faccia di questo pianeta da un momento all’altro perché l’impero del quale sei tu l’erede legittimo è sul punto di invaderlo e infine hai lasciato che un Pari ci sottraesse il bene più prezioso che possedevamo!» Yasheira era furibonda e non accennava a calmarsi, avanzando sempre più verso Greg che nello stesso momento, fissava un punto dietro le spalle della Principessa. La sua attenzione era stata catturata da qualcosa di imprevisto. «Principessa, posso comprendere il suo stato d’animo ma forse faremmo meglio ad andarcene da qui al più presto. Più lontano da qui, intendo». Yasheira si era bloccata nel momento stesso in cui qualcosa, a sua volta dietro le
spalle di Greg, l’aveva ammutolita. Quasi di comune accordo e praticamente nello stesso istante, sia il Leviros che l’Uovo avevano iniziato a dischiudersi.
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L’impazienza di Samarlec, come la maggior parte degli ordini che impartiva, era stata immediatamente assecondata e la seconda Pietra era stata diligentemente collocata al suo posto. Il massimo ingegnere Olinori aveva presieduto personalmente alla posa della pietra nell’alveo predisposto ad accoglierla, proprio accanto a quella sottratta mesi prima da Renodia. Per l’ennesima volta osservò, con una sorta di timore reverenziale, l’immensa struttura del nuovo Cannone Celeste, un’arma così potente e che richiedeva conoscenze così avanzate che nessun uomo, per quanto geniale, sarebbe stato capace di concepire da solo. Era stata quella, insieme all’immensa quantità di materiali necessari per la costruzione del Leviros, il compromesso richiesto da Samarlec per offrire il suo aiuto e il suo appoggio incondizionato alla razza dei domini sotterranei. Il prezzo che stava pagando l’intero Impero per quella rischiosa alleanza cresceva di giorno in giorno, l’ombra che si allungava sulle decisioni del Cancelliere diveniva sempre più oggetto di inquietudine, persino per quelli che erano i suoi uomini di fiducia. Abbozzò un sorriso sbieco, subito nascosto dalla preoccupazione immediata per un improvviso baluginare della superficie del globevisor di emergenza presente nella sala dei comandi del Cannone. Spostò con forza due tecnici, intenti a verificare lo stato di alcune valvole e spinse preoccupato il pulsante che dava avvio alla conversazione. Un sorriso diabolico dipinto su un volto esaltato e crudele lo accolse non appena l’immagine del canale di comunicazione interno non si fece del tutto chiara. «Si è appena verificato un fatto al di fuori delle nostre previsioni. È necessario azionare immediatamente il Cannone Celeste»
Enif Olinori gli restituì uno sguardo a metà fra l’incerto e lo spaventato. A costo di essere il responsabile del cattivo umore del Cancelliere si vie costretto a frenare il suo entusiasmo: «Signore, la seconda pietra è stata appena posizionata, non c’è stato ancora tempo per ultimare i preparativi» gli occhi di Samarlec lampeggiarono sullo schermo perlaceo il sorriso si incrinò ma l’ingegnere imperiale non indietreggiò «il Leviros potrebbe non sostenere l’attacco, è un serio rischio per tutta la marina. Inoltre verremmo meno ai due ultimatum e questo non impedirebbe la reazione del regno di Naren». Enif socchiuse gli occhi, pregando che per una volta il Cancelliere fosse disposto a piegare i suoi piani in nome delle parole e degli accordi precedentemente stilati. Samarlec non disse niente, ruotò appena la visuale quel poco per far osservare a Enif ciò che aveva destato il suo entusiasmo. Un oggetto enorme, coperto di fuoco si era appena materializzato sopra il Par Banaam. Per un attimo l’ingegnere si era chiesto se non fosse una qualche arma da poco inventata presso i loro avanzati laboratori ma, almeno secondo le informazioni in suo possesso, negli ultimi mesi le ricerche erano orientate verso la realizzazione di una macchina volante. «Riservi a me le preoccupazioni politiche. Adesso azioni quel maledetto Cannone» perso nelle proprie ipotesi non si era accorto della ricomparsa sullo schermo perlaceo del volto truce del Cancelliere. Riluttante, socchiudendo gli occhi e serrando i denti aveva annuito mentre la conversazione si interrompeva.
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Greg, sotto un certo punto di vista, si era quasi abituato a vedere eventi sconvolgenti prendere vita davanti ai suoi occhi. Era lui stesso un evento sconvolgente, si disse. Yasheira, al contrario, per quanto avesse potuto ricevere un’educazione militare ferrea, era una novizia in queste cose. Per tutti e due era comunque la prima volta che si trovavano davanti ad uno degli spiriti, Greg non conservava un ricordo molto nitido dell’apparizione di Espereador a Renodia ma gli era stata raccontata un numero sufficiente di volte per poter giurare di averlo visto con i propri occhi malgrado gli occhi in quel preciso momento li avesse piuttosto chiusi.
Sebbene il primo fosse leggermente più preparato alla cosa, la seconda non poté non rimanere a bocca aperta di fronte ad una manifestazione di potere e di grandezza simili. L’uovo si era rotto in piccolissimi frammenti, sgretolandosi come sabbia. Greg era sicuro di aver scorto un ribollire di materia incandescente contorcersi, dilatarsi e poi, saettando, salire verso l’alto dove, seguita da una colonna di fuoco, aveva finalmente acquisito una forma propria. Dal bagliore incandescente che aveva costretto Yasheira e Greg e coprire gli occhi presero infine forma una coda multicolore, tre paia di gigantesche ali e, a coronamento della figura, un lungo collo che culminava in un becco appuntito percorso da scie di fuoco. Flammaria si era appena levata in tutto il suo splendore dal suo sonno millenario, agitando le ali e producendo un vento tiepido che, come una brezza gentile, soffiò sui volti provati di Greg e Yasheira. La principessa, pietrificata dallo stupore, ricadde in avanti, sulle ginocchia, per poi prostrarsi umilmente in terra, mormorando parole di ringraziamento. Greg avrebbe voluto esprimere a sua volta la gratitudine verso l’apparizione che, sorprendentemente, aveva interrotto l’imminente eruzione. Da qualche secondo, infatti, ogni vibrazione era cessata, il magma stesso era arretrato nella bocca del vulcano, il cielo, sopra Naren, pareva essersi rischiarato dalla comparsa dello Spirito la cui luce, calda e intensa, produceva un bagliore che pareva sostituirsi al sole. Ciò che lo trattenne dall’inchinarsi a sua volta fu il ricordo di ciò che aveva interrotto la discussione di poco prima. La base che avevano localizzato appena il giorno prima e che, sorprendentemente, si trovava adesso ai margini della costa, si era aperta come un fiore velenoso e, dischiudendo i suoi terribili petali cangianti, aveva sfoggiato la sua arma. Rischiare di essere cancellato dalla faccia del pianeta una volta gli era stata più che sufficiente, non desiderava ripetere nuovamente quell’esperienza poco piacevole. Afferrò Yasheira per le spalle, obbligandola a guardarlo negli occhi. Quest’ultima, infastidita se non addirittura oltraggiata per l’interruzione del suo ringraziamento, gli lanciò un’occhiata torva e con forza si liberò dalla stretta del ragazzo che la invitava ad alzarsi. «Come ti salta in mente di interrompere la mia preghiera?»
Greg evitò di rispondere alla sua domanda e gliene rivolse un’altra: «Il tuo pennuto ce la fa a portarci lontano di qui nell’arco dei prossimi secondi?» L’espressione di Yasheira da rabbiosa si fece perplessa ma non perse lo sguardo duro di poco prima. «Il “pennuto” ti ha appena salvato la vita» emise un sospiro di disapprovazione poi nella sua voce si insinuò un’ombra di sospetto. «Perché Simurgh dovrebbe portarci via di qui con tutta questa urgenza? Il pericolo è ato e poi Flammaria…» rimase in sospeso mentre continuava a guardare verso l’alto, indicandola mentre quest’ultima, mansueta, si manteneva a una costante altezza agitando le ali. Greg scosse la testa. «Dì a Simurgh di portarci via da qui, te lo mostrerò appena saremo in volo». Yasheira lo fissò dritto negli occhi per qualche istante poi estrasse lo strumento a fiato usato poco prima e Simurgh planò sulle spalle di Greg, afferrandolo saldamente. Greg sentì le spalle artigliate e quasi chiuse gli occhi, non aspettandosi una simile pressione. Yasheira sogghignò, storcendo dolcemente la bocca in un sorriso: «Pensi forse che io voglia trasportarti di nuovo?» La risposta, ovviamente, era no.
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L’intera Naren, dimenticando momentaneamente la tensione accumulata nei giorni precedenti all’arrivo dell’intera marina imperiale gioì, interruppe ogni reazione isterica di terrore e smise di osservare tremando le bocche dei cannoni. L’apparizione di Flammaria era un evento leggendario, una circostanza che si era verificata l’ultima volta quasi mille anni prima, nei giorni della scomparsa del Glorioso Impero. Ora, in quel giorno fatale che, con tutta probabilità avrebbe deciso il destino di migliaia di persone, ella si manifestava nuovamente, riempiendo i cuori e dissipando le incertezze. A palazzo tutti avevano cessato ogni attività, compresa la regina che, sgomenta, si era appoggiata alla balaustra della terrazza sulla quale si erano spostati per osservare meglio l’evento. Aveva temuto per la vita di sua figlia ma non ne aveva fatto parola con nessuno dei presenti. Era bastata un’occhiata a Luckman, negli attimi che seguirono
l’apparizione, a fugare ogni dubbio: loro figlia era viva e, con tutta probabilità, lo era anche Greg. Dovan, a sua volta convinto che il suo allievo fosse sano e salvo, aveva mormorato alcune parole di ringraziamento nei confronti di coloro che, dall’Alto, erano intervenuti così come a Renodia. Fu Andrew, attratto più dal mostro tecnologico che dall’apparizione miracolosa che volteggiava nel cielo sopra di loro, ad attirare la loro attenzione come, nello stesso istante, stava facendo Greg con Yasheira. Si erano sollevati in volo, Greg aveva afferrato la principessa sotto le braccia, facendo attenzione a non toccare niente che le avrebbe potuto arrecarle fastidio mentre, dopo qualche istante di incertezza, Simurgh aveva iniziato la sua risalita e i piedi di entrambi si erano staccati dal suolo. Mentre si allontanavano progressivamente, Greg aveva, non senza qualche difficoltà, indicato a Yasheira quello che lo aveva preoccupato maggiormente. Il Leviros si era dischiuso, le superfici perlacee rilucevano senza sosta con uno schema che Greg aveva già osservato a Selthon quando erano stati attaccati dalle Torri di Cristallo. Gradualmente, gli spicchi dai quali si era innalzata una struttura che non riusciva a identificare chiaramente, avevano iniziato ad assumere un colorito rosso e, nel corso di pochi istanti, erano ati da un credule rosso sangue ad un inquietante color porpora che rievocava nella mente di Greg ricordi tutt’altro che piacevoli. Quello era stato l’inizio della loro fuga, uno dei primi pericoli nel quale si erano imbattuti. Per un attimo si era pentito di aver lasciato prendere la Pietra a Lord Astaroth poi si era costretto a osservare il proprio petto: se fossero usciti vivi da quella faccenda ci sarebbe stato il tempo per provare se la sua ipotesi era corretta. Yasheira l’aveva osservato per alcuni istanti prima di dare ordine a Simurgh di caricarlo: non lo conosceva bene, sapeva poco e niente di lui eppure la luce che era comparsa nei suoi occhi quando le aveva detto di scappare l’aveva convinta a credergli. Se era in lui che andavano riposte le speranze perché non dargli ascolto, talvolta. «Potresti dire al tuo amico alato di spostarsi più velocemente?»
Yasheira sbuffò, quasi pentendosi dei pensieri di poco prima. «Potresti mostrare più riconoscenza se non ti è di troppo disturbo?» poi focalizzò l’attenzione sulla base marina, stupendosi di come una struttura all’apparenza fatta di madreperla potesse rivelarsi tanto temibile. Estrasse di nuovo il suo fischio e Simurgh, producendo un verso acuto che a Greg non piacque affatto, prese a volare più velocemente, ando a pochi metri da una delle ali di Flammaria. Ormai con le spalle rivolte all’apparizione e al Leviros, Greg non era più in grado di stabilire quanto tempo gli restasse prima che fosse utilizzata quell’arma devastante. Pregò che il tempo fosse dalla sua parte. «Perché ci stiamo allontanando?» gli domandò Yasheira. Greg soppesò le parole. «Perché, a meno che non mi sbagli, solo un miracolo ci avrebbe potuti salvare. E ho paura che per quanto possiamo aver provato a scappare, quel miracolo dovrà salvarci comunque» Yasheira, piegando un ginocchio gli sferrò un calcio nello stinco. Greg per poco non aveva perso la presa e ora, infuriato, le stava chiedendo una spiegazione valida per quel gesto. «Smetti di fare il misterioso, parla chiaramente. Cosa succede?» «Stanno per fare fuoco su Flammaria» Greg fece appena in tempo a vedere con la coda degli occhi un bagliore squarciare il cielo mentre un rombo assordante riempì ogni cosa per parecchi chilometri. Il nuovo Cannone Celeste aveva infine aperto la sua bocca di fuoco su Flammaria.
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Aveva urlato, si era dibattuta, Feadrel e Uriadrel erano accorsi a sostenerle le
braccia, Midrael le aveva sorretto la testa. Se la morte aveva un volto, se essa avesse potuto incarnarsi per un momento, avrebbe avuto le fattezze di Shadriel. La potenza del colpo aveva investito lei e Flammaria come se possedessero un solo corpo: le aveva travolte ma non piegate. Come una pietra che si oppone allo scorrere di un fiume, Shadriel non era arretrata di un o, Flammaria ugualmente non si era tirata indietro, erigendosi a baluardo della sua gente. Quant’era alto il prezzo di quel restare immobili per sorreggere il potere di quell’arma: creata dagli uomini per distruggere altri uomini. Non poteva esservi niente di peggio. Shadriel stava facendo appello a tutte le sue forze per sostenere quel colpo, i suoi fratelli a sostenerla, davanti a lei brillava accecante l’immagine di Flammaria proprio là dove si ergeva il suo pilastro. Tutto divenne bianco, i suoi occhi si chio mentre dal candore provenne un sospiro caldo, seguito da una voce: «Credi in me, piccola Shadriel?» Non era più nella Sala dei Custodi, i suoi fratelli erano scomparsi. Davanti a lei vi era un altro Angelo Dorato. I suoi occhi prima che di stupore si riempirono di lacrime, l’altro la sollevò da terra, quasi tenendola tra le sue braccia. «Credi in me?» le ripeté lui. I capelli dell’uomo quasi le sfioravano il volto. «Sì, mio sire». «È così morire, questo l’aldilà, mio signore?» gli chiese in un soffio. Lui scosse la testa, i capelli questa volta le carezzarono il volto con dolcezza. «Per quanto vorrei conoscere a mia volta la risposta a una domanda tanto complessa devo ammettere che non lo so. Una cosa la so, però. Non sei affatto morta». Shadriel parve per un attimo contrariata «Se io non sono morta, voi mio sire siete vivo?» Sire Ausel sorrise: «È una domanda difficile piccola Shadriel. Temo che avremo la risposta solo fra qualche tempo». «Perché siete comparso proprio a me mio sire?» «Ancora una domanda complicata piccola Shadriel, ma a questa risponderò» le
sorrise poi ricominciò a parlare: «Vorrei che mi ascoltassi adesso, abbiamo poco tempo». Shadriel aveva annuito, osservando quegli occhi che, dopo millenni, mai le erano sembrati così dorati e luminosi. «Verrà presto il momento per gli Angeli Dorati se decidere di perdonare, far sì che l’antico strappo venga ricucito oppure di proseguire senza un valido alleato. Voglio che tu faccia il possibile per ricucire quella ferita. Riuscirai dove io ho fallito». Shadriel avrebbe voluto dire al suo signore che era impossibile, impraticabile quantomeno ma quest’ultimo le aveva posto una delle sottili dita sulle labbra, facendole cenno di silenzio. «Abbiate fiducia negli uomini. Sono in molti che concorrono a costo della loro vita per creare un mondo migliore. Prima della fine, tutti dovranno agire sotto un’unica bandiera». Shadriel non disse niente, Ausel aveva letto i suoi occhi e aveva compreso comunque i suoi pensieri. «Non è un sogno Shadriel. È solo una possibilità, una delle scelte possibili. Sono sicuro che capirai». Si strinsero, a lungo, mentre il calore svaniva e nuove lacrime le rigavano il volto perlato. Svegliandosi, vide i volti sollevati dei suoi fratelli, Midrael fu il primo a sorriderle, seguito da Feadrel. Uriadrel si era limitato ad annuire, per lui era già uno strappo alla regola. «Flammaria ha parato il colpo».
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Il boato dell’esplosione aveva diviso Yasheira e Greg, Simurgh era riuscito a mantenere la presa solo su di lui mentre Yasheira aveva iniziato a cadere nel vuoto. Senza prestare più attenzione al Cannone e ai suoi possibili devastanti effetti, Greg non aveva esitato a correre il rischio che solo poco prima era stata disposta a correre lei per lui. Si era concentrato, il suo corpo aveva preso a fremere, Simurgh si era spaventato e aveva mollato la presa, lasciando cadere Greg proprio mentre il suo corpo continuava a dibattersi, il vento lo traava, Yasheira era poco più di una macchia ma non così lontana da perdere ogni speranza. Sperò fortemente che la concentrazione fosse sufficiente, ma si
rendeva conto che non era abbastanza sperare. Doveva volerlo. Sentì il vento cambiare, avvertì il suo corpo mutare obbedendo alla sua richiesta, l’aria accarezzarlo: in una scia di piume le ali spuntate sulla sua schiena diedero un colpo poderoso e sentì la sua caduta accelerare come non mai mentre la principessa, in un battito di ciglia, si faceva a poco più di qualche braccio. Lei lo vide, per un attimo aveva creduto di aver avuto un’allucinazione, Simurgh non sarebbe mai stato così veloce a riprenderla, tese il suo braccio in direzione di quello di Greg. Il terreno a pochi metri non lasciava spazio a molte possibilità, Greg diede un nuovo colpo alle sue ali ma tutto era vano, per quanto vicino non riuscì che a sfiorarle le dita. Atterrando con un tonfo nella terra, non riuscendo a guardare, mentre le ali con cui Orias aveva deciso di aiutarlo ricadevano come morte e lentamente si retraevano, una presenza, una luce abbagliante filtrarono attraverso le palpebre chiuse di Greg. Non furono le sue ali a salvarla dall’impatto col terreno: Flammaria, maestosa e aggraziata, l’aveva raccolta nell’incavo di una delle sue ali, attutendo la caduta. Yasheira sembrava dormisse, il volto sereno e disteso immerso nella luce calda e avvolgente emanata da ogni piuma delle ali. Greg osservò Flammaria deporre delicatamente Yasheira tra le sue braccia, poi spiccò il volo, puntando alta verso il cielo. La principessa si risvegliò pochi istanti dopo, il volto rilassato e luminoso. «Mi hai salvato?» gli chiese. Greg provò un certo imbarazzo a quella domanda, poi rispose: «Vorrei essere stato io, ma sarei giunto troppo tardi. Flammaria ti ha accolto tra le sue ali, è stata lei ad attutire la caduta». Yasheira scese delicatamente e si guardò attorno. «Naren è salva?» Greg annuì. «La città non è stata toccata, Flammaria ha parato il colpo del Cannone Celeste», proseguì. «Come facevi a sapere cosa stava per accadere? Cos’è il Cannone Celeste?» Greg la guardò negli occhi, sapeva che gli sarebbe costata cara quella risposta ma parlò ugualmente: «Il Cancelliere Samarlec riesce a sfruttare l’energia delle
Pietre come un’arma» per un attimo rivide le acque di Selthon dividersi davanti alla stessa bocca di fuoco, provò nuovamente quella sensazione di impotenza. «E’ già successo a Selthon. E anche quella volta ci siamo salvati per pura fortuna» terminò con amarezza. L’espressione sul volto di Yasheira mutò completamente. Senza scomporsi gli si avvicinò e gli sferrò un cazzotto alla bocca dello stomaco. «Da quale parte stai? Vuoi vederci tutti morti? Hai lasciato tu che Lord Astaroth prendesse la nostra Pietra!». Greg rialzò la testa, sogghignando. «Ho dovuto farlo, ho le mie ragioni». Avrebbe voluto aggiungere “non mi aspetto che tu possa comprenderle, difficilmente anche Dovan potrebbe capirle” ma non lo fece. Un altro cazzotto seguì il primo. Yasheira ci sapeva fare con i pugni. «Le tue ragioni? Avanti, tirale fuori, voglio sentirle». Malgrado la prospettiva di nuovi colpi, Greg non aveva nessuna intenzione di parlare. «No». Un nuovo colpo, probabilmente più forte degli altri che lo avevano preceduto, gli fece quasi perdere l’equilibrio. Rimase a testa china, le mani strette dove pochi attimi prima Yasheira aveva colpito. Non poteva biasimarla, la sua reazione era comprensibile. L’unico, almeno apparentemente, incomprensibile era lui. La presenza e la voce di Dovan interruppero Yasheira. Seguito a breve distanza dagli altri, compreso il Primo Ministro Rifean, era giunto sul luogo dopo aver osservato la scena dal palazzo. «Cosa state combinando voi due?» chiese con lo stesso tono di voce con il quale era solito, a Selthon, interrompere i diverbi tra Greg e Mark. «Sto solo cercando di avere spiegazioni dal suo allievo, maestro». Dovan alzò il sopracciglio destro ma non si mosse. «Ci serve vivo, altezza. Se continua a picchiarlo lei non avrà le spiegazioni che cerca e tutto il resto del mondo si troverà sprovvisto di un salvatore» disse con veemenza. Deidar, poco distante, avrebbe voluto dire a Yasheira di considerarsi fortunata se non si era trovata due sfere di fuoco davanti al viso.
Greg incrociò lo sguardo di Dovan, si chiese se quella situazione non lo divertisse. Mark e Andrew, aveva appena notato Greg, non era presenti, probabilmente erano rimasti al fianco di Lisa. Si chiese se fosse in buone condizioni, se si fosse già ripresa. Il Primo Ministro sarebbe voluto correre ad abbracciare la figlia, felice di poterla ritrovare sana e salva ma si limitò a restare composto, approssimandosi a Dovan. «Flammaria ti ha nominato Paladina di Naren, tutto sta andando come previsto. Il tempo dei miracoli è finalmente giunto anche per Naren». Dovan aveva annuito e aveva espresso le sue congratulazioni a Yasheira, lo stesso si apprestarono a fare poco dopo Deidar e Rifean il quale, dimenticando l’etichetta, l’abbracciò per qualche istante. «Posso sapere, adesso, cosa è successo all’interno del vulcano? Abbiamo appena avuto il tempo di uscire che tutto ha iniziato a tremare» disse Dovan, apparentemente buttando a caso le parole. Greg rimase in silenzio, Yasheira avanzò con i decisi verso il compagno, oltreando Dovan. «Cos’è, non hai il coraggio di dirglielo?» Greg le lanciò un’occhiata torva poi, senza cambiare il suo sguardo, lo rivolse verso Dovan. «Ho lasciato che prendesse la pietra» scandì le parole una per una. Il Primo Ministro Rifean si intromise prima che Dovan, incredulo, potesse ribattere qualcosa.«Gli hai concesso la nostra Pietra senza far niente per difenderla?» il suo tono era piuttosto alterato. Greg si ritrasse appena. «È stato necessario, sarebbe accaduto comunque». Dovan gli si avvicinò fino a che la sua bocca non si trovò a pochi millimetri dall’orecchi di Greg «Necessario? Direi sciocco, piuttosto» Greg non si fece cogliere in fallo. «Ormai il nemico sa che possiedo una Pietra, per quanto potranno non ci daranno tregua. Se avessi combattuto per proteggere
la Pietra di Naren probabilmente, nel contempo, avrei messo a rischio anche quella che possiedo. È stato Lord Astaroth stesso a dire che non si sarebbero di certo fatti scrupoli ad estrarla dal mio corpo. E io gli credo». Chi ancora non sapeva si voltò verso di lui perplesso:«Il bagliore che abbiamo visto…Sei stato tu?» Greg annuì «Credo che la Pietra abbia nuovamente combattuto al mio posto». Dovan non poté fare a meno di intervenire:«Hai perso conoscenza?» Greg ricordò come in un sogno lo scontro e ricordò come essa si era trasformata in un incubo quando Lord Astaroth gli aveva parlato. «No, non l’ho persa del tutto». «Ricordi anche la luce che si è sprigionata dal vulcano?» continuò a chiedere Deidar. «No. Ricordo di aver parlato con Lord Astaroth prima che le sei braccia che avevo sulla schiena si dissolvessero» stava per giungere al punto ma Dovan lo interruppe, pareva unicamente interessato all’incantesimo. «Hai scatenato l’Esatherion?» Dovan sembrava più incredulo di quando aveva appreso che Greg aveva lasciato prendere la pietra. Greg intravide nel tono della voce del maestro la traccia di ciò che Astaroth gli aveva rivelato e annuì in silenzio. Poi, mentre Dovan stava per intraprendere una disquisizione sull’incantesimo proibito, Greg lo interruppe. «Lord Astaroth mi ha parlato di lei>. Dovan ammutolì, interrompendosi. «Lei mente, da anni». Il maestro chinò la testa, i capelli ricaddero sulla fronte mentre Greg proseguiva. «E non siete ciò che dite di essere». ‡
Greg non aveva compreso le parole di Lord Astaroth o almeno non aveva capito a cosa il demone alludesse. Sapeva che mentiva ma non ne conosceva il motivo. Ed era proprio il motivo che, in quel caso almeno, faceva la differenza. Il
demone aveva sfruttato bene quella carta, Dovan doveva riconoscerlo. Probabilmente se non fosse ricorso a quell’espediente a quest’ora avrebbe stato distrutto. Dovan annuì verso l’allievo e si allontanò di qualche o e Greg lo seguì. «Ho paura che presto saprai come stanno veramente le cose» disse, con un sorriso amaro impresso sul viso. «Fino ad allora vorrei che sospendessi ogni giudizio su di me». Si voltò e lo guardò dritto negli occhi: «Ti chiedo di fidarti di me». Greg corrugò la fronte. «Per quanto io tenti di farlo mi chiedo perché nessuno riesca a fare lo stesso con me. Lei mente, da anni, malgrado ciò gli Angeli Dorati hanno fiducia in lei e nelle sue azioni. Perché le mie dovrebbero essere giudicate diversamente?» Una guardia giunse sul posto, invitandoli a fare ritorno a palazzo. Dovan e Greg non smisero di fissarsi poi, mentre gli altri lentamente si allontanarono fu il maestro a rompere il silenzio: «E sia. Farò in modo che nessuno ostacoli più le tue azioni, se questo è quello che desideri. Ricordati che resterò sempre il tuo maestro e, se vorrai, potrò consigliarti» si fermò ed emise un lungo sospiro. Greg annuì. «Come hai detto tu stesso il nemico sa che tu hai la pietra». «Credo fosse inevitabile che accadesse, prima o poi». Dovan annuì. «Te lo ha suggerito il Canto degli Esperidi?» Greg soppesò un attimo la risposta da dare al suo maestro. «Sì». Il maestro azzardò una nuova domanda:«Il Canto accennava a cosa servono le Pietre?» «Posso solo immaginarlo» rispose Greg, avviandosi. «Cosa pensi di fare, allora?» «Non lo so. Per quel giorno spero di saperlo».
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Due Pietre non si erano rivelate sufficienti per distruggere Flammaria e nel contempo Samarlec sapeva di esser venuto meno a al suo stesso ultimatum, dando l’ordine di aprire il fuoco del Cannone Celeste contro la città. Dopotutto, se avesse sempre prestato fede alle sue promesse non sarebbe giunto alla posizione che adesso occupava. Ritornò con la mente agli attimi in cui aveva ardentemente sperato che la sua improvvisazione avesse successo: se il suo intento si fosse realizzato i suoi potenti alleati non avrebbero potuto di certo ignorare quel gesto così ardito. Lord Astaroth stesso, dopo il tardo ritorno dal Santuario, si era detto impressionato dalla potenza dell’arma, l’Imperatore, fuori di se per la grande emozione scaturita da un simile gesto, che non aveva tardato a giudicare come eroico, si era ritirato nei suoi appartamenti per mettere su carta il ricordo fresco di quei sensazionali eventi. Sparito in compagnia del fido Dubhe Nhol, si era raccomandato, con tanto di promessa, di essere avvertito prima di ogni nuova iniziativa in modo da essere sempre presente. Per quell’uomo il mondo intero era un solo grande spettacolo, degno di essere cantato dalla sua penna, degno di entrare a far parte del suo capolavoro. Samarlec ghignò: se non fosse stato certo che quell’opera sarebbe rimasta incompiuta e, non di meno, che non sarebbe stato costretto a leggerla, avrebbe pregato Nhol di assicurarsi che l’augusto Imperatore non uscisse più vivo da quelle stanze. Allontanò quel pensiero, tornando con la mente nella stanza dove, seduto alla sinistra Lord Astaorth, erano in attesa della comparsa di un’immagine sul globevisor. Samarlec gettò un’occhiata al generale. Esaminò le grinze che la pelle avvizzita lasciava sul suo volto, le corna incrociate che minacciose nascevano dal cranio calvo, le mani bianche e scarne e le dita ossute che giacevano intrecciate. Sembrava scolpito nel marmo bianco, si chiese che aspetto avesse avuto prima di divenire un Pari. Un grugnito d’assenso lo fece voltare verso il globevisor, come di consueto era comparsa una sala avvolta nell’oscurità, rischiarata in qualche angolo remoto da fiammelle galleggianti. Quando alcune fiaccole si avvicinarono al centro dell’immagine e aumentarono la loro intensità due troni emersero dalle tenebre, con una lentezza che il Cancelliere trovò snervante. Dal minore dei due si mosse, eterea, una mano in cenno di saluto. Lord Astaroth chinò la testa socchiudendo gli occhi, poco dopo, a seguito di uno sguardo imibile che non aveva la minima intenzione di abbassarsi, anche Samarlec chinò la testa.
«Sublime Lilith, la seconda Pietra è nelle nostre mani» bisbigliò il generale. Il volto sotto il cappuccio nero annuì, lasciando ricadere sul petto appena si intravedeva una cascata di lunghi capelli scuri. «Naren è già caduta?» Fu di nuovo il Generale a risponderle. «Non ancora, mia Signora» Samarlec fu certo di vedere delle scintille azzurre percorrere per qualche istante le braccia di Lilith. Il globevisor emise uno sfrigolio, la trasmissione divenne disturbata, da sotto il cappuccio le labbra si mossero lentamente: «Per quale motivo la città non è ancora nelle vostre mani, Cancelliere Samarlec?» Malgrado fosse stato il Pari a rispondere fino a quel momento, la Reggente non sembrava propensa ad attribuire a lui quell’inconveniente. Samarlec lo sapeva bene e deglutì a forza: non amava rendere conto delle proprie azioni, soprattutto di quelle particolarmente azzardate. Malgrado ciò non si trovava di fronte al suo Imperatore, colei alla quale era obbligato a riferire muoveva fili e ordiva intrecci molto pericolosi. Non una sola volta, soprattutto all’inizio di quella inusuale alleanza, lo aveva terrorizzato profondamente. «Sublime Lilith, la comparsa di Flammaria aveva momentaneamente modificato i nostri piani, ero certo che col Cannone Celeste saremmo stati in grado di…» Lilith fece un cenno con la mano, imponendogli il silenzio. «La prego di attenersi strettamente alle sue competenze, Cancelliere. Pensava forse fosse così semplice portare a termine un’azione simile?» rise quasi di gusto, i capelli ondeggiarono. Samarlec ritenne opportuno continuare il suo discorso, non prima di aver allentato la stretta che serrava la sua mascella. «Ho dato alla loro sovrana due ultimatum: il primo si è da poco concluso e la Pietra è nelle nostre mani» sorrise, riacquistando lentamente la fiducia in se stesso mentre il volto sotto il cappuccio annuiva. «Il secondo avrà termine tra poche ore, quando si decideranno a consegnare gli ostaggi che ho richiesto».
Le scintille tornarono a percorrere la Reggente con maggior frequenza ed intensità, alcune scariche lasciarono traccia in ampie volute luminescenti, creando un’aura tutt’altro che rassicurante attorno al suo corpo. «Non erano questi i patti, Cancelliere. Non è con la vita di alcuni ostaggi che il mio Signore potrà tornare a regnare su questo mondo». Samarlec, per la prima volta dopo molto tempo, non riuscì a trovare parole cerimoniose che riuscissero a tirarlo fuori da quella situazione. Inaspettatamente fu Lord Astaroth a rispondere per lui, si accomiatò per qualche istante, scusandosi con la sua Signora e lasciando Samarlec da solo davanti allo schermo del globevisor. Quando fece ritorno portava con sé una spada come un trofeo, il Cancelliere notò che non si trattava dell’arma che usava di solito che, come di consueto, era infilata nel fodero che pendeva dalla sua cintura. Samarlec strinse i braccioli della poltrona e irrigidì il corpo, una sensazione poco piacevole lo stava attraversando, percorrendogli la schiena e facendolo sudare freddo. Il brutto presentimento si dissolse poco dopo, quando Lord Astaroth si inchinò davanti allo schermo, mostrando la spada a Lilith. Le scintille, di colpo, cessarono di avvolgerle il corpo, il suo busto si sporse appena per poi riadagiarsi lentamente sullo schienale. «Nessun dubbio, stringi tra le tue mani la Spada di Gorgon Titano, forgiata da colui a cui deve il nome». La voce della Reggente, apparsagli così terribile fino a pochi istanti prima, parve ora a Samarlec possedere accenti delicati che denotassero il suo sincero stupore. «Mio generale, impadronendovi di quell’arma avete rischiato molto». Lord Astaroth comprendeva bene l’onore di quelle parole ma non vi badò, non esistevano certe debolezze tra i demoni, meno che mai tra i Pari. «Apparteneva al Principe di Renodia, mia Signora. Egli fa parte del gruppo di umani molto pericolosi che il Cancelliere vuole assicurarsi personalmente che non costituiscano più un intralcio al nostro piano».
Il Generale provò una strana sensazione mentre, una dopo l’altra, le sue labbra avvizzite pronunciavano quelle parole. Stava nascondendo parte della verità alla sua Signora e non riusciva a spiegarselo. Aver recuperato la spada era un fatto molto importante ma quasi niente se paragonato all’altra scoperta fatta dentro il vulcano. Il ragazzo possedeva una delle Pietre e non solo, presto sarebbe stato in grado di utilizzare quell’immenso potere che, fino a quel momento, era riuscito a padroneggiare solo in parte. Solo dopo essere stato inchiodato alla parete del Vulcano aveva notato il cambiamento avvenuto nel corso dei loro scontri: se a Selthon aveva dovuto perdere i sensi e il suo attacco, per quanto potente, non lo avrebbe di certo distrutto, poco prima, nel santuario, nella sua quasi coscienza sarebbe stato in grado di annientarlo.
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Capitolo VIII
Trame di Palazzo
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Durante quegli istanti lenti come ore il Cancelliere non aveva mai smesso di fissare Lord Astaroth, chiedendosi numerose volte il motivo di quella dichiarazione. Poi si era cullato della fortuna inaspettata, non curandosi di quel futile particolare e tirando un immaginario sospiro di sollievo. «Questo pare deporre a suo favore, Cancelliere. Sono più che certa che Lord Astaroth non sosterrebbe mai con le sue azioni e tanto meno con le sue parole, un essere umano, a meno che ciò non sia vitale per il nostro piano» intervenne conciliante la Reggente. «Si tratta però di un momento molto delicato, per tutti noi» proseguì con voce ferma «Se gli umani scoprissero l’ubicazione di tutte le armi in grado di nuocerci, e state pur certi che Talandria non ne farebbe certo mistero, al momento del ritorno del mio Sposo potrebbero mancare elementi molto importanti». Il tono della voce faceva già presagire quale sarebbe stato il prossimo o da compiere. «Per nostra fortuna, a suo tempo già ci occupammo di alcune di esse. Il Corno è da secoli custodito nel Baiamondo dopo l’esito di quella disgustosa guerra. Ancora fremo di rabbia nel ricordo di quei giorni lontani. L’Alabarda dove si trova?» chiese mentre la voce non riusciva a mascherare la rabbia. «L’arma di Dalagoth è a Selthon. Raddoppieremo la sorveglianza, glielo posso assicurare» rispose Samarlec con freddezza. «Se le mie informazioni sono corrette solo le tre restanti rappresentano un pericolo» Samarlec tornò alla memoria a diversi anni prima e nominò ad alta voce le armi: «Restano lo Scudo di Amon Ardeon, l’arco di Casthalia Thea e il Lamegeton di Zeuel Koronn». Lilith rimase in silenzio, scoprì nuovamente la dentatura candida arricciando le labbra piene e purpuree. «L’arco fu perso, di esso non vi è più traccia da secoli. Per quanto riguarda lo scudo invece…» le labbra si unirono per poco in quello che Samarlec fu incerto se classificare come un sorriso, «Esso sarà molto presto sepolto nella sabbia del Deserto Cremisi. Poche ore ancora e
resteranno solo le vestigia di quella città di ossa vecchie e polverose». Il Cancelliere si drizzò sulla sedia ma la Reggente non vi prestò attenzione, proseguendo: «Al momento resta solo il Lamegeton». «Non appena sarà caduta Naren, darò l’ordine di attaccare le Isole Koronne». Lord Astaroth ruotò il busto e la sedia verso il Cancelliere, traandolo con lo sguardo. «La Sublime ha parlato, le navi necessarie per impadronirci delle Isole e dell’arma devono essere inviate immediatamente». Samarlec serrò i pugni, non demordendo nel sostenere i suoi argomenti: «Sublime Lilith, non è possibile sguarnire la flotta in un momento così delicato. Gran parte di essa è già stata impiegata per occupare i porti, un ulteriore smembramento potrebbe essere rischioso» fece una pausa, deglutendo e cercando di apparire più diplomatico di quanto in realtà si sentisse in quel preciso momento: «Quantomeno dovrei prima ricevere un rapporto da parte del Grandammiraglio». Lilith rimase in silenzio, osservando un punto al di sopra della telecamera del globevisor, Lord Astaroth emise uno dei suoi grugniti di disapprovazione. «Cancelliere, il mio popolo le ha concesso tutti gli aiuti necessari per condurre la sua guerra, a patto di porre, come priorità assoluta, il nostro piano. Perciò, a meno che non vogliate venir meno ai nostri accordi e rinunciare a quanto avete chiesto in cambio della vostra collaborazione, la invito a procedere come Lord Astaroth le ha appena suggerito. Si ricordi…» disse mentre un sorriso che tutto voleva essere tranne che cordiale le dischiudeva sensualmente le labbra «…che il tempo sprecato non giova affatto alla sua salute». I pugni di Samarlec si allentarono, le dita si distesero sui braccioli. Aveva perso, inutile continuare a combattere ancora, la posta in palio era troppo alta. I suoi alleati avrebbero potuto pur sempre trovare qualcun altro meglio disposto a seguire i loro dettami. E lui, in quella scomoda situazione, aveva tutto da perdere.
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Il palazzo di Naren era in uno stato febbrile che si protraeva ormai da ore, il centro di quell’attività frenetica restava la sala del trono, la sagoma perlacea del
Leviros era, davanti a tutti, la prova materiale della superiorità dell’Impero. Un continuo viavai di messaggeri si alternava nell’enorme stanza affacciata sul litorale, portando dispacci con notizie allarmanti provenienti dai porti occupati dalla marina Imperiale. In alcuni si leggeva di come il porto della cittadina di Visar fosse stato eroicamente difeso e tre incrociatori stessero facendo rotta verso la capitale, in altri di come molte navi da guerra nareniane fossero state affondate o date alle fiamme. Nessuna notizia, malgrado le insistenti richieste della regina Nailie, giungeva ancora dalle Isole Koronne, verso le quali erano state indirizzate tutte le navi mercantili che stavano per rientrare nei porti del regno. L’Ordine dell’Aurosa era giunto al completo in città ma avrebbe potuto fare ben poco fino a che i combattimenti non fossero diventati corpo a corpo. Adelia, comandante dell’Ordine, eggiava per la sala come una bestia in gabbia, innervosita da quella situazione. Sua sorella Nailie, non più seduta sul trono dal quale controllava tutta la situazione e il transito dei messaggeri, discuteva con Bugh Dail sulle difese di cui disponeva la città. Quando Greg fece ritorno nella sala del Trono, seguito da Dovan, Deidar, Yasheira e dal Primo Ministro, la regina interruppe bruscamente la discussione con l’ingegnere in capo. «Come ho potuto fidarmi di un manipolo di selthoniani? Neppure gli Angeli Dorati hanno saputo, o voluto, aiutare il mio popolo». Rifean accorse, cercando di mormorare alcune parole che solo lei fosse in grado di udire. Lei lo scostò in malo modo, aggredendo nuovamente Dovan: «Flammaria non ha fatto niente per annientare la flotta Imperiale!». Dovan non arretrò, fece anzi alcuni i avanti costringendo la regina ad indietreggiare alle sue spalle. «Flammaria ha però salvato Naren dal Cannone Celeste e protetto sua figlia che si è battuta valorosamente. Dimentica tutto ciò, maestà?». La regina, accostandosi quasi al primo ministro, obbiettò, sostenendo la gravità del problema che ancora non erano riusciti a risolvere. Gli argomenti per controbattere quella discussione non mancarono al mago. «Gli Angeli Dorati non si intrometteranno mai nelle guerre degli uomini, lo promisero all’inizio dei tempi e hanno sempre rispettato tale regola». Nailie storse il naso ma Dovan non aveva terminato: «Essi ci amano, per loro siamo tutti uguali, ognuno di noi ugualmente degno della loro protezione. Forse i selthoniani non ne sono degni perché il loro Cancelliere è ato al nostro nemico?» qui ruotò su se stesso, rivolgendosi a tutta la sala. «Sacrifichereste innocenti nel nome di una giustizia che gioverebbe solo a Naren?». La regina Nailie fu scossa da quelle affermazioni, Greg girò la testa per
accorgersi che anche gli altri presenti erano rimasti colpiti. «Resta il fatto che la Pietra è stata comunque sottratta» incalzò un’altra voce femminile, l’unica che forse non avrebbe avuto problemi a scendere a patti con una giustizia, sommaria purché fosse pur sempre, dal suo punto di vista, giustizia. Alta e possente, indossava un’uniforme scarlatta con rifiniture dorate. Su una delle ampie spalle poggiava un magnifico esemplare di aquila delle torbe che, silenziosa, scrutava la sala con gli occhi rosso vivo, rimanendo sempre imibile. Greg, sentendosi chiamare indirettamente in causa, avrebbe voluto rispondere ma fu nuovamente Dovan a parlare per lui. «Non cadete nel mio stesso errore, Comandante. L’erede ha compiuto una scelta coraggiosa quest’oggi» Dovan scambiò una reciproca occhiata con Greg e il ragazzo annuì. «Dobbiamo avere fiducia in lui» disse alzando il tono di voce per farsi udire da tutta la sala. «fin quando questo non sarà chiaro a tutti noi, ognuno vorrà far valere la propria voce o la propria visione degli eventi». Nailie non poté fare a meno di cogliere la scoccata del maestro, nel frattempo Greg era giunto, sospinto da Dovan, al centro della sala. «Aelthas ha ricevuto la fiducia degli Angeli Dorati» Adelia storse la bocca in modo non dissimile da come poco prima aveva fatto Nailie. Fu Greg a prendere la parola adesso, le sua voce risuonò nella sala. «Essi hanno fatto di me il custode di una delle Pietre». Lo stupore attraversò tutta la sala, lasciando il suo marchio inconfondibile sui volti di tutti i presenti, tranne quelli della regina Nailie e del Primo Ministro Rifean. Fu nuovamente Greg a prendere la parola e a squarciare il velo di silenzio che si era posato sulla sala: «Il nemico ormai sa che sono io il custode di una delle Pietre che rimangono. Ovunque io decida di andare porterò guerra e distruzione con me. Obbedirò alla richiesta del Cancelliere, mi consegnerò in qualità di ostaggio e Naren sarà salva». Rifean lo interruppe e scosse la testa: «Non farai niente di tutto ciò. Non è giunta alcuna rettifica da parte del Canceliere riguardo il secondo ultimatum». Greg si stupì di quelle parole. Era convinto che, nel frattempo, Samarlec avesse avanzato nuove richieste e invece il silenzio del globevisor non era stato
interrotto. «Ad ogni modo, per quanto tu sia certo che il nemico sia al corrente di ciò che proteggi, non ti permetteremo di fare qualcosa di così sciocco come consegnarti spontaneamente». Deidar intervenne: «La tua vita è a rischio in ogni momento, se il nemico continuerà a raccogliere le Pietre, alla fine giungerà anche a te. L’unico modo per garantire la tua sopravvivenza è che proteggiamo le ultime in nostro possesso». Greg stava per rispondere che era proprio quello il suo intento, far sì che giungessero finalmente a lui, quando notò l’assenza della spada nel fodero che pendeva dalla cintura del principe, fra immagini e ricordi confusi ricordò che Lord Astaroth, poco prima di metterlo fuori combattimento, gli aveva sottratto l’arma. «Deidar, la tua spada…» Dovan sgranò gli occhi, come se si fosse appena svegliato da un incubo per poi ritrovarsi in un altro ancora peggiore. Aveva intuito da qualche settimana che la spada del principe possedesse doti particolari per essere stata in grado di spezzare in due la maschera di Lord Minstrael ma, solo dopo la perdita dell’arma, solo dopo che Lord Astaroth gliel’aveva deliberatamente sottratta si era convinto delle sue supposizioni. «Deidar, credo che la tua spada non fosse un’arma comune» iniziò il maestro dopo essersi alzato dal seggio sul quale aveva risieduto pensieroso dal loro ritorno nella sala. Il principe scosse la testa alcune volte: fino a quel momento aveva giudicato la perdita della sua arma solo come un fatto secondario, un incidente accorso per caso che si andava a sommare alle azioni di una guerra che anche lui era stato chiamato a combattere per il suo popolo. Solo adesso, con Dovan che lo fissava dritto negli occhi, restituendogli uno sguardo allarmato, comprendeva quanto quel fatto fosse sul punto di rivelarsi come un avvenimento di primaria importanza. «No, maestro, non lo era affatto, almeno non lo era per me. Mia madre me l’ha consegnata il giorno che sono stato nominato Generale degli Unicorni Verdi». Nel silenzio di una sala così lontana dalle pianure boscose di Renodia, la sua mente rievocò quel giorno, la parata organizzata in suo onore davanti al popolo misto di esseri umani e di Esperidi, la consegna dalle mani di
sua madre di un’arma, simbolo della posizione che era chiamato a occupare, delle battaglie che un giorno avrebbe dovuto affrontare. «Da allora non ha mai voluto che me ne separassi, era certa che quella spada un giorno mi avrebbe sostenuto nell’affrontare grandi pericoli». Greg provò pena per l’amico nel vederlo abbattuto e sconfitto: per quanto si fosse dimostrato un compagno silenzioso e discreto, poco propenso a raccontare di se stesso, gli era comunque affezionato. Deidar aveva rievocato gli attimi della battaglia di Renodia, ricordando come, al termine, fosse riuscito a spezzare l’incantesimo di Lord Minstrael e a porre termine all’assedio. «Tua madre non ti ha donato quella spada per caso: lo ha fatto per lo stesso motivo per il quale Lord Astaroth te l’ha sottratta. Quell’arma è in grado di fare solo quello che poche altre possono. Ha il potere di sconfiggere i Pari». Deidar proruppe in un’esclamazione in lingua esperide, che Greg non fu in grado di capire. Non lo aveva mai sentito usare un tono di voce così alto ma, data la situazione, non poteva non essere d’accordo con lui, qualunque cosa avesse detto.
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Malgrado i numerosi anni ati al servizio della marina Imperiale, scalando tutti i gradi, anche grazie al prestigioso cognome del quale non aveva mai fatto mistero di essersi servito, il Grand’Ammiraglio Albireo Wessler non aveva perso l’abitudine di indossare uniformi particolarmente vistose o, come aveva spesso definito suo fratello Alkaid, particolarmente ridicole. Specchiandosi nella superficie perlacea dell’ascensore che lo avrebbe portato all’udienza col Cancelliere, ebbe cura di sistemare le voluminose maniche ricamate e di lisciare la raffinata fascia blu che portava attorno al busto. Vedendo progressivamente allontanarsi la complicata struttura del Leviros, non poté fare a meno di sentirsi riempie d’orgoglio per la sconfinata potenza raggiunta dall’Impero e, non ultimo, anche da lui, al comando della punta di diamante della marina, il Nethun.
Non senza una buona quantità di ironia, ricordò a se stesso che, con buona pace del defunto padre, era lui e non il suo più rigoroso fratello maggiore a disporre della prima ammiraglia della flotta. La convocazione da parte di Samarlec non lo aveva stupito, poteva vantarsi di essere tenuto in grande considerazione dal Cancelliere e, conscio di dovere in larga misura a lui l’assegnazione del titolo di cui faceva vanto, era pronto ad eseguire, alla lettera e con profondo cinismo, ogni ordine che riceveva dal suo diretto superiore. Giunse nei nuovi appartamenti destinati al Cancelliere, non trovò nessuno per farsi annunciare e cautamente, poiché ben conosceva l’irritabilità dell’alto dignitario che considerava l’intromissione inaspettata nei suoi appartamenti al pari di una nei suoi affari privati, entrò. Lo vide, come di consueto, seduto dietro la sua scrivania, la sfarzosa poltrona leggermente orientata in direzione della vetrata. Molti degli arredi, spostati di tutta fretta da quelli che adesso erano gli appartamenti dell’Imperatore, giacevano ancora sparsi alla rinfusa, in attesa di una nuova collocazione. Conoscendo l’indole del Cancelliere, fin troppo propenso all’ordine e alla cura dei propri effetti personali, dedusse che fosse stato molto occupato nelle ultime ore e che il suo umore fosse comprensibilmente pessimo. Notando l’ingresso del Grandammiraglio gli rivolse il consueto e cordiale saluto, aggiungendovi un sorriso breve e stirato. Lo invitò a sedere nella poltrona davanti alla sua mentre l’altro, con le mani rosate e ben curate, proseguiva a lisciare le ingombranti trine dell’uniforme. Per quanto agli occhi di tutti il Grandammiraglio Wessler beneficiasse di qualcosa di molto simile ad un’intima amicizia e sedesse spesso al suo fianco, Samarlec non poteva fare a meno di considerarlo viscido e privo di scrupoli, senza però dimenticare quanto queste particolari doti del suo carattere si rivelassero utili in difficili situazioni. «Grandammiraglio, sono lieto che sia giunto con la massima tempestività» esordì Samarlec incrociando le mani sul tavolo. In realtà erano probabilmente trascorsi trenta minuti da quando l’aveva fatto chiamare ma lasciò cadere nel nulla quell’obiezione. «È di grande importanza, sebbene ci troviamo in un momento molto delicato,
conquistare l’avamposto delle Isole Koronne. Desidero conoscere la disponibilità della nostra marina. Le navi che mi segnalerà dovranno partire immediatamente, alla volta del nuovo obiettivo». Il Grandammiraglio sobbalzò sulla poltrona. Non era la prima volta che il Cancelliere, soprattutto dopo aver ato ore in solitudine nei suoi appartamenti, ne usciva con una richiesta di difficile attuazione o nella peggiore delle ipotesi, come per poco non ebbe l’ardire di commentare, di assoluta impossibilità. Ripresosi dallo sconcerto si affettò a rispondere e le prime parole gli uscirono come un balbettio incomprensibile: «Signore, ciò che mi chiede è di sottrarre navi, potenza di fuoco ed un enorme numero di uomini per conquistare tre sassi che sono segnalati appena nelle nostre cartine. Quell’avamposto non era stato nemmeno preso in considerazione nelle fasi preliminari del nostro piano». Samarlec corrugò la fronte e rispose secco: «i piani, Grandammiraglio Wessler» disse, scandendo ogni sillaba del suo titolo militare, «sono cambiati. È fondamentale conquistare quelle isolette, per quanto i cartografi imperiali le considerino obsolete. O forse, per convincerla dell’importanza della missione, preferirebbe occuparsi lei stesso di cartografia, apportando di sua mano le correzioni alle mappe da lei citate?» terminò Samarlec cercando di mantenere un’espressione calma, riuscendo al più ad apparire crudele. Wessler mormorò in fretta alcune scuse, aggiungendo di non voler in nessun modo contravvenire agli ordini di un uomo tanto saggio e lungimirante. Samarlec aveva annuito brevemente, ben poco interessato a quelle scuse cerimoniose, esigendo adesso un riscontro soddisfacente. Timidamente la risposta non tardò a venire dal suo interlocutore: «Vede Signore, anche privandoci di alcune navi, resta pur sempre un problema, sono pochi gli ufficiali che potrei destinare al comando dell’operazione di conquista delle Isole Koronne senza correre il rischio di privarci di uomini esperti. Ad ogni modo, mio figlio potrebbe…». Samarlec ascoltò distrattamente quella proposta, nella sua mente comparve l’immagine del figlio di Albireo Wessler: vent’anni, totalmente inetto, repellente a qualsiasi insegnamento, mancava del tutto della furbizia e della perversa astuzia che avevano reso celebre il padre. Lo scartò velocemente, poi ebbe un’aspirazione: «Molto bene, Grandammiraglio comprendo il suo cruccio, sarà perciò sua personale cura convocare nei miei appartamenti suo nipote Laukros».
Il Grandammiraglio, prima di replicare, fu costretto a mordersi la lingua: per quanto fosse stato premiato con il più alto grado militare dell’Impero, non avrebbe dovuto sottovalutare così l’influenza del fratello. D opotutto il nipote era stato negli ultimi anni allievo del Cancelliere. Ciò che, imperdonabilmente, aveva scordato era che il nipote si fosse recentemente arruolato in marina, per seguire, a quanto pare, le orme dei figli maschi della famiglia Wessler. Accomiatandosi, però, sorrise, rivalutando la decisione del Cancelliere: le Isole Koronne non dovevano la loro cattiva fama al caso. Questo, non ignorato neppure i cartografi Imperiali, non sarebbe certo sfuggito al suo arguto fratello: ben presto egli avrebbe avuto un nuovo rimpianto e lui, a quel punto, sarebbe stato del tutto libero di spianare la strada per l’ascesa dell’adorato figlio Armonio.
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Non era del tutto certo di sapere se avrebbe dovuto considerare l’imminente partenza del figlio come un premio per la sua fedeltà oppure come l’ennesimo tentativo, per giunta andato a buon segno, del fratello per punirlo e, in caso di sconfitta, umiliarlo. Laukros gli aveva comunicato la notizia e il nuovo titolo col quale era stato insignito, con lo scintillio negli occhi tipico dei suoi diciannove anni. Non aveva potuto fare a meno di riconoscervi lo stesso entusiasmo che anch’egli aveva espresso a suo padre il giorno della sua partenza per una delicata missione nel corso della Seconda Guerra del Varnelio. Con la voce a mala pena controllata, gli aveva raccontato di come, a detta dello zio, fosse stato il Cancelliere in persona a proporlo per un incarico di così vitale importanza. Entro breve, aveva aggiunto mentre, ancora rapito dall’emozione non riusciva a fermarsi e a lunghi i percorreva l’appartamento del padre, sarebbe stato convocato per un’udienza privata, nel corso della quale avrebbe appreso maggiori dettagli sugli obbiettivi che avrebbe dovuto perseguire.
Allontanatosi da poco il figlio, il secondo Grandammiraglio dell’Impero era rimasto solo, seduto alla scrivania tenendosi la testa tra le mani, i lunghi capelli gli scendevano sugli occhi e sulla folta barba che gli incorniciava il volto severo. Le Isole Koronne appartenevano da secoli al Regno di Naren per quanto, di fatto, esse godessero di ampia autonomia e di scarsissimo interesse bellico, tanto che raramente figuravano nelle mappe strategiche selthoniane. Di contro, in antichi resoconti, esse erano descritte come imprendibili, abitate da una sparuta congregazione di monaci che vivevano in bilico tra la mistica ascesi e il più fervente estremismo religioso. L’arrivo dell’ingegnere Imperiale interruppe il flusso di pensieri del Grandammiraglio. Alkaid Wessler lo salutò appena, quest’ultimo ancora sulla soglia, parlò per primo: «Ho appena appreso la notizia. Credevo fossi fiero dell’incarico affidato a tuo figlio». Il secondo Grandammiraglio, senza guardarlo direttamente, annuì. «Lo sarei, in altre circostanze, Enif. Mio figlio è inesperto, sotto alcuni aspetti avventato, talvolta arrogante. Secondo il Cancelliere sarà presto un ottimo mago ma questa guerra va al di là delle sue possibilità. Temo molto per lui». L’altro, seppur fosse sicuro di non essere osservato, fece cenno di sì con la testa. «Comprendo quello che dici, amico mio. È un duro momento questo per noi padri». Alkaid alzò lo sguardo sull’ingegnere per la prima volta dal suo ingresso nella stanza. «Credevo che tuo figlio…» disse, lasciando poi cadere la frase senza aggiungervi altre parole. A quanto pare, malgrado la forte amicizia, c’erano alcune cose che gli erano state tenute nascoste. «Mio figlio è dentro questa storia fin dall’inizio, credo da molto prima che trasferissimo la marina nel Leviros. Si trova a Naren proprio in questo momento». L’espressione di Alkaid divenne dura, le folte sopracciglia si unirono in un unico e minaccioso arco. «Vuoi dirmi che fa parte dei disertori che sono fuggiti da Selthon con la
Darlidan?» Enif Olinori non rispose ma il suo silenzio bastò al Grandammiraglio per conoscere la risposta. «Immagino che ben poco sappia di cosa attualmente si stia occupando suo padre» commentò con amarezza. «Ha preso da sua madre, in fondo credo abbia iniziato a supporre qualcosa. Gli ho lasciato dei messaggi inequivocabili». Alkaid rimuginò su quelle parole poi, alzandosi e chiudendo la porta, avendo cura che nessun altro all’infuori di loro stesse ascoltando, invitò Enif, a sedersi. «Avanti, vecchio mio, non credo tu sia giunto qui per parlare dei nostri figli» ridacchiò di colpo, versando un liquore denso e scuro in due bicchieri sferici di cristallo. Assaporandone brevemente il contenuto ed elogiando l’ottimo invecchiamento del distillato. «Sangue di Tetragoon, vero? Ottima annata», poi l’Ingegnere Imperiale dissipò il dubbio del suo ospire. «Dubhe Nhol si trova negli appartamenti dell’Imperatore». Alkaid tirò una lunga sorsata e poggiò il bicchiere vuoto, sul quale si era depositata una leggera patina ambrata, sul tavolino centrale. «A questo punto non possiamo più tornare indietro». L’ingegnere lo imitò, vuotando il contenuto del bicchiere, andolo da una mano all’altra per poi appoggiarlo accanto al primo, producendo un delicato tintinnio. «Preghiamo Leviathan che le risorse di Nhol siano inesauribili come si dice. In ogni caso, entro poche ore, assisteremo alla fine dell’Impero così come lo conosciamo». Colmarono di nuovo i due bicchieri, li levarono, e brindarono in silenzio, e i calici divennero vuoti come i loro occhi.
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Da alcuni minuti, nella Sala del Trono di Naren, il morale dei difensori della città era sceso sotto terra: avevano posseduto un’arma dal potere enorme senza saperlo e, soprattutto, senza averla sfruttata a dovere. Solo adesso che l’avevano persa si rendevano conto di quanto essa si sarebbe potuta rivelare importante: tutto ad un tratto Lord Astaroth e Lord Minstrael, da totalmente imbattibili si erano rivelati vulnerabili. Era questa, almeno, la magra consolazione. A distrarli da quel pensiero bastò l’arrivo di un portaordini al quale, per riferire il dispaccio, bastò indicare a tutti cosa stava avvenendo a largo, in prossimità del Leviros: alcune navi all’inizio, una piccola flotta poi, fuoriuscì dall’enorme bocca della base, nella quale riconobbero numerosi incrociatori Scylla, armati dei temuti cannoni Caridys. Seguirono per un po’ i loro movimenti, furono allertati i sistemi difensivi, pronti a fare fuoco in caso di attacco e di occupazione del porto. Poi, con grande sorpresa, la piccola flotta virò, impostando la rotta verso l’oceano aperto. Dovan si era seduto mormorando tra se, Greg, lasciando Deidar ai suoi pensieri, si avvicinò al maestro. «Sbaglio o avete detto che ce ne sono ancora?» Dovan gli restituì uno sguardo interrogativo. «Altre di cosa?» chiese poi a sua volta. «Altre armi capaci di sconfiggere i Pari, maestro». Dovan annuì, mantenendo la medesima espressione pensierosa. «Ne esistono altre cinque oltre alla spada, ognuna forgiata da uno dei principi delle catene elementari. La Spada di Deidar fu creata Gorgon Titano, la regina Talandria doveva sapere che anche per suo figlio sarebbe giunto il momento di combattere i Pari». Greg corrugò un attimo la fronte. Non aveva la minima idea di come si maneggiasse un’arma: anche se ne avesse posseduta una avrebbe saputo a mala pena come impugnarla. Da lì ad affrontare uno dei Pari, il divario era praticamente incolmabile. «Dove sono le altre?» chiese poi a bruciapelo. Come poco prima aveva fatto Samarlec, anche Dovan si accingeva ad elencare le
cinque armi rimaste ma, a differenza di questi, ignorava la sorte di alcune. «L’Alabarda di Dalagoth si trova sicuramente a Selthon ma è di sicuro ben protetta, immagino che Samarlec l’abbia posta sotto strettissima sorveglianza» disse con amarezza «Tornare adesso a casa per impadronirci di quell’arma è fuori discussione, così come prendere lo Scudo di Amon Ardeon nel deserto Cremisi, solo i Saggi di Zolon sono in grado di accedere al luogo che lo custodisce». Greg non interruppe Dovan, seppure quest’ultimo, dopo aver confessato di ignorare dove si trovassero l’Arco di Casthalia Thea e il Corno di Cryoss Dyamond, si bloccò per poi alzarsi di scatto e percorrere a grandi i la sala fino a raggiungere il grande tavolo sul quale, seppellita da miriadi di bandierine, era celata una mappa del Regno di Naren. L’allievo lo seguì poco dopo mentre Nailie e Adelia parevano leggermente contrariate per essere state messe da parte. Tutta l’attenzione della sala fu convogliata sul pomo luccicante del bastone impugnato da Dovan. Poco sotto Yasheira, lesse le due parole scritte con caratteri aggrovigliati: «Isole Koronne». Adelia, comandante dell’Ordine dell’Aurosa non fu la prima a sollevare obiezioni ma fu quella che le espresse con maggior potenza, sovrastando persino la voce di sua sorella Nailie: «Cosa può volere l’impero da una colonia di monaci?» sbraitò agitando la mano sopra la cartina. «La sola preoccupazione che abbiamo riguardo quelle Isole sono tutte le navi che sono state obbligate a farvi rotta per non essere catturate». Dovan riconobbe che, per quanto la Comandante fosse esperta in tattiche militari come molti altri, ignorasse la vera importanza costituita dalle Isole Koronne. Naren, per quanto fosse tecnologicamente avanzata, da troppo tempo sottovalutava l’importanza della magia. Non fu però Dovan a far notare quella pecca ma proprio la sovrana, orgogliosa e poco incline a riconoscere i propri sbagli. «Non a caso quelle isole ospitano da tempo immemorabile un monastero e non è stato per caso che alle navi di ritorno a Naren sia stato ordinato di ripiegare in quel luogo. Ciò che quei monaci custodiscono sfiora l’importanza della Pietra che custodiva il nostro Vulcano». Tutti ebbero modo, nella conseguente risposta di Adelia, di notare come la testardaggine fosse una caratteristica ereditaria della famiglia, al pari del titolo
reale. «Per tutto questo tempo sarebbe stato lasciato a dei monaci il controllo di qualcosa di così importante?» controbatté indignata. «Non sottovalutare quegli uomini, sono meno inermi di quello che si possa pensare». Adelia non arretrò: «Per quanto autosufficienti possano essere e, immagino, abbastanza adulti per pensare a se stessi, ben poco potranno contro i colpi d’artiglieria pesante della marina Imperiale». Nailie sorrise, cogliendo in errore l’adamantina sorella: «Qui ti sbagli, Adelia. Quelle Isole possiedono bastioni inattaccabili e solo pochi punti in cui è possibile sbarcare. Sulla terra ferma ben poco varranno l’artiglieria pesante e i cannoni selthoniani». La Comandante dell’Ordine, dalla parte opposta del tavolo, piegò le labbra in un sorriso sgraziato: iniziava a capire dove sarebbe andata a parare sua sorella. «… e, se non sbaglio, quello è proprio il tuo campo». Fare uscire indenne l’Ordine dell’Aurosa da Naren senza che la marina selthoniana bloccasse quel proposito, divenne l’argomento di maggiore importanza discusso nella sala. Raggiungere via terra uno dei porti occupati lungo la costa era da escludere, le navi imperiali erano già in marcia e liberare un porto da una forza di occupazione poteva rivelarsi lungo e logorante. D’altro canto era da escludere anche quella prospettiva poiché, per prima cosa sarebbero state date alle fiamme tutte le navi in grado di garantire un apporto bellico. L’unica soluzione possibile era quella che nessuno aveva il coraggio di proporre: ingannare l’Impero. Dalla sera precedente non vi erano stati altri contatti col Cancelliere i globevisor non avevano ripreso a funzionare, il Leviros produceva ormai un’interferenza troppo potente per essere annullata. Bugh Dail, l’ingegnere reale, sosteneva che niente si potesse fare per mettersi in contatto, neppure con Renodia, malgrado Deidar si dicesse sicuro che sua madre e suo padre stessero facendo di tutto per avere informazioni sulle azioni di guerra e che solo la grande distanza rendesse
impossibile un’immediata discesa in campo a fianco di Naren, del Regno Silvestre. Per ironia della sorte, sempre secondo le teorie di Bugh Dail, gli unici con i quali potessero mettersi in contatto erano proprio i loro assalitori presenti sul Leviros. Tutti fissarono l’enorme orologio presente nella sala, tra loro e l’inizio delle vere ostilità restavano poco meno di due ore. Decisero di contattare il Leviros non appena messo a punto il piano di fuga dell’Ordine. Il conto alla rovescia era cominciato.
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A bordo del Leviros regnava, al contrario, un’atmosfera di perfetta tranquillità: gli ultimi preparativi per lo sbarco erano ormai ultimati. Persino Samarlec, ormai convinto del fatto che Naren non avrebbe risposto neppure al secondo ultimatum e si era concesso del riposo. Erano in pochi a non riposare affatto. Tra essi Lord Astaroth, nella sua scarna stanza, si trovava, per la prima volta in millenni di esistenza, a porsi davanti ad un fatto senza precedenti. La spada di Gorgon Titano, in un angolo, luccicava impercettibilmente come se richiamasse il suo proprietario. Era stato astuto a sottrarla, aveva avuto il presentimento che fosse più di una semplice arma da quando essa, a Renodia, aveva spezzato in due parti la maschera di Lord Minstrael. La conferma gli era giunta durante il combattimento: solo allora si era reso conto dell’effettiva pericolosità di quell’arma e di quanto fosse rischiosa nelle mani del nemico. Lilith era apparsa orgogliosa di un gesto tanto ardito ma lui non era stato, per la prima volta, in grado di accettare quel riconoscimento. La verità era che, dopo secoli di assoluta fedeltà, egli aveva, con le parole e con i fatti, tradito la causa per la quale viveva e combatteva. Riportare alla vita Behelstedor era, per quanto egli era forse in grado di ricordare, la sua ragione di vita da quando era stato creato Pari. Ora che aveva tenuto nascosto che un ragazzo proteggeva l’ultima ed introvabile Pietra, egli poteva aver compiuto un danno inimmaginabile. E il motivo del suo silenzio gli era del tutto sconosciuto. Diversi piani più in alto, in quelli che erano stati, fino al giorno prima i sontuosi
appartamenti del Cancelliere, due persone stavano adesso conversando animatamente. Il primo, dal volto rubicondo, leggermente stempiato e con due occhietti piccoli come gemme, aveva di fianco una corona di incredibile bellezza, simbolo, non particolarmente velato, di una potenza intramontabile. L’altro, di poco più vecchio, portava al contrario lunghi capelli candidi ed intrecciati, rivelandolo come un’appartenente alla casta dei maghi. Ormai da qualche ora l’Imperatore andava leggendo ad uno dei suoi ascoltatori e ministri più fidati, frasi, paragrafi e bozzetti della sua grande opera. Per quanto Samarlec fosse il suo interlocutore favorito, solo leggendo le sue rime a Dubhe Nhol incontrava un parere dotto e raffinato quasi quanto il suo, entrambi uniti dall’ammirazione per i numerosi prosatori e poeti selthoniani. «Magnifico maestà, se me lo concede, senza voler apparire troppo avventato nella mia umile valutazione, sarei pronto a sostenere davanti ai posteri che il suo componimento giganteggia alla pari con la “Leviathanomachia” del grande Isidoro di Meerees e non meno aulico del “Apoteosi de l’Impero” di Hermagos da Valnia» proruppe al termine di un lungo monologo dell’Imperatore. Il monarca, estasiato per il commento, rimase a lungo on lo sguardo acquoso poggiato sul colto dignitario, cercando parole che esprimessero, con una certa modestia, la sua riconoscenza per un commento tanto accorto e giudizioso. «Mio caro Nhol, le sue parole esprimono ciò che il mio cuore provava mentre con ponderata fatica la mia mente componeva le rime e la mia mano le ricopiava sulla pergamena. Non ardivo di pormi all’altezza di quei maestri ma, in cuor mio, sapevo di aver generato qualcosa di unico» gli strinse calorosamente le mani prima di ricominciare a parlare «Le sue brillanti parole pongono la mia opera a un livello più alto e, una volta terminata, sarei più che lieto se volesse accettarne in dono una copia». Nhol accettò, porgendo all’Imperatore un sorriso degno della gratitudine appena espressa. «Maestà, le sue parole mi onorano oltre ogni riconoscimento. Se sua Eccellenza lo desidererà, mi incaricherò personalmente di riunire i commentari per dare alle stampe anche un’edizione per i più dotti uomini di lettere selthoniani, già in fremente attesa per il Capolavoro». Gli occhi dell’Imperatore brillavano di luce propria nel riflesso degli zaffiri della corona. Dubhe Nhol, dal canto suo, seppure fosse sincero, stava cercando di creare l’occasione propizia per mostrare al monarca la pergamena che portava con sé. Con fare fintamente disinvolto, rovistò nella sua veste, sotto lo sguardo
adesso interrogativo di sua maestà. Quando, dalle pieghe, estrasse una pergamena ingiallita, facendola poi scivolare sullo scrittoio, l’Imperatore, appoggiandosi sui gomiti, le si avvicinò per esaminarla con maggiore attenzione. «Maestà, vorrei che esaminasse questo documento e potesse darmi un parere circa la sua autenticità. Vede, sono piuttosto incerto sulla datazione, temo possa essere opera di un abile falsario». L’imperatore lo degnò di uno sguardo appena, ritenendo la sua opera di importanza nettamente preminente. «Suvvia, caro amico, non mi pare il momento adatto per diatribe di così poco conto» rispose bonario e spingendo indietro lo scritto. «Maestà» disse con voce ferma Dubhe Nhol, per quanto le mani tremassero un poco «mi perdoni se mi permetto di insistere. La invito a leggere quanto scritto» glielo sfrotolò davanti agli occhi, senza smettere di parlare «questo è l’originale della profezia contro Naren, quello che Samarlec riportò a Selthon dopo che lei gli aveva richiesto una prova tangibile. Per quanto esso sia indubbiamente autentico, presenta alcune discrepanze. Vorrei che lei lo esaminasse personalmente, in quanto massimo esperto di Thalassiano arcaico». La scusa era banale ma era l’unico modo per far sì che leggesse anche la parte che, astutamente, gli era stata tenuta nascosta. A lui come a molti altri. L’Imperatore lesse ad alta voce le prime righe, quasi declamandole. Proseguendo con la lettura, la sua voce divenne un sussurro, per poi strozzarsi ed ammutolire. Quando alzò gli occhi dal documento ed incontrò quelli di Dubhe Nhol, in essi non risplendeva più alcuna luce, vi era solo terrore. Con le mani tremanti restituì al ministro il foglio. Poi, dimenticato il tono pacato, mentre il pallore del suo volto si trasformava in un rosso , dette infine il suo responso: «Samarlec mi ha mentito. Non sono io l’Imperatore Santo e non posso neanche dirmi certo che ne esista davvero uno. Questa guerra deve essere interrotta».
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La Sala del Trono si stava preparando per la trasmissione tramite globevisor. Nailie aveva rioccupato la sua consueta posizione, al suo fianco il Primo Ministro Rifean, dall’altra parte il maestro Dovan. Greg avrebbe assistito alla scena in disparte, potendo pur sempre osservare, da dietro, come tutti gli altri. Il piano era stato deciso dopo più di un’ora di dibattito serrato e adesso, stanco e provato, sedeva per riposare. Aveva appena avuto il tempo di scambiare due parole con Andrew e Mark ma non abbastanza per vedere Lisa o per comunicarle il fatto che non avrebbero preso parte a quell’azione. Greg aveva taciuto riguardo la Pietra che custodiva: se tutto fosse andato per il meglio le spiegazioni sarebbero arrivate con più tranquillità. Rise pensando a quella parola, chiedendosi quanto tempo fosse ato dall’ultima volta che si era sentito tale, cercando di immaginare quando sarebbe giunta la calma che gli avrebbe concesso di pensare e di parlare con i suoi amici di tutta la strada che avevano percorso fino a quel momento. Ora, accanto a Deidar e Yasheira, in attesa del collegamento, scambiava occhiate fugaci e brevi parole. Yasheira era rimasta colpita dalla proposta di Greg e non aveva potuto fare a meno di giudicarla come l’unica soluzione possibile per evitare che il suo regno fosse raso al suolo. A Deidar era stata fornita una nuova spada che, malgrado l’ottima fattura, ben poco poteva sostenere il paragone con la sua precedente arma. Aveva, tuttavia, come era solito fare in momenti particolarmente delicati, riconfermato il suo appoggio e la sua spada a Greg. Dovan, per la seconda volta da quando Greg gli aveva parlato, aveva sostenuto la sua proposta, dicendosi felice di poter sostenere un confronto tanto atteso. Ancora una volta, a maggior ragione dopo la perdita della spada di Gorgon Titano, rimaneva il problema costituito da Lord Astaroth. Greg, sorridendo, aveva ripetuto che non era sua intenzione regalare una facile vittoria al nemico: scartata per il momento l’ipotesi di consegnarsi spontaneamente, se il Pari avesse voluto ottenere la Pietra avrebbe dovuto vedersela nuovamente contro qualcosa di straordinario. Accettando di arrendersi al secondo ultimatum nessuno si era però illuso che Samarlec acconsentisse, in cambio, a far transitare liberamente l’intero Ordine
dell’Aurosa. A porre fine al dibattito avevano contribuito Yasheira e la Comandante Adelia. «Purtroppo non tutte dispongono di un volatile che possa trasportarle e non tutte possiedono una corporatura adatta» rimarcò secca: la sua corporatura tendente al tarchiato era un esempio di molte tra le sue sottoposte. «Oltretutto non eremmo di certo inosservate di giorno e diverremmo un facile bersaglio per i tiratori imperiali. Dobbiamo perciò cercare una soluzione alternativa». «L’Ordine si trova qui al completo?» le aveva domandato Yasheira. Adelia si era chiesta cosa avesse in mente la nipote e quest’ultima non aveva tardato a chiarire a tutti quale fosse le sua idea. «Se riuscissimo a convincere il Cancelliere ad allontanare le donne con i bambini, in cambio della nostra consegna, sareste libere di are senza essere notate». La comandate non aveva perso tempo prima di canzonarla: «Yasheira, credi che i selthoniani siano ciechi? Se solo fero un controllo si accorgerebbero che siamo tutte donne e, per di più in assetto da combattimento». La giovane principessa non si era lasciata intimidire da quel commento. «Se tutte saranno debitamente camuffate, ed alcune delle novizie più giovani indosseranno abiti da maschi, l’unico vero problema è che qualche selthoniano non scambi alcune delle nostre Sorelle per uomini». La risposta brillante aveva provocato in coloro che l’avevano udita svariate reazioni che andavano dallo sguardo perplesso alla risata camuffata da improbabili colpi di tosse.
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Capitolo IX
Scontro nel Leviros
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Difficile restare imibili di fronte al fulgido splendore di Zolon: costruita in ogni sua parte di cristalli di Lunoctio, decorata da rigogliosi e floridi giardini pensili, percorsa da cascate artificiali e animata da complessi giochi d’acqua. Nonostante ciò i due nomadi tratti in salvo parevano del tutto indifferenti a tanta bellezza. Solo per un attimo, aveva notato Mosmaimonid, quando avevano alzato gli occhi verso l’imponente Muoroiam Som, sembravano vagamente colpiti. Il Capo dei Saggi s’interrogò brevemente sul significato di quello stupore, se esso fosse casuale o meno, se quei nomadi fossero o no connessi col caloroso saluto che Amon aveva regalato alla sua comunità. Incaricò due dei suoi di provvedere a sfamare quelle povere anime, ordinò ad un terzo di far sì che Asclepio, dottore di medicina, li visitasse e, se possibile, fornisse loro dei ricostituenti. Da solo si incamminò verso i suoi appartamenti, scegliendo però la via più lunga per giungervi, indugiando spesso sui suoi i, a volte tornando indietro per soffermarsi presso una pianta in fiore, per coglierne la delicata fragranza oppure accanto ad una fonte per assaporarne il cristallino zampillo. Qualcosa gli diceva che tutti i suoi dubbi stavano convogliando verso un unico punto e da quell’unico punto egli dedusse l’unica soluzione possibile in risposta alle sue domande. Era sul punto di chiamare Abadir quando quest’ultimo comparve allarmato, sbucando trafelato da dietro una fontana. «Eccellenza, mi è stato appena riferito che i due nomadi si sono rifiutati di toccare cibo. Temendo per la loro salute li ho subito fatti trasportare nella casa di Asclepio perché egli li visitasse. Da molto non giunge una risposta».
L’altro alzò appena gli occhi dal fiore nel quale aveva immerso il naso sottile. «Fai chiamare l’intera comunità, anche coloro che si stanno riposando. Radunali tutti nel Corridoio di Cristallo». «Eccellenza, cosa sta accadendo?» protestò Abadir. Mosmaimonid sorrise, gli occhi scomparvero tra le numerose rughe e le folte sopracciglia per poi ricomparire velati da una leggera patina. «È una giornata meravigliosa, tiepida e mite. Le Aurose stanno per fiorire e per rivelare la loro rara fragranza, la scorza dura che le ricopre lascerà spazio ai petali leggeri come veli di seta» disse indicando un cespuglio poco distante. «Ho paura che nessuno di noi potrà goderne. Amon Ardeon ci ha benedetti quest’oggi come mai aveva fatto prima d’ora. È triste che una giornata così piacevole debba terminare in un modo tanto cupo». Abadir abbandonò l’espressione stupita, le sue labbra presero una piega bassa e gli occhi divennero lucidi come poco prima avevano fatto quelli del capo della comunità. «Così, sarà un’opera di carità a segnare la fine di tutti noi? Sono giunti per compiere la loro missione e non si fermeranno davanti a niente. Questa rocca, la Stella della Sapienza, smetterà infine di brillare». «Ciò che consola ognuno di noi è che la conoscenza non andrà persa, tutti i testi si salveranno, le nostre ricerche resteranno intatte. Un giorno giungeranno nuovi saggi che custodiranno e amplieranno quanto noi abbiamo lasciato loro» si guardarono a lungo, Mosmaimonid perse il suo tono formale per un breve momento, la sua voce si fece carica di tristezza malgrado il volto restasse quanto più possibile cristallizzato in un’espressione di serena rassegnazione:«Sapevamo che sarebbe accaduto». Poi, riprese immediatamente il suo consueto tono di voce ed espresse nuove considerazioni: «Per questo abbiamo preparato le cose in anticipo e abbiamo istruito i due giovani affinché potessero onorare anche noi con le loro gesta». Gli occhi di Abadir balenarono. «Uno ci ha tradito e ha arrecato danni inimmaginabili con le sue gesta» il volto divenne teso a quel pensiero per poi distendersi dopo pochi istanti. «Ne resta solo uno». Mosmaimonid sfiorò lentamente uno dei petali della pianta alla quale si era
appena avvicinato. Abadir non lo vedeva direttamente in volto ma anche lui doveva provare ed esprimere emozioni non dissimili dalle sue. «Il nostro compito, il tuo compito è stato quello di insegnare, il loro di imparare. Ciò che li ha divisi non è stata l’istruzione ricevuta, ciò che li ha differenziati è stato l’uso che ne hanno fatto». Abadir distese la fronte corrugata. «Così sia, Eccellenza» disse inchinandosi brevemente e sparendo di nuovo dietro la fontana. Le Aurose erano quasi in fiore. Per secoli avevano goduto della loro fragranza. Adesso, dopo quasi mille anni, non avrebbe potuto assistere alla loro fioritura. Mille anni erano stati lunghi a are eppure, se ci pensava, non era durati più del dischiudersi di un fiore.
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«Sono lieto di constatare che godete tutti, ancora, di buona salute» disse Samarlec con un tono così amichevole e controllato non appena la sua immagine era comparsa sul globevisor, da far fremere di rabbia più di uno degli occupanti della Sala. «Non è certo per merito suo, Cancelliere. Se l’Impero intende mantenere le sue parole così come ha fatto appena qualche ora fa, non vi è ragione per dimostrarsi così amichevoli» rispose Nailie fissando dritto in negli occhi. Il sorriso di Samarlec si piegò in un ghigno: «Eppure, mi pare, che per quanto inaspettata, sia stata in grado di farvi cambiare idea, maestà. Come forse sua Eccellenza, il Primo Ministro Rifean, potrà confermarle, sono riuscito in un’impresa che tutti ritenevano impossibile» l’ombra della soddisfazione comparve come una luce sul suo volto, Rifean si chinò verso la regina, quando rioccupò il suo posto il suo volto era scuro e contrariato. Nell’ombra, in disparte nella sala, per una volta Greg ammise che Samarlec possedeva un innegabile misto di cinismo e acume che, malgrado fossero inopportuni in quella situazione, riuscivano a mettere immediatamente a disagio i suoi interlocutori, qualità che a Dovan, sia per l’indole che per l’occasione, mancavano totalmente.
«Vorremmo rettificare le richieste formulate da lei come portavoce dell’Impero e dell’Imperatore» proseguì la Regina, lasciando poi la parola a Dovan che, emerse in primo piano: «Io e i miei allievi ci consegneremo come chiesto. In cambio, devi lasciare allontanare le donne e i bambini». Samarlec rise di gusto: «E’ questo che mi chiedi, Dovan? Aiutarti a perseguire fino all’ultimo dei tuoi giorni i tuoi ideali di giustizia?» la voce perse il tono di scherno, la sua espressione, al pari del tono, divenne gelida. «Non mi bastate solo tu e i tuoi allievi». Greg avvertì una stretta allo stomaco, Samarlec sapeva della Pietra. Si alzò di scatto per comparire, poco dopo, nella visuale del globevisor. L’espressione di Samarlec divenne contrariata, i suoi occhi fissarono senza interesse Greg per qualche istante, poi parlò con voce priva di interesse: «Tu, se non sbaglio, dovresti essere il figlio dell’Amministratore che ha favoreggiato la vostra fuga da Selthon. Da quanto mi dicono, tuo padre chiede spesso di te, non vede l’ora di poterti riabbracciare». Le certezze di Greg scivolarono ancora una volta. Il Cancelliere non sapeva un bel niente della Pietra, era altrimenti impossibile che l’avesse appena riconosciuto come il figlio di un Amministratore. In tutto ciò, era almeno felice di saperlo, suo padre era vivo e, con tutta probabilità, si trovava a bordo del Leviros. Dovan dovette pensare la stessa cosa in quegli istanti e, prontamente, fece allontanare Greg dal Trono. Lord Astaroth, a sua volta, presente in un angolo dell’appartamento di Samarlec, non aveva potuto fare a meno di comprendere il motivo di quell’intromissione e dello stupore che aveva letto negli occhi di quel ragazzo. Il Cancelliere riprese a parlare con tono seccato: «Dovan, ti invito a tenere a freno i tuoi allievi, non tollero di essere interrotto mentre parlo». L’altro non gli rispose nemmeno ed incrociò le braccia, guardandolo torvo. «Credevate che il Cancelliere di Selthon fosse cieco e sordo? Che non avesse capito che gli Angeli Dorati si sono rivelati e che state provando nuovamente a fermare la prima stirpe?» nessuno trovò opportuno rispondere a quella domanda, Samarlec proseguì «Dovranno consegnarsi anche il Principe Deidar e la Principessa Yasheira». Il Cancelliere aveva messo tutte le sue carte in tavola, aveva gettato la maschera
che ormai gli andava stretta. Non aveva più niente da guadagnare nel nascondere la sua alleanza con il Baiamondo e, ormai, difficilmente qualcuno avrebbe potuto continuare ad ignorarlo. Deidar fece quanto poco prima aveva fatto Greg, avvicinandosi al proiettore del globevisor. «Suo fu l’ordine di rubare la Pietra appartenuta per secoli al mio regno! Renodia non scorderà questo affronto!» Samarlec sorrise conciliante, si voltò per qualche istante e poi mostrò all’intera sala l’arma appartenuta al principe. «Suvvia altezza, ora che ha perso anche la sua spada, farebbe meglio a non sventolare minacce che lei e il suo popolo non sareste in grado di mantenere». Deidar ammutolì, le sue braccia robuste scesero lungo i fianchi e si mise in disparte. «E sia, avrà quanto chiede» sentenziò poi il Primo Ministro dopo una rapida occhiata con la principessa Yasheira. Gli occhi del Cancelliere si illuminarono: la sua voce tradiva la soddisfazione della totale sottomissione dei suoi avversari. «Molto bene. Iniziate pure i preparativi per far partire le donne con i bambini. Per quanto riguarda gli ostaggi, esigo che avanziate con la Darlidan» l’idea di rimpossessarsi della propria imbarcazione l’aveva assillato fin da quando aveva scoperto che essa esisteva ancora. «Troverete appena usciti dal porto due incrociatori a scortarvi. Un o falso e le donne e i bambini finiranno annegati» concluse svanendo dal grande schermo sul quale era stata proiettata la sua figura ingigantita. Tutti sembrarono tirare un unico, grande respiro di sollievo: dopo quei lunghi minuti di immobilità, la sala era tornata ad animarsi. «Malgrado i due fuori programma» disse Dovan avvicinandosi a Greg e a Deidar, guardandoli alternamente, «E’ andato tutto secondo il nostro piano». «E non sa niente della mia Pietra» aggiunse Greg, ancora incredulo.
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Non appena erano stati trasportati alla casa di Asclepio, i due nomadi avevano fatto crollare ogni apparenza che fino a quel momento li aveva rivestiti. Sotto il cumulo di stracci erano emerse come incubi le loro mostruose e deformi figure. Minoxe si stiracchiò appena, facendo flettere la poderosa muscolatura, prima di trafiggere colui che si stava apprestando a medicarlo. Sorte non diversa toccò ai due anziani che li avevano accompagnati in quella dimora: Ekates dondolò la testa e i capelli argentei si avvilupparono attorno alle loro membra, soffocandoli. D’intesa lei e il fratello si guardarono, sorrisero. scoprendo i denti appuntiti simili a zanne e uscirono dalla casupola. Minoxe avanzava a i lenti, il braccio, che terminava con la lama di una spada lungo il fianco, immediatamente pronto a ghermire chiunque incrociassero. Ekates fluttuava nell’aria come se fosse sott’acqua, i lunghi capelli si dimenavano e si contorcevano come serpi argentate. Scovarono un altro saggio nascosto dietro una pianta in fiore: irritati per non avere ancora scoperto dove si era nascosta la maggior parte della comunità, Minoxe lasciò che i capelli di Ekates lo avvolgessero per poi sollevarlo da terra. Il vecchio, la cui costituzione fisica, debole e grinzosa, non consentiva di resistere a lungo, sembrava colpito da dolori lancinanti, scricchiolando ad ogni aumento della morsa. «Dove si sono nascosti tutti gli altri?» chiese Minoxe sibilando mentre dirigeva la punta della spada sotto la gola dell’uomo. Quest’ultimo, respirando a fatica, inalò quanta più aria poté ma la risposta fu comunque appena più udibile di un soffio. «Sciocchi demoni…La morte oggi non attende solo noi, Memori di Zolon». Minoxe si spazientì mentre un rivolo rosso fuoriusciva dalla bocca dell’uomo: questi, poco prima che la testa gli ciondolasse di lato, aveva diretto il suo sguardo verso la costruzione tetraedrica alle loro spalle che sovrastava tutta la città. Ekates ritirò i suoi serpiformi capelli, lasciando cadere il corpo ormai senza vita. Minoxe avrebbe voluto infierire sull’uomo prima che esalasse l’ultimo respiro: avrebbe dovuto implorato, come quando, nei Domini Sotterranei, uomini e donne si offrivano in sacrificio pur di far vivere i loro figli. Gli esseri umani erano poco più di bestie: bipedi, laboriosi ma pur sempre bestie, pensò il demone allontanandosi dal mucchio di pelle ed ossa rimasto in un angolo come traccia del loro nefasto aggio. La voce suadente della sorella lo distolse da quei particolari: «Credi che nostra madre vorrà premiarci una volta terminata la missione?»
Minoxe non aveva ancora pensato ad una possibile ricompensa: per lui era quell’incarico la sola ricompensa che veramente volesse. «Non voglio chiudermi di nuovo nel Baiamondo, neppure se ci concedessero una città da amministrare. Quello che voglio è combattere, solo questo riesce a farmi sentire vivo». Ekates lo guardò perplessa e lo carezzò appena con una ciocca di capelli, le catene e i monili di Minoxe tintinnarono. «Cosa chiederesti tu a nostra madre?» Ekates si fermò, continuando a galleggiare senza peso nell’aria, osservando il suo riflesso deformato che le restituiva la superficie cristallina della piramide. «Vorrei delle gambe, chiedo solo di essere normale». Minoxe la guardò torvo, chiedendosi da dove scaturisse un simile desiderio: «Sorella, sei uno dei demoni che, dopo i Pari, è più temuto e maggiormente rispettato. A cosa ti servono le gambe?» Lei evitò di guardarlo negli occhi, nello specchio credette di vedere l’immagine del Lord che l’aveva rifiutata. Si affrettò a concordare col fratello mentre, sotto la maschera che copriva parte del suo viso, si consumava il suo dramma e una lacrima, il simbolo della più alta emozione che un demone poteva provare per poi rinnegare, sgorgò spontanea.
‡ L’entusiasmo per la buona riuscita del piano durò poco: tante erano le cose da fare, molte delle quali avrebbero normalmente richiesto molto più tempo dell’esigua ora rimasta prima della scadenza dell’ultimatum. Dovan, sistemati gli ultimi dettagli, si chiuse nei suoi appartamenti, accordandosi con Greg per trovarsi all’ora stabilita nel punto di raccolta. Yasheira andò invece a trovare i suoi compagni di battaglia, riservando carezze a Simurgh e un succulento pezzo di carne per Kokatrix. Deidar seguì Greg negli appartamenti, dove Mark e Andrew si erano ritirati per vegliare su Lisa. Mentre saliva i gradini avvertì una fitta: per un attimo pensò fosse dovuta agli sforzi compiuti dentro al vulcano poi, quando al o successivo essa si fece più acuta sul ventre capì che non era una questione fisica, il male veniva da dentro.
Per quanto si sforzasse, c’era sempre qualcosa che sfuggiva al suo controllo. Allo scalino successivo dovette fermarsi, una mano invisibile doveva avergli tirato un cazzotto in pieno stomaco: aveva abbandonato la sua famiglia e suo padre era caduto in disgrazia presso la corte imperiale. Il gradino successivo fu la volta di sua madre: ignorava da più di un mese cosa ne fosse stato di lei e per quanto avesse desiderato parlarle, non era riuscito a mettersi in contatto con lei. Un’altra persona che aveva abbandonato. L’ultima immagine che portava con se era quando l’aveva incrociata con una maschera di bellezza verdastra poco prima dell’arrivo del Cancelliere. Un o ancora e un altro colpo di intensità identica al precedente: aveva trascurato i suoi amici, per quanto gli costasse ammetterlo i litigi con Mark erano, dopotutto, piacevoli e gli ricordavano di essere stata una persona normale. Aveva appena degnato di attenzione Andrew quando aveva scoperto che il padre non solo probabilmente godeva di ottima salute ma che conduceva da anni una doppia vita. Fu poi l’immagine di Dovan a provocargli dolore. Per mesi l’aveva creduto infallibile, fino a quando a Renodia l’aveva allontanato dalla battaglia. Capiva solo adesso che l’aveva fatto perché temeva per la sua vita, sapendo che avrebbe messo a repentaglio la sua esistenza pur di mostrare il valore in combattimento, non solo per la Pietra che custodiva. E lui l’aveva trattato come si tratta un servo, non come la guida che aveva scelto di accompagnarlo nel suo difficile viaggio, non come l’amico che non l’aveva mai abbandonato. Probabilmente il suo maestro nascondeva qualcosa, Lord Astaroth aveva ragione, anche lui ne era convinto da qualche tempo ma era un valido motivo per rinnegarlo? «No» bisbigliò. In quella che era stata la salita più dolorosa, giunse infine all’ultimo gradino nella scala dei suoi errori: Lisa. Con lei era si era comportato come un bambino: la voleva, la desiderava, forse anche lei era stata finalmente pronta a sciogliere quel complicato nodo intessuto di tre fili. Sopraggiunti i problemi le aveva eretto un muro di ghiaccio contro: potevano vedersi entrambi ma le parole non
riuscivano a valicare quel confine e ognuno dei due vedeva le labbra dell’altro muoversi a vuoto. E spesso era la ragazza che parlava senza essere ascoltata, non lui. La rifuggiva, la evitava per poi svegliarsi, nel cuore della notte, avvicinarsi alla sua cabina e sentirla respirare, aprire con delicatezza la porta e stare per ore sotto l’influsso dell’incanto camaleo per osservarla mentre dormiva. Giunto alla porta, Greg aveva compreso finalmente che il dolore che lo attorniava non esisteva solo a causa della guerra e della minaccia costituita dai demoni, non nella sua totalità almeno. Parte di quel dolore, una quantità consistente che non poteva non influire sulle persone a lui più vicine e più care, era innegabilmente imputabile a se stesso. Quando aprì la porta, la scena che gli si presentò davanti bastò a confermare la sua ipotesi: non appena lo aveva visto, Lisa si era alzata dal letto accanto al quale sedevano Mark e Andrew, gli era corsa incontro per poi buttarsi in ginocchio e abbracciarlo all’altezza delle gambe. «Perdonami Greg, perdonami! Non volevo che accadesse tutto ciò, mi ha mentito, Greg, mi ha mentito!» Greg la scostò appena e si chinò al suo fianco, circondandola dolcemente con le braccia mentre il suo corpo non smetteva di essere scosso dai singulti, la sollevò e la strinse a se per poi adagiarla sul letto. Mark e Andrew scambiarono una rapida occhiata con Greg e uscirono dalla stanza, raggiungendo Deidar che era rimasto sulla soglia. Greg si sedette, la ragazza lasciò lentamente la presa con la quale gli aveva avvolto il collo e sembrò tranquillizzarsi dopo che lui le ebbe scostato delicatamente alcuni capelli dagli occhi. «Raccontami cos’è successo» le disse dopo che si furono guardati a lungo negli occhi. Lisa sembrò faticare a ricordare gli eventi poi, iniziò a parlare con più fiducia mentre riordinava le idee: «Ho udito una voce ieri sera, dopo che ero uscita dalla Sala del Banchetto. Ero disperata Greg e molto, molto arrabbiata». Le sue mani si congiungevano per poi tormentarsi tra loro, Greg, notandolo gliele sfiorò appena con la sua ed esse si calmarono per qualche istante. Dopo che ebbe annuito, senza però commentare, Lisa proseguì: «Ho visto…cosa
sarebbe successo se non lo avessi aiutato, Greg. Non solo tu, tutti quanti avrebbero sofferto…» sembrò sul punto di scoppiare di nuovo a piangere, i suoi occhi si inumidirono ma si limitò a sorridere senza convinzione. «Sono stata inutile per troppo tempo. Se avessi potuto rendermi utile in qualche modo, far si che le persone a me care non soffrissero, avrei dato tutta me stessa». Greg fermò una volta ancora le mani della ragazza. «So cosa hai provato. Quando non si capisce più quale sia la cosa giusta da fare, quale sia la decisione che farà soffrire meno le persone, si sceglie il minore dei mali e…» era incerto se quella frase l’avesse detta più per se stesso che per lei. Le strinse le mani. «… talvolta capita comunque di sbagliare». Lisa le ritrasse. «Ti comporti come se fosse concesso solo a te di sbagliare…» nel suo tono non c’era rimprovero, solo una profonda tristezza che colpì Greg più di una sfuriata. Abbassò la testa e lei continuò a parlare. «Per quanto sia stata in disparte non credere che non abbia pensato a ciò che sta accadendo. Talvolta tutto procede come parte di un piano, a volte andiamo avanti alla cieca e ci troviamo di fronte ad avvenimenti imprevisti». Greg alzò la testa: «Neppure Dovan sembra sapere molto di più di quello che sappiamo io e te. Possiamo solo fare considerazioni in base a ciò che sappiamo». Lisa si alzò, scuotendosi: «Non mentirmi, tu sai più di quanto dici di sapere. Gli Esperidi quando hanno cantato ti hanno detto qualcosa che stai tenendo nascosta a tutti. Malgrado sia stata io a far entrare Lord Astaroth nel Santuario sei stato tu a lasciargli prendere la Pietra». Greg sospirò, Mark e Andrew dovevano averle riferito cosa era successo dopo che erano usciti dal Vulcano. «Sì, è vero, il canto degli Esperidi mi ha fatto capire una cosa che sono stato in grado di verificare solo là dentro. La Pietra ho dovuto lasciargliela prendere, io stesso ne possiedo una». Lisa mostrò un’espressione stupita, doveva ignorare quel fatto. Subito dopo i suoi occhi si fecero pensierosi. «Questo spiega molte cose, a partire da Selthon…» Greg annuì: «Inspiegabilmente Lord Astaroth non ne ha fatto parola con Samarlec» la guardò dritta negli occhi. «Tu hai idea del motivo di ciò?» Lisa gli restituì il medesimo sguardo. «Non so niente sul perché non l’abbia
fatto. C’è qualcosa di strano in lui, sembra capace di provare sentimenti». Greg alzò un sopracciglio. «Secondo te un Pari potrà mai possedere dei sentimenti?» «Non credo di essermi espressa nel migliore dei modi, suppongo che comunque non ne sia ancora consapevole. Il fatto che tu sia ancora vivo sembra avvalorare la mia sensazione». Greg scosse la testa. «Sono ancora vivo perché l’ho battuto dentro a quel vulcano. Sono vivo perché non posso permettermi di cedere alla rassegnazione e condannare un mondo intero». Greg strinse le labbra ed esse si unirono, assottigliandosi, in un’unica linea rossa. «Dobbiamo partire Lisa, ero venuto per dirtelo». Lei lo guardò accigliata. «Devo dedurre che il mio destino è quello di restare qui? È questo che vuoi fare per proteggermi?» Greg scattò in piedi non diversamente da come aveva fatto lei poco prima e parlò con tono autoritario: «Qui sarai al sicuro e, se qualcosa andrà storto potrai metterti in salvo» indicò un punto in prossimità del Leviros. «Scenderemo laggiù come ostaggi, tenteremo di mettere fine a questa guerra, come avevamo deciso fin dall’inizio». Lisa lo afferrò per una spalla, costringendolo a voltarsi: «L’abbiamo deciso tutti insieme quando partimmo. Intendi riservare questo trattamento anche a Mark e a Andrew? Segregarci a Naren come quando Dovan nascose te? Sai che non funziona» lo rimproverò. «Voi non dovete…» ribatté lui balbettando. «Noi non dobbiamo salvare questo mondo, vero?» disse terminando la frase di Greg. «Per questo, visto che tutto è stato caricato su di te o pochi altri, credi che la gente comune dovrebbe far finta di niente fino al giorno in cui tutto questo sarà finito, nel bene o nel male?» Le difese di Greg caddero. Imbarazzato, disse la prima cosa che gli era venuta in mente: «Devi averne avuto di tempo per pensare a tutte queste cose».
Lei lo guardò sorpresa. «Non capita spesso di poterti parlare» gli si avvicinò «O di restare da soli» sussurrò. Greg si chiese se fosse veramente lui quello che stava sfiorando la mano di Lisa, le sue le dita che, scostandole i capelli, le toccarono il collo, la sua testa che, inclinandosi, stava per appoggiare le labbra su quelle della ragazza. Senza preavviso, la porta dietro di loro si aprì. Un colpevole quanto incauto Deidar si nascose prontamente, subito sostituito da Yasheira che, vestita di una nuova uniforme, rimase per qualche istante in silenzio ad osservare la scena. «Se sua altezza è pronto, è giunta l’ora di mettere fine a questa guerra» disse poi con un tono gelido mentre Greg tentava, senza molto successo, di non lasciare adito a situazioni e a pensieri equivoci. «Lisa viene con noi» disse indicandola come se avesse appena avuto quella rivelazione poi, intimorito dallo sguardo della principessa, si affrettò ad aggiungere: «Vengono anche Mark e Andrew». Yasheira soppesò le decisioni prese da Greg poi fece un’espressione indifferente, molto simile a quella di sua madre. «Sta bene, non vedo perché sarebbero dovuti restare qui». Lisa andò in un’altra stanza, adiacente a quella da letto, per cambiarsi ed indossare i suoi vestiti, Greg uscì e incrociò il volto imbarazzato e sorridente di Deidar che, a fronte della decisione appena comunicata, si assunse il compito di andare a chiamare anche gli altri due compagni. Il principe sparì velocissimo e senza dare a Greg ulteriore tempo per parlare. Quando si voltò si trovò di fronte il volto teso di Yasheira. Fu sul punto di dire qualcosa ma lei lo prevenne: «Taci, non dirò niente a nessuno. L’esperide si è mangiato la lingua non appena ha aperto la porta, non credo la sputerà prima di qualche tempo». Greg incrociò i suoi occhi scuri e profondi: solo fino a qualche ora prima sarebbe dovuta essere la sua promessa sposa, adesso, liquidava quella situazione come un fatto ordinario. «Sbrighiamoci, i convogli con a bordo l’Ordine sono sul punto di salpare e non ho intenzione di far attendere il Cancelliere» levò un pugno e lo fissò mentre le
dita si serravano attorno al guanto di pelle che indossava. «Non si assedia il mio regno senza delle pesanti conseguenze». Lisa uscì dalla stanza e si disse pronta a partire e i tre iniziarono la discesa verso l’atrio del palazzo. «Spero che il Cancelliere non abbia fretta quest’oggi» disse Greg dopo qualche gradino, non potendo fare a meno di essere d’accordo con le parole dette poco prima dalla principessa. «Perché?» chiese Yasheira senza diminuire il ritmo di discesa, balzando sugli scalini due a due. Greg fece un po’ di fatica a raggiungerla, era difficile mantenere a lungo un o così serrato senza farsi venire il fiatone. «Siamo in molti a volergli rendere le stesse cortesie che ha usato nei nostri riguardi. La faccenda potrebbe andare per le lunghe».
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Il signor Oltan, specchiandosi nelle numerose superfici vetrate che costituivano gli interni dei piani superiori del Leviros, stentava a riconoscersi: per quanto gli fosse stato riservato un trattamento decoroso, malgrado l’accusa di traditore dell’Impero, appariva trasandato e sciupato. Le membra molli di un tempo, giorni lontani risalenti agli sfarzi della sua vita agiata, si erano svuotate, lasciando il posto alla pelle ingrigita e calante. Il volto curato e ben rasato era adesso incorniciato da una barba ispida e incolta. Da ultimo i suoi vestiti, così diversi da quelli che, abitualmente, avrebbe indossato in occasione di un incontro privato con il Cancelliere dell’Impero. Quelli, però, erano altri giorni, appartenevano ad un ato così remoto che faceva fatica a rievocarlo: nel corso dei primi giorni di prigionia era quasi impazzito, pensando alla caduta in disgrazia della sua famiglia e al mancato adempimento delle sue mansioni. Era poi sopraggiunto il pensiero della moglie, una donna che aveva sempre considerato come una fragile creatura, attorno alla quale lui aveva costruito una comoda ed indubbiamente piacevole gabbia dorata. Ora che quell’invidiabile prigione era venuta meno, cosa ne sarebbe stato di lei?
Del figlio, malgrado dovesse a lui in larga parte quella spiacevole situazione, era riuscito a farsi un’idea del tutto diversa da quella che era andata a formarsi in diciassette anni di vita. Ignorando volutamente ciò a cui sarebbe stato destinato l’aveva indirizzato agli studi che gli avrebbero permesso, un giorno, di sostituirlo nel pubblico incarico. Aveva accolto il fallimento dei suoi tentativi non come la conferma del destino al quale il figlio sarebbe dovuto andare in contro ma come un fallimento nel suo ruolo di padre. Aveva considerato quindi il desiderio di Greg di apprendere la magia come una stoltezza o, al più come un “strana quanto sospetta coincidenza”, ma nient’altro. Niente sembrava volergli togliere dalla mente la convinzione che il bambino che aveva cresciuto come suo non gli era stato affidato da quattro figure avvolte da luce ma che gli era caduto veramente dal cielo. Poi, appena un mese prima, con la velocità e la potenza di un colpo di cannone, la verità che non voleva accettare, il destino che aveva provato a cambiare avevano colpito il muro che aveva eretto, abbattendolo. Da allora suo figlio non era più il perditempo che trascorreva la giornata ad imparare trucchetti e nozioni inutili. Era un vero eroe. Per quanto imprigionato, le informazioni nel mostro meccanico, così non aveva potuto fare a meno di soprannominare il Leviros quando l’aveva visto la prima volta, non tardavano certo ad arrivare anche a lui per mezzo di chiunque lo controllasse o decidesse di fargli visita. Tra questi vi era in maniera curiosamente assidua uno degli uomini più vicini al burattinaio dell’Impero: era proprio lui a scortarlo adesso all’udienza col Cancelliere. Non c’era stato bisogno di domandare all’ingegnere imperiale il motivo di quell’incontro, quest’ultimo gliel’aveva comunicato in tutta franchezza durante la loro salita. «So che i nostri figli sono invischiati in questa vicenda ma il Cancelliere, conoscendo bene la situazione, è pronto, una volta che si saranno costituiti, a far cadere tutte le accuse nei loro confronti e a farli tornare a Selthon» aveva esordito una volta entrati nell’ascensore. Aaton Oltan non aveva risposto immediatamente. «Per quale motivo il Cancelliere vorrebbe mostrarsi così magnanimo?» La voce e l’espressione dell’altro si fecero dure. «Perché gliel’ho chiesto io. Sua Eccellenza non è affatto interessato a giustiziare dei giovani condizionati da un ciarlatano». In un altro tempo il Signor Oltan si sarebbe detto indubbiamente d’accordo con l’Ingegnere riguardo a Dovan, questo prima di aver accettato la verità che per anni gli era rimasta indigesta. Tacque nuovamente per qualche istante. «Cosa ne
sarà del maestro Dovan?» «Immagino sarà giustiziato. Non credo le sue azioni saranno nuovamente perdonate» rispose con noncuranza. Il signor Oltan tenne per se le proprie opinioni, compresa quella che il Cancelliere era uno sciocco se credeva che Dovan si sarebbe consegnato senza combattere o che suo figlio avrebbe fatto ritorno a Selthon. L’incontro con Samarlec fu molto breve e non gli fu concesso di parlare, tutto era stato già deciso: se suo figlio si fosse consegnato senza opporre resistenza avrebbero fatto ritorno a Selthon quanto prima e lui, date le caotiche quanto oscure rivolte della cittadinanza, sarebbe tornato a ricoprire il suo ruolo pubblico. Sulla via del ritorno rimasero in silenzio fino a quando il signor Oltan non decise di parlare: «L’offerta del Cancelliere è stata molto generosa ma dubito che sarà di facile attuazione. Non sa cosa lo aspetta». Enif Olinori gli aveva restituito uno sguardo incuriosito ma non aveva risposto. Non lo condusse nell’alloggio nel quale era tenuto agli arresti, imboccò una strada diversa, un corridoio sontuoso, vicino agli appartamenti degli ufficiali. Entrarono in una stanza invasa da fogli di grandi dimensioni e da carte: ve ne erano ovunque, sia sulle pareti elegantemente dipinte che ammassate in pile negli angoli della stanza. L’ingegnere Imperiale lo precedette e, liberando una sedia da alcuni rotoli, fece cenno all’altro di sedersi mentre lui prendeva posto dall’altro capo della scrivania e si sedeva, incrociando pensieroso le dita sotto al mento. «E’ curioso ciò che ha detto poco fa, Oltan» disse dopo aver interrotto un silenzio piuttosto lungo, durante il quale il reintegrato amministratore aveva cercato di capire a cosa era dovuta la sua presenza in quel luogo. Enif non attese una risposta e proseguì: «L’Impero è prossimo a grandi cambiamenti, non so se mi spiego». L’altro alzò un sopracciglio, dubbioso. «Credo che i cambiamenti di cui mi parla siano in atto già da quando presenze oscure hanno iniziato ad influire nella vita dell’Impero» riprese poi più lentamente «Non credo che i cambiamenti che lei si
aspetta saranno in meglio, potranno solo peggiorare le cose». L’ingegnere non si scompose ma la sua fronte si corrugò. «Quando un governante non cura più gli interessi del suo popolo deve essere abbattuto. E quando esso sarà abbattuto, anche le oscure presenze di cui lei parla spariranno». Il signor Oltan mosse le labbra due o tre volte ma non uscì nemmeno una parola dalla sua bocca. Enif Olinori assunse un’espressione gioviale:«Anche lei sarà presente all’arrivo della Darlidan e, per allora, anche il senso delle mie parole le sarà più chiaro» si sporse in avanti sui gomiti ed abbassò il tono della sua voce. «Stia in guardia».
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La partenza delle navi sulle quali era stato imbarcato l’Ordine dell’Aurosa avvenne in silenzio: i pochi che ancora si trovavano nel porto di Naren si erano barricati nelle case, pronti, in caso di invasione, a contrattaccare. Gran parte della popolazione era fuggita anzitempo nell’entroterra, altri ancora avevano deciso di unirsi all’esercito regolare. Ben diversa era la anche la partenza della Darlidan: a Renodia si era fatta festa per quanto il momento fosse stato buio. A Naren, quelli che sapevano della partenza erano tesi come corde di violino. Non fu Nailie ad accompagnarli alla nave, ella preferì restare nella Sala del Trono da dove Bugh Dail si era detto certo di poter far funzionare la trasmissione tra il globevisor del palazzo e quello presente sulla Darlidan. L’incombenza del saluto fu quindi affidata al Primo Ministro il quale, Archimandrita di Naren, avrebbe avuto il compito, ove fosse stato necessario, di rassicurare e guidare la popolazione. In quel preciso istante molti prelati di grado minore erano sparsi nella capitale e nelle città del regno, intenti a recitare sermoni ai nareniani, avvertendoli dell’estremo tentativo di metter fine alla guerra.
I prelati di rango più elevato erano invece occupati in materie molto meno spirituali e, con l’aiuto dell’Ingegnere capo di Naren, erano riusciti a stabilizzare per il momento l’attività del Vulcano. Ivas Naren era una città deserta quando Greg e gli altri, accompagnati dal Primo Ministro e da un’esigua scorta, raggiunsero la Darlidan. Dovan, disegnando un ampio cerchio con le mani, dissolse l’halos major che proteggeva la nave: uno dopo l’altro salirono la scaletta, per ultima Yasheira si attardò nel congedarsi da Rifean. Quest’ultimo, attenendosi al protocollo di corte, si inchinò davanti alla giovane ma quando si alzò lei, venendo meno ad anni di etichetta, lo abbracciò a lungo. Spiazzato, il Ministro le riservò alcune carezze, promettendo di non dire niente alla regina. Gli occupanti della Darlidan non si curarono, o finsero molto bene di non averlo fatto, di quella scena e quando Yasheira salì a bordo con gli occhi velati, nessuno le chiese il perché. Quel giorno l’aria era ferma come prima di una tempesta e Dovan ordinò ad Andrew di avviare al minimo i motori dell’imbarcazione. La banchina si allontanò velocemente, Rifean rimase per poco a osservare la partenza della figlia per poi confondersi tra i colori vivaci delle case e dei tetti che iniziavano a profilarsi sempre più in lontananza. Greg raggiunse Dovan a prua, davanti a loro, a qualche miglio di distanza, si ergeva come una torre, la complessa e perlacea sagoma del Leviros. «Accetteresti un consiglio, Greg?» chiese Dovan notando la sua presenza con la coda dell’occhio. Greg rimase in silenzio per alcuni secondi prima di rispondere. «Certo, maestro». Dovan non distolse lo sguardo dalla base marina. «Samarlec non sa niente della tua Pietra. Se sarà necessario combattere ti prego di non strafare. Ignoro il motivo per cui Lord Astaroth abbia taciuto su una scoperta così importante. Per il momento, credo sia meglio non rischiare». Greg annuì. «A meno che Lord Astaroth non sia presente credo sia impossibile che non riesca a farmi notare. Lui sa cosa sono in grado di fare».
Dovan si voltò e lo fulminò con lo sguardo: «Tu prova a are inosservato. Questa volta non sei da solo, possiamo fronteggiarlo tutti insieme, se necessario» trasse un profondo sospiro «Dovrebbe risultare comunque più debole dopo lo scontro che avete avuto nel vulcano». Greg rimuginò su quell’ipotesi e si disse d’accordo con il maestro. Alle loro spalle Deidar e Mark si equipaggiavano delle loro spade, Yasheira su richiesta di Lisa, le stava mostrando Simurgh mentre Andrew sedeva pensieroso davanti alla consolle di comando. Dovan parlò di nuovo: «Credevo non avresti accettato di far venire anche Mark, Andrew e Lisa. Da come ti eri espresso immaginavo sarebbero restati a terra». Greg sospettava che gli sarebbe stata posta una domanda simile, prima o poi «Francamente, l’idea era quella». «Cos’è intervenuto a cambiare il tuo parere?» indagò Dovan, perplesso. «Un inaspettato scambio di opinioni, maestro» si voltò e guardò uno per uno i suoi tre compagni selthoniani «Per quanto non direttamente coinvolti nella guerra, sono abitanti di questo mondo e, come tali, hanno tutti i diritti di combattere per la loro libertà». L’espressione perplessa di Dovan si risolse in un breve sorriso. «Sei cambiato, Greg Oltan». «Prima o poi sarebbe dovuto accadere» rispose a sua volta sorridendo. Poco dopo, con alcune esclamazioni, Andrew distolse tutti dalle loro occupazioni. «Gli incrociatori si stanno avvicinando. Presto saremo agganciati». La previsione di Andrew si avverò poco dopo. I due incrociatori Scylla comparvero con i loro scafi slanciati, dai quali, impossibile non notarlo, prendevano forma dei cannoni, le cui bocche, decorate con numerose file di denti, erano tristemente note in tutto l’Oceano. Le bocche Carydis roboarono non appena le due imbarcazioni si furono affiancate alla Darlidan. L’ufficiale di comando comunicò agli occupanti di spegnere i motori e di non tentare niente di sciocco poiché le navi con a bordo le
donne e i bambini sarebbero rimaste ancora sotto tiro. Greg si sedette, cercando di apparire quanto più normale e privo di importanza fosse in grado di sembrare. I soldati saliti a bordo della Darlidan lo degnarono appena di uno sguardo, controllarono che fossero tutti presenti e una volta assicurata la nave, partirono alla volta del Leviros. Nessuno di loro fu legato o in alcun modo privato delle armi: la minaccia della vita sotto il tiro dell’artiglieria pesante fungeva da ottimo deterrente contro ogni forma di violenza. Nel corso dell’ultimo tratto che li separava dal Leviros tutti erano rimasti immobili nelle loro posizioni, come congelati. Dovan, l’unico sorvegliato a vista, aveva chiuso gli occhi. Gli altri, per quanto immobili, avevano cercato di assumere un’espressione contrita, le guardie avrebbero potuto tranquillamente definirli terrorizzati. La bocca del Leviros si spalancò davanti a loro come un enorme ventaglio che si ritrae: sebbene quasi tutti, tranne Yasheira, l’avessero già visto da molto vicino, nessuno vi era ancora mai entrato e poteva immaginare cosa esso contenesse. Attorno a loro si levavano superfici e piattaforme di perla e cristallo, nell’immenso bacino di carenaggio della base svettavano le sagome delle tre ammiraglie della flotta Imperiale, attorniate come madri da una miriade di incrociatori Scylla, torpediniere Thriton e navi d’assedio di classe Hydra. Infine, quasi all’unisono, esse si avviarono, riempiendo il Leviros di un rumore assordante e, lentamente, iniziarono la loro fuoriuscita, pronte a disporsi all’esterno della base, a formare un impenetrabile circolo protettivo intorno ad essa. O, in alternativa, esso costituiva un’ottima precauzione contro le possibili fughe. Il frastuono cessò dopo un interminabile numero di minuti, durante i quali anche coloro che li avevano presi in custodia avevano cercato di tapparsi le orecchie. Quando il rombo dei motori divenne accettabile, Greg lasciò ricadere le mani lungo i fianchi, si voltò e vide, attraverso lo spiraglio dell’enorme bocca d’ingresso, la flotta intenta a disporsi a raggiera. Si chiese dove fosse finito il Cancelliere, se avesse perso la fretta che aveva animato le sue azioni da molto tempo a quella parte. Quando, poco dopo, vide le guardie mettersi sull’attenti e, dall’alto, staccarsi una piattaforma che lentamente calava su di loro, trovò risposta alla sua domanda.
Dovan aprì gli occhi poco prima che la piattaforma si posasse di fianco alla nave: su di essa, dopo molti anni, aveva modo di ritrovare coloro che, insieme a Samarlec, avevano fatto sì che egli fosse estromesso dal Palazzo Imperiale e spogliato del titolo che gli spettava. Nel complesso il gruppo aveva in se qualcosa di grottesco: ognuno, abbigliato nelle alte uniformi e decorato dei più grandi riconoscimenti imperiali, indossava un cappuccio che copriva il volto per metà. Per quanto la scena, nella sua malcelata pomposità, fosse volta a incutere un timore ancora maggiore nei presenti, il maestro non poté fare a meno di considerarla ridicola. Tenne per se quei pensieri mentre uno dopo l’altro, scendevano dalla piattaforma. Dovan, più vicino degli altri, li riconobbe uno per uno ma quando la sua mente arrivò a conteggiare il numero nove e, con stupore, si accorse che in quell’ultimo non vi era traccia di attributi demoniaci o di iridi bianche, il suo petto ebbe un sussulto. Si voltò di scatto verso Greg che sapeva essere a qualche o da lui: il ragazzo aveva gli occhi sbarrati e le labbra tremavano al pari delle sue mani. «Padre» disse, in un soffio che solo lui fu certo di udire. Uno dopo l’altro gli Eptarchi levarono il loro copricapo e lo stupore, come poco prima aveva assalito Greg, prese anche Andrew. Davanti a lui, a pochi metri, reale come le assi di legno sulle quali poggiava i piedi stava, con la sua inconfondibile capigliatura e la notevole altezza, suo padre. Enif Olinori si sporse verso l’unico ancora incappucciato che, indicando Greg e Andrew fece sì che le guardie presenti sulla Darlidan li prelevassero. Greg procedette lentamente, l’altro quasi non si mosse, i soldati lo trascinarono in prossimità della piattaforma sospesa. In pochi istanti si trovarono di fronte ai loro padri, un incontro inaspettato che gli fece morire le parole in gola. Cosa stava accadendo? Poco distante, Samarlec tolse infine il cappuccio e fece alcuni i in avanti. «Sono lieto di aver potuto favorire questa riunione familiare. Adesso spero che potremmo risolvere la situazione nel minor tempo possibile. Ho un impero da ricostruire» disse in tono melodrammatico mentre si avvicinava a Dovan.
Il maestro smise di trattenersi e la sua voce tuonò: «Sei un impostore! Non salirai mai sul trono, non ti spetta». Il sorriso di compiacimento sul volto del Cancelliere non sparì, si accentuò anzi fino ad assumere le fattezze di un ghigno sardonico. «Urla, Dovan, urla con quanto più fiato hai in corpo. Sei finito, ormai» sputò ai suoi piedi poi alzò le braccia «Qui dentro non ti ascolterà nessuno! Tuo padre non può più intervenire per concederti la grazia, tienilo a mente». Greg guardò suo padre, poi Andrew che muto, osservava a sua volta immobile il padre. «Cosa sta accadendo?» si lasciò sfuggire poco dopo mentre, colto dallo stesso immobilismo, vedeva Samarlec girare attorno a Dovan come un avvoltoio su una carcassa. A rispondergli fu suo padre, la voce appena un sussurro. «Il Cancelliere ha concesso la grazia a te e ad Andrew, potremo tornare a Selthon». Enif Olinori, dal canto suo annuì mentre il figlio diventava paonazzo. L’Ingegnere Imperiale estrasse un comando da una piega dell’uniforme e schiacciò un bottone. «Dobbiamo andare via da qui» disse poi aspettandosi che il suo invito fosse raccolto come un ordine. Andrew si voltò, la sua voce gli raschiava la gola. «Noi non andiamo da nessuna parte! Mi hai mentito, hai mentito a mia madre!» Enif ebbe appena il tempo di tappare la bocca al figlio, si chinò e gli sussurrò qualcosa nell’orecchio che parve calmarlo. Il Cancelliere aveva notato appena quella scena e, con un o lento simile a quello di una processione, si diresse verso Deidar e Yasheira, oltreando senza curarsene Lisa e Mark. «Altezze, spero di non avervi incomodato troppo nel farvi giungere fin qui. Spero, altresì, che siate dunque pronti a trattare la resa incondizionata dei vostri Regni». La risposta di Deidar e di Yasheira fu unanime ed un poderoso “no” si levò dalla poppa della Darlidan. «Non posso tornare a Selthon, padre, è troppo rischioso» bisbigliò Greg. Suo padre lo guardò per qualche istante mentre le labbra prendevano una piega
stranamente simile ad un sorriso, il primo da molto tempo. «Lo so, ma non potevo fare altrimenti». Il padre di Andrew colse quella conversazione proprio mentre il rifiuto dei due principi era udito da tutti. «E dobbiamo farvi ritorno prima possibile» sibilò l’ingegnere mentre, infastidito, premeva nuovamente il pulsante. Qualcosa, attorno a loro, doveva essere cambiato poiché due degli eptarchi si mossero per avvicinarsi a Samarlec e lo stesso fecero le guardie presenti. «Molto bene» disse dopo aver meditato la risposta «Date le circostanze e il rifiuto di convenire ad un accordo soddisfacente per tutti, credo mi rimanga ben poco da fare» concluse con voce dispiaciuta, credendo almeno di poter salvare le apparenze. Il tono della voce, così come l’espressione, mutarono nel corso di un battito di ciglia. «Uccideteli. Tutti». Deidar e Yasheira non se lo fecero ripetere una volta di più, entrambi sguainarono le armi, occupandosi dei soldati che gli erano piombati addosso dopo l’ordine del Cancelliere. Due eptarchi, maghi imperiali, imbracciati i loro bastoni gemmati, evocarono due mejrama scagliandole verso Dovan che, alzando un halos le respinse efficacemente. Mark scattò davanti a Lisa, estraendo la spada dal fodero, riuscendo persino ad invocare una mej per fronteggiare le nuove guardie appena piovute sulla Darlidan da una serie di piattaforme. Gli eptarchi rimasti a guardare si imbarcarono in tutta fretta su una di esse non appena si fu liberata del suo carico di soldati e si sollevarono dalla nave. Solo uno era rimasto, accanto all’ingegnere imperiale, sussurrandogli qualcosa all’orecchio. Greg si stufò di restare a guardare, scavalcò il padre e, alzando le mani, scatenò sui soldati che assalivano Mark e Lisa una dandaruna. Poco dopo, le saette scatenate dall’intervento di Greg, attirarono l’attenzione dei due maghi che, infastiditi nel constatare che più d’uno su quell’imbarcazione era in grado di utilizzare le arti magiche, scatenarono anche verso di lui due mejrama. Anche il Cancelliere doveva essersi stufato di restare a guardare in disparte la scena: si liberò del mantello che avrebbe potuto impacciare i suoi movimenti poi, usando un tono di voce insolitamente alto si rivolse ai due maghi: «Occupatevi voi di quel ragazzo. Dovan è mio».
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Lo scontro si interruppe da entrambe le parti mentre il Cancelliere si posizionava di fronte a Dovan. Dopo quella tregua, durata appena lo spazio di qualche secondo, Samarlec iniziò a divampare, coprendosi di fiamme che lo avviluppavano continuamente. «Ebbene, pare esser giunta la resa dei conti» urlò mentre l’intensità del fuoco cresceva a dismisura. «Non sai da quanto la attendo» gli urlò in risposta Dovan mentre le acque presenti nel bacino di carenaggio si sollevavano per avvolgere il suo corpo. Greg ebbe appena il tempo di notare che il suo maestro si era messo all’opera mentre, invocando una mejraba, faceva sì che le fiamme degli incantesimi che i due maghi gli lanciavano contro andassero ad aumentare la potenza del proprio. Di nuovo sulla schiena di Greg comparvero, torreggiando sul suo corpo ma senza apparentemente gravargli sulle spalle, le braccia di Forneis ed esse, obbedendo al suo comando, colpirono una piattaforma prossima ad abbordare col suo carico la Darlidan. Deidar, deciso a are al contrattacco piuttosto che aspettare gli avversari con le spalle al muro, si era arrampicato sull’albero maestro della nave e da esso, con un balzo difficilmente comparabile con quello di un normale essere umano, atterrò su una piattaforma, affrontando i nuovi avversari tutti insieme. Yasheira, accorsa in aiuto di Lisa e Mark, faceva schioccare la Rosencrux causando impedimenti alle guardie, per poi colpire col pugnale che saldamente impugnava nell’altra mano. Il suo Simurgh non dava tregua ai soldati, calando su di loro con letale precisione con il suo becco e gli artigli d’acciaio. I due eptarchi, compreso ormai di doversela vedere contro un avversario formidabile, diedero prova della loro abilità, scatenando il fuoco continuo di due mejraba contro Greg che, senza saperlo, si era trovato quasi contro le spalle di Dovan. Il maestro, in un continuo botta e risposta con Samarlec, notò appena in tempo
l’allievo alle proprie spalle ed evocò un halos major attorno ad entrambi per parare tutti i colpi. La nave fu squassata dalle esplosioni delle due mejraba e dall’impatto del potente attacco di Samarlec contro la barriera dell’incantesimo, il Leviros sembrava al suo interno attraversato da una tempesta. Greg, dissoltosi l’incantesimo di Dovan, si gettò nuovamente sui due avversari, guardando prima in direzione di dove aveva lasciato suo padre e Andrew. Li vide imbarcarsi sulla piattaforma che l’Ingegnere doveva aver fatto arrivare a seguito di insistenti pressioni di tasti sul comando che portava nascosto nella veste. Mentre evitava un nuovo attacco dei due eptarchi, questa volta facendo sì che due colonne d’acqua si abbattessero su di loro dopo essersi alzate dal bacino del Leviros, scambiò una lunga occhiata con il padre mentre saliva sulla piattaforma sollecitato da Andrew. Si rituffò nello scontro, i due maghi imperiali si erano sollevati entrambi dalla nave evitando l’attacco precedente, pronti a preparare la controffensiva. Greg lasciò che l’acqua ricadesse sulla Darlidan, subito vaporizzata tutto intorno dalle fiamme che nuovamente divamparono sul suo corpo, prendendo la forma e la forza delle braccia di Forneis. I due poderosi arti, riprendendo la forma fiammeggiante, si allungarono verso i due maghi ancora al sicuro e li colpirono come mosche, facendoli poi cadere in acqua. Nel frattempo Dovan e Samarlec erano ad un punto fermo: l’uno non riusciva a prevalere sull’altro in un perfetto gioco di equilibri. Per quanto entrambi stessero combattendo per lo stesso fine, l’annientamento dell’altro, non erano apparentemente in grado di prestar fede alle reciproche promesse. «Il tuo allievo si sta comportando bene» disse Samarlec boccheggiando per riprendere fiato dopo il suo ultimo attacco. «Saresti sorpreso quanto me se lo conoscessi» ribatté Dovan il volto madido di sudore. «Anche se ucciderai me, anche se dovessi commettere l’imprudenza di uccidere l’Imperatore, tu non avrai mai la corona Imperiale». Samarlec smise di respirare mentre il suo volto diveniva una maschera di odio. «Non sono interessato a sapere quanti dovranno morire per mano mia, stupido! L’impero è mio, Selthon è mia! Preparati Dovan!» allargò le braccia, assumendo una posa che raramente Dovan aveva avuto occasione di osservare.
«INVOCO IL POTERE DEI QUATTRO SPIRITI AFFINCHE’ MI CONCEDANO L’INCANTESIMO PROIBITO» urlò fuori di sé mentre Dovan, comprendendo a cosa stesse per andare in contro, si preparava a sua volta a contrattaccare. Il suo corpo veniva scosso da brividi, scariche e vampe di fuoco. Greg chiamò a sé i suoi compagni, fino a quel momento impegnati con gli assalitori selthoniani, ringraziando che in quel momento Andrew e suo padre fossero già in salvo. Greg fu certo di vedere la schiena di Samarlec contorcersi e da essa prendere forma quattro poderose braccia e lo stesso, sebbene fosse intento a preparare la difesa, era sicuro di aver visto accadere a Dovan. Pur di annientarsi a vicenda avevano scelto di ricorrere a qualcosa di indicibile, un’incantesimo che, prima di essere utilizzato, avevano dovuto esser certi fosse l’unica speranza di mettere fine allo scontro. Intimando a Deidar e a Yasheira di avvicinarsi ancora di più a lui riuscì ad evocare un halos major: i due Tetratherion, l’incantesimo proibito che univa il potere dell’acqua, del fuoco, dell’aria e della terra, si abbatterono con tutta la loro forza e potenza su entrambi i maghi, scagliandoli agli estremi opposti della Darlidan. La nave, miracolosamente ancora intatta, beccheggiò colpita da onde colossali, il boato prodotto dallo scontro percorse tutta la struttura del Leviros, facendolo tremare. Il tintinnio dei vetri e l’eco dell’esplosione si affievolirono lentamente. Samarlec, ancora a terra, iniziò a ridere, reclinando la testa. Per quanto stremato dallo scontro, aveva ancora la forza di parlare: «Non ti sei accorto di niente, Dovan? Sai quanto me che se tutto fosse andato a buon fine nessuno di noi due sarebbe ancora vivo». Dovan, circondato dai suoi allievi, fu delicatamente sollevato fino al busto per dargli modo di replicare. «È un peccato vedere che così non è stato. Se ti avessi portato con me mi sarei potuto ritenere soddisfatto». Il Cancelliere smise di ridere. «Non avverti anche tu questa strana debolezza?» Dovan iniziò a tastarsi il petto, Samarlec, sollevatosi sui gomiti, doveva averlo visto mormorare qualche parola e, dopo aver riso ancora di gusto, si riempì i polmoni. «Sì, esatto, è giunto il momento anche per Zolon!»
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Nessuna porta chiusa, nessun impedimento, nessuna resistenza: la salita di Ekates e Minoxe all’interno di Muroiam Som, la tetraedrica costruzione che con la sua mole dominava la città di Zolon, non fu in alcun modo rallentata. Lo stesso avvenne all’interno della costruzione di Lunoctio, i saggi sembravano tutti scomparsi. «O nascosti» aveva commentato Ekates con disappunto. «È tutto troppo semplice. Nessuno ha interrotto la nostra missione, in questo posto esiste un’unica strada e non è possibile sbagliarsi» aveva sentenziato poco dopo Minoxe mentre la discesa all’interno della costruzione cristallina proseguiva velocemente. Il sole iniziava a declinare dietro le dune del Deserto Cremisi, Ekates si era stretta nelle spalle, noncurante dei dubbi del fratello. «Si sono semplicemente nascosti nel più profondo recesso, sperando di poter ritardare la loro fine» lo rassicurò lei «Dopotutto con quale forza molti di loro si potrebbero opporre? Non hai notato che solo in pochi hanno un aspetto giovane?» Minoxe concordò su quel punto. Ekates, da sempre dotata di un acume maggiore rispetto al fratello, non aveva concluso le sue considerazioni, sorrise, scoprendo i denti, soddisfatta. «Ad ogni modo, se fosse stato assolutamente necessario fronteggiare un esercito, nostra madre ci avrebbe fornito una legione di goroi e, in quel caso, tutto si sarebbe risolto con un assedio. Ma questa città che mai si ferma nel suo vorticare sarebbe stata imprendibile anche con un esercito degno di tal nome». Il fratello stavolta dissentì. «Se ci avesse fornito un numero considerevole di Mynothork, piuttosto che dei goroi, avremmo potuto risolvere anche il problema del movimento». Ekates si fermò e sfiorò con le mani le spalle del fratello. «Sai che un’impresa ancora più ardua attende la nostra gente. Non dirmi che inizi a dubitare della nostra missione e che tutto il tuo ardore si è già spento» lo rimproverò lei. Minoxe levò la spada, mostrando la lama alla sorella al punto di appoggiarla contro il collo bianco. «Non avrò pace finché questa spada non verrà nutrita. Quando potrà abbeverarsi delle vite che le sono state promesse, quel sangue finirà per cancellare anche i miei sospetti».
Procedettero ancora a lungo nel silenzio, incontrarono numerose porte, vi entrarono solo per trovarsi di fronte a stanze coperte di pergamene, libri e rotoli, senza traccia di esseri viventi. L’ininterrotta parete di Lunoctio mutò quando prese la forma di un corridoio costeggiato di colonne cristalline con un colossale arco che si stagliava al suo termine. Nessuno dei due demoni perse tempo a contemplare la complessa architettura del luogo, le decorazioni raffinate scolpite nella volta, le colonne, somiglianti a figure umane penitenti. Quando oltrearono l’arco, davanti a loro, inginocchiati e disposti ordinatamente a file, vi erano coloro che abitavano la libera Città di Zolon, i Saggi che per secoli avevano custodito il sapere e la memoria degli esseri umani, ben prima della fondazione del Glorioso Impero di Talarana. Il tempo aveva seguito il suo continuo scorrere, l’Impero era caduto, i Regni avevano combattuto e sofferto, ma avevano anche prosperato e gioito. L’uomo, lentamente, era cresciuto dimenticando, fino a credere di possedere il completo dominio di quel piccolo mondo alla fine dell’Universo. Loro, i Memori di Zolon, custodi del sapere accumulato in quei secoli, erano rimasti invariabilmente presenti, al pari degli Angeli Dorati nel cielo o dei Demoni nei Domini Sotterranei, avevano ampliato quel sapere, conservandolo per il giorno in cui l’uomo avrebbe potuto veramente dirsi libero. Adesso, tutti a capo chino, con il collo scoperto in segno di volontario sacrificio, erano pronti ad accettare con fermezza la morte che per secoli era stata tenuta lontano da quelle dimore, rasserenati in quell’ora fatale, dalla certezza che non uno dei loro papiri, nessuno dei loro libri, sarebbe stato in qualche modo danneggiato. Ekates e Minoxe avanzarono increduli tra quelle due ali tinte di arancio che culminavano infine verso un singolo individuo che, in piedi, sembrava attenderli. Alle sue spalle, incastonata in una teca di Lunoctio, splendeva ruotando la Pietra. I due intrusi affrettarono il o, abbandonando ogni traccia di stupore, Minoxe levò la sua lama ed Ekates lasciò che i suoi capelli iniziassero a contorcersi in previsione di uno scontro con quei sacchi di pelle avvizzita.
Mosmaimonid, scostandosi appena, parlò con voce calma. «Nessuno di noi è intenzionato a combattere. Siamo vecchi e rassegnati ad affrontare con serenità la fine che deciderete di darci». Se Minoxe era rimasto infastidito dalla mancanza di un vero e proprio combattimento, quelle parole lo fecero infuriare ulteriormente e, tirando indietro il braccio, trafisse il fastidioso vegliardo. Non uno dei saggi levò la testa, ferendo Minoxe ancor più nell’orgoglio. Solo due, particolarmente vicini, singhiozzarono sommessamente. Ekates, ruotando velocemente la testa, avviluppò i suoi capelli attorno ai due e li fissò con espressione soddisfatta mentre aumentava la stretta. Mosmaimonid, dopo essersi afflosciato per qualche secondo, fu sollevato dal poderoso braccio di Minoxe. Era stato ferito ma non mortalmente. «Cosa aspettate? Non vorrete fare attendere i vostri Signori? Prendete pure la Pietra, nessuno ve lo impedirà. Starà però a voi curarvi delle conseguenze delle vostre gesta» aggiunse con rimprovero. Il saggio sapeva che così facendo non avrebbe fatto altro che acuire le proprie sofferenze, ma doveva convincere i demoni ad agire al più presto possibile. «No, vecchio, sarai tu a prenderla per noi» ribatté a sorpresa Ekates mentre scagliava i due corpi attraverso la sala. Mosmaimonid, malgrado il dolore acuto e la lenta e progressiva perdita del sangue, trovò la forza di rispondere e di sorridere. «Non cambierà niente se sarà la mia o la vostra mano a sottrarre la Pietra dalla sua dimora. Se sarò comunque io a farlo potrò dirmi felice che un oggetto così sacro non venga insozzato dai vostri artigli». Minoxe aveva ascoltato abbastanza: estrasse la spada del ventre del vecchio e con un gesto altrettanto preciso e fulmineo lo attraversò di nuovo, inferendogli un colpo letale. Pochi istanti dopo Mosmaimonid era a terra, privo di vita. La mano di Minoxe attraversò la teca, esitò mentre, così piccola ed insignificante rispetto al suo arto, la Pietra brillava senza cessare di ruotare su se stessa. Poi, dopo averla appena sfiorata per convincersi che non si trattasse di un’abile illusione o di una trappola, il bagliore scomparve, oscurato dalla stretta di cinque dita.
I due fratelli esultarono di gioia mentre si avano la Pietra di mano. Numerosi colpi di tosse provenienti dal vecchio che Minoxe aveva creduto morto, interruppero i loro festeggiamenti. «Vedo che nei secoli a voi demoni non è pervenuta ombra di saggezza. Il vostro gesto avrà la punizione che merita. Il tempo non perdona chi lo rifugge. Vi seppellirà con noi». Minoxe fu sul punto di colpirlo di nuovo per metterlo a tacere definitivamente ma Ekates lo fermò di colpo, trattenendogli il braccio col la stretta dei suoi capelli. Non diede spiegazione di quel gesto al fratello ma interrogò di nuovo il vecchio. «Parla, umano, cosa vuoi dire?» Mosmaimonid si accasciò definitivamente, chiudendo gli occhi. Il suo secondo, si alzò dal suo posto e parlò. «A Zolon il tempo è stato tenuto lontano per secoli grazie al potere della Pietra nelle vostre mani» li osservò in silenzio, i due demoni se la stavano ando di mano, cercando di capire cosa fare. «Ora che essa non agisce più, il tempo con la sua forza penetrerà qui dentro, distruggendo coloro che vi abitano. E voi non subirete sorte diversa» disse sorridendo. Minoxe, recepito il senso di quelle parole, strappò la Pietra dalle mani della sorella, cercando di riposizionarla al suo posto. «A niente varrà quel tentativo, demone!» lo canzonò il saggio. «Osserva, il tempo ha già varcato i nostri confini» disse indicando loro l’esterno della città, le case che si sgretolavano, le piante che progressivamente, in un’alternanza frenetica del loro ciclo vitale, crescevano, fiorivano e apivano per poi germogliare ancora. «Solo pochi istanti ed il tempo entrerà anche qui. Non affannatevi. Non provate a fuggire. L’eternità possiede ali e piedi più veloci dei vostri». Ekates e Minoxe erano come impazziti: dimenticando la missione, nelle orecchie la voce lenta e divertita del saggio, si dibattevano, provavano a scalfire le superfici di Lunoctio della Piramide senza ottenere risultati. Ekates si accasciò a terra, lamentando la mancanza d’aria, qualcuno dei saggi iniziò a tossire e a perdere conoscenza, la lama di Minoxe si infranse e il demone iniziò a perdere sangue.
Mentre anche il saggio in piedi si accovacciava per terra, dopo essere invecchiato di decine di anni in appena pochi secondi, un potente vento, una corrente che proveniva da tutte le direzioni squassò la costruzione Tetraedrica, penetrando al suo interno e polverizzando ogni essere vivente al suo interno. La Pietra rimase per un tempo indefinito a mezz’aria, galleggiando: tutto sembrava ruotarle vorticosamente attorno fino a quando essa non si illuminò nuovamente, producendo un bagliore accecante che, propagandosi dalla Sala, attraversò il Lunoctio fino a diffondersi in tutta la Piramide. Nel crepuscolo, la Muroiam Som brillò come una stella nel deserto. La luce che irradiò fu osservata a centinaia di chilometri di distanza. La luce raggiunse immediatamente Ivas Naren e attraversò il Leviros, fu osservata a Renodia dal Palazzo Reale e a Selthon tale evento fu subito giudicato come un cattivo presagio. Dall’esterno delle stanze del Baiamondo nelle quali risiedeva la Sublime, qualcuno fu certo di sentire un urlo soffocato. Assisa sul suo trono Lilith spendeva una lacrima per i figli che aveva sacrificato e le fiammelle riprendevano lentamente a rischiarare la stanza dopo essersi tutte spente. Nell’oscurità che la circondava e che pareva volesse avvolgerla per consolare il suo bieco dolore lampeggiarono due occhi di brace.
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Greg fu l’ultimo ad allontanarsi da Dovan. Il maestro, recuperato il bastone allungando il braccio, l’aveva piantato saldamente a terra e, su di esso, si era issato. Non avrebbe avuto bisogno di uno specchio per capire ciò che aveva turbato i suoi allievi: gli era bastato guardarsi le mani, coperte di rughe e macchie, mentre maneggiavano il bastone, era stato appena sufficiente abbassare lo sguardo per osservare la barba folta e candida che si srotolava sul petto. Se anche avesse avuto bisogno di un’ulteriore conferma, era certo che gli sarebbe bastato guardare la figura che si stava alzando a qualche metro da lui. All’inizio aveva creduto che la sua vista fosse notevolmente peggiorata e che i suoi occhi necessitassero al più presto di un paio di lenti per vedere. Poi,
malgrado i ripetuti tentativi di mettere a fuoco la figura strizzando gli occhi, si era dovuto convincere che ciò che stava vedendo non fosse attribuibile all’invecchiamento. Samarlec non era più umano di quanto si potesse considerare un goroo un essere umano. Le sue fattezze, deformi e contorte, erano appena riconoscibili, la pelle annerita in alcune parti, il volto sul quale resisteva indelebile il suo sorriso simile ad una maschera grottesca della quale solo gli occhi sembravano realmente vivi. Dovan però non si lasciò spaventare anzi fu il primo a parlare, la voce affaticata strascicava inizialmente suonando così estranea persino al suo proprietario. «Non ti aspettavi niente di simile, non è vero? Questo è stato il prezzo del tuo aiuto?» Samarlec digrignò i denti e rise con un tono stridulo così diverso da quello perfettamente controllato che per anni aveva imparato ad utilizzare in politica che fece trasalire Dovan. Quando terminò si levò in piedi, mostrando come il suo corpo fosse stato deturpato in ogni sua parte: con falsa noncuranza tirò l’ampio mantello a coprire le sue membra, da esso attraverso uno squarcio ne fuoriuscì un braccio nero che terminava con artigli. «Per una volta hai ragione, non ti sbagli» il suo tono crebbe al pari dello stridio ed il Leviros echeggiò come se fosse stato invaso da uno stormo di corvi. «Non solo presto sarò Imperatore ma quando li avrò aiutati a far rinascere il loro Signore, sarò consacrato Pari!» Dovan serrò la presa, Greg fece qualche o in avanti ma fu immediatamente bloccato da Yasheira.«Non fare idiozie» gli sussurrò aspra. Greg annuì, ma rimandò subito lo sguardo al suo maestro: osservò la figura china mentre assumeva di nuovo la posizione di attacco, piccola al confronto della deformità del Cancelliere, grande nel coraggio che non smetteva di dimostrare. Nessuno si era accorto della pedana scesa lentamente fino a toccare la Darlidan negli stessi istanti in cui i due maghi, un tempo compagni, prendevano di nuovo posizione per portare a termine il loro scontro e Samarlec urlava il fine delle sue folli azioni.
Se però la discesa era ata inosservata, fu colui che era appena arrivato sulla nave a reclamare su di sé l’attenzione. Furente, col volto paffuto paonazzo, stretta nella mano la pergamena della Profezia, l’Imperatore Levian Dorhanaelius Aidalar VII era appena giunto sulla Darlidan.
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L’Autore Nato e cresciuto a Firenze inizia a scrivere alle elementari anche se alcuni tentativi di scarabocchi sono documentati fin dall’asilo. Famoso per aver lasciato segni pittorici del suo aggio ovunque (fogli, banchi, persone), crescendo si apiona a troppe cose per sceglierne solo una quindi si iscrive e si laurea presso la Facoltà di Design dove può esprimere e sperimentare il suo essere poliedrico. Inizia a scrivere il primo libro della Saga a sedici anni ma inizia a crederci solo dopo averlo cestinato e ricominciato dall’inizio per la quinta volta. Attualmente frequenta il primo anno di laurea magistrale in Architettura e sta lavorando al terzo romanzo della Saga de Le Pietre di Talarana e a un romanzo breve per la Saga Memorie di Talarana.
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