Alessandro H. Den
Le Pietre di Talarana I - L'Ombra del Tiranno
ISBN: 9781301676200
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Indice dei contenuti
Le Pietre di Talarana I Prequel Il Cacciatore di Pietre Prologo Parte Prima Capitolo I Capitolo II Capitolo III Capitolo IV Capitolo V Capitolo VI Capitolo VII Parte Seconda
Capitolo VIII Capitolo IX Capitolo X Capitolo XI Capitolo XII Capitolo XIII Capitolo XIV Nota Biografica
Le Pietre di Talarana I
L'Ombra del Tiranno
Alessandro H. Den Contenuti extra Le Pietre di Talarana - Il Cacciatore di Pietre
PUBBLICATO DA: Alessandro H. Den on Narcissus.me Le Pietre di Talarana Copyright © 2006-2016 by Matteo Berilli
Prequel
Le Pietre di Talarana Il Cacciatore di Pietre
Alessandro H. Den
PUBBLICATO DA: Alessandro H. Den su Narcissus Le Pietre di Talarana – Il Cacciatore di Pietre Copyright © 2012-2015 by Matteo Berilli
Il Cacciatore di Pietre
Sarion Arneil era un codardo, uno dei peggiori in circolazione. Era anche un mercante e questa professione, se abbinata alla sua pessima flemma, era di per sé sufficiente per renderlo inviso al prossimo. Come se non bastasse era anche arrogante, presuntuoso e di aspetto discutibile: non erano in pochi a volgere lo sguardo dall’altra parte ogni volta in cui varcasse la soglia dell’Associazione dei mercanti. Il signor Arneil non solo sapeva tutto questo, anzi, aveva contribuito lui stesso ad aumentare la mole di dicerie sul proprio conto. Almeno per i primi tempi nessuno si era aspettato che, con lo scarso capitale di cui era in possesso, riuscisse a fare buoni affari. Nel giro di due anni invece era stato in grado di triplicare i suoi introiti, comprare nuove navi, rendersi amico di personalità di spicco e ancora più inviso ai propri colleghi. Sarion Arneil sapeva essere spietato e aggressivo, guidato da quello che era stato definito, forse non tanto a torto, come il più incredibile fiuto per gli affari che si fosse visto a Selthon negli ultimi cinquant’anni. In pochi trascuravano il fatto che solo la metà dei suoi traffici fossero alla luce del sole: tutti gli altri avano larga parte del proprio tempo a chiedersi perché, della restante parte, non ci fossero tracce. Commerciava ogni genere di bene di lusso ma sembrava che, negli ultimi anni, la sua specialità fossero diventate le pietre preziose. Raramente erano stati visti nell’impero diamanti grandi come quelli che riversavano i suoi forzieri e non vi era dama dell’alta società che non desiderasse ardentemente possedere orecchini o tiare di rubini del Deserto Cremisi. Tutto si era risolto a una semplice questione di prezzo: non c’era domanda alla quale Arneil non sapesse rispondere con un’adeguata offerta. Amici potenti, molto potenti erano alle sue spalle e col are degli anni e il susseguirsi di strani affari, questo mistero si era fatto tanto sottile da essere ormai considerato come un fatto certo. La flotta di Arneil era stata l’unica, nel corso delle guerre del Varnelio, a trovare un canale privilegiato di vendita con Naren riuscendo così a importare a peso d’oro i costosi sigari di Bobolcan a Selthon. Certi misteri, o miracoli come si era detto, non si dimenticano facilmente. Erano in molti a volerne sapere di più e il
giorno della resa dei conti non sembrava particolarmente lontano. Anzi, nonostante il mercante mantenesse un aspetto controllato a bordo della vettura privata su cui stava viaggiando, dentro di sé era sicuro che la fine dei giorni d’oro fosse più vicina di quanto potesse pensare.
***
La sera prima, il globevisor del suo studio aveva ronzato fastidiosamente per quasi venti minuti prima che, stordito dal vino, si decidesse, controvoglia e col bicchiere ancora in mano, ad accettare la chiamata. Il volto severo del Cancelliere fu sufficiente per far sparire il rossore dalle guance ed ebbe anche la disdicevole conseguenza di far cadere il prezioso Sangue di Tetragoon su un non meno raro tappeto. Avrebbe volentieri imprecato ma un tappeto rovinato e un costoso vino sprecato non erano niente in confronto allo sguardo di ghiaccio di uno degli uomini più potenti dell’impero. Questo, nonostante la sua coscienza fosse momentaneamente attenuata, gli restituì il buon senso necessario per farlo esibire in uno sgraziato inchino. Il Cancelliere Samarlec aveva stirato le labbra di lato, come era solito fare nei casi in cui gli fosse necessaria un po’ di condiscendenza e si schiarì formalmente la gola prima di parlare. «Ho sentito dire molte cose su di lei, Signor Arneil. Cose bizzarre e, a tratti, offuscate che sembra siano a lungo sfuggite all’occhio dell’amministrazione. Alcuni dicono che lei sia un criminale, altri decantano a mezzabocca il suo fiuto per gli affari, parlano di pietre preziose in cambio di schiavi, per non parlare di come il commercio poco ortodosso di Bobolcan abbia contribuito enormemente ad accrescere la sua fortuna. Ciò che mi chiedo» e qui la sua espressione si fece truce mentre ava in rassegna con malcelata noncuranza alcuni fogli «mentre osservo un uomo in là con gli anni con una veste da camera sulla quale posso riconoscere almeno cinque macchie di altrettanti vini diversi, sudato e molliccio e con lo sguardo che stenterei a non definire confuso…Ciò che mi chiedo è quale delle versioni che ho sentito su di lei corrisponde a realtà. La attendo domani, nella mia residenza privata. Una vettura erà a prenderla. Per allora, oltre a mantenere la riservatezza che pare sia in grado di garantire, le consiglio di farsi
trovare in uno stato decoroso». La conversazione si era chiusa così come era iniziata e il signor Arneil era stato appena in grado di sbiascicare qualche sillaba, prima di correre in bagno e rigettare la cena con la stessa irruenza con cui l’aveva trangugiata. Si era quindi diretto verso lo specchio, stringendo con le dita paffute i contorni indistinti del lavabo e si era guardato in faccia. Le guance calanti e le occhiaie ben delineate, il colorito vagamente malsano: aveva visto abbastanza per provare disgusto di se stesso. Aveva vomitato ancora, si era poi ato un palmo tremante sulla bocca e costretto di nuovo a guardarsi lo specchio. «Ce la farai, vecchio mio. Supererai anche questa». Se lo era ripetuto ancora, fino a crollare esausto contro il bordo della vasca smaltata e riccamente decorata, farfugliando nel sonno parole ormai ridotte a ridicoli brandelli.
***
Sarion aveva protettori, fin dagli albori del suo traffico. Lecito o illecito che fosse, i favoretti che gli venivano richiesti gli provuravano sempre compratori e magnati entusiasti. Il Bobolcan: quello sì che era stato un gran colpo d’astuzia e, in guerra e con le rotte tagliate, i potenti selthoniani avevano molto di cui lagnarsi. Nei momenti in cui la sua coscienza ondeggiava e i commensali lo incitavano a dar libero sfogo ai suoi racconti, era solito arrogarsi il merito della risoluzione dell’ultima guerra del Varnelio. Allora incrociava le dita e si faceva rosso in volto, schioccava la lingua e si inumidiva le labbra come se fosse in attesa di un pasto succulento. «Poiché vedete» diceva con la voce inutilmente bassa «potete togliere a nobili e potenti le terre, le donne e i soldi e saranno tanto contenti da ringraziarvi. Toglietegli i vizi e saranno semplici manovali. Colui che possiede l’accesso ai vizi governa il mondo». Il signor Arneil era per molti versi uno sciocco, un borioso commerciante come molti altri ma sapeva riconoscere una minaccia quando ne vedeva una. Il
Cancelliere sapeva e. protettori o meno, non c’erano che pochi metri tra lui e quell’uomo. Presto ce ne sarebbero stati ancora di meno, lo aspettava un faccia a faccia e non ci sarebbero stati i sorrisi di convenienza: in questa occasione il vino, immaginava, sarebbe rimasto nelle botti pregiate. Fece un profondo sospiro quando l’autista lo aiutò a scendere dalla vettura e ne fece uno ancora più rumoroso quando due guardie in uniforme vennero a prelevarlo all’ingresso. Avanzava come un condannato, stretto tra due uniformi silenziose, degnando appena di uno sguardo le squisite statue e i giardini curati. Il Cancelliere lo attendeva dietro una scrivania di rara bellezza il cui piano, realizzato in pietra dura e incorniciato d’oro, rappresentava un’intricata tessitura a mosaico di Leviathan. Lo sguardo fisso e le dita distese sui braccioli di avorio, ammantato di una imperiosa dignità che lo elevava torreggiante al di sopra degli uomini e del loro stesso sovrano. Sarion si era fatto piccolo piccolo e si avvicinava con le braccia strette contro il corpo, sotto spalle incurvate, con l’aria di chi conosce il suo destino ma non la propria pena. Pensò di buttarsi in ginocchio, chiedere clemenza, promettere di fare nomi e resoconti dettagliati ma l’ultimo barlume di dignità, non ancora fuggito, gli disse di resistere un altro o. Fece un profondo inchino, non dissimile da quello della sera precedente ma rimase in piedi. Il Cancelliere non gli indicò una delle sedie poste al lato opposto della scrivania e nemmeno si sporse verso di lui, rimanendo tranquillamente poggiato contro il ricco schienale. «Lieto che abbia risposto al mio invito. Suppongo si sia domandato per quale motivo l’ho fatta venire con tanta urgenza» ruotò quindi gli occhi in direzione del fascicolo voluminoso alla sua destra «un uomo come lei, nella sua posizione, ha molto da perdere». Sfogliò il fascicolo e ne estrasse i rapporti. «Traffici di bambini, atti che rasentano la pirateria…come vede non sono il genere di informazioni che un mercante vuol rendere note». Proseguì, con una punta di indignazione nella voce che il mercante non poté fare a meno di notare. «Pensi allo scandalo, alle persone influenti che ritirerebbero il loro appoggio per timore di essere coinvolte nelle indagini, alle minacce di morte, ai soldi e alle proprietà confiscate. In meno di un batter di ciglia si troverebbe dal lato opposto
della vita che ha vissuto negli ultimi anni». Sarion deglutì, tremò e quasi perse l’equilibrio. «C’è niente che io possa fare per compiacere Sua Eccellenza?» il suo tono era untuoso e sgradevole l’ultimo tentativo di un disperato di giocare fino in fondo una partita persa ancora prima di cominciare. Samarlec, inaspettatamente, sorrise. Quell’uomo lo repelleva ma quella risposta era ciò di cui aveva assolutamente bisogno.
***
Selthon era divenuta una sfumatura di colore in lontananza, pronta a tingersi dei colori dell’alba. Il mercantile Trithon, sul quale viaggiava Sarion Arneil, era ben diverso sulle lussuose navi sulle quali era abituato a intraprendere la traversata oceanica. Non c’erano i consueti intrattenimenti di bordo e il vino era di pessima qualità ma ciò ava in secondo piano se confrontato con la vita che lo avrebbe atteso dietro le sbarre della prigione di Slygarth. Sarion Arneil era un uomo libero, almeno per il momento. Almeno fino a quando sarebbe stato utile al Cancelliere e lui aveva tutta l’intenzione di far durare quel momento più a lungo possibile.
***
Vividor Narjuna era l’ultimo discendente di una famiglia di noti Archimandriti che, nel corso dei secoli, avevano contribuito ad assicurare il corretto funzionamento delle centrali geotermiche di Naren. Come alti prelati erano stati anche membri di culto, uomini di stato integerrimi che avevano rivestito, in più di un’occasione, anche la carica di Primo Ministro. L’aulico ato si fermava davanti a quell’ultimo membro della famiglia: divenuto prelato più per obbligo che per effettiva ione, era stato costretto dal
padre e dell’ombra degli avi a occupare una posizione verso la quale non nutriva nessun patriottico dovere. Il Prelato Narjuna non brillava per particolare arguzia o senso del dovere, manteneva le sue funzioni pubbliche al minimo necessario e la sua conoscenza degli apparati tecnici rasentava l’ignoranza. Ciò che però sapeva, proprio in virtù della carica che era stato obbligato a rivestire, era la natura di ciò che era custodito nelle viscere del Par Banaam. I segreti, anche quelli più insondabili, restano tali per poco quando vengono riposti nelle persone sbagliate. Né lui né tantomeno Sarion Arneil erano a conoscenza delle rispettive occupazioni quando si incontrarono, per una serie di coincidenze fortuite, in una fumeria di Bobolcan appena fuori da Ivas Naren. Avevano trascorso insieme una serata tra aromi speziati e donne dalla pelle ambrata: al mattino, dissipate le follie della notte, si erano trovati seduti l’uno di fronte all’altro e in quel momento, inaspettatamente, si erano ritrovati a parlare di affari. Sarion era a conoscenza di informazioni riservate riguardo i preparativi in corso per quella che sarebbe divenuta la nuova Guerra del Varnelio: tutto ciò che chiedeva in cambio era l’accesso privilegiato a rifornimenti di Bobolcan. Vividor si era accorto allora che quell’incontro non era stato causale, che quel bizzarro selthoniano non era così ingenuo come dava a vedere ma invece di alzarsi indignato, si era disteso comodamente e un nuovo sigaro. Avevano parlato a lungo, fino al pomeriggio inoltrato e, quando si furono separati, entrambi si erano ritrovatitra le mani più di quanto erano loro stesso in grado di comprendere. La terza Guerra del Varnelio fu una clamorosa disfatta per l’impero e il prezzo del Bobolcan toccò i massimi storici. Alla fine della crisi entrambi si erano trovati più ricchi di quanto potessero sognare: non sembrò strano quindi se da ambo le parti il pensiero di mettere fine a quella proficua collaborazione non fu preso in considerazione.
***
Sarion non poteva dirsi stupito di aver visto il nome dell’amico Prelato comparire su un rapporto tra le mani del Cancelliere. Lo stupore era invece dovuto alla richiesta che ne era seguita, quella che l’aveva costretto a contattare il nareniano a tarda notte per annunciargli il suo arrivo. La conversazione era stata breve e particolarmente asciutta, il mercante aveva detto il minimo indispensabile e l’altro aveva preferito non indagare oltre. il pensiero di quell’incontro attraversò il mercante per buona parte del viaggio: il Cancelliere non gli aveva dato direttive o indicazioni e quell’incertezza iniziava a farlo sentire appeso a un filo, come se fosse in procinto di finire in una trappola. Cercò di allontanare il pensiero che l’impero volesse sbarazzarsi di uno scomodo personaggio come lui ma l’insistente sensazione era restia a sparire. Accadde poi qualcosa che non aveva programmato: dopo dieci giorni di navigazione l’accesso al ponte gli fu negato e gli oblò della sua cabina furono tappati con chiusure improvvisate. Sarion accolse il trattamento con pragmatismo e si risolse ad attendere, seduto sullo scomodo giaciglio, a guardare il soffitto. La nave beccheggiò, strani rumori si susseguirono, poi vennero silenzio e immobilità. La sua porta si aprì ma non gli fu concesso di salire sul ponte, al contrario gli fu mostrata la strada per un’altra cabina, nella quale trovò ad attenderlo un uomo in alta uniforme. Sembrava impaziente e con lo sguardo distante mentre teneva le mani strette su un fagotto di ridotte dimensioni. L’uomo non si alzò ma indicò a Sarion la sedia dal lato opposto del tavolo. Poi, con una rapida spinta delle mani, fece strisciare il fagotto sul tavolo fino a farlo trovare sotto lo sguardo del mercante. «Niente domande, niente nomi. Incontri il suo contatto a Naren, lui capirà di cosa si tratta. A quel punto l’unica cosa che dovrà fare sarà uno scambio». «E se si rifiutasse di seguire l’ordine?» L’uomo si sporse sul tavolo. «Lei non è il solo ad avere conoscenze a Naren. Se qualcosa non andrà per il verso giusto le assicuro che io sarò il primo a saperlo e di conseguenza lo saprà anche il Cancelliere. Per un mercante come lei non dovrebbe essere difficile convincere le persone a fare un investimento, per quanto rischioso, non è vero?»
***
Il Thriton approdò a Naren sei giorni dopo. Espletate le formalità per lo scarico delle merci e, dopo una serie di affari non particolarmente fruttuosi, Sarion affittò una vettura di terz’ordine e si diresse, insieme all’involto, verso la fumeria di Bobolcan fuori dalla capitale. Vividor lo attendeva sul retro, disteso su un lettino consunto. Si salutarono con una veloce stretta di mano e rivolgendosi appena uno sguardo: l’atmosfera si era fatta tesa e l’Alto Prelato aveva iniziato a fissare con insistenza il fagotto dal quale il mercante sembrava non volersi separare. Venne portato loro del bobolcan aromatico e due foglie, attentamente piegate, finirono nella bocca di Vividor. Le masticò con avidità, tossì e poi si decise a parlare. «Non voglio credere si tratti di una visita di cortesia. Di norma preferisco ben altri luoghi per rivedere un vecchio amico. Quindi…» si chinò per prendere un’altra foglia «ti pregherei di essere ragionevole o, in alternativa, dovrò chiederti di andartene». Sarion fissò l’involto, andoselo tra le mani come indeciso se affidarne o meno il contenuto. «Ammetto di essere piuttosto contrariato dalla tua ospitalità. Nemmeno quella volta mi invitasti ad andarmene. Eppure non hai sentito ancora ciò che ho da dirti». «Non voglio sentire, per questo dovrei invitarti a tornare da dove sei venuto. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in questo incontro». «Non ti ho mai visto così, sembri più nervoso del solito». L’alto prelato si scosse «Nervoso, dici? Conosci la sensazione di essere seguito, di avere gli occhi addosso ogni momento? È da quando ho ricevuto la tua chiamata che temo questo giorno» trasse un prondo respiro e avvicinò un sigaro alle labbra «ami quell’involto, facciamola finita». Sarion finse riluttanza poi allungò l’involto verso l’ospite: dentro di sé tirò un sospiro di sollievo. L’alto prelato ne svolse i lembi poi abbassò gli occhi sul contenuto rivelato. Li rialzò, scuro in volto e con le mani contratte. «Chi ti manda?»
Sarion non rispose. Non aveva ricevuto direttive e si torceva le mani nell’inaspettata reazione a cui stava assistendo. «Hai idea di cosa sia questo?» «Assolutamente no» il mercante fissò la pietra con forzata curiosità ma non c’era niente in essa che potesse in alcun modo suggerirgli un indizio. Nonostante fosse un esperto di gioielli e pietre preziose, ciò che l’alto prelato aveva tra le mani, per quella che era la sua opinione, valeva forse quanto un comune sasso. <
***
L’ufficio dell’ingegnere capo di Naren era esattamente il contrario di come sarebbe dovuto apparire lo spazio di lavoro di uno dei più alti esponenti del regno. Fogli e progetti ne occupavano le pareti stuccate e l’ordine, almeno apparentemente, era mantenuto solo grazie a dei paravento che suddividevano lo stanzone per aree tematiche. In realtà, Bugh Dail avrebbe saputo ritrovare ogni singolo progetto, foglio o appunto, dall’inizio del suo incarico al presente senza grossi problemi. Avrebbe potuto mettere in ordine ma preferiva non farlo, un po’ perché gli piaceva creare disappunto nei suoi rari visitatori, un po’ perché non amava che qualcun altro mettesse mano alle sue cose: il disordine era forse il più efficace tra i suoi sistemi di sicurezza. Quel giorno, mentre osservava, con poca convinzione, la sezione di un progetto, l’occhio gli cadde su una busta poggiata in cima a un ammasso di fogli. Lasciò il foglio a mezz’aria ed esso svolazzò per alcuni istanti prima di cadere sul pavimento. Le sue mani erano già a contatto con la carta ruvida della busta e ne strappavano velocemente i margini. Lesse la missiva tre volte prima di convincersi del contenuto, poi focalizzò l’attenzione sul particolare congedo con cui l’autore sostituiva la firma. “Il tuo più vecchio e caro amico” Le porte dello studio sbatterono, Bugh Dail fu visto correre come non se ne aveva memoria. In molti si domandarono se non fosse giunto a una qualche sorprendente scoperta e la direzione che aveva preso non faceva che avvalorare quell’ipotesi. Fece irruzione negli appartamenti del Primo Ministro Rifean e lo trovò con indosso i paramenti da Archimandrita che ne definivano la posizione prominente tra i ranghi dei Prelati. «Per Flammaria, Bugh! Da quando si entra senza avvertire?»
«Luckmann stammi a sentire. Non vorrei essere precipitoso ma qualcosa mi dice che qualcuno dei tuoi stia per combinarla grossa». «Grossa quanto?» chiese il Primo Ministro dopo essersi seduto. «Abbastanza da rendere necessario un intervento immediato». «Hai fonti certe su quanto dici? Non posso mettere sotto accusa gli alti prelati senza fondamento. Mi ritroverei tutta la popolazione contro e a quel punto neppure Nailie potrebbe…». «E allora non farlo. In questa lettera trovi ciò di cui hai bisogno per condurre l’indagine senza smuovere troppo le acque. Meno Nailie saprà adesso, meglio sarà per tutti». Rifean distese le mani sulla scrivania per prendere un sigaro dalla tabacchiera e fece per offrirne uno all’ingegnere. «Ho smesso, ricordi? Anche tu una volta mi pareva ci avessi provato, sbaglio?» «Il tuo ricordo è corretto». «Problemi con sua maestà?» l’ingegnere si abbassò. «Ultimamente mi è difficile ricordare un periodo di pace accanto a lei, se devo essere sincero. ami quella lettera». Rimasero in silenzio poi Rifean piegò la missiva e la ridepose sul tavolo. «Hai idea di chi possa essere il mittente?» «Ne ho il sospetto ma non la certezza». «Lo ritieni persona degna di fiducia?» «Direi di sì». Il Primo ministro contrasse le labbra e battè la mano sul foglio due volte. «E sia. Avvierò l’indagine immediatamente».
«Ti serve altro?» «No. Vorrei solo che mi dicessi che si tratta di uno scherzo di cattivo gusto». «Temo di non essere capace di pensare a giochi tanto pericolosi. Sono tempi bui, Luckmann, dobbiamo tenerci pronti a tutto».
***
Sarion Arneil, come ogni esperto mercante, era ben consapevole dei segnali che anticipavano il fallimento di un affare. Il primo e più evidente, era il prolungato ritardo del contraente. Sedeva, ormai da ore, nell’angolo sul retro della fumeria e dell Prelato non c’era traccia. Il secondo elemento si delineava, come una sagoma nascosta, tra fumo e oscurità. Vividor gli aveva detto di tenersi distante dal vulcano e, da quell’avvertimento, aveva associato un mutamento del Par Banaam con l’effettiva riuscita della missione. Eppure, dopo due giorni di attesa, niente era successo. Il Bobolcan aromatizzato aiutava i suoi nervi a distendersi e si perdeva in ampie volute di fumo incoronandone la testa. Quand’anche l’ultimo sigaro fu consumato e negli occhi gonfi non rimase altra luce che quella dell’ultimo avvizzito mozzicone, si alzò e, con o incerto, si diresse verso l’interno, dove altri avventori consumavano le proprie fumose esistenze. «Non credo verrà» la voce proveniva dal proprietario del locale, un ometto basso e piegato su se stesso sopra un divanetto consunto che Sarion non aveva notato. «Prego?» «Hai capito bene» si mosse appena, piegò un braccio dietro la schiena ed estrasse un foglietto sdrucito. Su di esso c’erano solo poche parole. Sarion riconobbe la calligrafia con un rapido sguardo: era angolata e le lettere scarabocchiate in fretta.
“Stanno arrivando a prenderci. Ci hanno scoperto.” Sarion accartocciò il foglietto nella mano e ingoiò una densa quanto sgradevole vampata di fumo. Uscì, colpito da una tosse violenta e, nonostante avesse sbattuto bruscamente la porta, la risata roca del padrone della fumeria continuò nelle sue orecchie.
***
«Qual è lo stato di avanzamento dei lavori?» «Procedono come da tabella di marcia, Cancelliere. La costruzione del Leviros sarà ultimata nei tempi richiesti». Samarlec annuì lentamente ma non sorrise. «Cosa puoi dirmi invece di Naren?» «Tutto lascerebbe supporre che ci sia stato un contrattempo o, nella peggiore delle ipotesi…che sia accaduto di peggio. L’attività del vulcano si è mantenuta regolare. Nessuna reazione». «Non avevi detto che sarebbe stato normale non notare niente fin da subito?» L’uomo apparve in difficoltà. «Il concetto di subito è molto vago e ampio, Cancelliere». «Che intendi dire, Enif?» «Quello che cercavo di dire era che, non avendo informazioni dettagliate riguardo il sistema di innesto della Pietra, le stime approssimative sulle quali ci siamo basati potrebbero subire parecchie oscillazioni». «Non sembravi così incerto qualche settimana fa, quando mi hai garantito il via libera».
L’ingegnere imperiale avrebbe voluto ricordare al Cancelliere le perplessità che non aveva mancato di esprimere in tutte le fasi della realizzazione della falsa Pietra. Non lo fece, ma preferì sviare il discorso su un sentiero ugualmente scomodo. «C’è anche la possibilità che le cose siano andate diversamente». «Spiegati meglio». «Quel mercante non mi è sembrato esattamente la persona più affidabile che avessimo a disposizione. Potrebbe aver fatto qualche errore o il suo contatto potrebbe essersi rifiutato di collaborare e portare a termine l’incarico» i suoi occhi si erano stretti nell’osservare la reazione infastidita del Cancelliere. «Oppure Bugh Dail potrebbe aver scoperto tutto. Se mettessero le mani su quell’uomo ci ritroveremmo con qualcosa di più che un incidente diplomatico deprecabile. Sarebbe la guerra e, con tutto l’impegno profuso nel tenere nascosto il Leviros, la nostra sarebbe una disfatta assicurata». La conversazione si chiuse inaspettatamente e l’uomo si trovò davanti a uno schermo perlaceo opaco e muto. Il globevisor si era ridotto a una palla incandescente e alcune gocce argentee rilucevano sul pavimento di marmo. Il volto di Samarlec livido e in mezzo alle fiamme non era mai stato tanto terrificante.
***
Il globevisor a bordo del Thriton ronzò con insistenza preoccupante per diverse ore prima che il collegamento fosse avviato e il volto tirato di Sarion ne occue la totalità. Il Cancelliere era stato costretto a reprime un gesto di sfogo verso il nuovo apparecchio e delle volute nere si erano sprigionate dal suo pugno chiuso. «Mi aspetto delle spiegazioni. Esaurienti e complete».
Il mercante aveva temuto quel momento fin dalla partenza trafelata dal porto commerciale di Ivas Naren, arrivando a ritenere l’opzione di essere catturato dalla guardia reale un’alternativa migliore rispetto a quella di tornare a Selthon. «Sono desolato, Eccellenza. Il mio contatto non si è presentato e io sono riuscito a scappare appena in tempo». «Siete stati seguiti?» Sarion si guardò attorno per cercare uno degli uomini a bordo. Fece alcuni cenni, sparì dalla visuale e ricomparve poco dopo. «Gli uomini dicono di no, Eccellenza. Le autorità portuali ci hanno lasciato partire senza problemi». Le dita della mano sinistra di Samarlec avevano preso a far girare l’anello posto all’indice della mano destra. «Non che la cosa sia indice del fatto che tutto questo non abbia conseguenze. Mi ha deluso, Arneil». L’uomo sullo schermo chinò il viso. «Ci sono altri ordini, Eccellenza?» Il Cancelliere non rispose. Si alzò, immerso nei propri pensieri, senza smettere di girare il proprio anello per poi sparire dalla visuale.
***
Albireo Wessler avrebbe voluto diventare un compositore. Il mistero della musica, degli accordi e delle armonie l’aveva affascinato sempre fin dalla giovane età. Fu amaro per lui scoprire che per volontà del padre avrebbe dovuto intraprendere la carriera militare nella marina. Adesso, a distanza di anni e dopo aver salito tutti i gradi del comando, comprendeva, anche con un certo distacco, che si può far musica con ogni tipo di strumento, anche con gli esseri umani.
Per il primo Grandammiraglio di Selthon essere uno stratega era come essere un direttore d’orchestra. A ogni suo tocco, per quanto lieve, tutti gli strumenti si muovevano insieme in perfetto accordo. Adesso che il suo più prezioso strumento l’aveva convocato con urgenza, non poteva fare a meno di compiacersi. Il Cancelliere era insieme preoccupato e furioso. La missione a Naren si era risolta in un fallimento e lui aveva un disperato bisogno di ottenere una Pietra nel più breve tempo possibile. Se c’era una cosa che aveva imparato, fin dai suoi primi incarichi, era quella di rendersi indispensabile e di portare consiglio nei momenti critici. «Non c’è solo la Pietra di Naren, Eccellenza». «A cosa stai pensando? A Zolon? O Junatar, forse? O l’ultima, la Perduta?» Il Grandammiraglio scosse la testa con veemenza. «Senza spingersi troppo al di là delle nostre attuali possibilità, l’unica alternativa alla quale riesco a pensare è Renodia». «Il fatto che io l’abbia esclusa senza tanti preamboli non è casuale. Dimentichi Talandria? Non possiamo permetterci di attirare di nuovo l’attenzione». «Nessuno dice che dobbiamo farlo necessariamente noi. Arneil è un commerciante di pietre preziose piuttosto attivo a Renodia, la sua presenza non desterebbe molta attenzione come può aver fatto a Naren. Conosco qualcuno che potrebbe fare un’eccezione». «Pensi che quell’incapace sia in grado di scoprire dove si trova la Pietra?» ribatté Samarlec con decisione. «Non ho mai detto che avrebbe dovuto farlo lui. Credo ci siano esseri ben più adatti di lui a farlo». Samarlec sussultò. Non aveva detto “uomini”, aveva parlato esplicitamente di “esseri”. «Qualcuno può aiutarci a Renodia? Servirà qualcuno capace di chiudere un occhio».
«Non ne chiuderà uno solo, bensì quattro, Eccellenza». Quello che appariva come un suggerimento casuale, nonostante fosse ben lungi dall’esserlo, accese un’idea nella mente del Cancelliere che, col are dei secondi, divenne un compromesso piuttosto ragionevole. Lei l’avrebbe dovuto ascoltare.
***
«Credo di non aver capito bene, Sublime. Un essere umano?» Nel buio balenarono denti bianchi incorniciati da rosse labbra, dischiuse come un bocciolo. E gli occhi. Eterei, taglienti, terribili. Sublimi. «Solo temporaneamente, mio generale e solo per la causa». L’essere strinse i muscoli del viso, gli zigomi balenarono sporgenti e la pelle tesa fu appena un velo sopra le ossa. «Perché Renodia? Ci abbiamo già provato» Lei scrollò la testa e una cascata di capelli cerulei le scese a coprire le curve del seno. «Sarà diverso, stavolta. Samarlec ha assicurato che non ci saranno problemi». «Così, sono stato scelto per divenire uno di quei…». «Solo esternamente» il corpo d’avorio abbandonò il trono per dirigersi verso un pesante tendaggio appena intuibile che copriva una delle pareti della vasta sala. Una lingua sottile, di un colore verdastro ne evidenziava i margini e disegnava una lama sul pavimento. La tenda si spalancò e la vista di ciò che fluttuava nella vasca fece balenare gli occhi del generale. Al suo interno, ammassato accanto a forme contorte e grottesche, circondato da
sottili nervature, vi era un corpo. Un corpo, in tutto e per tutto, umano. «Ho creato per te questo involucro. Ti renderà in tutto e per tutto simile a loro, fatta eccezione per gli occhi. Parlerai lo stretto necessario, terrai lo sguardo basso e distoglierai l’attenzione da chiunque cercherà di avvicinarti. E, cosa più importante, catturerai la Pietra».
***
«Renodia? Eccellenza, domando scusa, credevo che il Thriton dovesse fare rotta per Selthon». «Quello che credevi non è affar mio. Ho trovato un modo per renderti ancora utile e prezioso come le pietre che sei solito contrabbandare» il tono del Cancelliere non accettava repliche, lo stesso, se ce ne fosse stato bisogno, poteva dirsi del suo volto arido. La conversazione si chiuse, Sarion rimase davanti allo schermo immobile, ancora attonito per aver ricevuto una notizia che, a tutti gli effetti, faceva ancora di lui un uomo libero.
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Arrivò di notte, dal profondo della foresta. I suoi i verso la città furono guidati dagli occhi grandi, luminosi e indagatori del cielo. Le Lune, grandi e terribili, come ricordava di averle viste l’ultima volta: Masir e Kalef i satelliti gemelli, il simbolo dell’oppressione secolare per lui e i suoi simili. Venne il giorno e sorse il sole attraverso le fronde, l’astro della vita che più di ogni altra cosa invidiava agli uomini. Giunsero poi i colori, i profumi e gli echi di ricordi così profondi e ancestrali da farlo vacillare davanti. Tutto ciò che avevano avuto non reggeva il confronto con la perdita di un mondo intero. Il suo corpo nuovo, no, quello non gli piaceva. Limitato, grezzo e di bassa statura, praticamente
inadatto per veri combattimenti. Si chiese se tutto sarebbe andato come descritto nel piano. Era la città a rispondere per lui: Renodia, nel suo dedalo di strade strette, fatte di case arroccate l’una sull’altra e lanterne di smeraldo. Volti sconosciuti, ignari, lascivi. Aveva sopravvalutato gli umani una volta ancora, dubitando più di quanto fosse necessario. Tutti troppo occupati, immemori e creduloni: nessuno gli badava, nemmeno quando levava il capo per controllare la strada. I suoi occhi vitrei non allarmavano più nessuno e il persistente bagliore delle Lune non evocava più ricordi terribili. Mentre raggiungeva il punto di incontro, si domandò se quel travestimento sgradevole fosse stato davvero necessario.
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Quando il porto di Mersilia accolse il Thriton, Sarion Arneil provò l’ormai consueta, e alquanto fastidiosa, sensazione di non sapere cosa fare. La nave attraccò al molo commerciale nonostante, formalmente, tutto il suo carico fosse già stato venduto. Il mercante tardò molto prima di salire sul ponte e, quando si decise a farlo, trovò, in una vettura inconsueta parcheggiata all’inizio della banchina, la risposta al suo dubbio. L’aveva visto solo in rare occasioni, per anni aveva cercato di intavolare una trattativa commerciale con lui ma si era sempre rivelato irraggiungibile, fino a quel giorno, perlomeno. Sarion Arneil strinse la mano di Komurr Borgias detto il “signore delle gemme” con un certo senso di inquietudine. Komurr era conosciuto come il più importante, nonché più ricco, proprietario di miniere di tutta Renodia. Con tutta probabilità, lo era anche del mondo intero. Possedeva giacimenti di Varnelio e ne estraeva abbastanza da renderlo tanto un alleato prezioso quanto un nemico pericoloso. Era a lui che l’impero, durante le ultime guerre del Varnelio, doveva il continuo
approvigionamento di energia. Il mercante entrò nella lussuosa vettura e per la prima volta fu in grado di vedere faccia a faccia l’uomo dietro il nome. Era di aspetto ordinario, anche troppo, se paragonato alla favolosa ricchezza che si diceva possedesse. Komurr sorrise benevolo, poi mise mano alla valigetta posta di fianco a sé e la posò sulle gambe. «Credo di avere qualcosa per lei». Sarion spalacò gli occhi. Ciò che aveva giudicato ordinario gli apparve adesso come straordinario, riconoscendo in ciò che aveva davanti la stessa differenza tra uno zircone e un diamante puro. «Dica una cifra, è tutto ciò che chiedo. Non farò domande». Borgias sorrise ancora, amichevole. «Non ha prezzo. È la gemma più pura e più rara della quale sia mai entrato in possesso. E ne ho viste parecchie di pietre preziose, nel corso della mia vita. In altre parole, amico mio, quello che mi chiedi di avere non può essere venduto». La salivazione del mercante si era azzerata. L’ometto davanti a lui non doveva la fama accumulata nel corso degli anni al puro intuito. Non era come trattare con i viziosi selthoniani o i minatori ubriachi che la terra di Renodia era solita vomitare in superficie: Borgias era un vero e proprio uomo d’affari. «C’è qualcosa che potrebbe in qualche modo agevolare la transazione?» Borgias si incupì, nonostante questo il tono della voce rimase cordiale. «Un favore, c’è qualcosa che desidero sia riferito al Cancelliere. Se soddisferà questo mio piccolo…”capriccio”» le sue mani dischio di nuovo la valigetta quel tanto che bastava da farne intravedere a Sarion il contenuto «questa gemma potrà dirsi sua». Sarion non aveva tempo per pensare. Non quando c’erano di mezzo in un colpo solo la sua vita, i suoi affari e i suoi lussi. Tese la mano e chiese di essere portato davanti a un globevisor.
Borgias tornò ad avere un’espressione sorniona, si mosse con delicatezza verso uno sportello e premette appena il bottone nascosto dalla vellutata tappezzeria. Pochi istanti dopo, preceduto da un ronzio, un globevisor comparve al centro della vettura.
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«La pregherei di non giudicarmi male, Samarlec. Sono vecchio e malato e, nonostante possa permettermi le cure dei più illustri farmacisti esperidi, mi resta poco da vivere» la voce di Borgias si incrinò «e quel poco che mi resta gradirei viverlo serenamente». «Qual è la sua richiesta, dunque?» L’uomo incrociò le dita, fingendosi sovrappensiero. «Selthon non deve invadere Renodia, per nessun motivo e nessuna ragione. Questa terra mi ha nutrito e ha cresciuto i miei affari come fossero miei figli. Voglio che lei mi prometta che nessun esercito mettera piede in questo suolo». «Tutto qui? Lo fa per semplice spirito patriottico?» «Nient’affatto, Cancelliere. Sono sicuro che chiunque mi abbia affidato questa pietra sia animato da intenzioni tutt’altro che benefiche. Non vorrei essere in lei se dovessi scegliere di fornire Naren piuttosto che Selthon al prossimo conflitto. Perché ce n’è uno vicino, non è vero?» Samarlec rimase in silenzio, la fronte si aggrottò e nei suoi occhi balenò una luce strana. Nonostante si trattasse di un’immagine riflessa, Sarion provò ugualmente un senso di pericolo. «Così sia, Borgias, ha la mia parola. È sempre un piacere concludere affari con lei».
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«Narjuna sarà giustiziato?» Bugh Dail girava tra le dita un sigaro, temporeggiando prima della sua accensione. «No. Nonostante il tradimento sia stato confessato non posso rischiare di colpirlo direttamente. La sua condanna creerebbe scompiglio e ci ritroveremmo un regno intero sollevato a favore di un ministro di culto. No, giustiziarlo sarebbe troppo rischioso». «Come intendi procedere, allora?» «Tutto è già stato deciso. Vividor scriverà una lettera di suo pugno indirizzata a me e una indirizzata a Nailie nella quale esprimerà la volontà di abbandonare l’ordine per ritirarsi a vita privata nel Deserto». «E riguardo il selthoniano fuggito? Pensi di adottare misure formali contro l’impero?» Il Primo Ministro scosse la testa. «Sarebbe quanto auspicato da Samarlec e non intendo dargli questa soddisfazione. Ho dato ordine perché alcune navi da ricognizione fossero schierate lungo i confini, con il mandato di controllare i aggi. Non ho potuto ordinare un rastrellamento a tappeto, avrebbe dato troppo da pensare all’impero». «Vuoi lasciare loro il beneficio del dubbio? Ciò che gli stai concedendo è un dono raro, Luckmann». Bugh Dail rimase con lo sguardo fisso sull’uomo, poi chinò appena la testa per accendere il sigaro. «No, voglio solo evitare una guerra, almeno per quanto mi è possibile. Sono tempi difficili, l’hai detto tu stesso». «Lo fai per lei, non è vero?» Rifean non rispose ma si voltò, lasciando che il suo sguardo profondo e meditabondo oltreasse le dolci dune del Deserto Cremisi.
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«Assaltare una nave, Sublime?» Lei annuì. «Samarlec ci richiede questo sforzo in virtù della sua alleanza. Ha bisogno di far sì che tutto sia credibile, per questo ho scelto te». «Quando?» «Immediatamente» le sue braccia si mossero nell’aria soavi, incrociandosi in voluttuose spirali «porta con te alcuni dei tuoi». «Dove devo andare, esattamente?» Le spirali eteree segnate dalle lunghe dita presero forma e divennero una sfera circondata da due grandi lune. Lo spazio si dilatò, l’oceano divenne una grande distesa uniforme e davanti a lui comparve una nave battente bandiera nareniana. «Perché dei nareniani?» La Sublime scosse appena la testa. «Non mi interessa, trovo queste motivazioni sufficientemente futili da annoiarmi. Credo che il nostro alleato stia preparando una nuova guerra e ciò, da qualunque parte tu voglia considerare la questione, è per noi un bene».
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La baia di Selthon sarebbe comparsa da lì a qualche ora, oltre l’orizzonte coperto da nubi. Sarion lo osservava con crescente aspettativa, socchiudeva gli occhi in cerca di un particolare che potesse preannunciare la terra, quasi temesse che il suo carico potesse far affondare con la nave da un momento all’altro.
Scese la notte sull’Oceano Centrale, Masir e Kalef brillavano ancora, alte nel cielo, di notte come di giorno, a ricordare ciò che trovava riscontro solo in una vecchia filastrocca che cantavano i bambini. Sarion non la rammentava da più di quarant’anni, eppure, in quella notte strana, le parole tornarono da sole sulle labbra.
Se le Lune brillan di giorno Il demone è qui intorno Per guastare le feste, Meglio sprangar le finestre. Quando le Lune son spente Il male è assente, in piazza scendiamo, evviva, cantiamo! Il silenzio a bordo del Thriton fu spezzato da un’improvvisa deflagrazione. Il ponte della nave si riempì di urla mentre una nave da ricognizione nareniana li speronava, affondando nella prua come una lama nella carne. Sarion cadde a terra e perse i sensi. Quando riaprì gli occhi, quelli che, per un istante, aveva scambiato per gli astri lunari, si rivelarono essere un paio di terribili occhi bianchi.
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«Mej far rubra». Le dita si erano colorate di rosso, tinte dal potere nascosto in quelle parole poco
più che sussurrate. Nel buio di una stanza il volto di un ragazzo si illuminò: erano i suoi occhi, le sue labbra che si piegavano verso l’alto ciò che rivelò il fuoco appena apparso nel suo palmo. Contro la parete, con i capelli calati sul viso, si ava l’incantesimo tra le mani, divertito e insieme affascinato dal talento che aveva scoperto di possedere pochi mesi prima. Doveva preararsi, tenersi allenato, anche se questo significava rischiare di essere scoperto dai suoi genitori. Applicò più concentrazione all’incantesimo ed esso assunse un colore più intenso, virando dal rosso all’arancio e poi al giallo. La sa mano era interamente nascosta e, nonostante il calore fosse quasi insopportabile, le sue dita e parte del suo braccio lambite dalle fiamme rimasero fredde. Cercò di prefigurare, come gli era stato insegnato, di avere di fronte a sé un ostacolo o, nella peggiore delle ipotesi, un avversario, e di dover lanciare l’incantesimo contro di esso. Il controllo del fuoco rimase intatto per i primi tentativi ma, all’ultimo, sfuggì al controllo e finì contro i tendaggi. Il ragazzo rimase immobile per un istante, osservando il fuoco divampare velocemente. «Gregris! Cosa stai facendo?» La porta si spalancò di colpo, le fiamme si contrassero per poi divampare di nuovo e con più forza. Un uomo era comparso sulla soglia, per poi aretrare col volto coperto dalle mani. Gridò il nome del figlio ancora una volta, poi le fiamme si estinsero. Silenzioso e con le mani ancora umide per il nuovo incantesimo, il ragazzo, con l’espressione di un condannato, non si mosse. L’uomo avanzò nella stanza con i pesanti e i pugni stretti ai fianchi. «Quante volte te lo devo ripetere? Mi hai disubbidito, Greg! Niente magia in questa casa». «Perché, se la praticassi fuori, nel giardino delle rose di mia madre andrebbe bene?» L’ampia fronte dell’uomo si riempì di goccie di sudore. «Tu, tu mi farai perdere la ragione uno di questi giorni» lo agguantò per una spalla ma non strinse «stai attraversando un periodo complicato, lo capisco, sei un ragazzo, fa parte della tua crescita. Un giorno, quando sarai un uomo adulto,
ripenserai a questi momenti come delle sciocchezze, delle fissazioni adolescenziali. Non sarai mai un mago, Greg, mettitelo in testa». «Non è una fissazione, tu non puoi capire!» «Tu dici? Nessuno ottiene mai ciò che si aspetta dalla vita. A te viene data l’occasione di una vita agiata, cosa rara di questi tempi. Vorresti buttare via tutto ciò, rinunciare al tuo avvenire sicuro per una sorte incerta?» «E se fosse, a te o a mia madre cosa cambierebbe? Nessuno vi priverà dei lussi dei quali vi siete circondati». L’uomo fece per muovere una mano, poi la fece cadere lungo il fianco. «Ci importa Greg, perché sei nostro figlio e ti amiamo. Nessuno qui vuole vederti infelice ma non puoi pensare che io e lei ci facciamo in disparte davanti alle tue scelte. Sei poco più di un ragazzino, non avere fretta di crescere». «Se crescere è l’unica strada, vorrei che avvenisse subito, che domani dovessi affrontare ciò che la vita tiene in serbo per me. E andarme, andarmene via da qui». Superò l’uomo, scese le scale di fretta e uscì dalla villa. Corse, senza fermarsi, sopra i sogni e sotto il biancheggiare delle lune, verso il giorno nuovo e un mondo in attesa di schiudersi solo per lui.
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«A cosa devo la sua chiamata, Samarlec?» il volto amichevole di Komurr Borgias era tirato, l’ora tarda e quella conversazione aveva tutta l’aria di non essere ordinaria. «Credo sarebbe opportuno me lo dicesse lei. Perché non prova a intuirlo?» ribatté secco. «Di cosa sta parlando?»
«Ricorda la gemma che hai consegnato a quel mercante? Si è verificato un incidente e pare che il convoglio sia stato fermato e attaccato da un vascello nareniano». «Mi sta accusando di qualcosa? Vorrei che parlasse chiaramente». «Oh no, le mie sono solo supposizioni. Come ha detto lei stesso, Renodia è la sua terra e, in un caso simile, un ripensamento non sarebbe strano». «Non tollero di essere accusato senza prove» l’espressione gioviale era sparita. Così come la sua compostezza. L’uomo si era alzato e adesso puntava il dito furioso contro lo schermo perlaceo. «La sua è una reazione fin troppo spropositata per essere quella di un gentiluomo del tutto all’oscuro dei fatti» Samarlec sorrise composto. «La verità è una sola, Samarlec e sappiamo entrambi che non è mia la responsabilità di quel furto». «No, non dico sia sua la colpa. Dico solo che ho abbastanza materiale da sottoporre a Talandria nel caso in cui non dovesse recidere l’accordo consensualmente». Borgias fissò lo schermo attonito. «Se non vado errato l’alto tradimento è punito con la morte nel regno silvestre» proseguì. L’uomo ricadde a sedere, fissò lo schermo perlaceo sul quale campeggiava fisso il volto placido del Cancelliere. «Molto bene. Prenderò il suo silenzio come un sì. È sempre un piacere trattare con lei».
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Vide un lampo di luce, di un’intensità e colore mai visti prima. Era enorme, abbagliante e diffondeva luce ovunque, tanto che non c’era luogo che fosse in ombra. Di seguito, da esso comparvero cinque astri di incomparabile bellezza, in grado di riflettere e unificare tutti i colori dell’arcobaleno. Poi, questi splendidi astri furono inghiottiti dall’oscurità, uno per uno: l’ultimo, quello più tenace, combatté per quella che parve un’era di perturbazione per poi sparire, inghiottito anch’esso da una marea indefinita. Venne il giorno, pallido e triste in confronto alla luce di prima quindi il sole si spense nei bagliori che erano insieme d’alba e di tramonto. Seguì la notte, lunga e tormentata e gli astri del firmamento caddero uno a uno, fino a lasciare nel cielo solo due enormi luci dallo sguardo crudele, bianche e terribili come non erano mai state prima di allora, accorse a illuminare un mondo fatto di morti, di ombre e di rovine. Solo un uomo restava in piedi, solo e folle davanti all’ultimo, grandioso, spettacolo del creato. Quell’uomo era lui. Dovan si levò dal letto di scatto, madido di sudore e col fiato corto, si vestì al buio, pensieroso e irrequieto, con le mani che tastavano ovunque con un tremore febbrile. Non ricordava di aver provato tanto spavento e tanto orrore tutto in una volta e pregò che quel sogno non si ripetesse ancora. Uscì dalla modesta dimora che l’orizzonte era prossimo a tingersi di verde e camminò a lungo, verso le scogliere, con la spiacevole sensazione di essere seguito. Mentre si allontanava, raggi cremisi solcarono la linea dell’orizzonte, gettando le prime luci di un nuovo giorno sulla baia di Selthon.
Prologo
Cime di monti, Colli lontani, Gemiti di pianti, Raggi diafani. Il vento del mondo ha cambiato il destino. Mai più di un uomo è certo il cammino. Heinar divino, degli astri il creatore Sul giovane mondo inviò il segno dell’amore La coppia divina, scesa nel mondo, Il suo compito svolse fino in fondo. La vita fu così originata Di spiriti, piante e animali la terra fu fecondata Ma se nel segno d’amore il disegno divino si consacrava Nel cuore dei figli del padre diletti l’invidia strisciava Mentre la madre nel suo grembo proteggeva la stirpe amata I demoni condussero un’esistenza sbagliata Moglie e marito si divisero allora
Mentre le due razze fiere combattevano ancora. Fin quando un giorno la bontà della dea fu ingannata La sua anima imprigionata, l’umanità condannata. Nel nome del male si erse un nuovo impero Senza che l’uomo vi si opponesse fiero. Behel, il Nemico, dei Pari il Gran Signore Sotto il giogo servile mise l’uomo inferiore. Il suo volere era legge sul pianeta ancestrale Il desiderio di potere fu padre del male. La vita dell’uomo infine tramonta Per nessuno dei Pari questo conta: Un servo valoroso divenne l’araldo Da quel giorno il suo spirito divenne più saldo. Del secondo la voce ammaliava un ruscello Ma la sorte lo cambiò per volere di quello Che del mondo fu la piaga Cosicché quando parla il caos dilaga Si levan tempeste, Frutto di Adramelech, la Voce Celeste. Occhi dal nulla scrutano il fato All’onnisciente Argo niente è celato.
Kaliban il possente, Fu dai Draghi dilaniato, Il suo desiderio morente Dal Signor fu realizzato. Iblis l’infido, Bocca del Male, A scorpi e serpi bramò somigliare. Hyperion l’invincibile ha forma gradita, All’occhio umano pare amica. Ali iridescenti, macchiate di sangue, Svelan ben presto la sua fame che langue. Delle melodie Silvestri fu Minstrael l’allievo Ma nel suo flauto certo non troverai sollievo. Illusioni e magie esso può generare, Su presto, sii svelto, non farti incantare! Giungono infine gli ultimi due, Insieme e per mano camminan perché Di dolore e morte dan prova di sé. Colei che Sublime conduce le schiere Di Sangue per il Signor colma il bicchiere Tutto il Creato risponde ai suoi appelli, Ella è Lilith dai cerulei capelli.
Della Morte l’effigie porta sul volto, Non rivelarti con lui un essere stolto. Della conoscenza infinita ha aperto le porte, Quello è Mefistofel, Signore della Sorte. Il ritorno dei Pari fu la Prova Che il Fato sul pianeta posa non trova. Il glorioso impero cadde a sua volta, Dal cielo gli Angeli trovaron risposta: Le Pietre del Potere, grandi alleate, Andavano infine per sempre celate. A Junatar la fredda riposò tra i ghiacci, Nella Verde Renodia scelse i crepacci, Del Fuoco di Flammaria un’altra scelse il mantenimento, Di Zolon vorticante provocò il movimento. Ma una sola Pietra rifiutò la decisione, Cantò ai saggi la propria opinione. Di un bimbo il destino decise di mutare, Poiché nel suo cuore si poteva sperare Di portare la pace ed un Mondo diverso, Dove il destino non sarebbe stato avverso Ausel il Grande benedì il bambino,
Ne scrutò il futuro e questo fu il vaticinio: Nella tenebra Oscura la tua Luce porterai, Nei giorni dell’oscurità la tua Verità troverai, Dall’abisso dell’oblio la tua forza si sprigionerà, Malgrado tutto il male prevarrà. Dure prove ti aspetteranno Per battere infine l’antico Tiranno La sua fine non è lontana: Questo è il tuo destino, Figlio di Talarana.
Parte Prima
Selthon
Capitolo I
Un bambino speciale
Nessuno poteva dimenticare la tragica e violenta tempesta che si era abbattuta sulle coste selthoniane all’inizio del venticinquesimo anno di regno dell’imperatore Levian Dorhan VI. Una tragica notte, al termine della quale, ben poche tra le imbarcazioni civili e militari che ebbero la sventura di trovarsi in Oceano aperto avrebbero fatto ritorno alle ridenti coste dalle quali erano salpate. I resoconti in materia concordano tutti su un punto: fu come se l’Oceano intero si fosse ribellato ai suoi stessi confini. Dalle acque nere come la pece si levarono onde di potenza mai fino a quel giorno osservata: i vascelli, in balia di esse, furono costretti ad arrendersi alla furia della natura in tutte le sue oscure sfumature. Molte di queste trovarono la fine contro scogli neri e aguzzi, poco distanti dalle coste e, con esse, gli equipaggi, resi ormai folli dall’impossibilità di governare una furia tanto implacabile. I malcapitati che scelsero di buttarsi in acqua andarono incontro a una fine ancor più violenta e terribile, accerchiati prima e sommersi poi da torri d’acqua la cui cima si perdeva in vapori evanescenti. Sorte non dissimile sarebbe capitata anche a un giovane e inesperto amministratore imperiale, di ritorno dalle Isole Feree dopo un’ispezione sull’estrazione di Varnelio, se non fosse stato per il volere di coloro che, dall’alto, tutto vedono e ascoltano e che per lui avevano scelto un destino diverso. La nave, un mercantile per niente adatto alle tempeste, era stato irrimediabilmente danneggiato dall’impatto contro gli scogli e molti uomini
dell’equipaggio avevano preferito invocare la benedizione di Leviathan e restare aggrappati ai viscidi scogli piuttosto che cercare una via verso la salvezza. Su quei picchi rocciosi congiungevano quindi le mani al petto e le loro folli invocazioni si univano ai venti di tempesta. Mai il nome del santo protettore di Selthon fu tanto invocato come quella notte. L’uomo si trovava sottocoperta, intento a salvare quanto poteva delle carte e degli appunti preziosamente raccolti, quando l’acqua raggiunse l’altezza delle ginocchia, si risolse a raggiungere il ponte, ormai deserto, della nave. Trovandosi di fronte alla realtà delle cose, si trovò a dover decidere tra l’affondare o tentare di raggiungere la riva a nuoto. Andando con il pensiero all’amata Vylia che da poco aveva con lui sofferto e pianto la perdita del figlio tanto desiderato, decise di optare per la seconda alternativa che gli era offerta: afferrò una boa galleggiante e la legò con una cima saldamente alla vita e, infondendosi coraggio, si buttò in acqua. In quell’istante, il suo corpo fu come colpito da mille pugnali di ghiaccio e lo choc termico fu tale da provocargli la perdita dei sensi. In balia della tempesta, l’uomo fu sospinto più volte sotto la superficie dell’acqua, senza che egli avesse il minimo sussulto, fino a quando, dalle profondità dell’oceano, emerse una figura che, afferrandolo delicatamente, lo trasse in salvo appena prima che una colonna d’acqua si abbattesse su di lui. Stimolato da quell’insperato cambiamento, l’uomo riaprì gli occhi, non riuscendo però a scorgere altro che una gigantesca sagoma avvolta dalla più completa oscurità. L’essere cominciò a percorrere l’oceano con ampie falcate di cui il superstite non sembrava avere la minima percezione: le pesanti nubi oscure che opprimevano la volta celeste gli impedivano di vedere le lune e le stelle, rendendo impossibile mantenere dei punti di riferimento. Con suo grande stupore il naufrago non riuscì neppure a scorgere le scintillanti Torri di Cristallo, segno che anche da terra avevano perso la speranza di ritrovare qualche sopravvissuto. Dopo ciò che parve essere un’eternità, in una notte talmente nera che pareva avesse inghiottito anche lo scorrere del tempo, l’uomo notò che ciò che lo aveva salvato stava rallentando, fino a raggiungere l’arresto completo. L’enorme presenza lo sovrastava e poteva avvertire il pesante respiro, esalato in
ampi sbuffi di vapore: certo che non potesse trattarsi di un essere umano, era certo che somigliasse più ad un anfibio o ad un pesce antropomorfo. Nell’istante in cui, con deboli parole, chiese al suo salvatore il perché di quell’azione, un lampo illuminò l’insenatura, rendendo visibile, per un fugace istante, la natura dell’essere. Come aveva, non poi tanto a torto, intuito, la sua mole era enorme e massiccia, la pelle ruvida e squamosa. Dal volto, enorme e gonfio, sporgevano due occhi grandi e acquosi. Grandi branchie vermiglie, vibranti per il respiro affannoso, occupavano invece il collo tozzo. Nel complesso sembrava un essere spaventoso, ma la nobile azione che aveva compiuto lo rendeva agli occhi del naufrago pressoché umano. Mentre le grandi branchie vibravano, l’essere, con voce profonda, quasi come se provenisse dai più remoti recessi marini, parlò: «Umano, io sono Dalagoth, genio delle acque e servitore dei padri celesti. È stato il loro sommo volere a decretare la tua salvezza». L’uomo trattenne il respiro e ripeté il nome fino a quando la memoria non fece riaffiorare antichi miti e immagini credute perdute. Calò nel buio e le parole smozzicate si confo con la pioggia. Dalagoth, riapparendo allo sfolgorare di un nuovo lampo, indicò il cielo ed aggiunse: «Tra poco avrai la rivelazione. Allora anche i tuoi dubbi troveranno risposta». Ora ricordava, con più precisione. Il nome di quell’essere non gli era del tutto nuovo: in uno dei suoi viaggi a Nord aveva sentito favoleggiare di un essere marino benevolo che si diceva aiutasse le imbarcazioni e le persone in difficoltà. Un tempo aveva creduto che si trattasse solo delle leggende che i vecchi pescatori si dilettavano a raccontare ai giovani, ma l’essere che gli stava davanti e che poco tempo prima gli aveva salvato la vita, era la prova lampante della veridicità di quelle storie. Improvvisamente il cielo si squarciò, proprio nella direzione che la creatura aveva indicato con la mano: il grande bagliore aveva diradato lo spesso strato di nubi, facendo penetrare una luce calda e avvolgente. Quella luce, così simile a quella dorata del Sole, portava con sé qualcosa di rassicurante, capace di far dimenticare all’uomo gli orrori visti durante il naufragio.
Poi, dall’apertura tra le nubi, discese come una densa goccia d’acqua che, colando verso terra, illuminò l’area circostante al punto che il naufrago fu costretto a coprirsi gli occhi con la mano. Dopo qualche istante il bagliore si attenuò, rivelando così la presenza di alte figure, splendenti nelle loro vesti ampie e svolazzanti, recanti con loro un piccolo fagotto, avvolto in un drappo azzurro ricamato. Quattro personaggi dalle vesti magnifiche si avvicinarono all’uomo, rivelando così volti puri, splendenti non meno della luce da cui provenivano, cesellate sculture nelle quali erano incastonati occhi brillanti come l’oro. Uno tra essi, quello che stringeva una falce colossale, si avvicinò all’uomo ponendogli sulla fronte l’altra mano, dalle dita eleganti e affusolate. Parole dolci e musicali cominciarono così a fluire nella mente del giovane amministratore. “Salve, umano dal cuore gentile. Noi siamo Angeli Dorati, coloro che da tempo immemore osservano il mondo da sopra le nuvole, dal celestiale Mare di Vetro.” Fece una pausa mentre veloci immagini si susseguivano nella mente già piuttosto confusa del naufrago. “Abbiamo visto l’alba mescolarsi con la luce del tramonto, conosciuto i vostri sogni bene quanto i vostri incubi e vi abbiamo aiutato a costruire quello che fu un sogno di cenere sulla breccia delle onde dell’oceano. Ora che i bagliori del crepuscolo sopraggiunto sulle disattese speranze e tutto si volge verso il buio, ci riveliamo ancora. È giunto per noi il momento di aiutare la vostra gente per l’ultima e decisiva volta”. L’Angelo assunse un’espressione grave, che velò i suoi occhi. “Ciò che era stato sigillato si sta ridestando e con lui gli araldi che costrinsero la vostra gente alla schiavitù eterna”. E di nuovo si susseguirono frammenti bui in rapida successione, visioni fugaci di un baratro oscuro, un’oscena bocca rossastra oltre la quale si alzavano voci e lamenti, un’ingorda macchina di fuoco e fiamme che consumava ogni cosa. Proseguirono ma i pensieri dell’uomo erano ancora arrossati dalle visioni. “Col sacrificio ponemmo al suo ritorno freni e ostacoli, ma neppure la nostra gente è riuscita a scampare alla decadenza e ciò che duramente abbiamo conquistato può esserci tolto da un momento all’altro. Quello che vedi…” dissero insieme con un’indefinibile commiserazione “non è che un barlume del nostro splendore”.
“E come posso aiutarvi, io?” trovò il coraggio di domandare l’uomo. “La strada è già stata tracciata. L’ostacolo è compiere il primo o nella giusta direzione e di seguito tutti gli altri. Questo bambino, ultimo della gloriosa stirpe, ha in sé un potere antico, che il nemico e i suoi servitori desiderano ardentemente per porre fine al vostro mondo”. Poi, indicando un punto poco sotto il cuore del bambino, l’angelo fece comparire un piccolo bagliore di colore azzurro. “Ricevi la benedizione di Uriadrel, Signore delle Due Lune”. Poi quello di fianco, recante con sé una grande lancia, prese delicatamente tra le braccia il bambino e dopo pochi istanti, una nuova voce penetrò nella mente del naufrago. “Questo bambino è la speranza per il vostro mondo e lei dovrà accudirlo fino a quando non giungerà il Tempo dei Miracoli. Allora manifesterà il proprio potere. Ricevi la benedizione di Midrael, Generale dei Celesti”. Così il secondo porse il bambino al terzo angelo che come i precedenti, pose la mano destra sulla testa del naufrago. “Su di lui è stata invocata la protezione di Leviathan, spirito tutelare del tuo popolo. In questo periodo, sono nati tre bambini speciali: ognuno di essi è protetto e consacrato allos pirito adorato dalla propria gente. Il loro potere congiunto scongiurerà il pericolo nel quale versate. Ricevi la benedizione di Feadrel, Signore delle Acque”. Il naufrago era incredibilmente perplesso da quelle parole, estasiato da quella visione lucente ma, allo stesso tempo, triste e malinconica. Non faceva fatica a comprendere, pur rimanendo del tutto confuso e in bilico tra il reale e l’onirico, che si trattasse di un addio dato con fatica e reale timore. Infine il terzo angelo porse il frugoletto al quarto che l’uomo, sicuro di non sbagliare, identificò come un essere femminile, dalla voce incredibilmente dolce e affettuosa. “Piccolo mio, è venuto il momento in cui ci dobbiamo salutare”. Il bambino sembrò reagire alle parole di quest’ultima con qualche vagito. “Si prenda cura di lui come se fosse suo figlio. La nostra capacità di vedere nel futuro è grande ma non abbastanza da diradare del tutto la nebbia che lo avvolge”. Fece per consegnarlo, poi se lo strinse di nuovo al petto e allora la mano di uno degli altri si posò sulla sua candida spalla. “Un’ultima cosa: quando in lui sorgerà il desiderio di apprendere le arti magiche, gli permetta di farlo. Quando arriverà quel momento saprà che i tempi saranno maturi e l’imminente inizio di un duro periodo, per lui e per il mondo intero”. Poi la dama si rivolse di nuovo al bambino. “E quando avrai fornito prova del tuo valore, ti attenderà l’Ascesa Angelica, che
ti consentirà di apprendere le arti della nostra gente. Ricevi la benedizione di Shadriel, Signora della Luce”. L’angelica dama diede un affettuoso bacio sulla guancia al neonato e infine lo consegnò tra le braccia dell’uomo. Uriadrel parlò per l’ultima volta prima di sparire dalla vista e salire di nuovo al cielo, avvolti dalla luce dorata. “È giunto il momento di salutarci, saggio umano. Abbiamo la consapevolezza di aver lasciato l’erede in buone mani. Nella tua casa lo sapremo protetto e amato. Non aver timore degli eventi, dall’alto gli saremo sempre accanto”. Dopodiché il bagliore raggiunse una nuova intensità, fu richiamato in alto e infine scomparve. Il buio tornò a sovrastare l’uomo che, nella completa oscurità, si voltò, vedendo Dalagoth inchinarsi, sfiorare il bambino con una delle sue enormi dita e poco dopo rituffarsi in acqua, dissolvendosi tra i flutti nello stesso etereo bagliore con cui era apparso. L’uomo aprì il fagotto, rivelando il bambino in fasce, addormentato. Sorrise, al pensiero che la vita sua e della moglie avrebbe potuto conoscere la gioia dell’essere genitori e ringraziò di nuovo con la mente gli Angeli, sperando che essi potessero udirlo ancora. Aveva perso la cognizione del tempo e sentendosi incredibilmente esausto, decise di accucciarsi in un anfratto che aveva scovato tastando la viscida superficie rocciosa. Confortato dalla morbidezza del terreno, si addormentò. Poche ore dopo, le nubi si diradarono completamente e il vento cessò di schiaffeggiare la superficie dell’acqua, permettendo così al Sole di sorgere in tutto il suo splendore. Raggi, di un tenue rosso, risvegliarono il giovane neopadre, penetrando come lunghe dita all’interno del rifugio di fortuna. Con la mente ancora offuscata dalla rapida successione di eventi che si erano verificati durante quella strana notte, l’amministratore, costatando felicemente di trovarsi solo a poche centinaia di metri dalla spiaggia e dal porto, si avviò verso casa, tenendo il piccolo, ancora addormentato, tra le braccia. Aveva progettato per il figlio mai nato un futuro come suo successore ma nel chiarore del mattino, ricordò che il bambino che stringeva tra le mani era destinato a qualcosa di diverso, qualcosa di grande. “Perché non tentare?” Un’idea, dapprima nebulosa poi sempre più concreta, prese forma nella mente dell’uomo, cercando un via per reagire agli straordinari eventi a cui aveva appena assistito.
In fondo non era certo che quegli esseri dicessero il vero, nessun pericolo incombeva sul mondo e quel bambino non era destinato a nient’altro che diventare, come avrebbe desiderato il suo neopadre, un potente funzionario imperiale. “Niente potrà dirsi certo finché gli eventi non dimostreranno la strada che questo bambino dovrà seguire nella propria vita”, echeggiò però dentro di sé una voce mentre a piedi nudi, percorreva la spiaggia ancora umida dopo la tempesta. Scacciò la voce insistente e arrivò al porto quasi senza accorgersene. Le strade di Selthon erano deserte: in pochi, dopo la tremenda notte appena ata, avrebbero avuto il coraggio di uscire dall’accogliente riparo delle proprie abitazioni. Non senza prima aver invocato la protezione di Leviathan e aver un cero davanti a una sua rappresentazione sacra. Percorrendo il viale Samaran, il lungo asse attorno al quale le strade della città si sviluppavano e formicolavano di vita, giunse davanti alla nuova casa, da poco fatta costruire per lui e la moglie. Il bambino si svegliò in quell’istante, emettendo un basso gemito; il giovane amministratore, sorrise e, indicando al neonato l’abitazione, gli diede un rapido bacio sulla fronte. «Benvenuto a casa». † L’impero era sull’orlo di grossi cambiamenti, non solo perché Levian Dorhan VI aveva esalato nella notte l’ultimo respiro e si apprestava a ricongiungersi al Signore dell’Oceano con una cerimonia sontuosa ma anche perché, durante i suoi ultimi mesi di vita, un’atmosfera sinistra era calata su ogni angolo dell’impero. Solo chi viveva a corte possedeva una discreta conoscenza degli eventi e tra essi solo in pochi erano a conoscenza delle macchinazioni di chi, una volta terminate le onoranze funebri, avrebbero portato alla proclamazione del principe Dorhanavius quale nuovo imperatore dell’Ovest. I cambiamenti avevano investito anche casa Oltan: Aaton Oltan era stato nominato pochi giorni prima Sovrintendente del Commercio Transoceanico Imperiale e aveva deciso, come manifesto del suo accresciuto prestigio, di ampliare la sua già invidiabile dimora di famiglia. E un cambiamento, nonostante potesse considerarsi di poco conto, stava per
interessare anche suo figlio. «Gregris, questa è Eleona, da oggi sarà la tua nuova governante» disse Vylia Oltan con un sorriso solo in rare occasioni così ampio. Il figlio, ancora sommerso dalle coperte e dai cuscini del letto, riuscì a fatica a mettere a fuoco la figura familiare della madre. Era stata una fortuna trovare una governante con così poco preavviso e soprattutto così economica, senza considerare le circostanze in cui l’aveva incontrata e che sicuramente non...No, meno Aaton avesse saputo meglio sarebbe stato. Sospirò, poggiando la mano sotto il mento leggermente affilato. Aveva notato una certa attitudine paranoide nel marito nei confronti del figlio. A volte l’aveva osservato di nascosto, intento a fissare il bambino negli occhi per lunghi minuti ma non gli aveva mai confidato niente. Sembrava…sembrava sempre in attesa, nel costante timore accadesse qualcosa e la quiete familiare, in un modo o nell’altro, finisse per essere turbata. La bambinaia precedente era stata costretta a tornare a casa, richiamata in seguito a un incidente sul quale a sua volta aveva preferito non fare parola. Fu congedata quindi dopo anni di servizio, durante i quali Greg era spesso riuscito a sfuggirle di mano. A tutti gli effetti, aveva commentato divertito il signor Oltan nell’apprendere la notizia, non si era trattata di una grossa perdita. Greg aveva da poco tempo compiuto sei anni e, almeno secondo quello che era il pensiero comune, avrebbe potuto fare benissimo a meno di una governante. Il padre era più che convinto di ciò ma la signora Oltan era stata irremovibile. E le apparve proprio che gli eventi parteggiassero per quest’ultima poiché, proprio quello stesso giorno, er avvenuto l’incontro con quella giovane che, appena giunta dal nord del paese ma con poca esperienza, cercava un lavoro a tempo pieno che le garantisse vitto e alloggio. Un rapido sorriso si era allargato sul volto della signora e la ragazza si era trovata, pochi istanti dopo, seduta nella sala grande. La donna, da brava padrona di casa, le fece portare da bere una tazza di infuso poi iniziò una sottile indagine, scrutando la candidata. La ragazza rispose in modo educato e soddisfaciente a tutte le domande che le erano state rivolte, anche a quelle che non avrebbe esitato a definire impertinenti. Vylia Oltan, dopo un’ora di colloquio sorrideva compiaciuta e le tendeva senza esitazione la mano.
Furono concordati i prezzi e i doveri della giovane nei confronti del bambino e l’ultimo o fu proprio quello delle presentazioni. Greg, scansata una coperta, riuscì finalmente e mettere per bene a fuoco la donna. Era alta poco meno di sua madre, ma mentre quest’ultima, abituata da anni a fare nient’altro oltre che pensare a come organizzare il lavoro dei suoi domestici, aveva finito per divenire una donna formosa, la sua nuova governante sembrava tonica e in perfetta forma, con occhi azzurri e capelli di un tenue color paglia raccolti in una coda. Eleona chinò la testa come cenno di saluto. «È un vero piacere conoscerti, Gregris» disse sorridendo e tenendo lo sguardo fisso su di lui. Il bambino rimase in silenzio, studiando per qualche istante la nuova governante: era molto diversa dalle donne che aveva visto fino a quel momento, di sicuro molto diversa dalla sua precedente governante. Lei odorava di vecchio armadio e tra i suoi capelli aveva sempre scorto lunghe ciocche bianche. Quando lo aveva fatto notare, la donna gli aveva rivolto uno sguardo torvo e aveva bisbigliato qualcosa a mezza voce. Poi da sotto le coperte fece emergere la sua mano e gliela tese. Eleona la prese nella sua: era piccola e morbida e stringendola sorrise nuovamente. La madre annuì nel constatare come il suo bambino dimostrasse già di possedere tutte le doti che lo avrebbero reso un gentiluomo, poi invitò la ragazza a seguirla per mostrarle la camera dove avrebbe alloggiato. Greg, rimasto solo, si guardò attorno, indeciso se tornare a dormire oppure scendere a fare colazione. Scelse la prima e la sua testa riaffondò tra cuscini e coperte con un tonfo ovattato.
†
«Andiamo Greg! Non possiamo tornare a casa tardi un’altra volta!» disse Eleona
con tono fermo al bambino che di spalle, seduto su una delle banchine del porto di Selthon, sembrava interessato a tutto tranne che a quello che gli stava dicendo la sua governante. Solo se la prospettiva che gli veniva offerta era quella di tornare a casa, chiaramente. Questo la ragazza lo sapeva molto bene: Eleona roteò gli occhi chiari e sbuffò, raggiunse il bambino e gli sedette accanto, facendo sì che i suoi occhi si trovassero lungo la stessa traiettoria di quelli di Greg. Guardava verso l’Oceano, immobile e silenzioso, sembrava addirittura che non la vedesse. Poi si ritrasse e distolse lo sguardo: ormai l’incanto era rotto e Greg sembrava aver rinunciato ai suoi pensieri, ormai persi oltre l’orizzonte. «A cosa stavi pensando?» gli chiese poco dopo. Greg attese qualche istante: da due mesi Eleona era la sua governante ma sembrava conoscerlo da sempre. «Pensavo al cielo» disse poco dopo in un sussurro. Eleona per un attimo parve stupita, poi si rasserenò. «Qualcosa ti turba, piccolo?» Greg scosse la testa, poi ci ripensò «Cosa c’è lassù, signorina Eleona?» Eleona soppesò la risposta da dare al bambino «Le due Lune, il Sole e le stelle, Greg». Il bambino non parve certo della risposta, fu lui a incrociare volutamente gli occhi della ragazza. «Perché l’altra notte ti rivolgevi al cielo con una preghiera se non vi è nient’altro che le Lune il Sole e le stelle?» chiese socchiudendo gli occhi come tutte le volte che si concentrava. Eleona fu sconcertata da quella domanda: doveva averla vista, non era stata abbastanza prudente da non farsi accorgere. Chiuse gli occhi ed emise un profondo sospiro. «Hai ragione piccolo. Lassù vi sono gli Altissimi, i protettori di questo mondo».
«Chi sono gli Altissimi?» la incalzò Greg. «Coloro che fanno in modo che tutto vada per il verso giusto, quelli che ci guardano dall’alto e che ci proteggono dai cattivi». «E chi sono i cattivi?» Per la prima volta nella sua vita, anche se era stata preparata ad affrontare una situazione simile, Eleona rimase senza parole, lasciando che il silenzio calasse su di loro mentre il sole a picco della giornata estiva decretava una volta di nuovo il loro ritardo. «Un giorno, temo, lo scoprirai. E quel giorno ogni cosa ti sembrerà più brutta e più difficile. Tu però dovrai fare come ti ho insegnato. Chiudi gli occhi, respira e concentrati. Niente potrà fermarti.» «Ma tu…tu ci sarai quel giorno?» La donna indugiò un istante, poi annuì e sorrise. «Sì, io ci sarò.» † «Quella ragazza se ne deve andare, CHIARO?» sentenziò il signor Oltan con un tono aspro e secco che non gli apparteneva e che la moglie non aveva mai conosciuto fino a quel momento. Aaton Oltan sembrava una bestia inferocita mentre Vylia, stringendo la spalliera di una sedia, tentava inutilmente di domarlo. Il figlio era stato da tempo spedito in camera, accompagnato da Eleona, consapevole che quella sarebbe stata, con tutta probabilità, l’ultima mansione che avrebbe svolto come governante di Greg. Era bastata una parola, solo quella per scatenare la bufera in casa Oltan. Greg che per difendere Eleona dal ritardo con cui erano arrivati a pranzo, aveva ammesso la sua colpa dicendo di averle chiesto chi fossero gli Altissimi. Suo padre da alterato era diventato prima paonazzo e poi furioso: aveva ruggito alla ragazza di mettere a letto Greg immediatamente per il sonnellino pomeridiano, per poi presentarsi di nuovo in sala da pranzo e rassegnare le proprie dimissioni irrevocabili.
La ragazza ridiscese nella sala mantenendo la testa eretta e lo sguardo fisso, mostrando così la propria dignità anche in quel momento. I suoi movimenti non tradivano la calma che regnava dentro di lei. Per quanto quel momento fosse delicato, era ormai consapevole di aver assolto il suo incarico. La ragazza non si mosse dall’ingresso della sala, la fronte del signor Oltan si aggrottò, poi diresse il suo sguardo di rimprovero alla moglie e le ordinò di uscire dalla stanza. Rimasero soli, in silenzio per lunghi istanti, durante i quali l’uomo parve riacquistare la sua consueta e fredda tranquillità. «Siediti» disse, anche se nel suo invito non vi era traccia di cordialità. «Ti hanno mandata loro, non è vero?» le chiese prendendo posto a sua volta e facendo roteare, forse inconsapevolmente, gli occhi verso l’alto. Eleona non era certa che dare spiegazioni fe parte dei suoi compiti, ma quell’uomo, se nelle vesti di uomo d’affari voleva delle delucidazioni, in qualità di padre le esigeva. Annuì ma non aggiunse nient’altro. «Non si fidano più di me, forse?» chiese il signor Oltan con sguardo interrogativo, per un attimo lo sfiorò l’atroce pensiero che quella donna fosse stata inviata lì per portargli via suo figlio. Quel “forse” si protrasse a lungo, come l’incertezza che portava dentro di sé. Eleona colse il terrore negli occhi dell’uomo «Non sono a conoscenza del loro pensiero in proposito, né potrei pensare di comprendere la mente di creature tanto superiori. Il mio compito era quello di accertarmi della salute del bambino e che tutto andasse secondo il loro volere». Oltan non parve soddisfatto dalla risposta e la incalzò, con voce dura. «Non vi permetterò di portarmi via mio figlio, qualunque sia il suo destino. È solo un bambino». Lo sguardo di Eleona si addolcì, ma quando parlò nuovamente la sua voce era tornata risoluta così come la sua espressione «Nessuno ha intenzione di portarle via suo figlio ma deve abituarsi all’idea che un giorno tale fatto sarà irrevocabile».
Aaton una volta ancora si rese conto di quanto scomoda fosse la sua posizione: per quanto il bambino fosse stato affidato a lui persino un’estranea poteva arrivare a dirgli cosa fare. Eleona non attese altre parole, ritenne la discussione terminata, si alzò e sparì, lasciando lì Aaton da solo, con l’unico pensiero che gli sembrasse ragionevole in quel momento. Nessuno gli avrebbe portato via il figlio. †
«Mi raccomando, Gregris Iranon Oltan, comportati come si addice a un giovanotto dell’alta società» cantilenò per l’ennesima volta Vylia Oltan mentre sistemava il colletto del figlio che si ostinava a non voler agganciare alla fibbia. Quando lo chiamava col nome completo, aggiungendovi anche il cognome, la questione era seria. Greg, all’età di otto anni, non era ancora consapevole del fatto che il nome della sua famiglia e la sua posizione sociale dovessero costituire per lui motivo di vanto. Non lo sarebbero stati nemmeno nove anni più tardi ma sua madre non avrebbe mai perso la speranza che il figlio, presto o tardi, lo comprendesse. Prima o poi avrebbe scoperto che il suo era stato tutto fiato sprecato e che, erede o no di una delle famiglie più in vista di Selthon, avrebbe sempre preferito giocare e trascorrere il suo tempo con persone appartenenti a classi sociali inferiori. Il padre, poco distante, si accucciò fino all’altezza dei suoi occhi per assicurarsi che non fe soltanto finta di ascoltare. «Sei il figlio del nuovo amministratore in capo del commercio marittimo imperiale. La cena di stasera è in onore di una persona molto, molto importante. Non cacciarti in nessun guaio. Non sei con i tuoi amici». Greg si limitò ad aggrottare le sopracciglia e a emettere uno sbuffo infastidito. «Sono stato chiaro?» chiese il genitore con veemenza e ignorando la protesta. Dopo un nuovo sbuffo, Greg annuì con poca convinzione, suo padre dovette giudicare la risposta soddisfacente, quindi gli scoccò un’occhiata preoccupata e si voltò, raggiungendo la porta e calandosi in un pesante cappotto bordato di pelliccia grigia.
Due cameriere aiutarono sua madre a infilarsi un soprabito di pelliccia mentre la sua bambinaia gli infilò il cappotto. A otto anni era forse uno dei pochi bambini che ancora fosse costretto ad averne una, cosa che non mancava di destare l’ilarità dei suoi amici, primo tra tutti Mark. Fuori li attendeva la vettura privata del padre: nell’oscurità dell’inverno la carrozzeria argentata riluceva appena. Era raro vedere vetture del genere a Selthon portuale, Greg stesso aveva visto l’auto forse una o due volte e quella era la prima volta che vi avrebbe viaggiato. Le portiere si aprirono su entrambi i lati e lui sedette in mezzo tra i genitori, leggermente pressato, mentre poco dopo la vettura si allontanava dalla casa. Da settimane sentiva parlare di quella cena: impossibile, nonostante i non pochi sforzi, sottrarsi a quell’onere. Per quanto Greg sarebbe stato molto felice di non prendervi parte e normalmente così sarebbe stato, sua madre giudicava essenziale, per l’immagine del marito, che anche lui fosse presente, per quello che chiamava “il loro ingresso in società”. Greg aveva storto il naso, aveva protestato invano, era stato costretto a sorbirsi settimane di battute da parte dei suoi amici, poi era giunto finalmente il giorno del galà: sua madre aveva ato tutto il giorno affaccendata negli ultimi preparativi, costringendo Greg a seguirla ovunque andasse, con la scusa che anche lui dovesse provare i vestiti per l’evento. Più volte, durante il viaggio attraverso le colline di Selthon, Greg aveva tentato di ribellarsi a quegli abiti scomodi che gli pareva lo fasciassero ovunque. Nemmeno la fibbia che sua madre si era impuntata a volergli allacciare a tutti i costi era riuscito a sciogliere. Il viaggio trascorse nel silenzio, interrotto però dai commenti di sua madre a proposito di quanto fosse necessario anche per loro possedere una villa fuori città. Il padre, alle numerose e petulanti richieste della moglie, si era limitato a rispondere con profondi quanto seccati grugniti. Dopo poco più di dieci minuti la donna si era stufata e, a sua volta, aveva assunto un’espressione imbronciata e aveva incrociato le braccia, limitandosi a osservare il paesaggio fuori dal finestrino, sognando una villa tutta per sé. La vettura borbottava sommessamente percorrendo la strada recentemente realizzata, mentre fari azzurri illuminavano gli alberi ai lati della strada, disegnando contorni e ombre innaturali.
Dopo numerose curve, alle quali Greg non era abituato e che l’avevano fatto preoccupare, la macchina si arrestò. In mezzo alle pellicce voluminose dei genitori Greg non riusciva a vedere fuori dal finestrino, percepì solo numerose luci confuse che, dopo il viaggio trascorso al buio, lo disorientarono per qualche istante. Aaton Oltan e consorte scesero dalla vettura e Greg li seguì a poca distanza, guardandosi finalmente attorno: un lungo viale illuminato da lampioni e contornato da statue e siepi era comparso tutto ad un tratto davanti ai suoi occhi, lasciandolo a bocca aperta. In fondo, dopo un porticato, vi era l’ingresso di una villa in confronto alla quale la loro casa era grande forse la metà della metà. Sua madre, non vedendoselo accanto si voltò, con fare poco signorile afferrò i lembi del suo vestito e con o svelto lo raggiunse, afferrandolo per una mano e trascinandolo con se ad un’andatura che Greg difficilmente riusciva a seguire. Dietro di loro dei rumori li avvertivano che altre vetture stavano sopraggiungendo mentre i tre adesso avanzavano con o spedito verso la villa. Al centro del colonnato circolare nel quale entrarono prima del vero ingresso della villa, campeggiava una grandiosa fontana, riproduzione in scala ridotta ma pur sempre apprezzabile, di quella posta davanti alla Basilica Maggiore di Selthon. Nel gruppo scultoreo troneggiava come un vero signore Leviathan mentre ai suoi lati comparivano figure mitiche minori che Greg, sfuggendo alla presa di sua madre ed avvicinandosi, non riuscì a riconoscere. Si soffermò invece su di una più piccola delle altre, molto simile a un grande rospo. Suo padre gli fu poco dopo accanto, proprio mentre Greg, interdetto dall’interruzione si era sporto per toccarla. Suo padre, stranamente per la sua mole, gli si era praticamente lanciato addosso e, sollevandolo di peso, l’aveva portato via. «Quelli sono favole, non esistono.» aveva detto scandendo le parole con un tono alterato, quasi minaccioso. Greg aveva annuito poi, voltandosi di nuovo, non aveva potuto fare a meno di guardare nuovamente quella statua dalla cui bocca usciva un tenue spruzzo d’acqua. L’ingresso della villa era costituito da due colonne decorate, nel mezzo delle quali era posto un portone in legno, alla cui guardia era posto un servo in livrea
che, inchinandosi brevemente, spalancò i battenti facendoli entrare. Se l’esterno della villa, malgrado l’oscurità, poteva risultare eccessivo, l’interno, in uno scintillare d’oro, di cristalli e di specchi, lo era ancora di più. In un’anticamera li aiutarono a sfilarsi le pellicce mentre qualche istante dopo, due servi, spalancando porte intarsiate d’oro e di pietre preziose, li introdussero nella sala dove la festa vera e propria aveva avuto da poco inizio. Un nuovo valletto, Greg non riusciva a credere che ce ne fossero così tanti, annunciò il loro arrivo e un certo numero di teste che si trovavano nella sala si voltarono, annuirono e sorrisero per poi immergersi di nuovo in concitate quanto superflue conversazioni. Il bambino avanzava nella sala affiancato dai genitori: la mano serrata a quella della madre, per la prima volta si trovava in un ambiente a lui del tutto estraneo e del quale non sapeva niente. Si fermarono numerose volte per ricevere i saluti di altrettanti membri della società selthoniana dei quali Greg non aveva nemmeno sentito parlare. Vylia Oltan, con repentino tempismo, ogni volta che si soffermavano non mancava di stringergli più forte la mano, il segno concordato attraverso il quale gli ordinava di fare un piccolo inchino. Tutti lo trovavano assolutamente somigliante ai genitori, incredibilmente carino e sorprendentemente bene educato, commento per il quale la donna non poté fare a meno di sentirsi gratificata. Altri camerieri, con ampi vassoi tra le mani, gli avano in mezzo e i genitori, come gli altri presenti, non mancavano di servirsi. Greg, annoiato, proseguiva la serata destreggiandosi fra gonne ampie, uniformi di importanti membri dell’impero ed esponenti dell’esercito, facendosi trascinare inerte da sua madre. Raggiunta infine una zona piuttosto densa, dove parevano essersi concentrati gran parte degli ospiti presenti, si fermarono. Si fece silenzio mentre un servo, con voce squillante, annunciava l’arrivo del padrone dicasa, il Cancelliere Samarlec. Uno scroscio di ben educati applausi si riversò sulla sala, sua madre, giunse addirittura al punto di lasciargli la mano pur di prendervi parte. Gli occhi di tutti i presenti furono calamitati su un uomo giovane, i cui abiti risaltavano per magnificenza addirittura sul ricchissimo arredamento della sala. Con misurato gesto della mano salutò gli ospiti, poi si schiarì la voce e parlò. «Benvenuti amici miei.» accennò quindi un sorriso prima che la mano si
muovesse appena in segno di saluto. «Posso dirmi più che onorato di considerare tali molti dei volti che scorgo. Tutti, qui riuniti nel mio palazzo per partecipare alla celebrazione della mia elezione a Cancelliere». Il salone fu di nuovo sommerso da applausi. «Senza il vostro sostegno probabilmente non occuperei questa carica così importante e gravosa, quindi vi ringrazio sinceramente, da vostro pari concittadino, per il grande onore che mi avete reso. Un po’ meno, se me lo concedete, per tutte le notti insonni che da qui in avanti mi attenderanno». Un uomo, in alta uniforme e con dei bizzarri ricami, iniziò a ridere in maniera scomposta e il Cancelliere sorrise, indulgente. «Il Grandammiraglio Wessler deve gradire molto il vino. Cercate di non mostrargli la via per le cantine o la festa terminerà a breve.» Un buon numero di risate si alzò dalla sala e un ugual numero di teste si voltò per osservare l’Ammiraglio stringere il calice impietrito. Dopo un istante di imbarazzo, l’ufficiale sorrise e chinò modestamente la testa, non senza prima aver accennato a un brindisi. Il Cancelliere, con un pacato gesto della mano calmò i nuovi applausi, ancora più fragorosi dopo il primo brindisi, dopodiché sorrise e riprese la parola. «Siete tutti a conoscenza di quanto il nostro impero sia stato recentemente, prima della mia elezione, esposto al rischio di una guerra civile. Il divino imperatore non ha però accettato un compromesso tanto vile e, suggellando la mia nomina, ha messo fine alle ostilità» gli applausi, sebbene numerosi, si fo questa volta con il brusio di sottofondo. «Ringraziandovi di nuovo per aver accettato il mio invito, da bravo padrone di casa, non mi resta altro da aggiungere…», gli fu porto un calice ingioiellato colmo di vino. Lo levò in alto, invitando anche i presenti a fare lo stesso e, in un finale scroscio di applausi, alzando leggermente il tono di voce ed aggiungendovi enfasi disse: «Che la festa abbia inizio!»
†
Pochi minuti dopo Greg si ritrovò da solo mentre i genitori, insieme ad altri ospiti, provavano ad avvicinarsi al Cancelliere per omaggiarlo. Vagò un po’ per la sala, guardandosi attorno, poi la sua attenzione si diresse verso un gruppo di bambini, forse della sua stessa età, che non aveva notato prima. Probabilmente anche loro erano stati trascinati lì a forza dai rispettivi genitori. Si avvicinò, ve n’erano quattro in cerchio, di spalle, li osservò per qualche secondo senza riuscire a capire cosa stessero facendo, poi uno di loro proruppe in un grido di sorpresa, aprendo appena il cerchio e lasciando a Greg l’opportunità di vedere meglio. Un ragazzino alto, forse poco più grande, mostrava orgoglioso la sua mano destra, nella quale, ardente, custodiva una palla di fuoco. Gli altri tre bambini erano rimasti a bocca aperta di fronte a quell’apparizione così prodigiosa, Greg, non da meno, vinse l’imbarazzo e gli si avvicinò. «Tu cosa vuoi?» chiese il ragazzino, guardando il nuovo venuto dall’alto in basso. Greg restò in silenzio per qualche secondo, tanto che l’altro parve spazientirsi, facendo sparire la fiamma dal palmo e ripetendo nuovamente la domanda, stavolta con un tono ancora più infastidito. «Come ci sei riuscito?» chiese, affascinato, evitando di rispondere alla domanda che, probabilmente, non aveva nemmeno sentito. L’altro proruppe in una risata divertita, alla quale seguirono anche quelle degli amici e della bambina che era con loro e che Greg non aveva precedentemente notato. «Che ignorante che sei» disse uno degli altri. «Ma dove hai vissuto fino a adesso?» gli fece eco un altro. Intervenne la bambina, con voce minuta ma penetrante: «Questa è magia, diventerà un mago!» Greg, dimenticando le parole poco amichevoli che gli erano state rivolte, osservò ammirato il ragazzino che, orgoglioso, sorrideva con le braccia conserte. «Come si fa a diventare un mago?» chiese mentre nei suoi occhi brillava una
luce d’entusiasmo. Era un concetto vago, appena formato, ma di una lucentezza così inaspettata, che sfolgorò tra i suoi pensieri. L’altro scosse la testa. «Tu vorresti diventare un mago?» disse col tono di chi è stato offeso. «Non dire sciocchezze. E anche se dovessi riuscirci non saresti mai alla mia altezza, io sarò presto istruito dal Cancelliere in persona, il più grande e potente mago del mondo». Gli altri annuirono, Greg si imbronciò ed iniziò a pensare. «Perché io non posso?» chiese poi, ingenuo. Il ragazzino rise di nuovo e nei suoi occhi brillò una luce sinistra, totalmente diversa da quella che poco prima era baluginata negli occhi di Greg. «Beh, se proprio ci tieni, vediamo se riesci a fare quanto ho fatto io!» e rise di nuovo, a crepapelle. «Ma io non so come si fa» protestò Greg. L’altro lo assecondò e rispose con tono di sfida. «Pronuncia le parole “mej far ruby” e stendi la mano davanti a te». Greg lo guardò perplesso. «Ci vuole così poco?». L’altro gli lanciò uno sguardo obliquo, il suo sorriso di sfida divenne un ghigno. «Prova, vediamo di cosa sei capace». Greg tentò: la prima volta non ottenne niente, solo le risate degli altri bambini, la seconda fu peggio della prima, le risate crebbero d’intensità, alla terza Greg iniziò a perdere la pazienza e il tono della sua voce crebbe e senza preavviso una debole luce lampeggiò nella sua mano, seguita da piccole volute di fumo. Le risate cessarono improvvisamente, mentre dietro di lui qualcuno aveva iniziato a battere dolcemente le mani. Greg continuò a non capire fino a quando non vide i tre bambini esibirsi in un inchino e la bambina fare una riverenza: a quel punto non gli restò che voltarsi, trovandosi faccia a faccia con l’uomo che poco prima aveva accolto i suoi ospiti all’interno della sua villa. «Non ho potuto fare a meno di notare strani movimenti da queste parti della sala. Non mi stupisco di vederti all’opera, piccolo Laukros. La capacità di mostrare in
pubblico le tue doti è lodevole ma attento, si può rivelare un’arma a doppio taglio. Puoi sempre scoprire l’esistenza di qualcuno più bravo e dotato di te» disse il Cancelliere con voce indulgente. Il ragazzino chinò appena la testa, Samarlec sorrise, poi diresse la sua attenzione verso Greg. Si inginocchiò fino a trovarsi con la faccia davanti alla sua. «Non credo di averti mai visto, come ti chiami?» Greg, ricordando gli insegnamenti pressanti di sua madre ma non essendo mai stato istruito su come si sarebbe dovuto esprimere di fronte al Cancelliere in persona, decise di inchinarsi e poi presentarsi. «Mi chiamo Greg Oltan, figlio di Aaton Oltan, amministratore delle attività di Selthon portuale». Gli altri bambini sghignazzarono mentre il Cancelliere, non badandovi, sorrise, annuendo. «Piacere di conoscerti Greg Oltan. Conosco di vista tuo padre, ma non sapevo che suo figlio possedesse poteri magici». Greg spalancò la bocca, lo sghignazzare degli altri bambini cessò improvvisamente. Poco dopo, trafelati, giunsero i suoi genitori, suo padre, col fiatone, non riusciva a parlare. «Dove eri andato a finire, ti abbiamo cercato ovunque, per colpa tua non siamo riusciti nemmeno a rendere omaggio al Cancelliere» proruppe sua madre furibonda. Suo padre lo fissò con disappunto mentre l’uomo chinato si alzava ed eseguiva un breve inchino di fronte ai nuovi venuti per porgergli poi i suoi omaggi: «Miei graditi ospiti, voi dovete essere i genitori di questo bambino, non è vero?» Vylia Oltan si lasciò scappare un gridolino di stupore, subito dopo, ricomponendosi, si esibì in un profondo inchino, imitata immediatamente dal marito. «Alzatevi pure, non è necessaria tuta questa formalità» disse gioviale l’uomo. Suo padre balbettò qualcosa a proposito del grande onore di poterlo conoscere personalmente, Samarlec lo interruppe con un lieve gesto della mano: «Per caso eravate a conoscenza delle potenzialità di vostro figlio?». «Gr-Gre-Gregris?» chiese la donna con una nota di disappunto. «Mia signora, non sapeva che suo figlio possiede doti magiche naturali? Sono convinto che potrebbe divenire un ottimo mago se ben seguito».
Vylia sgranò gli occhi sorpresa, suo padre iniziò a boccheggiare e ad ansimare mentre diveniva rosso in volto. «Davvero?» chiese poi, sperando che il Cancelliere scherzasse o che si stesse sbagliando. «Certamente Amministratore Oltan, l’ha appena dimostrato materializzando una piccola sfera di fuoco» confermò il Cancelliere con tranquillità. Aaton Oltan aveva udito abbastanza: balbettando e adducendo motivazioni molto poco credibili si scusò infinitamente col Cancelliere, poi, seguito da sua moglie e dal figlio che ancora faceva fatica a capacitarsi del fatto che fosse riuscito a far comparire una fiamma nella sua mano, abbandonò la festa. Vylia Oltan, perdendo il suo contegno abituale, sbraitò dietro al marito un numero inverosimile di proteste, Aaton Oltan, più avanti, nemmeno la sentiva mente con o veloce e serrato malgrado la mole, trascinava suo figlio per un braccio. Greg sballottato a destra e a sinistra dall’impetuosità del padre, che in vita sua non aveva mai visto esplodere in un modo così incontenibile e così difficilmente identificabile, era con la testa da tutt’altra parte, pensava alle parole del Cancelliere, pensava di nuovo alle sensazioni che, in quei pochi secondi, aveva avvertito evocando quella sfera di fuoco. In macchina, sua madre non disse una sola parola mentre suo padre si limitava a grugnire con impazienza. Greg, nel mezzo, continuava a non capire cosa stesse accadendo, chiedendosi se non avesse fatto qualcosa di sbagliato. Poi, con l’ingenuità che aveva sempre mostrato di possedere, chiese: «Padre, posso diventare un mago da grande?» L’uomo avvampò di colpo e l’autista per poco non dovette fermare la macchina dallo spavento: «TU NON SARAI MAI UN MAGO, NÈ DOMANI NÈ MAI! TU PRENDERAI IL MIO POSTO DI AMMINISTRATORE E A TUA VOLTA LO TRASMETTERAI AI TUOI FIGLI E SARA’ COSI’ FINCHE LE LUNE STARANNO IN CIELO, SONO STATO CHIARO?» Greg lo fissò qualche istante poi annuì e rimase in silenzio per tutto il resto del viaggio.
Aaton Oltan, dopo una discussione piuttosto accesa con la moglie, faticò molto a prender sonno quella notte mentre parole e immagini di anni prima gli comparivano davanti ogni volta che cercava di chiudere gli occhi. Normalmente avrebbe provato a scacciare i suoi incubi considerandoli nient’altro che sciocchezze, ma quell’avvertimento, chiaro quanto lampante, trasformava quegli incubi in realtà, in una verità scomoda e per niente facile da accettare, una verità che per quanto gli sarebbe stato possibile, avrebbe nascosto a tutti, compresa sua moglie. Ma non sapeva che il corso degli eventi profetizzato anni prima si era inevitabilmente messo in moto come ingranaggi di un orologio enorme e complicato, ingranaggi che però, era convinto, e se lo era ripromesso più volte, avrebbe provato ad inceppare e a sabotare in tutti i modi.
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Era stato chiaro, chiarissimo: le aveva dato appuntamento sull’Isola Dalaethitia, dove era tradizione che tutti gli innamorati si dichiarassero. “Impossibile che abbia frainteso l’ora e il luogo” disse tra sé Mark che, spazientito, andava con lo sguardo da una parte all’altra della terrazza affacciata sulla baia di Selthon mentre l’orologio ad acqua che fungeva anche da ornamento al centro della piazza gli annunciava il ritardo della ragazza. Da un tempo imprecisabile attendeva quel momento, l’aveva sognato per mesi, anni, senza farne parola con nessuno, poi aveva finalmente trovato il coraggio di affrontare la questione dal principio. Si sarebbe dichiarato a Lisa e il mazzo di fiori che stringeva in mano ne era la dimostrazione. Si era riassettato a dovere per l’occasione, indossava abiti che sua nonna gli aveva confezionato a mano ma che non aveva osato chiedere a cosa servissero anche se, ne era sicuro, lei gli aveva sorriso più volte mentre prendeva le misure. Tirò un calcio a un sassolino isolato nella piazza, spingendolo verso il baratro, al di sotto del quale vi erano solo le onde che si infrangevano contro gli scogli. Guardò di nuovo verso l’Oceano, verso quel sole che stava tramontando lento ma costante, anche lui partecipe nel fargli notare il ritardo della ragazza. Emise un lungo respiro mentre con una mano cercava di riassettare il mazzo di
fiori che, ribelle, sembrava voler apire da un momento all’altro. Poi, un rumore di i concitati, lo avvertì dell’arrivo forsennato di qualcuno. Si guardò attorno e non vide nessuno, poi scorse una chioma bionda ed il cuore dal petto gli balzò in gola mentre il sangue tamburellava nelle sue orecchie. Era Lisa, non c’erano dubbi. Le andò incontro con un grande sorriso, sperando che lei ricambiasse a sua volta. L’espressione di Lisa era tutto tranne quella che si sarebbe potuto aspettare: era preoccupata ed incredibilmente allarmata, il fiato corto non era da lei, da piccola era la più veloce di tutti, doveva aver corso per parecchio tempo. Era accaduto qualcosa di grave ma, che fosse ringraziato Leviathan, niente che riguardasse lei, o almeno sperava che così fosse. Attese che riprendesse fiato poi, in maniera piuttosto scontrosa, le chiese: «Cos’è successo? Perché stavi correndo?» «Greg» iniziò, ancora col fiatone, «È stato bloccato da Laukros Wessler e i suoi. Da solo non ce la farà mai» Sul volto di Mark calò immediatamente un’ombra oscura. Non poteva perdere, non questa volta, si disse mentre afferrava la mano della ragazza per condurla nel luogo dove si sarebbe voluto dichiarare. Per fortuna non si era ancora accorta del mazzo di fiori che teneva ancora nascosto col braccio libero dietro la schiena. Lei afferrò la mano ma invece di seguirlo girò nella direzione opposta a quella dalla quale era venuta. Mark rimase sconcertato e puntò i piedi. «Dove stiamo andando?» chiese, contrariato, sperando di non aver interpretato correttamente l’idea della ragazza. «Ad aiutare Greg, potrebbero fargli del male!» disse lei guardandolo fisso negli occhi. Mark distolse lo sguardo mentre dietro di lui sentiva la mano che reggeva i fiori contrarsi in un pugno, chiudendo in una morsa gli steli. In un attimo incrociò gli occhi supplicanti della ragazza, socchiuse i propri, il fiordaliso degli occhi di Lisa si era stampato nella sua mente, sovrapponendosi ai pensieri. Annuì, quando riaprì gli occhi stava già correndo. Un mazzo di fiori ricadde nell’oceano e, senza che nessuno dei pochi presenti sulla terrazza vi prestasse attenzione, fu risucchiato dai gorghi che si infrangevano contro gli scogli.
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Non si era accorto di essere seguito, almeno fino a quando non si era trovato circondato e con la strada sbarrata. E, una volta ancora, si accorgeva di quanto poco fosse piacevole incontrare, da solo soprattutto, Laukros Wessler e i suoi amici. Aveva respirato a fondo mentre lui gli si era avvicinato con aria di sfida, cercando di trattenersi, attendendo che fosse l’altro a compiere la prima mossa. «Che ci fai da queste parti Oltan? Non sai che è pericoloso andare in giro da soli?» gli altri si erano messi a ridere, scambiandosi sguardi d’intesa. «Piuttosto, ciò che mi chiedo è cosa ci facciano i giovani esponenti dell’aristocrazia selthoniana in giro per quartieri così umili. Non credevo che i vostri nobili genitori ve lo consentissero» rispose, dopo aver valutato la situazione. I sorrisi sui volti dei tre si piegarono e le risate si interruppero. Greg, con lo sguardo fisso verso un punto oltre le teste dei suoi assalitori, riprese il suo cammino, respirando lentamente e cercando di non mostrarsi nervoso, sperando che quelle parole avessero potuto intimidire e frenare i piani dei tre. L’assalitore alle sue spalle non si mosse, ò oltre il secondo ma quando giunse all’altezza di Laukros quest’ultimo attese che gli fosse accanto per sferrargli un pugno allo stomaco. «Pensavi forse che ti avremmo lasciato andare? Credevi che le tue parole potessero porsi a freno delle nostre azioni? La feccia e il marcio che si respirano a Selthon sono mali che vanno estirpati. Persone come tuo padre non dovrebbero essere scelte per assumere incarichi importanti, stai certo che non permetteremo che un giorno tu ne prenda il posto» disse Laukros mentre fissava Greg che, colpito in maniera inaspettata, si teneva lo stomaco. «Non sai quanto te ne sarei grato. Senti quanto pesano gli insegnamenti!» Greg,
afferrata la sacca nella quale erano riposti i libri e i quaderni delle sue lezioni, la diresse contro il volto dell’assalitore che, stupito, non riuscì a bloccare il colpo e finì a terra. Gli altri due gli furono subito accanto per aiutarlo a rialzarsi ma Laukros, scoprendo il viso, allontanò con rabbia gli amici, rivelando un labbro sanguinante. «No, Oltan, non avresti dovuto colpirmi così. È stato un errore, un grosso errore da parte tua. Non puoi neanche lontanamente immaginare quello di cui potrei essere capace di farti, il divario tra noi è troppo grande. Preparati, avrai una lezione indimenticabile questa sera» disse, dopodichè alzò la mano sopra la testa in un gesto solenne, socchiudendo gli occhi e corrugando la fronte. Greg arretrò di qualche o mentre nella mano del rivale si condensava quella che non aveva avuto grossi dubbi nel riconoscere come una palla di fuoco, doveva essere una mej. Rotolò sulla schiena mentre l’incantesimo si abbatteva sul lastricato. «Non pensare di essere stato agile a scansarla, questo era solo un avvertimento. Non senti come si alza la temperatura? Forse preferisci qualcosa di più fresco?» rise sarcastico l’altro mentre, tenendo la mano questa volta concentrata a pugno, scagliava contro Greg sottili aghi di ghiaccio. Un balzo non gli fu sufficiente per scansarli tutti e qualcuno gli si infilò nel braccio e nella spalla, facendolo urlare di dolore e cadere a terra, perdendo i sensi. Risate e cori in onore di Laukros si alzarono nella strada deserta mentre Greg, inerme e ancora dolorante, stentava ad alzarsi sul braccio illeso. Si voltò, avvetendo una nuova fitta: non si era reso conto che alcuni di quei cristalli si erano conficcati dolorosamente anche nel fianco e nella coscia destra. «Credo che la dimostrazione della vostra forza e della vostra astuzia sia sufficiente per stasera» disse una voce che, fino a quel momento, aveva taciuto ma che Greg, benché confuso, era sicuro non appartenesse a nessuno di sua conoscenza. «Non sono affari che riguardano uno sconosciuto» ribatté Laukros, stringendo i pugni e avvicinandosi al nuovo arrivato che Greg faticava a identificare dalla posizione nella quale si trovava.
«Non è da me prendermela con persone nettamente inferiori» rispose con tono canzonatorio l’uomo, poi con voce ferma ma posata aggiunse: «Ma se mi costringi a darti una lezione avrai di che pentirtene, te lo assicuro. Conosco trucchetti che nemmeno immagini». Laukros indietreggiò per un attimo, poi tornò col busto avanti, in segno di nuova sfida, deciso a non lasciarsi intimorire dalle non tanto velate minacce di uno sconosciuto: «Sono un allievo del Cancelliere Samarlec e non si può rivolgere a me così, io…» non ebbe tempo di finire la frase, gli altri due già indietreggiavano mentre qualcosa di strano accadeva a solo pochi i da Greg che non riusciva a vedere se non con la coda dell’occhio. Ciò che accadde durò un attimo: solo pochi istanti dopo udì Laukros mormorare in fretta e con un tono di supplica parole di scusa per poi darsi a una fuga poco decorosa. Greg tentò di alzarsi ancora, poi avvertì distintamente la presenza del suo inaspettato salvatore, provò a voltarsi così da poterlo guardare in faccia e ringraziarlo. L’altro non parlò e gli pose le mani sulle parti colpite. Un senso di calore diffuso si impadronì di Greg, tepore e pace lo invasero, percorrendo il suo corpo come un’onda benefica. Era una sensazione mai provata, strana, ma sentì di nuovo di poter muovere la spalla, il braccio e la gamba senza avvertire dolori acuti. Greg mormorò un ‘grazie’ ma lo sconosciuto se ne era già andato. Quando poco dopo si rimise in piedi ed avvertì il rumore di persone che correvano affannate, scorse Lisa e Mark e li salutò con un breve gesto della mano. «Se ne sono andati?» chiese la ragazza affaticata, gettandoglisi al collo. Greg rispose con un cenno della testa. «Quanti erano?» chiese Mark che, a qualche o, studiava l’amico a braccia incrociate. Lisa allentò la presa al collo di Greg e quest’ultimo parlò. «Erano Laukros e i suoi amici. Tre giovani rampolli annoiati. Questa volta ci sono andati giù pesante» disse con amarezza. «Mi pare tu sia sano e salvo, non vedo tracce di contusioni sul tuo corpo» rispose sarcastico Mark mentre dentro di sé quasi sperava di veder l’amico almeno con un occhio nero. Sarebbe stato il minimo per ciò a cui aveva dovuto rinunciare. «La mia è stata solo fortuna. Questa volta Laukros ha usato la sua magia per
colpirmi» fece una pausa, toccandosi inavvertitamente la spalla ed il braccio, ma Mark comprese cosa stava per dire. «E ci è riuscito. Poi è intervenuto uno sconosciuto, non ho idea di chi fosse e li ha scacciati per poi guarire le mie ferite. Si è allontanato da poco, forse l’avete incrociato». Mark e Lisa si scambiarono un’occhiata indecisa, poi entrambi scossero la testa, dicendo di non aver incrociato nessuno sulla loro strada. Greg alzò le spalle, perplesso, mormorando tra sé quanto fosse stato fortunato quel giorno, poi raccolto lo zaino, questa volta non più da solo, riprese la strada che lo avrebbe riportato a casa.
Capitolo II
Vento di cambiamenti
La Cattedrale delle Rocce era un luogo atipico sotto molti punti di vista: si trovava a diverse decine di metri sotto la superficie terrestre e, oltre ad essere costruita in roccia calcarea, era praticamente inaccessibile a chiunque non fosse autorizzato. La Cattedrale aveva anche un’altra insolita caratteristica: era spoglia di ornamenti di, peraltro, inutili vetrate e dipinti, fatta eccezione per un solo, modesto cofanetto, posto proprio sull’altare principale. Altre due erano le peculiarità della costruzione: in primo luogo non vi era ormai praticato nessun tipo di culto, in secondo luogo custodiva gelosamente uno dei segreti più importanti del pianeta. Da secoli, tale segreto era tenuto al sicuro, difeso da una nutrita schiera di guardie con l’ordine di fermare chiunque non fosse un membro della famiglia reale. Una dozzina di guardiani renodiani si trovava in quel momento a circondare il cofanetto, rischiarati dalla luce tremula di lanterne verde smeraldo. La piccola guarnigione, ben addestrata, era praticamente indipendente: avrebbero potuto sopravvivere laggiù per anni interi ma l’impossibilità della cosa rendeva necessario un periodico e parziale ricambio degli uomini ad essa indirizzati. I futuri incaricati alla protezione del cofanetto, precedentemente scelti tra i più qualificati elementi dell’esercito di Renodia, subivano una rigida selezione durante la quale erano sottoposti a impegnativi addestramenti che mettevano a dura prova il loro fisico e la loro mente. Solo i migliori e i più fidati avevano accesso a quel luogo. Mankalar, il capitano della guardia e dodici reclute erano giunti sottoterra per dare il cambio al capitano Olgasth e alla metà dei suoi uomini: la guarnigione era in tutto composta da ventiquattro uomini più un capitano che, ogni tre mesi insieme con le nuove guardie, rimpiazzava l’altro. Mankalar non era quello che si poteva esattamente definire un uomo di bell’aspetto, almeno da quando aveva
ormai sorato la cinquantina e, per metà dell’anno, era segregato in quel luogo dimenticato da tutti. La muscolatura, un tempo vigorosa, si era così inevitabilmente afflosciata col peso degli anni e di una vita del tutto sedentaria. In quel luogo così sperduto e sul quale regnava una tranquillità quasi totale, era impossibile non abbandonarsi al consumo ozioso di vino e cibo. Quando, dieci anni prima, gli era stato destinato quell’incarico, non si sarebbe mai aspettato la mancanza totale di stimoli a cui si era invece sottoposto. In superficie non aveva più nessuno ad aspettarlo: era vedovo ormai da molto tempo e non aveva avuto figli. La sua esistenza, gli anni che gli restavano da vivere perlomeno, sarebbero stati quindi interamente dedicati a quel lavoro di stretta sorveglianza, fatto di infiniti turni di guardia, pasti in comune e frequenti sbornie. Se a ciò si aggiungeva l’obbligata mancanza di compagnia femminile, non era difficile comprendere perché il ricambio di uomini laggiù fosse così frequente. Mankalar sospirò, voltandosi nell’osservare i dodici uomini che componevano il suo seguito e che per tre mesi sarebbero stati al suo comando: molti erano ancora giovani, probabilmente provenivano dalla cavalleria del principe Deidar, altri erano soldati maturi ed esperti. Aveva esaminato minuziosamente tutte le schede personali degli uomini e da uno di essi era rimasto stranamente colpito: si trattava di un giovane, di non grande esperienza sul campo di battaglia, ma che durante le selezioni aveva dimostrato di possedere abilità fisiche fuori dal comune. In più, in una postilla, era segnalata la sua unica particolarità fisica, una caratteristica unica per un essere umano: aveva le iridi molto chiare, quasi bianche. Mankalar lo osservò di nuovo: non aveva un’aria minacciosa, al contrario, pareva piuttosto innocuo mentre se ne stava tranquillamente accucciato in un angolo del carrello metallico che li stava trasportando alla Cattedrale. Non gli aveva mai rivolto la parola durante il tragitto, probabilmente era una persona taciturna e riservata. Ad ogni modo non sarebbe stato semplice per una persona con quel carattere vivere per mesi in un ambiente tremendamente ristretto, nel quale la collegialità era una scelta obbligata e i momenti per stare soli con se stessi erano praticamente inesistenti. Un clangore e un debole fischio avvertirono il capitano e i suoi uomini, compreso il soldato taciturno, che il loro tragitto sotterraneo si era concluso. Scesero alcune rampe di scale in pietra e giunsero in un grande atrio, occupato da due solidi tavoli in legno di quercia e da quattro grandi panche. Per quanto l’ambiente fosse ristretto e alquanto umido, Mankalar era arrivato al punto di considerarlo quasi come la sua seconda casa: quella vera, in superficie poteva dirsi non meno spoglia della sua stanza in pietra e il suo letto non meno comodo.
Inoltre non rimpiangeva i pasti consumati nel silenzio o le notti insonni, occupate dai mille ricordi che gli affollavano la mente. Laggiù, perlomeno la distrazione era assicurata. L’aria umida e l’odore di chiuso gli penetrarono familiarmente nelle narici; chiamò così a gran voce il compagno Olgasth. Qualche istante dopo, il capitano della guardia uscente, seguito da una dozzina di uomini, varcava la porta di legno posta all’estremità opposta della sala, l’accesso ai dormitori. I due si strinsero calorosamente la mano: in gioventù erano stati compagni d’armi e dopo avevano accettato di comune accordo il compito di sorvegliare quel luogo e soprattutto ciò che custodiva. Olgasth era molto simile a Mankalar, fatta eccezione per l’espressione perennemente rubiconda dipinta sul viso. Le due truppe eseguirono reciprocamente il saluto militare renodiano, dopodiché Olgasth ed i suoi uomini si congedarono per poi risalire in superficie. L’altra dozzina di uomini apparve poco dopo per darsi da fare con la preparazione del pranzo, apparecchiando le tavole e servendo le pietanze nei piatti. Mankalar invitò i nuovi arrivati, dopo aver posato i loro oggetti personali, a prendere posto nelle tavolate. Infine sedette, come suo solito a capotavola e, dopo il discorso d’occasione alle nuove reclute, si avventò sul piatto, seguito e imitato dai suoi ventiquattro uomini.
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Il pasto si era concluso nella tranquilla ilarità generale, constatò soddisfatto il capitano Mankalar. Congedò i dodici uomini già presenti, mandandoli nel grande dormitorio comune per il loro turno di riposo mentre, seguito dai suoi uomini, si apprestava a raggiungere la vera e propria Cattedrale delle Rocce. I loro i rimbombavano nelle sale deserte e nei corridoi illuminati da lanterne. Oltrearono antichi portali di pietra e scesero alcune rampe di scale, preceduti dalla guida di Mankalar, fino a giungere presso un possente muro decorato dal bassorilievo di un unicorno. I dodici uomini si osservarono attorno, incuriositi dal motivo per cui il capitano si fosse improvvisamente arrestato, benché nessuno avesse, ovviamente, pensato di interrogarlo a tal proposito. Mankalar, in risposta al consueto disappunto, parlò.
«Questa è la porta d’accesso alla Cattedrale. Non è una porta qualsiasi, come potete ben vedere ma una protezione magica per gli intrusi. Quando siamo scesi sono state momentaneamente sollevate tutte le protezioni, ma questa è l’unica di esse impossibile da debellare. Solo gli esseri umani e gli Esperidi possono attraversarla. Questa porta, in caso di attacco diretto, rimane l’ultimo baluardo e l’ultima difesa tra noi e chiunque voglia impadronirsi del segreto della Cattedrale. Dopodiché sarebbe la volta delle armi, nell’uso delle quali so che siete tra i migliori del regno. Spiegato e chiarito questo punto possiamo iniziare con l’attraversamento» concluse asciutto. Le nuove guardie sembravano piuttosto rallegrate dall’esistenza di una simile difesa che, di certo, avrebbe scoraggiato qualsiasi intruso dallo scendere fin là sotto. Mankalar bisbigliò alcune parole e con un ampio movimento del braccio rimosse il sigillo. Una luce abbagliante si sprigionò dal bassorilievo e il muro si aprì, dapprima con uno spiraglio, per poi raggiungere un’estensione tale da far are comodamente quattro uomini per volta. La luce si affievolì ma una sorta di barriera, che lasciava intravedere, in maniera confusa, l’interno della Cattedrale, continuò a persistere tra i battenti. Mankalar si posizionò sul lato destro della porta mentre osservava l’ingresso in fila dei suoi uomini. Per ultimo venne il soldato con le iridi bianche: il suo o sembrava incerto e la fronte era corrugata, come se fosse dubbioso sull’esito dell’attraversamento. Il suo atteggiamento insospettì non poco il capitano che con lo sguardo cercò quello dell’uomo nel momento in cui attraversava la barriera. Senza preavviso una nuova luce abbagliante si sprigionò dalla porta, seguita da un grido feroce che intimorì il capitano. Attraverso la luce confusa la guardia si contorse in preda agli spasmi, fino a quando non lo vide deformarsi al punto da assumere contorni grotteschi. Dall’altra parte della barriera le undici guardie erano in preda al panico, colte alla sprovvista dallo strano avvenimento. Mankalar stesso cominciava a temere per l’incolumità sua e dei suoi uomini, lui che, in dieci anni, non aveva mai assistito a niente di simile.
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La luce si affievolì per la seconda volta e finalmente Mankalar e gli altri riuscirono a constatare la natura dell’accaduto: della dodicesima guardia non vi era traccia, se ne avvide il capitano. Gli unici resti erano costituiti da qualcosa di
simile ad una sagoma rannicchiata e contorta che adesso si trovava a pochi i da lui. Dall’altra parte gli uomini erano esterrefatti dalla macabra scena svoltasi davanti ai loro occhi. Mankalar era alquanto dubbioso sull’intera faccenda: quell’uomo sembrava una persona normale e tale dato era riportato anche nella sua cartella personale. Era un renodiano, non un essere malvagio, ne era più che certo. Ma, d’altra parte, come poteva aver fallito così disastrosamente la protezione più infallibile in loro possesso? Il capitano sentì un senso di delusione e impotenza farsi strada nella sua mente: di sicuro l’intera faccenda non sarebbe stata archiviata come un incidente e probabilmente una commissione speciale sarebbe stata inviata laggiù per indagare sull’accaduto. Ad ogni modo non era da lui indugiare così per un fatto del genere e, deciso a non voler influenzare negativamente il resto degli uomini, dar loro modo di poter dubitare dell’efficienza della barriera, si apprestò ad attraversarla lui stesso. Mentre muoveva il primo o attraverso di essa, lesse sui volti dei suoi uomini un’espressione frammista di disappunto e di orrore. Fece appena in tempo a voltarsi per osservare un essere fuoriuscire dal cumulo di stracci e un lungo braccio ossuto afferrarlo per la gola. Una risata cavernosa, accentuata dall’eco del luogo, fuoriuscì dalla gola dell’essere. «Demonretro major. Tutto qui il potere della vostra razza?» rise di gusto «Un vero peccato che questo incantesimo non abbia sortito l’effetto sperato. Avrò comunque bisogno del tuo aiuto per oltrearla» i suoi occhi squadrarono il capitano con disprezzo per poi aggiungere un secco «sporco umano». Mankalar fece fatica a deglutire, nel tentativo di rispondere al suo assalitore, prima che un dolore lancinante gli invadesse lo stomaco. Diresse lo sguardo appena più in basso per vedere una sottile lama nera fuoriuscirgli dal ventre. Non riuscì ad urlare mentre l’essere, tenendolo infilzato con la lama, lo utilizzava per attraversare il portale indenne. Nel frattempo, dall’altra parte della barriera, alcune guardie avevano sguainato le spade mentre altre si erano precipitate all’estremo opposto della Cattedrale, presso il cofanetto. Mankalar fu gettato brutalmente a terra, moribondo, mentre l’essere, del quale riusciva a malapena a distinguere le fattezze, avanzava spedito nella navata centrale, respingendo gli assalti delle guardie senza alcuna fatica. I pochi rimasti a difendere l’altare si avventarono sopra l’intruso, decisi a difendere fino in fondo il segreto. Ci fu un’esplosione: gli ultimi quattro soldati avevano lanciato altrettante palle di fuoco contro il nemico in avvicinamento. L’essere rise ancora mentre l’intera Cattedrale veniva attraversata da scosse sismiche e in pochi secondi quegli ultimi uomini cadevano a terra trafitti dalla sottile spada, indifesi e disorientati dai fatti. L’essere afferrò senza più nessun indugio il cofanetto e ne estrasse il
contenuto, custodito a sua volta in un morbido panno di velluto. Dopodiché ripercorse tutta la navata, cosparsa dei corpi di coloro che avevano dato la vita per impedire la sua avanzata e si soffermò davanti a Mankalar, ormai agonizzante. Il capitano, prossimo alla fine, tentò comunque di distogliere l’essere dall’imminente vittoria. «Anche se sei giunto fino a qui ti aspettano altri dodici uomini valorosi da affrontare e, come se non fosse già abbastanza, non potrai scappare in nessun modo, poiché grandi incantesimi proteggono la Cattedrale e ti…». L’essere non gli lasciò il tempo di concludere la frase: con un colpo secco recise la testa dal collo del capitano. L’assalitore, la cui mente era tremendamente complessa, non si era meravigliato di nessuno degli ostacoli che si era trovato di fronte durante quelle poche ore. Anzi, era andato tutto secondo i piani. L’unica cosa che gli restava da fare adesso era abbandonare quel luogo, impregnato di tanta nociva energia positiva. Infilò il segreto rubato in una tasca dell’ampia veste e, con un preciso gesto della mano, tracciò un complicato simbolo nell’aria. Davanti ai suoi occhi si aprì una spirale vorticosa che via via si allargò fino a raggiungere dimensioni tali da consentirgli il aggio. L’essere attraversò la spirale mentre l’intera Cattedrale, ormai privata della sua importante funzione e del potere magico generato dal segreto che custodiva, crollava su se stessa.
†
Raggi cremisi solcavano la linea dell’orizzonte, gettando le prime luci di un nuovo giorno sulla baia di Selthon, affacciata sull’Oceano Centrale. Nel cielo brillavano ancora, seppur con minor vigore, le due Lune, Masir e Kalef, i satelliti gemelli del pianeta. Una tenue brezza che portava con sé la fresca aria notturna, spirava sull’imponente città a livelli, capolavoro di ingegneria architettonica e capitale del vasto impero selthoniano. Le luci dell’alba, come ogni giorno, andarono a colpire, illuminandole di un vivo splendore argentato, le Torri di Cristallo catalizzatrici di energia e segnalatori per la navigazione, poste sulla sommità del Monte Samaran che, con la sua imponente figura, sovrastava la grande città.
La capitale si snodava lungo i dolci fianchi della montagna, risultando così divisa in livelli uniformi: lo strato più alto e più vicino alle Torri ospitava la parte più maestosa e spettacolare della città. Lì vi erano situati il palazzo imperiale e i vari centri amministrativi e militari, insieme alle abitazioni private di dignitari e nobili di corte. La vera gemma della parte alta della città era la splendente Basilica Maggiore, importantissimo centro di culto per tutta la popolazione e conosciuta in tutto il pianeta per i suoi marmi azzurri e le squisite decorazioni. Il frontone centrale era decorato con antiche scene mitiche, aventi come protagonista Leviathan, divino protettore dell’impero, mentre nella grande piazza, delimitata da colonnati voluttuosi e spiraleggianti, sorgeva un’imponente fontana di marmo bianco, anch’essa raffigurante il signore delle acque. Le tre navate, alla quale i pellegrini accedevano dopo aver varcato il grandioso portale d’accesso, culminavano in un maestoso altare, dietro al quale si innalzava una gigantesca vetrata che copriva l’intera abside. A coronare l’intera struttura vi era una cupola turchese, composta interamente da tessere di cobalto, individuabile anche da chilometri di distanza. Contigua alla parte più alta della capitale, trovava spazio il livello collinare e industriale della città, un tempo coperta da un folto manto boschivo, rimpiazzato adesso dalla coltura intensiva di cereali e dall’allevamento, nonché dalle imprese minerarie e dalle officine militari. Tramite un eccellente lavoro di regolazione idraulica, le acque erano convogliate dai laghi medio-grandi, di cui le pianure circostanti abbondavano, per irrigare i campi e renderli fertili e produttivi. Inoltre una serie di canali rendeva possibile la navigazione fino all’oceano delle navi mercantili. Il vero fulcro della capitale era però situato oltre le colline, sulla fascia costiera: era, infatti, dal commercio marittimo e della vendita di prodotti alimentari che la capitale imperiale traeva i maggiori guadagni. Selthon marittima era la zona della capitale con maggior densità di popolazione, e anche quella più interessante: si potevano così ammirare molti generi diversi di persone coabitare e collaborare insieme, dagli ambienti più umili a quelli più ricchi e facoltosi. Il porto, diviso in due parti da una barriera, ospitava sia le imbarcazioni civili che i pescherecci oltre a una parte dell’imponente flotta imperiale, un tempo potenza incontrastata dell’Oceano Centrale dell’Ovest. Le grandi navi imperiali non avevano niente a che fare con gli eleganti vascelli a vela ospitati dalle banchine vicine: ormeggiata ai moli vi era la Veruna, una delle tre ammiraglie della flotta, l’ultima ad essere completata dopo la riforma operata dal Cancelliere dell’impero, oltre a numerosi incrociatori Scylla i cui cannoni, i
Caridys, avevano roboato e combattuto in quasi tutti i tratti di oceano del pianeta, rendendoli particolarmente temuti. È proprio a Selthon marittima che la vita rinasce tutti i giorni per prima: dalle botteghe dei fornai inizia a diffondersi l’odore fragrante del pane, i venditori di ortaggi aprono i loro negozi esponendo la mercanzia, i primi carretti cominciano a occupare le vie del mercato mentre le navi da pesca e mercantili si profilano all’orizzonte con i loro carichi. Solo i moli, fatta eccezione per un ragazzo che, seduto su un rotolo di corda, osservava il sole sorgere, potevano dirsi ancora deserti: i raggi del giorno gli illuminavano il viso e il venticello tiepido gli scompigliava leggermente i lunghi capelli castani, tirati dietro le orecchie. Aveva indosso una giacchetta di pelle, allacciata dietro la schiena da una duplice cinghia e un paio di comodi pantaloni. Niente sembrava distoglierlo dai suoi pensieri, neanche quando alle proprie spalle udì una voce familiare richiamare la sua attenzione. «Buongiorno pigrone, cosa ci fai qui? Ah, non dirmelo… hai dormito fuori casa anche stanotte, vero?» Da dietro il proprietario della voce gli porse una pagnotta appena sfornata mentre sulla sua testa pioveva una pioggia di molliche. «Buongiorno anche a te, Andrew…» rispose il giovane seduto dopo un sonoro sbadiglio, nel tentativo di dare ad intendere all’amico che trovava il suo commento di pessimo gusto. Detestava i momenti in cui il ragazzo dava prova di possedere un senso dell’umorismo molto particolare, per fortuna questi eventi si verificavano con il ritmo di qualche battuta nell’arco di un’intera giornata. «Non ti capisco davvero Greg, sei il figlio dell’amministratore in capo delle attività di Selthon portuale, vivi in una casa bellissima e, nonostante tutto, ti ostini a are la notte sulle banchine del porto». «A mia volta non riesco a capire come mai tu ti ostini a consigliarmi di are la notte a casa quando, da parte mia, ne faccio volentieri a meno.>> fece una pausa durante la quale si ò le mani sul viso. <
> mormorò spazientito. <
>.
<<E sentiamo dunque…cos’è che vorresti fare?>> <
>. <
> Greg si morse le labbra. L’aveva forse offeso con quella risposta? <
disse fra sé e sé, riservandosi dal mettere l’altro a conoscenza della propria opinione. Si conoscevano da una vita ma, nonostante tutto, non era stato mai in grado di placare l’eccessiva fantasia dell’altro. Gli spiaceva di questo suo silenzio, votato a non deludere i sogni dell’amico, ma spesso si sentiva in colpa di non poterlo veramente disilludere. Poi, qualche istante dopo, la sua espressione mutò, incuriosito da ciò che stava accadendo proprio dietro le spalle di Greg, il quale, notando il volto sbigottito dell’amico, si voltò per osservare ciò che tanto l’aveva meravigliato. Poco lontano dalla banchina, un uomo stava tranquillamente camminando sull’acqua come se stesse eggiando su di una strada lastricata. Greg non sembrava molto perplesso per lo strano fenomeno anzi sorrise come davanti a un evento ordinario. «Buongiorno maestro, vedo che è già di ritorno dalla sua eggiata» disse rispettosamente all’arrivo del nuovo venuto. L’uomo rispose a sua volta con un gentile sorriso e, avvicinatosi alla banchina, sfiorò le acque con il lungo bastone decorato che impugnava. Le acque, obbedendo a un suo segreto comando, si deformarono, prendendo la forma di una piccola scala che il maestro salì in pochi istanti, trovandosi di fronte ai due ragazzi. Era un uomo alto con i capelli radunati in lunghe trecce dietro le orecchie, l’acconciatura tradizionale che caratterizzava gli appartenenti alla casta dei maghi, un volto rassicurante e occhi cerulei. Indossava un’ampia giacca azzurra con un colletto largo e pantaloni scuri che terminavano dentro un paio di stivali di pelle opachi e un po’ consunti. Greg si stava gustando, divertito, l’espressione meravigliata dell’amico ma non poté fare a meno di richiamarlo alla realtà. «Andrew, ti presento Dovan, il mio maestro» l’uomo sorrise, agitando lentamente la mano non occupata dal bastone in direzione del ragazzo il quale, palesemente imbarazzato, ricambiò a stento il saluto. «Lei è un mago imperiale, vero?» esordì a corto di argomenti. «Sì, questa è la mia carica ufficiale. Ho servito l’impero per molti anni, e adesso, per motivi che so per certo essere troppo noiosi alle vostre orecchie, mi sto godendo un periodo di pace e tranquillità, lontano dai fasti e dalle feste di Corte»
disse ridendo poi si voltò e, raccogliendo da terra una cesta di vimini, si avvicinò al bordo della banchina. «Non vi dispiacerà se faccio scorta di pesce, vero? Molti mi invidiano per ciò che sto per fare, alcuni sono giunti persino ad offrirmi un notevole ingaggio come pescatore sulle loro imbarcazioni, ma l’etica del mio mestiere me lo impedisce». Così dicendo fece volteggiare la cesta a mezz’aria e con la punta del lungo bastone sfiorò la superficie delle acque. Aspettò un istante, socchiudendo gli occhi come in attesa di un segno, poi esse iniziarono ad agitarsi per la moltitudine di pesci apparsi. Subito dopo il mago picchiettò tre volte il cesto col bastone e, obbedendo al suo comando, dei grandi pesci azzurri striati di rosso saltarono direttamente nel contenitore. «Di certo andrà contro la sua etica, signore, ma non vedo come possa esistere un metodo più veloce e conveniente per ottenere del buon pesce fresco» disse Andrew con un tono contrariato. Greg e Dovan risero divertiti, Andrew assunse un’aria interrogativa, convinto che non vi fosse niente di buffo in ciò che aveva appena detto. Dovan, ancora soggetto ad attacchi di ridarella, afferrò la cesta colma di pesce e Greg, cogliendo al volo l’occasione per ritardare il suo ritorno a casa, si offrì gentilmente di aiutarlo. L’altro lo guardò risoluto negli occhi e, sempre mantenendo un tono calmo e pacato, rifiutò. «Se non sbaglio dovresti essere a casa a quest’ora e, se i tuoi vestiti spiegazzati non mi ingannano, credo che tu non vi faccia ritorno da ieri. Sai che non approvo, come tuo maestro, che tu i la notte da solo al porto, soprattutto perché tuo padre e tua madre potrebbero essere in pena per te.» Andrew stronfiò. «È la stessa cosa che gli ho detto io. Vediamo se il signorino darà ascolto almeno a lei. » Dovan non rise, il suo sguardo si fece serio e il tono era di chi non accettava repliche o proteste. «No, è meglio che torni subito a casa, Greg. Ci vediamo oggi pomeriggio per la lezione. Vedi di essere puntuale e cerca di mangiare qualcosa, sarà un addestramento molto importante e impegnativo».
Greg, fu costretto ad annuire, promettendo di far ritorno a casa. Il mago sorrise di nuovo a entrambi e, facendosi strada attraverso le funi che affollavano la stretta banchina in legno, si diresse verso la riva. Giunto a metà di essa, si voltò di nuovo verso i due. «Dimenticavo, porta anche Andrew, sono sicuro che sarà felice di assistere». Andrew indirizzò un largo sorriso verso il maestro, grato per veder esaudito la richiesta che non aveva avuto il coraggio di fare dal momento in cui l’aveva visto camminare sull’acqua poco prima. Sapeva che ultimamente Greg stava combinando qualcosa di nascosto dai suoi genitori ma ancora non era riuscito a capire di cosa si trattasse: persino Lisa e Mark sembravano non saperlo. O almeno così gli era parso. Dovan annuì soddisfatto, finì di percorrere la banchina e imboccò il viale Samaran, per sparire poi nello svoltare nella strada che portava verso le cinte murarie esterne. «Così si tratta di magia?» chiese Andrew. Greg annuì più volte, cercando di non mostrare l’imbarazzo. L’altro proseguì da solo «Non dirmelo, sono l’ultimo a saperlo, non è vero?». Il disagio di Greg crebbe ancora mentre annuiva di nuovo, cercando di sfoderare un sorriso conciliante. L’espressione di Andrew si fece a sua volta più accigliata mentre gli strani eventi dei mesi prima trovavano improvvisamente una soluzione logica. «Per questo sia Lisa che Mark hanno fatto finta di nulla quando qualche tempo fa ho chiesto loro dove vi cacciavate tutti i pomeriggi mentre io lavoravo!» l’imbarazzo aveva appena raggiunto il suo picco massimo. «Scusa Andrew, ma credevamo che non fossi interessato alla cosa» disse Greg cercando di parare il colpo. «L’interesse non conta: ci conosciamo da anni, molti anni» il tono sembrò calcare volutamente sul “molti” «abbiamo condiviso tutto, anche i momenti più brutti. E ora, di colpo, mi escludete». Raramente Greg aveva visto il suo migliore amico così deluso e amareggiato.
«Sono stato io a far promettere agli altri di non dirti niente. Pensavo non avresti approvato la cosa!» Andrew gli rivolse un’occhiata gelida «Credo che a questo punto la mia approvazione valga poco. Ad ogni modo siete fortunati» disse con sufficienza la magia non mi interessa». Il silenzio che seguì pesò per qualche lungo minuto su entrambi, poi fu Andrew, cambiando discorso, a scrollarsi di dosso l’imbarazzo. Dopotutto non era permaloso come lo era Greg «Il tuo maestro abita fuori città?» «In un certo senso sì. La sua casa è su una collinetta all’inizio del bosco, poco distante dalla Porta Ovest. dice che “preferisce vivere a stretto contatto con la natura piuttosto che immerso nel caos della vorticante vita cittadina”». Disse, imitandone con poco successo l’intonazione, poi si voltò di nuovo verso l’alba: il Sole, sorto vivo nel cielo, aveva perso il suo splendore cremisi e assunto la luminescenza dorata. Sulla grande tavola del cristallino oceano la luce solare si rifletteva a specchio, impedendo così a Greg di sostenere a lungo l’osservazione. Greg scorse a fatica le sagome dei pescherecci di ritorno dalla battuta di pesca e conoscendo la ione dell’amico per le imbarcazioni sorrise. «Stanno arrivando le navi da pesca, che ne dici di aspettare il loro attracco per vederle più da vicino?» «Faresti proprio di tutto per non tornare a casa, eh? Va bene, dopotutto è già tardi per la colazione e troppo presto per il pranzo, devo trovare qualcosa per ingannare l’attesa». Greg questa volta si trattenne dal ridere dell’amico, anche se per poco non soffocò, nel goffo tentativo di mascherare le risate con colpi di tosse. In quel momento si avvicinò un’imbarcazione a vela, attrezzata per la pesca a strascico con le reti. Un pescatore, sporgendosi dal bordo della nave, con una lunga cima in mano, gridò ai due: «Ehi ragazzi! Afferrate la cima della corda e legatela al molo». Greg afferrò al volo la cima che era stata loro lanciata ma, data la sua scarsa esperienza in nodi marinari, decise di riservare il compito al più esperto Andrew.
La nave, una volta assicurata all’ormeggio, si avvicinò alla banchina, consentendo così all’equipaggio di scendere a terra e di trasportare il pescato. Stranamente la battuta si era rivelata molto magra e tre uomini dell’equipaggio portarono sul molo reti da pesca, irrimediabilmente rovinate. Quando furono deposte a terra, Greg e Andrew notarono con stupore che in mezzo ad esse si nascondeva una spada lunga ed affilata con l’elsa decorata da un fregio che ricordava la testa di un rapace, forse un’aquila. «Cos’è successo? Cosa ci fa lì quella spada?» chiese Greg al pescatore che poco prima aveva chiesto loro aiuto per attraccare la nave. Uno dei pescatori scosse la testa con amarezza e mentre accedenva il mozzicone di un sigaro iniziò a raccontare. «Ancora adesso non sappiamo spiegarcelo, per Leviathan! Quest’arnese maledetto ci ha rovinato la trama della nostra rete migliore e stanotte non abbiamo raccolto niente da poter vendere al mercato» raccolse la spada e la avvicinò ai due «Guardate, riconoscete il marchio dell’infamia? » l’elsa tremava nelle mani ruvide e nervose dell’uomo «Il marchio dell’infamia, ecco cos’è questo. Sporchi nareniani, che Leviathan se li porti tutti in fondo all’oceano, ecco! » Il pescatore, in preda alla rabbia, si abbandonò a una serie di imprecazioni piuttosto colorite e i due decisero saggiamente di allontanarsi. Convinti che non si trattasse altro che di un semplice ritrovamento sottomarino, si diressero verso un’altra banchina, ma mentre stavano curiosando tra le reti di un’imbarcazione più fortunata della precedente, avvertirono delle grida di stupore provenire dalla spiaggia poco distante. Abbandonato l’interesse per l’ittica, corsero a vedere che cosa era venuto a riva nel punto in cui si era già radunata una piccola folla. I due, a forza di gomitate e spintoni, erano riusciti ad arrivare in prima fila, dove assistettero a uno spettacolo insolito per i canoni di tranquillità e normalità che si respiravano a Selthon. L’ultima volta che qualcosa di insolito era giunto a riva era stato diciassette anni prima, quando, a seguito di una tempesta di inaudita violenza, si era formata un grande accumulo di relitti e, sfortunatamente, anche dei corpi dei marinai che non ce l’avevano fatta. Un uomo, privo di sensi, giaceva disteso sulla sabbia tenendo saldamente stretta tra le mani una tavola di legno che probabilmente l’aveva tenuto a galla. Non era
di certo un pescatore, sembrava anzi una persona di un certo riguardo dato che al collo portava un prezioso medaglione ed indossava delle ricche vesti, inzuppate ed irrigidite dall’acqua marina. La folla radunata cominciò a gridare concitatamente: la curiosità era salita alle stelle e il naufrago non accennava a tornare in sé finché, dalla folla, non sorse un membro dell’unità medica selthoniana che, dopo aver constatato la presenza di un seppur debole battito cardiaco, riuscì a fargli riprendere i sensi. L’uomo rigurgitò l’acqua ingerita e dopo alcuni potenti colpi di tosse riaprì gli occhi. «Sia ringraziata la misericordia di Leviathan!» furono le sue prime parole, volte al ringraziare il grande dio marino. Si levò come un coro, qualcuno fece eco con la stessa esclamazione, altri parlavano già di piccolo miracolo. Le domande e le richieste di spiegazioni non tardarono a farsi sentire mentre la folla, richiamata dalle grida, si faceva sempre più cospicua. L’uomo si mise faticosamente in piedi e dopo altri colpi di tosse cominciò a parlare, nel tentativo di dare una spiegazione ai presenti di ciò che era successo. Cominciò a farneticare e, come se si fosse appena svegliato da un incubo, afferrò uno dopo l’altro i curiosi e li scrollò a lungo, come per avvertirli di un pericolo imminente. «Facevo parte di un convoglio mercantile di ritorno da Renodia: il viaggio procedeva bene e presto saremmo giunti a Selthon per consegnare la merce. Navigavamo in acque in prossimità del giacimento di Varnelio di Atlaua, quando l’imbarcazione su cui viaggiavo è stata avvicinata da una fregata nareniana. Pensavamo si trattasse di un semplice controllo, ma improvvisamente sono balzati sul ponte della nostra nave guerrieri armati insieme con un uomo alto e vestito di nero. Quest’ultimo si è avvicinato a me e mi ha afferrato per il collo sollevandomi da terra. Portava un copricapo che gli nascondeva il viso e…» fece una pausa, le sue mani si contorsero mentre si copriva gli occhi come per nascondere la scena dalla sua memoria. La sua voce repentinamente cambiò e come un tremore lo percorse «…per Leviathan, aveva gli occhi completamente bianchi!» dalla folla si levarono esclamazioni di stupore mentre poco dopo il mercante proseguiva col suo racconto. «Nel frattempo le guardie selthoniane presenti si sono battute valorosamente ma non hanno potuto niente contro gli aggressori in schiacciante superiorità numerica. Intanto quell’essere…» indugiò un attimo, forse non trovava parole
adatte per nominare il suo aggressore. «Mi stava per strangolare. Mi è mancato per un attimo il fiato, poi uno dei nareniani gli si è avvicinato, indicandogli con un cenno la stiva. Quell’essere allora ha allentato la presa e mi ha scaraventato fuori dalla prua. Sono caduto in acqua, e dopo poco che annaspavo tra le onde ho visto quegli uomini uscire dalla stiva e poi appiccare il fuoco alla nave. Per puro caso ho trovato quest’asse che galleggiava poco lontano, altrimenti sarei affogato. In quel momento ho visto le navi del convoglio a cui appartenevo in fiamme e la nave che ci aveva attaccato che si allontanava. Ci hanno derubato dei preziosi che trasportavamo, capite? I nareniani ormai non disdegnano neppure la pirateria! Dove finiremo, mi chiedo, dove?» Finì il racconto mentre tra la folla si diffondeva un gran brusio: da dietro le persone che non erano riuscite a sentire la storia premevano su quelle davanti per cercare di raggiungere le prime file e saperne qualcosa. Due uomini piuttosto robusti spinsero indietro Andrew e Greg che in poco tempo si ritrovarono fuori della calca che, nel giro di pochi minuti, era diventata sempre più nutrita. La voce sembrava si fosse sparsa per la città a una velocità impressionante: il viale Azzurro, la strada dove si teneva il mercato ogni giorno, era gremito da una straordinaria quantità di persone, ingiustificabile per una mattina ordinaria. Molti venditori erano affaccendati dietro i banchi del mercato mentre gli acquirenti erano indaffarati nel confrontare la freschezza di frutti e ortaggi: tutti, però, tendevano attentamente l’orecchio, nel tentativo di accaparrarsi notizie più dettagliate sull’accaduto. Parecchi selthoniani cominciavano a vociferare sulla possibile infrazione dell’accordo diplomatico da parte del regno nareniano: da molti secoli, infatti, i rapporti tra il regno di Naren e l’impero erano instabili ma ultimamente tra le due potenze, grazie alla diplomazia, vi era stata una certa apertura. L’attacco improvviso sembrava potesse gettare nello scompiglio gli equilibri faticosamente raggiunti. Questa volta però, questo fatto destava molta perplessità tra i più informati, la pietra dello scandalo non sembrava essere necessariamente il Varnelio: nessuna delle colonie di estrazione mineraria sulle Isole Azzurre era stata attaccata e il regno di Naren non aveva minimamente accennato a insoddisfazioni recenti dovute alla spartizione delle risorse di combustibile.
Attraverso un vicolo secondario riuscirono a evitare la folla che invadeva le strade del mercato cittadino, dirigendosi agevolmente verso la casa di Greg, una grande villa vicina alla Porta Sud. Il suo volto, nascosto dalle ciocche di capelli ricadute oltre la fronte, non tradiva lo stato d’animo già di per sé abbattuto dalla ramanzina che di lì a breve sarebbe stato costretto a sorbirsi. Da quando avevano lasciato il porto nessuno dei due aveva accennato a rivolgere la parola all’altro, ciascuno immerso nei propri torbidi e solitari pensieri. Andrew preferiva evitare l’argomento della guerra contro Naren, lui che nell’ultima delle Guerre del Varnelio aveva perso il padre, soldato esperto e di grande valore. Era molto attaccato al genitore e la sua perdita l’aveva segnato profondamente. Non riusciva perciò a tollerare che Greg provasse così poca simpatia verso il proprio, lui che tanto desiderava che il suo fosse ancora in vita. La sua era una protesta sorda. Andrew ricordava con vivido dolore il giorno in cui era stata comunicata a lui e sua madre l’amara notizia, mentre tutto il bacino oceanico era stretto nella morsa di tensione della lotta tre le due potenze marittime. Da quel giorno non era riuscito più a togliersi dalla mente quanto degli stupidi conflitti possano compromettere e distruggere l’unità, l’amore e l’affetto di una famiglia. Ma verso quegli sconosciuti d’oltre oceano non era riuscito a provare rancore. La guerra l’aveva reso orfano, non stupido. Ciò che rendeva gli uomini stupidi era la paura, la paura che non ce ne fosse abbastanza per tutti. E per lui che, come il padre gli aveva insegnato, confidava nel progresso, sapeva che certi momenti erano solo transitori e si verificavano ciclicamente prima di una nuova era di scoperte. Un giorno il Varnelio sarebbe stato superato e a quel punto, di qualunque altro genere fosse stato il nuovo combustibile, ce ne sarebbe stato in abbondanza. Meccanicamente, una volta giunti in prossimità del cancello principale della villa, Greg fece scattare la serratura e, seguito dall’amico, percorse il vialetto lastricato, fiancheggiato da siepi ben curate e da alberelli sempreverdi. Il portone, massiccio e scuro, era stranamente aperto e Greg, stupito dal fatto che nessuno fosse ad aspettarlo sulla porta per somministrargli l’atteso rimprovero, tese l’orecchio, nonr iuscendo a cogliere niente tranne uno strano silenzio. Incuriosito, entrò nell’ingresso ombroso, dominato da una maestosa scalinata
che si biforcava in due rami. Salì, prestando attenzione affinché i suoi i fossero appena percettibili, ma Andrew, che non aveva colto l’intenzione di Greg, urtò sbadatamente contro uno degli scalini di marmo azzurro, finendo per poco con la faccia contro il pavimento. Greg, mostrando un’incredibile agilità di riflessi l’aveva afferrato al volo, evitando che fosse così scoperta la loro furtiva presenza. Fu allora che entrambi, nel silenzio reso ritmico dal loro respiro, udirono frasi smozzicate. Percorsero il corridoio di destra, in direzione delle voci, finché non giunsero di fronte a una porta di legno prezioso, che Greg riconobbe essere la porta dell’inviolabile studio privato del padre: era da dietro di essa che queste provenivano, ma solo di una riuscì a identificare il proprietario. La seconda sembrava gelida e metallica e la parlata fluente e raffinata, lo identificava come un probabile membro dell’alta borghesia mercantile o della nobiltà selthoniana. Greg avvicinò cautamente l’orecchio per cercare di carpire il senso della discussione e allo stesso modo fece Andrew. «Signor Oltan, la notizia di cui lei è latore non può che provocare in me grande stupore e una punta di imbarazzo. Se le parole del naufrago che stamattina sono veritiere, l’accaduto provocherebbe un fastidioso caso diplomatico tra il nostro impero e il regno di Naren». «Eccellenza, sono ben a conoscenza dei suoi enormi sforzi diplomatici per mettere fine a ulteriori conflitti e dispute, ma purtroppo i fatti parlano da soli». La voce si interruppe per un attimo, e un rumore secco di i giunse attraverso la porta. Greg e Andrew ebbero un fremito, nel terrore che il padre del primo avesse scoperto che stavano origliando una conversazione personale e della massima importanza. Dopo qualche istante la seconda voce riprese a parlare: «Può vedere lei stesso signore attraverso il globevisor, Eccellenza.>> di nuovo una pausa, durante la quale probabilmente l’uomo stava facendo scivolare l’arma davanti allo schermo. <
«Mi compiaccio di avere in lei un uomo di fiducia signor Oltan, desidero ringraziarla per il suo efficiente operato. È certo che la spada appartenesse ai soldati che hanno attaccato il nostro convoglio?» «Assolutamente, Eccellenza. Non appena ho potuto mi sono messo in collegamento con la stazione Nautica del Monte Samaran e ho chiesto di accertare la posizione in cui la nostra nave sarebbe stata attaccata. Gli ultimi segnali inviati testimoniavano il aggio a dieci miglia marine dalla nostra costa, presso la colonia di estrazione di Altaua. Il peschereccio che ha effettuato il ritrovamento ha battuto la stessa rotta. Tenendo in ulteriore considerazione la presenza di correnti, i tecnici mi hanno potuto confermare, con bassissimo margine di errore, che con ogni probabilità l’arma rinvenuta apparteneva agli assalitori. Questo avvalorerebbe ulteriormente il racconto del naufrago. Sarà mia premura farle avere il rapporto entro questa sera, Eccellenza». Il tono con cui le ultime parole erano state pronunciate fece rabbrividire Greg. Raramente gli era capitato di sentire parlare il padre con un’intonazione tanto untuosa. «Ottimo, ha svolto magnificamente il suo dovere di amministratore Signor Oltan. La faccenda necessita però di chiarimenti e penso che sia fondamentale la mia presenza in città, non al più tardi di domani». Greg e Andrew si scambiarono occhiate interrogative e si accostarono, questa volta con più pressione, alla porta dello studio, proprio mentre l’uomo si stava congedando con il suo interlocutore, finendo inevitabilmente per cadere a terra. Greg, imbarazzato per essere stato scoperto, drizzò appena la testa per avere il tempo di osservare l’interlocutore del padre: un giovane uomo, che, assiso su di un ricco sedile, gli restituì immediatamente uno sguardo sorpreso. Il padre di Greg era sbiancato in volto a causa dell’imbarazzo suscitatogli dall’intromissione inaspettata nel suo studio, nel bel mezzo di una conversazione dai caratteri strettamente privati. Lanciò un’occhiata di furibonda al figlio poi, recuperata una parvenza di calma, si voltò di nuovo verso il globevisor. «Perdoni la loro inettitudine Cancelliere, le porgo le mie scuse per l’inopportuna interruzione». Il signor Oltan era voltato verso lo schermo circolare e Greg non era riuscito a
scorgere l’espressione dipinta sul volto del padre, anche se non faticava a immaginarla; decise così di approfittare di quell’attimo e tempestivamente afferrò Andrew per un braccio e lo trascinò fuori dalla stanza, curandosi di chiudere la porta con delicatezza. «Scusami Greg, è colpa mia» disse Andrew con lo sguardo a terra. «Lascia perdere, è stata colpa mia fin da principio» tagliò corto. Delusi, ripercorsero il corridoio e discesero nell’atrio, questa volta però, ai piedi della scala c’era ad aspettarli qualcuno: era una donna di una bellezza particolare, con un nobile portamento che la rivelava come una delle donne più stimate e indaffarate di Selthon. «Buongiorno madre» disse Greg distrattamente cercando di evitarla. Vylia Oltan fu però più svelta e reattiva: lo afferrò per un braccio e benché ciò si addicesse poco a una donna del suo rango, gli sferrò un sonoro ceffone. Greg si ritrasse, massaggiandosi il volto con espressione attonita. «Hai la minima idea di quanto tu ci abbia fatto stare in pensiero? Poteva esserti successo qualcosa! Non voglio che mio figlio trascorra le notti fuori di casa come un cane randagio!» disse quella tra i singhiozzi. «Madre, perché devo essere obbligato a prepararmi a seguire il lavoro di mio padre? Non voglio diventare l’amministratore in capo delle attività di Selthon portuale, non è ciò che desidero dalla mia vita. Mio padre è un uomo assente, sempre pieno di impegni, diviso tra Selthon portuale e Selthon alta, io non vorrò prendere il suo posto per dover ereditare anche il suo esaurimento nervoso. Madre, sai bene che voglio diventare un mago e che…» La donna alzò la mano interrompendo il discorso del figlio. Il suo tono era divenuto apprensivo e allo stesso tempo perentorio. «Non un’altra parola Greg caro. Tuo padre lo fa per il tuo bene, per assicurarti un futuro solido e prospero. Quali aspettative di agi e lussi avrai diventando un mago?» «Non mi importa dei lussi e degli sfarzi, non sono mai stati importanti per me,
quanto invece sembrano essere vitali per voi. Non importa quanti e quali ostacoli deciderete di frapporre tra me e la mia aspirazione, io riuscirò a realizzare il mio sogno, che voi lo vogliate o meno» replicò infine Greg, oltreando la madre e raggiungendo il portone. Andrew era rimasto immobile sul terzultimo gradino, quasi come fosse stato un tutt’uno con il marmo. «Andiamo adesso, il Maestro ci attende per la lezione» disse Greg affrettandosi a uscire di casa. Andrew, per niente in vena di polemiche dopo la lite a cui aveva assistito, brontolò qualcosa a proposito del suo stomaco e lo seguì.
Capitolo III
La prova
Il palazzo imperiale di Selthon era una costruzione maestosa che spesso sgomentava coloro che lo vedevano per la prima volta: secondo il pensiero comune, quel palazzo, da sempre residenza degli imperatori, era formato da un’accozzaglia di stili che stridevano, se presi uno per uno ma che nel complesso, lo rendevano forse una delle strutture più uniche esistenti sul pianeta. Ogni imperatore, per innalzare il proprio prestigio e per lasciare un indelebile segno della propria grandezza ai posteri, aveva aggiunto un particolare all’intera costruzione, spesso arroccandole una sull’altra, ma sempre con il rispetto verso i predecessori. Con i suoi oltre duemila anni di esistenza l’impero di Selthon si era molto ingrandito, abbracciando territori sempre più lontani, con caparbietà e astuzia spesso lungimiranti: il palazzo poteva così dirsi una metafora del processo espansionistico dell’impero, avendo ormai raggiunto dimensioni oltre le quali molti temevano avrebbe potuto mettere a serio rischio la stabilità del monte Samaran. Il palazzo, però, era pur sempre mutabile nella sua grandezza: i cambiamenti estetici e i vari accorgimenti variavano da imperatore a imperatore, risentendo dell’evoluzione dei tempi. Così nei secoli si erano avvicendati sovrani austeri e imperatori con il pugno di ferro, imperatori magnanimi e pure, data la grande varietà degli uomini, sovrani rammolliti e privi di ogni rispetto della carica della quale erano stati investiti. Purtroppo per Selthon e per il popolo, l’imperatore Levian Dorhanelius VII apparteneva proprio a quest’ultima categoria. Ormai da diciassette anni governava l’impero e da allora mai una volta si era occupato o, per meglio dire preoccupato, del suo popolo o delle decisioni e delle scelte che un normale monarca avrebbe dovuto affrontare. Da diciassette anni, da quando per poco si era sfiorata la guerra civile, la sua unica preoccupazione era stata quella di abbellire il palazzo e di comporre ballate sulle sue fantomatiche gesta. Il suo più recente assillo era quello di farsi ritrarre nelle pose più eroiche, ispirate a come
l’augusto monarca decantava se stesso nelle sue obbrobriose composizioni. Ed era Samarlec, il giovane Cancelliere che da pochi anni aveva superato la trentina, a gestire direttamente l’impero, senza farne assolutamente mistero. L’imperatore stesso glielo consentiva, troppo codardo per affrontare da solo decisioni importanti ma, allo stesso tempo, troppo attaccato al potere per lasciare che il suo titolo cadesse nelle mani di qualcun altro, soprattutto se quel qualcuno era il vituperato fratello. Era stato solo grazie al fido Samarlec e a una cerchia ristretta di uomini fedeli se egli poteva godere delle bellezze di quel luogo da vero padrone di casa, dopo aver debellato la minaccia costituita dall’altro pretendente, più ben visto e saggio. Disteso sotto un sontuoso baldacchino, l’imperatore era intento a farsi ritrarre in una posa eroica da un mediocre pittore quando, da dietro un tendaggio che nascondeva un corridoio, apparve, come un’ombra sottile e dal profilo distinto, il Cancelliere imperiale. Si avvicinò con o svelto al baldacchino, per un attimo osservò il ritratto ma poi distolse lo sguardo, disgustato. Con voce suadente e flautata manifestò la sua presenza al cospetto dell’imperatore e si inchinò ossequiosamente. L’imperatore gli rivolse un sorriso bonario e lo invitò ad alzarsi, poggiando la mano paffuta sulla spalla del fidato ministro. «Carissimo Samarlec, che piacere vederla qui. Allora, cosa mi vuole riferire, quali voci provengono dal mio grande e amato impero?» «Tutti la lodano e cantano le sue glorie o mirabile imperatore, figlio diletto di Leviathan e custode delle nostre terre, della nostra libertà e dei nostri cuori» disse, intonando perfettamente il saluto cerimoniale che tutti erano obbligati a rivolgere al sovrano. «Oh, caro Samarlec, come farei senza i suoi preziosi servigi? Lei, il più fidato tra i miei sudditi, mi porta sempre notizie gioiose>> le mani e il gesticolare svelavano però un tormento che sembravano affliggere il monarca <
sovrano sarebbe dovuto restare un altro po’ nella sua prigione dorata, quel tanto che bastava per permettergli di condurre a termine il suo piano. Dopodiché sua altezza imperiale Levian Dorhanelius VII avrebbe potuto trascorrere tutto il tempo che desiderava fra i suoi sudditi. Come uno di loro, tenne a precisare a se stesso il Cancelliere. «Maestà, perché non si concede una breve eggiata nella mia umile compagnia nei giardini del palazzo? Dopotutto sarà un po’ stanco di posare così a lungo per il suo ritratto, l’aria salubre non potrà che giovarle». «Caro Samarlec, una volta di più dimostra di intendere alla perfezione ciò che vorrei tradurre io stesso in parole». L’imperatore congedò con un debole gesto della mano il pittore che, con una svolazzante riverenza, si allontanò dalla sala. «Cancelliere, le è di disturbo se, mentre eggiamo, mi dedico alla poesia?» Samarlec, di spalle, si concesse una nuova smorfia di pieno disgusto. Voltandosi, non poté che assecondare la richiesta del suo signore. Qualche minuto dopo erano nel giardino del palazzo, anch’esso recante i segni dei ati stili imperiali. Uno scrivano seguiva fedelmente la coppia, mantenendosi a cinque i di distanza come imponeva l’etichetta. «Così, caro Samarlec, desiderava parlarmi?» poi rivolto allo scrivano «tu qua dietro, scrivi:… Nel sangue dei nemici il valoroso Levian fece il bagno, mentre le rane gracidavano placide in un limpido stagno… come le sembra, mio stimato Cancelliere? Che rima meravigliosa, non trova?». Samarlec represse una nuova smorfia e lodò l’innata capacità dell’imperatore di comporre in rima. «Mio imperatore, riguardo a quanto mi ha proposto poco fa, le sconsiglierei caldamente di comparire in pubblico: come sa, suo fratello nutre verso di lei un profondo rancore e potrebbe approfittare della sua uscita pubblica per attentare alla sua preziosissima vita. E nessuno vuole che si verifichi un evento simile». Per il Cancelliere mentire era ormai divenuto essenziale come il pane quotidiano: quando poi si trattava di abbindolare quello sciocco non doveva che impegnare minimamente la sua mente. Sapeva bene che il fratello dell’imperatore non avrebbe mai fatto niente di simile.
«…Mentre il viso del bambino sorrideva, il gabbiano il cielo percorreva…Non riesco veramente a capacitarmi di me stesso, Cancelliere, sembra che la sua presenza sia per me incredibilmente stimolante…diceva a proposito di mio fratello? Si dice sicuro che potrebbe davvero attentare alla mia vita? Alla vita del suo amato fratello?» disse in tono lacrimoso e melodrammatico. Samarlec sbuffò dentro di sé, sperando di non dover obbligare con le maniere forti il sovrano a fare ciò che gli stava raffinatamente imponendo. «Sua maestà forse dimentica che il sottoscritto l’ha più volte ammonita verso il fratello da quando, diciassette anni fa, tentò di estrometterla dal trono>>. Abbassò il tono e si fermò, repentinamente. <<E non sono stato forse sempre io a fare in modo che suo fratello fosse cacciato da corte per non costituire un pericolo per la sua vitale incolumità? Tornare adesso a comparire pubblicamente mentre il suo astioso fratello è ancora intento a placare il suo animo ferito non credo sarebbe una buona idea>>. Gli strinse il braccio con una pressione che piegò il viso dell’imperatore in una smorfia poco consueta. <
Negli istanti successivi il viso di Samarlec da imperturbato e altero parve sottoporsi a una radicale trasformazione: gli occhi presero a brillare mentre la bocca serrata si increspò in qualcosa di più simile a un ghigno che a un sorriso di compiacimento.
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Greg e Andrew ripercorsero il vialetto e raggiunsero di nuovo la strada principale: la casa di Dovan era situata poco oltre la porta Ovest, in una zona in cui la periferia si faceva rada e solo alcune casupole si avvicendavano tra collinette e chiazze erbose. Senza che quasi se ne accorgessero erano giunti in prossimità della Porta: la calura estiva e l’ora del primo pomeriggio rendevano l’aria irrespirabile e afosa; neanche la brezza che di solito spirava dall’oceano poteva alleviare quel caldo così intenso e Greg si rese improvvisamente conto di avere la fronte madida di sudore, benché vestisse con abiti leggeri e adatti alla stagione. Superarono il soldato di regolare guardia alla porta, che immerso nella seppur leggere armatura, sembrava più occupato a lamentarsi del caldo torrido che a vigilare sui aggi. Alcuni gabbiani, diretti verso l’oceano, solcarono il cielo stridendo rumorosamente. «In questo istante non c’è cosa che desidererei maggiormente dell’essere un gabbiano: dubito che loro, solcando i cieli, abbiano modo di avvertire il calore che sopportiamo noi a terra» esordì Andrew spezzando il silenzio. Greg si associò al pensiero dell’amico con un cenno del capo, ma in quel momento la sua mente era altrove, alla lezione che tra pochi istanti lo avrebbe visto impegnato in compagnia di Lisa e Mark, gli altri due apprendisti, nonché amici d’infanzia. Questa volta il maestro aveva promesso loro una lezione particolare e impegnativa, nel corso della quale avrebbero dovuto impiegare tutte le conoscenze acquisite dall’inizio dell’apprendistato alle ultime lezioni. Da quel
che riusciva a ricordare però, non c’era stata una sola lezione che fosse iniziata e terminata senza incidenti di alcun genere: la colpa, purtroppo, era sempre da imputare ai diverbi che si accendevano tra lui e Mark. La sua mente a tal proposito rievocò un ricordo affatto felice: qualche tempo prima Dovan aveva insegnato loro ad innalzare una barriera, l’incantesimo halos, per difendersi dalle magie e dagli attacchi diretti. Per creare la protezione avrebbero dovuto stendere il braccio davanti a sé, aprire bene il palmo della mano e concentrarsi su di essa. Da ognuna delle dita si sarebbe quindi irradiato un fascio di luce, che, espandendosi, avrebbe formato una sfera intorno al mago, fornendogli una protezione. L’esercizio doveva essere semplice, almeno nelle intenzioni di Dovan: dopo aver padroneggiato l’incantesimo, uno alla volta avrebbero dovuto innalzare una barriera mentre un altro avrebbe lanciato contro un incantesimo di basso potenziale. Lisa aveva alzato una discreta barriera, tanto da respingere indietro, senza farla vacillare, il colpo lanciato da Greg. Lo stesso, nonostante alcune incertezze, accadde con la barriera del compagno ma il suo sforzo fu maggiore. Mark aveva lanciato una mej ad alto potenziale, un colpo che, senza quella protezione, avrebbe potuto lasciare danni permanenti. Dovan aveva osservato in silenzio l’allievo sostenere l’incantesimo e infine riprendere fiato, con le braccia poggiate sulle ginocchia. Non era stato compito di Greg però restituire il favore: toccava a Lisa aiutare Mark a testare la propria barriera e questi, probabilmente a causa del potenziale disperso con l’incantesimo di poco prima, lasciò che la barriera cadesse. Il colpo di Lisa lo raggiunse alla spalla, procurandogli una scottatura. La ragazza aveva urlato, Greg si era avvicinato all’amico e aveva fatto cenno per aiutarlo. Nonostante, per un attimo, avesse temuto qualche danno, quando si era accorto che si trattava solo di una bruciatura sulla maglia era scoppiato a ridere. Mark si era alzato allora, di scatto e pronto a reagire. «Cos’hai da ridere? Forse quella di prima non ti è bastata?>> Mark lo colpì con l’altra spalla e Greg perse appena l’equilibrio.
Il ragazzo piantò il piede a terra, fece forza su di esso, e contrattaccò. «No, non ne ho avuto abbastanza. Forse non sei bravo come pensi.>> Accadde allora ciò che Dovan doveva aver considerato come il punto più basso della sua carriera come insegnante. Mark, colmo di rabbia e con l’orgoglio ferito, di scatto aveva aperto la mano contro il ventre del compagno, preparandosi a colpire. Lisa, nell’inutile tentativo di dividerli, era stata sbalzata indietro e Greg aveva preso a divincolarsi mentre l’altro l’aveva afferrato per il collo. Dovan aveva quindi gridato e tra i due era intervenuta una forza a separarli tale da spingerli alle estremità opposte del giardino. Il volto del maestro era livido e dopo essersi assicurato circa la salute degli allievi, era stato sul punto di cacciare Mark. Lo aveva osservato per lunghi istanti, furioso e insieme costernato, poi, guardando oltre, aveva capito che in quel modo avrebbe peggiorato ancor più il rapporto tra i due. Aveva deciso così di punirlo, assegnandogli la manutenzione del giardino per un tempo imprecisato: era sicuro che gli sarebbe servito per fargli sbollire tutta la rabbia. Da allora Mark era divenuto più prudente, o meglio, a esserlo quando era sotto il naso di Dovan: una volta fuori, al primo pretesto, lui e Greg non mancavano di venire alle mani: ciò che lo ripagava delle umiliazioni era che spesso aveva la meglio sul rivale. «Qualcosa non va?» chiese Andrew notando l’assenza momentanea dell’amico. «No, niente, ero distratto» disse Greg riscotendosi dai propri pensieri, augurandosi che la lezione odierna avesse un esito più positivo di quella appena ricordata. Salirono il sentiero che si staccava dalla strada principale e poco a poco intravidero la casa del maestro, immersa nel verde. Giunti in prossimità della porta, Andrew si avvicinò, apprestandosi a bussare, ma essa, rispondendo ad un silenzioso comando, si aprì da sola. «Penso che a questo punto non dovrò stupirmi più di niente…» disse entrando con fare guardingo.
La casa era piccola ma allo stesso tempo accogliente: nella sala c’era un tavolo di legno intarsiato con al centro tavola una scultura raffigurante il sacro Leviathan in pietra azzurra; attorno c’erano dei grandi cuscini per stare comodamente seduti. Quella statua aveva sempre affascinato Greg, a volte gli sembrava che fosse viva e che lo guardasse con i suoi occhi verdi penetranti, e ogni volta era come se cadesse in uno stato di trance. In più di un’occasione, Dovan lo aveva sorpreso con gli occhi fissi su di essa ma non vi aveva mai fatto cenno. A destra della sala c’era una piccola biblioteca dove ogni tanto il maestro teneva lezione: aveva numerosi scaffali ricchi di codici antichi e pergamene che percorrevano la stanza per tutti e quattro i lati. Greg afferrò un libro da uno scaffale e lo posò sul leggio: con sicurezza lo aprì a una pagina precisa nella quale era raffigurata una meravigliosa e sconosciuta immagine: rappresentava l’oceano in tempesta e nel mezzo vi era una sagoma colossale circondata da quattro esseri che sembravano combatterla. Non era la prima volta che, all’insaputa del maestro, sfogliava quel libro e ogni volta sembrava che l’immagine si arricchisse di nuovi particolari. Inizialmente era riuscito solo a discernere le divinità di Selthon e Naren, ma ogni volta che lo apriva apparivano, prima confusi e poi più nitidi, altri elementi figuranti in quella scena, fino a raggiungere la quasi totalità che in quell’istante occupava le due ampie pagine. Solo un particolare, costituito dalla sagoma colossale, sembrava restio ad apparire e Greg ne ignorava il motivo, anche se quando guardava quella sagoma sembrava aprirsi davanti ai suoi occhi un pozzo di profondo vuoto, da cui era costretto a distogliere gli occhi, quasi per il terrore di cadervi. Chiuse con un piccolo tonfo il pesante volume e lo ripose in mezzo agli altri libri posti sullo scaffale. Sospirò poi, voltandosi verso Andrew, lo invitò ad osservare il pavimento della stanza: strani simboli e disegni incisi nella pietra convergevano nel centro del pavimento dove si trovava un piedestallo in legno che reggeva una sfera adagiata su un cuscino rosso. «Questi simboli convergono verso quella sfera, ma non ne conosco l’effettivo utilizzo. Non l’ho mai vista in funzione. Forse sarebbe meglio non toccarla» lo avvertì Greg, conoscendo bene l’indole curiosa dell’amico.
Andrew era affascinato da tutte quelle cose nuove: la sua famiglia era composta da persone pratiche e come tale era a sua volta cresciuto, rimanendo sempre estraneo al mondo della magia. L’avvertimento giunse tardi e Andrew sfiorò il globo con la punta delle dita: al centro della sfera si formò una piccola luce che gradualmente diventò sempre più grande, fino ad avvolgerla completamente. Luci verdi percorsero tutto il pavimento illuminando le linee e i simboli che lo ricoprivano, raggiunsero i quattro angoli della stanza che proiettarono altrettanti fasci di luce sulla sfera. Andrew fece un o indietro, pensando di aver combinato chissà quale catastrofe e Greg lo imitò. La stanza si fece un tratto, buia come la notte, la sfera, unica luce visibile, si librò dal piedestallo e si posizionò a mezz’aria: attorno ad essa comparvero altre sfere più piccole, più lontano comparvero degli agglomerati luminosi a forma di spirale. Allora Greg si avvicinò e vide una sfera verde e azzurra con due lune e finalmente capì a cosa serviva la fera: riproduceva lo spazio e Dovan, probabilmente, la usava per studiarlo. «Guarda Greg, è il nostro pianeta». «Già, è meraviglioso» La riproduzione era perfetta e a dir poco stupefacente: riconobbero l’Oceano Centrale, la grande massa d’acqua che avvolge i tre principali continenti del mondo un dei quali, situato nel profondo nord, ricoperto da ghiacci perenni. Riuscirono a individuare appena, con loro sorpresa, la capitale imperiale ma riconobbero più facilmente Naren, dominata dall’imponente vulcano. Rinunciarono a cercare Renodia, totalmente ricoperta dall’intricata ed immensa foresta delle Esperidi. Le due Lune orbitavano intanto placide e lente, proiettando una pallida luce sui lati ombrosi del pianeta, senza mai incrociarsi l’una sull’altra, quasi come se fossero regolate da qualcuno, nella loro eterna danza. Dopo aver ato qualche istante immersi nella contemplazione di quell’inusuale spettacolo, Greg emulando il gesto di Andrew, sfiorò di nuovo la sfera ed essa ricadde dolcemente sul cuscino di raso sul quale era stata adagiata dal maestro. «Dovan è veramente una persona incredibile, sono impaziente di vedere la lezione» disse Andrew con ammirazione «Così mi avete tenuto nascosto tutto ciò
per mesi?» aggiunse poi con una punta di sarcasmo. «Beh, spero che assistere alla lezione serva per farci perdonare una volta per tutte» rispose Greg uscendo dalla biblioteca e dirigendosi verso una porta in fondo alla sala. Andrew lo raggiunse sulla soglia e, prima che potesse chiedergli dove stesse andando, Greg lo precedette. «La volta scorsa il maestro ci aveva promesso una lezione più impegnativa che probabilmente può tenersi soltanto in uno spazio aperto, quindi è probabile che ci attenda in giardino». I raggi del sole del primo pomeriggio filtrarono per un attimo nella sala ombrosa, prima che richiudessero la porta alle loro spalle. Lasciarono che gli occhi si abituassero alla forte luce prima di riconoscere il maestro seduto su un ceppo di legno che un tempo doveva essere stata una splendida quercia, all’estremità del giardino. Dovan fece loro cenno di avvicinarsi. «Buon pomeriggio, maestro» dissero entrambi. Il mago, dopo aver risposto con un sorriso e un cenno del capo, si alzò in piedi, impugnò il bastone e attorno al grande ceppo fece comparire quattro comodi sgabelli in legno per far sedere i suoi allievi. «Maestro, è già a conoscenza di ciò che è accaduto stamani al porto?» chiese Greg accomodandosi. «Spesso non serve usare la magia per sapere ciò che accade in città, soprattutto se la città in questione è Selthon…» rispose sorridendo. «Lei pensa davvero che si tratti di un attacco nareniano? Perché avrebbero dovuto fare qualcosa di così sciocco?» Dovan aggrottò la fronte ma l’espressione distesa non mutò. «Non lo penso affatto. Conosco molto bene il popolo nareniano e altrettanto
bene il primo ministro Rifean: so per certo che non farebbero niente per distruggere la pace tra i due regni così faticosamente ottenuta. Ma di sicuro tu potrai dirmi di più, Greg: cosa ne pensa tuo padre, hai parlato con lui di tutto ciò?» Greg arrossì imbarazzato per la circostanza in cui era venuto a conoscenza del punto di vista del padre. Dovan sembrò comprendere che non ne aveva propriamente parlato col padre, ma lo invitò ugualmente a riferire. «Dopotutto potrebbe essere importante per capire qualcosa di più sull’accaduto… io e Andrew stavamo “casualmente” ando davanti all’ufficio privato di mio padre quando, inavvertitamente, alcune frasi hanno attirato la nostra attenzione in modo a dir poco magnetico…» Dovan inarcò il sopracciglio destro e con esso anche un angolo della bocca: era perfettamente chiaro che Greg stesse volutamente sorvolando sulla vera natura della scoperta, ma non lo interruppe. Greg gli fu grato per questo e continuò con il racconto. «Abbiamo ascoltato il tempo sufficiente per capire che il tema della conversazione era la storia del naufrago, ma non siamo riusciti a capire chi fosse l’altro interlocutore, fino a quando la nostra…>> scambiò uno sguardo con Andrew che, al suo fianco, sogghignava «…curiosità non ci ha spinto, letteralmente parlando, nell’ufficio privato di mio padre». Dovan sospirò: aveva avuto ragione a ritenere che avessero ottenuto in modo non molto corretto quelle informazioni. «La sua espressione non sembrava certo molto amichevole: se solo ne avesse avuto la facoltà ci avrebbe volentieri inceneriti con lo sguardo» lo interruppe Andrew, rabbrividendo ancora per l’incontro con gli occhi iniettati di sangue del signor Oltan. Greg scoccò un’occhiata gelida che l’amico finse di non vedere. «Abbiamo però avuto il tempo sufficiente per notare che mio padre era solo nella stanza, ad eccezione dell’immagine proiettata dal globevisor sulla sua scrivania. Non era difficile capire perché l’espressione di mio padre fosse tanto adirata: l’interlocutore non era niente di meno che il Cancelliere Samarlec»
concluse Greg. Per un istante sul volto di Dovan comparì un’ombra di amarezza che Greg non mancò di notare. «Comunque, per quello che sono riuscito a cogliere, il parere del Cancelliere, e con esso quello di mio padre, sembra orientato ad accreditare la responsabilità del naufragio a una nave militare nareniana e al suo equipaggio. E non è tutto: secondo quanto aveva raccontato il mercante sopravvissuto all’attacco, pare che il suo convoglio, di ritorno da Renodia, portasse con sé qualcosa di prezioso, trafugato però con preciso interesse dai soldati». L’espressione di Dovan da accigliata divenne sorpresa e poi paonazza. «Qualcosa che non va, maestro?» chiese Andrew, rimasto fino ad allora in silenzio. Dovan sospirò profondamente e, dopo aver recuperato il colorito normale, rispose in tono pacato. «No, tutt’altro, caro Andrew. Grazie Greg, il tuo resoconto è molto prezioso» fece una pausa «Secondo il mio modesto parere l’attacco non è in ogni modo da attribuire ai nareniani, probabilmente chi lo ha compiuto o commissionato, è ben informato sulla delicata situazione diplomatica ed è stato abbastanza astuto da procurarsi armi e vascello di fattura nareniana per sviare qualsiasi indagine e dar vita così ad un potenziale nuovo conflitto fra le due potenze». Sui tre era calato un pesante silenzio, dovuto al fatto che tutti e tre erano immersi nei propri pensieri e che si erano momentaneamente dimenticati dell’esistenza l’uno dell’altro. Improvvisamente il rumore di i attutiti dall’erba attirò la loro attenzione verso l’estremità opposta del giardino: una ragazza dai lunghi capelli biondi e vestita con una leggera veste azzurra avanzava con andatura elegante verso di loro. I capelli ondulavano alla lieve brezza da poco levatasi dall’oceano mentre le pietruzze colorate della collana che indossava tintinnavano dolcemente. A tale vista, Greg ebbe uno scatto che fece sghignazzare Andrew e tossire il maestro Dovan, nell’educato tentativo di mascherare la propria ilarità.
Lisa giunse di fronte a loro, chinò leggermente la testa per riguardo verso il maestro e si riaggiustò un ciuffetto ribelle dietro l’orecchio, per poi salutare con un gentile sorriso anche Greg e Andrew. Greg avvampò in volto e anche Lisa non sembrò essere da meno. Quell’imbarazzo che si era venuto a creare tra loro in quell’istante si ripeteva ormai da molto tempo, da quando, in pratica, Lisa si era ritrovata a dover scegliere tra lui e Mark. Una scelta a lungo tempo rimandata: la addolorava il pensiero di veder soffrire uno dei due. Per quanto diversi, l’affetto che provava nei confronti di entrambi si bilanciava perfettamente, rendendole così impossibile qualunque decisione. Non era stupida e non le piaceva apparirlo: ogni qual volta i due ragazzi discutevano provava un forte imbarazzo e un rimorso invece della lusinga che le amiche avrebbero provato al suo posto. In quel momento sorprese Greg a fissarla, i loro sguardi si incrociarono per un attimo ed entrambi arrossirono. Greg si alzò in piedi facendo traballare pericolosamente il proprio sgabello, nell’ammirevole tentativo di porgerne uno a Lisa per farla accomodare. Dopo che ebbe ritrovato l’equilibrio senza che né lui né lo sgabello rovinassero a terra, la ragazza sorrise benevola e sedette. «Mi spiace aver interrotto la vostra conversazione ma non dovete sospenderla a causa mia!» disse Lisa dopo aver notato il silenzio delle tre persone sedute vicino a lei. «Non pensarci neppure, mia cara. Penso anche tu sia al corrente degli interessanti fatti avvenuti stamattina al porto e non penso sia opportuno continuare a discuterne: in fondo potrebbe anche rivelarsi come un semplice incidente diplomatico e in tal caso sono sicuro che il nostro beneamato Cancelliere Samarlec riuscirà a risolverlo nel minor tempo possibile» rispose conciliante il maestro, ponendo uno strano accento sarcastico sulla parola “beneamato”. Lisa sorrise rassicurata e volse i suoi occhi color del cielo verso la casa, le cui mura risplendevano ai raggi del sole pomeridiano. Poi la sua espressione divenne stupita quando realizzò pienamente la presenza di Andrew. Il ragazzo ricambiò l’espressione dell’amica con un largo sorriso e facendole un cenno di saluto.
Un nuovo rumore di i, questa volta decisamente meno leggiadri di quelli precedenti, e con essi una voce sprezzante, giunse alle loro orecchie. «Pensavo di essere in ritardo invece vi trovo qui a chiacchierare allegramente… Oh, ma guarda, abbiamo anche un nano tra noi oggi. Cos’è alla fine Greg ha spifferato tutto? Non teme più che tu non approvi ciò che facciamo qui?» Un ragazzo poco più basso di Greg e con corti capelli a spazzola avanzava verso i quattro con le braccia conserte. «Potevi anche rimanere a casa, nessuno ti ha obbligato di venire!» disse stizzito Greg mentre Andrew diveniva rosso dalla rabbia. Lisa lanciò un’occhiata torva a Mark, poi posò una mano sul braccio di Andrew. Quindi tirò un sospiro e scosse la testa. “Siamo alle solite” pensò. Andrew, pacato dal gesto di Lisa, si preparò a gustare la scena che sarebbe accaduta di lì a poco davanti i suoi occhi. Al suo fianco, Dovan sembrava esserne già fin troppo infastidito. Conosceva a memoria ciò che sarebbe accaduto nei minuti seguenti: avrebbero continuato a punzecchiarsi finché uno dei due alla fine non avrebbe alzato le mani sull’altro. Questa volta l’avrebbe fatta finire molto prima: avevano molte cose importanti da fare, perciò si alzò, impugnò il bastone e lo diresse verso i due litiganti. Immediatamente dalle loro bocche non uscì più una sillaba: sembravano due pesci fuor d’acqua che boccheggiavano all’aria. Andrew e Lisa scoppiarono in una fragorosa risata, Greg e Mark si girarono e improvvisamente si resero conto di aver perso la parola, vergognandosi nel vedere i propri amici così divertiti. I litiganti si diressero verso i loro posti e Dovan, constatando la presenza al completo dei propri allievi, si mise di fronte a loro per iniziare finalmente la lezione. Si voltò poi verso Greg e Mark con il solito tono gentile e pacato che non lo abbandonava mai. «Possiamo cominciare la lezione, adesso?» Con gli occhi bassi i due fecero cenno di sì con la testa. «Bene…Come vi avevo promesso la volta scorsa, oggi dovrete affrontare una specie di esame o, se preferite, una verifica di riepilogo: ho deciso di mettervi
alla prova contro un nemico alla vostra portata», il maestro colse un fremito negli occhi di Lisa. «Non temere mia cara, non si tratta di niente con otto zampe pelose, anzi, se devo essere sincero, non ne possiede neppure una». Lisa rise nervosamente, affatto rassicurata. Dovan indicò poi loro una cassa di legno non molto distante e che in precedenza non avevano notato e le si avvicinò. «Questa volta dovrete impegnavi al massimo», disse poi rivolto ai tre allievi, «usando tutte le tecniche magiche che fino a ora avete appreso. Io non potrò esservi in alcun modo d’aiuto. Mi auguro vivamente che non si verifichino incidenti», per un attimo soffermò il suo sguardo su Mark, il quale, ostentando un’eccessiva sicurezza, emise uno sbadiglio esageratamente visibile, per poi sbirciare con superficialità tra le assi della cassa, cercando di capire con che razza di essere avrebbe dovuto confrontarsi. Greg lo fissò e strinse i pugni, detestava la sua aria di superiorità, normalmente l’avrebbe volentieri inchiodato al muro, ma il momento non lo permetteva. «Poiché è giusto che lo sappiate, state per misurarvi contro una anfisbena, un serpente atipico dato il suo particolare aspetto fisico. Vorrei soprattutto ammonirvi per quanto riguarda la testa secondaria: le sue zanne contengono un veleno altamente corrosivo: se vi mordesse io potrei fare ben poco per salvarvi non avendo nel mio laboratorio un antidoto adatto». L’espressione e l’atteggiamento di Mark cambiarono sensibilmente e una goccia di sudore freddo gli percorse un lato della tempia. Lo sguardo di Dovan ò poi su Greg e da lui su Lisa: il primo apparentemente sembrava altero e freddo, ma la sua paura era quasi tangibile agli occhi esperti del maestro; la seconda invece non tentava minimamente di mascherare le proprie emozioni, d’altronde, dopo i ragni, erano i serpenti il suo più grande terrore. Benché Andrew iniziasse ad essere incuriosito dalla breve introduzione, nello stesso istante in cui Dovan rivelò il contenuto della cassa si rese conto di non invidiare affatto i tre amici. Il mago si schiarì la voce. «Se siete pronti, al mio tre libererò il serpente. Vi consiglio di tenervi all’erta,
perché ho la netta sensazione che attaccherà immediatamente. Sono due giorni che non lo sfamo». I tre allievi pregarono fervidamente affinché l’ultima frase fosse frutto dell’immancabile umorismo nero del maestro: una bestia incattivita contro cui misurarsi era l’ultima cosa che desiderassero. Andrew fissò Greg, ansioso di vederlo all’opera, gli sorrise per fargli forza, ma l’unica cosa che ottenne di rimando dall’amico fu un qualcosa di molto più simile a una smorfia di dolore che a un sorriso. «…e tre!» disse Dovan aprendo il lucchetto con il tocco del bastone. Greg fu percorso da un brivido che, almeno al momento, non seppe controllare: l’unica cosa importante adesso era cercare di neutralizzare l’anfisbena. Due paia di occhi malvagi avvamparono dal buio sul fondo della cassa, poi la prima testa del serpente emerse rivelando una variopinta livrea color verde ed una corona di piume rosse attorno al collo. L’anfisbena sciolse le spire ed uscì completamente dalla cassa, rivelando la seconda testa, anch’essa piumata, ma con colori più accesi e vibranti. Se il suo istinto non lo tradiva, era quella la testa dalle cui zanne stillavano il temibile veleno. Greg si accorse inaspettatamente che la prima a scagliarsi verso il serpente fu la pavida Lisa. La vide chinarsi a terra e afferrare dei ciuffi d’erba: stava per usare uno degli incantesimi sul controllo della natura circostante. Al comando harb sorsero dal terreno delle grandi liane che avvolsero l’anfisbena, immobilizzandole praticamente ogni parte del corpo. Il serpente si dibatté violentemente ma Greg si rese conto che i tralci da Lisa non sarebbero durate a lungo: la bestia sembrava al pieno delle forze. I due si scambiarono un fugace sorriso d’intesa e si avvicinarono con cautela al mostro. In un attimo si videro preceduti da Mark che, con una sicurezza al limite dell’inoscienza, si parò davanti alle due teste del serpente. Il ragazzo sollevò una mano e la orientò davanti alla testa secondaria del serpente, le cui piume fuoriuscivano malamente dall’intricato groviglio di liane. Stava per pronunciare la formula del primo anello della catena del fuoco, mej, quando l’enorme rettile, infuriato e consapevole del pericolo, riuscì a liberare il muso e ad aprire le fauci, sputando del veleno sul braccio di Mark, corrodendo la stoffa del camicia e ferendogli lievemente il braccio. Colto alla sprovvista, cadde a terra contorcendosi per il dolore: in una frazione
di secondo riuscì comunque a lanciare la sfera di fuoco in direzione della testa venefica che, a contatto con il tremendo calore, si incenerì. Con una mossa disperata, il serpente si liberò dei tralci che lo immobilizzavano ed essi furono riassorbiti dal terreno. Lisa era stordita, completamente paralizzata dal terrore: fissava la scena con gli occhi sbarrati e la bocca semiaperta, incapace di emettere suono. L’anfisbena avanzò strisciando e in un attimo fu sopra a Mark che, dimenticato il dolore al braccio, si ritrovò a fissare la sua immagine riflessa negli occhi del serpente. Greg, con movimenti cauti, si avvicinò all’amico ma, inaspettatamente, avvenne qualcosa che lo stupì e lo bloccò di colpo: il serpente trasse a se ciò che rimaneva della parte incenerita della seconda testa e se la avvicinò, sollevandola all’altezza della propria. Dagli occhi cominciò a sgorgare un liquido denso e verdastro che reagì entrando a contatto con la parte bruciata. Dove prima c’era solo traccia di qualche piuma annerita stava letteralmente sbocciando una nuova testa, che, dopo qualche istante di smarrimento, diresse il suo sguardo truce sull’inerme Mark, ancora disteso a terra con gli occhi fissi. «Spostati di lì o ti colpirà di nuovo!» gli intimò Greg: l’altro fu appena in grado di ruotare la testa nella sua direzione. I suoi occhi imploranti scossero profondamente Greg che, con la mente resa lucida dalla precaria situazione, decise di intervenire tempestivamente. Ebbe l’impressione che tutta la scena si muovesse rallentata. Lisa gli fu accanto mentre il serpente faceva schioccare la lingua biforcuta e si ritraeva per colpire Mark che, in un disperato tentativo di proteggersi, riusciva ad avvicinare le mani al viso. Greg, meccanicamente e senza quasi rendersene conto, sollevò la mano, concentrando in essa la sua energia e la diresse verso la seconda testa che in quel momento si trovava a pochi centimetri dal volto di Mark. La sfera, a cui Greg sembrò se ne aggiungesse un’altra, centrò con precisione il serpente, creando un’esplosione che lo spinse a qualche metro di distanza, liberando così Mark dalla morsa. La scena parve riacquistare il corso normale del tempo e Greg abbassò la mano, ancora fumante per l’incantesimo lanciato. La sua fronte era imperlata di sudore e accanto sentì Lisa ansimare per lo sforzo appena compiuto: anche la sua mano emetteva piccole volute di fumo, segno evidente che non era stata solo un’impressione quella che aveva avuto poco prima.
Mark nel frattempo non aveva abbandonato la sua posizione difensiva, ignaro che avesse scampato il pericolo. Greg, seguito da Lisa gli si avvicinò e gli tese una mano per aiutarlo a rialzarsi. Mark l’allontanò con un gesto brusco «Me la sarei sbrigata da solo, non avevo certo bisogno del tuo aiuto» socchiuse gli occhi e guardò oltre la spalla del ragazza «E neppure del tuo.>> «Ti rendi conto che saresti potuto morire se non fosse stato per noi?» gli urlò Greg in viso mentre lo scuoteva violentemente per le spalle. Lisa con le lacrime agli occhi guardò Greg come per dirgli “lo conosci, è fatto così” e prese la mano di Mark tra le sue. Greg si alzò bruscamente da terra, ferito dal mancato ringraziamento dell’amico e desideroso di sfogare la propria rabbia. Si diresse verso l’anfisbena ancora in preda a movimenti spasmodici e, per poco, non buttò a terra Andrew che fino a quel momento era stato costretto da Dovan a osservare il più assoluto silenzio e a non tentare di intervenire in alcun modo nell’allenamento. La seconda testa era stata di nuovo carbonizzata, ma la prima, quasi intatta, avrebbe potuto forse costituire ancora un pericolo nel caso fosse riuscita a rigenerare di nuovo la seconda. Greg richiamò ancora una volta il fuoco nella sua mano destra e con sinistra soddisfazione lo scagliò sull’anfisbena, riducendola ad un cumulo di cenere. Qualche istante dopo Andrew gli fu accanto e gli tirò una pacca amichevole sulla schiena. «Greg, sei stato strepitoso, il tuo sangue freddo è stato eccezionale! A proposito, dov’è finita l’anfisbena?» Greg si limitò a indicare la chiazza nera sull’erba. «Peccato abbia fatto una brutta fine, stavo considerando il fatto di impiegarla come bestia da guardia…» sdrammatizzò Andrew. Greg sorrise, un poco sollevato: aveva annientato quell’essere ripugnante ed aveva placato il suo risentimento. Poco dopo, una voce pacata alle sue spalle riuscì quasi a fargli dimenticare addirittura Lisa che si prendeva amorevolmente
cura di Mark. «Ottimo lavoro Greg, il tuo combattimento è stato perfetto» quindi si rivolse allo spettatore «Sono altrettanto felice che l’allenamento sia stato di tuo gradimento, Andrew». Greg vide però chiaramente che gli occhi di Dovan riflettevano preoccupazione, ‘dopotutto’ pensò, ‘ se fosse accaduto qualcosa a Mark la colpa di ciò sarebbe ricaduta sul maestro, pensandoci bene non è stato un male salvarlo ’. «Come sta?» chiese Greg, sforzandosi di apparire più preoccupato del necessario. «Non vuole parlare con nessuno, neanche con me, ho cercato di tranquillizzarlo, ma i suoi occhi erano persi nel vuoto» e dicendo ciò si scostò per lasciar constatare anche a Greg le condizioni del ragazzo. Mark era seduto in un angolo del giardino con la testa tra le mani. Con sollievo autentico Greg notò che non aveva riportato alcuna ferita, solo qualche graffio sulle braccia ed un buco nella maglia dove il serpente gli aveva schizzato il veleno. «Non preoccuparti, anche se sono sicuro che non lo farai necessariamente.» aveva abbassato la voce fino a risultare poco più di un sussurro «Si rimetterà presto, ma dovrà argli il trauma provocatogli dallo scontro. Sono pur sempre convinto che anche nelle cose all’apparenza meno piacevoli possa celarsi un lato positivo e nel caso di Mark potrebbe essere per lui la volta buona per imparare a controllare davvero il proprio carattere…» Dietro di loro la porta sbatté improvvisamente: voltandosi Greg vide Lisa ancora seduta a terra, ma senza più Mark accanto. «Dov’è andato?» chiese Dovan interrogativo. «È andato. Credo voglia stare da solo e riflettere. Oh Greg, ho avuto così tanta paura!» Lisa si alzò e tra i singhiozzi corse ad abbracciarlo. Greg abbassò gli occhi, le carezzò la testa sussurrandole che andava tutto bene. In cuor suo pensava il contrario: niente andava bene, stava male nel vederla piangere, soprattutto quando la colpa era di Mark.
Il sole era ormai scomparso dietro alle alte Torri di Cristallo, i suoi ultimi raggi conferivano loro dei riflessi dorati. Quando il sole terminò, infine, la sua corsa dietro l’orizzonte ed il cielo divenne di un colore violaceo, le Torri si illuminarono rischiarando il cielo di fulgide luci. La schiena di Greg fu percorsa da un brivido: sebbene Selthon fosse affacciata sull’oceano, di notte vi spirava un vento piuttosto fresco. Anche Dovan parve avvertirlo e allacciando alcuni fermagli della veste disse: «Gradireste un té in mia compagnia?» «Più che volentieri» rispose sollevata Lisa mentre Greg e Andrew assentivano con un cenno del capo. Dovan roteò il bastone verso il giardino e piccoli cristalli incastonati nelle pietre fornirono all’ambiente una tenue luce azzurrina, permettendogli così di ripercorrere il vialetto fino alla porta sul retro. Un fruscio vicino alla casa colpì l’attenzione di Greg e si mise in attento ascolto. Andrew stava per aprir bocca e chiedere all’amico cosa stesse facendo quando Greg, senza tanti complimenti, gli tappò la bocca con una mano, facendogli cenno di silenzio con il dito. ò qualche istante, ma nessun altro rumore seguì quello appena avvertito. «Cosa c’è che non va?» chiese Andrew, liberando la bocca dalla mano di Greg. «Niente, è tutto a posto, entriamo in casa» rispose Greg a bassa voce, sebbene non fosse molto convinto delle proprie parole. Aveva avuto la strana sensazione di essere osservato già da prima che restassero soli e, solo un istante prima, gli era sembrato di vedere delle sagome scure muoversi nel crepuscolo. In quel momento dal cespuglio uscì un uccello notturno facendo frusciare le foglie. Greg si sentì rassicurato ma preferì in ogni caso non dire niente all’amico, non voleva diventare paranoico. «Dai, entriamo che comincio ad aver freddo!» gli intimò nel frattempo Andrew che, impaziente di entrare per riscaldarsi, lo aspettava già alla porta. Greg si affrettò a raggiungerlo ed entrando in casa fu avvolto da una calda luce soffusa e da un dolce aroma di tè appena preparato: Lisa, seduta su un morbido cuscino che fungeva da sedia al basso tavolino della saletta, sembrava aver riacquistato il buon umore e Greg si sentì sollevato quando, sedendole accanto, lei gli rivolse un dolce sorriso.
«Mi spiace per come mi sono comportata prima, mi sentivo in dovere di prendermi cura di Mark e non sono riuscita a congratularmi con te! Hai dimostrato di essere reattivo e di saper mantenere il sangue freddo e soprattutto gli hai salvato la vita!» disse Lisa con entusiasmo. Greg arrossì e riuscì appena a biascicare qualche parola di ringraziamento per poi farle a sua volta i complimenti. Odiava quei momenti e odiava se stesso per non riuscire mai a parlarle seriamente o a dirle qualcosa di intelligente. In quel momento l’attenzione di Greg fu però spostata verso Dovan che uscito dalla cucina, portava con sé un vassoio sul quale erano posti delle tazze di ceramica azzurra, una caraffa fumante e un piatto con dei biscotti. Avvicinatosi al tavolino, fece sollevare le quattro tazze dal vassoio e nel frattempo fece inclinare la teiera per versarvi il suo caldo contenuto. Una volta riempite, queste raggiunsero i propri destinatari, adagiandosi sotto i rispettivi nasi. Il piatto con i biscotti seguì le tazze ma, ando davanti Andrew il fluttuare fu brutalmente interrotto dal mostruoso appetito del ragazzo che l’agguantò senza fare troppi complimenti. In poco più di un battito di ciglia, tre grossi biscotti farciti erano già scomparsi nella sua bocca. Andrew resosi conto di essere osservato da tre paia di occhi, biascicò un incomprensibile “buon appetito” e un altrettanto incomprensibile “ottimi biscotti, maestro Dovan”. Greg vide Lisa mordicchiarsi le labbra con lo sguardo assorto: stava indugiando su qualcosa, probabilmente si trattava di Mark. «Maestro, pensa che Mark tornerà di nuovo alle sue lezioni?» chiese Lisa, decisa a mettere fine ai dubbi che la tormentavano. «Non preoccuparti per lui, ha solo bisogno di sfogarsi. Non credo abbandonerebbe mai le lezioni, vedrai che tra qualche giorno tornerà » rispose. Il volto di Lisa si distese, tranquillizzato ma Dovan proseguì con il proprio discorso. «Ma non è necessariamente di Mark che avevo intenzione di parlare. La situazione internazionale, come avrete ben capito, non è delle migliori. Ho avuto modo di riflettere mentre vi osservavo combattere: la pace con Naren è troppo
fragile per reggere a questo grave incidente diplomatico. Non mi stupirei se il Cancelliere, facendo le veci dell’imperatore, dichiarasse una nuova offensiva nei confronti di Naren. Comincio quasi a pensare che quell’ipocrita abbia preso gusto nel minare la sicurezza dell’impero». L’ultima affermazione di Dovan aveva fatto andare di traverso il biscotto ad Andrew per un eccesso di risatine. Greg sorrise a sua volta: nessuno poteva dichiararsi soddisfatto dell’operato del Cancelliere. Da quando, anni prima, era stato eletto con quel titolo, era riuscito a trovare sempre dei buoni pretesti per compromettere i fragili accordi di pace. Fortunatamente per la stabilità del resto del mondo, il regno Silvestre di Renodia si era sempre tenuto lontano da questi conflitti, limitandosi a commerciare, con ambedue le potenze, materie prime estratte dai loro ricchi giacimenti. I selthoniani erano costretti, in caso di guerra, a fornire ingenti somme di denaro per finanziare la flotta e l’esercito, ma, benché fossero scontenti dell’operato del Cancelliere, egli aveva la piena approvazione dell’imperatore. E nessun cittadino di Selthon o dell’impero, di qualunque estrazione sociale, avrebbe mai contestato le decisioni di colui che regnava per diritto divino. La carica di “imperatore” era ormai diventato un titolo puramente nominale poiché a conti fatti era il Cancelliere che decideva la linea diplomatica-politica dell’impero mentre il sovrano veniva scomodato soltanto per deliberazioni pubbliche o per controfirmare leggi o trattati già approvati dal Cancelliere. Nel caso di Samarlec e della linea D’Abarandum, purtroppo, la popolazione aveva assistito, senza opposizione alcuna, al vero e proprio tramonto del titolo imperiale. Il sovrano, pavido, dedito ormai solo a pavoneggiare se stesso e senza eredi, si era da anni ritirato dalla vita pubblica e ormai da tempo non presiedeva più alle udienze o alle sedute del Consiglio: secondo molti sarebbe stato costretto a stipulare un accordo con Samarlec per cui alla sua morte gli sarebbe direttamente succeduto sul trono. Greg comprendeva bene quindi l’antipatia collettiva per quell’uomo così caparbio, poiché, come selthoniano, non poteva fare a meno di esserne partecipe, ma gli restava pur sempre oscuro il perché Dovan affrontasse sempre con amarezza gli argomenti riguardanti la politica dell’impero. In fin dei conti, si disse, sapeva molto poco del ato del suo maestro e lui di certo non desiderava rivolgergli domande indiscrete, almeno fino a quando non gli sarebbe parso inevitabile. Dovan si alzò e si diresse verso gli scaffali colmi di libri, nella stanza dove si erano soffermati prima della lezione e ne riemerse tenendo in mano un piuttosto voluminoso. Greg era
incredulo: era lo stesso libro che lo aveva sempre incuriosito. Dovan lo posò sul tavolo ed esso si aprì senza che ne venissero sfogliate le pagine, ma non si fermò sull’immagine che sperava di vedere Greg, ma su uno dei capitoli del libro. Dovan si schiarì la voce. «Questo libro è molto antico, in esso è contenuta tutta la storia di questo nostro mondo. O almeno così sostiene l’autore, con un pizzico di presunzione. Mi è stato regalato da un caro e vecchio amico. La sua fattura è straordinaria, ho girato tutto il mondo per trovarne di simili, ma è stata una ricerca vana» Dovan si interruppe, Andrew aveva fatto traballare pericolosamente la statua sul tavolo con un altro dei suoi movimenti maldestri. «Dicevo…» continuò Dovan, «le radici del conflitto tra Selthon e Naren sono molto antiche, dovute, molto probabilmente, a intricati motivi di successione dinastica. I sostenitori più conservatori da entrambe le parti concordano però che i malumori sfociarono poi in guerra quando le due potenze si affacciarono all’oceano per stendere la mano oltre i propri confini per il possedimento dei giacimenti di Varnelio.» «Non sembra molto diverso da ciò che accade anche adesso. » «Ora è divenuta una consuetudine…ma secoli fa l’applicazione del Varnelio avrebbe permesso alle marine da guerra rapidi spostamenti e quindi un grande vantaggio su qualsiasi flotta. Un progresso tecnologico difficile da immaginare. Ebbe così inizio la prima delle guerre del Varnelio: il conflitto fu logorante, entrambi i regni ebbero pesanti perdite mentre la popolazione lamentava la scarsità di cibo a causa di un improvviso abbassamento della temperatura. Alla fine, il regno di Naren uscì, per così dire, vincente dallo scontro, ma alla pari dell’impero si dovette trovare a fronteggiare un inaspettato ed ingiustificabile stravolgimento del clima: gran parte dei laghi di Selthon si erano ghiacciati e grandi tratti dell’Oceano Centrale erano ricoperti da spessi lastroni di ghiaccio. In quella disastrosa situazione si presentarono due personaggi ricoperti da grandi pellicce, sostenendo di essere ambasciatori del Basileato di Junatar nel profondo Nord del pianeta e secondo ciò che dicevano erano stati ispirati dagli Altissimi a compiere questa missione». Greg rimase stupito nel sentire Dovan nominare i così detti “Altissimi”. Tutti sapevano che si trattava solo di favole per bambini ma a quanto pare il maestro
le prendeva abbastanza sul serio. Nella propria convinzione però Greg vedeva molto improbabile l’esistenza da qualche parte tra le nuvole di un popolo mitico. Da piccolo né suo padre, né tanto meno sua madre gli avevano mai raccontato quelle storie e anzi, l’unica volta che ne aveva sentito parlare, suo padre irato, aveva cacciato Eleona e da allora, non aveva più saputo niente né della ragazza né degli Altissimi. Nel frattempo il maestro aveva proseguito con la propria spiegazione. «I due ambasciatori, seppur parlando un idioma leggermente diverso dal Thalassiano corrente dell’Oceano Centrale, spiegarono che da qualche tempo a loro completa insaputa delle presenze oscure avevano recuperato un’antica arma, in grado di diffondere il gelo in tutto il pianeta. I regnanti accolsero con stupore quelle dichiarazioni ma si dissero disposti ad ascoltare le loro richieste, non avevano niente da perdere e quell’aiuto insperato sembrava esaudire le loro preghiere. Gli ambasciatori erano appena di ritorno da un’altra missione diplomatica, nel regno Silvestre di Renodia e a quanto riportavano nemmeno là la situazione era delle migliori.>> sfogliava le pagine con lentezza costante «I grandi alberi delle loro foreste erano coperti di neve e molti si erano sradicati a causa delle forti raffiche di vento. Avoran e Talandria, re e regina di Renodia si erano detti favorevoli a un intervento armato, sempre che gli altri regni fossero d’accordo nell’organizzare una missione per il bene comune. Quattro eserciti, radunati alle sommità artiche del pianeta si ritrovarono ad assediare postazioni fortificate di ignota proprietà, protette da guerrieri di forza sovraumana che mettevano in incredibile difficoltà gli uomini scelti degli eserciti alleati. Alcune di esse erano guidate da esseri potentissimi che si distinguevano dai loro sottoposti per potenza e malvagità. Di questi esseri non si sente parlare da secoli, ma le loro essenze strisciano ancora, tramando contro la pace. Come se non bastasse ad aggravare la situazione, spesso apparivano tra i ghiacci i mostruosi kraken, vere e proprie isole galleggianti, con il dorso a scaglie duro come la roccia e praticamente inattaccabile. Un unico grande occhio spuntava poco sopra l’immensa cavità orale pronta a divorare qualsiasi cosa capitasse tra i suoi poderosi tentacoli. Ma alla fine, grazie all’intervento congiunto dei più potenti maghi dei quattro regni e di aiuto inaspettato, le fortezze nemiche furono conquistate e l’arma perduta». «E cosa ne è stato degli assalitori? »
«Non ci furono altri attacchi, sparirono, come inghiottiti dallo stesso buio dal quale erano comparsi. Probabilmente il nemico era intimorito dalla collaborazione e dall’amicizia sorta tra i regni. Il clima di comunione instauratosi tra i popoli però si estinse presto: Junatar sparì di nuovo tra le nevi artiche troncando tutti i contatti con gli altri regni, Renodia si limitò a rimanere nei suoi confini e ad esportare i materiali preziosi. Gli unici regni rimasti sulla scena, come lo sono tutt’ora sono Selthon e Naren. Ho paura che tutto quello che sta accadendo faccia parte di un disegno molto più ampio di quello che possiamo supporre. Il vero nemico, quegli esseri oscuri di cui vi parlavo, potrebbero essere rimasti in attesa nell’ombra, ansiosi di sconvolgere l’equilibrio una volta per tutte. Questa sarebbe davvero la fine per l’era dell’uomo e l’avvento di un’era oscura» concluse infine Dovan.
Capitolo IV
Rivelazioni
Dovan afferrò lentamente la brocca e si versò del tè nella tazza: la lunga spiegazione gli aveva seccato la gola. Avvicinò il bicchiere alle labbra e, mentre sorseggiava la bevanda ancora fumante, osservò i suoi ospiti: Andrew era rimasto così affascinato dalla storia che non aveva più toccato i biscotti disposti sul piatto e piccole briciole gli si erano depositate agli angoli della bocca. Lisa aveva la testa china sul tavolo e teneva tra le mani la tazza, ancora piena del suo contenuto. Greg al contrario teneva la testa alta, il suo sguardo fisso sul libro aperto poco prima. Dovan si era spesso interrogato su quel ragazzo: in così poco tempo era riuscito a sviluppare abilità magiche così avanzate rispetto alla media. Nessuno, dopo solo tre mesi di lezione, mostrava la freddezza d’animo del ragazzo e la capacità di sferrare un attacco deciso ed efficace come aveva fatto poco prima. A meno che i tempi non fossero realmente sopraggiunti e avesse avuto così tanta insperata fortuna. Allontanò quell’ipotesi, dopotutto ben remota a meno di palesi segni d’avvertimento, sebbene un brivido di cattivo auspicio gli avesse percorso tutta la schiena fino a fargli tremare il collo. «Capisco le vostre perplessità» disse riemergendo dai propri pensieri «ma siamo soltanto all’inizio, ragazzi miei. L’attuale situazione richiede la massima attenzione e cautela. L’attacco a un nostro convoglio da parte di Naren è un fatto abbastanza grave ma, come vi ho già detto, sono convinto che sotto tutta la faccenda vi sia qualcosa di più pericoloso. L’unica cosa che ci resta da fare adesso è aspettare. Se è come credo, e cioè che il Cancelliere Samarlec sia propenso a dichiarare guerra, ci aspettano tempi duri. Non è mia intenzione che il nostro mondo vada a rotoli e farò tutto ciò che è in mio potere per impedire che una nuova guerra ci renda più deboli».
Greg osservò per un attimo il volto del maestro: era solcato dai numerosi pensieri e dalle preoccupazioni che lo facevano apparire molto più vecchio di quello che era, e adesso, con la stanza illuminata da una tiepida luce azzurrina, il suo profilo era simile ad una delle statue dei saggi che adornavano il frontone della Basilica Maggiore. Ripensò alla storia appena narrata, non potendo, però, fare a meno di invidiare quei potenti maghi che secoli prima avevano fatto parte della spedizione disperata al nord e che avevano riportato la vittoria su quelle misteriose entità. Di fianco a lui Andrew, dopo il coinvolgimento iniziale, non sembrava essere rimasto per niente turbato, pareva anzi che l’ascolto gli avesse fatto tornare l’appetito e ricominciò ad addentare con gusto i biscotti offertigli da Dovan. La pallida luce azzurra aumentò d’intensità per supplire all’oscurità sopraggiunta dopo il tramonto e Greg, preoccupato per l’ora, guardò l’orologio che Dovan teneva su un mobiletto basso poco distante dal tavolo dove erano seduti. Era il più complicato che avesse mai visto: da una grande bacinella di vetro scendeva ogni minuto un piccola perla metallica, che andava a ricadere in un’altra bacinella, dalla quale, un volta scese sessanta perline, scendeva una sfera metallica più grossa, che andava a ricadere in una terza bacinella, questa contenente acqua. Il terzo recipiente aveva ventiquattro tacche, cosicché a ogni sfera caduta, il livello dell’acqua aumentava di una tacca, segnando il are delle ore. Con suo stupore notò che l’acqua aveva pressappoco raggiunto la ventesima tacca venendo così al corrente di essere in ritardo per cena, prefigurandosi l’ennesima lavata di capo, per non parlare del fatto che era insperabile che suo padre si fosse già scordato che lui e Andrew si erano messi ad origliare, dalla porta dello studio privato, la conversazione con il Cancelliere. Dovan intercettò lo sguardo dell’allievo e decise saggiamente che era giunta l’ora che fe ritorno a casa; si alzò e nello stesso istante il vassoio, sul quale non era rimasta traccia di biscotti, salvo qualche briciola, e le tazze vuote di tè lo precedettero in cucina. I tre ragazzi si alzarono in piedi a loro volta, stiracchiando le gambe a causa del lungo tempo ato a sedere e si avvicinarono alla porta, attendendo il ritorno del maestro per augurargli la buona notte. «Maestro, cosa intende per era oscura?» domandò a bruciapelo Greg. Il mago rimase un po’ perplesso dalla domanda, di solito ai giovani le leggende
del pianeta smettevano di interessare all’incirca verso il decimo anno di età. Per questo, Dovan sosteneva, le fonti precedenti la fondazione delle cinque città non potevano dirsi assolutamente sicure: non interessavano praticamente a nessuno. Persino gli storici imperiali fingevano quasi che la storia del mondo iniziasse con la costruzione di Selthon. Così certi avvenimenti di primaria importanza per il pianeta mutavano, divenendo irriconoscibili, trasformandosi in cicli di leggende più o meno veritiere. A meno che una persona non sapesse esattamente a chi rivolgersi e dove cercare, la verità era spesso dimenticata. «È soltanto una vecchia leggenda. Prima mi riferivo a essa in senso figurato, per portarvi un paragone del terrore e della paura che una nuova guerra potrebbe portare in tutto il mondo. Secondo quanto è tramandato, all’inizio dei tempi l’umanità sarebbe stata sottomessa da entità malvagie fin quando gli Altissimi non avrebbero riportato loro la >>. Aggrottò le sopracciglia e Greg lo imitò. «Non pensarci adesso, è un mito. Il male è sempre esistito e credo che sempre esisterà e, malgrado ciò, tutti quanti continuiamo a vivere più o meno tranquillamente. È lo spettro della guerra ciò che deve incutere timore agli uomini, non la meschinità dei singoli. Ma se coloro che dovrebbero allontanare tale spettro fanno di tutto per avvicinarlo, allora la preoccupazione diviene tangibile e qualcun altro deve assumersi tale compito» concluse con una sfumatura di amarezza, forse alludendo al Cancelliere e al suo discutibile operato. Greg sorrise. In cuor suo sapeva che il maestro si era dimostrato un po’ troppo pessimista ma dopotutto aveva ragione. Che senso aveva preoccuparsi? Dopotutto anche se fosse scoppiata una nuova guerra essa non sarebbe certo dipesa da lui. Il compito di proteggere l’impero era dei politici, dell’esercito e della marina, ma, da come ne parlava il maestro, c’era da fidarsi questi baluardi? Era certo, comunque, che fin quando avrebbe avuto accanto Dovan e i suoi amici, niente gli sarebbe parso insormontabile. Rinfrancato dai suoi pensieri, aprì la porta e l’aria fresca della sera gli investì delicatamente il viso, provocandogli un brivido di piacere. Dopo una giornata così piena si sentiva stanco e non desiderava altro che potersi stendere comodamente sul suo materasso di piume. In quell’istante un rumore furtivo
improvviso, proveniente da alcuni alti cespugli poco lontani dalla casa, lo distolse dai propri pensieri per riportarlo a quando, qualche ora prima, aveva avvertito un rumore simile. Avvicinandosi, gli parve di scorgere qualcosa muoversi tra le fronde, ma non poteva dirsi sicuro che ciò che aveva intravisto potesse trattarsi davvero di un essere umano e perciò quando dopo pochi istanti sopraggiunse Dovan, decise di non fargliene parola. Anche il maestro, appoggiato contro la soglia della casa, sembrava stanco e provato dalla giornata appena trascorsa tanto che Greg pensò di scorgere un’ombra di pensieri scuri e di cattivi presagi attraversagli il volto. Dovan congedò Lisa, rassicurandola di nuovo sul prossimo ritorno dell’amico Mark alle lezioni e, dopo essersi congedata a sua volta, scomparve nell’oscurità. Poi, rivolgendosi a Greg con un sorriso paterno disse: «Hai per caso intenzione di are anche stanotte all’addiaccio sulla banchina?» «Penso proprio che stasera mi concederò il lusso di arla al calduccio tra le coperte del mio letto: ho davvero bisogno di riposo, è stata una giornata lunga e piuttosto faticosa. Anche lei maestro sembra averne bisogno…» Dovan sorrise. «Non hai tutti i torti mio caro amico, ma ci sono molte cose da fare e da pianificare e non sono sicuro di avere abbastanza tempo per portarle tutte a termine. I tempi sono difficili e la forza di uno potrà forse non bastare per controbilanciare l’oscuro potere di molti>>. Ci fu silenzio, segutio poi da un profondo sospiro. «Ma dopotutto mi attenderanno giorni faticosi e forse qualche ora di sonno non potrà che giovare alle mie stanche membra. Greg, Andrew», disse, chinando leggermente la testa, «vi auguro la buona notte e spero di rivedervi quanto prima». Così dicendo il maestro rientrò in casa e, chiudendo la porta alle sue spalle, lasciò praticamente i due ragazzi al buio. «Non è che per caso hai sentito…» chiese Greg non appena la porta fu chiusa, sincerandosi con l’amico se il rumore di poco prima fosse frutto della sua immaginazione o meno. «Beh se ti riferivi al rumore che hai appena udito, quello era il mio stomaco che protesta per il digiuno forzato!» sbraitò Andrew irritato: se c’era una cosa che il
ragazzo non tollerava era saltare i pasti e quella giornata per lui era stata una vera tortura. Non solo aveva dovuto rinunciare al pranzo ma adesso era anche in ritardo per la cena. Greg rise di gusto, l’amico aveva frainteso la sua domanda ma preferì non riformularla, deciso a non urtare il suo stomaco sensibile e a non farlo tardare oltre. Come avevano fatto qualche ora prima oltrearono di nuovo la Porta Ovest, giungendo presto in vista dei numerosi edifici illuminati e del grande porto. Benché ne fossero ancora molto distanti, potevano già sentire i canti goliardici alzarsi dalle taverne gremite di marinai in licenza e da vecchi pescatori sempre pronti a farsi offrire da bere in cambio di una storia. Spesso erano così ubriachi che andavano in strada ridendo e cantando a squarciagola causando non poco di scontento tra gli abitanti della parte più vicina alle bettole, così ogni tanto era compito della guarnigione portuale sedare gli animi. Greg, pur avendo ato spesso la notte fuori in questo periodo, non era mai entrato in una di quelle taverne: non desiderava per niente peggiorare ulteriormente i suoi rapporti familiari. Proseguirono svoltando a destra, giungendo nel quartiere dove abitava Andrew con sua madre: era una zona popolare, molto affollata e rumorosa. Tra le case erano appesi fili con i vestiti ad asciugare e l’aria era un curioso miscuglio di odori, provenienti dalle cucine delle case. A Greg piaceva molto quell’atmosfera così calda e familiare, avrebbe preferito molto di più vivere lì che nel lusso di casa sua. Suo padre avrebbe potuto dargli tutto quello che desiderava, ma ciò che gli era sempre mancato, fin da bambino, era l’affetto di una vera famiglia: suo padre era spesso in viaggio per conto dell’impero, come il ruolo che rivestiva gli richiedeva, sua madre invece doveva occuparsi spesso delle cerimonie pubbliche in qualità di presidentessa del comitato organizzativo di alcune manifestazioni. Così Greg era cresciuto attorniato dai giocattoli più costosi e desiderabili ma privo di un vero affetto familiare.
†
Doveva avere intorno ai quattro anni: era cresciuto praticamente isolato dagli altri bambini, quando la sua governante aveva cominciato a portarlo a so. Greg, fino ad allora cresciuto in un mondo nel quale era lui il solo e unico, per la prima volta imparava a conoscere il mondo esterno, il concetto di altro. La curiosità tipica dei bambini, che non aveva smesso di abbandonarlo, un giorno gli aveva donato l’audacia necessaria affinché riuscisse a divincolarsi dalla donna e andare da solo alla scoperta del mondo. Il piccolo Greg, non più sotto lo sguardo vigile di un sorvegliante, aveva zampettato casualmente fino alla piazzetta centrale del quartiere di Andrew. Non aveva mai giocato con dei bambini in vita sua, ma fu proprio quella volta che conobbe i suoi attuali e più inseparabili amici. Al centro della piazzetta due bambini e una bambina, giocavano con una palla di stoffa. Greg li aveva osservati per molto tempo finché, ad un certo punto, la palla gli era rotolata accanto. Una bambina dai lunghi capelli biondi era andata a raccoglierla e per la prima volta i suoi occhi color fiordaliso si erano incontrati con quelli curiosi di Greg. Anche i piccoli Andrew e Mark si erano avvicinati per fare conoscenza con il nuovo venuto e subito l’avevano coinvolto nel giocoErano andati avanti per diverse ore, durante le quali Greg e Mark si erano accapigliati due volte per decidere chi sarebbe stato in squadra con Lisa, ma alla fine la povera governante, resa quasi isterica per la preoccupazione, era riuscita a trovarlo. La scena per Greg era stata quanto mai imbarazzante: la donna lo aveva agguantato per un orecchio e a forza di urli ricondotto a casa. Mark si era messo a ridere in maniera sguaiata ma sia Andrew che Lisa, molto dispiaciuti per l’interruzione del gioco, l’avevano seguito a debita distanza per un po’, dopodiché l’avevano salutato con dei cenni delle mani. Greg, dimenticato l’imbarazzo, aveva sorriso: si era finalmente conquistato degli amici. Da quel giorno, di nascosto, Greg, dopo aver fatto credere alla governata di dormire il pomeriggio, aspettava che la donna si addormentasse a sua volta, per poter sgusciare vestito fuori dal letto e raggiungere gli amici che lo aspettavano con impazienza. Adesso che aveva quasi diciassette anni, non doveva più certo sottoporsi alla tortura del sonnellino ed era libero di uscire e di andare dove voleva, con
l’unico obbligo di rientrare a casa per cena. «Beh, io sono arrivato» disse a un tratto Andrew, soffermandosi sui gradini del grande ed imponente edificio di cui faceva parte anche l’appartamento in cui abitava. Dalla porta aperta si poteva intravedere un’ampia cucina piena di fumo, dalla quale usciva un forte odore di arrosto bruciato. Andrew aveva le lacrime agli occhi: quello che stava bruciando era l’arrosto tanto desiderato e pregustato che sua madre gli aveva promesso il giorno prima. Greg non poté fare a meno di trattenere le risate mentre seguiva con lo sguardo l’amico che saliva le scale, scuotendo la testa con rassegnazione. †
Qualche minuto dopo Greg aprì silenziosamente il portone della grande e lussuosa casa, percorse l’ingresso e si affacciò alla sala da pranzo. Suo padre era come al solito seduto all’estremità del tavolo, sua madre alla metà del lato sinistro mentre al lato destro era seduto, con sua sorpresa, il mercante che quella mattina era approdato, naufrago, sulla spiaggia vicino al molo. ‘Ottimo’ pensò: non solo probabilmente avrebbe scampato la discussione con il padre, ma il suo tentativo di gettar luce sulla vicenda sarebbe stato di gran lungo più semplice. Di buon umore si sedette al posto lasciato per lui, proprio al lato opposto del padre. Sua madre gli lanciò un’occhiata indagatrice nelle quali era diventata da tempo esperta, data l’imprevedibilità dimostrata dal figlio. Suo padre alzò il sopracciglio, mostrando la sua silenziosa disapprovazione per il ritardo. La donna comunque cercò di ricomporre la situazione, mostrando il suo lato pratico da organizzatrice di fama. «Signor Arneil, permetta che le presenti Gregris, il nostro unico figlio». Il mercante era un tipo piuttosto ben piazzato ed aveva le guance colorite per il vino che stava bevendo abbondantemente, trangugiandolo ad una velocità quasi preoccupante. Lo sentì ridere goffamente, quasi abbaiando e altrettanto sgraziatamente si alzò andando incontro a Greg. Il ragazzo gli porse amichevolmente la mano, dopotutto era necessario farselo amico, ma il corpulento mercante gli assestò una poderosa pacca sulla schiena, lasciandolo temporaneamente senza respiro. “Quest’uomo è ubriaco” pensò Greg e ciò non era altro che un altro notevole punto a suo vantaggio. Il ragazzo cercò di mostrarsi gentile e si sforzò di ridere per il gesto. Per tutto il resto della
cena, si mostrò molto accomodante con l’ospite, con interessata curiosità da parte dei suoi genitori. Di solito a cena non animava la conversazione, ma si limitava al massimo a rispondere con monosillabi secchi, o al più con un ‘forse’. Verso la fine della discussione Greg decise di fare la sua mossa: «Signor Arneil, posso farle una domanda?» «Oh, certo ragazzo mio, chiedimi pure tutto, ma per favore, chiamami Sarion, d’accordo?» rispose il mercante tra le risate, versandosi un nuovo bicchiere di vino. Il padre di Greg inarcò di nuovo il sopracciglio, riuscendo ad immaginare cosa avrebbe potuto chiedere il figlio all’ospite, per questo cominciò a lanciargli delle occhiate malevole, ma Greg sembrava far finta di non accorgersene. Sua madre nel frattempo, data l’ora tarda, e considerando poco educato per una signora congedarsi con l’ospite prima che la serata fosse ancora terminata, appoggiò la testa sulla mano e chiuse gli occhi. «Va bene, allora, Sarion, cosa trasportava il convoglio commerciale sul quale viaggiava?» chiese Greg, sfrontato. Si rendeva conto di rischiare grosso, ma probabilmente non avrebbe avuto altre occasioni per sapere ciò che era successo quella notte. Greg era in attesa della reazione dell’uomo, temendo che decidesse tutto ad un tratto di cessare di mostrarsi amichevole con lui e non rispondere alla sua domanda. L’uomo, al contrario fece una risata talmente esagerata mentre addentava un cosciotto dell’arrosto servito, che per poco non gli andò di traverso. «Semplice, amico mio: mi trovavo a Renodia per conto del nostro amato Cancelliere. Devi sapere che ha recentemente maturato un insolito accanimento nel ricercare pietre preziose inusuali e rare, sparse per il mondo ed io in qualità di esperto in questo campo, sono un suo uomo di fiducia. Così mi trovavo a Renodia per acquistare una strana pietra recentemente ritrovata dai minatori renodiani. Beh, per essere sinceri erano dei contrabbandieri renodiani che a loro volta l’avevano ricevuta da una persona che l’aveva sottratta a dei minatori». Il mercante si interruppe un attimo per versarsi di nuovo del vino. Greg guardò
divertito l’espressione del padre, cercando di decifrarla, non capendo se, era furioso perché Greg stava cacciando il naso in affari che non lo riguardavano, o se stava cercando di calcolare quante bottiglie del suo prezioso vino proveniente dal sud dell’impero avesse bevuto, senza ritegno, l’ospite. «Stavo dicendo? Ah già, il ritrovamento dei minatori renodiani. Sai cosa ti dico? I renodiani sono proprio gente strana. Ragazzo, non giocare mai d’azzardo con un renodiano, capito?» seguì una nova risata ed un lungo sorso di vino che quasi svuotò di nuovo il bicchiere. Greg roteò gli occhi. «Insomma, stavo giustappunto dicendo che quei contrabbandieri avevano già contrattato tutto con il Cancelliere e non mi hanno addirittura fatto vedere la merce. Non sono sicuro che mi abbiano detto la verità, mai fidarsi di un renodiano, pensano solo alle “fatine”, loro» disse in tono stizzito il mercante. Greg era nervoso, il mercante indugiava troppo girando continuamente intorno al discorso, si sentiva come in un vicolo cieco. «Dov’ero rimasto? Eh sì, ragazzo, questo vino è proprio ottimo, gran signori che siete, voi! Mai mangiato un arrosto così buono! Davvero…Incredibile quello che successe prima del naufragio. Sulla nave di ritorno quegli sporchi nareniani ci hanno assaltati e hanno rovistato dappertutto in cerca di qualcosa che sottocoperta non avevano trovato. Il loro capo mi ha scovato nel nascondiglio nella mia cabina. Quando mi ha agguantato per il collo chiedendomi dove era la merce che avevo prelevato da Renodia, io…» la voce di Sarion divenne piagnucolosa, si aggrappò al braccio di Greg con espressione supplichevole. «Non lo dirai al Cancelliere, vero? Giuramelo!» Greg si affrettò ad annuire, sbalordito dal repentino cambiamento di umore di quell’uomo tanto gioviale, «…io gli ho detto dove si trovava la merce». «Quando l’hanno presa, sotto ordine del loro capo, due uomini mi hanno afferrato e mi hanno gettato fuoribordo…Ma dico, che modi bruschi, anche per dei nareniani! Per Leviathan!» Il mercante si interruppe: guardò il ragazzo con stupore, e protese una mano in avanti, sventolandola per l’aria. Greg, sempre restando a sedere, scansò il braccio per schivare una seconda manata del mercante: due pacche “amichevoli” in una sola sera, erano davvero troppe per lui!
«Ragazzo, vuoi stare fermo? Smetti di correre per la stanza, sennò non finirò mai di raccontarti la mia storia! E per favore, chiedi alla cuoca un’altra bottiglia di vino! Ehi ragazzo, da quando hai due gemelli? Non penso proprio di sentirmi bene, sai ragazzo?» dopo queste parole il corpulento mercante si accasciò con la testa nel piatto ancora colmo di cibo, cominciando a russare rumorosamente. Greg non riusciva a crederci: il mercante aveva mentito, era stato lui stesso a consegnare nelle mani dei nareniani ciò che cercavano. Era sempre più incredulo: non poteva scoppiare una nuova guerra per il furto di una pietra preziosa. Doveva per forza trattarsi di un motivo meno futile. Era così furioso che scosse violentemente l’uomo, cercando di svegliarlo, ma l’unica cosa che ottenne fu un grugnito di fastidio. A questo punto doveva rinunciare a raccogliere altri particolari e così, decisamente abbattuto, si avviò verso la sua stanza. Non aveva ancora raggiunto la porta della sala, quando un deciso “ehm ehm” lo raggiunse. Si voltò e vide che dall’altra parte della tavola suo padre, ancora seduto al suo posto, lo stava guardando con due occhi che non tradivano la collera. «Gregris, immagino tu sappia bene che quello che hai fatto stasera va contro ogni mio volere, non è vero? Non hai sentito anche tu che quell’ubriacone è in affari con Samarlec? Se il Cancelliere venisse disgraziatamente a sapere che mio figlio ha interrogato senza alcun permesso un suo emissario, la mia carriera di amministratore sarebbe finita per sempre». Il suo volto era paonazzo e stringeva poderosamente la spalliera della sedia, preferendo sfogare la sua ira su quella che sul figlio. Greg comprese che il padre non era del tutto dalla parte del torto, teneva molto al suo lavoro ed era solo grazie alla sua iniziativa personale che era arrivato ad essere uno degli uomini più ricchi e rispettati della città. «Mi dispiace padre, non accadrà più» disse con sincero rammarico. «Già, come al solito…» fece una pausa, allentò la presa attorno alla spalliera riprendendo un colorito normale «Greg, figlio mio, cosa devo fare per farti capire che io non voglio altro che il tuo bene? Non puoi considerarmi un nemico solo perché sono contrario che tu apprenda la magia, Greg, io sono tuo padre, e come tale nutro un profondo affetto verso di te» concluse l’uomo sedendosi.
Greg non capiva il motivo di questo suo improvviso cambiamento, forse suo padre aveva considerato il fatto che, a seguito della colossale sbornia, probabilmente il mattino dopo l’uomo non si sarebbe ricordato minimamente dell’interrogatorio. «Vedi Greg, dopo l’accaduto di oggi mentre stamattina ero a colloquio con il Signor Arneil, con incredibile celerità è giunto un messaggio ad avvisarmi che domani sarebbe giunto qui il Cancelliere per sincerarsi personalmente del naufragio e dell’arma ritrovata tra le reti dei pescatori. Quindi figlio mio, desidererei ardentemente che tu domattina fossi presente insieme a me al suo arrivo e ti comportassi con le dovute formalità». ‘Incastrato’, pensò Greg. Suo padre aveva fatto leva sul senso di colpa e adesso era costretto a sottostare alla sua richiesta. Ma guardò l’altro lato della faccenda, dopotutto forse sarebbe riuscito a sapere di più sull’eccezionale ritrovamento del gioiello rubato. Così, dopo aver soppesato i pro e i contro, sorrise al padre confermando la sua presenza. Anche il padre gli rivolse un sorriso, apparendo notevolmente sollevato rispetto a pochi minuti prima. A quel punto a Greg non restò altro che andare a dormire, oltreò l’uomo e si diresse nell’ingresso; da lì salì la grande rampa di scale che portava al piano superiore della villa dove erano situate le camere da letto. Svoltò a sinistra, percorrendo un corridoio tenuemente illuminato fino a che non giunse ad una porta in legno riccamente decorata, girò la maniglia e la luce della stanza si azionò automaticamente. La stanza era ben ammobiliata, un grande letto a baldacchino era posto al centro del grande spazio rettangolare, mentre le pareti erano decorate con motivi ornamentali marini. Una grande rappresentazione di Leviathan campeggiava sulla parete dietro al letto di Greg e ne occupava tutta la superficie. Su un altro lato della stanza vi era una grande libreria, piena di tomi polverosi e di libri che venivano letti a Greg per farlo addormentare quando era bambino, mentre sull’altro lato c’era una grande scrivania piena di fogliacci con gli scarabocchi di Greg, occupata in parte da un grande acquario. L’aria al suo interno era piuttosto viziata, ripensandoci era qualche giorno che nessuno ci metteva piede, perciò il ragazzo l’attraversò dirigendosi all’ampia
finestra che di giorno illuminava la stanza, ne scostò le tende di velluto che la ornavano e la spalancò. Istantaneamente la stanza fu invasa dalla fresca brezza notturna e inspirò a pieni polmoni; si diresse verso l’acquario e somministrò ai pesci una generosa razione di cibo. Greg si soffermò per un attimo ad osservarne gli sgargianti colori, poi sbadigliò e si voltò per osservare l’orologio a pendolo vicino alla libreria, notando che era l’una di notte ata. Si distese sul letto chiudendo per un attimo gli occhi: era stata una giornata lunga e densa di avvenimenti, come mai ne aveva ate: il naufrago, lo scontro con il serpente, il racconto di Dovan e la confessione del mercante. Si infilò sotto le coperte togliendosi i vestiti che aveva addosso. Le luci si spensero lasciando filtrare dalla grande vetrata il chiarore delle due Lune. Solo allora Greg avvertì tutta la stanchezza e si scoprì felice di are la notte nel suo morbido letto. Per un attimo socchiuse di nuovo gli occhi e nella sua mente apparve l’immagine contenuta nel libro di Dovan, che adesso sembrava aver acquistato vita propria: poteva chiaramente vedere Leviathan nuotare tra le onde intorno all’enigmatica figura centrale mentre la divinità nareniana, Flammaria, volteggiava proprio sopra il vuoto centrale. Più confusamente gli apparvero le altre due figure: una era circondata da una luce bianca abbagliante che lasciava trasparire soltanto un lungo corno, mentre l’altra sembrava circondata da venti turbinanti. Poi dal centro dell’immagine si emanò un intenso bagliore e la scena divenne confusa. Greg riaprì lentamente gli occhi chiedendosi se quello che aveva appena fatto uno strano sogno o aveva avuto un’allucinazione. La stanchezza improvvisa gli rese pesanti le palpebre e richiuse immediatamente gli occhi. Così, con il ricordo dello strano sogno ancora vivo nella mente, Greg si addormentò.
†
Uno spicchio di luce filtrò attraverso le tende, risplendendo sul volto del ragazzo ancora addormentato tra le coperte del grande letto a baldacchino. Visibilmente disturbato e maledicendosi per non aver chiuso per bene le tende la sera prima, Greg aprì pigramente un occhio, poi si girò dall’altra parte per
sfuggire al raggio di sole. Continuò a girarsi ripetutamente nel letto ma dopo qualche tentativo fallito di riaddormentarsi, si decise ad alzarsi. Era ancora assonnato, forse anche di più di quando era andato a dormire, afferrò distrattamente la maglia indossata la sera prima e si avvicinò alla finestra aprendola. Uscì nel terrazzo al quale si accedeva dalla sua finestra e con suo sollievo, l’aria del mattino sembrò risvegliarlo un po’. Tornando dentro si soffermò a guardare l’orologio notando che era davvero troppo presto per scendere a fare colazione, così uscì nel corridoio e si infilò nel suo bagno. La stanza, interamente piastrellata di splendenti mattonelle azzurre, aveva una vasca incastonata nel pavimento. Greg si chinò per aprire i rubinetti dell’acqua calda e poco dopo il grande specchio lungo la parete si annebbiò. Un dolce profumo di vaniglia invase la stanza e la vasca si riempì di bolle azzurre: il ragazzo vi si immerse completamente, riemergendone coperto di schiuma. Cominciò a giocherellare con le bolle che gli erano vicine, da piccolo ava ore e ore divertendosi a quel modo e sorrise al fatto di non vedersi cambiato affatto. Un pensiero gli percorse la mente, ricordandogli le gesta compiute la sera prima e ciò che aveva promesso a suo padre, sbuffando a tale prospettiva. Delle bolle si sollevarono, riflettendo il suo volto e Greg le fece scoppiare toccandole con la punta dell’indice. Immerse di nuovo la testa nell’acqua piena di schiuma strusciandosi i capelli e poi la infilò sotto il rubinetto dell’acqua calda. Il fiotto gli fece scivolare via i residui di sapone, facendogli ricadere la maggior parte dei lunghi capelli sugli occhi: più di una volta sua madre aveva inutilmente insistito con il figlio per tagliarli, ripetendo che era una pettinatura poco consona ad un giovane “del suo rango”, ma a Greg era sempre piaciuto avere i capelli lunghi e adesso sua madre, finalmente accettata l’intenzione del figlio, si limitava ad emettere sonori sbuffi di disapprovazione ogni volta che si soffermava troppo ad osservarne. Per suo padre la questione era indifferente: lui quasi calvo, al contrario ne invidiava la folta chioma.
Una bolla di sapone scoppiatagli sul naso lo distolse dai suoi pensieri, facendogli notare che l’acqua aveva disperso il proprio calore e che brividi di freddo gli percorrevano la schiena, risolvendosi così a uscire dalla vasca da bagno. I vetri della stanza erano completamente appannati, Greg si scostò i capelli che aveva sugli occhi ed afferrò l’asciugamano cingendoselo attorno ai fianchi; si avvicinò allo specchio togliendo con la mano il vapore che lo aveva appannato, osservando così il proprio volto riflesso: i suoi occhi castani screziati di verde lo scrutavano mentre si pettinava indietro i lunghi capelli umidi. Uscì dal bagno ancora grondante, lasciando delle visibili gocce d’acqua su tutto il pavimento, cosa che sua madre non avrebbe mancato di rimproverargli, pensò. Per fortuna oggi era troppo impegnata per notarle, ma prima o poi, su questo non aveva nessun dubbio, la donna se ne sarebbe accorta e allora sarebbero stati guai. Tornando in camera vide su una poltrona un pacco che la sera prima, per stanchezza o per distrazione, non aveva notato: era ricoperto da carta blu, il suo colore preferito, di sicuro, secondo la tradizione selthoniana che prevedeva di imbustare i regali seguendo anche il gusto del destinatario, quel pacco era indirizzato a lui. Si avvicinò incuriosito, chiedendosi se non fosse già arrivato il giorno del suo compleanno o se ricorresse una speciale occasione, ma dopo una rapida riflessione, non riuscì ad associare quel regalo a nessun avvenimento. Sollevò il coperchio della scatola e ciò che vi trovò dentro lo stupì alquanto: non era il genere di regalo che avrebbe pensato mai di trovare. Tolse delicatamente il vestito dalla carta che lo ricopriva, spiegandolo con attenzione sul letto. Non c’era proprio niente da dire, era davvero un bel completo: suo padre, o più probabilmente sua madre, gli aveva comprato una veste adatta all’arrivo del Cancelliere. Era costituito da una giacca lunga fino al ginocchio, fatta con una preziosa stoffa cangiante che variava dal verde acqua al blu scuro, stretta in vita, con un artificioso colletto e senza maniche, una camicia bianca e un paio di pantaloni color blu scuro. Una fibbia decorata teneva unito il colletto mentre una fila di bottoni consentiva di abbottonare la giacca fino in fondo. Su una parte della giacca erano ricamate le onde, mentre
sul petto era disegnato il grande Leviathan, ritratto nella posizione preferita della tradizione selthoniana: quella d’attacco. Greg terminò di asciugarsi poi indossò il completo, agganciando i bottoni centrali della giacca. Osservò soddisfatto allo specchio il risultato finale, aggiustandosi i capelli rimasti impigliati nel colletto; dopo essersi rimirato più volte chiedendosi cosa avrebbe pensato Lisa di lui vestito in quel modo sorridendo al pensiero di se stesso che arrossiva di fronte alla ragazza. Scese finalmente in sala da pranzo per fare colazione: poteva sentire già dalle scale sua madre che dava ordini alle governanti per la preparazione del pranzo e quando entrò nella sala, per poco non morì di spavento nel vedere il viso di sua madre di una strana tonalità verde bile. La donna era visibilmente offesa. «È soltanto una maschera rilassante per il viso, ieri sera per colpa del nostro ospite e di tuo padre sono dovuta rimanere ad ascoltare i loro discorsi benché morissi dal sonno, con il risultato che stamattina mi sono svegliata con delle occhiaie spaventose! Oh, se penso solo che sua eccellenza potrebbe vedermi in questo stato pietoso!» concluse con un certo allarmismo. Greg non poté far a meno di mettersi a ridere all’idea ma fortunatamente sua madre non ci fece caso, impegnata a discutere con il cuoco su come cucinare un pescespada. Si sedette quindi al lungo tavolo, riempiendosi una tazza con del latte di mandorla. Una cameriera gli posò accanto un vassoio colmo di biscotti facendogli tornare in mente quello di Dovan spolverato in pochi istanti da Andrew la sera prima. Entrò in sala suo padre, seguito dal signor Arneil, evidentemente rimasto loro ospite durante la notte; Greg si alzò rispettosamente da tavola per augurare ad entrambi il buongiorno. Il padre, ricambiando il saluto, lo fissò attentamente mostrando un sorriso compiaciuto nel constatare che il completo che sua moglie aveva fatto pervenire all’ultimo momento addirittura dai laboratori di tessitura imperiali calzava a pennello sul figlio. «Cosa ne pensi dei tuoi nuovi vestiti?» gli chiese. «Sono veramente belli, te ne sono grato, padre» rispose Greg non nascondendo un sincero entusiasmo. Probabilmente oggi avrebbe potuto scoprire qualcosa di interessante e mostrarsi
amichevole con il genitore di certo non l’avrebbe danneggiato. Anche Arneil rispose educatamente al suo saluto, ma non sembrava essersi ancora ripreso dai postumi della colossale sbornia presa la sera prima, poiché a stento riusciva a camminare senza appoggiarsi alla parete. La madre di Greg allora, con la tempestività e l’efficienza che la rendevano un’ottima organizzatrice, non preoccupata tanto per la salute dell’ospite, verso il quale anzi aveva maturato una sottile ostilità, quanto per salvare la reputazione del marito e, sotto sotto non macchiare la propria, ordinò alle cameriere di preparare un bagno tonificante al mercante e di fargli bere un’abbondante razione di latte. Due donne prontamente afferrarono l’uomo per le braccia e lo trascinarono al piano di sopra. Greg era quasi pentito del subdolo metodo con cui aveva indotto l’uomo a rivelargli le preziose informazioni di cui avevano bisogno: dopotutto quello che gli aveva raccontato non era molto ma doveva ammettere che, in definitiva, aveva finito per provare una certa simpatia nei suoi confronti. «Forza Gregris, vai in camera tua a finire di prepararti, ci tengo a far bella figura con il Cancelliere» disse suo padre, ponendo un vigoroso accento su ‘ci tengo’ proprio mentre Greg addentava un biscotto appena inzuppato. Greg tornò obbedientemente in camera sua, riò un’altra volta davanti allo specchio, sistemandosi un bottone e di nuovo ripensò a Lisa. Un’ombra scura gli scese sul sorriso, impregnandogli d’amaro la bocca: aveva appena ricordato il comportamento della ragazza la sera prima. Si era preoccupata per Mark, non per lui: certo, dopotutto lei non aveva alcuna ragione di preoccuparsene, non era stato Greg a commettere l’imprudenza che aveva avuto Mark nel sottovalutare la potenza del serpente. Preso dalla rabbia strinse i pugni fino a fargli male e ne batté uno sulla scrivania, facendo sussultare il grande acquario. “Basta”, pensò infine decidendo di allontanare dalla sua mente quei pensieri; non voleva farsi venire il sangue amaro, non era certo quello il momento per farsi sopraffare dalla rabbia: doveva avere la mente lucida e cercare di recepire il maggior numero di informazioni utili. Decise così di rinviare il chiarimento dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti per Lisa a quella sera. Guardò l’orologio e, notando che erano quasi le nove, decise di aggiornare Dovan sulle informazioni della sera prima. Scese di nuovo in cucina dove vi
trovò Arneil che gli rivolse un sorriso gioviale. «Se cerchi tuo padre» gli disse l’uomo, «è andato a supervisionare gli ultimi preparativi per l’accoglienza del Cancelliere, mentre tua madre sta dirigendo le cucine in vista del banchetto in suo onore». Greg gli rispose altrettanto amichevolmente, sollevato dalla conferma che il mercante non ricordasse nulla della sera prima. «Sinceramente non cercavo nessuno in particolare, vorrei soltanto sapere per che ora è previsto l’arrivo di sua eccellenza». «Se non vado errato, il suo arrivo è stimato per mezzogiorno» disse il mercante leccandosi i baffi nella prospettiva di un lauto banchetto. Appreso ciò, Greg uscì di casa e si diresse verso il viale Samaran, di solito familiarmente affollato ma che oggi presentava molte persone indaffarate nei preparativi per l’arrivo del Cancelliere. Scansò una secchiata d’acqua diretta al pavimento lastricato di blu e osservò alcune donne che stavano riempiendo di fiori alcuni vasi mentre alle finestre erano già appese delle bandiere con lo stemma di Selthon, Leviathan attorcigliato ad una corona. I cittadini si stavano dando duramente da fare secondo la più classica tradizione selthoniana dell’ospitalità. Greg percorse fino in fondo il lungo viale per poi svoltare nella piazza del mercato, più animato del solito, dove riconobbe una sagoma familiare: quei riccioli neri erano inconfondibili, avrebbero potuto esserci anche migliaia di persone, ma sapeva per certo che non avrebbe mai confuso il suo migliore amico con nessun altro. Lo chiamò a gran voce e questi gli si avvicinò correndo. «Cosa ci fa un così nobile rampollo in giro tra gente di basso rango, poche ore prima dell’arrivo del Cancelliere? No, no, no, Greg, il tuo non è di certo un comportamento adeguato» disse Andrew scimmiottando la madre dell’amico e ridendo poi a crepapelle. Greg odiava quando si prendeva così tanto gioco di lui, ma ormai ci si era abituato. «Sono qui solo di aggio, vado a trovare Dovan. Ho delle importanti notizie per lui». «Dici sul serio?» «Già, ricordi il mercante naufragato ieri? Era ospite a casa mia e ho approfittato della sua debolezza per il vino, sai, per ottenere qualche notizia…». Andrew prontamente iniziò a sghignazzare. «Non ho ricavato molto, ma Dovan sarà di certo particolarmente interessato»
concluse Greg. «Ottimo lavoro, genio!» rispose rifilandogli una gomitata nelle costole. «Simpatico come al solito, eh? L’arrivo del Cancelliere è previsto per l’ora di pranzo, ho tempo sufficiente per andare a trovare Dovan prima di farmi trovare pronto per mantenere fede ai miei doveri. Sarà ospite a pranzo a casa mia. Se vuoi venire con me dal maestro» l’invito di Greg era troppo allettante per essere rifiutato. «Certo che verrò! Come potrei perdermi gli sviluppi della vicenda?» disse di rimando. Uscirono dalla piazza e oltrearono la Porta Ovest: due sentinelle erano insolitamente ai lati di questa: la sorveglianza straordinaria era forse dovuta ad un possibile stato di emergenza. Le guardie non prestarono attenzione ai due ragazzi che avano e in pochi minuti si trovarono di fronte alla casa del maestro. Qui Greg notò qualcosa di strano: la porta era aperta e del mago non c’era traccia. I due fecero più volte il giro della casa, infine entrarono. La stanza era quasi del tutto immersa nell’oscurità; Greg avvertì di aver calpestato qualcosa di fragile, mentre Andrew era inciampato poco distante da lui. A tentoni e nel buio, Greg raggiunse la finestra della sala ancora chiusa dalle imposte e l’aprì. La luce mattutina invase prepotentemente la stanza, rivelando ciò che Greg temeva ma che non aveva il coraggio di ammettere chiaramente a se stesso. La stanza rivelava evidenti segni di una violenta colluttazione: tutto era sottosopra e il basso tavolino in vetro era in frantumi; su un muro poco distante da loro campeggiava un segno di bruciatura, mentre la piccola statua di Leviathan era a terra. Greg era spaventato: il maestro era stato portato via con la forza, ma perché? Andrew non era di certo da meno: disorientato, teneva in mano i pezzi del bastone di Dovan. Si guardarono negli occhi: entrambi non potevano credere alla scena che avevano davanti. Greg uscì dalla casa notando che un corpo era stato trascinato sul terreno, probabilmente da più persone. Le impronte proseguivano dentro al boschetto, e Greg non esitò a seguirle. Uscì dalla casa, con Andrew al suo fianco: nessuno dei due ruppe il silenzio che era sceso sopra i loro pensieri. Dentro il bosco seguire le tracce si rivelò più difficile del previsto; ma il
ritrovamento di un lembo del vestito del maestro, impigliato in un rametto, indicò loro di non aver perso la pista giusta. Greg era al colmo dell’ira: forse le ombre che aveva pensato di vedere e sentire la sera prima non erano state frutto della sua immaginazione. Gli uomini che aveva intravisto nell’oscurità avevano rapito Dovan. Era stato uno sciocco, avrebbe dovuto dire al maestro ciò che aveva visto muoversi nell’ombra: a quest’ora Dovan sarebbe stato lì accanto a lui, ad ascoltare ciò che aveva scoperto, a gratificarlo per il suo impegno. Uscirono dal boschetto trovandosi a pochi metri da un Canale Rapido. Le orme finivano sul ciglio del canale: legate a degli alberi trovarono cime da approdo. I rapitori del maestro, dopo averlo tramortito, lo avevano imbarcato su una nave. Un nuovo problema si profilava all’orizzonte: dov’era Dovan adesso? Ovunque, si disse, quell’imbarcazione aveva già preso il largo, e avrebbe potuto portarlo oltre l’oceano. Chi lo aveva rapito? A questa domanda non aveva potuto trovare una risposta logica: non conosceva molto del ato del maestro, anche perché egli, a qualsiasi domanda, rispondeva sempre in maniera elusiva e inconcludente, il che costringeva l’interlocutore a cambiare discorso, rendendosi conto inconsciamente che insistere a lungo su quell’argomento avrebbe portato non poco imbarazzo alla conversazione.
«Cosa facciamo adesso?» chiese Andrew in tono preoccupato spezzando il silenzio. Greg si limitò a far cadere la sua risposta nel vuoto con voce atona: «Non lo so», disse, «Non lo so».
Capitolo V
La decisione
Dovan si risvegliò con un gran male di testa, legato ad un pilone di legno dentro ciò che un’approssimativa occhiata gli rivelò essere la stiva di una nave. Dopo pochi minuti di riflessione ricordò l’accaduto. Si era svegliato quella mattina di buon’ora, deciso a fare la solita eggiata, e sorto il sole, era tornato a casa. Durante il ritorno aveva incontrato il fornaio mentre apriva la propria bottega che, manifestando un mediocre entusiasmo per la faccenda, aveva appena ricevuto la notizia dell’arrivo del Cancelliere. Si era limitato a scuotere la testa mentre tra sé e sé i suoi pensieri si rincorrevano. “Perfetto” aveva pensato allora; “non ci mancava altro che la sua visita in città: l’intento non può che essere la guerra. L’aspetto divertente della questione potrebbe essere quello di conoscere il motivo che addurrà Samarlec per convincere il popolo ad altri mesi precari e incerti”. Una volta a casa, si era accorto di essere osservato da più paia di occhi: aveva tenuto la mano pronta per lanciare un incantesimo di immobilizzazione contro l’aggressore più vicino; aveva aperto cautamente la porta e in un attimo si era trovato addosso tre uomini nerboruti e troppo massicci per lui. Quasi sopraffatto aveva urlato «Debello!» alla cieca, mancando uno dei suoi aggressori e colpendo la parete. L’uomo aveva perso l’equilibrio schivando il colpo, cadendo poi sul tavolino di vetro, frantumandolo. Ferito, si era alzato furente e, l’ultimo ricordo prima del suo risveglio, era il pugno sferratogli in pieno viso da uno degli aggressori. Socchiuse gli occhi: aver riportato alla mente quei fatti aveva sortito l’effetto di aumentargli la tremenda emicrania che adesso sembrava volesse spaccargli la testa in due. Si guardò intorno, ricordando di aver avuto con sé il bastone al momento del rapimento e lo cercò invano con gli occhi per la stiva. “Sciocchi” disse tra sé e sé “un mago non ha necessariamente bisogno del bastone per compiere i propri incantesimi”. Chiuse gli occhi cercando di
concentrarsi sui rigidi nodi che gli tenevano legate le mani: la sua fronte era imperlata di sudore per lo sforzo. Dopo qualche attimo di prova riversò la testa sul petto, troppo debole ancora per compiere qualsiasi azione che richiedesse uno sforzo mentale. Il rumore di voci in avvicinamento lo costrinse a volgere la testa indolenzita e pesante al loro indirizzo; poco dopo scesero sotto coperta degli uomini, ma solo due di essi gli si avvicinarono. Dovan sentì un doloroso crampo allo stomaco. Conosceva uno di quegli uomini fin troppo bene. Il primo era coperto con un lungo mantello ed aveva un cappuccio sulla testa: di lui si scorgevano soltanto gli occhi terrei dall’iride bianca. Il secondo era vestito con abiti sontuosi e riccamente ingioiellato. Il trauma era stato forte ma per fortuna non così grave da fargli perdere la memoria: era il Cancelliere Samarlec. «Guarda, guarda chi abbiamo qui tra noi! Dovan, vecchio amico mio, come stai? È così tanto tempo che non ci vediamo! Il palazzo imperiale è così vuoto senza di te… oh, perdona la mancanza di tatto, sono stato io a cacciarti via!» disse l’uomo sfoderando uno dei suoi sorrisi più terrificanti. «Tu…» «Certamente, chi altri sennò? Sono quasi offeso, pensavo saresti stato felice di rivedermi…» «Cosa vuole da me, il tiranno che spadroneggia sulla corona di Selthon?» Samarlec scosse la testa con disapprovazione, come se stesse recitando la parte del maestro alle prese con un allievo piuttosto recidivo. «Dovan… non è certo questo il modo di salutare un vecchio amico! Già dimentichi gli anni ati insieme a Zolon? Avevo proprio scordato quanto fosse tagliente la tua lingua, ma speravo che l’esilio forzato te l’avesse smussata… evidentemente mi sbagliavo su ciò. Anzi, ora che ci penso, avrei fatto meglio a toglierti di mezzo quando, molto tempo fa, cominciasti a mettere il naso in mezzo ai miei affari» disse maligno Samarlec. «Non pronunciare il nome di Zolon, hai dimenticato da troppo tempo ormai i saggi insegnamenti dei Custodi della Conoscenza? Tu osi considerarti un leale servitore di Selthon, ma la tua avidità e la tua sete di potere stanno portando l’impero sull’orlo del tracollo!» ribatté Dovan. «Ti riferisci forse alla guerra che sto per intraprendere contro Naren? Quella
sarà senza dubbio una eggiata! Ultimamente la mia cerchia di amicizie si è… notevolmente allargata, sai?» fece una brevissima pausa, durante la quale ammiccò alla figura alle sue spalle. Poi, da moderatamente tranquillo e accomodante, il suo tono cambiò. «No, carissimo: la verità è un’altra, ben lungi da quella che può apparire ai tuoi stolti occhi» disse Samarlec con furore estatico. La sua voce era innaturale, e il suo sguardo brillava di una luce sinistra. Dovan ne era raggelato. «Tu, stupido mago di corte, non puoi neanche immaginare il potere immenso a cui sto per accedere!» Per qualche ragione sembrò bloccarsi, poi, abbassando il tono di voce, rendendolo simile al sibilo di un serpente, aggiunse accostando la bocca all’orecchio di Dovan: «Selthon deve scegliere con più cura i propri alleati…» Si alzò e con tono normale aggiunse in direzione dell’uomo incappucciato al suo fianco «Non è forse così Lord Ast…». L’alta figura che si stagliava imperiosa su Dovan si voltò verso Samarlec guardandolo con i suoi occhi vitrei. L’uomo si riscosse nelle vesti e per celare il proprio terrore verso lo strano individuo, voltò le spalle e fece qualche o in direzione opposta. Dovan poteva avvertire istintivamente una potente aura malvagia intorno all’altro personaggio e certamente capiva perché Samarlec ne fosse tanto suggestionato. «La guerra contro Naren volgerà di sicuro a nostro, a mio favore, grazie ai nuovi i tecnologici di cui l’impero è stato gentilmente omaggiato. Una nuova arma permetterà di spazzar via l’intera flotta di Naren in un solo colpo. Sfruttando l’enorme potenziale energetico polarizzato dalle Torri di Cristallo e la loro tecnologia» di nuovo alluse alla figura coperta dal mantello «creerò l’arma più potente mai esistita su questo infimo pianeta! Naturalmente si è svolto tutto sotto il naso ignaro della città. Nessuno osserva mai accuratamente la sommità del monte» aggiunse Samarlec: il suo tono di voce era quello di un bambino viziato che ottiene sempre ciò che vuole. «Di cosa stai parlando?» chiese Dovan, disgustato per il tono di voce ma allo stesso tempo allarmato. Samarlec incrociò le lunghe dita affusolate con lentezza, ammirando per un attimo la loro bellezza, pensando a quando presto, esse avrebbero stretto l’impero. «Mio caro, vorrei ricordarti che in questo mondo ci sono molte cose
celate a memoria dei tempi antichi e che sono la preoccupazione di quei pochi che ancora si adoperano per tenerle lontane dagli uomini» si lasciò scappare una risata di scherno, reclinando la testa all’indietro. «Sappiamo benissimo entrambi a chi mi riferisco, non è vero?» l’interlocutore che non aveva ancora preso parola emise un sottile grugnito di disturbo. La sua pazienza era quasi al limite. «Non correre troppo Samarlec, ricorda i patti: devi seguire il volere del mio signore, ed io sono qui per ricordartelo» disse quindi con tono imperioso, parlando per la prima volta da quando era apparso. La sua voce era profonda e Dovan, dalla sua posizione, notò con suo stupore che non muoveva le labbra: il maestro era adesso pienamente certo della natura non umana dell’essere che egli stava di fronte, sempre più certo che il pericolo crescesse in progressione con lo scorrere del tempo. «Non credo che il mio Signore sarebbe contento di apprendere da me l’incredibile scioltezza della lingua del suo alleato» continuò, secco. Di nuovo le labbra, o ciò che le costituiva, era rimasto immobile. «Non vedo il motivo, per cui non dovrei rivelare a questo sciocco le grandi glorie che attendono me e il mio popolo…dopotutto, la sua fine è irrimediabilmente vicina e come saprai, i morti non parlano» rispose sarcasticamente Samarlec. Non poteva sfigurare in quel momento di personale soddisfazione, non poteva apparire su un gradino più in basso. Anche lui stava dando il suo contributo, certo, non in maniera disinteressata, ma era chiaro come il sole quanto il suo aiuto fosse, per il momento, vitale. «Povero pazzo, non sai contro chi e a cosa vuoi andare in contro con il tuo operato. Loro lo scopriranno presto» sibilò Dovan furente. «Non credo che tu sia nella condizione tale per cui ti sia lecito rivolgerti a me con quel tono. La loro razza è ormai solo il pallido riflesso della grandezza e dello splendore che rappresentavano un tempo. Si nascondono da noi perché hanno paura, paura del nostro grande potere». L’essere emise un profondo suono gutturale. Samarlec si lasciò a un sospiro, per un attimo il suo volto parve acquisire un’apparenza umana. «Dovan, voglio essere magnanimo con te, in ricordo dei vecchi tempi in cui eravamo amici: unisciti a me e insieme realizzeremo ciò che un tempo avevamo desiderato per il nostro amato impero».
Samarlec gli tese la mano. La sua espressione non tradiva il rispetto che provava per il maestro, ma Dovan rispose con disprezzo, caricandosi di tutto l’odio bruciante che provava per quell’uomo che una volta considerava un fratello: «Mai. Sbagliai un tempo vedendo in te un amico, sbagliai quando insieme ti chiesi di viaggiare per il mondo. Samarlec, ciò che hai visto ti ha corrotto, irrimediabilmente, vedo. Non mi limito a parlare di ciò che si vede, di ciò che traspare dalla tua folle politica. Sto parlando di te stesso e della tua anima» le parti si erano invertite, la voce di Dovan, malgrado la posizione di svantaggio, si era fatta forte e ferma, mantenendo però sempre un tono rassegnato. L’espressione di Samarlec cambiò radicalmente, tornando fredda e risoluta e con voce stizzita si rivolse a una delle figure dietro di lui «Guardia, stordisci di nuovo il nostro ospite ed assicurati che riposi bene. Voglio tutti gli uomini pronti ai loro posti, tra poco arriverà il momento di entrare in scena!» e di nuovo rivolto a Dovan aggiunse: «oh, dimenticavo… amico mio, ti perderai davvero un evento irripetibile: Selthon Portuale verrà attaccata dalle mie guardie nareniane» additando ai soldati poco distanti, «tra poco tutto sarà dato alle fiamme; attento perché anche la stiva della nave potrebbe surriscaldarsi!» Dovan fece appena in tempo a rimettere insieme tutti gli incredibili eventi accaduti negli ultimi minuti che, un colpo in testa, gli fece perdere di nuovo i sensi. †
Greg era come paralizzato mentre teneva in mano un tratto della corda d’approdo. La scomparsa del suo maestro sembrava averlo reso estraneo a tutto ciò che lo circondava. Anche Andrew ne era dispiaciuto: Dovan gli era piaciuto fin da subito e, nonostante l’iniziale avversione, cominciava a comprendere l’importanza che quell’uomo avesse assunto nella vita di Greg. Si avvicinò all’amico, posandogli una mano sulla spalla. Rimasero così per qualche istante ma poi Greg sembrò riemergere dallo sconcerto che l’aveva momentaneamente paralizzato. Un solo pensiero lo aveva rianimato ridandogli una briciola di speranza nel rivedere il suo maestro: forse il Cancelliere avrebbe
potuto far qualcosa per lui, dopotutto un rapimento di non era certo un atto criminale di lieve entità. Andrew tanto fu sorpreso dal tempestivo cambiamento dell’amico che per poco non perse l’equilibrio: l’altro guardò la posizione del Sole e, stimata approsimatamente la posizione, capì che l’ora prevista per l’arrivo doveva essere quasi giunta. Afferrò quindi Andrew per un lembo della maglia e lo trascinò, nel suo incredibile impeto, attraverso il bosco. Andrew aveva il fiatone, ma Greg non sembrava dar segni di sforzo: se ci fosse stata anche una sola, minima speranza di ritrovare il maestro, non se la sarebbe lasciata di certo scappare. Dopo qualche minuto si ritrovarono a pochi metri dalla Porta Sud di Selthon e l’amico, sfinito, si appoggiò al muro nel tentativo di riprendere fiato mentre Greg, con il volto rivolto verso la città, aveva il viso rosso per lo sforzo e gocce di sudore lo percorrevano. Dopo aver respirato a pieni polmoni ma ancora affaticato per lo sforzo, si rivolse, con un filo di voce, all’amico. «Il Cancelliere arriverà con il suo vascello dai Canali Rapidi». Greg non perse tempo, afferrò di nuovo l’amico, non senza, stavolta, una debole protesta da parte di Andrew, e oltreò a tutta velocità la Porta Ovest, percorsero il Viale Samaran, rallentati però dalle persone che lo percorrevano freneticamente. Andrew finì inevitabilmente per scontrarsi con dei anti e fu costretto a fermarsi per chiedere scusa. Greg lo guardò spazientito, ma si fermò a sua volta per riprendere energia: cominciava ad avvertire la stanchezza e aveva un forte dolore alle gambe. «Tutto a posto amico?» chiese Andrew. «Non posso ritardare per nessun motivo all’inizio della cerimonia, corri!» rispose, già pronto a scattare di nuovo. A un tratto Greg si bloccò, momentaneamente confuso da ciò che stava accadendo davanti ai suoi occhi: la quantità di persone accorse ai Canali rapidi per salutare l’arrivo del Cancelliere era incredibile, probabilmente in mattinata si erano recate a Selthon anche persone che abitavano nei villaggi limitrofi e nelle altre parti della stessa Selthon. Rimessisi in marcia, furono costretti però a
decelerare, proseguendo agevolmente tra la calca che procedeva a gruppi frettolosi. Un tocco leggero sfiorò la spalla di Greg e, prima che potesse voltarsi, sentì una voce a lui ben familiare rivolgersi a lui con una nota di scherzoso rimprovero. «Siete così di fretta da non riuscire nemmeno a vedermi?» Si voltarono, entrambi riconoscendo la voce e rispondendo al saluto, anche se Greg era evidentemente meno felice di quell’incontro. Lisa sembrava molto eccitata per quella visita e che volesse intrattenersi con loro ma Greg, per la prima volta contento di avere un valido pretesto per allontanarsi e non parlarle, fece le proprie scuse e si confuse tra la folla, raggiungendo il canale poco distante. Suo padre era già lì, in piedi sulla banchina che costeggiava la nave ormeggiata e, riconoscendo da lontano il figlio, gli fece un cenno. Greg scansò agilmente le molte persone affollate davanti alla banchina e lo raggiunse: come non aveva mancato di prevedere, suo padre aveva qualcosa da obbiettare a proposito del suo ritardo: «Dove ti eri cacciato?» sebbene sollevato per l’arrivo del figlio il volto rimase contratto in un’espressione tesa. «Sei in ritardo, fortunatamente il Cancelliere ha avuto un piccolo contrattempo. Tra pochi istanti scenderà dalla nave». Fece per spolverargli un lembo della giacca che pareva essere stato recentemente maltrattato. Greg noncurante delle parole del padre riprese appena il fiato sufficiente per parlare. «Dovan, il mio maestro, rapito». Il padre sembrò turbato. Per quanto fosse avverso, ora come in ato, al maestro Dovan, egli non era solo un mago: in altre circostanze...No, non avrebbe potuto ignorarlo, il suo rapimento non era di certo un evento che avrebbe potuto ere inosservato. «Va bene, capisco, ma ci penseremo dopo». «Dopo sarà troppo tardi! È stato imbarcato su una nave con i suoi rapitori, molto probabilmente è ata da uno dei Canali Rapidi e a quest’ora potrebbe aver già raggiunto l’Oceano!» disse Greg sconvolto. Dopo il primo momento di preoccupazione, il signor Oltan riacquisì immediatamente la sua sicurezza. Fece
appena un gesto per zittire il figlio. «Gregris, hai le allucinazioni: tutti i Canali Rapidi tranne questo sono chiusi e nessuna nave, oltre a quella del Cancelliere, nella giornata di oggi era abilitata a percorrerli! Il tuo maestro non è stato affatto rapito: le tue supposizioni e le tue parole sono solo frutto di farneticazioni» disse duramente e poi afferrandolo per le spalle ma abbassando il tono di voce concluse: «Eravamo d’accordo sul comportamento che avresti tenuto oggi, se non sbaglio, vero Gregris?» «Sì, certo» rispose Greg abbassando gli occhi; dopotutto, pensò, suo padre aveva ragione: gli aveva promesso che si sarebbe comportato bene e non voleva necessariamente mancare a quella promessa. Non senza manifestare una nota di insofferenza, suo padre sembrò leggermente confortato dall’asserzione del figlio. Un araldo apparve a prua della nave, scese le scalette e dopo essersi inchinato disse: «Cittadini di Selthon, ho l’onore di annunciarvi il Cancelliere Samarlec, Supremo mago imperiale e Membro anziano della confraternita dei maghi». Terminato l’annuncio quattro guardie in alta uniforme scesero dal ponte di legno e pochi attimi dopo, dietro di loro scese il Cancelliere. Era un uomo alto, con lunghe e numerose trecce bianche e indossava una tunica decorata con i paramenti onorifici: il fregio di Leviathan faceva immancabilmente bella mostra ricamato con fili dorati sul suo petto. Per qualche motivo che a lui stesso sfuggiva nell’immediato, non si meravigliò del fatto che l’uomo fosse straordinariamente giovane. Approssimativamente, si disse, doveva avere l’età di Dovan. Immediatamente gli fu altrettanto chiaro che i due maghi dovevano conoscersi abbastanza bene per detestarsi amabilmente a vicenda: erano l’uno l’opposto dell’altro. Per quanto Dovan dovesse un tempo aver ricoperto cariche importanti, nonostante di lui nessuno fosse mai stato propenso a parlare, si era fin da subito dimostrato un uomo affabile e umile. Samarlec a prima vista, saltava invece agli occhi per la sua fisionomia prepotente e per i suoi modi trionfali. Greg si sentì scivolare dalla mente tutte le possibili soluzioni per ritrovare Dovan: se tra il suo maestro e il Cancelliere vi era tutta quella antipatia, come avrebbe mai potuto sperare di trovare il suo aiuto?
Tutti i sogni e le speranze che Dovan gli aveva alimentato adesso erano scomparse: avrebbe dovuto rinunciare ai suoi sogni e sottostare irrimediabilmente al volere del padre. Non poteva sopportarlo. La folla esultava per la comparsa del Cancelliere che rispondeva con un contenuto cenno della mano. Suo padre chinò appena il capo nella sua direzione per ricordargli di inchinarsi a sua volta, come richiedeva il protocollo, alla presenza dell’uomo più importante di Selthon dopo lo stesso imperatore. Infine era giunto in loro prossimità. Padre e figlio, il primo con più naturalezza, si inchinarono mentre Samarlec, sfoderando il suo sorriso di rappresentanza, faceva cenno loro di rialzarsi, quasi si trattasse di una pura formalità alla quale non teneva affatto. «Signor Oltan, sono felice di ritrovarla. A corte siamo molto soddisfatti del suo efficiente operato e speriamo che continui imperituro» disse il Cancelliere. Il padre di Greg, rimase per un attimo stupefatto per l’inattesa congratulazione, poi si esibì di nuovo in un inchino. «Sono lusingato dalle sue parole, Cancelliere. Desolato di non essere riuscito a organizzare un’accoglienza degna della sua persona ma la notizia della sua visita è giunta così improvvisamente che…» Il Cancelliere non sembrò dare troppo peso alle untuose parole dell’amministratore, ma voltandosi verso Greg disse: «E, se non mi inganno, signor Oltan, questo dovrebbe essere suo figlio». Rialzata la testa dal profondo inchino, fattosi paonazzo e memore del precedente incontro tra suo figlio e il Cancelliere ciò che farfugliò fu appena udibile. «Sì signore, questo è mio figlio Gregris». Impacciato, sperando di non sbagliare, il ragazzo si esibì in un modesto inchino. «Bene, Gregris, hai intenzione di seguire le orme di tuo padre? Anche tu diventerai un fedele e leale servitore del Sacro impero di Selthon?» Il signor Oltan stava per rispondere in vece del figlio, ma Greg fu più veloce. «No signore, il mio desiderio è quello di diventare un mago».
Samarlec si mostrò felicemente sorpreso, lui come Greg doveva aver dimenticato l’avvenimento di anni prima,. «Hai molta ambizione ragazzo, e ciò è molto importante. Ma ricorda: diventare un mago non è facile; io stesso ho sottostato ad un lungo e difficile apprendistato e ti assicuro che anche dopo averlo concluso non si finisce mai di imparare. Potrei sapere chi è il tuo maestro? Sei forse allievo alla Scuola Superiore di Selthon?» il volto del Cancelliere scrutò quello di Greg, chiedendosi se per caso non l’avesse già visto. Già, se non sbagliava era uno dei due ragazzi che si erano messi ad ascoltare la conversazione del giorno precedente. «No signore, per vari motivi non ho mai potuto frequentare quella scuola, ma qualche mese fa ho conosciuto il maestro Dovan e da allora lui si è offerto di dare a me e ad altri ragazzi delle lezioni» disse Greg. Era una prova: se anche lui avesse avuto una strana reazione, parte delle supposizioni che aveva maturato negli ultimi giorni si sarebbero rivelate esatte. Il Cancelliere sembrò per un attimo incupirsi ma subito, riacquistata la sua consueta espressione benevola, disse: «Che sorpresa…Non ero a conoscenza che…Suvvia, non è importante adesso. Un talentuoso, non c’è che dire. Purtroppo però è scostante e non approvo i suoi metodi: la magia è un’arte sacra ed egli ne fa spesso un uso poco appropriato. Il suo continuo anticonformismo lo ha portato spesso in contrasto con me e con i fondamenti della nostra scienza. Adora viaggiare, potrebbe raccontarti storie incredibili… ma non sapevo che fosse tornato a Selthon». Greg inarcò le sopracciglia: non gli piaceva come l’uomo parlava del suo maestro, ma questo non faceva altro che confermare le sue supposizioni sui rapporti che intercorrevano tra i due. «Naturalmente Greg tu saresti ben accetto alla Scuola Superiore» continuò Samarlec indicando la parte alta della città, «lassù maghi esperti e competenti potranno insegnarti molto di più in una settimana di quanto Dovan ti possa aver insegnato in qualche mese. Io stesso potrei darti delle lezioni, occasionalmente vi tengo alcune conferenze, rigorosamente a numero chiuso. Sai, potrei farti diventare un grande mago, temuto e rispettato da tutti… E chi sa se un giorno potresti essere tu il mio successore…» concluse Samarlec amichevolmente.
Greg per un attimo aveva fantasticato sull’offerta del Cancelliere, ma subito dopo l’affetto che lo legava a Dovan prevalse. Si inchinò rispettosamente ma evitò di incrociare dinuovo lo sguardo. «Signore, sono lusingato dalla sua proposta, ma i mesi che ho ato con il mio mentore sono stati molto importanti per me e non desidero altro che continuare il mio apprendistato sotto la guida del maestro Dovan». Per un attimo scorse l’espressione sbalordita di suo padre: l’uomo non poteva credere alle sue orecchie mentre sentiva il figlio con cui tanto spesso aveva avuto degli scontri per via dei suoi interessi nella scienza magica, rifiutare le proposte allettanti e piene di gloria uscire dalla bocca dello stesso Cancelliere. «Come desideri, giovane amico mio. Ci attendono tempi duri e i maghi valenti in questo periodo scarseggiano. Ti auguro un felice e proficuo apprendistato». Il suo sorriso smagliante si increspò obliquamente mentre riprendeva a salutare la folla accorsa ad omaggiarlo. Greg non capiva lo strano comportamento del Cancelliere nei suoi confronti: che ragione aveva per intrattenersi tanto con lui? Non era certo per parlare di magia con lui che il Cancelliere era venuto in città. In quel momento il padre di Greg, rimasto in silenzio durante tutta la conversazione, tra il confuso della richiesta del Cancelliere e l’imbarazzo per il rifiuto del figlio, disse: «Eccellenza, se cortesemente mi vuole seguire…avrò l’onore di averla ospite nella mia umile dimora oggi a pranzo». «Con piacere signor Oltan» rispose il Cancelliere, mostrando, come di consueto, un sorriso ampio e cortese. «L’incontro con i cittadini è programmato per il primo pomeriggio, davanti al molo. È già stato allestito un palco rialzato per permettere a tutti di vederla. Saranno molte le persone interessate al suo discorso, signore» terminò il padre di Greg. «La ringrazio signor Oltan, non dovevate prendervi tutto questo disturbo. La mia visita purtroppo non porterà buone notizie alla popolazione, lei sarà uno dei primi a saperlo: i nareniani hanno tradito i nostri patti e la nostra fiducia.>> sosprirò e in esso nascose tutta la gravità che un uomo del suo rango e nella suo
posizione potevano esprimere riguardo un momento come quello. «Non meritano altro che la guerra». Il padre di Greg fu scosso da quell’affermazione: fino in fondo aveva sperato che si concludesse tutto come un “incidente diplomatico” e che la pace tra i due regni sarebbe stata duratura. A soli pochi mesi dal termine della guerra per le Isole Azzurre, un nuovo conflitto si profilava all’orizzonte. In quanto amministratore conosceva per numeri approssimativi i numeri dell’impero ma era altrattanto a conoscenza de gli sperperi di denaro che si facevano a corte, il principale dei quali era imputato allo stesso Cancelliere. L’impero non pronto per affrontare una nuova guerra e non capiva da dove provenisse l’ostentata sicurezza del dignitario. Greg, al contrario, non era rimasto affatto stupito da quelle parole: il maestro Dovan non aveva avuto torto. Che oltre ad essere un abile mago fosse anche un notevole indovino? No, piuttosto propendeva per il fatto che avesse una notevole conoscenza dei progetti e degli obiettivi che si era posto il Cancelliere. La folla si scostò al aggio del drappello di persone formato dal Cancelliere e dal suo seguito; Greg, come suo padre, ne faceva parte, ma pochi istanti dopo essersi messi in marcia, fu costretto forzatamente ad abbandonarlo: una mano, emersa dalla folla, l’aveva afferrato per un lembo della giacca che ormai appariva alquanto vissuta e l’aveva trascinato nella calca. Greg si ritrovò così faccia a faccia con Andrew, infastidito per la sua scomparsa improvvisa di poco prima. «Ho raccontato a Lisa ciò che è successo, neanche lei riesce a capire il perché del rapimento. Hai chiesto al Cancelliere se poteva far qualcosa per ritrovare Dovan?» «Scordati del possibile aiuto che speravamo di ricevere da Samarlec, Andrew. Non ne ero pienamente certo fino a qualche minuto fa ma adesso sono sicuro del fatto che Dovan e il Cancelliere si conoscano bene e che tra loro non vi sia molta simpatia. Mi correggo, nessuna simpatia». Andrew sembrò non far caso alle parole dell’amico. «Deve esserci per forza un modo per inseguire i suoi rapitori! Hai chiesto a tuo padre se per caso c’è qualche imbarcazione veloce in partenza dai canali rapidi?» chiese Lisa con fervore.
«No, nessuna nave fatta eccezione per…» Greg ebbe un’improvvisa folgorazione: come aveva fatto a scordare ciò che gli aveva detto suo padre poco prima? Se nessuna nave aveva l’autorizzazione a are attraverso i Canali Rapidi questo poteva voler dire soltanto che… «Fatta eccezione per cosa? Come pensi di poterlo ritrovare? La nave su cui è tenuto prigioniero sarà già lontana dalla costa!» Greg fece cenno di silenzio, poi parlò, lapidario. «… Dovan è sulla nave. Il Cancelliere ha rapito Dovan!» «Cosa? Non può essere!» disse Lisa incredula. «E invece è così: mio padre mi ha detto che nessuna nave, oltre a quella del Cancelliere, era abilitata a percorrere nella giornata di oggi i Canali. L’unico Canale aperto è quello con il quale è arrivato il Cancelliere». Fece una pausa per fissare i volti dei suoi amici. «I conti tornano quindi». «Già» annuì Andrew. Lisa afferrò Greg per un braccio e lo scosse con impeto inconsueto. «Ti prego, dobbiamo per forza escogitare qualcosa per salvare il maestro. Non mi importa se saremo costretti a metterci contro lo stesso Cancelliere, dobbiamo salvarlo! Lui per noi non indugerebbe neanche un istante». Greg abbozzò un sorriso verso Lisa ma si sentiva la testa svuotata dalle idee: gli eventi frenetici e la pressione a cui era sottoposto gli rendevano difficile concentrarsi sulla situazione. Due uomini erano di guardia davanti alla scaletta della nave: che pretesto avrebbero dovuto inventare per poterci salire liberamente? “Il nostro maestro è stato rapito dal Cancelliere e adesso ce lo veniamo a riprendere” ? Probabilmente i soldati si sarebbero messi a ridere non avendo forse tutti i torti. Fissò per un attimo Lisa dritta negli occhi: rilucevano di speranza e determinazione, che diritto aveva lui di farle presente tutte le complicazioni che la vicenda comportava, togliendole così la speranza di rivedere il maestro?
Le sorrise «Sono d’accordo», disse poi con voce decisa, «dobbiamo salvarlo, non possiamo abbandonarlo dopo tutto quello che ha fatto per noi», il suo volto tornò pensieroso. «Quello che ci serve adesso è un piano» continuò rivolto ad Andrew, questa volta abbassando il tono di voce. Il ragazzo cominciò a ridere senza motivo e per un attimo Greg si domandò se all’amico non avesse dato alla testa la calura del sole. La risata di Andrew, a cui nemmeno Lisa prese parte, durò per qualche minuto mentre Greg lo osservava snervato: se voleva dire qualcosa, che bisogno c’era di tenersela per sé e riderne in un modo così sguaiato? Andrew colse al volo l’occhiata poco amichevole che brillava negli occhi di Greg e calmatosi, si limitò a dire: «Seguitemi». †
La Porta Sud, salvo due soldati di guardia, era completamente deserta e il sole, con i suo raggi inesorabili picchiava spietatamente sui due gendarmi, affamati ed assetati, ignari di essere spiati dall’angolo di una casa poco distante. «Possibile non sia ancora arrivata l’ora di pranzo?» lamentò il primo dei due. «Da come picchia il sole, penso che ci siamo quasi» rispose annoiato l’altro, facendo seguire la risposta da un grugnito d’insoddisfazione. «Già, ma ho fame! È da stamattina alle sette che stiamo qui di guardia e ancora nessuno è ato a darci il cambio o a portarci una brocca d’acqua». «L’arrivo del Cancelliere ha impegnato così tanto i cittadini da far sì che tutti si dimenticassero di noi» concluse con tono sconsolato l’altro. Poco dopo, quasi obbedendo alla loro lamentele, emerse da dietro al muro una ragazza bionda che reggeva un vassoio con sopra una caraffa d’acqua e due tazze. I suoi movimenti conturbanti attirarono immediatamente l’attenzione dei due uomini che si scambiarono un’occhiata perplessa: che qualche anima gentile si
fosse ricordata di loro? La creatura che si avvicinava era reale o era frutto della loro immaginazione alimentata dal caldo e dalla fame? «Buongiorno signori» disse la ragazza «sono stata mandata da voi appositamente per portarvi da bere. Spero che non vi spiaccia …». «Certo che no signorina! È stata veramente gentile, la ringraziamo con tutto il cuore» risposero in coro, dopo essersi guardati più volte negli occhi. «Che cosa ha portato di buono, signorina?» chiese il più alto dei due. La ragazza, versando del liquido verde nelle tazze, rispose. «Tè alle erbe, signori. È un vero toccasana per la sete e per il caldo!» Porse le tazze, rivolgendogli un gentile sorriso. «Alla salute, nostra e di questa bella ragazza!» dissero i due soldati allegri, vuotando il contenuto tutto d’un fiato. Gli uomini posarono i bicchieri a terra, dopodiché cominciarono a scherzare tra loro e a blaterare strani discorsi. Uno scivolò dalla sedia e l’altro, nel tentativo di rialzarlo, cadde a terra a sua volta: entrambi scoppiarono in una fragorosa risata ma intanto la ragazza si era prudentemente allontanata dai due per evitare qualsiasi inconveniente. Così, apparentemente ubriachi, cominciarono a tirarsi sonori ceffoni, ma dopo pochi istanti stramazzarono entrambi a terra privi di sensi. Qualche istante dopo la ragazza si riavvicinò e, accertandosi delle loro condizioni fisiche, si mise a ridere e si carezzò fascinosamente i capelli, ributtandoseli ad un tratto, su un lato.
†
«Il segnale» bisbigliarono Andrew e Greg, riconoscendo il gesto concordato poco prima con Lisa.
Si mossero silenziosamente appiattendosi al muro della casa e dopo un rapido controllo del transito di estranei raggiunsero il muro vicino alla porta Sud, incrociando lo sguardo di Lisa, la quale fece loro cenno di avvicinarsi. «Missione compiuta!» esclamò una volta che i ragazzi si furono avvicinati, voltandosi ed indicando i due uomini distesi a terra addormentati. «Il mio piano sta funzionando alla perfezione: nessuno può resistere alla polvere di Angapelia» sentenziò Andrew soddisfatto. «In minime quantità è un buon tranquillante ma in dosi maggiori ha effetto soporifero istantaneo» sghignazzò. Greg abbozzò un sorriso di sollievo: era sorpreso dalla buona riuscita del piano messo a punto dall’amico, ma era ancora presto per abbassare la guardia. «Muoviti pelandrone! Fai veloce e infilati l’uniforme!» disse Andrew tirandogli una pacca amichevole sulla spalla. Trascinarono i due uomini nel gabbiotto di guardia posto accanto alla porta e gli tolsero le uniformi. Greg constatò, non senza un po’ di ribrezzo, che la sua era sporca e sudata, ma era certamente meno ridicolo dell’amico a cui però si riservò dal farlo presente. Una volta vestiti entrambi e allacciate le cinture con la fodera dello spadino in dotazione alle guardie, uscirono e Lisa, pur cercando di trattenersi, scoppiò in una fragorosa risata: l’uniforme di Andrew era così ampia che le mani non sbucavano fuori dalle maniche e i pantaloni gli stavano doppiamente larghi. Greg, pur cercando di frenarsi davanti all’ilarità dell’amica, non riuscì a trattenersi oltre e si mise a ridere. Andrew arrossì pieno di vergogna: se non fosse stato per l’elmetto calato sulla testa, anch’esso troppo largo, il suo rossore avrebbe fatto concorrenza a quello di Greg quando cercava di rivolgere la parola a Lisa. «Avete finito di prendervi gioco di me? Dimenticate già chi dovete ringraziare se state andando a salvare il vostro maestro?» ribadì stizzito Andrew. Greg e Lisa, ormai con le lacrime agli occhi dal ridere, si scambiarono un’occhiata complice e chiesero scusa educatamente. «Adesso va meglio. Vogliamo riare un’ultima volta il mio piano perfetto?» disse Andrew, riacquistato il suo colorito naturale.
«Ma l’abbiamo riato fino alla nausea nell’ultima mezz’ora!» protestò Greg. Andrew gli sventolò l’indice davanti al viso in segno di disapprovazione. «Non sarà mai abbastanza per la tua testolina, amico mio». Greg per evitare di ritardare l’esecuzione dell’impresa fu costretto a tacere e Andrew cominciò ad illustrare per l’ennesima volta il suo piano: «Allora: io e Greg faremo credere ai soldati di guardia alla banchina che siamo venuti a dare loro il cambio per il pranzo e poi saliremo a bordo per cercare Dovan. Tu, Lisa, dovrai coprirci le spalle e distrarre le guardie se tornassero di sorpresa. Nel caso dovessero cercare di salire a bordo urla più forte che puoi e noi usciremo istantaneamente e ci occuperemo di loro. Spero vivamente che non si verifichi nessun inconveniente: se dovessero scoprirci saremmo in guai seri». Si fermò un attimo e fissò negli occhi Lisa e Greg: niente in loro lasciava trasparire indecisione o insicurezza. L’animo di Greg divampava: sarebbe stato in grado di affrontare tutto l’esercito di Selthon da solo se fosse stato necessario per liberare il proprio maestro. «Una volta liberato il maestro, lo trasporteremo al sicuro a casa mia e lì rimarrà finché non sapremo qualcosa di più sull’intera situazione. Ci sono domande?» Lisa e Greg scuoterono la testa. «Bene, penso che possiamo are alla seconda parte del piano» concluse Andrew risoluto. Greg, benché gli fosse molto grato per ciò che stava facendo per Dovan, si limitò a rivolgergli un sorriso e lo seguì verso il molo del Canale Rapido, accompagnati però dall’incessante sferragliare della cintura dell’uniforme di Andrew. «Dannazione» disse Greg a mezza voce: attorno al palco della piazza si stava radunando una piccola folla. Ciò non gli avrebbe permesso di are inosservati e avrebbe compromesso la buona riuscita del piano. Si portò una mano alla fronte. «Il discorso di Samarlec, me ne ero completamente dimenticato! Per non parlare del pranzo in suo onore a cui non ho preso parte. Mio padre sarà furioso!», poi tirò l’amico per un braccio «Con tutte quelle persone radunate come faremo a portare in salvo Dovan senza essere notati?»
Andrew si oscurò in volto, maledicendosi in silenzio per non aver tenuto conto di quel particolare così evidente. «L’unico modo perché il piano non fallisca è che facciamo tutto nel minor tempo possibile» aggiunse con amarezza. Con sollievo Greg notò che la folla era momentaneamente troppo impegnata ad accaparrarsi le prime file per badare a loro e con un cenno della mano invitò Andrew e Lisa ad accelerare il o. «Io mi fermo qui» disse Lisa poco dopo, «se le guardie mi vedessero avanzare insieme a voi si insospettirebbero». «Hai ragione, appostati qua, e, nel caso tornassero le guardie o si presentasse un qualsiasi imprevisto, attieniti al piano» rispose prontamente Andrew. «Adesso tocca a noi» aggiunse Greg. Davanti alle due guardie, Greg, modulando la voce nel timbro più basso che possedeva, disse: «Siamo venuti a darvi il cambio, ora siete liberi di congedarvi». «Guarda guarda, non pensavo che tra le nuove reclute ci fossero anche i nanerottoli. Lo dico sempre io: l’esercito non è più quello di un tempo! Quando siamo entrati noi in servizio, allora sì che era necessario avere una forza fisica eccellente e un corpo robusto!» disse uno dei due, ridendo beffardo. Le mani di Greg sudavano per l’ansia ed il tic di Andrew di alzare le sopracciglia lo rendeva ancora più nervoso. Se si fossero insospettiti avrebbero potuto dire addio a tutto quanto ed il piano sarebbe fallito ancor prima di cominciare. L’altro rispose con una risata fragorosa battendosi molte volte la mano contro la coscia e Greg tirò un sospiro di sollievo prima che si accorgesse che Andrew stava per avere una brusca reazione alla battuta dei due soldati e fu costretto ad assestargli un doloroso pestone: conosceva bene la sensazione che provava l’amico in questo momento, ma non era questo il tempo per lasciarsi andare a slanci di rabbia. Le due guardie finirono di ridere e quello che aveva fatto la poco felice battuta sulla statura di Andrew, si rivolse all’altro. «Sai cosa ti dico Salio, amico mio? Ho tanta fame che prenderò una doppia razione di rancio».
«Sono d’accordo, compagno!» rispose l’altro dopo avergli assestato una sonora pacca sulla schiena. Poi, si rivolsero a Greg e ad Andrew. «Grazie per averci dato il cambio, ci vediamo più tardi». Si voltarono per seguire con lo sguardo i due uomini che si stavano allontanando, continuando a darsi pacche amichevoli e a ridere sguaiatamente. «Che elementi…» disse Greg con commiserazione. «Già…» rispose Andrew incupito: la battuta fattagli poco prima dalla guardia gli era andata di traverso. Perché tutti dovevano fargli pesare la sua ridotta statura? Eppure suo padre era uno degli uomini più alti che avesse mai visto. Si strinse nelle spalle, allontanando il ricordo. «Andiamo» disse Greg poco dopo mentre si apprestava a salire la erella. Andrew si soffermò ad osservare le decorazioni della nave e, abbozzando un sorriso, bisbigliò tra sé e sé: «La Darlidan». «Cosa?» chiese Greg incuriosito. «Questa è uno dei gioielli della flotta imperiale, unica per velocità e maneggevolezza: nell’oceano aperto non è seconda a nessun’altra. Guarda, questa è la consolle di comando. Sapevi che le sue vele la rendono invisibile a qualsiasi tentativo di intercettazione? È una delle ultime scoperte in fatto di tecnologia bellica. Non mi sembra vero! Fino ad oggi non l’avevo mai vista così da vicino, ne avevo soltanto sentito parlare; ma vedo che tutto che quello che dicono su questa bellezza, non le rende davvero giustizia…» disse con entusiasmo Andrew. «Chiudi la bocca adesso… ti sei già scordato che questa non è una visita di piacere? Mi vuoi seguire o ti devo lasciare qui con la tua nuova amica?» disse Greg con sarcasmo, ammiccando verso il vascello. Andrew arrossì e si affrettò a raggiungerlo, rivolgendo però un’ultima occhiata malinconica alla consolle di comando. «Dove avrebbero potuto nascondere Dovan per evitare qualsiasi pericolo di fuga» chiese Greg guardandosi intorno.
«Con tutta probabilità è stato imprigionato qua sotto» rispose Andrew indicando le scale che portavano sottocoperta. Giunti all’ultimo scalino si arrestarono di scatto: da dietro una delle due porte che avevano di fronte arrivava il suono di più voci che parlavano concitatamente tra loro. Si appoggiarono con l’orecchio alla porta, in tempo per sentire una voce tenebrosa dire: «Vi voglio tutti ai vostri posti, adesso. La messa in scena comincerà dopo che Samarlec avrà dichiarato ufficialmente guerra a Naren. Sbrigatevi adesso, raggiungete i vostri nascondigli e restate in attesa. Nessuno vi deve vedere. Chi sbaglia o transige il mio ordine ne risponderà direttamente a me» concluse la voce. «Si, generale» risposero in coro più voci. «Non c’è bisogno di ricordarvi che la gloria e la resurrezione del nostro Signore dipendono da noi». Le altre voci assentirono più eccitate, Greg e Andrew si staccarono fulmineamente dalla porta e si guardarono febbrilmente intorno per cercare un nascondiglio. La maniglia girò, producendo un sinistro scricchiolio. Andrew si voltò di scatto nel tentativo di salire le scale più velocemente che poteva, ma una mano lo afferrò per il colletto della maglia e lo tirò indietro. Andrew cadde in preda al panico: credeva di esser stato catturato da quegli uomini, ma con suo grande sollievo si accorse che era il braccio di Greg quello che gli serrava la gola e che non gli permetteva di respirare. La porta si spalancò e Andrew chiuse gli occhi. Mentre era sopraffatto dal panico sentì Greg bisbigliare qualche parola di cui non riusciva a intendere il significato e per un attimo pensò che stesse pregando. Si aspettava il finimondo, ma quando, ati alcuni secondi, l’unico suono che riusciva a percepire era quello di persone che salivano le scalette freneticamente, riaprì gli occhi, tirando un piccolo respiro di sollievo. Ilpetto di Greg si abbassava e s’alzava aritmicamente: per un attimo cercò di capire cosa stava accadendo mentre soldati nareniani gli avano accanto come se fosse parte del muro e non davano minimo segno di volerli aggredire. Che si trattasse di uno scherzo? Non ebbe il tempo per cercare la risposta alle sue domande: Greg serrò il braccio attorno al suo collo togliendogli di nuovo il respiro. Dalla penombra della stiva videro avanzare un uomo incredibilmente alto, coperto da un lungo mantello grigio che gli nascondeva totalmente il viso, tranne gli occhi, la cui sola vista ebbe la facoltà di gelare il sangue nelle vene di entrambi. Inaspettatamente l’uomo si voltò verso di loro, come se avesse intuito la presenza di qualcuno, se non fosse stato per la certezza che non avrebbe potuto vederli in nessun modo, Greg per un attimo ebbe la sensazione che quell’uomo lo guardasse dritto negli occhi: il suo sguardo terreo lo traò da parte a
parte, terrorizzandolo, ma un instante dopo l’uomo aveva voltato loro le spalle, salendo le scalette. ò qualche lunghissimo istante durante il quale nessuno dei due osò respirare: quando fu sicuro di non avvertire più lo scalpiccio dei i sovraccoperta e sentì disperdersi le voci degli uomini, Greg tirò un grande respiro di sollievo, mollando la presa serrata attorno al collo di Andrew, il quale, dopo qualche colpo di tosse ed essersi massaggiato il collo, s’appoggiò al muro riprendendo fiato. «Vuoi spiegarmi come abbiamo fatto a non farci scoprire?» chiese, respirando a fatica. «L’incantesimo Camaleo: ci siamo mimetizzati perfettamente con la nave» rispose Greg con un sorriso di soddisfazione. «Beh, devo fare i miei complimenti a Dovan allora: il suo insegnamento non è stato certo tempo perso con te» disse Andrew sarcastico, seppure con un filo di voce, mentre si aggiustava l’elmo. «Spero potrai dirglielo di persona» disse Greg aprendo la porta della stiva e facendogli cenno di seguirlo. L’odore penetrante del legno dell’imbarcazione entrò prepotentemente nelle loro narici: la stiva era immersa nell’ombra, tranne i pochi raggi di sole che filtravano attraverso la carena e proiettavano strisce dorate sul legno. Greg, una volta abituati gli occhi alla penombra, cercò la sagoma del suo maestro. Quello che inizialmente gli era parso un ammasso di scatole e stracci, si rivelò così essere la figura di Dovan, legato ad un palo di legno, con la testa china. Greg si precipitò accanto al maestro, scotendolo più volte nel tentativo di fargli riprendere i sensi. «Non mi sembra messo molto male» disse Andrew, osservandolo. «E’ soltanto svenuto, tra poco si risveglierà. Adesso sleghiamo le corde con cui è stato immobilizzato». Andrew estrasse il coltellino dalla tasca e recise le corde che imprigionavano Dovan, il quale ebbe un moto di caduta in avanti, poi sussultò ed emise un debole «Ahia». Prontamente Greg e Andrew lo afferrarono, rimettendolo in piedi. Dovan, leggermente confuso, aprì gli occhi e sbatté più volte le palpebre per rendersi conto che qualcuno lo aveva salvato.
«Ragazzi, ma voi cosa ci fate qui? Come avete fatto a trovarmi?» disse dopo aver riconosciuto i due salvatori. «Non c’è tempo per le spiegazioni, maestro, qualsiasi chiarimento è rimandato a dopo, adesso dobbiamo scendere subito dalla nave, il Cancelliere Samarlec sta per…» «Dichiarare guerra a Naren grazie all’impiego di una subdola messa in scena, lo so» lo interruppe Dovan. «Quell’uomo ha sempre avuto il brutto vizio di parlare più del necessario. Dobbiamo correre ad avvertire il popolo, altrimenti degli innocenti andranno di mezzo per la pazzia di quello scellerato. Ragazzi, riesco a camminare anche da solo, grazie» concluse poi Dovan liberandosi dalla loro presa. «Vi ringrazio, amici miei, senza di voi Samarlec mi avrebbe fatto fuori. Credo di cominciare a capire ciò a cui punta veramente il Cancelliere». «Non potevamo permetterglielo» risposero soddisfatti. Stavano per uscire ma Greg non poté fare a meno di spiegare a Dovan di ciò che aveva estorto la sera prima al mercante: «Maestro, devo metterla al corrente di qualcosa di importante, almeno credo. Ieri sera ho interrogato il mercante naufragato: ho scoperto cosa stava trasportando e cosa cercavano i nareniani che lo hanno attaccato. Si tratta di una pietra preziosa». Dovan lo fissò interrogativo per un attimo, poi gli rivolse un ampio sorriso di gratitudine, accompagnato da un gradevole “ben fatto, ragazzo mio” e si avviò verso l’uscita. Greg si fermò un attimo e si voltò di nuovo verso Dovan. «Per caso ha visto anche lei che insieme a Samarlec vi era anche un uomo con le iridi bianche? C’è qualche possibilità che sia lo stesso che ha sottratto il carico dalla nave del mercante?» Dovan rimase pensieroso per un istante, poi annuì. Greg si voltò di nuovo mentre prendeva coscienza del fatto che la situazione si stesse ulteriormente complicando ma dopo aver salito pochi gradini, un urlo improvviso percorse l’aria e li fece sussultare. Dovan guardò interrogativo i due che unanimemente esclamarono: «Lisa!»
«Lisa? Cosa c’entra lei?» chiese allarmato. «E’ il nostro palo: se le guardie fossero tornate e non fosse riuscite a distrarle ci avrebbe avvertito con un urlo». Greg e Andrew si tolsero convulsamente l’armatura e raggiunsero Dovan che intanto era arrivato in cima alle scale. Quando gli furono accanto, si sentirono cogliere dal panico: un manipolo di guardie selthoniane armate era salita sul ponte, mentre altre due stavano immobilizzando Lisa, in preda al panico. Sulla banchina si era radunata una grande folla, tra cui il Cancelliere e il signor Oltan. Greg non riuscì a coglierne l’espressione, ma doveva essere a dir poco sconvolto. Accanto a lui intanto Andrew cercava in una delle tasche il suo coltello, mentre Dovan, al contrario, sembrava calmissimo. Il respiro di Greg era affannato e gocce di sudore gli solcavano il viso, i suoi occhi frenetici cercarono una via di fuga, ma l’unico modo che al momento gli veniva in mente era lo scontro diretto con le guardie: guardie adulte, esperte e soprattutto armate. Poco dopo, come egli stesso aveva previsto, i soldati sguainarono le spade e a Greg non restò altro da fare che prepararsi allo scontro. Andrew, confuso a sua volta, sguainò la lama usato poco prima per liberare il maestro. Greg, nervoso ed ansante, cercò la concentrazione, raccogliendo nella mano destra l’energia per lanciare una sfera di fuoco verso le prime guardie. Poi, accadde qualcosa di totalmente imprevisto: Dovan si avvicinò alle guardie e a gran voce chiamò Samarlec: «Cancelliere, se non opporrò resistenza, promette di lasciar liberi questi ragazzi?» La risposta di Samarlec non si fece attendere: l’uomo salì sul ponte della nave e trovandosi faccia a faccia con Dovan, disse: «Pensavi forse di sfuggirmi? Non ti è già bastata l’umiliazione di tanti anni fa?» Dovan rimase imibile e Greg scorse con orrore un sorriso obliquo delinearsi sul viso del Cancelliere, il quale poi, rivolgendosi alla folla ammutolita, aggiunse: «Miei amati concittadini, quest’uomo, il maestro Dovan, è un traditore della Sacra corona di Selthon; è una spia al soldo del regno di Naren!» «Bugiardo!» esclamò Greg che, al colmo della rabbia, cercò di lanciarsi su Samarlec, ma venne tempestivamente bloccato dalle guardie.
Il Cancelliere fu altrettanto rapido a riprendere in mano la situazione e a distogliere l’attenzione del popolo dalla due guardie che stavano immobilizzando Greg. «Quest’uomo malvagio ha indotto tre giovani sudditi selthoniani a liberarlo per aiutarlo ad attuare i suoi malvagi piani. Queste due guardie sono state aggredite poco fa da questi ragazzi e hanno sottratto loro le uniformi». La folla si voltò unanimemente in direzione dei due uomini seminudi che stava indicando il Cancelliere. Greg avrebbe voluto gridare con tutto il fiato che aveva nei polmoni come veramente stavano le cose, ma al momento due guardie nerborute gli impedivano qualsiasi movimento. «Ma essendo una persona magnanima ho deciso che non condannerò queste tre menti traviate dal male» aggiunse il Cancelliere, che, facendo cenno alle guardie, li fece liberare. Greg, Andrew e Lisa furono spinti in mezzo alla folla che si aprì istantaneamente intorno a loro. Lisa aveva il volto rigato dalle lacrime e con la voce rotta dai singhiozzi disse: «Mi dispiace, ho fatto tutto quello che potevo, non sono stata capace di tenere occupate le guardie. Perdonatemi, io non…» In quell’istante il Cancelliere aveva ripreso a parlare. «Cittadini, la guerra contro il regno di Naren è ormai, per quanto me ne rammarichi, inevitabile, ma vi prometto che questa sarà l’ultima guerra intrapresa contro quell’infimo popolo!» Il Cancelliere, che si aspettava un’ovazione nei suoi confronti per il suo coraggio, fu deluso dalla reazione dei cittadini: la folla sembrò estremamente turbata ed un gran brusio e voci di protesta cominciarono a serpeggiare tra le persone. Decise di usare la mossa ad effetto che si era riserbato per un momento come questo: «Se vorrete voltarvi alla vostra sinistra ed osservare le Torri di Cristallo, vedrete emergere l’arma più potente che sia mai stata costruita e concepita da mente umana». La folla, momentaneamente obliata la critica per la dichiarazione di guerra, si voltò in un unico moto verso la grande montagna che sovrasta l’intera città. Migliaia di paia di occhi sorpresi videro comparire una gigantesca apparecchiatura bellica tale che la sua mole imponente torreggiava sulla cima del monte, quasi raggiungendo per altezza i due cristalli.
«Cari amici, quest’arma, ottenuta dopo anni di ricerca da parte dei nostri migliori ingegneri bellici, ci permetterà di creare un’immensa potenza di fuoco facendo convogliare l’energia celeste delle Torri di Cristallo. Un solo colpo lanciato da quest’arma, ci consentirà di sbaragliare l’intera flotta nareniana senza l’inutile dispendio di vite umane!» Gli occhi di Dovan sembrarono accendersi di una strana luce. Non esisteva niente in grado di sviluppare una simile potenza tranne, forse, ciò che era stato sottratto dalla nave del naufrago. Era tutto così chiaro adesso. Il Cancelliere stesso aveva finto l’attacco al convoglio mercantile per impossessarsi della preziosa pietra e confondere così l’opinione pubblica: nessuno, a meno che non fosse informato sui fatti come lui in quel momento, avrebbe pensato di collegare l’attacco avvenuto il giorno prima con la pietra usata da Samarlec per alimentare la sua arma e il Cancelliere lo sapeva bene. Se Samarlec aveva trovato un talismano capace di scatenare tutta quell’energia c’era solo una spiegazione: uno dei più antichi segreti del mondo era stato riportato alla luce. Una delle Pietre era stata ritrovata. E poi, quell’uomo che lo accompagnava… In un crescendo di sospetti Dovan stava ricomponendo il rompicapo degli strani eventi accaduti negli ultimi tempi. La situazione era ancora globalmente confusa, ma Dovan era abbastanza sicuro di doversi preoccupare a sufficienza. Questa volta la folla rispose nel modo sperato ed elevò un’ovazione nei confronti del Cancelliere, il quale rispose con un luminoso sorriso. «Giustiziatelo» disse poi rivolto alle guardie. Greg, Andrew e Lisa erano sconvolti: non avevano neanche la forza per urlare, erano come pietrificati. Il Cancelliere rivolse loro un malevolo sorriso, soddisfatto per essere ad un o dalla vittoria. Sapeva che ormai Dovan doveva aver capito quasi tutto e non poteva permettere che vivesse oltre. Certo tre sciocchi ragazzi non avrebbero costituito un problema per lui. Se pure si fossero rivelati delle spine nel fianco avrebbe pensato in seguito come sbarazzarsene. Le guardie fecero inginocchiare a forza il maestro e una di loro, scelta come boia, si avvicinò a lui con una pesante ed affilata spada tra le mani. La lama stava per essere lasciata cadere sul collo del maestro, quando dalla città provenne il suono di forti esplosioni. La folla si disperse in preda al terrore in tutte le direzioni urlando: intorno a Greg, Andrew e Lisa, turbinavano
impazzite decine di persone. Paralizzati non riuscivano ad individuare un varco per raggiungere Dovan, mentre le persone intorno a loro si spintonavano ed inciampavano. Samarlec, dall’alto del ponte della nave, non sembrava affatto turbato o sorpreso dall’accaduto e dominava calmissimo la situazione. Le guardie intorno a lui, al contrario, non sembravano altrettanto calme, probabilmente all’oscuro delle trame del Cancelliere. Il boia in particolare, era bloccato ed esitava sul da farsi, timoroso per il clamoroso evolversi della situazione. Il Cancelliere, furioso per l’esitazione dimostrata dall’uomo non esitò, con un gesto brusco, a sottrargli la spada dalle mani. Il soldato si fece velocemente da parte, mentre la pesante arma gli veniva sottratta. Greg, nel tentativo di interrompere l’esecuzione, cercò di scavalcare il muro di folla interposto tra lui e la nave, ma fu respinto, cadendo a terra. Andrew, ormai rassegnato, gli tese una mano, ma Greg la rifiutò: il mondo gli stava cadendo sulle spalle e non poteva fare altro che assistere, impotente ed inorridito, alla scena. Samarlec si posizionò accanto a Dovan alzando la spada poco sopra il collo dell’uomo. Lisa si coprì gli occhi, mentre Andrew distolse lo sguardo. Greg non riusciva a credere, non voleva credere, che questa fosse la fine di tutto. In quell’istante, una scia di fuoco solcò l’aria, colpendo il Cancelliere in procinto di sferrar il fatidico colpo. Colto alla sprovvista, perse la presa dell’elsa e fu sbalzato a qualche metro dal maestro. Dovan, resosi conto dell’accaduto, approfittò dello scompiglio creato dallo stravolgimento improvviso della situazione, concentrò il suo potere in entrambe le mani, creando due sfere di luce bianca che abbagliarono e tramortirono le guardie. Greg, chiuse a sua volta istintivamente gli occhi per evitare di rimanere abbagliato, poi, una volta cessato l’incantesimo, si voltò nella direzione dalla quale era stata lanciata la sfera. Ciò che vide non lo sorprese più di tanto: Mark, seduto su un tetto, poco distante, faceva cenno di saluto al gruppetto con la mano ancora fumante. Greg si voltò verso Mark, sorridendo: non poteva nascondere la felicità, una volta tanto, di vedere l’odiato amico. Poco dopo nuove esplosioni turbarono l’atmosfera, producendo detonazioni molto più potenti di semplici sfere di fuoco lanciate da un ragazzo. Samarlec, malgrado le proteste, fu portato via insieme al suo seguito, la folla, terrorizzata, era ormai scemata e il gruppo si poté così ricongiungere «Non avete idea in che razza di guaio vi siete appena cacciati» esclamò turbato Dovan «ma vi sono immensamente grato per averlo fatto» aggiunse sorridendo. Dopo un attimo, però, la sua espressione tornò turbata. «Non ho tempo di spiegarvi tutto adesso, vi basti sapere che ciò che sta accadendo in città è opera di Samarlec. Non posso permettere che innocenti vadano di mezzo per colpa di
quel traditore, quindi devo correre urgentemente in soccorso dei cittadini. Non sarebbe giusto che vi chiedessi aiuto…non è una vostra battaglia». «No maestro, questa è anche la nostra battaglia: Selthon è la nostra casa, qui abbiamo le nostre radici ed il nostro cuore. Non possiamo permettere al Cancelliere di sconvolgerne l’ordine. Penso di parlare così a nome di tutti» disse Greg, cercando con lo sguardo quello di Lisa e di Andrew, alle sue spalle. Dovan sorrise: era certo di quella risposta e capì di poter davvero contare su quei ragazzi. «Bene, non c’è un attimo da perdere, dobbiamo salvare Selthon» disse Mark con serietà. Era appena sceso dal tetto con un balzo notevole e li aveva raggiunti correndo. Gli altri annuirono e si avviarono verso la città a o sostenuto, ma ciò che i loro occhi videro non li rese più tranquilli: nere spirali di fumo si alzavano dai quartieri ed echi di esplosioni giungevano alle loro orecchie. Dovan ò da una marcia sostenuta alla corsa, e i quattro ragazzi lo imitarono. Oltrearono i Canali Rapidi e grazie alla strada completamente deserta, giunsero in pochi minuti alla Porta Ovest. Sull’atmosfera regnava una calma spettrale ed innaturale: fino a pochi istanti prima riuscivano e sentire esplosioni, ma adesso vi era solo un’opprimente silenzio. Andrew stava per urlare qualcosa, ma Dovan riuscì a tappargli la bocca. «I soldati di Samarlec sono nascosti qua in giro: il loro obiettivo non è quello di uccidere, ma di impaurire gli abitanti e di giustificare così i suoi giochi pericolosi di. Queste esplosioni, però, potrebbero aver ferito qualcuno; ciò che dobbiamo fare adesso è prenderci cura di loro e cacciare quegli impostori». «Il maestro ha ragione, ma non possiamo muoverci per la città in un gruppo così numeroso: propongo di dividerci» intervenne Mark. «Mark ha ragione, dobbiamo separarci» fece eco Greg. «Penso sia la cosa migliore da fare ma, se mi permettete, vorrei essere io a dividervi» disse Dovan, il cui sguardo saettò in direzione di Greg e Mark. «Visto che non c’è nessuna obiezione in merito, Greg e Mark potrebbero perlustrare i quartieri alti, mentre Andrew e Lisa perlustreranno i quartieri popolari, per quanto riguarda me mi recherò ai moli» concluse. Greg non apprezzò il tranello che gli aveva teso Dovan e anche Mark non nascose il suo disappunto. «Ho detto nessuna obiezione. E’ giunto il momento
che voi due vi decidiate a collaborare: se non lo farete, mi rifiuterò di continuare il vostro apprendistato» disse Dovan severamente. In un attimo Greg fu costretto a rassegnarsi, e il sorriso beffardo di Mark gli scivolò via dal viso. «Maestro, con tutto il rispetto, essere in coppia con Lisa…» cercò di elevare la protesta Andrew. «…comporta sfoggiare doti di cavalleria e galanteria che ad un gentiluomo come te di certo non mancheranno. Lisa ha buoni poteri curativi; le saranno molto utili oggi. Tu, caro Andrew, dovrai fare in modo che non le accada niente, altrimenti non credo che dovrai risponderne a me, quanto ai tuoi amici qui di fronte» concluse Dovan con un ampio sorriso indicando poi Greg e Mark. Andrew fu così costretto a tacere e fu di nuovo al centro dell’ilarità collettiva. Dopo che l’entusiasmo del gruppo si fu calmato, si divisero silenziosamente, dandosi appuntamento per quando il sole avrebbe completamente illuminato le Torri di Cristallo, dirigendosi agli angoli della città loro assegnati.
Capitolo VI
Selthon sotto attacco
Greg avanzava velocemente affiancato da Mark ma l’unico rumore percepibile ai loro orecchi era quello dei loro i felpati. Era immerso nei suoi pensieri: quello che avevano fatto per liberare Dovan non era cosa di poco conto, avevano rischiato grosso quando le guardie li avevano scoperti sul ponte della Darlidan e il Cancelliere li considerava traditori di Selthon per aver aiutato il loro maestro. ‘Dovan tradire Selthon?’ si chiese ad un certo punto, ma la risposta gli venne spontanea. Quelle di Samarlec erano tutte fandonie: far credere al popolo che fosse Dovan il traditore non era altro che uno stupido espediente per mascherare i propri piani. Guardò fugacemente Mark: non lo vedeva dal pomeriggio precedente e non si erano lasciati in modo molto amichevole. Benché fossero legati da un’intolleranza e da una forte competizione reciproca, gli era grato per ciò che aveva fatto prima, così si decise a rompere quel silenzio: «Mark, ti sono riconoscente per aver salvato il maestro, il tuo aiuto è stato davvero provvidenziale». «Ti sbagli, non ho fatto proprio niente, mi sono ritrovato per caso vicino alla folla e, per vedere meglio, mi sono arrampicato sul muricciolo di un’abitazione. Quando ho sentito le parole di Samarlec e ho visto ciò che stava per accadere a Dovan, ho deciso di intervenire…non l’avrei fatto di certo se voi pappamolle non foste stati impalati in mezzo alla calca» ribatté Mark, alzando le spalle. Greg, vista la gravità della situazione, decise di non sferrare al compagno un cazzotto in pieno stomaco come avrebbe voluto, ma si limitò a dire: «Ieri eravamo tutti molto preoccupati per te, soprattutto Lisa e credo che rivederti le abbia fatto bene» e a malincuore, preferendo che qualcuno gli tagliasse la lingua in quel momento, aggiunse «Mark, lei preferisce te».
Mark si fermò un attimo. «Ascolta, quella piagnucolona a me non piace di certo, quindi non hai proprio motivo di preoccuparti». «Non mentire con me, ti conosco da troppo tempo. Le vogliamo bene entrambi, ma lei, prima o poi, dovrà decidere e io credo di aver già capito chi di noi due sceglierà» concluse Greg con un sorriso piuttosto forzato. Aveva deciso: non voleva che questa situazione incerta si protraesse oltre, non l’avrebbe davvero sopportato. Mark rispose con un sorriso più naturale ma non disse altro, voltando poi la testa e proseguendo, in silenzio. Attraversarono la Piazza Sijon, per poi ritrovarsi nel quartiere facoltoso. Le strade, ampie e lastricate di blu, erano deserte e la calma piatta ed innaturale, che fin dall’inizio avevano notato, li avvolgeva. Greg si fermò di scatto, con una profonda sensazione di paura: era la stessa sensazione che aveva provato quando quell’uomo alto e con gli occhi vitrei l’aveva fissato sulle scale della nave, mentre era sotto la protezione dell’incanto camaleo. Mark, non si era accorto della fermata improvvisa di Greg ed era andato avanti, probabilmente non avvertendo la strana atmosfera che impregnava l’aria. Greg lo afferrò per un braccio, bloccandolo e facendogli cenno di far silenzio. Avanzavano cautamente in un lungo viale soleggiato. Greg continuava ad avere la spiacevole sensazione che qualcosa o qualcuno li stesse osservando, ma Mark sembrava procedere con naturalezza, per niente stupito dalla situazione. arono accanto ad una graziosa villetta con giardino, ma non un’anima manifestava la propria presenza; da dietro il basso muretto bianco che la circondava Greg sentì provenire, ad un tratto, dei mugugni soffocati. Allarmato da quei rumori si affacciò tempestivamente, seguito da Mark. Là dietro, legato ed imbavagliato, era nascosto suo padre. Greg ebbe un sussulto di sorpresa ed il signor Oltan ebbe la stessa reazione: il volto sconvolto e gli occhi pieni di orrore del genitore confermarono i timori e gli oscuri presagi del figlio. Incurante però del pericolo si avvicinò a suo padre per liberarlo, gli sfilò il fazzoletto che gli impediva di parlare; al posto della smorfia di terrore che fino a qualche istante prima gli deformava il viso, comparve un sorriso beffardo. Greg era stupito del suo mutamento improvviso e si trasse indietro per osservarlo meglio, in un istante, gli occhi di suo padre cambiarono colore ando dal marrone chiaro al bianco terreo. Mark, scorgendo la scena, indietreggiò a sua volta, terrorizzato da ciò a cui stava assistendo. L’uomo stava compiendo un’orribile metamorfosi: il suo corpo si stava
ingrandendo e cambiava fisionomia, le funi che lo impedivano si disintegrarono inspiegabilmente, il suo volto era dilaniato dal dolore provocato da quel processo e lamenti infernali scaturivano dalla sua bocca. Ma ciò che veramente terrorizzò i due ragazzi fu la terribile trasformazione del volto: i capelli poco folti del signor Oltan caddero, lasciandolo completamente calvo. Il viso si allungò tendendo la pelle delle guance, mentre la pelle stessa stava deperendo come disidratata: il naso scomparve per lasciare spazio ad una fessura vuota mentre attorno agli occhi vitrei e privi di ogni espressione umana, tranne l’odio, si scavarono due impressionanti cavità. Greg non riusciva a credere ai propri occhi: ciò che stava accadendo a meno di un metro da lui non poteva essere reale, non doveva esserlo. Avrebbe voluto celare quella scena al suo sguardo, ma quei terribili occhi l’avevano come ipnotizzato, rendendogli impossibile qualsiasi reazione. Mark, al suo fianco, era come impietrito e completamente sbiancato in volto. Infine, se possibile coronando in tal modo l’orrore generato dalla vista di tale essere, dal cranio ossuto scaturirono quattro protuberanze ossee mostruose che si allungarono a dismisura, andando a formare così quattro lunghe corna. L’essere cessò di urlare e si erse in tutta la sua altezza. Un lungo mantello dal colore indefinito e camaleontico, agganciato con una preziosa fibbia, lo vestiva,mentre un enorme ventaglio amaranto decorato abilmente troneggiava da dietro la sua testa, suscitando così nel complesso un incredibile terrore nei due malcapitati. “Questo essere non è umano, non ha niente di umano” pensò atterrito Greg, ancora ipnotizzato da quegli occhi ultraterreni. Cercò invano di darsi alla fuga, afferrando il braccio di Mark, ma sembrava che l’impulso si fosse bloccato prima di raggiungere l’articolazione. L’essere dipinse di nuovo sul suo viso un ghigno malevolo ed avanzò verso i due, fermandosi a pochi i da loro. «Ecco due pesciolini che sono rimasti impigliati in una rete per squali» disse nell’avanzare. Greg notò con suo grande stupore che mentre parlava, non muoveva le labbra, anzi era come se la sua voce rimbombasse all’interno del cranio. «Non era certo voi che stavo aspettando, ma è naturalmente meglio di niente. Il vostro maestro non ha la minima idea di cosa lo attenderà appena capiterà da
queste parti». L’essere si soffermò ad osservare le espressioni stupite dei due giovani, cogliendo, soddisfatto, l’orrore annidato nei loro occhi. Mark cercò di dire qualcosa, ma la sua voce era atona: nessun suono usciva dalla sua bocca. «Non affaticarti a tentare di dire qualcosa, ragazzo. L’orrore che leggo nei tuoi occhi e nella tua mente è troppo grande per avere nome». Mark crollò in ginocchio con lo sguardo perso nel vuoto, privo di sensi. «E tu…» disse poi rivolto a Greg, guardandolo dritto negli occhi. «Perché non ti inchini? Non hai forse paura della morte? Lo vedo chiaramente nei tuoi occhi…posso leggere tutta la tua vita, sai? Le tue gioie più grandi, i tuoi timori più reconditi, per me non hanno segreti. Potrei vedere il momento esatto in cui per la prima volta hai aperto gli occhi, se solo lo volessi. Fa male, vero Greg?» «Dov’è mio padre?» «Tuo padre non è qui, o almeno non ancora…» disse l’essere con un sorriso malefico. «A proposito, non hai notato niente di strano? Questa calma improvvisa non ti sembra inspiegabile? O forse il mio potere ti impedisce di vedere la vera realtà delle cose…» adorava terrorizzare le sue vittime. Voleva togliere loro qualsiasi barlume di speranza, voleva vederle morire col terrore dipinto sul viso in una maschera terribile. Il ragazzo lo squadrò con aria interrogativa, non capendo ciò che stava dicendo l’essere di fronte a lui. Questi batté le mani due volte e l’atmosfera calma ed irreale, che fino ad allora li aveva circondati e avvolti, sparì, lasciando al suo posto cumuli di ruderi in fiamme. Greg, sconvolto, si chiese come poteva esser vero ciò che era apparso davanti ai suoi occhi. Il quartiere borghese di Selthon era in fiamme e dalle altre zone della città si alzavano numerose colonne di fumo. Ma dei cittadini non vi era ugualmente traccia. Quell’immagine lo turbò profondamente e si sentì abbandonare dalle forze, mentre nella sua mente turbinavano centinaia di immagini, alcune sfuocate, altre nitide, ma sullo sfondo poteva chiaramente vedere quei due occhi
magnetici e terribili che scrutavano la sua mente senza pietà. Si rivide qualche anno più giovane a giocare sulla spiaggia con Andrew, poi sempre più a ritroso il suo sesto compleanno, il primo incontro con i suoi migliori amici, i suoi genitori molto più giovani, una tempesta. Quello strano ricordo lo fece riemergere dal torpore in cui stava scivolando, salvandolo dall’oblio. Mentre riprendeva fiato, Greg si sentì assalito dai dubbi: perché quel ricordo gli era baluginato improvvisamente e senza ragione nella mente? Quando aveva assistito a un tale evento? Secondo la conseguenza della spirale dei ricordi, doveva essere un’immagine molto antica, risalente ai suoi primi anni di vita. Come era possibile? Ora che aveva quel ricordo impresso a fuoco nella mente non riusciva a trovare somiglianza con nessun luogo di sua conoscenza. “Basta”, si disse ad un tratto, “ci sono cose ben più importanti dei ricordi”. Costatò di aver riacquistato la sensibilità degli arti e mosse lentamente la mano. L’essere sembrò stupito dalla scena a cui aveva assistito: quel mortale, quel semplice mortale, stava resistendo a lui, Lord Astaroth, uno dei servitori del Signore del Mondo. Qualcosa che andava oltre al suo pensiero, qualcosa di arcano e nascosto proteggeva la mente di quel ragazzo, impedendone l’accesso persino a lui. L’ultimo ricordo che era riuscito ad individuare era una tempesta, una grande tempesta, ma niente più. La parte più remota dei ricordi di quel ragazzo era sigillata. Chi era quel ragazzo? Nel frattempo, un po’ a fatica, Greg riuscì a rimettersi in piedi e avvicinandosi a Mark, tentò di rianimarlo, ma senza alcun successo. Greg era in preda al panico: come avrebbe potuto Lisa perdonarglielo? «Cosa gli hai fatto?» disse voltandosi di scatto verso il demone. «Diciamo che in questo momento la sua mente sta viaggiando verso l’oblio…tra poco la sua anima sarà completamente inghiottita dalle tenebre e il suo corpo rimarrà solo un involucro vuoto» . «Riporta qui la sua anima, è un ordine!» ribadì Greg, gli occhi in fiamme mentre con forza le sue mani si erano strette alle spalle di Mark, nel disperato tentativo di svegliarlo. «Povero stolto, osi dare ordini a me? Anche se c’è qualcosa di te che non mi è ancora chiara, nessun mortale è in grado di oppormi resistenza. Ho spezzato le schiene di interi eserciti e ho polverizzato alcuni tra i più vanagloriosi e tronfi
eroi umani, e tu mio giovane amico, non saresti in grado di farmi neppure un graffio». «Mai dire mai» disse risoluto Greg stringendo i pugni. La situazione era tragica: avrebbe dovuto fronteggiare da solo un essere che non somigliava lontanamente con niente che appartenesse al suo mondo. Bastava vedere con quanta facilità avesse mutato la sua forma e creato un’illusione che aveva abbracciato non solo una piccola area, ma una città intera. Se solo Dovan fosse stato con lui… Greg abbandonò le proprie esitazioni e concentrò la sua energia nei palmi delle mani rendendoli ardenti e si avventò contro il demone, determinato ed incurante delle conseguenze in cui sarebbe potuto incorrere. †
«Andrew, non sei molto di compagnia se continui a borbottare da solo frasi incomprensibili…» disse Lisa sorridendo. Stavano camminando da qualche tempo ormai, pattugliando la zona alla ricerca di eventuali feriti, ma ancora nessuno dei due aveva aperto bocca. Andrew era profondamente deluso per la decisione di Dovan di affidargli Lisa. Certo, lui non disponeva di poteri magici, per questo avrebbe fatto volentieri coppia con Greg; si sarebbe sentito molto più a suo agio con lui che con una ragazza. Poi un pensiero gli attraversò la mente. Si fermò e si guardò intorno più volte, come se avesse perso qualcosa. «Lisa, non ti sembra strano che ancora non abbiamo incontrato un’anima viva? Mi sarei aspettato di veder saltar fuori qualche guardia nareniana o di vedere riverso a terra qualcuno agonizzante…anche i pinnacoli di fumo sono scomparsi…che sia stato tutto frutto della nostra immaginazione?» chiese con aria interrogativa. «Beh, io non mi lamenterei molto, se fossi in te… non aver incontrato nessuno non vuole per forza dire che non ci sia nessuno…» rispose lei guardandosi a sua volta intorno. «Sarà, ma di certo se avessimo saputo con cosa avremmo avuto a che fare e cosa avremmo dovuto fare, sarebbe stato molto più semplice agire…». Svoltarono l’angolo della piccola strada e varcarono l’ingresso del quartiere
popolare. Di nuovo, non vi era nient’altro che il silenzio. Andrew si aggirava con aria perplessa e, come lui, Lisa, finalmente convinta che qualcosa non stesse andando per il verso giusto: entrambi erano cresciuti tra quei palazzi, giocando agli angoli delle piazzette, sapevano benissimo che quel silenzio era innaturale per il loro quartiere e così si guardarono con circospezione intorno, cercando di notare qualcosa che potesse destare la loro attenzione e metterli in allarme. Giunsero davanti casa di Andrew, ma neanche un suono, neanche il minimo fruscio o la più fievole voce, alterava il silenzio. Andrew si avvicinò ai gradini di casa e ne varcò la soglia. L’atrio era immerso nella luce pomeridiana: la cucina era vuota, sua madre, stranamente, troppo stranamente per quanto ne sapeva, non era indaffarata ai fornelli e nessun odore di cibo proveniva dal grande forno. Salì le scalette che portavano al piano superiore ove erano collocate le camere da letto e si affacciò alla camera di sua madre. Quello che vide lo lasciò senza fiato, bloccandolo letteralmente sulla soglia: sua madre, l’ultima persona che gli rimaneva al mondo, giaceva sul letto in un pallore mortale, senza dare segni di vita. Si accasciò sul letto svuotato da tutte le forze ed incapace di piangere o manifestare il suo immenso dolore, le afferrò la mano gelida e la strinse con tutte le sue forze. “Perché è successo? Chi e come ha provocato tutto ciò?” si chiese affranto. Sbatté i pugni sul letto e poi in un crescendo di rabbia sferrò un poderoso calcio al comodino adiacente al letto. Il piccolo soprammobile sopra di esso oscillò pericolosamente e cadde a terra infrangendosi. Andrew, tra le lacrime che adesso scorrevano copiose sulle sue guance, si rimproverò per la sua sbadataggine e si chinò per raccoglierne i vetri, ultimo riconoscimento ufficiale della corona di Selthon alla memoria del padre veterano, vittima della guerra. Non appena fu a pochi centimetri del primo frammento, successe qualcosa di molto curioso: i vetri del soprammobile si riunirono e si ricomposero inspiegabilmente, e la stessa lampada tornò al suo posto sopra il comodino come se non fosse accaduto niente. Andrew osservò tutta la scena con sguardo incredulo: come aveva fatto il piccolo ornamento a ricomporsi spontaneamente e senza alcun motivo? Andrew si alzò di scatto e, confuso dalla situazione e allo stesso tempo incuriosito, lo fece cadere di nuovo a terra e come era accaduto pochi istanti prima, l’oggetto si ricompose da solo per poi tornare al suo posto.
Qualcosa non quadrava, per quanto bizzarro che fosse veder cadere il soprammobile e subito dopo ricomporre, la situazione era allarmante. Si girò di scatto pensando di avere vicino a sé Lisa, per chiederle cosa ne pensasse dello strano fenomeno, ma accanto a lui non c’era nessuno. Chiamò Lisa una, due, tre volte, ma la ragazza non rispose; si precipitò per le scale e in preda all’ansia spalancò brutalmente la porta di casa. Di Lisa non c’era traccia. Si guardò febbrilmente intorno per cercare anche la minima traccia che denotasse la presenza dell’amica, poi improvvisamente, dal nulla qualcuno scoppiò in una rumorosa risata a cui presto ne fecero eco altre. Andrew si guardò disorientato intorno per cercare di determinarne l’origine ma quelle strane risate di scherno gli turbinavano intorno, terrorizzandolo. Si chiese disperato cosa avrebbero pensato di lui Dovan e Greg se fosse accaduto qualcosa a Lisa: troppi eventi terribili si erano susseguiti senza che gli fosse dato il tempo minimo per assimilarli e per capirli. Vedeva ancora il pallore dell’amata madre senza che egli potesse fare niente per salvarla e adesso non riusciva a trovare l’amica. Non poteva assolutamente permetterselo, dopotutto lui e Lisa si conoscevano sin dall’infanzia ed era una delle persone a lui più care, sebbene lo mascherasse sapientemente. Ad un tratto qualcosa cambiò: sulla fontana si materializzò dapprima un’ombra scura poi un uomo ed accanto a lui ne apparvero altri, tutti ben armati e bardati. Andrew indietreggiò timoroso mentre l’uomo seduto schioccando le dita provocò l’apparizione di una nuova sagoma, questa volta più bassa e molto diversa da quelle apparse pochi istanti prima. Andrew riconobbe all'istante la figura dell’amica e istintivamente le corse incontro ma le guardie che, fino a poco prima erano rimaste immobili, sguainarono i pesanti ed affilati spadoni e l’uomo a sedere estrasse fulmineamente un lungo pugnale che puntò alla gola di Lisa. La ragazza sembrava incosciente di ciò che stava accadendo, ma Andrew non poté fare a meno di arrestarsi di scatto. La situazione gli era di nuovo sfavorevole e non poteva assolutamente rischiare la vita di Lisa nel compiere qualche gesto stupidamente eroico. Nessuno mormorò parola per alcuni lunghi ed interminabili secondi, durante i quali tutti, immobili nelle loro posizioni, avevano i muscoli tesi. Poi finalmente l’uomo seduto sulla fontana che teneva in ostaggio Lisa perlò: «Bene bene, ecco il cavaliere di questa deliziosa fanciulla…era da un po’ che vi stavamo seguendo, ma ci avete deluso…speravamo che ci portaste dal vostro
maestro, ma abbiamo atteso invano…A proposito ragazzo, come ci si sente a vedere la propria madre morta?» «NON OSARE PARLARE DI MIA MADRE!!!» urlò irato Andrew. «Povero cucciolo, hai perso la mamma e adesso non sai come fare a vivere?» risero di gusto in coro. Andrew si sentì gelare dentro e rimase perfettamente immobile. «Comunque dobbiamo davvero ringraziarvi per la gita guidata della vostra bella città…peccato che non sia più come fino a poche ore fa…» continuò con voce fastidiosamente sarcastica il soldato. «La città? Cosa c’entra Selthon?» «Presto detto…» sussurrò l’uomo. L’ambiente che li circondava si stravolse in un caleidoscopico turbinare di colori che sfuocavano la scena. Andrew si guardò intorno estraniato, pregando perché ciò che stava accadendo fosse solo un brutto sogno, compresa la morte di sua madre. Ma quando quel vortice si placò la realtà fu peggiore di quanto avesse mai potuto concepire nel più terribile dei suoi incubi. La piazzetta, tante volte teatro dei loro giochi, era semidistrutta e della fontana non rimaneva altro che la pietra su cui era seduto il soldato. «Lascia andare Lisa! Altrimenti io…» disse Andrew. Bluffava, il suo patetico tentativo di spaventare quegli uomini era completamente inutile, e i soldati scoppiarono di nuovo in una fragorosa risata che faceva eco per i vicoli deserti. «Ragazzino, non farci ridere…vorresti fare paura a noi?» disse un soldato poco distante dalla fontana. Altri uomini continuarono a ridere sguaiatamente e Andrew arrossì. L’unico rimasto imibile alla nuova provocazione era l’uomo seduto sulla fontana, immobile nella sua posizione minacciosa. Gli altri soldati, constatando ciò si bloccarono tornando in silenzio. Il soldato seduto guardò dritto Andrew negli occhi e poi parlò: «Non abbiamo intenzione di far male a nessuno, voi due non ci interessate di certo, ma sono sicuro che potrete comunque esserci molto utili per trovare colui che cerchiamo…L’intera popolazione è sospesa in una sorta di stasi temporale
generata dal nostro generale. Collaborate e vi prometto che nessuno si farà male e che tutti gli abitanti torneranno alle loro patetiche attività di tutti i giorni…» disse freddo. Andrew capì all’istante che la persona ricercata era Dovan. In vita sua non si era mai trovato di fronte ad un bivio così drastico: per salvare Dovan avrebbe certamente segnato per sempre il destino di Lisa, ma nel salvare la ragazza e la popolazione, avrebbe condannato il maestro del suo migliore amico. «Ragazzino, non abbiamo tutta la giornata per farti decidere…» disse ad un tratto l’uomo seduto che serrò ancor di più la stretta attorno al collo di Lisa. Andrew deglutì a forza, come se stesse ingoiando una mela intera e poi parlò. †
Dovan vagava per i moli deserti: aveva scrutato lungo tutte le banchine, spingendosi anche nella zona del porto vietata ai civili, ospitante una guarnigione della flotta imperiale, ma con esito sempre negativo. Aveva sperato di incontrare almeno qualche pescatore o qualche fuggiasco in preda al panico, ma le sue aspettative erano state deluse. “Chissà come se la staranno cavando i ragazzi…” si chiese ad un tratto, soffermandosi a ripensare agli eventi della mattinata. Più osservava ciò che lo circondava, meno si convinceva che fosse congruente alla realtà della situazione: dove erano finite tutte le persone che aveva visto fuggire dai Canali Rapidi in preda al panico? Dov’erano le tracce delle numerose esplosioni che avevano avvertito? Dovan continuò a vagare per il molo, indeciso su ciò che avrebbe dovuto fare, arrivò alla piccola spiaggia in cui era stato ritrovato il mercante la mattina precedente e in preda al nervosismo che stava aumentando dentro di sé, sferrò un calcio ad un sasso, facendolo andare a cadere dritto in acqua e producendo qualche increspatura. Si voltò per un attimo, ma il suo udito acuto lo fece voltare di nuovo, giusto in tempo per osservare la stessa scena a cui poco prima aveva già assistito incredulo Andrew. Dovan non necessitò però di ripetere più volte l’esperimento per capire che la cosa era allarmante. Quella che aveva davanti agli occhi era una gigantesca illusione che impediva, a lui e ai suoi ragazzi, di vedere la realtà delle cose.
Dovan ponendo le mani sugli occhi e sussurrando realverto, fu a sua volta investito da una moltitudine turbinante di colori. Dopo il disorientamento che caratterizzò la rivelazione, Dovan sgranò più volte gli occhi, sorpreso dallo spettacolo che gli si presentava. Metà di Selthon portuale andava a fuoco, mentre l’altra era stata dilaniata dalle numerose esplosioni. Un’illusione enormemente potente aveva coperto l’intera città. Impossibile per qualunque mago umano generare qualcosa di altrettanto potente in così poco tempo. L’uomo si maledisse più volte per aver lasciato che i suoi allievi venissero con lui e per non aver scorto da subito il pericolo: il grande maestro Dovan aveva dunque fallito, lui che era sempre stato considerato lungimirante, stava rischiando la vita di coloro che per primi non ci avevano pensato due volte a salvare la sua. Senza una precisa meta verso cui dirigersi, si diresse verso i quartieri popolari, sperando di incontrare Andrew e Lisa. Ad un tratto, mentre camminava con o spedito verso il Viale Azzurro, si sentì chiamare da poco dietro di lui. Dovan si girò e con sua sorpresa vide a terra con una gamba imprigionata da alcune pesanti macerie e seminascosto da polverose assi di legno vi era il padre di Greg. «Signor Oltan, cosa le è successo?» chiese preoccupato precipitandosi accanto al malcapitato. «Stavo correndo verso casa mia quando un’esplosione mi ha sorpreso alle spalle e sono stato sommerso dai detriti. Sono riuscito a liberarmene, ma la mia gamba è rimasta incastrata tra queste pietre e non riesco ad estrarla» disse in tono concitato che poco lasciava all’immaginazione la sua sofferenza. «Le assicuro che, per una volta, sono stato fortunato nella sfortuna: gran parte della popolazione presente all’arrivo del Cancelliere è stata…non so come spiegarglielo…ho visto solo, di nascosto che il Cancelliere dava ordine a quei nareniani perché tracciassero un enorme cerchio in mezzo alla Piazza dei Moli da cui poi hanno fatto scaturire un sinistro bagliore per poi farvi sparire via via le persone. La prego maestro Dovan, mi aiuti lei deve…», Dovan divenne per un attimo bianco in viso, l’altro, notando la reazione, si corresse e il tono divenne quello di una preghiera «Ci aiuti». La situazione era critica ed il tempo stringeva. Dovan non aveva mai provato molta simpatia per il padre del suo allievo, benché lo rispettasse molto come uomo, per l’affetto che lo legava al ragazzo. Lo stesso si poteva dire per il signor Oltan, che, per un attimo, gli si era rivolto
con una deferenza che aveva scordato da tempo. Chiuse gli occhi e concentrandosi, fece uso dei suoi poteri mentali per rimuovere le macerie. I sassi si alzarono, fluttuando nell’aria per andarsi poi a depositare a pochi metri da loro. La gamba del signor Oltan era gravemente ferita e Dovan scorse chiaramente, dopo il sollievo iniziale, la smorfia di dolore sul volto dell’uomo. Dovan decise quindi di fare di nuovo ricorso alla magia, impose le mani sulla brutta ferita e, mormorando le parole dell’incantesimo aen, la rimarginò, facendo scomparire la piega di dolore dal volto del padre di Greg. «Ha usato la magia per aiutarmi?» chiese perplesso con grande sollievo. «Sì signore…le mie arti magiche che lei tanto castiga e critica le hanno appena salvato la gamba da una sicura amputazione. Spero che sarà convinto, adesso, che la magia è altamente positiva e che nell’apprendistato che sta seguendo Greg non ci sia niente di male…» disse Dovan mentre aiutava Oltan ad alzarsi. L’uomo però scosse la testa. «Io non ho mai detto di essere a sfavore della magia nella sua totalità, dico soltanto che non vorrei che Greg seguisse questa strada. Lei non capisce, ma deve credermi. Non voglio che lei pensi che io sia una persona egoista ed insensibile, cerco solo di scegliere il bene per mio figlio. La mia contrarietà ha delle ragioni ben precise, ragioni che vanno di là degli interessi monetari o dell’imporre a mio figlio la mia stessa carica». La voce dell’uomo assunse un tono triste e malinconico che Dovan colse e ma che non riusciva a capire. Il signor Oltan trasse un profondo sospiro e dopo qualche istante di pausa, disse a mezza voce, quasi con paura di essere udito da qualche estraneo: «C’è una cosa che lo riguarda e di cui nessuno è tutt’ora a conoscenza tranne me e mia moglie» si interruppe di nuovo, lo sguardo fisso sul terreno. «Greg non è mio figlio».
† «Greg non è mio figlio» ribadì il signor Oltan una seconda volta.
Dovan non rimase stupito da quella rivelazione. Se sgranò gli occhi era perché si trattava della conferma che il momento di affrontare ciò a cui era stato da tempo destinato era ormai giunto. Scelse però di mantenere un atteggiamento di sorpresa: non sarebbe stata una buona idea mettere al corrente il signor Oltan di ciò che sapeva. Oltretutto aveva ancora bisogno di ulteriori conferme dalle altre sue fonti. Se oggi si fosse risolto tutto al meglio, pensò, avrebbe significato il cambiamento di un sacco di cose nella vita di quel ragazzo. E anche nella sua, si ritrovò ad aggiungere in seguito. «Ma Greg lo sa? Voglio dire, sa che lei e sua moglie non siete i suoi veri genitori?» Oltan scosse la testa. «No, non sa niente» confermò. «Ma almeno lei sa chi sono il padre e la madre di Greg?» Il signor Oltan si sedette su una catasta di legna poco distante: aveva sempre sperato di non dover mai dire ciò che aveva visto a nessuno e sperava che Greg non fosse mai venuto a sapere le circostanze in cui era stato trovato, almeno per il suo bene. Il volto dell’amministratore in capo di Selthon portuale era la personificazione dello sconforto e dell’infelicità. Per la seconda volta, prima di parlare, trasse un profondo sospiro. «Diciassette anni fa stavo intraprendendo il mio primo viaggio come amministratore selthoniano presso le Isole Feree, con il compito di verificare l’efficienza di alcuni giacimenti di Varnelio. Il viaggio d’andata andò benissimo: il tempo era splendido e l’Oceano era liscio come l’olio. Al momento di ripartire però il comandante della nave su cui ero imbarcato per tornare a Selthon era molto indeciso sul possibile posticipo della partenza al giorno dopo, vista la brutta perturbazione in avvicinamento da nord che portava con sé i gelidi venti artici. Il carico era però troppo urgente per ammettere un ritardo di consegna, così fummo costretti a prendere il largo benché le condizioni climatiche ci fossero avverse. Come aveva previsto il capitano, la notte si abbatté sull’Oceano Centrale una terribile tempesta, con potentissime raffiche di vento pungenti e gelide come pugnali di ghiaccio. Miracolosamente riuscimmo ad arrivare in vista delle Torri di Cristallo, ma dopo l’attimo di sollievo procuratoci da quella vista familiare ed amata, il capitano commise un grave errore che segnò il destino dell’imbarcazione e dei suoi eggeri». Si fermò un attimo estraendo dal taschino un fazzoletto con cui si asciugò la fronte.
«La chiglia della nave fu danneggiata dagli scogli affioranti durante la bassa marea e la stiva fu immediatamente invasa dalle acque. In quel preciso istante mi trovavo là sotto e con molta fatica riuscii a trascinarmi alle scale che portavano sul ponte. Con orrore mi accorsi che le scialuppe erano a loro volta danneggiata e che non vi era traccia di nessuno dei componenti dell’equipaggio. Appellandomi a tutto il mio coraggio mi buttai in acqua, nella speranza di riuscire a tornare a nuoto a riva. Da quel preciso istante in poi ho dei lunghi momenti di vuoto di cui non ricordo assolutamente niente, tranne alcune frasi che ogni tanto affiorano alla memoria e una grande luce abbagliante che squarciava le nubi. Quando ripresi conoscenza di ciò che mi era accaduto mi ritrovai su una spiaggetta poco frequentata, non molto distante dai moli, con in braccio ciò che dopo una veloce occhiata mi rivelò essere un bambino placidamente addormentato. In quel momento balenò in me la sensazione, o il ricordo, di una voce che mi comandava di occuparmi di quel bambino fino a che non avesse voluto intraprendere lo studio delle arti magiche. Allora vi prestai poca attenzione: ero giovane e pieno di speranze, vedevo quel bambino come un dono di Leviathan a me e a mia moglie dopo il suo aborto spontaneo e la diagnosi implacabile dei medici che avevano constatato il fatto che non avrebbe potuto mai più avere figli. Quando qualche mese fa Greg, il mio Greg, il figlio su cui avevo fatto mille progetti al fine di assicurargli una vita di prestigi e onori e che tanto avevo amato, dimostrò lo spiccato interesse di apprendere le arti magiche. Immagini, maestro Dovan, come io mi debba esser sentito in quel momento: tradito, ma anche conscio che niente sarebbe più stato come prima. L’avevo visto crescere felice e spensierato e più che il tempo ava, più mi convincevo che le voci che ogni tanto ricomparivano nei miei pensieri non si trattassero altro che del frutto della mia immaginazione dopo la sciagura a cui avevo assistito.» sospirò, con un tono così basso e sconfortato da renderlo ancora più misero. «Solo adesso mi rendo conto di quanto sia stato egoista e sciocco da parte mia oppormi a qualcosa che neanche posso capire. Ho visto con i miei occhi il subdolo comportamento di Samarlec e ho scorto quanto profonde possano essere in lui le radici del tradimento. Desidero che da ora in poi sia lei a seguire Greg, maestro Dovan, ovunque e comunque, qualsiasi cosa il suo destino lo porti a compiere». Dovan, rimasto in silenzio per tutto il lungo discorso del signor Oltan, sorrise benevolo e con voce tranquilla rispose:
«Ne sarei onorato signor Oltan». Poi la sua espressione si fece d’un tratto seria e contratta quando aggiunse: «Non c’è un minuto da perdere adesso. Dobbiamo rintracciare Greg e gli altri ragazzi per decidere sul da farsi. Le sue conoscenze sull’attuale situazione estera mi sarebbero molto preziose signor Oltan se volesse farmi la cortesia di seguirmi». Il Signor Oltan annuì e senza pensarci due volte seguì Dovan che a corsa si stava dirigendo verso i quartieri popolari.
†
Greg cadde a terra ansimando: il suo colpo aveva avuto tutt’altro che l’effetto sperato. Il demone aveva infatti deviato l’attacco infertogli contro lo stesso Greg, bruciandogli parte dell’uniforme che ancora indossava e gettandolo a terra. Lord Astaroth esplose in una fragorosa risata che echeggiò tra le macerie, deridendo così quel patetico tentativo. «Bel tentativo ragazzo, peccato che contro di me i miseri incantesimi del tuo maestro non abbiano molto successo». Greg strinse la polvere in un pugno per la rabbia e si voltò verso il demone, al colmo della collera. Mai aveva sentito l’odio divampare tanto nel suo petto, neanche quando lottava accanitamente contro Mark. Sentiva di essere prossimo a perdere il controllo di sé, ma questa volta non era dovuto al potere psichico di chi gli stava di fronte imibile, ma a qualcosa che gli proveniva dal petto e che da lì si irradiava a tutto il corpo. Pochi istanti dopo Greg, come da lui presagito chiaramente, perse i sensi, sovrastato da una rabbia bruciante: poco sotto il suo cuore e poco prima che perdesse i sensi era comparsa, per poco meno di un istante, una luce azzurra, resa visibile dalle bruciature presenti sulla maglia. La luminosità crebbe improvvisamente, fino ad avvolgere completamente Greg, nascondendolo così alla vista dell’aggressore. Il ragazzo, fino a pochi istanti prima, non aveva dimostrato di possedere grandi poteri magici, probabilmente perché aveva cominciato da poco il suo apprendistato. Ad un tratto la grande luce che avvolgeva Greg saettò verso il cielo forando le nubi. Lord Astaroth riaprì gli occhi, dopo esserseli coperti per non abbagliarsi. Per l’ennesima volta in una sola giornata si stupì di ciò che vedeva. E ciò, doveva ammetterlo, avveniva molto raramente.
Greg, apparentemente privo di sensi, galleggiava, eretto, a mezz’aria, il volto chino nascondeva la sua espressione. Il demone gli si avvicinò incuriosito, pochi istanti prima che alzasse la testa per fissarlo dritto negli occhi. «Non è possibile! Tu non puoi essere ancora in forze, il tuo debole e fragile corpo non può sostenere tutta questa energia!» Gli occhi di Greg rilucevano dello stesso bagliore azzurro che lo avvolgeva e sembravano privi di qualsiasi espressione o turbamento. L’espressione sconvolta che fino a qualche istante prima aveva segnato il suo volto era adesso scomparsa per lasciare il posto ad un’aria distesa e pacata: niente sembrava poter turbare l’animo del ragazzo, neppure la presenza oscura a pochi i da lui. Ma, mentre il corpo di Greg in quegli istanti era sospeso in un’innaturale trance rilucente di azzurro, la sua mente turbinava di pensieri, pensieri di cui lo stesso Greg non era a conoscenza, annegati nell’oblio e che il potere psichico di Lord Astaroth aveva inconsapevolmente risvegliato. La sua mente attraversava vortici multicolore, alla ricerca di ciò che neanche il potere di quell’essere era riuscito ad estirpargli. Finalmente dopo istanti che gli parvero ore, durante i quali la sua mente aveva nuotato nei meandri della sua psiche, trovò la luce dorata. Gli si avvicinò cautamente, riuscendo così a distinguere la fonte della luce. Con sua sorpresa scoprì che si trattava di uno scrigno, un piccolo cofanetto. Improvvisamente si sentì scendere a terra, trovandosi sul basamento su cui poggiava il cofanetto. L’ambiente circostante cambiò nello stesso istante in cui poggiò i piedi. Lo scrigno sparì e si ritrovò in una sala immensa, più grande di qualsiasi stanza che mente umana potesse concepire, le pareti erano di cristallo, tali che era possibile osservare il mondo esterno. Niente di ciò gli era minimamente familiare, finché sentì, a pochi metri da lui, i vagiti di un bambino. Si avvicinò, spostandosi con fatica attraverso lo spazio circostante, fino a raggiungere una culla finemente decorata nella quale era adagiato un neonato. Greg gli si fece accanto, incuriosito da quella visione, a lui così estranea ma anche così familiare. Qualcosa di intimo e inconscio gli diceva di conoscere quel bambino. Il neonato, notando la sua presenza, sembrò calmarsi, quasi lo considerasse una figura familiare. “E’ impossibile” si disse Greg, “chi è questo bambino, perché è qui da solo?“ Da dietro di lui emerse una voce che lo scosse profondamente.
«Salve Greg, ti attendevo con impazienza». Greg si voltò di scatto, improvvisamente abbagliato dalla lucentezza dell’essere che gli era davanti. «Chi sei?» «Sono Shadriel, Dama della Luce Angelica e una dei quattro reggenti di Mideroa. È ato molto tempo dall’ultima volta che ci siamo visti, piccolo mio, eri appena in fasce allora, ma i tuoi occhi sono rimasti gli stessi». L’essere diminuì il proprio splendore per consentire a Greg di vederlo: sgranò più volte gli occhi per cogliere appieno la sfolgorante bellezza della donna. Il volto, roseo e delicato, era incorniciato da una lunghissima chioma di capelli dorati; ma furono gli occhi a stupire profondamente Greg: non erano umani, nessuno poteva averli a quel modo, erano grandi e luminosi con l’iride dorata. Non poteva essere uno degli “Altissimi”, erano solo leggende quelle. Le sue vesti erano candide ed orlate riccamente d’oro. Ampi veli fluttuavano intorno alla sue esili braccia, mentre una corona a prima vista fatta di luce pura le cingeva la testa, conferendole così un aspetto maestoso e regale. «Dove mi trovo? Fino a pochi istanti fa ero…». «Eri in difficoltà, nel tentativo di fronteggiare un essere ancora troppo potente per le tue possibilità. Purtroppo il tempo è contro di noi e non posso chiarire tutti i dubbi che assillano in questo momento la tua mente, ma posso almeno mostrarti una parte del tuo ato» disse soavemente la creatura. «Siamo in un ricordo?» «Sì, Greg. Non devi stupirti se ciò che vedi non ti è chiaro o non ti è affatto familiare. Non avevi che pochi giorni quando il glorioso impero cadde» il suo volto si incupì, la luce che esso emanava sembrò diminuire, «Ci fu permesso di vedere in te l’unica speranza di salvezza per la tua gente e per il mondo intero. La lungimiranza di ciò che vedemmo ci portò a scorgere fatti però troppo remoti e posteriori al presente dove ti trovavi e quindi fummo costretti, dall’amore che ci legava al tuo mondo e alla tua gente, a fare una sola cosa: prima che la cristallina Dastama scomparisse tra i flutti dell’Oceano centrale ti sottraemmo alla distruzione e ti portai in salvo». Greg le voltò le spalle per chinarsi verso il bambino, senza parole per ciò che la dama gli aveva appena rivelato e troppo
scosso per rivolgerle altre domande. Quegli occhi verdi scuri, gli erano familiari, fin troppo familiari e non fu affatto stupito di ciò che pochi istanti dopo gli disse la dama. «Sì Greg, quel neonato sei tu». Greg carezzò affettuosamente il bambino e la domanda gli venne spontanea alle labbra: «E i miei genitori? Intendo, quelli veri?» «Come tutti gli uomini, seppur dopo una lunga esistenza, morirono. Sappi però che non smisero mai di pregare per te e di rivolgere a te ogni loro pensiero». Disse mestamente la Dama. «E i miei genitori adottivi lo sanno?» «Sì, colui che chiami padre era quasi a totale conoscenza del tuo ato, ma giurò diciassette anni fa di non rivelarti niente prima che fosse giunto il momento adatto e noi sigillammo quasi del tutto la sua memoria. Quel giorno è infine arrivato, ma sono stata io a rivelarti la verità. Noi Angeli Dorati sigillammo la parte più remota anche della tua memoria nello scrigno che hai visto poco fa e che sì è aperto per il tuo volere. Non posso dirti ancora tutto sul tuo compito, sarebbe un fardello troppo pesante da portare. Ti aspetta un lungo viaggio che per fortuna non affronterai da solo, durante il quale tutto ti verrà chiarito. Incontrerai sofferenza, vedrai più in profondità di quanto noi potremmo fare, ma alla fine sarai pronto per restituire a questo mondo e a noi la libertà. Mi rammarico di non aver a disposizione più tempo per parlarti, ma è venuto il momento in cui ci dobbiamo lasciare di nuovo. Questa volta il mio cuore è tranquillo, sapendoti grande e forte. Ma devo metterti in guardia: Lord Astaroth è potente, ma come tutti i demoni teme la luce, soprattutto quella che sei stato in grado di sprigionare e che ti ha portato fin qui. Il tuo maestro ti sarà di grande aiuto nella tua missione: tra noi Angeli è conosciuto come un amico ed è stato istruito alle nostre arti. Con lui sarai sempre al sicuro». «No, ti prego, non sparire, devi spiegarmi ancora molte cose. Ti rincontrerò prima o poi?» disse Greg con enfasi, correndole incontro mentre, come trasportata dal vento, si allontanava velocemente. La Dama sorrise, congedandosi così da Greg. Nei pochi istanti in cui rimase visibile sussurrò le ultime e dolci parole: «Non potevo sperarti in mani migliori,
piccolo mio». Il salone cominciò a dissolversi e a turbinare intorno al ragazzo, rendendolo consapevole del suo ritorno alla realtà. Dall’esterno il suo corpo ebbe un fremito e Lord Astaroth, rimasto immobile ad osservarlo, indietreggiò. «Se pensi che resistere ai miei colpi più di molti dei tuoi simili possa farmi paura ti sbagli, mi fa solo capire di dovermi impegnare di più» disse il demone. Quelle parole gli suonarono strane, dentro di lui stava crescendo una strana sensazione, fino allora ignota. «No, io non voglio farti paura. Soltanto i subdoli come te usano questi mezzi per distruggere le persone. La luce mi guida e mi protegge, il tuo potere non può farmi del male». Detto ciò, si avvicinò a Mark e, rincuorato dal fatto che respirasse ancora benché con un ritmo molto debole, concentrò nelle sue mani quella luce azzurra che gli nasceva dal petto. Le pose sulla sua fronte e lasciò che la luce gli illuminasse il volto, per poi scomparire. Istantaneamente il respiro di Mark tornò regolare e il ragazzo aprì gli occhi, sorpreso come dopo il risveglio da un lungo incubo. Greg gli sorrise per poi rimettersi in piedi, deciso ad occuparsi dell’essere che impietrito aveva continuato ad osservare le sue azioni. «Pensi davvero di essere in grado di ferirmi con il tuo potere? Sarai anche stato in grado, chissà come, di riportare in sé il tuo amico, ma ci vuole ben altro per annientare me!» disse furente il demone indietreggiando. «Hai distrutto parte della mia città, rapito il mio maestro, provato a distruggere la mente del mio amico. Niente di quello che hai fatto è giustificabile, in nessun modo!» il tono della voce di Greg divenne alterato, la rabbia cresceva di nuovo in lui. Per la seconda volta il ragazzo si sollevò da terra e le spirali blu, che si levavano alte nel cielo, lo avvolsero come un serpente si contorce nelle sue spire. I suoi occhi risplendettero di innaturali bagliori azzurri: sentiva di avere in sé qualcosa di estraneo e del tutto ignoto alla ragione umana, quasi come se un altro essere gli stesse offrendo l’opportunità di attingere liberamente alla sua immensa energia. Obbedendo a ciò che la sua mente e forse qualcos’altro, gli comandava, congiunse insieme le mani, esplodendo verso il demone una sfera di incredibile potenza distruttiva che provocò una deflagrazione. Mentre l’area circostante veniva invasa da un accecante bagliore azzurro, Greg si lasciò
andare a terra esausto, felice di aver salvato la propria vita e quella dell’amico; quel colpo l’aveva privato di tutte le sue energie e prima di svenire per l’incredibile sforzo a cui era stato soggetto, sorrise, ripensando a quanto aveva desiderato una vita avventurosa e rassicurato dal ricordo della dolce Dama e delle sue parole.
Capitolo VII
Il viaggio ha inizio
Dovan si bloccò improvvisamente: aveva percepito un’incredibile energia divampare qualche secondo per poi sparire. Guardò il cielo appena in tempo per vedere una saetta azzurra che saliva ad una velocità impressionante nel cielo per poi scomparire tra le nubi. «Cos’è stato quel prodigio?» chiese il Signor Oltan che nel frattempo l’aveva raggiunto. «Credo di non sbagliarmi se dico che era opera di Greg. Quel ragazzo è una continua rivelazione» rispose, aggiungendo un sorriso. Non c’era alcun dubbio: quella era l’energia vitale di Greg, solo che sembrava troppo oltre i livelli magici perché fosse un evento che poteva dirsi “naturale". Poco dopo ebbe un cattivo presentimento: perché non aveva incontrato nessuno a sbarrargli la strada? «Dobbiamo raggiungere Greg. In questo momento potrebbe aver bisogno di aiuto e non vorrei che gli accadesse…» sussultò un attimo: aveva avuto la netta sensazione che qualcosa gli avesse appena sfiorato la spalla. Poco dopo la ebbe di nuovo e, incuriosito, si voltò verso un interrogativo signor Oltan che lo osservava senza aprir bocca. Avvertì un terzo tocco e questa volta fu seguito da un sussurrò che gli fece gelare il sangue: «Urlerai, chiederai aiuto senza che nessuno ti possa udire ed implorerai il perdono del nostro padrone, il vero Signore del Mondo…». Dovan ruotò su se stesso ad incredibile velocità, nel tentativo di afferrare chi o cosa aveva appena detto quella frase blasfema ed impronunciabile, ma ciò che le sue mani agguantarono fu solo aria. «Povero illuso, tu tenti forse di opporti a
noi, esseri da un potere così grande che tu solo lontanamente potresti concepire?» ripeté poco dopo la voce con pungente sarcasmo.«Se dite di essere potenti oltre l’immaginabile, perché siete così restii a comparire e ad affrontarmi in un combattimento leale? Avete paura?» disse Dovan con il suo solito tono calmo e pacato che non tradiva le sue sensazioni. Un coro di risate riecheggiò per il molo: sembrava provenire da tutte le direzioni come da nessuna e Dovan così disorientato attese la nuova mossa dei suoi assalitori. «Vede maestro Dovan, non le conviene usare questo tono con noi… O per meglio dire, non le converrebbe se avesse così cara la vita dei suoi allievi…» «Bastardi, mostratevi adesso!» mormorò Dovan mentre faceva allontanare prudentemente il signor Oltan e scioglieva la giacca che, in caso di scontro con gli assalitori, gli avrebbe senz’altro impacciato i movimenti. Come poco prima era avvenuto davanti agli occhi attoniti di Andrew, apparvero, non distante da Dovan, delle ombre nere che a poco a poco si delinearono fino ad assumere i contorni e le sembianze di un piccolo manipolo di guardie in tenuta da combattimento. Non ebbe il tempo di osservare le possibilità che gli si prospettavano innanzi che lo raggiunse una dolorosa fitta al cuore che lo fece sussultare: con suo profondo rammarico constatò di persona che quelle voci non stavano affatto fingendo, come aveva sperato in un primo momento, sui presunti ostaggi che dicevano di aver catturato. Accasciati a terra ma, con suo piccolo sollievo, in buone condizioni, vi erano i quattro ragazzi che tanto eroicamente avevano preso parte alla missione. Si maledisse mentalmente per la sua avventatezza nel mettere a rischio la vita di ragazzi così giovani, soprattutto la vita di colui che aveva il compito di proteggere più a lungo possibile. Con voce carica d’ira si rivolse ai rapitori: «Ebbene, parlate adesso, cosa volete?» Uno di quelli alto ed autoritario si fece avanti, raggiunse Dovan e gli si parò davanti incrociando le braccia: «Poca cosa a dire il vero. Il tuo silenzio. Tapparti per sempre la bocca. Scegli tu la definizione che preferisci. Hai visto e sai troppe cose che potrebbero guastare i piani del nostro generale e del nostro Signore e non possiamo permetterci di fallire nuovamente nel nostro intento». «Sei libero di scegliere adesso: venire via con noi ed abbandonarti ad una morte veloce oppure voler a tutti i costi fare l’eroe e tentare di affrontarci tutti insieme». «In ogni caso, tu perdi» concluse asciutto e senza sfumature che
lasciassero trasparire la crudeltà di quelle parole. Dietro di lui si alzarono delle risa di scherno nei confronti di Dovan: alcuni speravano di concludere al più presto la missione, altri desideravano far assaporare alle loro armi il sangue del maestro. Dovan decise di mantenere il sangue freddo, cercando di guadagnare tempo: «In ogni caso, loro» indicò i ragazzi «verranno liberati, non gli accadrà niente, vero?» Benché volesse are da ingenuo con le guardie non lo era affatto: gli occorreva del tempo, se voleva salvare la vita dei ragazzi. Sapeva benissimo che quegli uomini, una volta ottenuto ciò che desideravano, la sua vita, non avrebbero esitato per un istante ad infliggere la medesima condanna anche ai suoi allievi. Aveva da così poco preso coscienza dell’inizio della sua vera missione che già era sul punto di mettere in crisi tutto il piano. Aveva fatto un errore di valutazione imperdonabile, adesso stava solo a lui risolverla e, ovviamente, doveva farlo più in fretta possibile. L’uomo sembrò soppesare per un attimo la proposta del maestro e poco dopo, sfoggiando un falso sorriso disse «Certamente…Lord Astaroth è benevolo…» Doveva soltanto concentrarsi, aveva combattuto e vinto battaglie ben più disperate, ma questa volta non era da solo a dover combattere, sentiva una grande responsabilità gravare sulle proprie spalle e non poteva fallire. «…con chi si rassegna al destino ed è pronto…» Ancora pochi istanti e avrebbe raccolto l’energia necessaria per liberarli. «…a esaudire questa tua richies…». Il soldato non fece in tempo a concludere la sua beffarda risposta che un fendente inferto da un’incredibile spada di luce fece svanire uno dei soldati che gli stava vicino, riducendolo a poco più di un cumulo di polvere; la risata di scherno che fino a poco prima faceva bella mostra sul volto di quegli uomini spietati, era adesso scomparsa per lasciare il posto ad un’espressione contratta dal terrore. «Adesso non fate più gli spavaldi, eh? Se non volete fare l’indecorosa fine del vostro compagno, vi conviene lasciare liberi i miei allievi, altrimenti la mia lama non avrà pietà di voi». Risero in coro. «Sei disarmato e nessun mago riesce a far comparire dalla propria manica una spada!» disse uno di loro. Dovan,
incurante della nuova provocazione, tese il braccio sinistro in avanti facendo loro segno di avanzare mentre con il destro impugnava la formidabile spada luminosa apparentemente costituita da sole fiamme dorate che avvolgevano l’elsa e la lama. Non era incredibilmente lunga ma era ugualmente qualcosa di portentoso, tanto che i sorrisi beffardi che ancora facevano bella mostra sui volti dei soldati, sparirono in un attimo. Terrorizzati i rapitori preferirono darsi alla fuga piuttosto che essere destinati a morte certa. Dovan, mormorando di nuovo qualche parola, fece sì che le fiamme dorate si dissolvessero. Sì avvicinò quindi ai suoi allievi e, con stupore, si accorse che dei quattro solo Greg era ancora apparentemente svenuto mentre gli altri, durante quei minuti di tensione, avevano riacquistato i sensi. Aiutò i suoi allievi ad alzarsi, poi li abbracciò i suoi allievi ancora intontiti dagli avvenimenti; fu Lisa a parlare per prima, in tono concitato e confuso, accavallando le parole: «Maestro, cosa è successo? Chi erano quegli uomini?Andrew ed io stavamo perlustrando il quartiere popolare quando, quasi come se stessi sognando, mi hanno fatto perdere i sensi» la ragazza gettò le braccia al collo di Andrew e spaventata continuò: «Oh Andrew, pensavo che ti fosse successo qualcosa di terribile!» il ragazzo arrossì ma si lasciò abbracciare, anche lui aveva avuto un grosso spavento quando aveva visto l’orribile l’illusione della morte di sua madre. Andrew e Lisa si guardarono intorno e notando lo strano stato in cui si trovava l’amico dissero: «E Greg? Cosa gli è successo?» «Stavamo percorrendo la strada per raggiungere il quartiere borghese quando da Greg e io siamo stati incuriositi da una strana apparizione dietro ad un basso muro: il signor Oltan era disteso a terra legato ed imbavagliato e nello stesso istante in cui Greg si è chinato per liberarlo è successo qualcosa di mostruoso» Mark rabbrividì nel ricordarlo. «Prima si era contorto in modo grottesco e spaventoso fino ad assumere le sembianze di un essere con lunghe protuberanze ossee che gli sputavano dal cranio ossuto e scavato dal quale fiammeggiavano però un paio di occhi terribili e dall’iride completamente bianca. Quell’essere mi ha guardato dritto negli occhi ed in pochi secondi mi ha annebbiato la mente, dandomi la terribile illusione di cadere nel vuoto infinito e senza fondo. Era terribile: potevo udire
ciò che succedeva accanto a me ma non potevo fare niente per assistere Greg ed aiutarlo a fronteggiare quel, quel…» gli occhi di Mark stavano rivivendo qualcosa che non poteva paragonarsi nemmeno al peggiore dei suoi incubi. «Demone, prego. Così amiamo definirci nel nostro mondo» disse una voce gelida alle loro spalle. Dovan si voltò di scatto, riconoscendo a sua volta gli occhi eterei dell’essere che aveva visto ore prima nel sottocoperta della Darlidan. «Per troppo tempo voi uomini avete dimenticato la nostra esistenza, ma è quasi giunto il momento in cui io ed i grandi Lord miei pari potremo di nuovo camminare sulla terra che ci appartiene di diritto e che voi deboli umani ci avete usurpato». «Cosa sta dicendo? Ha sbattuto la testa?» bisbigliò Andrew incredulo. «No, purtroppo. Sta dicendo il vero. Questi erano gli esseri che per millenni hanno costretto la razza umana alla schiavitù finché dai cieli non giunsero coloro che ci restituirono la libertà» mormorò Dovan in risposta. «Se vogliamo metterla in questi termini…Non ho comunque molto tempo da sprecare per raccontarvi tutta la storia, molte cose devono essere portate a termine e voi mi siete di grosso intralcio. Se non fosse stato per quel ragazzo a quest’ora, maestro, la tua anima starebbe già precipitando nel vuoto. Non è comunque cosa grave, è un errore a cui potrei porre subito rimedio…» Il demone sovrappose le mani ed, istantaneamente, scie di nera energia si condensarono in una grossa sfera che pulsava e palpitava tra le sue dita pallide ed ossute. Dovan si parò davanti ai suoi allievi, ma Lisa e Mark gli furono ugualmente accanto, decisi a proteggere loro stessi e gli altri compagni dall’attacco del nemico. Come in un sol gesto il terzetto alzò la mano destra all’altezza del petto per poi congiungerle: istantaneamente, davanti ai loro occhi, si alzò una barriera luminosa che si irradiava dai palmi delle loro mani e che li avvolgeva. In un attimo, Lord Astaroth scatenò un’energia oscura di incredibile potenza distruttiva, nel finale intento di distruggere gli unici testimoni del suo parziale fallimento, incluso lo strano ragazzo che, sebbene adesso gie privo di sensi al suolo, pochi minuti prima l’aveva sorprendentemente battuto. L’impatto con
la barriera innalzata fu terribile e generò una potente onda d’urto che la fece pericolosamente vacillare. Il volto di Dovan era solcato da gocce di sudore mentre Mark e Lisa mostravano pesanti segni di cedimento; il maestro si voltò preoccupato verso di loro, constatando con preoccupazione che i loro poteri sarebbero venuti rapidamente a mancare. Non fece appena in tempo a finire di formulare il pensiero che sentì la mano di Lisa perdere la presa, seguita poco dopo da quella di Mark: in un disperato tentativo di proteggere i suoi allievi Dovan congiunse entrambi i palmi delle mani per rafforzare la precaria barriera ma l’esperto maestro era purtroppo cosciente del fatto che ben presto anche le sue energie sarebbero venute a mancare e la loro fine sarebbe stata a quel punto, inevitabile. Scorse, per un fugace secondo, gli occhi diabolicamente soddisfatti del demone, la scintilla della vittoria già accesa e pronta ad esplodere. La nera energia che scaturiva dalle sue mani aveva ormai completamente avvolto la barriera, nascondendo persino la vista del Sole. Poteva vedere quei tentacoli oscuri avvolgere progressivamente il suo corpo e quello dei suoi allievi inermi. “Ecco”, si disse Dovan, “è finita, la mia energia è quasi esaurita, non ho tempo di controbattere l’attacco. Ho fallito in principio, prima ancora che potessi assolvere il mio compito“. Stava per abbassare le mani e rassegnarsi ad essere investito dalla spirale oscura quando, inaspettatamente, la sua mano venne afferrata da una forte presa che lo invitava a non desistere. Le due mani si congiunsero e Dovan si sentì pervaso da un’enorme energia ritemprante che avvolse lui, gli allievi e la barriera. La nuova forza che si era sostituita alla barriera magica dissolse il flusso oscuro e, seguendo la sua scia, colpì in pieno petto Lord Astaroth, mandandolo a sbattere contro un muro poco distante da lui. Le due mani si sciolsero e Dovan si voltò sorridendo. Accanto a lui Greg, perfettamente ristabilito, gli restituì il sorriso. «Ce la siamo vista brutta eh?» disse Andrew emergendo da dietro di loro, scrollandosi di dosso ciò che restava di quei tentacoli oscuri che lo avevano avvolto fino a poco prima. Dovan rispose a denti stretti mentre si spolverava la manica della veste. «Temo che non sia ancora finita».
Lord Astaroth si staccò dal muro, dipingendosi sul viso un ghigno disgustoso che rendeva il suo volto ancora più spettrale. «Non temete miei giovani rivali, la battaglia si conclude qui… per adesso. Altri compiti più importanti ed urgenti dell’occuparmi di voi mi attendono… in quanto a te mio giovane e valoroso avversario» si rivolse a Greg «ho la netta sensazione che presto ci rincontreremo. In quell’occasione non sarò così stolto dal lasciarmi cogliere di sorpresa per ben due volte. È una rara fortuna quella che ti ha vegliato ed assistito quest’oggi: guerrieri più anziani e famosi di te sono periti sotto i miei colpi, non posso certo permettere che si sparga la voce che un pivellino come te ha avuto per due volte la meglio su uno dei Pari di…» e qui tacque, mostrando un’espressione interrogativa. «… Ma non è certo questo il momento più opportuno per la gloria personale… Molte cose devono ancora accadere ed il tempo dei miracoli è ormai…» così dicendo fece un leggero inchino e con un plateale ondeggiare dell’ampio mantello damascato, scomparve alla loro vista.
†
«Se non altro adesso è davvero finita» ribadì Andrew qualche istante dopo. Da quando il demone era scomparso dalla scena, nessuno aveva osato dire una parola. Dovan aveva lo sguardo perso nel vuoto mentre sia Greg che Andrew mostravano un’espressione di naturale perplessità. «Come stanno Lisa e Mark?» chiese Dovan poco dopo. «Esausti ma vivi» risposero sorridendo entrambi. «Cosa ne è stato di tutti gli abitanti della città? Sembrano…dissolti nell’aria. Tranne noi non c’è traccia di anima viva per le strade» disse Greg. Da dietro, una voce familiare rispose alla sua domanda: «Non è esatto, figliolo. Io, come vedi, sono qui con voi. Sono rimasto intrappolato sotto un cumulo di macerie per qualche ora mentre l’intera popolazione di Selthon portuale veniva fatta scomparire in una specie di varco all’interno di questa piazza. Poco fa il
maestro Dovan mi ha tirato fuori da quella montagna di detriti e quando è comparso quell’abominio, mi sono nascosto dietro ad un muro». Greg, in un naturale moto d’affetto, corse incontro al padre, abbracciandolo affettuosamente. «Cosa ne sarà di tutte quelle persone maestro? Rimarranno per sempre intrappolate in quel varco?» chiese Lisa allarmata. «No, non ne sono del tutto sicuro ma credo che quel genere di incantesimo richieda un costante contatto mentale e fisico con il luogo in cui è stato eseguito. Lord Astaroth se ne è andato ed entro qualche minuto riappariranno tutti sani e salvi, anche se probabilmente saranno perplessi e stupiti nel vedere la città semidistrutta» commentò amareggiato Dovan. «Penso che tutti dovremmo ringraziare Greg per il suo provvidenziale intervento: senza di lui quella barriera non avrebbe retto alla devastante potenza dell’attacco sferrato dal demone e noi non potremmo essere tutti qui incolumi» continuò, questa volta sollevato. Greg arrossì più vistosamente di quando parlava con Lisa, riuscendo appena a mormorare un «Non ho fatto niente di speciale, ho solo seguito ciò che diceva la mia mente». «No mio caro ragazzo, tu hai fatto molto più di questo. Se solo avessimo il tempo potrei spiegarti l’importanza del tuo gesto, ma ahimè il tempo e anche il luogo ci sono nemici. Samarlec sarà infuriato, non ci penserà due volte a mettere una taglia sulla mia testa per quello che è successo oggi». «Maestro, con tutto il rispetto» intervenne Mark «qui non si tratta solo di lei. Anche a noi sarà riservato lo stesso trattamento se per allora non ci saremo inventati qualcosa». Il signor Oltan si schiarì la voce e con tono calmo ma che lasciava trasparire una nota di gravità disse: «Se mi è concesso parlare, in quanto amministratore in capo delle attività di Selthon portuali, ho un solo consiglio per proteggere l’incolumità di mio figlio e vostra». Trasse un profondo sospiro, quello che stava per dire costava molto alla sua reputazione, ma doveva innanzi tutto pensare al bene di suo figlio. Probabilmente sarebbe finito nei guai con il Cancelliere o con l’imperatore stesso, sarebbe stato processato per alto tradimento, ma ormai troppe cose sembravano testimoniare il velo illecito dietro al quale si muoveva il Cancelliere. Infine si decise a parlare.
«Maestro Dovan, lei ed i suoi allievi, compreso mio figlio Greg, dovrete lasciare al più presto l’impero». Le espressioni degli interessati erano il ritratto dello stupore: quattro di loro si guardavano perplessi l’uno con l’altro, senza sapere cosa pesare di quella proposta, ai loro orecchi, folle, il quinto, Dovan, annuiva. Nessuno di loro aveva mai varcato, tranne il maestro, i sicuri e consueti confini dell’amata patria e l’abbandonarla in un momento di tale gravità faceva loro mancare il terreno sotto i piedi. Dovevano lasciare la loro casa e le loro famiglie, ma solo di una cosa erano certi: non si sarebbero abbandonati l’un l’altro. Il volto di Lisa divenne preoccupato, in tutto quel trambusto non aveva avuto modo di vedere i suoi genitori, di sapere se stavano bene o se era successo loro qualcosa. Il signor Oltan comprese al volo l’insicurezza della ragazza. «Parlerò io ai tuoi genitori e dirò loro di cercare rifugio da qualche vostro parente il più presto possibile, ovviamente tu andrai con loro appena li avremo ritrovati. Avete parenti in qualche altra zona dell’impero che non sia Selthon?» La ragazza annuì debolmente. «Il fratello di mia madre e la sua famiglia abitano a Sygarth, presso le foci del Lör. Credo possano nascondersi là per un po’. Io andrò con suo figlio». Il signor Oltan provò per qualche istante a contraddirla ma la ragazza non vacillò. Alla fine si risolse a dire «Bene» per poi chiederle: «Dove risiedono i tuoi genitori? Mi recherò immediatamente da loro». «Nei quartieri popolari. Deve chiedere di Harlon Mairdaan» rispose lei. L’uomo annuì mentre la ragazza lo ringraziava, poi si voltò in direzione di Mark e di Andrew. «Voi due cosa farete? Fuggirete con le vostre famiglie?» Entrambi fecero cenno di ‘no’ con la testa e il signor Oltan si risolse a chiedere anche a loro se potesse far qualcosa per i loro familiari. Mark fece una smorfia, aggiungendo che nessuno lo avrebbe cercato perché orfano, Andrew pensò un attimo a sua madre e poi rispose. «Non credo accetterebbe mai di fuggire. Crede fermamente che l’impero abbia un debito di sangue con la nostra famiglia» disse alludendo a suo padre. «Vedrò di fare per lei comunque qualcosa, sarà di sicuro conforto anche per mia moglie», rivolse la stessa domanda circa di chi dovesse chiedere e dove. «Anche mia madre abita nei quartieri popolari, deve cercare Flavelia Olinori». Il signor Oltan ebbe un attimo di sussulto, poi si affrettò ad annuire nuovamente. Tutti poi si voltarono verso Dovan: avevano già deciso ma l’ultima parola, in quanto adulto, spettava a lui.
«Penso che sia la cosa più saggia da fare. Oltretutto sarà anche una notevole esperienza per i miei allievi che mi auguro li aiuterà a crescere» disse quindi con tono deciso, nella speranza di dissipare i dubbi dei suoi ragazzi. Greg non sembrava concordare, quel comportamento non era da suo padre. «Padre, come pensi che potremmo lasciare la città? Dove potremmo trovare rifugio?» «Con l’ unico mezzo che vi consentirà di lasciare la costa al più presto possibile, una nave. In quanto al luogo dove vi potreste nascondere, la questione si fa spinosa. Non ho la minima idea di quanto tempo ci vorrà perché la situazione torni ad una parvenza di normalità, soprattutto adesso che stanno per scatenarsi di nuovo i venti di guerra». Dovan intervenne. «Per adesso ci rifugeremo a Renodia. Là sono sicuro di poter intercedere favorevolmente presso il re Avoran e la regina Talandria. Nel frattempo però ci aspetta un duro compito: dovremo scoprire cosa si nasconde dietro la farsa del Cancelliere. Non ne sono pienamente sicuro ma credo di poter risalire a qualcosa di ben più grosso di ciò che apparentemente ci viene mostrato o fatto intendere. Tornando adesso al problema del mezzo di trasporto: dove troviamo una barca abbastanza veloce e maneggevole da consentirci una fuga veloce e agevole verso il Regno Silvestre?» Gli occhi di Andrew si illuminarono di un bagliore di soddisfazione e vittoria che proruppero in un grido di entusiasmo: «Prenderemo la Darlidan. Nessuna nave della flotta imperiale, neanche il Pentamarano, sono capaci di tenerle testa in quanto a velocità. Quella nave è un vero gioiello, vanta una maneggevolezza senza pari, le vele sono fatte di un materiale speciale che può renderla invisibile a ogni tentativo di individuazione, persino…» Greg interruppe Andrew, pregandolo di evitare di slanciarsi di nuovo nella descrizione delle mirabolanti prestazioni del vascello. Dovan, riacquistato il buon umore, rise di gusto e invitò la comitiva a spostarsi verso i Canali Rapidi, ricordando loro quanto precario fosse il filo che reggeva la spada pendente sopra le loro teste.
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In prossimità dei Canali e del luogo d’attracco della Darlidan regnava la stessa calma che avrebbe continuato ad avvolgere la città fino alla ricomparsa dei suoi cittadini: gli unici rumori erano dati dallo schiamazzo dei gabbiani e dall’infrangersi delle onde contro i moli. Non erano però le uniche persone presenti sul posto: vicino alla scaletta giacevano ancora privi di sensi i soldati che ore prima erano stati tramortiti dall’impressionante azione di Dovan. Greg avrebbe desiderato vendicarsi di loro, ma sapeva bene che anch’essi erano solo pedine ignare nelle mani della mente del Cancelliere. Andrew e Mark slegarono le cime che la tenevano ormeggiata mentre Lisa, Greg e Dovan prendevano posto sul ponte. Il signor Oltan osservava la scena ammutolito dal pontile, chiedendosi a cosa li avrebbero portati gli irreparabili fatti susseguitisi in un così breve tempo. Poco dopo anche Mark e Andrew presero posto sul ponte, ma mentre il secondo si avvicinava alla consolle di comando con l’intento di azionare l’alzata automatica delle vele, uno strano trambusto alle sue spalle lo costrinse ad arrestare la propria azione. In piedi a fatica, sorreggendosi al proprio bastone, torreggiava il Cancelliere Samarlec, gonfio d’ira. «Voi, stolti, non avete la minima idea a cosa state andando incontro. I tempi sono maturi e la vostra stoltezza sarà la causa della vostra rovina. Presto una delle energie più potenti dell’universo si riverserà di nuovo su questo mondo e allora chi si sarà opposto al suo ritorno verrà sacrificato nel suo nome. Dovan, mio caro fraterno Dovan, ti avevo offerto la mano amica, invitandoti a tornare al mio fianco e alla corte che tu tanto disprezzi e che tanto disprezza te, ma tu la hai rifiutata come un cane stolto rifiuta il cibo dalla mano del generoso padrone. Mio caro Oltan, non si preoccupi, ce ne è anche per lei, suo figlio ed i suoi compagni di giochi: insulsi traditori della sacra corona selthoniana. Non ci sarà nessuna pie…» Greg si abbassò agilmente e lo stesso fecero anche gli altri quando, cogliendo Samarlec alla sprovvista, tanto era impegnato nel suo discorso punitivo, da non accorgersi che Andrew aveva azionato il comando della consolle che faceva ruotare di un angolo piatto l’albero maestro della nave. Il poderoso e massiccio tronco prese in pieno petto il Cancelliere che trascinato, finì poco decorosamente a bagno nei bassi fondali del porticciolo. Il moto d’ilarità collettiva fu inevitabile: il Cancelliere, fasciato nelle sue ampie ed eleganti vesti da parata, era così impacciato nei movimenti che riusciva a stento a restare a galla.
Andrew preferì non correre altri rischi e, presa di nuovo posizione sul sedile, azionò al massimo i motori ad idropropulsione alimentati dai cristalli di Varnelio. Greg ebbe appena il tempo di vedere suo padre salutarli con un contenuto gesto della mano prima che, preceduta da un scossone, partisse la nave. Il vento sferzava in faccia peggio di quando l’oceano era in tempesta. Dovan gli fu poco dopo accanto e gli pose una mano sulla spalla nel tentativo di consolarlo: il ragazzo non sapeva ancora di non essere il vero figlio del signor Oltan ed il maestro riteneva giunto il momento per affrontare un discorso così difficile e spinoso benché avesse piuttosto preferito parlare della strana allusione che faceva Lord Astaroth riguardo al loro primo incontro. Greg parve intercettare il pensiero che ronzava nella mente del maestro. «Sa maestro, prima del suo arrivo io e Mark avevamo già combattuto contro Lord Astaroth. È un avversario davvero formidabile e per poco non ci abbiamo rimesso entrambi l’anima» cominciò Greg. «Beh, non aveva torto allora quando diceva che la fortuna ti assiste! Devi esser riuscito ad appigliarti a un ricordo davvero concreto per resistere ad un attacco psichico del genere. La tua è stata un’azione ammirevole, hai dimostrato di possedere un’energia davvero eccezionale per la tua età ed esperienza». Dovan scorse un’espressione turbata sul volto di Greg e sicuro che ci fosse dell’altro, decise di indagare a fondo. Era chiaro che Greg sapeva qualcosa, inutile continuare a recitare la farsa del maestro fiero per il gesto ardito dell’allievo. «Cosa ti è successo mentre ti trovavi nella tua mente?» Greg parve un attimo frainteso e sconcertato da quella domanda, era come se Dovan fosse in attesa di qualcosa, di una rivelazione da tempo attesa. «Mi è difficile spiegarlo, maestro. Mi trovavo in un salone immenso con pareti di cristallo e a pochi i da me si trovava una sorta di culla. Poco dopo apparve a pochi i da me, un essere celestiale meraviglioso che rispondeva al nome di Shadriel, Dama della luce Angelica. Avevo la strana sensazione di conoscerla da tanto, tanto tempo e lei me lo confermò». Un’espressione di stupore comparve sul volto di Dovan: dunque era chiaro come il sole che adesso splendeva nel cielo. Entro pochi istanti avrebbe scoperto se quei mesi ati non erano trascorsi inutilmente e che il piano del quale faceva parte aveva già
iniziato a mettersi in moto oppure se sarebbe stato costretto a recuperare frettolosamente il tempo sprecato, con conseguenze dubbie. «Greg, so che potrà non sembrarti il momento più adatto per ciò che sto per dirti, ma più gradualmente verrai a conoscenza della verità, meglio sarà per te e per le persone che ti circondano. Mi rincresce il fatto che sia io a dirti ciò, forse avresti preferito fosse qualcun altro, ma per questa volta dovrai accontentarti» il maestro abbozzò un sorriso «Il Signor Oltan, voglio dire, tuo padre e tua madre non sono i tuoi veri genitori. Capisco se potrai non credermi, dopotutto sei cresciuto avvolto nel loro affetto come se tu fossi davvero loro figlio». Con suo disappunto, Greg non sembrò affatto sorpreso e sul suo volto comparve un mesto sorriso. Poco dopo il ragazzo riprese con il suo racconto: «La dama mi ha parlato anche di questo. Secondo loro in me è racchiusa la chiave per liberare definitivamente il nostro pianeta da un terribile nemico, ma che nella mia epoca i tempi non erano ancora maturi per portare a compimento la mia missione. Così mi ha trasportato nella capitale del suo popolo e là racchio parte dei miei ricordi più lontani in un recesso della mia mente. Non mi ha detto quanti anni vi ho trascorso senza che lo scorrere del tempo avesse su di me il minimo effetto, ma ho appreso che coloro che mi diedero la vita morirono molto tempo fa. Diciassette anni fa mi affidarono a coloro che io riconosco come mia madre e mio padre» concluse con un sospiro malinconico Greg. «Quindi tu già sapevi» «Sì maestro, ero già a conoscenza di tutto ciò. Prima di sparire ha inoltre aggiunto che in lei, maestro, avrei potuto trovare una valida guida» disse Greg finendo di riportare ciò che Shadriel gli aveva riferito durante il loro incontro. Sul volto di Dovan apparse come un lampo, un sorriso di compiaciuta soddisfazione. Poco dopo proseguì «Come hai fatto a sconfiggere Lord Astaroth?» «Questo non saprei spiegarlo. Ho sentito divampare in me una grande fiamma e poi tutto è accaduto di conseguenza. Purtroppo non ricordo niente fino a quando dopo essermi risvegliato, non sono venuto in suo soccorso per rafforzare la barriera magica spendendo un po’ di quell’energia che sentivo circolare ancora in me».
Dovan si grattò il mento, soprappensiero: le rivelazioni del ragazzo erano la prova certa che ormai tutto stava ormai per accadere. Gli Angeli Dorati avevano già deciso di contattarlo, rivelandogli almeno in parte il suo futuro. Il suo momento era quindi giunto: il compito a cui si preparava da tutta la vita lo attendeva adesso, che fosse pronto ad affrontarlo o meno. L’unica necessità che si poneva adesso era quella di conferire con i suoi alleati e, nel contempo, raccogliere altre informazioni. La prima parte del piano era quindi conclusa, si disse. «Greg, sono fiero di te: oggi hai affrontato prove che neanche un mago esperto sarebbe riuscito a superare così brillantemente. Hai dato prova di grande coraggio e buonsenso, accettando di buon grado qualcosa di cui non sei del tutto in grado di capire e che sfugge per ora alla nostra comprensione. Grandi prove ti attenderanno nel prossimo futuro» Dovan si inchinò davanti al ragazzo. «Se mi concederai questo onore, desidererei con tutto me stesso di seguirti, per offrirti le mie conoscenze e la mia magia». Greg arrossì violentemente, considerando troppo ossequioso il comportamento del maestro. Poco dopo, coloro che fino a quel momento erano rimasti a osservare la scena in silenzio, reclamarono su di loro l’attenzione di ragazzo e maestro. «Pensate forse di potervi sbarazzare così facilmente di noi? Greg è nostro amico, è cresciuto con noi, è uno di noi» esordì Andrew. «Penso di parlare a nome di tutti quando dico che non ci interessa se viene da un’altra epoca, l’importante è che noi possiamo restargli accanto e dargli tutto il nostro appoggio» ribadì continuando Mark. «Non ti abbandoneremo mai» concluse Lisa. Greg sentì salirsi le lacrime agli occhi e poco dopo ebbe accanto i suoi amici. “Hanno ragione” si disse Greg in quel momento di profusione, “ho bisogno di loro se voglio portare a termine il compito che mi è stato affidato”. Mentre una lacrima di commozione gli stava solcando la guancia, Greg si voltò per osservare di nuovo la costa selthoniana. Il suo sguardo fu però catturato dall’imponente struttura eretta sul monte Samaran, l’arma che pareva avrebbe dovuto, una volta per tutte, debellare la potenza navale nareniana. Con suo stupore notò che si stava muovendo e che le Torri di Cristallo stavano assumendo un bizzarro colore rosa, fino a quel giorno mai visto. Un ronzio proveniente dalla consolle di comando attirò l’attenzione di Andrew il quale, avvicinandosi, azionò il globevisor. Sullo sfondo del visore comparve il volto beffardo del Cancelliere.
«Che quadretto commuovente… il maestro Dovan e i suoi allievi che si stringono in un abbraccio affettuoso, pensando di averla fatta franca a uno degli uomini più potenti del mondo» disse con espressione annoiata. «Cos’è, il bagno di poco fa non ti è servito per schiarirti le idee e abbandonare i tuoi assurdi propositi?» commentò sarcastico Dovan. Il Cancelliere sembrò ignorarlo e continuò con il suo discorso. «Peccato che questa allegra scenetta non potrà durare ancora…entro breve il flusso energetico del Cannone Celeste vi avrà completamente disintegrati e la mia bella nave con voi». La sua voce assunse una sfumatura bambinesca di offesa. «Siete stati davvero senza cuore a rubare la mia nave personale». «Sta scherzando» disse Mark guardando alternamente il globevisor sul quale campeggiava il ghigno del Cancelliere ed il volto di Dovan. «No, ragazzo, non sto affatto fingendo. Anzi se mi farete la cortesia di voltarvi verso la costa potrete ammirare il gioiello tecnologico che segnerà la vostra fine». I cinque si voltarono verso la costa ed il loro sorriso si tramutò ben presto in una smorfia di preoccupazione. «Sapete, il vostro sarà un grande onore, sarete i primi a testare la sua potenza. Non ne ho ancora avuto modo di provarne l’effettivo potenziale e voi mi darete l’opportunità di farlo. Adesso. Dovrei quasi ringraziarvi» dall’espressione sembrò quasi soppesare quel proposito di scherno. «Ma vi prego di osservare le Torri: quando esse raggiungeranno il rosso, genereranno un raggio così potente da dividere anche una montagna, figuratevi, cosa potrà fare dei vostri corpi». Il Cancelliere rise di gusto. Prima che il contatto si disconnettesse Samarlec li fissò dritti negli occhi, uno per uno e dopo un istante di silenzio aggiunse un sibilante quanto mellifluo «Addio». Greg osservò febbricitante le Torri che in lontananza si stagliavano maestose, tingendo con il loro bagliore scarlatto le acque circostanti. Accanto a sé vide Lisa crollare in ginocchio senza aprir bocca. Poco più in la Mark imprecava selvaggiamente contro il Cancelliere menando calci ad una cima. Andrew era invece ancora acciambellato sulla consolle di comando, inerte e con gli occhi persi nel vuoto. Il ragazzo si voltò cercando il maestro, trovandolo poco più in là, con la testa tra le mani che mormorava parole incomprensibili. Vi si avvicinò e per la prima volta sentì il
desiderio crescente di vivere e di non rassegnarsi a ciò che sembrava imminente. Scosse violentemente il maestro per le spalle, costringendolo ad alzare la testa verso di lui. Una lacrima solcò il volto di Dovan. «No maestro, non può finire così. Tutti noi abbiamo un compito da portare a termine, lei compreso. Coloro che mi hanno salvato si aspettavano qualcosa da me, hanno riposto in me tutta la loro fiducia e adesso non può, non deve assolutamente finire così. Maestro, dobbiamo fare assolutamente…» «PENSI CHE NON ABBIA CERCATO DI TROVARE UNA SOLUZIONE CHE NON FOSSE LA MORTE?» Cinque dita si infransero contro il volto di Greg. Disorientato, vide il maestro alzarsi per poi riassumere la sua consueta espressione tranquilla e rilassata. «Perdonami Greg, ma non ci resta altro da fare che aspettare. Credimi era l’ultima cosa che desideravo, soprattutto adesso, soprattutto dopo aver visto con i miei occhi cose che in fondo speravo fossero frutto di una grande e incredibile leggenda. E tu mio giovane amico, sei proprio una di quelle». Senza che se ne accorgessero entrambi, le lacrime scorrevano copiose sui loro volti. Maestro e allievo si osservarono per un attimo che parve non terminare mai, mentre le Torri di Cristallo raggiunsero il colore purpureo e generarono un fascio di energia che ruggì della potenza del creato, dividendo per centinaia di metri le acque, e colpendo in un istante l’elegante vascello.
† Odiava l’atmosfera che si respirava ultimamente nel Baiamondo. Il palazzo era un’immensa costruzione d’oro massiccio di squisita eleganza, ultima testimonianza delle antiche vestigia di ricchezza del loro dominio, adagiato sul carapace di un’immensa testuggine il cui compito era trasportare la Corte per le brulle terre sotterranee. Benché fra quei saloni tutti gli dovessero un gran rispetto, poteva anche lui avvertire l’opprimente sensazione che pervadeva la mente di tutti i servitori e degli altri suoi Pari. Da cinque anni a quella parte si lavorava febbrilmente perché tutto ciò per cui si battevano non andasse a rotoli. Lui era stato scelto come Araldo, lo stesso titolo che aveva
acquisito millenni prima quando era tornato in vita. Ma da allora le cose erano decisamente cambiate per lui e per la sua razza. Dopo l’avvento sul loro mondo degli Angeli niente era più stato come prima. Furono relegati a vivere nei recessi sotterranei senza che la luce del Sole potesse più riscaldarli. Adesso vi era solo il fuoco Oscuro che covava dentro ad ognuno di loro a riscaldare i loro corpi. Ma presto, sperava, avrebbero di nuovo riguadagnato la superficie, schiacciando una volta per tutte i deboli uomini e i loro paladini protettori. Era proprio colpa di quest’ultimi se avevano potuto iniziare ad attuare un piano per la Resurrezione. Se non fossero riusciti ad intercettare le comunicazioni di Junatar verso il Signore delle due Lune a quest’ora neanche la Prima Pietra sarebbe stata in mano loro. “Sciocchi umani” si ritrovò a pensare mentre saliva le imponenti scale d’oro massiccio del Palazzo mobile, “ano il tempo combattendo tra di loro, ignari che sarà proprio la loro diffidenza verso il prossimo a portarli alla fine. Quando saranno nostri servi non avranno più niente di complicato a cui pensare, ma dovranno tenere a mente solo una cosa: che noi siamo i padroni e loro devono obbedirci”. Un ossequioso guardiano, incrociandolo mentre attraversava uno dei barocchi saloni, lo onorò con un profondo e reverenziale inchino. Ci fece appena caso, agitato dal fatto che entro breve lo aspettava un’udienza con la Sublime, dalla quale era stato repentinamente richiamato prima che potesse portare a termine l’operazione che conduceva a Selthon. Odiava profondamente Samarlec e la sua aria di superiorità che ostentava in ogni gesto. Odiava il fatto di essersi dovuto asservire ai capricci di un essere umano per raggiungere l’obbiettivo che tanto stava a cuore alla sua gente. Pregustava già l’istante in cui a Rituale eseguito, i suoi Pari gli avrebbero concesso di farlo a pezzi. Si sfregò le mani dal piacere ma un lampo emerse a turbare i suoi pensieri. Dopotutto qualcosa di positivo aveva riscontrato in tutto ciò. Per la prima volta aveva trovato sulla sua strada un avversario degno di lui, giovane e senza esperienza, certo, ma di sicuro temibile. Se non fosse stato per i suoi riflessi, i suoi poteri e le sue prodigiose abilità a quest’ora non si sarebbe trovato a percorrere quei corridoi. Si obbligò a distogliere la mente da ciò, confidando in un pensiero che però si rivelò essere una mera scusa: era solo un ragazzo, ha avuto fortuna. La prossima volta avrebbe avuto ragione di lui. Giunse di fronte ad un immenso portale in corallo e oro ed ebbe un piccolo fremito: le udienze con la Sublime non erano mai eventi di poco conto e se lo aveva convocato in un momento così delicato doveva essere una questione della massima urgenza. Due eleganti guardie in alta uniforme gli accennarono un
inchino e spalancarono il pesante portale. Le narici di Lord Astaroth furono investite dalla delicata fragranza che impregnava l’aria del salone. Centinaia di candele purpuree galleggiavano a mezz’aria riposte in raffinati fiori di loto. La individuò subito, in tutta la sua millenaria bellezza, seduta in fondo alla sala su un trono regale, avvolta in una semplice tunica scura il cui cappuccio le ricadeva sul volto, lasciando però fluire lateralmente i lunghi capelli blu topazio. «Vieni, mio generale». Lord Astaroth percorse a lunghe falcate la sala e giungendo in prossimità del trono si inchinò profondamente, levando il capo solo quando lei gli porse la mano per fargliela baciare. «Ai suoi ordini, o Sublime». «Mio fedele generale, quale tua Pari ti prego di levarti in piedi e di prendere posto vicino a me» disse lei indicando con un gesto il trono vuoto adiacente a quello dove risiedeva. «Onorato, mia Signora, ma non merito tale onore, non merito il privilegio di occupare, anche solo per un attimo, il trono del mio Signore» rispose modestamente. Lei sorrise annuendo, compiaciuta dalla risposta. «Ho fallito Sublime, ho lasciato che quattro mortali insieme al loro maestro fuggissero dopo esser venuti a conoscenza di parte dei nostri piani. La prego di perdonarmi o di punirmi come meglio crede». «La tua fedeltà incondizionata è ammirevole e sai benissimo quanta fiducia riponga in te. Non angustiarti per quanto riguarda coloro che sono scampati al tuo potere, Samarlec si è appena preso il disturbo di contattarmi tramite il loro primitivo marchingegno di cui tanto fanno vanto per dirmi che sono stati appena cancellati dalla faccia del mondo grazie all’impiego del Raggio Celeste» concluse con voce annoiata. Lord Astaroth assunse un’espressione disturbata, quasi dispiaciuta. Adesso che anche quel ragazzo era morto il suo compito sarebbe stato più semplice ma per quanto lo riguardava, aveva perso il più degno dei suoi rivali. «Non sembri lieto di apprendere ciò…qualcosa ti turba?» chiese lei scrutando le
iridi del generale. «No, mia Signora, speravo solo di poter essere io a porre fine alle loro esistenze» mentì Lord Astaroth. La donna lo fissò un attimo con i suoi occhi perlacei inquisitori, identici ai suoi. «Troverai presto il modo di spegnere il tuo bellicoso ardore…Per questo ho appena deciso di inviarti a capo della spedizione punitiva contro il reame Silvestre. Assumerai il controllo di un nutrito esercito di goroi. Quegli sciocchi oseranno resisterci per l’ultima volta: o accetteranno le nostre condizioni o, senza la loro pietra, cadranno inesorabilmente. Dovrai partire tra tre giorni e per qualche altro giorno limitarti semplicemente a piccole incursioni. I poteri magici di Talandria potrebbero smascherarci quando invece dobbiamo restare nell’ombra fino alla fine. Quando la popolazione comincerà a dar cenni di cedimento, datele il colpo di grazia». Lord Astaroth assaporò l’ebbrezza della nuova impresa che gli veniva posta davanti, chinò il capo in segno di ringraziamento e, congedandosi, disse:«Lieto di poterla servire nuovamente mia Signora». «Lieta di averti per sempre come mio servitore» rispose la Sublime arricciando sensualmente le labbra carnose. Uscendo dal salone si sentì ritemprato, dopotutto il compito che gli era stato assegnato era relativamente semplice e gli sarebbe servito per dimenticare l’amarezza della duplice sconfitta. Ripercorse il dedalo di corridoi del palazzo, dirigendosi verso i suoi appartamenti. Spalancò pesantemente il portale d’ebano e d’oro che conduceva al suo salone, sperando di potersi concedere un po’ di riposo. Congedò per qualche ora i suoi servi ed entrò nell’immensa libreria nella quale aveva trascorso molte vite umane ad accrescere la propria conoscenza. Si soffermò a consultare, assorto, un libro dalla copertina blu notte e sempre con gli occhi su di esso si sedette su un’elegante poltrona. Davanti a lui qualcuno emise un profondo suono gutturale. «Erano secoli che non succedeva, vero amico mio?» Il generale alzò gli occhi quel tanto che bastava per riconoscere Lord Adramelech.
Il demone si lisciò i lunghi capelli corvini, che scendevano sullo sfarzoso collare che indossava. Il suo volto, straordinariamente bello, degradava verso il collo in squame smeraldine dai riflessi neri. In mano impugnava il Gadaron, l’unico manufatto che gli consentiva di parlare. Si risolse ad abbandonare la consultazione del libro per rivolgere l’attenzione al suo Pari. Non poteva dire di fidarsi veramente di nessuno dei suoi simili ma, se doveva essere sincero, il rapporto che aveva con Lord Adramelech era l’unico che si potesse definire perlomeno leale. «È stato strano: era come se i suoi occhi rilucessero di un bagliore antico, più antico di questo mondo. Benché avesse le sembianze di un ragazzo sono sicuro che in lui ci fosse molto di più…Ma adesso non c’è niente da fare: sono morti, lui ed i suoi compagni, disintegrati dal gingillo che ha preteso da noi Samarlec in cambio del suo aiuto». Lord Adramelech e Gadaron sorrisero simultaneamente, poi il demone si alzò, congedandosi da Lord Astaroth e lasciandolo ai propri pensieri.
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La porta del salone si richiuse con un rumore ovattato e, per qualche istante, Lilith rimase silenziosa ed immobile a contemplare la maestosità della sala. Le fiammelle che riempivano l’ambiente la illuminavano di un tenue bagliore rosato che si opponeva debolmente alla tenebra soffocante che si respirava sotto quella volta. Un rosone, a decine di metri in altezza, dalla parte opposta dove sedeva, proiettava ombre e colori grotteschi. Era profondamente stanca ed annoiata della situazione di stallo che si era venuta a creare. Da due millenni lei, la regina delle tenebre, risiedeva stabilmente nel Baiamondo, ordendo trame ed inganni per riportare in vita l’amato Signore. Poco o nulla ricordava della sua esistenza prima dell’avvento di Behelstedor: le rare volte in cui aveva cercato di conoscere qualcosa era stata duramente punita. Una cosa sola pareva ricordare: un tempo, millenni prima, era diversa, non solo nel corpo, ma anche nell’anima. Distolse l’attenzione del proprio “io” per concentrarsi sul problema più urgente, costituito dall’imminente missione a Renodia. Lord Astaroth era un buon generale, era stato lui a sottrarre poco tempo prima la pietra, ma la sua
ultima prestazione a Selthon non poteva dirsi completamente soddisfacente. Avrebbe avuto bisogno di un altro Pari in superficie. Rifletté sulle problematiche: solo per eccezionali periodi i Pari riuscivano a risalire per qualche tempo in superficie, condizionati dal moto di Masir e Kalef, i satelliti gemelli del pianeta. Essi, col loro influsso mistico, riuscivano ad indebolire gli incantesimi lanciati dagli Angeli che impedivano la sortita. Da secoli, però, i Pari non risalivano tutti insieme, ma presto, sperava, ciò sarebbe potuto accadere di nuovo in occasione della millenaria eclissi. Tracciò tre cerchi nell’aria e, davanti ai suoi occhi, si materializzò un globo stilizzato che rappresentava il pianeta con i due satelliti nelle posizioni attuali reciproche. Tracciò dei simboli sulla mappa tridimensionale che parve reagire sensibilmente ai suoi controlli. Le Lune sembravano in un assetto favorevole per lo svolgimento della missione. Aspetto favorevole che si sarebbe protratto per almeno quindici giorni, rendendo possibile la completa attuazione del piano, compreso l’invio di un altro Pari per coadiuvare Lord Astaroth. Aveva già in mente il generale adatto, dopotutto la scelta si limitava su una cerchia molto ristretta di elementi. La sua attenzione fu ad un tratto catturata da due paia di occhi rilucenti nell’oscurità. La bocca di Lilith si deformò in un sorriso: solo due esseri potevano introdursi di soppiatto nei suoi appartamenti senza rischiare di essere cancellati dalla faccia del pianeta. Li chiamò a sé con voce sottile ma imperiosa, affinché si presentassero al suo cospetto. «Minoxe, Ekates, venite sotto la luce, creature mie». Dall’ombra intangibile emersero due figure inquietanti. La prima aveva una lunga coda pisciforme e due ali che spuntavano direttamente dalle spalle. Il suo volto era ricoperto da una maschera argentata che si allungava a raggiera sopra la nuca mentre una notevole quantità di lunghi capelli bianchi fluivano come vivi intorno al volto. Il secondo, dalla pelle scura, era di fattezze pressoché umane: gli arti superiori si deformavano però mostruosamente. Il braccio destro terminava con una mano artigliata mentre il sinistro, supersviluppato rispetto al già massiccio arto destro, era costituito quasi interamente da un lungo spadone. Lilith sorrise di nuovo nel contemplare, per l’ennesima volta, il frutto del suo potere: era lei l’unica dei Pari ad avere il dono di creare la vita; una virtù che neanche il suo Signore possedeva. Era affascinata dal suo grottesco operato: amava fondere insieme le peculiarità degli esseri viventi più dannosi per creare ibridazioni malvagie che l’avrebbero servita ed amata come una madre. Per quanto sangue avesse sparso nell’arco della sua lunga esistenza, non era mai
riuscita a sopprimere un forte, seppur distorto, istinto materno. Così, con la creazione di nuovi esseri, trovava uno sfogo al suo intimo desiderio, senza che nessuno tra i Pari potesse sospettare niente, fatta eccezione per Lord Mefistofel, l’unico con abilità mentali talmente elevate da infrangere ogni barriera, persino le sue. Era impossibile tenergli nascosto il benché minimo segreto o tentare di celare al suo sguardo la più minima incertezza. Non c’era da stupirsi se lo odiava senza ritegno. Chi era lui per comportarsi come un essere onnisciente ed infallibile? Quando ci pensava ardeva dall’astio nei suoi confronti. Non era lui il Reggente, non era stato affidato a lui quel titolo. Piccole scariche bluastre che segnalavano la sua crescente rabbia percorsero le sue candide dita. Per un attimo anche le sue iridi glaciali parvero avvampare e tingersi del colore della rabbia. Minoxe ed Ekates le si avvicinarono prontamente.«Madre, state bene? Cosa possiamo fare per lei?» chiesero servizievoli. Lilith parve riacquistare la sua proverbiale freddezza e si ricompose. Le scariche azzurre cessarono di crepitare e i suoi occhi tornarono del colore consueto. «Va tutto bene, creature mie. Vostra madre è solamente un po’ nervosa, ma le erà presto. Ho un compito per voi che spero sarete felici di assolvere» . Annuirono più volte mentre Lilith si apprestava a spiegare loro in dettaglio ciò che avrebbero dovuto fare. «Ho inviato Lord Astaroth in superficie, a Renodia, con il compito di dare una lezione indimenticabile agli Esperidi. Il problema è che, dopo la missione a Selthon di ieri, mi sono resa conto che il suo solo potere potrebbe non bastare. Abbiamo bisogno di indebolire i regni uno dopo l’altro, in modo che, al momento giusto, la loro resistenza sarà minima». «Madre, desideri forse che io e mia sorella seguiamo l’araldo in superficie?» chiese eccitato Minoxe che, fino a quel momento, aveva prestato servizio come comandante agli ordini di Lord Kaliban. «No caro, mi spiace. Siete ancora troppo giovani ed inesperti per potervi opporre ad un nemico da non sottovalutare come gli Esperidi. Anche io ho combattuto più di una volta contro di loro e vi posso assicurare che possono rivelarsi davvero pericolosi. No, tesori miei, voi dovrete semplicemente trovare Lord Minstrael e riferirgli di partire quanto prima per Renodia. Avvertitelo che dovrà lavorare in collaborazione con Lord Astaroth, anche se dubito che anche
solo uno dei due possa essere entusiasta di ciò. Ma qui sono io a dettare gli ordini ed i miei ordini non si discutono. Anche se ufficialmente occupano un livello a me paritario non possono assolutamente permettersi di contraddirmi, anche perché sono in mio completa soggezione» stava mentendo a sé stessa. Lord Mefistofel era sempre stato molto indifferente ai suoi ordini, spesso aveva addirittura mostrato insofferenza. Ma non era uno sciocco: neanche una volta si era opposto direttamente, riuscendo ad evitare qualsiasi motivo di incriminazione per insubordinazione da parte di uno degli altri Pari. Inconsciamente mosse la mano, come per scacciare quei pensieri che si erano affacciati, innervosendola, alla mente. «Per ogni eventualità o chiarimento, affidategli questa pergamena nella quale sono elencati nello specifico gli obiettivi e le priorità della missione» terminò poco dopo, decisa a non farsi di nuovo sopraffare dalla rabbia. Minoxe ed Ekates non parvero molto soddisfatti nell’apprendere la natura della richiesta della madre: il loro desiderio di partecipare ad una battaglia, una vera battaglia, era, se possibile, addirittura più forte della fedeltà che li legava a lei. Ma nessuno dei due era stato creato senza cervello: sapevano benissimo che disobbedire o contraddire agli ordini e alle imposizioni di Lilith equivaleva a una condanna a morte praticamente immediata. Si congedarono perciò dalla madre, apprestandosi a raggiungere gli appartamenti di Lord Minstrael. Lilith, completamente sola adesso, si alzò dal trono, lasciando che le fiammelle riscaldassero la sua mano gelida. Si sfilò la lunga tunica color notte che abitualmente indossava, rivelando una cascata di capelli cobalto, resi ancora più vividi dai bagliori delle fiamme. Si diresse verso un’ala della sala, immersa totalmente nell’ombra. Il buio e l’oscurità non avevano nessun significato per lei: i suoi occhi le consentivano una vista perfetta in tutte le circostanze. Afferrò e successivamente tirò un cordoncino: davanti a lei si estendeva un’ampia coltre di tendaggi che lasciavano trasparire appena alcuni bagliori verdastri. I tendaggi si spalancarono, mostrando un’immensa vetrata, oltre la quale, in un liquido amniotico putrescente, erano custodite, in formazione a grappolo, le sacche fetali delle nuove creazioni di Lilith. Verso una di esse in particolare, di dimensioni dieci volte maggiori rispetto alle altre, Lilith concentrò il suo sguardo acuto. La sua bocca si piegò in un sorriso diabolico. «Piccolo mio, tra breve sarà il tuo turno di far vedere agli uomini quanto vali. Non aver pietà di loro, per nessuno di loro. Rendi felice e orgogliosa tua madre» disse Lilith con
un sussurro, inginocchiandosi davanti alla vetrata, mentre la luce verde, filtrata attraverso le acque limacciose e putride al di là dal vetro, gettava sinistri bagliori sulla sua pelle eburnea.
Parte Seconda
Renodia
Capitolo VIII
Rotta verso Renodia
Il fumo in mezzo alla baia si diradò solo dopo alcuni minuti, durante i quali Samarlec aveva esultato giubilante per la morte di coloro che avevano osato intralciare i suoi piani. Dai suoi globevisor era riuscito a gustarsi tutta la scena: le Torri di Cristallo che raggiungevano il rosso purpureo, la concentrazione dell’energia in un vortice ed infine il raggio amaranto che squarciava le acque per andare a colpire in pieno la Darlidan. Samarlec si crucciò per aver perso la sua nave privata, ma la perdita di un tale giocattolo non era niente in confronto a ciò che stava pregustando di mettere in atto. Il ronzio di uno dei globevisor sulla sua scrivania attirò la sua attenzione e sulla superficie perlacea comparve il volto di uno degli uomini addetti al funzionamento del Cannone Celeste. «Cancelliere, abbiamo per lei una notizia urgente. Non sappiamo come sia potuto accadere, non riusciamo realmente a capire. Credevamo che sarebbe andato tutto come previsto dalle simulazioni ma lei…». La risposta di Samarlec fu più simile ad un ruggito che a una domanda: «Cosa sta cercando di dirmi, razza di incompetente?» Il volto dell’operatore, già grigio, divenne bianco mentre balbettava: «Signore, le Torri, le Torri di Cristallo. Sono distrutte. Non sono riuscite a contenere bene l’energia. Frammenti di esse si sono appena staccati, arrecando danni alla struttura del Cannone». Samarlec divenne purpureo come le Torri, quando ruggì un’inaudita e blasfema bestemmia contro Leviathan e interruppe la comunicazione. Quell’incidente era capitato nel peggiore dei momenti. Si alzò furioso come da anni non accadeva in vita sua dallo sfarzoso seggio per spostarsi verso lo scrittoio. Nel are di fronte allo schermo sul quale era proiettata l’immagine dell’accaduto, notò qualcosa che non gli piacque affatto. Cercò di calmarsi mentre avvertiva crescere in numerose parti del suo corpo un
dolore diffuso. Per quanto fosse quasi del tutto impossibile, qualcosa gli diceva che colui che era stato un tempo suo amico fraterno aveva scorto in lui qualcosa di diverso. Nel frattempo, allontanandolo da quel problema, dapprima solo una sagoma contorta di una nave poi i nitidi contorni comparvero sullo schermo del globevisor a lui più vicino: la Darlidan era ancora lì, apparentemente senza aver riportato alcun danno. Davanti ad essa, con le braccia spalancate in segno di protezione, vi era un gigante. Samarlec corrugò la fronte, ingrandì l’immagine e, dopo un istante, invaso dall’ira, gettò il congegno a terra. La sfera risuonò più volte prima di infrangersi in centinaia di frammenti, ma prima che ciò accadesse, il Cancelliere poté vedere ancora una volta le espressioni felici ed allo stesso tempo sbalordite, di coloro che, scampati a morte certa, si stavano rivelando essere per lui un vero grattacapo. Decisamente quella non era stata una giornata fortunata.
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Erano ati molti ed interminabili secondi senza che Greg avesse il coraggio di aprire gli occhi. Non desiderava vedere ciò che avrebbe segnato la loro fine. Con suo grande stupore, niente era ancora avvenuto. Eppure aveva avvertito distintamente l’enorme esplosione che avrebbe dovuto distruggerli, addirittura sentiva le orecchie ancora ovattate ma, apparentemente, lui e, con tutta probabilità, anche gli altri, si trovavano ancora sulla Darlidan, palesemente intatta. Quando si risolse a spalancare gli occhi, la sagoma enorme parata davanti alla nave gli fece emettere un grido di spavento. Andrew aprì di soprassalto gli occhi e come lui fecero anche Mark e Lisa; la loro reazione fu la medesima di Greg. Soltanto Dovan sembrava calmo e rilassato come sempre, anzi, abbozzò un lieve sorriso e si avvicinò alla gigantesca creatura che incombeva, ancora di spalle, sulla nave. Greg ebbe un brivido di terrore nel chiedersi cosa avrebbe fatto adesso il mostro: di certo era stato lui a proteggerli dal potere dell’arma di Samarlec, ma chi poteva indovinare le sue intenzioni? Era amico o un nuovo nemico più temibile di Lord Astaroth?
Il mostro, dalla pelle cerulea e di aspetto anfibio, si voltò verso il maestro e i suoi allievi, rivelando un volto simile a quello di un rospo con branchie e acquosi occhi gialli. Il ragazzo si stupì del fatto che il suo corpo non presentava nessun segno dell’esplosione che aveva ricevuto in pieno. Anzi, adesso che lo inquadrava meglio gli pareva quasi di averlo già visto e sentì gran parte del ribrezzo, inizialmente provato, lasciare il posto alla curiosità. Dovan si inchinò al cospetto della creatura e ben presto anche Greg, Mark, Lisa e Andrew lo imitarono. «Grande Dalagoth, ti siamo debitori. Hai salvato le nostre vite, consentendoci di proseguire il viaggio». Per quanto poteva apparirgli strano, il gigante sorrise e, contrariamente al suo aspetto, parlò con voce calma e profonda. «Dovan, vecchio amico mio, la mia apparizione non è stata casuale. Coloro che, dall’alto tutto scrutano mi hanno ordinato di intervenire immediatamente, dicendomi che questa nave trasportava qualcosa di prezioso. Così mi hanno invocato davanti a voi e col mio potere ho annullato la potenza di quel raggio. Devo ammettere che è stato un compito piuttosto arduo da assolvere. Adesso svelami un segreto, amico mio, cos’è che stai trasportando? Chi sono questi giovani?» Dovan sorrise ed alzandosi indicò con una mano i suoi allievi uno ad uno. Poi aggiunse: «Sinceramente speravo di potere avere da te alcune risposte. Recenti avvenimenti mi hanno portato a strane conclusioni ma non ho avuto tempo sufficiente per sincerarmi di esse. Se avrai la bontà di concedermi qualche minuto te ne sarò veramente grato…» concluse il maestro indicando i suoi allievi con un gesto della mano e facendo un piccolo inchino. Dovan si avvicinò a Greg e lo portò al cospetto di Dalagoth. Il suo maestro gli infondeva coraggio e sicurezza, non temeva affatto lo sguardo indagatore dell’essere gigantesco che emergeva dai flutti dal busto in su. Un dito della mano enorme gli sfiorò il viso. Infine Dalagoth avvicinò la sua immensa testa coperta da squame microscopiche e incorniciata da protuberanze membranose al ragazzo, fissandolo dritto negli occhi. Greg, malgrado lo stupore generato da quei grandi bulbi acquosi, ne sostenne tranquillamente la vista, impaziente di sapere qualcosa di più sul proprio ato.
«Non ci sono dubbi, è lui» disse dopo qualche minuto di silenzio. «Ne sei sicuro? Non sa ancora cosa lo aspetta e il suo compito…» disse Dovan indicandolo e aprendo le braccia, come se volesse quantificare il peso del suo compito. Greg ascoltava in silenzio, ma con le orecchie ben attente nel tentativo di carpire quante più informazioni poteva. «Non mi avrebbero certo mandato qui se non fosse stato di primaria importanza. Il tempo dei miracoli, caro amico, sembra essere infine giunto, il ragazzo è ormai pronto per affrontare il proprio destino» poi si rivolse a Greg. «Vedo che sei molto cresciuto dall’ultima volta che ci siamo visti, piccolo Aelthas. Allora eri avvolto in una pesante coperta per proteggerti dal freddo notturno ed eri immerso in un profondo sonno». Dalagoth rise di gusto e la sua voce echeggiò nello spazio circostante. “Aelthas?” si chiese Greg stupito. Quello doveva essere il suo nome, quando ancora era con i suoi genitori, quelli veri. Si morse le labbra. «Quindi tu eri presente al suo ritorno su questo mondo…» cominciò Dovan lasciando in sospeso la conclusione della frase. «Salvai suo padre durante una tempesta e successivamente Loro glielo affidarono. Da allora tutti aspettiamo con trepidazione il momento della rivelazione ed il giorno in cui potremo di nuovo ritenerci liberi da ogni pericolo. Questo è anche il momento di assolvere il tuo gravoso incarico, Dovan: istruire il ragazzo più possibile». Greg sentì divampare in sé la rabbia: quei due gli davano la netta sensazione di girare intorno a qualcosa ma di non volergli rivelare niente, non per il momento almeno. Ma se lui aveva tutta quella supposta importanza per loro perché non lo mettevano al corrente di ciò che stava accadendo? Voleva risposte concrete, non altre domande. Infine non riuscì più a trattenersi. Colpì vigorosamente la balaustra finemente decorata con un pugno. Tutti gli occhi furono puntati verso di lui: «Sono stanco di sentire parlare di me e del mio destino senza che nessuno si prenda la briga di spiegarmi qualcosa! Penso che mi dobbiate delle risposte. Solo qualche ora fa ho scoperto che vengo da un’era ata e che i miei veri genitori sono morti da secoli. Ho dovuto affrontare un demone, un essere che la mia immaginazione poteva a fatica concepire e l’ho sconfitto due volte senza neanche sapere come
ho fatto. Se non bastasse abbiamo appena rischiato la vita per avere intralciato i piani del Cancelliere e presto avremo l’intero esercito di Selthon alle costole. I miei compagni hanno abbandonato le loro famiglie, me compreso, ed immagino che anche loro desiderino sapere qualcosa di più». Quando cessò lo sfogo si sentì un po’ meglio. Si voltò verso Dovan e lo scoprì con gli occhi bassi, assorto nei propri pensieri. Dalagoth era invece rimasto ad ascoltare imibile. Poi, il maestro cominciò a parlare: «Aelthas, Greg se preferisci, siamo spiacenti che tu sia venuto a sapere parte della storia in modo sconnesso e con una velocità così frenetica. Avremmo preferito che tu avessi un approccio migliore a tutto ciò. Personalmente il mio compito sarebbe stato quello di prepararti e col tempo rivelarti la verità, una parte di essa almeno. Sto cercando di assolverlo nel modo migliore e devi perdonarmi se qualche volta ho vacillato. Da diciassette anni gli Angeli Dorati, i tuoi genitori adottivi e da qualche anno anche io, sebbene non avessi mai saputo con certezza chi eri, neppure durante i mesi trascorsi insieme, vegliamo su di te, nel tentativo di preservarti fino al momento in cui il pericolo che da millenni incombe su questo pianeta non si sarà nuovamente risvegliato. Purtroppo il momento è giunto prima del previsto, prima ancora che io potessi concludere il tuo addestramento o che potessi spiegarti qualcosa devi sapere che ciò che hai affrontato, Lord Astaroth, è solo uno dei Nove Pari agli ordini di uno spirito malvagio ancora più potente, il cui solo nome è capace di spaccare la terra. Quando l’altro giorno ho accennato all’Età oscura ti ho mentito, era a lui che alludevo, al male incarnato. So che adesso potrò sembrarti un pazzo ma le leggende sono vere. Mi spiace non avertene parlato prima e di averti fatto credere che le mie fossero solo supposizioni, ma credevo di avere più tempo a disposizione, desideravo che tu comprendessi la realtà delle cose più lentamente. Quell’essere venne sconfitto più volte nel corso della storia dagli Angeli Dorati e dagli uomini, ma purtroppo mai in maniera definitiva. Duemila anni fa, poco dopo la tua nascita, lo sigillarono nel sottosuolo dove egli tuttora possiede un regno cupo e pieno d’ombre, costellato da inespugnabili fortezze e sono i suoi Generali a dominare con pugno di ferro, amministrati però dalla temibile Lilith, suo braccio destro e sua amante. Noi, dalla nostra parte, abbiamo un’arma miracolosa contro il male: tu. Greg, sei la chiave, l’unico che può sconfiggere quell’essere definitivamente» Dovan fece una pausa, e, con sguardo penetrante, fissò il ragazzo. Quello che gli stava per dire era di capitale importanza per lui e per tutto il resto del mondo. «Tu riuscirai dove i tuoi predecessori e gli Angeli hanno fallito. Se non riuscirai a fermarlo il mondo tornerà di nuovo sotto il controllo di quell’essenza malefica e sarà veramente la fine per noi tutti». Greg alzò un sopracciglio, corrugando la
fronte. Senz’altro era una faccenda grave, ma ancora non capiva quale era il suo ruolo in tutto ciò. Stava per esporre il suo dubbio, quando Dalagoth lo precedette. «Come ha già detto il maestro Dovan poco fa, in te fu vista l’unica speranza di distruggerlo definitivamente e a tale scopo gli Angeli decisero di operare un cambiamento». Dovan gli pose una mano sulla spalla in segno di conforto e Greg ebbe la certezza che ciò che stava per udire lo avrebbe segnato profondamente. Trasse un profondo respiro e Dovan lo imitò, prima che Dalagoth concludesse la sua spiegazione: «Greg, sei tu che custodisci quest’arma risolutiva. In un certo senso tu sei sia il custode che l’arma stessa. Purtroppo si tratta però di una lama a doppio taglio che se da un lato potrebbe decretare la nostra schiacciante vittoria, potrebbe dall’altro provocare una drammatica sconfitta. Ciò che custodisci è determinante per noi quanto per loro e non ci lasceranno trionfare così facilmente. Greg noi tutti ed il mondo intero contiamo su di te. Secondo i nostri calcoli per ora neanche il sa che sei tu quell’arma, ma purtroppo ho idea che i fatti di oggi abbiano destato nei suoi servi grandi perplessità che potrebbero aiutarli a scoprirlo». Greg fece un sorriso di circostanza ma in quel momento sentiva l’intero peso del mondo sulle sue spalle. Per quanto ordinasse a se stesso di essere forte, era troppo pretendere da lui una reazione tranquilla, anche in una situazione così delicata. Davanti a sé vedeva Dovan muovere le labbra a vuoto, come se fosse un pesce. Le lacrime gli salirono copiose agli occhi e senza neanche vedere dove andava, corse via dal ponte. Ignorò le grida confuse dei suoi amici che gli giungevano alle orecchie. Non potevano capirlo, voleva stare da solo. Scese sottocoperta, entrando in una cabina a caso e buttandosi esausto su un letto morbido e spazioso. Presto gli si oscurò la vista e cadde in un lungo sonno senza sogni.
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Svegliandosi, sentì la testa incredibilmente pesante. Gli ci volle qualche istante per riordinare i pensieri e fare mente locale. Si mise a sedere sul letto: gli
pareva di aver dormito per giorni ma nonostante tutto non si sentiva affatto riposato. La cabina, attraverso un oblò, era baciata dai raggi delle Lune, già alte nel cielo e ad un tratto si accorse di morire di fame. Procedendo a tentoni, uscì dalla cabina e si avviò su per le scalette di legno. Si sentiva tremendamente affaticato, braccia e gambe gli dolevano per gli intensi sforzi della giornata e respirare una generosa quantità d’aria fresca servì a riaprirgli completamente gli occhi. Il ponte della nave era piuttosto illuminato: globi di soffusa luce azzurra, incastonati nel pavimento e pendenti ai lati delle eleganti balaustre conferivano al luogo un aspetto quasi magico. Poco dopo, un brusio proveniente da prua lo indusse, non con una certa riluttanza, ad avvicinarsi ai suoi amici. Una piccola brace diffondeva un morbida luce che illuminavano la scena: Dovan era tranquillamente adagiato su una sedia bassa e gli altri gli sedevano accanto, su altrettante sedie. Vedendolo si alzarono in piedi, Lisa in testa, e lo attorniarono. «Capiamo che per te non è facile accettare tutto quello che hai saputo e visto oggi, ma la conoscenza è il primo o per sconfiggere il nemico. Nessuno di noi ti abbandonerà, ma devi capire che neanche per noi è facile apprendere così all’improvviso che siamo sul ciglio di un burrone» disse Andrew con calore. «Andiamo Greg, smaniavi dalla voglia di nuove sfide e adesso che ne hai l’opportunità non puoi lasciare che il peso degli eventi ti sommerga e ti travolga» continuò Mark con una decisione ed una solidarietà a cui Greg non credeva di poter fare l’abitudine. Il ragazzo mostrò un mesto sorriso. «Non riesco a trovare le parole per ringraziarvi di nuovo, amici miei. Ma qui purtroppo stiamo parlando di qualcosa che va al di là della nostra portata. Non credo riuscirò mai a portare a termine ciò che tutti si aspettano da me. Sono un novizio nell’arte della magia, riesco appena a lanciare una mej o ad alzare un halos, ma non so quanto esse mi potranno essere utili contro di Loro» disse alludendo ai demoni. Dovan scosse la testa. «Hai compiuto azioni straordinarie oggi, dando prova che la nostra fiducia in te è ben riposta. Sei riuscito, anche se per poco, a controllare il potere, quello vero, intendo, cosa che nessuno avrebbe per ora ritenuto possibile. Secondo gli Angeli avresti dovuto sottoporti ad un lungo addestramento prima di poter trovare il potere di usarlo. Gli eventi sono precipitati e non credo che riuscirai a farti impartire un allenamento angelico prima di molto tempo. Non possiamo comunque rischiare di compromettere il piano tutte le volte che veniamo attaccati. Devi imparare a nascondere il potere che hai sviluppato oggi, puntando piuttosto ad incrementare le tue abilità magiche. Non preoccuparti, abbiamo discusso tutto il pomeriggio e anche i
ragazzi sono d’accordo. Vi sottoporrete ad un allenamento intensivo, volto alla crescita dei vostri, e soprattutto dei tuoi, poteri magici. Devo avvertirti che i compiti che dovrai assolvere saranno di gran lunga più difficili dei loro e spesso potrai sentirti esanime per lo sforzo, ma sappi che tutto ciò ti sarà di infinito aiuto. La strada per Renodia è ancora molto lunga e non approderemo ai Porti di Smeraldo prima di due settimane. Per allora ho già stilato un ottimo programma di allenamento che, detto tra noi, non farà male neppure a me!» Il maestro rise di gusto, Greg un po’ meno. La prospettiva di faticare e di sputar sangue non lo spaventava, in fin dei conti Mark aveva ragione nel ricordargli che era proprio ciò che desiderava.
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Andrew fece un vistoso sbadiglio e poco dopo lo imitò anche Mark. Dovan li invitò a congedarsi per la notte, in vista del duro lavoro che si prospettava per il giorno seguente. Poco dopo aver consigliato a Lisa di andare a riposarsi al più presto, il maestro si congedò a sua volta. Greg, si stiracchiò ed andò a controllare che il computer di bordo stesse mantenendo la rotta per Renodia. Il globevisor ronzava placidamente, diffondendo nell’ambiente la sua tenue luce mentre sulla grande mappa era tracciato l’intero percorso. Un puntatore lampeggiante segnalava la posizione della Darlidan. Fu confortato dal fatto che tutto fosse in ordine e che niente, per la prima volta nell’arco di un’intera giornata, andasse storto. Percepì dietro di sé la presenza di Lisa ma non si sentiva affatto in grado di sostenere un discorso serio con la ragazza, non perché non lo volesse ma perché era moralmente a pezzi. La mano calda e tranquilla della ragazza si posò sulla sua spalla per poi congiungersi con la sua mano. Poco dopo Lisa cominciò a parlare. «Non trovi che stasera il cielo sia stupendo? Come sono belle le Lune quando brillano di luce rosata…» Greg asserì, laconico: normalmente quella situazione lo avrebbe reso felice sopra ogni altra cosa, ma adesso lo lasciava completamente indifferente. Benché cercasse di sforzarsi, Lisa non avrebbe mai potuto capire cosa provava in quel momento: erano finiti i tempi spensierati durante i quali poteva concedersi il
lusso di are ore a fantasticare sul loro rapporto; con questo non riteneva che i sentimenti verso la ragazza fossero scomparsi ma che per ora fossero ati in secondo piano rispetto ad altri più urgenti. La ragazza tirò un forte sospiro che le colmò il volto di calore e rossore. «Greg, devi capire che ti voglio bene e che non riesco a vederti così infelice: per quanto possa apparirti tutto tanto buio e rischioso, vedrai che presto la luce tornerà a rischiarare i tuoi pensieri. Dove c’è la Luce non c’è l’Ombra e dove c’è amore non vi è spazio per l’odio e la distruzione». Strinse più forte la sua mano. Sentiva il calore fluire attraverso di sé riscaldandogli il cuore e diffondendo una piacevole situazione di tepore sottopelle. Abbracciò la ragazza, accorgendosi solo dopo averle di nuovo osservato il viso che le lacrime le rigavano il volto, le avvicinò le labbra all’orecchio, bisbigliandole un timido “grazie”.
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Greg ricadde in acqua con un tonfo sordo e annaspando riuscì a tornare faticosamente a galla. Inspirò a pieni polmoni l’aria salmastra dell’Oceano. La sagoma della Darlidan si stagliava placidamente poco lontano, le vele ammainate e l’ancora calata. Da due giorni era scesa la bonaccia ed erano ormeggiati vicino ad una secca, a parecchie miglia di distanza da Selthon. L’incantesimo di occultamento lanciato dal maestro sulla nave li proteggeva da eventuali inseguimenti da parte della Marina. In quasi una settimana che mancava da casa aveva spesso rivolto la mente ai suoi genitori, almeno quelli che fino a poco prima aveva ritenuto tali, pensando a quanto avessero fatto per lui in tutti quegli anni, cominciando lentamente a comprendere perché suo padre si dimostrasse tanto ostile all’apprendimento della magia. Da giorni infatti non faceva altro che allenarsi in condizioni ed in esercizi bizzarri che provavano fino allo stremo delle forze corpo e spirito. Aveva cominciato con l’evocare gli incantesimi del secondo e del terzo anello delle catene elementali molto più frequentemente di quanto avesse mai fatto durante le lezioni. Ogni volta che pronunciava un incantesimo o che doveva muovere le cose era come se dovesse entrare in sintonia con l’oggetto o con l’elemento che desiderava invocare, come
se dovesse stipulare un patto con essi, cedendo parte della sua forza ai loro atomi per alimentarli e dargli vita. Con la mej o con gli altri incantesimi elementari non aveva mai trovato grossi problemi: gli spiriti minori del fuoco, dell’acqua, del tuono, della terra o del ghiaccio erano forze semplici, facilmente controllabili che non richiedevano grossi travasi di energia. Ma i corrispettivi spiriti degli anelli superiori richiedevano livelli di potere esponenzialmente più alti. Trovandosi in mezzo all’Oceano, Dovan gli aveva consigliato di allenarsi nell’evocazione delle magie della catena d’acqua per entrare in armonia con gli spiriti marini. Secondo quanto diceva il maestro, qualsiasi cosa possedeva uno o più spiriti ed era grazie e solo grazie alla collaborazione che si instaurava con essi che era possibile all’uomo sfruttare la magia. In realtà, a quanto diceva, tutti gli uomini possiedono poteri magici, ma non sempre riescono ad ascoltare le voci degli spiriti che li circondano. Le acque lo circondavano placide e i lembi della sua veste leggera fluttuavano quasi in superficie. Con ampie bracciate raggiunse la nave: il maestro lo guardava severo, mentre levitava sopra la superficie marina. Gli tese una mano e Greg, facendo appello agli ultimi rimasugli della forza mentale che gli restavano, si elevò sulle acque. «Greg, questo tentativo è stato un vero fallimento. Ritenteremo fino a quando non avrai padroneggiato l’esercizio. Devi imparare a controllare prima te stesso e le forze che ti stanno intorno se vuoi solo sperare di poter usare i tuoi poteri contro il nemico. Gli spiriti marini sono essenze benefiche e perfino Dalagoth, per quanto strano ti possa apparire, è uno di essi. Pregali, con tutte le tue forze, entra in sintonia con loro, unite le vostre volontà ed i vostri poteri. Penso sia inutile rammentarti di non dover usare il potere del quale hai fatto uso a Selthon. È troppo grande e troppo rischioso perché possa essere usato indiscriminatamente. So bene che hai dimostrato un grande potenziale sconfiggendo uno dei pochi esseri sul pianeta che si possono dire davvero invincibili, ma ricorda: usarla di nuovo senza poterlo gestire coscientemente potrebbe portarti ad una fine disastrosa, nonché correresti il rischio di essere scoperto dal nemico» lo guardò più profondamente negli occhi, volendosi accertare che le sue parole si fissassero per bene nella mente dell’allievo. «E’ già una grande fortuna, per te e per tutti noi, che tu non abbia subito danni fisici o mentali. Aver sconfitto per due volte Lord Astaroth potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio, nessun essere umano in quanto tale è mai riuscito realmente a
fronteggiarlo. Quando il sospetto che stia sorgendo qualcosa per ostacolare il loro ritorno al potere sarà più di un vago timore e che sei tu a possedere la risorsa per sconfiggerli allora dovremo seriamente prepararci a combattere». «Non capisco, è tutto così confuso…cos’è che vuole il nemico? Perché desidera tanto avere ciò che custodisco? Cos’è che custodisco?» «Ogni cosa a suo tempo, mio giovane allievo» troncò con un sorriso il maestro. Sapeva che Greg non avrebbe accettato quella risposta, nemmeno lui, fosse stato nella sua posizione l’avrebbe accettata. Per questo, utilizzando un tono perentorio, si affrettò ad aggiungere: «Pensa piuttosto ai tuoi allenamenti. Secondo le ultime previsioni rilevate dal globevisor la bonaccia dovrebbe finire tra qualche ora e noi potremo finalmente riprendere il viaggio verso Renodia». Greg annuì, si allontanò di qualche decina di metri dalla nave e si posizionò incrociando le mani nella posizione di meditazione. Il maestro gli chiese gridando se si sentiva pronto e Greg rispose affermativamente. Poi, in silenzio, cominciò a recitare l’antica formula rituale delle acque, invocando la protezione del Sacro Protettore del proprio popolo e delle acque, Leviathan.
Regna ad ovest, flagello degli ingiusti, Egli rappresenta l’acqua come fonte di vita, Ma anche come la terribile forza marina delle tempeste. Il suo potere non perdona il nemico, Ne disperde l’anima nel mare dell’oblio. Nel blu si perde, al confine tra la terra ed il cielo, Dove si unisce alle stelle del firmamento.
Poco dopo il maestro lo mise alla prova, mormorando l’incantesimo del quarto anello della catena dell’acqua e scatenando contro di lui onde alte ed anomale che lo colpirono, rendendogli difficoltosa la concentrazione. Le onde si fecero sempre più alte e potenti, sferzando Greg con la loro schiuma. Il ragazzo, con gli occhi chiusi, ordinò alla sua mente di chiudersi ad ogni distrazione, raccogliendo tutto sé stesso. Sentiva il sangue pulsare nelle vene, il cuore pompare in perfetto accordo con i propri pensieri, scandendo il ritmo del respiro. Come in un sogno, percepì il suo spirito nuotare nelle profondità marine, immergendosi sempre più a fondo. Non sentiva il bisogno di respirare e la visione dello spazio circostante era nitida e perfetta. Un istinto sconosciuto guidò le agili bracciate fino ad una statua enorme, di marmo azzurro. Non ne riconobbe la natura finché, dopo che si fu avvicinato meglio, atterrò dolcemente sulla superficie del suolo marino. Leviathan, protettore delle acque e dei suoi abitanti, enorme e selvaggio, lo guardava dai suoi occhi di fulgido smeraldo, incatenato però da mistiche catene. Greg si prostrò umilmente davanti al simulacro del suo signore. La visione non lo meravigliava assolutamente né gli incuteva timore. Si sentiva al contrario avvolgere da un’incredibile aura di potere, riusciva a percepire le singole infinitesimali parti dell’acqua scorrergli attraverso le membra. Gli occhi di Leviathan si illuminarono, splendendo nelle profondità marine e investendo Greg con quella luce. Greg, disincantandosi da quegli occhi magnetici ed imperscrutabili, riemerse in superficie. Con suo stupore, si ritrovò ancora intento a levitare sopra le acque, circondato però da un vero inferno di onde. Il maestro era davvero deciso a metterlo seriamente alla prova e lui non era certo in animo di deluderlo di nuovo. Poi sorprese se stesso: sebbene non conoscesse l’incantesimo che Dovan gli aveva scagliato contro, si fece avvolgere dalle acque, cedendo ogni resistenza. In un attimo si formò una spirale che lo sommerse, facendolo sparire dalla vista del maestro e dei suoi amici. Staca cercando di strappare l’incantesimo dal controllo del maestro. Dalla nave si levarono grida di terrore e il maestro fu sul punto interrompere la prova, deciso a non mettere a repentaglio la vita dell’allievo. Ma la preoccupazione generale si dissolse quando Greg, in un sol colpo, si liberò repentinamente dalle acque, creando un’onda anomala che si propagò in tutte le direzioni. La situazione si era appena capovolta: provò a contrastare il contrattacco di Greg poi sentì come strapparsi qualcosa dentro di lui. Sorpreso, prese immediatamente coscienza che il suo allievo era appena riuscito a rivolgergli contro l’incantesimo. La Darlidan oscillò pericolosamente ed il suo ponte fu sconquassato dalla
potenza del maremoto generato. Andrew, Mark e Lisa si ressero con tutte le loro forze agli alberi della nave, terrorizzati dall’improvviso stravolgimento della situazione. Dovan, ancora a mezz’aria, era rimasto allibito dal Greg ed egli, dal canto suo, ancora a testa china per lo sforzo. Il suo respiro stentava a riprendere un ritmo normale, ma era cosciente del proprio successo e in quegli istanti si limitò a pensare una sola cosa. Ci era riuscito. Quando, poco dopo, fu a bordo della Darlidan, il pensiero fisso di Leviathan incatenato non accennava ad abbandonarlo. Era incerto se confidare ciò che aveva visto o meno al suo maestro ma furono gli occhi attenti ed indagatori di Dovan ad avere la meglio. Il maestro porse un grande telo a Greg per asciugarsi e gli si sedette accanto, avendo cura di fissarlo attentamente perché, prima o poi, si sarebbe deciso a parlare, ne era sicuro. Qualcosa l’aveva intimorito, ne era certo. «Cosa ti turba, Greg?» chiese quando anche il ragazzo aveva ormai compreso che il maestro non avrebbe atteso che parlasse spontaneamente. La risposta fu lenta, come se cercasse di focalizzare e di imprimersi bene nella memoria tutto ciò che aveva visto per assicurarsi di non trascurare niente. «Mentre ero sott’acqua e stavo pregando gli spiriti delle acque…Ho avuto una visione» le sopracciglia di Dovan si inarcarono per poi quasi congiungersi quando il ragazzo terminò il discorso. «Ho visto Leviathan» l’espressione di Greg divenne grave, avvertì nel profondo di se stesso qualcosa muoversi, quasi come se, anche per poco, avesse potuto condividere la sofferenza delle catene del sacro guardiano. «C’era qualcosa di strano in lui, ne ero certo maestro: era incatenato». Dovan diresse, per quella che fu una frazione di secondo, il suo sguardo verso il cielo sopra di lui, poi, con voce tranquilla e controllata, diresse di nuovo gli occhi su Greg. «Con tutta schiettezza Greg» disse sorridendo scacciando quel pensiero per il momento «Ci sono cose che neanche io riesco a comprendere. Ho paura che questa volta dovremo avere pazienza entrambi». Il suo tono era divenuto allegro. Greg annuì e il maestro si congedò ma, nel voltarsi, osservò, con finta distrazione, di questo il ragazzo ne era quasi certo, il cielo. La sua fronte si era aggrottata di nuovo.
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Altre due lunghe giornate di viaggio erano ate: Greg cercava di riordinare le idee, disteso sul comodo giaciglio nella propria cabina ma ogni tentativo di indovinare cosa gli riservasse il futuro terminava con un finale disastroso per lui o per i suoi amici. Sentiva il proprio corpo ancora spossato dopo gli allenamenti mattutini ed un sottile torpore cominciava a diffondersi nelle sue membra. Un aroma conciliante sembrava si stesse impadronendo della sua stanza e dei propri pensieri. Le palpebre gli si fecero mano a mano pesanti finché non ebbe la netta sensazione di stare scivolando nel sonno. Denso vapore lo avvolgeva mentre il plumbeo gelo gli stava entrando nelle ossa. Esterrefatto dal repentino cambiamento tentò inutilmente di svegliarsi mentre la pioggia batteva incessantemente sul suo corpo e altre nubi nere e pesanti avvolgevano l’imponente montagna che torreggiava sopra di lui. Un forte vento, ululante di rabbia, disperse le nubi che circondavano l’imponente montagna per rivelare la sua vera natura ai suoi occhi. Greg indietreggiò, spaventato, nel constatare la mole di ciò che si svelò per essere una gigantesca torre di cristallo, forse l’opera più grande mai eretta dall’uomo. Cinque strie dorate percorrevano i suoi spigoli fino alla sommità dove si ricongiungevano per formare un puntale la cui cima si perdeva nelle nubi più alte dell’atmosfera. Avanzò di qualche o verso la torre e fulmineamente la sua sagoma cambiò: il cristallo si tinse di un rosso fiammeggiante e molte delle sue vetrate cristalline caddero rovinosamente al suolo. Quell’opera colossale, fino a poco prima meravigliosa, adesso stava per essere inesorabilmente distrutta e tutto ciò senza che Greg potesse fare niente per impedirlo. Il sogno cambiò di nuovo e, in pochi istanti di fronte ai suoi occhi, si materializzarono fiumi di persone in fuga, incalzate da guerrieri mostruosi e bellicosi che, come uno sciame di vespe, travolsero la scena ando attraverso il corpo immateriale di Greg. Pochi uomini armati sembravano contrastare l’avanzamento inarrestabile dell’esercito ed un uomo in particolare dall’aspetto venerando ma fiero nella sua cotta di maglia, si ergeva in mezzo alle schiere facendo strage dei nemici che lo circondavano. Dall’altra parte un altro personaggio attirò la sua attenzione. Molto più alto della media, con vestiti di strana foggia ed uno sguardo terreo attraverso una maschera gialla con un lungo naso adunco, avanzava imperturbato in mezzo a coloro che erano i suoi uomini. Si mossero decisi l’uno verso l’altro e una volta di fronte, sguainarono le spade. Greg vide così due guerrieri formidabili fronteggiarsi in
un duello sostanzialmente ad armi pari fino a quando colui che indossava la maschera non se la sfilò: solo allora Greg comprese chi era quell’essere che, attraverso i suoi occhi dalle iridi bianche, stava adesso capovolgendo le sorti della battaglia. Il suo sguardo oscuro attanagliò l’anziano quanto esperto guerriero che cadde in ginocchio davanti a quell’essere terrificante. Prima che la nera lama di ossidiana cadesse sul collo dello sconfitto, gli occhi di Greg si offuscarono ed il ragazzo si risvegliò disteso sopra al letto della sua cabina con la mente turbinante dei ricordi del sogno. Si mise seduto sulla branda e senza che se ne rendesse conto, si ritrovò a fissare un punto indefinito nell’oscurità, fino a quando gemiti soffocati non attirarono la sua attenzione. Stiracchiandosi, aprì la porta della propria cabina, ritrovandosi nel familiare corridoio illuminato da alcune tenui lampade. Seguì il rumore dei gemiti e la sua attenzione si posò su una persona accucciata a terra, con la schiena riversa verso la parete: le si avvicinò silenziosamente e si stupì non poco quando ella si rivelò essere Lisa con il volto rigato da lacrime amare. «Cos’è successo? Perché non sei in cabina a riposare» La ragazza emise un’altra serie di singhiozzi e, aiutata da Greg, si mise in piedi. Raggiunsero la prua della nave: un vento dolce rinfrescava la calda aria notturna mentre le Lune rischiaravano l’orizzonte di un insolito bagliore azzurro. «Avanti Lisa, dimmi cos’è successo, sono sicuro che dopo ti sentirai molto meglio» disse, sforzandosi di circondarla in un abbraccio rassicurante, mentre lei, ancora assorta nel suo pianto, appoggiata alla balaustra, guardava il placido Oceano. Sentì la schiena della ragazza contro la sua, sentì i suoi singhiozzi ripetuti, le carezzò con delicatezza la testa, i singhiozzi si fecero più radi, poi, con ancora la voce rotta dal pianto parlò:«Un sogno…quegli occhi terrei…una foresta in fiamme…Ero terrorizzata Greg! Non mi è mai successa una cosa simile, non so da dove possano essere scaturite quelle immagini!» «Gli ultimi eventi ci hanno resi molto nervosi: anche io ho avuto un incubo dai contorni misteriosi poco fa. Anche nel mio sogno apparivano un paio di occhi terrei e…» Greg lasciò la frase incompleta. Non voleva terrorizzare ulteriormente la ragazza rivelandole per intero ciò che aveva sognato, dopotutto finché essi rimanevano tali non potevano fare loro niente di male.
«Che cosa succedeva nel tuo sogno?» lo incalzò curiosa Lisa. «Oh, niente di importante» mentì Greg «a dire la verità ricordo soltanto quegli occhi e nient’altro…». Le sorrise mentre, con sollievo, si accorse che i singhiozzi erano cessati e che la voce della ragazza aveva assunto un tono molto simile a quello che aveva di solito. Mentre si voltava per osservare le strane luci che venivano riflesse dall’Oceano, scorse per un attimo lo sguardo indagatore di Lisa ma decise di evitarlo. Dopotutto, per quanto credeva che anche lei avesse compreso i suoi turbamenti, lui l’aveva appena cinta in un abbraccio consolatorio. Un diffuso bagliore azzurro verdastro si era come impadronito del cielo in prossimità di una zona non definita dell’Oceano e le acque rilucevano della stessa luce spettrale. «Greg, cosa sono quelle luci?» chiese Lisa dopo aver ormai rinunciato a chiedere al ragazzo se forse le sue idee fossero cambiate. «Non lo so» rispose lui, silenziosamente felice per il cambiamento di discorso. «O almeno non ne sono certo. Ho il vago ricordo di qualcosa a proposito di strani fenomeni in una zona dell’Oceano centrale, chiamata dai navigatori “Mare dei Sogni”. A quanto si racconta, alcuni marinai che hanno percorso questa rotta sono stati vittime di strane visioni notturne e spesso ne sono rimasti sconvolti. A meno che queste notizie non siano del tutto false, direi che stiamo transitando attraverso quel tratto dell’Oceano» concluse laconico.
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Il vento si era alzato favorevole e da qualche giorno una forte brezza li spingeva a tutta velocità verso la verde Renodia. Per fare economia di consumo, Dovan aveva saggiamente deciso di conservare le unità di Varnelio solo in caso di imminente pericolo e quindi i potenti motori a propulsione, malgrado le rumorose ed insistenti proteste di Andrew per il quale non sfruttare il pieno potenziale di quella meraviglia tecnologica era un vero e proprio crimine, rimasero spenti.
In quei giorni gli allenamenti del maestro si erano fatti meno oppressivi nei confronti di Greg e lui preferì allenarsi, approfondendo gli incantesimi che già aveva iniziato a padroneggiare. Invitandolo a conoscere meglio anche gli altri spiriti della natura, gli insegnò ad evocare contemporaneamente due incantesimi, tecnica che, dai maghi, era conosciuta come bitherion e con esiti incredibilmente positivi. Anche Lisa e Mark si dimostrarono essere all’altezza delle nuove sfide che il maestro gli proponeva e senza dare il minimo segno di fatica e cedimento, nel giro di pochi giorni e di frequenti ed impegnativi allenamenti, si videro ampiamente ricompensati dei loro sforzi. Sebbene Greg avesse dimostrato poteri fuori dal comune, Mark non si era del tutto arreso a prevalere prima o poi sull’amico. I rapporti tra i cinque compagni, dopo i primi momenti carichi di tensioni emotive, si erano notevolmente distesi. Dovan dimostrò, coadiuvato da Lisa, di essere un ottimo cuoco, dando prova di conoscere sapientemente una vasta gamma di ricette, rigorosamente a base di pesce. Andrew, da parte sua, non stava di certo a guardare gli altri senza far niente: si dava un gran da fare nel mantenere il corretto funzionamento della nave e nel controllare minuziosamente la rotta, inoltre frequentemente si allenava con alcune delle armi che aveva trovato a bordo. Incredibilmente era riuscito a imparare ad usare persino lo spadone selthoniano, di norma riservato solo ai soldati più alti e robusti. Fin da piccolo il suo defunto padre, lo aveva iniziato all’arte del tirare di spada e al combattimento con il bastone. Da allora non aveva mai smesso di allenarsi saltuariamente e adesso stava approfittando di tutto il tempo libero che gli restava per affinare le proprie tecniche di combattimento. Il quattordicesimo giorno di navigazione, fresco e arieggiato nonostante si trattasse di una giornata di inizio estate, portò una ventata di buon umore al gruppo: il monotono paesaggio oceanico era finalmente mutato, dapprima con lingue di sabbia che lambivano appena l’enorme superficie cristallina, poi con floride e verdeggianti colline, occupate da una fitta vegetazione. Greg si trovava sul ponte della nave in compagnia di Lisa e con lei si stava esercitando per velocizzare l’evocazione degli incantesimi. Per Greg, dopo la riconciliazione di qualche giorno prima, stare in compagnia di Lisa era diventato molto più semplice: non arrossiva più quando la ragazza gli rivolgeva
la parola e per la prima volta da quando aveva scoperto di avere una cotta per lei, riuscì a portare a termine un discorso sensato. Persino Andrew si era accorto del cambiamento radicale di Greg nei confronti della ragazza, divertendosi, in più di un’occasione, a metterlo alle strette per carpirne il motivo di fondo. Greg si limitava a ridere di fronte alle presunte incriminazioni, aggiungendo poi, in tono serio, di essere incapace, in quel momento, di pensare ad altro che non fosse ciò per cui era stato designato. Presto l’insistenza di Andrew si fece più debole fino a quando si spense del tutto: aveva ormai rinunciato a capire cosa asse per la testa all’amico che ultimamente era diventato addirittura maniacale nei rigidi allenamenti che si auto imponeva. Senza ricorrere alla concentrazione spirituale che di solito anticipava l’uso dei poteri magici, Greg mormorò le parole dell’incantesimo del secondo anello della catena del tuono. Subito, appena sopra al palmo della sua mano destra, si generò un globo di pura energia galleggiante. Lisa ne fu entusiasta e Greg la invitò a provare a sua volta il procedimento: nel minor tempo possibile doveva riuscire a far vuoto dentro sé per poi immaginare lo stato puro dello spirito elementare che desiderava evocare. Lei si concentrò per un lungo attimo, durante il quale Greg le vide pulsare le vene sopra le tempie per lo sforzo e la fronte liscia e delicata corrugarsi. Forse era un impegno ancora troppo grande per la ragazza, benché avesse dimostrato in molte occasioni ate di non essergli stata da meno. Ora era tutto diverso, disse tra sé: il ato era e rimaneva tale, adesso che era stato sottoposto a quel duro allenamento Greg poteva fare appello a forze che quando era solo un semplice apprendista non avrebbe mai pensato di poter vincolare alla propria volontà. Poi finalmente le vide muovere le labbra e pronunciare le parole di un incantesimo. Sul palmo della sua mano comparve una sorta di diamante grosso quanto un pompelmo dal quale spuntarono decine di irti aghi di ghiaccio iridescenti. Lisa aprì gli occhi e ancora incerta sull’esito della prova, scrutò il volto di Greg per coglierne un segno di assenso o di diniego. «La tua hido era buona ed il tempo con cui la hai evocata lo era altrettanto. Brava, Lisa» disse Greg sorridendole docilmente. Lisa lo ringraziò soddisfatta ed il cristallo le si sciolse nel palmo come neve al sole nel giro di una manciata di secondi. Risero divertiti e insieme si avviarono sul ponte di comando, dove Andrew e Dovan stavano studiando le carte nautiche che comparivano sullo schermo della
consolle mentre Mark stava lucidando una spada leggera selthoniana trovata sottocoperta. Ultimamente, infatti, stava trascurando l’esercizio della magia per avvalersi degli insegnamenti di Andrew sul combattimento. Dovan da parte sua si chiudeva spesso dopo pranzo nella sua cabina, con il tassativo divieto verso chiunque di disturbarlo. Greg considerò normale la stranezza del maestro, soprattutto dopo che aveva spezzato il suo incantesimo. Probabilmente era intento a mettere a punto qualche strategia o a decidere l’itinerario che avrebbero dovuto seguire durante il loro viaggio. Benché avesse viaggiato in molti dei territori appartenenti all’impero, Greg non era mai stato a Renodia, anzi, se ci pensava bene non era mai stato presso un altro regno. Aveva solo sentito parlare della città Silvestre, immersa nel verde di una rigogliosa foresta il cui palazzo reale sembrava essere anch’esso una favolosa pianta. Poco sapeva in vero dei suoi abitanti, tranne che erano persone spesso bizzarre e lunatiche e meno ancora sapeva dei mistici esseri che si diceva vivessero e coabitassero con gli esseri umani, gli Esperidi. Si sporse dal parapetto, osservando le increspature formate dal celere aggio della Darlidan. L’Oceano era di un verde luminoso ed intenso, segno di una florida vegetazione marina ed occasionalmente scorgeva il fulmineo baluginare di qualche branco di pesci. Si ritrasse ed osservò il cielo: alle sue spalle Dovan e Andrew discutevano animatamente sulle ultime definizioni della rotta mentre Mark si esercitava nell’affondo. Sullo sfondo di un cielo terso si profilava una nube cerulea in dirompente avvicinamento. Sorrise nella certezza che si trattasse di uno storno di gabbiani in cerca di cibo. Spesso aveva visto nuvole intere di gabbiani solcare i cieli di Selthon a tutta velocità per poi tuffarsi, come un solo corpo, a banchettare con le prelibate prede. I suoi pensieri furono distratti dalla sempre più animata discussione in corso tra il maestro e Andrew. «Andrew ho fatto molte volte la traversata dell’Oceano da Selthon a Renodia, penso di non sbagliare se dico che costeggiare la baia sia meglio che are attraverso lo stretto interno. Il porto renodiano ha una dislocazione particolare: si affaccia sia verso lo stretto interno per poi allargarsi in una baia commerciale che verso la costa vera e propria. Nessuno di noi sarebbe capace di operare una manovra attraverso uno stretto, soprattutto perché di solito il traffico è davvero molto intenso. Quindi, mio caro Andrew, dovremo optare per un ingresso più sicuro ed agevole» concluse Dovan puntando ripetutamente il dito sulla mappa
della consolle. Andrew mormorò tra sé e sé qualcosa, contrariato per quanto aveva appena detto il maestro. Greg conosceva bene l’indole testarda dell’amico ma conosceva altrettanto bene quanto lo fosse il maestro: in questo caso gli argomenti di Dovan erano decisamente più convincenti rispetto a quelli di Andrew e non avrebbero dovuto far altro che seguire la rotta più sicura. Lisa si avvicinò a Greg sorridendo e gli fece notare quanto fosse strano lo stormo in progressivo avvicinamento. Greg si voltò di nuovo in direzione dello stormo e questa volta si costrinse ad osservare meglio la sua composizione: a prima vista poteva sembrare davvero uno stormo di gabbiani o di qualche altra strana specie di volatili ma ben presto la sua sorprendente velocità lo fece sussultare. In quello stormo c’era qualcosa che non lo convinceva affatto. Era come se un branco di cani indemoniati lanciati da un crudele cacciatore rincorresse senza tregua una preda ormai allo stremo. La strana espressione dei due fu poco dopo notata anche dagli altri che individuarono a loro volta lo strano stormo. Greg notò preoccupato che Dovan aveva aggrottato la fronte. Il suo volto si era fatto teso e vide tendersi i nervi del collo. L’esperienza gli insegnava che quell’espressione significava una cosa sola: guai in vista.
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Non dovettero attendere molto perché il pericolo che veniva dal cielo si manifestasse chiaramente ai loro occhi. In una frazione di secondo ci fu un’esplosione in aria e due corpi caddero esanimi sul ponte della nave. Tre figure contorte e mostruose si agitavano in aria, sbattendo concitatamente le ali membranose e dimenando le braccia pelose. Dovan corse sul ponte nello stesso istante in cui le tre bestie si avventavano in picchiata sulle due figure inermi. Dal palmo della sua mano destra si irradiò uno scudo di protezione contro il quale i tre abomini si scagliarono senza successo. Greg e i suoi compagni lo raggiunsero poco dopo e si prepararono a combattere mentre i tre mostri ruotavano ad incredibile velocità intorno alla Darlidan. Greg evocò due sfere di fuoco nelle mani ma la velocità dei tre esseri lo disorientò. Senza che nemmeno avesse il tempo di reagire due di essi piombarono su di loro facendoli cadere. Per un lasso di tempo che non riuscì a quantificare vide tutto nero intorno a sé,
ma delle grida disperate gli fecero riacquistare i sensi. Si rimise in piedi, cercando di individuare la fonte di quelle urla. Si voltò verso poppa: uno di quei mostri rapaci aveva artigliato Lisa alle spalle e l’aveva presa con sé. Greg si sentì invadere dalla rabbia, stava di nuovo per cedere al proprio istinto, ma il pericolo che nella sua ira avesse potuto nuocere anche a Lisa lo fece rientrare in sé. Gridò più volte il suo nome mentre la ragazza implorava il loro soccorso. Cercò inutilmente di afferrarla mentre il mostro riprendeva inesorabilmente quota, ma arrivato sul ciglio del parapetto, dovette abbandonare il tentativo. Accanto a sé, vide il maestro per un attimo tracciare degli strani segni nell’aria per poi irradiare da tutto se stesso dei raggi luminosi che colpirono il gruppo di mostri. Due di loro caddero rovinosamente in acqua ma, con suo gran dispiacere, notò che nessuno dei due era quello che aveva rapito Lisa. L’aggressore sopravvissuto, incolume, era già diventato un puntino nel cielo. Dovan ricadde su sé stesso a causa dello sforzo mentre Andrew e Mark, ancora tramortiti dell’impatto con uno di quei mostri, si erano appena rimessi a sedere. Greg fissava con occhi persi l’orizzonte, pietrificato nell’atto di evocare un incantesimo. Non riusciva ancora a credere che quegli esseri sconosciuti avessero rapito Lisa e che lui non fosse riuscito a far niente per evitare che accadesse ciò. «Che cos’erano?» chiese concitatamente Andrew. «Già, non mi sono neanche accorto quando ci sono piombati addosso» fece eco Mark. Andrew si guardò attorno, ancora ignaro dell’accaduto «Maestro, cos’è successo? Ehi, ma dov’è finita Lisa?» Dovan si alzò, avvicinandosi ad Andrew. Con la testa chinata e la voce spezzata rispose: «Rapita, per colpa mia. Ho sbagliato mira con il mio incantesimo. Il demonretro che ho lanciato contro quei tre mostri ne ha colpiti soltanto due, lasciando fuggire quello che l’aveva presa con sé. Pensavo che ce l’avrei fatta, ma quelli non sono purtroppo degli esseri comuni». L’incredulità si dipinse sui loro volti e seguito da Mark si precipitò verso il parapetto, ma l’orizzonte era sgombro dalla presenza di quel ripugnante essere. Mark lanciò un grido possente verso l’orizzonte, batté ripetutamente i pugni sulla balaustra, prese a calci una cima, poi si fermò, ansimando e chiudendo gli occhi. Andrew abbassò lo sguardo, ogni sua manifestazione di orrore per la scomparsa dell’amica era stata cancellata da quell’esasperato sfogo. Nel silenzio della disperazione che
seguì poco dopo, una voce nuova chiarì le perplessità generate dall’attacco di quei mostri ignoti. «No che non lo sono. Erano Goroi alati, esseri appartenenti al mondo sotterraneo. Ci stavano dando la caccia dopo un’incursione che noi Esperidi avevamo cercato di recare ai loro danni. Ci avete salvato e ve ne siamo grate». Greg che fino a quell’istante aveva continuato a fissare il vuoto, si costrinse ad osservare da dove provenisse quella voce melodiosa e flautata. In piedi sul ponte vi erano due splendide ragazze dalla pelle candida ed abbigliate con vesti piumate insolite, sconosciute ai suoi occhi. I loro sguardi avevano iridi d’ambra e sembravano risplendere di una forza pura e radiosa. Non parevano affatto esseri umani, somigliavano molto di più a degli… «…Angeli» chiese Greg attonito. La seconda sorrise. «No, nostro salvatore. Siamo Esperidi, abitanti di Renodia. Il nostro paese non è abitato solo dalla tua razza, ma anche dalla nostra. Siamo molto più antiche di quanto lo sia la tua gente e spesso la nostra natura è stata fraintesa». mascherò con una mano una breve risata, dopotutto le avevano appena salvato la vita «ma non preoccuparti, non siamo le “fatine” di cui tutti parlano». Greg, sebbene rivolse loro un sorriso di circostanza, rimase in silenzio, aspettando chiarimenti che andassero un po’ oltre il semplice chiarimento di interpretazione. Il signor Arneil non aveva poi così tanto torto quando aveva detto che erano un po’ lunatici. «Noi siamo Mylaetra e Cylaetra, suddite della regina Talandria e del re Avoran, nonché loro figlie. Siamo addolorate per la perdita della vostra amica, ma non disperate, siamo molto vicini al nostro regno e là faremo il possibile per lei. O meglio lo faremmo se ci trovassimo in condizioni normali: in questo periodo siamo continuamente sotto attacco da parte di quegli esseri orribili da cui ci avete salvate poco fa e tutti i nostri impegni sono profusi nel tentativo di capire la causa dei funesti avvenimenti che ci perseguitano» proseguì poi. Ora che Greg, e non solo lui, le guardava meglio era evinte che fossero sorelle. Colei che stava parlando, presumibilmente Mylaetra, aveva lunghi capelli castani ondulati che emersero come una cascata dopo che lei si fu sfilata l’elmetto che in parte le copriva il volto. Cylaetra non appariva molto diversa dalla sorella, malgrado i suoi capelli fossero di un colore più vicino al rosso e i lineamenti un po’ meno delicati.
«La nostra sacra foresta rischia di essere completamente bruciata e rasa al suolo dal loro potere maligno. Non solo, una parte di essa è diventata un luogo malsano le cui esalazioni sono irritanti veleni. Questa serie di eventi sfortunati è stata cruciale per la nostra popolazione che adesso vive nel terrore dei Goroi. Da giorni ormai subiamo continue incursioni nelle nostre terre e benché noi ci difendiamo strenuamente, quegli esseri non sembrano aver mai fine. Stiamo cercando di rintracciare la causa della loro venuta e nostro fratello è impegnato con i suoi uomini nella ricerca che per ora si è rivelata infruttuosa. Cari stranieri, se vi è a cuore il destino della vostra amica, vi preghiamo di aiutare il nostro popolo». Dovan strinse loro le mani in segno di amicizia, anche se parve soffermarsi maggiormente su quelle di Mylaetra, poi disse: «Faremo il possibile, altezze. Lasciate che ci presentiamo, io sono Dovan, mentre questi sono i miei allievi, Greg, Andrew e Mark». Le due Esperidi spalancarono i loro occhi, sbigottite nel riconoscere un nome tanto familiare. «Lei è Dovan, il maestro Dovan? I nostri genitori vi rammentano spesso e dicono grandi cose di voi. Ma cosa vi è successo, perché non siete a Selthon? Notizie recenti dicono di gravi disordini cittadini, nonché di alcuni traditori in fuga». Greg sorrise di circostanza, precedendo Dovan nella risposta. «Siamo noi quei “traditori” se è giusto chiamare così chi si batte per il bene del proprio popolo. Siamo stati costretti a fuggire dopo un violento attacco di ancora oscura natura alla nostra città». Il sarcasmo aveva lasciato il posto alla rabbia che divampava in lui quando tornava con la mente a quei giorni, e come se non bastasse era costretto a convivere con la recente angoscia del rapimento di Lisa. Non doveva lasciarsi sommergere dagli eventi, non poteva permetterlo, avrebbe dovuto reagire, farlo almeno per il bene di Lisa. «Il Cancelliere Samarlec è impazzito» precisò Mark precedendo di nuovo Dovan e facendo sì che per la seconda volta le Esperidi si mostrassero sbalordite. Dovan interruppe la discussione, prendendo con la forza il diritto di parola. «Non credo sia adesso il momento opportuno per discutere di questa faccenda. Molte forze agiscono contro di noi e abbiamo bisogno di tutti gli alleati possibili se vogliamo portare a termine la nostra missione. Altezze, vi prego di volermi scusare per l’intromissione ma ho un urgentissimo bisogno di un’udienza con le loro maestà, non solo riguardo al rapimento della mia allieva, ma anche per
aggiornarli sui recenti avvenimenti. Presto anche voi sarete al corrente della situazione». «Siamo sicure che la vostra presenza rischiarerà la corte. Comprendiamo benissimo il recente stato di cose e le vostre impellenti esigenze» rispose conciliante Mylaetra. Dovan fece un breve inchino, facendole accomodare a sedere su un divanetto. Come Greg non poté fare a meno di notare, anche il volto del maestro mostrava evidenti segni di crescente preoccupazione. Raggiunto poi Andrew a poppa, gli bisbigliò qualcosa all’orecchio e Greg non tardò molto a capire di cosa si trattasse: il volto dell’amico si illuminò come un faro e si posizionò subito sul sedile della consolle di comando, premendo l’interruttore che azionava i potenti motori al Varnelio. Greg fece appena in tempo ad afferrare il corrimano in legno del ponte che la Darlidan fu repentinamente sbalzata in avanti dalla propulsione. Attorno a lui l’oceano sfrecciava con sorprendente velocità, confondendosi in un’enorme macchia verde. Presto la sua vista venne offuscata dalle lacrime non dovute al forte vento che gli sferzava il volto. Pensava a Lisa.
Capitolo IX
L'Unicorno Verde
Il Sole era già scomparso dietro l’oceano quando la Darlidan fece il suo ingresso nei Porti di Smeraldo. Le miglia marine che li separavano dalla città erano volate a velocità incredibile intorno a loro. La lussuosa ed imponente nave attirò immediatamente l’attenzione di coloro che in quel momento si trovavano lungo i moli. Andrew regolò la potenza dei motori al minimo e lasciò che l’imbarcazione si dirigesse placidamente verso un molo non occupato. Nessuno aveva voglia di parlare e tutti sembravano agire tramite un muto accordo. Mark scese al volo mentre Greg recuperava le funi per attraccare il vascello per poi arle a Andrew legandole saldamente ad un anello di pesante metallo. Pochi minuti dopo tutto il gruppo fu in grado di sbarcare, ma le loro espressioni, che in altra occasione sarebbero parse esultanti agli occhi dei numerosi curiosi, erano traboccanti di tristezza. Un coro di brusii si levò dalla folla raccolta intorno al molo e Greg ne era pesantemente infastidito: si sentiva esausto dopo la pesante giornata che stava volgendo al termine e l’unica cosa che in questo momento gli stava a cuore era ritrovare Lisa. L’incessante mormorio si spense solo quando, da dietro al gruppo, fecero capolino le principesse: tutte i presenti si inchinarono ossequiosamente per rendere loro omaggio mentre un nuovo tipo di mormorii, questa volta di gioia, si diffo tra i presenti. Dalla folla emerse un ometto basso e tarchiato, vestito con una lunga giacca a code di velluto verde, con ben due paia di occhiali cerchiati d’oro poggiati sul naso prominente ed una grossa pietra verde montata su un anello d’argento gli ornava un dito della mano destra. Giunto al cospetto delle due Esperidi ripeté di nuovo l’inchino e congiungendo con le sue le mani delle due giovani disse: «Vostre altezze, il mio cuore si riempie di gioia nel vedervi sane e salve qui a casa. A palazzo eravamo angustiati dalla vostra scomparsa e vostra madre ha ordinato di perlustrare tutta la foresta per ritrovarvi» i suoi occhi erano divenuti acquosi, doveva essere sul punto di
piangere. «Quale gioia rivedervi qui adesso! Come avete fatto a scampare a quegli esseri abominevoli? Erano centinaia di anni che non apparivano da queste parti e per di più pensavamo di averli estinti per sempre» ripeté più volte le domande, mentre le dita della mano sinistra giocherellavano con il grosso anello. Mylaetra roteò gli occhi abbozzando un sorriso, si scambiò un’occhiata complice con la sorella e poi fece un piccolo colpo di tosse che richiamò il dignitario ai suoi doveri. «Adesso non importa, basta parlare di loro, l’importante è che siate di nuovo a Renodia!» concluse eccitato l’ometto. Le sorelle annuirono poi si misero da parte, in modo da rendere visibili anche all’uomo coloro che le avevano salvate. «Messer Quattrorbo ci permetta di presentarvi i nostri salvatori. Essi ci hanno a caro prezzo soccorso e adesso il nostro regno è loro debitore. Questo è il Maestro Dovan di Selthon e questi sono i suoi allievi». Dovan si inchinò profondamente, imitato prontamente dai suoi allievi. Greg non si stupì, una volta di più, nel vedere quanto fosse grande la fama del suo maestro nel mondo. Messer Quattrorbo sussultò facendosi per poco cadere le due paia di occhiali dal naso. «Maestro Dovan è un grande onore per noi avervi qui. Sono cresciuto sentendo narrare le vostre mirabili gesta ed è anche grazie alla mia ammirazione se oggi sono il primo saggio di corte». Dovan sorrise ringraziando delle gentili parole il curioso ometto. Greg era decisamente incuriosito: quell’uomo doveva aver vissuto non meno di quaranta primavere mentre Dovan arrivava alle trenta. Che cosa nascondeva? Colse per un attimo il suo sguardo, stranamente imbarazzato come se ad un tratto gli fosse scesa una maschera dal volto. Dopotutto non sapeva praticamente niente sul ato del maestro, fatta eccezione per il settario antagonismo che lo legava indissolubilmente a Samarlec. Si ripromise di indagare a fondo il prima possibile sul suo conto mentre, senza che se ne accorgesse, la folla intorno a lui aveva cominciato a cantare di gioia per il ritrovamento delle principesse. Dovan e Messer Quattrorbo si avviarono, attraverso le ali della moltitudine accorsa, ai Porti di Smeraldo e Greg, per non perderli, si vide costretto a dare una gomitata a Andrew, rimasto imbambolato ad osservare crucciato alcuni curiosi che stavano ammirando la Darlidan. L’amico lo seguì di malavoglia, non prima di avergli chiesto se conoscesse qualche incantesimo che potesse impedire a chiunque di salire a bordo.
L’eterogeneo gruppetto si snodò, seguito da una sorta di processione festosa, per le vie dell’insediamento portuale. Greg notò l’incredibile differenza del porto di Selthon con quello renodiano: esso si trovava all’interno di una laguna e le alte pareti rocciose erano costellate da curiosi fuochi e da abitazioni intonacate dalle quali sporgevano eleganti logge con pilastri verdi. Molti salici secolari sfioravano le acque e le loro radici imponenti formavano molti dei pontili cui erano ormeggiate le imbarcazioni, Darlidan compresa. Lungo di essi, e lungo le strade, vi erano, ad intervalli regolari, verdi lanterne che rischiaravano l’ambiente, inondandolo delle loro luci soffuse mentre davanti agli occhi di Greg apparivano giardini di incredibile bellezza, decorati da sculture e fontane. L’eleganza di Renodia non aveva niente a che fare con la prominente razionalità delle forme di Selthon, pensò. La città silvestre gli appariva meravigliosa ed i suoi cittadini festosi, amabili, anche se lunatici. Se Lisa fosse stata in loro compagnia la sua felicità sarebbe stata completa. Senza che se ne rendesse conto e trascinato dalla folla che lo circondava, Greg si ritrovò di fronte ad un’immensa scalinata scolpita direttamente nella roccia e che portava al livello superiore della città. Un immenso arco decorato torreggiava sopra le loro teste e riuscì appena a scorgervi la sagoma di uno splendido cavallo rampante. Al suo fianco anche Andrew e Mark osservavano sbigottiti l’affascinante bellezza della capitale, non riuscendo a loro volta a trovare parole che le rendessero pienamente giustizia. Le scale sembravano interminabili e quando ad un tratto si voltò verso l’oceano, contemplò la Laguna ed i Porti di Smeraldo in tutta la loro notturna bellezza: un’aura verde aleggiava sopra di essa, dandole un tocco di fascino e mistero e le verdi lanterne rilucevano sulle chiare acque della Laguna, tanto che Masir e Kalef, che su esse si specchiavano, sembravano aver assunto una veste di smeraldo. Una particolare struttura del Porto aveva attirato la sua attenzione: la vide solo dalla scalinata poiché si trattava di qualcosa che poco aveva a che fare con quell’ambiente idilliaco. Una porta, enorme e dalla consistenza massiccia, si stagliava su un piano intermedio fra il Porto e la città, illuminata a mala pena dalle lanterne che costellavano l’ambiente. Raggiunse Dovan per un istante e gli chiese circa la natura di quella strana costruzione: il maestro aveva rinunciato ad essere vago, una volta tanto. Si era chinato appena verso di lui e gli aveva bisbigliato all’orecchio la sua funzione. Quando Greg la comprese ebbe un sussulto: era l’ingresso per il luogo dal quale era stata sottratta la pietra adesso in mano a Samarlec. Ma la vista di ciò che stava per apparire davanti ai suoi occhi incantati per poco non gli fece dimenticare la meraviglia provata di fronte al panorama di poco
prima. Oltreate due colossali statue ricavate dalla roccia, anch’esse recanti le sembianze di un cavallo rampante, il gruppo si trovò di fronte ad uno spettacolo che non aveva pari su tutto il pianeta: un albero di dimensioni colossali sopra al quale era posto un gigantesco fiore di cristallo il cui pistillo si levava fino a un’altezza non commensurabile, torreggiava davanti ai loro occhi al centro di una vasta pianura; migliaia di luci risplendevano attraverso le sue fronde e altre ancora percorrevano con disegni spiraliformi la sua corteccia. Greg era inebriato dalla sua vista e per un attimo non desiderò altra cosa di rimanere per sempre a Renodia, anche al costo di abbandonare la sua importante missione. Il repentino silenzio che si diffuse tra la processione lo distolse dalle proprie visioni. Adesso che la folla festante stava in silenzio, Greg ebbe la strana impressione che un nuovo canto, più solenne e regale, si alzasse dalle fronde dell’Albero.
Sfiorano le acque salici piangenti, Di Bagliori verdi brillano le stelle lucenti. I Porti di Smeraldo dormono sognando Mentre noi antichi Esperidi stiamo cantando.
Nel notturno silenzio vengono avanti Coloro che da giorni vagano erranti. Consiglio ed aiuto qui troveranno Per battere ancora l’antico Tiranno.
Un grande Maestro viaggia con loro Il cui grande sapere vale più di un tesoro,
Dovan glorioso, guerriero ardito In tempo di pace amico gradito.
Molti presagi accompagnano talora Chi purtroppo tanto dovrà viaggiare ancora Uno tra tutti ha un lungo cammino Colui che nel cuore porta il nostro destino.
Adesso salite, non indugiate oltre, Sopra quest’Albero dimora la corte Del Re Avoran e dell’augusta consorte, Talandria la bella che sfidò la sorte.
Quel canto svanì a poco a poco mentre salirono i primi gradini del grande Albero-Palazzo. Greg era abbastanza sicuro che ciò che aveva appena udito si riferisse esplicitamente a loro e, anche se non era del tutto certo, l’ultima parte sembrava riguardarlo direttamente. I suoi interrogativi lo costrinsero a chiedere consiglio al maestro, gli si accostò precedendolo di qualche gradino e in un sussurro appena udibile gli chiese: «Maestro, chi sono questi esseri? Come fanno a sapere tante cose su di me?» «Non preoccupartene per adesso, Greg. Come già sai sono esseri molto antichi e non devi stupirti se conoscono molti particolari della tua storia. Quello che importa adesso è cercare l’appoggio del re e della regina per ritrovare Lisa e per avere nuove e più accurate informazioni. Confinato a Selthon non ho potuto mantenere molti contatti e spero adesso di poter essere aggiornato sulla situazione» rispose senza rallentare il o.
«Come dovrò comportarmi? Non sono mai stato alla presenza di un re e di una regina e come me neanche Andrew e Mark». «Quello che dici non è del tutto esatto…Ancora molte cose ti dovranno essere chiarite prima che questo viaggio abbia termine e molte ancora dovrai cercarle tu stesso. Siate naturali e cortesi e sarete accolti con benevolenza. Affrettatevi adesso, siamo quasi giunti sulla cima dell’Albero e presto saremo ricevuti». Dovan sorrise di nuovo bonario e Greg si sentì in parte rinfrancato e poco dopo Mark e Andrew gli furono di nuovo vicini. Andrew non fece altro che brontolare, per tutte le rampe rimanenti, a proposito della lunga salita che erano stati costretti ad intraprendere mentre Mark sembrava essere assorto nei suoi pensieri. Ora che Greg ci pensava attentamente non lo aveva sentito più parlare da quando Lisa era stata rapita. I suoi occhi si oscurarono per un istante e un senso di profonda oppressione si materializzò nel suo cuore: l’effetto lenitivo della canzone sembrava aver perso completamente il suo potere. Una lacrima gli scese calda lungo la guancia prima che, senza che se ne accorgesse, una luce imperiosa sommergesse lui ed il resto della processione. Uno sfavillante palazzo si ergeva maestoso davanti a loro, irradiandoli di luce propria; figure confuse dalla forte luce sembrarono condurli attraverso il grande portale. Greg non riusciva a vedere distintamente ciò che lo circondava e, quando si abituò al bagliore, si accorse di trovarsi in una grande sala di cristallo verde insieme ai suoi compagni, il resto della processione sembrava essere svanito nel nulla. Era certo che quella non fosse un’illusione e il suo pensiero fu confermato quando vide sgambettare Messer Quattrorbo da dietro la figura di Dovan. «Mi voglia scusare Messer Quattrorbo, dove sono finite tutte le altre persone che costituivano fino a poco il nostro corteo?» chiese Dovan, guardandosi attorno. «Chiedo scusa, ma la regina desidera che tutto sia in perfetto ordine prima di ricevere i suoi ospiti e mi ha pregato quindi di farvi attendere per qualche istante nella Sala Verde. Sono molto dispiaciuto di frapporre tempo prezioso tra voi ed il salvataggio della vostra amica ma confido nel fatto che presto potrete essere di nuovo uniti». Il curioso ometto si avvicinò con aria interrogativa a Greg e scrutandolo attraverso la doppia montatura dei suoi occhiali chiese: «Tu devi essere Greg se non sbaglio, vero? Invero non ti aspettavamo così presto ma ahimè la situazione è sull’orlo di un profondo baratro e sembra che i tempi si siano notevolmente ristretti…Cercheremo di fare tutto ciò che è in nostro potere per aiutarti ed istruirti nel poco tempo che abbiamo…Compito ingrato il
nostro…Siamo in una situazione di profondo svantaggio e tu non hai ancora sviluppato appieno i tuoi poteri…». Il vecchio si allontanò continuando a rimuginare sulla questione: a quanto pare anche lui sapeva del suo compito e di certo anche i reali. Dopo lunghi minuti di attesa ebbe la strana impressione che in quella sala il tempo scorresse più lentamente del normale: i suoi movimenti distratti sembravano notevolmente rallentati ed un senso di torpore gli saliva attraverso gambe. Evitava volontariamente di incrociare lo sguardo di Dovan e nessuno cercò di smorzare l’attesa col tentativo di intavolare qualche discussione. Quando la porta si aprì senza preavviso Greg ebbe un sussulto e Andrew, che sembrava essersi momentaneamente assopito, balzò maldestramente in piedi. Un uomo dall’aspetto regale che pareva emanare un’aura di profonda saggezza e rispetto, era comparso sulla soglia. Ammantato da una lunga veste blu oltremare e recante sul petto un complicato fregio di ricercata foggia, si inchinò davanti a Greg. Per un attimo il ragazzo colse il bagliore degli occhi di quell’uomo che in sé pareva avere poco di umano. L’esperienza aveva ormai insegnato a Greg che non sempre le persone che avevano davanti erano della sua stessa natura: dopotutto lui stesso, dopo le recenti scoperte, non riusciva a capire se poteva definirsi tale. Vi era inoltre nei suoi occhi fulgidi e lucenti qualcosa di vagamente familiare che però non riuscì ad identificare. Greg e gli altri risposero educatamente all’inchino e poco dopo l’uomo sparì attraverso uno dei portali della Sala Verde. Dietro di lui scorse Dovan che, contrariamente a quanto avrebbe mai supposto, non si era inchinato di fronte a quell’uomo. Il maestro, notò, con un certo di disappunto Greg, sembrava addirittura ostentare una certa ostilità verso quella figura che tanto lo aveva colpito. Non fece a tempo ad avvicinarsi al suo mentore che la porta si aprì di nuovo lentamente, senza però questa volta far apparire qualche altro strano personaggio. Andrew gli fu subito accanto, ma prima che varcassero la porta, Messer Quattrorbo sgambettò tra loro precedendoli. Adesso che era venuto il momento tanto atteso del colloquio con i regnanti, Greg non era più tanto certo di volerne prendere parte: tutto ciò che in quei giorni era venuto a sapere sul proprio conto o sull’intero pericolo che stavano per affrontare aveva purtroppo nuociuto a lui ed anche ai suoi compagni. Dovan da dietro lo spinse delicatamente, invitandolo ad entrare per primo nella sala del trono. “Ormai che siamo giunti fin qui”, si disse Greg,”tanto vale andare avanti, almeno per il
bene di Lisa”. Trasse un profondo respiro e cominciò la discesa di una maestosa scalinata, conscio di avere su di sé gli occhi di tutti i presenti.
†
Le basse fronde sotto le quali si trovava le davano un crescente senso di oppressione, alimentato oltretutto dai vapori malsani che si sprigionavano da una grande pozza putrida poco lontana. Notava indistinti movimenti nell’ombra che la attorniava, ma era certa che si trattasse di quelle orride creature, le stesse che l’avevano rapita. Non aveva neanche tentato di fuggire: quel posto le era del tutto ignoto e quella grande moltitudine di mostri non avrebbero impiegato più di un soffio per riacciuffarla. Il terribile albero putrido che si levava dalla pozza produceva strani rumori: nella sua corteccia si era fatto spazio per una sorta di escrescenza, un’orrida crisalide che sembrava pulsare di vita propria e che gettava nell’ambiente circostante la sua luce nefanda. Lisa rabbrividì nel guardarla, domandandosi che cosa si celasse al suo interno, pregando di non dover assistere alla sua nascita. Un concorrere di urla la distrasse dall’albero e da ciò che nutriva al suo interno per portare il suo sguardo verso la destra dello spiazzo in cui si trovava: una nutrita schiera di mostri emerse attraverso il fondo della foresta e si riversò per il campo. Dietro di loro veniva un’alta figura incappucciata, sul cui volto era posta una bizzarra maschera gialla dalle fattezze inumane. La figura alzò le braccia pronunciando strane parole ed a quel comando incomprensibile tutte le creature si inchinarono al suo cospetto, intonando una litania fatta di suoni stridenti ed aspri. Vampe di fuoco proruppero dalla pozza, rendendo l’aria irrespirabile ed annebbiando la vista di Lisa. La ragazza tossì ripetutamente e riuscì a coprirsi il viso con la tunica prima che il suo respiro fosse ostacolato dal fumo. Quando poco dopo le fiamme si furono placate e con esse l’emissione dei neri miasmi, Lisa riaprì gli occhi, trovandosi faccia a faccia con l’uomo con la bizzarra maschera gialla. Si ritrasse istintivamente, graffiandosi con una bassa fronda mentre un paio di occhi terrei la scrutavano a fondo. Il terrore la invase: aveva la netta sensazione di averli già incrociati in ato ed erano gli stessi che una
volta aveva visto in sogno durante il viaggio. Quella volta Greg l’aveva consolata dolcemente e lei si era tranquillizzata pensando che fosse tutto frutto dell’influenza delle strane visioni suscitate dall’attraversamento del Mare dei Sogni, ma adesso che si trovava faccia a faccia con il proprietario di quegli occhi malefici, ed in quelle spiacevoli circostanze, desiderò di non avere mai attraversato quel tratto di oceano. La sua memoria ebbe un guizzo improvviso, impossibile sbagliare: era Lord Astaroth. Sul volto del demone si dipinse un’espressione stupita, quasi incredula. Se fino a qualche istante prima era incollerito con lo stupido goroo superstite che aveva rapito un’altra persona invece che le due principesse Esperidi, tanto da polverizzarlo senza il minimo rammarico, adesso si sentiva incredibilmente eccitato a causa di quel fortuito errore. Da quando aveva potuto apprendere dalla rozza mente di quella bestia pestilenziale, l’errore di persona si era verificato sul ponte di una nave. Se la ragazza che aveva di fronte, era più che certo di non sbagliarsi, era la stessa che insieme ad altri l’avevano bloccato a Selthon costringendolo alla ritirata, questo significava che quei cinque erano scampati all’energia distruttiva del Cannone Celeste. Impossibile, si disse: quel marchingegno possedeva una forza sufficiente per spazzar via un’intera flotta da guerra corazzata. Un altro pensiero si inserì a forza nel suo stupore, prevalse sugli altri ed alla fine emerse chiaramente: se il cristallo aveva fallito, il ragazzo, l’unico che, dopo duemila anni, era riuscito a sconfiggerlo, era ancora vivo. Per un attimo ringraziò l’insperata inefficacia del colpo, felice di poter, una volta per tutte, regolare i conti. «Bene bene… Dunque, mia cara ragazzina, sembra che il nostro nuovo incontro sia voluto dal fato. Da un fato benevolo, oserei dire. Immagino che i tuoi amici si trovino da queste parti. Spero di incontrarli presto, soprattutto quello con il quale ho un conto in sospeso». Lisa sentì uno strozzo alle gola: Greg e gli altri erano in pericolo. Il demone non parve accorgersene e continuò gelido: «Immagino anche che escogiteranno qualche patetico tentativo di salvataggio se davvero tengono alla tua persona. Personalmente preferirei tenerti qui con me» la sua voce parve addolcirsi in maniera innaturale per poi riprendere il tono per lui più congeniale «Prima che dimentichi, desidererei porti una domanda. Sarei davvero curioso di sapere come avete fatto ad evitare la morte certa quando siete fuggiti da Selthon. Ti avverto che posso leggere nel pensiero se ti dimostrerai riluttante alla risposta».
Lisa abbassò gli occhi, quasi per proteggersi dai poteri di Lord Astaroth, cercando di nascondere nei recessi della sua mente il ricordo di quegli istanti, tentando di eluderli alla sonda psichica. Cominciò a tremare per lo sforzo. Lord Astaroth si rassegnò a doverle estorcere le informazioni: estese le sue onde mentali fino ad incontrare quelle di Lisa la quale cercava di opporgli una minima, seppur notevole resistenza. Ritrasse per un momento i suoi tentacoli: non voleva danneggiare la mente della prigioniera. Sondò di nuovo la sua strenua difesa ed infine trovò un punto sul quale far leva per entrare quel poco che gli bastava per conoscere la realtà dei fatti: vide la nave in mezzo alle acque, un potente urto, anticipato da un colossale muro d’acqua, del fumo e poi un grande essere che, di spalle, aveva fatto da scudo alla nave ed ai suoi occupanti. La faccenda era più strana del previsto, avrebbe preferito indagare ancora ma ritrasse i suoi poteri mentali, abbandonando progressivamente l’assedio alla mente della ragazza. Si ripropose di fare al più presto rapporto a Lilith, dopodiché si rivolse di nuovo alla prigioniera. «Smetti di tremare, non hai niente da temere, almeno finché resterai sotto la mia protezione, intendo». Di nuovo modulò la sua voce, diventando di un calore quasi umano: «Non trovi che sia meravigliosa questa notte stellata? È un vero peccato che ben presto la tua gente non potrà mai più ammirare niente di simile. Presto l’intero pianeta, come la conosci, non esisterà più ed al suo posto ci insedieremo di nuovo noi, coloro che secoli fa furono cacciati nel sottosuolo, privati della calda luce solare e delle pallide luci lunari, detronizzati con pretesti futili da coloro che un tempo voi uomini chiamaste benefattori ma che concretamente per voi non hanno fatto un bel niente» il suo tono crebbe insieme con l’amarezza che traspariva dalle sue parole. «Loro stessi sono stati gli artefici prima della loro, poi della vostra rovina e non c’è niente che adesso possano fare contro il potere che sta sorgendo di nuovo. È davvero un piacere leggere nei tuoi occhi cristallini la disperazione e la rabbia della tua folle gente, dopotutto non siete meglio di noi. Non lo eravate secoli fa e né tanto meno lo siete adesso. Combattete guerre senza tregua per accaparrarvi le terre, sacrificate sull’altare del progresso centinaia di vittime per giacimenti di combustibile minerario. Fin dove pensate possa giungere la vostra mano avida, fino a che punto desiderate deprecare la vostra anima? Quanto pensate davvero di essere diversi da noi, esseri che temete e ripudiate, quando nei secoli siete assurti ad ottenere poteri
che fanno paura persino a voi stessi? Avete dimenticato tutto ciò che di buono poteva esservi insegnato, avete dimenticato l’onore, il vero onore, e le ioni…» il demone avvicinò la mano ossuta, appena ricoperta da un velo di pelle, fino al viso di Lisa ma la ragazza si scostò inorridita da quelle parole. «E così rifiuti la mia gentilezza? Rifiuti a causa del mio aspetto, non è vero?» disse amareggiata la maschera. Lisa riuscì soltanto ad annuire, ipnotizzata da quegli occhi terribili. La maschera si scostò dal volto di Lisa e cominciò a tracciare intricati disegni nell’aria. Come se dovesse ripiombare di nuovo in uno strano sogno, Lisa si sentì sollevare da dove si trovava. Adagiata su un prezioso pavimento marmoreo, intorno a lei risplendevano mille luci fatate mentre con stupore si accorse di indossare il vestito più magnifico che avesse mai potuto solo lontanamente immaginare. Migliaia di perle pendevano da quel vestito color crema ed un diadema principesco le ornava la delicata fronte. Quando, al culmine dello stupore, sollevò la testa vide una mano tesa in sua direzione, il suo sguardo si riempì di meraviglia. Un giovane dai lunghi capelli bianchi raccolti in una lunga coda ed elegantemente abbigliato le porgeva gentilmente la mano mentre una soave melodia si diffondeva nell’aria. Lisa si alzò, ipnotizzata dagli occhi del giovane, tristi ma allo stesso tempo glaciali e su delle note sconosciute all’orecchio umano, cominciarono a danzare. Fu il giovane a rompere per primo il ghiaccio. «Tutto questo, mia cara, potrà essere tuo se solo deciderai di seguirmi. Niente potrà toccarti in questo spazio dorato, nessuno oltre me potrà averti, qui, in questo spazio al di fuori del tempo. Nessuna delle disgrazie e delle tragedie che affliggono gli uomini desterà il tuo minimo interesse o anche solo la più piccola sofferenza del tuo animo. Presto oblierai il tuo ato e con esso tutto ciò che ti lega alla tua realtà senza che tu ne soffra. Come la foglia di loto che annebbia i pensieri di colui che ne assaggia il fiore, tu trarrai nutrimento dai fiori di questa valle di gioia, unica terra fertile di un mondo sull’orlo dell’eterna sterilità». Lisa sentiva la testa pesante e confusa da quelle parole suadenti. Aveva la sensazione di volteggiare da ore tra le braccia di quell’affascinante sconosciuto ma qualcosa le diceva di non desistere, di non farsi tentare da quelle parole così
ambigue. Poi, senza che niente le avesse dato quel preavviso, vide la testa del ragazzo avvicinarsi, nell’atto di far posare le labbra sulle sue. Benché cercasse di evitare quel contatto, una parte di sé anelava a quel bacio, travolta dalle parole del ragazzo e stregata dai suoi modi gentili. Chiuse gli occhi, preparandosi al contatto ma con suo grande stupore ciò non avvenne. Con gli occhi ancora chiusi si sentì investire da un vento gelido e quando li riaprì si trovò in piedi, nella radura con l’albero putrescente, abbracciata a colui che fino a poco prima aveva un aspetto meraviglioso ma che ora si rivelava essere Lord Astaroth. Anche il demone pareva sorpreso da quell’interruzione inaspettata e la sua espressione si tinse di amarezza non appena la ragazza si ritrasse dal suo abbraccio orripilata. Lord Astaroth diresse il suo sguardo gelido nell’ombra notturna e dalla sua bocca uscì un nome sussurrato. Un’espressione frammista di disgusto e rabbia si dipinse sul suo volto mentre una figura minuta faceva capolino da dietro un albero a pochi metri da lui. «Lord Astaroth, grande è il mio piacere nel rivederti qui. Chiedo perdono per la mia intromissione, inopportuna come al solito, ma è mio dovere ricordarti che sei qui in vece di tutta l’Alta Corte ed il tuo incarico non è quello di annebbiare la mente di una sporca umana con i tuoi poteri di illusione, che, comunque sia presentano gravi carenze, come ho potuto osservare dai risultati del tuo lavoro a Selthon. Le persone che avevi imprigionato nella Gabbia dimensionale si sono liberate poco dopo la tua poco decorosa ritirata e, a quanto mi dicono, hai riportato per ben due volte una sconfitta contro un gruppo di patetici umani. Sai, Lord Astaroth, ho la netta sensazione che col are del tempo tu ti sia arrugginito. Pensa che a volte mi chiedo se davvero il nostro signore ti avrebbe creato se solo avesse saputo quanto poco stai onorando e perpetrando la sua causa» disse la figura scuotendo la testa. Lisa, confinata in un angolo, osservava quella scena ammutolita: non riusciva a distinguere completamente quella misteriosa figura dalla cui voce si sarebbe detta un bambino ma le sue parole erano tra le più taglienti che avesse mai sentito. Sulla testa recava un cappello con ampi risvolti e quando la figura si fu avvicinata ad Astaroth, il suo volto risplendette di una maschera metallica dai contorni mostruosi i cui unici fori erano in prossimità degli occhi. Dalla schiena pendeva invece quello che sembrava un lungo bastone intarsiato, di mirabile fattura e con dei fori praticati in posizioni regolari nella sua lunghezza, uno spolverino logoro e ampio lo rivestiva, lasciando di poco scoperte le gambe esili e nude.
«E’ davvero un piacere per me incontrarti di nuovo, Lord Minstrael» rispose l’altro, cercando, almeno per il momento, di lasciare che le provocanti parole che gli erano state indirizzate gli scivolassero addosso. «Sebbene, naturalmente, sia mia dovere ricordarti che la Sublime Lilith mi ha concesso la più completa libertà per l’attuazione della mia missione. Non intendo assolutamente discutere con te in tal proposito e meno che mai riguardo ai miei risultati» ribatté freddamente il demone. «Sbagliato» lo canzonò l’altro e porgendogli un rotolo di pergamena, «leggi questo se può schiarire le tue idee. Dovremo condividere l’incarico, per quanto, personalmente, avrei preferito condurre la missione senza la tua presenza».
†
«Greg ha dimostrato più volte di possedere una grande padronanza dei suoi poteri, insperabile fino ad ora. È giovane ma è riuscito a sconfiggere per ben due volte il primo dei Pari». Dovan fissò per un attimo l’allievo con occhi socchiusi, come se volesse rievocare con forza quelle immagini. «Re Avoran, Regina Talandria, credo che dovremmo continuare ad affidare le nostre speranze nel giovane Gregris. Dopotutto furono gli Angeli ad affidargli il sacro fardello della speranza e, come ben sappiamo, essi non fanno mai niente a caso e niente lasciano mai in sospeso» concluse. «A quanto riferiscono i fatti sembra che il ragazzo abbia buone qualità e capacità, ma tendo a sottolineare il fatto che è troppo giovane! È giunto troppo presto e repentinamente per lui il momento di trovarsi faccia a faccia col suo destino. Non è ancora pronto, non può esserlo dopo solo alcuni mesi di apprendimento della magia. Con tutto il rispetto per il maestro Dovan, non lo credo capace di fare miracoli di così vasta portata. A mio parere credo sarebbe più appropriato spostare il segreto in un posto più sicuro…Affidarlo ad una persona maggiormente preparata, psicologicamente e mentalmente intendo. Una persona istruita per tutta la vita all’arte delle armi e alla pratica della magia silvestre. Sto parlando del principe Deidar, cavaliere dell’Unicorno Verde e vostro figlio, Maestà» rispose con tono freddo Messer Quattrorbo. Greg alzò, per un attimo, i suoi occhi ed incrociò lo sguardo della regina Talandria per la
seconda volta da quando aveva fatto ingresso in quella sala. La regina aveva un aspetto magnifico, impareggiabile rispetto a tutte le altre donne mortali. Le donne più belle di Selthon sarebbero impallidite al suo cospetto. I suoi occhi cristallini, ricolmi di incanto, lo trafissero da parte a parte. Si sentiva terribilmente sotto esame e lo detestava. «E rischiare di rovinare così il piano millenario? Ci pensi, Messer Quattrorbo, noi non siamo in grado di portare a termine un’operazione simile, otterremo solo di compromettere la vita di Gregris». Lo contraddisse Dovan. Greg fu sconcertato dal dilungarsi della questione, soprattutto per il fatto che essa aveva come principale argomento lui stesso e la sua vita. Più volte aveva cercato di prendere parola per esprimere la sua opinione ma i discorsi dei due maggiori interlocutori, il maestro e Quattrorbo, avevano prodotto l’effetto di fargli morire le parole in gola. Sembravano discutere da ore e ore, ma i sovrani erano imibili nella loro rigida seduta sui troni. Talandria pareva molto attenta alla questione, ma Avoran, al contrario, teneva gli occhi socchiusi sotto le sue folte ciglia. Diversamente della regina, la cui età era pressoché indefinibile, il Re Avoran aveva un aspetto vecchio e stanco, con lunghi capelli argentei che gli ricadevano placidamente sulle spalle e sulla veste di velluto verde. Dalla fronte canuta pendeva una gemma bianca, probabile simbolo della sua maestà. Si stupì della differenza dei paramenti reali caratteristici dei regnanti, così diversi da quelli selthoniani. Benché l’imperatore di Selthon limitasse al minimo le proprie comparse in pubblico, per quanto Greg potesse ricordare, Levian Dorhanaelius VII portava una corona di inestimabile valore e, a quanto si diceva, di antichissima fattura. Taluni sostenevano addirittura che la sua fabbricazione non fosse opera umana. «…sono anni che vegliamo su di lui e solo da pochi mesi è sotto apprendistato. Sono innegabili i suoi recenti successi e sono convinto che presto sarà all’altezza di ogni ostacolo che gli sarà posto di fronte. Ma una domanda sorge alle mie labbra da quando abbiamo varcato la soglia della Sala e spero che sua altezza possa chiarire il mio dilemma. Cosa ci faceva lui qui?» domandò Dovan, stavolta indirizzato alle maestà renodiane. La regina ebbe un leggero moto di stupore ma subito riassunse la sua nobile fermezza, rispondendo veemente alla richiesta di Dovan. «Mi impegnerò a chiarire al più presto il suo cruccio, maestro Dovan. Ad ogni modo, ritengo che sia un argomento di cui trattare in privato e la pregherei
quindi di trattenersi qualche istante dopo che avrò congedato gli altri. Se adesso però non vi spiace, desidererei conoscere l’opinione del diretto interessato» chinò il mento, accondiscendente in direzione del ragazzo. «Se, per cortesia, il ragazzo potesse venire avanti…». Greg, decisamente nervoso per l’inaspettata chiamata in causa, si avvicinò al trono della regina. Incrociò per un attimo i suoi occhi del colore di lapislazzuli, di indiscutibile natura sovraumana per poi cominciare a parlare. «Proteggere il segreto, o il potere, come lo chiamate voi, è il compito che mi è stato affidato. Ho provato solo in minima parte la sua gravità e posso avere solo la vaga idea di ciò che mi può attendere in futuro. Ma questo è il mio compito, la mia missione. Non posso accettare che altri si frappongano tra me e la custodia di tale fardello, siano essi amici o nemici. Chiedo perciò la vostra fiducia. So di avere tanto da imparare, ma prometto che, quando verrà il momento di combattere ancora, io lo farò senza indugi, pronto a sacrificare la mia vita perché il segreto non sia svelato». Si fermò per fare una pausa, voltandosi verso Dovan, visibilmente emozionato dalle parole dell’allievo, cercando in tal modo la sua approvazione. Poi, quando riprese a parlare, lo fece esprimendo la domanda che da giorni lo assillava e a cui sperava di dare risposta: «Tempo fa il maestro Dovan cominciò a narrarmi le vicissitudini che mi hanno portato qui e del nemico che sembra in procinto di tornare a devastare il pianeta…Quello che adesso mi chiedo è da dove tutto si è originato: vorrei conoscere la ragione per cui gli angeli sono venuti nel nostro mondo ed il motivo per cui non sconfissero definitivamente il demone e le sue forze millenni fa» concluse Greg, quasi col fiatone. Dovan divenne pensieroso mentre un’ombra calò sul volto della Regina Talandria. Inaspettatamente per Greg, la risposta provenne da colui che, fino a quel momento, era rimasto nel più totale e statuario silenzio: Re Avoran. «Mi spiace, ma non è in nostro potere raccontarti ciò che ci chiedi. La tua domanda è perfettamente lecita e non potrebbe essere altrimenti tale», sospirò, schiarì la voce roca e stanca, «Ma tutto ciò fa parte di una complicata struttura e non ci è permesso spingerci più in là di ciò che millenni fa ci fu preordinato». Greg strinse i pugni, represse con forza il nodo che si era fatto stretto attorno alla sua gola e che adesso gli rendeva difficile il respiro. Gli stavano negando la verità.
«Mi rincresce Gregris ma quanto ti è stato rivelato è tutto ciò che per adesso ti è dato sapere. Non disprezzarci, poiché non siamo noi quelli che hanno deciso ciò». Greg strinse maggiormente i pugni, la mascella si serrò e i denti si digrignarono. «Ma voi sapete! Voi siete al corrente di tutto e io, il perno della missione, sono all’oscuro dei i che dovrò compiere!» Dovan si ammutolì. Talandria si alzò dal trono, fino a congiungere le sue mani con quelle di Greg: sentì la propria rabbia affievolirsi, probabilmente per essere entrato in contatto con quell’aura così rassicurante e positiva. La regina gli sorrise, con un’espressione diversa, empatica, pensò lì per lì Greg. «Capisco ciò che provi ma posso giurarti una cosa, sull’onore mio e di tutto il mio popolo». Greg si affrettò a rifiutare un giuramento così impegnativo ma la regina non volle recedere. «Per quanto tu brami di conoscere il ato di questo mondo e degli esseri le cui azioni ad esso sono saldamente intrecciate, sappi una cosa: ciò che ancora non sai o che solo ti è stato accennato non potrà arrecarti per adesso alcun danno poiché essi ti verranno svelati nel momento in cui dovrai affrontarli. Greg, impara ad aver timore di ciò che invece conosci: Lord Astaroth per esempio. Il suo potere ti è familiare eppure in cuor tuo sai che è proprio perché lo conosci che allora maggiormente lo temi. Lo stesso è accaduto con il potere che celi dentro di te. Ne hai assaporato il contatto ma non lo conosci appieno, non lo comprendi perché troppo al di là dalle tue attuali capacità». Greg annuì lentamente mentre nella sua mente si ordinavano i pensieri quasi come se fossero le parole della regina a dirigerli. «È pur vero che tenerti praticamente all’oscuro di ciò che il piano millenario ha in serbo per te è fin troppo restrittivo e crudele. Perciò ti posso concedere almeno di conoscere la parte che riguarda Renodia e l’immediato futuro». Greg sorrise grato mentre la regina sospirava lentamente. La sua voce assunse un tono di analisi: «Il male non può essere sconfitto in un solo momento poiché troppo grande è il suo potere e troppo profondamente egli è radicato in questo mondo: gli Angeli non possono in nessun modo distruggerlo definitivamente benché un tempo ne avessero avuto il potere e noi Esperidi non ne abbiamo la forza. Solo gli uomini, coloro che di più hanno sofferto a causa
sua, possono sconfiggerlo. Così gli Angeli scelsero proprio te, Greg, come paladino dell’umanità e difensore del nostro pianeta contro il male. Per aiutarti nella missione gli Angeli designarono altri tre giovani…». Greg si voltò verso i suoi amici: era di loro che parlava la regina? «…che con la loro maestà avrebbero rappresentato i loro regni…» Greg restò sconfortato da quella affermazione: questo voleva dire che avrebbe dovuto affiancarsi ad altre persone, a lui del tutto estranee. Si affrettò perciò a chiedere delucidazioni in merito alla regina: «Maestà, dovrò dunque abbandonare i miei attuali compagni di viaggio per aggregarmi ai nuovi?» La regina indugiò un attimo ma poi replicò bonaria: «Certo che no, caro. Credo che se anche qualcuno tentasse di dividerti dai tuoi amici andrebbe incontro ad un’impresa impossibile». «Non è del tutto vero, maestà» replicò Dovan dall’angolo in cui si era rintanato precedentemente. «Prima del nostro arrivo a Renodia, come ben saprà, una pattuglia di goroi ha assalito la nostra imbarcazione, rapendo una mia allieva. Chiedo perciò il permesso a sua maestà di….» In quel preciso istante la sala risuonò di una potente eco esterna. Le luci si offuscarono per un attimo ed il pavimento tremò percettibilmente. Volti increduli e spaesati si scrutavano l’uno con l’altro. Dovan non era riuscito a completare la sua richiesta per indire una squadra di ricerca per liberare Lisa dagli artigli dei goroi. Il maestro riuscì appena a sbirciare fuori da una degli immensi lucernari della sala per rendersi conto che adesso la situazione non era certo ottimale per affrontare tale argomento: Renodia, la Foresta delle Esperidi e il Palazzo Reale erano sotto attacco.
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I battenti della sala si aprirono con un tonfo che poco si addiceva al raffinato ambiente, rivelando un indaffaratissimo personaggio calato in una possente armatura verde smeraldo, con il volto celato da un pesante elmo a forma di testa di cavallo dalla cui fronte emergeva un corno ornamentale. Greg intuì che doveva trattarsi di qualche autorità, probabilmente del comandante dell’esercito che veniva a fare rapporto dei danni subiti. Greg fissò per un attimo i volti della regina e del re che parvero notevolmente rincuorati da quell’apparizione.
«Maestro Dovan, Greg, so bene che può non apparire il momento più opportuno per delle presentazioni ma l’urgenza e l’importanza del caso lo esigono a tutti i costi. Vi presento Deidar, mio figlio, comandante della cavalleria di Renodia ed il primo di coloro che hanno ricevutoli compito di aiutarti nello svolgere la tua missione» terminò, fissando dritto negli occhi Greg. Deidar si sfilò l’elmo, rivelando la chioma corvina ed i suoi occhi di ghiaccio e poi porse gentilmente la mano a Greg, il quale imbarazzato nel vedersi piombare davanti senza preavviso il primo dei suoi più “stretti collaboratori”, si dimostrò leggermente impacciato. Si strinsero la mano per qualche istante: gli occhi del principe squadrarono Greg poi, abbozzando un sorriso si rivolsero la parola per la prima volta. «E’ un piacere conoscerti, infine». Greg sorrise a sua volta. Era un ragazzo, non diverso da ciò che era anche lui. Si sentì incoraggiato, era stato meno difficile del previsto. «Lo è anche per me» rispose.«Prego Deidar, fai rapporto sulla situazione» soggiunse Talandria. Deidar si avvicinò ad un lungo e massiccio tavolo di quercia sul quale erano spiegate cartine in varie dimensioni del territorio e sulle quali a loro volta campeggiavano delle bandierine colorate. Poggiò le mani sulle carte, le fissò ancora, in lungo e in largo, poi emise un profondo sospiro. «La situazione è disastrosa: i goroi hanno marciato in massa verso la città, impadronendosi del bosco e appiccando i primi incendi per impedirci la fuga. Ho il timore che il loro piano sia quello di radunare tutta la popolazione attorno all’Albero ed impedirle di fuggire accerchiandola e tenendola sotto il tiro. A quel punto l’unica via di salvezza sarebbe rappresentata dai Porti di Smeraldo. Ho fatto allestire quattro grandi navi cargo adattate al trasporto di persone e sono pronte a salpare al primo segnale. Per quanto riguarda la difesa, i miei uomini sono pronti a battersi fino a che l’ultimo goroo non sia stato ucciso. Ma quello che ci preoccupa non sono tanto quegli abomini quanto il terrore verso uno strano individuo che taluni hanno visto aleggiare nell’ombra. I miei uomini temono il suo potere e credono che il ritorno dei goroi sia opera sua». La regina aveva ascoltato tutta il rapporto con gli occhi socchiusi ma dimostrando un’espressione attenta ed acuta. «Molto bene, caro. Maestro Dovan, la situazione, come ha potuto sentire lei stesso, è disastrosa. Ma nel disastro c’è sempre speranza, diciamo noi Esperidi». Greg non era del tutto sicuro delle parole della regina: che senso aveva sperare quando ormai la situazione era tragica? Il regno silvestre sarebbe stato quasi sicuramente
distrutto. I renodiani non erano mai stati un popolo belligerante e da quanto sapeva, l’unica punta di diamante del loro schieramento era la cavalleria d’èlite, rappresentata dagli Unicorni Verdi Reali. Poco dopo Andrew e Mark gli furono accanto: Greg lesse sui loro volti tensione e preoccupazione, nonché la spossatezza del viaggio. Indovinò i loro pensieri prima che aprissero bocca: «Greg, dobbiamo per forza fare qualcosa» cominciò Mark. «Tu, come noi, hai sentito benissimo le ultime notizie del principe. La foresta è invasa dai goroi. Lisa è là fuori sotto le grinfie di quei mostri e di colui che li guida» Proseguì Andrew. «Non abbiamo più tempo: se non la salviamo prima che la battaglia cominci avremo pochissime speranze di ritrovarla» terminò infine Mark. Greg scrutò pensieroso i suoi amici e soppesò attentamente le possibilità che gli venivano offerte. Se avessero atteso le disposizioni della regina, probabilmente avrebbero rischiato di non riabbracciare più Lisa e di non partecipare ad alcuna azione di guerra. Se avesse seguito i consigli di Mark e di Andrew, si sarebbe probabilmente gettato in un’azione suicida senza via di ritorno, mettendo a repentaglio non solo la sua vita ma anche, dopo la scoperta delle sue grosse responsabilità verso il mondo, quella di ogni uomo, donna e bambino vivente. Prima che l’altruismo prevalesse, furono i sentimenti ad aver ragione della sua decisione.
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Nella sala nessuno badava più a loro. Dovan era chino sulle mappe insieme ai regnanti e al principe Deidar nel tentativo di definire una strategia di difesa che potesse far guadagnare alla città un po’ di tempo per riorganizzare l’esercito. Agli strateghi reali si erano presto aggiunte anche le due principesse che, ristorate, erano pronte ad assolvere il compito a cui la loro posizione le aveva destinate. Approfittando quindi della momentanea distrazione del maestro, sparirono dalla sala e grazie al clima di inquietudine e di affanno che pervadeva il palazzo, non ebbero difficoltà ad eludere la sorveglianza e a ripercorrere la strada che li avrebbe riportati in città. Scivolarono silenziosamente nell’ombra delle strade di Renodia: il cielo sopra di loro era colorato di tinte rosso mentre all’orizzonte si ergeva la maestosa e millenaria foresta. Era là che i tre intendevano dirigersi: era nella selva che si annidavano le creature che avevano rapito Lisa ed era là che probabilmente avrebbero ritrovato la loro compagna.
Capitolo X
La Foresta degli Esperidi
Gli occhi di Greg faticarono qualche istante prima di abituarsi all’oscurità della foresta: il buio lo inquietava e, per di più, l’eco di mille voci, provenienti da tutte le direzioni, lo costringeva a rimanere costantemente all’erta. Di fianco a lui, Andrew teneva la mano pronta sull’elsa del suo spadone selthoniano, imitato da Mark con la sua spada leggera, quasi sicuro ormai di prediligere le armi bianche alla magia. Il sottobosco era ricoperto da una fitta vegetazione muscosa che attutiva i loro i. Greg non aveva la minima idea di dove avrebbero potuto trovare la loro compagna poiché l’unica informazione utile in loro possesso era la locazione approssimativa del luogo da dove provenivano i goroi. Se considerava, inoltre, che la Foresta delle Esperidi si estendeva su una superficie vastissima, le probabilità di trovare Lisa prima che divame l’inferno di fiamme calavano drasticamente a zero. Erano stati degli sciocchi ad intraprendere da soli e senza guida quella missione, anche se era per salvare una loro cara amica. Era certo che Dovan, sempre che fossero riusciti a tornare indietro vivi, sarebbe stato non poco adirato nei loro confronti. Percorsero ancora alcuni metri prima che, senza preavviso, Andrew si fermasse di colpo davanti a lui. Da quando erano entrati nella foresta non si erano scambiati neanche una parola e adesso che Greg stava per rompere quel silenzio per chiedere all’amico cosa fosse successo, si bloccò a sua volta. Tese gli orecchi: di fondo ai rumori della foresta, quasi impercettibile, avvertì il cadenzato ritmo dei tamburi. Come già sapeva, quel rumore proveniva dal profondo della foresta, ma la sua natura non prometteva niente di buono: erano tamburi da guerra. Istintivamente iniziarono a correre nella direzione del ritmo scandito dai tamburi che via via si intensificava. La stanchezza che fino ad un attimo prima pervadeva le sue membra era diventata un’ombra lontana mentre sfrecciava nella foresta seguito da Andrew e da Mark. Ogni incertezza ed
insicurezza che affollava la sua mente era stata dileguata dall’unica speranza di rivedere la persona per la quale avrebbe dato la vita e compromesso il destino del genere umano.
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La pozza d’acqua putrida era circondata da decine e decine di creature basse e tarchiate, con gli occhi iniettati di sangue e dal volto contorto, dalle proporzioni e dalle fattezze difficilmente identificabili, tanto che sembravano composti di parti di esseri viventi differenti. Alcuni di essi avevano con loro rozzi tamburi, ma molti altri possedevano armi ed armature di metallo grezzo. Il grande albero marcio che dominava con i suoi rami e con i suoi grappoli la pozza pulsava ininterrottamente, diffondendo una luce spettrale che distorceva l’ambiente circostante. Lisa era a qualche metro da loro, schiacciata contro un tronco, costretta ad osservare la scena più mostruosa di cui avesse memoria: dalla pozza si levarono alte fiamme mentre i tamburi percossi da quegli esseri abominevoli raggiungevano il massimo della frequenza. Poi, improvvisamente, tutto cessò. Fattasi coraggio, si sporse per osservare meglio: il bozzo più grande dell’albero aveva cominciato a sussultare spasmodicamente e di fronte ad esso si trovavano i due demoni, coloro che comandavano quell’orda di mostri e che poco prima avevano discusso in sua presenza. Un nuovo concorrere di grida la costrinse ad osservare di nuovo la scena: dal bozzo stava lentamente fuoriuscendo qualcosa di gigantesco che, con numerosi artigli, stava dilaniando la membrana che l’aveva custodito. Il fetore del nuovo venuto aveva invaso il luogo ed era entrato a forza anche nelle narici di Lisa che, per non vomitare, si coprì la bocca ed il naso con un lembo strappato di veste. Il nuovo essere avanzava intanto, mentre alcuni goroi tentavano, con scarsi risultati, di incatenargli le colossali zampe posteriori. Improvvisamente l’essere, infastidito, lanciò un poderoso boato e scaraventò i goroi che cercavano di immobilizzarlo dentro la pozza. In cuor suo Lisa pregava che nessuno dei suoi amici avesse dovuto affrontare quell’essere dotato di una forza spaventosa che adesso, inferocito, rischiava di fare poltiglia dei suoi stessi compagni. I due demoni, al contrario, non sembravano affatto turbati da quelle perdite superflue, erano, anzi, divertiti dal constatare la forza
travolgente del nuovo alleato. Qualche istante dopo la bestia, libera dalle catene, si diresse proprio verso di loro: Lord Astaroth e Lord Minstrael non parvero scomporsi mentre l’essere si avvicinava emettendo urla di rabbia. Fu il secondo, con tutta tranquillità, a vanificare quel poderoso attacco: sfoderò il bastone che teneva a tracolla sulla schiena e appoggiò uno dei fori praticati su di esso alla bocca. In pochi istanti si levò una melodia malinconica e struggente che arrestò istantaneamente la carica. Approfittando del diversivo alcuni goroi si avvicinarono per fissare le catene mentre Lord Minstrael proseguiva sempre più flebile la sua melodia. Lisa era stupita che un essere del genere potesse essere l’artefice di una cosa simile: i suoi occhi rilucevano di una cupa ed intensa malvagità e, come aveva udito poco prima, la sua voce bambina produceva frasi taglienti. Rabbrividiva al pensiero di una creatura simile, più malvagia di Lord Astaroth che perlomeno dimostrava un alto senso dell’onore e del dovere. I suoi pensieri l’avevano momentaneamente distratta della schiera davanti a lei che adesso pareva si stesse compattando in più file ordinate, dietro di loro l’essere emerso dall’albero, un’ombra oscura e colossale ora mansueta e docile. Poi, uno ad uno, arono davanti ad un grande braciere che fino a prima non aveva notato perché appena discosto dal campo visivo che le veniva concesso da quel luogo. Ogni goroo afferrò una torcia pronta all’uso da una catasta appena adiacente andola poi sul fuoco e accendendola. Non le fu difficile comprendere le loro intenzioni: volevano dar fuoco alla foresta e diffondere così il panico tra i difensori. E improvvisamente rammentò il sogno, quello strano sogno, dimostratosi tristemente premonitore, che aveva fatto qualche notte prima a bordo della Darlidan, in prossimità del Mare dei Sogni: occhi vitrei che la fissavano ed il fuoco, avvertimento del grave pericolo che adesso incombeva all’orizzonte. Aveva visto tutto, ma non aveva potuto far niente per impedirlo: si sentiva terribilmente impotente nel constatare tutto ciò. Anche se avesse utilizzato la magia, da sola contro tutti, non avrebbe ottenuto nient’altro che una morte valorosa sì, ma decisamente inutile. Lo sconforto la invase, attraversandola da testa a piedi, coprendole gli occhi chiari di lacrime calde: da sola, senza Greg e gli altri a proteggerla, era assolutamente indifesa. La sua forza magica offensiva era praticamente nulla rispetto ai poteri incredibili che aveva dimostrato di possedere Greg e la sua forza fisica era imparagonabile alla vigorosità di Mark o a quella di Andrew. Era un peso morto per il gruppo. Se, come riteneva il demone, i suoi amici sarebbero accorsi per salvarla, avrebbero rischiato la loro vita per una totale nullità. Greg avrebbe addirittura compromesso la buona riuscita del piano, per amor suo, lei che per tanto tempo era rimasta indecisa su due ragazzi e che ora sentiva che sarebbe stato troppo tardi per rivelargli che lo corrispondeva. Con il nodo alla gola e una crescente
tensione emotiva, si accucciò, ripiegandosi su sé stessa, in posizione fetale.
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Greg e gli altri arrestarono per un attimo la loro corsa frenetica per riprendere fiato. Da tempo incalcolabile si trovavano nella foresta, ignari di tutto quello che nel frattempo stava accadendo alla città: in quel momento decine di schiere di goroi avrebbero potuto assediare Renodia, mettendo in grave pericolo tutti gli abitanti ed i difensori mentre loro si erano lanciati in quella missione avventata e disperata. Mark si era appoggiato ad un tronco marcio, ricoperto dal sottobosco, illuminato dai raggi delle lune che freddi penetravano attraverso il fitto fogliame della sacra foresta. Andrew lo imitò poco dopo mentre Greg si ostinava a restare in piedi. Il suono di tamburi sembrava essersi pian piano intensificato durante la loro corsa fino a quando, qualche istante prima, era cessato di botto. Greg non riusciva a capacitarsi di quell’improvvisa sconfitta: era certo che seguendo il rullo incessante e pedante dei tamburi sarebbe giunto alla base nemica, ma adesso le sue speranze, congiunte a quelle di Mark e di Andrew, sembravano crollare su sé stesse. «Greg, cosa pensi di fare adesso? Se continuiamo a correre senza un indirizzo preciso ci perderemo dentro a questa foresta e ci vorrebbero giorni per tornare a Renodia. O peggio, potremmo, al nostro ritorno, non trovare più nessuna Renodia» disse Andrew. «So quanto sia duro per te dover accettare un fallimento, ma purtroppo non possiamo far altro per ritrovarla. Renodia è sotto attacco di quelle bestie mostruose che oggi pomeriggio ci hanno dato non poco filo da torcere. Ed erano soltanto tre. Immagina cosa potrebbero essere capaci di fare centinaia e centinaia. Laggiù molte persone potrebbero aver bisogno del nostro aiuto, del tuo aiuto, Greg. Tutto il mondo, o almeno le poche persone che sono a conoscenza del tuo segreto, ripongono tutti i loro ideali di libertà in te. In tuoi genitori credono in te» proseguì, d’accordo Mark. Greg, fino ad allora di spalle rispetto ai suoi amici e rinchiuso nel più cupo silenzio, esplose: «Non mi importa se il mondo crede in me! Nel caso ve ne foste scordati c’è una persona in questo bosco che attende di essere salvata, una
persona speciale, una nostra amica. Vale forse meno di un’altra persona? No, assolutamente no. Voi non potete capire. Almeno da te, Mark, mi sarei potuto aspettare un po’ di comprensione, soprattutto dopo lo scambio di opinioni che abbiamo avuto l’ultima volta a Selthon. Credevo che tu tenessi davvero a Lisa, credevo che tu…». «Credevi che io l’amassi?» lo guardò negli occhi, sicuro che i suoi si stessero velando. Era buio, non se ne sarebbe accorto nessuno. «Ti sbagli su tutti i fronti, in questo caso. Ho imparato a rinunciare ai miei sentimenti per Lisa da tempo ormai. Li ho repressi, ma non sono scomparsi. Quando a Selthon mi dicesti che eri sicuro che lei volesse me, ti sbagliavi. L’ho osservata attentamente per tutto il tempo che siamo rimasti sulla Darlidan e sono giunto alla conclusione che mi ha fatto finalmente desistere da qualsiasi intento. È te che ama, da sempre. È a te che in questo momento starà rivolgendo le sue preghiere, non a me. Come hai fatto ad essere così sciocco da non accorgertene?» Greg cadde in ginocchio. Se il suo volto non fosse stato oscurato dal buio i suoi amici avrebbero potuto vedere distintamente le lacrime calargli copiose dagli occhi. Ora che aveva la certezza di essere ricambiato non sarebbe più riuscito a vederla. Si sentiva attanagliato dai rimorsi dei tanti attimi ati, nell’ultimo periodo, ad evitare la sua premurosa compagnia, dei sorrisi non ricambiati che lei, speranzosa, gli aveva rivolto. Ricordò infine la notte durante la quale l’aveva incontrata nel corridoio delle cabine, turbata da un incubo terribile: tutti quei ricordi sarebbero stati inutili se Lisa fosse morta. Voleva ritrovarla, a tutti costi. E se questo avrebbe dovuto voler dire proseguire da solo per la foresta, controllandola palmo a palmo l’avrebbe fatto. Cominciò inspiegabilmente a ridere: «Mi dispiace, ma devo essere diventato pazzo dopo aver ascoltato le vostre parole. Adesso sento addirittura una musica nella mia testa». Mark e Andrew gli furono subito vicini, lo aiutarono a rimettersi in piedi mentre il ragazzo continuava ridere sommessamente. Poi, stranamente, anche Andrew avvertì qualcosa balenargli nella mente, qualcosa di indistinto, certo, ma che era sicuro provenisse dall’esterno piuttosto che dall’interno della sua testa. «Ho una buona notizia da darti: non sei pazzo, la musica la sento anche io». «Un attimo… è vero, la sento. È come un dolce sussurro, ma sono sicuro che chi
o cosa la produce sia vicino» disse Mark, tendendo bene gli orecchi. Greg smise istantaneamente di ridere, si ò la manica della camicia sugli occhi per asciugare le sue ultime lacrime. Non si sbagliava allora: non era frutto della sua mente come in un primo momento gli era parsa, ma la udivano davvero anche gli altri. Si consolò di non essere pazzo, perlomeno. Guardò negli occhi i suoi amici, e poi senza dire una parola si voltò per riprendere l’avanzata. Pochi minuti dopo sentì che la via sotto i loro piedi si faceva più ripida, fino a costringerli a dover avanzare poggiando anche le mani in terra. Le radici possenti degli alberi secolari fungevano da ottimi sostegni mentre la musica sembrava intensificarsi ad ogni o. Si trovarono, infine, sopra un piccolo poggio ricoperto di alberi: il cielo davanti a loro era tinto di un tenue bagliore verde. Ma non si trattava di Renodia. Essa infatti si trovava dalla parte opposta rispetto al loro punto di osservazione. Sentì distintamente Andrew tirargli un lembo della veste, nel tentativo di attirare la sua attenzione. Gli rivolse un’occhiata stranita e poi si voltò mentre Andrew, poggiando il piede su una pietra stranamente squadrata e di seguito su un’altra ancora, scuoteva la testa senza speranza essere considerato. E come era venuta, la melodia cessò: prima che Greg potesse di nuovo lasciarsi prendere dallo sconforto sentì vicinissima un cacofonia di versi gutturali e animaleschi mentre una nube di fumo si alzava dallo spiazzo sottostante. Greg si appiattì a terra, seguito prontamente da Mark e da Andrew, fino a raggiungere quasi il limite del poggio. Con la pancia a terra e l’erba soffice tra le mani, mentre un forte odore di marcio gli entrava nelle narici, vide infine l’Albero putrescente.
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Il demone perlustrò con lo sguardo acuto e penetrante dei suoi occhi vuoti le tenebre circostanti allo spiazzo. La sua vista non percepì alcun movimento interessante: nessuno, animali compresi, si azzardava ad avvicinarsi a quel luogo malsano che lui stesso a volte non considerava del tutto necessario. A suo parere sarebbe stato molto più semplice far apparire direttamente davanti alla città una nutrita schiera di guerrieri ben armati ai suoi ordini. Guerrieri con un cervello
ben pensante e ben addestrati, non una masnada di bestie dalle fattezze grottesche, a tratti ridicole, il cui cervello poteva essere difficilmente equiparato a quello di altre specie viventi. Per non palare poi dell’ultima creazione di Lilith: il Mynothork, quell’essere dalle enormi fattezze, dal cervello praticamente inesistente, ma la cui forza bruta aveva già reso certa la sua inarrestabilità. L’unico inconveniente è che non era lui a comandare nel Baiamondo e soprattutto adesso non si trovava nella posizione tale per permettersi azioni indipendenti. Sperava però di assaporare presto la gioia di un nuovo scontro col ragazzo di Selthon. Qualcosa gli diceva, con esattezza pressoché totale, che lui si trovava nelle vicinanze e che presto avrebbe fatto la sua comparsa. Esattamente come lui voleva. Scrutò di nuovo l’oscurità della fitta foresta, cercando di cogliere un piccolo movimento che potesse denotare la presenza umana. Volse poi lo sguardo a pochi metri da dove si era fermato per osservare le file di goroi che accendevano le torce incendiarie. Di nuovo avvertì la sgradevole e ben nota sensazione di essere osservato. Lord Minstrael giaceva accovacciato a terra, falsamente intento a controllare il suo flauto, in realtà interessato allo studio del compagno. Ma Lord Astaroth questa volta non sarebbe stato ad ascoltare le parole affilate del demone, avrebbe cercato, cogliendo l’occasione giusta, di insidiare l’odiato Pari. «Lord Minstrael, immagino che questa foresta così lugubre e cupa abbia un valore quasi affettivo per te. Dopotutto devi aver ato qui gran parte della tua vita». Minstrael si fece scuro e teso, senza che la maschera lasciasse trapelare la piega di amarezza in cui si era deformata la sua bocca nascosta. Astaroth, con le sue parole asciutte e prive di sentimento aveva fatto centro. «Questi luoghi non hanno più valore per me. Il ato non tornerà certo per nuocermi. Ho reciso tutti i legami con questo posto e, tranne per il bisogno di dar voce all’odio che reco dentro alla mia anima per quelle creature, non trarrei nessun giovamento dall’attaccarle. Avrebbero potuto essere nostri alleati, conosci parte del potere che custodiscono, ma rifiutarono per schierarsi a favore degli uomini. Arrivarono persino a mescolare con quelle creature basse e deboli il loro puro sangue. La regina stessa è un esempio di viltà: lei che mostrò un coraggio esemplare millenni fa decise di congiungersi con un patetico umano che da lei trae il sostentamento ingannando lo scorrere dei secoli. Odio quelle persone che con me si sono mostrate così crudeli a causa del mio viso deformato. Mia madre, la mia prima madre, morì quando ero troppo piccolo per conservare una sola immagine di lei: mi dissero che affogò nel tentativo di salvare un essere umano
neonato dalla furia delle acque alluvionali. Mio padre fu invece crudele con me: lui, un tempo considerato uno dei principi Esperidi più aggraziati e belli, aveva un figlio che non conservava niente del suo splendore. Mi costrinse fin da piccolo a portare una maschera, non come questa che ho adesso sul volto. Era fatta di legno mal lavorato, sentivo le schegge dure trafiggermi la pelle delle guance, distorcendo ed aggravando ancora di più la mia condizione. Solo una cosa mi era concessa fare allora. Avevo ereditato una sola virtù delle tante che si favoleggiava possedesse mia madre: la maestria col flauto. Per questo, appena trovato il suo flauto cominciai ad usarlo, mostrando subito un’incredibile bravura. Solo dopo pochi giorni da quella fortunata scoperta sorpresi mio padre ad ascoltare incantato le melodie spontanee che componevo soffiando, per caso o per mistica coincidenza, ancora non ne ero certo, dentro al flauto. Presto la mia abilità divenne il mio riscatto verso quel mondo che così poco mi aveva accettato per l’aspetto fisico: persone importanti giunsero nelle sale di mio padre per applaudire la mia musica. Spesso avevo la netta sensazione che le melodie assorbissero i colori del mio animo, ora allegro, ora selvaggio, mentre le mie dita danzavano coprendo i fori dello strumento. Scoprii infine che quello che avevo considerato una coincidenza non lo era affatto: avevo davvero il potere di condizionare le menti. La scoperta fortuita avvenne proprio in questa foresta dove qualche volta avevo abitudine di rifugiarmi per poter stare lontano dagli occhi curiosi e per potermi sfilare, anche se per poche ore, quell’orrenda maschera. Quando suonavo venivo circondato dagli animali silvestri, miei compagni di solitudine, tra i pochi che mi abbiano mai visto senza. Quel giorno sentivo in me ribollire una rabbia cieca per tutto ciò che mi circondava: intonai una melodia cupa e tenebrosa e per la prima volta nella mia vita di allora vidi i volti così puri e liberi dal vizio degli animali contorcersi in smorfie mostruose, enigmaticamente partecipi del mio dolore. Le mie note si fecero allora ancora più cupe e dopo qualche istante la scena davanti ai mie occhi si rese selvaggia e brutale: gli esseri cominciarono ad azzannarsi fra di loro, persino gli erbivori così mansueti colpivano senza pietà i cacciatori carnivori. Alla fine, l’unico superstite della strage, impazzito dalla collera e con gli occhi stralunati cominciò, ormai privo degli esseri su cui poteva sfogare la sua rabbia, con le membra sfatte e gli arti contorti in spasmi innaturali, rivolse su di sé le sue terribili fauci, dando vita ad un macabro rito cannibalesco. Ancora piccolo ed inesperto delle verità del mondo, osservai la scena impietrito fino a quando la bestia non cessò di esistere, ridotta ormai ad un cumulo di brandelli ed ossa maciullate. Mi ci volle tempo per assimilare correttamente la lezione che avevo imparato quel pomeriggio, ma infine giunsi ad una conclusione: avevo un potere, un potere nato da anni e anni di soprusi e sofferenze, un potere lasciatomi in
dono dalla mia prima madre come protezione contro coloro che mi volevano fare del male. Così un giorno, a seguito di una lite furibonda con mio padre, mi rinchiusi in camera, afferrai lo strumento che più volte si era rivelato utile per togliermi alcune soddisfazioni e cominciai ad intonare una melodia. Non volevo deliberatamente fare ciò che poi appresi di aver fatto, ma senza che me ne accorgessi, la melodia era composta dalle stesse note di quella che avevo suonato mesi prima al cospetto degli animali della Foresta. La casa di mio padre si riempì di urla furibonde e disperate mentre la mobilia ricercata e tutti gli ornamenti sembravano andare in frantumi. I muri stessi tremarono per la violenza della mia musica, ma io, imperterrito e caduto in quello che presumo essere stato un delirio estatico geniale, proseguii con la mia sinfonia di morte. Quando, dopo un tempo infinito, senza che avessi preso coscienza del cessare di qualsiasi suono all’infuori del mio respiro e della mia musica, terminai di suonare, mi trovai davanti una scena non dissimile da quella della foresta. Nessuna lacrima rigò il mio volto deformato, dal quale avevo strappato la maschera odiosa e ripugnante. Vedere mio padre ridotto ad ossa e brandelli non instillò in me alcun rimorso o pentimento. Fuggii allora da questo luogo, covando un odio infinito per questa gente e per il mondo intero» fece una pausa mentre la voce dal tono innaturalmente freddo di sempre era diventata euforica nel narrare nuovamente quegli eventi. Lord Minstrael riprese il controllo su di sé. «Adesso basta con la storia, il resto già lo conosci: tu eri là prima di me e fosti tu a trovarmi e a portarmi al cospetto dei nostri Signori» da sotto la maschera fece una smorfia di disgusto. «Non preoccuparti, non sono in vena di ringraziamenti. Ti odio con tutto me stesso, come d’altronde odio tutti gli altri Pari. Nessuno tra voi ha ato niente di simile a ciò che ho vissuto io. Voi non siete nati mostruosi, lo siete deliberatamente diventati. Io non ho avuto la capacità di scelta. Sono rinchiuso per sempre in un corpo privo di qualsiasi potenzialità e una maschera continuerà a coprire il mio viso. E adesso, perdonami se ti lascio gustare così poco la sensazione di vittoria nei miei confronti, Lord Astaroth, ma abbiamo una missione punitiva da portare a termine. Il Mynothork è tranquillo e i goroi stanno accendendo alacremente le loro fiaccole. Tra pochi minuti saremo pronti per dare scacco a Renodia. Notizie dai tuoi uomini?» Astaroth, ripresosi dalla sconcertante rivelazione di Lord Minstrael fece mente locale: i suoi uomini erano da ore impiegati nell’esplodere colpi di artiglieria pesante entro le mura della città. Aspettava il rapporto del comandante a minuti. Fece un cenno di attesa all’altro Pari e concentrò il suo sguardo fisso nel buio. Focalizzò l’immagine del capitano Herdigoll, suo sottufficiale di fiducia e lo
chiamò mentalmente a rapporto. Herdigoll, nelle cui vene il sangue demoniaco scorreva potente, non mancò di apparire, pochi istanti dopo al suo cospetto, emergendo come un’ombra indefinita del profondo del bosco. Herdigoll si inchinò al cospetto dei Pari e si apprestò a fare. Alcuni colpi di artiglieria pesante avevano colpito la città, alcuni addirittura le fondamenta dell’Albero degli Esperidi. Altri colpi, si rammaricò di fargli presente, erano stati deviati magicamente dagli scudi alzati all’interno della città, ma confidava che, aumentando il potenziale distruttivo dei proiettili, avrebbero infranto quelle patetiche barriere in poco tempo. Astaroth sorrise benevolo al suo luogotenente, Lord Minstrael comprese a sua volta che era giunto il momento di agire. La città ed i suoi difensori erano ormai alle corde, il momento per attaccarli era propizio. Disponendo di tutti quei goroi e del potenziale del furioso Mynothork, per il quale aveva delle idee esclusivamente personali che si era ben visto dal far presenti Lord Astaroth, prendere la città e radere al suolo l’Albero con tutta la corte dentro sarebbe stato cosa da niente. Alzò quindi un braccio, richiamando con quel gesto l’attenzione dei reggimenti parati di fronte a loro. «Creature demoniache, figli della Sublime, è giunto il momento tanto atteso di sferrare l’attacco finale alla città. Non fate prigionieri. Estirpate tutto ciò che vi circonda, che tutto bruci sotto i vostri piedi, siano le vostre armi portatrici di morte e dolore» Urla minacciose si alzarono dai reggimenti. Minstrael richiamò di nuovo l’attenzione, odiava essere interrotto, in qualsiasi circostanza. «Domattina il sole stesso dovrà avere il terrore di illuminare questi luoghi di battaglia, impregnati del sangue dei nostri nemici. Che l’assalto abbia inizio!» Un solo urlo formato da centinaia di voci raccapriccianti si levò dallo spiazzo e i goroi iniziarono ad avanzare attraverso la foresta, dividendosi su due fronti per poter chiudere in una morsa i difensori della città. Lord Minstrael si apprestò a seguire i reggimenti: sfoderò il suo lungo flauto, poggiò la bocca sul foro principale e intonò alcune note. Alcuni bagliori verdi si levarono dal flauto, il Generale si scostò appena lasciando che esso galleggiasse a mezz’aria. Ai bagliori verdi si sostituirono dei vapori del medesimo colore che si addensarono in una forma contorta attorno allo strumento. Una creatura volante dalle modeste dimensioni ma dalle ali forti aveva preso forma attorno al flauto, nascondendolo alla vista. Minstrael si accucciò su di esso, il Servo del Flauto, così lo chiamava, e spiccò, con un aspro garrito, il volo.
Lord Astaroth seguì per qualche istante la figura poco definita del demone nel cielo per poi trovarsi da solo. Il Pari soppesò le alternative che gli si ponevano di fronte: attendere da solo l’arrivo dei salvatori della ragazza o gettarsi in battaglia rendendo così più veloce la presa della città. I motivi personali abbondavano in questa riflessione: se la città non fosse stata presa a causa della sua assenza e fosse trapelato il motivo che lo aveva tenuto lontano dalla battaglia sarebbe stato severamente punito. Conosceva bene la situazione precaria in cui era e se Lilith lo aveva messo così alla prova avrebbe fatto bene ad attenersi scrupolosamente agli intenti del piano. Per il momento avrebbe lasciato da parte i motivi personali, ma non senza ragione. Se fossero riusciti a tornare sul campo mentre infuriava la battaglia avrebbero potuto scontrarsi apertamente senza che nessuno potesse per questo punirlo. Gli dispiaceva sacrificare alcuni tra i suoi uomini migliori, ma questo era il prezzo per assaporare la completa vittoria. «Herdigoll, desidero che tu ed alcuni della tua squadra restiate qui a fare la guardia a quell’umana» disse quindi indicando Lisa. il capitano si inchinò. «ho il sospetto che stia aspettando visite. Se non sbaglio dovreste conoscervi già». Herdigoll annuì col capo: quella mattina a Selthon quando erano stati sguinzagliati per cercare un fuggitivo ed i suoi complici era stato proprio lui a catturare la ragazza e ad obbligare un altro a parlare. Lord Astaroth, seguito dal capitano, si avvicinò a Lisa e le sorrise quasi benevolo. «Ragazzina, il dovere mi chiama, ti lascio comunque in ottima compagnia. Come dicevo, poco fa, dovreste conoscervi già perciò non vedo perché non debba essere un piacere anche per te rivedere un volto noto». Lisa si voltò sdegnata dall’altra parte, ricordava bene come quell’essere l’aveva minacciata con un coltello, non avrebbe voluto provare di nuovo quella sensazione. Incurante della reazione della giovane, batté le mani ed al suo cospetto si materializzarono cinque uomini armati. Aveva dei progetti per quella ragazza, o meglio, aveva scorto in lei delle possibili potenzialità. In ogni caso, segregata lì, non gli sarebbe servita a niente. «Il capitano Herdigoll vi fornirà tutte le spiegazioni in merito al vostro nuovo compito. Non sentitevi sminuiti per essere stati allontanati dal campo di battaglia, questo nuovo incarico sarà altrettanto importante». Il demone avvertì
un debole sussurro provenire da un piccolo poggio poco distante, sorrise di soddisfazione per un attimo mentre, avvolgendosi dentro il mantello, si volatilizzava.
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«Se ne sta andando» bisbigliò Mark mentre vedevano il demone smaterializzarsi. Andrew gli assestò una gomitata, intimandogli di restare in silenzio. Sei uomini circondavano Lisa, calcolò Greg, mentre loro erano soltanto in tre. Certo era meglio affrontare sei uomini piuttosto che Astaroth in persona anche se niente gli lasciava credere che non l’avrebbero incontrato di nuovo. Lisa era coperta dei rami di un albero mentre i sorveglianti erano in circolo attorno alla sua posizione. «Dobbiamo attaccare di sorpresa» bisbigliò Greg ai compagni. «Già, ma da quassù è un problema scendere senza farsi notare, non ti pare?» lo contrariò Mark. «Non possiamo restare qua in eterno, hai visto l’esercito che avanzava verso Renodia? Dobbiamo fare il più presto possibile, non abbiamo tempo per architettare una strategia vincente. Dobbiamo intervenire adesso» bisbigliò Andrew. «Va bene. Scivoleremo lungo questo versante, voi due attaccate con le armi mentre io, durante la discesa, comincerò a lanciare incantesimi. Urlerò a Lisa di proteggersi con un halos per evitare che subisca danni». «Anche io posso lanciare incantesimi» protestò Mark. Era vero che da qualche tempo aveva smesso di esercitarsi ma era pur sempre stato in grado di reggere il confronto con Greg. Almeno per quanto riguardava il ato, si trovò ad aggiungere qualche istante più tardi. Fissò l’amico, verso il quale aveva provato da sempre una grande stima ed una certa invidia. Greg era sempre stato tutto ciò che lui voleva essere ma che, malgrado i suoi sforzi, non riusciva ad anticipare o a sorare. Tutte le volte che arrivava faticosamente al suo livello, Greg si trovava già due i avanti a lui. Da quando, però, avevano iniziato a studiare
magia, il loro livello sembrava essersi parificato, l’eterno amico irraggiungibile sembrava sceso dal trono ostentato sul quale sedeva spensierato. Ma una volta ancora si era verificato lo stacco: Greg aveva scoperto di avere in sé qualcosa di diverso dagli altri, un potere che gli dava una forza pressoché inarrivabile, rendendolo una volta di più ancor meno umano e lasciando inevitabilmente Mark sul livello più basso della scala di potere. «Perché non puoi lasciare Andrew da solo contro quegli uomini. Solo voi due riuscite a maneggiare le armi e, senza offese, io riesco a lanciare incantesimi più potenti, più numerosi e più veloci dei tuoi» rispose Greg con risolutezza. «Senza il mio debole, unico, lento incantesimo l’ultima volta a Selthon, Dovan ci avrebbe rimesso la pelle». Lo incalzò di nuovo Mark, risentito per la pur veritiera osservazione dell’amico. Andrew fu costretto per l’ennesima volta, aveva ormai perso il conto delle volte che era già successo, a placare gli animi focosi dei suoi amici con un sibilante ‘basta’. «Ragazzi, non abbiamo più niente da attendere, dobbiamo agire il prima possibile per prenderli di sorpresa e per tornare a Renodia ad avvertire re Avoran e la Regina Talandria del prossimo avvicinarsi dell’esercito» sentenziò Greg. «Sempre che non sia già troppo tardi» aggiunse amaro Mark. Greg scosse la testa, cercando di non prestare attenzione al commento pessimista dell’amico. In cuor suo sapeva che quella era un’eventualità della quale avrebbero dovuto per forza tenere conto. Molte cose sarebbero dipese dall’ombra della battaglia che andava allungandosi sulle verdi praterie di Renodia, non ultima la riuscita della sua impresa. Ricordò gli ammonimenti di Dovan nel celare più che poteva il suo potere nascosto e cercò di fissarlo bene in mente. L’occasione che gli si profilava sotto i suoi occhi era quella di testare le nuove abilità apprese durante le due settimane di navigazione, non quella di sfruttare il potere che custodiva. Padroneggiando ormai gli incantesimi del terzo anello non pensava certo di trovare problemi affrontando quegli uomini in combattimento. Tutt’al più la sua fonte di preoccupazione era costituita da Mark e Andrew, per non parlare di mantenere l’incolumità di Lisa intatta. Sospirò per l’ennesima volta: non aveva avuto il tempo di architettare un piano abbastanza efficace, l’effetto sorpresa sarebbe dovuto essere l’unico aspetto sul
quale contare. I soldati di guardia sembravano smaniare per l’attesa, di certo si aspettavano qualcosa a momenti. “Meglio non farli aspettare oltre” disse tra sé Greg. Incrociò gli sguardi dei suoi compagni, con le mani pronte ad estrarre le spade. In una frazione di secondo Greg fece un impercettibile cenno col capo a Mark e a Andrew ed in una seguente frazione di secondo si alzò in piedi. Concentrò il suo potere nelle mani per formare due mejrama enormi che risplendevano ardenti. Poco dopo Andrew e Mark scattarono in piedi fulminei, sguainando le spade dalle fodere per poi gettarsi lungo il piccolo pendio scosceso. Le sfere di fuoco crebbero di potenza ed intensità fino a coprire interamente le braccia di Greg, ma il ragazzo non ci fece caso, il fuoco non aveva alcun effetto sui suoi arti: poco dopo le sfere come proiettili esplosivi si infransero contro le due guardie che piroettarono al suolo coperte da fiamme ardenti e sconvolti da dolori lancinanti. Mark e Andrew, non da meno, si erano ferocemente abbattuti sulle quattro guardie restanti che fecero del loro meglio per difendersi tenacemente. Greg scese a sua volta il pendio mentre nella sua mano già crepitava una terribile scarica elettrica frutto dell’invocazione degli spiriti del terzo anello della catena del tuono. Sentiva crescere dentro di sé il potere derivante da Cuculcan, lo spirito dal quale prendeva vita l’incantesimo poi il suo corpo agile fu percorso dalle scintille ed un fulmine si abbatté irrimediabilmente su un soldato. Andrew e Mark si liberarono facilmente di due guardie mentre l’ultima si teneva a pochi i da Lisa, convinto che non l’avrebbero attaccato per paura di colpire la compagna. Andrew si lanciò contro Herdigoll, l’ultimo demone rimasto, fu respinto con un’agile parata: le armi si urtarono producendo un forte clangore metallico. Andrew fu respinto con forza sovraumana dal demone, urtò violentemente contro un albero vicino e perse i sensi accasciandosi a terra. Mark poco distante lo raggiunse adagiandolo delicatamente a terra ma Greg si avvicinò al demone mentre egli, con un’espressione contratta, stava cercando di sollevare davanti a sé una barriera per bloccare l’avanzata dell’avversario. Greg continuò ad avanzare, disarmato, mentre il demone davanti a lui impugnava saldamente con la mano libera la spada. Sentiva il suo cuore pompare oltre il normale, la rabbia divampargli dentro mentre osservava Lisa seduta a terra con gli occhi sbarrati. Herdigoll alzò la sua barriera, lo sforzo mentale era adesso al massimo che i suoi poteri demoniaci gli consentivano, Greg indietreggiò di appena qualche o ma poi avanzò inesorabile mentre la barriera retrocedeva al suo cospetto. Il demone era paralizzato dallo sconcerto, la mente di Greg stava progressivamente indebolendo la barriera. Giunto infine a pochi i dal demone alzò un braccio: il suo volto non mostrava traccia di
comione, era risoluto a far terra bruciata intorno a sé. Toccò la barriera mentale e con forza vi introdusse dapprima la mano e poi il braccio, ponendo il palmo della mano destra al centro del petto del demone. Herdigoll ebbe appena il tempo di comprendere quello che stava accadendo quando Greg, evocando il terzo incantesimo degli spiriti del vento, lo trafisse con un’affilata stalattite di ghiaccio, spuntata dal palmo della mano.
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Attorno alla scena era calato un silenzio gelido, quasi quanto l’incantesimo: Greg sollevò più in alto il demone attraverso la lunga lama di ghiaccio. Andrew, appena ripresosi dal brutto scontro di poco prima, si mise a sedere giusto in tempo per comprendere la gravità della scena: i suoi occhi si sbarrarono e Mark si accostò a Lisa. Erano sconvolti: non avevano mai visto Greg reagire in un modo così crudele con un nemico, fatta eccezione per lo scontro con l’anfisbena. Prima di esalare l’ultimo respiro Herdigoll pronunciò deboli parole di vendetta nei suoi confronti. Greg che con sguardo sprezzante lo teneva sollevato da terra inclinò il braccio e la stalattite penetrò ancora di più nelle carni del demone, straziandolo. Con un ultimo gesto di sdegno verso il nemico trasse indietro la mano e lo scagliò con la stalattite verso un albero poco lontano. La lama si conficcò nel tronco ed il demone ricadde avanti a testa china, ormai morto. Greg si voltò finalmente verso Lisa e gli altri, ancora con gli occhi fissi su di lui, si chinò a terra e con fervore abbracciò Lisa che, contro ogni previsione, rimase inerte, non ricambiando il gesto d’affetto. Greg si staccò contrariato ed il suo sguardo incrociò quello degli amici. Per la seconda volta nel giro di pochi istanti, rimase deluso nel leggere chiaramente la disapprovazione nei loro volti. Fu Andrew a parlare per primo, con voce incerta e parole sconnesse: «Greg, cosa…come…hai trucidato quel demone…non potevi, non credevo tu potessi…non è da te…perché l’ hai fatto?» Greg si alzò e si volse dando loro le spalle. Con la coda dell’occhio vide la stalattite conficcata nell’albero. Non aveva intenzione di rispondere ai suoi amici delle sue azioni e del suo operato. Anche loro avevano ucciso, poco prima. Dov’era la differenza? Quella era la vera realtà delle cose, la guerra. Quegli
esseri stavano per attaccare e radere al suolo una città intera. «Non è giusto provare comione per loro. Pensate che dar loro una morte onorevole possa essere edificante? Pensate che mostrerebbero pietà per qualcuno di voi? Credete davvero che loro mostrerebbero pietà per qualsiasi uomo, donna o bambino di Renodia» «Greg, non sei tu a parlare, devi calmarti...» disse Mark. «Ascoltatemi bene. Non ho intenzione di discutere con voi, non adesso almeno. L’unica cosa importante è che Lisa sia salva». Osservò per un attimo Andrew, un rivolo di sangue gli rigava il volto. Ricordò, come lontano secoli, il violento impatto di poco prima.«Andrew, sei ferito. Lisa, potresti curarlo?» le sue parole fecero a lui stesso un effetto glaciale. Nessuna emozione sembrava trasparire sotto la preoccupazione che aveva cercato di esprimere. Normalmente non era quello il normale tono di apprensione verso i suoi amici. Come se non avesse detto niente, se la sua voce fosse stata muta, Lisa non si mosse. Era ancora paralizzata, con lo sguardo nel vuoto, sorda alla richiesta di Greg. Andrew si toccò la ferita e il viso si contorse in una smorfia di dolore. Tentò di rimettersi in piedi ma il suo o era malfermo, la sofferenza provocatagli dal colpo troppo forte, si appoggiò a Mark. Questa volta Lisa sembrò accorgersi di ciò che le accadeva intorno, movendosi appena verso l’amico incapacitato. Andrew fu deposto a terra da Mark e Lisa sollevò le mani dal grembo, ponendole sulla testa dell’amico. Pronunciò le parole dell’incantesimo curativo aenea ma, contrariamente a quanto era sempre accaduto, nessun bagliore si sollevò dalla ferita. Lisa si piegò su se stessa, scoppiando in lacrime. «Non ci riesco» singhiozzò «non ci riesco, non posso farlo… Sono inutile, un peso». Si aggrappò a Mark e diruppe in uno sfogo nervoso. «Perché non mi avete lasciata a me stessa? Perché avete rischiato la vita per me? Sono solo un peso morto, non riesco neanche negli incantesimi più semplici!» concluse tra le lacrime e i singhiozzi spasmodici di un pianto che non accennava a diminuire. «Dov’è finito il Greg che conoscevo? Perché lo hai fatto?» disse questa volta indirizzata al ragazzo, ancora di spalle. Greg scosse la testa, chiuse gli occhi e disse le parole che non avrebbe mai
pensato di dire in vita sua. «Non c’è più posto per lui, non per adesso almeno». Si allontanò mentre Mark si prendeva cura della ferita di Andrew. Si alzò, gli si pose accanto e come Lisa poco prima pronunciò ed eseguì al meglio che poteva, le magie di cura non erano mai state il suo forte, l’incantesimo aen. Una luce avvolgente si sprigionò dalla ferita che lentamente si rimarginò. «Mi spiace di non poter fare di più, Andrew. Sono settimane che non esercito più i miei poteri e non ho mai avuto molta affinità con gli incantesimi di cura. Spero che, non appena giunti a Renodia, Dovan riesca a guarirti completamente». «Non preoccuparti, sto già meglio adesso. Ciò che però mi preoccupa, più della battaglia che tra poco infurierà a Renodia è Greg. Qualcosa in lui non funziona come dovrebbe». «Sembra che la consapevolezza dei suoi poteri e del suo compito gli abbiano dato alla testa». «Ho paura che tu abbia ragione» concluse Andrew rammaricato.
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Poco distante, Greg, solo con i suoi pensieri e con i suoi dubbi, si era ritrovato davanti all’albero putrido, la fonte di quegli esseri ripugnanti. Sentì di nuovo la rabbia divampargli dentro, insieme ad un altro proposito: quell’albero doveva essere distrutto. Guidato dal suo istinto, come non si meravigliava più da qualche tempo ormai, si inginocchiò presso una delle radici bitorzolute dell’albero. Ne sfiorò la superficie: era viscida e ricoperta da uno spesso strato di escrescenze di natura sconosciuta e sulla quale Greg preferì non interrogarsi. La riafferrò saldamente e senza che se ne rendesse propriamente conto, si trovò a mormorare le parole di un incantesimo a lui sconosciuto ma che quasi sicuramente richiedeva l’ausilio degli spiriti superiori del vento. In quella che poté definire una frazione di secondo, dalla sua mano si sprigionarono spire gelide e di cristallo che andarono a ricoprire capillarmente dapprima l’albero e poi la pozza, congelandoli. Tutto ad un tratto l’aria malsana ed i fumi velenosi sparirono, così come gli inquietanti bagliori emanati dall’albero.
Greg respirò sollevato ma una nuova preoccupazione gli attraversò la mente: erano appena all’inizio, sarebbero dovuti tornare indietro con Andrew ferito e con Lisa sconvolta da ciò che era successo. Strinse i pugni, i nervi del collo erano tesi. Furibondo, tornò a grandi i verso i suoi compagni. L’espressione dei loro volti non era mutata: Mark aiutò Andrew a rimettersi in piedi. Il suo incantesimo, seppur debole e poco potente, era riuscito a fermare la perdita di sangue e gli consentiva di mantenere almeno l’equilibrio. Lisa rifiutò l’aiuto di Greg per alzarsi, si aggrappò ad un ramo basso e con non poco sforzo, si rimise in piedi. Videro così l’albero cristallizzato. Lo stupore si manifestò sui tre volti che abbandonarono per qualche tempo l’espressione ostile nei confronti di Greg. «Sei stato tu, vero?» fu la domanda di Andrew indirizzata a Greg poco dopo, stornando il proprio volto in una nuova espressione di avversità. Greg socchiuse gli occhi: era quasi giunto al limite dell’umana sopportazione. “Perché mi stanno voltando le spalle proprio adesso?” si chiese rabbioso. Dopotutto li aveva salvati, avrebbe sacrificato la vita per loro. Non aveva chiesto lui di ritrovarsi in quell’impresa, qualcuno aveva deciso per lui fin da tempo immemorabile. Aveva sempre sperato di poter contare sul loro appoggio, sulla loro approvazione, ma le loro speranze erano state, almeno nella sua ottica, gravemente deluse. Cercò di reprimere, per l’ennesima volta, la rabbia e trasse un lungo respiro: non era certo quello il momento giusto per sbattergli in faccia tutta la sua indignazione. «Vi prego di seguirmi, adesso. Il tempo stringe, dobbiamo raggiungere Renodia prima che abbia inizio la battaglia. Andrew sei ferito, saresti in pericolo sul campo. Lisa, pensi di poter camminare velocemente nella foresta?» Chiese Greg con parole sincere e una certa e tangibile vena di supplica. Per quanto contrariati dal suo comportamento, erano d’accordo con le sue parole. Si guardarono l’un con l’altro: il suo operato poteva essere discusso ma non le sue decisioni. Lisa confermò di riuscire a camminare senza problemi, non avendo riportato ferite durante la prigionia. Ebbe poi un sussulto, i capelli un tempo di un bel colore biondo luminoso ed ora sporchi le ricaddero sul volto e la bocca spalancata in un urlo sordo, come se le mancasse il respiro. L’intervento dei suoi compagni e le azioni efferate di Greg le avevano totalmente fatto dimenticare tutto ciò che avevano visto.
«Aspettate!» urlò ai compagni pochi i davanti a lei. I tre si voltarono di scatto, Andrew e Mark sguainarono le spade, Greg preparò la mano destra. Lisa fece loro cenno di abbassare le armi. Nessun pericolo era in vista, solo le voci della foresta li circondavano. La tranquillità irreale prima dell’infuriare della tempesta. «Non avete idea degli orrori che ho visto mentre ero qui. Non solo centinaia di questi mostri si stanno dirigendo verso Renodia ma con loro c’è anche…». «…Astaroth» completò la frase Greg. «L’abbiamo visto poco prima di intervenire. La cosa non mi meraviglia affatto. Sembra che le nostre strade siano destinate ad incrociarsi ancora» sorrise mentre stringeva con vigore i pugni. «Greg, ma non capisci? Vuole vendetta, ti braccherà sul campo di battaglia, farà di tutto per poterti affrontare a viso aperto. Greg, ti prego, devi stare attento! Ha poteri troppo grandi perché tu possa fronteggiarlo». «Questo non è vero. L’ho già battuto due volte. Lo batterò anche una terza e tutte le volte che sarà necessario» controbatté. «A Selthon era diverso, con noi c’era Dovan e l’avete fronteggiato insieme» si intromise Andrew. «Ho salvato Mark, allora Dovan non c’era a stringermi la mano per battere Astaroth. Vi riporterò a Renodia e una volta là sarete liberi di fare ciò che vorrete» ribatté di nuovo Greg, ammutolendo Andrew all’istante. «Greg, ti scongiuro, ascolta quello che ti dice una persona che ti vuole bene. Non c’è solo Lord Astaroth al comando di quegli esseri orribili ma anche un altro demone, ancora più terribile e sanguinario, Lord Minstrael». Il volto di Lisa era adesso l’immagine della paura. «Non sembra pericoloso, ma una volta appoggiato il suo flauto alle labbra è letale». Greg rimase basito, Andrew e Mark non fecero alcun commento. «Ma c’è dell’altro», “le buone notizie ormai erano esaurite da un pezzo” osservò sarcasticamente Mark, evitando però di esprimere il proprio pensiero ad alta voce, «Possiedono un’altra arma per vincere questa guerra, un pericolo possente ed infuriato. Poco prima che l’esercito si fosse messo in movimento era emersa dall’albero una bestia, alta quanto una torre e dalla forza incontenibile». Greg rimase in silenzio, gli occhi alti verso il cielo.
Venne da Mark la risposta già esplicita: «Non abbiamo più tempo da perdere, dobbiamo correre ad avvertire l’esercito di Renodia per prepararli a ciò che li attende». Sospirò. «Che Leviathan ci assista» disse. «Se domattina vedrò sorgere il Sole», aggiunse Andrew fra il pessimistico ed il sarcastico, «potrò ritenermi soddisfatto».
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Dovan si affacciò all’ampia terrazza della sala del trono, fissando l’immobile Foresta degli Esperidi. Gli attacchi diretti alle barriere magiche della città erano stati stranamente interrotti. Il suo volto, giovane e maturo allo stesso tempo, si contrasse in una ruga severa. I suoi protetti erano scomparsi, non aveva bisogno di usare la preveggenza per capire dove fossero andati. Poco prima aveva esteso le sue onde mentali, uno dei metodi più efficaci per rivelare le emozioni ed i pensieri, per scandagliare la foresta e molte cose aveva percepito: due portentose entità malvagie vi si annidavano mentre una massa contorta ma dall’enorme potenziale sembrava localizzata in un unico luogo preciso. L’essenza di Lisa era troppo debole, troppo confusa in quel groviglio di emozioni per essere chiaramente individuata. Estese di nuovo le sue onde. Avvertì un enorme pericolo in avvicinamento: la massa confusa si era dunque messa in movimento, le due portentose unità al seguito. Allungò le onde, preoccupato per i suoi allievi. Lo sforzo fu arduo, si aggrappò con tutte le sue forze alla balaustra e alla fine li localizzò. Quattro unità, una incredibilmente potente, tanto quasi da reggere il confronto con le due di malvagie intenzioni, Greg di sicuro, le altre di intensità normale. C’era dell’altro: con suo sollievo nessuno sembrava in pericolo di vita ma nessuno di loro sembrava tranquillo. Tutti erano turbati ed ostili. L’ostilità di tre di loro in particolare pareva piuttosto forte. Greg, una parte di lui almeno, sembrava colpevole nei confronti degli altri. Tentò di scavare più a fondo nella mente dell’allievo prediletto ma la distanza tra loro e anche una certa opposizione probabilmente dovuta alle interferenze della grande massa in avvicinamento, ruppe il contatto. Dovan accantonò l’idea di controllarli di nuovo, ironicamente il pericolo maggiore era un altro. Tutto il resto, se naturalmente si fosse concluso nel miglior modo possibile, si
sarebbe potuto risolvere in un secondo tempo. Sperò nel buon senso dei suoi ragazzi nel tenersi lontani dalla battaglia. In seguito, soltanto poche ore dopo, imparò che nei suoi allievi il buon senso era del tutto assente. Avvertì l’avvicinarsi di qualcuno dal salone; nel voltarsi si adoperò in un breve inchino nei riguardi della principessa Mylaetra. «Maestro Dovan, sono stata inviata da lei con una missiva». Il maestro notò che la principessa non indossava più la tunica leggera tipica delle Esperidi ma un’armatura di metallo verde, probabilmente una lega di ilmerite, materiale che abbondava nelle miniere di Renodia ed era ottimo per forgiare le armature. Anche in uniforme da battaglia Dovan non poté fare a meno di rimanere senza fiato davanti alla sua fulgida bellezza. Le parole di Mylaetra lo riportarono alla realtà: «Se lei è pronto nella saletta adiacente abbiamo predisposto per lei un’armatura leggera della sua misura e una spada. Una volta pronto dovrà scendere nella Piazza d’Armi dov’è radunato lo schieramento che verrà posto sotto il suo controllo». Dovan le sorrise, annuendo e accennando di nuovo un inchino. «Se mi è concesso vorrei aggiungere delle considerazioni, maestro». Dovan annuì, la principessa abbassò gli occhi. «Desidero esprimerle le mie scuse e quelle di mia sorella per il rapimento della sua allieva. Siamo mortificate per l’accaduto ma confidiamo nel fatto di salvarla al più presto». Si guardò un attimo attorno e poi continuò, con un tono sorpreso: «Non vedo però gli altri suoi allievi, vuole che mandi qualcuno a cercarli?» «Non si disturbi, altezza, diciamo che stanno compiendo una missione autonoma nella Foresta». La principessa sgranò gli occhi: «Vuole dire che sono andati a salvare personalmente la loro amica? Quale gesto di mirabile coraggio da parte loro!» La bocca di Dovan si increspò in un mezzo ghigno. «Non posso dirmi insoddisfatto dei miei allievi. Per quanto impulsivi ed avventati cercano sempre di fare la cosa giusta». Le ultime parole non suonarono molto convincenti alla sua mente ma l’Esperide non sembrò far caso alla sfumatura. «Ad ogni modo, ci sono novità sull’avvicinarsi del nemico?» chiese Dovan già
conscio della risposta. «Sì, un esercito di goroi si sta muovendo a media velocità verso di noi» rispose amareggiata la principessa Mylaetra. Al contrario della principessa, Dovan colse la sfumatura e cerco di carpirne il motivo. «Che cosa vi preoccupa? Le vostre difese reggeranno, in più Renodia giova di una protezione speciale. Avete identificato le due essenze?» Mylaetra annuì e di nuovo comparve la ruga sulla fronte di Dovan. «Crediamo che due Pari siano alla testa dell’esercito» disse «Ma non è tutto, uno dei due è Lord Minstrael» aggiunse sbiancando in volto.
Capitolo XI
Una preghiera per la salvezza
Dovan osservò la Piazza d’Armi: davanti a lui erano schierate quattrocento unità di fanteria poste sotto il suo controllo. Sospirò. Riusciva a leggere le espressioni dei soldati e a carpirne i sentimenti. Rabbia, paura, nervosismo crescente avevano preso consistentemente vita e serpeggiavano avvolgendo lo schieramento. Persino il suo cavallo, una creatura eccezionalmente intelligente, scelto per lui accuratamente dalle scuderie reali, risentiva della crescente tensione che attanagliava i difensori della città. Alla sua destra il principe Deidar a cavallo di uno stallone pesantemente bardato, disponeva le truppe di cavalleria scelta, i celebri “Unicorni Verdi”. Dovan non poté fare a meno di rivolgere il suo pensiero a Greg e si morse le labbra. Il suo allievo, il prescelto, non era preparato ad affrontare uno scontro di quelle proporzioni, il suo potere era sì enorme ma totalmente incontrollato. Se si fossero trovati nel centro dell’azione né lui né gli altri allievi sarebbero sopravvissuti, mandando in fumo tutto il piano. Temeva i Pari più di ogni altra cosa: gli era bastato fronteggiare Lord Astaroth una sola volta per comprendere appieno il potere che si cela nell’ombra. Ed egli non era altro che il primo e meno potente di essi, l’unico fronteggiato da Greg e il solo che forse avrebbe potuto intuirne la natura. Il nemico si arrovellava alla ricerca dell’introvabile e mai dimenticato segreto, celarlo ancora avrebbe costituito un vantaggio enorme in termini di tempo e spazio. Si voltò e vide giungere alla sua sinistra i due reggimenti guidati dalle principesse. Le due Esperidi gli sorrisero con gentilezza mentre radunavano il proprio contingente di truppe. Fece un breve calcolo: l’esercito che Renodia aveva radunato in quei pochi giorni non arrivava neanche a contare duemila e cinquecento unità mentre la foresta brulicava letteralmente di quei goroi. Paradossalmente le uniche probabilità di vittoria per Renodia si riconducevano a due: il potere di Greg e un intervento dall’alto, ma entrambe apparivano a Dovan come dietro un muro invalicabile. Ed entrambe erano inscindibilmente legate tra loro dal piano
millenario. Distolse l’attenzione dalle sue considerazioni per controllare di nuovo la foresta. Notò, per caso, nel cielo un impercettibile bagliore verde, una fiammella, volteggiare sopra le chiome. Cercò di individuarne la fonte ma la sua mente fu dapprima bloccata, poi respinta da un’energia enorme e da una malvagità cruda e densa. Non ebbe alcun dubbio a constatarne perciò la natura: era Lord Minstrael, l’Esperide rinnegato, tanto temuto dai suoi antichi fratelli. Dovan, scoraggiato, chiuse gli occhi e silenziosamente indirizzò una preghiera a coloro che dall’alto stavano sicuramente osservando quel luogo, nella speranza che almeno una delle due probabilità, l’unica che riteneva possibile, si verificasse.
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Lisa, in testa ai quattro, si fermò di colpo, si arrampicò su un ramo basso, si erse in piedi in equilibrio e fissò il cielo. Gli altri dietro di lei la osservarono con aria interrogativa: non era la prima volta da quando erano partiti che Lisa si fermava per osservare il cielo e cambiare a volte percorso. «Lisa, puoi spiegarci perché stiamo seguendo questa direzione? Non è la stessa strada che abbiamo percorso all’andata! Se non arriveremo in tempo potrebbe essere la fine per Renodia!» disse Mark mentre, impaziente, cercava di salire a sua volta su un ramo vicino. Greg e Andrew si voltarono di scatto: non ricordavano precisamente da quando Lisa aveva assunto il comando, ma non si erano posti il problema della strada da seguire: in quell’oscurità e senza punti di riferimento una direzione valeva l’altra, se almeno essa andava nella direzione opposta a quella dalla quale erano venuti. Lisa non si voltò nemmeno per rispondere alla domanda dell’amico, ma si limitò ad osservare il cielo tra i rami degli alti alberi e ad indicare una fiammella in lontananza, divenuta adesso visibile anche per i suoi amici. «È una stella?» chiese Andrew, sicuro però di non averne mai viste di simili, neppure nei giorni ati in navigazione.
«No, è Lord Minstrael, il demone di cui vi parlavo prima. Sta seguendo le sue truppe dall’alto. Se seguiremo lui saremo certi di giungere a destinazione». Greg annuì, seguito poco dopo dagli altri due. Mark si avvicinò al ramo e aiutò Lisa a scendere delicatamente. Poco dopo erano di nuovo in marcia, questa volta consapevoli della direzione da seguire. E corsero, corsero più a lungo di quanto avessero mai fatto e quanto più gli avessero mai concesso i loro polmoni, sostenendosi a vicenda e spronandosi l’un con l’altro ad andare avanti. Greg nel buio fissava Lisa, non ricambiato nei suoi sguardi, dentro sentiva morire una parte di sé. Avrebbe voluto fermarsi, cedere, dimenticare tutto, ma il suo senso di responsabilità lo spingeva ad andare avanti, a non deludere le speranze di un mondo intero. Entro breve sarebbe stato in guerra ed allora cosa avrebbe fatto? Non era solo, aveva altre tre persone al suo fianco a cui pensare, avrebbe dovuto proteggerle, ma come avrebbe potuto fare? Doveva confidare nei suoi poteri magici poiché gli era oscuro l’esercizio delle armi con suo rammarico ma non poteva fare affidamento ai suoi poteri nascosti che Dovan gli aveva a tutti i costi precluso per il momento. Ricordò lo scontro disastroso in mare con quei goroi, era certo che presto se ne sarebbe trovati davanti centinaia. Poco prima lo scontro con quei demoni era stato diverso, sembravano quasi inermi davanti ai colpi di Greg e del tutto impreparati. Ma là avrebbe dovuto fronteggiare anche due Pari, senza mettere in pericolo i suoi amici e, oltre ai goroi, anche il bestione che aveva visto Lisa durante la prigionia. Come avrebbe potuto farcela senza nessun aiuto tranne quello dei suoi amici, spauriti come e forse più di lui, senza i consigli di Dovan, senza le certezze che fino ad allora gli erano state vicine? Continuò a correre, non si fermò mai, neanche un istante per riprendere il fiato che cominciava a venir meno. Scavalcarono tronchi marci e schivarono le fronde ad altezza del viso mentre arbusti invisibili graffiavano i loro arti senza che potessero emettere il minimo grido di dolore. I vestiti logori e lacerati cedevano durante la corsa mentre dalle ferite sgorgavano rivoli di sangue. Greg avrebbe voluto fuggire da tutto ciò, correre nella direzione opposta, avrebbe voluto urlare e dibattersi, ma non lo fece. Dentro di sé nasceva e covava una paura profonda per l’incertezza del suo destino e della sua missione, in cuor suo si chiese il perché dell’egoismo di coloro che senza neanche chiederglielo gli avevano donato una potere così grande e così vitale. La rabbia verso gli Angeli cresceva mentre sentiva le forze venirgli meno. Una debolezza che mai aveva provato fino a quel momento si impadronì di lui, l’incantesimo di poco prima lo aveva quasi del tutto prosciugato. La vista gli si annebbiò e senza rendersene conto, cadde sul morbido sottobosco della foresta.
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Nella città aerea di Mideroa la luce era l’elemento principale. Di giorno i cristalli di lunoctio che componevano la sua struttura celeste, riflettevano i raggi solari mentre di notte sfavillavano di luci calde ed avvolgenti. Nella sala del trono, posta sopra il cristallino Mare di Vetro, l’enorme lastra sul quale era costruita la città volante, un essere sfavillante si era appena alzato dal suo seggio, al quale se ne affiancavano altri tre, ognuno recante un diverso simbolo. La sua luminosità non era certo minore a quella del cristallo baciato dal sole e le ampie vesti lo circondavano come le nubi soffici che volteggiavano nel cielo vicino alla città. Midrael, il Custode del Trono, indirizzò il proprio sguardo verso l’etereo pavimento e lo concentrò verso una regione precisa sotto di lui. Aveva percepito una voce ben nota provenire da laggiù, una voce che adesso stava chiedendo il loro soccorso. Pochi istanti dopo, un’altra figura, non meno splendente, con lunghi capelli argentei, gli fu accanto. «Cosa succede fratello Midrael?» chiese con voce impercettibile, producendo lo stesso rumore della schiuma del mare che si dissolve sulla spiaggia. Midrael non distolse lo sguardo per riconoscere Feadrel, suo fratello minore e anch’egli Custode del Trono di Mideroa. Midrael indicò con una delle sue lunghe dita un punto imprecisato al di sotto della lastra cristallina. «Fratello Feadrel, osserva e percepisci anche tu» l’altro seguì con lo sguardo il punto indicato dal fratello. «Dovan ha elevato una richiesta d’aiuto. A Renodia la situazione sta peggiorando di ora in ora. L’erede è in pericolo così come lo è il principe. Sappiamo che la prima pietra è ormai persa poiché in mano al nemico, ma non possiamo lasciare che la città sia cancellata dalla faccia del pianeta». «Fratello» disse Feadrel, ritraendo a se il mantello e mettendogli una mano sulla spalla «sai che non possiamo fare niente, abbiamo l’obbligo di non intervenire nelle faccende umane». Un bagliore poco distante li interruppe, un’altra figura splendente e maestosa, con un vistoso paramento raffigurante le lune ed il sole apparve e parlò con tono critico verso Feadrel: «Taci Feadrel. Queste non sono faccende umane». Feadrel sembrò indeciso se rispondere o meno al Fratello Uriadrel ma poi preferì restare
in silenzio, attendendo che il fratello maggiore terminasse il discorso. «Sono scesi in campo anche i Pari e come sapete la duplice eclisse è vicina: non possiamo permettere che un piano architettato duemila anni fa venga mandato a monte, ma abbiamo anche l’obbligo di proteggere gli esseri umani ed alcuni di essi in particolare. Dovrei rammentarti, Feadrel, che l’erede è sotto la tua protezione?» Uriadrel fissò il fratello con occhi taglienti, quasi certo che non avrebbe discusso oltre la proposta avanzata da Midrael. Le sue iridi dorate si erano fatte pungenti, il volto perfetto increspato da sentimenti d’avversità nei confronti del minore dei suoi fratelli. «Il piano in questione» ribatté però Feadrel, non lasciandosi intimidire dall’espressione del fratello, «è stato ideato dal nostro Signore Ausel e noi ci dobbiamo attenere fedelmente ad esso. Non dobbiamo intervenire». Uriadrel emise un sospiro, le sue parole divennero taglienti al pari dei suoi occhi: «Nessun piano viene mai seguito alla lettera Feadrel così come nessuna predizione è mai totalmente esatta e rispecchia i veri contorni della realtà. Ausel stesso era incerto sul da farsi e adesso lui non è qui per decidere, delegò a noi la reggenza duemila anni fa. Noi abbiamo lo stesso potere decisionale che avrebbe Ausel. Behelstedor sta riorganizzando le sue truppe tramite Lilith e i Pari: rivuole ciò che gli è stato tolto. Gli esseri umani non stanno più fronteggiando loro simili ma degli esseri più potenti e malvagi. Nessun obbligo di non intervento ci vincola più adesso, siamo liberi di aiutarli come possiamo. Soprattutto in questa circostanza, non possiamo abbandonare il popolo Esperide». «Uriadrel è nel giusto» disse Midrael fino a quel momento rimasto in silenzio ad osservare il Mare di Vetro. Feadrel annuì alla dichiarazione del fratello. «Dovremo scendere in battaglia contro i Pari?» chiese. «No, non adesso. Ricorderemo ai demoni e al loro Signore il nostro potere. Pensano che la nostra sia una razza ormai consumata e che abbia perso il desiderio di libertà per il quale si è sempre battuta, ma non è così. Noi, i figli di Heinar e di Mideree, combatteremo ancora, lo faremo finché ce ne sarà bisogno». Feadrel annuì e si ritirò nei propri appartamenti mentre Midrael, diretto verso la
Sala dei Custodi, fu bloccato dal fratello maggiore. «Feadrel è un debole, non è adatto a svolgere la sua mansione» sentenziò. Midrael scosse la testa e poi guardò il fratello: era purtroppo a diretta conoscenza dell’esistenza dei contrasti fra i due reggenti, contrasti che ormai, nella sua opinione e in quella della sorella Shadriel, avevano perso qualsiasi valore. Si rifacevano ad avvenimenti lontani millenni, ma che non erano mai stati sanati del tutto. Uriadrel non aveva perdonato a Feadrel la sua indecisione ed immaturità: quando divenne custode del trono, poco prima del ritiro di Ausel dal governo, il minore dei fratelli si era trovato in una posizione non facile. Da una parte aveva il suo tutore, Zanktel, dall’altra il timore ed il rispetto dovuto ad Ausel. Il giovane custode era rimasto per molto tempo indeciso sulla strada da seguire, infine scelse di restare con Ausel. Uriadrel non aveva mai dimenticato il suo momentaneo voltafaccia, quando era uscito dalla sala del Consiglio Dorato seguendo Zanktel e si era soffermato sulla soglia ad osservarlo prima di sparire dietro il suo mentore. Fu Ausel, in circostanze ancora sconosciute, il fautore del ritorno a Mideroa di Feadrel. Non aveva mai discusso l’operato del suo Signore, ma da allora non aveva mai considerato veramente Feadrel come un vero Custode del Trono. «Uriadrel, nostro fratello risente ancora dei tragici avvenimenti che lo hanno visto additato come traditore. Tu non sei mai stato d’aiuto, lo hai sempre osteggiato, non dandogli mai la possibilità di decidere autonomamente e di sfogare le proprie emozioni. Per nessuno è stato facile accettare lo Scisma e Feadrel è quello che ne ha risentito di più ed in modo più profondo. Il tempo cura tutto fratello, ma si deve dar modo a tutti di curare le proprie ferite. Anche le tue» disse, sapendo di toccare uno dei punti nevralgici del fratello. Uriadrel si incupì, i suoi occhi persero per un istante la lucentezza, poi ribatté : «Feadrel è debole poiché tutto ciò che lo ha circondato lo ha reso debole. Ha sempre necessitato di una figura alla quale aggrapparsi con tutte le sue forze, ha sempre avuto paura della solitudine. Quando Zanktel se ne andò fu costretto ad aggrapparsi ad Ausel, anche se per poco. La sua intenzione di seguire il piano di Ausel alla lettera ne è l’azione manifesta. Nostro fratello non possiede proprie certezze. Ora che il nostro Signore non è più con noi, è a te che guarda in ogni circostanza. Non è stato capace di portare avanti i suoi propositi poiché temeva di allontanarsi da te, riesci a comprendere fratello mio?»
Midrael annuì, constatando la verità dell’affermazione. «Fratello, concedigli del tempo, gli parlerò, lo farà anche nostra sorella. A te chiedo solo di essere paziente: diamogli ancora del tempo per comprendere la necessità dell’agire d’accordo con noi, diamogli il tempo di crescere in modo completo. Feadrel si è visto privato degli affetti, non ha avuto un’infanzia felice come noi su Mideree. Ha visto solo l’epoca oscura della decadenza della nostra razza, ha trascorso gli anni più importanti della sua vita, quelli che avrebbero dovuto costituire per lui i suoi ricordi più belli, in mezzo agli scontri, vedendoci combattere, cercando di emularci, ma impossibilitato a ciò a causa della sua giovane età. Tu sei sempre stato distaccato, la differenza d’età è stata la barriera invalicabile tra voi, non sei stato con lui il fratello premuroso che sei stato con me e con Shadriel» fece una pausa, fissò il fratello negli occhi ed aggiunse: «Sarai più paziente fratello mio?» Uriadrel socchiuse gli occhi, abbracciò Midrael e come era apparso si volatilizzò, tornando alla sua Talaluna, la fortezza volante dalla quale vegliava il moto delle Lune. Midrael percorse il Salone sopra il Mare di Vetro, così vuoto e ombroso nella sua maestosa eleganza, attraversò un portale e uscì. Fissò il cielo sopra di sé, parzialmente coperto dalle nubi: un grande padiglione cristallino ricopriva la città, proteggendola dalle intemperie e dalle precipitazioni atmosferiche. La sala dei Custodi era poco lontana e la sua sagoma slanciata spiccava nell’oscurità: da una cupola allungata si innalzavano quattro grandi pilastri, ognuno dei quali simboleggiante uno dei quattro spiriti. I due angeli di guardia si inchinarono al suo aggio e per lui aprirono i battenti della maestosa porta d’entrata. Da molto tempo il Custode non entrava in quella sala, fulcro di uno dei poteri più grandi dell’universo, disceso direttamente dalla benevolenza del Dio Heinar, Signore e Creatore di tutto. Quella sala gli riportava alla mente ricordi tanto dolorosi quanto indelebili della sua vita eterna: la tirannia su Mideree, la decadenza del suo popolo e la perdita del pianeta natale, la fuga su questo mondo giovane e di nuovo la guerra. E adesso si trovava di fronte alla nuova e dolorosa realtà: il pericolo, le ombre del tiranno e della sua consorte erano tornate ad oscurare il volto del pianeta e loro avrebbero dovuto di nuovo frapporsi nello scontro per proteggere il genere umano, fino a quando almeno la parte finale del piano non fosse realizzata. “Il destino degli uomini deve restare in mano agli uomini. Noi possiamo cercare di aiutarli e di consigliarli, ma non
potremo proteggerli per sempre: la cessione dei poteri sarà per voi, custodi degli spiriti, inevitabile come lo sarà all’inizio l’inarrestabile ritorno del male: ma proprio tale trionfo sarà l’inizio della loro fine”. Erano state queste le parole di Ausel nella formulazione del piano per la definitiva distruzione del pericolo costituito dal Signore dei Pari; parole che risuonarono amare nella mente del Custode. Lo splendore emanato dal pavimento della sala circolare ebbe un fremito quando Midrael lo percorse a grandi i: l’intensità della luce crebbe finché la luce emanata dal Custode e quella del pavimento non parvero fondersi in una, creando una scena luminosa ed indefinita. La colonna stessa, fino a poco prima indefinito nell’oscurità della sala, si era adesso accesa di una luce verde sfavillante. Midrael fissò il pilastro intensamente, per un istante una figura enorme e grandiosa si manifestò come un ologramma dai contorni vacui ed indistinti per poi essere quasi assorbita dalla luce del cristallo. L’angelo dorato avanzò ed instaurò un contatto: le dita lunghe ed affusolate sfiorarono la superficie eterea ed in pochi istanti la grande sagoma fu percorsa da scie di iscrizioni sacre, incise nella lingua rituale del suo popolo. Midrael intonò la litania a lui tanto nota e che tante volte nell’arco della sua lunga vita aveva intonato: negli istanti che seguirono, tutta la sala sembrò intonare la sua stessa preghiera, con un effetto grandioso e che ogni volta sconvolgeva l’Angelo Dorato. Quelle parole, così semplici ed effimere in sé per esprimere la grandezza della creazione divina, racchiudevano, se pronunciate dalle sue labbra, quel potere tanto potente che gli era stato tramandato e col quale si era fatto pilastro portante della libertà della nuova comunità angelica sorta dopo la caduta del pianeta Natale:
Regna ad est, il bianco destriero, Signore dei prati e dei boschi, il suo cuore risplende di candore. Il suo corno non perdona il rivale, L’abbandono del nemico la sua corsa E la sua furia divina non placa
La luce, nel momento culminante dell’invocazione, aveva raggiunto un livello d’intensità intollerante, tanto che Midrael stesso aveva per un attimo chiuso gli occhi. Ma come era venuta, era pian piano svanita, assorbita dall’ambiente circostante il pilastro. Nella sala circolare erano rimaste solo due figure, una davanti all’altra, negli occhi di entrambe, una fierezza ed una nobiltà indomita: si avvicinarono, forti del loro antico legame; Midrael carezzò la fronte del compagno di tante battaglie ed egli lo ricambiò, lasciando che il suo corno cristallino gli sfiorasse la spalla. La figura, di un bianco abbacinante dalla quale si distinguevano a fatica quattro zampe, emise un nitrito sommesso, poi i suoi occhi di smeraldo si illuminarono. Espereador, il signore dell’Est, era stato invocato.
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Nella Galassiah, il luogo al di fuori del tempo e spazio, il cui ingresso era collocato sulla cima del pinnacolo di Mideroa, il confine tra realtà e fantasia non era molto bene definito. Erano stati gli Angeli Dorati a scoprire la sua esistenza attraverso secoli e secoli di studi: esso non constava né di materia né di antimateria, al suo interno niente poteva dirsi veramente reale, solo esseri con grandi poteri ed un enorme controllo mentale potevano dirsi al sicuro dalle insidie segrete che abitavano il silenzioso limbo. Non era impossibile, infatti, perdersi nella sua indefinita vastità: l’uscita era possibile solo a coloro i quali possedevano il potere di rievocare la propria esistenza al di fuori di quel luogo, reclamare, per così dire, la propria spazialità e temporalità. Solo due erano le cose che si potevano trovare nella Galassiah, a patto che colui che vi entrasse fosse autorizzato a trovarle: una era un albero, non uno qualsiasi, ma una vera e propria creatura cosmica, che per gli Angeli costituiva una ragione di vita. Quell’albero ricollegava la comune memoria angelica a un ato remoto e allo stesso tempo continuamente presente, in ogni forma della città volante di Mideroa. Un ato ideale e pacifico, nel quale gli Angeli Dorati erano i guardiani e custodi di un universo prospero e unito, dove il male era una realtà indefinita e
sconosciuta e nel quale l’armonia cosmica e la bontà del divino Heinar erano pressoché tangibili. La seconda cosa risiedente in quel luogo era quasi più importante della prima, ma la sua presenza era direttamente riconducibile alla prima. Essa era costituita da una struttura di cristallo dalla forma regolare, di mirabile costruzione, ma non di opera umana. Nessuna opera umana, puramente frutto della tecnologia, avrebbe mai potuto custodire ciò che custodiva quel pilastro di cristallo. In quell’istante però, nell’immutabile spazialità del luogo, un terzo elemento era presente: la sua esile e splendente figura era quasi soverchiata dall’ambiente circostante, la volta del limbo e i rami del poderoso albero la rendevano minuscola, quasi una fiaccola nello spazio. Quella figura esile ma di maestosa dignità era inginocchiata davanti al grande cristallo, osservando e desiderando ardentemente di parlare con ciò che si trovava celato dentro ad esso. Alzò lo sguardo, fino a quel momento tenuto basso, ed i suoi occhi dorati, dai quali sgorgavano copiose lacrime color rubino, incrociarono quelli vitrei ed imibili, congelati nel tempo e nello spazio, di colui che si era volutamente imprigionato dentro a quella prigione di cristallo. Shadriel, la terza Custode del Trono di Mideroa, sedeva nello spazio sconfinato di quel luogo, osservando il suo amato Signore ed invocandone sommessamente il nome, sperando che egli, grazie alla vastità dei suoi poteri, riuscisse ad avvertirla. Duemila anni di silenzio nel cristallo non erano bastati alla Custode a dimenticare il suo segreto e celato amore per il sommo sire del suo popolo ed ella periodicamente vi si recava per osservarlo e parlargli, incessantemente, raccontando al volto pacifico del suo signore tutto ciò ce accadeva nel mondo, come se egli risiedesse ancora sul suo trono, adesso vuoto, nel salone sopra il Mare di Vetro. Non ava giorno senza che la Custode versasse lacrime amare su quella che ormai considerava la tomba del proprio amore alla quale costruzione aveva, peraltro, anch’ella contribuito. E là in quel luogo, praticamente irraggiungibile dal pensiero umano e angelico, era libera di dedicarsi al proprio sentimento, senza porvi freni e senza dover fare finta di niente. Nessuno, se non i Curatori, il gruppo di angeli che si occupavano dell’albero, e lei, entrava nel limbo da millenni a quella parte. Tra i suoi fratelli era solo Midrael, con l’unico sospetto del praticamente onnisciente Uriadrel, ad essere a conoscenza del suo segreto amore per Ausel.
Di nuovo nella sua mente iniziò a dialogare con il suo signore, raccontandogli delle questioni umane e mettendolo a parte della buona riuscita del piano. Gli raccontò di Aelthas, di come il giovane erede avesse appreso la natura del suo compito e come a Selthon avesse sventato l’attacco di Lord Astaroth orchestrato da Samarlec per creare un nuovo dissenso fra i selthoniani e nareniani. Era sicura che il suo signore, dall’altra parte del vetro, riuscisse a comprenderla e che, talvolta, le desse cenni di assenso. Era quasi del tutto certa che, all’interno del pilastro, la vita di Ausel splendesse ancora e che egli un giorno sarebbe tornato a vigilare sul mondo, benché un grosso peso gravasse sulla sua coscienza. Da quanto sapeva, nella storia della magia degli Angeli Dorati, il Cryopnosis, l’Incantesimo del Sonno di Cristallo, non aveva mai dato esiti positivi e coloro che erano stati volutamente imprigionati nel pilastro, per vari motivi fisiologici, quando venivano liberati non tornavano mai a riacquistare la piena normalità delle loro capacità mentali e fisiche, alcuni addirittura non si erano più risvegliati. Ma nessuno dei precedenti tentativi era mai stato provato all’interno della Galassiah e se Ausel, il massimo conoscitore della magia, aveva deciso di farsi cristallizzare lì, pensò Shadriel, tentando di rincuorarsi, doveva aver trovato il modo di ridurre al minimo i danni sulla sua persona. La consueta visita della Custode fu, però, improvvisamente ed alquanto stranamente perturbata da un baluginante cattivo presagio. Senza che se ne rendesse conto anche il piano astrale sembrò turbato da qualcosa di sconosciuto, qualcosa che però doveva possedere un potenziale enorme. Un’intera zona di esso sembrò oscurarsi, per poi ripristinarsi in maniera del tutto diversa. Allarmata, la Custode si recò immediatamente verso la zona perturbata ed essa si animò, mostrandole un evento al di fuori della Galassiah e che essa ignorava di poter mai osservare. In una folta foresta vi erano tre persone, a lei sconosciute, inspiegabilmente chine su una quarta, distesa, forse svenuta, comunque priva di sensi. L’incredibile interferenza sembrò assecondare la richiesta di Shadriel di mostrarle di più a proposito di quella strana scena che col are degli istanti acquisiva sempre più dei tratti di intensa drammaticità. Due delle tre persone in piedi stavano tentando di rialzare la quarta, ancora priva di sensi. Tentarono poi con gli incantesimi di guarigione: i bagliori di aen e aenea illuminarono la zona circostante, mostrandole una volta ancora la foresta e più dettagliatamente i volti dei tre accovacciati, rivelandole infine l’identità della quarta persona. Shadriel ebbe un sussulto, si accostò la mano alla bocca, reprimendo un urlo: Aelthas giaceva privo di sensi ed i suoi amici non riuscivano a farlo tornare cosciente. Con uno sforzo immenso Shadriel tentò di mettersi in comunicazione con la
mente di Aelthas: se lui era riuscito a travalicare le barriere della Galassiah lei sarebbe dovuta, logicamente, riuscire a travalicarle a sua volta. La mente fremette dallo sforzo, i suoi occhi dorati si annebbiarono ma il primo tentativo fallì per un soffio. Di nuovo tentò di trovare il contatto, ma una volta ancora lo perse come se egli la volesse deliberatamente rifiutare. Shadriel si ritrovò a fissare l’immagine animata comparsa davanti a lei: la situazione non migliorava neppure là. Aelthas sembrava sordo anche ai tentativi di rianimarlo dei suoi amici. Una volta di più Shadriel si convinse del fatto che Aelthas avesse trovato il modo di rendere impermeabile la sua mente a qualsiasi ambiente esterno, come se fosse caduto in un lungo sonno. La situazione era gravissima: quel distacco della mente dal corpo avrebbe potuto provocargli danni irreparabili, mettendo gravemente a repentaglio, oltre che la sua vita, anche la riuscita del piano e la salvezza del genere umano. Si avvicinò ad Ausel e si lasciò cadere. Non poteva fare niente da sola, neanche intervenire poiché forzare la mente del ragazzo sarebbe stato quasi peggio che lasciarlo in quello stato di incoscienza. Scoppiò in un pianto dirotto e sfiorò il cristallo.
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Bianco, nient’altro che un bianco abbacinante. Seduto sul candido nulla, Greg si trovava a fissare lo spazio davanti a sé, senza che esso mostrasse la sua vera dimensione. Nessun rumore, nessun odore, nessuna percezione tangibile. Il silenzio e l’immobilità erano totali. Accovacciato, si chiese il perché della sua presenza in quello strano posto: improvvisamente si rese conto che la sua mente si uniformava perfettamente all’ambiente. Anch’essa era completamente vuota. Tentò di afferrare qualche vana immagine dai grovigli più reconditi della sua memoria con nessun risultato. Quel bianco luminoso, allo stesso inquietante, sembrava essere sul punto di schiacciarlo sotto un peso invisibile. Quando tentò di alzarsi accadde qualcosa di molto strano. Ciò che prima gli era sembrato l’alto era divenuto il basso a viceversa: tecnicamente ora si trovava a testa all’ingiù, sospeso sul nulla con i piedi ancorati a qualcosa che era incerto se esistesse sul serio o meno. Percorse un numero imprecisato di i, contornato dalla costante bianchezza di
quella dimensione. Non era ben certo del luogo dove si trovasse, la sua mente era ancora completamente vuota, ma di una cosa era adesso conscio: si sentiva leggero, come liberato da un peso opprimente, come se finalmente fosse in grado di respirare senza temere gli sviluppi del futuro. Si sentì stranamente felice, quasi euforico: cominciò a saltare e a dimenarsi attraverso quel nulla infinito. L’euforia sembrava avergli attanagliato il cervello, non riusciva a smettere di essere allegro, ma sentiva che non aveva altro da fare. La sua mente aveva il solo ordine di andare a ruota libera senza porre alcun limite alla sua frenesia. Qualcosa di nuovo e di più strano accadde: da un punto non precisato si materializzò un’ombra scura, dapprima piccola, poi sempre più grande, ma sempre indistinta. Greg smise improvvisamente di provare quello stato di sconvolgente agitazione, provocatogli dall’assenza di concetti nella sua mente, attratto, adesso, dalla novità costituita dalla lenta figura in progressivo avvicinamento. Socchiuse gli occhi tentando di indovinare i contorni sempre più vicini ma ugualmente indistinti della sagoma: individuò due braccia, due gambe ed una testa, il minimo sufficiente per rendersi conto che esso probabilmente era un essere umano. Poi, lentamente, seguendo forse un preciso disegno, i suoi occhi iniziarono a mettere a fuoco la figura: la sagoma si riempì di dettagli fino ad assumere un’immagine uniforme e nitida. Si trovò a fissare gli occhi della persona che gli si stagliava di fronte: gli erano stranamente familiari, come se la sua mente avesse avuto un improvviso guizzo dovuto a quel curioso stimolo. Non si meravigliò, infatti, di costatare che essi avessero una curiosa iride dorata. La sagoma era più alta di lui e Greg la squadrò da capo a piedi: una preziosa corona le ornava la testa mentre una cascata di morbidi capelli biondi incorniciava un viso dalla bellezza incomparabile. Un mantello di seta cangiante e leggera avvolgeva le forme delicate, coperte a loro volta da una veste semplice ma allo stesso tempo regale che conferiva alla figura un’aura di maestosa potenza. Il ragazzo continuava però a non saper interpretare quella curiosa situazione: la lingua e gli arti gli si erano intorpiditi all’improvviso. La donna gli sorrideva conciliante, quasi in procinto di parlare. «Chi sei?» chiese, poco dopo, la donna.
Greg la fissò stranito, la mente ancora coperta da una spessa nebbia d’opale, incapace di trovare una risposta concreta a quella domanda. Scosse la testa ed alzò le spalle. Il volto della donna divenne prima stupito poi interrogativo: «Non ricordi niente?» Greg scosse di nuovo la testa, ignaro della risposta. Oltretutto non era nemmeno sicuro di conoscere davvero quella donna: sembrava frutto di un sogno, non della realtà. Sul volto di questa si dipinse nello stesso istante un’espressione disperata. Si buttò in ginocchio davanti al ragazzo e gli abbracciò con forza le gambe. «Non puoi aver dimenticato tutto, è impossibile! Devi sapere, devi ricordare assolutamente chi sei e conoscere il compito che devi portare a termine! Non puoi aver dimenticato la tua intera esistenza!» gridò la donna fra i singhiozzi che la facevano fremere. «Tu sei l’erede, colui che ha il compito di portare la pace in questo pianeta. Deve compiersi il destino, devi ricordare il tuo ato!» Greg fissò la donna con noncuranza: le sue parole gli scivolavano addosso, prive di peso e consistenza, convinto che non potessero riguardare lui. Per quanto sapeva di se stesso poteva anche non essere mai nato o non esistere affatto: non aveva nessuna certezza e quella figura, venuta chissà da dove, cercava in tutti i modi di ricordargli un ato ed un compito che lui ignorava assolutamente. Si sentiva un estraneo, non provava alcuna comione né per quella donna né per il mondo che lei pretendeva di salvare. Per lui non esisteva nient’altro che quel luogo privo di problemi e di responsabilità, di regole e di confini. Si allontanò di qualche o dalla dama: il volto nascosto dalla lunga chioma dorata, le mani poggiate sul nulla. La osservò per lunghissimi istanti finché dal volto della donna non cadde una lacrima, una lacrima rossa come un rubino che si infranse contro il bianco. Fu come se la scena si muovesse al rallentatore: la goccia stillò dal mento dolce della donna, si staccò, brillò per un attimo e cadde nel nulla come una goccia che cade nel mare. Piccoli cerchi si formarono nel candore, Greg si fermò a fissarli stupito. La goccia aveva contaminato il nulla con la sua essenza pura: il bianco si stava miscelando al candore mentre l’intera superficie, sulla quale si trovavano i due, era percorsa da lunghi cerchi formati dalla caduta della goccia. Shadriel, ancora in ginocchio, non si era accorta di niente, ma Greg, in piedi, aveva avuto modo di vedere il rosso spandersi inesorabilmente per
quella dimensione fino a quando non era andato completamente a sostituire il bianco. Fu allora che Shadriel si accorse del cambiamento insperato e repentino, sia nel comportamento di Greg che nella composizione di quella dimensione. Il ragazzo, in un moto istintivo si inginocchiò accanto a lei e serrò le sue braccia a quelle eteree della dama. Nei suoi occhi vi era il terrore per il cambiamento e per lo strano fenomeno a cui stava assistendo. Il suo gesto di protezione nei confronti della dimenticata amica fedele, rese consapevole Shadriel dell’affiorare repentino nella mente del ragazzo di ricordi vaghi e inconsci. Ma la dimensione non aveva che iniziato a mutare il suo aspetto: il rosso variò di tonalità più e più volte, ad esso si aggiunsero tinte scure che si amalgamarono, dando ai due accovacciati a terra la stranissima e poco piacevole, sensazione che tutto intorno a loro stesse girando vorticosamente. Il movimento turbinante si arrestò di botto, accompagnato da un tonfo sordo, proveniente apparentemente da una dimensione remota. Greg sollevò appena la testa per osservare lo strabiliante cambiamento, poco dopo imitato da Shadriel. Nel cielo i due satelliti del pianeta si trovavano nella posizione più strana che avesse mai visto, formando un triangolo col sole. Il sole stesso era diverso dalla stella che risplendeva sul pianeta: era divenuto amaranto e diffondeva una luce fioca che tingeva il cielo di colori insoliti, quasi si trovasse al tramonto invece che al culmine del suo cammino. Una torre, immensa, monolitica, splendente dei tetri bagliori delle fiamme e della distruzione, si stagliava in lontananza. Si voltarono e si accorsero di essere accovacciati su un ponte del quale a stento vedevano l’inizio, nei pressi della torre in rovina e del quale non riuscivano a vedere la remota fine. La torre, in cristallo, colpì con potenza la mente di Greg: era stranamente sicuro di averla già vista ma non ricordava il luogo preciso. Si voltò verso Shadriel, in piedi al suo fianco. Il suo volto era percosso da fremiti, la bocca balbettante parole sconnesse. Quella scena doveva essere familiare, in qualche modo, pure a lei. L’oceano stesso, partecipe di quello sconvolgimento totale, aveva assorbito lo sconcertante potere distruttivo della visione e le acque si erano tinte di cremisi: Greg vide i cristalli della torre crollare l’uno sull’altro, la base sospesa sulle acque squassata da violenti fenomeni sismici. Il ragazzo, terrorizzato, cercò conforto afferrando un lembo della tunica di Shadriel, le supplicò di abbandonare quel luogo, di sfuggire da quella tremenda visione di morte. La donna si limitò a scuotere la testa: «Questa è la tua mente, non posso fare altro che assecondarla. Il mio ingresso è puramente temporaneo, voluto da colui che veglia sopra tutti noi e specialmente su di te. Se questo è il cammino che essa
deve intraprendere affinché tu possa accettare ciò che invece rifuggi, così sia. Non posso assicurarti niente che non sia legato alle sofferenze di questo sfortunato pianeta che mai ha conosciuto una vera pace, ma è proprio per questo che è voluto il tuo intervento, per questo il mondo ha bisogno di te, per questo non puoi tirarti indietro, non adesso, non ora che il pericolo è veramente imminente». «Continuo a non capire, mi dispiace. La mia mente è nebulosa, ma quella torre, tutto ciò che la lega, il suo declino, quel fuoco, sono terribili. Chi ha provocato la caduta di coloro che avevano costruito quella torre?» chiese affranto, quasi supplichevole. «Lo stesso essere malvagio che adesso vuole estendere di nuovo il suo dominio sul mondo. La stessa essenza che è scritto tu debba combattere. La stessa piaga che duemila anni fa affliggeva il mondo e che adesso, riconquistato parte del potere perduto, sta allungando i suoi malsani tentacoli, avvolgendo le menti ed i cuori di coloro che non credono nell’avvento e nella vittoria del bene. Sei ancora convinto che la faccenda non ti riguardi, sei ancora certo di non poter fare proprio nulla per un mondo che rischia di prendere le stesse forme di questo in penosa rovina di duemila anni fa? Allora l’uomo, faticosamente, riuscì a rialzare la testa, anche grazie al nostro aiuto, ma il ritorno della civiltà fu lungo e tormentato. Tuttora sono presenti, come forse ricordi, conflitti che dilaniano gli uomini e che li allontanano, con sofisticato ingegno diabolico, dalle vicende davvero importanti, quelle che rischiano di renderli schiavi per sempre del Tiranno. Sta a te aprire loro gli occhi, mio caro, solo a te. Ma devi volerlo, solo tu puoi volerlo, solo tu puoi fare in modo che ciò che è scritto nel tuo destino non rimanga solo la speranza di pochi e stanchi esuli, di coloro che credono in te, per coloro che da secoli sono oppressi, per un mondo intero che, benché inconsapevole della tua venuta, attendono un nuovo periodo di pace, una nuova età dell’oro». Le parole di Shadriel risuonarono come rintocchi di una campana nella mente di Greg: possibile che quello che, con tanta ione, gli stava dicendo, fosse solo frutto di un sogno e che non lo riguardasse davvero? La sua incertezza vacillò guardando di nuovo la grande torre di cristallo e le fiamme rubino che la lambivano. Osservare impotente quella scena diveniva, col are dei minuti, sempre più difficile e tormentoso e desiderò con tutto se stesso che quella visione sparisse
dalla sua vista, che gli fosse celata. La dimensione, quasi volesse esaudire il suo desiderio, cominciò a turbinare come aveva fatto prima: stavolta Greg non si aggrappò a Shadriel, in lui era subentrato un senso di consapevolezza che stava iniziando a soppiantare quello di incertezza e di completa estraneità che fino ad allora lo aveva attanagliato. Vide due satelliti alternarsi ad una velocità impressionante e vide rovinare nell’oceano i resti della grandiosa torre. La stessa ambientazione, il luogo dove si trovavano cambiò e l’oceano fu sostituito dalla terra ferma: vide costruire città, guerre confuse e un grande cambiamento climatico del quale credeva di aver saputo qualcosa. Fu proprio in quel momento che si arrestò sensibilmente il moto della visione, che i giorni si alternarono più lentamente fino a quando la processione non si fermò, acquistando una velocità normale. La prima cosa che osservò Greg era che il paesaggio era totalmente coperto di neve ma che, stranamente, non provava la sensazione di freddo pungente che si sarebbe dovuto aspettare. Vide poi una catena montuosa colossale, coperta a valle da una foresta rigogliosa di sempreverdi. Memore della precedente visione, fissò per un attimo il cielo: non era tetro come quello che aveva visto prima nell’altra visione, però verteva visibilmente sul plumbeo. Poi, dapprima piccoli e radi, poi grossi e copiosi, caddero dal cielo fiocchi di neve. Greg fissò nuovamente quel cielo curioso, così tenebroso e così poco promettente, tanto che si chiese se non avrebbe dovuto cercare riparo. Si voltò, dando le spalle ai rilievi montuosi e si trovò a fissare una landa di ghiaccio deserta che a qualche chilometro di distanza degradava in una distesa d’acqua scura. Alla sua sinistra vide poi qualcosa di ancora più curioso: benché fosse consapevole di non aver mai visto quei luoghi, sapeva, con certezza quasi assoluta, che una fenomeno del genere non poteva assolutamente appartenere al mondo naturale. Una colonna di nubi, una spirale, si addensava in un luogo preciso, quasi come se proprio da lì fosse generato quel manto scuro opprimente. Greg non mancò di farlo notare a Shadriel e lei di nuovo annuì, consapevole della cosa. «Dove siamo?» «Siamo nei territori del Regno Artico di Junatar, qualche secolo prima del nostro presente. Abbiamo spiccato un salto temporale di circa mille e seicento anni e se non sbaglio dovresti conoscere in maniera approfondita questo argomento, credo che il maestro Dovan te ne abbia parlato». Ci fu un attimo di silenzio durante il quale la donna si trovò a fissare l’espressione interrogativa del ragazzo. «Ma, come facilmente posso dedurre, credo che tu non ne abbia ricordo. Credo
potrebbe essere opportuno recarci nello snodo dell’azione, da quaggiù non vedremo niente e, per quanto conosco la tua mente, e sappi che la conosco piuttosto bene, avrai l’opportunità di vedere qualcosa che non si vede tutti i giorni e che ardevi dalla voglia di vedere in prima persona. Almeno era questo il tuo desiderio quando, appena qualche settimana fa, Dovan ti ha illustrato questo avvenimento storico». Se fosse stato possibile l’espressione di Greg sarebbe diventata ancora più incredula di ciò che già era: chi era Dovan, di cosa stava parlando quella donna? Per il momento decise di assecondarla, dopotutto valeva la pena andare fino in fondo alla faccenda, almeno per capirci meglio qualcosa. Se veramente avesse visto qualcosa di cui aveva anche il più pallido ricordo, avrebbe avuto la consapevolezza che quella donna aveva ragione. Shadriel gli fece cenno di avvicinarsi e di afferrarla per la vita. La donna lo superava in altezza di almeno una spanna, ma non disse niente. Shadriel levò in alto le aggraziate braccia e mormorò una litania in una lingua a Greg ignota. Il ragazzo si chiese se forse quello a cui stava assistendo non fosse un’opera di magia: una grande luce si era concentrata attorno a loro per poi dilatarsi ed assumere un aspetto radiante. La luce si addensò sulla schiena di Shadriel, costruendo una complicata architettura: sei poderose e lucenti ali erano sbocciate dalla schiena dell’angelo dorato. In un attimo, Greg vide la terra sulla quale poco prima aveva poggiato i piedi allontanarsi, spinto in alto dalla forza dell’incanto che Shadriel aveva invocato su di sé. Benché volassero si rese conto che nessun vento della tormenta ostacolava il loro cammino e che erano liberi di compiere qualsiasi movimento, in completa libertà. La landa di ghiaccio, la foresta e qualche basso rilievo montuoso scivolarono veloci sotto di loro: Shadriel piegò dapprima in direzione dell’oceano scuro, poi, una volta oltreata una catena montuosa minore che in lontananza si ricongiungeva a quella di maggiore altezza, virò verso l’interno, dove il terreno si apriva verso un vasta pianura, nella vicinanze il lago, presso il quale si addensava la spirale di nubi. La spirale, minacciosa, non dava segno di interrompere la propria fuoriuscita: apparentemente era alimentata da qualcosa, o qualcuno, venne da pensare inconsciamente a Greg.
L’attenzione del ragazzo fu poi catturata da alcune macchie in movimento, qualche centinaio di metri più in basso e fu allora che Shadriel rallentò e si preparò alla discesa. Le macchie si allargarono e Greg fu in grado di distinguere più accuratamente di cosa si trattasse: erano esseri umani, in grande quantità, che marciavano in file ordinate e compatte. Alcuni eserciti ostentavano dei lunghi vessilli dai colori disparati: Greg li osservò mentre Shadriel planava proprio sopra gli schieramenti e si meravigliò nel constatare la grande varietà di uomini radunati in quella pianura. Altri si muovevano su macchine da guerra ma altri ancora, nelle retroguardie, catturarono principalmente l’attenzione di Greg: erano dei personaggi dalle vesti insolite ma magnifiche che si muovevano su pesanti e poderosi carri, completamente sguarniti di armi, dotati solo di imponenti cristalli. Fu proprio quell’immagine, quelle persone coperte da pesanti mantelli e dai volti sapienti in cerchio intorno a quei pilastri di cristallo che fece balenare la mente di Greg, riportando chiarore nella nebbia che lo pervadeva, come nel cielo che stava attraversando un potente raggio di Sole squarciava le nubi pesanti: erano maghi, Dovan era il suo maestro ed era un mago, egli stesso era un apprendista. Si risvegliò come da un lungo torpore, la mente parzialmente rischiarata, vide con occhi nuovi quella scena: si trovava nel bel mezzo di una delle battaglie della Guerra Artica, la storia che aveva conosciuto qualche settimana prima per bocca di Dovan. Come nel racconto, i quattro regni del pianeta si erano alleati per combattere gli artefici di uno sconvolgimento climatico di proporzioni planetarie. Rammentò con amarezza che quella era stata l’ultima occasione di accordo e di armonia del genere umano mentre adesso il mondo si trovava sull’orlo di un baratro. Shadriel virò ancora e risalì: dalla parte opposta del lago era comparso un altro schieramento, forse più numeroso di quello dei quattro regni. «Puoi portarmi là?» chiese Greg. Era sicuro che se avesse visto la natura del secondo esercito forse avrebbe finito per ricordare tutto ciò che ancora non gli era chiaro. Shadriel annuì nuovamente e diede un possente colpo con le sue tre paia di ali, si diresse verso lo schieramento opposto, evitando la bocca eruttante nubi; la sorò, dando modo a Greg di constarne la schiacciante superiorità numerica,
curvò e planò sopra l’esercito. Per la seconda volta la mente di Greg divenne più nitida e altri ricordi affiorarono alla sua mente, rendendogli possibile l’identificazione di quell’esercito. Esseri dalle fattezze umane ma allo stesso tempo diversi, avanzavano brandendo armi insolite, altri in sella a creature simili a vermi. Ma fu la prima linea, la testa dell’esercito, due figure in particolare che si distinguevano come pilastri a rappresentare per Greg forse la parte più dolorosa, che più di tutte lo aveva angosciato: il primo, coperto da una veste nera, con due paia di corna ossee, sedeva su una grande slitta da guerra. Non c’era dubbio, la sua memoria aveva smesso di giocargli brutti scherzi: era Lord Astaroth. L’altro avanzava solitario, isolato dagli altri e troneggiava sull’esercito con il suo movimento sinuoso e la sua poderosa altezza. Greg non aveva la minima idea di chi fosse ma non ebbe esitazione nel definirlo dello stesso rango del primo. «Ricordi adesso?» «Sono demoni e quelli in prima linea sono i loro generali. Il primo è Lord Astaroth, l’altro non l’ho mai visto. Ho già affrontato Astaroth e i demoni. Sono loro i nemici, vero?» «Sì Greg. Sono la piaga del vostro mondo, coloro che per secoli hanno tentato di piegare gli uomini al loro dominio. Ricordi qual è il tuo compito? Voglio dire, hai ricordato per cosa dovrai lottare? Non voglio che tu mi ripeta ciò che già ti ho detto, della tua missione di salvare il mondo. Per chi combatti? Non te lo sei chiesto ancora?» Greg fece cenno di no con la testa. Aveva capito, ricordava il perché dovesse combattere ma non ricordava per chi lo fe, oltre a se stesso e per Shadriel, forse. L’angelo dorato assunse un’espressione rammaricata, comprese che il suo compito in quella strana dimensione non era terminato. Tornarono indietro e le ali di nuovo squarciarono l’aria immobile, questa volta diretta verso la spirale di nubi. Greg si chiese il perché di quella decisione, ma Shadriel non sembrò notare il suo disappunto mentre, in un frammisto di stupore e di paura da parte di Greg, si tuffava dentro la spirale nera. Di nuovo il sopra si confuse col sotto mentre l’oscurità turbinava intorno a loro, un forte vento era sopraggiunto adesso, rendendo più difficile a Shadriel
attraversare quella lunga galleria. Poi di nuovo il cambiamento: l’oscurità era rimasta pressoché la stessa ed il vento continuava a sferzare il suo volto, frammisto però a gocce di pioggia. Un tuono lo distolse, ora c’era un’enorme distesa d’acqua in tempesta e lontano, molto lontano, due fiochi bagliori. Shadriel planò con difficoltà mentre Greg cominciava adesso a faticare, sentiva la presa cedere, le mani scivolargli inesorabilmente. Guardò in basso, un senso di vertigine lo catturò: l’oceano oscuro spumeggiava rabbioso mentre poco lontano una barca era quasi in procinto di affondare. Andando contro il vento, Shadriel si avvicinò alla barca, probabilmente un mercantile, pensò Greg. Sul ponte un uomo, solo, visibilmente sconvolto, cercava un mezzo di salvezza, correva da una parte all’altra, osservando le onde, talvolta inciampando, finendo a terra a causa di un’ondata particolarmente forte. Greg avvertì l’impulso di salvarlo, di chiedere a Shadriel di atterrare ma proprio in quel momento la nave fu investita da un’onda gigantesca e si capovolse. Cercò lo sguardo di Shadriel e lei di rimando parve sorridergli, forse non si era resa conto della tragedia appena avvenuta. Continuarono quindi a volare contro il vento potente della tempesta fino quasi a toccare la riva: coperti dalle catene montuose che lambivano la Baia Azzurra erano protetti dalle intemperie e, pochi istanti dopo, Greg fu spettatore di una scena curiosa. Il cielo si aprì per un attimo, lasciando filtrare un potente raggio luminoso che rischiarò la spiaggia poco sotto di loro. Vide così, con sua meraviglia e anche con una certa felicità, che l’uomo che era sulla nave non era affatto morto ma anzi era vivo e vegeto. Poco distante una figura colossale, un incrocio tra un grosso pesce ed un anfibio, osservava a sua volta la scena. Concentrò di nuovo il suo sguardo sul fascio luminoso che nel frattempo si era intensificato, facendosi latore di qualcosa simile ad una grossa bolla di luce. ò qualche minuto confuso, durante il quale l’uomo sopravvissuto era praticamente scomparso a causa dei bagliori accecanti emanati dalla bolla. Poi, come il fascio luminoso era venuto, esso scomparve, riportando nel cielo oltre le nubi la bolla e lasciando l’uomo da solo con qualcosa tra le braccia. Nella quasi completa oscurità Greg vide il gigante inchinarsi per un attimo e scomparire nelle acque e l’uomo solo avvicinarsi verso l’interno della piccola spiaggia. Osservò incuriosito la scena, incerto se qualcos’altro sarebbe dovuto accadere. La dimensione, una volta ancora, rispose alla sua richiesta e lo accontentò tacitamente: il tempo cominciò a scorrere più veloce del normale, le nubi si dissiparono all’orizzonte, lasciando filtrare i raggi caldi del sole e mostrando gli ultimi bagliori dei due satelliti.
Planarono e scesero in un punto preciso della città, davanti alla porta di una casa, contornata da un ordinato giardino, e di recente costruzione. Fu in quel momento che Greg vide, a pochi i, l’uomo che aveva visto solo dall’alto: era più basso di lui, con i vestiti logori e fra le braccia un fagotto apparentemente costituito da veli di stoffe preziose. L’uomo sorrideva giocondo mentre osservava che nessuno si era accorto del suo ritorno. Forse, voleva preparare una sorpresa a qualcuno, pensò Greg. L’uomo, li superò fendendo l’aria e bussò alla porta. Dall’interno si udì una debole voce di rimando: la pesante porta fu aperta, nell’ombra una serva accolse il padrone di casa con un gemito di stupore. L’uomo la zittì prontamente, intimandole di tacere su ciò che avrebbe visto o sentito in seguito. Shadriel fece cenno a Greg di seguire l’uomo che, con o felpato, saliva l’imponente rampa di scale per accedere al piano superiore dell’abitazione. Greg si soffermò un attimo, mentre col piede saliva il primo dei gradini. Quella casa aveva qualcosa di estremamente familiare, lo stesso dicevasi per la serva che aveva aperto la porta. Shadriel gli si accostò un attimo, sorridendogli e facendogli di nuovo cenno di salire. Raggiunsero porta socchiusa presso la quale si soffermò l’uomo col fagotto in mano e gli furono subito dietro mentre, lentamente, la spalancava. Una donna, coricata in un letto matrimoniale si era appena mossa, mettendosi debolmente a sedere. «Aaton, sei vivo! Sia ringraziato Leviathan! Se tu non fossi tornato sarei morta una seconda volta, non avrei più potuto continuare a vivere. Sono stata sveglia tutta la notte, ho ordinato alle serve di fare un continua sentinella al porto per avvistare la tua nave! Quando nel cuore della notte la povera Saleia ha sentito dire che una nave mercantile era affondata nei pressi della Baia stavo quasi per togliermi la vita! Oh, marito mio adorato, Leviathan non ha voluto che compiessi un gesto così sconsiderato e ora tu sei qui, vivo!» «Cara, non muoverti, non ti agitare, sei ancora convalescente» le disse con dolcezza, avvicinandosi al letto, sempre con il fagotto fra le braccia. La donna lo abbracciò e solo allora si accorse dell’involto. Fu come se la stanza si riempisse di luce. Greg incontrò, per la seconda volta nel giro di pochi giorni, gli occhi di un bambino, vispi e screziati di verde. Riconobbe così le due persone che
attorniavano il piccolo come i suoi genitori, coloro che per diciassette anni l’avevano accudito e protetto. In un flash di pochi secondi vide tutta la vita argli davanti agli occhi, si vide crescere, vide i suoi amici, le sue gioie e i suoi dolori quotidiani. Sentì il cuore battere ancora più forte nel ricordare gli avvenimenti più recenti, le sconcertanti rivelazioni che di nuovo sorgevano nella mente e che gli avevano stravolto la vita ed infine il motivo a causa del quale la sua essenza si era ritirata in quel luogo. Le frustrazioni, le responsabilità che lo avevano sconcertato e che non era pronto ad affrontare erano tutte lì, adesso, davanti ai suoi occhi. capì che quella sofferenza e quel disagio erano necessari e che doveva affrontarli, non perché non potesse fare altrimenti ma per tutte le persone che lo amavano e che credevano in lui. Sorrise di una consapevolezza completa e radiosa. Shadriel lo fissò per un attimo, dopodiché le sue parole fluirono dolcissime: «Ricordi adesso?» Greg annuì. «Ci vedremo di nuovo, spero». Fu Shadriel questa volta ad annuire, sorridendo. Le due figure si abbracciarono affettuosamente, per la prima volta dall’inizio del tormentato viaggio mentre la stanza perdeva gradualmente la sua nitidezza, sostituita dalla luce. L’aria entrò potente nei suoi polmoni, sigillando l’essenza col corpo. Aprì gli occhi: era tornato.
Capitolo XII
La battaglia
Grida di giubilo confuse accolsero il risveglio di Greg. Si mise seduto, ebbe giusto il tempo di guardarsi attorno che Andrew, Mark e Lisa gli furono sopra, buttandolo di nuovo a terra. Andrew gli somministrò una buona dose di pugni in pieno stomaco. «Ci hai fatto prendere un colpo quando sei svenuto!» Greg non riuscì a togliersi di dosso l’amico ritrovato, fu Mark a staccarglielo con forza, aiutando poi Greg ad alzarsi. «Abbiamo tentato più volte di rianimarti ma non abbiamo ottenuto nessun risultato!» disse Mark. «Già, lui ha provato con la magia, io con metodi più fisici» disse indicando il petto ed il volto di Greg. Il ragazzo si tastò il viso e scoprì di essere piuttosto dolorante, quasi con disappunto, mentre Andrew aveva dirottato il suo sguardo dall’amico a qualcosa di probabilmente meno imbarazzante, posto sul terreno. Lisa, nel frattempo, si limitava ad annuire alle parole degli altri con ripetuti cenni della testa. Greg sorrise. «Non era tanto uno svenimento fisico il mio quanto una caduta mentale. Diciamo che la mia mente era combattuta tra più di un proposito e prima di svenire ero arrivato ad un punto estremo di sopportazione degli eventi. Ora è tutto risolto, almeno spero». «Non respiravi quasi più, eri divenuto freddo ed il tuo volto era l’immagine della sofferenza. Solo poco fa, prima del tuo risveglio, l’espressione che contorceva il
tuo viso si è rilassato». Disse contraddetto Andrew. Secondo le parole dell’amico tutto sembrava essersi svolto nei limiti della normalità. Erano loro tre che, terrorizzati, cercavano di rianimarlo senza sapere cosa gli fosse successo. «Eri felice?» chiese, a sorpresa dalla penombra, Lisa. Sorrise di nuovo ed annuì: ora che tutto era ato e le incomprensioni di prima rimandati a tempo indeterminato, capiva quanto gli volessero bene i suoi amici. Tutto ciò che aveva visto gli aveva lasciato un’impronta indelebile che lo avrebbe accompagnato per sempre. La domanda di Lisa innescò come una miccia anche quelle a catena degli altri due: volevano sapere tutto ciò che a loro non era stato possibile vedere tranne che attraverso i mutamenti del volto di Greg. Non fece a tempo a rispondere che un odore pungente e particolare, simile alle resine provenienti dalla Foresta degli Esperidi che sua madre spesso bruciava per purificare la casa, gli penetrò profondamente nelle narici, facendolo sussultare. L’odore, accompagnato dalla fuga frenetica degli animali della foresta, li ammutolì. Andrew salì precipitosamente su un albero vicino, quel poco che bastava per constatare l’esattezza di ciò che già tutti e quattro avevano presagito: in vista di Renodia la foresta era in fiamme.
†
Era tornato, l’aveva percepito chiaramente. Dovan tirò un profondo sospiro di sollievo. Per alcuni, lunghi, minuti la sua essenza e il suo spirito erano come scomparsi dal mondo. Non poteva essere morto poiché, come sapeva, la morte non era la fine bensì l’inizio di una nuova vita, sul piano immateriale, nel flusso di vita ed anime che accompagnava il pianeta e la sua stessa esistenza. Era scomparso, la sua anima svanita in un solo istante ed ora, come se ne era andata, probabilmente nel luogo più misterioso che la natura celava, era tornato nel suo corpo. Una sola cosa era importante adesso: Greg era vivo, vicino al
campo che presto sarebbe stato teatro della battaglia. Urla concitate dalle torri difensive resero irrequieto il suo destriero. Dovan tirò le redini e con delicatezza sfiorò la mente del cavallo per calmarlo. La bestia ebbe sollievo quasi immediato ma questo non si poté dire per i nervi di Dovan quando apprese la natura delle urla: «La foresta va a fuoco!» ripeterono da una torre sopra di lui. Ordini confusi seguirono l’allarme mentre i quattro reggimenti guidati da lui e dai tre principi esperidi uscivano dalle porte fortificate della città mentre la popolazione civile, scortata da poco più di un centinaio di uomini, raggiungeva le navi di fuga ormeggiate ai Porti di Smeraldo. Il principe Deidar fece schierare i suoi uomini, mettendosi alla loro testa, seguito poi da Mylaetra e da Cylaetra che disposero la loro fanteria dietro alle cinque file in cui erano stati schierati gli Unicorni Verdi. Per ultimo fu il turno di Dovan che, dopo aver schierato gli uomini che gli erano stati affidati, si riunì con i tre esperidi alla testa del piccolo esercito. Socchiuse gli occhi, osservando nuovamente le pendici della foresta, questa volta però da un livello paritario, mancando perciò della visione d’insieme: vaste zone andavano a fuoco, i nemici erano probabilmente nascosti dal fumo e dalle fiamme. Un eco di fondo, un monotono e agghiacciante rullo di tamburi di guerra, crebbe col are degli istanti, spezzando il silenzio della sacra foresta. Gli Esperidi, così radicati al luogo che preservavano da millenni, soffrivano visibilmente, un’ombra scura era scesa sui loro occhi. Il legame inscindibile non si era spezzato, neanche ora che il male stava calpestando il sottobosco, spezzando radici ed incenerendo gli alberi. Il bagliore verde, fino a poco prima sopra la foresta, era sceso sulla pianura, a qualche decina di metri dall’esercito di Renodia. I cavalli scalciarono, impazziti, a stento controllati dai cavalieri. La strana forma verde, così irreale, si contrasse e poi, come se fosse aspirata da bocche invisibili, scomparve, lasciando in mezzo alla pianura una figura minuta, solitaria, a tratti bizzarra. Contrariamente al fatto che l’immagine avesse potuto suscitare ilarità, nessuno ne rise.
Lord Minstrael, l’Esperide rinnegato, si stagliava adesso, fiero ed imperturbabile, dietro la sua maschera di Oricalco, negli occhi la sfida e l’odio verso i suoi fratelli. Avanzò, il cappello a larghe falde ondeggiava torreggiando sul corpo esile e consumato. Un grande flauto pendeva dalla sua schiena, impacciandogli i movimenti. Giunto a poco più di dieci metri dai quattro generali si fermò, si sfilò il cappello ed eseguì un breve inchino. «Che cosa vuoi da noi, rinnegato?» chiese Deidar a gran voce. La voce del principe si era fatta profonda e ferma. Buona tattica, pensò Dovan, trattarlo con dignità avrebbe voluto dire riconoscere la loro autorità e renderli più sicuri di sé. «Trattare, caro principe, trattare. Io, il sesto dei Pari, sono qui, davanti alle loro maestà per offrirvi l’alleanza con il mio Signore» fu la risposta, in tono mellifluo e conciliante del demone che, dopo un attimo di pausa, volto a fare sprofondare nelle menti dei difensori le sue parole, riprese il discorso: «Niente ci obbliga a combattere, ciò che volevamo da voi è già nostro da giorni». Dovan provò una fitta: Lord Minstrael stava giocando bene le sue carte, sicuro del vantaggio acquisito ancor prima di combattere. «Rimane solo un piccolo particolare, un’inezia per noi e per il mio Signore». Di nuovo le sue parole ricaddero nel silenzio. Questa volta il suo tono si fece duro e sprezzante con un sottofondo di orgoglio personale: «Vogliamo il vostro spirito tutelare». Gli Esperidi si ritrassero inorriditi, Deidar in special modo. Dovan non era perplesso: il loro Signore voleva una vittoria schiacciante, senza possibilità di sconfitta. Sradicare qualcosa di così intrinsecamente legato ad un popolo come uno dei quattro spiriti tutelari avrebbe determinato, con il are degli anni, la morte fisica e, ancora peggio, spirituale del popolo di Renodia. E, di conseguenza, avrebbe spianato la strada al Signore dei Pari. Combattuto se rispondere o meno alla richiesta, Deidar si fece coraggio e, con voce più dura che mai, rispose alla richiesta del demone: «Ciò che ci chiedi è impossibile. Hai rinnegato il nostro popolo, hai perso le radici che ti legavano a questi luoghi». Fu Deidar questa volta ad infierire sul nemico, restituendo la cortesia di poco prima. «Per millenni Renodia, sotto la guida di mia madre e di mio padre, si è battuta per la libertà di questo mondo e dei suoi abitanti. Il nostro
spirito, il Signore Silvestre, non abbandonerà mai i suoi fedeli: egli è in noi come noi siamo in lui. La sua energia vitale scorre in noi renodiani potente, dandoci la forza di combattere. Tu hai perso tutto ciò quando ti votasti al male». La maschera del demone negò a Dovan la possibilità di costatarne la reazione che di sicuro, si disse, non doveva essere euforica. «Non può esserci accordo tra noi. Se dovremo combattere, combatteremo, moriremo anche ma nessuno di noi tradirà mai, nessuno si schiererà nuovamente con il male». Fu la conclusione di Deidar che, udita da quasi tutto l’esercito, provocò delle grida di sostegno. La risposta di Lord Minstrael, alquanto alterato nel tono di voce, seguì pochi istanti dopo, prendendo la piega dell’aperta dichiarazione di guerra. «Come desiderate. Il mio Signore vi ha porto, tramite me, la sua mano misericordiosa ma voi, miei stolti fratelli rinnegati, l’avete rifiutata. Ebbene, se è questo ciò che volete l’avrete, statene certi. La vostra Foresta perirà con voi, la terra diverrà arida e brulla, le fonti malsane e putride. Le vostre ossa saranno calpestate da noi, i demoni, i primi e veri figli di questo mondo!» Cori di sdegno si levarono dall’esercito mentre Lord Minstrael, inchinandosi di nuovo, arretrava imbracciando il suo flauto. Si fermò, più o meno nello stesso luogo dove era atterrato e poggiò il flauto alle labbra. Una melodia lenta e dai toni cupi invase il campo: sullo sfondo della foresta in fiamme emersero delle ombre compatte in un numeroso raggruppamento. Con desolazione Deidar si accorse che altri quattro schieramenti, numerosi quanto il primo, erano comparsi ai lati di quello centrale. «Ecco i figli dell’Albero putrido» commentò amaramente mentre tirava leggermente le redini del suo stallone da guerra. I goroi si schierarono compatti dietro a Minstrael, digrignando i denti, battendo le spade e le mazze contro gli scudi rozzi e pesanti. Poi, inspiegabilmente, il silenzio. Lo schieramento centrale si aprì nel mezzo, creando un largo corridoio. Lord
Astaroth, seguito da goroi, avanzava attraverso le file cerimonioso ed impettito, brandendo uno stendardo nero. Piantò la picca al suolo e sfoderò la lunga lama di ossidiana, stendendo il braccio ossuto sopra la testa. L’istante durante il quale il Generale abbassò la lama dando così il via alla carica, trascorse al rallentatore mentre, nello schieramento di Renodia, lo stesso avveniva preceduto dal grido di guerra del principe Deidar.
†
Sul ciglio della foresta quattro paia d’occhi osservavano il campo di battaglia dalla parte opposta rispetto allo schieramento renodiano. «Siamo arrivati troppo tardi» disse Greg, sommesso. Andrew si allungò verso la pianura di qualche o e scrutò l’esercito dei demoni. Socchiuse gli occhi per distinguerne meglio i particolari, poi disse: «Forse no, possiamo ancora fare qualcosa. Quel bestione che Lisa ha visto prima non è stato ancora schierato. Probabilmente lo vogliono conservare come arma segreta». «Beh, ora non ci resta che la parte più semplice» disse sarcastico Mark, «attraversare le retrovie del nemico, il campo di battaglia e raggiungere il nostro schieramento per avvertire Dovan e gli Esperidi». «Qualche idea del come fare ciò?» chiese Greg, poco convinto. Nessuna risposta, ognuno fissava il terreno attorno ai propri piedi. «Bene» fu il commento di Greg qualche istante dopo «siamo bloccati con importanti informazioni e non esiste un modo che non sia follemente suicida per arrivare al nostro schieramento. Non abbiamo molto da fare tranne che attendere gli sviluppi della battaglia. Ed incrociare le dita che riescano a resistere al bestione» concluse furioso. Un crepitio poco distante attirò la loro attenzione: un tronco era rovinato a terra, portando con sé una miriade di scintille incandescenti. Le fiamme iniziavano a
lambire anche quella zona, entro breve il fuoco si sarebbe propagato abbracciando tutta la foresta, chiudendo Renodia ed i suoi abitanti in un unico anello di fuoco. «Ce ne dobbiamo andare, alla svelta!» disse repentinamente Mark scansando alcune scintille incandescenti. «Non possiamo uscire allo scoperto, saremmo un bersaglio troppo semplice per i nemici!» lo contestò Lisa mentre già si copriva il volto per non respirare il fumo. «Ho un’idea» intervenne Andrew serio. Greg lo osservò per un istante: ultimamente Andrew si era rivelato una cava di buone idee che, solitamente, li avevano tolti dai guai. Continuò: «Greg, Renodia è totalmente circondata dalla foresta, non è vero?». Il ragazzo sobbalzò alla curiosa domanda poi rispose, curioso di sapere quale fosse il suo piano. «Sì, certo, non ha sbocchi all’esterno fatta eccezione per il porto ed esso è situato sotto la città, ad un livello più basso». «Sbaglio o, poco dopo il nostro arrivo Dovan ti ha fatto vedere una porta di pietra vicino al porto?» «Sì, era l’entrata del luogo dove era custodita quella pietra rubata. Da quanto ha detto Dovan si tratta di un dedalo di gallerie che si snodano sotto tutta Renodia» rispose Greg con tono incerto. «Ed è logicamente probabile che qualcuna di quelle gallerie sbocchi nella foresta?» lo incalzò Andrew mentre Mark e Lisa si scambiavano occhiate perplesse. Greg inarcò il sopracciglio, riflettendo. «Beh, è possibile, ma come facciamo a trovarla?» Andrew scosse la testa: «Forse tu non ci avrai prestato molta attenzione prima, ma io sì: quando siamo saliti su quella bassa collina per salvare Lisa, ecco, non siamo saliti su una vera collina. Il versante dal quale siamo saliti, fatto di rocce lavorate e squadrate, era una porta!» Greg imprecò, furibondo. Dovevano tornare indietro e davanti a loro c’erano
solo le fiamme. «Bene, direi che il piano è fatto»parve ammiccare a se stesso come se volesse congratularsi di quella geniale trovata «Ci faremo strada tra le fiamme, arriveremo nelle gallerie, le seguiremo fino a Renodia e da lì rientreremo in città» concluse soddisfatto. «Come faremo a tornare in quel luogo? Ci hai pensato, genio?» «Ripercorreremo all’indietro la strada che hanno spianato i demoni nella loro avanzata poco fa». «E per quanto riguarda le fiamme?» chiese Mark, sottolineando una volta ancora quello che, nella lista dei problemi, era solo l’ultimo. Andrew si strinse nelle proprie spalle e sorrise. «Siete voi i maghi, non io! Avrete pure qualche incantesimo per fronteggiare le fiamme. Almeno spero». Greg alzò le spalle. Lo stesso fecero Mark e Lisa. «Conosciamo un solo incantesimo di protezione, lo scudo halos. Credo dovremo fare un lavoro di squadra se vogliamo tornare indietro indenni». Mark annuì d’intesa. «Lisa», disse Greg rivolto verso la ragazza, memore delle sue spiccate abilità difensive «tu erigerai una barriera per proteggere tutti e quattro mentre io e Mark utilizzeremo le magie della catena dell’acqua per spezzare le fiamme e rendere più efficace la funzione protettiva della barriera». Lisa annuì debolmente nell’oscurità rinvigorita dal colore amaranto delle fiamme, stese il braccio destro davanti a sé e aprì la mano. Una barriera opalescente si sprigionò dal suo palmo ma subito dopo si ritrasse, dissolvendosi. «Perdonami Greg, non riesco, non ce la faccio ancora, mi spiace». Sul volto di Greg comparve un sorriso mesto che, a mala pena, copriva l’ombra di delusione e debolezza che la sua mente stava accostando all’immagine che aveva di Lisa. «Questo momento erà, ne sono certo». Si voltò poi verso l’altro: «Pensi di essere in grado di erigere una barriera magica?» Mark colse la sfumatura sarcastica ma annuì convinto: si sarebbe riservato più
tardi, nel caso di sopravvivenza, di assestare qualche pugno all’amico. Eseguì l’incantesimo e, per un diametro di due metri, si diffuse la barriera opalescente. Andrew e Lisa vi entrarono prontamente mentre Greg ne rimase al di fuori. «Come farai a proteggerti?» chiese Andrew. Greg mostrò entrambe le mani: «Lancerò gli incantesimi a ripetizione con tutte e due le mani, in caso di pericolo estremo evocherò su di me una barriera, ma per nessun motivo voglio che smaterializzate o tentiate di ingrandire la vostra per proteggere anche me, capito? Siete già troppi là sotto per proteggermi. Le energie di Mark dovranno bastare più possibile e, considerando la crescente forza delle fiamme, dovremo sbrigarci se non vogliamo rischiare di rimanere ustionati». Annuirono: Mark intensificò appena la barriera, preceduto da Greg che, aprendo le mani, diresse due potenti ilorama, l’incantesimo del terzo anello dell’acqua, verso il muro di fiamme, creando un varco accessibile e gettandovisi dentro.
†
Sul campo la battaglia infuriava. Le parti in causa, data la disparità degli schieramenti, si battevano tenacemente: chi per supplire alla carenza di uomini, chi avanzando come una valanga per sommergere ed annullare gli sforzi dei difensori. In mezzo alla battaglia Dovan combatteva, in formazione difensiva, a stretto contatto con le due principesse Esperidi: in una mano la spada, nell’altra il bastone. Ad ogni fendente seguiva un incantesimo d’attacco o di difesa, nel tentativo di spezzare il costante assalto da parte dei goroi: le creature affluivano in continuazione, la fanteria intorno ai tre generali combatteva senza tregua, compattandosi e caricando, assorbendo e respingendo l’urto dell’assalto nemico. La città aveva sbarrato i suoi ingressi mentre i soldati delle torrette difensive tentavano di disperdere, con colpi calibrati ed accurati, lo schieramento demoniaco. Il principe Deidar, in un attacco congiunto, aveva stretto in una morsa un intero comparto, decimandolo, ma aveva subito altrettante gravi perdite, costringendosi alla ritirata, ripiegando nelle retrovie per riorganizzare la cavalleria.
Nel frattempo i due Pari restavano in disparte, comandando da lontano l’esercito con la loro influenza mentale. Entrambi, per ragioni diverse, stavano aspettando qualcosa, un’apparizione, prima di scendere a loro volta in campo: avrebbero anche potuto evitarlo, secondo i loro pronostici avrebbero vinto in maniera totale ugualmente. Da secoli non osservavano una tale ecatombe e il demoniaco gusto per il sangue e le carneficine era emerso squarciando la coltre dei lunghi anni ati in completa inattività nell’oscuro Baiamondo, divenendo un pregevole atempo, un diletto per ingannare l’attesa. Nessuno dei due pareva minimamente interessato ai pensieri dell’altro, tipica ragione per la quale fra i demoni non nascevano mai dei veri e propri rapporti d’amicizia: la competizione e l’avidità prevalevano su tutti gli altri intenti. Se ciò avveniva già con deciso accanimento tra i demoni semplici, ad un livello esponenzialmente più alto avveniva tra i nove Pari, coloro che governavano sull’oscuro mondo sotterraneo. Il rispetto formale era obbligatorio nei momenti di riunione ma poi, da soli, erano come delle bestie astiose, ansiosi di sbranare i propri simili. Alcuni, nel privato, portavano rispetto, vero rispetto, ad un demone al quale, per sventura, erano particolarmente legati, ma era difficile interpretare tutto ciò come amicizia, data l’impulsività e la mutabilità dell’animo demoniaco. Lord Astaroth percepì un turbamento provenire dal campo di battaglia: uno schieramento si stava ritirando, disperso dalla carica della cavalleria mentre un altro era stato quasi distrutto dalla fanteria. Le labbra sottili assunsero una piega più bassa e scontenta del solito, amara. Umani ed Esperidi si erano organizzati meglio del previsto. Fero pure, distruggessero anche dalla prima all’ultima di quelle bestie prive di raziocinio; distruggessero, anche se inverosimile, pure il Mynothork quando fosse stato schierato, non gli interessava. Da solo avrebbe potuto supplire alla mancanza di quattromila soldati scelti e lo stesso se non meglio, pensò con un certo rammarico, avrebbe potuto fare Lord Minstrael. Avrebbe raso al suolo da solo la città di Renodia ed avrebbe estirpato l’intera foresta se gli fosse stato concesso di ritrovare quel singolo essere vivente che gli interessava davvero di scovare e per il quale, ammise a se stesso, in fin dei conti si trovava lì.
Strinse i pugni, guidò la parte restante dello schieramento sconfitto verso il centro del campo, radunandolo nella zona centrale. Con questa manovra avrebbe tentato, una volta per tutte, di spaccare in due l’esercito dei difensori per chiudere poi definitivamente la partita. Con l’ausilio del Mynothork. Qualche istante dopo Lord Minstrael gli fu accanto, probabilmente aveva percepito anche lui lo spostamento delle truppe che Astaroth aveva effettuato poco prima. «Pensi sia giunto il momento di schierare il Mynothork?» Astaroth finse di soppesare la richiesta. Quel bestione avrebbe fatto poltiglie di chiunque e l’avrebbe probabilmente privato della sua vendetta. «Aspettiamo». Minstrael indovinò la motivazione di fondo, celata dalla risposta di Astaroth. «Di nuovo questione personali, non è vero, vecchio mio?» L’altro rimase un attimo in silenzio, poi decise di controbattere il compagno sullo stesso terreno: «Ognuno ha una questione in sospeso da risolvere e in questa occasione quello con il maggior conflitto interno sei tu». Gli occhi vitrei incrociarono quelli spenti di Minstrael, nascosti dalla pesante maschera. Il Pari non rispose e si sedette sotto un albero morto, imbracciò il flauto e iniziò a suonare la melodia più triste e malinconica che mai avesse suonato.
†
Ritrovare la porta si era rivelato più difficile del previsto e l’avanzata era proceduta a fasi alterne. Il terzo anello della catena dell’acqua si era rivelato utilissimo per aprirsi un varco tra le fiamme mentre la semplice halos di Mark aveva svolto adeguatamente la sua funzione. L’ingresso era circondato dalle fiamme e la porta carbonizzata. Greg aveva estinto parte delle lingue di fuoco e, aiutato da Mark e da Andrew aveva abbattuto la porta. La galleria era intatta anche se in evidente disuso: i cunicoli erano ampi e
spaziosi, sorretti da poderose colonne e intelligentemente progettata. Greg tentò di fare luce con una mej dischiusa nella sua mano, gli altri alle sue spalle avanzavano seguendo prudentemente i suoi i: il suo senso dell’orientamento difficilmente lo tradiva ma là sotto, in quel labirinto di cunicoli, non era molto sicuro della strada giusta per Renodia. Secondo la logica seguì la galleria più ampia e spaziosa evitando le gallerie secondarie che si perdevano nella più completa oscurità in chissà quale direzione, scesero numerose rampe di scale, immersi nel silenzio assoluto che, unito all’aria stantia, rendeva quel luogo più simile ad una necropoli che ad una galleria militare. Il freddo delle profondità si faceva, con la discesa, sempre più insopportabile, fino a quando non giunsero ad un’ampia terrazza a strapiombo, dalla quale godettero di uno spettacolo senza pari. Una grotta, immensa e ciclopica, si estendeva per chilometri davanti a loro, illuminata da un tenue bagliore verde diffuso che sembrava emesso da ogni roccia e stalattite che vi dimorava. Al centro di essa, poco sotto la terrazza, una costruzione proporzionata alla caverna e alle sue mastodontiche dimensioni. «Quella è la Cattedrale delle Rocce?» chiese Andrew sgranando gli occhi, comprendendo adesso come doveva sentirsi uno scarafaggio accanto a una delle Torri di Cristallo. «Credo di sì, o almeno è ciò che ne rimane» rispose Greg costatandone le numerose colonne crollate. Anche se da parecchie centinaia di metri di distanza, sentiva, senza riuscire a spiegarsi come, qualcosa di simile ad un eco ma le parole di Mark lo distrassero. «Così è da qui che quella pietra è stata rubata» disse. Voltandosi si mise a studiare la terrazza con sguardo attento. Greg scosse la testa. «Credo dovremo tornare indietro, siamo arrivati ad un vicolo cieco». Andrew e Lisa annuirono ma Mark, qualche metro distante, vicino al limite della terrazza, pareva non aver sentito le sue parole. Gli si avvicinarono quindi, qualcosa doveva aver assorbito totalmente la sua attenzione, cosa che, poco dopo, assorbì anche la loro: un lungo binario che si perdeva nell’oscurità finiva la propria corsa sulla terrazza. Poco distante una consolle elettronica, forse attribuibile all’azione di quei binari. «Dev’esserci un mezzo di trasporto e questo pannello dovrebbe poterlo azionare» disse Mark pensieroso.
«Speriamo che la distruzione a cui è andato incontro questo luogo non abbia riguardato anche i trasporti» commentò realisticamente Andrew. «Vale almeno la pena tentare» disse Lisa mentre si accorgeva di una ferita di non poco rilievo sulla spalla destra. Rammaricata tentò di evocare un incantesimo di cura, ottenendo un fallimento come poco prima. Greg si offrì di prestarle aiuto, avvicinando le mani alla ferita, ma lei lo rifiutò: «Ho la sensazione che avrai bisogno di tutte le energie possibili, non è giusto che tu le disperda curando me». Greg fu sul punto di replicare, poi comprese l’altruismo dalla ragazza e le sue mani tornarono lungo i fianchi. Le sorrise, con un sorriso certamente diverso da quelli che le rivolgeva quando ancora erano a Selthon e l’avvenimento più interessante erano le lezioni di Dovan, si strappò un lembo di tessuto dai pantaloni e alla meglio coprì la ferita della ragazza. «Spero questo basterà fino a quando arriveremo in città». «Grazie» disse stringendo forte e sé il ragazzo. Greg questa volta arrossì mentre da un lato Mark si voltava e Andrew sogghignando, col contatto della mano, faceva illuminare di blu la consolle. Greg avrebbe voluto spiegare a Mark che non intendeva venire meno a ciò che gli aveva detto a Selthon ma le parole entusiaste di Andrew lo costrinsero a rimandare il chiarimento ad un altro momento. «Funziona! Qua sotto c’è ancora energia!» Toccò più e più volte lo schermo fin quando Mark, con tono impaziente, non gli chiese se sapeva ciò che stava facendo. «Stai zitto per favore, sto cercando di tirarci fuori da qui. Questo è il pannello di azionamento del trasporto» disse mentre sullo schermo compariva la richiesta lampeggiante “azionare trasporto?”. Andrew toccò lo schermo analogico accettando la richiesta, non prima di aver mostrato un certo sorriso di compiacimento che, alla luce della consolle, appariva piuttosto inquietante. Il terminale ronzò e, dopo qualche istante, comparve il messaggio “carrello azionato, inizio procedura di arrivo”.
Un clangore lontano si diffuse nella caverna, deboli lanterne si accesero lungo il aggio del binario. Il clangore si fece più vicino fino a quando il trasporto, rallentando automaticamente, non si fermò davanti a loro. Lisa salì per prima, seguita da Mark, visibilmente accigliato e poi da Greg. Andrew azionò la procedura di ritorno, prese posto accanto a Greg ed, accompagnati dallo sferragliare metallico, si allontanarono rapidamente dalla terrazza, ammirando di nuovo le rovine della maestosa Cattedrale.
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Dovan carbonizzò due goroi con una mejrama ed, in mezzo alla battaglia, affaticato dallo scontro continuo, si concesse un istante di tregua. La sua fronte era madida di sudore, le braccia stanche per il continuo menar colpi, la mente offuscata dalla costante ricerca di concentrazione per lanciare incantesimi. Le fiamme che lambivano ormai gran parte della Foresta diressero i suoi pensieri verso i suoi allievi, dei quali ancora non vi era traccia. Mille possibilità gli si profilarono davanti agli occhi, tutte assolutamente tragiche e pessimiste. Pensare positivo, da qualche tempo a quella parte, gli era divenuto impossibile, non perché non lo volesse, i maghi di solito sono sempre posati e pieni di risorse, rammentò con sarcasmo tra sé e sé, ma perché proprio le mille risorse che in teoria avrebbero dovuto costellare la mente di un mago, nella sua si stavano esaurendo. La situazione si faceva sempre più grave e complessa: se avessero vinto la battaglia avrebbe cercato qualche istante per meditare in pace e raccogliere di nuovo le forze. In ogni caso, che essi fossero vivi oppure morti o che avessero bisogno del suo aiuto, non avrebbe potuto fare nulla per aiutarli: la sua presenza in quel luogo era fondamentale, soprattutto ora che le sorti della battaglia erano ancora indecise e gli schieramenti prevalevano l’uno sull’altro a fasi alterne. Guardò il cielo, chiedendosi se lassù avessero accolto o meno la sua richiesta, poi tentò di localizzare i suoi allievi, estendendo nuovamente le sue percezioni verso la foresta. Ebbe un sussulto: non vi era traccia di loro. Erano scomparsi, come Greg poco prima. Questa volta era, però, impossibile che tutti e quattro avessero perso conoscenza per ritrovarsi in un luogo al di fuori dello spazio e del
tempo. Girò il cavallo. A qualche decina di metri la fanteria guidata dalle due principesse era in evidente difficoltà. Con un grido richiamò all’ordine i suoi uomini e, lanciandosi al galoppo, si trovò ancora in mezzo allo scontro. Cylaetra e Mylaetra si trovavano in prima linea, occupate a fronteggiare un gruppo piuttosto agguerrito di goroi. Uno di essi, menando un fendente, ferì gravemente il cavallo di Mylaetra che si accasciò a terra, disarcionando la principessa. Approfittando dell’istante di vuoto i goroi si lanciarono su entrambe, impedendo a Cylaetra il pronto soccorso della sorella. Dovan spronò il cavallo con il fuoco negli occhi, aprendosi la strada a fendenti, come una furia cieca. Arrivò nel punto dove era caduta Mylaetra, smontò fulmineo da cavallo e, con un fendente, staccò di netto le teste di tre di quelle creature terribili. Mylaetra, nel mezzo, tentava di scansare i colpi che piovevano da tutte le direzioni. Dovan, dimenticata ogni fatica ed accantonato il proposito di meditazione, ne aveva feriti a morte altri due e ora, tesa la mano davanti, invocò una potentissima dandaruna, l’incantesimo del terzo anello della catena del tuono: scintille crepitanti si diffo salendo a spirale per tutto il braccio proprio mentre egli, levandolo in alto, lo alzava, scatenando una furia elettrica che, come una fontana, eruttava dalla sua mano. Mylaetra urlò, probabilmente colpita da un goroo mentre i corpi fulminati di numerosi altri cadevano a terra, inerti. Dovan si gettò disperato sull’esperide, invocando su di sé l’incantesimo halos: altri goroi, instancabili e per nulla preoccupati di finire fulminati come i propri simili, gli furono sopra pochi istanti dopo. Mylaetra, tra le sue braccia, era gravemente ferita e necessitava di cure immediate. I goroi tentarono più volte di scalfire la barriera del maestro, inutilmente. La principessa era svenuta e le ferite che aveva riportato erano profonde: anche se avesse avuto tutta la concentrazione necessaria Dovan non sarebbe riuscito a curarla adeguatamente, gli incantesimi di cura, nei casi più gravi, richiedevano degli specialisti per essere veramente efficaci. Il rossore dalle guance della principessa stava poco a poco svanendo, sulle sue mani il sangue della giovane donna. Poco lontano Cylaetra era riuscita a svincolarsi dall’assalto dei goroi, tornando nelle retrovie. Dovan, come paralizzato, sentiva le forze cedergli velocemente: la barriera, seppur potente, poteva resistere limitatamente ai numerosi attacchi esterni. Richiamò il suo cavallo e vi adagiò delicatamente sopra la principessa mentre la barriera si
faceva in pochi istanti sempre più labile e penetrabile. Con la poca energia rimasta annullò la barriera ed invocò al suo posto il luxfero: il suo corpo sprigionò un’onda di luce abbagliante che colpì, nel raggio di qualche metro, il nugolo di goroi, abbagliandoli e mettendoli fuori combattimento. Aggrappandosi alle redini, si issò faticosamente sul dorso della cavalcatura, entrò rapidamente in contatto con la mente dell’animale, dandogli un solo comando, peraltro già fortemente presente nella mente dell’intelligente creatura: “Torna a Renodia”. Il maestro perse i sensi ed il cavallo partì in un galoppo disperato, abbandonando il campo di battaglia mentre l’esercito aveva subito gravi perdite e solo due dei quattro generali restavano in campo per difendere strenuamente la città.
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Deidar osservò il campo, sconfortato. L’ultimo tentativo di carica contro uno schieramento di goroi era fallito miseramente, con ingenti perdite tra i suoi uomini. I goroi erano riusciti a penetrare in profondità nello schieramento difensivo, spezzando in due le truppe mentre la situazione peggiorava di minuto in minuto, senza che ancora fossero scesi in battaglia i loro generali. Affondò la sua spada nella schiena bitorzoluta e deforme di un goroo e richiamò all’ordine il suo schieramento. Doveva difendere le posizioni guadagnate, almeno finché non fossero sopraggiunti gli aiuti dalle contee di Siranna e Mersilia. Il giovane principe si trovava ad affrontare la sua prima vera guerra, ciò a cui era stato da sempre preparato dai suoi genitori: mai in vita sua aveva visto un tale spargimento di sangue e tanta morte serpeggiare come un morbo in un sol luogo. Eppure era quello ciò che il destino gli aveva riservato, fin da tempo immemorabile, gli raccontava sua madre. Lui aveva imparato ad accettarlo con l’impegno di colui che lotta per difendere il proprio popolo e gli ideali ai quali è stato educato. Per anni aveva studiato le arti militari all’accademia di Renodia, apprendendo le strategie di guerra. La sua giovane età e l’inesperienza gli gravavano sulle spalle, adesso, come una montagna: chi più di lui era, in quel momento sotto scrupoloso esame? Come l’altro ragazzo, che aveva visto appena qualche ora prima nella sala del palazzo, aveva un compito da portare a termine ed era consapevole del fatto che le loro strade si sarebbero dovute unificare. Era
questo il suo momento però, l’inizio del proprio cammino, non quello di un altro. La battaglia non era più una questione di vittoria o di sconfitta ma era scesa nel personale, un’esigenza martellante che consumava le sue energie. Bevve un sorso d’acqua dalla borraccia a tracolla, dietro di lui i suoi uomini si erano ordinatamente schierati, pronti ai suoi ordini. Lo schieramento dei goroi si era intanto voltato per contrastare l’avanzata di un manipolo di fanteria, comandato da sua sorella Cylaetra, creando un’ottima situazione d’assalto per la sua cavalleria. Gridò la carica, spronando il cavallo al galoppo, sguainando la spada ed abbassando l’elmo. Gli uomini, incitati, lo seguirono con il medesimo furore, spronando a loro volta i destrieri. I metri che li separavano dai goroi arono veloci sotto gli zoccoli ferrati delle cavalcature da guerra. In poco tempo, pensò Deidar, lo schieramento sarebbe stato distrutto, riaccendendo così nei cuori dei difensori la speranza di vittoria, almeno momentanea. Anche se la sua esperienza era limitata, conosceva bene le leve che azionavano i cuori degli uomini, consapevole di come un piccolo trionfo potesse essere una panacea per le sofferenze delle persone. In un istante, senza preavviso, tutto si fermò: il suo cavallo e quelli dei suoi uomini si arrestarono inspiegabilmente, alcuni, per la velocità, disarcionarono i propri cavalieri. Deidar ebbe paura, forse per la prima volta in vita sua. Incredulo aprì l’elmo a forma di testa di cavallo ed un suono confuso dapprima ed una melodia poi, invase la sua mente. Fu come tramortito: ogni suo intento e proposito era stato spezzato, annientato da quella musica annullatrice della sua volontà. Un senso di sconfitta e di panico lo rapì e lo stesso avvenne agli altri uomini. La mente era cupa ed i muscoli si tendevano non controllati, producendo movimenti spasmodici contro la sua volontà. L’impotenza che lo aveva attanagliato guidava adesso i suoi movimenti: girò il cavallo, anch’esso condizionato e dagli occhi pieni di terrore, e lo fece partire al galoppo verso la città. Per un attimo si voltò, forse riuscendo a vincere la malefica melodia o forse per volontà di scherno da parte dell’autore di tale musica: i suoi uomini, in preda al terrore, stavano fuggendo nella sua stessa direzione, rincorsi da goroi infervorati e giubilanti. Molti caddero, immediatamente calpestati dalla corsa folle dei propri vicini o dalle bestie indemoniate che cercavano di raggiungere i fuggiaschi. Altri, più veloci o fortunati, in sella o a corsa, riuscirono ad accodarsi a Deidar nella sua fuga verso la salvezza. Nell’oscurità, rischiarata da fiamme malvagie sul procinto di divorare ogni cosa con la loro furia, un bambino, seduto sotto un albero morto, si sfilò qualcosa dal viso, forse una maschera. E sorrise.
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Talandria, dall’alto della rocca della prima cerchia muraria, aveva osservato, in silenziosa solitudine, lo svolgimento della battaglia. Pochi istanti prima era scesa per accogliere la figlia ferita ed il maestro Dovan esanime, ora, purtroppo, il pericolo da fronteggiare era maggiore. Quelle di sua figlia e di Dovan si sarebbero rimarginate in fretta grazie alle potenti cure somministrate dai farmacisti esperidi ma la ferita che aveva provocato il nemico alla città, era di un’incomparabile difficoltà di risanatura. La Pietra che li proteggeva, sottratta dai demoni, aveva privato la città e la foresta della sua aura benigna, rendendo entrambe vulnerabili, rendendo lei ed il suo popolo un bersaglio troppo allettante per non essere stati i primi a subire l’attacco. La foresta, in lontananza, andava irrimediabilmente a fuoco, senza che lei, la regina millenaria, potesse far niente per impedire quel tracollo. L’ultimo degli eventi poi aveva proporzioni catastrofiche: l’esercito, guidato dai suoi figli, stava rientrando in condizioni disperate nelle mura della città. Aveva visto troppe guerre e troppi scontri aveva vissuto in prima persona per non gestire la situazione col dovuto sangue freddo. Non aveva tempo per cedere alla disperazione e per rischiare di divenire impotente, soggiogata dalle note di quel flauto. La sua mente millenaria, intrisa di magia, sollevò una barriera protettiva enorme che, in un istante, abbracciò la città ed i superstiti, consentendo loro di rientrare in città. Il suo potere era tanto grande e la sua mente così ferma che, immediatamente, ruppe il contatto mentale e pose fine alla stregoneria di Lord Minstrael che aveva sbaragliato l’esercito. Tirò un sospiro di sollievo, scese dalla rocca e raggiunse la Piazza d’Armi, dove si era radunato ciò che restava dell’esercito. La regina, contrariamente alla sua imperturbabile natura, fu colpita da un moto di orrore, tanto forte che si portò una mano alla bocca per reprimere un grido. Il suo esercito era stato terribilmente decimato: molti feriti giacevano a terra, distesi o semisdraiati, lamentandosi per il dolore, la cavalleria era stata ridotta della metà e alcuni cavalieri erano addirittura appiedati. Talandria corse incontro ai figli che, con suo sollievo, erano provati ma in buone condizioni.
«Deidar, Cylaetra! Sia benedetto Espereador per il vostro ritorno!» Deidar e la sorella si inchinarono al suo cospetto, poi, dimenticata l’etichetta, abbracciarono affettuosamente la madre. «Madre» chiese subito Deidar, guardandosi intorno con circospezione, «dove sono nostra sorella Mylaetra e il maestro Dovan? È successo loro qualcosa?» «Caro figlio, sono feriti ma salvi. Sono riusciti a tornare a Renodia poco prima dell’attacco di Minstrael e ora sono in cura dai nostri farmacisti». I volti di Deidar e di Cylaetra si rilassarono per un istante, lieti della notizia. Poi Cylaetra riprese parola, con tono allarmato: «Madre, la situazione è precaria. Il nostro esercito è stato ridotto di ben due terzi mentre quello demoniaco è stato appena dimezzato, secondo le nostre stime. La barriera non potrà reggere per sempre e cedere al nemico la città equivarrebbe, anche in caso di fuga attraverso i Porti di Smeraldo, una perdita irrimediabile». «Senza considerare che la foresta in fiamme costituirà presto un ulteriore impaccio, impedendo la respirazione» puntualizzò Deidar poco dopo. «Figli miei, ho regnato per duemila anni su questa terra e per duemila anni non ho mai abbandonato il trono e la mia gente, neanche quando il loro Signore camminava su questo pianeta. Non ho intenzione di chinare il capo davanti ad un fratello rinnegato» sentenziò furiosa Talandria, negli occhi una durezza e una rabbia difficilmente quantificabili. Deidar la fissò per un istante, incredulo: non era da sua madre un comportamento del genere. «C’è un altro problema, madre, piuttosto evidente: il nostro esercito è in condizioni disastrose e due dei nostri generali sono fuori combattimento». Talandria corrugò la fronte, pensierosa. «Tutto ciò non è esatto» disse poi una voce da dietro le loro spalle. Il maestro Dovan, anche se con qualche fasciatura, aveva recuperato le forze.
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La spalla di Mark urtò contro la robustissima porta, producendo un tonfo sordo. Greg osservava discosto la scena. Da qualche imprecisato numero di minuti si trovavano a pochi metri da Renodia, senza che però riuscissero ad accedervi. La porta presso la quale si trovavano si apriva, probabilmente, solo dall’esterno. Ed erano più che certi che si trattasse di quella che avevano visto ai Porti di Smeraldo. Questo voleva dire, senza tanti preamboli, che erano rimasti chiusi dentro. La porta sembrava, inoltre, sigillata magicamente ed impermeabile a qualsiasi tipo di incantesimo che Greg conoscesse. In un primo momento aveva tentato con una mej, incerto se fosse addirittura troppo potente e che non solo avrebbe aperto la porta ma perfino distrutta, per poi, deluso dal misero tentativo, are ad una più potente mejra, ugualmente senza ottenere risultato. Come stava adesso, dimostrando Mark, anche la forza bruta era inutile. Greg iniziava a supporre che la puntualità non fosse proprio il suo forte: a Selthon era arrivato troppo tardi per informare Dovan e adesso, in una situazione drasticamente peggiore, la faccenda si stava per ripetere. Si morse il labbro superiore. Tornare indietro, giunti fino a quel punto, sarebbe stato da folli. Andrew gli si avvicinò. Fino a quel momento era restato accanto a Lisa, pensieroso. «Qualche idea, genio?» gli chiese Greg, sarcastico. Andrew scosse la testa, corrucciato. Il suo cervello cercava di trovare una soluzione ma una serie infinita di tonfi in sottofondo lo distraeva. «Mark, smettila di sbattere contro quella porta, non ci sentirà nessuno!» disse poi scocciato. Mark emise un grugnito di disapprovazione, si massaggiò la spalla indolenzita e si sedette vicino Lisa, evitando di guardarla in faccia, ancora alterato. «Tu Greg, qualche idea?» «No, mi spiace. Mi chiedo solo cosa stia accadendo al piano di sopra, come sta andando la battaglia» disse indicando, col dito, la superficie. «Vedrai che il maestro starà facendo del suo meglio» disse Lisa in tono conciliante. «Non esiste un modo per attirare l’attenzione di qualcuno?» chiese Andrew. Greg si portò un mano alla fronte e socchiuse gli occhi. Ripensò a quando Dovan, di sfuggita, gli aveva accennato qualcosa a proposito di una capacità dei maghi di avvertire le persone attraverso le mutazioni dell’anima che avvenivano
quando esse usavano la magia. Di sicuro Dovan aveva ben presente il suo livello di potenza magica, tutto stava nell’attirare la sua attenzione. Per un attimo prese in considerazione l’idea di tentare di sfruttare il suo potere, idea che accantonò poco dopo poiché troppo rischiosa. Non conosceva i suoi effetti, avrebbe potuto distruggere tutto. Scelse così un’altra strada: di sicuro sarebbe stato più difficile essere individuato ma almeno avrebbero avuto la certezza di uscire da lì vivi. «Ho trovato la soluzione» disse poco dopo «Lisa, Mark, ho bisogno di voi». Mark scattò in piedi, porgendo a Lisa la mano per alzarsi, evitando accuratamente di guardarla in faccia e rispondendo con un grugnito al suo ringraziamento. Greg fece finta di niente, sorrise al pensiero di Mark che sembrava aver perso tutte le facoltà intellettuali superiori che distinguevano un essere umano da un goroo. «Dovan può percepire la magia, se abbastanza potente. Quello che vi chiedo è se ve la sentite di provare ad invocare incantesimi superiori» nella luce verdognola della porta Greg riuscì comunque a notare le espressioni poco convinte dei suoi amici. «Greg, sono spiacente» disse Lisa intimorita «ma non riesco proprio a trovare la concentrazione necessaria, è più forte di me!» «Ci sarà tempo per rimediare a tutto ciò, ma ho pur sempre bisogno di te e anche di te Mark», disse avvertendo un piccolo grugnito di disapprovazione, «So che sei arrugginito e che non hai la minima idea di come invocare un incantesimo che sia superiore alla seconda catena, ma ti prego di fidarti di me, adesso» fece una pausa, guardò prima l’uno e poi l’altra, dritto negli occhi. «A Selthon, quando Astaroth ci aveva quasi annientati, credo di aver unito le mie energie a quello del maestro Dovan, amplificando il suo potere magico». «Che cosa dovremmo fare noi, allora?» chiese Mark rendendo a Greg la cortesia «Non disponi di potere magico sufficiente da attirare da solo l’attenzione di Dovan?». Greg sbuffò, cercando di contenersi. «Quando conoscerò appieno le mie capacità magiche te lo farò sapere, Mark. Scusa tanto se per ora voglio evitare di combinare un disastro, facendoci cadere tutta la galleria sulla testa!» Mark mugugnò qualcosa poi si voltò, guardando altrove. «Che cosa dobbiamo fare?» chiese Lisa risoluta.
La teoria è una cosa, si trovò a pensare Greg in quell’istante, la pratica ben altra.
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Al quinto tentativo, Greg era quasi sul punto di perdere le staffe. «Riepiloghiamo: proverò ad evocare in entrambe le mani l’incantesimo mejrama del terzo anello del fuoco. Nell’istante in cui avrò cessato l’invocazione, voi poggerete le vostre mani sulle mie, focalizzando anche voi sugli stessi spiriti. Dovrete sentirla come un’esigenza vitale, dovrete infondermi tutte le energie di cui disponete. Poi, tutti e tre insieme, proveremo ad oltreare il limite. Abbiamo ancora un compito da terminare: ogni minuto che a, la probabilità di arrivare in tempo diminuiscono». Un sogghigno lo interruppe. «Andrew, se trovi la scena tanto divertente, perché non provi tu a farci uscire di qui?» Andrew sembrò aver capito che scherzare o prendersi gioco di Greg in quel momento si sarebbe potuto rivelare molto pericoloso e divenne silenzioso. Greg si raccolse in se stesso, radunando tutta la sua concentrazione e le sue forze: sentiva il potere nascere e crescere tra le sue mani, scintille rosso rubino si sprigionarono dai suoi palmi. Fu in quel preciso istante che Lisa e Mark appoggiarono le loro mani sulle facce superiori di quelle di Greg. Cercò di mantenere saldamente la concentrazione mentre due scariche di energia percorsero le sue braccia, facendolo tremare violentemente. Per qualche attimo non accadde niente, le scintille si stavano ritirando ma Greg non vi badò mentre il fremito era divenuto ancora più forte. Finalmente accadde: due enormi fiamme di fuoco magico si levarono come da bracieri dalle mani di Greg, riempiendo la galleria di un bagliore accecante. Se Dovan non aveva avvertito una potenza del genere sfidava chiunque altro a non uscire da lì senza far crollare l’intera galleria.
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Nel caos della Piazza d’Armi, tra farmacisti intenti a somministrare cure in massa ad un esercito sfiancato, una fulminea percezione attraversò la mente di Dovan. In mezzo a quella scena piena di dolore, un sorriso di gioia comparve sul suo volto mentre si voltava verso la città e si incamminava in quella direzione, interrompendo bruscamente il discorso con Talandria. La regina lo raggiunse con o svelto, stupita dal suo strano comportamento: «Maestro Dovan, è successo qualcosa?» Dovan porse immediatamente le sue scuse alla regina che, sul momento, non aveva compreso le ragioni di tutto ciò. Poi, mantenendo il sorriso, aggiunse con voce che stentava a mantenere un tono serio e grave e che anzi rivelava tutta l’impazienza e l’entusiasmo disse: «Maestà, i miei allievi sono tornati, li ho percepiti chiaramente, si trovano in città, credo in corrispondenza dei Porti di Smeraldo». Talandria lo fissò stupita prima che un sorriso sincero le comparisse sul viso delicato e senza età. «Stanno bene?» chiese con apprensione. Dovan socchiuse gli occhi, per accertarsi della risposta da dare alla regina e, soprattutto a se stesso. «Pare dei sì, maestà. Credo che abbiano voluto deliberatamente attirare la mia attenzione». «Astuzia, senza dubbio, appresa dagli insegnamenti del loro maestro, ne sono certa» disse Cylaetra alla sua destra. Dovan annuì, nella mente una sfumatura di compiacimento. La scacciò, non aveva molto tempo da perdere, non ora che non avrebbe dovuto preoccuparsi oltre della lontananza dei suoi allievi e della loro precaria incolumità. «Prego maestro Dovan, ci faccia strada», acconsentì Talandria, seguita da Deidar e Cylaetra. Giunsero ai Porti di Smeraldo, le navi cargo che dovevano evacuare i renodiani erano partite da tempo, forse al sicuro a qualche miglio marino dalla costa del regno. Dovan, per l’ennesima volta in pochi minuti, si guardò intorno stupito ed incerto. «Strano, molto strano. La percezione che ho avvertito proviene da qui, eppure di loro non vi è traccia. Effettivamente è curioso che si trovino qui,
sarebbe stato molto più logico avvertirli sul campo di battaglia dato che si trovavano nella foresta». Talandria annuì alle riflessioni di Dovan, meditando. Fu Deidar ad interrompere la riflessione: «Non esiste sentiero che dalla foresta abbia potuto portarli al porto senza prima are dalla città. A meno che non abbiano trovato un’altra via per evitare di are in mezzo alla battaglia». «E le vostre maestà sono a conoscenza di tale via alternativa?» chiese Dovan mentre l’impazienza stava per impadronirsi di lui. «Per quanto mi riguarda è improbabile» disse Talandria con gli occhi fissi su un punto lontano, forse impegnata a vagliare le numerose alternative che gli allievi di Dovan avrebbero potuto scegliere per tornare in città, «ma improbabile e impossibile non sono esattamente la stessa cosa. L’unica soluzione che mi viene in mente è che devono aver trovato l’accesso alle gallerie della Foresta». «La via attraverso la Cattedrale delle Rocce?» la questione stava iniziando ad assumere contorni logici, pensò Dovan, altrimenti avrebbe dovuto cominciare a pensare che i suoi allievi possedessero qualche potere speciale che consentisse loro di scavare cunicoli in tempi eccezionali. «Sì. Anche se, da quando è stata rubata la Pietra, nessuno è più sceso là sotto». Dovan si voltò in direzione della grossa porta incassata nella roccia, colse un residuo del potere che lo aveva attirato fin lì e fu finalmente certo delle supposizioni. Chiamò Greg a gran voce e restò in silenzio: si udì, proveniente dalla parte opposta, una risposta, attutita dal materiale roccioso della porta. La regina non indugiò oltre e, con fare molto poco ufficiale gridò: «Che sia aperta la porta, immediatamente!» Due guardie, sopraggiunte proprio in quell’istante, si misero a lavorare con celerità al pannello di controllo poco distante. La porta, producendo un rumore come di roccia che si spacca, aprì, lentamente, i suoi battenti. Allievi e maestro si ricongiunsero in un caloroso abbraccio dopo tanto tempo trascorso divisi.
Dovan si contenne dal condannare apertamente l’iniziativa presa dai suoi allievi per liberare Lisa, ci sarebbe stato tempo in seguito per farli sgobbare sul ponte della nave e far capire loro che certe iniziative, soprattutto data la gravità del momento, erano da evitare. Se fossero stati catturati, o peggio, pensò, il piano millenario sarebbe andato penosamente a rotoli e ai nemici non sarebbe rimasto che completare in tutta tranquillità il loro piano, incontrastati. E questo lui non poteva permetterlo, soprattutto ora che il nemico era alle porte della città. Non avrebbe commesso di nuovo un errore simile. «Avanti, cos’è successo? Ho percepito chiaramente ostilità fra di voi mentre eravate ancora nella foresta», non poté fare a meno di chiedere, però. Nessuno pareva molto incline al parlarne, soprattutto Greg che ancora non riusciva a capire cosa avesse sbagliato. «Ci siamo trovati in disaccordo a seguito della liberazione di Lisa» disse Andrew con un po’ d’imbarazzo mentre nella sua mente scorrevano di nuovo le azioni di Greg. Era suo amico, forse una delle persone più care che avesse al mondo, ma in quei pochi minuti aveva avuto paura di lui. «Greg» chiese Dovan, alzando appena il sopracciglio destro, sfoggiando uno dei suoi migliori sguardi indagatori. «Prima di riferire, potrei sapere a quanto ammontano le vostre perdite?» «Circa la metà degli uomini è caduta sul campo, la metà dei sopravvissuti è ferita» disse Dovan prontamente, non capendo dove volesse andare a parare il suo allievo. Greg annuì «E avete forse un’idea di quante siano le perdite nelle fila dei demoni?» «Sappiamo di per certo che più di un terzo di essi è stato messo fuori combattimento» disse Dovan, incuriosito. Greg si voltò verso i suoi compagni, li osservò uno per uno negli occhi, certo che avessero udito le parole del maestro: «Volevate la comione per coloro che tenevano in ostaggio Lisa? Pensate che sulla bilancia una morte valga più di un’altra? Quando eravamo sulla Darlidan avete accettato di seguirmi e di aiutarmi. Ora vi prego di fare una cosa, se vi può aiutare a superare questo fatto:
dimenticate il giuramento che avete fatto nei miei confronti. Pensate ad aiutare ogni singolo abitante di questo pianeta. Dovremo combattere ancora per molto tempo, avervi accanto mi darà la forza di andare avanti, ricorderà a me stesso le persone per le quali ho accettato questo compito. Vorrei solo non avere al mio fianco persone che condannano le mie azioni, o almeno non quelle necessarie e realmente inevitabili» concluse Greg, quasi col fiatone, sempre guardando fisso negli occhi i tre compagni. Di nuovo il silenzio: Dovan stesso era ammutolito, quasi non si rendesse conto che quelle parole, così forti ma anche giuste, provenivano da Greg, dallo stesso ragazzo che, probabilmente, solo fino a qualche ora prima non aveva accettato fino in fondo il suo destino. Infine, a mente libera e fredda, anche i suoi amici compresero, consapevoli di quanto fosse importante per Greg il suo compito, di quanto fosse grande la sua determinazione: come, in un certo senso, fosse cresciuto così repentinamente e avesse accantonato, i motivi personali per lasciare spazio invece ad una visione d’insieme profonda e consapevole. «Ci dispiace Greg, sul serio» disse Lisa. «Ci siamo comportati da sciocchi mentre tu tentavi solo di mostrarci la realtà delle cose» proseguì Andrew. «Non possiamo recedere alla promessa di starti vicini e di aiutarti, anche se dovrai perdonarci il fatto di aver compreso solo adesso cosa significhi veramente. Pensavamo tu avessi compiuto quelle azioni per dimostrare a noi e a te stesso qualcosa, ma ci sbagliavamo» aggiunse Mark. «Dopotutto, nessuno, dei presenti, si trova nella tua stessa situazione e nessuno può essere in grado di capirti fino in fondo. E noi che ti conosciamo da sempre siamo stati così stupidi da voltarti le spalle proprio quando avresti avuto più bisogno» disse Andrew che sempre di più avrebbe desiderato sprofondare sotto terra. Sul volto di Greg comparve un sorriso che appianò la situazione. «Sono felice che abbiate finalmente compreso e che accettiate di aiutarmi fino a quando non avrò portato a termine la mia missione» disse «e sono anche consapevole di aver esagerato un po’ prima ma non riuscivo ad accettarlo» rispose, guardando Lisa che, ripreso un po’ di colore nelle guance, sorrise.
Dovan, rimasto in silenzio, convinto del fatto che certe divergenze andassero affrontate dai diretti interessati e non per vie traverse o attraverso mediatori, si chinò su Lisa, esaminandone le ferite e controllando quella, piuttosto visibile, che Greg le aveva opportunamente fasciato con un lembo dei pantaloni. La regina insistette perché fosse immediatamente affidata alle cure dei farmacisti ma la ragazza rifiutò candidamente la proposta, almeno fino a quando non avesse avuto il tempo di rivelare ciò che aveva visto durante la prigionia. La regina acconsentì alla richiesta, preferendo spostare il terreno della discussione dalla strada alla sala strategica del palazzo per fare un punto generale della situazione. Durante la salita nessuno parlò, i cuori gonfi e pesanti per lo sconforto della situazione palesemente sfavorevole che si vedevano costretti ad affrontare, accerchiati dalla foresta in fiamme e da un nemico pressoché invincibile e desideroso quanto mai di vendetta. Il clima indaffarato che animava la vita del palazzo si era dissolto insieme ai suoi occupanti, molti dei quali erano stati evacuati o avevano preso parte alla battaglia. Due guardie, di stanza davanti alla sala strategica, ne aprirono i battenti, rivelando un gruppo di persone affaccendate attorno ad un grande tavolo, intenti a studiare carte o a visionare proiezioni olografiche. Re Avoran, assiso su uno scranno, presiedeva con gli occhi socchiusi a quella riunione di tattici e strateghi che discutevano animatamente tra loro a proposito del contrattacco. L’arrivo di Talandria spezzò in un attimo quel clima di discussione caotico, riportando l’ordine nella sala, ordine dal quale emerse anche Messer Quattrorbo che, zampettando attraverso le file di persone, si avvicinò alla regina, invitandola a prendere posto. La regina sorrise in direzione del fido consigliere e poi parlò: «Fedeli Strateghi, desidero che prestiate la massima attenzione a quanto sta per essere riferito in questa riunione. Gli allievi del maestro Dovan sono latori di importanti informazioni poiché appena di ritorno da una sortita in campo nemico: attraverso il loro resoconto desidero che sia ridiscussa la vostra tattica di contro offensiva». Qualche brusio sommesso risuonò come un eco di fondo nella sala, quasi in protesta alle parole della regina, la quale, con appena un lieve gesto della mano, vi pose immediatamente fine. Sorrise verso Lisa, invitandola a parlare.
Lisa soppesò per un momento le parole, scegliendo quelle più adatte a descrivere la situazione. Per la prima volta dopo tanto tempo poteva dimostrarsi utile, oltre che un peso, per coloro che la circondavano, si disse, abbozzando un sorriso dentro di sé.
Capitolo XIII
La carica di Espereador
«Grazie, cara» disse Talandria non appena il resoconto di Lisa fu concluso, «le tue informazioni sono molto preziose». Lisa chinò lievemente la testa ed il busto, ringraziando tacitamente la regina mentre sui volti degli strateghi linee di marcata preoccupazione divenivano sempre più profonde. Talandria incrociò tra loro le mani con aria grave e se le mise in grembo, poi riprese la parola:«Signori, la situazione è più grave del previsto. Da quanto noi tutti abbiamo appena appreso, i demoni tengono a noi segreto un Mynothork». Lisa fece cenno di sì con la testa. «Immagino che le vostre strategie fossero improntate sul combattimento in proporzione un uomo – un goroo, senza poi parlare del problema dei due Pari, ma la forza bruta di quell’essere, unita al potere di Minstrael, ci portano a dover cambiare tutte le strategie. Non dimentichiamo, inoltre, che altri goroi potrebbero venire dalla zona dell’Albero Putrido» Andrew e Mark provarono un moto di disgusto nel rievocare l’immagine, ma soprattutto l’olezzo nauseabondo di quell’albero. Dalla fila di uditori il volto di Greg parve illuminarsi, così, presa la parola, mentre Dovan stesso annuiva in disparte, disse: «Non è così maestà. Ho reso inoffensivo quell’albero e tutto ciò che esso conteneva quando, con i miei compagni, mi sono inoltrato nella foresta per salvare Lisa». Un mormorio di sorpresa si levò in mezzo al gruppo degli strateghi fino a raggiungere i principi, il maestro Dovan, il re e la regina, tanto che l’espressione proprio di questi ultimi parve notevolmente sollevata. «Ciò che dici è per noi una buona notizia e che ci aiuta a sperare nella vittoria in quest’ora così buia della storia del nostro popolo» disse Avoran dopo aver
scambiato un’occhiata fugace con la consorte. Dovan poggiò la sua mano sulla spalla di Greg, sorridendo radioso e annuendo numerose volte, in un tacito “ben fatto” che quasi gli aveva fatto dimenticare il gesto sconsiderato di qualche ora prima. Quel ragazzo era una vera fonte di sorprese, si trovò a pensare in quel momento, che poi tali sorprese fossero positive o negative era tutto da vedersi, si ritrovò a pensare solo qualche minuto più tardi. Ad ogni modo aveva agito da sconsiderato per quanto però il suo apporto fosse stato importante. La conversazione era, nel frattempo, ata ad un altro argomento. «Quali notizie dai contingenti delle contee di Siranna e Mersilia?» aveva chiesto Talandria a Messer Quattrorbo. «I nostri alleati attendono nella Piazza d’Armi, maestà. I due contingenti sono composti principalmente da veterani e milizia scelta: secondo quanto hanno riferito constano di cinquecento uomini più alcuni cavalieri». «Molto bene, Messer Quattrorbo, sia comunicato ai Conti di raggiungerci immediatamente a palazzo» disse Talandria. Quattrorbo si dileguò di nuovo tra il gruppo di persone per assolvere il nuovo ordine della regina, poi fu Avoran a riprendere la parola. «Venendo poi al nostro esercito regolare, chiedo ai generali di fare rapporto». Greg si scostò, retrocedendo in seconda fila, il suo momento di gloria era finito: la sua azione era stata definita mirabile e preziosa, ma non era stato certo lui a decidere le sorti della battaglia sul campo. Sentì lo stomaco ribellarsi a quella constatazione mentre Dovan, Cylaetra e Deidar comparivano dinanzi la regina. Ascoltò in silenzio, non senza però mostrare espressioni contrastanti, notate, peraltro, prontamente sia da Andrew che da Mark, certi che non si preparasse niente di buono per il prossimo futuro. Andrew non poteva fare a meno di prendere atto che, nel giro di poche ore, Greg si era fatto sempre più sicuro di sé e del proprio compito, come se fosse deciso ad imporre l’ascolto e la considerazione anche della sua opinione. Certo, da una parte aveva ragione nel pensare e nell’attuare questo proposito, se davvero gli avevano affidato quel compito così importante, ma conosceva anche il temperamento non proprio pacato dell’amico per il quale un rifiuto o una
negazione di un diritto si trasformavano in affronti personali e di difficoltoso perdono. Soprattutto se era giudicato secondo a qualcuno per una valutazione errata. Si scambiarono uno sguardo, Andrew cercò di penetrare gli occhi dell’amico, tentò di rintracciare un segno dell’imminente tempesta che stava per travolgere il suo spirito. Vide appena una scintilla, un bagliore, poi lo sguardo dell’amico tornò normale, quello del Greg di sempre, che adesso socchiudeva gli occhi per dare ad intendere ad Andrew se c’era qualcosa che voleva chiedergli. Andrew scosse il capo e si voltò verso i tre generali, nell’attesa del resoconto, proponendosi di tenere le orecchie aperte per captare qualsiasi segnale. I resoconti dei singoli reggimenti andavano a collimare con la stima precedentemente riferitagli da Dovan. Deidar comunicò le pesanti perdite subite dalla cavalleria, molte delle quali dovute alla fuga indotta dalla stregoneria di Minstrael. Il reggimento di Cylaetra, con sollievo dei presenti, era rientrato quasi al completo, fatta eccezione per alcuni soldati impossibilitati dalle ferite e già in cura dai farmacisti. La stessa principessa mostrava lievi escoriazioni, facilmente guaribili con una semplice aen. Dovan fu l’ultimo a prendere la parola: «Lo schieramento sotto il mio controllo è stato dimezzato dalle numerose cariche dei goroi. Sono desolato nel riferire che il reggimento della principessa Mylaetra è stato praticamente polverizzato durante l’accerchiamento ad opera dei goroi, nel quale stava per perdere la vita ella stessa». Talandria annuì, pensierosa come di consueto, con gli occhi semichiusi e le labbra strette. Avoran, alzatosi da qualche minuto dal suo scranno, eggiava a capo chino, la lunga barba ondeggiava al ritmo dei suoi i lenti e cadenzati. Greg osservò i regnanti immersi nei loro pensieri: quei momenti così difficili erano il vero campo di battaglia per un monarca. Il peso di un popolo e delle vite umane potevano divenire spaventoso, si disse Greg. Un grande pericolo gravava su Renodia e tutto sembrava schiacciato verso il basso come se ogni cosa avvertisse il peso degli eventi. Greg analizzò la situazione: ogni particolare che gli venisse in mente giocava a sfavore della città e dei suoi difensori. Era un vicolo cieco. «Resisteremo, non possiamo fare altrimenti. Non possiamo perdere Renodia»
disse risoluta Talandria. Il gruppo di persone annuì simultaneamente, concordi nel confermare la piena adesione al proposito della regina. «Molto bene, sono felice che anche voi siate d’accordo» disse poi «Se non sbaglio resta ancora un ultimo problema da affrontare. Manca un generale per l’esercito, mia figlia Mylaetra deve essere sostituita». «Credo sia meglio discutere della faccenda in privato con gli altri generali e i Conti di Mersilia e Siranna» disse Avoran con un gesto della mano, invitando, quindi, il resto degli occupanti ad abbandonare la sala. Mentre gli strateghi, esibendosi in un breve inchino, si voltavano per uscire ordinatamente dalla sala, Greg sentì il cuore battergli forte ed il sangue affluirgli violentemente alla testa. Persone stavano morendo, anche a causa sua ma nessuno in quella sala pareva curarsi di lui. Aveva un compito vitale da portare a termine ed un potere immenso che avrebbe potuto capovolgere le sorti dello scontro e adesso facevano addirittura finta di non vederlo, come non fossero consapevoli delle sue gesta. Scambiò un’occhiata veloce con i suoi compagni, seguendo da Lisa, ando poi a Mark e soffermandosi su Andrew, che stranamente pareva in allerta. Forse aveva indovinato i suoi pensieri, pensò. Mosse un o incerto, i volti di Mark e di Lisa divennero interrogativi mentre Andrew concentrò il suo sguardo su uno dei lampadari appesi al soffitto, bofonchiando qualcosa di incomprensibile. Seguirono altri i, uno dopo l’altro, con sempre maggior decisione; superò il principe Deidar, la principessa Cylaetra e Dovan senza distogliere lo sguardo da un punto fisso infinito di fronte a sé fino a quando non furono gli occhi di Dovan ad incrociare con forza i suoi, imponendogli lo sguardo indagatore. Per la prima volta da quando lo conosceva gli rivolse un’occhiata dura e gonfia di delusione. Il maestro non seppe ricambiare lo sguardo, improvvisando solo un’espressione allibita. Greg non indugiò oltre, si parò di fronte ai reali e con voce che tradiva il suo stato d’animo alterato, parlò, conciso. «Voglio scendere in campo. Voglio combattere».
†
Lord Astaroth fissò la barriera verde che avvolgeva la città: la situazione era di stallo. “Patetico”, lo aveva definito qualche minuto prima Lord Minstrael. Il loro esercito era superiore numericamente a quello di Renodia, ma gli umani si erano rivelati più resistenti del previsto. Con una punta di insoddisfazione si trovò ad ammettere che avrebbero subito perdite ben maggiori se il suo Pari, al momento giusto, non avesse imbracciato il suo flauto, chiudendo la prima parte della battaglia. All’amarezza per la mancata conclusione immediata del conflitto era subentrata la ben maggiore e, a stento contenibile, euforia per aver avvertito, distintamente malgrado la distanza, la presenza del suo maggior rivale al sicuro tra le mura della città. Poco lontano Minstrael meditava sulle prossime mosse, collerico per non aver inflitto perdite dolorose per il re e la regina: nessuno dei loro figli era morto in battaglia, solo uno era stato ferito, per giunta nemmeno in maniera letale. Sotto la maschera si morse il labbro inferiore fino a procurarsi un dolore insopportabile. Odiava fallire in uno dei suoi propositi, quel dolore gli avrebbe ricordato per almeno un po’ di tempo di aver fallito al primo tentativo il suo intento. Si alzò, aiutandosi con il flauto, dirigendosi verso Astaroth. «Qualche idea su come eludere la barriera?» chiese il più alto, vedendolo arrivare, avendo sempre cura di non guardarlo negli occhi e dimenticando pure di rivolgersi a lui con il consueto titolo di Lord. Dopotutto, perché portare rispetto obbligato quando non ce n’è bisogno? L’altro fece finta di non accorgersene: dopotutto i demoni, quando si impegnano, sono creature civili e non sempre pronte ad uccidere a sangue freddo. «Dobbiamo escludere ogni tipo di contatto mentale, anche un attacco combinato, Lord Astaroth» iniziò, mettendo, con una certa prevedibilità, pensò Astaroth, un
accento diverso sul titolo e sul suo nome. Minstrael indicò la barriera con il lungo flauto: «Se provassimo a forzarla con i nostri poteri essa potrebbe danneggiare la nostra mente in modo grave. Credo sarebbe un peccato per il Baiamondo intero e per il nostro Sire se venisse a mancare, il giorno del suo ritorno, un accompagnamento musicale adeguato all’occasione» disse con fare pomposo. Astaroth fu incerto se ribattere o meno al commento di Minstrael, dopotutto i demoni non sono creature dalla spiccata civiltà quando l’un con l’altro calcano troppo la mano dell’offesa all’orgoglio personale. Astaroth serrò i pugni. «Comunque sia» proseguì l’altro frettolosamente, consapevole di aver esagerato, forse, con la dose di sarcasmo, «non c’è modo per contrastarla, non con i nostri poteri almeno, finché sarà la regina Talandria ad alimentarla con la sua mente». «Credi non ci sia altro modo per rompere lo stallo?» chiese Astaroth, turbato da quella constatazione. «Oh, no mio caro, è proprio qui che ti sbagli! Noi possiamo romperla in qualsiasi momento. La barriera è efficace contro noi Pari e contro i goroi perché anche essi, seppure in misura minore, sono intrisi del potere demoniaco che consente loro di pensare e di rispondere ai nostri ordini. Lanciarli all’assalto li sterminerebbe, giacché quella barriera agisce sul sistema nervoso, e noi rimarremmo senza un esercito». Astaroth iniziò a comprendere ciò a cui Minstrael alludeva. «Quella protezione non può niente contro ciò che non possiede neppure la minima consapevolezza del proprio essere». Sotto la maschera sorrise, crudele, poi, con aria divertita, parlò. «Il Mynothork può spezzare quella barriera».
†
Dovan, dimenticando l’etichetta, non attese che la regina rispondesse alla richiesta di Greg: «No, Greg, assolutamente no!».
Greg si voltò furioso verso il proprio maestro: «Perché, per Leviathan!» «Capisci che non possiamo mettere a repentaglio la buona riuscita del piano facendoti scendere in campo? Non ti sono bastati i rischi che hai appena corso per salvare Lisa? Devi rimanere a Renodia e, in caso di sconfitta, dovrai fuggire. Avrai altre occasioni per mostrare il tuo valore!» Dovan tentò la via conciliante «Sei riuscito a riportare qui i tuoi amici indenni, mostrando una forza ed un valore incredibile. Ma non puoi scendere in campo. Il piano deve essere seguito». Ci fu un istante di silenzio durante il quale Andrew, Mark e Lisa si avvicinarono con cautela a Greg. Poi, quest’ultimo, proruppe come un tuono: «Mi avete dato un potere enorme e non posso far niente per capovolgere questa situazione. Persone stanno morendo per colpa di coloro che io dovrei distruggere e migliaia di altre moriranno, sacrificandosi al mio posto, fino al giorno in cui non mi farete scendere in campo. Eppure io non sono meno importante di nessun altro essere vivente di questo pianeta e voi volete proteggermi ancora dallo scontro diretto. Tutto ciò non ha senso» riprese fiato, fissando coloro che lo circondavano «sarei potuto soccombere contro Lord Astaroth eppure ciò non è avvenuto». Dovan tentò di ribattere all’affermazione: «Allora fui io a sbagliare e te ne chiedo perdono: la situazione era disperata se ne avessi avuto la possibilità non ti avrei di certo lasciato combattere…» Greg fece finta di non sentire e proseguì con il discorso, scavalcando il tono di voce del suo maestro: «Se sono davvero così importante non potete ammettere che me ne stia ancora con le mani in mano a fare da spettatore ad altre carneficine». «Tu non capisci. Quegli uomini sono morti per assicurare che tu potessi vivere e proseguire il tuo viaggio! Non scendere in campo, non far sì che la loro morte sia stata vana». Una voce differente era intervenuta nell’accesa discussione. Greg si voltò: era stato il principe Deidar a parlare. Si chiese fino a quanto potesse sopportare quella situazione di disparità, poi replicò, ancora una volta, spazientito: «Tu sei sceso in campo e non sei meno importante di me. E malgrado ciò siete stati ricacciati tra le mura e adesso siamo come topi circondati da gatti affamati. Quelle vite sono state recise inutilmente». Greg riuscì appena a finire la frase che Deidar si avventò su di lui cieco dalla
rabbia: quelli erano i suoi uomini, tra i caduti c’erano suoi compagni e amici. Adesso quel perfetto sconosciuto si permetteva di dire che erano morti inutilmente. Gli sferrò un cazzotto in pieno viso. L’altro rispose con un poderoso calcio allo stomaco, facendolo barcollare indietro. Greg si alzò; si tastò lo zigomo dolorante: se quella era l’etichetta reale, lui non avrebbe di certo mancato di rendere il favore. Le scazzottate con Mark erano state, dopotutto, un buon allenamento. Il viso gli bruciava: gli avrebbe dato una bella lezione. Tese il braccio davanti a sé, in lui la rabbia stava quasi raggiungendo l’apice. Materializzò una mejrama e dai presenti si levarono grida, subentrate all’iniziale incredulità. Andrew e Mark gli furono addosso, buttandolo a terra ed interrompendo la sua azione. Tutto intorno a Greg divenne confuso, voci allarmate si rincorrevano per la sala: non ebbe grossi problemi a divincolarsi e si rimise in piedi. Davanti a lui Dovan lo fissava con sguardo che difficilmente Greg avrebbe saputo in uno stato d’animo preciso. La calma durò solo qualche istante, poi fu Dovan ad esplodere di rabbia nei confronti dell’allievo prediletto: «Cosa ti salta in mente?!? Avresti potuto ucciderlo con quella mejrama!» Greg fu un attimo perplesso, se Deidar conosceva le arti magiche non avrebbe avuto certo problemi a deviare il suo incantesimo. «Ha cominciato lui, si è avventato su di me. Non avrebbe dovuto farlo!» disse ritraendosi mentre si alzava. «Greg sei un immaturo, un incosciente! Mi hai profondamente deluso» sentenziò Dovan con tono aspro, tanto lontano agli orecchi di Greg da quello pacato ed imperturbabile al quale era abituato. Qualcosa si ruppe dentro il ragazzo: quelle parole gli fecero più male di qualsiasi scazzottata. Distolse lo sguardo, pieno di vergogna; a qualche o da lui i suoi amici non poterono far altro che fissarlo, con sguardo attonito. La sala si ricompose nel brusio e finalmente Talandria riprese la parola: «Sono amareggiata per quello che è appena successo. Tali avvenimenti non possono aver luogo tra compagni ed alleati. Greg, Deidar, desidero che mettiate da parte le vostre divergenze, visto che non siete che all’inizio del vostro cammino». Fissò suo figlio prima e Greg poi con i suoi occhi penetranti color ambra. I due ragazzi si avvicinarono, chiamati in causa: Greg fissò torvo Deidar mentre il
principe non poté fare a meno di non rabbrividire al pensiero della palla di fuoco che l’altro stava per scagliargli addosso senza tanti complimenti. «Desidero che vi stringiate la mano, adesso. Per secoli i Regni sono rimasti isolati, vittime di sciocchi antagonismi e incomprensioni. È giunto il momento di inaugurare una nuova Era di concordia tra le genti di questo pianeta». Quasi contemporaneamente i due allungarono la mano: si scambiarono una lunga occhiata durante la quale la stretta divenne una morsa, come una nuova prova di forza, poi si allentarono senza che nessuno dei due desse segno di sollievo e infine si divisero. Mente si dirigeva verso i suoi amici Greg fu richiamato dalla melodiosa voce della regina: nel suo cuore si accese la speranza di una decisione a suo favore per farlo intervenire nel conflitto ma le parole della regina furono solo di rammarico: «Greg, sono costernata ma il tuo maestro ha ragione. È per il tuo bene che non vogliamo tu combatta, non in uno scontro campale almeno. Pazienta poiché, malauguratamente, questo non sarà l’ultimo scontro di vaste proporzioni che vedrai». Talandria gli rivolse un sorriso conciliante, Greg non poté fare altro che eseguire un piccolo inchino e defilarsi. Gli strateghi tornarono ad osservare le carte, discutendo animatamente e perdendo interesse per l’incidente di poco prima. Greg sedette insieme agli altri: cercò Dovan con lo sguardo e lo vide lontano, immobile. Avrebbe voluto parlargli e spiegargli ciò che provava: da quando era tornato le cose delle quali avrebbe voluto parlare con il suo maestro erano tante ma la situazione glielo impediva. Scosse il capo, consapevole di dover rinviare il chiarimento necessario. Si voltò verso i suoi amici che si sforzarono di mostrargli sorrisi di comprensione per ciò che era successo. Era stato uno scontro vano: Deidar era essenziale in quel luogo e nel suo rango di generale, al contrario di lui, immobile osservatore della scena. Non poter fare niente lo distruggeva. Vide Mark sporgersi verso di lui e, alludendo allo scontro di poco prima, bisbigliare: «Bel duello amico mio, sul serio. Se dovessimo rifare a pugni, potresti evitare la mejrama però?» Greg non poté fare a meno di sorridere alla domanda e annuì due o tre volte in direzione dell’amico. Andrew fu sul punto di fare una battuta sarcastica ma fu interrotto dal rumore delle porte che si aprivano per far entrare un corriere. L’uomo si inchinò davanti ai reali e poi disse qualcosa alla regina. Talandria annuì e i battenti della sala si aprirono nuovamente per l’ingresso dei Conti di Siranna e di Mersilia.
I due uomini si inginocchiarono ossequiosi. I due reali, fecero in perfetto, accordo, un cenno di assenso con la mano ed il primo dei due parlò. «Vostre maestà, la Legione del Cervo di Siranna è ai vostri ordin». La coppia annuì, mostrandosi rasserenata. Quello che, per esclusione, doveva essere il Conte di Mersilia, si affrettò a fare lo stesso. «Maestà, la Legione dell’Orso di Mersilia offrirà la sua vita per il regno». Greg e i suoi compagni non poterono fare a meno di notare le particolarità dei nuovi arrivati: il Conte di Mersilia era un uomo mastodontico e barbuto, coperto da una curiosa armatura di maglia e pelliccia e sulla schiena, fissata da un’imbracatura, pendeva un’enorme ascia bipenne. Tutto l’opposto era il Conte di Siranna: slanciato ed esile, portava un’armatura leggera. Come l’altro Conte aveva la sua arma a tracolla: un arco lungo, ricavato dal palco di corna di un cervo adulto pendeva dalla sua schiena, accanto ad una faretra capiente. Avoran e Talandria si alzarono dai loro troni, avviandosi verso il tavolo e i Conti li seguirono poco dopo, rispettando l’etichetta reale. Si fece immediatamente silenzio tra gli strateghi e re Avoran prese la parola: «Adesso che siamo al completo possiamo pianificare la contro offensiva. Non ci sono molti termini per dettare la resistenza, purtroppo. Dobbiamo spezzare l’esercito demoniaco e ridurlo all’impotenza. Questo sarà il compito delle vostre Legioni, mie fedeli Conti» i due chinarono la testa in segno di assenso. Il re si voltò poi verso gli altri tre generali, continuando la spiegazione. «L’assalto verrà guidato dalle due legioni più le due ricomposte del nostro esercito regolare» annuirono pensierosi. «Dobbiamo cercare di eludere la presenza dei due Pari» disse poi il re in tono grave «assaltando fulmineamente l’esercito e costringendoli alla resa. In ogni caso, evitate per qualsiasi motivo lo scontro con i Pari». Avoran fissò Greg, sebbene si trovasse qualche fila più indietro, come se il suo messaggio gli potesse essere di monito per il futuro. «Almeno evitatelo per quanto vi è possibile. Desidererei che fosse la regina a chiarire come intenderà gestire la barriera». Concluse Avoran arretrando, lasciando che Talandria prendesse il suo posto. «Non appena avvertirò l’accrescimento del potere dei Pari, equivalente al loro ingresso sul campo di battaglia, dovrete arretrare il più possibile per consentirmi di proteggervi. Il demonretro che sto generando è potente ma se dilatato più di quanto abbia fatto prima temo che possa perdere il
suo potere, lasciandovi esposti al…» Talandria non riuscì a completare la frase, emise un grido di dolore, si portò le mani alla testa e cadde riversa sul tavolo, i lunghi capelli castani le coprirono il volto. Nuove grida concitate si diffo nella sala. Avoran aiutò la regina rialzarsi e con voce spaventata e premurosa le chiese: «Che cosa ti succede mia cara?» Deidar e Cylaetra le furono accanto mentre assumeva un pallore mortale. Avoran al suo fianco avvertiva su di sé gli effetti dell’indebolimento progressivo della regina ed ebbe un mancamento momentaneo, tanto che i Conti dovettero sorreggerlo per poi adagiarlo delicatamente al suolo. Talandria aprì gli occhi e dischiuse le labbra. Con un filo di voce, preceduto da uno spasmo di dolore, disse: «Stanno attaccando la barriera. La stanno distruggendo». «Mia cara, toglila, ti prego!» disse Avoran, ancora assistito dai Conti. La regina si voltò verso il consorte e comprese la gravità della situazione: oltre alla propria vita era a rischio anche quella del marito. Se lei fosse venuta a mancare, Renodia avrebbe perso le sue guide. Non poteva sprecare altro tempo, urlò di dolore: «DEIDAR, NON POSSO RESISTERE ANCORA PER MOLTO, SEGUITE GLI ORDINI DI DOVAN E DIFENDETE LA CITTA’!» Accanto a lei il figlio le rispose sconvolto: «Non affaticarti madre, riposa» mentre lacrime gli solcavano il viso lungo ed affilato, tra le mani quella di sua madre. Greg fissava quella scena, dentro vedeva scorrere le immagini di sua madre e di suo padre, colui che aveva rinunciato a servire fedelmente la corona corrotta di Selthon per aiutarlo a fuggire. Avoran e Talandria furono portati via immediatamente da una squadra di farmacisti comparsa nella sala mentre Cylaetra e Deidar stentavano ancora a capacitarsi dell’accaduto. Greg gli si avvicinò, tendendogli la mano, tanto diversamente da quella che gli aveva teso solo poco prima. Il principe la afferrò, grato di quel o e si alzò, togliendo con l’altra le lacrime che gli rigavano il viso.
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La calma stentò a tornare nella sala fino a quando essa non fu completamente deserta. Per un numero non precisato di minuti Dovan, dopo aver assunto il
completo comando delle operazioni difensive, aveva dettato i suoi ordini. Renodia era chiaramente sotto assedio e niente potevano i suoi difensori oltre che sperare e resistere. La Legione di Siranna era stata posizionata nei torrioni delle mura, dalle feritoie avrebbero colpito i goroi senza pericolo di perdite. La Legione di Mersilia era stata indirizzata, insieme alle altre due, a difendere i bastioni dall’arrivo dei goroi e, soprattutto, nel tentativo di fermare il possente Mynothork, il quale, una volta abbattuta la barriera del demonretro, si era allontanato dalle mura, mettendosi fuori dalla portata degli archi. Deidar e la sua cavalleria, inutile durante un assedio, avevano fatto rientrare i cavalli nelle scuderie e, come gli altri, erano dislocati sulle mura in attesa. Andrew, Mark e Lisa avevano manifestato il desiderio di rendersi utili ed erano stati ufficialmente nominati corrieri: in caso di pericolo sarebbero dovuti fare ritorno alla nave e salpare a tutta velocità, dando pure fondo ai motori sperimentali. Quanto a Greg si trovava adesso confinato nella Darlidan, circondato dall’ halos major che il suo maestro aveva evocato per evitare che potesse fuggire di lì, provasse egli tanto con la forza che con la magia che addirittura con il potere che custodiva. Greg avrebbe voluto infuriarsi, distruggere la sala pezzo per pezzo per sfogare la sua ira, forse nuocere al suo maestro, ma non lo fece. Ora, a bordo della Darlidan si chiedeva perché non lo avesse fatto, o non ci avesse almeno provato. I suoi amici probabilmente non ne sapeva nulla, pensavano forse che Dovan avesse un ruolo anche per Greg e così avevano accettato, con relativa tranquillità, l’incarico di corrieri. Si era sentito come annullato, ricordava quasi a stento il momento in cui aveva sceso le scale a chiocciola dell’Albero delle Esperidi con alle sue spalle il maestro. Non poteva credere che volesse davvero agire in quel modo ma, sulla nave, non riuscì a negare l’evidenza. Dovan aveva tracciato con la spada un grosso simbolo sul ponte della Darlidan e Greg vi era entrato consapevolmente all’interno. Per tutto il tempo non si erano rivolti la parola, a stento avevano incrociato gli sguardi per poi voltarsi dalla parte opposta. Il maestro non si decise a parlare se non quando la barriera, entrata in funzione, lo schermava da qualsiasi reazione dell’allievo. «Immagino tu mi stia odiando in questo momento, non è vero?» La sua voce parve seriamente dispiaciuta. Greg non rispose, si limitò ad osservarlo appena, mantenendo lo sguardo vacuo ed inespressivo. Quell’uomo aveva preferito chiuderlo in gabbia piuttosto che ascoltare le sue ragioni, non poteva pretendere che adesso lui rispondesse ad una domanda così scontata e superflua. Ci pensò per un attimo: lo odiava? Forse, non
sapeva dirlo con certezza nemmeno a se stesso. Quel tipo di sentimento non lo aveva mai provato. Quando pensava di odiare suo padre perché voleva imporgli di studiare i libri di contabilità oppure quando detestava Mark perché aveva ricevuto un’occhiata dolce da Lisa non aveva mai avvertito un peso così opprimente in fondo allo stomaco e il senso di costrizione che adesso provava alle tempie. Ciò che lo faceva più star male era che non riusciva a scorgere negli occhi di Dovan la minima incertezza, o dubbio, per quel provvedimento. Si chiese se Dovan provasse qualcosa in quel momento, se pure lui lo odiasse. Non poteva leggere nella mente del maestro, non ne era capace. La voce poteva essere modulata a piacimento ma non i sentimenti o le sensazioni. E Dovan, in quello stesso istante, si sentiva fallito nel modo più completo. Non aveva bisogno di guardare dietro le spalle per vedere le macerie della sua esistenza, le aveva costantemente ben presenti, nella mente come nel cuore, e non poteva darsene pace. Pensare a Selthon lo distruggeva, non potendo fare a meno di pensare come la debolezza mostrata anni prima avesse aggravato notevolmente la situazione presente. Se pensava a Greg, al compito che, venuto a conoscenza della verità, aveva giurato di assolvere, capiva di aver fallito, di non essersi comportato come avrebbe dovuto. Benché si rendesse conto di sbagliare, persino in quel medesimo istante in cui lo fissava dalla parte opposta della barriera, non riusciva a fare altro che porgli una domanda così stupida. “Perdonami Greg, perdonami per quello che ti sto facendo, forse prima o poi capirai“, disse dentro di sé. Il senso di colpa lo stava schiacciando e non riuscì a guardarlo oltre negli occhi. Si voltò e scese le scalette della nave. No, si disse Greg, Dovan non provava niente in quel momento. Continuarono a fissarsi, muti ed inespressivi, l’uno con l’altro. Poi Dovan distolse lo sguardo, forse si era stancato di aspettare una risposta da Greg, si voltò e scese le scalette della Darlidan. Il ragazzo si rifiutò di seguire con lo sguardo il maestro e si accasciò sul ponte: era stato tagliato fuori da tutto il resto del mondo, non era più la sua guerra quella che si stava combattendo per difendere Renodia.
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L’assedio che cingeva la città era iniziato sotto la supervisione dei due Pari che, soddisfatti, vedevano cedere la città minuto dopo minuto. La barriera che li proteggeva, come previsto da Lord Minstrael, era caduta e, con essa, il valido o della Regina Talandria, uno degli esseri più potenti del pianeta. Era stato subdolo da parte loro sbarazzarsi di lei così ma, d’altra parte, la lealtà non era una facoltà che rientrava spesso nelle attitudini demoniache. I goroi erano riusciti a costruire rozze scale di legno mentre attendevano l’inizio dell’assedio e ora, malgrado la loro fattura non perfetta, stavano assolvendo il loro compito. Quegli esseri, dopotutto, erano ottimi soldati: spietati, malvagi e con un desiderio di produrre dolore negli altri così forte e preponderante da supplire alla mancanza di una vivace e spiccata intelligenza. Lord Minstrael galleggiava acciambellato nell’aria, fischiettando un motivetto, neppure così spiacevole, pensò sorpreso Lord Astaroth: l’altro suo Pari doveva essere di buon umore. Lo stesso non poteva dire di sé: se da un lato era soddisfatto del suo operato mentre osservava l’assedio, dall’altro era inquieto poiché ancora non aveva avvertito il suo avversario combattere sulle mura. La cosa che più lo incuriosiva era che, pochi minuti prima, in un controllo della sua sonda psichica, era riuscito a percepire chiaramente i compagni ed il maestro del ragazzo. Emise un suono gutturale d’insoddisfazione. Se avesse avuto delle percezioni olfattive non avrebbe potuto tollerare la terza presenza: il Mynothork, in tutta la sua colossale stazza, osservava, emettendo talvolta un mugolio, ciò che lo circondava. Quel bestione lo stava infastidendo. Emise un nuovo grugnito e, nell’attesa, decise di prendersela con il proprio Pari. Cos’altro poteva fare se non poteva combattere? «Lord Minstrael, è davvero necessario che il Mynothork resti qui invece che combattere nell’assedio?» «Sono convinto che così basti. Nessuno tra quelle mura è abbastanza potente da rappresentare per noi un pericolo. Se possiamo risparmiare una valida unità per la nostra causa, credo che la Sublime Lilith ce ne sarebbe più che grata» vide gli occhi di Minstrael prendere una piega torva. Lord Astaroth si rese conto che il suo pretesto non era stato raccolto e, maggiormente sconfortato, si risolse a sondare le mura della città. Nessuna novità, il ragazzo non aveva ancora fatto la sua comparsa. Avvertì di nuovo la
presenza della ragazza che, fino a qualche ora prima, era stata tenuta d’ostaggio e questa volta ebbe un fremito di piacere: nella sua mente millenaria un nuovo progetto si stava delineando assumendo contorni nitidi e precisi. Sì, poteva funzionare, si disse, soddisfatto. Alle sue spalle, centinaia di metri più lontana, la foresta continuava imperterrita a bruciare ed una densa nube di fumo aveva cominciato ad addensarsi sopra la zona.
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Lisa si guardò intorno, allarmata. Dalle feritoie delle torri gli arcieri del Conte di Siranna scoccavano centinaia di frecce sui goroi che tentavano di issarsi sulle mura. Quelli che riuscivano a salire dovevano vedersela con i numerosi uomini che proteggevano i bastioni. Dovan, affaccendato ed in continuo movimento, si spostava da un fronte caldo all’altro con celerità e preoccupazione. Era quella la guerra: quando era a Selthon si era sempre sentita al sicuro, anche quando si pensava che il conflitto avrebbe potuto toccare zone vicine alla capitale. La sua famiglia l’aveva sempre rassicurata e fatta crescere in mezzo ad un ambiente tranquillo, come un fiore delicato sotto ad una campana di vetro. Il suo mondo, almeno fino a qualche settimana prima, era semplice e fatto di ben note abitudini che le avevano sempre dato l’impressione che non sarebbe mai cambiato. Anche il trascorrere del tempo era relativo: vivere spensierata in un’adolescenza dorata, sempre attorniata dai suoi amici, ecco cosa aveva sempre desiderato. Emise un sospiro di sconforto, pesante come lo era il suo cuore. Tante cose erano cambiate ma lei si sentiva inadeguata, sempre un o indietro rispetto alle aspettative che, col are dei giorni, si facevano sempre più difficili da assolvere o da sopportare. Decise di non pensare a ciò che aveva appena trascorso: aveva un compito da portare a termine adesso e non poteva certo tardare. Doveva portare un messaggio al principe Deidar. Lo vide, a qualche decina di metri da lei, mentre dava ordini ai suoi uomini su come avrebbero dovuto disporsi a difesa di un torrione. Vedendo il principe affaccendato in quei doveri le tornò in mente Greg quando aveva gestito il ritorno a Renodia dopo averla salvata nella foresta. Si chiese dove fosse adesso, osservò i suoi vicini e la moltitudine di difensori pensierosa: forse impegnato a svolgere qualche mansione per conto di Dovan in
un’altra parte della città. Salì di corsa i gradini che la dividevano da Deidar, pronta per riferire al principe il messaggio quando, giunta a pochi i dal destinatario, si arrestò. Si guardò attorno: qualcuno l’aveva chiamata. Avvertì di nuovo la voce di qualcuno che la chiamava per nome: doveva trattarsi di qualcuno molto vicino poiché le sembrava quasi che la parola le fosse sussurrata all’orecchio. Si voltò più volte, incrociando anche gli occhi indagatori di Deidar che non riusciva a capire come mai la ragazza restasse lì senza dire nulla. La voce si fece più forte e gli intervalli durante i quali non la percepiva si fecero sempre più brevi. Qualcuno la chiamava insistentemente ma non le diceva nient’altro. Chiuse gli occhi e si tappò le orecchie: in mezzo a quel frastuono generale non era da escludere che avesse potuto immaginare tutto. Fu proprio quell’azione che la stravolse: due occhi dalle iridi bianche la catturarono e lei si sentì progressivamente scivolare nell’inconsapevolezza. Cercò di resistere, di lottare contro l’incoscienza nella quale stava annegando ma gli occhi, il potere che emanavano, vinsero la sua volontà. Come in un sogno dove si vede il proprio corpo agire e da esso ci si sente dissociati, Lisa osservò il suo corpo voltarsi e fare a ritroso le scale. Le voci attorno si erano fatte ovattate: tentò di imporre al proprio corpo di svolgere un’azione contraria ma la forza che la stava possedendo la vinse. La sua mente era lucida e proprio questo la terrorizzava: se fosse stata spinta a compiere qualche azione folle lei non avrebbe potuto far nient’altro che assistere, impotente. Una richiesta galleggiò davanti alla sua coscienza: non era la voce a parlare, o meglio, chi si stava servendo di lei stava facendo uso delle immagini pescate dalla sua memoria per esprimersi. Davanti ai suoi occhi arono innumerevoli immagini di Greg, principalmente da solo e lei comprese la richiesta. Chi la stava manovrando voleva Greg, ma lei non sapeva dove fosse. Ciò che la stava possedendo sembrò contrariato da quella negazione ed esercitò una forte pressione mentale sulla ragazza. Lisa continuò a negare mentre, nella sua mente, chi la stava controllando ava in rassegna i luoghi che la ragazza aveva visto a Renodia. Parve escludere il palazzo e il suo corpo si diresse verso le mura: ruotò la testa più volte ma, ne era lei stessa consapevole, di Greg non vi era traccia. La parte cosciente di Lisa si allarmò, preoccupata che a Greg potesse essere successo qualcosa. Nella sua mente comparve l’immagine di lei, Mark e Andrew che lasciavano Dovan e Greg da soli nella sala del Palazzo. L’occupante del suo corpo parve insistere sulla figura di Dovan, sperando di sapere da lui dove si trovasse. Il corpo di Lisa si spostò ancora, questa volta con o più
sostenuto. Una sagoma le sfrecciò accanto: se la parte cosciente non riuscì a riconoscere la sagoma lo fece quella che la stava guidando. Trattenne l’uomo per un lembo della tunica coperta da un’armatura leggera. Il maestro Dovan parve felice di vedere Lisa, lo stesso si potrebbe dire della Lisa spettatrice che, con grandi sforzi, cercava di far notare a Dovan che qualcosa di strano le era accaduto. Per la prima volta sentì la sua voce senza che fosse lei ad usarla deliberatamente: per un attimo le venne da pensare quanto fosse stupido il suo tono, poi si mise ad ascoltare ciò che il suo occupante chiedeva a Dovan. Il maestro sembrò contrariato dalla richiesta e controbatté chiedendole se avesse già riferito al principe Deidar il suo messaggio. L’occupante annuì alla domanda di Dovan e formulò nuovamente la richiesta. L’altro farfugliò qualcosa a proposito di un compito che aveva affidato al ragazzo, poi, congedandosi, le ricordò di correre alla Darlidan in caso di pericolo. La vera Lisa pensò che si fosse risolto tutto con un nulla di fatto, trovava molto strano, anzi, che Dovan non sapesse dove si trovava Greg. Ciò che la possedeva non sembrava molto d’accordo e, per un attimo, la ragazza vide materializzarsi nella sua mente l’immagine nitida della Darlidan, ancorata ai Porti di Smeraldo. Rassegnata al ruolo al quale era stata relegata, vide il suo corpo muoversi verso la città, questa volta come se chi la manovrava avesse una fretta incredibile di vedere Greg. Non incontrò facce familiari durante il suo tragitto, tanto nessuno avrebbe notato la differenza costatò sconsolata, ma almeno avrebbe evitato domande indagatrici quando, e sperava ardentemente che ciò avvenisse il prima possibile, fosse tornata nel pieno possesso delle sue facoltà motorie. Magari, pensò, chi la stava governando non voleva fare del male a nessuno e si trattava di un intervento di un nuovo alleato, o degli Angeli Dorati, forse preoccupati per la salute di Greg. E se Greg si trovasse in difficoltà e nessuno lo sapesse? Si chiese allarmata. In quel momento sperò ardentemente che il suo corpo aumentasse la velocità dell’andatura: come se chi la manovrava volesse assecondare la richiesta appena formulata, le sue gambe si misero a correre mentre, in lontananza, iniziava a scorgere le lanterne verdi del porto.
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La ragazza era scomparsa nella moltitudine di persone che si prodigavano per difendere la città e Deidar non era riuscito a capire cosa volesse. L’aveva vista arrivare a pochi metri a lui con una certa urgenza, glielo aveva letto negli occhi, per poi, pochi secondi dopo, voltarsi e scappare via. Che avesse avuto un ripensamento improvviso? Si chiese mentre dava le ultime disposizioni ai suoi uomini e si apprestava a raggiungere un altro manipolo impegnato su un bastione, particolarmente preso di mira, qualche decina di metri più avanti. Cercò con lo sguardo i compagni della ragazza che, probabilmente, avrebbero saputo dirgli dove ella si trovava. Non c’era traccia di Greg, forse per lui Dovan aveva designato un altro compito, suppose. Dopo pochi minuti vide sfrecciare, più o meno nella sua direzione, il ragazzo basso e con i capelli ricci: era scortese non saperne il nome e si ripromise al più presto di impararlo, almeno per evitare dialoghi imbarazzanti visto che, sicuramente, l’altro sapeva benissimo chi lui fosse e quale fosse il suo rango. Attirò la sua attenzione con un cenno della mano: Andrew, inizialmente allibito, si fermò solo quando, dopo essersi guardato più volte attorno, fu assolutamente sicuro che il principe si rivolgesse a lui. Deidar non sapeva come iniziare la conversazione, temeva di apparirgli stupido, lo fissò indeciso poi, con suo sollievo, fu Andrew ad iniziare il discorso. «Voleva qualcosa? Devo riferire per lei qualche messaggio?» Ora Deidar si sentì ancora più in imbarazzo: gli stava dando del lei, eppure avevano forse la stessa età, erano entrambi dei ragazzi. Non gli doveva quel rispetto formale. Per un attimo pensò di dirglielo ma poi preferì rimandare a dopo i convenevoli. «Poco fa ho visto la ragazza che siete andati a salvare nella foresta venire verso di me, probabilmente doveva riferire un messaggio, m a poi è tornata indietro ed è scomparsa. L’ hai vista per caso? Sai dove la posso trovare?» Andrew fece cenno di no con la testa. «È da quando ci siamo divisi dopo essere scesi da palazzo che non la vedo. Credo dovrebbe chiedere a Mark oppure a Greg, anche se ignoro dove possa essere adesso o, altrimenti, al maestro Dovan». Andrew non aspettò che Deidar lo congedasse e riprese a correre nella direzione
che stava seguendo prima dell’interruzione. Il principe iniziò a perlustrare i bastioni mentre cresceva in lui l’incertezza, sperando concretamente di vedere da un momento all’altro apparire la ragazza. I goroi continuavano ad attaccare ferocemente, instancabili come si erano rivelati sul campo ma del Mynothork o dei Pari non vi era ancora traccia. Impossibile fossero scomparsi, si disse mentre si insinuava in lui il dubbio che stessero giocando al gatto con i topi. Impossibile non pensarlo: li avrebbero sfiancati e poi sarebbero comparsi per dare loro il colpo di grazia. “Un comportamento squisitamente demoniaco” avrebbero detto sua madre e suo padre. Rivolse loro un pensiero affettuoso, confidando nell’indomita forza d’animo della madre e nei profondi sentimenti che legavano i suoi genitori al di là della vita. Un’apparizione familiare lo distolse dal pensare ai suoi genitori: Dovan, incrollabile, aveva appena fatto la sua comparsa sopra un bastione per dare man forte a degli uomini in difficoltà con un gruppo piuttosto agguerrito di invasori. Deidar vi si issò precipitosamente e gli fu accanto dopo aver sguainato la lama. «Che piacere rivederti Deidar!» disse calorosamente Dovan parando l’assalto di un goroo e ricacciandolo abilmente di sotto dalle mura. «Aveva per caso un messaggio per me, maestro?» Dovan riprese per un istante fiato mentre alcuni uomini tentavano di sganciare gli arpioni che assicuravano saldamente la scala dei goroi al muro. «Sì e, se non sbaglio, è venuta Lisa a riferirtelo». Deidar assunse un’espressione contrariata e Dovan ne fu incuriosito. «Non è venuta?» «No, è venuta» si corresse Deidar «ma forse ha dimenticato di riferirlo perché poco dopo avermi visto si è voltata ed è sparita nel nulla. Ho provato a chiedere ad uno dei suoi allievi ma ha detto di non vederla da un po’ di tempo». La curiosità di Dovan crebbe: il dubbio che aveva insinuato fino a poco prima la mente di Deidar stava ando con incredibile velocità alla sua. Aveva compiuto più volte il giro completo dei bastioni difensivi ed ogni volta aveva incrociato Mark e Andrew, impegnati ad assolvere il compito di portaordini. Ora che ci pensava era da quando aveva dato a Lisa il messaggio per Deidar che non la vedeva. Il dubbio divenne una certezza quasi assoluta quando iniziò ad escludere la quasi totalità dei luoghi di Renodia: l’unico posto rimasto dove gli veniva in mente di andare a cercarla era la Darlidan. Fece un tentativo di localizzazione: estese le sue percezioni alla città e, scansando le migliaia di
coscienze che la affollavano e che la assediavano, si diresse verso la parte più sgombra. Con suo stupore non solo Lisa era in prossimità della Darlidan, ma insieme a lei c’era qualcun altro in quel luogo, un’entità la cui essenza fece fremere Dovan da testa a piedi. Uno dei Pari era penetrato in città e, a sua completa insaputa, aveva seguito Lisa. I suoi allievi, la città ed il piano millenario non erano mai stati così a rischio. E la responsabilità di tutto ciò era solo sua. Questa la frase che gli si marchiò a fuoco nel profondo dell’animo e che lo fece correre, ad una velocità impressionante, verso i Porti di Smeraldo, seguito a ruota da Deidar, ignaro del pericolo che, in un lampo, avrebbe potuto annientare il mondo così come lo conoscevano.
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I Porti di Smeraldo erano immersi in un assoluto silenzio che li rendeva, se possibile, un luogo ancora più incantato, tanto che nessuno avrebbe mai pensato che, a solo qualche migliaio di metri, poco più di un migliaio di persone stessero difendendo strenuamente la città contro un numero due volte superiore di assalitori. Il corpo incosciente e la parte cosciente di Lisa si trovava in prossimità della Darlidan: da sopra la nave provenivano strani bagliori viola che non poco l’avevano stupita. Chi c’era sopra la nave? Per quanto lei si trovasse lì in quel momento, contro la sua volontà peraltro, non c’erano stati evidenti segni di pericolo e perciò la presenza ingiustificata di altre persone le appariva piuttosto strana. L’occupante fece salire il corpo sul ponte della nave e lì la parte cosciente di Lisa sobbalzò: Greg era seduto sul ponte, circondato da una barriera piuttosto grande, circoscritta da un cerchio e da altri simboli tracciati nella pavimentazione del ponte della nave. Che si fosse rinchiuso di sua volontà là dentro, evitando così lo scontro le pareva troppo strano: qualcuno doveva averlo obbligato. E quel qualcuno probabilmente non immaginava che adesso lei stava osservando quella scena. Solo dopo Greg si accorse della presenza della ragazza: non poté fare a meno di manifestare entusiasmo per la vista dell’amica, tanto che, abbandonata la sua apatia momentanea, si era alzato in piedi, giungendo
fine al limitare della barriera. Anche l’occupante sembrò rasserenato da quella visione e, sebbene di poco, allentò la presa sulla mente di Lisa. «Ti manda Dovan?» disse Greg. La testa di Lisa fece cenno di no mentre la Lisa cosciente si chiedeva cosa c’entrasse Dovan con quella barriera. Poco dopo realizzò ciò che era palesemente evidente: quella gabbia magica era stata eretta da Dovan per imprigionare Greg ed egli non era riuscito ad uscirne. Lei si inginocchiò per osservare meglio i segni incisi sul ponte mentre Greg, ignaro che il corpo di Lisa fosse diventato il mezzo di trasporto di un altro essere, diceva: «Inutile Lisa, questa barriera resiste a tutto, può essere rotta solo da Dovan quando tornerà qui. Se non ritornerà ed essa si dissolverà, sarà evidente che Dovan ci ha lasciato. Per sempre». La Lisa cosciente avrebbe avvertito un brivido se avesse potuto controllare il suo corpo: Greg era veramente arrabbiato. Nella sua voce non c’era più traccia del rispetto con il quale si era sempre espresso quando parlava con gli altri, chiunque esso fosse, del proprio maestro. Ma Lisa, contrariamente a quello che Greg si sarebbe aspettato, non lo stava ascoltando. La ragazza continuò a fissare i segni incisi, borbottando qualcosa tra sé e sé come se stesse valutando attentamente la situazione. Poi si alzò e le sue mani arono numerose volte sopra la barriera, senza però toccarla. La barriera reagiva al suo contatto come non era successo quando Greg aveva provato a farlo dall’interno. Pose le sue mani in un unico punto: per quanto strano potesse sembrare agli occhi del ragazzo imprigionato, la sua amica stava cercando di spezzare un incantesimo che neppure sapeva come era stato invocato. Una luce accecante prima e miriadi di scie luminose poi misero fine a quel tentativo. Lisa fu sbalzata violentemente sul pavimento mentre Greg, ancora abbagliato, vide apparire due sagome a pochi metri da lui. Quando riacquistò perfettamente la vista stentò quasi a credere a ciò che vedeva: Dovan e il principe Deidar, al momento chino su Lisa, erano comparsi sul ponte. Il maestro aveva un’espressione allarmata mentre si guardava intorno, forse in cerca di qualcosa. Lisa, di nuovo in piedi, era incolume, solo un po’ spaesata. L’attenzione dei presenti fu poi per Greg, ancora confinato all’interno della
barriera magica. Non attese che Dovan parlasse, preferì prendere egli stesso in mano la situazione. Fissò Dovan negli occhi e con una pacatezza più premeditata che spontanea disse: «Immagino, maestro, che lei debba qualche spiegazione ai presenti…» «Non c’è tempo per le spiegazioni, devo riaprire la barriera e farti fuggire immediatamente. Uno dei Pari è entrato in città e si trova proprio qui. Il mio demonretro potrebbe averlo allontanato solo momentaneamente. Sei in pericolo» disse Dovan frenetico. Alle sue spalle Deidar e Lisa assunsero un’espressione terrorizzata. Con la stessa celerità mormorò alcune parole confuse ma che, in pochi istanti, ebbero l’effetto di cancellare la barriera «Muoviti Greg, non c’è tempo…» riprese il maestro. Ma Greg rimase imibile. «No, maestro. Qui non c’è nessun altro oltre a noi» disse indicando lo spazio circostante. «Se non mi crede lo chieda pure a Lisa, lei è arrivata qui per prima. Sempre che riesca a riprendersi dal colpo che le ha appena scagliato contro». Lisa fu sul punto di dire che lei non si è trovata lì volontariamente ma poi, qualcosa di non ben precisato in fondo alla sua mente le disse di non far parola della cosa. Dopotutto non poteva essere stato un essere malvagio ad impadronirsi di lei se voleva liberare Greg dall’incantesimo di Dovan. «Non c’era nessun altro prima del vostro arrivo. Sono arrivata qui perché era l’unico luogo in cui non avevo cercato Greg e l’ho trovato rinchiuso in una gabbia» la sua voce si era fatta dura «stavo cercando di capire come liberarlo prima che con il suo incantesimo fossi sbalzata con forza sul ponte». Dovan spalancò le braccia, mortificato. «Lisa, mi dispiace veramente, ma devi capire che ho agito solo per il bene tuo e di Greg. Se un demone fosse nascosto da qualche parte e vi avesse assalito prima del mio intervento…» «Maestro Dovan, può controllare lei stesso se qualche presenza malvagia risiede nella zona» intervenne Greg accennando ai poteri d’individuazione del mago. Dovan si concesse qualche istante per trovare la concentrazione, poi estese i suoi
sensi e, per l’ennesima volta, fu stupito da ciò che percepì: nei Porti di Smeraldo non c’era traccia di essenze malvagie. Dunque si era sbagliato? Gli sguardi di Greg e di Lisa erano piuttosto eloquenti. Dovan ricadde pesante sul ponte della nave. Se qualche ora prima aveva pensato di aver fallito su tutta la linea si sbagliava di grosso, almeno allora aveva conservato la sua dignità di mago: ora sembrava aver perso anche quella.
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Il tracollo di Dovan divenne completo quando, poco dopo, accorsero sul luogo Mark e Andrew, visibilmente scossi. «Cosa ci fate qui?» chiese il maestro, ormai consapevole che al peggio potesse esserci difficilmente fine. Andrew riprese appena il fiato sufficiente per dire: «Il Mynothork sta abbattendo le mura». Mark, avendo raccolto più fiato, riuscì a pronunciare una frase più lunga: «I difensori stanno ripiegando davanti alla furia di quel mostro e i goroi stanno penetrando nella città». Deidar chiuse gli occhi mentre sentiva la testa turbinargli ed il battito del cuore aumentare esponenzialmente. Un pericolo enorme incombeva su Renodia e lui non era in prima linea pronto a dare la vita per la difesa della sua casa e dei suoi affetti. I suoi genitori, le sue sorelle, migliaia di renodiani contavano su di lui. Incontrò gli occhi di Greg: non aveva bisogno di parole per capire che gli sarebbe stato accanto in quella battaglia disperata. Nessuno dei due aveva niente da perdere, anzi, nel caso di Greg mai così deciso ad usare i suoi poteri magici, c’era ancora molto che avrebbe potuto fare. Si voltò verso i suoi amici: non poteva obbligare pure loro a scendere in campo, dopotutto non avevano mai mostrato quel desiderio. «Restate alla Darlidan?» Andrew, Mark e Lisa si scambiarono occhiate veloci, poi il primo prese la parola: «Non siamo adatti per vivere in mezzo allo scontro aperto. Resteremo qui e proteggeremo la nave, possediamo armi».
«E, se necessario, posso provvedere io con qualche incantesimo» si affrettò ad aggiungere Mark. Greg sorrise, lieto della scelta: se fosse successo loro qualcosa in mezzo allo scontro, se per un fatto banale non li avesse potuti soccorrere e avessero perso la vita non se lo sarebbe mai perdonato. Si abbracciarono tutti e quattro e, per un attimo, le loro menti dimenticarono di trovarsi a centinaia di chilometri da casa intenti a combattere una guerra terribile. «Abbiate cura di voi» fu l’augurio dei tre a Greg e a Deidar che, voltatisi, stavano scendendo dalla nave. Il peso in fondo all’anima di Greg si manifestò nuovamente e, se possibile, con maggior impeto sull’ultimo degli scalini. Si morse le labbra mentre fissava Dovan, ancora piegato a terra. Lo odiava per ciò che gli aveva fatto ma, in fondo al cuore, la sua umanità prevalse. Deidar, al suo fianco, indugiò sul da farsi, poi con il rapido consenso di Greg, decisero di sollevarlo di peso. La faccia dell’uomo aveva un’espressione distrutta, come se fosse invecchiato di colpo ed i suoi occhi andavano prima su Greg e poi su Deidar, incerti. Fu l’allievo a parlare per primo, con tono incisivo: «Maestro, abbiamo bisogno di lei». Dovan scosse la testa, la sua voce si era fatta amara: «No, Greg, nessuno ha bisogno di me. Dove vado porto solo distruzione e discordia. Lo stesso è accaduto qui a Renodia. Lasciatemi qui». Quelle parole erano troppo assurde anche per Greg sebbene in quelle ultime ore la stima che nutriva per quell’uomo si fosse incrinata. «Maestro, solo lei ha l’esperienza per condurre Renodia alla vittoria, senza di lei migliaia di persone moriranno!» aggiunse Deidar. «Da anni persone muoiono o soffrono a causa delle mie scelte sbagliate, qualche migliaio in più o in meno non farà differenza». E Greg fece ciò che non avrebbe mai pensato di fare: afferrò poderosamente il maestro per le spalle e iniziò a scuoterlo violentemente, senza che egli riuscisse a reagire. «Questo vuol dire essere un mago, maestro? Ritirarsi davanti alle difficoltà, lasciare che le persone muoiano senza cercare di porvi rimedio? È questo il fine ultimo di tutti i suoi insegnamenti? Questo ciò che io avrei dovuto imparare da lei? Sapete cosa penso? Lei non è affatto diverso da quello schifoso
traditore di Samarlec, anzi siete fatti della stessa pasta, ma lei ha sempre avuto l’ipocrisia di additare l’altro come impostore, scorgendo, forse, in lui difetti che in lei, seppur nascosti, sono enormemente più grandi!» Un poderoso “no, non è vero” si levò dai Porti di Smeraldo, rompendo la quiete del luogo. Greg l’aveva toccato nel vivo ed era riuscito ad ottenere una reazione positiva, di riscossa: davanti a lui Dovan pareva essere tornato in sé ed aver riacquisito la sua dignità, sia di uomo che di mago. Maestro e allievo si fissarono, scorgendo l’uno negli occhi dell’altro i propri ed altrui cambiamenti. Avevano avuto delle divergenze, ma ora tutte le priorità erano tornate al loro posto e ad esse dovevano necessariamente obbedire prima di chiarire definitivamente: il segreto sarebbe stato celato ma la città non sarebbe caduta, non senza combattere fino allo strenuo delle forze, non senza che qualcuno si opponesse al male nel mondo, non senza che la luce, una volta ancora, tentasse di ostacolare l’ombra del Tiranno.
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Corsero come se ai piedi avessero le ali sulle quali gli spiriti dei venti di tempesta volano sul mondo, mutando, col are dei secoli, la sua forma. Nella direzione opposta alla loro molti uomini, feriti e terrorizzati, stavano cercando rifugio, poche decine di metri più avanti una schiera di difensori, con a capo Cylaetra ed il Conte di Mersilia, tenevano a freno l’avanzata dei goroi penetrati in città. Deidar, allontanando per un attimo ciò che l’impulsività gli suggeriva, cioè di avventarsi su quei mostri con la spada in pugno e farne strage, cercò di individuare il motivo di quella penetrazione recuperando dalla memoria cosa gli era stato insegnato all’accademia militare e poi, notando le espressioni attonite di Dovan e di Greg, comprese. Il Mynothork, in tutta la sua colossale grandezza e forza brutale, aveva aperto un varco nelle possenti mura della città e adesso avanzava emettendo suoni che non potevano essere definiti in altro modo che ruggiti. Nel cielo sopra le teste dei difensori brillarono decine di fiaccole che, all’unisono e a ripetizione, colpirono il gigantesco mostro, facendolo ruggire per
il dolore e la rabbia. Dovan guardò sopra di sé: da un torrione ancora intatto ma sotto il continuo attacco dei goroi, il Conte di Siranna, arroccato con i suoi arcieri, continuava a battersi valorosamente. «Cosa facciamo?» chiese Greg guardando alternamente Dovan e Deidar. «Se alleviassimo la tensione su quel torrione potremmo dar modo al Conte e ai suoi uomini di utilizzare le loro frecce per are mia sorella». Dovan e Greg annuirono: il maestro, preceduto da Deidar, aveva sguainato la spada e preparato la mano mentre a Greg non restò altro che prepararle entrambi poiché era disarmato. «Che cosa consiglia maestro? Li fulmino o li cuocio?» disse con un ritrovato sarcasmo. Dovan lo fissò sollevato, stupito a sua volta di quel commento, sì poco adatto al momento, ma anche così confidenziale, poi rispose: «Beh, credo tu possa avere l’imbarazzo della scelta. Avrei dovuto insegnarti qualcosa di più ma non ne ho avuto il tempo. Spero che gli incantesimi già di tua conoscenza possano bastare». «Basteranno, maestro» disse mentre in entrambe le mani facevano la loro comparsa due mejrama di tutto rispetto, tanto che Deidar, poco distante, ringraziò che una di quelle palle di fuoco non l’avesse colpito poche ore prima nella sala. «E…Greg?», lo richiamò Dovan. Il ragazzo si voltò e le due sfere di fuoco tracciarono un ampio cerchio, illuminando l’ambiente. «Sì?» «Presta attenzione e non usare il tuo potere, d’accordo?» sul suo volto era ricomparsa l’espressione bonaria di quando, alle prime lezioni, lo consolava se la mej che aveva evocato non era del tutto perfetta. Greg annuì. Il fuoco splendente nelle sue mani aveva ottenuto l’intento desiderato, fatta eccezione per aver completamente annullato l’effetto sorpresa: i goroi, impegnati all’assalto del torrione, distolsero l’attenzione dagli arcieri e si scagliarono sui tre. Greg sorrise mentre le due palle di fuoco, cresciute a dismisura tanto da generare un calore quasi insopportabile, colpivano la prima
linea dei goroi, carbonizzandone una buona parte. Deidar e Dovan, approfittando di quel colpo micidiale, si avventarono su quelli che si apprestavano a sostituire i goroi caduti. Greg, rimasto indietro ed in posizione favorevole per lanciare un nuovo attacco, caricò la mano destra, questa volta appellandosi alla catena del tuono. Urlò a Deidar e a Dovan di prestare attenzione: il maestro, intuendo l’intento di Greg, raggiunse Deidar menando due fendenti ad un goroo piuttosto fastidioso che era riuscito a parare tutti i suoi e che quasi l’aveva colpito con il pesante quanto rozzo martello e avvolse entrambi in una halos. La dandaruna che proruppe dal palmo di Greg saettò in aria e ricadde come una pioggia letale colpendo lo spazio circostante. Come aveva previsto, i goroi rimasti in piedi dopo il suo primo attacco ed i seguenti affondi di Dovan e Deidar, si erano ridotti a zero a seguito del secondo, e non meno devastante, attacco. Dall’alto si levò un coro d’incitamento e approvazione: il Conte di Siranna era adesso libero di concentrare l’attacco sui goroi impegnati contro le unità di Cylaetra e del Conte di Mersilia. Al grido «Gloria per Renodia!» levatosi dalla torre, nei cuori di tutti i difensori sembrò riaccendersi la voglia di vittoria e il sentimento patriottico. Cylaetra, impegnata nello scontro in seconda linea, si voltò verso la torre, fino a poco prima assediata. Quando la vide sgombera e capì la provenienza del grido di riscossa, lo ripeté a sua volta, imitata dal Conte di Mersilia e dagli uomini. I goroi furono falciati dall’impeto rinato nel cuore dei renodiani mentre più di un centinaio di frecce solcarono il cielo con traiettoria parabolica, colpendo nel nerbo gli assalitori. Frattanto il Mynothork non era rimasto imibile a quello spettacolo: i suoi poderosi arti superiori avevano abbattuto altre porzioni di muro, creando così una falla ancora più grande, dalla quale fecero il suo ingresso nuovi ed indemoniati goroi. Dovan scosse la testa: era necessario bloccare la bestia prima che essa producesse danni ancora più gravi alla città. «Andiamo a dare man forte a mia sorella e ai suoi uomini! Sono entrati altri goroi, potrebbero essere in difficoltà!» propose saggiamente Deidar, puntando il dito verso lo schieramento che, dopo i recenti progressi, era stato nuovamente ricacciato indietro dai nuovi invasori. Si affrettarono a raggiungere la seconda fila dei difensori dove incrociarono lo sguardo con Cylaetra. La principessa, tentò, sebbene si trovasse in mezzo allo scontro, di ringraziare caldamente suo fratello, Dovan e Greg per il loro intervento e per l’aiuto che avrebbero dato adesso. Da parte sua Dovan,
affondando di nuovo la spada, cercò di spiegarle che non gli doveva nessun ringraziamento visto che combattevano per una causa comune. Nella calca Greg, impossibilitato nel lanciare incantesimi, cercò lo sguardo di Dovan per capire la mossa successiva. Dovan comprese la richiesta dell’allievo, cercò di fargli intendere quale fosse l’obiettivo seguente ma fu esso stesso a reclamare da solo l’attenzione dovuta, non solo di Greg ma anche di tutti gli altri difensori.
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Mentre dall’alto Lord Astaroth osservava, non con una certa soddisfazione personale per non aver sbagliato la valutazione, le gesta del suo avversario prediletto, Lord Minstrael, meno soddisfatto per la schiera di goroi sconfitta nell’assalto alla torre, aveva perso le staffe e fremeva per chiudere la partita. O meglio, aspettava qualcosa da troppo tempo ormai e farlo attendere troppo a lungo poteva rivelarsi, per chiunque, un’esperienza non troppo piacevole. Quanto doveva rivelarsi drastica la situazione secondo i loro canoni perché si decidessero ad intervenire? Non avrebbe avuto altre occasioni per fare ciò che Lilith gli aveva espressamente richiesto: mancare a quell’ordine poteva rivelarsi rischioso. Sbuffò, incrociando le braccia mentre altri goroi penetravano nella città e dilagavano come un fiume infernale, riconquistando i metri persi dalla riscossa renodiana. Alla fine la sua attesa raggiunse l’esasperazione e Lord Astaroth non poté e non volle fare a meno di accorgersene, deliziato da quella visione. Per quanto Minstrael battesse metaforicamente i piedi, la sua natura lo portava ad evitare necessariamente lo scontro fisico e da lì non poteva fare altro che osservare. Oppure, come si corresse poco dopo, suonare il flauto. Impugnò lo strumento con risolutezza e se lo portò alla bocca mentre le mani avevano già preso posizione. «Che cosa hai in mente di fare?» domandò Lord Astaroth, incuriosito. «Fare arrabbiare qualcuno» disse l’altro, mentre, mantenendo la sua posizione, scendeva lentamente ed intonava una funesta melodia.
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L’aria intorno al Mynothork, come nessuno tra i difensori aveva avuto difficoltà ad osservare, era pervasa da una leggera nebbia verde. Deidar guardò in alto e non gli fu difficile identificare il responsabile di quel nuovo ed imprevisto avvenimento. La voce del Pari si era fatta altisonante, perdendo per qualche istante il suo tono fanciullesco: «Trema Renodia, trema dalle tue fondamenta, crolli l’Albero e si incenerisca la Foresta, si avvelenino le fonti e che la terra non germogli più, che si diffonda la morte in questo luogo poiché, io, Lord Minstrael, ordino al Mynothork di seminarvi un nuovo seme, di morte e di distruzione!» Il mostro, di tutta risposta, elevò al cielo un ruggito spaventoso, rispondendo all’incitamento del Pari. Iniziò la sua carica ed in essa non fece distinzione tra alleati e nemici, proprio come aveva già dato prova nella foresta. Goroi ed umani si scansarono allora dalla sua strada, preferendo rinviare lo scontro diretto, piuttosto che rischiare di perdere la vita, schiacciati dal aggio di quel gigante. I due schieramenti si divisero in altrettante ali e, al centro, tre persone erano rimaste a baluardi della città. Poco prima era stato Dovan a convincere Greg, non molto certo di quella decisione, a mantenere la posizione, e Deidar, non volendo venir meno al suo compito di difensore di Renodia, aveva fatto lo stesso. Dovan gli aveva intimato di schierarsi alle loro spalle poi, rivolto a Greg pronunciò tre parole alle quali il ragazzo non indugiò ad annuire, mettendole poi in pratica. “Come a Selthon” aveva detto il maestro. Poggiò le mani sopra quelle di Dovan mentre il maestro, attingendo alla doppia riserva di potere magico, scatenava una controffensiva devastante contro l’inesorabile avanzata del mostro. Un raggio, luminoso quanto immediato, colpì il Mynothork producendo una forte onda d’urto ed un boato, generato dal contatto. La polvere stentò a tornare a terra, rivelando un Mynothork, ancora in piedi ma orribilmente ferito. Un urlo si levò da un centinaio di metri sopra le loro teste mentre il Mynothork si
accasciava a terra. «NON PUO’ FINIRE COSI’, IO, IL GRANDE LORD MINSTRAEL TI ORDINO DI RIALZARTI!»
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Stentava a credere a cosa era appena successo, lo shock provocatogli dalla vista del Mynothork in pessime condizioni l’aveva terribilmente scosso. Al suo fianco Lord Astaroth non sembrava né perplesso, né dispiaciuto per quell’avvenimento. Così accecato dall’ira aveva urlato nella notte, gelando il sangue di coloro che in basso, avevano interrotto il combattimento. Non poteva accettarlo, niente di simile, in duemila anni di esistenza era successo a lui, uno dei Pari più potenti. Aveva gridato ancora per manifestare apertamente tutta la sua cocente rabbia e poi aveva deciso di ricorrere a tutto il suo potere, di rimettere il Mynothork in piedi. La musica divenne di una potenza senza uguali, la velocità delle sue dita aveva raggiunto l’inverosimile tanto che nessuno, tranne lui che possedeva un orecchio musicale unico in tutto il mondo, avrebbe potuto apprezzarla. Eppure era una musica celestiale, perfetta, pensò Minstrael mentre la eseguiva: c’erano momenti di sublime elevazione spirituale ed altri di cupa depressione abissale, scherzi, picchi di gioia e di tristezza, risate spensierate ed urla disperate. Quel brano aveva in sé il significato stesso dell’esistenza. Ciò di cui Minstrael era stato privato.
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Una cacofonia impressionante invase ogni angolo di Renodia, per poi convergere
in un unico punto, generando un impatto non meno violento di quello precedente: questa volta il boato assunse una proporzione assordante ed enorme fu l’onda d’urto tanto che molti, uomini e goroi, furono sbalzati a qualche metro dalle loro posizioni. Dovan, facendo di nuovo ricorso al potere congiunto con Greg, sollevò una nuova barriera che li protesse fino a quando la polvere non si fu del tutto depositata. Una coltre quasi tangibile di nebbia verde era apparsa davanti ai loro occhi, nascondendogli la vista del risultato. Poi, un nuovo possente grido, di nota provenienza purtroppo per coloro che assistevano attoniti alla scena, emerse, insieme al legittimo proprietario, dalla nebbia. Dovan non si perse d’animo: Greg, unire di nuovo le nostre energie le consumerebbe solo più velocemente: dovremo agire separati». Poi si rivolse a Deidar, ancora alle loro spalle: «Deidar, resta al tuo posto, non esporti, cercheremo di trattenerlo il più possibile». Deidar, stufo di fare da spettatore a quella scena si oppose fermamente: «La ringrazio per la premura, maestro, ma in quanto Generale dell’esercito di Renodia ho il dovere, nonché il diritto, di agire». Dovan fu sul punto di ribattere all’affermazione, ma un’occhiata in tralice rivoltagli da Greg, gli fece morire in gola le parole. Deidar sguainò la spada e si mise in prima linea, affiancato dagli altri due: non avrebbe ceduto finché non fosse riuscito a mettere fuori combattimento quella bestia. Gli artigli del Mynothork dileguarono il velo di nebbia che ancora lo circondava, poi, si scagliò su coloro che poco prima lo avevano ridotto in fin di vita: non possedeva un’intelligenza che potesse realmente essere definita tale ma l’istinto animalesco, in tal caso, era più che sufficiente. Quattro palle di fuoco lo colpirono al busto dove ancora recava i segni del precedente e devastante impatto, ma la bestia sembrò non accorgersene e anzi il suo impeto aumentò visibilmente, come se quei colpi avessero incentivato la sua brama di vendetta. Il mago ed il suo allievo si dimostrarono instancabili: alle prime quattro ne seguirono numerose altre nelle decine di metri e nei pochi istanti che li separavano dal contatto diretto. Poi inevitabilmente, il Mynothork, abbatté la sua furia: uno dei suoi enormi pugni scavò un buco dove fino a poco prima era
posizionato Greg mentre l’altra mano aveva colpito di striscio Dovan, scagliandolo in aria come se pesasse pochi grammi. Greg vide il suo maestro assumere una posizione verticale mentre, probabilmente evocando gli spiriti del vento, planava dolcemente al suolo. Pochi secondi dopo e un nuovo pugno, più preciso del precedente, si abbatté su di lui: la sua distrazione per osservare il maestro Dovan stava quasi per essergli fatale quando, con suo stupore, quel pugno non lo colpì. Era un colpo di fortuna troppo grosso per essere avvenuto casualmente: quel pugno l’avrebbe sicuramente colpito. Davanti a lui, un figura alta e con un mantello camaleontico sul quale troneggiava un mirabile ventaglio, aveva appena bloccato l’attacco con la sola opposizione della mano. «Lui è mio» disse con un sibilo il suo inatteso salvatore.
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Deidar era rotolato sotto il Mynothork nello stesso istante in cui Dovan era stato sbalzato in aria. Approfittando dell’abbondante e foltissima peluria che scendeva quasi fino a terra, si era arrampicato lungo la sua schiena, cercando di non prestare troppa attenzione all’odore nauseabondo che trasudava da ogni centimetro di pelle della bestia. La sua salita era proseguita con non poca difficoltà, soprattutto quando il Mynothork aveva deciso di attaccare Greg. Per pura fortuna era riuscito a mantenere saldamente la presa e, negli istanti di immobilità che seguirono, senza che egli conoscesse o meno l’esito del colpo, riuscì a salire fino all’altezza del collo tozzo. Sotto di lui due figure si trovavano sotto il pugno non andato a segno: una di esse era Greg e fu lieto di vedere che il compagno era vivo. Quando riconobbe la seconda tremò: Lord Astaroth era sceso in campo. Non poteva indugiare oltre: levò la spada e colpì la bestia al collo con un poderoso colpo. La spada affondò un poco nella pelle spessa ma non provocò una ferita letale. Il Mynothork, finalmente accortosi della presenza di un intruso sul suo corpo, lo afferrò fulmineamente con il grosso arto e lo alzò davanti a sé. La sensazione di essere stritolato non poteva definirsi piacevole, pensò Deidar mentre il mostro serrava il pugno con sempre maggior forza. Per sua fortuna la corazza di ilmerite aveva la peculiarità di rendere il corpo più morbido e di attutire gli urti particolarmente violenti. Sfidava che i fabbri reali l’avessero testata per resistere alla presa di un Mynothork, però.
Sentiva la capienza polmonare farsi sempre più ridotta: entro breve le sue forze sarebbero cedute, avrebbe perso i sensi e sarebbe morto. L’accademia militare insegnava a lasciare da parte le previsioni ottimistiche. Guardò di nuovo in basso: non era l’unico a vedersela davvero brutta in quel momento.
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Il paio di occhi vitrei che ultimamente aveva spesso incrociato, in occasioni non molto felici, lo osservavano adesso, curiosi. Lord Astaroth, dopo aver interrotto l’attacco del Mynothork, era più volte girato attorno a Greg, pensieroso, talvolta scuotendo la testa. Greg non sapeva cosa avrebbe dovuto fare: era così sorpreso per quell’improvvisa interruzione che a stento realizzava che colui che l’aveva salvato fosse uno dei suoi nemici più tremendi. «Più ti osservo, ragazzo, meno riesco a capire cosa riesca a darti tutta la potenza di cui disponi. È raro, per uno della mia razza, complimentarsi con un essere umano per la sua incredibile abilità. A pensarci bene non credo vi siano precedenti». Greg non rispose, deglutì appena, temendo per le conclusioni che avrebbe potuto trarre il demone. Di una cosa era certo: se avesse scoperto qualcosa sarebbe stata la fine di tutto il piano. Lord Astaroth non fece caso al silenzio del ragazzo e proseguì con il suo ragionamento. «Tanta forza in un semplice essere umano. Se fossi nato nella gloria della mia razza avresti fatto strada. Ma dimmi, forse discendi da una famiglia di maghi?Forse che una qualche benedizione ti guida?» Greg scosse la testa. Il demone socchiuse gli occhi poi fece un’espressione difficilmente identificabile, forse incredulità o dubbio. «Una dote naturale, allora? Sarei onorato di confrontarmi di nuovo con essa. Vuoi assecondare la richiesta di un leale nemico?»
Greg non era sicuro che il demone volesse davvero conoscere la risposta, probabilmente la sua era stata solo una domanda retorica. Il Pari sganciò la fibbia che univa le due parti del mantello ed esso, levatosi in alto benché il vento si fosse placato, si arrotolò su se stesso e sparì. «Suppongo sia giunto il momento di cominciare» disse poi, esibendosi in un inchino e sguainando la lama nera dal fodero. Greg cercò in sé la concentrazione necessaria: non avrebbe dovuto usare il potere che custodiva ma ora si rendeva conto che tale azione era al momento impossibile poiché, nell’unica occasione in cui ne aveva fatto, uso aveva perso conoscenza. Serrò i pugni, pronto allo scontro ed ebbe un’illuminazione: era ormai giunto alla consapevolezza di padroneggiare gli incantesimi del terzo anello della catena di ognuno degli elementi magici e, con un po’ di fortuna, si sarebbe potuto appellare agli spiriti che presiedevano ai livelli superiori. Era un’idea azzardata, lo riconosceva, ma era l’unico modo che aveva per cercare di reggere il confronto con il demone. La stessa fortuna l’aveva avuta, faticando all’inizio, con gli incantesimi del terzo anello: in una situazione del genere non tentare un’invocazione di livello ancora superiore sarebbe stato da sciocchi. Chiamò a sé tutta la propria energia e nella sua mente evocò l’immagine spirituale dell’oceano, la fonte degli spiriti della catena dell’acqua, pregando che gli spiriti di quarto livello potessero essergli d’aiuto. Il suo corpo fu pervaso da un tremore sconosciuto e del quale riusciva a percepire chiaramente gli influssi positivi. Fu come se il potere delle acque fosse concentrato nelle sue mani: due possenti getti d’acqua che, se non aveva avuto le allucinazioni, avevano assunto la forma di serpenti marini si erano abbattuti su Astaroth, immobilizzandolo. Il ragazzo si sentì mancare il respiro: era stata una mossa troppo azzardata e percepiva con drammatica certezza la sua energia scendere ai livelli minimi di sopravvivenza. Cadde in ginocchio mentre a qualche metro da lui Lord Astaroth lottava furiosamente per liberarsi da quei due assalitori elementali. Il potere del demone cresceva, quello di Greg lo stava abbandonando: poggiò le mani a terra mentre gocce di sudore gli imperlavano numerose il volto ed il respiro non accennava a tornare alla normalità. Lord Astaroth si liberò con uno schianto, prodotto dalla rottura dei legami magici che avevano dato forma alle due creature d’acqua. Il demone avanzò a o spedito verso Greg: «Bel trucchetto ragazzo mio, ma
adesso smetti di fingere e fammi vedere di nuovo quello di cui sei stato capace!» Nella mano ossuta si materializzò un globo di energia oscura, molto simile ad una mejrama, pronto per essere esploso in direzione di Greg che solo adesso si chiedeva dove si fosse cacciato Dovan.
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La situazione era critica, incredibilmente critica, si disse Dovan mentre, nascosto, aveva osservato la situazione. Come Lord Minstrael aveva atteso, invano, un segno ma esso non era giunto. Sperò che Greg fosse riuscito quantomeno a tenere a bada Lord Astaroth il tempo necessario perché la situazione potesse volgere di nuovo a loro favore. Era rischioso, non aveva mancato di ripeterselo ogni istante ma evidentemente, per quanto grande fosse il potere di Greg, senza sfruttare il segreto che celava non avrebbe mai potuto sconfiggere il Pari. Il suo attuale potenziale, benché notevole, non era sufficiente per tenere a bada chiunque fosse compreso in quella cerchia ristretta di nove, terribili, entità malvagie. Deidar stesso, nelle grinfie del Mynothork avrebbe potuto fare ben poco. Si corresse: la situazione non poteva essere peggiore di quella. Si mosse nell’ombra, a differenza del suo allievo, aveva imparato a sfruttare l’effetto sorpresa. Nascosto dall’incanto camaleo si era avvicinato a Greg e adesso, mentre Astaroth avanzava, stava preparando la sua mossa: proprio nell’istante in cui il demone ebbe scagliato la sua ardente risposta, dal nulla che nascondeva la sua mano esplosero le miriadi di scintille del demonretro. Le due mosse si annullarono a vicenda mentre, poco più in alto, un grido di estremo dolore, stava per scatenare l’intervento ormai insperato.
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Era morto, doveva esserlo per forza, ne era più che certo. Il suo cuore aveva progressivamente rallentato il battito mentre sempre una minor quantità di ossigeno riforniva i suoi polmoni. Lo spirito di Deidar stava abbandonando le
sue spoglie mortali. Ma non stava morendo. Il suo corpo fu percorso da fremiti che turbarono non poco la stupidità del Mynothork. Il bestione, che fino a quel momento aveva sfogato il suo sadico gusto nel veder soffrire lentamente la sua vittima prima che esalasse l’ultimo respiro, si era fermato, allentando la presa. Contrariamente a quanto sarebbe dovuto accadere, Deidar non cadde ma addirittura si levò in aria. Raggiunta una considerevole altezza il suo corpo fu attraversato da un bagliore che, squarciando le nubi, riportò la luce nella lunga notte di Renodia. Dal bianco candido della luce, un suono, limpido e gioioso, risuonò per diverse centinaia di metri. Migliaia di teste, anche quelle dei renodiani sulle navi ancorate fuori dai Porti di Smeraldo, si levarono per osservare l’apparizione celeste. E alla fine ciò che ancora era rimasto celato nella luce abbacinante apparve, nel suo fulgido splendore, segno della sua purezza e del grande potere che egli custodiva fin dall’inizio dei tempi. Espereador, il Signore dell’Est nitrì focoso, ergendosi sulle poderose zampe posteriori. Issò su di se il giovane principe che, fino a poco prima moribondo, stava ora riacquisendo i sensi, consapevole della miracolosa apparizione da lui scatenata. Il lungo corno assunse un colore incandescente e il cavallo ruotò più volte il magnifico muso e bianche fiamme lambirono la città. Nel medesimo istante quelle lingue di fuoco purificatrici raggiunsero anche la foresta, sormontando e spegnendo, in uno scontro impari, quelle dolose, appiccate dai goroi nel loro malvagio aggio. Proprio essi furono le prime vittime dell’ira dello Spirito, dissolti dal potere delle fiamme. Di loro rimase solo qualche scudo e dei rozzi martelli. I due Pari, che da duemila anni si cullavano nell’assoluta certezza dell’invincibilità dei loro poteri, tremarono.
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Dovan comparve accanto a Greg mentre l’incanto camaleo perdeva i suoi effetti. Davanti a loro Lord Astaroth, dopo un primo momento di rabbia, si era risolto ad osservare il cielo come tutti gli altri, abbandonando il proposito di attaccare maestro e allievo. Un ruggito di dolore percorse Renodia mentre le fiamme si accanivano contro il Mynothork che di dissolveva pezzo per pezzo: tentò più volte di afferrare, di scacciare la sagoma del grande cavallo ma la sua fu una mossa vana. Le braccia caddero e si dissolsero quando toccarono terra, seguite poi dal resto del corpo. Grida di trionfo si sollevarono dai difensori nascosti tra le rovine lasciate dallo scontro per la morte del nemico tanto temuto. Espereador balzò a terra, proprio accanto a Dovan che, con forza, aveva sollevato Greg da terra per proteggerlo da possibili imprevisti: aveva imparato che non c’era mai da stare tranquilli, non da quando aveva conosciuto il suo allievo. Ne scorse il volto addormentato, finalmente calmo e rilassato dopo tante ore di sforzi. Il destriero depose docilmente Deidar a terra vicino a Dovan, il quale rivolse all’animale un maestoso inchino. Non era ancora finita, non per i Pari almeno: Espereador scalpitò furente abbassando la testa in direzione di Lord Astaroth. Il destriero celeste caricò il demone, che, con grande sforzo, aveva tentato di opporre al corno dell’animale la sua spada di ossidiana. Lord Astaroth fece appello a tutto il suo potere ma a niente valse: la spada andò in frantumi ed egli fu sbalzato a diversi metri dal suolo. Quando ricadde riuscì a mala pena a tenersi in piedi, in mano ancora l’elsa della spada infranta. Ma se c’era una qualità che contraddistingueva Lord Astaroth nel confronto con altri Pari, oltre che la lealtà e il coraggio, era l’ostinazione. Le sue braccia ossute e le sue mani furono percorse da scariche nere che lo avvolsero completamente per andare a formare un incredibile globo di energia oscura. «Lord Astaroth ritirati, lascia fare a me!» ordinò una voce fanciullesca dall’alto. Lord Minstrael completò la sua discesa e si parò di fronte al suo Pari. L’altro fu non poco contrariato da quell’intromissione, di certo non con scopi altruisti: il pericolo era urgente e quanto mai terribile, la distrazione poteva essere fatale. Era già piuttosto azzardato che egli avesse tentato di opporsi allo Spirito dell’Est, forse Minstrael credeva che un contrattacco congiunto avrebbe potuto
scongiurare una nuova carica ma il destriero non indugiò e scalpitò, ancora più furioso. Si chiese se non avesse deciso di scendere in campo per l’antico legame che, millenni prima, lo aveva legato anche a quello spirito, se, anche per lui, la battaglia fosse diventata adesso una questione personale. Il demone grugnì mentre l’altro gli intimò, con un grido feroce che poco lasciava spazio a diversa interpretazione, di togliersi di mezzo. Disdegnando l’altruismo e furioso per la fine repentina dello scontro con il suo avversario preferito, Lord Astaroth levitò lontano, alto nel cielo, da dove avrebbe potuto comunque seguire le mosse del suo Pari. Lord Minstrael aveva colto al volo l’occasione che tanto aveva atteso e per la quale era stato inviato in quella terra che gli aveva procurato solo dolore e disperazione: mentre osservava il bianco destriero sentì ribollire il sangue dentro di sé e i battiti del suo cuore accelerare fino all’inverosimile. Da secoli attendeva con impazienza quello scontro e né Lord Astaroth né nessun altro essere vivente, si sarebbe frapposto tra lui e lo spirito. Prese posizione, piantandosi saldamente a terra, ed afferrò il flauto mentre, sotto la maschera, i suoi occhi si coloravano di rosso sangue. Dall’altra parte il ronzino celeste nitrì in tutto il suo candido splendore, come per avvertire il nemico della sua venuta. Mentre Espereador galoppava a testa bassa preparando il suo corno a trafiggere il Pari, egli, dopo aver portato il flauto alle labbra, era rimasto in perfetta immobilità. Lord Astaroth, dall’alto, imitato inconsapevolmente da Dovan, socchiuse gli occhi per osservare meglio ciò che stava per verificarsi: mentre ormai la carica dello spirito era inarrestabile, qualcosa fuoriuscì dal flauto di Lord Minstrael. Non riconducibile a nessuna delle altre melodie che Dovan avesse mai ascoltato, Lord Astaroth la riconobbe piuttosto bene: il suo Pari aveva invocato il Servo del Flauto. Per quanto non riuscisse a tollerarlo, Lord Minstrael non era un inetto e sapeva che tutto ciò che faceva era stata delineato e studiato accuratamente. Fin troppo accuratamente. Il Pari aveva deliberatamente provocato l’apparizione di Espereador. Iniziava a comprendere perché fosse stato affiancato da lui in quella missione, questi erano i piani del Baiamondo per Renodia: non si trattava di
dargli semplicemente una lezione, come gli aveva fatto intendere Lilith, si trattava della battaglia decisiva per mettere fine al Regno Silvestre. Non ne era stato messo a conoscenza, era vero, e non ne comprendeva il motivo. Rimuginò su quel fatto qualche istante poi il suo interesse tornò a ciò che stava avvenendo sotto di lui. Il Servo del Flauto, però, per quanto nessuno conoscesse appieno le sue facoltà, non avrebbe mai potuto competere con lo Spirito dell’Est. Con sorpresa del demone esso non assunse il suo consueto aspetto di uccello rapace ma divenne una nebbia sottile che, senza alcun problema, fu oltreata dalla cavalcata dello spirito. Minstrael dal canto suo sorrise mentre solo pochi metri lo dividevano ormai dal corno del destriero: nessuno conosceva, nemmeno il divino Espereador, come aveva appena potuto constatare, il potere celato nel suo flauto. Il sorriso divenne un ghigno spaventoso quando il piano che aveva attuato divenne palese a tutti: il cavallo era stato bloccato da quella che era apparsa come un’insignificante nebbia verde e, per quanto scalciasse furioso e dimenasse il corno con il movimento frenetico del muso, non otteneva alcun risultato. Il suo nemico era lì davanti ed era riuscito ad imprigionarlo. Lord Minstrael si avvicinò al muso dello spirito, lo fissò negli occhi profondi e splendenti del potere divino del quale era stato investito: lo odiava ardentemente, ma in lui vi era anche uno strisciante e crescente terrore per essere caduto in quella trappola sconosciuta. Rise crudele e beffardo il demone mentre dentro di sé avvampava per la gloria imperitura che avrebbe tratto dalla sconfitta di quell’essere. Lui, l’Esperide rinnegato, che non aveva mai perdonato al suo antico popolo e, di riflesso, al loro Spirito tutelare, la cieca crudeltà mostrata nei suoi confronti, finalmente stava avendo la sua vendetta. Non riuscì a smettere di ridere mentre negli orecchi sentiva ribollirgli il sangue: non attese oltre ed impugnò di nuovo il flauto. Avrebbe voluto sbeffeggiare più a lungo la sua preda, farla assistere alla distruzione completa dei suoi protetti ma la gloria del successo, così a portata di mano, lo spronò ad agire immediatamente. Nessun suono si levò dal flauto quando Lord Minstrael chiuse con le dita tutti i fori incisi su di esso. Ed il suo intento si avviò verso la conclusione: con l’azione contraria, il flauto richiamò a sé il suo Servo e con esso lo Spirito dell’Est. Il cavallo nitrì furioso come se si fosse trovato in mezzo alle fiamme. Dovan assistette incredulo e impotente a quella scena: contrariamente a quanto aveva auspicato, neanche il guardiano dell’est aveva potuto nulla contro il potere
dei Pari ed anzi, il suo intervento e la sua cattura sarebbe stato un danno per l’intero mondo. Anche se i renodiani fossero sopravvissuti, la loro terra e le loro stesse esistenze sarebbero state condannate per l’eternità. Mosse qualche o avanti: la situazione era troppo disperata per non tentare di fare qualcosa mentre il cavallo veniva inesorabilmente aspirato dal potere del flauto di Minstrael. La sua gamba destra fu inaspettatamente bloccata. Tento più volte di proseguire ma la presa esercitata da ciò che, se non si ingannava, doveva essere una mano, non lo lasciava proseguire. Dovan guardò a terra per indagare la causa di quell’impedimento: Deidar, riverso a terra, doveva aver assistito a quella scena ed ora stava implorando Dovan di aiutarlo ad alzarsi. Lo afferrò con entrambe le braccia e l’altro, seppure con evidente difficoltà, riuscì a rimettersi in piedi. Nella fievole luce che lentamente stava illuminando Renodia, il volto di Deidar apparve contorto in una smorfia di dolore. Stava soffrendo indicibilmente per l’imprigionamento dello Spirito, al quale era chiaramente ed indissolubilmente destinato a legarsi. Il cavallo, quasi completamente assorbito dal flauto, nitrì di nuovo, squarciando la luce lattiginosa dell’albeggiare. E il vero miracolo avvenne.
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Tutto era avvenuto in una manciata di secondi: Deidar aveva abbandonato il o di Dovan e, con l’energia che solo la disperazione e il coraggio potevano fornirgli, aveva sguainato la spada e si era lanciato all’assalto di Lord Minstrael. Il suo grido si era unito al nitrito di Espereador e di esso sembrava aver assunto il baluginante candore mentre, con un balzo, si abbatteva come un dardo sul nemico. Colto alla sprovvista, il Pari fece cadere a terra il suo flauto, interrompendo l’incantesimo mentre la spada del principe colpiva il simile rinnegato. La maschera di Oricalco di Minstrael si divise in due parti, abbandonando il suo proprietario, lasciando che dopo tempo immemorabile, il mondo rivedesse il suo volto disgraziato.
Il demone urlò dalla disperazione, forse più per la perdita dello scudo che lo proteggeva dagli sguardi infidi del resto del mondo che per aver fallito il suo intento mentre Espereador, liberatosi dall’impaccio della nebbia, brillò in tutto il suo splendore accompagnando il levarsi del sole e dallo squarciarsi delle nubi che avevano appesantito il cielo e i cuori dei difensori. Lord Minstrael fu colpito dalla furia dello Spirito, desideroso di far pagare a caro prezzo al demone il tentativo di imprigionarlo. Fu sbalzato a parecchie decine di metri d’altezza, privo di sensi: il suo corpo inerte e spoglio della maschera fu intercettato da Lord Astaroth, provvidenzialmente comparso per recuperare il suo Pari. Il demone ossuto fissò dritto negli occhi Dovan, poi, dall’alto, parlò: «Riferisci questo messaggio al tuo allievo quando si sveglierà. “Desidero affrontarti di nuovo ma la prossima volta né il cielo né altri dovranno intromettersi nel nostro scontro. Continua ad allenarti perché quando ci rincontreremo non indugerò più”» detto ciò si inchinò e, tracciando complicati simboli nell’aria, si dissolse. Contemporaneamente il flauto e la maschera spezzata, lasciati a terra, seguirono il loro padrone. Da tutta Renodia e, pochi istanti dopo anche dalle navi dei fuggiaschi, si levarono grida di giubilo mentre Deidar, in sella ad Espereador proclamava trionfante la vittoria sull’esercito demoniaco. Spirito e Paladino scesero a terra e furono accerchiati dai difensori sopravvissuti in manifestazioni di gioia. Il cavallo nitrì numerose volte, e si fece di nuovo silenzio. Gli occhi di Espereador incrociarono quelli di Deidar: il Paladino si inchinò rispettosamente davanti alla sacra creatura e tutti i difensori lo imitarono prontamente. Poi lo Spirito, mentre dall’alto una luce più potente e sfavillante del sole li avvolse, parlò con la sua voce celestiale, entrando nel cuore di tutti gli uomini. Lacrime sgorgarono dai volti di coloro che assistettero alla scena mentre, chi poté solo udire, raccontò di essersi sentito pervaso da una pace infinita: «All’alto del cielo è giunta la vostra preghiera sincera ed è stata accolta. Il mio
compito qui è concluso. Renodia e voi, miei protetti, siete salvi. La luce ed i suoi difensori hanno prevalso sulle ombre dell’oscuro Tiranno, ma tempi duri aspettano questo triste mondo. Solo la prima di innumerevoli prove è stata superata stanotte. In questa lunga notte, il prescelto, l’erede del potere di guardiano, è stato scelto: Deidar di Renodia». Espereador fece col muso cenno al principe di alzarsi. Il giovane si avvicinò al fedele protettore della sua gente e ne sfiorò il manto, poi si inchinò alle nuove parole dello spirito. «Che la benedizione mia e degli altri Spiriti ti possa accompagnare fino alla fine del tuo compito. Buona fortuna» disse il cavallo mentre si esibiva in un inchino rivolto a tutti i presenti. La luce lo avvolse di nuovo: si levò sulle zampe posteriori e galoppò verso la luce mentre dal suolo e dal campo di battaglia centinaia di fiammelle eteree si levarono simultaneamente, seguendo la stessa traiettoria. Le anime di coloro che, coraggiosamente, avevano sacrificato la vita per l’amata patria, stavano ora seguendo il celeste protettore nel luogo del loro eterno riposo, tra le praterie sconfinate del Cielo.
Capitolo XIV
Oltre l'Orizzonte
L’intera Renodia avrebbe voluto festeggiare coloro che, con grande coraggio, avevano trionfato sul nemico, capovolgendo una situazione disperata. Tale manifestazione di gratitudine da parte della popolazione avrebbe dovuto attendere qualche giorno: dopo quella notte terribile molti dei difensori erano sotto le portentose cure dei farmacisti esperidi inclusi Dovan, Greg e Deidar, fino alla fine protagonisti dello scontro. Il maestro era stato costretto con la forza a restare a letto benché volesse riferire immediatamente al re e alla regina: l’astuzia del mago non aveva potuto nulla contro le cure attente, e gli occhi ancor più, dei farmacisti che gli consentirono di alzarsi dal letto solo dopo un’intera giornata di riposo, durante la quale fu visitato dagli altri ragazzi, per fortuna rimasti lontani dai fronti più caldi e perciò in buone condizioni. Vollero conoscere tutti i particolari dello scontro e gli fecero ripetere anche per tre volte alcuni aggi, soprattutto quelli in cui Greg si confrontava con Lord Astaroth o quando Deidar aveva invocato lo Spirito dell’Est. Dovan assecondò con pazienza i desideri dei suoi amici, compreso quello di offrire a Andrew i biscotti che gli avevano portato, poco prima della loro venuta, sotto sua richiesta, fino a quando, mentre stava raccontando la scena di Lord Minstrael caricato dal corno di Espereador, un intransigente farmacista, giunto per somministrare le ultime cure al maestro, fece uscire, senza tanti complimenti, i tre dalla stanza, sordo alle richieste insistenti di Andrew che voleva finire di ascoltare il racconto, ma, soprattutto, i biscotti. Era sera quando Dovan fu libero di lasciare il letto e di riappropriarsi dei suoi vestiti: indugiò davanti alla finestra nel contemplare l’imbrunire ed il silenzio che aleggiavano sulla città e sulla foresta. La piacevole e fresca brezza che
preannunciava l’arrivo della notte ebbe l’effetto di farlo sorridere, facendo sì che la sua mente, finalmente anch’essa a riposo come da tanto tempo non accadeva, potesse godere dei piccoli piaceri della vita. Piaceri che, dopo il terribile scontro della notte precedente, non era certo di poter gustare ancora. Masir era già alto nel cielo mentre Kalef, alla sua sinistra, si attardava a seguirlo: la notte si preannunciava chiara e da est si era levata una brezza dolce come la rugiada notturna. Dovan, desideroso di trascorrere del tempo in meditazione, si diresse verso il giardino del chiostro interno delle Case di Farmacia. Sopra la sua testa la volta celeste risplendeva in tutto il suo splendore. Dovan ebbe una stretta al cuore: da anni non si fermava più ad osservare il cielo, forse anche perché le luci di Selthon contribuivano a renderlo meno splendente. Se fosse morto nello scontro, gli venne da pensare, di nuovo la sua mente lo portava ad assaporare le piccole perle dispensate dalla natura, non avrebbe mai osservato un simile spettacolo. Il giardino, illuminato tenuemente dalle luci lunari, aveva assunto gradazioni e sfumature incantevoli: lo stesso era avvenuto per le statue che lo adornavano e per tutto ciò che lo circondava. L’atmosfera era incantata ma a Dovan mancava ancora qualcosa. L’aveva capito solo il giorno prima benché non l’avesse mai vista di persona ma ciò che era avvenuto durante la battaglia era stata la conferma. Una voce, alle sue spalle, proveniente dall’oscurità di un arco della struttura del chiostro, lo chiamò. Dovan socchiuse gli occhi e dall’oscurità qualcuno, con una voce poco più potente di un sussurro, ripeté “maestro”. Dovan non poté fare a meno di avvicinarsi, lo stesso fece ciò che si nascondeva dietro la colonna. Un cappuccio, che per alcuni istanti aveva coperto il volto dell’altra figura, scivolò, lasciando che il suo volto, come già era accaduto per il giardino, fosse rischiarato dalle luci lunari.
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Non era stato difficile per lei sgattaiolare, in punta di piedi, fuori dalla stanza che le era stata riservata alle Case di Farmacia per respirare liberamente la brezza notturna. Fra quelle quattro mura e continuamente assillata dalle cure mediche non era ancora riuscita a star sola con sé stessa e pensare. Anche quando dormiva o fingeva di dormire per sperare che fosse lasciata in pace, almeno per qualche ora, entrava continuamente qualcuno per registrare che il suo stato di salute fosse in miglioramento. Aveva cercato di protestare ma i farmacisti, esibendosi in svolazzanti inchini per onorare la maestà della principessa, mantenevano una fermezza e una disciplina degne di un reparto di fanteria specializzato. Ma di notte era per lei tutto più semplice: i suoi occhi, affinati da anni trascorsi a addentrarsi di nascosto, in compagnia della sorella e del fratello, nella Foresta, non erano stati inutili. Aveva percorso i corridoi deserti, la cui quiete era rotta solo dal aggio di qualche raro farmacista che faceva il turno la notte e che, silenziosamente, vegliava sui propri pazienti. Raggiunse il chiostro e si sedette su un muretto che incorniciava il giardino interno e finalmente iniziò a riflettere: era cresciuta amata e coccolata dai propri genitori, attorniata da persone premurose, dalla sua inseparabile sorella gemella Cylaetra e dal fratello minore, Deidar. Malgrado avesse trascorso una giovinezza felice e spensierata non aveva mai rivolto le sue attenzioni verso un uomo. I renodiani, con i quali spesso condivideva azioni di pattuglia e di controllo nel regno, non l’avevano mai attratta benché molti di loro, Esperidi o umani, fossero, secondo il senso comune, affascinanti. Cercava qualcosa di diverso, forse più un’idea che un tipo umano in carne ed ossa. In verità tale uomo, almeno nei suoi sogni esisteva e, talvolta, i suoi genitori gliene avevano parlato, raccontando a lei e ai suoi fratelli alcune delle sue gesta. Quando, dopo anni, l’aveva finalmente incontrato, aveva fatto fatica a dominare i suoi sentimenti, aiutata, in tal senso, dalla grave situazione in cui si trovava il regno. Sbuffò, rattristata: un amore, per quanto segreto e celato fosse, non poteva nascere in periodo peggiore dove l’unica certezza stava, paradossalmente, nell’incertezza di ciò che il giorno dopo sarebbe potuto accadere. Una ciocca ribelle le era scesa sul volto. Mentre la riaggiustava un rumore di i, non felpati e misurati come i suoi, di certo non abituati alle eggiate notturne, la raggiunse. Tempestivamente, si rannicchiò dietro una colonna del porticato e si calò sul
volto il cappuccio del lungo mantello che aveva preso in prestito da un vecchio armadio nella sua stanza. Se fosse stato un farmacista sarebbero stati guai per lei: incrociò le dita, sperando che fosse troppo esausto per notare un mantello scuro nell’ombra. Ma, stranamente, la figura, coperta dall’ombra proiettata dal portico, si era seduta sul muretto, contemplando qualcosa di non ben specificato. Con leggerezza, si spostò ed il suo nascondiglio divenne la colonna dell’arco accanto al quale si era seduto il personaggio del quale non era riuscita a riconoscere il volto. Quando, vicinissima, vide un profilo nobile ed un paio di occhi chiari che, sognanti, contemplavano l’oscurità, riconobbe l’oggetto di tutti i pensieri che nelle ultime ore l’avevano continuamente assillata. Non aveva resistito e, malgrado l’emozione, l’aveva chiamato una volta. Le sue parole non dovevano essere risultate particolarmente chiare ed il maestro, dopo essersi voltato un paio di volte, era tornato a perdersi nei propri pensieri. La seconda volta, raccolto un po’ di coraggio in più per affrontare la situazione, in confronto alla quale fronteggiare una schiera di goroi inferociti poteva dirsi un gradevole atempo, lo chiamò a voce più alta. Si alzò e le venne incontro, probabilmente non l’aveva riconosciuta: Mylaetra fu quasi sul punto di sparire nel buio del chiostro ma poi si avvicinarono l’una all’altro al punto che qualsiasi tentativo di ritirata sarebbe stato impossibile, non senza farsi scoprire, almeno. I loro occhi si incrociarono ed il cappuccio le si sfilò, rivelando a Dovan la sua identità.
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Dovan sentì un tuffo al cuore: la principessa Mylaetra, colei che, in fin di vita, aveva riportato tra le mura di Renodia, splendeva in tutta la sua bellezza davanti a lui. Avrebbe voluto dirle ciò che provava per lei ma che non avrebbe mai concesso a se stesso quell’amore, troppo terrorizzato dall’idea che a causa della guerra avrebbe potuto perdere l’amata. Già una volta il rischio era stato quasi tangibile ma era giunto sul posto appena in tempo. Ma lui non avrebbe potuto proteggerla la volta successiva perché il suo posto, fino a missione conclusa, era accanto a Greg.
Continuarono a fissarsi senza riuscire ad iniziare un discorso che, quantomeno, andasse più in là di informarsi l’uno sulle condizioni dell’altra: l’imbarazzo si era impadronito di entrambi. Mylaetra sorrise e poi la sua risata argentina risuonò nel chiostro. Dovan, sollevato dall’opportunità di spezzare il silenzio, rise a sua volta, poi, un rumore imprevisto, costrinse entrambi a tacere. Dopo che si furono assicurati che il frastuono non fosse stato causato da un farmacista, fu Dovan a tentare di iniziare un discorso: Mylaetra lo interruppe, poggiandogli un dito sulle labbra. Avevano capito l’uno i pensieri dell’altro ed entrambi erano abbastanza grandi da conoscere la gravità della situazione. La ragazza sorrise e scosse la testa: non c’era motivo di parlare, le parole avrebbero complicato tutto, facendo soffrire entrambi. Dovan annuì, greve: far fede a quel silenzio sarebbe stato difficile ma non poteva essere in altro modo. In quel momento non esisteva nessun pericolo incombente sul mondo, né guerra, né demoni: solo un uomo e una giovane Esperide che, dimenticato persino i loro rispettivi titoli, avevano dichiarato col silenzio l’uno all’altro il proprio amore, suggellandolo poi con un bacio.
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Greg si era ripreso solo il giorno dopo il termine della battaglia. Nel momento del suo risveglio era solo e ciò non gli dispiaceva molto. In fondo, essere tempestato di domande non gli era mai piaciuto, anche se a fargliele erano i suoi amici. Doveva essersi fatto giorno da poco e qualcuno si era appena allontanato dalla sua stanza, probabilmente doveva trattarsi di un medico o qualcosa del genere. Si mise a sedere e ò in rassegna il proprio corpo: tranne un gran senso di stanchezza che gli pervadeva le membra e qualche ammaccatura, stava bene. Chiuse gli occhi e premette le mani sul volto: doveva aver dormito per diverso tempo e avvertiva fitte allo stomaco con sempre maggior frequenza. Ripensò agli ultimi avvenimenti della battaglia: il suo incantesimo del quarto anello aveva impegnato Lord Astaroth per qualche secondo ma non era riuscito ad infliggergli alcun danno. Serrò i pugni con forza: senza il potere che nascondeva e che non
poteva utilizzare, non era niente in confronto ad uno dei Pari. Doveva assolutamente aumentare il suo potere a qualunque costo. Di pessimo umore, decise di riprendere gli allenamenti da subito: tese davanti a sé la mano destra. Una fasciatura la ricopriva ma non si prese il disturbo di toglierla: una mejrama si materializzò nel palmo ed arse completamente la benda, dissolvendola nel nulla. Concentrò il suo pensiero ed essa si accrebbe, colorandosi di rosso rubino. La giudicò abbastanza buona ma di certo non era ancora abbastanza per fronteggiare adeguatamente i Pari. Si ripromise di chiedere a Dovan nuove lezioni e lasciò che la palla di fuoco, enorme e splendente, si consumasse poco a poco. Mentre l’ultima fiammella si spegneva affievolendosi nel palmo, accorsero nella sua stanza due inservienti piuttosto allarmati: le bende bruciate dovevano aver fatto credere a qualcuno che un incendio fosse scoppiato all’interno delle Case di Farmacia. Considerando la scarsa inclinazione dei renodiani al fuoco, dato il terribile rogo che aveva quasi distrutto la loro Foresta, non si stupì di vedere i loro volti piuttosto sconvolti. Greg sorrise ed allargò le braccia, colpevole di quello spavento. Sui volti dei Farmacisti comparvero espressioni di disappunto, poi uno di loro si voltò verso il corridoio e fece cenno a qualcuno di entrare. Un drappello di persone, composto da Dovan in testa e dai suoi amici più Deidar in coda, comparve nella stanza. Tutti gli rivolsero un caloroso abbraccio, tranne Mark che aveva preferito una sonora pacca sulla schiena. Lisa l’aveva guardato torvo, e Greg si era limitato a ridere. Dopotutto non poteva pretendere troppa gentilezza dal suo storico rivale, soprattutto dopo che, nella foresta, Mark gli aveva dato dello sciocco per aver rifiutato i sentimenti di Lisa. «Cos’è, avevi già ripreso ad allenarti?» gli chiese Dovan con un sorriso, sicuro di aver indovinato il motivo per cui i due Farmacisti fossero accorsi precipitosamente nella sua camera. Greg annuì: «Il confronto è stato più duro di ciò che avrei mai pensato. Credo che dovrò sottopormi ad un allenamento più intensivo di quello a cui mi dedicavo sulla Darlidan», disse serio. Dovan annuì a sua volta, lieto che il suo allievo avesse maturato quel proposito concreto: «Sarà per me un piacere esseri d’aiuto». Greg gli sorrise riconoscente,
ogni avversità era scomparsa dagli occhi di entrambi. Sì, erano di nuovo maestro e allievo. Fu Deidar poi a prendere la parola, preceduta da un inchino: «Ti sono molto riconoscente per ciò che hai fatto per Renodia. Ti sono debitore a nome di tutto il popolo». Greg arrossì e scacciò con la mano quel pensiero: «No, principe, non ho fatto niente che non fosse mio compito. Era un mio dovere proteggere la vostra gente» disse, per poi chinare il capo, in segno di rispetto. Deidar ebbe di nuovo l’impressione di sentirsi fuori luogo all’interno di quel gruppo: il suo titolo obbligava gli altri a trattarlo con formalità e rispetto, cosa che lui non avrebbe mai voluto. Era ben consapevole che non fosse un loro preciso intento quello di escluderlo dalla compagnia ma il disagio era cresciuto in lui a dismisura. Era un ragazzo come loro, sentirsi trattato diversamente, soprattutto se, come sapeva, li avrebbe dovuti seguire fino alla fine della missione, lo avrebbe messo ancora più a disagio. Così riprese la parola, vincendo finalmente la timidezza che lo caratterizzava: «Maestro Dovan, Greg, Andrew, Mark, Lisa», indugiò su ognuno, poi proseguì, «desidero che mi chiamiate Deidar, omettendo qualsiasi titolo e deferenza. Non esiste solo la nobiltà per nascita e voi l’avete dimostrato facendo vedere quanta nobiltà possa esserci nella fedele amicizia». Gli altri furono colti dallo stupore ma poi sorrisero annuendo. Greg e Deidar si strinsero la mano, finalmente da amici. «Benvenuto a bordo» commentò Dovan, alle loro spalle.
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«Permesso è urgente! PERMESSO! PERMESSO E’ URGENTE!» disse una voce squillante come una tromba: si guardarono intorno ma il proprietario di quella voce, sgambettando agilmente, era già salito sulla sedia vicina al letto di Greg, imponendo a tutti la sua presenza, e soprattutto, di prestargli attenzione.
Messer Quattrorbo, in perfetta salute, probabilmente non doveva aver perso il suo entusiasmo o la sua estrema mania di protagonismo neppure durante le fasi più critiche dell’assedio, sussurrò Andrew nell’orecchio di Lisa. La ragazza sogghignò, nascondendo il sorriso divertito con la mano. Il fido statista di Renodia afferrò un rotolo che teneva fissato alla cintura, lo srotolò con fretta e, riaggiustando il secondo paio di occhiali sul naso, iniziò a leggere, con tono pomposo ed ufficiale: «Si invitano il Maestro Dovan ed i suoi allievi a presenziare, questa sera presso il Palazzo, ad una cerimonia per festeggiare la vittoria riportata contro i Pari. Firmato le loro altezze reali la regina Talandria e re Avroan». Deidar rise di gusto. «Messer Quattrorbo, le sembrava una questione così urgente da non poter riferire con più calma?». L’ometto ne fu alquanto contrariato e con tono grave, si rivolse al ragazzo: «Vostra altezza, si trattava di una faccenda della massima importanza e mi era stato affidato personalmente l’ordine di riferirla!» disse come se si trattasse di una questione di stato, «Oltretutto» aggiunse, «dubito che i nostri ospiti intendano presentarsi alla cerimonia abbigliati in tal modo», disse squadrando da capo a piedi gli altri occupanti della stanza che, imbarazzati dopo aver accertato lo stato pietoso dei loro vestiti, non poterono fare altro che concordare con il suggerimento perentorio di Messer Quattrorbo.
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Quel pomeriggio, dopo un lauto pasto, Greg fu dimesso: avrebbe desiderato dedicarsi immediatamente ad esercitarsi ma non gli fu possibile. Percorse appena pochi i fuori delle Case di Farmacia alla ricerca di un luogo appartato che una sentinella lo invitò a seguirlo immediatamente a Palazzo. Ricordò quasi con fastidio, poiché si contrastava con i suoi intenti, che entro poche ore avrebbe partecipato alla cerimonia. In quel momento i Pari non stavano di certo festeggiando e anzi, aveva la certezza che stessero pianificando la mossa successiva. Ad attenderlo, nell’atrio della dimora regale, vi era, inaspettatamente, Talandria.
La fissò per un attimo, prima di inchinarsi al suo cospetto: malgrado l’attacco che aveva subito pareva essersi rimessa in forma velocemente. Lei si inchinò a sua volta, poi fece cenno a Greg di seguirla. Uscirono dal palazzo e camminarono per alcuni minuti, durante i quali non parlarono. Greg continuava a chiedersi il motivo per cui lei l’avesse chiamato mentre, progressivamente si avvicinavano a quello che, fino al giorno prima, era stato teatro dello scontro. Molte pire funerarie erano state erette nelle vicinanze e si accorse che non erano i due soli presenti mentre in lontananza vedeva sagome di persone che deponevano qualcosa ai piedi dei caduti. Poi dopo qualche istante le numerose pire arsero, l’aria, contrariamente a quanto avrebbe potuto credere Greg, si impregnò del profumo di resine mentre litanie funebri salivano verso il cielo. «Perché mi ha portato qui?» chiese. Gli occhi di Talandria percorsero tutta la piana, e più oltre la foresta, ancora più lontano montagne azzurre dalle cime innevate. «Saresti pronto a sacrificarti per tutto ciò?» chiese lei, intercettando lo sguardo di Greg. Lui fissò le pire, dalle quali adesso si levavano fiamme blande, pensò ai corpi di coloro che, amando tutto ciò, non avevano esitato a perdere la vita affinché altri potessero vivere a loro volta. Annuì, blando, mentre la brezza leggera gli scompigliava i capelli. «Tutto ciò è triste. Quegli uomini che si sono valorosamente caduti non sapranno mai se i loro cari sono sopravvissuti, se il loro sacrificio è stato vano, se Renodia esiste ancora». Talandria parve impressionata da quelle parole, per un attimo, il suo volto divenne sorpreso, poi sorrise. «Ti sbagli, loro lo sanno eccome. E saranno per sempre parte di Renodia». Le sue braccia percorsero un ampio cerchio, Greg guardò il cielo sopra di lui mentre il fumo pareva reagire ai gesti della regina. Il suo volto, come osservò Greg, era assorto, le palpebre socchiudevano quasi completamente gli occhi color ambra, le labbra si muovevano impercettibilmente, la voce, poco più di un sussurro, si perdeva nella brezza. La Foresta, laddove prima vi erano grandi macchie scure dovute all’incendio, dove vi erano rami spezzati dal aggio dei goroi, germogliò ancora, i prati tornarono verdi mentre il fumo delle pire svaniva nella terra. Talandria riaprì gli occhi, rasserenata, e Greg comprese cosa era appena accaduto
davanti ai suoi occhi. In lontananza vide le persone accorse a dare l’ultimo saluto ai propri cari esultare, inchinarsi e tornare verso la città. Fece quindi un breve inchino, credendo fosse giunto per lui il momento di congedarsi dalla regina ma ella, con un gesto della mano, lo richiamò a sé. «Non era solo questo che volevo mostrarti, Aelthas» disse. Greg la guardò intensamente e lei ricambiò mentre da una piega del suo abito semplice estraeva un pendente, lasciando che esso ondeggiasse davanti a Greg. «Questo è tuo. Me lo affidarono i tuoi genitori poco prima di morire. Volevano che tu lo avessi, volevano che tu potessi portare sempre con te il loro ricordo, volevano essere con te malgrado spazio e tempo glielo proibissero». Greg lo afferrò, lentamente, lo strinse nella mano, cercando di sentire il calore delle mani di coloro che gli dettero la vita, poi lo osservò. Vi era inciso qualcosa di simile a una stella e cinque piccole gemme erano incastonate nelle cinque porzioni del medaglione disegnate da essa. Talandria si congedò, lasciando Greg da solo ai suoi pensieri.
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Un nervoso ed impaziente Messer Quattrorbo che, battendo i piedi, si lamentava di quanto inefficiente fosse l’organizzazione della servitù e che, se non si fosse dato una mossa, la cerimonia sarebbe stato un evento da non menzionare se non per farsi beffe di lui e della pietosa preparazione degli addetti ai lavori del Palazzo fu la prima cosa che Greg vide non appena fece il suo ingresso nel palazzo. Non si era trattenuto a lungo sul ciglio della Foresta ma a quanto pare per Messer Quattrorbo tutto ciò era inconcepibile. Greg tentò, fallendo miseramente, di reprimere le risate, poiché quell’uomo gli ricordava incredibilmente sua madre quando era impegnata ad organizzare un evento mondano: tutti e due pretendevano una precisione maniacale da coloro che li circondavano ma nessuno poteva seguire i loro ritmi e allora avevano costantemente a che ridire con i malcapitati sottoposti. Ebbe una fitta al cuore e gli tornarono in mente gli interrogativi che, fino a poco prima, avevano costituito la sua riflessione nel prato davanti alla Foresta: da
quanto tempo i suoi genitori non avevano sue notizie? Stavano bene? Il Cancelliere si sarebbe accanito sulla sua famiglia? Quel pensiero lo tormentava adesso come poco prima, mentre Messer Quattrorbo, scortatolo con o frettoloso in una grande stanza rivestita da specchi, dava ordini a due sarte su come prendere le misure di Greg. La mente del ragazzo era altrove e non badava alle cucitrici che, affannate, lo riempivano di spilli, alcuni dei quali sicuramente l’avevano punto, rivolto con lo sguardo diretto verso l’oceano, oltre l’orizzonte, pregando che Leviathan proteggesse i suoi genitori. Strinse gli occhi per mettere meglio a fuoco: verso nord, si addensavano delle nubi. Corrugò la fronte, le sopracciglia si unirono per un attimo mentre il cielo iniziava ad imbrunire, facendo credere ad un’innocente sarta di aver combinato chissà quale pasticcio. Greg si affrettò a chiedere scusa alla donna esibendosi in un largo sorriso e l’ombra che si era posata sui suoi occhi svanì. Lo stesso non avvenne per le nubi all’orizzonte che, movendosi in direzione dell’impero di Selthon ad una velocità inusuale, erano manifeste latrici di cattive notizie che presto avrebbero appesantito i cuori del mondo intero.
† La tempesta, non in senso letterale almeno, non aveva tardato ad abbattersi sull’onorata famiglia Oltan. Aaton Oltan, amministratore in capo delle attività di Selthon portuale, era stato privato di tutti i suoi beni ed era adesso in attesa di giudizio, confinato come traditore dell’impero. A niente gli era valso opporsi o chiedere di poter parlare con qualcuno dei suoi numerosi contatti o esponenti di rilievo dell’aristocrazia selthoniana: la sua saggezza di uomo di stato gli aveva fatto ragionevolmente supporre che niente e nessuno avrebbe potuto distogliere Samarlec dall’estinguere la sua sete di vendetta. La moglie Vylia, per la quale non c’era nessun capo di accusa, aveva trovato alloggio presso la casa di un amico di Greg, Andrew, con la cui madre condivideva la difficile situazione di non sapere in che razza di guaio fossero andati a cacciarsi i rispettivi figli. Aaton inspirò profondamente: l’aria stantia era divenuta familiare ma non era riuscito ancora a fare a meno della luce del Sole. Rivolse i propri pensieri al figlio, chiedendosi se almeno lui, in quel momento
tanto oscuro, potesse essere felice. Il clangore della porta lo distolse dai suoi pensieri. Si chiese se non fosse giunta l’ora del pasto: il suo dubbio fu presto risolto quando, nella piccola stanza, entrò un uomo alto, dalla carnagione olivastra e capelli neri brizzolati. Non ci fu bisogno di presentazioni, conosceva piuttosto bene quell’uomo. «Così era vero tutto vero quello che si diceva di te. Sei vivo e vegeto». L’altro annuì, il volto immobile. Il signor Oltan proseguì. «Desideri qualcosa?» l’uomo questa volta non si limitò ad annuire ma parlò: «Sono venuto qui per informarti che presto sarai trasferito, non sconterai più la tua detenzione a Selthon». Il signor Oltan si limitò a fissarlo con imibilità e rispose con freddezza. «Dove vuole mandarmi il tuo Signore? Ha già deciso dove farmi marcire fino al resto dei miei giorni o preferisce togliermi di mezzo prima possibile? A Selthon la mia morte farebbe troppo scalpore, ma non credo ci sarebbero problemi a trasferirmi nelle prigioni di Meerees, non è vero?» Il volto dell’altro parve incrinarsi. «No, Aaton. Non credo voglia ucciderti, non per il momento. Sono io che devo chiederti un favore». Il signor Oltan comprese immediatamente a cosa si riferiva il suo interlocutore, la sua voce si fece più calma, in fondo al cuore, seppure in minima parte, ma riusciva a capire cosa provasse in quel momento quell’uomo. «Sta bene. Ma non so niente che già il Cancelliere non sappia». L’uomo annuì, sul suo volto comparve qualcosa che vagamente poteva somigliare ad un sorriso. «Se non hai altro da dirmi, dunque, puoi tornare a svolgere le tue mansioni» concluse il signor Oltan poi in tono gelido. L’altro fu sul punto di dire qualcosa, indugiò a lungo sulla porta, poi scomparve. †
Un’intera ala del Palazzo Imperiale di Selthon era stata occupata in blocco dal Cancelliere e dai suoi uomini di fiducia, estromettendo, senza tanti complimenti, chiunque che non fosse assolutamente autorizzato ad entrarvi. Persino l’imperatore doveva chiedere il permesso per accedervi, benché, a conti fatti, si trattasse pur sempre della propria dimora.
In un ampio salone, illuminato da numerosi bracieri che gettavano nello spazio circostante una magnifica luce dorata, un uomo, da solo, ne contemplava la maestosità. Un cittadino comune avrebbe potuto intimidirsi in un luogo del genere, ma non colui che lì dentro spadroneggiava e nel quale pugno giaceva, ridicolamente sottomessa, la corona imperiale di Selthon. Samarlec non era abituato alle sconfitte. Da sempre aveva voluto far parte della ristretta cerchia delle persone vincenti, di coloro che avrebbero potuto ottenere tutto ciò che volevano e per fare ciò era dovuto scendere a pesanti compromessi, compromessi che ogni giorno lo specchio non mancava di rammentargli, impietoso. All’inizio credeva si trattasse dell’occasione della sua vita ma poi, lentamente, aveva iniziato a dubitare: aveva ottenuto solo metà della sua parte mentre i suoi più potenti alleati conquistavano velocemente ciò di cui avevano bisogno. E più il tempo ava senza che potesse assolvere la sua mansione più sentiva il corpo dilaniato dalla nuova natura che, incontrollata, stava degenerando. Era stato questo il compromesso astuto della Reggente, ella lo trovava addirittura divertente, la certezza che lui non li avrebbe mai traditi e che avrebbe fatto il possibile per aiutarli a riportare in vita il loro Signore. Neppure il Cannone Celeste sarebbe stato in mano sua per sempre: a conti fatti era caduto vittima del suo stesso gioco, l’espediente che negli anni gli aveva permesso di condurre una carriera politica sfavillante si stava ritorcendo contro di lui: da maestro dell’inganno a ingannato. Aveva perduto ogni libertà d’azione, era un burattino in mani di esseri più potenti di lui, ben consapevole di come ogni tentativo di autonomia l’avrebbe potuto estromettere dalla sua parte di ricompensa: ciò avrebbe voluto dire non poter usufruire ulteriormente del Cannone Celeste e, soprattutto, non poter ultimare il suo cambiamento. Serrò i pugni mentre, davanti a lui si proiettava, tramite il globevisor, un’immagine cupa che stonava non poco con il caloroso ambiente circostante. Una stanza, una sala forse, due troni, uno di poco più piccolo dell’altro, sul quale era assisa una figura, sulla quale tutta l’ombra e l’oscurità delle quali era pervasa la stanza avevano deciso di condensarsi. Il Cancelliere si inchinò ossequioso davanti alla presenza avvolta nell’ombra e stava per rivolgerle un cerimonioso discorso di benvenuto quando ella parlò, con tono duro ed impaziente che non tradiva minimamente la sua opinione su quell’essere umano: «Non ho tempo per le tue parole Samarlec, le Lune sono in fase calante e il potere che riesco ad esercitare in superficie diminuisce,
rendendo più debole la comunicazione». Samarlec annuì, cercando di dimostrarsi dispiaciuto per quell’evento: avrebbe avuto almeno più di una settimana per agire indisturbato e loro non avrebbero potuto fare nulla per ostacolarlo. E lui sapeva benissimo cosa fare. La voce femminile proseguì, ancora più amara: «Renodia, malgrado la nostra lampante superiorità numerica, ha trionfato ed essi gioiscono pateticamente per il loro vano successo. Talandria regna ancora incontrastata ed il suo potere si è consolidato quando, a conclusione del nostro tracollo, è comparso il Signore dell’Est. I maledetti, dall’alto della loro rocca, hanno deciso di intervenire nello scontro. Ma ci sarà tempo anche per loro, come per sradicare definitivamente il regno Silvestre». Il segnale si fece più debole e il collegamento divenne di pessima qualità. Non che a Samarlec dispie troncare lì quella trasmissione ma quelle notizie si erano rivelate un notevole imprevisto, un fattore che sperava di non dover considerare nei suoi piani successivi ma che, a quanto pareva, era costretto a dover tenere di conto. Le poche parole che captò prima che la ricezione fosse interrotta definitivamente furono per lui peggiori dell’annuncio della vittoria di Renodia: la Reggente, con tono neutro, sembrava avesse accennato a “sopravvissuti, traditori, maestro, ancora in vita”. Samarlec si sentì ribollire dalla rabbia mentre la trasmissione si concludeva, mettendolo a conoscenza di una verità che avrebbe preferito non conoscere o della quale avrebbe preferito non doversi mai più occupare. Le braci quasi si spensero per poi ardere ancora più potenti e più rabbiose, rendendo la sala di un calore quasi insopportabile. Dopo di che, Samarlec riacquistò la sua calma e la freddezza e risistemò le proprie vesti, duramente provate dal calore sprigionato dalle braci. Il globevisor crepitò nuovamente mentre sullo schermo compariva un volto a lui noto. «Ci sono forse novità?» chiese. L’uomo comparso sul globevisor annuì e poi rispose: «I miei ingegneri hanno appena terminato le modifiche necessarie. La base è finalmente e totalmente operativa». «Molto bene» rispose, ripetendolo più volte mentre la comunicazione si interrompeva. Un sorriso rinnovato comparve ad increspare le labbra sottili mentre si dirigeva verso i suoi appartamenti per gli ultimi preparativi ed una nuova idea, maturata dopo aver appreso le ultime notizie, che gli avrebbe addirittura garantito un notevole successo pubblico, gli si affacciò alla mente mentre percorreva l’ennesima scalinata marmorea del Palazzo. Con il suo gesto
li avrebbe attirati nel bel mezzo dello scontro e lì li avrebbe ricattati. Sorrise di nuovo, mentre l’idea diveniva sempre più concreta. Un pensiero però, grande e luminoso come la prospettiva futura che per sé aveva sempre sognato, che troneggiava da anni su ogni altro progetto lo fece fremere dall’impazienza: presto le Acque dell’Ovest avrebbero definitivamente estinto le Fiamme del Sud. E lui sarebbe stato investito del titolo imperiale.
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All’apparizione imprevista dei due Pari impegnati nella distruzione di Renodia nella Sala del Trono del Baiamondo, Lilith era esplosa in un terribile urlo di rabbia. Non era difficile, per l’intera reggia, accorgersi che la Reggente fosse di pessimo umore. I servi fremettero di terrore: qualcuno di loro avrebbe sicuramente perso la vita alla prima imperizia di ogni genere. Aveva avuto parole dure per entrambi i Lord ma, il suo maggior accanimento era stato per Minstrael che, malgrado possedesse un potere enorme e del quale si era sempre fatto vanto, non era riuscito a dare un contributo decisivo alla guerra. L’esperide rinnegato sembrava adesso un innocuo bambino mentre teneva tra le mani le due metà della maschera di Orialcon ma nel suo cuore, nero di rabbia, germogliavano innumerevoli desideri di vendetta. Lilith lo congedò piuttosto sbrigativamente: lo stesso pensava di fare Astaroth, credendo che, almeno per un po’, i suoi servigi non fossero richiesti. Anch’egli era stanco dopo la dura battaglia alla quale aveva partecipato ma la Sublime aveva per lui in mente altri progetti. Quando si alzò, sul punto di esibirsi in un inchino e poi dirigersi verso i propri appartamenti, la Reggente gli fece cenno di avvicinarsi. Il demone, piuttosto rammaricato, pensando che adesso fosse il proprio turno e che ella lo punisse, cercò, con frasi non del tutto sensate, di presentarle delle scuse che giustificassero il fallimento. «Mio caro Lord Astaroth, non desidero che ti scusi» disse Lilith alzando una mano per interromperlo, mentre sul viso le compariva uno dei rari sorrisi che
non fossero del tutto presaghi di cattive intenzioni. «Il tuo operato è stato più che notevole e per questo ho per te un nuovo compito. Samarlec comincia ad essere impaziente, senza che se ne accorgesse ho sondato la sua mente: la guerra è ormai imminente ed egli vuole fare tutto da solo per apparire ai nostri occhi meno indegno. Povero sciocco» disse, ridendo, «Non riuscirà mai a ricattarci poiché persino la sua nuova arma gli può essere tolta in ogni momento ed egli si ritroverebbe con un pugno di mosche. Dopotutto, però, un alleato scontento è un alleato che non mantiene le sue promesse e, trattandosi di un umano, potrebbe fare qualcosa di straordinariamente sciocco, danneggiando anche noi» fece una pausa e Lord Astaroth non poté fare a meno di annuire alle parole della Reggente che, come sempre, aveva una cognizione degli eventi tale da poter prevedere quasi ogni implicazione. «Come sai, il loro potere ci impedisce di agire, almeno per qualche tempo. Appena le Lune ricresceranno noi dovremo agire». Indugiò, fissando alternamente l’oscurità e gli occhi terrei di Astaroth. «Lord Astaroth, desidero che tra sette giorni a partire da oggi tu ti rechi a Naren e ti impossessi della loro Pietra». «Come desidera, mia Signora» rispose, con tono piuttosto sorpreso. «Non avrai i allora, agirai da solo come già hai fatto a Renodia. Per quel giorno non avremo influenza sufficiente per attaccare la città, dovrai muoverti con cautela». «Mia Signora, Naren è territorio ostile, anche se dovessi riuscire ad infiltrarmi saranno sospettosi…» «Mio fidato generale, non dovrai preoccuparti di questo: vedo chiaramente la ruota del destino girare a nostro favore e molti eventi si succederanno ad un ritmo frenetico che non permetterà agli uomini di focalizzare sui veri pericoli. Per quanto mi sia difficile ammetterlo, Samarlec ci sarà molto utile in quest’ultima fase del piano» sorrise scoprendo i denti candidi ed incrociando le mani lentamente. Di nuovo, ella aveva parlato del futuro con lungimiranza e assoluta certezza, pensò Lord Astaroth mentre, congedato, riposava nel suo salone. Avrebbe incontrato nuovamente il suo rivale a Naren? La ruota del destino non
lasciava mai niente al caso, si disse, soppesando se fare visita o meno a colui al quale il destino rivelava appieno i suoi piani.
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Il destino si stava compiendo nuovamente, pensò Lilith mentre attendeva i suoi figli. Da giorni non li vedeva, ma poteva intuirne le presenze anche a chilometri di distanza. Non vivevano stabilmente nel Baiamondo ma preferivano viaggiare per le come suoi supervisori, pronti a riferire ogni mossa dei Pari. Se Iblis compiva, per il proprio diletto, uno sterminio di esseri umani, o se Kaliban sfamava le sue creature con dei giovani non mancavano di riferirglielo e lei non mancava di redarguire il Pari per uno spreco così insensato di schiavi. Ormai sapeva bene che sui suoi sottoposti l’inattività aveva un effetto tutt’altro che positivo, soprattutto sui più bellicosi: nell’ultimo periodo tenere a bada la loro sete di sangue era divenuto un compito arduo persino per lei. Così era costretta talvolta a chiudere un occhio se un villaggio intero veniva raso al suolo o se un migliaio di persone erano sacrificate sugli altari di Ibliadena. Presto i suoi Pari avrebbero avuto nuovi campi di battaglia nei quali dar prova del loro ardore, si disse mentre comparivano le sagome della sua progenie. Come sempre si inchinarono e lei, sollevatasi dal trono, li toccò gentilmente per farli alzare. «Ci ha chiamato madre?» dissero quasi in coro i due. Le ali di Ekates fremettero ed ella si librò in aria appena poco sopra la testa del fratello. «Figli miei diletti, come sapete i tempi stanno maturando e desidero che anche voi facciate la vostra parte nel piano» rispose Lilith, allargando le braccia come se volesse abbracciare tutta l’oscurità della sala. Le due creature si guardarono l’una con l’altra, entusiasti per essere, dopo tante richieste, finalmente accontentati. Minoxe ò la mano normale sopra il braccio armato, pregustando già l’estasi che avrebbe provato una volta sceso in battaglia. «Andrete a Zolon e sottrarrete a quei patetici vecchi la ragione della loro
esistenza. Ricordate, figli miei, la lenta sofferenza è sempre preferibile ad una rapida morte. Cercate di limitare al minimo le vittime, loro, dall’alto soffriranno molto se vedranno i loro protetti svanire nella polvere» disse, col tono gelido di chi per tanto tempo ha atteso di gustare la vendetta. «Al male e al potere, siamo consacrati figli miei, fino alla fine dei tempi», aggiunse carezzandoli, poi, voluttuosa, si sedette sul trono del suo Signore, coprendo la pelle bianca con il suo mantello, diventando tutt’uno, ad eccezione degli occhi, con l’oscurità.
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Greg dovette attendere qualche tempo prima che la sua veste fosse pronta, seduto su un confortevole divanetto all’interno dei vestiari del palazzo. La luce del pomeriggio inoltrato filtrava attraverso i tendaggi, riflessa poi dai numerosi specchi che costellavano praticamente tutta la sala. Come aveva potuto vedere non appena Messer Quattrorbo, lo aveva pregato di attendere, essi erano di ogni forma e dimensione, alcuni addirittura appesi sul soffitto. Si guardò attorno, annoiato ed irritato dall’inattività a cui era stato costretto, fin quando delle proteste piuttosto accese, seguite da altrettante risate non attirarono la sua attenzione. Si alzò in cerca della fonte degli schiamazzi, ò attraverso numerose file di abiti e decorazioni, alcune delle quali non sapeva neanche cosa fossero, fin quando, scostata una paratia, non si presentai suoi occhi una scena esilarante. Lisa e Andrew erano quasi piegati in due dalle risate mentre Mark, al centro della stanza, era rosso in volto, abbigliato nel modo più strano che Greg avesse mai visto: indossava un paio di pantaloni bizzarri, larghi sulle cosce, che si immettevano dentro un paio di stivali di pelle, una camicia bianca con decine di ricami colorati e, a coronamento di ciò, un cappello di stoffa morbida che sembrava un soufflé sgonfio. Greg rise a crepapelle e Mark, livido di vergogna, non poté fare nulla per far cessare l’ilarità generale nei suoi confronti. Aveva una sola certezza: quella scena sarebbe rimasta impressa a fuoco nella sua mente, e purtroppo anche in quelle dei suoi amici, per sempre.
Poi fu la volta dell’ingresso di Messer Quattrorbo, il quale, evitando di fissare troppo a lungo Mark per paura di un eccesso di risa, si scusava con due sarte, mortalmente offese per vedere il loro duro lavoro denigrato da un bifolco. Andrew tirò una gomitata a Greg, per indicargli Lisa: in effetti, da quando era entrato, non l’aveva ancora osservata ma comprese bene a cosa fosse dovuto il gesto dell’amico che, al contrario di Mark, indossava un paio di pantaloni di raso azzurro, agganciati con una fibbia particolarmente vistosa in vita ed una camicia bianca, leggermente svasata, e si riteneva pienamente soddisfatto dell’operato delle sarte. Come non accadeva ormai da settimane, quando Greg incrociò gli occhi color fiordaliso di Lisa, arrossì vistosamente: la ragazza indossava una veste leggera turchese, lungo fino quasi le caviglie, molto simile a quelle che aveva visto indosso alle principesse Esperidi, con un’ampia scollatura coperta da piume variopinte, che le avvolgevano anche le spalle. Una fila di perle, intonate al vestito, le incorniciava il volto e la pettinatura che niente aveva da invidiare a quelle sofisticate sfoggiate nelle serate importanti dalle dame dell’alta aristocrazia selthoniana. Non aveva molte parole per definirla, non stavolta almeno: era splendida.
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Il turno di Greg di provare l’abito venne poco dopo quando una sarta glielo porse già confezionato. Andrew tentò di sbirciarne il contenuto, sperando che fosse simile al modello indossato da Mark ma Greg fu più veloce e si infilò in un camerino, prima che qualcuno vedesse il vestito. La stanzetta era piuttosto larga, con uno sgabello sul quale poggiò la confezione e due specchi a figura intera. Si sfilò con cura ciò che, qualche settimana prima, era un completo da grandi occasioni, confezionato in fretta per l’arrivo del Cancelliere a Selthon. Greg la tenne alta davanti a sé la giacca: il colletto si stava consumando e alcuni bottoni che la chiudevano si erano sfilati, i preziosi disegni scoloriti in più punti. La ripiegò con cura, poi estrasse la veste da cerimonia dalla scatola e, una volta dispiegata, ne era rimasto piacevolmente sorpreso.
Non si trattava di una tunica, come non tardò a costatare, ma di un completo, molto simile ad un’uniforme militare: se la sua memoria non lo ingannava anche gli Strateghi ne indossavano di simili solo meno elaborate e di colore diverso. A sua insaputa le sarte, oltre ad aver preso le sue misure, dovevano aver copiato anche il disegno presente sulla tunica dimessa: sullo sfondo blu oltremare dell’uniforme campeggiava Leviathan nella consueta posizione d’attacco, circondato dalle onde di un oceano in tempesta. Sorrise, compiaciuto del magnifico lavoro svolto, poi uscì dal camerino per raccogliere le impressioni, delle quali, a dir la verità, solo una gli bastò per essere felice.
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Mideroa fluttuava nel cielo notturno, spandendo bagliori nelle dense nubi circostanti. Chi da terra avesse guardato verso l’alto l’avrebbe potuta confondere con una stella piuttosto luminosa o con una delle due Lune, ma tale evento era fin troppo raro ultimamente: praticamente a nessuno importava più se la grande città celeste fluttuasse o meno nei cieli. Midrael, nel salone sopra il Mare di Vetro, osservava Renodia mentre sul suo volto puro e diafano appariva un lieve sorriso. Ancora una volta gli Angeli erano scesi in campo, percepiva chiaramente nei cuori degli uomini e delle donne di Renodia il riaccendersi della scintilla della speranza, per quanto, su tutto il mondo, incombesse la nube pesante e gravosa dell’incertezza e del dubbio, forse uno dei segni più palpabili del ritorno del nemico. Nemmeno gli angeli ne erano immuni: i suoi fratelli e gli altri abitanti della città ne soffrivano tanto quanto gli uomini, forse in modo più profondo, data la completa conoscenza degli eventi e la complessità dei sentimenti che muovevano le loro azioni. Sì, il Generale delle Schiere Celesti di Mideroa non aveva sbagliato intervenendo nel conflitto e siglando il patto con l’essere da lui prescelto. Gli esseri umani avevano bisogno della speranza.
Una voce, penetrata nei suoi pensieri, lo contraddisse con parole dure: «Ciò che ferma gli uomini è la rassegnazione, non la disperazione. Ciò che li fa andare avanti è la volontà, non la speranza». Uriadrel, a centinaia di chilometri di distanza, della sua fortezza volante aveva stabilito un contatto. Midrael scosse la testa: non era difficile solo per Feadrel trovare un punto d’accordo con il fratello maggiore, si trovò a pensare in quell’istante mentre meditava sulla risposta da dare. «Ti sbagli, fratello mio, la speranza è ciò che anima gli uomini anche nei momenti di più cupa oscurità. Un mondo intero è sull’orlo della guerra totale, molti di loro combatteranno e periranno per la speranza di essere definitivamente liberi». «Ora sei tu a sbagliarti, Midrael. Non è sulla speranza che si costruisce il futuro, non è essa il sentimento che anima le gesta degli esseri umani. Solo i deboli tentano di affidarsi ad essa. Esseri come questi non hanno il potere di cambiare il corso degli eventi. Solo quelli nel cui cuore alberga la volontà e la potenza sono in grado di sottrarre gli uomini al male» fece una pausa, come se ciò che stesse per dire gli costasse una considerevole quantità di energia o di coraggio. «Sire Zanktel, per quanto io lo condanni, era uno di questi». «Sire Zanktel agì in quel modo perché era sotto l’influenza maligna. Ora non si comporterebbe così. La sua sofferenza fu, ed è tutt’ora, grande» ribatté secco Midrael. Di nuovo il ato remoto riaffiorava per portare discordia. Gli effetti del male non cessavano di esistere nemmeno dopo millenni. Uriadrel rise. Guarda l’Erede, ne hai sondato il cuore? È la volontà la sua guida, indomita come quella dell’essere che lo protegge. Non sarà la speranza a dargli la forza per continuare a combattere in futuro. Lui stesso si sta avvicinando a tale verità». Il Generale dei Celesti non poté fare a meno di concordare con l’ultima affermazione del fratello ma poi obbiettò: «Coloro che gli sono intorno ripongono ogni speranza in lui, per quanto egli possa essere mosso dalla volontà di cui parli. La speranza, anche se in lui minimamente presente, continuerà a circondarlo e finirà con animare anche le sue azioni». Fu il Signore delle due Lune ad ammutolirsi adesso, probabilmente gli argomenti
del fratello dovevano averlo colpito. Quando parlò nuovamente il suo tono si fece più calmo e accondiscende: «Le tue parole sono sempre portatrici di luce e saggezza, fratello mio. Ti chiedo scusa per aver interrotto i tuoi pensieri. Veglia con attenzione Midrael e porta i miei saluti anche a nostra sorella Shadriel e a Feadrel. Presto ci rivedremo e saremo di nuovo tutti insieme, anche se non credo si tratterà di un’occasione piacevole. Il momento è quasi giunto». Concluse con amarezza mentre nello spazio di cielo interposto fra i due satelliti, brillò per un istante una scintilla. Midrael chinò il capo, rispondendo al saluto del fratello, pregando che, prima della fine, anche nel suo cuore si accendesse la scintilla della speranza. Fu poco dopo la comparsa di Shadriel a rischiarare i suoi pensieri. Vedere la sorella era per lui una delle gioie più grandi, perfino nei momenti più bui. Si alzò, andandole in contro e abbracciandola a lungo. Poi sentì un turbamento, non necessariamente negativo, anzi. Sua sorella sembrava felice come non lo era da secoli. Stupito lasciò l’abbraccio e, guardandola dritto negli occhi dorati cercò di comprendere a cosa fosse dovuta quella felicità. Fu lei a dirlo poco dopo mentre gli occhi si offuscavano di lacrime rubino. «Fratello, Sire Ausel…E’ vivo!» Midrael la fissò stranito, i suoi occhi dai lineamenti fini divennero indagatori. «Cosa vuoi dire Sorella? Come può essere vivo se il suo corpo e il suo spirito sono suggellati dal Cryopnosis?» non attese che la sorella rispondesse. «Sei tornata di nuovo da lui, non è vero? Ti è di nuovo sembrato che si muovesse oppure che sorridesse forse?» chiese, seriamente preoccupato. Lei si ritrasse bruscamente. «Niente di tutto ciò, Midrael. È vero, mi trovavo nella Galassiah e sì, stavo parlando con lui come sempre. Mentre ero lì è successo qualcosa di inaspettato però. La dimensione si è modificata per farmi vedere Aelthas in difficoltà. Ho avuto paura, non sapevo come poterlo aiutare» si fermò mentre osservava il volto del fratello farsi sempre più interessato. «Così mi sono inchinata di fronte a lui e lui mi ha parlato» l’espressione di Midrael divenne sbalordita. «Che cosa ti ha detto?» chiese poi balbettando. «”Fa che l’erede ritrovi la sua strada”. E così è stato. Il Galassiah è divenuto di un tratto tutto bianco, condizionato dalla mente di Aelthas. È stata dura, lo ammetto, ma alla fine lui è tornato in sé» concluse, raggiante. Midrael rimase silenzioso a lungo dopo che Shadriel se ne fu andata, chiedendosi se veramente Ausel non avesse trovato il modo di utilizzare i suoi poteri anche dal suo esilio di cristallo.
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I battenti del Salone delle Feste del Palazzo delle Esperidi si aprirono, rivelando agli invitati un impianto scenico di difficile imitazione per la bellezza e la raffinatezza dei suoi allestimenti. La sala era di una lunghezza a stento quantificabile, al centro un tappeto di velluto verde la percorreva interamente, salendo gli scalini del podio nel fondo della sala. Decine di panche decorate dagli abili artigiani erano disposte lungo i lati ma era il podio della sala il vero fulcro della cerimonia: dal pavimento si levavano innumerevoli tralicci arborei che, con complicati intrecci, andavano a formare una decorazione a padiglione mentre sulle alte pareti erano appesi stendardi di colore smeraldo che, dal soffitto, giungevano quasi fino a terra e sui quali campeggiavano le gesta della battaglia appena vinta con una minuziosità di particolari incredibile. Greg, attorniato dai suoi compagni, fissava stupefatto la Sala, indeciso se sentirsi intimidito da tanta bellezza oppure smarrito da tanta grandezza. I suoi compagni non erano da meno, Andrew era intento a scrutare le molte persone presenti che, a loro volta, ricambiavano gli sguardi e lo stesso faceva Mark anche se le sue occhiate erano un po’ meno cordiali poiché era certo che chiunque lo guardasse lo fe con il solo intento di deridere il suo bizzarro abbigliamento. Come poco dopo notò, i renodiani, o almeno le giovani, non dovevano considerarlo poi tanto bizzarro se, con sua grande sorpresa, avevano iniziato a argli davanti con una frequenza e una malizia difficilmente male interpretabili. Greg allungò il collo, ancora non aveva ancora visto arrivare né Lisa né Dovan. Se ci pensava bene non aveva più visto il suo maestro da quando, quel mattino, erano andati tutti a trovarlo nella sua stanza alle Case di Farmacia.
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Dovan aveva finalmente il chiarimento che da tanto attendeva. Al cospetto di un’entità tanto grande si era sentito intimorito ma il suo rispetto reverenziale era svanito non appena l’aveva riconosciuto. Il Signore degli Angeli Dorati di Zedarcalan era forse uno tra i pochi esseri che non si sarebbe mai aspettato di trovare a Renodia. Egli non era né bene né male, era solo consapevolezza di potere, un grande potere, come aveva potuto chiaramente percepire al suo aggio. Era sicuro di non sbagliarsi e Talandria non fece altro che confermare la sua idea. «Sì maestro, era proprio lui» disse la regina. «Come potete averlo accettato qui a corte? Eppure voi c’eravate in qui giorni oscuri, dovreste ricordare la frattura che ha provocato in un popolo intero e i danni che la sua ribellione ha portato all’intero pianeta» si oppose duro Dovan. «Maestro Dovan, comprendo la poca fiducia che ripone in lui ma la sua venuta qui è stata per portarci tutt’altro che cattive notizie», fece una pausa mentre l’espressione di disappunto dell’altro non accennava a mutare. Talandria sapeva che ciò che stava per dire non sarebbe stato privo di conseguenze, difficilmente le azioni degli Angeli Dorati non influenzano il corso degli eventi. «Ha offerto i suoi servigi alla nostra causa. La città di Zedarcalan ed i suoi uomini non si schiereranno con le forze demoniache». L’espressione di Dovan finalmente mutò: era la notizia più sconvolgente che apprendeva da quando aveva scoperto che era Greg il custode del segreto. «Ebbene il vento infine muta a nostro favore?» chiese Dovan, ancora incerto su come dover interpretare la notizia. La regina assunse un’espressione profetica, sul suo volto apparvero per qualche istante le ansie e le paure maturate in duemila anni di regno. Sospirò profondamente, socchiudendo gli occhi. «Maestro, sono troppe le forze che convergono per condizionare a suo piacimento, ognuna con la propria volontà, il mondo che nascerà dopo la fine di questa nostra epoca. La battaglie non si combattono solo sui mari o nelle valli ma anche nei cuori di coloro che possono determinare tali cambiamenti. I nemici di ieri divengono oggi alleati sinceri e preziosi. Lasciamo che per stasera la mia gente possa ancora credere che la guerra sia solo uno spettro lontano, facciamo sì che nei cuori la luce subentri all’ombra gettata dal Tiranno. La Cerimonia ci aspetta» concluse serena la regina mentre Dovan, chinando rispettosamente il
capo, la seguiva.
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Lisa era comparsa qualche istante dopo in compagnia di Mylaetra e di Cylaetra e almeno secondo la sua opinione, pensò Greg vedendole arrivare, le decorazioni della sala, i paramenti e tutto ciò in essa contenuto, sembrava illuminato da una nuova luce, più bella di qualsiasi altra avesse mai visto. Le lune, se fossero state tre anziché due non avrebbero mai potuto eguagliarle. Il padiglione parve animarsi mentre venivano deposti due troni proprio al centro e due gendarmi in uniforme da parata, li invitavano ad avvicinarsi ad esso e a prendervi posto. Lisa, poco più avanti, come aveva fatto Greg prima non vedendola arrivare, perlustrò la sala in cerca dei suoi amici e, una volta visti, fece loro un piccolo cenno. Nel padiglione era comparso anche Deidar, che, riposta l’armatura, indossava un’uniforme quasi identica a quella di Greg. Si salutarono cordialmente e, per la prima volta, nessuno si rivolse al principe con il suo appellativo regale. Deidar parve notevolmente a suo agio mentre sedeva insieme agli altri e alle sorelle nel palco dentro il padiglione mentre al suono delle trombe, comparivano, in fondo alla sala, un drappello composto da sette elementi, l’ultimo dei quali, un araldo, recava lo stendardo di Renodia. I presenti si alzarono in piedi, ammutolendo. Greg li riconobbe immediatamente: il primo della fila era Messer Quattrorbo, in veste di Maestro di Cerimonie, abbigliato con foggia simile a Mark, solo decisamente ristretta nelle proporzioni. Anche Andrew dovette essersene accorto poiché rifilò al diretto interessato una gomitata. Greg non si stupì di vedere Mark divenire paonazzo e Andrew contorcersi poco dopo in un’espressione dolente mentre si massaggiava la spalla e rivolgeva insulti, obbligatoriamente silenziosi data l’occasione formale, all’amico. Dopo venivano, in ordine, Dovan e i Conti di Siranna e Mersilia, seguiti infine dalla regina Talandria, da re Avoran e dall’araldo che, una volta ebbero preso tutti posto, conficcò lo stendardo nel foro in mezzo ai due troni. Greg osservò, per la prima volta da quando era iniziato l’assedio, i volti dei reali. Talandria
pareva essersi ristabilita completamente, il danno che aveva subito non aveva lasciato tracce. Lo stesso non poteva dire di Avoran che camminava con un bastone di legno lavorato e sul cui volto scorrevano segni profondi, come se il tempo, con la sua forza devastante, avesse deciso di infierire su di lui nello spazio di appena un giorno. Dovan sorrise nella direzione dei suoi allievi, loro risposero chinando leggermente la testa ma, con tutta sorpresa, si accorsero che il sorriso del maestro era diretto a qualcuno seduto a qualche seggio dal loro e, se Greg non si sbagliava, doveva trattarsi della principessa Mylaetra che sorrideva di rimando. Greg incrociò lo sguardo del maestro e gli rivolse un’espressione interrogativa. Il maestro assunse un’aria che gli era stranamente familiare, forse perché gli ricordava la sua stessa espressione quando qualcuno a Selthon gli chiedeva se il suo cuore batteva ancora per Lisa. Fu il ragazzo a sorridere con aria complice, poi il maestro si voltò perché Messer Quattrorbo, al limite del padiglione, aveva appena annunciato che la regina avrebbe iniziato il suo discorso di apertura. «Cittadini, fedeli sudditi, amici» la sala, sentendosi chiamata, annuì, «questa occasione è per noi momento di gioia e di festa. Abbiamo sconfitto il nemico, le sue armate sono state spezzate ed il Miracolo è di nuovo avvenuto quando ha fatto la sua comparsa il Signore dell’Est. Il suo potere ha spento l’incendio che stava radendo al suolo la nostra sacra foresta e, nella sua lungimiranza, egli ha scelto il principe Deidar» la regina fece un cenno al figlio perché si alzasse in piedi affinché tutti potessero salutarlo, «quale Paladino di Renodia». La sala esplose in un’ovazione, alla quale il giovane rispose con numerosi inchini, stava per sedersi quando sua madre gli fece cenno perché dicesse qualcosa a coloro che avevano preso posto nella sala. Deidar fu sorpreso da quella richiesta, era abituato a tenere discorsi davanti ai suoi uomini, ma tra soldati e aristocratici c’era una notevole differenza. «Renodia è la terra che mi ha dato la vita e che per anni mi ha nutrito con la sua rigogliosità. È venuto per me il momento di offrire la mia parte ad un luogo che tanto ha dato ad ognuno di noi, donandoci tutto quello che avremmo potuto chiedere con generosità, anche se ciò dovesse voler dire sacrificare la mia vita per proteggerla».
Un’ovazione, ancora più grande e calorosa della precedente, accolse il termine del discorso del giovane principe che, con la sua semplicità, aveva saputo esprimere un concetto così profondo. Dal palco Greg gli porse la mano, rivolgendogli un sorriso di consenso per quelle parole. Deidar accolse volentieri il gesto, imitato poco dopo dagli altri. Dal trono, Talandria annuiva soddisfatta per le parole del figlio e manifestazioni di approvazione e simpatia erano espresse anche dagli altri presenti sotto il padiglione. Talandria riprese la parola: «Desidero ringraziare le fedeli contee di Siranna e Mersilia per essere giunti al momento opportuno in nostro soccorso. Che le vostre rispettive popolazioni possano continuare a vivere in armonia sotto la corona di Renodia». Dai seggi vicini il massiccio Conte di Mersilia e l’esile Conte di Siranna si levarono in piedi per accogliere il saluto a loro tributato, esibendosi in diversi inchini, uno dei quali, naturalmente dovuto al più grosso dei due, fece paurosamente barcollare il seggio di Messer Quattrorbo. Dalla platea qualcuno rise di gusto, ma le parole di Talandria riportarono l’ordine. La regina si era alzata dal suo seggio e aveva compiuto qualche o in direzione della platea. Infine, vorrei che tutti voi vi alzaste e ringraziaste insieme a me coloro che, giunti da Selthon, hanno messo la loro vita a rischio per difendere la libertà del nostro popolo». Un’ovazione non meno calorosa di quelle che avevano accolto i precedenti ringraziamenti accolse Dovan, Greg e gli altri che si alzavano dai loro seggi. Talandria li fece disporre in fila ordinata e un paggio con un cuscino di raso tra le mani era giunto per consegnare le onorificenze. Tranne il maestro che sembrava abituato a questo genere di cerimonie, i suoi allievi erano piuttosto imbarazzati. La regina sorrideva solare ai giovani mentre appuntava sui loro petti una piccola gemma bianca, incastonata su una montatura di Ilmerite. Fu infine il turno di Greg: lui e la regina si fissarono per un lungo istante durante il quale lei parve esprimergli, attraverso i suoi mirabili occhi, tutta la gratitudine ma anche tutto il rammarico per le incomprensioni che, una dopo l’altra, si erano susseguite nelle ultime ore. Greg sorrise di rimando, forse comprendendo il
turbamento della sovrana ed accogliendo la sua solidarietà. Quando ebbe appuntato anche l’ultima spilla che, insieme alle altre, campeggiava splendente sui petti dei cinque, la sala fu percorsa da un lungo applauso al quale si unirono anche coloro che stavano sotto il padiglione. Nel fragore della festa, una porta laterale della sala sbatté senza che nessuno le prestasse attenzione. Un messaggero con espressione allarmata si era inchinato di fronte a Messer Quattrorbo e gli aveva porto un biglietto. L’alto dignitario lo lesse e la sua espressione soddisfatta per l’esito positivo della festa, scivolò via come uno straccio bagnato che viene lasciato cadere, lasciando al suo posto solo disappunto. Zampettò superando Greg, al quale si era avvicinato anche Deidar per congratularsi ancora una volta con i nuovi amici, poi attirò l’attenzione della regina, impegnata a parlare con il Conte di Siranna, sbracciandosi con forza. La regina lo fissò con stupore: quell’atteggiamento non era di certo nella norma, non se confrontato al comportamento altero e professionale dimostrato da anni di fedele servizio. Il suo volto divenne interrogativo mentre prendeva il biglietto dalle mani grinzose dell’uomo e, dopo avergli dato una veloce lettura, la sua espressione divenne dapprima interessata, poi arrabbiata ed infine allarmata. Incrociò lo sguardo di Dovan e anche egli comprese che qualcosa di storto stava travolgendo gli eventi come un fiume in piena. Si avvicinò alla regina e lesse a sua volta il biglietto. L’inevitabile era ormai prossimo a verificarsi e l’artefice di tutto ciò avrebbe dichiarato al mondo intero il piano frutto della sua follia. E aveva chiesto, gentilmente, che anche Renodia assistesse al proclama in diretta globale.
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Il cortile esterno del Palazzo Imperiale di Selthon era gremito oltre ogni limite immaginabile: i cittadini, però, non mostravano volti sorridenti o compiaciuti, anzi, sembravano aver abbandonato le loro vesti sgargianti, almeno per quell’occasione, che si prospettava meno felice di quanto un simile affollamento
di persone avrebbe potuto lasciar immaginare. Dalla terrazza della reggia un uomo, giovane e di bell’aspetto con vesti variopinte ed incredibilmente preziose, osservava la massa sorridendo. Era lui il padrone di Selthon, l’imperatore senza corona che presto avrebbe partecipato al cambiamento del mondo così come lo conoscevano i suoi concittadini. Dopo il proclama l’avrebbero seguito ovunque: il patriottismo era forse l’unico vero legame che aveva permesso all’impero di non cadere, durante i secoli, in mano all’anarchia totale. Degli inservienti finirono di sintonizzare dei macchinari di ripresa globevisor mentre Samarlec prendeva posto davanti al leggio sul quale erano posti diversi impianti microfonici. L’inno di Selthon risuonò nel cortile che, da solo, era grande quasi quanto un quarto di Selthon portuale mentre decine di bandiere blu venivano issate in tutta la città e in tutti i domini oltremare. Biglietti come quello inviato a Renodia erano stati spediti preventivamente in ogni capitale e città limitrofa del pianeta. Ogni creatura senziente, tranne quelle non informate dell’accaduto ma che ugualmente percepivano cambiamenti repentini, fissavano attoniti il proprio videoproiettore o quelli messi a disposizione in tutta fretta. Anche il Salone delle Feste di Renodia fu allestito per l’occasione, non senza che, dal basso del suo seggio, Messer Quattrorbo non protestasse rumorosamente perché l’allestimento che gli era costato e non solo a lui, una notte insonne, era stato smontato in un battibaleno. L’inno finì, fra gli applausi, spontanei o meno non fu possibile accertarlo in seguito, dei cittadini e il Cancelliere iniziò il suo discorso. Il suo tono era quello di grande oratore, perfettamente sicuro di sé stesso da sfiorare la tronfiezza, ricco di svolazzanti arabeschi verbali, ricercato tanto nella forma quanto nell’esposizione. «Cittadini, sorelle e fratelli miei» fece una pausa, attendendo un applauso che stentava ad essere convincente, poi proseguì. «È finalmente giunto il momento della nostra vittoria totale contro il nemico di sempre. L’affronto subito della loro intrusione addirittura nella nostra Sacra Capitale non può essere taciuto, non più. Devono ripagare le sofferenze che ci hanno inflitto». La folla deflagrò in un ruggito di rabbia, questa volta seguendo in pieno il copione previsto dal Cancelliere: molti tra loro avevano perso la casa a causa dell’incursione. Altri erano ancora sotto shock dopo essere stati fatti sparire all’interno di una gabbia
dimensionale. Per fortuna il Cancelliere li aveva liberati, affrontando da solo l’intero gruppo e spezzando i sigilli delle gabbie magiche. La messa in scena era stata perfetta: gli unici testimoni della verità non avrebbero avuto voce in capitolo poiché etichettati come traditori dell’impero. «Naren non ci ha mai fatto paura, vero Selthon? L’hanno creduto, è vero, di noi hanno riso e si sono sentiti soddisfatti della loro vanagloria, perché deboli predecessori glielo hanno fatto credere!» un coro di assenso si levò dal cortile. La voce di Samarlec salì di tono, caricandosi di furore e di incisività: voleva che in tutto il mondo quelle frasi si marchiassero indelebilmente a fuoco «Ma ora saremo noi a fare paura a loro. Coloro che da anni credono di poter, infine, schiacciarci sotto il loro opulento tallone saranno sbaragliati da coloro che marciano nel nome del glorioso e splendente Levian Dorhananlus VII!» Naturalmente l’imperatore era all’oscuro, almeno per il momento, del proclama poiché, in quel preciso istante, si trovava nel tepore primaverile della sua residenza di campagna nelle Piane del Sole. Sotto la totale sorveglianza degli uomini più fidati di Samarlec, ovviamente. Menzionare l’imperatore aveva raccolto più successo di quello che il Cancelliere stesso aveva previsto: molti di quei babbei continuavano a credere che si divenisse imperatori per volere divino e che, la volontà del regnante, fosse un ordine assoluto per ognuno dei suoi sudditi. Sorrise, di ottimo umore, dispensando numerosi saluti, non mancando di rivolgerne qualcuno anche alle macchine da presa. Non tutti avrebbero gradito quella manifestazione, ne era consapevole, ma l’opinione altrui non gli era mai interessata più dello stretto necessario. La guerra era anche un fatto di immagine e di prestigio. Decise di portare a termine il proprio discorso, facendo l’annuncio a sorpresa che avrebbe fatto tremare il mondo fino ai suoi più oscuri recessi. Indugiò davanti alle telecamere come se il rammarico per ciò che avrebbe dovuto dire gli togliesse le parole o, addirittura, la forza di parlare. Era un ottimo attore, doveva riconoscerlo pienamente a se stesso. «E’ per me un momento difficile, ma la carica che ricopro non mi permette di venire meno all’incarico che ho assunto, per il bene di Selthon e di tutto il popolo».
La folla trattenne il fiato, qualche fischio fu immediatamente represso. I dissidenti non mancavano. «Mentre vi parlo l’intera flotta da guerra dell’impero, dalle Isole Azzurre fino alla penisola di Asterzia e alle basi nell’Oceano dell’Ovest è in mobilitazione per attaccare e distruggere il Regno di Naren. Ora, amici, vi chiedo: sarete con me e con i vostri coraggiosi fratelli soldati, in quest’ultima battaglia contro il nemico di sempre?» Un’ovazione clamorosa che non lasciava molto spazio all’interpretazione comparve sugli schermi dei globevisor di tutto il mondo La previsione di Samarlec si rivelò corretta: lo spettro della guerra imminente aveva fatto il giro del mondo, sconquassandolo con forza. Nessuno, tranne il placido imperatore di Selthon, riuscì a dormire quella notte.
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La Darlidan era stata rifornita di scorte abbondanti di viveri e di acqua, di armi e di vesti, perché, come aveva sostenuto Quattrorbo, un Principe e coloro che lo accompagnano devono essere sempre all’altezza di ogni occasione. Deidar era, per l’ennesima volta, imbarazzato dalle parole del premuroso e accorto dignitario che l’aveva visto nascere e crescere e del quale era stato allievo. Il Sole stentava a sorgere dall’Est ed il crepuscolo avvolgeva i Porti di Smeraldo da diverso tempo quando, dopo una notte frenetica di preparativi, era venuto il momento dei saluti. Coloro che si trovavano nel Salone delle Feste erano intorno ai moli, mescolati con soldati, contadini, minatori, donne, Esperidi, bambini incuriositi e giovani invidiosi per coloro che avrebbero intrapreso una missione di là dalle capacità umane, dovendosi solo accontentare, un giorno di molti anni dopo, di raccontare di aver assistito a quella partenza, magari di aver pure scambiato una parola con quegli eroi, ai figli e ai nipoti. Renodia abbracciava affettuosa il suo Paladino e lo stesso faceva con i giovani
selthoniani e con il loro maestro che avevano preso parte, in prima persona e con successo, alla difesa dell’assedio. Il molo a cui era ormeggiato il vascello selthoniano era quasi sgombro, ora che le merci erano state imbarcate, fatta eccezione per coloro che, per ultimi, il gruppo doveva salutare. I sei sfilarono l’uno davanti all’altro, capeggiati da Dovan al quale seguivano Greg, Deidar, Mark, Andrew e Lisa. I Conti di Siranna e di Mersilia si dissero onorati di aver intrecciato la loro strada con quella di quei giovani e che avrebbero serbato il ricordo di quegli eventi per sempre. Anche per loro la dichiarazione di guerra era stato un brutto colpo poiché, data l’ubicazione geografica dei propri territori, i loro commerci dipendevano, in gran parte, dalle numerose richieste d’acquisto di materie tessili che gli pervenivano dal regno di Naren. Fu poi la volta di Cylaetra e di Mylaetra, sulla quale Dovan indugiò più di quanto non fosse stato apparentemente necessario. Negli occhi di entrambi si leggeva molto di più delle frasi banali che si stavano scambiando, qualcosa che andava oltre la semplice simpatia. Si sfiorarono le mani, prima che Dovan asse a salutare i reali ed in quel momento gli occhi della donna si velarono di lacrime. Mark, Andrew e Greg furono ringraziati per averle salvate dai goroi alati e altre parole di scuse furono rivolte a Lisa per il suo rapimento. Deidar abbracciò calorosamente le sorelle e finalmente Mylaetra poté sfogare il pianto, sia per la partenza del fratello che per quella dell’uomo amato. Si inchinarono poi davanti ad Avoran e a Talandria, essi li fecero rialzare e fu il re, con voce affaticata a parlare: «Non indugiate adesso, la guerra non aspetta nessuno, tanto meno coloro che cercano di evitarla. Naren sarà presto informata del vostro arrivo, la regina Nailie vi accoglierà a braccia aperte». «Maestro Dovan, faccia attenzione poiché un cammino difficile vi attende di là dall’Oceano. Giovani allievi, Greg, Deidar, seguite le istruzioni del maestro, non lasciate che il vostro cuore si incupisca, credete nella speranza poiché solo con essa si può sperare di sconfiggere il nemico» proseguì Talandria con tono dolce e materno. Greg non era tanto sicuro di quell’ultima affermazione: certe cose si rivelavano inevitabili solo se si credeva nella speranza di evitarle. Solo la volontà poteva
rovesciare gli avvenimenti, dando un nuovo filo conduttore alla storia. Deidar abbracciò i genitori rompendo quel momento formale mentre gli altri salivano a bordo, soffermandosi al parapetto ed Andrew si posizionava davanti al pannello di controllo. Il principe fu l’ultimo a salire e da terra alcune guardie sciolsero le cime che trattenevano la Darlidan al molo. Migliaia di mani si levarono dai Porti di Smeraldo per salutare la nave che, con i motori mantenuti al minimo, si allontanava dalla riva. Dal ponte Greg ricambiava il saluto, imitato anche dagli altri. Riusciva a vedere ancora i volti delle persone: in essi vi leggeva sentimenti non dissimili né dai suoi né da quelli dei suoi amici. La guerra era calata su tutti loro, aggiungendo un nuovo pericolo a quello che, con prepotenza, si era impadronito delle loro vite, sconvolgendole. Scorse Andrew cupo, come gli altri del resto, impegnato a manovrare il timone della nave: i pensieri erano lontani, alle loro famiglie, nessuno aveva voglia di parlare mentre il Sole compariva, scarlatto nel cielo, coperto in lontananza da nubi. Scorse Dovan, appoggiato alla balaustra di poppa, ancora intento a fissare i Porti mentre le sagome delle persone si facevano via via indistinte. Socchiuse gli occhi a sua volta per veder meglio nella luce dell’alba: le tante mani ancora non avevano cessato di tributare loro il saluto, molte persone si erano arrampicate sugli scogli dell’ingresso dei Porti di Smeraldo per assistere alla partenza. Contrariamente a quanto facevano quelle al molo non agitavano le mani, sembravano quasi statue nelle loro posizioni maestose. Quegli uomini e quelle donne, in un unico gesto, avvicinarono le mani e poi le levarono in alto, mentre un canto, l’ultimo regalo di Renodia ai suoi salvatori avvolgeva la Darlidan.
Cime di monti, Colli lontani, Gemiti di pianti, Raggi diafani.
Il vento del mondo ha cambiato il destino. Mai più di un uomo è certo il cammino. Heinar divino, degli astri il creatore Sul giovane mondo inviò il segno dell’amore La coppia divina, scesa nel mondo, Il suo compito svolse fino in fondo. La vita fu così originata Di spiriti, piante e animali la terra fu fecondata Ma se nel segno d’amore il disegno divino si consacrava Nel cuore dei figli del padre diletti l’invidia strisciava Mentre la madre nel suo grembo proteggeva la stirpe amata I demoni condussero un’esistenza sbagliata Moglie e marito si divisero allora Mentre le due razze fiere combattevano allora. Fin quando un giorno la bontà della dea fu ingannata La sua anima imprigionata, l’umanità condannata. Nel nome del male si erse un nuovo impero Senza che l’uomo vi si opponesse fiero. Behel, il Nemico, dei Pari il Gran Signore Sotto il giogo servile mise l’uomo inferiore. Il suo volere era legge sul pianeta ancestrale
Il desiderio di potere fu padre del male. La vita dell’uomo infine tramonta Per nessuno dei Pari questo conta: Un servo valoroso divenne l’araldo Da quel giorno il suo spirito divenne più saldo. Del secondo la voce ammaliava un ruscello Ma la sorte lo cambiò per volere di quello Che del mondo fu la piaga Cosicché quando parla il caos dilaga Si levan tempeste, Frutto di Adramelech, la Voce Celeste. Occhi dal nulla scrutano il fato All’onnisciente Argo niente è celato. Kaliban il possente, Fu dai Draghi dilaniato, Il suo desiderio morente Dal Signor fu realizzato. Iblis l’infido, Bocca del Male, A scorpi e serpi bramò somigliare. Hyperion l’invincibile ha forma gradita, All’occhio umano pare amica.
Ali iridescenti, macchiate di sangue, Svelan ben presto la sua fame che langue. Delle melodie Silvestri fu Minstrael l’allievo Ma nel suo flauto certo non troverai sollievo. Illusioni e magie esso può generare, Su presto, sii svelto, non farti incantare! Giungono infine gli ultimi due, Insieme e per mano camminan perché Di dolore e morte dan prova di sé. Colei che Sublime conduce le schiere Di Sangue per il Signor colma il bicchiere Tutto il Creato risponde ai suoi appelli, Ella è Lilith dai cerulei capelli. Della Morte l’effigie porta sul volto, Non rivelarti con lui un essere stolto. Della conoscenza infinita ha aperto le porte, Quello è Mefistofel, Signore della Sorte. Il ritorno dei Pari fu la Prova Che il Fato sul pianeta posa non trova. Il glorioso Impero cadde a sua volta, Dal cielo gli Angeli trovaron risposta:
Le Pietre del Potere, grandi alleate, Andavano infine per sempre celate. A Junatar la fredda riposò tra i ghiacci, Nella Verde Renodia scelse i crepacci, Del Fuoco di Flammaria un’altra scelse il mantenimento, Di Zolon vorticante provocò il movimento. Ma una sola Pietra rifiutò la decisione, Cantò ai saggi la propria opinione. Di un bimbo il destino decise di mutare, Poiché nel suo cuore si poteva sperare Di portare la pace ed un Mondo diverso, Dove il destino non sarebbe stato avverso Ausel il Grande benedì il bambino, Ne scrutò il futuro e questo fu il vaticinio: Nella tenebra Oscura la tua Luce porterai, Nei giorni dell’oscurità la tua Verità troverai, Dall’abisso dell’oblio la tua forza si sprigionerà, Malgrado tutto il male prevarrà. Dure prove ti aspetteranno Per battere infine l’antico Tiranno La sua fine non è lontana:
Questo è il tuo destino, Figlio di Talarana.
Poi, mentre la nave era ormai troppo lontana e le persone sugli scogli si facevano confuse, il canto cessò e gli occupanti rimasero a bocca aperta per qualche secondo. Greg si appoggiò alla balaustra mentre nei suoi occhi scorreva veloce il riflesso delle onde dell’oceano, veloci come le nuove domande che gli affollavano la mente. Aveva appena incrociato lo sguardo dei suoi amici quanto gli bastava per capire quello che solo poco dopo Deidar fu in grado di spiegare: «Gli Esperidi hanno cantato. Quando essi cantano lo fanno per una sola persona. Hanno cantato per Greg» Andrew, comprendendo immediatamente la situazione fu accanto a Greg. «Tutto a posto amico mio?» chiese, non sapendo che reazione dovesse aspettarsi. Greg accolse la domanda con un sorriso, annuendo: tutto si stava facendo adesso più chiaro mentre da dietro le sue spalle sentiva Deidar ripetere a Lisa e a Mark che per quanto appartenesse alla loro stessa razza non aveva potuto comprenderli. “Gli Esperidi cantano per una sola persona”. Avrebbe dimenticato difficilmente quelle parole. Andrew, sollevato, riprese posto davanti ai suoi strumenti di navigazione e Greg raggiunse Dovan, seduto di spalle sul ponte di poppa. Allievo e maestro si scambiarono un lungo sguardo di consapevolezza: Dovan doveva già conoscere la particolarità degli Esperidi e fu lui a precedere Greg prima della domanda che sapeva avrebbe voluto fargli in quel momento. «Troverai le tue risposte, Greg, te lo giuro, le troverai…» disse mentre un sorriso lieve compariva sul suo volto. Si alzò, appoggiandosi alla balaustra mentre il Sole saliva nel cielo nella sua corsa quotidiana e perdeva il bagliore rosso. Greg fissò la grande distesa d’acqua che si estendeva davanti ai loro occhi, percorsa dai raggi cangianti e sentì un brivido, come fosse un segno di un’acquisita consapevolezza, percorrergli la schiena. Sì, là, oltre l’orizzonte, avrebbe trovato le risposte che cercava.
Nota Biografica
Nato e cresciuto a Firenze, inizia a scrivere alle elementari anche se alcuni tentativi di scarabocchi sono documentati fin dall’asilo. Famoso per aver lasciato segni pittorici del suo aggio ovunque (fogli, banchi, persone), crescendo si apiona a troppe cose per sceglierne solo una quindi si iscrive e si laurea presso la Facoltà di Design dove può esprimere e sperimentare il suo essere poliedrico. Inizia a scrivere il primo libro della Saga a sedici anni ma inizia a crederci solo dopo averlo cestinato e ricominciato dall’inizio per la quinta volta. Attualmente lavora alla stesura di alcuni racconti e romanzi brevi. Ha pubblicato, insieme a Maria E. Gattuso, il romanzo Adam&Eva - Paradisium, pubblicato dalla Casa Editrice Il Ciliegio.
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Di prossima uscita: Memorie di Talarana III