Kidnapped - Intrighi Di Stato: Intrighi Di Stato 585p24

PIERPAOLO MAIORANO

KIDNAPPED Intrighi di Stato

Youcanprint Self-Publishing

Copyright © 2015 by PIERPAOLO MAIORANO ed. 2018

ISBN: 9788893063142

Cartaceo ISBN 9788893062749 Audiolibro ISBN 9788892660762

Copertina, foto, grafica, impaginazione, booktrailer, e-book, sono stati da me realizzati come DIY (Do It Yourself).

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Sito ufficiale: https://kidnapped.ilpierpo.it

Sito dell’autore: https://ilpierpo.it

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Anche se ispirata da un fatto reale, la seguente storia è frutto della fantasia dell’autore, così come i nomi di persona e i luoghi dove è ambientata.

Legenda:

La storia è raccontata direttamente dai protagonisti, Steven e Bruce. Con l’intermezzo della voce narrante a integrare le fasi intermedie. Quando racconta Steven ho utilizzato un carattere normale, per Bruce ho usato il corsivo e quando interviene la voce narrante ho inserito il primo carattere della frase in neretto. La narrazione di Steven e di Bruce è separata da una riga vuota, mentre la terza voce è preceduta e seguita da due righe vuote.

Nella vita, si può essere corretti e onesti quanto si vuole ma, in un attimo, la propria vita può trasformarsi in incubo! La parte riguardante la mia vicissitudine, non auguro di viverla neanche al mio peggior nemico. Non tanto la sofferenza, quanto il sentirsi traditi dal proprio Paese. Da coloro da cui dovresti sentirti protetto e tutelato.

“Rumori di i sul portico. È Bruce mi dico, e gli vado incontro visto che spesso torna a casa portando borse e pacchi. Neanche il tempo di toccare la maniglia che la porta mi travolge. Fanno irruzione almeno dieci persone in assetto da guerra. Tre mi si avventano sopra, mentre gli altri, facendo luce con le torce posizionate su dei fucili, ispezionano la casa. Non trovando nessun altro, mi trascinano in un furgone. Un’azione talmente fulminea, che non ho modo di oppormi e quando cerco di chiedere cosa stia succedendo, mi colpiscono alla nuca stordendomi.”

Mi sveglio tutto sudato. Ancora oggi, a distanza di anni, rivivo quella scena sotto forma di incubo. Mi perseguiterà per tutta la vita, sempre nella stessa maledetta sequenza.

Steven

Prologo

Periferia sud di Dallas. Un tranquillo giovedì pomeriggio. Un quartiere residenziale. Un lungo e silenzioso viale alberato contornato da villette. Un’operazione fulminea, durata quattro minuti e ventotto secondi, tanto rapida, che nessuno si accorse di nulla.

Ore 15:58… «Thompson, siamo in posizione. La casa è circondata. Appena ci dai l’ok, partiamo…» «Direttore ne è proprio certo? Non abbiamo riscontri inconfutabili. Potrebbe essere un azzardo. Lo abbiamo fatto pedinare per settimane e non è emerso alcun indizio, non ha fatto nulla di sospetto. Conduce una vita normale e…» «Barry, i documenti che abbiamo trovato nel blitz di Austin parlano chiaro. Indirizzo e foto di chi sono? E comunque è tardi per i ripensamenti. Rivediamo i dettagli dell’azione.» «È solo in casa. Nessun allarme e i vicini sono tutti assenti. Sarà un’operazione rapida e pulita.» «Dove lo trasferiamo?» «Alla fattoria. È il rifugio più attrezzato.» «Ok allora, azione!»

«Vai con l’ariete…» «Forza, dev’essere qui da qualche parte.» «È sotto la porta. Noi lo immobilizziamo, voi controllare il resto della casa.» «Libero...» «Libero...» «Libero...» «Portatelo al furgone, veloci, veloci!» «Si sta riprendendo, incappucciatelo...» «Ma cosa... chi siete, cosa vole...» «Fatelo tacere... Thompson, lo abbiamo preso. Ci stiamo dirigendo alla sede concordata.»

Day 0

Ripresi i sensi quasi subito, ma finsi di essere ancora incosciente per ascoltare i loro discorsi. Ero terrorizzato. Cosa mi stava capitando? Parlavano di operazione andata benissimo, che le informazioni corrispondevano e di aver catturato il capo dell’organizzazione. Si aspettavano un riconoscimento per la precisione e la rapidità dell’operazione. Avevano catturato il capo dell’organizzazione? Cercai di capire qualcosa in più di loro. Il loro abbigliamento, il loro armamentario non davano adito a dubbi, sicuramente appartenevano a qualche agenzia governativa. Ma cosa volevano da me? Non mi feci prendere dal panico e, come se avessi già vissuto simili situazioni, avevo già ben chiaro il da farsi. Sentii distintamente ordinare da chi comandava, di dirigersi verso nord, quindi iniziai a calcolare il tempo di percorrenza per avere un’idea di dove mi stessero portando, ascoltando ogni rumore, odorando qualsiasi profumo. A un tratto uno di loro: «Ma siamo proprio sicuri che questo sia un pericoloso terrorista? A me sembra uno normale. Anche dalle poche parole che ha detto sembra americano. Speriamo che Thompson non abbia preso una cantonata!» Dedussi che questo Thompson, doveva essere il capo… bene, pensai. Più allarmante trovai la frase successiva, «Problemi del capo ma soprattutto di questo tipo. Anche se non fosse chi pensiamo, sappiamo bene la sorte che gli toccherà!» Il fatto che mi avessero scambiato per un terrorista era palese e contavo di chiarire la mia posizione in pochi minuti, quell’ultima frase però mi tolse tutte le certezze e realizzai di trovarmi in una brutta situazione. Iniziai a temere per la mia vita, non era certo buttata lì a caso quella frase.

Ogni giorno si sentiva e si leggeva di errori giudiziari legati ai metodi adottati dalle varie agenzie. Tacquero per il resto del tragitto, e potei concentrarmi nuovamente su durata del percorso, rumori, odori e qualsiasi altro indizio potesse farmi capire dove fossimo diretti. Il silenzio fu rotto dopo un’ora circa di viaggio, da una preghiera, in prossimità di un cimitero, ricordando due loro colleghi. Pensai velocemente. Direzione nord… in viaggio da un’ora circa… il cimitero… quasi sicuramente ci trovavamo a Denison. Dopo poco, lasciarono la strada asfaltata. Prima una strada sterrata, quindi attraversano il greto di un fiume. «Attento, tieniti tutto a sinistra che lì l’acqua non supera i venti centimetri. Se sbagli ci tocca un bel bagno fuori stagione.» Un fiume… dev’essere poco più che un rigagnolo, vista la profondità. Ma dove precisamente... “Pensa, Steven, tu questa zona la conosci a menadito.” Altri dieci minuti e arrivammo a destinazione. Quando mi trascinarono giù dal furgone, sentii l’odore inconfondibile di un fienile, abbandonato o comunque vuoto. Nessun altro tipo di rumore indicava che ci trovavamo in un posto isolato. Mi trascinarono di peso per alcuni metri. Dall’odore di muffa intuii che ci trovavamo sottoterra, altro buon indizio. Mi portarono in una stanza, e mi spinsero su una brandina slegandomi e togliendomi il cappuccio. Solo allora finsi di riprendere i sensi, e chiesi nuovamente cosa stesse succedendo. Senza rispondere chio la pesante porta dietro di loro. Mi guardai intorno, la stanza oltre al letto e una sedia, era spoglia e priva di finestre. L’impianto elettrico era di tipo industriale, l’impianto di aerazione potente. Mi venne da pensare… “È ata poco più di un’ora e mezzo da quando hanno fatto irruzione in casa. Bruce sicuramente è rientrato, chissà come sarà spaventato.”

Non potevo abbattermi, per lui e per me stesso. Iniziai quindi a studiare un piano d’azione.

Quando tornato dal lavoro trovai la porta divelta, cercai Steven dappertutto, ma di lui nessuna traccia. Da una prima rapida occhiata in casa non mancava nulla, solo la porta sradicata e delle piccole macchioline di sangue sul pavimento. La prima cosa che pensai, fu che Steven si fosse sentito male e avessero buttato giù la porta per soccorrerlo. Chiamai il numero di emergenza sanitaria ma non avevano ricevuto richieste di aiuto dal nostro indirizzo. Ne fui sollevato, ma poi pensai a un’aggressione. Richiamai il 911 per denunciare l’effrazione e la scomparsa di Steven. Due pattuglie arrivarono in capo a pochi minuti. Effettuarono i rilievi e interrogarono i vicini. Nessuno aveva sentito o visto nulla. Non potendo fare altro, m’invitarono ad andare alla centrale a sporgere denuncia. Alla stazione di polizia chiesi della mia vecchia amica, l’agente Fernanda Roy. «Bruce, sei proprio tu?» «Fernanda... che significa detective Roy?» «Ho avuto la promozione. Ora sono detective. Vieni di là, dimmi tutto.» «Steven, il mio compagno, è scomparso, ho trovato la porta divelta e di lui nessuna traccia. Tutte le sue cose sono a casa. Non ho la più pallida idea di cosa sia potuto capitare. L’ho visto l’ultima volta alle due. Lui è tornato a casa, io avevo il rientro.» «Che tu sappia aveva nemici? Ha avuto qualche litigio nelle ultime settimane?» «No. Steven è una persona mite e buona. Pensa che preferisce andarsene anche se ha qualche battibecco per strada. È qualcosa di più grave, ma non riesco a capire chi ce la possa avere con lui, con noi. Stiamo insieme da un anno e non abbiamo mai avuto problemi neanche con i vicini.» «A proposito dei vicini. Nessuno ha sentito né visto nulla. Ed è strano. Facciamo

in questo modo, ora stendiamo il verbale, poi trova un posto dove stare, non mi sembra sicuro rimanere lì. Tranquillo, ne verremo a capo e lo ritroveremo. Te lo assicuro.» «Grazie Fernanda. Trovalo. Non sono sicuro che reggerebbe, è troppo sensibile e pacato. Poi, senza di lui mi sento perso.»

Day 1

Seguendo il consiglio di Fernanda, avevo preso una camera in un motel a qualche miglio da casa. Appena sveglio ancora non mi rendevo conto di ciò che era successo. Mi venivano tanti pensieri strani che non riuscivo quasi a connettere, e analizzando quel poco che eravamo riusciti a ricostruire, rivivevo terribili momenti già vissuti da bambino. Alle nove mi chiamarono dalla società. Cazzo, non avevo avvertito della scomparsa di Steven e io non ero in grado di andare al lavoro. Dovevo pensare velocemente. Richiamai e mi diedi malato. Per Steven era più facile. Lui spesso si assentava per lavoro, bastava comunicarlo alla segretaria. Iniziai ad andare casa per casa a interrogare i vicini. Nessuno seppe dirmi nulla ma, quando oramai le speranze di riuscire a scoprire qualcosa di utile stavano svanendo, una coppia di anziani coniugi, che abita all’inizio del viale, insistendo, ricordò che da qualche giorno un furgone di un’azienda elettrica, bianco con delle scritte verdi e celesti, stazionava all’inizio del vialone ventiquattro ore su ventiquattro. Non seppero dirmi a quale compagnia appartenesse. Un furgone bianco… perché non mi suonava nuovo? Riesaminai mentalmente le settimane precedenti, ripercorrendo, nel limite del possibile, tutti i nostri spostamenti. Dal momento in cui uscivamo di casa la mattina, al tragitto che compivamo – sempre lo stesso –, al bar dove eravamo soliti fare colazione, all’arrivo in ufficio. Il ristorante che frequentavamo ogni giorno, la gente che incontravamo… cercando di focalizzare qualsiasi particolare, anche gli sguardi delle persone che incrociavamo. Improvvisamente, ricordai del furgone! Un paio di settimane prima mentre uscivamo per la pausa pranzo, il portiere ci fermò, indicandoci un furgone parcheggiato di fronte, dall’altra parte della strada. Non capiva perché da qualche giorno era uso fermarsi lì. Anch’io lo vedevo la sera quando tornavo a casa – ripensandoci era del tutto simile a quello descritto dai due vecchietti –, anche a me sembrava strano e al rientro dalla pausa, convinsi Steven a fare il

giro largo per arci davanti. Un uomo in tuta bianca, nero, corporatura media, senza capelli e con una cicatrice sulla tempia destra, iniziò a fissarci da lontano e ci seguì con lo sguardo fin quando non entrammo. Quando arrivati a tu per tu, incrociai il suo sguardo, ricordo che rabbrividii. Dopo aver fatto una segnalazione anonima alla polizia, non si fermò più lì. Collegai anche un altro episodio, accaduto qualche sera dopo. All’uscita del ristorante, avendo la sensazione di essere seguito, voltandomi vidi un grosso SUV nero che procedeva a o d’uomo, qualche decina di metri dietro di noi. Curiosità e paura mi indussero a prendere Steven sotto braccio e spingerlo ad attraversare la strada. Il conducente del SUV, poiché ci eravamo fermati fra due auto in attesa di are, non poté far altro che accelerare andoci davanti. Anche se buio, l’insegna di un negozio illuminò il volto dell’uomo seduto dal nostro lato: nero, pelato, giacca di pelle e macchia scura sulla tempia... era lo stesso uomo! Poteva essere una buona traccia, quindi andai immediatamente a riferirlo a Fernanda spiegandole tutto nei minimi dettagli. Rimasi fino al pomeriggio in centrale a guardare le foto segnaletiche, ma nulla. Avevo il volto di quell’uomo chiaro davanti agli occhi: non era fra gli schedati. Con l’aiuto del disegnatore riuscii a ricostruire quel volto su carta. Incredibile la somiglianza finale. Subito dopo, un agente scannerizzato il foglio, lo diramò ai vari dipartimenti.

Day 2

Anche la seconda nottata la ai in bianco. Appena chiudevo gli occhi, mi appariva il volto di Steven sorridente… all’improvviso lo vedevo precipitare nel vuoto. Non feci colazione. Andai a casa ad aspettare gli operai per riparare la porta. Entrare in quella casa e sapere di non trovare Steven fu davvero dura, ma dovetti farlo. Quando gli operai finirono e rimasi solo, la perlustrai da cima a fondo. Un po’ per controllare se mancasse qualcosa, ma soprattutto nella speranza di risvegliarmi da quell’incubo e trovare Steven sulla veranda in giardino, dove amava rifugiarsi quando voleva rilassarsi. Purtroppo era tutto vero! Controllando accuratamente, capii che qualcuno si era introdotto in casa. Apparentemente era tutto in ordine, ma avevano rovistato fra le nostre cose, nell’armadio, nei cassetti, perfino in bagno, lasciando in ordine ma non come eravamo abituati. La cassaforte! Andai a controllare. Steven l’aveva nascosta proprio bene, nel pavimento della veranda, sotto la sua sedia preferita. L’aprii e per fortuna non l’avevano trovata, non mancava nulla. Presi un po’ di contanti e il portafortuna di Steven. Piansi ricordando di quando mi accolse in casa. Dopo una settimana volle che sapessi cosa fare se si doveva partire per qualche giorno e m’insegnò dove si chiudeva il gas, dov’era il contatore, come s’inseriva l’allarme e mi mostrò la cassaforte. Volle che memorizzassi la combinazione e inserì le mie impronte digitali, senza le quali non si sarebbe aperta. Dopo tutto ciò che mi era capitato, quello era un attestato di grande fiducia. Rimasi a casa per tutto il giorno, seduto su quella poltrona. Prima di andare via, seguii i suoi insegnamenti, chiudendo il gas, staccando la luce e avendo cura di controllare che l’allarme fosse inserito.

Per la seconda notte non chiusi occhio. Troppi pensieri si sovrapponevano nella mia mente: quale strategia adottare per uscire da quella situazione… vivo, cercare di attutire i morsi della fame visto che non mangiavo da due giorni, e, cosa che mi preoccupava di più, lo stato d’animo di Bruce. Come stava reagendo a un evento che aveva già vissuto quando aveva appena dieci anni? Rabbrividisco ogni volta che ci penso. Una mattina come tante altre, la mamma in procinto di accompagnare i figli a scuola, il veloce saluto al padre che rientrava dal turno di notte. Tutto come sempre, invece al ritorno, a ora di pranzo, il dramma! La casa a soqquadro e il padre scomparso. In casa c’erano tutti i suoi vestiti e gli effetti personali, documenti e carte di credito. La denuncia di scomparsa, i mesi di inutili ricerche e la rassegnazione al peggio, quando si fece strada l’ipotesi fosse rimasto vittima della gang di balordi, che in quel periodo seminava il terrore in zona, compiendo razzie e rapine e non esitano ad ammazzare chi tentava di opporsi o li vedeva in volto. Pensarono fosse l’unica spiegazione plausibile alla sua scomparsa. Bruce, costretto a crescere senza una guida, lo ha fatto con una determinazione commovente, sviluppando forti valori morali e una bontà fuori dal comune. Tanto che, quando dopo anni scoprì che il padre era vivo e aveva organizzato lui quella messinscena, stanco della vita che conduceva e innamoratosi di una giovane ragazza, non aveva esitato a perdonare, senza provare alcun rancore verso di lui. Stavolta? In un certo senso si stava ripetendo la stessa situazione… solo che il ragazzo era ancora fragile per ciò che gli era accaduto. Sarebbe riuscito a superare anche questa? ai una giornata d’inferno. Alla fine, stremato, riuscii ad addormentarmi e sognai l’incontro col mio ragazzotto di campagna, il percorso compiuto fino all’inizio di quell’incubo e la speranza di rivederlo. Prima di incontrarlo, il lungo viaggio in treno che dalla mia cittadina di provincia, mi portava a Dallas era monotono. Durante il viaggio non mi piaceva chiacchierare, preferivo stare con i miei pensieri o pianificare la giornata. Amavo – e mi mancano – quei paesaggi che scorrevano veloci, sempre gli stessi eppure ogni volta diversi. In quei cento e a minuti, rivivevo ogni volta la mia vita.

Che, all’epoca, era felice. Credevo di essere una persona realizzata, alla quale mancava un ultimo step per essere totalmente appagato: un figlio. Io e la mia ex moglie lo avevamo cercato dal primo giorno ma, nonostante nessuno dei due avesse problemi – a quanti esami ci eravamo sottoposti – non arrivava. Il giorno del mio trentacinquesimo compleanno, era una domenica di febbraio e faceva un freddo boia, la mia vita cambiò... Costretto a correre urgentemente in ufficio per problemi riguardanti una spedizione in Europa che doveva partire la mattina successiva, presi il solito treno. Quattro fermate dopo di me, salì sul treno un ragazzo sui venticinque anni, che avevo già visto altre volte di sfuggita. Nonostante il treno fosse vuoto, entrò nello scompartimento dov’ero io. Mi chiese, a dire il vero molto garbatamente, se mi desse fastidio la sua presenza, spiegandomi che negli altri, i riscaldamenti erano spenti. Io, nervoso per essermi dovuto sobbarcare quella sfacchinata, proprio quel giorno, risposi in modo sgarbato. Il ragazzo chiese scusa e se ne andò. Dopo qualche minuto però venne il controllore a chiedermi spiegazioni, seguito dal ragazzo che cercava di farlo desistere. Mi fece una partaccia: il povero ragazzo, infreddolito, era andato a chiedergli se potesse accendere il riscaldamento in qualche altro scompartimento e gli era scappata la mia risposta sgarbata. Mi resi conto di aver sbagliato, mi scusai e proseguimmo il viaggio insieme. Fui io a rompere il ghiaccio iniziando a chiacchierare ed ebbi conferma della prima impressione. Di un ragazzo schivo e molto educato. E una volta rotto il ghiaccio fu piacevole chiacchierare con lui. Dopo quella domenica lo incontrai altre volte, e sembrava mi volesse evitare. Quando mi incrociava, sguardo basso, un veloce saluto e via di corsa il più lontano possibile da me. Il mese successivo lo incrociai a ora di pranzo nella downtown, stava andando in sauna. Non avevo mai pensato di andare in una sauna ma visto che alcuni colleghi ne parlavano come di un toccasana e visto che avevo ancora un paio d’ore libere, pensai fosse un buon modo per rilassarmi. Gli chiesi se potevo andare con lui, rispose sorridendo se ne fossi sicuro. Confermai non avendo la benché minima idea di cosa mi attendesse. Giunti alla sauna, poco distante,

eravamo i primi. E lui aveva capito che non immaginavo neanche lontanamente cosa riservasse quel posto e quindi mi spiegò un po’ come funzionava. Nello spogliatoio, mentre riponevo con cura i vestiti, lui era già uscito, iniziò ad arrivare gente. Probabilmente frequentatori abituali che, mi accorsi, guardavano in maniera strana. Non avevo ancora capito e scambiarono i miei tentennamenti per interesse. Quando cominciarono ad adescarmi, dapprima con sorrisetti, poi con alcuni apprezzamenti per infine are alle vie di fatto, scappai. Cercai lui e aggirandomi fra i corridoi ai davanti a una serie di camerini stretti e lunghi, nei quali c’erano dei lettini, un appendiabiti e una sorta di comodino. Fanno i massaggi, pensai. E decisi di andare a chiedere alla reception quanto costava una seduta. La mia richiesta li fece sorridere, dissero che non potevano accontentarmi, invitandoli a proseguire l’esplorazione. Sembrava il labirinto di Dedalo, tanti stretti corridoi intervallati da enormi stanze. In una di queste c’era un grande idromassaggio. Solo che era piena di persone nude. Proseguendo, entrai in una stanza totalmente buia, in fondo alla quale campeggiava un maxi schermo sul quale era proiettato un film. Il aggio dai neon del corridoio, al buio totale, fece sì che appena entrato... non vidi più nulla! Più avanzavo più sentivo toccarmi dalle persone presenti. Non so quante mani mi palparono tutto il corpo, ci fu uno che addirittura mi si appoggiò dietro. Terrorizzato, dopo avergli dato una gomitata uscii. Mi rifugiai nello spogliatoio e, mentre in preda al panico stavo cercando il mio armadietto, arrivò Bruce. Gli spiegai ciò che mi era capitato e lui rise di gusto... «Ma vuoi dirmi che davvero non sai cosa si fa in queste saune?» Alla mia ingenua risposta, incalzò: «Povero inesperto amico. Però vedo che ti è piaciuto...» e accovacciandosi, si curò della mia eccitazione. Per me fu scioccante constatare che mi era diventato duro, ancora di più, che mi stava piacendo quel massaggio che Bruce, con maestria, stava eseguendo. Fu un’esperienza a dir poco fantastica che interruppe dopo poco. Lì poteva arrivare qualcuno, quindi mi portò in uno di quei camerini che credevo fossero deputati ai massaggi. Ne combinammo di tutti i colori, lo feci mio in ogni posizione

possibile e immaginabile. Alla fine, stremati, andammo a fare la doccia e uscimmo da quel posto. Proseguii il solito tran tran quotidiano nelle settimane successive, solo che ripensavo sempre più spesso a quell’avventura. Non riuscivo a credere che mi fosse piaciuto così tanto. Mi ritrovavo sempre più spesso eccitato, a qualunque ora del giorno e della notte. Io, che con mia moglie praticavo sesso “tradizionale”, sempre la solita posizione, e se mi azzardavo a chiederle qualcosa di diverso... apriti cielo! Lo rividi dopo un paio di mesi in treno. Finimmo di nuovo in quella sauna. E fu di nuovo un’esperienza sconvolgente, tanto che iniziammo a vederci regolarmente un paio di volte a settimana. Poi anche il sabato e la domenica, a metà strada fra i nostri paesi. Tanto mi prese la cosa, che iniziai ad andare in sauna anche quando non c’era lui. Iniziò a piacermi la dark room, dicono che si chiami così quella stanza completamente buia, dove non sai con chi hai a che fare. Ovviamente sempre con le dovute precauzioni. Questa doppia vita andò avanti per più di un anno. Mi appagava. Ero più sereno. Finalmente riuscivo a sfogare tutte le mie voglie represse. E come sempre quando si scopre che una cosa piace, se ne abusa. Ero talmente sicuro che nessuno mi avrebbe mai scoperto, abbassai la guardia. Divenni più audace e temerario. E fui punito! Una sera, uscendo da un locale – oramai conoscevo tutti i luoghi di ritrovo, e cambiavo per non rischiare di incontrare Bruce troppo spesso – mi vide abbracciato a un ragazzino conosciuto poco prima... il fratello di mia moglie! Il quale appena mi vide, evidentemente conosceva bene il posto, si avvicinò iniziando a insultarmi. Cercai di negare fingendo sdegno. Non funzionò. In capo a un’ora mia moglie e di conseguenza l’intera famiglia sapeva tutto. Il giorno dopo lo sapeva tutto il paese!

Subii un vero e proprio processo al cospetto di tutti i parenti. Arrivarono a sostenere che se non avevamo figli era colpa della mia omosessualità. ai dieci giorni d’inferno, mi costrinsero a non andare al lavoro perché secondo loro, sarei andato subito in quei posti. Mia moglie diventò un’aguzzina – “Frocio, fai questo” ... “Checca, vai a fare la spesa” (ed erano le cose più gentili che mi diceva) – oramai il rapporto era irrecuperabile. Non potevo uscire di casa, che venivo additato da tutti, quindi presi una decisione drastica: feci le valigie e me ne andai, chiudendo per sempre quel capitolo della mia vita! Fittai una bifamiliare a Dallas e tornai al lavoro. E ricominciai a frequentare la sauna nella quale rincontrai Bruce. Quando gli spiegai perché non mi ero fatto più vedere, si arrabbiò, «Pensavo che stessimo bene insieme. Io mi sono affezionato a te e credevo fosse lo stesso per te. Me ne vado, ti credevo un altro tipo di persona.» Faticai non poco a convincerlo e alla fine lo portai a casa mia. ammo la notte insieme, la mia prima volta con un uomo, e la mattina, prima di andarsene, chiarii le cose: «Io sono comunque etero, questo per me è solo uno sfogo. Se a te sta bene così…» Accettò. Continuammo a vederci regolarmente, quando una mattina si presentò in ufficio mia moglie. Mi chiese di tornare a casa, perché le mancavo ed era disposta a dimenticare quella brutta storia. Non mi convinse, sicuramente lo faceva per non fare la figura di quella che era stata lasciata. Quella cattiveria immotivata, l’incolparmi per il non avere figli, il modo in cui mi aveva trattato… no, non esistevano margini per una riconciliazione. E dopo aver provato quel senso di libertà che lo stare soli provoca, non ebbi dubbi. Non volevo più neanche vederla. La presi di peso e la buttai fuori dall’ufficio, chiamando subito dopo l’avvocato per il divorzio! Mi sentivo bene. Libero finalmente, di trovare una donna che mi capisse, comprendesse le mie esigenze e mi amasse davvero. Pensavo…

Tre mesi dopo: «Steven, da tempo provo un senso di malessere sempre più

opprimente. Non ce la faccio a restare al paese, sono anni che penso di andarmene ma non ne ho mai avuto il coraggio. Grazie a te mi sono deciso. Voglio trasferirmi, trovare un lavoro, iniziare finalmente una nuova vita. Mi dai una mano?» «Certo, se posso, Bruce.» «Mi ospiteresti qualche giorno, giusto il tempo di sistemarmi, trovare una stanza e un lavoro? Pensai che, nonostante avessi messo in chiaro le mie intenzioni e il nostro rapporto, avesse frainteso qualche mia manifestazione d’affetto nei suoi confronti. Solo che io avevo altri progetti, desideravo trovare una compagna e iniziare una nuova vita, con altri presupposti. «Senti Bruce, lo farei volentieri, ma negli ultimi tempi, sto frequentando una donna e...» «Ma sarebbe solo per qualche giorno. Giuro. Non ti darò fastidio, non ti accorgerai neanche di me.» «Assolutamente no! Non se ne parla. Trova prima il lavoro e la sistemazione e poi ti trasferisci.» «Io sono andato già via da casa. Sono due giorni che non dormo e…» Vista la mia irremovibilità, sbottò: «Sì, certo. E io che credevo... ho capito. Non fa nulla, in un modo o nell’altro mi arrangerò. Addio!»

La mia vita proseguì, nelle settimane successive, normalmente. Continuavo a frequentare locali gay e ogni tanto uscivo con qualche ragazza. Solo che più avano i giorni, più un senso di vuoto si faceva strada in me. Bruce non si vedeva più in giro e la cosa, anche se non lo ammettevo, un po’ mi preoccupava. Una sera, in uno dei bar che di solito frequentavamo entrambi, incontrai un suo amico. Lo salutai cordialmente, per tutta risposta quasi mi aggredì. Non riuscivo

a capire perché e faticai a calmarlo. «Sarai contento... avevo ragione quando dicevo al povero Bruce “Stai attento. Quello ti usa e poi ti butta! E ti troverai nei guai.”» «Scusa Ed, ma di cosa parli?» Iniziò a insultarmi, era proprio fuori di sé. Solo l’intervento del proprietario riportò la calma e convinse il ragazzo a spiegarmi il motivo dell’astio che provava nei miei confronti. Alla fine del racconto mi sentii una merda. Cosa avevo fatto? Bruce, dopo la nostra discussione, andò proprio da Ed a chiedere aiuto. Lui, che abitava insieme a tre amici, lo ospitò per qualche giorno, fin quando non lo scoprì il proprietario dell’appartamento e, poiché erano già troppi nel piccolo bilocale, minacciò di cacciare tutti. Bruce, prese le sue cose e andò via. Si trovò costretto a vivere per strada e lì ebbero inizio i suoi guai. Dopo pochi giorni fu coinvolto in una rissa nella quale non c’entrava nulla, e arrestato. Solo dopo giorni appurarono la sua estraneità. La vita da homeless è dura, durissima per chi non è abituato. In una grande città poi, tutto è amplificato. Il ragazzo, finiti i pochi soldi che aveva, costretto a elemosinare e prostituirsi, per riuscire a mangiare e dormire, ben presto iniziò a bere e a far uso di droghe. Il secondo arresto, lo subì in un centro commerciale, scoperto a rubare del cibo. Altri sette giorni in cella e appena uscito si ricacciò nei guai. Grazie all’interesse di un’assistente sociale gli assegnarono un posto in una tent cities, ma appena arrivato subì l’aggressione di un homeless, che lo accusava di avergli usurpato il posto. Lui che, come prima cosa subito dopo essere stato rilasciato era andato a comprare una bottiglia di vodka, in preda ai fumi dell’alcol reagì. La polizia lo trovò svenuto, con ancora la bottiglia rotta in mano, di fianco all’uomo con il quale aveva litigato. Lui non ricordava nulla, tutti gli indizi erano contro di lui e quindi nuovamente in cella. Processato per direttissima, gli fu comminata una pena di due anni. La buona sorte lo aiutò e dopo circa un mese un altro homeless si accusò di quell’episodio scagionandolo. Per Bruce fu l’ennesima mazzata. Immagino lo

stato in cui si trovava, se arrivò a pensare che stare in prigione fosse una sicurezza. In fin dei conti lì aveva da mangiare, da bere e non pativa il freddo. Tornato a casa non riuscivo a darmi pace. Era colpa mia se quel povero ragazzo stava vivendo il peggiore degli incubi. E dopo una notte insonne, realizzai che dovevo aiutarlo. Se gli avessi offerto ospitalità... dovevo fare qualcosa. Lo cercai! Sapere ciò che aveva e stava ando mi aprì gli occhi, mi resi conto di provare qualcosa per quel ragazzotto di campagna che mi aveva aperto gli occhi e fatto provare sensazioni uniche. Dopo giorni di ricerche, lo trovai una sera seduto in un vicolo, sotto la pioggia, ubriaco, con vestiti laceri e sporchi e quattro bottiglie di vino vuote accanto. «Bruce, Bruce… ma come ti sei ridotto!» «Chi sei? Cosa vuoi? Vai via, lasciami stare.» «Sono Steven, ma guarda in che condizioni sei. Su, alzati, vieni con me.» Mentre lo aiutavo a rialzarsi, ebbe uno scatto, tentò di allontanarmi, proprio mentre ava una pattuglia della polizia. pensando mi stesse aggredendo intervenne, e faticai non poco a convincerli che non era come credevano, che lo conoscevo e stavo cercando di aiutarlo. Alla fine ci accompagnarono a casa e solo quando se ne andarono, mi resi conto che Bruce piangeva. Lo abbracciai e lo feci sfogare. «Perdonami Bruce. Perdonami.» ai tutta la notte a farlo ripulire. Gli feci fare un bagno, gli tagliai i capelli, la barba, gli diedi abiti puliti. I due giorni seguenti furono un inferno, chiedeva droga e da bere, e in preda alle ripetute crisi di astinenza praticamente mi sfasciò casa, tanto da costringermi a prendere qualche giorno di licenza dal lavoro per stare accanto a lui. non m’importava, volevo solo che si riprendesse e, dopo una settimana, da solo, ci riuscì. Venne lui a chiedermi di portarlo agli alcolisti anonimi e li frequentammo insieme per qualche seduta.

Due mesi dopo potevo tranquillamente lasciarlo da solo in casa, con alcolici a portata di mano, senza che lui neanche li guardasse. Che bravo ragazzo Bruce, pensando a quanto il mio comportamento lo aveva costretto a soffrire, la sua ferma reazione m’inorgoglì. Riuscì a disintossicarsi sia da droga che da alcol, praticamente con la sola forza di volontà. Alla fine non sapeva come ringraziarmi. «Bruce, tu devi perdonarmi, non certo ringraziarmi. È per colpa di ciò che ti ho fatto che hai avuto tutti quei problemi. Scusami.» Il percorso riabilitativo era quasi completo, mancava solo il test per l’HIV e le altre malattie trasmissibili sessualmente poiché durante i mesi ati a prostituirsi e drogarsi, spesso non prendeva nessun tipo di precauzione, e trovare un lavoro. I test risultarono tutti negativi, e riuscii a farlo assumere nella società dove lavoravo, come usciere. Per la prima volta da quando lo avevo ritrovato, lo vidi felice. Da quel giorno iniziammo a dormire insieme. Nonostante la vita scorresse serena, qualcosa mi bloccava…

Mi svegliai di soprassalto, con le paure di sempre amplificate. Timore che Bruce potesse innamorarsi di qualcun altro, paura di ciò che provavo io nei suoi confronti, perché se fossi uscito indenne da questa brutta situazione, e non lo avessi trovato ad aspettarmi…

Day 3

La giornata iniziò presto per me, nella struttura della FACC alla periferia di Denison. Dopo essere rimasto in isolamento completo, senza mangiare e bere per due giorni, mi portarono nella stanza degli interrogatori, dove trovai quel Thompson e due agenti. «Eccoci qui caro Steven Barrimore, o preferisci essere chiamato Aarif Assem?» «Ma chi siete? Cosa volete da me? Chi è questo Affi come diavolo lo avete chiamato...» «Iniziamo male. Sappiamo benissimo chi sei e che ruolo ricopri nell’organizzazione terroristica. Sappiamo anche cos’avete in mente. Sappiamo quasi tutto. L’unica cosa che ignoriamo, e ce lo dirai tu… è il giorno dell’attentato.» «Attentato? Ma che state dicendo! Avete preso un abbaglio! Datemi un po’ d’acqua, ho sete.» «Ti daremo acqua, cibo e ciò che vorrai, ma solo dopo la confessione.» La preoccupazione per lo stato mentale in cui si trovava Bruce - l’aver ripercorso l’inizio della nostra storia, la sua volubilità dopo ciò che aveva ato, anche se ero certo possedesse grande forza d’animo - non poteva distrarmi. In quei due giorni avevo avuto modo di riflettere a lungo. Dai discorsi ascoltati nel furgone era chiaro mi considerassero un terrorista, non tutti ne erano convinti. E se contavo proprio sulle loro incertezze per chiarire, e convincerli che avevano preso una palese cantonata… quando mi trovai di fronte quell’uomo, beh quelle che fino a pochi minuti prima consideravo certezze, iniziarono a vacillare. Mi resi conto di trovarmi di fronte una persona instabile, verosimilmente frustrata e quindi pericolosa. A quel punto dovevo prendere tempo per prepararmi mentalmente, sapendo che presto avrebbero iniziato a usare le maniere forti. Ho sempre avuto un’alta soglia del dolore, ma avevo paura di farmi prendere dal panico.

«Thompson, giusto? La invito a riflettere bene sulle sue azioni. Ammesso e non concesso che io sia la persona che pensate, ammettiamo che sappia ciò che credete. Ma davvero siete convinti che ve lo venga a dire? Se io fossi davvero la persona che dite, non avrei un addestramento militare? Credete che basti tenermi a digiuno per un paio di giorni? Se io davvero fossi chi pensate, non credete sia disposto a morire, piuttosto che rivelarvi i dettagli di questo fantomatico attentato?» «Parlerai, parlerai. Con le buone o con le cattive!» «Certo con le cattive... Guardi la faccia dei suoi uomini. Lei crede che prima o poi questa storia non verrà a galla? Stia a sentire. Quando si scoprirà questo madornale errore, la sua testa salterà. Ma di lei, sinceramente non me ne frega nulla. Piuttosto penso a loro che per eseguire i suoi dissennati ordini eranno gran parte della loro vita in galera!» Mi interrogarono per tutta la giornata senza ottenere risposte. Come un militare catturato dal nemico, alle loro domande, continuavo a rispondere con le mie generalità.

In attesa che Fernanda chiamasse per aggiornarmi, iniziai a girare per tutta la città, mostrando l’identikit di quel tipo, spinto dalla speranza che qualcuno lo riconoscesse. Andai persino nei locali che frequentavamo. Se ci tenevano sotto controllo, come tutti i riscontri facevano supporre, potevano essere stati anche lì e magari qualcuno lo riconosceva. Andai nella ‘tent cities’ che avevo frequentato in ato, tutti gli homeless che incrociavo, la gente per strada, mostrando a tutti l’identikit e promettendo ricompense a chiunque segnalasse una pista concreta. Nel pomeriggio mi chiamarono alla centrale. Fernanda, vista la mia memoria visiva, volle provare a elaborare il logo del furgone. Quando giunsi nella stanza degli identikit, trovai lo stesso agente del giorno prima. Lo ricostruimmo alla perfezione.

DPD. Fernanda dispose l’invio delle fotocopie dell’uomo, del furgone e del logo,

alle polizie di tutto lo Stato. Gli uomini della squadra sguinzagliarono i loro informatori.

Day 4

«Senatore, ho urgenza di incontrarla al più presto!» «Ma chi parla, chi le ha dato il mio numero personale? Cosa vuole da me?» «Non ha importanza chi sono, le devo parlare dell’operazione che ha commissionato a Carl Thompson.» «Non so di cosa stia parlando e non ho certo tempo da perdere.» «Senatore, o parla con me, o lo farà con le televisioni. Ho pronto un dossier sulle attività…» Il senatore, persona abituata a pensare velocemente, aveva già pensato alla soluzione. E prima che potesse aggiungere qualcosa di compromettente lo interruppe: «Ok, va bene, mi ha convinto. Si faccia trovare fra due ore a quest’indirizzo…» Appena riagganciato, chiamò Thompson sulla linea protetta: «Carl, sei un coglione! Vieni immediatamente al solito posto.» Dopo venti minuti: «Senti un po’ qui.» «Ma questa voce la conosco.» «Quante persone sono a conoscenza dell’operazione, pezzo di deficiente?» «Lui sa tutto perché è colui che deve portare a termine il lavoro. Ma è fidato, giuro.» Il senatore gli fece ascoltare il resto. «Fidato, tanto da avere dei ripensamenti? Se queste sono le persone fidate per te! Chi altri è al corrente dell’operazione?»

«Nessun altro, mi crede così incapace?» «Vai, occupati immediatamente di questo stronzo, e fai in modo che non parli. Se affondo io, vieni giù con me.»

Day 5

Quinto giorno senza avere notizie di Steven. Ero sconfortato al massimo. Tutti i tentativi, tutte le persone che avevo coinvolto, non erano riuscite a scoprire nulla. Avevo distribuito almeno cinquecento volantini con la foto di quell’uomo, senza un solo riscontro positivo. Ero tutti i giorni in centrale, e il vedere la polizia brancolare nel buio non aiutava il mio stato d’animo. Mi deprimevo sempre più. Se, come inizialmente credeva Fernanda, si trattava di un rapimento a scopo estorsivo perché ancora non si erano fatti vivi per chiedere un riscatto? Da un lato ne ero sollevato. In caso si fosse trattato davvero di un rapimento, chi avrebbe pagato? Io non avevo accesso ai conti di Steven, non sapevo nulla della sua situazione finanziaria e non credo che i parenti si sarebbero fatti avanti, dopo quello che era successo. Fernanda mi stava vicino, cercava di farmi distrarre, ma non ci riusciva.

DPD. Nel pomeriggio arrivò la soffiata da parte di un informatore che consigliava di andare a controllare un capannone abbandonato alla periferia sud, nel quale avevano organizzato un’officina illegale. Effettuato il sopralluogo, poiché il posto era frequentato dai bambini del quartiere, non era il caso di rischiare un’irruzione. Il capannone, lungo circa venti metri per dieci di larghezza, aveva tre varchi per il carico/scarico merci che davano sul piazzale rivolto a sud con un’altezza di un metro da terra, un grande accesso sul lato nord e una porticina sul lato est, dalla quale si accedeva a piedi con facilità, alla sopraelevata. Decisero di agire alle prime luci dell’alba. Procurate le piantine del capannone, misero a punto il blitz. Poiché l’area da circondare era vasta, chiesero e ottennero il o dello SWAT. Organizzati gli ultimi dettagli, decisero di riposare un po’.

Durò poco, neanche due ore e li svegliarono. Nel capannone era scoppiato un incendio. La presenza di alcuni homeless che avevano trovato dimora nella palazzina attigua, e avevano dato tempestivamente l’allarme, permise ai pompieri di circoscrivere il rogo prima che il fuoco distruggesse tutto ciò che si trovava all’interno del capannone.

Day 6

Mentre spegnevano gli ultimi focolai, un pompiere, insospettito da una forte puzza, rinvenne il cadavere carbonizzato di un uomo, ancora fumante, a qualche decina di metri dall’edificio. Per la rimozione del cadavere fu chiamata Litz. All’interno del capannone trovarono attrezzi da carrozziere, pitture, varie targhe di auto e moto, oltre agli adesivi con i quali avevano mascherato i furgoni. Il cadavere e l’incendio del capannone, a poche ore dal blitz, convinsero Fernanda che ci fosse qualcosa di più di un semplice rapimento. … «Carl, hai risolto il problema?» «Sì, ma sto male. Non doveva costringermi a…» «E tu avresti dovuto essere più accorto. Ricorda ciò che c’è in ballo. A proposito, come procede?» «Procede secondo i piani…» Mentiva. Non immaginava di avere a che fare con una persona così determinata. Anche se non aveva ancora “forzato” gli eventi, conscio del tempo che ancora rimaneva per poter mettere in pratica la seconda parte del piano. Raggiungere troppo presto il primo obiettivo, avrebbe rischiato di compromettere l’esito finale.

Day 7

DPD. Come ogni mattina prima di andare in ufficio, Horacio portò caffè e ciambelle a Litz, la responsabile della scientifica, sua malcelata ione. Con la scusa di chiedere se avessero trovato qualche traccia, la invitò a uscire, come ogni mattina da quando era arrivata al dipartimento. Una corte serrata, alla quale rimaneva insensibile. Ma non era quello il momento per un nuovo approccio, e dopo averlo ringraziato lo aggiornò. Ancora non c’erano risultati tangibili sui reperti rinvenuti nel capannone, se non su due delle targhe ritrovate, risultate rubate un mese prima ad Austin. Per quanto riguardava il cadavere, allo stato attuale il riconoscimento era impossibile. Privo di documenti, le impronte digitali totalmente mangiate dalle fiamme e aveva una protesi dentale provvisoria. L’unico indizio per risalire alla sua identità, era una medaglietta di tipo militare dalla quale, anche se danneggiata dalle fiamme, Litz sperava di riuscire a cavarne qualcosa. Il caso, ritenuto collegato all’indagine, fu affidato alla squadra di Fernanda. Horacio andò ad Austin a indagare sulle targhe. Fu una rimpatriata per lui. Quanti ricordi, la maggior parte belli, con un’unica eccezione che lo aveva spinto a chiedere il trasferimento. Dodici anni non si dimenticano facilmente e a Horacio sembrò non fosse cambiato nulla; quasi tutti i colleghi di un tempo, stesso arredamento, stessa lavagna nella sala riunioni. Appena varcata la soglia della sala dove si teneva il briefing mattutino di aggiornamento e assegnazione dei casi, lo accolsero tutti con calore. Anche i

nuovi, ai quali appena arrivati veniva raccontata la storia del dipartimento e degli uomini che avevano maggiormente contribuito alla sua crescita, non nascosero ammirazione nei suoi confronti. Dopo i convenevoli lo accompagnarono all’autosalone che aveva denunciato il furto delle targhe. Mostrarono loro la foto del sospettato e lo schizzo del furgone usato. Il proprietario riconobbe immediatamente l’uomo di colore che teneva sotto controllo Bruce e Steven. Era andato due giorni prima del furto a comprare un furgone, presumibilmente uno di quelli camuffato e usato per tenere sotto controllo Steven. Ricordava bene il sospettato, oltre che dalla cicatrice, per il palese nervosismo mostrato alla richiesta dei documenti. Con le sue generalità, Horacio pensò di aver compiuto un bel o verso la risoluzione del caso. Ma, tornati alla centrale, ebbe una spiacevole sorpresa. I documenti erano autentici e regolarmente rinnovati, e l’uomo risultava residente a Houston. Fernanda aveva chiesto l’aiuto dello Houston Police Department, ma gli agenti all’indirizzo riportato sui documenti, trovarono un residence abbandonato da anni. Scavando più a fondo, riuscirono a scoprire un’altra scheda intestata alla stessa persona, ma secretata. Fernanda decise di chiedere aiuto all’ex marito, il colonnello Ben Smith, vice direttore generale dell’intelligence, a Washington DC. Sì trovarono di fronte a due schede gemelle, intestate entrambe a Randy Felton, sessantacinquenne ex colonnello dell’aviazione, ato nel 1998 nei ranghi dell’intelligence. Dalla scheda secretata scoprirono che l’uomo, due anni prima era morto a seguito di un incidente d’auto avvenuto a Brookhaven, Mississippi. Il cadavere dell’uomo, completamente carbonizzato, era stato riconosciuto grazie alle impronte dentali. Nel leggere i rapporti sull’incidente, anch’essi secretati, vennero fuori numerose discrepanze.

La velocità dell’impatto, normalmente non avrebbe dovuto provocare né l’incendio dell’auto né la sua conseguente esplosione; la rapida archiviazione del caso per mancanza di testimoni, pur essendo avvenuto lungo una strada molto trafficata; la scheda secretata; i documenti dell’uomo ancora in circolazione e associati a foto e impronte digitali non corrispondenti a quelle della vittima. Ben, anche se non lo confidò alla ex, si insospettì dal modus operandi, riconoscendolo come adottato in casi particolari dall’agenzia, quindi decise di indagare ulteriormente. Scavando più a fondo, scoprì la vera identità del sospettato. Prima di rientrare a Dallas, Horacio non poté non andare a far visita alla famiglia del collega morto qualche anno prima. Il piccolo Joshua quando lo vide corse ad abbracciarlo, rimproverandolo di non andare mai a trovarli. Dopo aver ato parte del pomeriggio a giocare con lui e aver cenato da loro, Horacio tornò a Dallas.

Day 8

Anche se non capivo bene le loro intenzioni – perché tenermi così in stallo? – proseguivo nell’insinuare dubbi negli uomini di Thompson. Parlando con uno degli agenti che mi guardava a vista, tenendomi sul vago, iniziai a parlargli di me. Sembrò funzionare. Alle undici arrivò Thompson e mi presentò un uomo sulla cinquantina, capelli brizzolati, ventiquattro ore e abito firmato, spacciandolo per il mio avvocato d’ufficio. Nonostante all’inizio ci cascai, provato e debilitato – avevano iniziato a usare dei piccoli stratagemmi, tipo abbassare le luci, tentare di provocarmi stati di ansia con fortissimi e improvvisi rumori a qualsiasi ora del giorno e della notte e dandomi da mangiare poco e cibo rancido – riflettendo, capii che si trattava di un alquanto maldestro tentativo di carpire la mia fiducia. Avevo a che fare quotidianamente con avvocati di tutte le risme, e li riconosco a naso. E quello, nonostante l’abito, la valigetta e quell’aria da saputello… da come parlava, tutto era fuorché un avvocato. Stetti al gioco. Mi prospettò varie strategie difensive e tutti gli scenari possibili, compreso un accordo da proporre a Thompson. Era palese l’intento di intimorirmi, ma il tutto era approssimativo. «Le dico subito che la sua situazione è molto più che seria. Io le credo quando mi dice di essere vittima di uno scambio di persona, ma l’unico modo per uscirne quasi indenne è confessare e attribuirsi tutti i capi d’imputazione. Se si ostina a negare, verrà processato e erà anni in prigione nell’attesa del giudizio, dell’appello, dei vari ricorsi e via discorrendo. Secondo la mia esperienza, non meno di dieci anni. Se confessa, subirà sì un processo e sarà condannato, ma il tutto si ridurrà a pochi mesi e, grazie al mio aiuto, dopo un paio di anni di buona condotta le assicuro che riuscirò a farla uscire in libertà vigilata. A prescindere dalla sua innocenza, credo che due anni al posto di dieci solo per portare a termine il processo, siano la migliore delle ipotesi.» «Su due piedi non so che dirle. Devo riflettere...» «Sì ma questa gente non aspetterà a lungo.»

«Inizi a tutelarmi. Non mi danno da mangiare che roba avariata, non mi concedono di sgranchirmi un po’ con una eggiata, non vedo la luce del sole e non respiro un po’ d’aria fresca da quando sono in questo posto. Abbassano le luci e fanno rumori improvvisi credendo di mettere alla prova i miei nervi. Qualsiasi cosa credono abbia fatto, ho dei diritti! Li faccia valere.»

Day 9

Dopo aver praticamente ato le mie giornate a distribuire volantini o appostato nei pressi di casa nella speranza che quegli uomini tornassero, dovetti rientrare al lavoro. Per prima cosa andai nell’ufficio di Steven. Era almeno un mese che non ci entravo, ma notai subito qualcosa di strano... la lampada sulla sua scrivania. Non era uguale a tutte le altre usate negli uffici della società, e Steven da buon aziendalista, non l’avrebbe mai fatta sostituire con una diversa. La segretaria disse che si era rotta e all’ufficio manutenzione le avevano dato quella, avendo finito la scorta delle lampade normalmente usate. Notai anche altri piccoli cambiamenti, e un presentimento m’indusse ad avvisare Fernanda. Una squadra con scanner ambientali controllò l’ufficio e come sospettavo rinvenne delle cimici, nel telefono, nella libreria e nel tavolino del salottino, oltre a una microtelecamera occultata nella lampada da scrivania. Presero una delle microspie per analizzarla. Portarono via anche il PC nella speranza di trovare qualcosa che li instradasse nella direzione giusta. Fu difficile per me far finta di nulla e lavorare come se niente fosse. Avevo un crampo ininterrotto alla pancia. Mi veniva da piangere al pensiero che Steven… La fine del turno fu una liberazione. Andai immediatamente da Fernanda per avere notizie. Niente di nuovo! Da quando Steven era scomparso non dormivo più, ero talmente nervoso, che un paio di volte fui tentato di lasciarmi andare e riprendere le vecchie abitudini. Poi pensando a ciò che lui aveva fatto per me, e a ciò che mi avrebbe detto se fosse stato presente: “Reagisci, non fare lo stronzo!”, trovavo la forza per resistere.

Day 10

Alle nove, il finto avvocato, Thompson e altre due persone, vennero nella mia cella fingendo un’ispezione. Inscenarono bene la commedia, devo ammetterlo. Come al solito avevo lasciato la cena, immangiabile, e lui finse di scandalizzarsi nel vederla. Con tono minaccioso intimò a Thompson di rispettare i miei diritti a partire da subito, elencando una serie di articoli del codice e del trattato internazionale dei diritti di Ginevra. Senza batter ciglio, Thompson ordinò ai due di darmi del cibo decente e dopo di accompagnarmi a fare una doccia e due i all’aria aperta. Io fra me e me ridevo. Possibile che credevano sul serio che ci fossi cascato? Accettai comunque di buon grado. Mi portarono in una stanza adibita a mensa, dandomi del pane fresco, due uova con pancetta e acqua minerale. Uno dei ragazzi si accorse che avevo ancora fame e senza farsi vedere mi ò anche la sua colazione. Normalmente non avrei mai accettato, ma in quella situazione… Dopo aver fatto la doccia ed essermi cambiato con una tuta che mi avevano dato, mi accompagnarono lungo un cunicolo, poi su per delle scale che sbucavano nel fienile. Il percorso inverso a quando eravamo arrivati. Le mie deduzioni iniziali erano corrette. E sapevo anche il posto dove eravamo. Quando feci per avvicinarmi alla porta, mi bloccarono. «Su ragazzi. Cosa volete che respiri qui dentro. Una boccata d’aria fresca mi farà bene. Poi, volete che non sappia dove siamo? Ci sono nato e cresciuto in questa zona. So bene che tutto intorno c’è solo campagna e che se anche tentassi di fuggire, mi prendereste in due minuti.» «Non ci hanno detto che poteva uscire…» «Credete che bluffi? Siamo a dieci minuti da Denison. Abbiamo attraversato il Pawpaw Creek, siamo nel vecchio covo dei contrabbandieri di armi. Su, fatemi respirare un po’ d’aria fresca.» I due si guardarono sbigottiti. Si fecero delle domande e alla fine accettarono di

farmi uscire fuori. Che bella sensazione respirare aria pura. Il sole mi abbagliò per qualche istante… lo trovai fantastico. Solo quando non ne possiamo più godere, comprendiamo l’imprescindibilità delle cose che ci dona la vita… respirare a pieni polmoni, essere abbagliati dalla luce del sole, essere accarezzati dal vento fresco, respirare gli odori della campagna, sentire il canto degli uccelli… semplicemente tornai a vivere. E si rafforzò, se mai ce ne fosse stato bisogno, il desiderio di uscire da quella situazione. Sapevo cosa avevano in mente, mentre loro non immaginavano che quelle false concessioni, mi avevano reso più forte e determinato. Ora, tutte le flebili speranze che avevo prima, si erano trasformate in determinazione. Non sarebbero riusciti ad avere la meglio su di me. Ebbi, in quel momento, la certezza di aver vinto. Dovevo solo avere pazienza e sopportare ciò che mi attendeva. Ero al settimo cielo. Ma non persi di vista il mio obiettivo. Mi avvicinai ai due e proseguii nel mio piano: «Quando comincerete?» «A fare cosa?» mi chiesero guardandosi. «Su ragazzi. Ma davvero mi credete stupido? Queste concessioni che ho avuto, le vedo come l’ultimo desiderio del condannato a morte.» «E perché? Il suo avvocato ha ottenuto ciò che le spetta di diritto, nonostante tutto.» Ecco un’altra certezza. Loro credevano davvero che quello fosse il mio avvocato. Capii che erano all’oscuro delle reali intenzioni dei loro superiori. Ne dovevo approfittare. «Non mi direte che ci avete creduto? Ora vi spiego come andrà. Non sarà domani, magari neanche dopodomani, ma fra tre giorni quel Thompson vi ordinerà di costringermi con ogni mezzo a confessare. Ogni mezzo, capito? E voi sarete costretti a eseguire gli ordini, anche se sono sicuro che non vi eravate mai trovati in una situazione del genere.» «Vedrà che si sbaglia. Perché dovrebbero fare una cosa simile? È come se lei sia

già ato da situazioni analoghe. È stato già arrestato? Perché ha tradito il suo Paese?» «Veramente sono io a sentirmi tradito dal mio Paese. Ma guardatemi. Vi sembro il pericoloso terrorista descritto da quella mela marcia? Non conosco le sue motivazioni, ma vi assicuro che quando verrà a galla tutta la storia, quelli che pagheranno sarete voi, la cui colpa è solo quella di eseguire gli ordini. Pensate, prima che sia troppo tardi per tutti, ai rimorsi che vi accompagneranno per il resto della vita. Se non lo smaschererete rendendo pubblica questa farsa, mi avrete sulla coscienza. Perché se non lo fermerete, il mio destino è segnato. Io non confesserò mai una cosa che non ho fatto.» Turbati, mi riaccompagnarono in cella, dandomi un’ultima occhiata interrogativa, prima di chiudere la porta.

Alle dieci di quella mattina, avvertii una bella sensazione. Sorrisi dopo giorni di angoscia. Sentivo che Steven stava bene e che stava pensando a me. Era come se mi ripetesse di stare tranquillo, di essere forte, anche se l’istinto continuava a mandare segnali contrari, che Steven era in pericolo e che il tempo stava per scadere. Montò in me la determinazione di ritrovarlo al più presto. Andai da Fernanda per avere le ultime novità. Dopo mezz’ora mi chiamò il concessionario. Era arrivata la moto che avevo ordinato due mesi prima. Mi venne da piangere, perché era grazie a Steven che ero riuscito a coronare un sogno che avevo fin da bambino. Se non avesse garantito per il finanziamento non l’avrei potuta comprare. In quel momento però era l’ultimo dei miei pensieri. Con Steven scomparso non me ne importava più nulla. Mi fece cambiare idea Fernanda invitandomi a prendere la moto e andare a fare un bel giro. Mi avrebbe fatto bene. Seguii il consiglio e andai a ritirarla. Che bella! Meglio di quello che immaginavo. Una bomba, anche se non riuscivo a gioire. Appena salito in sella, mi scese una lacrima. Il primo giro avremmo dovuto farlo insieme. Quanta fatica avevo dovuto fare per convincerlo, aveva paura anche solo a salirci. Partii senza meta e in breve mi ritrovai sulla Interstate-20, direzione est. Dopo

una mezz’oretta a velocità di crociera, entro i limiti di velocità, decisi di mettere alla prova quel bolide. Per fortuna non incrociai nessuna pattuglia. Dopo due ore, mi resi conto di essere arrivato ad Abilene. Avevo fame, quindi imboccai l’uscita sud, alla ricerca di una Steakhouse. Chiedendo a un agente, mi consigliò un locale poco distante, che a sua detta cucinava le migliori bistecche di Abilene. Mi ci volle un po’ per trovarlo, ma appena giunto nel parcheggio ebbi subito una buona impressione. Stavo parcheggiando la moto proprio all’ingresso del locale, quando, vedendo entrare nel parcheggio un grosso SUV nero, mi venne un brivido. Un flash di quella sera quando insieme a Steven mi sentii seguito. Non tolsi il casco, iniziai a tremare. Due persone scesero e si avviarono verso di me. Un groppo in gola. Uno dei due era il tipo con la cicatrice sulla tempia che ci teneva d’occhio. Pensai mi avessero seguito per rapire, ammazzare o chissà cosa. Frenai l’impulso di scappare, oramai erano a meno di tre metri da me e non ce l’avrei fatta. Decisi quindi di tentare il tutto per tutto. Slacciai il casco e feci per togliermelo, l’idea era quella di colpirli di sorpresa appena a tiro. I due invece, senza denari di uno sguardo mi superarono entrando nel locale. Tirai un sospiro di sollievo ed ebbi la prontezza di chiamare subito Fernanda. Quando seppe che ero ad Abilene mi chiese cosa ci facevo così lontano, poi prese in mano la situazione. Mentre parlava con me, inviò all’APD la foto del sospettato e il mandato di cattura. Mi intimò, conoscendomi, di non commettere imprudenze e di allontanarmi il più velocemente possibile. Non segui alla lettera l’ordine, mi appostai poco lontano, volevo seguire l’operazione. Tempo cinque minuti e il locale era circondato. Altri cinque e i poliziotti uscirono con i due ammanettati. Quanto avrei voluto assistere alla loro cattura. Con circospezione li seguii fino alla centrale e aspettai Fernanda, che arrivò dopo un’ora e venti minuti. Conoscendo la mia voglia di trovare Steven mi vietò di entrare e di farmi vedere, con la scusa che potesse nuocere a Steven, intimandomi di tornare a Dallas.

Trasferirono la sera stessa i due sospettati al DPD.

Day 11

In centrale arrivarono i risultati delle prime indagini sui due. Si erano stabiliti da qualche mese ad Abilene dove avevano aperto un’attività d’investigazione privata, proprio di fronte a quel ristorante di cui erano diventati assidui frequentatori. Per i proprietari del locale erano brave persone, sempre disponibili e affabili. Paul Show risultò pregiudicato, in libertà vigilata, che gli fu immediatamente revocata. All’uomo con la cicatrice fu più complicato dare un nome, visto che aveva assunto l’identità di Felton. Ci riuscirono grazie a Ben Smith, che non ammise però il coinvolgimento dell’agenzia in quella storia. Almeno non prima di aver concluso l’indagine interna che aveva avviato. Riuscì a far credere a Fernanda di essere riuscito a risalire alla sua reale identità, grazie a un errore compiuto nella contraffazione della sua scheda. Si trattava di tal Hugh Denton, figlio di un poliziotto, anch’egli entrato in polizia dove, a causa dei suoi metodi investigativi, era stato più volte trasferito. Negli ultimi dieci anni aveva prestato servizio nella polizia di Brookhaven, Mississippi, e si era licenziato da un anno. Appena Fernanda e Horacio entrarono nella stanza degli interrogatori, il falso Randy Felton iniziò a urlare: «Spiegatemi perché sono stato arrestato, perché non mi fate chiamare l’avvocato. Non avete idea chi sia.» «Signor Denton, sieda e taccia. Lo sappiamo bene chi è lei.» «Io mi chiamo Randy Felton, non capisco…» «La smetta con questa farsa. Dai riscontri abbiamo scoperto alcune cosucce interessanti, anche con le schede secretate. Il vero Randy Felton è morto, guarda caso, nella cittadina dove lei prestava servizio come agente di polizia – in

seguito verificheremo anche le circostanze –, mentre la sua scheda non è stata “ripulita” bene, tant’è che siamo risaliti al suo vero nome dalle impronte digitali. Abbiamo anche noi delle conoscenze. Ci deve spiegare un bel po’ di cose.» «Io non le spiego un bel nulla. Esigo il mio avvocato e cominci a pregare…» «Aggiungeremo anche l’intimidazione alle varie accuse. Vuole il suo avvocato? Benissimo. Ma se crede di farmi paura si sbaglia.» L’avvocato arrivò in centrale in meno di mezz’ora. Proseguirono l’interrogatorio, anche se fu inutile, non aprì bocca. Riuscirono comunque a trattenerlo in stato di fermo. Thompson, saputo dell’arresto di Hugh Denton, fu costretto a rivedere i suoi piani. Non sapeva se Denton fosse fidato al punto di tenere duro, e cominciò a sentire il fiato sul collo. Decise di dare un’accelerata alla prima parte del piano, credendo che, nell’eventualità di una confessione di Denton, si sarebbe potuto cautelare divulgando la confessione di Steven.

Come profetizzato ai due agenti, i miei interrogatori si trasformarono in vere e proprie torture. Mi portarono nel fienile ando alle maniere forti. Qualcosa di talmente “cruento”, che alcuni di loro dovettero comunque eseguire pur non approvando. Usarono dapprima il soffocamento con una busta di plastica, quindi le scosse elettriche controllate, ma quello che più mi fece temere, fu quando Thompson decise di fare sul serio. «Sei tenace, Barrimore. Vediamo se lo sei fino in fondo. Lo conosci il waterboarding? No? Te lo spiego io. Si lega il soggetto su un asse, una barella, una rete e la si inclina finché la testa non è al di sotto del livello delle gambe. Poi si inizia a versare dell’acqua sul viso… prima poco alla volta, poi si aumenta man mano. Vedrai che bella sensazione si prova. Si ha la percezione di annegare e non si può fare nulla, se non confessare o… morire. Ti piace come idea? A me sì, anzi no! Pensandoci bene, da quel che ho capito di te ci vorrebbe troppo tempo. Ho un’idea migliore. Qualche anno fa in Afghanistan, ne ho imparato una variante. Così morì il mio collega, al culmine delle torture che subimmo quando ci catturarono.»

«Descrivimela, dai. Non ho nulla di meglio da fare oggi…» «Pensi di essere spiritoso? Ti ricaccerò quell’aria indisponente in gola. Ma ti voglio accontentare. Avete procurato ciò che vi ho chiesto? Svelti, portate tutto qui e riempite l’abbeveratoio. Una volta pieno d’acqua, verseremo dentro del ghiaccio, tanto ghiaccio. Ti chiederai, a che serve?» «Non sto nella pelle…» «Sì bravo, continua a fare lo spiritoso. Te ne accorgerai, quando immergeremo la tua testolina del cazzo in quell’acqua! E quando, giocoforza, dopo aver trattenuto il fiato fino a scoppiare, aprirai la boccuccia tentando di respirare… inalando l’acqua ghiacciata, sentirai la gola andare a fuoco e ti si bruceranno i polmoni. E allora vedremo se sarai ancora così indisponente!» Mentre gli agenti eseguivano gli ordini, li sentivo bisbigliare fra loro. Soprattutto i due che mi avevano portato a sgranchirmi. Altro punto a mio favore. Anche se speravo fosse un bluff, lo fece davvero. Il contatto della faccia con il ghiaccio fu tremendo. Me la praticarono tre volte, fortunatamente per pochi secondi, e riuscii facilmente a trattenere il respiro. Ma sapevo che era solo l’inizio. Poi il colpo di fortuna. Thompson fu chiamato sul cellulare e se ne andò in tutta fretta, ordinando ai suoi di continuare l’interrogatorio normalmente. Mi ci volle mezz’ora per poter riprendere a parlare normalmente! Gli uomini che stavo cercando di portare dalla mia parte, mi scortarono nella stanza degli interrogatori, dove trovai ad aspettarmi il falso avvocato: «Barrimore, non andiamo affatto bene. Io la voglio aiutare, ma se non inizia a collaborare la vedo dura per lei.» «Mio caro Davidson, ma lei crede davvero che mi sia bevuto la storia dell’avvocato difensore? Lei è uno di loro e sta tentando di estorcermi una falsa confessione. Secondo lei, non ho capito che il mio non è un normale arresto, bensì un rapimento da parte di un pazzo che crede di essere al di sopra della

legge? Io non posso confessare ciò che non ho fatto. A questo punto ammazzatemi o liberatemi.» Se ne andò nero! Mi lasciarono in quella stanza per ore, fin quando non tornò Thompson che entrando nella stanza, «Barrimore, Barrimore... sei furbo… ma ciò non toglie che confesserai. Ti dice niente il nome Bruce?» Al sentire il suo nome, mi venne da piangere. E ora? Come potevo far fare del male a quel povero ragazzo? Lui capì che aveva colpito nel segno e ridendo disse ai suoi: «Portatelo via.»

Day 12

Ufficio di Thompson. L’incontro del giorno precedente non era andato come sperato. Il sicario che giocoforza aveva dovuto contattare dopo essere stato costretto a far sparire Patterson, non appena gli fu rivelato il nome della vittima designata, rifiutò, e a Thompson non rimase che mettere a tacere anche lui. Contattato il senatore, dopo avergli raccontato l’accaduto, propose come soluzione di rivolgersi a un killer professionista da far venire dall’Europa. Anche se questo significava ritardare l’intera operazione e conseguentemente la confessione di Steven. Al senatore non rimase che accettare. «Carl, non ci resta che rimandare. Ma devi trovare al più presto qualcuno. Fra venti giorni ci sarà un’occasione irripetibile. Presenzierà a un’inaugurazione all’aperto.» «Senatore, mi deve dare una mano…» «No, dannazione! Io non posso espormi più di quanto ho già fatto. L’operazione dev’essere conclusa per quella data, a costo di dovertene occupare di persona. Chiaro?» «Barry, devi rintracciare questa persona,» disse porgendogli la scheda di Bruce «la mia fonte ha scoperto che è il vice di Barrimore e che sta tentando di riorganizzare la cellula eversiva. Trovalo!» Subito dopo richiamò il senatore: «Carl, stai calmo. Mi sono già attivato e sto aspettando una risposta. Non mi piace la piega che sta prendendo la vicenda. Il piano dev’essere portato a compimento per la fine del mese e basta! Ti ho mandato copia dei suoi spostamenti, inizia a studiare le piantine e preparati. Ti saluto.» Thompson aveva una serie di problemi. Il primo, trovare un killer bravo, esperto in fughe e che accettasse di premere il grilletto contro quella persona, se non ci

fosse riuscito sarebbe stato costretto a occuparsene di persona, e la cosa lo innervosiva non poco, non toccava più un fucile da anni. Altro problema, far confessare Steven. Sapeva che non sarebbe stata una eggiata, era certo di riuscirci con i “suoi” metodi, ma il sospettato doveva essere presentabile affinché il piano funzionasse senza intoppi. E con i “suoi” metodi… Visto che la ricerca di Bruce richiedeva tempo, tentò un ennesimo sotterfugio.

Non riuscii a dormire, preoccupato se la prendesse con Bruce. Ero letteralmente distrutto, ma avevo recuperato lucidità, e quando l’agente che mi vigilava mi portò la colazione, che non era di turno quando Thompson aveva nomino Bruce, tentai una mossa quasi disperata: «Perché?» «Perché cosa?» «Lei mi sembra una brava persona, mi spieghi perché mi sta accadendo tutto questo. Io non so cosa vogliate da me, ma so che da questa situazione ad avere la peggio sarò io. Il suo capo non potrà mai lasciarmi andare, neanche appurata la mia estraneità, so bene come vanno queste cose. Ma non m’importa nulla del mio destino. Piuttosto sono molto preoccupato per mio nipote. Il ragazzo sta uscendo da un brutto periodo e io mi sono impegnato ad aiutarlo. Se me lo fa contattare diventerò più collaborativo.» «Mi dispiace ma non posso aiutarla. Sono un semplice agente che esegue degli ordini.» «La prego! Almeno mi faccia scrivere due righe per rassicurarlo. Temo che tenti nuovamente il suicidio, è molto fragile.» «Non posso...» La sera però, dallo spioncino mi ò della carta e una penna: «Mi raccomando a ciò che scrive...»

Day 13

Durante la notte mi avevano portato del cibo, e iniettato una siringa. Mi risvegliai su di una brandina, con la divisa d’ordinanza, insieme a un’altra persona. Mi sentivo tremendamente confuso. «Steve, cos’hai? Non ti senti bene? Vuoi che chiami qualcuno?» Non risposi. Mi guardai intorno. Le brandine, l’armadietto e il water in acciaio. Dalla finestra si vedevano solo le mura di cinta e il filo spinato. Ero in un carcere, mi avevano portato via dalla fattoria. Per qualche minuto credetti che non ottenendo risultati, davvero mi avessero incarcerato in attesa di essere processato. Pensai che finalmente avrei potuto dimostrare la mia innocenza, e che stesse per terminare l’incubo. Ancora intontito cominciai a provare un irrefrenabile desiderio… confessare. Una voce mi ripeteva in continuazione: “Confessa… confessa tutto, ti sentirai meglio”, a questa se ne sovrapponeva un’altra che mi esortava a stare attento a ciò che dicevo. Col are dei minuti, iniziarono i flash. Immagini confuse, la siringa, qualcuno che ripeteva delle frasi, sempre le stesse… capii che mi avevano drogato, solo che l’effetto dello stupefacente non fu quello sperato. Sono abbastanza assuefatto, poiché in ato, per un serio problema, avevano dovuto somministrarmi degli psicofarmaci molto forti e a problema risolto, degli altri che annullavano i postumi. Riaffioravano a sprazzi, ricordi del giorno che mi prelevarono da casa. Quell’uomo che si fingeva il mio compagno di cella, era un volto già visto. Dopo essermi sforzato non poco, lo riconobbi come uno dei due che mi aveva bloccato al momento dell’irruzione a casa mia. E, anche se quell’irrefrenabile desiderio di parlare era costantemente presente – la mia mente mi spingeva a dire di essere colpevole, di essere un terrorista, di ammettere che stavo preparando un attentato – riuscii a trattenermi, limitandomi a dire che stavo bene.

DPD. «Fernanda, ci sono novità. Abbiamo rinvenuto delle impronte sugli adesivi dei loghi. Una appartiene a Derrick Rose, un ex marine scomparso dieci anni fa. L’ultimo domicilio registrato è in un piccolo centro nella contea di Sheridan, Montana. L’altra appartiene a Blake Andersson, un pluripregiudicato residente a Denton. Mi soffermerei su quest’ultimo. In ato ha scontato una condanna per ricettazione e contraffazione di auto. Uscito con la condizionale, è stato condannato a quindici anni perché coinvolto in un rapimento. Cinque mesi fa, ottenuto un permesso premio,» disse mostrando i documenti «ha fatto perdere le sue tracce.» «Bravo Horacio. Insistiamo su questo Andersson. Voglio tutto su di lui. Io chiamo Bruce, devo verificare una cosa.»

Mi piacque l’idea di Fernanda, quindi andammo a cercare i due homeless che avevano allertato i vigili del fuoco. Le avevo detto di conoscerli. Infatti riuscimmo a superare la paura e la naturale diffidenza nei riguardi della polizia, facendoci descrivere prima, e confermare poi, l’identità di due degli uomini che lavoravano in quel capannone, mostrandogli le foto dei sospettati. Finalmente qualcosa di concreto su cui continuare a indagare. Per festeggiare, ma anche per farmi distrarre, Fernanda mi invitò a uscire. «Bruce, andiamo a bere qualcosa più tardi?» «Volentieri. Dove ci vediamo?» «Al solito bar, alle nove.» Rientrai al motel e feci una doccia. Mi avviai per tempo ma quasi subito mi accorsi di essere seguito e quindi iniziai a compiere una serie di giri a vuoto. Convinto di essere riuscito a seminarli parcheggiai l’auto, e mi diressi al bar. All’improvviso mi trovai di fronte la macchina che mi seguiva. Ne scese un uomo e prese ad avanzare verso di me. Iniziai a correre e, voltato l’angolo, m’infilai in un vicolo nascondendomi dietro a dei bidoni dell’immondizia. Ero terrorizzato, tremavo dalla paura ma riuscii a stare immobile, quasi senza respirare. Aspettai diversi minuti che mi sembrarono ore, quindi convinto non ci fosse più pericolo,

feci per uscire dal mio nascondiglio. Proprio in quel momento, l’uomo entrò nel vicolo e ando davanti ai bidoni, lasciò cadere una busta dicendo: «Un messaggio per te!» Sparì subito dopo nell’oscurità. Ancora impaurito, raccolsi la busta e raggiunsi al bar Fernanda. Tremavo come una foglia, tanto che ci volle un po’ prima di riuscire a far capire ciò che era successo. Le chiesi di aprirla. All’interno un foglio piegato a metà... “Bruce, scusa se sono dovuto andare via così all’improvviso. Sto bene, non preoccuparti. Starò fuori ancora per qualche giorno. Scommetto che appena sei rimasto solo, hai visto quel film che non ti ho voluto far vedere, eh? Mi raccomando, continua a seguire le riunioni del gruppo al paese. Ah, ti sei ricordato di andare a mangiare dai nonni domenica? Non li far dispiacere che già hanno perso un figlio in guerra e accompagnali quando vogliono andare a pregare al cimitero. Tranquillo, non mi sono dimenticato della promessa. Quando tornerò, ce ne andremo soli noi due al fiume, come avevamo stabilito dopo averti raccontato come mi divertivo ando le mie giornate a pescare. Ed ho anche organizzato una settimana di studio in fattoria. Ci divertiremo... Steven”. Le strappai letteralmente la lettera di mano. «Fammi vedere, questo è uno scherzo.» Dopo averla riletta iniziai a piangere: «No! Questa è la calligrafia di Steven, ma che ha scritto? Cosa vuol dire? Perché dice di vedere il film? Eravamo rimasti che lo avremmo visto insieme. Io non seguo più le riunioni da mesi. Non ho più i nonni, né tantomeno il figlio è morto in guerra. E poi il fiume, la fattoria... quale fattoria?» «Sei sicuro che l’abbia scritta lui? Ah, ecco Estelle… aspetta un attimo.» Rilessi attentamente la lettera. Era proprio scritta di suo pugno. Quando

Fernanda tornò al tavolo, mi presentò Estelle, la compagna. «Bruce, so che non è il momento ma… ricordi Estelle? Io e lei ci siamo sposate qualche mese fa.» «Piacere. Ma possiamo parlare davanti a lei?» «Certo! Non abbiamo segreti, poi collabora con il dipartimento, ci può sicuramente dare una mano. È molto in gamba. Sei sicuro che la lettera sia scritta di suo pugno?» «È sicuro al 100%. È la sua calligrafia. Ma cosa ha scritto. Tutto sbagliato.» «Se come dici, ha scritto cose non vere, forse sta cercando di dirci qualcosa» intervenne Estelle. «Rileggiamola con calma, analizzandola frase per frase. Dice di esser dovuto partire improvvisamente, ma sappiamo che non è vero. Questo può significare che ha convinto i suoi rapitori a scriverti. E che ha intenzione di farci capire chi è stato e dove lo tengono prigioniero. iamo alla frase successiva, il film… che film era?» «Parlava di un attentato organizzato da un gruppo di terroristi, ora non ricordo il titolo ma era recente. Mi fece seguire un dibattito politico, promettendo che lo avremmo visto in replica.» «Quindi presumo sia collegato alla trama. Ho capito a quale film si riferisce, l’ho visto e ci sono diverse sotto trame. Mi concentrerei su rapimento estorsivo, terrorismo e attentato. C’è da capire perché proprio lui. È stato rapito da terroristi per chiedere un riscatto e finanziare qualche loro operazione… lo credono strategicamente importante per compiere qualche attentato, o cosa? Riveste un ruolo importante dove lavora? La sua situazione finanziaria?» «Beh, sì e no. È un dirigente, ma non credo tanto importante. Per quanto riguarda la sua situazione, vive agiatamente ma non ho la più pallida idea delle sue finanze.» «Ok. Poi dice di seguire le riunioni del gruppo al paese. Spiegaci in che consistevano.» «A parte che le seguivo non al paese, ma qui a Dallas, è stato nel periodo che io e lui litigammo e io presi a bere e a drogarmi. Quando ci siamo riavvicinati, mi

ha convinto a seguire qualche riunione, ma non ci vado più da mesi.» «E secondo te, cosa voleva dire di seguirle al paese? C’è qualche associazione?» «Non credo. Non ne ho la più pallida idea.» «E se fosse legato al posto dove l’hanno portato, o da dove sono ati?» Aggiunse Fernanda. «Tu e lui, venite dalla stessa cittadina? Potrebbe volerci dire che è stato qualcuno di lì, che non...» «No. Siamo di due paesi diversi, distanti alcune miglia, a nord-ovest di Dallas.» «Non capisco. Ci dev’essere un motivo per aver scritto proprio così. Parlami di queste riunioni.» «Normalissime. Ci si siede tutti in circolo, e a turno si racconta la propria storia, cercando di essere il più sinceri possibile, facendo un esame di coscienza.» «Ricordi se durante queste riunioni è mai successo qualcosa di anomalo? Qualcuno che le frequentava, che possa avere a che fare con la sua scomparsa?» «No, in questo momento non riesco a pensare. Sono ancora turbato. Come hanno fatto a seguirmi? Allora sanno dove sto. Ho paura.» «Me ne rendo conto, ma se vogliamo ritrovare Steven, devi farti forza» le due si guardarono «e... andiamo a prendere la tua roba. Per qualche giorno stai da noi.»

Day 14

DPD. In mattinata arrivarono i risultati sulla cimice scoperta nell’ufficio di Steven. Horacio, che in ato aveva collaborato sotto copertura per l’intelligence, riconobbe immediatamente la ditta fornitrice. Questo riscontro, sommato alle informazioni che avevano, fece sospettare che era in mano a un’agenzia governativa. Anche se poteva trattarsi di materiale trafugato o venduto da qualche agente infedele. L’istinto diceva a Fernanda che quella era una pista concreta. Contattò l’ex marito, ma non risultò nessuna operazione in corso, nell’area di Dallas. E quel modello di cimice era datato. Nel frattempo avevano anche cambiato fornitore. Horacio non si diede per vinto e contattò personalmente il responsabile dell’intelligence all’approvvigionamento. Disse che la ricerca sarebbe stata ardua. All’epoca non esistevano gli archivi digitalizzati ed era registrato tutto manualmente. Se quello era l’unico modo per risalire a chi aveva in dotazione quella microcamera in particolare, si doveva andare di persona e controllare i registri. Un’operazione che avrebbe richiesto tempo e pazienza. Fernanda decise di tentare e incaricò Antonio, il pivellino del gruppo. Un ragazzo di origini italiane, entrato in polizia da un mese, il quale aveva già dimostrato di essere volenteroso e tenace. Nel pomeriggio, da Houston, arrivò la notizia che avevano arrestato Derrick Rose e Black Andersson, davanti a una banca, in atteggiamento sospetto. Nel furgone, sicuramente quello usato per spiare Steven, avevano trovato armi e amontagna. Fernanda e Horacio partirono immediatamente.

Day 15

Houston. La mattina, di buon’ora, entrarono alla centrale. Per prima cosa, Fernanda volle controllare gli effetti personali dei due e notò immediatamente la somiglianza della piastrina di riconoscimento di Rose, con quella dell’uomo che avevano trovato carbonizzato all’esterno del capannone. Ne fece una foto e la inviò a Litz. Avevano fermato i due mentre si accingevano a compiere una rapina, quindi cominciarono da lì. Durante l’interrogatorio, fra una domanda e l’altra, abbozzarono dei riferimenti al rapimento di Steven e al loro coinvolgimento. Negarono tutto. Fernanda li vide impauriti, quindi finse di credergli. Preferiva farli incriminare per tentata rapina, sicura che se fossero coinvolti i servizi segreti e li avesse riportati a Dallas, gli avrebbero mandato i loro avvocati. Barry intanto, nonostante avesse chiesto favori a chiunque conoscesse, non era riuscito a rintracciare Bruce, e quando Thompson gli chiese a che punto fosse la ricerca, dovette confessare il suo fallimento, mandandolo su tutte le furie.

Mi riportarono alla fattoria. Per organizzare la messinscena, Thompson aveva chiesto al direttore del carcere di mettergli a disposizione un’ala appena ristrutturata e ancora chiusa. Visto che non erano riusciti a farmi confessare neanche drogandomi e condizionandomi, decisero di desi- stere. Per non rischiare, pochissime persone fidate erano a conoscenza della mia presenza lì. Come quando mi avevano portato, mi narcotizzarono. Quando terminò l’effetto ero in un furgone già in viaggio. Notai concitazione e preoccupazione fra gli uomini di Thompson…

DPD. Cinque minuti dopo la partenza del furgone con Steven a bordo, in centrale arrivò una segnalazione anonima su un carico di armi che viaggiava su un furgone nero sulla 35E, direzione nord. La soffiata provocò scompiglio al DPD. Quattro pattuglie furono inviate sull’autostrada, e intercettarono il furgone sulla Tallway. Al rifiuto del conducente di fermarsi, iniziò l’inseguimento. Il conducente li portò quasi ai confini della città, procedendo sì oltre i limiti di velocità, ma sapendo che gli agenti, per evitare il coinvolgimento degli altri automobilisti, non avrebbero compiuto tentativi azzardati. Solo quando le pattuglie tentavano di superarlo, eseguiva manovre a zig-zag. Improvvisamente rallentò, dando modo a due di esse di superarlo, quindi imboccò un’uscita, riuscendo a mettere fuori gioco le due pattuglie dalle quali si erano fatti superare. Una volta sulla statale iniziarono ad accelerare. I poliziotti a quel punto, senza rischio di coinvolgere civili, iniziarono ad aprire il fuoco. Il furgone, nonostante avessero colpito le due ruote posteriori, continuò nella sua corsa ancora per qualche centinaio di metri e, giunto sulla riva del Levisville Lake, improvvisamente si fermò. Nacque un conflitto a fuoco, finché non sopraggiunse un grosso SUV nero dal quale lanciarono verso i poliziotti dei lacrimogeni. Questa improvvisa mossa, unita agli effetti del gas, disorientò gli agenti il tempo necessario ai fuggitivi di salire sul SUV e scappare, non prima di aver colpito i radiatori delle due pattuglie e dato alle fiamme il furgone.

Una volta alla fattoria, mi riportarono nella mia cella. Cavolo, ci avevo sperato, ma confidavo sul possibile rilevamento delle impronte che avevo lasciato nel furgone. Ripensando alla modalità con la quale mi avevano prelevato, al far credere di essere un terrorista, ai tentativi di estorcermi una confessione, alla fuga con sparatoria con la polizia, ero sempre più terrorizzato. Evidente che sotto ci doveva essere qualcosa di talmente grosso da arrivare a sfidare chiunque. Ma cosa? Se come tutto faceva credere ero davvero in mano a un’agenzia governativa, perché usare questi sotterfugi? Eppure sapevo di conoscere il fine ultimo, lo scopo di tutto questo, solo che non riuscivo a focalizzare. Ma dovevo riuscirci, ne andava della mia vita, maledizione!

Nel pomeriggio, subii la consueta razione di interrogatorio, per fortuna non cruento. Thompson intanto, aveva messo a punto l’ennesimo stratagemma per farmi confessare. E stava quasi per riuscire nel suo intento. Aveva capito il mio punto debole, ma non riuscendo a rintracciare Bruce, non gli rimaneva che farmi credere fosse nelle sue mani. Allo scopo di sfinirmi, mi legarono alla branda e ai tutta la notte sul pavimento, al freddo, quasi impossibilitato a muovermi.

Day 16

La mattina, ennesimo interrogatorio. Se ne occupò Thompson in persona e ci andò giù pesante, con una mazza da baseball, provocandomi una profonda ferita dietro l’orecchio, tanto da dover chiedere l’intervento di un dottore. Quando mi riportarono nella cella, mi accorsi che nella stanza degli interrogatori c’era qualcuno, e mentre l’agente che mi aveva in custodia mi toglieva le manette, si sentirono voci concitate. Lasciandomi lì, con la porta aperta, l’agente corse in aiuto dei colleghi. Anche se ancora intontito e dolorante, ne approfittai per tentare la fuga. La porta che conduceva al fienile era chiusa a chiave, non rimaneva che dirigermi dall’altra parte e sperare, visto il trambusto, che non fero caso a me. Da lontano, alcuni agenti stavano trascinando qualcuno nella stanza degli interrogatori. ata la porta, mancavano pochi centimetri all’uscita, sentii pronunciare il nome Bruce! Senza pensare, tornai indietro irrompendo nella stanza avventandomi sugli agenti. Solo che dietro la porta ce n’erano altri due che mi bloccarono, trascinandomi via. Esitarono giusto il tempo di farmi vedere Bruce, ammanettato e incappucciato, seduto alla sedia dietro al tavolo. Mentre mi trascinavano nella mia cella iniziai a piangere a dirotto. Sopraggiunse Thompson: «Abbiamo finalmente catturato il tuo complice. Ora ci divertiremo un po’ con lui. Tu intanto rifletti. Non so se lui sarà in grado di sopportare ciò che abbiamo fatto a te!» E se ne andò, lasciando aperto lo spioncino di proposito, voleva sentissi! La mezz’ora seguente fu terribile. Sentivo le urla di Bruce mentre lo torturavano. Ogni urlo era una pugnalata al cuore.

Avevano trovato il mio punto debole e non vedevo altra soluzione, se non arrendermi, dichiararmi colpevole, confessare ciò che volevano… tutto pur di salvare quel ragazzo. La decisione era presa. Aveva vinto! Urlai, attraverso lo spioncino di chiamarmi quel bastardo di Thompson, ero pronto a confessare! Arrivò dopo pochi minuti con dei fogli. Mi spiegò ciò che dovevo dire e ordinò di andare a preparare l’attrezzatura per registrare l’interrogatorio. «Io faccio tutto ciò che vuoi, ma dammi la tua parola d’onore che non toccherai il ragazzo e lo lascerai andare.» «Tu pensa a fare la tua parte, al resto ci penso io.» Disse. Quando mi portarono nella stanza interrogatori, uno dei due giovani agenti che avevo cercato di portare dalla mia parte, stando alle spalle di Thompson, mi fece per due volte un leggero cenno di no con la testa. A quel punto, improvvisamente rinsavii. E capii. Io, Bruce non lo avevo visto in faccia. E ripercorrendo mentalmente la scena di quando lo trascinavano e di lui seduto al tavolo, mi resi conto che mi avevano raggirato. L’uomo incappucciato non era neanche lontanamente simile, come corporatura, a Bruce. Maledetto! Stava per fregarmi. Era tutto un bluff! Decisi di stare al gioco e lasciai che finissero di montare l’attrezzatura. Al momento di registrare, immaginando l’aria soddisfatta di quella merda, che dal vetro assisteva alla sua vittoria pensai: “Ora ti ricaccio in gola quel sorriso del cazzo.” Quando si accese la luce rossa della telecamera, iniziarono: «Steven Barrimore, alias Aarif Assem, lei ha deciso di rendere piena e completa confessione. Le poniamo noi le domande…» «Faccio io… allora, il sottoscritto Steven Barrimore, cittadino americano, dichiara quanto segue: “Brutta faccia di cazzo, ma davvero credevi di prendermi

per il culo con quella messinscena? Davvero credi di essere furbo? Io lo sono più di te e ti prometto una cosa… ti manderò in galera per tutta la vita, grande pezzo di merda!”» Fui zittito da chi conduceva l’interrogatorio, quindi quando Thompson entrò, appena a tiro, gli mollai un calcione dove non batte il sole con tutte le mie forze, tanto da piegarlo in due. Mi riportarono in cella.

La notizia della prolungata e ingiustificata assenza di Steven dal lavoro giunse all’Amministratore, il quale mi convocò dandomi un ultimatum. Senza giuste motivazioni, se non presentavo un certificato o un documento che attestasse ufficialmente la causa della sua prolungata assenza, avrebbe dovuto prendere provvedimenti.

DPD. Quando Bruce riferì a Fernanda ciò Steven rischiava il licenziamento, il detective decise di rendere pubblica la sua scomparsa. Era una delle ipotesi al vaglio, ma ora non si poteva più tentennare. Le indagini erano a un punto morto, si doveva salvaguardare il lavoro di Steven, e contavano così, di mettere pressione e far uscire allo scoperto coloro che avevano preso Steven. Fernanda chiamò una sua amica, conduttrice di uno dei più seguiti programmi di news del Paese, le spiegò i fatti e cosa contava di ottenere. La giornalista non se lo fece ripetere e il rapimento di Steven andò in onda nell’edizione di punta, con tanto di foto e modalità della scomparsa. Due ore dopo, il capo del DPD convocò urgentemente Fernanda. «Detective, loro sono Thompson e Barry, della FACC, sedetevi prego.» Le fu spiegato per sommi capi, di questa fantomatica cellula eversiva formata in gran parte da americani convertiti all’islam e del ruolo che rivestiva Steven in essa. Soprattutto visto che l’indagine era ancora in corso, si doveva mantenere il massimo riserbo su di essa.

Fernanda cercò di chiedere le autorizzazioni, sicuramente i due non sapevano che il vicedirettore dell’intelligence fosse il suo ex marito, ma fu zittita dal capo, il quale prima che riuscisse a metterlo in guardia su Thompson, le intimò: «Detective, il caso non è più di nostra competenza. i tutto a loro e cerchi di mettere a tacere i media.» «Ma signore, come facciamo…» «Basterà ritrattare e non are più informazioni.» Intervenne Thompson. Fernanda, su tutte le furie, convocò la squadra per portarla a conoscenza della nuova situazione, e quando Horacio, stizzito conoscendo Thompson, ne espose a grandi linee la fama e ciò che gli aveva fatto, si dichiarò disponibile a continuare.

Quando arrivai in centrale e mi diedero la notizia, ebbi un collasso. Mi ripresi subito ma continuavo a ripetere che Steven era innocente, che era una brava persona. Visto che nessuno mi ascoltava, decisi di agire diversamente. Aspettai che uscissero questi due fantomatici agenti della FACC, e memorizzai i loro volti! Era tempo di prendere in mano la situazione è cercare, a costo della mia vita, di salvare Steven dalle grinfie di quei due. Fernanda capì immediatamente le mie intenzioni e mi assicurò il suo aiuto. «Bruce, stai tranquillo, non ti lascerò solo. Ti devo molto e farò l’impossibile per tirare fuori dai guai il tuo Steven.» «Fernanda, ti ringrazio ma non voglio che rischi in prima persona. Hai tanto da perdere, ora che so con chi ho a che fare, ci penserò io.» Fernanda aveva deciso e quando chiese la collaborazione della squadra, anche se il solo Horacio accettò mentre gli altri non se la sentirono di rischiare il posto, mi resi conto di aver incrociato delle persone eccezionali.

Horacio accettò immediatamente, aveva un conto in sospeso con Thompson. Era l’occasione che aspettava da anni, per vendicare il suo ex collega, morto in un’operazione sotto copertura contro un clan mafioso, svolta anni prima agli ordini di Thompson. Questi, per salvarsi, non esitò a fare i nomi degli agenti sotto copertura e riuscì a cavarsela senza conseguenze, mentre Horacio fu ferito in modo serio e il collega ammazzato.

Mi consigliarono di tornare a casa, mentre entrambi presero un periodo di aspettativa continuando le indagini autonomamente. Il garage di Fernanda si trasformò in una vera e propria filiale del dipartimento.

Day 17

DPD. Horacio contattò un ex collega ato alla CIA, e in poche ore seppe vita, morte e miracoli sia di Thompson che di Barry. Barry era un semplice tirapiedi e non contava nulla. Su Thompson le notizie erano interessanti e nello stesso tempo inquietanti. Dal curriculum, secretato, scoprirono che lui e altri due marines erano stati congedati con disonore, accusati di violenze su alcuni abitanti di un villaggio afgano che avevano liberato dai ribelli di Al Qaeda. Dopo aver subìto un processo ed essersela cavata, venne non solo reintegrato, ma ò nelle fila dell’intelligence. Anche lì combinò danni. Trovato una sera in un locale sadomaso a Boston grazie alla denuncia di una vittima, scoprirono che insieme a uno degli ex commilitoni, seviziava i cosiddetti slave ben più cruentemente di ciò che avevano preventivamente concordato, li sottoponevano a vere e proprie torture. Anche quella volta ne uscì indenne, ma fu trasferito a un’agenzia minore del bureau, la FACC appunto. Qui, grazie ai suoi metodi sopra le righe, aveva ottenuto buoni risultati nel contrasto all’attività terroristica, diventandone in poco tempo il direttore. Tutti all’interno dell’agenzia sapevano che era protetto da qualcuno molto influente e quindi gli facevano are anche metodi al di fuori dei regolamenti. Thompson era così giunto alla convinzione di essere intoccabile. Convinzione che negli anni si era rafforzata. Negli anni, tutti coloro che avevano cercato di scoprire da chi fosse protetto – visto che tutti i procedimenti e le accuse nei suoi confronti venivano puntualmente insabbiati – si era visto trasferire o declassare. Dopo qualche minuto l’amico di Horacio, gli inviò delle foto compromettenti di Thompson. «Guarda che piace fare al nostro amico!» Esclamò Horacio mostrando la mail a

Fernanda. «Ah, nientemeno. Questo può giocare a nostro favore.» Ribadì Fernanda. «Scopri chi è con lui e che posto è… quella tappezzeria mi ricorda qualcosa.»

L’aiuto datomi dal giovane agente, confermò che il piano di insinuare dei dubbi in loro, era la scelta giusta. Anche John, l’agente al quale avevo chiesto di contattare Bruce e che gli aveva portato la lettera, stava ando dalla mia parte. Quando eravamo soli gli parlavo di me e lui si convinceva sempre più della mia innocenza. E poi non gli piacevano i metodi di quell’uomo. Mi confidò che stavano per smobilitare la FACC perché ritenuta non più indispensabile, e questo avrebbe significato la fine dell’intoccabilità di Thompson. A quel punto ebbi chiaro lo scopo di tutta quella messinscena, e glielo esposi. In pratica, Thompson rischiava di essere silurato e quindi gli serviva una “grande operazione” per tentare di mantenere il posto. Non avendo nulla di concreto, aveva pensato di costruirsi un’operazione eclatante. Io ero il suo capro espiatorio, voleva che mi accollassi la responsabilità di un attentato. Le vaghe reminiscenze del tentativo di condizionamento subìto, divennero lucidi ricordi. Quell’irrefrenabile desiderio di confessare di aver organizzato un attentato… la vittima era il Presidente degli Stati Uniti! Anche John concordò. Sventare un simile complotto significava non solo fargli mantenere il posto, ma un ulteriore salto di carriera.

Nel pomeriggio fu ancora Thompson a interrogarmi e nuovamente ci andò giù pesante, il maledetto. Cominciò a colpirmi allo stomaco con un asciugamani arrotolato e imbevuto d’acqua. Provocava un male pazzesco e non lasciava segni evidenti sul corpo. Visto che resistevo, all’improvviso perse del tutto il senno prendendo a colpirmi nuovamente con la mazza da baseball. Dovettero fermarlo con la forza. E, se da un lato stavo sempre peggio, dall’altro questo comportamento violento e ingiustificato nei miei confronti non poteva che fare il mio gioco anche con gli altri agenti.

Da un paio di giorni ero tornato me stesso, avevo deciso di reagire, mi sentivo pronto a tutto. Raggiunsi Estelle per continuare a decifrare la lettera di Steven. «Allora Bruce, appurato che Steven nella lettera ci ha già fatto capire, e ne abbiamo avuto conferma, di essere in mano a un’agenzia governativa, la FACC, sicuramente ci ha fornito degli indizi utili a ritrovarlo. Ripartiamo da dove avevamo interrotto, cioè dalle riunioni degli alcolisti anonimi. Cerca di ricordare. Chi le frequentava? Descrivili. Che persone erano, cosa facevano e come erano finiti lì?» «Eravamo una ventina a frequentare assiduamente le riunioni. Dodici erano adolescenti o poco più che maggiorenni. Due vecchi sulla settantina, poi c’ero io, due ragazze, tre donne adulte e… aspetta un attimo, c’era un uomo sulla quarantina, arrivato un paio di sedute dopo di me. Un tipo tutti muscoli e poco cervello. Sembrò da subito un esaltato mitomane che sparava cazzate a più non posso. Quando raccontò la sua storia, sostenne di essere un reduce e di essere caduto nella spirale dell’alcol dopo essere tornato a casa, congedato con disonore perché accusato, ingiustamente a suo dire, di aver abusato di alcuni abitanti di un villaggio che avevano liberato. E per colpa di questa accusa, che giurava fosse infondata, non riusciva a trovare lavoro ed era stato costretto addirittura a cambiare città e Stato. I suoi racconti sembrarono dal primo momento un po’ strani, tanto che il e gli dava poco la parola. La cosa che, pensandoci, mi fa sospettare di lui, è che iniziò da subito a farmi un sacco di domande sulla mia vita privata. Steven all’inizio mi accompagnava, e lui mi chiedeva spesso in che rapporti fossimo. Io credendo che fosse gay e che volesse provarci, non mi esponeva trattandosi con distacco. Dopo la quarta riunione invece che partecipare alle riunioni iniziò a intrattenersi fuori, con Steven. Anche a lui quel tipo non piaceva e così decise di non venire più.» «Ricordi come si chiamava? Sapresti descriverlo?» «No, sinceramente quello era un brutto periodo, ma di sicuro al centro hanno le sue generalità.» «Lo dico subito a Fernanda. Tu intanto cerca di ricordare il più possibile su quel tipo.»

Horacio andò al centro alcolisti anonimi e dopo un po’ di insistenze, gli mostrarono la scheda dell’uomo. Anche se sotto falso nome, grazie alla foto risalirono a Derrick Rose, l’ex marine di cui avevano trovato le impronte nel capannone. Era chiaro che Thompson aveva coinvolto i suoi amici, di conseguenza il cadavere ritrovato al capannone era quasi sicuramente del terzo amico. Non era chiaro però il motivo, erano amici fraterni, del suo assassinio. Altra cosa strana l’aver assoldato comuni delinquenti come Andersson, avendo a disposizione una struttura governativa. Nel pomeriggio arrivò la conferma sull’identità del cadavere: l’ex marine Dan Patterson. Visto che risultava residente nel Maine, sicuramente alloggiava in qualche motel in zona.

Day 18

Mi svegliai di soprassalto alle sei. Andai di corsa a riferire a Fernanda ciò che avevo ricordato. «Steven, quando iniziammo a frequentarci, raccontava spesso di quando da ragazzino, andava per le vacanze dai nonni, che avevano delle terre a Denison. All’interno della proprietà c’era un fiumiciattolo, dove ava intere giornate a pescare. Quando i nonni oramai vecchi, andarono a stare da lui, chiesero che alla loro morte li seppellissero nel loro paese. Qualche volta, quando ci vedevamo nel fine settimana mi portava nelle ex terre dei nonni, e dovevamo are davanti al cimitero dov’erano seppelliti. Immancabilmente si fermava per una preghiera. La cosa buffa era che sia all’andata quindi prima di fare l’amore, sia al ritorno, quindi dopo aver consumato, era in forte imbarazzo, come se i nonni sapessero cosa eravamo andati a fare lì.» «Bravo. Chiamo Ben per vedere se hanno qualche rifugio da quelle parti. Sai, non immaginavo che Steven fosse tanto in gamba. Se la tua deduzione è esatta, ci ha dato un aiuto fondamentale.»

Day 19

Mi alzai tardi visto che non dovevo lavorare. Fernanda ed Estelle erano già uscite e dopo colazione decisi di prendere la moto. Entrato in garage, vidi l’archivio dove Fernanda teneva tutte le carte relative al caso, aperto, e le spulciai. Cavolo, Steven era proprio nei guai visto il curriculum di quel tipo. Guardando le foto osé di Thompson riconobbi il posto dove erano state scattate, un club per sadomasochisti che in ato avevo frequentato, diventando amico del proprietario. Ci andai immediatamente. Qua do gli raccontai la storia e gli mostrai la foto di Thompson, cambiò umore. Anche lui aveva un conto in sospeso con quel tipo. Andava spesso al locale, era prepotente, non pagava minacciando di farlo chiudere, ed era diventato l’incubo dei frequentatori che lo evitavano sistematicamente. E se riusciva a convincere qualcuno a fare qualche giochetto, andava sempre oltre i limiti. Aveva ricevuto diverse lamentele da parte dei clienti. Decise di aiutarmi senza esitazione. Ero intenzionato a chiamare Fernanda, poi pensai che aveva le mani legate e non avrebbe potuto far niente. Decisi di sbrigarmela a modo mio. Studiai con Ross un piano basandomi sulle abitudini di Thompson e acquistai in un negozio di materiale elettronico tutto l’occorrente. Scelta con cura la stanza dove far scattare la trappola stabiliti i punti dove nascondere le telecamere, in modo che garantissero visibilità totale senza angoli ciechi, contattammo Nate, lo spogliarellista. Thompson tentava da sempre di adescarlo, senza successo. Di contro, lui aveva promesso di vendicare il cugino, rimasto quasi ammazzato da uno dei “giochini” di Thompson. Accettò senza pensarci! Era tutto pronto, non rimaneva che aspettare. Attesa che durò poco. La sera Thompson si presentò al club. Appena entrò nel locale, Ross mi chiamò e avvisò Nate.

Gli fecero inalare con un pretesto, del popper, una simil-droga molto in voga negli ambienti gay, che disinibisce la libido e provoca uno stato di eccitazione prolungata. Alla fine dello spettacolo, Nate non ebbe difficoltà a trascinare Thompson nella stanza che avevamo preparato. Lo fece spogliare e iniziarono a fare sesso sadomaso soft. Ma diversamente da quanto voleva, Thompson, sotto l’effetto dello stupefacente, divenne il sottomesso. Lo filmai mentre eseguiva nel ruolo di schiavo varie sottomissioni. Con ciò che avevo ripreso, ero sicuro di riuscire a liberare Steven. Nate, una volta ottenuto ciò che voleva, lo lasciò lì, legato e imbavagliato al letto. Lo ritrovò l’impresa di pulizia, la mattina successiva.

Day 20

Avevo ato l’intera nottata a montare il video, scegliere le foto migliori e, quando pronto, mandai sul cellulare di Thompson alcune foto della sera prima. “Chissà cosa penserebbero i tuoi superiori vedendo queste foto.” Dopo un primo, comprensibile momento di smarrimento, rispose: “Brutto figlio di puttana! Ti trovo, sai?” “Piano, caro il mio agente segreto col vizietto. M’innervosisco facilmente sai? Il ditino potrebbe tremare e inviare le foto e il video… ah già, dimenticavo. Le foto le ho estrapolate dal video. Ho scelto i fotogrammi migliori. Ma tutto il filmato si vede alla perfezione. È venuta particolarmente chiara la scena di quando il tuo amichetto t’infila...”

Mentre messaggiava, scrisse un biglietto a Barry: “Rintraccia il numero che mi sta inviando i messaggi!”. Quindi rispose all’SMS: “Dimmi cosa cazzo vuoi. Soldi?” “Non mi servono i tuoi soldi. Steven Barrimore è un mio caro amico, e se vuoi il dvd con tutto il materiale, devi liberarlo e far cadere le false accuse su di lui. Pensaci, ci sentiamo più tardi.” Thompson era infuriato. «Barry, hai rintracciato il bastardo?» Fra i tagli che aveva subìto il suo gruppo, c’era anche l’annullamento delle di accesso al database centrale, e Barry, costretto a dirgli dell’ennesimo fallimento, fece andare ancor di più su tutte le furie Thompson.

In serata gli inviai un altro messaggio: “Ci hai pensato? Cos’hai deciso?” “Ok! Farò come vuoi, ma dobbiamo incontrarci di persona.” “Tu dammi la prova che Steven è vivo e sta bene e poi decido.”

Thompson costretto a trovare una soluzione contattò il senatore. Ma non fu una buona mossa. Preso dal panico, lo chiamò senza codificare la telefonata e l’intera conversazione fu registrata nei sistemi dell’intelligence. Il senatore, accortosi che Thompson non aveva criptato, finse di non conoscerlo, mentre Thompson, sempre più agitato, gli ricordò nei dettagli il motivo per cui lo aiutava da anni. Anche se il senatore chiuse immediatamente la conversazione, tanto bastò a far scattare “l’allarme” nel sistema informatico dell’intelligence. Intanto la ricerca dell’albergo di Dan Patterson, il marine trovato morto, aveva dato i suoi frutti. Alloggiava in una pensione in un quartiere malfamato. Nella stanza trovarono un borsone con dentro un piccolo arsenale. Pistole, cartucce, un piccolo lancia granate e tre fucili di precisione. Nell’armadio, una tuta mimetica, abiti da cerimonia e da bodyguard: l’armamentario di un killer di professione. E, ben occultata nel bagno, una cartella contenente varie piantine e foto di edifici pubblici – scuole, grandi alberghi, uno stadio di football – alle quali era spillato un foglio con annotate date e orari; contrassegnati con un pennarello, i percorsi più brevi per scappare dagli edifici. Fu chiaro che stavano preparando un attentato, ma mancava il nome del bersaglio e sulle piantine non c’erano i nomi delle strutture ma delle sigle, che erano poi scritte sul foglio con data e orario. Si doveva risalire ai nomi delle strutture, incrociarle con le date, e sperare così di risalire al nome della vittima dell’attentato.

Day 21

Thompson alla fine era riuscito a ottenere il permesso per rintracciare il cellulare di Bruce, ma neanche le avanzate tecnologie dell’intelligence risultarono efficaci. Il ragazzo aveva studiato bene il piano e, oltre ad aver acquistato un cellulare usa e getta e aver disattivato tutti i dispositivi di rilevamento, lo accendeva solo quando doveva comunicare con lui, contattandolo esclusivamente mentre era in movimento. In metro, in treno, in macchina, in moto, risultando di fatto irrintracciabile. Thompson era costretto a cedere alle sue richieste e fornirgli la prova che pretendeva, solo che le condizioni di Steven non erano buone. Le torture avevano lasciato evidenti segni delle percosse subite. L’unica era ricorrere a un escamotage. Ordinò a Barry di rimetterlo il prima possibile in sesto e girarono il video con un cellulare nella cella, abbassando le luci. Quando Bruce lo contattò per conoscere le sue intenzioni, questi rispose che gli stava inviando il video. Subito dopo, una delle sue fonti lo avvertì che nei giorni precedenti un detective del DPD aveva fatto un po’ troppe domande sul suo conto.

Quando vidi il video, nonostante il trucco e l’oscurità, capii immediatamente che le condizioni di Steven erano precarie, che lo avevano torturato e che era al limite. Avrei voluto avere fra le mani quello stronzo, e mi pentii di non aver approfittato della sera prima per ammazzarlo. Decisi di incontrarlo, ma in un posto affollato, per evitare di dargli la chance di catturarmi. Non avevo un piano preciso, ma sentivo che più tempo ava e più Steven rischiava di soccombere. Feci un giro in città per scegliere il posto più adatto, dato che non mi aspettavo di certo un’accoglienza da amico. Trovai il posto giusto, frequentato a tutte le ore e aspettai mi ricontattasse.

Intanto Fernanda, trovati gli incartamenti in disordine, capì che Bruce stava tramando qualcosa e lo fece mettere sotto sorveglianza. Nella sua stanza trovò il cellulare usa e getta e lesse i messaggi fra i due. Era indecisa se intervenire o no, alla fine fece inserire nel telefono un microscopico rilevatore di posizione per tenerlo sotto controllo. A mezzogiorno Fernanda la convocarono in centrale. «Detective Roy, mi hanno contattato dalla FACC, asserendo che lei non ha seguito i miei ordini e continua le indagini su Barrimore. Esigo una spiegazione!» «Non so di cosa stia parlando, sinceramente.» «Detective, non faccia la furba con me. Lei da privato cittadino può fare ciò che vuole, non da poliziotto, anche se in ferie. Crede che a me vada a genio quel tipo?» «Capo, posso essere schietta? Mi meraviglia la sua ingenuità. Si è basato su ciò che le ha detto Thompson senza verificare le sue credenziali in merito all’arrogarsi diritti sull’indagine. Sa che i suoi vertici, di questa come la chiama lei, operazione, non ne sanno nulla? E che quel Thompson ha architettato tutto per salvarsi il culo? Chiami Ben e verifichi. Se vuole le consegno distintivo e pistola. Un amico ha chiesto il mio aiuto, e non posso tirarmi indietro.» «Va bene. Se vuole continuare a fare di testa sua, si dimetta.» «Certo, eccola accontentata. La saluto.» Fernanda chiamò Horacio per avvertirlo del colloquio con il capo e della decisione presa, chiedendogli di rientrare per non rischiare sanzioni disciplinari. Per tutta risposta, mezz’ora dopo anche lui era in centrale a consegnare anche le sue dimissioni. «Anche tu complice in questa storia?» «No, è lei che diventerà complice di quell’essere! Già in ato ho avuto paura di lui, e gli ho fatto are liscia la morte di Josh, ora deve pagare. Sta tradendo

tutti gli ideali che dovrebbero indurci a fare questo lavoro.» Si alzò infuriato. «Quell’uomo sta tradendo il suo Paese e condannando un innocente.» E gli sbatté sul tavolo pistola e distintivo. Quelle parole lo fecero riflettere e iniziò a indagare su Thompson. Rimase quasi spaventato da ciò che scoprì, e si rese conto che Horacio e Fernanda avevano ragione. Poiché alle sue chiamate i due non rispondevano, li fece contattare da Benjamin Cole, della loro squadra. Li avrebbe dovuti incontrare, senza però dire che ci sarebbe stato anche lui. «Ragazzi, ho verificato ciò che mi avete detto. Sono stato uno stupido. Avrei voglia di chiacchierarci un po’ a quattr’occhi, ma non posso. Vi darò tutto il o necessario, ma dovrete continuare a indagare da soli, accollandovi ogni responsabilità. Trovate le prove e vi giuro che gli faccio rimpiangere di essere nato! Benjamin, di qualsiasi o necessitino, occupatene tu, o vieni da me.»

Day 22

Per mettere a punto la strategia da adottare, decisi di andare a casa. Pensai fosse il luogo migliore per riflettere. All’incrocio prima di immettermi sul viale, una macchina mi tagliò la strada facendomi quasi cadere dalla moto. «Svelto, seguimi. A casa tua ci sono i rapitori del tuo compagno. Ti cercano per catturare anche te.» Credendo fosse un poliziotto in borghese mandato da Fernanda, feci cenno di seguirmi. Mi fermai nel parcheggio di un supermercato e mi si affiancò. «Cosa stavi facendo? Gli uomini di Thompson ti stanno cercando per tutta la città. Ti vogliono catturare per costringere il tuo amico a confessare.» «Confessare cosa?» «Non ha importanza. Resta nascosto, non uscire, non farti vedere in giro. Ne va della vita di entrambi.» Scesi dalla moto e salii nella sua macchina. «No, ora mi devi raccontare tutto. Dove lo tengono? Perché? Chi sei?» «Sono un agente della FACC agli ordini di Thompson. Credo alle parole del tuo amico e voglio aiutarvi perché non posso far condannare un innocente. Non ce la faccio a stare a guardare, anche se metto a repentaglio la mia carriera e la mia stessa vita.» Dopo avermi spiegato ciò che era successo dall’inizio, la mia determinazione nel fermare quel bastardo montò al punto da chiedergli di darmi un’arma, era arrivato il momento di chiudere questa storia.

Mi feci confermare il luogo dove tenevano Steven, la fattoria, e di quanti uomini disponeva. Mi disegnò la piantina del posto, come accedervi e dov’era ubicata precisamente la cella di Steven. Io gli spiegai ciò che avevo in mente. Tentò di dissuadermi, avvisandomi che il mio piano non avrebbe funzionato e che sarebbe stata la mia fine, visto quanto era spietato quel tipo. «Se mi dai una mano, ce la posso fare. Devo incastrarlo, capisci? Devo fargliela pagare. Non ti preoccupare, con ciò che ho in mano lo distruggo.» Quindi gli spiegai che Fernanda, in via ufficiosa mi stava aiutando, e lui decise di andare da lei. Andai al club a prepararmi. Copiai le foto e il video su una microscheda, chiesi a Ross di portare una copia a Fernanda, e mi avviai. Appena partito, accesi il telefono e inviai un messaggio a Thompson: “Volevi parlare di persona? Mi trovi al McDonald’s in Griffin Street.” “No, vediamoci al terzo livello del parcheggio multipiano in Commerce Street, è proprio di fianco al ristorante. Io sarò lì fra mezz’ora.” Pensando fosse un luogo pubblico, accettai. «Eccoti finalmente. Hai portato tutto?» «Mi credi stupido? Devi prima scagionare Steven, poi ti darò ciò che vuoi.» Mi puntò la pistola alla fronte e mi spinse dentro un grosso SUV. Due uomini uscirono allo scoperto ed entrati nell’auto, mi tennero immobilizzato. Non era esattamente ciò che mi aspettavo, ma ero preparato anche a quell’eventualità. Arrivati alla fattoria-rifugio, mi trascinarono nel seminterrato. Entrati nello studio di Thompson, questi fece uscire tutti dalla stanza: «Dove cazzo sono quelle foto? Dammele o ti ammazzo!» «Sì, bravo, così chi ha quel materiale lo porta a chi di dovere. Sono nato in

provincia, ma non sono uno sprovveduto. Quindi bada bene a ciò che fai!» Per tutta risposta, mi colpì in faccia con il calcio della pistola facendomi sanguinare dallo zigomo. «Continua, continua pure. Sappi però che se non comunico a questa persona che sto bene a intervalli stabiliti, capirà che sono nelle tue mani. E nel dvd, oltre alle foto e ai video c’è tutto. Chi siete, dove siete e quanti siete…» Neanche questo lo spaventò e mi colpì allo stomaco con una mazza da baseball. Me ne diede tante che mi lasciò a terra svenuto, quindi mi fece portare in una stanza dai suoi scagnozzi. ai il resto della giornata a sputare sangue, tanto che l’uomo che mi teneva d’occhio si preoccupò e chiamò aiuto. Mi medicarono alla meno peggio e mi lasciarono sul lettino, in mutande, al freddo, per tutta la notte.

Day 23

Quando mi svegliai, non riuscivo ad aprire l’occhio tumefatto, non potevo alzarmi per un dolore lancinante all’addome, e faticavo anche a respirare. Iniziai a pensare di aver fatto una cavolata, poi entrò nella stanza l’agente che mi aveva avvertito il giorno prima. «Te lo avevo detto. Guarda come ti ha ridotto.» «Non ti preoccupare per me. Steven, è qui vero? Come sta?» «Meglio di te sicuramente. Metti questo sull’occhio e prendi questa pillola.» «Ma non è pericoloso esporti così? Se arriva lui? Non farti scoprire, se no è davvero la fine per noi.» «Tranquillo. Sono andati tutti a cercare il famoso dvd. Dal tuo marsupio sono risaliti al motel dove alloggi. Stanno andando lì. Abbiamo tutta la mattina a disposizione.» «Fammi vedere Steven.» «Meglio di no! Hanno provato a ricattarlo dicendo che eri nelle loro mani, e per rendere realistica la cosa, gli hanno fatto vedere uno di loro camuffato, di sfuggita, fingendo di torturarlo e riuscendo quasi a farlo confessare. Per fortuna ha capito tutto, ma se ti vede in questo stato, potrebbe pensare di essersi sbagliato e fare ciò che vogliono.» «Se è così, hai ragione.» Thompson però rientrò prima del previsto. Gli allarmi posti all’esterno della fattoria ci avvisarono. Dopo essere ato nel suo ufficio, come una furia venne nella stanza e cercò di colpirmi con la mazza da baseball. Me lo aspettavo, avevo scostato la branda dal muro, e non ebbi difficoltà a evitare il colpo, lasciandomi scivolare dietro di esso. Da terra gli lanciai contro il letto facendolo cadere. Mi avventato su di lui e gli strinsi più che potevo la gola.

«Vuoi che ti ammazzi? Di’ di sì, o parliamo. Io non ho nessun interesse a rovinarti. Voglio solo salvare il mio compagno… poi ti consegno tutto quello che vuoi.» A quel punto intervenne, come pattuito, John, colpendomi alla nuca con il calcio della pistola… piano, come avevamo stabilito, e feci finta di svenire. Aiutò Thompson a rialzarsi e lo dovette mantenere per non farmi ammazzare, mi aveva già puntato la pistola contro. «Capo, se vogliamo farci dire ciò che sa, è meglio che rimanga vivo. Andiamo, su.» Mi lasciarono a terra e chio la porta dietro di loro.

Una volta in ufficio, Thompson chiamò Barry per sapere se la perquisizione della stanza avesse dato i frutti sperati. Andò via nero, appena seppe che non avevano trovato nulla Dopo aver riflettuto a lungo, Langlands si decise a chiamare Fernanda. «Detective Roy? Salve, non ci conosciamo, ma devo parlarle con urgenza… lo so che è in ferie, ma si tratta del caso Barrimore.» Quando Fernanda sentì il nome, accettò immediatamente di vederlo. Si incontrarono a Hillsboro, a sud di Dallas. «Salve detective, John Langlands della FACC!» «Cosa vuole da me? Mi hanno tolto il caso e lo hanno ato a voi. Non capisco.» «Non stia sulla difensiva, io sono dalla sua parte. Bruce mi ha detto che potevo rivolgermi a lei.» «Bruce… chi?» «Detective, voglio incastrare Thompson quanto se non più di lei. Crede sia una

trappola? Provi a chiamare Bruce, le risponderà lui. Provi ad andare a casa sua e la troverà completamente sottosopra. È nelle sue mani. Ieri si è consegnato di sua spontanea volontà. È convinto di riuscire a tirare fuori dai guai Steven da solo. Ha incastrato Thompson con un video e delle foto. Solo che non immaginava di avere a che fare con una persona senza scrupoli, difatti quando si sono incontrati, lo ha catturato e lo ha già quasi ammazzato.» «Quindi quello sconsiderato l’ha fatto davvero. Ora come facciamo a tirarlo fuori di lì? Cavolo! Ci mancava anche questa. Avevo qualche sospetto, ma non credevo fosse così stupido.» «Se accettate il mio aiuto, lo farò volentieri, si fidano di me. Qualche giorno fa ho consegnato a Bruce una lettera di Steven. Ho sempre creduto di agire nell’interesse del mio Paese, ma mi sono reso conto che Thompson bada solo ai suoi interessi.» «Sento di potermi fidare. Mi spieghi cos’ha fatto sinora.» «Quello che ho potuto, cioè quasi niente. Purtroppo segue tutto di persona e non dice nulla a nessuno, ordina e noi dobbiamo eseguire.» «Steven come sta? E Bruce dov’è ora?» «Sono tutti e due in una struttura della FACC, l’ultima che ci hanno lasciato. Ci stanno tagliando i viveri. E ho capito più o meno le sue intenzioni. Vuole dimostrare che siamo utili, anzi necessari al Paese. Steven è forte, ha subìto delle vere e proprie torture, ma non si è piegato. Bruce devo dire che è molto determinato e anche incosciente, un po’ ammaccato. In sostanza stanno tutti e due bene, tutto considerato.» «Un’idea ce l’avrei. Ho parlato con i vertici dell’intelligence e loro non sanno nulla di quello che sta accadendo. Purtroppo è protetto da qualcuno molto influente e hanno le mani legate. A molti non piacciono né i suoi metodi né la protezione di cui gode, e non vedono l’ora di sbarazzarsene. Hanno chiesto a me di smascherarlo. Se riusciamo a fermarlo, facciamo un piacere all’intera Nazione. Mi spieghi che sistemi di sicurezza avete alla fattoria.» «Quindi sa dove li teniamo. Bene. C’è solo un sistema di telecamere a circuito chiuso e un allarme di rilevamento. Noi siamo rimasti in otto, compresi lui e Barry. Steven e Bruce sono tenuti nel seminterrato della struttura, al quale si

accede esclusivamente dal fienile. Solo che è impossibile avvicinarsi senza essere scoperti. È tutto terreno pianeggiante.» «Li tengono insieme?» «No, in stanze separate. E Steven non immagina che ci sia anche Bruce. Lui voleva andare a trovarlo, solo che l’ho convinto a non farlo. Uno dei tentativi che hanno attuato per estorcergli una confessione, è stato di fargli credere di aver preso il ragazzo. Per fortuna è furbo e all’ultimo momento qualcosa gli ha fatto cambiare idea.» «Sì, Steven è in gamba. Nella lettera ci ha fatto capire dove fosse e come arrivarci. Ma ora pensiamo a come incastrare quel delinquente. Riesce a piazzare delle cimici nel suo ufficio? O è controllato?» «Si può fare. Si ritiene talmente al sicuro che non controlla, a parte che l’ultimo scanner ambientale che avevamo in dotazione, non funziona.» «Quando ci possiamo incontrare? Tenga presente che mi serve mezza giornata per farmi mandare tutto il necessario.» «Ma non possiamo chiedere l’appoggio de…» «Gliel’ho detto, siamo soli.» «Ok! Basteremo. Ci vediamo domani qui, diciamo allo stesso orario?» «A domani.» Fernanda chiamò Horacio, gli spiegò cosa doveva farsi dare e a chi rivolgersi, chiedendogli di partire immediatamente per Washington DC.

Day 24

Thompson era sempre più agitato. Oramai mancavano pochissimi giorni all’ora X e non poteva permettersi errori, ben conscio che se scoperti, l’unico che ci avrebbe rimesso era lui. Questo nuovo sviluppo, unito alle difficoltà incontrate, e all’ultimatum del senatore riguardo il suo diretto coinvolgimento come materiale esecutore dell’attentato, lo fecero seriamente riflettere: il gioco valeva la candela? Studiò alla spicciolata un piano alternativo: scaricare il senatore. Pensò che, anche se non avesse portato a compimento l’attentato, far confessare Steven prima che questo fosse messo in atto, salvando così la vittima designata, gli avrebbe garantito comunque un ottimo bonus per salvarsi. Ma prima doveva recuperare quelle foto e il video che, se finiti nelle mani sbagliate avrebbero reso vani tuti i suoi sforzi. Dopo aver riflettuto a lungo, andò al rifugio direttamente nella cella di Steven.

Quando lo vidi entrare da solo, armato, ammetto che me la feci quasi addosso. Cosa poteva significare se non volersi vendicare della figura che gli avevo fatto fare davanti ai suoi uomini? Ero giunto allo stremo, non avrei sopportato più neanche un pugno nello stomaco. Desideravo che quest’incubo terminasse al più presto. La paura che avevo preso con il falso Bruce era stata devastante. E invece mi diede degli abiti puliti, mi fece lavare in un bagno di fianco alla stanza e mi portò… da Bruce! Quando lo vidi fui felicissimo. Lo abbracciai e piangemmo. Eravamo entrambi segnati dalle percosse ricevute, ma felici di essere di nuovo insieme. Solo che subito dopo mi resi conto che le minacce di trovare Bruce e fargli chissà cosa, erano diventate realtà. Adesso aveva davvero l’arma per farmi fare

ciò che voleva. Stavo per sentirmi male, invece non rivolse nessuna minaccia. Fece ripulire anche lui dicendo che ci avrebbe lasciati un po’ da soli a parlare. Quando uscì, ero talmente felice che lo abbracciai, sollevandolo letteralmente da terra.

Provai un dolore atroce. Dovevo avere qualche costola incrinata, ma anche io ero fuori di me dalla felicità, nel vedere che nonostante tutto stesse bene, e quindi non fiatai. Appena finì di stritolarmi, gli raccontai le mie intenzioni e… mi fece una partaccia! Effettivamente, avessi potuto tornare indietro, avrei evitato di cacciarmi in quel guaio. Stemmo insieme per più di due ore, e parlammo, ma non entrai nei dettagli del piano, tantomeno accennai all’aiuto di John, convinto che ci spiassero.

Un paio d’ore dopo arrivarono nella cella due agenti. Uno era il ragazzo che mi aveva fatto il cenno di non confessare. Quando vide Bruce, sbiancò. Ma non sapeva se fidarsi del collega, quindi prese Bruce e lo riportò nella sua cella. Com’ero contento di aver riabbracciato Bruce, solo che ora che Thompson ci aveva entrambi nelle sue mani, ed ero sicuro che mi avrebbe costretto a fare ciò che voleva. Ero preoccupato per il mio ragazzotto di campagna, la sua ingenuità lo aveva fatto finire nelle grinfie di quell’animale. Ma ne ero fiero. Aveva dimostrato di non temere per la sua incolumità venendo in mio soccorso e questa era l’ennesima dimostrazione di quanto tenesse a me. Lo scoramento ò. Mi dissi che non poteva finire in quel modo, anche se ero cosciente che non avevamo molte possibilità. Se confessavo, io avrei ato il resto della mia vita in galera e Bruce sarebbe “sparito”, non poteva di certo lasciarlo andare. Se non confessavo, alla fine ci avrebbe ammazzati entrambi. Mi serviva un miracolo. Che si materializzò in John.

John aveva piazzato le cimici. L’intenzione era quella di registrare ciò che

avveniva nell’ufficio di Thompson, e sperare che, nella sua delirante follia, commettesse un errore, visto che neanche il fido Barry era a conoscenza dei suoi complotti. E non sospettava nulla sulle sue reali intenzioni, al contrario di un paio di agenti, che avevano iniziato a dubitare del suo operato, anche se erano convinti che Steven fosse davvero il capo di un gruppo terroristico e Bruce il suo vice. Non si spiegavano come, due americani, si fossero persuasi a tradire il loro Paese. Horacio andò a montare l’attrezzatura nel casolare che gli aveva indicato John, ma si rese subito conto che, trovandosi dietro a una collinetta, il segnale già debole trovandosi gli uffici nel sottosuolo, non era abbastanza potente. Si doveva riuscire ad arrivare quanto più vicino possibile alla fattoria, cosa impossibile dato che nel terreno tutt’intorno ad essa, non c’era vegetazione. John, indicò a Horacio l’unico posto al riparo, nel quale poter montare l’attrezzatura, registrare ciò che avveniva nell’ufficio di Thompson e tenere d’occhio la fattoria; un cumulo di fieno che nascondeva una capanna spartana, usata come postazione di vedetta dai contrabbandieri. Per avvicinarsi senza essere visto e montare il materiale, dovette attendere che fe buio. Realizzò che non era comoda, soprattutto per lui che era alto, quindi vi piazzò un amplificatore di segnale e il modulo trasmettitore.

Day 25

Alle undici e trenta, Thompson chiamò la fattoria e ordinò di far mangiare Steven e Bruce con loro, e poi di farli sgranchire nel cortile. Di turno erano i due giovani agenti, ai quali si unì John. Quando Barry gli diede le disposizioni del capo, si guardarono perplessi. Questi cambiamenti improvvisi li confondevano. Un giorno li torturava, l’altro li trattava con i guanti. John ne approfittò per insinuare dei dubbi nei due ragazzi. Li fece confidare e scoprì che anche a loro i metodi di Thompson non andavano giù, solo che temevano la sua reazione.

Quando ci vennero a prendere, tememmo volessero interrogarci insieme, rimanendo stupiti quando ci portarono in mensa per mangiare con loro. Preso il vassoio e scelto cosa mangiare, ci sedemmo a un tavolo da soli. Bastò uno sguardo fra noi, per iniziare a chiacchierare come se nulla fosse. Chiesi a Bruce cos’avesse provato quando rientrando non mi aveva trovato, cos’avesse fatto tutti quei giorni… del lavoro... Fu allora che scoprii che avevano reso pubblico il mio rapimento e della reazione di Thompson. E quando Bruce raccontò della sua sfuriata al DPD, uno dei ragazzi, ci invitò a sedere al tavolo con loro. Chiesero a Bruce i dettagli della visita di Thompson e Barry alla centrale di polizia e rimasero stupiti, facendosi scappare che quella non era una procedura regolare. Ne approfittai per rimarcare che l’intera storia era falsa e la mia totale estraneità ai fatti contestatimi: «Guarda che tutta questa storia ha poco di regolare, anzi nulla.» Gli svelai anche i motivi che, ero convinto avessero spinto Thompson a comportarsi in quel modo, e ciò che contava di ottenere. John fece finta di prendere le difese del capo, non sapendo se poteva fidarsi completamente dei due ragazzi, invece loro concordarono con la mia tesi. «John, noi due da tempo sospettavamo ci fosse qualcosa di strano in tutta questa storia, solo che avevamo paura che nessuno ci credesse e della sua conseguente

reazione.» «E allora ragazzi, fate in modo che il suo piano vada a monte. Dateci una mano e vi prometto che non sarete incriminati.» «Io però,» affermò John «agirei in modo che rimanga da solo. Vi spiego. Presentate domanda di trasferimento scegliendo una qualsiasi motivazione, vedrete che l’accetteranno, le abbiamo già presentate in tre.» «Si, ma se poi va fuori di testa?» «Dopo vi do un nome a cui rivolgervi. Lo verrà a sapere solo dopo che vi sarete trasferiti.» «Ma, e loro?» «Ragazzi, voi fate ciò che dovete per il vostro bene. Noi ce la caveremo.» Ci portarono a eggiare una mezz’oretta, poi ci riaccompagnarono nelle nostre celle. Subito dopo arrivò il cambio e loro si precipitarono a preparare la lettera di trasferimento. John approfittando del cambio, ci confidò di aver piazzato delle cimici anche nelle nostre celle e nelle altre stanze, convinto che la registrazione degli interrogatori potesse servire.

La cosa che John non sapeva nascondendo le altre cimici, era che queste registravano, ma dovevano essere abilitate alla ricezione nella postazione di Horacio, quindi non si curò di avvertirlo.

Day 26

In mattinata arrivò a Thompson la comunicazione del trasferimento di cinque dei suoi uomini con effetto immediato. Fuori di sé chiamò Washington. La telefonata venne dirottata a Ben Smith, il quale gli spiegò che servivano tutti gli uomini disponibili per una grossa operazione in corso. «Anche io ho un’operazione in corso, cazzo! Una cosa talmente grossa che ne va della sicurezza nazionale.» «Quale operazione? Io non ho ricevuto nessun rapporto e non ho avallato niente. E senza autorizzazione, non c’è un’operazione. O lei mi sta scavalcando?» «Senti saputello. Te lo dico una sola volta. Rimandami gli uomini, o preparati a…» Lo interruppe il capo dell’intelligence: «Senti tu invece. Sono Kessington e qui comando io! Considerati fuori a partire da questo momento.» Thompson cercò il senatore il quale, messo al corrente della situazione personalmente dal direttore del bureau pochi minuti prima, dovendo valutare bene la situazione, preferì non rispondere. Il cerchio si stava inesorabilmente stringendo intorno a loro. A quel punto il piano era compromesso. Sapeva che era solo questione di tempo prima che arrestassero Thompson, e questi non avrebbe esitato a coinvolgerlo pur di salvarsi. Doveva recuperare le prove che usava contro di lui e farlo sparire. Accettando di tradire il Presidente e l’intera Nazione si era infilato in un tunnel dal quale non sarebbe riuscito a uscirne se non portando a compimento il piano. “Gli altri” non avrebbero perdonato un fallimento e questo lo terrorizzava. Jason Norton, suo collaboratore di fiducia, anch’egli coinvolto, lo convinse a chiedere aiuto a Caesar Bambini, capo dell’omonimo clan mafioso. Avuto l’ok, si occupò di contattarlo. Dovevano trovare Thompson, e dopo essersi fatti

consegnare le prove, farlo tacere. Per sempre!

Quando vidi Thompson entrare nella cella con la mazza da baseball, capii che per noi iniziava una brutta giornata. Con John avevamo previsto un’eventualità del genere ed eravamo d’accordo che in quella situazione avremmo cercato di farlo confessare. Gli uomini di Fernanda avrebbero registrato, intervenendo prima che potesse farci del male. Ma qualcosa andò storto. Riuscii a farlo parlare, ma subito dopo prese a colpirmi una, due, tre volte e nessuno fece irruzione. All’ennesimo colpo, mentre mi urlava di consegnargli le foto e il video, caddi all’indietro e battei la testa svenendo. Mi lasciò a terra sanguinante e andò via.

Io sentii tutto dalla mia cella e tentai di abbattere la porta blindata. Quando richiuse la cella di Bruce, pensai stesse venendo da me e mi preparai. Avevo preso dalla mensa un coltello di plastica e lo nascosi nella manica della tuta. Ma superò la mia cella e andò via. Calò un silenzio surreale. Chiamai ripetutamente Bruce, senza avere risposta. Cosa gli aveva fatto? Perché quella reazione, e perché non era intervenuto nessuno? Tentai di mandare dei segnali di pericolo dalla cimice che John aveva nascosto nella mia cella, senza risultati. Ero agitatissimo. Non sapevo come stesse Bruce ed ero impotente.

Al DPD intanto, grazie al fatto che Thompson non rientrava più nei ranghi dell’intelligence, potevano intervenire e arrestarlo quindi si prepararono all’irruzione nella fattoria. Non immaginando che fossero state piazzate delle nuove cimici nelle celle dei due, aspettavano pazienti qualche mossa di Thompson dal suo ufficio. Langlands, che seguiva l’evolversi attraverso una radio datagli da Horacio, insospettito dal prolungato silenzio dopo aver sentito entrare Thompson nel suo ufficio, decise di andare alla fattoria a controllare. Fortunatamente Thompson non aveva disabilitato i tesserini magnetici, quindi ebbe facile accesso. Sceso nel sotterraneo, trovò Bruce svenuto e sanguinante, Steven invece stava bene, quindi

corse nell’ufficio di Thompson a chiamare l’ambulanza e avvertire che le cimici non funzionavano. All’improvviso vide arrivare dalle telecamere a circuito chiuso, Thompson. Con prontezza pensò a come giustificare la sua presenza lì. Gli andò incontro. «Capo, ma cos’è successo? Perché mi hai fatto trasferire, non svolgo bene il mio lavoro?» «John, mio fidato collaboratore. Hanno fatto tutto a mia insaputa quegli stronzi. Ma come mai sei qui?» «Avevo il sospetto che non fosse opera tua e ho rifiutato il trasferimento, ma non hanno accettato e quindi mi sono messo in malattia. Siamo a un o dalla vittoria qui, e voglio esserci. Gli altri?» «Hanno trasferito tutti, mentre Barry sta occupandosi di una faccenda delicata. Vuoi aiutarmi?» «Sicuro. Come vogliamo procedere? Ieri in mensa ho fatto confidare un po’ quei due. Sarà dura.» «Non per me. Io vado a prendere il ragazzo, tu porta l’altro di là, ho un’idea.» Una volta in mensa, Thompson legò Bruce alla sedia e ordinò a John di tenere fermo Steven. Lo colpì con la mazza da baseball nella pancia. Steven si piegò ma non fiatò, mentre Bruce tentava con tutte le sue forze di liberarsi. «Se non mi dai quei file te lo ammazzo davanti agli occhi!» «Bruce, non ti permettere. Se glieli dai, comunque ci uccide.» Thompson gli rifilò un’altra mazzata, questa volta all’altezza delle gambe e Steven cadde senza che John potesse tenerlo. A quel punto Thompson, completamente fuori di se, prese la pistola e stava per dargli il colpo di grazia, ma John gli si avventò contro. Ne nacque una

colluttazione, rotolarono a terra ed echeggiò uno sparo. Steven e Bruce rimasero impietriti quando videro rialzarsi Thompson. Nel frattempo Horacio, andato a controllare perché il segnale non veniva inviato, udì lo sparo e chiamò immediatamente rinforzi. Non sapeva se e quanti uomini ci fossero e non rischiò di uscire allo scoperto. Nell’attesa, capì e risolse il problema della mancata trasmissione delle cimici. Si accorse che erano presenti altre registrazioni e iniziò ad ascoltarle.

«Allora, pensi ancora che scherzi? Se non mi dici dove tieni quel materiale, ammazzo il tuo amico!» Minacciò nuovamente Thompson. A quel punto, non sapendo cosa fare, decisi di portarlo il più lontano possibile da Steven. Ricordai che Nate abitava a Gainesville e che mi aveva detto che se ne avessi avuto bisogno, mi sarei potuto rivolgere a lui. «Ha tutto un mio amico a Gainesville. Se mi dai la tua parola d’onore che lascerai stare Steven, ti do quello che cerchi.» «Andiamo, svelto.» Thompson chiamò qualcuno, legò Steven alla sedia e mi trascinò nel fienile. Mi fece salire sul furgone e partì.

Quando Horacio vide sfrecciare il furgone, ebbe un brutto presentimento. Corse alla fattoria e trovò Steven legato e svenuto, mentre John, che si stava riprendendo, in una pozza di sangue. Fernanda arrivò contemporaneamente all’ambulanza. John fu trasportato in codice rosso al primo ospedale, Fernanda e Horacio li seguirono portando Steven con la loro macchina. «Trovate Bruce, vi prego. Quello è pazzo, vi prego…»

Furono le sole parole che Steven riuscì a dire mentre singhiozzava ininterrottamente. Bruce portò Thompson nella contea di Cooke, alla periferia nord di Gainesville ignaro di ciò che stava accadendo al rifugio. Dopo averlo fatto girare a vuoto per oltre mezz’ora, confessò a Thompson di non ricordare l’indirizzo di Nate e gli chiese di chiamarlo per farselo ripetere. All’ospedale, intanto, erano riusciti a stabilizzare John, anche se aveva perso molto sangue ed era ancora in pericolo.

Thompson me lo fece chiamare dal mio cellulare, e la mia unica speranza era che Nate capisse al volo. La telefonata fu intercettata da Fernanda. Per fortuna Nate, quando lo chiamai, capì immediatamente che ero in pericolo e temporeggiò. «Bruce, io sono a Dallas, al club. Vediamoci in centro.» «No,» intervenne Thompson prendendo il telefono «vieni a quest’indirizzo…» Gli dettò l’indirizzo della fattoria, non immaginando che così facendo, stava cadendo in trappola.

Fernanda, ascoltata la telefonata, non potendo rischiare l’incolumità di Nate, decise di sostituire il ragazzo con un suo uomo in borghese. Mentre aspettava che rintracciassero il numero, dispose le posizioni della squadra. Gli agenti si nascosero alle spalle della fattoria, appena al di là della collinetta. Appena ebbe il numero di Nate, lo chiamò per spiegargli dove lo stavano aspettando. Qualche miglio prima di arrivare al rifugio, Thompson fece salire due uomini nel furgone e proseguì la marcia.

Mentre ci accingevamo a entrare nella proprietà, mi arrivò una telefonata di Nate. Thompson mi fece rispondere. Quando riconobbe la mia voce, Fernanda mi espose il piano. Disse di far finta di parlare a Nate e ascoltare. «È Nate, vuole sapere come si arriva qui.» «E tu spiegaglielo. E digli di muoversi!» Fernanda mi espose il piano. Dovevo stare al gioco, farlo arrabbiare e solo dopo consegnargli ciò che voleva. Il problema era che non sapevo se erano a conoscenza dei due che erano saliti poco prima. Entrò direttamente col furgone nel fienile, mi fecero scendere e i due scagnozzi si nascosero dietro ai battenti delle grandi porte. «Appena entra fatelo fuori e recuperate il dvd.» Era capace di farlo. Non potevo avvertire Fernanda, quindi tentai il tutto per tutto. Riuscii a far partire una telefonata senza che se ne accorgesse e inserii il vivavoce. «Ma non erano questi i patti! E comunque è inutile pensare di ammazzarlo, lui non verrà perché non ha il dvd.» Fernanda quando sentì, bloccò l’agente, chiedendosi cosa stessi facendo. «Raccontala a un altro. Ma se è vero, ti ammazzo come un cane.» «Non credo. Hai bisogno che ti sveli dove ho nascosto quei file. E poi, se anche fosse, tutti dobbiamo morire, anche io, ma non prima ti averti visto marcire in prigione.» «Credi davvero che qualcuno possa toccarmi? Io ho più potere del Presidente.» «Ma di cosa ti fai? O sei pazzo e basta?»

Ovviamente non la prese bene e mi diede il calcio della pistola in piena faccia. «Dai che puoi fare di meglio.» Un quarto d’ora dopo, resosi conto che dicevo la verità, richiamò i due scagnozzi che mi tennero fermo mentre lui iniziò a colpirmi con pugni e calci. Non so cosa mi diede la forza, ma ad ogni calcio, ad ogni pugno io mi sentivo più forte, tanto che appena smise per un attimo, facendo leva sui due, gli sferrai un calcione in piena faccia. Iniziò a sanguinare dal naso, cadde all’indietro e batté la testa. I due, presi alla sprovvista mi lasciarono e io mi lanciai sulla pistola di Thompson. Li feci rialzare e tenendoli sotto mira, dissi: «Vedi? Non sei nulla ora. Te la stai facendo sotto.» Ed esplosi un colpo in aria.

Fernanda quando sentì lo sparo credette che lo avesse ucciso e ordinò agli uomini di prepararsi all’irruzione.

«Ora, caro mio, comando io. Ho capito sai, che nessuno dei tuoi capi sa nulla di quest’operazione. Ora chiama chi di dovere e fai scagionare Steven. Ti garantisco che se ti dimentichi di noi, noi faremo altrettanto con te.» «Già, e secondo te mi fido? Appena liberi correreste a denunciarmi alla polizia.» «Non tutti sono come te. Ma possono diventarlo. Sai che sto pensando? Che se vi ammazzo e vi lascio marcire qui, chi mai risalirebbe a me?» sorrise beffardo. «Non ci credi? Vuoi provare?» Non finii la frase che gli sparai un colpo alla gamba destra. «Voi due, volete continuare a vivere? Andate di sotto, in mensa c’è il mio compagno. Liberatelo e portatelo qui. E non fatevi venire strane idee, come vedete non scherzo.» Dopo cinque minuti salirono senza Steven.

«Giù non c’è nessuno. Abbiamo guardato dappertutto.» «Nessuno? Allora significa che Steven è riuscito a scappare. Benissimo. Ora parliamo da uomini. Io ho una sola parola e ti lascio libera scelta. Io me ne vado… ti do ciò che cerchi… noi ci dimentichiamo di te e tu di noi. Oppure chiamo la polizia e vediamo come va a finire.» «A questo punto hai vinto. Anche io ho una sola parola. Dammi quel maledetto dvd e sparisci dalla mia vista. Noi non ci siamo mai conosciuti.» Sapevo che bluffava, ma era quello che volevo. Scaricai le pistole dei due scagnozzi e le lanciai fuori, presi dalla tasca il cellulare, lo poggiai su una balla di fieno facendo partire una nuova chiamata, quindi slacciai il pantalone e dalla molla della mutanda estrassi una microscheda. «Ecco, qui dentro ci sono i file e il video. Non ci sono altre copie e nemmeno esiste un dvd.» «Vuoi dire che l’hai avuta sempre con te? Sei furbo ragazzo e per questo meriti rispetto. Non è facile prendermi in giro.» Allungò la mano e prese la scheda. Come mi aspettavo, una volta avuto ciò che voleva, mi diede una testata che mi fece perdere l’equilibrio. I due scagnozzi mi si avventarono contro, disarmandomi. «Sei proprio un ingenuo! E secondo te chi tenta di sfidarmi o prendermi per il culo, poi vive abbastanza per raccontarlo? Ora che ho questa non mi servi più. Portatelo sul retro della casa, uccidetelo e buttatelo nel pozzo. I miei animaletti avranno fame a quest’ora. Ah, e per quanto riguarda il tuo amico, lo troverò e gli farò confessare ciò che voglio. So come fare, poi avrà un misterioso incidente. Addio!»

I due eseguirono l’ordine, ma neanche il tempo di mettere il naso fuori, furono circondati dai corpi speciali del DPD. «Fermi, gettate la pistola e alzate le mani!»

Thompson riuscì a reagire con prontezza e tentò il tutto per tutto. «Fermi voi. Sono Carl Thompson, capo della FACC, state intralciando un’operazione dell’intelligence.» E mostrò loro il tesserino. Horacio glielo tolse di mano e lo strappò. Thompson accennò una reazione e Horacio, che aspettava da anni quel momento, schivò il colpo e a sua volta gli diede il calcio del fucile nello stomaco facendolo piegare in due, subito seguito da un altro colpo in faccia. I due scagnozzi tentarono la fuga, ma furono bloccati. Portarono i tre in centrale, Bruce in ospedale, la fattoria fu posta sotto sequestro. Fernanda si complimentò con la squadra e rivolta a Horacio: «Bel lavoro, finalmente ti sei sfogato, ma d’altronde stava tentando di scappare. Non potevi fare altrimenti.»

Quando vidi Bruce entrare nella stanza dell’ospedale dove mi stavano visitando, non riuscii a muovermi né a proferire parola. Mentre lo guardavo, ridevo e mi scendevano dei lacrimoni senza che potessi fare niente. «Ste’… è finita! Fra poco ce ne torniamo a casa.» E venne ad abbracciarmi. Dopo aver visitato anche lui, vollero tenerci sotto osservazione per ventiquattro ore. La voglia di tornare a casa nostra e lasciarci alle spalle quella brutta avventura era tanta, ma qualche ora in più, insieme, la potevamo sopportare.

Day 27

DPD. Ben Smith e il generale Kensington condussero personalmente l’interrogatorio di Thompson, il quale non aveva perso la sua arrogante baldanza. «Quando vi decidete a farmi uscire da qui? Non avete ancora capito che mi hanno incastrato? Io sto lavorando per il Paese, ho smantellato una cellula eversiva che voleva attentare alla vita del Presidente.» «Sì, e io sono la fata turchina. Fossi in te mi addosserei tutte le imputazioni sperando nella clemenza di chi ti giudicherà.» «Addossarmi cosa? Fatemi chiamare l’avvocato, chiarirò tutto e badate a voi. Quando…» «Ma un po’ di amor proprio non ce l’hai? Basta! Sei stato scoperto, sii uomo e accetta le conseguenze di ciò che hai fatto.» «Generale, è inutile. Carl Thompson, lei è accusato delle seguenti imputazioni: omicidio plurimo, tentato omicidio, alto tradimento, corruzione, ricatto, rapimento, torture, cospirazione… questo solo per iniziare. Sarà tradotto in un carcere di massima sicurezza, in attesa di essere giudicato.» Thompson non fiatò e fu portato nella camera di sicurezza del dipartimento, in attesa del trasferimento. Kensington relazionò il senatore esponendogli nei dettagli l’operazione. Quando questi gli chiese quando lo avrebbero preso in custodia, rispose che non rientrando più nei ranghi dell’agenzia, ed essendo stato catturato dalla polizia locale, dovevano attendere l’autorizzazione e che il trasferimento in carcere sarebbe avvenuto la mattina seguente. Il senatore fingendo preoccupazione per l’eventuale rischio di fuga, volle essere dettagliato sulle modalità di trasferimento. Kessington gli specificò orari, percorso e composizione della scorta. Ora sì che non c’era più tempo da perdere, doveva cambiare strategia. Fece contattare Caesar Bambini, inviandogli le modalità del trasferimento.

Nel pomeriggio al DPD, mentre stabilivano gli ultimi dettagli, un informatore di Horacio gli recapitò un messaggio: “Attento, i Bambini sanno che giro farà il furgone dei gelati. Vogliono far scendere il ninno e portarlo al parco dei divertimenti!” Smith e Kessington, visto che erano al corrente dell’arresto di Thompson solo alcuni agenti del DPD, ed escludendo a priori che potesse essere stato così furbo da prevenire una sua eventuale cattura organizzando una fuga, ipotizzarono ci fosse una talpa al dipartimento, anche se sia Fernanda che il capo del DPD erano pronti a mettere entrambe le mani sul fuoco per i loro uomini. E allora chi poteva essere stato, se non qualcuno che conosceva i dettagli del trasferimento? Si rafforzò l’ipotesi che dietro ci fosse più che un unico mandante, un’organizzazione, potente al punto da non aver paura di sfidarli. Thompson era una pedina e sicuramente non conosceva i loro nomi, ma già sapere chi era il loro tramite era un inizio. Come far parlare Thompson? A Fernanda venne l’idea di rivelare a Thompson il coinvolgimento della mafia per farlo fuori, chissà che non lo avesse spinto a confessare. Era noto che non brillava per il suo coraggio, la vicenda di Horacio ne era l’esempio. Quando lo misero al corrente di ciò che lo aspettava, sbiancò, ma non parlò. Accettò solo la protezione dell’agenzia. Smith decise di organizzare un falso trasferimento. All’orario stabilito, il cellulare con tre agenti di scorta, avrebbe compiuto il percorso fino al carcere, seguito a distanza dalla squadra speciale. L’idea era quella di catturare gli uomini di Caesar Bambini e fargli confessare il nome di chi li aveva assoldati. Nel frattempo Thompson sarebbe stato trasferito con una normale auto di servizio, travestito da poliziotto, in una località protetta conosciuta solo da lui, sorvegliato a vista ventiquattro ore su ventiquattro, da agenti di massima fiducia.

Day 28

Ci dimisero alle otto e Fernanda ci fece accompagnare. Sinceramente non speravo più di rivedere la mia casa, non credevo di rivedere Bruce, ed ero ancora tanto scosso da quella brutta avventura che ad ogni minimo rumore sobbalzavo. Ma era bellissimo potermi nuovamente sedere alla mia poltrona sul portico, girare per casa, uscire se ne avevo voglia… essere libero! Nel pomeriggio mentre riposavamo sul letto, Bruce mi diede il mio portafortuna, spiegandomi perché lo aveva preso, insieme a un foglietto sul quale aveva annotato quanti soldi aveva preso dalla cassaforte, come li aveva spesi e come intendeva restituirmeli. «Stai scherzando, vero?» dissi strappando il foglio «Non permetterti anche solo di pensare una cosa simile. Ciò che è mio, è tuo.»

All’orario stabilito, partì il cellulare dal DPD, diretto al carcere. Circa dieci minuti dopo, come previsto, un camion tagliò loro la strada mentre gli impedì la retromarcia, quindi sbucò un grosso SUV, di quelli usati per il contrabbando di sigarette e armi. Dai mezzi scesero sei uomini armati di tutto punto. Non ebbero neanche il tempo di arrivare alla porta posteriore, che sopraggiunsero i corpi speciali. I malavitosi si arreso senza opporre resistenza.

Dopo il turno, Fernanda ed Estelle vennero a casa. Avevano preparato del cibo già diviso in porzioni da conservare nel congelatore e un po’ di scorte, vista la situazione. Ebbi subito un’ottima impressione sulle due, entrambe molto affabili e brillanti.

Quando le ringraziai per ciò che avevano fatto per noi, Fernanda oltre a ricordare l’aiuto che gli aveva dato Bruce in ato e la riconoscenza che nutriva nei suoi confronti per averle fatto conoscere la sua compagna, mi fece rimanere di stucco e riflettere con una frase: «Se non ci aiutiamo fra noi, che siamo ancora considerati una sorta di minoranza, non riusciremmo ad andare avanti…» Già! Io che fino a quel momento avevo sempre pensato da etero e che, nonostante avessi trovato il mio equilibrio e la felicità con un altro uomo, quasi rifiutavo di accettare la realtà… anche io ero parte di quella minoranza. E mi resi conto di esserne fiero!

Day 29

DPD. Le deposizioni di Steven e Bruce, chiarirono il suo oscuro rapimento. Dai ricordi che Steven aveva del tentato condizionamento, era previsto un attentato ai danni del Presidente e lui doveva fungere da capro espiatorio. Dalle verifiche effettuate, le piantine degli edifici trovate nella stanza di Dan Patterson, erano i luoghi dov’era prevista la presenza del Presidente. Durante le perquisizioni a casa e negli uffici di Thompson non fu trovata però nessuna traccia utile su chi lo manovrava. Gente spinta da interessi tali da arrivare a sfidare l’intera Nazione attentando alla vita del Presidente. Bisognava scoprire cosa è chi! L’intelligence iniziò un’accurata ricostruzione della vita di Thompson cercando di risalire a chiunque avesse avuto rapporti con lui. Parallelamente stilarono una lista di persone, lobby o organizzazioni che potevano trarre vantaggio dalla morte del Presidente.

Day 31

Washington DC. «Dottore, è arrivato Ken Benson.» «Ken, come stai? Le bambine?» «Tutto bene. Lei invece mi è sembrato preoccupato. Come posso aiutarla?» «So che posso fidarmi di te, sono nei guai. E ho bisogno di una mano.» «Senatore, non solo può fidarsi, ma può chiedermi qualunque cosa.» «Conosci Carl Thompson, vero? È stato arrestato e trasferito in una località segreta. È in mano al bureau, devi scoprire dove. È in possesso di una registrazione delicata, risalente al periodo in cui ero Governatore. Nulla di particolarmente grave, ma nella mia posizione basterebbe a distruggere il lavoro di anni. Deve sparire.» «Senatore, lei sa che farei di tutto per lei, ma non mi chieda di…» «No, che hai capito. È finito in guai grossi, so per certo che con i suoi metodi si è fatto parecchi nemici, e ora che non ha più protezione, teme per la sua vita. Ho paura che possa barattare la registrazione in cambio dell’immunità. Devo convincerlo a consegnarla a me. In cambio gli farò avere una nuova identità.» «Non riesce a sapere dove lo tengono?» «È proprio questo il problema. Lo sa solo una persona, Ben Smith!» «Tosto quello. Ma vedrò cosa posso fare.» «Ben? Sono Ken Benson, ti devo parlare al più presto.» «Sì, ma oggi è una giornataccia. Domani?»

«No! Oggi stesso. È di vitale importanza.» «Credo di aver capito, pausa pranzo, lontano da occhi e orecchie indiscrete… giusto?» «Giusto. Solito metodo.» Le due principali agenzie di intelligence, seppur create per operare in ambiti diversi, a volte si trovavano ad occuparsi degli stessi casi ed erano in perenne conflitto fra loro. E anche se più volte in ato i vari Presidenti li avevano invitati a non pestarsi i piedi ma a collaborare, la rivalità era troppo radicata. Per questo, ogni contatto fra le due agenzie, poteva essere motivo di speculazione. Quando giocoforza erano costrette ad avere contatti ufficiali e/o ufficiosi – come in questo caso – prendevano tutte le precauzioni per non farsi fare le scarpe. Alle dodici e trenta, come già avevano fatto in ato, i due si videro nella sauna di una beauty farm. «Ben, vedo che hai messo qualche chiletto. Ti consiglio un po’ di…» «Ken, evitiamo le stronzate e vieni subito al sodo.» «Siamo diventati permalosi? Come vuoi.» Tornò serio e disse repentino: «Consegnami Carl Thompson, oggi stesso!» «Come sospettavo. Scordatelo. Non so come tu lo abbia saputo, ma questo caso non è di vostra competenza. E ti avviso, statene fuori.» «E no, amico. Noi gli stiamo addosso da anni. È in possesso di informazioni troppo delicate, che coinvolgono il settanta per cento delle nostre attività in Europa e Asia. Facciamo così: ce lo consegni, ci facciamo dire dove tiene quel materiale, e poi ve lo riconsegniamo.» «Questo conferma che non hai la più pallida idea di ciò che stava organizzando. Non so cosa state tramando, ma a questo punto credo che non ci sia più nulla da dire.» Conoscendo bene Smith, dal tono usato Ken sospettò ci fosse qualcosa più di un semplice ricatto al senatore.

Deciso a scoprire cosa ci fosse sotto, chiamò il senatore: «Senatore, sono Ken. Mi ha detto tutto ciò che c’era da sapere?» «Ken, tu devi solo trovarlo non fare domande! È di vitale importanza per il futuro della Nazione. E non chiamarmi. Ti contatto io.» Il tono, l’eludere la domanda, la perentorietà con la quale lo aveva trattato, confermarono a Benson ciò che aveva intuito. Andò nuovamente da Smith. «Senti Ben, non sono venuto per conto dell’agenzia, ma in qualità di vecchio amico di corso. Da allievi eravamo affiatati e abbiamo anche risolto dei casi, insieme. Non voglio cercare di dissuaderti, ma mi stanno facendo pressioni dall’alto, molto in alto, e la cosa m’insospettisce. Nel limite del possibile, puoi dirmi di più?» «E chi mi dice che non sia un tentativo per scoprire a che punto delle indagini siamo?» «Ben, davvero. Sono sincero e poiché sono molto in debito con questa persona, quando ha chiesto il mio aiuto, non ho potuto rifiutare. Ma l’ultimo colloquio mi ha fatto sorgere dei dubbi. Ti dico cosa mi ha chiesto. Devo far parlare Thompson e farmi dire dove tiene una registrazione compromettente, in cambio di una nuova identità.» «E chi sarebbe?» «No, questo non te lo posso dire. Ti ho detto ciò che so, se proprio non mi credi, gli dovrò confessare il fallimento e ne subirò le conseguenze, perché si vendicherà. Fa buon uso di ciò che ti ho confidato.» Smith capì che Benson era sincero e che era seriamente preoccupato. L’unica persona a conoscenza di tutta la storia, di cui si fidava, era Fernanda. Le chiese di raggiungerlo a Washington per aiutarlo nelle indagini. Fernanda accettò di buon grado, chiedendo che fosse coinvolto anche Horacio. In serata arrivò al DPD la richiesta di assegnazione temporanea.

Day 32

«Bene ragazzi, i dettagli del caso li conoscete, ma vi ho fatto venire per ulteriori sviluppi che ci sono stati in queste ultime ore. Il fantomatico personaggio alle spalle di Thompson, come sospettavamo è molto in alto, potente e quindi estremamente pericoloso, tanto da coinvolgere “l’altra agenzia”.» Dopo averli messi al corrente di ciò che aveva saputo da Benson, diede loro l’accesso illimitato ai sistemi dell’agenzia, una stanza e due uomini di sua fiducia come collaboratori. Il compito non era facile, ma iniziarono subito di buona lena. «Horacio, io e Alec verifichiamo le telefonate che hanno ricevuto gli uomini di Caesar Bambini, tu vedi se riesci a trovare qualcosa su Thompson. Mya, fa una lista di tutti coloro che hanno avuto contatti con Thompson negli ultimi due anni.»

Day 33

Nel pomeriggio Ross, proprietario del locale sadomaso a Dallas, mi chiamò. «Bruce, non so se può essere utile, ma è venuto il titolare della Postal Service qui di fronte. Nel liberare le cassette del fermo posta non confermate, ne ha trovata una intestata a quel Thompson. Sapendo che era mio cliente, mi ha chiesto il suo indirizzo per restituirgli il contenuto. A prescindere dal fatto che non ho suoi recapiti, penso che possa interessare la polizia, il tipo dice che ha trovato documenti, cellulari e altro.» «Grazie Ross, molto utile. Ah, salutami Nate.» Il mio sesto senso mi diceva che una simile coincidenza era abbastanza strana, d’altronde in quella casella postale poteva esserci una svolta per le indagini, quindi chiamai immediatamente Fernanda, la quale mi disse di essere a Washington, ma di andare da Benjamin Cole al DPD.

Day 34

Presi un’ora di permesso al lavoro e mi precipitai alla centrale. Cole era fuori sede per qualche giorno, il capo del DPD in ferie e, non sapendo a chi rivolgermi, decisi di andare di persona insieme a Ross da quel tizio, spacciandomi per il compagno di Thompson. Ci volle un po’ per convincerlo, ma alla fine ci consegnò tutto il contenuto della casetta. Tutto fiero, chiamai Fernanda dicendole di aver recuperato personalmente il contenuto. Quasi mi menava per telefono, perché senza mandato le prove non erano valide, e avevo fatto una stronzata. Si calmò quando le spiegai che non avevo trovato né Cole né il capo al DPD, e che il giorno prima due uomini erano andati a chiedere se ci fosse una casella a nome di Thompson. Cambiò totalmente umore quando infine le dissi che eravamo riusciti a farci consegnare anche i video delle telecamere di sicurezza che riprendevano i due. Glieli inviai sulla sua mail.

Washington DC. Appena ricevuto il filmato, inserirono i fotogrammi dei volti dei due, nel programma di riconoscimento facciale. La ricerca poteva essere breve, se i due erano già schedati, ore o giorni in caso contrario. «Horacio, comunque continuate il lavoro iniziato, io vado a Dallas a recuperare il resto del materiale. Diremo che è stato rinvenuto nel suo ufficio.» Prima di prendere il volo, Fernanda decise di are da Ben per informarlo. Senza capire né come né perché, si ritrovò sul jet dell’intelligence con lui. «Questa può essere la svolta dell’indagine.» «Speriamo bene.»

«Dimmi un po’… da quanti anni non stavamo più da soli?» «Ben, non cominciare. Avevamo deciso che tra noi si sarebbe parlato solo più di lavoro.» «Nanda, lo sai che non mi è mai andata giù, l’essere stato rimpiazzato da… una donna! Eppure sessualmente con me eri molto appagata. Quando penso a com’è finita fra noi, giuro che non riesco a trovare una spiegazione.» «Tipico di voi uomini. Credete che sia vostro diritto divino infilarvi in ogni letto. Così vi considerate maschi! Però quando lo facciamo noi, siamo puttane.» Cambiando posto allontanandosi da lui, continuò… «Secondo voi, basta poi dare una riatina ogni tanto, portare lo stipendio e farci qualche regalo, per considerarci appagate e felici.» «In un certo senso hai ragione. Ma perché con una donna! È questo che non mi spiego. O forse lo so, perché…» «Zitto! Non continuare. Non costringermi a essere cattiva.» Per fortuna di Ben, furono interrotti dal pilota che chiedeva di allacciare le cinture. Erano arrivati. Atterrati, li aspettavano direttamente sulla pista due auto. «Bruce? Sono Fernanda. Stiamo venendo a casa per prendere quella cosa…» «Sì Nate. Sono a casa, se vuoi a pure. Ma sappi che ho un brutto virus.» Che stava succedendo? Il riferimento a Nate era per far capire che si trovava nei guai e che Thompson, o qualche suo complice, era lì con lui. Fernanda, chiamò in centrale per farsi mandare una squadra SWAT a o. Ben appena il cellulare, trovò diverse chiamate dai suoi uomini. Thompson era scappato! «È da loro, lo sento. Speriamo di riuscire ad avvicinarci senza farci vedere. Quello è capace di ammazzarli.»

«Tranquilla, ce la faremo.» «Ho chiesto alla centrale di far venire Antonio. Ricordi? Te ne ho parlato dopo il blitz alla fattoria. Fisicamente si avvicina molto a Nate, è preparato e in gamba per essere un novellino. E poi conosce la casa perché c’è stato durante i rilievi.» «Ho capito cos’hai in mente e ho anch’io un’idea. I nostri tecnici hanno sviluppato un taser di forma particolare, fermiamoci un attimo in pasticceria. Speriamo funzioni.» Si videro con Antonio alla pasticceria. Occultarono il taser nel cartone di una torta. Bastava puntarlo in direzione di chi si voleva colpire e premere un bottone alla base. Da due forellini invisibili, sarebbero partiti gli aghi. Il taser aveva una gittata di quattro metri e non aveva bisogno dei fili collegati alla pistola, bastava regolare la potenza della scossa, prima. «Antonio, tutto chiaro? Dai che lo rimandiamo in galera.»

Quando bussarono, Thompson mandò ad aprire Steven, mentre lui mi teneva sotto tiro sul divano. Avevo involontariamente combinato un casino, dicendo che era Nate al telefono. Thompson si ricordava bene di lui, e voleva vendicarsi per lo scherzetto al club. Infatti, non appena l’agente varcò la soglia, Thompson scattò improvvisamente dal divano e scappò con la busta contenente i documenti che avevo recuperato al Postal Service. ando dalla cucina attraversò il cortile e scavalcò la recinzione. Antonio si lanciò all’inseguimento, mentre noi avvertivamo Fernanda. «Hai visto? Ora abbiamo perso forse l’unica possibilità che avevamo per risalire al mandante.» «Ehm, veramente…» «Bruce, non dire nulla che sono talmente arrabbiata…»

«Neanche che gli ho dato il pacco sbagliato e ho la sua roba in un posto sicuro?» «Davvero? Ma sai che potrei farti entrare in polizia, vista la tua prontezza di spirito?»

Fernanda portò il materiale a Washington per farlo analizzare. Il controllo del cellulare si presentò da subito difficoltoso, era protetto da due e il seriale del telefono clonato. Le ricerche di Thompson intanto, erano a un punto morto. Sembrava essere svanito nel nulla! I tecnici dell’intelligence si misero subito al lavoro per scoprire le di accesso, con l’ordine di lavorarci finché non fossero riusciti ad accedervi.

Day 35

Il Presidente, costretto a cancellare tutti gli impegni istituzionali, viveva praticamente da recluso alla White House e, insofferente, pressava Smith. Non potendo rifiutare la protezione e ben sapendo che chi aveva in mente di attentare alla sua vita, non avrebbe desistito, era preoccupato per le conseguenze. Barry, arrestato perché ritenuto complice di Thompson, alla fine si era rivelato solo una pedina. L’interrogatorio di Caesar Bambini non aveva portato a nulla. Non poteva descrivere l’uomo che lo aveva contattato, perché ben camuffato, e sui soldi che aveva ricevuto non erano presenti impronte, se non le sue. Nel pomeriggio, finalmente una buona notizia. I tecnici avevano craccato le ottenendo l’accesso al terminale. Lo accesero alla presenza di Smith e di Fernanda. La prima cosa che controllarono fu il registro delle chiamate. Sia in entrata che in uscita, compariva un unico numero. Quel cellulare era esclusivamente per i contatti fra Thompson e il presunto mandante. Quando, timidamente inviarono la chiamata, ebbero come risposta: il numero chiamato è inesistente! La soddisfazione per essere a un o dalla scoperta di chi ci fosse a capo del complotto, ben presto si tramutò in delusione. «Dannazione! Eravamo lì a un o… e ora?» Espresse il proprio disappunto Smith: «Non tutto è perduto capo. Attraverso il gestore telefonico, si può avere accesso ai tabulati e alle registrazioni delle chiamate, e si risalirebbe alla persona che cerchiamo.» «Bene. Lo avete già fatto, presumo!» «Veramente non funziona così. C’è bisogno di essere autorizzati da un giudice, poi bisogna aspettare che…» «Cazzate! Entrate nei loro sistemi e copiate tutto. Siete o no, i migliori

informatici del paese?» «Ma capo…» «Fatelo! E intanto inserite i due numeri nel nostro software supertecnologico. Avranno, almeno una volta, abbassato la guardia, pronunciato una frase, una parola, un nome… qualsiasi indizio può essere di vitale importanza.»

Day 36

I tecnici si misero al lavoro immediatamente. Sapevano che quando il capo era di pessimo umore… Ci volle tutta la notte per avere un primo risultato. Smith, addormentatosi sul divanetto del suo ufficio, allo squillo del telefono sobbalzò, facendo cadere a terra Fernanda. «Allora?» rispose inserendo il vivavoce, senza neanche chiedere chi fosse. «Brutte notizie purtroppo. Ci siamo ricordati che in caso di urgenza dovuta alla sicurezza nazionale, si possono byare…» «Allora!? Ce l’avete quel cazzo di nome, o no?» «Ben, calmati.» disse Fernanda. «No, perché le telefonate risultano criptate.» «E non le avete ancora decriptate? Ve lo devo dire io come fare? Beh, scoprite l’algoritmo e…» «Sì, lo sappiamo come si fa. Qui nasce il secondo problema. L’algoritmo è quello che abbiamo sviluppato noi. O meglio una variante evoluta di esso. Purtroppo non possediamo i sorgenti.» «Com’è possibile? Datemi il nome di chi l’ha sviluppato, che lo vado a prendere immediatamente. O non sapete neanche chi è, incapaci!» «Capo però… il nome lo conosciamo, è Randy Felton, ma è…» «Morto in un incidente,» lo interruppe Fernanda «è il tizio di cui aveva preso l’identità Hugh Denton, attualmente detenuto a Dallas… sì che lo conosci, il complice di Thompson che siamo riusciti a incastrare per la morte di Randy Felton»

«Allora è più coinvolto di quanto credessimo. È giunto il momento che collabori, in una maniera o nell’altra.» Smith si mise in contatto con il direttore del carcere, che gli diede l’ennesima pessima notizia; Denton era stato trovato impiccato nella sua cella sette giorni prima. Sconsolato, si accasciò sul divano. Fernanda chiese ai due tecnici di continuare a monitorare i numeri con l’SCS. Poi, rivolta all’ex consorte, «Ce la faremo, tranquillo. Ora andiamo a mangiare qualcosa, devi prendere le pillole.» «Hai ragione. Non molleremo. A proposito, ti preoccupi ancora per me? Di’ la verità, ti è piaciuto dormire fra le mie braccia eh?» «Ben, finiscila di dire cavolate e concentriamoci.»

Temevo che Bruce fosse rimasto molto più turbato di quanto volesse far credere, dalla visita di Thompson, mentre andavamo al lavoro mi confidò di voler andare via da Dallas per un po’. Tentai di tranquillizzarlo chiedendogli di pensare solo al lavoro. ammo l’intera giornata nel mio ufficio. «Bruce, solo oggi. Da domani si torna alla normalità. Ma vuoi vedere che hai rischiato la vita senza esitare, e ora che lui chissà dove sarà scappato, hai paura?» «Steven, ti devo confessare una cosa. Non ho consegnato tutto a Fernanda.» «Ma sei scemo? Devi darle tutto e subito.» «No, ho riflettuto molto bene su questa cosa. Sai che quando Thompson è venuto a casa, la prima cosa che mi ha detto è che ci avrebbe ammazzati entrambi? E che se non ci riusciva lui, aveva già incaricato dei sicari?» «A maggior ragione devi dare tutto a Fernanda.»

«Steven, l’unica maniera per liberarci di lui, è...» «Bruce, non pensarla neppure una cosa simile. Non bisogna augurare il male a una persona, neanche fosse il peggior delinquente.» «Io la penso diversamente. E comunque volevo intendere, che dev’essere catturato, insieme al mandante.» «Ti ripeto. Dai tutto a Fernanda.» Senza dire nulla, si allontanò per tornare dopo qualche minuto. «Steven, siamo capitati nel mezzo di un intrigo politico che non ha precedenti. Riconosci l’uomo della foto?» «Ma questo è il vicepresidente! E sta ando dei soldi a Thompson.» «Esatto. Capisci che se consegno queste e le registrazioni che ho sottratto, ci sarà un tale terremoto politico, che favorirà chi da anni tenta di salire al potere?» «Bruce, ma a te, la politica non è mai interessata, e ora sembra tu ne sappia più di me.» «Steven, so che posso fidarmi di te, ma comunque dammi la tua parola che non dirai nulla e ti fiderai ciecamente di me.» «In che casino ti sei cacciato?» «Ricordi i due uomini del filmato? L’altro giorno mentre andavo alla centrale mi hanno bloccato e costretto a salire in una macchina, all’interno della quale ho trovato Ross. E sai con lui chi c’era? Il Presidente in persona! Mi ha spiegato che sospettava da tempo del suo vice, e che qualche giorno prima il suo staff gli aveva consegnato la registrazione di una telefonata in cui Thompson minacciava Stilgarde di divulgare le prove di un omicidio che gli aveva commissionato anni prima, se non lo avesse protetto. A quel punto, indagando hanno ricostruito tutta la nostra vicenda. Il Presidente è rimasto colpito dal coraggio e dall’intraprendenza dimostrata. Hanno seguito tutte le mosse di Thompson e di Stilgarde. Mi ha chiesto di aiutarlo.» «Mi sembra assurdo ciò che dici, ma ci credo. E…?»

«Devi sapere che esiste una società segreta che controlla gran parte dei settori nevralgici del Paese e che aspetta solo il momento giusto per prendere il controllo totale e definitivo. Stilgarde ne fa parte e visto che il Presidente non si è fatto manovrare come credevano, hanno deciso di toglierlo di mezzo per far salire lui al potere. E stavano quasi per riuscire nel loro intento, solo che noi gli abbiamo rovinato tutto. Non immaginavano che fossimo così determinati e in gamba da mandare all’aria i loro piani. Ora, il Presidente è convinto che anche un eventuale scandalo sarebbe sufficiente a innescare un terremoto politico di tale proporzione che alla fine questa gente non avrebbe difficoltà a raggiungere lo scopo. Mi dirai… perché rivolgersi a noi e non a Ben e Fernanda? Conoscendo la loro estrema onestà e il senso del dovere, non hanno voluto rischiare che, se si fosse dovuta prendere qualche decisione non proprio “ortodossa”, avessero reso la storia pubblica. Tornando a noi, stavano solo aspettando il momento adatto per intervenire. Si deve trovare quel video per eliminare tutte le prove e insabbiare la vicenda. Di Stilgarde se ne occuperà il Presidente in persona. Sono sicuri che non riusciranno a scoprire la sua identità con ciò che hanno.» «Ma sei Bruce, o ti hanno sostituito con un clone?» «Spiritoso. Mi dai una mano?» «E certo. Che ti lascio solo?» «Prepariamo i bagagli. Stanotte vengono a prenderci per mettere in pratica l’ultima fase del piano. Devi sapere che Felton aveva ideato un algoritmo di cifratura delle telefonate, molto più potente e sicuro di quello dell’intelligence. Stilgarde una volta venuto a conoscenza lo ha convinto a consegnarglielo. In quel periodo complottava per diventare vicepresidente. Ma Felton, ancora in fase di test, registrava ogni conversazione, e aveva intercettato la telefonata con la quale ordinava a Thompson di provocare un incidente ferroviario. Stava per denunciarlo, quando è stato scoperto e lo ha fatto eliminare. Thompson però, probabilmente per ricattarlo, aveva girato un video del loro incontro, nel quale Stilgarde assisteva all’omicidio di Felton, e mentre lo pagava. Nel video si vede benissimo che gli a una valigetta e quando Thompson la apre è piena di soldi. E fra le prove da far sparire, manca solo il video. Quando Thompson è stato a casa nostra, gli ho piazzato una cimice sui vestiti e quindi conoscono tutti i suoi movimenti. Ora è a Orlando, a casa dei genitori, e presumibilmente ha il video con sé. Lì ha una proprietà anche Stilgarde. Hanno fatto in modo che

anche lui, domani sia a Orlando.» «E noi che ruolo abbiamo in tutto questo?» «Dobbiamo, devo, in un certo senso fare da esca. Andrò da Thompson dicendogli che Stilgarde è disposto a dargli soldi e una nuova identità in cambio di quel video, quindi se accetta, lo porterò da lui. Con un po’ di fortuna, riusciremo a recuperare il video, e cattureremo i due.» «No, è troppo pericoloso. Non ti basta ciò che abbiamo già ato?» «Steven... Forse non è chiaro. Non abbiamo facoltà di scelta. Torniamo a casa e cerchiamo di riposare un po’.»

Washington DC. Dopo pranzo Fernanda e Ben volarono a New York. Avevano scoperto per puro caso che Randy Felton aveva risieduto, nel periodo in cui era nell’intelligence, in una villetta nel borough di Staten Island a New York. Casa che in seguito al divorzio, era stata intestata all’ex moglie. Dopo averla contattata, saputo che conservava ancora gli effetti personali del marito, speravano di riuscire a trovare i codici sorgenti per decrittare le telefonate.

Day 37

Alle cinque del mattino, una macchina prelevò Bruce e Steven dalla loro abitazione e li condusse in un piccolo aeroporto privato, dove li attendeva un uomo della sicurezza del Presidente. «Allora, avete capito bene come agire?» «Le dico subito che non sono d’accordo», disse Steven. «Steven... sì è tutto chiaro.» A Orlando li portarono in un residence appena fuori città. Alle nove, Bruce chiamò Thompson: «Carl Thompson, non riagganciare. Sono Bruce, ti ricordi di me, vero? Sono a Orlando per incontrarti.» «Come hai fatto ad avere il mio numero e a sapere dove sono, brutto stronzo!» «Carl, Carl… stai calmo. Ora lavoro per il senatore. Mi ha incaricato lui di contattarti. Sa che sei braccato e ti vuole aiutare, in fondo ti considera un figlioccio. È sicuro che custodisci a casa dei tuoi quella cosa che gli interessa. La proposta è semplice: consegnagli il video in cambio di una nuova identità e quattro milioni di dollari. Tieni presente che avrebbe potuto mandare qualcun altro, far torturare te e i tuoi finché non gli avessi consegnato ciò che vuole. Non rispondere subito, pensaci, mi farò vivo fra due ore. Ah, sono proprio due vecchietti simpatici i tuoi.» «Non vi azzardate a…» Ma Bruce riattaccò. «Bruce, mi fai paura.» Esclamò Steven. «Sono disposto a tutto pur di uscire da quest’incubo.» Thompson, assassino senza scrupoli, non era certo un impavido, e soprattutto adorava i genitori. Pensò di scappare, ma dove? Come lo avevano trovato lì, lo

avrebbero rintracciato ovunque, soprattutto con i genitori al seguito. Di certo non li avrebbe lasciati nelle sue mani. Si rese conto che la corda era troppo tesa e stava per spezzarsi e quindi decise che, con quattro milioni, avrebbe potuto sparire e ricominciare una nuova vita. Quando Bruce lo richiamò, accettò. Appuntamento a ora di pranzo alla villa di Stilgarde. … A New York intanto, l’intuizione di Fernanda si rivelò corretta. Chiacchierando con la vedova di Felton, capirono dove cercare. E, camuffato fra i CD di musica classica, trovarono il dischetto con il programma di decifratura. Corsero immediatamente alla sede newyorkese del Bureau e in pochi minuti riuscirono a mettere in chiaro le telefonate e, man mano le ascoltavano. Ci volle qualche minuto per capire chi fosse il misterioso interlocutore, alla fine: «Fernanda… questa è la voce del vicepresidente Stilgarde!» Sbiancò… «Ma ne sei sicuro? Io non ho la sua voce presente.» «Sicurissimo! Pensaci. Chi altri poteva sapere prima di tutti gli sviluppi delle indagini, così come essere a conoscenza con tanto anticipo degli impegni del Presidente?» Le seguenti telefonate confermarono. Ascoltarono anche quella in cui Stilgarde e Thompson mettevano a punto i dettagli per l’attentato. Con quelle prove, senza indugiare oltre, Ben organizzò l’arresto del vicepresidente. Sia Kessington che il Presidente erano irreperibili, quindi s’informò dove fosse Stilgarde assumendosi la responsabilità di arrestarlo per la concreta possibilità di fuga. Con una squadra speciale, volò a Orlando. Nel momento in cui Ben e gli altri atterravano, Thompson varcava il cancello della villa di Stilgarde. «Carl, che diavolo ci fai qui?»

«Come sarebbe che faccio qui… mi ha fatto venire lei, tramite quel ragazzo! Ho accettato le sue condizio…» Intervennero gli uomini della sicurezza che li immobilizzarono e perquisendo Thompson, trovarono il CD. A quel punto entrò il Presidente e fece portare Stilgarde nel salone, chiedendo a tutti di uscire. Una volta soli, visionarono il video. «Robert, posso spiegarti tutto.» «Non c’è nulla da spiegare. Mi fidavo di te. Ti consideravo uno di famiglia e non ho avuto esitazione a ricompensarti con la vicepresidenza, appena ce n’è stata l’occasione. Ma a te non bastava. No. Tu volevi il mio posto, e hai scelto la maniera più vigliacca per ottenerlo.» «Robert» disse piangendo Stilgarde «ora che intenzioni hai?» «Adam, sappiamo entrambi che un simile scandalo non si può sostenere. Come sai bene quello che devi fare.» «Dimmi solo che mi perdoni.» «Sì, ti perdono.» Usciti dalla stanza, Stilgarde chiese di poter rimanere solo per qualche minuto nel suo studio. Gli agenti non volevano, ma il Presidente ordinò loro di lasciarlo fare. Mentre il boato di uno sparo echeggiava nel silenzio della grande villa, fecero irruzione Smith, Fernanda e gli agenti del bureau, trovandosi di fronte il Presidente. Furono attimi di concitazione e di stupore, e mentre gli uomini della squadra del Presidente si precipitavano nello studio di Stilgarde, Thompson con prontezza ne approfittò per scappare. La squadra di Smith si lanciò all’inseguimento di Thompson, mentre il Presidente, Ben, Fernanda e Bruce entrarono nello studio. Stilgarde si era sparato un colpo alla tempia. Sulla scrivania, aveva lasciato un biglietto:

“Chiedo scusa a tutti per quello che mi appresto a fare. Da un anno ho scoperto di avere un male incurabile e sto peggiorando giorno dopo giorno. Per me la situazione è divenuta insostenibile. L’idea di non poter onorare il mio giuramento verso i cittadini di questo Paese e provocare dolore ai miei cari, mi ha spinto a questa decisione estrema. A mia moglie e ai miei figli. Perdonate questo che può sembrare un atto di vigliaccheria, ma la decisione l’ho presa soprattutto per non farvi soffrire vedendomi morire giorno dopo giorno.” ... «Presidente, ma cosa ci fa lei qui?» «Smith, le domande le faccio io. Voi che ci fate qui!» «Siamo riusciti a decrittare le telefonate e sappiamo il nome…» Il Presidente, lo zittì e fece uscire dalla stanza tutti tranne lui e Fernanda. «Smith, lei ora deve starmi bene a sentire. So già tutto, per questo mi trovo qui.» «Ma Presidente…» «Ascolti e non interrompa. Siete stati maledettamente in gamba, credevo di riuscire a risolvere senza che… quanti conoscono i dettagli dell’indagine?» «Beh, io, la detective Roy, le due persone rapite e un loro amico, più qualche mio uomo. Una decina in tutto.» «E chi è a conoscenza del nome?» «Del nome, solo io e la detective.» «Più Bruce… sicuramente il suo compagno e io. E Thompson. Comunque siamo in troppi. Non si può correre il rischio di insabbiare la vicenda. Ma non possiamo far uscire il nome di Stilgarde. Fai venire i due e la detective Roy.» Quando la porta si richiuse dietro di loro: «Noi cinque siamo a conoscenza di un segreto che usciti da questa stanza, dovrà essere cancellato dalle nostre menti. Io

sono certo di essere al cospetto di persone che amano profondamente e incondizionatamente questo Paese. Voi due conoscete già le eventuali conseguenze. Smith, Roy… Stilgarde faceva parte di una società segreta che da anni, forse da quando esiste l’America, aspira a comandare il paese. Il problema è che sono degli esaltati ai quali non basta solo arricchirsi, credono di appartenere a una razza superiore destinata a comandare il pianeta e non esiterebbero a scatenare una guerra totale. Vi immaginate le conseguenze se venisse fuori che il vicepresidente stava complottando per assmi? Si verificherebbe un tale terremoto politico dalle ripercussioni incontrollabili, facilitando il loro assurdo piano.» Fernanda e Ben si guardarono increduli. «Presidente, credo di parlare anche a nome della mia ex… stando così le cose, il segreto non potrebbe essere in mani migliori. Siamo disposti a morire per il bene della nostra Nazione. Questa stanza sarà la sua tomba!» Annuirono anche Steven e Bruce. «Ora però, dev’essere caccia all’uomo. Anche se non ha più le prove, una sua eventuale confessione potrebbe comunque insinuare qualche dubbio e indurre qualcuno a indagare. Trovate Thompson, a ogni costo!» «Se posso intervenire», disse Bruce «io un’idea ce l’avrei. I genitori. Sono il suo punto debole.» «Bravo. Sai che sei davvero in gamba? Perché non entri a far parte dell’intelligence. Ce ne vorrebbe di gente come te.» «È un onore ricevere i suoi complimenti, ma… mi bastano queste ultime settimane.» «Certo, immagino. Siete stati vittima della follia di quell’uomo e vi siete visti sconvolgere la vita. Poi con calma, quando questa storia sarà finita, ne riparleremo.» Smith richiamò la squadra e insieme a Fernanda andarono a casa dei genitori di Thompson. Entrarono solo loro due, presentandosi come colleghi del figlio. I due vecchietti li accolsero senza sospettare nulla e iniziarono a decantare le gesta del figlio. Alla fine però, la preoccupazione per il suo strano comportamento,

unito alla loro visita, li aveva convinti che fosse nei guai. Non immaginando con loro, chiesero a Fernanda di aiutarlo. Bastò uno sguardo per intendersi. «È vero, ha qualche problema, ed è per questo che siamo qui. Carl non vuole che corriate rischi e ci ha chiesto di portarvi in un posto sicuro. Ma è solo finché non si sistemano le cose.» Thompson, nascosto in una casa abbandonata poco distante, aspettava che se ne andassero per portare via i suoi vecchi, ma quando li vide uscire con i bagagli, capì cosa avevano in mente e andò nel panico. Pensò di costituirsi, ma prese il sopravvento la paura del giudizio e della detenzione. Li vide allontanarsi e non riuscì a fare nulla. Rimase nascosto tutto il giorno e con il favore delle tenebre, scappò.

Day 38

Trasferirono i due vecchietti nella casa protetta dove era stato detenuto il figlio, sperando che lo capisse e tentasse di liberarli. Nel frattempo al Campidoglio, il Presidente convocò una seduta congiunta di Camera e Senato per portarli a conoscenza della morte di Stilgarde e organizzare i funerali di Stato. Fernanda, rientrata in servizio al DPD, per prima cosa fece assegnare una scorta a Bruce e Steven. Ben, si occupò della caccia a Thompson, sguinzagliando la maggior parte degli uomini sulle sue tracce. Nel pomeriggio andò a trovarlo Ken Benson: «Ben, ho saputo solo pochi minuti fa. Non è come è stato reso pubblico, vero?» «Certo che sì.» «Ben, ti conosco da troppo tempo, so quando menti. E poi Stilgarde non mi ha accennato nulla. Si è tolto davvero la vita, o c’è dell’altro sotto?» «Ken non farmi domande alle quali sai che non posso rispondere.» «Stilgarde lo consideravo un secondo padre e gli dovevo molto, ma devo sapere se non era ciò che faceva credere. Era lui che mi chiese aiuto, mi confidò che Thompson sapeva qualcosa che avrebbe potuto distruggerlo. Ben, per favore… devo sapere.» Smith chiuse la porta e azionò il disturbatore ambientale, per non far intercettare ciò che dicevano. Ma non poteva dirgli tutta la verità, gliene rivelò solo una parte. «Sì, è come ti ha detto. Thompson lo ricattava e lui non ha retto. Ora lo stiamo cercando per fargliela pagare.»

«Ti voglio aiutare. La mia agenzia è a tua disposizione.» Era ciò che Smith voleva. Più gente cercava Thompson, più erano alte le probabilità di trovarlo. Anche perché, con la copia del video nelle loro mani, era praticamente inesistente il rischio che si sapesse la verità. Prima di salutarlo, gli inviò tutta la documentazione. «Grazie Ben. Te lo trovo quel bastardo!»

Finalmente potevamo tornare alla nostra vita normale – sperando fosse la volta buona – più forti e uniti che mai. I flebili dubbi che avevo nei confronti di Bruce erano oramai uno sbiadito ricordo. Che fortuna averlo conosciuto, quanti al suo posto avrebbero rischiato la propria vita per salvarne un’altra? Andammo a festeggiare l’anniversario di Fernanda ed Estelle. Quest’ultima, a un certo punto, con aria scherzosa ci fece: “Perché non vi sposate anche voi?” Ci guardammo e Bruce, alla mia faccia, cambiò discorso. Lo ammetto, all’inizio rimasi basito. Io, sposato, di nuovo, e per di più con un uomo? Poi iniziai a rifletterci su, pensando che fosse un modo per tutelare lui. Quella brutta storia, e ciò che mi aveva confessato nelle settimane precedenti… cioè che se ci si fosse trovati di fronte a un rapimento, non avrebbe potuto far nulla per pagare i rapitori; ma soprattutto che, nell’eventualità mi fosse capitato qualcosa, lui non avrebbe avuto alcun diritto sui miei beni, mi fece riflettere. Lasciai cadere il discorso, ripromettendomi di chiamare Fernanda e farmi spiegare bene gli adempimenti da compiere per un simile o. I coniugi Steven e Bruce Barrimore… mi suonava bene, ma dovevo capire se lui fosse davvero convinto. Decisi di parlargliene alla prima occasione…

Day 40

«Come ti sentiresti nei panni della “signora Barrimore”?» «Stupendamente» rispose «ma non mi vestirei da donna eh! Non farti venire strane idee.» E si mise a ridere. «No, davvero Bruce. Ho riflettuto molto in questi giorni e mi sto rendendo conto che è la cosa che più desidero. Tutti sanno di noi, ci accettano e ci rispettano per ciò che siamo. Ma questa brutta avventura mi ha fatto capire che per lo Stato, per la legge, noi siamo due estranei. Se dovesse capitare qualcosa a uno di noi, se malauguratamente ci si trovasse a dover prendere una decisione estrema nei riguardi dell’altro, non potremmo farlo.» «Dai Steven, ci penseremo più in là. So come la pensi e…» «Zitto e rispondi! Bruce… vuoi sposarmi?»

Rimasi senza riuscire neanche a deglutire. Un sogno che si stava trasformando in realtà. Quante volte, prima di conoscere lui, ho immaginato che qualcuno mi fe una proposta simile. E ora, era realtà. Piansi dalla felicità. Lo abbracciai, stringendolo forte e ripetendo non so quante volte: SÌ! SÌ! SÌ! Ero completamente perso di quell’uomo! E quelle parole per me, dopo che per tutta la vita ero stato deriso e bistrattato dalla sorte, volevano dire tutto! Non per i soldi, non sapevo neanche se ne avesse, ma perché avevo la certezza che anche lui mi amava, mi rispettava e voleva proteggermi.

Aiutati da Fernanda e Estelle, in una settimana organizzammo. Come avvenuto per il loro, Bruce prese la residenza in California e presentammo la documentazione.

Day 43

La FACC era stata definitivamente chiusa e la fattoria, destinata a uno scopo sociale, data in affidamento a un’associazione che si occupava del reintegro di ex detenuti attraverso l’agricoltura biologica. Nel ristrutturare il seminterrato al fine di eliminare ogni traccia delle precedenti attività, gli operai scoprirono una stanza segreta nell’ufficio di Thompson. Anche al suo interno, archivi, computer e altro materiale. Smith, impegnato a Washington, affidò a Fernanda il compito di verificare. Voleva evitare che, se ci fossero stati indizi, questi finissero nelle mani sbagliate. E aveva ragione. Fra le carte Fernanda scoprì documenti molto compromettenti. Oltre ai dati di dodici conti correnti intestati a Thompson e relative carte di credito, scoprì che esistevano sei copie del video col quale ricattava Stilgarde, nascoste in cassette postali o appartamenti nella sua disponibilità. Fernanda prese in custodia tutto il materiale rinvenuto e i documenti relativi all’attività dell’agenzia non ancora trasferiti. A casa, aiutata da Estelle, iniziò a sfogliarli. Fra gli incartamenti trovati nel sotterraneo, trovarono la prova che Stilgarde aveva assoldato Thompson per uccidere Randy Felton il quale, scoperto ciò che aveva in mente, era fermamente intenzionato a rovinarne l’ascesa alla Casa Bianca come vicepresidente, denunciandolo. Thompson che non era uno sprovveduto, conscio di sapere troppo e che prima o poi la stessa sorte sarebbe toccata a lui, aveva deciso di prendere le sue precauzioni filmando l’incontro a mo’ di assicurazione sulla vita. Alla fine Stilgarde era riuscito a diventare vicepresidente, e per tenere buono Thompson, lo aveva inserito a capo della FACC. Entrambi pensavano di avere facilmente la meglio sull’altro. Da una parte

Thompson, che conoscendo la determinazione di Stilgarde a diventare Presidente – senza immaginare cosa e chi ci fosse dietro – contava sul video per ottenere un tornaconto; dall’altra Stilgarde il quale gli faceva credere di avere il coltello dalla parte del manico, manovrandolo a suo piacimento, sicuro che non appena ottenuto ciò che voleva, lo avrebbe facilmente tolto di mezzo. Da alcune registrazioni il piano divenne chiaro. Stilgarde aveva scelto Thompson per compiere l’attentato al Presidente. Ma in considerazione del fatto che era una mina vagante e sapendo che se qualcosa fosse andato storto e lo avessero catturato, non avrebbe esitato a confessare per salvarsi, doveva far sì che risultasse lui l’ideatore dell’attentato. Lo aveva indotto a credere che, una volta salito alla presidenza, visto che da tempo non dava prova delle sue capacità, non sarebbe stata automatica una sua promozione, se non dimostrandogli la sua fedeltà o risolvendo un caso eclatante… Una delle registrazioni chiarì come lo aveva manipolato. Una sera, fingendo di confidarsi dopo aver bevuto qualche whisky di troppo, gli confessò: «Carl, sono amareggiato. Robert sta iniziando a escludermi da tutte le decisioni importanti e rivendica la paternità delle mie idee. Credo che tema la mia concorrenza alle prossime primarie. Di questo o avrà facilmente la meglio. Pensa che l’altro giorno abbiamo avuto un battibecco e sai che mi ha detto? “Adam, l’unica possibilità che hai di prendere il mio posto è che io muoia!”» «Beh, potrebbe essere una soluzione», rispose Thompson. «Sì, certo. A trovarlo uno che ha le palle di ammazzare il Presidente degli Stati Uniti!» La trappola era scattata. In un’altra registrazione, risalente a un paio di giorni dopo, fu Thompson stesso a proporsi di organizzare l’attentato, convinto così di recuperare credibilità agli occhi del futuro Presidente. Altre registrazioni riguardavano il coinvolgimento di Steven: «Devi trovare una persona sola, che non abbia amicizie e della quale nessuno si rammaricherebbe scoprendo che è coinvolto in un’operazione antiterrorismo.»

E altre sull’organizzazione dell’attentato: «Mi sembra un azzardo.» «Hai dei ripensamenti? Ma non ti stava sulle palle?» «Sì, ma varrà la pena correre un tale rischio? Io che ci guadagnerei?» «Quello a cui ambisci da anni. Appena hai studiato il piano, sottoponimelo, io ti farò avere la lista dei suoi impegni.» Altri documenti, descrivevano tutte le operazioni illecite che Stilgarde commissionava a Thompson. Fernanda e Estelle, sconvolte da ciò che avevano letto e sentito, arono a spulciare i rapporti dell’agenzia. Da quattro mesi, la FACC ufficialmente non risultava più fra le agenzie sovvenzionate e progressivamente stavano dislocando sia uomini che mezzi in dotazione. Leggendo i rapporti dovettero ammettere che Thompson aveva costruito in maniera convincente il complotto. Tre mesi prima, risultava agli atti l’arresto di quattro persone di origini islamiche, e fra i documenti sequestrati, il dettagliato piano di un attentato da compiere di lì a qualche settimana. Fra le varie carte c’era l’elenco dei componenti il gruppo terroristico e in capo all’elenco dei facenti parte, quello di Steven, il quale compariva come uno degli ideatori. Nei suoi appunti era spiegato nei dettagli il piano. Preparata la strada con l’arresto dei quattro presunti terroristi, Steven, scelto pensando non avesse legami o parenti che ne avessero a cuore la sorte, serviva come capro espiatorio. Thompson era sicuro che dopo aver provato i suoi metodi, pur di farli smettere, avrebbe confessato. Gli bastava avere la sua confessione, poi, prima che venisse processato e potesse ritrattare, si sarebbe suicidato e nessuno avrebbe sospettato nulla. Per l’attentato era stato scelto Dan Patterson, cecchino infallibile e amico fraterno di Thompson.

Una volta morto il Presidente, Stilgarde automaticamente ne avrebbe preso il posto e Thompson in cambio, avrebbe chiesto la direzione dell’intelligence. Quando portò tutto a Ben, anche lui rimase senza parole da ciò che le accennò Fernanda. Senza perdere tempo, bloccarono i conti correnti e, nel giro di poche ore, recuperarono le prime due copie del video. Altre due le ritrovarono nel pomeriggio, in altrettanti Postal Service dove aveva in fitto cassette postali, a Washington DC. La quinta copia era a Miami, Florida, in una villetta usata da Thompson nei week-end; mentre l’ultima la portava sempre con sé. Era tardi per arrivare in Florida, quindi rimandarono al giorno dopo.

Day 44

Washington DC. Mentre stavano per partire, comparve un alert sui sistemi. La villa era stata appena messa in vendita. Poteva solo significare che Thompson, vistosi bloccati i conti e necessitando di contanti, era costretto a venderla. Questo imprevisto cambiava la strategia. Speravano infatti che Thompson fosse presente per chiudere la vendita e incassare i subito i soldi, quindi era un’ottima opportunità per catturarlo. Per non destare sospetti, l’idea era quella di presentarsi come potenziali acquirenti. Ben decise di chiedere aiuto a Ken e alla sua agenzia, visto che gli uomini del bureau erano per forza di cose bruciati. Dall’altra parte degli States, Steven e Bruce, a San Francisco già da qualche giorno, avevano ricevuto una notizia che poteva sconvolgere totalmente i loro piani. L’idea iniziale, optare cioè per un’unione civile e dopo un annetto sposarsi ufficialmente, non era più percorribile. Dovevano farlo al più presto in quanto era certa l’approvazione della cosiddetta Proposition 8, il divieto di nozze fra coppie omosessuali che affiancava il già famoso Defense of marriage act (DOMA), una legge federale, con la quale dal 1996 veniva definito il matrimonio, come esclusiva unione fra persone di sesso diverso. Costretti ad anticipare la funzione, avvertirono Estelle del cambio di programma. Fernanda, per via degli ultimi sviluppi sulla caccia a Thompson, non avrebbe potuto fare da testimone come preventivato, ma visto che non voleva rinunciarci, chiese a Ben un permesso. Non solo glielo concesse, ma le mise a disposizione il jet del Bureau. Era programmato un vero e proprio blitz. Arrivo alle otto, matrimonio alle dieci e ripartenza subito dopo un fugace festeggiamento.

Day 45

Fummo felici di avere le nostre amiche con noi e, anche se organizzata in fretta e furia, la cerimonia andò oltre le aspettative. Mentre andavamo a pranzo però, all’improvviso Steven ci bloccò facendoci abbassare dietro una macchina. «Steven, che ti prende?» «Zitto e guarda in quella cabrio al semaforo. Quello è…» Fernanda senza indugio iniziò a correre verso l’auto, ma in quel momento scattò il verde e la vettura partì, dileguandosi. «Cavolo, c’ero quasi!» Imprecò Fernanda chiamando Ben.

«Allerta la Polizia e tutti gli uomini che hai a San Francisco. Thompson è qui! Mi è sfuggito per un pelo. È su una Mercedes cabrio nera. Lo abbiamo incrociato sulla 101 e si dirigeva verso San Jose.» «Fernanda, ne sei sicura?» «Certo che sono sicura. Piuttosto fai mettere sotto controllo autostrade, aeroporti e porti, credo mi abbia vista.» «Ma com’è possibile, maledizione. Ho mandato gli uomini di Ken a Miami credendo fosse lì.» Steven era convinto che, in qualche modo Thompson che aveva giurato di farcela pagare, avesse saputo del matrimonio e fosse lì per noi. Ci rifugiammo al comando di polizia, mentre Fernanda che voleva unirsi alle ricerche, non avendo giurisdizione, fu costretta a seguire la caccia all’uomo con noi.

«Non finirà mai?» Disse sconsolato Bruce. «Vedrai che lo prendono.» Lo consolai.

Nel pomeriggio Ben fece rientrare i quattro a Dallas.

Day 49

Erano bastati pochi giorni per sentirmi nuovamente appagato dalla vita. O almeno crederlo, come spesso mi è capitato nel corso della vita. Mi resi conto che mancava sempre quell’ultimo step per esserlo pienamente, qualche sera prima a cena. Estelle, visto che non si erano sentite tutta la giornata, diede a Fernanda una brutta notizia. L’aveva contattata l’assistente sociale che seguiva la loro pratica; avevano valutato la documentazione presentata insufficiente. Per non bocciarla definitivamente, le due dovevano sostenere dei colloqui tesi a stabilire se avessero i requisiti per l’adozione. Un figlio. Ecco cosa mi mancava. Anche quando ero sposato, quello era un grosso cruccio. Mi scese una lacrima. Mi mancava tantissimo essere padre, ne avevo parlato una volta a Bruce ma mi aveva detto chiaramente di non essere attratto dalla prospettiva, tutt’altro. Fernanda vedendomi rabbuiato, tanto insistette che confessai questo desiderio. Beh, la cosa finì lì, continuammo la cena e poi dopo una chiacchierata ci salutammo.

Quella mattina, visto che un velo di tristezza quel discorso lo aveva lasciato, Bruce riprese l’argomento in ufficio. «Dev’essere difficile poter adottare un bambino per una coppia normale, figuriamoci per una gay.» «Non ne ho la più pallida idea. Senti, per il fine settimana ti va di andare…» «Steven, non cambiare discorso. Ci vogliamo informare?» «Bruce… cambiamolo, è meglio.»

«Mi hai confessato una volta che è la cosa che ti manca di più nella vita.» «Vero, e l’altra sera è tornata un po’ la malinconia, ma ora vivo un’altra vita.» Mi chiamò la segretaria all’interfono: «Dottore, c’è una signora che dice di avere un appuntamento, ma io non ce l’ho segnato.» Intervenne Bruce, «Sì Gwen, falla entrare.» Lo guardai di sottecchi come a dire… che significa? «Sei buffo con quell’espressione. Sii naturale e vedrai che andrà tutto bene. Il tempo di presentarci e arrivarono anche Fernanda e Estelle. La dottoressa Miller, la stessa che seguiva la loro pratica, ci espose con estrema chiarezza la procedura di adozione, le varie fasi e la durata. Quindi, prima di andare via, vedendo che eravamo molto affiatati fra noi quattro, buttò lì: «Mi è venuto un’idea che accorcerebbe i tempi. Avete mica pensato di concepirli fra di voi?» Ci guardammo fra lo stupore e lo sconcerto, e non riuscimmo a non sorridere… «Pensateci. Non è malvagia come soluzione.» E andò via.

Continuammo il discorso la sera a cena. Steven era rimasto scioccato da quell’incontro. Cercai di fargli capire che se prima non ero pronto a un simile o, ora lo desideravo anch’io. E dopo i primi minuti di comprensibile imbarazzo, affrontai diretto l’argomento, esponendo i dubbi sul concepire fra noi i nostri figli. «Non so voi come la pensiate, ma sinceramente io non so se riuscirei… voi tre avete avuto esperienze di matrimonio o convivenza. Io no. Ma a parte questo piccolo dettaglio, che può essere facilmente aggirato, credo che sorgerebbero

troppe complicazioni. Chi concepisce e con chi? Siamo sicuri che un giorno la mamma o il papà naturale del bimbo non voglia accampare dei diritti? Ma, cosa più importante, abbiamo la possibilità di donare un po’ di felicità e di amore, a bambini che altrimenti sarebbero destinati a una vita infelice.» «Io credo che tu abbia ragione, ma solo per quel che riguarda l’ultima parte. Trovo che adottare un bambino sia più gratificante che concepirlo senza amore e comunque, meglio dare felicità a dei bambini che rischierebbero di finire in orfanatrofio o peggio!» Ribadì Steven, che oramai era come se fosse già un papà in attesa del primo figlio. Ci trovò tutti d’accordo.

Day 50

La mattina, appena arrivati in ufficio, chiamammo la dottoressa Miller per dirle che avevamo valutato attentamente la soluzione che ci aveva proposto il giorno prima ma che l’avevamo scartata, spiegandole i motivi, e che avremmo presentato domanda di adozione.

Washington DC. Il Presidente chiamò a colloquio Smith. «Le volevo comunicare personalmente una decisione che ho preso su di lei. Mi ha molto colpito il suo intuito e la sua bravura nel gestire il caso Thompson. Anche se il Paese ha bisogno di persone come lei, egoisticamente serve più a me. Per questo motivo ho deciso di metterla a capo della sicurezza della Casa Bianca.» «Ma Presidente…» «No Smith. Non può obiettare, è deciso. Quello che va a ricoprire è un incarico molto più gratificante. E poi, parliamoci chiaro… uno come lei dev’essere al comando, solo che a Kessington da lì non lo schioda nessuno. Rimarrebbe per sempre un secondo. Chiarito questo aspetto, volevo un suo parere sui due uomini che Thompson ha quasi ammazzato. Ho intenzione di riconoscergli un cospicuo indennizzo per ciò che hanno subìto. Ho però timore che lo considerino un modo per fargli tacere la verità. Che ne pensa?» «Certo che potrebbe dar adito a qualche dubbio. Come d’altronde questo mio trasferimento, no?» «Ben. Devo abituarmi a chiamarti per nome, ti pare? Evidentemente l’avere a che fare con complotti e persone di dubbia moralità, ti ha offuscato un po’ la realtà. E potrei offendermi. Comunque no! In entrambi i casi.» Buttarono giù una prima bozza su come giustificare l’indennizzo ai due... partendo dalla falsa indagine sul suo attentato, avrebbero acquisito solo i rapporti

della FACC inerenti la scoperta dei quattro presunti terroristi, stanziando una taglia a favore di chiunque avesse fornito informazioni utili alla cattura degli altri componenti. Dopo qualche giorno, si sarebbero presentati Steven e Bruce fornendo le informazioni richieste. E una volta catturato Thompson, gli si sarebbe attribuita la paternità dell’attentato, con le prove inconfutabili che avevano acquisito.

Day 65

Erano ate più di due settimane dal nostro ultimo contatto con la dottoressa, la quale, rimasta colpita dalle motivazioni che ci avevano spinto a proseguire con l’adozione e conoscendo le oggettive difficoltà alle quali saremmo andati incontro, ci volle agevolare. A mezzogiorno, ci contattò la responsabile di un’associazione che si occupava delle cosiddette mamme-bambine. Ci spiegò la loro mission, e da chi eravamo stati segnalati. Ci spiegò che sono tante le ragazze adolescenti che rimangano incinte per scelta, imprudenza o violenza. Ragazze che all’inizio sono intenzionate a portare avanti la gravidanza, salvo poi rendersi conto di non poter accudire i figli e decidere di darli in adozione appena nati. Quando capitava, preferivano che i neonati venissero immediatamente affidati a nuovi genitori, evitando il trauma ai piccoli e alle mamme e non pesare sui già scarni bilanci con i quali doveva fare i conti l’SSN. Ci diedero appuntamento per il giorno dopo.

Day 66

La mattina del colloquio, definirci tesi era puro eufemismo. E mentre andavamo dalle assistenti sociali, Ben ci chiamò, dandoci la notizia che aspettavamo da mesi. Thompson era stato catturato. Le assistenti sociali ci spiegarono come funzionava. Una volta stabilita la nostra idoneità all’adozione, ci avrebbero messo in contatto con le ragazzine scelte. Adolescenti nella maggior parte dei casi provenienti da famiglie indigenti, che non avendo la maturità e le possibilità economiche per crescerli, preferivano darli in adozione. Rimanemmo colpiti dai racconti che sentimmo e rafforzò la voglia di donare a quelle povere creature un’esistenza migliore. Per tutelare noi, il bambino e la mamma, era vietato scambiarsi nomi, indirizzi o altre informazioni personali. Non potevano affidarci neonati della stessa città, e in generale residenti nello stesso Stato. Per la nostra situazione, al fine di accelerare la procedura, ci fecero conoscere delle ragazze di Houston, che avevano già dato l’approvazione, ed erano prossime al parto.

Day 70

Il più accreditato giornale di Washington uscì con un’edizione speciale interamente dedicata alla notizia del fallito attentato al Presidente, fornendo dettagli che conoscevano pochi. La notizia innescò una catena di commenti nell’opinione pubblica, i centralini della Casa Bianca iniziarono a essere tempestati da migliaia di telefonate da ogni parte del Paese. Il tanto temuto caos politico paventato dal Presidente stava diventando realtà. Molti politici, soprattutto dell’opposizione iniziarono a ipotizzare che il tentato attentato e il suicidio di Stilare fossero collegati e chiesero fosse istituita una commissione d’inchiesta. Alla fine, con prove così evidenti, lo staff del Presidente decise di mettere fine a tutte le illazioni e i sospetti, diramando un comunicato stampa con il quale si confermava sì l’attentato al Presidente, ma si escludeva qualsiasi nesso fra i due avvenimenti, dando la colpa all’estremismo islamico. E, al fine di soffocare sul nascere, qualsiasi azione di sfiducia nei confronti del governo, ebbero l’intuizione giusta: rendere pubblici i documenti della FACC riguardanti la falsa indagine di Thompson. Riuscirono così a dimostrare che le due cose non erano attinenti. Ma era anche la vigilia della cerimonia con la quale a Steven e Bruce doveva essere consegnato un encomio e l’indennizzo per ciò che avevano subìto. Già in programma di svolgerla in forma privata per salvaguardare le loro identità, a seguito di questo nuovo e imprevisto sviluppo, fu totalmente interdetta alla stampa.

Day 71

La mattina, Bruce e Steven entrarono da una porta laterale, accolti da una ristretta delegazione di Camera e Senato. A Ben fu dato il compito di istruirli. Nonostante ciò, incalzati dalle domande dei parlamentari, si trovarono in forte imbarazzo. A fine giornata tornarono a casa, oltre che con una targa di riconoscimento, con due milioni di dollari in più!

Nel pomeriggio… «Questa maledetta fuga di notizie non ci voleva.» «Sì, ora, con tutta l’attenzione mediatica che c’è, si deve cambiare strategia.» «Non sarebbe il caso di rimandare tutto?» «Assolutamente no! Siamo troppo avanti, abbiamo già raccolto i fondi necessari e avviato il processo. L’anno prossimo alle primarie devono esserci tutti i nostri. No, dev’essere eliminato prima possibile.» «Sì bravo. E poi? Ricorda che il piano originario prevedeva la sua sostituzione con Stilgarde. Ora come ora non abbiamo possibilità di mettere al suo posto uno dei nostri.» «Ho già la soluzione. I nostri alleati mediorientali hanno sviluppato un altro siero, una variante del JHD11, ma molto più potente e affidabile. Bastano due iniezioni e l’effetto è garantito. E soprattutto bastano un paio d’ore per riuscire a condizionare una persona. Si occuperà dei richiami mensili Mister J. Conosciamo il segreto del nostro caro Presidente, quindi non ci resta che prelevarlo durante uno delle sue sortite a New York, condizionarlo e rispedirlo alla Casa Bianca. Un lavoretto veloce, non si renderà neanche conto di quello che è successo… sarà una marionetta al nostro servizio.»

«Bisogna studiarla bene. Anche l’altra volta pensavamo fosse facile, questa volta non si può fallire.» «Chiama Mister J e informalo del nuovo piano. Coinvolgi la squadra di Ed Sloane. Fra quattro giorni è previsto uno dei suoi blitz. È sempre solo in queste sue sortite, ha il brevetto di pilota e con un piccolo aereo raggiunge il La Guardia intorno alle diciannove. Lì ha un’auto a disposizione per raggiungere Soho. Rimane due tre ore, poi perde altre tre ore girovagando per la città, per evitare, al ritorno di incrociare i controlli notturni, quindi riparte per essere al suo posto la mattina successiva. Loro devono essere lì al suo arrivo e calcolare al secondo tutti i suoi spostamenti. A che ora arriva, quanto si trattiene e soprattutto quanto tempo intercorre fra l’uscita da quell’appartamento, al momento in cui riprende l’aereo.

Day 74

Una settimana di colloqui quasi giornalieri, convinsero le assistenti sociali a dare il via libera alle nostre adozioni. Anche Fernanda ed Estelle avevano deciso di intraprendere quella strada. Avevano organizzato alcuni incontri con potenziali “donatrici” senza avvisarci, per sì che risultassimo più naturali possibile. La prima ragazzina che ci fecero conoscere però, non fu d’accordo a dare in adozione il figlioletto a una coppia gay, e credo che non lo avrebbe fatto con nessuno. Si percepiva subito che lo voleva tenere quel figlio. Anche alle nostre amiche non andò meglio. Proposero loro una coppia di gemellini di madre afroamericana. Pensarono subito che sarebbe stato un po’ strana, multietnica, la famiglia... Estelle di origini nipponiche, Fernanda Colombiana e i bimbi afroamericani. Al terzo colloquio trovammo le ragazze adatte. Io e Steven fummo presentati a una ragazza del quartiere più malfamato di Houston. Aveva solo quattordici anni ed era stata violentata dal patrigno, il quale era stato poi ucciso dalla madre. La ragazzina, oramai sola, ci faceva una tenerezza tale che bastò guardarci per chiederle se volesse essere adottata insieme alla figlia. Rifiutò, preferendo rimanere ad accudire la nonna malata. Ci prese da subito in simpatia e volle che seguissimo la gravidanza. Era all’ottavo mese e aspettava una bambina. Nonostante l’età era già molto matura ed eravamo certi che sarebbe riuscita a crescerla, solo che proprio questa sua consapevolezza la spingeva a volere per la figlia una vita migliore di quella che aveva vissuto lei, fatta di stenti e di rinunce. Fernanda ed Estelle riuscirono a trovare una ragazza con la quale entrarono in sintonia. Sedici anni, famiglia originaria di Austin, ma residente a Houston da qualche anno. Anche questo un caso di estremo disagio e povertà. Dodici persone in una casa di tre stanze. Padre e madre alcolizzati e senza reddito fisso. Ed ebbero qualche patema più di noi. La ragazza, al settimo mese, appena terminato il colloquio ebbe le doglie e nel pomeriggio partorì. Nacque una

bellissima e sanissima bambina.

Day 75

«Ben, stasera devi accompagnarmi.» «Certo Presidente. Dispongo la scorta.» «No! Vieni di là, devo parlarti e nessuno deve sentirci.» Lo portò in una stanza insonorizzata e dopo avergli spiegato che lo coinvolgeva solo ed esclusivamente per i fatti successi, gli mostrò delle foto. «Ben, questa è Alisia, mia figlia. E lei la madre.» «Presidente, non capisco…» «È complicato, me ne rendo conto. Quattordici anni fa, ebbi una relazione con Amina. Un colpo di testa che stava per costarmi tutto. Me ne innamorai follemente, durò quattro mesi poi mia moglie lo scoprì mettendomi di fronte alla classica scelta… all’epoca ero Governatore e non ebbi il coraggio di mollare tutto, quindi lasciai Amina. Non immaginavo fosse incinta e lei non disse nulla. Si trasferì a New York dai genitori e portò avanti da sola la gravidanza. Alla trentaduesima settimana fu aggredita da dei balordi e, nel tentativo di scappare, scivolò cadendo. Partorì prematuramente e Alisia presentò da subito sintomi di paralisi cerebrale. Ho scoperto tutto otto anni fa, subito dopo la mia prima candidatura…» «Presidente, si sente male?» «No Ben. È solo che questa vicenda mi provoca ancora rimorsi. Decisi di mollare tutto e riconoscere la bambina, parendomene cura e tentando di farmi perdonare. Solo che Amina non me lo ha mai permesso, minacciando di scappare con la bimba dove non sarei riuscito a trovarle. Alla fine siamo arrivati a un compromesso. Lei è voluta rimanere dai suoi genitori. Io mi faccio carico del loro sostentamento e di tutte le cure necessarie ad Alisia. Ogni quindici giorni, vado a are qualche ora con loro. Sapessi com’è felice quando mi vede.»

«Presidente, capisco e l’aiuto senz’altro, ma come si fa a...» «Da questa stanza parte un cunicolo che porta sul lato est della Casa Bianca, a un’uscita segreta. È stato predisposto per un eventuale fuga e la sua esistenza viene rivelata nel libro-decalogo che viene tramandato ai Presidenti. Con un’auto raggiungiamo l’aeroporto e voliamo a NY. Sto un po’ con loro e ripartiamo dopo mezzanotte.»

Day 79

Avevamo conosciuto la nonna della ragazzina, e anche se non era permesso, le aiutammo facendo eseguire dei piccoli lavoretti in casa e comprando loro dei nuovi elettrodomestici. La ragazza volle che assistessimo al parto, oramai imminente.

Day 80

Anche la nostra ragazza partorì qualche giorno prima della scadenza, e fu un’esperienza incredibilmente emozionante. Sentivamo quella creatura come concepita da noi, eravamo già affezionati a lei, ma anche impauriti. Per la legge, anche se la ragazza e la nonna avevano firmato tutte le carte per l’adozione, aveva trenta giorni di tempo per ripensarci e mandare tutto a monte. Fortunatamente non fu così.

Quando, appena nata, dopo averla pulita ce la diedero in braccio, un brivido mi percorse la schiena. Provai una gioia indescrivibile, come se fosse davvero stata concepita da me. E quando la diedero in grembo alla madre e la piccolina pianse, lei ci rimase malissimo. Ancor di più quando vide che una volta presa di nuovo in braccio da Bruce smise. Ebbe quasi un rifiuto a riprenderla e ci volle l’intera giornata per fargliela allattare.

Day 87

Jessica era a casa da un solo giorno e già le nostre vite erano totalmente stravolte… fra biberon, pannolini, pianti, sveglia ogni due ore, la mattina ero praticamente diventato uno zombie. Bruce decise di prendere un periodo di aspettativa per rimanere a casa a tenere la bambina.

7 settembre

Con il are delle settimane e la bimba che cresceva forte e sana, la nostra vita era completamente stravolta. Entrambi eravamo innamorati di quel batuffoletto che sorrideva sempre e a cui piaceva da matti farsi portare nel marsupio sulla bici ed esplorare con quei suoi occhioni vispi il mondo che la circondava. Per noi, la sua felicità era diventata il nostro scopo di vita.

Fernanda andò una settimana a New York. Era stata ammessa al concorso per Chief of Department del NYPD. Voleva rinunciare per stare il più possibile con la figlia, fu Estelle a convincerla. La seconda sera, mentre usciva da un ristorantino a Soho in compagnia dei colleghi, si scontrò con l’ex marito: «Ben!? Che ci fai tu qui?» «Fernanda! TU che fai qui!» Mentre i colleghi proseguivano e lui le raccomandava di non far parola con nessuno del loro incontro, uscì dal portone davanti al quale stavano parlando… il Presidente. All’improvviso, senza che nessuno potesse abbozzare una reazione, da un furgone parcheggiato proprio di fronte al portone scesero quattro persone che, armi in pugno, minacciarono i tre spingendoli nel mezzo, per poi ripartire sgommando. Ben, all’accenno di reazione fu tramortito col calcio di un fucile, Fernanda e il Presidente narcotizzati. Si svegliarono in una stanza buia e umida, senza finestre, illuminata con lampade a gasolio. Fernanda e Ben si svegliarono in una stanza buia e umida, senza finestre,

illuminata con lampade a gasolio e, ato l’effetto del narcotico, iniziarono a chiedersi cosa stesse succedendo. Nella stanza c’erano solo loro due... e il Presidente? Era un’azione studiata nei minimi dettagli e portata a termine in pochi secondi da professionisti. Ma chi era tanto audace da rapire il Presidente degli Stati Uniti? Dopo mezz’ora portarono nella cella anche il Presidente, ancora semincosciente.

8 settembre

Estelle ci chiamò alle sette agitata. Non aveva notizie di Fernanda dalla sera prima. Non riusciva a mettersi in contatto con lei e alla reception dell’albergo le avevano detto che non era rientrata per la notte. Cercammo di tranquillizzarla, e le chiedemmo di raggiungerci in ufficio. Mentre finivamo di prepararci per andare all’appuntamento, avvisai Horacio. Neanche lui sapeva nulla, ma trovava strana questa improvvisa scomparsa. Conoscendo Fernanda, ipotizzò che si fosse trovata invischiata in qualcosa di losco, e questo gli faceva temere il peggio. Qualsiasi cosa fosse successo, in condizioni normali, avrebbe contattato qualcuno di loro.

Washington DC. Alla Casa Bianca, negli stessi minuti, la First Lady allertava la sicurezza. Il marito le aveva confessato tutto all’epoca e sapeva di queste sue periodiche sortite a New York, ma non ricevendo la consueta telefonata né la sera prima né appena sveglia, preoccupata aveva cercato di contattarlo invano. Smith, non si trovava e risultava anche lui irreperibile. Fu istituita urgentemente una commissione coordinata da Kessington. Lui e altre due persone soltanto erano al corrente di questi periodici blitz del Presidente. Partì per New York portando i migliori uomini del bureau. Cancellarono tutti gli appuntamenti istituzionali del Presidente, adducendo una forma influenzale molto debilitante Intanto a New York, agenti del bureau, seguendo le tracce del GPS di Smith, fermarono un homeless. Lo trovarono in possesso dei portafogli e dei telefonini di Fernanda, di Smith appunto e un terzo telefono che risultava non intestato. Quando Kessington giunse alla sede newyorkese, riconobbe immediatamente il telefono come quello in uso al Presidente. Interrogarono per ore l’uomo, il quale continuava a ripetere di aver trovato quella roba sul ciglio della strada. Kessington decise di andare a casa dell’ex fiamma del Presidente, da solo.

«Signora Amina, non abbiamo più notizie di Robert. Mi può spiegare nei minimi dettagli la serata? Se ha ricevuto qualche telefonata, se le è sembrato nervoso, se è successo qualcosa di strano… qualsiasi particolare che le venga in mente, anche insignificante.» «Non è successo nulla di diverso dal solito, tranne che questa volta è venuto accompagnato.» Kessington quando seppe che non era solo, capì che insieme a lui c’era Smith e, nascondendo a stento preoccupazione, tornò alla base. A qualche miglio di distanza… «E ora? Come ci dobbiamo comportare?» «Con Stilgarde morto il nuovo referente è Mister J. Contattalo e chiedi come agire… “Mister J abbiamo un problema. Visto che siamo entrambi a NY, ci dobbiamo incontrare. Al più presto.” Dopo un’ora… «Abbiamo eseguito il piano come concordato. Gli uomini hanno atteso che il Presidente uscisse da quella casa, e quando dalla telecamera piazzata nell’androne del palazzo lo hanno visto aprire il portone, sono balzati fuori da furgone, ma si sono trovati davanti tre persone. Non hanno potuto far altro che prenderli tutti.» «Maledizione! Siete degli inetti. Sapete questo che significa? Che il piano è andato in fumo.» «Non è l’unico problema. Abbiamo iniettato la prima dose al Presidente, ma non ha risposto, sembra immune al farmaco.» «Cazzo! Fatemi pensare a una soluzione. Per un paio di giorni la situazione è sotto controllo. Vi mando le istruzioni con il solito metodo.»

Bruce era molto preoccupato, Estelle disperata. Decidemmo di farla venire con la bambina qualche giorno da noi. La sera, eravamo intenti addormentare le piccole pesti, chiamò Horacio, che nel frattempo, ignaro di ciò che stava capitando al Presidente si stava coordinando con i colleghi del NYPD nella ricerca di Fernanda. Chiese a Estelle se avesse portato con sé il suo ciondolo portafortuna. Estelle capì immediatamente e la dovetti accompagnare a casa. Durante il tragitto mi spiegò: «Il ciondolo, nasconde al suo interno un micro GPS, ed è un’idea di Fernanda. Uno stratagemma adottato dalla squadra per riuscire a localizzarsi, nell’eventualità si venisse catturati durante un’operazione.» Geniale, pensai. Giunti a casa, Estelle constatò che il ciondolo mancava e avvertì immediatamente Horacio.

12 settembre

Washington DC. Terzo giorno dalla scomparsa del Presidente. A Washington, più avano le ore e più saliva la tensione fra i pochi che erano a conoscenza della sua scomparsa. E diventava sempre più difficile mantenere la notizia segreta. Alle undici e trenta Mister J comunicò il luogo dove aveva lasciato le istruzioni e un borsone contenente tutto l’occorrente per il nuovo piano. Nel frattempo, gli uomini dell’intelligence brancolavano nel buio più totale, non riuscendo a trovare nuove piste da seguire. Horacio appena atterrato a New York, andò al NYPD. La centrale era in fermento e il collega che coordinava le ricerche di Fernanda gli spiegò della presenza dell’intero staff dirigenziale dell’intelligence. Dalle notizie che trapelavano, si parlava della scomparsa di Ben Smith, ma qualcuno ipotizzava quella del Presidente, visto che Smith era capo della sua sicurezza. Horacio fece due più due. Fernanda scomparsa… Ben scomparso… Ben non lasciava mai solo il Presidente… le voci di corridoio… Andò da Kessington a esporgli la sua tesi, e rivelargli del trasmettitore che Fernanda aveva con sé. Questi si dimostrò infastidito da tanta intraprendenza, si fece dare la frequenza e lo liquidò alquanto bruscamente, salvo poi, dopo una mezz’ora ripensarci e chiedergli se volesse unirsi a loro, affiancando un suo uomo: «Lui è Axel, uno dei miei migliori elementi. Abbiamo appena ricevuto una segnalazione su degli strani movimenti, andate a controllare. Attenzione massima!» Appena partiti però, Horacio si rese conto che qualcosa non quadrava. Perché solo loro due? Perché senza prendere i giubbotti antiproiettile? E perché tutte quelle domande su Fernanda? Decise di assecondarlo, alzando il livello di guardia. Arrivarono al Queens, alla

stazione della metro G, Court Square. Il sesto senso del poliziotto era sempre più in allerta e quando entrarono in dei bagni chiusi al pubblico, senza nessuna precauzione o accertarsi ci fosse pericolo, iniziò a lampeggiare rosso! «Allora, vediamo, dev’essere qui da qualche parte.» «Cosa cerchiamo?» «Una botola. Un mio informatore mi ha segnalato degli strani movimenti qui intorno e ha visto entrare un uomo con delle provviste. Dai cerca anche tu.» La trovò Horacio e gli sembrò tutto troppo facile, soprattutto fuori dagli schemi. Avrebbero dovuto chiamare immediatamente rinforzi e attendere il loro arrivo. Appena aperta, captato un debole segnale dal trasmettitore di Fernanda, ebbe la certezza che ci fosse qualcosa di strano. Facendo finta di allacciarsi una scarpa, fece scivolare il suo trasmettitore e la pistola di riserva, dietro a un cumulo di cartoni. «Axel, l’ho trovata. Ma dove porterà?» «Secondo le piantine in un condotto non più in uso, scendiamo.» Quali piantine? Pensò Horacio, ma non poteva tirarsi indietro. Scese lui per primo e appena iniziò a percorrere il cunicolo, si trovò la strada sbarrata da due uomini. Cercò di scappare ma si trovò la pistola di Axel puntata in faccia. Lo condussero dove tenevano gli altri e lo scaraventarono a terra, di fianco al Presidente. Quando Horacio lo vide, seduto contro il muro con della bava alla bocca, esclamò: «Ma non vedete che sta male? Dev’essere portato subito in ospedale. Ehi, dico a voi…» «Non darti pena per lui, fra un po’ non soffrirà più!» Il Presidente aveva la febbre alta, iniziò ad avere delle convulsioni e a respirare a fatica. Horacio lo sdraiò su delle coperte che fungevano da giaciglio, quindi ata una delle crisi, lo mise di lato con la gamba accavallata.

Mentre era intento a tenere sotto controllo le sue condizioni, udì dei i sopra di lui. Cominciò a battere con tutte le forze contro il muro, ma non sortì effetto. Dopo cinque minuti portarono nella stanza Ben. Horacio notò immediatamente che era strano, del tutto assente a ciò che gli chiedeva, gli occhi fissi nel vuoto. Tentò di avere notizie di Fernanda invano. Sembrava un robot e si andò a sedere in un angolo della stanza senza dire una parola. Dopo un po’, entrarono quattro uomini e li trascinarono a forza lungo il cunicolo e poi su dalla botola. Nei bagni iniziarono a preparare la messinscena. Ben lo fecero entrare in un gabinetto dandogli una pistola e chiudendo la porta. Il Presidente fu trascinato in un altro, gli sistemarono la camicia, la cravatta, ripulendolo un po’. Horacio non vedendo Fernanda si preoccupò, ma subito dopo portarono dentro anche lei… armata e con lo sguardo fisso nel vuoto come Ben. A quel punto capì le loro intenzioni. Doveva agire e alla svelta. Si avventò su uno degli uomini, il più vicino al cumulo di cartoni dove aveva lasciato cadere la pistola e, come previsto, lo colpirono. Era preparato e attutì il colpo facendo finta di svenire. Si lasciò cadere sui cartoni. I rapitori, convinti fosse fuori gioco, controllarono gli ultimi dettagli, dandogli modo di raccogliere la pistola. Si voltò di scatto ed esplose in rapida sequenza tre colpi. Colpiti a morte, i tre caddero come pere secche. Il quarto che era nel gabinetto, sentiti gli spari lasciò il Presidente, aprendo di scatto la porta. Venne fulminato da Fernanda che, condizionata a sparare non appena la porta si fosse aperta, non aveva battuto ciglio agli spari esplosi da Horacio. Questi con cautela si alzò e disarmò Fernanda, quindi accovacciandosi aprì la porta dietro la quale attendeva Ben, riuscendo a disarmare anche lui. Pochi

secondi dopo fece irruzione la squadra SWAT del NYPD, allertata dall’agente amico di Horacio, al quale aveva confidato i suoi sospetti e a cui aveva spiegato del segnalatore, istruendolo sul da farsi se lo avesse attivato. Mentre gli agenti soccorrevano il Presidente, Horacio si occupò di Fernanda, e dovette tramortire Ben il quale approfittò di un attimo di distrazione generale, per prendere la pistola a un poliziotto e portare a termine la sua missione… uccidere Fernanda. Il Presidente, Fernanda e Ben furono ricoverati nel più vicino ospedale, dove gli prestarono le prime cure. Quello messo peggio era il Presidente. Mandarono a chiamare il suo medico personale che era l’unico che poteva curarlo. Raggiunto in ospedale dal collega del NYPD, Horacio raccontò ciò che era successo e convennero di dover parlare a Smith. Dopo molte insistenze ricevettero l’ok dai medici, visto che si era ripreso quasi del tutto. Smith, ascoltati i due, si trovò d’accordo con loro. A quel punto, era palese il coinvolgimento di Kessington nel rapimento. Era l’unico che poteva controllare tutto e tutti senza destare sospetti. Conosceva il segreto del Presidente e tutti i suoi spostamenti. In più, saputo da Horacio della possibilità di rintracciare Fernanda lo aveva fatto cadere in trappola. Insieme andarono dall’unica persona che poteva avviare un’indagine sul capo del Bureau: il Presidente! Il suo medico non voleva, fu il Presidente in persona a farli entrare nella stanza. Si stava riprendendo, le crisi epilettiche erano cessate ed era lucido. Dimostrò anche di avere dei ricordi, ringraziando Horacio per l’aiuto che gli aveva dato. Volle che gli raccontassero tutto dal principio. Condivise la loro ipotesi e ordinò a Smith di arrestare Kessington. Lo bloccarono all’aeroporto mentre si apprestava a scappare.

Appena Estelle seppe del ricovero di Fernanda, lasciò la bambina a Bruce e mi chiese di accompagnarla. Giungemmo a sera inoltrata a New York su un volo di linea e ci precipitammo in ospedale. Al vedere le due piangere e abbracciarsi tanto impaurite quanto felici per il pericolo scampato, mi vennero i brividi, e rivissi i terribili momenti che solo pochi giorni prima avevo provato in prima persona. Capii in quel momento che rimanere in quel Paese avrebbe significato vivere perennemente in ansia e col terrore che da un giorno all’altro sarebbe potuto ricapitare. Mi resi conto che l’America, il mio Paese, tanto amato e fino ad allora fieramente rappresentato e difeso, non era più – o forse non lo era mai stato – ciò che avevo sempre creduto fosse. Il sogno americano ora lo vivevo più come l’incubo americano. Non avere più fiducia nel Paese che avevi sempre, a ogni costo e orgogliosamente sostenuto, poteva solo significare… andarsene! Decisi di parlarne con Bruce.

Il giorno dopo Fernanda e Ben furono dimessi e il Presidente trasferito in una clinica privata di Washington per essere tenuto in osservazione ancora un paio di giorni.

19 settembre

Washington DC. La settimana iniziò con un vero e proprio terremoto. Kessington confessò le sue colpe e permise di acquisire una serie di documenti che chiarivano come fosse strutturata l’organizzazione, e procedere all’arresto di un numero considerevole di persone a essa. La congrega, come la chiamavano, era concepita come una sorta di alveare e divisa in celle. Ad ognuna di esse corrispondeva un gruppo ristretto di persone, in genere venti, ed era guidata da un referente. Questi a sua volta era membro di un consiglio, che faceva capo a un organo supremo definito Grand Jury, deputato a prendere tutte le decisioni più importanti. Il lavoro investigativo risultò da subito complicato. I membri di ogni singola cella non conoscevano i componenti delle altre e quindi bisognava arrestare contemporaneamente tutti i vari referenti e riuscire a recuperare i registri dov’erano annotati i nomi degli affiliati. Il Presidente che in prima persona coordinava le indagini, propose un accordo a Kessington; immunità, protezione e una nuova identità in cambio di ciò che sapeva. E funzionò. I documenti che Kessington aveva raccolto nel corso degli anni, permisero di arrestare quattordici referenti su quindici, e di conseguenza i componenti delle loro celle. Questo non permise però di risalire ai membri del Grand Jury, in quanto i loro nomi erano sconosciuti a tutti gli altri. Vennero azzerati i vertici del bureau, e arrestati con l’accusa di alto tradimento una trentina di politici di entrambi i partiti, circa cinquanta fra imprenditori, banchieri e uomini d’affari, oltre a quasi duecento figure minori. L’importo totale dei beni sequestrati fu di cinquecento miliardi di dollari.

19 ottobre

Un’operazione di tale portata non si poteva tenere segreta e il Presidente, a un mese esatto dalla confessione di Kessington, in una conferenza stampa, relazionò i cittadini nei minimi dettagli. “Oggi l’America si è liberata di una parte marcia di essa. Di persone prive di scrupoli, che non aspettavano altro che prendere le redini di questo meraviglioso Paese e distruggerlo. Ma l’onestà, la lealtà e il coraggio del popolo americano ha… E AVRÀ SEMPRE la meglio su questi individui. Il lavoro non è concluso, ci sono tante altre mele marce che si nascondono fra la brava gente di questa nazione, ma state sicuri che noi onesti cittadini li manderemo tutti, fino all’ultimo, dove meritano: in galera!”

Pochi giorni dopo… La mattina ricevetti in ufficio una strana lettera, nella quale un anonimo, mi ringraziava per ciò che avevamo fatto per il Paese ma mi metteva in guardia sulla possibilità di eventuali ritorsioni da parte di chi era sfuggito alla cattura. Mi agitai a tal punto che presi un periodo di ferie e tornai immediatamente a casa. Mostrai la lettera a Bruce e convenimmo che quella era una vera e propria minaccia, velatamente ci volevano far sapere che conoscevano ciò che avevamo fatto e dove potevano trovarci. La crescente amarezza e i timori di non riuscire più a vivere una vita serena; la paura che la nostra bellissima bambina potesse prima o poi subire qualche ritorsione, ci spinse a prendere una decisione estrema: lasciare l’America! Ci confidammo con Fernanda ed Estelle. Scoprimmo che anche loro avevano ricevuto la stessa lettera ed erano giunte alla medesima conclusione.

Ben non riuscì a scoprire nulla sulla loro provenienza. La settimana successiva, alienati tutti i beni, entrammo nel programma di protezione. Ci eravamo quasi convinti che assumere una nuova identità e trasferirci in un’altra parte dell’America potesse bastare, ma l’assassinio di Thompson, detenuto in uno dei più sicuri istituti penitenziari, tenuto in regime di isolamento totale, ci convinse che non saremmo mai stati al sicuro…

Tre mesi dopo, con l’inizio del nuovo anno, scelta con cura la nuova destinazione, trovati nuovi lavori, tutti e sei lasciammo la nostra amata/odiata America per trasferirci in Italia. Con la prospettiva e la speranza di un futuro migliore per noi e per le nostre splendide figlie.

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