Terramordimare
Alberto Pestelli
I pensieri, il mare e in punta di versi nella Valle
Amore… forse è proprio questa la chiave di lettura della breve silloge di poesie di Alberto Pestelli. Che sia per una donna o per la propria terra, che sia per la giustizia o per la libertà poco importa… basta che sia amore!
In “Terramordimare e in punta di versi nella Valle” c’è tutto questo e qualcosa di più, ovvero, senza la pretesa d’aver assoluta ragione, la critica alla leggerezza del pensiero dell’uomo, al suo egoismo, al suo troppo parlar per se stesso…
Tutti i brani presenti in questo volume sono stati pubblicati su web per www.liberodiscrivere.it tra il 2003 e il 2008. L’immagine della copertina è stata da me dipinta – Cala Goloritzè, Sardegna – olio su tela 50x40
Titolo | Terramordimare Autore | Alberto Pestelli ISBN | 9788891132505 Prima edizione digitale: 2014 © Tutti i diritti riservati all’Autore Youcanprint Self-Publishing Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)
[email protected] www.youcanprint.it
Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.
I pensieri e il mare
Ho chiesto al torrente se conservasse la memoria dei pensieri umani.
“Quando sono in piena vado troppo di fretta”, mi rispose, “per ricordare qualcosa… e d’estate il sole attinge stille dal mio letto e mi ritrovo senza fiato.”
“Non fare a me la medesima domanda; io sono fiume e di parole ne sento tante, ma sono come meandri; alla prima dritta
perdono l’orizzonte e le rigetto straripando sul seminato.
Il mare mi rispose alzando il sopracciglio d’una malinconica onda: “Io raccolgo tutto… come un rigattiere antico faceva coi cenci smessi. Solo dove non arriva il sole tengo i vostri pensieri saggi…
In superficie lascio gli uragani.
Il mare non è più profondo
C’è un velo che copre la torre.
Il sole non ha dita e unghie
per strappare uno spiraglio
e illuminare un cammino di pace.
Adesso il buon senso non ha sembianze
se non quelle d’una piuma smarrita
nel vortice di mille parole d’odio.
Ha in sé il colore dell’angoscia,
come quella pietra scagliata di piatto
dal fondo di un mare senza onde.
E affonda nella tempesta del cielo
dopo un ultimo salto verso
la profondità di una speranza.
Irish
Alla presentazione di un libro che si tenne a Roma, comprai un’antologia di poesie di Riccardo Mannerini. Costui era un grande amico di Fabrizio De Andrè. Scrissero insieme quella bellissima canzone che è il Cantico dei drogati. Nell’antologia ho letto di Irish che non aveva una bicicletta per andare a santificare le feste… Ho immaginato un Irish desideroso di scoprire il mondo con semplicità… Scritta e pubblicata su www.liberodiscrivere.it il 1 dicembre 2005.
Irish non ha una bicicletta.
Si rammarica di non avere
un paio di scarpe e piedi buoni
per rendere omaggio al sole.
Lui crede in una sola verità;
che ci sia un’anima
anche in una spiga di grano
e offra i suoi cuori agli affamati.
Non rivolge mai le preghiere invano,
spera di ricevere un sorriso almeno
e se sono parole di condanna
cerca di capire dov’è il suo errore.
Nei suoi pensieri non vive il punto
ché ricominciare a capo
o voltare pagine del suo bagaglio
è rinnegare la sua vera strada.
Vuole solo una bicicletta…
per superare i confini del suo sapere,
aggiungere un petalo ai suoi ricordi,
offrire il suo sorriso al mondo.
Un mare di niente
Ho visto la mia Terra
cercare due gocce d’acqua
per placare la sete
dei fiumi in pietra.
Uno stelo di grano
si piega al suolo
per riparare gli occhi
da piogge di sabbia
e trema al vento
delle parole vane
che scorrono, dilavano
montagne di speranza.
Franano, seppellendo
villaggi di pensieri…
Giungono tortuose
in un mare di niente.
Schegge di verità
Siamo qui, adesso,
sulla riva d’un mare acido
a cercare tracce, nella risacca,
di una scheggia di verità.
Prima che affondi, lenta,
nelle carni dell’angoscia.
Qui, adesso, a capo chino
tra silenzi e parole distorte
che ci tagliano le mani,
a interrogare una stanza vuota
dove il riverbero del sole
disegna ombre di solitudine.
Ancora qui, non sappiamo come,
offrendo un pensiero che trema
a una voce che fugge i ricordi
nella sensazione d’un dubbio
che ci martella nelle tempie
e riempie di lacrime i nostri occhi.
Rimaniamo qui, ancora,
nella tempesta come ancore
in un porto senza molo
tra due coste senza faro
nella notte senza stelle
con la speranza di salvare il sole.
La semplicità d’un lago
S’increspa il lago
al battito di ciglia
d’una nuvola bianca.
Ha saputo del mare
dove l’onde sono tempeste
e l’orizzonte è sterminato.
S’accende d’invidia
per la maestosa profondità,
ma poi sorride al cielo
ché l’acqua che offre al mondo
è dolce come il bacio d’una donna.
Radice doppia
Ci osservano
e sorridono
aspre e dolci
misteriose e antiche
le nostre due radici.
Profonde mani,
a fondersi in abbracci
nel guado d’uno specchio
oltre le risacche
di terre lontane
per non far dimenticare
l’anima e il cuore.
Un germoglio,
due germogli…
Noi,
stiamo lì nel mezzo
ad ascoltare il vento
che giunge forte
dalle due spiagge.
Contesi dai sogni,
dal sole,
dal verde,
dal mare,
dal fiume…
Si cammina fieri
sul sentiero che
dalla Valle del padre
porta all’Isola
di nostra madre…
e ritorno.
Dicono che il tempo…
Dicono che il tempo, nella sua avarizia, abbia cento occhi di riguardo rispettoso per chi è innamorato.
So che ferma incuriosito, o forse per incanto, il moto degli astri del sole e della luna per la gioia d’uno sguardo.
Dicono che il tempo ami vestirsi di primavera, risvegliarsi all’alba e scoprire d’essere mutato in un ingenuo giovinetto.
È una ione fanciulla e la ruga si distende al tocco d’una carezza alle note d’un respiro che presto urla amore.
Dicono che la felicità, oltre ai i del tempo, non tema le distanze e che i nostri fiumi, seppur così lontani, s’abbracciano, infine, nel medesimo mare.
Nel giro del mio cerchio ho scorto un angolo
Per anni nei sogni
ti ho cercata
nelle strade,
disegnando infiniti
cerchi di solitudine,
di malinconie,
d’un ato
che non finiva mai.
Forse era cecità la mia
quel seguire, testardo,
linee fumose di speranza
che non portavano
mai a niente
senza niente.
Nel giro del mio cerchio
ho scorto un angolo…
Ti nascondevi lì,
in silenzio,
aspettando il tempo
per accendere
il tuo sorriso:
luce di faro
per aggiustar la rotta
tra le braccia
del tuo mare.
Il riverbero dell’alba
Fascino delle cascate
il ribollire dell’acqua
tra rocce e boschi.
Lacrime d’un dio felice
in pianto d’emozione
nella pozza di cristallo.
Semicerchi d’onde
veloci s’allargano
e lente accarezzano
la nostra riva.
Nell’estasi
del pensiero
il riverbero dell’alba
ci sorride.
La forma della luna
È sole che illumina la forma della luna il tuo sorriso.
Sincera fonte d’acqua pura rende verdi le strade d’argento.
Ti sei immersa nel mio mare di malinconia a cercare il sogno.
Perla racchiusa nelle segrete d’una conchiglia.
Splende libera sulla scala d’un arcobaleno, accarezza la vetta e canta di felicità.
Nel giardino di giugno
Scorre a fatica
l’acqua nel torrente.
Ultime lacrime
da donare al fiume
prima che il leone
s’affacci alla riva
a divorar la sua preda.
C’è festa di razzia
sui rami alti dei ciliegi.
Le peggiori cadono
sul tetto d’una tartaruga;
non chiede di meglio
d’averle per contorno
alla solita foglia di lattuga.
C’è un tramonto diverso
e i canti tra le frasche
sembrano gioire
per il fresco che scende,
dal o a valle,
accarezzando le foglie
del boschetto accanto.
Il libro si sforza
di farmi leggere due righe
nel fuggente chiarore della sera.
Chiudo all’abbaiare del cane.
Chiede due biscotti in premio:
ha inseguito l’ultimo vagone
d’un treno semivuoto per la città.
Occhi di cervo
Occhi di cervo calano dal bosco a fermar le stille del torrente.
Cerco nella memoria le sue orme nella valle.
Ello ellè?
(e quello che cos’è?)
Ello ellè?
diceva il fratellino
nell’età delle prime parole
dell’ingenua curiosità.
È il sole che illumina,
riscalda la nostra vita…
rispondevo io
con la sapienza
dei miei sei anni.
E quello cos’è?
domando adesso ai miei ricordi.
Non rammento
un lavatoio in pietra
in quello o nell’altro angolo
della mia città.
E quell’acqua fresca
che scorre dalla bocca
a scioglier nodi della lana?
No,
non rammento.
Mi sorride e canta
la lavandaia china sui suoi anni…
Ci ricorda, con fierezza,
che nessuno mai le spiegò
cos’era quella vasca
e che la vita
l’aveva imparata da se.
Un anno insieme
Non rabbrividivano le margherite
fiorite al vento di dicembre…
c’era il calore d’un sorriso di sole
e il nostro timido dolce bacio.
Le acque calme riflettono ancora,
nello specchio di una dea,
i primi i nelle strette vie
fino a scoprire il cuore d’una città.
Un giro di vita attorno a noi
che siamo il mondo sognato
dove luna e sole si sposano
e la serenità è la figlia dell’amore.
Ricordi il primo giorno?
Si confondeva con la pioggia
il gioco delle fontane in novembre…
a noi sembravano lacrime di cielo
versate per la felicità trovata.
I sogni non son solo figli della notte
Domenica d’acqua dal cielo
nero di luglio con vista
sulla speranza di sole
che stenta a parlare
la sua lingua.
Ospiti d’albergo,
vaganti con occhi spenti
dalla notte insonne,
cercano un raggio
per quattro i
lungo il sentiero di risacche
mostrando i loro buongiorno
con denti candidi di cortesia.
E nello scordar quei volti incrociati
si rifugiano nella malinconia
d’una poltrona di tela bianca
a seguir righe d’un giornale,
sgualcito da mani sconosciute,
con sguardo assente a filtrare
il vetro tra desiderio di mare
e la paura di sporcarsi la pelle
con la pioggia.
Ma cosa sono mai queste
poche stille?
Quale terribile senso d’angoscia
possono offrire…
Amo l’acqua. Non la temo
e lascio che scorra sul mio corpo
a toglier via la polvere del ato,
macchie d’ombre nel bene
e nel male.
Aspetterò il sole più tardi,
senza ansia alcuna,
quando mi asciugherai
con il tuo sorriso.
Mi chiederai se la fretta
è solo un sogno, un rimedio
alla solitudine.
Risponderò che il sogno
non è solo figlio della notte
ma si attarda e cammina lento
stringendoti la mano
tra le gocce di pioggia
tra lame di sole che nascerà,
fino al tramonto,
sul mare quieto
ogni giorno,
ogni…
Sempre!
Colorarsi di tramonto
Sguardo volto all’isola
che parte dal mio porto
col fresco del mattino.
Si tuffa l’ultima roccia a precipizio
in onde del color dello smeraldo.
Non vuol partire
chè sa che il sole
cambierà il suo colore.
Vola il suo pensiero
sul dorso del sogno…
di risalir sul molo
e bagnarsi di tramonto.
In punta di versi nella Valle
Via Vecchia Fiesolana, Via di Fontelucente e ritorno
Nella via Vecchia Fiesolana e in via di Fontelucente, risuonano ancora i i di grandi artisti come Paul Klee, John Ruskin, il premio nobel 1921 Anatole e tanti altri…
Il cuore s’affanna in fretta,
le scarpe tagliano i calcagni
lungo l’erta della stretta strada.
Così, senza respiro per
non disturbar la quiete
riscopro tesori nascosti
che non s’apprezzano in gioventù.
La spensieratezza dei vent’anni
non badava a chi albergò
nelle lussuose stanze,
capitoli di storia della Luna.
Sono voci apite
Riverberi, echi di poesia
di bellezza scolpita
c’han lasciato il segno
o che si è costruito un sogno
nelle fragili pergamene
di memorie di chi ancora ode
le parole d’antichi i
sulle lastre di pavet.
Quando il fiato più non regge
scollino verso la discesa
a rovinare verso il Mugnone…
…e mi cattura la fretta
di tornar sui miei i
e ricominciare ad ascoltare
la storia della mia terra
Risalgo il poggio
senza fretta
lungo l’erta
a piedi nudi.
I’castello di canne e frasche
A Caldine, il mio paese natale, esiste un piccolo rilievo (che noi chiamavamo i’ Poggioloni) alla cui sommità c’era una grossa roccia dove, da bambini, avevamo costruito un fortino di canne e frasche. Scritto per metà in vernacolo fiorentino.
E si vedeha ritagli di hampi
d’erba medica e d’avena
da’ i’ nostro hastello sulla roccia.
Mucchio di terra e gramigna
che la fantasia di fanciulli
rendeva inaccessibile maniero,
baluardo di libertà da’ i’ giogo della scola
ne’ giorni delle nostre estati.
Dalla vetta rotolavano sassi
siluri da ramate cerbottane
a colpir gli stinchi,
che più su faceha male,
della fanteria di’ rione
oltre la piazza grande
attratta dalle more e
dall’uva della vigna a fianco.
Vino in pillole lo chiamava
i’ vecchio brontolone
c’ogni sera ungeva i’ pane
coll’oro di’ su’ orcio migliore
dopo che, finita la battaglia,
si horreva tutt’insieme
a bagnare i lividi ni’ torrente.
Qui’ brav’omo se n’è andato
ad abitare un po’ più su
ni’ campo de’ cipressi
a vendemmiare lungo i filari
d’una vigna antiha
i’ cui vino ‘un diventa mai aceto.
Anche i segni delle chiassate
sulla nostra pelle delihata
son sogni, foto in bianco e nero.
I colori che catturo adesso
attraverso i vetri della stanza,
son di cemento colato e grezzo
su’ i’ castello di hanne e frasche
rubate alle rive di’ Mugnone
a seppellire i’ tempo nelle pagine de’ rihordi.
A Firenze in cerca delle pietre della Luna
Nel 1125 Fiesole fu rasa al suolo dai fiorentini. I fiesolani furono deportati a Firenze a costruire le mura e i palazzi con le pietre "rubate" alla loro antica città.
[Sogno…]
Scesi il torrente in secca e lasciai la valle al tramonto; oltre la porta nella roccia apparve la città del fiore.
M’immersi nei vicoli torti dove il sole è bene raro e la serena ruvida pietra piange acqua e sangue dai volti scuri delle case.
Le rovine di Fiesole sono là, come tessere di mosaico della storia fiorentina;
corpi estranei tra petali d’Iris regale mutato in giglio.
M’osservarono le pietre con occhi della madre e alle carezze che donai il brivido m’assalì quando sciolsero la lingua nell’idioma della terra.
“Un figlio della Luna non s’è scordato che viviamo ancora. Ma non togliere la malta dalle crepe del nostro tempo. La nostra casa, adesso, s’è fusa con la gloria di chi vinse e ci catturò. Non restituir il maltolto al colle…”
Le mani si staccarono dalle pietre; la volontà socchiuse gli occhi ché la magia de’sassi fiesolani dona bellezza e orgoglio a colei che gelosamente li custodisce.
Nell’alzare gli occhi al cielo sorrise la Luna al mio goffo tentativo e, sospirando al cuore, disse:
“Stanno bene lì ora che son preziose gemme incastonate ne’gioielli di Firenze, per ammaliare e poi stupire l’occhio del viandante forestiero. Lascia che il mio raggio
su di esse si rifletta e guidi i tuoi i verso il ritorno.”
Il monte del Re
Nel 405 dopo Cristo, nella Valle del Mugnone, ebbe luogo una battaglia a difesa di Firenze e Fiesole assediate da oltre 300.000 barbari comandati da re Radagaiso. L’esercito dell’impero romano, guidati da Stilicone, sbaragliò e trucidò l’esercito invasore aiutato dal gran caldo di quell’estate. Quella fu l’ultima vittoria dell’impero Romano. La leggenda vuole che Caldine, il mio paese (grossa frazione del comune di Fiesole], fu chiamato così in memoria di quel caldo giorno . Mons Regis = l’attuale Montereggi – Re Radagaiso era accampato sotto la sua vetta per sfuggire all’afa durante l’assedio delle due città.
Nei suoi boschi le foglie dei castagni e dell’ombrose querce, come tante orecchie, odono ancora le grida dell’uomo in armi.
Le radici filtrano stille di sangue dal terriccio e versato nel torrente in valle.
Il lamentoso pianto
di Radagaiso Re seduto, sconfitto, sul trono di roccia sotto l’ombra della vetta scuote l’anima della mia orgogliosa terra quando fu ferita dal fendente della sua spada.
Mons Regis liberato si ricorda ancora l’ultimo sorriso di un’aquila d’artigli consunti e spezzati ma ancor fiera madre dolce e disperata c’accresce le sue forze a difesa dei sepolcri dei Rasenna di giovani pietre in riva all’Arno inquieto.
Poi,
il buio vincitore addormentò le verdi selve della valle a celar le spoglie del tempo.
Fiesole
Si culla nella sua notte
la stella sulla falce di luna.
Come venere profumata
di bacche di ginepro
inebria le pietre eterne
del popolo degli uomini.
Mugnone
Cala tra sassi della valle
come lacrima nell’Arno
alla prima calura dell’estate.
Riversa il suo pianto
in limaccioso turbinio
sotto le nuvole dell’autunno.
Il canto delle cihale al Cihaleto…
Da bambini ci s’andava, correndo senza temere, su biciclette sgangherate.
Di macchine nemmeno l’ombra. Solo l’odor dei pini e il canto delle cicale.
[E come cantavano…]
I più grandi, ch’andavano là a cavallo de’ cinquantini, chiamavano i’ posto Cihaleto
E noi, poheri ingenui, non si capiva i’ significato di tal parola strana.
Ricordo ancor oggi le gare sui carretti. Usavamo come ruote i cuscinetti a sfera e calavamo lungo la discesa piena di curve fino ad arrivare sotto il ponte della ferrovia. Nessuno ci spiegava perché il Cicaleto si chiamava così…
Ci comprarono il motorino. A molti nuovo a me usato e mille lire per la miscela.
avano più macchine, meno odore di pini ma tanti canti di cicale
[anche d’inverno… per fortuna…]
I più grandi ch’andavano là avevano la patente e la cinquecento bianca.
Noi non più ingenui s’aspettava d’aver l’età per chieder quattro ruote.
Vedo ancora i balzi delle moto da cross, dei vecchi Ciao o dei Beta tre marce, sui poggi di terra riportata. Si saltavano fossi in secca, macchie e tronchi, poi si tornava a casa con i graffi sulle gambe nude. Nessuno ancora ci aveva spiegato perché il Cicaleto si chiamava così. Non importava più…avevamo già capito da noi…
S’ingranò le quattro marce per correre lungo la strada… Si stav’attenti, per non rischiare.
C’era un via vai di macinini, profumo di canne tra i pini… profumavano anche le cicale
[E come profumavano…e come cantavano…]
I più vecchi s’erano sposati e non ce ne importava niente. S’era preso il posto loro ormai
E il cross su quei poggi lo facevamo senza moto per il gusto di far cantar…
Le cihale…
Ricordi il treno che saliva lento sulla Faentina
Ricordi il treno che saliva lento sulla Faentina……
L’ho rivisto stamani quel vecchio treno…
Sbuffa quieto i suoi ricordi antichi e rinnova ancor quel sentimento di volar via lontano. Volti anneriti, d’un tempo ormai tramontato, mostrano un candido sorriso di profumata nostalgia. Sembra di sfiorar un sogno
consumato tra le verdi colline fiesolane e granai del Mugello quando le odierne rughe eran desideri di fanciulli di rincorrere l’ultimo vagone per un posto nel domani. E chi teneva lor per mano per paura di perder quel bene, scoteva lento il capo nell’osservar il fumo che fuggiva. Verso un mondo nuovo ormai non più lontano. E sospirando tristi nel comprender il futuro senz’un figlio della valle,
lasciavan, infine, scivolar via quella minuscola mano. E guardando distante oltre il confine della vigna e degli scoscesi campi biondi di grano sognavano il momento della gioia d’un abbraccio nel giorno del ritorno a scaldarsi ancor nel focolar di casa sua.
…e se un giorno dovessi dir addio alla Valle…
Un giorno, domani, forse… non so quando la stella che adorna la tua verde falce segnerà il sentiero per contrade forestiere… …all’alba di quel giorno avrò piantato un ulivo ché sulle colline a fianco non sono mai abbastanza.
Avrò distillato frutta per il sidro più dolce e pestato uva scura; conserverò il mosto, il succo come prezioso sangue che scorre in te. Mi siederò in riva al fosso a contar i sassi gettati di quand’ero figlio
in braccio al nonno brontolone e saggio.
[Lo ricordo ancora… immagine scolpita nella pietra serena che scalpellava]
Raccoglierò ricordi scritti sulle foglie che lasciai cadere sull’acqua del torrente per darli in pasto ai sensi di questo mare. Ricordi di battaglie, di castelli di frasche, di fette di pane e olio, di vecchi raccontaballe, di cavalli e fiaccherai, ubriachi di nostalgia.
Se un giorno sarà l’addio… Salirò alla stazione senza voltarmi indietro
trascinando la malinconia E aspetterò quel treno che ancor oggi sale sull’erta della vita lento e sbuffante fino al mio domani.
INDICE
I pensieri e il mare Il mare non è più profondo Irish Un mare di niente Schegge di verità La semplicità d’un lago Radice doppia Dicono che il tempo… Nel giro del mio cerchio ho scorto un angolo Il riverbero dell’alba La forma della luna Nel giardino di giugno Occhi di cervo Ello ellè? Un anno insieme I sogni non son solo figli della notte Colorarsi di tramonto In punta di versi nella Valle
I’castello di canne e frasche A Firenze in cerca delle pietre della Luna Il monte del Re Fiesole Mugnone Il canto delle cihale al Cihaleto… Ricordi il treno che saliva lento sulla Faentina …e se un giorno dovessi dir addio alla Valle…