IL PARCO
Renato Schembri
Il parco Renato Schembri
Narcissus - Self Publishing made serious
Edizione digitale: Aprile 2013
ISBN: 9788867558124
Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl
dedicato a mio padre e a mio figlio dedicato a mio figlio e a mio padre
Ovunque vi sia uno tsunami evolutivo, se non ha la possibilità di guarire ha lasciato dietro di sé un’ombra. Si vive allora con quest’ombra che, in misura maggiore o minore, ci segue lungo la strada verso la vita adulta. Il prezzo da pagare è immenso. L’ombra dello tsunami. Philip M. Bromberg
Il mio paziente
Conobbi Luis circa un anno fa a New York, sul tetto panoramico dell’Empire State Building. No, no… non proprio. Per l’esattezza lo incontrai per la prima volta il giorno prima all’aeroporto Barajas di Madrid, dove aspettavo di imbarcarmi con la mia famiglia, dopo uno scalo, su un volo per l’America. L’incontro avvenne a causa di uno scambio di valigia, un comunissimo trolley color verde. Fu mia moglie ad accorgersi che la valigia non era la nostra quando mia figlia Elena, nell’attesa della partenza, le chiese di poter sfogliare i fumetti giapponesi che aveva portato dentro al trolley. Nella valigia c’erano pennelli di tutti i tipi: grandi, piccoli, nuovi, usati. Sulla maniglia non trovammo nessuna targhetta con il nominativo del proprietario. La targhetta ben compilata con i miei dati, però, c’era sulla mia. In fondo alla valigia, sotto i pennelli, intravidi un foglio di carta. Marianna si tolse il foulard che le avevo appena regalato per non rischiare di macchiarlo. Slittando con la punta delle dita tra i pennelli prese quel foglio di carta. Me lo ò. Tra gli scarabocchi senza senso individuai alcune righe: “Finalmente trovo il coraggio di scriverti questa lettera...”. “Perché fai quella faccia? Che c’è scritto?” Mi chiese Marianna. “Leggi. Che significa secondo te?” Le ai il foglio. Non ci fu il tempo di darci una risposta perché Elena da una distanza ravvicinata ripeteva con una voce da robot:”Mieifumettimieifumettimieifumetti...”. Mi allontanai con lei alla ricerca di un’edicola per comprare dei fumetti in sostituzione di quelli smarriti. Mia figlia Elena li avrebbe presi anche in lingua cinese pur di avere tra le mani i disegni dei suoi personaggi preferiti. Dovetti uscire fuori dalla sala di imbarco perché le edicole si trovavano soltanto all’ingresso dell’aeroporto. Comprammo i fumetti e poi ci intrattenemmo nella libreria che si trovava lì accanto. C’erano dei libri che attirarono la mia attenzione: raccoglievano citazioni significative di autori di tutto il mondo su argomenti di psicologia e di scrittura. Erano tradotti nelle principali lingue
europee, anche in italiano. Aprii a caso una pagina e trovai queste righe:
Fra il vento del mare, le voci allegre e chiassose della gente e il verde delle onde gonfie, l’infelicità riconosceva l’infelicità, la malattia fiutava la malattia. Ma non era poi una cosa così strana, gli esseri umani non si incontrano sempre in questa maniera?
Yukio Mishima, “Musica”.
Mentre leggevo sentii annunciare il mio nome attraverso un altoparlante. Non riuscii a capire cosa dicesse il messaggio ma il mio nome lo avevo inteso chiaramente. Acquistai il libro delle citazioni e ritornai nella sala di attesa con Elena. Trovai mia moglie che parlava con un ragazzo vestito con dei pantaloni rossi ed una camicia di jeans. “Mi chiamo Riccardo Mambri”, dissi, “anche lei italiano?” “Sì, italiano. Mi scusi per l’inconveniente”. Aveva il viso pallido, i capelli lunghi e disordinati. Sembrava imbarazzato, come a volersi scusare di qualcosa. “Non si preoccupi”, disse mia moglie, “può capitare a tutti di scambiare una valigia”. “Veniamo da Roma. Sono uno psichiatra, vado a New York per un convegno. Mia moglie e mia figlia Elena…”. Dissi per fare le presentazioni ma Elena era già seduta con gli occhi appiccicati al suo fumetto. “Beh, io tolgo il disturbo. Scusate ancora per lo scambio delle valigie”. Tagliò corto.
C’era qualcosa nel suo modo di parlare che comunicava un senso di imprevedibilità, di istintualità. Lo vidi salire la scaletta di coda dello stesso Boeing sul quale ci stavamo imbarcando noi. Lo intravidi ancora per qualche secondo all’arrivo, a Newark, mentre facevamo la fila alla dogana.
A Manhattan soggiornammo al Chelsea Hotel, sulla ventitreesima. Era stata mia figlia Elena a scovare quel posto che, diceva, era stata la residenza di alcuni suoi idoli musicali. Il giorno dopo, il congresso avrebbe avuto inizio soltanto nel pomeriggio, così, io, Marianna ed Elena facemmo un giro turistico in città. Era un periodo importante della mia vita con Marianna. Cristo Santo se lo era. Avevamo rischiato di perdere Elena, perderla per sempre. A peggiorare le cose ci si era messo pure quel coglione di mio padre... . Il viaggio insieme, in occasione di un congresso, era il nostro tentativo di fare capire a nostra figlia quanto l’amavamo, quanto era importante per noi. Speravamo servisse a farle dimenticare il casino che era successo. Andammo con un taxi a Time Square e da lì raggiungemmo a piedi l’Empire State Building. L’ascensore ci fece schizzare veloci fino alla terrazza panoramica. Elena corse verso la balconata nella zona Sud e ficcò la testa tra un’inferriata e l’altra. Marianna sembrava ubriaca alla vista di quella sterminata quantità di grattacieli che copriva il campo visivo. Mia moglie è una donna forte che mi ha sostenuto nei momenti di difficoltà: il trasferimento a Roma dopo la tragedia dei nostri amici e, adesso, il tentativo di rapimento di ... . Dio mio! Marianna mi abbracciò e mi baciò. Ero tra le sue braccia quando vidi quel ragazzo mettere un piede sulla balconata e balzare su con l’evidente intento di commettere una pazzia. Aveva dei pantaloni rossi ed una camicia di jeans. A terra, ai suoi piedi, un trolley verde uguale al mio... Sì! Era lui, il ragazzo con il quale c’era stato lo scambio di valigia il giorno prima, all’aeroporto di Barajas. Ecco cosa significavano quelle parole scritte sul foglio finalmente trovo il coraggio di scriverti questa lettera... : aveva intenzione di suicidarsi!
Alcuni turisti tedeschi lanciarono delle urla, gli uomini della sicurezza si precipitarono sulla terrazza. Il ragazzo con i pantaloni rossi era sul punto di scavalcare l’inferriata. Faceva dei movimenti lenti, misurati. Qualche altro secondo e la sua morte sarebbe stata certa. “Non lo faccia, non faccia pazzie!” Gridai e corsi verso di lui sbrogliandomi dall’abbraccio di mia moglie che ancora non aveva compreso la tragedia che si stava consumando. Il ragazzo si girò con un movimento semplice, come se qualcuno lo avesse chiamato per strada. Intanto, tutt’intorno a lui si era riempito di guardie. Gridavano parole concitate che sembravano uscite fuori da un telefilm. Il pensiero andò a mia figlia. Avrei voluto evitarle di assistere a quel dramma terribile: un uomo che si butta giù dalla terrazza di un grattacielo. Un ricordo che avrebbe potuto imprimersi nella sua memoria per sempre. “Venga giù, la prego, venga giù. Ci siamo conosciuti ieri all’aeroporto di Barajas. Venga giù”. Si voltò ancora, quando ormai aveva superato con una coscia l’inferriata e stava per scavalcarla con l’altra. Bastò quell’attimo a permettere ad una guardia di saltargli addosso. La gamba sinistra restò incastrata tra una sbarra e l’altra e un intero gruppo di poliziotti, adesso, lo tirava giù. Mi avvicinai per liberargli la gamba, dissi qualcosa alle guardie per chiedere di non tirare così forte visto che ormai era bloccato ma parlavo in italiano e quelli non mi potevano capire. Sembravano più impegnati a fare il placcaggio in una partita di rugby che non a salvare la vita di un uomo. Inevitabilmente l’osso della gamba cedette e si ruppe. Ero vicino e potei sentire il suono, come quando si spezza una canna, un giunco. I poliziotti si accorsero solo a quel punto di ciò che avevano provocato. Gli liberarono la gamba dall’inferriata, lo fecero scendere, lo portarono dentro.
Sì, era lui. Il ragazzo che avevo conosciuto il giorno prima all’aeroporto di Barajas, non c’erano dubbi. Presi il trolley che era rimasto vicino al parapetto e lo portai all’interno. Feci segno alle guardie che era di proprietà del ragazzo. In cambio ricevetti dei gestacci ed una gran quantità di parole incomprensibili. Non so per quale motivo, tirai fuori dal portafogli il mio biglietto da visita con l’indirizzo di Roma e riuscii a metterlo in mano a quel ragazzo che aveva tentato di togliersi la vita. Non feci neppure in tempo a scriverci l’indirizzo del mio albergo a New York. Nel mentre erano arrivati i soccorsi sanitari e le guardie avevano formato un cordone per tenere a bada i turisti curiosi. Dopo un anno da quegli avvenimenti ho ricevuto una telefonata: Giovanna, la mia tirocinante, mi allerta perché c’è un caso da trattare estremamente delicato, per di più, in tasca gli hanno trovato il mio biglietto da visita: per un anno intero aveva conservato il mio biglietto! ecco il modo bizzarro in cui è arrivato è arrivato ne Il Parco il mio paziente Luis.
Enza
Giardinaggio con Lilli
Con queste piante che fanno arrivare dal continente io non ci so cummattiri, nei vasetti non ci entrano. “No, no signora Lilli, è tutto a posto. Non si deve preoccupare, entro un’ora finisco tutto. Complimenti per le piante, belli, belli veramenti”. Ma che belli e belli! Basta che la signora Marianna accatta qualchi cosa di nuovo e poi la signora Lilli va ad accattarla subito pure lei. “Enza, puoi venire qui?” “Sì signora”. “Tra poco arrivano il professore e mio marito. Desidero che trovino tutte le piante a posto e siccome sei indietro con il lavoro ti aiuto io. Lo facciamo insieme, va bene?” “Come vuole, signora”. “Lilli, Lilli, mi devi chiamare semplicemente Lilli”. “Lilli. È che mi hanno imparato... il professuri mi ha imparato che la devo chiamare...”. “Lascia perdere quello che ti dice di fare Riccardo. Qui siamo a casa mia e si fa come dico io”. Mi sorride e a me mi piace quanno ride perché così si leva da faccia triste triste che ci vedo sempre casa casa mentre bada alle faccenne. “Ecco, così, vedi, in questo modo: tiriamo su un po’ di terriccio, mettiamo dentro le radici della pianta e poi dentro altro terriccio. ami il vasetto. Anche qui: tiriamo su un po’ di terriccio e dentro la pianta, copriamo con della terra. Ora
provaci tu”. Mette la sua mano sopra la mia e a me mi impara come una mamma. “Lei ne ha figli... Lilli ce ne hai figli tu?” Ci spunta l’espressione triste. Chi dissi di stranu? “No, niente figli, Enza. Purtroppo no. ami un altro vasetto”. “Peccato”. “Quando sarà il momento di andare via lascerò tutto in eredità a qualcuno che ne ha bisogno”. “E dove se ne va?” “Nel senso di andare all’altro mondo, di morire. Quando morirò invece che usufruirne i miei figli lascerò un’eredità...”. “L’ho sognato questa notte! A chi la lascia?” “Tu hai sognato che morivo? Mamma mia! A chi lascio l’eredità, dici? Magari all’ospedale dove tu sei ospite”. “Ospite?” “Significa... mah, nel tuo caso credo proprio che sia azzeccato. Sì, proprio così, ci sei sempre stata come ospite. Dai che abbiamo finito, brava, ecco, hai visto che ora riesci a fare da sola?” “E vuole lasciare l’eredità o manicomiu?” “Non lo chiamare così”. “No?” “No, no: meglio chiamarlo ospedale. Comunque il mio desiderio è questo: lasciare la mia eredità a chi ne ha tanto bisogno”. “Eredità chi significa: sordi, grana. Veru?”
“Sì, soldi”. E si mette a ridere di nuovo, che bellu quannu arridi a signura Lilli. “Sign... Lilli ci devo dire una cosa”. “Questa è l’ultima piantina, dai che andiamo a prendere un tè insieme”. Io non so se dircela: “Lilli io ho fatto un sogno ‘stanotti e c’era lei... c’eratu tu”. “Raccontami di questo sogno”. “Lei veniva al manicomiu che però somigliava alla stazione dei treni e portava un sacco pieno di sordi alla signora Ina”. “E poi?” “E poi, c’erano tre fimmine e tre masculi nella sala d’aspetto e più lontano, vicino ad un treno, un sacco di picciotti vistuti tutti uguali”. “E chi erano?” “I picciotti non lo so...”. “E le tre femmine e i tre maschi”. “Una era l’infermiera signora Ina, poi c’eranu mpiegati e dutturi du manicomiu”. “Che sogno! Cosa è successo quando io me ne sono andata?” “È successo che queste persone i sordi invece di darli a noi del manicomiu, li hanno dati, d’accussì com’eranu, a un avvucatu che se li è presi ed è scappato. Poi m’arrisvigliavu”. “Mamma mia”, e si metti a scaccaniari, “questa è una vera e propria tragedia; non vorrei mai al mondo che i soldi che io ho guadagnato per tutta una vita finissero in questo modo: è terribile!” “Solo che quando io fici ‘stu sognu mi sono svegliata tutta scantata e nu cammaruni si sono svegliate tutte le altre perché mi sono messa pure a gridare”. “Sento rumore nelle scale. Bene! mio marito ed il professore stanno arrivando. Vieni, andiamo a preparare il tè”.
Il tè
Quando entrano u professuri Mambri e u commissario io faccio finta di piantare i radici nei vasetti perché u professuri mi ha detto che travagliari mi fa bene e lo devo fare spesso: “così, non pensi a niente”. Poi, però, dissi puru: “così, non pensi neppure a Caloriu”. Questa cosa mi è dispiaciuta, mi è dispiaciuta assai: perché io a Caloriu ci vogliu bene e ci penso sempre. “Enzuccia, bravissima. Le hai piantate tu tutte queste piantine dentro i vasetti?” Mi addumanna u professuri appena entra dentro la stanza. “È stata lei, ha fatto tutto da sola”. Dice la signora Lilli. “Mi raccomando Enzuccia: niente sforzi eccessivi, dobbiamo fare attenzione a questa cosa preziosa che c’è qui dentro” e indica il petto, il cuore. “Riccardo, Camillo, ho preparato il tè, venite in salotto?” E io? Non ci debbo andare con loro? Boh? Si mettono a parlare e da qui dentro si sente tutto. Iu continuo a fare finta di travagliari: non voglio che u profissuri ritorna e mi trova che non faccio niente. “Enza è preziosa, poverina, mi dispiace che debba vivere dentro l’ospedale psichiatrico. L’idea di permetterle di svolgere una attività occupazionale, il giardinaggio, mi sembra ottima. Perché i tuoi colleghi non le fanno impiantare i denti che le mancano davanti?” “Sembra che non abbiano trovato un dentista in convenzione. Sì, il giardinaggio per lei è un’ottima cosa, specie in famiglie come la vostra che non se ne approfittano. Grazie per la disponibilità a farla venire a casa vostra”. Forse parlano di me. “Ci è nata e cresciuta per trent’anni dentro il manicomio, ci è nata da genitori schizofrenici che erano riusciti ad accoppiarsi. Alla nascita non c’era nessuno a
cui affidarla e così è rimasta dentro tutta la vita. Ha alcune sofferenze psicologiche non da poco”. Sofferenze psicologiche, una volta il dottore del manicomiu mi lu dissi! Ci addumannavu che cosa voleva significare ma non me l’ha voluto dire. “Roma! Ci rimaniamo: il progetto de Il Parco mi entusiasma e anche all’università non va per niente male” “Deciso allora?” “Deciso! Anche per Marianna ed Elena è la soluzione migliore. Ora vogliamo che anche tu e Lilli vi trasferiate nella capitale”. Miii, a signora Lilli s’incazzò appena parlaru di Roma. “Allora sei venuto giù solamente per completare il trasloco?” “Sì, e anche per badare a quel mascalzone di mio padre e stare un po’ con mia sorella Sonia, le ho presentato una mia probabile futura paziente, una ragazza giapponese. La signora Lilli deve avere fatto una vuccazza perché si sono messi a ridere tutti. “Adesso dove andate?” Chiede u professuri Mambri. “Una eggiata al corso, compriamo qualcosa alla Standa e poi torniamo a casa per la cena”. Miii, la stessa cosa ca vulia fari iu, una eggiata al corso e poi torno indietro al manicomiu. Mi metto a camminare dietro a loro e mi fazzu a stratuzza cu iddi. “Hanno suonato alla porta, dovrebbero essere Marianna ed Elena. Vai ad aprire tu amore?” “Brava, brava Enzuccia, continua, continua così”. Mi dici u commissariu mentre va ad aprire la porta. ‘Sta piantina l’ho levata e messa un sacco di volte. “Marianna, che splendore. Sei elegantissima Elena, un fiore di ragazza!”
La signora Marianna pare un masculu con ‘sti pantaloni lunghi lunghi che arrivano fino a terra e diventano larghi larghi e il cappello in testa grande quanto un ombrellone. La figlia Elena avi n’manu fumetti strani. “Ciao Enza. Qualche volta ci vieni a trovare a Roma per fare un po’ di giardinaggio a casa nostra?” “Sì signora Marianna , cu granni piaciri”. “Fatti vedere... sei spettacolare, dove li hai presi questi pantaloni... bellissimi”. ano due giorni e se li compra pure lei precisi precisi. “E che cappello! Dai, fammelo provare, fammelo provare”. “Gente, cos’è questo mortorio? Mi sembrate tante salamandre imbalsamate. Un po’ di vita!” Dici a signora Marianna. “Questa sera niente botta di vita, vogliono uscire da soli a fare una eggiata”. “Una eggiata... mh, come i vecchietti eh? Avete discusso del possibile trasferimento a Roma? Io, Riccardo ed Elena ci troviamo benissimo...”. “Vieni Marianna, ho preparato il tè, vieni a prenderne un po’”. “Brava, brava Enzuccia, continua con le piantine”. Mi dici u professuri. “Professuri, professuri”. Io gliel’addumanno, speriamo che non mi rimprovera. “Dimmi Enzuccia”. “La signora Lilli deve fare una iata? Mi potrei mettere dietro a loro? senza disturbare, l’importanti ca iu i viu e iddi vidinu a mia, picchì mi scantu a camminare da sola”. “Beh... non saprei, chiedilo a loro”. “No, glielo addumanni lei, io mi vergogno”. “Va bene, va bene. Glielo dico io. Tu, però continua con le piantine, non smettere.
Ormai, a forza di trasiri e nesciri a ‘sta piantina ci gira la testa. “Va bene Enzuccia, mi hanno detto che puoi andare dietro a loro. Mi raccomando però, non dare fastidio, non metterti troppo vicino. Occhei?” “Stassi sicuro professuri, mi metto nell’altra latata del marciapiede. Grazie”. Ma che vuole significare Occhei? Forse voli significari occhi, voli significari che li devo guardare con gli occhi e non li devo perdere di vista, d’accussì un mi sentu sula e un mi scantu! U dutturi m’accanusci e mi capisci!
La eggiata
Sono pronti per uscire di casa ed io ci vado appresso. Al Viale mi metto nell’altra latata del marciapiedi, a me mi piace perché si po’ taliare il mare. A signora Lilli si volta e m’arridi. Si tiene abbrazzato a suo maritu che invece talia sempre davanti. Camina, camina. Quando esco insieme a Caloriu a me mi piace, un mi scantu: è l’unico masculu là dentro che a me non mi ha toccato mai, manco con un dito. Nel foglio di quaderno che ha scritto ieri con me, assittati nella panchina davanti al cammaruni del manicomiu, ci ha scritto un poco di cose che vorremmo fare si putissimu stari suli, io e lui. Caloriu ci ha scritto: il travaglio, la casa, la macchina, la bicicletta, un pappagallo, la gabbia del pappagallo, il mangiare del pappagallo, le carti di briscola, il pallone di calcio. Iu ci ho fatto scriverei: u picciliddu, i vistiti pi u picciliddu, il eggino, un lettino, il biberon, i mobili da cucina. Lui, questo foglio lo ha piegato e se lo è messo in tasca e quando si è alzato dalla panchina per andare a giocare a carte di briscula a me mi pareva che era cuntentu. La signora Lilli si gira ancora a taliarmi, questa volta non mi sorride.
Mio figlio avissi a essiri professuri, dottore al manicomiu: facissi le stanze più piccole così quando una si spoglia per andare a dormire non la devono taliare tutte per forza; poi... poi non m’avissi a difendere da ddi figli di buttana che mi portano dentro al bagno dei masculi, ancora mi fa mali tutto qua sotto, figli di buttana e bastardi sono che poi dicinu che non è vero nenti e a me mi fanno are pi’ pazza. Avissiru a muriri, ci avisseru a sparari n’testa! “Ciau Enzuccia, che ci fai da sola al Viale? Lo sanno in ospedale che sei uscita?” Dda disgraziata della infermiera signora Ina! Pure a lei l’ho raccontato che i masculi mi portano di forza nei bagni e un sulu un mi cridì ma mi piglià puru pi’ pazza. Alla signora Ina ci dico che sì, al manicomio lo sanno che sono uscita e sono andata a casa del commissario. La signora Lilli ci vede, ha capito tutto, ci fa segnale che sono insieme a loro. Pi ‘sta vota un mi ncaglià ‘sta disgraziata! Iu si avissi un picciliddu u chiamassi Toti. Toti mi piaci. Forsi, invece di fare il dottore del manicomiu, ci dicissi di andarsene, di andarsene lontano di cca, che me lo ha raccontato Caloriu che so’ fratello se ne è andato in Australia ed è diventato ricco spunnatu. Solo che per andare in Australia ci vuole l’apparecchio: e chi ce l’ha i soldi per pagare il viaggio dell’apparecchiu? Camina, camina. Ahi, ahi, il petto, il braccio ed il petto! Può essere che è per la salita della chiesa di Don Calogero? Ah si mi putissi firmari cca da Don Calogero... ma la signora Lilli ce lo dice ai dottori du manicomiu che me ne sono andata di testa mia e quelli, poi, mi rimproverano! Toti u chiamassi u picciliddu. Ce lo devo fare scrivere a Caloriu nel foglio: picciliddu di nomi Toti. Si a signora Lilli avissi un figliu comu u chiamassi? Toti pure lei? Ci piace pure a lei questo nome? Ce lo devo spiare. Intanto mi devo allestiri se no ora che arriviamo al corso li perdo di vista al commissariu e alla signora Lilli. Suonano le campane della chiesa, Don Calogero è davanti al portone, a me manco mi vide, ha gli occhi appiccicati al commissariu e alla signura Lilli. Veramenti, di più alla signora Lilli: se non fosse parrinu potrei dire che ci sta taliando u culu!
A Don Calogero ci devo parlare, pi’ cuntarici un poco di cose che a me mi dissi Gesù mentre ero inginocchiata a pregare nella cappella du manicomiu. Gesù mi dissi: se uno pensa a cosi brutti poi ci pare che tutte le cose sono brutte, che tutto il mondo è brutto; non pinsari a cosi tinti, pensa a cosi boni, non pinsari al male che ti ficiro, non esseri arrabbiata con le persone; poi, le cose possono cangiare d’un momento all’altro: puffiti! d’accussì! ora ci sei e un minutu dopo non ci sei più. Anche a ddi figli di buttana che mi portano in bagno dei masculi... Dio li deve perdonare, li deve perdonare, li deve perdonare e fare capiri che sbagliano. Gesù, m’ha perdonari che ho pensato che questi devono morire ammazzati. A don Calogero ce lo devo dire queste cose che mi ha detto Gesù mentre lo pregavo. Camina, camina. Dovevano arrivare fino alla punta del corso, là sopra alla Standa. Camina, camina. Strata stratuzza, arrivu nel pasticcieri e si inchi la me vuccuzza. Nel bar all’inizio del corso fanno i dolci buoni. Camina, camina. Strati stritti, ca è d’obbligu caminari cu i rini dritti. Talia dda, ci sono gli stivali che aveva la signora Marianna e infatti la signora Lilli si è firmata a taliare la vetrina e il commissario spazintia che vuole continuare a camminare. Camina camina. Fatti crisciri i minni, u sacciu ca vulissitu un figlio pi’ poi fallu irisinni. Secunnu mia pure la signura Lilli vulissi un figlio, bello e alto come a lei. Camina, camina. Io, però, dentro alla Standa non ci entro, li aspetto qui fora. L’ultima vota che ci
sono entrata m’accusaru che mi ero arrubbata l’assorbenti, hanno chiamato i dottori che mi hanno portato di nuovo al manicomiu. Intanto, ero piena di sangu nelle mutandine. Qua ci sono tutte facce che non riconosco. Le pasticche mi toccano più tardi quando torno al manicomiu. Ce l’avevo detto all’infermiera! dammele che me le porto appresso, a pinnula pi’ u cori e quella per non tremare. Non si possono allestiri ad uscire? Sola mi scantu. Prima non mi scantavo a stare sola. Poi, da quanno mi babbiano perché cammino lenta lenta e perché mi mancano i denti davanti, da quando i masculi du manicomiu mi hanno portato nei bagni a fare i commadi so’, iu mi scanto, mi tremano i vrazza, sudo tutta, mi batte forte forte u cori e voglio scappare sutta i linzola, con gli occhi chiusi, chiusi! Ah s’avissi un figliu: lu tinissi pi la manuzza e nun mi scantassi chiù di nenti! Loro sono. Stanno uscendo dalla Standa: a signora e u commissariu. Meno mali. La signora Lilli mi arridi. A scendere, ora, mi viene più facile. La signora Lilli si tiene stretto un sacchettu sotto il braccio, u commissariu ci ha regalato qualche cosa dentro alla Standa. Ora che comincia a fari scuru ci devo stare più vicino mentre camminano. Non mi piace che ogni tanto si devono fermare a salutare e allora mi devo fermare pure iu, ‘zà benedica di qua e z’abbenedica di là’. Comincio a sentire fresco: appena arrivo nella camerata, mangio e mi corico e cu si vitti si vitti. Camina, camina. Mi sento una cosa nello stomaco, più cammino e più sento una cosa che mi vulissi acchianari fino in bocca, mi veni di rovisciari i cosi dello stomaco. Successi la stessa cosa l’anno scorso, quando a Caloriu, per difendere a me che mi volevano fare la festa nei bagni dei masculi, ci hanno dato un sacco di botte che l’avianu ammazzato: prima che a lui lo catafuttivanu di vastunati mi sentivo d’accussì: mi viniva d’arrovisciarimi! Camina, camina.
Pure dal macellaio si sono fermati! Annacativi, che voglio andarmene a coricare! C’è l’agnidduzzu appinnutu e scula u sangu n’terra. Il picciotto della putia l’asciuga con una pezza che poi ammoglia dentro una bagnera d’acqua e l’acqua diventa tutta rossa rossa. “Di nuovo te lo devo dire di non sprecare acqua? Non ne abbiamo! È finita! Non arriva da dieci giorni!” Le vociate devono essere del macellaio. All’uscita il commissario ha un sacchetto in mano, si è accattato la carne per mangiare questa sira. Camina, camina. C’è vento, vento assai e u cielu è addivintato scuro. Camina, camina. Di nuovo Don Calogero c’è davanti alla chiesa. Miiii, se non fosse il mio parrino putissi giurare che alla signora Lilli ci talia di nuovo u culu! “Za benedica Don Calogero”. Manco mi sente. L’occhi ce li ha appizzati dda, un c’è nenti di fari. Camina, camina. M’acchiana! Mi viene di vomitare! Ma com’è possibile? Non ho mangiato e vivutu nenti! Camina, camina. Ci sono uccelli che volano basso e acchiananu nirbusi in cielu e poi scinnino lesti. Camina, camina. Nantra tanticchia e arrivammu a casa della signora Lilli: loro camminano piano e si tengono a braccetto. C’è un picciottu beddu e alto vestito come un figurino davanti a loro nella stessa latata di marciapiede. È propriu beddu!
Un’omu esce da un portone e va dietro alla signora Lilli e al commissario, c’ha una cosa nera nella mano Il commissario si mette davanti alla signora Lilli. Si sentinu botti come quando sparano le bombette grosse a carnevale. Il commissariu cade n’terra e la signura Lilli cerca di tenilu ma un c’arrinesci. Il picciotto beddu davanti a loro nel marciapedi cade n’terra pure lui. L’omu che ha quella cosa nera in mano veni verso di mia di cursa. Ahi u cori!
- In ospedale -
“Non me lo ricordo come era fatto l’omu cu dda cosa nera in mano è venuto verso di mia ed è scappatu turrenu turrenu io sono caduta n’terra mi hanno preso e mi hanno fatto alzare e poi sono andata dalla signora Lilli a terra sangue sangue sangue a signora Lilli gridava Camillo Camillo Camillo e c’era gente che correva verso il picciotto e gridava Toti Toti Toti mi ha fatto male u cori assà assà e c’eranu gli uccelli che volavano vasci vasci e poi sono andata vicino al picciotto il sangue a terra comu l’agnidduzzu scannatu da macelleria gli uccelli acchianaru autu autu n’cielu e poi via luntanu luntanu u cori m’abbattiva forti forti...”. “Signorina Enza, le posso chiedere di ritornare a dirmi dell’uomo che ha sparato? Lasci perdere gli uccelli che salgono e scendono. Mi interessa sapere dell’uomo con la pistola in mano, me lo descriva!” “Brigadiere, le vorrei chiedere di terminare questa specie di interrogatorio, la paziente ha problemi di cuore, non può permettersi ulteriori stress”. “Dieci minuti al massimo dottore, dieci minuti ed ho finito”.
“Solo cinque minuti! Cinque minuti! Infermiera, infermiera! La flebo della signorina Enza è terminata, venga a cambiarla! Massimo cinque minuti, brigadiere!” “Non ci voglio stare all’ospedale non ci voglio stare per niente per piacere me ne voglio andare non glielo so dire com’era l’omu con quella cosa in mano io non l’avevo capito chi aviva in mano per piacere mi faccia andare voglio andare al manicomiu che c’è Caloriu che m’aspetta l’omu era basso vistuto strazzato è arrivato il vento un vento forte che non riuscivo a tenere aperti gli occhi e tutta la gente ha cominciato a vuciari vuciari vuciari e sentivo parole che non capivo e poi invece l’ho sentito che dicevano Toti, Toti, Toti è morto, è morto Toti”. “Toti, Toti, fatemi vedere Toti, dov’è Toti?” “La sente pure lei brigadiere, ‘sta voce di fimmina? A senti, a senti come grida fino qui in ospedale? “Sì, l’ho sentito pure io. Aspetta, vado a vedere chi c’è nel corridoio”. “Dottore mi fa male qua, qua nel braccio, mi fa male assai. Mi livassi ‘sta siringa, pi piaciri!” “Stai calma Enza, adesso dirò al brigadiere di finirla con le domande”. “Hai ragione Enza, sì, nel corridoio... dev’essere la fidanzata di Toti oppure sua madre, in un reparto qui vicino deve esserci il corpo del ragazzo”. “Brigadiere, la prego di terminare questo colloquio con la mia paziente”. “Lei ora se ne va via e mi lascia da solo con Enza altrimenti prendo provvedimenti, ha capito?” “Come si permet...”. “La vedi questa? Te la ficco nel culo se non te ne vai lì dentro muto. Quello che sto facendo è importantissimo. Enza mi sta descrivendo com’è fatto l’assassino del commissario e del ragazzo, capisce?” Il brigadiere scopre sotto la giacca, attaccata alla cintura, la stessa cosa nera che aveva l’omu in mano!
“L’omu era basso scuro brutto aveva la coppola veniva verso di mia a correre mi sono sentita male ho sentito duluri o’ cori sono andata vicino alla signora Lilli c’era il sangue...”. “Brava Enza. Continua!” “Io voglio andare a mare con Caloriu ci mettiamo sulla spiaggia a guardare la gente che si fa il bagno e se fa troppo caldo ci leviamo i vestiti...”. “Ma che cazzo stai dicendo? Dimmi se c’erano altre persone, altre persone con l’uomo che ha sparato”. “Se il mare è mosso io mi scantu e Caloriu mi tiene la mano na vota mentre eravamo a mare vittimu tanti picciotti sdraiati sulla spiaggia n’avvicinammu e tutte quelle persone avevano la pelle niura ed erano morte nessuno si avvicinava nessuno guardava a ddi picciotti morti, noi invece n’avvicinammu e facevano puzza assai allora...”. “Tu sei pazza, completamente pazza! Ti ho chiesto se c’erano altre persone con l’uomo che ha sparato, rispondi!” “Caloriu mi ha preso per la mano e mi ha portato nella piazza e si è fatto notte e c’era u casteddu di fuocu e hanno cominciato a fare i botti come quelli di carnevale come quelli che ha fatto l’omu che è uscito dal portone pam pam pam e sono caduti a terra il commissario e il picciotto alto”. “Continua, con l’uomo che ha fatto i botti c’era qualcun altro? Dimmelo! C’era qualcun altro?” “Quando sono finiti i botti è spuntato il sole io e Caloriu siamo andati alla stazione dei treni e la stazione era china china di picciotti con le valigie e c’erano le loro matri che piangevano e gridavano e c’era un treno n’partenza”. “Toti! Totuzzu miu! Unni sì? T’ammazzaru amuruzzu miu...”. “Ma che minchia mi interessa delle valigie... chi c’era con l’uomo che ha sparato? Dimmelo!” “Toti, Toti, amuri miu, t’mazzaru! T’ammazzaru nnuccintuzzu miu!”
“U senti? U senti? Puru cca si senti dda vuci ca grida. Chiamassi u dutturi. Mi fa mali u cori. Brigadiere...”. “Dottore! Dottore! Infermiera! Correte, Enza sta male!”
La stazione
Oggi pomeriggio non ci voglio parlare con il brigadiere, chiddu mi fa mpazziri, mi tormenta cu tutti ddi dumanni! Non c’è bastato all’ospedale? Caloriu, Caloriu miu, ce ne dobbiamo andare da qui dentro, non ci voglio stare più al manicomiu. Sunnu tutti na maniata di bastardi: solo tu ti salvi, solo tu sei buono, Caloriu mio. Niente dobbiamo portare, se ci vedono uscire con la valigia ci fermano e n’arriscedinu. Mettiamo tutti i cosi dentro ad un sacchetto di plastica, così pare che buttiamo a munnizza. I grana ca m’haiu ammucciatu sutta u materassu n’abbastanu, havi un annu c’accucchiu. Allora, dopo pranzo usciamo e andiamo alla stazione, va bene? Quando tutti se ne vanno a riposari e macari dda buttanazza dell’infermiera Ina finisce il turno. Usciamo dalla portineria e diciamo che stiamo andando a buttare cose vecchie. Va bene? Vai nu tò cammaruni e preparati. Tempu, tempu. Ava a ari ‘stu tempu.
Amunì a mangiari. A mensa non devo mettermi trimuliari, manu fermi cu u vassoio. “Buongiorno signora Ina. Come sta? Tutto bene?” Buttanazza! Ci pari ca tuttu u munnu è sò, ca po’ cumannari a tutti. “Ciao Enzuccia, buon pranzo. Mi raccomando, preparati per oggi pomeriggio, viene a trovarti il brigadiere. Fatti trovare in ordine. Dobbiamo fare bella figura”. Ecco perché hanno nascosto nu cammaruni in fondo tutti i malati che cacano a
terra! Ecco perché questa mattina ci hanno fatto scippare tutta l’erba du piazzali! Perché deve venire il brigadiere a interrogare ancora a mia! “Grazie signora Ina, va bene”. ‘Sti tavuli i facissi abbrusciari, ‘sti piatta i facissi vulari, ‘sti mura i facissi cadiri n’terra, l’infermieri i facissi ammazzari a unu a unu e a signora Ina l’ammazzassi cu i me manu! “Mi posso sedere qui?” “Certo Enzuccia... e mi raccomando, lavati per bene prima che arrivi il brigadiere perché... si sente un certo odorino... . Ah, prima ti sentivo parlare, mentre eri in camerata... chi c’era con te?” Caloriu, Caloriuzzu miu, tu sulu m’arristasti, tu mai me lo hai detto che faccio puzza, mai me lo hai detto, amoruzzu miu. Un viu l’ura di arrivare alla stazione, salire sopra il treno e appena ci sediamo ti dugnu na vasata ca un finisci mai, ti bacio fino a quando arriviamo. “Nessuno, signora Ina. Non parlavo con nessuno”. “Brava, brava, così, mangia ora. Quando finisci vai in camerata a prepararti per l’interrogatorio con il brigadiere”. “Signora Ina, il professuri dov’è? Se ne è andato?” “Il professore... beh, l’hanno portato in... è impegnato, impegnato assai. Sì, se ne è andato!” “E dove se ne è andato, signora Ina, a Roma?” “Mh... dove se ne è andato... non lo so, non me l’ha detto. Forse sì, a Roma. Ma che sono tutte queste domande, finisci di mangiare, forza, e poi subito in camerata a prepararti, forza!” Tempu, u tempu ava ari. Devo solo stare sdraiata sul letto e aspettare. Mi levo le scarpe, così, tiro su la coperta, la testa n’capu al cuscino e aspetto, aspetto che tutti se ne vanno a
riposare. Da quando c’è stata l’ammazzatina, quannu cercu di dormiri mi viene in testa la faccia du picciottu ca cadì n’terra mortu, Toti. Era alto, bello, picciuteddu, mischineddu: se restava vivo sarebbe addiventato professuri, s’avissi maritatu, avissi avutu tri figli, avissi viaggiatu pi tuttu u munnu, pure in Australia! Toti. Toti. S’avissi avutu un figliu l’avissi chiamatu Toti.
Èura di irisinni. I scarpi, u giubbettu, u cappidduzzu, u sacchettu. Se ci chiedono qualcosa: stiamo andando a buttare a munnizza du cammaruni. Forza Caloriu, camina camina: un o, un altro o, così, siamo fuori dal cancello. Minchia, a signora Ina c’è! “Enza, dove vai a quest’ora? Hai chiesto il permesso?” “Signora Ina, ho livato alcune cose du cammaruni e le vado a buttare”. “Ma non le potevi gettare nei secchi all’interno? Che bisogno c’è di uscire fuori?” “Con Caloi... volevamu prendere un po’ d’aria...”. “Con chi?” “No, è che ci sono cose di fimmina da ittari e ci sono i compagni del manicomio che vanno a taliare nella munnizza e allora preferisco ittarle fora”. “Ah, sì, sì, brava. Poi torna subito dentro, va bene? Preparati per l’interrogatorio con il brigadiere”. “Buonasera signora Ina”. Aspetta fermu cca, Caloriu, un t’arriminari, fermu, aspettiamo ca dda buttanazza si nnì va. Ora camminiamo con o lento, tranquillo, comu si ni stassimu facennu na
iata.
Il Viale, la stessa strada ca mi fici u iornu c’ ammazzaru o picciutteddu, a Toti... e o commissariu. Il mare è agitato, agitato assà. Di cca n’capu le strisce bianche delle onde sembrano fili elettrici e quannu arrivano a riva pari ca fannu la scossa. Cammina piano, senza correre, mettiamoci da parte, di lato, per non farci vedere. Caloriu miu, quando saliamo sul treno t’abbrazzu forti forti, ti stringiu a mia pi tuttu u tempu du viaggiu, vogliu stari sempri cu tia, in ogni momento da vita mia, finu alla morti e si mori tu pi prima ti vogliu teniri m’brazza a mia, anchi quannu u corpu rinsicchisci, anchi quannu un c’è chiù a peddi e a carni, anchi quannu diventi sulu ossa, sì, sempri sempri ti vogliu teniri cu mia, finu a fini du munnu.
Arrivammu! Un taliari a nuddu dentro la stazione, devi solo guardare a terra. Alla biglietteria fai parlare a me. “Due biglietti per Palermo”. “Ha detto due?” Mi chiede l’impiegato e guarda attorno a me con una faccia strammata. “Sì, due”. Calò, stai attento a scendere ‘sta scalunata di marmu, stiamo attenti a ‘un n’arrizzulari. Talia dda! Quanti picciotti e signore c’aspettanu u trenu! Ma quanti sono? Cinquanta? Centu? Non si possono contare. E su’ tutti vestiti uguali! Talia Calò: i picciotti cu giacca e cravatta e le signore cu u cappotto e u fazzulettu al collo: tutti uguali su’ vistuti! “Signora, ha bisogno di aiuto”. Cu è’ chissu cu ‘sta divisa?. “Sì, tutto a posto. C’è Caloriu che mi aiuta, è tutto a posto grazie”.
“Chi c’è con lei che l’aiuta?” “Il mio amico: Caloriu”. Mi talia stranu comu s’avissi dittu ‘na bestemmia. Calò, talia dda! Le signore stanno abbrazzannu i picciotti. Si stannu abbrazzannu. Calò! Assumigliano tutti al picciottu ca murì ammazzatu: Toti! Tutti, tutti uguali a Toti! Ma com’è possibile? Senti chi ci dicinu i signuri: “figliu miu torna prestu”. Hanno tutti a faccia uguale uguale a chidda di Toti, tutti tutti, tutti Toti, u senti chi dicinu: Toti, Toti, TOTI, TOTI, TOTI! TOTI! TOTI!! TOTI TOTI TOTI TOTI... . C’è l’omu in divisa che è venuto prima che ci sta taliannu insieme all’antru omu in divisa pure lui. I picciotti si stanno preparando per partire. Calò, prepariamoci pure noi. Miii, quantu pruvulazzu che fanno ora ca s’arriminanu. Dammi il fazzoletto Calò, dammi il fazzoletto che mi copro la bocca, non riesco a respirare. Un si vidi nenti, un si vidi nenti. Unni sì Calò? Calò dove sei? Calò, si sta mettendo a piovere, tutta ‘na vota si metti a piovere forte, sbrighiamoci, saliamo pure noi sopra il treno. Le senti pure tu le madri come fanno? Toti, Toti, TOTI, TOTI, TOTI! TOTI! TOTI!! TOTI TOTI TOTI TOTI... . “Signorina, mi scusi, può favorire i documenti per piacere?” Corri Calò. Scappa. Scappa! Acchianammu nu trenu cu i picciotti. Ma perché piove acqua di colore rosso, piove acqua rossa, quando s’ha dittu mai? È russa, acqua russa dappertutto: allestiti, forza, ca ni stammu vagnannu tutti di st’acqua russa e mpicicusa! Curri, scappa! Forza, davanti, davanti, nu trenu ca sta partennu. “Signorina si fermi, si fermi, è pericoloso! Non vada davanti al treno”.
Curri Calò, i picciotti acchianaru tutti, u trenu sta partennu. Curri! Curri Calò, scappa, scappa ca un c’è chiù nenti di fari cca! Un resta antru ca scappari! Curri davanti u trenu! Davanti u trenu! “Signorina! Signorina è pericoloso! Si allontani dalla motrice! Si fermi! Il treno sta partendo, si allontani dai binari!” Satamu Calò! Saltiamo! Un resta antru di fari! Ora!
Il mio compleanno
Il venerdì mattina per me era un giorno maledetto perché il mio monolocale raggiungeva il massimo del disordine e della sporcizia. Anna, la ragazza delle pulizie, veniva una volta alla settimana, proprio il venerdì pomeriggio. Così, avevo sette giorni di tempo per fare tanto casino da darle da lavorare per un paio d’ore nel mio appartamento di quaranta metri quadrati. Ma quel venerdì due Maggio fu un giorno più maledetto degli altri. Quella mattina c’erano due sentimenti dentro al mio cuore: era il mio cinquantunesimo compleanno e non avrei avuto con chi festeggiarlo alla sera, sentivo pena per me stesso, per la vita che mi era scivolata tra le mani; l’altro sentimento era più semplice e stupido ma altrettanto forte: una sensazione di impazienza, l’impazienza di tornare a casa e trovare tutto in ordine, quell’ordine che solo Anna sapeva dare, quell’odore di pulizia che solo il venerdì pomeriggio riuscivo a sentire. Alla seduta settimanale dallo psichiatra no, quella sera non ci sarei andato, non ne avevo proprio voglia, avrei chiamato il dottor Mambri e gli avrei chiesto di spostare l’appuntamento con una scusa qualsiasi. Sì! Rientrare a casa dopo il lavoro, levarmi la giacca, la cravatta, le scarpe, e mettermi davanti alla televisione con un bel tè caldo. Era tutto quello che desideravo da quella giornata maledetta! I posteggiatori mi danno fastidio: guadagnano un sacco di soldi e non pagano le tasse. “Buongiorno dottore Salvini” Non sono laureato, glielo avevo detto già una volta a quello stronzo. “Buongiorno, bella giornata eh?” gli risposi. C’erano dei nuvoloni in cielo, sperai che si mettesse a piovere e che si inzupe tutto. Un po’ più giù, nella strada, c’erano dei carabinieri che stavano bloccando un vecchio che teneva una pistola in mano... boh?
“Sì, signor Salvini, speriamo sia una bella giornata anche per lei”. Mi rispose il posteggiatore. Lo sarebbe stata, forse. Lo sarebbe stata al ritorno a casa davanti al mio tè caldo: avrei la TV e non ci sarebbero stati più i pensieri dei miei venti anni ati in banca, venti anni e mi sembravano un giorno soltanto, uno solo, non di più, tanto erano tutti uguali uno all’altro. Dalla porta blindata della banca venne fuori, come ogni mattina, quella voce metallica che recitava: si prega di tornare indietro e depositare gli oggetti di metallo. Tentai di richiamare l’attenzione di Giovanni Bellucci, il mio collega, che a quell’ora era già dentro. Il direttore da qualche settimana gli aveva dato la chiave della porta centrale. Ebbi come la sensazione che fe finta di non sentirmi, eppure gridavo forte. “Bellucci, Bellucci, aprimi ‘sta porta!” Lui girava tra gli sportelli a cercare qualcosa nei cassetti... ma che cazzo doveva cercare a quell’ora di mattina? Il giorno prima avevamo sistemato tutto dentro gli armadi e non c’era più niente dentro i cassetti. “Giovanni! Giovanni! Dai che faccio tardi a timbrare!” Niente, era preso dai suoi finti movimenti dietro le casse. Uscii dalla porta scorrevole e suonai al citofono. Rispose e guardò nella mia direzione. “Bellucci. Ché, non mi senti? È da un’ora che chiamo!” “Chi ti poteva sentire?” Lo sapevo benissimo che da dentro, specie di mattina quando non c’era nessuno, si sentiva benissimo se qualcuno chiamava da fuori. “Dai, sbrigati ad aprire!” “Calma, calma, non t’agitare”. ò qualche secondo prima che Giovanni si decidesse a premere il pulsante. Capii che lo stava facendo apposta a farmi incazzare, come a voler rimarcare: hai
visto che il direttore le chiavi le ha date a me e non a te? Ma mettitele nel culo le tue chiavi, pezzo di merda, pensai. Glielo avrei ripetuto all’infinito quella frase. Così, quando entrai, quasi per un automatismo, glielo dissi: “Sei un pezzo di merda!” Mi uscì fuori senza cattiveria, dal mio tono di voce ci avrei rintracciato una confidenzialità, quasi una richiesta di amicizia cameratesca. Mi guardò torvo ma non disse niente. Pensai che quel bastardo me l’avrebbe fatta pagare di sicuro.
Venne poca gente in banca quella mattina. Non che me ne importasse molto, io lavoravo all’ufficio protesti e le persone le vedevo da una vetrata. Stavo in quel reparto da quattro anni, da quando il direttore mi aveva tolto dagli sportelli. “Non la vedo portata per il rapporto con il pubblico”, mi disse, “niente di personale”, aggiunse. Niente di personale, era una frase che sentivo dire nei film americani, ma ad essere sincero non l’ho mai capita. Che significa? Che non si fa una cosa, di solito un’azione spiacevole, per motivi… come dire… personali appunto, ma la si fa… per che cazzo la si fa insomma? Quando Cecilia arrivò in banca, le cose si misero meglio. Sì, perché Cecilia Molteni si ricordò del mio compleanno. Cecilia aveva la mia età, lei cinquantuno li avrebbe compiuti il mese successivo, l’otto giugno per la precisione. Cecilia era sposata con un poliziotto, aveva un figlio che studiava all’università. Che dolce che fu quella mattina. Venne nella mia postazione di lavoro, mise una mano sul monitor del computer e poi pronunciò le parole che ricordo ancora: “Tanti auguri al mio bel baffone, tanti auguri Michele”. Non so perché ma fu l’essere chiamato per nome che mi fece piacere, ancora più degli auguri. “… Michele”. Dillo ancora, pensai, pronuncia ancora il mio nome, dì un’altra volta quelle sette lettere. Dimmi che ci sono per te, dimmi che mi riconosci, che per te sono una persona diversa dalle altre. La vidi andare via e le guardai le caviglie, era ciò che più mi piaceva di lei: le
sue caviglie: così armoniose e solide e dinamiche. Avrebbero potuto portare il peso di un altro corpo oltre al suo. Quelle caviglie.
Poi, verso le dieci e trenta accadde il fatto. Il direttore citofonò e con una voce priva di espressione mi chiese di andare nel suo ufficio. Capii che Bellucci gli aveva spifferato qualcosa sul nostro scambio di gentilezze all’inizio della mattinata. “Signor Salvini, lei conosce benissimo quello che c’è scritto nel contratto, per cose di questo genere si può essere licenziati”. Gli avrei voluto dire che mi avrebbe fatto piacere se mi avesse chiamato per nome. “Salvini”, detto in quel modo mi faceva sentire un brivido di freddo. Sì, come quando d’inverno, a casa, da solo, c’è la stufa elettrica che non funziona e le coperte non bastano a riscaldarmi. “Vede, signor Salvini, lei lavora qui da molti anni ormai e quindi ci conosciamo bene”. L’unica cosa positiva di quel pistolotto era che nessuno ci poteva vedere e sentire perché la stanza del direttore era l’unica a non essere aperta o con i vetri. “Quello che le raccomando è di usare un linguaggio adeguato al posto in cui si trova”. “A che cosa si riferisce, di preciso, signor direttore?” “Lo sa benissimo, signor Salvini. E poi, la cosa che mi preoccupa è che, una parola tira l’altra e poi…”. Lo lasciò sospeso quel poi, come se dall’altra parte, oltre quella parola, ci potesse esserci una catastrofe. Mi sentivo ripiombato alle scuole elementari o proiettato in un film di Fantozzi: insomma, gli avevo dato solo del pezzo di merda a Bellucci, non gli avevo sparato. “Sì, signor Salvini, parole come pezzo di merda lei non può dirle a nessuno qui dentro”. “Signor direttore, ci trovavamo da soli, io ed il signor Bellucci. Non c’erano clienti, non mi sarei permesso in presenza di altre persone... e poi, mi scusi, non siamo all’asilo, che sarà mai?”
“Questo spetta a me dirlo. Glielo ripeto: rilegga le pagine del contratto di lavoro. Per questa volta le faccio un richiamo scritto, la prossima volta...”. Lo sapevo quello che c’era scritto nelle pagine del contratto di lavoro, tutte le menate sul rispetto reciproco tra i colleghi e le storielle del rapporto di collaborazione sul posto di lavoro.
Ma quella mattina le sorprese vere dovevano ancora arrivare. Quello che mi accadde quel giorno non lo posso dimenticare. Non lo dimenticherò per tutta la vita. In tanti anni di servizio non avevo mai assistito ad una rapina. C’erano alcuni miei colleghi che erano stati vittime dei rapinatori e me ne avevano parlato, mi avevano raccontato del terrore, dell’angoscia che li aveva travolti. Ma a me, personalmente, non era mai accaduto niente. Fino a quel giorno. Quando entrarono quei quattro uomini con i amontagna e le armi in mano, l’unica cosa che pensai fu: come avranno fatto ad entrare dalla porta blindata? Per anni avevo sentito quel cazzo di vocina registrata si prega di tornare indietro e depositare gli oggetti in metallo. Perché loro erano entrati con le armi senza tanti problemi? Mi sporsi sulla sedia per arrivare a vedere se avessero forzato la porta ma sembrava integra. Fui visto. Mi urlarono di uscire fuori. Io, invece, non feci nessun movimento. Uno di loro sparò un colpo di pistola in alto colpendo la vetrata. Fui raggiunto da cocci di vetro in tutto il corpo ma la pressione non fu tale da provocarmi alcuna ferita. Uscii fuori dalla mia postazione e non avevo nessuna paura, era la stessa scena vista in centinaia di film: i banditi entrano e dicono a tutti di buttarsi a terra e gridano di volere i soldi, di fare presto e tutta quella roba lì. I miei colleghi, il direttore e alcuni clienti della banca erano sdraiati e tre uomini in amontagna li tenevano sotto tiro con le armi. Giovanni Bellucci era ad una cassa, minacciato dal rapinatore che prima aveva sparato alla vetrata. Uno
dei quattro, quello che dava ordini agli altri e doveva essere il capo della banda, venne verso di me, mi diede una pedata violenta dietro al ginocchio e io caddi a terra senza neppure accorgermene. Mi ritrovai faccia a faccia con Cecilia, anche lei con il viso spiaccicato sul pavimento. Piangeva, le lacrime scendevano copiose a formare un rigagnolo leggero sul suo viso, giù fino al pavimento di marmo. Diceva delle cose confuse, alcune dirette ai banditi e altre, credo, dirette a me: “Ho un figlio, vi prego, ho un figlio. Non li guardare, non li guardare in faccia, se li guardi ti ammazzano!” Io, invece, sollevai la testa, come per un infantile spirito di contraddizione. Mi trovai di fronte a minacciarmi l’unico bandito senza la pistola. Teneva in mano un lungo coltello, di quelli alla Rambo, quelli che da una parte hanno la lama e dall’altra una specie di seghetto, che io non l’ho capito mai che ci si deve fare con quel seghetto, ci si taglia la legna? boh? E poi, io non avevo mai visto nei film un bandito che fa la rapina con il coltello. Pistole, fucili, mitragliatrici sì. Coltelli mai.
Quando l’urlo della sirena della polizia si avvicinò sempre di più, sempre più forte, fin davanti alla banca, in quel momento soltanto provai paura, solo in quel momento provai una terribile angoscia motivata da un pensiero: che avrebbero fatto i rapinatori per cavarsela? Il capo della banda diede degli ordini a gran voce, sembrava un militare per come era deciso e sicuro. Io e Giovanni Bellucci fummo spintonati dentro la stanza del direttore proprio dal rapinatore che avevo vicino, quello con il coltello. Ci intimò di sdraiarci a terra e chiuse la porta alle sue spalle. Aveva una voce rauca, forte. Dava l’impressione di essere uno duro, aveva una corporatura robusta ed un ventre gonfio che gli faceva sollevare il maglione a dolce vita fino a mostrare la canottiera bianca di sotto. “Tu mettiti a pancia in giù”, gridò rivolto verso di me, “e tu a pancia in sopra”. Io e Giovanni Bellucci ci guardammo come per chiederci se avessimo compreso bene il comando che ci aveva dato. “Subito! Stronzi!”
Ci mettemmo nella posizione che ci aveva ordinato di assumere. Lui restò in piedi, sopra di noi, appoggiato alla porta. Mi ritrovai, come prima, con la testa a terra. Io guardavo verso Giovanni e lui guardava verso di me. Il suo volto non aveva espressione. Pensai che eravamo compagni di disavventura e una situazione di quel genere avrebbe favorito, probabilmente, la nascita, tra di noi, di uno spirito di solidarietà, di fratellanza. Con un volume di voce tale da farsi sentire anche dal rapinatore mi disse: “L’ho sentito che oggi hai compiuto cinquant’anni…”. Lo interruppi: “Cinquantuno, grazie”. “Cinquantuno, è lo stesso. E non hai combinato niente nella vita. Se t’ammazzassero non ti piangerebbe nessuno. Sei un fallito. Sei pure pazzo, lo so che ti fai curare da uno psichiatra”. Rimasi interdetto, farfugliai qualcosa come che stai dicendo… . Lui aggiunse implacabile:”Io ho tre figli, tre figli! Sai che significa? Io la devo portare a casa la pelle. Per i miei figli!” Alle ultime parole per i miei figli, si scatenò l’inferno: raffiche di spari di pistole, mitragliatrici, fucili. Durò solo pochi secondi. Poi, il rapinatore mi cadde addosso, sul lato destro del corpo. Sollevai la testa e vidi una serie di fori nella porta a cui era appoggiato. Il rapinatore, colpito probabilmente agli organi vitali, era morto. Mi mossi per togliermelo di dosso e invece di provare paura e pensare a cosa fare, nella testa avevo le parole di Giovanni Bellucci: non hai combinato niente nella vita, se t’ammazzassero non ti piangerebbe nessuno, sei un fallito... . Quelle frasi mi risuonavano in testa come le campane di domenica quando finisce la messa. Riuscii a divincolarmi dal corpo del bandito e trovai a pochi centimetri dalla mia mano il coltello che poco prima teneva in mano il rapinatore. Lo impugnai. Le parole di Giovanni andavano e venivano dentro la mia mente: non hai combinato niente nella vita, se t’ammazzassero non ti piangerebbe nessuno, sei un fallito... . Bellucci era rimasto immobile a terra. Sollevai il coltello in aria e lui mi guardò sprezzante, come se io gli stessi facendo uno scherzo. Lo spinsi in giù, sul suo petto, con tutta la forza che avevo nel braccio, proprio all’altezza del cuore. Non
fu come nei film, che spingono i coltelli e quelli entrano facile facile che sembra che stanno tagliando il burro. Quando il coltello gli arrivò sul petto non si era infilzato che per pochi centimetri. Non potevo più tornare indietro e dovevo fare quello che andava fatto! Lui cercò di trattenere la mia mano che gli premeva il coltello sul petto. Io ci misi anche l’altra mano sul coltello e spinsi, spinsi, spinsi. Fino ad infilare tutta la lama dentro al suo petto. Mi divincolai dalla sua presa e mi alzai in piedi. C’era un lago di sangue tutto intorno al corpo immobile dell’uomo che mi era caduto addosso. Giovanni Bellucci gridava parole senza voce, come nei film muti, agitava le gambe e faceva scivolare le mani sul manico del coltello ma non riusciva a sfilarlo dal suo corpo. Mi fissava, mi fissava senza odio adesso, come per chiedermi di aiutarlo. Durò pochi secondi e poi giacque immobile. Morto, come l’uomo che aveva a fianco. Quei pochi secondi mi bastarono per riflettere su ciò che rimaneva da fare. Mi abbassai, pulii il manico del coltello. Mi sdraiai a terra ad aspettare.
Stetti in quella posizione un tempo che mi sembrò lunghissimo. Quando i poliziotti spalancarono la porta, urlarono di gettare le armi e cose di questo genere. Nella sala della banca e dietro gli sportelli non c’erano stati altri morti: i poliziotti avevano ferito tutti e tre i rapinatori; qualche cliente era rimasto contuso. Il resto della mattinata lo ai in ospedale. Mi ci portò una macchina della polizia dove mi trovai ospitato sui sedili posteriori insieme a Cecilia Molteni. Piangeva ancora, la paura non la lasciava, neppure dopo che era finito tutto. “Si calmi signora, tra poco sarà a casa”, le disse la donna poliziotto seduta
davanti al posto eggero. “Michele, l’unica cosa che riuscivo a pensare era che non avrei dovuti guardarli”. Le feci appoggiare la testa sulla mia spalla. “Capisci? se si accorgono che li puoi riconoscere quelli ti sparano”. “É tutto ato Cecilia, hai sentito cosa ti ha detto l’agente. Tra poco saremo a casa”. Mi piaceva tenerle la testa, sarebbe durata ancora poco e, forse, non si sarebbe più ripetuta una situazione di quel genere. Tirai un sospiro e cercai di godermela in quella posizione, con la sua testa appoggiata sulla mia spalla. In ospedale chiesi informazioni all’agente su dove ci avrebbero portati successivamente. Mi disse che saremmo andati in Questura per un interrogatorio. “Cosa di poco tempo”, aggiunse. Chiesi il permesso di utilizzare il telefono e chiamai Anna, la ragazza delle pulizie: sarebbe potuta venire a prendere la chiave dell’appartamento lei stessa mentre mi trovavo in Questura, tanto si trovava a poca strada da casa mia. E così andò. L’interrogatorio durò meno del previsto. La versione che diedi fu la più semplice che mi venne in mente: il signor Bellucci aveva tentato di aggredire il bandito per uscire dalla stanza, per tutta risposta era stato pugnalato al cuore. Io, terrorizzato, ero rimasto a terra. Niente di più, niente di meno. Erano le cinque precise quando il magistrato in tono cordiale mi congedò dicendo: “Cerchi di dimenticare tutto, signor Salvini”.
Uscendo dalla Questura trovai la pioggia: una pioggia fina fina, di quelle che durano per delle ore senza smettere un minuto. L’auspicio che avevo espresso la mattina, che piovesse e che il posteggiatore si bagnasse era andato a buon fine! A me, invece, non dispiacque bagnarmi un po’ prima di arrivare a casa. Ero impaziente di trovare ciò che attendevo tutti i venerdì pomeriggio.
Anna era già andata via, c’era profumo di pulito, aveva lustrato anche i vetri questa volta. L’ordine era più ordine delle altre volte: con tutti i giornali messi in pila e i CD sullo scaffale giusto. Quello che speravo di trovare. Andai in bagno e mi asciugai i capelli. Mi pulii la faccia e le mani sciacquandole per bene. Poi, tolsi la giacca, la cravatta, le scarpe. Andai nel cucinino e misi su l’acqua per il tè. Inserii nel lettore un DVD, presi i telecomandi, accesi la televisione. Feci partire il film. Andai nel cucinino, versai l’acqua bollente nella tazza con la bustina, ci aggiunsi un po’ di miele. Tornai nella stanza e mi sdraiai sul divano, il film era già all’inizio, in quel film i titoli arrivano dopo la prima scena. Portai la tazza alle labbra e tirai un sorso: è buono il tè con il miele! Finalmente ero a casa, nella mia casa pulita e ordinata, con il mio film preferito e con il mio tè. Era il mio modo di festeggiare i miei cinquantuno anni. Oh Dio! Avevo dimenticato l’appuntamento con lo psichiatra per la seduta settimanale. Con tutto quello che era accaduto era comprensibile che me ne fossi dimenticato. Presi subito il telefono. Composi il numero del dottor Mambri. Bene, era libero. “Mi spiace dottore ma questa sera non posso venire. Rimandiamo alla prossima settimana nel suo studio de Il Parco? No... no... va tutto bene, la ringrazio, è che questa sera... come dire, sento una fitta al petto, proprio qui, all’altezza del cuore”.
Il diavolo esiste!
“Cerco padre Vincenzo Marisi… è in sagrestia? Me lo i… presto per favore”. “Padre Vincenzo sta effettuando un colloquio psicologico”. “Si sbrighi che è una cosa urgente, me lo chiami subito che ho bisogno di parlargli. Gli dica che è Calogero che lo cerca, Calogero Mambri”. “Attenda”. “Pronto”. “Amico mio… ti chiamo dall’aeroporto… . È successa una cosa… gravissima”. “Lo sento che fai fatica a respirare. Calmati Calogero, hai settant’anni, devi avere riguardo per la tua salute”. “A curriri da mio figlio… a Roma… . È successa una cosa terribile… hanno tentato di rapire mia nipote”. “Cosa? Oh mio Dio. Calogero. Chi è stato?” “U Diavulu! Sulu u Diavulu po’ fari ‘sti cosi. Ti faccio sapere… appena arrivo a casa di mio figlio”. “Sai che puoi contare su di me. Appena arrivi a Roma chiamami e ci vediamo. Resto a tua disposizione”.
***
“Il diavolo esiste. Sì, proprio così. Da piccolo raccontavi che mi avrebbe portato
via da casa, lontano da voi, che mi avrebbe gettato dentro un pozzo”. “Riccardo, figlio mio, mi sono scapicollato qui per esserti vicino. Cerca di calmarti. Tua figlia Elena adesso sta bene. Non sono riusciti a prendersela, è quello che conta. Dio ci protegge, è dalla nostra parte… . La vuoi spegnere quella minchia di televisione?” “Fammi dire. Papà, fammi parlare. Il diavolo esiste! Davvero. Sono costretto a prenderne consapevolezza adesso, alla mia età”. Meglio farlo sfogare, anche se per come parla, lui che è psichiatra ed io un impiegatu, mi fa salire i nervi. Certo che esiste il diavolo, figlio mio. E Dio in cielo ci deve proteggere dalla sua malvagità. “Elena era in macchina con sua madre, di sera, in una strada a La Storta, qui a Roma Nord. Stavano tornando a casa, erano ormai vicini a casa. Elena seduta sul sedile posteriore blaterava di fantasie legate ai fumetti giapponesi e sua madre seguiva i suoi percorsi fantastici. Uno stop ad un incrocio. Una macchina che si ferma davanti. Una frenata. Mia moglie sente aprire lo sportello posteriore dalla parte di Elena. Possibile che la bambina abbia aperto lo sportello? Si gira: un uomo tenta di afferrare Elena. Vuoto, buio. Urla. Elena urla, urla a più non posso”. Sta parlando di mia nipote, sangue del mio sangue. Lui parla, seduto sulla sua poltrona di pelle, nel silenzio di uno studio pieno di libri e… a me mi pare un sogno, non mi sembra reale. Un film, un film mericano. Invece è tutto vero. Ma per quale minchia di motivo non spegne la televisione… adesso fanno anche la presentazione di libri siciliani: intervistano un tizio che si chiama Oblomov Semerio, il libro si intitola ‘Senza re né regno’… dice che la mafia si è strutturata nel dopoguerra con una convergenza di interessi tra criminalità organizzata, politica, chiesa e burocrazia. Ma vafanculu! “Anche sua madre urla, più forte che può. L’uomo continua a tirare Elena fuori dalla macchina.
Sua madre disperatamente l’afferra per un piede, per un braccio e la strattona dentro l’auto con tutta l’energia che ha nelle sue braccia, nel suo cuore. L’uomo prova a tirare con altrettanta forza, con la rabbia di un animale che non conosce pietà per la sua preda”. Riccardo sta parlando della mia nipotina. Elena. Bella come la luce, bella come la vita, bedda come il mondo. Dio mi deve aiutare a non farmi scoppiare il cuore. “Ma la disperazione della mamma è molto più forte dei muscoli di una bestia che vuole rapire una ragazzina. Alla fine quell’energumeno cede. Lascia tutto e scappa, si dilegua nel nulla”. Finalmente spegne quella minchia di televisione. “E la polizia ti dissi che non ci può fare niente?” “Mi hanno detto anche che potrebbe avere a che fare con un traffico di organi”. Lo sa mio figlio che cosa significa questa mia venuta qui a Roma? Lo sa lui che cosa mi sento in dovere di fare adesso? Forse sì. Forse no. “Corriamo alla polizia: denuncia, foto segnaletiche, delinquenti, emigrati senza permesso di soggiorno. Infine: l’identikit costruito dalla polizia scientifica sulla base delle indicazioni di mia moglie”. “Fammelo vedere”. Gli dico rapido. “Cosa?” “Come cosa… l’identikit, fammelo vedere!” “È lì dentro in cucina, lo tiene mia moglie in un cassetto. Lo vado a prendere tra poco”. Mia nipote. Hanno tentato di rapire mia nipote. Ho paura. Paura e senso di impotenza. Angoscia che non mi fa sentire più le gambe e le braccia. Riccardo continua a parlare ma faccio fatica a stargli appresso. Sono stanco per il viaggio e confuso per tutto ciò che sta succidiennu. Vorrei non fosse vero. Vorrei che si trattasse di un sogno, di una fantasia. La questione è che… io uno che faceva ‘sti
surbizza lo conoscevo. Veniva a dumannari sempri favura quannu io travagliavo al Comune. Uno che arrubbava i picciliddi. Tanti anni fa. Si chiamava, si chiamava… sì, si chiamava Tanu Liccasarda. Per quello che ne so Tanu Liccasarda se ne è venuto nel continente. Gli ho fatto sbrigari pure una faccenna e poi… e poi lu mannai a fanculo e non l’ho neppure pagato. “Pensa, pensa papà. Che vuol dire questo? Significa che ci dev’essere un’organizzazione complessa dietro azioni di tal genere, molto sofisticata. Pensa. Pensa. Come si fa ad espiantare un organo e a conservarlo in modo adeguato? Ci vuole una struttura medica complessa, specializzata. Pensa. Pensa. Come si fa a commercializzare un organo, l’organo di un bambino. Ci vuole una organizzazione con collegamenti internazionali, rapporti fidati con i destinatari finali. Pensa. Pensa. Questo succede in Niger. E adesso anche qui in Italia. Tutto ciò è a conoscenza delle forze di polizia, di sicuro. Vengono effettuate delle indagini? Che tipo di indagini vengono effettuate? C’è uno Stato. Lo Stato lo sa che esiste il diavolo?” “Adesso basta Riccardo. Calmati. Vai là dentro in cucina, prendi l’identikit e porta pure due bicchieri di whisky già che ci sei”. Che c’è da meravigliarsi degli esseri umani figlio mio. Ancora fai finta di non capirlo che siamo peggio delle bestie?
“Pensa. Pensa. Il diavolo esiste”. Dice Riccardo quando rientra nello studio con le mani occupate da una busta bianca e due bicchieri di whisky. Povero figlio mio. Prendo la busta dalle sue mani. La apro. Tiro fuori un disegno con il volto di un uomo.
È anziano, tratti meridionali, ha i baffi. Minchia! Ma questo è lui, questo è… . “Che c’è papà, ti senti male?” “Dammi subitu un telefono. Subitu!”
***
“Perché?” Mi chiede Padre Marisi mentre sorseggia il suo caffè. “Perché con gli anni che ho addosso non ho il tempo di aspettare che intervenga la giustizia, quella dei giudici, quella dei tribunali… e la rabbia e la disperazione che strisciano dentro al mio cuore addumannanu sfogu”. Il cameriere del bar del Pantheon viene a chiedere se vogliamo ordinare qualcos’altro. “Se il Signore lo vuole, tutto andrà per il verso giusto. Tutto. Io prego Iddio per far sì che illumini il tuo cammino, la tua via”. Padre Vincenzo è un uomo colto, è pure laureato in psicologia e si interessa propriu di picciliddi. Un uomo di classe, dalle maniere… come dire, dalle maniere sofisticate, raffinate e si intende pure di tutti i meglio posti di Roma. “L’ho riconosciuto subito dall’identikit. L’ho riconosciuto subito quel figlio di buttana di Tano. Non è stato neppure tanto difficile individuare dove abita, scoprire le abitudini che ha qui a Roma”. “Ama il tuo Dio ed egli ti aiuterà a trovare la forza, ti guiderà la mano e ti sosterrà nel momento più drammatico, quello in cui sarai tentato di tornare indietro. Non devi temere, in quegli attimi drammatici lui sarà presente e ti sosterrà. Dio ti perdonerà se questo… Tano Liccasarda è un diavolo uno che è diventato musulmano, che invece di maritarsi convive e rapisce pure i bambini… beh, lo sai che cosa ne pensiamo noi di questa gente”. Ci alziamo e facciamo quattro i in direzione di Piazza Montecitorio.
“Calmati. Calmati. Ora devi allenarti ed esercitare l’attenzione, la concentrazione. Ripetimi ancora tutto il percorso da compiere, prendi la mappa”. “Dall’uscita della metropolitana fino alla fontana di piazza Esedra, dalla fontana di piazza Esedra fino alla concessionaria di auto di lusso in via Cernia. o sicuro, deciso, niente tentennamenti. In via Pastrengo tiro dritto come se fossi uno dei tanti impiegati che si attardano per arrivare al lavoro. Mi fermo davanti al giornalaio che si trova più avanti all’angolo, acquisto un quotidiano, lo apro, lo sfoglio. Uscirà come ogni mattina poco prima delle otto dal portone del palazzo che c’è accanto all’edicola. Preparo l’arma, posso farlo con una mano, una pistola a tamburo a canna corta, devo solo tirare indietro il grilletto con il pollice. Mi sto allenando, devo abituarmi a questa manovra per essere in grado di compiere tutto con padronanza”. “Bravo Calogero. Il Signore ti benedica e ti guidi in questa missione di giustizia. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. “Amen”.
***
Ore 07:45 Non me l’aspettavo questa pioggerellina fina fina fuori dalla metropolitana e ‘sta minchia di fontana zampilla pure adesso che piove? Ne hanno acqua da buttare a Roma.
Ore 07:48 Io prima che muoio ‘na macchina di queste che ci sono in questa concessionaria me la devo comprare, non me ne fotte niente che costa assà.
Ore 07:52 Porca buttana questa non ci voleva, una pattuglia di carabinieri si mette a fermare le persone e a chiedere i documenti.
Ore 07:53 “Sì… certo, mi dica. Ma non lo vede che sono un vicchiareddu? I documenti, va bene, i documenti”. Picciliddi sono ancora a diciott’anni che per quanto portano la divisa si sentono domineddiu.
Ore 07:55 “Scusate… io vado di fretta, me li volete ridare ‘sti documenti… se tardano a rispondervi per radio sugli accertamenti dei documenti a me non interessa. Ho un appuntamento, io devo andare, ho un appuntamento importante”.
Ore 07:57 “Come si permette a perquisirmi? Guardi che chiamo mio figlio. Mio figlio è uno psichiatra, ha fondato Il Parco. Tenga giù le mani. Cosa le hanno detto per radio? Che io avrei una pist…”.
Ore 07:58 È uscito in orario, eccolo quel grandissimo curnutu di Tano Liccasarda. Mi volto e ci sparu. Mi volto e ci sparu, ora… . Metto una mano dentro la giacca e prendo la pistola. Mi volto e ci sparu… ora!
Ore 07:59
“Levatemi le mani di dosso, non permettetevi di toccarmi!” Riescono a togliermi la pistola di mano. “Piano, piano, fate piano. Sono un vicchiareddu”. Mi fanno inginocchiare a terra, sono bloccato. Tanu Liccasarda mi guarda senza espressione mentre scompare dietro l’angolo.
Ore 08:00 Mi stringono le braccia dietro la schiena per ammanettarmi. Alzo la testa e posso vedere dietro il portone che è rimasto semiaperto: nell’ombra mi sembra di riconoscere la figura di un uomo che s’aggiusta la camicia dentro i pantaloni. Non si vede bene ma… minchia! Chi è padre Vincenzo Marisi è? Iddu, Iddu è! un mi possu sbagliari, patri Vincenzo Marisi, dù figliu di buttana s’ammuccià darriè u purtuni! “Bastardu e Curnutu!” N’testa avi i corna! I corna avi! I corna du diavulu!
Io e Reiko
Non avrei potuto immaginare che potesse accadere a me, Sonia Mambri, a quarant’anni. Avere quarant’anni e scoprire aspetti della propria persona così importanti, non avrei mai immaginato potesse accadere. Invece è stata una ragazza venuta dall’altra parte del mondo a provocare tutto questo, a farmi comprendere tutto questo. Mio fratello aveva incontrato Reiko per motivi di lavoro, le aveva fatto visitare Il Parco e poi le aveva proposto di trascorrere un periodo di vacanza giù da me per fare insieme un giro per la Sicilia. Conoscerai una persona speciale, mi aveva detto. Il giorno in cui ci dovevamo mettere in viaggio lei entrò nella stanza da letto mentre io mi guardavo allo specchio: osservavo il riflesso della mia immagine e riuscivo a scorgere tutte quelle cose del mio viso che mi dà fastidio osservare: le occhiaie, le rughe, la capigliatura che in alcuni punti, se i capelli non sono pettinati nel modo giusto, fa intravedere la cute e poi… poi la pelle del mio corpo. È successo in poco tempo, nel giro di qualche anno: ero abituata a sentirla così morbida, elastica, soda e poi, poi dopo i quaranta… niente. La mattina stessa dopo il suo arrivo, Reiko venne nella mia stanza, si distese sul letto a braccia conserte, gli occhi chiusi, la bocca semiaperta. Tolto il suo abito lungo era rimasta con il reggiseno e le mutandine. Aveva la pelle di una opacità che io non avevo mai visto. All’interno della coscia destra si intravedeva una cicatrice, il segno lasciato da un incidente da bambina, pensai. Teneva le mani intorno al corpo come a proteggersi dal freddo. Una ciocca le copriva la guancia: i suoi capelli erano lisci, sottili, leggeri. Aprì gli occhi delicatamente. Non si mosse dalla sua posizione. “Reiko”, dissi piano, “vuoi un po’ di tè o preferisci riposare ancora?” “Riposare”.
Mi avvicinai. Le poggiai una mano su un fianco. Lei sfiorò delicatamente la mia mano. “Grazie per la tua sincera ospitalità”. Erano parole vere, regalate come si può fare donando un fiore. Non trovai nessuna risposta da darle. Solo, le sorrisi. Poco dopo lei si alzò e ritornò nell’altra stanza.
Quando fummo ben riposate partimmo. Reiko prese la piccola telecamera con il monitor di fianco che si apriva e lo rivoltò di fronte a lei, in modo da inquadrarsi nell’obiettivo e, allo stesso tempo, osservare l’immagine nel piccolo monitor. Infine, mi chiese se poteva filmare me. La cosa m’imbarazzò. Non tanto perché la mia immagine potesse essere registrata e vista da qualcuno che non conoscevo ma perché quella ripresa voleva dire che Reiko pensava già alla partenza, a quando sarebbe tornata a casa, a quando avrebbe voluto ripensare ai luoghi ed alle persone conosciute nel suo viaggio. Feci solo in tempo ad aggiustarmi i capelli. Dissi qualcosa sulla Sicilia.
Dopo un’ora di macchina ci ritrovammo in autostrada. “Che ne dici di fare un salto a Troina prima di andare a Taormina”. Con il suo sorriso mi rispose portami dove vuoi tu. Non parlammo molto. Il percorso era un susseguirsi di curve che si ficcavano proprio dentro il centro della Sicilia. Terre brulle, colline che montavano una sull’altra in un susseguirsi infinito di disegni ondulati fatti di terra arsa dal sole, campi di grano, antichi caseggiati diroccati, altissimi tralicci in metallo per la corrente elettrica che tracciavano prospettive in avanti e di lato e poi avanti ancora, mandrie di vacche lasciate a pascolare, greggi di pecore accompagnate da giovani in età di scuola, una cittadina abbarbicata tutt’intorno ad una collina ed ancora colline e terra brulla e curve e vacche e cavalli e pecore. Infine Troina.
Improvvisamente dietro una serie di curve che avresti giurato non sarebbero finite mai. Di fronte al cartello di ingresso a Troina, Reiko mi chiese di fermarmi. “Vorrei fare una foto, faccio un attimo”. Aprì una delle cerniere del suo zaino, tirò fuori la macchina fotografica più grande di tutte. Fece tre o quattro scatti al cartello segnaletico e poi risalì in auto. “Reiko, perché hai fotografato il cartellone?” Le vidi un’espressione nuova in volto, un allontanamento improvviso, un distacco rapido, una fuga veloce. Non mi rispose. “Volevo dire… magari avresti potuto fotografare anche un elemento dell’ambiente oltre all’indicazione stradale”. Questa volta non guardò neppure. Sprofondai nel sedile con la sensazione di aver detto qualcosa di terribile, come se avessi proferito delle bestemmie verso la Madonna di fronte ad un gruppo di pellegrini a Lourdes. Tentai di cambiare discorso. “Ti va di andare a pranzare prima di visitare un centro di riabilitazione?” Rispose che era d’accordo ma ancora non guardava verso di me. Era diventata pallida in viso. Entrate nel ristorante le proposi di sederci vicino ad una grande vetrata dalla quale era possibile ammirare l’Etna in tutta la sua imponenza. “Mi aspetti un attimo? Vado a telefonare a mio fratello”. Le dissi. A Riccardo chiesi informazioni ed istruzioni su come avrei potuto comportarmi con Reiko ma lui era troppo impegnato nel suo lavoro per darmi retta.
Al ritorno trovai Reiko assorta a guardare l’Etna che sbuffava fumate bianche. “Senti Reiko”, adesso si voltò verso di me, “prima, quando sei scesa dalla macchina, devo aver detto qualcosa che non andava, vero?” Mi offrì un’espressione chiara, limpida, infantile. “Io non sopporto critiche per lavoro fotografa. Non accetto da nessuno. Ho bisogno essere completamente libera e non sentire valutata o giudicata. Da nessuno. Forse tu non capire”. Detto da qualsiasi altra persona al mondo l’avrei trovata offensiva, oppure stupida, ma nelle sue parole c’era una richiesta di libertà così come la può manifestare un bambino. Arrivò il cameriere: “Le signore sono pronte per ordinare?” “Tra poco?”, dissi io. “Bene. Dà fastidio se teniamo la televisione accesa?” “No. A te?” Reiko fece segno che per lei non c’era nessun problema. “Scusami se dico queste cose”, teneva lo sguardo abbassato adesso, “per me è molto importante”. Il suo pudore era disarmante, a tratti alzava gli occhi per sorvegliare le mie reazioni. Teneva tutt’e due le mani sul tavolo. Mi fece pensare agli scolaretti di un maestro sadico che si aspettano le bacchettate sulle dita per punizione. Il cameriere tornò e noi ci dichiarammo pronte ad ordinare. Reiko aveva piena conoscenza dei piatti nominati, ordinò le portate senza bisogno d’aiuto. “Hai lavorato da sempre come fotografa?” “No, anche ingegnere meccanico”. Questo lo sapevo, mio fratello me lo aveva detto.
“Mi sono laureata università Osaka ed ho lavorato in compagnia fabbricava piccoli robot”. “Hai lavorato in Giappone?”, chiesi, cercando le coordinate per correlare la persona che avevo davanti in qualche tipo d’esperienza ata. “La compagnia per quale lavoravo aveva filiale in Florida, Tampa. Ho lavorato anche lì, qualche periodo. Poco tempo fa io licenziata ingegnere”. Provai un senso di vertigine. Il mio mondo mi sembrò all’improvviso così piccolo e distante e privo di consistenza: non avevo mai pensato alla possibilità di andarmene o di agire in modo attivo sulla mia vita per trasformarla, per provocare eventi capaci di cambiare la mia realtà. “Perché hai lasciato il tuo lavoro di ingegnere?” Chiesi a me stessa se quella ragazza venuta dall’altra parte del mondo si stesse prendendo gioco di me. “Non riuscivo a sopportare orari e dovere sottostare al mio boss. Voglio lavorare for maiself”. Questa cosa in inglese la capii. Non avevo ancora considerato questa possibilità: fare per se stesse, non attendere che siano gli altri a determinare la propria condizione, la propria esistenza. Adesso ero io a sentirmi piccola ed esposta e scoperta. “Voglio essere io a far lavorare altri”, continuò con il suo tono pacato che contrastava con il contenuto della sua comunicazione da manager, “ho aperto con altri soci Internet caffè in Thailandia e in Giappone, con stessi soci, abbiamo piccolo provaider. In questo modo posso avere piccola rendita annuale che permette fare lavoro fotografa… con serenità”. Tentai, ancora, di collocare quanto mi stava dicendo Reiko in una mappa mentale capace di accogliere quei dati per me così sorprendenti. Cosa avevo fatto io fino ad allora? Non avevo scelto le scuole da frequentare, aveva deciso quel cretino di mio padre per me; per il diploma d’insegnante di sostegno era stato mio fratello a convincermi. Non avevo scelto veramente di sposarmi, non ricordo quando ci eravamo fidanzati con mio marito, da ragazzi,
da bambini, non lo ricordo neppure, dovevo per forza sposarmi con lui, non c’erano altri nella mia vita. Non avevo deciso di separarmi, era stato ancora il mio ex marito a decidere per tutti e due; l’aveva fatto in modo elegante e soffice e discreto, è tutta colpa mia, mi assumo io la responsabilità dell’insuccesso della nostra relazione andava dicendo ma non era vero, adesso lo capivo che non era vero per niente. Mi scusai con Reiko e mi alzai nuovamente per andare in bagno. Incrociai il cameriere che ci portava i primi piatti, gli sorrisi facendo segno che sarei tornata subito al tavolo. Chiusa la porta del bagno, avvicinai il mio viso allo specchio: guardai l’attaccatura dei capelli sulla fronte, le orecchie arrossate, le labbra con il rossetto ormai stinto. Provai un senso di pena pensando che avevo quarant’anni. Che cosa potevo fare ormai? Cosa potevo cambiare, modificare, trasformare? Avvicinai ancora il viso allo specchio: osservai le sopracciglia, le pupille, le palpebre. Forse, neanche Reiko avrebbe fatto delle scelte nuove a quarant’anni: avrebbe accettato il suo posto da ingegnere meccanico in una compagnia dove timbrare il cartellino alle otto di mattina e timbrarlo all’una per il pranzo e timbrare ancora alle tre di pomeriggio e timbrare nuovamente alle sette per poi andare a casa ed essere troppo stanca per fare fotografie, troppo stanca per pensare for maiself, troppo stanca per mettere su un provaider o un Internet caffè o fare un viaggio in Italia. Non l’avevo mai vista da questo punto di vista: a quarant’anni sei obbligata a fare dei bilanci e, se si nasce dove sono nata io e si è fatte come sono fatta io, la possibilità di cambiare marcia è pressoché nulla. Guardai ancora lo specchio, vidi scorrere il mascara giù fino alle labbra mentre dentro, dal mio cuore, non avvertivo più niente.
“Il pranzo è stato di vostro gradimento?” Non riuscivo a pensare ad altro che ai miei quarant’anni e a tutte le cose che non ero riuscita a fare, al restringimento delle possibilità di cambiamento, alla
riduzione delle possibilità di fuga. “Sì”, rispose Reiko al cameriere, “soprattutto secondo”. Perché non ero riuscita a pensare che avrei potuto lasciare io, per prima, il lavoro? Mandare al diavolo tutto, cambiare vita occupandomi di altro?
Intorno alle quattro del pomeriggio ci recammo nel centro di riabilitazione di Troina dove lavorava la mia collega Loretta. L’avrei trovata di sicuro al lavoro, apionata com’era al trattamento dei bambini autistici. Infatti era lì, presente. Loretta ci fece visitare i reparti in cui gli educatori guidavano i bambini disabili da una stanza all’altra, obbligandoli dolcemente ad utilizzare delle foto o delle scritte per riuscire a comunicare: merenda, logopedia, attività, gioco, e tante altre indicazioni relative alle attività quotidiane. Uno di loro, con gli occhi strabici, sgattaiolò fuori dal gruppetto di compagni, imprendibile per l’operatrice, si gettò tra le gambe di Reiko. Lei si abbassò e lo accarezzò dolcemente sul viso, poi gli strinse le mani. Quando terminammo la visita e ci congedammo da Loretta, Reiko mi disse: “Sono debitrice questa esperienza straordinaria. Voglio ricambiare. Questa sera dirò qualcosa di me, pochissime persone conoscono”. Da principio la trovai un’ingenuità narcisistica: presupponeva che io avessi il massimo interesse nei confronti della sua persona ma quando più tardi mi rivelò il suo segreto dovetti ricredermi.
A Taormina scegliemmo un albergo in centro. Vi si accedeva attraverso una scaletta ripida partendo dal corso principale. “Strano, è così diversa dalle altre città che ho visitato”, mi disse Reiko in strada. Aveva ragione. I tavolini e le sedie dei bar erano disposti sull’elegante via del corso con disegni a geometrie regolari, negozi di preziosi e di moda -fascion, diceva Reiko- esponevano i loro oggetti di stile italiano in vetrine con scenografie ispirate alle tradizioni siciliane, botteghe di artigiani curatissime nei minimi particolari, turisti di tutte le nazionalità si muovevano in gruppi ordinati.
Alcuni gatti spuntarono fuori da una viuzza stretta e Reiko corse loro appresso per scattare delle foto. Quando ritornò, nonostante fossi timorosa di irritare la sua sensibilità artistica non potei evitare di chiederle: “I gatti sono un soggetto interessante per le tue foto?” “Io amo stare sola. Quello che dirò più tardi riguarda questo. Amo stare con gatti, spesso sto sola con loro lunghi periodi”. Lo diceva con una sorta di soddisfazione, come se fosse il raggiungimento di un traguardo. Perché io, invece, non riuscivo mai a stare da sola? Perché bastava solo che non incontrassi nessuno per qualche ora per provocare l’attivazione di spirali d’immagini mentali, speculari, sovrapposte, simmetriche, con temi sempre identici: la mia rabbia, il mio odio, la mia invidia, la mia ansia. “Sì, io sono di Kyoto. Si trova Sud-Ovest di Tokio. Ha qualche cosa uguale a tua città”. “Con la mia città?” “Sì. Hanno monumenti più antichi di intero paese. Kyoto è città sacra del Giappone, vi sono moltissimi templi antichi”. Davanti a noi Giardini Naxos, la zona balneare di Taormina, e, più in alto, l’Etna che instancabilmente sbuffava fumo e lava e fuoco. “Mi dicevi dei gatti”, chiesi io e stavo pensando che al ritorno in città anch’io ne avrei potuto prendere uno. “Qualche anno fa scritto poesie per gatti, sulla mia vita con gatti. Pubblicai copie a mie spese. Il libro interessò un giornale della Prefettura di Kyoto e da allora scrivo rubrica su gatti una volta settimana su giornale”. La guardai stupita e lei, probabilmente, intuì la mia incredulità. “Sarebbe strano in Italia leggere rubrica sui gatti in quotidiano. Vero? In Giappone, invece, c’è grande rispetto animali domestici e particolare per gatti.
Molti giapponesi vivono con gatti a casa e non separano mai”. “E il libro?” “Libro pubblicato da editore io ricevo percentuale su copie vendute”. Possibile che quell’essere con gli occhi a mandorla si stesse prendendo gioco di me? Un ingegnere meccanico che lascia il lavoro per fare fotografie, ama i gatti, ci scrive un libro e articoli su un giornale, viaggia in mezzo mondo, ha affari in Giappone ed in Thailandia... . “Reiko”, le dissi con tutta la serietà di cui potevo essere capace, alla ricerca di un punto debole nella sua risposta per cessare di confrontarmi con una persona così intraprendente ed attiva e creativa, “non sono un po’ troppe le cose di cui ti occupi?” Mi sorrise. Posò la sua mano sulla mia gamba. “Fortuna, sì. Più tardi confiderò perché faccio tutte queste cose”. Spostò la mano per riportarla sopra la sua macchina fotografica. Le avrei voluto chiedere di tenercela quella mano, le avrei voluto dire che desideravo sentire ancora quel calore, quella vicinanza. Non le dissi nulla, continuai a fissare i suoi occhi spalancati al sole, al vento, a quelle pietre antiche. Se in quel momento le si fosse aperta la testa e ne fosse uscito un disco volante non me ne sarei meravigliata più di tanto. “Tu sei persona speciale, Sonia. Riesco ad avere un rapporto con te”. “Cosa intendi con avere un rapporto…”. “Perdonami. Non faccio mistero ma dico tutto con bicchiere di vino, più tardi. Sarà facile”. “D’accordo”, dissi. Andai in bagno, davanti allo specchio, a ripetere l’operazione fatta a pranzo, nel ristorante di Troina. Trovai la pelle del viso arrossata dal sole, trovai i capelli arruffati dal vento, il fondotinta era andato via quasi del tutto. Sì, dissi a me stessa, anche io mi sarei confidata con Reiko, le avrei detto tutto senza timore di essere tradita: non potevo tenerla per me questa spinta, questo desiderio, questo
pensiero. Sì, l’avrei detto a Reiko, con la stessa motivazione espressa da lei: un dono, un segno del rispetto e della fiducia e dell’affetto che aveva saputo conquistarsi, un dono grande quanto il rischio che correvo se mi avesse tradita. Scesi la scalinata che dall’albergo portava al corso e sentii che il mio corpo, i miei muscoli, la mia pelle avevano una consistenza e una durezza e una forza nuove. Non c’erano indecisione o preoccupazione o mezze intenzioni. Adesso sapevo ciò che andava fatto: Reiko mi aveva offerto una traccia, un percorso, una via di fuga. Mi sarei confidata con lei. Le avrei rivelato cosa provavo. Reiko avrebbe saputo.
C’incamminammo verso la parte alta del corso soffermandoci in questo o in quel negozio ad osservare gli articoli più originali. Procedemmo oltre, fino ad arrivare in una piazza aperta con un belvedere magicamente sospeso sopra un quadro naturale di bellezza straordinaria. Insieme, nello stesso momento, rivolgemmo lo sguardo a ciò che ci stava davanti: la costa disegnava con la sua illuminazione una forma ad arco, nel mare brillavano le luci di due grandi navi da crociera. In alto, sulla sommità dell’Etna, vampate di lava incandescente spruzzate verso l’alto e, più in basso, colate di lava che a noi, da quella distanza, sembrava immobile. “Che ne dici di rimanere qui?”, chiesi a Reiko, indicando un bar con le poltroncine di legno scuro e i tavolini con la superficie in ceramica siciliana. “Stavo chiedere io…” Scegliemmo una posizione vicinissima all’inferriata che ci separava dal vuoto e da quella veduta bellissima. Il sole ormai tramontato lanciava echi di bagliori dalla collina dietro le nostre spalle. L’aria era attraversata da un venticello leggero. Una popolazione di vacanzieri si muoveva leggera e spensierata come se quello fosse stato un porto franco dalle preoccupazioni, dai timori, dalle paure.
Il cameriere ci portò il menù e Reiko volle ordinare subito il vino: rosso, siciliano, forte. Una serie di sguardi incrociati stabilirono un’intesa senza parole, una sorta di tandem che ci sospendeva a qualche metro sopra le cose, le persone. Un legame di codici stabiliti e sicuri. Il cameriere portò il vino e lo versò dentro i bicchieri. “Sonia, ricordi, oggi pomeriggio Troina, in centro di riabilitazione, quel bambino autistico corso rifugiarsi tra mie gambe?” “Sì che lo ricordo”. “È questo che voglio parlare. Proprio questo”. “Prima che continui voglio anticiparti che anch’io ho intenzione di rivelarti un mio segreto. Non chiedermi perché lo faccio, forse sono ragioni simili alle tue, forse solo perché sento di farlo”. Lei sorseggiò dal bicchiere. Versò altro vino. Ci fu silenzio e sguardi e bicchieri che si muovevano tra le labbra ed il tavolo. Poi Reiko iniziò a parlare. “Bambini autistici evitano contatto fisico”, disse, “a meno che non sono loro stessi a chiedere. Anche quel caso, quando loro toccano, fanno perché avvertono altro come un…” fece un gesto in avanti con la mano. “Prolungamento?”, suggerii. “Sì, prolungamento loro persona. Prendono tuo braccio per aprire porta, per versare acqua, per nascondere tra braccia ed escludere ambiente esterno”. Si fermò e potei intuire che quello era il momento in cui mi avrebbe regalato il suo segreto. “È un problema che io conosco da vicino”. “Un tuo parente ha questo tipo di patologia?”
Ci fu ancora una pausa lunga. “Sono io”. Ancora un’altra pausa lunga e Reiko fece come per prendere la rincorsa e dirmi ciò che aveva da dirmi. “Sono-persona-autistica, mio-caso-chiama-Asperger”. Lo disse scandendo le parole, lo disse a se stessa prima di dirlo a me, lo disse con la testa e lo sguardo rivolti a terra. “Non capisco”. “A tre anni, quando io ero tre anni, mio papà vede che c’è qualcosa che non va: non dicevo parole, non insieme ad altri, sguardo assente, giocavo solo montare smontare oggetti, sempre stesse forme e costruzioni. Portò da psicologo. Diagnosi autismo”. “Tua madre…”, dissi io pensando a vecchie teorie studiate in modo superficiale ai corsi per insegnante. “Mia madre morta quando io ero un anno, mio padre sposato ancora dopo un anno e mezzo con altra donna, mia attuale mamma”. Tutt’e due rivolgemmo lo sguardo all’Etna, alle terribili vampate che spumavano verso l’alto. “Casa tua, mentre riposavo su letto e venuta a chiedere se volevo il tè, hai visto cicatrice gamba”. Feci un cenno affermativo. “È uno di due segni che ha lasciato mia madre, quando io ero dieci mesi ha lanciato addosso pentola acqua bollente, mio padre ferma tutto ma acqua arriva sul mio corpo”. “Perché lo ha fatto?” “Persona malata. Mio padre non ha detto mai niente preciso, io credo malata di
schizofrenia”. “Com’è morta?” “Non so… o meglio, so quello dice papà, dice morta di tumore. Io non credo”. “Potresti controllare, dovrebbe esserci una documentazione…”. “Non ho mai voluto fare”. “Qual è la seconda cosa che ti ha lasciato?”, chiesi io con una punta di curiosità. Sorseggiò ancora del vino. “La seconda cosa è la sua immagine in sogno: io sento di ricordare e vedere chiara la immagine di mia prima mamma, di mia mamma vera”. “Avevi solo un anno quando…” “Questo posso dire: io vedo lei. Vedo lei la sera sto per addormentarmi, quando mattina ancora che non dormo e non sveglia, quando guido macchina di notte stanca. Io vedo lei”. “Probabilmente, l’immagine del tuo ricordo corrisponde all’immagine che conosci dalle sue foto”. “Nessuna sua foto a casa. Mio papà levato tutto di mia mamma dopo seconda moglie viene nella casa nostra”. “Cos’è accaduto dopo che psicologo ha fatto diagnosi? All’età di tre anni, hai detto?” “Sì, all’età tre anni. Quello psicologo ha fatto cura, psicoterapia infantile. Papà porta in scuola speciale. A dieci anni dico prime parole. Dodici anni sono nata veramente perché papà porta scuola normale, con maestra per me, un’insegnante come te. E continuavo psicoterapia…”. “Sempre con lo stesso psicologo?”. “Sì, sempre con stesso psicologo, scritto il primo libro su mio caso”.
“Il primo? Perché, quanti ne ha scritti su di te?” “Tre”. “Tre?” “Io non sto ancora bene”. “Ma se sei una ragazza che si muove in modo disinvolto, viaggia, lavora…”. “Continuo raccontare mia storia e poi dirò cosa è adesso mia malattia”. Ci fu una pausa di qualche secondo. Versammo dell’altro vino. “Finite scuole, non riuscivo rapporti sociali. Ora non ricordo nessuna faccia miei compagni. Qualche volta, quando per strada sento che chiama uno che era compagno di scuola, io fatto finta ricordare ma non ho memoria di loro. Intanto continuavo terapia…”. “Aspetta. Cosa vuol dire continuavo…”. “La mia psicoterapia non mai finita. Il mio psicoterapeuta era trentatré inizio, quando io ero tre anni, adesso è sessanta. Adesso lui malato, forse muore. Per questo andata a Il Parco e conosciuto tuo fratello. Se mio psicologo muore io bisogno cura continua posto adatto”. Ascoltavo le sue parole con lo stesso stupore con il quale riuscivo a vedere, a molte decine di chilometri di distanza, l’eruzione dai crateri alti dell’Etna. “La psicoterapia è stata importantissima dopo Robert, sei anni fa. La compagnia stabilimento a Tampa, Florida, dove ha filiale, sei anni fa. A Tampa, in ospedale, dove andata per piccolo malore, ho conosciuto lui. Era sedici anni, otto meno di io. Io innamorata. Lui morto otto mesi dopo che nostro primo incontro”. “Come?” Chiesi, timorosa di fare la domanda sbagliata nel momento sbagliato. “Tumore. In ospedale faceva chemioterapia”. “La vostra relazione di otto mesi…” “Tutta dentro ospedale. Io finivo lavoro alle cinque, andavo da Robert, rimanevo
fino notte. Così otto mesi, fino a quando…”. “Oh, mia cara Reiko”. “Dopo sua morte ritornata in Giappone e tentato suicidio due volte. La prima volta con vene e salvata papà, seconda volta psicofarmaci, entrata coma, coma tre mesi”. Parlava tenendo la testa abbassata, come se le sue parole si trovassero a terra ed avessero bisogno di uno sforzo fisico per farle arrivare fino a me. Scorsi sui suoi polsi dei segni inequivocabili: quello che mi stava raccontando era vero. Ebbi un tremito di paura, ancora una volta non riuscivo a trovare punti di riferimento saldi nella mia esperienza per comprendere a pieno ciò che stavo ascoltando. Reiko riprese a parlare, confermando quanto io stessi pensando. “In Giappone abbiamo idea morte diversa da occidentali. Non ti stupire mie parole: nessuna ragione per esistere, tutto era finito per me. Robert era unica persona con rapporto affettivo in tutta vita, Robert era morto…”. “Tu eri a conoscenza della sua malattia quando l’hai conosciuto?” Fu come se le avessi inflitto un colpo fisico. “Sì”, rispose. “Continua”, le dissi, “non fermarti”. “Questo che serve fotografia, Internet, rapporto con gatti, tutte altre cose: sostituisce rapporto con esseri umani. Malattia consiste questo: io non riesco relazione con loro”. “Reiko”, dissi forte, come se avessi voluto richiamarla alla realtà. Qualcuno dai tavoli vicini si voltò. “Tu sei stata con me, con mio fratello, hai parlato con mia padre. Io non ti riconosco questa difficoltà. Non capisco”. “Semplice, Sonia. Io sforzo, tutta volontà, tutta capacità intellettiva, tutta forza fisica. Dopo qualche ora stanca, sfinita e… ho reazioni aggressività, violente. Tu non accorta, stava succedendo quando hai fatto critiche mio modo fare fotografie”.
“Sì che me ne sono accorta”. “Non hai capito, Sonia. In quel momento potuto fare anche male a te”. Ci fu una pausa. “Ed ora dico cosa importante. Ti prego, ascolta”. Ero preparata a tutto. “Sonia, trovato in te persona per avere rapporto. Riesco a stare vicino. In qualche momento riesco stare bene. E quando casa tua, nel letto, hai accarezzato… è piaciuto. Non avevo provato questo. Neppure con Robert. Sei persona speciale per me… e io so durerà poco, sono così, Sonia… poi, parto Giappone o trasferisco Roma”. Tutta la tensione dei muscoli e l’elettricità della pelle e la vibrazione dei nervi si trasformarono in un pensiero: quello era il posto in cui sarei voluta stare su tutta la terra, quella era la persona tra tutti gli esseri umani che avrei voluto vicina a me in quel momento. Era arrivata l’occasione di fare la mia confessione. Reiko avrebbe potuto capire ciò che covava dentro al mio petto dal suo arrivo, quel pensiero che non m’abbandonava e mi faceva impazzire. “Adesso devo confidarti… io”. “Sì”. “Io…”. Dovetti fermarmi perché avvertii che quella frase avrebbe potuto cambiare il corso regolare della mia vita. Quello che fino a quel momento era soltanto un’idea avrebbe potuto prendere corpo, diventare realtà, diventare azione. Presi fiato e continuai. “Io desidero... io ti desidero... tanto”. Si avvicinò a me, alla mia guancia, alla mia bocca.
Ci baciammo. Davanti a tutti. Eravamo il centro del mondo, dell’universo. Le mie labbra sulle sue, la sua lingua sulla mia. Ecco come è cambiata la mia vita. Ecco come io, Sonia Mambri, ho scoperto qualcosa di così importante di me. A quarant’anni. In pochi giorni. Con Reiko.
Procurato allarme
Arrivato vicino casa mia guardai in alto e notai che una finestra del mio appartamento era illuminata: i ladri? No di certo! Chi vuoi che rubi in un appartamento di studenti squattrinati. Probabilmente avevo dimenticato una lampada accesa, tutto qui. Quando aprii la porta di casa mi accorsi che la luce accesa probabilmente non l’avevo lasciata io: c’era qualcuno, sentivo un rumore provenire dal soggiorno, rumore di sedie strisciate sul pavimento. Ebbi paura e pensai subito di scappare via. La porta del soggiorno si aprì. Era Giovanna! La mia collega tirocinante ne Il Parco. In una mano aveva le chiavi doppione che tenevo dietro il vaso sul pianerottolo. Me le mostrò facendole tintinnare. Ero stato io a dirle dove le tenevo, che sarebbe potuta venire a casa mia quando lo desiderava, anche in mia assenza. Indossava la maglietta di lana leggera che portava di solito ed una gonna a fiorellini lunga. Aveva il suo sorriso aperto, divertito. I capelli erano legati dietro. Il viso era luminoso. Si avvicinò a me. Chiuse la porta alle mie spalle. “Ho preparato la cena”. Ed era come se fosse stata con me lì in quell’appartamento da dieci anni e in una giornata qualunque, in una sera qualunque, mi avesse detto quello che abitualmente una donna dice al suo compagno. Mi avvicinai. Lo feci perché non c’era un’altra cosa che avrei potuto fare, perché questo mi chiedevano i suoi occhi. Giovanna portò le mani sulle mie spalle. Io appoggiai le mie sui suoi fianchi. Provai un senso di straniamento: avvertire la sua fisicità mi riportava in un
inaspettato e diretto rapporto con la condizione di realtà privo di fughe compensatorie laterali. Lei si avvicinò ancora a me. E poi ancora. Mi baciò. Sentii la sua lingua e sentii che mi accarezzava i denti, il palato, spingeva la sua lingua verso la mia. Mi avvicinai ancora di più e la strinsi a me. Il suo corpo era forte, solido, stabile. Sentivo il gusto neutro della sua saliva che si depositava dentro le pareti della mia bocca, la assaporavo così come si può fare con un vino di nuova vendemmia. Le misi una mano tra capelli. Erano densi, freschi, elettrici. Lei mi spinse verso il muro, poi si allontanò da me. Sorrideva e mi guardava. “Ti ho desiderato, sco. Sei nei miei pensieri da quando ti ho conosciuto. Vieni, c’è una sorpresa”. Avrebbe potuto portarmi via verso qualsiasi posto. Un posto lontano, un posto freddo, un posto caldo, un posto desertico, un posto montagnoso, un posto ghiacciato. Non mi sarebbe importato dove. C’era lei, Giovanna. E questo era quello che contava. Nel soggiorno trovai la tavola apparecchiata con una tovaglia di colore giallo, delle salviette rosse, un portacandele laccato nero. C’era un vino rosso, c’era un’insalata di radicchio alla brace, c’erano delle fette di pane. “Spero ti piaccia. Il resto è in cucina. Sta bollendo l’acqua per la pasta. Dobbiamo fare attenzione a non scordarla sul fuoco!” L’abbracciai ancora la baciai e spinsi la mia lingua dentro la bocca e lei la spinse più forte di me e mi mise una mano tra i capelli e mi spinse la testa verso di lei io portai una mano sul suo seno e non aveva il reggiseno ed era un seno generoso
ed era morbido e caldo e le sentii il capezzolo mi sembrò largo sentii che era grande le portai le mani alla vita e feci per tirare la maglietta di lana fina verso l’alto lei alzò le mani per aiutarmi a fare scorrere meglio il maglioncino io tirai e venne via scivolando sulla pelle tirai in alto e glielo lasciai tra le mani come a bloccargliele mi distanziai per guardarla aveva un seno più grande di quello che avevo potuto intuire lei continuava a tenere le braccia alzate ed aspettava io mi avvicinai e presi a succhiarle i capezzoli prima uno poi l’altro lei fece sfilare il maglioncino dalle mani e abbassò le braccia il seno diventò ancora più generoso l’afferrai e lo strinsi prima piano e poi più forte sentii Giovanna gemere continuai a baciarla lei mi prese ancora la testa tra le mani mi fece alzare mi spinse sul divano mi sdraiai si abbassò in ginocchio su di me mi mise una mano dentro i pantaloni mi guardava la guardavo con l’altra mano cercò la fibbia della cintura sotto il maglione aprì la cerniera aprì la bocca ma non arrivò a toccarmi io sentii una scossa e mi arcuai indietro lei si arretrò mi guardò ancora diritto negli occhi e sorrise si abbassò sentivo la sua lingua sentii che il piacere stava arrivando sempre più vicino non riuscivo a controllarlo non riuscivo a bloccarlo mi tirai indietro. Giovanna, all’improvviso, si allontanò da me e vidi un’improvvisa espressione accigliata nel suo sguardo. “Dio mio! La pentola con l’acqua!” Gridò e schizzò verso la cucina ed io appresso a lei. Nonostante la situazione di emergenza, ero divertito a vederle ballonzolare il seno nella sua breve corsa verso l’altra stanza. “Avevo messo l’acqua a bollire e ce ne siamo dimenticati! sco, ti avevo avvertito! Speriamo non sia successo niente!” Aperta la porta della cucina, una vampata di fuoco ci sorprese: da sotto la pentola le fiamme arrivavano quasi fino al soffitto. Giovanna, arretrò spaventata, io la scansai ed entrai dentro per vedere meglio. Il fuoco partiva da dietro i fornelli, dal tubo del gas che collegava le piastre alla bombola. “sco attento! Può scoppiare tutto!” Nell’agitazione non mi ero accorto che avevo il mio coso fuori dai pantaloni, dovevo sembrare assai buffo pensai.
“sco, vado a chiamare i pompieri!” Scappò nell’altra stanza a telefonare. Il fuoco sembrava aumentare di secondo in secondo. Non c’era un attimo da perdere. Mi lanciai verso la bombola, ad afferrarne il rubinetto. Lo girai velocemente fino a chiuderlo. Le mani mi scivolavano sulla manopola, erano sudate. Riuscii lo stesso ad arrivare a fine corsa. Il fuoco diminuì di intensità, lentamente, fino a scomparire. Sulla porta c’era Giovanna. Ero orgoglioso di me. Ero orgoglioso di avere dato una prova di coraggio davanti a Giovanna. “E con i pompieri adesso come facciamo? Li ho chiamati ed hanno detto che sarebbero arrivati di gran corsa!” Nella stanza c’era un gran fumo e puzza di bruciato. “Hai dato il nome? Hai detto in che piano era l’incendio?” Dissi, deluso di non avere ricevuto apprezzamenti da parte sua per quello che avevo fatto. “Non ricordo, di sicuro ho dato la via ed il numero. Il centralinista mi ha detto di uscire subito fuori dall’appartamento e di farmi trovare giù al portone del palazzo”. “Vieni. Andiamo di là!” La camera da letto era in disordine come al solito. Tolsi la borsa, dei libri e dei bicchieri che occupavano il lato del materasso sul quale non dormivo, li buttai a terra. “sco! Tra poco ci saranno qui i pompieri! Che facciamo?” L’afferrai e la feci rotolare tra le lenzuola che non avevano per niente un buon odore, non le cambiavo da qualche settimana. Sperai che Giovanna non ci avrebbe fatto caso.
“Se vengono, non sanno chi li ha chiamati. Penseranno che è stato uno scherzo”. “E la puzza, non ci hai pensato? Potrebbero sentire la puzza dal pianerottolo!” Mi alzai di scatto, presi alcuni stracci dallo sgabuzzino, alcuni li misi sotto la porta della cucina e degli altri sotto quella dell’ingresso. Tornai nella stanza da letto. Giovanna era sdraiata con le braccia verso l’alto, immobile, gli occhi chiusi, un sorriso complice. Si era tolta le scarpe. La lunga gonna leggera a fiorellini le copriva le gambe. Raccolsi il bordo della gonna e lo tirai fin su le ginocchia le sfiorai le dita dei piedi le caviglie i polpacci le baciai le ginocchia lasciai scendere della saliva giù dagli stinchi che fece degli strani giochi perché si bloccava in alcuni peli chiari formando delle goccioline brillanti feci una leggera pressione con le dita e lei si lasciò andare e le gambe si aprirono lentamente la baciai con tocchi morbidi qui e là nei punti in cui la pelle era più soffice sentivo i suoi muscoli rilassarsi presi le caviglie con le mani le alzai in alto le gambe la gonna si spostò tutta sulla sua pancia aveva delle mutandine nere molto larghe ripresi a baciarle le cosce feci scorrere della saliva che scese fino ad arrivare alle mutandine Giovanna si tirò indietro ed emise un sospiro sorrideva ancora in modo furbo mi abbassai con la testa mi strinse dietro la schiena con i piedi ed i polpacci arrivai alle mutandine aderenti e pesanti di un tipo che non avevo visto mai le scostai presi a baciarla lentamente lentamente lentamente e trovai un sapore che non avevo mai sentito e un odore che non avevo mai sentito lei mi mise le mani tra i capelli e mi spinse. Dalla strada arrivò l’urlo degli automezzi dei pompieri, in rapido avvicinamento. Rimasi bloccato, fermo, immobile. Sentii suonare al citofono, sentii la gente che si riversava nei pianerottoli, sentii le urla: “Fuori, fuori, c’è un incendio, tutti fuori!” Giovanna mi prese le guance e mi tirò verso di lei. Le arrivai sopra con tutto il corpo. Mi tolsi la maglietta, la strinsi a me, sentii il tepore generoso del suo seno, la sua pelle liscia e morbida. Mi scostai, con un gesto rapido le tolsi le mutandine e la gonna senza trovare alcuna resistenza, come si vede nei film, come se i corpi non avessero peso. Mi tolsi i pantaloni, le mutandine, rimasi nudo. Qualcuno bussò al camlo, sentii forte il din don e pensai che era il
momento per rinunciare ad andare avanti. Giovanna mi tirò verso di lei. Mi ritrovai a guardarla negli occhi da vicinissimo. Era così bella, così bella, così bella da creare uno scarto pericoloso, tormentoso, problematico con tutto ciò che avevo conosciuto fino a quel momento in tutta la mia vita. Sentii la responsabilità forte di sostenere quella bellezza nei miei occhi. Com’è incredibile la nostra vita: ricerchiamo la felicità, la bellezza, la realizzazione personale e fingiamo di non sapere che conquistarle equivale ad accettare un dolore, a sopportare la paura di perderle. Cominciarono a battere contro la porta e a gridare: “C’è nessuno in questo appartamento? Aprite! Siamo i pompieri! C’è qualcuno qui dentro?” Mi feci scivolare con le spalle sul letto e tirai Giovanna sopra di me, avrebbe trovato lei il modo. Si avvicinò lentamente sentivo la sua carne sentii il suo gemito sentii un dolore secco della pelle mi ritirai guardai il suo seno le sue guance il suo sorriso coraggioso spinsi in avanti lei venne verso il basso sentii un calore che mi saliva dentro ero dentro di lei lanciò un urlo secco portò la testa e la schiena indietro. Nelle scale c’era un via vai di gente, salivano, scendevano, sbraitavano. I led della radiosveglia erano spenti, avevano staccato la corrente al mio appartamento, forse a tutto il palazzo. Giovanna prese a muoversi delicatamente e ritmicamente. Sentii il suo sudore sul mio mio sudore afferrai con tutt’e due le mani i suoi fianchi la spinsi da un lato le fui sopra lei mi disse forte si! riconobbi gli occhi che le avevo scoperto al tirocinio mentre ascoltava le istruzioni del dottor Mambri per seguire il paziente che le aveva affidato. Non smisi di muovermi continuai ancora ed ancora il piacere stava arrivando anche per me e non potevo trattenerlo e non dovevo trattenerlo e non c’era nient’altro da fare.
Fuori, tra le scale non si sentiva più baccano, la gente era rientrata dentro gli appartamenti, i led della radiosveglia si erano accesi di nuovo.
Disteso, sentivo un senso di responsabilità nuovo. Assomigliava a quando, da bambino, mia madre, per andare a fare la spesa, mi lasciò per la prima volta solo in casa con mio fratello più piccolo di me. Giovanna spostò la testa sul mio petto, sentii il suo respiro lento, profondo, leggero. Ci addormentammo.
Quando ci risvegliammo era tardi. Andai alla porta a levare gli stracci che avevo messo a terra per non far uscir fuori il fumo ed il cattivo odore di bruciato. Aprii la porta del pianerottolo, attaccato c’era un foglio con scritto a caratteri grandi: “Denuncia per procurato allarme”.
IL PARCO
Caro Luis, finalmente trovo il coraggio di scriverti questa lettera. E’ una liberazione adesso che sono qui davanti al foglio bianco e posso comunicare ciò che sento. Figlio mio, è tanto tempo che ci provo ma non ne ho avuto mai il coraggio. E’ arrivato il momento. Queste sono le ultime parole di tuo papà. Quando domani tornerai dalla vacanza con mamma io non ci sarò più, ho deciso di farla finita. Ho fallito, ho fallito nella vita e, soprattutto, non sono più in grado di amarvi, di stare al mondo. Non sono neppure più in grado di ascoltare i miei desideri, i miei sogni, di dare retta al mio talento: tutto è così lontano dalle mie aspettative, dai miei obiettivi. Ormai da troppo tempo non ho più nessuna voglia di continuare a vivere. Ho tentato, come sai, con la costruzione di questo residence, IL PARCO, di trovare un motivo di realizzazione personale. Non è bastato neppure questo: alla fine mi sono arreso perché ciò che adesso non c’è più è la capacità di amare, di amarvi e di amarmi, di volervi bene e di volermi bene, di riuscire a fare le cose, qualsiasi cosa, perfino trascorrere del tempo insieme a te. Vengono giù le lacrime ed io sono così diffidente di fronte alle lacrime, quelle degli altri e quelle mie. Voglio che tu mi ricordi così come ero una volta: un imprenditore di successo, un apionato di pittura, un uomo dedicato alla famiglia che cura con amore i legami più intimi. Ecco come voglio essere pensato da te. Adesso basta. Credo di aver scritto anche troppo. Mi sento stanco, scrivere queste righe mi ha messo addosso un peso incredibile, come se avessi ingerito chissà quali sonniferi.
Ti ho amato tanto figlio mio. Per sempre.
Emanuele, il tuo papà.
1
Che mal di testa. Sono ancora immerso in questo sogno così realistico che mi sembra di starci dentro. Fuori c’è già luce. Non riesco a stare in piedi, è meglio che mi sdrai di nuovo. Giovanna bussa alla porta. Credo mi abbia sentito alzare, probabilmente ha già preparato la colazione ma a me non va di vedere nessuno. “Che c’è?” “Buongiorno, ero preoccupata per lei, questa mattina si è svegliato così tardi”. “Ascolta, va bene così, grazie, anzi... vieni pure”. “Va tutto bene?” Guarda intorno con fare circospetto. Appoggia il vassoio sulla scrivania togliendo i pennelli ed il mi acquarello con il disegno de Il Parco. Ho fatto bene ieri sera a non lasciare la lettera indirizzata a mio figlio sul ripiano. “Bel dipinto: le casette, il boschetto, il laghetto, le montagne colorate in modo fantasioso, sembra naif...”. “Lascia perdere il quadro. Vuoi fare colazione con me? C’è roba in abbondanza”. “No no, sono a posto. Come si sente questa mattina?” “Ho la testa pesante, ho fatto un sogno... mi ci sento ancora dentro”. È una brava ragazza Giovanna, è un po’ di tempo ormai che lavora per me e si è sempre comportata in modo professionale. “Anch’io ho fatto un sogno questa notte ma non riesco a ricordarlo. Mi vuole raccontare il suo?”
Da quando porta i capelli sciolti sulle spalle ha un’aria più sbarazzina. “Mi trovavo dentro un’auto, al posto del eggero, mio figlio alla guida e sulla plancia due volanti, uno al posto del guidatore e l’altro al posto del eggero; mio figlio tiene stretto con le mani il suo sterzo ed io il mio. Ad un certo punto mette le sue mani sul mio sterzo ed io mi arrabbio e gli dico bada al tuo sterzo lascialo perdere questo qui, questo è il mio sterzo e lui, invece, con le mani sul mio a girare a destra e a sinistra e la macchina che va ora da una parte ora dall’altra. É pure pericoloso, gli dico ma niente, lui continua a smanettare fino a quando non arriviamo da un meccanico... anzi no, è un gommista, quello che mette a posto le ruote, l’equilibratura, queste cose così. Posteggia la macchina dentro l’officina, scende e dice al gommista di controllare la convergenza perché la macchina non va diritta, dice lui. Cazzo, è normale, dal momento che facevi a destra e a sinistra con il volante. Perché non dice la verità al gommista? invece di inventarsi un guasto della macchina”. Giovanna ascolta con pazienza, sembra più adulta dei suoi anni. Mi versa il latte nella tazza e poi ci aggiunge qualcosa che sembra zucchero o un dolcificante. Mi esorta a continuare. “Allora... scendo dall’auto, rimango sorpreso nel notare che il gommista ha tanti collaboratori vicino a lui, degli aiutanti, mi sembra di riconoscere i loro volti, somigliano a quelli degli ospiti de Il Parco, gli ospiti del mio residence, le persone che ospitiamo nelle nostre casette, la casetta gialla, quella verde, quella rossa, quella bianca oltre alla mia, quella blu”. Il sole si sta alzando nel cielo, nella stanza entra la luce filtrata dalle tende. Il disagio che ha accompagnato il sogno non mi abbandona: che frustrazione non potere scegliere autonomamente la direzione da dare alla macchina, poterne determinare il percorso, la strada da fare. Che fatica. Che freddo. La testa, mi fa male la testa. “E’ solo un sogno”, dice Giovanna, “si è svegliato e si trova nella sua stanza... nella stanza sua e... di suo figlio. Lei può scegliere, può scegliere cosa fare, dove andare. E’ questo il bello dei sogni quando li racconti al mattino: ti puoi rendere conto che si trattava soltanto di un sogno e non della realtà. Per esempio, adesso cosa desidera fare? Vuole uscire? Rimanere a casa? Vuole fare un giro all’interno del Parco, del residence? O cosa? Può scegliere. Scegliere”.
“Mhhh, adesso ho voglia di finire la colazione e poi vorrei uscire e fare una eggiata fuori, nel Parco, nel residence, andiamo a trovare i nostri ospiti. Grazie Giovanna, sei molto cara”. Si avvicina alla scrivania, al cassetto dove ho infilato la lettera destinata a Luis, sembra che voglia aprirlo! No, prende solo il vassoio per portarlo via. Mi ha ascoltato con interesse, senza accenni ad una interruzione, con uno sguardo accogliente e premuroso. Qualche tempo fa queste attenzioni mi avrebbero rincuorato, aiutato, scaldato, mentre adesso queste premure che ricevo non sono altro che piccoli lampi di luce in un campo buio da attraversare di notte, troppo piccoli per rischiarare, troppo deboli per illuminare un percorso, una via di fuga. “Allora, a tra poco”, mi dice mentre esce dalla stanza. “A tra poco”.
2
Percorriamo il viottolo che porta alla casetta gialla, quello che costeggia il laghetto del Parco. Mi appoggio alla staccionata, la gamba sinistra mi fa male da quando ho avuto l’incidente... dov’è successo? era un posto alto... . Giovanna cammina qualche metro davanti a me, sembra di buon umore. Ha dei jeans che le disegnano il profilo delle gambe ed un pullover di lana leggera di buona fattura, abbastanza aderente da rilevare il profilo del seno. Prima di arrivare alla casetta colorata di giallo mi chiede se vogliamo sederci un po’ sulla panchina vicino al laghetto, di fronte alla zona dove nuotano le papere. “Ho fatto costruire questo laghetto prima ancora dell’intero Parco... “. “Sì”. “Dicevo, ho fatto costruire questo laghetto per rendere ancora più ospitale il mio residence...”.
Lei non risponde ma mi dice alcune cose sulla filosofia e la spiritualità ed io non capisco, è come se volesse spiegarmi, insegnarmi qualcosa. Lo fa a bassa voce, con gentilezza, con uno sguardo comionevole, sì, comionevole, non ho un’altra parola per definirlo. Quando riprendiamo il cammino verso la casetta gialla sento la ghiaia che si conficca nelle suole delle mie scarpe, di questa specie di scarpe che assomigliano a delle pantofole. Quando ho costruito Il Parco, questi sentieri avrei dovuto farli realizzare in terra battuta ma ormai... . “Sembra non esserci nessuno” dico quando arriviamo in prossimità della casetta gialla. “No, Osvaldo è sempre all’interno, ad ascoltare musica”. “Ho sognato anche Osvaldo questa notte, uno dei collaboratori del gommista”. “Vuole andarlo a trovare?” Mi chiede. Faccio un cenno di sì. Osvaldo è qui da qualche tempo ormai, non ne conosco la storia, è molto riservato. Ci ha sentiti arrivare ed ha aperto la porta. Ci invita ad entrare dentro. Ci chiede se vogliamo bere qualcosa. Io accetto un caffè ma Giovanna mi fa cenno che è meglio di no, che già ne ho preso uno poco fa. Decidiamo per altro. Ci sediamo attorno al tavolo e questa volta Osvaldo ha voglia di parlare, di raccontare. Ha avuto un grave incidente stradale, insieme alla sua compagna, alla donna che avrebbe sposato dopo qualche mese. Una macchina gli è venuta addosso all’improvviso: la sua compagna ha perso la vita, il corpo schiacciato tra le lamiere, l’ha vista morire davanti a lui: “non ce l’ha fatta”, dice, “non ce l’ha fatta”. Si sofferma su queste parole e le ripete lentamente come se all’interno di questi vocaboli ci fosse la registrazione visiva di quanto è accaduto e lui si trovasse lì ad osservare per l’ennesima volta quelle immagini. “Chi era alla guida, che cosa è accaduto nell’altra auto?” Lui risponde in modo vago, fa riferimento ad un matto che vagabondava in
mezzo alla strada, di notte, non riesco a comprendere bene quello che voglia dire perché la sua voce si è fatta bassa e cupa. Non ho voglia di chiedergli di parlare più forte. Osvaldo alza lo sguardo ed io, io mi sento colpevole di qualcosa ma non capisco di cosa. “Non facciamo altro che negare queste realtà dell’esistenza”, dice, “ma la verità è che la sofferenza, la malattia e la morte sono ciò che si incontra inevitabilmente sulla nostra strada. La nascita è sofferenza, la vecchiaia è sofferenza, la morte è sofferenza, essere uniti a ciò che non si ama è sofferenza, essere separati da ciò che si ama è sofferenza, non avere ciò che si desidera è sofferenza”. Adesso ha un tono pacato, come quando Giovanna aveva parlato a me mentre eravamo seduti sulla panchina vicino al laghetto. Osvaldo mi regala un sorriso, gliene sono grato: per un attimo avevo sentito un pericolo vago di imprevedibilità. Bussano alla porta, Osvaldo va ad aprire. È una donna, alta, una espressione piacevolmente infantile. Una macchia rossa sulla fronte probabilmente dovuta a qualche malattia della pelle. Osvaldo ce la presenta, si chiama Beatrice. Si unisce a noi con qualche impaccio. Quando andiamo via e siamo già abbastanza lontani dico a Giovanna di non aver compreso per quale motivo Osvaldo mi avesse detto quelle cose sulla vita, sulla morte, sulla sofferenza. Mi giro a guardare indietro verso la casetta gialla, c’è Beatrice, a mani conserte davanti alla porta, ho come la sensazione che stesse guardando me, solo me. “Lu... signor Emanuele, a lei interessa la pittura?” Mi chiede a bruciapelo. “Credo di sì ma il mio lavoro è quello di imprenditore, costruire, costruire posti come questo, come Il Parco”. Non ricordo più quali siano i miei interessi. Che importa ormai ciò che ricordo e ciò che non ricordo. È troppo tardi.
3
Procediamo lentamente. o dopo o, Giovanna dietro di me. Le ho detto del dolore alla gamba sinistra e lei mi ha insegnato una tecnica per poggiare il piede per bene a terra: il tallone, la pianta, le dita, tutto il piede, il corpo in sospensione e poi l’altro piede, il tallone, la pianta... . È tutto qui, sentire il mio corpo , il mio respiro: è tutto ciò che ho in questo momento, oltre allo sguardo di Giovanna che adesso mi viene a fianco. La casetta con le facciate color verde si trova poco dietro la curva. Il tallone, la pianta, le dita, tutto il piede, il corpo in sospensione... . “Vuoi fare anche tu questo gioco? Il gioco del o lento? Il gioco di sentire il corpo?” “Certo, facciamolo insieme. Ripeti con me queste parole ad ogni o: sofferenza, causa, cessazione, fine; sofferenza, causa, cessazione, fine, soffer...”. Ripeto con Giovanna, non capisco cosa voglia dire ma ripeto. Che bello creare questa sintonia con Giovanna. La testa, ancora mal di testa. “Questo viottolo che conduce alla casetta verde è una sorta di serpentina che io ho fatto costruire...”. “Sì”. “Ci vivono sempre gli stessi ospiti? I due ragazzi con il loro bambino piccino piccino?” “Certo, anche loro sono qui con noi, fanno lo stesso percorso”. Li vedo già, seduti in veranda: in braccio il loro piccolo fagottino: il loro bambino nato prematuramente. Sono venuti a riposarsi qui nel mio residence, dopo il periodo trascorso in ospedale nel reparto per i prematuri. “Come andiamo questa mattina?”, chiedo non appena mi trovo ad una distanza tale che possano sentirmi.
Rispondono qualcosa con un gesto di cortesia, mi avvicino: non resisto al desiderio di osservare il neonato da vicino, è così tenero. Sembra un topolino, avvolto nel suo pigiamino celeste, le sopracciglia alzate in una espressione di attesa. “Deve essere stata dura”, dico alla madre che lo tiene in braccio, “immagino quanta paura abbiate provato, quanta apprensione”. “Per mesi nella incubatrice, fuori dalla mia pancia”, pronuncia quel mia con un calo di voce, “senza nutrirsi dalla placenta e...”, si guardano con Giovanna come a consultarsi su ciò che c’è da dire, “quando il medico ha scoperto che c’era qualcosa che non andava per il verso giusto, mi ha operata d’urgenza: alla nascita pesava novecentosessanta grammi”. Risponde la signora scostandosi un ciuffo di capelli biondi che le copre la bella fronte chiara. “Sembra un coniglietto, vero?” dice il padre, un tipo piazzato con l’aria stanca, affaticata. Ho la sensazione che mi guardi con un’aria torva, forse perfino rabbiosa. “Una terribile avventura”, dice Giovanna, “adesso è ata, si guarda avanti”. I due non rispondono ma si comprende chiaramente che a loro non è ata per niente e forse non erà mai. Giovanna mi dice a bassa voce.”Le mamme non perdonano mai a se stesse, mai, per tutta la vita, se qualcosa è andato storto al momento della nascita del loro bambino: come se fosse loro la colpa dei problemi che si verificano alla nascita”. Osservo ancora il piccolo: le sopracciglia alzate e gli occhi chiusi, sembra davvero un coniglietto. Adesso che ci penso: “Giovanna, i due ragazzi, i genitori del piccino, hanno la stessa faccia di alcuni personaggi del mio sogno, due tra gli aiutanti del gommista...”. “Beh, avrà qualche significato”, risponde lei. Loro hanno sentito la mia frase e mi chiedono di raccontare il sogno ed io riferisco quello che ancora riesco a ricordare: la macchina con due sterzi, il gommista ed i suoi collaboratori, mio figlio. Quando pronuncio la parola mio
figlio i due fanno una faccia strana ma io continuo a parlare. “Ed il nostro bambino?” mi chiedono. “Ed il nostro bambino cosa?” replico. “Il nostro bambino non c’era nel suo sogno?” “Certo che c’era anche il piccolo...”, mento. “Tancredi, si chiama Tancredi”, dice la Madre “Lo abbiamo chiamato come il personaggio del Gattopardo, il nipote del principe”, dice il padre,”il giovanotto pronto ad affrontare una nuova era, a combattere nel nuovo mondo, a realizzarsi in una fase storica di trasformazioni sociali. Il nostro piccolo Tancredi non era neppure nato ed ha sperimentato la sofferenza, la vera sofferenza, da solo, nella pancia di sua mamma. Tancredi sarà pronto al nuovo mondo, combatterà e vincerà con le sue capacità di adattamento, con la sua forza di vivere, ecco quello che farà”. Giovanna mi fa segno di rispondere, di dire qualcosa ma a me non viene niente in mente, sono bloccato. “Con la vita, piccolo Tancredi,” dice Giovanna al posto mio, “tua mamma e tuo papà ti hanno donato una straordinaria possibilità, una straordinaria occasione di realizzare il tuo talento, i tuoi sogni, i tuoi desideri, qualunque essi siano ed in qualunque posto essi ti chiamino per essere realizzati: che si tratti di un sogno di amore piuttosto che di un percorso creativo piuttosto che di una realizzazione spirituale o ancora di una professione o... di vivere così, senza mete ed obiettivi. Ciò che io vi auguro ed auguro a vostro figlio Tancredi è di essere consapevoli: consapevoli del momento che stiamo vivendo, consapevoli di ciò che sentiamo nel profondo del cuore, consapevoli dei nostri pensieri, del nostro comportamento e delle nostre azioni”. Sembrano soddisfatti e contenti per questo bel pistolotto: la moglie mostra il suo sguardo soddisfatto; il marito, per un attimo mette da parte la sua espressione incazzata. E lui? Tancredi?
Lui inarca ancora di più le sopracciglia verso l’alto, tiene gli occhietti chiusi, in una tenera espressione di attesa. Quando andiamo via Giovanna mi mette una mano sulla spalla, un attimo, solo per un attimo ed io avverto che voglia dirmi qualcosa, forse vuole dirmi tu mi piaci. Ho la sensazione che le cose che ha detto prima ai due ragazzi le abbia spiegate a me in qualche altro momento, non ricordo quando, quando e dove me le abbia dette. Ciò che mi rimane addosso è un leggero calore sulla spalla, proprio dove Giovanna ha poggiato la sua mano. Mi piacerebbe poterle chiedere: ancora, ancora un po’, tieni la mano sulla mia spalla ancora un po’. Riprendiamo la camminata lenta: il tallone, la pianta, le dita, il corpo in sospensione e poi l’altro piede, il tallone, la pian... un pensiero attraversa rapido la mente come un coniglietto che schizza veloce da una parte all’altra del sentiero: domani non potrò più vedere il piccolino, non potrò più vederlo, osservarlo, guardargli le sopracciglia alzate sui suoi occhietti chiusi, piccoli. Piccoli.
4
Prima di arrivare al bungalow colorato di rosso bisogna ritornare a costeggiare il laghetto ed entrare nella zona alberata, un piccolo boschetto di eucalyptus che ho fatto piantare alla nascita di... Luis. Con Giovanna imbocchiamo il sentiero che attraversa questa zona de Il Parco. Qualche tempo fa, quando ci venivo a eggiare con mio figlio, chiamavamo questo posto la galleria degli alberi, perché in quest’area si forma una piacevole zona d’ombra, specie d’estate quando c’è caldo. “D’estate? È sicuro di esserci stato d’estate? Con suo figlio? La galleria di alberi?” Mi chiede Giovanna mentre dico queste riflessioni a voce alta. “Sì, d’estate”, rispondo ma non sono così sicuro. La testa, mi fa male la testa. “Buon giorno dottor Mambri”, dice Giovanna.
C’è lui, il dottor Mambri, seduto sulla panchina, sotto l’eucalyptus più robusto e rigoglioso di tutto il boschetto, proprio davanti alla grande casa di mattoni. Sì, è lui, il gommista del mio sogno! Il capo dell’officina, quello che sistema e dirige! I baffetti ben disegnati, i capelli bianchi pettinati alla dandy, occhialini rotondi piccoli ad incastonare degli occhietti vispi. Glielo dico subito al dottore che l’ho sognato e glielo racconto ma veniamo interrotti dall’arrivo di due persone che non conosco, si presentano come poliziotti, intravedo la pistola di uno di loro sotto la giacca. Sembrano avere una certa familiarità con il dottore, gli consegnano qualcosa, una carpetta. Si avvicinano a me e Giovanna. Mi pongono delle domande, i poliziotti mi chiedono se qui mi trovo bene, che cosa penso di questo posto, mi chiedono di ricordare alcune cose, parlano di un incidente ed è a questo punto che il dottor Mambri dice alcune cose che non capisco ma il cui esito è la conclusione del colloquio con i due che poco dopo se ne vanno via. “Mi stavi dicendo del sogno”. “Ho fatto un sogno e lei era un meccanico, un gommista che aggiustava le ruote, l’equilibratura e queste cose così...”. Mi chiede cosa ci sia andato a fare dal gommista e gli racconto della macchina con due sterzi, uno per me ed uno per mio figlio, che mio figlio Luis si metteva a girare lo sterzo, da una parte e dall’altra”. A un certo punto mi dice: “è un sogno molto interessante”, e poi, rivolto a Giovanna, “abbiamo fatto bene a scegliere questo momento, ci siamo!” “Che significa?” “Luis possiamo cominciare la parte dell’atterraggio”. “Cosa vuol dire cominciare la parte dell’atterraggio e poi... io mi chiamo Emanuele”. Dico ma sento che potrebbe avere ragione, non sono sicuro, non sono per niente sicuro che Emanuele sia il mio vero nome. “Possiamo mettere le ruote per terra, ecco cosa significa, non l’hai detto tu stesso che io sono il gommista? Bene, adesso è il momento di cominciare a prendere maggior contatto con la realtà”. “Quale realtà, cosa significa cominciare a prender...”. “La tua anima, la tua vita psicologica è fragile, molto fragile. Ne hai sofferto fin
da piccolo”. Interviene adesso Giovanna. Perché adesso mi da del tu? penso ma è come se fosse normale ed ordinario che mi dia del tu. “Qualche mese fa hai avuto una crisi più forte delle altre, ti ha turbato profondamente. Qui ti trovi nel posto giusto, ci siamo noi con te, ci prendiamo noi cura di te... e degli altri”. “Degli altri?” dico ma forse credo di comprendere cosa voglia dire. Sento un dolore improvviso alla testa, un dolore lancinante. Riesco ad evitare di urlare. “Piano, piano”, dice Mambri, “non c’è nessuna fretta”, sorride, “atterraggio morbido, dobbiamo fare un bell’atterraggio morbido”, fa un gesto con le mani a mimare le ali di un aereo. Mi invita a sedermi accanto a lui, sotto l’albero, il grande eucalyptus. “Ecco, così, ascolta, ascolta adesso: non è così semplice, non sarà così semplice, proverò a spiegarti”. Adesso che parla, mentre sento il suono della sua voce, prendo coscienza che io questa persona l’ho incontrata spesso, forse Mambri lo incontro tutti i giorni, tutti i giorni. “Capisci? Riesci a ricordare?” mi dice concludendo un discorso che io non sono riuscito a seguire per intero. “Ricordare?” ripeto in modo automatico. Nel pronunciare questa parola è come se avessi dato il via ad un filmato dentro la mia mente, immagini che scorrono rapide, veloci, cerco di afferrarle. “Prova a parlarci, a dirci quello che senti”. Mi dice Giovanna. “Io... io penso...”, le immagini adesso sono più chiare, come in un film, non sono sicuro di volere raccontare ciò che vedo, quello che sento. Va bene, parlo: “la strada, è buio, buio dappertutto, sono solo, cammino, sulla strada, asfaltata, le luci delle macchine, ci sono le luci delle macchine, io attraverso la strada e penso che sono forte, invincibile, immortale, questo penso, le macchine ano rapide, il suono del clacson corre via con loro, uauuuuuu, uauuuuuu. Ad un certo punto scrrrrr scrrrrr, un rumore terribile, le frenate, sbandano, forse cercano di evitarmi, intorno è buio ma quando arrivano le auto con quei fari enormi illuminano tutto e ci sono gli alberi, il guard rail, le strisce bianche sull’asfalto, poi... poi...”. “Poi? Continua, siamo con te. Non avere paura” mi dice Giovanna e prende la mia mano tra le sue. Sento il suo calore e vorrei non mi lasciasse mai. Tienimi qui con te per sempre, non lasciarmi morire, questo vorrei dirle ma sento un
rumore, un rumore, una frenata, una frenata da una parte, una frenata dall’altra, non capisco se è dentro o fuori la mia mente. “Frenano, da una parte e dall’altra, la frizione delle ruote sull’asfalto... screeee screee screeeeeee, eeee, screeee...”. La testa, la testa, mi fa male la testa, non lo sopporto. “So cosa succede adesso, lo vedo, lo schianto, le lamiere, le lamiere delle macchine che si deformano tutt’intorno a me, il puzzo dei copertoni e di olio e benzina, il sangue...” . “Basta così, basta così per adesso” dice il dottor Mambri. “Sì, basta così, va bene così” continua Giovanna. Giovanna ed il dottor Mambri si guardano, sembrano compiaciuti. “Luis”. Credo di comprendere perché mi chiamano Luis: è il mio nome! “Riesci a ricordare perché ti trovavi lì, da solo, di notte, su uno scorrimento veloce, scalzo?” Hanno ragione, ricordo il dolore ai piedi, alla gamba, come quando cammino sopra la ghiaia dei viottoli del Parco... ma loro come fanno a sapere che io quella notte ero lì sullo stradone? che ero scalzo? “Voi come fate a sapere... c’eravate anche voi?” “No, non c’eravamo in quel momento. Io c’ero invece la prima volta che hai tentato di farla finita, sulla terrazza dell’Empire State Building, ricordi quando ho tentato di liberarti la gamba incastrata nell’inferriata? “Sì... la gamba, mi fa male ancora. E adesso? Voi c’eravate?” “Nell’ultimo... incidente, siamo intervenuti successivamente, dopo la... disgrazia ci siamo presi cura di voi, di tutti voi” dice il dottor Mambri. “Tutti noi?” “Tutti voi, tutte le persone coinvolte tragicamente nella sciagura. Vi curiamo qui, ne Il Parco”. “Curiamo? Qui ne Il Parco?”.
“Luis... posso continuare a chiamarti Luis?” Annuisco, anzi, adesso provo sollievo a sentirmi chiamare con il mio nome. “Luis, tutti noi abbiamo bisogno di avere la sensazione di poter controllare il mondo, di sentirci gli architetti dell’universo: è il nostro modo di difenderci dalla natura stessa della vita: incontrollabile, in continuo cambiamento, qualche volta minacciosa. Capisci cosa intendo?” Dico di sì, ma non sono così sicuro di aver compreso. “Allora, se accade qualcosa di terribile, improvviso, inaspettato, doloroso, qualcosa che ci obbliga in modo brutale a prender coscienza che siamo solo degli esseri umani, che vivono in un tempo, in uno spazio, se accade qualcosa di... catastrofico, per esempio un incidente, un grave incidente, allora il nostro corpo e la nostra mente cercano di difendersi e ognuno di noi, ogni persona ha il suo modo di reagire, di ripararsi, di tentare di sopravvivere e... tu eri già fragile psicologicamente, è la tua natura, la tua vita: è arrivata una delle tue crisi, sei stato male, sei uscito fuori casa di notte, sei finito su uno stradone. Capisci?” Mi guarda dritto negli occhi. Io, in realtà, non lo so se ho capito veramente quello che mi vogliono dire, capisco solo che io sono Luis, ecco quello che capisco. Ecco cosa intendevano Giovanna ed il dottor Mambri per atterrare, prendere contatto con la realtà e adesso mi rendo conto che sono giorni, settimane, forse mesi che loro mi preparano a questo, che mi dicono queste cose: io sono Luis. “Sono Luis, ho venti anni e sono un pittore” dico d’improvviso. “Emanuele non è il mio nome”, aggiungo, “è il nome di mio padre, Emanuele è il nome di mio padre”. Loro mi guardano e mi regalano un sorriso largo, forse oltre che contenti per me sono compiaciuti di qualche cosa che ha a che fare con loro, con il loro lavoro. Questo penso. “Sì, proprio così”, dice Giovanna, “Emanuele è il nome di tuo padre e tu ti trovi qui ne Il Parco: un centro specializzato per la cura della sofferenza psicologica. Domani i tuoi genitori verranno a trovarti”. La testa, la testa, torna a farmi male la testa. Un dolore, forte, fortissimo.
Giovanna si accorge del mio malessere, tira fuori qualcosa dalla tasca: “Prendi questo Luis, butta giù, anche senz’acqua, è quasi l’ora della medicina”.
5
Puoi toccarmi ancora? Ancora. Come prima, la tua mano sulla mia. È tutto ciò che voglio, che desidero. Questo vorrei dire a Giovanna mentre camminiamo. Un o dopo l’altro, lei accanto a me, siamo così vicini. La luce, la luce del sole è intensa adesso che usciamo dall’ombra protettiva del boschetto. “Torniamo dentro, il sole è troppo forte”. Alzo le mani verso l’alto per ripararmi. Facciamo qualche o indietro, protetti dai rami fitti degli alberi. Non ci può vedere nessuno qui. “Mi piace stare con te”, le dico. “Sei carino a dirmi queste cose, Luis. È davvero un bel posto ma non vorrei fare tardi”. Il terreno è coperto da un tappeto di foglie di eucalyptus, mi appoggio a terra. “Aspetta, vieni qui, sediamoci per qualche minuto, riposiamoci un po’. Prima, con il dottor Mambri è stato impegnativo, stancante”. Lei si abbassa lentamente fino a sedersi accanto a me. “Grazie a te riesco a ricordare, a capire. Grazie a te. Sei così bella”. Cerca di allontanarsi quando tento di avvicinare la mia guancia alla sua. Le cingo il collo con un braccio. Lei dice no ancora no ma in realtà non vuole respingermi, lo sento. “Luis, ti prego smettila, smettila subito!” Avvicino le mie labbra alle sue. Sono serrate, chiuse.
La stringo ancora più forte. “Luis, mi fai male, adesso, basta”. Sento la generosità del suo seno sul mio petto, abbasso la mano fino al suo sedere... Cristo, come è bello. “Luis, Luis, se non la smetti grido, grido e mi sentiranno tutti!” So che non lo farà, lei mi vuole, vuole me. Non lo farà. La stringo più forte al mio petto: che seno, che seno grande che ha Giovanna, ancora più grande di quello che avrei immaginato. “Luis, te lo dico per l’ultima volta, l’ultima volta e poi mi metto a strillare, ti ho avvisato.” Non lo farà, lei mi vuole. Mi desidera, come io desidero lei. “Ahhh...”. Cristo santo! se avesse gridato più forte qualcuno l’avrebbe potuta sentire di sicuro. Una pietra, c’è una pietra lì, se distendo il braccio potrei arrivarci, potrei afferrarla. Lei si divincola con energia e riesce ad alzarsi. “Adesso basta, dai, ti prego, alzati”. Si aggiusta la camicia, spazzola via dai pantaloni alcune foglie che sono rimaste attaccate. “Luis, tirati su, non è successo niente”. Nonostante la situazione sia estremamente imbarazzante riesce a mantenere un tono professionale: non è successo niente, cosa significa non è successo niente? Io, dove sono andato a finire io. Io! “Forza, dobbiamo raggiungere la casetta rossa, dai!” mi dice con una vivacità che non ha niente a che fare con questa circostanza penosa, vergognosa. Trattato come un bambino che fa le monellerie? Come un paziente che non ha
padronanza delle sue azioni? “Non ci conviene andare prima alla casetta bianca prima di quella rossa? Altrimenti, dopo, al ritorno, dovremmo attraversare nuovamente il boschetto”. Quanto mi piacerebbe farla rimanere ancora nel boschetto, potrei provare ancora, potrei tentare, ancora. “Dobbiamo sbrigarci Luis, nella casetta rossa c’è la nonnina con i capelli bianchi, è in condizioni difficili, è alla fine, andiamo, presto, potrebbe essere l’ultima volta che la vediamo”. Fine, ultima volta, game over, partita finita, un altro gettone. Mi alzo, spazzolo i pantaloni dalle foglie di eucalyptus che sono rimaste attaccate, seguo Giovanna che già si è avviata. Finisce così la vita? Game over. E poi? Un altro gettone, un’altra partita, gioco, battaglia, battaglia ed ancora battaglia, sconfitto alla fine, game over. Metto un altro gettone e la partita ricomincia, di nuovo, da capo. Giovanna cammina svelta ed io seguo il suo o, il sole è davvero forte adesso. Sudo. Le chiedo di rallentare. Quando la raggiungo lei poggia la sua mano sulla mia spalla con fare materno, comprensivo: hai fatto una monelleria ma io ti perdono, non preoccuparti non lo dirò a nessuno, sembra volermi dire questo? Cristo santo! Cristo santo! “Eccola lì, stiamo arrivando”. Vorrei scappare, andare via da lei mille chilometri lontano. Quando arriviamo alla casetta rossa troviamo un’infermiera in camice bianco appoggiata stancamente al davanzale della veranda, aspira lunghe boccate dalla sigaretta guardando fisso un punto a terra in corrispondenza di una larga pianta grassa. Giovanna la saluta amichevolmente, lei risponde a stento. Le chiede se possiamo entrare, la riposta è un cenno del capo che sembra voler dire fate come vi pare. Superato un piccolo ingresso c’è una stanza in penombra, man mano che entriamo avvertiamo una voce debole che ripete in continuazione: “Si ci fussi ma
patri Peppi, si ci fussi ma patri Peppi, ah c’avissi a fari, ah su sapissi ma patri Peppi ca mi trovu ca, sula, sula a chianciri tutta a notti... mi iettu di dda finestra, mentri un mi talia nuddu mi iettu di dda finestra e m’ammazzu e poi videmmu cu si piglia l’eredità”. È distesa sul letto. Continua a parlare con una monotona cantilena esasperata, si interrompe e poi riprende da capo, allo stesso modo. “Non riesce a vederci”. Dice Giovanna. È magra, ha una chioma di capelli bianchi ed un’espressione piena di rancore e di delusione: “Ah, si ci fussi ma patri Peppi, Peppi, si vidissitu chi fini ca fici to figlia, sula, abbannunata, luntana da so’ casa”. “È siciliana?” “Sì, si era trasferita da qualche anno qui con suo figlio”. Dice Giovanna. “Suo figlio?” “Era assistita dal figlio nella sua abitazione e poi dopo l’incidente...”. “Che c’entra suo figlio con l’incidente?” “Suo figlio è la persona che è riuscita a schivarti mentre tu eggiavi sullo scorrimento veloce, di notte. È stato capace di evitarti all’ultimo momento e per questo si è schiantato contro un albero. Il signor Enzo è rimasto paralizzato nella parte destra del corpo ed ha perso l’uso della parola. Osvaldo, nell’incidente ha perso la sua compagna. Nell’altra macchina... Tancredi, a causa dei danni riportati da sua madre nell’incidente, è stato costretto a nascere prima del tempo. Il signor Enzo si trova qui vicino, nella casetta bianca, la prossima che andremo a visitare, l’ultima. “E la nonnina? Perché la nonnina con i capelli bianchi si trova qui?” “Perché il signor Enzo, la persona che ti ha salvato la vita, non avrebbe accettato per nessuna ragione al mondo di venire qui senza sua madre. Non hanno altri parenti. La nonnina, altrimenti, sarebbe finita in un ospizio. Così si trovano vicini, ad un centinaio di metri l’uno dall’altro e qualche volta, quando il signor Enzo è in condizione di farlo, viene trasportato qui, con la sedia a rotelle.
Probabilmente si tratta degli ultimi momenti di vita di sua madre, sta tanto male”. Tanto male, tanto male. Queste parole mi rimbombano nella testa mentre arriva un dolore improvviso alla fronte. “Lei c’era nel tuo sogno?” Mi chiede Giovanna. Io riesco a pensare a qualcosa ma non ne sono sicuro: credo che abbia a che fare con l’incidente, l’incidente che ho provocato io, con tutti questi danni, tutti questi feriti. No, lei non c’era, non c’era nell’incidente e non c’era neppure nel sogno. “Non c’era nel mio sogno, il sogno del gommista”, dico a Giovanna con la stessa sicurezza con la quale un impiegato del catasto può notificare la mancanza di un documento in archivio. Sobbalziamo per la sorpresa quando inaspettatamente la nonnina con i capelli bianchi dice: “Aiutatimi, aiutatimi!” Io faccio per avvicinarmi al letto, Giovanna mi trattiene, nel mentre arriva l’infermiera. “Aiutatimi, purtatimi a ma figliu, vogliu vidiri a ma figliu”. “È possibile fare venire suo figlio? Se volete vi aiuto io”. “Adesso no”. Risponde stancamente l’infermiera. “Posso avvicinarmi?” Mi fa un segno che vuol dire prego si accomodi. Faccio qualche o, lentamente. Ora che sono vicino posso osservare meglio la sua pelle, raggrinzita, rugosa... mi fa pensare al piccolo Tancredi, al bambino nato prematuro, anche lui aveva la pelle incartapecorita alla nascita. Mi avvicino ancora, i suoi occhi, chiari, chiari come l’acqua. Non può vederti sento dire sottovoce da Giovanna o dall’infermiera da dietro. Muove lentamente le labbra e quando sono abbastanza vicino sposta la mano a cercare qualcosa nell’aria fino a quando non trova la mia mano. La stringe, sento che prova a metterci tutta la forza che può.
“Vieni chiù vicino, devo dirti una cosa”. Mi avvicino a lei, posso avvertire l’odore di urina misto alla fragranza del borotalco di cui si vedono le tracce sul lenzuolo e sulla camicia da notte. “Avvicinati figlio mio”. Da dietro mi viene suggerito che per lei sono suo figlio, tutti quelli che le si avvicinano per lei sono suo figlio Enzo. “Avvicinati ca ta cuntari du cosi, du cosi suli?” Le stringo la mano e nelle mie intenzioni vorrei farle capire che sì, sarò attento a ciò che mi vuole dire. “Vidi, s’arriva ad un certo punto nella vita ca con granni sacrificiu si po fari u terzu aggiu...” “Il terzo aggio?” “U terzu puntu: u spignimentu...” “Lo spegnimento?” “Sì, doppu ca a caputu ca c’è a sofferenza e c’è a causa da sofferenza, si po’ arrivari o spignimentu, ad astutari”. “La cessazione della sofferenza”. “Sì, a cessazioni da sofferenza”. C’è un momento di silenzio. Dietro, Giovanna e l’infermiera si sono distratte da me e dalla nonnina, mi sembra di capire che stiano parlando di turni di lavoro. “E poi? Poi c’era un’altra cosa che mi doveva dire, la seconda...”. “Eh sì, figliu miu” è convinta davvero che io sia suo figlio, “a verità è ca un c’è nenti d’arridiri, tuttu s’abbruscia, a un certu puntu ti talii e trovi piaghi, malatii, arriva u viernu, cadinu tutti i fogli”. “Non c’è niente da ridere, tutto brucia”, le ripeto per dimostrarle che sono attento, “ad un certo punto guardi te stesso e trovi piaghe, malattie, arriva l’inverno e cadono tutte le foglie”.
“Iu, figliu miu beddu, curriva senza paci circannu senza sosta cu m’avia custruitu a casa. Ora capivu ca ma’ firmari, un c’è chiù nenti di fari, di costruiri: u tettu cadì, i travi caderu, un c’è chiù nenti. Un c’è chiù bisognu né di mangiari, né di viviri: cu ha campatu bonu mori bonu, cu ha campatu tintu mori comu n’aceddu intra un lagu senza pisci”. Cristo santo. È possibile che questa donna sia in possesso di tanta saggezza? Mi lascia la mano, chiude gli occhi. C’è silenzio adesso. Nient’altro che silenzio. Da dietro, l’infermiera mi invita ad alzarmi, a lasciarla riposare. Mi sento stordito, spiazzato, per l’inaspettata saggezza che mi ha regalato la nonnina con i capelli bianchi. Giovanna mi mette una mano sulla spalla e mi fa intendere che è ora di andare. Oh Giovanna, la tua mano, la tua mano sulla spalla, ancora. Ancora. Usciamo dalla stanza, non riesco a staccare gli occhi dalla nonnina con i capelli bianchi. È immobile adesso, immobile. Forse sta dormendo. Usciamo fuori, respiriamo l’aria densa e calda e ci riscaldiamo al sole. Giovanna percorre qualche metro davanti a me. “Ci rimane l’ultima casetta per completare la nostra eggiata, la casetta bianca, la casetta del signor Enzo, il figlio della nonnina con i capelli bianchi”. “Bisogna attraversare di nuovo il boschetto per andarci”, dico. “Sì, bisogna attraversare per un pezzo il boschetto”.
6
Non vedo l’ora di entrare nel boschetto, questa luce mi acceca.
La testa, la testa, torna a farmi male la testa. La nonnina con i capelli bianchi, come faceva ad essere in grado di tanta saggezza nelle sue condizione di salute? Giovanna mi fa camminare avanti a se, mi fa sentire un sorvegliato, uno scolaretto. Come ci sono finito qui, come ci sono finito in questo posto? Chi mi ci ha portato? Quanto ci devo stare? Le chiedo a Giovanna queste cose, così si potrà avvicinare, camminarmi al mio fianco, dentro al boschetto. Invece si ferma sotto il sole cocente e si mette proprio di fronte a me. “Vivi uno stato psicologico di disorganizzazione e sofferenza che ha seguito il momento dell’incidente”, mi parla in modo meccanico, professionale, vuole distanziarmi, sì, vuole tenermi a bada, “dopo l’incidente ti hanno portato ne Il Parco, sotto le cure del dottor Mambri. Qui trattiamo anche questo tipo di disturbi con un lavoro di gruppo, curando insieme tutte le persone coinvolte nei disastri. Fare il giro delle casette, andare a trovare i pazienti coinvolti ricoverati qui, rientra nel lavoro terapeutico che stiamo svolgendo. Nel tuo caso... il tuo caso è speciale, perché sei stato tu a provocare l’incidente...”. “Sono psicotico, matto, è questo che vuoi dire”. Annuisce in modo vago e dice qualcosa come le diagnosi non contano niente. Poi si distrae guardando dietro di me. Mi giro, poco distante c’è una ragazza che sta entrando dentro al boschetto, sulla fronte ha qualcosa di strano, credo di averla già vista, sì, è Beatrice, la ragazza che era da Osvaldo nella casetta gialla. “Qui ci dovrai stare ancora un po’, per un certo periodo insieme a tutto il gruppo di persone coinvolte. Successivamente loro torneranno alle loro vite, tu continuerai ad essere seguito dal dottor Mambri”. Cristo santo! E’ tutto vero, è tutto vero quello che mi sta dicendo, è tutto vero! Lo so, è tutto vero! Che caldo che c’è. Caldo, sento caldo. Mi fa male ancora la testa. La testa. Mi fa male la testa. Tiro Giovanna per il braccio verso il boschetto.
“Entriamo dentro al boschetto. Adesso”. Qualche o, qualche o ancora e siamo all’ombra. L’ombra, sì, al riparo da questo sole caldo. Dov’è mio padre, dove cazzo è andato a finire mio padre, quello stronzo, quella merda di mio padre dov’è? Perché mi ha lasciato qui? La faccio finita! Al ritorno alla mia casetta devo strappare la lettera, la devo strappare prima di ammazzarmi e ne scrivo un’altra e ci scrivo che è per colpa sua che mi ammazzo, perché mi ha lasciato da solo! “Luis, Luis, che cosa ti succede? Mi ha lasciato da solo. Se ne sta sempre in giro con quella puttana di mia madre, mia madre, troia, bagascia! “Luis, Luis mi vuoi dirmi che cosa ti sta succedendo?” “Aiutami, aiutami. Giovanna aiutami tu. Dammi le tue mani, le tue mani sulle mie spalle, sul mio petto, sulle mie mani. Toccami, ti prego, toccami”. “Per piacere Luis, no! Di nuovo? No! Dobbiamo andare dal signor Enzo”. “Sediamoci solo un minuto, solo un minuto e poi andiamo via”. “Solo un minuto! Va bene? Poi andiamo”. È duro a terra, nonostante il terreno sia coperto dalle foglie di eucalyptus, è duro, è pieno di pietre. Abbraccio Giovanna attorno alla vita, la stringo a me. Lo so che mi vuole, lo so che vuole me. Le mie guance sulle sue, adesso, le mie labbra sulle sue. Dio mio, Dio mio che bello sentire il suo seno sul mio petto, il suo seno sul mio petto, il suo seno. “Luis, no Luis. Ti prego, andiamo via. Luis! Attento, adesso grido, grido di nuovo e mi sentiranno. Lasciami andare”. Mi vuole, mi vuole, cerca di resistermi ma mi vuole, vuole me. “Lasciami, lasciami subito! Ahhhhhhhhhhhhhhhhhhh”.
Zitta, zitta, non gridare, zitta, devi stare zitta. “Ahhhhhhhhh...” La pietra, riesco ad afferrare la pietra, ce l’ho tra le mani. Salda tra le mani. “Luis lasciami andar immediat...”. Nel suo sguardo una sorpresa immobile. Non l’avrei immaginato neppure io. Alzo la mano, la pietra è macchiata di sangue. Lascio andare Giovanna, si riversa a terra, senza resistenza, come una bambola di pezza. Non mi guardare, non mi fissare! Sugli occhi, sul suo sguardo. Forte, ancora, più forte Il suo sangue sulla mia camicia, sulle mie mani, dappertutto. Adesso non mi può più vedere, guardare. Solo sangue. Dappertutto. Colpisco. Ancora. Ancora. Più forte. Ancora. Dov’è Giovanna. Non c’è più il suo viso. Non ci sono più i suoi occhi, il suo sguardo. Non ci sono la sua bocca, il suo naso.
Dove è andata Giovanna? Sangue. Sangue. Sangue. Rosso. Rosso. Rosso.
7
Deve essere questa la strada per arrivare alla casetta colorata di bianco, quella dove si trova il signor Enzo. Si esce dal boschetto e si gira da questa parte. Ecco, così. o dopo o, lentamente, senza fretta. Non c’è bisogno di avere fretta, posso fare con calma, posso sentire il mio corpo. Il mio corpo. Poggiare a terra il tallone, la pianta del piede, la punta, come mi ha insegnato Giovanna... ma dove è Giovanna? Dove se ne è andata Giovanna? Non c’è! Vuol dire che ci andrò da solo dal signor Enzo! E poi vado alla mia casetta, alla mia casetta blu, e la faccio finita! Non ho bisogno di Giovanna, non ho bisogno di lei. Non sono un ragazzino! Non sono neanche il suo paziente! Il mio corpo, sentire il mio corpo. Tallone, pianta del piede, punta, il peso del corpo su una gamba, sospensione, appoggio sull’altra gamba. Ancora. Ancora. Eccola la casetta bianca, eccola davanti a me. C’è la porta aperta. Entro dentro. Il signor Enzo è sulla sedia a rotelle, sta scrivendo al computer. C’era anche lui nel sogno, c’era anche lui nel mio sogno. Si gira verso di me, sembra spaventato. Mi scruta dalla testa ai piedi. Osservo i miei pantaloni, la camicia, le mie mani: sono sporco di rosso! Cristo santo, cos’è ‘sta roba? Mi strofino le mani: è appiccicosa, è roba appiccicosa. Cerco di spazzolare le foglie di eucalyptus attaccate ai pantaloni. “Lei è il signor Enzo?” Dico per rompere il ghiaccio. Non risponde ma fa segno di sì con la testa.
Certo, non può parlare e non si può muovere: me l’aveva detto Giovanna che a causa dell’incidente è rimasto paralizzato in una parte del corpo ed ha perso l’uso della parola. Mi avvicino. Ha il braccio destro raggomitolato al petto, la gamba destra a penzoloni. Ha il viso scavato in una espressione dolce, gli occhi sgranati, scuri. Si sforza di dire qualcosa ma non ci riesce. “Ho conosciuto sua madre”, gli dico per tranquillizzarlo, “la nonnina con i capelli bianchi, mi ha detto delle cose molto profonde, credo mi abbia scambiato per lei mentre mi raccontava qualcosa... sulla cessazione della sofferenza”. Sono riuscito nel mio intento, il signor Enzo sembra più disteso. Mi fa segno di guardare lo schermo del computer. Dio mio! C’è scritto proprio ciò che mi ha raccontato sua madre: “La terza nobile verità: la cessazione della sofferenza”. Mi indica con il dito di guardare più giù ma sono distratto da altro, dietro di me sento trambusto, è arrivata gente. Mi giro: c’è Beatrice, la ragazza che stava da Osvaldo nella casetta gialla. Con lei ci sono due uomini, li ho già visti da qualche parte. Sì, sono i poliziotti che mi hanno fatto le domande dal dottor Mambri. Impugnano delle pistole e le puntano verso di me. Il signor Enzo richiama la mia attenzione sul monitor tirandomi per la camicia. Si sporca anche lui di questa cosa rossa appiccicosa. Non riesco a capire di preciso cosa indichi sul monitor. Dietro di me gridano: è lui, è stato lui, ha ucciso Giovanna, al boschetto, è stato lui. Fermo così, alza le mani in alto o sparo!
Il signor Enzo mi tira ancora per la manica e mette il dito sporco di rosso sul monitor per indicarmi il punto preciso da guardare: l’ho trovato. Ho detto di non muoverti o spariamo! Mi sporgo in avanti per leggere. Spara! C’è scritto: “La quarta nobile verità: Fine”.
Il mio paziente Uno psichiatra Enza Una paziente Il mio compleanno Un bancario Il diavolo esiste! Un pensionato Io e Reiko Un’insegnante Procurato allarme Due tirocinanti Il Parco
Ringrazio Beatrice Monroy, Giovanna Terrasi e Mary Zarbo per il o che mi hanno offerto nella costruzione di questo lavoro. Il quadro in copertina è di Enza Cassaro, la fotografia di Alain Luca Bonanno. Tre dei racconti presenti in questa raccolta – Il mio paziente, Io e Reiko e Procurato allarme- sono tratti dai miei romanzi Canberra, Reiko e Quattro Stagioni (uno pubblicato e due inediti). Alcuni brani del racconto Il Parco riportano i versi n. 153 e n. 154 del Dhammapada. Eventuali coincidenze a fatti o nomi realmente esistenti riscontrabili nei racconti sono da considerarsi del tutto casuali.
Renato Maria Schembri (1965) è uno psicoterapeuta. Ha pubblicato il romanzo Reiko.