MISTERO AL PARCO VIGELAND By Federica Fiorani Copyright 2013 Federica Fiorani Smashwords Edition Smashwords Edition, Licenza d’uso Grazie per aver scaricato questo ebook gratuito. Siete invitati a condividerlo con i vostri amici. Questo ebook può essere riprodotto, copiato e distribuito per scopi non commerciali, a condizione che l’ebook rimanga nella sua forma originale completa. Se vi è piaciuto, forse vi può interessare anche il romanzo breve “Omicidio a New York” della stessa autrice.
Quando il cadavere del secondo bambino fu trovato tra i cespugli del parco, a poche centinaia di metri da casa sua, la città precipitò in un baratro di orrore e incredulità. Contemporaneamente alla macabra scoperta erano arrivati i risultati dell’autopsia della prima piccola vittima. Il referto non lasciava dubbi: il bambino era stato violentato e quindi strangolato. Quando i poliziotti giunsero sul luogo del secondo rinvenimento e videro i segni bluastri sul collo esile del piccolo Edvard, il sospetto, che si era fatto strada nelle loro menti e che in ogni modo avevano cercato di scacciare prima di avere in mano elementi certi, prese definitivamente forma: si trovavano di fronte a un maniaco. Benché si fosse cercato di mantenere il massimo riserbo sui due casi, la notizia fu subito sulla bocca di tutti. In ogni casa, scuola, ufficio, per le strade e per le piazze della città si sentivano solo quelle parole con cui ci si riferiva al pedofilo assassino: “serial killer”. Si era dovuto prendere a prestito quell’espressione straniera perché non sembrava possibile che esistessero parole in norvegese per descrivere un tale orrore. Ed era con un senso di profondo disagio ed estraneità che ora gli abitanti di Oslo guardavano la propria città e si guardavano l’un l’altro. Cose di questo genere non potevano capitare lì, in Norvegia, i “serial killer” vivevano, dovevano vivere, a New York, non potevano nascondersi tra gli abitanti di Oslo, la “capitale lillipuziana”, come l’aveva definita una scrittrice del posto. Ed era con occhi diversi che ora ci si osservava, ogni uomo solo che, camminando per la strada, si trovasse a are davanti a un asilo o a una scuola veniva guardato con sospetto; ci si chiedeva perché il vicino di casa non si era mai sposato ed era con diffidenza che veniva accolto il sorriso di un estraneo. Gli psichiatri interpellati furono concordi nel dire che l’assassino avrebbe ucciso di nuovo e in breve tempo se non fosse stato catturato, poiché i due omicidi erano avvenuti a distanza talmente ravvicinata e l’uomo aveva agito in luoghi così centrali e frequentati da far pensare che le sue azioni fossero dettate da un impulso talmente forte e irrazionale da non farlo esitare nemmeno di fronte al rischio di essere catturato. Fu impossibile tenere a freno i giornalisti, alla notizia fu dato il massimo risalto, i particolari dei delitti furono analizzati, sviscerati, furono riportate teorie e ipotesi, alimentando in questo modo sempre di più l'isteria collettiva che aveva ormai colpito l’intera città. La polizia ò al setaccio la città. Furono interrogati tutti i pregiudicati per reati sessuali, ad alcuni fu imposto l’obbligo quotidiano di firma al
commissariato di zona, altri furono pedinati; furono perquisite case, cantine, garage; furono controllati tutti gli stranieri residenti a Oslo e dintorni con un’operazione capillare, perché circolava sempre più insistente la voce che si trattasse di uno straniero; furono ascoltati vicini, parenti, amici e conoscenti delle due vittime, non fu trascurato nessun dettaglio, nessuna segnalazione seppur vaga, ma tutti gli sforzi sembravano non portare a niente.
Qualcosa di strano aleggiava sulla città. Sebbene fosse inverno inoltrato, non era ancora nevicato. I meteorologi presentarono le più disparate e fantasiose teorie per spiegare quello strano clima, ma l’unica certezza era che, a memoria d’uomo, non c’era mai stato un inverno senza neve. C’era qualcosa di anormale nell’aria. A volte sembrava che stesse per nevicare, poi però non succedeva niente, come se il meccanismo si fosse inceppato all’ultimo momento ed i bambini, che guardavano il cielo pieni di speranza, riabbassavano la testa, delusi.
Dopo tre settimane scomparve un terzo bambino. Il piccolo Ole, di otto anni, era sparito all’uscita di scuola. La madre era arrivata leggermente in ritardo perché era rimasta bloccata nel traffico. Non c’erano testimoni, il bambino sembrava essere svanito nel nulla. L’ombra del maniaco aleggiava nell’aria, ma la polizia concentrò le sue ricerche sul padre del bimbo, che non si era rassegnato dopo il divorzio e risultava irrintracciabile.
Quando sembrava che le acque si fossero calmate, decise che era venuto il momento. Gli aveva fatto credere che lo stava riportando a casa e il bambino lo seguiva docile, ancora un po’ intontito per i calmanti che gli aveva somministrato di nascosto. Camminavano vicini per le strade già deserte, l’uomo lo teneva per un braccio, ma non sembrava esserci violenza in quel gesto tanto che, se avessero incontrato qualcuno, sarebbe stato scambiato sicuramente per un padre con il figlio. Ma non incontrarono nessuno. Avevano preso delle vie secondarie e faceva troppo freddo perché qualcuno si azzardasse a uscire per fare una eggiata, perciò nessuno avrebbe potuto riconoscere nel viso del bambino una somiglianza con la foto che da giorni era su tutti i giornali e sui volantini
distribuiti a ogni angolo della città. Quando arrivarono nei pressi del parco Vigeland, il piccolo cominciò a opporre una debole resistenza. Forse per il freddo, o perché il calmante cominciava a perdere il suo effetto, la sua mente andava schiarendosi e iniziò a pensare che l’uomo non avesse alcuna intenzione di riportarlo a casa. Quante volte, in quei giorni nebulosi che avevano trascorso insieme, gli aveva fatto la stessa promessa e poi non l’aveva mantenuta? L’uomo cominciò allora a trascinarlo con forza dentro il parco, perché era lì che doveva succedere. Il parco Vigeland non è un parco comune, ciò che lo rende particolare e unico è la presenza di circa duecento sculture in bronzo e granito ideate dall’artista Gustav Vigeland. Arrivarono nei pressi del monolito, un obelisco di granito composto di figure avviluppate che sembrano cercare di raggiungerne la sommità, e si fermarono in fondo alla gradinata che vi conduceva. Il parco era immerso nel silenzio. Le uniche figure che si scorgevano erano le statue sulla gradinata: gruppi di enormi statue granitiche che rappresentano l’Uomo in diversi stadi e situazioni della vita. Il cielo era livido sopra di loro. Nuvole nere e dense si ammassavano sopra la città, immobili e minacciose. Sembrava che il cielo fosse in attesa, in attesa di qualcosa di terribile. L’uomo si chinò sul bambino e cominciò a toccarlo. Ma il bambino non voleva, si agitava e dimenava cercando di allontanare le sue mani. Perché, perché non vuole? È come gli altri, anche lui è come gli altri. Ingrati. Li aveva curati, li aveva nutriti, li aveva fatti dormire in un comodo e caldo letto. E qual era la ricompensa?. Ingratitudine. Ancora una volta. Il pensiero di essere rifiutato di nuovo lo fece infuriare, si sentiva incredulo e frustrato: anche lui come gli altri bambini non provava un briciolo di affetto né di gratitudine nei suoi confronti, eppure si era preso cura di lui come un padre con i suoi figli. Nonostante ciò ora gli si rivoltava contro, si dimenava e gridava. Non poteva permetterlo. Sentiva una furia incontrollabile montargli dentro e per sfogare la sua frustrazione, oltre che per farlo tacere, cominciò a colpirlo sul volto. Il bambino cadde all’indietro, l’uomo gli fu subito addosso e gli mise le mani intorno al collo. Tutto si ripeteva inesorabilmente. Aveva voluto che le cose andassero diversamente questa volta, l’aveva desiderato con tutte le sue forze,
ma ora sentiva che quello era il suo destino e ci andò incontro correndo, perché pensava di non avere altra scelta. Ed era così facile, più facile della volta precedente ed infinitamente più semplice della prima, come scivolare da un pendio sempre più ripido una volta che hai messo il piede in fallo. Le sue mani si strinsero intorno alla gola del bimbo sempre più strette, sempre più forti. D’un tratto però udì un rumore che penetrò nel suo mostruoso furore e interruppe il suo gesto omicida. Gli era sembrato che il rumore, una specie di respiro strozzato, provenisse da dietro le sue spalle. C’era forse qualcuno nel parco, qualcuno che aveva sentito il bambino gridare? Si voltò lentamente, allentando senza volere la presa sul collo del piccolo, e guardò dietro di sé. Il parco era deserto, non si scorgeva anima viva, c’erano solo tutte quelle statue, enormi blocchi di pietra scolpita illuminati dalla luna, quei visi e quei corpi immobili, istanti di vita congelati come in una fotografia. E mentre si rivoltava verso il bambino, ormai convinto di avere udito solo il rumore del vento tra i rami degli alberi, il suo sguardo si posò su una delle statue, proprio dietro di lui, la statua di un uomo, il cui sguardo carico di odio e di ostilità attrasse la sua attenzione: per un attimo gli era sembrato che quegli occhi fossero vivi e stessero guardando lui. Poi rivolse nuovamente la sua attenzione al bambino e vide che giaceva immobile e pallido sotto di lui. E mentre osservava il suo corpicino esanime, percepiva il pazzo furore che si era impossessato di lui fino a pochi istanti prima come un ricordo lontano e sfuocato, una specie di sogno confuso di cui alla mattina non si riesca a capire il senso. Ma questa volta non ebbe il tempo di maledire la sua mancanza di autocontrollo, perché un altro rumore, molto più forte del precedente, come di pietra che strisciasse su altra pietra, interruppe il corso dei suoi pensieri. Si voltò di scatto, allarmato, e vide qualcosa che gli fece dubitare dei propri occhi: l’uomo di pietra dietro di lui si stava muovendo. Non era possibile. Si alzò in piedi, lasciando definitivamente la presa sul bambino, incapace di fare altro se non fissare affascinato e terrorizzato quello che stava succedendo. Il gigante di pietra stava muovendo lentamente prima le mani e i piedi, poi le braccia e le gambe, come chi si risvegli intorpidito da un lungo sonno e il suo corpo non risponda immediatamente alla sua volontà. Poi il rumore aumentò ed egli vide che anche le altre statue avevano cominciato a muoversi una dopo l’altra come reagendo a un segnale. E tutte quelle figure smisero di fare quello che da decenni stavano facendo: i bambini smisero di giocare, gli amanti di guardarsi negli occhi, i nemici di lottare, i figli di tirare la treccia alla loro madre, i vecchi di guardare rassegnati l’orizzonte, i padri e le madri di badare ai loro bambini, i mariti di litigare con le mogli. E anche quelli che, aggrovigliati l’uno sull’altro, si arrampicavano verso la cima dell’obelisco
smisero di arrampicarsi e di lottare. E poi vide che il primo, l’uomo dietro di lui, cominciava a staccarsi dal suo piedistallo, tendendo i muscoli delle gambe per lo sforzo e poi tutti gli altri abbandonarono il loro piedistallo con un rumore spaventoso di pietra che strisciava sulla pietra. E quelli sull’obelisco presero a districarsi l’uno dall’altro faticosamente, l’enorme groviglio di braccia e gambe e muscoli contratti si sciolse lentamente e le figure cominciarono a scendere. E tutti, tutti lo fissavano con odio e rancore. Il terrore si riversò dentro di lui come un torrente in piena. Quando vide che l’uomo di pietra dietro di lui allungava la mano enorme per afferrarlo l’istinto ebbe il sopravvento. Si voltò e cominciò a correre. ò la cancellata che separava la zona con l’obelisco dal resto del parco e scese una prima rampa di scale, poi una seconda, poi però dovette fermarsi ansimando perché i polmoni sembravano scoppiargli. Si voltò e quello che vide gli risucchiò via dai polmoni quel poco d’aria che vi era rimasta: lo stavano seguendo, uomini, donne, bambini, vecchi, tutti. Il gruppo di enormi figure di pietra, con in testa l’uomo che per primo si era mosso, aveva già superato la cancellata e cominciava a scendere le scale. L’uomo riprese a correre, terrorizzato, voltandosi di quando in quando per controllare se i suoi inseguitori avessero guadagnato terreno. Sentiva dietro di sé la terra rimbombare e tremare sotto i i pesanti dei giganti di pietra. E mentre ava accanto all’enorme vasca attorniata di statue, al cui centro sei statue bronzee tenevano sollevate sulla testa una coppa da cui d’estate sgorgava l’acqua della fontana, udì uno spaventoso suono gutturale. Sempre correndo si voltò e vide che il suono proveniva dal capo che procedeva alla testa degli inseguitori agitando minacciosamente l’enorme pugno granitico verso di lui. Con crescente orrore si accorse che, richiamati da quel suono, anche le statue nella vasca avevano cominciato a muoversi, quelle ai lati cercavano di districarsi dai rami degli alberi di bronzo su cui erano appoggiati, mentre quelle al centro abbandonarono la coppa che cadde con un fragore assordante sul fondo della vasca. E anch’essi si unirono al corteo degli inseguitori. Erano sempre più vicini, il rumore dei loro i si faceva sempre più forte, ma l’uomo pensava di potere arrivare all’uscita prima che lo raggiungessero. Aveva oltreato la zona dove d’estate fiorivano le rose ed era quasi alla fine del parco, in quel punto in cui il viale si restringeva e ai due lati si trovavano due file di statue bronzee. Ma di nuovo si udì quel suono terrificante e anche le statue ai lati risposero al richiamo gutturale e inarticolato del capo, scesero dai loro piedistalli avvicinandosi all'assassino con le mani protese per afferrarlo. L’uomo procedeva zigzagando, cercando di schivare le figure che, ora da destra, ora da
sinistra, cercavano di fermare la sua folle corsa. Pochi metri lo separavano dalla salvezza, ma ora cominciava a dubitare che ce l’avrebbe mai fatta. Il rumore era assordante, il fragore del bronzo unito a quello più cupo della pietra di centinaia di corpi in movimento di uomini, donne, bambini, giovani, vecchi, mariti, mogli, figli, nonni. L’umanità intera gli stava correndo dietro. Stremato giunse infine all’uscita, trovando però la pesante cancellata chiusa. Disperato, cominciò ad arrampicarsi. La folla l’aveva ormai raggiunto: enormi mani gli afferravano i piedi e le gambe per impedirgli di scavalcare. Si dimenava e scalciando cercava di liberarsi dalla morsa dei suoi inseguitori e intanto gemeva e piangeva dicendo: “Lasciatemi andare. Non è stata colpa mia”. Ma come una mano lo lasciava, un’altra lo afferrava. Con un ultimo, tremendo sforzo riuscì a issarsi in cima alla cancellata e si lasciò cadere dall’altra parte. I pantaloni si squarciarono e brandelli di stoffa rimasero nelle mani degli inseguitori, ma era riuscito a sfuggirgli. Appena toccò terra si rialzò, benché nella caduta si fosse fatto male ad una gamba e ricominciò a correre senza voltarsi indietro, sentendo le loro urla inarticolate e minacciose, con il solo pensiero di andare il più lontano possibile da lì. E fu così che lo videro arrivare i due poliziotti di ronda quella notte: zoppicante e sanguinante, i pantaloni a brandelli, con il viso stravolto e lo sguardo stralunato. Un senso di sollievo lo pervase nel vederli, benché fossero poliziotti. Ci volle diverso tempo perché i due capissero cosa era successo, perché l’uomo si esprimeva a mezze parole inframmezzate a singhiozzi, incapace di formulare un’intera frase di senso compiuto. Quando finalmente riacquistò un po’ di calma, confessò tutto quello che aveva fatto. I poliziotti lo guardavano increduli, non riuscendo a credere che quell’omuncolo terrorizzato e apparentemente indifeso fosse il feroce maniaco a cui tutta la città dava la caccia da settimane. Tanto a posto non doveva essere comunque, con quella storia delle statue che lo inseguivano, ma forse aveva solo bevuto troppo e qualche ragazzaccio si era divertito a spaventarlo oppure era uno di quei mitomani che si divertono a confessare delitti mai compiuti. In ogni caso valeva la pena controllare le sue parole. A tutta velocità raggiunsero con l’auto l’entrata del parco più vicina all’obelisco, dove secondo l’uomo si trovava il corpo del piccolo. Non ci fu verso però di farlo scendere dall’auto: quando gli chiesero di indicare il punto esatto in cui aveva lasciato il bambino, l’uomo riprese a urlare e farneticare di esseri giganteschi e disse che non avrebbe mai più messo piede là dentro perché le statue lo stavano aspettando per ucciderlo. Allora il poliziotto più anziano fece cenno al suo collega di rimanere a
sorvegliare il sospetto ed entrò da solo nel parco. Il cielo era livido e carico di nubi dietro le quali la luna faceva capolino di quando in quando. Si guardò intorno con cautela aspettandosi di vedere qualche ragazzaccio che si era divertito a spaventare l’uomo, ma nel parco non c’era anima viva. C’erano solo tutte quelle enormi statue. Mentre procedeva verso l’obelisco, un raggio di luna trovò un varco tra le nubi ed egli scorse qualcosa ai piedi della scalinata. Si mise a correre e mentre correva urlava al suo collega dentro la ricetrasmittente: “Chiama un’ambulanza, chiama un’ambulanza! Subito!”, anche se era troppo lontano per capire se si trattasse davvero di un bambino. Infine fu abbastanza vicino. Il bambino giaceva disteso sulla schiena, un raggio di luna illuminava il suo volto bianchissimo e i segni scuri sulla gola. Il poliziotto fu colto da un senso di vertigine e un brivido gelato lo attraversò da capo a piedi. Si inginocchiò e gli appoggiò l’orecchio sul petto, ma non riusciva a capire se quello che sentiva era il battito del cuore del piccolo o se era quello del suo stesso cuore che sembrava volergli saltare fuori dal petto. Non ebbe il tempo di mettere in pratica le sue scarse nozioni teoriche di primo soccorso, perché il caso volle che un’ambulanza stesse transitando, di ritorno dall’ospedale, proprio nei pressi del parco e dopo pochi minuti vide arrivare un volontario della croce rossa. Un po’ più indietro lo seguiva una ragazza che spingeva una barella. Il volontario, un ragazzo appena ventenne, gli disse di spostarsi e si chinò ad auscultare il petto del bambino. Il poliziotto con trentasei anni di carriera alle spalle se ne stava in piedi, grigio ed immobile, fissandoli. Non voleva, non poteva, andare da un’altra madre a dirle che il suo bambino era stato assassinato. Nell’attimo in cui girò il viso per appoggiare l’orecchio sul piccolo petto, lo sguardo del volontario cadde sulla statua che si trovava proprio dietro di lui: aveva due occhi così vivi che per un attimo gli sembrò che l’uomo di pietra lo stesse guardando in una muta preghiera. Poi lo sentì: il battito c’era, anche se debole. Mentre gli praticava la respirazione bocca a bocca ebbe la curiosa sensazione di essere di fronte ad una folla che lo fissava anziché in un parco deserto, quella stessa consapevolezza di avere decine d’occhi puntati su di sé in spasmodica attesa che aveva provato quando aveva soccorso qualcuno in un luogo molto affollato. Ma non c’erano altri che lui, il poliziotto e la sua collega. E tutte quelle statue. Insufflare. Uno. Due. Tre. Respira. Insufflare. Uno. Due. Tre. Respira. Insufflare.
Uno. Due. Tre. Respira. Dio ti prego. Insufflare. Uno. Due. Tre. Respira. Respira! Sta respirando! Il bambino si riscosse, tossì, esalò una serie di respiri brevi e ravvicinati, poi cominciò a respirare più lentamente ed in modo più normale. Allora anche il poliziotto, che aveva trattenuto il fiato, ricominciò a respirare. Nello stesso momento il volontario sentì dietro di sé una specie di soffio, come se decine di persone avessero emesso contemporaneamente un lungo, profondo sospiro di sollievo. Il bambino cominciò a riprendere colore e poterono issarlo sulla barella. Il volontario gettò un’ultima occhiata verso le statue e di nuovo gli sembrò che l’uomo di pietra lo stesse guardando. Ma i suoi occhi erano diversi ora, il suo sguardo era carico di gratitudine e gli pareva quasi che gli stesse sorridendo con benevolenza. Stavano caricando il piccolo sull’ambulanza quando il volontario avvertì che qualcosa nell’aria era cambiato, d’istinto alzo il viso al cielo e vide che non era più plumbeo, ma, nonostante fosse notte, sembrava si stesse rischiarando. Poi capì: migliaia di minuscoli cristalli di neve stavano scendendo silenziosi verso terra. Si sentì pervadere da una gioia immensa, con urgenza si rivolse al piccolo, perché sentiva che era importante che anche lui lo sapesse: “Hai visto, nevica!”. Ole abbozzò un sorriso e ripeté con un filo di voce “Nevica!!”, e a entrambi brillava negli occhi un’identica luce. Mentre l’ambulanza scivolava lungo le vie di Oslo, la neve scendeva sempre più fitta, cadendo sulla Karl Johans gate e sul parlamento, sul Teatro Nazionale e sulle statue di Ibsen e Bjørnson. Larghi fiocchi si posavano sul Palazzo Reale e sull’Università, sul Municipio e sulla fortezza di Akershus, si fermavano sulla penisola di Bigdøy, sulla Stavkirke e sugli altri edifici del Museo del Folclore. E la neve scendeva sul parco Vigeland, sui cancelli in ferro battuto e sul laghetto, sul ponte e sulla fontana, sul giardino delle rose e sulle scale, formando un strato candido che andava via via aumentando. E un manto di soffice neve si posava silenziosa sulle statue, uomini, donne, vecchi e bambini, di bronzo o di granito, immobili nel loro movimento, istanti di vita congelati dal genio dell’artista, e ricopriva il monolito e le figure bloccate nella loro eterna, terribile lotta verso la sommità.
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Nota dell'autrice
Il Parco Vigeland è un'area all'interno del bel parco Frogner di Oslo che visitai alcuni anni fa. Qui si trovano numerose sculture in bronzo e in granito opera dello scultore norvegese Gustav Vigeland. Nella parte più elevata del parco vi è una breve gradinata con gruppi scultorei raffiguranti uomini e donne, bambini e adulti che conduce a una terrazza dove svetta una colonna in cui sono scolpite in un unico pezzo di granito più di cento figure umane intrecciate tra loro. La colonna viene chiamata il Monolito. Tutto l'insieme è veramente affascinante ed è stato fonte di ispirazione per questo racconto. Durante la visita scattai alcune foto che si possono vedere nelle mie pagine Facebook Federica Fiorani Scrittrice o Google+ Federica Fiorani (Scrittrice).
L'autrice
Mi chiamo Federica Fiorani e sono nata a Biella nel 1971. Mi sono laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne a Torino, vivo in provincia di Biella con mio marito e i nostri due figli. Se ti è piaciuto questo racconto ti invito a leggere anche il mio giallo psicologico “Omicidio a New York”. Curiosamente ho trovato l'ispirazione per questo romanzo proprio durante lo stesso viaggio in Norvegia che mi ha fatto conoscere il parco Vigeland, infatti a Oslo visitai il museo dedicato a Munch, l'autore del famoso “L'urlo”. Rimasi affascinata dai suoi quadri e in particolare da “Morte nella camera della malata” e dalla figura ivi dipinta in primo piano. Ne è nato un romanzo che ho poi deciso di ambientare a New York, dove ho immaginato che il quadro fosse esposto per una mostra temporanea. La protagonista, appena assunta al Metropolitan Museum, rimane colpita e angosciata dalla figura dipinta. Questo strano turbamento sarà la molla che porterà a svelare un segreto sepolto nel ato, in un crescendo di tensione
e suspense. Il romanzo è disponibile come e-book nei i principali store on line (editore Libro/Mania)
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