Indice
Copertina Frontespizio Colophon Dedica Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Conclusione L'autore Consigli di lettura Lettera dell'editore
Marco Candida
Il bisogno dei segreti
i jackpot 16
seconda edizione: ottobre 2014
direttore editoriale: Andrea Malabaila
progetto grafico: Chiara Scavino
quarta e sinossi: Elena Di Mizio
ufficio stampa: Carlotta Borasio
correzione di bozze: Maria Vittoria Paiella
ISBN eBook 978-88-95744-89-6 ISBN Cartaceo: 978-88-95744-15-5
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a mio padre
Capitolo 1
Jackdaw. Sandpiper. Guillemot. Buntig. Taccola. Piovanello. Uria. Zigolo. Connie si domanda se le sarà utile sapere anche nomi come questi. Snapdragon. Maidenhair. Pilewort. Jujube. Bocca di leone. Capelvenere. Favagello. Giuggiolo. Forse sì. Meadow pipit. Godwit. Plover. Buzzard. Pispola. Pittima. Piviere. Poiana. Forse no. Connie svolta a destra. Imbocca la via che la porterà lungo la strada dove potrà prendere l’autobus. Dalla spalla sinistra le pende una borsetta di pelle. La mano sinistra accarezza la pelle della borsetta. Nella mano destra Connie tiene il dizionario per immagini di inglese. Lo ha comprato tre ore fa. È la prima cosa che ha fatto subito dopo essere uscita dal dottore. Si è accorta di non sapere l’inglese. Oddio, Connie lo sa, l’inglese. Lo ha studiato dalle scuole elementari fino al liceo. Poi, però, ha fatto Giurisprudenza e ha smesso. Da allora non ha più ripreso a studiarlo e adesso a ventinove anni il suo inglese non è più molto brillante anche se può sembrare paradossale per una persona che porta il nome “Connie”. Quando ha trovato la libreria dove avrebbe acquistato il dizionario leggendo l’insegna poco prima di entrare Connie ha tradotto la parola “libreria” con library. Poi dopo soltanto qualche o si è accorta dell’errore. Library in
inglese vuol dire “biblioteca”. Bookstore, invece, è “libreria”. Che errore grossolano… Connie, però, non si è demoralizzata. Ah, no. Quello non era per niente il momento. In libreria ha acquistato un manuale con 4500 vocaboli, 3000 frasi e 2500 parole contenute nel dizionario bilingue. Quei numeri l’hanno subito rassicurata. L’idea che nella sua testa potessero stare tutte quelle parole di una lingua straniera l’ha anche elettrizzata un po’. 4500. 3000. 2500. Le ha anche fatto pensare: “Se potessi contarle, quante parole scoprirei di avere nella mia testa?”. Probabilmente migliaia. Connie ha subito pensato a un paio di amici. Loro dovevano avere nella testa milioni di parole. Poi Connie ha pensato anche a qualche amica. Quelle dovevano avere nella testa poche decine di parole, invece – e del tutto inutili. 4500. 3000. 2500. Oltre a quel manuale in libreria Connie ha acquistato anche un manuale di Esercizi di livello avanzato. Il nome che Connie ha letto sulla copertina è Justin Michael Rosenberg. Come per i numeri si è sentita rassicurata da quel nome. Justin Michael Rosenberg. Alla fine in un angolo della libreria ha individuato il dizionario per immagini. Ha comprato anche quello. Il dizionario contiene 130 tavole illustrate, 5300 disegni e 7000 vocaboli. 130. 5300. 7000. Adesso Connie lo tiene aperto nella mano sinistra e lo legge mentre aspetta l’autobus.
Meadow saffron. Berberry. Dragon tree. Spurge. Colchico. Crespino. Dracnea. Euforbia. Forse sì. Rush. Lavander. Allspice. Bellflower. Giunco. Lavanda. Calicante. Campanula. Forse no. Mentre attende che l’autobus arrivi, seduta sugli sgabelli d’acciaio della pensilina della fermata, a Connie viene da pensare che le sembra piuttosto scorretto che esistano manuali come quelli che ha appena acquistato. Per esempio, uno dei manuali è diviso in sezioni. Per ogni sezione ci sono liste di parole. Ci sono le parole delle vacanze. Le parole dello shopping. Le parole del viaggio. Nella sezione Comunicare si possono trovare anche quelle che vengono classificate come Espressioni comuni e poi Rapporti personali. Sotto Rapporti personali sono compresi anche Corteggiare e Amore e sesso. Pagine 34 e 35. Questo la sconcerta un po’. Connie dà un’occhiata. Legge soltanto le espressioni in italiano.
È sola? È solo? Posso offrirle qualcosa da bere? Vuoi ballare con me? Certo Mi spiace non ballo Sono qui con il mio ragazzo Balli molto bene
Sei molto bella Sei molto bello Sei molto simpatica Sei molto simpatico Hai un bel sorriso Posso riaccompagnarti a casa? È stata una bellissima serata Sto bene con te Vorrei rivederti Sì, volentieri Non voglio rivederti Vorrei che rimanessimo soltanto amici Ti amo Mi ami? Posso baciarti? Baciami Non toccarmi Mi piaci molto Anche tu Ti desidero Sono pazzo di te
Vorrei fare l’amore con te Vuoi venire a casa mia? Hai un preservativo? Così mi piace molto Così non mi piace Ti è piaciuto? È stato fantastico
Quando arriva in fondo alla lista, Connie sente le lacrime. Si dice che deve resistere, però. Ha già pianto. Non vuole piangere di nuovo. Non ha tempo. Mentre sente le lacrime venire come riassorbite dagli occhi, arriva l’autobus. È il numero 13. Sulla fiancata un display mostra la parola “Prato”. Connie sale sull’autobus. Timbra il biglietto. Si siede vicino al finestrino. Torna con lo sguardo alla lista nel manuale. Legge: “Hai un bel sorriso”. Connie riflette che anche se quella viene classificata dal manuale come un’espressione d’uso comune, a lei non lo sembra così tanto. Per un momento pensa che non ritenere un’espressione come quella un’espressione non troppo comune, probabilmente faccia di lei una persona molto comune. Le viene subito da pensare che se messa davanti a una lista di espressioni banali, a una persona non viene da esclamare: “Dio, che banalità!”, significa che allora quella è una persona banale e che tutto considerato la sua è una vita banale. Legge di nuovo: “Hai un bel sorriso”. Pensandoci meglio, però, questa espressione sarà anche banale, ma per lei è sempre stata molto difficile da pronunciare nei confronti di qualcun altro. Avrà
usato questa espressione soltanto tre o quattro volte in tutta la sua vita e quando l’ha fatto, deve averlo fatto nella penombra, con il volto coperto dall’oscurità o da un gioco di chiaroscuri… …cosa dire poi dell’espressione “Ti amo”? “Ti amo” sarà anche un’espressione d’uso comune ma per arrivare a pronunciare quelle due sillabe quell’unica volta che lo ha fatto Connie ha dovuto sentire il cuore batterle così forte da farla preoccupare. Ha dovuto sentire le ginocchia tremare tanto da doversi aggrappare a una ringhiera che stava lì vicino. Ha dovuto vedere le luci che si possono ammirare la sera da Sant’Ilario appannarsi, sfocarsi. Ha dovuto sentire il fiato mancarle e quando ha pronunciato quell’espressione così comune lo ha fatto con un filo di voce e balbettando anche un po’. “Ti… a-amo…” Eh già… …ma cosa dire dell’espressione “Vuoi ballare con me?”. Per pronunciare quelle quattro parole alla persona a cui più tardi la sera stessa avrebbe detto “Ti… a-amo…” a Sant’Ilario Connie ricorda di essersi dovuta scolare prima un Piña Colada e poi un Mojito. Forse non aveva nemmeno detto esattamente le parole “Vuoi ballare con me?”. Lei non è mai stata il tipo di donna intraprendente. Deve aver piuttosto detto: “Perché non mi chiedi di ballare?” oppure qualcosa d’altro come: “Balliamo?”. Comunque, per fare quel piccolo o, Connie aveva dovuto prima diventare mezza sbronza. Adesso queste espressioni così comuni stanno nella sua memoria in modo indelebile. A queste espressioni Connie collega una lunga serie di emozioni e di stati d’animo. Probabilmente per ogni espressione che contiene il manuale avrebbe un vissuto da raccontare: storie che a loro modo rendono quelle espressioni cariche di significato, e diciamolo pure: uniche, irripetibili. Leggendo quella lista di parole e di espressioni Connie pensa che tutto sommato ogni parola e ogni espressione per lei è stata una conquista. Per esempio ha dovuto conquistarsi la possibilità di pronunciare l’espressione: “Mi può cambiare il tergicristalli?”. Connie ha dovuto aspettare fino ai
diciannove anni per poter pronunciare un’espressione come questa. Ha dovuto attendere di poter guidare l’automobile di sua madre. Ricorda di aver ricevuto una strigliata da parte di sua madre per aver posteggiato l’automobile fuori mano in una zona dove i vigili avrebbero potuto farle la multa e dove c’erano scapestrati che si sedevano sui cofani delle macchine e portavano via stemmi, fanali e qualche volta tergicristalli. Prima non avrebbe avuto la patente per fare queste cose, prendere la strigliata dalla madre e di conseguenza portare l’automobile da un carrozziere e dirgli: “Mi può cambiare il tergicristalli?”. Ha pronunciato l’espressione “Vorrei iniziare con un antipasto” a ventisette anni quando è stata per la prima volta al ristorante con Manuel e lavorava in un ufficio legale già da due mesi. Connie non crede di essersi permessa di usare questa espressione in modo così deciso prima di allora. Non aveva mai avuto soldi interamente guadagnati dal sudore della sua fronte per poterlo fare. Forse prima di allora deve aver detto qualcosa come: “Potrei cominciare con un antipasto”. Più probabile, però, che debba aver usato questa espressione nella forma interrogativa: “Potrei cominciare con un antipasto?”. Magari balbettando e sospirando anche un po’. “Forse potrei… ma no… Ma… Forse potrei cominciare con un… Cosa dici se prendiamo un antipasto?”. Eh sì, non c’è che dire: l’espressione “Vorrei cominciare con un antipasto” per Connie è stata una conquista. Ogni parola e ogni espressione per lei sono state una conquista. Anni di lavoro e di sacrifici. E proprio questo la sconcerta. Adesso vedere quelle parole in fila su un manuale le fa pensare: “In fondo, è tutto qua”. Tu ti batti. Ci credi. Vivi le situazioni. Soffri. A volte nella tua testa una parola non è più soltanto un suono: una parola diventa una cosa. E invece, a guardare il manuale che tiene in mano basta stilare un elenco di parole e studiarle per avere una parola per ogni situazione e per ogni emozione e per qualsiasi circostanza. Metti dentro di te le parole ed è come metterci le cose. Senza fatica. Connie pensa che forse bisognerebbe far studiare queste liste di parole e di espressioni fin dalle prime classi delle scuole elementari. Dopo non dovresti più sforzarti di cercare di captare dagli altri quali sono le parole giuste da usare. Connie pensa che le sembrano un po’ scorretti, questi manuali. Basta studiarsi uno di questi cosi e poi si può sostenere di aver avuto qualsiasi esperienza, di aver vissuto qualsiasi situazione, di aver provato un poco tutte le emozioni. Soprattutto non sono più le cose e le circostanze a suggerire le parole ma sono le parole a suggerire le cose e le circostanze. Questo comporta poca, pochissima
fatica. Connie pensa che studiando in quel modo una lingua straniera le si sarebbe attribuito poco valore perché non si sarebbe faticato abbastanza. Mentre pensa questo il suo pensiero corre ad Angiola. Angiola è intelligentissima. La sua capacità di apprendimento è praticamente istantanea. Angiola legge una cosa e la sa per sempre. Studia un libro ed è come se lo avesse scritto lei. È incredibile. Il problema di Angiola, però, è che si annoia delle cose dopo cinque minuti. Le svuota e le cannibalizza in brevissimo e poi è come se buttasse via carcasse ormai prive di qualunque attrattiva. Angiola si annoia presto e per lei le cose perdono valore rapidamente perché non fa nessuna fatica per conquistarle. Mentre fa questi pensieri Connie alza lo sguardo. Si ricorda che dalle parti di corso Italia c’è un’agenzia viaggi. Dopo una cinquantina di metri l’autobus accosta per far scendere eggeri che hanno prenotato la fermata. Connie decide di scendere. Si dirige verso l’agenzia.
“Buongiorno, vorrei un biglietto per le isole dei Caraibi” “Buongiorno, vorrei un biglietto per le Maldive” “Buongiorno, vorrei un biglietto per le Hawaii” “Buongiorno, vorrei un biglietto per Santo Domingo” “Buongiorno, vorrei un biglietto per Acapulco” “Buongiorno. Senta. Se mi dovesse consigliare un posto meraviglioso dove are una magnifica vacanza, che cosa mi consiglierebbe?” Sono questi i pensieri che attraversano Connie mentre appoggia la mano alla maniglia per aprire la porta a vetri dell’agenzia viaggi. Però, sta per aprirla, quando pensa che forse è meglio non farlo. Meglio non entrare. Forse non è questo quello che Connie vuole. Per un momento sente girarle la testa. Allontana la mano dalla maniglia. Fa due i lontano dalla porta dell’agenzia. Sente di nuovo le lacrime ma fa uno sforzo per trattenerle. Vuole farlo? Vuole cominciare a viaggiare? Vuole vedere posti che non ha
ancora visto se non nei film o in qualche documentario? Vuole viaggiare per imparare sulla sua pelle espressioni come “Vorrei un sandwich al prosciutto” oppure “Vorrei prenotare una stanza d’albergo” o “Vorrei affittare una macchina” o “Dove posso trovare un distributore?” o “Mi potrebbe indicare il ristorante più vicino?”. È questo quello che vuole? Non le sembra un po’ assurdo? Connie pensa ai luoghi che ha già visitato. Ha preso l’aereo per la prima volta a quattordici anni. Quella volta è stata per un mese a Dublino, in Irlanda. A diciassette anni dopo quaranta ore di treno ha soggiornato per una quindicina di giorni (o erano soltanto dieci?) a Oslo, in Norvegia. Ha visitato i fiordi. Ha visitato Bergen. Ha visto tramonti bruciargli davanti agli occhi. Ha eggiato sotto cieli d’oceanica sconfinatezza. I cieli di Bergen all’alba le sembravano arcobaleni immensi. A diciotto anni è stata per quattro giorni a Barcellona in una gita con la scuola. Poi non ha più viaggiato all’estero fino a quattro anni fa. A partire dai ventisei anni, però, soprattutto per frequentare corsi di formazione professionale ha cominciato a fare viaggi in Italia. Roma. Firenze. Venezia. Padova. Bologna. Trieste. Agrigento. La città che ha preferito fino a qualche anno fa, forse addirittura fino a soltanto un anno fa, è stata Milano. Adesso, però, Genova, dove abita da quattro anni, l’ha conquistata. Genova è magnifica. Porto Antico. Corso Italia. Boccadasse. Nervi. Piazza De Ferrari. Persino Staglieno, dove Connie ha il suo appartamento. A partire dai ventinove anni Connie ha ripreso a viaggiare anche all’estero, anche se si è trattato sempre di soggiorni brevi. Londra. Parigi. Monaco. Vienna. Adesso da un anno tiene i contatti con un amico che abita negli Stati Uniti, nel North Dakota. Si chiama Everett. Per motivi di lavoro conosce l’italiano quasi come la sua lingua madre. Anche per questo Connie può tenere i contatti con lui. Il North Dakota è uno Stato un po’ sfigato. Non è la California, il Colorado o anche solo il Massachussetts. Dici North Dakota e non ti viene in mente niente. Di solito non succede per quasi nessuno dei nomi delle città e degli Stati americani. Dici un nome qualsiasi di una città o di uno Stato americano e subito la mente viene invasa da immagini su immagini di film, documentari, cartelloni pubblicitari, copertine di libri, di dischi, oppure poster, dépliant… Col North Dakota, però, non è così. L’unica cosa che ti fa pensare il North Dakota sono i film dei fratelli Cohen, e se hai abbastanza cultura ai pellerossa, ai fuoristrada e alle fattorie con i mulini per macinare il grano e il mais. Per il resto, però, Fargo, Bismarck, Grand Forks non dicono niente. Anche per questa ragione Connie – che si chiama così perché quando è nata, nel 1978, sua madre si era apionata di un qualche telefilm al punto da darle il nome della splendida protagonista principale – non ha ancora preso la decisione di salire su un volo intercontinentale della durata di tredici ore
per andare negli Stati Uniti nel North Dakota. Poi, là, nel North Dakota, Connie immagina che troverebbe in gran parte soltanto desolazione. Fattorie. Distese di terre. Bisonti. Concessionarie d’auto. Bar. Gli abitanti non usano nemmeno i cappelli da cowboy. Grand Forks, la città dove il suo amico abita, fa cinquantamila abitanti. Non è certo Philadelphia, New York, Boston, Chicago, Los Angeles o Las Vegas. Non vale la pena farsi un viaggio come quello solo per stare in un posto come Grand Forks. Adesso che ha fatto questo pensiero, però, Connie non è più così sicura se valga o non valga la pena. Non che per Connie ci sia ancora qualcosa di sicuro. Da quando quattro o cinque ore fa è uscita dal dottore le sembra che ogni minuto che a sia come una cosa – come una foglia o forse un pezzetto di pelle – che si distacca da lei e vola lontano. È una sensazione intensissima. Due ore fa mentre mangiava un gelato seduta su una panchina di Porto Antico davanti alle imbarcazioni e al mare piatto è riuscita a sentire come cose non solo i minuti ma anche i secondi. È stato come sentire ogni singolo capello staccarsi dalla testa. Non è stata una sensazione piacevole. Come è stato spiacevole quando Connie è stata presa da quello che considera un attacco d’ansia. Stava per tornare da Porto Antico a piazza Caricamento per prendere l’autobus quando ha cambiato idea. Si è accorta di aver visitato soltanto una volta l’acquario di Genova, e l’ha presa la voglia di farlo ancora. Così ha girato su se stessa e ha puntato in direzione dell’acquario. Solo che dopo pochi i Connie ha pensato di averlo già visto, l’acquario. Ha pensato che, invece, avrebbe potuto tagliare per uno dei carruggi dove stava un ristorante indonesiano e c’erano negozi che vendevano merci orientali. Non ci è mai ata di lì. Ha sempre avuto una forma di paura per quel carruggio. Mentre cambiava ancora direzione, le è venuto in mente che, però, in cima alla strada di San Lorenzo c’era una torre che non aveva ancora… Connie è andata avanti così per una decina di minuti, formando i pensieri lentissimamente, con il capo leggermente reclinato, compiendo qualche o in una direzione e poi deviando verso un’altra direzione oppure tornando sui suoi i, tanto che alla fine dopo dieci minuti si è ritrovata ancora quasi all’esatto punto di partenza. Deve essere sembrata proprio una stupida e accorgersi di questo non è stato piacevole. Forse alla fine potrebbe viaggiare. Pensa di avere da parte abbastanza soldi da poterselo permettere. Haiti. Shangai. Dubai. Forse dovrebbe entrare nell’agenzia viaggi e chiedere un biglietto per le isole dei Caraibi, le Maldive, le Hawaii. Forse dovrebbe farsi una crociera. Partire con una agenzia viaggi di quelle che
pensano loro a tutto e tu non devi fare altro che divertirti e non pensare a nulla. Da anni in ufficio in mezzo alle scartoffie della sua scrivania ogni estate e ogni fine settimana Connie immagina di dondolarsi su un’amaca in riva al mare lucente di una spiaggia bianchissima e sconfinata. Forse adesso si presenta l’opportunità per fare in modo che questi sogni si avverino. Subito si sorprende, però, di essere riuscita a pensare a quello che le sta succedendo in termini di opportunità. Quasi le viene da ridere. Ci sono molte cose che adesso Connie potrebbe fare. Dio, ci sono una marea di cose e se ci pensa le vengono le vertigini. Ad esempio potrebbe tornare in quella pasticceria di Courmayeur dove da piccola con i suoi genitori mangiava sempre una incredibile torta alle mandorle – morbidissima, cremosissima. Potrebbe ingozzarsi di dolci. Tanto che cosa le importa della dieta ormai? Potrebbe andare in quel ristorantino che si affaccia sul mare a Boccadasse dove mettono un primo a venti euro. Potrebbe are una notte in quell’albergo alla Galleria di Milano che ha sentito dire abbia sette stelle. Rubinetti d’oro. Champagne in camera. Chissà cos’altro. Magari anche solo are una notte allo Stardust Hotel a Brignole. Per tanto tempo con Manuel ha fantasticato di farlo. Potrebbe tornare a Londra. L’ultima volta la Tube sprofondata almeno a venti metri sottoterra e strettissima si era fermata per cinque minuti ed era ripartita esattamente mentre Connie stava per diventare cianotica e strabuzzare gli occhi a causa di un attacco di panico. Alla stazione di London King’s Cross dopo nemmeno cinque minuti che Manuel e Connie erano entrati per prendere informazioni per il viaggio di ritorno (perché dopo quello che era successo all’andata Connie non voleva più prendere l’aereo) era scattato l’allarme ed erano stati costretti a evacuare. Poi, però, non era successo niente, per fortuna. Per di più durante il volo di andata l’aereo aveva traballato dall’inizio del viaggio fino alla fine, il controllore aveva detto più di una volta di allacciarsi le cinture perché si stava attraversando una turbolenza e a metà del viaggio c’era stato il rumore di uno scoppio proveniente dall’ala destra. Per qualche momento persino alle hostess si era letto il panico sul viso. Per fortuna, però, la portanza dell’aeroplano non ne aveva risentito. Di Londra la cosa che le è rimasta più impressa sono gli studenti italiani che per guadagnarsi qualche sterlina lavorano alle uscite degli aeroporti per far rispettare la fila per prendere i mezzi che portano al centro città, cosa che per degli italiani le sembra un discreto esempio di contrapo. Non molto altro.
Invece potrebbe tornare a Parigi. Manuel continua a ripeterle di tornare a Parigi. Dice che Parigi è bellissima. Dice che da quando è stato a Parigi, Milano non gli sembra più niente. Dice di aver capito perché prima Milano gli piaceva. A Milano ci sono le donne bellissime. Si possono incontrare ragazze incandescenti ad ogni angolo di strada. Per esempio adesso Manuel dice di capire perché gli è piaciuto sempre un quartieraccio come Porta Genova: nei pressi della stazione c’è un’agenzia di fotomodelle. Per questo sul cavalcavia ferroviario davanti alla stazione vede are spesso esseri di una bellezza fantascientifica. Ecco cos’è la cosa bella di Milano: sono le splendide ragazze. Soltanto che a Parigi Manuel dice che si può trovare la cosa bella di Milano più… Parigi. E per di più la cosa bella di Milano a Parigi parla se. Manuel trova questo aspetto irresistibile. Connie pensa che a Parigi non è salita sulla Torre Eiffel. Ha preferito mangiarsi una baguette farcita in un chiosco davanti al ferro forgiato della torre mentre aspettava Manuel. Per giustificarsi a Manuel ha detto che Parigi è la Torre Eiffel e che vedere Parigi senza la Torre Eiffel significa non vedere Parigi. Ora, l’unico modo per non vedere la Torre Eiffel a Parigi da un punto a una certa altezza da terra è appunto salirci. Così Connie ha detto a Manuel che, perché abbia senso salire sulla Torre Eiffel e ammirare da lì il panorama di Parigi, sarebbe necessario costruire un’altra torre. Adesso, però, Connie prova rammarico per non averlo fatto. Magari questa sera andrà all’Orchidea. È un locale di Genova che si trova in una laterale di corso Italia. Si tratta di un locale lap-dance. Forse potrà trovarci qualche ragazzo. Forse può fare subito un biglietto per Parigi, invece, farsi otto ore di treno e alloggiare in una qualche stanza d’albergo in offerta a Montmartre. Andare nel quartiere a luci rosse. Ricorda che con Manuel era stata in una discoteca per travestiti. Era stata una cosa pazza. Era stato Manuel a insistere. Diceva di voler fare qualcosa di pittoresco. Così dopo aver mangiato carne di bufalo e un quintale di patatine fritte al Buffalo Grill davanti al Moulin Rouge, lei e Manuel si erano ritrovati tra le luci stroboscopiche della sala di una discoteca per transessuali, omosessuali e lesbiche. Erano entrati alle undici e mezzo di sera. Nella saletta non avevano trovato nessuno a parte loro due, una donna mezza svestita dietro al bancone del bar e un ciccione che metteva musiche rumorose e tutte uguali. Erano usciti da lì dopo appena un’ora. Connie cammina fino alla stazione Brignole. La strada è grande e lunga. Camminare, però, le fa bene. La giornata è bella. C’è il sole. Il cielo è azzurro. Non fa nemmeno troppo caldo anche se è il 28 luglio. Arriva davanti alla
stazione. Poi fa per mettersi sotto la pensilina della fermata dell’autobus e aspettare nuovamente il 14 quando cambia idea e imbocca una strada che si congiunge con via XX Settembre. Si chiama via San Vincenzo. Sono le cinque e mezzo del pomeriggio. Lungo quella strada ci sono botteghe, tabarin, bazar. C’è un Pasta-way. Anche se a quell’ora del pomeriggio, Connie nota due o tre ragazzi – probabilmente amici – seduti su un muricciolo con una scodella di cartone piena di spaghetti in una mano e nell’altra un forchettone rosso di plastica. Una volta ha mangiato anche lei seduta su quel muricciolo con quella scodella e quel forchettone tra le mani. Deve essere stato lo scorso anno. Estate. Aveva mangiato china mentre dalla fronte grosse gocce di sudore le cadevano dentro la scodella. Più avanti tra negozi di pelletteria, di scarpe, di chincaglierie ci sono fast-food, gelaterie. In una gelateria Connie nota almeno dodici diversi gusti di gelato che straboccano dalle vasche dietro la vetrina d’esposizione. In ogni vasca il gelato forma una torre – quasi una ziggurat. È una cosa che Connie nota anche nelle gelaterie di Milano quando va a trovare Manuel. Il gelato esplode dalle vasche. La cosa che le dà da pensare è che le vasche rigurgitano gelato anche alle cinque del pomeriggio e anche alla sera. Soltanto le vasche che contengono i gusti di cioccolato, nocciola, fragola, stracciatella, pistacchio, crema, amarena, fior di latte, limone rimangono piene per un quarto o per metà. Si è sempre chiesta se tutto quel gelato fosse così necessario. Forse per attirare i clienti, anche se a Connie l’immagine delle vasche grondanti di gelato l’ha sempre allontanata piuttosto che avvicinarla. Mentre pensa a questo nota una tavolata di persone davanti a un bar che deve essersi messa a fare l’happy hour. Nei piatti sui tavolini fuori dal bar c’è un assortimento di cibi: fette di pizza, patatine fritte, insalata di riso, prosciutto cotto, maionese, salsa rosa. Una signora elefantiaca ha un piatto che forma una ziggurat di cibo molto simile a quella di gelato che Connie ha visto nelle vasche pochi momenti prima. L’associazione le fa quasi voltare lo stomaco. Comunque in generale sono gli happy hour e i brunch a voltarle lo stomaco o almeno prova questa sensazione ogni volta che vede il cibo nei piatti degli altri. Certe volte nota abbinamenti che giudica terrificanti. Pennette al sugo di pomodoro e patatine fritte. Burro e maionese sfusi come contorno a una bistecca di salmone. Insalata di riso e crema di mascarpone. Dopo quest’ultima combinazione Connie decide di smettere di pensarci. Comunque, in estate quando eggia nel quartiere Brera, a Milano, o nei quartieri delle grandi città dove si possono trovare schiere di tavolini all’aperto, osservare le persone che mangiano fuori dai locali le dà l’idea di compiere quasi un atto di voyeurismo. Trova che ci sia qualcosa di pornografico nell’esibire le persone fuori dai ristoranti mentre si
portano alla bocca una forchettata di pastasciutta col sugo o demoliscono un pollo col contorno di patate e cipolline. Il sugo cola dai menti. Un filo di pasta pende da un angolo della bocca. Qualcuno si ingolfa e comincia a tossire. Qualcuno si unge la camicia o la cravatta. Decine di piatti pieni di cibo esibiti sui tavoli davanti ai ristoranti non le fanno venire appetito. Di solito glielo tolgono. Ci sono le bocche in movimento. La masticazione. La salivazione. La deglutizione. Le bocche si spalancano. Mostrano otturazioni. Denti guasti. Dentiere rotte. Lingue bianche. Lingue violacee. Poi osservare gli avanzi di cibo in un piatto a Connie dà la nausea. Anche per questo forse ha sempre cercato di studiare e finire in fretta con l’università e trovare un lavoro. Non sarebbe mai stata in grado di servire ai tavoli. Connie pensa che anziché fare qualche viaggio potrebbe fare questo. Potrebbe servire ai tavoli. Quando va al ristorante o in un bar lascia sempre la mancia. Di solito esige che lo faccia anche Manuel. Manuel protesta, poi però ha imparato anche lui a lasciarla. Forse potrebbe fare questo anziché sperperare i suoi soldi in viaggi in luoghi esotici.
A casa, Connie posa l’Ulisse di Joyce sul comodino dopo averlo letto per qualche pagina. Sono le nove e mezzo di sera. È rientrata a casa alle otto. Per quella sera ha messo da parte il proposito di andare all’Orchidea. Invece ha pianto contro il cuscino per una mezz’ora. Poi si è fatta due uova al tegame e ha mangiato molto pane. Si è detta che non deve piangere più. Si vive, si muore. Non c’è altro. Ha anche trovato il modo di sorridere. Si è ricordata infatti di una barzelletta che le aveva raccontato non sapeva più quando un collega in ufficio. «C’è questo uomo d’affari che ha cominciato a fare soldi a undici anni. A dodici anni aveva già guadagnato i suoi primi diecimila euro. A diciotto anni aveva fatto il suo primo milione. A vent’anni aveva messo in piedi un’azienda da quaranta milioni di euro all’anno. A venticinque l’azienda era ata a fatturare quattrocento milioni di euro all’anno. A trentacinque anni questo uomo d’affari possedeva catene di aziende praticamente dappertutto nel mondo e si stimava che il suo patrimonio ammontasse attorno ai venticinque bilioni di euro. A cinquant’anni era diventato capo del governo di quattro Paesi diversi: due del quinto mondo, uno del terzo e uno del primo mondo. Ti lascio indovinare quale fosse quest’ultimo Paese…» «L’Italia?»
«Ecco, esatto, l’Italia. A sessant’anni il patrimonio di questo incredibile uomo d’affari ammontava a novemila miliardi di euro e a novantasei anni dopo aver acquistato un intero Stato si diceva che il patrimonio ammontasse a mille triliardi di euro, anche se stime non ufficiali parlavano di nove mila fantastiliardi di euro. A centodiciannove anni il cuore d’acciaio che a centosei anni gli era stato trapiantato nel petto al posto di quello di carne aveva avuto un guasto e l’uomo d’affari era traato. E lo sai che cosa si dice abbia detto questo incredibile uomo d’affari un istante prima di esalare l’ultimo respiro?» «No, cosa?» «Esultante ha alzato le braccia in segno di vittoria e ha gridato: “Ho fatto un quintiliardo di fantatriliardi di euro!” e poi… è morto.» Connie ha letto un po’ dell’Ulisse di Joyce. Ha cominciato a leggerlo due mesi fa. È arrivata a pagina quattrocentotrenta. Le parole le scivolano nella testa facilmente. Però gli occhi le si stancano presto. Così Connie posa il libro sul comodino dopo soltanto qualche pagina. Prima di spegnere la lampada si accorge che quel pomeriggio quando ha pensato a cose da fare, oltre a viaggiare ha subito pensato al cibo e al sesso. Ha pensato a Montmartre e all’Orchidea. Ha pensato alla pasticceria di Courmayeur. Non ha pensato, invece, per esempio, a leggere libri oppure a compiere qualche opera importante. Deve sentirsi in colpa per questo? Connie non si sente in colpa. Non sente peccato di aver pensato al sesso in questi termini. D’altra parte pensa che oramai forse la sola domanda sensata che ci si può fare sul sesso in tempi come questi è: perché per ottenere animazione sessuale abbiamo bisogno di fare pensieri trasgressivi? Perché funzioniamo così? E se funzioniamo così, questo è qualcosa di cui dobbiamo vergognarci? Forse sì. Forse una cosa come questa sta a dimostrare che dentro di noi da qualche parte c’è un germe di mostro che siamo costretti a sorvegliare sempre. Forse, invece, non c’è niente di barbaro nel fare pensieri trasgressivi anche estremi: così funzioniamo. Forse funzioniamo male quando desideriamo far diventare reali pensieri troppo estremi. Quando il nostro cervello non riconosce più il confine tra la fantasie e il disumano. Può essere piacevole pensare che da qualche parte esista un cavallo alato e immaginare di cavalcarlo, ma pensare che esista in natura qualcosa di simile e mettersi in viaggio per trovarlo, questo significa non saper più riconoscere il confine tra la fantasia e la realtà. In tema di sesso però la domanda potrebbe essere: una fantasia che è nelle mie possibilità
realizzare è ancora soltanto una fantasia? Mentre si lascia trasportare da questi pensieri ai pensieri su quello che ha appena letto le vengono in mente alcune parole che ha sentito durante un corso di scrittura creativa due o tre estati fa. In realtà al corso ha soltanto accompagnato la sua amica Ginevra perché a differenza di Ginevra a lei non interessa scrivere. Le piace soltanto leggere. In ogni caso le parole che le vengono in mente sono quelle che l’insegnante ha usato ogni volta in apertura di lezione: “Non c’è storia se non c’è conflitto”. Adesso come adesso questo assunto le suona abbastanza ambiguo. L’idea che perché ci sia una storia debba per forza esserci una contrapposizione le sembra un’idea pericolosa. Probabilmente è giusto indirizzare questo insegnamento a qualche alunno che desidera scrivere storie. In effetti per la maggior parte delle storie che a Connie vengono in mente l’assunto “Non c’è storia se non c’è conflitto” sembra calzare. Però le sembra ugualmente un’idea troppo pericolosa perché mette insieme quello che più piace fare all’uomo, ossia raccontare storie e… fare guerre. Così “Non c’è storia se non c’è conflitto” significa che se vuoi raccontare una storia che sia degna di questo nome allora devi avere un nemico e poi a questo nemico devi fare la guerra. Connie pensa alla storia che si studia a scuola. In fondo quella più che la storia dei popoli bisognerebbe chiamarla la storia dei conflitti tra i popoli. Questo vuol dire che anche il libro di storia a scuola non si sottrae alla regola fondamentale di ogni storia d’invenzione, ossia presentare un conflitto. Connie pensa che forse bisognerebbe lavorare su questa regola e cambiarla. Del resto le sembra che non ci sia nulla al di fuori del raccontare a qualcun altro quello che ci accade e che abbiamo fatto. Se non potessimo fare questo, se non potessimo raccontare, probabilmente non faremmo niente, non saremmo niente. In fondo quello che vogliamo è soltanto renderci almeno un poco interessanti. Così per questo andiamo alla ricerca di nemici da abbattere e di conflitti da risolvere: solo per poter avere storie da raccontare durante una conversazione. Se però si potesse raccontare una storia senza che ci fossero conflitti, e questa storia risultasse lo stesso interessante, allora forse si eliminerebbe nell’uomo il desiderio devastante di fare guerre. Guardando all’Ulisse di Joyce (che non a caso una collega scrittrice dell’autore ha definito “un elenco telefonico”), Connie pensa che proprio da qui si può ricavare la straordinaria lezione morale di questo grande autore. Joyce con
l’Ulisse sembra aver voluto dimostrare che non c’è nessun bisogno di un conflitto per avere una storia. Il solo fatto di esistere e di muoversi e di fare le cose anche più banali può essere una storia. D’altra parte, pensa Connie, se adesso decido di alzarmi dal letto e di andare in bagno teoricamente anche qui posso incontrare conflitti da risolvere: il conflitto tra la mia voglia di rimanere sotto le lenzuola e la necessità di andare in bagno, il conflitto tra me e l’interruttore della lampada che finisce sempre in fondo al pavimento e che è difficile da trovare, il conflitto tra me e le mie ciabatte che si nascondono sempre, e volendo anche un ipotetico conflitto tra me e un mostro a dodici teste sepolto nel muro del corridoio e che proprio oggi potrebbe aver deciso di risvegliarsi e uscire fuori. Connie pensa che forse la letteratura importante è proprio questo che vuole dimostrare all’uomo da molti secoli: che si possono raccontare storie anche senza conflitti e senza troppo rumore. Se è così, Connie pensa che fino a oggi la sua vita ha assomigliato parecchio a quella che questa teoria porta a considerare come letteratura importante: non ci sono stati molti conflitti. Ci sono stati più che altro avvenimenti minimi. Piccole prove superate con successo. Mai grandi battaglie. Almeno fino a oggi. Almeno fino a quando questo pomeriggio Connie non è uscita dal suo appuntamento col dottore. Adesso anche Connie ha un mostro da combattere. Anche Connie adesso ha il suo conflitto. La sua vita non assomiglia più alla letteratura importante, adesso. Piuttosto assomiglia a un dramma come quelli che ano in televisione. C’è il mostro. C’è il conflitto. C’è la storia. Adesso Connie deve solo decidere come affrontare il mostro, come risolvere il conflitto, come sviluppare la storia e ha soltanto pochi mesi di tempo per farlo. Connie prende dal comodino il dizionario per immagini d’inglese. Carob. Sour orange. Quince. Medlar. Carrubo. Chinotto. Cotogno. Nespola. Forse sì. Wormwood. Castor oil plant. Bramble. Rhubarb. Genepì. Ricino. Rovo. Rabarbaro. Forse…
Capitolo 2
La superficie dell’acqua brilla. Il vento della sera la increspa appena. È lo stesso vento che le si infila tra i capelli e li muove un poco. Connie non riesce a staccare gli occhi dall’acqua. Dai suoi riflessi. Dai colori. Non riesce a decidersi se i riflessi che vede sono provocati dalla luce delle stelle oppure dai faretti tra gli alberi. Poi Manuel la urta. Le dice: «Ecco qua. Il tuo champagne! Te lo sei meritato…» e le porge un calice riempito per due quarti di un liquido dorato. Connie prende il calice. Sorride. È la mezzanotte del 19 agosto. È ato meno di un mese da quando Connie è stata dal dottore. Dai locali interni Connie sente la musica. Guarda Manuel. Guarda Carlo. Guarda Filippo. Silvia. Irene. Guarda gli altri. Le stanno attorno. Hanno in mano il loro calice. Adesso hanno smesso di ridere e hanno interrotto le loro conversazioni. Aspettano soltanto che lei dica qualcosa. Connie guarda Ginevra. Cerca le parole. Poi dice: «Devo…» Ha un’incertezza. «Sì…» la incoraggiano gli amici. «Io devo…» «Sì…» «Volevo soltanto dire…» «Sì…» «Credo di dover andare in bagno» dice alla fine. «Scusate…» Connie abbassa lo sguardo. Attraversa velocemente il gruppo di amici. Qualcuno sta ridendo. Qualcuno borbotta qualcosa. Irene dice: «In bagno?!» Connie attraversa il prato che circonda la piscina. Lascia il bicchiere di champagne su un tavolino bianco accanto a un bouquet di frutta. In quel momento sente una mano chiuderle un braccio. Connie si volta. «Che cosa ti succede?»
È Manuel. Connie scuote la testa. «Ma no, niente. Non succede niente. Devo solo andare in bagno. Torno.» «Sì?» «Ma sì…» dice Connie. «È mezzanotte» fa Manuel. «È tutta la sera che appari e scompari. È la tua festa e…» «Non sto proprio benissimo. Però, non ho niente. Adesso devo solo andare in bagno» dice Connie. «Va’ dagli altri. Torno.» Gli rivolge un sorriso. Gli dà una carezza su una guancia. Mentre si stacca da Manuel, con un’occhiata incontra lo sguardo di Ginevra. Ginevra la sta tenendo d’occhio dal gruppo vicino al bordo della piscina. Connie entra nei locali interni della discoteca. Si chiama Villa Taunus. Si trova a Genova. Vicino a Pegli. È una struttura su due piani. Dal piano terra gli stadi finali a mosfet pompano musica house. Il pezzo che sta andando adesso come annunciato dal dj alla consolle installata presso la parete sud è Delirious di David Guetta e Tara MacDonald. Al piano superiore, invece, ci sono salette che quasi funzionano da privé. I bagni sono in fondo al pianoterra, dall’altra parte della pista da ballo. Manuel osserva Connie penetrare la massa dei corpi che si muovono dentro la pista sotto lo stroboscopio delle luci. Il suo vestito bianco di seta. La collana di platino. Il bracciale alla caviglia. Poi la perde di vista. Per essere la festa dei suoi trent’anni, a Manuel non sembra che Connie la stia vivendo al massimo. Le sembra strana. Quasi quasi fa per seguirla quando da dietro sente la voce di Ginevra dirgli: «Vieni, Ste’! Ci stiamo bevendo lo champagne! E dài!» Ginevra lo aggancia a un braccio. Quasi lo tira. Manuel cede. Ritorna dagli amici. «A Connie!» brindano alzando il calice con lo champagne. Anche Manuel lo alza. «Sì, ma brindiamo senza la festeggiata?» «Ma stiamo brindando a lei, no?» fa Irene, e ride: ha già bevuto un Godi Godi alcolico, e ha mangiato pochissimi degli stuzzichini sul tavolo a tre metri da loro; gli stuzzichini li ha fatti preparare Carlo, l’amico medico di Ginevra e fidanzato di Silvia. «E poi quando tornerà ci faremo un altro giro…»
«E va bene.» Manuel cede di nuovo. Cosa può fare? Sta bene con loro. In particolare con Carlo. Ha molte pratiche che potrebbero interessare Manuel, che da due anni ha avviato uno studio da avvocato. Carlo gli ha chiesto di occuparsi già di una causa. Lui l’ha risolta brillantemente. Avrebbero potuto venire altre cause. Altre parcelle. Manuel si avvicina e ascolta la conversazione tra Filippo e Carlo. «…i chemioterapici antiblastici sono letali!» fa Carlo. «Infermieri e tecnici non possono non usare protezioni. Nemmeno quando, per dire, si puliscono i bagni dei pazienti: i farmaci vengono espulsi in maniera troppo significativa con gli escreti!» «Sì, su questo avevo letto un provvedimento… del 4 agosto del 1998» dice Filippo. «5 agosto del 1999.» «Ah, sì?» fa Filippo. Butta giù lo champagne che gli è rimasto nel calice in una sorsata. «Sì. E comunque è il pezzo di carta giusto. E ci sono quelli che non li utilizzano. Ci sono. Li ho visti.» «Lo dici a me, che nei cantieri ho a che fare con delle specie di maniaci suicidi quasi ogni giorno…» «Pe… pe…» Carlo è proprio accalorato; sente molto questo argomento. «Per esempio, per i detergenti. Si devono usare guanti, visiere e occhiali di protezione. Per i disinfettanti, invece, guanti, visiere, occhiali di protezione, grembiuli, maschere antigas. E come sistemi di protezione collettiva cappe chimiche e sistemi a ciclo chiuso…» «Già…» Filippo si sposta al tavolino degli stuzzichini. Prende una pizzetta al formaggio. Si unge le dita e la parte destra della bocca e del mento quando l’addenta. Carlo prosegue. Gli ha preso di mettersi a fare liste, e quando ti scatta questa
voglia è difficile frenarsi almeno fino a quando non si è arrivati in fondo. «…per i prodotti di laboratorio come sistemi di protezione collettiva ci vogliono le cappe chimiche, come dispositivi di protezione individuale per uso normale guanti, visiere, occhiali di protezione, come dispositivi di protezione individuale occasionali o spanti, guanti, visiere, occhiali di protezione, grembiuli, maschere antigas…» Manuel ascolta sorseggiando lo champagne. La luce verdeazzurra della piscina gli illumina la pelle bianca, tesa sugli zigomi. «…per i prodotti di sviluppo e fissaggio ci vogliono aspirazione localizzata e guanti, visiere, occhiali di protezione e maschere antigas. Per i gas anestetici, invece, ci vuole un sistema di evacuazione forzata come protezione collettiva e per gli interventi occasionali guanti, maschera antigas e facciali filtranti P3…» «Facciali filtranti P3?» si inserisce a questo punto Manuel. «No! Che stupido! Per i gas anestetici non ci vogliono, hai ragione!» Manuel prende un altro sorso dal calice. Si bagna soltanto le labbra. «Però ci vogliono per gli antiblastici. Cappe a flusso laminare verticale. Guanti. Occhiali di protezione. Grembiuli. Visiere. E facciali filtranti P3» Carlo indirizza lo sguardo a Manuel. «Ti intendi di queste cose?» «Ho soltanto fatto alcune letture» dice Manuel, che preferisce non bluffare. «Conosco il Decreto Legislativo del 2 febbraio 2002. Il n. 25. So che la valutazione dei rischi in ambiente ospedaliero risulta difficile perché si riscontrano praticamente tutte le tipologie di rischio ipotizzabili. Ci sono i cloruri. Che girano durante la pulizia. Nelle lavaferri si usano detergenti a base di tensioattivi con un pH fortemente alcalino. Per gli apparecchi a ultrasuoni, invece, o per la pulizia manuale si usano detergenti enzimatici/plurienzimatici. Questi prodotti comportano rischi per contatto alla cute e gli occhi per ingestione. Bisogna stare attenti, poi, alla clorexidina, al polividone-iodio, che è costituito da polivinilpirrolidone e iodio, al cloro e agli ipocloriti di sodio e di calcio, e al perossido di idrogeno. E poi nei laboratori chimico-clinici attenzione a metanolo, esano e agli altri solventi pericolosi che hanno elevata probabilità di dispersione nell’ambiente tramite i sistemi di degasaggio» Manuel butta giù alcol; si rende conto che sta parlando molto ma vuole continuare. «Nei laboratori
di microbiologia ci sono le ammine aromatiche che sono preparati molto pericolosi. Nei laboratori di anatomia patologica i prodotti presenti sono la formaldeide, lo xilene, gli alcoli, i coloranti, e sono usati a decine di litri al giorno. Il rischio connesso all’utilizzo dei vapori anestetici è dovuto al protossido di azoto di norma associato ai vapori di un composto alogenato Alotano (fluotano), Enfluorano (etrano), Isofluorano (forano), Desflorano e Sovrafluorano. Per non parlare poi dei farmaci chemioterapici antiblastici…» Manuel si stoppa. Filippo e Carlo lo guardano sbalorditi. «Se volevi impressionarci» gli dice Filippo «ci sei riuscito…» Sì, ma dove è finita Connie? «Che ti avevo detto, Carlo? È o non è preparato?» «Ah, certo. Non si può dire che la lezione non l’abbia studiata…» dice Carlo. Dalla sua voce traspare un po’ di imbarazzo per essere stato scippato della sua parte. «Scusate… Si tratta solo di qualche lettura, comunque…» si giustifica Manuel. «Non ti devi giustificare, Manuel…» gli dice Carlo. Se non fosse che hanno solo qualche anno di differenza Carlo avrebbe detto “Non ti devi giustificare, figliolo…” tanto è stato paternalistico. Sì, ma dove è finita Connie? «Scusate… Scusate… Devo andare in bagno. Scusate…» si costringe a dire. Manuel si allontana dal gruppo. Percorre il giardino esterno al locale della discoteca ed entra. Ginevra intanto ha estratto dalla borsetta il cellulare. Scrive un messaggio rapidamente.
Lo invia al cellulare di Connie. Il messaggio dice: “Manuel sta venendo a cercarti”.
«Cazzo, Ginevra, tu me lo devi!» «Cosa ti devo? Cosa?!» «Mi devi il favore che ti sto chiedendo. Mi devi coprire le spalle con Manuel!» «Ma è una pazzia! Ed è una cattiveria! Manuel non se lo merita, Connie!» «Questo non lo so. E poi, proprio tu parli a me di cattiverie?!» «Ma cosa ti sta succedendo? Da un po’ di tempo a questa parte sembri cambiata. Sei diversa. Fai delle cose che prima non facevi. Dici cose che prima non dicevi. Santo Cielo, tu sei Connie La Brava. Che cosa sta succedendo alla persona che conoscevo?» «Piantala! Aiutami e basta!» «E se non lo fi?» «Farò sapere a Silvia della tua storia con Carlo.» «Tu non lo faresti mai…» «Connie La Brava forse non lo farebbe. Ma adesso non sono più Connie La Brava. Ti sei accorta anche tu che sono cambiata.» «Connie…» «Ti prego di aiutarmi, Ginevra. Fallo e basta.» «Ma perché?! Posso sapere almeno il perché?» «Lo saprai a suo tempo.» «Oh, bella! E quando?»
«Oggi è il 7 agosto, giusto?» «Seh.» «Allora lo saprai tra meno di sei mesi.»
Il vento entra dalla finestra socchiusa. Fa muovere le tendine scure che separano la saletta. Le si infila anche tra i capelli e li spettina un poco. Connie non riesce a stabilire di quale colore siano le tendine scure. Sono blu come il cielo fuori dalla finestra oppure sono grigie come le pareti della saletta? Poi Matteo la stringe. Le porge una coppa di champagne. Quasi le grida all’orecchio: «Brindiamo ai tuoi trent’anni!» e le porge la coppa di cristallo riempita per due quarti di un liquido dorato. La musica la frastorna. Connie prende la coppa di cristallo. Sorride. È mezzanotte e cinque minuti. C’è musica a gran volume. Il pezzo di Jamie Lidell When I come back around che in un altro momento le avrebbe messo l’adrenalina, adesso, invece, la scombussola soltanto, e la confonde. Guarda Matteo. Guarda Sharon. Guarda Christian. Federico. Mary. Guarda gli altri. Le stanno attorno. Hanno in mano la loro coppa. Adesso hanno smesso di ridere. Hanno interrotto le loro conversazioni. Aspettano soltanto che lei dica qualcosa. Connie guarda il cellulare che tiene nella mano destra. Lo brandisce. Quasi lo stritola. Cerca le parole. Poi dice: «Devo…» Ha un’incertezza. «Dis-cor-so…» la inneggiano gli amici. «Io devo…» «Dis-cor-so! Dis-cor-so!…» «Volevo soltanto dire…» «Dis-cor-so! Dis-cor-so! Dis-cor-so…» Il cellulare le vibra nella mano. Connie guarda il display. È un messaggio.
Lo apre. Legge. “Manuel sta venendo a cercarti.” «Oh, mamma…» mormora Connie. «Credo di aver dimenticato qualcosa giù alla toilette…» dice ad alta voce. Scoppiano tutti a ridere. «Eh già» dice Connie; le pareti sembrano essersi ristrette intorno a lei; le facce degli amici le sembrano a un centimetro dalla sua. «Non è molto come discorso… Però… Ci metto un momento…» dice, ed esce dalla saletta. Connie attraversa il corridoio tra i privé. Lascia la coppa di champagne su un tavolino nero accanto a un vaso di orchidee. In quel momento sente una mano chiuderle un braccio. Connie si volta. «Che succede?» È Matteo. Connie scuote la testa. «Ma no, niente. Non succede niente. Devo solo andare in bagno. Torno.» «Sei sicura? C’è qualcosa che non va?» «Non sto proprio benissimo. Però, non ho niente. Adesso devo solo andare alla toilette» dice Connie. «Va’ dagli altri. Torno.» Gli rivolge un sorriso. Si rende conto di aver usato le stesse parole che ha usato con Manuel soltanto cinque minuti prima. Connie dà una carezza sulla guancia a Matteo. Si volta e scappa. Per le scale incontra Manuel. «Connie!» «Manuel!» «Cosa fai qui?!» «Devo essermi persa. Pensavo di infilare l’uscita. Cercavo la scala per uscire da fuori e invece… Credo di aver bevuto troppo» la versione di Connie regge. Al Villa Taunus si può accedere alle salette anche attraverso una scala che si alza dal giardino. «Devo aver esagerato con il Cuba Libre. Forse s’è sbagliato, al bar, e m’ha dato un Negroni. I Negroni non li reggo.»
«Già, ma adesso vieni fuori» dice Manuel, e la afferra per un gomito. «I nostri amici ci stanno aspettando.» «Sì, lo so.» Connie si ferma. Sono in mezzo alla pista adesso. «Manuel, mi senti?» «Sì.» «Andiamo via presto stasera. Subito.» Manuel si porta una mano alla nuca. Si guarda una punta della scarpa. «Va bene. Va bene. Adesso andiamo, però.» Mentre Manuel si fa largo tra i corpi che si muovono nella pista da ballo, Connie senza farsi vedere da lui scrive a Ginevra questo messaggio: “Questo è il momento. Provaci con Manuel”.
«Che cosa?! Ma ti sei impazzita?!» «No.» «Ma perché?!» «Piantala con i perché! Ho già risposto a questa domanda.» «Devo provarci con Manuel?» «Sì.» «Alla festa del tuo compleanno?» «Proprio così.» «Ma è una follia!»
«Non devi portartelo a letto. Devi solo provarci un po’…» «È… malato.» «Lo so.» «Tu sei malata.» «Lo… so… Ginevra…»
Levano i calici. Brindano. Ginevra, Manuel, Carlo, Silvia. Gli altri. Dicono: «Buoni trent’anni!» Manuel aggiunge: «Cheers.» Poi seguono risate. Schiamazzi. Versi. Qualcuno dall’altra parte della vasca della piscina grida. La voce è maschile, ma sembra quasi femminile. Qualcuno sta per finire in acqua. Braccia amiche, però, forse le stesse che per poco non ce lo fanno finire, lo sorreggono in tempo. Cinque minuti. Sono cinque minuti che Connie sta con i suoi amici. Ha fatto un discorso pieno di reticenze. Ha visto Ginevra mettersi accanto a Manuel. L’ha vista toccargli una spalla con la sua. Poi con il gomito sfiorargli il petto. Ha notato Manuel far finta di niente. Lo ha notato, però, non cambiare posizione. Non spostarsi. Rimanere lì. Nel frattempo Connie ha tenuto d’occhio anche le finestre al piano superiore. Temeva che qualcuno dell’altro gruppo d’amici potesse affacciarsi a una delle finestre e riconoscerla. Magari Matteo in persona. Dopo aver fatto il discorso e aver levato i calici il gruppo si sposta al tavolo degli stuzzichini. Manuel le dà un bacio sulle labbra. Le dice che l’ama. Poi Ginevra trova il modo di attirare di nuovo la sua attenzione. Manuel deve aver bevuto troppo. Per questo accetta che Ginevra riduca le distanze in quel modo per parlargli. In altre circostanze non lo avrebbe permesso. Specialmente con Connie a qualche o. Ginevra gli sta toccando un fianco con il suo. Una spalla gli sta toccando il petto – Manuel è molto più alto di Ginevra. Si guardano negli occhi. Ginevra muove un braccio e scuote il bracciale che tiene al polso. Connie può isolare il rumore prodotto dal bracciale nonostante la musica che esce dalla sala della discoteca – o almeno così le sembra di poter fare. Con lo stesso braccio Ginevra si avvolge una ciocca di capelli mentre ascolta Manuel parlare. Intanto Silvia e Carlo davanti a lei le stanno dicendo qualcosa. Usano molti massì, e va bene. Connie,
però, non riesce a capire cosa dicono. Alle sue orecchie arriva solo il suono delle voci. Poi Connie dice: «Uh, scusate… Ho dimenticato di mandare un messaggio» e invia un sms a Matteo che contiene queste parole: “Aspettami davanti alla toilette”. Dopodiché torna con lo sguardo ai suoi amici. Li interrompe. Dice: «Ho voglia di ballare. Perché non entriamo a ballare?» Silvia e Carlo scoppiano a ridere. Loro non sono tipi da mettersi a ballare nella pista di una discoteca. Queste cose non le fanno più da anni. Forse non le hanno nemmeno mai fatte. Anche il resto della compagnia assomiglia a loro due. Lo stesso Manuel è diventato così. Lei stessa. Carlo e Silvia, però, capiscono lo spirito della sua proposta. Scoppiano a ridere. Scuotono la testa. «Oh no… Oh no…» dicono, e quasi Silvia, che sembra vestita con un prendisole e un cappello di paglia – in effetti il capello è quasi di paglia, nel senso che il colore è quello della paglia, e il vestito è quasi un prendisole, perché ha i fiorellini bianchi – si mette a rendere esplicito quel che è sottinteso. Che non ballano da anni eccetera. Connie allora glielo impedisce. Si mette a dire: «E dài… Qualche minuto… Solo qualche minuto…» Sta per aggiungere che questa sera ha voglia di adrenalina. Quella parola, però, le sembra troppo forte per tipi come Carlo e Silvia. Carlo si volta verso Irene, e gli altri amici. «La Connie vuole ballare» annuncia. Ginevra che sta a soltanto qualche metro, soltanto di poco defilata dal gruppo con Manuel, intercetta le parole di Carlo e dice: «Mi sembra una grande idea! Io ci sto.» Così Connie, Manuel, Ginevra, Irene, Carlo e Silvia, che Connie e Irene in pratica stanno costringendo a forza ad andare con loro, mentre loro due scoppiano a ridere in continuazione, goffamente, si spostano nella sala interna. Entrano nella pista da ballo. Cominciano a ballare. Sta andando un pezzo di Mark Ronson featuring Amy Winehouse intitolato Valerie. Dopo pochi momenti Manuel si allontana da Connie. Prende una mano di Ginevra. Le fa fare la giravolta. Scuote la testa. Ride. Si agita. Guardandolo Connie si domanda che cosa ci fosse nello champagne. Si domanda se sta cercando di farla ingelosire oppure se è soltanto Ginevra che è molto brava a sedurlo. Magari sta solo
cercando di farle pagare il misterioso va e vieni che lei ha messo in atto dall’inizio di serata. Comunque è proprio quello che Connie vuole. Prima con Carlo e Silvia ha omesso la parola adrenalina, anche se è esattamente di questo che Connie questa sera va in cerca. Di adrenalina. Però, non le basterebbe la musica a tutto volume e qualche sorso di champagne. Vuole di più. Molto di più. Connie dà un’occhiata a Ginevra. Lei risponde con un gesto di intesa. Approfittando delle luci che diventano flash bianchi e neri Connie si inabissa tra la massa di corpi che cercano spazio nella pista da ballo. Si dirige verso la toilette. Incontra Matteo. Lo abbraccia. «Dove sei stata?» le dice lui. «Dove sparisci sempre?» «No… No… Non fare così… Non mi sgridare…» gli dice lei a un orecchio. «Lo so cos’hai… Tu ce l’hai con me perché non mi sono fatta accompagnare da te per arrivare qui…» Le gira la testa. «Beh, sì… C’è qualcosa di poco chiaro in questo… Non so nemmeno chi ti ha accompagnata… Però… Sono troppo ubriaco adesso per ragionarci… Troppo… Troppo ubriaco… Sì…» Ride. Connie lo spinge verso la porta della toilette. Prima a poco a poco. Poi Matteo si accorge che sono entrati nell’antibagno. A destra c’è la porta delle donne. A sinistra degli uomini. «Cosa stiamo facendo, Connie…» «E zitto…» miagola lei. Lo spinge nella porta della toilette degli uomini. Dentro ci sono due ragazzi che si stanno sciacquando le mani ai lavandini. «Connie, no!» grida Matteo. «Scusate…» dice rivolto ai ragazzi. Però non fa niente per impedire a Connie di spingerlo nel primo gabinetto della fila. È una cabina stretta. Il gabinetto è alla turca. Non è nemmeno troppo pulito. Per fortuna però non è orribilmente sporco. Matteo pensa che magari a Connie
non sarebbe nemmeno importato. A lui nemmeno. Matteo chiude la porta. Fa scattare la sicura. Connie indossa un abito da sera nero. Ha il girocollo e sul girocollo una collana di perle – che le è stata regalata da Manuel. Ha la scollatura – che Manuel le ha già criticato. Ha i guanti da sera. Lunghi. Di raso. Neri. L’abito da sera è ai suoi piedi. Il reggicalze è slacciato. Le mutandine alle ginocchia. Il reggiseno abbassato. Non slacciato. Matteo la penetra così. In piedi. I boxer e i pantaloni sono abbassati a mezza coscia. Le sta grugnendo all’orecchio. Questo la sta eccitando da morire. Connie gli tiene le mani aggrappate alla base del collo. Nella mano destra tiene ancora il cellulare. Che si mette a squillare. Connie si aggrappa a Matteo. Senza che lui esca da lei riesce a incrociargli le gambe dietro la schiena. Matteo è alto un metro e ottantaquattro. Ha muscoli distribuiti su ogni centimetro delle ossa. Sicché la regge. Le entra ancora più dentro. Si salda a lei. Il cellulare squilla. Con lui così dentro Connie non si sorprenderebbe di spaccarsi da un momento all’altro in due metà. Lui non la appoggia nemmeno al muro antistante. Si limita a grugnirle nell’orecchio ancora più forte. Il cellulare squilla. Connie guarda il display. È Manuel. Connie prende un sospiro. Matteo grugnisce. Connie risponde. «Ma dove cazzo sei?» le fa Manuel. «Sto… Sì, sto…» «Vieni qui immediatamente o giuro su Dio che vado via con Ginevra!» «…va bene… va bene…» Matteo grugnisce. Le fa entrare nelle orecchie dei suoni che la eccitano al massimo. «Hai capito? Hai capito bene? Subito!» Matteo grugnisce. «…sì… sì…» Connie spegne il cellulare. Viene. La porta dietro la schiena di Matteo traballa furiosamente. Matteo viene. Prima grida Connie. Poi grida Matteo. Il suo grido le entra nell’orecchio. Il cervello dentro il cranio le sembra le si sposti. I loro
corpi tremano assieme. Poi Matteo le dice: «Buoni trent’anni.» «Sì.» «Buoni trent’anni.» «Sì.» «Buoni trent’anni.» «Grazie. Sei stato grande.» Si rivestono. Aspettano che la toilette si svuoti. Aspettano per almeno cinque minuti buoni. Poi escono dalla cabina e dalla toilette. Connie dice a Matteo che deve tornare a salutare i suoi amici. Usa la parola tornare perché ha tirato fuori la stessa scusa che ha usato anche prima. Matteo non sembra avere molto da obbiettare. Le dice che è meglio che lui, invece, torni di sopra dai loro amici. Le dice di fare presto con i suoi amici. Le chiede chi sono, poi, questi amici. Però non aspetta che risponda. Va via. Lei entra nella pista da ballo. Cerca Manuel. Ginevra. Carlo. Silvia. Irene. Trova Ginevra. Manuel. Sono abbracciati. «Sono tornata» grida Connie all’orecchio di Manuel. Manuel si stacca da Ginevra. Ha l’aria colpevole. Magari ha anche allungato una mano su Ginevra. Manuel con Connie lo fa spesso. Magari ha dato un bacio sul collo di Ginevra. Ginevra ha un collo esile, latteo. Connie si mette a ballare. Manuel l’asseconda. Dopo un poco le chiede dove è stata. Sono stata alla toilette. Non è il comportamento giusto. Dài, non rompere. Lo dico perché stai facendo una brutta figura. E tu con Ginevra? Che c’entra? Cosa stavate facendo? Ma niente. Sì, raccontala a un’altra. Ma smettila. Vuoi fartela oggi che è il giorno del mio trentesimo compleanno? Non rovinare tutto. Guarda che ti mollo. E fallo, allora, fallo. Così puoi metterti con quella stronza! Sì, guarda, sì. Che stronzo… No, guarda, non fare così. Stronzo… Dicevo per dire. Stronzo… Dove sei stata? Alla toilette!
«Connie La Brava forse non lo farebbe. Ma adesso non sono più Connie La
Brava. Ti sei accorta anche tu che sono cambiata.» «Connie…»
Dopo l’ennesimo squillo a vuoto del telefono, Manuel Arroni si rende conto che non gli è più rimasto un solo amico. È sabato. Metà settembre. Si trova nel suo monolocale di Porta Genova in via Voghera a Milano. Da ieri sera cerca di contattare qualcuno per uscire, farsi una serata. Però non gli risponde nessuno. Ha provato con i suoi migliori amici. Con quattro ex colleghi dl’università. Con due colleghi del lavoro. Lì, è stato comprensibile non ottenere risposta. Sul lavoro ormai i suoi colleghi non lo sopportano più. Se potessero gli squarcerebbero le ruote dell’auto. Magari gli squarcerebbero l’addome con un coltello da cucina. Ormai questa situazione in ufficio va avanti da due mesi almeno. Poi ha provato con Sabina la morosa che aveva fino a due settimane fa da circa due o tre giorni dopo la festa di compleanno di Connie prima che lei smettesse di rispondergli al telefono, alle e-mail, al citofono, al camlo. Sabato mattino ha provato con Ludmilla, una ex. Niente. Con Fatima, un’amica della palestra. Niente. Non gli risponde nessuno. Quando ha telefonato ai suoi genitori, dopo il quarto squillo a vuoto pensava non gli avrebbero risposto nemmeno loro. Poi invece ha risposto suo fratello. Gli ha riferito che stavano in giardino. Per questo hanno tardato a rispondere. Durante il pomeriggio Manuel ha fatto telefonate a tappeto dalla sua rubrica del cellulare. Ha anche chiamato persone che non sentiva da anni. Ha chiamato persone anche a due o tre ore di automobile da Milano. Avrà fatto quaranta telefonate. Ha ricevuto quattro risposte, sì e no. Una di queste era di una voce sconosciuta che gli ha riferito che il cellulare non era più di proprietà di Michele. Lo aveva perso a una mano di poker con la voce che Manuel sentiva parlargli adesso. Poi ha interrotto la comunicazione. È così che Manuel è arrivato alle nove e mezzo di sera senza essere riuscito a trovare qualcuno che non solo i una serata con lui, ma che si degni almeno di rispondergli al telefono. È evidente che qualcosa non va. Ci deve essere qualcosa nel suo modo di rapportarsi agli altri. Deve aver modificato qualcosa. Deve aver detto o fatto qualcosa. Poi gli viene un’idea. Imposta l’apparecchio in modo che il suo numero non compaia. Ricomincia le telefonate. Prova con uno dei suoi migliori amici. Prova con i colleghi. Con Sabina. Con Ludmilla. Con Fatima. Rispondono. Dopo due o tre squilli, rispondono. Manuel mette giù subito. Tanto gli basta. Non vuole
parlare con persone che non desiderano parlare con lui. È sconcertato. Il cuore sembra voglia uscirgli dal petto. Che sta succedendo? «Che sta succedendo?» chiede a Connie. Le ha telefonato per la terza volta. Le prime due ha inviato i suoi dati. La terza volta, invece, li ha coperti. Sono le dieci e mezzo di sera. «Che cos’è? Puzzo? Ho la scabbia? Sputo quando parlo? Ho qualche virus? Che sta succedendo?» «Calmati. Sono sicura che nessuno ce l’ha con te, Manuel» gli risponde Connie. «È soltanto una giornata storta, magari.» «La pensi così?» «Sì.» «Allora, possiamo vederci, stasera.» «Purtroppo mi prendi in un momento non buono. Adesso non posso. Potrò domani, però. A parte il fatto, Manuel, che tra di noi è finita.» «Lo so che è finita! Non me lo devi ricordare! Sto solo cercando… Sto solo cercando un po’ di compagnia…» «Lo so.» Manuel ha un’esitazione. «Forse è come dici tu. È soltanto una giornata storta. Domani, allora?» Sente Connie dall’altra parte del ricevitore dare un tiro alla sigaretta. Poi le sente dire: «Sì, domani per me va bene… Sul tardi, però… Ora, se permetti, devo proprio scappare, Manuel. Stai bene.» Quando mette giù il ricevitore, Connie dà un altro tiro alla sigaretta. Si trova nel suo appartamento. Genova. Via Enrico Toti 13. Dopo aver chiuso la comunicazione da qualche secondo, ride. Si porta una mano alla faccia. Poi si sposta al computer. È un portatile Compaq. Lo ha acquistato nel 2004. Da allora lo ha usato senza problemi. Digita la per introdursi nel sistema. La è //Manduria1981//. Sul desktop clicca su una cartella nominata //4//. Dentro ci sono altre cartelle. Sono ordinate per data. C’è la cartella nominata Registrazioni. La cartella nominata Videoriprese. La cartella E-mail. Apre la
cartella Registrazioni. Dentro ci sono almeno una quarantina di file in formato Mp3. Connie clicca un file nominato Fatima e sua sorella. Dura quattro minuti e ventidue secondi. Al termine della registrazione clicca su un file nominato Ludmilla la bugiarda. Tre minuti e trentaquattro secondi. Poi su un file nominato Mio fratello, non lo sopporto. Dura soltanto trentacinque secondi. Connie schiaccia la sigaretta su un posacenere. Nel posacenere non ci sono molte cicche. Clicca un file nominato Come succhia Sabina. Dieci minuti e sedici secondi. a alla cartella delle e-mail. Legge per tre quarti una e-mail di due pagine dal titolo Colleghi sfigati. Poi a alle videoriprese. Le ha fatte lei, mentre Manuel le parlava, e non si accorgeva di nulla. Guarda un video nominato Quegli stronzi alla diocesi. Dura sei minuti e qualcosa. Connie arriva fino a metà. Ride. Di gusto. Guarda l’orologio. Pensa che ha ato anche troppo allo schermo. Allora prende il cellulare che sta posato sulla scrivania assieme al Compaq e compone un numero. «Sabina?» dice. «Ciao, Connie.» Ha il tono di chi deve un favore a una persona che l’ha tolta da una situazione brutta. «Lo ha fatto anche con te?» le dice subito. Sabina lascia are qualche secondo di silenzio. «Sì» dice poi. «Mi ha chiamata una volta. Credo anche due. Della seconda, però, non sono sicura. Ho ricevuto un numero privato. Però quando ho risposto dall’altra parte non ho sentito nessuno.» «Che scassacazzi.» «Sì.» «Non ci lascerà in pace, mai» dice Connie. «Se non gli rispondiamo, prima o poi la smetterà» dice Sabina. «Fortunato che non l’hai portato in tribunale…» «È un poveretto. Uno che dice cose come quelle che mi hai fatto sentire è solo
un poveretto. Non c’è bisogno di denunciarlo. Qualcuno che lo mette a posto prima o poi quello lo trova» dice Sabina. «Tu stai bene, comunque?» «Sì, abbastanza bene. Stasera esco con le mie amiche. Anzi sono in ritardo. Andiamo al Macò. Vuoi venire?» «Dove?» «Corso Italia.» «La discoteca?! No… Ci saranno solo ragazzini… Però… Magari sì. A che ora vi trovate?» «Dovevamo trovarci alle dieci e mezzo. Arriveremo alle undici e mezzo. Io devo ancora mangiare.» «Riesci a resistere fino a quell’ora?» «No.» Connie ride. «Se riesco vi raggiungo.» Segue un momento di silenzio. «Ciao, Connie» dice poi Sabina «e… grazie» aggiunge. «Ciao, Sabina, e se ci sono problemi…» «Certo.»
«Tu sei malata.» «Lo… so… Ginevra…»
Capitolo 3
Da una settimana la signora Katrina trova sua figlia Connie strana. Sì. Da quando è tornata quest’ultimo sabato dalla discoteca. È il 19 ottobre. La signora Katrina è la madre di Connie e vorrebbe averla sotto gli occhi sempre, ma non può opporsi come faceva un tempo alle nottate che sua figlia trascorre fuori casa. Le tocca soffrire in silenzio. Sobbalzare nel sonno quando sente che rincasa posteggiando la macchina nel vialetto sotto il palazzo dove abitano. Una decina d’anni fa pensava che quando Connie sarebbe diventata adulta questo tipo di emozioni, come quando rincasa o sta fuori un po’ più a lungo, l’avrebbero abbandonata; invece la signora Katrina si è accorta che non le è ancora successo, e probabilmente pensa che ormai non le succederà più. Ancora si ritrova a eggiare a notte fonda per la casa rimettendo a posto un cuscino o le ciabatte nella stanza di Connie o mettendosi a guardare programmi assurdi alla televisione del soggiorno aspettando che sua figlia rincasi come faceva dieci, quindici anni fa. Comunque, pensa la signora Katrina, Connie è una ragazza coscienziosa. Di lei non ci si può lamentare. Torna a casa nell’orario stabilito. Poche volte in ato lei e suo marito hanno dovuto riprenderla per qualche ritardo. In strada ci sta attenta. Manuel ci sta attento. O ci sta attento qualcun altro perché se non ha capito male la signora Katrina crede che sua figlia lo abbia lasciato, Manuel. Ad ogni modo pensa che anche quest’altro che l’accompagna adesso, questo Matteo, sia qualcuno che in strada ci sta attento. A parte qualche periodica ammaccatura alla carrozzeria, Connie non ha mai avuto incidenti seri. Ricorda che una volta Connie aveva posteggiato la macchina dove le avevano portato via i tergicristalli… ma è stato l’unico episodio ed è successo molto tempo fa. Da qualche giorno, però, la signora Katrina trova sua figlia diversa. Non sta parlando degli atteggiamenti. Figuriamoci! Quelli in Connie mutano da un giorno all’altro… Non sta parlando del fatto che sua figlia da quasi un mese ormai è in ferie dal lavoro – e Connie non ha preso ferie da quando aveva ventisei anni: ha sempre aspettato che l’ufficio legale dove lavora fe la pausa estiva per due settimane ad agosto per andare in vacanza con Manuel. Non parla della rottura con Manuel: che è un avvenimento nella vita di sua figlia, e anche un po’ nella loro, perché ormai si erano abituati a considerare Manuel quasi come un figlio. No. Sta parlando di un cambiamento fisico… Sta
pensando che in questi giorni trova sua figlia troppo… troppo… pallida. Non capisce perché. Connie si nutre in modo sano. Pasta, carne, verdura, frutta. La prima cosa che le ha insegnato da bambina è stato non spendere in porcherie: patatine, panini untuosi, bibite gassate. Connie è forte. Robusta. Non ha avuto molto spesso problemi eccessivi di acne o di smaltire qualche chilo di troppo e di sicuro nemmeno recuperare qualche chilo di meno. Eppure durante questi giorni che Connie ha deciso di are a casa con loro a Tortona, dove Connie è nata, e dove ha abitato fino a quattro o cinque anni fa prima di decidere di trasferirsi nell’appartamento di Genova, la signora Katrina ha notato qualcosa… Non è soltanto pallida, tanto che la signora Katrina ha deciso contro la volontà della figlia di prendere appuntamento col medico per controllare che non soffra di anemia o abbia qualche carenza nel sangue. No. C’è anche qualcosa d’altro. Ultimamente Connie si è messa anche a… Beh, un po’ si vergogna anche solo a pensarci ma… Insomma, Connie puzza. Puzza proprio. Connie è sempre stata molto curata nell’igiene intima. Lei è molto diversa da Tommaso, il secondogenito della sorella della signora Katrina. Si è sempre lavata molto e, deve dire, certe volte la signora Katrina si chiedeva perché cavolo fe la lavatrice visto che negli sporchi finiva tutta roba linda e pulita e persino profumata. Gli sporchi di Connie erano sempre stati quasi… beh, puliti. Connie ha sempre avuto il terrore dei cattivi odori. Quasi era una maniaca in queste cose. Si lavava i denti qualcosa come cinque volte al giorno, tanto che il dentista a una delle rare visite a cui le aveva consigliato di sottoporsi le aveva suggerito di non esagerare con i lavaggi. Non l’ha mai sentita puzzare nemmeno quando a sedici anni giocava a pallavolo e tornava a casa ridotta a uno straccio. Non l’ha mai sentita emanare un odore sgradevole. Fino a quest’ultima settimana, però. È un vero e proprio fetore nauseabondo. È disgustoso. Le spiace ammetterlo ma è così. È orribile. Il puzzo si leva dai vestiti e dalla pelle come una specie di gas vischioso che impregna muri, mobili, tappeti, tutto. È un odore che è quasi impossibile da identificare. A parte che né lei né suo marito sono bravi a identificare odori. È una qualità di cui sono totalmente sprovvisti… a differenza,
per esempio, di qualche loro amico, in particolare di Nella che riesce a distinguere la marca di un profumo a cinque metri di distanza. Forse potrebbe chiedere a Nella di darle una mano. Di andare a casa sua vicino a Connie (ma non troppo vicino, per carità…) e identificare l’odore. Quasi le viene da ridere per la sciocchezza che ha appena pensato. Non sa proprio più cosa pensare. Proprio non sanno dove sbattere la testa, lei e suo marito, con questo problema. Connie si è messa a fare tre docce al giorno, si è cosparsa di talco, profumo ma non è servito a niente lo stesso, anzi, ha peggiorato le cose. Sembra quasi che Connie in bagno faccia solo finta di lavarsi… Ma è una puzza tremenda, accidenti… Forse è collegata in qualche modo al pallore della pelle. Forse si tratta di cattiva alimentazione, anche se le sembra ben strano. Forse è indigestione di qualcosa e comunque una sera hanno discusso di questo tutti e tre, sua figlia, suo marito e lei intorno al tavolo della cucina con la tele a volume quasi azzerato. Hanno voluto sapere che spiegazione Connie avesse da dare per quello che le stava capitando. «Mamma, non mi sta succedendo proprio un bel niente.» «E lo chiami un bel niente?» «Alla faccia!» ha detto suo marito. «Qui non si può più respirare. Puzzi come una latrina… e per di più sei bianca come un cencio. Insomma, Connie, spiegati. Hai fatto qualcosa che non dovevi?» ha voluto sapere la signora Katrina. «Tipo?» «Beh se… se hai bevuto troppo o se…» «Tua madre vuole sapere se ti sei ubriacata fino all’indigestione, ecco cosa» ha chiarito suo marito con la delicatezza e i giri di parole che lo contraddistinguono. «E in alternativa se ti sei drogata di qualche sostanza.» Connie si è lentamente alzata in piedi. «Drogata di qualche sostanza?» ha ripetuto come se fosse l’espressione di una lingua straniera sconosciuta. «Ma vi siete ammattiti? Come potete solo osare di…»
«Io oso perché sono a casa mia» ha detto il marito della signora Katrina. «E qui c’è una gran puzza. A lavoro oggi ho avuto mal di testa tutto il giorno. No, dico, signorina, dove vuoi arrivare con questa situazione?» «Vi ho detto che non lo so neanch’io perché puzzo così tanto… Forse, anzi, sicuramente è così, si tratta di una cosa eggera. Magari una malattia della pelle…» Dopo queste parole Connie è scoppiata in una risatina. «E sottoponiti a una visita, allora, no?!» è saltata su la signora Katrina alla parola “malattia” e soprattutto a quella risata. Di solito la signora Katrina sta attenta ai particolari che riguardano la figlia e quella risata non le è piaciuta. «No, no, aspe’, non malattia… Non ho nessuna malattia. Magari è la stagione. Non volevo dire malattia, ma’… Del resto sarà perché sono pallida…» Il marito della signora Katrina si è messo le mani alla testa. L’emicrania non lo aveva abbandonato. «Ma sta’ a sentire…» ha detto. «Siediti un minuto e cerca di ragionare.» Connie si è seduta. «La visita da un medico è la soluzione migliore. Anzi, mi sembra proprio il minimo» ha seguitato l’uomo. «Così perlomeno riusciamo a venirne a capo…» «Ma se sto benissimo!» ha sbottato Connie. «E dalli! No che non stai bene! Si vede distante un miglio, caspita!» Connie, però, non voleva farlo. «Non posso perdere tempo. Poi voglio vivere una vita normale…» «Ci finiamo noi dal dottore se continuiamo di questo o con questa puzza! Altroché, è deciso. Ti pigliamo l’appuntamento dal medico e ti fai visitare. Una controllata veloce, va bene?» «Non si prende l’appuntamento dal medico generico, papà» ha detto Connie. «Vabbè, quello che è» ha risposto lui. «Cosa vuoi che sappia io? Sono sempre
stato sano come un pesce. Però, vacci» ha ribadito il marito della signora Katrina. Poi ha dato una sbirciata alla tivù e ha alzato l’audio. «Sbrighiamoci a mangiare che c’è la partita…» un’occhiata alla figlia. «E tu studi stasera, no?» «Certo.» «Bene, così chiudiamo tutto bene, ché sennò…» si è guardato intorno come sottintendendo qualcosa nell’aria, poi: «…’somma, avete capito.» Poi: «Senti ma queste tue ferie dal lavoro, quand’è che finiscono?» «Presto, papà, presto.» «Vabbò.» Poi: «Senti, ma con Manuel com’è che va?» «Con Manuel è finita. Poi questi sono affari miei.» «Vabbò. Vabbò.» E fin qui suo marito. Ma lei non è stata così tenera. Le ha detto: «Io non sarò tenera come tuo padre». Le ha detto: «Tuo padre lavora tutto il giorno ma io sto a casa per quasi tutto il giorno e sto ammattendo… Senti, Connie, lo so che sei una brava ragazza eccetera, che non ci hai dato mai pensieri, che ti impegni, non fai tardi la sera e di solito non crei tanti problemi, però… Guarda che a imboccare la cattiva strada ci si mette poco.» Le è sembrato il minimo da dire. «E quale sarebbe questa cattiva strada?» ha detto lei.
Erano nella sua stanza, un’ora dopo mangiato. La televisione della cucina adesso era spenta. Dalla televisione a tutto volume in sala venivano le grida del telecronista. «Questo me lo devi dire tu. È evidente che hai combinato qualcosa, Connie, ce l’hai scritto in faccia.» «Che cos’è che avrei scritto in faccia, si può sapere?» è sbottata lei. «Ah vuoi che te lo dica io?! E allora te lo dico» la signora Katrina ha caricato. «Ti dico: eroina» e ha… sparato. In effetti sapeva di averla sparata grossa. Quando Connie è scoppiata a ridere quasi quasi la imitava anche lei. «Mamma…» ha detto Connie. «Senti» adesso si sentiva una cretina completa. «Forse non sarà eroina ma qualcosa è stato per ridurti così… Adesso voglio che mi racconti per filo e per segno, punto dopo punto, cosa cavolo hai fatto con i tuoi amici quest’ultimo sabato…» Connie ha detto: «Ma devo lavorare…» «Connie!» «Ma…» «Connie!» «E va bene. Buona buona. Adesso ti racconto. Però sintetizzo, eh? Non ti aspettare troppo.» «Voglio solo sapere dove sei andata, con chi sei andata e soprattutto cosa hai mangiato e dove.» Connie ha riso. «Vuoi dire che può essere stata la pizza coi peperoni?» «Hai preso pizza coi peperoni?» «Era tra gli stuzzichini. Ce n’era a tonnellate. Ma i peperoni non sembravano
avariati. E poi i peperoni avariati fanno venire mal di stomaco e io non… ma no, lasciamo perdere, sennò è peggio…» «Cosa?» adesso era preoccupata. Quella aveva sul serio qualche cosa. «Parla, Connie. Dimmi.» «Senti, ma’, io non ho tempo, lo capisci?» «Prima dimmi cosa senti» ha insistito lei. «Va bene. Però poi basta, d’accordo. Ho la tua parola?» «Sì sì, va bene. E dillo!» «In pratica, ritengo di avere una sinusite o qualcosa del genere, perché non sento più il sapore… non sento più niente. Ma c’è di più… ricorda la tua parola, ma’… mi sembra – ma è senz’altro una impressione sbagliata – di aver perso sensibilità al tatto. Capisci cosa voglio dire? Forse è dovuto al fatto che sono nervosa… sai, il lavoro, lo stress… apposta ho preso le ferie, altrimenti scoppiavo, dovevano portarmi via con la camicia di forza… devo avere una specie di piccola crisi nervosa, ma erà… Ne sono certa.» L’ha guardata. La signora Katrina era di cera. Era più bianca di lei. «Che cosa pretendi che faccia adesso?» «E che cosa devo pretendere? Lasciami in pace, no? Va’ via.» «No, non posso. Potrebbe essere qualcosa di serio, io…» Il cuore le batteva forte. Continuava a lampeggiarle un’idea in testa: epilessia. O chissà cos’altro… «Che cosa hai fatto sabato?» Connie era sempre più seccata. La sua pelle bianchissima sotto le luci della camera sembrava giallognola. Un occhio sembrava più grosso dell’altro. Sembrava un mostro, non sua figlia.
«Uffa, ma cosa ti devo dire? Sono andata in discoteca come faccio sempre, no? Ha guidato Matteo…» «È uno scalmanato!» «Non è uno scalmanato, come dici tu. È a posto…» «A posto? Non lo so! Non lo so! Non è Manuel! Di Manuel mi fidavo! Questo non lo conosco!» «Ma se l’hai conosciuto lo scorso martedì a cena, non lo ricordi più?» «Che c’entra? Una sola volta è troppo poco per farsi un’opinione su una persona!» Connie ha ridacchiato. «Vabbè ma con gli autovelox che hanno piazzato ad ogni paese, persino uno squilibrato totale andrebbe piano…» «Connie, tu non me la racconti giusta per niente…» le ha detto la signora Katrina quando Connie ha finito di raccontare. Del resto che cosa avrebbe potuto fare? O le estorceva la confessione di qualche atto scellerato oppure si accontentava della sua versione dei fatti. Domani o dopodomani, però, il dottore.
Stamane la signora Katrina ha notato due cose che l’hanno gettata nello sconcerto. La mattina si è svolta regolare come sempre. Sveglia alle sette e mezzo. Colazione (caffè per suo marito, caffelatte per lei, latte e cacao con i biscotti per Connie), toilette, un bacetto e poi suo marito è andato come al solito in ufficio (lavora in uno stabilimento chimico come dirigente), Connie si è chiusa nella sua stanza e ha cominciato a lavorare e lei ha cominciato a fare i lavori di casa perché oggi è venerdì ed è il suo giorno libero a lavoro (la signora Katrina fa la segretaria part- time in una ditta). La prima cosa che la signora Katrina ha fatto è stato aprire tutte le finestre
dell’appartamento per arieggiare. Liberarsi del cattivo odore della figlia ormai è diventata un’ossessione e sembra sempre più un’impresa impossibile. Quando è entrata in camera sua per rifarle il letto e ordinare un po’ le sue cose le ha anche ricordato di farsi visitare il mattino stesso dal dottore. Connie ha mandato qualche grugnito di disapprovazione, poi ha detto alla madre di lasciare stare con le pulizie, cosa le saltava in testa, ci avrebbe pensato lei più tardi. Comunque è stato mentre era in camera sua che la signora Katrina ha notato qualcosa che l’ha lasciata senza parole. Stava riassettando la stanza. Connie non è ordinatissima come tipo. Lascia sempre calze spaiate in giro, le scarpe una di qua e l’altra di là, i vestiti piegati male sulla sedia, a volte appallottolati incredibilmente. Per non parlare poi dei fogli che svolazzano per tutta la stanza e con i quali non si sa mai come comportarsi. I suoi fogli tutti mal scribacchiati sono sacri, e quando non riesce a trovarne uno allora sono guai seri. Comunque, la signora Katrina stava mettendo ordine quando ha levato lenzuola e copriletto. È stato più o meno a questo punto che è squillato il telefono in corridoio. Connie sbuffando e chiedendosi chi cavolo rompesse a quell’ora del mattino è andata a rispondere. «Pronto?» l’ha sentita dire. E poi: «Matteo!» l’ha sentita dire. «Che ti salta di chiamarmi a quest’ora? Non vai a lavoro?» ha detto. Come sempre la signora Katrina ha fatto finta di non ascoltare. Ha continuato a riassettare la stanza, a spolverare di qua e a dare colpi di scopa di là, e nel frattempo l’ha sentita dire: «Ma certo! Certo che sto bene. Sto benone, proprio! Non ti devi preoccupare…» Quindi qualcosa era successo sabato, ha pensato la signora Katrina. Ha preso lenzuola e copriletto e le ha spiegate per sbatterle e… «…tutto a posto, ti dico. Manco un graffio o un dolorino. È stato un bel volo in effetti, è vero. Mi sono pigliata una gran paur… Insomma, il finestrino tutto
abbassato e io che ci finisco attraverso e quella… quella frenataccia. Sei sicuro tu di stare bene?» …ha visto qualcosa che l’ha atterrita. Il copriletto era sporco di una sostanza nerastra che non riusciva a identificare, una scia di sporco che assomigliava a un’enorme macchia di sangue ma che non poteva essere… «…e la macchina è tutta a pezzi, vero? Eh, immaginavo! Acc! Sarà meglio che parlo piano perché sennò mia madre sente tutto… Ma, danni?» …sangue. E non lo era, infatti. Era una specie di fanghiglia. Ma non è stata la “fanghiglia” a farla inorridire ma… «…t’ho detto che è tutto a posto. Niente graffi. Niente ossa rotte. Il collo mi funziona benissimo, fin troppo… Non mi scrocca neanche più come faceva prima… Prima mi faceva male, adesso invece, zero di zero… Una fortunaccia, proprio! Mi sa che l’unico con la sfiga sei stato tu…» …le cose che vedeva muoversi sulle lenzuola e cadere sul pavimento. O aveva le traveggole oppure quelle erano piccole larve. Saranno state a decine e decine. Ammassate una addosso all’altra. Brulicanti… «…grazie dell’interessamento, comunque. C’ho pigliato una bella culata sull’erba comunque. Cosa? Come dici? Sono rimasta stesa a terra per cinque minuti buoni… Bah, sarò svenuta, anche se non ricordo… Comunque, per sicurezza, anche se, ti ripeto, sto benissimo, mi sa che ci andrò, e va bene, ci andrò dal dottore a farmi dare un’occhiata…» …e ha lasciato cadere le lenzuola e ha aperto la porta della stanza di Connie e ha visto Connie voltata di schiena con la cornetta premuta che parlava con Matteo e intanto si teneva una mano sulla nuca e si muoveva un po’ goffamente da un piede all’altro (sua figlia è sempre stata un po’ timida) e… «Vabbè, Matteo, adesso lasciami andare. Ci vediamo sabato prossimo… Stasera dici? Cos’è? Venerdì? Bah, non saprei… Domani voglio svegliarmi presto… Comunque, vedo. Se cambio idea ti chiamo. Okay? Ciao ciao.» …ha visto le larve bianche e lucide camminarle scompostamente sul collo,
sbucando dalla maglietta che indossava. Poi Connie si è voltata con la faccia catatonica e gli occhi cerchiati di nero come se l’avessero da poco malmenata durante un incontro di pugilato, l’ha guardata, ha buttato lì un sorrisetto e le ha detto: «Mamma, che c’hai? Sembri bianca come un cadavere…»
La signora Katrina si sveglia. Ha avuto un incubo. Evidentemente i suoi pensieri prima di addormentarsi si sono trasportati nel sonno e si sono trasformati nell’incubo. Adesso ripensandoci pensieri e sogni sono confusi nel ricordo. Forse ha avuto pensieri anche a un certo stadio di sonno prima che venissero le immagini e il sogno cominciasse a formarsi nella sua mente. Comunque, lei e Connie devono parlare un po’. Sente che Connie ha qualcosa che non vuole dirle. Guarda l’ora. Sono le otto e mezzo del mattino. È il 20 ottobre. Suo marito si deve essere già alzato e infatti può già sentire l’aroma del caffè. Di solito è la signora Katrina a svegliarsi per prima. Si alza alle sei. Stira. Ritira il bucato dalla lavatrice. Stende i panni sul balcone fuori. Questa mattina, però, a quanto pare, è stata l’ultima. Sente il rubinetto del bagno scorrere. Il rumore di uno spazzolino da denti elettrico che lavora. Deve essere Connie. La signora Katrina si alza. Si lega la vestaglia. Si mette le ciabatte. Va in cucina. Trova suo marito. «Ti avrei portato il caffè in camera» le dice suo marito. «Ah, lascia stare lascia stare!» risponde lei. Trova il pentolino col latte. Il latte è già caldo. Lo versa dentro una scodella bianca che trova già sul tavolo nel posto di Connie. Aggiunge il caffè. Prende un pacco di biscotti dall’armadietto in basso. Nel frattempo sente Connie uscire dal bagno. La sente rientrare nella sua stanza. La signora Katrina mette la scodella e il pacco di biscotti su un vassoietto di latta che tiene appeso vicino ai fornelli e si dirige nella stanza della figlia. Bussa. «Posso entrare?» «Sì, mamma.»
La signora Katrina entra in camera. «Ma non dovevi!» sbotta subito Connie. «Ma mi porti anche la colazione in camera adesso?!» «Ma no. È che sei in ferie. Hai bisogno di riposo. Ho pensato che un po’ di attenzione non potrebbe farti che bene.» Connie sembra irrigidirsi non appena il suo viso si distende. «Va bene va bene…» La signora Katrina posa il vassoio sulla scrivania invasa dalle scartoffie. «Ecco qua.» Connie indossa ancora il pigiama. È rosa con dei fioroni bianchi. Lo stesso che indossava quando era ragazzina. Quando Connie si siede davanti alla colazione, la signora Katrina si sposta sul letto. Fa qualcosa di insolito che Connie nota subito. «Mamma, come mai ti sei seduta sul mio letto?» «Perché? Non posso sedermi sul tuo letto?» «Non lo fai mai.» Connie è davanti a lei seduta dietro la scrivania. «Voglio guardarti un po’.» «Vabbò.» Connie affonda una mano nel pacco di biscotti. Rovista un po’. Poi tira fuori un biscotto. Lo lascia cadere nel latte. Prende il cucchiaio, tira su il biscotto e lo mette in bocca. Comincia a masticare. «Che c’è?» «Niente. Ti guardo.» Connie ripete l’operazione per la seconda volta: rovista, tira fuori, lascia cadere, tira su col cucchiaio, mette in bocca, mastica.
«Mamma, che c’è?» «Ma niente niente!» Di solito la signora Katrina programma un’ora alla settimana per ispezionare sua figlia cercando le cose che non vanno. Durante la conversazione tocca diversi argomenti che sa o suppone che potrebbero dare fastidio alla figlia per vedere la sua reazione. È un compito che si è data da quando Connie ha cominciato ad avere le mestruazioni in seconda media e lo fa ancora adesso che Connie ha ventinove anni. Il fatto che Connie sia lontana da casa non le impedisce di farlo ancora e di ottenere gli stessi risultati. Connie e la signora Katrina si sentono per telefono quasi tutti i giorni, ma almeno una volta alla settimana la signora Katrina fa la sua ispezione. Le ispeziona il cervello. La signora Katrina ha imparato a farlo con lo stesso spirito con cui le ispezionerebbe un braccio o una gamba per vedere se c’è qualche frattura. Ha imparato che gli urli e le grida e anche le lacrime sono soltanto una conseguenza naturale dell’ispezione. D’altra parte quando ti premono nel punto del braccio o della gamba dove c’è la frattura succede la stessa cosa. L’immagine che la signora Katrina ha elaborato negli anni quando tocca un argomento che scatena reazioni in Connie è quella che le sembra di farle uscire fuori dalla bocca e dalle orecchie e dagli occhi migliaia di ragni neri. La signora Katrina pensa che il cervello sia come l’intestino. Questo paragone le è suggerito soprattutto dalla forma simile che hanno entrambi. La signora Katrina pensa che debba esserci un motivo se cervello e intestino si assomigliano. Come l’intestino anche il cervello ha bisogno di essere stimolato altrimenti si impigrisce e non funziona o funziona poco. Come per l’intestino anche il cervello ha bisogno che qualcosa entri dentro di lui: nel caso dell’intestino è il cibo, nel caso del cervello sono i suoni, le parole, e gli stimoli sensoriali. Come l’intestino anche il cervello trattiene le cose che gli sono state messe dentro. Ora, la signora Katrina pensa che come l’intestino anche il cervello abbia i suoi modi di espellere la parte inutile di queste cose. Per esempio le attività artistiche possono essere un modo. Un altro modo può essere il dialogo: parlare, sfogarsi. Dunque, la signora Katrina comincia con la sua ispezione. Per prima cosa dice qualcosa a proposito di Manuel. Lascia cadere una battuta casuale sul fatto che in fondo le manca. La reazione di Connie è di dispiacere. Le dispiace. Però, la storia con Manuel è chiusa. Lei deve capirlo. La signora Katrina non nota particolari reazioni. Allora a a Matteo. Solleva qualche
perplessità leggera. Subito dopo le dice che comunque le sembra un bravo ragazzo. Connie le risponde che lo è. È un bravo ragazzo. Già. Allora le dice che per il biglietto aereo fino a Chicago non c’è problema: loro avrebbero pagato. Connie ringrazia. Arrossisce. La signora Katrina le chiede cosa andrà a fare per quindici giorni in America. Connie risponde con un elenco di musei, strade, luoghi che ha il sogno di visitare da una vita. La signora Katrina le chiede come mai abbia preso ferie così lunghe. Le chiede se non sia rischioso per il suo posto e se non le sembri sospetto che gliele abbiano accordate così facilmente. Insomma: si tratta di tre mesi. Suona un po’ incredibile per il suo tipo di lavoro. Forse in ufficio vogliono farle capire che la sua presenza non è così indispensabile. Connie su questo argomento sembra piuttosto evasiva ma non sembra particolarmente infastidita. Sembra proprio che non ci sia nulla da cavarle fuori. Sembra che non abbia ragni dentro la testa. La signora Katrina prova ad affondare di più il colpo. Ormai sua figlia ha quasi finito di fare colazione. Finora Connie si è fatta fuori mezzo pacco di biscotti: l’appetito sembra non mancarle. La signora Katrina le chiede se in bagno si è lavata. È stata secca, tagliente. Connie accusa il colpo. Le dice che lo farà. La signora Katrina le chiede se ha deciso forse di disgustarli, lei e suo padre. Senza rispondere Connie finisce la tazza di latte. Sembra infastidita, ma non sembra che quel rimprovero la tocchi sul vivo. Le dice che da quando è tornata a casa le sembra più scostante. Saluta poco. Sta poco insieme a lei e suo padre. Risponde male. Prima non ha mai risposto così male. Connie si difende sostenendo che è a causa dello stress accumulato sul lavoro. Cercherà di starci attenta. È fredda. È un po’ infastidita. Ancora una volta, però, non sembra essere quello il punto dei ragni neri. A questo punto la signora Katrina smette con la sua ispezione. Cosa può dirle ancora? D’altra parte anche se questo sembra un momento di assestamento nella sua vita il credito che Connie gode presso i genitori è quasi illimitato. Fino ad oggi non ha dato dispiaceri, ma solo soddisfazioni. Certo, sono innegabili dei cambiamenti. Per fare qualche esempio banale Connie ha smesso con la dieta. Esagera col sale. Aggiunge maionese anche dove non dovrebbe. Si lava poco. Risponde più di prima. È meno gentile. Come se ci fosse qualche cosa che la turbasse. Evidentemente, però, conclude la signora Katrina, deve trattarsi solo dei postumi della rottura con Manuel. Anche se Connie maschera bene, deve essere quello. Le dà ancora un’occhiata. Connie è bionda, con i capelli ricci lunghi fino alle spalle. Ha gli occhi grossi. Marroni. Il colore della pelle rubizzo.
Una fila di pappagorgia le pende sotto il mento. È la sua creatura. La signora Katrina si alza e fa per andare via. «Ah, per favore, cambiati un po’. Non voglio avere un morto vivente che mi gira per casa.» «Ma porca puttana, mamma, ma che cazzo di tono usi con me?» La signora Katrina è come se avesse ricevuto una coltellata in mezzo alle scapole. Si volta. Molto lentamente. «Ma… io… che cosa ho detto?» «Che cosa hai detto?! Che cosa hai detto?!» «Ho detto solo di cambiarti. Sembri una malata con quel pigiama addosso e quegli occhi cerchiati. Hai degli occhi…» «OCCHI?!» «…Connie…» «Piantala di parlarmi così! Piantala! Esci da questa stanza! Esci!» «…Connie…» «Ti rendi conto il tono che stai usando?!» «…Che tono… Connie… ma… cosa…» «ESCI!» Arriva il marito della signora Katrina. È in mutande e canottiera. «Ma siete matte? Volete che arrivino i carabinieri?»
«FUORI!» La signora Katrina spinge via il marito. «Esci, esci. È matta, è matta. Ha qualcosa che non va. Non vuole dirlo ma ha qualcosa che non va…» dice la signora Katrina chiudendo la porta.
La signora Katrina introduce la chiave nella serratura ed entra. L’appartamento la lascia stupefatta. Ci sono scarpe spaiate in giro per l’entrata. Un paio di scarpe sono mocassini e non sono da donna. Probabilmente non sono di Connie. Devono essere di Matteo. Se non di Manuel. Comunque la signora Katrina esclude che possano essere di qualcuno al di fuori di Manuel o Matteo. Fa qualche o avanti. Sulla destra la porta della camera da letto è spalancata. Dentro è il caos totale. Materassi ribaltati. Un cuscino pende in bilico sull’anta aperta di un armadio. Come ci sia finito lì e per quale ragione è un mistero. Pantaloni e gonne dappertutto. Una torcia elettrica al centro della rete metallica del letto. Una torcia elettrica? Cosa ci fa Connie con una torcia elettrica? Forse qualche eggiata notturna sulle colline che circondano Staglieno. Calze spaiate dappertutto. Sembra quasi che lì dentro ci siano stati i ladri. Quasi quasi la signora Katrina torna a controllare la serratura per vedere se c’è qualche segno di scasso. Però non lo fa. Non ci sono stati i ladri. Quel disordine è solo la dimostrazione che quel pomeriggio la signora Katrina ha fatto bene a prendere l’automobile e a venire nell’appartamento dove vive Connie da quattro anni per dare un’occhiata. Senza dirle niente ha preso la copia delle sue chiavi e si è fatta un’ora di autostrada. Va detto che l’appartamento è suo e di suo marito. Non è di Connie. Questo fa diventare il fatto di non averle detto niente un peccato marginale. La signora Katrina ha preso questa decisione dopo che all’una e mezza sua figlia è uscita di casa. Ha controllato la sua stanza in cerca di qualche indizio che la illuminasse sul suo stato. Ha cercato tra le sue scartoffie. Negli armadi. Non sapeva cosa stava cercando esattamente, ma era sicura che lo avrebbe saputo una volta che l’avrebbe trovata. Ha controllato anche nel computer di Connie. Connie non inserisce la per proteggere lo schermo. È convinta che i suoi genitori non sappiano nemmeno accendere la torretta del computer. La signora Katrina ha fatto di tutto per convincere Connie di questo. Quando deve videoregistrare un programma la chiama ogni volta. Qualche volta la chiama
anche quando deve far partire una videocassetta. A volte inserisce apposta il fermo immagine e poi chiama Connie sostenendo di non sapere che cosa sia successo. Lo fa solo per avere un pretesto per vederla un po’. Magari allungarle una carezza ai capelli. Magari darle qualche spicciolo. A volte Connie tende a isolarsi dentro quella stanza dove vive. Comunque la signora Katrina è molto più sveglia e informata sulle nuove tecnologie di quanto non lasci credere alla figlia. Così ha controllato diverse cartelle. Ha trovato anche dei file Mp3 nominati con i nomi di Manuel. Alcuni titoli dei file l’hanno lasciata un po’ perplessa. Comunque, non sembravano interessarle, in quel momento. Dopo aver ispezionato la stanza di Connie – sì, perché in fondo si è trattato ancora una volta di una ispezione come lo è stato per i suoi pensieri – la signora Katrina ha preso la decisione di andare nell’appartamento di Genova e dare anche lì un’occhiata: si è convinta che se c’è un qualche segreto deve trovarsi lì. Adesso vedendo quel caos inaccettabile si dice che qualcosa deve esserci senz’altro. Connie non è così disordinata. Anzi, ha imparato ad essere ordinata. Piega i vestiti. Connie sa fare i lavori da donna. Sa cucire. Sa cucinare molto bene. Il senso della pulizia non le manca. La signora Katrina trova un preservativo in un angolo del pavimento in cucina. Lo solleva con due dita. Si accorge che è usato senza ombra di dubbio. Lo butta nel sacco della spazzatura che pende dalla maniglia della porta. Il sacco strabocca. Pensava che Connie prendesse la pillola. Che conclusioni deve tirare vedendo quel preservativo? Forse Connie non si fida di Matteo? In un altro angolo in cucina ci sono i cocci di un piatto rotto. C’è un cribro. È pieno di fango. Questo è proprio troppo. Cosa sta succedendo a Connie? Sul tavolo avanzi di pollo e patatine fritte nei piatti. Un bicchiere è ancora mezzo colmo di vino rosso. Del lavandino è meglio non parlare. I piatti sono uno sopra l’altro, e ci sono pentole, e anche un cartone di latte vuoto. La puzza è nauseante. La signora Katrina decide di risparmiarsi il bagno almeno per il momento. Resiste anche alla tentazione di mettersi a pulire e riassettare l’appartamento della figlia. Comincia a guardarsi intorno ma non le pare di poter trovare qualche indizio ulteriore sullo stato della figlia. Quello era l’indizio. Quel disordine. Quel caos. Di cos’altro ha bisogno per rendersi conto che in sua figlia c’è decisamente qualcosa che non va? Mentre fa questi pensieri, lo sguardo della signora Katrina cade su un foglietto che si trova sulla superficie di un pensile. Ci sono blocchi di appunti, penne biro, scartoffie, e tra quelle un foglietto che le attira lo sguardo. Sono tre foglietti. Non un solo foglietto. Comunque hanno l’aria di essere una ricetta medica. Nel primo foglio sono scribacchiati nomi di farmaci. Nel secondo e terzo foglio c’è una…
diagnosi. La signora Katrina legge. «Malattia agli occhi…» Cade in ginocchio.
Capitolo 4
Da: Nevenellatte
A: Matteo Schiavi <
[email protected]> Data invio: domenica 24 ottobre 2008, 19.46 Oggetto: racchia
Ciao Matteuccio, ma lo sai che l’altro giorno ho conosciuto la Ginevra? Mamma mia, che tipo! È bassa. Ha i capelli neri. Non ha l’erre moscia! Abbiamo chattato per un’ora. Mi ha mandato un jpg della sua faccia. Mamma, che naso schiacciato! Poi ci siamo telefonati su Skype. Devi sentire che voce… Si mangia le parole – come me! Non si capisce niente. M’ha detto che ti conosce. Incredibile! Ci siamo conosciute per caso su un blog e m’ha detto che ti conosce. In pratica abbiamo parlato di te per mezz’ora. Dice che nei forum sei un chiacchierone! È racchissima, guarda. Racchissima. Sempre lì a bla bla bla! Dice che sulla rete sei un chiacchierone, però t’ho difeso, eh? T’ho difeso. Ciao Matteuccio!
Anna
P.s. Per la cena di giovedì, non posso, guarda. Ho male a un piede – tipo un’unghia incarnita e mi sa che per giovedì non a! Cia’
Mentre stringevano la scommessa, Ginevra non avrebbe immaginato che un
mese più tardi Matteo non soltanto l’avrebbe persa, ma si sarebbe trasformato nel fantasma che adesso le sta davanti. Ginevra allunga una mano. Stringe qualcosa. Quella che ha appena stretto, però, non può essere la mano di un uomo. Si rimette la mano in tasca. La ficca in profondità. Matteo non è solo il fantasma di se stesso. È diventato anche uno spaventaeri. Le mani sono un fascio di paglia. Un lenzuolo marcio gli sostituisce la pelle. Le occhiaie nere sembrano qualcosa per tenere il lenzuolo sulla faccia di modo che non caschi. Il naso è una piega storta, angusta. Gli occhi due sforacchiature. Sono due buchi. Sono vuoti. Dentro potrebbe finirci tutto. Una mosca. Una zanzara. Quando parla il fantasma lascia odore di verdura putrefatta. Ginevra non può crederci, e succede che mentre si immagina di dover provare il desiderio di stringerlo, si ritrova, invece, a provare la voglia di prenderlo a schiaffi. Si trovano a Genova. Via San Vincenzo. Forse avrebbero fatto meglio a mettere le zampe sotto un tavolo – di qualche altro bar o di uno di quei take-away che fa i piatti di pasta buoni. Invece camminano, ed è meglio così. Ginevra desidera evitare quei buchi vuoti. «Anna mi sta facendo dei bla bla su questo che avrebbe messo sotto processo il suo pseudonimo letterario con l’accusa di plagio» gli dice lo spaventaeri. Lo spaventaeri ha un impermeabile grigio. La cravatta. L’ombrello nero. «Anna, che tipo, mi dice il nome di questo che lei sostiene essere un amico suo da venticinque anni e che si è messo a scrivere uno, due, tre, quattro, cinque, no, quattro romanzi uno in fila all’altro ed è riuscito a piazzare i primi due ma siccome non riusciva a sfondare e soprattutto non gli riusciva di fermarsi più, le idee gli venivano fuori in continuazione; bene, allora si è inventato questo pseudonimo che ha le stesse iniziali del suo nome, non del suo di Anna, ma del suo dell’amico di Anna, e però più di questo non posso dirti, Ginevra, ché l’amico di Anna non desidera si sappia qual è il suo pseudonimo, o almeno così si è raccomandato sempre, e a maggior ragione adesso che gli è venuta questa trovata di mettere sotto processo il suo stesso pseudonimo letterario, oh oh oh, che idea!, ma che idea!, non è un’idea?!» C’è un forte odore di verdura putrefatta. «Sì, mi pare di sì» risponde Ginevra. Intanto pensa che nelle storie come quella tra lo spaventaeri e Connie di
solito le cose vanno diversamente. Al cinema o in televisione, e se è per questo anche nei romanzi che si trovano sugli scaffali delle Coop, degli Iper, o più in generale dei discount alimentari o come succede di recente al banco della posta, quando il più bello della scuola decide di invitare al ballo di fine anno la più brutta, quella con gli occhiali spessi tre dita, con i brufoli, col doppio mento, e con le gambe storte, di solito succede che in modo incredibilmente rapido – in soli due o tre mesi; a volte in due o tre settimane; qualche volta persino in due o tre giorni – agli occhiali con la montatura di plastica nera, i vetri rigati, il nastro adesivo su una delle stanghette si sostituisca un paio di morbide lenti azzurre o viola, e che gli occhi schiacciati, miopi si trasformino nel paio d’occhi d’una cerbiatta appena sbucata da un bosco dalle fronde d’oro e dai frutti diamantati, che i brufoli scompaiono e che appaia pelle nivea, lattea, setosa, come prima nessuno avrebbe anche solo osato immaginare, e che doppio mento, pancetta, fianchi grossi spariscano, puff!, magicamente – magari, in una favola moderna, si potrebbe trovare un modo credibile, ma non per questo meno romantico, per raccontare che quel di più è stato tolto grazie alle mani di un esperto chirurgo. Insomma quello che in queste storie succede è che quel brutto anatroccolo che gira per i corridoi, magari con aureole di sudore sotto le ascelle – che non è precisamente lo stesso che le aureole dorate che stanno sulla testa di riccioli d’oro d’angioletti splendenti –, e spaventosi olezzi di broccoli e cipolle, e una voce che sembra lo starnazzo di un’anatra più che il canto d’un cigno, bene, quel brutto anatroccolo che fa i versi di un’anatra diventi per davvero un cigno, e che alla festa della scuola faccia rimanere tutti stupefatti, e che una qualche forma di lieto fine stia lì ad attenderlo, e se proprio non è unirsi per sempre col più bello della scuola, magari è trovare il principe azzurro nel ragazzo che sotto sotto si è amato sempre più degli altri, e che se non altro si è considerato sempre il più simpatico e il più… dolce. Invece, tra Matteo e Connie tutto è andato al contrario. «Sai» prosegue lo spaventaeri «mettere sotto processo il suo pseudonimo letterario questo tizio lo ha fatto, come Anna mi ha spiegato, per trovarsi un poco di visibilità presso il pubblico, sì, si usa //visibilità// e non //pubblicità//, e allora per trovarsi un poco di visibilità questo amico di Anna ha scritto due romanzi identici, stessa storia, stessi luoghi e bla bla quelle cose lì che lei non è stata in grado di dirmi bene, ecco, ha cambiato solo qualche nome, sì, e ha cambiato anche qualche paragrafo, sì, e ha messo, mettiamo, quattordici capitoli nel romanzo scritto col suo nome di battesimo e dodici capitoli nel romanzo scritto con lo pseudonimo, e, mettiamo, duecentocinquanta pagine nel libro firmato col
suo nome e duecentoventi pagine nel libro dello pseudonimo, sì, Anna mi ha detto che dovrei conoscerlo, questo suo amico, anzi, no, mi ha detto no che non dovrei conoscerlo!, ora che mi ha detto queste cose non posso più!, vietato!» Arrivano all’altezza di una pizzeria. «Perché non ci mettiamo al caldo e non continui a raccontarmi in questa pizzeria?» Ginevra calca sulle ultime parole. Nel frattempo continua a pensare che all’inizio di questa storia, prima di incontrare Connie, lo spaventaeri non è uno spaventaeri. Prima di tutto ha un nome. Si chiama Matteo. Poi non è uno spaventaeri. È alto un metro e ottantaquattro. Ha gli occhi celesti – che col tempo brutto si cambiano in viola, e a celebrazione di questo ci sono centinaia di pagine di lettere d’amore, come Ginevra stessa ha potuto constatare di persona una volta che Matteo le ha mostrato il contenuto delle quattro scatole da scarpe dentro il secondo cassetto del cassettone della sua camera nel suo appartamento di trentacinquenne in perenne singlitudine. Tra l’altro Ginevra non può dimenticare che quella volta ha dovuto anche tenergli le mani a posto. In palestra strappa sui duecentocinquanta chilogrammi. Non un filo di grasso. Niente rotoli di ciccia. Niente conca. Niente. Muscoli su ogni centimetro quadrato del corpo. Questo, almeno, prima di incontrare Connie. «No, non mi va una pizza» risponde lo spaventaeri. «Ah, okay…» Lo spaventaeri riprende: «Cioè, Anna mi ha detto che questo suo amico, a lui piace inventarsi altre identità, o almeno gli piace pensare di farlo, non è che lo faccia effettivamente, a parte adesso che ha deciso di mettere sotto processo il suo pseudonimo letterario, ma questo lo ha fatto, ecco, per la visibilità, e per un certo periodo ha pensato anche che un altro modo per ottenere maggiore visibilità – vi-si-bi-li-tà – sarebbe stato inventarsi uno pseudonimo letterario che fosse un omonimo, che tipo, inventarsi uno pseudonimo omonimo, che idea!, ma che idea!, non è un’idea?!» «Ma questa Anna, io la conosco… Non è quella che lavora con te in tribunale?!
La dittafonista?! Quella ragazza alta, con i capelli biondi, con quell’erre moscia…» Eh già, prima della storia con Connie Matteo aveva avuto un gran fisico. Non come Manuel, il ragazzo di Connie. Per dare un’idea, per Manuel e Connie stare sotto le lenzuola era un evento che doveva essere preparato con l’abbassamento delle tapparelle della camera da letto, e anche del resto del millimetrico appartamento in piazza Piemonte a Milano, dove Manuel si era trasferito da qualche mese, ché non poteva mai sapersi si fossero messi in testa di fare gli acrobati, e piroettare e far capriole anche al di fuori delle lenzuola, e in quell’eventualità guai se un riflesso di luce fosse ato attraverso anche la più piccola scheggiatura tra le persiane e le tapparelle della sala o della cucina o del bagno finendo per illuminare anche solo mezzo centimetro quadrato dei corpi di Manuel o di Connie; questo avrebbe potuto guastare ogni cosa, già che, ed entrambi lo avevano saputo fin dal primo momento, senza confessarselo a voce alta, il loro eccitamento sessuale era dato dal contatto dei corpi purché nella più assoluta e totale oscurità accompagnata alla più pura e semplice… immaginazione. Manuel non si era mai chiesto a chi esattamente pensasse Connie mentre a letto lo baciava, lo mordeva, lo succhiava – e se doveva pensarci, allora sospettava che Connie pensasse a Nicolas Vaporidis, dalla testa che gli faceva con questo attore, e in pratica se parlavano di cinema lei sapeva parlargli solo di questo attore, che tra l’altro a lui non piaceva niente, anzi, lo disgustava, oppure a Fabio Volo, già che nell’oscurità Connie più di una volta, procurandosi di non farsi sentire da nessuno, gli aveva confessato di sentire il tremolio alle ginocchia ogni volta che vedeva sullo schermo del cinema la faccia tonda di Fabio Volo – la metteva giù come una cosa inspiegabile, una cosa che le veniva da un groviglio di archetipi dentro all’inconscio, insomma qualcosa che lei stessa non poteva controllare, ma che pure le succedeva, ogni volta. Quanto a Manuel, quando stava con Connie a letto pensava ad Ambra Angiolini e qualche volta a sca Inaudi. Comunque, Manuel e Connie riuscivano anche a conviverci con i loro corpi. Ci scherzavano sopra. Per esempio poteva succedere che Manuel agguantasse una maniglia dell’amore di Connie e le dicesse: «Ecco qua il babà al rum ricoperto di cioccolato di due sere fa» oppure Connie gli alzasse un lembo di ciccia da sotto l’ascella con due dita e dicesse: «Ecco qua lo sformato di polenta e patate che ci siamo fatti domenica da nonna Benedettina.»
Eh già, loro due non appartenevano alla stessa razza di Matteo. Eh no. Anche per questo Ginevra lo aveva spinto alla scommessa con Connie. Per fargli cambiare razza. Farlo assomigliare un po’ di più a se stessa. A loro. Guardandolo adesso, non si direbbe che Ginevra non ci sia riuscita. E in un periodo di tempo record. «No, guarda, Anna è bassa, ha i capelli neri, e non ha l’erre moscia. Di tanto in tanto, però, si mangia le parole, sì. Ed è racchissima. E poi non lavora con me in tribunale. L’ho conosciuta sulla rete. Forse quella che dici tu è Adele. Anche lei, eh, è racchissima… Però» lo spaventaeri ha un sussulto. «Certo che la conosci! Anche tu sei iscritta al mio stesso forum! Su Anobii. Anche tu sei su Anobii… Ti ci ho fatto entrare io… No?» Ginevra tossisce. Parla secco. «No, ma mi sono tolta da Anobii. Non lo frequento più.» E poi: «Adele… Lei non mi sembra tanto racchia, però… Non esagerare…» «Non sei più su Anobii?» lo spaventaeri si a una mano sulla mascella. «Non mi sembrava… Oh beh…» «E allora? Stavi dicendo…» Già dopo la seconda o terza settimana che stavano assieme, Connie ha confessato a Ginevra che ormai non c’è più Matteo davanti a lei. A volte le succede anche con altri – con Manuel, ad esempio. Con Matteo, però, le succede ogni volta. Le è successo da subito. Da quando si sono conosciuti. Dopo pochi minuti che Matteo parla (a Matteo piace parlare; e lei lo ascolta), ogni volta le carni del volto di Matteo si squarciano. Lei può vedere l’osso frontale, lo sfenoide, la mandibola, l’osso mascellare, l’osso nasale, lo zigomatico. Dopo un
poco può vedere anche di più. Può vedere la superficie dell’emisfero cerebrale – sembra un cavolfiore bagnato. Scarica impulsi elettrici biancastri – sfumano sull’azzurrino. Non c’è più Matteo. Ci sono un fascio di fili venosi, molli: si distendono sui muscoli. Il plesso brachiale. Il plesso radiale. Quando Connie può vedere Matteo di profilo, le sembra un alieno. È un essere con un cervello in cima a una struttura ossea sottile e con tanti fili mollicci attraversati da scariche elettriche. Fai conto, come vedere un cavolfiore bagnato con i fili di un albero natalizio che scendono a cascata. Matteo parla. Matteo sorride. Matteo svolta. Si gratta la nuca. Apre l’ombrello. Intanto, lei vede il cavolo con la cascata di lucine natalizie – e quelle lucine sempre più spesso, gli ha confessato Connie, rimangono spente. A volte il cavolo somiglia a una tacchinella senza piume. Se è così, ogni volta che può, Connie si diverte a trafiggerla, quella tacchinella. La punge. La infilza. La a da parte a parte. La tacchinella si riscuote. Vorrebbe volare via. Connie, però, non usa oggetti appuntiti. No. Connie usa le parole. «Ah, certo» risponde Matteo «stavo dicendo che insomma, voglio dire, per farlo, per inventarsi uno pseudonimo omonimo, bisognerebbe inventarsi una biografia alternativa, magari la fotografia di un volto elaborato attraverso il programma di un qualche apparecchio elettronico, e poi sul mercato immettere le opere firmate col nome di battesimo e le opere dello pseudonimo omonimo così che l’uno funzioni da cassa di risonanza per l’altro fino a riuscire a sfondare e finalmente a ottenerla, questa vi-si-bi-li-tà, e poi l’amico di Anna dice che il massimo del divertimento sarebbe mettere sotto processo il suo pseudonimo e il suo omonimo, e portare avanti la faccenda per anni, e magari, chissà, anziché finire soltanto sulle riviste letterarie finire sulle terze pagine dei giornali nazionali o essere invitato per qualche aggio televisivo ottenendo così la vi-si-bi-li-tà e…» Ginevra dà un colpo di tosse, molto forte. Lo spaventaeri si blocca. Non prosegue col racconto. I suoi pensieri sembrano cambiare direzione. Porta una mano alla tasca posteriore dei pantaloni. Tira fuori il portafogli. Ginevra gli dice di lasciare stare. Non adesso. Gli dice di chiacchierare ancora un po’. Di non avere questa fretta. Non ha piacere di stare un poco in sua compagnia? «Certo, che ho piacere» gli risponde lo spaventaeri. «Ah, bene. No, dalla tua fretta, quasi quasi mi sembrava il contrario…» gli dice
Ginevra, con un tono di voce paziente. «Raccontami come vanno le cose tra te e…» Ginevra fa per ridere. Però si trattiene. Lo spaventaeri si rende conto dello sforzo di Ginevra per non ridere. Si guarda la punta delle scarpe. Sotto l’ombrello nero arrossisce. Il lenzuolo marcio appiccicato alla faccia si tinge di rosso. «Beh, ecco, le cose vanno che…» Qualunque versione dei fatti stia per dare lo spaventaeri che Ginevra ha davanti è comunque una versione edulcorata, qualcosa che tiene conto soltanto in parte di chi Connie sia e che comunque non tiene assolutamente in conto di quanto Connie e Ginevra fossero d’accordo fin da principio per cercare di far diventare Matteo lo spaventaeri che è oggi diventato. È stata tutta una manovra, fin da principio. Ginevra aveva aiutato Connie. Agendo insieme avevano distrutto un uomo. Avevano creato uno spaventaeri. Quando avevano fatto la scommessa, Matteo e Ginevra non si trovavano in una scuola come succede di solito nelle storie che ano alla televisione a pagamento o dei romanzi nei discount. In effetti, si trovavano già abbondantemente fuori da qualsiasi possibilità di stare in una scuola. Forse c’era la possibilità che si potessero trovare dietro i banchi di qualche corso aziendale oppure in qualche scuola speciale di ceramica, decoupage o magari a un corso di ballo latino-americano. Niente che però prevedesse il tradizionale ballo di fine anno nella discoteca o nella sala da ballo più vicina come in quelle storie della televisione o dei romanzi che stanno a dozzine nei discount. No. Matteo e Ginevra si trovavano in una palestra. A Torino. Stavano facendo Ginevra non ricorda più quale esercizio quando aveva proposto a Matteo l’idea. «La vedi» gli aveva detto. «La vedi quella ragazza là? Quella con la tuta rosa, la forcina dei capelli celeste…» «Stai dicendo quella col culone e l’acne?» «Eh già» Ginevra non aveva subito potuto fare a meno di pensare che lei avesse il culo quasi delle stesse dimensioni della culona e che questo probabilmente agli occhi di Matteo la trasformasse in una culona. «Proprio quella.» «Sì, e allora?»
«Avrei qualcosa da proporti.» «Che cosa?» «Un gioco.» «Gioco?» «Una scommessa.» E avevano fatto la scommessa. Matteo e la culona non sarebbero riusciti a stare assieme per più di tre settimane al massimo. Erano troppo diversi. Anzi, secondo Ginevra, lei non le avrebbe dato la possibilità di uscire nemmeno una volta. Matteo, invece, cascando in pieno nel canovaccio che era stato predisposto per lui, aveva detto: «Vedrai, Ginevra, quella non solo uscirà con me ma si trasformerà in una donna splendida.» Poi aveva aggiunto: «Non sarebbe alla prima che succede. Io non guardo solo l’aspetto esteriore. Guardo anche quello interiore. Spesso scelgo di uscire con ragazze bruttine, ma intelligenti o simpatiche o comunque con quel certo non so che. Loro mi premiano cambiando. Tirano fuori il lato migliore della loro femminilità e qualche volta diventano se non belle o carine quantomeno presentabili» e bla bla bla. C’era cascato in pieno. Entrato nella parte. Dopo nemmeno cinque minuti che Ginevra gli aveva fatto la proposta, Matteo si era presentato dalla culona e aveva cominciato a corteggiarla. Non era riuscito a ottenere una cena a lume di candela ma almeno aveva ottenuto un aperitivo entro due giorni. Matteo non aveva avuto dubbi che gli sarebbe bastato un aperitivo per conquistarla. Non si trattava soltanto di fascino. Era anche una questione di posizione. Durante l’aperitivo Matteo avrebbe cominciato a parlarle del suo mestiere di avvocato. Delle cause che aveva vinto. Dei soldi che guadagnava – qui avrebbe gonfiato abbastanza, perché non è che le sue parcelle siano tanto frequenti e nemmeno così alte. Tra l’altro i suoi clienti non pagavano molto di sovente. Anche per questo Matteo si teneva in forma in palestra. Se i suoi clienti andavano avanti così a non pagarlo, aveva spiegato a Ginevra, Matteo avrebbe dovuto mettersi a fare recupero crediti – anche se queste cose di solito alle ragazze che rimorchia Matteo non le dice o le dice soltanto in forma di battuta di spirito. In ogni caso con questo discorso, ed era sicuro, avrebbe sconfitto le reticenze di Connie. Le cose erano andate come previsto da Ginevra. Fin da principio Connie si era
messa a comportarsi con Matteo come una stronza. L’alternativa, dopotutto, come Connie aveva spiegato a Ginevra, sarebbe stata che se non lo avesse fatto lei con lui, lui lo avrebbe fatto con lei. Avrebbe fatto lo stronzo. Come quasi tutti gli uomini. Insomma, non era lei, la cattiva. No. Lei continuava a essere Connie La Brava. Sia come sia Connie aveva fatto il necessario e Ginevra si era goduta lo spettacolo sia dalla platea che per così dire da dietro le quinte. Qualche volta sentiva la campana di Matteo. Qualche altra volta, invece, sentiva quella di Connie. Era uno so. Una volta ad esempio Matteo le aveva raccontato che si era trovato a una festicciola con Connie. L’inaugurazione di una mostra. Aveva alzato il gomito. Così si era messo a parlare male di un loro conoscente. Connie, senza che sul momento Matteo si accorgesse di qualcosa, si era spostata un o alla volta verso un gruppo di persone che come entrambi loro due sapevano bene conoscevano il tizio che Matteo stava investendo di improperi e di brutte parole. Dopo qualche minuto Matteo era stato fatto accomodare con una scusa fuori dalla mostra ed era dovuto tornare a casa con Connie al fianco. Lui aveva cominciato ad accusarla di averle fatto fare una figura di cacca. Lei sosteneva che lui fosse soltanto ubriaco. Non poteva addossarle la colpa per quello che era successo. Che fosse paranoia pura. Che quelli non potevano averlo sentito con il baccano che c’era lì intorno. Però, Matteo aveva insistito con Ginevra, secondo lui Connie glielo aveva fatto apposta e quella non era la prima volta che glielo faceva. No. C’era stata la volta che, in occasione di una cena tra avvocati, a casa lui era stato indeciso su quale giacca e cravatta indossare. Non aveva saputo nemmeno decidersi sulle scarpe. Così le aveva chiesto consiglio. Lei gli aveva risposto che non aveva bisogno di consigli su come vestire. Lui le aveva chiesto se combinato in questo o in quest’altro modo stesse meglio, ci guadagnasse in immagine. Lei gli aveva risposto che lui non aveva bisogno di queste rassicurazioni da parte sua. Dopo un po’, lei s’era anche messa a gridare, quasi. Risultato: lui si era presentato alla cena con un maglione arancione e una cravatta fucsia con i pallini verdi. Il fatto è che gli aveva come montato la testa con quel tono, quelle parole. Lo aveva fatto sentire come in grado di poter indossare qualunque capo d’abbigliamento e qualsiasi combinazione di colori. Così aveva finito per fare
quelle scelte orrende. E aveva fatto un’altra figura di cacca. E poi, a parte questi episodi… Connie lo trattava come un subnormale. O giù di lì. Se lui le confidava un problema per trovare una soluzione, lei lo accusava di volersi solo lamentare. Se qualcuno gli chiedeva se si mangiava bene in questo o quel ristorante, Connie rispondeva per lui dicendo: «A noi quel ristorante è piaciuto moltissimo» e in generale ci fosse stato anche l’avvocato o il magistrato più importante della provincia o della regione rispondeva sempre lei per lui. Questo lo faceva imbestialire. E poi Matteo domandava a Ginevra se fosse una cosa normale che quasi ogni volta che si vedevano lei lo sorprendeva con qualche regalo: un libro, una penna stilografica, un accendisigari. Insisteva per pagare i biglietti al cinema. Per pagare al ristorante. Matteo attribuiva questo atteggiamento al dilagare del femminismo. Non era del tutto sicuro di questo, però, e più che altro Ginevra lo comprendeva dal tono della voce e da certi segnali involontari del corpo e della faccia. Ginevra fingeva di indignarsi. Stava dalla parte dell’amico. Gli chiedeva, ma se si comportava tanto come una strega, perché si ostinava ancora a frequentarla? Perché non le dava il benservito, e via? A questo Matteo allargava le braccia, e non sapeva cosa rispondere. Dopotutto, Matteo era conscio che Connie fosse una culona con i brufoli e i capelli grassi. Però, aveva un certo non so che, ecco tutto. Così qualche volta Matteo le arrivava a dire. Invece quando era Connie a raccontare di solito non faceva che confermare quello che già aveva sentito dalla campana di Matteo. E poi quando Ginevra si vedeva con Connie oppure si sentivano attraverso una messaggeria sulla rete si dedicavano soprattutto allo scambio di informazioni su Matteo. Ginevra le forniva dettagli sui suoi gusti e sulle sue preferenze, sulle cose che lo facevano arrabbiare e su quelle che proprio lo terrorizzavano. Non era difficile. Forse per la sua qualità di avvocato, Matteo parlava, e raccontava, e a sufficienza perché si potesse tracciare un profilo preciso su di lui. Poi per Connie e Ginevra questa era un’operazione che avevano già fatto altre volte. Loro due si erano conosciute a un corso di tecniche di comunicazione giù a Roma. Tra le tecniche insegnate c’erano anche quelle di manipolazione della mente, adescamento, e il resto. Più che altro era stato divertente. Ed era stato ancora più divertente quando avevano deciso di partecipare a un corso a Milano di Tecniche di Programmazione Neurolinguistica. In seguito avevano anche partecipato a diversi corsi di scrittura creativa e almeno a due cosiddetti workshop letterari – curiosamente Ginevra ricorda che Connie le aveva fatto una testa quadra con alcune considerazioni su un concetto che spesso avevano sentito ripetere durante questi corsi di scrittura:
“Non c’è storia se non c’è conflitto”. «…e insomma così vanno le cose» conclude lo spaventaeri. Intanto sono arrivati in piazza De Ferrari davanti alla fontana che lavora a pieno regime. «Già» Ginevra guarda l’orologio. «Senti, perché non mi paghi la scommessa, adesso? Devo proprio scappare» gli dice. Ginevra pensa che Matteo si sia dimenticato di aggiungere qualcosa. Forse non lo vuole ammettere nemmeno a se stesso, ma adesso i suoi muscoli e il volto tagliente non ci sono più. Le palpebre si sono abbassate. Nemmeno gli occhi si possono più tanto riconoscere e ammirare. Matteo ha smesso di mangiare. Ha smesso con la palestra – Connie lo ha convinto. Ha cominciato a fumare. Gli si è anche sformato il sedere. Insomma, sta succedendo proprio quello che Ginevra e Connie avevano in mente per lui fin da principio: da quello splendido cigno che era si sta trasformando ogni giorno di più in un brutto, bruttissimo anatroccolo. Matteo tira fuori dalla tasca il portafogli. Tira fuori dal portafogli il denaro. «Però, dovresti essere tu a pagare me. Ho superato abbondantemente le tre settimane.» «Sì, ma questa faccenda ti ha ridotto a uno spaventaeri» dice Ginevra, e ride. Strappa subito i soldi dalle mani di Matteo. «Quella donna mi ha stregato.» «Lo puoi dire forte, caro. Adesso, però, devo proprio scappare. Ciau.»
«Che cosa hai fatto?» «L’ho messo su, sulla… sulla rete te l’ho detto.» «Ma sei impazzita?!» «Oh, è solo una burla. Inizialmente volevo caricarlo su qualche sito
pornografico. Poi, però, ho cambiato idea e ho fabbricato un blog dove ho caricato il filmato. Ho cancellato il blog subito dopo la telefonata.» «Che telefonata?» «La telefonata dei ricattatori…» «Ti sei finta una ricattatrice?» «Con una calza sulla cornetta e una patata in bocca per camuffare la voce.» «Tu stai impazzendo.» «È una burla, Ginevra.» «Connie, e come hai fatto a riprenderli? Come… Dio, tu stai impazzendo… Come ci sei riuscita?» «Ho seguito la moglie. È stato facile. Se fai l’amore con la tua amante al pianterreno di una villetta di Rapallo senza cani da guardia che presidiano il cancello… È stato uno scherzo… Poi in ufficio lo sapevano già tutti da un pezzo. Solo il mio capo non lo sapeva…» «Ma è un avvocato! Se scopre qualcosa, quello ti fa dare trent’anni…» «Questo non puoi capire quanto non mi interessi.» «Sei un avvocato, Connie!» «E con questo?» «Dov’è finito il tuo rispetto per la legge?» «Ginevra, voglio raccontarti una barzelletta.» «Io ti parlo di cose serie e tu ti metti a raccontarmi barzellette?» «No, ascolta…» «Ma no! No!»
«C’è un avvocato che conosce la legge penale a menadito. Sa esattamente quello che lo aspetta nel caso dovesse commettere un omicidio. Sa che i metodi per rilevare le impronte digitali sono ormai raffinatissimi. Sa che ormai ci sono telecamere ad ogni angolo di strada. Sa che basta un capello, un’unghia, della forfora per risalire al Dna e da lì poterlo incastrare. Sa che per omicidio volontario può prendersi fino a trent’anni di carcere. Sa che può finire su tutti i giornali. Può diventare la vergogna e il disonore della sua famiglia, della sua città. Può essere sodomizzato in carcere. Può succedergli di tutto in carcere. Sa che fuori dal carcere la gente lo eviterà per sempre. Sa che finirà solo come un cane. Sa che uccidere una persona è la cosa peggiore che possa fare. Le sa tutte queste cose, Ginevra. Solo che in quel momento con il gran pezzo di merda che ha davanti tutto questo gli sembra un prezzo che si può accettare di pagare pur di togliersi la soddisfazione di fargli saltare le cervella.» «Dio, dovresti vederti. La tua barzelletta non fa ridere. No. Per niente. È incredibile, Connie, ma che ti sta succedendo?!» «L’importante è che tieni la bocca chiusa, Ginevra. Ricorda che so tutto di te. Si tratta solo di pochi mesi.» «Tu mi spaventi, Connie. Dove potrai arrivare?» «Sta’ tranquilla si tratta solo di qualche burla e… di un piano, per così dire. Ti disgusto parecchio?» «Sì.» «Mi disgusto anch’io. Devo continuare, però. Sì. Continuare. Adesso, però, credo farò qualche viaggio all’estero.» «E dove?» «Stavo pensando a Calcutta.» «È piena di povertà ad ogni angolo di strada…» «Allora da qualche parte nel Sud Africa.» «Posti meravigliosi.»
«Non escludo la Moldavia, però.» «La Moldavia?!» «Forse il North Dakota.» «North Dakota? Cosa ci vai a fare nel North Dakota? Non c’è niente…» «Ancora non capisci.» «Ma cosa devo capire? Cosa? Io capisco solo che ti stai ammattendo, tutto qua.» «Capirai.»
Ogni giorno l’avvocato Murgia riceve una quantità impressionante di spam. Almeno trenta o quaranta e-mail di spam ogni giorno finiscono sulla sua casella di posta elettronica, e per lui questi si possono considerare in tutta tranquillità numeri impressionanti. Ci perde ogni giorno almeno una decina di minuti per espungerle dalla mail box. Quello che gli sottrae più tempo è cercare di non spostare nel cestino e-mail che non contengano soltanto spam. Ha impostato cartelle. Ha impostato poste indesiderate. Si è fatto installare programmi antispam. Ogni giorno, però, deve fare i conti con questa piccola seccatura. Se non ci fossero questi filtri va detto che probabilmente riceverebbe quantità di spam ancora maggiori e ancora più impressionanti. In ogni caso a causa di questa seccatura ogni giorno Murgia si presenta in ufficio mezz’ora in anticipo. Così può dedicarsi a controllare la posta elettronica per eliminare lo spam. Lo sta facendo anche adesso. Clicca sul quadratino della mail box a destra nella colonna Cancella, non prima di aver controllato l’oggetto dell’e-mail. Alcuni oggetti sono in lingua tedesca. Altri in lingua inglese. Alcune sono pubblicità. Alcune arrivano dalla banca. Altre arrivano dalla Posta. Unsolicited commercial email. Unsolicited bulk email. Lui clicca. Nel quadratino. Altre e-mail, però, sono più difficili da identificare. Sono avvisi di nuove rubriche aperte in siti letterari che si trovano in Internet. Siti di poesia. Siti di letteratura. Murgia non li frequenta, questi siti, e proprio non sa spiegarsi come il suo indirizzo possa essere finito nelle loro mailing list. Altre sono catene di Sant’Antonio. Comunque queste e-mail sono difficili da identificare controllando soltanto dall’oggetto, e allora è necessario aprirle, e perderci qualche secondo, a volte qualche minuto. Dopo la ventiduesima e-mail che ha appena disposto di
cancellare, Murgia trova nell’oggetto della successiva la seguente parola: Clara. Murgia clicca. Lo fa quasi di riflesso, senza pensarci. Quando l’e-mail si apre agli occhi di Murgia compaiono soltanto queste parole: Clicca qui. Sotto le parole segue la striscia di un indirizzo che ancora senza pensarci troppo Murgia clicca. Di solito non lo fa. Ha paura a cliccare anche quando si tratta di e-mail che non sono spam. Potrebbe finire in siti illegali. Potrebbe finire in siti dove fai prendere un virus al sistema senza nemmeno scaricare file. O chissà cos’altro. Stavolta, però, l’indice della mano destra ha cliccato sul sinistro del mouse quasi come se avesse fatto da solo. Sullo schermo compare la pagina di quello che molto probabilmente deve essere un blog. Dopo qualche momento di buffering parte un filmato dal titolo Clara. Il filmato dura quattro minuti e trentadue secondi. Murgia, però, resiste soltanto tre minuti e ventinove secondi. Poi esce da quella pagina. Spegne il computer. Si alza. Prende il soprabito. È fuori dall’ufficio. L’ufficio dell’avvocato Murgia si trova a Genova in via XX Settembre quasi all’altezza della libreria Feltrinelli, però dalla parte opposta. L’automobile è parcheggiata davanti al portone del palazzo dove l’avvocato ha il suo studio. Soltanto da due anni è riuscito a ottenere il permesso per poterla parcheggiare lì. Dopo vent’anni di progettazioni. Murgia salta sull’automobile. Nel traffico delle sette e mezzo del mattino si dirige a Sampierdarena. Quando arriva, trova un posteggio tra altre due automobili. Così è meglio: mettere l’automobile nel box privato gli avrebbe solo sottratto tempo. Sale nel suo appartamento al quarto piano – l’ultimo. Quattrocento metri quadrati di casa. C’è anche una mansarda. Murgia entra in casa sua. Calpesta con le suole il pavimento in quercia. Cerca in camera da letto. In soggiorno. Trova sua moglie in cucina. «Clara!» grida. Le piomba addosso. Le molla un pugno a uno zigomo. Clara crolla sul pavimento. La tazza del tè caldo con una fetta di limone che ha in mano finisce in frantumi. La fetta di limone rotola per qualche metro e poi si deposita vicino a una gamba del tavolo. «Disgraziata!» grida Murgia. La scuote tenendola per la vestaglia rosa ricamata di pizzo. Clara ha ventisette anni. Sono sposati da quattro. Lui le ha dato tutto. Clara piange. Grida. Fa dei fischi. Lui si rialza. Cerca di controllarsi. Sente come se fossero in due nel suo
corpo. Gli sembra una sensazione reale. Afferra una sedia. Si siede. Si mette la testa tra le mani. Comincia a piangere. Piangono tutti e due per molti minuti. Piangono. Stanno in silenzio. Borbottano qualcosa. Clara implora di perdonarlo. Gli chiede scusa. Si alza. Lui sta ancora tremando. Ha finito le lacrime. Però sono ancora in due dentro di lui. C’è ancora quella sensazione. Non riesce a sollevare la testa dalle mani. Non riesce a incontrare lo sguardo di Clara. «C’è il filmato su Internet» le dice. «Che… che…» «C’è tutta la scopata che ti sei fatta su Internet!» «Non… non…» «Sì, invece…» «Dimmi che scherzi…» «Sei una cogliona, questo sei!» le grida addosso Murgia, che fin da subito non aveva avuto dubbi che Clara non sapesse del filmato. «Hai rovinato tutto! Con chi ti sei andata a mettere, con chi?!» «Dimmi che è una bugia… Dimmi che è… Per farmela pagare… Dimmelo!» «No! No! No!» grida Murgia. Poi nello stesso momento Clara e Murgia decidono di fare la stessa cosa. Vanno nello studiolo dove tengono il computer. Lo accendono. Murgia accede alla sua casella di posta elettronica. Apre le e-mail che ha ricevuto. Clicca sull’indirizzo sotto il nome Clara. Quando lo vede, Clara al suo fianco grida. Torna a piangere. «Non lo voglio vedere! Non lo voglio vedere!» «Dura quattro minuti e trentadue secondi» borbotta Murgia. Non sa cosa pensare. Dove guardare. Cosa fare. Deve telefonare a quelli del portale del blog per chiedere a loro di far sparire il filmato? Troverà il numero da qualche parte su Internet? Sulle Pagine Bianche? Sulle Pagine Gialle? Deve rivolgersi alla polizia informatica? Murgia si vergogna di farlo. In quel momento
squilla il cellulare. Murgia si rende conto di avere ancora addosso il soprabito. Il cellulare squilla e vibra dalla tasca destra. Ha impostato come suoneria un pezzo di Alyson Williams dal titolo I Need Your Lovin’. Murgia prende il cellulare. Il numero è sconosciuto. Risponde. Qualcosa gli dice che deve farlo. Forse glielo sta dicendo qualcuno. Forse si tratta di quella seconda persona che si sente dentro il corpo. «Pronto?» «Avvocato Murgia, buongiorno. La devo informare di un filmato che è stato caricato su Internet.» «L’ho visto» dice Murgia. «Chi parla?» «Avvocato Murgia, per ora non ha importanza. Ma lasci che le spieghi la situazione senza interruzioni.» «Chi siete?!» grida Murgia. Clara piange. «Avvocato Murgia, abbiamo pacchi di registrazioni. Di filmati. Su sua moglie. Se non si calma, se non mi ascolta, potrebbe succedere qualcosa di molto più spiacevole, glielo posso assicurare.» Murgia comincia a piangere di nuovo. Dice //disgraziati//. E poi //mi volete rovinare//. «Adesso le dico dove dobbiamo incontrarci per stabilire che cosa vogliamo per togliere i filmati. Se si presenterà all’appuntamento, e sarà solo, e non farà niente di strano, toglieremo il filmato che si può vedere adesso sul nostro blog. In caso contrario, un nostro incaricato riverserà sulla rete tutto il materiale che abbiamo, e non si tratta di immagini leggere, avvocato Murgia, non lo sono per niente. Mi creda.»
«L’importante è che tieni la bocca chiusa, Ginevra. Ricorda che so tutto di te. Si tratta solo di pochi mesi.»
«Tu mi spaventi, Connie. Dove potrai arrivare?»
Capitolo 5
Connie si stende sul letto. È novembre. Sta ancora pensando a una cosa che le è successa nel pomeriggio. È stata al supermercato a comprare del pane, una scatola di tonno e un pacco di biscotti. Di solito quando è a Genova fa la spesa alla Coop in zona Marassi che sta a qualche o da casa sua a Staglieno; ma quando è a Tortona come oggi, invece, va all’A&O in piazza Malaspina. Si è messa in fila alla cassa rapida. A lato della fila c’era una coppia di signori con un carrello pieno di merce. I signori stavano cercando di inserirsi nella fila. Ogni volta che spingevano il carrello davanti a qualcuno in fila, però, quello diceva: «Scusi, posso are? Ho solo due cose.» Allora i signori col carrello pieno ridevano e dicevano: «Beh se si tratta solo di quelle due cose…» Poi quello successivo diceva: «Scusi, posso are ho solo queste.» I signori col carrello pieno dicevano: «Beh, quando si tratta solo di quelle…» Quando è stato il turno di Connie anche lei ha alzato le mani e ha mostrato il pane, la scatola di tonno e il pacco di biscotti. Ha detto: «Ho solo questo.» I signori dietro al carrello pieno le hanno sorriso e le hanno detto: «Ah, beh, se è solo per tre pezzi, i pure, signora.» Connie è ata. Quando ha pagato alla cassa ed è andata via i signori con il carrello pieno erano ancora nella stessa posizione iniziale. Connie prende il telecomando dal comodino e accende il televisore. Sono le quattro del pomeriggio. A quell’ora in televisione vanno perlopiù telefilm. Connie nota che non si tratta più soltanto di telefilm americani. Ci sono ancora i telefilm americani, ma adesso sono affiancati da telefilm soprattutto si. Su qualche canale ci sono telefilm tedeschi. Poi Connie intercetta un telegiornale. C’è una giornalista molto carina che dà le notizie. Non è una bellona. Forse non è nemmeno carina. Però è innegabilmente graziosa. Non è la sola. Ci sono moltissime giornaliste graziose che danno le notizie ai telegiornali. A Connie questa sembra una situazione paradossale e può rappresentare un pericolo. È paradossale infatti che le notizie di guerre, massacri, morti ammazzati, inflazioni che mettono in ginocchio esistenze possano venire annunciate da presenze femminili innegabilmente graziose. Fatti come quelli che vengono ogni giorno raccontati nei telegiornali dovrebbero essere annunciati da presenze femminili se non bruttissime almeno anonime. In questo Connie vede anche un pericolo.
Mescolare la dolcezza all’orrore potrebbe comunicare un messaggio perverso. Le viene d’immaginarsi il caso di un pazzo così innamorato di un’annunciatrice al telegiornale che pur di farsi conoscere da lei e pur di far pronunciare il suo nome dalle sue labbra di miele commette un omicidio efferatissimo. Connie cambia canale. C’è un gruppo di ragazzi italiani che cantano l’inno nazionale davanti alla telecamera. Ridono. Schiamazzano. Connie si è accorta che la maggior parte delle volte che qualcuno canta l’inno nazionale, come ad esempio negli stadi di calcio, dell’inno tende a cantare anche la parte strumentale: poropom-poropom-poropompompompompompom. Ora, a Connie sembra che in questo ci sia una nuance canzonatoria. Le sembra che cantare in quel modo l’inno nazionale significhi che noi italiani tendiamo a percepire uno dei simboli che tengono insieme la nostra coscienza nazionale come qualcosa di ironico già per sua natura. Cioè: mentre si sta uniti sotto questo simbolo d’identità nazionale in Italia si sente che esso non è separato, e santo, e in quanto tale ispira un atteggiamento solenne e ossequioso, come lo ispira, per esempio, l’inno russo o quello tedesco, ma è già per sua natura ironico, e in quanto tale ispira un atteggiamento scanzonato e ragazzesco: un atteggiamento poropomporopom-poropompompompompompom. Connie si domanda che nazione oggi l’Italia può permettersi di essere. Può permettersi di essere una nazione poropom-poropom-poropompompompompompom? Non tanto se le piace o non le piace esserlo, ma se può ancora permetterselo. Connie cambia di nuovo canale. C’è un film americano con Meryl Streep. Meryl Streep interpreta il ruolo di una parrucchiera con alcuni problemi di relazione col figlio orfano del padre. Osservando Meryl Streep, Connie si domanda se dopo ancora tanto tempo quella donna possa essere credibile nel ruolo di una cosiddetta persona comune. Connie riflette che effettivamente ci vuole non poco talento per convincere ancora il pubblico che la donna che sta vedendo ha problemi ad arrivare alla fine del mese, la gente la maltratta e la vita le riserva solo brutte sorprese. In fondo quella che adesso sta facendo lo shampoo a una grassona è la stessa persona che calca le erelle più ambite di Hollywood strapplaudita, strapremiata e strapagata. Eppure quando entra nel ruolo di qualche personaggio di un film, il pubblico è disposto a scordarsi tutto e a identificarsi con lei. Connie riflette che messa in questi termini la faccenda è piuttosto curiosa. Connie pensa che in questa faccenda ci sia anche una specie di ricambio: una persona eccezionale fuori dallo schermo sullo schermo si mostra e si comporta come una persona come le altre. In tutto questo da qualche tempo Connie percepisce qualcosa di perverso più o meno come adorare un uomo
inchiodato a una croce, con una corona di spine sul capo e una maschera di sangue e sofferenza, e chiamarlo re, salvatore, figlio di Dio. Connie spegne il televisore. Rimette il telecomando sul comodino. Si alza. Si connette alla rete.
Da quasi un’ora ormai Connie è collegata a Internet con il laptop portatile. Sta dialogando attraverso un messenger con quattro interlocutori diversi che nulla sanno l’uno dell’altro. Gli interlocutori si chiamano Chanis Asperoni, Adeodato Martinelli, Fermo Luciana, Milena Mattei. Connie ritiene che siano nomi inventati. Non li ha mai incontrati di persona e non ha mai chiesto loro i documenti. Li ha conosciuti soltanto due mesi fa sulle chat. A Chanis Asperoni Connie sta facendo credere di aver elargito una somma di cinquecento euro a un’associazione benefica che si batte per ottenere la cura alla sclerosi multipla e a Adeodato Martinelli, al contrario, Connie sta dichiarando che i soldi investiti nella ricerca scientifica sono soldi buttati via – fino all’ultimo centesimo di euro. “La domanda è: vale di più Fiorello o il professor Dulbecco?” ha appena scritto sul messenger. E subito dopo: “La mia risposta è: non c’è discussione! Vale di più Fiorello!”. Martinelli in risposta scrive: “Seeeeeh!” e invia la faccina devil. “Mi voglio divertire. Non mi interessa che duri molto, che non finisca. Voglio divertirmi e fare qualche cosa che resti, e se mi devo ammalare, mi ammalo; preferisco una società di malati, ma divertente, e divertita, piuttosto che una società di sani, ma noiosa, e annoiata!” scrive Connie. Adeodato Martinelli gli invia la faccina festa. Mentre osserva la faccina Connie pensa che l’identità che ha scelto per conversare con Adeodato Martinelli tutto sommato la sta annoiando e questo significa soprattutto che è Adeodato Martinelli ad annoiarla. Già, perché Connie plasma la sua identità dall’incontro con questa o quella persona. Connie è come posseduta da un temperamento estraneo. Il temperamento diverso a volte determina anche dei mutamenti fisici. Per esempio con Adeodato Martinelli di Martina Franca, Connie usa indossare una parrucca. Ha acquistato la parrucca in
un negozio: capelli cotonati perché a Adeodato i capelli cotonati fanno impazzire. Con Fermo Luciana si fa i capelli lisci quando lui insiste per parlarle con la webcam. Quando usa la webcam con Milena Mattei di Salerno, Connie sfoggia la riga da una parte. Già. Comunque quando un temperamento la annoia troppo una volta assunta un’altra identità cerca di non frequentare più la persona noiosa che ha determinato in lei quel dato temperamento e che comporta anche mutamenti d’aspetto – con un certo tizio Connie è arrivata a mettersi palle di giornale sotto la camicia per sembrare più grassa. Connie sta precisamente pensando queste cose circa l’identità assunta per rapportarsi a Adeodato Martinelli mentre scivola nell’identità necessaria per rapportarsi a Chanis Asperoni.
Qualcuno bussa alla porta della sua stanza. «Avanti» dice Connie. È sua madre. Fa due i avanti. Sua madre è bionda, con i capelli ricci lunghi fino alle spalle. Ha gli occhi grossi. Marroni. Il colore della pelle rubizzo. Una fila di pappagorgia le pende sotto il mento. «Mi è venuta in mente una cosa, sai» le dice. «Cosa, mamma.» Connie si irrigidisce. Vorrebbe saltare al collo di sua madre ogni volta che la vede. Baciarla. Però, resiste. «Ho pensato… ma perché vai in North Dakota?» dice sua madre. «Perché non vai ai Caraibi o alle Hawaii? Perché non vai ad Acapulco? O alle Maldive? O…» «A Santo Domingo?» «Sì. Santo Domingo. Mi hai tolto le parole di bocca. Perché non vai a Santo Domingo al posto del North Dakota…?» «Forse perché alle Hawaii non ho nessuno che mi ospita quasi a costo zero…» «Se è per questo te lo possiamo pagare noi il biglietto…» dice sua madre.
Si avvicina ancora di un o. Gli occhi le luccicano un po’. Connie la guarda un momento. «Come mai questa offerta?» chiede. «Non è un’offerta. Insomma, ci sembra un po’ uno spreco che tu vada in un posto come il North Dakota. Tuo padre e io ci siamo documentati e abbiamo scoperto che lì… beh, lì non c’è praticamente niente.» «Sono su Skype con Everett» ribatte Connie mentendo. «Se vuoi posso scrivergli le cose che mi stai dicendo…» Sua madre ignora lo spirito di Connie. «Everett è il ragazzo che ti ospita?» chiede. «Sì, mamma. Te l’ho già detto un centinaio di volte.» «Allora, ti lascio stare. Però, pensa alla mia offerta.» «Visto che è un’offerta?» ribatte Connie. «Non è un’offerta.» «Ma se l’hai appena chiamata offerta…» Connie ride. Sua madre va.
Dopo una mezz’ora Connie termina di chiacchierare con Chanis Asperoni. Sul desktop clicca sulla cartella nominata //4//. Dentro trova le altre cartelle. Connie osserva la cartella nominata Registrazioni. La cartella nominata Videoriprese. La cartella E-mail. Per qualche momento considera se aprire uno dei file all’interno delle cartelle e ascoltare di nuovo e per l’ennesima volta alcune delle conversazioni che ha avuto con Manuel e che le hanno permesso di fargli terra bruciata attorno. Mentre osserva lo schermo, Connie pensa che in fondo non c’è niente di nuovo in quello che fa. Infatti si divertiva a collezionare i segreti degli altri già da molto
piccola. Quando era piccola Connie sapeva che il signore con la gamba di legno al quarto piano teneva un rubino da diciotto carati dentro il pezzo di legno di biancore eburneo che gli sostituiva metà gamba. Sapeva che la signora che pesava centoventiquattro chili del quarto piano, e che da quattro anni era la vicina di casa del signore con la gamba di legno, nella seconda mensola della piattaia in cucina, dentro una terrina di rame, teneva nascosto un foglietto a quadretti che conteneva una dieta infallibile che le era stata dettata da un santone indiano (di una città dal nome Rajnandgaon a Chhattisgarh) dodici anni prima – e che prima o poi avrebbe cominciato a seguire per filo e per segno. Conosceva i segreti dei signori del terzo e del secondo piano. Sapeva perché la portinaia che durante il giorno sorrideva, indossava vestiti rosa e foulard verdi, baciava i bambini, faceva due chiacchiere mentre ava la scopa di paglia sotto il porticato, di notte, invece, si abbandonava a un pianto a dirotto. Erano stati loro stessi – il signore con la gamba di legno, la signora che pesava centoventiquattro chili, i signori del terzo e del secondo piano, la portinaia – che le avevano raccontato questi segreti. Uno per volta l’avevano presa in disparte, e avevano vuotato il sacco. Il signore con la gamba di legno l’aveva sorpresa sul pianerottolo del suo piano mentre stava dando l’acqua ai gerani nei vasi che erano sistemati proprio davanti alla porta di casa sua. «Perché dai l’acqua a quei fioracci?» l’aveva sgridata spalancando la porta all’improvviso e piombando fuori dall’ingresso di casa. «Sto aspettando che apiscano per sostituire i vasi! Ma se ogni giovedì pomeriggio continui a metterci l’acqua come farò?» Connie non era sicura che fosse necessario far morire i fiori per cambiare i vasi, però il signore con la gamba di legno era abbastanza adulto da farle pensare che fosse senz’altro lei a sbagliarsi. «Adesso, entra in casa» aveva poi aggiunto. «Ho un sacchetto di castagne arrostite che devi assolutamente portare ai tuoi genitori!» Dopo che Connie era entrata, e si era seduta in cucina, e ai muri, ricorda, stavano appese pentole di rame verde, reste d’aglio bianco e peperoncino spagnolo rosso, e lo sportello del frigorifero era pitturato di viola, il signore con la gamba di legno le aveva confidato il suo segreto. Poi, alla fine, l’aveva ammonita: «Mi raccomando, però! Questo è un segreto, e non devi dirlo a nessuno, devi tenerlo per te. Se lo dicessi, qualcuno potrebbe prendermi per il gargarozzo mentre sono giù in strada oppure dal lattaio o all’erboristeria. La mia vita dipende dal tuo silenzio! In cambio del tuo silenzio accetterò che tu dia l’acqua ai miei fioracci. Siamo d’accordo?» I signori del terzo piano, invece, le avevano confidato di come fosse morta una
loro zia americana che per qualche tempo, prima che Connie nascesse, avevano ospitato in casa. La zia americana si chiamava Anneliese perché prima di trasferirsi a Bismarck nel North Dakota i suoi genitori erano nati e avevano vissuto per trentacinque anni in Germania – a Bergisch Gladbach nel Nord-Reno della Westfalia. I signori del terzo piano avevano ospitato Anneliese per circa dieci anni. Era arrivata in casa loro a ottantacinque anni e ci era morta a novantaquattro. Anneliese era un donnone. Era piena di energie. Ancora a novantuno anni suonati scendeva giù per strada con una retina e ava il giorno ad acchiappare farfalle – e una volta aveva messo in sgomento tutti quando era riuscita ad acchiappare un erotto ormai al lumicino. Fino a ottantotto una volta al mese scendeva al supermercato e tornava a casa con sacchi della spesa stracolmi di polli, anatre e tacchini da preparare in occasione del Natale, del Capodanno o per il Giorno del Ringraziamento che zia Anneliese non aveva smesso di festeggiare anche se si era trasferita in Italia. I signori del secondo piano l’avevano ospitata non soltanto perché così almeno in qualche periodo d’estate potevano usufruire della casa a Bismarck che è la capitale del North Dakota – dove se non altro si mangiavano discrete bistecche di bisonte e si assisteva a campali partite di hockey su ghiaccio, e poi: era America! –, ma anche perché prima di trasferirsi zia Anneliese aveva assicurato di possedere un ingente patrimonio in dobloni d’oro. Quando era arrivata dal North Dakota, però, si era scoperto che zia Anneliese li aveva presi per i fondelli, e tuttavia i signori del secondo piano erano persone di troppo buon cuore per mandarla via, quella vecchiaccia. Così l’avevano sopportata per circa dieci anni. Poi un giorno, come confidarono a Connie, le avevano vuotato un’intera scatola di latta di lucido da scarpe Brill nella minestra di brodo vegetale. Lo avevano fatto dopo che zia Anneliese aveva confessato ai signori del secondo piano di aver donato il tesoro di dobloni d’oro a Timothy il suo vicino di casa a Bismarck pur di non darli a loro due, brutti bisbetici. «Sì, l’ho fatto! L’ho fatto! L’ho fatto! E adesso ammazzatemi pure se volete! Sì, ammazzatemi!» aveva sbraitato la vecchia mezza viola. I signori del secondo piano, allora, non ci avevano più visto dopo tutto quello che avevano fatto per zia Anneliese da quando aveva compiuto i novantadue anni – …cambiarle i pannoloni, spadellarle sotto il sedere… – e pertanto l’avevano fatto: l’avevano ammazzata. Soltanto che poi qualche giorno più tardi riordinando la stanza che era stata di zia Anneliese dentro il cofanetto portagioie di porcellana bianca dove metteva le sue collane di latta e i suoi anelli di ferro e vetro i signori del secondo piano avevano scoperto una lettera di zia Anneliese indirizzata proprio a loro. In questa lettera si spiegava in quale punto si trovassero esattamente i dobloni d’oro, ossia sotto il pavimento della casa di Bismarck – per la precisione, sotto la quarta, la quinta e la sesta piastrella del
pavimento a larghe losanghe della living room, dove effettivamente i signori del secondo piano una volta arrivati a Bismarck nella casa di zia Anneliese li avevano trovati. Probabilmente le cose erano andate così: quel giorno sciagurato zia Anneliese aveva raccontato soltanto una bugia allo scopo di farsi ammazzare. Non l’avesse mai fatto, i signori del secondo piano non si poteva dire certo non avessero assecondato il suo desiderio. C’è ancora un particolare da aggiungere a questa storia. Molti anni più tardi, nel 2007, il figlio di un nipote di zia Anneliese, anche lui proveniente da una cittadina del North Dakota, era venuto a trovare i signori del terzo piano e, durante la sua permanenza durata circa due mesi, aveva stretto amicizia con Connie quando lei era rimasta a casa dei suoi per una quindicina di giorni in occasione delle ferie estive. Il nipote di zia Anneliese e Connie si erano scambiati le e-mail e in seguito avevano cominciato a sentirsi attraverso Skype. Il nome del nipote di zia Anneliese è Everett. Fin da piccola Connie pensava che i segreti le venissero confidati soprattutto per il suo aspetto. Connie era minuta. Non era molto alta. Aveva la pelle molto bianca. Era magrolina. Fin da piccola lasciava capire che una volta cresciuta non avrebbe avuto fattezze giunoniche e invadenti. Se non le fosse successo qualcosa di brutto e di deturpante, al massimo sarebbe venuta su una ragazza graziosa. Comunque, che sia stato perché era minuta e aveva l’aria mansueta, e non troppo sveglia, che sia stato perché veniva considerata un tipo schiodato, che sia stato perché ispirava una qualche forma di comione, le persone attorno a Connie avevano continuato a raccontarle i loro segreti. Praticamente non avevano smesso mai. Avevano seguitato a raccontarle segreti anche quando si era fatta abbastanza grande da poter essere rischioso farlo. Quando raggiungi quell’età dove ti prende la voglia di ripetere quello che senti alle amiche, ai genitori, al fidanzatino. Connie, però, non aveva mai fatto di queste cose. Forse si era così abituata ad ascoltare i segreti degli altri che non li considerava nemmeno una merce preziosa da contrabbandare con qualcun altro durante una conversazione. Forse era così. Sicuramente però Connie non pensava che i segreti che gli altri le affidavano non fossero mercanzia aristocratica. Anzi, al contrario. Dai dieci ai sedici anni Connie aveva riportato in un quaderno i segreti e le storie che le persone decidevano di confidarle. Aveva riempito un quaderno intero con storie e appunti sulle storie e i segreti degli altri, quaderno che adesso Connie tiene dentro uno scatolone nell’armadio della sua stanza assieme alla sua prima bambola, al suo primo orsacchiotto e ad altri oggetti della sua prima infanzia.
Quando si era stancata di tenere il diario, perché per Connie scrivere era stucchevole, aveva registrato con un mangiacassette i ricordi che i suoi parenti, amici, conoscenti più simpatici avevano di questo o quell’oggetto, di questo o quel luogo. Acquistava delle cassette e poi ava le domeniche o i giorni di festa a intervistare questo o quel parente o questo o quell’amico sui loro ricordi. Partiva dagli oggetti e si faceva raccontare storie. Ad esempio in una cassetta che Connie conserva ancora – ha conservato cinque di queste cassette, e la restante decina è sparita chissà dove una volta che sua madre ha fatto un riordino della sua stanza senza chiederle il permesso – c’è scritto “Zio Alberto” sulla costola e poi sul dorso al lato A c’è scritto “Impastatrice”, “Cilindro”, “Spezzatrice”, “Formatrice”, “Assi per la lievitazione” e sul lato B, invece, “Teglia”, “Bancone”, “Volta, bocca, chiusino”, “Forno automatico”, “Pale”, “Forno a vapore”. È una cassetta da sessanta minuti e per ogni titolo è segnato anche il minutaggio. Ad esempio “Spezzatrice” dura nove minuti e ventiquattro secondi. Zio Alberto ha raccontato a Connie storie per ogni oggetto del suo mestiere che è quello di fare il pane. Mentre ripensa a queste cose, Connie tira un sospiro. Dopo i diciannove anni, le cose hanno fatto in fretta a cambiare. Connie non è rimasta una ragazzina minuta. Adesso non ha più la pelle molto bianca. Non è più magrolina. Adesso Connie è bionda, con i capelli ricci lunghi fino alle spalle. Ha gli occhi grossi. Marroni. Il colore della pelle è diventato rubizzo. Una fila di pappagorgia le pende da sotto il mento. A furia di stare seduta prima nella sua stanza a studiare, poi nel suo ufficio a sbrigare pratiche, i fianchi le si sono allargati. Nelle sue conversazioni su Skype, Everett la definisce chunky. Connie è diventata chunky. Da parecchi anni, ormai, non è più thiny. Con queste maturazioni sono arrivate anche i cambiamenti di carattere. Per esempio l’attitudine a farsi raccontare i segreti degli altri è scomparsa. Però, a pensarci meglio, questa attitudine non è scomparsa. Forse si è solo trasformata. Anzi addirittura raffinata. Forse per questo come avvocato Connie si è specializzata in materia di privacy e in questi anni ha difeso molti clienti coinvolti in casi di violazione della privacy. È stata anche invitata un paio di volte a tavole rotonde riguardanti questo tema. Connie ha anche scritto articoli per riviste specialistiche sul tema della privacy. Si è trattato perlopiù di articoli che si occupavano di filosofia del diritto e che si interrogavano e tentavano di definire che cosa si intenda con il concetto di privacy. Che cos’è la privacy? Perché tendiamo a difenderla? La difendiamo da che cosa? Che cosa esattamente
difendiamo? Connie pensa che il concetto di privacy mascheri soprattutto quello che lei definisce il bisogno dei segreti. Nella vita di ogni persona ci sono dei segreti e molto spesso sono questi segreti che rendono la vita di ogni persona diversa l’una dall’altra. Sono i segreti. I segreti possono essere piccoli o grandi. Le ipocrisie minuscole o gigantesche. Le menzogne stupide o indispensabili. Però, ci sono. Sono nella vita di ogni persona. Cose che non diciamo, che teniamo nascoste, che dissimuliamo. Cose che affidiamo a diari. Cose che diciamo solo in famiglia o ad amici fidatissimi. Oppure che non diciamo. Che teniamo per noi stessi. E questo perché noi sentiamo il bisogno di segreti. I segreti sono la nostra possibilità di sentirci diversi l’uno dall’altro. Ecco perché difendiamo la privacy. In casa nostra difendiamo la possibilità di comportarci come desideriamo senza dover seguire regole sociali o di etichetta. Per esempio giriamo nudi. Insultiamo i leader politici di questo o quel partito. Facciamo cose e ci esprimiamo come fuori da casa nostra non faremmo o faremmo con molta più attenzione. Probabilmente difendiamo soprattutto questo con la privacy. Il nostro bisogno di avere segreti. Ora, però, ammesso che questo bisogno esista, come si può conciliare con la proliferazione attuale di cellulari, videocamere, registratori? Con questi aggeggi che possono arrivare ad azzerare totalmente la privacy di una persona? Spesso nei suoi articoli Connie conclude che se i segreti sono l’elemento che imprime un corso particolare alla nostra esistenza o che comunque rende la nostra esistenza particolare, allora se ci costringeranno a non avere più segreti, appiattiranno anche le nostre individualità. Oltre ad aver trasformato e affinato la sua attitudine a scoprire i segreti degli altri, da qualche mese Connie è anche tornata a registrare le loro storie. Usa il cellulare al posto del mangiacassette. Non intervista più le persone esplicitamente. Adesso lo fa di nascosto. Però, in fondo, è quasi lo stesso. Col tempo Connie è diventata anche una osservatrice ottima. Avrebbe molte storie da raccontare. Forse potrà sembrare strano e poco credibile che Connie non abbia spifferato nemmeno una volta a qualcuno le sue osservazioni e le informazioni riservate, e in qualche caso capitali, che è riuscita a carpire dagli altri, ma per tutto questo tempo è successo esattamente questo. Per molto tempo il segreto di Connie è stato conoscere i segreti degli altri. Del resto Connie ha capito presto qual è la funzione di un segreto. C’è un’incredibile forza che viene dal possesso di un segreto. C’è un senso di potere e di superiorità che sono fortissimi, e che danno la forza di andare avanti, e di non mollare, e di sentirsi padroni di se stessi, anche quando le circostanze
sembrano mostrare il contrario. Questo sono in grado di fare i segreti. Così, possedere queste informazioni riservate sulle persone, scoprire che cosa permette a loro di andare avanti, è qualcosa che ha sempre dato a Connie un senso di potere, superiorità e forza giganteschi. Connie, però, ha sempre saputo anche che rivelare un segreto può toglierti tutta la forza che hai. Quello che per noi può essere segretamente molto importante, anzi, la sola cosa che conta, e che ci dà forza, una volta rivelato può apparire e mostrarsi agli altri soltanto per una sciocchezza. Per questo Connie non ha mai detto nulla. Le è sempre derivata una grandissima sensazione di forza dal fatto di poter smascherare in qualsiasi momento la maggior parte dei suoi interlocutori e dal fatto di decidere di non farlo. Questo nel tempo ha fatto di lei Connie La Brava. Connie ha sempre avuto in mano un potere sconfinato che ha deciso di non usare. Adesso, però, dopo il colloquio col dottore, lei non è più Connie La Brava. Adesso Connie è diventata qualcos’altro. Adesso nella vita di Connie c’è un nuovo segreto che ha preso il posto di quello vecchio. Connie non è più soltanto quella che conosce i segreti degli altri. C’è qualcosa di nuovo e che la riguarda molto più direttamente e che le sta cambiando la vita. Adesso Connie è diventata qualcuno che sa che negli altri esiste un bisogno di segreti e che attraverso questo bisogno queste persone possono essere manipolate. Questa consapevolezza potrà aiutare Connie con quello che lei considera il suo piano e mentre distoglie lo sguardo dallo schermo del computer Connie pensa che questo piano non risparmierà nessuno. Nemmeno Ginevra.
Connie finisce la giornata davanti alla televisione mentre aspetta di prendere sonno. Ascolta un dibattito dove gli ospiti sono un pluriomicida, un criminologo, un cardinale e un comico. Si chiede che cosa devono essersi dette quelle quattro persone dietro le quinte prima che cominciasse la trasmissione. Pensa che forse a nessuno verrebbe in mente di fare una trasmissione televisiva dove si telefona al pubblico da casa e si rivolgono domande come: «Che cosa ha fatto quest’oggi?» «Che lavoro fa?» E poi: «Ah sì, oggi ha stirato camicie tutto il giorno? E quante camicie ha stirato?» «Ha potato il giardino? E che fiori ci sono nel suo giardino?» «È andata a fare la spesa? E, ci dica, che cosa ha comprato?» Quando le persone comuni si fanno diventare dei protagonisti, da loro si vuole il dramma o la tragedia. Sembra quasi che qualsiasi persona ordinaria possa diventare
straordinaria se ha un dramma o una tragedia o una storia straordinaria da raccontare. Solo che una persona ordinaria con qualcosa di straordinario diventa una persona straordinaria: quindi tutte queste persone che vengono presentate come ordinarie sono invece straordinarie. La persona ordinaria non piace proprio. No. Ci vuole il pluriomicida. La pornodiva. La prof ninfomane. Il giornalista infiltrato. Chissà cos’altro. Connie si ferma. Non le sembra il caso di far correre troppo la fantasia. Tutto questo la disgusta. La società sembra solo in grado di dire ormai: «Va bene. Va bene. Sei un bravo bambino. Sei un uomo onesto. Bravo. Però, ecco, ci annoi.» Considerare una vita noiosa è qualcosa di assassino, a pensarci bene, e per di più è una contraddizione: se consideriamo ogni singola vita unica e irripetibile, allora come può essere noiosa o poco interessante? Se è unica e irripetibile ci sarà pure qualcosa di nuovo che avrà da dirci: basta trovarlo. E Connie pensa che ormai questo assassinio viene perpetrato ogni giorno dalla società attuale. Del resto, anche nella società precedente, quale che fosse esattamente, è stato così. Connie si chiede se si inventasse un siero per riportare in vita i cadaveri e si dovesse scegliere tra qualcuno come lei e qualcuno come Hitler o Stalin chi si sceglierebbe. Se questa scelta fosse fatta da qualcuno alla televisione Connie non avrebbe dubbi. Connie, però, non avrebbe dubbi nemmeno se la scelta fosse fatta da studiosi di storia e forse nemmeno da qualche scrittore. Mentre fa questi pensieri, Connie può quasi sentirsi nell’orecchio la sentenza della società: «Hitler è più interessante di te.» Si consola un po’ pensando che se fosse fatta, invece, dai suoi vicini di casa (che sono persone pacifiche, che non cercano complicazioni) probabilmente la scelta ricadrebbe su di lei. Probabilmente se le scelte fossero fatte dai suoi vicini di casa – i signori Ossalatti – avrebbero logiche molto diverse dalle attuali – e se è per questo anche dalle precedenti. Nella mente di Connie si accende un’immagine: il signore e la signora Ossalatti che aprono un giornale dove si riportano soltanto fatti positivi. Il signore e la signora Ossalatti che prendono la metropolitana e uno dice all’altra: «Guarda, cara, quanta gente buona e pacifica c’è in giro oggi. Nessuno alza un dito contro l’altro.» In effetti, pensa Connie, milioni di persone tutti i giorni convivono senza spararsi addosso, progettare delitti, prodursi in inseguimenti senza quartiere, derubarsi. Milioni di persone pagano i ticket. Pagano le tasse. Pagano. Chiedono scusa se urtano una persona. Sembra che questo per i giornali non esista nemmeno. Là fuori il mondo è marcio, corrotto e violento. I giornali sono il quotidiano canto di dolore dell’uomo che abita questo mondo. Un lamento senza fine, stampato e distribuito in milioni di esemplari. Esistono giornali di destra e di sinistra. Però non esistono giornali di notizie buone e di notizie cattive. Forse bisognerebbe inventarli.
Connie va sui canali a pagamento. Se li è fatti installare nella televisione della sua stanza qualche mese fa quando ha acquistato i manuali per imparare l’inglese. Vedendo moltissimi film in lingua originale sta imparando molto rapidamente l’inglese – e comincia a fare l’orecchio anche al se. Pensa che se la televisione generalista ha avuto il merito di insegnare la lingua italiana agli italiani, ora nel lungo periodo la televisione a pagamento agli italiani insegnerà anche le lingue straniere. Mentre pensa questo, quando meno se lo aspetta, davanti a un film se, Connie scoppia in lacrime. Non riesce a fermarsi. È come se una mano invisibile le stia strizzando gli occhi. Le fanno anche male. In quel momento pensa a una barzelletta che un suo collega d’ufficio le aveva raccontato una o due vite fa quando ancora lavorava e non le era venuto in mente di mandare in fallimento il matrimonio del suo dominus prima di licenziarsi. In questa barzelletta tre anime al Purgatorio si incontrano e cominciano a fare quattro chiacchiere su come sono morte. La prima anima dice alle altre di essere caduta dal quindicesimo piano di un palazzo mentre al terzo piano un sedicenne in rotta col sistema si è sporto dalla finestra con un fucile per compiere un massacro giù nella strada sottostante. Probabilmente la prima anima sarebbe anche sopravvissuta perché di sotto guarda caso c’era il gigantesco camion di una ditta di materassi pieno per l’appunto di materassi di gommapiuma, ma arrivato all’altezza del terzo piano il sedicenne lo ha centrato alla testa col fucile mandandogliela in mille pezzi. Le altre anime si mettono a ridere. Si divertono. La seconda anima allora dice che lui, invece, è morto dopo aver salvato la vita a un delfino che stava attraversando la strada nel quartiere dove abitava. «Che cosa?!» «Sì, stavano ando dei camion che trasportavano delfini dentro gigantesche vasche piene d’acqua. I camion erano diretti verso l’acquario di Genova. Uno dei camion ha avuto un incidente e si è rovesciato. Lo sportello si è spalancato e sono rotolate fuori le vasche. Il vetro delle vasche era infrangibile, ma una vasca si è rotta ugualmente. Tonnellate d’acqua si sono rovesciate per le strade e il delfino che ci stava dentro ha cominciato a sgusciare e saltare ed è arrivato all’incrocio stradale e proprio quando un furgone del latte stava per metterlo sotto io mi sono tuffato dal marciapiede e l’ho salvato.» «Madonna!» «Il furgone del latte non ha preso il delfino, ma ha preso me ed ora sono qui.»
A questo punto la prima e la seconda anima guardano la terza anima e le chiedono: «E tu? Di che cosa sei morto tu?» «Che cosa volete che vi dica…» dice la terza anima. «Sono morto di vecchiaia a centodiciannove anni.» «Che morte noiosa!» dicono allora la prima e la seconda anima. «Ma non ti è proprio successo niente? Non so: non ti si è staccato un polmone? Magari sei morto con la pelle che si squarciava per le piaghe. Sei sicuro che qualche parente che non ne poteva più di vederti al mondo dopo centodiciannove anni non ti ha messo della stricnina nella minestra?» «Ma no! Ma no!» La prima e la seconda anima erano proprio contrariate. Avrebbero voluto divertirsi ancora un po’. E invece con quell’anima lì… «Di’ un po’» gli hanno chiesto allora. «E la tua vita, invece, com’è stata?» «Noiosa anche quella.» Il collega d’ufficio di Connie concludeva dicendo che se muori noiosamente probabilmente hai anche vissuto noiosamente. Dopo le lacrime Connie sente gli occhi appesantirsi. Pensa che piangere è un buon modo per addormentarsi – forse migliore che contare le pecore. Mentre le palpebre sbattono e si appiccicano, e diventa sempre più difficile risollevarle, Connie pensa alla vita, alla morte. Pensa che se non altro morire noiosamente non significa sempre vivere noiosamente. Quella è soltanto una barzelletta. Le viene in mente che vivere è bello, ma scaccia questo pensiero. Fa di tutto per tenerlo lontano. Oh sì. Di tutto. A Connie viene in mente che potrebbe provare con il training autogeno per convincersi che la morte è bella. Potrebbe fare come i corridori prima delle gare o i calciatori o gli atleti. Le viene in mente che di solito nei film che vede alla televisione o nelle storie che sente raccontare quando ci sono persone che aspettano di andare a morire, per esempio prima di andare alla sedia elettrica o alla ghigliottina o alla fucilazione, cominciano a delirare che vorrebbero rivedere il loro amore oppure vorrebbero esaudito ancora un desiderio. Queste persone si comportano come chi vuole tenacemente
rimanere in vita e che dalla vita cerca di congedarsi nel migliore dei modi. Invece, forse si potrebbero applicare a loro le tecniche di lavaggio del cervello per convincerle che andare a morire è la cosa più bella che ci possa essere. Forse questa tecnica così disumana in un caso come questo potrebbe diventare umana. Mentre sbatte gli occhi sempre di più, a Connie viene in mente un’altra barzelletta a proposito del miglior modo di congedarsi dalla vita. Forse non è proprio una barzelletta. Forse è un aneddoto. Comunque, dice qualcosa a proposito di un uomo di un centinaio d’anni che ormai sente che sia arrivato il suo ultimo giorno. Quest’uomo è sempre stato pieno di vita e di allegria, e non si è mai intristito davanti a nulla. Così quando sente che ormai sta per andarsene, ordina alle figlie e alla moglie di preparare le torte, i pasticcini. Dice che vuole lo champagne migliore. Dice che vuole anche le stelle filanti e vuole le trombette con la lingua di carta che si srotola. I parenti lo accontentano e col permesso del personale ospedaliero nella stanza d’ospedale portano anche due danzatrici cubane. L’uomo è proprio allo stremo delle forze. Trema. Il respiro sibila. Però, continua a raccomandare di stappare lo champagne e di mangiare la torta e dice alle danzatrici di continuare a ballare e di alzare la musica, di alzarla! Poi quando sente che ormai sta per traare, chiama vicino la moglie, le figlie, i nipoti, le danzatrici, si fa stringere da loro e dice: «Tira i coriandoli! Fai andare le stelle filanti! Suona la trombetta! Suona la trombetta! Suona la trombetta!» Mentre la lingua di carta della trombetta si srotola, l’uomo muore. Connie spegne il televisore. Si addormenta.
Capitolo 6
Ginevra ha ventisette anni. Ha avuto sei uomini. Ha conosciuto il primo a diciassette anni. Si chiamava Marcello. Aveva diciannove anni. Anche se a diciassette Ginevra considerava Marcello soltanto un amico, a ventiquattro Ginevra avrebbe ammesso almeno a se stessa e qualche volta in compagnia delle sue amiche che in effetti Marcello non era stato soltanto un amico, ma il suo primo fidanzato. Marcello era alto una spanna più di lei, non era robusto, aveva le spalle un po’ a bottiglia, aveva gli occhi marroni, aveva i capelli castano scuro, indossava magliette con il colletto, era miope, portava gli occhiali. A Marcello piacevano Dostoevskij e Tolstoj, gli piaceva scriverle lettere di almeno quattordici pagine, gli piaceva studiare. Parlava molto. In discoteca era come un pesce fuor d’acqua. Era innamoratissimo di lei. Ginevra era uscita con lui per un anno e mezzo. Lo aveva tradito con Luca, che era il suo istruttore al corso di nuoto – Ginevra soffriva di scogliosi –, con Diego, che aveva conosciuto in discoteca, e con Gennaro, che era stato un suo compagno di classe a ragioneria. Poi dopo un anno e mezzo Ginevra si era messa con il suo secondo uomo. Si chiamava Roberto. Ginevra aveva quasi diciannove anni. Lui ventiquattro. Ginevra aveva cercato di uscire con Roberto da quando aveva avuto quindici anni. Poi finalmente dopo quattro interminabili anni era riuscita a convincerlo a mettersi stabilmente con lei. Si facevano vedere per il corso. Andavano assieme in discoteca. Si facevano le canne nell’automobile di lui. Una volta una riga di coca. Una volta una pasticca di ecstasy. Lui la portava sulla sua barca. Una volta l’aveva ospitata a casa sua per due settimane. Era una casa grande, molto disordinata. Viaggiavano. Grecia. Ibiza. Portorico. Roberto era alto una spanna e mezza più di lei, era robusto, aveva le spalle giuste, aveva gli occhi marroni, aveva i capelli biondissimi, indossava magliette con il colletto, portava cappellini americani, qualche volta con la visiera girata al contrario. A Roberto piaceva portare orologi d’oro vistosi, mangiare pizze crude appena tolte dal frigorifero al mattino presto accompagnandole con Coca Cola giganti, dormire in barca. Ginevra e Roberto si sono frequentati per quattro anni. Non stavano esattamente insieme. Nella vita di Roberto c’era un’altra. Adesso è con quest’altra che Roberto sta. Probabilmente prima o poi lui finirà per sposarla.
Comunque, durante questi quattro anni con Roberto, Ginevra ha detto a Sonia, a Irene, a Valentina, a Marta e a Connie che Roberto non riusciva a scoparla. Non ci era riuscito in barca, dove perlopiù avevano fumato erba e dormito. Non ci era riuscito in Grecia. Non c’era riuscito a Ibiza. Nemmeno a Portorico. Il fatto è che Roberto aveva problemi di erezione. Avevano cercato di risolverli ma non erano arrivati a molto. Ginevra aveva detto queste cose anche a Marcello, che peraltro le aveva già sapute da Marta, e anche da Valentina. Dal 1999 al 2003 nella piccola cittadina dove abita Ginevra molti avevano saputo dei problemi di erezione di Roberto. Però non si era mai capito se Roberto avesse questi problemi soltanto con Ginevra oppure li avesse anche con altre donne. Forse la donna che adesso sta con lui tollera questo genere di problemi. Comunque, a ventidue anni e mezzo Ginevra aveva rotto con Roberto e si era messa con il suo terzo uomo. Si chiamava Gilberto. Gilberto era un metro e novantaquattro, aveva gli occhi azzurri, i capelli biondi, la pelle abbronzata. Aveva le spalle un po’ a bottiglia, ma ciononostante, a quanto pare, aveva vinto una medaglia di nuoto olimpica. Aveva fatto parte della squadra di pallanuoto della città. Adesso gestiva una palestra. Quando si erano frequentati Gilberto, che come Ginevra aveva confidato a Valentina, che poi lo aveva detto anche a Marcello, portava come secondo nome Tancredi, aveva quattro anni più di Ginevra ossia un anno in meno dell’età attuale di Ginevra che è ventisette anni, e che stanno per essere festeggiati proprio quest’oggi. Gilberto aveva delle perversioni. Le faceva indossare guanti di lattice. Si faceva mettere degli aggeggi dentro il sedere. Pretendeva di venire legato. E queste erano soltanto le perversioni sessuali più leggere di Gilberto. Ginevra era rimasta con Gilberto per un anno e mezzo. Poi a venticinque anni lui l’aveva lasciata. A Torino era entrato in un giro poco chiaro dove si facevano messe nere e orge sataniche. Ginevra aveva sofferto. Poi si era messa con Marino. 2005. Marino aveva vinto una medaglia d’argento di scherma ai campionati regionali. Aveva gli occhi marroni. Era biondo. Gli piaceva leggere Tolstoj. Soprattutto Marino era magro. Le ragazze lo mangiavano con gli occhi. Sonia, Irene, Valentina, Marta e la stessa Connie impazzivano quando lo vedevano. Le dicevano che doveva sentirsi orgogliosa di avere un bel tipo come Marino al fianco quando ava per il corso. Erano stati insieme un anno. Ogni volta che lui la veniva a prendere le regalava una rosa: rossa o blu. Una volta le ha regalato anche una rosa verde. Diceva che il suo amico fioraio tingeva le rose con uno speciale composto chimico. La portava nei ristoranti buoni. Ordinava pesce. Non mangiava carne. Mangiava molte verdure.
Non mangiava le patate. Non fumava. Aveva un modo di scoparla superbo: le entrava dentro e le usciva fuori a ripetizione. Intanto gridava, faceva versi. Lei vedeva il paradiso. Per strada li fermavamo. Li guardavano. Li salutavano. Erano la coppia più amata in città. Erano la coppia più amata anche quando andavano in vacanza da qualche parte fuori città. Emanavano qualcosa di speciale. Marino veniva salutato da tutti: bambine, bambini, ragazze, ragazzi, adulti, anziani. Quando lo vedevano i bambini sembravano impazzire. Gli sorridevano. Gli venivano vicino e se potevano l’accarezzavano. Lui era un amore con i bambini. Era molto tenero. Un anno più tardi Marino si era messo a pesare centoquattordici chili. Era ato da sessantadue a centoquattordici. La faccia gli era come esplosa. Le braccia si erano gonfiate. Sembrava che avesse ingoiato un pallone da calcio o un seno di Ginevra tanto era diventata prominente la sua pancia. L’anno successivo Ginevra aveva lasciato Marino. Diceva che a Marino era venuta una fame pazzesca. Le sembrava non si sarebbe più fermato. Lei gli diceva di non mangiare. Se insisteva troppo, però, Marino si trasformava. Diventava un altro. Si metteva a gridare. «Voglio mangiare! Dammi da mangiare!» Così Ginevra si era messa con Remo che aveva dei bellissimi orologi al polso. Remo si era subito messo ad ammazzarla di botte. La maltrattava. Le diceva che era di questo che lei aveva bisogno. Che lui l’aveva capita, una come lei. Lividi dappertutto. Ponfi. Una volta Ginevra aveva detto a Irene che Remo l’aveva portata in un campo pieno di vespe apposta per farla massacrare dai pungiglioni. Poi la costringeva in casa fin quando i lividi non le avano perché Remo non voleva che la gente si accorgesse di quanto era violento e di quanto maltrattasse le donne. Anche se Remo, però, non maltrattava le donne. Remo maltrattava lei: perché di questo lei aveva bisogno. Sei mesi più tardi aveva lasciato Remo, si era messa con Carlo. Carlo era un ginecologo. Aveva lavorato all’ospedale. Poi aveva aperto uno studio privato. Con Ginevra si vantava di aver fatto quattro fatture in sei anni di attività. Ginevra non gli credeva. Carlo si vantava di questo anche con il suo amico che lavorava nella guardia di finanza. Carlo aveva le spalle giuste, non portava orologi, disprezzava le pizzerie, aveva uno yacht, leggeva Dostoevskij, aveva gli occhi marroni, aveva i capelli biondi. Carlo voleva sposarsi con Ginevra. Le aveva regalato l’anello due mesi dopo che si erano conosciuti. Sei mesi più tardi aveva prenotato il ristorante per il giorno delle nozze. Sette mesi più tardi la cappella. Il mese successivo la guardia di finanza era entrata nel suo studio e l’aveva rovinato. Adesso Ginevra si vede con l’amico di Carlo che fa la guardia
di finanza. Non è una cosa seria: sono soltanto amici. Connie si era accorta del comportamento di Ginevra con gli uomini al suo terzo uomo. Ginevra ha i capelli ricci biondi. Le cadono sulle spalle. Ha la pelle lattea. Gli occhi sono celesti. Porta una fila di perline al collo. Porta una terza. Non ha vestiti prediletti. Non le servono. Qualsiasi cosa indossa Ginevra è incantevole. Connie si è accorta che la sua amica è una pazza stronza con gli uomini osservando alcuni particolari. Con gli uomini Ginevra agiva quasi come i serial killer agiscono con le loro vittime. C’erano sempre quei quattro o cinque particolari che in un uomo di Ginevra dovevano per forza esserci: l’orologio, la barca, il colore degli occhi, Tolstoj o Dostoevskij. Poi una caratteristica che rendesse quell’uomo unico agli occhi degli altri e soltanto un essere da distruggere agli occhi di quella pazza stronza di Ginevra. Solo che queste considerazioni coprivano soltanto una parte della verità. Connie era arrivata alla verità totale soltanto due mesi fa dopo che Ginevra aveva piantato Carlo dopo avergli fatto tradire Silvia per un periodo di tempo molto lungo. La verità totale le era stata suggerita da Carlo stesso che a differenza degli altri uomini di Ginevra lei aveva avuto la possibilità di conoscere e frequentare piuttosto bene attraverso Manuel. La guardia di finanza non era mai entrata nell’ufficio di Carlo. Non era successo niente di quello che Ginevra aveva raccontato e spifferato in giro alle sue amiche e al suo gruppo, e dal parrucchiere, e ovunque potesse farlo senza timore di essere denunciata per diffamazione. Questo aveva talmente insospettito Connie da spingerla a domandarsi se per caso Ginevra non avesse cercato di diffamare anche altri ex fidanzati e insomma per farla breve Connie aveva scoperto che fino a quel giorno Ginevra si era divertita a sputtanare gli uomini che erano usciti con lei raccontando esclusivamente fandonie. Quando non riusciva a trasformarli in bambocci e a renderli ridicoli come nel caso di Marcello e di Remo, allora sputtanava la loro reputazione come era successo con Gilberto, Marino, Roberto e Carlo. Connie poteva affermare questo perché aveva condotto delle piccole indagini. Aveva raccolto informazioni sui precedenti uomini di Ginevra – informazioni minime che chiunque avrebbe potuto reperire – e si era resa conto che non era mai stato vero che Ginevra aveva avuto una relazione con il suo istruttore di nuoto mentre si vedeva con Marcello, e Marcello era stato solo un amico, e lui aveva voluto sempre essere soltanto un amico; e Roberto aveva rapporti sessuali regolari con la sua ragazza, e se in queste cose qualche problema l’aveva mai avuto, allora l’aveva avuto soltanto con Ginevra; e Gilberto, sì, Gilberto a quanto era risultato a Connie non aveva mai partecipato a orge e non aveva mai avuto
contatti con persone che potessero far pensare anche solo lontanamente di appartenere a qualsiasi forma di setta; e Marino, subito dopo essersi lasciato con Connie, era tornato al suo peso forma, e aveva confidato alla persona che aveva parlato con Connie, che durante il periodo che era stato con lei lui aveva preso a mangiare e a ingrassare anche a causa dei cibi pesantissimi che lei non mancava mai di preparargli, ma non era mai arrivato, mai, a pesare centoquattordici chili; e Remo, quanto a Remo, Remo non aveva nessun precedente per percosse alle donne, e le sue donne giuravano che era buono e pacifico più di un agnellino; e in quanto a Carlo, invece, di Carlo si è già detto: la guardia di finanza non è mai entrata nel suo ufficio. Adesso Connie, Carlo, Silvia hanno deciso sia arrivato il momento di chiarire una volta per tutte questa situazione con Ginevra.
Il 24 novembre proprio mentre a Genova Nervi Silvia sta eggiando con Ginevra in attesa dell’ora giusta per portarla a casa sua, a Rapallo l’avvocato Murgia viene a sapere qualcosa di molto importante. Qualche settimana prima, due ore dopo aver ricevuto la telefonata ricattatoria, il video che riprendeva Clara mentre era impegnata in un rapporto sessuale con il suo amante era stato fatto sparire dalla rete. Una settimana dopo Clara era tornata dai suoi genitori in Abruzzo. Murgia le aveva detto che non poteva più sopportare di vederla dopo quello che aveva fatto. Le aveva detto che le avrebbe ato l’assegno di mantenimento e che avrebbe provveduto a lei per un poco fino a quando non avrebbero avviato le pratiche del divorzio che dopo quello che aveva combinato sarebbero state rapide e tutte a suo svantaggio. Poi aveva aggiunto che da lui non avrebbe ricevuto un quattrino e che il tribunale gli avrebbe dato ragione. Su questo, però, Murgia aveva in gran parte bluffato. Il video che coglie la moglie in flagrante e che costituirebbe una prova inoppugnabile ai fini della richiesta di addebito della separazione a carico di Clara, infatti, adesso non c’è più. Questo avrebbe un poco complicato le cose. Però, in fondo non le avrebbe complicate troppo per un avvocato con uno studio legale come il suo. Poi Murgia non ha intenzione di farla pagare alla sua ex moglie fino in fondo. Nonostante quello che gli ha fatto, purtroppo sente per lei ancora qualcosa. Da due giorni Murgia è nella villa di Rapallo. È arrivato sabato sera ed è rimasto fino ad oggi che è lunedì sera. Al mattino ha telefonato in ufficio alla sua segretaria che non ce l’avrebbe fatta ad essere in ufficio. Domenica ha bevuto
troppo Cognac e al risveglio non ha avuto le energie per alzarsi dal letto, figuriamoci per guidare e sostenere una giornata di lavoro. Così ha trovato una scusa con la segretaria ed è rimasto a letto. Si tratta di una villa su due piani di centonovanta metri quadrati. C’è un giardino molto piccolo. Attorno a lui ci sono ville a schiera tutt’intorno. L’ha comprata per uno scherzo. È stato un affare. Murgia esce nel giardinetto. Si siede su uno sgabello di quercia. L’aria è fredda. Osserva tre o quattro ragazzini sui nove dieci anni che danno calci a un pallone di plastica rosso sulla strada che divide la schiera di ville dove si trova la sua dall’altra schiera. È troppo stanco per alzarsi e dire che è pericoloso giocare in mezzo alla strada con le macchine che potrebbero sbucare da un momento all’altro. In questi giorni ha dormito nello stesso letto dove Clara ha consumato il suo rapporto sessuale con un individuo che lui probabilmente non conoscerà mai e che non vuole nemmeno conoscere. Prima di entrare nel letto, però, Murgia ha dato fuoco alle lenzuola cospargendole con una tanica di benzina e buttandole nel camino del soggiorno. Poi le ha sostituite con lenzuola che si è portato da casa. Dopodiché per cinque minuti ha pianto. Probabilmente Murgia è venuto a fare questo nella villa: a sostituire le lenzuola e a darci fuoco, a compiere questo piccolo e patetico atto di purificazione. Solo che dopo aver finito di piangere, Murgia si è ricordato delle bottiglie di liquore sul mobiletto del soggiorno proprio a due i dal camino, e ha attaccato a bere. Prima una bottiglia di Bourbon. Poi uno Scotch. Più avanti un Absolut Vodka. Fino ad arrivare al Cognac che lo ha costretto a letto per tutta la domenica fino a lunedì mattino. Seduto sullo sgabello di legno, adesso Murgia contempla le illuminazioni delle villette a schiera. Murgia sta pensando che da tre o quattro anni ha continuato a ripetere che avrebbe voluto vendere la villa e comprarne una nuova nel Ponente Ligure – magari ad Arma di Taggia. Lì a una gigantesca pista ciclabile di ventiquattro chilometri e questo avrebbe permesso a Murgia di dedicarsi alla cura di uno dei suoi bernoccoli più grandi ossia macinare chilometri con la bicicletta. Clara, però, si era sempre opposta. Continuava a ripetere che lei a Rapallo ci stava bene. «E adesso è chiaro perché» dice Murgia a voce alta. Si accorge di non avere nemmeno le sigarette. Prende un respiro col naso facendosi entrare nei polmoni l’aria fredda della sera. Non vuole tornare dentro a cercarle. Non ha la forza di farlo e come per questo Murgia non ha la forza di fare molte altre cose.
Per esempio ha rinunciato a scoprire chi può avere messo il filmato in rete. I primi giorni si è subito rivolto alla polizia informatica. Ha molti amici nei carabinieri e nella polizia e ha accesso a una quantità di archivi di dati, informazioni riservate, immagini riservate che tutto sommato il solo pensiero lo spaventa. È impressionante, e anche allarmante, il potere che possono esercitare i funzionari delle forze dell’ordine al giorno d’oggi. Eppure, pur con tutta questa disponibilità di dati e informazioni, la polizia informatica non è riuscita a trovare una sola traccia per risalire a chi ha caricato il filmato su Internet. Il terzo o quarto giorno Murgia ha anche considerato la possibilità di ingaggiare un investigatore privato che cercasse informazioni, che andasse a caccia di qualcosa di sospetto e che sorvegliasse la sua villa. Murgia però non desidera perdere la faccia davanti a troppe persone. Già rivolgersi alla polizia informatica per spiegare la situazione gli è costato ricevere sguardi che non avrebbe voluto mai ricevere in vita sua e questo senso di dison… Murgia si accorge di qualcosa che lo strappa ai suoi pensieri. Uno dei ragazzini che stanno tirando quattro calci al pallone rosso sulla strada si è avvicinato alla sua villa. Indossa un giubbotto imbottito grigio. Ha la testa scoperta. I capelli sono ricci e biondi. La pelle del viso è bianca. Ha delle efelidi molto vistose sul naso. Murgia può vederlo molto chiaramente sotto la luce dei lampioni. Sarà a una decina di metri davanti a lui dietro la ringhiera della villa. Così non può sbagliarsi su quello che sta facendo. Sta puntando un cellulare verso di lui. È da circa tre o quattro minuti che il ragazzino lo sta facendo. All’inizio Murgia non gli ha nemmeno prestato attenzione. In qualche angolo della mente deve aver pensato che si fosse allontanato dal gruppo di amici per rispondere a una chiamata o inviare un sms o chiamare qualcuno. Adesso, però, dopo quattro minuti il ragazzino ha attirato la sua attenzione. Perché sta puntando quel cellulare proprio verso di lui? Perché sembra volerlo puntare esattamente nella sua direzione? Perché proprio dove si trova lui? Lo sta riprendendo? Per un istante lo attraversa il pensiero che quel ragazzino potrebbe essere il responsabile dello sfascio del suo matrimonio. Che si sia trattato della bravata di un adolescente. Di un ragazzino di dieci o undici anni. Tutto lì. Murgia si alza. Si avventa sul cancello. È rapidissimo. Il ragazzino capisce subito di essere stato
scoperto e mette via l’apparecchio. Si allontana. Murgia è fuori dal cancello. Corre verso il gruppo di ragazzi. Ferma il ragazzino. «Cosa stavi facendo col cellulare?» dice. «Niente… Io?… Niente…» dice il ragazzino. È diventato rosso. Ha le mani in tasca. Probabilmente sta tenendo stretto il cellulare. «Sì, invece. Mi stavi riprendendo.» «Io? No.» «Ti ho visto, sai!» «Non la stavo riprendendo.» Nel frattempo il gruppo si è coagulato attorno a Murgia e al ragazzino. Murgia cerca di non esagerare. «Senti, come ti chiami?» «Vittorio.» «Vittorio, tu abiti proprio qui davanti a me, no?» Vittorio fa segno di sì con la testa. «Sei il figlio dei…» Murgia fa uno sforzo; non è che ci abbia mai fatto troppo caso a chi fossero i suoi vicini: quel posto lui lo voleva vendere, abbandonare. «Dei Russo?» Vittorio fa di nuovo segno affermativo con la testa. «Senti, Vittorio. Per me è molto importante sapere se mi stavi riprendendo o no…» dice Murgia ma non aggiunge che è molto importante che sia lui a consegnargli il cellulare senza che debba dirlo ai suoi genitori per non dover fornire troppe spiegazioni e dover ricevere di nuovo gli sguardi che aveva già ricevuto dai funzionari della polizia informatica. «No!» risponde Vittorio.
Uno dei ragazzini si mette a ridere. Tiene la palla rossa tra le mani. La fa rimbalzare una volta sull’asfalto. Poi dice: «Ma come no?! Ma se lo fai sempre!» «Scimunito, sta’ zitto!» dice Vittorio. «Io lo dicevo che prima o poi qualcuno ti avrebbe beccato…» Murgia si sente a cavallo. Una specie di euforia lo percorre. Tutto semplice. Tutto banale. «Stammi a sentire, Vittorio, ti giuro che non ti faccio niente.» Un altro dei ragazzini con un vago accento barese dice: «Questo è un magistrato… No, avvocato! Adesso finisci alla questura!» Il ragazzino con la palla dice: «Adesso ti mettono al riformatorio!» «Zitti!» fa Murgia. «Non succederà niente di tutto questo!» Poi si rivolge a Vittorio e anche se gli vorrebbe staccare la testa dal collo con uno scapaccione gli dice: «Ti chiedo solo di darmi il cellulare di tua spontanea volontà, Vittorio.» «No!» «Vittorio, i tuoi amici in parte hanno ragione. Quello che hai fatto è grave. Se però mi dai il cellulare, ti giuro che non ti succederà niente…» Gli amici di Vittorio scoppiano a ridere. Vogliono veder scorrere il sangue. Evidentemente devono aver sempre giudicato Vittorio uno stupido e tutto sommato quella situazione se la meritava. «Zitti, spioni!» «Vittorio, avanti…» Alla fine Vittorio cede. Consegna il cellulare nelle mani di Murgia.
Silvia sta portando Ginevra a casa sua. Si tratta di una villa che si trova a
Genova Nervi. È il 24 novembre. Il 26 sarà il compleanno di Ginevra. Silvia e Ginevra hanno trascorso due ore assieme sulla eggiata Anita Garibaldi a Nervi. Sono state al parco a vedere gli scoiattoli correre sui pini marittimi o in mezzo alle agavi. Hanno preso un aperitivo in uno dei bar sulla eggiata con la ringhiera smaltata di celeste che si affaccia sulle scogliere e sul mare. Poi Silvia e Ginevra sono risalite e hanno eggiato sulla strada principale e sono arrivate alla villa di Silvia – o meglio dei genitori di Silvia. Silvia per tutto il tempo non ha fatto che dirle cose carine. Che fosse una donna di un’altra stella. Che i suoi capelli erano un vello. Che il suo viso era di un biancore come nei dipinti delle chiese. Quanto ai suoi occhi… Che lei l’ha stimata sempre… Ginevra non è sembrata rimanere mai infastidita. Forse le piaceva l’idea che a farle quei complimenti – e del resto Ginevra è abituata da sempre a complimenti come quelli, e tanto dagli uomini quanto dalle donne – fosse Silvia. Proprio la donna che Carlo aveva tradito per stare con lei. Forse ad ogni complimento di Silvia, Ginevra pensava: e non sai quanto sei stupida, quanto sei ingenua… E in effetti Silvia era stata tirata dentro al piano di Connie rimanendo all’oscuro del fatto che Carlo l’avesse tradita con Ginevra. Aveva partecipato al piano di Connie e Carlo solo perché si era fatta convincere da loro dopo che le era stata spiegata la situazione: però, Connie e Carlo si erano guardati bene dallo spiegarle la situazione del tutto, e questo faceva di Silvia effettivamente una ingenua, una stupida ora che si produceva in tutte quelle carinerie e cerimonie verso Ginevra. In ogni caso quando Ginevra era entrata in casa di Silvia, alle sette e mezzo di sera circa, mentre fuori faceva buio, e quando era scoppiato l’applauso dei suoi amici dopo che avevano la luce della sala, un invitato aveva stappato una bottiglia di spumante, qualcuno aveva fatto degli hurrà, qualcun altro aveva gridato: «Buon compleanno, Ginevra!», con tutti i complimenti, e le parole abboccate, e belle, che Ginevra aveva ricevuto da Silvia, per poco l’emozione non le aveva fatto prendere un colpo. La situazione era precipitata subito nel patetico. Ginevra si era commossa ed era finita in lacrime. Aveva dovuto bere due o tre bicchieri d’acqua colmi fino all’orlo per potersi riprendere. «Non dovevate! Non dovevate! Oh, non dovevate!» aveva continuato a ripetere. Quello, però, non era stato che l’inizio. Circa mezz’ora più tardi, quando ormai Ginevra si era ripresa del tutto, era
arrivata la torta con le candeline. Le luci si erano spente. La decina di invitati si era disposta attorno a Ginevra. Ginevra aveva soffiato sulle candeline. Le aveva spente. Poi la luce era stata di nuovo accesa. Carlo le aveva ato il coltello per tagliare la torta. Solo che quando Ginevra lo aveva preso, si era messa a ridere e aveva detto: «Ma cosa mi hai ato? Sembra… Questo non sembra un coltello… È una cazzuola!» «E infatti credo proprio che ti servirà visto che dovrai tagliare una torta fatta con la calce viva!» La decina di invitati era scoppiata a ridere. Anche Ginevra era scoppiata a ridere. Però aveva smesso non appena si era resa conto che la torta era davvero fatta di calce viva. «Ma cosa… Ma vi siete ammattiti?» aveva detto. «Questo scherzo non mi piace!» aveva detto. «E dài! Pensavamo che invece gli scherzi ti piero!» aveva detto Connie. «E invece no. No!» aveva risposto Ginevra. Qualcuno le aveva versato da bere. Probabilmente Irene. Ginevra aveva bevuto ma aveva subito sputato tutto. Quella che Irene le aveva versato non era dell’aranciata. Sembrava dell’acqua marina gassata. «È salata?!» aveva detto Irene. «Sì!» aveva risposto Ginevra. «Sì, che lo è!» Gli invitati erano scoppiati a ridere di nuovo. Ginevra non aveva saputo come prenderla. Stavano cercando di divertirsi alle sue spalle? Di umiliarla? Che cosa stavano cercando di fare? Prima che però Ginevra avesse il tempo di trovare una risposta a queste domande Connie e Carlo le avevano detto: «È venuto il momento del pacco regalo.»
«Uh, e che cos’è il regalo? Una tarantola?» aveva commentato Ginevra. Si erano trasferiti in giardino. Nel giardino della casa di Silvia ci sono ginepri, araucarie, agavi. Quando le avevano mostrato il pacco enorme che qualcuno aveva, nel frattempo che erano in casa, scaricato in giardino – sì, perché altrimenti un pacco come quello Ginevra lo avrebbe senz’altro notato subito al suo arrivo alla villa – Ginevra aveva detto: «Una tarantola non può essere. Forse ci avete messo dentro un leone.» «Avanti avanti avanti! Aprilo aprilo aprilo!» Il pacco regalo era un cubo con il lato di tre metri. Era di cartone. C’era un nastro rosso di un metro che chiudeva il pacco e finiva in un fiocco. Per tirare il fiocco e scioglierlo Ginevra aveva dovuto farsi aiutare da Carlo e da Filippo che le avevano fatto scala. Quando Ginevra aveva sciolto il nastro, il lato del cubo davanti a lei e ai suoi amici si era aperto. Ginevra aveva potuto vedere il regalo. Marcello, Roberto, Gilberto, Marino, Remo erano usciti dal pacco regalo gigante. Mentre usciva, Gilberto aveva anche un poco tossicchiato. Remo invece si era aggiustato la cravatta come se si sentisse strangolare. Ognuno di loro aveva in mano altri pacchetti regalo. A questo punto la faccia di Ginevra era diventata più bianca di quella che la signora Katrina aveva visto a sua figlia in sogno qualche mese fa. Prima che Ginevra scape via, Carlo, Connie e Silvia le si erano avvicinati, l’avevano presa per i gomiti e le avevano impedito qualsiasi movimento. Carlo aveva anche detto: «Eh no. Dove credi di scappare? Adesso devi aprire i regali che ti hanno portato i tuoi regali…» Silvia aveva ridacchiato. «Ma no… Ma cosa… No!» Marcello le si era avvicinato. Le aveva offerto il suo regalo.
La decina di invitati le stava attorno. Osservavano cosa succedeva. Non tutti sapevano già quello che sarebbe successo. Come ad esempio Manuel che era stato invitato alla festa da Carlo. Quando Connie aveva visto Manuel al tavolo degli stuzzichini, era andata da Carlo e gli aveva chiesto spiegazioni. Come mai Carlo non le aveva detto che avrebbe invitato Manuel? Eh sì che avevano concordato la lista degli invitati assieme! «Calmati. Non alzare la voce.» «Come hai potuto farmi questo? Sapevi che tra me e Manuel è finita!» Carlo aveva bevuto un sorso dal bicchiere che teneva in una mano. «Ci siamo incontrati nello studio di Filippo. In effetti non sono stato io a invitare Manuel. È stato Filippo.» «Dovevi opporti! La lista l’avevamo già concordata!» «E come facevo? E poi abbassa la voce…» «Cosa ci faceva Manuel nello studio di Filippo?» «Manuel nello studio di Filippo ci va un giorno sì e uno no. Sono in affari insieme a Milano. Senti, Filippo mi ha telefonato e mi ha detto che sarebbe sceso da Milano anche con Manuel. Secondo te dovevo dirgli di no?» «Ma anche Filippo sapeva di me e Manuel.» «Appunto. Dal suo punto di vista gli deve essere sembrato un modo per aiutare il suo amico a riavvicinarsi a te. Manuel soffre da quando l’hai lasciato.» «Sono furiosa. Cerca almeno di tenermelo lontano!» Una decina di minuti più tardi al tavolo degli stuzzichini Connie si era trovata una coppa di spumante sotto il naso. Si era voltata.
«Ciao, Connie.» Manuel. «Ciao, Manuel.» «Non la prendi?» Connie aveva dato un’occhiata in giro. Aveva visto Carlo parlare con Irene dall’altra parte della villa. Le guardava lo spacco del vestito scollatissimo. Connie aveva preso la coppa. «Ho pensato molto a te in quest’ultimo periodo» le aveva detto Manuel. Connie lo aveva osservato. Una ciocca di capelli ricci fuori posto gli conferiva un’aria rimediata. La pelle era tesa. Bianca. Gli occhi marroni erano meno vivaci del solito. Aveva dei cerchi intorno agli occhi. Il filo di pappagorgia che aveva sempre avuto sotto il mento era scomparso. Manuel doveva aver perso peso. Conoscendo Manuel quella trascuratezza doveva essere calcolata. Manuel ci aveva sempre tenuto molto alla sua immagine. Arrivava ad essere maniacale nella cura del suo aspetto. Più di una volta avevano bisticciato quando lui poco prima di uscire per qualche serata si chiudeva in bagno e non usciva più per ore costringendola ad aspettarlo. Tutta quell’igiene, poi, a Connie non era nemmeno mai piaciuta. Molto strano da parte sua presentarsi a una festa in quello stato. A Connie era sembrato del tutto evidente che Manuel volesse comunicarle qualcosa col suo aspetto. Qualcosa come: “Non vivo più senza te”. «Se mi hai pensato molto, allora smetti, perché ti rovina la cera» gli aveva risposto Connie. Era rimasta soddisfatta delle parole che le erano uscite di bocca. Di solito Connie non era una donna dalla risposta pronta – anche se dopo quello che le era riuscito di fare in occasione della sua ultima festa di compleanno aveva cambiato parecchie opinioni su se stessa. Comunque, il fatto di essere riuscita a pronunciare quella battuta l’aveva caricata. Aveva continuato a fornire battute al vetriolo per tutta la durata della conversazione. «Hai ancora problemi al sabato sera?» aveva voluto anche sapere a un certo
punto, riferendosi alla telefonata che Manuel le aveva fatto qualche mese prima dove si lamentava di non avere più amici. «Adesso va meglio. Non troppo, però. È come se mi evitassero tutti. Non ho capito ancora perché.» «Forse perché non ti rendi conto del bulldozer che sei, Manuel» gli aveva detto Connie tanto per farlo sentire ancora più a disagio. «Mi sono dovuto costruire una nuova compagnia. Nuove conoscenze. Nuovi amici. Per fortuna Filippo ha continuato ad essere un collega ottimo e un amico…» Già, Connie a Filippo non era arrivata. Non gli aveva fatto sentire le registrazioni. Nemmeno a Carlo che lavora a Milano e a Silvia che invece risiede a Genova dove lavora in uno studio di architettura. Gli altri invitati alla festa di Ginevra, invece, avevano ascoltato più o meno tutti le dichiarazioni di Manuel dal cellulare di Connie. Ognuna delle persone presenti a quella festa erano al corrente dell’opinione o dell’appellativo che Manuel aveva per loro. Perciò lo evitavano accuratamente. «Se non ci fossero loro e questi nuovi amici chi lo sa come vivrei… Come un recluso…» «Certo, con le persone che non ti conoscono è più facile mentire.» «Ma cos’è che faccio di male?!» Connie si era pregustata la scena: vedere un uomo in trappola. Non gli aveva detto che la sola cosa di male che faceva era fidarsi delle persone sbagliate, avere la lingua lunga e non tenere per se stesso le sue opinioni sul mondo. Dopo cinque minuti, a conversazione finita, Connie aveva pensato che se le sue battute fossero state pugni, la faccia di Manuel adesso sarebbe caduta a pezzi. Poi gli aveva detto:
«Facciamo un gioco.» Manuel che si era già voltato per allontanarsi, si era fermato. Senza voltarsi le aveva chiesto che cosa avesse in mente. Connie gli aveva detto: «Visto che ti piace telefonarmi anche quando ci troviamo nello stesso locale a distanza di una cinquantina di metri, puoi farlo anche questa volta.» Manuel si era voltato. Le aveva offerto il suo sguardo più ironico. «Cosa?» le aveva detto. «Sì. Guarda, telefonami tra mezz’ora.» «Cosa?» «Tu prova. Vedrai…» Mentre Connie si allontanava andogli molto vicino gli aveva sfregato la coppa di spumante su un gomito e gli aveva sussurrato di nuovo: «Vedrai.» Mezz’ora più tardi Connie spingeva Carlo verso la porta della toilette. Prima a poco a poco. Poi Carlo si era accorto di trovarsi nell’antibagno. A destra c’era la porta delle donne. A sinistra, degli uomini. «Cosa stiamo facendo, Connie…» «E zitto…» aveva miagolato lei. Lo aveva spinto nella porta della toilette degli uomini. Dentro un signore anziano si stava sciacquando le mani ai lavandini. «Connie, no!» aveva gridato Carlo. «La scusi…» aveva detto rivolto al signore anziano. Però non aveva fatto niente per impedire a Connie di spingerlo nel primo gabinetto della fila. Del resto niente aveva fatto nemmeno quando aveva trovato una scusa con Silvia e le aveva detto che usciva a comprare la bottiglia di un liquorino che doveva assolutamente far assaggiare a Filippo, a Manuel e a un
paio d’altri invitati. Silvia aveva acconsentito. Di Carlo, Silvia si fidava. Carlo era uscito e presso il cancello della villa dentro al buio prodotto da un’araucaria aveva trovato Connie. Connie gli aveva detto: «Ce ne hai messo di tempo.» Carlo le aveva risposto: «Ho dovuto trovare una scusa con Silvia. Non capisco perché devo accompagnarti a comprare questo liquore proprio adesso.» «Bugiardo.» Quando aveva chiesto a Carlo di accompagnarla ad acquistare il liquore le si era strusciata addosso quasi completamente. Gli aveva fatto sentire i seni, l’addome, le cosce. Gli aveva anche sfiorato il ventre con una mano. «Bugiardo.» La cabina era stretta. Il gabinetto alla turca. Non era nemmeno troppo pulito. Per fortuna però non era orribilmente sporco. Carlo aveva pensato che magari a Connie non sarebbe nemmeno importato. A lui nemmeno. Carlo aveva chiuso la porta. Aveva fatto scattare la sicura. Connie indossava un abito da sera nero. Aveva il girocollo e sul girocollo una collana di perle – che le era stata regalata da Manuel. Aveva la scollatura – quella che Manuel le criticava sempre. Aveva i guanti da sera. Lunghi. Di raso. Neri. L’abito da sera era ai suoi piedi. Il reggicalze era slacciato. Le mutandine alle ginocchia. Il reggiseno abbassato. Non slacciato. Carlo l’aveva penetrata così. In piedi. I boxer e i pantaloni a mezza coscia. Non aveva smesso di parlarle all’orecchio. Le aveva detto parole. Questo l’aveva eccitata da morire. Connie gli aveva tenuto le mani aggrappate alla base del collo con il cellulare nella mano destra. Connie aveva aspettato. Poi il cellulare si era messo a squillare. Connie si era aggrappata a Carlo. Senza che lui uscisse da lei era riuscita a incrociargli le gambe dietro la schiena. Carlo è alto un metro e ottanta. Non ha troppi muscoli. Però puntellandosi al muro era riuscito a reggerla. A entrarle ancora più dentro. A saldarsi a lei. Il cellulare aveva continuato a squillare. Con lui così dentro Connie non si sarebbe sorpresa di spaccarsi da un momento all’altro in due metà. Lui l’aveva appoggiata al muro antistante. Aveva continuato a dirle parole all’orecchio. Il cellulare aveva continuato a squillare. Connie aveva guardato il display. Bingo! Era Manuel. Carlo aveva detto qualche parola. Connie aveva risposto.
«Dove sei?» le aveva detto Manuel. «Sto… Sì, sto…» «Come vedi ti ho chiamata. Dove sei?» «…va bene… va bene…» Carlo non aveva smesso di farle entrare nelle orecchie parole. «Vuoi che venga a cercarti? Sei nascosta da qualche parte?» Carlo aveva detto parole. «…sì… sì…» Connie non aveva spento il cellulare quando era venuta. La porta dietro la schiena di Carlo aveva traballato furiosamente. Carlo era venuto. Prima aveva gridato Connie. Poi aveva gridato Carlo. Il suo grido le era entrato nell’orecchio. Il cervello dentro il cranio le era sembrato spostarsi. I loro corpi avevano tremato assieme. «Pronto! Pronto! Connie! Connie!» Carlo le aveva detto: «Che pazzia.» «Sì.» «Ci butteranno fuori di qui.» «Sì.» «Paga tu alla cassa.» «Grazie. Sei stato grande» aveva detto Connie parlando al microfono del cellulare. «Connie, dove sei? Ma che succede?» aveva detto Manuel.
Connie aveva spento il cellulare. Poi lei e Carlo si erano rivestiti. Si erano accertati che la toilette fosse vuota. Poi erano usciti dalla cabina e dalla toilette. Connie aveva pagato la bottiglia di liquore alla cassa. Il barista non era sembrato accorgersi di nulla. Erano tornati alla festa. «Dov’eri?» le aveva chiesto Manuel non appena l’aveva vista di nuovo. Connie gli aveva piazzato un’altra battuta al vetriolo. Poi si era precipitata da Silvia, Irene e Ginevra per il taglio della torta fatta di calce viva. Comunque, adesso c’è Ginevra che deve affrontare gli ex fidanzati che ha diffamato in tutti questi anni e che le si stanno avvicinando con dei pacchi regalo in mano per renderle la pariglia. Il primo che si avvicina è Marcello. Le sorride. Ginevra però capisce subito che si tratta di un sorriso sinistro. «Connie, questo non dovevi farmelo…» sussurra Ginevra. «Prendi il pacco di Marcello.» Marcello non dice una parola. Le sorride con il suo sorriso sinistro e si limita a porgerle il pacco. Connie sta pensando che è perfetto. Non avendo alternative, alla fine Ginevra prende il pacco e lo scarta. È una scatola da scarpe. Dentro la scatola, però, non ci sono scarpe. Ci sono fotografie. Sono fotografie polaroid. Su ogni fotografia ci sono Marcello e una ragazza che si baciano. «Riconosci la ragazza?» le dice Connie. «No… no… Cosa…» «È Isabella Fioretti del quarto B.» «Ah sì… La ricordo…» «Guarda dietro di loro… Cosa c’è?» «È il manifesto di un film al cinema.»
«Mm mm.» «Daylight – Trappola nel tunnel» legge Ginevra. «Guarda sulle altre foto. Ci sono altri manifesti.» «Sagra del pesto a Varigotti…» Qualcuno ridacchia sentendo “Sagra del pesto”. «Leggi la data. È leggibile, la data.» «1998…» «Che è più o meno la stessa data del film.» «No, il film è uscito nel ’97. Con Isabella sono uscito per due anni» corregge Marcello rompendo il suo silenzio. «Cosa significa?» dice Ginevra. «Quei manifesti provano che queste foto sono state scattate dieci o undici anni fa proprio nello stesso periodo in cui tu sostenevi di esserti vista con Marcello e di averlo tradito.» «Tra di noi non c’è stato altro che amicizia» dichiara Marcello. «E non è bello far credere agli altri di amare qualcuno solo per poterlo tradire con qualcun altro.» Ginevra non ci sta. Le tremano le mani che reggono le fotografie. Però tiene duro. «E perché lo avrei fatto?» «Forse perché non hai mai sopportato che Marcello fosse molto più attivo intellettualmente e preparato culturalmente di te. Odiavi il fatto che riuscisse a prendersi i voti che tu non sei mai riuscita a prendere.» Dietro di loro si levano mormorii. «È ridicolo» dice Ginevra.
«Grazie, Marcello» dice Connie. «Roberto, vieni.» Si presenta Roberto. Anche lui ha un sorriso sinistro sulla faccia. Non dice una parola. Porge il pacco a Ginevra. Ginevra sbuffa. Per qualche momento scalcia. Però Connie, Silvia e Carlo esercitano su di lei una presa ferrea. Involontariamente anche il gruppo di invitati alle loro spalle esercita pressione su Ginevra e la costringe a stare inchiodata dove sta. Ginevra prende il pacco. Nemmeno riesce a vedere di che colore esattamente sia a causa dell’oscurità della sera e delle luci del giardino che creano chiaroscuri. Ginevra apre il pacco. È la scatola di un cellulare. «No, grazie per il pensiero. Ce l’ho già il cellulare.» Qualcuno dietro di lei ridacchia. Si levano altri mormorii. «Apri la scatola» dice Roberto. Non gli va di scherzare. A nessuno va di scherzare. Ginevra apre la scatola. Dentro c’è un cellulare . «Prendilo» dice Connie. «Connie, tu sei malata» dice Ginevra. «Lo… so… Ginevra…» risponde Connie. Ginevra prende il cellulare. «E allora?» dice. «Cosa ci devo fare? Devo telefonare a qualche fantasma del mio ato che mi comunicherà che verrò tormentata da lui per il resto dei miei giorni?» «Guarda cosa c’è sul display.» C’è un’immagine che al centro contiene il tasto play. «È un filmato» dice Ginevra. «Mm mm» dice Carlo.
«Clicca sul play» dice Connie. «Non sono capace» dice Ginevra. «Fallo e basta» dice Roberto. Ginevra fa partire il filmato. Dura cinque minuti e ventuno secondi. Ginevra lo ferma dopo il primo minuto. «Cazzo, questa roba è da denuncia! Io ti denuncio!» si mette a gridare Ginevra. Roberto strappa dalle mani di Ginevra il cellulare. «È solo per dimostrare che sei una diffamatrice!» «Hai girato un filmino porno servendoti di questa merda di cellulare mentre scopavamo!» urla Ginevra. «È stato molto tempo fa, Madame Finesse. Quando ancora il video nel cellulare era un optional per privilegiatissimi. Ho soltanto voluto testarlo un po’.» «Stronzo!» «La stronza sei tu che sei andata a dire a tutti quelli che hai potuto che io soffro di impotenza!» «Stronzo!» «Adesso sta’ a guardare» dice Roberto. Fa due i si avvicina a una araucaria e con tutte le sue forze scaglia il cellulare contro il fusto dell’albero. Il cellulare va in pezzi. «Stronzo! Bastardo! Lasciatemi! Lasciatemi!» Connie, Silvia e Carlo, però, non la mollano. Ginevra scoppia in lacrime.
«Perché mi fate questo?» «Sta’ tranquilla. Abbiamo quasi finito» dice Silvia alle sue spalle. «Venite, ragazzi!» Gilberto, Marino e Remo si avvicinano. Carlo lascia il braccio di Ginevra e dice a Manuel di sostituirlo. Come un cagnolino Manuel si presta al gioco e stringe il braccio di Ginevra. Carlo si allinea a Gilberto, Marino e Remo. Gilberto allunga a Ginevra il suo regalo. Ginevra si rifiuta di prenderlo. «Prendilo!» le dice Connie. «No!» «Prendilo!» «No, Connie, vaffanculo!» «Prendilo!» le dice per la terza volta Connie. «Ho detto di no!» A questo punto si levano nuovi mormorii. Qualcuno dice: «E prendilo! Tanto lo devi prendere!» «Sì, lo devi fare» dice qualcun altro. «Ti stanno facendo pagare il conto, non l’hai ancora capito?» «Non hai scelta.» «Prendilo!» dice Silvia. «Prendilo!» dice Carlo. «Pren-di-lo! Pren-di-lo! Pren-di-lo!» comincia a cantilenare il gruppo di invitati
dietro di loro. «No! Andate a cagare! Basta!» «Pren-di-lo! Pren-di-lo! Pren-di-lo! Pren-di-lo! Pren-di-lo!» Alla fine Ginevra prende il pacco. Il gruppo di invitati scoppia in applausi, fischi all’americana, esultazione. Dentro il pacco di Gilberto Ginevra trova una frusta borchiata. «Ho pensato che visto che in questi anni sei andata in giro dicendo che faccio orge nelle sette sataniche, adesso per punirti ti prenderò a scudisciate con questo affare davanti a tutti» dice Gilberto e così dicendo strappa la frusta dalle mani di Ginevra e la srotola fino a terra. «Tenetela, ragazzi!» Connie, Silvia e Carlo stringono la morsa al braccio. Ginevra urla. Gilberto porta il braccio con la frusta dietro le spalle. Ginevra urla ancora più forte. Gilberto abbassa il braccio. Il gruppo di invitati tira un sospiro di sollievo. «Certe cose io non le ho mai fatte e di sicuro non mi metterò a farle oggi» dice Gilberto. Ginevra piagnucola qualcosa. «Mi fai solo comione» dice Gilberto e fa un o indietro. Scoppia un applausino. Quasi contemporaneamente si fa avanti Marino.
Marino porge a Ginevra il suo regalo. Dentro c’è una ciambella ricoperta di cioccolato fondente. «Ti ricordi quante di queste schifezze mi hai fatto mangiare?» Ginevra ride. «Sì, e tu coglione che le mangiavi!» Marino si rivolge agli invitati. «In quel periodo sotto di noi aveva aperto una panetteria che vendeva dolci americani. Torte al cioccolato alte trenta centimetri. Muffin. Cheese cake. Brownie. Strudel. Cinnamon Roll. Ginevra mi ha fatto ingozzare di Fritos. Mi cantava anche la musichetta scema della pubblicità. «Mang a bunch! Mang a bunch! Mang a bunch…» E poi metteva quintali di maionese ovunque. Anche nascosta dentro la pastasciutta.» «Se non ti piaceva la mia cucina dovevi fartene da te!» «Ti arrabbiavi da morire se non mangiavo quello che mi preparavi e io… io ti amavo troppo per non fare quello che volevi…» «Io ti amavo troppo per non fare quello che volevi! Gnè gnè gnè gnè!» «Adesso devi mangiare il ciambellone!» «No!» «Sì, lo devi mangiare tutto fino all’ultima briciola!» «No!» «Ciam-bel-lo-ne! Ciam-bel-lo-ne! Ciam-bel-lo-ne!» «No! No! No!» «Ciam-bel-lo-ne! Ciam-bel-lo-ne! Ciam-bel-lo-ne!» Ginevra prende il ciambellone. «Sì!» gridano gli invitati.
Marino comincia a cantare: «Mung a bunch! Mung a bunch! Munch a bunch!» Ginevra scaglia il ciambellone il più lontano possibile da lei sul prato del giardino. «Noooooo…» mormorano gli invitati. Marino torna al suo posto ed è la volta di Remo. «Basta, vi prego, basta.» La scatola di Remo, invece, è vuota. «Mi fai schifo» le dice Remo. «Dire di me le cose che hai detto è quanto di peggio si possa fare a un uomo. Tu per me non sei niente e al niente non si regala niente!» Da dietro gli invitati fanno qualche applauso. «Quanto a me» dice infine Carlo. «Se non ti denuncio per le voci che hai osato spargere in giro sul mio studio è solo perché non voglio comportarmi come un traditore esattamente come te!» «Sì! Sei grande!» dice Silvia. Connie manda un colpo di tosse. Manuel manda uno starnuto. «E adesso» aggiunge Carlo. «Mandate fuori dai coglioni questa stronza.» Connie, Silvia e Manuel mollano la presa. Ginevra non ha più lacrime. Adesso ha solo rabbia. Sta per avventarsi su Carlo o su Remo o su Marino o su Roberto o su Marcello. Poi, però, non fa niente. Va via. Attraversa il giardino, apre il cancelletto e scompare nell’oscurità. Gli invitati mormorano. Qualcuno le grida dietro: «Va’! Va’!» Altri gridano: «Te lo sei meritato! E impara la lezione una volta per tutte!»
Altri le dicono invece: «Ginevra, buon compleanno!»
Il cellulare di Vittorio è un modello che Murgia conosce. Questo gli consente di verificare in poco tempo che effettivamente Vittorio lo ha filmato. Alza lo sguardo su Vittorio. «Lo fai spesso?» Vittorio non risponde. Murgia controlla nell’archivio. Ci sono almeno una quarantina di filmati. Murgia è pronto a scommettere la testa che tra quei filmati si trova anche quello di sua moglie e del suo amante che è stato caricato in rete. Sente un vampa di calore sul collo. Alza di nuovo la testa. «Sentite, facciamo questo: entriamo in casa mia e controlliamo i filmati che ci sono qui dentro.» «No!» dice il ragazzino con la palla rossa in mano. «Io devo andare a casa! È tardi per me!» Prima che Murgia possa dire o fare qualsiasi cosa il ragazzino dà un calcio al pallone e lo spedisce proprio nel giardino della casa di Murgia. Dopodiché se la svigna. Anche gli altri due ragazzi scappano via con lui. Vittorio cerca di imitarli ma Murgia allunga un braccio e lo trattiene. «No, caro, tu adesso resti con me.» Il suo tono di voce è cambiato. Adesso che sono rimasti soli Murgia si è inferocito.
«Vieni dentro a casa mia, ti offro una limonata e mi racconti che cazzo ti è saltato in testa di fare con questo telefonino.» «Mamma! Mamma!» si mette a gridare Vittorio. Murgia è arrabbiatissimo. Ha freddo. Indossa una camicia e un maglione pesante, ma non si è messo il cappotto prima di uscire in giardino e adesso comincia a risentire del freddo. Copre la bocca di Vittorio con la mano. Poi lo afferra per un braccio e lo trascina verso casa. Se qualcuno lo vedesse in quel momento Murgia potrebbe essere incriminato per reati gravissimi. Non gli importa, però. Deve andare a fondo della questione. Risolverla. Capire. Dopo aver scoperto sua moglie e dopo essersi rivolto agli agenti della polizia informatica, Murgia ha cominciato a chiedersi a che cosa sarebbe servito scoprire con chi l’ha tradito sua moglie e chi aveva cercato di ricattarlo. Magari, Murgia avrebbe scoperto trame che gli sarebbero risultate insopportabili. Magari quello non era l’amante di Clara ma poteva essere uno dei tanti che lei si era rimorchiata e scopata quando veniva qui a Rapallo da sola. Murgia ha scoperto che qualche volta il sospetto può essere meno corrosivo della certezza. Sapere con certezza come sono andate le cose in un caso come questo può essere molto più pericoloso. Adesso che però Murgia ha scoperto che è stato soltanto un ragazzino a fare una bravata vuole arrivare in fondo alla questione. Magari il ragazzino può avere altri filmati su sua moglie. Murgia e Vittorio entrano in casa. Murgia sbarra la porta. Vittorio che adesso è libero dalla stretta comincia a gridare. Murgia ha un’idea. Tira fuori il portafogli e sventola davanti alla faccia di Vittorio delle banconote. «Le vedi queste? Le vedi?» dice, e sventola. «Sì, eh? Questi sono duecentocinquanta euro. Tu stai in silenzio, non apri più la bocca e io ti do questi soldi. Sì? Ce l’avrai un salvadanaio, no? Ce l’avrai qualcosa che vuoi comprare con tutto te stesso, no? Quanti anni hai?» Alla vista dei soldi Vittorio smette di gridare. «Dodici anni» risponde.
«Dodici anni. Se fai il bravo, Vittorio, alla fine ti darò altri duecentocinquanta euro. Fanno cinquecento euro. Diventeresti ricco…» Vittorio si calma. Allunga la destra e afferra i soldi. Murgia lascia fare. Vanno in soggiorno. Vittorio adesso è calmo. Addirittura assume un tono complice quando dice: «Io lo so cosa crede che io abbia.» «Lo so bene che lo sai.» «Lei vuole vedere i movimenti di sua moglie…» Murgia guarda Vittorio. «Che cosa intendi con “movimenti”?» Per un momento Murgia teme che Vittorio possa rispondergli: “Le scopate che sua moglie s’è fatta con gli altri uomini”. Invece Vittorio dice qualcos’altro. «Beh, l’uomo che veniva a trovare sua moglie… Ho due o tre filmati su di lui.» Murgia cerca di non gridare. Vorrebbe fare a pezzi quel bambino e buttarlo nel fuoco come ha fatto con le coperte. Invece, dice: «Vittorio, hai ripreso mia moglie mentre stava a letto con un altro uomo?» Vittorio alza lo sguardo. Arrossisce un po’. «Io… no…» «Vittorio, io nei giorni scorsi ho ricevuto delle minacce. Sei stato tu a caricare in rete il filmato di mia moglie?» Vittorio scuote il capo. D’altra parte cosa avrebbe dovuto fare in una situazione come questa? Dire di sì, e poi finire fatto a pezzi e buttato in un camino? Se era stato lui Murgia avrebbe dovuto scoprirlo da solo.
Murgia torna al cellulare. Comincia a guardare i filmati. Li a in rassegna uno per uno. Sono filmati che durano uno o due minuti. Al massimo tre minuti. Alcuni non lo interessano. C’è anche un video dove quel disgraziato di ragazzino cerca di filmare le gambe di una sua professoressa in classe. Però, Murgia lo salta. Ci sono, invece, diversi filmati dove il disgraziato ha filmato casa sua. Alcuni filmati non contengono niente di rilevante. Il disgraziato si è soltanto divertito a riprendere la sua proprietà chissà per quale sega mentale da adolescente. Le riprese vengono da lontano. Forse direttamente dalla sua stanza. Due filmati mostrano effettivamente due uomini giovani che hanno più o meno la stessa età di Clara suonare al citofono della villetta e attendere che il cancello venga aperto. Murgia non è del tutto sicuro ma crede che il coglione del secondo filmato con un cappello da baseball americano sulla testa e il cappuccio di una felpa blu fuori dal giubbotto sia lo stesso che ha visto nel filmato dell’amplesso di Clara. Murgia va avanti. Purtroppo nella villa non ha un fisso e non si è portato dietro il portatile così non può scaricare i filmati su uno schermo più grande e non farsi venire gli occhi da cinese. Al venticinquesimo o trentesimo filmato, però, Murgia trova qualcosa che lo fa sobbalzare. C’è una donna che si avvicina alla villa. Ha il o furtivo. Si guarda intorno. Tiene in mano un oggetto. La donna scavalca la ringhiera della villa. Entra all’interno e scompare dall’inquadratura. «Ma che caz…» Nel filmato Murgia sente Vittorio scoppiare a ridere. Si è accorto che sta succedendo qualcosa di molto insolito e si sta divertendo. Deve aver pensato: “Era ora!”. L’inquadratura, però, segue la donna. Cerca di ritrovarla. La donna non si è diretta verso la porta principale, ma si è portata sul lato ovest della facciata della casa, dove sta la finestra della stanza da letto. In ato Clara e lui avevano litigato parecchio riguardo quella collocazione della camera da letto. Clara non aveva mai accettato che la loro stanza da letto fosse al piano terra e non al piano superiore. La gente ando avrebbe potuto allungare lo sguardo e vederli. Lui le ha sempre detto che una volta o l’altra avrebbe fatto trasportare da qualcuno al piano superiore il letto matrimoniale e la gigantesca specchiera voluta da lei. Murgia, però, aveva scelto di mettere la stanza da letto al pianterreno per una ragione precisa: desiderava assecondare una delle piccole perversioni sessuali di Clara che era fare l’amore con la luce naturale che viene dalla finestra. Clara non chiudeva mai le finestre quando facevano l’amore. Murgia aveva pensato che Clara non fe questo soprattutto perché desiderava inconsciamente che qualcuno potesse vederla. Pensandoci meglio,
forse la decisione di collocare la camera da letto al piano inferiore anziché a quello superiore non assecondava esattamente una perversione di Clara, ma una sua perversione. Comunque, adesso, mentre osserva le immagini sul cellulare di Vittorio, Murgia non riesce a vedere che cosa sta facendo la donna che si è introdotta nel giardino di casa sua. L’immagine è disturbata. La ripresa è eseguita da lontano. C’è la ringhiera e ci sono alberi e cespugli che coprono la visuale. Però, si può vedere lo stesso la donna fare qualcosa di curioso: puntare l’oggetto che tiene in mano contro la finestra. Il filmato si interrompe dopo due minuti interi mentre la donna è rimasta ferma con l’oggetto in mano puntato contro la finestra. Murgia non ci può credere. La donna del filmato è una dei suoi avvocati. La migliore dei suoi avvocati. Connie.
Capitolo 7
Manuel ancora non lo sa, mentre sta dietro a Saverio, sul sedile del suo Ciao, il casco spagnolo sulla testa, sentendo l’aria sulla faccia e odorando gli anticrittogamici. Ha diciassette anni. È estate. 1995. Manuel e Saverio vanno verso la piscina di Villaromagnano. (Villaromagnano è un paese che sta a ovest di Tortona; Tortona si trova nella provincia di Alessandria). ano per la Strada Viola. Manuel tiene le braccia attorno alla vita di Saverio. Ha ancora nella bocca il sapore del ghiacciolo al limone che ha comprato al bar e finito prima di montare sul Ciao di Saverio. (Saverio ha preso invece un ghiacciolo all’arancia). Manuel pensa che Saverio è suo amico e che con lui sta bene e questo gli sembra un pensiero definitivo. (A diciassette anni Manuel riesce ancora a concepire un numero cospicuo di pensieri definitivi). Manuel e Saverio sono amici da due anni almeno e stanno bene assieme, e questo, Manuel pensa, sentendo l’aria sulla faccia, odorando gli anticrittogamici, avvertendo sul lato destro del collo la punzecchiatura del legaccio dello zaino con la roba per la piscina dentro, è un pensiero definitivo. Ma Manuel, mentre concepisce questo pensiero, con il sapore di limone del ghiacciolo nella bocca, ancora non sa che Saverio, tra sette anni, lo inviterà a prendere una cosa da bere e a Volpedo (un altro paese, a est di Tortona) alla Fragòla (un locale di Volpedo) durante una normale conversazione gli dirà qualche parola che cambierà la sua vita. Succederà precisamente giovedì 8 agosto 2002 davanti a due bicchieri di punch al mandarino. Manuel e Saverio avranno ventidue anni. Sarà Manuel a portare Saverio a Volpedo alla Fragòla. Manuel frequenterà la Fragòla da qualche mese (circa quattro mesi): per quel tempo si vedrà con Marina, una ragazza molto più grande di lui, e anche se Marina quella sera non ci sarà, Manuel lo stesso porterà Saverio alla Fragòla perché stare seduto ai tavoli dove sarà stato già seduto qualche volta con Marina a dirsi dolcezze lo farà stare meglio. E sarà qui che Saverio dirà le parole che cambieranno la vita di Manuel. Saverio avrà già smesso di essere amico di Manuel dal 1997 (con la fine della scuola – il liceo classico di Tortona); anche se la decisione di finire l’amicizia da parte di Saverio sarà già stata presa dal 1996 (dopo la storia di Saverio con
sca). Nel 1999 Saverio avrà già deciso non solo di non essere un amico di Manuel, ma di torturarlo in ogni modo possibile. E giovedì 8 agosto 2002 Saverio si presenterà all’appuntamento con Manuel con la precisa intenzione di mettere in atto una tortura nei suoi confronti che si rinnoverà ciclicamente nel tempo e che non si esaurirà fino al 12 febbraio 2014 quando Saverio cambierà completamente lavoro e tutti i pensieri di Manuel scompariranno anche perché Saverio non li potrà più alimentare in nessun modo. Questa, però, non sarà la prima tortura inflitta da Saverio a Manuel. Nel 1999 – in collaborazione con sca e Viviana – Saverio avrà già messo in atto quella che chiamerà con sca e Viviana “La tortura della professoressa”. Nel 1999 Saverio, sca e Viviana racconteranno a Manuel in tre momenti diversi che la professoressa di italiano (due anni prima; nel 1997), lui assente, avrebbe parlato di Manuel in classe come di un “caso sociale”, chiedendo il parere dei compagni di classe, che sarebbero intervenuti per alzata di mano, dicendo la loro opinione su Manuel, opinione che secondo le versioni di sca, di Viviana e di Saverio, pur fornite in tre momenti diversi, sarebbero state convergenti sul punto inerente la stranezza di Manuel e la sua chiusura in se stesso. In un periodo successivo, ancora nel 1999, Saverio avrà già riferito a Manuel un’altra storia ancora (quella che Saverio chiamerà con sca e Viviana “La storia della professoressa sul treno”): la professoressa di italiano (la professoressa di italiano sarà l’unica professoressa che per Manuel conterà qualcosa durante la scuola) incontrando sca e Viviana sul treno (per quel tempo Manuel avrà già confessato a Saverio il desiderio di bruciare viva sca e di soffocare, chiudendole la testa in una borsa di cuoio, Viviana; desiderio subito riferito da Saverio a sca e a Viviana) avrebbe detto che Manuel avrebbe dovuto stare, e il più spesso possibile, con sca e con Viviana perché la sua opinione sarebbe stata che con sca e con Viviana Manuel avrebbe saputo stare meglio che con altri e loro (sca, Viviana e Saverio) avrebbero saputo come aiutarlo, essendo Manuel dotato di una personalità strana e chiusa in se stessa, che solo con loro tre (sca, Viviana, Saverio) cessava di essere strana e chiusa in se stessa, e si normalizzava. Saverio potrà mettere in atto queste torture essendosi accorto che la mente di Manuel è facilmente torturabile, e non solo, ma che a Saverio (a differenza di altre persone) bastano poche parole per generare nella mente di Manuel una qualsiasi convinzione. Saverio si accorgerà che Manuel possiede una personalità debole, comunque molto più debole di quella di Saverio, e per Saverio facilmente manovrabile. Soprattutto Saverio si accorgerà che la mente di Manuel
è facilmente narcotizzabile per mezzo di illusioni. Nella mente di Manuel le illusioni si allargano come un vapore e lì rimangono per molto tempo, senza che Manuel si preoccupi di smascherarle realmente per la ragione che la mente di Manuel ha bisogno di queste illusioni. Nel 1999 Manuel non si preoccuperà di verificare quella che Saverio chiamerà con sca e Viviana “La storia della professoressa sul treno”. Non fermerà la sua professoressa di italiano per chiederle spiegazioni, si vergognerà troppo per farlo, né sarà attraversato dal dubbio che la storia non sia reale, essendogli stata raccontata da Saverio. Accetterà come un fatto reale che l’opinione della sua classe composta da ventotto persone e dalla sua professoressa di italiano (e dagli altri professori) sia che lui, Manuel, è una persona strana e chiusa in se stessa. Ora, che questi due fatti riportati che si chiameranno “La tortura della professoressa” e “La storia della professoressa sul treno”, non sembrino effettivamente torture importa poco. Saverio saprà che queste due storie proprio grazie alla loro leggerezza e al loro sembrare tutto fuorché torture sprofonderanno nella mente di Manuel e lì lentamente si allargheranno nel modo più devastante poiché Saverio saprà (a partire dal 1996 lo sospetterà soltanto; nel 1997 di questo avrà certezza) che Manuel attribuisce grandissima importanza alle parole degli altri e ai loro giudizi, e in particolare, Saverio saprà di quali persone Manuel non potrà assolutamente e in nessun modo sopportare giudizi negativi, e saprà quali saranno i giudizi negativi che Manuel più di tutti non potrà sopportare (soprattutto “stranezza” e “chiusura in se stessi”), e di tutte queste consapevolezze si servirà a poco a poco, chirurgicamente, nel tempo. Giovedì 8 agosto 2002 al terzo sorso di punch al mandarino Saverio guarderà negli occhi Manuel e gli dirà: «Sto facendo uno stage per Italia1; lavoro per un programma televisivo che si chiama Il Protagonista.» Saverio per quel tempo si sarà iscritto alla Facoltà di scienze della comunicazione con la precisa intenzione di diventare regista – Saverio avrà intenzione di fare più soldi possibile attraverso la sua dote principale, che sarà (e in parte è già adesso, nel 1995) capire le persone e sapere come fare per manovrarle. «Si tratta» dirà Saverio «di un format particolare. Viene prescelta una “vittima”, gli si attaccano delle microcamere, anche piccolissime, e in qualsiasi punto, anche sulla maglietta della persona che sta con te, anche sulla tua di maglietta, e la cosa può andare avanti per anni» Saverio guarderà Manuel negli occhi. «Ed è impossibile che la vittima si accorga di qualche cosa.»
«Io mi accorgerei subito» dirà Manuel. «Io mi accorgo di tutto.» «Se anche ti accorgessi» dirà Saverio «i tempi saranno talmente lunghi che smetterai persino tu di credere quel che ti sei convinto di credere. Fidati, il format è infallibile.» «Beh, io sono pronto» dirà Manuel sogghignando un poco. «Se vuoi trascinarmi dentro, io ci sto.» Saverio guarderà Manuel bene bene. «Anche se la cosa dovesse portarti al limite?» «Anche se la cosa dovesse portarmi al limite» dirà Manuel. «Anche se dovessi piangere, anche se dovessi dar di matto, anche se quello che ti capiterà nei prossimi anni non sarà niente di vero e alla fine rimarrai con niente in mano?» «Perché no?» Tutto quel che Manuel penserà per anni dopo questa e simili conversazioni sarà stato effettivamente tutto quel che si sarebbe dovuto pensare in base alle manipolazioni di Saverio. Saverio avrà lasciato cadere nel tempo una serie di informazioni allo scopo di generare in lui, e alimentare, precise convinzioni. Manuel non sospetterà di essere stato vittima di una macchinazione da parte di Saverio – di uno “scherzo nello scherzo” progettato al solo scopo di torturarlo. La data che farà precipitare Manuel nell’equivoco sarà il 23 settembre 2002 – una data, come è giusto precisare, non compresa nel disegno di Saverio. In quella data Manuel vedrà a orari notturni la trasmissione televisiva intitolata Il Protagonista. Manuel sarà particolarmente interessato a questa trasmissione avendovi partecipato come pubblico, e in base alle convinzioni depositate nella sua mente da Saverio come effettivo protagonista, nella data del 24 agosto 2002. Durante la trasmissione Manuel verrà a sapere dal presentatore che i “complici” che circondano la “vittima” della gigantesca messinscena televisiva si avvalgono di auricolari, piccolissimi e bianchi, da dove escono gli ordini e le battute del copione che il furgone regia comunica per radio all’orecchio del complice. Per quanto piccolo l’auricolare, dirà il presentatore, si può vedere se si ama prestare attenzione ai particolari e proprio per questo motivo, il presentatore dirà, i
complici cercano di coprirlo portando i capelli lunghi, oppure fingendo l’otite o di essersi feriti all’orecchio per depistare chi dovesse iniziare a insospettirsi troppo. Poi il presentatore si rivolgerà al pubblico a casa – e a Manuel sembrerà si stia proprio rivolgendo a lui – e dirà che le telecamere possono essere montate dappertutto e che soprattutto non bisogna fidarsi degli specchi! Il biancore degli auricolari rimarrà particolarmente impresso in Manuel. Manuel si domanderà in un periodo successivo perché fosse stato scelto proprio il bianco per gli auricolari, si domanderà se effettivamente è il bianco il colore più adatto per camuffare gli auricolari e non invece un rosa carne o un grigiolino sbiadito. Il 19 giugno 2006 condividerà questi pensieri anche con la sua ragazza. La sua ragazza riderà. Non mostrerà di prenderlo sul serio. Lui le dirà: «Sei la prima che viene a sapere queste cose, Connie. È il mio grande segreto. Il mio tormento.» «Essere protagonista di una gigantesca trama televisiva?» «Sì.» Il 19 gennaio 2009 durante una giornata trascorsa a Genova a eggiare con la sua ragazza diventata ormai la sua ex ragazza, su richiesta della sua ex ragazza lui e la sua ex ragazza entreranno nel cinema porno di via San Vincenzo dove si sederanno e dopo un quarto d’ora di proiezioni lo schermo si oscurerà e le luci della ribalta si accenderanno, partirà una musica esplosiva, e un presentatore televisivo noto inviterà Manuel a salire sul palco, e tra applausi scroscianti, e vallette scoperte, gli annuncerà di essere stato vittima per anni dello show televisivo Il Protagonista, e gli verranno mostrati filmati, che lo riprendono per strada, dal panettiere, nella vita di tutti i giorni, e poi dopo un’ora di interviste, e colpi di scena, si susseguiranno sul palco Saverio, la sua fidanzata, Filippo, anche, e Irene, e Silvia, e Carlo, che assieme ad altri si riveleranno essere stati complici della produzione televisiva fin da principio, e poi Manuel riceverà un mazzo di fiori, e baci dalle vallette, e fine trasmissione, e gli verrà annunciato che tra sei mesi partirà uno show megagalattico, dove lui sarà il protagonista assoluto della prima puntata, e che dopo quella trasmissione per lui ci sarà un indotto straordinario, interviste, talk show, spot televisivi… Il 26 gennaio 2009 Manuel comincerà a svitare gli specchi di casa sua per controllare se ci sia o no qualche telecamera (che sicuramente, per quanto piccola, nell’immaginazione di Manuel è inoculata in una guaina protettiva di colore bianco) o microfono bianco. Mentre sviterà gli specchi e controllerà le zone sospette, il 26 gennaio 2009, Manuel penserà che il biancore degli auricolari non è stato scelto casualmente dalla ditta produttrice, ma richiama il biancore dei fantasmi, e comunque non troverà telecamere, non troverà niente,
né in automobile, né da nessun’altra parte, e dopo sei mesi, nel 2009, non succederà niente, non ci sarà la trasmissione memorabile che avrebbe dovuto proiettarlo nel mondo dello spettacolo, e dopo aver telefonato a Saverio, Saverio gli dirà che ci sarà stato un disguido, uno stop, e la trasmissione non si saprà se si farà o non si farà, che bisognerà attendere, e il 26 novembre 2012 Manuel chiamerà di nuovo Saverio, e griderà, vorrà avere informazioni, minaccerà denunce, e a quel punto Saverio gli dirà di possedere alcuni file che lo infangherebbero dalla testa ai piedi, e le cose a un certo punto precipiteranno di colpo, ma… …ma, adesso, qui, mentre svoltano a un tornante di Strada Viola, seduto sul sedile del suo Ciao, il casco spagnolo sulla testa, sentendo l’aria sulla faccia e odorando gli anticrittogamici, a diciassette anni, nell’estate del 1995, diretto con Saverio alla piscina di Villaromagnano, con il sapore del ghiacciolo nella bocca, Manuel tutto questo ancora non lo sa.
«Pronto, Saverio?» «Sì, sono io. Chi parla?» «Sono Connie.» «Connie… Connie…» «Sono la fidanzata di Manuel.» «Ah! Manuel! Connie! Certo! Ciao, come stai?» «Non succede spesso che il mio nome non si ricordi…» «Mi devi scusare…» «Ecco, ti chiamo perché vorrei incontrarti per parlare di una cosa.» «E di che cosa mi vuoi parlare? È successo qualcosa?» «Questo non vorrei dirtelo per telefono.»
«A dirla tutta in questo periodo sono molto occupato, Connie. Adesso mi trovo in Puglia per alcune riprese. Sarò a Roma soltanto nel fine settimana. Tu ti trovi a Roma?» «Veramente no. Mi divido tra Genova e Tortona.» «Tortona? Nessuno ha ancora raso al suolo Tortona?» «Veramente no.» «Come mai mi vuoi incontrare, Connie?» «Di questo preferisco parlarti di persona, Saverio.» «Io sono a Roma da venerdì sera. Starò fino a domenica. Purtroppo non posso ospitarti perché Livia e io siamo in mezzo a un trasloco…» «Oh no no no no no no no. Non ti devi disturbare. Alloggerò in un albergo. Se per te va bene credo che potremo incontrarci sabato mattino.» «Va bene. Okay. Allora siamo d’accordo.» «Ti ringrazio, Saverio.» «Ma di che cosa si tratta? Sul serio non puoi dirmi niente?» «Diciamo che si tratta di uno scherzo che vorrei fare a Manuel.» «Ah.» «Sì.» «Mmmmm… E come mai? Vi siete lasciati?» «Manuel ha fatto un po’ lo stronzo… Tu lo sai che lui è un po’ uno stronzo…» «Non nasconde le sue opinioni. Poi si comporta un po’ troppo come il comandante della truppa… Però…» «Ti dirò meglio di persona.»
«Connie…» «Sì?» «Preferisci una trattoria o un ristorante?» «Una trattoria andrà benissimo – molto buona, però.» «Mm… Vabbò, se vuoi che andiamo in una trattoria…» «No no. Allora ristorante…» «No. Trattoria. Va benissimo.» «Va bene.» «Ciao.» «Ci si vede.»
Ginevra prende un sorso di tè. Si trovano a Milano. Galleria Vittorio Emanuele. Manuel ha insistito per fermarsi da Biffi. Forse Manuel pensa che Ginevra voglia portarselo a letto. Secondo Manuel questo potrebbe essere un modo per vendicarsi di quel che Connie le ha fatto in occasione della festa del suo compleanno. Per questo l’ha portata da Biffi: per fare colpo. Dopo mezz’ora di conversazione, però, forse perché si è accorto che Ginevra ancora non ha messo in atto nessuna tattica di seduzione e non gli ha ancora inviato nessun segnale, Manuel le chiede perché ha voluto vederlo. Ginevra osserva le persone che ano per la galleria da dietro la vetrata che separa i tavolini fuori dal Biffi dal resto della galleria. «Connie si crede di essere diventata la donna più furba di questa terra» esordisce; per un momento fa per cercare le sigarette nella borsetta, ma poi cambia idea. «Non lo so, che cosa le sia preso. Qualche mese fa non era per niente così.» «L’ho notato anch’io.»
«Sì, ma sono sicura che non sai che quello che ha fatto alla mia festa è soltanto una delle tante porcate che Connie ha fatto in questo periodo» gli dice Ginevra. Manuel prende un sorso del liquore che ha ordinato. «Per esempio?» «Per esempio?! Ma lo sai che quella vipera… Io so una cosa su quello che ha fatto al suo dominus nell’ufficio legale dove lavorava… Una cosa terrificante, che non posso dirti, perché è da denuncia immediata… Ma è pazzesca, credimi!» «Che cosa è?» «Ah no, non ci provare. Tanto non te lo dico neanche sotto tortura. È qualcosa di gravissimo, però. Ti basti questo. In questi giorni ho anche considerato l’ipotesi di andare dal suo capo a spiattellargli tutto, ma ho cambiato idea perché ci sono troppe implicazioni pericolose anche per me.» «Come posso aiutarti se non mi dici di che cosa si tratta?» dice Manuel. «Manuel, piantala! Non fare l’intrigante! Ti ho detto che non te lo dico. Piuttosto, c’è qualcosa che riguarda anche te.» Il volto di Manuel si tende. Rimane in silenzio. «Tra le cose che Connie ha fatto in quest’ultimo periodo c’è qualcosa che riguarda anche te.» Manuel posa il bicchiere. Guarda Ginevra. «Se ti dico queste cose, Manuel, non è per vendicarmi di quel che Connie mi ha fatto» dice subito Ginevra. «Quando sono venuta via dalla mia festa, ero furiosa e a pezzi. Ho pianto per tre giorni. È stata una tale umiliazione… E tutte quelle bugie… Però, non ce l’ho con Connie. Non riesco ad avercela con lei. In realtà, io…» Ginevra si sporge verso Manuel e abbassa il tono della voce. «Noi la dobbiamo aiutare…» «Ginevra, che cosa sai?» Manuel la interrompe; è stanco di sentire l’ipocrisia
patetica di Ginevra. «Che cos’è che Connie mi ha fatto a parte scomparire nel nulla come la maggior parte delle persone che conosco da una vita in quest’ultimo periodo?» «Essenzialmente, due cose.» Ginevra allunga lo sguardo alla borsetta. Considera ancora una volta se mettersi a fumare. Ancora una volta lascia stare. «La prima cosa» dice. «È che la sera del suo compleanno al Villa Taunus di Pegli, Connie si è vista anche con un altro.» Manuel non ha reazioni. «Si chiama Matteo Pastorino e fa l’avvocato. Evidentemente la stronza deve avere un debol…» «Ma cosa stai dicendo?» dice Manuel. «Sto dicendo che durante la sua festa in un’altra ala del locale Connie si è vista con un altro uomo.» «Scherzi? Mi hai fatto venire qui per prendermi in giro?» «No. Non è uno scherzo. Connie si vedeva da un mese con lui. S’è messa a frequentarlo quasi dall’oggi al domani. Lo so perché sono stata io a presentarglielo. Io e Connie… beh, io e lei avevamo fatto una scommessa su di lui…» «Mi stai dicendo che Connie si vedeva con il suo amante alla festa del suo compleanno con me nello stesso locale?» «Per quanto pazzesco, sì.» «Ginevra, non ci crederò mai. Connie non è il tipo da fare cose come queste.» Ginevra scoppia a ridere. «Dopo quello che ha architettato contro di me pensi ancora questo di Connie?» Ginevra si sporge di nuovo verso Manuel. «Connie è cambiata, Manuel. Non è
più la stessa. Non lo so perché. Ho cercato di farle delle domande. Lei però non ha risposto. È stata evasiva. Non si è sbottonata. Almeno non per questo…» Ginevra ha uno scoppio di risa improvviso. «Sono sicura che ci sia qualcosa. Sono sicura che Connie abbia qualche segreto. Dio mi fulmini, però, se riesco a capire qual è o se sia riuscita a farmelo dire da lei.» «Chi sarebbe questo tale?» «Chi?» «Il tale che Connie si scopava mentre stava con me!» Manuel ha alzato la voce. Due signori con due cappotti molto pesanti a due tavoli da loro li hanno guardati brevemente. «Si chiama Matteo Pastorino. È un avvocato.» «Pratica a Genova?» «Sì, a Genova. L’abbiamo conosciuto in palestra.» «Non sai che piacere sentirti dare queste notizie.» Manuel beve dal bicchiere. Scuote il capo. Ginevra allunga un cartellino a Manuel. «Che cos’è?» vuole sapere Manuel. «È il biglietto da visita di Matteo Pastorino.» «Matteo Pastorino… Patrocinatore Legale… Non è nemmeno avvocato…» «Tienilo. C’è il numero del cellulare e… l’indirizzo del suo studio.» «So leggere da me.» «La seconda cosa, invece…» «No no. Aspetta un momento. Che genere di scommessa avete fatto tu e Connie?»
«Davvero lo vuoi sapere?» Manuel fa scomparire il biglietto da visita di Matteo Pastorino nel portafogli. «Sì che lo voglio sapere.» «Abbiamo scommesso che Connie sarebbe riuscita a sedurre Matteo e a ridurlo a uno spaventaeri.» Manuel tossisce subito dopo aver mandato giù un sorso di liquore. «Cosa?!» «Quello che hai sentito.» «Quando?» «Prima della sua festa di compleanno.» «Intorno ad agosto quindi.» «Sì.» Manuel diventa rosso. «È assurdo…» «È vero.» «Adesso si vedono ancora?» «Ma no! Connie è impazzita, te l’ho detto. Te l’ho detto che Connie ha organizzato dei festini nell’appartamento di Genova? Sadomaso. Transessuali. La casa messa a soqquadro. È diventata un porcile, quella casa. Connie è del tutto impazzita, te lo ripeto.» Manuel guarda Ginevra. «Con tutto il rispetto, Ginevra, ma dopo aver partecipato alla tua festa di compleanno, mi riesce abbastanza difficile crederti. Tu hai cercato di rovinare la reputazione di tutte quelle persone… E quello che hai fatto a Carlo…»
Ginevra accusa il colpo. Non sa cosa dirgli. «Adesso mi inviti qui e mi spiattelli questa storia. Ti aspetti che ti creda?» «Lo puoi verificare» risponde Ginevra; adesso parla come se avesse appena fatto cento metri di corsa. «Puoi telefonare al numero che t’ho dato e chiedere informazioni.» «Devo chiedere a Matteo Pastorino se si è visto con Connie durante la festa del suo compleanno?» «Di questo è all’oscuro anche lui.» «Ecco! Come volevasi dimostrare! Mi stai soltanto raccontando calunnie!» «Non è vero!» «Sei tu che sei pazza, Ginevra!» «No!» «Connie ha diritto a vedersi con altri. Tra noi è finita, anche se non so perché… Da qui a dirmi che Connie si è trasformata dall’oggi al domani in una zoccola, però, perché è questo che mi stai dicendo, Ginevra, e stiamo parlando di Connie, no, dico, Connie, che è la persona più buona e brava del mondo…» «Hai visto che cosa mi ha fatto!» «Io ho visto che quello che Connie ti ha fatto te lo sei meritato, Ginevra!» Ginevra si accorge di essere incastrata. Connie l’ha incastrata. Le ha tolto ogni credibilità presso i suoi amici e le persone che conosce. E chissà presso quanti altri ancora. Il pensiero le fa tremare le ginocchia. «Lascia che ti dica la seconda cosa!» «Ma non voglio più stare a sentire nemmeno una parola!» dice Manuel. Si alza in piedi. Ginevra lo blocca. Gli prende una mano.
«Aspetta!» «No!» Manuel tira fuori il portafogli e mette venti euro sul tavolo. «Manuel, è a causa di Connie se non hai più amici. Connie ha fatto in modo di farti terra bruciata intorno.» Manuel alza lo sguardo. «Questo da parte tua è veramente scorretto. Ti stai servendo di informazioni che ti ho confidato solo qualche momento fa…» «No! È vero! Connie ha registrato col cellulare quello che dicevi. Quando sparlavi dietro ai tuoi amici, ai colleghi, ai genitori. Ha fatto sentire a uno per uno tutto quello che ci dicevi!» Manuel si blocca. «Ma cosa… blateri…» «Di me hai detto che sembro la regina d’Inghilterra e che prima o poi qualcuno che me lo pianta nel culo lo trovo. Hai detto…» «Vuoi abbassare la voce…?» I signori coi cappotti sono di nuovo girati verso di loro e stavolta li guardano male. «Hai detto che porto sempre scarpe orrende e che la mia bellezza è sopravvalutata.» Manuel torna seduto. «Devi credermi, Manuel. Questo hai detto di me, e hai detto anche che sono frigida e che…» «Va bene va bene. Mi ricordo che cosa ti ho detto dietro.» Ginevra ha gli occhi rossi. Quasi sta per scoppiare a piangere. Osservandola Manuel pensa di vedere un topo in gabbia. Mentre pensa questo, si rende conto che questa immagine è perfetta anche per lui. Manuel e Ginevra sono due topi dentro le gabbie che Connie ha costruito per loro. Connie ha
costruito la gabbia intorno a Ginevra e Manuel servendosi dei loro difetti peggiori: la calunnia per Ginevra, e il risentimento verso gli altri mascherato da ironia per Manuel. «Connie ti ha detto questo?» «No.» «Che significa “no”? Come fai a saperlo, allora?» «Ne ho parlato con Silvia e Carlo. Anche a loro Connie ha fatto sentire registrazioni di quello che gli dicevi dietro.» Manuel sbianca. Si porta le mani al volto. «Santo cielo…» «L’ho dedotto…» «Dio, Ginevra…» «Connie non è più come prima…» Manuel si toglie le mani dalla faccia. Le mani gli tremano. «Devono essere stati quei corsi che ha fatto… Dovrebbero abolirli…» Manuel si mette a ridere; una risata bassa che viene dai bronchi. «In fondo, ce lo meritiamo, tutti e due…» «Come puoi dire questo?» «Dico quello che vedo. Tu calunniavi. Io non tenevo la lingua – almeno non con Connie, ma probabilmente non solo con lei. Ce lo meritiamo. In fondo pensandoci bene Connie è rimasta la Connie di sempre: è ancora lei, Connie La Brava…» «Sei ancora innamorato, per questo parli così» dice Ginevra. Finisce il tè.
Connie stoppa il registratore Mp3 del cellulare. Saverio osserva il cellulare di Connie. Connie ha in dotazione un cellulare Nokia 6610 con microcamera a colori nascosta. L’ha acquistato soprattutto perché permette di registrare video e audio senza essere notati. Il range massimo è di centocinquanta metri. Negli ultimi mesi, però, Connie non si è limitata soltanto a questo acquisto. Tramite Internet ha acquistato anche gli occhiali spia con microcamera a colori via radio. La montatura degli occhiali occulta una telecamera a colori, un trasmettitore radio e l’alimentazione della batteria. Poi Connie ha in dotazione anche altri oggetti. Come la penna che tiene nel taschino della camicetta che indossa sopra il tailleur e la sahariana e che è in grado di scattare novantanove fotografie e salvarle nella sua memoria interna. O l’accendino che tiene nel tascone destro del soprabito. E la spilla appuntata sulla giacchetta di tweed del tailleur che Connie indossa sotto la sahariana. La spilla incorpora un sensore CCD da un quarto di pollice e come il cellulare può trasmettere video in radiofrequenza a 2,4 GHz fino a centocinquanta metri. Una parte di risparmi piuttosto consistente è scomparsa per acquistare tutta questa roba; ma non ha molta importanza… Connie si diverte. Ci ha preso un certo gusto a giocare a fare la spia. Ha acquistato la sahariana grigia apposta per entrare meglio nella parte. «Che stronzo ingrato… È sempre stato uno che non aveva capito quale fosse il suo posto. E non sapeva starci. Anche al liceo» dice Saverio. Connie e Saverio si trovano a Roma. Connie è arrivata il giorno prima. È il 12 dicembre. Ha trovato una stanza in un albergo vicino al Colosseo. Dopo aver posato il bagaglio in camera, intorno a mezzogiorno, Connie ha girato un poco per Roma. È stata soprattutto in via dei Condotti dove ha fatto shopping. Scarpe. Camicette. Adesso Saverio e Connie sono da sco, una trattoria vicino a piazza Navona con le tovaglie a scacchetti bianchi e rossi. Connie ha finito un’amatriciana memorabile. «Io lo faccio solo per farti rendere conto che le cose che ti ho raccontato di lui non me le sono inventate. Quello è una bestia. Ci ho messo anni per rendermi conto di questo, ma alla fine, eh sì, con la mia calma, l’ho capito anch’io… Hai uno sbaffo qui» dice Connie indicandosi il lato destro della bocca. Saverio arrossisce. «Eh sì… È una bestia… È proprio una bestia. Un perdente» dice. Si pulisce con un tovagliolo.
Controlla sul tovagliolo per vedere la macchia di sugo, ma gli sembra di non vedere niente. «Già…» dice nel frattempo Connie. «No, ma queste cose non doveva farle a me… Lui non… Non lo sa che cosa posso fargli io. Sfigato.» Saverio viene attraversato da una specie di sogghigno. Saverio ha i capelli ricci rossi. La pelle del suo volto è bianca con le lentiggini. I tratti del volto sono affilatissimi. Dimostra vent’anni e non trent’anni. «Saverio, dobbiamo fargliela pagare, a Manuel.» «Oh sì… Sì.» I suoi occhi scintillano. «Io ho già in mente qualcosa…» «No, non a me… Non doveva farlo a me…» continua a ripetere Saverio con quella specie di sogghigno e lo sguardo nel vuoto. «Dimmi pure, Connie, sì… Che cosa hai in mente?» Connie prende un respiro. «Ecco, qualche volta in questi anni Manuel mi ha raccontato di una sua particolare ossessione… In pratica è stato convinto da qualcuno che lo deve avere manipolato psicologicamente, così lui dice, di essere protagonista di una gigantesca trama televisiva e, sempre lui dice, questo qualcuno saresti stato tu…» Saverio rimane in silenzio. Poi dice: «Scusa, e tu ci hai creduto?» «Certo che no!» Saverio resta in silenzio. «Inizialmente ho pensato che scherzasse. Ho pensato che con tutta quella storia assurda mi volesse, non lo so, mi volesse mandare qualche messaggio. Però, poi,
col tempo, mi sono resa conto che per quanto assurda quell’ossessione Manuel ce l’ha sul serio. Del resto, so che ognuno ha le sue. C’è chi pensa che tutti ce l’abbiano con lui. C’è chi pensa che il mondo ruoti intorno alla sua interessantissima e affascinantissima persona. Come non potrebbe? C’è chi pensa di avere ai piedi tutti gli uomini. Ognuno ha le sue. Fissazioni. Ossessioni. Chiamale come ti pare. Così ho pensato che quella di Manuel potrebbe essere di sentirsi il protagonista di una gigantesca trama televisiva…» «Ma è ridicolo!» «È una ossessione.» «Che coglione…» «Comunque questo non ha importanza. L’importante è che noi sappiamo che questa è una delle sue più grandi fissazioni. Potremmo fargli uno scherzo.» Saverio sogghigna di nuovo. Si sporge un poco verso Connie. Adesso anche lei sogghigna. Lui ha ordinato rigatoni alla carbonara che ha fatto scomparire sotto un monte bianco di pecorino e che si è spazzolato in cinque minuti. «Vuoi del vino bianco o del vino rosso?» Connie si accorge che la bottiglia di vino rosso è finita. «Rosso» dice. Saverio la guarda come se avesse preferito ordinasse vino bianco. «Se vuoi del vino bianco, per me va bene ugualmente…» «No no. Va bene il rosso» dice Saverio. Poi si fa vedere dal cameriere e gli dice che vuole un’altra bottiglia di vino rosso. Dopo un minuto il cameriere torna. «Sì, come idea mi piace» dice Saverio dopo un silenzio. «Forse è un po’ complicato come scherzo da imbastire, ma…»
«No. Non lo è. Non per me.» «Molto bene» dice Connie. «Manuel non sa che cosa sono in grado di fare. Non lo ha mai capito.» Saverio versa il vino dentro il bicchiere di Connie. Poi versa il vino nel suo bicchiere. Connie alza il bicchiere. Saverio fa altrettanto. Brindano.
Capitolo 8
Murgia è nel suo ufficio. È il 21 dicembre. Sono le sei di sera. Da quando ha visto i filmati sul cellulare di Vittorio ribolle dalla voglia di presentarsi in quel buco di casa dove abita Connie in via Enrico Toti 13 e fargliela pagare. Ha progettato di assoldare qualche delinquente che proviene dall’Albania o dalla Romania per aggredirla e riempirla di botte. Si è anche aggirato tra i carruggi di Caricamento per trovare qualche senegalese o qualche maghrebino da assoldare per fare il lavoro sporco in cambio di un visto regolare e di poco altro. Poi però ha pensato che la soddisfazione di sentire le sue mani stringere la carne del collo della sua ex pupilla sarebbe stata di gran lunga superiore, così è arrivato anche ad appostarsi davanti casa sua per aspettarla. Quest’ultimi, però, erano stati soltanto pensieri irrazionali dettati soprattutto dalla rabbia furiosa che era esplosa dentro di lui dopo averla scoperta ed era stata una fortuna per Murgia non aver visto Connie rincasare anche dopo averla aspettata a lungo con l’automobile parcheggiata in via Garassino davanti al palazzo dove abita. Chissà altrimenti che cosa sarebbe stato capace di fare… Tra l’altro da quando Connie ha abbandonato lo studio non ha più risposto alle chiamate né da parte sua né da parte di nessun altro nello studio. Non ha risposto nemmeno quando Murgia ha coperto il numero. E non ha risposto alle e-mail. Adesso, nel suo studio in via XX Settembre, Murgia si sente così incarognito con Connie per quello che gli ha fatto da volere qualcosa per lei di memorabile. Non soltanto una denuncia. Non soltanto una scarica di botte da parte di qualche immigrato clandestino. No. Nemmeno quello sarebbe sufficiente. Murgia – che sul cellulare di Vittorio ha trovato anche un altro filmato dove si vede chiaramente Connie allontanarsi dalla sua abitazione dopo aver fatto riprese nella sua stanza da letto – vuole qualcosa che la distrugga. Ha aperto un file che tiene nascosto in una cartella che sta dentro ad altre tre cartelle e queste sono nominate rispettivamente “Fiori”, “Farfalle”, “Funghi”, “Perle”. Ciascuna cartella è protetta da quattro differenti. Murgia ci ha pensato su per mesi prima di trasferire i file che si trovano attualmente nell’ultima cartella dal fisso di casa al fisso dell’ufficio. All’inizio l’aveva giudicato un atto troppo rischioso nel caso di un controllo da parte della guardia
di finanza o di qualsiasi altro controllo fosse capitato al suo ufficio. Poi, però, non ce l’aveva fatta a resistere e aveva copiato tre file dentro un disco e li aveva trasferiti nelle cartelle sul desktop del fisso dell’ufficio. I file sono tre filmini pornografici. Durano una trentina di minuti a testa. Però, non sono soltanto filmini porno. Sono snuff. Senza entrare troppo nei dettagli, tutti e tre i film si concludono con scene di morti violente. Circa quattro o cinque anni fa Murgia ha acquistato questo materiale da amici di Vegas dove va una volta all’anno per un mese da almeno una decina d’anni. Dice a tutti che Vegas è il suo peccato. La sua debolezza. Dice che il gioco d’azzardo è la sua più grande ione e che quel genere di adrenalina non si può ricavare nemmeno buttandosi con un paracadute da un aereo. Però, sono tutte balle. Quando Murgia va a Vegas frequenta soprattutto club esclusivi dove si pratica sesso estremo e dove con gli anni ha conosciuto un paio di produttori della San Fernando Valley che lo hanno trasformato a poco a poco in un acquirente del mercato degli snuff. Clara è sempre rimasta all’oscuro di tutto questo. Le volte che lo ha accompagnato, nelle sue regolari vacanze a Vegas, Clara ha viaggiato per gli Stati Uniti, ha fatto shopping, ed è rimasta per la maggior parte del tempo nel loro appartamento a Reeno o a perdere soldi ai casinò. Gli snuff girati da questi produttori che Murgia conosce e dei quali Clara ignora del tutto l’esistenza occorre aggiungere che sono piuttosto sui generis. Come prima cosa la casa di produzione è fuori dal mercato anche se con i suoi film alimenta un giro d’affari con cifre a parecchi zeri. La casa di produzione si chiama SuperStars Porno Video. La Superstars Porno Video è specializzata nella realizzazione di film da novanta o centoventi minuti che hanno come protagonisti i principali attori di Hollywood. Cameron Diaz. Brad Pitt. Julia Roberts. Robert De Niro. Viggo Mortensen. Murgia possiede chiusa a chiave nella cassaforte di casa un film pornografico dal titolo Rocky fucks Amelie dove i protagonisti sono Sylvester Stallone e Audrey Tautou. Dura centoventi minuti. Accade veramente di tutto. La scena più incredibile è quella dove Rocky viene sodomizzato da Amelie con un dildo di plastica gigantesco e nel frattempo continua a ripetere: «Non fa male! Non fa male! Non fa male!» Questo solo per dare un’idea. Naturalmente gli attori non sono quelli veri. Sono sosia. Sono attori pornografici che si sono fatti cambiare i connotati da un esperto chirurgo plastico a immagine e somiglianza dei loro idoli del grande schermo. Come se non bastasse i produttori – due texani ciccioni con cappelli da cowboy verde chiaro e fucsia perennemente calcati sulla testa che in dieci anni Murgia ha incontrato soltanto sei o sette volte – hanno investito anche sulle più moderne
apparecchiature cinematografiche in circolazione. Le troupe che lavorano per la SuperStars, come a Murgia i due produttori texani avevano spiegato, hanno a disposizione le versioni maggiormente perfezionate degli stessi programmi che hanno consentito di produrre film come Guerre Stellari o Il Corvo o Una lunga domenica di ioni. Attraverso questi programmi i sosia vengono ritoccati al punto da assomigliare in tutto e per tutto ai loro idoli. Non c’è praticamente nessuna differenza. Anzi, se a Murgia tutto questo non fosse stato spiegato probabilmente sarebbe rimasto nella convinzione che quelli che stava guardando sullo schermo fossero davvero Eddie Murphy o Uma Thurman. Accanto alla produzione di queste pellicole che sono costosissime e che vengono prodotte in numero limitatissimo, ci sono altre pellicole anche più costose e di numero ancora più limitato: sono gli snuff della SuperStars Porno Video. Murgia ha acquistato tre di questi video, ma ormai non vuole nemmeno più confessare a se stesso quanto gli siano venuti a costare. Nel primo video Nicholas Cage fa a pezzi una minorenne di dodici anni. Nel secondo video Dustin Hoffman viene dissanguato da una Marilyn Monroe con strisce di cuoio applicate praticamente ad ogni centimetro del corpo. Il terzo video, che è stato quello che a Murgia è costato di più, perché in pratica lo ha sovvenzionato lui di persona, ha come protagonisti Dakota Fanning, Michele Placido e Kim Rossi Stuart. Prima che si possa pensare che Murgia sia completamente pazzo, c’è da aggiungere che anche se il cartello della SuperStars Porno Video assicura che le scene sono tutte reali, e che gli attori che schizzano sangue, lo schizzano sul serio, e quando la testa della sosia di Dakota Fanning rotola giù dal materasso, quella è la sua testa reale, è quasi sicuro, però, che siano soltanto effetti speciali preparati dai ragazzi della San Fernando Valley. Ora, mentre Murgia pensa a cose come queste, gli viene in mente di essere molto amico anche di diversi addetti alla sicurezza di almeno quattro supermercati e un paio di autogrill. Ha amici all’Iper di Montebello di Voghera, all’ipermercato di Tortona dove Connie è nata e ha abitato fino a quattro anni fa prima di trasferirsi a Genova, ha amici anche tra addetti alla sicurezza di un numero cospicuo di DìperDì. Così gli viene in mente che unendo le due idee potrebbe sì dare una lezione memorabile alla sua ex pupilla. Potrebbe chiedere ai ragazzi della San Fernando Valley, giù in California, di preparare un filmato dove Connie entra in uno di questi supermercati e lo rapina. Magari non soltanto rapinarlo. Connie potrebbe sparare a una ragazza e ferirla a un braccio. Potrebbe minacciare la cassiera di morte. Potrebbe sparare ai cartoni del latte, alle bottiglie di liquori, al bancone della carne, a quello dei formaggi. Perché no? Basterebbe accordarsi
con qualche malvivente, far realizzare il colpo e poi sul filmato far comparire Connie come responsabile. È abbastanza sicuro che se pagati bene i ragazzi alla San Fernando Valley potrebbero fare miracoli, e in tempi brevissimi, e Murgia in questo momento nel suo ufficio non vuole badare a spese. L’avvocato Murgia sta pensando che Connie non avrebbe dovuto fargli quello che gli ha fatto. No. Non a lui. Si domanda quale sia il motivo che l’abbia spinta a comportarsi nei suoi confronti come si è comportata. Connie era la migliore del suo studio. Era brava. Puntuale. Precisa. Scrupolosa. Se non avesse deciso di andare via avrebbe fatto molta strada. Qualche mese fa, però, senza nessuna spiegazione non si era più presentata in ufficio e quando lui le aveva telefonato per strigliarla ma anche per chiederle spiegazioni, il giorno seguente avevano ricevuto in studio la sua lettera di dimissioni e Connie non si era fatta più vedere. Murgia aveva anche indagato tra le colleghe. Loro, però, non avevano saputo dirgli niente. Inizialmente Murgia aveva pensato fosse scoppiato qualche screzio nello studio. Qualche gelosia. Qualche rivalità. Però, a Murgia era sembrato subito piuttosto strano. Nello studio, Connie era sempre stata molto stimata dagli altri colleghi e dalle colleghe. Intratteneva ottimi rapporti con tutti. Tutti la soprannominavano Connie La Brava. Così dopo mesi Murgia non era ancora riuscito a scoprire né tanto meno a capire perché mai Connie avesse preso la decisione di andarsene. Forse aveva ricevuto qualche offerta migliore. In questo caso, però, perché non dirlo? Poi adesso che da parte sua è seguita quest’altra mossa Murgia non sa proprio più cosa pensare. Se quello è stato il modo che Connie ha avuto per avvisarlo che sua moglie lo tradiva avrebbe potuto scegliere un modo diverso che caricare il video sulla rete e telefonargli fingendo di ricattarlo. Sì. Un altro modo. A Murgia sembra tutto assurdo. Del resto, i filmati girati dal cellulare di Vittorio costituiscono una prova inoppugnabile e qualsiasi sia stato il movente di Connie a lui ormai non interessa più. L’avvocato Murgia sta pensando che Connie non avrebbe dovuto fargli quello che gli ha fatto. No, non avrebbe dovuto. Non a lui. Non sapeva cosa aveva fatto a mettersi contro a uno come lui. Murgia lancia un grido. Si alza in piedi. Afferra la cornetta del telefono. Cerca l’agenda.
Cerca un numero. Compone il numero. «Studio legale Mazzetti.» «Parlo con l’avvocato Manuel Mazzetti?» «Sì.» «Sono l’avvocato Murgia…» «Avvocato…» «Ciao Manuel. Ci siamo incontrati qualche volta nel mio studio, ti ricordi?» «Come potrei non ricordare…» «Manuel, perdonami se vado subito al dunque ma ti chiamo perché vorrei sporgere denuncia contro una persona e vorrei che tu mi assistessi.» «…» «Pronto?» «Sì. Sono qui. Mi sembra una proposta… un po’ insolita…» «…e tuttavia te la sto facendo.» «Perché un avvocato come lei si dovrebbe rivolgere a uno come me?» «Manuel, ti pagherò. Molto.» «Chi è la persona che intende portare in tribunale?» «Si tratta di Connie, Manuel.» «Connie?» «La tua ragazza.»
Manuel si trova a Genova. Sono le sei e mezzo di sera. È il 10 gennaio 2009. Con l’automobile è riuscito a trovare un posteggio proprio davanti allo studio legale di Matteo Pastorino. Adesso lo sta aspettando. Oddio, non crede che chiamare studio legale la stanza dove Matteo Pastorino esercita in qualità di patrocinatore legale, e non di avvocato, sia la migliore rappresentazione della realtà possibile, in ogni caso nel citofono del palazzo sta scritto con una “s”, una “g” e la seconda “l” praticamente illeggibili proprio l’espressione studio legale. Lo studio legale di Matteo Pastorino si trova a Sampierdarena in piazza Niccolò Barabino 2. A due i dal condominio dove si trova l’ufficio c’è un negozio che vende videocassette porno. L’aria della sera è fredda. Non c’è troppa gente in giro. Questa non è la prima volta che Manuel sta con l’automobile davanti al palazzo di Matteo Pastorino. È la terza volta. La prima volta è stata il 22 dicembre. La seconda il 3 gennaio. Il 22 dicembre Manuel era stato a colloquio con l’avvocato Murgia nel suo studio. Per averlo come avvocato, Murgia si era detto pronto a sborsare una cifra altissima. Murgia gli aveva spiegato la situazione. Gli aveva spiegato che la sua relazione matrimoniale con Clara era finita a causa di quel che Connie gli aveva fatto. Era arrivato persino a raccontargli di alcuni propositi che gli erano balenati per la mente in certi istanti non proprio felici come ad esempio assoldare qualcuno per farla aggredire e riempire di botte. Alla fine del colloquio Manuel si era preso tempo per riflettere. Adesso si rendeva conto come mai Murgia lo avesse contattato. Voleva vendicarsi di Connie attraverso di lui. Murgia, però, ignorava che Connie e Manuel non si vedessero più da mesi. Ignorava anche quello che Connie aveva fatto a lui, stando almeno alle parole di Ginevra. Se Manuel e Connie fossero stati ancora insieme, anche se Connie avesse fatto quel che ha fatto, non avrebbe accettato a nessuna condizione una proposta come quella. L’avvocato Murgia non sarebbe mai riuscito a metterli uno contro l’altro offrendo a Manuel nemmeno una cifra superiore alla cifra che gli aveva già offerto. Adesso, però, le cose stavano parecchio diversamente e così Manuel si
era preso tempo per riflettere. Uscito dal colloquio, Manuel aveva deciso di far visita all’indirizzo contenuto nel biglietto che qualche settimana prima Ginevra gli aveva ato durante il loro incontro al Biffi di Milano. Non sapeva esattamente perché lo stesse facendo. Non era venuto da Milano a Genova con l’intenzione di presentarsi al cospetto dell’uomo che Connie aveva scelto per tradirlo. In ogni caso quel giorno aveva parcheggiato la macchina da qualche parte di via Francia nel quartiere di Sampierdarena. Poi aveva cominciato a girare attorno al palazzo dove si trova l’ufficio di Matteo Pastorino. La strada dove si trova l’ufficio dell’uomo che Connie aveva scelto per tradirlo durante la sua stessa festa di compleanno ormai parecchi mesi prima assomiglia a una via anche se di fatto è una piazza. Si chiama infatti piazza Niccolò Barabino. Anche la numerazione è particolare. È sbagliata. Infatti si trova la sequenza di numeri civici 2, 4, 2, 6, 8, 10. Il 22 dicembre all’8 di piazza Niccolò Barabino – che forse più correttamente avrebbe dovuto essere il 10 di via Niccolò Barabino – Manuel era anche entrato nel negozio che vende cassette pornografiche. Proprio quando aveva aperto la porta per uscire da lì, aveva incrociato Matteo Pastorino. Non aveva potuto non riconoscerlo. Lo aveva guardato e riguardato per decine e decine di minuti nelle quattro foto – una foto tessera; la foto della laurea; e due foto abbastanza recenti che lo riprendevano in vacanza a Tropea e a Gabicce Mare – che aveva trovato in rete. Non si era sentito di far niente, però. Non lo aveva fermato. Non aveva chiesto di parlargli. Aveva tirato dritto verso l’automobile ed era tornato a Milano. La seconda volta durante le due ore di autostrada da Milano a Genova che Manuel si stava facendo per nessun altro motivo se non per incontrare Matteo Pastorino non aveva pensato ad altro che presentarsi nel suo ufficio, sedersi davanti a lui e tirargli un cazzotto. Aveva pensato che aggredirlo nel suo stesso ufficio sarebbe stato più o meno come denunciare qualcuno avendo come avvocato il fidanzato della persona che si sta denunciando. Anche quella volta, però, il 3 gennaio, quando Matteo Pastorino era uscito dal suo ufficio, non aveva fatto nulla. Lo aveva soltanto seguito per un po’. Era entrato anche all’interno di Per Sempre Arredamenti dentro un edificio immenso. Mentre superava stanze da letto, cucine, soggiorni dallo stile antico, contemporaneo, post-moderno, Manuel aveva pensato che l’esposizione di Per Sempre Arredamenti di via Francia era bella quasi quanto quella dell’acquario di Genova al Porto Antico. Aveva pensato che magari fossero le esposizioni in sé ad essere belle, e non è che fosse necessario imprigionare nelle vasche pesci, foche e crostacei, e poi fissare un
prezzo altissimo allo scopo di mostrare quella che tutto sommato era anche una crudeltà bella e buona. Dopo aver fatto questo pensiero, cercando di non farsi notare da Matteo Pastorino, Manuel si era accorto che quel pensiero avrebbe potuto benissimo appartenere a Connie. Pensando a Connie, Manuel era finito a domandarsi anche se Matteo Pastorino non stesse facendo il percorso dentro a Per Sempre Arredamenti fantasticando sulla stanza migliore dove un giorno poter vivere lui e proprio Connie in persona e a questo punto aveva deciso di tornare in macchina e di mettere una pietra sopra all’intera faccenda. Oggi, però, Manuel è tornato. Si è comprato due panini in una panineria che si chiama 100 Panini nei pressi di Porto Antico. Un panino speck e brié. Un altro con un miscuglio strano di gamberetti, ostriche e salse. Assieme ci ha comprato anche una lattina di chinotto. Poi ha trovato posteggio a Sampierdarena in piazza Niccolò Barabino numero 2 proprio davanti all’ufficio di Matteo Pastorino, ha la radio sintonizzandosi su una stazione di house music e ha cominciato ad aspettare. Si è mangiato il panino con gamberetti, ostriche e salse alternandolo a qualche sorso di chinotto mentre alla radio si succedevano il pezzo di Jamie Lidell When I come back around e poi il pezzo Valerie di Mark Ronson featuring Amy Winehouse. Adesso dopo un quarto d’ora abbondante al terzo morso del panino speck e brié Manuel osserva Matteo Pastorino uscire dalla porta del palazzo dove si trova il suo ufficio. Manuel butta il panino ormai ridotto di due terzi sul sedile anteriore, appoggia la lattina sul ripiano del cruscotto e spegne la radio mentre dalle casse esce Delirious di David Guetta e Tara MacDonald. Manuel è fuori dall’automobile. Insegue Matteo Pastorino. Nel suo impermeabile l’uomo che Connie ha scelto per tradirlo sembra uno spaventaeri. Gli sembra di inseguire un fantasma. Quasi non riesce a distinguere le gambe che spuntano dall’impermeabile tanto sono sottili. «Ehi, scusami» si sente dire rivolto alla sagoma che ha davanti. Manuel sta pensando di essere completamente sobrio. Il fantasma rallenta il o. Volta la testa. «Sì?» «Sei tu Matteo Pastorino?»
Lo spaventaeri si ferma. «Sì.» Si volta del tutto. Manuel pensa che magari Matteo Pastorino lo abbia scambiato per un possibile cliente. «Conosci una donna di nome Connie?» chiede Manuel. Lo spaventaeri abbozza un sorriso. Nelle sforacchiature che ha per occhi sul lenzuolo marcio che ha per pelle sembra accendersi per un momento la fiamma di un cerino. «Sì…» dice. Manuel ha un mezzo sorriso, mentre gli dice: «Scusa allora, ma lo devo fare.» Colpisce col destro il lenzuolo marcio che gli si para davanti. Lo spaventaeri crolla a terra. «Questo per essere stato con la mia ragazza» gli dice Manuel. Sotto le luci dei lampioni il lenzuolo dello spaventaeri adesso sembra sporco di nero. Manuel torna in macchina quasi correndo. Sente come delle esplosioni nel petto e nelle tempie. Accende l’automobile e sgomma via mentre dallo specchietto retrovisore fa in tempo a vedere il fantasma risollevarsi da terra. «Mamma, non credo che farò il viaggio negli Stati Uniti.» La signora Katrina si volta verso la figlia. Si trovano in cucina. È il 16 gennaio. Tra tre giorni d’accordo con Saverio, Connie porterà Manuel nel cinema porno di via San Vincenzo a Genova per fargli credere di essere protagonista di un gigantesco show televisivo. «Che cosa?» «Quello che ho detto. Non credo che farò il viaggio negli Stati Uniti.»
«Ma ti abbiamo già pagato il biglietto…» «…lo so…» «…e devi partire tra una settimana…» «…lo so, lo so…» «…ci è costato circa…» «…mamma, il costo del biglietto non è un problema…» dice Connie. «Lo rimborserò.» «Connie, potrebbe essere un’esperienza interessante… meravigliosa, forse…» La signora Katrina appoggia sulla superficie del tavolo della cucina una zuppiera vuota. Sta facendo la lavastoviglie. «Of… Che cosa potrà mai capitarmi là?» «Cosa deve capitarti? Viaggi. Vedi posti nuovi. Respiri aria nuova. Ti rigeneri.» Sì, ma non è questo: c’è molto di più, anche se Connie non è in grado di definire in poche parole che cosa sia. Può solo farlo attraverso una serie di immagini. A dicembre Everett le ha raccontato che qualche volta al mattino appena sveglio guarda dalle finestre della veranda il cielo azzurro e i tetti bianchi e le strade ricoperte di neve e pensa che non c’è un posto migliore per are il Natale. Si dice che se Babbo Natale ha una seconda dimora, allora sicuramente deve averla acquistata da quelle parti – nel North Dakota. Alla sera mentre torna dal campus universitario oppure dalla Mall o da Hugo’s dove di solito acquista hamburger vegetariani e portobello mushroom o una scatola di Mr. Bugsley per i suoi cani Echo e Maggie in macchina attraversa Cherry Street o Walnut Street o Cottonwood Street e da un lato e dall’altro viene la luce degli addobbi natalizi. Ghirlande di alce. Centrotavola con bacche di rosa. Pupazzi di neve. Zucche di Halloween. Scheletri di gomma. Scope di paglia. Babbi Natale di gomma. Una casa di Belmont Street è ricoperta da una rete di luci viola. La siepe di una casa in Demers Avenue è come se avesse una luce per ogni foglia. A novembre a Fayetteville in Arkansas dove è stato per motivi di lavoro Everett ha visto una casa che aveva montato in anticipo le decorazioni natalizie e ha pensato che fosse un negozio che vendeva decorazioni di Natale. Mica scherzava. Lo
pensava sul serio. Per combattere il freddo oltre ad aver portato a casa la coperta elettrica Everett si prepara zuppe di pomodoro oppure zuppe di piselli. Per il Natale aveva portato a casa un albero di Natale alto trenta centimetri. Lo aveva addobbato con delle lucine, delle collane, piccoli balocchi. Poi accanto al mini albero di Natale aveva collocato un mini candelabro della Menorah in modo che l’Hanukkah ebraico e il Natale cristiano fossero entrambi rappresentati – perché i suoi genitori sono ebrei. Il mini albero e il mini candelabro, le ha spiegato Everett, sono anche il suo modo di protestare per lo straripante consumismo statunitense. Poi Everett si è anche lamentato che quelli che si occupano di mettere i sottotitoli ai film che trasmette la televisione via cavo ogni tanto devono incasinare qualcosa perché un paio di volte che stava sul divano mentre fuori impazzava qualche tempesta di neve si è visto film con sottotitoli che mostravano battute diverse da quelle che gli attori pronunciavano. Questo lo ha innervosito un po’. Far installare la televisione via cavo gli è costato trecentosettanta dollari e costerà ogni mese centottanta dollari e le ha spiegato che a Grand Forks, nella terza città in ordine di grandezza del North Dakota, o hai il cavo o ti devi accontentare dell’antenna. A Grand Forks ha cominciato a nevicare il 15 novembre. La televisione via cavo è stata installata il 6 novembre. Le tempeste di neve sono cominciate il 10 dicembre. Everett ha cominciato a smettere di uscire e a are il tempo steso sul divano ai primi di dicembre cioè da quando la temperatura ha preso a mantenersi costantemente sui venti, ventidue gradi sotto zero. Uscire è diventato pericoloso. Lo Stato del North Dakota non ha abbastanza soldi per sovvenzionare la manutenzione delle strade durante la stagione invernale così non ci sono veicoli spargisale per le strade e la neve che si posa sulle carreggiate non si scioglie e rimane lì. A causa del vento che viaggia a parecchie miglia orarie la neve sbatte sui vetri delle finestre e della veranda e ogni volta più che a una tempesta di neve sembra di assistere a una tempesta di sabbia. Per fronteggiare il freddo Everett ha anche portato a casa una coperta elettrica e le ha raccontato che quando si ferma fino a notte tarda a guardare la tv adopera quella per coprirsi. Una notte che si è addormentato con la coperta tra i denti ha anche sognato tempeste elettriche. Insomma con tutto questo Connie vuole dimostrare che se pensa alle cose che Everett le ha raccontato non può fare a meno di pensare che praticamente qualsiasi cosa sembri venire dalla sceneggiatura di un film. A questo punto a Connie sembra almeno lecito essere tormentata da questa domanda: “Se quello che le storie del cinema ano è un modello idealizzato, ed è la cosa più bella, più interessante e migliore, questo vale proprio per tutto?”. Dopotutto anche le attrici e gli attori del cinema sono carne, muscoli, pelle, ossa.
Quando Connie vede il gluteo di quell’attrice del cinema gonfio e rifinito e si accorge che il suo è molto meno gonfio e molto meno rifinito, può davvero consolarsi pensando che quello è solo tutto trucco e finzione? Quella persona dentro lo schermo non è finta e lei è costretta ad ammettere che se quella persona guadagna milioni di dollari e lei non li guadagna una differenza ci debba pur essere. Peraltro questa differenza rimarrebbe anche se quei soldi quella persona non li guadagnasse. Comunque sia, il punto non è solo una depressa constatazione dell’ovvio: c’è un sacco di gente molto migliore di lei, e mentre Connie si sforza per piacere un po’, a quattordici ore d’aereo da dove si trova in un posto che si chiama Hollywood ci sono esseri umani che emanano piacere dalla loro pelle e dai loro corpi a getto continuo. Il punto ancora una volta è se quello che le storie del cinema rappresentano sono la cosa più bella, più interessante e migliore, e se questo valga non solo per le ambientazioni o per gli attori, ma anche per il resto. Ad esempio per le storie raccontate. Ad esempio per il tipo di vita. Così adesso che sta per partire per un lungo viaggio dove si fermerà a Chicago, a Cleveland, a New York City, a Philadelphia e a Washington, Connie si domanda che cosa spera che le possa capitare. Che cosa le dovrebbe capitare secondo il migliore canovaccio cinematografico possibile? Una sparatoria? Un attacco di dischi volanti? Un’invasione di mostri marini? Forse contrabbandare una partita di cocaina. Trovare una valigia con del denaro sporco. Un virus letale. Un attacco terroristico. Magari un maniaco al supermercato che comincia a sparare su tutti. Sono queste le storie più belle, più interessanti e migliori che possano capitare a un uomo? Secondo le pellicole che ano al cinema sembrerebbe di sì. Connie non crede proprio che basterebbe soltanto un viaggio di ventiquattr’ore fino a New York City in automobile – come lei ed Everett nelle loro conversazioni su Skype hanno già pianificato. No. Se lo fai, come minimo vicino devi avere un ragazzo moro, con gli occhi grandi, magro, ma anche simpatico, dotato di ironia, e che si chiami Henry. Poi se anche tutto questo le accadesse, sarebbe ancora peggio. Connie ha paura di scoprire che esiste un mondo che è un sogno perché lo sta per abbandonare. Si è scelta apposta il North Dakota. Vuole andare nella terra che si considera la prima al mondo per scoprire che non c’è niente di bello. «No. Non ci vado.» «Connie, quel viaggio, fallo!» dice la signora Katrina.
«No, mamma. Ho detto no.» Adesso la signora Katrina ha gli occhi rossi. Da quando ha letto le parole sul foglietto nella casa a Genova è venuta a parte del segreto di Connie. Però non l’ha detto ancora a nessuno e ha deciso di rispettare il bisogno di Connie di tenere segreta la sua malattia. Adesso, però, è a un o dal dirle di sapere tutto. «Connie…» «Mamma…» «Io…» «…mamma, non dire niente…» Connie esce dalla cucina prima che possa capire qualcosa di troppo anche solo da una mezza parola o da uno sguardo. Si chiude nella sua stanza. La signora Katrina comincia a piangere cercando di non farsi sentire. Il Nokia 6610 di Connie squilla. È il 17 gennaio. Sera. Connie si trova a Genova. Il 1 gennaio ha chiamato Manuel per fargli gli auguri di buon anno. Servendosi di questo pretesto alla fine della telefonata è riuscita a fissare con lui un appuntamento per il 19 gennaio. Dopo qualche resistenza Manuel ha accettato con l’accordo di incontrarsi a Genova. Dopo la telefonata a Manuel, Connie ha subito chiamato Saverio. Con lui aveva preso accordi di adescare Manuel entro una data compresa tra il 16 e il 20 gennaio, periodo di tempo nel quale Saverio era riuscito a farsi concedere dal gestore del cinema porno di via San Vincenzo a Genova una delle sale per allestire la messinscena del gigantesco show televisivo. Come le aveva spiegato per Saverio non era stato difficile ottenere dal gestore del cinema questo favore. Dopo la telefonata a Saverio, Connie aveva telefonato anche a una serie di amici per coinvolgerli nello scherzo. Aveva lavorato per una settimana intera incontrandosi anche di persona con alcune persone che si erano mostrate dubbiose a partecipare. Alla fine, però, aveva ottenuto il consenso di tutti gli interpellati. A nessuno era dispiaciuta l’idea di far pagare con uno scherzo le parole che Manuel aveva avuto per ciascuno di loro. Adesso Connie sta aspettando il 19 gennaio. Guarda il display del cellulare. Matteo Pastorino. Lascia squillare il Nokia 6610.
Nella mano destra tiene il romanzo di Dostoevskij Delitto e Castigo. Pensa di considerarlo un libro abbastanza stupido. In fondo è la storia di un uomo che per are alla storia come Giulio Cesare o Napoleone decide di uccidere la sua vicina di casa. Connie lo considera un libro demenziale. Sarebbero questi quelli che consideriamo i grandi uomini della storia di questo mondo? Connie pensa che in fondo se nei libri di storia non si fossero mai menzionati i nomi dei grandi carnefici un libro come quello di Dostoevskij non avrebbe mai avuto ragione di esistere. In fondo essere menzionati nei libri di storia forse non è esattamente la stessa cosa che are alla storia. Connie pensa che non è esattamente sempre per merito che si a alla storia, ma anzi per grande demerito, ma vista la grande importanza che riveste il are alla storia o l’essere menzionati nei libri di storia, allora per gli uomini che ano alla storia per un evidente demerito magari si potrebbe sostituire al nome un codice. Al posto di Hitler il codice X666X. Al posto di Napoleone il codice ZK324. Al posto di Giulio Cesare il codice A1K12B24. Insomma si potrebbe cancellare per sempre il nome. Non sarebbe una punizione da poco per un dittatore sanguinario. Anziché are alla storia col proprio nome e il proprio cognome, are alla storia con un codice alfanumerico. Non Saddam Hussein ma AZ34KY. Non Osama Bin Laden ma U91K44TTR. Forse si potrebbe anche cancellare il volto da ogni fotografia, video e documento. Il cellulare seguita a squillare. Connie si avvicina. Posa Delitto e Castigo. Matteo Pastorino. «Ti avevo detto di non chiamarmi più!» «Connie, sei tu?» «Seeeehhh… Che vuoi?» «Credo che il tuo ex fidanzato sia venuto a cercarmi.» «Chi? Manuel?» «Sì, credo sia lui. Mi ha aspettato fuori da dove lavoro e…» «…e?» «…e…»
«…guarda che metto giù…» «…e ha cercato di fracassarmi la mandibola. Con un pugno.» Connie rimane in silenzio. «Io non posso crederci. Lo voglio denunciare. Voglio fare di più.» «Sei sicuro che sia stato lui?» «Sì, sono sicuro. Cioè, no…» «Ma sei sicuro o no?» «Non lo so! Però credo di sì.» «E perché lo dici a me? Io cosa posso farci?» «Io… volevo… volevo… volevo solo che lo sapessi.» Connie non può crederci che Manuel sia arrivato a fare questo. «Voglio anche che tu sappia, Connie, che troverò il modo di fare il culo a quel vigliacco.» A queste parole a Connie viene quasi da ridere. Si immagina lo spaventaeri che Matteo è diventato. Quasi glielo vorrebbe dire che uno spaventaeri come lui non avrebbe potuto fare il culo proprio a un bel nessuno. Invece, le viene un’altra idea. Dice: «Matteo, se vuoi vendicarti, allora potresti presentarti tra due giorni al cinema porno di via San Vincenzo. Quello sotto i portici, hai presente?» «Cosa? Presentarmi dove?» «Al cinema porno in via San Vincenzo…» «No. No. Io non ci casco più nelle tue manipolazioni, Connie. Voi siete tutti matti. Tu, Ginevra, il tuo ex fidanzato. Figurati se adesso mi metto a fare quello che mi dici di fare…»
Connie dice: «Matteo, prima lascia che ti spieghi per bene di che cosa si tratta…»
Alle tre e mezzo del pomeriggio del 19 gennaio 2009 Manuel suona al citofono del condominio di via Enrico Toti 13 in zona Staglieno a Genova. Dopo un minuto una voce risponde: «Manuel?» «Connie?» «Sì. Scendo.» Dopo due minuti, Connie apre la porta a vetri dell’entrata del palazzo. Indossa un cappotto nero aderente. Una sciarpa rosa. Un paio di stivali verde scuro. Sta sorridendo. La prima cosa che viene da dire a Manuel vedendola è: «Sei dimagrita moltissimo.» «Mi trovi con un aspetto malato?» «No! Tutt’altro! Sei… Mamma mia, sei spaziale…» Manuel le porge un mazzo di rose rosse. Connie lo ringrazia e gli chiede scusa per non averlo fatto salire. Gli dice di aspettare, rientra in casa a posare le rose e poi torna subito da lui. Devono fare in fretta. L’appuntamento al cinema è alle quattro e mezzo. Tra meno di un’ora. «Che cosa hai in mente?» le dice Manuel. «Camminare. Quando sono triste, mi faccio una lunga eggiata. Parto da qui e arrivo fino a Sampierdarena. Attraverso Brignole. Via XX Settembre. Piazza De Ferraris. Via San Lorenzo. Poi prendo per via San Luca. Arrivo a via del Campo dove mi fermo sempre in quel negozio che vende solo musica di De André e ascolto qualche pezzo che esce dalle casse a volume forte, che è sempre bello. Poi prendo via Pre. Arrivo al Sestiere del Pre. Imbocco la Salita di San Paolo. Poi arrivo in via Francia. E da lì cammino e cammino e cammino…»
Quando sente via Francia, Manuel si rende conto che quella è la zona dove si trova l’ufficio di Matteo Pastorino. Gli viene da chiedersi quante volte durante questo percorso Connie si sia fermata nell’ufficio dello spaventaeri che aveva scelto per tradirlo. Cerca di non pensarci. Non vuole pensare alle cose brutte. Ha accettato di vedersi con Connie perché… beh, perché come le ha detto Ginevra a Milano Manuel crede di essere ancora innamorato di lei. Vuole cercare di riconquistarla. Anche per questo le ha portato le rose. Camminando sono già arrivati a piazzale Parenzo all’altezza del DìperDì e del distributore di benzina. D’estate tra il distributore di benzina e l’edicola dei giornali c’è un chiosco con qualche tavolino dove si possono mangiare angurie e meloni. Manuel e Connie, però, non si sono mai fermati a causa dell’eccessivo traffico di automobili: troppo gas prodotto da tubi di scappamento e troppi rumori di marmitte. «Altre volte invece da Brignole vado dritta fino a corso Italia e ci eggio. L’ho fatto anche con te tante volte.» «Vuoi che andiamo a prenderci un semifreddo a Boccadasse?» «La giornata è bella. Ci sono diciotto gradi. Potremmo stenderci sui sassi e prendere il sole.» «Lo facciamo? Ricordi quanto ci è costato quel ristorante che si affaccia sul mare?» «Come si chiama?» «Sono felice di non ricordarlo.» «Sì, e non si mangiava nemmeno bene. No. Quest’oggi ho in mente di andare da qualche altra parte.» «Ci andiamo a prendere un caffè freddo a San Lorenzo? In quel locale che ha una statua di legno di Elvis Presley all’entrata?» «Sai come fare per farmi ricordare le cose che ci sono state tra noi» gli dice Connie. Adesso stanno camminando lungo corso Alessandro De Stefanis. Vedono lo
stadio Marassi approssimarsi. Ancora prima vedono lo stabile della Coop, dove molte volte erano stati a fare spesa assieme. Quando Manuel accenna a questo, Connie lo informa che da qualche mese hanno chiuso la libreria della catena Fratelli Frilli che era all’interno per sostituirla con un negozio che vende videogiochi. Manuel fa una smorfia. Connie aggiunge che in compenso da qualche settimana hanno un nuovo tipo di cassa dove puoi fare tutto da solo senza l’aiuto della cassiera. Quando sorano la Coop e arrivano all’altezza dello stadio Marassi, Manuel chiede a Connie se è ancora iscritta alla palestra che si trova proprio da quelle parti in via Clavarezza. «Il Palextra? Sì, ogni tanto vado ancora a farmi spaccare.» Manuel le getta un’occhiata, non troppo convinto di quell’espressione. Manuel e Connie arrivano in fondo a corso Alessandro De Stefanis e svoltano in corso Sardegna. C’è il sole. Il cielo è senza nuvole. La temperatura è sui quattordici gradi. Quando per interrompere un momento di silenzio Manuel le fa notare che la temperatura è molto più gradevole a Genova che a Milano, Connie lo informa che, invece, nel North Dakota dove avrebbe dovuto andare ci sono meno trentotto gradi. «Connie, che cosa ti sta succedendo?» le chiede Manuel. La domanda non può essere considerata improvvisa: è rimasta nell’aria fin dal primo momento che si sono incontrati sotto il portone di Connie. «Lo capirai molto presto» risponde Connie. Manuel le lancia un’occhiata. Nota che Connie ha gli occhi bagnati. Alcune lacrime le stanno scendendo sulle guance. «Stai piangendo, Connie?» Connie tira fuori dalla borsetta un fazzoletto e si asciuga le lacrime. «No, non è per quello che pensi che le lacrime scendono.» «Allora per che cosa?» «Non voglio parlare di questo. Diciamo solo che mi dà fastidio la luce.»
«Capisco. Qualche noia agli occhi…» «Mm. Sì.» «Non credo però che sia per qualche noia agli occhi che hai fatto tutto quello che hai fatto negli ultimi periodi» dice Manuel. Il tono è parecchio ironico. «Che cosa avrei fatto?» «La festa che hai organizzato a Ginevra. L’uomo con cui ti sei vista alla tua festa di compleanno. La scommessa che hai fatto su quello stesso uomo con la stessa Ginevra e…» «…e?» «…e quello che hai avuto il coraggio di fare al tuo dominus.» Manuel e Connie sono a metà di corso Sardegna. Vedono gli edifici dello Stardust Hotel e della Banca Carige alzarsi da dietro un sottoaggio. Connie si blocca. Manuel anche. «Che cosa avrei fatto al mio dominus?» chiede Connie. «Non fingere di non saperlo.» Connie diventa rossa. Fa qualche o. Poi si ferma di nuovo. ano automobili in continuazione. Sul marciapiede però non c’è troppa gente. «Che cosa sai?» «So tutto.» Connie si accorge di avere ancora in mano il fazzoletto. Se lo a ancora sugli occhi che in pratica non smettono mai di lacrimare. «Dimmi che cosa sai.» «Hai caricato un video su un sito e il sito non era precisamente quello della parrocchia.»
«Piantala con questo umorismo! Che cosa sai e come lo sai?» «Connie, io ti amo ancora.» Connie rimane in silenzio. «Sono venuto qui anche per avvertirti. Non voglio vederti buttare via la tua vita per… per…» Manuel si mette a ridere. «Il fatto è, Connie, che se ci penso non riesco nemmeno a immaginare quale possa essere la ragione che ti sta spingendo a distruggere tutto quello che di importante hai costruito in questi anni.» «Che cosa sai, Manuel?» Connie e Manuel riprendono a camminare. «So che sei andata dai miei amici e da tutte le persone che conosco e hai fatto sentire le registrazioni delle cose che ironizzando dicevo dietro di loro. Per questa ragione non ho più un cane di amico da mesi.» «Che cosa sai della faccenda del mio dominus?» «Lo sai, Connie, che potrei denunciarti? Fartela pagare. Il fatto è che uno dei miei più grandi difetti è sempre stato anche quello di non tenere a bada la lingua…» «È così. Sarebbe abbastanza imbarazzante per te far sentire a un tribunale le registrazioni.» «Comunque, qualcuno che ha deciso di denunciarti e che anzi se non lo ha già fatto lo sta per fare è l’avvocato Murgia.» Connie e Manuel imboccano il sottoaggio di corso Sardegna. Il rombo dei motori si fa molto forte come anche l’odore dei gas. Connie e Manuel rimangono in silenzio fino a quando non sbucano dal sottoaggio. «Avanti, adesso devi dirmi che cosa sai» gli dice Connie.
«No, guarda, io non ti devo proprio niente» risponde Manuel. «Mi hai seguita?» Manuel e Connie arrivano in piazza delle Americhe. Osservando le bandiere in cima ai pali bianchi sventolare, il volto di Manuel si distende. «Qui mi piace sempre» dice. Poi dice: «Perché non giochiamo a rincorrerci tra le bandiere?» «Manuel…» «Connie, qualcuno ti ha ripresa mentre a tua volta stavi riprendendo la villa del tuo dominus. È così che le cose sono andate.» Connie sbianca. Si ferma all’altezza delle strisce pedonali per attraversare la strada e arrivare alla stazione Brignole. «Stai scherzando…» «No.» «Chi mi ha ripresa?» «Questo non posso rivelarlo. Temo di aver detto già troppo.» Quando si accende il segnale verde Connie e Manuel attraversano la strada sulle strisce pedonali. «Non puoi dirmelo?» «Sono legato dal segreto professionale.» Connie valuta le implicazioni dell’espressione usata da Manuel. Poi dice: «Mi stai dicendo che il mio dominus ha chiesto di farsi assistere da te?» «Pare proprio di sì.» «E tu hai accettato?»
«No. Non ancora.» «È una situazione che mi dà la nausea.» «Beh, Connie, a quanto pare non sei l’unica a saper mettere in piedi trame grottesche.» Connie e Manuel superano stazione Brignole. Sui gradini salgono e scendono moltissime persone. Alle colonne sono appoggiati barboni che chiedono la carità. Un gruppo di giapponesi quasi li travolge mentre scendono dai gradini laterali dirigendosi verso i portici dall’altra parte della strada. «Credo che comunque presto ti arriverà un avviso di garanzia.» Connie si sente abbastanza svuotata. La cosa che la impressiona di più di tutto questo è che non gliene importa quasi niente. Ormai la sola cosa che le occupa i pensieri è la sua malattia. «Rimane da dimostrare che sia stata io a caricare i video in rete.» «Così come rimane da chiarire che cosa diavolo ti sia preso in questi ultimi mesi.» Quando è il loro turno, Connie e Manuel attraversano la strada sulle strisce pedonali. Camminano sotto i portici e svoltano a destra imboccando via San Vincenzo. «Perché non me lo dici?» Connie guarda l’ora. Sono quasi le quattro. Hanno ancora mezz’ora. «Che cosa?» «Cosa ti prende.» «Non mi prende proprio un bel niente.» «Stai rischiando molto grosso, lo sai questo?» Connie si asciuga gli occhi col fazzoletto. «Non me ne frega niente.»
Adesso Connie e Manuel sono fermi all’altezza del cinema porno. Sono voltati di spalle rispetto al cinema e osservano una serie di bancarelle che vendono dvd e libri a prezzi stracciati. Connie pensa che prima o poi avrebbe dovuto cominciare ad attirare la mosca nella sua tela. Così guarda Manuel e gli dice: «In questo momento ho tutt’altro per la testa.» Manuel si accorge che il tono della sua voce adesso è cambiato ed è un tono che conosce. «Che cosa hai in mente?» le chiede. Lei lo sta guardando negli occhi con i suoi occhi umidi. «Penso che mi piacerebbe tenere qualche parte del tuo corpo in bocca.» Manuel arrossisce. Da tempo imbarazzante queste cose le sente soltanto nei film che scarica dai siti vietati ai minori. «Solo che sono indecisa…» «Su cosa?» «Se tenerti in bocca un dito oppure…» Manuel si allunga verso il viso di Connie. Le dà un bacio. Si baciano a lungo con la lingua. Poi Connie sussurra all’orecchio di Manuel: «Portami al cinema porno.» «Che cosa?» «Al cinema porno» ripete e indica col mento l’entrata con i vetri scuri del cinema. Manuel arrossisce di nuovo. «Tu sei matta.» Connie gli mette le mani sulla patta.
«Ah, sì?» dice. Manuel e Connie entrano nel cinema porno. Dieci minuti più tardi Manuel si trova in mezzo alla perfetta messinscena di un gigantesco show televisivo.
…il 19 gennaio 2009 durante una giornata trascorsa a Genova a eggiare con la sua ragazza diventata ormai la sua ex ragazza, su richiesta della sua ex ragazza lui e la sua ex ragazza entreranno nel cinema porno di via San Vincenzo dove si sederanno e dopo un quarto d’ora di proiezioni lo schermo si oscurerà e le luci della ribalta si accenderanno, partirà una musica esplosiva, e un presentatore televisivo piuttosto noto inviterà Manuel a salire sul palco, e tra applausi scroscianti, e vallette scoperte, gli annuncerà di essere stato vittima per anni dello show televisivo Il Protagonista, e gli verranno mostrati filmati, che lo riprendono per strada, dal panettiere, nella vita di tutti i giorni, e poi dopo un’ora di interviste, e colpi di scena, si susseguiranno sul palco lo scrittore di Padova, Saverio, la sua fidanzata, Filippo, anche, e Irene, e Silvia, e Carlo, che assieme ad altri si riveleranno essere stati complici della produzione televisiva fin da principio, e poi Manuel riceverà un mazzo di fiori, e baci dalle vallette, e fine trasmissione, e gli verrà annunciato che tra sei mesi partirà un show megagalattico, dove lui sarà il protagonista assoluto della prima puntata, e che dopo quella trasmissione per lui ci sarà un indotto straordinario, interviste, talk show, spot televisivi…
Conclusione
Il 20 gennaio Connie compone il numero di telefono dell’ufficio dell’avvocato Murgia. È il numero diretto. «Avvocato Murgia.» «Avvocato, sono Connie Ombrini.» Silenzio dall’altra parte del filo. «Pronto?» «Ha un bel coraggio a telefonarmi dopo quello che ha fatto alla mia vita.» «Non le porterò via troppo tempo, avvocato.» «La rovinerò tanto che la farò pentire di aver fatto la bravata che ha fatto.» «No, avvocato. Lei non farà proprio un bel niente.» L’avvocato Murgia scoppia a ridere. «Se questo è quello che credi, allora sei proprio fuori strada.» «Non credo che lei avrà intenzione di rendere noto a tutti dei suoi traffici a Las Vegas.» Silenzio dall’altra parte del filo. «Credeva che nessuno si sarebbe mai accorto degli snuff (è così che si chiamano quelle porcherie?) che tiene sul computer?» «Io non so di cosa parli.»
«Lo chieda a Clara di che cosa sto parlando. Pensava sul serio che Clara fosse tanto ingenua da non accorgersi dei suoi traffici?» «Non vedo come possa essere ricattato…» «Ho copie su copie del suo hard-disk, avvocato. Ci sono dentro tutti i suoi dati riservati. Ci sono anche i suoi filmini. Quanto a Clara, anche lei sa tutto, e se le pioverà addosso uno scandalo sono certa che alla fine parlerà.» «…brutta lurida ricattatrice…» «A lei la decisione.» «Come… Come hai fatto a eludere il sistema delle …» «Questo è un segreto.» «Sei morta!» «Questo non mi importa.» «Sei già morta!» «Purtroppo, questo lo so da un pezzo.»
Il 26 gennaio 2009 Manuel comincerà a svitare gli specchi di casa sua per controllare se ci sia o no qualche telecamera (che sicuramente, per quanto piccola, nell’immaginazione di Manuel è inoculata in una guaina protettiva di colore bianco) o microfono bianco. Mentre sviterà gli specchi e controllerà le zone sospette, il 26 gennaio 2009, Manuel penserà che il biancore degli auricolari non è stato scelto casualmente dalla ditta produttrice, ma richiama il biancore dei fantasmi, e comunque non troverà telecamere, non troverà niente, né in automobile, né da nessun’altra parte, e dopo sei mesi, nel 2009, non succederà niente, non ci sarà la trasmissione memorabile che avrebbe dovuto proiettarlo nel mondo dello spettacolo, e dopo aver telefonato a Saverio, Saverio gli dirà che ci sarà stato un disguido, uno stop, e la trasmissione non si saprà se si farà o non si farà, che bisognerà attendere, e il 26 novembre 2012 Manuel chiamerà di nuovo Saverio, e griderà, vorrà avere informazioni, minaccerà
denunce, e a quel punto Saverio gli dirà di possedere alcuni file che lo infangherebbero dalla testa ai piedi, e le cose a un certo punto precipiteranno di colpo, ma…
«Brindiamo!» «Sì, a Manuel – Il Protagonista!» «Che coglione…» Connie, Saverio, Silvia, Carlo, Filippo, Irene, Mary, Sharon sono radunati attorno al tavolo del Banano Tsunami al Porto Antico di Genova. È venerdì 6 febbraio. Sono le sette e mezzo di sera. Sui tavoli del Banano Tsunami che si affacciano sul mare arrivano raffiche di un vento gelido. Saverio è venuto apposta da Roma con un aereo da Fiumicino atterrando a Genova all’aeroporto Cristoforo Colombo. Non voleva mancare alla festa che Connie aveva deciso di organizzare in onore dello scherzo memorabile che aveva tirato a Manuel. «Che coglione…» «Non gli è venuto il dubbio per un momento che potesse essere uno scherzo» dice Sharon. «Alessandro Cattelan è stato magistrale» dice Silvia. «È di Tortona» dice Connie. «Apposta l’ho chiamato. Frequentava il mio stesso liceo. Convincerlo è stato quasi un gioco da ragazzi.» «Considerando anche che abbiamo oliato il suo consenso con una cospicua parte dei miei risparmi…» dice Connie. «E la faccia che ci ha piantato quando si è accorto che è stato ripreso anche mentre si stava facendo una sega in bagno?» fa Filippo. Gli altri scoppiano a ridere.
«Sì, i filmati che mi ha fornito Connie erano fantastici.» «Grazie.» «Ma quanto tempo ci hai perso per seguirlo e fare quei filmati col telefonino?» chiede Irene. «È da anni che glieli faccio di nascosto. Filmati. Registrazioni.» «Quello che ha detto di me non lo scorderò finché campo» dice Filippo. «E che ti ha detto?» fa Mary. «Ah, non voglio nemmeno ricordarlo.» «Di me ha detto che sono una sciacquacazzi» dice allora Mary. Per un momento rimangono tutti in silenzio. «Sciacqua…che?» «Sciacquacazzi.» Tutti scoppiano ridere. I tavolini cominciano a vibrare, a traballare. «E non solo quello, se è per questo» aggiunge Mary. «Di’, Connie, ma stai registrando anche noi, adesso?» dice Carlo. «Sì, certo.» Tutti ridono. «No, dài, magari lo sta facendo davvero…» dice Irene. «Certo che lo sto facendo davvero.» «Dài, perquisiamo la Connie, dài…» Saverio allunga una mano e finge di perquisirla. Connie lascia fare. Connie sta meditando di lasciargli allungare le mani ancora di più, più tardi.
«Connie, ed Everett? L’America? I tuoi viaggi?» dice Sharon. «Ah guardate qui, guardate qui!» dice Connie. Dalla borsetta estrae il manuale che aveva comprato qualche mese fa alla libreria di Porto Antico. «Lo porto sempre con me ormai. Nei momenti liberi lo sfoglio, lo leggo. Cerco di memorizzare. Mi piace.» «Che cos’è?» «Un manualetto per imparare l’inglese.» «Ti piace un manualetto?» «Sì, lo trovo… beh, lo trovo un libro saggio.» «Questa poi…» strepita Silvia. «Comunque è diventato il mio amuleto, il mio portafortuna, non mi ci separo mai…» «Insomma hai ancora intenzione di andare in America» dice Sharon. «Magari in un’altra vita…» «Perché dici un’altra vita? Hai paura che qualcuno ti ammazzi dopo tutti gli scherzi che hai organizzato?» dice Carlo. «Se l’ho fatto, è perché se lo sono meritato» dice Connie. «Ah, Ginevra senz’altro…» dice Irene. Connie comincia a tossire. «Oh sì. Sai, Connie, mi ricordi una mia amica dell’università…» dice Filippo ma è costretto a interrompersi. Connie sta tossendo molto forte.
«Connie…» «Connie ti senti bene?» Connie continua a tossire. Saverio si alza. «Forse si è ingolfata con lo spumante» dice Sharon. Connie lascia cadere a terra il manualetto d’inglese che finisce sul piancito di legno. Poi gira gli occhi e sviene.
Un mese più tardi Connie è a letto. Sta sfogliando il manuale d’inglese. Il manuale è rimasto per molti giorni sul comodino della sua stanza a Tortona senza che nessuno lo toccasse. Connie non sa chi può avercelo messo accanto al bicchiere e alla bottiglia dell’acqua e ai romanzi di Joyce e di Dostoevskij. Forse una delle sue amiche che era venuta a farle visita mentre stava ancora sotto sedativi e si era ricordata dell’importanza che per Connie quel manualetto aveva assunto. Dal ricovero in ospedale sono ati ormai venti giorni. Così come ha fatto al suo primo incontro con il dottore a Genova molti mesi fa, anche questa volta Connie ha rifiutato qualsiasi tipo di terapia. Dopo alcuni discorsi sulle cure a base di chemioterapici antiblastici che aveva sentito da Manuel, ha deciso di rifiutare per sempre di sottoporsi a quel tipo di cure. Poi il suo tipo di tumore non ha cure che le permetterebbero di tirare avanti in condizioni di vita accettabili. Adesso sta sfogliando il manualetto d’inglese. Le parole delle vacanze. Le parole dello shopping. Quelle del viaggio. Nella sezione Comunicare le Espressioni comuni e poi i Rapporti personali. Sotto Rapporti personali Corteggiare e Amore e sesso. Pagine 34 e 35. Connie rilegge quelle espressioni in italiano.
È sola? È solo?
Posso offrirle qualcosa da bere? Vuoi ballare con me? Certo Mi spiace non ballo Sono qui con il mio ragazzo Balli molto bene Sei molto bella Sei molto bello Sei molto simpatica Sei molto simpatico Hai un bel sorriso Posso riaccompagnarti a casa? È stata una bellissima serata Sto bene con te Vorrei rivederti Sì, volentieri Non voglio rivederti Vorrei che rimanessimo soltanto amici Ti amo Mi ami? Posso baciarti?
Baciami Non toccarmi Mi piaci molto Anche tu Ti desidero Sono pazzo di te Vorrei fare l’amore con te Vuoi venire a casa mia? Hai un preservativo? Così mi piace molto Così non mi piace Ti è piaciuto? È stato fantastico
Connie pensa che in fondo sta tutto qui. Da queste poche espressioni. Ogni storia non è regolata da un conflitto ma da una relazione. A volte questa relazione può rimanere solo un tentativo. Altre volte può riuscire pienamente. Storie di popoli. Storie di Nazioni. Storie piccole. Storie grandi. Tutte soltanto tentativi di relazione. Toccami oppure Non toccarmi. Baciami oppure Non baciarmi. Vieni a casa mia oppure Non venire. In fondo le nostre storie, forse tutte, sono fatte di tentativi di relazione, e pensandoci bene non abbiamo storie così diverse dai cani, dai gatti, dai leoni, dalle giraffe, e da qualsiasi altro animale perché ogni cosa in natura è regolata in modo che possano avvenire relazioni, contatti, storie. Connie pensa ancora una volta che ogni parola e ogni espressione che legge sul manuale per lei sono state una conquista. Anni di lavoro e di sacrifici. E ancora una volta proprio questo la sconcerta. Adesso vedere queste parole in fila su un
manuale le fa pensare: “In fondo, è tutto qua”. Tu ti batti. Ci credi. Vivi le situazioni. Soffri. A volte nella tua testa una parola non è più soltanto un suono: una parola diventa una cosa. Invece ti rendi conto che quelle parole che tu carichi di tuoi significati, di tuoi valori, e che diventano tue, non sono tue, ma sono tipiche, sono di tutti. E lo stesso vale non solo per i manuali ma per le opere di narrativa. Tu vivi la tua vita, poi la incontri casualmente nero su bianco su un romanzo e arrivata alla fine pensi: “Beh, in fondo sta tutto qua”. Adesso che sente che la vita dentro di lei sta per andarsene, Connie vorrebbe rimangiarsi ogni pensiero che ha avuto negli ultimi mesi. Il pensiero che ha fatto sulle giornaliste graziose. O quella cosa che ha pensato su Meryl Streep. O quella sull’inno nazionale italiano. O quell’altra che ha fatto su Dostoevskij. Pensa che a lei tutte queste cose sono piaciute sempre, anche mentre rivolgeva critiche, pensava male. Pensa che in fondo anche se in questi mesi ha fatto tutto per disgustare se stessa e gli altri, per uscire disgustata da questo mondo che con un melanoma uveale, e un cancro fulminante, la vuole espellere, nonostante tutti i suoi sforzi di comportarsi bene, di essere buona, esemplare, di essere dignitosa, bene, lo stesso la vita ha vinto, perché lei non riesce a detestarla, nemmeno adesso, e si rende conto che in fondo la vita è l’unica cosa che un uomo e una donna hanno, e che non c’è proprio nient’altro. Manuel è venuto a trovarla. Sono venuti un po’ tutti in questi giorni da quando Connie si è ripresa un poco e in pratica si sta solo aspettando che la vita l’abbandoni. È venuto anche l’avvocato Murgia per un momento brevissimo. Manuel invece si è fermato a lungo. Hanno parlato. Lui le ha detto: «Insomma è stata solo apparenza. Tu non sei mai stata malvagia. Stavi soltanto seguendo un piano. Disgustare te stessa. Distruggere l’immagine del mondo. Convincerti che in fondo non vale la pena viverci. Che non è così doloroso lasciarlo.» «Sì» dice Connie. «E con le persone che ti hanno sempre voluto bene o che ti hanno sempre stimata hai voluto fare la stessa cosa: hai voluto fare in modo che nessuna di loro provasse per te troppo dolore al momento della tua morte.» Connie sente di commuoversi. «Sì, è così» dice. «Allora, in fondo anche nei momenti peggiori sei rimasta sempre Connie La
Brava.» «Beh… sì» dice Connie e ride un po’. «Quello che però non capisco è: se volevi disgustare te stessa del tutto o volevi distruggere l’immagine del mondo che ti sta attorno allora perché non hai commesso un omicidio o non sei andata nei posti dove tutto cade a pezzi per la povertà?» Connie rimane in silenzio per qualche momento. Poi indurisce la mandibola e risponde: «Perché ho pensato che non ci sarebbe stato bisogno di arrivare a tanto per provare disgusto per se stessi e per questo mondo.»
FINE
Genova 10 luglio 2009 Chicago, Illinois 23 dicembre 2009
L’autore
Marco Candida è nato nel 1978 a Tortona (AL). Ha pubblicato “La mania per l’alfabeto” (Sironi, 2007), “Il diario dei sogni” (Las Vegas edizioni, 2008), “Domani avrò trent’anni” (Eumeswil, 2008), “Il mostro della piscina” (Intermezzi, 2009), “Il bisogno dei segreti” (Las Vegas edizioni, 2011). Un estratto del romanzo “Il diario dei sogni” è stato inserito nell’antologia americana “Best European Fiction 2011″ (Dalkey Archive Press, 2010). Il suo blog.
Dello stesso autore abbiamo pubblicato
Il diario dei sogni
Collana: i jackpot Pagine: 176 ISBN cartaceo: 978-88-95744-02-5 ISBN ebook: 978-88-95744-72-8
Clicca qui per saperne di più.
Verino Lunari, ventottenne disoccupato, in seguito a una serie di violenti attacchi di panico comincia a assumere quotidianamente una compressa di Cipralex, un antidepressivo che come sorta di effetto collaterale gli provoca ogni notte sogni vividissimi. Verino decide di registrare i suoi sogni in un diario, e in seguito di stendere un resoconto dove riportare quelli per lui più significativi. Qui è come se ci offrisse di entrare nella sua stanza segreta delle follie. Dentro ci si trova di tutto. Oggetti che respirano. Fantasmi dell'aldilà che perseguitano persone all'indirizzo sbagliato. Demoni "posseduti" da esseri umani. E molto, molto altro ancora. Presto, però, ci accorgiamo che Verino racconta di sogni dove protagonisti sono sempre i suoi amici e immancabilmente lei: Veronica, la sua ex-fidanzata... In un crescendo di sovrapposizioni tra realtà, sogno, immaginazione e allucinazione, in questa storia d'amore e tradimenti la sola certezza è che niente fino all'ultimo è quel che sembra.
Lettera dell’editore
Caro lettore, intanto grazie per essere giunto fin qui. Spero davvero che tu abbia apprezzato questo libro e che ti abbia lasciato qualcosa, se l’hai già letto, o che lo apprezzerai. Sappi che il nostro lavoro è proprio questo: cercare belle storie, raccontate da persone dotate di una voce riconoscibile, che sappiano regalarti un momento di svago, generino qualche pensiero nuovo, suscitino un’emozione. Se poi riusciamo con le nostre storie a fare tutte e tre le cose insieme allora abbiamo vinto il jackpot. Però, sai, si sceglie una storia come si scelgono gli amici: dipende tutto dal carattere e dai gusti, quindi vorremmo raccontarti qualcosa di noi. Las Vegas edizioni è un nome strano per una casa editrice, vero? Andrea Malabaila, il fondatore, ha voluto chiamarla così perché Las Vegas evoca peccato, gioco d’azzardo e luci al neon, tutte cose che c’entrano poco con i libri. Ma è anche il posto in cui tutto è possibile e i sogni possono diventare realtà. Crediamo che uno dei compiti di un editore sia quello di avvicinare la gente ai libri, non di allontanarla facendole credere di non essere all’altezza. Tolleriamo tutto, ma non le torri d’avorio.
Las Vegas edizioni nasce nel 2007 e nel 2008 escono i primi tre titoli: Viva Las Vegas un’antologia a cura di Andrea Malabaila, Saxophone Street Blues di Hector Luis Belial e Il diario dei sogni di Marco Candida. Nel nostro catalogo ci sono 30 titoli e tre collane: I Jackpot, dedicata alla narrativa non di genere. Las Cerezitas, dedicata ai ragazzi dai 13 ai 19 anni.
I Jolly, dedicata a testi a metà tra narrativa e varia.
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