Silvia Pedri
IL KAMASUTRA DEI KOCCODRILLI
Il kamasutra dei koccodrilli di Silvia Pedri
Illustrazioni di Chiara Fedele
© 2013 copyright Silvia Pedri | Seconda edizione, prima edizione digitale
ISBN 9788868555993
Correzione bozze e editing a cura di Silvia Pedri
Il sito ufficiale dell’autrice è www.silviapedri.com
Copertina e edizione digitale a cura di Annalisa Uccheddu per SiskYou | il self publishing di Siska Editore
Immagine di copertina: Lézard Zen (Lucertola Zen) di Julien Tromeur. Immagine reperita su Fotolia.
Dedica
Alla cara vecchia Kala che mi prestò il suo veleno come inchiostro.
Avvertenza
I personaggi di queste storie e le vicende trattate provengono dal mondo del Sogno, non descrivono persone né situazioni appartenenti a questa realtà.
PRIMO: UCCIDERE I MOSTRI
Capitolo 1
Notte senza luna
La notte era tranquilla, come ogni altra notte, buia e silenziosa. Si poteva sentire solo il frusciare delle foglie al vento e il frusciare di qualche scimmietta che si muoveva nel sonno. Buia e oscura, se non per il bagliore argenteo che filtrava attraverso le finestre della Casa del Sogno, la proprietà – casetta più bosco circostante- dei Corvonero, abitata anche da Kalanaga, il serpente più antipatico dell’Universo. Non che i coniugi Corvonero fossero molto simpatici ma almeno di notte facevano una bella luce. La notte, dicevo, spargeva il suo manto di velluto di mistero e torpore sull’intero villaggio. Esclusi Kalanaga¹ e Jagger il Giaguaro, individui per i quali è sempre giorno ed è sempre ora di pranzo. Soggetti irrequieti a parte, tutti gli altri animali riposavano, sereni. Il gufo non gufava più, perché si era trasferito nei boschi al mare, arrivato a una certa età. E Leo non russava più perché si era fatto operare da Ernesto, il medico condotto dalle mani fatate da pianista anzi da chirurgo che come al solito aveva compiuto il miracolo. Quindi Leo non svegliava le oche del suo ashram; e la sua comunità, e anche la comunità non sua tutt’intorno, lo ringraziavano. Nessun vetro di nessuna casa del villaggio vibrava al suo ritmico ruggire cioè russare. Nessuno starnazzante pettegolezzo si levava dalle stanze del Golden Temple. Tutti dormivano saporitamente al calduccio. Qualcuno sognava. Ernesto, rassegnato, si alzava a far pipì. Era una notte tranquilla, come ogni altra notte. Nessuno al villaggio ancora sapeva dei movimenti del mostro 777, come sarebbe stato presto chiamato. Una Terribile Anaconda lunga 777 pertiche, un serpente costrittore stava risalendo la valle, lungo il fiume, stringendo nelle sue spire e costringendo e inglobando, attraverso le sue mascelle disincastrabili e i suoi tessuti infinitamente estendibili, qualsiasi creatura a sangue caldo o a sangue freddo…
Era, per il momento, una notte tranquilla, che si avviava, placida e inconsapevole, verso la distruzione.
1 in sanscrito, antica lingua dell’India, kala=nero, naga=serpente
Capitolo 2
La famiglia Corvonero
“Odissea 2001 Scimmia nello spazio. Il mondo è delle scimmie.” Proclamò Corvonero aprendo le finestre e spalancando le ali per inspirare meglio l’aria fresca, umida e densa di profumi, del mattino. E’ buona abitudine aprire tutte le finestre, anche quando fa freddo, e cambiare bene l’aria ogni mattina, rinvigorisce. Il sig. Corvonero non era un fesso. Sapeva aprire le finestre. E sapeva come provvedere al benessere suo e dei suoi cari. Sapeva ad esempio che bisognava pur concedere qualcosa ogni tanto. Così, ogni mattina, salutava i babbuini. Il cuore di babbuino è un cuore semplice. Vogliono solo essere visti, riconosciuti. Tutto infatti ebbe inizio quando, il giorno dopo che i Corvonero avevano occupato la tenuta, che allora contava ancora solo qualche migliaio di pertiche quadrate, la signora Corvonero, appena fuori la proprietà, aveva visto un babbuino e aveva detto: “un babbuino!”. L’imponente, goffa creatura allora le si avvicinò e, capo lievemente inclinato, arricciò le labbra e le prese l’ala sinistra con la bocca, come a stringergliela, come quando si stringe la mano. Senza affondare i denti. Non aveva fame. Lei aveva detto “un babbuino!” senza troppo affetto ed eccola preda di un bacio succhioso. Cielo se basta poco, poveri babbuini, bistrattati da tutti. E così, cercando di rientrare in casa, la sig. ra Corvonero quel giorno si portò dietro attaccato il babbuino argentato, un maschio adulto con due figli piccoli. Ora, è vero, si può dir forte, le donne sono la fortuna dell’uomo. Corvonero infatti uscì di casa incuriosito dagli strani rumori dell’inedita coppia e salutò il babbuino: “Ehilà! Una scimmia è come un diamante, è per sempre!” Preferì non lesinare. Il babbuino mollò il succhiotto all’ala della sig.ra, guardò Corvonero e le labbra gli si distesero all’insù, sotto il largo nasone, e la fronte gli si abbassò, rilassata. Allentò il petto e gonfiò la pancia con una profonda
inspirazione e fece cadere il posteriore a terra, ondeggiando pesante e soddisfatto. E Corvonero disse: “L’affitto è cinquecento dischi d’oro cadauno, spese incluse. Per noi è un onore avervi nella nostra proprietà. Sono sicuro vi troverete bene. Contanti il primo del mese.” “Spese incluse, papà, che vuol dire? Dove cosa sono le spese?” disse uno dei piccoli. “Babbuini! Ma dove siamo finiti.” Sbuffò la sig.ra Corvonero dopo aver chiuso la porta alle sue spalle ed essersi riassettata le penne. Aveva recuperato in fretta la sua aria sobria e severa, tinta unita nera. “Cara, è il Sud. Sai come sono i meridionali. Però guarda che spettacolo” Corvonero balzò vicino alla finestra. “Non abbiamo fatto bene a venire qui?” E spalancò le imposte.
Ora come allora il sig. Corvonero ne era convinto. I Corvineri non sono mica dei fessi. Avevano fatto la scelta giusta. Il clima era invitante, la natura lussureggiante. I vicini buona gente. E distanti migliaia di doppie pertiche quadrate. Gli inquilini puntuali. Nei pagamenti. Se solo li si salutava una volta al giorno… Non chiacchieravano neanche tanto, e non avanzavano alcuna pretesa. “Cara,” disse Corvonero, spingendo lo sguardo luccicante oltre l’orizzonte, “avresti mai detto che sarebbero diventati così tanti? È stato un buon investimento.” “Sì, Caro, cinquecento dischi d’oro cadauno. Chi l’avrebbe detto. La gente del Sud ama riprodursi.” Il signore e la signora Corvonero erano una coppia felice. “Similis cum similis coniunctur, vero Cara?” Soleva dire il sig. Corvonero nel suo latino sbagliato. “Sì Caro,” rispondeva la sig.ra Cara e ricambiava lo stropicciamento di ali. Uguali uguali erano. Il simile si congiunge col simile. Erano la dimostrazione di
questa verità. D’accordo d’accordo andavano. La pensavano uguale, facevano uguale, e ognuno dei due, estasiato, riteneva l’altro la persona più intelligente del mondo. Si stropicciavano le ali spessissimo e la notte sognavano insieme. E la casa risplendeva di luce argentata, come una lucerna. Da fuori erano indistinguibili. Da dentro erano imprescindibili. “E’ perché noi siamo gente dell’Ovest!...” sussurrava dolcemente la sig.ra Cara, con una certa sicumera. “Vero Cara.” Annuiva grave il suo sposo. “Hai avuto proprio una bella idea a scegliere questa casetta nel quartiere SudOvest.” “Vero Cara. Hai fatto proprio bene a chiamarla la Casa del Sogno.” “È proprio così.” Nel villaggio le scimmie avevano sparso voce che il nome Caro glielo avevano dato loro, dopo aver sentito l’affitto. Ma i Corvineri non si curavano delle voci. Solo dei Sogni. “Cara, Corvoblu dorme ancora?” “Sì Caro, ho sognato che sta facendo motocross lungo il fiume, in sogno. Adesso lo vado a svegliare. E’ pericoloso. L’hai visto anche tu il fiume stanotte.” “Sì Cara, l’ho visto, e non prometteva nulla di buono...” Disse, improvvisamente abbattuto. “Quando finirà questa storia?” Il sig. Corvonero fissò la moglie prima con l’occhio destro, poi con l’occhio sinistro, poi con entrambi. I suoi occhi non brillavano più. “Quando metterà la testa a posto? Quando si taglierà i capelli? Quando diventerà nero? Quando…” Per fortuna Caro Corvonero fu distratto dai suoi pensieri. All’improvviso un uccello irruppe in soggiorno, con gli occhi ancora sporchi di sonno.
“Ciao ma’, ciao pa’. Avete visto che fiume! Che spettacolo. Sembrava uscisse fuori il mostro di Gandall. E io andavo su e giù e su e giù per le scarpate e poi su e poi su.” Corvoblu aveva l’irrefrenabile, e increscioso dal punto di vista dei suoi genitori, vizio di gesticolare mentre parlava. Prima del termine della frase, a forza di sbattere le ali, era già finito contro il soffitto. Cresta blu elettrico piegata e sonora zuccata. La madre scosse il capo, il padre socchiuse gli occhi ed ebbe una stretta al cuore. Corvoblu da parte sua, stupito, perse il controllo delle ali, le sue belle ali con riflessi naturali blu, e cadde a terra. “Adesso ci vado davvero!” annunciò, non appena ebbe ripreso possesso delle sue due zampette. “Corvoblu! Ma è distante.” Corvoblu torse il collo, stiracchiò e sciolse tutte le giunture e col becco si pettinò le ali, lucide e cangianti. Strizzò l’occhio alla mamma. “Ciao pa’.” Diede una pacca sulle spalle al sig. Caro, con l’ala aperta. Saltò sul davanzale e prese il volo. Caro Corvonero richiuse le imposte, infreddolito. “Non avremmo dovuto darlo a balia a Kalanaga.” Mormorò come tra sé, in realtà in attesa che la moglie gli dicesse: “Mannò, Caro!...” “Mannò Caro!...” disse la sig.ra Cara. “Kalanaga è un serpente fedele. E’ uno di famiglia. E’ stata tua la magnifica idea di farlo abitare con noi.”
Capitolo 3
Kalanaga
Così era stato infatti. In uno dei suoi giri di esplorazione per il villaggio, tanti anni prima, Corvonero aveva sentito una voce. “Sogno o son desto?” si era detto. Non era ancora molto pratico. “Non sto sognando, è una voce di questa realtà.” Si era risposto. E dire che era strana. Una sorta di monologo sputacchiante. Mai sentita prima una roba del genere. Allora concentrò il suo sguardo-a-300-gradi nel punto da dove sembrava provenisse il suono, e mise a fuoco. Un serpente di cattivo umore. Un viperozzo grigio antracite di più di due pertiche che dimenava il capo e inveiva come un’anima in pena. “Ssssh che sssschifo dal Kerala viene quello.” Corvonero si accorse che, alle spalle del serpente, a qualche pertica di distanza c’era un sinuoso ‘pelleverde’ che più tardi gli sarebbe stato noto come Pittone, il serpente di fuoco. L’inarrestabile, l’incontenibile, il sessuomane Pittone², dagli occhi ipnotici e il sibilo mellifluo. Inesorabile ti stringe a sé e si fa stringere, ti accarezza e ti scardina le carni, che fremono e si staccano come per smottamenti vulcanici, e prendendoti nel vortice della sua lingua fredda, ti divora. E nel mentre tu spiri, non si sforza di spendere altre parole che SSSSS SeSSo. Kalanaga era di un’altra razza. Tutta un’altra razza. “Dal Kerala viene il pupaccione.” Sputacchiava il nostro serpente, “Posto di turisti e gigolo. Capace ssssholo di sssshtrisciare. Guardatemi
guardatemi come sono bello e magnetico, come sssshtriscio bene. Io non c’ho niente a che ffare con quello. Del Sud-Est. Puah. ‘Vieni qui che ti costringo.’ Bleah! Serpenti cossstrittori. Gente di ssspire sstrette e vedute corte. ” E Kalanaga dal collo eretto non poté trattenersi dallo sputare un po’ di veleno a terra. Ne aveva talmente tanto. Che il Kerala si trovasse nell’India del Sud-Ovest non lo sfiorava; lui sapeva che lì si trovava la gente del S/E. Nell’Altra Realtà è facile che le direzioni siano spostate, speculari. “Mollaccione, debossssciato, capace sssholo di sssshtrisciare.” Fin dalla nascita Kalanaga aveva l’abitudine di soffiare: collo a esse, una mezza pertica abbondante dal suolo, capo vibrante, proteso in avanti. E con un colpo di diaframma… Ssssssh. Forte. Soffiava quando era indignato, soffiava quando era incazzato, soffiava quando era schifato. Fosse per lui li avrebbe fatti fuori tutti. Soffiava quando non mangiava e quando non digeriva. Poi, crescendo, dal soffiare presero a srotolarsi delle parole, le parole scivolavano sospinte dal soffio, e il soffio sfumava nelle parole, si fondeva col suono delle parole... Fino a che successe: il soffio divenne verbo e Kalanaga parlò sputacchiando. “Qual è quella cosa che se la tocchi si rizza e trascorre la più parte del tempo eretta?” Ma Kalanaga era duro d’orecchi e poco interessato alla voce delle scimmie e poco interessato alle battute. “Io sssshono un ssssherpente del S/O. Vengo dal Tamil Nadu. I macachi coda di leone ci sono lì. Unnnmm.” Diceva strizzando gli occhi. “Ssssshimmie! Puah.” Sputacchiava. “Non le digerisco.” Inclinò e abbassò il capo, ebbe un live sussulto, a richiamare un rigurgito, e lasciò oscillare la testa, sconsolato. S’infrattò e scomparve veloce, invisibile tra le foglie. “Un serpente nero. Un serpente del Sud, anzi, sedicente del Sud Ovest, la direzione del Sogno. Ma che coincidenza.” Osservò Corvonero. Proprio quello che faceva per lui.
O si va a sbattere le ali nel luogo dove non si vede che c’è il serpente e si attende (poAdesso si procede in due modi.co) che la sua testa scatti come una molla e il suo veleno ci coaguli tutto il sangue nelle vene. Oppure… Corvonero tossicchiò. In fondo voleva solo parlare d’affari. Quattro pertiche per aria, a prova di serpente. “Ho un allevamento di Babbuini.” La sig.ra Cara aveva sempre celebrato la sua capacità di vendersi. “Kalanaga. Kàla Nàga, kàla nàga.” “Kàla Nàga” Le scimmiette si rimbalzavano la battuta, da un albero all’altro.
Ma c’era ancora il serpente? “Pronto?...” riprese Corvonero “Ho un allevamento di babbuini.” Ripeté, forte e chiaro. “Sono belli sani, cicciosetti, con tutte le norme sanitarie… Ecco, erhm, sic est,…” Corvonero non sapeva come continuare. “…la mia azienda è così fiorente che ho bisogno che qualcuno me ne mangi un po’. Gratis, s’intende.” Corvonero fu contento che la sua Cara moglie non fosse nei paraggi e non potesse sentirlo. Che tristezza la parola ‘gratis’. “Sono disposto ad offrirle sistemazione permanente a casa mia se.. Deus ex machina.. Buondio! …se mi fa questo favore.” Eppure era vero. Corvonero aveva bisogno di Kalanaga. Per i babbuini e per il Sognare. Ma c’era ancora il serpente? “Dottore?... Sua Santit…” Kalanaga, a cinque pertiche di distanza rispetto a dove era scomparso e a dove lo
stava aspettando Corvonero, erse un terzo della sua lunghezza, a quasi una pertica da terra, per poter meglio sputare. “Phùu! Babbuini... Non li digerisco.” Ma vabbè. E senza grande considerazione per l’affare propostogli e per il corvo sopra di lui, si diresse verso la tenuta dei Corvineri.
2 in sanscrito la parola “pitta” significa “fuoco”
Capitolo 4
Corvoblu
“Hei hei hei làlàlà. Corvoblu eccolo qua. Ciao Vecchio!” Ezechiele sospirò. Corvoblu era l’unico a chiamarlo così, semplicemente ‘Vecchio’. Ma era come un figlio per lui. Ezechiele sospirò. Avesse mai capito qualcosa di quello che gli aveva detto negli anni.
Corvoblu era uscito dalla finestra di casa diretto al fiume. Alla vista delle prime anse però si sovvenne che non aveva una moto per fare motocross e nemmeno per fare eggiate e nemmeno per andare al villaggio e fare un sacco di altre cose in questa realtà. Allora fece dietro front e prese la direzione del villaggio. Meglio are a ritirare il suo tutù da Bruna, la maestra, che era anche la sarta. Allora Corvoblu sbatté bene le ali, salì in alto nel Cielo, fino a stordirsi. Voleva fare il giro della morte, quello che si va in picchiata in giù giù e poi si vira in su, d’un tratto girandosi su un lato e vedendo il mondo con un solo occhio e il Cielo immenso con l’altro, e poi poi… Allora Corvoblu puntò verso il suolo ed entrò in un movimento antiorario spiraleggiante… e in men che non si dica era schiantato al suolo, in picchiata diretta. Lui era cresciuto tra le scimmie. Le scimmie imparano ogni cosa per imitazione, basta che a una venga un’idea e la sua applicazione è subito condivisa. Corvoblu li guardava i grandi uccelli, la guardava l’Aquila, ma non aveva ancora imparato. Acciaccato, si risollevò, si rimise sulle zampe, si pettinò le penne, si grattò la testa, e senza pensare a niente, vuoto e bello e blu come il Cielo, proseguì verso casa di Bruna.
Casa degli Orsi era ben riconoscibile, anche da distante. Occupava in pieno il versante Ovest del villaggio. C’era un piccolo cancello in morbido legno, un orto molto disordinato con ogni genere di erbe e radici. E poi un’enorme caverna, con diversi vani interni e sottocaverne, addossata al rilievo montuoso. Corvoblu atterrò sul cancelletto verde, fece un verso e attese pazientemente. All’improvviso Bruna uscì, rotolò fuori dall’entrata, calpestò un po’ di erbe del marito, niente di personale per carità, e avviluppò in un caloroso abbraccio il giovane pennuto che per poco non ci restò secco. Corvoblu scricchiolò. Quando riemerse e riprese a respirare, dopo una rapida verifica alla funzionalità delle articolazioni, fece “Scchh” e si ò l’estremità dell’ala davanti al becco. “Fai piano che dorme.” A qualsiasi ora del mattino si arrivasse alla casa, Bruno dormiva. Era il suo modo di portarsi avanti col lavoro in vista della stagione tiepida, come diceva lui, di restare concentrato. Se voleva essere produttivo doveva dormire. A qualsiasi ora del mattino si arrivasse alla casa, Bruna diceva: “Scchh… E Corvoblu quella volta fece “Scchh” e si ò l’estremità dell’ala davanti al becco. “Fai piano che dorme.” Cantilenò. Poi strizzò gli occhi e incassò le spalle nelle ali in attesa del rovinoso scapaccione che puntualmente arrivò. “Corvo impertinente!” Brontolò Bruna, nascondendo un sorriso. A Corvoblu venne improvvisamente in mente che non gli era mai sembrato che il sonno di Bruno fosse leggero. Ma per il momento decise di astenersi da siffatte condivisioni. Le reazioni degli orsi rischiano di essere rovinose per pennuti di piccola taglia. Bruna mostrò a Corvoblu il tutù, glielo fece indossare, regolò le ultime cuciture e la fibbietta in vita in base alla pancetta del corvo, e sistemò la coroncina tra la cresta di penne blu elettrico. “Allunga l’ala.” e Bruna appese alla sua estremità delle scarpette con le punte, di raso rosa, color della rosa quando è rosa chiaro chiaro. Corvoblu non aveva bisogno di guardarsi allo specchio. Stava bene dentro! Non sapeva neanche che cosa fossero gli specchi in realtà, nel villaggio non si usavano.
Gonfiò il petto e calde lacrime gli scesero lungo le guance. “Bruna, per tutti i corvi!” disse, con un salto, tirando su il moccio dal naso. “Sei un’artista! Un’artista di Sogni”. Zampettò per il giardino inspirando il profumo delle rose che proveniva dalle scarpette con le punte, di raso rosa. Era inebriato. Anche la moto gli piaceva. Anche fare il cantante rock (che poi si esibisce in uno stadio) gli piaceva. Ma la danza, ah la danza. Tutti i tutù erano bellissimi. Pestò le zampe a terra per conferire una sfumatura più rock ‘n grunge al suo nuovo tipo di danza. Acchiappò al volo le scarpette, appese all’estremità della sua ala destra, che stavano scivolando, e salutò Bruna. “Miele di achillea”, estrasse dal marsupio. “Per la tua collezione, orsa.” “OhGGrazie Tesoro!...” Bruna sentì il suo dolcissimo cuore espandersi e spalancò le braccia e Corvoblu prese il volo. Non che non gli fe piacere fare scricchiolare le articolazioni. Ma il tutù no. Nooo. Non doveva sgualcirsi. Così lo vide Ezechiele, scarpette alla mano. Perciò sospirò.
La caverna degli Orsi non era molto distante dal Centro, non quanto casa dei suoi. Prestando attenzione alle scarpette, che non gli scivolassero, Corvoblu diede qualche bel colpo d’ala e si lanciò euforico di qua e di là scodinzolando. “Hei hei hei làlàlà. Il mondo è dei Corviblu.” “Devi aver perso qualche aggio amico. Non lo sai?! Il mondo è delle Scimmie!” Gli fecero eco le scimmie a muso duro. E poi scoppiarono a ridere, con un gran baccano, come fanno loro. Si grattavano la pancia e ripetevano a turno o tutte insieme “Il mondo è delle scimmie. Cla cla cla Clàclàclà.” Effetto stereo. Evvài. Ancora. “Il mondo è delle scimmie. Cla cla cla Clàclàclà.” Corvoblu era figlio dei Corvonero ed era stato allevato dalle amorevoli cure di Kalanaga. Detestava i babbuini.
A proposito di Kalanaga, non bisogna immaginare che Corvoblu abbia avuto una infanzia facile. Non bisogna spingersi a immaginare che Kalanaga sia un serpente amorevole o fedele. Ma si sa, anche le scimmie lo sanno anche se poco gli importa, i Corvineri non sono dei fessi. Il sig. Corvonero aveva fatto la scelta giusta. Corvoblu crebbe molto in fretta, una specie di corvo prodigio. Prima che Kalanaga lo soppesasse, letteralmente, di ciccia sufficiente, e lo reputasse degno di una qualche considerazione, prima di qualsiasi corvo nell’Universo, Corvoblu imparò a volare. Si fece i muscoli, si fece la furbizia e imparò a diffidare dei serpenti. E quando i muscoli furono sufficienti, un bel giorno, vide un grande albero. Si era spinto fin oltre i margini della sua tenuta, per la prima volta. Si era spinto oltre, in direzione del Centro. Era ancora lontano eppure fu attratto irresistibilmente da un altissimo, maestoso albero, un Grande Olmo. E l’Olmo, a sua volta, lo attrasse. Corvoblu aveva ancora ali molto piccole e un poco deboli, fece parecchie soste, stando bene attento a dove metteva le zampe, fino a che finalmente riuscì a intrufolarsi nella fitta, verde vaporosa vasta chioma dell’Albero. Corvoblu trovò che l’aria dentro quell’albero era più buona, più forte, più profumata, forse più gustosa, più densa, non sapeva. Trovò assolutamente incantevole la musica delle parole delle foglie, che non riusciva a decifrare ma era talmente incantevole che ne restò incantato. Finalmente, nella quiete delle braccia di Ezechiele, si addormentò. Corvoblu trovava ristoro. Il Grande Olmo, intenerito, lo cullava e, nel sogno, gli parlava. Io sono Ezechiele, il Vecchio Ezechiele, Ezechiele l’Antico. Prima che questo villaggio fosse, io sono. Prima che Abramo partì, prima che Adamo grugnì e prima che Eva sospirasse, io sono. A prima che si formasse l’uomo, a prima che si formasse il maschio, fino a quando l’Universo era solo un vortice indifferenziato di energia femminile arrivano i miei ricordi. Io scambio, ogni periodo, il mio Spirito col Cielo, attraverso ogni mia foglia; io scambio, ogni periodo, il mio Spirito con la Terra, attraverso ogni mia radice.
Come già si sarà notato, il villaggio di cui stiamo parlando non si trova nel nostro mondo ma in un mondo parallelo al nostro, uguale e alternativo. Il che comporta, evidentemente, che tutte le unità di misura sono diverse. Ci sono “pertiche” per quantificare lo spazio, “dischi d’oro” per quantificare la ricchezza ed “eoni” per il tempo. In particolare si può dire che: un’ora corrisponde a un’ “epoca” –fatta di circa 72 periodi-, un giorno corrisponde a un “epopea” -fatto di circa 22 epoche-, un mese è un “eone” -fatto di circa 22 epopee-, un anno è quanto ci mette Kalanaga a digerire un babbuino. Quindi in termini più comprensibili la frase di Ezechiele diventa: Io scambio, ogni periodo, informazioni coi Mondi Celesti e i Popoli delle Stelle, attraverso ogni mia foglia; io scambio, ogni periodo, informazioni con i Mondi Sotterranei e le infinite varietà dei Flussi di vita, attraverso ogni mia radice. Ecco, così è tutto chiaro. Intendendo per “periodi” i nostri minuti. La mia specie è molto antica, continuò Ezechiele, molto più di quanto lo sia io singolarmente, che pure mi difendo. La conoscenza è comune, siamo tutti collegati. Io insegno a chi mi si avvicina l’Onore e il Sapere di tempi che non esistono più. E siccome l’Onore e il Sapere sono cose che non si insegnano a parole, Ezechiele continuò a cullare Corvoblu in silenzio. Ogni epopea, cioè ogni santo giorno, Corvoblu si ritirava a dormire da Ezechiele, la notte e anche il pomeriggio, quando tutto l’Universo riposa e tutti i Sognatori Sognano. Ed Ezechiele gli insufflava il suo potere, e il Coraggio, il Valore, la Bellezza, il senso della vita e gli ideali di tempi che non esistono più. “Voglio fare un corso di disegno.” Corvoblu in tutù esordì. Ezechiele sospirò. Da qualche tempo Corvoblu diceva che voleva fare l’inventore. Solo che non aveva manualità e non aveva idee. “Che ne dici di un corso di disegno Eze? E’ bello disegnare! Il mondo è dei
Corviblu, Eze! Hei hei hei làlàlà.” “Deve aver perso qualche aggio.” pensò tra sé Il Vecchio Ezechiele, l’antico maestro e custode della comunità.
Capitolo 5
Coccinella
“Aaaahhh!” Un urlo belluino scosse le foglie di Ezechiele e fece sussultare il tutù di Corvoblu. Un urlo belluino precedette l’arrivo di Coccinella, tutta sudata, la mandrilla del villaggio, che portava al Centro la notizia. L’Anaconda 777 stava risalendo la valle. Aveva già imboccato la direzione del loro villaggio. Per il momento stazionava nel villaggio vicino. Ma si sa quanto questi animali siano rapidi e infidi, quanto le loro spire costrittrici non lascino scampo e quanto il loro appetito sia avido e indifferenziato. Le amiche scimmiette di Coccinella che abitano la contrada più a sud le avevano riferito che l’anaconda aveva appena inghiottito Billi, il figlio del lattaio e Billy, il cane del lattaio. Ma alcune sostenevano che Billi cioè il bambino aveva appena ingerito un Burger King e adesso l’anaconda dormiva dalla grossa e secondo loro ne avrebbe avuto ancora per un bel po’. Insomma, appena il tempo di organizzarsi, di indire una riunione… “Cos’è quel coso?” disse Coccinella, non appena ebbe ripreso fiato. “Ah.. eh… Corvoblu.” rispose Ezechiele con la massima indifferenza possibile. “Corvoblu, càlati via quella palandrana.” Una foglia sussurrò all’orecchio del giovane pennuto. “Vai ad avvisare i tuoi, che vengano, subito, al Centro! Svelto!” Disse Ezchiele con voce tonante. I coniugi Corvonero, ricevuta la notizia si prepararono al viaggio. La sig.ra Cara accarezzò le penne del marito con il pretesto di rassettargliele. “Caro, hai visto che bel ragazzo il nostro corvo. Non ti sembra si sia scurito un po’
ultimamente?” Strofinò il becco sulla guancia del marito. “Temo di no, Cara. E’ sempre più blu.” Anche Coccinella era sposata. Era la moglie di Ernesto, il medico condotto, il coccodrillo. Si erano conosciuti che lei era una ragazza, non ancora fidanzata, e lui già un animale affermato, molto antico, molto sapiente, molto potente. Le sue amiche le avevano chiesto molte e molte volte, con tipica insistenza scimmiesca, dimenticandosi molte volte la sua risposta, che ci aveva trovato in lui. E’ un fossile, dicevano. Ha circa 90 milioni di anni e le sue caratteristiche sono rimaste inalterate. Un’ossidazione vivente. Puoi immaginare che testone!? E poi quanto credi che durerà. Quanto ancora potrà vivere?... altri 60, massimo 90 milioni di anni, e poi? Guardalo, quanto ti dura uno così… cosa ci fai?... Vuoi mettere uno dei nostri Mandrilli!... Fra un po’ lo metti in una teca e lo vendi al museo di Storia Naturale del Cairo: “il fu Coccodrillo del Nilo”. E lei allora lo osservava con gli occhi delle sue amiche. La pelle glabra, irta di dure squame, il colorito verdognolo grigiastro, la bocca larga e il sorriso a labbra strette, ben disegnate. A lei sembrava carino. Ma certo non lo aveva sposato per quello, non se ne era innamorata per quello. Lo aveva visto la prima volta una sera, al buio infatti, e seminascosto dalle fitte canne della palude. Aveva capito che c’era qualcosa che si stava muovendo, che respirava pesantemente, e poi non si mosse più. Forse la fissava. Lo diceva alle sue amiche. “In realtà io non l’ho visto. L’ho sentito. Ho sentito che era forte. Terribile e buono. Ho sentito che era il migliore.” E a lei piaceva uno così. Quando lui capì che animale era, era ormai troppo tardi per tirarsi indietro. Non l’avrebbe mangiata quella volta, non l’avrebbe mangiata più. Per quanto la riguardava, le mandrille sono femmine fedeli. La storia per Ernesto era andata poco diversamente. Percepì l’odore di una scimmia nei paraggi e si avvicinò cercando di fare lo stesso rumore della brezza notturna. Sette pertiche e quattrocento pesi cubici di agilità e sottigliezza. Quando Coccinella si voltò Ernesto sentì un vuoto allo stomaco e l’acidità in
bocca. Era bellissima. La voleva mangiare. Ma non lo fece. Non seppe mai il perché. Ma accettò il segno degli Spiriti. E restò a fissarla. Così vicina. Così bella, illuminata in pieno dai raggi della luna. Il musino allungato, il naso rosa e le guance fiordaliso, e una barbetta dorata a incorniciarle il volto. E quelle splendide natiche grasse… Era proprio una bella scimmietta. Partirono insieme quella notte stessa verso il Nord. Quando le decisioni sono prese vanno messe in atto immediatamente. Coccinella era la scimmia più pettegola dell’Universo. Tutti conoscevano Ernesto grazie a lei, in tutte le 12.000 contrade vicine, e avevano imparato ad amarlo, e a capirlo quando parlava e anche quando non parlava, antico e scorbutico com’era. Quando Ernesto visitava qualcuno Coccinella gli riferiva in anticipo vita morte e miracoli del paziente e della sua famiglia, gli dava tutte le informazioni che servivano e che non servivano prima dell’incontro. E per cena gli preparava zebre e bufali in umido. E per contorno stufati di verdura e tuberi con semi e noci, che di solito mangiava lei. Abitavano in una semplice casetta a due piani, intorno a un albero, lei sui rami, lui a terra, nella stanza vicino alla toilette. Non litigavano mai, anzi tutt’altro. Nei momenti di tutt’altro lei lo chiamava Cocco mandrillo. Normalmente invece si chiamavano Cocco e Cocca. Coccinella era una femmina di mandrillo dolce e devota, la fortuna del suo animale.
Capitolo 6
Geronimo e Nikita, Berny e Marzio
Il tempo che Corvoblu arrivò dai suoi, la Sala del Gran Consiglio era già animata da molti animali. La Sala del Consiglio era Ezechiele. Gli animali non portano ombrelli né orologi. Sentono il tempo e onorano la pioggia. E sotto le fronde di Ezechiele c’era posto per tutti e tutti erano al riparo, protetti da pioggia, fulmini e spiriti molesti. Il Centro città era l’unico luogo sicuro e utile per discutere insieme su come affrontare le tempeste del Destino. “Ehilà! I primi ad arrivare sono sempre quelli che vengono da più distante.” Disse Ezechiele salutando gli abitanti della zona Nord, il quartiere residenziale secondo alcuni più esclusivo, certamente quello con l’aria più fina. Geronimo si inginocchiò in una profonda prostrazione e le sue due pertiche di palchi di corna si incastrarono attorno al tronco dell’albero. Vero che lui ed Ezechiele erano della stessa pasta e si incastravano a meraviglia. Ma più vero ancora era che Geronimo non si era ancora abituato alla sua promozione a vecchio saggio. Pensava ancora di avere la sua mezza tacca di corna, per la quale tutti lo prendevano in giro… E invece no. Era un cervo ancora giovane ma già imponente. I muscoli fremevano sotto la pelle tesa. Il mantello, aderente, liscio e lucido, faceva fremere tutte le femmine e non solo quelle della sua specie. Nella sua pelliccia tardo-autunnale rasa, fitta e grigio-bruna, portava con fierezza ed eleganza i suoi 400 pesi di ramificazioni verso il Cielo. Fare il Capo non è un lavoro leggero. Geronimo non si vedeva mai ma tutti sapevano che c’era. Quando a qualcuno si
rompeva la bussola e si smarriva la direzione, allora questo qualcuno puntava verso Nord e trovava lui. E lui gli indicava la via. Insieme guardavano le montagne, in silenzio. Geronimo indossava la sua impalcatura con la naturalezza e la semplicità di un re, come radici verso il Cielo. Le antenne erano ricoperte da un sottile strato di pelle morbida e vellutata, riccamente innervata di vasi sanguigni e terminazioni nervose. Erano sensibilissime. Percepivano la direzione del vento, i cambiamenti di pressione atmosferica e l’arrivo dei temporali, i cambiamenti di umore delle femmine e le intenzioni delle fate, e, ovviamente, i bisogni del villaggio. Se inclinate in una certa maniera prendevano anche Radio Scimmia, con tutte le notizie delle 12.000 contrade. Viveva con i suoi compagni sulle montagne del Nord, dove era da tempo scesa la prima neve, e ospitava, gratuitamente a differenza di Corvonero, una grande comunità di api. In rappresentanza della quale si trovava al momento accompagnato da Ebe, l’ape-esploratore dell’alveare. Ezechiele aveva grande simpatia per Geronimo. Come lui era un combattente e come lui non si spostava mai dalla sua posizione. Per combattere a volte non c’è bisogno di muoversi, solo di esserci, di essere come si è. Entrambi erano assolutamente quello che erano. E stavano sempre in piedi, eretti umili e fieri, pronti a servire. Come lui era vegetariano, si nutriva di sali minerali, acqua e sole, gli alimenti più antichi sulla faccia della Terra, e forse anche per questo era un portatore di pace e di saggezza. Come lui aveva robuste radici che affondavano nel terreno, o zoccoli duri, ma si protendeva ostinato e fiducioso in ascolto del Cielo con i suoi rami frondosi. Come lui del Cielo captava ogni segnale, come se avesse un’antenna parabolica invece di dita ramificate, un’antenna circolare anzi sferica e vibrante come l’immensa chioma del Vecchio Ezechiele. Anche Nikita si prostrò ai piedi del tronco di Ezechiele. Il vecchio Lupo si rialzò, si aggiustò la benda sull’occhio sinistro, che gli dava un’aria piratesca, e sorrise un sorriso sbieco coi denti che gli rimanevano. Nikita era il suo nome ma i nemici lo chiamavano anche Gallinella tanto il suo attacco era sfrenato e spietato. Era uno dei migliori. Uno fra tanti, avrebbe assicurato lui. Abitava anch’egli le alture del Nord. Quando qualcuno perdeva la bussola e, come poteva, riusciva a raggiungere il Nord in cerca di Geronimo, finiva spesso
con lo smarrirsi nei boschi a mezza altura, e vagare senza meta nella notte fino a imbattersi in branchi di lupi. I quali, gentilmente, lo rimettevano sulla via. A volte lo accompagnavano un tratto. Nikita non era il capo branco ma una sentinella, che pure non esitava a battersi fino alla morte se i compagni o le circostanze lo richiedevano ma che finora era stato sufficientemente coraggioso, abile e fortunato da risparmiarsi la pelle. Era venuto in rappresentanza del suo branco: con la genuflessione ribadiva fedeltà al villaggio, la sua comunità allargata. L’inchino, e la fama che accompagnava da sempre i lupi, rendevano qualsiasi ulteriore parola da parte sua superflua. Gli animali del Nord portavano con sé i valori più alti della civiltà, valori di servizio e di dedizione. In quel mentre giunse Coccinella, che portava con sé Ernesto al guinzaglio. Da Est arrivò Berny in compagnia di Marzio e probabilmente con una nuova provvista di barzellette per rilassare e intrattenere la comunità. Rosso di capelli e con il suo grosso berretto da baseball di traverso era una figura che di per sé ispirava simpatia. A conoscerlo meglio era amatissimo da tutti. Nessuno sapeva resistergli. A parte Kalanaga che era duro di orecchi e di comprendonio per le sue interminabili storielle. A conoscerlo ancora meglio… nessuno poteva dire di conoscerlo meglio. Ma poco importava, si era sempre comportato onestamente. Solo una volta Coccinella, che amava spiare le persone, l’aveva scoperto malinconico. Curiosa come una scimmia, era uscita allo scoperto. Gli si era avvicinata e toc toc. Aveva fatto pressione col suo dito indice sulla spalla ricurva del buon Bermy. “Che c’è Berny?” “Coccinella!” Berny si voltò e scoppiò in lacrime. “Sono una volpe, nessuno mi vuole. Tu come l’hai trovato Ernesto? Io sono una volpe. Sono l’unico animale del bosco monogamo. Una specie di piccione a quattro zampe. Perché sono soolo?!” Coccinella sollevò il berretto e pensò di iniziare col dargli una bella spulciatina. La volpe le cinse la pancia in un umido abbraccio. Coccinella le grattò la schiena. In queste circostanze si sentiva sempre un po’ maldestra.
“Coraggio Berny”, Diceva, “Non hai ancora trovato la persona giusta. Sei un ragazzo brillante, sono sicura che riuscirai ad esprimere la tua natura. Compirai delle splendide imprese e un giorno troverai al tuo fianco chi le compirà insieme a te. E avrai una bellissima famiglia, piena d’amore.” Coccinella accarezzava la testina di Berny umidamente appoggiata alla sua spalla. Non sapeva quello che diceva, come tutte le scimmie andava a ruota libera, parlava a vanvera, qualche banalità a caso perché aveva la lingua in bocca. E, come capita a volte alle scimmie, non sapeva di avere ragione. Questa era la malinconia di Berny e il suo grande cruccio ma nessuno, a parte i giornalisti di Radio Scimmia, lo sapeva. Marzio in realtà non sarebbe dovuto venire. Ma in quei giorni, come del resto spesso accadeva ultimamente, era ospite di Berny e allora venne con lui. Non era un abitante del villaggio. Era un essere umano. Non a caso gli animali lo consideravano con un certo sospetto e molta indulgenza. Nessuno oltre a Berny si interessava a lui. Di lui, ma solo tra le scimmie, correva voce che a) da piccolo disegnava raffinatissime astronavi b) da grande aveva studiato ingegneria c) ora era spento, come una macchina accesa ma che sa solo calcolare, e non mostrava più alcun segno di vita d) mostrava piuttosto, riferivano scimmie lontane, un orientamento sessuale particolare. Ma particolare di che tipo non avevano ancora capito. Alcune delle scimmiette del villaggio intuivano che se l’avessero chiesto a Marzio anche lui non avrebbe saputo rispondere. Nessuno di Marzio sapeva niente né avrebbe mai potuto dal momento che lui stesso non sapeva niente di sé. Berny lo trovava divertente. “Se uno non sa niente di sé, se è completamente cavo e inconsapevole… Ma è geniale! Può essere qualsiasi cosa. Chissà cosa sarà.” pensava ribollendo di entusiasmo. E così lo invitava spesso a casa sua, per tenerlo sotto osservazione. Berny gli serrava la mano e lo trascinò all’interno della sala del Consiglio. Così lo vide Ezechiele, che in vita sua non aveva ancora mai visto un essere umano.
Un bipede di una pertica o poco più, che avanzava rigido, stortarello, lezioso, pallido e glabro, con camicina e pantaloni bianchi. Si chiese se era una delle barzellette di Berny o uno dei dolci di marzapane di Coccinella, e attese le presentazioni.
Capitolo 7
Orsi e Felini
Bruna, con mossa scattante delle anche, varcò la soglia della Sala del Consiglio, seguita a ruota da Bruno, appesantito dalle ore di sonno. “E sta’ buono!” e gli diede una gomitata nello stomaco che lo fece rimbalzare. Niente di personale per carità, ma dopo una vita di orsitudine qualsiasi animale non ne potrebbe più, pensava. Bruno ritirò la zampa dal posteriore della moglie e prese con noncuranza a scaccolarsi il naso. Alzò un braccio per un saluto largo quanto tutta la comunità e la moglie si chiese per l’ennesima volta come era possibile che un Orso emanasse un tale odore di capro. Eppure non era stato sempre così. Bruna calò il suo peso al suolo, sedette alla destra del marito e iniziò a sbirciare verso Ovest. Tra i felini mancava ancora Leo le sue mogli e le sue oche o le sue oche e le sue mogli, Milton e la sua ragazza Nithaela, e Jagger il Giaguaro. Geronimo sapeva che Jagger il Giaguaro non sarebbe venuto, non era il caso di aspettarlo. Da quando era diventato Jagger non si occupava più della comunità. Prima era Tonino, un grande Sciamano. Poi non aveva più allievi. Mala tempora correntcioè currunt, lo rinfrancava Corvonero, posandogli un’ala sulla spalla, quando lo incontrava per strada. E così Tonino finì col prendere in mano le sorti del doposcuola di Bruna. Ma non si sentiva realizzato. E così decise di andarsene, di lasciare questa Terra. Anzi no, meglio, questa forma umana. In fondo quello che poteva fare lo poteva fare meglio da giaguaro. Per non dire che era quasi divertente. Fare fuori quelle oche del Golden Temple. Lupus in favola, direbbe Corvonero, ecco qua, qua qua qua… ecco a voi la prima oca entrare nella Sala del Gran Consiglio. Fortunatamente unica, oca tra
le oche, in rappresentanza di tutto il suo popolo, l’Oca Regina. Qua qua, con un taccuino in mano, apriva la strada al suo padrone. Seguivano le mogli di Leo e infine Lui, il leo, circonfuso di luce dorata. Milton sussultò e pensò che a fine riunione avrebbe invitato Nithaela al ristorante per una grassa ochetta al sangue. Erano di gusti semplici, amavano la carne “calda” ma non cotta. Per il puro piacere cinematografico del racconto, per niente allarmato dalle circostanze per le quali era stata indetta la riunione, Milton osservava dall’alto lo spettacolo. Molto interessante, che bei movimenti, che bella coreografia. Accomodato con signorile languore sopra un masso, sorrideva sotto i baffi. Berny era proprio una volpetta simpatica, e per certo ancora tenera. Allungò il collo pigramente lungo le morbide zampe e lasciò vagare lo sguardo in lontananza. Nel silenzio della sua mente, nel luccicare abbacinante del primo pomeriggio, sentì improvvisamente il suo biondo corpo di puma trafitto dal desiderio di Bruna.
Capitolo 8
Combattenti e condottieri
Milton socchiuse gli occhi e il suo sguardo per un attimo si incrociò con quello di Bruna. Voltò la testa dall’altra parte e ripensò all’oca, a Berny e a Nithaela e un grugnito di piacere gli sfuggì dalla gola e dalla mascella rilassate. Nithaela era una pupa come non se ne era mai viste. Pantera Nera e occhi verdi. Da sballo. Di giorno compariva con parsimonia, la gente la annoiava. Ma di notte era una vera tigre. Sguardo penetrante che sondava con agilità e sfrontatezza le profondità del buio, agguato silenzioso e inesorabile. Muscoli sottili, compatti ed esplosivi. Sinuosa e felina, solitaria e fiera, una vera principessa. Milton e Nithaela non si conoscevano da molto ma la loro storia sembrava andare bene. Era stato un colpo di fulmine tra uguali ma diversi. Era accaduto al crepuscolo, la cerniera tra i Mondi, tra luce e tenebra, il Varco dello Spirito dell’Ovest. Ciascuno dei due si mimetizzava così bene tra gli arbusti del sottobosco che scorse dell’altro soltanto gli occhi. Ma bastava. Durante il giorno e durante la notte non si vedevano quasi mai. Non erano mai stufi e mai sazi l’uno dell’altro. Milton, dall’alto del suo masso, riaprì un occhio. Molto interessante. Una delle mogli di Leo si stancò e abbassò la zampa che sosteneva il faretto con la luce dorata, a circonfondere il capo del Maestro.
“E allora, mi fa, Ehi!, Berny, ma come fai a dire quando una mosca scoreggia? Amico, semplice!, gli dico io, improvvisamente vola dritta.”
E con una zampetta tirò un pugno nell’aria, il braccio teso parallelo al suolo. Poi con lo stesso pugnetto diede un colpo dal basso in alto da destra a sinistra alla visiera che gli si rovesciò e stortò ulteriormente. Intorno a lui c’era un folto capannello di animali che si godevano lo spettacolo. A parte Kalanaga che non si era degnato di spingersi fino in Centro.
Una turbinosa corrente d’aria proveniente da Ovest si aprì un aggio tra la chioma di… “Ehi ehi ehi làlàlà. Corvoblu eccolo qua. Allora, Vecchio Eze, che si fa? Come siamo rimasti?... Vado ad uccidere il mostro e poi vi racconto eh. Siete già tutti quanti seduti già pronti ad ascoltare?!” Ezechiele gli cacciò in becco una foglia ma a poco servì. Corvoblu era ritornato dalla tenuta dei Corvonero prima dei suoi genitori. Le penne sudate e chiazzate di sole rilucevano blu come se fosse caduto in un secchio di vernice blu elettrico e la sua voce per l’affanno si era fatta ancora più acuta. Ezechiele cercò di confonderlo tra le fronde ma a poco servì. Geronimo aggrottò il sopracciglio, cupo e minaccioso, strizzò gli occhi e girò fulmineo il capo tanto che quasi cadde per terra dal contrappeso dell’impalcatura. Corvoblu, nascosto da Ezechiele, si teneva la pancetta che ballava su e giù, per silenziose risate che gli scuotevano il diaframma. Tranne i suoi genitori, a cui fu risparmiata la scena, tutti guardavano Corvoblu con riprovazione. Marzio parve animarsi. “Che bel colore! Che bella cresta! Che cos’è?” disse. Berny guardò Marzio. Bruna guardava Milton. Coccinella guardava Ernesto, che occupava l’intero spettro visivo del suo cuore. Infine giunsero alla Sala del Consiglio anche i coniugi Corvonero, e quando si furono appollaiati su un ramo Geronimo batté tre volte uno zoccolo duro per terra. “Signori… Sapete tutti, suppongo, il motivo per il quale siamo qui riuniti oggi.”
La riunione ebbe inizio. Tutti gli animali annuirono. Immobili. Silenziosi. Geronimo poteva sentire lo scricchiolio dei denti di Nikita che, a labbra chiuse, digrignava. Ebe, l’ape venuta insieme a Geronimo, aveva le ali pietrificate, ancora aperte nonostante poggiasse le zampette su un’estremità dell’impalcatura ramificata del cervo. Gli occhi di tutti fissi su Geronimo, in attesa. Coccinella guardava Ernesto, in attesa. La capacità di trattenersi delle scimmie non è nota perché non è molto sviluppata. Prima che Geronimo potesse riprendere la parola Coccinella già si sbracciava. Non sapeva come dirlo. Lo indicava. Senza offesa… Se si trattava di combattere, di fare fuori qualsiasi nemico… Il suo animale era il più forte. Tutti si voltarono quando sentirono i rantoli di Ernesto. Aveva le solite difficoltà a prendere la parola in pubblico. Aveva eccessi di tosse rantolosa e cavernosa talmente profonda che gli squassava le viscere e …la prostata. Oddio la prostata. Ernesto non era quasi più in grado di parlare perché ogni volta che prendeva fiato i primi quaranta periodi li ava a tossire. Ma poco importa. Lui si considerava malato di prostata. Questo era il suo grande, incurabile dolore, l’unico a cui neanche Coccinella poteva porre rimedio. La prostata! Che gli impediva di Sognare. Un coccodrillo non deve mai lasciare la sua terra, proprio lui, antico e testone com’è. Ecco che poi i reni si ribellano. Tutti sentirono la verità delle parole di Coccinella condensarglisi nelle vene quando videro lo sguardo furente e feroce di Ernesto. Tossiva e dibatteva le zampe pestandole a terra con violenza tale da fare tremare e rimbombare l’intero villaggio. “Accidenti Cocca! No! Li vedi gli occhi? Che ti sto dicendo? No! Non sono un condottiero.” Avrebbe tanto voluto dire. Tutti pendevano dalla bocca del coccodrillo, non vedevano l’ora di pendere dalle sue parole. Ernesto era stimato e rispettato in paese. Tutti erano ati sotto le sue cure, perfino Ezechiele, non pochi gli dovevano la vita, moltissimi gli dovevano la loro fortuna. Era un medico sollecito e generoso, forse avrebbe portato guarigione anche al villaggio. Tutti lo avrebbero seguìto. “Cocco, dai, non ti sforzare, abbiamo capito, lo sappiamo, sì caro…” Gli sussurrava Coccinella carezzandogli la schiena sconquassata dai conati di tosse.
D’un tratto Cocco spalancò le mascelle ad angolo retto e con gran fracasso di denti le richiuse, ancora tossicchiando. E con un gran colpo di coda fece dietro front e sparì di corsa. “Con te facciamo i conti dopo, tesoro, con meno dispendio di fiato. Mondo boia!” disse tra sé.
Alcuni dei presenti alla Sala del Gran Consiglio automaticamente si alzarono per seguirlo, ma per rispetto agli altri subito desistettero. Coccinella, imbarazzata dalla piega che aveva preso il suo appello, cercò di scusare il suo animale, sempre così impetuoso e imprevedibile. “E’ timido.” Disorientata e incerta sul da farsi, prese posto a sedere.
Geronimo decise di fare parlare per primo Artù, beh, ehrm, al momento noto come Bruno. Bruna aveva ragione. Suo marito non era stato sempre così, bruno e grasso e puzzone. C’erano giorni in cui… C’erano giorni in cui il suo coraggio, il suo trascinante impeto, la sua forza, la sua resistenza, il suo gran cuore, la sua perizia nella fabbricazione delle armi e nella ideazione delle strategie di guerra, lo avevano reso un Grande Condottiero. Sì, il Migliore Condottiero. Si chiamava Artù allora perché questo era il suo nome e la sua natura. Nelle lande del Nord da cui proviene, Nord/Ovest per l’esattezza ma non era il tipo da perdersi in sottigliezze, dire “Art” e dire “Orso” era la stessa cosa, la stessa parola. C’erano giorni in cui aveva portato alla vittoria popoli interi dietro di lui. E adesso poteva dirsi Art-ista solo della siesta. Le armi di sua invenzione, più massicce di carrarmati e più fini di rasoi, le invincibili armi che aveva ato le giornate a forgiare e le notti a rifinire, cesellare e ornare, giacevano ora arrugginite in cantina.
E tutto per colpa di quella sbevazzata. O della sua ione per le erbe. Aveva sempre avuto la ione per le erbe. Bruna può dirlo. Quell’orto sembrava una giungla. Ma lui ci si muoveva bene. Lo annaffiava ogni sera, stava attento ai germoglietti, alle morbide fragoline grandi un’unghia, alle pratoline dallo stelo largo la metà di un pelo. Non calpestava nulla, si muoveva aggraziato in punta di zampa, contorcendosi tra le piantine coltivate e spontanee. Le chiamava per nome una per una. Conosceva origini, vita morte miracoli, proprietà terapeutiche, il perché e il percome di ognuna di loro. Quando seppe che avrebbe potuto metterle tutte insieme in un unico liquore gli venne una crisi mistica. Uscì dall’orto e si inginocchiò fronte a terra e palmi delle zampe rivolti verso l’alto. ”Il tuo servo, Signore, ti ringrazia, perché tanto onore perché tanta gioia?…” Quanto amore in una sola bevanda! Buttò giù la porta del suo laboratorio per la fretta di entrare e di mettersi a preparare ‘Il Centoerbe’, il digestivo più potente del mondo. Quando, dopo svariati eoni, i suoi alambicchi gli diedero segno che la pozione era pronta, Bruno, cioè Artù, era ancora Artù a quel tempo, portò il collo della bottiglia da 6600 pesi alle labbra. Da quel momento non seppe più staccarsene. Quale nettare sopraffino. E fu così che si ubriacò col Centoerbe. Quale vergogna. Ernesto lo tenne sette giorni tra la vita e la morte. Geronimo prese a chiamarlo Bruno. E così tutti gli altri. Bruno non se la prese, sapeva riconoscere i propri errori. Bruna da quel momento si accorse che il marito odorava di capro. Nella Sala del Gran Consiglio, Geronimo si grattò il fianco al tronco di Ezechiele, portò la zampa destra al petto e poi verso Bruno, il capo inclinato ma solo lievementeper non incorrere in nuovi incidenti. All’udire il nome “Artù”, che i venti del villaggio avevano ormai dimenticato, l’intera assemblea fu percorsa ma una dolce ondata di commozione. I loro cuori onoravano la nobiltà decaduta del Vecchio Orso. Ritenevano perfettamente giusto e naturale sentire per prima la sua parola. Anche Geronimo era sicuro di aver fatto la cosa giusta. Sapeva quanto Orso fosse noioso. Anche se in qualche
modo riusciva a stare sveglio nell’ora della siesta ben presto sarebbe crollato cullato dalle sue stesse parole. “Miei prodi…” Bruno si alzò in piedi, in tutta la sua larghezza e maestosità. Berny si sdraiò supino, accavallò le gambe e poggiò le zampe sotto la nuca. Socchiuse gli occhi, con aria goduta. Questo orso era proprio irresistibile. “Ecco… in nome degli antichi valori…” Leo non si sentiva russare perché era stato operato da Ernesto. “…e dei sani principi, del Valore! e del coraggio…” Coccinella si chiedeva che stava facendo il suo Cocco, magari aveva bisogno di lei. “… e dello spirito di sacrificio… …io vi esorto…” Bruna, sdraiata sulla pancia, sognava di Milton. “… uhmmn… miei proodi… figlioli…” Bruno si sedette, cedette e con un gran tonfo sprofondò nel sonno e si accasciò su Bruna, interrompendole il Sogno. Gli Orsi non andrebbero mai fatti parlare a lungo. E’ pericoloso. Ebe, l’ape, riprese a ronzare e Geronimo risollevò le palpebre e sbadigliò, o meglio, più nobilmente, si riempì i polmoni con un profondo respiro corroborante. Era sicuro che le raddrizzate di Orso avessero fatto bene alla comunità, qualsiasi fossero state.
Capitolo 9
Altai
“Bene, visto che gli anziani si sono eliminati da soli, non resta che are la palla ai giovani.” Cinguettò Corvoblu scostando una foglia. Ezechiele lo scalzò dal ramo su cui era appollaiato con una elastica sferzata. E Corvoblu cadde a terra zampe all’aria. Ma si rimise subito in piedi, ben fermo sulle due zampe. “Ehi Eze!” si sbracciò sferrando colpi d’ala avanti e indietro. “Ma che credi che non sia capace ad avere a che fare coi Serpenti e con Mostri di ogni tipo?! Se si può fare, io lo farò!” “Corvoblu non gridare.” Lo redarguì a bassa voce la sig.ra Corvonero. Corvoblu alzò la voce, gracchiò acuto mentre ancora sbatteva le ali, luminescenti anche all’ombra, e zampettava, a saltelli e balzi, qua e là. “Corvoblu basta! Un po’ di contegno!” Caro Corvonero non ammetteva certi comportamenti. Insomma, siamo uomini o scimmie! Geronimo decise di lasciare correre. La gioventù a volte è un po’ storta. Soprattutto quando cresciuta da serpenti.
Geronimo rivolse lo sguardo alle vette lontane. E, dopo alcuni periodi di meditazione, riprese, con ponderata voce di basso. “Bene, sembra che gli anziani
si siano eliminati da soli.” Anche la comunità aveva voltato il capo all’unisono verso le montagne. Ma non aveva visto niente. Gli occhi si riportarono nuovamente tutti su Geronimo. Tranne quelli degli Orsi, per i quali l’autunno non era tempo di battaglie ma l’ora del sonno. Geronimo era un animale umile, non si considerava tra gli anziani; ed era un animale pratico, di certo non si considerava tra gli anziani esperti in anaconde. Era un animale di montagna, sapeva fronteggiare gli animali di montagna. Un’anaconda Geronimo sapeva a stento come era fatta, e sapeva di sicuro che questaAnaconda sarebbe stata in grado di spingersi ovunque, colline o paludi, e divorare qualsiasi cosa con cuore pulsante in cui si fosse imbattuta. Anche lui. Le sue corna d’osso o i suoi zoccoli duri non l’avrebbero scoraggiata. Percorse con lo sguardo uno per uno i volti inquieti degli abitanti del villaggio e deglutì, nel più profondo disagio. Non riusciva a immaginarsi nessuno di essi, esclusi, forse, chissà, i due che si erano autoeliminati, avere a che fare con l’enorme, infido, imprevedibile serpente costrittore. Era evidente, abbassò lo sguardo, nessuno aveva le capacità, gli strumenti… Si chiese se sarebbe stato di digestione più fastidiosa il suo palco di corna o il colorato cappellino di Berny. Ma che domande! L’anaconda aveva ingoiato, nella contrada vicina, in un sol boccone o forse in due, Billy il cane e Billi il figlio del lattaio con tutto indosso, mica aveva aspettato che da bravo bambino si sfilasse le scarpe. Così va il mondo. Il sole del pomeriggio risplendeva ma l’umore dell’assemblea si stava facendo scuro. Berny, per tenersi occupato, riava mentalmente il suo archivio di storielle. Nikita digrignava i denti, con rumore sinistro e lugubre, stridulo e ritmico, il rumore di un osso che si crepa, di assi che stanno per cedere, delle speranze che crepitano prima di andare in fumo. Coccinella pensava che lei era la più fortunata che a fianco del suo animale non le sarebbe potuto mai succedere niente. Si ripeteva questo pensiero nel tentativo di sciogliere il groppo che le serrava la gola e le annodava lo stomaco. Somatizzazione molto rara tra le scimmiette.
L’oca prendeva freneticamente appunti sul suo taccuino, per gli archivi del Re e per non pensare ad altro. Bruna respirava pesante e irregolare mentre faceva sogni orribili. “E basta, per tutti i corvi! Ohh… Sméettila! BRUTTA SCIMMIA!” Anche Corvonero doveva essere di umore tetro e molto nervoso, non avrebbe mai parlato, mai gridato così a un suo inquilino! Ma i babbuini gli volevano bene e non cessavano di tormentarlo, c’era sempre qualcuno di loro che lo seguiva ovunque andava. Un pizzicottino alle ali? Una spulciatina in capo? Per ridere, s’intende. Gli Orsi si rigirarono nel sonno. Geronimo ebbe un sussulto e si riscosse dai suoi pensieri. “Altai!” esclamò prima ancora di rendersene conto. “ALTAI! Manca Altai!” E il pomeriggio gli parve prendere nuova luce! “Dove’è Altai?” Altai era la loro ultima speranza. Un’ondata di sollievo, una ventata di primavera si produsse nella Sala del Consiglio. E di nuovo il panico serpeggiò tra i presenti. Come se un direttore d’orchestra avesse dato il là, immediatamente tutti insieme si alzarono in piedi, roteando teste e pupille tutt’intorno e, con aria costernata, anche sotto il proprio sedere. Altai era un animale strano e silenzioso. In effetti muto era. (Qualcuno si preoccupò di sollevare la pancia di Bruno e quella di Bruna.) Non avrebbe detto ‘ba’. E poi era piccolo: otto occhi otto zampe eppure alto un quarto di pollice di scimmia! Ed era sottile e fragile, si vedeva che era antico! E ucciderlo avrebbe portato una sfortuna rovinosissima! Più di quanto già… Dov’era Altai??! “E’ con Kalanaga. Dove volete che sia?” si udì secca la vocetta di Corvoblu.
Dove volete che sia? Già, perché molti anni prima, molti anni prima di essere avvistato da Corvonero, Kalanaga si era fatto un amico. Kalanaga, si sa, li avrebbe fatti fuori tutti. Eppure, se proprio doveva scegliere, in fondo, a lui i ragni piacevano. Agili e fragili, con quelle zampette che si spezzano solo a guardarle con una certa, serpentesca, fissità. Antico come un serpente mannò di più, più antico di un coccodrillo e dei più antichi rettili. Antico quanto l’Universo mannò di più, il tessitore stesso dell’Universo. Insomma, un tipo tosto. Così antico da non avere simpatia per nessuno, come Kalanaga del resto, da capire tutto, con quei suoi numerosi duttili occhietti, da esseretutto, con quelle sue belle otto gambette, una per ogni direzione e mezza-direzione. Così antico da essere muto, da non aver sviluppato la parola e non dispiacersene affatto. Kalanaga era sordo ma non era scemo. Sapeva riconoscere i chiacchieroni e apprezzava chi stava zitto. Kalanaga era sordo ma non scemo. Ragno gli faceva sesso e anche soldi. Gli faceva comodo. Non a caso dopo che l’ebbe incontrato si imbatté in Corvonero che gli offrì casa e vitalizio. Non a caso Corvonero stesso fu ben felice di allargare la sua ospitalità anche all’amico di Kalanaga. Gratuitamente. E il suo giro d’affari, letteralmente, prolificò. Ragno, da tempi immemorabili, era chiamato Altai, come i monti da cui discese lo Sciamanesimo e, forse, la Terra stessa. Altai viveva ritirato e schivo. Un’atavica saggezza lo portava ad aver paura degli animali. Nessuno lo sentiva parlare, dal momento che era muto, e nessuno sentiva mai parlare di lui. Neanche a Radio Scimmia. Non lo si vedeva spesso in giro, anche perché era così piccolo. Ma era l’anziano più anziano e più stimato e venerato del villaggio. Non era saggio. Era veggente.
“Corvoblu, ti dispiace, vai a chiamarlo.” Disse Ezechiele.
E il Corvo ripartì.
Capitolo 10
La Sfida
“La sapete quella del Ragno in un laboratorio…” Berny si occupava di ingannare l’attesa. “Allora, c’è un essere umano… Un essere umano studia da una vita il comportamento dei ragni. Finalmente fa una eccezionale scoperta e convoca una riunione dei più grandi esperti del mondo per illustrarla. L’essere umano mostra ai colleghi un ragno, lo mette sul tavolo e gli dice: ‘Fai tre i avanti.’ Fra lo stupore generale il ragno fa tre i avanti. Poi gli dice: ‘Fai tre i indetro.’ E il ragno, incredibilmente, esegue l'ordine e fa tre i indietro. Poi stacca le zampe al ragno e gli dice: ‘Ora fai tre i avanti.’ Il ragno rimane immobile. ‘Fai tre i indietro.’ Il ragno rimane sempre immobile. ‘Questa e' la mia scoperta,’ commenta orgoglioso il Professore ‘se si staccano le zampe a un ragno, questi diventa sordo.’ Gli animali risero. Come erano stupidi questi esseri umani! Non si erano mai accorti che i Ragni sonosordi? E soprattutto che il solo pensaredi (ahi!) staccare (si fa per dire, Dio non voglia!) le zampe a un Ragno procura sette anni di variegate imprevedibili incontrollabili disgrazie? Anche Marzio rideva. Chissà per quale ragione. Valli a capire gli uomini. Berny era ottimista. Non sapeva perché ma era pronto a dargli una chance.
Corvoblu intanto era in viaggio, esasperato ed esaurito per la fatica, la frustrazione, le forti emozioni della giornata. D’altra parte era l’unico che sapesse come scovare Kalanaga.
E di Kalanaga c’era bisogno al Consiglio perché era l’unico in grado di decifrare con sicurezza i messaggi di Altai. Al Consiglio se la ridevano. Se la ridevano perché non si erano ancora resi conto che ormai la loro vita, e l’esistenza stessa del villaggio, dipendevano da Kalanaga. O stritolati dalle spire dell’Anaconda… o nelle mani del Serpente Nero. Eheh. La loro vita era appesa a un filo sottilissimo, più illusorio e ingannatore ed evanescente di un filo di ragnatela. Dipendeva da un veggente sordo. E da Kalanaga. L’unico animale che li avrebbe fatti fuori tutti.
Era tutta la giornata che Corvoblu continuava a fare la spola avanti e indietro da Sud/Ovest a Sud (le prime anse del fiume), da Sud a Ovest (casa di Bruna), da Ovest al Centro (Ezechiele) e poi ancora dal Centro a Sud/Ovest (chiamare i suoi), da Sud/Ovest al Centro e poi ancora a Sud/Ovest (chiamare il vecchio Kala). E il tratto fino a Sud/Ovest ogni volta era infinito. La proprietà dei Corvonero distava qualche migliaio di doppie pertiche dai primi vicini ed era vasta un migliaio di doppie pertiche quadrate… A Corvoblu faceva l’effetto di un circuito. Ogni volta il giovane pennuto si elettrizzava si caricava di più. Non era un’impressione. Ogni volta era più blu. Varcava il confine delle direzioni e si stordiva lungo il percorso delle mezzedirezioni. Il Sud/Ovest nel suo caso. Il Sud/Ovest. La sfida del Sogno, il luogo dove tutto era possibile, intenso e reale, pensava Corvoblu. La sfida che le conteneva tutte. Sognare evedere. Vedere eagire. Nel Sogno. E in questa realtà realizzare il proprio Sogno, la propria ‘Missione’, proprio quella. E vivere nel Sogno, nel nome del Sogno, quello che ci arriva da Nonno Cielo e i Popoli delle Stelle, vivere nel Sogno fino alla morte. E rendere la morte parte della sfida del Sogno: ultimo capolavoro: superare la morte attraverso il Sogno stesso. Corvoblu sapeva tutte queste cose. E non solo perché era un corvo. Eranato nella Casa del Sogno. Era nato nell’estrema propaggine Sud/Ovest della contrada. Sognava fin da piccolo. E sapeva perfettamente che per un vero Sognatore nulla
era impossibile. E ogni volta che andava verso Sud/Ovest quel giorno, andava più veloce e ogni particella del suo corpo e del suo Spirito vibrava e girava più veloce. Il sangue gli gonfiava le vene e il cuore gli pulsava forte fin nelle tempie e gli faceva male. E lui sentiva ogni volta, sempre più forte, che tutta questa dannatissima vita non gli era servita a niente che non aveva mai fatto niente che era arrivato il momento di fare qualcosa per il suo Sogno. Qualsiasi cosa.
Capitolo 11
Corvoblu e Kalanaga
Corvoblu atterrò come un aeroplano, tagliando l’aria a lungo radente il suolo. Sistema sicuro per farsi mordere dal serpente o per lo meno per destare all’istante la sua attenzione. Scampata la morte, Corvoblu risalutò il Cielo riprendendo momentaneamente quota e tenendosi a mezz’aria. Invisibile, Kalanaga era accorso da altri campi della proprietà. In un attimo sotto Corvoblu, rizzò il collo oltre l’erba alta, allargò i pori delle squame deputati alla percezione del calore, aprì la bocca e allungò la lingua, per un’infallibile localizzazione della preda. In effetti un buon pennuto non era male, per variare la dieta. E più digeribile anche. “Ehi Kala! Perché non sei al Consiglio?” Kalanaga lasciò oscillare il capo schifato. O annoiato. I serpenti oltre a essere invisibili sono davvero indecifrabili a volte. “C’è bisogno di te e del tuo amico Altai.” Kalanaga oscillò il capo e lo rialzò soffiando, incerto tra l’amarezza e la rabbia. Amico, non amico… La sua vita privata sono affari suoi. “Dov’è Altai?” Kalanaga soffiò forte. “Te lo porto Altai!” Disse “Ma quanto rompi corvetto. Sei diventato l’Angelo Messaggero?!” “Kalanaga, tu c’eri quando sono nato.” Kala inclinò il capo e alzò il sopracciglio sinistro, diffidente.
“Hai visto le Stelle in Cielo quando sono uscito dall’uovo che ero ancora batuffolo umido.” Corvoblu continuò. “Tu non sai mentire. Tu lo sai chi sono io. Tu che porti in te la Visione del Sole e vedi perfettamente anche al buio. Tu che hai il potere della vita e della morte e non conosci il deperimento perché nella tua carne sono custoditi i segreti della rinascita. Tu che conosci la Via e ti spingi sempre oltre, silenzioso e inarrestabile. Vecchio Kala. Dimmi chi sono.” Kalanaga si rituffò nell’erba depresso. Rizzò mezzo collo, giusto per sibilare tra i denti: “Da quando vai per cartomanti Corvoblu?” E socchiuse gli occhi. E fece per andarsene. “Kalanaga! Aspetta. Parlo sul serio accidenti. Dove ho messo quello che mi ha dato Ezechiele? Che ne ho fatto? Guardami, sono ciccia buona per serpenti. Poco lardosetta, ben muscolosetta. Che altro? Che altro? Solo ciccia per serpenti?” “Beh, una cosa l’hai capita.” Sibilò sputacchiando. “Corvoblu, non stai mai zitto, muoveresti il becco anche nel mio stomaco.” Non c’era proprio verso di cibo digeribile. “Kalanaga, lo so che sei cattivo. Ma che ti costa? Sei l’unico che può dirmelo.” Gli batteva forte il cuore, sbatteva forte le ali, e stava per piangere. Non era esattamente a distanza di sicurezza. Era solo lui e la sua disperazione. Corvoblu giovane forte e isterico. “Perché sono così??” strillò “Perché sei cresciuto con un serpente, stupido pennuto. Hai veleno nelle vene e tristezza nei polmoni e reni gonfi di adrenalina. Che vuoi dalla vita?” Kalanaga oscillava la testa ritmicamente, come un elastico, sospesa in aria. Con la punta del naso disegnava un otto disteso in orizzontale, più e più volte, mesmerico. “Io…” Corvoblu aveva la vista annebbiata dalle lacrime, la gola serrata. Il mondo gli girava davanti o forse era la sua testa che non stava più dritta e oscillava intorno come un otto rovesciato. Kalanaga strizzò gli occhi. Non
sapeva sorridere. Ma sapeva schizzare in avanti, come una molla, al momento opportuno. Ma Corvoblu era cresciuto col serpente. Aveva imparato. Aveva i poteri dei Corvi e i poteri dei Serpenti. Prima di lui, il suo corpo si rese conto delle vibrazioni di morte nell’aria, del fetore del veleno e dell’alito pesante del vecchio Kala. Prima ancora di accorgersi dell’attacco sentì le sue ali trasportarlo in alto. E il serpente bestemmiare. Kalanaga soffiò tutta la saliva che aveva in corpo. “Ma va’ nelle fauci del giaguaro!” lo maledisse. Corvoblu riuscì a stento a distinguere le parole dagli sputi. E si alzò in volo.
E mentre riprendeva a respirare di respiro regolare e mentre con fatica, esausto, si rialzava in volo, al sicuro, con ampi, lenti movimenti delle sue ali blu, e si allontanava, sentiva un dolore sempre più forte alla zampetta destra. Al primo ramo si fermò. Si appollaiò e cadde per terra. E nell’urto il dolore alla zampa si fece lancinante, lacerante. Allora si guardò e capì il perché. La zampetta destra non c’era più. Era stata lacerata, agganciata a strappata dalle fauci del serpente. Allora Corvoblu alzò la coda e si sedette, si coprì il volto con le ali e a capo chino pianse e pianse. Pianse e pianse finalmente. Pensando che un periodo prima, un attimo e mezzo prima, la zampetta c’era ancora e adesso non c’era più. Corvoblu non pensava spesso. Ma ogni volta non gli veniva quel granché. Liberò il cuore dalle lacrime e poi liberò i polmoni dal muco attraverso il naso. Ma non pensò più. Non voleva attirare le Lane Nere dei pensieri cattivi, Spiriti sempre in agguato a mangiarti l’energia vitale. Piangeva e sapeva che non avrebbe più, mai più zampettato, saltellato, danzato. Né si sarebbe mai più potuto mangiare le unghie.
Non avrebbe più camminato. Non avrebbe più trovato dove posare le zampe e ‘dove posare il capo’ come aveva detto qualcuno. D’ora in avanti avrebbe solo volato. Sapeva che era bello avere dei nemici e sfidarli e combatterli. Perché se dalla battaglia ne esci anche solo vivo, acquisisci tutti i poteri del tuo nemico. Ti entrano dentro, in sogno, attraverso le ferite. E lui adesso non era più solo un corvo e non era più solo blu. Era il momento di muoversi. Adesso aveva capito. Si soffiò il naso in un’ala e, imperturbabile, freddo e inesorabile, e audace come un Serpente, si diresse verso Ovest. Verso il Bosco Segreto, dove riteneva che, prima o poi, avrebbe trovato Jagger, il furtivo e feroce Giaguaro, la cui esistenza era testimoniata solo da qualche piuma d’oca e poche gocce di sangue. Il suo Maestro. Le parole di Kalanaga, il serpente nero, erano una maledizione. Ma erano verità. I serpenti non sanno di sapere. I corvi sì. Questo sentiva forte, nel suo cuore ancora debole, Corvoblu. E l’immagine delle ali di Corvoblu che si affacciano sull’ignoto fu l’ultima immagine che gli alberi del villaggio ebbero di lui.
Per lungo tempo.
Capitolo 12
Kalanaga e Altai
Ezechiele fu il primo che lo vide arrivare. E non ne fu sollevato. Kalanaga si trascinava riluttante con Altai, il vecchio ragnetto, sul dorso, ciondolando il capo raso al suolo, tossicchiando e ruttando. Ezechiele si chiese che fine aveva fatto Corvoblu e preferì non darsi risposta. Kalanaga varcò la Sala del Consiglio. Non volse neanche un’occhiata in giro. Sentiva che era pieno di gente e lui non amava la gente. Con piglio deciso si attorcigliò su se stesso e si mise a dormire. Altai nel movimento cadde a terra gambe all’aria, gli occhi che roteavano da tutte le parti. “Presagio di morte.” Serpeggiò il sussurro dell’assemblea. “Shhhh! E mica ha ancora iniziato! Vedrete poi.” Fece Kalanaga, immobile, senza neanche socchiudere i suoi occhi verdi. L’assemblea trattenne il fiato. Altai si ricompose. Impugnò il suo bastone. E con questo facevano nove zampe del colore dell’argento. Le quattro direzioni, le mezze direzioni e il Cielo. Tutti gli occhi degli abitanti del villaggio erano puntati su di lui e lui si sentiva a disagio. Ma sapeva che questa volta non c’era nulla da temere. Perché era un veggente. Quindi si accinse a percorrere l’intera circonferenza della Sala e posò gli occhi su tutti i presenti. Gli Orsi furono svegliati per l’occasione, in segno di rispetto.
Se Altai voleva guardare negli occhi sarebbe stato meglio che gli occhi fossero aperti. Guardò le iridi scintillanti di Nikita il lupo. Esaminò le scimmiette per aria, in pose da contorsionista. Milton sopra il masso si stiracchiava. Geronimo, a fianco a Ezechiele, si stava dando una grattatina al palco di corna di osso e di velluto che torreggiava sopra la sua testa. Giunse infine di fronte a Marzio. Si fermò. Lo scrutò da tutte le angolature, davanti e dietro, cioè coi suoi occhi davanti e anche con gli occhi di dietro. E non capì che cosa fosse. Certo, piacere non gli piaceva. Non avrebbe portato nulla di buono quel rametto apito. Boh.. Diavolerie moderne! Scrollò il capo e, leggero e instabile sulle zampette, riprese la sua andatura e continuò il suo giro. Ma inciampò nel bastone. Che non si sa come gli andò dritto nel petto. Di punta, e vi si conficcò per un bel tratto anche. Altai giaceva stecchito, rovesciato sulla schiena come uno scarafaggio. “Presagio di morte.” Si lasciò sfuggire Coccinella, con gli occhi sgranati e le mani alla bocca. E fu contenta che non fosse per lei. Tutti rimasero molto impressionati. Tranne Marzio che non capì. Berny si era appoggiato a Coccinella per ricevere il conforto del suo calore scimmiesco. Marzio si accostò a Berny, gli diede di gomito e gli parlò all’orecchio: “Che sta facendo?” Berny non rispose. I presenti sospirarono rilassati e si sistemarono con più comodità nei loro posti. Kalanaga, con tutto il rispetto, ingoiò il Ragno. Non si butta via niente. Geronimo abbassò le palpebre, inclinò lievementeil capo e fece riposare lo sguardo sulle vette del Nord. Batté uno zoccolo e tornò presente all’assemblea. Con tono grave e definitivo pronunciò: “Presagio di morte.” Ma la fine di Altai non era solo inquietante presagio di morte, era anche una chiara indicazione operativa. “Sarai tu a liberarci dal Mostro 777.” Berny trovò infine la forza di rispondere a Marzio, e lo fece ad alta voce. “Ti aiuterò io.” Concluse.
L’assemblea si sciolse. Tutti erano allegri. Sarebbe morto Marzio per loro. Le scimmiette cantavano in coro. “MarzIo è un uomo con la ‘I’ ma senza le ‘p’.” E altre facevano il controcanto: “Berny deve fare l’impresa altrimenti non trova la donna.”
Coccinella si affrettò a contattare le sue amiche vicine di contrada per essere aggiornata sulla esatta localizzazione del Mostro.
Capitolo 13
Berny e Marzio
Il Mostro si era svegliato. Le ultime notizie. Aveva perfettamente digerito ossa scarpe guinzaglio collarino antipulci vestiti e perfino il Burger King che Billi il figlio del lattaio aveva appena mangiato. E aveva ripreso il suo viaggio, agile, infida e famelica. Non era più nella contrada vicina. Era già nella loro. Nel Villaggio del Sogno. Con queste notizie Coccinella corse da Berny, tanto veloce che quasi non aveva tempo di respirare.
Gli abitanti del villaggio affollavano ora casa di Berny, che per essere la tana di una volpe era davvero molto spaziosa. Ognuno metteva a disposizione le proprie conoscenze e capacità per la cattura e la distruzione del Mostro. Non si trattava solo di dargli in pasto quello stuzzichino secco di Marzio. L’anaconda andava fermata o avrebbe ingoiato tutti loro, a sua discrezione e a suo piacimento. “Allora io la tengo ferma e tu la colpisci, giusto? siamo d’accordo così…” “No, Marzio,” gli rispondeva Berny per l’ennesima volta, “Tu la tieni ferma e tu la colpisci. Per tenerla ferma non c’è modo migliore di tenerla impegnata. E per tenerla occupata bisogna farsi mangiare. Inoltre, dalla tua posizione coi piedi in bocca al serpente fino alle ginocchia, godrai di un punto di azione incredibile per piantargli il macete in gola spingendolo dalle tue cosce in giù.” “Wow, che fortuna!” Coccinella cercava di essere incoraggiante. “Io ti aiuterò.” Proseguì Berny. “Compiremo una grande impresa.”
Marzio si sforzava di non capire che l’impresa avrebbe dovuto compierla lui, si sforzava di non capire niente perché capire non gli piaceva, era troppo per lui, sentiva le budella attorcigliarglisi dentro come serpenti. Per curiosità e per affetto nei confronti di Berny si era spinto al villaggio del Sogno. Per curiosità e per affetto Berny lo aveva trascinato alla Sala del Consiglio. E ora il destino del villaggio dipendeva da lui! Da quel bambino che disegnava astronavi e che con gli anni se ne era partito per i Mondi Celesti su una delle sue astronavi, lasciando l’uomo vuoto, privo di gioia e di entusiasmo. Ma anche senza entusiasmo la propria ‘Missione’ la si può compiere. Basta provarci. Marzio, pallidissimo, si lasciò crollare supino su una delle due stuoie che servivano da letto. Coccinella gli sistemò dei cuscini sotto la schiena in modo che stesse sollevato e potesse bere un intruglio di radici amare pestate e ate e frutta marcia fermentata che al suo paese si dà ai mandrilli, prima della battaglia o dell’accoppiamento. Ernesto, dall’altro lato della stuoia, gli misurava la pressione. Bassissima. Ottimo. Se avesse tentato di sfuggire dalle sue responsabilità non ci sarebbe riuscito. Berny, a costo di rischiare di esplodere, volle anche lui una bottiglia di ‘Gondo’, che tracannò tutta d’un fiato. Non sapeva affatto di frutta marcia. Era molto molto peggio. Ma che importa se è cattiva. Che importava se gli sembrava di avere ingoiato una mongolfiera, che importava se non sarebbe più stato carino come una volpe (o forse maipiù?) e gli sarebbe venuto un cuore enorme e un petto quadro di scimmia. Marzio non ce l’avrebbe fatta da solo. E lui aveva deciso di aiutarlo. Geronimo benedì i due ragazzi, in un modo tutto particolare che a Marzio fece venire in mente l’estrema unzione. E, al momento dato, Berny e Marzio, come due mandrilli, si incamminarono verso il punto poco distante dal fiume dove l’anaconda era stata avvistata.
“Allora, Marzio”, ricapitolò, “hai capito bene. Le anaconde sono animali solitari, indipendenti e autosufficienti, come puoi immaginare. Nessuno si accoppia con
loro. Sono incantevoli e seducenti e spietate. Il loro appetito è avido e indifferenziato. Ma per convincerle a mangiare uno come te devi far leva sui loro difetti. Le devi infastidire parecchio. D’altra parte non è difficile, la freddezza non impedisce loro di essere umorali.” Berny non conosceva solo barzellette. Dal momento che andava matto per tutto ciò che c’era da conoscere al mondo, era in realtà una specie di enciclopedia vivente. Conosceva tutto. E come applicarlo. E come sovvertirlo per applicarlo meglio. Era un ragazzo strano: un momento sembrava scanzonato e leggero, un altro serio e compunto, un altro ancora valoroso fino a vender cara la pelle e a venderla tutta, senza risparmio. Ma sorprendeva sempre tutti per le sue trovate. Ezechiele lo chiamava ‘il mutaforme’. Nelle circostanze in cui c’era da esser seri era serio, nelle circostanze in cui cui c’era da far burla faceva burla. Non andava troppo per il sottile. E’ semplice. Bisogna essere ecclettici e adattabili nelle strategie. L’importante, si sa, è vincere. “Allora, Marzio”, ricapitolò, “hai capito bene. Le anaconde sono permalose. Si sentono delle regine. Sanno che lo sono. Se le tratti da comari sei loro e non ti si staccano più. Ti si rivoltano contro, ti si contorcono attorno e sei finito: stai lì. Dille che è una massaia sformata, lei che non ha il minimo istinto materno e non può immaginare la bellezza dell’essere sformata. Dille che è zotica provinciale e le stanno crescendo i baffi, lei che ha lo charme innato di una parigina. No dille questo: che il suo sex appeal ti lascia completamente indifferente, non riesci a capire cosa sia. Questo non lo sopporterà, questo non te lo perdonerà mai.” Berny e Marzio ora camminavano nel bosco. Berny teneva Marzio per mano e sentiva la sua mano fredda e sudata tremare. Con l’altra mano teneva il macete, una sciabola ricurva, spessa, lunga pesante e affilatissima, capace di tagliare in due qualsiasi cosa. “Allora, Marzio”, ricapitolò, “Cuore caldo e sangue freddo! Se non acquisisci i poteri del nemico non c’è speranza di vincerlo. Devi conoscerlo come fosse te stesso e ragionare come lui. Solo così lo puoi capire. Solo così sai come prenderlo di sorpresa. Curioso, no?” “Interessante… sì, molto.” Conveniva Marzio, con un fil di voce.
“Tu la vedi, Berny? Riesci a vederla?” “Non siamo ancora al fiume. Non ti preoccupare. Quando siamo arrivati non potrai non accorgertene. Ti lascio solo.” Si sentiva solo il rumore delle foglie adesso, che formavano un manto morbido e croccante sopra il quale eggiare, e il suono del respiro affannato di Marzio. “Berny… Se muoio me la saluti sca?” “Marzio, andiamo! E’ solo un’anaconda. Un’anaconda bella grossa.” E il suo cuore di volpe e il suo cuore di scimmia per un momento si contrassero. sca… la bibliotecaria rossa di capelli! Mapperché!?
“Vedi, Marzio, quello è il ponte. Accidenti!” Berny si fermò di colpo. “Mi ero dimenticato!” Il suo musino fissava Marzio negli occhi, intenso, a pochi centimentri di distanza. “Quando l’anaconda ti cattura e ti tiene stretto stretto nelle sue spire tu devi stare molle.” Berny scosse la mano di Marzio nella sua. Molle. “Ecco, così. Bello molle. Non ti devi divincolare in alcun modo. O lei stringerà di più. E così facendo ti scollerà i muscoli dalle ossa e dalle articolazioni e la tua carne andrà in cancrena. Senza rimedio. Ernesto non le può curare quelle cose lì. E’ brutta morte.” “Morte…” ripeté Marzio come un automa, con un fil di voce. Berny scosse la testa. Stava per dire: “Hai capito Marzio? Ripeti quello che ho detto!” ma desistette. ‘Gondo’ o no, Marzio sarebbe stato molle. Questo era certo. “Ah, questi uomini!” pensò Berny. “Allora, Marzio, mi raccomando, quando con un guizzo ti cattura a sé e ti ribalta e ti prende dentro di lei tu stai bello molle ma tira un urlo. Così io arrivo e ti
tengo compagnia.” Berny trattenne la mano umida di Marzio tra le sue due zampe anteriori per alcuni lunghi periodi. “Forza amico.” Bisogna lasciarsi sempre dicendo “forza amico” e con un sorriso e una lunga stretta di mano. Berny le sa queste cose. “Forza amico.” Diede nel suo cuore l’addio al suo amico e girò i tacchi per tornare al villaggio. “E dille che è una vecchia baldracca, piena di rughe e di salamelle da fare schifo!” disse ad alta voce, con la sua vocetta più squillante e spiritosa, senza voltarsi, senza mostrare le lacrime che gli sgorgavano dal suo cuore gonfio e gli scendevano dai suoi giovani occhi di volpe.
Capitolo 14
La Sfida
Era una notte buia ma non tempestosa. Era fredda calma e piatta come il vetro. Scivolosa e fragile come il vetro. Una sola mossa sbagliata e si sarebbe spezzata. Gli animali erano troppo tesi per stare da soli, troppo turbati per stare lontani da Ezechiele. Trascorsero la notte ad occhi aperti seduti attorno al tronco del Grande Olmo. Eze raccoglieva la loro paura e il loro dolore, li respirava e li trasformava nella scorza dura del suo tronco, nella flessibilità dei suoi grossi rami, nella moltitudine delle sue foglie. Gli alberi sono ‘il popolo in piedi’, sono fatti per servire. Reciclano il dolore dei loro fratelli come la Terra, di cui sono prolungamento, recicla quello dei suoi figli. Ezechiele abbandonava le sue foglie leggere al vento del Nord che, delicato, le scompigliava. Forse, pensava, avrebbe cullato col suo fruscio i suoi amici, col suono di ninna nanna li avrebbe accarezzati, come aveva fatto un tempo con Corvoblu che si faceva sonore dormite tra le sue braccia. Geronimo appoggiò il capo, cioè il suo ampio palco di corna le cui ramificazioni stavano mandando scintille, al tronco, e trovò immediato sollievo. Nikita il lupo si faceva le unghie sul tronco. Era chiaro che avrebbe dato una mano, un braccio, una gamba, il Cuore, la coda se gli Spiriti glielo avessero chiesto. Era pronto. Berny abbracciava il vecchio Eze da un’altra parte del tronco, spalmato alto lungo e disteso, mezzo volpe e mezzo mandrillo. Coccinella teneva la zampa del suo Cocco. A lei questo bastava. La notte era tranquilla, buia e silenziosa, ancora senza luna. Il gufo non gufava e Leo non russava. Le scimmiette non osavano muoversi. E nessuno dormiva. Nemmeno gli Orsi.
Tutti vegliavano e pregavano. Quando si può fare si fa. Quando non si può fare si prega. Tutti insieme, nei loro cuori, gli abitanti del villaggio pregavano Nonno Cielo, gli Antenati e gli Spiriti protettori di ciascuno affinché l’impresa andasse a buon fine. E Marzio tornasse. Vivo. Il ‘Gondo’ aveva dato a Berny alcuni problemi di irrequietezza, ma addosso al tronco di Ezechiele tutto andava a posto. Il corpo tornava in equilibrio, puro e semplice com’è. Le Lane Nere, gli Spiriti negativi, non hanno potere sotto gli alberi e i pensieri sono puri e semplici, puliti ampi e pazienti. Ezechiele li accarezzava con il suono delle sue foglie e gli animali respiravano con la pancia la luce della sua energia. Berny, anche spalmato sul grande tronco come il burro su un crostino, era preoccupato. Di Marzio non si era sentito urlo. Erano trascorse ore ed ore. Eppure glielo aveva detto: lancia un urlo quando il Mostro ti afferra che ti vengo a tenere compagnia. Perché non l’aveva fatto? Che cos’era successo? Quando gli parve di scorgere dei bagliori argentei sopra la sua testa, col cuore in gola, guardò in alto. I coniugi Corvonero stavano sognando! Scomparsi nel buio della notte, tra le fronde di Ezechiele, i loro corpi improvvisamente si accesero e per la prima volta gli animali videro non solo i bagliori che emanavano ma anche i loro corpi... Ai Corvonero si rivolsero tutti gli sguardi e le aspettative dei presenti e tutti videro i loro corpi, da cui i bagliori provenivano, diventare d’argento. I loro vestiti neri nascondevano i poteri della notte. Tutti li videro d’argento e per un attimo fu come se li avessero sempre visti così. Berny la piccola volpe rossa si riempì di speranza. L’aria era immobile ma lo stesso, lentamente, con una zampina fece segno di silenzio. Stavano sognando.
“Glielo dici tu Cara?” “No, diglielo pure tu, Caro.” Berny tratteneva il fiato. Tante domande aveva sul suo amico!
“Ce l’ha fatta.” “E’ dentro molle.” Specificò la signora Cara. “E… sta bene?” “Un sacco bene!” sussurrò una scimmietta. La capacità di trattenersi delle scimmie non è nota perché non è molto sviluppata. “E’ svenuto.” Specificò la signora Corvonero. “Oh Cielo! Ditemi dov’è. Vado da lui.” Disse Berny con voce tremante. “No, Berny. Meglio di no.” Autorevole come quando era autorevole, Geronimo lo fermò. La sua voce di basso vibrò istantanea, ancora sulle note accorate di Berny. Appena in tempo, prima che un’altra scimmietta condividesse il suo pensiero. La scimmietta in questione richiuse la bocca, si risistemò comoda accanto alle sue amichette e si mise a spulciare la sua vicina. E’ sempre buon tempo per le scimmie. “Meglio di no.” Ripeté Geronimo. “Lascialo vincere.” Aggiunse, sicuro. Geronimo sgranò le pupille dalla sorpresa. Drizzò le antenne e si guardò in giro. Fece finta di niente e si limò uno zoccolo. L’aveva detta lui questa cosa qua. Non la sapeva. Era sempre stupito da tutto quello che non sapeva di sapere.
Capitolo 15
Marzio
Vincere, al contrario di quanto sembra nella favole, non è un lavoro facile. Per prima cosa bisogna provarci. Che è la cosa più difficile. Per seconda cosa bisogna riprovarci. E poi riprovarci. Che è la cosa che richiede più tempo. Ma il tempo non è un problema. C’è tutto il tempo per fare quello che dobbiamo fare. L’anaconda non ha fretta. Ingoia piano. Digerisce piano. Marzio stava male. Aveva tutto il tempo, tutta la disperazione per stare male. Dallo stato catatonico era ato direttamente allo stato incosciente. Gli era sfuggito di mano il macete. Si sentiva un inetto, un incurabile incapace, un nulla nell’Universo. Quello che era. E, guardato dall’angolatura dove si trovava lui, l’universo era un Universo ostile. Non distingueva più i momenti di coscienza da quelli di incoscienza. Non avrebbe saputo dire dove o quando si producevano le visioni. Il primo a presentarglisi fu Altai. Non esattamente gli si presentò. Lo vide. Col suo o ondeggiante e il suo bastoncino gli dava le spalle. Sentiva che ripeteva tra sé: “Non porta niente di buono questo tipo. Lo dicevo io.” Nella scala di disperazione, se possibile, Marzio scese di un gradino. Poi vide un’enorme Anaconda. Avrebbe voluto che ci fosse Berny per chiedergli cos’era o per fargliela vedere. Gli sarebbe piaciuta! Grande grande morbida forte sinuosa bellissima lunghissima. L’anaconda lo strinse avvolgendoglisi a spirale tutt’intorno. Gli sembrava di sentire la sua carne con le papille gustative, il sapore che ha la carne di serpente, oppure la sua carne nelle sue carni, attraverso di lui. Si fuse nel suo corpo. Si sentì forte. Si sentì più alto, più spesso, più
muscoloso. Per un momento, si sentì protetto. Improvvisamente la paura gli agguantò le visceri ed ebbe un sussulto. Si ricordò che doveva rimanere immobile. Pensò di essere finito, L’anaconda lo aveva avviluppato interamente. Lui non aveva più il macete. Ma vide che il Mostro non aveva ancora nemmeno superato i polpacci. Con movimenti impercettibili volse il capo e lo sguardo in cerca del macete e tendendosi lentamente e impercettibilmente riuscì a recuperarlo, contraendo mostruosamente i muscoli della schiena, della spalla e del braccio per tirarlo su, da quella posizione. Ora si trattava solo di aspettare. Aveva in sé tutta la pazienza del mondo. Tutto il sangue freddo e la ferocia dell’Anaconda.
Capitolo 16
Marzio e Berny
Era già quasi l’alba quando Berny si incamminò per andare verso il ponte da cui sarebbe dovuto are Marzio per ritornare al villaggio. Se fosse ritornato. Non era ancora l’alba quando Marzio si massaggiò le caviglie livide, parzialmente digerite, e, grondante sangue serpentesco, grondante sollievo e gioia, si rimise in posizione verticale. I piedi tenevano. Le gambe tenevano. Fece qualche o. Riusciva. Respirava. Camminava. Si muoveva liberamente! Aveva fatto a pezzi il serpente, gli aveva scoperchiato il muso aprendolo in due e poi era andato oltre facendosi strada col macete e dal cadavere squartato aveva estratto gli arti inferiori, uno ad uno. Uno. Due. Solo due. Sono sufficienti. Prese il mezzo muso di anaconda e se lo mise in testa. E gli venne da ridere, gli sembrò di essere Berny alle prese con la sua visiera. E così, grondante sangue, sollievo e gioia, sfinito, dolorante, tramortito e stupito, prese la via del ritorno. Barcollava ma si sentiva leggero leggero. Che i nemici venissero pure ora, che i pericoli venissero pure ora a insediarlo. Lui era pronto. Era tranquillo. Attorno a lui tutto era diverso. Si muoveva nella notte come fosse giorno. L’aria era spessa, densa di vita. E lui non aveva più paura. Di niente. All’andata non aveva visto nulla. Ora guardava e vedeva. Tutto.
Era già quasi l’alba quando Berny, fermo ritto sul ponte, riuscì a intravvedere la figura del suo amico farsi strada tra le ombre e gli alberi della foresta. Era lui, ma non sembrava lui. Aveva le spoglie dell’Anaconda che gli penzolavano dalla testa. Che uomo. Sembrava una pertica più alto.
Era chiaro che era vincente. Aveva superato la sua Sfida e aveva liberato il villaggio. Non lo sapeva ancora ma era entrato nel suo Sogno. Nella sua vita vera. Quando entri nel tuo Sogno trovi tutti gli amici ad aspettarti.
Il piacere che provò Berny nel riabbracciare il suo amico fu tale che si domandò con un certo fastidio quanto a lungo sarebbe ancora durato l’effetto del ‘Gondo’. Ma anche Marzio fu molto contento di vederlo. Berny era così emozionato che non seppe fare altro che dargli una sberla. Aveva tanta di quella forza dentro e di quell’amore trattenuti così a lungo! E disse esattamente la cosa che meno aveva voglia di dire: “Allora non te la saluto sca!” E sentì di rimando, in risposta, la cosa che meno si sarebbe aspettato di sentire, ma che più aveva voglia di sentire: “sca chi?!...” Marzio non stava scherzando. Non era una volpe. Non scherzava mai. Era un uomo, un essere semplice. La verità era che sca non esisteva più. Anche Marzio non esisteva più. Era un’altra persona. Marzio, il nuovo Marzio, prese Berny e lo strinse a sé, avvolgente come un’anaconda, stretto stretto. Gli accarezzava il collo e la schiena. E anche lui provò un tale piacere che si chiese se il ‘Gondo’ davvero non stesse cominciando a fargli effetto. “Berny,” gli disse all’orecchio, “Non ce l’avrei mai fatta senza di te. In ogni senso.” E i due sentirono al cuore un piacere tale quale può essere solo quello dato dall’amore e dalla consapevolezza del destino. Li aspettava una nuova vita. Non sapevano ancora nulla della vita che li aspettava. Ma non avevano fretta. Non avevano ansia. Stavano abbracciati e tutto era lì per loro.
La notizia arrivò al villaggio prima di loro, da bocca a bocca, da scimmia a scimmia. “A Marzio piacciono le Rosse!” Tutti furono felici. Quando una goccia nel mare è felice, il mare è felice.
Al villaggio prepararono una grande festa. Coccinella, imperiosa, radunò le scimmie e si mise al lavoro. Bruno portò al Centro del villaggio le ultime sue riserve di Centoerbe, il digestivo più pieno d’amore che esiste nell’Universo. Sarebbero servite.
Tutti stentarono a riconoscere Marzio, che da quel momento divenne Marzio l’Anaconda. Furono contenti di accoglierlo nel villaggio e da quel momento Marzio prese alloggio nella tana di Berny, come del resto era sempre stato.
Capitolo 17
Corvoblu
La storia potrebbe finire qua, ma Bruna, che è un buon Orso, mi chiede: “E Corvoblu?”. Non riesce a prendere sonno e non si può fare questo a un orso, non prima dell’inizio di primavera. Per rivedere Corvoblu al villaggio Bruna avrebbe dovuto aspettare 3 anni. E non lo avrebbe riconosciuto. Corvoblu era diventato un corvo grande e robusto. Uno dei tanti corvineri abili nel tempo del Sogno e furbi nel tempo della veglia. Uno come tutti gli altri, apparentemente. Gli anni con Jagger gli avevano insegnato a mimetizzarsi. Per agire indisturbato, per vivere indisturbato, per cavarsela in ogni situazione. Nessuno riconosceva nel nero di Corvoblu un luccichìo particolare, nessuno ci prestava attenzione. Nessuno sapeva che lui era tutto blu. Nessuno percepiva nella sua voce uno spessore particolare, un’estensione particolare, un moltiplicarsi di note e tonalità, di capacità. Nessuno osservava la particolare resistenza del suo volo e quanto riusciva a spingersi in alto. Fuori era nero (o argento, direbbe un corvo) come si conviene a un corvo. Ed era così pienamente Corvo che dentro conteneva l’intero spettro dei colori, la gamma completa delle conoscenze occulte. Ed era così pienamente Corvo da non essere più solo corvo. Il Corvo è la libertà di essere nel mondo e altrove allo stesso tempo, essere se stessi e altro da sé. Perciò può contemplare i segreti dell’Universo e farne uso. Perciò è ‘il Mago’. Corvoblu era sereno e si divertiva un sacco. Jagger gli aveva insegnato la vita.
Anche Corvoblu era entrato nel suo Sogno. E la sua vita era una continua sfida, una continua scoperta. Era un giovanotto vivace e solitario, che camminava poco ma in compenso volava tantissimo.
“Perché hai gli occhi così?” Un corvo si era posato sul suo stesso ramo e lo stava guardando. Gli stava rivolgendo la parola. Corvoblu si voltò stupito. “Così come?” “Così.” Non c’era da aggiungere altro. Era una femmina. Corvina fece un gesto con l’ala. Era molto carina e aveva una straordinaria abilità a muovere le penne delle ali, indipendentemente, quelle in punta, più lunghe, quasi come fossero le dita degli esseri umani. Corvoblu increspò le labbra e inarcò il sopracciglio sinistro. Aveva gli occhi a mandorla?! “Boh!” rispose. “Non a mandorla. Strani. Diversi.” Corvina continuava a guardarlo. “Ma, fatti vedere… Lì, sopra gli occhi… Hai riflessi blu. Sono penne blu non nere.” Corvoblu ridacchiò. “Ehi, come ti chiami?” chiese. “Malvina.” “Bello, come il color malva. Bello. Sì. Gli assomigli.” La storia continua. Quando entri nel tuo Sogno trovi tutti gli amici ad aspettarti.
LA CASA DI LUCERTOLA E IL SEGRETO DELLA GIOIA
Capitolo 1
Il Sogno di Lucertola
“Vuoi un po’ di merda sulla pastasciutta?” “Lucertola, non imparerai mai.” Caimano le diede un buffetto sulla guancia, uno schiaffetto a due dita. “Non siamo in sogno. In questa realtà merda è merda, nessun valore aggiunto ³. Grazie del pensiero. Mi i il formaggio per favore?” “Non sono mai sicura quando è sogno e quando è questa realtà,” disse lei mogia, “Così per non sbagliare…” “Lo so. Sei una creatura di Sogno.” “…l’altro giorno ho dato via tutti i miei ori a Letizia. E’ stata molto contenta.” “Hai fatto bene.” Disse Caimano con la bocca ancora piena di ragni e una zampetta mezza di traverso. Spaghetti al ragù di ragni, il suo piatto preferito. Una creazione di Lucertola. “Quell’anello di merda che mi hai regalato quando ci siamo fidanzati l’ho tenuto.”
Lucertola aveva sognato quella casa in tutti i particolari parecchi anni prima nessuno ci riusciva a credere- fidanzato compreso. Nessuno riusciva a credere che avesse desiderato proprio un fidanzato così. E invece il suo era il migliore. Quando andava al fiume, prima ma molto prima che il fiume stesso fe da
strada alla famosa Anaconda, quando cantava la musica della buona sorte, con le parole dell’acqua, diceva:
Il mio uomo ha braccia grandi e mani belle mani come l’avorio e l’ebano ha mani dolci ha mani amate.
Ha un cuore grande e il tramonto dentro gli occhi il mio uomo è il Sole che sorge e la Terra che respira.
Il mio uomo mi aspetta a casa. La sua pelle è leggera e il suo corpo è forte. Il mio uomo è grande e sa stare con me. Il mio uomo è il migliore. E’ l’unico uomo che c’è.
Il mio uomo canta la musica delle Stelle e accarezza la Terra fino a farla godere.
Il mio uomo è vento sapienza e libertà è acqua e governo e guarigione è terra e forza e potere è fuoco e calore e amore.
Il mio uomo ha stelle nel petto. Gliele conto a una a una la sera e insieme guardiamo i Cieli da dentro e da fuori.
Il mio amore è una lunga carezza. La pelle del mio uomo è il continente emerso dalla Bontà di Dio.
Poi arrivò Caimano. Siccome era l’unico uomo che c’era, lo riconobbe subito.
Anche adesso ogni tanto canticchiava quella canzone. Ogni volta che ne scriveva una faceva leggere le parole alla sua amica Kala, parente di Kala Naga, il serpente nero. La buona vecchia Kala. Ma questa non era nuova, era la sua canzone d’amore preferita e la cantava spesso. “L’hai scritto che gli piacciono le banane?” la interruppe Kala un giorno. “Ehi, non è mica Marzio. Quando Marzio non era ancora lattante Caimano già...” “Sé, sé. Guarda che si vede che è una scimmia.” “Non è una scimmia! E’ un uomo. Discendedalle scimmie. La sua famiglia ha come antenato la scimmia.” “Discende dalle scimmie come io dai serpenti.” Kala scuoteva la testa, come se se la volesse staccare e lanciare di qua e di là. Era il suo vezzo. Muoveva i pensieri all’interno e creava spazio. Sibilò: “Mi dispiace dirlo. Ma il ragazzo non è stupido. Non è un uomo quello lì.” Lucertola socchiuse gli occhi e sorrise teneramente, respirò piano l’aria pura e profumata. “Kala, tu hai sempreragione. Come avrei fatto se non avessi sognato anche te!” Lucertola posò il secchio del pozzo colmo di acqua trasparente e guardò negli occhi il serpente, strizzati per il troppo sole. Vedeva bene al buio Kala, aveva occhi verdi, con la pupilla verticale, e delicati. Il serpente vibrò la coda sul terreno in segno di assenso. “Facciamo così.” Propose Lucertola conciliante. “Aggiungo un verso. Dove dico mi aspetta a casa. Il mio uomo mi aspetta a casa punto. A capo. Con tante tante banane.” “Vabbé.” Disse Kala. Inabissò il collo e scomparve nell’erba.
Lucertola se ne stava nel suo appartamento di città a dipingere e a sognare, al fiume a cantare e a sognare. Dipingeva in stato di sogno, come sono i sonnambuli, in stato di rilassamento profondo, in stato di coscienza profondamente alterata. E si immaginava tutto. La sua pittura, che era nata astratta, era a poco a poco diventata naif, semplice e precisa come quella dei bambini. Dipingere i vortici celesti andava bene una volta ma adesso che i Cieli li aveva visitati aveva solo fame di Terra. Se la meritava. Lucertola voleva il suo posto al Sole. Abbandonò le grandi tele a olio di lino, lucide, con quei colori che solo lei sapeva inventare. Lei li sentiva dentro e li tirava fuori, a uno a uno, li portava direttamente sulla tela. Li guardò un’ultima volta, amava quei colori, chissà che codici racchiudeva la loro composizione. Comprò un blocco di fogli da disegno, di quelli ruvidi e bianchi, che usava alle scuole quando era bambina. Matita e pennarelli. E si mise a disegnare. La storia di Lucertola era particolare. Da bambina amava disegnare. E la mamma le diceva ‘Humn’. La mamma evidentemente non amava che lei amasse disegnare. Da bambina Lucertola amava cantare. E la mamma le diceva ‘Humn’. Lucertola capì, smise di disegnare e smise di cantare. Non imparò mai a disegnare. Da grande si disse certo se avessi una voce come Mina non avrei dubbi su cosa fare nella vita. Canterei. E invece posso stare tranquilla, almeno una cosa la so per certo, il mio destino non è cantare. Poi un giorno, tanti anni dopo, una maestra di canto per caso la ascoltò e le disse che era ‘soprano lirico’. “Per intenderci, come Mina.” E così, con un po’ di esercizio, prese a cantare Mina e in nessuna canzone al mondo la sua voce si sentiva più a suo agio che in quelle di Mina. Ma era troppo tardi ora. Non aveva più voglia di iniziare la carriera di cantante. La annoiava. Non era cosa per lei. Allora era vero, non era il suo destino cantare. Si disse ‘canterò per il mio uomo’. Quando il mio uomo mi fa soffrire canto agli Dei. Quando il mio uomo mi fa gioire canto agli Dei. E per lui. Siccome il suo uomo non c’era ancora lei soffriva, e cantava. Cantava e gioiva, perché cantare è bello. A chi sa cantare viene bene ed è una bellezza! Lei era una lucertola piccola ma spostava una valanga di suono. Era
una lucertola piccola con una grande diaframma. Una valanga d’amore la attraversava, la scuoteva e fluiva attraverso di lei. Un mondo di picchi. E abissi e valli. Un unico flusso di bellezza. Un giorno che eggiava lungo il fiume si accorse che stava cantando sulla melodia delle acque. E si accorse che erano poesie.
Tu che hai visto cose e che non hai visto me tu che conosci i profumi e tieni segreti i tuoi te che sento e vedo tu che hai una stella e una rosa nel cuore e vino e miele sulle labbra tu che conosci la Canzone e batti il ritmo della mia musica.
Te disegno in Cielo a te offro le mie vene. Lei era una lucertola piccola. Era una tipa fredda, ma dentro no. Fu così che accolse il suggerimento del fiume e decise che per il momento avrebbe mantenuto le vene dove stavano ma avrebbe iniziato a disegnare. Era
l’equinozio di primavera. Era il momento giusto per iniziare. Non un minuto di più. E lei non sapeva disegnare. Non aveva mai imparato. Tutte le sere, nella sua stanza, le ava a disegnare, a provarci almeno, a imparare. Cancellare e ridisegnare. La notte sognava come fare. Lei non sapeva come si fa ad amare: non l’aveva mai visto e non l’aveva potuto imparare. La notte viaggiava e raccoglieva visioni, informazioni, strumenti, dolori, esperienze e trasformazioni. Viaggiava, andava in altre vite, sue e non sue. Si svegliava stanca e ammaccata e con tanta voglia di riprovare. Ma non si può stare tutto il giorno a dormire. Così, paziente, aspettava la sera, quando riposatasi un po’, poteva abbandonarsi nuovamente allo stato di sogno. Prima di chiudere gli occhi prendeva matita e gomma e trasferiva su carta, in immagini sempre più precise e concrete, la dolce melodia del suo canto. Voci di scimmiette maligne dicono che i coniugi Corvonero ci misero una decina d’anni per sognare la loro lussuosa tenuta di migliaia di migliaia di pertiche quadrate e quel ragazzo blu che fecero, così geniale da dar loro solo amarezze. Un Lavoro da Grandi Sognatori. Lucertola non sapeva se era brava o meno. Ma dopo cinque anni aveva imparato a disegnare. L’immagine della sua casa non era ancora completata. Ma a maggio arrivò Caimano. E lei si accorse che lo conosceva già.
3 Secondo la tradizione sciamanica sognare escrementi porta denaro, sognare oro preannuncia sofferenza
Capitolo 2
Kala, Serenella e Letizia
La cara vecchia Kala aveva una parola per tutti: “Vaffanculo!”. Ma sapeva anche stare zitta, il che, a volte, pensava, era una fortuna. Aveva un bed and breakfast che si chiamava ‘Il covo dei serpenti’ ed era sempre pieno. Il segreto è non mordere i clienti, raccontava lei. Tu non gli avveleni la vita, gli offri un posto dove smaltire i loro veleni (tu, esperta in veleni, sai come fare) sei carina e soprattutto ti fai gli affari tuoi e te ne vai a so. Era l’unico b&b nel giro di migliaia di pertiche ed era sempre pieno di pantegane di città. Pantegane di fogna, flaccide e flatulente, che non potevano abbandonare il lavoro per più di una settimana. Kala, oltre a essere l’amica di Lucertola e a produrre ricchezza nella sua casa, andava a so e, quando era stanca, si fermava sotto un nocciolo (Lucertola aveva preparato l’aiuola per lei, erbe alte, sassi caldi e un cartello “attenti alla vipera! non attaccare bottone.”) e scriveva ⁴ Alla spietatezza del serpente si addice la prosa e Kala stava progettando un grande romanzo. Un affresco generazionale. Tutta la verità, nient’altro che la verità. Una specie di “Guerra e Pace”… L’avrebbe chiamato “Veleno e Gloria” , o “I fratelli Kalamazov, parenti serpenti”, o “Delitto e Gioia”, “Il segreto della Gioia”… Ma non si trovava a suo agio con le trame troppo complesse, soprattutto quando superavano le cinque parole. Così decise di sospendere per il momento il filone grande romanzo russo e are alla manualistica in stile yankee, un po’ di sano ‘know how’. Tutti vogliono che gli si dica come fare a fare le cose, per essere liberi di non farlo ma avere i rimorsi. E Kala, maligna, si divertiva.
Ai suoi ospiti, come regalo di addio, offriva il suo libro:
La vecchia Kala
Manuale di sopravvivenza con serpenti velenosi in 14 capitoli, un’appendice di scarsa rilevanza e un p.s. molto importante
1 L’attacco di un serpente è definitivo, il veleno è mortale per definizione. Nel dubbio, togliti di lì. 2 Se sei un possibile rivale di territorio togliti subito e basta. 3 Approfitta senza remore, se ti riesce, di un serpente, tanto lui approfitterà di te. 4 Sii educato, chiedi prima di approfittare. Potrebbe innervosirsi. 5 Contempla la possibilità di una risposta negativa. 6 Bada a come ti comporti: se il serpente è accoppiato difende il suo possesso come una lupa i suoi cuccioli. 7 Bada a come ti comporti: se il serpente è accoppiato difende il suo compare e il suo territorio come una lupa i suoi cuccioli, o meglio ancora, di più, come un serpente. 8 Concedigli ogni tanto qualche cattiveria, di quelle che fanno male, su di te o sugli altri. Non lo fa (solo) perché non ti vuole bene. E’ per il suo bene, il veleno gli dà gioia. 9 Il veleno non si spreca, per questo la vista del serpente è acutissima e precisissima.
10 Il serpente ingoia il suo obiettivo integro e intero: sa aspettare ma non accetta compromessi. 11 Il serpente ha sempre ragione. E lo sa. Se lo contesti non aspettarti tanta considerazione. 12 Il serpente non è un fesso, se lo aduli non aspettarti tanta considerazione. 13 Digli ogni tanto che è molto dolce. Te ne sarà grato. Sarà sollevato di sapere che risulta ancora invisibile ed elusivo. 14 Solo se vuoi fargli un favore, digli che ha torto. Ma mi raccomando (il serpente non è un fesso) fai in modo di avere davvero ragione. Se non temi la morte, digli che è stupido. E’ per il suo bene: il suo veleno dalla rabbia gli brucerà le carni come Giovanna d’Arco al rogo e, umiliato e risorto, sarà pronto per generare nuovi grandi poteri.
Appendice di scarsa rilevanza
Ai serpenti costrittori interessa solo se stessi e i loro obiettivi, non mollano mai e sono disposti a tutto, per questo sono infidi, invidiosi, avidi e pericolosi.
Ai serpenti costrittori interessa solo se stessi e i loro obiettivi, non mollano mai e sono disposti a tutto, per questo sono ottusi e innocui.
Pertanto evitarli è facile, se non puoi toglierli di mezzo togliti di mezzo. Anche di poco, il loro campo visivo è molto ristretto.
p.s. molto importante
Le anaconde sono senza collo e hanno tendenza ad ingrassare da fare schifo. Serenella aveva già contattato la vecchia Kala e stava per inviare l’acconto di prenotazione della stanza per lei e Sergio. Era d’accordo con sua cugina, ‘la topina di campagna’, così la chiamava, che avrebbe trascorso una settimana da lei. Con la crisi economica che c’era si doveva risparmiare, basta con le mete esotiche. Non aveva mai visto la casa di Lucertola, dove abitava sua cugina. A dire il vero non aveva mai visto nemmeno sua cugina. Pensò, a malincuore, che forse era arrivato il momento. Aveva appena parlato con Kala che riprese in mano la cornetta del telefono per sentire la cugina. “Ma puoi venire quando e quanto vuoi! Qui c’è spazio. C’è un granaio intero tutto per noi. E’ pieno pieno di topi. Si sta stretti stretti. Vedrai che bello!” Squittì Letizia. “Ecco, per l’appunto… mi chiedevo se era il caso di prendere una stanza al ‘covo dei serpenti’. Com’è? È un bel posto?” “Ma vuoi scherzare?! Ma stai con noi. Siamo topini puliti. Come c’è posto per trecentocinquantacinquemilaseicentocinquantuno c’è posto per trecentocinquantacinquemilaseicentocinquantatre. Ti troviamo un angolino morbido morbido tra due bei topolini grassi. E una topina anche per Sergio, sicuro.” Mah, gente di campagna. “Ma non siamo di disturbo…?” “Macché disturbo! Dai dai che ci divertiamo.”
“E’ colpa mia, lo so. Ho disegnato il granaio pieno, bello grande, a fianco alla casa, e non ho valutato i rischi.” “Lucertolina, a me piacciono i topi,” le aveva detto allora Caimano, “sono buoni
vicini, è gente del Sud, sono simpatici. Mi hai dato un granaio stracolmo di cereali di ogni tipo. L’abbondanza va condivisa, il vero rischio è che vada sprecata. E poi abbiamo Kala ad aiutarci con il controllo delle nascite. Sai che va matta per i topolini, i cucciolini la mandano in visibilio. In un sol boccone le scivolano dentro allo stomaco.” Quando le parlava, Caimano le teneva la mano. “Lucertola, hai disegnato uno splendido podere, a Sud-Est. E’ il luogo della Gioia. E’ naturale che attiri gente esuberante ed espansiva. Fa parte del tuo Sogno.” Caimano le strinse tra le sue la manina fredda, larga e forte, e la portò alle labbra. “La tua opera d’arte.” Le opere d’arte uno le fa e poi a il resto della vita a capirle, esattamente come certi sogni. Perché non è veramente lui che le fa. Il creativo si mette in ascolto e si mette a disposizione di forze più grandi di lui, questo Lucertola ormai lo aveva imparato. Lo aveva visto. La bellezza e la creatività potevano solo riempirla di stupore e conoscenza silenziosa, dei riverberi di qualcosa che non le apparteneva e che a stento riusciva ad afferrare. A volte Lucertola ava le ore a guardare i topi divertirsi e in quei momenti si chiedeva se davvero, come dicono, la vita è così complicata.
4 Forse non tutti sanno, ma dovrebbero provare, che scrivere sotto un esemplare di Corylus avellana, albero squisitamente mercuriale, è tutta un’altra musica. Il nocciolo è il messaggero tra la realtà invisibile e la realtà visibile. Con il suo legno si costruivano artigianalmente gli antichi strumenti dei rabdomanti e ancora oggi si costruiscono le bacchette magiche dei migliori maghi. Per maggiori informazioni si legga: A Gentili, Il Volo dei Sette Ibis, erboristeria alchimica, Ed Kemi.
Capitolo 3
Caimanito
Caimano era un uomo. Né alto né basso. Né magro né grasso. Tutto sommato verticale. Scarso di capelli e forte di pancia. Bruno di pelle e caldo come il Sole. “Proprio una bella scimmia, non c’è che dire.” “Kala, so che ti piacciono anche le scimmie, ma questa è MIA.” Diceva Lucertola. Tra le amiche non ci si ruba gli uomini. Altrimenti finita l’amicizia e finito l’uomo.
Caimano, o meglio Caimanito, come era chiamato allora, era compagno di scuola di Lucertola. Erano in classe insieme alle elementari. Caimano era molto bravo a fare le operazioni a mente, le tabelline, le addizioni, moltiplicazioni, divisioni a una o due cifre. Era il preferito della maestra. Caimanito, Caimanito! Lo chiamava. Lui era sempre a correre di qua e di là. Durante la ricreazione saltava sui banchi e quando la maestra non vedeva o faceva finta di non vedere saltava anche giù dalla finestra e giocava a pallone di fuori, con chi c’era. Faceva gli aeroplanini di carta migliori di tutto l’istituto. Faceva sempre domande fantasiose a cui la maestra non riusciva a rispondere. La maestra non aveva mai imparato tanto. Tra tutte le bambine quella che gli piaceva di più era Lucertola. Era carina, così minuta. Quando uscivano per andare al campetto e si mettevano in fila per due, lui senza farsi notare sgusciava avanti veloce fino alla fila di Lucertola, apposta per tirarle le treccine. Lei non faceva una piega. Lui all’inizio ci rimaneva male. Ma poi la prese come una sfida, un incentivo. Non si annoiava mai a giocare.
Così ogni volta correva avanti a tirarle le treccine. Finalmente un giorno lei si voltò e lui fu felice e lei lo investì di pugni forti dappertutto da fargli male sul serio. La maestra se ne accorse, se ne accorsero tutti, e da quel giorno la maestra li tenne sotto osservazione. Ma Caimano era ostinato per natura. Non finiva mica lì. Caimano era fastidioso per natura, scimmietta nelle carni e nelle ossa. La prendeva in giro ad ogni pretesto, a voce alta, da soli o in compagnia, anche per 15 periodi⁵ di fila, fino a che non le si gonfiavano gli occhi di lacrime. Quando rientrava dal bagno, per tornare a posto ava a fianco al suo banco e, durante la lezione, le schiaffava in fronte un’etichetta adesiva, di quelle che si appiccicano sui libri per segnare il nome, con scritto “Scema ma brutta”, oppure “Bella dentro”. Un giorno a ginnastica fu così lesto da mettergliene una sulla schiena e una sulla fronte: “Scusate le spalle” “Scusate la faccia”. Rideva per periodi interi dei suoi scherzi, compiaciutissimo. Ogni tanto a lezione vedevi che dal suo banco in fondo posava gli occhi su Lucertola e sobbalzava muto dal ridere. Poi all’improvviso si stufò, si stancò di non avere risposta e ò ad altro. La sua ione divenne costruire degli archi da caccia con legno di nocciolo e frecce con punte di osso o ossidiana nera, taglienti come lame. A lezione trascorreva i periodi liberi a immaginare e inventare speciali implementazioni e riuscì a renderli così efficienti e implacabili che da uomo non ne avrebbe prodotti di migliori. Divenne capo di una piccola banda di ragazzi che lo seguivano per provare anche loro i vari tipi di archi. Perlustravano i boschi e tendevano agguati. Lo chiamavano a quei tempi ‘il piccolo castaneda’. Portavano a casa caprioli, lepri, porcospini e ragni selvatici e la mamma di Caimano li cucinava per tutti. ò ad altro. Non ò ad altre. Ma almeno sembrò dimenticarsi di Lucertola. La maestra era sollevata dal non dovere più dividere i due litiganti e che il suo Caimanito non ne uscisse più ‘blu di lividi e rosso di sangue’. Caimano era socievole ma alle ragazze ci stava attento. Non capiva come funzionavano. Ora era un bambino grande e stava coi maschi e cresceva robusto e forte. Aveva sviluppato una sua personalità e talenti particolari. Aveva sempre da criticare su tutto. Questo è giusto questo è sbagliato. Questo si fa così questo non si fa così. Lucertola se ne stava tranquilla per i fatti suoi. Solo una volta, in campeggio,
dopo tanto tempo di nuovo lui le si avvicinò. Mister Simpatia. “Hai scritto il tuo nome sullo zaino.” Veramente era stata la sua mamma. Lei non ci aveva fatto caso. Da quando lei era all’asilo la sua mamma metteva nomi su tutto. Lucertola non rispose. Caimano si arrabbiò: “Sei possessiva. Perché non scrivi il tuo nome sulla giacca a vento? un bel cartellino. Eh? Che magari te la rubano. Perché non te lo scrivi in fronte?!” Gli venne in mente tutte le volte che le aveva fatto gli scherzi e lei non aveva reagito. “Sei possessiva. Ecco quello che sei. E SEI CATTIVA!” Le gridò in faccia. E scappò via, spaventato, per paura di buscarle e perché non sapeva come continuare. Non sapeva neanche come aveva iniziato se per questo. Lucertola prese una penna dall’astuccio, nella tasca dello zaino, e la brandì come un pugnale, una penna affilata, di metallo appuntita, e gli corse dietro. Caimano correva velocissimo quando improvvisamente gli venne la curiosità di sapere che cosa sarebbe successo se avesse rallentato. Lucertola lo avrebbe preso. E così fu. Rallentò appena appena e Lucertola accelerò. Lo prese per le spalle e lo schiantò per terra e lo schiacciò ben bene, gli schiacciò le spalle a fargli un buco per terra. Poi non sapeva più cosa fare. Così si ricordò che aveva la penna. L’aveva messa in tasca un attimo prima di afferrare Caimano. Gliela puntò al cuore, a minacciarlo di morte. Poi gli diede solo un pugno, ma non da fargli male, e gli riempì le spalle e le braccia di pugni, da fargli male. Lui, di sorpresa, le prese la penna e le fece uno sbuffo sulla mano. Lucertola allora divenne furente… ma era stanca. Anche Caimano era stanco. Ma si stava divertendo. Lei, con un guizzo, gli afferrò la mano e lui gliela lasciò. Sul dorso, in stampatello grande, scrisse una L e poi una U, una C, una E, una R, una T, una O, una L, una A. “ ‘Lucertola’. Che fantasia che hai.” Disse lui, con la sua solita aria da furbo ma con voce dolce. Lucertola lo guardò e vide che gli brillavano gli occhi. Pensò che forse aveva sempre avuto quegli occhi lì, trasparenti, come una strada di campagna sotto il sole o dei festoni appesi al soffitto in una festa di compleanno. Caimano si alzò e le prese la mano. “Torniamo.” “No.” Lucertola era ferma sui due piedi. “Non voglio che lo vedano. Adesso te lo tolgo.” Gli prese la mano e la portò alla bocca e la leccò e strofinò fino a quando la scritta non scomparve del tutto dalla pelle della mano di Caimano.
Sfortunatamente sul cuore gli rimase. Finita la scuola Lucertola sparì. Caimano non era sicuro ma ogni mattina, negli anni a venire, al risveglio, gli sembrava di avere sognato Lucertola. Si svegliava con la sensazione fisica dei suoi pugni o delle sue labbra o dei suoi occhi verdi, increspati e profondi come il mare. “Quando non ci sei ti sogno tutte le notti.” Immaginava di dirle. Ma dovette aspettare, molti anni, per farlo.
5 Si ricorda che i “periodi” in questa parte di universo equivalgono ai nostri minuti. E gli “eoni” ai mesi. E le “epoche” alle ore.
Capitolo 4
Berny Marzio e Caimano
“Dove sta l’adorabile scimmia?” “E’ con Berny, al parco giochi.” “Ma non è impegnato a tempo pieno a ‘Curare le Malattie e Combattere i Cretini’ ?” “Ah… sì, certo, bella questa espressione, così mi disse in università. Ma sai come sono le scimmiette, Kala, si distraggono.” “Già. E magari Marzio è sufficientemente cretino e il caimano qualcosa da mettere sotto i denti ce l’ha.” Kala sbuffò e l’erba fremette intorno a lei. “Marzio… quell’anaconda a cui hanno sfilato i muscoli… mah.” Aggiunse pensosa e, socchiudendo gli occhi e oscillando il capo, dolcemente si calò al suolo e si acciambellò, attorcigliata su se stessa.
Berny e Marzio da quando si erano abbracciati al di qua del ponte non si erano più lasciati. Tornarono al villaggio allacciati alla vita, mangiarono le squisitezze di Coccinella e delle sue amiche con la zampa libera, lanciarono esultanti il berrettino a visiera e la testa di anaconda per aria, fecero il ruttino fianco a fianco ognuno nel proprio stomaco su invito del Centoerbe di Bruno e tornarono alla loro tana allacciati e stretti per la vita, con un’andatura unica e simmetrica, ondeggiante, che gli massaggiava e illanguidiva i fianchi. Dormirono insieme come non avevano mai dormito insieme. Marzio si svegliò ancora abbracciato a Berny, con la bocca socchiusa sui suoi peli rossi e braccia e gambe avvinghiate al corpo dell’amico. Solo la coda, spumeggiante, restava
fuori. Berny, che era una volpe, capì che quella notte era successo qualcosa e che d’ora in avanti la sua vita non sarebbe più stata la stessa. Era legato ad un’anaconda che andava pazza per le rosse. Legato proprio stretto. Berny era giovane, non aveva mai provato a dormire così con qualcuno e gli piacque il sistema. Pensò che sarebbe rimasto la parte restante della sua vita così, dentro un’anaconda e tra le sue spire. Nessuno poteva sapere quanto era bello morire in questo modo. E per un po’ ci provò, ci provò davvero a vivere e a morire così. Poi, dopo qualche eone trascorso in questo modo, la tana fu così satura di amore e di ione che improvvisamente Berny non resse e si sentì soffocare e scappò fuori a prendere una boccata d’aria. Fuori ormai tutto era diverso. Intanto, da autunno che era quando si erano ritirati, adesso era primavera. I colori, i profumi della primavera lo investirono con irruenza e indescrivibile voluttà. Lo pervasero fin dentro in bocca e nello stomaco. Berny si guardava intorno sconvolto. Non si capacitava come fosse possibile tanta pienezza di odori e sapori. Tutti i fiori erano turgidi e spalancati e risplendevano di vivaci colori. Aprile ti scoppia in mano! E poi si sentiva diverso lui. Era diventato grande grazie a Marzio. E grande lo era davvero. Occupava più spazio. Si percepiva più alto e tutto il paesaggio intorno rispondeva a una diversa percezione, di sé, del mondo. Il mondo era più vasto. E lui era più forte. Il mondo lui lo avrebbe cavalcato. Il problema di essere in due è che la vita cambia. Quello che facevi da solo non è nulla in confronto a quello che puoi fare ora. Detto in altro modo, se non vuoi soccombere schiacciato dall’enorme mole di energia che tu e il tuo compagno producete, la devi trasformare, manifestare. Berny era un animale monogamo. Non voleva soccombere, era felice. Era nato a se stesso. Devi fabbricare un nuovo Sogno grande come non avresti mai potuto immaginare prima e are il tempo libero dall’amore a realizzarlo. A volte è difficile anche solo immaginare. Ma quanto più cresceva il Cuore, quanto più si apriva il cuore all’abbandono e alla fiducia, tanto più cresceva il coraggio. Tanto più cresceva il potere tanto più qualsiasi progetto trovava via per materializzarsi. “Prendi le tue cose Marzio!” squillò Berny sgambettando in casa, “Questa
vecchia tana è troppo piccola per noi. Non so come… ma ce ne serve un’altra. Andiamo. Camminando ci verrà in mente.” E così, mano nella zampa, si incamminarono verso Sud/Est, verso un nuovo grande Sogno nel quale riconoscersi. Ai margini del confine con la casa di Lucertola c’erano delle terre vergini e Berny e Marzio si apprestavano a fecondarle di nuove idee. Berny gonfiò il petto di un grande respiro. Non aveva mai respirato così, sentiva la Vita scorrergli dentro, come il sangue. Lo sguardo si gli sfocò e si perse all’orizzonte. Il momento aveva qualcosa di epico. “Qui ci sarà un campo giochi, un enorme campo giochi! Natura selvaggia e animali di ogni tipo per svezzare le piccole pantegane di città.”
Adesso che il lavoro era quasi terminato Berny riconobbe con Caimano che non avrebbe mai potuto farcela da solo. Marzio non lo aveva mollato un momento. Gli stava sempre appresso, sollecito, e ansioso di prevenire ogni suo ordine. “Marzio, stringi!” Tutti i bulloni erano merito di Marzio.
Lucertola sentiva quando Caimano era ‘in casa’ perché diventava più allegra. Le si arrossavano le gote, le si aprivano i pori della pelle e le sembrava di respirare con tutto il suo corpo. Non poteva ancora udirlo, non poteva vederlo ma sapeva che Caimano era lì. Sentiva il suo odore. “La senti quest’aria Marzio? Lo vedi questo verde? E questo blu? Ricordatelo Marzio. Ricordatelo bene. Guardalo bene. Questo verde e questo blu non esistono in nessun’altra parte del mondo. Questo è un luogo di gioia, d’amore, di pura vita. Sono contento che tu e Berny siate diventati nostri vicini, sono contento per voi.” Marzio era così cretino che Caimano non resisteva a portarselo in giro. Caimano era un ragazzo di gran cuore, sempre pronto a dare una mano, come aveva fatto
quel mattino con la sua amica volpe che stava costruendo, bullone su bullone, il suo Sogno. I coccodrilli sono gli unici tra i rettili a non mangiarsi i piccoli. Caimano aveva uno straordinario istinto di accudimento. “Vedi Marzio perché te lo dico, devi ascoltare il tuo cuore. Ebbasta. Non c’è altro da fare. ‘Una mente che cerca altrove il Buddha è stoltezza nel vero centro della stoltezza’, come si suol dire nel paese dei koan. Vedi, tutto questo è frutto del nostro amore, mio e di Lucy. Questo è il segno che le Lucertole esistono.” Marzio non era sicuro di capire. A volte anche Caimano sembrava confondersi e non era sicuro di spiegare. Ma continuava perché in fondo non gliene importava niente, faceva solo quello che doveva fare. Ormai erano vicini a casa. Si sentiva, a folate, il profumo dei glicini rigonfi che circondavano il granaio. “Questo è il Sud/Est, amico. La sfida del Sud/Est è accettare la Felicità.” Con gesto rapido e solenne si batté forte il petto, un gesto un po’ scimmiesco a ben guardare. “E’ il Cuore il luogo della Gioia.” E proseguì lungo il sentiero, in silenzio. “Vedi questi alberi, questi fiori?” riprese “Marzio, li senti? quanto ti danno! loro non si domandano niente, si offrono alla primavera che c’è. E’ la Vita che a attraverso di loro. E’ la forza dell’Amore che li percorre.” Caimano sorrise con quei denti bianchi e vigorosi e il suo cuore scintillava di bellezza. “Vedi Marzio,” continuò Caimano e indicò Rembrant, il gatto nero di Lucertola, che ava di lì, “Il gatto ha quattro zampe: due davanti per andare e due dietro per frenare.” Solo la vecchia Kala non rideva alle sue buffonate. Ma lo faceva soltanto per cattiveria, e lui lo sapeva e non se la prendeva. Solo la vecchia Kala e, da oggi, Marzio. Marzio allungò la mano verso Rembrant, che scartò di lato, e si chiese se almeno lui capisse qualcosa. Marzio aveva sempre fame di capire, di essere, di essere migliore. Se per una volta, una sola volta, avesse dimenticato se stesso e la sua buona volontà, forse, chissà, si sarebbe sentito completo e libero come Rembrant
oppure semplice e spontaneo come Caimano... chi può dirlo? Chissà cosa avrebbe scoperto di essere e cosa avrebbe scoperto degli esseri intorno a lui. La vita era una tale vasta meraviglia e pure rimbalzava sulla fronte di Marzio, che guardava al suolo, perplesso e confuso. “Eddài che sto scherzando!” Caimano gli mollò una pacca di netto sulla schiena, sotto la scapola destra, che lo fece rimbalzare di una pertica e sentire gli uccellini cantare. “Dai che la prossima volta vedi anche le Stelle!” disse Caimano, ottimista, e si accertò che quella specie di anaconda non sbandasse troppo e si tenesse in piedi. “Tranquillo che siamo quasi arrivati. Hummmnmmm… senti senti. Che delizia, la mia Lucertolina!” Dalle finestre della casa provenivano a tratti vaporosi effluvi di fiori di gelsomino canditi, una creazione di Lucertola. Al momento del dessert vennero perfino i topolini a mangiarne. “Senti, Marzio, senti questo caffè, com’è buono il caffè della mia Lucertola.” Prese un sorso, stette immobile un momento, e poi si sporse verso di lui e sussurrò: “Ragni tostati.” Si abbandonò a un respirone goduto, si schiantò contro lo schienale della poltrona e lo guardò da sopra la tazzina: i suoi occhi nocciola, socchiusi, dicevano tutto. “Voi serpenti siete sempre a desiderare, con lo stomaco aperto sempre siete, voglio voglio… poi quando ci sono le cose belle non ve ne accorgete nemmeno. Dico così, in generale.” Ripose la tazzina sul tavolo. Marzio iniziava a sentirsi stanco. Mah, sarà il pranzo. Lucertola stropicciò la sua guancia contro quella di Caimano, come aveva imparato a fare da Rembrant, e ricevette una carezza. Sorrise a Marzio, in fondo era contenta di avere ospiti.
Raccolse le tazzine e i piatti e mentre se ne andava in cucina disse ad alta voce: “L’Uomo, Marzio, è un animale domestico che sporca.”
6 Per chi è interessato se ne fornisce la ricetta originale. FIORI DI GELSOMINO CANDITI Per 4 persone 1 manciata di fiori di gelsomino freschi 1 kg di zucchero Cacao in polvere o zucchero a velo Mettere a bollire 1 lt di acqua con 1 kg di zucchero fino a quando lo sciroppo risulterà denso. Nel frattempo pulire delicatamente i fiori con un panno umido. Immergerli nello sciroppo e disporli, ben allineati, su una carta oleata, quindi metterli a seccare in forno a 180 gradi per qualche minuto. Servire i fiori cosparsi con cacao in polvere o zucchero a velo. In verità, la ricetta originale di Lucertola, creatura di Sogno, prevedeva a cottura ultimata una spolverata di polvere di cacca. Ma a Caimano non piaceva e anzi lui stesso elaborò la variante definitva, quella che poi è diventata famosa, della polvere di cacao. Da I.Strain e S.Gandini, La cucina con i fiori, Sperling &Kupfer Editori, 2001.
Capitolo 5
La casa di Lucertola
“Vecchia Kala, le Acque non ti hanno mai detto niente?” Il serpente si stiracchiò, sotto la quercia. “Tu dovresti fare la guaritrice con il veleno che hai. Veleno è medicina. Chi ha il potere della morte ha il potere della vita. Davvero non vuoi fare la guaritrice?” Kala alzò il capo e il sopracciglio sinistro. “Ce n’è già uno.” “Oh be’, lavorate insieme.” Kala aprì le mandibole a 45 gradi, la testa in aria, gli incisivi in fuori. Lucertola colse il sorrisetto di scherno. “No perché se non vuoi fare la guaritrice allora devi fare la puttana. Sei un serpente nero Kala, renditi conto, nero come la dea Kalì, nero come i serpenti della chioma di I-**-**. …sai che non lo posso dire perché il suo nome spaventa i piccioni e poi mi sporcano dappertutto. Insomma l’acqua… o è dolce o è funesta e sempre serpentina. E quando si combina con il fuoco…” “Letizia fa per tutte. Gli Dei sono rispettati. E poi resta solo il tuo uomo. Vuoi forse che vada a pantegane?” “Ah già. Caimano non ti ha detto niente?” “Che sono carina?” Strizzò gli occhi al sole, le labbra sottili, lievemente curvate all’ingiù. “Mannò!” Il colorito di Lucertola virò improvvisamente sul verde, verde-giallo,
il colore della bile. La voce ebbe un picco acuto ma tornò quasi subito di velluto. “Mannò. Intendevo su quello che devi fare o non devi fare. Lo sai che lui ha sempre ragione.” “Sta lontano quello.” “Allora, se non ti ha detto niente…” fece Lucertola rosicchiandosi un’unghia. “Però se sognassi un po’ non scriveresti solo manuali, Kala.” Ricominciò. “Perché non ti schiacci un pisolino ogni tanto, vedresti un po’ di mondo... sogneresti romanzi generazionali… Sei sempre così nervosetta.” “Non posso. Troppi stronzi a cui badare.” Kala girò il capo a 360 gradi, con un movimento a spirale lo proiettò in alto e poi lo rituffò al suolo e scomparve nell’erba. “Lucertolina”, esordì nuovamente, “il tuo Sogno prevedeva che ti mordessi?” “No.” Rispose pronta. Ne era certa. Finiva con ‘e vissero felici e contenti’. Il morso di un serpente non ci stava. “Mmmmnm.” Kala fece ‘mmmmnm’ e Lucertola, che la conosceva bene, sentì brblumbrombluglugro, il sommesso ribollire del veleno. “Ma hai studiato giurisprudenza anche tu, come Mister Simpatia?” “No, Caimano è Sciamano giudice. Io sono insegnante.” “Mmmn ma che bella coppia.”
La casa di Lucertola conteneva tutte le cose che Lucertola amava. Caimano. Kala, Letizia la topina, suo marito Leo e i loro amici, Rembrant il gatto. Evelina, l’oca canadese, regalo di nonna. Ormai anziana, era la custode delle tradizioni di famiglia, la più amata dalla famiglia. Da quando era morto
Giovanni non aveva più guardato nessun oca. Sedeva vicino al focolare e raccontava storie, o tesseva, a volte tesseva e raccontava. Era lei che aveva insegnato a Lucertola a lavorare a maglia e Lucertola, entusiasta, aveva fatto un maglione verde, a scaglie, per Caimano, un maglione di lana grossa, che teneva molto caldo. Arturo l’Orso, il totem di famiglia. Abitava nel bosco a monte della casa e non si sentiva mai parlare di lui. Se non nelle conversazioni di Lucertola. “Caimano non è una scimmia! E’ un uomo. Discendedalle scimmie. La sua famiglia ha come antenato la Scimmia, come la mia l’Orso.” “Discende dalle scimmie come io dai serpenti.” Kala scuoteva la testa, come se se la volesse staccare e lanciare di qua e di là. Era il suo vezzo. Muoveva i pensieri all’interno e creava spazio. C’era anche Pablito e le sue femmine, perché un coniglio fa primavera, ma anche lui non si vedeva spesso. Era sempre di corsa. C’era una grande vigna e una piccola arnia, perché Caimano aveva vino e miele sulle labbrae anche le poesie sono spicchi di Sogno e si realizzano. C’erano cespugli di more selvatiche, alberi di castagno, pini, abeti, cipressi, alberi da frutto. I cipressi e i pini li aveva portati Lucertola direttamente dal vivaio perché in origine non ce n’erano. Quando Lucertola si alzava la mattina e apriva le finestre per accertarsi che ancora tutto fosse al suo posto, che il suo sogno fosse davvero realtà, le venivano le lacrime agli occhi da non riuscire a trattenerle. Quella vista soffice, quel verde così verde, come diceva Caimano, e soprattutto quei profumi erano il suo senso di casa. C’erano fiori di glicine, i fiori più morbidi; e fresie, i fiori dal profumo più dolce del mondo. C’erano gli Iris viola, in omaggio alla sua nonna, nonna Iris, che era un’artista. Il potere a volte salta una generazione. C’erano i gelsomini, in onore della nonna della nonna che si chiamava Gelsomina; e un grosso e rigoglioso cespuglio di caprifoglio, in omaggio alla nonna della nonna della nonna che si chiamava Caprifoglia. La nonna della nonna della nonna della nonna lei non l’aveva mai conosciuta e
nessuno era mai stato in grado di dirle niente su di lei. Non sapeva nemmeno della sua esistenza. Fino a quando non la vide in sogno. Fu molto emozionante. Si chiamava Lucertola. Era una strega. Era alta e magra, con i capelli lunghi, neri, raccolti in una crocchia a forma di ragno. Viveva in un piccolo paese e leggeva i Sogni alle persone.
Capitolo 6
Serenella Letizia, Sergio e Leo
Poco più a Sud dell’abitazione c’era un lago dove usava bagnarsi Evelina e tuffarsi Letizia e i suoi amici. Ogni tanto Lucertola lo guardava e si riprometteva di mettervi dei cigni. Ne aveva anche parlato una volta con Caimano. “Che dici, Caimano, facciamo anche due cigni?” “Lucertola,” Le disse, sprofondato nel divano, battendo la zampa alla sua sinistra. Era il suo modo di chiamarla a sé. “Lucertolina.” Non c’era verso, Caimano dopo il caffè diventava sonnacchioso. Se la strinse al fianco per accarezzarla meglio. “Lucertolina, ci sei già tu.” La guardò con occhi di cioccolata. “Non è che non ho voglia di sognare.” continuò “Fare la nostra bimba è stato bello.” continuò a spulciarla, con delicatezza, con metodo. “Ma non ho bisogno di nessun animale che mi ricordi l’amore che ho per te.” Così il lago ora le sembrava ancora più bello. Faceva scorrere lo sguardo sulla superficie dell’acqua, priva di cigni e riverberante d’amore, e le onde si increspavano. L’arrivo di Serenella non ò inosservato. Il giardino era gremito di topi, un tappeto mobile grigio-topo che si spostava come tirato agli angoli, con qualche buco e punto saltato o saltellante. Lucertola si chiese come facevano a vivere tutti insieme nel granaio e quasi si sentì in colpa. Kala approfittò per fare un po’ di pulizia. Solo gli elementi più promettenti e in carne. Quando, improvvisamente… all’orizzonte comparve Letizia con un codazzo di aiutanti a sorreggere tutti i bagagli di Serenella e Sergio. E a seguire un codazzo di aiutanti a sorreggere Serenella e Sergio. A casa di Lucertola non entrano
macchine. Non tutti sono abituati. I topi furono molto gentili. Erano curiosi di sapere cosa contenevano quei bauli. Cosa avrebbero potuto contenere? Loro andavano in giro nudi, facevano il bagno nudi, le corse nudi. Il cibo non mancava. Che avrà portato questa dalla città? La città è un mondo strano per i topini di campagna. Anche Serenella era strana. Forse in città andava il biondo ma bisogna dire che puzzava un po’. Non quel sano odore di topo, Serenella sapeva di candeggina. Perciò gli Spiriti le stavano alla larga. Caimano intanto era uscito, richiamato dal suono di tanti squittìi. “E’ arrivata la topa di fogna. Guardala lì, la finta bionda.” Portava dei sandaletti col tacco che le impedivano di sculettare, come le normali topine. Sergio invece, topo bigio e tossicchioso, si capiva che aveva la schiena bloccata. “Quelli altro che sogni, mezzo tavor la notte e si voltano dall’altra parte.” Lucertola gli si strinse al fianco e gli morse il lobo dell’orecchio sinistro. Caimano aspettò che Lucertola avesse finito, come faceva quando era Caimanito e aspettava solo una sua reazione e poi per niente al mondo se la sarebbe persa. Inclinò la testa e la appoggiò a quella di Lucertola. “Quand’è che ti sono spuntati quei dentini?” “Caimanito lo sai meglio di me, amare il proprio territorio fa bene ai reni.” “Lucertolina, a te non è spuntata solo la coda.”
“Ippiwewee!” Spalsh. Ecco Letizia. Tuffo numero 523. ‘A imbuto.’ Aveva milioni di tuffi, uno diverso dall’altro. Sob blubluglugluglu. Serenella. “OSSignore! E che mi sprofòndi così?! Tutto bene Serene’? Tutto a posto? Io non capisco. Non puoi toglierti quelle scarpine?! almeno per bagnarti? Va di
moda il piede blu in città?” Letizia non sapeva come fare con sua cugina.
Visto che Sergio non sapeva parlare altro che di lavoro Leo ne approfittò per portarlo con sé al mercato. Gli avrebbe dato una mano o almeno avrebbe fatto buona impressione. Leo, che era cresciuto nel granaio di Lucertola, aveva un banchetto dove vendeva i Sogni. “Sogni! Sogni Signori! Una moglie bionda e maggiorata? Chi vuole esser milionario? A ognuno il suo Sogno! Scegliete il vostro Sogno! Non abbiate timore. Ce n’è per tutti. Posto fisso per la vita! Viaggio sulla Luna! Vendesi Sogniiiii… Chevrolet del ’59, quasi nuova.” Ma quando Lucertola lo seppe gli disse di andare fuori di casa sua se voleva fare il commerciante. Qui non si vendono Sogni! E poi dei sogni per pantegane lei non voleva saperne niente. E così il povero Sergio, zampette anteriori sui reni, cercava di star dietro al buon Leo che gli raccontava com’è la vita di campagna. Aveva tanto di polmoni quel Leo per trotterellare rapido e instancabile, sbracciarsi, parlare di soldi politica e tecniche di marketing per migliaia di pertiche e poi ancora urlare a tutto il mercato le sue offerte. Mah, non ci sono più i topi di una volta, pensava Sergio. E risparmiava il fiato.
Capitolo 7
Serenella Letizia e Lucertola
“L’immagine della mia casa non era ancora completata. Ma a maggio arrivò Caimano. E mi accorsi che lo conoscevo già.” Lucertola fece una pausa. Una pausa ad effetto. Si fermò in attesa di una reazione da parte di Serenella, una reazione qualsiasi. La capacità di attenzione di Serenella era molto bassa, ma anche quella di reazione. Per non dire quella di azione. “L’avevo incontrato in sogno, no?!” gridò Lucertola, impaziente. “E’ così che lo riconobbi. Quando lo incontrai in questa realtà fece e disse le stesse cose che, quando ancora non sapevo che faccia avesse, aveva fatto e detto nel sogno, il sogno di un uomo, in questa casa…” Lucertola aveva già perso entusiasmo. Batté le mani per terra, sul prato, e guardò l’orizzonte di sottecchi con la testa storta. Lucertola non sapeva come fare con la cugina di Letizia.
“Ma davvero tu e Sergio non avete bambini? Perché, cara?… Non mi dire che usate quelle robe per non farne?! Oh ma come si fa? Fate l’amore in sacchetti di plastica? Magari usate anche i guanti. O ti imbottisci di ormoni come un pollo? Oh come si fa? E’ così bello fare topini! E’ così naturale.” Allargò le braccia e girò su se stessa, a trottola, con le braccia spalancate. Si fermò con gli occhi rivolti al sole e giunse le mani al petto. “Topiini! Uno via l’altro!” Spalancò le braccia. Si fece d’un balzo appresso appresso a Serenella e le prese un braccio con entrambe le zampette. “Poi, te lo devo dire,” Le squittì all’orecchio. “Non è che rimani incinta sempre…” Letizia ridacchiò. “Hihihihihhihhi.”
Buttò in acqua Serenella e si tuffò a sua volta con un fragoroso Splash! Tuffo numero 463. ‘A cavaturacciolo!’ “Fate l’amore in sacchetti di plastica. E’ come fare il bagno vestiti, come te con le scarpe o altri in costume. Non si fa. Non si fa.” Continuava, in acqua, cinguettante. Nuotava a grandi bracciate, facendo le bolle. Poi si voltava sul dorso. “Il mio cuore canta.” Modulava la voce da soprano. Più sottile e tagliente di quella di Lucertola. Soprano leggero era lei. Era la sua unica canzone, semplice: un solo verso. La cantava sempre. “E’ cosìbbeèllo!...” Serenella era già uscita. Non aveva fiato e sentiva freddo. “Anche tu, Lucertola, hai bambini?” Chiese a Lucertola, seduta sull’erba ad ammirare lo spettacolo dei topi. Lucertola rispose soltanto: “Vieni, ti faccio vedere la mia bambina.” Aspettò che la finta bionda si fosse asciugata e la guidò verso il sentiero nel bosco. “E’ molto distante?” “No.” Sorrise Lucertola, distratta dai rumori che provenivano dal lago, oltre la spalla di Serenella. “E’ cosìbbeèello!...” “Il mio cuore caaanta…” Splash. Tuffo numero 1. ‘Di culo.’
“No, non è distante”, proseguì Lucertola, “E’ che a volte è un po’ difficile da
trovare, dipende da dove si è cacciata. La mia bimba.” “La tenete nei boschi?” chiese Serenella ansimante. Si stavano addentrando tra le conifere. “Certo. Ha bisogno di aria pura.” Lucertola adorava arrampicarsi su per i sentieri scoscesi, con le pietre smosse. Serenella non ce la faceva già più. Non sapeva se aveva più paura di rompere il tacco o la caviglia. Le sembrava di non toccare mai terra. E temeva ad ogni momento di ruzzolare per terra. “Che cos’è questo?” “Oh, eccola là, brava! L’hai trovata prima di me.” “Che cosa?” “Come che cosa? La mia Bimba, la mia piccola” Lucertola le corse incontro e l’abbracciò. La baciò sulle guance, le sfiorò le corna e le accarezzò la nuca e le grattò forte il pelo folto sulla schiena. “Non è una capretta normale, sai” “Lo vedo.” Non aveva niente della capretta normale.
Lucertola era piccola, non ci stavano i bambini dentro di lei. Non ne aveva l’energia né la vocazione. Le dispiaceva perché amava Caimano ma sapeva che era meglio di no. Così un giorno, anzi una sera, glielo disse. Gli pose una mano sul viso. Lo copriva tutto. Lui le baciò il palmo e lei gli percorse con le dita il contorno delle labbra. Erano così belle! Gli percorse con le dita il contorno dei denti. Erano così belli, bianchi e forti com’erano. Glieli baciò a uno a uno. Gli si infilò sotto la maglietta. “Lucertolina! Mi fai il solletico!”
A quel punto lei si ritrasse e lo guardò. “Io sono una creatura di Sogno. Ho un utero per Sognare, non per figliare. Con me farai Sogni.” E le sembrò una cosa così bella e così dolce. E quando lo disse, nello stesso momento se ne dimenticò, e lasciò che il piacere superasse l’amore e che l’amore superasse il piacere.
“Ci sembrava giusto avere una capretta da nutrire e che nutrisse noi. Il cibo ormai è un affare chimico, la nostra capretta invece è vera, potere puro. Vedessi che bei budini blu faccio al mio uomo! Trascorro autentici periodi di gioia a farglieli. Con tutta la gioia che ci metto, per forza che ne va pazzo. E’ così che abbiamo partorito un Sogno. L’abbiamo cercata e trovata in Sogno, non ti dico in quali mondi lontani e che fatica, esattamente come la volevamo. Non è mica una capretta normale quella.” Lucertola la guardò e i suoi occhi brillavano d’amore. Serenella poteva confermare. Non aveva niente della capretta normale.
Capitolo 8
In viaggio con Caimano. Atisora
“Lucertola! Quando la smetterai con questi bigliettini!” sbraitò Caimano. Lucertola manteneva viva la tradizione scolastica dei bigliettini appiccicandogliene ogni tanto qualcuno alla specchiera del bagno. Li scriveva durante la notte, le arrivavano trasportati da una brezza sottile che le sollecitava il cuore. Al buio correva in bagno e poi, silenziosa e leggera, si rimetteva a letto. Caimano era sempre il primo ad alzarsi la mattina. “Quando la smetterai con questi bigliettini! Mi fanno venire voglia di tornare a letto a tenerti stretta…” brontolava Caimano.
Haiku notturno
Se ti mordo
non volermene tu sei così buono… e io così cattiva… Se ti voglio bene vòglimene.
“…Come faccio a uscire?” Caimano era una scimmia molto affettuosa.
Haiku notturno
Canto una musica dolce per addormentarti piano canto una musica dolce per risvegliarti piano ti bacio sulle labbra senza far rumore.
Caimano la prese e se la strinse al petto come se non la volesse più lasciare andare. In effetti lì era il posto suo.
scimmia più bella non c'è drillo più cocco nemmeno, questo secondo me, e non se ne può fare a meno.
Era bello specchiarsi la mattina e ricordarsi di essere tanto amato. Scimmia più amata non c’è. Caimano sorrideva, come quasi sempre. Era allegro di natura.
Lucertola non si ricordava sogno in cui non fosse sorridente. Andò in cucina, dove Lucertola quel giorno stava già armeggiando con il caffè. Non sapeva che dire, non era tipo da bigliettini. Era come il Sole, che stava inondando, gagliardo e obliquo, la stanza, fino al tavolo grande. Era pieno come il Sole, caldo da scoppiare. Strofinò il muso sul petto di Lucertola, tra la gola e i piccoli seni. La sollevò dai fianchi e non la lasciò più.
Aveva promesso a Marzio che lo avrebbe portato in un posto e il Sole era già alto ormai. Era un luogo molto lontano, fuori dalla loro proprietà. “Avanti Anaconda! Si trotta.” Lo zaino di Caimano era grosso e pesante, sarebbero stati in viaggio l’intero giorno. Caimano avrebbe fatto un fuoco e cotto la carne e ne avrebbe lasciata un po’ per le volpi del bosco. Prese un maialino intero e una bottiglia d’acqua dal freezer per averla fresca. Salutò Lucertola. Lei gli accarezzò il petto. “Sii prudente.” Glielo diceva ogni volta che usciva di casa.
“Eccola là, la vecchia Kala. Ehi! Ti stai santificando, lì, sotto il cipresso?” Kala non sapeva perché ma il cipresso era il suo preferito. “Ecco là, la G.S. la Grande Scimmia. Come mai da queste parti, Mister Simpatia?” Kala nascose il suo taccuino dietro la schiena. ‘Vita sessuale dei Ragni.’ Un nuovo manuale! ‘Tutto che quello che avreste sempre voluto sapere e non avete mai osato chiedere’ Cap I come fare felice un Ragno. Sempre meglio tenerlo sopra… Erano solo appunti sparsi per il momento. Il cipresso evidentemente la ispirava. Adorava quell’albero. Caimano doveva approfittarne finché era buona. “Andiamo a trovare Mister Tormento Pantheralex.”
“Oh, chissà come sarà contento.” Il sarcasmo si addiceva a quel serpente. “Vuoi venire con noi, Kala? Potrebbe servirci il tuo aiuto.” “Ma vaffartisbranare.” “Era per farti divertire un po’ dolcezza, smuovere le mascelle, mandare giù quel doppiomento checc’hai..” “…pensa per te, trippone!” Soffiò forte. Caimano scoppiò a ridere. Lo sapeva che sarebbe finita così. Ma gli piaceva lo stesso fare conversazione. “Peccato che non ci sia anche Berny!” Riuscì a dire, dopo alcuni periodi, tra le lacrime per il troppo ridere.
“Ehi Marzio! Stringi stringi,” Caimano fece il gesto di avvitare un bullone, “stringi stringi… non sei mica tanto male come camminatore.” Non era facile stare al o con Caimano. Camminava spedito e non si voltava mai indietro e si fermava solo al punto di arrivo. O per salutare gli amici. “Puoi ben dirlo compare, com’è vero iddio, io non mollo.” “E brava anaconda! Sei anche forte in luoghi comuni, bravo brillantone.” Marzio si guardò i piedi, confuso. Si muovevano veloci.
Berny non si vedeva più nella casa di Lucertola da quando la prima volta si era imbattuto in Kala. Procedeva baldanzoso e speranzoso, in cerca dei suoi nuovi vicini, quando il cuore gli mancò un colpo. “Ehi tu!” Un serpente nero si ergeva verticale, con la bocca aperta e le mascelle fuori da ogni articolazione. Soffiava un fiato gelido. “Ehi tu, Grande Uccisore di bisce e orbetti! Vieni qui se hai il coraggio!
Assaggia Kala. Due mascelle come due cisterne di veleno e più scattanti di un battito delle tue ciglia, ritardato. Pulce rubagalline. Avanti se hai il coraggio, coda a scovolino.” A Kala non piacevano le persone nuove. Non ci teneva a socializzare. Berny scappò e non si fece più vedere. “Che peccato!” disse Caimano, divertito, ricordando quando Berny stesso gli aveva raccontato l’episodio. “E’ un ragazzo così simpatico!”
Caimano parlava volentieri, quando c’era da parlare, e, quando c’era da stare zitti, altrettanto volentieri, stava zitto. Osservava l’aria, la luce, il colore, le forme intorno, sentiva le correnti e scherzava col vento. Osservava le piante e le chiamava per nome.
“Qui a volte si trovano delle pelli di serpente, dopo che hanno fatto la muta. Una volta ne ho portata una a Kala. Magari ne troviamo anche oggi. Ci sono tante tane qua.”
Stavano attraversando una zona alta, calda e rocciosa. “Ti interessa, Marzio?” “Humn.. No, grazie. Mi basta la pelle che ho.” Mai qualcosa che lo interessava a quello lì, pensò Caimano. I serpenti sono così, sono rigidi accidenti, scègliteli come compagni di viaggio e stai sicuro che ti annoi. Altrocché animali del Sud. Se per questo molto meglio i porcospini. Per terra c’erano talmente tanti grilli che dovevi per forza calpestarli, era un tappeto. Adesso stavano attraversando un grande prato. Qualsiasi prato attraversato con Caimano era un grande prato. E i grilli così tanti che neanche Marzio, che era un tipo che si impegnava parecchio, riusciva a non calpestarli.
“To’ guarda! Chissivede!” Caimano si fermò di colpo. Forse aveva visto un grillo che conosceva. “Atisora!” Marzio conosceva quel tono. Adesso gli dà una delle sue pacche sulla schiena, pensò. Però continuava a non vedere nulla. Caimano si accucciò. “Emmarzio! Vieni qua! Non aver paura. Mica ti morde!” Marzio si accucciò. “Piacere.” disse ai fili d’erba. Non c’è che dire, Marzio era un ragazzo che si applicava. “Maddove guardi, brillantone.” Ci pensò un momento. “Atisora, vieni qua, che questo è un’anaconda.” Atisora prontamente gli saltò sul polpastrello del dito indice della mano destra. “Sempre in forma, vecchia mia.” “Sta facendo gli esercizi di ginnastica.” Continuò Caimano rivolto a Marzio. “Dice che al mattino si alza che più radioattiva non si può di questi tempi e se non fa una mezz’epoca di esercizi tre volte al giorno non ce la fa a tirare a sera. Atisora è una grande. Marzio, non te l’ho detto. L’ha fondato lei il Club dei Ragni Radioattivi. E’ una società esoterica ma aperta a tutti. Potresti andarci persino tu alle loro riunioni, eh brillantone, solo che non ci capiresti niente. Parlano al contrario e scrivono a specchio. Atisora = Arrosìtaaa. Bisogna essere come loro per capirli. Questa è la verità. Vedi che mi dà ragione.” Atisora fece un grande sorriso. “So bene io.” Fece Caimano. “Che poi tu Atisora ti lamenti… perché è un lavoraccio, ed è vero, ma guardati, con tutta questa ginnastica speciale che ti tocca fare c’hai la Luce che ti a attraverso. Nessuno sta meglio di te. E guarda poi che belle gambette. Eh Atisora?” Caimano scoppiò in una risatina nervosa.
“Dice non dirmelo sto piena di ragni!”
Con il massimo amore e la massima delicatezza che si può immaginare da una scimmia e molto di più, Caimano depose Atisora sul suo filo d’erba. Ancora accucciato, pose il palmo della mano destra a terra “Vedi Marzio… guarda” Caimano teneva gli occhi chiusi. Marzio non sapeva dove guardare. Caimano sembrava parlare direttamente alla Terra, sembrava che le parlasse parole d’amore. Parlava tranquillo, con voce carezzevole. “Terra e Cielo stanno sempre uniti. Vedi divisione? No. Sono uno parte dell’altro, e tutti noi, come loro, siamo innamorati.” Si alzò. “Dentro di me è sempre Aprile.” Caimano riprese a camminare. Marzio gli corse dietro.
Capitolo 9
In viaggio con Caimano. Ifigenia
Era tutta la mattina che erano in viaggio ormai, di o più che buono e senza soste. Si erano allontanati parecchio dalla tenuta di Lucertola. Avevano oltreato il fiume e si trovavano ora immersi negli stupefacenti e misteriosi boschi del Villaggio del Sogno. A Caimano avrebbe fatto piacere andare a trovare cioè a cercare Jagger, il Giaguaro, ma con Marzio non si poteva fare, era troppo pericoloso. Però un saluto a Ezechiele non glielo toglieva nessuno!
“Ifigenia! Ifigenia! Mi hai sentito! Sì, pupa, stavo venendo da te. Come sta Nonno Eze?” Marzio guardò. E questa volta Marzio vide. Una bella donnola. Lo sapeva, Caimano era il tipo a cui piacciono le donnole. “Ifigenia! Chémmmiraccònti?” Caimano si voltò verso Marzio: “Ne sa una più del diavolo ‘sta stronza.” Sempre camminando si abbassò di lato e le diede una grattata dietro l’orecchia. “Attraversa i mondi lei, brava sciamana.” Disse con tenerezza. “E poi qualche segreto c’è verso che me lo racconti.” Anche Caimano trottava, saltellava di allegria e complicità. Ifigenia era proprio amica di Caimano, gli trotterellava al fianco, mai vista una donnola così. A dirla tutta, pensò Marzio, mai vista una donnola!
A vederla era un bel bocconcino. Tanto più che a Marzio da qualche epoca ormai la fame aveva iniziato a rodere. Però sembrava l’essere più schivo e silenzioso del mondo. “Non è molto loquace.” Fece un tentativo. “Muta è.” Caimano piantò gli occhi negli occhi di Marzio. “Segreti sono.” Da quel momento Marzio non fu più degnato di alcuna attenzione. Caimano e Ifigenia, come due amanti, o come due fratelli, camminavano vicini, sincronici, senza dire una parola, con continui gesti di intesa, che percepivano solo loro. Marzio rinunciò a capirci qualcosa. Ma guardarli era bello, non gli faceva più sentire la fatica né la fame. Sembravano felici.
Qualche epoca più tardi Marzio riconobbe la sagoma di Ezechiele. Decisamente un ottimo posto per fermarsi a riposare. Sotto le fronde del maestoso, nobile Olmo, Caimano depose lo zaino, aprì una tasca e ne estrasse un sacchettino di tela. Chicchi di mais. Che sparse ai piedi dell’Albero. “Chècci fai coi chicchi che ti porto eh? Ezechiele? Che ci fai? Te li mangi? Li fai sparire li fai…” Ripose il sacchettino nello zaino e abbracciò l’albero, per ringraziarlo e perché gli voleva bene. Anche Marzio l’abbracciò. Era un tronco così grande che avrebbero potuto abbracciarlo in cinque e neanche sfiorarsi.
“Che ti vorrai mica fermare qui! bivaccare ai piedi di Eze?!” Caimano si riscosse e guardò il compagno per traverso. Marzio si era già sistemato. “Con molto rispetto... Si sta così bene qui.” Marzio fece un tentativo. “Sono sicuro che anche lui sarebbe...” “Macché! Vieni via da lì. Raccogli quella copertina e rimettila al suo posto, dentro lo zaino. Svelto. Dai Marzio che tra poco ci fermiamo a mangiare. Ne hai fame? Bere ti ho fatto bere, cosa vuoi di più. Dobbiamo solo arrivare su quell’altura. Lì possiamo accendere il fuoco. Siamo vicini alla casa di Mister Tormento. Qui,” Si sbracciava Caimano, “Nel versante Ovest del bosco ci sono un sacco di felini. Avrai sentito parlare di Milton, il puma. Un tipo per niente facile. Per me è pure antipatico. Ma che vuoi farci, è un felino. E di Nithaela? Hai sentito no? La sua femmina. Ecco, lei è pantera nera, dev’essere in qualche modo imparentata con Alex. Però lui vive isolato, ai margini del bosco. Oltre quell’altura.” Marzio si sentì sollevato dall’essere quasi giunto a destinazione. Risparmiò il fiato e riprese a strisciare pardòn a camminare. Non alzò il capo finché non sentì Caimano tuonare.
“Buongiorno Dotto’!” Disse Caimano con trasporto, a quattro polmoni. Fece un mezzo inchino a un uccellaccio nero in planata libera. “Rebus sic stantibus, mutatis mutandis, il tempo oggi non è male.” Gli rispose questi, dall’alto di un ramo di un albero. “Il Sole, il Sole!” disse Caimano, battendosi quattro volte il petto, senza chiedersi perché. “Eh, Dotto’ ” Aggiunse senza neanche prendere fiato, “Complimenti per il latino! Che è successo, ha imparato la grammatica?” Il signor Corvonero da quando Corvoblu, la sua balorda creatura, se ne era andato di casa, aveva deciso di dare una svolta alla sua vita e migliorarsi come corvo. Si era iscritto a un corso di latino per corrispondenza. “Latino per
Sognatori”“Eh Dotto’, rebus sic stantibus, mi saluti la signora. Noi stiamo andando a trovare Mister Tormento Pantheralex. …E mi saluti anche quella bestia rara di suo figlio!” A Caimano piaceva Corvoblu. “Oh, per tutti i corvi, fate attenzione con quella pantera! Animale nervoso.” “So bene io!” Perché era nervoso quell’animale sapeva bene lui. Non era difficile immaginarlo, pensò Caimano, con un mezzo sorriso amaro. “Siate prudenti.” Continuò Corvonero. “Anche tu Caimano, giovanotto, porta i miei omaggi alla tua signora.” “Sarà fatto, Dotto’!” Corvonero era un gran corvo, ma bisognava essere così con lui, bravi borghesi. Un poco razzisti. Preferibilmente eterosessuali. Marzio questa volta si sentì davvero sollevato dall’essere quasi giunto a destinazione. Risparmiò il fiato e riprese a strisciare pardòn a camminare. Non alzò il capo finché non udì il fragore dello zaino di Caimano, finalmente a terra.
Capitolo 10
Lucertola e nonna Lucertola
Lucertola chiuse con attenzione la scatola di cartone e scrisse con pennarello rosso grande “LEO”. Lucertola era una creatura di Sogno. Sognava le storie che raccontava Evelina l’oca, le forme che le suggeriva Arturo l’Orso. C’era anche una stella lontana che si chiamava Arturo. Lei c’era andata ma non era mai riuscita a portarci quel pigrone del suo totem. Forse era troppo grasso. Inconvenienti da Orso. Però il suo lavoro Arturo l’Orso lo faceva eccome. Lucertola sapeva riprodurre i Sogni, con le sue mani, e questo lo doveva a lui. E poi affidava il tutto a Leo, il marito di Letizia. Quel topo era un ottimo venditore, riusciva a vendere anche sua madre, Donna Gertrude, che a dirla tutta non valeva quel granché. A Lucertola piaceva fare tutto, tutto quello che non aveva mai fatto prima e che non sapeva come si faceva. Ci stava a pensare un attimo. Anzi, meglio detto, ci faceva un pisolino sopra. Faceva a mano vestiti, ricami, borse in pelle, tamburi decorati e dipinti, candele con simboli magici per rituali noti e non ancora noti. E poi gioielli e amuleti di ogni tipo, uno per ogni Sogno. Sempre modelli nuovi. Come con Caimano: non faceva mai due volte la stessa torta. (“Sei la mia disperazione Lucertoli’!”) E poi creme di bellezza, fatte con le piante medicinali del giardino e la collaborazione di Kala, che ci sputava dentro. Anche Lucertola soffiava sulle sue opere e le animava. Ultimamente si era apionata ai ritratti di famiglia. Modellava statuine in argilla che affidava al forno di Orso perché diventassero statuine in terracotta. Grandi quanto le sue mani grandi e piatte: chiudeva il pungo e le teneva dentro. Aveva fatto Nonna Lucertola, così come se la ricordava dal sogno, e tutte le antenate dopo di Lei, e
tutti gli amici, e anche i discendenti, già che c’era, così come se li ricordava dai sogni. Che l’amore circolasse e irrorasse tutti i rami! Tutti gli amici li aveva intorno a sé anche dal vivo quindi trasformando l’argilla li accarezzava, li amava, li sentiva dentro, li riproduceva e poi poteva anche offrirli al mercato delle pantegane. Però doveva sempre ricordarsi di chiudere bene le scatole per Leo. Una volta aveva fatto un cesto in ceramica raku formato da serpenti intrecciati e attorcigliati color antracite metallizzato. Da quel nero lì partivano tutti i colori e i riflessi del mondo, dal celeste al rame. A lei i colori venivano fuori così. Ma non era questo il punto. Non aveva potuto fare a meno, mentre li lavorava, di respirarci sopra… E Leo fece un salto così quando per la strada verso il mercato si sentì sibilare sul collo. Sibilo di serpente!... In genere gli altri amici erano meno inquieti e non creavano problemi. Erano pur sempre statuine piene di amore. C’era amor di oca, amore di gatto, amore di tartaruga, amore di drago... Lucertola conosceva un sacco di gente. Si facevano ritrarre di buon grado e sapevano che avrebbero portato un po’ dei loro poteri tra le pantegane di fogna.
Lucertola pose le mani sulla scatola e lasciò vagare lo sguardo fuori dalla finestra. Il suo Caimano stava andando verso Ovest per incontrare Pantheralex. La finestra della cucina era orientata verso Est. Caimano voleva fare colazione col Sole, era sempre stato il suo sogno. Lo sguardo di Lucertola si perse su queste sue montagne. Montagne fitte di vegetazione, folte e morbide, soffici e blu, come la capigliatura di un uomo di colore. O della nonna Gelsomina.
Caimano… quante formule chimiche le era costato…
Le venne in mente quella lezione di Jagger a cui aveva partecipato in Sogno. Tutti i banchi erano disposti e cerchio. Conosceva i suoi compagni di scuola ma c’era sempre qualcuno nuovo, o anziano, che non aveva mai visto. Lei era entrata e si era seduta vicino alla porta, come suo solito, e alla sinistra di Katjusha, il suo io russo di una vita futura. La lezione era sull’Arte. Era capitata bene questa volta. “L’arte e il pianeta Nettuno”. Le sembrò curioso di non essere
arrivata con Caimano ma le spiegarono che avevano chiesto a Caimanito di andare a prendere una persona con la macchina. Lucertola rispose: “beh.. se l’hanno detto a Caimanito… Caimanito non sa guidare.” Allora l’uomo alla sua sinistra le mostrò un libro, rivestito a mano, il titolo era: “Se vuoi fare arte non tenere conto delle presupposizioni⁷”
Caimano… quante lezioni… in questa e nell’alta realtà. A parlare a parole e gesti segreti, senza neanche toccarsi. Era il suo compagno di banco e il suo amico, in questa e nell’altra realtà. La prendeva in giro in entrambe le realtà. E quando gli altri non li vedevano strofinava il muso con il suo o dormiva in braccio a lei. Sognatore anche in sogno! Il solito stakanovista!
Quante formule chimiche le era costato…
Tutti quei corsi con Jagger non li avrebbe mica seguiti. Cioè li avrebbe seguiti ma non tutti. Lei stava cercando disperatamente di imparare a disegnare e tutte le mattine si ritrovava a esercitarsi in algoritmi e formule matematiche. Era Caimanito quello bravo in matematica, non lei! Lei sulla stella Arturo c’era già stata e già non ci aveva capito niente.⁸ Ma forse era previsto così, gli Dei avevano in programma che prima o poi ci si capisse qualcosa. E i 64 corsi del dipartimento di ingegneria aerospaziale e linguistica applicata erano un buon esercizio, anche quando si trattava di memorizzare la composizione chimica della miscela di carburazione. Nonna Lucertola di certo era al corrente, ma si guardava bene dal rivelare troppo. Era sempre stato così.
Tutto era iniziato quando L’immagine della sua casa non era ancora completata. Ma a maggio arrivò Caimano. E lei si accorse che lo conosceva già. Era lui, lo
aveva sognato un anno prima. Non aveva nulla del bambino che lei aveva conosciuto. Non ne aveva più neanche i capelli. Solo dopo che ebbero conversato qualche epoca riconobbe lo stesso luccichìo degli occhi. E aveva gli stessi libri in mano, gli stessi modi di fare indosso, del giovane uomo che lei aveva sognato. E frequentavano la stessa università. Tutto era iniziato quando negli anni a venire, tutte le mattine di tutti gli anni che avevano seguito la fine della scuola, Caimano si era svegliato con la sensazione di aver sognato Lucertola, con la sensazione fisica dei suoi pugni o delle sue labbra o dei suoi occhi verdi, increspati e profondi come il mare. “Ti ho sognata tutte le notti.” Le disse, finalmente, sotto i portici dell’università. La riconobbe subito lui invece, le sembrava non fosse cambiata in nulla da quella bambina con le trecce. Sognarla tutte le notti gli aveva concesso una familiarità con lei che nemmeno ai tempi della scuola possedeva. Non aveva perso per un solo giorno il contatto con lei. “Lucertolina! Chèccifai qui?!” Lucertola stava andando a lezione di canto, si sentì rincorrere da dietro e spostare di lato, con una zampata alla spalla sinistra. Le venne pure paura. Poi arrivò Caimano. Siccome era l’unico uomo che c’era, lo riconobbe subito. E poi lui aveva in mano lo stesso libro che lei aveva visto in sogno, sugli Indiani d’America e i Cinesi della Cina, ed era già apprendista Sciamano giudice, le fece vedere il biglietto da visita e lei disse sì lo so, l’ho già visto… “Ti ho sognata tutte le notti.” Le disse, finalmente. E lei disse, senza fiato, “Anch’io. Sto finendo di disegnare casa.” E lui la guardò con gli occhi di Caimanito ma più grandi, con un amore ancora più grande. Una cascata di acqua limpida che veniva giù, e una porta aperta.
E poi guardò da un’altra parte e disse “Sto frequentando un master in Sogno e una specializzazione in Popoli delle Stelle.” Lei che aveva perduto la cognizione del tempo e dello spazio perse anche quella del perché improvvisamente lui si era raffreddato, si era allontanato. Ma si riscosse in tempo per dire: “Anch’io.”
Tutto era iniziato quando la nonna quella notte stessa in sogno le aveva detto: “Mi piace quel Caimano. Non è un cattivo ragazzo. Certo, un gran rompiscatole…” “Andiamo Nonna! Dimmi qualcosa che non so.” Nonna le lesse la cartella clinica di Caimano, malattie e rimedi. “Va bene, Nonna, grazie dell’aggiornamento. Mi sarà senz’altro utile. Ma al momento… Cosa devo fare per farlo innamorare, perché lui sia devoto a me come io a lui?” “Hai carta e penna? Brava. Allora scrivi. “Rito per avere un fidanzato” Bicchiere di latte fresco tiepido dolcificato naturalmente, con zucchero di canna o miele, meglio miele, e, a sinistra per chi guarda, una manciata di confetti bianchi, meglio nove, al termine di un corridoio domestico in direzione S/O. Se vuoi sotto il latte puoi scrivere il nome su un bigliettino. Lasciare 12 ore.” “Grazie Nonna. Tutto registrato. Non è così difficile. Dimmi ancora qualcos’altro, ti prego...” “E’ un periodaccio per lui. Sta litigando con tutti. Più del solito intendo. La sua vita attuale sta finendo. Ma è un processo lento. Ma se lo vuoi proprio ora… puoi averlo.” “Ora? E’ uguale ora o dopo: ora e per sempre. Meglio ora già che ci siamo.” E, pronunciate queste parole, Lucertola perse la connessione del Sogno.
Dopo sei mesi si sintonizzò nuovamente con l’asteroide dove risiedeva Nonna.
“Nonna, Tu mi hai detto, testuali parole, Ma se lo vuoi proprio ora puoi averlo. Com’è ‘sto fatto. Caimano ha detto che non può che non ne capisce niente che sta facendo delle cose è impegnato. Neanch’io ci capisco più niente. Tu hai detto orasei mesi fa.” “Ora ti dissi? davveèero?” “Forse intendevi ‘sei mesi’, il tempo nell’altra realtà non esiste, perciò…” “No no, intendevo proprio ora. Perché, se ti avessi detto un anno e mezzo tu avresti accettato? avresti resistito?” Oh… Lucertola impallidì, assunse quell’aspetto verdognolo che nell’altra realtà le donava tanto. Oh ecco. “Ecco.” Disse Nonna. Emanava come al solito quella dolcezza e quella sapienza che solo una nonna può avere. Rese la sua immagine sempre più evanescente e a poco a poco sparì. “Aspetta Nonna! Non capisco, mi hai dato il rito…” Lucertola non vedeva più niente ma qualche cosa la sentiva ancora. “Il rito? Ah già! Ma credi di avere bisogno di riti?!” Nonna Lucertola rideva, rideva di una risata cristallina, non l’aveva mai sentita ridere prima di allora. Una risata senza fine. “Sei tu lo strumento, Lucertolina, gli Dei hanno già deciso. E da prima, da molto prima che tu sapessi.”
7 in sottolineato nel testo del sogno 8 Per chi non ci fosse ancora mai stato, Arturo è un gran bel posto. Vi abitano dei Signori estremamente evoluti ed amabili, di stirpe nobile e antichissima, antica quanto l’Universo stesso. Alcune delle formule della vita e dei processi
generativi così come avvengono sulla Terra provengono da loro. Inoltre si capisce benissimo che possiedono i segreti dell’Universo, quelli che vengono da loro e anche quelli degli altri Signori. Possiedono tutti i segreti dell’Universo, come Caimano possedeva la mappa dei nei di Lucertola, così, in un battito di ciglia, come aprire il cassetto del comodino con tutti gli algoritmi dell’Universo dentro. Si capisce che loro li capiscono. Per il momento però si capisce solo quello. 9 Nel caso si desiderasse un fidanzato ricco o si desideri rendere ricco il fidanzato prescelto, disporre alla destra del bicchiere una candela gialla. Lasciare bruciare per 24 ore o fino ad esaurimento. Nel caso in casa non si avesse un corridoio con una estremità a S/O, rinunciare al rito e al fidanzato.
Capitolo 11
Pantheralex e Dheborah
“Sient’ammè Marzio. Adesso ti dico due verità. Uno. Non c’è nessuno più pericoloso di un pazzo.” “Dicono che Pantheralex sia un animale nervoso.” Marzio fece un tentativo. “Pazzo è. Uno. Non c’è nessuno più pericoloso di un pazzo. Perché un pazzo è imprevedibile. Anche nei sogni. E’ uguale. Stesso discorso. Se sogni un pazzo aggressivo si materializzerà in questa realtà in un male a cui non puoi porre rimedio. Due. Non c’è nessuno più pericoloso del Caimano.” “Vuoi dire che i coccodrilli come animali sono i più…” “No no Marzio. Non ci siamo capiti. Non di un caimano. DelCaimano. Qui presente e sottoscritto.” Caimano si colpì il petto alternativamente con entrambi i pugni. La tempra di King Kong. La Grande Scimmia, la G. S. La foresta era fitta e molto silenziosa. Il territorio di un felino è sempre piuttosto vasto e i felini sono bestie specializzate nell’arte dell’agguato il che significa normalmente invisibili. “Tu stai dietro, anzi sotto di me, Marzio, e non ti capiterà nulla.” Caimano avanzava a grandi i, tirando pietre. Era l’immagine della prudenza, un manifesto di strategia. Marzio ricordava di essersi sentito più al sicuro. “Non gli facciamo mica niente a quello. E’ solo per fartelo vedere.” Procedeva irrefrenabile a grandi i ma percepiva ogni soffio di vita a 360
gradi intorno a sé. “Adesso lo facciamo arrabbiare così viene fuori. Pussy puussy… Micio miìicio…” Marzio era diventato freddo dalla paura e anche dal coraggio. Oltreata la soglia della freddezza poteva succedere di tutto, poteva fare tutto. “Adesso vedrai che si arrabbia.” Caimano si volse indietro verso Marzio con quel luccichìo da Caimanito negli occhi, gli occhi che ridevano. I muscoli e i tendini però erano tutti tesi. Caimano era pronto e presente. Era disposto, come sempre, se occorreva, a lottare fino alla morte. Marzio non era da meno. Anche Marzio era disposto a lottare fino all’ultimo sangue, fino alla morte. Quella di Caimano. Poi avrebbe potuto proseguire strisciando… invisibile tra l’erba. Insomma una soluzione si trovava. “Adesso vedrai che lo faccio arrabbiare. So bene io.” Annuì brevemente con forza, come a dire sient’ammé. “Pussy puussy,” ricominciò “femminuucciaaa…” “Ohèi! Presenti esclusi.” si girò di scatto verso Marzio. Nel bosco si sentiva solo il rumore dei i di Caimano. “Adesso arriva il colpo di stiletto del vecchio Caimano. Sta a vedere e impara Ma’. Ci vuole sottigliezza Marzi’. Finezza e sottigliezza. Stavvedde’ eh…” Gli parlava tutto inclinato, da dietro il dorso della mano. “Mister Tormento Pantheraàaaleex?...” gridò al bosco. HUMMRMRMN. Come si scrive il ruggito gutturale e scontroso di una pantera? Più o meno così: HUMMRMRMN. La sottigliezza funzionò. “Alex mi chiamo!” ruggì di rabbia, spaventoso.
Tra i tronchi degli alberi nella penombra del crepuscolo si scorse baluginare una forma scura e lucida. Marzio si sorprese ad osservare, con la sua innata freddezza, che davanti a loro stava una pantera. Nel senso di una vera pantera. Pantheralex si capiva chiaramente che era una pantera. Aveva gli occhi da pantera, aveva le mani da pantera con le dita che si arcuavano e facevano sporgere gli artigli retrattili, aveva il pelo da pantera. Caimano non era così. Non solo aveva meno pelo. Non era così evidente che era una scimmia. A volte si scaccolava al sole, a volte mangiava la frutta, direttamente dagli alberi, con osso e tutto, e si infilava quattro o cinque pomi interi dentro la bocca. Ma erano vezzi. Non si capiva mica che era scimmia. Caimano era un campione di elusività, un vero guerriero, si consolò Marzio. E gli si acquattò sotto. “Certa gente, così prevedibile… Hihihi. Un pazzo prevedibile!... Questa è nuova. Come siamo caduti in basso eh Ma’!… …Maarzio? Era lì fino a un attimo fa… Ommarzio!! Marziiooo… Pucci puucci…” Si sentì un vago frusciare di fronde. Caimano all’istante girò il capo e riconobbe i cespugli di rovo, poco distante, ancora in movimento. Chi era stato? “Marzio vabbé cadere in basso. Ma proprio i rovi?! Perché non le ortiche!” Marzio, pancia a terra, avanzava perfettamente invisibile e protetto, con la camicia e la pelle rigate di sangue. Caimano non la finiva più di ridere. Non si era aspettato di divertirsi tanto. In fondo era solo andato a trovare una pantera paranoica e feroce. HUMMRMRMN!… Pantheralex non tollerava oltre la presenza di ospiti nel suo territorio. “Dai Marzio, alzati, su. Affronta la morte con dignità. Ho intenzione di offrirti come pranzo, anzi come cena, vista l’ora.” Caimano continuava a ridere, a volume solo un po’ più basso. Si ricompose e si concentrò sulle pubbliche relazioni. “Appànter.” Gridò.
“Mica vogliamo disturbarti.” Proseguì in tono più intimo e confidenziale. “Volevo solo presentarti al mio amico, qui, il Signor Carnetenera. Lo faccio per lui, sai, è per la sua istruzione. Non ho mai conosciuto in giro un modello negativo come te.” Anche nelle pubbliche relazioni andava alla grande Caimano. Massì, è solo un pazzo depresso, si disse. Marzio allora si alzò e lo vide. Uno spettacolo che non si sarebbe mai immaginato di vedere. Evidentementre Pantheralex sapeva ciò di cui Caimano stava parlando. Continuava a ruggire ma era un ruggito più sommesso e tartagliante di prima, quasi simile a un singhiozzo. Aveva gli occhi verdi come Nithaela ma adesso erano socchiusi e non perché in atteggiamento di attacco. Tutto il suo corpo era contratto. Ma era accasciato a terra. Rantolante. Le zampe alle orecchie, si rotolava. Nervoso, sì, nervoso come se avesse il fuoco appiccicato al pelo. E diceva: “Io no… Io no…”
I tendini del collo di Caimano si rilasciarono. Il momento del massimo pericolo era terminato. Marzio non aveva mai visto sul volto di Caimano una espressione così triste. Il cuore di Caimano non sopportava il dolore del cuore altrui. Il capo chino, Caimano apparve improvvisamente spossato, esaurito di forze. “Guarda Marzio, guarda e impara. Alex ha finito con l’impazzire a forza di rifiutare il suo Sogno. Aveva paura. Pensava fosse troppo per lui. Nessuno saprà mai quale fosse perché lui mai lo realizzò e mai lo realizzerà.” Caimano fece una pausa e si portò una mano al cuore, il muso contratto. “Voleva indietro la sua vita ma la sua vita non sapeva più qual era. Rifiutò la chiamata e si ritrovò senza vita.”
Quel mezzo sorriso amaro, che gli aveva visto anche prima. Marzio teneva gli occhi su Caimano ed era tutto orecchie. “Adesso finché avrà forze si tormenterà. Quando non avrà più neanche quelle morirà.” Una pantera così bella. Marzio era ipnotizzato. Cielo! Una pantera così bella… “Andiamocene Marzio! ‘Sto piagnone mi ha stufato!” Marzio fece un timido cenno di saluto ma la pantera non lo vide.
“Sient’ammè Marzio.” Caimano aveva ripreso il suo o abituale. Era fresco come una rosa del giardino di Lucertola. Sembrava non essere affatto stanco, anzi che si fosse appena pienamente ristorato. “Sient’ammè Marzio.” Adesso sarebbe stata enunciata una nuova verità. “L’importanza personale di una persona, vale a dire l’importanza che questa persona si attribuisce a se stessa propria medesima, Marzio, si riconosce dal numero di “h” presenti nel suo nome di questa persona stessa medesima insomma ci siamoccapìti.” Caimano gli lanciò uno sguardo senza possibilità di replica. Marzio annuì in silenzio. Caimano continuò: “Adesso ti porto a vedere una tua amica, eh brillantone, una tua collega anaconda, che si chiama Dheborah, Dheborah con due “h”, una all’inizio e una alla fine. Che già il Panther ce ne ha una. Credeva di essere lui a scegliere il suo Sogno. Non sta lontana questa Dheborah. Questa è una zona maledetta del bosco. Abbandonata da Dio e dalle Scimmie. Contento eh Marzi’!? Andiamo a vedere l’anaconda.”
Caimano avrebbe desiderato un compagno che dimostrasse un po’ più entusiasmo. “Eddai Ma’, qualche epoca ancora a so e poi si ritorna a casa. Dalle nostre donne.”
Dheborah con due “h” era un essere affine ad Alex, opposto e ugualmente mostruoso. “Affascinante!...” Sfuggì di bocca a Marzio non appena furono al suo cospetto. Un’anaconda così grossa non l’aveva mia vista. Più grossa del Mostro 777, l’anaconda che lo aveva ingoiato intero, qualche tempo addietro. Più grassa e pesante e flaccida. Sudata e viscida. Un enorme pneumatico gonfio. Completamente immobilizzata. Respirava con fatica, sibilando a stento, forzando i polmoni. E non aveva ormai più fiato per poter parlare. Marzio era pietrificato. “Guarda Marzio, guarda e impara.” Il tono di Caimano era solenne, e anche un po’ schifato. “Lei una volta parlava,” Continuò, “come ogni altro animale. Raccontano che le ultime volte che si udì il suono della sua voce si percepiva ancora un debole ‘io… io…’ Qualcuno giura di aver sentito anche un finalino acuto, tipo un ‘io… sì!’ ” Caimano fece una pausa, una pausa ad effetto ad uso del brillantone. “Lei lo voleva il Sogno, voleva un Sogno bello e grande grande. Era felice di essere tra i prescelti, di avere una ragione per vivere, e si offriva come canale per il volere degli Dei. Io, io, sì, sì, ancora, di più… Ti ricorda qualcosa? No? Bravo. Gli Dei li abbandonano a marcire gli obesi. Li abbandonano i canali così ostruiti di importanza personale.”
Capitolo 12
Lucertola e Caimano
Lucertola prese la scatola, la scatola di cartone, su cui aveva scritto con pennarello rosso grande “LEO”, con le sue mani grandi e la portò nel granaio. “Ciao Alberto! Come stai?” Modulò con voce melodiosa e tanto affetto. L’aveva visto crescere quell’abete. Un bel giovanotto era diventato. Lo dicevano tutti, non solo lei. Tutto d’un pezzo, bello diritto, robusto e ben piantato, a poche pertiche da casa. E ogni primavera e ogni estate sputava gemme da ogni ramo. Aveva un colore inconfondibilmente verde, e una inattaccabile voglia di vivere. Quando era ancora piccolo Caimano lo chiamava Albero perché non si montasse la testa. Poi all’improvviso, circa all’altezza del suo quinto compleanno, si accorse che era diventato AlberTo. Tra l’abete e il granaio stava invece Silvia la salvia o Salvia la silvia non ricordava mai. La scatola era pesantissima ma il granaio per fortuna vicinissimo, e Lucertola se ne liberò in fretta. “Ciao, topolino! Dov’è zia Letizia?” Lì dentro erano tutti figli di Letizia, o figli dei figli o figli dei cugini o figli dei figli coi cugini o dei cugini coi figli o dei figli tra di loro. Mica si contavano quelli. “E’ giù al lago, a insegnare a nuotare a zia Serenella.” Oh fantastico. Lucertola moriva dalla voglia di sbruciacchiarsi le ossa al Sole.
“Serene’ hai sentito le mie lezioni eh!?.. hai preso appunti? Adesso ripeti: “Se vuoi veramente imparare qualcosa sull’amore devi andare a respirare il profumo del gelsomino.” Vai bella. Ti metti lì buona buona… Lui sa tuttottutto, vedrai! Sapessi che bello e che potente che è! Magari tògliti quei sandaletti eh, cocca, che ti stringono il cervello…” Letizia aveva una sua teoria, che per essere intelligenti a volte è sufficiente vivere in campagna, da topi liberi, senza stringhe, senza paletti e senza freni e senza sensi unici imposti. Letizia aveva fatto molto per sua cugina in tutti questi giorni. A forza di sciacquarla nel lago le era anche sparito il puzzo di candeggina di dosso. Ma era ancora la topolina più bionda della casa di Lucertola. Non c’era verso. I sandaletti adesso se li teneva anche per andare in bagno. Non se ne poteva più parlare, argomento tabù. Era successo purtroppo che li aveva visti Eufrasio e se ne era innamorato. Ah quei tacchetti a spillo! “Ti prego calpestami. Fammi tuo schiavo!” Le strisciava davanti, sotto, dietro. “Rubami l’anima così staremo un pochino vicino vicini. Così starò finalmente vicino a qualcuno. Fammi tuo schiavo, farò qualunque cosa per te, qualsiasi cosa ti piaccia. Qualunque cosa che piaccia a te e dispiaccia a me, fammi sentire quei tacchetti. Schiavo schiaavo!” “Uff c’è sempre un topo marcio in un granaio!” Sputò di lato Letizia, e intanto preparava una lezioncina nuova per Serenella… quando la voce della cugina interruppe i suoi pensieri. “Caro sei molto gentile. Vammi per favore a comprare…” riempì un taccuino di Kala fitto fitto e glielo consegnò. “…entro stasera. Ti aspetto qui al lago grazie.” Eufrasio si mise a correre. Serenella impettita pensò che aveva proprio delle scarpine alla moda, che valevano i soldi spesi. Letizia pensò che non c’era proprio niente da fare con Serenella. Ma almeno Eufrasio non si sarebbe più fatto vedere.
Serenella, quando Lucertola giunse al lago, si stava massaggiando i piedi, blu attorno alle stringhe dei sandaletti. Preferiva non fare il bagno per non bagnarsi gli occhiali. Preferiva non prendere il sole per non macularsi la tinta. I dermatotici dicevano che le macchie non si toglievano più, se non con un ulteriore candeggio. Ma, da come ne parlava Serenella, sembrava che in città si stessero tutti a candeggiare continuamente. Letizia aveva una sua teoria sulla puzza di candeggina, riteneva che le piaceva di più la puzza di ascella di topo di campagna. Ohh ma molto di più! Quei bei topolini grassi...
Quando Lucertola giunse al lago, Letizia si stava tuffando, perché la sua vitalità si alimentava vivendo e la sua gioia godendo. “Ma dove la trovi tutta sta libertà!?” Lucertola sentì che Serenella domandava alla cugina. Poco dopo vide Letizia zompettare a balzelloni lungo il prato, prendere la rincorsa e tuffarsi a braccia e gambe aperte. “Ippiwewee!” Spalsh. Aveva milioni di tuffi, uno diverso dall’altro. Sprofondò in verticale, come suo solito, e dolcemente riemerse. “E’ cosìbbeèllo!...” Nuotò mollemente fino a riva. E si tuffò. Ma non un tuffo normale questa volta. Tuffo numero 45275. ‘Triplo salto mortale.’ Lucertola dovette guardare tanto in alto per seguirne le evoluzioni da intercettare direttamente i raggi del Sole nelle pupille. Letizia aveva veramente trovato uno splendido modo per non rispondere. Non è che ci sono parole per tutto. La risposta migliore è l’azione, è la vita.
“Conosco la data della mia morte.” Gridò Letizia dal centro del lago, quando infine riemerse dal suo straordinario tuffo, dopo essere andata a toccare il fondo con le zampette davanti e avere a lungo nuotato in apnea. Serenella non se l’aspettava. Lucertola non se l’aspettava. Serenella pensò che se avesse conosciuto la data della sua morte forse la sua vita serebbe cambiata. Di certo avrebbe risparmiato le spese di successione. Tanto valeva conoscere anche quella della morte di Sergio. Lucertola ad occhi chiusi stava assorbendo il Sole attraverso la pelle. Il mondo era solo luce e calore. A sera, a notte può darsi, sarebbe tornato Caimano. Sarebbe stato stanco. Aveva questo modo di spendersi senza riserve, senza riguardi. Quando tornava era tutto bruciacchiato e sbucciato, come quando era Caimanito e non si fermava davanti a niente e non si fermava mai. Lucertola aveva creato un balsamo per ogni sua ferita.
Quella notte c’era la luna piena. Forse anche per questo Lucertola non riusciva a dormire. Non riusciva a fare niente. Si rivoltava nel letto. Si attorcigliava attorno al lenzuolo. Tanto Caimano in estate dormiva scoperto. Se lei avesse conosciuto la data della sua morte avrebbe trascorso la notte a dormire? Era meglio trascorrerla a guardare Caimano. Non era molto bello visto da vicino. Era un disegno tutto particolare. Lei non avrebbe mai saputo farlo. Non sarebbe mai riuscita a immaginarlo un disegno così. Era contenta che l’avesse fatto qualcun altro. Era grata. Tutte quelle linee fini fini e quei volumi, quelle brevi superfici e quelle sottili increspature del suo volto. Caimano non aveva la percezione dei suoi contorni, per questo si faceva male. Lei allora si divertiva ad accarezzarlo tutt’intorno per farglieli sentire i contorni, e per fargli sentire che non era solo. Sì, sarebbe stata tutta la notte a guardare il disegno di Caimano, a impararlo a memoria.
Eccola là, in orizzontale, la cosa più preziosa della sua vita. La cosa aprì gli occhi. C’era di buono con Caimano che non era tipo da svegliarsi di cattivo umore, mai. Neanche quando capitava nel cuore della notte. C’era anche una ragione per questo. Perché gli faceva piacere aprire gli occhi e vedere Lucertola. Sorrise, non solo con gli occhi. Eccola là la cosa più preziosa del mondo. Una lucertola piccola piccola. “Che c’è Lucertola? Non dormi?” disse piano, con la bocca impastata. “Sai una cosa, Caimano… prima di conoscerti non sapevo di che colore è la gioia.” “E di che colore è?” “Azzurro e rosa, rosa e azzurro insieme, alternati.” “Non lo sapevo neanch’io.” Caimano allungò una zampa, prese una mano di Lucertola e se la tirò sul cuore. Lucertola si dovette avvicinare e lui abbracciò la mano e l’intero avambraccio della sua donna. Teneva la sua mano nella sua, palmo aperto, sul petto. Mentre la accarezzava si addormentò. Ma prima che si addormentasse, Lucertola ci mise tutta se stessa nelle sue braccia e nel suo petto. Perché lei, lontano da Caimano, non ci sapeva stare.
Epilogo
“Caimano…” La voce di Lucertola emergeva appena. Non era tanto semplice parlare nei baci del mattino. Caimano aveva troppo amore per stare fermo. “Caimano… ascoltami un attimo.” Lucertola prese fiato. “E se Kala la fimo fuori?” “Ottima idea.” Caimano le baciò gli occhi. Prima il sinistro poi il destro poi il sinistro. Poi il sinistro, poi il destro. “Così può venire anche Berny a trovarci. Quando vuole.” Caimano si fermò. Le prese il viso tra le mani e le si piantò di fronte. “Lucertoli’, lo sai… Tu sogna. Io eseguo.”
LA CASA DEL PANTHER E LA LUNGA NOTTE DELL’ANIMA
Lui la chiamava Kalientita. Lei lo chiamava Mestizia. Entrambi neri, neri neri, così neri da brillare al buio. Fisici possenti. Scattanti. Due begli animali.
Capitolo 1
Kalientita
Era ato tanto tempo, un ciclo di stagione o un’intera era non si sa, ma tanto per davvero, da quando c’era ancora la casa di Lucertola e Caimano. Sembrava un’eternità. Sembra sempre un’eternità eppure vivere è un attimo. Un puntino nello spazio. A quel tempo c’erano alberi e cartelli sotto gli alberi con su scritto: “attenti al serpente: morde!” Sotto ogni albero un cartello diverso. “attenti alla vipera! non attaccare bottone.” Sopra ogni cartello un albero diverso. Un’infinità di alberi diversi. Lucertola li amava tutti. C’erano, allora, fiori di ogni colore, uno per ogni nonna (in ordine: Iris, Gelsomini, Caprifogli), e una distesa di fiori gialli, perché il suo amore era giallo, lei lo sapeva. C’era il vecchio Orso, che puzzava un po’, e l’ancora giovane Caimano, che puzzava moltissimo. Come fare a dimenticarsene? Era proprio impossibile. Puzzava cattivo. Era una casa memorabile. Kala avrebbe dato non so cosa ma certamente Mestizia per avere ancora tutti quei bei topolini a sua disposizione. Bei tempi. Ah, il Sud Est. Bastava solo abituarsi al calore del Sole e al profumo delle viole, poi a quello delle rose… Sì che lei aveva occhi notturni e delicati. Ma era pur sempre un serpente, il Sole non le dispiaceva. Adesso non c’era più posto per topi grigi, bianchi o candeggiati secondo la moda di città. Adesso si vedevano in giro solo animali neri. Neri neri. Serpenti neri. Pantere nere. Ratti neri. C’era ancora qualche Oca, bianca, di contrabbando, ma era vietata. Non erano più tempi. Era tempo di Mestizia.
Capitolo 2
Mestizia
Mister Tormento Pantheralex, pantera nera più brillante della notte, da quando Caimano si era preso cura di lui, era rinato. Era di quelli che dicono ‘voglio morire’ fin da piccoli e non gli si può dare torto. E magari ci riescono pure. Ci riescono così bene e così tante volte che non muoiono più alla fine, la Morte non ne vuole più sapere. Le hanno proprio scassato la pazienza. Si allenano alla Vita. Muoiono dentro e fanno la muta. E via. Panther come prima. Kala se lo ricordava ancora com’era, quando lo videro per la prima volta, in casa di Lucertola. Un giorno venne Ira. Un pennuto palmato, grassoccio e di certo anche ben saporito, con un collo lungo e sinuoso che sembrava un cigno e occhiali da motociclista. “Caimano, tesoro, guarda chi è venuta a trovarci. Ira! Ti ricordi?...” “Ira? Chi?! Come vuoi che faccia a ricordarmi?!” rispose Caimano già irato. “Ira, l’…” “Iréne mi chiamo!” aprì il becco. “…l’Oca del Panther, appunto.” “Ciao Irene’!” fece Caimano. “Iréne.” chiuse il becco e gli fece vedere le pupille, puntute e scure, da sopra gli occhiali. “Che nuove ci porti?” interloquì la Scimmia. “Come sta quel vecchio pelo
ruffo?” “Vorrebbe una terapia, scimmia …cioè Caimano. E’ tutto un tormento. Non sta più nel pelo, anima in pena che è. Ha deciso di farla finita.” “Venga venga qua, che lo faccio fuori io. Venga venga venga qua che lo faccio nero. Ahah. Ahahah.” Rise Caimano. Ira attese, con pazienza, che avesse finito. “Fallo venire che ci penso io.” concluse infine. “Lucertola ti dice quando.” Lucertola era l’amministratore unico della ‘Lucy&Cai corporation’, un amore di azienda. ‘Guarire le malattie e combattere i cretini’ era il suo motto, il mandato che Caimano aveva ricevuto in Università. Irene, compiuta la sua missione, tornò a casa del Panther. Due giorni dopo si presentarono a casa di Lucertola, in fila indiana, in ordine: Irene, l’Oca del Panther; il Panther; Ele, Emanuele, l’Elefante dell’Oca del Panther, con la sua chitarra a tracolla. Entrarono tutti insieme nella ‘healing room’. Ele si sedette rapido in poltrona e si mise a strimpellare. “Ehi!” Strizzò l’occhio in senso circolare, all’intera assemblea. “Non mi date fastidio. Fate! Fate!”. Aveva un’aria bonacciona, come spesso le persone in carne. Aveva carni sode. Kala, ne era sicura, anche saporite. Ma è proibito mangiare gli ospiti sicché… A volte Ele accompagnava la musica con la sua voce nasale. A volte non gli veniva un aggio e si sentiva invece rumore di orecchie che sbattono e testa che scuote. Ripeteva all’infinito lo stesso aggio fino a che non riusciva ad andare avanti. Era un tipo sereno e tenace. Componeva sempre e non si arrabbiava mai. Forse era quello il segreto. “E’ malato anche lui?” si informò Caimano. “Magari è un po’ tocco.” Pensava. “No no. E’ un po’ duro di orecchi, ma a parte questo sta bene.” Rispose Irene, la portavoce del Panther.
E saltò su una sedia. Bella alta. I piedi palmati non toccavano terra. E si calò gli occhiali da motociclista sugli occhi. “Vivono tutti a casa del Panther?” Bisbigliò Caimano, da dietro alla zampa, a Lucertola. “Eh sì. Anche per questo è di cattivo umore.” Panther grugnì e scosse il capo a strattoni. Voleva che lo prendessero in considerazione. Caimano era molto incuriosito da Ira. Ah! Ecco a che cosa le servivano quegli occhiali da motociclista! Ira, sulla sua sedia a trampolo, aveva preso ad annuire con forza con il capo, ritmicamente, a tempo di musica house. Ele, detto anche Euculele, dal nome del suo strumento musicale preferito ¹ , invece era schiettamente melodico. Infatti non guardava Ira, altrimenti si confondeva. Caimano guardò con interesse prima Ira. Poi Ele. Poi Panther. “Appanther! Sei messo bene!” “A parte considerazioni generiche sulla mia vita, Caimano...” Panther mostrò con noncuranza i denti. Due imponenti incisivi, non c’era che dire, quelli erano sani. “…cos’hai da dirmi?” “Sdràiati dai, che vediamo.” Rispose Caimano. “No no. Resta pure vestito.” Continuò. Panther aggrottò i sopraccigli e sorrise sornione sguainando le sciabole per mostrare che aveva apprezzato la battuta. Caimano e Lucertola nelle guarigioni erano una squadra. Caimano aveva così tanti Spiriti alleati che di alcuni non si ricordava più il nome di battesimo. Caimano operava. Lucertola dormiva. Così avevano costruito insieme la loro meravigliosa dimora. Caimano operava. Lucertola sognava. Così facevano qualsiasi cosa. Così facevano anche le terapie. Lucertola chiuse i battenti e portò il buio nella ‘healing room’ e dopo poco Caimano vide.
“Appanther. Un colabrodo sei.” Ira, nel suo angolino continuava ad annuire, con forza, a ritmo. “Adesso ci penso io. Uhmmn… Trapianti ti devo fare. Vediamo qua… Ti metto un fegato d’Oca. Tanto quella è in trance, non se ne accorge. E reni di Orso.” L’Orso disse “vabbè”. “…e la milza di un deficiente, che è sempre meglio della tua, tormento!” Dopo di che, attese un attimo, immobile, scrutando il vuoto. Poi disse: “Pronti. Procediamo. Bisturi!” Lucertola gli ò il bisturi, senza neanche sollevare la palpebra. “Panther, se senti male, mi raccomando piangi, che i reni sono fatti apposta.” Lucertola dal tempo del Sogno guidava Caimano. Riusciva perfino a sentire la musica dell’Oca del Panther, che, da parte sua, non aveva mai smesso di andare a tempo. Talentuosa la famiglia del Panther.
10 L’ euculele appunto, piccola chitarra a quattro corde, simile all’ukulele
Capitolo 3
Marzio e Berny
Erano i tempi quelli in cui Marzio diceva ancora, anzi ‘diceva già’ visto l’aspetto malfermo e stazzonato, accigliato e strascicato del Panther, “che bella pantera!”, aggirandosi strisciante intorno alla casa di Lucertola e nei boschi circostanti. Lo diceva sibilando tra i denti, da brava anaconda furtiva. Erano i tempi quelli in cui Berny, la sua volpe rossa, c’era ancora. La ricordava bene Kala, con nostalgia e tenerezza. Quel ragazzo così simpatico, così dolce. E, in questo caso Kala poteva ben dirlo, anche saporito! Ma si sa, i migliori muoiono sempre presto. Sono cari agli Dei, che li strapazzano come meglio vogliono per i loro Fini. Se sono carni tenere e di buona qualità sono cari anche ai serpenti. Kala nutriva ancora per Berny un sentimento molto forte. Non solo di struggente nostalgia culinaria. “I piatti buoni si mangiano una volta sola.” Soleva dire, sospirosa e sentenziosa insieme, a Mestizia, nei luminosi tramonti sul deserto davanti a loro. No no. Kala per Berny aveva nutrito una ione divorante. Sono così le rosse. Fanno impazzire. Berny, la coda più indigesta dell’Universo, lo scovolino più bello del Mondo. Per tutte le gazze ladre! quanti peli… La verità, una delle verità, è che Berny e Marzio erano troppo una bella coppia per non stuzzicare l’appetito di Kala. La verità, una delle verità, è che erano troppo innamorati perché Kala non volesse anche lei assaporare un po’ di quell’amore. Aveva deciso di assaporare dalla parte di Berny. Perché quanto lo zio Kala Naga Il Grande non digeriva i babbuini così lei non digeriva le anaconde. La verità (l’unica e sola in questo caso) è che non aveva stima dei suoi simili. Certo anche le scimmie… Tutto era iniziato con Caimano, al solito. Anzi, con Lucertola. Lucertola che, nell’epilogo della favola precedente, aveva ricevuto
l’illuminazione di fare fuori la sua amica del cuore, il serpente velenoso che le faceva da confidente e consigliera. Kala in fondo era una sua creazione. Come l’aveva sognata poteva anche disfarla. Come avrebbe potuto fare con il maglione verde di Caimano, che aveva tessuto lungo tutti gli anni del loro amore, si era materializzato ed era cresciuto nelle sue mani punto per punto, nodo per nodo, come una ragnatela, come una costellazione… Non solo a Kala, ma anche a Lucertola, piacevano le volpi. In modo diverso s’intende. In modo un po’ meno viscerale. Berny era un giovanotto di compagnia, specializzato in storielle e barzellette, e portava un cappellino con una grande visiera di traverso. Aveva tecniche di caccia non sempre lecite, a volte era un po’ imbroglioncello, ma era l’essere a quattro zampe più monogamo, fedele e apionato della terra. Era spumeggiante e caliente come il suo pelo. Credeva nell’amicizia e nell’amore. Da quando Kala, per naturale moto di misantropia, lo aveva spaventato a morte, lui non si era più azzardato a entrare nella contea della casa di Lucertola. E Lucertola sapeva quanto Marzio, che aveva preso a strisciare spesso ultimamente attorno a Caimano, e quanto Caimano stesso, gli erano affezionati. Lucertola adesso avrebbe tanto voluto una volpe in casa sua ma non sempre convincere Kala a essere gentile con gli ospiti era possibile. I serpenti sono sinuosi ma non malleabili, e alla fine fanno sempre di testa loro. Cambiare un sogno sulla via della realizzazione o addirittura già in atto è operazione rischiosa. Il successo non è garantito. Ma Caimano non metteva in dubbio la sua femmina e, all’apparenza, nemmeno se stesso. Era ottimista. Sicuro. Sereno. Imibile. Inesorabile. Pronto all’azione. Ma il problema coi serpenti è che non sono stupidi. E hanno un senso della sopravvivenza come nessun altro animale. Per questo sanno tutto di tutti sul loro territorio. Per questo sanno sempre quando qualcuno li vuole ammazzare. Caimano d’altra parte non era tipo da farsi intimidire. Non da un serpente. Disse: “Lucertola, dammi la clava.” E uscì. E andò in battaglia. Lui le cose le faceva alla luce del Sole. Lui era figlio del Sole. “Ciao Amabile Scimmia.” Lo apostrofò Kala da lontano. “Sei venuto a farmi
fuori?” Caimano nascose la clava dietro la schiena. Kala scosse il capo ciondolante sopra il collo ritto e sorrise senza labbra, tra sé. “Cos’hai dietro la schiena, trippone... Un mazzo di fiori per la vecchia Kala? Sei venuto a farmi la corte?” A Caimano sentirsi chiamare ‘trippone’ indisponeva, sentire parlare Kala pure, sentire parlare di Kala anche. La sua prontezza vacillò per un attimo. Kala lo guardò negli occhi sconsolata, senza batter ciglio, continuando a oscillare il capo. “Trippone.” Mosse le labbra senza neanche emettere il fiato. Caimano non capì i labiali ma restò incantato. Kala pensò che sì, era affascinato come un pollo, anzi una scimmia. I serpenti le scimmie se le mangiano. E le scimmie amano i serpenti, amano farsi mangiare. Sono attratte dalla bellezza di questo essere primordiale pericoloso che ha tutto quello che loro non hanno. Kala capì che era suo e avrebbe potuto farne quello che voleva. Avrebbe potuto farla finita. Sul serio. Togliersi la curiosità del sapore delle sue carni fortemente aromatiche, digerite a poco a poco, con calma, e godere della loro pienezza. Era così facile! “Caimano!” Soffiò fuori forte. Lo riscosse. “Allora, mi vuoi ammazzare sì o no?” sibilò, chiaro e distinto. Bene. Meglio così. Kala aveva deciso di umiliarlo solamente. Caimano si risvegliò. Agitò la clava per aria. “Sono qui per ammazzarti, Kala!” Annunciò. “Fai fronte a te.” Gonfiò il petto. E senza nemmeno accorgersene fu morso a un polpaccio, con slancio repentino. “E non credere che il tuo veleno mi scalfisca.” Caimano roteava ancora la clava per aria ma la seguiva ora con tutto il corpo, in orbita ellittica. “Prova solo a… Perché non mi scalfisce. Sei troppo debole anche solo per…” Crollò a terra, con tutto il suo peso e la clava sopra.
La terra tremò. Kala guizzò in casa a chiamare Lucertola. “Ehi Lucy, lancia un occhio al tuo uomo. Ho usato il veleno alla vodka. Si risveglierà ubriaco e con tutte le ossa rotte.” Kala pensò che in fondo non aveva perso molto. Per come Lucertola la aveva sognata alla nascita non avrebbe mai potuto fare del male a Caimano. Ma in fondo la razza dei Kala non aveva mai digerito le scimmie. Caimano era troppo per lei. E fu così che Caimano non morì. Kala neanche. Ma Berny sì
Capitolo 4
Marzio
Marzio l’anaconda restò fedele a Berny per tutta la vita. La vita di Berny che, come si sa, non fu lunga. Erano i tempi quelli in cui Marzio diceva ancora, anzi ‘diceva già’ visto l’aspetto incerto e sgualcito del Panther, “che bella pantera!”, aggirandosi strisciante intorno alla casa di Lucertola e nei boschi circostanti. E dire che a quei tempi gli unici scatti felini del Panther erano dovuti alla sua colite spastica. Erano i tempi quelli in cui Marzio, rimasto solo, si trasferì definitivamente da Caimano, con grande disgusto del medesimo. Ma, si sa, le anaconde fanno sempre di testa loro. “Ma si deve intrufolare dappertutto quel serpente?” E non erano ancora i tempi della sudicia biscia, che comparve in paese molto più tardi. Caimano aveva poco da lamentarsi.
“Caimano, tu sei prevenuto.” Gli disse una volta Lucertola. Una sera girando tra i programmi della televisione Caimano aveva detto “chemminterèssano i tiggì?!” Si era seduto sul divano e aveva ripreso a girare tra i canali. “…vipere piromani, vipere pedofile…” borbottava. “Caimano tu sei prevenuto.” Aveva detto allora Lucertola. “Pensi davvero che tutti i mali del mondo sono da attribuirsi ai serpenti?” aveva
aggiunto. “Sì.” Erano i tempi quelli dopo che Kala gli aveva fatto assaggiare il suo veleno. “…che in fondo i serpenti,” continuò pensoso, “oltre a essere ossessivi spietati e sessuomani… tutti gli altri sono difetti.” Lucertola abbassò il capo e sorrise. Osservò con piacere e con soddisfazione che Caimano non aveva in simpatia i serpenti ma non aveva neanche perso la sua capacità di giudizio. Lo guardò, affondato nel divano, con l’ombelico che gli usciva dalla maglietta, la pelle abbrustolita dal Sole. Caimano era il suo uomo. Era il migliore. Lui spense la tv e la guardò. Lucertola era la sua donna. Era l’unica.
Capitolo 5
Caimano
La loro vita aveva trascorso anni felici, gli anni esplosivi del Sud/Est, gli anni della scoperta e della primavera, delle gioie senza risparmio, degli esperimenti e delle belle speranze. Anni anche difficili, in cui Lucertola tremava come una foglia, dalla paura, dall’emozione, dall’amore, dalla novità. “Non riesco a crederci, proprio a me… non so se la merito…,” diceva, “Caimano mi devi aiutare. Mi ci devo abituare. Devi darmi razioni quotidiane di felicità.” “Vabbène. Sarà fatto Lucertoli’.” La loro vita si era poi inebriata della pienezza, dell’esuberanza della stagione calda, gli anni del Sud, gli anni della ricompensa. Era fiorita e aveva dato frutti. Si era strutturata intorno al lavoro, all’amore e alla libertà.
La sera Caimano faceva un giro tra i canali. Poi batteva la zampa sul divano, al suo fianco, e chiamava Lucertola a sé. La stringeva forte. Era sempre così. Era sempre come se non la vedesse, come se gli mancasse, da una vita. E in effetti era così, tanto ci avevano messo a trovarsi. Lucertola di solito spegneva la tv e, in genere, a questo punto diceva cose stupide. “Sai Caimano, oggi sono stata da Mosé, l’Eucalipto. È grande sai.” Lucertola strofinava la guancia sul petto di Caimano e non sapeva più cosa dire. Si confondeva, perdeva il filo.
“È così alto. Così sapiente. C’è tutto dentro. Così elevato e forte. Compatto… Completo… E sai cosa ho pensato? Che sono contenta di non essere completa, autosufficiente. Sono indistruttibili sai quelle persone lì. Possono fare qualsiasi cosa. La solitudine è un dolore che li fortifica, ti dirò di più, li centra e concentra. Ma sono tristi. Sono contenta di non essere completa, di dipendere da te Caimano. Non voglio essere forte e sola.” “Anch’io sono contento.” “Che io dipenda da te?” Lucertola lo avvolgeva, con le sue braccine. Lo guardò da sotto in su. “No. Che anch’io sia dipendente da te Lucertola.”
Quando andavano a letto Lucertola ava i primi minuti a guardarlo, solo a guardarlo e si dimenticava di ogni cosa. Non pensava a niente. Le sue mani si muovevano da sole. Caimano, sotto le lenzuola, era nudo, “dolce e liscio come una caramella”, diceva lei. A volte lo mordicchiava. “Ti stacco un orecchio.” mormorava. Altre volte lo teneva vicino a sé, senza fare niente. Solo per sapere che c’era. Le piaceva sentirselo attaccato. Gli mise una mano, una delle sue mani grandi, coi polpastrelli a ventosa, umidiccia e fredda, ancora da riscaldare, sul cuore. Poi la sentì scendere, lentamente. Era una mano pigra quella sera. Arrivata alla bocca dello stomaco si fermò. Allora lei gli sussurrò all’orecchio: “Se tu non avessi un po’ di pancia io non ti potrei chiamare ‘fiero panzerotto’, il che sarebbe un grave danno per l’umanità.” Non sapeva quello che stava dicendo, ma si sentiva sorridere. Lui le accarezzò la pancia e si tuffò sotto le lenzuola per baciarle l’ombelico. “Se tu non fossi fredda e verdognola non saresti la mia Lucertola.”
Disse non appena riemerse. Dopo parecchie epoche “Il che sarebbe un danno terribile per me.” In questi momenti Lucertola era percorsa da brividi in tutto il corpo, e non di freddo.
Lucertola avrebbe ricordato questi momenti per sempre. Anche dopo la sua morte.
Capitolo 6
Aristide
Non era facile vivere con un animale diverso da sé. Caimano era curioso e dispettoso come una scimmietta e testone e orgoglioso come una Grande Scimmia e lavorava senza risparmio, instancabile caimano, per sollevare i caduti, curare le malattie, abbattere i malvagi e istruire i cretini, in tutte le contee. E c’era un sacco da fare! Lucertola era fredda, pigra e perseverante. Caimano era caldo, impulsivo e sfrenato. Quando era con lei si rinfrescava. Quando era lontano, lei vegliava su di lui.
Caimano era forte e robusto. Qualche volta per giocare Lucertola gli montava sopra con tutte le zampe. Lui le accarezzava le zampette bianche con sfumature verde salvia. I piedi non erano più larghi delle mani ed erano poco più ghiacciati. Lui si portava un suo piedino al muso, e il piedino si scioglieva. “Se fossero più grandi”, diceva, con la bocca piena delle dita di Lucertola, “avrei paura che scapperesti via.” Lucertola baciava le sue zampe di caimano, spesse, dure e muscolose. Caimano aveva sempre avuto una grande anima. “Se fossero più piccole,” diceva, “avrei paura che non torneresti più quando vai via.” Caimano la tirava su e la stringeva al petto. Lucertola si infilava sotto la maglietta.
Caimano era un uomo dell’Est. Era un uomo d’azione. Non sapeva parlare ma per la sua lucertola avrebbe fatto qualsiasi cosa. Che non ci fosse niente da fare non cambiava la sua disposizione. Quando il pane era troppo duro per i dentini aguzzi e fini di Lucertola lui glielo prendeva e tagliava a fettine sottili. Le procurava dai boschi il cibo migliore e la aiutava a conservarlo e a prepararlo. Conosceva le erbe meglio di Lucertola e le ispirava sempre pozioni nuove. Non era facile vivere con un animale diverso da sé. A volte Lucertola doveva sognarlo per capirlo. Lo amava tanto, da tante vite, non sapeva neanche lei perché. Forse perché era diverso.
“Lucertoli’, che ti sei messa in testa?” Lucertola stava tessendo insieme ad Evelina, l’Oca di famiglia e Irene, l’Oca del Panther. “Lucertoli’, che hai fatto? Hai una nuova pettinatura?” Non sapevi mai cosa poteva succedere quando lasciavi tante femmine tra di loro. Una volta la sua lucertola ne era uscita tutta viola. “Ti piace?” chiese la voce di Lucertola, vibrante, non priva di apprensione. Caimano si avvicinò. “Molto!” Guardò meglio, con grande interesse. “Non morde, no?” “Nooo. Macché!” Lucertola si portò la mano destra alla tempia, scostò una ciocca di capelli e fece una carezzina alla zampetta di Aristide, bruna e un poco pelosa. “Ti piace?” chiese la voce di Lucertola, timida ed effervescente a un tempo,
come quella di una bambina. “L’ho sognato questa notte.” Spiegò. “Ho pensato che tanto valeva materializzarlo.” “Complimenti. Magnifico esemplare. Grande giusto proprio quanto la tua testa.” Fece la scimmia, impettita. “Si chiama Aristide.” “Piacere, Caima’ ” Caimano lo guardò coi suoi due occhi. Aristide coi suoi otto. Muto. Probabilmente anche sordo. Ma Ragno. E anche un poco tarantoloso.
Non sapevi mai cosa poteva succedere quando lasciavi tante femmine tra di loro. Certamente avrebbero spettegolato. “Mi piaci quando spettegoli. Prendi colore.” Caimano soleva dire che Lucertola virava in queste occasioni al verde crisoprasio¹¹ Quella volta, come molte altre, la guardò come se vedesse il sorgere del Sole, come se i suoi occhi fossero margherite. Le mise le mani sui fianchi, e la baciò. Alzò gli occhi al Cielo. O meglio al Ragno. “Deve stare sempre a guardare questo?” Aristide sorrideva coi suoi otto occhi. “Gli piaci.” Lucertola chiuse gli occhi di Caimano con una delle sue mani grandi e piatte. “Piaci anche a me.” Disse, e lo baciò.
E fu così che entrò in casa Aristide, dalla porta di Lucertola.
“Lucertoli’, c’hai sempre un piede in otto scarpe. Ti manca solo che arrivi l’Aquila e sto bello che sistemato.” “L’Aquila! A una come me!?” “Eh!... io ti conosco...” Caimano non aveva la vista di Kala che vedeva al buio o di Lucertola che vedeva in sogno. Loro erano donne. Avevano l’utero, erano aperte di sotto, avevano tutto il mondo dentro quelle. Aperte di sotto e di sopra, cielo e terra insieme. Non le freghi le donne. Caimano non sapeva niente o quasi. Ma era un uomo dell’Est: quello che faceva era giusto, quello che diceva era giusto.¹² Lucertola avrebbe trovato un’ Aquila o meglio l’Aquila avrebbe finalmente ritrovato lei. Da piccola era l’unica cosa che disegnava e che sapeva disegnare. Era l’animale a lei più vicino. Era l’aspirazione del suo cuore. Se ne era dimenticata. Adesso le pareva troppo onore un’Aquila! Lucertola avrebbe certamente trovato un’Aquila. Se solo ci fosse stato più tempo…
11 Il crisoprasio è una pietra preziosa di colore verde, il verde di una mela verde quando una lampadina la illumina dall’interno. 12 Quello che faceva era giusto, quello che diceva era giusto, anche quando non capiva quello che diceva. Tranne quando era arrabbiato e diceva solo per cattiveria. Il caimano non è un serpente, che mette in gioco la vita in ogni attacco e non deve sprecare l’unica risorsa che ha, il veleno, e perciò ogni suo attacco è definitivo, ad altissima definizione e precisissima mira. Caimano ha la forza del caimano e colpisce sommario, a botte.
Capitolo 7
L’amore al tempo di Lucertola
- Oh come - ti amo - perché sei - originale ma soprattutto - bellissimo e - uguale - a me. Il Merlo e la Merla erano irriconoscibili tra di loro, del tutto simili nella forma e anche nel contenuto. Si specchiavano l’uno negli occhi dell’altro. E non la finivano mai di farsi i complimenti.
C’era stata una stagione dell’amore alla casa di Lucertola, Kala se la ricordava benissimo. Ricordava come ieri Kalinda e Topolindo teneramente avvinghiati. Lei sputava inchiostro, lui spruzzava colore. Artisti. Inseparabili da quando la nipote di Kala aveva messo piede cioè pelle alla casa di Lucertola. Zia Kala le aveva detto ‘vedrai quanti bei topolini che ci sono qui’. Kalinda non aveva ancora il fidanzato, nonostante fosse nata già da qualche settimana, e fosse anche molto carina. Aveva curve tutte ai punti giusti, era snella e sinuosa, con una pelle da serpente da fare invidia a qualsiasi altro animale. Era una serpentina giovane e affamata. E in effetti, al granaio, tutti quei bei topolini di campagna,
che si nutrivano solo con cibo di Lucertola, puliti, tonici e scattanti, le avevano fatto girare la testa. Non si era tirata indietro. Erano proprio dei bocconcini deliziosi. Poi un giorno, poco dopo il suo arrivo, mentre si stava tuffando tra gli ultimi topolini rimasti, vide Topolindo e si fermò. Iniziava a sentirsi pesante. Fece un ruttino. Spinse forte fuori la lingua, lunga tre volte il suo naso, per sentirne meglio l’odore, e inspirò fino a riempire i polmoni. Buoono. Bel topolino che creava belle cose! Wow. Aveva sempre sognato un topolino così. Aveva sempre avuto aspirazioni artistiche, era un vizio di famiglia. Certi animali non vanno mangiati voracemente. Lo ipnotizzò con gli occhi, verde smeraldo tra le squame brune, e lo fece suo. Da quel momento furono inseparabili. Lui con il suo basco alla se e le mani sporche di colore e oli. Lei la maggior parte del tempo languida e sonnacchiosa, ancora intenta a digerir topi. Per non dire della volta in cui quella gran topa di Fiorenza un pomeriggio squittì: “Cielo! Mio marito!” Si eresse sulle zampette posteriori e intimò: “Nasconditi topo!”. Alfonso si diede una scrollata e trotterellò lesto a mimetizzarsi tra le migliaia di migliaia di topi. La vita al granaio di Lucertola era facile.
C’era amore tutt’intorno a Lucertola e Caimano. E poi, al suono del tubare di colombe, tortore e piccioni, si aggirava il Panther. Che a quei tempi, bisognava dirlo, poteva piacere solo a Marzio. E si tormentava un casino.
“Allora, Panther, come va?” Lucertola accese una seconda candela e si sedette alla sinistra di Caimano che stava appoggiato al muro. Erano entrambi stanchi. Sono sporche faccende.
Guarire le malattie richiede freddezza da rettile e vigilanza e coraggio da guerriero. Combattere e sconfiggere le schifezze altrui per il bene altrui. “Eh, insomma…” rispose Panther, “Sei sicuro Caimano che non siano da curare anche cuore e polmoni?” “Panther, te l’ho detto, un colabrodo sei, non so come hai fatto. Ma non ti posso mica disfare tutto in una volta o non stai più insieme. Mi hai capito?” “Sì. E’ che… Non so più come fare. Io voglio una vita normale...” “Tu non sei normale, Panther. Non te ne sei ancora accorto?” Caimano lo guardava serio. Lucertola sorrideva, nella penombra. “E’ che… Queste cose ti tagliano fuori dal mondo, dalla società.” Caimano lo guardava serio. Lucertola stava per addormentarsi. “E’ che…” Panther non poté trattenersi oltre dal condividere i pesi che gli gravavano sul cuore. “Non ne trovo più… Se sono diverso non ne trovo più una uguale e se…” “Ah ma allora lo fai apposta! Se sei diverso ne troverai una diversa, se sei uguale ne trovi una uguale. Che discorsi fai!” “Sì ma… Non ce n’è! Non ce n’èeeeeeee.” Panther contrasse il muso e si buttò di lato, dal lato della sciatica, sobbalzando di dolore. Si contorse sotto le zampe, i polpastrelli sugli occhi. “Eh ti capisco, Panther. Mi spiace.” Disse Caimano, empatico. Chiuse gli occhi, oscillò il capo e, dopo qualche periodo di assorto silenzio, proseguì: “Era rimasta una lucertola. Me la sono presa io. Ahah. Ahahah.” Caimano rise, di gusto, con la sua Lucertola nel cuore. Panther non rideva. “Eppoi cos’è sta storia della società!!?” Tuonò di botto.
“Non c’è!” continuò tonante. “Non esiste. Non c’è rimasto più niente là fuori. Tormentati pure Panther, liberissimo. Ma sappi che lo fai per niente. Per farti una milza grossa così. Che la prossima volta non te la cambio! Intesi?” Caimano si alzò e accese la luce. La seduta era finita. Adesso era il momento dei saluti.
“Appanter, in tormento vai bene, sei bravo, hai talento. Devi migliorare in disciplina. Poi devi piangere. Vero Lucertoli’?” Stavano dirigendosi verso l’uscita, Ira ed Ele dietro di loro. “C’era una lucertola in giro per te. Me la sono presa io. Condoglianze.” Le scimmiette sono ripetitive, senza vergogna. “Devi piangere Panther sennò ‘sti reni come li sciogliamo un po’… Sei sempre così ingessato!” Gli diede due pugnetti sulla spalla, da farlo girare. Lucertola ò leggera una mano sul braccio di Caimano. Lui accusò un breve brivido e riprese rinvigorito, baldanzoso: “Vero Aristide?!” disse forte. Si fermò. “Eh?” Caimano si piantò davanti ad Aristide. “Aristide?... pronto?” Aristide si stava grattando. Imibile, sollevò la zampetta, la settima, da sotto la pancia. Sgranò gli occhi. Era sordo ma sentiva le vibrazioni e riconosceva il suo nome. “Puoi dire al tuo Ragno, Lucertoli’, di essere un po’ più espressivo?” “E’ che non gliene frega niente. Sta nel suo mondo in realtà. Qui ci fa mostra solo della sua immagine, una reminescenza. Comunica così. Come per le stelle.
Ne vedi la luce e sai che stai vedendo solo il riflesso della luce che avevano un milione di anni fa. Ma sono solo mondi diversi, adiacenti.” “E non solo adiacenti, anche ortogonali.” Continuò Caimano che questi discorsi mandavano in visibilio. “Eddài che il Panther si confonde!” si riscosse. “Appanther! Mi raccomando…” Caimano avrebbe tanto voluto ripetersi ma non si ricordava più quello che aveva detto. Per lui valeva solo il presente. “Esssù con la vita!” Gli diede una pacca scapolare delle sue e lo ribaltò fuori dall’uscio. “Vedrai che starà meglio adesso.” Disse rivolto alla sua femmina. Annuì secco col capo, come faceva lui. Le pacche di Caimano raddrizzavano le montagne.
Capitolo 8
Zio Adolph
Panther tornò spesso a farsi curare e controllare da Caimano. A poco a poco cambiò aspetto. Dopo qualche anno non era più ruffo né spelacchiato e i suoi reni non erano più paranoici. A volte. Stava diventando una bella pantera. Purtroppo aveva ancora la milza di un deficiente. Per ragioni cliniche Caimano non poteva are direttamente dalla sua a quella di un animale, sarebbe stato uno scompenso troppo grande. Perciò Panther su molte cose non aveva ancora le idee chiare ed era ancora pieno di tormento.
Non era, da brava pantera, un animale sociale e preferiva vivere nel bosco. Caimano non poteva che incoraggiare questa sua scelta, profondamente in sintonia con la sua natura.
“Ooh e anche questa volta se ne è andato ‘sto spaccamilza e speriamo che non ci scassi l’anima per un bel po’.” Esclamò Caimano mentre ricomponeva nella sua borsa di medicina bisturi, pietre, clave, cristalli, erbe sacre, incensi, penne, calamai, trinciapolli e seghe di ogni tipo. “Ormai non dovrebbe avere più molto di cui lamentarsi. Non ha più un organo suo in tutto il corpo!” “Ssss… Caimano, che Irene ti sente.” Gli bisbigliava Lucertola.
Ira invece era un animale sociale e si intratteneva volentieri con le altre Oche di casa. avano interi pomeriggi a tessere, creare trame, raccontare storie, bere il the e farsi di superalcolici. L’iniziazione ai superalcolici era avvenuta grazie allo zio Adolph, parente stretto di Caimano, che andava in orbita, a tanto così da terra, solo a sentire nominare la vodka al mirtillo. La produceva lui, su dalle sue parti, in montagna, dove i mirtilli sono perfino più delle volpi che li mangiano. Giunse in visita, un giorno di fine estate, con diverse bottiglie. Lucertola lo ringraziò del pensiero e Adolph la avvisò con gentilezza che erano per lui. Lucertola non vedeva l’ora di conoscere la famiglia di Caimano e trovò zio Adolph molto simpatico, anche se, a volte, un po’ sopra le righe. Era un uomo massiccio e poderoso, aveva un vocione forte e grave, e amava raccontare storie del suo paese. Ce n’era una a cui era molto affezionato e che Lucertola riascoltò da allora ancora per molte volte. Quella del suo amico che faceva puzzette sul bus e si girava all’intorno e chiedeva “Chi è stato?!... Ma non lo sentite?! Cheppuuuuzzo!...” Caimano la conosceva già e rideva ogni volta come fosse nuova. Gli piaceva. Lucertola li guardava, zio e nipote, e osservava che c’era affiatamento e affinità tra i due. Anche Caimano era scuro e, almeno per lei, era grande e grosso. Anche Caimano andava in orbita intorno ai pianeti più lontani, insieme agli Spiriti Celesti ed era questo il suo più inebriante ed essenziale nutrimento. Anche Caimano parlava così. E le diceva sempre che la voleva a portata di scoreggia. “Che se fai una scoreggia io ti sento. Mica più in là.” Era la distanza giusta. Zio Adolph era avvoltoio ma non esercitava. Non aveva portato a termine gli studi e non aveva mai esercitato la professione. Era invece diventato ecclesiastico. Sui biglietti da visita aveva scritto: zio Adolph, avv. di Dio. Caimano rise e si profuse in sberloni, con gli occhi che luccicavano, ma Lucertola non ebbe il tempo di capire se era una battuta o una genialata. La vodka al mirtillo fu molto gradita. Evelina, l’Oca di famiglia, una signora ormai di una certa età, si addormentò prima di essere ubriaca. Ira applicò il ritmo house alla Musica delle Sfere e andò in estasi. Si calò gli occhiali sul naso e vide il Mondo Viola. Talentuosa la famiglia del Panther!
Caimano e zio Adolph si misero a ballare e uscirono abbracciati, a balzelloni, zio Adolph con balzelloni da uccello, Caimano con balzelloni da scimmia. Marzio non era abituato all’alcool e trovò Caimano molto carino. “Che bella scimmia.” La anaconde sono animali di ampie vedute. Ele, l’elefante dell’Oca del Panther, non era abituato all’alcool e se ne astenne. Solo Lucertola accusò un po’ di mal di testa. Aristide andava matto per la vodka! Le pulsava sopra la testa come un ossesso, non riusciva a tenersi fermo con una sola zampa, travolto dal suo spirito tarantoloso. Chissà a questa velocità in quali mondi lontani si stava dirigendo, pensò Lucertola, che faticava a tenersi in piedi. Alla fine non ne poté più e partì anche lei con lui. Si lasciò trasportare dal ribollente flusso della vodka, aggrappata ben stretta alla sua settima zampina. Non sapeva dire quanto tempo era rimasta ad occhi chiusi. Si ricordava perfettamente tutti i Mondi visitati e gli esseri incontrati. Quante lingue si accorgeva di non conoscere ancora! Ma il tempo in questa realtà scorre in modo diverso. Poteva essere trascorsa qualche ora o la notte intera. Sapeva che Caimano se la stava sando con suo zio e che in casa stavano tutti bene. Ma non sapeva dire quanto tempo era rimasta ad occhi chiusi. Ma appena li riaprì disse forte: “Ehi bimbo!” Ele alzò la proboscide a punto interrogativo. “Dici a me?” “Dico a te. Ti ho visto sai. Se calpesti ancora una volta le margherite di Caimano, Caimano ti accoppa.” “Oh.” Ele abbassò la proboscide tra le gambe, vergognoso. Sono così le donne. Ti aspetti che siano in un posto. E sono anche in un altro.
Sul far del giorno Caimano e lo zio ricomparvero, due sagome nere e torreggianti all’orizzonte. Il vecchio zio Adolph! Caimano con una grande voliera in mano.
Capitolo 9
Liquirizia e Panther
Al Panther piaceva Liquirizia. Se non fosse stato appeso così bene al soffitto se lo sarebbe anche mangiato. Invece si limitava a conversarci insieme. “Dica Liquirizia, come si fa a volare?…” Panther era un animale avido di conoscenza, non guardava in faccia a nessuno. Però si può con una certa legittimità supporre che Liquirizia pie solo a lui. Non era una gran bella eredità. Era un condor depresso, scuro perfino in volto. E di certo non sapeva volare. Non aveva mai imparato. Si faceva di liquirizia tutto il giorno, teneva ben chiusa la sua voliera e rifiutava qualsiasi bevanda alcolica che Lucertola gli offriva. “Liquirizia… dica, ma cosa si vede da più di 7.000 pertiche di altezza?” “Eppiàntala Panther! Non lo tormentare! Non lo vedi com’è?” Liquirizia non aveva mai toccato le 7.000 pertiche. Non beveva, e si drogava di liquirizia¹³ per dimenticare le sue enormi ali, il suo enorme potere che adesso, seppur ancora in giovane età, gli stava facendo scoppiare il cuore. E le ali, rattrappite, atrofizzate, gli facevano male. “Come diceva Geronimo il Cervo,” profferì Caimano, solenne, “ ‘Organo non utilizzato cade.’ Capita con gli uccelli.” Panther non capì, ma guardò gli occhi a mezza palpebra dell’animale e restò ammaliato da tanta tristezza. Forse lui e Liquirizia avevano qualcosa in comune. “Non ci sperare Panther. Sta’ sicuro che tu non voli.”
“Davvero non si può fare niente per lui?” chiedeva Lucertola a Caimano. “Davvero tesoro. E’ l’eredità di zio Adolph. Come zio Adolph, ha i giorni contati. E’ venuto a morire.” Lucertola si strinse a Caimano, ma fu contenta che l’avesse chiamata tesoro. La pantera nera si accucciò e guardò l’uccello dal basso in alto, il muso leggermente inclinato. Ecco cosa gli piaceva di lui. La Morte. “Appanther! E togliti di lì. Sempre tra i piedi sei.”
Aveva iniziato a essere tra i piedi da poco e Caimano non ci si era ancora abituato. Il fatto è che Panther sapeva che stava arrivando la sua stagione. La Natura stava iniziando a declinare, gli alberi cedui perdevano le foglie, alcuni si preparavano ad elargire frutti nutrienti e i panther mettevano su ciccia e pelo per ripararsi dai primi freddi. Panther non avrebbe mancato la sua stagione. Il tempo dell’Ovest. Era sufficientemente in forze ora per essere sufficientemente coraggioso da essere avido di conoscenza e potere. Di cosa non sapeva. Non sapeva cosa c’era in serbo per lui. Non vedeva nulla. Ma lo voleva. Ad ogni costo. Era pronto a morire per questo. “Un nuovo cretino da istruire.” Disse Caimano a Lucertola. “Bene bene. Lo mettiamo insieme a Marzio.”
Lucertola fece accomodare Panther in sala di attesa, dove Evelina stava lavorando a maglia, in vista dell’inverno. Dopo qualche periodo¹⁴ di assoluto silenzio, senza neanche alzare gli occhi dal lavoro, Evelina incominciò:
Era una bella giornata di sole, luminosa e profumata.
C'era un posto vicino al ruscello. Erba, alberi, e uccelli che svolazzavano intorno. Nell'aria si sentiva il profumo dolce dei fiori. Lì abitava un bel serpente. Un giorno un uomo arrivò camminando sull'erba. Si guardava intorno, annusava, toccava. Si sedette in riva al ruscello a riposare. Il Serpente lo vide e si avvicinò per salutarlo.
"Salve uomo." Gli dice.
"Salve bel serpente."
"Benvenuto nella mia splendida casa." Continua Serpente.
"E' davvero stupenda." Conferma l'uomo.
E prosegue: "E' da molto che abiti qui?"
"Mia madre arrivò in questi luoghi prima che venissero gli alberi."
"Davvero?!..." Esclama l'uomo.
E prosegue. "Che bella storia... e che bella giornata che è oggi!..."
"Ma allora perché, domanda Serpente, hai la faccia triste?"
"Oh, Serpente, non sono che un vecchio sciocco. I miei giorni finiranno presto. E io non voglio andarmene. Mio caro amico, la morte per gli uomini non è facile come per gli animali e le piante. Sento già la mancanza dei fiori."
Abbracciò con uno sguardo pieno di malinconia la radura circostante e poi tornò a rivolgersi al Serpente. "Serpente, qual è il tuo segreto per vivere così a lungo?"
Serpente ride: "Io cambio pelle."
"Insegnami Serpente. Insegnami a cambiare pelle. Così potrò vivere un altro giorno."
"Come vuoi, uomo."
Serpente prese il vecchio sotto la sua protezione. Nelle settimane che seguirono gli insegnò a dormire come un serpente e a sfilarsi la pelle.
Da quel giorno in poi, quando l'uomo sentiva arrivare la Fine, andava a dormire e cambiava la pelle. Era felice e non aveva più paura.
Chiuse il becco e di lei più nulla si seppe. Si sentiva soltanto il lieve ticchettìo e frusciare dei ferri e della lana. Panther fu ignorato per il resto del giorno e della notte. Si offese moltissimo e non capì mai che la sua prima seduta era conclusa.
13Liquirizia è un animale e come tutti gli animali sceglie a istinto e sceglie giusto. La liquirizia è una radice e come tutte le radici radica, tiene legati alla Terra. Inoltre è la più amata da stomaco e milza e nutre l’elemento Terra. Ha anche un’azione tonificante o in grandi quantità ipertensiva e spossante sul cuore. 14 Si veda nota 3 della favola 2, che qui si ricopia per comodità: “Si ricorda che i ‘periodi’ in questa parte di universo equivalgono ai nostri minuti. E gli ‘eoni’ ai mesi. E le ‘epoche’ alle ore. E le ‘epopee’ agli anni”
Capitolo 10
Marco
Nel declinare dell’estate le giornate si susseguivano fresche, lente e luminose. Lucertola adesso appena sveglia doveva mettersi un maglione per andare in giardino. “Ciao Rembrant. Come va?” Il gatto nero sgusciava in casa e le si strofinava sulle gambe. Sullo stuoino rimanevano due occhi, due reni e un intestino. Era un topolino grigio. Si riconosceva dai peli intorno agli occhi. “Ebbravo Rembrant. Sempre in forma.” Lucertola e Kala facevano pulizia. Caimano intanto offriva una salciccia a Gualtiero, il cane, e lo grattava tra le scapole. Gualiero appena trangugiata la salciccia si alzava e circondava Caimano con tutte le zampe in un affannato abbraccio canino. Il fiato ancora di maiale, con la lingua gli lavava il muso. “Questo cane sì che mi dà soddisfazione.” Diceva Caimano rientrando in cucina. “Il tuo gatto non dice mai una parola!” “E’ fatto così, lo sai Caimano.” “Mah...” Mah, meglio non andare a toccare l’annosa diatriba tra le scimmie e i panther. Caimano riempiva le apposite tazzine di vodka, latte¹⁵ e acqua, e prendeva la piuma di colombella. Lucertola lo seguiva in giardino nel saluto agli Spiriti¹ che
avrebbe reso la loro giornata in armonia con il Creato e la Creazione. Caimano accendeva il fuoco nel camino ed Evelina vi si accoccolava vicino. Lucertola guardava il fuoco e pensava che anche quel giorno qualunque cosa fosse capitata sarebbe stato per volere degli Dei. Gettò tra le fiamme una piccola presa di tabacco e due foglioline essiccate di salvia bianca per fare sapere che sapeva. E ringraziava. Poi preparava la colazione a Caimano. Ogni mattina diversa
Al crepuscolo tutti quelli che si trovavano nelle vicinanze, abitanti della casa e ospiti, si concedevano una pausa e si riunivano nella grande cucina di Lucertola per sorbire qualche superalcolico, offerto dalle Oche, che ormai erano diventate delle esperte intenditrici. Le Oche starnazzavano cioè discettavano su quale fosse il tipo migliore di vodka, e pregi e virtù. Lucertola beveva gin, Caimano rhum, Panther whiskey¹⁷ (“èpperchèssèiunòca!” rideva Caimano¹⁸). Aristide si cullava, sulla testa di Lucertola, tra gli effluvi di cotanto Spirito. Caimano degustava lentamente, sorso a sorso, il suo bicchiere di Rhum, puro, senza ghiaccio, ben invecchiato. Poi tirava un sonoro rutto. “Da quando ho scritto di te sei peggiorato.” “Eh… mi sono un po’ lasciato andare.” Diceva Caimano e cercava di tirare la maglietta fino a coprire l’ombelico.
A volte Caimano stava via, in missione, interi giorni e intere notti. Lucertola non sapeva dov’era ma era serena perché sapeva che la sua ora non era ancora arrivata. Lo aveva sognato. Quando invece Caimano era a casa, prima di ritirarsi per la notte gli preparava del vino rosso¹ caldo con disciolto del miele di melo, proveniente dalle loro
arnie. Bastava poco. Allora l’amore e l’ebbrezza si impossessavano di loro. Bastava anche niente. Ma Lucertola era felice quando si nutriva di amore, vino rosso e miele, e quando poteva nutrire Caimano.
Fu dopo una di queste notti che, all’alba, Lucertola si riscosse direttamente da un sogno e gridò: “Caimano! Avremo un bambino!” Lucertola si strinse attorno alla pancia del suo uomo. E’ curioso, pensò ancora in stato di sogno, ed è bello… il legame energetico che c’è tra noi parte dal mio utero e dal suo stomaco e si vede con occhi e si tocca con zampa quanta energia gli do e quanta ne ha! “Panzerotto…” mugolò. “Ti voglio sempre così.” Caimano accarezzò la sua lucertolina che gli si era sdraiata sulla pancia. “Lucertolina, che c’è?” Le allungò un bacio. “L’ho visto! Avremo un bambino Caimano!” “Sei incinta?” “No. Non ora.” Lucertola affondò la testa nel petto di Caimano. “Caimano… ricordi?” prese a raccontare, “Ho sempre detto che non ce l’avrei fatta, che non ci sta un bambino nella mia pancia e nella mia vita. E invece adesso l’ho visto. Senti, ascolta… Sono in un posto luminoso, nella natura, ci sono persone simpatiche e laboriose. Principalmente lavorano il legno. ando vedo un bambino grandicello, molto carino. Io non so valutare l'età, è la fascia dai 10 ai 14, poco più di 10 anni. Lo vedo di schiena e gli metto la mano sinistra dietro la schiena e dico, con una certa contenuta emozione, "tu sei mio figlio?" Mi dice o mi dicono di sì. Dico qualcosa come "io non ti volevo". Osservo la reazione, non so cosa succede a parlare così coi figli. Vedo che si rabbuia. Continuo con la storia: "io avevo il cuore piccolo ma lui aveva un cuore grande
anche per me (come dire due volte il mio). sai è una cosa naturale per i genitori fare i figli, quando c'è tanto amore non si può farne a meno." Come scopro poi, abbiamo un figlio solo. E' un bambino sereno. Ha capelli neri tipo caschetto, magro e agile e ben fatto e degli occhi luminosissimi si direbbe azzurri. Alla fine gli bacio la manina destra e lui fa oh. …E poi io ero preoccupata per lui e lo chiamavo “Marco!”. E poi…” Lucertola fu sopraffatta dalla tenerezza e dall’amore e dall’inquietudine dovuta alle altre parti del sogno che non erano più tanto belle e che lei non voleva raccontare né voleva capire. Singhiozzava e tremava tutta. “Hai capito, Marco si chiama, come il pianeta Marte. Sarà un guerriero come te.” Sorrise al suo uomo. E anche gli occhi le tremavano tutti. Aveva un cuore doppio Caimano. Grande doppio!... Lo cinse con le zampette come se fosse il Mondo. Stropicciò le guance sul suo petto e strizzò via tutto il moccio dal naso. Con le braccine lo avvolgeva tutto, quanto poteva. La pancia di Caimano andava su e giù, lenta come al solito. Il respiro di Lucertola a poco a poco si calmò, la sua mente a poco a poco fu sgombrata dalle emozioni, dalle ansie, dalle paure. Era nell’unico posto al mondo. Non avrebbe avuto paura. Senza accorgersene sincronizzò il suo respiro con quello di Caimano e si abbandonò al sonno. Caimano le accarezzò la testa ancora per qualche periodo. Poi pensò che dormire con una lucertola sulla pancia era una cosa così bella. Quella era la sua lucertola e lui le stava ando il suo potere dallo stomaco, a contatto con la sua pancia. Le accarezzò un fianco e pensò che era un uomo molto molto fortunato, e si abbandonò al sonno.
15 fresco! Se non ha odore di latte non ha potere di latte. 16 rito del mattino numero 6, procedimento contemplato nel volume di Jagger Riti che entrambi avevano studiato per un esame complementare in università e che conservavano gelosamente nella loro ricca biblioteca, di cui Evelina era amorevole custode ed archivista. 17 Secondo alcune tradizioni sciamaniche il whiskey nei sogni ha i poteri dello sforzo personale, della solitudine e della chiusura in se stessi. 18 Irene si aggiustava gli occhiali con gesto molto ammodo, tra un bicchiere e l’altro. Caimano guardava il Panther. “Un uomo a cui piacciono le oche!... Mah!” pensava. Tra un rutto e l’altro. 19 Rito per fare spalancare e brillare gli occhi del tuo uomo. Riempire due larghi calici di Nero d’Avola a temperatura ambiente (ambiente caldo). Assaporarlo lentamente, insieme con naso e bocca, senza perdere mai il contatto con l’amato. Attenzione: potrebbero verificarsi momenti poetici. Ho toccato l’Abisso e mi è piaciuto era solo aria e spazio e amore erano i tuoi occhi che mi dicevano di sì.
Capitolo 11
M. Adolph
“E se ci viene un bambino che parla?!” esordì Lucertola quando riaprì gli occhi, all’alba, ancora sulla pancia di Caimano. Avevano già una bimba, una meravigliosa creatura di Sogno che forniva latte fresco blu per i favolosi budini di Lucertola e tanti altri piatti e pozioni magiche. Era una capretta molto strana ma di certo era silenziosa. “Lucertoli’. Tutto può essere.” Rispose Caimano, filosofico. “Ci adatteremo.” Lucertola si stiracchiò, allungò tutte e quattro le zampette, si allungò di lato e gli succhiò il lobo dell’orecchio destro. “Il mio animale…” sussurrò. Gli prese l’orecchio tra i denti. Caimano la prese per la vita e la buttò di lato, sul letto. Lucertola allentò la morsa e l’orecchio di Caimano fu lasciato al suo posto. Per fortuna. Adesso era lui sopra, si reggeva sui gomiti, per non schiacciarla, e con le mani le bloccava le spalle. Come se lei volesse prendere il volo. “Lucertola… però devo dirti una cosa.” La guardò serio. “Non so se ti piacerà, ma è bene che tu lo sappia.” Non ce la fece più a stare allo scherzo e si buttò sulla schiena. Era preoccupato davvero. Le prese una mano e la tirò a sé, se la mise al petto e la baciò, rapido, furtivo. La tenne sul suo petto, sotto la sua. “Dobbiamo chiamarlo Adolph.”
“Zio Adolph è un ecclesiastico, non ha eredi.” Continutò. “Ma ha un piccolo patrimonio che non vuole lasciare alla chiesa. Lo vuole lasciare alla famiglia. Ne abbiamo parlato l’altro giorno. E’ venuto apposta. La sua eredità… non è solo Liquirizia. Sai che sono il suo parente più prossimo, vuole lasciare le sue proprietà a un erede che si chiami come lui. Io non ho niente. Almeno gli lascio qualcosa a mio figlio.” “Uhmmmn… Marco Adolph…” gli occhi di Lucertola, mobili, spalancati, vagavano sul soffitto. Lucertola gli saltò sulla pancia. “Mi piace!” disse con tutto il fiato quando atterrò. Con un nuovo salto sprofondò la testa nell’incavo del collo di Caimano. “Possiamo chiamarlo Marco?” gli chiese ridendo. “Marco Adolph nei documenti. Prometto! Sarà il suo nome segreto, il suo potere nascosto, il suo asso nella manica!” Gli occhi di Lucertola non erano mai stati così verdi. Caimano aprì la bocca e batté i denti, da caimano. Lucertola lo guardò e disse forte: “Caimano!”
Capitolo 12
Marzio e Panther
Irene nella sala d’aspetto, in giardino, stava sfogliando delle voluminosisssime dispense. Velocissimamente, al ritmo di musica house. E intanto annuiva, decisa, a ritmo. A volte si bloccava, la sua attenzione si acuiva, il collo le si allungava sulla pagina. Poi forse un nuovo brano di musica ricominciava nella sua testa e lei riprendeva a voltare pagina, sicura e rapida. Arrivata alla fine del volume, con l’ultima pagina lo richiuse e lo sbatté sul tavolino di sassi allestito da Lucertola, per terra. Sollevò gli occhiali e si girò verso il Panther: “Cos’è ‘sta roba?” Era del Panther, se la portava dietro ovunque. “Magia facile. Lingua dei Ragni per corrispondenza” “Ah ecco.” Irene annuì. Anche senza occhiali. “Ci hai capito qualcosa?” si girò nuovamente. “No.” Di lì a poco Marzio si unì a loro. “Buongiorno ragazzi!” Si sedette a fianco del Panther. A contatto. Panther si spostò.
Infine sbucò fuori dalla casa Caimano. Gonfiò il petto all’aria del mattino. Si diede una pacca sullo stomaco e fece un ruttino. Guardò il Cielo e tese per tre volte il gomito verso l’alto. Sbraitò: “Eppiòvi una buona volta! Che siamo quasi a ottobre!” Ma detto nella lingua degli Spiriti era tutta un’altra cosa. Il Cielo si rabbuiò e stillò le prime goccioline. Tanti anni di università erano serviti a qualcosa. “E getta via quella carta da cesso Panther!” Panther grugnì e corse in casa a riporre il suo malloppo di carta al riparo dalla pioggia. “Svelti. Si va a fare una eggiata.” Caimano a stare fermo non sapeva mai che dire. A muoversi invece c’era sempre qualcosa da fare. I muscoli si attivavano, la pelle si ossigenava, si rilassava, e le idee venivano su, senza cercarle. Lucertola gli massaggiava spesso i polpacci dove aveva imparato che stava sepolta, nelle terminazioni nervose, tutta la conoscenza più antica e misteriosa che una persona può avere. Ma a lui sembrava che a camminare venisse ancora meglio.
“Caimano,” disse Marzio, “Posso farti una domanda?” “Falla.” “Cosa significa che l’Anaconda ha il potere del Flusso? Ho sentito che un giorno lo hai detto a Lucertola.” “Vedi? Questo significa. Il serpente si intrufola dappertutto. E’ sempre dove non deve e non lo ferma nessuno. E più è piccolo, più è agile, furtivo e rognoso.” ² . Caimano si ricordò di Kala. Sicuramente adesso era sotto qualche sasso o qualche arbusto lì vicino, ad ascoltare.
“Il serpente”, continuò, “vuoi per opportunismo vuoi per viltà, sa tutto di tutti. Si spinge sempre oltre, trova sempre una via.” “E allora?” Che Marzio fosse un ficcanaso non era una novità. “ ‘E allora’ mi chiedi?! In questa come nell’altra realtà! Stessa cosa è. In Università conobbi Serpenti, signori Serpenti, che andavano e venivano spontaneamente o volontariamente, a piacere, tra le loro esistenze e anche tra le esistenze altrui, entravano in tutti i Flussi dove volevano entrare. E, caro mio, come puoi immaginare, tra vedere e potere, come si suol dire, il o è breve.” Caimano si sentiva pungere i polmoni dall’arietta umida e ricca di odori²¹ del mattino e ne godeva pienamente. “E’ un potere che hanno tutti i serpenti.” Continuò. “Solo che alcuni sono troppo pigri, eh brillantone? A loro basta avere la pelle salva e la pancia piena. Tipico dei serpenti, sì sì. Eh, tardone?” Gli diede un pugnetto sulla spalla, di quelli che non ribaltavano. “Lento come un’anaconda!” Caimano fece una corsetta, di pochi i, per non distanziare troppo i suoi compagni. “Ma repentino nell’attacco.” Ribatté poco dopo Marzio, compunto. “Vabbè vabbè.”
“Allora Panther, sei qui per imparare a Sognare.” Continuò Caimano rivolto a Panther. “Qualsiasi cosa, Caimano, per me va bene.” “Ingordo come un serpente.” “Ecclettico direi.” Si intromise Irene, che non ne mancava una. “Ah bravo. Ti sei portato pure l’avvocato difensore.” “E’ la mia Oca. Vuole imparare anche Lei, se non ti dispiace.”
“Macché. Le Oche sono le benvenute qui. E l’Elefantino dove l’hai lasciato?” “E’ a casa.” Rispose Irene. “Sta facendo i compiti.” “Salutamelo!” “La prossima volta portiamo anche lui, vero Irene?” disse Panther con dolcezza. Irene annuì. “Allora,” riprese Caimano. “Iniziamo. Tutti possono essere dei bravi viaggiatori ma Sognatori sono pochissimi. I Sognatori sono coloro che viaggiano nell’altra realtà in Sogno e vi assicuro che possono andare più lontano e fare molte più cose di chiunque altro. Tutti possono avere sogni rivelatori, premonitori o consapevoli. I Sognatori sono coloro che li hanno quando e come desiderano loro. Allora? siete pronti?” Panther deglutì. Marzio guardò per terra. Irene annuì. Caimano si inerpicava, a velocità costante e massima, su per la montagna nel Nord della contea. Così, con meno fiato da perdere, i suoi allievi parlavano poco, pensavano meno e capivano di più. Così percepivano la fatica di ciò che stava dicendo loro. “Un Sognatore fa sogni lucidi cioè mentre sogna è consapevole di stare sognando, di quello che gli sta accadendo e di quello che sta facendo. Quindi può decidere di fare o non fare delle cose. E’ chiaro che tutto quello che farà nell’altra realtà si ripercuoterà in questa. Quindi è bene che sappia quello che fa. Ma questo è un altro discorso. Come conoscere il linguaggio dei sogni è un altro corso.” Caimano scarpinava lesto e sudava. “Un Sognatore mentre sta sognando può dirigere il Sogno in modo da prendere potere o conoscenze particolari dalle incursioni che la sua Anima fa nell’altra realtà, in mondi vicini o in mondi remoti.” Il fiatone non si addiceva ai preamboli. Meglio arrivare al sodo. “Se il Sognatore è colui che cambia la realtà, deve essere disponibile al nuovo.
Deve essere disponibile ad abbandonare il suo presente e ovviamente deve avere zero attaccamenti col ato e col futuro. Il Sognatore si lancia verso l’Ignoto. Deve essere pronto a morire. La sfida del S/O²². La muta della Lucertola. Domande?” Caimano accarezzò il tronco di un albero e si arrampicò sulle sue radici, facendosi strada nel bosco. “Bravi! Bene così. Continuo io. Ho detto che il Sognatore crea la realtà. E vi sembra vero? E vi sembra possibile? Siete cretini?! Prestate attenzione quando vi parlo! …Stai prendendo appunti Irene?” “No. E’ tutto in testa.” Si toccò gli occhiali. “Brava. Se le cose le capisci sono tue. Al cervello dovete fare affidamento, non alla carta.” “No! Non è possibile!” riprese Caimano. “Sognare non è fare shopping nel paese del bengodi ma essere radicati nel modo migliore in questa realtà. Bisogna occupare il proprio posto nel mondo nel modo più efficace. O no? Per questo, presupposto di ogni lavoro sciamanico è la cosmovisione, la visione di se stessi nel cosmo. Conoscere il proprio posto all’interno della Ragnatela. E conoscere la Ragnatela.” Caimano si tolse la maglietta. La pelle scottava e luccicava di sudore misto ad acqua piovana. “E poi ancora, credete di poter cambiare la realtà operando da soli, ognuno per proprio conto? Questa realtà non è altro che una cristallizzazione di conspevolezza condivisa. Condivisa.” Fece una pausa. “Arrivate voi e la smontate?” Si voltò a guardarli, torvo. Irene mosse la testa da destra a sinistra e da sinistra a destra. “No!” tuonò. “Dovete voi stessi creare una mini-ragnatela comune, dovete lavorare in sinergia, in gruppo. Solo se diverse consapevolezze concordi tessono una nuova ragnatela questa ha qualche possibilità di materializzarsi. Non siamo soli, siamo tutti collegati e interdipendenti. Possiamo lavorare solo così.”
Concluse Caimano, che si sentiva, in questo tardo scorcio di era, molto solo. Tutti gli amici lontani. “Allora, siete pronti?” Si fermò sui due piedi, pugni sui fianchi. Buttò fuori tutta l’aria dai polmoni. “Siete disposti a lavorare in questo modo?” Panther fece no. Marzio guardò per terra. Irene annuì. “Ok Panther. Tu puoi andare a casa.” Panther strinse i denti, li digrignò, e produsse uno stridore e una vibrazione gutturale che gli fece tremare le labbra. Irene annuì e gli fece coraggio. “Fate come volete.” Caimano voltò le spalle e riprese di buon o. Calcolò di essere quasi arrivato alla meta. Erano totalmente immersi nella nebbia ora. Decise di avviarsi alla conclusione. “Regole per essere un buon Sognatore. Ve le dico così ci dormite su. ahah. Eccole: 1) Abbandonare le aspettative. 2) Vincere la paura, completamente e per sempre. 3) Non essere invidiosi (restringe il cuore e sottrae saggezza) 4) Sapere quello che vuoi. 5) Non dormire più del necessario. 6) Mangiare poco e bene, in modo equilibrato, secondo le proprie esigenze. 7) Esercitare volontà, ordine, disciplina, concentrazione in quello che si fa. Fare le cose con precisione, con attenzione e intento pulito, univoco, è un esercizio. La vostra vita deve assomigliare a un Sogno. In qualsiasi sogno non ci deve essere paura né confusione. Allora il sogno assomiglierà alla vita e allora potrai conoscerlo.”
20 E non erano ancora i tempi della sudicia biscia, che comparve in paese molto più tardi. Caimano aveva poco da lamentarsi. 21 Pino, timo, dino e rino. 22 Vincere la sfida del S/O, non aver paura della morte, dà l’accesso al Sogno
Capitolo 13
Zio Geko
“Ok ragazzi.” Erano tutti fradici di pioggia e sfiniti. “Ok ragazzi.” Caimano non sapeva cosa dire. “Esercitatevi. Va bene?” Gli sembrò di aver detto la cosa giusta. “Vi piace il panorama da qui?” Panther raddrizzò il muso e abbassò le orecchie. Erano molto in alto ma non si vedeva niente. Solo nebbia e freddo gelido e umido a queste altezze. “Poco fiato per conversazione eh? Ottimo. Come desideravo.” Caimano si inoltrò all’interno del muro di nebbia prese il sentiero del ritorno, in ripida discesa. “Allora… Indovinelli! Freschi freschi. Me li ha portati Ifigenìa, la mia donnola, ieri notte, in Sogno. Sentite questo. Notte e giorno turbina il fungo sul suo lungo gambo. Che cos’è?” Silenzio. “Sì, beh questo è un pommìstico. Riconosco.” Rumore di fiato e i. “Il pensiero.” Si rispose Caimano.
“Ancora!” riprese la Grande Scimmia, tra un balzellone e l’altro. “Cammini un giorno, cammini una notte la fine non trovi.” Si appese a un ramo, si diede una spinta e si lasciò cadere, prima che l’albero cedesse. Silenzio. “Dài ragazzi. Questa è facile.” Rumore di fiato e i. “La Terra.” Si rispose Caimano. “Ancora!” riprese la Grande Scimmia, tra un balzellone e l’altro, rotolando a rotta di collo lungo la pendenza. Sbirciò indietro per accertarsi che ci fossero tutti, a portata d’orecchio. Questa era bella. Alzò la voce per farsi sentire. “Quand’è che l’albero diventa albero e l’uomo uomo?” Rumore di fiato e i. “Questa è bella però!” Silenzio. Rumore di fiato e i. Si rispose Caimano: “Quando l’albero dà frutti e l’uomo vede.”
Per un tratto scesero in silenzio. “Sentite questa!” Panther non dubitava che il tormento sarebbe presto ripreso. “Dove si trova la maggior quantità di pesce?” “Anche questa è di Ifigenia?” chiese il Panther.
Caimano non sapeva mai riconoscere quando Panther diceva sul serio e quando era sarcastico. La sua compostezza gli mandava brividi su per l’intestino. “No! Questa è mia!” sbraitò Caimano. “Dove si trova la maggior quantità di pesce?” ripeté, a beneficio della comunità. Rumore di fiato e i. “Tra la testa e la coda” Aveva parlato Marzio. “Ebbravo Marzi’! Per una volta, eh… Inizi a capire. Da tanto che mi stai appresso...” Marzio lo aveva fatto solo per malignità, per prendere in giro Caimano, per fare colpo sul Panther. Panther era una gran bella pantera. E lui la voleva. Il sesso, per i serpenti, soprattutto quando non c’è, può fare miracoli.
Caimano fu così soddisfatto della risposta esatta che, entusiasta e irrefrenabile, non si trattenne dal continuare la lezione. Carico di energia, fece un balzo oltre uno spuntone di roccia. E proseguì. “La Lucertola è l’animale che dovete invocare per imparare a Sognare.” Quasi gridò tanto fiato aveva nei polmoni. “Dovete parlarci, nell’altra realtà e in questa. Dovete domandare a lei come si fa. Dovete farvela amica. Dovete essere una Lucertola. Tutti i rettili con le zampe, a parte Marzio ahah, vanno bene.” Si fermò un attimo. Accidenti a mezza valle la pioggia era scrosciante. Bene bene, si asciugò la fronte dal sudore. “Eh i serpenti no! Con quello che mangiano, senza neanche masticarlo, cosa vuoi che sognino! ano tutta la notte a digerire. Eh Marzi’, almeno mastica!” Riprese: “Tutti i rettili con le zampe vanno bene. Varani, Caimani. Ma le Lucertole vanno meglio. Eppèrchè? Il segreto è nelle zampette. Lo vedete come sono belle?” Caimano pensò alla sua lucertola…
“Mi spiego, mi spiego. Hanno le ventose. La lucertola può trasportare se stessa (il Sogno) ovunque. A destra, a sinistra, a testa in giù, indietro nel tempo, sul liscio, sul ruvido, appesa al soffitto...” “Come i Ragni?” “Certo. Gli esseri più antichi sono i più potenti. E cosa può un Ragno non si può neanche immaginare, non si può descrivere purtroppo. Il Ragno è l’essere più lontano e distaccato. Perciò ha il potere della Magia e della trasformazione. Ma Panther, i corsi sui Ragni sono avanzati, è roba grossa. Te l’ho detto, non riusciresti a capirla. Mancano troppi elementi. Comunque, dicevo… Se siete fortunati una delle prossime lezioni vi presento zio Geko e allora potrete osservare da vicino come è fatta una Lucertola. E siate gentili e rispettosi, che zio Geko è anziano. E morde.”
Capitolo 14
La notte dei gechi
“Ma come facciamo ad esercitarci? Come si fa ad avere sogni lucidi, ad essere consapevoli mentre si sta sognando che si sta sognando?” Chiese Panther, la lezione successiva. Irene annuì, concorde. Caimano si bloccò e alzò gli occhi verso l’alto a sinistra. Che domande! Non sapeva la risposta. Ai suoi tempi si diceva “Esercitatevi.” E basta. Lui aveva imparato così. Ai tempi di Caimano, gli Sciamani, quando gli chiedevi ‘come’, rispondevano “Come ‘come’?! Con l’intento!” Ma i tempi cambiano. Oggi l’intento non si sa più cosa sia. Riprese a camminare e a parlare. Erano quasi arrivati. “Per prima cosa, dovete liberare la vostra mente dai pensieri e il vostro cuore dalle emozioni. Prima di chiudere occhio per dormire dovete guardare per dieci minuti la fiamma di una candela rossa. Accesa, mi raccomando.” Le raccomandazioni non erano mai troppe. “Poi andate a letto. Cioè subito dopo: dev’essere l’ultima cosa che fate ad occhi aperti questa storia della candela rossa. Quando siete sotto le coperte ripetete per tre volte a voce udibile La prossima cosa che vedrò sarà un sogno.”²³ “O almeno pensate intensamente a qualcosa che volete sognare.” Aggiunse. Caimano da ragazzo pensava alla sua lucertola. La sognava ogni notte. “Almeno per i primi tempi,” aggiunse, “poi fate come vi pare.” “State al freddo e sdraiàti con la testa a Nord.” “Esercitatevi. Va bene?” Finalmente aveva detto la cosa giusta.
“Hai portato con te il tuo ElePanther? ahah” Chiese Caimano quella sera, qualche giorno più tardi. Ele alzò la proboscide. Presente! “Bravo! Non dimenticarti la chitarrina!” Quell’Ele aveva qualcosa di irresistibile. “Dove andiamo oggi?” Chiese, chitarra a tracolla. “Andiamo da zio Geko, sotto il lampione.” Zio Geko era il parente più prossimo di Lucertola. Si chiamava Giandomenico all’anagrafe. Ma gli amici avevano preso fin dalla giovane età a chiamarlo Gianco. Gianco il Geco. Per tutti gli altri: zio Geko. La notte era fredda e tagliente. Le stelle baluginavano, distanti. ‘Balugginano’… pensava Caimano. ‘balugginare’ che bella parola. L’aveva detta la sera prima Lucertola. Come le immagini ‘ipnagogiche’, quelle che vengono prima di addormentarsi. Anche quella era una parola di Lucertola. A Caimano piacevano un sacco le parole nuove. Era bello imparare. Caimano si diresse verso il lampione. La comitiva lo seguì a ruota. “Allora, come va il Sognare?” si informò. Silenzio… “Ehi. Questo non è un indovinello. Dovete sapere la risposta. Volete una scelta multipla? Sogno sì. Sogno no. Sogno non so. Eh? Allora?” Panther, mascelle contratte, fece ‘no’ per tutti. “Neanche di pomeriggio riuscite a fare qualcosa?”
“Di pomeriggio?” Irene si sollevò gli occhiali. “Non ci hai mai parlato di pomeriggio.” “Ah no? Ahah. Di pomeriggio ci si esercita!” Rispose Caimano. “Si è più vigili.” “Meglio se di mercoledì.” Puntualizzò. Questa era una balla. Era tanto per dire qualcosa. ‘Di mercoledì.’ Marzio prese appunti. ‘Giorno di Mercurio. Ah ecco.’ “Ma tu Marzio… anche di pomeriggio è la stessa cosa. Ah Marzi’, sient’ammè: o digiuni o mastichi. Sennò non ce la caviamo più. Meglio se digiuni.” “E poi i serpenti sono pieni di attaccamenti. Mah²⁴... Caimano si fermò, sotto la luce del lampione. La comitiva si fermò dietro di lui. “Guardate lì.” Caimano non disse niente. Bisogna lasciare tempo agli allievi. La rovina degli anni '80? Il grammofono e le minigonne. Il padrone della fretta? Il demonio. No, lui non aveva mai fretta. Al momento piuttosto aveva sonno... Avrebbe preferito starsene in poltrona. Era stata una giornata lunga. Era stata una giornata dura. Avrebbe preferito mille volte starsene con la sua lucertola. Lui sentiva di non fare mai abbastanza. Lei diceva sempre che lui lavorava per quattro. “Guardate lì.” Seguì un lungo silenzio. Aveva perso il filo. “Eh questi Gechi!” Aveva proprio perso il filo. “Mattacchioni!” Ele, Irene, Panther e Marzio giravano all’unisono il capo dal lampione a Caimano, da Caimano al lampione. Guardavano fisso qualcosa da guardare. Poi
di nuovo dal lampione a Caimano. “Cosa dovremmo vedere, Caimano?” Chiese infine Panther. “Eh?... cosa?... gli insetti, il geco… Guardate.” Caimano, con un supremo atto di intento, cacciò via il sonno e si ricordò dove stava. “I gechi sono antichi milioni di anni. I lampioni un centinaio. Chi gliel’ha detto che lì sotto ai lampioni si raduna tutto quel bottino di insetti da mangiare? Nessuno. L’hanno sognato. Uno di loro un giorno vide. E tricche e ttracche salì sul lampione e mangiò. Così avviene l’evoluzione della specie. Mica a caso.” Panther si chiese se ci voleva il terzo occhio per vedere la nuvola di insetti sotto i lampioni ma non osò condividere il suo dubbio. “Zio Geko, mi scusi, per cortesia,” stava intanto adoperandosi Caimano “Potrebbe scendere un attimo, a farsi vedere? Ho degli allievi qui…” Disse forte. “L’avevo già avvisato. Siamo d’accordo. Sennò mica scendeva.” Disse piano, agli animali che gli stavano intorno. “Zio Geko! Vecchio Marpione!” Urlò. E Caimano si sbracciò in procinto di assestare una delle sue famose pacche scapolari ma questa volta riuscì a moderarne la forza. Aveva grande rispetto per zio Geko. Era anziano, aveva circa 4 milioni di anni. Non festeggiava il compleanno da cinquecento anni e perciò aveva perso il conto preciso. Era lungo poco più di un quarto di pertica e leggero leggero, da farlo volare in aria. Ed era Maestro nell’Arte di Sognare. “Guardate, guardate ragazzi.” Caimano ballonzolava di entusiasmo. Zio Geko mosse la pupilla, a scatti, inquadrando volta a volta ciascuno dei presenti. E’ molto bello essere guardati da un geco. Ci si sente piccoli brutti e insignificanti. Come si è realmente. E di rimando si ricambia lo sguardo affacciandosi su un tunnel che a attraverso infiniti anelli di tempi e di spazi. “Zio Geko è uno forte.” Disse Caimano ribollendo e ballonzolando di
entusiasmo. “Avete viso il terzo occhio?!” Non stava più nella pelle, Caimano. Non sapeva da dove cominciare! “Puoi ripetere?” Irene stava scrivendo. Brutto segno Irene che scrive. Segno che Panther non stava seguendo, era perso nei suoi pensieri. Ele dormiva in piedi. Marzio si scaccolava. Caimano non poté fare a meno di sentirsi percorrere da un pensiero che prima o poi tocca a ogni Sciamano o apprendista Sciamano che sia: “Che brutti allievi che ho.” Zio Geko mosse la pupilla verso Caimano, senza neanche alzare il sopracciglio. “Sì, Irene, ripeto. Procediamo con ordine.” Zio Geko fece un o a destra perché la luce del lampione gli battesse sulla fronte. “Guardate qui, ragazzi.” “Che cos’è?” Irene si sporse per guardare. Gli occhiali da motociclista la rendevano un po’ miope. C’era un bozzo, un rigonfiamento nel bel mezzo della fronte del vecchio geco. “Un terzo occhio.” disse Caimano. Virgola, tardoni!, pensò. “E’ alloggiato in una piccola cavità della volta cranica e, pur essendo dotato di cornea, cristallino e retina, è ricoperto di pelle e può a malapena percepire la presenza o l’assenza di luce.²⁵ E questo perché?” Ecco, lo sapeva, adesso stavano tutti dormendo. Che cosa vuol dire insegnare? Pensò Caimano. Che cosa vuol dire guarire? Che tu insegni e se gli altri non vogliono imparare fatti loro. Che tu guarisci e se gli altri non vogliono guarire fatti loro. Ennò! Gridò forte Caimano nel suo cuore. Troppo facile così. Nessuno vuole capire e nessuno impara mai niente. E uno che
fa il guaritore affàre? Disse il Coccodrillo che c’era in lui. Lucertola aveva sempre ammirato quanta abnegazione e pazienza mettesse il suo animale nel lavoro. “Panther, scusa, permetti? Che cos’hai lì…?” Panther si svegliò. Caimano avvicinava la zampa al suo muso. Evidentemente un qualche insetto molesto vi si era posato sopra, alla luce artificiale non si vedeva bene. Molto gentile da parte sua. Due dita di Caimano strinsero un baffo. Fu un attimo. Caimano diede uno strattone. “AAAAAùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùù!” Ululò Panther. Gli aveva strappato un baffo. Faceva male. Molto male. Dall’urlo che Panther diede: - Tutti i gechi intorno alla lampada del lampione si bloccarono con la lingua in bocca. - Il lampione oscillò. - Lucertola a qualche centinaio di pertiche di distanza si chiese se il suo animale stesse bene. - Coccinella, a mille migliaia di pertiche di distanza, nella contea della casa del sogno, si chiese se il suo animale, Ernesto, il medico condotto, stesse bene. La vita dei guaritori è irta di pericoli. Le loro donne sono sempre in pensiero. Panther rotolò a terra, semisvenuto dal dolore. Ele, che dormiva in piedi, si svegliò di soprassalto, Marzio, che si stava scaccolando, si fermò con la mano a mezz’aria, Irene si aggiustò gli occhiali e deglutì. “Bene,” Riprese Caimano, “adesso che ci siamo tutti, e siamo tutti svegli, possiamo ripartire.” Riprese fiato. “Panther probabilmente ti sei perso un pezzo. Ira ti darà gli appunti.” Gli appunti sono fatti per quelli che dormono. Chi è sveglio sta attento, capisce e si ricorda. Ma vabbé, pensava Caimano, in questo ultimo scorcio di fine era, chi sta attento più. Caimano ingoiò un sospiro e riprese a spiegare.
“Ve lo dico io perché. È meglio. Zio Geko ha due occhi per vedere. E un terzo occhio, per vedere anche lui, perfettamente funzionante anche quello, ma rivestito di pelle. Incassato dentro. Perché? Perché non è fatto per vedere fuori.” Disse Caimano, sottolineando bene la parola ‘fuori’. “Come fate voi a sognare quando sognate? Li vedete i sogni no? Ecco, Zio Geko vede perfettamente ma non sempre e non solo in questa realtà. Anche in molte altre. Tutte quelle che vuole. Tutte quelle che vuole sognare.” Irene annuì, come suo solito. Panther annuì. Ele annuì. Marzio annuì. A Caimano cadde la mascella. Ogni volta che pensava a come erano fatti i gechi, lui che era solo un uomo-scimmia, restava commosso, incantato da tanta meraviglia. Gli animali più antichi, pensò tra sé, erano i più forti. Non c’era verso. Alla faccia dell’evoluzione. Zio Geko mosse a scatto la pupilla. ‘Certo che era così!’ Il cervello del geco, Caimano lo sapeva perché lo aveva studiato in università, che una volta in università si studiava, il cervello del geco è più piccolo perfino di quello degli anfibi e dei pesci. Altrocché le scimmie che tengono tutte una capa tanta! Zio Geko mosse la pupilla. ‘E che me ne faccio del cervello!’ “I gechi come sapete sono lucertole,” Riprese a spiegare, “animali a sangue freddo.” Caimano sentì in quel momento che la sua lucertola lo stava pensando, era ancora un po’ in pensiero forse. Era vero, aveva il sangue freddo quella ragazza. Non la spaventava niente e nessuno. E poi si scaldava e si raffreddava a seconda dell’ambiente che la circondava. Era vero anche questo, era ipersensibile, percepiva tutto, assorbiva tutto, era emotiva, delicata e quando la tenevi tra le braccia la sentivi tremare tutta. Ma si scaldava in fretta. A Caimano venne una fitta nella pancia, dal desiderio di essere con lei. “Le lucertole sono così.” Disse. E a sentirsi la sua lucertola addosso avvinghiata a lui fu percorso da un brivido, nel freddo della notte, e il suo cuore divampò di struggimento. Si riportò alla realtà. Guardò i suoi allievi. Che brutta gente. Ricominciò pacato, paziente: “Ma la mia lucertola va dove vuole…”
Panther, ancora accasciato a terra, alzò il sopracciglio. Ci mancava solo l’elogio della donna emancipata. “…lei non è mica come noi. Come te Panther. Avere di base il sangue freddo significa che con la tua energia puoi fare quello che vuoi. E io lo capisco perché sono anche un po’ caimano. E allora siamo uguali io e lei. Ci si accende e ci si spegne. Non si è schiavi delle ioni. Le si osserva quando non ci piacciono, ci si distanzia, non si perde il lume, e le si trasforma. Oppure ci si dà ad esse con abbandono totale. La mia lucertola sa sempre quello che succede. In lei e fuori di lei. Perché vede freddamente come un serpente e sogna come una lucertola. Se hai il sangue di base freddo, impari come si regola il calore, l’energia del tuo corpo. La mia lucertola non è che ha bisogno di me per essere calda.” Ebbene sì, pensò Caimano. Queste donne… E noi maschi ci crediamo chissà che e crediamo di dare chissà che… quando piuttosto… Vabbé ma questo è un discorso lungo. “La mia lucertola attraverso la danza sfrenata la fa bollire la sua energia nel suo corpo fino a che la sua anima si stacca da lei, il suo corpo cade in terra come morto e lei viaggia. Va in altri mondi. Va dove vuole vi dicevo.² “E perché?” Ele, l’elefante dell’Oca del Panther, era come un bambino: quando non dormiva, non giocava e non combinava guai, chiedeva ‘perché’. “Perché sì.” Era solito rispondere Caimano. Era la risposta ontologicamente più corretta. Chi li capisce gli Spiriti! E’ così perché è così. “Perché è bello!” Disse invece Caimano quella volta. Lo disse col cuore, perché sì, perché è così. E’ bello, lui lo sapeva, lui c’era stato, è pura vita. Ma il cuore gli si contrasse: sentì che la sua risposta non era arrivata ai suoi allievi. Una società egoista e utilitaristica come la nostra è necessariamente priva di bellezza e di poesia. “Per prendere poteri magici.” Questa era la risposta giusta. Andava bene, lo sentiva Caimano. Era vera anche questa.
Irene da dietro gli occhiali sgranò gli occhi. Ele e Marzio sedevano composti. Panther ancora accasciato a terra ma inequivocabilmente sveglio si massaggiava la guancia. Zio Geko si allontanò. “Grazie Zio Ge’.” Caimano giunse i palmi delle mani e fece un inchino. “Ma anche stando ferma va dove vuole.” Continuò da dove era rimasto, dalla sua lucertola. “Anche senza utilizzare la danza. Lei conosce, e mi ha insegnato, e se volete la insegno anche a voi, una tecnica di respirazione speciale grazie alla quale, mediante l’accelerazione del respiro, l’anima si stacca, tutta intera e attaccata insieme, e se ne va.” Caimano temeva che i suoi allievi si stessero addormentando. Non voleva privare di un altro baffo il Panther. “Serve anche per morire.” Disse. La Morte suscitava sempre un piccolo soprassalto. “La mia lucertola è capace di morire consapevolmente.” “E’ bellissima la mia lucertolina” sorrise Caimano, rapito, “Lei non lo sa, ma mentre fa queste respirazioni io la guardo. Voi non lo sapete, nessuno lo sa perché nessuno l’ha mai vista la mia lucertolina nell’intimità, ma lei cambia colore, come fanno i gechi. E perché questo?” Caimano puntò le sue nere pupille dentro le pupille di ognuno degli astanti. Erano svegli. Ma fino a un certo punto. Caimano si arrese e si rispose. “Cambia la sua energia. Cambia in lei il potere… Cambia lo Spirito o meglio gli Spiriti…” “Vabbé ma tanto voi che ne capite.” Si astenne dal dire. “E’ inutile che vi spieghi oltre, per il momento non sareste in grado di comprendere. Mancano troppi elementi.” Disse. Panther annuì soddisfatto. “Ho una domanda.” Intervenne.
Alzò la zampa, la stessa con la quale fino a poco prima si era massaggiato la guancia. “Dimmi.” Irene si sollevò gli occhiali, per sentire meglio. “Ma è la vita ad assomigliare ai sogni o sono i sogni ad assomigliare alla vita?” Irene freddò o piuttosto bruciò il Panther con un’occhiata di sbieco. “Ma i sogni si manifestano, si materializzano in questa realtà, giusto?” Panther stava sempre zitto ma talvolta non poteva proprio trattenersi oltre dal condividere i pesi che gli gravavano sul cuore. Caimano rimpiangeva sempre i momenti in cui stava zitto. “…giusto. Allora, si diceva,” continuò Panther imperterrito. “…si diceva che trasformare i sogni trasforma anche questa realtà. Ma se io trasformo questa realtà allora come posso trasformare i sogni…?” Irene sbatté le ali con stizza. “Non ho capito la domanda.” Stava per rispondere Caimano. “Appanther! Tu sei troppo intelligente,” Invece disse, e con la zampa si percosse di piatto la cima della testa, che era spelacchiata, che emise un suono metallico come quando fa eco perché dentro c’è il vuoto. “Sei troppo intelligente tu. Tieni troppa capa, come si dice al paese mio. Hai sentito quando parlavo di come è fatto Zio Geko o dormivi? Fatti spiegare da Irene. E per favore non fare più domande così stupide.” Marzio, incantato, teneva gli occhi su Panther e sentiva aprirglisi lo stomaco. Quanto era contorta quella pantera, come faceva a essere così contorta, molto più di lui, che pure era un serpente. Quanto era bella, quanto gli piaceva. La verità, pensò Caimano, era che Panther era così stupido da non accorgersi neanche quando rischiava, per grazia degli Spiriti, di sfiorare qualche verità. E la verità era che l’altra realtà e questa non sono dei vasi comunicanti. Questa realtà è una manifestazione dell’altra. Ma tutto quello che è qui deriva da là. Mai
viceversa. Perciò gli Sciamani, quando serve, vanno di là e la cambiano. La verità, la verità è che il corpo di sogno è un io autonomo con vita e missioni proprie, legato all’identità di veglia da una sola interfaccia comunicante. E sicuro che i due si influenzano tra loro. Ma questo Caimano non lo aveva ancora imparato e non poteva saperlo. “Il fatto che le lucertole abbiano il sangue di base freddo.” Caimano riprese a spiegare. “impedisce loro di tenere costantemente alto il metabolismo e li rende pertanto animali incapaci di sforzi prolungati. E che gli importa allòro? Sono Sognatori! Il fatto che abbiano il sangue di base freddo permette loro altresì di non nutrirsi e di non respirare per lunghe stagioni sopravvivendo alle condizioni sfavorevoli in una sorta di ibernazione.” Caimano si fermò un attimo. “ ‘A’ ‘oglia!”²⁷ Tuonò. “E ve lo dico io che l’ho visto con questi occhi miei medesimi.” E Caimano con la zampa destra si batté forte il cuore ripetutamente. “La mia lucertola è rimasta senza respirare e senza nutrirsi, senza amore proprio per niente, per 5 secoli prima di sognare me. E dire che eravamo destinati. Io la sognavo ogni notte. Ma il destino si fa desiderare. Ma bisogna meritarselo il destino.” Santo Cielo che sonno che gli stava venendo, che desiderio di dormire accanto a lei di toccarla e di sognarla! Le luci di casa erano ormai spente, si vedeva da qui. La sua lucertolina… piccolina da tenerla in una mano e agile e svelta da andare dove voleva. Fredda da doverla riscaldare, e già con in grembo il sogno di suo figlio. Caimano guardò i suoi allievi e tornò alla realtà. “D’altra parte il fatto che non abbiano il cervello, eh Panther, ascolta bene, permette loro di non avere pensieri. Per questo hanno un potere così grande perché non lo bruciano inutilmente. Per questo possono spostarsi con la visione e con tutta l’anima ovunque, perché non vivono cristallizzati in un mondo tessuto e tenuto fermo dai loro stessi e sempre medesimi pensieri.²⁸”
23 “Per sognare bisogna pinzare l’altra realtà – e le pinze sono come le forbici, creano lacerazioni – la pinzi la tiri e poi oscilli sul confine. Esercitati. Questo è
l’unico sistema. Altrimenti mangiare riso e stare in astinenza per un anno (per creare una equivalente lacerazione questa volta nella tua energia)” gli aveva detto uno Spirito Maestro in Sogno. Ma siccome non l’aveva capito preferì non parlarne. 24 “Mah… non ci siamo” voleva dire Caimano, ma si trattenne. 25 Le informazioni sulla struttura anatomica di gechi e lucertole sono tratte da M. Bonetti, Sauri, Mondadori, 2002. 26 “eppenzàte che c’è una sua cugina in Costarica capace di correre sull’acqua, ritta sulle zampette posteriori, leggera e veloce veloce, come Gesù, che non è ancora accertato ma secondo me andava veloce anche lui.” Stava per dire Caimano, quando fu interrotto… 27 “Hai voglia!” 28 Per fare silenzio nella mente esistono molte tecniche in molte discipline, sciamaniche e non.
Capitolo 15
Mestizia e Kalientita
“Caimano avrei una domanda.” Da quando, qualche giorno prima, Ira gli aveva detto, dandogli gomitatine con l’ala, “Di’ qualcosa di intelligente Panther.”, lui ci provava sul serio. “Uh.” Grugnì la scimmia. Panther era tipo ottuso e tenace, non lo scoraggiavi mica. Panther partì: “Entrando in contatto con lo sciamanesimo, c'e' il concetto che una guarigione non può avvenire se il paziente non crede. Se ci sono dei dubbi, o se si e' di un credo diverso, la guarigione puo' essere parziale, o essere inficiata totalmente. Allora il guaritore vuole aiutare una persona che vuole guarire ma non credendo negli spiriti le viene impedito di stare meglio. Di più: se crede negli spiriti di un'altra tradizione, l'efficacia viene compromessa. Oppure: se nel tempo smette di credere, il problema ritorna. In molti altri tipi di cura, pur essendo efficaci, non viene richiesto che il paziente ne sappia molto di quello che sta succedendo, tantomeno di credere in quello che gli viene fatto. Quando mi si ruppe il polso della zampa, mi operarono e mi sistemarono lo scafoide, e pur tuttavia non scelsi di diventare medico e non so nulla di anatomia delle articolazioni. Lo stesso parallelo si può fare con terapie "complementari", ad esempio la medicina cinese: gli aghi e le moxa se usate adeguatamente riportano in equilibrio il flusso del qi e le persone stanno meglio, ma il paziente non deve diventare un taoista perchè funzioni. Se poi vogliamo entrare in contatto con cose un po' più ‘new age’, eh Caimano, non ti arrabbiare, tipo il Reiki, un mal di testa può in molti casi essere fatto are applicando le mani sul capo del paziente, senza che questi abbia mai sentito parlare di energia universale. Quindi la domanda, provocatoria, concedimela Caimano,” ammiccò, “la domanda che ti volevo fare è: ‘la guarigione sciamanica è un patto col diavolo?’ ”
Caimano guardò le stelle, assorto in meditazione. ‘Balugginavano’ ancora, come prima. Brave. La luna invece non era tipo da ‘balugginare’. A meno che non si fosse fortemente astigmatici allora vedi tutto mosso, ma non è lei che ‘baluggina’ sei tu che non ci vedi. Questo pensava. “Appa’! E’ del guaritore che te devi fida’. Chesso’ tutte ‘ste storie.” Caimano procedeva spedito. Era il suo o. E poi faceva freddo ormai, non si poteva più stare fuori la notte. Lucertola glielo diceva di mettersi qualcosa sopra la maglietta, che era autunno inoltrato. Ma lui se ne era dimenticato anche stavolta. Panther aveva invece addosso la sua pelliccia invernale, folta e lucida e stava benissimo. Aveva anche messo su un po’ di ciccia intorno a quelle sue anche ossute, come si addice ad ogni buon gatto che si rispetti, per ripararsi dai rigori novembrini. “Ah, Panther, dimenticavo, il diavolo non esiste.” “In che senso, Caimano?” “Non esiste nel senso che non esiste, Irene.” Ti ci metti anche tu. Ma guarda te spiegare tutto doveva adesso. “Il diavolo è un'interpretazione cristiana o, meglio, mediorientale di alcuni Spiriti dei Mondi Inferi. Inteso come lo intendono loro, non esiste o per vedere uno Spirito in quei termini bisogna inimicarselo molto. Tutto qua.” Irene barcollava stanca e soddisfatta. A lei era sembrata intelligente sia la domanda sia la risposta. Andava bene così, era stata una grande nottata, aveva sonno, poteva andare a dormire tranquilla. Anzi, già era partita per altri stati di coscienza, sotto quegli occhiali. Doveva solo ricordarsi di continuare a tenere stretto nell’ala il guinzaglietto. Altrimenti Ele chissà dove finiva. Chi lo trovava più quello. “SSSSSSsssssssssss!” Un soffio forte nel cuore della notte, uno spostamento d’aria e di fronde da spostare anche i Panther, grandi e grossi com’erano. Panther fece un balzo indietro, spaventato e confuso, e ricadde sulla schiena.
“Appanther! Sempre tra i piedi stai! Mi vai anche a calpestare i serpenti e stiamo freschi!” Da quando Caimano gli aveva strappato il baffo non era più padrone del suo equilibrio. Era andato quasi a sbattere contro un albero prima, mentre camminava. E adesso aveva sentito quella cosa, forte, e visto due schegge di smeraldo tremolare nel buio. Un serpente? Era un serpente quello. Era un soffio di serpente quella cosa che aveva udito. “Ti presento la nostra Kala. Miss Simpatia.” Disse Caimano. Ma lui non vide più nulla. Nessuno smeraldo a bucare il nero della notte o il nero del cespuglio o il nero del serpente. Guardò, ma Kala si era ritirata nuovamente nel buio, oscillando il capo, schifata. Ma lui quella sera quando chiuse gli occhi, finalmente a casa, esausto, per dormire, rivide quelle due gemme preziose e sentì fisicamente il dolore del loro progressivo incastonarsi nel suo cuore.
Capitolo 16
Panther, Liquirizia, Marzio, Lucertola e Caimano, Kala
Erano i tempi quelli, Kala se li ricordava bene, molto bene, in cui Panther mutò di stagione e di mestizia, e si innamorò. Caimano divenne nervosissimo. Panther cantava romanze latinoamericane con voce vibrante e andava a sbattere in tutti gli alberi. “E chi lo spegne adesso ‘sto gatto in calore?” Panther non sentiva le botte e neanche le urla di Caimano. Ogni tanto lo vedevi zoppicare o saltare un o. Lui sentiva solo nostalgia di Kala. Voleva sapere tutto di lei. Voleva riempirle l’ aiuola di rose. “Sé, bravo, così a ogni strisciata si punge.” Ele lo accompagnava all’euculele con struggenti melodie e si divertiva un mondo. Panther soffriva, invece, tanto per cambiare. Ma era felice. Scriveva centinaia di poesie, anzi decine, e le lanciava come aeroplanini di carta per il cielo di tutta la contea. Ele era esterrefatto. “Appa’, poi pulisci eh?”
Andava da Liquirizia e gli si prostrava ai piedi in ginocchio sulle puntine da disegno con le punte rivolte verso l’alto, e a zampe giunte lo pregava. “Liquirizia, dica, lei che vede tutto dall’alto, da 7.000 pertiche, in volo, com’è la mia storia con Kala? Ho qualche possibilità? Eh?” Liquirizia scuoteva il capo. “Ma non vedi che sta a un metro sopra la tua testa ‘sta povera bestia!” Sbottava Caimano. “Alliquiri’ quand’è che scaviamo la fossa eh? Sei pronto?” “Voglio moriiire!” Ululava Panther. “Voglio la mia femmina!” Liquirizia lo guardava. Il capo pendulo, il collo sottile. Avrebbe tanto voluto dargli conforto. Ma lui era di quei condor che si mettevano gli occhiali quando c’era il Sole e che a forza di vederci corto era diventato miope. Non usciva mai dalla sua gabbia. Neanche se lo sbattevi fuori. “Alliquiri’ ‘na dannazzione sei. Te lo dico io perché soffri di insufficienza cardiaca e ti scoppierà il cuore. Mica per la liquirizia. Per il tuo Sogno, per la Vita che non hai.” Liquirizia si rimboccò la coda e si sedette, spossato, la testa nelle ali. Sì, la sua Vita lo aveva distrutto. Panther corse via a cercare la sua Kala. Caimano corse via dalla sua Lucertola. La morte a volte è molto brutta a vedersi.
“Lucertoli’, a me questo Nord Ovest dà angoscia. Non lo reggo.” “Caimano, è la stanchezza.” Lo sapeva che sarebbe successo, Caimano è un tipo troppo solare per resistere all’autunno.
Ele e Panther che suonano come una sirena dell’autoambulanza e non la smettono mai. Marzio che non sa più cosa fare per sedurre il povero Panther. Almeno una volta Marzio faceva finta di applicarsi. E non erano ancora i tempi della sudicia biscia. “Pensano tutti solo a se stessi e non hanno alcun interesse che quello di allargare lo stomaco e riempirselo. Lo sapevi, Lucertoli’, che il maiale è l’unico animale al mondo che non può girare il collo verso l’alto. Non vede mai il Cielo. Lo vede solo quando è a pancia in su e si rotola nella melma. Sient’ammè.” Lucertola non aveva mai sentito un tono così amaro nel suo Caimano. Chissà che aveva. Lei era abituata al Nord Ovest, alla morte. Era abituata a perdere tutto. O a non avere niente. Era morta molte volte, non si spaventava. Era della famiglia delle lucertole lei, di quelle che cambiano pelle e si strappano la vecchia muta di dosso a morsi. Di quelle che se perdono per strada la maggior parte del loro corpo non se ne fanno un baffo se lo rifanno daccapo. La morte non le fa paura, né nel Sud Ovest, quando si annuncia, né nel Nord Ovest, quando mostra il suo buio più nero. Caimano non reagiva bene alle sue carezze. Era triste, spaparanzato sul divano, inconsolabile. Si voltò di scatto, per guardarla in faccia, con quei suoi occhi da scimmia, così espressivi, così umani. “Ho mai preso un maiale io, da mettere in casa? Eh, Lucertoli’? Dillo. No!” In realtà alla gestione della casa aveva sempre pensato Lucertola, perché era una donna. L’unica cosa che Caimano aveva fortemente voluto era la cucina con grandi vetrate verso Est, per fare l’amore al mattino, e le margherite, dello stesso colore della voce di Lucertola, come soleva dire. “No, Caimano, non li teniamo noi i maiali.” Gli diede conferma Lucertola, seduta accanto a lui, vicino vicino. “Non ho mai voluto maiali…” Borbottò Caimano. Si rincantucciò e si nascose nella pancia della sua femmina. Dai che si addormenta, pensò Lucertola.
“Ahlluce’!” Sospirò sonoro. La strinse un’ultima volta, famelico, la baciò, si alzò e se ne andò via.
E poi venne il giorno, da tutti ormai molto atteso, per il quale il Panther si era preparato per giorni e giorni o per meglio dire per epopee ed epopee² di indomite ricerche e farneticazioni. Kala si mostrò. Sotto il nocciolo, solita aiuola. Panther fece un salto così. Perse l’equilibrio ma si ricompose in un battibaleno. “Signorina Kaaala!” si stiracchiò per il lungo. “Com’è bella. Sarei così onorato di averla nella mia tana, vuole venire a vedere la mia collezione di lingue cuneiformi, sumerico, accadico, eblaita, elamico, hurrita, urarteo, hittita, hattico, luvio, palaico, ugaritico nonché persiano di età achemeneide?” Panther era un ragazzo che si applica. “No grazie, non le digerisco.” E lo diceva a ragion veduta. Anche lei era stata in università ma aveva frequentato i corsi del prof Pangolfo e le era bastato. “Non mi vanno giù quei macigni di geroglifici.” “Vuole una poesia allora? Sono poeta. Cantante e musicista. Permetta che mi presenti, mi perdoni, non mi sono ancora presentato. Il mio nome è Panther, Alex Panther. Lei la conosco già di fama, non stia a scomodarsi.” Kala oscillò il capo annoiata. E fece per andarsene. “Signorina Kala, signorina Kala! Le ha lette le mie poesie? Le sono piaciute?” Kala era scomparsa chissà dove.
“Signorina Kala!” Gridò Panther al vento. “Sono così felice di averla conosciuta. Cosìffeliiice. Lei mi dà speranza signorina Kala, non può immaginare quanto. Lei mi ha riportato alla vita. Lo sa che al giorno d’oggi le storie d’amore durano in media quaranta giorni? 40 gg… Non lo trova terrrribile?” “Dateci il tempo di conoscervi.” Si sentì, lontano, un sibilo tagliente.
Dopo quell’incontro così luminoso e decisivo per la sua esistenza, Panther tentò ripetutamente il suicidio. Ma non ci riuscì e dal momento che nessuno voleva dargli una mano dopo qualche stagione desistette. Anche Marzio si struggeva. Era un panther bellissimo e quando soffriva era un panther altrettanto bellissimo, molto panther. Che stile ragazzi. Soffriva da panther lui, era irresistibile. Marzio non pensava ad altro. Aveva perso perfino l’appetito, dopo essere ingrassato di qualche centinaio di chili. Panther si trascinava magro e infreddolito con il muso tra le zampe, la coda bassa, emettendo grugniti ferini che lo scuotevano dal più profondo del cuore. Si sedeva nell’angolo più freddo del cortile della casa di Lucertola e si strappava i peli dal capo. E non riusciva neanche a piangere. Né a vomitare né a liberarsi in qualsivoglia modo. Rigido e congestionato, l’aveva sempre detto Caimano. Ogni tanto, sulla sedia, cambiava posizione. “Almeno adesso sta zitto.” Disse Caimano a Lucertola. “Vedrai che si riprende. Dagli tempo.” Lucertola lo sapeva. “Per me può anche mummificarsi.” Il pelo da nero nero gli era diventato grigio e spento, e da morbido quale era gli era diventato ispido e forforoso, le ossa gli si stavano collassando addosso come i bastoncini dello shangai. “Soffre e basta. Soffre perché è ferito nell’orgoglio. A che gli serve soffrire così,
senza capire niente.” Sbottava Caimano quando ava di lì. Un giorno infine lo videro alzarsi. Panther era un esperto in morte sì o no!? Eccerto che si riprendeva! Aveva capito tutto. Era solo una questione di strategia.
29 Si veda la traduzione delle unità di misura di tempo: prima favola, “La casa del sogno e il mostro 777”, capitolo 4, oppure questa favola, nota 4.
Capitolo 17
Panther e Caimano
“Perché vedi Liquirizia, le donne sono fatte così. Bisogna trattarle male. Altrimenti è troppo facile. Si stufano quando è facile, quando le ami, è sicuro che ti lasciano.” Liquirizia dormiva. A Panther piaceva parlare con Liquirizia perché i condor sono animali privi di apparato fonatorio e privi di spirito di contraddizione. Liquirizia in vero apprezzava la sua compagnia ma non capiva quello che diceva e perciò non riusciva a stare sveglio. Panther sorseggiava il suo wiskey, pensoso. “Sì, Liquirizia, se le disprezzi le agganci, non può essere che così. Senti questa. L’ho trovata dentro una caramella alla caccola. ‘Le donne nutrono poco interesse per gli uomini che le trattano bene.’³ E questo avviene perché cerchi il riconoscimento da quelli che ti disprezzano più che da quelli che ti amano. E’ naturale. Capito Liquirizia. E’ il mio caso. E’ così che funziona. E’ per questo che funziona così. Eh!” Tracannava il suo whiskey. Più parlava più si esaltava. Non era mica tanto equilibrato il Panther. Doveva essere ancora per la storia del baffo. Liquirizia russava sommessamente, per non disturbare. Panther aveva capito tutto ormai ed era bello carico. “Non bisogna essere troppo gentili con le donne. E’ la legge dell’attrazione. Fai l’amico, il simpatico, il gattone, mostri di apprezzarle, di desiderarle, e poi invece niente, le snobbi, fai l’uomo rude. Perché bisogna essere rudi. Alle donne piace l’uomo rude. Anche a letto sai. Senti questa. Questa l’ho trovata scritta sulla carta igienica. ‘Le accarezzi come una donna e le baci come un uomo.’³¹ E
le…” “Appanther! Sempre tra i piedi sei! E pure ubriaco! Ma non ti vergogni! Io ti ho messo fegato nuovo, reni nuovi, ti ho rimesso al suo posto l’anima e sa Iddìio quanto altro. Per il comprendonio non c’è niente da fare. Adesso stai bene, sei forte e fai danni più grandi. Pigliati ‘sto whiskey e fuori di casa mia! E dille che l’ami vigliaccone!” gli gridò dietro Caimano. “Le strategie!... Le tecniche, i giochini!... Ma come ci siamo ridotti.” Disse tra sé, ad alta voce, ritirandosi nelle sua stanze Panther fece finta di non sentire, piccato. Cambiò posizione, e riprese. “Capisci Liquirizia, glielo dai e poi glielo togli. L’incertezza crea il desiderio. La insulti. La snobbi. Le donne vogliono essere trattate male. La picchi.” Scolò l’ultimo sorso, direttamente dalla bottiglia. Si sentì un Re. “Grazie Liquirizia, sei un grande, parlare con Te mi ha fatto capire tante cose.” E finalmente se ne uscì. Con la testa che girava. Nobile e fiero. Pelo satinato. Sguardo tenebroso. Un velo di malinconia. Un velo di sarcasmo. Zampe molli per il troppo alcool.
Caimano si affrettò a chiudere la porta alle spalle del Panther. “Ciao Liquiri’. Quando vuoi che ti scavi la fossa fammelo sapere. Che è sempre meglio che stare qua.” Ultimamente Caimano rientrava dalle missioni molto abbattuto e stanco. Le missioni ai tempi del Nord Ovest erano micidiali. L’ultima cosa che voleva era trovarsi gatti ubriachi a farneticare in casa. “Luce’ dove sei?” A qualsiasi ora lui tornasse a casa Lucertola interrompeva quello che stava facendo e veniva da lui. Se lei stava dormendo, lui veniva da lei. Altrimenti se stava cucinando spegneva il fuoco, se stava riordinando lasciava le cose a metà,
se stava ricamando poggiava il lavoro, se stava modellando l’argilla ricopriva con un telo di plastica, se stava chiacchierando con le amiche le sbatteva tutte fuori di casa. Caimano rovesciava a terra lo zaino e lasciava gli scarponi inzaccherati all’ingresso. Lei si sedeva sul divano e lui le si sdraiava in grembo, in posizione fetale, di schiena, e chiudeva gli occhi. Era stato via tanto tempo. “Che belle orecchie che hai, Caimano mio,” mormorava lei, “né troppo grandi né troppo piccole, e belle carnosette.” E con le dita ne riava i confini. “Che bel collo che hai e che bella bocca, Caimano mio, lo sai che mi è sempre piaciuta.” E con le dita ne segnava i contorni. E le dita trasmettevano bellezza. Erano dita da mangiare. A Caimano piaceva Lucertola perché le sue parole coincidevano con le sue azioni. Lo faceva sentire in un mondo giusto. “Che belle spalle che hai, Caimano mio. Che bella schiena curva. Non troppo curva, curva bella.” Lucertola fece scorrere un dito lungo la colonna vertebrale. “Che belle braccia che hai.” E mentre lo diceva lo accarezzava. Caimano sentiva il suo amore. Socchiudeva gli occhi. “Si vede che smuovi le montagne.” Lucertola si sporse in avanti e gli baciò il braccio. “E’ bello anche tutto il resto, solo che da qui non riesco a toccarlo.” Caimano si girò sull’altro lato e la guardò. Era bello il suo sorriso visto dal basso. Bello da toccarlo. La strinse alla vita da toglierle il fiato. La baciò sulla pancia fino a farla ridere. “Lucertoli’, sei la mia disperazione.”
“Lo so Caimano.”³² “Lucertoli’, sei la donna dei miei Sogni.” Pensò con il muso affondato in lei. Lei, se lui ne avesse avuti, gli avrebbe ato la mano tra i capelli. E invece fece di più. Lo sollevò un attimo, si alzò, e si sdraiò sul divano sopra di lui. Tanto era leggera. Gli coprì il viso di bacini, fitti fitti attaccati attaccati, a bagnarlo tutto, a lavargli il muso, come ai vecchi tempi. Lo morse anche un po’ qua e là. Si fermò. Si ritrasse. “Te l’ho mai detto che hai dei begli occhi? Forse non te l’ho mai detto. Sono belli da guardare e da baciare. E soprattutto da guardarci dentro mentre mi vuoi bene, mentre mi guardi.” A qualsiasi ora lui tornasse a casa lei lo rilassava, gli accarezzava la testa, diceva “va bene così, non importa.”. Lo ripuliva. Si faceva stringere. Poi gli prendeva la testa tra le mani e gli diceva: “la vuoi una pastasciutta?” A qualsiasi ora lui fosse tornato lei gli preparava la pastasciutta col ragù di ragni (il ragù era sempre pronto, in frigo), il suo piatto preferito. E lui sapeva di essere tornato a casa, che quella era casa sua, che quella era la sua lucertola. E un’altra così non ce n’era.
30 Agatha Christie, la frase originale è riferita agli uomini. 31 Fabio Volo 32 Lo diceva sempre Caimano. L’aveva già detto nella seconda favola, “La casa di Lucertola e il segreto della gioia”, capitolo 10
Capitolo 18
Kalientita
“La MIA Kalientita! Ti rendi conto Liquirizia!?” Caimano non lo faceva più entrare in casa, si era stufato di sentirlo miagolare. Lui faceva solchi per il giardino avanti e indietro. In assenza di Liquirizia, che non lasciava mai la sua prigione, parlava da solo. “Ti rendi conto!?” gridava. Alzò le zampe al Cielo e si dimenò tutto. Povero Panther. “Mi ha detto: ‘Panther, a stare con te si apprezzano le scimmie.’ mi ha detto.” Non era ubriaco. Solo non riusciva a crederci. “La mia Kalientita…” Avanti e indietro. Che se ci fossero stati i cigni sul lago avrebbero avuto comione. “Mi ha detto: ‘Mestizia, sei bello come un crisantemo.’ A me l’ha detto. Così ha detto!” Si fermò, girò su se stesso, riprese a camminare. “Ah ma lo so sai, non ci devi mica credere Liquirizia. Le donne dicono così. Ma lo dice apposta. E’ tutta una manovra. Come quando mi chiama ‘Ssstupido Panther’, lo so benissimo che mi considera un genio. I serpenti sono obliqui e tortuosi Liquirizia, non devi mica credergli. Non intendono quello che dicono. Anche la mia ex, che pure non era serpente, pensa, mai una volta che mi ha detto ti amo, neanche per bigliettino, ma io lo so che mi amava. E poi mi fa, la MIA
Kalientita…: ‘Appanther io sono una femmina terra terra, sono un serpente, lo vedi. Parliamoci chiaro, diciamoci le cose come stanno, non è che tu mi faccia schifo. E’ che sei stupido, e pure cattivo. Che vuoi che me ne faccia di te?’ ” Sob. Rumore di fiato e i. “Kala perché mi piaci tanto? Ma che t’ho fatto?!” Panther si accasciò al suolo. “Panther la donna è come la fortuna,” gli aveva detto lei, “devi desiderarla, devi amarla e devi esserne degno. Allora, se è destino, sarà tua.” Le parole di Kala risuonavano ancora dentro di lui. Panther si sarebbe accasciato al suolo ma sfortunatamente lo aveva già fatto. Si prese le tempie tra le zampe e cercò di svitarsi la testa dalla disperazione. “Ecco, sono solo uno stupido panther, non sono buono a niente, non sono capace a niente e degno di niente.” Lasciò cadere la testa al suolo, la sua testa pesante e dura. Sentì dolore e rimbombo.³³ “Ahi! Ahi ahi.” ululava mentre si strappava i peli dalle orecchie e le orecchie dai peli. Il dolore fisico lo teneva occupato, lo svuotava, per un momento, da dolori peggiori. Ma i dolori peggiori, purtroppo, erano dolori senza rimedio.
33 “Per mettersi il preservativo, Panther, non serve essere superdotato. Anzi, più sei stupido più si infila facilmente. A fare cazzate in giro il talento non ti manca.” Anche questo gli aveva detto quel serpente di Kala, ma in quel
momento Panther pensò che era meglio soprassedere.
Capitolo 19
Decadenza
“Il N/O è la morte di tutto. No, la Morte è l’Ovest, mi sono sbagliata. Il N/O è peggio, è la morte della morte, la fine di tutto e il dopo-fine, la fine anche delle speranze. Lo sai, Caimano, non ti devi mettere paura.” Lucertola cercava di rassicurare il suo uomo. E’ il buio che si fa sempre più fitto il N/O, la lenta attesa del giorno più buio dell’anno. Il progressivo disfacimento di tutto quello che nel tempo dell’Ovest ha lottato per vivere ed è morto, ciò che è marcio, inutile o finto. E’ il tempo delle prove più dure, quelle che non si superano e non si dimenticano E’ il tempo della rinuncia, l’ultima occasione per mollare la presa delle aspettative, degli attaccamenti, delle alzate di orgoglio. Era il tempo di Mestizia infatti, la sua stagione. E’ il tempo della libertà, della comprensione, della visione interiore. Le stelle si vedono a occhio nudo. Ma il buio deve essere totale.
“Non ho paura, Lucertoli’.” Diceva in tono piatto Caimano. “Questa civiltà non è ancora morta. Ma presto finirà.” Caimano le cose le sapeva e le diceva. E non ci poteva fare niente. Non poteva smuovere le montagne. Si sentiva solo stanco, sempre più stanco. Le mise le mani sui fianchi, e la baciò. Un bacio lungo.
“Siirup.” Sentì da sopra il capo. “Aristide lo so come si fa a baciare! Non è il caso che mi fai la colonna sonora. Quel tuo Ragno è proprio spiritoso Lucertoli’.” “I Ragni sono molto spiritosi, Caimano, non lo sapevi?” E lo baciò, un bacio dolce, dentro a un sorriso lungo.
Mestizia, infine, si rassegnò. Grigio e spento, non dava più fastidio. Ele sfoggiava una benda da pirata e si esibiva in mosse da spadaccino, saltando su una zampa e poi sull’altra, da quando Panther gli aveva ringhiato contro: “E basta co’ ‘sta chitarrina!” Non componeva più e, pirata o spadaccino, si teneva a debita distanza. Irene, da dietro gli occhiali, leggeva Le avventure di Ragnett il Barbaro. “Fantastico! Dove l’hai trovato?” Caimano stava sbirciando. “Tra i remainders.” “Volevo ben dire, non ne fanno più di storie così. Guarda che belle figure!… aglielo poi al Panther, magari impara qualcosa.” L’ho sempre detto io che le Oche salveranno il mondo. Borbottava tra sé, ciondolando per il giardino. Se resterà ancora qualcosa da salvare.
Il mondo era degenerato. L’inimmaginabile era all’ordine del giorno. Perfino le api, le sagge, le comunitarie api, le dolci api, avevano perso il senso dell’orientamento.³⁴ Non ce la facevano più. La vecchia Ebe, l’ape di Geronimo il Cervo, che abitava nella casa del sogno, aveva ceduto a folle ione e si era smarrita tra le spire di Sirio la vipera,
vipera non da poco. Tale sacra copula aveva dato alla luce Ebete, piccola creatura col sistema nervoso di un serpente³⁵ e il pungiglione di un’ape. Ebete fin da piccola svolazzava allegra e ghignante, ancheggiando e spingendo fiera il pungiglione in vista. “Degna figlia di un serpente.” Disse Kala quando la vide, in una delle sue ispezioni oltre-contea. Scosse la testa sconsolata. Non c’erano più i serpenti di una volta. Vai a fidarti degli organismi geneticamente modificati. Questa è scema. Chi si crede di essere? “Spara spara la tua unica cartuccia!”
Il Mondo ormai era fatto di esseri deboli che degli Dei da cui provenivano non mostravano più alcun gene. E più erano deboli, più erano violenti, e più erano violenti… I migliori se ne erano andati infatti. Di Jagger da diverse epopee non si avevano più notizie. Corvoblu aveva mandato una cartolina da Sirio, Sirio la stella, la stella che si chiama come il serpente che aveva fatto smarrire Ebe. Aveva commosso Caimano fino alle lacrime sapere che il suo vecchio amico e compagno di studi stava bene. Voleva molto bene a Corvoblu. “Guarda Lucertoli’. ‘Sto stronzo di un corvaccio!” Corvoblu e Malvina si erano trasferiti e si trovavano bene. Corvoblu raccontava che nella lingua dei siriani ‘blu’, ‘verde’ e ‘bello’ erano la stessa parola e Malvina era tutta contenta che improvvisamente si era trovata ad essere una signora Corvobella. Ma lei, dice, lo aveva sempre saputo che sarebbe finita così. Le donne! Dice Corvoblu che è naturale che sia una stessa parola da loro perché lassù il blu e il verde sono una sfumatura continua e hanno lo stesso significato. “Ma tu lo capisci a Corvoblu quando scrive, Lucertoli’?’” Dice che si sente a casa finalmente, che sono tutti gentili, sorridenti, uniti che
non si può immaginare. Caimano si divertirebbe come un matto a smontare e rimontare i loro strumenti tecnologici, ci metterebbe una vita per capirli, usano la tecnologia della Luce. Dice che lì la sua menomazione non si percepisce quasi perché la gravità è diversa rispetto a quella della Terra e non si cammina veramente. E’ anche diventato più tondo, per effetto del tipo di gravità. Dice che lui e Malvina stanno aspettando un corvetto blu o verde, non si sa ancora bene, ma tanto è uguale. E che sono molto felici. Caimano appoggiò il muso sul petto della sua lucertola e pianse tutte le lacrime della sua vita. “Caimano…” Lucertola gli teneva la testa, gli teneva la schiena. Caimano sobbalzava in violenti singhiozzi e spargeva lacrime e moccio come un idrante. “Lo so che fai fatica a stare in questo mondo…” Gli accarezzava la testa spelacchiata, lo sosteneva alla vita. “Ma vedrai, erà.” E il giorno più buio doveva ancora venire.
34 Salvare le api significa quindi evitare il collasso dell’intero Pianeta. Per citare una frase attribuita ad Albert Einstein: «Se l’ape scomparirà dalla superficie della terra, allora agli uomini rimarranno solo pochi anni di vita. Non più api, non più impollinazione, non più piante, non più animali, non più uomo». Da un articolo di Rachele Malavasi, 21 agosto 2008. 35 Iperrreattivo
Capitolo 20
Il primo bacio
Fare il bambino in fondo era cosa rilassante. Non ti dovevi concentrare come per fare una capretta. Quella la dovevi proprio sognare, andare a prendere in altri mondi, molto lontano, e portarla qua per concepirla. Il bambino invece era pronto, era già lì che aspettava. Lei l’aveva visto. Bastava esserci. Sgorgava naturalmente dall’amore. Lucertola non aveva mai pensato di avere un figlio. Ma sapeva che era importante. Era l’erede, e non dei quattro soldi di zio Adolph ma della sapienza di Caimano e di molta altra. Caimano era un uomo onesto, era un bravo apprendista Sciamano e ancora di più sarebbe stato un buon padre. In ogni caso Marco sarebbe stato un figlio bellissimo e sano, sicuramente fino ai 10 anni. Con quanta gioia in cuore lo aveva visto. E loro sarebbero stati una coppia felice. Per fare un figlio così bello e luminoso bisogna essere felici. “Vedrai Caimano che andrà tutto bene” pensava Lucertola mentre lo sbaciucchiava e si sentiva felice. Lei era lei e lui era lui ed era lì con lei. La civiltà stava morendo ma loro facevano del loro meglio, l’avevano sempre fatto. Lucertola in vita sua non aveva mai avuto né rimpianti né rimorsi. Ed era sicura che lei si sarebbe salvata in qualche modo, anche nella fine del mondo. E lei si sarebbe presa cura della sua scimmia, cioè del suo uomo. E in effetti se ancora la contea della casa di Lucertola era un’oasi di vitalità e bellezza lo si doveva all’amore e alla fede semplice e incrollabile di Lucertola che proteggeva e nutriva tutta la sua casa. Questa era Lucertola, quando si addormentava e quando si svegliava, quando il suo maschio era lontano e quando era accanto a lei.
Questa era Lucertola, quando quella mattina si svegliò che lui non c’era ma sapeva che era in bagno, si svegliava e si alzava sempre prima di lei la mattina. Si allungò sul suo cuscino e vi affondò il naso: “Panzerotto…” mugolò. Ma anche lei non riusciva più a dormire. Allora si alzò. Dal momento che la porta del bagno era chiusa, si diresse in cucina e si accinse a preparare il caffè. Messa la caffettiera sul fuoco, prese le tazzine, estrasse la torta dal forno e ne mise una fetta su un piattino per Caimano. L’aveva già assaggiata la sera prima e gli era piaciuta. Lucertola sorrise e chiamò Caimano a gran voce. Il caffè stava per uscire. Caimano non c’era. Lucertola guardò in tutte le stanze. Corse in giardino e chiese a Gualtiero, che non le seppe dire niente. Caimano se ne era andato. Senza neanche lasciare una salciccia a Gualtiero. Pensò a uno scherzo. Ma non era dell’umore. Non poteva essere. Alla fine vide sulla sedia della camera da letto, quella dove Caimano era solito sistemare i vestiti per l’indomani, la ‘maglietta romantica’ come la chiamava lei. Era una maglietta verde, che piaceva molto a Caimano e anche a lei: aveva una tartaruga sulla pancia mentre sulla schiena, a caratteri cubitali, c’era la scritta ‘OVUNQUE SARAI SARO’. Poco distante, sulla scrivania, Lucertola vide anche un bigliettino, scritto a mano, con la grafia di Caimano. “Mi spiace Luce’, questa volta non torno.” Lucertola rimase pietrificata. Sembrava la statua di marmo con venature verdi di una lucertola. Marmo immobile, freddo. Sentì un dolore al cuore di taglio, acuto. “Cuore mio, aspetta.” Si portò una mano al petto. Era tutto finito?! Restavano lei, Kala, e quelle quattro oche delle sue amiche? Lucertola si muoveva a stento, irrigidita dal dolore. Si portò fuori. La mattina era fredda e grigia, silenziosa. I colori se ne stavano andando. Presto sarebbe finita anche lei e tutto questo posto. Solo le margherite
di Caimano, gialle, che fiorivano da ottobre a giugno, resistevano, con qualunque tempo. E chi glielo dice adesso a Marco? Non puoi venire, bambino mio, papà se n’è andato. …L’aveva fatto di nuovo.
Se lo ricordava ancora in università. ‘Caimanito’ lo chiamava, anche se era grande. Ce l’aveva un po’ con lui. Non l’aveva ancora baciata. E forse non lo avrebbe fatto mai. Se per questo, lei ci aveva rinunciato. Era ata una epopea e mezza da quando era scaduta la profezia di nonna Lucertola, che già era lunga parecchio. Erano molto avanti negli studi ed entrambi non avrebbero perso una sola lezione. Caimano perché era molto ambizioso a quei tempi e Lucertola perché non aveva altro posto dove andare, il mondo di fuori non esisteva più, quella era la sua famiglia e lei la amava, come si ama di solito una famiglia. Non l’avrebbe certo abbandonata solo perché il suo migliore amico non voleva costruire casa con lei. Pazienza. Aveva capito ormai. Ricordava che fu durante o meglio dopo una lezione delle sue preferite, del corso di ‘Cosmologia Organica’, docente Andrej Popowskij. Andrej Popowskij era stato un nome una volta, una persona famosa. Fu il primo astronauta ad atterrare, anzi allunare, sulla Luna. Scoprì che gli abitanti della Luna non parlavano russo e al suo ritorno si fece Sciamano. Nessuno seppe più nulla di lui. Ma il mondo dello sciamanesimo sta ancora ringraziando. Ricordava che la lezione era incominciata con le parole del prof Popowskij: “In principio c’erano solo Anki e Tsunki con Tsunki-nua e Anki-nua, le loro figlie. Anki il creatore di tutto. Tsunki un’altra sua manifestazione, il Dio delle Acque Superne e Infere.” Parlava così Popowskij, parlava bene. “In seguito gli altri Dei ebbero origine come distaccamenti da Anki. Anki prendeva i suoi organi e li estrofletteva, senza però privarsene, per creare, implicare nuove realtà. Per primo prese il suo stomaco e creò Inana…” Lucertola e Caimano ascoltavano rapiti, in stato di sogno, per non lasciarsi sfuggire nemmeno una sillaba, nemmeno un’immagine, non un aggio. Poi il
professor Popowskij prese il tamburo e invocò, al cospetto di tutti i suoi studenti, che lo fissavano a occhi spalancati o ad occhi chiusi ma comunque sbalorditi, la Grande Dea, Inana, la ‘Signora dei Cieli’, questo l’antico significato del suo nome. I suoi studenti videro. E un brivido di terrore percorse i banchi di legno sistemati ad anfiteatro e le spine dorsali dei presenti. Inana possente, dolce e terribile insieme. E tutti i suoi serpenti. Inana la forza della vita. Al termine della lezione alcuni allievi si fermarono a trascrivere le loro visioni. Capita spesso, come coi sogni, che se non le si trascrive spariscono per sempre e non le si recupera più. Alla fine erano rimasti solo Lucertola e Caimanito ai loro posti. L’aula era ormai completamente vuota. Non ci sarebbe stata lezione per alcune epoche. Si sentiva il rumore, frusciante e ritmico, delle penne da scrivere, e lo sfrigolare di fogli, e l’eco, attutito, dei i degli studenti sotto i porticati e nei cortili. Il Sole stava sciogliendo la neve nei cortili e spandeva i suoi raggi anche nelle aule. Lucertola cambiò posto. Stava iniziando ad avere caldo: il riscaldamento era tenuto piuttosto alto e il Sole la colpiva in pieno. Caimanito raccolse le sue cose per andarsene. Anche lui era rosso in viso. Inana, la Grande Dea. Giunto al corridoio centrale, si girò verso Lucertola. “Ciao Luce’.” “Ciao Caimanito.” Caimanito voleva farlo per lei, voleva mostrarle quello che aveva imparato nei corsi di esoterismo avanzato che frequentava solo lui. Avrebbe fatto un salto di tre gradini guardando dalla nuca, attraverso i capelli, quelli che gli erano rimasti. Lucertola lo vide sfocare lo sguardo, contrarsi in un attimo di parossistica concentrazione, e volare all’indietro. “Caimanito!” urlò Era finito disteso a terra. Lei corse giù e gli prese la testa tra le mani per accertarsi che non si fosse fatto male. Non gli era mai stata così vicino prima d’ora. Non doveva essere il suo uomo. Da un bel po’ lo aveva capito. Si stava organizzando diversamente. Però gli voleva bene. Non si accorse neanche quando aveva incominciato a dargli quei bacini, fitti fitti, dolci dolci, teneri, di puro affetto, per tutto il viso fino a bagnarlo tutto. Non se ne accorse perché era stata la cosa più normale del mondo. Solo, ad un certo punto, si accorse che lui la aveva presa e la stava baciando apionatamente, la stava avvinghiando e penetrando. Teneramente uniti, stavano rotolando per tutta l’aula, intorno alla cattedra.
“Caimano.” Disse quando poté riprendere fiato. “Lucertola.” Disse lui. Si guardarono e sorrisero. Fare l’amore era facile. E’ naturale. “Scusa Lucertola. Non volevo. Non volevo cadere giù per terra. E’ che ti ho visto e mi sono emozionato. Volevo fare un bel salto ma ho perso la concentrazione.” Lei scoppiò a ridere. “Sono contento di essere caduto. Scusa Lucertoli’. Tutto ‘sto tempo.” Lucertola gli diede un pizzicotto.
Caimano imparò la lezione. Dopo quel giorno smise di essere tanto ambizioso, tanto concentrato su di sé e tanto pauroso di perdere potere o di perdere la faccia o di perdere se stesso. Superò gli esami coi voti più alti della scuola. Amava gli Dei. Amava Lucertola. Era imbattibile. Gli Dei gli dissero: ‘amare’ su da Noi si dice ‘misurare la terra intorno’. Allora lui il giorno dopo invitò Lucertola a casa sua e la lasciò in cucina e per qualche epoca si assentò. Stava facendo a grandi i il giro del perimetro della sua terra, ogni o una pertica circa. Quando, dopo il crepuscolo, fu di ritorno, Lucertola era ancora lì, seduta al tavolo della cucina. Lui tirò fuori il suo blocchetto dalla tasca dei jeans e glielo aprì davanti. Le pagine stavano per aria tanto erano scritte fitte, piene di calcoli e di numeri. “Questo è per te.” Le disse. Il cuore gli mancò un battito. “Se lo vuoi.” Le ‘aveva misurato la terra intorno’. Era la sua terra, se lei la voleva. Lei disse “Anch’io ‘ti misurerò la terra intorno’, e ne avrò cura.” E così era stato.
Capitolo 21
L’addio di Lucertola.
Lucertola si strinse nella maglietta verde di Caimano. Era stanca adesso di ricordare. Non aveva voglia di vedere nessuno. Non aveva voglia di sapere niente. Adesso Caimano era senza di lei. Chi se ne sarebbe preso cura? Come sarebbe stato il suo Caimano. La preoccupazione le montò al cuore e le strinse la gola. Non volle vedere. Non volle pensarci. Niente era più in suo potere ormai. Niente aveva più senso. Posò la maglietta sul letto. Fece una eggiata in giardino. Attraversò il campo di margherite di Caimano, ben attenta a non calpestare nemmeno uno stelo. Si accucciò, le sfiorò per un’ultima volta. I petali fremettero al suo delicato tocco. In piedi, tra le margherite gialle, iniziò la respirazione che ben conosceva e che non pensava di avere occasione di sperimentare tanto presto. Così avrebbe visto se funzionava, si disse con un mezzo sorriso. Suo marito e suo figlio erano le cose più preziose della sua vita e non c’erano più e lei non poteva fare più nulla. Forse Caimano adesso stava bene, le venne di pensare mentre la sua anima sussultava dentro di lei. Forse senza di lei Caimano avrebbe vissuto più a lungo e sarebbe stato meglio. Forse aveva qualcosa di importante da fare. Caimano fa sempre la cosa giusta. Se l’ha fatto ci sarà stato un motivo. Continuò a respirare, rasserenata, e la sua anima dentro di lei era mobile e
leggera come una foglia al vento, ancora, per poco, attaccata al ramo. Tante vite insieme avevano trascorso e in quel momento sentì il dolore di tutte le volte che in tutte le vite lui si era allontanato da lei, era morto in battaglia ancora giovane, l’aveva tradita… sì, non erano tutte belle vite, e quante volte lei lo aveva maledetto ma lo aveva sempre amato anche se qualche maledizione aveva anche funzionato mannaggia. La sua anima sarebbe tornata al flusso di queste vite, ce n’erano ancora tante che lei non ricordava! Aveva sognato che c’erano tante vite “future” (future… ate… il tempo non è lineare) per lei e Caimano insieme, ma non le ricordava più. Non era mai stata una brava sognatrice. Massì, avrebbe avuto tempo, nuovo tempo per imparare. Anzi meglio se non le ricordava, le avrebbe scoperte a poco a poco, prima o dopo o mentre. Sorrise. L’importante era togliersi di qui, da questo mondo assurdo e cattivo e senza alcuna risorsa. La sua anima vacillò. Lo aveva molto amato. Aveva amato molte cose in questa vita. Era stata perfino felice, più di quanto avesse sperato. Massì, lo avrebbe aiutato di più senza corpo a questo punto. Chissà. Era già morta tante volte in fondo. Lucertola perseverò nella sua speciale respirazione fino a che il suo ultimo pensiero fu: “To’, funziona!” Come si era abituata a mantenere consapevole la sua attenzione durante il momento di trao tra la veglia e il sonno, così Lucertola morì pienamente consapevole, portando via con sé tutta se stessa. Vide il suo corpo afflosciarsi sotto di lei. Le margherite chio i petali e inchinarono gli steli. E, a poco a poco, si spensero anche loro.
Capitolo 22
La fine della civiltà e la casa del Panther
Liquirizia sul pavimento della sua voliera si assopì per sempre. Il Sole si fece largo tra le nebbie mattutine e venne a inondare una casa vuota. Panther fu il primo ad accorgersi che qualcosa non andava. Irene, l’Oca del Panther, Ele, l’Elefante dell’Oca del Panther, e Kala, lo seguirono a ruota. Panther provò a bussare, a chiamare, a miagolare, a ululare, ma nessuno rispose. Raccolsero il corpo di Lucertola e quello di Liquirizia e ne diedero sepoltura. Il corpo di Lucertola aveva vicino a sé una maglietta verde stropicciata più grande della sua misura. Nessuno entrò mai nella casa di Lucertola e Caimano. Era la casa di Lucertola e Caimano, quella che avevano costruito insieme, quella che ognuno di loro aveva misurato e curato per l’altro. Col are delle epopee lentamente si deteriorò, a poco a poco scomparve. Non fu sommersa dalla vegetazione perché vegetazione non c’era più. L’anima era volata via dal luogo. Era rimasto il deserto. La materia, lasciata sola, perde coerenza e coesione, diventa polvere.
Panther e Kala trovarono sistemazione non distante dai tre sassi disposti a piramide che erano le rovine di quello che un tempo era stato, la grande casa di Lucertola, la casa che aveva conosciuto il segreto della Gioia. La civiltà era finita. La si poteva vedere, dalle alture dei monti del Nord: un grande deserto pieno di persone che si agitano e di bombe che scoppiano. Panther e Kala se ne stavano in disparte.
Panther componeva e Kala scriveva. I serpenti non muoiono mai, non invecchiano mai, possono morire solo per morte violenta, …ma provarci! I Panther stanno sempre a scassar l’anima, qualche pelo bianco c’è rischio che gli venga, ma hanno la pellaccia dura. Però ultimamente sotto quella pellaccia gli era venuto un bel grassino. A Kala piaceva un sacco dormirci sopra, era tiepido e morbido. “Ssstupido Panther a sangue caldo.” Sibilava tra i denti, sprezzante. Ma Panther sapeva che non intendeva quello che diceva. O meglio sì, lo intendeva, certo, ma era contenta. Era contenta che lui fosse lì. “Perché Kala? Perché stai con me?” “Non hai perso il vizio delle domande intelligenti eh Panther.” “Sul serio Kala, perché non mi vuoi rispondere?” Uff noioso, volevo solo dire qualcosa di cattivo, mai che capisse quello stupido. O forse era il suo modo di fare, da languido stupido cervellotico. Diciamo che, a tutti gli effetti, sembravaproprio uno stupido. “Perché sto con te? Perché ti voglio bene Panther. Sei del mio stesso flusso, sei il mio fratellino, non lo vedi che sembri un serpente, mi assomigli da fare schifo. Ti voglio bene, non potrei non volertene neanche se mi fi la pelle. Non posso arrabbiarmi con te e non posso farti male. Perché tu sei me.” Il sangue di Kala, a sentire queste parole, si riscaldò di un grado. “Forse non ti ricordi, Kalientita,” riprese Panther cocciuto, “Ma ci furono epoche in cui tu eri furente con me. Mi trattavi male…” “humn... furente? disgustata piuttosto. Eh Panther tu non ti vedevi… E poi sai, le cose brutte quando ti riguardano così da vicino ti imbestialiscono da impazzire.” Panther sospirò.
“Allora era destino.” Le disse cingendola con le zampe. “Oh sì, era destino. E rinuncia e dolore e morte.” Disse lei. “Trasformazione. Forse non ti ricordi Mestizia? Il destino bisogna meritarselo.”
Epilogo
La Terra così come l’avevano conosciuta Panther e Kala, Caimano e Lucertola e tutti gli altri, scomparve infine dalla faccia dell’universo. Implose lentamente e inesorabilmente su se stessa e ad ultimo inghiottì, con una definitiva deflagrazione o, dal punto di vista della Terra, con un irritato ruttino, tutti i suoi insopportabili abitanti. Anche Panther e Kala se ne dovettero andare. Ma cosa successe a loro in seguito non ci è dato sapere. Si presume che furono tra gli ultimi ad andarsene perché ebbero ancora notizia di Marzio. Anch’egli, essendo un serpente, resistette a lungo. Diventò, col aggio di era, una sorta di leggenda metropolitana. L’anaconda che si aggirava nelle fogne e spaventava le pantegane. Il Mostro che risaliva e ridiscendeva qualsiasi corso d’acqua e inglobava tutto quello che trovava al suo aggio che avesse una parvenza di vita. Molta vita non la si trovava più ormai, ma una parvenza sì. Poi bisogna dire che Marzio non era tipo da andare troppo per il sottile, aveva uno stomaco che digeriva anche i sassi e qualche pietra sicuramente se l’è messa sotto i denti. Fu trovato morto, qualche migliaio di epopee più tardi, ucciso da un ometto insulso che chi avesse vissuto abbastanza a lungo avrebbe detto che assomigliava molto a lui da giovane. In qualche modo bisogna pur morire. Se non ci riesci da solo, ti fai prendere. Di Panther e Kala, Caimano e Lucertola e tutti gli altri personaggi si perse per sempre memoria.
Quando, un’era e mezza più tardi, su una Terra completamente diversa, durante alcuni scavi archeologici, per caso, furono rinvenute delle tavolette incise, nessuno avrebbe potuto immaginare chi le aveva scritte. Erano un numero impressionante di reperti, ricoperti da una scrittura minuta e fitta, in stampatello grande. Una giovane Oca si dedicò alla paziente opera di datazione e di
decifrazione. Se non fosse stata anche rinvenuta una stele con dei lessici comparati di diverse lingue non si sarebbe mai riuscito a decifrare un solo segno. Invece l’ingegnosa, indefessa laboriosità della ricercatrice riuscì a riportare alla luce l’intero pacchetto. Si trattava di una enorme confezione di tavolette di cioccolato inciso in cuneiforme napoletano. Una specie di descrizione del mondo com’era al tempo degli Dei e delle Lucertole (sic!), e un insieme di istruzioni pratiche, di formule magiche e di rimbrotti sentenziosi. Erano le mappe per costruire una nuova era. Furono classificate come le ‘tavole di lucertola’ perché in esse il lemma che presentava una incidenza maggiore, la parola che ricorreva più spesso, era ‘lucertola’. Ma noi sappiamo che il nome giusto per ricordarle è le TAVOLETTE DEL CAIMANO.
Quattro poesie di lucertola ai suoi amici
In perfetta solitudine
sulla lama del dolore coi muscoli tesi guardo negli occhi il Giaguaro. Annuisce Annuisco.
Io sono
al servizio dell’Aquila. Figlia degli Dei Celesti con qualsiasi tempo lei vede viaggia e vince.
Serpente.
Io la lingua di fuoco che corre attraverso gli Abissi la strada che porta alle Stelle.
Ragno scivola
sulle linee del tempo tesse collega disfa conosce la Storia fermo e muto, osserva.
IL LUNGO VIAGGIO DI TICKLE TICKLE PIN PIN
Capitolo 1
Tickle Tickle Pin Pin e Panther
“Se ne sai di cose Ticle Ticle…” “E’ perché sono un Ragno, ho una certa agilità.” Tickle Tickle Pin Pin era il migliore della classe. Era lì, primo banco a destra dal corridoio ultima fila, da quando Jagger aveva tenuto il suo primo corso. Era un punto di riferimento ormai, una presenza fissa, parte dell’arredamento, un fregio sul muro, una macchietta nera sui tavoli di fòrmica bianca. Era a posto con gli esami e perfettamente in corso. Panther invece era fuori. Veniva ogni tanto a lezione. Abitava distante, nella foresta, diceva, ma in realtà era perché gli importava poco. Adesso era seduto a fianco a TT per copiargli i compiti. “I Ragni sanno che la realtà vera, quell’altra, e ogni meccanismo che sottende a questa che vediamo, è spesso speculare, esattamente l’opposto di quello che sembra.” Spiegava TT. “Fa parte del mistero della creazione.” Panther allungò il collo e lesse gli appunti di TT. “Chi si mostra arrogante è in realtà debole e insicuro”. Due che si odiano è perché si amano. E si amano perché sono uguali. Perciò si odiano. Non ce ne possono stare due vicini. Gli uomini mostrano di disprezzare le donne che non sanno ancora di amare. Le donne disprezzano gli uomini che sanno fin troppo bene di amare. Ma è solo la forza della paura.
Nessuno ti ha mai desiderato tanto come chi si dichiara solo tuo amico. Nessuno è così innamorato di te come chi ti dichiara di non esserlo. Chi ti cerca non è perché ha qualcosa da chiedere ma perché ha qualcosa da dare, anche se non lo sa. Questo perché dare e ricevere è la stessa cosa. Chi è stupido a volte non è stupido, è solo debole. Ed è debole perché è solo. Ed è solo perché è debole. Chi sta seduto in fondo alla classe è tra i migliori e nei sogni non lo vedrai mai al primo banco. Non è un caso anche in questa realtà che chi sta al primo banco è spesso un lecchino. Anche in questa realtà chi ti bacia sulla guancia potrebbe essere prossimo a tradirti. Sempre meglio baciarsi con tanto di lingua. O non baciarsi affatto. Non ci offendiamo. Chi è stronzo a volte è davvero stronzo. Ma nell’altra realtà è sempre meglio avere il frigo pieno di merda. > Panther sorrise compiaciuto. Gli era stato sempre simpatico TT. Continuò a leggere. “La parte migliore di una persona è quella che non si vede”. Panther assentì col capo e pensò a una cosa che non poteva dire. “Guarda noi, ad esempio,” spiegò TT. “Alcuni di noi Ragni hanno disegni magnifici sulla pancia. Mi chiederai perché. Non lo so. Non ha senso. È questo che è importante, il fatto che non ha senso, o meglio non ha alcun senso apparente.” Panther sovrappensiero inclinò il muso verso destra e senza guardare fissò lo sguardo nell’angolo dell’aula dove TT aveva posizionato il suo acchiappasogni. Panther era un tipo che si prendeva il suo tempo. Poi disse:
“Anche noi felini abbiamo una bella pancia. Tocca qua.” TT, in imbarazzo, allungò una zampetta. Panther gliela prese e la fece scorrere lungo il verso del pelo, su quella peluria che gli copriva il ventre, nera come la pece e morbida come il velluto. “Hum hum, hai ragione Panther. Non avrei detto. Capisco…” Balbettò TT, rosso in volto. L’aula era ormai deserta. Se ne erano andati tutti. C’era rimasta qualche formula chimica alla lavagna. Qualche mappa stellare appesa ai muri. La scimmietta di pelouche vestita da astronauta del Professor Popowskij. Il Sole che inondava le vetrate. TT si aggiustò gli occhiali. Aveva in tutto nove occhi. Tanti. Un destino non facile. Soprattutto quando doveva pulirseli la mattina dalle caccole. Nove occhi. Otto di natura. Uno con la benda da pirata in onore dello Spirito del Veliero. Più un paio di occhiali. Quindi 8+2-1= 9. Anche Panther poteva arrivarci. TT si sistemò gli occhiali. “Panther,” Disse, e si sistemò la benda da pirata. “Panther,” Ripeté. Non sapeva da dove cominciare. “…ma che ci fai tu alle donne?” TT era incapace di provare invidia ma tristezza sì. Non voleva che suonasse una esclamazione. Perciò aveva messo il punto di domanda. Gli interessava davvero. “Se vieni in bagno con me te lo faccio vedere.” Oh Cielo, questo era troppo, no. TT si fece un poco discosto. “Mannò! Cos’hai capito Ticle Ticle!?”
Panther rise piano e batté forte la zampa sul banco. TT fece un salto per aria. “La questione,” riprese Panther, “è che in un ambiente chiuso e raccolto si sente meglio. In un’aula così grande… Comunque dai, non importa. Vieni più vicino. Vieni! Dài, non ti faccio niente!” ridacchiò. TT lo guardò negli occhi, con quello sguardo penetrante che ne valeva otto. E si fidò. Si fece accosto. Panther sollevò una zampa. “E’ ferormone.” Disse. TT si stava scuotendo come uno stuoino dalle convulsioni di tosse. Nello stesso tempo faceva un gesto lento e impacciato simile a un saluto con la zampina, col palmo rivolto verso Panther, come a scusarsi. “Non è che non mi lavo. Mi lavo, tutte le mattine. Ma puzzo terribilmente. Mi viene proprio da dentro questa cosa.” Ecco Panther. A lui le cose gli vengono da dentro. Pensò TT. Con una vena di rassegnazione. Annuì tra le convulsioni.³ “TT, che dici, andiamo?” Il piccolo Ragno non tossiva quasi più. E Panther aveva fame. TT raccolse le sue cose e con un’agile mossa, ormai resa spontanea e automatica da decenni di ripetizioni, si lanciò la cinghia dei libri e dei quaderni sulle spalle. Panther restituì la matita, piegò il foglietto e gli fece strada. TT curvo e ondeggiante. Panther fiero ed eretto, e piuttosto rigidino a vedersi. “Cosa ti aspetta per pranzo oggi?” “Lasagne al forno, coniglio ai funghi, torta al cioccolato e donna alla lavanda.” Questa era la voce di Panther, come si può immaginare. “Hummn. Io mi farò due serpenti allo spiedo. Fanno bene alla vista.”
Camminarono affiancati ancora per un tratto, in silenzio. “Salutami Manuela.” Disse TT, prima di sgambettare verso l’uscita dell’istituto infiltrandosi rapido e invisibile nella marea di studenti vocianti. Rischiò una pedata. Fece un salto sul muro e, lanciandosi da un angolo di 45 gradi con traiettoria ellittica, si ritrovò nel prato. Ancora qualche pertica e la folla iniziava a diradarsi. Lui proseguiva sulla via di casa. I primi noccioli annunciavano il bosco. TT si inoltrava nel fitto verde, attraverso gli amati, secolari, olmi e castagni, e giungeva infine alla radura sulla quale si affacciava la sua umile dimora. Calava pesantemente i libri a terra. Risistemava pietre e legni e accendeva il fuoco, come solo lui sapeva fare. Tirava fuori dalla dispensa due serpenti. Li infilzava e li abbrustoliva paziente al calore della fiamma. Li succhiava con gusto, fino a che di loro non rimaneva altro che una pelle vuota e secca. Spegneva il fuoco. Un colpetto allo stomaco e un ruttino. Poi si ritirava a riposare. Solo come una migale.
36 E il giorno dopo di nuovo, mentre faceva i compiti di lingua degli Spiriti, gli venne in mente Panther. Tanto potere, tanto odore. Nella lingua degli Spiriti la parola per “odore” significa anche “potere”. E il giorno dopo durante l’ora letteratura inglese gli venne in mente Panther e si chiese come mai nessun poeta aveva scritto un’ode al Ragno carina quanto la poesia di William Blake “Panther”. PANTHER, panther, burning bright In the forests of the night, What immortal hand or eye Could frame thy fearful symmetry? In what distant deeps or skies Burnt the fire of thine eyes?
On what wings dare he aspire? What the hand dare seize the fire? And what shoulder and what art Could twist the sinews of thy heart? And when thy heart began to beat, What dread hand and what dread feet? What the hammer? what the chain? In what furnace was thy brain? What the anvil? What dread grasp Dare its deadly terrors clasp? When the stars threw down their spears, And water'd heaven with their tears, Did He smile His work to see? Did He who made the lamb make thee? Panther, panther, burning bright In the forests of the night, What immortal hand or eye Dare frame thy fearful symmetry?)
Capitolo 2
Panther e Manuela
Panther abitava nella foresta, in una grande casa in pietra, con il profilo del camino che creava una sporgenza nel muro ed era così grande che lui dall’interno, alto com’era, ci poteva stare intero in piedi. In genere però preferiva accendervi il fuoco. Una strada privata in ciottoli, in leggera salita, portava al suo terreno, un semplice prato e, dietro la casa, il bosco. La casa sorgeva su un’altura. Si affacciava, a Sud, su un vasto territorio, parzialmente abitato, che comprendeva anche il villaggio dove si trovava l’Università. Si capisce che Panther aveva poca voglia di scendere spesso. Panther dilatò appena le narici e sorrise sotto i baffi. Dal comignolo del camino usciva fumo, dalle finestre socchiuse si promanava a tratti profumo di ragù e di funghi. Dalla porta di entrata vide il sorriso di Manuela. Poi più niente. Manuela gli era saltata al collo. “Panther, sei stanco?” gli sussurrava. Panther le accarezzava i capelli, che le coprivano la schiena, capelli di seta, morbidi e vaporosi, scuri come l’ossidiana, con riflessi cognac. Tante volte lui le aveva detto: “Puoi chiamarmi Alex.” Lei rispondeva: “Sì, Panther.” Panther le morse il collo. Sapeva di lavanda la pelle della sua donna e anche la casa, quando non sapeva di ragù. Manuela invece non sapeva mai di ragù, sapeva sempre e solo di lavanda. Lui un giorno le aveva regalato delle creme a base di olio essenziale di Lavanda di Liguria. A lei era piaciuto così tanto che massaggiarsi era diventata sua
abitudine e dopo poco, senza neanche accorgersene, non era riuscita più a farne a meno, come succede per le abitudini. La lavanda era parte integrante della sua toletta quotidiana ed era penetrata così tanto dentro di lei che anche quando non ne faceva uso ne emanava ugualmente il profumo. Era una pelle di lavanda la sua, sottile e setosa come fosse di colore violetto. Manuela dovette dire “Ahi!” perché Panther allentasse la presa sulla pelle del suo collo e rilasciasse i muscoli delle mandibole. Con la coda dell’occhio si accertò che non ci fosse niente sul fuoco e con le braccia la strinse a sé e la tenne stretta, socchiudendo gli occhi, fino a che tutto il mondo non divenne lavanda, la sua mente completamente in pace. Una mente di ametista. Fece un grande respiro con la pancia e oscillò in modo impercettibile sull’onda della vibrazione del silenzio. Si baciarono. Panther sentiva scorrere i di danza nelle cellule dei loro corpi uniti. Manuela si faceva prendere, si faceva guidare. Poi lo guardava e gli chiedeva: “Come fai e essere …così bravo?” ed era così confusa che non capiva neanche quello che diceva e quello che lui le rispondeva ma più o meno la sua risposta deve essere stata: “Vivo momento per momento.” Lei poggiò la testa sul suo petto. Era così. Arrivati al caffè (“Ma solo una fetta piccola di torta, Manuela, ti prego.”) lei gli si sedette a cavalcioni e accarezzandogli i capelli ispidi gli sussurrò, a un centimetro dalla sua bocca: “So che ami le carni bianche, allora ti ho fatto il coniglio…” Manuela era leggera sulle sue ginocchia, ma polposetta. A Panther piaceva infilare entrambe le mani sotto la gonna, scorrerle lungo la coscia e sfiorare le sue calze bianche, con il pizzo bianco, il reggicalze bianco, le mutandine bianche. Non c’era dubbio che erano carni bianche, fresche e tenere da mordere.
Capitolo 3
Il Sogno di Tickle Tickle Pin Pin
Panther era grato alla vita ed era grato a Tickle Tickle Pin Pin. “Sei un bravo tessitore, Ticle Ticle, ti devo ringraziare.” Gli aveva detto una volta. “Mi sta andando bene.” Tickle Tickle non era capace di provare invidia ed era felice quando le persone erano felici e ancora di più quando era lui, in piccola parte, fautore della loro felicità. “Questo è il tuo Sogno, Tickle Tickle, sei bravo.” “No, Panther, io sono solo stratega, architetto, tessitore, esperto e artista di tessuti, sarto, stilista e commercialista. Sì, è vero sono il più anziano e Jagger mi ha dato in mano le fila della Società dei Sognatori. Ma se tu sei felice significa solo che la tua anima, la tua pancia, fanno dei bei sogni.” Panther disse solo: “Vabbé Ticle Ticle, se lo dici tu sarà vero.” Era anche bello da sentire. Però si ricordava che per costruire la sua casa aveva chiesto a lui dove trovare le pietre. E lui gliele aveva fatte trovare. I gatti vivono solo al presente però non sono mica privi di memoria. Panther si ricordava che prima di conoscere TT viveva da solo, nella foresta, senza un giaciglio e una consolazione, ed era sempre arrabbiato perché lo chiamavano Tormento. Non gli restava molto da vivere. TT tesseva la trama e l’ordito del villaggio a partire dai sogni di ciascuno. Lui pensava che il merito fosse di ciascuno. Ciascuno pensava che il merito fosse suo. Nessuno aveva ragione. Ma non era importante. La vita è quello che è. Ognuno fa del suo meglio.
Certamente questo era il migliore dei mondi possibili. Almeno, Panther ne era convinto.
Tickle Tickle non era più così sicuro. Un mondo dove una farfalla soffriva, e per giunta c’erano un sacco di serpenti, non poteva essere un mondo venuto fuori bene. Aveva sbagliato qualcosa, lo sapeva. Tickle Tickle si chiamava Tickle Tickle, con la “c” e con la “k”, anche se tutti lo chiamavano Ticle Ticle. Tickle Tickle era un Pin Pin, la sua anima era direttamente imparentata con la antica stirpe dei Pin, famosi intellettuali e generali cinesi. Non a caso era piccolo, nero, aveva tanti occhi, la maggior parte dei quali stretti, ed era molto saggio. Non a caso si chiamava Pin Pin. Non solo, ma, anche se nel suo sogno era riuscito a ritagliarsi un posto di mediano nella squadra di calcio della bocciofila commercialisti, si sentiva anche vecchio. Un vecchio saggio cinese insomma, con gli occhialini tondi. Ed era anche stanco di tutti i suoi gloriosi e massacranti trascorsi in battaglia. Non ne poteva più di traditori e di vigliacchi. Per questo cercava di stare solo. Ma non era stato sempre così. Era stato giovane anche lui. Era stato anche bambino, se per questo. Un bambino piccolo e nero… Era nato in uno dei villaggi più poveri di uno dei pianeti più marginali e freddi dell’intero Universo abitato. C’erano solo televisori in quel posto là. E esseri umani che non sapevano parlare. Lui era nato Ragno e si chiedeva cosa ci fe lì, senza poter scambiare una paola con nessuno. ava il tempo a costruire radioline transistor con le scatole delle sardine e a fare grandi eggiate alle discariche. Erano montagne immense. Per un Ragnetto piccolino come lui era una vera pacchia. Si poteva trovare di tutto. Una immensa varietà e quantità di Sogni buttati via. Dal momento che TT si stava avvicinando all’età dello sviluppo, restava molto colpito dai sogni che avevano come protagonisti le donne. Quanti
sogni diversi che c’erano. All’inizio non sapeva quale scegliere. Poi si fece una cultura e sviluppò un suo gusto personale. Lui era piccolo e nero in un pianeta stupido e sporco. La sua donna sarebbe stata bionda o celeste, bella pulita, intelligente e con grandi tette. Così raccolse in giro tra i cumuli di rifiuti 450 immagini buttate via (ma perché la gente rinuncia così in fretta ai propri sogni?) e ne fece una. In pratica, le appese tutte, una sull’altra, alle pareti della sua stanzetta, di 2 pertiche per 2. Certo era difficile sognare la sua Donna perché non riusciva a vederla neanche in fotografia. Poi, si rendeva conto benissimo, non avrebbe potuto sposarla. Non aveva nulla da offrirle. Aveva solo una stanzetta 2 per 2. Dopo una settimana ricominciò a costruire radio transistor. “Terra chiama Sirio. Rispondete.” Sirio rispondeva. Ma lui non capiva niente. Non conosceva la lingua. “Terra chiama Arturo. Rispondete.” E Arturo rispondeva. E lui non capiva niente. “Terra chiama Orione. Portatemi via di qua!” No questo non si poteva fare. Sì che era un posto noioso ma uno non se ne poteva andare quando voleva. Tickle Tickle era un bambino depresso. Era svogliato, nervoso, e purtroppo aveva anche un sacco di tempo libero. “Terra chiama Orione. Portatemi via di qua!” Segnale caduto. Silenzio. Nessuna risposta. Ogni volta era diverso. Ma il concetto era chiaro. Non era possibile venirlo a prendere. Se voleva andare via di lì, doveva farlo con le sue gambe. In fondo ne aveva otto. Lui poteva. Il pianeta era pieno di televisori e pieno di discariche. Le discariche erano piene di televisori. Anche Panther poteva arrivarci. Non è matematica ma è logico. E le discariche erano piene di antenne. Tickle Tickle si mise a collezionare antenne. Antenna dopo antenna sarebbe arrivato fino a Orione. In realtà non sapeva dove stava Orione, in che direzione puntare per Sirio, come orientarsi verso Arturo… Forse erano distanti. Ma tanto lui non aveva niente da perdere. Tanto valeva sollevarsi un po’ da terra! Una antenna, attaccata all’altra, verticale. Sì, si oscillava un po’. Nel sistemare le prime due perse un occhio. Gliene restavano
altri sette. Il panorama sulle discariche dall’alto era meglio che dal basso. Non puzzavano. E si vedeva tanto cielo. Dove sarebbe arrivato non era così rilevante. Il percorso meritava tutta la fatica. Per i primi anni, TT si esercitò di giorno, sotto gli sguardi incuriositi degli esseri umani, imparando a scendere giù in fretta ogni qual volta la mamma gridava che era pronto da mangiare. Divenne bravissimo in scivolate salti e acrobazie a testa in giù. Poi la necessità di arrampicarsi gli permise di sviluppare anche le sue doti di agilità, di salto nel vuoto, verso l’alto, di presa e di leggerezza. Una antenna dopo l’altra, stava arrivando molto in alto. Una sera che era particolarmente malinconico e non riusciva a dormire salì sul terrazzo. La sua torre era intatta. Non c’erano stati temporali o venti forti, era ancora la lunga antenna che aveva costruito la settimana prima, ben fatta, robusta e flessibile quel tanto che bastava per resistere alle sue scalate come alle brezze della sera. Mollemente, con gli occhi assonnati, il cuore ferito e i polmoni asfissiati dalla tristezza, vi si diresse, e dolcemente la scalò.
Capitolo 4
Panther
Manuela era convinta che Panther desse il meglio di sé a letto. Anche Panther. Per questo andavano così d’accordo. Perché erano sempre d’accordo su tutto. A Manuela faceva impazzire. Un giorno glielo disse. Una sera, in un momento in cui Panther stava sorridendo, lo guardò con sguardo intenso, grave e profondo, e glielo disse: “Sei bello quando sorridi.” Manuela era estasiata. Panther si mise a ridere, ma andava bene così, non aveva molti pregi in fondo. E non sorrideva neanche tanto spesso. Quando sorrideva a letto significava che andava tutto bene. E Manuela era contenta. Da nero che era, si apriva tutto uno squarcio di luce e colore! Panther non aveva molti pregi ma tutto sommato, per sua natura, era un nobile felino, aveva degli ideali, dei valori, e li perseguiva con tenacia. Fu con questo spirito che una notte disse a Manuela: “Manuela…” Lei gli si strinse al petto, calda e profumata, come al solito. “Sì, Panther.” “Che ne dici di ripopolare il pianeta? Voglio fare tanti figli. …Pensa, verranno
tutti nobili e fieri, bellissimi e intelligentissimi. Riesci a immaginare… che meraviglia.” “Sì, Panther. È una splendida idea. Su questo non c’è dubbio, saranno certamente bellissimi e intelligentissimi.” Panther sorrideva. Li vedeva già lui. Tizio, Caio, Sempronio, Romolo, Remo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo e poi Cicero, Cesare, Ottaviano e Augusto. E Marcantonio, il piccolino. E Totti, la punta di diamante. Sorrideva, il Panther. E Manuela era contenta. “Così abbiamo qualcuno a cui tramandare quello che abbiamo imparato, a cui lasciare in eredità i nostri valori.” Disse Panther, che evidentemente ci teneva molto. “E anche le nostre paperoniche riserve di monete d’oro.”
Capitolo 5
Tickle Tickle e Farfar
Tickle Tickle Pin Pin non era mai stato ricco. Era un sognatore. “You may say I’m a dreamer. But I’m not the only one.” Era un arrampicatore di Cieli. Un puntino nero nello Spazio senza fine. Era arrivato fino in cima questa volta. In alto come in questo momento non era mai stato. Non vedeva giù. Era notte, era tutto scuro. Non soffriva di vertigini. Piuttosto gli sembrava di sentire le vertigini guardando sopra di sé e tutt’intorno. Il Cielo era una cupola piena fitta di stelle. Uno spettacolo da perdercisi dentro. Si mosse con circospezione lassù in alto e girò tutt’intorno alla capocchia dell’ultima antenna. L’asta oscillò. TT non volle calcolare quante pertiche lo stavano separando dal suolo, centinaia, migliaia di pertiche… I Cieli erano sopra e intorno e sotto di lui. Forse gli Dei lo stavano guardando. “K way.” “K way.” Disse. “K way.” Ripeté. Era la frase che aveva sentito più spesso nelle comunicazioni da Sirio. “Chi sei?” immaginava volesse dire. Oppure: “Ci sei?” I Siriani sembravano molto affabili. O forse dicevano: “Chiunque tu sia ci fa molto piacere che tu ti sia rivolto a noi per fare amicizia. Non vediamo l’ora di conoscerti. Puoi venire quando vuoi. Ma ricordati il K way. Non lo puoi sapere ma te lo diciamo noi. Questo è un pianeta molto piovoso. Il K way, il K way. Ricordati il K way…” “K way.” Disse. E nuovamente fu preso dalla frustrazione. Era solo. Stava oscillando nell’Universo.
“C’è nessuno?” fece un ultimo tentativo. Le palpebre erano pesanti di sonno. Avrebbe fatto bene ad andare a dormire. Ma il baluginare intermittente delle stelle lo inebriava. No, non sarebbe sceso più. Magari non avrebbe più dormito. Che gli importava a lui. Era troppo bello lì. Forse se allungava una zampina ancora. Forse avrebbe volato. O sarebbe rimasto sospeso. Chissà. Sentì un profumo dolcissimo, un profumo che non aveva mai sentito in vita sua, che un tempo, sulla Terra, sarebbe stato riconosciuto come il profumo delle fresie, quando ancora esistevano le fresie naturali. Cullato dal movimento ondulatorio ormai quasi impercettibile della sua antenna e dall’impercettibile moto ondulatorio della luce delle stelle, cadde addormentato. Sognò un profumo dolcissimo, un profumo che non aveva mia sentito prima ma che avrebbe sentito ancora molte volte in vita sua. Poi le vide. Due ali blu di farfalla. E sentì: “Poncho nu.” Stava dicendo a lui! Qualcuno gli stava parlando. Ma che lingua era?! “Ehi! Io non so parlare! Facevo solo finta!” gridò TT in sogno, sperando che quel qualcuno lo sentisse. “Ah ma allora dillo!” Farfar, come scoprì poi TT, conosceva circa 36.000 lingue planetarie, di cui in modo fluente 3. “Ciao Piccola! Ma sei vera o sei un sogno?” “Indovina un po’!” Aveva fatto una domanda stupida. Iniziava bene. “Quando apro gli occhi ti vedo?” forse così andava meglio. “Prova.” TT sbatté le palpebre. Ad occhi chiusi la vedeva. Ad occhi aperti la vedeva.
“Prova da sveglio!” urlò Farfar, come solo una farfalla sa fare. TT percepì la saliva che sporcava la zampetta su cui gli era caduta la testolina, la bocca semichiusa nel sonno. Non doveva avere un bell’aspetto, gli capitò di pensare. Ebbe quella sensazione di cadere nel vuoto che spesso si ha nel dormiveglia. Con la differenza che lui stava cadendo davvero. Si aggrappò con tutte e otto le zampe alla punta dell’antenna. Si era addormentato accidenti. C’era stato un sogno. Era rimasto solo il profumo. Un profumo di farfalla? Possibile?? Due ali blu… ora gli sembrava di ricordare. Che bel sogno. “Le ali non ce le ho più. Mi spiace.” La stessa voce che aveva sentito in sogno! Una voce dello stesso colore delle margherite… “Oh.” Fece TT. “Oh.” Esclamò, con gli occhi aperti da sveglio, o almeno così credeva e così ci ha raccontato. “Me le hanno mangiate Spiriti Cattivi. Sono rimaste loro prigioniere.” Modulò la voce, in “la” minore. Eppure TT vedeva come dei lampetti o delle sfilacciature blu nel buio del cielo notturno. Forse l’occhio ferito gli mandava dei bagliori. Capirli tutti e otto come funzionavano ci volevano anni, se poi uno andava per conto suo… “Mi vedi?” “No no. Non so. Boh. Mi sembra. Ma non capisco.” “Chiudi gli occhi. Non battere le palpebre e basta, tienili chiusi. Anche senza dormire. Prova.” TT ubbidì. Sì, la vedeva. A occhi chiusi. Era bellissima. Complimenti, stava per dire e avrebbe detto volentieri. “Grazie,” disse lei. La voce era un fremito sottile, come le viole quando sono
tristi. “Grazie che mi vedi.” Ripeté. “Un po’ di anima ce l’ho ancora. Altrimenti non sarei qua.” Lista delle cose da fare da grande, si scrisse mentalmente in fronte TT, 1: guarire la farfalla blu. “Come ti chiami?” “Tickle Tickle Pin Pin.” Ma tutti mi chiamano Ticle Ticle, sicché… “Ah. Tickle Tickle. Perché sei un Ragno.³⁷ E Pin?” “Perché sono un Pin )³⁸. Ho fatto molte battaglie.” “Ah. Anche tu.” sorrise Farfar, come solo una farfalla sa fare. “Io mi chiamo Farfar³ . Perché sono un essere celeste. E anche blu. Anche se nessuno lo sa.” “Ti fanno male le ali?” Dio, noo. Che domanda stupida! Ci risiamo Tickle Tickle. Questa poi non dovevi farla. “Sicuro che mi fanno male. Come quando uno in battaglia perde un arto. L’arto fantasma continua a fare male, anche se non c’è più. Ti appartiene ancora, no? Le mie ali sono in un brutto posto.” Preferì non descriverlo, non lanciarci l’occhio a guardare perché era brutto sul serio. “E poi me le hanno strappate dalle spalle e dai fianchi le ali, e dai buchi ho continue ondate di dolore che entrano.” “Oh,” fece TT, tutti i suoi occhi tristi. “TT, cosa fai oggi?” Oh Cielo. “Niente. Perché?”
Oh Cielo. “Che ne dici di fare un salto su BMW k25? È un asteroide piccolo ma sembra andare forte ultimamente. Ti salto in groppa.” Lista delle cose da fare da grande, 2: seguire sempre le farfalle. “Monta su. tieniti forte.” “Grazie TT. Non ci sarei mai arrivata da sola.” “A questo servono i Ragni.” Per la prima volta nella sua vita, una cosa aveva senso.
37 “tickle tickle” è il rumore che fa il Ragno quando cammina. 38 Della medesima stirpe di Sun Pin (L’arte della strategia), a sua volta discendente di Sun Tsu (L’arte della guerra) 39 “Farfàr” in ebraico antico significa “farfalla”. È la ripetizione, con effetto iterativo, di una coppia di geroglifici (phe e resh) che insieme significano “l’avvenenza che si muove e si diffonde.”
Capitolo 6
Il lungo bacio di Tickle Tickle Pin Pin
Il Sogno di TT si stava realizzando. Farfar non aveva le tette grandi ma gli voleva bene. E, s’intende, era intelligente, celeste e anche bella pulita. Si iscrissero insieme ai corsi di Jagger e poi anche a ingegneria aereonautica e lingue sacre antiche, entrambi esami del dipartimento di ‘Ontologia Cosmica’. Facevano a gara a chi traduceva prima le frasi in geroglifici. Ma non c’era verso. TT poteva sbracciarsi quanto voleva. Un battito d’ali e Farfar aveva fatto. Fatto giusto. C’è chi è portato. Si divertivano un mondo e imparavano un casino. Erano al posto loro. Lei a lezione si posava sull’acchiappasogni del suo amico e lui la guardava con uno solo dei suoi occhi, per non dare nell’occhio. Altrimenti Jagger ruggiva e tutti si voltavano verso di lui e poi verso Farfar. Lui sintonizzava un occhio su di lei e con quell’occhio (ma solo con quello!) ava il tempo a guardarla.⁴ ). Lei diceva che se stava lì, in alto, sull’acchiappasogni nell’angolo N/O della classe, capiva tutto, anche quello che Jagger non diceva, e non scordava più niente. Ma TT era convinto che le pie stare lì perché le piaceva stare su una cosa sua. Secondo me erano vere entrambe le cose. Alle lezioni di lingue antiche invece Farfar si sedeva al suo fianco e giocavano insieme alle traduzioni. Ma i guai erano quando si sistemava sulla punta della matita di TT alle lezioni di aritmetica, sempre quando il maestro spiegava le divisioni. “Tanto quelle non ti servono a niente. Moltiplicare, moltiplicare bisogna.” Gli sussurrava all’orecchio. TT non imparò mai a fare le divisioni con due cifre.⁴¹ Farfallina, pensava, com’è che sei sempre più bella?
Anni di sciamanesimo le avevano fatto rispuntare le ali. Non erano quelle di prima. Quelle di prima erano perdute. Il dolore c’era ancora. Ma adesso era una vera farfalla, una farfalla forte e vitale. Corteggiatissima da tutti. Lui la aveva sempre vista così. Adesso lo era davvero. Le erano cresciute anche le tette. Farfar era la preferita. Ambitissime le sue attenzioni. Ricercatissime le sue abilità. Lei sfarfalleggiava qua e là, distraendo i ragazzi, poi andava a posarsi su una spalla di TT, o sul suo acchiappasogni. Alle lezioni di chimica copiava i compiti da lui. Purtroppo in genere quando ciò accadeva non erano giusti perché lei, per leggere bene, si sporgeva fino a sfiorare con l’ala la guancia di TT e lui non capiva più niente. Ma lei non era molto brava in chimica. Era brava coi viaggi, era brava con l’immaginazione, era brava con le favole, era brava con le battute di spirito. TT diventò famoso come l’unico Ragno di BMW k25 che rideva ogni giorno, regolarmente. Rideva anche quando Farfar non c’era. Stava così bene a volte che non aveva neanche bisogno della sua presenza. A colazione, rideva già. Era brava con la bellezza Farfar. Era brava con i profumi. I suoi profumi facevano uscire pazzi uomini e donne, per motivi diversi. Il suo era un profumo di fresia ma poteva anche cambiare. TT diceva che era cangiante, come i suoi occhi. In certi momenti virava delicatamente verso la violetta. “Buon odore buon potere.” Diceva TT e lei si sollevava come una nuvoletta gonfiata dal vento. TT invece non profumava, si lavava bene perché non gli piaceva il suo odore, gli ricordava quando abitava vicino alle discariche. “Che peccato…” mormorava Farfar, strofinando sconsolata il nasino sulla sua pelle scura. Farfar, come naturale, sfarfalleggiava intorno al Panther, come le api al miele e le donne al ferormone. Ma lei lo trovava troppo algido e lui la trovava pur sempre, purtuttavia, troppo magra. Durante la ricreazione andava di fiore in fiore. E poi si posava su TT. “Grazie di avermi portato qui. È un bel posto.” Un giorno erano distesi sul prato. TT stava sonnecchiando. Ma sentì quello che gli stava dicendo la sua Farfallina. Sentì il suo inconfondibile frusciare, percepì le sue zampettine posarglisi sul naso e percepì il suo dolcissimo peso. Sentì il
suo profumo vicino vicino. “Ancora qua stai.” Io sono uno spregevole Ragno, Farfallina, ci sono un sacco di bei ragazzi in giro, vai da loro. Lei non disse nulla ma pensò forte: “Imbecilli.” Sono solo degli imbecilli. Non si mosse. Stiracchiò le ali al sole. Brillavano. All’improvviso vide la bocca sottile di TT aprirsi in un sorriso. Era la beatitudine. Erano così vicini in quel momento che avrebbero potuto baciarsi. Non c’erano barriere. TT pensò che stava in un sogno. Non c’era dubbio. Aveva gli occhi chiusi, e poi un’emozione così piacevole e netta non l’aveva mai provata in altro luogo in altro modo. Fu così che TT la baciò. Si portò la mano al naso. Lei dalla punta del naso ò sulla punta del suo dito indice e dal suo dito indice ò alle sue labbra. Farfar non spalancò neanche le ali dalla sorpresa. Non c’erano barriere tra loro. La bocca di TT era solo un punto molto piacevole dove andare a posarsi. I nettari si mischiarono. Per un attimo, per entrambi, fu estate. TT non aveva mia baciato, nessuno gli aveva mia insegnato a baciare né gli aveva mai spiegato come si baciano le farfalle. Tutto il suo corpo sentiva che quella era la donna sua. E anche il corpo di lei, che gli stava sopra, lo sapeva. Tutta la sua vita ora era una farfalla blu. Un lungo viaggio in una farfalla blu. Il suo profumo prima e il suo sapore dopo lo risucchiarono al suo interno, mentre il corpo di lei era risucchiato interamente in quello di lui. La stava baciando come un Ragno. Farfar scomparve da questo mondo. TT non se ne accorse. Farfar non era mai stata tanto intimamente sua. Ma lui l’aveva sognato così tanto e così bene che gli sembrava la cosa più naturale e splendida del mondo. I fremiti del suo piacere erano quasi all’apice, TT aprì gli occhi, per inebriarsi meglio. E non vide più Farfar. Lei era nel suo stomaco. Farfar rivide la luce, piena di merda, il mattino seguente, e da quel momento non si avvicinò mai più a TT.
Ogni tanto gli lanciava occhiate cattive. Tu lo sapevi TT, spregevole stupido Ragno. Perché lo hai fatto. Bastava un bacio un pochino più corto. Farfar non trovò più niente da ridere, mai più al mondo. E neanche TT. TT guardava con il suo occhio la piccola Farfar durante le lezioni. Lei era sempre sul suo acchiappasogni.
40 Ed io essendo povero ho solo i miei sogni e i miei sogni ho steso ai tuoi piedi. Cammina leggera perché stai camminando sui miei sogni.” da Yeats, He Wishes for the Cloths of Heaven. (“But I being poor, have only my dreams, I have spread my dreams under your feet, tread softly because you tread on my dreams”) 41 All’esame di ingegneria aerospaziale non gliele chiesero e lui lo ò con lode.
Capitolo 7
Melissa, la sudicia biscia e Bianco Latte
Un mondo dove una farfalla soffriva e non rideva non poteva essere il migliore dei mondi possibili. TT era cresciuto, ed era invecchiato pure, ma non aveva trovato pace. Aveva preso a fermarsi a scuola oltre l’orario di lezione. Aiutava i più piccoli e in cambio aveva un po’ di compagnia. Non aveva fretta di tornare a casa. Solo come una migale. Chissà, magari anche Farfar un giorno avrebbe avuto bisogno di un riino. Lei non gli si era più avvicinata. Quando per caso si incrociavano nei corridoi schizzava e svolazzava via. La vedeva solo da lontano. Una farfalla come tante altre. Ma quando TT era oltre l’atmosfera del pianeta, durante i viaggi interspaziali (si usavano missili a propulsione di fiori e aghi di pino su BMW k25, per la cronaca) il suo occhio malato la vedeva dappertutto. “Farfallina, sei la mia disperazione.” TT era lo studente più anziano e più sapiente, aveva la responsabilità della Società dei Sognatori ed era generale della flotta armata dei suoi compagni di classe. Era la sua vita, non ne aveva un’altra e non riusciva a immaginarne una migliore. Era ciò che aveva sempre desiderato, con tutto il cuore e tutte le sue viscere, era tutto se stesso. Eppure gli pesava
Un mondo pieno di serpenti non poteva essere un mondo venuto fuori bene. Si aggiustò i libri e i quaderni che gli stavano scivolando giù dalla spalla e lo costringevano a un’andatura curva e ondeggiante, e pensò che doveva aver sbagliato qualcosa. Guardali lì, si disse stringendo i denti. Questi chi li aveva sognati? La città era piena di muffe. Non era un caso se i più furbi vivevano fuori dal villaggio. Stava andando a trovare l’Aquila Pearl quel giorno e si trovava a are davanti a un sacco di serpenti. Pearl allevava un covo di serpenti o, peggio, serpentesse. A livello fiscale si sarebbe detto che gestiva una agenzia di escort. Chiaramente non viveva in città, non era mica un pollo, viveva in cima alla montagna. In città aveva l’ufficio, il suo quartier generale, in cima a una torretta, che fungeva anche da pista di atterraggio e decollo. E’ risaputo infatti che le Aquile hanno dei problemi a mischiarsi con la gente di fondovalle. È un problema pratico, questioni di volo, non riescono a scendere, se non c’è abbastanza spazio, e poi, in ogni caso, non riescono a risalire, le ali troppo grandi sbattono contro il suolo. Ma Pearl, per quanto la riguardava, iniziava a dubitare che anche il tempo trascorso lì in basso non fosse poi così proficuo. Gli affari le davano parecchi grattacapi e TT ultimamente la andava a trovare spesso per fornirle la sua consulenza di commercialista, e per prendersi un caffè. Ma are attraverso la città lo metteva di cattivo umore. Guardali lì, si disse stringendo i denti. Melissa, il cuo compagno la sudicia biscia alla cassa, e Bianco Latte fuori col banchetto, un poco discosto. Serpenti da mettere al muro, uno dopo l’altro, tutti e tre. Melissa era nata aruspice, da una antica famiglia romana di aruspici, leggeva le viscere degli uccelli e vaticinava il futuro. Ma ben presto ò a leggere le viscere di tutti gli animali. Ti metteva lì a sedere tra gli incensi e iniziava a scolarsi le bottiglie di liquore che le avevi portato. A ogni bicchiere faceva una smorfia come a dire non piace a me ma piace agli Spiriti che ci vogliamo fare. Quando infine era ubriaca ti si avvicinava e tenendoti una mano sulla pancia vaticinava. “Sei molto infelice Panther…” e fino a qui… TT si ricordava bene quanto miagolava quel gatto all’inizio. Quando Jagger
glielo aveva affidato, alla Società dei Sognatori (“TT, mi raccomando, tieni d’occhio Panther, è Stupido.”), pensava che li avrebbe rovinati tutti e invece. Guardalo ora. “Sei molto infelice Panther...” Snif sniff.
“Vedo… ti piacciono le donne bianche eh!” “In verita, le preferisco more.” “Ecco, infatti, cosa ti dicevo! Ne vedo una con la pelle d’avorio e i capelli di ebano, il corpo di neve e la chioma di lava.” Vabbé vabbé. Anche rossa poteva essere. Mora ossidiana coi riflessi cognac, iniziò a sognare Panther. E polposetta. “Respira respira di pancia bello mio, sentila ‘sta benedetta ragazza. Senti l’emozione che ti dà l’averla, lo stare con lei, senti il piacere, sentilo con la pancia. Abbi fede. E non pensarci più.” E meno male che a Panther in quel momento non era ancora venuta in mente quella squadra di calcio piena di riserve della sua discendenza altrimenti chi se lo toglieva più. Con TT era andata diversamente. TT era un osso duro. “Sei molto infelice.” TT si era dato una aggiustatina agli occhiali. “Per amore!” TT fece un respiro un po’ più profondo. “Ah ah! Per amore di una donna.”
“ ’A sora Lella, arriva al punto!” “Sssss!” Sibilò imperativa, e si contorse come un pallone gonfiato bucato. La testa sembrò scapparle dal collo e se la afferrò con entrambe le mani, le dita affondate nei capelli “Sssss. Fermi tutti!” “E chi si muove.” “Silenzio! Mi stanno parlando gli Spiriti.” In questi casi non aveva bisogno di metterti la mano sulla pancia, lo spettacolo era in genere così ben recitato che ne rimanevi lo stesso condizionato fin nelle viscere. Dalla sua bocca uscivano, con rumore di tappi di spumante, uno ad uno, dei geroglifici su pietra, in genere non più di tre, in modo che l’intrerpretazione fosse puntualmente ambigua e controversa in sommo grado. “Ragno mangia Farfalla.⁴²” Snocciolò con una voce che non era la sua. “Mi dicono.” Si riprese. “Oh ma va interpretata.” Lavorare con Panther era facile, con TT doveva impegnarsi un po’. “Mangia. O mangiò o mangerà. Il tempo nell’altra realtà non esiste ed è sempre difficile da collocare in questa, riguardo al tempo le previsioni non possono essere accurate.” TT strinse i denti fino a farsi male ma Melissa non se ne accorse. Melissa camminava per la stanza, in senso antiorario. Avrebbe fatto venire il mal di mare a chiunque. Scosse il capo. TT si preparò alle peggiori sfighe. “La farfalla è l’amore.” Melissa sbirciò di lato. “In realtà il verbo può essere transitivo o assolutivo,” Continuò, “Può significare ‘mangiare’ o anche ‘nutrire’… O ‘nutrirsi’!…Ohh ma che bella storia intensa e travagliata!” Si girò e piegò di scatto su TT, che indietreggiò otto i. “Lo stesso verbo vuol dire anche ‘servirsi di’ anche se non esattamente,” e
strisciò in modo particolare sulla pronuncia della parola esattamente. “anche se non esattamente in questa costruzione grammaticale.” Macheccimporta. “Ohh ma che meraviiiglia.” Melissa sprizzava entusiasmo. “L’uno mangia dalla bocca dell’altra. Ognuno si serve dell’altro. Oh ma che coppia romantica.” Sibilò melliflua. Era un serpente, che ci vogliamo fare. Gusti opportunisti e stomaco robusto. “Sssss!” Sibilò imperativa con uno scatto del diaframma. Tickle Tickle Pin Pin, gli specchi magici e i mobili tarlati della stanza ebbero un sussulto. “Vedo un brillante futuro! Ssì sssìì!” mandò un acuto lungo e si srotolò in verticale, le braccia per aria “Uniti per sempre, proprio per sempre.” Oscillò il capo in estasi. Ohddìo ma che stavaddi’?! Melissa si morse la lingua e le scappò una goccia di veleno. Non era mica il Panther questo. Doveva cuocerlo in altro modo! Aggiustò il tiro: “Sempre al lavoro insieme.” Vabbé. Chissà se è meglio. “Ah!” urlò. Stava avendo delle visioni ora. “Un condor che muore. Un panther dalla lunga vita. …Ehh, beh, ci saranno anche amarezze...” “…Ma tanti bambini!” TT si aggiustò gli occhiali. “No, non tanti, uno forse. Forse, non si distingue con chiarezza. Una bimba sicuramente. Blu.” TT si alzò. Ne aveva sentite abbastanza. Melissa era desolata. Aveva cercato di fare del suo meglio. “Ciao Melissa, è meglio che me ne vada. Quando smetti di lavorare in nero magari vienimi a trovare.” TT era già alla porta quando gli si parò davanti la sudicia biscia.
“450 dobloni doblati. Per il servizio.” Il Ragno lo guardò senza battere ciglio. “Prezzo speciale per i commercialisti tristi.” Insinuò con movimenti sinuosi il cròtalo. TT lo prese per il collo e gli fece schizzare gli occhi fuori dalle orbite e il veleno fuori dai denti. Lo buttò per terra di lato. “Scusa, devo are.” Uscito dalla casa, lo investirono gli attacchi di lei. Melissa, senza oltreare l’uscio, facendosi scudo con il marito, gli gridava dietro. Eccola lì la solita vipera che spande veleno, la strega che lancia maledizioni. “Tu non credi TT. Questo è il tuo problema. Tu non credi e non otterrai mai niente dalla vita. Spingi una porta aperta. Stai lì a spingere e la porta si chiude. Puoi avere tutte le donne che vuoi e invece no. Non ne avrai nessuna! E sai perché? Sai perché questo succede? Perché tu lo vuoi. Perché ti fa più comodo essere triste che superare le tue paure. Perché tu hai paura delle donne. E le donne hanno paura di te. E finirai solo come una migale! Ragno puzzone!” Vipera! Le vipere sanno sempre dove spargere veleno. Il veleno mica si spreca, va messo nei punti giusti, sulle ferite aperte, dove brucia. TT barcollò. Sollevò le zampette e si annusò le ascelle. Lo era una mezza migale. Non era mica un panther. Non aveva mai detto di essere una gran bellezza. Provò a consolarsi ma aveva esaurito gli argomenti. Ma fatti pochi i una nuova scena lo distrasse dai suoi pensieri. Bianco Latte, la pecora nera della famiglia, il fratello della sudicia biscia, grasso grasso e senza veleno, stava dietro al suo banchetto, a predicare. Vide TT e attaccò:
“Peccatori! gli sciamani vanno a cercare gli spiriti alleati degli animali per ottenere delle guarigioni... alle persone delle loro tribu'. ma gesu' ha detto: io sono la via....... la verita'...... la vita...... l'acqua che io ti daro' da bere è abbastanza dissetante non ti serve piu' bere da altre sorgenti. non sono io che riusciro' a farti cambiare idea sulle tue idee e convinzioni ....ma posso farti riflettere PENSO che l'importante e' fermarsi e chiedersi se stiamo perseguendo la strada giusta, la retta via...... cioe' chiedersi: IO STO crescendo? in quello che sto facendo? e' buona per me questa cosa? sto prosperando? la mia vita economico sociale e' buona? sono felice? se pero' si e' sinceri con se stessi guardare gli ultimi due anni della propria vita essere sempre fermi allo stesso posto non e' buono non è buono” sibilò salivoso. Sbatacchiò molle il capo a destra e a sinistra, e su e giù. “ non è buono non è buono. no no. vuol dire che quello che stiamo facendo non e' nella volonta' di DIO.” TT si fermò. Bianco Latte cambiò marcia e aumentò la velocità: “lui ha detto che qualsiasi cosa chiederemo al padre nel suo nome lui ce la concederà. se riconosciamo lui come unico personale salvatore attraverso il suo sacrificio sulla croce lui ha gia' pagato per noi i nostri peccati. io riconosco di non essere un buon cristiano ho le mie fortezze mi piace il sesso, mi piacciono le donne, trasgredire, sono un serpente, un peccatore. penso che non riusciro'.” ciondolò mesto il capo, sì sì, no no, non riuscirò. “lui non me le a queste. so di avere tanto amore da dare.” Bianco Latte boccheggiava, in cerca di Grazia, la voce impastata, di un tono più bassa. “quando riesco ad aiutare qualcuno il mio cuore e' gioioso perche ' so di far felice è per questo che vivo dei conflitti… forse perche' non vivo la sessualita' a pieno...” TT non batté ciglio. “Sicuramente.”
42 Nessuno sulla faccia del pianeta sapeva del lungo bacio di Tickle Tickle Pin Pin né della sua affettuosa (ex)amicizia con Farfar.
Capitolo 8
L’Aquila, il Merlo e la Merla
“Uccellona, Perla rara e unica! Come stai?” “Ticle Ticle, Ragnetto peloso, vecchia guardia, accomodati! Vieni, vieni di qua in cucina. Ti preparo un caffè nero corretto. Eh, lo vuoi? Con una bella bottiglia di vodka a parte.” “Guarda cosa ho per te.” Continuò. “So che sono i tuoi preferiti.” Pearl volò verso la credenza. Rapida e leggera dispose il vassoio d’argento al centro della tavola tonda e preparò le tazzine bianche, con il manico in pura ala di tortora. Si sedette un momento, in punta di sedia, in attesa che la caffettiera borbottasse e fosse pronto il caffè. “Lo vuoi un dolcetto di scimmia?” diede una mossa nervosa all’ala che si aprì invitante su dei frollini dorati alla scimmia. “Ah.” Sospirò TT, “che le scimmie siano animali di basso potere lo dimostra il fatto che siano così simili all’essere umano.” TT accostò la sedia. “No, lo prendo amaro, grazie” TT respinse la vaschetta con le zollette che Pearl gli stava offrendo. Pearl posò il suo mobile sguardo su TT. Se lui non avesse avuto quegli occhi chini avrebbe visto uno sguardo affettuoso, attento. TT, non me la conti giusta. “Ticle Ticle, la vuoi una ragazza? Ho delle belle pollastrelle. Ho delle nuove, da collaudare. Una volta ti piaceva.” “No, donne no, basta donne.” ò la zampetta davanti al viso come a cancellare l’aria, satura di donne.
Lei lo guardò col suo sguardo a 3D e lo mise ben a fuoco. Con un’ala spense il fornello e prese la caffettiera. TT non me la conti giusta, ma che hai? Donne… ma quando mai Ticle Ticle? Pensò. “Ticle Ticle, vuoi fare il Monaco?” disse. “Ce n’è già uno.” TT sorrise e si pulì un orecchio con una zampetta. “Quello sì che è un artista, il Monaco… amico mio.” Ecco, TT era fatto così, come unico amico aveva un tipo che non usciva di casa e che non vedeva mai. Contento lui. Il Monaco era l’allievo più dotato dell’università, sapeva fare terapie dell’anima e del corpo e viaggi senza astronave. Come Jagger e come Alex Panther, anche lui era un gatto con tanto di unghie retrattili e lunghe vibrisse. Era nobile e puro, coraggioso e gentile, ipersensibile al dolore altrui e proprio e alle colpe proprie e altrui. Oltre il fiume acido abitava il Monaco. Da quando gli era stato possibile sognarlo, aveva smesso di frequentare l’università e si era ritirato a vita meditativa. Abitava la Casa del Monaco col corpo ma non con l’anima. Con l’anima era altrove. Era stato in ogni luogo immaginabile, aveva visto tutto. Se si riusciva a trovarlo in casa dava informazioni su tutto. Ma il più delle volte non c’era. Come amico era leale, poetico e interessante, e poco impegnativo da frequentare. TT ricordò i suoi ultimi quadri, anime di corvi morti che trasportavano anime di morti. Avevano vinto anche dei concorsi. “Eh Ticle Ticle,” riprese Pearl, sgranocchiando una scimmietta con la banana in mano, “Si parla tanto d’amore… Quando basterebbe un po’ di saggezza. Solo un po’. Accorgersi delle cose.” TT lo sapeva che era un’Aquila, che sapeva vedere e colpire nel punto giusto: sapeva guarire.
“Pearl, perché non lavori per le persone?” “Sono alla testa di un’agenzia di servizi per le persone.” Ghignò con gli occhi, due punte di spillo nere e lucide. “Cosa vuoi che faccia per le persone, Ragnetto. Non c’è molto da fare. Lo faccio già. Basta farle parlare. Rispondere ‘sì’ alla prima domanda (mi ama?) e ‘no’ alla seconda (lascerà quell’altra per me?). Oppure, ancora, basta farle parlare. Le ovvietà che non si accorgono di dire gliele fai notare. È tutto lì, già detto già scritto già fatto. Che lavoro è? O forse dovrei farmi pagare, dici tu, questo sì. A me sembrano cose ovvie, evidenti. Agli altri no. La gente viene sempre.” “È perché sei un’Aquila.” “Lo so.” Pearl poggiò la tazzina del caffè, fulminea. E si diresse verso un nuovo pensiero. “Senti questa Ragnetto! Li conosci il Merlo e la Merla. Quelli che in università sedevano sempre vicini, e adesso sono sempre agli angoli opposti, arrivano sempre insieme dalla stessa direzione e poi si mettono lontani per guardarsi meglio, in cagnesco. Hai presente?” “Ho presente.” “Quelli che quando li vedi ti confondi, non li distingui, perché hanno gli stessi occhi, lo stesso colore, la stessa lunghezza di ciascuna delle penne. Fessacchiotti. Stanno sempre a litigare. Si beccano a sangue. Poi vengono qui a piangere. Uno per volta. E la vuoi sapere una novità? Mi raccontano le stesse cose. «Mi disprezza, non mi stima.» «a il tempo a insultarmi.» «Mi mangerà viva quello, non so cosa vuole da me.» «Io vorrei darle tutto ma lei è sempre così ostile, aggressiva e avida, mi prosciugherà.» «Mi odia quel ragazzo, mi sfugge come la peste e non capisco come possa solo pensare che io gli possa fare del male io che darei la vita per lui. Non si fida di me!» «E’ un’insensibile egoista, non sa rispettare i miei tempi, le mie fragilità. Dovrebbe saperlo. Mi distruggerà.» «E’ una insensibile egoista, non sa rispettare i miei tempi, le mie fragilità. Dovrebbe saperlo.» «Mi ha detto “Sai cosa devi fare? Trasferisciti in Papuasia e restaci fissa!”» «Mi ha detto “Ti odio. E te lo meriti. Guarda cosa mi fai.” Ha detto mi odia, come faccio a fidarmi di lei.» «Faccio sempre la cosa sbagliata.» «Ho sbagliato tutto.» «E’ finita, lo sento.» «Non se ne parla più, ho deciso.»”
Pearl staccò la testa a una scimmietta con due punte di penna e la lasciò sul vassoio. “Stanno separati come due poli uguali. Ma si può?!” prese il pezzo di biscotto e lo sbatté sul vassoio d’argento. “E tu cosa hai fatto?” “Ho dato i nomi alle loro paure, le stesse.” Si succhiò un dito, le penne intrise di briciole di pastafrolla e granelli di zucchero, e snocciolò: “Pollicino: ‘mi mangerai vivo/a’. Roselina: ‘non mi toccare che mi fai male’. Clotilde: ‘resterò solo/a tutta la vita.’ Jonny Depp⁴³ : ‘non valgo un fico secco.’ ” “E loro ti hanno ascoltato?” “Macché!” Pearl fece cadere la testina di scimmietta nel caffè ancora caldo e contò gli schizzi. “Forse dovrei farmi pagare.”
43 che ascolta “Creep” dei Radiohead
Capitolo 9
Nuovi Nati
La vita procedeva beata e serena. Per Panther. Manuela aveva appena dato alla luce due splendidi gattini, Mortimer e Pantherizia. Mortimer era tutto suo papà, che da quando aveva un mese lo chiamava ‘Il Piccolo Totti’. Pantherizia era scura tigrata, come la sua mamma. Panther e Manuela li portavano spesso a giocare nel bosco con Merlino e Ricky Bubble e i loro amici invisibili, il corpulento Birillo, che parlava solo a Ricky Bubble, e Pilù, un quarzo ialino. La mamma di Merlino e Ricky Bubble, Pearl, era contenta che socializzassero e aveva grande simpatia per Panther e la sua consorte, che immaginava la madre dei bambini. “Sì,” le confermò una volta il Panther, “è lei la mamma. È la mia donna. Devi amare anche tu molto il tuo uomo per avere fatto dei bambini così straordinari.” Disse strizzando gli occhi al Sole. “Non li ho fatti con un uomo. Li ho fatti con partenogenesi.” Panther non capì ma poco gli importava. Non era tipo da perdersi in discussioni sul sesso degli angeli e l’androginia delle Aquile. Il Sole non meritava di porsi troppe domande, la luce serotina, calda e carezzevole, non meritava di essere rovinata, andava assorbita a pieni polmoni, pupille aperte, con la gratitudine in cuore.
Panther adorava portare la famiglia a valle. Lui si grattava la schiena su un tronco di pino e guardava Manuela stendere la tovaglia di cotone blu e rosa.
Erano andati a comperarla insieme quella tovaglia e adesso era il centro della sua famiglia. I bambini si facevano le unghie sugli alberi e scorticavano le parti più vecchie e morte della corteccia. Gli alberi ridevano dal solletico ma stavano fermi immobili. Pantherizia con un balzo rovesciava Mortimer sulla schiena e gli mordeva il collo e insieme rotolavano giù. “Attenti al fiume acido eh bambini!” Il fiume era lontano. Tanti di quei cespugli rendevano soffici le lotte dei piccoli. E mille morbidi declivi. Panther, sdraiato su un fianco, affondava il naso nel collo di Manuela e trovava il suo fiore. Con gli occhi aperti o gli occhi chiusi, vedeva sempre fiori viola. Panther aveva desideri semplici, voleva una donna semplice, una accanto alla quale sdraiarsi e trovare pace. Una donna che non chiedesse quello che lui non poteva dare, che non soffrisse di quello che non poteva offrire. Manuela era così. A lei piaceva quel pelo ruffo. E non chiedeva niente di più che stare al suo fianco e darsi a lui. Lei era lì. Per lui. Lei, nella ricchezza e nella povertà, nella salute e nella malattia, ci sarebbe stata, lì, al suo fianco. Panther, poco dopo averla conosciuta, iniziò a costruire una casa per loro due e poi, per la prima volta in vita sua, iniziò a sentirsi a casa. Sentì che tutto andava bene così com’era, che non c’era bisogno di correre, di rimproverarsi o di migliorarsi tanto. Ogni giorno aveva un posto da dove partire e a cui ritornare. E ogni sera il suo meglio sarebbe stato apprezzato e il suo amore accolto. Sorrideva quando Manuela gli diceva, occhi negli occhi, braccia al collo: “Tu puoi tutto Panther. Tu non lo sai, neanche lontanamente, tutto quello che puoi.” Sorrideva perché non ci credeva, ma era bello da sentire. “Tu hai sempre ragione, Panther.” “E’ che non me ne accorgo. A volte non capisco quello che dico.” “E’ naturale, Panther. E’ perché dici cose troppo difficili, troppo profonde.” Rispondeva Manuela. “Tu hai tutto dentro, sei pieno di stelle. Tu non sai quante
cose sai. Per te è tutto un ricordo. Se solo ti potessi ascoltare con le mie orecchie, lo sentiresti come sei veramente. Sei un quadro, una poesia, una pennellata così precisa da occupare esattamente il posto nel mondo che Dio ha pensato per lei. Le intuizioni non vanno capite, vanno accettate. Devi semplicemente sapere che hai ragione. Te ne accorgi dalla musica, dall’armonia naturale che manifestano. Ricordi quando in bus il signor S’alamander () ⁴⁴, imbottigliati nel traffico, ci aveva chiesto che cosa ne pensavamo di tutti questi libri che ci sono sullo sciamanesimo? Io ho annaspato… ho detto che sì, che no, che in fondo non sono utili, che i migliori creano entusiasmo, aprono orizzonti, creano domande, attivano nuove sinapsi, offrono strumenti di lavoro…ma che lezioni possono impartire che non ano attraverso l’esperienza? Che me ne faccio di qualche sibillina briciola di nozionismo sciamanico? Ricordi? Vai a sapere quante frasi utilizzai! Che pena. Tu una sola. Dicesti: in questa società si crede che acquistando un libro si possa comprare a buon prezzo la conoscenza.” “Beh, S’alamander sarà stato contento. Lo abbiamo intrattenuto bene.” Panther sorrise. Manuela era contenta. Manuela pensò che avrebbe volentieri dato una tonnara e mezza⁴⁵ di sangue per ognuno di quei sorrisi e che quei sorrisi non si possono comprare ma solo baciare e solo se vengono offerti gratis. Ma Panther non aveva alcuna ragione di tenerseli per sé. Manuela lo guardava, si morse il labbro inferiore, scosse appena il capo e non si trattenne oltre: “Perché Alex, Panther si nasce, Sciamani si diventa. Tutti possono diventare Sciamani. Ma un’Anima bella come la tua è difficile da trovare.” Panther si prese il suo tempo. Era un bel momento. Manuela era seria. Lui sorrise, divertito, e disse socchiudendo gli occhi felini: “Mi piace quando mi chiami Alex, Manuela.” Manuela si confuse, scivolò la sua guancia dalla mano di Panther e nascose il viso nel petto del suo uomo. “Sì, Panther.”
Per la prima volta in vita sua, Panther scoprì che non è obbligatorio stare tristi e soli. Con l’amore nel cuore e la pace nella mente, la casa in ordine e calda, Panther a poco a poco sperimentò una nuova modalità di esistenza. Non solo ritmi nuovi ma una lucidità nuova, una prontezza diversa, un fiuto che non sapeva comprendere ma che funzionava. Non c’era niente che dovesse fare per guadagnarsi questa felicità. Ma lui voleva esserne degno, voleva ringraziare chi gliela aveva concessa. Voleva rendere la sua casa bella, degna della sua donna e del suo amore. E così la prosperità arrivò, prima ancora che arrivasse l’estate.
44 Signor S’alamander, meglio noto come Vecchio Sal. Viene citato nelle Tavolette del Caimano. In uno dei suoi numerosi viaggi in bus, conobbe l’avv. Adolph. Il Vecchio Sal fu l’antico patriarca della famiglia delle Salamandre, padre del Doctor Sal, famoso medico di rettili e anfibi, morto di pazzia non prima di avere dato alla luce con la sua amante Sfiga Artemisia, moglie del poliziotto necrofilo Penny Lane, due gemelli, Leave-me-alone (in italiano Livmialon) e I-feel-lonely (in italiano Aifilonli) 45 Su BMW k25 i sistemi di misurazione sono differenti rispetto a quelli in uso sui territori della Terra a cui si fa abitualmente riferimento. In questo caso, una tonnara equivale a poco più di un litro.
Capitolo 10
Ma.mi.ru.
Era bello ciondolare nel vuoto. TT faceva così. Lanciava un filo e lo legava a un pianeta e poi si appendeva giù. Un ragnetto piccolo piccolo, un puntino, perso nello Spazio Infinito. Come stare dentro un’amaca. L’aria gli accarezza il musetto e gli a attraverso. Il Ragno fa uscire dalla propria pancia di mago architetto una trama invisibile e forte intessuta di saliva e attraversata d’aria. Non è portentoso? pensava TT, a cavalcioni sul suo unico filo. A lui piaceva tantissimo tessere tra i pianeti. Ma ancora di più gli piaceva dondolarsi. Si rilassava. Faceva vuoto. Si toglieva gli occhiali e il buio della notte diventava chiaro, trasparente. Gli occhiali gli servivano per vedere meno. Altrimenti era troppo faticoso e anche alienante vivere. Vedere quello che erano dentro tutti gli animali in tutte le otto direzioni e mezze direzioni, in tutti i loro angoli interni… non era certo un vantaggio. Era deprimente. Un giorno mentre stava lì appeso, ed era senza occhiali, si accorse che nella direzione S/E dello Spazio Infinito c’era un puntino verde discarica, ed ebbe per un attimo un tuffo al cuore. La Terra! Era ancora lì!... Non seppe resistere e vi fece un salto. Non col corpo fisico, sicuro. Con corpi di altro tipo. Voleva sapere come si stava, se era cambiata. E questo fu quello che vide. Non c’erano tanti serpenti, come aveva immaginato, sembrava ce ne fossero anche meno di quelli che trovava sul suo asteroide. Non c’erano quasi animali. C’erano colonie popolatissime di bipedi e termiti. Le termini avevano formato società molto avanzate e complesse, si erano distribuite sul territorio in modo capillare e, grazie alla loro connaturata unità di intenti e di azione, avevano completamente trasformato l’aspetto del pianeta. I bipedi invece vivevano in miseria in società dalla struttura molto labile. Si muovevano in modo obliquo, pensavano in modo malfidente, e avevano in cuore solo veleno.
Morivano presto e scomparivano. TT tornò subito indietro e indossò nuovamente gli occhiali. La sua stella la vedeva anche con gli occhiali. “Ma.mi.ru., dolcissima creatura, che il Cielo sia con te!” Ma.mi.ru. rispondeva al saluto illuminandosi di più. Era una scia rosa pastello e sorridente. Era uno Spirito femminile. “Ma.mi.ru., dove sta la mia ragazza?” Il flusso rosa assunse una forma concentrica, con una punta verso il basso, e un puntino in fondo. “Due labbra si posano / come ali di farfalla / con polvere di stelle.” Mormorò TT, in stato di sogno. Ci doveva essere qualche elefante in giro in ispirito. Ne percepiva la fragranza poetica. Non era da Ma.mi.ru. questo ritmo, questo languore. Lei parlava in geroglifici, parole come pietre. Una volta, per farsi meglio capire, lo aveva preso a sassate. Una valangata, una frana celeste di sassi di mare dipinti con paesaggi di Cielo e Mare⁴ , a ogni ora del giorno e della notte. Ragno di cielo e Tartaruga di mare (disegnati simili, pronunciati uguali ⁴⁷: due immensità, due consapevolezze, due polarità. La vita che circola e tutto riempie. Lui aveva commentato che gli sembrava un po’ ossessivo. Lei gli aveva risposto che se non aveva ancora capito gliene avrebbe inviati altri sulla testa. Lui disse grazie adesso ci arrivo. Così è. Ciò che è scritto nella pietra è forte e chiaro, è antico e fermo come la pietra. Devi pensare al tuo cuore, TT, è la prima cosa, gli aveva detto quando si conobbero. Parte tutto da lì. Tu sogni con la pancia, tessi con la pancia i tuoi sogni. E vivi col cuore. Ricordatelo. Tutto ciò che fai col cuore ti porterà fortuna, ti porterà lontano. Ricordi, TT, come sei arrivato fin qui, dal tuo pianeta discarica? Quanta strada che hai fatto.
Ricordava TT. Come avrebbe potuto dimenticare una farfalla? Una farfalla così bella. TT chiuse gli occhi, si spinse sull’altalena, appeso a un filo. La fine peluria che aveva sul petto si scompigliò. “Ma.mi.ru.”, sospirò, “dov’è la mia ragazza?” “Tickle Tickle”, sospirò Ma.mi.ru., “stai facendo la domanda sbagliata.” È sempre tutta una questione di domande, con gli Spiriti. “Ma se ti fa piacere falla pure.” TT si grattò la pancia e sistemò meglio il filo, in modo che non gli desse fastidio. Socchiuse gli occhi e abbandonò il suo corpo all’oscillazione ritmica provocata dal suo stesso peso. “STA CADENDO, TICKLE TICKLE!” TT ebbe un sobbalzo. L’adrenalina gli mandò un brivido nelle vene e si riscosse. Oh Cielo! Di nuovo! Si era assopito e stava cadendo. “Il pianeta sta cadendo. L’esercito muove gli accampamenti.” “Ma.mi.ru.!” si rizzò verticale. “Che significa?” “L’Aquila Reale ti porterà a casa.” TT detestava quando la sua amica si esprimeva in termini metaforici. Non capiva niente. Si sentiva un ragnetto piccolo piccolo, un puntino, perso nello Spazio Infinito. Ciondolare nel vuoto… Brutta cosa.
46 Se fosse ato di lì, in quel momento, un elefante o un suo simile, uno di quelli svegli però, forse avrebbe suggerito questa traduzione, tra le tante possibili, dei segni sacri di Ma.mi.ru.:
“E ogni notte / gli amanti azzurri / si uniscono in un unico blu / per concepire un nuovo giorno.” 47 Entrambi Ragno e Tartaruga nella lingua degli Spiriti si chiamano con la medesima parola che significa “cosmovisione”.
Capitolo 11
Tickle Tickle, Pearl, Arpia e il fiume acido
Quella notte stessa, nel suo lettuccio, nella sua casa di ragno, in sogno, TT ricevette una visita. “Ticle Ticle…” il corpo di sogno di Pearl stava seduto sui bordi del letto, al suo fianco. TT, in sogno, aprì gli occhi. Che meraviglia. Nell’altra realtà Pearl era un’Aquila imponente, scura e austera, tutto il contrario dell’uccelletto vivace e variopinto che mostrava alla maggioranza delle persone. “Pearl, hai di nuovo cambiato colore dei capelli!” “Ticle Ticle, ascolta, è importante, devi indire una riunione della Scietà dei Sognatori, bisogna fare qualcosa, rimettere in assetto il Sogno oppure cambiarlo del tutto, non lo so. Dobbiamo pensarci. Ticle Ticle, il fiume acido si è ingrossato e adesso attira un sacco di gente. Non è più un luogo sicuro. Mi ha chiamato mio cugino, l’Aquila Arpia. Mi ha chiesto se da noi c’erano delle anime deboli da eliminare. L’ho visto mentre mi parlava, solcava i cieli, è sempre uno spettacolo, è bellissimo, ha una apertura alare di due pertiche e mezzo e gli artigli ricurvi sono lunghi mezza pertica, un becco da far paura e dei ciuffetti sulla nuca… Un uccello implacabile e silenzioso come la morte che porta, non è come me e te, lui fa sul serio. Gli ho risposto che non lo so. Ma non è vero. E lo sa anche lui. Un’Aquila sa sempre tutto e prima ancora che accada. Anche Arpia lo sa. Lo sente il richiamo. Mi ha dato un avvertimento. Per lui è uguale. Ci sono anime deboli su ogni pianeta, lui non muore di fame. È estinto sulla Terra perché non ci sono più foreste, ma scimmie, esseri umani e altri scarti da acciuffare li trova ovunque nell’Universo. Svegliati TT, bisogna fare
qualcosa.” “Aquila, sei tu il Capo.” “No.” Gli rombò nell’orecchio seccata. “Sei tu il capo della Società dei Sognatori.” Ricompose le ali e gli artigli. “Adesso ti svegli e fai qualcosa.”
TT sapeva cosa voleva dire. E in fondo se lo aspettava. In ogni Sogno, individuale o collettivo, c’è sempre un fiume acido. Il fiume acido è il buco nero dove vengono ingoiati i sogni. Ai suoi tempi, sulla Terra, c’erano le discariche. Su BMW k25 invece il fiume scioglieva gli entusiasmi, le speranze e la fiducia, e spegneva le aspirazioni del cuore. E produceva per giunta una strana fatale attrazione. Le famiglie eggiavano la domenica lungo le sue sponde e stendevano la tovaglia del pic nic sempre più nelle vicinanze, lo guardavano come ipnotizzate e ne ammiravano i riflessi. I bambini scorazzavano intorno. Ciclisti dalle tutine aerodinamiche percorrevano i sentieri lungo gli argini, aragoste giganti tagliavano loro la strada sempre nella medesima direzione. Chi non aveva un Sogno abbastanza forte non riusciva a tenersi alla larga. Ma in realtà tutti erano in pericolo. La capacità di Sognare si era indebolita. Nessuno indenne. TT era sicuro che i bambini sarebbero state le prime vittime. Non conoscevano la morte, non sapevano che effetto fe la distruzione e ne avevano più curiosità che paura. Ma soprattutto non avevano un Sogno radicato e robusto a trattenerli. Qualunque forma di vita che non si sviluppi attorno a un Sogno è destinata a disgregarsi. Non esiste alcuna coesione a tenerla insieme. E gli adulti? Se il fiume aveva potuto ingrossarsi, era perché il loro Sogno, se mai c’era stato, si era esaurito, compiuto, consumato. Gliene serviva un altro. Se rimanevano così sarebbero stati presto troppo deboli per continuare a sopravvivere.
TT si alzò a sedere e inforcò gli occhiali. Il Sole era già alto. Era tardi. Comprendeva perfettamente la situazione. Adesso con gli occhiali indosso la capiva ancora meno. La domanda era sempre la solita, che periodicamente si riproponeva alla sua attenzione e a quella dei suoi compagni di scuola. Come salvare il pianeta? Come fare Sognare le persone? Come dare loro l’ampiezza di cuore, il cor-aggio 1) per sentire le proprie aspirazioni, 2) per individuarle, 3) per seguirle. La risposta era: “boh.”. TT richiamò a sé lo Spirito dell’Aeroplanino di Carta. Ne distese le pieghe. Vi tracciò a matita un messaggio all’interno. Lo ricompose e lo lanciò fuori dalla finestra, verso Est. La velocità lo smaterializzò, lo allungò, lo affilò. Il messaggio andò a conficcarsi sul muro all’interno della Casa del Monaco. “Tesoro, ho bisogno di te. Chiamami appena torni.”
Capitolo 12
Farfar, Ricky Bubble, Mortimer e Manuela
TT aveva perso il divertimento di andare da Pearl quando la giovane imprenditrice tra le ragazze da collaudare gli aveva proposto Farfar. Era l’ultima arrivata e la reputava un soggetto estremamente interessante e affascinante, una bellezza molto particolare. Magari era il suo tipo. Era la volta buona per TT. “Farfar,” TT si aggiustò gli occhiali, si sistemò la benda da pirata sull’occhio malato. “Farfar, che ci fai qui?” “Indovina.” Poi ebbe pietà del suo vecchio amico. “La tua merda mi ha portato fortuna. Non ero buona a niente, finalmente ho trovato lavoro. Ho dei clienti affezionati. Ho sempre avuto male alle spalle e ai fianchi…” TT restò immobile, pietrificato. Lui avrebbe guarito la sua farfalla. Si sarebbe preso cura di lei. Le avrebbe misurato la terra intorno e spezzato il pane per lei quando le croste erano tropo dure per i suoi dentini. Un mondo dove una farfalla soffriva non poteva essere il migliore dei mondi possibili. Lui avrebbe ri-sognato il mondo tutto daccapo.
Intanto Ricky Bubble stava crescendo e assumeva giorno dopo giorno le sembianze di un guaritore. Pearl non lo aveva fatto di proposito. Il punto era che non sapeva controllare esperimenti di genetica senza precedenti. Così, in un unico parto gemellare, aveva dato alla luce due bei bambini, un maschietto, che ancora nella pancia le aveva detto di chiamarsi Merlino, e Ricky Bubble, un coccodrillo. Gemelli eterozigoti, senza dubbio. I frugoletti crescevano forti e arroganti, Merlino, introverso e superbo, nei suoi nascondigli tra i rami, e Ricky Bubble, intollerante e irriducibile, immerso nell’acqua fino al collo. Tutti la loro mamma, soleva dire Pearl, spazzolandosi le penne. Avrebbero fatto strada. Se non finivano nel fiume acido. Il gioco preferito di Ricky Bubble era fare nero Mortimer. Un gioco da ragazzi. Ma anche Mortimer non era un bambino qualunque. Era nero e pelosino, morbido e fiero. Non era tipo da arrendersi facilmente. Avevano saputo che i figli della signora Giulia erano scivolati nel fiume come dei frollini al burro ed erano scomparsi. “Li salvo io!” Ricky Bubble si sbracciava e faceva dei salti così. “Mi tuffo. Mi metto una volpe al collo, la pelliccia dell’invisibilità. Schivo i fulmini e le saette. Combatto i mostri marini e anche quelli fluviali e poi Zam!” Serrava con un colpo secco le mascelle. “Zam! li prendo e me li porto su. Tu ti ci puoi strusciare sopra come asciugamano se vuoi.” Concluse con sufficienza. “IO non ho paura di niente!” gli zompò addosso Mortimer. “Mi tuffo. Vinco la morte marina. Li acciuffo per le orecchie.” Mortimer pinzò il naso del povero Ricky Bubble tra gli incisivi. “E pam e pam.” Lo picchiò sulla schiena. “Due colpi di braccia e li porto su. Tu puoi giocare a rianimarli, Dottore.” Disse sornione. Con un balzo gli atterrò davanti al muso di Ricky Bubble, inarcò la schiena, drizzò la coda e rizzò il pelo. Orecchie indietro e sguardo a fessura. Poi, con ostentata indifferenza, riacquistò una postura rilassata e stortò le labbra in un mezzo sorriso. “Io vado fino in fondo.” Riprese a saltare a quattro zampe. “Non c’è niente che può fermarmi!” Diede un ruggito gutturale. “Aaargh!”
Prese a una a una le unghie tra i denti e se le strappò. Al loro posto uscirono cinque puntini rosso sangue da ciascuna zampa. “Babbèo!” Strillò Ricky Bubble, batté forte con le zampe, schizzò l’acqua dello stagno tutt’intorno e simulò una risata fragorosa. “Mortimer, che stai facendo? Dove siete bambini? Mi fate preoccupare. C’è la merenda. Non la volete la merenda?” I piccoli tutti quanti, Ricky, Mortimer, Pantherizia, Merlino e i loro amici invisibili, facevano a gara a chi era più vorace. Ma la torta di mele e castagne di Manuela valeva un Sogno! Lei l’aveva creata perché era dolce, nutriente e pressoché priva di zuccheri (gli zuccheri esasperavano la milza del Panther e per conseguenza ne indebolivano i reni, lei lo sapeva). La faceva spesso e volentieri e tutti in famiglia ne andavano matti. La notizia si era naturalmente diffusa e la ricetta si era propagata in tutte le dimore del paese, ma nessuna mamma riusciva a farla come la faceva lei.⁴⁸
48 Ricetta della torta di castagne e mele di Manuela. Farina di castagne, latte intero fresco, uvetta e pinoli; un cucchiaino di zucchero di canna, un pizzico di sale marino integrale; fette di mele gialle da disporre, e affondare, sulla superficie. Miscelare, comporre, benedire, infornare.
Capitolo 13
Pearl, Farfàr, Fàrfa e il Monaco
“Ticle Ticle, bisogna atterrare sull’asteroide violetto. Me l’ha detto Pilù, il quarzo ialino. Non c’è più tempo. Non possiamo modificare il sogno di ognuno da qui, non è cosa sicura: dovremmo fare molte prove e l’esito è del tutto imprevedibile e incerto. Ci porteremo tutti, tutti quelli che vorranno venire. Ma il viaggio lo faremo io e te. Non si può fare in più di due persone, saremmo troppo articolati, disomogenei e pesanti. Non so a che distanza sia né in che direzione andare. Ma io so arrivarci. L’ho visto in sogno. La sua immagine, la sua energia, mi condurrà a sé.” “L’asteroide violetto? Te l’ha detto Pilù? Che significa?” “Non lo so. Sembra sia un modo per Sognare, o per cambiare il Sogno, un modo rapido e sicuro anche se non so perché.” “E tu ti fidi di Pilù?” “Sì, è l’amico invisibile di mio figlio.” “Giusto.” TT annuì. “Beh se è così… Dobbiamo attraversare lo Spazio Infinito.” In quanto responsabile e rappresentante della Società dei Sognatori ne avrebbe retto le fila anche nell’altra realtà. Avrebbe trovato il posto dove i nuovi sogni di tutti si sarebbero potuti trapiantare e materializzare. Il come sarebbe dipeso, al solito, dalla capacità di Sognare di ognuno, e di fare buoni Sogni. Sogni consapevoli, sogni positivi. Ognuno, volente o nolente, vive la vita così come l’ha sognata.
TT tossicchiò e si aggiustò gli occhiali. Un viaggio senza ritorno. Senza nemmeno la sua astronave, che conosceva bene. Solo con un’Aquila. Chissà se una farfallina, unica eccezione, come equipaggio, ci sarebbe stata. Era leggera, era in gamba e occupava pochissimo posto. Stretta alla sua spalla, come lui sarebbe stato stretto alla spalla di Pearl. Avrebbe sentito le sue alucce fremere all’aria e le sue antennine aggiornarlo sull’orientamento. Si poteva fare, sicuro. Come era stato fatto, tanto tempo addietro. Se solo Farfar gli si avvcinasse ancora, come una volta ma anche meno. No... Era impossibile. TT era pronto. L’ultimo viaggio lo avrebbe fatto da solo. L’estremo rischio nell’estrema solitudine. In fondo solo era sempre stato. Farfar era nel suo cuore. Ma dalla sua vita era volata via. Questa volta non avrebbe potuto portarla con sé. Non fisicamente almeno. Su BMW k25 era giunto insieme a lei e grazie a lei. Sull’asteroide violetto ci sarebbe andato per lei. Sarebbe diventato guaritore. Lei sarebbe stata sana. E lui avrebbe imparato ad amarla.
“Come si chiama questo asteroide violetto, Pearl?” “Non lo so. Credo che lo scopriremo.”
Il Monaco gli aveva inviato un messaggio di fumo di sigaretta e TT, ben lieto, aveva risposto alla chiamata. La casa del Monaco era ormai completamente isolata. Il fiume si era ingrossato e non esisteva più ponte o costruzione in grado di traghettare i viandanti nell’estrema fetta occidentale del bosco. Al Monaco questo non dava fastidio. Non gli interessavano gli animali di città. A TT questo era indifferente. Lui saltava. Appena atterrato sull’altra sponda, il grosso cane nero epilettico lo rovesciò sulla schiena. TT se lo sbaciucchiò e strofinò ben bene. Erano vecchi amici. Il buon vecchio Fàrfa, l’unico essere vivente in grado di attraversare a nuoto il fiume acido e l’unico in grado di riportare sulla terra il suo padrone ogni giorno, all’ora delle crocchette.
“Monaco!” “Ticle Ticle!” I due amici si abbracciarono. Con delicatezza. Erano entrambi fragili. TT era un piccolo ragno peloso di una certa età, solo come una migale. Monaco era un artista col corpo bruciato dai viaggi oltrefrontiera. “Come stai vecchia guardia?” “Insomma.” A TT sembrava di non avere niente da raccontare, la sua vita era sempre uguale. “Monaco, hai mai sentito parlare dell’asteroide violetto?” questo gli interessava. “L’asteroide violetto?” “Eh, non lo so! Non so che cos’è. L’ha detto Pilù a Pearl.” “Pilù?” “Vabbé lasciamo perdere. È un posto per Sognare l’asteroide violetto, dicono, per trovare nuovi Sogni o cose del genere.” Monaco lo guardò attraverso per qualche periodo. “Ah. Credo di capire a che cosa ti stai riferendo.” Il Monaco accese una candela. L’interno si illuminò e rivelò la presenza di strani oggetti e corvi vivi. “Sì,” continuò, “dev’essere lui. È un sasso, sai, un vero e proprio sasso. Un monolite dall’origine misteriosa. Ma è molto piccolo. È così piccolo che per dargli un po’ di peso, per non farlo cadere nello Spazio Infinito, gli Spiriti gli hanno addensato un pianeta intorno. A guardarlo dall’alto sembra una gemma grezza di ametista o di diaspro rosso, cangiante, a seconda delle ore, incastonata in una montatura di terra.” TT era rapito. Quando ascoltava i racconti del Monaco gli sembrava di tornare bambino.
“Il viaggio ti piacerebbe, vecchio mio.” “Tu ci sei già stato?” “Sicuro!” Il Monaco si appoggiò più comodamente allo schienale, che scricchiolò. Socchiuse gli occhi e riprese: “Quando ti avvicini, dall’alto, se hai preso bene la mira e stai scendendo nel posto giusto, se arrivi all’alba o al tramonto, il che è altamente consigliabile perché il potere è maggiore e il tuo lavoro è facilitato, se arriverete all’alba o al tramonto dicevo, vedrete sotto di voi questa gemma oblunga viola, circondata da una estensione di terra, che ne riproduce approssimativamente la forma, e tutt’intorno le acque dell’Oceano. La terra circostante l’asteroide violetto è rossa, ospita grandi deserti e gli alberi più antichi e sapienti dell’intero pianeta. L’oceano che a sua volta la circonda ha acque incontaminate e pesci preistorici.” Sorrise. Lo divertiva vedere l’espressione di TT. Lui diceva solo quello che aveva visto. Per lui era normale. “Alberi che su BMW k25 ce li sognamo! Alberi i cui Spiriti a volte si spingono fino a qua. In casi eccezionali, s’intende. Alberi che possono ospitare Dei. All’occorrenza. Ma piuttosto, mi dicevi… Tornando a noi, se vuoi cambiare il Sogno devi entrare nell’asteroide.” “Come ‘entrare’? Entrarci dentro?” “Sì. È un luogo così bello e poetico perché emana potere. Lo sai che funziona così. È un luogo sacro. Se lo vedi da fuori è bizzarro e perfetto insieme. Ti assicuro, quando gli sei vicino, da ogni punto lo guardi, ogni scorcio di rocce e alberi è assolutamente pittorico, disegnato dal Creatore in forme in perfetto equilibrio di libertà e armonia, nessun artista avrebbe potuto fare di meglio. È un incredibile ristoro per gli occhi. E questo solamente a uno sguardo superficiale, prima di instaurare un qualsiasi dialogo.” Monaco sorrise. Era stato un bel viaggio quello, sì, interessante. “Ma dentro è tutta un’altra cosa”, sospirò. “Quando entri…”
Il Monaco si rabbuiò. Tossì. TT rabbrividì. “Dentro è pieno di vita. Oh beh, a dire il vero anche fuori. La senti la vita che pulsa, senza guardare in faccia a nessuno. Esce fuori dalla pietra. La senti che si rifrange sul tuo corpo come onde. ‘Tu hai paura della vita più di quanto tu abbia paura della morte’ mi disse una di queste onde.” Il Monaco sorrise. “Ma dentro,” Proseguì. “Dentro è tutto diverso, è tutto più grande.” TT fece gli occhi come a dire ‘Ohh’. Il Monaco inspirò una boccata di fumo scuro. Prese il suo tempo, raggiunse il suo ricordo. “Dentro mi dissero: ‘Guarda. Puoi essere quello che vuoi. Cosa vuoi. Sei stato tutto. Sarai tutto. Scegli quello che vuoi. Puoi scegliere quello che vuoi.’ E vedevo le cose che desideravo. Ma c’erano anche quelle che non desideravo. Lo sapevo, c’era tutto. Ma io non voglio niente! Tanto finisce che mi fottono, qualsiasi cosa mi danno. Io non la voglio l’esistenza.”
Capitolo 14
Il lungo viaggio di Tickle Tickle Pin Pin
“Pearl, ma non sai neanche come si chiama questo posto?” “No, Ticle Ticle, te l’ho detto. Non c’era nessun cartello nel mio sogno.” “Forse dovevi guardare meglio.” Disse, saggio, TT. “Andiamo in stato di sogno, di notte?” Aggiunse. “Macché. Scherzi? Ci dobbiamo andare anche col corpo fisico, altrimenti non funziona.” TT era a disagio, esautorato dei suoi poteri decisionali da una giovane Aquila. “E quando si parte?” Era anche ansioso, questa la verità. “Boh, per me… qui non si riesce a lavorare, si può partire anche subito.” “Come subito??” Aveva ragione Pearl. Si sarebbe partiti al più presto. Le sponde del fiume erano impraticabili, il bosco stava diventando una palude. Gli abitanti del paese erano paralizzati dalla paura, morti viventi.
“Saluta gli amici, Ticle Ticle.”
Non serviva niente per il viaggio. Non tutine aerodinamiche, non snack spezzafame, non integratori idrosalini. Coraggio (TT e Pearl). Intento (Pearl). Fiducia (TT e Pearl). Le capacità le avevano già. Il Ragno e l’Aquila sono tipi che come prestigiatori in qualsiasi momento possono fare uscire tutta la sapienza dell’Universo da dietro una piega dell’orecchio. Avercelo l’orecchio, pensò TT. In ogni caso erano i soli che potevano compiere l’impresa. Avrebbero integrato l’equilibrio (TT) con l’audacia (Pearl). Certamente Jagger avrebbe potuto fare il viaggio al posto loro, per tutti loro, ma non erano così le regole del gioco. Gli allievi dovevano prendersi le loro responsabilità. Le loro e quelle degli altri. Così sarebbero cresciuti. Sarebbero diventati allievi cresciuti. Non sarebbero diventati Sciamani, questo è certo, per diventare come lui ci voleva ben altro. Da Jagger ricevettero la benedizione. “Forza ragazzi. Sono sicuro che ci rivedremo. Da qualche parte nell’Universo.” Da qualche parte. Questo è certo. Jagger è dappertutto. Conosce le mappe dei pianeti e con un balzo si sposta dove vuole. Conosce ogni pianeta per esserci stato almeno una volta. Qualche parte. Quale parte. Questo è il punto. Una parte buona o una parte cattiva. Questo dipendeva interamente dal loro essere bravi viaggiatori e bravi sognatori, dall’esito del viaggio. A guardare indietro, a TT tutta la sua vita sembrava un viaggio, un lungo viaggio. Aveva fatto delle soste, sì, si era fermato a dei belvedere, a degli ingorghi anche, e aveva ripreso il cammino, a piedi, al massimo in bicicletta. Ci aveva provato. Si era applicato. Aveva fatto quello che aveva potuto. Non era bello come il Panther. Ma aveva pur sempre una certa agilità.
Pearl non sapeva quanto tempo ci avrebbe messo. Voleva arrivare sull’asteroide violetto all’alba o al tramonto, in modo che fosse violetto e i cancelli si aprissero
alla sua sommità. Ma non aveva idea di quanto tempo ci sarebbe voluto per arrivare. Così decise che sarebbero partiti all’alba. E se arrivavano all’ora sbagliata, nell’attesa, si sarebbero fatti un giro. Ma nessuno Spirito la aveva avvisata su cosa li aspettava. Il viaggio richiese tutta la loro amicizia e la loro saldezza di cuore. Attraversarono Spazi siderali tanto freddi che temettero che le tubature del sangue scoppiassero. Pearl poi, creatura celeste, aveva un sangue molto liquido. TT le soffiava sul collo e almeno non le venne la cervicale. Ma ebbero bisogno di tutto il potere delle Stelle e dei loro Alleati Spirituali per riuscire a riscaldarsi e a mantenersi in vita. Viaggiarono di giorno. Ma non si sa per quanti giorni. Non si poteva sapere. Lo Spazio Infinito è buio in continuazione. Che avessero gli occhi aperti o chiusi era irrilevante. Purtroppo Pearl non aveva sognato la strada. Non lo aveva detto a TT, ma non aveva idea di dove stavano andando. Ogni tanto il buio si apriva su galassie e sistemi solari. Andavano oltre ed era di nuovo buio. Si sarebbe anche goduta lo spettacolo dei colori e dei disegni delle stelle se solo dalla velocità del viaggio non fosse dipesa la sua vita. Oltre a quella di molti altri. Decise di viaggiare a occhi chiusi, per essere sicura di non distrarsi, la vista esclusivamente concentrata sull’immagine mentale del suo obiettivo: un minuscolo asteroide violetto. TT aveva trovato posto tra le penne del collo. L’aria era gelida e lui, piccolo e nero com’era, sarebbe ben presto diventato una caccolina di ghiaccio. Si rannicchiò pertanto, e nascose sotto le penne più grandi. Con quattro zampe si teneva stretto, con le restanti quattro zampe filava e si creava un bel maglioncino. TT procedeva lento, attento, meticoloso, era un lavoro necessario. Quando alla fine si fu imbozzolato per bene si assopì. Si sentiva al sicuro tra le spalle dell’Aquila. Sotto le sue ali ci si sente sempre al sicuro.
TT aveva appetito. Si era svegliato e non c’era niente da mangiare. Guardò fuori. Si doveva essere a un estremo margine dell’Universo. Non riconosceva quel posto. Era strano. Non era male comunque. Adesso c’era una gran luce. Si era dentro a una galassia fitta fitta. Pearl procedeva spedita. Sarà stata stremata poverina. Dopo un buon sonno, TT poteva resistere al freddo. Si sporse fuori. Un
piccolo sistema solare gli sembrava di riconoscere. “U.LU.RU.” Sfrecciarono davanti a un cartello. Per U.lu.ru. da quella parte. “(Australia)” ne comparve subito un altro, a un minuto luce. Ma non mi dire! La Terra. Su U.lu.ru. non c’era mai stato! Bastava girarla la Terra e c’era un’ isola senza troppe discariche. Uno non ci pensa, bisogna sempre guardare dietro alle cose. Ma sarà estate di questi tempi! Si mise la canottiera e le infradito. Dicono sia sempre estate laggiù. Era contento. La Terra! E chi l’avrebbe mai detto! Proprio la Terra! Ma Pearl aveva viaggiato in tondo tutto questo tempo? Non era così distante la Terra. Con la sua farfallina in groppa era bastato poco più di un salto per montare su BMW k25. Certo bisognava sapere dove andare.
Capitolo 15
Atterraggio
Adesso si vedeva bene. Il Sole stava lanciando i suoi primi raggi e la distesa di terra sottostante era un mare che stava a tratti rivelando, dal buio, squarci di verde, blu, rosso e viola. TT esultò. Appallottolò il suo bozzolo e lo appiccicò tra due penne, all’attaccatura. Si saldò con un filo al collo di Pearl, si massaggiò le gengive e prese a fare le flessioni. Bisognerebbe sempre svegliarsi all’alba, essere in sintonia coi pianeti e gli Dei Celesti. TT non stava nella pelle. Avrebbe incontrato gli Spiriti del Tempo del Sogno. Li avrebbe conosciuti. Avrebbe contrattato con loro. Gli mancava il cuore dall’emozione. In virtù della sua posizione di responsabile della Società dei Sognatori dell’Unica Università di Sciamanesimo di BMW k25 e generale della flotta della scuola… TT si schiarì la voce. Permettete che mi presenti, Tickle Tickle Pin Pin. Piacere mio Questa è la mia assistente, Pearl. Pearl sorvolava la zona, nell’attesa che fe alba. A ogni virata TT scivolava dal suo collo e cadeva giù. Non faceva più tanto freddo qua, il respiro della Terra emanava calore, perfino al di sopra del deserto. I primi raggi del Sole lo inebriavano. E a lui piaceva da matti dondolarsi nel vuoto. Frullato dalle correnti d’aria guardava in tutte e otto le direzioni e mezze direzioni. Questa doveva essere una terra di grandi Ragni. Quando il colore violetto infine pervase la piccola gemma e l’atmosfera circostante, Pearl prese a volteggiare in cerchi concentrici sempre più bassi e più vicini alla montagna sacra. Il volo era dolce, lo spettacolo meraviglioso, TT, a ciondoloni tra Cielo e Cielo, si sentiva lui stesso un frammento di stella. “TT tieniti forte. Stiamo per atterrare.” TT era così leggero e agile che Pearl, concentrata sul viaggio, non lo aveva sentito spostarsi. Con un’ultima virata
l’Aquila iniziò a rilassare le zampe a portarle in avanti. Ritirò le ali. Zampe in assetto di atterraggio. E BANG! TT fu il primo a toccare la roccia. Vi si schiantò di schiena e si fracassò la nuca. Da quel momento non seppe più nulla di Pearl. La perse completamente di vista. Né incontrò mai gli Spiriti del Tempo del Sogno. I Ragni muoiono per molto meno. L’agilità non li esime dall’essere fragili. L’unica cosa che sentì fu un grande dolore. Si racconta che pensò “dolore… potere… ferita da cui a potere… incominciamo bene”. Poi perse conoscenza.
Capitolo 16
Tickle Tickle Pin Pin e Farfar
Sempre meglio baciarsi con tanto di lingua o non baciarsi affatto. Una lucertola. China su di lui, una lucertola. Allora stava sognando. Andava tutto bene. Lo Spirito della Lucertola si mostrava benevolo nei suoi confronti. Fantastico. Le porte del Sogno gli erano aperte. Che dolore alla testa, mio Dio! E alla scapola destra poi. Ma non se l’era rotta. Vedeva in modo strano, però non aveva dubbi, era più grande di una lucertola normale. Uno Spirito di un certo potere, sissignòri. Gli stava lavando il viso di bacini! Se non fosse completamente stordito si metterebbe a ridere. Buondìo, che accoglienza! Con gli Spiriti bisogna andare giù decisi. Ringraziare e prendere quello che ti danno. Potrebbe essere l’unica o l’ultima volta che te lo danno. La tua unica o ultima occasione. Anche questa non aveva grandi tette ma la sua lingua sapeva di bosco e di Sole e di lamponi appena colti. Non aveva mai assaggiato nulla di così dolce e bello. Le leccò le labbra. Si accorse che non la stava mangiando e ne fu lieto. Forse aveva imparato qualcosa in tutte queste vite. Non la stava succhiando viva. La stava facendo sua, come si fa con una donna. Le stava dando piacere. “Caimano.” Disse lei quando poté riprendere fiato. “Lucertola.” Disse lui. Si guardarono e sorrisero. Lei perché non sapeva da quante vite aspettava questo momento. Lui perché lei lo aveva chiamato Caimano. Il suo sogno si era avverato, era un guaritore. Aveva la sua donna tra le braccia, una lucertola, e magari anche sana, e non l’avrebbe lasciata più, mai più.
Chiuse gli occhi e fu la scimmia che era e si smarrì completamente nella sua Lucertola e nella sua nuova vita.
Capitolo 17
Caimano e Panther Il ritorno di Caimano
Molti, molti anni dopo che la casa di Lucertola andò distrutta, senza lasciare più che tre sassi disposti a piramide, Caimano si imbatté in Panther, che si stava aggirando nei territori fuori contea nella speranza di trovare una qualche carne fresca da cacciare. I tempi non erano buoni. La fauna selvatica scarseggiava ormai e anche Panther e la sua famiglia si dovevano spesso accontentare di serpenti. Caimano gli disse di salutargli Lucertola. Di dirle che la pensava sempre. Panther gli disse che era strano pensarla sempre e non andarla a trovare mai. Ma che non importava. Lei non c’era più. Caimano si poteva risparmiare. Caimano pensò che la sua Lucertola si fosse trovata un altro e se ne fosse andata. Sentì una certa pressione al cuore ma si era abituato ormai a non farci caso. No, è andata via da sola, disse Panther. Caimano gli chiese come stava la sua famiglia. Panther gli disse stiamo tutti bene. Abbassò il capo, socchiuse gli occhi e sorrise. Caimano gli diede un’occhiata. Fiero ed eretto, piuttosto rigidino a vedersi. Ma con intatto ancora tutto il suo fascino. Se lo ricordava Caimano quando era giovane, quando aveva fatto impazzire Marzio, quando rompeva l’anima per tutta la casa di Lucertola per i suoi tormenti d’amore. Ah Panther impossibile. Eccessivo. Ombroso e orgoglioso. Tenace sicuramente. Se lo ricordava che batteva il tamburo per delle mezze epoche in casa sua durante i viaggi sciamanici e poi diceva faccio fatica a vedere
non ho visto quasi nulla. Lucertola gli diceva beh hai battuto il tamburo per una bella mezza epoca, avrai fatto qualcosa. Ho cercato di vedere, rispondeva lui. Kala lo chiamava ‘Supido Panther’. Kala… chissà che fine avrà fatto anche lei. “Panther,” disse Caimano, e si sistemò la benda da pirata, cimelio di guerra “Panther,” Ripeté. E provava un po’ vergogna. “…ma che ci fai tu alle donne?” Caimano si toccò il naso con l’indice teso, all’attaccatura. “Come hai fatto?” Panther inclinò il muso e si preparò a dare la risposta più semplice della sua vita. “Mi sono innamorato. E ho perseverato.”
Capitolo 18
Mestizia e Kalientita
Mestizia aveva perso il pelo ma non il tormento. “Kala, mi chiedo a volte come faccio a sopportarti. Velenosa, cinica, piena di sarcasmo, supponente… ma ti rendi conto di come sei. Io sognavo una donna col grembiulino bianco, e le autoreggenti bianche, che amasse i pargoli. Con la pelle d’avorio, mora ossidiana coi riflessi cognac.” “Era un sogno contrario, Mestizia.” Lapidaria, come al solito. Non c’era verso. “L’unica cosa che mi hai detto in tutti questi anni è che sono stupido.” Osservò lui. “Come se non lo sapessi già abbastanza.” Miagolò a bocca storta. Ooh noo. Adesso non faccia la vittima! Kala si ergeva verticale, apriva la bocca. FRRrrr. La sua capacità di sopportazione era rasente zero. Soffiò forte. “Se ne volevi un’altra dovevi prendertene un’altra. Non seccare me.” “Ma non ce n’è! Non ce n’èeeeeeee.” Panther contrasse il muso e si buttò di lato, dal lato della sciatica, sobbalzando di dolore. Si contorse sotto le zampe, i polpastrelli sugli occhi. Uff. “Piantala Panther!” Se c’era una cosa che Kala non riusciva a tollerare era vedere Panther soffrire. In genere quando lui soffriva lei se ne andava perché la vista le era del tutto intollerabile.
Ma se poteva fare qualcosa la faceva. “Piantala Panther!” intimò. Lo rovesciò sull’altro lato, gli strisciò sopra e gli massaggiò la sciatica, per il lungo. Giunta al collo, si sporse e gli mise la lingua nell’orecchio e dolcemente gli sibilò. “Tu non lo sai Mestizia, ma io senza di te non sarei qui. Questo mondo è troppo noioso e freddo, mi sarei già morsa. Non ho bisogno di uno stupido qualunque che mi riscaldi la pancia. Ho bisogno di uno come te, che mi scrive le poesie, che crede nei cigni e nelle oche, che è una persona per bene...” Kala si sentì la bocca senza saliva e la gola senza fiato. Era abituata a un po’ più di veleno. Lasciò la frase a metà, chiuse le mascelle disorientata, in imbarazzo. “Panther tu non sei stupido, sei un po’ particolare.” Gulp. Ingoiò il veleno. “Io non te lo dico quando ti stimo ma hai tanti di quei talenti.” La sfibrava fargli i complimenti. Ma doveva dirgliele certe cose. Non erano complimenti. “Capito Panther?” Tagliò corto. Lo guardò negli occhi. Mestizia rivide quelle schegge di smeraldo fredde e scintillanti che gli si erano conficcate nel cuore quella lontana notte. Kala vide quegli occhi verde acqua che non avevano perso limpidezza né dolcezza e desiderio col trascorrere degli anni. “Poi ti faccio l’elenco, Panther, dei talenti, davvero.” Disse Kala, confusa. Si stiracchiò. Mestizia aveva ancora il potere di scioglierla.
Tre poesie di Panther a Kala
Due di Uno
Siamo solo seduti a cavalcioni su una stessa linea di universo e vediamo che abbiamo le stesse mani.
E’ stato bello come da bambini il primo giorno in cartoleria le matite e tutto il resto intorno gli odori dei colori prendere con le mani gli odori del bosco dopo il temporale quando il Cielo viene giù l’odore tuo che è l'unico che c'è scoprirsi pelle dopo pelle leccare le sfumature del nostro stesso viso i colori dentro che si vedono fuori ritrovarsi vivi sposarsi insieme in una sola notte come la prima volta.
Ancora. Così. Ancora. Abbiamo ricalcato un disegno che era scritto per noi.
Bacio
Le nostre due lingue fanno rugiada dolce a qualsiasi ora insieme fanno ridere l’alba di un mistero sempre nuovo.
Quarta di copertina
"Sono storie di animali ...molto umani. Storie tenere, divertenti, spietate, apionate. Nodi esistenziali, ricerche di sé, prove iniziatiche, grandi storie d'amore. Ti posso dire sinceramente che è un libro che ho amato come poche cose e persone al mondo, e che scriverlo è stato non solo una continua scoperta e una grande gioia ma anche vivere una grande varietà di emozioni... ho riso e pianto come raramente mi capita! E poi è un libro magico. Le storie che sotto mio invito sono emerse e si sono poi dispiegate autonomamente e intrecciate da sole, sono più grandi di me, della mia esperienza della mia conoscenza e della mia immaginazione: a ogni rilettura sono fonte di meraviglia e rivelazioni."
Da una lettera di Silvia Pedri a Samantha Abis.
Che cosa significa Sognare
Questo libro è un esempio di Sognare. Tutte le cose che ho scritto le ho vissute. Altrimenti non avrei potuto scriverne. Solo una minima percentuale di esse le ho vissute in questa realtà. Sognare significa tante cose. Pressoché ogni personaggio in ogni storia sperimenta e offre la sua definizione. Non tutti i personaggi e non tutte le persone riescono a realizzare i propri Sogni, la vita a volte è un percorso accidentato. L’arte di Sognare permette di mettere il proprio cuore in sintonia col Cielo e di realizzare in terra la propria personale felicità.
Commenti
Laura Laganà
Sto attualmente leggendo questo Libro e lo faccio molto lentamente; cerco di assaporare a fondo la Storia per cogliere al meglio Caratteristiche e Spiritualità dei Personaggi. La mia lettura, infatti, visto l'interesse che nutro verso lo Sciamanesimo, può ritenersi diciamo più "complessa" rispetto a chi lo affronta come una lettura di svago. Il Libro racconta diverse Realtà e lo fa in modo Profondo e Divertente allo stesso tempo. I Personaggi sono Meravigliosi, tanti, tra i più svariati, dialoghi e comportamenti sono spesso esilaranti tanto che immaginarli intenti nelle loro faccende e con la battuta pronta fa sorridere ed addirittura i sorrisi, a volte, sfociano in sonore risate. Non mancano però anche momenti di Tenerezza e Commozione. Un Libro davvero molto originale, nella forma e nella storia, ricco di Avventure tutte da vivere ma soprattutto Ricco di Significati importanti.
Beatrice
Ad una prima lettura ho trovato il libro dinamico e divertentissimo, scritto con raro brio e assolutamente "trascinante" in una realtà altra, fantastica ma terribilmente concreta. Ad una seconda lettura, più attenta, si trova un altro livello di interpretazione, più profondo, che è quello sciamanico del rapporto con gli Spiriti della natura, con gli Animali di potere, con gli Spiriti Celesti, e che traccia una descrizione di ciò che avviene nell'Altra Realtà, come matrice di
questa in cui viviamo. Il Sogno come pratica sciamanica, raccontato in tutte le sue sfaccettature, con competenza, con leggerezza e infinita ironia. Affascinante e complesso, questo tipo di lettura lo rende veramente unico nel panorama della letteratura odierna.
Micaela Balice
E' stata una grande sorpresa questo libro che unisce la saggezza al mondo del mito e del sogno! Silvia Pedri, con questo libro, ci indica una via. Ci consente di recuperare l'arte antica (ben conosciuta dal cuore e dalla mente di ogni bambino) di sognare. Ma il sogno non è un artificio, un mondo altro da visitare per fuggire a questo: ma è Il Mondo, il luogo delle idee, il ventre gravido dove la materia prende forma. Nel mondo di Sogno di Silvia sono gli animali antropomorfizzati ad insegnarci l'arte: ci insegnano come raggiungere il luogo, la precisione con cui costruirlo, l'impegno e la responsabilità nel mantenerlo. E ci insegnano anche ad abbandonare il luogo di Sogno quando è il momento. Un libro delicato e ricco di una precisione simbolica perfino nella fantasia.
Sally
Deliziosa lettura che rivela ad ogni pagina un panorama assolutamente inedito, apparentemente fantastico... ma come non farsi prendere dalle storie narrate e come non immergersi nei sentimenti e nelle emozioni? Impossibile! Si scopre poi, man mano che si procede nella lettura e nella conoscenza dei personaggi, che tutto è dannatamente vero e naturale. Divertimento del cuore e per nulla banale, che suscita riflessioni. Inoltre, inaspettata la commozione che prende verso la fine... ma non posso rivelare nulla per non togliere questo sottile piacere/sofferenza agli altri lettori. Un libro che mi accompagna e che continuo a leggere perchè credo che sia ben più profondo di ciò che a prima lettura appaia. Un libro che regalerò sicuramente!
Roberta
La sorpresa è stata veramente piacevole! Temevo una storia infarcita di serissime perle di saggezza (che ci sono e devo dire che sono esposte in un modo assolutamente assimilabile e verificabili concretamente nella vita di tutti i giorni), insomma temevo la noia... Dalle prime pagine sono stata travolta dallo humor che mi rallegra la giornata, sono stata attratta e divertita da questi personaggi buffi, teneri ma ognuno con una loro autentica identità e personalità che emerge disegnata a matita sapiente con tratti freschi, profondi e divertenti insieme. Mi è piaciuto tantissimo sia lo stile sia il linguaggio, apparentemente "casual" ma assolutamente ben studiato e ricercato per dare questa impressione del movimento della vita e del cambiamento. In effetti, a ben pensarci, è un affresco eterno del divenire della vita e delle sue infinite trasformazioni, inserite nella tela della vita che non si ha paura di vivere. Nuova autrice assolutamente da seguire!
sco
Un libro che offre unicità. Oltre a far vivere il romanzo, condividendo e sentendo vive le emozioni dell'autrice e dei personaggi nati intorno a lei, ci si trova sempre più immersi in un mondo fantastico che ci appare in modo totalmente naturale. Un sogno ad occhi aperti nella vita di tutti i giorni.
GIOVANNA
Già il titolo ti attrae e sorprende. E ti introduce col sorriso al mondo fantastico di animali buffi e teneri, anche nelle situazioni drammatiche. I personaggi rivelano piccole perle di saggezza sciamanica, che è divertente scoprire qua e là nella narrazione, ma è lo humour e la poesia con cui sono rappresentati a farceli restare vivi nella memoria, come i migliori personaggi della cinematografia
d'animazione americana.
maurizio
Un libro di non facile approccio ma che si rivela pieno di storie di vita e di sentimenti, sempre delicati, a volte gioiosi a volte tristi, (riferiti ad animali ma di natura ed estrazione umana). Non mancano pagine di divertita ironia e vena umoristica. Pieno di vita, gioia ma anche dramma che però si stempera in una visione globale della natura e dell'esistenza. Fortissimo il personaggio di Panther. Veramente belle alcune delle poesie che costituiscono un breve ma piacevole intermezzo.
Massimo Prayan Biso
Hai presente un’oasi dove puoi ricevere un massaggio al cervello? ecco questa è la sensazione che ho leggendo questo kamasutra dei koccodrilli. Una serie di racconti acuti dalle sfaccettature imprevedibili. L'autrice ha il dono raro di cercare ed esprimere dettagli di valore. Grazie per aver dato vita a tutte queste “forme animali", una via che dà accesso e traduzione all'intricato mondo delle emozioni umane!
Samantha Abis
Questo testo è una tavolozza. Di colori accesi energizzanti e sfumature dolci spunti di riflessione. Quando nel grigiore e nella monotonia della vita siamo stufi, ecco che aprire anche una pagina a caso dà una sferzata di energia, è incredibile. E' un mondo parallelo cui ci si rende conto di appartenere.
Egidio Tullio
Un Libro fantasioso come pochi che sa unire l'ironia con frasi profonde che lasciano il segno. Permette di essere letto con fluidità senza annoiarti per portarti successivamente a ridere di situazioni che poi si collegano a parti della nostra vita. Merita di essere letto.
Mariella
Un piccolo mondo fiabesco esoterico popolato da animali-uomini ci accompagna col sorriso verso un nuovo mondo cosmico.
Simona
Silvia Pedri è la mia scrittrice preferita: dice cose profonde e utili con una leggerezza e una poesia straordinarie.
Giancarlo Restani
:Gli animali che vivono in questo romanzo, dal più piccolo e tenero al più grande e tremendo, ci incollano al libro con episodi a volte drammatici a volte amorevoli e a volte fiabeschi. Un Grande Sogno che si specchia nella nostra vita reale. Silvia con il suo libro aiuta tutti noi lettori a riaprire la mente alle fiabe, ai Sogni e all’Amore. Un vero
e proprio insegnamento!!! Grazie. Consigliatissimo. Grazie per le emozioni che mi hanno trasmesso i tuoi "animaletti". Me lo sono divorato :)
Cecile Maya
Una boccata d'aria fresca! Mi sono affacciata, alla lettura di questo libro impreparata, un pò curiosa. Muovendo timidamente i miei i, mi sono ritrovata in un mondo del tutto nuovo. E' un tuffo in cui è stato necessario lasciarsi ...trasportare. E' una scoperta, che alla seconda lettura lascia scorgere aspetti nuovi, dimenticati.
Daniela Di Ruzza
"Sogno o son desta!? Questa è l’esclamazione che già dalle prime pagine mi è risuonata nella testa. Siamo noi, tu che ora leggi ciò che scrivo, lei che mi leggerà, loro che arriveranno poi… e poi ci sono io. In quale di questi personaggi ora mi ri-trovo? In quale Mondo? A quale domanda ora mi sta rispondendo? Un susseguirsi di porte ad ogni frase, che sta in te ora saper o voler oltreare. Io ne ho sottolineate alcune, altre le ho colorate, altre ancora erano già dentro di me e le ho solo ri-trovate… ri-cordate. Chi scrive con consapevolezza di arrivare a far “smuovere” un’Anima non ha bisogno di pubblicità inutile, di parole di elogio superfluo, ma solo di coloro che con il loro essere portano, anzi, riportano alla luce conoscenze già dentro di sé. …Vi è fine? Stamane ho avuto la mia risposta, ciò di cui avevo bisogno ed era giunto il momento che mi arrivasse. …chissà fra qualche giorno ...quante ne avrò ancora. Allora cosa dirti? Ti auguro
una buona lettura! (e Grazie Silvia!)"
Questi sono i commenti pervenutimi finora, ottobre 2014. Vuoi leggere i successivi? Vai ad www.silviapedri.com. Puoi scrivere anche il tuo. Questo è un libro che vuole comunicare, i tuoi commenti sono importanti.
Silvia Pedri
Nata a Sanremo, al momento sogna e vive a Milano.
“Vivo e scrivo. Scrivo quello che scaturisce dal mio cuore, che mi fa pulsare e tremare le vene per indignazione, per amore, o per pura meraviglia. Con mano ferma, lucida e ironica cerco di esprimerne il mistero. Scrivo per amore, per amore dell’amore, per amore dello Spirito e per amore di questa e delle altre realtà in cui tutti noi abbiamo l’avventura di essere immersi. Vivo e scrivo. Vivo molto e scrivo poco, solo ciò che è urgente, inevitabile, e prezioso da condividere.”
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