© Edizioni SENSOINVERSO Collana AcquaFragile www.edizionisensoinverso.it
[email protected] Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA) ISBN 9788867930661 1° edizione – Marzo 2013 © 2013 - Copyright | Tutti i diritti riservati Sensoinverso - P.I. 02360700393 Creazione e impaginazione eBook | http://creoebook.blogspot.com
class="center">Simone Fanni
FAVOLO DI SCO CHE SAPEVA SOGNARE, DI ISABELLA CHE LO AMO' E DI ALCUNE ALTRE COSE
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.
1
Isabella non avrebbe voluto sposare il figlio del Signore. Non perché fosse innamorata di un altro uomo, ma perché il Principe, così era chiamato il figlio del Signore, era un idiota. Isabella avrebbe potuto accettare un marito brutto purché fosse stato ricco e ne avrebbe accettato anche uno molto brutto, qualora fosse stato molto ricco. Ma il Principe era un idiota da primato e nonostante le sue tasche fossero piene zeppe di soldi, Isabella se avesse potuto avrebbe urlato: “No!”. Alcuni giorni prima delle nozze, Isabella ricevette una lettera del Signore che la invitava a recarsi al Palazzo la mattina successiva. Non appena arrivò fu coperta di complimenti. “Isabella, Isabella di nome e di fatto”. “Grazie, mio Signore”. “Uso essere breve Isabella, e con voi lo sarò estremamente perché ormai sono vecchio e i vecchi sono sempre noiosi”. “Permettetemi di dirvi che vi sbagliate, almeno in questo caso”. “Va bene, permesso accordato. Intanto vi prego di seguirmi, c’è un affare importante al quale devo assolutamente presenziare. Quindi verrete con me e durante lo svolgimento di questo affare, vi dirò per quale motivo siete stata convocata”. “Spero di non essere d’intralcio, mio Signore”. “State tranquilla, noi dobbiamo solo guardare”. “Di cosa si tratta? Avete stimolato la mia curiosità”. “Una strega”. “Mi portate a vedere una strega?”.
“Vi porto a vedere una strega, certo. Non ne avete mai vista neppure una?”. “No, mio Signore. Veramente pensavo che non esistessero”. “Esistono invece, infatti eccola là, chiusa dentro la sua cella. Vedete la ragazza con l’abito bianco?”. “Ma… É Anellina. Conosco quella ragazza!”. “Davvero?”. “Sì, abita vicino a casa mia”. “Non sarete per caso amica di quell’essere immondo?”. “Sì che lo sono, ma perché le hanno tagliato i capelli così corti?”. “Il Boia non è pratico con la scure e allora ha preteso che il collo della vostra, a quanto pare amica, fosse scoperto il più possibile. In genere le streghe le bruciamo sul rogo, ma considerata la giovane età della condannata, la sua particolare bellezza e… E voi, Isabella, quanti anni avete?”. “Ho la sua stessa età”. “E le assomigliate parecchio, ma quale straordinaria coincidenza. Stavo dicendo che alla vostra amica strega sarà concesso il privilegio di una morte rapida e indolore, sempre che il carnefice riesca a tagliarle la testa al primo colpo. É da ieri che si allena con alcuni cadaveri, ma è riuscito a decapitarne solamente uno su sette al primo tentativo”. “Anellina non è una strega, vi state sbagliando!”. “Io sbaglio solo quando affermo di essere un vecchio noioso, lo avete detto voi. Per vostra opportuna informazione, quella ragazza ha tentato di far volare un asino con la forza del suo sguardo e ha avuto rapporti carnali con un topo”. “Con un topo? E come ha fatto?”. “Li ha avuti col topo tutto intero e poi è anche una calpestante. Abbiamo scoperto che sotto il piede sinistro ha una croce che solo Belzebù può aver
disegnato in modo da farle calpestare Gesù un o sì e uno no”. “Anellina sotto il piede sinistro ha un neo a forma di anello. Per questo motivo si chiama così”. “Un neo a forma di anello?”. “Sì, un neo rotondo”. “Siete sicura che quel neo non abbia la forma di una croce?”. “Ne sono assolutamente sicura”. “Anche supposto che non sia una calpestante, è sempre una che ha a che fare con asini e topi”. “Vi prego mio Signore, fermate il Boia, non posso vedere la mia amica che muore in questo modo”. “Allora è meglio che vi voltiate, Isabella. Vi avviserò quando sarà tutto finito”. Isabella fece appena in tempo a girarsi e così non vide Anellina nel momento in cui perdeva la testa, però sentì molto bene il colpo della scure che si abbatteva sul legno dopo aver attraversato il collo dell’amica. “E pensare che quella ragazza avrebbe dovuto sposare mio figlio. Gradite del vino, Isabella?”. “Cosa? Avete lasciato uccidere la promessa sposa di vostro figlio perché aveva un neo sotto il piede sinistro e perché aveva intrattenuto affari sessuali con un topo e con un asino? Sì grazie, vada per il vino”. “L’asino non c’entra con le diaboliche depravazioni carnali di Anellina, aveva solo tentato di farlo volare. E poi non era esattamene la promessa sposa di mio figlio”. “Ma siete stato voi a dirmi che avrebbe dovuto sposare vostro figlio”. “Avrebbe dovuto, certo! Lo avrebbe dovuto fare perché glielo avevo chiesto io. Ma lei non ne ha voluto sapere, per questo ci siamo accorti del neo, del topo e
dell’asino. Isabella, voi volete sposare mio figlio?”. Isabella sorrise, trangugiò d’un fiato il bicchiere di vino e poiché non aveva alcune intenzione di morire come l’amica, accettò senza esitare l’anello del più grande idiota di tutti i tempi della storia del Borgo.
Il Principe divenne idiota alcuni anni prima, quando ne aveva appena compiuti diciotto e non avendo voglia di studiare e bisogno di lavorare consumava il tempo a lanciare sassi dal ponte sul fiume quando sotto avano le barche. Il padre le aveva provate tutte per tentare di convincerlo a trovarsi un nuovo interesse, ma lui non ne voleva sapere e non appena poteva correva sul ponte per bersagliare i natanti. Un giorno il ponte crollò sotto i suoi piedi e il Principe, che non sapeva nuotare, finì in acqua prima ancora di avere il tempo di lanciare il suo sasso. Bevve così tanto che a un certo punto iniziò ad affondare. Fu salvato in extremis da un pescatore che lo tirò fuori dal fiume e lo rianimò soffiandogli aria nei polmoni. Quando il Principe ritrovò i sensi era diventato un idiota e questo, secondo il medico, era dovuto al fatto che l’acqua del fiume gli era arrivata fino al cervello ando per le vie respiratorie. Anche se buona parte dell’acqua era stata rimossa, una certa quantità era rimasta dentro la testa e mano a mano che il tempo ava diventava sempre più marcia. “Per questo motivo vostro figlio non può fare altro che peggiorare col are del tempo”. Da quel giorno, quando il Principe ascoltava un discorso tendeva ad allargare le palpebre e fino alla fine riusciva a non farle sbattere neppure una volta. Fissava l'interlocutore negli occhi mantenendo inalterata l'espressione e poi teneva la bocca socchiusa, mentre le braccia cadevano ai lati del corpo completamente inanimate, e queste oscillavano solo quando camminava. Isabella non lo aveva mai visto prima, ma aveva sentito molto parlare di lui e di come accadde che il Principe diventò un idiota.
2
La mattina seguente l’uomo da Soma trainava il carretto tra i filari, mentre i tagliatori caricavano le ceste dell'uva. Percorreva tutta la vigna con o lento. Fortunatamente il terreno era asciutto, se avesse piovuto e ci fosse stato del fango sarebbe stato inevitabile sprofondare e la fatica sarebbe decuplicata. Del resto, la pioggia non era un evento raro, così quella mattina l’uomo da Soma aveva delle ottime ragioni per essere particolarmente soddisfatto. Pensava che avrebbe potuto lavorare almeno tre ore in più di quanto non sarebbe riuscito a fare se ci fossero state le pozzanghere e questo, oltre a procurargli un guadagno maggiore, avrebbe permesso una maggiore produzione per la vigna. Sicuramente nella sua testa non avrebbe mai potuto dimorare l’idea di sentirsi bene per essersi stancato meno quel giorno che il suolo non era fangoso. Lui, a ogni modo, avrebbe dovuto raggiungere la sua quota di fatica quotidiana per essere in pace con se stesso. Il titolo di uomo da Soma lo aveva conquistato sul campo. Lo chiamavano così perché afferrava il carretto con entrambe le mani congiunte dietro la schiena, mentre tutti gli altri lo spingevano. Inoltre, essendo particolarmente alto, col volto allungato, gli occhi all’infuori e una folta chioma di capelli che teneva raccolti a coda fino a metà della schiena, il paragone con un cavallo diveniva ancora più immediato. Tra le varie mansioni che poteva svolgere un bracciante della vigna, quella di addetto al carretto era sicuramente la più faticosa. Tuttavia l’uomo da Soma andava fiero del suo incarico perché quello era il mestiere che fu del padre, del nonno e probabilmente persino del bisnonno. Probabilmente, avrebbe pensato l’uomo da Soma ancora per alcuni giorni, questo sarà anche il mestiere di mio figlio. E quando uno dei maestri del suo bambino, tempo prima, lo aveva convocato per dirgli quanto il piccolo fosse bravo con i numeri, l’uomo da Soma aveva risposto: “E quindi?”. “E quindi, signor uomo da Soma, il suo bambino è così forte in matematica che se lei non ha nulla in contrario, vorrei segnalare il caso agli astronomi”.
“Cosa? Vuole segnalare mio figlio agli astronomi?”. “Certo, affinché gli insegnino la loro scienza. É una scienza molto interessante, e…”. “Basta così, signor maestro. Mio figlio non ha tempo da perdere con la luna, le stelle e cose del genere. Mio figlio ha davanti un futuro di addetto al carretto nella vigna. Forse a lei, signor maestro, non piace l’uva? E magari non beve neppure il vino?”. “Io veramente pensavo che le avrebbe fatto piacere sapere di questa opportunità per il suo ragazzo”. “Ma crede che l’uva si vendemmi da sola?”. “So bene che il vostro è un lavoro importante, mi dispiace signor uomo da Soma, non volevo affatto e … Ma cosa fa adesso? Se ne va così?”. Gli altri addetti al carretto sorridevano pochissimo durante il lavoro. La loro era una mansione molto faticosa che nessuno avrebbe voluto svolgere. Tuttavia, nessuno fino a quella mattina aveva chiesto al Sorvegliante di essere messo alla prova per cambiare lavoro. Così, quando si fece avanti un giovane di neppure vent’anni che durante il tempo libero conquistava il cuore delle donne del Borgo con le sue poesie, tutti restarono senza parole per lo stupore. Il Poeta approfittò della pausa di mezza mattina per andare dal Sorvegliante, che in quel momento si preparava a ricevere il Signore che sarebbe arrivato da un momento all’altro, e disse: “Vorrei fare il tagliatore”. Il Sorvegliante non si accorse che proprio in quel momento il Signore era già alle sue spalle e tentò di liquidare il giovane intraprendente con poche parole. “É impossibile, nessuno può cambiare mansione nella vigna. Tu sei nato per lavorare col carretto e morirai lavorando col carretto”. “Io credo di essere nato per scrivere poesie”. “Le poesie puoi scriverle a casa tua, questa è la vigna e tu sei molto più lento degli altri. E poi non ho tempo, tra un po’ arriva il Signore a fare un’ispezione e tutto deve essere perfetto. Se vede che mi fermo a chiacchier…”.
“Buongiorno Sorvegliante” intervenne il Signore. “Posso sapere di cosa si parla?”. Il Sorvegliante restò paralizzato per un attimo. Aveva sempre una risposta per tutto, l’avrebbe avuta anche in quella circostanza, solo che quell’attimo di esitazione era stato giusto il tempo che bastò al Poeta per intervenire. “Mio Signore, mi trovavo a colloquio col Sorvegliante perché volevo chiedergli di essere messo alla prova per fare il tagliatore di uva da tavola”. “E cosa ti fa pensare che saresti più utile come tagliatore piuttosto che come… Cosa fai adesso?”. “Addetto al carretto”. “Piuttosto che come addetto al carretto?”. “Grazie per avermi dato il tempo”. “Il tuo tempo sta per scadere, vieni al punto”. “Ecco, se potessi tagliare l’uva da tavola e deporla nelle ceste scegliendo i colori da accostare, sistemando tutte attorno le foglie per poi portarla al mercato…”. Nel frattempo il Sorvegliante stava per scoppiare dalla rabbia, era diventato tutto rosso in faccia. “E vedere il sorriso delle donne che la comprano e l’acquolina nella bocca dei figli che l’assaggiano e poi immaginare la felicità dei mariti che la gustano a casa dopo che rientrano dal lavoro, ecco, io sarei l’uomo più felice del mondo”. “Veramente? La tua felicità è solo un piatto d’uva con gli acini gialli vicino alle foglie gialle e quelli verdi vicino alle foglie verdi?”. “Acini gialli vicino alle foglie verdi Signore, e foglie gialle accanto agli acini verdi. Ma per iniziare andrebbe bene fare anche come avete detto voi”. “Quando è così, che il giovane sia messo alla prova!” sentenziò il Signore. In meno di mezz’ora il Poeta aveva composto un piatto d’uva da tavola con la
stessa creatività di un pittore. Eseguì il taglio dei singoli grappoli sagomandoli in modo da poterli disporre concentricamente sopra un letto di foglie verdi e gialle che lasciò sporgere oltre il bordo. Sistemò quelli neri nel cerchio esterno e proseguì la spirale con quelli rossi seguiti da quelli gialli. Infine lasciò al centro degli acini verdi. Bagnò le mani e fece gocciolare l’acqua sulla sua composizione. Orientandola secondo la giusta angolazione rispetto al sole, si potevano osservare degli incantevoli riflessi che trovavano un’espressività ancora più intensa con il luccichio delle gocce d’acqua che vi si erano adagiate. “Sei stato molto bravo ragazzo” disse il Signore. “Porterò con me la tua creazione e dirò a mio figlio e a Isabella, sua futura moglie, che l’autore sei stato tu. Sarà un bel regalo per i ragazzi che oggi si conosceranno durante il pranzo e che al più presto convoleranno a nozze”. Quando l’ispezione del Signore giunse a termine e questi fece ritorno a Palazzo, il Sorvegliante convocò il Poeta per parlargli a quattrocchi. “Invidio il tuo coraggio, Poeta”. “É un complimento, immagino”. “Quasi. Avresti potuto fare di meglio”. “Vi riferite al piatto che ho composto?”. “No, non parlo del tuo piatto. Non l’ho neppure guardato quello stramaledetto piattaccio. Dicevo che visto che sei riuscito a cambiare mansione, avresti potuto tentare di prendere il mio posto”. “E voi che fine avreste fatto? E poi a me non interessa comandare”. “Adesso ti racconto una cosa, Poeta. Anche io prima di fare il sorvegliante spingevo il carretto. Poi un bel giorno, per farmi amico il capo, sono andato da lui con la lista dei braccianti che si lamentavano di più e che lavoravano meno. Il mio capo mi ha ringraziato, ha licenziato queste persone e mi ha invitato nella taverna della piazza per un piatto di fave con la cotenna e tre o quattro rossi. Non reggeva il vino e durante la cena mi ha confidato che faceva la cresta sui carichi di uva per le cantine. Così, il giorno dopo sono andato a raccontare tutto al Signore di prima mattina. E sai cosa è successo?”.
“No. Cosa è successo?”. “Che nel pomeriggio ero stato promosso Sorvegliante. Ero diventato io il capo”. “Complimenti, una bella carriera”. “E il giorno dopo ancora ho preso un’ora di permesso per andare a vedere il mio ex capo penzolare dalla forca”. “A proposito di permesso, chiedo quello di tornare tra i filari. C’è molto da fare”. “Tu non andrai da nessuna parte. Lascerai il Borgo prima del tramonto, altrimenti ti ucciderò con le mie stesse mani”. Dopo essersi sbarazzato del Poeta, il Sorvegliante chiamò tutti i braccianti a raccolta e salito su una botte si rivolse ai presenti con la faccia triste. “Oggi ho dovuto licenziare uno dei nostri. L’ho fatto con la morte nel cuore perché abbiamo perso una risorsa. Ma quel ragazzo si era dimenticato di essere qui solo per spingere il carretto e pretendeva di diventare tagliatore. Se lo avessi accontentato avrei dovuto accontentare tutti quelli che tra voi da oggi mi avrebbero chiesto di cambiare mansione. Ora ditemi: c’è qualcuno tra voi che desidera cambiare lavoro?”. Il Sorvegliante restò in silenzio per un minuto abbondante perché sapeva che nessuno si sarebbe azzardato a rispondere. E poi disse: “A quanto pare non c’è nessuno che voglia cambiare mansione. Quando è così avrei anche potuto fare a meno di licenziare quel ragazzo. Ma ormai non importa più a nessuno di questa cosa. Ricordatevi sempre che solo io conosco le esigenze della vigna e so bene di quanti tagliatori e di quanti addetti ai carretti abbiamo bisogno per il nostro lavoro”. L’uomo da Soma, che era particolarmente eccitato mentre gustava l’idea dell’incremento di produzione per via dall’assenza di fango, trovò di essere pienamente d’accordo col Sorvegliante. Dai commenti che emergevano tra i braccianti la linea era di sicura approvazione al gesto del loro capo. Così quest’ultimo proseguì, illuminando il suo volto con un sorriso. “Collaboratori, porto ottime notizie. Abbiamo raddoppiato i carichi d’uva da
vino e addirittura quintuplicato quelli d’uva da tavola rispetto all’anno scorso! Siete il mio orgoglio e avete la mia ammirazione”. Poi restò in silenzio ancora per un poco. Sorrideva e cercava di cogliere lo sguardo di tutti. Ma soprattutto voleva carpire i commenti dei braccianti. Ci fu un’approvazione unanime nel bisbigliare collettivo. All’improvviso il Sorvegliante tuonò. “Mi aspetto un ulteriore incremento, ce la possiamo fare, ce la dobbiamo fare!”. A quel punto i braccianti esplosero in un coro di consensi urlati con trasporto e coronati da applausi. “Ci saranno anche più soldi per tutti questa volta, li vedrete presto, tra circa due anni, quando riusciremo a coprire le spese sostenute per incrementare i carichi”. Del resto occorrevano più ceste da riempire e più carretti da spingere. Poi concluse. “Tornate a lavorare, oggi faremo tre ore in più, la terra è asciutta”. L’uomo da Soma, pieno di gioia, riprese a trainare il carretto spendendo la sua quota di fatica quotidiana che quel giorno avrebbe fatto durare tre ore più del solito.
3
Il Signore voleva che Isabella sposasse il Principe per poterle affidare il governo del Borgo all’ombra del marito, ma questa cosa Isabella ancora non la sapeva. Comunque, anche se l’avesse saputa, il suo umore non sarebbe cambiato e la sola idea di ritrovarsi da un istante all’altro a tu per tu col suo promesso sposo le faceva quasi invidiare il destino della sua amica Anellina. Dentro la sala, il Principe l’avrebbe aspettata con ansia, se fosse stato capace di provare ansia, perché quella che provava era una sensazione che solo lui aveva il dono di poter provare. Provava l’ansia del Principe, che poi era molto simile alla gioia del Principe piuttosto che alla paura del Principe e così per tutto il resto. Gliela avevano descritta, ma lui era riuscito a costruirne un’immagine completamente differente da come fosse nella realtà. L’aveva adattata ai suoi gusti personali. L’avrebbe voluta grassa. Era una condizione necessaria per soddisfare il suo sogno erotico segreto: adagiare il volto tra i seni abbondanti e addormentarsi sopra il corpo morbido. Al risveglio avrebbe preso un coltello e le avrebbe reciso la carotide. Così avrebbe potuto avere un’altra donna per la sera successiva. Isabella trasse un sospiro profondo, poi aprì la porta e avanzò lentamente. I suoi capelli erano rossi e gli occhi castani tradivano il suo stato d’animo. Al Principe non piacque. “Non sembri mia madre” le disse con la sua voce che non cambiava mai tono e con l’unica espressione che riusciva a trasmettere. “La mamma è morta quando sono nato”. Isabella non rispose e prese atto che la situazione era più grave di quella che aveva immaginato. Raccolse tutte le sue forze ma non riuscì a trattenere le lacrime.
“Perché piangi Isabella” le chiese il giovane idiota. “Mi dispiace per la tua mamma” mentì la ragazza. “Ti manca tanto?”. “Chi”. “Tua mamma”. “Io non posso sapere se mi manca perché non l’ho mai avuta il papà mi ha detto che ora ci sei tu che fai la mamma e io dovrò obbedire solo a te quando lui morirà”. “Ma io presto sarò tua moglie, non posso essere tua madre”. “Non vorrei sposarti hai le tette piccole e il papà mi ha detto che ora ci sei tu che fai la mamma e io dovrò obbedire solo a te quando lui morirà”. Il pranzo per far conoscere i futuri sposi terminò con la consumazione del piatto dell’uva composto nella vigna dal Poeta, aspirante tagliatore momentaneamente disoccupato. Con un gesto della mano il Signore interruppe i musicisti, che suonavano un’aria che era prevalentemente un susseguirsi di molte note e di pochi accordi, per annunciare le imminenti nozze in occasione delle quali erano previsti tre giorni di festeggiamenti con spettacoli e abbondante consumazione di vino e carne per il popolo. Quando la musica riprese, Isabella concesse al Signore la prima danza. Veramente sarebbe spettato al Principe condurre la futura moglie nel ballo, ma il giovane dormiva con la testa sul tavolo già da quando i servitori avevano messo nei piatti la terza portata di carne, circa un’ora prima. E se il Signore si limitò a stringere la giovane donna nei fianchi senza proferire parola, il Giullare, col quale condivise la seconda danza, approfittò dell’occasione per dirle: “Isabella, il Signore, maestro di sorprese, ve ne ha riservato una che tra tutte è la sorpresa delle sorprese”. “Io adesso sono molto stanca, credo che andrò subito a dormire” concluse Isabella lasciando il Giullare. Poi si precipitò nella stanza che le era stata assegnata in un bagno di lacrime.
ò ancora un giorno e la pioggia cadeva fitta e leggera. L’uomo da Soma trainava il carretto. A ogni o, lento e faticoso, il piede sprofondava nel fango e per sollevarlo era richiesto uno sforzo sovrumano. Tutto il suo corpo era fradicio e l’acqua che colava dai suoi capelli impediva la visione nitida dei sentieri tra i filari. A un tratto prese a piovere così forte che tutti i braccianti dovettero rifugiarsi nel fienile. Nella Vigna rimase solo l’uomo da Soma, che effettuò ancora un giro completo e raccolse le ceste che i tagliatori avevano lasciato. Il Sorvegliante approfittò della pausa per comunicare a tutti dei giorni di festa che il Signore avrebbe concesso in occasione delle nozze del figlio. Parlava del programma dei festeggiamenti ed esponeva nel dettaglio le caratteristiche dei giochi e delle giostre. C’era un gioco che consisteva nel lanciare una pesante palla di stoffa sopra un disco di ferro colorato di rosso. Questo disco era collegato, attraverso un’asse di legno, a un sedile posto sopra una vasca piena d’acqua. Qualora il disco fosse stato colpito con sufficiente forza, chi si trovava seduto su quel sedile sarebbe finito in acqua. Nessuno avrebbe gradito fare il bagno per sollazzare gli avventori, ma il Sorvegliante avrebbe comunque scelto qualcuno per l’ingrato ruolo. Finalmente, dopo aver raccolto tutta l’uva, anche l’uomo da Soma raggiunse gli altri nel capannone. E in quel momento il Sorvegliante prese la sua decisione.
L’uomo da Soma fece il bilancio delle tre giornate di festeggiamenti: era finito in acqua per oltre cento volte. Il fatto di bagnarsi e di sentire i brividi che correvano lungo la schiena a ogni colpo di vento non era un problema. Lui era abituato, come può esserlo qualunque animale da soma, al freddo e all’acqua gelida sulle sue membra. Ma rimase colpito dall’espressione triste del figlio che l’aveva visto precipitare nella vasca mentre alcuni ubriachi ridevano a crepapelle. Per la prima volta, guardando la luce che ava negli occhi del suo bambino, l’uomo da Soma si era posto una domanda. Prima ancora di tentare di rispondersi, cosa che sarebbe riuscito a fare solo parecchio tempo più avanti, si rese conto di essere diventato triste come non lo
era mai stato prima. Si era chiesto cosa spingesse gli uomini a fare le cose che fanno e fu come se una mandria di cavalli lanciata al galoppo l’avesse travolto.
4
Nella sala da pranzo Isabella guardava il Principe che stava seduto con la testa tra le mani e i gomiti appoggiati al tavolo. Sembrava particolarmente concentrato, e ovviamente si trattava della concentrazione del Principe. Isabella non poteva conoscere la natura di quei pensieri, ma era sicura che lo sforzo mentale del consorte in quel momento fosse sicuramente notevole. Si aprì in un leggero sorriso per invitare il marito a confidarsi. Lui le disse: “Isabella l’altra mattina ho visto due piccolissimi bambini gemelli”. Prima che finisse la frase, la giovane donna fu travolta dalla tragica sensazione dell’imminente richiesta di un figlio. “Mi chiedevo quale dei due assomigliasse più all’altro”. Isabella portò la mano sulla fronte e con un movimento lento la fece scorrere verso il basso fino a coprire gli occhi. Poi scosse il capo. In quel momento il Signore entrò nella stanza e invitò il Principe a recarsi fuori per la eggiata a cavallo. Così sarebbe potuto restare solo con la nuora. Le disse: “Il Principe mi ha raccontato di aver visto due gemelli. Si chiedeva quale dei due assomigliasse di più all’altro”. “Lo ha detto anche a me, poco fa”. “Ormai è da tre giorni che questo dubbio lo tormenta, comunque vorrei venire al dunque perché i tempi sono maturi. Isabella, il Principe prenderà il mio posto, questo è previsto dalle leggi”. “Mio Signore, vostro figlio non è in grado di governare il Borgo”. “Questo lo so benissimo, ma la legge non ammette l’incoronazione di nessun altro”.
“Voi potete promuovere e abrogare qualunque legge”. “Certo Isabella, ma per mantenere il potere, certe volte, occorre non usarlo fino in fondo. Questa è una cosa fondamentale e mi aspetto che voi la impariate molto bene”. Isabella scrollò le spalle mentre pensava che la questione non l’avrebbe mai potuta riguardare direttamente. “Vedete, se scegliessi qualcun altro, se lo scegliessi direttamente intendo, sarebbe la prima volta nella storia del Borgo che l’investitura avverrebbe senza diritto di discendenza. Il popolo potrebbe non gradire questo fatto e manifestare ostilità nei confronti del mio successore”. “E per quale motivo il popolo non dovrebbe gradire la novità?”. “Proprio perché si tratta di una novità. Il popolo è come un bambino che ha bisogno della sua favola preferita per addormentarsi. La favola, Isabella, deve avere sempre lo stesso finale, quel finale che il bambino conosce a memoria e del quale ogni volta attende la rassicurante conferma. Se il finale cambia, il bambino non dorme”. “Quando il Principe prenderà la sua prima decisione, mio Signore, il popolo si farà sentire”. “Ma il Principe, Isabella, non dovrà mai prendere alcuna decisione. Lo dovrete fare voi”. “Io? Signore, mi state dicendo che io dovrò governare il Borgo?”. “Proprio così, Isabella. E il popolo sarà convinto di essere guidato da mio figlio”. “Non potrebbe funzionare, tutti sanno che vostro figlio è troppo idiota per governare il Borgo”. “Sì, lo sanno, questo è vero. Come è vero che il bambino sa che quella che la mamma gli racconta tutte le sere non è una storia vera. E allora?”. “E poi io sono una donna. Il Borgo non è mai stato governato da una donna”.
“Anche mio nonno era un’idiota, ma sua moglie ha governato nell’ombra e ha promulgato anche delle leggi importanti”. “Comunque io non credo di farcela, Signore”. “Perché?”. “Perché non so nulla di come si governi un Borgo”. “Vi istruirò io personalmente”. “Se non ce la fi?”. “Avanti Isabella, siete all’altezza di questo incarico molto più di quanto non possa esserlo nessun altra”. “Ma dite davvero?”. “Certo”. “ Vi credo, le vostre parole mi lusingano. Ma supponiamo che mi rifiutassi”. “Fareste la fine di Anellina”. Isabella, si toccò subito il collo con la mano destra. “Ma quante storie!” proseguì il Signore. “Isabella, vi chiamerò Isabella Quante storie se non la finite. E lo scriverò tutto attaccato. Vi ho offerto quanto di più ambito ci possa essere nel Borgo: il Palazzo, tanti soldi e il potere. Tra qualche anno le guardie, i censori, gli inquisitori e persino il Boia, tutti risponderanno ai vostri comandi, non siete felice?”. “Certo che lo sono, ho sposato l’uomo che amo, come potrei non esserlo?”. “Il matrimonio è la tomba dell’amore, mio figlio o un altro non avrebbe fatto differenza, gli uomini sono tutti idioti, solo che nel caso del Principe si vede un po’ di più. Isabella, credete che non abbia capito che il vostro atteggiamento serve solo per alzare la posta? Vedo la luce che vibra nei vostri occhi, non credo proprio che vi dispiaccia diventare ricca e potente”.
“Alzare la posta? Cos’altro potrei chiedervi oltre a quello che mi avete già offerto?”. “Ancora tempo, per esempio”. “Ancora tempo? Cosa significa?”. “Significa che avrete tutte queste cose solo se entro due anni partorirete un erede. E visto che trattate gli affari come se foste un mercante forestiero, di anni posso concedervene tre. In caso contrario dovrò cercare un’altra moglie per mio figlio. Quanto a voi, divorziereste prima da mio figlio e subito dopo dalla vostra graziosissima testolina. Adesso scusatemi, ma devo andare”. Quando Isabella restò sola pensò subito a quello che avrebbe dovuto fare per salvarsi il collo e allo stesso tempo evitare di concedere il proprio corpo al Principe che, oltretutto, non lo avrebbe gradito. Sapeva che il padre avrebbe convinto il Principe a ingravidarla, poi lo avrebbe istruito a puntino per la circostanza e infine gli avrebbe chiesto il resoconto dei fatti. Quindi, per salvarsi dal supplizio dell’atto d’amore col marito, Isabella si sarebbe dovuta superare in astuzia. E dato che un pargolo in ogni caso lo avrebbe dovuto concepire, non le sarebbe rimasto altro da fare che trovare un uomo disposto a darle un figlio. Poi lei lo avrebbe spacciato come frutto dell’unica, finta, notte di ione col Principe.
5
Gli astronomi erano molto eccitati. Verificavano i loro calcoli e ripetevano le misure delle distanze tra i paletti e della lunghezza dell’ombra che questi proiettavano al suolo. Se le conclusioni fossero state esatte, la notizia che avrebbero regalato al Signore sarebbe stata oltremodo sensazionale. Sul tavolo da campo, una struttura in legno leggera e facilmente trasportabile, il foglio di carta chiamato Quaderno di Campagna nel quale erano appuntati i calcoli e le considerazioni sulle rilevazioni, era velocemente riempito dalla penna dell’astronomo più anziano. Quest’ultimo sottolineò il risultato finale, estrasse tutta l’aria che aveva nei polmoni e facendo leva sulle mani appoggiate al tavolo, si alzò dallo sgabello ed esclamò: “Ci siamo!”. I colleghi, che già conoscevano il contenuto del discorso che si sarebbe apprestato a fare (lavoravano a quel progetto da vari anni), gli concessero ugualmente la gioia di comunicare quella notizia, dopo aver creato il clima dell’attesa. Restarono assolutamente in silenzio, trattenendo il fiato. Il capo incrociò lo sguardo di tutti assaporando l’emozione tradita dalla luce dei loro occhi. Con tono solenne annunciò: “Il Borgo è il centro del mondo”. Seguì l’applauso dei presenti. Effettivamente non avevano sbagliato i calcoli, ma non sapendo che la terra fosse tonda, non avevano considerato il fatto che qualunque punto ne sarebbe stato il centro. La loro scienza si basava sull’osservazione dei pianeti, del sole, della luna e delle stelle. Circa la ciclicità degli astri sapevano tutto. Conoscevano bene le stagioni e le fasi lunari. Prevedevano l’orario dell’alba e del tramonto di tutti i giorni dell’anno. Ma se un evento non fosse stato ripetitivo li avrebbe inevitabilmente confusi. Per esempio, non sapevano dare una spiegazione alle stelle cadenti e ai cani da guardia del sole. Questo fenomeno poteva verificarsi solo durante le giornate fredde. Il sole proiettava due punti luminosi ai suoi lati
che pareva lo stessero scortando come se fossero due cani. Poi c’era il fenomeno del tuono nuvolare. Si trattava di una nuvola rettilinea che correva nel cielo. Dopo alcuni minuti si udiva il tuono che preannunciava il temporale, ma stranamente non pioveva mai. Gli astronomi pensavano che la mancanza di pioggia fosse dovuta al fatto che il tuono nuvolare durasse solo alcuni minuti e che non ci fosse il tempo materiale per il realizzarsi della precipitazione. I fulmini globulari, sfere infuocate che correvano impazzite radenti al suolo, erano scambiati per manifestazioni sataniche. Uno di essi una volta era entrato in una casa e lì si era disintegrato nel nulla. La casa era stata incendiata dagli inquisitori perché si ritenne che fosse stata infestata dal diavolo.
Isabella fu svegliata dal rumore dei tre colpi che il Giullare bussò alla porta della sua camera da letto. “Entrate” disse la giovane mentre sbadigliava e stirava le sue braccia protendendo il busto in avanti. Il Giullare, che non perdeva occasione per elogiare il Signore, le disse: “Il Signore, indiscutibile maestro di scienza, vi attende al campo degli astronomi. Credo voglia coinvolgervi nella recente scoperta fatta dagli scienziati del Borgo, secondi in cultura e tecnica solo al Signore, appunto”. Isabella lo invitò a uscire dalla stanza perché si sarebbe dovuta vestire. Poi ebbe un’improvvisa illuminazione e si corresse. “Giullare, potreste aiutarmi a indossare la camicia?”. Il Giullare, che stava per varcare la soglia si bloccò, e di fronte all’inaspettata proposta della giovane restò senza parole. Non aveva il coraggio di voltarsi. “Allora?” lo incalzò Isabella. “Potreste aiutarmi a indossare la camicia oppure devo fare da sola?”. In tutto il Borgo, fatta eccezione per il Principe, non esisteva uomo al quale Isabella non pie. “Voi… La camicia l’avete già addosso” balbettò il Giullare.
“Oh, è vero, che distratta”. Isabella si spogliò con un rapido movimento. “Ora non più, Giullare” gli disse la giovane con la voce suadente. “Perché non vi voltate verso di me?”. Il Giullare la assecondò e lentamente girò sui tacchi fino a quando i suoi occhi non caddero sulle spalle di Isabella che adesso se ne stava in ginocchio sul letto, con la schiena e il collo dritti. “Isabella, avete i capelli in faccia e i seni nudi. Copriteli, vi prego”. “Perché?”. “Il Signore mi farebbe impiccare anche se solo vi sfiorassi”. “Davvero? Allora sono in buona compagnia; a me farà tagliare la testa. A proposito, per andare dal Boia mi consigliate un abito bianco oppure un abito rosso? All’inizio ho pensato al bianco, sapete, mi donerebbe un’aria così verginale. Però sul bianco il sangue si vede troppo, allora mi sono detta: vada per il rosso. Allora, rosso va bene?”. “Eventualmente vestitevi di nero, Isabella. Ma se farete un figlio, non finirete sul patibolo”. “Appunto, il figlio lo voglio fare con voi”. “Con me? E perché proprio con me?”. “Siete un uomo così pieno di fascino”. “State scherzando, Isabella?”. “É chiaro che sto scherzando, non siete affatto affascinante, tuttavia siete sempre meglio di quell’idiota di mio marito e vi ripeto che questo figlio lo voglio fare con voi adesso…”. Non fece in tempo a finire la frase perché il Principe, che eggiava nel corridoio, aveva sentito la voce del Giullare provenire della camera della moglie,
così aveva deciso di entrare per porre all’uomo il quesito della somiglianza dei gemelli. Dopo una cavalcata di circa un’ora Isabella, scortata dal Giullare che non riusciva a smettere di pensare alla mancata occasione di accoppiarsi con lei, giunse a destinazione. Sul campo il Signore era arrivato poco prima della giovane e aveva appena appreso dagli astronomi la grande notizia. Appena la vide le andò incontro. Non le diede il tempo di smontare dal cavallo, allungò la mano sinistra, prese la sua e con un movimento a ventaglio del braccio destro indicò lo spazio circostante mentre proclamava: “Isabella, siamo nel centro del mondo”. Isabella inscenò gioia e trasporto. In realtà non era assolutamente toccata dalla novità, ma dato l’entusiasmo diffuso tra i presenti sarebbe stato fuori luogo restare imibili come avrebbe sentito di fare in cuor suo. Scese da cavallo e intraprese una breve eggiata col Signore. Camminavano a una certa distanza dagli altri e bisbigliavano in modo che nessuno potesse sentirli. Loro invece riuscivano a udire i discorsi degli astronomi che travolti dall’entusiasmo per aver raggiunto l’obiettivo dopo anni di fatiche, avevano una chiacchiera facile e rumorosa. Parlavano di triangolazioni, di rette, della variazione dell’inclinazione del sole e di goniometri. Insomma, di tutto quello che avevano usato e studiato per arrivare alla loro scoperta. Il Signore domandò: “Isabella, sapete cosa ci sia oltre il Borgo?”. “Certo, che lo so. Ci sono altri borghi e poi i fiumi, i laghi, i boschi e le montagne”. “E oltre tutto questo?”. Isabella non capiva il motivo di quella domanda.
Era chiaro che il mondo finisse dopo le montagne. Nessuno si era mai posto il problema di quello che ci fosse dopo, tanto meno lo aveva fatto lei. Tutto quello che occorreva era nel Borgo. Pensava che non ci sarebbe stato alcun motivo di spingersi oltre. Sarebbe stato inutile addentrarsi nel bosco, tanto era sempre uguale a se stesso. Sarebbe stato pericoloso scalare le montagne, c’era solo roccia e tanto freddo. Poi lei sapeva che alcuni avevano attraversato il bosco ma che nessuno aveva mai superato le montagne che chiudevano ad anello lo spazio visibile. Insomma, le montagne invalicabili segnavano il confine del mondo. Fu proprio questa la risposta che diede al Signore. “La fine del mondo!”. “Isabella, vi farò una domanda bizzarra”. “Sono pronta”. “Bene” disse il Signore. “Descrivetemi uno strano uomo, diciamo l’uomo più strano che riuscite a immaginare”. Isabella restò sorpresa, ma era divertita. “L’uomo più strano è largo quanto alto, strabico, ha solo un dente e le orecchie enormi e tese!”. “Brava Isabella. E potrebbe avere, non so, magari la pelle nera?”. “Certo, ha la pelle nerissima perché ama fare i bagni di sole e poi non si lava mai. Infatti puzza da morire!” concluse mentre scoppiava in una risata. Fu allora che il tono del Signore divenne improvvisamente grave: “Esistono uomini ancora più strani di quello del quale mi avete parlato voi”. “Davvero? E dove sono?”. “Per fortuna non sono qui. Ma se arrivassero, potrebbero contaminare il Borgo”. “Cosa intendete dire? Signore, temo di non capire”. “Queste persone si riprodurrebbero tra loro e crescerebbero di numero. Potrebbero divenire dominanti e saremmo obbligati a rispettare le loro usanze.
Potrebbe essere gente senza Dio!”. Isabella, sentite quelle parole, si fece immediatamente un rapido segno della croce. “Oppure, peggio ancora, questi individui potrebbero mischiarsi con noi per generare dei mostri bastardi che finirebbero per governare tutti i borghi”. Isabella non era assolutamente spaventata dallo scenario che le era stato prospettato. In realtà, non aveva capito molto. La situazione era talmente inverosimile e si convinse che si trattava di un gioco o forse di una sorta di esame al quale era sottoposta in vista del ruolo che avrebbe dovuto svolgere. “Signore, il nostro popolo non accetterebbe mai degli individui così pericolosi”. Le sembrava la risposta migliore e in ogni caso, non se la sentiva di condividere quell’impennata di odio. “Ah, Isabella, il popolo. Il popolo è diventato così noioso e prevedibile. Mi sono quasi stancato del mio perfetto modo di governare. Sapete, certe volte avrei voglia di cambiare le regole, solo per vedere come la prenderebbero. Cosa accadrebbe se abolissi la legge del Senso di Colpa?”. “Non saprei, cosa accadrebbe?”. “Non lo so neppure io, Isabella, quindi è meglio non rischiare”. “Signore, mi confondete”. “Isabella non abbiate paura, una volta che avrete acquisito il metodo vedrete che governare sarà facile. Dovrete solo dare al popolo quello che desidera”. “Cosa desidera il popolo?”. “Semplicemente quello che desidera chi lo governa, solo che questa cosa non si deve sapere in giro”. “Signore, ma siete sicuro che tutte le persone desiderino quello che desiderate
voi?”. “Non tutte, Isabella. Alcuni non desiderano affatto quello che desidero io, anzi, desiderano l’esatto contrario. Ma per fortuna sono pochi, pochi isolati sovversivi che senza saperlo fanno il mio gioco”. “Cosa significa che fanno il vostro gioco?”. “Il popolo li odia e l’odio verso qualcuno è un sentimento che unisce il popolo. Se il popolo è unito è più facile governarlo”. “Fino a quando è dalla vostra parte, ma se il popolo vi fosse ostile sarebbe meglio che non fosse unito. Non trovate che sia così, Signore?”. “Ma che discorsi fate Isabella? Il popolo è dalla mia parte e lo sarà fino a quando gli darò un nemico da odiare. Un nemico nel quale nessuno si possa identificare, come le persone libere. Il popolo ha paura della propria libertà Isabella, e io li capisco. Essere liberi, come lo sono io, prevede l’assunzione delle proprie responsabilità. Se non potessi contare su un’enorme quantità di capri espiatori, non saprei come venirne fuori da tutti i problemi causati dalle mie responsabilità. Però Isabella, essere liberi è la cosa più bella che ci sia. Posso fare quello che voglio senza dover chiedere il permesso a nessuno. Il popolo lo sa, ed ecco che allora la libertà degli altri diventa motivo d’indivia. Le persone spaventate e invidiose sono insicure e frustrate, hanno bisogno di qualcuno che le prenda per mano e le incoraggi”. “E quindi mio Signore, spuntate voi”. “E prendo il popolo per mano e copro tutti di incoraggiamenti. Tra pochi giorni Isabella, il popolo vedrà morire sul rogo un’eretica. É più di un anno che non accendiamo un rogo nel Borgo. Sapete che nell’ultimo anno sono aumentate le risse nelle taverne? Credete che sia un caso?”. In quel momento il Giullare cercò di richiamare l’attenzione del Signore con un gesto della mano. Questi lo invitò ad avvicinarsi. Il Giullare, sempre sorridente, gli comunicò una notizia importantissima. “Signore, l’astronomo più giovane, quello bello per intenderci, ma mai bello quanto voi ovviamente... Dicevo, scusatemi... Il giovane astronomo, sotto i fumi del vino, ha raccontato a tutti di essere convinto, per via di alcuni suoi calcoli,
che il mondo non finisca dopo le montagne. Non lo trovate divertente?”. Il Giullare raccontava sempre le cose che riteneva divertenti e lo faceva con una risata contagiosa. Al Signore questa cosa piaceva molto. Dopo aver ascoltato quelle parole, guardò le montagne e disse: “Il giovane astronomo è proprio ubriaco”. Tornarono ai cavalli e presero la via che li avrebbe condotti a Palazzo.
Quella notte Isabella non riuscì a dormire. Si rigirava nel letto e pensava alle persone libere, a quelle che avevano il coraggio di esserlo anche se non disponevano di un capro che all’occorrenza potesse espiare al loro posto. Poi si addormentò, ma dopo qualche minuto fu svegliata da un urlo che squarciò il silenzio della notte. Proveniva dall’esterno, lo localizzò nel giardino del Palazzo. Si affacciò e in un primo momento non vide nulla. Era buio. Le torce di due guardie accorse sul posto dopo pochi minuti illuminarono il corpo senza vita del giovane astronomo. Aveva un pugnale conficcato nella schiena.
6
L’accesso alla biblioteca del Palazzo era consentito solo con l’autorizzazione del Signore. Conteneva una quantità di volumi che nessuno avrebbe saputo stimare a occhio e persino contarli sarebbe stata un’impresa davvero ardua. Erano circa cinquantamila e la quasi totalità era disordinatamente riposta sotto una coltre di polvere spessa almeno mezzo centimetro, sugli scaffali orientati per file parallele tra le quali si sviluppavano dei corridoi non più larghi di un metro. Ai censori era riservato un locale a parte. Vi si trovavano i libri dai quali prendere spunto per incriminare i testi sospetti che circolavano tra il popolo. Neppure loro potevano accedere alla lettura degli altri volumi senza il consenso del Signore. La biblioteca si sviluppava su tre livelli sotterranei collegati da una scala a chiocciola che li attraversava nel centro. In ogni livello c’erano cinque locali separati da un’apertura ad arco. Sulle pareti, i mattoni di marna erano stati cementati con un collante ottenuto miscelando polvere di calcare e acqua. Il pavimento era costituito da lastre di granito. E poi c’erano varie torce che illuminavano gli ambienti sviluppando un fumo grigio e poco denso che sembrava svanire a qualche centimetro dalla cima della fiamma. Ovunque si scorgevano ragnatele e topi. I roditori frequentavano i locali nonostante la diffusione delle esche avvelenate. Costituivano un pericolo serio per i libri. Parecchi volumi erano andati distrutti, alcuni dei quali anche integralmente, dai denti di quei topi. C’era tanta di quell’umidità che dal soffitto precipitavano ripetutamente gocce d’acqua che scorrevano sulle pareti fino al pavimento e qui si accumulavano realizzando numerose pozzanghere. Il Guardiano era cieco. Era stato scelto proprio perché non avrebbe potuto leggere. Se avesse avvertito la presenza di un estraneo avrebbe immediatamente dato l’allarme facendo suonare la campana di bronzo dalla quale non si separava mai. Il suo udito era talmente sviluppato che sarebbe stato in grado di localizzare un topo che sfregava i denti o che rosicchiava un libro fino a dieci metri di distanza. Si
divertiva a ucciderli colpendoli con la campana. Capitava spesso che le guardie intervenissero al suono del batacchio che rintoccava sulle pareti di bronzo perché pensavano che il Guardiano avesse dato l‘allarme, invece lo trovavano col topo nelle mani. Gli occhi inespressivi si muovevano sempre all’unisono con il capo e restavano aperti costantemente. Aveva perso la vista da bambino. Era figlio di un alchimista e una mattina, nel laboratorio clandestino del padre, aveva versato dell’acqua in un acido causando una reazione talmente forte che la miscela aveva travolto il suo volto provocando ustioni profonde e la cecità. I genitori, accusati di eresia e di pratiche scientifiche illegali, furono giustiziati. Lui fu accolto dal Signore che in realtà lo aveva sempre odiato e usato come strumento di propaganda per dimostrare la sua magnanimità. Era stato confinato nella biblioteca già da allora, così imparò a conoscere quegli spazi fin nei più piccoli dettagli e dopo breve tempo riusciva a muoversi come avrebbe fatto qualunque vedente. La sua mansione preferita, che gli procurava una gioia grande quasi come quella della caccia ai topi con la campana, era la sorveglianza dei censori. Quando questi si riunivano per discutere sull’eventualità di bandire un testo, il Guardiano si piazzava sotto l’arco che conduceva ai locali proibiti per essere sicuro che nessuno avrebbe tentato di accedervi. I censori, durante i loro incontri, parlavano liberamente e il Guardiano poteva ascoltarne tutti i discorsi. Dopo qualche anno il cieco aveva già sentito tante di quelle cose che sarebbe stato in grado di prevedere la sorte di un libro solo dall’ascolto della lettura delle prime pagine. Sarebbero stati bollati come diabolici tutti i saggi scientifici, in particolare quelli che trattavano i temi delle leggi della fisica e dell’alchimia. Suscitavano, al contrario un parere favorevole, i trattati delle arti professionali. Per esempio il Manuale del Muratore era graditissimo ed era promosso nelle scuole fin dai primi anni di frequenza. In quel volume c’era un o che descriveva la preparazione dell’amalgama usato per cementare i mattoni. Il più anziano dei censori lo leggeva spesso e il Guardiano, ovviamente, lo conosceva a memoria.
Scavata la buca profonda come l’altezza di un uomo
si dispongano dentro le pietre calcaree frantumate e sia ricoperta con il legno che fornirà la macchia di ginepro tagliata un anno prima e lasciata asciugare al sole e al vento dell’arida pianura che precede i boschi a formare una catasta stabile nell’equilibrio la cui altezza di tre uomini non dovrà mai essere superata. La s’incendi in tre punti della base e uno della cima e si osservi il legno che diviene fumo perché di Dio questa è la volontà. Si rimuova la brace e si lasci respirare la pietra e si mescoli e si frantumi con la stessa forza espressa dal Signore nel domare il suo destriero che il giorno della cattura
era nervoso e irascibile e in quanto tale deve essere temuto perché capace di recare grave danno. Si aggiunga la pietra all’acqua nella parte di tre per la parte di uno e si abbia cura che la proporzione sia assolutamente rispettata.
Il Guardiano aveva capito fin da subito che non si trattava di un semplice strumento di propaganda, perché c’erano tanti altri libri che contenevano dei racconti che esaltavano l’immagine del Signore ancora di più di quanto non lo fe questo, ma a nessuno di essi erano dedicate tutte le attenzioni rivolte al Manuale del Muratore. Per esempio in altri testi si raccontava, mentre magari si parlava d’agricoltura o dell’arte della lavorazione del ferro, di come il Signore avesse salvato la vita di una bambina che stava annegando nel fiume, oppure di quando uccise in un duello l’assassino che temeva la forca alla quale era stato condannato e al quale fu data l’opportunità d’avere salva la vita se lo avesse battuto. In altri libri le gesta del Signore erano persino più eroiche: aveva ammazzato una vipera che stava per morsicare una contadina anziana, poi aveva salvato la vita di una giovane donna e del figlio colti da complicazioni durante il parto e infine aveva costretto all’esilio, a suon di sassate, una coppia di orsi che entravano nel Borgo per fare razzia di galline. Tutte vicende alle quali nessuno aveva mai assistito, ma che per tutti erano corrispondenti a fatti di cronaca e che certamente erano più importanti della doma del destriero. Quindi era chiaro che l’importanza del Manuale del Muratore non ricadeva certo nella sua funzione di propaganda. Il Guardiano non si dava pace. Avrebbe voluto assolutamente capire, ma
nonostante avesse analizzato il testo facendo le pulci a ogni singola parola non riusciva a trovare una soluzione. Anche quella mattina si era svegliato poco prima dell’alba. Era stato il gallo a trascinarlo giù dal giaciglio. Odiava quel gallo a tal punto da averlo iscritto nella lista dei bersagli di uno dei suoi lanci della campana. Prima o poi l’avrebbe fatto, aveva ogni seria intenzione di fare la festa al pennuto e aveva giurato a se stesso che quella bestia non avrebbe avuto scampo. Ogni mattina, puntuale, quando il sole era ancora sotto l’orizzonte e si poteva scorgere solo il riflesso dei suoi raggi che partivano dal basso e rimbalzavano sotto gli strati dell’atmosfera per regalare il chiarore timido che precede l’alba, il verso del volatile esplodeva senza pietà e interrompeva i suoi sogni. Sognava sempre e non solo suoni. I suoi ricordi visivi si erano fermati al giorno dell’incidente, ma quello che aveva accumulato gli era bastato per definire con precisione tutto ciò che lo circondava. Quella mattina il gallo aveva interrotto il sogno che il Guardiano inserì nella categoria dei sogni del Tre e dell’Uno. In quel tipo di esperienze oniriche il tre e l’uno si ripetevano continuamente. Sognò un cervo che incornava tre lepri e poi tre cacciatori che braccavano il cervo e infine nove aquile, divise in squadre di tre, che aggredivano i cacciatori. Poi si ricordò di colpo che la sera prima i censori si erano riuniti per valutare i libri che avevano trovato nella casa di una giovane donna che era stata arrestata e che ormai poteva essere considerata carne bruciata, dato che i testi erano stati giudicati diabolici. Dopo il verdetto, il censore più anziano propose la lettura del o tratto dal Manuale del Muratore. Il Guardiano fu rapito da un’improvvisa illuminazione. Iniziò a ripetere sottovoce il testo che conosceva a memoria, soffermandosi per scandire con voce alta, senza saperne il motivo: “Scavata la buca profonda come l’altezza di un uomo... A formare una catasta stabile nell’equilibrio la cui altezza di tre uomini... La si incendi in tre punti della base e uno della cima... Si aggiunga la pietra all’acqua nella parte di tre per la parte di uno...”. Si accorse di avere già fatto altri sogni del Tre e dell’Uno ogni notte la cui sera precedente aveva assistito alla lettura del brano.
Allora gli parve tutto chiaro. Si tratta di un brano magico o qualcosa del genere, pensò. Insomma, era quel o che riusciva a imporre il sogno del Tre e dell’Uno. Dopo circa un’ora da quella scoperta giunsero Isabella e il Signore. Era la prima volta che la giovane donna entrava in quei locali sotterranei. Scesero alcuni giri della scala a chiocciola. Il Signore conduceva tenendo una lanterna in mano. L’odore dell’umidità era talmente acre e pungente che procurò un brivido che partì dalla nuca e percorse tutta la schiena di Isabella. In breve tempo si trovarono al primo livello, dove il Guardiano aveva deciso di attenderli. Era eccitatissimo per via di quello che aveva capito. Avrebbe voluto parlarne, ma sapeva che la divulgazione di quel segreto lo avrebbe portato alla tomba in seguito all’assunzione di alcuni pasti che qualcuno avrebbe corretto con l’arsenico. Riconobbe la voce del Signore e lo salutò con un cenno del capo. Assaporò tre o quattro sorsi d’aria col naso e disse: “Il profumo della pelle della persona che vi accompagna. Signore, avete portato una donna con voi”. “Certe volte credo proprio che la vista sarebbe del tutto inutile per te, Guardiano” rispose il Signore. “Non smetterai mai di sorprendermi”. Poi si rivolse a Isabella: “Il Guardiano è un abilissimo cacciatore di topi, li uccide a colpi di campana”. Mentre raccontava, rideva al pensiero di quei lanci addosso ai roditori. Il Guardiano non manifestò alcuna reazione al sarcasmo del Signore. Si limitò ad allontanarsi per lasciarli soli. I due visitarono tutti i locali. Mentre il Signore illustrava a Isabella l’organizzazione della biblioteca, la suddivisione dei libri per argomenti e la loro ubicazione sui vari scaffali delle quindici stanze, le disse: “Provate a immaginare un posto nel quale il popolo possa decidere da chi farsi rappresentare e condurre”. “Come sarebbe possibile tutto questo, mio Signore?”. “Magari ognuno potrebbe scrivere su un pezzo di carta il nome della persona che
preferirebbe vedere al mio posto. Poi, colui che riceve più preferenze avrebbe il diritto di sostituirmi per magari quattro, cinque o sette anni”. Isabella restò in silenzio per qualche secondo. Rifletteva. Poi disse: “Signore, potreste essere proprio voi quello che riceve più consensi”. “Isabella io non ho bisogno di consensi, sono già quello che comanda. Piuttosto, voi mi sostituirete perché l’ho deciso io. Siete sicura che anche il popolo sarebbe d'accordo?” rispose il Signore con il sorriso di chi crede di aver messo in scacco l’avversario. “Signore, probabilmente il popolo non mi sceglierebbe. Forse non sono molto simpatica, ma è un fatto certo che vostro figlio non avrebbe speranze di successo”. L’uomo sorrise compiaciuto perché non gli dispiaceva affatto che la nuora avesse quella tempra. “Vedete Isabella, alcuni di questi libri, la cui consultazione è punita con la morte, promuovono idee come quella che ho appena esposto. Parlano di uguaglianza degli uomini, di libertà di opinione, di solidarietà tra appartenenti alla stessa categoria. Immaginate le conseguenze per noi se queste idee si diffondessero tra il popolo. Anche un contadino potrebbe pretendere il mio posto dicendo di essere uguale a me”. “Forse dovreste incendiare questi volumi”. Isabella sapeva che il Signore quell’ipotesi l’aveva sicuramente già vagliata e che quindi non avrebbe certo dato fuoco alla Biblioteca perché glielo aveva suggerito lei, che in realtà moriva dalla voglia di leggere quei libri. “Ogni tanto alcuni libri, quelli che troviamo nelle mani degli eretici, vengono bruciati. Ma solo dopo che uno scrivano ne copi almeno le parti più significative. Ricordate una cosa importante, Isabella: dobbiamo conoscere il nemico per affrontarlo e sconfiggerlo”. Adesso l’olio della lanterna stava per esaurirsi. La fiammella tremolante diveniva sempre più esile. Salirono i gradini resi scivolosi dall’umidità. Quando furono nel livello più alto il Signore si rivolse al Guardiano: “Da oggi Isabella è
autorizzata a consultare tutti i volumi del primo livello. Potrà accedervi in qualunque momento”. Così la giovane espresse il desiderio di cominciare fin da subito. Ovviamente il consenso le fu accordato. Rimasta sola, Isabella prese a curiosare tra gli innumerevoli volumi accatastati sugli scaffali e mentre pensava di non sapere da dove avrebbe potuto cominciare, il Guardiano pensava che più di ogni altra cosa avrebbe voluto parlare con qualcuno della sua scoperta. E pensava inoltre, che più di una donna nessun altro sarebbe stato adatto a ricevere quella confidenza, soprattutto una donna con la pelle così profumata e con la voce così suadente, che non poteva che essere anche bellissima. D’un tratto l’attenzione di Isabella fu richiamata da una copertina rossa che spiccava tra le altre più scure. Prese il libro e ci soffiò sopra, sollevando migliaia di corpuscoli che piroettarono vorticosamente. Aprì una pagina a caso e lesse.
La convinzione spontanea della persona che si è appena svegliata è che i suoi sogni, anche se non sono venuti essi stessi da un altro mondo, lo hanno comunque trasportato in un altro mondo. Tutto il materiale che costituisce il contenuto di un sogno è in qualche modo derivato dall’esperienza, cioè è stato riprodotto o ricordato nel sonno: questo almeno può essere considerato un fatto indiscusso. Una delle fonti dalle quali i sogni traggono il loro materiale per la riproduzione, materiale che in parte non è né ricordato né usato nell’attività mentale della vita da svegli, è l’esperienza infantile. I sogni in genere sono privi di intelligibilità e ordine. Le composizioni che costituiscono i sogni sono prive di quelle qualità che renderebbero possibile ricordarli e vengono dimenticate perché in genere si scompongono un momento dopo. I sogni cedono il posto alle impressioni di un nuovo giorno come lo splendore delle stelle cede alla luce del sole. S.F.
Certo che scrive proprio difficile questo esse puntato effe puntato, pensò Isabella.
Avrebbe trovato l’argomento dei sogni molto interessante, ma visto che non aveva capito nulla di quello che aveva letto poco prima, decise di riporre quel libro dove lo aveva preso e ne prese subito un altro, sperando di incappare in qualcosa di più comprensibile. Scelse un libro molto vecchio. Sulla copertina di pelle il segno dei denti del topo che aveva iniziato a rosicchiarla era circondato dalla macchia del sangue schizzato dal suo corpicino durante l’impatto con la campana del Guardiano. Ma che schifo, pensò Isabella, ed ebbe cura di afferrare il volume evitando di toccare la crosta rossa. Si trattava di una raccolta di fiabe illustrate che conteneva delle figure molto strane. Pensò che l’autore, il cui nome le era assolutamente sconosciuto, dovesse avere una fervida fantasia a giudicare dalle storie e dai disegni. Uno di essi rappresentava alcuni uomini che si libravano in aria come se fossero uccelli con delle voluminose ali di tela. Isabella lo trovò molto divertente e ritenne che fosse stato censurato perché avrebbe potuto indurre le persone a compiere atti pericolosi, proprio come quello di tentare il volo. Successivamente si trovò tra le mani un libro molto voluminoso. Purtroppo restava ben poco, perché i topi questa volta avevano banchettato di gusto. Alcune pagine mancavano completamente e questa cosa si poteva capire dalla numerazione che saltava. Quanto alle altre, quasi tutte erano state rosicchiate almeno in parte. Le figure, per quello che si riusciva a scorgere, sarebbero state molto belle se fossero state complete. Una di queste era una sorta di albero genealogico, molto simile a quello che il Signore teneva esposto in una delle tante sale del Palazzo e nel quale, accanto al nome del figlio, il giorno delle nozze aveva fatto aggiungere anche quello di Isabella. La figura del libro mostrava nettamente un uomo peloso in volto e nel corpo, con braccia particolarmente lunghe, naso schiacciato, orecchie e bocca enormi, labbra carnose. Accanto era raffigurato un uomo comune, fatto proprio come gli abitanti del Borgo. Era come se questi due uomini così diversi fossero fratelli, perché se ne stavano seduti sullo stesso ramo di un albero, la cui cima era stata disegnata in quella parte di pagina divenuta cena per topi, per cui Isabella non poté scoprire chi fosse la mamma di quei due fratelli che, a guardarli bene, non le sembravano affatto fratelli.
Tutto dipendeva dai peli del fratello con le braccia più lunghe. Isabella non aveva mai visto un uomo con tutti quei peli addosso. Chissà da quale borgo arriva, pensò. Brutto. Isabella lo trovò decisamente brutto, tuttavia non avrebbe escluso di preferirlo al marito nell’atto dell’amore. In fondo con quegli occhi giganteschi era molto tenero. Ormai era ora di pranzo, Isabella aveva fame e decise di interrompere la visita alla Biblioteca. Il Guardiano si avvicinò e le disse: “Isabella, vorrei suggerirvi la lettura di un testo particolare. Non si tratta di un libro proibito come quelli che avete avuto modo di consultare fino a questo momento. Al contrario, è un libro diffusissimo”. Stava per proporle la lettura di quel o del Manuale del Muratore. Di colpo si rese conto che coinvolgere Isabella in quella vicenda sarebbe stato il gesto più pericoloso della sua vita. Sarebbe stato ancora più rischioso che aggiungere l’acqua all’acido. Infatti, se la giovane donna ne avesse parlato col Signore, il suo incontro con la morte sarebbe divenuta una circostanza inevitabile. Ma il profumo, la voce e l’inevitabile bellezza della donna avevano preso il sopravvento. “Dite Guardiano, di quale libro si tratta?” rispose Isabella con tono gentile, manifestando sincera gratitudine per l’interessamento. Il Guardiano trasalì. Probabilmente, anzi sicuramente, pensò, sto per firmare la mia condanna a morte. “Il Manuale del Muratore... Isabella, vi prego, leggete il o che parla della preparazione dell’amalgama. Fatelo quanto prima e poi tornate a trovarmi, avrò una domanda per voi”. Isabella rise. “Mio Dio, non vorrete farmi intonacare tutta la biblioteca, spero”.
Il suo umorismo cessò di colpo quando si accorse che al Guardiano tremavano le mani. “Che vi accade?” continuò la donna. “Vi prego, ne andrebbe della mia vita, non parlate con nessuno di quanto vi ho detto. Fatelo e basta”. Isabella restò in silenzio. Era confusa come non mai.
Il topolino grigio, piccolo e con gli occhietti rossi, si era arrampicato sullo scaffale e aveva attaccato la base della copertina del primo libro riposto in verticale. Non lo fece in silenzio. Il Guardiano s’irrigidì, ruotò sui suoi piedi con un movimento lento fino a quando la direzione del suo braccio proteso in avanti a perpendicolo col corpo non avesse incontrato il piccolo roditore. Isabella si domandò cosa stesse succedendo. Di colpo, l’uomo estrasse la campana dalla tasca e la scagliò contro la bestiolina colpendola in pieno. Si udì il grido disperato di dolore dell’animale ferito a morte, mentre le viscere e il sangue schizzavano fino al soffitto. Il corpo spappolato cadde sul pavimento, percorse circa un metro e cessò ogni movimento. Isabella non disse nulla e decise di saltare il pranzo.
7
Fino a quel momento, tutte le prove raccolte l’avrebbero portata sul rogo. Si trattava di una montagna di libri proibiti, per la precisione sessantanove, che l’Eretica aveva nascosto nei cassetti, sotto il letto e persino dentro il materasso del suo letto. Erano esattamente sessantotto in più di quanti i censori pensassero di poterne scovare durante la perquisizione della sua casa. Lei era la donna più bella del Borgo e se gli uomini che le avevano dichiarato il proprio amore nell’ultimo mese erano stati oltre venti, forse altrettanti sarebbero stati gli altri che lo avrebbero fatto entro il mese successivo, ovviamente se le cose non fossero andate in quel modo. Era stata arrestata per un libro che qualcuno ripose una sera davanti alla porta della sua casa, un libro censurato che lei non esitò a leggere. L’uomo che lasciò quel libro indossava un mantello col cappuccio calato fino al mento, così nessuno poteva dire chi fosse. Subito dopo, sempre attento a non essere riconosciuto, corse dai censori per suggerire di perquisire la casa della donna. “Forse troverete un libro proibito. Meglio controllare, non siete d’accordo?”. Altro che uno. I censori ne trovarono ben sessantanove. “Posso sapere chi devo ringraziare per la discrezione? Sono sicura che si tratti della stessa persona che questa sera ha dimenticato questo libro davanti alla mia porta”. I censori non glielo dissero per due motivi. Il primo è che neppure loro lo sapevano e il secondo è che i nomi dei delatori erano tenuti segreti. Già dal giorno successivo in tutto il Borgo non si parlava che dell’arresto dell’Eretica.
Secondo alcuni era stato uno spasimante a metterla nei guai, perché lei non si sarebbe mai concessa a nessuno dei suoi pretendenti. Il suo cuore batteva per un frate. Secondo altri, invece, era stato il Boia a ordire il piano per far condannare la donna, forse solo perché aveva nostalgia della puzza di capelli bruciati. Oltretutto accadde che durante l’ultimo rogo del Borgo, circa un anno prima, uno dei sette libri che sarebbero stati arsi con l’eretico che li aveva letti si fosse miracolosamente salvato dal fuoco. Il Boia se ne accorse e credendo che nessuno lo avesse visto, se ne impossessò e lo nascose dentro i pantaloni. Era proprio quello il libro usato come esca? L’Eretica fu affidata agli inquisitori, i quali non ebbero alcun pretesto per torturarla visto che lei riconobbe fin da subito le proprie responsabilità nella vicenda. Tuttavia le fu offerta una possibilità di salvezza: la prova dell’acqua. L’avrebbero immersa in una vasca piena fino all’orlo e se lei fosse finita sul fondo, dimostrando di integrarsi con l’acqua considerata l’elemento puro per eccellenza, avrebbe dato prova della propria innocenza. Lei non sapeva che per andare sul fondo della vasca avrebbe dovuto espellere tutta l’aria che aveva nei polmoni e quindi non appena si ritrovò in acqua trattenne il fiato e iniziò a dimenarsi. Ne conseguì un quasi perfetto galleggiamento, utile solo a spedirla tra le fiamme l’indomani mattina. Estratta dalla vasca fu immediatamente condotta al cospetto dei censori e degli inquisitori e il capo di questi ultimi le lesse la sentenza. “Abbiamo valutato quello che c’era da valutare e abbiamo anche visto quello che c’era da vedere. Quindi, in coscienza, sentenziamo che tu e i tuoi libri siate bruciati in questa piazza alle ore dieci di domani”. L’Eretica non si scompose mentre l’inquisitore le comunicava il verdetto. “Non ho paura, tremo per il freddo” mentì non appena apprese la sentenza. “Non vedete che sono fradicia e il vento soffia forte?”. Le avevano creduto e quella al momento le sembrò una cosa importante. Mentre le guardie la riconducevano in prigione, alle finestre si affacciavano i curiosi e qualcuno scendeva persino in strada per godere da vicino lo spettacolo della trasparenza di un abito bagnato indossato dalla donna più bella del Borgo.
“Guarda, guarda pure quella puttana” disse una donna al marito che al aggio dell’Eretica restò incantato dalla sua grazia. “Guardala pure perché tanto domani la bruciano viva, quella puttana”. Il popolo adorava le esecuzioni e in particolare i roghi. Partecipavano in massa all’evento e alcuni, per vedere meglio la scena dell’ammazzamento, dormivano sotto il patibolo e così si assicuravano il posto in prima fila per la mattina successiva. E il Boia, nonostante fosse un uomo molto grasso e sporco, coi denti marci e avesse un alito pestilenziale, godeva dell’ammirazione di quasi tutti e più di una donna gli avrebbe concesso volentieri la figlia in sposa. Prima di allora nessuno tra i sostenitori delle esecuzioni si sarebbe detto contrario a un rogo piuttosto che a un’impiccagione, ma il caso dell’Eretica, per la prima volta, insinuò il dubbio. Non tra tutti ovviamente, per esempio la moglie dell’uomo che restò incantato al aggio della condannata era sicura di essere felice di vedere quelle lingue di fuoco. Non appena l’Eretica restò sola nella sua cella trasse un sospiro profondo, si coprì il volto con le mani ed esplose in un grido fortissimo che riecheggiò in tutte le stanze dei sotterranei della prigione. I nervi avevano ceduto. Non riusciva a smettere di pensare alle fiamme che entro poche ore l’avrebbero avvolta, consapevole del fatto che il fuoco prima di uccidere si toglie il gusto di bruciare la pelle e i capelli. Una morte dolorosissima che avrebbe affrontato senza il sollievo delle pozioni che usavano le streghe quando erano uccise in quel modo. Aveva letto di una bevanda preparata con una polvere azzurra, capace di non far sentire il dolore del rogo e adesso quella diavoleria l’avrebbe voluta avere più di ogni altra cosa. Si ricordava perfettamente gli ingredienti e la procedura per la sua preparazione. Occorrevano la mandragola, i petali del ranuncolo, della rosa rossa e altre tre
erbe, ma tutte quelle cose le avrebbe potute avere solo se qualcuno gliele avesse portate. Il fatto è che nessuno tra i parenti e gli amici avrebbe avuto il permesso di incontrarla, neppure alla madre sarebbe stato concesso di farle visita. L’ultima volta che l’Eretica l’aveva vista era stata la sera dell’arresto. Adesso aveva voglia di averla vicina e di restare con lei per tutta la notte, per appoggiare la testa sulle sue ginocchia ossute e farsi accarezzare i capelli, mentre le avrebbe chiesto di perdonarla per il dispiacere che le stava dando. Era chiaro che a quel punto la madre non poteva che provare il dolore più profondo, perché la morte di un figlio è una cosa che infrange le leggi del mondo. Così, il pensiero della madre che soffriva era diventato quello più brutto, persino più brutto del pensiero del fuoco e l’Eretica avrebbe pianto fino all’ultima lacrima se la porta della sua cella non si fosse aperta proprio in quel momento. Si ritrovò faccia a faccia con il Frate, era proprio l’uomo che amava, quel frate con la faccia di Gesù, così alto che per are attraverso la porta aveva dovuto piegarsi sulle ginocchia. Un frate coi capelli lunghi e mossi, quasi biondi e gli occhi neri come il cielo di una notte senza stelle. Chissà che figlio bellissimo avrebbe potuto fare con un frate così. Lei, che gli occhi li aveva blu e i capelli corvini, si era sempre chiesta quale gradino avrebbe occupato nella scala della bellezza una creatura figlia di genitori belli quanto diversi. “Tu… Tu sei qui”. Non riuscì a balbettare altro. Aveva accantonato l’idea della madre che soffriva perché adesso sentiva un’improvvisa voglia di fare l’amore. Quello che le accadeva era davvero strano, forse dipendeva dalla consapevolezza della vicinanza della morte il fatto che i pensieri e i desideri si sostituissero tra loro così rapidamente. Subito dopo – non erano ati più di tre secondi – la voglia di fare l’amore era diventata irrefrenabile. “Sono qui per la tua anima” l’aveva smontata il Frate, che non avrebbe potuto fare a meno di accorgersi del desiderio della donna. “Non per il tuo corpo”. “E allora? Per un condannato l’ultimo desiderio è un diritto. Non è così?”.
“Almeno quanto per un frate non sia un dovere la castità”. “Ti prego, Frate. Da domani non mi vedrai più”. “Se tu non avessi letto quei libri non sarebbe andata a finire così”. “Se io non avessi letto quei libri mi sarei annoiata moltissimo”. “Spero che almeno tu abbia imparato molte cose”. “Ho imparato che di leggerli ne valeva la pena. Ti sembra poco?”. “Mi sembra abbastanza”. Dopo quella risposta, l’Eretica accennò un sorriso, si voltò e si diresse verso la finestra. Mentre rivolgeva le spalle al Frate gli disse: “Sei qui per la confessione, l’unzione e la preghiera dei morti, immagino”. “Immagini male, tanto con te sarebbe solo tempo sprecato. Torna qui per favore, ho una cosa per te”. Il Frate si assicurò che in quel momento nessuno li stesse spiando e quando la donna gli fu accanto, con un rapido movimento le ò un vasetto sigillato da un tappo di sughero e che in dimensione non superava la sua mano. Conteneva un liquido azzurro. Il Frate lo aveva rubato agli inquisitori che a loro volta lo avevano sottratto a una strega bruciata sei anni prima. Aveva avuto cura di conservarlo al riparo dalla luce e dall’umido, così c’erano ottime probabilità che la sostanza avesse conservato tutte le sue proprietà e se l’Eretica l’avesse bevuta un’ora prima dell’esecuzione non avrebbe patito il dolore del supplizio. “Grazie! E se…” disse la donna mentre nascondeva il vasetto nel risvolto del suo abito. “Insomma, mi domandavo: se domani riuscissi a morire dopo aver detto qualcosa che faccia ridere, tu lo gradiresti?”.
“Lo gradirebbe anche Dio”. “Cosa? Dio sarebbe contento di vedermi morire mentre dico una battuta che fa ridere?”. “Sì. Dio ha un gran senso dell’umorismo, dice un sacco di battute”. “Questa non la sapevo”. “Ah no? E secondo te di chi è beati i giusti perché saranno giustiziati?”. Poi il Frate si portò verso il battente della cella, bussò alcuni colpi e le guardie giunsero ad aprire subito dopo. Rivolse l’ultimo sorriso alla donna e uscì. Adesso era diventato il suo complice e sapeva che da quel momento sarebbe stato inevitabile smettere di pensare a lei.
L’Eretica approfittò della prima luce dell’alba per guardarsi allo specchio. La preparazione all’esecuzione sarebbe stato un affare molto veloce, si trattava solo di legarle le mani dietro la schiena per cui nessuno avrebbe avuto il pretesto di andare da lei prima del tempo. Almeno questo era quello che pensava, ed era un’idea che le dava un piccolo conforto, perché il pensiero di avere qualcuno in mezzo ai piedi prima di salire sul patibolo, qualcuno che non fosse sua madre o un’altra persona cara s’intende, altro non sarebbe stato che un supplizio in più. Quella mattina il tempo era ottimo, il cielo che si caricava progressivamente di un azzurro sempre più intenso lasciava intendere che il sole avrebbe potuto splendere come se fosse una giornata d’estate. L’unico segno di bianco, che l’Eretica era riuscita a scorgere dalle inferriate, era stato un tuono nuvolare che nel giro di alcuni minuti si era dissolto. E subito dopo sentì il suono delle chiavi che giravano nella serratura della porta della cella. Dio, è ancora presto, pensò. Perché sono già arrivati? Entrarono due guardie e lei si alzò travolta da un improvviso terribile presentimento e prese a indietreggiare fino a quando le spalle non finirono sul muro sotto la finestra. Poi vide un altro uomo entrare nella stanza dove era
reclusa, un uomo con un mantello e un cappuccio calato fino al mento e capì che il presentimento era giusto. Davanti si ritrovava lo stesso uomo che l’aveva denunciata e ora il suo silenzio valeva come la parola più chiara, più diretta. Fu come se la violazione del suo corpo fosse già iniziata. Il Boia arrivò circa due ore dopo. Nella mano destra teneva un abito nuovo per la condannata, quello che indossava prima era stato lacerato durante lo stupro. Sopra l’abito nuovo era appoggiata la corda che avrebbe usato per legarla. Nell’altra mano aveva il vasetto con la sostanza azzurra che avevano trovato nel risvolto dell’abito che le era stato strappato. L’Eretica adesso era seduta per terra, nuda, stringeva gli stinchi tra le braccia. E la testa girata di lato, era appoggiata sopra le ginocchia. “Volevi fare la furba, puttana?”. Il suo aguzzino le scagliò quasi addosso il vasetto che le guardie avevano rinvenuto nel risvolto dell’altro abito. Il vasetto finì sul muro e schegge di vetro la colpirono sulla spalla. “Il Frate, vero? É stato lui? Ma non ci importa, a noi importa che tu muoia con dolore, puttana”. La sollevò con uno strattone e l’Eretica restò in silenzio mentre il liquido che le avrebbe permesso di non soffrire tra le fiamme si allargava sul pavimento e le bagnava i piedi. “Indossa questo e fai presto. Non li senti? Sono tutti là fuori, non vedono l’ora che tu muoia”. All’esterno cresceva il coro. “Ro – go! Ro – go!”. Non appena l’Eretica mise piede fuori dalla prigione, la folla esplose in un urlo spaventoso. Adesso anche quelli che il giorno prima l’avrebbero voluta salva si erano associati alla maggioranza che non vedeva l’ora che bruciasse. Volavano gli insulti più sgradevoli e volava anche la frutta marcia addosso alla condannata. L’Eretica camminava piano, preceduta dal Boia e scortata da quattro
guardie che se non ci fossero state, la gente l’avrebbe sicuramente linciata prima che giungesse nella piazza. Una vecchia era riuscita ad avvicinarsi quanto le bastò per sputarle in faccia e centrarla nella bocca. A mano a mano che la macabra processione avanzava le persone che ne aspettavano il aggio ai lati della strada si accodavano, così il corteo diveniva sempre più lungo. L’Eretica trasalì alla visione della catasta di legna dove si erigeva il palo al quale sarebbe stata legata. Ora temeva di svenire. Barcollò, ma una guardia se ne accorse e la sorresse. Questa cosa non ci vuole, pensò. Devo uscire di scena con dignità, devo anche trovare il pretesto per dire qualcosa che faccia ridere prima di partire per l’inferno, l’ho promesso al mio amico frate. Mancavano pochi i ormai e la gente non gridava più. All’improvviso, come se qualcuno avesse dato il segnale, era calato un sinistro silenzio nella piazza, un silenzio che avvolgeva quasi tutto. Si udiva solo lo scricchiolio del legno degli scalini calcati dai piedi nudi e impolverati dell’Eretica che saliva. E poi il suono dei i del Boia, sulla stessa scala, che l’aveva raggiunta e incatenata al palo. Gli inquisitori e i censori avrebbero assistito allo spettacolo da una tribuna di legno montata a pochi metri dal punto in cui sarebbero divampate le fiamme. Erano già al loro posto. Il Signore, come al solito, non ci sarebbe stato perché non usava assistere alle esecuzioni pubbliche. Adesso tornava la paura, era chiaro che ogni secondo trascorso non poteva che essere un secondo di vita in meno. L’Eretica aveva iniziato a respirare affannosamente e mentre il suo petto non la smetteva di gonfiarsi e sgonfiarsi vistosamente, cercava di trattenere la calma che faceva di tutto per scapparle. Nel frattempo sotto i suoi piedi due guardie accatastarono i libri proibiti. Il Boia accese la torcia.
Aspettava solo che si completassero le ultime operazioni della circostanza e poi non gli sarebbe rimasto altro da fare che dare fuoco alla legna. Quello che mancava era il sollecito del pentimento. Ci avrebbero pensato due frati, uno anziano che portava una croce legata in cima a un bastone e poi c’era lui, il frate bello, quello con la faccia di Gesù, l’uomo che aveva rubato il cuore della condannata. Il frate anziano aveva avvicinato la croce alla bocca dell’Eretica, ma lei di baciarla non ne voleva sapere, così era costretta a muovere continuamente la testa, perché quello non demordeva e sembrava che con quel bastone stesse stuzzicando un lupo in gabbia. Ora la cosa che contava era morire dignitosamente, ma se quei respiri profondi e sempre più frequenti non l’avessero lasciata in pace e se altrettanto non avesse fatto il vecchio frate, di morire dignitosamente non se parlava neppure. Proprio quando stava per urlare dalla disperazione, quando il suo orgoglio stava per cadere definitivamente, il frate che amava le ricordò che avrebbe dovuto dire qualcosa di divertente. “E cosa posso dire?” chiese la condannata. “La prima frase che faccia ridere che ti salta in testa”. Allora l’Eretica pensò a qualcosa tipo spero che piova ma le sembrava una cosa scontata e quindi rinunciò. Per fortuna la battuta gliela imbeccò l’altro frate, quello armato di bastone e crocifisso, che le chiese: “Prima di morire, vuoi abbracciare nostro Signore Gesù Cristo?”. “Padre, non vedete che le mie braccia sono legate?”. Il Boia aveva appiccato le fiamme alla base del rogo in quattro punti diversi, dove chi aveva preparato la catasta aveva sistemato la legna secca più fine. Il fumo saliva lento e il fuoco sarebbe rimasto lontano dai piedi della condannata per non più di un altro minuto. Le campane della chiesa suonavano i rintocchi del lutto e la gente che aveva riempito quasi tutta la superficie della piazza se ne stava in assoluto silenzio.
L’unico spiazzo dove non campeggiava alcuna persona era quello occupato dai cavalli e dal carro che era stato utilizzato per portare la legna dalla foresta.
In quel giorno col cielo azzurro che sembrava estate, sco arrivò nel Borgo. Camminava per le strade deserte e quando vide il fumo sbucare oltre i tetti delle case che circondavano la piazza, capì subito quello che stava accadendo. Così si mise a correre a perdifiato e mentre correva sognava. Sognava un Borgo nel quale nessuno avrebbe mai un rogo e mentre sognava si faceva largo tra la folla per avere un posto in prima fila. Spingeva la gente, si apriva il suo varco a gomitate e non smetteva di sognare. Stava facendo il sogno più forte che in quel momento avrebbe potuto fare, era un sogno così forte che neppure il sogno della sua ricchezza e quello del suo successo sarebbero potuti esserlo di più. Il fuoco aveva iniziato a bruciare i libri, i frati pregavano e le campane continuavano a lanciare verso quel cielo azzurro i rintocchi del lutto. L’Eretica quasi non riusciva a respirare più perché il fumo che saliva dritto le finiva giusto al naso. Aveva iniziato a emettere piccoli lamenti che si mescolavano al crepitio della legna che ardeva. sco sognò che piovesse. Di colpo, il boato assordante di un tuono aprì uno squarcio nel cielo. In una frazione di secondo giunsero velocissime da nord le nuvole nere della pioggia e iniziarono a scaricarsi. Un temporale di tale intensità non aveva avuto precedenti. Il panico travolse i presenti. La gente cercò di allontanarsi il più possibile dalla piazza, tutti correvano e gridavano convinti della presenza del demonio che avevano ritenuto artefice dell’improvviso acquazzone. Ma non andavano nella stessa direzione, così si scontravano, cadevano e alcuni finivano calpestati. Tra loro gli inquisitori e i censori scesi dalla tribuna con un salto. Il Boia fu travolto da un uomo grosso quanto lui. In seguito alla caduta perse i sensi e si ritrovò disteso con la pancia all’ingiù e la testa adagiata dentro una piccola fossa. Intanto la pioggia cadeva incessantemente e il livello delle pozzanghere saliva rapidamente. In pochi minuti l’acqua giunse fino al naso del
carnefice che così riprese i sensi. Il Boia stava per rialzarsi quando avvertì una vibrazione sul suolo che anticipava l’arrivo del carro usato per trasportare la legna. I cavalli galoppavano impazziti, alla guida non c’era nessuno. Si voltò e vide le bestie lanciate su di lui. Si accorse che sarebbe stato investito dal convoglio in corsa. Quando ormai l’impatto era imminente, i cavalli deviarono improvvisamente. In quella frazione di secondo, nella quale l’aguzzino fece appena in tempo a pronunciare una risata che scoprì i denti marci e deformò il viso grasso, pensò di essere salvo. Nella deviazione repentina le ruote si sollevarono sbilanciando il carro che si rovesciò di lato travolgendo il suo corpo. In seguito all’impatto il Boia riusciva a muovere solo la testa. In un primo momento spese le sue ultime energie gridando disperatamente per invocare soccorso. Il livello dell’acqua saliva ancora e presto gli sfiorò le labbra. In uno sforzo violento cercò di tenere il capo più in alto che poteva, girato di lato. Il dolore era acuto. Poi improvvisamente, cedette. La testa finì dentro la pozzanghera che ormai tracimava. La fastidiosa sensazione dell’acqua che entrava nell’esofago dal naso gli diede la forza di tentare un altro respiro. Emerse e gustò l’ultima boccata d’aria della sua vita rantolando come un asmatico. La sua testa finì ancora una volta nella fossa. Non la sollevò più. Il rogo si spense e la pioggia cessò di colpo. In un attimo le nuvole che viaggiavano veloci verso sud non erano più visibili. L’Eretica era viva. Nella piazza, oltre al cadavere del Boia, erano rimasti solo sco e il frate col volto di Gesù. “Durante l’esecuzione ho pregato per la salvezza del suo corpo, non per quella della sua anima” disse il frate. sco sorrise. Alcune ore dopo, nel Palazzo, il Signore aveva radunato per un consiglio straordinario gli inquisitori, i censori e i vertici dell’ordine pubblico. Indossava ancora lo stesso mantello col cappuccio che aveva vestito alcune ore prima per violentare L’Eretica e quando aveva lasciato il libro proibito davanti alla porta della sua casa.
Guardava fuori dalla finestra. Nella sala regnava il silenzio, rotto solo dal ritmico stillicidio delle gocce d’acqua che entravano dal soffitto in seguito al violento acquazzone, ando da una fessura della quale nessuno si era accorto prima e che, per questo motivo, non era mai stata riparata. D’un tratto il Signore tuonò con voce irata: “Il diavolo non esiste!”. Si voltò con gli occhi sui presenti, riservando a ciascuno di loro una dose di attenzione prima di diventare improvvisamente pacato. “Del diavolo e di Dio devono avere paura solo loro”. Terminò la frase indicando col dito fuori dalla finestra nella direzione delle case. Si accostò ancora alla finestra offrendo ai presenti la visione della sagoma del suo corpo in controluce. Trangugiò un sorso di vino. Parecchie gocce fecero in tempo a rompere il silenzio che nuovamente si era diffuso nella sala. Il Signore sapeva che adesso la cosa migliore da fare era quella di pensare al modo col quale condurre a proprio vantaggio la partita che per il momento stava perdendo clamorosamente. La detenzione del controllo si basava essenzialmente su due aspetti, ossia la paura e la fiducia che il popolo nutriva per lui. Era consapevole del fatto che se avesse promosso la ricerca dell’Eretica e del Frate per poter mostrare alla gente i loro corpi appesi a un albero, qualora questa fosse andata male, ipotesi plausibile data la conclamata inettitudine delle sue guardie, la fiducia della quale godeva fino a quel momento sarebbe stata ulteriormente minata. A un tratto i suoi occhi s’illuminarono e un sorriso s’accese sulle sue labbra. Convocò uno scribacchino, suscitando lo stupore di tutti i presenti ai quali non diede occasione di pronunciarsi e davanti a loro dettò, con voce ferma e sicura, il testo del manifesto che avrebbe fatto esporre.
Sudditi fedeli, mi rivolgo a Voi per esprimere la mia disapprovazione totale alla condanna
che gli inquisitori e i censori hanno riservato all’imputata accusata di essere un’eretica. IO SAPEVO CHE ERA INNOCENTE e ho pregato Dio perché la salvasse con il temporale. Adesso è tempo di far pagare il conto a chi ha sbagliato. Dispongo la condanna a morte degli inquisitori e dei censori mediante impiccagione. La sentenza avrà luogo la mattina seguente l’esposizione del presente nella piazza. Il vostro Signore.
Uscì dalla sala senza guardare nessuno, lasciando una macabra scia di parole: “Che sia attaccato sui muri delle strade e della piazza del Borgo oggi stesso”.
La mattina seguente il vento era fortissimo. I corpi degli uomini appesi per il collo dondolavano senza tregua suscitando il divertimento del popolo accorso in massa per assistere all’esecuzione e a manifestare la propria approvazione all’amatissimo Signore.
8
Ogni tanto il Signore affidava al figlio incarichi di responsabilità, di responsabilità del Principe, ovviamente. Serviva per abituare le persone che lo circondavano al fatto che prima o poi avrebbero avuto a che fare con un idiota al potere e quindi era necessario mascherare certe cose inutili, le uniche alla portata del Principe, in cose importanti. Il decreto della numerazione delle posate era stato il primo o. Un decreto sperimentale che aveva costretto i fabbri del Borgo a fondere tutte le posate delle cucine del Palazzo lasciando solo dieci pezzi di ogni modello, e da lì in avanti a forgiare serie di dieci pezzi di posate nuove. Tutto questo perché il Principe, essendo in grado di contare solo con le dita che aveva a disposizione nelle sue due mani, avrebbe fatto una confusione pazzesca se avesse dovuto ispezionare i cassetti della credenza del Palazzo con più di dieci forchette, dieci cucchiai e dieci coltelli. E per conferire maggiore importanza al provvedimento, il Signore impose che le posate dovessero essere riposte in maniera ordinata dopo l’uso entro le ore quattordici di ogni giorno. In caso di inadempienza il colpevole sarebbe stato duramente punito. Così, un cuoco che un giorno aveva terminato tardi di cucinare e si era concesso la pausa pranzo quando le due del pomeriggio erano trascorse da qualche minuto, non fece in tempo e riporre coltello e forchetta nel cassetto entro il termine prestabilito e fu condannato al taglio della mano. Effettivamente per il Principe era stato uno shock scoprire di avere un dito in più rispetto alle posate conservate in quei cassetti. Dopo il decreto della numerazione delle posate seguirono: il decreto della numerazione delle pentole, il decreto della numerazione dei bicchieri, il decreto della numerazione delle tovaglie e quello della numerazione delle tazze del latte. Il Principe ebbe modo di frequentare la cucina del Palazzo sempre più spesso per motivi di lavoro, ma il giorno della plurima esecuzione di inquisitori e censori, proprio mentre sco aveva trovato casa nel Borgo, accadde per l’idiota un fatto davvero importante: si ritrovava a contare le tazze del latte mentre stava in piedi tra il tavolo e la credenza e quando era arrivato al settimo dito avvertì una massa morbida, incredibilmente enorme, che posandosi sulla sua schiena gli
diede una sensazione di assoluto piacere. Chiuse gli occhi per gustare fino in fondo quel momento e li riaprì solo quando udì una voce dietro di lui che diceva: “Perdonatemi giovane Principe, mi sono incastrata tra voi e il tavolo”. Il Principe si voltò e fu folgorato dall’amore. Per la cuoca era il primo giorno di lavoro e si sarebbe aspettata un benvenuto più convenzionale da parte di un membro della famiglia più potente del Borgo, invece sentì ripetersi per tre volte di fila: “Tette tette tette”.
Nel frattempo sco stava armeggiando con un’enorme chiave di ferro completamente arrugginita che avrebbe dovuto aprire la porta della casa disabitata da oltre due anni che si trovava nel centro, vicino alla piazza. Faticò non poco per inserirla nella toppa, per non parlare della difficoltà incontrata nel tentativo di farle fare quei maledetti due giri che avrebbero estratto la serratura dall’incavo. Non ci riuscì. Dopo aver provato per circa dieci minuti, si assicurò che nessuno gironzolasse nei paraggi e sferrò un forte calcio con la suola al battente che si spalancò di colpo, proiettando in aria la coltre di polvere che l’umidità aveva fatto aderire al legno. Emerse subito una forte puzza di muffa e sco starnutì per oltre dieci minuti. L’abitazione era vetusta e con ogni probabilità ospitava insetti e topi. Il letto era completamente fradicio, infatti sco decise che non ci avrebbe dormito. Avrebbe comprato un pezzo di rete usata dai pescatori del lago per legarla a due ganci fissati al soffitto e se ne sarebbe servito come giaciglio, così sarebbe stato sospeso per aria e non avrebbe avvertito l’umidità del locale malsano. Era arrivato nel Borgo il giorno prima e quella schifosissima casetta era stata l’unica sistemazione disponibile. sco si sarebbe adattato a tutto, almeno provvisoriamente. Non conosceva nessuno e nessuno sapeva chi fosse lui. Gli amici che c’erano stati alcuni anni prima gli avevano detto che nelle campagne circostanti le sue api avrebbero trovato i fiori del castagno, indispensabili per la sperimentazione di una nuova qualità di miele dall’aspetto scuro e dal gusto molto forte. Quello non era l’unico motivo che aveva portato sco nel Borgo e magari lo si potrebbe considerare un pretesto, perché sco in realtà era stato preso per mano da una gran voglia di scoprire posti nuovi. Era giunto il momento di farsi conoscere
e di guadagnare qualche soldo. Decise di andare nel Palazzo del Signore per vendere il suo miele.
Isabella spalancò gli occhi e drizzò il busto di soprassalto. Si ritrovò da sola nel suo letto, madida di sudore, a respirare freneticamente col cuore che pareva impazzito, talmente era veloce e irregolare il suo battito. Guardò fuori dalla finestra. Di colpo, alla vista del cielo, si sovrappose quella delle immagini dell’incubo appena trascorso che le tornò in mente con prepotenza. Così arono sullo sfondo azzurro tre uomini che andavano incontro a un altro che li aspettava seduto. Si accorse che l’uomo sulla sedia era il Signore. Tutto a un tratto, lei si trovò al posto del Signore senza che costui si alzasse, semplicemente trasformandosi. Uno dei tre le offrì il cuore. Se lo strappò dal petto dopo aver aperto la sua camicia candida con le proprie mani nella cui sommità delle dita dimoravano robusti artigli al posto delle unghie. Il sangue scorreva copioso e schizzava ovunque. Aveva inondato il corpo dell’uomo e sopra i suoi vestiti il rosso aveva rimpiazzato il bianco del tessuto. Quando glielo porse batteva ancora. Isabella non lo volle toccare e lo fece adagiare al suolo nella pozza di sangue. Un altro si aprì il cranio con la scure che aveva sostituito la mano destra. Con l’altra estrasse il cervello e lo depose ai suoi piedi, mentre il terzo aveva iniziato a strapparsi i muscoli per donarglieli. Isabella aveva vissuto il sogno anche come osservatrice. Guardava il suo volto terrorizzato e mentre i tre si sacrificavano volontariamente per lei, provava una grande sensazione d’angoscia. Fortunatamente il Giullare interruppe il ricordo dell’incubo bussando alla porta i soliti tre colpi per svegliarla. “Venite avanti” disse Isabella. La porta si aprì e il Giullare si presentò. “Buongiorno Isabella. Il Signore, il più abile tra i cacciatori, è fuori per una battuta alla volpe”.
Isabella amava le volpi, le trovava così affascinanti con quella coda morbida e quindi sperò in cuor suo di vederlo rientrare a mani vuote. “Se dovete chiedermi di seguirvi fino alla zona di caccia dove sono attesa, vi prego di risparmiarmi la proposta, ditegli che ho mal di testa”. Ma il Giullare aveva altre notizie. “Isabella, il Signore, insuperabile buongustaio, adora il miele. Sarebbe una bellissima sorpresa se lo trovasse sulla tavola al suo rientro per cena”. “E dove dovrei andare a comprarlo? Non credo che nel Borgo ci siano mercanti di miele”. “Un forestiero è arrivato ieri nel Borgo, così mi ha detto, si chiama sco e vende il miele. É qui sotto, vi sta aspettando”. Non appena sco vide il sorriso di Isabella che scendeva le scale, gli venne in mente che alcuni giorni prima aveva sentito il fremito delle ali di un ero e poi lo aveva visto, tutto bagnato, che volava incontro all’arcobaleno. “Mi chiamo Isabella” gli disse la ragazza. “E tu devi essere sco”. “Sono sco. Ti piace il vento?”. Dopo un attimo d’esitazione Isabella rispose. “Sì, il vento mi piace”. “Per me hai detto una bugia”. “No, non le dico mai”. “Io adoro il vento. Lo sai che per un’ape quello che conta non è la distanza tra il fiore e l’alveare, bensì quanto si deve stancare per andare a gustarne il nettare?”. “Davvero?”. “Certo. Poi, quando parla con le compagne dice loro quanta fatica dovranno sopportare per arrivare fino al fiore. Non ti annoio, vero?”.
“Direi di no, anzi l’argomento è interessante. Mi piace che abbia cambiato discorso senza alcun motivo, di solito lo fanno i pazzi e forse è per questo che mi piace”. “Guarda che non ho cambiato discorso!”. “Ah no? Mi parlavi del vento e poi tiri fuori le api”. “Le api che volano controvento si stancano di più!”. “Non avevo dubbi, e magari credono che un fiore sia più vicino se il vento le spinge verso di lui. Quindi raccontano alle compagne che visto che il vento soffia nella direzione opposta rispetto al giorno prima, durante la notte il fiore si è spostato. Vuoi farmi credere che le api sanno parlare?”. “Certo che sanno parlare, solo che non le capiamo. Ti piacerebbe imparare a capire le api?”. “Moltissimo!” rispose Isabella. “Mi piacerebbe moltissimo capirle”. Era una bugia, la seconda bugia dopo quella del vento. La cosa che Isabella avrebbe voluto capire più di ogni altra era come convincere sco a fare un figlio con lei perché quel mercante era davvero carino. Chiaramente le sarebbe bastato chiederglielo e sco non si sarebbe di certo tirato indietro. Ma Isabella questo non lo sapeva e quindi prese l’argomento molto da lontano. “Immagino che un esperto di api come te abbia visitato tutti i borghi”. sco era contento per quella domanda, gli piaceva che si parlasse di lui. Quando accadeva, assumeva delle posizioni che miglioravano il suo aspetto. Se era in piedi, come in quella circostanza, buttava il petto all’infuori e sgonfiava la pancia, le sue labbra carnose accennavano un moderato sorriso e lo sguardo scintillava. “Effettivamente li ho visitati tutti, o meglio quasi tutti. Ecco, questo è il terzo che vedo, oltre quello nel quale sono nato e quello nel quale c’eravamo trasferiti quando ero piccolo”.
“Ma allora è la prima volta che viaggi”. “Sì, in un certo senso” rispose sco, che adesso appariva un po’ più dimesso. “Ma non conto di restare più di un anno qui e così avrò il tempo per visitare tutti i borghi”. “I borghi sono più di trenta, se restassi un anno in ciascuno di essi arriveresti nell’ultimo all’età di cinquanta?”. “All’età di sessanta anni. Praticamente un ragazzo, non trovi?”. “Certo!” replicò Isabella. “E tra trenta ne avrò sessanta anche io. Saremo due giovani, ma se tu partirai tra un anno e io resterò qui, nessuno avrà più notizie dell’altro e…”. sco non aveva colto l’intenzione di Isabella, rimasta sospesa dai tre puntini che precedevano le virgolette che chiudevano la frase. Del resto non era un fatto comune che la donna più importante del Borgo fe una proposta di quel tipo a un mercante forestiero, anzi, sco aveva frainteso proprio tutto. “Stai tranquilla, questo anno conto di produrre tanto di quel miele che potrai farne una scorta così abbondante che persino i tuoi figli potranno consumarlo al matrimonio dei loro figli e…”. “A proposito di figli, e se andassimo nella mia stanza…”. “Aspetta!” la bloccò sco mettendole un dito sulle labbra. “E lo avrai a metà prezzo. In più questi tre vasi te li regalo. Adesso devo proprio scappare, è stato un piacere conoscerti”. “Il piacere è stato mio” rispose Isabella e mentre guardava le spalle di sco che imboccava l’uscita pensò: è proprio carino questo sco, peccato che sia più idiota di mio marito.
9
Isabella si era precipitata in Biblioteca per raccontare l’incubo al Guardiano. Ma non gli disse subito la verità, inventò una storiella su due piedi, perché se avesse parlato degli uomini che le offrivano i propri organi dopo che lei si era trasformata nel suocero, avrebbe rischiato di lasciare intuire al cieco l’incarico che le sarebbe stato assegnato dopo la morte del Signore. Così raccontò di aver sognato tre farfalle gialle che divenivano una farfalla rossa e subito dopo tre lupi feroci che l’avevano circondata per sbranarla. E nonostante fosse impegnata a inventare la favoletta, non riusciva a dimenticare sco, e la voglia del mercante di miele era così forte che decise di parlarne. “Oggi è venuto un forestiero al palazzo, si chiama sco e fa il mercante di miele”. Fece una breve pausa e trasse un sospiro. “Ho una strana sensazione, forse sono i suoi occhi castani che scintillano. Ecco adesso vi ho svelato il mio segreto e siamo pari”. “Isabella, lo amate?” le chiese il Guardiano un po’ divertito. “Io non so, veramente ho solo una gran voglia di rivederlo”. “Ci saranno altre occasioni, suppongo”. “Certo, credo proprio che faremo una bella scorta di miele” concluse Isabella mentre sorrideva. Il Guardiano prese a sfiorarle il volto per coglierne i lineamenti e farsi l’idea dell’aspetto della giovane donna. Sentiva che la pelle era come una pesca. Piccola mia, pensò. Non sei fatta per fare la moglie di quell’idiota del Principe. Poi, scosse il capo. “Che vi prende?” gli chiese Isabella vedendo l’espressione preoccupata del
cieco. “Isabella, credo di avervi coinvolto in una storia troppo pericolosa e non ne avevo il diritto”. “Di cosa parlate?”. “Del brano del Manuale del Muratore che vi ho fatto leggere”. “Non dite sciocchezze. Questo è il nostro segreto, troverò il modo di convincere il Signore a censurare quel o magico al più presto, così nessuno farà più dei brutti incubi”. Fece per andarsene, ma il Guardiano la afferrò per le mani e gliele strinse forte. “Isabella, aspettate. Ma è possibile che non riusciate a capire?”. Oh sì, io ho capito tutto, pensò lei. Ma se sei tu che non hai ancora capito, la verità potrebbe portarti alla forca. “Isabella, Isabella, per quale motivo il Signore si diverte a causare gli incubi?”. Isabella si rese conto che il Guardiano aveva le idee chiare quanto lei e quindi decise di buttare giù la maschera. Così fu lei a sfiorare il volto dell’uomo come aveva fatto lui poco prima. Ma non carezzò pelle di pesca, bensì una cute ruvida e piena di cicatrici delle ustioni da acido. “Povero vecchio” gli disse. “Scaltro quanto imprudente. Non avete pensato che potrei stare dalla parte del Signore?”. “Oh certo, l’ho pensato, ma che mi importa?”. “Sentite, poco fa vi ho mentito, non ho sognato tre farfalle gialle che si trasformavano in una farfalla rossa e poi in tre lupi che mi sbranavano. Ecco, sono stata scelta per sposare il Principe affinché dopo la morte del Signore io possa governare il Borgo facendo credere a tutti che sia quell’idiota di mio marito a farlo. Ma devo partorire un erede entro tre anni, altrimenti il Signore mi farà decapitare”. “Isabella, cosa avete sognato?”.
Isabella raccontò il suo incubo al Guardiano. Secondo il cieco l’interpretazione era abbastanza immediata: Isabella non avrebbe voluto prendere il posto del Signore perché la sua coscienza non glielo avrebbe permesso. I tre uomini che le offrivano cuore, cervello e muscoli rappresentavano il popolo privato del desiderio di amare, di pensare e di agire. “Credo che tutti debbano sapere che il Signore si prende gioco di loro” disse Isabella. “Non servirebbe a nulla, il Signore gode di un incondizionato consenso del popolo. É la cosa della quale va più orgoglioso, sa di essere amato a tal punto che delle guardie potrebbe farne a meno. Infatti le guardie sono un manipolo di inetti male armati”. “Ma se la gente sapesse la verità basterebbero i forconi dei contadini per rovesciarlo”. “Quale verità? Non la conosciamo neppure noi. E poi questa gente non crederebbe mai alle nostre parole e finirebbe per amare ancora di più il tiranno, pensando che sia vittima di un complotto tramato da una giovane arrivista e da un povero cieco. Io invece credo che dovremmo provare a capire cosa nasconda il o tratto dal Manuale del Muratore”. “Ma chi potrebbe capire il segreto del Manuale del Muratore?”. “Forse un poeta. Ma ahimè, io non ne conosco neppure uno”. Isabella sorrise. Le tornò in mente il pranzo durante il quale le fu presentato il Principe prima delle nozze e in particolare il piatto di uva da tavola confezionato dal bracciante intraprendente che aveva chiesto al Sorvegliante della vigna di essere messo alla prova per diventare tagliatore, ossia il Poeta che faceva innamorare tutte le donne del Borgo con in suoi versi. Allora disse: “Io conosco un poeta”.
10
Il pomeriggio dello stesso giorno Isabella andò a cercare sco nelle campagne dove le avevano detto che il forestiero avrebbe sistemato le sue arnie. All’improvviso vide una nuvola scura e densa che emetteva un ronzio decisamente poco rassicurante. La nuvola era veloce e si dirigeva proprio verso di lei. Si trattava di migliaia di api che volavano in gruppo. Allora Isabella si buttò pancia a terra e restò immobile, travolta dal terrore. Non mosse neppure un muscolo e trattenne il fiato fino a quando tutte quelle api non le arono sopra la testa senza neppure sfiorarla. “Non c’è nulla da temere”. Era la voce di sco. “Quando sciamano non sono pericolose, sono molto stanche”. “Dove vanno?”. “Vanno via. Seguono la regina, ormai le ho perse. Ma un’altra regina resta sempre nell’alveare. E come mai sei qui?”. “Perché? Ti dispiace?” replicò Isabella mentre si rialzava e si sistemava la gonna. “Al contrario, sei sempre la benvenuta”. “Il tuo miele è delizioso, vorrei averne dell'altro”. “Vuoi dirmi che hai già fatto fuori quei tre vasi che ti ho lasciato stamattina?”. “Sì, cioè no, non da sola ovviamente. A Palazzo il tuo miele è piaciuto molto”. “Molto bene, te ne posso regalare altri tre vasi”. “Lo prendo solo se me lo fai pagare”.
Nel frattempo lo sciame si era allontanato così tanto che non si riusciva più a scorgerlo. “Va bene, ma facciamo che lo potrai avere per metà prezzo”. “Affare fatto” concluse Isabella. “Vado subito a prenderlo, aspettami qui”. “Eh no, tu adesso non ti muovi!”. “Ma e il tuo miele?” “Il miele me lo darai un’altra volta”. Dopo quelle parole il tempo rallentò e ci fu il bacio più intenso che nel Borgo fosse mai stato scambiato. Accadeva mentre il sole, che a quell’ora era una gigantesca palla rossa, aveva colorato di arancione i loro volti. “Ho sognato di farlo dal momento in cui ti ho vista la prima volta” le disse sco. “Quando scendevi le scale del Palazzo. Ma non avevo capito quanto sarebbe stato facile realizzarlo”. “Realizzare cosa?”. “Il sogno di baciarti”. “I tuoi sogni si realizzano sempre?”. “Sì, certo”. “E come si fa?”. “Prima di tutto bisogna sapere di avere un sogno”. Isabella rise di gusto e disse: “Ecco chi sei, sei l’Umile Sognatore!”. “Guarda che io non sono per niente umile. Ti sembro umile?”.
“Moltissimo”. “Dici davvero?”. “No, scherzo. Facciamo che non sei umile”. “Infatti. Un esperto di sogni come me non può essere umile”. “Ma sei davvero un esperto di sogni?”. “Naturalmente”. “É successa una cosa strana. Il Guardiano della Biblioteca sostiene che un libro, il Manuale del Muratore, contenga un brano che ha il potere di imporre un sogno particolare che lui chiama il sogno del Tre e dell’Uno. L’ho letto. Effettivamente anch’io ho fatto un sogno nel quale si ripeteva la combinazione di questi numeri. C’erano tre uomini che mi offrivano rispettivamente il cuore, il cervello e i muscoli dopo che avevo preso il posto del Signore”. “Non ho mai sentito nulla del genere, ma non posso escludere che i sogni si possano imporre o magari rubare”. Isabella gli accarezzò il volto e gli fece l’ultima domanda prima di recarsi nella taverna della piazza. “Ci possono rubare qualunque sogno?”. “Non lo so, tu cosa dici?”. “Non lo so neppure io. Ma non sei tu l’esperto? Comunque vorrei che leggessi anche tu quel o del Manuale del Muratore” concluse Isabella mentre gli consegnava il libro.
11
Isabella, nei panni di moglie del Principe, non sarebbe mai potuta andare nella taverna del Borgo a cercare il Poeta. E dal canto suo il Poeta, al quale il Sorvegliante della vigna aveva imposto l’esilio, non avrebbe potuto farsi vedere in giro senza un adeguato camuffamento. Quella sera Isabella si travestì da addetta alla carbonella. Mentre rientrava dalla campagna dove aveva incontrato sco, aveva trovato un pezzo di legno secco, gli aveva dato fuoco, quindi l’aveva lasciato spegnere e dopo che si era raffreddato si era impiastricciata il volto e i vestiti. Era ancora più bella tutta nera e quando si palesò nel locale, gli uomini restarono incantati dalla giovane sconosciuta. Una donna, l’unica presente nella taverna, le andò incontro per offrirle un bicchiere di vino mentre diceva: “Il vostro volto ha il colore delle tenebre, ma i vostri occhi sono la luce, la luce delle luci. Gradite del vino?”. “Signora, il vostro vino è sicuramente delizioso quanto voi siete gentile, ma io sono qui per un poeta e devo essere lucida perché devo chiedergli delle cose importanti”. “Allora se non volete bere, concedetemi un ballo”. Nell’istante successivo le cinse la vita e prese a piroettare insieme a lei seguendo la musica allegra che due musicisti iniziarono a suonare in quel momento. E mentre gli altri avventori guardavano meravigliati le due donne che ballavano nel centro della stanza, Isabella fu bombardata di domande dalla sua nuova amica. “Ditemi, mia bella fanciulla, come è fatto questo poeta che cercate?”. “Non so, non l’ho mai visto”. “Si dice almeno che sia un bell’uomo?”. “Non ho mai sentito parlare delle sue eventuali qualità estetiche”. “La vostra è un’impresa ardua. Come sperate di trovare un uomo se non sapete
come è fatto?”. “Ecco, so che è un abile tagliatore d’uva da tavola e anche un bravissimo compositore di piatti di frutta”. “Dovreste mettere un annuncio”. “Non scherzate, le donne del Borgo sono affascinate da lui, le conquista con le sue poesie. A proposito, voi siete mai stata corteggiata da un poeta?”. “Io purtroppo no, ma credo sia bellissimo”. Mentre rispondeva, la donna accostò il suo corpo a quello di Isabella. Poi proseguì. “Mi trovate indiscreta se vi domando cosa dovete chiedere a quel poeta?”. “Vi trovo curiosa, quasi quanto una donna”. “Come sarebbe a dire? Osate insinuare qualcosa?”. “Certo, oso insinuare che una vera donna non potrebbe mai manifestare certe reazioni durante un ballo. Celate un tronchetto di legno sotto la gonna?”. “Certo che per essere un’addetta alla carbonella avete dei modi molto raffinati”. “Esattamente quanto è forbito il vostro modo di esprimervi, fatto inusuale per un’avventrice di taverne”. “Che dite, misteriosa carbonara, sveliamo la nostra vera identità nella camera al piano di sopra?”. “E tu che mi dici, caro Poeta travestito da donna, risponderai alle mie domande mentre ci sediamo in quel tavolo per un bicchiere di vino?”. Si accomodarono a un tavolo libero, ordinarono del vino e presero a parlare. Il Poeta raccontò a Isabella di essere stato cacciato dalla vigna, delle minacce del Sorvegliante e della necessità di ricorrere al travestimento. “Ditemi come avete fatto a riconoscermi. Sarà per via di quelle parole che vi ho
dedicato poco fa… Il vostro volto ha il colore delle tenebre, ma i vostri occhi sono la luce, la luce delle luci. Non è certo il meglio che io possa fare”. “Ma no, Poeta. Sono i vostri occhi, gli occhi del poeta”. “Allora adesso potete dirmi per quale motivo mi stavate cercando?”. Isabella estrasse dalla tasca della gonna impiastricciata di nero un foglio di carta. “Poeta, ho copiato qua sopra una cosa. É una sorta di poesia”. “Ma che calligrafia”. “Vi piace? E oltretutto sono stata ben attenta ad andare a capo proprio come nel libro”.
Scavata la buca profonda come l’altezza di un uomo si dispongano dentro le pietre calcaree frantumate e sia ricoperta con il legno che fornirà la macchia di ginepro tagliata un anno prima e lasciata asciugare al sole e al vento dell’arida pianura che precede i boschi a formare una catasta stabile nell’equilibrio la cui altezza di tre uomini non dovrà mai essere superata.
La s’incendi in tre punti della base e uno della cima e si osservi il legno che diviene fumo perché di Dio questa è la volontà. Si rimuova la brace e si lasci respirare la pietra e si mescoli e si frantumi con la stessa forza espressa dal Signore nel domare il suo destriero che il giorno della cattura era nervoso e irascibile e in quanto tale deve essere temuto perché capace di recare grave danno. Si aggiunga la pietra all’acqua nella parte di tre per la parte di uno e si abbia cura che la proporzione sia assolutamente rispettata.
“Allora, cosa vi sembra?” domandò Isabella. “É un trattato tecnico, tutto qui”. “Sapete Poeta, c’è un fatto strano. Chi legge questo brano, quando va a dormire, fa degli strani sogni nei quali gruppi di tre oggetti o magari persone o animali si susseguono a un oggetto, una persona oppure un animale”.
“Siete sicura?”. “Sicurissima, ho provato personalmente”. “Questo fatto potrebbe avere una spiegazione”. “La conoscete?”. “Credo di aver capito. Vedete, l’ossessiva ripetizione del tre e dell’uno, scavata la buca profonda come l’altezza di un uomo, la cui altezza di tre uomini e poi ancora la s’incendi in tre punti della base e uno della cima e infine si aggiunga la pietra all’acqua nella parte di tre per la parte di uno… Ecco, non può essere che questo a causare quegli strani sogni”. “Chi potrebbe aver scritto una cosa del genere?”. “Non lo so, ma non è stato un poeta!”. “Come potete dirlo?”. “Perché nessun poeta desidererebbe imporre un sogno”. “E qualcun altro potrebbe farlo?”. “Questo non lo so, ma di certo non lo farebbe un poeta”. “I poeti riescono a far sognare con le loro parole” disse Isabella. “I poeti regalano i sogni perché chi legge una poesia ritrova dentro la poesia quello che desidera. Se io vi dedicassi dei versi e mettiamo che quell’ubriacone che sta al banco li leggesse, ecco quei versi sarebbero per la sua bottiglia, non per voi. Ditemi, non vi è mai capitato di sentirvi innamorata di un uomo mentre leggevate le parole che qualcuna aveva scritto per un altro?”. “Io veramente non avevo mai fatto caso a questa cosa” balbettò Isabella. “Significa che non vi siete mai innamorata?”. Isabella non rispose, prese il foglio di carta, lo infilò nuovamente nella tasca della gonna e mentre pensava a sco lasciò la taverna per rientrare al Palazzo.
12
La cera della candela era stata quasi completamente consumata dalla fiamma che alternava momenti di immobilità, nei quali il fumo nero saliva dritto, con altri di frenetico movimento che pareva si dovesse spegnere da un istante all’altro. Ma le folate di brezza leggera, che entravano dalla finestra socchiusa, non erano state sufficienti a far morire la fiammella quella notte che sco stava leggendo il Manuale del Muratore. Non lo trovò affatto interessante. Si stava riposando sulla rete che i pescatori del lago gli avevano venduto e che lui aveva legato al soffitto della casetta diroccata del centro. Aveva anche piantato un chiodo nel muro per legare una corda, così tirandola ogni tanto poteva cullarsi. Non si sa bene per quale motivo, ma pare che le oscillazioni e la lettura tediosa costituissero una miscela soporifera molto potente e così sco si addormentò prima del solito, col libro che gli era caduto sul volto, proprio non appena aveva terminato la lettura del o sulla preparazione dell’amalgama cementante. La luce fioca continuò a illuminare il suo viso ancora per qualche minuto, proiettandone l’ombra ballerina sul muro, poi la candela morì su se stessa e sco iniziò il suo sogno. Come era accaduto il giorno prima, cercò di entrare a casa ma non riuscì a far girare la chiave nella serratura. Così dovette aprire la porta sferrando un calcio. Fu investito dalla polvere che la botta aveva sollevato. Ma questa volta, quando l’uscio si spalancò con violenza, dalla casa non uscì lo sgradevole odore della muffa, bensì un profumo di fiori intenso e piacevolissimo. La casa era accogliente. sco aprì le finestre e in quel momento ebbe la sensazione di non essere solo. Avvertiva una presenza, ma non riuscì a scorgere nessuno. Poi la sensazione fu rafforzata dalla fragranza di muschio che si era sovrapposta al profumo di fiori e che pareva provenisse dalla pelle di una donna. sco si guardò intorno, sapeva di non essere solo e fremeva dalla voglia di vedere lo spiritello che stava giocando con lui. Era sicuro che fosse lì, da qualche parte. A un tratto, ecco la voce.
“sco, sco…”. La voce del fantasma era stata seguita da una breve risata, deliziosa e sensuale. E subito dopo ancora la voce. “sco, sono qui…”. sco girò nelle camere alla ricerca di quella figura. Entrò anche nella cucina e constatò che non c’era nessuno, così fece per abbandonare il locale, ma quando stava per varcarne la soglia, si voltò e davanti ai suoi occhi trovò Isabella. Se ne stava seduta sul tavolo, era scalza e faceva dondolare le gambe nude mentre gustava del miele. sco le andò incontro, poi improvvisamente come accade solo nei sogni, si ritrovò sotto di lei. E ora, quanto di più donna ci possa essere in una donna era per le sue labbra e allo stesso tempo il suo essere uomo era per la bocca di Isabella. sco udì ancora quella voce. “sco, sco…”. Su come fosse possibile che Isabella in quella circostanza, pur non essendo ventriloqua riuscisse a parlare non ci sono altre spiegazioni oltre a quella che nei sogni sia ammessa ogni stranezza. “Certo che fa proprio schifo la tua casa” proseguì la ragazza. A questo punto sco smise di avvertire la piacevole sensazione del contatto appena trascorso. In realtà non aveva ancora realizzato quanto stesse accadendo, gli occorsero parecchi secondi prima di capire che il sogno era terminato e che quella Isabella era vera, in carne e ossa, davanti a lui. Non era sola, c’era il Guardiano cieco con lei. “Come hai fatto a entrare?”. “La porta era aperta, qualcuno ha sfondato la serratura con un calcio, non ti sei accorto?”. sco non rispose a quella domanda, sarebbe stato troppo lungo da spiegare. Così lei continuò, osservando l’inusuale giaciglio di sco. “Tu sei proprio strano, non ho mai visto nessuno che dorme su una rete sospeso
per aria”. sco scrollò le spalle. “É molto comodo!” sorrise. “Stavo facendo un bellissimo sogno. Gradisci del miele?”. “Miele? Magari dopo, adesso parliamo del tuo sogno. Hai letto il libro che ti ho dato?”. “Certo che l’ho letto, ed è assolutamente noioso, infatti mi sono addormentato mentre lo leggevo”. “Hai letto anche il o che parla della preparazione dell’amalgama?”. “Sì sì, ho letto solo quello”. “Allora, cosa hai sognato?”. “Ho sognato noi due che facevamo l’amore. Tu all’inizio mangiavi del miele, poi ti sei sdraiata sul tavolo”. “Interessante, e il resto?”. “E il resto te lo racconto quando siamo soli. A proposito, lui chi è?”. “Sono il Guardiano della biblioteca” intervenne il cieco. “Sei sicuro che nel sogno che hai fatto non ci fosse un susseguirsi di tre cose contrapposte a un’altra?”. “No, c’eravamo io, Isabella, il miele ed eravamo sul tavolo. Abbiamo fatto delle cose bellissime”. “Lo immaginavo” disse Isabella. “Non ha fatto un sogno del Tre e dell’Uno. Non si è lasciato condizionare!”. “Forse i suoi sogni sono così intensi da non lasciare spazio al sogno del Tre e dell’Uno” concluse il Guardiano. A quel punto il cieco e Isabella presero a confabulare tra loro. sco non poteva udire le parole dei suoi ospiti ma non gli importava quello
che stavano dicendo, perché era immerso nel ricordo del suo sogno, che era ancora fresco come un sorso d’acqua di sorgente. sco sapeva sognare, questo era un fatto certo e questa altro non era che una questione di sogni rubati. Forse sarebbe stata la persona giusta per detronizzare il Signore e spingere il popolo a riprendersi il maltolto. Isabella e il Guardiano non avevano ancora un piano, però sentivano che con la collaborazione di un sognatore come sco avrebbero potuto farcela. Così decisero di coinvolgerlo. Quella mattina, nella casa vetusta del centro vicino alla piazza, i tre costituirono la prima associazione rivoluzionaria clandestina della storia del Borgo. L’idea dell’associazione illegale piacque molto a sco, ancora prima che ne comprendesse lo scopo. Poi, Isabella e il Guardiano gli spiegarono che il Signore era un uomo potente e crudele, che soggiogava il popolo e abusava dell’ignoranza, della fiducia e delle paure della gente per avere tutto sotto il proprio controllo. A questo punto l’idea della rivoluzione gli piacque ancora di più. “Se i tuoi sogni si avverano sempre, come mi hai detto ieri, potresti sognare la fine dell’oppressione per il popolo” disse Isabella. “Così si risolverebbe tutto facilmente”. “Isabella, non è tutto così facile” rispose sco. E poi le spiegò che i sogni sono individuali e che quando si sogna per gli altri si sta praticando una forma di violenza anche se lo si fa a fin di bene. Sarebbe spettato al popolo desiderare di sbarazzarsi del Signore. “Io non posso sognare per loro, però potrei insegn…”. Il Guardiano lo interruppe. “Potresti insegnarglielo”. “Appunto, è proprio quello che stavo per dire. Ma per insegnare a sognare
dovremmo aprire una scuola”. “La scuola del Sogno” disse il Guardiano. “Sarebbe bellissimo. Però è impossibile aprire la scuola del Sogno per ben due motivi. Il primo è che nessuno sarebbe interessato a seguire le lezioni, presi come sono dal lavoro”. “E il secondo motivo?” domandò Isabella. “Il secondo motivo è che il Signore non lo permetterebbe”. Il Guardiano aveva ragione. Se il Signore avesse scoperto che sco riusciva a resistere all’imposizione del sogno del Tre e dell’Uno lo avrebbe fatto eliminare da qualche scagnozzo con una pugnalata alla schiena, perché lo avrebbe considerato un elemento pericoloso per la stabilità del suo potere. Però se non fosse stata una scuola del Sogno, magari una scuola del Miele, nella quale gli allievi avrebbero imparato a sognare. Questa idea balenò nella testa di Isabella. Allora negli occhi si accese una luce abbagliante, alimentata da tutto l’entusiasmo e l’ottimismo dei quali fosse capace. “Faremo così: andrò dal Signore e gli dirò che sco potrebbe insegnare le tecniche dell’apicoltura ad alcuni braccianti, così da rendere il Borgo indipendente nella produzione di miele. Sono quasi sicura di riuscire a convincerlo”. “E gli direte che il miele potrebbe esportarlo anche negli altri borghi” intervenne il Guardiano. “Così durante le lezioni io gli insegnerò a sognare. Tanto, zucconi come sono, non capirebbero certo se parlo di desideri o di api. Diventeranno sognatori prima di accorgersene!” concluse sco sorridendo. Il Guardiano gli suggerì di usare molta prudenza. “Se solo uno di loro è meno zuccone degli altri e sospetta qualcosa, quello va subito a raccontare tutto al Signore e nel giro di due ore ti ritroverai appeso per il collo a dond...”. All’improvviso, prima di finire la frase, il Guardiano estrasse la campana e la
scagliò contro un topolino che correva nella stanza seguendo il muro. Lo colpì in pieno, uccidendolo sul colpo. sco restò senza parole. Non avrebbe voluto vedere il piccolo animaletto morire solo perché si era intrufolato clandestinamente nella sua casa, ma non se la sentiva di rimproverare il cieco che, dopo la caccia al roditore, appariva pieno di sé, in attesa di complimenti come il cane che riporta il bastone al padrone. “sco, il Guardiano è un cacciatore di topi, nella biblioteca mangiano i libri” disse Isabella. “Come hai fatto?” gli chiese sco. “Il mio udito è sviluppato più del vostro. Mi ero accorto che rosicchiava il legno di quel mobile. É una sedia?”. “Sì, è una sedia. Bene, complimenti direi”. “Poi ha smesso di mangiare e ho avvertito le sue zampine mentre correva verso la porta per uscire”.
13
Guardandosi allo specchio, il Signore si ricordò che non avrebbe avuto il tempo di vedere il nipote diventare un ragazzetto. E se il nipote, che ancora doveva essere concepito, non fosse nato al più presto, forse il Signore non avrebbe avuto neppure il tempo di poterlo prendere in braccio. Gli era chiaro che Isabella avrebbe fatto di tutto per evitare di giacere col Principe, del resto per trovare una donna disposta ad accoppiarsi con quell’idiota forse non sarebbe bastato fare il giro di tutti i borghi. Era una grossa preoccupazione e oltretutto non era l’unica: non c’erano più censori né inquisitori e nessuno era ancora stato scelto per rimpiazzare il defunto Boia. Ci sarebbe voluta una buona idea e così il Signore si sforzò di farsela venire. Nel giro di pochi minuti ne partorì una che gli parve persino ottima. Per festeggiare convocò il Giullare e gli disse: “Uno dei tuoi indovinelli, sottoponimi a uno dei tuoi indovinelli, uno di quelli dei quali conosco già la risposta. Mi piace quello della lettera acca”. “Sono muta e senza di me non c’è un perché”. “Acca. La lettera acca.” “Oh mio Signore, siete davvero il più abile nell’indovinare”. “Grazie, Giullare. E adesso senti questa idea e dimmi cosa ne pensi”. Il Signore fece avvicinare il Giullare e iniziò a sussurrargli il suo piano all’orecchio. Quest’ultimo annuiva e sorrideva, visto che non osava interrompere il Signore quello era il modo per partecipargli il suo entusiasmo. Effettivamente si trattava di una grande idea, un piano di facile esecuzione che nel giro di qualche giorno gli avrebbe permesso di risolvere la questione del rimpiazzo dei censori, degli inquisitori, del carnefice e anche quella della gravidanza di Isabella. “Del resto, mio caro Giullare, è il mio ruolo che mi impone di avere delle
pensate di questo spessore” proseguì il Signore dopo aver esposto la sua trovata. “Quanto siete saggio, mio Signore”. “Lo so, adesso vai a prepararti perché partirai tra meno di un’ora, al resto penserò io”. Il Signore andò subito nella Sartoria del Palazzo per accertarsi che ci fossero le cose di cui aveva bisogno: i babalotti. Li trovò addosso ai due manichini di legno che, come due guardie, se ne stavano immobili a controllare la porta d’ingresso. Però non erano abbigliati come le guardie: uno indossava l’abito che il Signore aveva vestito il giorno delle nozze e l’altro quello che aveva portato per il funerale della moglie. Erano gli abiti più belli del Borgo, confezionati con stoffe pregiate e arricchiti con accessori di lusso. Ma quello che gli occorreva e che ora si trovava su quei manichini non avrebbe in alcun modo avuto nulla a che fare con quei due abiti. Infatti lui restò molto sorpreso quando vide che i babalotti che stava cercando erano proprio là. “E questi come mai sono finiti qui?”. Una donna che lavorava nella sartoria si precipitò a rimuovere gli indumenti intrusi dai manichini e subito dopo si buttò ai piedi del Signore invocando il perdono. Il Signore la rassicurò, era troppo felice per farla punire. In altre circostanze le cose sarebbero andate diversamente. Lei e il figlio tredicenne, che per gioco si era divertito a mettere quelle due cose addosso ai manichini, avrebbero ricevuto almeno dieci frustate. “Li prendo io, buon lavoro sarta”.
14
Il Giullare era partito per la missione da due ore e intanto il Signore aveva appena terminato di pranzare, quando Isabella lo invitò ad assaggiare il miele di sco. Lo fece colare su un pezzo di pane traendolo dal vasetto con la lama di un coltello. Liquido e delicato, cadeva dritto farcendo l’aria di profumo. Il Signore aveva l’acquolina in bocca. Addentò il pane cosparso di miele e non appena avvertì il gusto gli sembrò di toccare il cielo. “É una delizia!” esclamò prima ancora di ingoiare il boccone. “Ne ho fatto una piccola scorta” disse Isabella. “Una piccola scorta non basta”. Sembrava che le avesse imbeccato la battuta. Proprio quello di cui aveva bisogno le arrivava inaspettatamente dal cielo, soprattutto perché non avrebbe saputo come introdurre il discorso della scuola senza destare sospetti. Così Isabella si fece coraggio e partì alla carica. “Signore, mi sono permessa di chiedere a sco, il mercante che me lo ha venduto, se fosse disposto a insegnare a qualche bracciante l’arte dell’apicoltura. Mi ha detto di essere d’accordo”. Il Signore, entusiasta, proclamò: “Conducete sco al Palazzo, devo parlargli d'affari”. Nel giro di un’ora, l’amante di Isabella si trovò al cospetto del Signore per definire i dettagli dell’accordo. Avrebbe insegnato la produzione del miele in cambio di... “sco, il tuo miele è prelibato. Cosa vuoi per far apprendere a qualche mio uomo i segreti dell’apicoltura?” gli chiese il Signore. Isabella, che stava accanto a sco, bisbigliò senza che nessuno oltre sco potesse udire.
“Ma senti, l’umile Sognatore può chiedere quello che vuole al Signore. Quasi t’invidio”. “Signore, ho saputo che qui c’è una legge che vi permette di abrogare qualunque parola” disse sco prima di essere interrotto da un colpo di tosse che esplose per l’imbarazzo. “Sì, è così”. “Vorrei che faceste abrogare la parola umile dal vocabolario del Borgo!”. Il Signore fu travolto dalla sorpresa quanto lo furono tutti gli altri presenti. “E perché mai?” gli chiese mentre si grattava la testa. “Perché dalle mie parti sono conosciuto come l’umile apicoltore. Quando tornerò vorrei poter raccontare che almeno qui ero semplicemente l’apicoltore”. “Quando le cose stanno così, credo di poterti accontentare. Anzi farò di più, ti nomino Maestro apicoltore”. “Così potrei farmi chiamare anche solo Maestro!”. “Molto bene, Maestro. Tra qualche giorno andremo insieme a scegliere gli uomini che saranno avviati alla professione di apicoltore. Te ne metto a disposizione dieci e adesso Isabella ti accompagnerà nella sartoria. Avrai un abito nuovo”.
15
Il Giullare portò a termine la missione con successo. Tornò nel Borgo dopo due giorni con il nipote del Signore. Costui si era presentato al Palazzo calzando il babalotti. “Bene, siete scaltro e capite le cose al volo, come al solito” disse il Signore non appena si trovò a tu per tu col parente giunto da un altro borgo. “Grazie per il complimento, zio”. Il nipote del Signore aveva da poco superato i venticinque anni, era raffinato nei modi ed elegante nel portamento. Il suo corpo era di una bellezza che non temeva confronti, a guardarlo le donne si riempivano di desiderio. E il volto non era da meno, ma in occasione di quella visita al Borgo, quasi nessuno avrebbe potuto vedere il suo viso. Il babalotti era un cappuccio che si calzava calandolo completamente sulla faccia, sulla sommità cadeva floscio da un lato e aveva due buchi per gli occhi, qualcosa di molto simile al cappuccio di un carnefice, solo che il babalotti era di tela bianca. “Il Giullare vi ha già parlato del motivo di questa convocazione, immagino” chiese il Signore. “Dovrò insegnare censura e inquisizione ad alcuni braccianti di una vigna, mi ha detto così”. “Sì, infatti. Ma c’è dell’altro”. “Dovrò anche tenere un corso accelerato di esecuzioni. A questo proposito se avete qualche condannato da giustiziare entro questa settimana, posso farlo io”. “Non c’è alcun condannato da giustiziare, state tranquillo”. “E poi mi ha parlato di una donna da ingravidare, una certa Isabella”. “Esatto. É per questo motivo che non dovrete mai togliere il babalotti”.
“Non capisco zio: dovrei ingravidare questa Isabella calzando il babalotti? E perché mai?”. “Le cose non stanno così, nipote. Isabella è mia nuora e andare a letto con mio figlio non le fa piacere. Avevo detto al Giullare di non parlarti di questo dettaglio. Come sai, il Principe da quando è caduto nel fiume è diventato un idiota. Ormai di donne non capisce più nulla, oltre che di tutto il resto. E adesso, visto che siamo rimasti soli, togliete il babalotti, trangugiate questo rosso e ascoltate il mio piano”. “Sono tutto orecchi, zio”. “Domani mattina verrete con me nella vigna per scegliere i braccianti che studieranno per diventare censori e inquisitori. Prenderemo i più cretini, questo è chiaro, non voglio correre rischi. Con noi ci saranno anche Isabella e un mercante di miele che si chiama sco. Costui sceglierà altri braccianti che impareranno l’apicoltura. Vi presenterò a tutti come il nipote Mascherato e farò spargere la voce che indossate sempre il babalotti perché il vostro volto è rimasto sfigurato durante un incendio. É quindi molto importante che nessuno, oltre a noi e al Giullare, scopra che voi siete bellissimo. C’è solo un’altra persona che potrà vedere la vostra faccia”. “Isabella, immagino”. “Certo, è lei. Ma questo non dovrà accadere prima del tempo. Voi la dovrete corteggiare e io non ostacolerò i vostri contatti, anzi farò di tutto per facilitare gli incontri sostenendo che tanto, brutto come siete, non temo che le venga voglia di tradire mio figlio. Quando si sarà innamorata della vostra anima, le mostrerete il vostro bel volto e a questo punto sono sicuro che non esiterà a concedervi le sue cosc... Grazie, intendevo dire le sue grazie”. “Spero che questa Isabella sia abbastanza bella”. “Isabella è una donna semplicemente magnifica, ma questo è un particolare che non vi interessa: non sarete voi a possederla”. “Ah no?”. “No. Lo farà mio figlio indossando un babalotti uguale al vostro. Quando fisserai l’appuntamento per consumare l’atto d’amore le dirai che ti presenterai
mascherato. Nel frattempo istruirò il Principe sulle pratiche del sesso e all’incontro amoroso andrà lui al posto vostro. Spero che non combini qualche disastro”. “Zio, ma se il Principe non ce la dovesse fare?”. “Se mio figlio non ce la farà, Isabella sarà accusata di adulterio e voi le taglierete la testa il giorno dopo”. “La stessa fine di mia madre. É un vero peccato uccidere una donna semplicemente magnifica: l’avete definita così”. “Dove volete arrivare?”. “Potrei fecondare io Isabella. In fondo il sangue che scorre nelle mie vene è lo stesso che scorre nelle vostre, zio”. “Di questo non ne siamo sicuri. Mio fratello ha fatto decapitare la moglie dopo averla trovata a letto con lo stalliere”. “É successo molto dopo che nascessi, e la mamma ha patito un momento di debolezza della carne. Il mio e il vostro sono lo stesso sangue!” ribadì il nipote Mascherato sollevando un po’ la voce. “Ma cosa dite? Lo stalliere era il terzo uomo con il quale l’aveva sorpresa. Chissà con chi vi ha concepito! Mio fratello non poteva continuare a perdonarla. Adesso indossate il vostro babalotti e andate nei vostri appartamenti” lo liquidò il Signore. Il nipote Mascherato era scaltro a tal punto che nella scala della scaltrezza avrebbe occupato lo stesso gradino di Isabella. Ma a differenza di Isabella sapeva controllare gli impulsi e gli istinti. Tuttavia, partiva alla conquista del suo cuore ignorando che quel cuore era già pieno di sco. Se solo avesse potuto iniziare a corteggiarla alcuni giorni prima, tutto sarebbe stato molto più facile.
16
“Chi è quello col babalotti?” chiese sco a Isabella non appena la raggiunse nella vigna. Era la mattina che avrebbero scelto i braccianti da avviare alla carriera di apicoltori. “Non lo so, il Signore non mi ha detto nulla. Quando ci siamo visti per la prima volta, questa mattina al Palazzo, mi ha salutato con un cenno del capo e da quel momento non ha smesso di guardarmi. Mi fa un po’ paura con quel cappuccio, anche se i suoi occhi sono così…”. “Così?”. “Così!”. “Isabella, mi sa che quello con la coda fa proprio al caso nostro” proseguì sco mentre osservava l’uomo da Soma che trainava il carretto. “Non possiamo decidere noi, ricorda che devi prendere gli uomini che sceglie il Signore. Sarà qui a momenti”. “Ma quello con la coda, lui è l’unico che traina il carretto, gli altri lo spingono. Quello con la coda mi sembra proprio un buon sognatore”. “Quello è l’uomo da Soma, sicuramente è il più cretino del Borgo, dopo mio marito”. “Isabella, il misterioso incappucciato non la smette di guardarti”. “Te l’ho detto”. “Sì, me lo hai detto, cosa possiamo fare?”. “Nulla, lasciamo che mi guardi”. “Isabella, l’uomo da Soma ha fatto un altro giro. É decisamente più veloce degli
altri, lavora molto di più”. “Ma guadagna gli stessi soldi, è un vero cretino. Forse il Signore sceglierà proprio lui per la scuola del miele. Stamattina a colazione ne ha fatto un’altra scorpacciata. Ecco che arriva!”. Il Signore giunse insieme al Giullare. Il primo fu accolto dal Sorvegliante e il secondo si preoccupò di chiamare a raccolta tutti i braccianti della vigna. “Sorvegliante, mi occorre l’elenco delle dieci persone più stupide, il nome del più violento e quello dei dieci lavoratori più affidabili” disse il Signore. “Il più stupido è l’uomo da Soma, tuttavia è anche quello più affidabile. Di certo non è violento”. “Bravo Sorvegliante, ti ho fatto tre domande e tu mia hai dato tre risposte. Nessuna di queste era pertinente” replicò il Signore guardando verso le montagne e ignorando il volto del suo interlocutore. Poi afferrò con tutte e due le mani la camicia del Sorvegliante all’altezza del collo, lo scosse e fissandolo negli occhi continuò: “Tu sei stupido, non sei affidabile e mi fai diventare violento. Hai cinque minuti per preparare le liste con quei nomi. E non dimenticare quello del bracciante più cattivo, sarà il nuovo carnefice del Borgo”. Il Sorvegliante corse a procurare la carta, una penna e l’inchiostro. Mentre eseguiva gli ordini del Signore, quest’ultimo si era preoccupato di fare le presentazioni. “Isabella, questo è un mio caro parente, è il nipote Mascherato. Tra un po’ saprete il motivo della sua presenza” disse alla nuora che aveva invitato con un cenno della mano ad avvicinarsi. “Nipote, la splendida signora che vi sta di fronte è la moglie di mio figlio, conoscete già il suo nome. E questo signore, che oggi sfoggia un bellissimo completo verde, si chiama sco. Di recente l’ho nominato Maestro, insegnerà l’apicoltura ad alcuni braccianti”.
“Signore, perdonate la mia curiosità, ma davvero non riesco a resistere: a cosa dobbiamo la compagnia del misterioso nipote Mascherato?” intervenne Isabella. “La vostra curiosità è presto soddisfatta, il nipote Mascherato è il nuovo carnefice del Borgo. Mostrategli il vostro collo, così potrà prendere le misure”. Isabella non rispose, anche se il suocero aveva detto quelle cose col tono dello scherzo lei divenne bianca e il cuore iniziò a galoppare. “Isabella, anche se foste un’eretica, una strega, una ladra o un’assassina, piuttosto che eseguire la vostra sentenza, lascerei che mi uccidessero” disse il nipote Mascherato. “E a cosa devo questo trattamento di privilegio?”. “Alla vostra inarrivabile femminilità, mia signora”. “Come siete gentile” disse Isabella che nel frattempo aveva ritrovato il suo colore naturale. “Certo, è gentile. Un gesto gentile quanto inutile. Il lavoro lo farebbe un altro boia, magari convocato da un altro borgo” si intromise sco. “Isabella vivrebbe due giorni e due notti in più! Il tempo che occorrerebbe a un altro carnefice per arrivare fin qui” rispose il nipote Mascherato. “Due giorni di paura e due notti di incubi. Sarebbe meglio farla fuori subito” replicò sco. “Due giorni di speranza in attesa della grazia e due notti per sognare la mannaia che si ferma all’ultimo momento”. “Due giorni di illusioni, nessuno è mai stato graziato. Quanto ai sogni, a quelli ci penso io!”. sco era così, e se non fosse intervenuta Isabella a sedare il confronto, il suo amante sarebbe stato capace di svelare i loro piani senza accorgersi di farlo. “Signori, non potete discutere dell’esecuzione e dell’eventuale grazia di qualche altro condannato?” disse Isabella.
“Signori, non potete più discutere. Di nulla” sentenziò il suocero di Isabella, prima che uno dei due avesse il tempo di andare avanti. Il Sorvegliante aveva pronte le due liste e il singolo nome che gli aveva chiesto il Signore. L’uomo da Soma era stato inserito in quella dei più stupidi e quindi destinato a diventare censore o inquisitore. Il Giullare, che aveva detto ai braccianti di radunarsi nello spiazzo davanti al fienile, stando alle istruzioni ricevute, aveva detto a tutti che il nipote Mascherato era stato sfigurato in volto durante un incendio, ma ovviamente si trattava di una notizia riservata e… “Mi raccomando braccianti, se il Signore scopre che vi ho rivelato questo particolare mi fa impiccare, quindi tenete la bocca chiusa”. Mentre sco e il nipote Mascherato si guardavano in cagnesco, Isabella ancora non sapeva che nei giorni che sarebbero venuti il corteggiamento del misterioso parente del Signore sarebbe proseguito. Intanto il Signore comunicava a voce alta i nomi dei braccianti convocati. “I primi dieci saranno allievi di sco, il nostro nuovo maestro apicoltore. Impareranno tutto sulle api, i fiori e il miele. Qualcuno di voi sa come si chiama il maschio dell’ape?”. Non lo sapeva nessuno. Il Signore proseguì: “Non importa, il cavallo si valuta quando arriva e non quando parte. Gli altri dieci impareranno l’arte dell’inquisizione e quella della censura. Saranno allievi di mio nipote, il nipote Mascherato. Voi dieci imparerete a estorcere una confessione, acquisirete la tecnica della tortura della corda, dell’acqua e di quella del fuoco, scoprirete come si riconosce un libro proibito e non dimenticate che ogni libro è proibito fino a quando non si dimostra il contrario. A proposito, siete tutti in grado di leggere?”. Per alzata di mano emerse che solo due tra gli stupidi scelti per diventare censori e inquisitori, sapevano leggere e tra essi, uno soltanto andava oltre la sua firma. Le lezioni di teoria avrebbero avuto luogo nella scuola del Borgo e sarebbero iniziate dopo le cinque del pomeriggio. Le lezioni di applicazioni pratiche di apicoltura si sarebbero svolte nel campo dove sco aveva sistemato le sue arnie, mentre il nipote Mascherato avrebbe avuto a disposizione i locali della
Biblioteca e delle prigioni per insegnare le sue materie agli allievi. “Ah, dimenticavo, ho qui un altro nome. Si tratta di… Ma… Ma questo è il Sorvegliante!” esclamò il Signore. “Ebbene sì, mio Signore. Dopo un’attenta riflessione ho capito di essere io la persona più adatta per l’incarico di carnefice. Certo, non sono il più violento e neppure il più cattivo, so essere gentile e comprensivo, ma Signore, mi piacerebbe così tanto poter impiccare qualcuno, anche se solo una volta al mese, che lo farei meglio di chiunque altro. Vi prego, lasciate che sia io a diventare il nuovo boia del Borgo”. Allora il nipote Mascherato si avvicinò al Sorvegliante per guardare bene i suoi occhietti piccoli e vispi. “Zio, questo è l’uomo che fa per noi”. Durante il viaggio per rientrare al Palazzo il Signore cavalcò accanto al Giullare tirando al galoppo per alcuni tratti in modo da restare sempre almeno a un centinaio di metri davanti a Isabella e al nipote Mascherato. Così, questi ultimi due poterono conversare. “Vorrei scusarmi con voi, mia signora, per essere caduto nella trappola di quell’impertinente mercante”. “Quale trappola?”. “Prima, nella vigna, quando ho accettato la sua provocazione e abbiamo inscenato quella discussione che vi vedeva coinvolta”. “L’incidente, per quanto mi riguarda, è chiuso”. Poi, il nipote Mascherato restò in silenzio per un po’, ma non era a corto di argomenti, ne aveva a disposizione così tanti e ognuno pareva cucito su misura per ogni tipo di possibile interlocutore. Lui se n’era rimasto zitto perché aveva capito che Isabella sarebbe stata sorpresa dal suo silenzio più che da ogni altra cosa.
Nel frattempo sco era andato a trovare il suo amico cieco nella biblioteca e gli aveva parlato della novità del misterioso uomo col cappuccio che avrebbe tenuto le lezioni di inquisizione e censura. “Quindi nel giro di pochi mesi questo posto sarà nuovamente pieno di censori” commentò il Guardiano . “Dieci. Hanno scelto dieci uomini”. “Ah che peccato, sto così bene quando sono solo. Ma dimmi, tu sei pronto per insegnare l’arte del sogno?”. “Veramente non ho preparato nulla, penso che inventerò qualcosa all’ultimo momento”. “Allora facciamo una prova. Immagina che io sia uno dei tuoi allievi, uno che non ha sogni”. “Ma i sogni ce li hanno tutti”. “Eh, ma io no”. “É impossibile, li hai anche tu, solo che lo devi ancora scoprire”. “Sai sco, che tra i libri più censurati ci sono quelli che parlano delle scoperte?”. “Quali scoperte?”. “Una si chiama eliocentrismo, ho sentito più di una volta i censori che ne parlavano”. “Cos’è?”. “É una teoria secondo la quale il sole sta fermo e il mondo gli gira attorno. Ma poi ci sono tante altre scoperte censurate. Scoperte che io non ho capito”. “Se non le hai capite tu non credo che le possano capire quel branco di imbecilli che il Signore ha scelto come nuovi censori”. “Se è per questo neppure i vecchi censori le avevano capite”.
“E allora come facevano a censurare un libro se non lo avevano capito?”. “É la prima regola: il diavolo scrive libri incomprensibili”. sco si grattò la testa e disse: “Sono io che non capisco più nulla a questo punto. E la seconda regola?”. “Non c’è la seconda regola.”
Isabella era confusa. Come era possibile che il misterioso nipote Mascherato, così sicuro di sé e con quella straordinaria parlantina sfoggiata nella vigna, se ne stesse in silenzio sul suo bel cavallo grigio? “Avete perso la lingua?”. “No, Isabella. Aspetto che siate voi a parlare per prima. Forse avete delle cose più interessanti da raccontarmi di quelle che posso avere io”. “O forse no. Per esempio ditemi: come mai tenete sempre addosso il babalotti?”. “Un incendio. Il mio volto è sfigurato. É davvero orribile”. “Mi dispiace, non volevo”. “No, non scusatevi, avete fatto bene a chiedermelo. Non capita quasi mai che le persone mi domandino come mai indossi questo maledetto cappuccio. É una cosa imbarazzante cercare il momento adatto per spezzare la conversazione e raccontare del rogo”. “Allora fatelo, parlatemi del rogo” lo incoraggiò Isabella.
“Guardiano, mi è venuta fame. Ho sentito un formidabile profumo di pollo arrosto arrivare dalla piazza” disse sco. “Molto bene. Chiudo la biblioteca e andiamo subito a fare una scorpacciata di pollo, pane e vino”.
“Sì, fiumi di vino. Rosso, naturalmente”. “E patate! Almeno trenta spicchi di patate a testa. Cosa ne dici, sco?”. “Dico di sì, amico mio. Ma dico anche che alla fine ci facciamo preparare due dolci di pasta fritta farcita col formaggio di pecora e cosparsa di miele. Ma cosa ci fa qui questo coso?”. “Quale coso? Sono cieco sco, di quale coso parli?”. “Di questo cappuccio bianco”. sco aveva visto un babalotti appoggiato su uno scaffale. “É uguale a quello del nipote Mascherato” proseguì il mercante di miele. “Non ne ho idea, chissà chi lo ha lasciato. Se lo vuoi puoi prenderlo”. sco accettò il regalo e se lo infilò subito in tasca. Pensava che avrebbe potuto fare degli scherzi davvero divertenti con quel babalotti, naturalmente spacciandosi per il nipote Mascherato.
Nel frattempo quest’ultimo, che continuava a cavalcare accanto a Isabella, le stava raccontando una bugia. “Mia signora, spero possiate comprendere quanto si possa penare per amore guardando i miei occhi”. “Fate vedere” disse Isabella lanciando un’occhiata dentro i buchi del cappuccio del nipote Mascherato. “Avete ragione, i vostri sono occhi molto tristi”. Il nipote Mascherato era bravissimo a inscenare lo sguardo triste. “Siete forse stato respinto?”. “Magari fossi stato respinto. Il rifiuto è doloroso certo, ma un uomo può farsene una ragione”.
“Quindi non siete stato respinto da una donna?” “Peggio”. “Peggio che essere respinto?”. “Molto peggio”. “C’è qualcosa peggiore dell’amare un amore che non vuole essere amato?”. “Amare un amore che vorrebbe essere amato, ma non può”. A quelle parole, Isabella spalancò la bocca e mise una mano sulle labbra. “Avete ragione, non ci avevo mai pensato. É davvero terribile”. “Potete dirlo senza temere di essere smentita, Isabella”. “Non lo augurerei neppure al mio peggior nemico, piuttosto la peste, la gotta o una grave forma di artrosi”. “Voi siete innamorata, Isabella?”. “Cosa vedete nei miei occhi?”. “Vedo la scintilla di chi ama l’amore”. Isabella sorrise, forse il nipote Mascherato aveva ragione e allora lei fece di sì con la testa. “Ma ditemi, cosa c’entra tutto questo col rogo nel quale siete rimasto sfigurato?”. “Dovete sapere Isabella, che mio padre mi impose di sposare una cugina brutta e isterica. Ma io amavo un’altra donna, ricca di virtù e figlia di uno squattrinato falegname. Ci incontravamo in gran segreto quasi tutte le notti nella bottega del padre, per amarci tra la segatura”. “Che immagine romantica”. “Un sera accadde che in un momento di intimità con la donna che mi era stata
imposta per tutelare la ricchezza della famiglia, io la chiamassi col nome dell’altra, col nome del mio vero amore”. “Una distrazione imperdonabile”. “Infatti. Dal principio lei fece finta di nulla, ma io mi accorsi dai suoi occhi che aveva incassato la botta. Allora cercai di rimediare dicendole che quello voleva essere un vezzeggiativo. Ma io non so mentire e aggravai la situazione, così lei scese dal letto e uscì sbattendo la porta. Poco più tardi mi seguì mentre andavo dalla mia amata. Lasciò che entrassi e dopo pochi minuti ci sorprese, armata di pugnale, mentre ci accoppiavamo tra la polvere del legno. Ricordo bene che stavo sotto e la vidi all’improvviso sbucare alle spalle del mio amore. Le afferrò i capelli, trasse all’indietro la sua testa e le tagliò la gola senza pietà”. “E voi, voi cosa avete fatto?” chiese Isabella travolta dalla curiosità. “Ecco, io non feci nulla. Il sangue della donna che amavo schizzava ovunque, mentre il suo corpo nudo si contorceva, preda degli spasmi, accanto ai miei piedi. Mia cugina si lanciò addosso a me gridando ti odio col pugnale in mano. Per evitarla rotolai da un lato e andai a cozzare col cavalletto sul quel avevo lasciato la lanterna a olio. Questa cadde sulla segatura e in un attimo fu l’inferno: c’erano fiamme dappertutto. Mi alzai di scatto e imboccai subito la via dell’uscita. Stavo per varcare la soglia quand’ecco che udii la voce di mia cugina che mi implorava di aiutarla. Allora mi voltai e vidi che la sua gonna, già in fiamme per metà, era impigliata in uno spigolo del bancone di lavoro. Così tor…”. “Cosa? Siete tornato dentro per salvare vostra cugina?”. “Ebbene sì. Era come se le mani di Dio mi avessero spinto all’inferno”. “É incredibile!”. “No, potete credermi, il mio è l’istinto che guida le persone folli”. “Le persone giuste. Allora siete tornato dentro e?”. “E ho preso in braccio mia cugina che nel frattempo aveva perduto i sensi. Stavo per uscire quando una trave infuocata è caduta addosso al corpo inerme della donna assassina che traevo in salvo”.
“É morta sul colpo?”. “Sì Isabella, quella trave è stata uno strumento di punizione celeste. Ha aperto in due la sua testa e ha tenuto imprigionate le mie gambe, mentre il fuoco mi consumava il volto”. “Come avete fatto a sopravvivere?”. “Ho gridato e il padre della mia amante, il falegname, mi ha soccorso appena in tempo”. “Ma voi non meritavate di restare sfigurato, voi avete solo amato”. “Mentivo, Isabella. Capite? Mentivo con mia cugina”. “Ma l’amore di vostra cugina vi era stato imposto, non è così?”. “Anche l’amore del Principe vi è stato imposto”. “Non ho bisogno di mentire con mio marito, mio marito non capisce. E se capisse, non esiterei a farlo. Adesso vi prego di non rifiutare il mio invito a pranzo”. “Siete gentile, Isabella. Ma non posso mangiare con questo cappuccio e mostrare il mio volto mi procura un profondo disagio. Preferisco nutrirmi nella solitudine della mia stanza”.
17
L’uomo da Soma sarebbe arrivato con un quarto d’ora di ritardo alla prima lezione di teoria di inquisizione e censura. Nel frattempo, il nipote Mascherato aveva già fatto l’appello e scritto sul registro che l’unico tra i suoi alunni col nome che iniziava per U era assente. Poi era partito a testa bassa con la descrizione della frusta chiodata e delle sue svariate applicazioni. Nell’aula accanto, sco aveva iniziato la sua lezione dicendo: “Se tra voi c’è qualcuno che si è informato e adesso sa come si chiama il maschio dell’ape è pregato di dimenticarlo”. “E perché?” gli chiese uno dei suoi allievi incastrato nel suo banco della prima fila, costruito su misura per un bambino e quindi troppo piccolo per contenere un bracciante adulto. “Perché oggi parleremo di mele”. “Mele? E cosa c’entrano le mele con il miele?” domandò un altro allievo. “Intanto tra le mele e il miele c’è solo una I di differenza e poi le api vanno pazze per il fiore del melo. Ma comunque non è qui che volevo arrivare”. “E dove vorresti arrivare, Maestro?”. “Braccianti, allievi o come preferite che io vi chiami, dove voglio arrivare ancora non lo so, ma so che l’uomo da Soma non arriverà dove crede lui”. In quel momento l’uomo da Soma, con o svelto, si apprestava ad attraversare il cortile della scuola e sco lo aveva visto dalla finestra con la coda dell’occhio. Così aveva indossato il suo babalotti e aveva detto agli allievi: “E adesso, guardate che scherzo”. Poi uscì nel corridoio e quando l’uomo da Soma gli fu davanti, vedendolo col cappuccio bianco, lo scambiò per il suo insegnante. “Mi scuso per il ritardo, signor nipote Mascherato”.
“Ti sembra questa l’ora di arrivare, uomo da Soma?”. “Vi prometto che non accadrà più”. “Lo spero per te, uomo da Soma, oppure ti farò fare la parte della vittima quando spiegherò la tortura dei carboni ardenti. Ora fila in classe e siediti all’ultimo banco”. Gli allievi di sco erano entusiasti del tiro che il loro insegnante aveva giocato all’uomo da Soma e adesso si sentivano tutti complici. sco decise che per tutta la lezione avrebbe indossato il babalotti e che solo alla fine avrebbe mostrato il suo volto all’uomo da Soma. Si inchinò dietro la cattedra e raccolse un cesto pieno di mele, alcune erano verdi, altre gialle e poi c’erano quelle rosse. ando tra i banchi ne lasciava una su ciascuno, tra lo stupore dei suoi alunni. Nessuno toccava la mela che si ritrovava davanti e quando sco terminò la distribuzione disse: “Vedete la mela davanti a voi?”. “Certo, non siamo mica ciechi come il Guardiano della biblioteca”. “É vero, ma siete davvero sicuri di vedere la vostra mela?”. “Maestro, ci vuoi prendere in giro per caso?” gli rispose un allievo del terzo banco. “Sicuro che la vediamo.” “Siete tutti sicuri di vedere la vostra mela?”. Le undici risposte arrivarono tutte insieme: sei sì, tre fischi, una pernacchia e un no. “Chi ha detto no?” domandò sco entusiasta, perché credeva che qualcuno lo avesse preso sul serio. “Sono stato io” gli rispose l’uomo da Soma. “La mia mela è scomparsa dal tavolo. Io mi sono voltato un attimo per guardare fuori dalla finestra e lei non c’era più!”. “Avanti, chi ha preso la mela dell’uomo da Soma è pregato di restituirgliela”
disse un allievo. Un altro aggiunse: “Di che colore era la tua mela?”. “Rossa!”. “Rossa?”. “Sì, rossa”. “Vuoi vedere che è proprio questa?”. L’allievo che disse questa cosa estrasse dalla sua tasca la mela rossa che aveva rubato poco prima all’uomo da Soma e gliela lanciò addosso, colpendolo in piena fronte. L’uomo da Soma rispose all’aggressione nello stesso modo e da quel momento ebbe inizio la guerra delle mele che andò avanti per circa mezz’ora. sco aveva una buona scorta di mele dentro il cesto che aveva riposto dietro la cattedra e quindi si divertì più dei suoi allievi. Alla fine della battaglia il Maestro si tolse il babalotti, andò al banco dell’uomo da Soma e gli chiese se si fosse divertito. “Come non mi succedeva da quando ero ragazzo”. “Se sei d’accordo parlerò con il nipote Mascherato e gli dirò che resterai con noi”. “Va bene, mi piacerebbe moltissimo” disse l’uomo da Soma dispensando una pacca sulla spalla di sco.
18
Se qualcuno avesse avuto la pazienza di contare le stelle, quella sera avrebbe scoperto che quelle visibili dalla torre più alta del Palazzo erano oltre mille. Un cielo così nero, tempestato di puntini brillanti e silenziosi, avrebbe rammollito il cuore di ogni uomo, persino quello del più feroce inquisitore. Tutto era quasi fermo, le foglie frusciavano pochissimo e Isabella, che se ne stava sola sulla terrazza di quella torre, aspettava sco. Il Signore la vide dalla finestra della sua camera e pensò che fosse giunto il momento che il nipote Mascherato la baciasse. Aveva calcolato il periodo di fertilità della nuora; quella sera Isabella sarebbe stata ingravidabile. Fece convocare il nipote Mascherato e gli ordinò di agire attenendosi ai programmi. Ma questi decise di apportare una variante al piano dello zio e cioè per far cascare Isabella ai suoi piedi non le avrebbe mostrato il suo volto perfetto come gli aveva suggerito il Signore. Con quella faccia simmetrica che appariva allo stesso tempo angelica e diabolica, nella quale forza e gentilezza si mescolavano fino a confondersi, sarebbe stato troppo semplice fare innamorare una donna. Lui voleva dimostrare a se stesso di essere capace di rubarle il cuore con la sola destrezza della recita mascherata. Nel frattempo sco pensò di calzare il babalotti per andare dalla sua amata e tenderle lo stesso scherzo che aveva giocato poco prima all’uomo da Soma. Il nipote Mascherato raggiunse Isabella camminando in punta di piedi, per sorprenderla da dietro mentre lei incrociava le braccia sul petto e si sfiorava le spalle con i polpastrelli. Estrasse dalla tasca una striscia di tela nera e bendò gli occhi della donna accostandole il torace alla schiena. La fece voltare, sollevò la visiera del babalotti e portò le sue labbra a pochi centimetri dalla bocca di Isabella. Se sco non fosse arrivato proprio in quel momento ai piedi della torre e non avesse chiamato Isabella, sarebbe andata a finire che quel bacio ci sarebbe scappato davvero.
Quando Isabella sentì la voce di sco si levò la benda che le impediva di vedere e rivolgendosi al nipote Mascherato, che con un rapidissimo movimento si era nuovamente coperto il volto, gli disse: “Ma cosa vi salta in mente, siete pazzo?”. “Di voi naturalmente. Ma ditemi, cosa fa sco qua sotto?”. “Non sono affari vostri!” replicò Isabella volgendogli le spalle con uno scatto. “Isabella, Isabella, Isabella, Isabella!”. Era la voce di sco che non potendo vedere la scena che si stava consumando sulla terrazza era preoccupato del fatto che Isabella non fosse affacciata come si aspettava. “Allora, gli rispondete voi o lo devo fare io?” proseguì il nipote Mascherato, che a quel punto aveva intuito della tresca tra Isabella e il mercante di miele realizzando che la conquista del cuore della donna era un’impresa più ardua del previsto. “Mi fate male. Lasciatemi o mi metto a gridare”. “Vi tengo solo le braccia. Avanti, gridate Isabella. Gridate pure che qua sotto c’è il vostro amante che vi aspetta”. “Isabella!”. sco non smise di chiamarla ma Isabella restò zitta. “Avete perduto la voce?” la incalzò il nipote Mascherato. “Dovete giacere con lui, stasera?”. “Ma come vi permettete, brutto mascalzone?”. “Mi permetto! Mi permetto perché vi amo”. “Mi amate?”. “Sì, vi amo”.
“E da quando?”. “Da quando vi ho vista la prima volta”. “Se vi sentisse il Signore”. “La mia sorte non sarebbe peggiore della vostra. E quindi da questo momento siamo complici”. “Complici?”. “So cosa state cercando, mia signora”. “Sentiamo”. “Un figlio. Ma che non sia lo stesso di vostro marito e stasera siete fertile, Isabella”. “Ma come fate a saperlo?”. “Ho dato un’occhiata quotidiana al cesto della biancheria sporca dove lasciate i vostri indumenti, e ho contato i giorni che sono trascorsi dalla vostra ultima mestruazione”. Isabella scosse il capo e disse: “Mi fate paura”. “E perché? Solo perché vorrei che vostro figlio fosse anche mio?”. “Non per quello, mi fate paura perché tenete il conto delle mie mestruazioni”. “Che male c’è a fare un po’ di conti? Sappiate che il mio volto era bellissimo prima di quel maledetto incendio. Nostro figlio sarà un incanto e oltretutto assomiglierà al Signore, così non rischierete di essere accusata di adulterio. Il mio sangue è uguale a quello di vostro suocero”. “Ma il Signore mi ha detto di non esserne sicuro. Sapete, è per via di certe consuetudini della vostra defunta madre, le stesse che l’hanno portata sul patibolo”. “Del tutto paragonabili alle vostre, Isabella. Comunque non importa, il vostro cuore è di pietra. É meglio che vada ora”.
Il nipote Mascherato aveva davvero incassato il colpo, forse in tutta la vita qualcosa del genere non gli era mai successa. Fece per voltarsi quando sulla terrazza giunse per l’ennesima volta la voce di sco che chiamava la sua amata. Isabella si rivolse al nipote Mascherato consapevole di averlo ferito: “Non andate… Mi dispiace”. Gli parlò con sincerità. Poi si affacciò e disse a sco: “Aspetta cinque minuti. Ma cosa ci fai con quell’affare in testa?”. “Volevo farti uno scherzo. Tu cosa stai facendo?”. “Te lo racconto dopo”.
Mentre accadevano questi fatti, il Signore istruiva il Principe sulle pratiche della riproduzione. “Per accoppiarti con tua moglie, questa sera, dovrai indossare il babalotti”. “Perché” chiese l’idiota. “A Isabella piace molto”. “Non me ne frega niente di Isabella lei ha le tette piccole”. “Le metterai due cuscini sul petto e farai finta che siano delle tette, delle gigantesche tette!”.
Il nipote Mascherato iniziò il suo racconto, e questa volta non disse neppure una bugia: “Quando uccisero mia madre, avevo solo tre anni. Mio padre mi disse che la mamma era stata molto cattiva, così cattiva che lui l’aveva dovuta cacciare di casa. Allora gli chiesi dove fosse andata e lui restò zitto. Alcuni giorni dopo mi presentò la nuova mamma. Era bella e anche molto gentile. Poi restò incinta e
partorì un maschietto. Per me era come un fratellino vero, giocavamo insieme, io comandavo perché ero il più grande, lo picchiavo molto raramente e gli insegnavo tutto quello che sapevo. Un brutto giorno, quando avevo dodici anni e lui otto, mi disse che da quel momento in poi le cose sarebbero cambiate: pretendeva di comandare. Gli chiesi il perché e lui mi disse che prima mi sarei abituato all’idea che lui sarebbe stato il nuovo signore del nostro borgo e meglio sarebbe stato per tutti e due. Ma quel posto era mio, era mio per diritto di discendenza, capite Isabella?”. “Capisco. Ma vostro padre, non essendo sicuro del fatto che voi gli siate figlio aveva…”. “Infatti mio padre aveva deciso di lasciare il suo posto al mio fratellastro. Questa cosa non l’avevo ancora capita, quindi ero perplesso per il fatto che a lui insegnassero l’arte del governare e io dovessi imparare la censura e l’inquisizione. Quando gli chiesi il motivo di quella scelta, mio padre mi rispose che si trattava solo di assecondare il talento di ciascuno di noi due. Dopo alcuni anni, venni a conoscenza della verità su mia madre, proprio in occasione della mia prima esecuzione. Me lo disse il padre della vittima, quando venne a saldare il conto dell’ammazzamento della figlia… Le mie prime cinque monete… Mi raccontò tutto un’ora prima che mandassi all’altro mondo quella ladruncola. É dai tempi di vostra madre, disse, che non muore una donna sul patibolo in questo posto. E oggi tocca a mia figlia. Meno male che me ne restano altre tre”. “Basta così! Questi ricordi sono troppo brutti. Sarebbe meglio lasciarli dormire” disse Isabella stringendo le mani del presunto cugino del marito. “Non preoccupatevi, Isabella. L’esecuzione di mia madre è stata una lezione”. “Una lezione? Ma cosa dite?”. “Ho imparato che se si può uccidere una persona perché ama non esiste alcun motivo per il quale non si possa uccidere, e io vivo di ammazzamenti. Lo so Isabella, pensate che sia un mostro e non vi sbagliate. Devo dare ragione al mio genitore, ho il talento del carnefice”.
“Vanno bene questi due?” chiese il Signore al figlio, mostrandogli i due cuscini da adagiare sul petto di Isabella per l’accoppiamento.
“Troppo piccoli”. “Sono i cuscini più grandi del Borgo!”. “Troppo piccoli”.
Il nipote Mascherato conosceva una tecnica per simulare le lacrime. Era un metodo basato sulla contrazione delle narici. Nascoste dal babalotti le narici apparivano immobili anche se in realtà si allargavano e si restringevano molto rapidamente. Il nipote Mascherato applicò questa tecnica e lasciò scivolare alcune gocce di pianto che saltarono giù, fino alle mani di Isabella. Nel frattempo sco, che eggiava nervosamente avanti e indietro sotto la torre, aveva avuto l’idea di arrampicarsi per raggiungere la camera del suo amore. Si trattava di una discreta altezza, non avrebbe impiegato meno di dieci minuti considerando che i mattoni della facciata erano quasi tutti ben cementati. Oltretutto sco soffriva di vertigini. “Oh! Ma voi piangete” esclamò Isabella, guardando gli occhi del nipote Mascherato e stringendogli le mani ancora più forte. L’uomo fece sì con la testa. Adesso le sembrava più tenero di un agnellino da latte. Così le venne naturale chiudere gli occhi per il tempo che basta a fare un segno della croce, che a cronometrarlo, si rivela lo stesso che serve per sollevare una visiera di babalotti, baciare una donna e calare nuovamente la visiera prima che la donna in questione possa vedere il volto dell’uomo che l’ha baciata. Dopo aver individuato la finestra della camera di Isabella, sco iniziò l’impresa. Prima di tutto si guardò attorno per assicurarsi che non ci fossero dei curiosi, poi si sputò sulle mani senza conoscere l’utilità del gesto, ma solo perché aveva visto che quella cosa la facevano tutti quelli che si arrampicavano e infine mise il piede sinistro nel primo appiglio a circa venti centimetri dal suolo. “Isabella, ora devo andare ma il mio fantasma abbandonerà la mia stanza e sarà
con voi nella vostra, questa notte” disse a quel punto il nipote Mascherato. Isabella sorrise, credendo che l’uomo che l’aveva appena baciata fosse un poeta in vena di metafore e che il fantasma altro non fosse che il semplice pensiero. Le cose ovviamente non stavano così. Non appena Isabella fu nuovamente sola sulla terrazza, si affacciò e vide che sco non c’era più. Sapeva dove trovarlo e si precipitò di corsa.
19
Il Principe si dirigeva verso la camera della moglie con i cuscini imbottiti di piume d’oca sotto il braccio destro e la torcia nella mano sinistra. Sulla testa aveva già calzato il babalotti. Attraversò il Palazzo ando per gli anditi e le stanze, mentre il nipote Mascherato usciva dalla sua. Anche se quest’ultimo avrebbe raggiunto la camera di Isabella partendo dalla parte opposta del Palazzo, l’incontro dei due uomini incappucciati fu inevitabile. Avvenne nell’ultimo corridoio che conduceva alla loro destinazione. Il Principe da un estremo e il nipote Mascherato da quello opposto del medesimo lungo lastricato, si salutarono con un cenno del capo e poi avanzarono l’uno verso l’altro. A quel punto, il nipote Mascherato pensava a una storiella da inventarsi per convincere il Principe ad andare a fare un giro da un’altra parte e lasciargli il tempo di accoppiarsi con Isabella. Così si ritrovarono, cappuccio a cappuccio, proprio davanti alla porta della camera della moglie del Principe.
Oltre quella porta, Isabella e sco facevano l’amore per la prima volta, intrecciando due corpi nel chiaroscuro di poche candele che bruciavano attorno al letto e cerchiavano di nero gli sguardi.
“Principe, cosa fate con quei cuscini in mano?” domandò il nipote Mascherato. “Tette per Isabella”. “Tette per Isabella?”. “Tette per Isabella”. “Direi che avete avuto un’ ottima trovata, Isabella non ne ha abbastanza. Tuttavia, credo che quei cuscini non siano sufficienti”. La sola idea di poter ambire a seni ancora più grossi fece eccitare il Principe che
non esitò a consegnare le federe imbottite di piume al suo interlocutore. Nel argliele accostò maldestramente la torcia al babalotti del nipote Mascherato. Il cappuccio di quest’ultimo prese fuoco immediatamente e il Principe, alla vista di quella testa in fiamme, scappò di corsa ripercorrendo al contrario la via che lo aveva portato fin là. Il nipote Mascherato portò per istinto le proprie mani sul volto, trascurando il fatto che non fossero libere, così i due cuscini di piume s’incendiarono e nel giro di pochi secondi l’intero corpo divenne una torcia. Allora prese a girare su se stesso, gridando di dolore e cozzando ripetutamente da una parete all’altra del corridoio, fino a quando non andò a sbattere sulla porta della camera di Isabella che in seguito all’urto violento, si spalancò. sco e la sua amante si precipitarono giù dal letto, ognuno su ciascuno dei lati, appena in tempo per non essere travolti dalle fiamme ambulanti del nipote Mascherato che su quel giaciglio aveva terminato la sua corsa. “E adesso cosa facciamo?” domandò sco. “Devi andare via”. “Prima dobbiamo spegnerlo, hai dell’acqua?”. “Lo spengo io, tu vai via”. sco si affacciò e al pensiero di affrontare un salto da quell’altezza sentì un brivido sul collo. “Io non salto dalla finestra”. “sco, vestiti e trova il modo di andare via di qua. Tra qualche secondo arriveranno le guardie”. sco si sarebbe nascosto sotto il letto se non fosse stato in fiamme. Pensò di imbucarsi nell’armadio, ma scartò subito l’idea perché sarebbe stato troppo pericoloso. Molto presto qualcuno lo avrebbe aperto per prendere un lenzuolo col quale avvolgere la salma carbonizzata del nipote Mascherato. Allora indossò in fretta e furia i suoi abiti, baciò Isabella sulla bocca e prima di calzare il babalotti le disse: “Comunque vada, ne è valsa la pena”.
Uscì sul corridoio mentre Isabella versava la prima caraffa di acqua fresca sulle fiamme. Una volta fuori sco incontrò due guardie accorse alle grida del nipote Mascherato che, scambiandolo per quest’ultimo, gli chiesero cosa stesse accadendo. sco non parlò, si limitò a indicare col dito la porta della camera di Isabella. A quel punto i due uomini si accorsero del fumo e andarono di corsa dalla moglie del Principe. Di fronte alla macabra scoperta uno di loro si affacciò subito alla finestra per gridare: “Uomo in fiamme! Uomo in fiamme nella camera di Isabella! Uomo in fiamme!”. Così nel Palazzo si svegliarono tutti. Presto ci fu un viavai di persone col secchio in mano che popolavano le scale, i corridoi e le stanze per raggiungere il punto dell’incendio. sco si spostava nella direzione opposta, con o svelto quanto bastava per tentare di imboccare l’uscita senza destare troppi sospetti. Il Signore, al grido delle guardie, pensò che l’uomo in fiamme fosse il figlio e quindi corse anche lui verso la camera della nuora. Intanto la salma era stata spenta. Del nipote Mascherato restava una sorta di poltiglia nera fumante e puzzolente che di umano aveva conservato solo una sagoma approssimativa. Davanti alla porta della camera di Isabella si accalcarono una decina di curiosi, alcuni non avevano fatto in tempo a usare il proprio secchio e lo tenevano in mano ancora pieno. Si interrogavano sulle generalità del defunto irriconoscibile e Isabella continuava a ripetere: “Era già quando è entrato all’improvviso nella mia stanza, non so chi sia”.
sco era quasi fuori dal Palazzo, avrebbe dovuto attraversare solo altre tre stanze per trovarsi all’esterno. Ce l’avrebbe fatta in pochi secondi se il Giullare non si fosse piazzato improvvisamente davanti al suo cammino.
“Nipote Mascherato, è successo qualcosa di molto grave nella camera di Isabella. Un uomo in fiamme”. sco non rispose. “Siete diventato muto?” lo incalzò il Giullare. “Vi ho detto che nella camera di Isabella c’è un uomo in fiamme, speriamo che non sia il Principe”. Il Giullare avanzò di un o e sco ne fece uno indietro, facendo insospettire l’uomo che lo aveva fermato. “Siete o non siete il nipote Mascherato?”. sco fece su e giù con la testa per dire sì. “Avete sentito cosa vi ho detto? Temo per l’incolumità di vostro cugino, il Principe”. Allora sco scrollò le spalle e allargò le braccia. Il Giullare stava per sollevargli la visiera, ma proprio in quel momento alle sue spalle aveva fatto capolino il Principe che vagava senza meta per le stanze del Palazzo. sco fece un altro o indietro per non farsi raggiungere dalla mano del Giullare, poi camuffò la voce rendendola il più nasale possibile e molto velocemente disse: “Guardatevi alle spalle, il Principe sta bene”. Il Giullare, vedendo il figlio del Signore, si sentì rassicurato. “Come state, Principe?”. “Il nipote Mascherato mi ha promesso tette giganti per Isabella”. Il Giullare si voltò per chiedere chiarimenti all’uomo che aveva scambiato per il nipote Mascherato, ma al posto di sco incappucciato trovò solo aria. Il mercante di miele aveva approfittato di quella distrazione del Giullare per darsela a gambe e imboccare l’uscita.
20
Un’ora dopo, Isabella era stata convocata dal Signore. “Ho riconosciuto la fibbia degli stivali della vittima, Isabella. Il cadavere è quello di mio nipote. Voglio sapere esattamente cosa è successo”. “Non so nulla, mio Signore. L’incidente mi ha sorpresa nel sonno”. “Il Giullare ha detto che nel Palazzo si aggirava un altro uomo incappucciato”. “Dormivo”. “Quindi non potete escludere che nella vostra camera ci fosse un uomo”. “Se ci fosse stato un uomo me ne sarei accorta”. “Ma dormivate”. “A parte vostro figlio, gli uomini che ho ospitato nella mia camera mi hanno sempre lasciata sveglia”. “Isabella, fatela finita col vostro sarcasmo, altrimenti mi cimenterò io stesso con la scure sul vostro collo”. “Va bene Signore, come preferite. Ma ditemi, vi siete fatto un’idea sulla dinamica dei fatti?”. “Isabella, avvicinatevi”. Il Signore accostò la bocca alle orecchie della nuora. “Credo sia stato mio figlio a incendiare il cugino”. “Avete provato a interrogarlo?”. “No, figuriamoci, se capisse di essere stato lui rischierebbe di restarne traumatizzato”. “E quindi?”.
“E quindi, all’incirca nel momento in cui mio nipote ha preso fuoco, il Principe sarebbe dovuto essere proprio là, nei paraggi della vostra camera. Quando è uscito dalla sua aveva una torcia in mano. Ecco perché immagino che le cose siano andate come vi ho appena detto”. “Lo avete mandato voi?”. “Naturalmente. Mi domando come mai il nipote Mascherato gironzolasse dalle vostre parti”. “E cosa avrebbe dovuto fare il Principe in camera mia?”. “Come sarebbe a dire cosa avrebbe dovuto fare? Isabella, un marito, almeno ogni tanto, deve andare a trovare la moglie”. “Comunque, sappiate che il nipote Mascherato mi aveva manifestato il suo amore”. “E a voi piaceva mio nipote?”. “Sono una donna sposata, Signore. Il fatto che misteriosi uomini incappucciati possano girare liberi nel Palazzo durante la notte mi inquieta”. “Brava, l’avete presa da lontano per tornare sull’argomento e scoprire quante cose so sull’intruso. Mi piacete ogni giorno di più, siete davvero adatta per il governo del Borgo. Comunque non so assolutamente nulla a proposito di quella persona. Adesso potete andare, Isabella. E dite al mio fidato consigliere che lo aspetto”. Isabella sorrise, chinò il capo per salutare e non appena uscì dalla stanza vide il Giullare e gli riferì che il Signore desiderava parlargli. “Giullare, ho perduto ogni speranza di avere un nipote da Isabella”. “Mio Signore, vi ricordo che in questo momento il Borgo è sprovvisto di un carnefice”. “Ne convocheremo uno dal borgo di mio fratello. Isabella morirà la settimana prossima, ma la informerò solo il giorno prima della sua esecuzione. Potrebbe essere una complice dell’uomo incappucciato che si è introdotto nel Palazzo. Le
devi stare alle calcagna e scoprire tutto quello che c’è da scoprire”. “Sarà fatto, mio Signore”. “Ancora una cosa: siete sicuro che la voce dell’uomo incappucciato non fosse quella del mercante di miele?”. Il Giullare fece un capitombolo e rispose: “Voce veloce, voce del male, io non ti conosco, voce… Nasale”.
21
“Ancora mele?” disse uno dei braccianti allievi di sco. Era proprio così, il maestro aveva iniziato anche la seconda lezione girando tra i banchi e lasciando sopra ciascuno una mela. “Ma sei proprio sicuro che ci devi insegnare l’apicoltura?”. sco non rispose e dopo aver terminato la distribuzione della frutta andò a sedersi sulla cattedra. Era rimasto zitto per un po’ a guardare gli allievi perplessi. “Maestro, cosa ci facciamo con queste mele?”. “Se qualcuno di voi non sapesse di avere un sacco di soldi, parlo di un sacco bello pieno, sia chiaro” disse sco. “Dicevo, se qualcuno di voi, senza saperlo, avesse un sacco di soldi nascosto nel materasso sarebbe un uomo ricco oppure resterebbe un uomo povero?”. Per un po’ nessuno si azzardò a rispondere. L’uomo da soma si era voltato verso il suo compagno e con il dito indice della mano destra aveva picchiettato per tre volte sulla tempia come a dire che quell’insegnante doveva essere un po’ matto. “E chi li ha messi quei soldi nel mio materasso?” chiese qualcuno dall’ultimo banco. “Facciamo finta che ci siano sempre stati”. “In mezzo alla paglia? Un sacco di soldi in mezzo alla paglia del materasso?”. “Sì, proprio così” disse sco. “Ma questo è impossibile” protestò un altro allievo. “Se non dai un occhio dentro al materasso non puoi saperlo”. “E tu sco, guardi tutti i giorni dentro il tuo materasso?”.
“Proprio così” rispose sco. “Però a noi risulta che tu non ce l’hai un materasso”, replicò l’uomo da Soma. “Si dice in giro che dormi su una rete dei pescatori appesa tra due pareti, sospeso per aria a circa un metro dal pavimento”. “Questo è vero, ma non sono sospeso per aria. Sotto la rete, ve lo assicuro, c’è il mio materasso”. “E noi perché non lo vediamo?”. “Si tratta di un materasso invisibile, ai vostri occhi sia chiaro. Ma io lo vedo e vedo anche tutto quello che c’è dentro”. “E come fai?” Così sco raccontò ai suoi allievi che un giorno, quando lui era piccolo, suo padre gli aveva spiegato che i materassi erano stati inventati per conservare i sogni dei bambini. E aveva aggiunto che se un bambino avesse avuto voglia di fare proprio quel sogno non gli sarebbe rimasto che infilare una mano tra la paglia e cercarlo bene tra gli intrecci dei fili di fieno, fino a scovarlo. Anche a costo di restare sveglio per tutta la notte. “Come sarebbe a dire sveglio per tutta la notte?” esclamò l’uomo da Soma. “Non c’è nulla di meglio che restare svegli, ma sarebbe più giusto dire restare vivi” rispose sco. “A cercare i nostri sogni”. “E una volta che li abbiamo trovati, cosa ce ne facciamo?”. “Li sfioriamo e ne cerchiamo altri”. “Maestro, ho una domanda. E se mentre cerco un sogno mi accorgo che non mi piace più, cosa devo fare?”. “Devi immediatamente infilare la mano dentro il materasso e cercarne un altro. La cosa che conta, che conta davvero, è che tu conosca il sogno che stai cercando, altrimenti va a finire che acchiappi un sogno che non ti appartiene”. Fino a quel momento gli allievi avevano seguito con attenzione. Ed era molto
probabile che avessero capito il senso delle sue parole, pensò sco. Così decise di are al livello successivo e parlò di quelle volte che accade che un sogno che sta per essere estratto dal materasso resti tra la paglia ancora per un po’. Magari perché si è incastrato e non ne vuole sapere di venire fuori, oppure perché ci piace tenerlo là, come fanno due amanti che tutto a un tratto rallentano e rimandano l’esplosione del piacere perché trovano che l’immaginazione del sapore sia eccitante quanto la concretezza del gusto. “La storia dei sogni nel materasso era proprio bella” disse qualcuno. “E non era male neppure la faccenda di quei due che fanno l’amore. Ma tutto questo avrebbe a che fare con il miele?”. “Per il momento ha a che fare con le mele” rispose sco. “Cosa dobbiamo fare con le mele?”. “Potete fare quello che volete, tutto tranne che lanciarle, visto che le abbiamo già lanciate durante la prima lezione”. “Le mele si lanciano o si mangiano” protestò uno dalla seconda fila. “Non ci resta che mangiarle”. “Aspetta, mio babbo le usa per fare i disegni” gli rispose un altro allievo dall’ultimo banco. “Tuo babbo è scemo, lo sanno tutti”. “Questo è vero, suo babbo è scemo” disse sco. “Ma sa che con le mele si possono fare anche i disegni. E poi? E poi c’è qualcuno tra voi che sa cosa si possa fare con le mele?”. “Anche metterle sotto la camicia per far finta di avere le tette e travestirsi da femmina”. “Bravo, le mele sono adatte ai travestimenti” confermò sco. “Quindi le mele si possono mangiare, disegnare, mettere sotto la camicia per camuffarsi da donna e si possono anche lanciare. Ma non oggi, mi raccomando”. “Maestro, non fai prima a dirmi cosa devo fare esattamente con la mia mela?” intervenne l’uomo da Soma.
“La mela che hai davanti ai tuoi occhi è come un sogno dentro al materasso. Preferisci usarla per un disegno, ti vuoi travestire da donna, da donna con una tetta sola in questo caso, oppure la vuoi mangiare?”. “Ehm, la voglio mangiare!”. “Ne sei sicuro?”. “Ecco, forse no. Ma che ne so di quello che ci voglio fare? E’ solo una mela dopotutto!”. sco si avvicinò al banco del suo allievo. Prese il frutto e glielo fece annusare. “Odore di mela” disse l’uomo da Soma. “Ti piace?” “Sì, è odore di mela”. Allora il maestro avvicinò quella mela alle labbra dell’uomo da Soma e quando costui tentò di addentarla sco la sottrasse rapidamente alla presa della bocca. “La potrai mangiare solo quando sentirai il desiderio di volerlo fare”. “Lo sento, maestro”. “Di già?”. “Sì”. “É bastato così poco?”. “Certo”. “Forse sei un genio dell’apprendimento, oppure ti stai prendendo gioco di me. In ogni caso la mela è tua, sbranala”. “Grazie”.
L’uomo da Soma si nutrì rumorosamente. Un allievo dall’ultimo banco disse: “Maestro, ci siamo anche noi, non ti sei accorto?”. “Certo che mi sono accorto di voi”. “Allora cosa dobbiamo fare?”. “Lo state già facendo”. “Cosa?”. “State imparando”. “Stiamo imparando? Ma cosa stiamo imparando?”. “A sognare”. “É vero, il maestro ha ragione” intervenne l’uomo da Soma. “Ho sognato di mangiare quella mela e il mio sogno si è avverato”. “Era un sogno facile da realizzare, lo ammetto” spiegò sco agli allievi mentre girava in mezzo ai banchi. “Ma per cominciare è più che sufficiente. Voi tutti avete dei sogni, avete dei sogni e non sapete di averli. Nel corso di queste lezioni imparerete a riconoscerli e a cercarli nel vostro materasso”. “E le api?” domandò l’uomo da Soma. “Le api sognano il miele, montagne di miele, almeno credo”. Allora l’uomo da Soma proseguì: “Maestro, credo di conoscere il mio sogno”. “Sentiamo”. “E adesso ho capito perché sono un uomo felice. Sono un uomo felice perché fino a oggi il mio sogno si è sempre realizzato”. “Quale sogno?”.
“Il mio sogno è fare crescere la vigna col mio lavoro”. “Cosa?”. “Il mio lavoro, la vigna”. “Ti piace così tanto il tuo lavoro?”. “Non mi piace per niente, però è il mio lavoro”. “Ma che bel sogno”. “Bellissimo, Maestro. E si rinnova di anno in anno”. “Ma come mai hai proprio quel sogno? É forse tua la vigna?”. “La vigna non è mia, ma lavorando posso dar da mangiare a mio figlio fino a quando non andrà anche lui a lavorare tra i filari”. “Sono d’accordo con te” mentì sco. “Ma dimmi, ci tieni davvero al tuo ragazzo?”. “Moltissimo, maestro. Ma perché?”. “Perché quando un padre tiene al proprio figlio sogna di restare accanto a lui il più possibile, piuttosto che andare a lavorare per tutte quelle ore”. “Mi piacerebbe, certo. Ma non posso sognarlo!”. “Uomo da Soma, guarda che nel tuo materasso ci puoi trovare qualunque cosa”. “No, questa cosa assolutamente no. Non guadagnerei abbastanza per mantenerlo”. “Allora prova a spendere meno”. “E come faccio?”. “Non so, magari smetti di compararti il vino, così con quello che risparmi puoi tornare a casa due ore prima”.
“Il vino mi piace e poi se tutti smettessero di comprare il vino non avrei più il mio lavoro”. “Chiedi un aumento”. “Se il Sorvegliante mi concedesse un aumento lo dovrebbe dare anche a tutti gli altri. Per l’economia della vigna sarebbe un disastro”. “Hai idea… Avete idea di quanti soldi guadagni il Signore col vostro lavoro?”. Nessuno rispose a sco. “Se non lo sapete, ve lo dico io. Sono tantissimi”. “E con questo?” disse l’uomo da Soma. “La terra è del Signore e ci può fare quello che vuole”. “La terra è di chi la lavora, così come l’aria è di chi la respira” replicò sco visibilmente alterato. “La lezione è finita”. “Ma come sarebbe a dire che la lezione è finita?” replicò l’uomo da Soma. “Non ci hai ancora insegnato nulla sulle api, le arnie, il miele e tutto il resto!”.
22
La salma del nipote Mascherato fu riportata nel borgo di provenienza con un carro condotto dal Giullare. Il Signore aveva scritto una lettera al fratello con la quale si scusava per l’incidente occorso al giovane incappucciato. Alla fine della stessa aveva aggiunto di aver bisogno urgente di un carnefice per sistemare in via definitiva un affare di famiglia. Quando il padre del nipote Mascherato scoperchiò la bara e vide quello che restava del presunto figlio scoppiò in una risata fragorosa. “Era l’uomo più cattivo che Dio ha mandato sulla terra. Il bugiardo più crudele. Persino i vermi meriterebbero più misericordia. Ah, l’unica cosa che faceva bene era il mestiere di boia”. “A proposito del boia, avete letto cosa c’è scritto nella lettera di vostro fratello?” intervenne a quel punto il Giullare. Il padre del morto lasciò ricadere il coperchio della bara che si richiuse con un suono secco. “Dunque vediamo. Mi scrive di un affare di famiglia. Di chi si tratta?”. “Isabella”. “La moglie del Principe, se non sbaglio. Isabella, povera Isabella. Avrei un carnefice di tutto rispetto per lei, è uno veloce. Garantisco un ammazzamento quasi indolore”. “Allora direi che può andare”. “Ma sappiate che non è senza costo”. “Il Signore dovrebbe pagare? Non avete intenzione di fare un favore a vostro fratello?”. “Se vuole un boia gratuito posso mandargliene uno anziano che non ha mai
seguito alcun corso di aggiornamento. Si ostina a praticare le impiccagioni senza ungere la corda”. “Sa usare anche la spada?”. “Figuriamoci, non sarebbe neppure in grado di reggerla con entrambe le mani una spada. Ve l’ho detto, ormai è vecchio!”. “Allora se non è in grado di maneggiare una spada non può neppure usare una mannaia e quindi non va bene. Isabella deve essere decapitata, il Signore glielo ha promesso”. “Una promessa è sempre una promessa. Allora fanno cento monete”. “E sia” disse il Giullare mentre consegnava una borsa che conteneva proprio cento pezzi. “Potete contarli”. “Mi fido, questi soldi me li manda mio fratello, mica quella poltiglia carbonizzata che giace in quella cassa”. “Il vostro carnefice eseguirà la sentenza la prossima settima”. “Va bene. Arriverà per tempo. Ma dimenticavo, si tratta di un’esecuzione pubblica?”. “Certo. Ma perché?”. “L’abito. Se l’esecuzione è pubblica il boia deve indossare la divisa delle grandi occasioni. La maschera, gli stivali e i guanti di pelle nera di prima qualità sono coordinati, altissima sartoria. Sarebbero altre cinquanta monete, ma a mio fratello posso fare lo sconto”. “Quindi?”. “Quindi ve la caverete centoventi monete in tutto”.
23
Non appena si era svegliato, prima dell’alba, l’uomo da Soma aveva sfiorato il viso della moglie. Era caldissimo. Centinaia di goccioline di sudore inondavano il volto della donna, poi scorrevano dalla fronte, lungo le guance, sul collo e finivano assorbite dalla camicia da notte bianca. L’uomo cercò di svegliarla ma si accorse, dopo averla scossa quattro volte, che la donna era in preda al delirio per un violento attacco di febbre. Chiamò il figlio e gli disse di correre ad avvisare il medico del Borgo, che le diagnosticò una malattia grave curabile solo con una terapia che costava una cifra spaventosa. Avrebbe dovuto lavorare almeno per sei mesi per pagare il conto. Il medico sollecitò un intervento immediato, ne sarebbe andato della vita della donna. Così, l’uomo da Soma si precipitò alla vigna per chiedere un prestito al Sorvegliante. “Non c’è alcun problema. Sei un ottimo dipendente e sei fedele, non sarebbe giusto negarti questi soldi”. L’uomo da Soma era contentissimo e aveva due ottimi motivi per esserlo: il prestito e i complimenti che aveva ricevuto dal suo capo. Poi, il Sorvegliante terminò il discorso. “Quanto alla sua restituzione, so benissimo che avresti delle difficoltà, così ho pensato anche a questo”. “Mi verrete incontro?”. “Certo, tuo figlio potrà lavorare per me, diciamo per un anno”. “Cosa? Mio figlio lavorerà nella vigna? E da quando?”. “Da domani, naturalmente. In questo modo salderai il tuo debito.”
“Ha solo dodici anni, è fragile!” protestò con un timido balbettio. “Infatti è per questo che dovrà lavorare per un anno anche se mi hai chiesto solo sei mesi d’anticipo dello stipendio” replicò con prontezza il Sorvegliante. “Non preoccuparti, diventerà forte molto presto. La vigna non subirà alcun danno”. “Ma non potrà più andare a scuola”. “Lascia perdere la scuola, tua moglie sta morendo”. L’uomo da Soma aveva perso le parole. Avrebbe voluto dirgli tante cose, per esempio che sfruttare il lavoro dei bambini è un gesto criminale e soprattutto avrebbe voluto prenderlo a schiaffi. Non fece nulla di tutto questo. Accettò i soldi e corse a pagare il medico.
24
Pioveva incessantemente da tre giorni. Il terreno argilloso della vigna era completamente invaso dall’acqua. I rametti della vite, recisi durante la vendemmia, galleggiavano ovunque. L’uomo da Soma trainava il suo carretto e osservava i polpacci esili del figlio che si contraevano a ogni o, mentre spingeva il carretto davanti al suo. Le gambe ossute erano completamente infangate e i capelli fradici si erano appiccicati al volto. Da quando aveva iniziato a lavorare, i suoi occhi grandi e castani si erano spenti. Di colpo, l’uomo da Soma si fermò. Nel suo collo il gozzo fece su e giù, allora si voltò e puntò lo sguardo verso le ceste riposte sul pianale del suo carretto. Le gambe erano leggermente divaricate. L’acqua le copriva fino alle caviglie. Sognò. Sognò un posto dove i bambini erano liberi e dove si lavorava solo se non avesse piovuto. Gli addetti ai carretti erano i cavalli e sarebbero stati sostituiti non appena si fossero stancati. Non c’era alcun padrone che sfruttava la rendita della vigna, perché la vigna era di chi lavorava. E chi lavorava poteva scegliere di farlo come meglio credeva e avrebbe guadagnato in proporzione al suo contributo. Era la prima volta che l’uomo da Soma si fermava. Allora si fermarono tutti. Il Sorvegliante si accorse quasi subito di quanto stesse accadendo e si precipitò sul posto. Iniziò a inveire contro l’uomo da Soma rivolgendogli insulti a un centimetro dal suo orecchio. L’uomo da Soma captava quel rumore distorto e lontano che tentava di interferire col suo sogno. Allora il Sorvegliante prese a pugni e manate la sua schiena, senza riuscire a smuoverlo. Poi usò un bastone, ma non cambiò nulla. Adesso gli altri braccianti iniziarono a stringersi intorno ai due.
Di colpo le urla del Sorvegliante cessarono. Le avevano coperte il fragore dello schiaffo che lo aveva spedito per terra, privandolo dei sensi. L’uomo da Soma aveva reagito con la forza di un terremoto. Per un istante si udì solo il suono della pioggia. Poi, le mani del figlio iniziarono a battere l’una sull’altra e finalmente gli occhi del bambino ritrovarono la luce. Tutti si misero ad applaudire. L’uomo da Soma salì sul suo carretto e la mano ancora tremava. Si rivolse ai braccianti: “Abbiamo vissuto per lavorare. Da oggi lavoreremo per vivere!”. Due tagliatori sollevarono il Sorvegliante, che nel frattempo si era ripreso e lo scortarono fuori dalla vigna. “Non finisce qui!” disse l’uomo condotto all’esterno. “Hai ragione Sorvegliante, non finisce qui, c’è ancora una cosa per te!” rispose uno dei due assestandogli un forte calcio sulle chiappe.
25
Il giorno seguente il forte vento che soffiava da nord aveva spazzato via le nuvole nere e il sole splendeva incontrastato. I braccianti avevano organizzato una sala dibattito nel fienile. Si svolgeva la loro prima assemblea. “A questo punto dobbiamo trovare una linea d’intervento comune” esordì l’uomo da Soma. “Chi vuole cominciare?”. Nessuno osò parlare subito. Erano troppo timidi. Dopo un po’ un addetto al carretto disse a voce bassa: “Io mi spezzavo la schiena”. “Parla più forte, non si sente nulla” replicò un altro bracciante dalle ultime file dell’assemblea. “Ho detto che mi spezzavo la schiena!”. Poi qualcuno trovò il coraggio per urlare: “Il Sorvegliante è un aguzzino!”. Un altro bracciante intervenne con tutto il fiato che aveva in gola, paonazzo di rabbia. “Anche il Signore è un aguzzino, che possa morire!”. Dopo si udì ancora una voce, era quella di qualcuno che sbraitava: “Bravi, sono due aguzzini, che possano morire tutti e due, che gli venga un malore!”. A questo punto, tutti ebbero qualcosa da urlare. “Bastardi, che vi venga la gotta!”. “Assassini, che possiate morire fulminati!”. I braccianti avevano bisogno di sfogare la loro rabbia repressa, era chiaro, però il tono della discussione non sarebbe potuto essere quello per tutta la durata della riunione. L’uomo da Soma cercò di ristabilire l’ordine. “Calmatevi, cerchiamo di definire questa linea d’intervento. Basta con le grida,
parliamo uno alla volta!”. Non appena il rumore si riportò al semplice bisbiglio, il mediatore proseguì “Credo che sia molto importante, in primo luogo, definire l’organizzazione del lavoro. Chi ha qualche idea si iscriva a parlare, aspetti il turno e poi esponga quello che deve dire”. Così arrivò la prima proposta. “Io credo che l’anno prossimo dovremmo seminare più a nord, dove il terreno è più sabbioso. Si potrebbe ottenere un’uva per un vino bianco leggermente più secco di quello che si riesce a fare ora”. “E chi ti dice che sarebbe più buono?” replicò un altro bracciante. “Poi dimmi un'altra cosa, tu sei solo un tagliatore, che ne sai della semina della vite?” intervenne uno degli addetti al carretto. “Giusto! Che ne sai tu?” fece un tagliatore. Dall’ultima fila qualcuno gridava: “Vuoi farci credere di conoscere la tecnica della semina perché vuoi diventare il nuovo sorvegliante! Ecco perché! Sei solo un furbastro”. Così l’uomo da Soma si trovò costretto a intervenire per aggiornare l'assemblea. “Basta, ci vediamo tra un’ora. Rilassatevi, non parlate della vigna, della rivolta, del Sorvegliate e di tutto quello che riguarda questa storia. Sgombrate il cervello da questo argomento!”. Dopo la pausa, durante la quale si parlò solo della vigna, della rivolta, del Sorvegliante e certamente nessuno si rilassò, il mediatore riprese la parola. “Non ci sarà più alcun sorvegliante. Quanto al Signore, per il momento ci conviene utilizzare questa terra, vorrà dire che gli pagheremo l’affitto o qualcosa del genere. Siete d’accordo?”. L’approvazione fu unanime e l’uomo da Soma proseguì. “Se non starà alle nostre condizioni, noi non lavoreremo fino a quando non cederà! E ora definiamo un documento comune che regola il nostro lavoro nella vigna. Fate le vostre proposte”.
Dopo alcune ore di lavoro fu redatto il Decalogo della vigna.
1) Si lavora per vivere. 2) Tutti coloro che lavorano nella vigna riconoscono di appartenere alla stessa categoria, la difendono e sono sempre solidali tra loro. 3) Tutte le mansioni godono di pari dignità. 4) La retribuzione è proporzionata al contributo prestato. 5) Tutti possono assentarsi dal lavoro per curarsi, per curare i propri famigliari o semplicemente per riposarsi senza subire alcun danno economico. 6) Non sono ammessi sorveglianti. 7) La delazione è biasimata. 8) Solo l’assemblea può giudicare l’operato individuale. 9) Tutti devono avere cura di non farsi male e di non fare male agli altri. 10) I bambini non possono lavorare.
26
Il Signore venne a conoscenza dei fatti accaduti nella vigna mentre si recava alla sartoria per commissionare l’abito che Isabella avrebbe indossato per essere giustiziata. Aveva appena finito con i falegnami, ai quali aveva ordinato di montare un palco nella piazza. Non disse a cosa sarebbe servito per evitare che la notizia dell’esecuzione potesse giungere alle orecchie della nuora. Per lo stesso motivo, alla sarta avrebbe chiesto un abito che Isabella avrebbe indossato in occasione dei funerali importanti. Ovviamente, si trattava di un abito nero. Il Giullare raggiunse il Signore in un corridoio del Palazzo dopo una corsa a perdifiato. “Ah, ecco qua il mio fedele consigliere, avevo giusto bisogno di un vostro parere”. “Signore, ascoltate, sono accadute delle cose gravissime”. “Cose gravissime?”. “Una delegazione di lavoratori della vigna si dirige verso il Palazzo, sarà qui a momenti”. Il Signore scoppiò a ridere e disse: “Che bella barzelletta, ma adesso sentite quello che vi dico”. “Signore, non è una barzelletta”. “Un abito nero, stretto in vita e con le maniche che si allargano dai gomiti in giù”. “Signore, vi prego di credere…”. “E poi una veletta che Isabella toglierà solo un istante prima di inginocchiarsi. Spero che mi dia retta, le chiederò di lasciarla scivolare con noncuranza ai suoi piedi”.
“Signore…”. “Non vi piace la mia idea? Giullare, avete una faccia…”. “Signore, insuperabile esperto di velette per condannate, la vostra idea è geniale. Ma poco fa non vi ho raccontato una barzelletta. Pare che nella vigna, ieri, ci sia stata una rivolta”. “Una ri che?”. “Rivolta”. Il Signore divenne improvvisamente cupo perché finalmente aveva capito che il Giullare non stava scherzando. Allora chiese: “Che fine ha fatto il Sorvegliante?”. “Il Sorvegliante è stato cacciato”. “Ce l’hanno un capo, vero?”. “Li guida l’uomo da Soma”. “L’uomo da Soma? Lo farò impiccare”. “Suggerisco prudenza, Signore!”. “Perché?”. “Sono in tanti”. “Quanti?”. “Tutti i braccianti”.
In quello stesso momento, nelle cucine del Palazzo, il Principe era incantato. Bloccato, completamente immobile. Isabella si era avvicinata a lui per assicurarsi che stesse bene. Gli parlò ma lui
non le rispose. Poi Isabella si accorse che il marito guardava un paio di enormi seni che sbucavano da una porta senza che ancora fosse possibile scorgere la donna alla quale appartenessero. In quell’istante arrivò sco col pretesto di rifornire di miele la dispensa del Palazzo. “Cosa sta facendo?” chiese sco a Isabella. La ragazza indicò con lo sguardo nella direzione della porta. “É incredibile, sono le tette più gigantissime che abbia mai visto. E di chi sono?”. “Credo che appartengano alla cuoca” replicò Isabella. “Ma non riesco a vedere il volto”. “Adesso lasciamo perdere quelle tette. Possiamo parlare, vero?”. “Sì, tanto il Principe è più assente del solito”. “Hai sentito della rivolta nella vigna?”. “No, quale rivolta?”. “Ieri, nella vigna, i braccianti si sono ribellati e hanno cacciato il Sorvegliante. A quanto pare le mie lezioni funzionano”. “Bravo, amore mio. E il Guardiano lo sa?”. “Adesso vado nella biblioteca e gli racconto tutto”. Mentre sco lasciava la cucina, Isabella avvertì un brivido sulla schiena ed ebbe un brutto presentimento. “Amore, torna qui, ti prego”. sco girò sui tacchi e fu nuovamente faccia a faccia con Isabella. “Abbracciami forte” continuò lei. “Non permetterai a nessuno di farmi del male, vero?”. “Ci posso provare”.
“E ci riuscirai?”. “Credo di no”. “C’è una cosa che non sai”. Isabella non aveva mai parlato con sco di quello a cui sarebbe andata incontro se non avesse partorito l’erede entro il termine prestabilito. “Come mai la donna che amo mi nasconde un segreto?”. “Riguarda il mio destino, il solo pensiero mi fa tremare le vene e i polsi”. “É un segreto così spaventevole?”. “Il Signore sa che non mi sono ancora congiunta con suo figlio per cui devo trovare il modo di fargli credere che entro pochi giorni io e mio marito faremo l’amore”. “Quanta fretta!”. “Se quella notte che ci siamo incontrati mi hai lasciato un bambino nella pancia, il Signore, una volta fatti i conti, scoprirà che l’erede è un infiltrato e io perderò la testa”. “Allora speriamo che nella pancia non ci sia nessun infiltrato, così potrai tenerti la tua graziosa testolina”. “In questo caso la testa la perderò ugualmente, perché il Signore mi ha detto che se non faccio un figlio finirò sul patibolo”. “Quindi non basta un figlio qualsiasi ma deve essere un figlio del Principe”. “Proprio così!”. “Isabella, ci tieni tanto alla tua testa?”. “Sì, è l’unica che ho”. “Bene, so come salvarti”.
“E come?”. “Il mio piano è facile: da oggi devi sognare che la tua testa resti sempre dove si trova adesso”.
Il Signore tuonò: “Quello che avete fatto è molto grave”. E rivolgendo il suo sguardo all’uomo da Soma: “Da domani le cose torneranno come prima, solo per questa volta farò finta che nulla sia accaduto. Immagino che siate qui per scusarvi”. “Immagini proprio male” rispose l’uomo da Soma. “Siamo qui per esporre le nostre condizioni!”. “Le vostre condizioni? Siete pazzi!”. “Credo che ti convenga ascoltare piuttosto che insultare”. “Che insolente, uomo da Soma, proprio una bestia insolente. Ma non sai che potrei farti impiccare anche tra cinque minuti?”. “Non lo farai”. “E cosa mi dovrebbe fermare? Le tue lacrime di disperazione mentre senti il cappio che ti stringe il collo?”. “No, non ci sarebbero quelle lacrime, ho una certa dignità, cosa credi? Ci sarebbero tutti i braccianti della vigna pronti a farti fare la mia stessa fine subito dopo di me. A proposito, tu piangerai mentre la corda ti stringe il collo?”. “Le mie guardie...”. Non fece in tempo a finire la frase che fu interrotto. “Le tue guardie? Ma non farmi ridere! Faresti prima a farti difendere dalle galline. Lo sanno tutti che sono un branco di incapaci”. Il Signore non ebbe il tempo di replicare, e per lui fu una fortuna dato che aveva
terminato gli argomenti, perché una guardia entrò improvvisamente nella sala con una lettera e disse: “Signore, questa è per voi. Il messaggero dice che si tratta di una comunicazione urgente”. Il Signore la aprì e la lesse mentalmente.
Le vicende della vigna ci preoccupano molto. Siete ancora in grado di fornire l’uva da vino nella quantità e nei tempi usuali? In caso contrario, il nostro contratto di acquisto sarà disdetto.
La cantina.
Poi lesse la lettera a voce alta e si rivolse alla delegazione di braccianti. “Avete visto, imbecilli? Cosa devo rispondere alla cantina?”. “Ti offriamo un decimo del guadagno, la nostra proposta è questa”. “Ma allora ti va di giocare, uomo da Soma?”. “Consideralo una sorta di affitto della terra. La nostra ultima offerta è questa. Se non accetti ci sarà l’astensione dal lavoro”. “Volete scioperare?”. “Scioperare?” domandò l’uomo da Soma. “E cosa significa?”. “Quello che hai detto poco fa. Significa che vi rifiutate di lavorare, ma voi certe cose non potete saperle”. “Ah sì? E ci sia questo… Scioperare, allora”. “Bene, quindi morirete di fame!”. “Il popolo affamato trova sempre qualcosa da magiare. La verremo a prendere a
casa tua!”. “Signore, fate come dice l’uomo da Soma” si intromise il Giullare.. Il Signore picchiò due pugni sul tavolo. “Va bene!” disse. “Un decimo del guadagno al netto delle tasse. E forbici e carretti a carico vostro. Quanto alle ceste e a tutte le spese di manutenzione vale la stessa cosa. Ora sparite perché aspetto i muratori”.
27
Poco dopo il Signore illustrò il suo progetto al capomastro. “Un’immensa vetrata, su questa parete, a est. Al posto del muro voglio una vetrata incorniciata nella radica. Deve essere larga quanto tutta la parete e alta dal pavimento al soffitto. Adoro il panorama. Iniziate subito, forza!”. I manovali partirono immediatamente con i lavori. Presero a colpi di martello il muro per ridurne lo spessore. Uno di essi aveva portato con sé il Manuale del Muratore. Lo appoggiò in un angolo della stanza prima di smartellare contro la parete. Il Signore vide il libro, lo raccolse e lo sfogliò. Mentre girava piano quelle pagine, sorrideva felice perché sapeva di essere l’unico a conoscere i profondi segreti del brano magico che imponeva il sogno del Tre e dell’Uno.
Il Giullare aveva pedinato sco fino alla biblioteca. Era rimasto fuori ad aspettare che uscisse e così aveva scoperto che l’incontro del mercante di miele col Guardiano era durato oltre due ore. Chissà cosa si stanno raccontando, pensò. Si assicurò che sco, una volta uscito, non avesse con sé alcun libro. Riuscì a verificarlo facilmente inscenando un incontro casuale durante il quale si mostrò spropositatamente entusiasta. “Amico mio, cosa fate qui?” chiese il Giullare a sco, mentre gli andava incontro con le braccia spalancate. “Avanti, lasciate che vi saluti come si fa con i veri mercanti”. “Buongiorno” rispose sco. “I veri mercanti salutano così”. Il Giullare abbracciò l’amante di Isabella e facendo scorrere le mani su tutto il suo busto perquisì la parte alta del corpo, con l’eccezione della testa. Mentre
pensava a un modo per frugargli tra i capelli si rese conto che, per quanto piccolo, un libro non sarebbe mai potuto finire nascosto tra le ciocche di sco. Adesso avrebbe dovuto controllare dalla cintura in giù. “Che bella sorpresa, sco. Cosa mi dite se vi faccio un gioco?”. sco si stava divertendo. I modi del consigliere del Signore erano coinvolgenti. “Mi metto a vostra disposizione”. Il Giullare estrasse una carota dalla manica, una carota che a sco parve materializzarsi dal niente. E allo stesso modo, tirò fuori un uovo dall’altra manica. “Avete fame?”. “Mi offrite un uovo e una carota per pranzo?”. “Direi che si tratta di un ottimo pranzo, sco”. “Mi avete convinto. Ditemi, devo per caso chiudere gli occhi?”. “No, al contrario. Li dovete tenere assolutamente aperti!”. Intanto un gruppetto di curiosi si era fermato a vedere lo spettacolo. “Bene, sono pronto. Cosa devo fare?”. “Aprite la bocca perché adesso infilo la carota: uno, due e… Tre”. Agli spettatori sembrò davvero che la carota entrasse nella bocca di sco e lo stesso sco ne ebbe la percezione visiva. Ma chiaramente tra le sua fauci non c’era nulla, perché la carota era rientrata nella manica del Giullare. Subito dopo, anche l’uovo con tutto il suo guscio fece lo stesso percorso. “E adesso signore e signori state attenti, perché quello che da sopra scompare, da sotto… Riappare”. L’uovo e la carota ritrovarono la luce dai pantaloni di sco, materializzandosi nella mani del Giullare che ormai aveva potuto constatare che
il mercante non nascondeva alcun libro. Il pubblico applaudì. “Grazie, signore e signori. Lo spettacolo era gratuito per questa volta” disse il Giullare. “Ma era così divertente che meritate ugualmente una moneta” replicò uno degli spettatori. “In questo caso non mi resta che ringraziare”. Proprio in quel momento ò un uomo a cavallo, un uomo che nessuno aveva mai visto prima. Si dirigeva verso il Palazzo indossando un mantello nero che lasciava intravedere la lama luccicante di una grossa scure.
Quando arrivò la sera, il Giullare andò dal Signore per riferire di quella giornata di pedinamenti. Non era emerso alcun elemento che potesse dimostrare la complicità di sco e Isabella, quindi ancora non era chiaro se l’uomo incappucciato che si era introdotto nel Palazzo la sera che il nipote Mascherato aveva preso fuoco fosse sco. In ogni caso quella vicenda perdeva d’importanza, visto che l’esecuzione di Isabella era ormai questione di giorni e incastrare un suo presunto amante non avrebbe più avuto senso. Restava da risolvere il caso dell’insurrezione nella vigna e il Signore era convinto che la mente della rivolta non poteva essere uno dei braccianti. Quelle cose nascono solo quando le persone leggono i libri e Isabella era l’unica ad aver avuto, di recente, l’accesso alla Biblioteca. Non si trattava di un accesso a tutti i livelli, ma quello che le era stato concesso di leggere sarebbe bastato per farsi venire in mente di organizzare i braccianti in un movimento di protesta. Così, il Signore decise che se ne sarebbe occupato in prima persona facendo ricorso a un metodo veramente esclusivo e infallibile. E dopo aver scoperto quello che voleva sapere da Isabella avrebbe lasciato alla nuora solo altri due giorni di vita.
28
Come usava fare quasi tutte le mattine, Isabella era scesa nella Biblioteca per leggere qualche libro del primo livello, l’unico al quale avrebbe potuto accedere. Incontrò il Signore sulle scale. “Anche voi qui, che bella sorpresa. Avrei piacere di consultare qualche libro con voi per poi discuterne insieme. Siete d’accordo, mio Signore?” chiese la ragazza con un sorriso delicato. “Certo, sono onorato del vostro invito. Dovete sapere che ho appena letto alcuni paragrafi di un libro che parla di uno strumento molto affascinante, il pendolino. Vi propongo un confronto”. “Sempre abile nell’incuriosirmi. Cos’è il pendolino?”. “Si tratta di una sfera metallica appesa a una cordicella. Deve essere lasciata libera di oscillare e secondo i rabdomanti riesce a indicare la presenza di sorgenti o giacimenti minerari”. “Mio Signore, allora siete un rabdomante anche voi?”. “Non proprio, io ne faccio un altro uso” rispose il Signore mentre estraeva il suo pendolino dalla tasca per farlo oscillare davanti agli occhi della nuora. “Un altro uso?” “Pratico un'arte che si chiama ipnosi”. Quando il Signore terminò l’esperimento, svegliò Isabella. Alla ragazza sembrò di aver dormito e si sentì notevolmente riposata. Non ricordava nulla. “Isabella complimenti, siete stata bravissima”. “Mi sento molto bene, cosa è successo?”.
“Entro due giorni ve lo racconterò, questa è una promessa. E domani vi comunicherò una cosa molto importante. Adesso è ora di pranzo. Piuttosto, non dimenticate di dire a sco che lo aspetto domani mattina al sorgere del sole per il miele. Vorrei quello d’acacia”.
29
Mentre aspettava il Signore per consegnarli il vasetto di miele d’acacia che nel frattempo aveva appoggiato sul tavolo, sco si mise a guardare il paesaggio attraverso l’immensa vetrata completata il giorno prima. Era bello vedere le cose dall’alto. I tetti delle casette del villaggio, spioventi, con le tegole che si incastravano l’una dentro l’altra gli fecero venire voglia di sognare che in una di quelle casette ci sarebbe andato a vivere con Isabella. Così, lui e la sua signorina avrebbero potuto fare un sacco di cose belle, per esempio avrebbero potuto fare l’amore tutte le sere senza correre il rischio di essere disturbati da nessuno. Mentre stava per iniziare il suo sogno, sco pensò che da una quelle casette non sarebbe stato possibile vedere le cose dall’alto, e sarebbe stato un vero peccato rinunciare a quel colpo d’occhio mozzafiato. Quindi sarebbe stato necessario fare un secondo sogno, il sogno di volare, magari come fanno le poiane, che salgono sempre di più senza battere le ali e hanno tutta l’aria di non stancarsi neanche un po’ mentre disegnano spirali nel cielo. In quel momento sco avrebbe sognato la casetta e le poiane, ma il suo sguardo fu improvvisamente rapito da due tuoni nuvolari così belli che nessuno avrebbe potuto fare a meno di guardarli. Per questo motivo sco decise di rimandare di qualche minuto i suoi sogni e restò imbambolato a osservare le due scie vaporose che s’intersecavano a formare una croce perfetta. Un tuono nuvolare procedeva verso nord e l’altro invece era già sopra le montagne a est. Anche quella volta, come al solito, il tuono non fu accompagnato da alcuna precipitazione. Del resto non c’era stato il tempo, infatti le nuvole rettilinee si erano dissolte in pochi minuti. “sco, il o del Manuale del Muratore!”. La voce del Guardiano lo sorprese mentre era ancora intento a guardare fuori dalla vetrata.
“Ancora?”. “Sì, ancora il Manuale del Muratore, sco”. “Ti prego Guardiano, stavo giusto per fare due sogni. Non possiamo parlarne un’altra volta?”. “No, dobbiamo parlarne adesso!”. “Ma il Manuale del Muratore è la cosa più noiosa che abbia mai letto”. “Ci hanno imposto uno strano sogno. Perché vogliono che facciamo proprio questo strano sogno? Che senso ha tutto questo?”. “Forse non ce l’ha un senso”. “Il Signore non è tipo che si mette a fare cose senza senso”. “E va bene, ripeti il o. Lo conosci a memoria, giusto?”. “Scavata la buca profonda come l’altezza di un uomo si dispongano dentro le pietre calcaree frantumate…”. Il Guardiano recitò tutto il pezzo fino alla fine. “Forse… Non so…” disse sco scrollando le spalle. “Non riesco a capirci nulla. Ecco, potrebbe… Ma in fondo pensi che sia importante tutto questo?”. “Ah, lo è di sicuro”. “Quante certezze hai, Guardiano. L’unica certezza è che prima o poi dovrete morire tutti”. “E tu no?”. “Anche io, certo. Ma per non mettermi di cattivo umore preferisco pensare alla morte degli altri…”. E di colpo sco si bloccò, proprio all’improvviso come se gli fosse caduta una tegola sulla testa.
“Cosa ti prende adesso?”. “Guardiano, voglio leggere quel brano!”. “Guarda che lo conosco a memoria”. “Lo so bene che lo conosci a memoria quel brano, ma voglio leggerlo ugualmente”. “Va bene, ce l’ho qui con me”. Il Guardiano estrasse il volume che custodiva sotto il vestito. “Ma lo conosco a memoria, ti ho detto!”. “Sì, sì, lo conosci a memoria” disse sco al cieco, poi aprì il libro sul tavolo alla pagina del o.
"Scavata la buca profonda come l’altezza di un uomo si dispongano dentro le pietre calcaree frantumate e sia ricoperta con il legno che fornirà la macchia di ginepro tagliata un anno prima e lasciata asciugare al sole e al vento dell’arida pianura che precede i boschi a formare una catasta stabile nell’equilibrio la cui altezza di tre uomini
non dovrà mai essere superata. La s’incendi in tre punti della base e uno della cima e si osservi il legno che diviene fumo perché di Dio questa è la volontà. Si rimuova la brace e si lasci respirare la pietra e si mescoli e si frantumi con la stessa forza espressa dal Signore nel domare il suo destriero che il giorno della cattura era nervoso e irascibile e in quanto tale deve essere temuto perché capace di recare grave danno. Si aggiunga la pietra all’acqua nella parte di tre per la parte di uno e si abbia cura che la proporzione sia assolutamente rispettata”
sco lo aveva letto molto attentamente due volte. Dopo la prima si rese conto che il brano puzzava di fregatura e alla fine della seconda lettura si ricordò che questa cosa gliela avevano già detta sia il Guardiano che Isabella. Allora iniziò a girare intorno al tavolo, ripetendo mentalmente l’inizio del o.
“Scavata la buca profonda come l’altezza di un uomo si dispongano dentro le pietre calcaree frantumate e sia ricoperta…”. Non ci capiva nulla e quindi si innervosì. Poi disse al Guardiano: “Parlami dei sogni che fai quando leggi questo brano”. “Per esempio ho sognato tre croci su una sola tomba e accanto tre tombe con una sola...”. Il Guardiano non fece in tempo a dire croce, perché sco lo interruppe. “No, Guardiano. Non voglio sapere che sogni fai, voglio sapere come li chiami”. “Tu non mi hai chiesto come chiamo questi sogni, mi hai chiesto di parlarti dei sogni faccio”. “Allora te lo chiedo ora: come chiami questi sogni?”. “I sogni del Tre e dell’Uno”. “Il tre e l’uno…” disse a voce alta sco. “Il tre e l’uno. É tutto chiaro: se leggo la prima riga dopo la terza... La macchia di ginepro... Poi leggo la prima dopo le altre tre, cioè l’ottava... Che precede i boschi... E dopo la dodicesima, vediamo, allora... Non dovrà mai essere superata... Sì, chiaro, suona così: la macchia di ginepro che precede i boschi non dovrà mai essere superata…” sco fu interrotto da un applauso di tre soli battiti che proveniva dal soppalco della sala. Illuminato dalla luce, che proprio in quel momento entrava prepotente dalla vetrata, comparve il Signore. Mentre avanzava completava quanto sco aveva iniziato: “... Questa è la volontà… Espressa dal Signore… E in quanto tale deve essere… Assolutamente rispettata”. Poi ci fu un po’ di silenzio. Il Signore e sco si fissarono negli occhi.
Il primo pensò: perché non ho fatto un figlio così? Mentre a sco venne in mente quella volta che si era classificato terzo nella gara di sciarada a una sagra del cavolo cappuccio. “Sono trascorsi quasi mille anni da quando è stato scritto. Non lo aveva capito nessuno prima di te. Si chiama messaggio subliminale. Impone un comportamento e non consente di capire che quello che si sta facendo è stato imposto, quindi nessuno si ribella. In questo caso, l’ossessiva ripetizione del tre e dell’uno conduce a memorizzare in un angolo nascosto del cervello il contenuto della prima riga dopo ogni gruppo di tre righe. Infine si fanno strani sogni ma questo effetto collaterale è trascurabile”. Poi, il Signore si accostò alla parete e tirò due volte una cordicella. Immediatamente nella sala si precipitarono due guardie armate. “Signore, cosa succede?”. “Succede che dovete legare sco su quella sedia. Quanto a questo stupido cieco, uccidetelo subito. Anzi, ci ho ripensato. Chiamate quel boia che ha mandato mio fratello e lasciate che sia lui a fare questo lavoro. Che lo uccida fuori di qui però, non voglio altre macchie di sangue nel Palazzo”. Il Signore scese le scale del soppalco e iniziò a girare intorno a sco che era stato immobilizzato con le mani dietro la schiena e le caviglie fissate alle gambe anteriori della sedia. Dal momento in cui restarono soli il Signore estrasse un grosso coltello. “É un vero peccato che ti debba uccidere, sei quasi simpatico. E poi non sarà facile rimuovere la macchia di sangue dal pavimento. Bene, resterà in memoria della tua scoperta”. Mentre il Signore continuava a calcare il cerchio coi suoi i, sco gli domandò cosa ci fosse oltre la macchia di ginepro. “Le montagne, non lo sai?”. “Perché non si deve arrivare fino alle montagne?”.
“Che domanda. Per non farsi venire la voglia di scalarle”. “Signore, quando avete ordinato di uccidere il Guardiano stavate scherzando, immagino”. “Immagini male”. “E quando avete parlato di uccidere me?”. “Non stavo scherzando neanche allora”. “Signore, se è vietato scalare le montagne è solo perché dalla cima si può vedere quello che c’è oltre?”. “Questo è ovvio”. “Oltre le montagne c’è la fine del mondo, giusto?”. “Sbagliato, sco. La fine del mondo non c’è perché il mondo è fatto come una palla”. “Una palla?”. “Sì, una palla enorme. Hai mai visto dove finisce una palla?”. “La palla è tonda e quindi non ce l’ha una fine e non ha neppure un inizio. Ma forse ho capito. State a sentire la mia intuizione: se si va oltre le montagne inizia la gigantesca discesa della palla e si rischia di cadere fuori”. “Fuori?”. “Certo, mio Signore. Fuori dalla gigantesca palla”. “Il mondo è abitato dappertutto, anche dall’altra parte della palla”. “Impossibile! Dall’altra parte della palla la gente si ritroverebbe con la testa all’ingiù. E voi credete che sia possibile abitare con la testa all’ingiù?”. “A questa cosa non ci avevo mai pensato. Comunque non mi interessa e sappi che non è per non correre il rischio di cadere fuori dalla palla che è vietato andare oltre le montagne”.
“Allora cosa c’è oltre le montagne?”. “Non devi chiedermi cosa, devi chiedermi quando!”. “Quando? Faccio fatica a seguirvi, nonostante stia facendo di tutto per non pensare al vostro coltellaccio”. “La regressione è iniziata circa mille anni fa”. “La regressione?”. “Sì. Un mio antenato governatore circa mille anni fa fece una legge che permetteva di arrestare tutti tranne lui”. “Aveva intenzione di rubare qualcosa?”. “I sogni della gente”. “Quindi voleva rubare i sogni senza correre il rischio di finire in prigione. E la gente? Cosa aveva detto la gente?”. “La gente non sapeva di avere dei sogni e quindi non diceva nulla”. “E poi?”. “E poi il mio antenato è morto. Aveva centoventi anni ed è stato il primo anello di una catena di ladri di sogni giunta intatta fino a me. Nei secoli abbiamo posseduto i sogni di tutti. Tranne i tuoi!”. “Come fate a sapere questa cosa?”. “Isabella, me lo ha detto lei”. Quella fu la notizia più triste che sco potesse ricevere. Era ancora più spiacevole della lama del coltello del Signore che ogni tanto scintillava colpita dal sole. Poi, il Signore incalzò: “La ami vero? Che delusione. Stai per morire e hai appena scoperto che la donna che ami ha firmato la tua condanna”. Esplose in una risata sadica e proseguì.
“Abbiamo trascurato il nostro discorso per colpa delle donne. Bene, ti dicevo che la regressione era stata studiata a tavolino, preparata con cura anche nei dettagli. Innanzitutto il posto. La gente non sarebbe dovuta andare a curiosare fuori dal nostro mondo, quindi abbiamo piantato il ginepraio. Hai mai provato a arci in mezzo? Immagino di no, e allora te lo dico io che è impossibile. I suoi rami sono talmente fitti e taglienti. E poi per sicurezza abbiamo creato anche il Manuale del Muratore col messaggio subliminale”. “Avete messo tutti in prigione”. “Come sarebbe tutti in prigione?”. “Certo, solo che al posto delle sbarre ci sono i cespugli di ginepro”. “Sì, può essere che sia così, sco. Ma non l’avevo mai vista sotto questo punto di vista. Comunque il o successivo fu la censura dei libri e nel frattempo, gradualmente, ci siamo privati della tecnologia”. “Perché avete fatto a meno della tecnologia?”. “Perché se è vero che senza la tecnologia non avremmo potuto rubare i sogni della gente è altrettanto vero che solo la tecnologia avrebbe permesso alla gente di riappropriarsene. A proposito di tecnologia, c’è una cosa che mi affascina moltissimo”. “Ah sì? E cosa?”. “Hai presente i tuoni nuvolari?”. “Certo, ne ho visti due bellissimi poco fa”. “Si chiamano aeroplani, sono macchine volanti che lasciano una scia che sembra una nuvola. Appartengono all’altro mondo, il mondo del presente. Quando ci siamo staccati, circa mille anni fa, iniziava il terzo millennio e ho letto che gli aeroplani erano già largamente diffusi”. “Quindi la censura dei libri serve per impedire alla gente di scoprire il ato”. “La censura dei libri serve anche a quello, sco. É chiaro, quella è una funzione fondamentale, ma è sempre bene tenere la gente lontana dai libri,
stimolano i pensieri, fanno ragionare e quindi spingono le persone a chiedersi il perché delle cose”. “Ma ci sono i ricordi, Signore”. “I ricordi ci sono stati, ma solo per qualche decennio”. “E poi come avete fatto per cancellare i nostri ricordi?”. “Ve li siete cancellati da soli i vostri ricordi. Vedi sco, i ricordi che si possiedono non si utilizzano quasi mai, quindi si atrofizzano e dopo un po’ cadono. Non è stato difficile privare il popolo dei suoi ricordi, esattamente come non lo è stato privarlo dei libri. La cronaca di famiglia riporta che i miei antenati che iniziarono la regressione trovarono non poche difficoltà a eliminare una cosa che si chiamava televisore. Era fatto come una cassa per l’uva con un vetro, e dentro si potevano vedere delle immagini che arrivavano dall’aria. Era stato proprio il televisore il primo strumento di propaganda per la regressione, ma dopo un certo punto i miei antenati capirono che proprio lui, con la sue immagini che arrivavano da ogni parte del mondo, avrebbe compromesso il nostro isolamento. Per questo condannarono a morte i televisori e distrussero tutte le antenne”. “Le antenne? Cosa sono?”. “Quelle cose che si mettevano sui tetti per ricevere le immagini dentro il televisore. Così quasi tutti, a malincuore, consegnarono il proprio televisore alla giustizia, ma alcuni, troppo nostalgici, lo tennero nascosto sotto il letto, anche se senza l’antenna le immagini dentro non c’erano più. Per cancellare ogni traccia del mirabolante apparecchio fu aperta la caccia ai televisori clandestini. Sai sco, nella Biblioteca ci sono dei libri che parlano anche di queste cose, ogni tanto ne leggo qualcuno”. “Quanti libri ci sono nella Biblioteca?”. “Oltre cinquantamila. Erano stati scelti con cura anche quelli. I miei antenati avevano selezionato i più rappresentativi tra gli storici, gli scientifici e quelli del pensiero umano, chiamati filosofici. Eh sì, avevano calcolato proprio tutto per mantenere un contatto col futuro, o meglio col futuro già trascorso. L’unico rimpianto è che non riuscirò a consultare tutti i volumi custoditi nei tre piani sotterranei neppure se ne leggessi uno al giorno”.
“E io che pensavo che questo mondo fosse un’opera di Dio”. “Ma figurati, sco. Dio è una creatura della fantasia”. “Perché lo avete inventato?”. “Ah, quella non è stata un’invenzione nostra, c’era già. La fede può essere un ottimo strumento di manipolazione degli uomini, una straordinaria arma di ricatto. Certe volte mi domando se nel mondo oltre le montagne Gesù sia ancora vivo”. “sco, cosa ti hanno fatto?”. La voce di Isabella giunse dal soppalco.
30
L’albero in mezzo al prato, poco oltre le ultime case del Borgo, era una quercia. Uno dei suoi rami correva orizzontale, massiccio, a circa due metri e mezzo da terra. Il boia avrebbe appeso il Guardiano a quel ramo. Prima di procedere chiarì con le guardie che la prestazione per quell’impiccagione straordinaria avrebbe comportato un aumento della sua tariffa. “Sono stato chiamato per giustiziare una donna” disse mentre indossava i guanti. “Questo vi costa trenta monete in più”. “Va bene, ve li darà il Signore quando rientreremo al Palazzo”. Il Guardiano tremava come una foglia al vento mentre gli legavano le mani dietro la schiena. Il boia chiese al cieco se voleva essere bendato e le guardie scoppiarono a ridere. All’improvviso si intromise un uomo che per caso ava da quelle parti. “Perché lo state impiccando?”. “Fatti gli affari tuoi, altrimenti ti facciamo fare la stessa fine” gli rispose il carnefice. Poi mise il cappio intorno al collo del condannato. Nel frattempo si era formato un capannello di una decina di contadini attirati dall’inusuale spettacolo. Quegli uomini avevano l’aria di chi non ha nessuna intenzione mettersi in mezzo, bastava guardarli per capire che erano semplicemente incuriositi da quello che stava capitando e che non avrebbero mosso un dito per scongiurare il supplizio del Guardiano. Così le guardie si sentirono rassicurate, una di loro estrasse dalla tasca una striscia di tela nera, la fece sventolare mostrandola ai curiosi e disse: “Il cieco ha rifiutato la benda”. Il boia fece notare che quella battuta l’aveva già fatta lui e poi aggiunse, questa volta rivolgendo le sue parole al condannato: “É un vero peccato che tu non li possa vedere, ci sono almeno dieci contadini qui, tutti per te!”.
“Dieci contadini tutti per me! Qualcuno di voi conosce sco?”. “sco? Il nostro maestro?”. “Sì, proprio lui. É stato catturato e il Signore lo ucciderà”. Gli spettatori si misero a borbottare e poi qualcuno chiese dove fosse sco. “Nel Palazzo. Fate presto, sta per essere ucciso”. “Basta con questa storia, procediamo!” sentenziò una guardia. A questo punto il boia calzò la maschera nera. Non avrebbe mai eseguito alcuna impiccagione pubblica col volto scoperto. Quando stava per issare il corpo dell’uomo legato per il collo, tutti tacquero. Procedette col primo strappo. La gambe del Guardiano si ritrovarono subito a venti centimetri dal suolo e dalla sua bocca prese a sgorgare un fiume di bava, bianca e densa. Poi arrivò un altro strappo e dato che il Guardiano aveva intuito che la fine sarebbe stata questione di pochi attimi si ritrovò a pensare che in fondo, anche nelle favole dove vince l’amore, qualcuno dei buoni deve morire.
31
“Isabella, perché mi hai tradito?” “Amore mio, che dici? Io non ti ho tradito” rispose la ragazza. Poi si rivolse al Signore. “Cosa gli avete raccontato?”. “Isabella, siete stata voi a dirmi che sco sa sognare”. “Non è vero”. “Invece è vero, non ve lo ricordate?”. “No, non lo ricordo!”. “Ma forse ricordate il pendolino”. Isabella guardò negli occhi sco. “Te lo giuro sco, il Signore mente, io non gli ho mai detto nulla del genere”. sco era confuso. Guardava gli occhi dell’amante e li vedeva sinceri, ma il Signore sapeva delle cose che solo Isabella e il Guardiano avrebbero potuto raccontargli. Così pensò che fosse stato il cieco a tradire. “Il Guardiano è una spia” disse sco. “Sicuramente ci ha traditi lui!”. “sco, oggi non ne prendi neppure una. Il Guardiano non è una spia, o forse farei meglio a dire era, visto che ormai i miei uomini l’avranno già sepolto”. Poi il Signore si rivolse a Isabella: “Ma tu, non capisco come tu abbia potuto
preferire quello che ti ha offerto lui a quello che ti avrei dato io”. “Lui mi ha regalato i miei sogni, voi mi avete offerto di rubare quelli degli altri”. Isabella trasse un sospiro e fissò gli occhi di sco. “Ora ne sono sicura, esiste solo un sogno che non può essere rubato. Nessuno può scegliere per te la persona alla quale rivolgere i tuoi primi pensieri non appena ti svegli”.
Il Guardiano avrebbe avuto solo altri tre secondi di vita. Ne arono due e in quei due secondi giunse alle sue orecchie un rumore familiare, un rumore che odiava, era il rumore che fanno i topi quando mangiano. Che scherzo del destino, un contrapo in piena regola, la vendetta dei roditori, il cieco pensò che le cose stavano così. E se la corda non avesse stretto il suo collo così forte da impedirgli di parlare, la sua ultima parola sarebbe stata di sicuro una bestemmia. Chissà quanti anni di purgatorio avrebbe dovuto espiare per essere salito in cielo mentre infangava il nome di Dio. Se lo domandò, fu l’ultima cosa che si domandò il cieco mentre dondolava appeso al ramo della quercia. Ma non ebbe l’occasione di rispondersi perché non ci fu nessuna ascesa in paradiso. Piuttosto una caduta, rumorosa e polverosa. E tutt’altro che soprannaturale, come potrebbe essere una caduta all’inferno. L’impiccato si ritrovò con le chiappe per terra perché i topi avevano banchettato con la corda che stava per ucciderlo. Tutto quello che accadde subito dopo non aveva precedenti, era scoppiata l’epidemia del Sogno, il cui morbo aleggiava nel Borgo dal giorno dell’insurrezione nella vigna. E a tutti quelli che avevano visto il Guardiano cadere dalla quercia venne una gran voglia di riprendersi i propri sogni.
Come un fiume in piena che rompe gli argini e inarrestabile invade le campagne, i sognatori puntarono con o svelto verso il Palazzo. Al loro aggio lasciavano una contagiosa voglia di sognare. Se ne ammalarono i muratori, i fabbri, il medico, gli astronomi, le altre guardie e persino il Giullare.
Il suono di quel gigantesco sogno varcò le mura del Palazzo. Dapprima ovattato, aveva il sapore delle cose lontane, ma solo per pochi secondi, perché poi era divenuto sempre più forte, fino a scoppiare in un fragore assordante. Fu allora che Signore guardò fuori dalla vetrata e vide le falci dei contadini, i martelli dei fabbri e le mani strette nel pugno delle persone disarmate che salivano e scendevano senza sincronia. Puntò il coltello alla gola di sco. “Falli andare via, altrimenti te la taglio”. In quel momento il boia, incoraggiato dai cori di sostegno dei sognatori, aveva iniziato a prendere a colpi di scure il portone del Palazzo. sco cercò di prendere tempo e nonostante fosse terrorizzato fece di tutto per mostrarsi rilassato agli occhi del suo aguzzino. Si impegnò a tal punto da riuscire persino a sorridere. “Tanto la gola me la tagliereste ugualmente, me lo avete detto prima. Vi siete dimenticato? E poi non saprei come fare. Sono legato su questa sedia”. “Sai sognare!” urlò il Signore. “Sogna che vadano via!”. sco sorrise ancora di più e la sua risposta fu perentoria, una vera e propria risposta di chi è sicuro di quello che vuole. “Io non lo desidero!”. “Ah no? E allora vediamo se desideri che la tua cara Isabella resti ancora viva. E smettila con quel sorrisino. Lo capirebbe anche mio figlio che stai recitando!” Allora il Signore avvinghiò Isabella con il braccio destro sotto i seni e adagiò la
lama del coltello al collo della ragazza. “sco, sei ancora sicuro di non voler sognare che quei bastardi vadano via?”. Intanto, nonostante il boia ce la mettesse tutta, di scardinare il portone a colpi di scure non se ne parlava neppure. “Se c’è qualcuno che vuole provare, gli presto volentieri la mia ascia” disse il carnefice. sco si rivolse al Signore: “Ormai è finita per te”. “E’ finita per tutti e tre, solo che io sono vecchio e voi due, voi due siete ancora giovani”. Il Guardiano chiese ai suoi ex aguzzini che si trovavano a un o da lui che cosa stesse accadendo. “Il boia non riesce a sfondare il portone”. “Questo non è un problema” disse il cieco. “Conosco un aggio segreto che conduce alla biblioteca. L’ingresso è qui vicino, noi tre faremo irruzione nel Palazzo in meno di un minuto”. sco decise di assecondare il Signore, la lama del coltellaccio continuava a premere la carne di Isabella. “Va bene, ci tento!”. “Vedi di non provare a fregarmi!”. Le parole del Signore suonarono terribilmente categoriche. Era evidente che il tiranno intrappolato non aveva alcuna intenzione di farsi prendere, piuttosto si sarebbe suicidato, ovviamente non prima di aver sgozzato Isabella e sco. Una banda di topi accolse il cieco e i le due guardie che avevano appena varcato l’ingresso del tunnel segreto. I roditori, al aggio dei tre uomini, si disperdevano per non farsi calpestare. Il Guardiano raccomandò ai suoi compagni di prestare attenzione a non fare del male a quei simpatici animaletti.
Poi, una volta raggiunta la sala delle armi le guardie presero due archi e le frecce dagli scaffali impolverati. Il Signore trasalì quando una delle guardie aveva spalancato la porta della sala con un calcio. Per un attimo restò in silenzio, immobile, con gli occhi sbarrati davanti al cieco e ai due arcieri che avevano teso le corde delle loro armi mentre puntavano su di lui. Sarebbe stato un gioco da ragazzi centrare il Signore da quella distanza. Era a meno di cinque metri, ma aveva le spalle rivolte alla vetrata e il sole, che penetrava quasi in orizzontale, impediva con la sua forza abbagliante di scoccare senza correre il rischio di colpire l’ostaggio. “Non riesco a mirare, potrei prendere la donna” disse uno dei due arcieri. L’altro replicò: “La luce è accecante, io non posso scoccare”. Sulle labbra del Signore si accese un ghigno di soddisfazione. “Così sono minacciato da due arcieri ciechi” disse. “Voglio che andiate tutti fuori o le taglio la gola. Adesso, tutti fuori!”. Quelle parole fecero venire un’idea a sco che si rivolse al suo amico. “Guardiano, la testa di Isabella raggiunge appena il naso del Signore”. Il Guardiano, l’unico a non subire la violenza del sole, avrebbe agito. “Silenzio!” esclamò il cieco che aveva capito al volo l’idea di sco. “Silenzio? Ma come osi imporre il silenzio al tuo Signore, sei stupido o cosa?” Obiettivo localizzato. “É il modo migliore per farti parlare” replicò il Guardiano estraendo la campana dal vestito. “Prima di farti tacere per sempre!”. Quel lancio era stato teso e fortissimo e durò appena una frazione di secondo.
Tuttavia, quel tempo infinitamente breve riuscì a nutrirsi delle emozioni delle persone che si trovavano dentro quella sala più di quanto tutte le ore delle loro vite fossero riuscite a fare fino a quel momento. La campana colpì l’arcata sopraccigliare destra del Signore. L’uomo ferito portò le mani al volto e toccò il suo sangue. In quel momento Isabella riuscì a divincolarsi e con un movimento repentino si distese sul pavimento con la pancia all’ingiù e le mani sulla testa. Adesso la sagoma del Signore, proiettata in controluce senza lo scudo dell’ostaggio, divenne il più facile dei bersagli per i due arcieri. Scoccarono contemporaneamente i loro dardi. Centrato in mezzo al torace il Signore indietreggiò cercando istintivamente di estrarre le due frecce. Travolse la vetrata che aveva alle spalle mandandola in mille pezzi. Il rumore del vetro frantumato fu assordante. Precipitò fuori e si schiantò in mezzo alla sua gente. Isabella si alzò e andò verso sco. Non scostò mai lo sguardo dai suoi occhi, neppure nel momento in cui afferrò il vasetto di miele che era sul tavolo. Vi intinse il dito dentro e poi lo lasciò cadere sul pavimento. Il vasetto si frantumò e il contenuto denso e vellutato iniziò a distribuirsi in ogni direzione. “Slegami” le disse sco. Ma Isabella non lo slegò. Cavalcò le sue gambe e gli accarezzò le labbra col dito avvolto di miele, poi gliele leccò, assaporandone la dolcezza e iniziò a sfiorargli il volto con tutti e dieci i polpastrelli. Gli sbottonò la camicia e la scostò per scoprirgli le spalle. Fece scorrere la lingua ancora sulle labbra, poi sul mento, sul collo e giunse fino al braccio. Tornò indietro, ripercorrendo la stessa strada sulla pelle, che era divenuta umida per via della saliva che gli aveva lasciato, ma non arrivò fino alle labbra perché si fermò a metà, tra il collo e la spalla. A quel punto Isabella aprì la bocca e sco avvertì il calore dell’alito.
Subito dopo, lo morse.
EPILOGO
Il Principe ottenne l’annullamento del matrimonio con Isabella e convolò a nozze con la cuoca. Finalmente riuscì a coronare il suo sogno erotico perché ogni notte poteva addormentarsi con la testa tra le enormi tette della sposa. Quanto al fatto di tagliarle la gola si fece are l’idea quando scoprì che nel Borgo non c’erano altre donne con il seno grande come quello della moglie. Il Poeta riprese a corteggiare le ragazze vestito da uomo, ma non avrebbe mai potuto dimenticare che durante quei giorni di travestimenti era riuscito a scrivere le sue poesie più belle. La biblioteca fu aperta a tutti. Alcuni libri vennero riprodotti manualmente in varie copie e distribuiti. La loro divulgazione era seguita dal Guardiano che divenne l’uomo più colto del Borgo perché non perse l’occasione di ascoltare tutti coloro che leggevano a voce alta. Ci furono le elezioni. L’uomo da Soma le vinse con la totalità dei consensi. Fu votato persino dal Giullare, il suo unico avversario. Convinto del fatto che quella fosse la cosa peggiore che potesse accadere nel Borgo si dimise dopo una settimana, ò in Biblioteca a prendere in prestito tre libri di astronomia e li portò al figlio. sco e Isabella se ne andarono. Una notte, mentre tutti dormivano, lasciarono il Borgo senza dire nulla a nessuno. Cavalcarono per due giorni in direzione nord e una mattina arrivarono in un altro borgo. Le strade erano deserte, pareva che non ci fosse nessuno. D’un tratto, videro un uomo che camminava con o veloce verso la piazza. “Dov’è tutta la gente?” gli chiese sco. “Sono tutti in piazza, all’esecuzione”. “All’esecuzione?” domandò Isabella, mentre il suo destriero accennava una leggera impennata.
“Certo, non avete letto l’annuncio? É su tutti i muri. Mettono al rogo due amanti. Lei è bellissima, una mora con gli occhi blu e lui è un frate con la faccia che sembra quella di Gesù”. “Perché li uccidono?” chiese sco. “Perché possedevano dei libri proibiti, sono due eretici. Adesso vado, altrimenti perdo lo spettacolo”. sco e Isabella galopparono fino alla piazza. Il carnefice, che aveva appena la torcia, diede fuoco alla catasta di legna. Il fumo ammantò subito il corpo dei condannati legati con le mani dietro la schiena. sco disse a Isabella: “Guarda che non resta molto tempo”. E Isabella sognò. Piovve per quattro anni, undici mesi e due giorni.
Edizioni SENSOINVERSO Collana AcquaFragile www.edizionisensoinverso.it
[email protected] Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA)
Il committente esonera espressamente l’Editore da ogni e qualsiasi responsabilità discendente dagli scritti contenuti nel libro garantendo di tenerlo indenne da qualsiasi azione e danno che potrebbe a lui derivare per la pubblicazione del libro