Tutte Le Cose Che Amo Di Te 5fj5u

Indice

Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16 Capitolo 17 Capitolo 18

Capitolo 19 Capitolo 20 Capitolo 21 Capitolo 22 Capitolo 23 Epilogo Playlist Ringraziamenti L’Autrice

Daniela Palumbo

Tutte le cose che amo di Te

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Titolo | Tutte le cose che amo di Te Autore | Daniela Palumbo ISBN | 978-88-31615-94-5

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Amami anche se non mi conosci Ti prego amami anche se siamo nascosti Amami senza dovermi cercare Senza sapere da che parte stare Resta nel mondo in cui tu vuoi invecchiare Io verrò a prenderti

Negramaro – Per uno come me

Capitolo 1

La sveglia che suona la mattina alle cinque, per quel che mi riguarda, può entrare di diritto tra le piaghe d’Egitto. Per quanto sia una cosa che ormai faccio da diversi anni, quella di svegliarmi presto, ancora non riesco a darmi una ragione valida per alzami con entusiasmo. L’unica giornata che può considerarsi tra le amate senza possibilità di replica è, senza dubbio, la domenica. Oggi non è domenica. Contro ogni logica e buon senso, mi alzo e vado per prima cosa in cucina. Ora, andare in cucina nella mia casa significa fare dieci i dal letto all’angolo cottura. Vivo in un monolocale. Avrei potuto, di certo, prendere un bilocale ma l’attività che svolgo per vivere mi tiene impegnata così tanto che il pensiero di rientrare in casa e pulire è uno strazio. Ecco perché la scelta del monolocale, meno superfici da ripulire. La mia piccola babele dove regna sovrano il caos. La mia attività è stancante, onerosa, avvilente. Ma l’ho scelta io, non posso punire nessuno per questo. Ma poi un lavoro si sceglie davvero? Al mio diploma sono stata investita da una serie di domande riguardanti il mio futuro. A diciotto anni non sapevo nemmeno cosa volessi mangiare a pranzo figuriamoci capire cosa fare per il resto della vita, impossibile. Lavoro al panificio Cantarella, ovvero, il panificio dei miei genitori, situato in via Neve a Catania.

Il lavoro presso il panificio è iniziato per caso. L’estate che ha sancito la fine degli studi è stata eccitante, quando vivi in una città come Catania non hai bisogno di spostarti per trovare il mare o la montagna, è fornita per ogni evenienza. In un battito di ciglia è arrivato settembre e mi sono ritrovata ancora più confusa di prima. Le mie amiche parevano sapere cosa fare, c’è chi si è iscritta all’università, chi si è trasferita al nord, chi si è sposata giovane e piena di sogni, e poi c’ero io che non sapevo scegliere tra il ghiacciolo al limone e quello alla fragola. Ho iniziato dando una mano al panificio per non restare con le mani in mano, mi sono ritrovata dodici anni dopo con la consapevolezza che ormai era il mio mestiere a tutti gli effetti. Mio padre Pietro Cantarella e mia madre Caterina Licciardello hanno acquistato più di trent’anni fa questo grazioso panificio, che in principio apparteneva a un canuto signore della zona, venuto a mancare pochi anni dopo. Mio fratello Biagio lavora con noi, mentre mio fratello Alfio fa l’infermiere all’Ospedale Cannizzaro. Siamo una famiglia molto unita e ligia al dovere, così ci è stato insegnato e così facciamo. Io sono la sorella minore, se minore si può dire quando stai per compiere trent’anni tondi, tondi. La vita da figlia femmina, quando hai due fratelli maschi, è complicata. Dalle femmine si esige responsabilità, serietà. Ricordo che, piccola come un cucciolo di Pomerania, tornavo a piedi da scuola tutti i giorni da sola, anche quando pioveva a dirotto e la città si allagava. Avevo nove anni e mi trattavano da adulta. Quando i miei genitori non tornavano a pranzo ero io che dovevo premurarmi di cucinare per i miei fratelli, benché loro fossero più grandi. I figli maschi vengono cresciuti come creature fragili e delicate – più che altro verrebbe da dire impedite – loro non sono tenuti a cucinare, stirare, disciplinare. I miei fratelli si alzavano la mattina, tralasciavano la sistemazione del letto, trovavano la colazione pronta – a ognuno la preferita – andavano a scuola e, al loro rientro, esigevano il letto fatto e il pranzo pronto. Poi il pomeriggio, dopo lo studio, erano liberi di giocare. Io no. È tardi, mi precipito verso la caffettiera che sta borbottando, il mio caffè è pronto, o quasi, devo giusto aggiungere i due cucchiaini di zucchero e la goccia

di latte. Una volta finito mi fiondo sotto la doccia, fredda, devo svegliarmi altrimenti mia madre trova una scusa per rompere le scatole. Metto una comoda tuta e asciugo in fretta i lunghi capelli neri come la cenere della nostra amata Etna. Siamo terroni fino al midollo, nati e cresciuti in questa terra di amore e incertezze, meridionali dentro e soprattutto fuori. Tutti con la pelle, dorata, baciata dal sole e tutti con capelli e occhi neri, sembriamo lo sputo di un parto gemellare. Terminata l’asciugatura faccio una coda di cavallo, sia mai che al panificio qualche capello si dimeni troppo. Al lavoro mi reco a piedi in quanto il mio malconcio monolocale si trova in via Sant’Eupilio, ovvero a due i dal panificio. Alle sei del mattino, tra le vie, trovi solo noi poveri disgraziati che ci facciamo il mazzo per vivere. Ma a onor del vero siamo sempre quelli con il sorriso stampato in faccia. Un sorriso sincero non di circostanza. Mia nonna Agata dice sempre che chi si sporca le mani è più felice, perché dalle sue mani è nato qualcosa. È vero, noi con il pane sfamiamo tutti, i ricchi e i poveri, perché è l’unico bene che ancora si possono permettere tutti. In qualche modo questo mi rende fiera e orgogliosa. Finalmente arrivo al negozio, sento già il profumo di pane, l’odore di casa, e intravedo la bruma che produce il forno a legna. Mio padre e mia madre vengono qui alle quattro, ogni santissimo giorno. Per fortuna io e Biagio possiamo dormire due ore in più. «Buongiorno, famiglia!» esclamo, festosa. «Ciao nica, si bianca a gioia, stai bene?» domanda mia madre. Per mia madre

sono sempre malata. Se sono pallida sto male, se parlo poco sono insofferente, se non mangio sto per morire. «Mamma sto bene, solo che stamattina non mi sono truccata». «Buongiorno gioia mia, mettiamoci a lavoro» dice mio fratello dandomi un bacio sulla testa. Quanto gli voglio bene! «Oh amore mio, hai dormito bene a papà?» domanda, infine, mio padre. Mio padre è un uomo buono, non il padre padrone che ci si aspetterebbe da una famiglia siciliana vecchio stampo. Lui è sempre stato sottomesso dalle donne della sua vita, prima sua madre, poi sua moglie. Fortunatamente non ho preso anch’io quell’indole despota che le contraddistingue. «Si papà ho dormito bene, tu come ti senti oggi?». «E che ti devo dire, il mal di schiena mi tortura ma che possiamo fare? Solo andare avanti e pregare il signore». Famiglia di fede la nostra, mia madre prega Sant’Agata ogni giorno, lei e papà vanno in chiesa tutte le domeniche. Io e i miei fratelli decisamente meno. Non voglio sentirmi in colpa per questo, per quel che mi riguarda sono convinta che se hai fede, hai fede. Non c’è bisogno di andare in chiesa per dimostrarlo a qualcuno. La giornata corre frenetica come sempre, dalle sette alle due non riusciamo a fermarci un attimo. Io e mamma ci occupiamo della vendita, papà e Biagio continuano a sfornare pane, biscotti, brioche e pizzette. La mamma alla vendita è lentissima, deve fare per forza conversazione con tutti “e non ci sono più le mezze stagioni… e il lavoro è precario… e i giovani d’oggi sono scapestrati… e le tasse pesano troppo sulle famiglie…”. Sempre la solita solfa. Io evito di parlare e lei ne approfitta. Quando le chiedono di mio fratello Alfio le si spalancano gli occhi e iniziano a emanare cuoricini a destra e a manca. Sì, perché Alfio è l’unico che si è iscritto all’università, laureato a pieni voti e lavora in ospedale. Per lei, il fatto che lui lavori in ospedale è al pari di un astronauta che sale sulla luna. Ne è orgogliosa talmente tanto che dietro al

bancone, vicino alla cassa, ha una sua foto gigante con in mano la pergamena e in testa le foglie di alloro. Io e Biagio non pervenuti. Finalmente sono le tre, mangio veloce una pizzetta, l’orario di punta è ato. Mamma sa che ogni giorno a quest’ora ho un appuntamento a cui non mancherei per niente al mondo. Afferro le mie cose velocemente e scappo. «Ciao famiglia, ci vediamo domani». Arrivo a casa, giusto in tempo per farmi l’ennesima doccia, calda stavolta. Acconcio i capelli in una crocchia precaria, chi se ne importa. Metto un jeans e una felpa, siamo a fine aprile ma qualche refolo di vento fresco permane. Prendo lo sbrindellato motorino che mi ha regalato Biagio e percorro la poca strada che mi separa da lei, la gioia della mia esistenza. Giungo alla villa che affaccia sul mare, immagino sia una costruzione molto vecchia ma tenuta bene. Davanti la villa ci sono diversi alberi di limone femminello zagara bianca, l’estatico profumo che emanano mi inebria ogni volta. Vivere qui deve essere magico, certo se non fosse che è una struttura per malati di Alzheimer. Parcheggio il motorino sul ciottolato di fronte l’ingresso. Entro con sicurezza, mi conoscono tutti. «Salve Sandra, è in camera?» domando all’infermiera all’ingresso. «Ciao Rosa, no è nella stanza comune, oggi è lucida e in forma smagliante» comunica lei. «Davvero? Non potrei essere più felice di così, ci vediamo dopo». Affaccio nella grande sala comune, le pareti sono di un tenue bianco navajo e le

tende e i divani un chiaro giallo papaya. Questa scelta di colori rende la stanza accogliente. C’è un grande televisore, accanto uno stereo, tre divani accostati alle pareti salvo per l’unica parete ove è situata un’ampia finestra all’inglese. Sparsi, alcuni tavoli in legno bianco e diverse sedie. Lei è seduta su una di quelle. È molto bella, lo è sempre stata, i suoi lunghi capelli sono raccolti da un pettinino impreziosito da piccole pietre di giada. Al collo la catenina dalla quale ciondola la fede di nonno Salvatore. Sulle spalle porta una liseuse in lana che si è sferruzzata da sola, anni or sono. Sotto, un pantalone elegante dal taglio maschile. «Nonna!». Si gira, mi guarda, l’ansia mi aggroviglia lo stomaco, odio quando non mi riconosce. «Rosa, vita mia, veni qua» dice, muovendo una mano per farmi cenno di avvicinare. Un terremoto di esultanza vibra nel mio cuore. «Nonna bella, come stai oggi?» domando gioiosa. «Rosa ma quanto sei bella, sei tutta tua madre, sto bene vituzza mia, tu come stai?». «Sempre bene nonna, allora raccontami, che hai fatto di bello oggi?». «Stamattina ci hanno presentato il nuovo neurologo, il dottor Andrea Caruso, sai che bell’uomo che è? Te lo devo presentare» cincischia nonna. Ecco l’ennesimo tentativo di farmi accasare. «Nonna ma non era il dottor Messina il neurologo della struttura?». «Sì, ma è vecchio, è andato in pensione. Questo è giovane ha trentotto anni, sembra simpatico, arriverà tra non molto. Potevi vestirti più carina, Rosa, sempre da maschiaccio ti cummini» decreta, decisa.

«Nonna lo sai che o tutto il giorno al panificio e il pomeriggio sono troppo stanca per essere femminile, richiede troppo tempo e pazienza e io non ho nessuno dei due». «Caterina, tesoro, dov’è Pietro? E i bambini?». Ha perso di nuovo lucidità, Caterina è mia madre, Pietro è mio padre e i bambini siamo io e i miei fratelli. Mi viene da piangere. Nonna si è ammalata di Alzheimer due anni fa, la malattia procede lenta, ma purtroppo ultimamente i lampi di lucidità stanno diradando. Lei è tutto per me, mi ha cresciuto come una figlia. I miei genitori hanno aperto il panificio pochi anni prima della mia nascita ne consegue che quando sono nata, a causa degli orari e dei ritmi serrati del lavoro, mi hanno lasciata da mia nonna ancora in fasce. È stata una seconda mamma meravigliosa, mi leggeva un sacco di storie e anche le lettere che il nonno le mandava dalla Germania. Nonno Salvatore è mancato quattro anni fa, ha ato metà della sua vita a lavorare presso una fabbrica di zucchero. A Catania all’epoca, ma probabilmente tutt’ora, le possibilità di lavoro erano scarse, molti migrarono per avere un lavoro sicuro e spedire i soldi alla famiglia. Mi manca così tanto. E so quanto manca a nonna, lui è stato il suo grande amore. Un amore da romanzo, di quelli che leggi nei libri e pensi “non può esistere davvero”, e invece esiste, io l’ho visto con i miei occhi. Guardo l’ora, è tardi e sono stanca. Tornerò domani, come sempre, come negli ultimi due anni. «Nonna bella, devo andare, torno domani, va bene?». «Certo Caterina, ci vediamo domani, gioia mia». La abbraccio e corro via veloce. Il dolore che mi procura ogni volta che non mi riconosce è indissolubile.

Arrivata a casa mi spoglio e apro la finestra, dalla strada proviene una musica triste, conosco questa canzone, chiunque la conosce, Teardrop dei Massive Attack mi culla in un sonno pieno di mostri.

Capitolo 2

È venerdì, questo vuol dire una sola cosa. Domani è sabato. Domani posso uscire, fare tardi e domenica dormire tutto il giorno, sono di ottimo umore. Al solito inizio la giornata con il mio caffè da cardiopalmo, dato lo smoderato utilizzo dello zucchero che mi propino quotidianamente. Doccia, tuta e via, si ricomincia. «Buongiorno, famiglia!» esclamo, come tutte le mattine. «Ciao scricciolo, sei stata da nonna ieri?» chiede Biagio. «Si, è stato… come sempre, mi ha riconosciuto per un po’, poi ha pensato come sempre che fossi la mamma» dico, indispettita. «Ciao nica, non fare quella faccia, sai che tua nonna mi ha cresciuto» dice mia madre, comprensiva. «Lo so mamma, ma ha cresciuto anche me!». «Ciao amore mio, come fai a essere sempre più bella? Non prendertela per la nonna, lo sai che ti vuole bene. È che le sono rimasti più vividi i ricordi di quando era giovane, per cui è normale che ricordi meglio la mamma» sostiene mio padre cercando di rabbonirmi. «Come dite voi» chiudo il discorso. Il venerdì è il giorno più frenetico della settimana, sembra stia per scoppiare la guerra da un momento all’altro e le persone debbano fare il rifornimento per i giorni a venire. L’hanno capito che domani siamo di nuovo aperti?

Tra una cesta di pane e l’altro penso a quello che mi ha detto papà, è vero che le sono rimasti più nitidi i ricordi della gioventù, come è lampante dedurre che ha più ricordi di mia madre perché l’ha avuta accanto per più tempo. Mia madre è stata cresciuta da nonna Agata, dopo che mamma è rimasta orfana a sedici anni a causa del terremoto del Golfo di Patti nel 1978. Il 15 aprile 1978 mamma e i suoi genitori si trovavano a Patti per una sagra, avrebbero ato la notte a casa di un’amica di sua madre e sarebbero rincasati la domenica. Mamma aveva sedici anni all’epoca ed era molto amica di un ragazzino del quartiere. Ovviamente nel ’78 una ragazza non ancora sposata e così piccola non poteva uscire da sola con un ragazzo, per cui quel pomeriggio, mamma incontrò di sfuggita il bel ragazzetto e si misero d’accordo per sgattaiolare la notte stessa e fare due chiacchiere da soli. Quella notte Caterina uscì di soppiatto da casa dell’amica dei suoi genitori e incontratasi con il giovinetto, decisero di fare una eggiata e sedersi su di una panchina nella piazzetta centrale del paese. Forse fu destino, ma poco dopo una scossa di terremoto 6.0 della scala Richter distrusse quasi l’intera città. L’incoscienza fu la loro salvezza. Mamma, rimasta orfana, fu presa in carico da mia nonna Agata, che era una carissima amica dei genitori di mamma. Nonna Agata si prese cura di Caterina come fosse sua figlia e mentre la prima cercava qualcuno che prendesse in moglie la bella Caterina, suo figlio Pietro se ne innamorò follemente. È probabile che la convivenza tra i due giovani abbia portato al matrimonio o magari l’amore li avrebbe raggiunti in ogni caso. Fatto sta che grazie a una serie di sfortunati eventi siamo nati noi tre. A proposito di tre, ecco che spunta un bel faccino. «Alfio disgraziato non ti fai vedere da tre giorni, vuoi farmi morire a mamma?» urla mia madre. Sempre melodrammatica. «Mamma non fare accussì, ero impegnato con il lavoro, ciao bestiolina» dice, rivolgendosi a me. Alfio è il più grande dei tre, il primogenito, ha trentasei anni, portati divinamente, è alto, muscoloso – la palestra prima di ogni cosa – anche lui scuro di occhi e capelli, molto sicuro di sé e spacca cuori per antonomasia. I miei

genitori hanno perso le speranze di vederlo “accasato”. Poi c’è Biagio, il più mansueto, mia madre sostiene perché è il mezzano. Lui è fidanzato da due anni con Lucia. Lucia è mia coetanea ma prima di tutto è mia amica, li ho fatti conoscere io durante una festa. C’è stato un corteggiamento incalzato da parte di mio fratello che alla fine ha avuto la meglio. I miei fratelli sono molto protettivi nei miei confronti, esco sempre con loro e quando Biagio si rintana in casa sua con Lucia, io resto con Alfio che mi esibisce a tutte le sue conquiste, molte e tutte diverse ogni sera. Spesso rimango a dormire da lui, la sua casa è vicina alla mia ma decisamente più grande e accogliente. Avere fratelli maschi è un problema, può capirlo sono chi ce li ha. Ogni volta che ho frequentato qualcuno è ato sotto il torchio di entrambi gli uomini di casa. Mio padre vive sereno perché sa che vengo controllata a vista. Difficile la vita quando vivi nel patriarcato. «Alfio, stasera esci?» domando speranzosa. «No, bestiolina, stasera ho il turno di notte, quindi se Biagio non esce non esci nemmeno tu» decreta. «Alfio smettila, ho trent’anni non devi dirmi con chi posso uscire, né quando, né come». «Rosa non mi fare innervosire, lo sai che in giro è pieno di depravati». «E uno di quelli sei tu!!!» affermo, nervosa. «Rosa non parlare così a tuo fratello, ha ragione e lo sai» sentenzia mio padre. «Siete tutti contro di me, mamma fai qualcosa!» dico, girandomi verso l’unica donna che potrebbe salvare la situazione. «Nica, ma che ti devo dire? Lasciali cantare, gioia mia» conclude mia madre.

Mai una volta che prenda le mie parti. «Mi è ata la voglia, resto a casa, sentitevi in colpa». «Dai Rosa, domani usciamo, ti faccio divertire, sai che sono bravo in questo, adesso devo scappare a casa, ci sentiamo domani, ciao a tutti». E così dicendo Alfio se ne va, lasciandoci alla nostra mole di lavoro. Finita la giornata torno a casa, sono troppo stanca per are da nonna, apro la finestra e un’altra dolce musica arriva alle mie orecchie, Photograph di Ed Sheeran mi coccola mentre apro una bottiglia di Nerello Mascalese. Ne verso una generosa quantità nel bicchiere panciuto e ne assaporo le note intense, mi lascio crogiolare dal vento che sale, tiepido, dalla strada. Mi domando chi sia la persona che ogni sera fa ascoltare musica a tutta la via. Fortunatamente i suoi gusti paiono più che accettabili. Sulle note di Hurricane dei Thirty Seconds to Mars preparo la mia cena che consiste, come consuetudine, in un’insalata svuota frigo. Semplice, prendi tutto quello che trovi nel frigo, fallo a pezzi piccoli e buttalo dentro una ciotola. Poi spaparanzati sul divano e mangia. Se mia madre sapesse che non mangio mai a tavola me le darebbe di santa ragione. Ma vivo da sola e questo rimarrà un piccolo segreto tra me e il mobilio.

Capitolo 3

Sabato. Sono le cinque del mattino ma sono entusiasta. Nella speranza che nessuno venga a citofonare, a pestarmi o denunciarmi, accendo la radio. ano River di Bishop Briggs, inizio a saltellare sul comodo letto a due piazze e cantare in un inglese interamente inventato. Sono già in ritardo ma poco importa, quando i datori di lavoro sono i tuoi genitori, ma soprattutto sei l’unica figlia femmina, ti viene concesso anche questo. Dopo dieci minuti di euforia, lo smaccato sapore del caffè, la doccia, la tuta, la coda, la corsa, eccomi di nuovo qua. «Buongiorno, famiglia!». Un coro di saluti mi arriva addosso, sono tutti di ottimo umore. Prendo la mia brioche preferita quella “col tuppo”, la faccio a pezzetti e la intingo nella granita che mio padre ha preso per me, mandorla e caffè. Adesso posso anche morire. Se c’è una cosa che amo profondamente della mia terra è indubbiamente il cibo. Gli arancini o le arancine – i primi con la punta che parrebbe essere ispirata dall’Etna, vengono così chiamati nella parte orientale siciliana, le seconde dalla forma di un’arancia sono più comuni nella parte occidentale dell’isola – sono i miei preferiti. Onestamente come vengono chiamati non importa a nessuno, è mangiarli che ci interessa. Poi i cannoli con la ricotta, ricotta di pecora, non di mucca. La scelta della ricotta è fondamentale, quella di pecora ha un sapore più forte e deciso. La cialda del cannolo rigorosamente fritta per renderli croccanti. Quando mordi un cannolo fatto come consueto devi sentire lo scrocchio, sentirlo nelle orecchie ma anche sui denti, poi arriva il sapore della ricotta, la degusti sul palato ed è talmente fresca che riesci a sentire il belato della pecora che pascola serena. La cassata, che dire? Ricotta, pan di spagna, pasta reale e frutta candita. Se la mangi dopo un tipico pranzo domenicale rischi la dipartita. C’è la versione più

piccola della cassata, le cassatelle di sant’Agata, chiamate anche minnuzzi ri sant’Ajita, in origine venivano realizzate esclusivamente durante il periodo della festa della patrona, i primi di febbraio, ormai è facile reperirle ovunque durante tutto l’anno. Le iris, le granite, la caponata, l’insalata di polpo, quella di arance e di limoni, insomma ce ne stanno troppi. In Sicilia non puoi essere magra, in primo luogo per il cibo, in secondo luogo per la famiglia, vade retro! Se sei magra sei malata! Punto. La giornata prosegue lenta, è sempre così, più hai voglia di finire qualcosa più il tempo sembra scorrere fiacco. L’ora di punta è ata, ho mangiato un tozzo di pane con olio e sale. Lo ammetto il mio modo di mangiare “fa acqua da tutte le parti”. Corro a casa, accendo lo stereo e con la voce di Celia Cruz che canta la vida es un carnival improvviso un Cha Cha trascinandomi dentro la doccia ancheggiando. Lavo via l’odore pungente del forno e la stanchezza, mi raggomitolo nell’accappatoio e inizio ad asciugare i capelli, li assetto in morbide onde e inizio la fase trucco. Dalla solita, nonché unica, finestra del mini-loft giungono le note di Human di Rag’n’Bone Man, mi affaccio ma non riesco ancora a capire da quale appartamento sgusci fuori. Finita la fase trucco e parrucco inizia la vestizione, niente abiti religiosi. Indosso un banale tubino nero con scollo sulla schiena, decolleté nere e una pashmina multicolore per spezzare l’abbigliamento funereo. Sono pronta ma Alfio non si è ancora manifestato, nell’attesa prendo il solito bicchiere da battaglia e ci adagio due dita di Salaparuta. Affacciata alla finestra sento un rumoroso pigolio, sintomo di un sabato che accenna a iniziare. Squilla il telefono, è Alfio, un messaggio mi informa che il mio cavaliere è sotto che mi attende. «Buonasera bestiolina, non credi di essere poco vestita?» domanda il fratellone. «Ciao Alfio, sono vestita e sono con te, cosa potrà mai succedere? Non ho mangiato, puoi portare tua sorella a nutrirsi come si deve?».

«Ci mancherebbe! Andiamo a mangiare il panino con le le da zio Tano?». «Le le! Siii ho una voglia, andiamo!». La la è una frittella di farina di ceci, tipica della cucina palermitana ma che viene preparata quasi ovunque nel territorio siculo. Arriviamo al camioncino di “zio Tano”, a Catania sono quasi tutti zii, di chi non si sa, ma funziona così. «Zio Tano come andiamo? Hai visto chi ti ho portato stasera?» domanda Alfio. «Bella carusa, non ci vedevamo da troppo tempo, cosa ti preparo?» chiede zio Tano. «Ciao Tano, due mafalde con le le, senza sesamo per me». «Arrivano subito». «Bestiolina, domani vai da nonna?». «Si, nel pomeriggio, di mattina vorrei tanto dormire, vuoi venire?». «Non posso, ci o a ora di pranzo poi devo tornare in ospedale». «Alfio stasera pensi di portarmi a ballare o dobbiamo fare come sempre il giro di tutti i locali per salutare le tue concubine?». «Non sono concubine, non ne mantengo nessuna. Ma poi perché vuoi andare a ballare? Cosa c’è di così divertente? Tu balli e io devo fare a cazzotti con lo stronzo di turno che cerca di toccarti, non mi va». «Che palle, Alfio». Il nostro panino è pronto e squisito. Mangiamo con foga, alla fine come la metti metti mangio pane ovunque mi trovi. Ci dirigiamo in Piazza Vincenzo Bellini, fulcro della movida notturna. Una volta parcheggiata l’automobile, c’è la possibilità di muoversi a piedi in questa zona, che la sera diventa pedonale, e fare il giro di una ventina di locali diversi, se non di più.

Mio fratello sembra il sindaco di Catania, viene bloccato ogni tre minuti da qualcuno. Lo odio. Inizia così il nostro pellegrinaggio tra vari pub concedendoci di tanto in tanto una pinta di birra. Sarebbe bello conoscere qualcuno ma la presenza ingombrante di Alfio allontana qualsiasi forma maschile, le donne, invece, si fiondano su di lui. Sembrano delle gallinelle in carestia da becchime. Brindiamo con tutti, chiunque ci offre da bere, la tolleranza all’alcool di Alfio è molto superiore alla media, la mia un po’ meno. È mezzanotte, in teoria è ancora presto ma mi fanno male i piedi e mi gira la testa. «Afffio mi accompagni a casa?». «Stai biascicando bestiolina, sarai mica ubriaca?». «No, no, Afffio, devo solo dormire un pochino». «Andiamo è meglio, poi vengo a prendere Jessica». «Chi è Jesssica?». «La nuova concubina!». Mi fa sempre ridere, mascalzone. Salgo le scale ciondolando, apro la porta e mi tuffo a letto, vestita e impiastricciata.

Capitolo 4

Stamattina mi sono svegliata con i postumi di una sbronza apocalittica. Mal di testa lancinante, bruciore di stomaco e un fastidio desolante agli occhi alla presenza della luce del sole. Stanotte, come spesso accade quando bevo, ho avuto gli incubi. L’incubo ricorrente è il mio ex fidanzato. Ho conosciuto Diego a ventun anni, era la festa del mio compleanno, il cinque di agosto. Faceva un caldo micidiale. Avevamo affittato un locale sulla spiaggia, la festa è iniziata la mattina e si è conclusa a notte inoltrata. C’era un ingente quantità di persone, la maggior parte imbucati. I miei genitori ne hanno preso parte solo per la mezza giornata di mattina, Alfio e Biagio sono rimasti fino a sera, in teoria il loro compito era tenermi d’occhio, in pratica alle cinque del pomeriggio erano ubriachi marci. In questa circostanza ho conosciuto il mio aguzzino. Diego era molto bello e sicuro di sé, aveva un modo tutto suo di assoggettare le persone. Lo avevo adocchiato appena arrivato, alto, moro e con occhi verde smeraldo, un fisico atletico tempestato di tatuaggi. Ho intuito il suo potere di seduzione immediatamente, quasi fosse un profumo pungente che ti arriva sotto il naso e dal quale non puoi sottrarti. Sono rimasta in disparte a guardarlo per diversi minuti, poi, in quanto festeggiata, ho ripreso le redini della festa e continuato a fare ciò che stavo facendo, ovvero, ballare tutta sudaticcia su di un tavolo. Diverso tempo dopo lo vedo che si avvicina a me, mi guarda dritto negli occhi come a volermi fare capire che sono io quello che vuole e ha intenzione di ottenerlo. «Buon compleanno» mi dice. «Grazie, ci conosciamo?» gli domando. «No, ma vorrei, sono Diego».

«Quindi ti sei intrufolato alla mia festa, hai bevuto gratis e hai anche la faccia tosta di presentarti?». «Apprezzane la sincerità, non sono ato per bere gratis, ho visto casino, mi sono avvicinato per vedere cosa succedesse di tanto bello, poi ho capito». «Capito cosa?». «Che quello che accade di tanto bello, sei tu». Ci sono uomini in grado di far cadere anche la più algida delle donne. Diego è uno di quelli. Dovrebbe fare il seduttore di mestiere. Si pensa che la bellezza sia una carta fondamentale da giocare per conquistare qualcuno. Io credo che l’autostima sia di gran lunga meglio. Il savoir-faire è innato, se lo possiedi hai portato a termine metà del tuo lavoro. Lui aveva tutto questo, bellezza compresa. Un cocktail micidiale per uno che sa usarlo contro di te quando ormai sei presa all’amo. Mi sono innamorata di lui a una velocità che credevo impossibile. Soprattutto perché sono sempre stata il tipo di persona che scredita il colpo di fulmine e tutte quelle cose banali relative all’innamoramento. I primi due mesi eravamo l’amore fatto persona, che cupido puoi andare in pensione. Era geloso, molto, mai però mi posi il problema se quel sentimento fosse troppo, esagerato, ossessivo. Era la mia prima storia, nessun termine di paragone. Pensavo fosse normale. Mi sbagliavo. Dopo l’idillio nel quale credevo vivere è iniziato l’incubo. Quando desideravo uscire con le amiche dovevo chiedergli il permesso e, qualora me lo avesse concesso, doveva approvare il mio abbigliamento. Niente gonne, niente magliette scollate, niente tacchi e niente rossetto rosso, il rossetto rosso fa troppo puttana. Qualcosa non funzionava ne ero certa. Parlarne con i miei genitori o con i miei fratelli era categoricamente escluso. Diverse volte ne ho accennato l’argomento con le amiche, ma a detta loro, il suo modo di comportarsi era estremamente

romantico. Il confine tra gelosia e possessione è labile, inizi con uno e ti ritrovi nell’altro senza nemmeno essertene accorta. Il confine tra amore e violenza all’apparenza sembra distante ma non è così. C’è chi urla di amarti mentre ti prende a schiaffi in faccia. E tu ci credi, perché sei stupida e innamorata, perché sei affetta anche tu dalla “sindrome della crocerossina”. Perché pensi che sarai quella che riuscirà a cambiarlo. Perché tu sei unica e lui ti ama. Nonostante una diffidenza iniziale riguardo il suo modo di porsi nei miei confronti, la storia proseguì per altri nove mesi alla fine dei quali avevo perso peso e l’ansia mi stingeva la gola. Ero innamorata, ma non cieca, ormai ero consapevole della morsa psicologica nella quale mi stringeva. Mi rimproverava, diceva che nessuno poteva parlarmi, che potevo uscire solo con lui. Quando voleva farmi seriamente male mi mandava dei messaggi con su scritto “so cosa hai fatto” trascinandomi in una spirale di paura che mi faceva tremare le gambe, nonostante fossi sicura di non aver fatto nulla. Quasi a un anno dall’inizio della relazione decisi di farmi forte e chiudere questa storia. Per riuscirci dovetti, mio malgrado, minacciarlo. Se avessi detto ad Alfio e Biagio quello che stava succedendo lo avrebbero ammazzato. Lui lo sapeva. La minaccia sorbì il suo effetto. Ci lasciammo senza crisi isteriche. Fortunatamente per me venni a sapere che, pochi mesi dopo la dipartita del nostro amore, trovò lavoro in Veneto. La mia vita, però, non fu mai più la stessa. La fiducia, già scarsa nel genere umano, diventò più marcata e pesante. Ho provato, dopo di lui, a frequentare qualcun altro ma dentro di me si è innescato un meccanismo di difesa che ha alzato un muro sormontabile solo dalla cerchia familiare. Mi sono rassegnata alla “zitellaggine”, mi mancano solo i gatti, poi, per il resto c’è tutto. Scaccio i cattivi sogni e i pensieri con la mano, come se li avessi davanti e potessi davvero sbatterli via. Mi butto sotto l’acqua bollente che mi rilassa i

muscoli, scioglie i cattivi pensieri e anche i nodi nei capelli. Voglio sbrigarmi e andare da nonna Agata. La domenica è tutto una fanfara di gente che bighellona in giro trascinandosi da un bar all’altro fino all’ora di pranzo. Dato che stamattina ho fatto tardi, causa alcool e sogni, decreto che pranzerò alla villa con nonna. Arrivata alla struttura, parcheggio come mio solito il motorino e mi avvio all’ingresso. Valentina è l’altra infermiera, quella che prende il posto di Sandra. «Buongiorno Valentina, sa dove posso trovare mia nonna?» le chiedo. «Ciao Rosa, che piacere vederti, donna Agata è nel giardino sul retro» risponde, dolcemente. Mi incammino verso il retro della grande villa e la prima cosa che vedo è un gruppo di quattro ragazzi che si esibiscono in un concertino jazz dal vivo. Sovente la domenica o nei giorni festivi vengono invitate delle persone a intrattenere gli anziani pazienti. Mi guardo intorno in cerca di nonna e mi accorgo che il giardino è stato curato di recente. Alla mia destra vi è un intricato gelsomino che sovrasta le mura, il cui odore piacevole diventa stucchevole a lungo andare. Alla mia sinistra due salici di vecchia data sono appena stati potati. Al centro diverse sedie in vimini costellano il prato tagliato attualmente. Lo si percepisce dall’odore di erba umida che esala dal terreno. Mia nonna è seduta vicino un giovane ragazzo e batte le mani a tempo di musica. Mi avvicino in leggera apprensione, la solita che mi domina quando vengo qui. «Ciao nonna bella». «Rosa, vita mia, vieni qui» e con un gesto apre le braccia per farsi abbracciare. «Nonna oggi vorrei pranzare qui con te, va bene?» le domando mentre mi chino per affondare tra le sue braccia. «Ma certo, amore, sono felicissima, siediti qui che ti presento il mio dottore» mi fa cenno verso il bel giovane al suo fianco e prosegue «Rosa, lui è Andrea Caruso, neurologo della struttura».

Lui mi guarda, curioso ma sorridente. Ha un bellissimo sorriso e non è l’unica cosa attraente che possiede. Sembra alto, ma è seduto quindi non posso affermarlo con certezza, la testa è un ammasso spettinato di ricci scuri. I suoi occhi sono verdi e le sue labbra sono piene e nascondono denti bianchi e dritti. Le mani sono grandi ma affusolate. Sopra porta un camice ma pare essere parecchio in forma. «Rosa, sono lieto di fare la sua conoscenza» dice il dottore con un’eleganza disarmante e porgendo la mano verso di me. «Il piacere è mio dottor Caruso» rispondo, ricambiando il gesto. «Sua nonna mi parla spesso di lei, o propriamente della sua famiglia». «Immagino che il nome più frequente sia Caterina non Rosa». «Si, nomina spesso sua madre, Rosa, ma io vedo sempre lei qui». «Cosa vuole insinuare? Che al resto della mia famiglia non importa?». «Assolutamente no, sottintendevo al fatto che a prescindere dalla questione, trovo lei piuttosto presente». «E quindi?» domando, stizzita. «È guardinga solo con me o si pone così con tutti?» domanda, sornione. «Ma lei è neurologo o psicologo? No, perché mi sembra di aver appena preso parte a una seduta mio discapito». «Rosa, lei è una donna simpatica, vorrei stare qui a rispondere a una domanda con un’altra domanda ma purtroppo il mio turno per oggi è terminato, spero di vederla presto» conclude il dottore, poi si alza, dona due baci affettuosi a mia nonna, mi sorride e se ne va. Io resto impietrita di fronte a cotanta sfacciataggine. Ma i dottori non hanno una clausola di discrezione da rispettare? Beh, dovrebbero!

Mi concentro su mia nonna che oggi indossa uno scamiciato in principe di Galles. È felice, la musica le piace. Ha sempre fatto parte della sua adolescenza. Quand’ero bambina mi raccontava la sua infanzia. Nonna abitava con la famiglia “al Borgo”, un quartiere di Catania che prima dell’eruzione del 1669 era ritenuto fuori dal centro storico. Dopo l’eruzione il quartiere “Borgo” fu inglobato nel centro del paese, data la ricostruzione del nuovo tessuto urbano. I quartieri funzionavano così: era come una grande famiglia allargata. Clima permettendo, si mangiava sulla strada imbandendo una lunga tavolata ove ognuno portava qualcosa da mangiare. Il mangiare era poco, ma gli ospiti erano sempre ben accetti. La sera quando lo scirocco portava la sua pioggia di sabbia, proveniente dal Sahara, le donne sedevano sui gradini delle case e intonavano canti in dialetto stretto, erano canti d’amore e di buon auspicio. Mia nonna sostiene che lo scirocco che porta la sabbia smuove le affezioni e, ogni volta che mormora tra le strade, qualcuno si innamora. Nelle notti attese lo svernare la nonna ci raccontava le leggende della nostra terra, Scilla e Cariddi, Aretusa, Cola Pesce, Billonia e moltissime altre. Erano le nostre favole, anche se un po’ tristi. Era importante per le donne tramandare queste storie per non perdere mai la magia che le accompagna. Un pezzo di fascino distribuito tra angoli e piazze. All’ora di pranzo optiamo per consumare il pasto all’aperto. Il sole ci riscalda la pelle e l’anima. È il tipico pranzo da mensa stereotipata. Pennette con salsa al pomodoro, cotoletta di pollo fritta, insalata e patate al forno, per concludere una crostata alla marmellata di arance. Non è quello a cui sono abituata. Ma tant’ è. Il gruppetto continua a suonare note dolci e aggraziate, nonna è assorta, probabilmente in questo momento crede di avere cinque anni e trovarsi alla festa del paese con i genitori. «Nonna, tutto bene?» domando, incerta. «Si, Rosa, a tuo nonno sarebbe piaciuto questo concertino, sai… quando nonno è partito per la Germania pensavo che non avremmo sopportato la distanza. Poi con le lettere che mi scriveva lo sentivo un po’ più vicino, anche se le lettere ci

stavano più di un mese ad arrivare. Qualche volta devo fartele vedere, era un tale poeta! Non come i ragazzi di oggi, impertinenti e ineducati». «Nonna, ma nonno che faceva in fabbrica?». «Si occupava della trinciatura delle barbabietole da zucchero, un lavoraccio. Oggi la esegue un macchinario specifico. Oggi c’è un macchinario per ogni cosa. Noi le cose le sudavamo. Anche lavare le lenzuola, le tende… prima si lavavano con acqua e cenere, e il bianco che ne veniva fuori nemmeno con litri di candeggina lo avrete uguale oggi. Era un'altra vita. Noi a diciott’anni eravamo mogli e madri, oggi a trent’anni che cosa fate? Cercate tutte la libertà e poi siete schiave anche del vostro riflesso e nemmeno ve ne rendete conto. Vorrei vederti sposata prima che muoio!!!». Oh Dio dell’universo! Ma cosa ho fatto di male nella vita per meritarmi questo? «Nonna comunque stavamo parlando del nonno… perché ogni discorso deve deviare verso la mia inettitudine di stare al mondo ed essere tristemente un utero prolifico e un dito su cui portare un anello? Io voglio vedermi più di qualche parte del mio corpo utile alla società per definirmi. E non voglio firmare una carta per dire che appartengo a un'altra persona. O ancora peggio sentirmi chiamare con il cognome di un presunto marito quando io di cognome ho il mio e ci tengo» sbotto. «Rosa, appartenere a qualcuno non è poi così brutto, sai?». Per lei, forse, ma io quando penso alla parola appartenenza penso subito a Diego e mi sale la pelle d’oca dai piedi fino alla testa. Forse sono sbagliata io. Mi sembra tutto dannatamente sessista. L’articolo 143 bis del codice civile stabilisce che dopo aver contratto matrimonio, la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito. È una norma in uso dal ’75 affermando un dovere in capo alla sola moglie. La cui povera scema non può rinunciare a tale disposizione. Perché diavolo la stronza si deve accollare il cognome del marito e non viceversa? Ma voi un marito ve lo meritate proprio, voi che sottostate alle regole imposte scritte per vedervi tutte uguali, piccoli pezzi di carne da macello venduti

al miglior offerente. Poi magari tu sei pure una di quelle che ha un cognome scicchissimo, elegante e ti sposi con uno che invece fa Cazzavillani o Scornavacca o peggio ancora Lacavalla. “Sta ando Lacavalla”, vi immaginate? Chi c’è nato pazienza, avrà vissuto metà della sua vita a prese in giro e pianti a goccioloni. Ma tu, donna, perché devi importi qualcosa che non ti appartiene? Ti piace farti del male? Comunque. Quello che penso lo tengo per me che se lo comunico alla nonna o alla mamma mi diseredano. Il pranzo finisce in silenzio, io sono urtata, la nonna in un altro emisfero. Torno a casa più stanca di prima, mi affaccio alla finestra a golfo con ringhiera bassa, che si apre tipo balconcino dalla quale ti puoi affacciare. Di nuovo sento una musica dolce e triste, un pianoforte suona note che non riconosco. A un certo punto il mio occhio cattura un movimento alla mia destra, mi giro e non ci posso credere! «Buonasera, Rosa».

Capitolo 5

Certe giornate non finiscono mai. Dopo la sconcertante sorpresa che mi ha visto “Giulietta” per qualche minuto, mi butto a letto, perché ho deciso che salterò la cena. Dormire mi sembra la soluzione migliore per non pensare. Pensare a cosa? Al mio dannatissimo vicino di casa, quello che ascolta musica interessante, quello sul quale vertevano i miei pensieri, immaginando una sorta di principe azzurro al quale non credo e di cui ne ho conferma. Il mio vicino di casa è nientemeno che Andrea Caruso, il neurologo di nonna. Quanta sfiga può sopportare una persona in soli trent’anni di vita? Se deve essere così per i prossimi trenta ditemelo perché io non ci sto! Al cortese saluto dell’impertinente dottore è seguita una serie di imprecazioni mentali degna de L’ora di religione. «E lei che diamine ci fa qui?» domando, funesta. «Ci abito» risponde lui con un sorrisino irriverente. «Si è laureato anche in “simpatia” per caso?» chiedo. «No, ho semplicemente risposto alla sua domanda, credevo di essere stato cortese». «Sbagliato! Lei voleva essere ironico» sbotto. «E lei è senza dubbio sarcastica, l’ironia è meno sprezzante del sarcasmo» dice come se volesse farmi una lezione su “come stare al mondo”. «Non sopporto la gente saccente, con me dottore non funziona, giusto per mettere subito in chiaro la questione».

«Rosa, sta facendo tutto da sola, non voglio essere niente di tutto quello che lei crede, ciò che mi ferisce è l’idea che lei si è fatta di me senza conoscermi». «Non mi sono fatta nessuna idea doc, non creda che non ci dorma la notte pensando a lei, a chi è e cosa vuole. È solo una questione di pelle, di chimica, e la nostra non funziona, siamo come due elementi che a contatto esplodono, niente di personale». «Niente di personale? Bè, mi spiace davvero, lei mi piace Rosa». «Definisca piacere…». «Piacere, senso di soddisfazione che deriva dall’appagamento di desideri o aspirazioni, sinonimo di godimento ed esaltazione dei sensi, le è chiaro?». «Lapalissiano!» esclamo cercando di nascondere l’imbarazzo con l’irruenza. «Allora, Rosa, le posso offrire un bicchiere di vino? Mi pare le piaccia…». «Come fa a saperlo, mi spia?». «Non faccia di me un voyeur. Mi è capitato di vederla alla finestra con un bicchiere pieno di liquido violaceo in mano. Ne ho dedotto fosse vino». «E’ anche perspicace vedo, è un uomo pieno di qualità… gliel’hanno mai detto?». «Continua con il sarcasmo vedo… sa che viene utilizzato da chi non sa come uscire da una situazione?». «Sbaglia ancora una volta doc, il sarcasmo è un’affermazione beffarda volontaria. Lo faccio di proposito. Non vi è alcuna situazione dalla quale uscire». «Mi spezza il cuore, Rosa». Io vorrei dirgli che mi sta spezzando qualcos’altro ma quel filo invisibile di educazione rimasta mi impone di non renderlo partecipe della cosa. «Doc, devo andare. Ci si vede. O anche no».

«Mi auguro di sì» ribadisce lui. E senza replicare, chiudo con ferocia la finestra correndo il rischio di frantumarne il vetro. Sono agitata, pochissime persone hanno la capacità di dire in maniera così cristallina quello che pensano. Ne deduco che Andrea sia un uomo con un elevata autostima. È sicuro di sé e anche degli altri. E si vede. Ma l’agitazione nasce anche dal suo modo di approcciarsi a me, sapere che gli piaccio mi snerva. Perché anche lui mi piace. E non sopporto tutto questo piacere che scorre da tutte le parti! Non sono fatta per stare con un uomo. Se a vent’anni ero timida e dolce, a trenta sono disillusa e aggressiva. E non ho intenzione di cambiare atteggiamento, se abbasso la muraglia cinese attorno a me poi va a finire che mi faccio male e non sono predisposta al dolore. Per cui combatterò questa emozione nascente, questo sfarfallio maliardo dovrà crepare in tempi brevi. Appurata la situazione, prendo una bella bottiglia di Tancredi Rosso Donnafugata con l’intenzione di finirlo entro sera. Accendo il televisore, che in casa mia funge più da soprammobile, e trovo uno di quei programmi malsani in cui le persone si recano a lustrare casa di perfetti sconosciuti che non puliscono da un decennio. Ora, verrebbe spontaneo pensare che quelli con un problema mentale serio siano quelli che non puliscono da una vita. E invece no, loro sono solo degli sporcaccioni sfaticati, il cui non fare niente è uno stile di vita, infatti eccellono nel caos non solo dell’abitazione ma nella vita in toto. Non sono in grado, sono nati con una predisposizione alla “nullafacenza”, una disfunzione genetica. Come se gli mancasse un arto. Se non hai un braccio non puoi usarlo. Loro non hanno metaforicamente le braccia. Il reale e tangibile problema mentale è di chi non solo fa le pulizie in casa propria in maniera maniacale – a livelli di pulire il wc con lo spazzolino da denti – ma va pure in casa di altri. S-c-o-n-c-e-r-t-a-n-t-e. Sarà che ho visto mia madre tutta la vita pulire dopo che si è svegliata alle quattro, aver lavorato quattordici ore, tornare a casa e occuparsi di pulizie extra ordinare tipo spolverare i lampadari e lavare le tapparelle, per poi cucinare e post

cena stirare i panni di cinque persone, tutto questo con le mani bruciacchiate e piene di tagli, i polsi dolenti e mai un solo giorno preso per la cura di sé stessa. Sono d’accordo per la pulizia da minimo sindacale a livelli minimi di decenza, ovvero pulire ogni superficie ma evitare di gran lunga le cose fuori la portata dell’occhio come per l’appunto i lampadari e le tapparelle. Che senso ha pulire una cosa che sta al di fuori delle mura domestiche e che si trova esposta alle intemperie estive e invernali? Mai pulita una tapparella in vita mia! E non ho intenzione di farlo in futuro. Tra una considerazione e l’altra mi assopisco sul divano sognando batuffoli di polvere e panni antistatici.

Capitolo 6

È lunedì, la settimana ricomincia e non sono pronta. Sono le cinque e mi viene da piangere. Avrei potuto essere qualunque cosa nella vita e invece ho scelto di fare la peggiore, la responsabile. Che poi la responsabilità non è un comportamento che può essere imposto o indotto, è un impegno che nasce dal profondo del tuo essere, quasi come fosse un’appendice del tuo corpo, ce l’hai e quindi fatti tuoi! Non la puoi ignorare, se fingi di non vederla poi ne senti il peso sullo stomaco. Per cui mi alzo, preparo velocemente il caffè, svuoto nella tazzina una quantità oscena di zucchero e uno sputo di latte e corro sotto la doccia. Aprile è un mese strano, certi giorni ci sono otto gradi altri venticinque, oggi c’è caldo. Escludo la corsetta fino al panificio. Cammino serena e controllo la posta che ho preso al volo dalla cassetta. Pubblicità, bolletta del gas, ancora pubblicità… uno strano bigliettino in cartone spesso.

Andrea Caruso Direttore Struttura Privata di Neurologia “Villa Alma” Tel 334 *** ** ** e-mail andreacaruso1@****.it Giro il cartoncino e trovo scritto:

“Se avesse voglia di fare due chiacchiere non esiti a chiamare.”

Razza di dissoluto, sfacciato, amorale, mentecatto! Che odio. Non c’è niente di peggio di chi vuole imporre la sua presenza a ogni costo, consapevole di un rifiuto poi. Aumento il o, ho bisogno di lavorare, che se ci penso ancora un po' rischio di ammattire. Arrivata al panificio urlo ai quattro venti il solito «Buongiorno, famiglia!» anche se oggi vorrei più dire “andate all’inferno senza ritorno”. Mi chiudo in un mutismo serrato e ovviamente mia madre curtigghiara come poche, ne approfitta per sondare il terreno. «Nica, si può sapere che hai oggi o è “toppe secret”?». «Mamma è top non toppe! Non ho niente, comunque». «Rosa, quando una donna dice che non ha niente vuol dire che ha tutto». «Ti prego mamma queste banalità riservale alle tue amiche». «Ti pungiu n’ape? Oh, aspetta… c’entra un uomo per caso?». «Un uomo???» ecco che mio padre affaccia alla porta. E ti pareva. «Che uomo?» arriva anche Biagio. Bene. «Ragazzi non c’è nessun uomo, falso allarme, potete rientrare in postazione». Ma cos’ha quella donna, il radar? Mannaggia di quella miseria infame. Vengo liberamente ignorata dal simpatico gruppetto che ormai mi ha presa di mira. Vengono prese in considerazione diverse possibilità per capire il motivo del mio malumore. Dalla possibile notte insonne, indigestione, reflusso gastroesofageo, litigata con l’amica, discussione con il padrone di casa, isteria, bipolarismo, schizofrenia, morbo di qualcuno e, per finire, il classico dei classici per antonomasia il periodo delle “rosse”, il ciclo. Certo, perché una donna che ha

le “cosiddette” girate ha il ciclo, per forza! La giornata prosegue frenetica e il cattivo umore sembra aumentare esponenzialmente e mi segue imperterrito, come la nuvoletta gonfia di pioggia di Fantozzi. Quando finisco di fare tutto quello che devo, corro verso casa e decido di chiamare le uniche persone con cui posso affrontare l’argomento, ovvero Lucia e Costantino. Lucia è sempre lei, la fidanzata di mio fratello Biagio, che nonostante tutto nasconde con cura tutti i miei segreti. Costantino è come un fratello, ci conosciamo da dieci anni, a lui racconto ogni cosa scabrosa della mia vita, non si sconvolge mai. Scabrosa è un termine improprio da utilizzare data la mia vita noiosa. Ma un tempo non era così. Non si direbbe vero? E invece si, anch’io sono stata una pazza scatenata. Chiamo entrambi e, alle parole “uomo” ed “emergenza”, mi comunicano che arriveranno a casa mia in dieci minuti netti e con provviste alcoliche di ogni tipo. Sbircio la finestra del mio vicino, il mio Romeo molesto pare non essere in casa. Meglio così. Sia mai ci sentisse a starnazzare come oche giulive. Suona il citofono, Costantino è arrivato. «Ehi! Gallina, non ti fai vedere da due settimane!!!» urla per le scale il mio, moderato, amico. «Ehi, tu! Come ti permetti?» rispondo di rimando, abbracciandolo calorosamente. «Mi sei mancata Rosa. Non farlo mai più, intesi? Sparire in questo modo… che razza di amica sei? Adesso devo raccontarti tante di quelle cose che ho deciso di rimanere per la notte». «Oh, bè meglio così, anche perché sono in crisi nera e devi dirmi esattamente cosa devo fare» brontolo, guardandolo di sbieco. Intanto che Costantino tira fuori dalla busta una bottiglia di rum, una di tequila e del succo di pera, suona il citofono. Finalmente è arrivata anche Lucia. «Luciii, che bello vederti senza quella zavorra di mio fratello, ti ha fatto

questioni?». Lei ride, da quando sta con Biagio la vedo pochissimo e in ogni caso è sempre in sua compagnia, sa essere molto geloso. Quindi che cosa c’è da ridere? «Ciao Ro, sono qui solo perché sa che sono a casa tua e non usciamo, non gli ho neanche detto che c’è Costa, fai un po' tu…». «Oddio ma sono gay!!! Lo sa questo, vero?» sbraita Costa, sollevando le mani in aria in preda a una fintissima isteria. «Costa, dai. Ovvio che ne sia a conoscenza e anche qualora non lo fosse… cioè, guardati!» comunico, con una mano che si muove dall’alto verso il basso a indicare il suo abbigliamento, secondo lui, casual. Ovvero, un jeans strappato vergognosamente sul fondo schiena che lascia intravedere degli slip rosa. ROSA. Sopra, una camicia bianca con disegnate delle fragole… dove trova certi mostruosi capi di abbigliamento proprio non lo so. Per concludere, un paio di assolutamente non appariscenti sneakers gialle. Un pugno in un occhio. «Scusa, che vorresti dire? Io vesto benissimo! E poi da che pulpito?! Parla quella che veste solo con felpe oversize e leggings che tra l’altro sono anche ati di moda!». Maledetto. Ha ragione. Faccio un mea culpa estemporaneo e mi dirigo in cucina a tagliare i limoni per la tequila, prendere il sale e alcuni bicchieri shooter junior. Una volta completato il tutto appoggio il vassoio sopra il tavolino e diamo inizio alle danze. «Allora? Abbiamo finito di fare finta di niente e ci racconti tutto o cosa?» dice Costa, guardandomi indispettito. «“O cosa”». «Su. Rosa, siamo qui per questo… non volevi forse parlare di un uomo?» comunica Lucia, dolcemente. «Mhmm, allora come dire… c’è un tizio, gli piaccio, penso. Lui mi piace, credo. E… non lo so». «Oh, meraviglioso, adesso sì che è tutto più chiaro! Dannazione Rosa, parlaaaaaaaaa! Altrimenti ti racconto del mio nuovo amore, si chiama Roberto ed è… oddio non trovo nemmeno le parole giuste… superdotato! Si questa è la

parola esatta per definirlo, in pratica…». «Costa, smettila di essere sempre al centro dell’attenzione! Non siamo qui per te!» lo rimprovera Lucia. «Che palle Lu, non facciamo mai le riunioni per parlare di me, quindi mi trovo costretto a infilarmi dove posso!» piagnucola Costantino. A quel punto io e Lucia iniziamo a ridere a singhiozzi. L’ha detto veramente? «Stupide! Cosa c’è di così divertente?» rimbrotta lui. «Che tu ti infili dappertutto! Nel senso letterale del termine» diciamo all’unisono ridendo ancora più forte di prima. Lui si acciglia ma sa di essere un uomo dai facili costumi e quindi alla fine ride anche lui. Racconto tutta la storia tra uno shot e l’altro, l’alcool inizia a fare il suo magico effetto rilassandomi e sciogliendomi la lingua. Parlo di Andrea, della sua bellezza, del suo lavoro, del mondo in cui mi guarda, mi stuzzica. Dell’ironia che lo accompagna rendendolo tragicamente perfetto per la sottoscritta. E arriviamo inevitabilmente dritti alla domanda cruciale che in fondo mi aspettavo. «E allora, qual è il problema?». «Il problema è che ho paura. Lui è un uomo di cui ci si innamora. E io non voglio innamorarmi, non voglio sentirmi vulnerabile, non voglio che il mio umore dipenda da quello di un'altra persona, non voglio quella fastidiosa dispnea che compare ogni volta che lo vedo. Non voglio sentirmi felice per poi ritrovarmi come sempre succede con il cuore massacrato». «Tesoro, dopo Diego non c’è stato nessun altro, sei giovane e bellissima, pensi davvero di restare single tutta la vita per paura di soffrire?» dice Lucia, carezzandomi affettuosamente la testa. «Oh dannazione, cosa sentono le mie orecchie?! Dopo Diego la signorina non ha avuto storie “serie” ma credimi, Lucia, si è data da fare! E poi scusa dov’è scritto che una debba per forza stare con qualcuno? La vita da single è molto più divertente e appagante» squittisce Costa. «Si è vero, mi sono divertita abbastanza, ma non ho mai provato qualcosa per

qualcuno come adesso. Quando lo vedo, mi si strizza lo stomaco e riesco solamente ad attaccarlo, credo sia un meccanismo di difesa. Non voglio essere cattiva, cerco di allontanarlo ma più rispondo arcigna più lui sembra apprezzare. Non voglio una storia adesso, e men che meno con il dottore di mia nonna». «Ma scusa, se ti piace e provi queste sensazioni perché non rischi e ti metti in gioco, se va male, amen. Almeno potrai dire di esserti data una possibilità» ribadisce Lucia. «Allora non hai capito niente? Lei non vuole “buttarsi” proprio per le sensazioni che prova! Si conosce, sa che lui è il tipo d’uomo di cui si può innamorare e che può spezzarle il cuore e non vuole cascarci con tutti i piedi!» dice Costa. «Costa tu non sei proprio la persona che può parlare di queste cose! Non sai niente dell’amore» lo rimprovera Lucia. «Razza di cretina, non siamo tutti come te che ti fidanzi con il primo che incontri e ti ci trasferisci in casa!» urla Costa. «Deficiente, io mi sono innamorata di Biagio e ho capito che è la persona con cui voglio vivere il mio futuro, scusa se non sono una sgualdrina come te!». «Stronza impunita che non sei altro! La verità è che vorresti avere la libertà che ho io. Sai che palle mangiare tutti i giorni la stessa minestra». «Io adoro la mia minestra e la mangio tutti i giorni volentieri. La verità Costantino è che nessuno ti si “piglia” perché sei troppo preso da te stesso, insensibile e astioso!». «Sei venuta qui a scaricare le tue frustrazioni, Lucia? No, prego, fai pure. Se ti fa sentire meglio, sfogati.» continua Costa. Ok basta. Per quanto il teatrino mi stia divertendo da morire, devo interromperli prima che decidano di scaraventarsi addosso qualcosa. «Ragazzi… lungi da me interrompervi, ma possiamo tornare al mio problema?». Mi guardano entrambi imbufaliti, poi Costa si sposta ai fornelli, perché ha fame, comunicandomi che mangeremo una carbonara perché a lui la minestra non piace.

Lucia ancora stizzita mi sorride e continua a ribadire che secondo lei devo uscire con Andrea. Dopo, decide che per lei è il momento di andare. «Lu, grazie per essere ata e per i tuoi consigli, ti prego acqua in bocca con mio fratello». «Ma certo, Rosa, stai tranquilla. Se si evolve la situazione chiamami, ti voglio bene». «Ti voglio bene anch’io» le dico e la abbraccio, intanto lei fa il dito medio a Costa e lo manda a quel paese. «Ciao stupida, ci vediamo a quel paese!». Voglio davvero bene a Lucia ma in questo momento della mia vita mi sento più in linea con Costantino. Sento che ha ragione lui, che i miei sentimenti vanno soppressi sul nascere. La cena è pronta, mangiamo parlando delle ultime conquiste del mio insolente amico. La pasta ci aiuta a calmare l’euforia post tequila anche se ci sentiamo ancora vagamente alticci. «Tesoro, vado in quella specie di pseudo balcone che ti ritrovi a fumare una sigaretta, metti un po' di musica». Prendo uno dei dischi che di solito utilizzo quando mi sento sensuale, si la tequila mi fa sentire sensuale anche quando sono vestita con le mie adorabili felpe oversize. Cesaria Evora canta Besame Mucho e io vado a lavare i piatti sculettando. Presa da una smania incontrollabile lavo tutta la cucina, la cappa, le mattonelle, i pensili… dopo diversi minuti mi chiedo quante sigarette ha deciso di fumarsi Costa. Non è tornato più. Non è che ha deciso di buttarsi dal balcone? Meglio andare a controllare. «Costa, tesoro, tutto ben…» mi si mozza il respiro, Andrea è lì, appollaiato nel suo balconcino, con un’espressione mai vista prima sul suo viso. Arrabbiato. No, riformulo, molto arrabbiato. Ma sempre bellissimo. «Buonasera Rosa, stavo giusto facendo conoscenza con il suo amico», la parola

“amico” viene pronunciata con durezza. Gli dà fastidio, è cristallino. Questo è il mio momento, ho la possibilità di allontanarlo definitivamente. Sempre se Costantino non ha già fatto la gatta morta. «Dottor Caruso, vedo che lei e il mio fidanzato avete fatto conoscenza… come sta?» domando, spavalda. «Il suo fidanzato? Oh… bè, io… non lo sapevo» percosso da uno sbigottimento generale fa un profondo respiro per, presumo, metabolizzare la cosa, poi prosegue «Sto bene, Rosa, grazie. Vogliate scusarmi, domattina devo alzarmi presto e ho bisogno di riposare. È stato un piacere conoscerla Costantino. Arrivederci Rosa». «Il piacere è stato tutto mio, Andrea» cinguetta Costantino. Maledetto cretino. «Arrivederci, dottore». Lo guardo rientrare in casa senza quell’aria spavalda che aleggia sul suo viso ogni volta che l’incontro. Quasi mi si spezza in quattro il cuore. Ma che problemi ho? Lo lascio andare per paura di soffrire e poi ci sto male lo stesso? Stupida. Stupida. Rosa! «Tesoro ma io non avevo capito fosse così sexy. Ma quanto sei cretina da uno a sempre?». «Smettila. Andiamo a dormire che io domani lavoro. Non siamo tutti come te che nella vita fai il “cazzeggiatore” di mestiere». Con una stizza di odio improvvisa nei confronti di me medesima mi accoccolo sul petto di Costa e per la prima volta dopo tanto tempo mi sento uno sciame di lepidotteri nella pancia.

Capitolo 7

«E cinque… sei… sette… otto…». Vengo svegliata da una musica in sottofondo, pessima musica. Sollevo piano la testa per paura di avere la solita fitta alla testa post sbornia. Niente. Grazie a Dio. Sarà stato l’aver mangiato un piattone di pasta ieri sera. Peccato la sgradevole sensazione di morte in bocca. Tiro su la testa e guardo Costa che balla seguendo le indicazioni di una tizia alla tv trovata chissà in quale canale. «Ma che stai facendo?» domando, seccata. «Esercizio, tesoro, credi che questo bel corpo si tenga in forma da solo?» risponde lui. «Ma che ore sono?». «Le sette, dolcezza». «Che coooosaaaaaa?». Mi scaravento giù dal letto e prendo il telefono. Cinque chiamate perse e un messaggio. Porca miseria. «Costa abbassa questo inferno devo chiamare mia madre». «Rosa, guarda che sole che c’è, dì a tua madre che non stai bene e andiamo al mare!». Lo guardo in tralice, poi ci penso… ma si, perché no? In fondo me lo merito un po' di tempo per me stessa. «Ok, Costa, ma ti prego spegni quella televisione e fai silenzio».

«Muto come un pesce sono». Il telefono squilla una sola volta. Cos’è lo teneva in mano? «Nica, ma dove sei?» domanda mamma. «Mamma ciao, scusa se non ho chiamato prima ma non mi sento molto bene oggi, ti dispiace se non vengo al lavoro?». Sono una pessima bugiarda, ma fortunatamente al telefono non se ne accorge nessuno. Di persona tutto un altro discorso. Generalmente inizia a tremarmi la palpebra dell’occhio destro. Chi mi conosce lo sa bene ed è la mia condanna. «Oh, Rosa, che cos’hai a mamma?». «Ma niente di che, solo mal di pancia, allora posso?». «Ma certo, amore, stai pure a casa. Chiamami più tardi». «Va bene. Penso di andare a trovare nonna nel pomeriggio, se sto meglio, ovviamente». «Va bene, gioia, a più tardi». Chiudo malamente la telefonata, inutile dire che mi sento in colpa. Che palle essere me. «Lavati e vestiti che puzzi maledettamente! E non ti mettere una delle tue schifosissime felpe. Su, sbrigati». Lo lascio parlare, che tanto non ne vale la pena. Faccio una doccia veloce senza lavare i capelli. Li lego in una coda alta e metto un filo di trucco. T-shirt nera e jeans. «Vado bene così?» domando a quel nullafacente. Lui mi squadra velocemente e acconsente con un gesto affermativo del capo. La giornata è davvero meravigliosa. Ci dirigiamo in zona San Giovanni Li Cuti, fermandoci in un grazioso bar per fare colazione.

«Rosa, parliamo seriamente. È davvero sexy il tuo dottorino, penso che dovresti conoscerlo, ieri sera mi è sembrato parecchio contrariato dalla mia presenza, è evidente che qualcosa bolle in pentola». Lo so. Lo sento. C’è una forte chimica tra di noi. Quando battibecchiamo sento una scarica elettrica che mi percorre tutto il corpo. Non so se la sensazione sia reciproca ma sicuramente non gli sono indifferente. Odio essere così spaventata dalle cose che non so gestire. Vorrei anche solo un grammo della spontaneità del mio migliore amico. «Costa, so che siamo adulti, che nella vita le cose brutte non sono di certo queste, ma l’idea di impegnarmi in una relazione mi fa andare fuori di testa». «Capisco tesoro, ma ti stai bagnando prima che piova. Sai per certo che lui desidera una relazione a lungo termine? Secondo me gli piaci e basta. Magari uscite un paio di volte, andate a letto insieme e finisce lì». «Già, difatti il problema sono io. Se vado a letto con lui e poi non si fa sentire più io mi sentirò uno schifo. E. Non. Voglio.». «Tesoro sei troppo complicata. Ecco perché sono gay. Voi donne create casini per niente». Decido di lasciar correre. Oggi dopo non so quanto tempo ho una giornata libera e se iniziamo a litigare non finiamo più. Facciamo una lunga eggiata, il caldo ci tramortisce e optiamo per prendere un po' di sole. Parliamo pochissimo, anzi a dire la verità parla solo lui. Mi racconta di questo Roberto come il Rocco Siffredi di noi altri. Alle mie varie domande sul “cosa ti piace di lui?” la risposta resta sempre quella “il pacco”. Lo odio e lo amo contemporaneamente. Invero è uno spaccone amorale, ma io so che la sua è tutta una facciata. Lo conosco da troppo e so di lui tutto quello che c’è da sapere. Non si è mai innamorato è vero. Ma non è questa la ragione del suo essere sfacciato e baldanzoso. Il suo grande dolore è celato da arroganza e lustrini. I suoi genitori, per lo più il padre, non hanno mai accettato il suo amore verso gli uomini. Ne ha sofferto per anni, spesso mi sono ritrovata nella sua stanza a raccogliere fiumi di lacrime con un secchio. Le cose sono cambiate quando ha iniziato a lavorare ed è andato via di casa. A proposito di questo… il suo lavoro? Viene pagato da un grosso negozio per fare le foto con indosso gli

abiti da sponsorizzare in vari social. Lavoro eh? «Costa, che ore sono?». «Le due meno un quarto, tesoro». «Di già? Ti dispiace accompagnarmi da mia nonna?». «Ma certo, tesoro, andiamo». Il tragitto prosegue in silenzio, la musica a tutto volume impedisce la comunicazione. Meglio così, al momento sono in ansia. Penso a quanto vorrei vedere il mio dottorino sexy. Sto sudando. Arrivati di fronte villa Alma ho la tachicardia. «Ehi, Tesoro, vuoi che venga con te?» domanda Costa, sinceramente preoccupato. «Sto bene… sto bene…» come no. Saluto l’ammasso di fragoline e mi dirigo ansante verso la reception. La segretaria che dovrebbe essere al suo posto non c’è quindi mi dirigo verso le sale comuni, guardo bene ovunque, nonna non c’è. Vado in giardino e anche questo è semideserto. Forse è in camera a riposare. Mi giro su me stessa per tornare indietro ma sbatto tragicamente contro qualcuno. Prima di capire chi è l’idiota che mi stava appiccicato dietro vengo sopraffatta dal suo profumo e dalla sua voce. «Rosa, dovrebbe stare più attenta». Alzo la testa e uno sguardo furente mi ammonisce. Oh Signore. Mi tremano le gambe. «Forse lei dovrebbe stare più attento. Cosa faceva dietro di me?» rispondo, truce. «L’ho vista e pensavo stesse cercando sua nonna. Ne consegue che ho pensato di avvicinarmi per evitare di urlarle addosso». «Bene» concludo guardandolo malissimo e mettendo le braccia conserte in

segno di chiusura. Totale. «Bene» risponde lui, alquanto seccato. Quasi corro per cercare di scappare da quella nuvola di desiderio che fluttua intorno a noi. All’improvviso mi rendo conto che continuo a non sapere dove si trova mia nonna. Cavolo. Ritorno alla reception ma della segretaria neanche l’ombra. Ripercorro i corridoi e mi imbatto di nuovo nel dottor Caruso. Sono livida di rabbia e non so nemmeno il perché. Ci guardiamo in cagnesco per quella che sembra un’eternità, poi lui prende un profondo respiro e mi guarda più sereno. «Sua nonna è in camera, sta riposando. Eviterei di andare per il momento, se al suo risveglio dovesse trovarla lì e non riconoscerla si spaventerebbe e non credo sia il caso. È d’accordo?» Malgrado la mia voglia irrefrenabile di andargli contro sempre e comunque, questa volta purtroppo devo essere d’accordo con lui. «Ma certo». Nonostante la risposta indubbiamente conclusiva, nessuno dei due sembra intenzionato ad abbandonare la posizione. «Ehm… Rosa… è davvero il suo fidanzato?». Merda. Il nervosismo che la menzogna mi porta fa vibrare l’occhio. Respiro. Lui non lo sa mica che quando mento mi trema… stranamente però lo vedo sorridermi, che diavolo vuol dire? «Mi sta facendo l’occhiolino?». Ok è ufficiale, ho scritto la pagina delle pagine delle figure di merda della storia. Mi sento avvampare e questo peggiora solo le cose, provo a dire qualcosa ma dalla mia bocca escono solo parole rotte e insensate. In tutto questo è partito a tremare anche l’altro occhio quindi adesso è un continuo buio-luce-buio-luce che sembra di stare in discoteca. Voglio morire. «Rosa, soffre di attacchi epilettici?».

Non ci posso credere. L’ennesima domanda fatta per pungolarmi mi riscuote da tutte le mie psicosi e serve solo a farmi innervosire maledettamente. «Senta, facciamo così. Lei e io non ci siamo mai visti e conosciuti. La prossima volta che mi vede cambi strada o la cambio io è uguale. A non rivederla mai più, dottore!». Giro sui tacchi e scappo da quella trappola mortale che è Andrea Caruso. Una volta fuori la villa mi ridesto e cerco di darmi un contegno. Non ho visto nonna ma non posso rimanere un minuto di più. Per tornare a casa scelgo di evitare l’autobus e fare una ristoratrice camminata sotto il sole, fermandomi solo per comprare una bottiglia di vino in enoteca. Arrivata in casa distrutta e sudata apro il frigo in cerca di acqua ma quello che trovo mi riempie di gioia, il succo di pera. Deduco che il rum sia qui da qualche parte. Mi guardo intorno imbufalita alla ricerca della bottiglia. Si può non trovare niente in un buco di casa? Alla fine, sconfitta, mi butto di peso sul divano ma sbatto dolorosamente contro qualcosa. Nooooo la mia bambina. Mi brillano gli occhi. La bottiglia di rum era nascosta dal caos sul divano. Mi ha quasi rotto una costola ma per oggi la perdono. Bicchiere. Rum. Bicchiere. Pera. Continuo la sequenza per ben sei volte, il tutto, guardando un programma sugli accumulatori compulsivi. Presente! Sento un caldo asfissiante e butto a terra la t-shirt e i jeans mettendo indosso una camicia di Alfio. Mi gira la testa e avverto salire anche la tequila di ieri sera. Mi sento un sacco dell’immondizia. Per la precisione quello dell’organico. Suona il citofono. È ufficiale, oggi è la giornata più brutta della mia vita. Apro il portoncino senza chiedere chi è, sarà senza dubbio mia madre ata ad accertarsi come sto. Sono troppo stanca per nascondere le prove del misfatto quindi mi preparo psicologicamente per la filippica che mi aspetta. Apro la porta e mi butto sul divano. «Ehm… è permesso?».

Ma cosa ho fatto di sbagliato per meritarmi questo? Andrea è in casa mia e io sono mezza nuda e mezza ubriaca, pessimo mashup. «Andrea, sono troppo stanca per litigare, hai bisogno di qualcosa?». Lui mi guarda scorrendo avidamente il suo sguardo su di me. Chiudo la camicia e alfine mi guarda negli occhi. Un sorriso dolce spunta tra le sue labbra. «Finalmente ci diamo del tu. Sono contento». «No, attenzione, è solo per oggi. Considerala una tregua». Ride, perché effettivamente oggi sono un clown. «Rosa, sono ato per scusarmi, sono stato davvero sleale oggi. Non volevo farti sentire in imbarazzo». «Non farlo ti prego, non ti scusare. Mi scuso io invece, ero nervosa per i fatti miei e me la sono presa con te. Non dovevo. Ehi non stare lì, ti va un rum e pera?». Tanto ormai che altro avrò da perdere. Più in basso di così non posso andare. Lui mi sorride ma sembra a disagio, non si aspettava forse questa cortesia da parte mia. Come dargli torto. «Grazie» dice e si siede vicino, molto vicino, a me. «Scusa per il disordine, solitamente quando aspetto qualcuno pulisco». «Anche quando aspetti il tuo fidanzato?». Non posso ricominciare con il tic all’occhio per cui devo necessariamente confessare il vero. «Non è il mio fidanzato» chiarisco. Lo guardo negli occhi e sembrano accesi di nuovo ardore. «Perché mi hai mentito?». «Andrea non ti ho mentito… cioè… tecnicamente si ma… oh senti perché oggi sono sottoposta a interrogatorio?». E che palle!

Quel suono cristallino arriva alle mie orecchie. Che belle sono le persone che ridono? «Scusa, e che sei buffa! E che adesso per me c’è di nuovo speranza. Dammi un’opportunità Rosa». Prendo due bicchierini di rum, per la precisione il mio e quello che in teoria doveva essere suo e li ingollo in un secondo, poi onde evitare di vomitare e fare l’ennesima pessima figura tracanno mezza bottiglia di pera. Perché siamo onesti, il rum senza la pera fa schifo. «Scusa, generalmente bevo coscienziosamente. Non sta venendo fuori il meglio di me da quando ci conosciamo. In ogni caso, Andrea, non me la sento. Onesta. Non ce la posso fare. I rapporti mi mettono in crisi» affermo, affranta. «Rosa ti sto solo chiedendo di uscire, concedimi una sera soltanto. Ti porto a cena. Ci comportiamo come persone normali e ti riporto a casa. Dopodiché se non vorrai più vedermi, a malincuore, mi metterò di lato» e sussurra tutto questo con un’espressione che mi scioglie il cuore. Io lo voglio. Lo voglio baciare. Voglio sapere qual è il sapore della sua bocca e come si mescola con il mio. Per cui presa da un momento di “Costantitudine” mi accomodo sopra di lui e sorprendendo lui e me stessa e, finalmente, lo bacio. E le nostre lingue si sfiorano prima delicatamente e infine bellicosamente. Le sue mani sfiorano le mie gambe e risalgono sul bacino. Io gli tocco le guance, scendo sulla mascella e infine palpeggio il suo petto solido e sicuro. Dalla sua bocca escono degli ansiti strozzati e sotto di me sento qualcosa che mi risveglia da quello che sto facendo. Ma appunto. Che diavolo sto facendo? Mi stacco di botto dalla sua bocca graffiandogli il labbro con i denti. Ops. «Scusami… oddio… scusa Andrea, non volevo. Io non sono così. Scusa…» Mentre cerco di fare il record di scuse ammesso in una sola frase lui scuote la testa e mi guarda fisso negli occhi. «Non farlo. Non ti scusare mai più per questo. È stato bellissimo» prova a riacchiappare la mia bocca con la sua ma io mi scanso e mi alzo in piedi. «Andrea devi andartene».

«Perché? So che lo vuoi e lo voglio anch’io, perché trattenersi?» «Perché non è vero che voglio. Non voglio. Ho solo bevuto molto e assecondato l’istinto di un momento. Per favore adesso vai». Si solleva dal divano e il suo sguardo è severo. «Bene. Come vuoi. Ma non cambiare idea, poi» afferma secco e poi esce, sbattendo la porta alle sue spalle. Mi sento una stronza di prima categoria. Nel silenzio della mia casa e della mia testa decido di bere il bicchiere della staffa. Poi mi butto a letto sperando di non fare sogni indecenti sull’uomo che mi ha appena mandata, giustamente, a fare in culo.

Capitolo 8

Oggi il mal di testa c’è. E la voglia di non andare al lavoro pure. Ma so per certo che se chiamo mia madre e le dico che sto ancora male manda tutti i dottori di Catania a farmi visita e direi che l’unico dottore di cui ho veramente bisogno mi odia. Non ho neanche voglia di farmi una doccia. Quindi puzzare è la soluzione. Infilo una felpa enorme e metto anche un orrendo cappello tutto sfilacciato. Non mi trucco e non bevo neanche il mio solito caffè. Fuori la giornata rispecchia il mio stato d’animo. Grigia e fredda. Cammino lentamente tra le strade semideserte della mia città e sembra tutto più triste e spento del solito. Arrivata al panificio me ne esco con uno stentato “ciao a tutti”. L’umore è sottoterra. «Nica ma stai ancora male?» domanda mia madre, preoccupata. «Mamma non ti preoccupare, va tutto bene». «Rosa non me la racconti giusta, parlami a mamma» dice dolcemente, accarezzandomi una guancia. E allora gli argini del mio fiume in piena crollano e mi ritrovo a singhiozzare sul petto morbido di mia madre. Biagio e mio padre ci raggiungono e rimangono a guardare la scena in silenzio. Ma solo per poco. «Amore che succede? Caterina, chiamo il dottore?» domanda mio padre a mia madre, ma alla parola dottore i miei singhiozzi triplicano e mi sento una stupida. «Rosa vieni qui, dimmi che è successo, devo ammazzare qualcuno?» chiede Biagio. E si, lo farebbe. Mi accoccolo sulla spalla di Biagio e ci spostiamo nel retro del negozio. Ho bisogno di sputare il rospo. Devo farlo. «Mi sono innamorata, credo» esordisco infine, riprendendo a piangere copiosamente. Lo sbigottimento è generale, dopo essersi lanciati diversi sguardi interrogativi tra di loro, mia madre si rivolge a me, prendendomi il viso tra le mani.

«E qual è il problema, nica?». «Che sono stata una stronza, mi sono comportata malissimo con lui e ora mi odia». «Ma, amore, glielo hai detto che hai sbagliato?» riprende mia madre. «No mamma, sono stata troppo cattiva e adesso mi vergogno». «Rosa, parla con lui, capirà». «Mamma e se non dovesse capire?». «Se non dovesse capire cercheremo di affrontare la situazione ma finché non provi a parlargli non lo possiamo sapere» «Va bene, gli parlerò». Biagio e mio padre non dicono niente, probabilmente già lo odiano. Sono dannatamente di parte. Vedere la loro bambina piangere gli fa male. Lascio perdere tutto il casino che ho in testa e mi preparo per le prossime ore di lavoro. Mentre siamo sole mia madre mi prende per le spalle e mi guarda intensamente negli occhi. Che sta cercando? «Rosa va da lui, adesso. Se devi scusarti fallo subito». La guardo sbigottita, se avessi saputo che dicendole che mi sono innamorata sarebbe stata così dolce e comprensiva lo avrei fatto prima. «Mamma posso aspettare, non voglio lasciarti sola anche oggi». «Va, Rosa». La abbraccio perché mai come ora ne ho sentito così tanto bisogno. Mi scaravento in strada e fermo il primo autobus che trovo, ovviamente è quello sbagliato e mi ritrovo completamente dal lato opposto della città. Ne prendo un altro che mi riporta al punto di partenza facendomi perdere una buona mezzora. Aspetto che i quello giusto ma come tutte le cose della vita – gli uomini, i saldi e la vincita al superenalotto – non arriva mai.

Corro a casa e prendo il motorino, mi immetto nel traffico Catanese che è sempre un delirio di gente che impreca e ti taglia la strada. Butto il motorino all’ingresso e corro alla reception. «Buongiorno, Rosa, tua nonna sta facendo colazione nella stanza comune, oggi non lavori?» cincischia Sandra, amorevole. «Buongiorno, Sandra, no oggi sono libera, in verità cercavo il dottor Caruso, sa dove posso trovarlo?». «Ha chiamato ieri sera, è in ferie a partire da oggi, rientra tra due settimane». «Come… perché?», mi prendo la testa tra le mani, Sandra mi guarda sgomenta, penserà che sono pazza. «Bè, perché è da sua moglie». Oh. Mio. Dio. Moglie? Avete sentito tutti moglie??? La disperazione di prima lascia il posto a un’ira funesta. Esco dalla struttura con la voglia di prendere a cazzotti il mondo. Lo sapevo. Lo sapevo che non bisogna fidarsi degli uomini. Tutti bugiardi. Tutti stronzi. Sento il volto bagnato e mi accorgo solo ora che sto piangendo. Mi trascino sul motorino e corro verso casa. Mi serve urgentemente una cosa. Arrivo sotto al portone e salgo i gradini quattro a quattro. Rovisto nella scatola che contiene la posta e trovo subito quello che cerco. Il maledetto cartoncino con il suo numero di telefono. Compongo il numero sullo smartphone e scrivo nervosamente un messaggio.

IO: In ferie senza preavviso? Cos’è avevi bisogno di staccare dalla menzogna che ti circonda? Sei più felice adesso? E io che mi sentivo in colpa per averti trattato male, sei un mostro.

Invio il messaggio e butto il telefono sul divano. Mi avvio in bagno e mi spoglio per fami una doccia. Sento il telefono suonare, vado a recuperarlo dal divano e scopro che mi sta chiamando. Chiudo la chiamata perché voglia di sentire la sua voce non ne ho. Richiama e io richiudo. Andiamo avanti così per un po'. Poi arriva un messaggio.

ANDREA: Se vuoi parlarmi o meglio trattarmi male senza motivo lo fai al telefono. Per messaggio no.

Vorrei scaraventare il telefono contro il muro per il nervoso, ma evito visto che poi rimarrei senza, e compongo un nuovo messaggio.

IO: Certo perché tu decidi per tutti non è vero? lo ripeto, sei un mostro!

La risposta arriva velocemente. Ma la moglie non si accorge di quanto è stronzo e bugiardo quest’uomo? Ma soprattutto dov’è stata per tutto questo tempo? Il tempo in cui lui mi ha corteggiata?

ANDREA: Rosa mi stai facendo incazzare e generalmente non sono uno che si arrabbia facilmente, adesso se vuoi parlare mi chiami altrimenti, se devi fare la bambina, la cosa finisce qui.

Lo odio. Spengo il telefono e non gli rispondo più. Ricomincio a piangere perché credevo di averlo trovato. Di aver trovato la persona giusta per me. Poi il fatto che fosse anche il dottore di mia nonna, vederlo che la trattava così amorevolmente, vedere come lei era entusiasta di lui e sapere che l’idea di conoscerlo veniva proprio da colei che amo più di tutto al mondo me lo aveva fatto amare da subito. Anche se combattevo contro questo sentimento, contro quello che provavo per lui io sapevo di amare già una parte di lui. Perché forse i colpi di fulmine esistono, solo che a me colpiscono male. Mi butto sotto la doccia e ci rimango tanto di quel tempo che mi ritrovo con le

dita tutte raggrinzite. Chiudo l’acqua e mi copro con il mio morbido accappatoio, dopodiché mi butto sul letto e penso a chi non vorrei proprio pensare. A Diego. Perché quando l’ho conosciuto anche lui era così. Bellissimo e spavaldo. Tra noi era tutto uno scambio di battutine velate di ironia e io adoravo questo nostro modo di comunicare. Aver trovato in Andrea lo stesso tipo di comunicazione stizzosa ma stimolante è stato un sogno. Il fatto di averlo respinto mi porta a pensare che quello che non aveva capito il mio corpo lo aveva capito la mente. Inconsciamente sentivo che qualcosa non andava. Avrei dovuto seguire l’istinto sin da subito ed evitare la batosta che ho preso. È ancora presto e dato che non so cosa fare a casa opto per tornare al panificio. O così o ricomincio a bere per non pensare e il o tra bere per non pensare e l’alcolismo è breve. Mi preparo in fretta e cammino per l’ennesima volta, nell’arco della mattinata, per le strade che mi accompagnano ogni giorno al panificio. «Rosa, ma che ci fai qui?» domanda mamma. «Mamma non voglio parlarne. Fai finta che quello che ci siamo dette stamattina non è mai avvenuto. Voglio solo lavorare in pace». E stranamente, mia madre, acconsente. La giornata per mia fortuna è frenetica, mi fermo due minuti per mangiare una cosa al volo e ricomincio, alle cinque abbiamo finito di vendere ogni cosa e ci accingiamo a chiudere il panificio. «Amore perché non vieni a casa e resti con noi per cena?» domanda mio padre in visibile apprensione. «Papà sto bene, davvero, ho solo bisogno di tornare a casa, rilassarmi e andare a dormire presto, grazie comunque». Gli dono un piccolo bacio sulla guancia paffuta e ritorno verso casa. Accendo il telefono che era rimasto in carica, e trovo una serie di messaggi. È Andrea.

ANDREA: Accendi il telefono, per favore Rosa.

ANDREA: Perché fai così? Io non ti capisco.

ANDREA: Sono andato in ferie perché vederti e non poter stare con te mi uccide.

ANDREA: Ti prego, Rosa.

ANDREA: Aspetto una tua chiamata. Aspetta e spera. È andato in ferie perché vedermi lo uccide. Morisse per davvero, il bastardo. Se almeno fosse stato sincero. Non che se mi avesse detto che aveva una moglie ma voleva comunque stare con me avrebbe cambiato le cose… ma per lo meno io mi sarei messa il cuore in pace subito e sicuramente ne avrei apprezzato la sincerità. Mi viene di nuovo da piangere, mi rifugio ancora vestita sotto le coperte perché dormire è come spegnere il caos per un momento. La realtà sa essere crudele e i mezzi a mia disposizione sono limitati. Vorrei svegliarmi domani e averlo rimosso per sempre dalla mia mente un po' come quel film Eternal Sunshine of the Spotless Mind. Perché non può essere tutto così semplice.

Capitolo 9

È ata una settimana. Una settimana da quando ho sentito e visto Andrea. Una settimana in cui non si è manifestato. Vero è che mi aveva scritto nell’ultimo messaggio “aspetto una tua chiamata” ma che diavolo? Non poteva farlo lui visto che la parte lesa sono io? Poi, ripensandoci, mi rendo conto che no, ovviamente, non può farlo lui dato che si trova in ferie con la moglie. Questi giorni sono stati un incubo. Ho praticamente fatto casa-lavoro ogni santissimo giorno mantenendo i contatti con le persone ai minimi storici. La mia famiglia è stata informata degli eventi funesti e anche Lucia e Costantino. Costantino che per l’appunto sta ando a prendermi per una serata fatta di alcool e divertimento. Anche perché è sabato sera, siamo ai primi di maggio e le discoteche all’aperto sono in fase di inaugurazione estiva. Indosso uno striminzito abito rosso che urla “prendimi” da tutte le parti. Dei tacchi vertiginosi e un trucco da “guardami e dimmi come mi vuoi” che comprende uno smokey eyes aggressivo e un rossetto rosso ciliegia. La versione di me priva di freni inibitori è pronta. Questo è l’effetto “Costa”. Suona il citofono e comunico al mio amico che sto arrivano. Quando mi ritrovo davanti un miscuglio di paillettes blu esplodo in una risata liberatoria. «Ma come ti sei conciato?» domando ancora in preda ai singhiozzi. «Non essere stupida e smetti di ridere subito. Sono perfetto. E stranamente anche tu. Stasera si rimorchia!». Andiamo in un locale che non conosco ma pieno zeppo di uomini. Che strano. «Costa, ma che posto è questo? E come mai ci sono tutti questi uomini? E perché hanno tutti le paille…» la frase mi muore in gola, stronzo opportunista. «Mi hai portata in un locale gay?».

«Scusa» dice lui, stringendosi nelle spalle. «È ufficiale, sei il peggiore! Come dovrei rimorchiare qui?». «Ma tesoro, è il posto perfetto, non hai detto che odi gli uomini? Qui incontrerai un sacco di bellissime donne disponibili per te». «Costa, posso anche odiare gli uomini con tutta me stessa ma le donne non mi piacciono, non in quel senso almeno» sbuffo sonoramente e mi imbroncio. «Facciamo così. Beviamo un paio di cose, vedo di rimorchiare un bel maschione e poi cambiamo locale e facciamo rimorchiare te». «Bene» ma resto ancora imbronciata. So che adesso cadrò in uno stereotipo colossale ma è la verità. Almeno per stasera. Gli uomini gay sono i più simpatici del pianeta. Mi ritrovo in una combriccola di persone conciate in modi allucinanti. Giorgio, un ragazzone alto e grosso porta una giacca piena di piume bianche. Non oso dirglielo ma sembra un’oca gigante. Salvo è vestito con una tutina verde fluo che ricorda i teletubbies. E infine, c’è Alex. Lui sembra proprio il tipo di Costa, porta dei normalissimi jeans ma sopra ha una camicia con disegnati dei piccoli falli. Si può? Loro sembrano sbranarsi con gli occhi e io muoio d’invidia. Ho ricevuto qualche richiesta da qualche donna, non me lo aspettavo, tutte donne molto belle e curate, mi sono sentita lusingata. Ma anche no, grazie. Al terzo mojito vedo Alex e Costa limonare sfacciatamente di fronte a tutti. Ma il pudore lo abbiamo lasciato a casa? «Costa… Costa… andiamo dai… Costa?» tiro la giacca del mio amico nella speranza che quella bocca a ventosa che si ritrova si stacchi dalla faccia dell’altro impudico. «Cosa vuoi, sei una palla al piede, lo sai?». «Hai trovato il tuo maschione e io inizio a sentirmi vagamente brilla, portami subito in un locale in cui posso rimorchiare anch’io!».

«Andiamo. Alex vieni con noi, giusto?» chiede il mascalzone. «Certo che sì, andiamo a conquistare il mondo Rosa» e mentre lo dice mi prende sottobraccio e ci incamminiamo verso un altro locale. Arriviamo in un posto diverso. Un posto in cui nessuno ha piume e paillettes. Sono nel luogo giusto! Ordiniamo da bere e ci lanciamo in racconti osé del nostro ato. Ok lo ammetto i racconti veramente osé appartengono alle due arpie che mi accompagnano. Dopo una mezzora e un altro giro di cocktail, un ragazzo si avvicina al nostro tavolo. «Ciao, posso sedermi con voi?» lo guardiamo lievemente accigliati e lui forse per imbarazzo prosegue «ehm ti guardo da un po' e sei molto bella, se non sono di troppo e nessuno dei due è il tuo fidanzato mi farebbe piacere offrirti da bere, sono Aldo». «Addooo ciao come no, io sono Rossa, no spetta non come il colore. Cioè si come il colore ma non rosso, Rossa, no cavolo è senza una S, hai capito?» biascico, malamente. «Aldo io sono Costantino e lui è Alex, lei è super single e come avrai capito si chiama R-o-s-a, accomodati». Aldo si accomoda e stringe cortesemente la mano a tutti, io penzolo da un lato e mi cruccio perché non riesco davvero a pronunciare il mio nome, il che mi muove un moto di fastidio iracondo. «Io sono Rossa… Rosha, cazzo! Facciamo che stasera io non mi chiamo. Ci stai Addooo, che nome strano Addoo. I tuoi genitori sono artisti?». «No Rosa, mio padre fa il meccanico e mia madre è casalinga, e il mio nome contiene anche una L, Aldo». «Che bel nome Addoo! E voi due smettetela di limonare, vergogna!». Aldo ride e il suo sorriso mi ricorda quello del mio dottore infame. Voglio baciarlo, ma solo perché mi ricorda Andrea. Solo il sorriso però. Il resto è tutto sbagliato, quello che vedo tra la nebbia dell’ebrezza è un uomo non troppo alto, per non dire basso, con capelli e occhi scuri. No, non è per niente come il mio dottore.

Ma quel sorriso, quel sorriso basta a fami venire voglia di baciarlo. «Addoo invece di offrirmi da bere perché non mi riaccompagni a cassa… a casha a c-a-s-a… ce l’ho fatta!!!» mi batto le mani da sola. Aldo ride e Alex e Costa mi guardano perplessi. «Ti accompagno con molto piacere». Ci alziamo e quando saluto Costa mi domanda all’orecchio se sono sicura di quello che sto facendo. Ma certo che no! Portare a casa uno sconosciuto quando sei ubriaca può essere sensato? Ma in fondo non importa. Per una volta la mia coscienza sta dormendo e voglio sentirmi libera di fare una stupidaggine. Fornisco al mio nuovo amico le indicazioni per tornare a casa, solo che adesso che siamo parcheggiati sotto non mi sembra la migliore delle idee lasciarlo salire. Scendiamo dalla macchina e appoggiata al portone sento le sue labbra sulle mie, ricevo questo bacio e lo assecondo, le sue mani risalgono il vestito e poi veniamo interrotti da un colpo di tosse. «Scusate, non volevo interrompere, ero andato a buttare la spazzatura». Andrea è di fronte a me, una statua di ghiaccio. Io forse ancora di più. La sbornia mi a in un lampo e ritrovo lucidità. «Perché sei qui?». «Ci abito» risponde lui. Ho un déjà vu, ci siamo già ati. «Andrea, intendo, perché non sei ancora in ferie?». «Al momento è quello che mi sto chiedendo anch’io. Ma sono un coglione. Mi pare ovvio». «Ovvio» rispondo. Apre il portone e lo lascia andare con una tale violenza che sobbalzo e perdo un battito. Lui è arrabbiato? Ma davvero? Sento qualcosa di umido e appiccicaticcio sulla spalla, mi volto e mi ricordo che non sono sola. Il tizio conosciuto chissà dove mi sta letteralmente leccando una spalla. Ma che schifo!!!

Lo allontano delicatamente e gli dico che non mi sento bene. Aldo chiede il numero ma mi spiace, la cosa finisce qui. Lui borbotta qualcosa ma poi se ne va. In casa sento la necessita di affacciarmi al balcone e, come immaginavo, lo trovo nel suo a guardare verso il basso. «Mi stavi spiando?» chiedo, arcigna. «No, prendevo aria» dice lui, reticente. «Prendi aria con la testa in giù?» rimbecco. «Smettila con questo sarcasmo da quattro soldi» rimprovera, inviperito. «Smettila tu di essere sempre dove sono io». «Rosa smetti subito di fare la bambina!». «Perché altrimenti cosa fai?» cantileno. «Perché mi sfidi? Ti diverte? Potresti essere più matura di così e invece… invece esci con… chi era quello? Quello che ti ha infilato la lingua fino ai polmoni, eh?». «Che ti importa? Sei come tutti gli altri, dottore! Voi uomini siete uno la copia dell’altro. Io ti odio». Rientro in casa e questa volta la finestra la sbatto io. Prima o poi ci sfrattano. Sicuro. Mi arrotolo tra le lenzuola e ricomincio a piangere. Potevo are una serata divertente per una volta? Ma certo che no. Come mi è venuto in mente? Lascio scorrere le lacrime e mi addormento. Esausta.

Capitolo 10

Sapete cosa ho fatto in questi cinque giorni in cui non ho visto Andrea? Ho lavorato, ho bevuto – tanto – e provato a dimenticare la sua faccia insolente, ci sono riuscita? No. So solo che proprio non ci siamo. Se ieri mi sentivo uno straccio oggi sono lo sporco annidato nello straccio. Ma ehi! La vita continua e la giornata si prospetta interessante. Alfio compie gli anni, trentasette per la precisione. Sarà incazzato nero, odia l’idea di invecchiare. Chiamo mamma per dirle che oggi vado al lavoro in ritardo, devo ancora comprare il regalo al mio fratellone. Mi preparo lentamente ma anche oggi salto il caffè, tra l’alcool e il nervoso ho una gastrite da paura. A pensarci sembra assurdo ma è una grande verità: non ho più vent’anni e il mio corpo non regge i ritmi a cui lo sottopongo. Mi vesto al mio solito e mi incammino per via Etnea. Trovo subito ciò che stavo cercando. Mi intrufolo in un negozio che vende cofanetti di serie tv e giochi. Cerco disperatamente tra gli scaffali facendo cadere diverse cose. Un ragazzo molto carino e decisamente giovane si avvicina sorridendo. «Ciao, posso esserti utile?». «Ciao, si. Sto cercando il cofanetto di Game of Thrones, sai dov’è?». «Certo, seguimi». Seguo il ragazzo che accidenti ha un fondoschiena degno di nota. È alto, capelli biondi e ricciolini, gli occhi azzurri. Tutto sembra fuorché uno del sud. Sembra davvero tanto giovane, poco più che ventenne. «Eccolo qui! Posso fare qualcos’altro per te?» domanda, carinamente. «Si. Mi diresti quanti anni hai? Così per curiosità!» chiedo, sfacciata. «Oh, bè ho ventiquattro anni, perché?». «Lo sapevo! Non farci caso… ero solo curiosa. Lo prendo! Il cofanetto intendo…».

«Aspetta ho anch’io una curiosità… vorrei sapere il tuo nome e se sei fidanzata». «Sono due cose. Sono Rosa e non sono fidanzata, per levarti dall’imbarazzo di chiedermelo ti dico subito che ho trent’anni che lavoro in un panificio e che sono un completo disastro sotto diversi punti di vista, ti basta?». «Si, mi basta. Ma hai dimenticato una cosa importante…tipo… il tuo numero di telefono?» domanda con leggero imbarazzo. «Oh. Vuoi uscire con me? È questo che mi stai chiedendo?». «In realtà ti ho chiesto il numero, ma ovvio che lo scopo finale sia quello. Allora ti va?». «Perché no?! Mi va di uscire con te ehm… come hai detto che ti chiami?». «Non l’ho detto. Sono Mauro, piacere di conoscerti, Rosa». «Mauro, bel nome! Senti Mauro ma stasera sei impegnato? Devo andare a una festa e non voglio andarci sola… hai voglia di farmi compagnia?» domando con una punta d’ansia. «È strano ma… si ti faccio compagnia volentieri, ti o a prendere a casa?». «No. Abito in zona, se per te va bene o alla chiusura del negozio… tipo venti e trenta? E per favore mi faresti la confezione regalo per questo?». «Subito». Lo guardo mentre compone una graziosa confezione. Certe volte resto sbalordita da me stessa. Ma che problemi ho? Invitare l’ennesimo sconosciuto, a casa di mio fratello poi. Mi manca qualche rotella. Però è così dolce sembra un piccolo bambino troppo alto. So che sembra il classico cliché del “chiodo schiaccia chiodo” ma non è così. Si ok è così. Spero che frequentando altre persone i pensieri sul mio dottore svaniscano di botto. E poi mi manca maledettamente sentirmi coccolata, dormire con qualcuno. Ormai l’unica persona con cui dormo è Costantino ma credo stia per abbandonarmi anche lui. Ultimamente è così preso da Alex che non riusciamo nemmeno a trovare il tempo per fare due chiacchiere al telefono.

«Ehilà, Rosa sei ancora con noi?». «Ops. Scusa Mauro mi ero assentata cerebralmente… oh, ma è perfetto! Sei bravo. Adesso devo scappare, ci vediamo stasera, va bene?». «Non vedo l’ora. A stasera, bellissima». Ma quanto è bello quando gli uomini ti chiamano bellissima? I complimenti sono sottovalutati, ormai li fanno in pochissimi e perlopiù uomini vecchio stampo sopra la cinquantina. Ricordo mio nonno, ogni giorno portava a casa una rosa per nonna e le diceva che era bellissima. Ha continuato a farlo anche quando la vecchiaia le ha rugato il volto. Quando le macchie sul corpo hanno preso il sopravvento. Quando i capelli sono diventati bianchi e spenti. Quando ha dovuto indossare occhiali spessi come il fondo di bottiglie di vetro. Ogni giorno. Sei bellissima. Eccomi di nuovo qua. «Buongiorno, famiglia!». Come sempre quando si lavora sodo la giornata scorre velocissima. Mamma e papà stasera non saranno presenti alla festa. Alfio gli ha chiesto gentilmente di fare due feste separate, quella di stasera prevede uno stuolo di fighe in casa sua e fiumi di alcool e di fare un pranzo domenica solo noi della famiglia, nonna compresa. A proposito di nonna… non la vedo da giorni e mi sento maledettamente in colpa ma il pensiero di incontrare Andrea mi demolisce completamente. Rientro in casa con una punta di entusiasmo. Quel filo invisibile di gioia nasce dalla consapevolezza che alla festa ci sarà Costa con Alex, Lucia e Biagio e ovviamente il mio sconosciuto. Faccio una doccia fredda, il caldo umido del crepuscolo è particolarmente fastidioso. Mi depilo con cura che non si sa mai i casi della vita. Asciugo i capelli e li lascio cadere, mossi, sulla schiena. Indosso una minigonna di jeans e una t-shirt bianca, un paio di sandali con laccio alla schiava. Ho optato per un abbigliamento molto giovanile considerata l’età del mio accompagnatore, però, essendo pur sempre una donna, abbondo con il trucco mettendo uno spesso strato di eyeliner che mi affina lo sguardo e un rossetto rosso amaranto. Sono bella. Me lo dico da sola. Applausi. Giungo al negozio e lo trovo già chiuso. Mauro è lì, imbambolato, che mi guarda

sorpreso. «Ma ciao, non avevo immaginato che sotto tutti quei vestiti larghi che portavi stamattina ci fosse un corpo tanto sensuale. Wow». «Ma ciao a te, Mauro. Grazie ma non ti abituare, sono una da vestiti comodi». «Peccato. Possiamo andare?», domanda e mi porge il braccio. Lo assecondo e ci incamminiamo tra la folla. È ovvia la sua confusione perché non sa dove stiamo andando, oltretutto a piedi. «Non fare quella faccia, è qui vicino, andiamo a piedi» chiarisco. Sopraggiunti sotto casa di Alfio, mi sento leggermente nervosa. Citofono e la voce serafica di mio fratello mi rimette a mio agio. «Buon compleanno, fratellone!!!» mi stritolo attorno le spalle di Alfio, e intanto mi guardo intorno. Ma certo. La percentuale femminile è il triplo di quella maschile. Che sfacciato! «Grazie, Bestiolina. E lui sarebbe?» domanda Alfio, al solito super protettivo. «Lui è il mio amico, Mauro». Alfio lo studia per qualche secondo, poi evidentemente lo approva e i due si stringono la mano. Presento Mauro a tutti i miei amici e anche a mio fratello Biagio che mi chiede all’orecchio se è lui il tizio per cui piangevo l’altro giorno. Affermo che non è lui e sembra rilassarsi. Beviamo e parliamo, l’atmosfera è goliardica. Mauro sembra essere molto accogliente rispetto l’ambiente che lo circonda. Ride con tutti e mi tiene sempre in considerazione, più di una volta ci sfioriamo le mani. È una bella sensazione. Verso le ventitré siamo tutti più alticci e ci scateniamo in danze non proprio raffinate. Costantino fa la Lap Dance attorcigliato a una colonna di casa e Alex lo guarda battendo le mani a tempo. È uno spettacolo di una tristezza paradossale. Alfio non si vede da almeno un quarto d’ora il che mi porta a dedurre che sia nella sua alcova con qualcuna. Biagio e Lucia appartati vicino la finestra pare stiano litigando. Che palle. Devo parlare a mio fratello, deve smetterla di essere sempre così geloso. Mi ricorda Diego e non mi piace per niente. Altre persone che conosco di vista ma di cui non ricordo il nome, sono al centro del salotto a dimenarsi e, se capita, limonare. «Vuoi ballare?» domanda Mauro e ora che lo guardo meglio sembra mooolto

ubriaco. «Con piacere». Mi porta al centro della stanza e iniziamo una sorta di ballo che in realtà non è altro che una serie di palpatine. Una specie di “Tuca Tuca” erotico. Mi strizza il sedere più di una volta. Odio queste cose fatte in pubblico. Cerco di spingerlo lontano dalla calca e ci ritroviamo catapultati sul divano. Cerca subito la mia lingua e la trova. Accolgo il suo bacio ma la lingua resta rigida. Mi gelo in due secondi quando realizzo chi mi sta lanciando sguardi carichi di furia. Ma allora mi segue per davvero. Mi sollevo dal divano, isterica. «Cosa vuoi?» esplodo di rabbia. «Cosa vuoi tu? Sei impegnata mi pare!». «Andrea non voglio giocare. Perché sei a casa di mio fratello?». «Cosa? Alfio è tuo fratello?». «E’ quello che ho detto». «Rosa, Alfio è un mio amico e mi ha invitato lui. Se non ti spiace vorrei andare a salutarlo». Mi scansa con una mano in malo modo. Io resto di sasso, rincretinita. Alfio e Andrea? Ma come? Voglio queste risposte. Subito. Mi precipito verso la sua direzione e gli afferro il braccio. «Dobbiamo parlare» asserisco, truce. «Non ho più niente da dirti, Rosa. Hai avuto il tuo momento e l’hai sprecato. Poi mi pare che tu sia impegnata a infilare la lingua in bocca a un bambino, forse è il caso che torni da lui prima che si metta a frignare». «Non sei divertente, Andrea. Come conosci mio fratello?». «Allora non sono stato abbastanza chiaro. Fuori dalle palle Rosa. Sei una bambina. E io non ti devo niente. Torna a fare quello che stavi facendo». Si allontana in fretta, io resto dove sono al centro del caos che proviene, però,

dalla mia mente. Mi sento ferita. Non mi aveva mai trattata così male prima d’ora. Non capisco la sua rabbia nei miei confronti. È lui quello sposato che mi ha corteggiata spudoratamente e baciata. Io sono single e della mia vita ne faccio ciò che voglio. Quindi non ci arrivo proprio. Un singhiozzo che proviene da me mi risveglia e mi fiondo all’esterno della dimora. Corro in direzione di casa mia che si trova a poca distanza da quella di mio fratello. Giunta a casa mi butto sopra al letto e mi ritrovo ancora una volta a piangere per lui. Non lo sopporto. Non sopporto sentirmi così senza neanche avere un briciolo di colpa. Mi fa sentire sporca e sbagliata quando il lurido traditore è lui. Provo pena per me stessa e per sua moglie. Che razza di uomo si comporta in questo modo? La sua gelosia nei miei confronti è palese, non sono una stupida. Ma come può essere geloso di una persona che non gli appartiene e che non può avere? Arrovellandomi la testa di domande scivolo in un sonno muto e sereno, prima però mi ricordo di aver lasciato Mauro completamente solo alla festa di mio fratello. Mannaggia! Non ho intenzione di tornare là. Domani erò dal suo negozio e mi scò a dovere.

Capitolo 11

Sento una musica fastidiosissima intervallata da strani bip. Un fracasso tremendo. Ma che…? Oh, il mio telefono. Cavolo. Trovo quattro chiamate di Alfio, una di Biagio e una di Lucia, due di Costantino e, per finire, sei di Andrea. Ci sono anche diversi messaggi. Leggo velocemente quelli di Lucia e Costa. Mi soffermo su quello di Alfio.

ALFIO: Rosa, non so bene cosa sia successo stanotte. Ho parlato con Andrea, mi ha detto che sei scappata via. Il tuo amico era troppo ubriaco ed è rimasto a dormire sul mio divano. Chiamami non appena ti svegli devo sapere se stai bene.

Prima di leggere i messaggi di Andrea chiamo mio fratello, non voglio si preoccupi più del necessario. «Rosa! Stai bene?». «Ciao Alfio, si tutto ok. Ieri sera non mi sono sentita bene e ho deciso di tornare a casa, mi spiace di aver lasciato Mauro da te. È ancora lì? Sta bene?» «È andato via stamattina, era leggermente confuso, forse dovresti chiamarlo. Senti… c’è qualcosa che devi dirmi riguardo Andrea?». «Si, come lo conosci? Lui sapeva che sono tua sorella?». «Ci siamo conosciuti tre anni fa in ospedale, abbiamo lavorato nello stesso reparto. Poi alcuni mesi fa ha accettato il lavoro presso la struttura privata dove sta nonna. E no, non credo sapesse che siamo fratelli». «Tu lo conosci da tre anni e io non l’ho mai visto, com’è possibile?».

«Rosa è complicato. Il rapporto tra di noi andava alla grande in ospedale, purtroppo non abbiamo mai avuto modo di frequentarci fuori dall’ambiente di lavoro». «Perché?». «Perché era sposato. Poi sua moglie l’anno scorso l’ha tradito e lui ha chiesto il divorzio. Divorzio che, per quanto ne so, si sta concretizzando solo adesso. Ma a te che importa, Rosa?». «Aspetta! Mi stai dicendo che è divorziato? Non ci posso credere. Sono una stupida. Alfio devo chiudere, ti richiamo io». Non gli do nemmeno il tempo di rispondere perché chiudo malamente la comunicazione. Scorro velocemente i messaggi sullo smartphone alla ricerca dei suoi di ieri sera. Trovati!

ANDREA: Dove sei andata? Rosa… mi dispiace. Non volevo trattarti in quel modo, vederti baciare l’ennesimo deficiente mi ha mandato in bestia. Sono un tipo pacifico ma tu mi fai arrabbiare in modi che non credevo possibili. Dimmi che mi scusi, Rosa. per favore.

Adesso è chiaro perché è sempre arrabbiato con me…

ANDREA: Rosa, rispondi dannazione.

ANDREA: Sono a casa… la luce da te è spenta. Dimmi che sei a casa e non tra le braccia di un altro uomo che non sono io.

Espiro tutta l’aria che ho trattenuto finora. Percepisco la sua pena in ogni parola

scritta. Devo spiegargli tutto. Il malinteso, il mio bisogno di cercare altre persone. Ogni. Fottuttissima. Cosa. Ho un impellente bisogno di vederlo, di vedere che sta bene, che non è arrabbiato con me. Lo chiamo, nella speranza che sia in casa. Il telefono squilla una volta soltanto. «Rosa» la sua voce è carica di angoscia. Questo mi fa sentire doppiamente uno schifo. «Andrea, sei a casa?» domando, cauta. «Si, stai bene? È successo qualcosa?» il tono è urgente e preoccupato, che tenerezza sentirlo turbato per me. «Sto bene, posso avvicinare da te? Dobbiamo parlare». E alla famosissima frase “dobbiamo parlare” rilascia un sonoro sospiro. Queste parole fanno accapponare la pelle a chiunque. «Ti aspetto». «Dieci minuti e sono da te». Vorrei aggiungere un “per sempre” ma adesso mi rendo conto che quella che deve essere perdonata sono io e dopo gli ultimi spettacolini licenziosi a cui l’ho sottoposto non so cosa aspettarmi. Faccio una doccia e lavo molto bene i denti, forse nella speranza di riuscire a baciarlo ancora una volta. Non voglio perdere tempo quindi faccio una coda, non mi trucco e indosso la prima cosa che trovo. Un vestitino celeste a mezze maniche con gonna a pieghe e delle ballerine blu. Sono fin troppo femminile per i miei standard. Mi scapicollo per le scale e citofono al portone accanto il mio. Si apre senza che lui dica nulla. Rifaccio i gradini a due a due e trovo la porta semiaperta. È appoggiato a un tavolo, con le mani conserte. I capelli spettinati e una tuta che casca morbida sui fianchi. Non lo avevo mai visto in tuta. È sempre da mozzare il fiato. Mi prendo qualche secondo per esaminare il suo appartamento. Sembra grande. Il soggiorno è ampio, un divano a L troneggia al centro della stanza, di fronte un televisore gigantesco, probabilmente cinquantacinque pollici. Di fianco al divano, alla mia sinistra, il balconcino dal quale ci spiamo a vicenda. Alla mia

destra una cucina ampia è separata dal soggiorno da un enorme isola. Un tavolo giace dietro al divano. Poi ci sono diverse porte che immagino siano camere da letto e ovviamente bagno. È tutto molto pulito e ordinato, potrebbe competere con mia madre, il che mi mette in profonda soggezione. Chissà che avrà pensato di casa mia! «Ti sei guardata intorno abbastanza?» domanda. Sembra stanco, molto stanco. «Ehm… scusa. Hai dormito?» chiedo, nervosa. «No!» esclama deciso. «Sono qui per chiederti scusa e pe…». «Tu chiedi scusa in continuazione ma la verità è che con i fatti non dimostri mai il tuo pentimento. Le parole stanno a zero, Rosa». «Andrea lasciami spiegare, possiamo sederci qui, sul divano?». «Siediti». Mi siedo e faccio mente locale di tutto quello che devo dire, mettendomi metaforicamente un post-it in fronte per ricordarmi di non chiedere ancora “scusa”. «Due settimane fa sono stata a villa Alma. Ti cercavo ma non riuscivo a trovarti. Ho chiesto a Sandra e lei mi ha detto che eri in ferie con tua moglie. Non ci ho visto più, Andrea. Lei ha detto moglie, non ex moglie… dopo il nostro bacio e la successiva litigata ho capito che volevo provarci… sai la cena di prova… e poi dopo aver ricevuto questa notizia… io ero così arrabbiata, volevo dimenticarti e trovare altre persone era un modo come un altro per non pensarti» apre la bocca per parlare ma lo fermo, devo continuare «Stamattina ho chiamato Alfio ed è stato lui a dirmi che sei divorziato e ho capito. Ogni cosa ha preso il suo posto. Dimmi che mi perdoni, che mi darai una possibilità». Lo guardo con occhi supplichevoli, un po' come il gatto con gli stivali di Shrek, generalmente funziona. Lui mi guarda e non riesco a capire l’indecisione che a sul suo viso. Se lui mi vuole e io lo voglio perché perdiamo tempo in questo silenzio che mi spacca i timpani?

«Rosa…». Non resisto più, se sento menzionare ancora una volta questo nome vado all’ufficio anagrafe e quanto è vero Iddio lo cambio. «Baciami Andrea, baciami subito». Si avvicina lentamente e mi prende il mento con le mani, il suo respiro è sulle mie labbra, ci sfioriamo e questo non fa che aumentare il piacere. Schiudo le mie per permettergli di assaggiarmi. La sua bocca sa di menta e la sua lingua è morbida e gentile. Senza staccarci mi posiziono a cavalcioni sulle sue gambe. Sento la sua eccitazione sotto di me e questo mi manda all’inferno e mi fa bruciare. Sento il sangue scorrere, rovente, come lava. I suoi ansiti si fanno prepotenti e mi solleva il vestito sfilandolo completamente. Resto sopra di lui in slip e reggiseno. Si prende un minuto per guardarmi come mai mi ha vista prima e il respiro diventa più greve e pesante. Gli tolgo la maglia e resta a petto nudo. Magnifico. Lascia scivolare le spalline del reggiseno con un dito e la sua bocca ne segue il movimento. Lo sgancia, resto scoperta e mi sento vulnerabile. Ribalta la situazione e mi ritrovo sotto di lui, schiacciata dal suo perfetto corpo che combacia con il mio. Mi sfila gli slip e rimango completamente alla sua mercé, con la mano mi sfiora delicatamente. «Andre…». Non reggo più. Sfioro l’elastico della tuta e tiro verso il basso sia quella che i boxer. Siamo carne contro carne e il desiderio avvampa repentino. «Rosa, non ho il pr…». Non capisco più niente. «La pillola… prendo la pillola…». In uno schiocco di dita si insinua dentro di me. Si muove con decisione continuando a baciarmi cibandosi del mio respiro. I miei gemiti vengono ingoiati dalla sua bocca. Piccole gocce del suo sudore cadono sulle mie guance. «Ti desidero così tanto…» mi dice sospirando… «Dimmi che resti. Dimmi che non scappi più da me. Dimmi che qualsiasi cosa succeda la affronteremo insieme. Dimmelo, Rosa» e mentre mi supplica continua ad entrare e uscire in me, in un tornado di bramosia che ci risucchia l’un l’altro. «Resto». È l’unica cosa che posso pronunciare. Il climax mi travolge come uno

tsunami infrangendosi tra le mie gambe. Lui mi segue in questo vortice di lussuria che lascia entrambi privi di fiato.

Capitolo 12

«Ehi, piccola». Percepisco un leggero sussulto, sto sognando? Non voglio aprire gli occhi perché se dovessi scoprire che quello che penso sia successo è accaduto solo nella mia testa, ne morirei. Apro gli occhi lentamente, sono terrorizzata di sbattere il muso contro la dura realtà. Lo vedo. È sopra di me e mi sorride, con una mano mi accarezza i capelli e sospira. Perfetto. «Vinci un premio se sospiri ogni minuto?» domando, sorridendo. «Sei incantevole quando dormi». «Solo quando dormo?» miagolo, zuccherosa. «No, lo sei sempre, ma quando dormi la tua boccaccia sta a riposo». Rido. Dopo tanto tempo. Allungo le mani verso di lui, ho bisogno di essere abbracciata. Soddisfa la mia muta richiesta e si accoccola su di me. Restiamo chiusi tra di noi, come un piccolo bozzolo che non si vuole schiudere. Riempio di baci la sua fronte e poi mi sovviene un dubbio. «Andrea, cosa è successo dopo… ehm… dopo…». «Puoi dirlo Rosa… dopo che abbiamo fatto l’amore?». «Si… quello». «Ci siamo addormentati abbracciati sul divano, poi mi sono svegliato e ti ho spostato nella mia camera, ti ho guardato dormire giusto qualche oretta e adesso siamo qui e io vorrei tanto sapere cosa hai voglia di fare…» e mentre lo dice la sua mano scorre sul mio petto, disegna dei piccoli cerchi immaginari e li bacia uno per uno. «Andrea…».

«Che c’è, piccola?» ribadisce, continuando a lasciare bollenti scie di baci. «Parliamo?». Si lo ammetto, in questo momento potrei fare qualunque cosa e scelgo la più antipatica ma ho bisogno di risposte. Voglio sapere con esattezza come procede il divorzio, se è già concluso se ha ancora necessità di sentire la moglie, se nei suoi pensieri ci sono solo io e basta. Mi servono rassicurazioni. Tutti lo sanno, le donne sono creature meravigliose ma atrocemente insicure. Aggiungi una moglie appena ex ed è il panico. «Di cosa?». «Della tua ex moglie?» domando, timida. «No. È un discorso che non ti riguarda» scioglie l’abbraccio in cui eravamo e si allontana seccato. Mi acciglio. È normale fare una domanda del genere, no? Insomma, se questa “cosa” tra di noi deve decollare vorrei per lo meno capire se quella donna rimarrà un’ombra nella nostra, appunto, “cosa”. «Andrea, perché fai così? Non pretendo che mi racconti tutto il tuo matrimonio, per carità, ma puoi almeno dirmi se la cosa è definitivamente conclusa?». «Rosa, non parlerò con te di mia moglie». «Ex moglie… se non riesci nemmeno a dirlo allora forse la cosa non è conclusa come pensavo!». Scatto in piedi e mi dirigo verso il soggiorno dove spero di ritrovare i miei vestiti. Sento i suoi i dietro di me e i continui sospiri carichi di frustrazione. «Rosa, ti prego, non volevo… aspetta, non andare» mi afferra per il polso costringendomi a girarmi e guardarlo negli occhi. «Andrea, siamo adulti ok? Se provi ancora qualcosa per tua moglie io devo saperlo. Non ho intenzione di lasciarmi trascinare in un rapporto poligamo» lo dico con calma ma dentro di me è esplosa una mina. «Rosa è più complicato di così… non provo più niente per lei da molto tempo… è solo che… niente, lascia perdere». Non vuole parlare? Bene. Non posso costringerlo ma non posso costringere nemmeno me stessa in una situazione soffocante come quella attuale.

«Vado a casa. Quando e se avrai voglia di affrontare il discorso con me chiamami, altrimenti evita di cercarmi, spiarmi o qualsiasi altra cosa. Perché quando scelgo di “stare” con qualcuno è nella speranza di rimanere non di essere un rimpiazzo, la ruota di scorta. O tutto o niente». Resta di sasso, imbambolato come una statua imbalsamata. Mi avvio verso la mia casa e faccio l’unica cosa possibile. «Gallina, ma dove sei finita ieri?». «Costa, posso are da te?» domando, singhiozzando. «Tesoro sono da Alex, ti mando l’indirizzo per messaggio e ci raggiungi, va bene?». «Grazie». Non appena arriva il messaggio con l’indirizzo di Alex mi fiondo sul motorino e corro come una pazza. Giunta a destinazione suono con insistenza. I ragazzi appaiono alla porta e, immagino a causa del mio aspetto, la reazione è di stupore. Entrambi a bocca aperta mi accolgono in cucina. «Cosa diavolo è successo?» domanda Costantino. Alex forse per educazione fa finta di non interessarsi alla conversazione che sta per avere luogo e prepara una gigantesca moka per sei persone. Evidentemente sembro una che ha un disperato bisogno di caffeina. In realtà mi servirebbe una vagonata di verbena. Racconto tutto quello che è successo nelle ultime ventiquattro ore, dalla festa in poi. Inanello un ricordo dietro l’altro, scendendo avidamente nei dettagli, perché se c’è una persona a cui confesso ogni cosa della mia vita è proprio Costa. Lui non parla, ma la sua faccia esprime tutto quello che ci sarebbe da dire. Sorpresa, sgomento, rabbia. La mia, di faccia, è dolorante. In senso proprio fisico. A furia di piangere provo dolore sulla fronte perennemente accigliata e sopra gli occhi. Alla fine del mio racconto restiamo in silenzio qualche minuto, quanto basta per sorseggiare il caffè appena pronto. Guardo Alex e Costa farsi strani cenni in silenzio. Poi mi dicono quasi all’unisono: «Vieni con noi?». «Eh? Dove?» domando, confusa.

«Domani mattina andiamo a Milo, due giorni, per svagarci un po' e cambiare aria. Farebbe bene anche a te, che ne pensi?» chiede, gentilmente, Alex. Adoro già quest’uomo, non mi conosce eppure sta facendo qualcosa per me. «Oh… io devo lavorare, non so se posso» sussurro, stupita dalla richiesta. «Andiamo, gallina, chiama tua madre. Capirà, lo fa sempre» sostiene Costantino. Ci penso per qualche millesimo di secondo, mi farebbero davvero bene due giorni lontana da ogni cosa che mi ricorda lui. Mi allontano leggermente per fare la chiamata. Parlo con mia madre per una decina di minuti, le spiego vagamente il mio problema. “Quell’uomo”, come lo chiama lei, sta creando casini nella mia testa e ho bisogno di staccare. Senza approfondire l’argomento si fa subito convinta anche lei che la soluzione sembra quella giusta. Chiusa la chiamata torno in cucina e comunico ai ragazzi che vado a casa a preparare un borsone da portare e o a salutare la nonna che non vedo ormai da troppi giorni. Rimaniamo che il giorno dopo alle nove del mattino ano a prendermi. Una volta in casa preparo la borsa mettendo roba completamente a casaccio. Sciacquo la faccia che è tutta chiazzata di rosso e applico un coprente fondotinta, non voglio che la nonna capisca che ho pianto. Sistemo i capelli e parto per la villa. Giunta di fronte l’ingresso l’ansia mi serra la gola e mi fa anche male la pancia. Camminando per il corridoio prego di non incontrarlo. Ripetendo mentalmente la stessa cantilena “Signore ti prego non farmelo incontrare”. Trovo mia nonna nel giardino sul retro, gioca a carte con un’altra signora. «Nonna» la chiamo dolcemente per non farla spaventare. «Caterina, che ci fai qui?» domanda lei, confusa. Gli argini della mia personale diga stanno per distruggersi. Per coronare la giornata di merda mancava solo mia nonna che pensa di vedere mia madre. Respiro profondamente per ricacciare indietro le lacrime. Mi stampo in faccia un sorriso di circostanza e abbraccio mia nonna.

«Sono ata per un saluto, vado via due giorni e volevo assicurarmi che stessi bene» le dico, fingendomi chi non sono. «Oh. Dove andate? Porti anche i bambini? Se vi serve una mano vengo con voi». «Si, porto anche i bambini, non serve che vieni, stai qui e riposati io vengo a trovarti al mio rientro, va bene?» ingoio acqua e sale per evitare che goccioloni giganti facciano capolino dai miei occhi. Respiro un grammo di coraggio e la abbraccio, per oggi, la mia presenza non ha senso. Saluto lei e la signora seduta allo stesso tavolo e mi incammino verso l’uscita. Come sempre succede percepisco prima il suo odore e poi lo vedo, mi dà le spalle quindi non credo si sia accorto di me. È chinato sulle ginocchia e parla con un signore che è in carrozzina. Sentire la sua voce e il suono della risata mi fa venire voglia di abbracciarlo. Lo conosco da tre settimane ma ci sono cose che avvengono senza tempo. Mi manca anche se in realtà non l’ho mai avuto. Il nostro amore, se di amore si parla, è nato a piccoli bocconi. E io adesso vorrei che quei bocconi diventassero un pasto completo, perché nonostante tutto io ho una fame tremenda di lui e di quello che potrebbe essere. Ma per quanto io faccia la dura sono fragile come cera sciolta. Non posso stare con un uomo che non è in grado di dirmi se è mio al cento per cento. Non sto dicendo che lui è l’uomo della mia vita e che ci sposeremo e avremo dei figli. Io non sto cercando il “vissero tutti felici e contenti”. Quello che voglio è averlo completamente e interamente per me per il tempo che avremo a disposizione. Saranno cinque ore o cinque anni non importa. Ma per quel tempo lo voglio solo mio. È lui adesso non lo è.

Capitolo 13

Sono pronta. Ho indossato una comoda tuta nera in cotone e una maglia a maniche corte. C’è caldissimo. Aspetto sul marciapiede i miei amici e ogni tanto mi concedo qualche occhiata verso il balconcino del mio Romeo. Sarà a casa? Mi starà pensando almeno un pochino? Gli manco? Le mie domande non trovano risposta. Una macchina bianca si ferma proprio di fronte a me. «Gallina, andiamo!!!» le urla di Costantino fanno girare mezza via. È proprio uno spudorato! Salgo in macchina baciandoli velocemente. Il tragitto è breve e accompagnato da musica techno davvero brutta. Loro si dimenano forsennati agitando le mani in aria. Io sono accovacciata sul sedile posteriore, non ho chiuso occhio stanotte e nonostante il rumore assordante le mie palpebre si chiudono in fretta. «Svegliaaaaa» vengo svegliata in malo modo dall’unica persona che può permettersi di trattarmi malamente, perché in fondo so quanto mi vuole bene. «Wow» la vista è bellissima. Ci troviamo alle pendici dell’Etna in mezzo a una affollata boscaglia. La vegetazione è fitta e piena di colori. Lo chalet che hanno affittato è piccolo ma grazioso. Una scaletta ci porta sul patio di questa casetta interamente in legno e con il tetto rosso. Sembra una di quelle case che si disegnano da bambini, con due finestrelle e un comignolo che sbuca dall’alto. In inverno, quando la neve riempie ogni spazio, deve essere molto suggestivo. Vicino, ma non troppo, si trovano altre case, sono tutte uguali, sembra un piccolo villaggio per gnomi. L’aria profuma di pini e serenità. È il posto ideale per rilassarsi. Sono leggermente dispiaciuta per aver distrutto la “luna di miele” di Alex e Costa, ma eternamente grata di farne parte. Dentro è ancora più piccola di quello che sembrava dall’esterno. C’è un minuscolo cucinino, un divano di fronte al camino, un bagno e solo una camera da letto. Deduco che il divano tocchi a me. E che diamine non posso lamentarmi! «Si beveeee! Cosa prendi gallina?» chiede quell’impunito di Costantino.

«Del cianuro potrebbe andare bene. Doppio per favore» rispondo, sarcastica. «Mettiamo subito in chiaro una cosa! Questo umore deprimente non lo voglio vedere per le prossime quarantotto ore, altrimenti stanotte ti lascio fuori a farti mangiare dai cinghiali, inteso?». «Costa, non ci sono cinghiali sull’Etna» sbotto, ridendo. «Bè qualche creatura selvaggia che ha bisogno di nutrirsi ci sarà di certo, per cui non farmi fare cose per cui mi sbatterebbero in galera. Sono troppo delicato per la gattabuia!». E questo basta a farmi rotolare dalle risate, ma come accidenti fa? Le scrive la notte? Date subito una medaglia a quest’uomo. «Cosa farei senza di te, Costa?». «Schifo, probabilmente». E niente, lo amo ancora di più. La successiva ora la trascorriamo a sistemare la roba che abbiamo portato e bere una bottiglia di vino che i ragazzi hanno portato da Catania. L’atmosfera è esilarante, cantano Maracaibo a squarciagola e io mi ritrovo fagocitata tra i due in un trenino di “capodanno” coi fiocchi. L’angoscia iniziale lascia il posto a un’allegria contagiosa, non si sa nemmeno più perché si ride. Andiamo in automatico. «Ho fameeee» urlo per farmi sentire. «Dobbiamo scendere al paesello a fare provviste, manca anche l’acqua» dichiara Alex. «L’acqua non serve, solo cibo e vino» decreta Costantino. Non posso che essere d’accordo. Scendiamo al paesino di mille anime, è un bijoux. Troviamo un piccolo supermercato e io metto subito in chiaro una cosa o prendiamo del consolatorio “junk food” o niente. Alex mi ammonisce subito, lui controlla molto la sua alimentazione e non ha intenzione di mangiare cibo spazzatura perché io ho deciso di non volermi bene. E che palle però! Noto a malincuore il carrello pieno di verdurine e pesce. Di nascosto ci infilo

patatine e cioccolata. Costa è perso nel reparto vini. Quando lo recuperiamo restiamo scioccati, il suo concetto di “divertimento” è un po' esagerato. Ha un carello pieno di vino e superalcolici. Alex si arrabbia e i due litigano ferocemente in mezzo agli altri clienti. Provo a interromperli più volte senza riuscirci. Maledetti testoni! La diatriba continua per diverso tempo. Costantino sostiene che nelle mie condizioni devo bere per divertirmi e Alex lo rimprovera dicendo che il coma etilico non è poi così entusiasmante. Allora Costa ribatte che abbiamo ancora trent’anni e che se le stupidaggini non le facciamo adesso non le facciamo più, Alex lo riprende dicendogli che un conto è essere stupidi e un altro essere incoscienti e proprio perché abbiamo trent’anni dovremmo capire la differenza tra l’una e l’altra cosa. Mi sono stancata e dal momento che nessuno sembra accorgersi di me, prendo due bottiglie di vino e le appoggio nel carrello con il mangiare, poso tutte le altre al loro posto e mi avvio alla cassa, pago e mi siedo su una panchina aspettando che si accorgano che sono sparita. «Ma che diavolo hai fatto? A momenti mi prende un infarto! Non puoi sparire così stupida di una gallina!» sbraita Costantino che pare essersi accorto di me. «Ehi! Ho provato a farvi smettere ma non mi avete filata! Adesso andiamo a mangiare che ho la sindrome premestruale e potrei staccarvi la testa con un morso!» annuncio, indemoniata. Che odio il “pre-ciclo” a momenti sono così affamata che potrei mangiare biscotti al cioccolato inzuppati in una scatoletta di tonno e li troverei buonissimi. Per non parlare dell’altalena emotiva. Un minuto sei angelica e quello dopo belzebù. Un incubo. Con fatica rientriamo allo chalet, sarebbe bello accendere il fuoco ma meglio evitare per due motivi. Il primo è che nonostante la montagna, c’è veramente caldo. Il secondo è che tutti e tre messi insieme non facciamo uno buono per cui ci sarebbe il rischio di incendiare tutte cose. Trovo uno stereo e metto una radio locale, Alex e Costa si lanciano occhiatacce al veleno. Il primo si è posizionato ai fornelli, il secondo, come da manuale, stappa una bottiglia di vino.

«Ci sediamo fuori a fare due chiacchiere?» chiedo cauta a Costa. «Certo, prendo due bicchieri e arrivo». Vorrei parlare di me e tutta la situazione ma dal momento che sono stati carini con me non posso essere egoista e fare finta che quello a cui ho appena assistito non sia una litigata da innamorati. «Allora, mi spieghi cosa succede con Alex?». «Non lo sopporto». «Costa non mentirmi, non ti ho mai visto così riottoso in vita mia, so che quando ti comporti con rabbia è per nascondere i tuoi reali sentimenti. Siamo uguali noi due, quindi sputa il rospo!». «Uff… lui mi piace ok? E la cosa mi tramortisce. Cioè mi piace come mi piaceva Nick dei Backstreet Boys e tu ricordi com’ero diventato! È un pensiero continuo, se questo è amore… bè fa schifo!». Cavolo! Vorrei proprio trattenermi ma non ci riesco, scoppio in un eccesso di risa incontrollabile. Ricordo quando aveva preso una cotta stratosferica per il bel cantante. Si comprò ogni genere di cosa: poster, calendario, magliette con la sua faccia… oddio… che ridere… «Sei una cretina patentata!». «Costa perdonami ma non ce l’ho fatta, adesso la smetto, giuro». Mi prendo qualche secondo per ritrovare la forza mentale che mi serve per consolarlo. Ok, ci posso riuscire. «Penso che l’amore è un casino per tutti ma se continuiamo a cercarlo è perché ne vale la pena. Potenzialmente potrebbe essere l’esperienza più bella ma anche la più devastante della tua vita. Non puoi scappare dai legami e anche se ci riuscissi ti troveresti con il cuore vuoto per sempre. Meglio un cuore spezzato che non sentire niente» affermo, dolcemente. «Hai mangiato “Freud” a colazione?». «Dai scemo! Parlo sul serio».

«Lo so, sono terrorizzato. Andrò a parlare con lui… ma prima, vecchia gallina, devi dirmi come stai tu e che hai intenzione di fare?!». «Mi manca… manca tantissimo, ma non posso cercarlo… cadrei ai suoi piedi come una pera cotta e vorrei evitare di svilirmi ancora una volta per un uomo, sento che devo rispettarmi come donna e donarmi a chi mi desidera veramente, a chi mi mette in cima alla lista, sul podio, nel piedistallo, su u…». «Siiii ho capito, dannazione quanto parli! Basta. Deciso. Andrea Caruso per te Miss Italia finisce!». E così concludendo ci sbellichiamo dalle risate. Per pranzo l’aria tra i ragazzi è più distesa, mangiamo un pesce fatto al forno accompagnato da una vellutata di verdure. Alex è un cuoco bravissimo. Si parla di tutto meno che d’amore ma il mio pensiero è sempre lì. Perché non mi chiama? Perché non manda un messaggio? Manifestati per favore! Dopo pranzo chiamo Lucia per aggiornarla sugli ultimi avvenimenti. E mentre le racconto tutto il casino di questi giorni lei mi interrompe per dirmi che con Biagio sono ai ferri corti. Noo! Non ci voleva. Mi racconta che la sera della festa la litigata è stata tosta e che lei è tornata a casa dei sui genitori. Dalla voce e da quello che mi dice capisco che il sentimento è ancora forte ma la cocciutaggine di quel cretino sta mandando tutto all’aria. Saluto Lucia promettendole di farmi risentire presto e soprattutto di vederci quando rientro, e chiamo immediatamente Biagio. «Scricciolo, come prosegue la vacanza?». «Biagio, che cavolo stai facendo?». «Cosa? Non ti seguo». «Ho sentito Lucia, hai davvero intenzione di lasciare andare quella santa donna che ti sopporta?». «Rosa, non sono fatti tuoi». «Lo sono eccome! Tu sei mio fratello e lei è la mia carissima amica che, per la precisione, sta soffrendo maledettamente».

«Sta male? Te l’ha detto lei?». «Si, Biagio. Se non vuoi perderla cerca di fare qualcosa e subito!». «Mh». «Che vuol dire “mh”?». «Che ho capito». «Sveglia caprone! Non la trovi un’altra come lei! Ma cosa vi prende a voi uomini?». «È complicato». «Il prossimo che ripete questa parola lo prendo a sberle. Non c’è niente di complicato. Siete voi che vi rintanate in scuse che, tra l’altro, non reggono. La ami? Bè va a prendertela! E per l’amor di Dio, Biagio, smettila con questa gelosia che non ti porta da nessuna parte, è chiaro?». «Affermativo. Ti voglio bene Ro, quando torni devi spiegarmi cosa stai combinando, e non accetto un no come risposta, promesso?». «Promesso. Ciao fratellone». Faccio un’altra veloce chiamata a mia madre per dirle che va tutto bene e ringraziarla per la disponibilità che ultimamente mi concede. Poi scorro la rubrica mi soffermo su “dottore sexy” – si lo so è banale ma io memorizzo tutti con un soprannome, ad esempio Costantino è “sgualdrinella”, Lucia è “tenerona”, mia madre è “boss” e poi basta altrimenti vi elenco tutta la rubrica – e valuto il da farsi. Lo chiamo o non lo chiamo? È meglio essere ridondante o indifferente? Perché tutti insegnano che “in amore vince chi fugge” ma se poi fuggo troppo e lui si dimentica di me alla fine perdo io. Ok. Calma. Sono qui per un motivo preciso ed è non pensare, quindi rientro in casa e rimando le paranoie a quando sarò nella mia alcova libera di struggermi. Il pomeriggio prosegue armonico tra un bicchiere di vino e, non uno ma ben due film pallosissimi degli anni Sessanta. Alex a quanto pare è patito di vecchi film, io non li posso soffrire però taccio. In serata i ragazzi decidono di uscire, io resto

in casetta a guardare finalmente un film a colori. Prendo di nuovo il telefono, poi lo poso. Poi lo riprendo e lo riposo. Un loop infinito che dura almeno dieci minuti. Non posso farcela devo mandargli un messaggio. Saluto la mia reputazione e la ringrazio per esserci stata. Digito un messaggio chilometrico poi lo cancello, ne scrivo un altro e cancello pure quello. Ma allora ho dei problemi seri! Bene. Mi sono già rotta le scatole, indecisa su cosa scrivere alla fine invio un sentito e conciso: “Mi manchi”. Pessima mossa. L’aver mandato il messaggio mi costringe a guardare il telefono ogni due secondi. Perché il tempo a così lento? Uffa… leggilo, leggilo, leggilo… e pregando in continuazione che risponda, mi addormento.

Capitolo 14

Mi sveglio sentendo ansimare… ma che ore sono? Avrò lasciato la tv accesa e starà ando un film porno. Sicuro! Mi sollevo e mi rendo conto di due bruttissime cose. La prima che è mattina, la televisione è spenta quindi i gemiti che ascolto sono per forza di quei due svergognati. La seconda è che guardando il telefono non trovo nessuna risposta. Mi si allarga inesorabilmente il magone allo stomaco. Veloce come un fulmine prendo un jeans, una maglia, le converse e mi fiondo in bagno. Mi lavo la faccia, indosso i vestiti e mi avvio all’uscita. Non ho intenzione di are la mattinata a sentire quei due a… a fare quello che fanno. «Maiali, io esco» nessuna risposta, certo. Pensavo di scendere al paesello ma ci ripenso e provo a salire, il sentiero è ripido ma fattibile. L’unica mia paura nell’essere sola in mezzo al nulla sono le bestie di satana, ovvero gli insetti. Aborro ogni minuscola o meno creatura di Dio dotata di ali e zampette corte. Mentre penso in quale modo fuggire se vengo attaccata da una bestiolina suona il telefono. Guardo lo schermo e il cuore mi sale in gola. Premo il tasto verde per avviare la chiamata ma non parlo. Nemmeno lui. Lo sento sospirare, sembra voglia dire qualcosa ma poi si ferma. «Manchi anche tu» asserisce, infine. «Perché non mi hai cercato?» domando, cauta. «Non potevo. Ho preso altre due settimane di ferie, sono a Messina». «Perché?» chiedo, nervosa. «Rosa… sono a Messina con la mia ex moglie, lei abita qui». «Allora perché mi chiami? Perché mi dici che ti manco? Cosa vuoi da me? Lasciami andare Andrea, dimmi che vuoi stare con lei e io prima o poi smetterò di impazzire».

«Rosa ti prego, non fare così. So che la situazione è difficile e io in questo momento non posso spiegarti ma devi fidarti di me. Non faccio altro che pensarti… mi manchi da morire e continuo a pensare al giorno in cui abbiamo fatto l’amore e a quanta paura ho di perderti. Quello che è nato tra noi mi ha sorpreso, è stato repentino e inaspettato e fare i conti con questa cosa non è facile. Vorrei poterti spiegare di più ma davvero non posso». Sospiro cercando di metabolizzare ciò che ho appena sentito, mi sento appagata dalle sue affermazioni, sapere che anche lui prova qualcosa per me mi manda in estasi, pensare che c’è un motivo a me sconosciuto che non ci permette di stare insieme mi inquieta. «Cosa devo fare, Andrea? Devo aspettare che tu faccia non so cosa per un tempo indefinito? Devo mangiarmi le mani ogni benedetto giorno pensando che vuoi fare l’amore con me ma dividi il letto con lei?». «Non divido il letto con nessuno. Ho solo bisogno di tempo per sistemare alcune cose e vorrei che tu trovassi la pazienza di aspettare perché so che potremo stare insieme ed essere felici. Dimmi che mi aspetterai, Rosa» la sua voce è carica di disperazione. «Ti aspetterò, perché questo tamburo che mi trovo nel petto non batte se non ci sei tu». «Sei meravigliosa, a presto piccola». «A presto». Non credo che lui mi ami come lo amo io, si perché lo amo, dannazione! È un’illuminazione recente che trova conferme nella conversazione appena avuta. Sono una donna tendenzialmente iraconda, abbassare la cresta non è una cosa che mi concedo facilmente, lo faccio solo con le persone che amo più al mondo, la mia famiglia e i due amici onnipresenti. Se l’amore che provo per lui non fosse così forte come adesso gli avrei urlato contro dicendogli che io non aspetto nessuno. Che alcuno può lasciarmi indietro e mettermi al secondo posto, perché mi amo troppo per vedermi soffrire. Ma l’essere stata così accondiscendente con lui non può che essere frutto di un trasporto esagerato figlio dell’incoscienza. Perché è da incoscienti che si può amare qualcuno. Due anni fa Alfio mi ha portato a fare tandem in paracadute, ero eccitatissima. Una volta salita su quel piccolo elicottero privo di sportello è scaturito il panico, guardare giù è stato

agghiacciante. Ho scrutato mio fratello e gli ho detto che avevo troppa paura, non potevo farlo. Lui mi ha abbracciata e mi ha detto “abbi fede”, poi ci siamo lanciati nel vuoto ed è stata una delle esperienze più belle della mia vita. Quindi credo che amare sia un atto di fede, ti lasci scivolare nel vuoto nella speranza che qualcuno ti prenda. Ritorno in casa nell’aspettativa che i porci abbiano finito di copulare. Vorrei poter vomitare ogni singola parola della telefonata con Andrea ma al momento le parole stanno a zero e voglia di sentire i consigli degli altri ora non ne ho. «Gallina, dove sei stata?». «Costa dovevo uscire altrimenti mi sarebbero venuti i conati. Lo sai che strilli come un’attrice porno sottopagata? Non devi per forza elencare tutto l’alfabeto quando godi. Sei pessimo». «Senti tu! Io godo come meglio credo, poi se non dà fastidio a lui… non ti dà fastidio, vero?» domanda Costantino ad Alex. «Bè in effetti gracchi come una rana in calore… ma va bene così, mi piaci anche per questo» ammette Alex. «Perché tu sai come gracchiano le rane quando sono in calore? Non ti facevo etologo» sbuffa Costa. «Andiamo, non fare così… sai che scherzo» poi lo abbraccia e gli dona un casto bacio sulle labbra. L’invidia, per questo gesto tanto banale quanto sentito, mi sgretola il cuore. Quanto vorrei che Andrea fosse qui. Decidiamo di prendere la macchina e spostarci a Zafferana Etnea dove sappiamo ci sarà una festa di paese con tanto di bancarelle. Giunti in loco eggiamo tra i viottoli del centro, ci immergiamo nel corridoio di bancarelle che vendono ogni tipo di ammennicolo, vorrei comprare ogni cosa ma Costantino frena la mia voglia di spendere continuamente. «Lo zucchero filatooo… lo voglio!» dico battendo le mani. Non lo mangio da almeno dieci anni. «No. Diventi grassa» comunica Costa.

«Ma non è vero! Dai… dai… compriamo lo zucchero, per favore» piagnucolo. «Uffa, sei una scocciatura… compriamo questo dannatissimo bastoncino ostruisci arterie!». «Sei palloso». «E tu sei una bambina! Forza sbrigati che voglio andare a mangiare qualcosa, ho visto una trattoria carinissima all’inizio del paese». Mangio felice la mia nuvoletta di aspartame ascoltando i discorsi di Alex che sono senza dubbio più “adulti” di quelli di Costa. Ci racconta che ha una casa a Cefalù, comprata l’anno precedente. Possiede un tabacchino che gli offre la possibilità di vivere senza il pensiero di non arrivare a fine mese. Ha una sorella più grande che adora e due nipoti, che vorrebbe presentarci, di quattro e sette anni. I suoi genitori sono anziani ma nonostante tutto non hanno avuto problemi ad accettare la sua omosessualità, mostrandosi molto più aperti dei genitori di Costantino che invece sono molto giovani. Mi perdo tra i banchi di roba e trovo un orsetto con uno stetoscopio attaccato al collo, inutile dire chi mi ricorda e perché, anche se in linea di massima non credo che un neurologo lo usi con frequenza. Non è importante, mi ricorda lui e stabilisco di acquistarlo per regalarlo ad Andrea non appena lo vedrò. A ora di pranzo ci fermiamo alla trattoria che aveva visto Costa ma il mio stomaco si è chiuso. Prendo solo una tristissima insalata e un bicchiere di vino locale. Guardo diverse volte il telefono. Niente. La eggiata continua anche nel pomeriggio, ci scattiamo una marea di foto stupide e facciamo anche un giro di autoscontro. Finito il giro ci incamminiamo, doloranti, verso lo chalet. Mamma mia andare sulle giostre a trent’anni è deleterio, mi fa male la schiena, le costole e il collo. Un incidente d’auto avrebbe fatto meno danni. Prepariamo i borsoni, pronti, si fa per dire, per tornare a casa. Il tragitto di ritorno è silenzioso, ognuno assorto nel proprio disordine personale. Sotto casa mia inevitabilmente sollevo lo sguardo verso il suo balcone. È tutto chiuso e spento. Come me. «Ragazzi grazie, è stato bello… Costa io e te ci sentiamo e Alex non sparire ok? Lo dico per la mia sanità mentale altrimenti a quello chi lo sente!». Ci facciamo una sonora risata e mi immergo nella quotidianità del piccolo mini-

loft.

Capitolo 15

Suona la sveglia, sono le cinque. Bentornata all’inferno. Mi era mancato tutto questo. Il telefono segnala un messaggio.

ANDREA: Stanotte ti ho sognata, ti lascio immaginare le condizioni in cui mi sono svegliato. Piccola seduttrice… cosa mi hai fatto? Manchi.

Siiii… salto sul letto raggiante. Gli manco, mi ha sognata… oh cielo! Ho le caldane. Digito veloce una risposta.

IO: Manchi tu. Torna da me.

Lo smartphone squilla subito dopo l’invio. È lui… è luiii!!! «Ma ciao» sospiro, mielosa. «Ciao a te, stai andando al lavoro?» ridacchia, divertito. «Quasi… tu perché sveglio a quest’ora?». «Insonnia… alla mia età succede». «Sei un vecchietto ormai… sai da trentotto a quaranta è un soffio» ridacchio. «Ehi! Non c’è niente da ridere. La prossima volta che ci vediamo ti sculaccio. E no. Non sto scherzando. Cosa prevede la tua giornata?» domanda fintamente scocciato.

«Vorrei che prevedesse te a colazione, te a pranzo e te a cena ma tu hai deciso di farti desiderare… quindi vado al lavoro e poi vedo un’amica». «Adoro quando sei dolce e remissiva. Per quanto riguarda la tua amica, signorina, vedi di non ubriacarti. Sappiamo entrambi cosa succede quando bevi e adesso che sei nella mia vita qualsiasi uomo ha il divieto assoluto di sfiorarti, intesi?» chiede astioso. «Si signore! Starò tutto il giorno a pensare a te, lo sai vero?». «Lo so, piccola. Adesso devo andare, ti chiamo più tardi… e mi raccomando fai la brava, ciao». «Ciao». Mi sovviene una malsana idea di prendere il primo autobus disponibile e raggiungerlo a Messina. Sto agognando un suo bacio da troppo tempo, l’astinenza cuoce i miei nervi a fuoco lento. Mi dedico alla preparazione e, una volta a destinazione, si ricomincia. «Buongiorno, Famiglia!». «Nica, oggi sei di buon umore… qualcosa da dichiarare?» chiede mamma. «No. Solo che oggi sono felice». «Mmh. Facciamo finta che non sono interessata… quando ti si scioglie la lingua devi raccontarmi tutto» conclude. Saluto velocemente mio padre che è sempre di poche parole. Mi dirigo spedita verso Biagio e lo strattono. «Allora?» domando, funesta. «Uffa… stiamo trattando, ok?» risponde, piccato. «Biagio, che vuol dire?». «Che lei vuole uscire con le sue amiche tutti i fine settimana, io non sono d’accordo e stiamo cercando di venirci incontro».

«Biagio, non essere sciocco e lascia che esca e si diverta, non fa niente di male e la maggior parte di quelle uscite le fa con me, puoi stare sereno». «Secondo te, mi lascia?». «Se continui così le probabilità sono alte, fratellone». «L’amore è una fregatura» sbuffa. «Lo so». È vero, l’amore è una fregatura e non è previsto il rimborso. Quello che puoi fare è prendere tutte le paure e chiuderle in un cassetto, vicino a quello dei sogni, e sperare che restino lì a marcire mentre i sogni a germogliare, ma chissà perché accade sempre il contrario. I sogni puzzano di muffa e le paure esplodono dal cassetto e ci tramortiscono. Ripeto. È una fregatura. In men che non si dica la giornata lavorativa è terminata. Andrea non si è fatto sentire; le paranoie, invece, urlano a gran voce. Lucia mi raggiunge al panificio, facciamo una camminata e ci accomodiamo in un bar di Piazza Stesicoro. «Come stai?» chiedo cauta alla tenerona. «Bene. Chiariamo subito che non sono qui per parlare di Biagio, bensì per sapere come procede tra te e il dottore». «La verità? Non lo so. Cioè… io sono già partita per la tangente, sono in fase innamoramento cronico senza via d’uscita. Lui è incomprensibile. Stamattina ha chiamato ed è stato una tempesta di miele. Dolcissimo e tenero. Mi ha detto che si sarebbe manifestato in qualche modo e invece… non so come interpretare questo umore borderline che possiede» spiego, immusonita. «Ma della moglie che dice?» chiede lei, incuriosita. «Top secret. Non possiamo discuterne, non vuole. Dice solo che non la ama, che pensa solo a me… che non vede l’ora di vedermi ma infine sta con lei adesso… non so che pensare».

«Posso essere onesta? Questa storia mi puzza. Ti ricordi, Carlo, il mio ex? Sembrava innamorato perso e dopo un anno… un cazzo di anno Rosa, ho scoperto che era fidanzato con un’altra prima ancora di conoscere me. Io ero l’amante senza saperlo. Ora, a noi chi ci dice che lui non stia facendo lo stesso gioco?» domanda, incattivita. «Lu, io lo sento al telefono, vedo come mi guarda… non posso credere che sia una menzogna». «Rosa apri gli occhi santo cielo! Lui ti ha mentito ancora prima di conoscerti. Perché non ti ha detto subito che stava divorziando? Ti ricordo che lo hai scoperto solo grazie ad Alfio. Se non fosse stato per lui, vivresti ancora all’oscuro» sbotta, livida. «Non ci avevo riflettuto. Oh. Mio. Dio. Sono una stupida. È vero, lui ha iniziato a mentire ancora prima, e poi perché non dirmi che cavolo sta combinando a Messina con sua moglie?!» mi cadono le braccia a terra. «Rosa, generalmente io ti sprono sempre a fare nuove conoscenze e buttarti nelle cose ma… adesso credo non sia la cosa giusta. La sincerità prima di ogni cosa. Lo sai, è il primo comandamento delle regole relazionali». Il caffè appena preso è indigesto. Ordino una caipirinha alla fragola. Se stare dietro Andrea mi fa bere così tanto a fine anno mi verrà la cirrosi epatica. «Cosa devo fare ora?» domando, singhiozzando. «Non piangere, Ro, non serve. Io sono per la terapia d’urto, non chiamare, non inviare messaggi e ovviamente non rispondere. Lascia che lui si tramortisca il cervello per capire cosa è cambiato. Se ci tiene anche solo una mollichina di pane, tornerà per dimostrarlo» dice, risoluta. «E se non torna?» piagnucolo. «Se non torna, festeggia. Ti sei salvata in corner». È davvero così? Ti salva scoprire una menzogna? Non è forse meglio vivere nell’ignoranza, nell’inconsapevolezza? Bè io credo di si, altrimenti adesso non starei così male.

Non reggo la tensione e lo stress, saluto Lucia e torno a casa. A dispetto di ciò che mi ha detto la mia amica, chiamo Andrea perché devo sapere. Il telefono squilla diverse volte poi cade la linea. Riprovo. Stesso risultato. Mi butto sul letto esasperata ma fortunatamente lui richiama. «Ciao, piccola». «Ciao». Non riesco a parlare, trattengo un singhiozzo ma scappa un gemito. «Rosa, stai bene?» domanda, preoccupato. «Andrea… non posso vivere nel silenzio, è più forte di me. Non andremo avanti in questa storia se non mi dici per filo e per segno cosa stai facendo». «Piccola, quando torno ne parliamo». «No, Andrea. O parli adesso o abbiamo chiuso». Diversi secondi di mutismo mi fanno temere il peggio. «… mia moglie, Anna, è incinta». «Lei… tu… cosa… è tuo?». «Piccola… non lo so. Sono qui per questo. Stiamo aspettando i risultati, dovrebbero arrivare a giorni». «Come può essere tuo se cerchi il divorzio da un anno? Non ti aveva tradito?». «Devo raccontarti tutta la storia. Un anno fa ho scoperto nel peggiore dei modi che mia moglie mi tradiva con un collega. Le cose tra noi non andavano bene già da diverso tempo, per la precisione da quando io fui trasferito a Catania. Scoprirlo è stato rassicurante, avevo trovato una scusa per lasciarla e non sentirmi in colpa. Ho chiesto il divorzio ma lei non ha mai firmato i documenti perché la relazione extraconiugale è stata breve. Ha cercato più volte di convincermi a stare insieme, riprendere il matrimonio, ma io non ne volevo sapere. Non posso negare che le volte in cui ci siamo visti per le carte siamo stati insieme ma per me non c’era più il trasporto emotivo, era solo un bisogno fisico.

Tra l’altro io sapevo, da amici in comune, che lei si dava alla pazza gioia, ma nemmeno mi importava. Quando la scorsa volta sono stato a Messina mi ha detto che era incinta e che non aveva la certezza sulla paternità. Abbiamo litigato ed è per questo che sono tornato prima. Ora sono qui e sto solo aspettando i risultati e poi torno da te, Rosa». «Quando siete stati insieme l’ultima volta?» ruggisco. «Rosa…». «Dimmelo! Quando avete scopato l’ultima volta?» urlo, isterica. «Due settimane fa». «Sei un mostro… la sera che sei tornato da Messina e mi hai vista baciare quel ragazzo sotto casa mia, hai avuto il coraggio di farmi sentire sporca e sbagliata quando tu avevi appena avuto un amplesso con tua moglie?!! Mi fai schifo. E mi fa schifo sapervi insieme adesso. Ma del resto tra persone di merda ci si merita. È la tua degna compagna. Non divorziare». Scaglio il telefono, contro il muro, che si frantuma in mille pezzi. Mattono la muraglia che circonda il mio cuore, aggiungendo file interminabili di cemento. Chiudo ufficialmente ogni spiraglio esistente. Da qui non si a più.

Capitolo 16

Incessanti conati di vomito mi hanno tenuta sveglia stanotte. È servito per organizzare i prossimi mesi della mia vita. Devo cambiare tutto quello che non va e ritrovare l’equilibrio che ho perso in questo periodo. Per prima cosa mi preparo di corsa per uscire. Mi reco in un centro per comprare un telefono nuovo e una Sim Card con un diverso numero. Ritorno in casa e contatto il proprietario del monolocale. Disdico l’affitto e comunico che entro un paio di giorni la casa sarà libera. Chiamo Alex e gli domando se può affittarmi la casa a Cefalù per un po' di tempo. A condizione che l’affitto me lo faccia pagare sul serio. Sento in ordine Costantino e Lucia spiegando i motivi della mia partenza e ribadendo che non voglio essere cercata. Quando sarò pronta mi farò sentire io. Non sono contenti ma non fanno storie. Poi è la volta di Alfio, litighiamo parecchio, non vuole che vada ma non posso restare. O così o l’esaurimento. Alla fine, vinco io. Ritorno in strada e avvicino al panificio. Parlo con mamma, papà e Biagio, ennesima lite, anche peggiore della precedente. Mi licenzio è insindacabile. Non ho mai scelto davvero quello che volevo e prima che sia troppo tardi vorrei darmi un’opportunità. Tutti questi anni a lavorare al panificio mi hanno permesso di mettere una discreta somma da parte che adesso servirà per pagare casa di Alex e permettermi di trovare un lavoretto con calma. Gli fornisco i numeri e l’indirizzo a cui possono trovarmi e senza troppe storie ritorno a casa. Preparo le valigie, più due sacchi di roba da buttare, orsacchiotto con lo stetoscopio compreso. All’improvviso un lampo di lucidità mi porta a uscire per l’ennesima volta. Devo ancora scusarmi con Mauro, non voglio partire con situazioni in sospeso. Ritorno in via Etnea e raggiungo il negozio di videogiochi. «Ehilà, ciao Mauro». «Rosa, ma dove ti eri cacciata?». «Ti devo delle scuse, la sera della festa ti ho abbandonato. Mi dispiace

tantissimo». «Ehi, fa niente. È tutto ok. Allora sei qui per chiedermi un appuntamento?». «No, Mauro, sono qui per salutarti. Vado via per un po' e sentivo di doverti vedere, stammi bene ragazzino». «Aspetta, non vuoi darmi nemmeno il tuo numero di telefono?». «Meglio di no». Lo saluto con un cenno della mano e prendo un autobus che mi porta in via Santa Sofia al tabacchino di Alex. Mi precipito dentro il negozio e lo adocchio immediatamente. «Alex…ciao, scusa se piombo così ma avrei bisogno di parlarti». «Ciao Rosa, che bello vederti, vieni, andiamo in magazzino» mi fa cenno di seguirlo e finiamo in una stanza piena di scatoloni, mi adagio su un tavolino e giocherello con le mani nervosamente. Lui non parla al che deduco debba farlo io. «Volevo ringraziarti per la possibilità che mi stai dando e anticiparti i soldi per i prossimi tre mesi…» «Rosa, non serve, davvero…» «No Alex, o prendi i soldi o lasciamo perdere. Per favore, è importante per me. Volevo anche dirti di prenderti cura di Costantino, lui è una persona con un cuore enorme ma non è in grado di gestire una relazione e se dovesse scappare, ti prego, va a prenderlo. So quanto tiene a te ma sa essere davvero stupido e potrebbe commettere qualche errore. Ti dico questo perché mi piaci e penso che tu sia la persona giusta per lui». «Lo farò, Rosa, non dubitare. Vuoi dirmi qualcos’altro?». «Si. Se Andrea dovesse in qualche modo mettersi in contatto con voi, vorrei che nessuno gli dicesse dove sono e perché. L’ho già detto a tutti ma voglio essere sicura che sia così. Domattina o da casa tua a prendere le chiavi e se riesco vado in giornata, ho visto un autobus che parte alle diciassette, conto di prendere quello».

«Va bene, Ro, ma non sparire». «Tranquillo, sai dove trovarmi… ciao Alex». La mattinata è stata frenetica ho fatto tante di quelle cose che a ora di pranzo sono esausta ma non posso partire domani senza are a salutare nonna. Sapere che Andrea si trova a Messina mi incoraggia, posso andare alla villa senza incappare nella sua persona. Prendo ancora una volta un autobus, se avessi immaginato di fare tanti spostamenti avrei preso il motorino, la verità è che scombussolata come sono e reduce da una notte insonne non mi sento particolarmente lucida. Arrivo in villa e saluto Sandra, mi dice che nonna oggi ha mal di testa e quindi la trovo nella sua stanza al secondo piano. Salgo i gradini sperando che per questa volta mi riconosca. Se dovesse farlo devo subito dirle come stanno le cose perché potrebbe perdere in fretta lucidità e non voglio andarmene senza farle sapere che per un po' non mi vedrà. È stupido lo so, perché in ogni caso questo ricordo verrà spazzato via comunque nel giro di poco. È per me che lo faccio, per la mia coscienza. Apro piano la porta della sua stanza, è parzialmente sdraiata a letto, indossa la camicia da notte da battaglia, quel capo avrà almeno trent’anni. Guarda una soap-opera argentina, credo. «Nonna?». «Rosa, vituzza mia, che ci fai qui?». «Volevo salutarti, nonna… vado a Cefalù per un periodo, ho lasciato il lavoro al panificio e…». «Cos’è successo, Rosa?». «Nonna io… è… non so che dirti, credo di aver solo bisogno di cambiare aria». «Bambina mia, i problemi non si risolvono scappando». «Non sto scappando, mi sto prendendo una pausa». «Mh. È per un uomo che te ne vai?». «Io… no…si…forse?».

«Rosa. Non lasciare che un uomo stravolga la tua vita. Il tuo lavoro, la tua famiglia, i tuoi amici, tutta la tua vita è qui. Cosa farai a Cefalù da sola?». «Troverò un nuovo lavoro e mi farò dei nuovi amici. E poi non starò via per sempre. Solo quanto basta per stare bene». «Cosa ha fatto quest’uomo per far si che la mia picciridda corra in un’altra città?». «Niente nonna, non voglio parlarne. Posso guardare la tv con te?». «Ma certo amore, vieni qui». Mi accoccolo tra le braccia di nonna e mi sento di nuovo bambina. La stanchezza prende il sopravvento e mi addormento cullata da una dolce nenia. «Bestiolina? Ehi, sveglia». «Chi…cosa… oh, Alfio… che ci fai qui?». «Ha chiamato Sandra. Nonna pensava fossi la mamma e ha fatto chiamare papà, solo che papà è al baretto con gli amici e ha chiamato me». «Cavolo, che ore sono?». «Tardi. Ti porto a casa». Saluto nonna, la abbraccio calorosamente consapevole che mi mancherà da morire e con il rischio di trovarla in condizioni peggiori quando e se deciderò di rientrare. Io e Alfio ci tuffiamo in macchina ma nessuno dei due osa parlare, quando ci siamo sentiti stamane e gli ho raccontato tutta la storia con Andrea ha fatto il diavolo a quattro. Voleva partire per Messina e andare a spaccargli la faccia, devo ammettere che ci ho pensato, chi non lo avrebbe fatto? Poi però l’ho fatto ragionare, Andrea si è comportato male con me, questo non fa di lui una brutta persona. Sotto casa mia mi giro per salutarlo ma vuole salire a prendere tutta la roba che, per ovvi motivi, non porterò con me. «Vuoi un bicchiere di vino?» domando a mio fratello che si guarda intorno accigliato.

«Si. Grazie». «Alfio, non fare così» rimprovero. «Non sto facendo niente». «Appunto! Parlami, Alfio, perché lo so che ti stai trattenendo». «Cosa vuoi che ti dica? Avresti dovuto dirmelo, io sono tuo fratello!». «Ancora? Alfio io non posso parlarti degli uomini con cui esco perché li spaventi». «Sciocchezze! Vedi cosa succede quando non mi parli? Hai frequentato la persona sbagliata e adesso per colpa sua te ne vai, non lo sopporto!» sbraita. «Non vado via per colpa sua. Vado via perché mi sono rotta le scatole di stare qui, di svegliarmi alle cinque tutte le mattine, di frequentare sempre le stesse persone e sì anche perché non voglio vederlo, e ti ricordo che oltre a essere il dottore di nonna è anche mio vicino di casa» tuono, impazzita. «Lo vedi che vai via per lui? Appena lo vedo giuro lo pesto!». «No, Alfio. Se lo sfiori con me hai chiuso». «Perché lo difendi?» urla sbattendo i pugni sul tavolo. «Perché lo amo!» singhiozzo. «Come puoi? Cazzo, Rosa!». «Non puoi capire, Alfio, non ti sei mai innamorato. Fino a quando non ti schianterai contro un sentimento così destabilizzante non puoi parlare» tiro su col naso e mi appoggio al petto solido di mio fratello, lui mi abbraccia e bacia la fronte. Odio essere arrabbiata con lui. «Mi vuoi meno bene?» domando, imbronciata. «Impossibile. Lascia che ti accompagni io a Cefalù domani». «No. Voglio andare sola, ma grazie».

Alfio prende tutte le mie cose da caricare in macchina, la televisione, lo stereo e poche altre cose. Il monolocale era stato ammobiliato dal proprietario, quindi di mio c’era davvero poco. Mi dice che porterà tutto a casa sua nell’attesa del mio ritorno. Ci salutiamo calorosamente perché domani non avrò il tempo di farlo. Mi promette di venirmi a trovare spesso. Io gli prometto di stare attenta e di rientrare se la nostalgia prende il sopravvento. Quando resto sola riprendo la vecchia scheda del telefono, la tentazione di attivarla per vedere se Andrea mi ha cercato è tantissima ma dopo alcuni minuti di indecisione decido di non farlo. Anche se lui mi avesse cercata non cambierebbe la situazione per cui non vedo perché farsi altro male. Anche se è ancora presto mi metto a letto sperando di riposare perché la giornata di domani sarà tosta e voglio essere in forze.

Capitolo 17

L’arrivo a Cefalù è spettacolare, mi accoglie un tramonto rosa che sfiora il mare. La casa di Alex si trova all’inizio di Via Carlo Ortolani di Bordonaro. Dall’esterno la palazzina sembra vecchia, quasi fatiscente. Prendo il mazzo di chiavi di Alex e apro il portone con cautela. Di fronte a me una scalinata infinta. Ma perché non ci sono mai gli ascensori quando servono? Arrivo più morta che viva al terzo e ultimo piano, non tanto per le scale quanto per le valigie che ho dovuto trascinarmi dietro. Una volta entrata in casa resto stupita dalla modernità dell’ambiente. È un openspace gigantesco. Cucina, salotto e camera da letto si trovano in un'unica stanza separati tatticamente. L’ingresso separa la cucina con una grande libreria in legno pitturata di rosso. La camera da letto è divisa da un separé in carta di riso su cui è disegnata una geisha. L’armadio non esiste, bensì consiste in un doppio stender. La cucina è piccola ma accogliente in mattonelle di maiolica blu e bianche. La cosa veramente sorprendente è una terrazza a tasca che affaccia sul mare terso e chiaro della città, in cui è ubicato un salottino in vimini composto da divano, due poltrone e un tavolino. Meraviglioso. Sistemo la mia poca roba e mi sento già a casa. Il profumo di salsedine risale forte dal mare, non è l’unico odore presente. Sotto il palazzo, sugli scogli, una struttura in legno a erella agevola un ristorantino di pesce. Molto probabilmente sarà il luogo in cui cenerò stasera, considerando che non ho tempo di fare la spesa. Mi reco in bagno, non lo avevo ancora visionato. Non è particolarmente grande, anzi, sembrerebbe un comunissimo bagno se non fosse che di fronte a me – sotto la finestra – si trova in tutta la sua eleganza una vasca in ghisa bianca con interno laccato e piedini di leone in ottone lucido. Un sogno. Sembra la vasca di una principessa. Non c’è la doccia e potrebbe essere mezzo problema. Ma accidenti non posso lamentarmi. Riempio la vasca con acqua tiepida, trovo dei graziosi sali da bagno rosa. Almeno credo lo siano, sono duri e a forma di cuoricino. A che altro servirebbero altrimenti? Li immergo in acqua e in men che non si dica formano una schiuma color big bubble. Sconcertante. Mi spoglio e mi lascio andare al calore e al profumo di mare e fragole. La finestra sopra la vasca è socchiusa e sento il garrito dei gabbiani, il sottofondo

musicale perfetto per questo nuovo inizio. Ricevo tre chiamate nel giro di venti minuti. Qualcuno aveva detto “rilassarsi”? In ordine: mia madre che dopo le domande di routine - “come stai?”, “cosa fai?”, “hai mangiato?” - mi ha asfissiata dicendomi di chiudere porte e finestre, non fidarmi di nessuno, uscire solo di giorno e prendere il primo autobus disponibile se penso di essere in pericolo. Neanche fossi partita per una destinazione di guerra. Mah! Lucia che mi ha raccontato di Biagio, del fatto che ci stanno riprovando e che probabilmente verranno a trovarmi un fine settimana. È stata carina a non chiedermi niente di troppo personale o inerente al quella persona lì, si quella che non voglio nominare. In ultimo Costantino che era a casa di Alex. Mi hanno domandato se la casa mi fosse piaciuta e se c’era tutto quello che potesse servirmi. Anche loro eranno a trovarmi presto. Avrei voluto chiamare Alfio ma lui è l’unico che sicuramente mi parlerebbe di cose che non voglio sapere, sentire, ascoltare. Dopo mezzora ammollo penso sia arrivato il momento di sciacquarmi e asciugarmi anche perché va detto, la vasca è bellissima ma porca miseria che mal di schiena! Faccio una coda e indosso un vestitino rosso e le mie converse da battaglia. Un filo invisibile di trucco e una spruzzata di profumo all’Iris. Sono pronta. Arrivo nel ristorante sotto casa e chiedo un posto per una persona sola. Mi viene offerto un tavolo in fondo alla erella, sulla destra, vicino il parapetto di legno, è un’ottima posizione per restare lontana da occhi indiscreti ma allo stesso tempo io posso vedere tutta la sala. Raramente mangio al ristorante da sola, mi mette tristezza. Ma immagino che, per le prossime settimane o addirittura mesi, dovrò farmene una ragione. Ordino un fritto misto di pesce e una bottiglia di Virà Catarratto bianco, proveniente da vigneti situati tra le campagne di Gratteri e Cefalù. Sono sempre stata dell’idea che ovunque ti trovi la cosa giusta da bere è sempre il vino del posto, e che una bottiglia è sempre meglio di un bicchiere.

Mentre aspetto che venga servita la cena mi guardo attorno e immagino le vite delle persone intorno a me. Lo avete mai fatto questo gioco? Io e Costa sempre. Lo chiamiamo “dimmi cosa”, inteso come “dimmi cosa fanno, chi sono, come si sono conosciuti e quant’altro”. Le prime persone che prendo di mira sono una coppietta, credo ventenni, lei bionda super truccata ma dall’espressione dolcissima. Porta un vestito molto corto e aderente e due tacchi altissimi che solo a guardarli mi si spezza la caviglia. È decisamente molto presa da lui, si percepisce dalla postura in avanti rivolta verso l’uomo, le mani che giocherellano con i capelli, i denti che mordono il labbro inferiore. Sicuramente è un primo incontro. Lui è il classico spaccone. Forse qualche anno in più di lei. Palestratissimo, capelli rasati t-shirt aderente per mostrare due pettorali solidi e corposi. La prossemica anche in questo caso è fondamentale. Sta appoggiato allo schienale della sedia, gambe divaricate e occhi che fissano esclusivamente il seno della poverina. È chiaro che il suo interesse di stasera è esclusivamente sessuale. Mi rammarico per lei ma o oltre. Intanto mi arriva il mezzo chilo di pesce fritto e il vino. Finalmente. Tre persone. Lei porta un caschetto corto mosso, castano chiaro. Una camicetta smanicata celeste abbottonata fino al collo. Un pantalone blu dal taglio maschile e sandali bassi. Parla con un bambino, penso abbia sette anni e immagino sia il figlio. Il bambino gesticola e le mostra qualcosa su un apparecchio elettronico. È biondino e magrolino. Lui ha capelli chiari come quelli del piccolo, una leggera pancetta che sbuca da una camicia a righe bianca e celeste, su un jeans chiaro. È dichiaratamente annoiato e lo dimostra scrivendo al telefono e ignorando deliberatamente la moglie e il figlio. Immagino abbia un amante, giovane, bella, fresca e senza vincoli. Il loro rapporto regge solo grazie a quell’essere meraviglioso che non sa di essere il collante di un rapporto in crisi. Di fronte a me un uomo, solo anche lui, avrà quarant’anni. Capelli neri, mossi, carnagione scura, mulatta direi. Vive qui ma non è del posto. Camicia bianca arrotolata su avambracci possenti. Non vedo il pantalone ma intravedo le scarpe, sembrano di pelle color caramello. Legge un libro. Adesso muoio dalla curiosità di saperne il titolo e l’autore. Tra tutti è senza dubbio il più interessante. Non porta anelli, potrebbe non essere sposato, ma non vuol dire niente. Incarna un avvocato, uno di quelli che crede ancora nella giustizia e nella ricerca del vero. Onesto e pulito, mi piace. Mi piace il fatto che sia solo, ben vestito e stia leggendo con tanta determinazione, quello che accade intorno a lui non sembra importare.

Immagino per lui un nome forte e sincero tipo Ismael. Mi ci vedo con un tipo del genere, un uomo forte, deciso. Uno di quelli che sa quello che vuole e va a prenderselo. Che arriva a casa la sera e ti dice che gli sei mancata, che è stanco ma trova la voglia, anzi, sente la necessità di prepararti la cena perché adora fare cose carine per te. Sentirsi utile, indispensabile. Che ti consiglia un libro e magari lo commenta insieme a te facendoti sentire parte di una piccola bolla esclusiva solo per voi due. La verità è che questo è un uomo che vorrebbero tutte ma che poi non si prende nessuna ed è per questo che è ancora libero a quarant’anni. Perché noi donne siamo masochiste, godiamo a farci del male e andare dietro a uomini che portano in fronte la scritta “bastardo” a caratteri cubitali. Ammettiamolo, noi li cerchiamo con il lanternino. Perché in fondo ci piace soffrire e crogiolarci nella disperazione totale. Dovremmo farci internare e farci studiare perché noi, ragazze, non siamo normali. Noi abbiamo voglia di lamentarci che il nostro uomo è un ignobile sacco di merda ma poi alla fine non lo lasciamo. Siamo lì sempre a rincorrerlo come dei cagnolini da riporto. Ma questa volta no. Io so che non sarò quel tipo di persona. Non pregherò affinché lui torni da me a implorare il mio perdono e a dirmi quanto mi ama e mi ha sempre amata. No. No, giusto? E invece, dannazione, questo è tutto quello che vorrei. Sarei anche capace di dirgli di vedermi di nascosto a sua moglie. Di accettare che abbia un figlio con un'altra donna, di saperlo a dormire con lei notte dopo notte e accontentarmi delle briciole che mi regala. Cazzo! È per questo che sono scappata, il motivo reale che non ho rivelato a nessuno. Se fossi rimasta a Catania sarei andata a cercarlo. Lo avrei supplicato di riprendermi con sé, di lasciarmi fare la lurida amante. E non posso accettarlo. Perché se accettassi tutto questo so che mi ritroverei a provare ribrezzo per me stessa. So che non potrei mai più guardarmi allo specchio con serenità. Maledizione! Mi serve un lavoro, qualcosa che possa distrarmi da tutte le mie seghe mentali. E ho intenzione di trovarlo prima di subito perché potrei impazzire. La mia cena è terminata, ho mangiato con talmente tanta rabbia che ho ingoiato gli anelli di seppia interi e adesso mi fa male la pancia. Pago e risalgo in casa. Mi affaccio in terrazza e mi raggomitolo sul divanetto. Faccio partire dal mio telefono la versione di David Deyel di Million years ago, sperando che mi accompagni in un sonno privo di sogni.

Stamattina per la prima volta, dopo davvero troppo tempo, non suona la sveglia. Mi alzo e mi dirigo in cucina alla ricerca del bene primario ed essenziale di ogni italiano che si rispetti, il caffè. La ricerca mi porta dolorosamente a scoprire che in questa casa non c’è assolutamente niente di niente. Mi sarei accontenta anche di caffè scaduto da decenni. Indosso velocemente uno short di jeans e una t-shirt per catapultarmi nel primo bar che incontrerò nel mio cammino. Dopo, ovviamente, mi toccherà fare la spesa. Sono le undici del mattino e in strada c’è una quantità disarmante di gente. Tutti turisti. I bar sono affollati e io odio fare colazione sentendomi spintonata da tutte le parti, ecco perché la mia ricerca prosegue. Cammino per il lungomare, l’aria è molto calda e in tanti si fanno il bagno nonostante l’acqua, credo, sia ancora gelata. Mi fermo in piazza Cristofolo Colombo. Il bar ha un dehors che si affaccia sulla spiaggia. Mi siedo e ordino il caffè rigorosamente macchiato e una brioche ripiena di ricotta. Erano anni che non venivo qui, vuoi per il lavoro, vuoi perché il mare a Catania c’è e sarebbe assurdo spostarsi solo per prendere il sole su una spiaggia diversa. Ma la verità è che qui è proprio un’altra cosa. Gli abitanti sembrano tutti felici, sorridono sempre e anche i turisti sono più rilassati qui che nella mia città, c’è meno stress, meno corse da una parte all’altra e sicuramente molto meno smog. Quando termino la colazione e mi reco a pagare il conto decido di chiedere al signore alla cassa se per caso è a conoscenza di qualche lavoro. Mi risponde che proseguendo per la strada c’è un locale che ha appena inaugurato l’apertura della stagione estiva e che con molta probabilità avrà bisogno di personale. Riconosco subito il posto anche perché lo conosco. È piuttosto rinomato, ma a parte questo perché qualche anno fa ci lavorava una mia compagna di liceo. Continuando la eggiata sul lungomare, arrivo a destinazione. Trovo la porta aperta e lo prendo come un tacito invito a entrare. Il pub è tutto in legno scuro, al centro domina un bancone a U ove dietro è situata una struttura che regge milioni di bottiglie. Sparsi tutti intorno dei tavoli bassi e dei cuscinoni colorati. In fondo sulla destra una vasca idromassaggio grande quanto il mio vecchio monolocale e una dozzina di sdraio rivolte verso il mare. Si perché il pub termina, con una grande erella in legno, proprio sulla spiaggia. Mentre mi aggiro, furtiva, per il locale non vedo nessuno e questo mi fa pensare che forse non sarei dovuta entrare. Sarà violazione di domicilio? Mi arresteranno? Mentre l’ansia si impossessa del mio corpo e mi fa tremare le gambe sento qualcuno schiarirsi la gola. Diavolo! Mi giro lentamente e due occhioni verdi mi scrutano.

«Ehm, ciao!» esclamo verso la ragazza che mi fissa. È molto carina. Bassina, magrolina, con un caschetto nero che ne risalta gli occhi dal taglio quasi orientale. «E tu sei?» domanda, giustamente. «Rosa… sono appena arrivata e cerco un lavoro per l’estate, puoi aiutarmi?». «Hai esperienza?» chiede scettica. «Io… ecco, in verità no. Ma imparo in fretta e non ho problemi di turni o di orari, sono qui da sola… nel senso che a casa non mi aspetta nessuno quindi potrei fare turni massacranti senza poi utilizzare qualche scusa per non venire a lavorare il giorno dopo. Insomma, vi sarà capitato qualche volta di aver a che fare con chi poi per la stanchezza non si è presentato? E poi io sono abituata a orari distruttivi, lavoravo in un panificio e…». «Ehi frena! Sei sempre così logorroica? Perché questo potrebbe essere un problema». «Mi dispiace. Se tengo la bocca chiusa potrei fare una serata di prova?» chiedo piagnucolando. «Vieni con me, e per la cronaca… io sono Bianca». Ci stringiamo la mano e infine mi conduce dietro al locale. È un’ampia stanza adibita a magazzino ma c’è anche una scrivania quindi probabilmente fa anche da ufficio. «Ok Rosa, il locale non è mio ma mi occupo praticamente di tutto, comprese le assunzioni. Facciamo così, prendi il menù dei cocktail e studialo meglio che puoi. Stasera, intorno alle diciannove avvicini e fai alcune ore di prova, dopodiché ti farò sapere se puoi entrare a far parte della squadra oppure no». Prendo il foglio formato A4 che mi asseconda e mi rendo conto che è scritto ambo i lati, il che mi procura un senso di angoscia, consapevole di giocarmi tutto solo grazie a una buona memoria. Che non ho. Ma non posso lasciarmi scappare un’occasione così ghiotta, perché che altro lavoro potrei trovare nel giro di così poco tempo?

«Grazie Bianca, cercherò di fare del mio meglio, ci vediamo stasera». La saluto e ritorno indietro verso casa fermandomi cinque minuti in un supermercato per comprare l’essenziale per vivere. Caffè, zucchero, latte, biscotti, olio, sale, cracker, tonno e pasta. Una spesa da universitari in pratica. L’agitazione per la serata che mi aspetta non mi permette di fare un pasto decente in quanto lo stomaco risulta completamente serrato. o le restanti ore a leggere il menù e soprattutto a ricordarmi gli abbinamenti e i dosaggi dell’alcool nel bicchiere. È difficilissimo. Alle diciotto faccio una doccia veloce, acconcio i capelli in una coda alta per non darmi fastidio durante il turno, metto un filo di trucco e abbigliamento sportivo, jeans e canotta con le immancabili converse. Meglio stare comode. Durante il tragitto inizio a mangiarmi le unghie, cosa che non facevo da anni. Non ho mai lavorato per qualcuno che non fosse la mia famiglia e questo mi disturba perché non so come comportarmi. Sicuramente la simpatia è essenziale, se sto sulle palle ai colleghi il primo giorno è finita. Arrivo al pub e c’è movimento da tutte le parti. Sento suonare un fischietto e la voce di Bianca che urla a tutti di mettersi in fila per fare le presentazioni. Mi afferra per un braccio e mi porta al centro della sala. Annuncia a tutti il mio nome e che per stasera sarò in prova. Mi presenta i quattro barman e mi dice che anche lei starà al bancone insieme a me. I sei camerieri e due addetti alle pulizie. Quattro buttafuori, di cui due rigorosamente all’ingresso e gli altri che gireranno per la struttura. Per un totale di diciotto persone. Oh, mamma! Mi accompagna dietro al bancone, mi spiega velocemente dove trovare il ghiaccio e l’utilizzo della macchina tritaghiaccio. Mi fa vedere dove tengono le arance e i limoni per la preparazione dei cocktail, lo zucchero bianco e di canna che serve per alcuni specifici. I liquori costosi che sono sottochiave in magazzino e che vengono utilizzati molto poco, per lo più da pochi intenditori locali. Le piccole celle frigorifere, per tenere al fresco gli alcolici, che si trovano sotto al bancone insieme a due lavastoviglie che saranno messe in funzione nel corso della serata per avere sempre a disposizione bicchieri puliti. Canovacci, tovaglioli, coltelli, insomma tutto quello che sembra essere necessario per la preparazione di piccole dosi di felicità.

La cassa è affare suo e non devo utilizzarla per nessun motivo al mondo. Alle venti in punto viene aperto il cancelletto d’entrata, arriva una comitiva di ragazzini e si dirigono tutti verso Bianca. Probabilmente la conoscono. «Ehi Rosa, porta il culo qua e vediamo che sai fare!» esclama il mio boss. «Eccomi». «Allora, devi prepararmi un Americano e un Black Russian, ci puoi riuscire?». «Certo». Faccio mente locale e ringrazio il cielo per la memoria fotografica. Per l’Americano prendo il tumbler basso, aggiungo il ghiaccio, ci svuoto dentro 3cl di Campari, 3cl di Vermouth rosso e della soda, mescolo il tutto con un cucchiaino a manico lungo e lo appoggio sul bancone. Per il Black Russian mi serve sempre il tumbler basso e il colino. 5cl di Vodka secca e 2cl di Kahlua. Inserisco il ghiaccio, mescolo, con uno strainer elimino l’acqua, verso le quantità esatte di alcool, rimescolo e le jeux sont faits. Ho del talento naturale! Mi giro verso Bianca, le sorrido «Ehi Boss, sono stata brava?» domando felice. «Oh, Rosa, è solo l’inizio. Ma si, mi hai sorpreso, continua così». La serata prosegue nel caos più totale. Mai viste così tante persone accalcarsi a un bancone. Cerco di ricordare ogni cosa e nei momenti in cui non ci riesco utilizzo il menù che ho ripiegato e tenuto in tasca. Per ben due volte si sfiora la rissa, adesso capisco perché la necessita di avere ben quattro buttafuori. I colleghi si dimostrano tutti molto gentili e comprensivi. Ovviamente la possibilità di fare due chiacchiere per conoscersi è impossibile. Non ci fermiamo mai e le mani mi fanno un male cane. Anche perché mi sono tagliata due volte e sono tutta incerottata. Alle tre del mattino finalmente riusciamo a respirare, in giro ballonzola solo qualche ubriaco che non vuole tornare a casa. Riusciamo anche noi a prepararci da bere e collassare in un punto in cui si

trovano dei cuscini giganti sudaticci. Sono troppo stanca per farmi prendere dallo schifo quindi mi ci fiondo sopra. Le cameriere tonano subito a casa, a quanto ho capito sono poco più che maggiorenni e vivono in famiglia. I buttafuori evaporano anche loro. I superstiti restiamo sono noi addetti al beveraggio. Bianca, Guido, Carlo, Giovanni e Fausto. Guido e Carlo sono fratelli, barman da una vita, ano a Cefalù la stagione estiva e in un locale Palermitano quella invernale. Entrambi single e donnaioli a quanto pare. Giovanni invece frequenta l’università e il lavoro estivo gli serve per pagarsi le tasse, è fidanzatissimo e fedele, dice. Fausto invece non ha ancora capito che fare nella vita, cambia lavoro ogni tre mesi ma ha intenzione di partire per un viaggio che gli cambierà la vita. Bianca è l’unica che non si sbilancia, ma sono sicura che ne avrebbe di cose da dire. Bevuto il mio cocktail saluto tutti e mi dirigo verso il magazzino per prendere la mia borsa. «Rosa, sto andando via… vuoi uno strappo a casa?» mi chiede Fausto. «Io non lo farei… è uno scopatore seriale, non gli interessa altro. Se vuoi te lo dò io un aggio» comunica Bianca facendo innervosire il donnaiolo. «Fausto, grazie ma preferisco mi accompagni Bianca, sarà per la prossima». Io e la mia capa ci incamminiamo in strada, mi fa cenno di salire sulla sua graziosissima vespa celeste. Per le strade regna il silenzio assoluto e una pace che non percepivo da tempo mi vibra dentro. È solo il mio secondo giorno qui a Cefalù ma le aspettative sono alle stelle. «Ehi Rosa, sei assunta. Ci vediamo domani. Stessa ora» mi urla Bianca appena sotto casa. La gioia è talmente inaspettata che – anche se non ci conosciamo – le getto le braccia al collo e la riempio di baci sulle guance. Perché quello che lei non sa è che il lavoro è l’unica cosa che mi permette di dimenticare ciò che mi distrugge.

Capitolo 18

Due settimane. Due settimane a Cefalù, due settimane di lavoro, di fatica ma anche di divertimento e nuove amicizie. Al pub va tutto alla grande. Bianca è il mio nuovo Costantino. Le ho raccontato ogni cosa della mia vita, della mia famiglia, del panificio, dei miei amici e ovviamente anche di Andrea. Lei mi ha parlato di ogni aspetto della sua esistenza. È figlia unica, orfana di padre. Sua madre lavora in un negozio di abbigliamento in centro. Bianca fa la bar lady da una vita, ha ventotto anni, diplomata al liceo linguistico, dopo la morte del padre ha iniziato a darsi da fare accantonando il sogno dell’università in lingue per fare l’interprete. È stata fidanzata per sei anni con Michele, la storia è finita otto mesi fa, tradimento da parte di lui con la sua migliore amica. Deve essere stato devastante. Ma lei è un tipo tosto, non si è mai pianta addosso ed è andata avanti come un treno per la sua strada, nonostante incontri spesso la coppietta. Si perché adesso i due adulteri stanno insieme. Fausto invece continua a provarci e penso proprio che prima o poi gli darò la possibilità che tanto desidera. Sesso senza complicazioni, cosa c’è di meglio? Giovanni litiga ogni giorno di più con la fidanzata che pare essere gelosissima. Ma lui, devo ammettere, sembra davvero un tipo fedele. Guido e Carlo sono due maiali patentati. Li ho beccati entrambi più volte a fare cose sconce nei bagni del personale e, non solo, anche scambiarsi le tizie a vicenda. Uno spettacolo raccapricciante. Per quanto riguarda me in queste settimane ho sentito tutti meno Alfio. Costa e Alex verranno a trovarmi il prossimo week end, mi mancano da morire. La loro storia prosegue tra alti e bassi, questo perché Costantino sa essere davvero uno stronzo. Lucia e Biagio finalmente si sono ricongiunti. Lei è ritornata a casa e pare per adesso che le scenate di gelosia siano diminuite. Questo anche perché non ci sono più io a chiederle di uscire.

I miei genitori stanno bene, mamma vuole sempre che torni a casa perché è preoccupata di sapermi sola. Le ho promesso che alla prima occasione andrò a trovarli. Nonna sta come sempre, un minuto c’è con la testa, quello dopo no. Sono felice di sapere che sta bene e che non le manco perché nemmeno si ricorda che sono partita. Alfio. Alfio è l’unico a cui non ho risposto, ma so che non posso farlo per sempre. Ci siamo scambiati qualche messaggio ma niente di più. Ha provato a chiamarmi un sacco di volte ma ho paura. So che chiamarlo significa ricevere notizie di Andrea e sono troppo codarda per ammettere che pagherei oro per sapere come sta, se mi pensa, se il bambino e suo o se è tornato con la moglie. Avete presente quando volete con tutto il cuore che una cosa non succeda e ovviamente – perché siete sfigati come me – accade? Ecco. Mi squilla il telefono… e secondo voi, chi potrebbe mai essere? Tocco il malefico pulsantino verde e resto in silenzio. «Rosa» sentire la sua voce mi fa sentire in colpa. «Alfio». «Finalmente ti sei degnata di rispondere. Qual è il problema, Ro? Perché ce l’hai con me?» domanda nervoso. «Alfio… non sei tu. E che io…» non so come continuare la frase, come spiegare a mio fratello che sono una stupida e come se non bastasse inizio a singhiozzare. «Bestiolina, non piangere ti prego. Non quando io non posso abbracciarti. È per lui, non è vero?». «Oh Alfio… mi dispiace. Mi dispiace per non averti chiamato, per non averti nemmeno risposto. Avevo paura… io… so che tu sai qualcosa e lo so perché siete amici in qualche modo, lui lavora alla villa dove sta nonna, lo avrai incontrato per forza». «E’ così. L’ho visto, ci ho parlato più di una volta. In qualche occasione è anche ato da casa mia...» resta in silenzio qualche secondo, io con il cuore in gola non oso parlare anche perché non ci riesco, poi prosegue «Ro, lui ha chiesto di te notte e giorno. Ha contattato Costantino, Lucia, è andato al panificio da mamma

e papà. Voleva sapere dove fossi. Chiedeva il tuo numero. Nessuno gli ha riferito nulla, come da tua richiesta». Ciò che ascolto non è nemmeno lontanamente vicino a quello che mi aspettavo e davo per scontato. Sapere che sta cercando di contattarmi mi riempie il cuore di gioia ma allo stesso tempo mi terrorizza. La situazione con sua moglie potrebbe non essere cambiata. «Alfio, cosa sai di lui? Di chi è il bambino? È tornato con la moglie?» domando lapidaria. «Non so niente, Rosa. Ha sempre e solo chiesto e parlato di te. L’unica cosa che posso dirti è che mi è sembrato devastato. Ho visto il gelo nei suoi occhi e non è quello che ti aspetti di vedere in un uomo che aspetta un figlio o in uno a cui non stai mancando fottutamente» rantola mio fratello. «Che devo fare?» piagnucolo. «Dovreste vedervi, parlarvi. Chiarire la situazione o mettere definitivamente un punto. Non potete continuare così, perché l’unica cosa che vedo sono due persone adulte che si vogliono. Tutto questo è deleterio, Ro». «Mi sei mancato fratellone. Perché non vieni a trovarmi? Devo presentarti una persona che ti piacerà tantissimo. È praticamente te al femminile». «Non cambiare discorso! Vuoi che gli dia il tuo numero?». «No, non me la sento. Non fare niente. Lasciamo che tutto vada come deve andare. È meglio così Alfio e lo sai anche tu». «Come vuoi. Stasera arrivo da te». «Stasera? Dici sul serio?» domando sbigottita. «Parto tra poche ore, arrivo in serata. Mandami l’indirizzo del locale via messaggio e ti raggiungo lì». «Oddio fratellone sono troppo felice!». «Devo scappare, ricordati il messaggio. A stasera, bestiolina».

«A stasera». Chiudo la comunicazione e caracollo, in pieno delirio, per tutta la casa. Sono entusiasta di vedere Alfio ma siccome sono un cupido mancato sono eccitata all’idea di far conoscere Bianca a mio fratello. Li immagino perfetti insieme, finalmente una donna in grado di tenere testa a quello zuccone privo di sentimenti. Dimenticarti dei tuoi problemi può essere più semplice se puoi preoccuparti di quelli degli altri. Certo non posso fingere di non aver ascoltato Alfio quando mi ha detto che Andrea mi ha cercato giorno e notte. Questo è positivo, mi dico, vuol dire che gli manco. Ma perché allora non dire a mio fratello tutto il resto? Perché continuare a omettere sulla situazione della moglie e della gravidanza? Forse non è finita, ma certo deve essere per forza così altrimenti lo avrebbe detto subito. Odio il fatto che lo amo. Io che non ho mai creduto al colpo di fulmine mi sono ritrovata folgorata dal primo che ava. Idiota! Mi sento una legge di Murphy vivente. Ma anche una stupida, io che a trent’anni mi sentivo una donna, sicura di me e di quello che desideravo sono caduta nella più stupida delle trappole inventata dai poeti. L’amore. Nel delirio della mia mente mi preparo. È venerdì questo vuol dire che ci sarà il pienone e voglio sentirmi carina. Indosso un’indecente gonna di jeans che dire corta è un eufemismo. Una canotta bianca piuttosto scollata e molto aderente. Le sneakers sono d’obbligo perché una serata in piedi sui tacchi potrebbe uccidermi. Coda alta e trucco esagerato. Stasera metto un eyeliner che Cleopatra in confronto è una novellina. Sono pronta. Arrivo al locale super carica. Annuncio a tutti la mia presenza e mi fiondo al bancone per preparare la mia postazione. Bianca, poco lontana da me, stasera è adorabile. Frangetta rigorosamente liscia spaghetto, due codini graziosi tenuti da due elastici con orsetti rosa. Gli occhi già meravigliosi sono accessoriati da ombretto oro e eyeliner, la bocca carnosa lucida di lipgloss, una camicia bianca con papillon e gonna a pieghe nera. Sembra una bomboniera. In senso positivo. È graziosissima. «Ehi Bianca, stasera arriva mio fratello, vorrei fartelo conoscere». «Bè si, ok. Quando e se troveremo il tempo». «Oh, fidati, lo troveremo» le dico ammiccando. «Perché mi guardi così?» domanda lei che forse ha capito le mie intenzioni. Si

ok lo sappiamo che faccio schifo a nascondere le cose. «Niente» brontolo. «Non farti strane idee Rosa, che sia chiaro». «Ma no, certo». Mentire, bisogna sempre mentire. Eppure, mi ci gioco la testa che quei due faranno scintille. Preferibilmente a casa di Bianca. Ecco si questo dovrò metterlo in chiaro subito, in caso. Prima ora di lavoro a liscia come l’olio. Poco movimento, del resto è ancora presto. Sento il mio boss inveire contro qualcuno e mi avvicino… e ti pareva. «Fratellone sei arrivato!» esclamo gioiosa, nonostante Bianca e Alfio si stiano guardando in cagnesco. Mannaggia non avevo previsto si detestassero. «Quindi questa sottospecie di uomo è tuo fratello?» domanda Bianca. «Ehm, si. Che succede?» mi informo, cauta. «Succede che questa mocciosa vuole dire a me come si fa un B-52» replica, Alfio. «Io faccio questo lavoro da anni! Razza di babbeo» sbraita sempre Bianca. Ok la situazione non sta andando per il verso giusto. «Ragazzi calma, non c’è motivo di fare così» affermo sperando di calmare gli animi. «Ci vuole un bicchiere più grande!» urla Alfio. «No, ignorante! Ci vuole quello da shot» dice tassativa Bianca. «Sono io il cliente, decido io come voglio il bicchiere» continua imperterrito mio fratello. «Non funziona così. Tu ordini e io preparo secondo le regole. Regole scritte, hai capito? Se non ti sta bene vai altrove. Evapora» risponde il boss, inviperita. «Io non vado da nessuna parte. Lo sai che il cliente ha sempre ragione? Forse dovrei parlare con il tuo capo» rimbrotta lui.

«Razza di stronzo, non ti permettere! Vieni qui con il tuo bel faccino e i tuoi cazzo di muscoli in vetrina e pensi che siccome ti senti un figo puoi chiedere quello che vuoi? Non attacca bello. Non con me» urla lei. «Allora stai dicendo che sono bello» cincischia il deficiente. Lui e il suo super ego! «No, non ho detto questo. Sei anche stupido a quanto pare» conferma Bianca. «Ehi, modera i termini ragazzina». «Basta! Mi avete stufata. Bianca torna al lavoro, e tu vieni qua. Ti preparo questo cavolo di cocktail come preferisci» concludo infine. E che cavolo. Preparo il bicchiere della discordia e faccio una lavata di capo ad Alfio. Non solo Bianca è attualmente il mio capo bensì l’unica amica che ho e a cui, tra l’altro, mi sono anche affezionata. Finito di servire mio fratello, lo spedisco il più lontano possibile da noi. Gli comunico che per qualsiasi altra cosa da bere dovrà rivolgersi a Fausto che sono sicura non si impunterà sulla tipologia del bicchiere. La serata inizia a farsi caotica ma non mi sfuggono le occhiatine al veleno tra i due riottosi. È vero il detto “chi disprezza, compra?” perché se dovessi basarmi su questo li intravedo già all’altare. Ore e ore in piedi a fare in pratica sempre gli stessi cocktail. Si perché ho scoperto che quelli più richiesti in assoluto sono tre. Cuba Libre, Capirinha e Mojito. Banali. A me si è aperto un universo nel momento in cui ho dovuto memorizzare ogni bottiglia esistente. Anche quelle meno richieste come certi whisky pregiati dai costi esorbitanti. Tra una sequenza infinita di aggi tutti uguali e una sbirciatina ai ragazzi si è concluso il primo giorno di un week end di fuoco. Saluto tutti e trascino Alfio in strada, meglio scappare prima di far riattizzare il fuoco. In macchina non parliamo, sono sfinita e mio fratello sembra ancora nervoso. Per così poco? Mah, gli uomini. Arrivati in casa corro a cambiarmi e, una volta indossata la mia camicia da notte

nera con le mucche, propongo ad Alfio una birretta in terrazza. «Allora?» chiedo pacifica. «Cosa?» risponde enigmatico. Ma io so che sa a cosa alludo. «Perché ti sei comportato da psicopatico?». «Non è vero, è la tua amica che è fuori di testa!». «Però ha toccato un tasto dolente, non è vero?». «Non so a cosa ti riferisci». «Oh, andiamo Alfio. Ho visto la tua faccia quando lei ti ha detto che sei abituato a ricevere sempre consensi solo perché sei belloccio. E sai anche che è la verità. Cos’è sei arrabbiato perché lei non è stramazzata al suolo come tutte le altre?». «Ma smettila. Non mi interessa. Anzi, perché diavolo stiamo parlando ancora di lei? E tra l’altro… avevi detto che mi sarebbe piaciuta, e vuoi sapere cosa? Non è così». «Menti. Io ti conosco. So che non ci dormirai stanotte». «Cretina. Vado a letto che stamattina ho fatto il turno in ospedale. Buonanotte bestiolina». «Buonanotte fratellone».

Capitolo 19

È sabato! Precisamente ora di pranzo. Abbiamo dormito tutta la mattina, del resto stanotte abbiamo fatto le quattro. Alfio ha dormito con me, in realtà sta ancora sonnecchiando a pancia all’aria con tutte le lenzuola arrotolate intorno. Sembra un cucciolo di orso. «Svegliaaaaa!» urlo ai quattro venti. «Pazza, lasciami stare!» brontola Alfio. «Ho fameee, Alfio alzatiii». «Che immensa rottura di palle». «Ehi, maleducato. Dai su, io sono già pronta!». «E chissenefrega». «Alfio giuro su Dio che se non ti alzi, ti butto un secchio di acqua gelata addosso». «Uff… ok dammi dieci minuti e usciamo». Mentre mio fratello si chiude in bagno per lavarsi e vestirsi io preparo la moka per la mia dose giornaliera di caffeina. Sapete che una delle leggende più note riguardo la scoperta del caffè racconta di un pastore di nome Kaldi? In pratica, anni or sono, questo buon uomo portava a pascolare le sue capre su di una collina in Etiopia, un giorno come un altro queste caprette iniziarono a masticare delle foglie da una strana pianta. Arrivata la notte le bestiole anziché dormire iniziarono a pascolare allegramente per i prati. Vedendo ciò il pastore individuò la pianta incriminata e ne essiccò i semi, li macinò e li mise in infusione ottenendo così la bevanda più consumata al mondo. Ora mi chiedo, perché questo pastore non è diventato santo? Voglio dire, abbiamo indubbi santi dalle strane e improbabili storie e non possiamo avere santo l’uomo grazie al quale riusciamo a iniziare decentemente la giornata? La vita è ingiusta, l’ho sempre

detto io. Ma qui non mi ascolta nessuno. Un bip del telefono di Alfio mi riscuote dai pensieri. Non so perché lo faccio, non è mai stata mia abitudine ma qualcosa mi porta a prendere in mano l’incriminato smartphone e controllare il messaggio. Ok è di una tizia che scrive cose davvero lascive e volgari. Meglio sorvolare. Quando esco dalla schermata però intravedo il nome di Andrea e non posso fare altro che aprire i messaggi perché adesso la curiosità mi mangia viva. La serie di botta e risposta tra lui e mio fratello è davvero lunga. Inizio dai più recenti e mi rendo conto che la richiesta è sempre la stessa “dimmi dov’è”. In alcuni Alfio lo manda dichiaratamente al quel paese ma devo dire che Andrea non demorde. Gli dice anche che sta male, che è pentito, che vuole chiedermi scusa per come si è comportato. Che da quando non mi vede ha capito che sono io quello che vuole. Certo! Arriviamoci sempre in ritardo! Facciamo prima soffrire le persone come animali al macello. Tanto poi basta chiedere scusa e tutto ritorna come prima no? No. Non riesco nemmeno a essere contenta delle parole che ha detto, sono incazzata nera. Viviamo in un mondo che vive di scuse e perdono. Ma perché non ci pensate prima alle cose? Certe volte mi viene un odio per il genere umano che anch’io mi sto sulle scatole da sola e vorrei prendermi a sberle. Intanto Alfio mi raggiunge e mi comunica che possiamo andare a pranzo. Ci accomodiamo in una trattoria sul lungomare. Io ordino uno spaghetto allo scoglio e mio fratello la pasta con le sarde. Bottiglia di vino bianco e una manciata di serenità. O per lo meno ci si prova. Ci crogioliamo, in silenzio, al sole di fine maggio che riscalda ma non brucia. L’aria salina del mare mi rilassa la mente e il corpo. Parliamo poco, anche perché siamo dediti al pasto succulento appena arrivato. Le poche parole che scambiamo riguardano Bianca, dice che non la sopporta. Voi ci credete? Io no. Altrimenti non staremmo a parlare di lei. Mi intenerisce sapere che un omone grande e grosso come lui sia terrorizzato dalla possibilità di rimanere vittima di uno scricciolino come il mio boss. Gli uomini e l’amore due rette parallele che non si incontreranno mai.

Raggiungiamo il locale molto prima della sua apertura. Io avrei voluto fare un giro per i negozietti del posto ma Alfio non vuole accompagnarmi. Mi avrebbe proprio fatto comodo, nella vita, una sorella. Bianca è già operativa dietro al bancone e impila bicchieri uno dietro l’altro per averli a portata di mano per la serata. Questa ragazza è sempre qui. I punti sono due o ama molto il suo lavoro o odia stare a casa. Ma propendo per la prima perché qualche sera fa, proprio dalla sua bocca, è uscito un discorsetto motivazionale sull’efficienza che è alla base della dedizione e del sacrificio. Oh, ma dove sono finiti gli irresponsabili? Ehi, se siete là fuori, manifestatevi! Come al solito mentre mi estraneo dal resto del mondo intorno a me le cose continuano. Bianca e Alfio litigano ancora. Ma allora è un vizio! «Che state combinando voi due?» domando perplessa. I due sono muso a muso in una tacita guerra di potere. «Ho detto a tuo fratello che non può stare qui perché non è parte dello staff. Ma lui, volgare come sempre, mi ha detto che devo farmi gli affari miei». «Esatto. Mia sorella lavora qui e io non so che altro fare e poi sono anche disposto a consumare qualcosa, non ti basta?». «No. Vai. Via». «Non ci penso nemmeno. Non sei neanche il capo di questa baracca e sicuramente non sei il mio. Io resto qui che ti piaccia o meno». «Chiamo la sicurezza e vediamo se ti piacerà essere sbattuto col culo sul marciapiede». «Sarà la tua sicurezza a finire in mezzo alla strada. Ma mi hai visto?». «Si. E sai cosa vedo? Uno stronzo arrogante!». «Bene, perché sai invece cosa vedo io? Una bambina viziata».

«Non ti permettere sai...». Che noia. Sembra di vedere una versione 2.0 di Sandra e Raimondo. Inizio a sistemare la mia postazione lasciando i bambini alla loro recita su chi è più potente dell’altro. Alla buon’ora arrivano anche tutti i miei colleghi e le cameriere. Alfio, infine, si accomoda in un tavolino poco distante dal bancone e continua a guardare il capo. Se solo vedesse quello che vedo io si renderebbe conto che ormai è un uomo finito, preso all’amo. Dopo le undici è una corsa continua, la gente arriva a frotte e non c’è un minuto di tregua per nessuno. Ho completamente perso di vista mio fratello che per quanto ne so potrebbe essere con qualcuna ad amoreggiare dietro un albero. Vi capita mai di avere la sensazione che stia per succedere qualcosa ma non sapete cosa? Perché a me sempre. Inizio con il sentirmi irrequieta e a pensare che sta per accadere una non precisata situazione che potrebbe essere bella ma anche molto brutta. Il mio ottimismo propende costantemente per il meglio ma alla fine mi sbaglio quasi sempre. Ecco adesso mi sento così, un po' strana, in ansia senza ragione alcuna. «Gallina!». No, non può essere reale. Forse Costantino mi manca così tanto che inizio ad avere le allucinazioni. Il mio sguardo vaga freneticamente intorno al locale ma non vedo nessuno. Sto impazzendo, non c’è altra spiegazione. Poi lo vedo… o meglio vedo un confetto verde fluo che muove una mano in aria. Non riesce ad avvicinarsi per la calca al bancone. Euforica come non mai lascio la postazione e corro incontro al mio caro amico che, adesso che lo noto, è insieme ad Alex. «Costaaaaa» urlo, buttandomi di peso tra le braccia del mio amico più caro. «Cosa ci fai qui?» domando, abbracciando con calore anche Alex che è vestito anche lui con colori sgargianti. «Mi mancavi gallina» comunica abbracciandomi ancora e scompigliandomi i capelli. «Ci sei mancata molto, Rosa» afferma anche Alex.

«Oh, anche voi ragazzi, da morire. Devo tornare in postazione, quanto rimanete?». «Andiamo via domani perché io devo tornare al lavoro, aspettiamo che finisci il turno e poi facciamo un pigiama party» annuncia felice Alex. «Perfetto. Accomodatevi e vi mando una ragazza per le ordinazioni. A proposito, in giro c’è Alfio potete trovarlo e tenerlo d’occhio?». Annuiscono e si guardano in modo sospetto. Se non avessi così tante cose da fare gli farei il terzo grado. Quegli sguardi non mi piacciono per niente. Indagherò una volta rientrata a casa. Ritorno al mio lavoro che ho scoperto piacermi tanto. Quando le persone escono dopo una giornata di lavoro e bevono un po' per rilassarsi diventano amabili, disponibili, divertenti. Di conseguenza il mio umore, per osmosi, migliora parecchio, anche se la sensazione di angoscia di prima non si è attenuata. Scopro presto il motivo. Il nostro corpo e la nostra mente sembrano sapere sempre prima di noi quando qualcosa sta per succedere, come se l’inconscio fosse una sorta di angelo custode che ci mette in guardia da pericoli ancora prima di percepirli. «Piccola…» non alzo la testa, non muovo un muscolo. Il suo profumo e la dolcezza della sua voce mi arrivano addosso con la violenza di un uragano forza cinque. «Tu?» l’ovvietà della mia domanda è proporzionale alla rabbia che mi monta dentro. Non aspetto di sentirne la risposta e incalzo «Come hai fatto a trovarmi?» e mentre attendo la replica guardando quegli occhi profondi in cui mi perdo, la consapevolezza mi riscuote. È venuto con Alex e Costantino. Traditori. «Rosa…» una litania senza fine, la sua, qualcosa che non ho voglia di ascoltare. «Sparisci e non tornare mai più!» alzo gli occhi alla ricerca dell’unica persona che può venirmi in soccorso. Mio fratello è appostato poco lontano da me. Uno sguardo luciferino che ne distorce i lineamenti. Gli faccio un cenno nella speranza capisca che deve liberarmi dal visitatore indesiderato. Fortunatamente funziona e in pochi secondi la salda mano di Alfio aggancia il braccio di Andrea trascinandolo fuori dalla mia visuale. Poco più in là coloro i quali, fino a pochi

secondi fa, consideravo amici mi squadrano preoccupati. Respiro. Le questioni private devono essere lasciare fuori dall’ambiente lavorativo. Questa è una delle prime regole che mi ha comunicato Bianca e non ho intenzione di deludere lei e me stessa. Continuo il mio turno fino a notte inoltrata smettendo di pensare e muovendomi meccanicamente, come se avessi inserito il pilota automatico. Alle due del mattino l’ambiente è quasi deserto. Non c’è traccia di Alfio, di Andrea e nemmeno di Alex e Costa. Spero siano andati tutti a fare in culo e abbiano avuto la decenza di lasciarmi libera la casa per poter dormire in santa pace e riprendermi da questa serata di merda. Chiedo un aggio a Bianca, lei mi fa alcune domande ostiche che svio promettendole che lunedì, giorno di chiusura, le racconterò quanto successo. Arrivata sotto casa il cattivo presentimento che mi ha consumata per tutta la sera si amplifica. Saluto colei che sento amica, stasera più che mai, e mi dirigo in casa salendo le scale lentamente, come se potessi in qualche modo evitare quello che potrei trovare una volta varcato l’ingresso. Apro la porta ed eccoli lì, tutti e quattro seduti uno di fronte all’altro in una sorta di tavola rotonda invisibile. Mi guardano intensamente ma quello che sento bruciare su di me è lo sguardo di Andrea, che sembra traarmi da parte a parte. Lo fisso anch’io e solo adesso noto le sue profonde occhiaie, il viso smagrito e una profonda ruga di preoccupazione tra le sopracciglia. Si mordicchia le unghie, è nervoso e terribilmente tenero. «Hai un posto per la notte?» domando ad Andrea, cercando di mantenere ferma la voce. «Si, ho prenotato una stanza in un albergo qui vicino» chiarisce lui, mentre attorno a noi gli occhi dei presenti si fanno confusi. «Andiamo, dobbiamo parlare e non lo faremo qui. Voi due…» indico Alex e Costantino «Dormirete in camera di Alex e tu, Alfio, nel divano-letto. Tornerò quando avrò finito. Non aspettatemi svegli» concludo la mia arringa e mi incammino verso l’uscita. Andrea mi segue fino alla strada, poi io seguo lui verso l’albergo. Ci incamminiamo in silenzio, arrivati alla hall prende la tessera elettronica ed entra in ascensore. Camera 214. È spaziosa con un grosso letto a baldacchino posto alla parete. Un salottino di fronte al camino e una vista mare da mozzare il

fiato. Mi accomodo in una delle due poltrone e lui fa lo stesso. Ci studiamo per indefiniti minuti, fino a quando lui prende coraggio e intavola un discorso. «Mi dispiace Rosa, mi sento uno schifo. Da quando ho scoperto che sei scappata mi è crollato il mondo addosso. Ho vissuto nel terrore di non rivederti mai più. Sono arrivato a pedinare la tua famiglia e i tuoi amici nella speranza di avere tue notizie io…». «Smettila. Non mi interessa sapere come stai o cosa hai fatto. C’è una sola domanda adesso a cui esigo risposta, di chi è il bambino?» domando fredda e distaccata. Lui sbianca, probabilmente non si aspettava una domanda così diretta. Ma francamente non me ne frega niente. «Lei… lei lo ha perso» dovrebbe importarmi qualcosa. Dovrei sentirmi empatica nei confronti di una donna che ha perso una vita in grembo ma, ditemi che sono insensibile, non mi sento dispiaciuta per lei né per lui, solo molto arrabbiata perché a questo punto il motivo per cui è arrivato a me è perché ha perso la possibilità di essere padre e adesso può tornare alla ruota di scorta, cioè io. «Vorrei dirti che mi dispiace, ma non sarebbe vero» asserisco, ferale. «Posso capirlo. Perché sei scappata?» domanda, laconico. «Perché? Davvero me lo stai chiedendo? Ti ricordo che sei stato a letto con la tua ex – per modo di dire – moglie dopo avermi baciata, dopo avermi detto che volevi un appuntamento con me, dopo avermi persuasa a darci una possibilità e dopo avermi fatto sentire una poco di buono perché avevo baciato un altro» spiego, furente. «Lo so, è stato scorretto da parte mia rimproverarti per aver baciato un’altra persona quando io avevo fatto ben di peggio ma a mia discolpa voglio dirti che ero confuso, che non riuscivo a capire il terremoto interiore dopo averti conosciuta. È stato così veloce e inaspettato che non sapevo come comportarmi e poi Anna forse aspettava mio figlio e mi sentivo in colpa nei suoi confronti anche se non avrei dovuto». «Sono solo banali giustificazioni, Andrea. Perché sei qui?». «Perché mi manchi, perché sono innamorato di te. Perché ho capito che anche se fossi diventato padre io non sarei comunque rimasto al fianco di Anna. Perché il

pensiero di non vederti più mi ha fatto uscire di testa. Perdonami Rosa, ti prego». Cosa si deve fare in questi casi? Assecondare il cuore o la ragione? In una battaglia all’ultimo sangue chi ne uscirebbe sconfitto? È difficile lasciarsi andare quando si ha paura. È difficile scegliere un diverso modo di vivere. Cambiare la propria indole a favore di qualcosa di oscuro e sconosciuto. Sono combattuta e prendo tempo, mi alzo e mi affaccio alla finestra che sporge sul mare che questa notte è in tempesta, come me. Il mio cuore, il sentimento che lo nutre, mi spingerebbe a dargli un’altra opportunità a mettere di lato il dolore e il risentimento ma se dovessi farlo davvero e poi lui dovesse ferirmi ancora? La ragione mi porta a proteggere quello che resta di me onde evitare di andare in mille pezzi, ed è lei che scelgo di seguire. «Ti perdono, certo, tutti commettiamo degli errori ma, Andrea, devi uscire dalla mia vita. Non sei la persona che credevo fossi, non posso pensare di stare con qualcuno che mi ha mentito dal primo giorno. Il problema della menzogna non è la bugia in sé, quanto il fatto di ritrovare la fiducia persa, io non posso più fidarmi di te». «Rosa ti scongiuro, non ho mai voluto mentirti, non di proposito. Ti prego non mi lasciare». «Ti sbagli Andrea, non posso lasciarti perché non siamo mai stati insieme». «Dimmi cosa devo fare, farò qualunque cosa ma ti supplico riproviamoci, non riesco a concepire una vita in cui tu non ci sei». «Cos’è hai fatto un corso alla fabbrica dei baci perugina?». Lui sorride debolmente, il sorriso allarga la bocca ma non arriva agli occhi. So che è triste, so quanto fa male sentirsi rifiutati, non voluti, ma sapete come si dice no? Mors tua vita mea. E per una volta nella vita devo fare qualcosa per me. Per non annegare. Bisogna salvarsi da soli, volersi bene da soli, perché nessuno può farlo meglio di te. Per cui scegliti, salvati, fa qualsiasi cosa per preservarti. Si alza e mi raggiunge alla finestra, la sua mano sulla mia spalla brucia. Come se

volesse trasmettermi tutto quello che sente. «Piccola…». «Devo andare, dimenticami Andrea, perché non ci sarà un futuro per noi». Tolgo la sua mano dalla mia spalla e mi avvio alla porta. Cerca di trattenermi ma con uno strattone mi libero e corro. Corro fino a quando non ho più fiato nei polmoni, soro casa di Alex e arrivo al mare. Inspiro profondamente l’aria umida e salata. Speravo di sentirmi meglio ma non è così. Anche io sto soffrendo per questa separazione ma so che prima o poi andrò avanti con la mia vita e tutto questo sarà solo un brutto ricordo. Ritorno indietro e arrivo in quella che a tutti gli effetti sento casa anche se non è mia. Trovo Alfio seduto sul divano-letto in cui dormiremo insieme. «Ehi». «Ehi. Perché sei sveglio?» domando stanca. «Ero preoccupato» chiarisce. «Alfio, non voglio parlarne. È finita e non c’è più niente da dire. Adesso vorrei solo dormire». «Vieni qui. Dormiamo accoccolati» mi incita, dolcemente, a sdraiarmi accanto a lui. «I bastardi dormono?» chiedo leggermente astiosa. Li perdonerò? Certo che sì. So che a modo loro lo hanno fatto per me. Perché pensavano fosse giusto così. «Si». «Bene. Notte Alfio». «Notte, bestiolina».

Capitolo 20

La notte, tra le braccia di Alfio, è stata meno crudele di quel che temevo. Paradossalmente ho dormito. La stanchezza accumulata era davvero troppa. Il chiacchiericcio che arriva alle mie orecchie mi impone di alzarmi. Gli sguardi di mio fratello e dei traditori mi investono e mi accorgo di un enorme mazzo di rose rosse adagiato sul tavolo. «Questi sono per farvi perdonare?» domando scettica. «Non li abbiamo presi noi, tieni…». Costantino mi porge il grosso mazzo e noto un bigliettino in cartoncino rosso, come i fiori che stringo in mano.

“Ti farò innamorare ancora di me. A”.

Banale. Ma dannazione quanto è romantico. «Puoi buttarli» informo con nonchalance. «Davvero vuoi essere così infantile?» chiede Costantino che a quanto pare non ha ancora capito quanto è enorme il risentimento nei suoi confronti. «Io infantile? E tu? Cosa saresti tu? Aspetta te lo dico io. Uno stronzo traditore» cerco di andare via ma lui mi afferra per un braccio e mi trattiene. «Rosa, tu non hai idea in che stato si è presentato sotto casa mia, piangeva dannazione. Hai idea di quanto sia difficile per un uomo piangere di fronte un altro uomo? No, Rosa. Non ce l’hai. È stato impossibile per me non dirgli dov’eri, sono stato male per lui. Tutti sbagliano infondo, anzi, tutti sbagliamo. Continuamente. Se non avessimo la forza di perdonarci a vicenda saremmo tutti soli».

Il suo discorso mi tocca profondamente, lui è il mio amico che non parla mai seriamente, che prende tutto come un gioco e sentirgli fare un discorso di questo genere mi fa pensare che forse e dico forse abbia ragione. «Costa, io l’ho perdonato, davvero. Ma non posso stare con lui. Non adesso. Forse mai. E mi dispiace se non sei d’accordo con me ma sto cercando di fare ciò che credo giusto in questo momento. È la mia vita. È una mia decisione». «E’ una cazzata colossale ma, appunto, è la tua vita» conclude il discorso e si allontana in terrazza. Alex e Alfio mi scrutano. So che la lezione di vita non è ancora finita. Quindi aspetto pazientemente bevendo un caffè ormai freddo, pronto da chissà quanto tempo. «Ti chiedo scusa, forse non avremmo dovuto. Non vorrei vederti soffrire Ro, ma devo dirtelo, questa decisione ti farà più male che altro» e avendo detto anche lui la sua, Alex si alza e raggiunge Costantino in terrazza lasciandomi seduta solo con Alfio. Il mio fratellone, che so per certo essere dalla mia parte. La mia famiglia, il mio sangue. «E tu? Non hai niente da dire?» domando, addolcita dal suo sguardo che è, e sempre sarà, la mia casa, il mio rifugio. «Voglio solo che tu sia felice, qualsiasi sia la tua decisione». «Grazie fratellone, lo apprezzo tantissimo». Raggiungiamo gli altri due in terrazza, pensavo di avere più tempo da are insieme a loro ma entrambi mi comunicano che devono tornare a Catania perché Alex deve lavorare. In realtà credo che se non fosse per il gelo calato tra noi probabilmente sarebbero rimasti, quanto meno per pranzare. Questo stato emotivo che separa me e Costa è una novità. Nonostante tutte le cose accadute in questi anni mai ci siamo sentiti così lontani, così poco affini e inclini all’abbandono. Perché è così che mi sento in questo momento abbandonata da una persona che ho sempre considerato un fratello, parte della mia famiglia. La distanza che ci separa è agghiacciante e questa consapevolezza mi porta a essere ancora più arrabbiata nei confronti di Andrea, perché tutto questo casino nasce da lui. Dalle sue scelte, dai suoi comportamenti. Se non fosse andato da Costantino noi adesso non staremmo qui a salutarci senza sapere né quando né se ci rivedremo.

Saluto tutti velocemente e mi chiudo in bagno per una doccia. Ho sempre odiato gli addii, mi disturbano, mi inquietano. Preferisco fare finta di niente. Un “ciao ci vediamo presto” anche quando presto non esiste. Quando riemergo dal bagno, lavata, vestita e truccata trovo Alfio ancora seduto al tavolo. «Alfio io vedo Bianca per pranzo e poi andiamo al lavoro insieme. Vuoi venire con noi?». «Si. A proposito, vorrei rimanere anche stanotte, è un problema?». «Assolutamente no. Andiamo?» mi fa un cenno affermativo con la testa e ci incamminiamo verso un ristorante vicino il pub. Quando Bianca scorge Alfio affina lo sguardo. Ecco, lo sapevo. «Era proprio necessario portare lui?» domanda Bianca guardando Alfio dall’alto in basso con sufficienza. Dio, la adoro. «Ehi ci sento se non te ne sei accorta» sbraita mio fratello. «E chissenefrega!» afferma lei ridendo. Prima che sia troppo tardi intervengo, come al solito quando si tratta di loro due «ragazzi per favore piantatela, possiamo solo mangiare in tranquillità?» entrambi mi guardano come se avessi detto chissà quale assurdità ma decidono di stare in silenzio. Evidentemente ha funzionato. Per poco, molto poco. Stiamo ordinando quando Bianca comunica che lei non mangia pesce e Alfio trova la scusa per pungolarla, ancora. «Come si fa a essere Siciliana e non mangiare pesce, che problemi hai?». «Ma cosa diavolo vuoi da me? Fatti gli affaracci tuoi, non sono tenuta a dare spiegazioni a nessuno men che meno a un bifolco come te» sbraita. «Bifolco io? Ma ti sei guardata? Psicopatica!» le dice, indisponente. Misericordia! Qualcuno mi aiuti. «Psicopatica? Brutto cogl…» ok devo di nuovo mettermi in mezzo.

«Ehi ehi, basta così, per favore ragazzi» li guardo entrambi con lo sguardo più dolce possibile sperando di rabbonirli entrambi. Parliamo di altro, del lavoro, del tempo, di cosa accadrà finita la stagione estiva. Io so per certo che tornerò a Catania e propongo a Bianca di venire con me, prenderci un appartamento in affitto insieme e trovare un lavoro come bar lady nella mia città che pullula di locali notturni. «Sarebbe bello Rosa, ma sai non voglio essere costretta a vedere questo pallone gonfiato tutti i giorni» asserisce, riferendosi ovviamente ad Alfio. «Ti piacerebbe!» esclama, lui, tronfio. «Non dire stupidaggini, mi fai ribrezzo» risponde inviperita. «E’ per questo che arrossisci ogni volta che mi guardi?». «Hai le traveggole Alfio, io non arrossisco mai» afferma riottosa. «Bugiarda». «Idiota». «Io ti piaccio!» decreta lui, gongolando. «Io ti piaccio! Stai sempre a fissarmi» rimbrotta lei, immusonita. Io mi godo la scena come se stessi guardando un film. Nessuno dei due ha capito che in realtà si piacciono entrambi. Perché, vedete, se una persona non è interessata a voi semplicemente vi ignora. Se invece quella è sempre lì a punzecchiarvi allora c’è qualcosa. Gli uomini sono rimasti come i bambini dell’asilo. Tu gli piaci e allora ti tirano i capelli o ti scarabocchiano il grembiulino o ti spingono a terra. E tu sei una bambina e non lo capisci ma lui nel suo modo contorto sta cercando di farti capire quello che prova per te. Il pasto continua con i battibecchi di Alfio e Bianca, io cerco di godermelo per quanto possibile provando a non pensare a tutto quello che vorrei. Alfio si congeda dicendomi che erà a prendermi stasera al locale, finalmente resto con B e posso una volta per tutte raccontarle l’accaduto di ieri. Ascolta

molto attentamente poi anche lei mi dà della stupida. No, ehi c’è nessuno? Sono io la parte lesa qui!!! «B davvero mi stai dando della stupida per averlo lasciato andare?». «Si Ro, davvero. Quando ti ricapita un uomo che piange per te, che smuove mari e monti per trovarti, quando?». «Oddio mari e monti non mi sembra proprio. Ma poi scusa parli tu che sei insofferente all’amore? Sarà che la presenza di mio fratello ti ha dato alla testa!». «Non dire sciocchezze! Io… lo detesto!». «Oh, andiamo Bianca! Puoi mentire a lui ma non a me, siamo donne certe cose le capiamo per osmosi». «Uff, come ti pare. E comunque stavamo parlando di te». «Facciamo che non parliamo più di nessuno, andiamo a farci qualche shot al locale prima di aprire?». «Assolutamente». Ridendo e scherzando beviamo più del consentito, considerando che tra pochissimo apriamo ai clienti, siamo leggermente alticce. Intanto arrivano i camerieri, i buttafuori e i colleghi addetti al bancone come noi. Fausto è più carino del solito o forse è la tequila. «Ehi splendore, sveltina in bagno?». Si è orrendo me ne rendo conto, è una battutina triste che fa ogni qual volta mi vede. Ovviamente l’ho sempre mandato a quel paese ma stasera voglio essere libera e sfrenata, voglio fare quello che faccio sempre e di cui poi mi pento, un “chiodo schiaccia chiodo” in vecchio stile che il giorno dopo ti fa sentire un verme. Ma il giorno dopo non è adesso. «Si Fausto. Cinque minuti, fatteli bastare perché a breve iniziamo». La sua faccia perplessa mi fa ridere, pensa che stia scherzando. A questo punto decido di prenderlo per mano e accompagnarlo nel bagno delle meraviglie, quello dove

in pratica si appartano tutti i miei colleghi. Bianca mi lancia un’occhiataccia malevola, so che non dovrei. Ma sti cazzi?! Il bagno fortunatamente è grande e pulito. Niente baci, niente preliminari. È solo per scaricare la rabbia e la frustrazione. Non sempre l’unica cosa che si cerca in un rapporto estemporaneo, come questo, è il piacere. A volte è solo il bisogno di lasciarsi andare e magari provare anche un po' di dolore. E così avviene, senza amore, senza sentimenti. Un mero atto fisico che però fa stare bene. Dura meno di cinque minuti, per la cronaca. «Mi dispiace principessa, di solito duro di più». Si come no, è una cosa talmente sentita questa che non ci crede più nessuno, ma siccome sono molto educata e gentile gli dico che non è un problema e che mi è piaciuto. Poi mi dirigo alla mia postazione e sorpresa… «Questi li ha portati un fattorino mentre tu eri a fare schifo con quel porco maniaco» Bianca mi porge un altro mazzo di rose con un bigliettino che cita:

“Ormai esisti dentro il mio cuore e la mia mente, troverò il modo di farti tornare da me. A.”

Mannaggia la miseria ma perché adesso, dopo che ho fatto quello che ho fatto? Mi sento un mostro, anzi no un mostro fa meno paura. Meno paura delle persone ferite che vogliono ferire loro volta. Perché io so di essere stata con Fausto per ripicca, per sfregio. Per potergli un giorno urlare che anche io gli ho fatto del male, che si è meritato oltretutto. Sentiamo la necessità impellente di dimostrare che possiamo andare avanti anche quando è palesemente falso. Ma poi lo dimostriamo a noi o agli altri? E questa dimostrazione ci aiuta o ci distrugge? Perché io non lo so. Non riesco a definire il confine che mi separa da ciò che è giusto e ciò che non lo è. La serata prosegue in una sarabanda di gente confusa e ubriaca. Quanto vorrei essere anch’io ebbra e spensierata. A fine serata trovo Bianca accigliata, le chiedo cosa c’è che non va ma mi ignora deliberatamente. Beve uno shot dietro

l’altro di vodka liscia. Volgo lo sguardo verso quello che stanno puntando i suoi occhi e lì capisco tutto. Biagio sta limonando con una biondina insipida. Che razza di deficiente. Rivolgo di nuovo lo sguardo verso B, è furiosa, livida. Menomale che non le interessava mio fratello! «Bianca i…». «Stai zitta! Io lo odio hai capito? Lo odio!». «Ok B, lo capisco ma…». «Ma niente, Rosa! Me ne vado». Prende la sua borsa e scappa via dirigendosi verso la sua vespa. Io, invece, avanzo verso Alfio e faccio una sfuriata tremenda spacciandomi per la sua fidanzata, cosicché la biondina gli molla un ceffone in piena faccia con una violenza spropositata. Ben ti sta, fratellone! «Ma sei scema? Che diavolo pensavi di fare?» sbraita, iroso. «Alfio hai deliberatamente punito Bianca senza motivo!». «Punito? Che stai dicendo?» domanda perplesso. «Oh, sveglia! C’è rimasta malissimo ed è scappata via». «Dove la trovo?». «Da nessuna parte, adesso andiamo a casa Alfio, per stasera hai fatto abbastanza. Domani, quando tu sarai già partito, le parlerò. Comunque, cercate di fare pace con il cuore». «Ro, che vuoi dire?». «Che si vede Alfio. Si vede che è scattato qualcosa tra voi. Si vede che l’hai fatto apposta, il teatrino di stasera, per farle un dispetto e lei c’è rimasta malissimo, quindi, si vede. È inutile fingere che non sia così solo perché siete spaventati entrambi». «Non so di che parli».

«Come no». È inutile cercare di far ammettere a un uomo che si è innamorato. Tempo fa lessi un libro che parlava di genitori e figli. Pare che i problemi relazionali degli uomini siano in realtà colpa delle madri. Le madri qualsiasi cosa facciano sbagliano. Se amano troppo, se amano troppo poco, se li viziano o se li rendono indipendenti troppo presto, se li sgridano o se non lo fanno. Ma sapete cosa? Il libro è scritto da un uomo. È facile far ricadere le tue colpe su qualcun altro così da non doverti assumere nessuna responsabilità per le cazzate che fai. Ma ragazzi, svegliatevi, oramai non vi crediamo più. Abbiamo capito che non è colpa del modo in cui siete cresciuti o dell’adolescenza turbolenta che vi ha segnato o la paura. È che siete stronzi e basta! Arrivati a casa, stanchi e sviliti ci diamo la buonanotte consapevoli che non ci rivedremo tanto presto.

Capitolo 21

Chi è la persona più serena dell’intero, fottuto, universo? Sono io. E sapete perché? Perché sono trascorse tre settimane. Tre settimane da quando è partito Alfio, tre settimane da quando ho visto Andrea e mandato a quel paese Costantino. E sapete cosa? Io sto da Dio. In questi ventuno giorni sono successe tantissime cose. La prima è che mia madre e mio padre sono finalmente venuti a trovarmi. Per mia fortuna solo due giorni ma, credetemi, sono stati più che sufficienti. Mia mamma è adorabile ma che pesantezza! È riuscita a farmi rimbambire del tutto. Mio padre, povera anima, mi è stato vicino in silenzio, come sempre, ma trasmettendomi tutto l’affetto possibile. Ma poi parlava sempre mia madre per cui anche volendo non avrebbe potuto fare altrimenti. Poi sono venuti a trovarmi Biagio e Lucia, un intero weekend. Stanno sempre insieme, anzi, mi pare di averli trovati anche migliorati. Hanno conosciuto i miei colleghi e appena possibile mare, bagni e abbronzatura a tutto spiano. Con Alex ci sentiamo, lui desidera che le cose tra me e Costa ritornino come i vecchi tempi ma io sono reticente e lui è stronzo per cui non si va da nessuna parte. Io e Fausto abbiamo iniziato una relazione puramente fisica. Abbiamo affinato la tecnica, durante le ore lavorative se lui mi fa l’occhiolino vuol dire che dobbiamo vederci in magazzino. Prima il luogo d’incontro clandestino era il bagno poi tutti si sono lamentati perché lo occupavamo troppe volte e per troppo tempo. Si perché adesso Fausto ha preso il ritmo e non dura più tre minuti e mezzo. Adesso arriviamo anche a dieci. Io e Bianca siamo amore puro. È ufficialmente entrata a far parte della mia cerchia familiare. Non fatevi strane idee. Lei e Alfio continuano a battibeccare continuamente. Per telefono, via mail, sui social, ovunque. Contenti loro.

Ma io, che ormai sono una veggente navigata, so che prima o poi lei sarà mia cognata. Lo sento sottopelle, come un brivido che ti fa rizzare i peli delle braccia. Qualcuno ha detto Andrea? Ah, no perché mi sembrava di averlo sentito nominare. Allora ve lo dico io. Andrea non l’ho più visto. Ma si è comunque manifestato. Volete sapere come? Vi dico solo che casa mia è un roseto. Ogni mattina Salvatore – il fattorino che ormai è divenuto mio caro amico – mi consegna un mazzo di rose rosse. Ogni mazzo è accompagnato da un bigliettino sempre maledettamente romantico. Forse e dico forse un piccolo frammento del mio gelido cuore si è sciolto, ma dobbiamo essere onesti, il potere da alla testa! Sapere che lui sta male per me, che ogni giorno fa mandare delle rose, che continua a chiamare i miei amici e parenti per avere mie notizie mi lusinga e mi decanta. Per la precisione chiama altri perché da cattiva quale sono l’ho bloccato da tutte le parti. Sto esagerando? Forse. Ma, vedete, voglio osservare fino a che punto riesce a spingersi, fino a che punto è in grado di sopportare questa situazione. Devo dire che fin qui è stato bravo, non lo facevo così caparbio e coraggioso, non demorde e questo mi rende felice. Sono perfida perché continuo ad amoreggiare con Fausto? Ma a me chi mi dice che lui non stia facendo lo stesso? Non giudicatemi, vi ricordo che lui è quello che è andato a letto con la moglie dopo avermi detto chiaramente che voleva “provarci” con me, voleva frequentarmi. Dopo che mi ha regalato il bacio più eccitante della mia vita. Lasciate in sospeso le mie elucubrazioni mi rotolo sul lettone e sbatto contro la persona che da giorni occupa l’altra metà del materasso. «Ahi, stai attenta». «Scusa B, mi stavo stiracchiando». Bianca vive da me, è iniziato per caso, ogni sera mi accompagnava a casa e poi tornava alla sua dimora. Fino a quando una sera, alticce, le ho proposto di dormire da me per non rischiare di ammazzarsi con la vespa, da li non è più andata via. «Che ore sono?» le domando con voce roca.

«Le tre». «Cavolo! Bianca dobbiamo pranzare e prepararci per andare al lavoro lo sai che il sabato dobbiamo aprire prima per l’aperitivo». «Lo so ma non voglio, è troppo comodo questo letto». «Dai forza, su». Mi alzo e mi dirigo in cucina per preparare il caffè. Si muore di caldo, giugno sta per terminare e la consapevolezza che rimangono solo due mesi di lavoro mi rattrista all’istante. Bianca non ha ancora deciso se partire con me e stabilirci insieme a Catania oppure no. Se non dovesse venire ne soffrirei tremendamente. Ma anche l’idea di lasciare tutti gli altri miei colleghi mi incupisce, mi sono affezionata a tutti loro, nessuno escluso. Siamo una piccola comunità di deviati, mi mancheranno troppo. Grazie a loro ho scoperto parti del mio carattere che non sapevo di avere, una leggerezza che pensavo non mi appartenesse e poi siamo onesti, questo lavoro seppur stancante è troppo divertente. Certo mia madre sostiene che prima o poi devo crescere e fare un lavoro più serio. Ma perché? Dov’è scritto? L’odore del caffè impregna tutta la casa e Bianca mi raggiunge per prendere la sua dose. «Adesso ci facciamo una doccia e ci vestiamo carine perché stasera è il compleanno di Guido e dobbiamo festeggiarlo. Quindi il nostro pranzo sarà un panino veloce alla bottega qua sotto» decreta B. «Si signora». Dopo il caffè ci prepariamo in bagno insieme. Avere la vasca è scomodo quando devi essere veloce, ma la cosa bella è che la si può fare in due. Ci facciamo questo bagno veloce parlando del più e del meno. Poi sistemiamo i capelli e il trucco aiutandoci a vicenda. Bianca è una maga dell’eyeliner, mai vista una riga così dritta. Dio benedica le amiche che ti truccano. Io lascio i capelli sciolti con qualche ondina, B li piastra liscissimi. Entrambe indossiamo un vestitino corto e stretto in cotone. Il suo verde, il mio bianco che con l’abbronzatura è pazzesco. Se non fosse che ci aspettano parecchie ore in piedi avremmo messo i tacchi ma non si può, quindi optiamo per dei sandali

gioiello molto bassi. Sotto casa mangiamo un panino con dentro mezza dieta mediterranea, pensate a un ingrediente qualsiasi e lo troverete, ma la fame era pressante dopo la sbronza di ieri sera. Saliamo sulla vespa, svergognate, i vestitini con le gambe aperte risalgono vertiginosamente sulle cosce ma a noi non importa, il pudore è rimasto a casa. Arrivate al locale organizziamo il piano di lavoro e ci dedichiamo alla preparazione dei vari stuzzichini per l’aperitivo. Il tempo scorre come un treno e alle ventidue Fausto mi fa l’occhiolino, segno che possiamo consumare. «B, torno subito» informo il mio capo perché mi sento in dovere di farlo, è pur sempre lei a cui io devo conferire ogni mia mossa. «Che schifo» mi risponde stizzita. La porta del magazzino è senza chiave, è sempre stato così e questo rende tutto dannatamente più eccitante. L’idea di dover far presto e la paura di essere scoperti manda la mia adrenalina oltremare. Io e Fausto siamo pratici, ormai. Lui abbassa lievemente i pantaloni, io alzo leggermente il vestito e sposto gli slip. Rapido e indolore. Sette minuti. Mi viene da ridere sembra la versione pornografica di “sette minuti in paradiso”, avete presente? No? Che razza di infanzia avete avuto? Io invece lo ricordo bene. Mi sistemo in fretta e asciugo il sudore dalla fronte, il magazzino è senza finestra, si squaglia. Probabilmente dovremmo cambiare posto per i prossimi mesi. «Perché non ti fai baciare mai?» chiede Fausto, sorprendendomi. «E’ troppo intimo». «Fare sesso non lo è?». «Non è la stessa cosa, Fausto. Un bacio è romantico e tra me e te non c’è

assolutamente niente di romantico» decreto decisa. «Potrebbe, se solo lo volessi». «Bè, non voglio». Non capisco perché i rapporti con l’altro sesso debbano essere sempre così complicati. Se tu vuoi una cosa seria, lui non la vuole. Se tu cerchi qualcosa di estemporaneo e privo di sentimenti, trovi l’uomo che invece vuole una relazione con tutti i crismi. Ma trovare, per una volta, una persona a te affine può succedere? Apro la porta del magazzino e due occhi luciferini mi gelano. Andrea. Fausto, come se niente fosse, sguscia fuori per tornare a lavorare, inconsapevole di avermi lasciata con un uomo che dallo sguardo sembra volermi sgozzare. «Quindi è questo che sei diventata?» mi accusa, malevolo. «Diventata cosa? Non ti permettere Andrea» ruggisco perché capisco al volo dove vuole andare a parare. «Io mi struggo per te dalla mattina alla sera, chiedo di te a chiunque, ti faccio recapitare fiori ogni giorno e ogni dannatissima frase, Rosa, ogni frase è venuta dal mio cuore. Perché mi sono sentito a pezzi senza di te. Se solo avessi saputo quanto tempo stavo perdendo dietro una persona così… vuota» sibila venendomi incontro. Spaventata e forse anche colpevole, indietreggio fino a sbattere contro il muro e non ho via di scampo. Adesso vorrei scappare, mettere della distanza tra di noi perché ancora una volta lui riesce a farmi sentire sporca. Il pensiero che abbia sentito i miei gemiti mentre stavo con Fausto mi annichilisce. «Nessuno ti ha chiesto di struggerti per me» affermo, rancorosa. «Sei come lei, come la mia ex moglie» afferma, consapevole che quel paragone mi fa male. Il nervosismo è alle stelle, vorrei prenderlo a schiaffi. «No, non è vero». «Si invece, non ti accontenti di un uomo che possa amarti, tu vuoi sempre di più, voi volete sempre di più. Siete ingorde, sporche, sbagliate e stronze» una sua

mano mi solleva il vestito. «Non osare» lo minaccio anche se sento bruciare la mia pelle e non so se è il contatto con la sua mano o se è la temperatura di questa trappola mortale che è il magazzino. «Perché no? Non dirmi che i cinque minuti con il tuo amico ti sono bastati. Io le conosco le donne come te, Rosa. A voi non basta mai» le sue mani mi toccano e quasi perderei la testa se non fosse che le sue parole mi toccano di più. Non sono disposta a are per una poco di buono. Gli mollo un ceffone in piena faccia con una veemenza tale che la guancia si arrossa subito e in bella mostra vi sono le mie cinque dita stampate. «Vattene. Via». «Sei una delusione Rosa. Sei come tutte le altre. Ma sai… alla fine se c’è qualcuno in questa storia che ci perde qualcosa, quella sei tu». «Ma cosa ti aspettavi Andrea? Io non ti ho illuso. Sono sempre stata coerente, non ho risposto a nessuna tua chiamata, nessun messaggio. Non ti devo niente, tanto meno delle scuse. Sono andata avanti con la mia vita dopo aver deciso che non ti volevo accanto a me. E sono stata chiara, da subito». «Io pensavo che volessi solo una dimostrazione che io tenessi a te e, da stupido, pensavo di esserci riuscito. Alfio mi ha detto che parli con lui di me, quindi adesso non venirmi a dire che non ti importava. È solo che volevi tenere il piede in due scarpe!». «Vaffanculo Andrea». Senza aspettare una sua replica mi stacco letteralmente dal muro al quale mi ero appiccicata e mi reco al bancone. Parlo velocemente con Bianca dicendole che non mi sento bene e che ho bisogno di andare a casa, ma lei non è stupida e capisce che qualcosa non quadra, nonostante tutto mi dice di andare e chiamarla l’indomani. eggio per il lungomare e sento dei i dietro di me. So che è lui che mi sta seguendo. Sento il suo maledetto profumo che ha perseguitato i miei giorni e le mie notti. Arrivo al portone di casa, entro e lo lascio aperto, non so neanche perché. Continua a seguirmi salendo le scale dietro di me, sento il suo affanno che si conficca nelle mie orecchie come una malia.

Una volta in casa mi decido a girarmi e lo guardo. È sempre bellissimo da fare male. È ingiusto essere così belli perché ci perdi la ragione. «Cosa vuoi?» domando, infine, trovando il coraggio di affrontarlo di nuovo. «Te. Voglio te anche se non mi meriti, voglio te anche se sei una stronza, voglio te anche se sei stata con un altro e, infine, voglio te perché non posso stare senza». Mi sciolgo come un cioccolatino al sole di agosto. Mi avvicino e lo bacio. E le sue labbra mi sono mancate così tanto che non mi capacito di averne fatto a meno per tutto questo tempo. Mi manca il respiro ma respirare in questo momento è superfluo e mi toglierebbe del tempo prezioso, come se non ne avessi perso abbastanza fino a ora. Ci spogliamo e finiamo rovinosamente a terra a fare l’amore come animali perché c’è troppa rabbia, troppe cose da recriminare e troppo dolore da risanare. E quindi che importa se mi fa male la schiena, se il pavimento è gelato, se lui si sta distruggendo le ginocchia. Siamo solo noi, sbagliati e pieni di problemi, finalmente insieme ad affondare i nostri corpi stanchi l’uno dentro l’altra. A farci altro male non sapendo cosa ne sarà di noi domani. Ma se questa deve essere la nostra ultima notte voglio che faccia male, che mi lasci delle cicatrici nell’anima che potrò toccare tutte le volte in cui io penserò a lui, a noi. La notte scivola silenziosa, lui è sempre dentro di me e io ho paura di chiudere gli occhi e scoprire che è andato via per sempre.

Capitolo 22

Ho combattuto contro un sonno che voleva vincermi e infine c’è riuscito. Mi sono addormentata. Apro gli occhi ed essendo un openspace mi rendo subito conto che o Andrea si trova in bagno o è andato via. Mi sollevo e scendo, nuda, dal letto. Questo silenzio è assordante, mi premuro di controllare anche se so per certo che lui non c’è. E lo so perché ne manca l’odore e in qualche modo anche la presenza. Io lo percepisco, anche quando non lo vedo. Mi affaccio in bagno e, come immaginavo, è dolorosamente vacante. Mi ha lasciata, si è preso ogni cosa di me e poi è scappato. Dovrei odiarlo ma odio più me stessa per aver permesso che mi toccasse, mi baciasse, che prendesse ogni centimetro del mio corpo, che ne occue il cuore, lo derubasse di ogni sentimento e lo lasciasse privo di vita. È solo colpa mia. Scoppio in un pianto trattenuto, forse, per troppo tempo e mi sfogo. In momenti come questi, di solito, chiamerei Costantino ma il nostro rapporto vacilla e non sarebbe coretto da parte mia contattarlo adesso solo perché ne ho bisogno. Però non posso stare da sola, per cui telefono a Bianca che, sentendo la mia spezzata voce, mi comunica che sarà da me in pochi minuti. Indosso le prime cose che mi capitano in mano e mi chiudo in bagno per sciacquare la faccia, nella speranza che come il mio viso anche il mio umore rinsavisca, ma non è così. Suona il citofono, è arrivata. Corre sulle scale e quasi inciampa, le corro incontro anch’io e la abbraccio. Mi accarezza la testa e nella mia mente un amarcord del ato rivive, ricordandomi la mia dolce nonna Agata. Mia nonna che mi manca immensamente ma alla quale mi sono imposta di non pensare da quando mi trovo a Cefalù, per non tornare indietro. Perché solo lei potrebbe farmi tornare a casa anche se non voglio. Faccio accomodare Bianca in cucina e le racconto ogni cosa. Di Fausto, di Andrea che ci sorprende, della lite e dell’amore di ieri sera. Lei ascolta attentamente, mi accarezza e mi dice che lo capisce, che capisce che Andrea è un uomo addolorato che ha reagito con l’intento di piegarmi come io ho colpito lui. A questo punto mi chiedo quale sia la fine di questa storia. Ci facciamo del male dal giorno in cui ci conosciamo, forse è un modo contorto dell’universo per dirci

che non siamo fatti per stare insieme. Voi ci credete nel destino? Perché io sì. Credo che ciò che deve succedere, accada anche contro la nostra volontà e ciò che non deve invece troverà ostruzionismo in ogni dove. Quindi adesso che devo fare? Bianca sostiene che devo tornare a Catania, che devo parlare con lui con lo scopo ben preciso di perdonarci a vicenda e ricominciare, come se niente fosse successo, come se non ci fossimo fatti così tanto male. Ma posso farlo? No, non posso, ieri mi sono sentita come la peggiore delle puttane e lo sappiamo tutti che non è vero! Che a volte le situazioni nascono dal bisogno di proteggersi. Probabilmente è stato molto più crudele lui, ieri sera, che io in tutti questi mesi. Perché io non volevo che lui lo sapesse, mi ha scoperta, è stato un caso. Ma lui lo ha fatto di proposito. Mi ha ferito consapevolmente e fare del male a qualcuno palesemente è davvero una cosa brutta, ignobile. Però su una cosa B ha ragione, devo rientrare a Catania. Voglio vedere mia nonna, la mia famiglia, voglio chiarire con Costantino e uscire con Lucia. Ho nascosto la testa sotto la sabbia fino a ora e non posso continuare. «Bianca, se torno a Catania devi promettere che a settembre, quando il locale chiuderà, tu verrai da me». «Lo farò Rosa, perché ti voglio bene e perché mi manca insultare tuo fratello». E così ridiamo e piangiamo come quando spunta un arcobaleno per pochi secondi e poi scompare. iamo la giornata a preparare le mie valige, quello di stasera sarà il mio ultimo turno di lavoro e voglio arlo bene, con le persone a cui mi sono affezionata e che spero di rivedere, anche fosse la prossima estate. Chiamo mia madre e le dico che domani torno a casa. Non ci avevo pensato, ma tornare così su due piedi equivale ad andare a vivere con i miei. È una tragedia. Lei è, ovviamente, felicissima e lo comunica seduta stante a mio padre e Biagio che si trovano con lei al panificio. Dopo chiamo Alfio, non gli racconto cosa è avvenuto con Andrea ma gli dico solo che ho bisogno di tornare a casa, sembra contento ma la sua voce è diversa dal solito e so perché, non essere più a Cefalù significa che non potrà venire a trovarmi tutti i fine settimana e vedere Bianca.

Lo lascio sobbollire fin quando non sarò da lui e gli dirò che B ci raggiungerà alla fine dell’estate. Infine, mando un messaggio ad Alex e comunico anche a lui che sono di ritorno. Il turno inizia lento, ho avuto modo di chiacchierare con i colleghi e spiegare che devo rientrare a casa. Non ho dato giustificazioni al riguardo perché non credo sia necessario. Ho parlato, da sola, con Fausto. Ne sentivo la necessità anche se non so bene perché, in fondo ha sempre conosciuto le mie reali intenzioni. Mi ha abbracciata e, francamente, non me lo aspettavo. Ho ricambiato l’abbraccio e l’ho invitato a farmi visita se e quando ne avrebbe avuto voglia. Mi ha assicurato che, presto, lo avrebbe fatto, nel frattempo continueremo a sentirci perché credo di volere che lui sia mio amico, nonostante tutto. Preparo ogni cocktail con devozione, con la consapevolezza che forse per del tempo indefinito non ne farò altri. E chi lo avrebbe detto che mi sarebbe piaciuto lavorare come dispensatore di peccati?! Mi sento più serena, adesso. È come se stessi cercando di rimettere a posto le cose che avevo scombinato prima di partire. È come la sensazione di fare un puzzle, all’inizio è tutto sconclusionato e per quanto ci provi spesso i pezzi non combaciano e ti assale lo sconforto. Poi però, lentamente, ogni pezzo trova il suo e quando tutto è terminato, e il tuo puzzle rappresenta esattamente l’immagine della scatola, senti la pace. Come se avessi fatto qualcosa di giusto nella tua stramaledetta vita sbagliata. Certo, fino a quando non hai un altro puzzle e ricominci tutto daccapo, non è forse così la vita? Quando, alle tre e quaranta, terminiamo ufficialmente, una leggera commozione mi sale agli occhi e mannaggia mi sembra di non riuscire a fare altro, ultimamente, che piangere e piangere. Abbraccio i miei compagni di viaggio, mi soffermo su Bianca e i singhiozzi triplicano, piange anche lei. So che ci rivedremo presto, ma ehi noi isolani siamo fatti così. Legati a ogni cosa fino al midollo. È molto tardi ma questa notte so per certo non riuscirò a dormire. Ne approfitto per sistemare le ultime cose e ripulire, in modo da lasciarmi alle spalle una casa pulita e profumata come l’ho trovata. Alle sei sono stremata, stanca e mezza addormentata. Ciondolo da una parte all’altra senza meta. Il mio autobus parte alle sette e trenta, in questa ora e mezza

che mi attende decido di fare una eggiata schiarisci idee, quelle in cui cammini e poi scopri di aver percorso cento chilometri. La mia prima sosta è al bar per la consueta brioche con la ricotta e il mio caffè con goccio di latte. Poi proseguo fino ad arrivare al pub. È chiuso e dall’esterno sembra quasi una baracca fatiscente. Mi avvicino e accarezzo il vetro della porta d’ingresso bisbigliando una tacita promessa, tornerò. Scopro di aver perso più tempo di quello che credevo ed è tardissimo, trotterello verso casa di Alex, prendo le mie valigie e mi dirigo in stazione. Una volta in autobus mando un messaggio ad Alfio chiedendogli di venirmi a recuperare non appena arrivo, risponde subito affermativamente, prendo le cuffiette e mi lascio cullare dalle note dolci e malinconiche di Ezio Bosso, confidando in un sonno ristoratore. «Bestiolina, ehi, bentornata a casa» la voce di mio fratello Alfio mi riscuote dal torpore nel quale ero scivolata. Ho la schiena a pezzi e la bocca arsa. «Fratellone!». Lo abbraccio e mi stiracchio. Salto giù dal bus e prendiamo le valigie, poi ci dirigiamo alla macchina. «Ho una sorpresa per te» dice Alfio, sorridendomi. «Cosa?». «Vieni a stare da me, ti ho preparato la cameretta» annuncia, serafico. «Oh mio Dio! Grazie fratellone» non sto nella pelle, questa notizia mi rende euforica. L’idea di non avere mia madre tra i piedi è appagante. Certo, dovrò sorbirmi tutte le “amiche” di Alfio ma so che sarà per poco. La mia prima missione sarà trovare casa, di nuovo. «Alfio mi lasci da nonna? Ho troppa voglia di vederla, ti raggiungo a casa più tardi». «Sei sicura, bestiolina? Ricordi che Andrea lavora lì, vero?».

«Lo so, ma non importa, davvero». Bè insomma, un po' importa ma non posso evitare di frequentare la villa solo per non vederlo, credo di dovermene fare una ragione a un certo punto. Quando Alfio mi lascia di fronte l’ingresso di villa Alma sento sfarfallare il cuore nel petto. Cerco di non pensarci ma, diavolo, mi sudano anche le mani. Mi incammino e scopro che le cose non sono cambiate, Sandra è sempre alla reception e mi sorride. Mi informa che mia nonna è nel giardino nel retro. La vedo, ma non è sola. Accanto a lei è seduto Andrea bello come non si merita. Vorrei andare via ma il mio orgoglio per una volta fa capolino nella mia testa e mi impone di affrontare la graticola. Prima o poi sarebbe successo, meglio togliersi subito questo masso dalla scarpa. «Nonna bella» quasi urlo, lei si gira e mi sorride. Bella lei. Andrea sbianca, non pensava di vedermi, certo. «Rosa, vituzza mia» abbraccio calorosamente nonna e le bacio la testa, la fronte, le mani. Ne inalo l’odore che mi ricorda l’infanzia. «Mi sei mancata da morire, nonna» le dico con gli occhi lucidi, perché solo adesso mi rendo conto di quanto è stato difficile senza di lei. «Anche tu, amore. Lui è il mio neurologo Andrea Caruso» lei non ricorda di aver già fatto le presentazioni tempo addietro. «Si, lo so. Salve Andrea» lo guardo e mi sembra ancora più magro dell’ultima volta, nonostante sia ato solo un giorno. «Salve Rosa, vi lascio. A più tardi donna Agata» si solleva per andarsene ma un automatismo non controllato della mia mano lo blocca. «Aspetta, possiamo… possiamo parlare?» domando indecisa. «Non abbiamo niente da dirci» conclude, spietato. «Ti prego…». Da non credere alla fine io lo sto supplicando. Cretina.

Muove in maniera quasi impercettibile il capo, bene, possiamo parlare allora. Dico a nonna che ritorno subito e lo seguo. Mi porta nel suo studio e solo adesso mi rendo conto di non esserci mai stata. Ma perché avrei dovuto? «Cosa vuoi?» chiede lapidario. Cosa voglio? E che cavolo ne so. Prendo tempo perché non so cosa dire, lo studio e mi soffermo sulle sue labbra morbide e carnose, piene di lussuria e desiderio. «Baciarti» dico, infine, sorpresa quanto lui dalla mia uscita inaspettata. «Cos’è non hai più l’amichetto con cui sartela?» mi provoca, il bastardo. «Tu non sei così, Andrea. Io so che non lo sei, vuoi ferirmi? Bene accomodati, ma io so che possiamo essere qualcosa insieme, e sai cosa? Ho appena deciso che ci proverò, ci proverò con tutte le mie forze a farti cambiare opinione su di me». «Impossibile». «Oh, no Andrea, impossibile sarà la tua vita da questo momento in poi, verrò qui tutti i giorni, erò il tempo sotto casa tua, ti darò il tormento, dovrai cedere prima o poi». Un timido sorriso gli solleva le labbra, è compiaciuto, molto bene. Questa consapevolezza appena nata mi rinvigorisce, preparati dottore perché non avrai scampo. «Devo lavorare, addio Rosa» mi scansa con una mano e si incammina nel lungo corridoio. «A presto dottore, molto presto» urlo, consapevole che mi abbia sentito. Ritorno da mia nonna e o con lei tutto il pomeriggio. In serata mi reco dai miei genitori per una serata di bentornato coi fiocchi. Mia madre ha preparato un banchetto di nozze. Dice che l’ultima volta mi ha vista dimagrita. Non è vero ma faccio finta di nulla. Si aggregano anche Biagio e Lucia e a sorpresa Alex e Costantino. Questo proprio non me lo aspettavo. Costa appena mi vede mi abbraccia talmente forte che rischio la rottura delle costole.

«Mi sei mancata gallina». «Anche tu Costa, anche tu». «Mi dispiace» diciamo, infine, all’unisono e questo ci fa ridere perché fondamentalmente siamo due idioti ed è per questo che siamo amici. Al nostro abbraccio si unisce Lucia e poi Biagio, Alfio e anche i miei genitori. Sapere di essere mancata così tanto è allucinante, mica lo credevo possibile. Mangiamo in maniera spropositata, ridiamo e ci raccontiamo tutto quello che ci siamo taciuti in questi mesi. Prima di tornare a casa chiedo a mio fratello di fermarsi sotto casa di Andrea e di aspettare in macchina. Il mio Romeo è sul balcone. «Dottore, volevo darti la buonanotte. Sognami» urlo sguaiata e gli mando un bacio volante con la mano. Lui ride e questo è un buon segno. Ritorno in macchina da mio fratello che mi guarda come se fossi pazza. Ehi, te ne sei accorto solo adesso? Finalmente a letto, collasso.

Capitolo 23

Sapete quante cose si possono fare in dieci giorni? Ve lo dico io. Due serenate in piena notte. Rischiando una denuncia. Dieci mazzi di fiori. Uno per ogni giorno. Girasoli, per la precisione. Cinque lettere. Un giorno sì un giorno no. Scritte di mio pugno e talmente romantiche che quasi viene da vomitare. Diversi pedinamenti. Ho perso il conto. Sono una stalker professionista, ormai. Chiamate di imprecisato numero ma direi tendente all’infinito. Messaggi? Pff… talmente tanti che mi è venuta una tendinite dolorosissima. Dichiarazioni d’amore? Solo una e avverrà stasera! Tutti i miei amici e anche i familiari sono a conoscenza della mia follia. Tramite Sandra ho scoperto che alle venti Andrea finisce il turno quindi so quando potrò trovarlo in casa. Mi preparo psicologicamente e fisicamente. Musica a tutto volume per esaltarmi ancora di più, stasera mi gioco tutto anche perché altrimenti non saprei cosa altro inventarmi. Con la voce sensuale di Janelle Mone che intona Make me feel mi trasporto in bagno per docciarmi. Finito velocemente il lavaggio asciugo i capelli in movimentate onde e li lascio ricadere sulla schiena. Trucco lascivo e accattivante per accalappiare la mia preda, smokey eyes, eyeliner e rossetto rosso fuoco. Minigonna di jeans e canotta in pizzo nera. Ovviamente tacco dodici vertiginoso. Spero di non spaccarmi l’osso del collo. Sono pronta. Alle venti e trenta sono sotto il balcone di Andrea, la luce è accesa. Bene. In ansia come non mai inizio a urlare catturando l’attenzione delle persone vicine. «Dottoreee… dottore!». La portafinestra viene aperta e il mio uomo avanza fino

a sporgersi. La sorpresa è lampante sul suo volto. Proseguo prima che prenda la parola. «Non posso dire che questi dieci giorni siano stati troppi, ma credo che siano abbastanza. Abbastanza per farti capire che non demordo, che continuo per la mia strada e ottengo quello che voglio. E quello che voglio sei tu, dottore. Ti voglio come sei, sai? Così, tutto sbagliato e anche un po' stronzo. Diffidente e taciturno. Voglio prendere tutto di te. I tuoi difetti e le tue paturnie mentali. I tuoi errori e le tue paure. Permettimi di farne parte, di far parte del tuo caos, della tua vita». «E perché dovrei?». «Perché io ti amo Andrea. Amo tutto di te». «Io ti odio, invece». Chiude con forza la finestra e la luce si spegne. Io resto sospesa in un limbo perché non capisco cosa è successo. Attorno a me c’è una piccola folla che bisbiglia scioccata. Poi il portoncino si apre e lui è di fronte a me. «Io ti odio» ribadisce, a un soffio dalle mie labbra. «Menti». «Ti odio, Rosa». «Bugiardo, tu mi ami. Dimmelo» affermo, ma la mia voce è titubante. «No». «Dimmelo Andrea, perché io non ci credo che tu non provi niente per me. Io lo sento. Lo sento qui» prendo la sua mano e la appoggio sul mio petto. «Senti anche quanto vorrei prenderti per i capelli e farti male? Senti quanto mi fai incazzare? Senti quanto vorrei metterti sulle mie gambe e sculacciarti perché mi fai impazzire? Senti che senza di te mi sento morire?» sussurra al mio orecchio e quasi ho un mancamento. «Lo sento».

«Senti che combatto contro un sentimento che vorrei reprimere? Senti che ti amo così tanto che mi sembra mi esploda il cuore nel petto? Lo senti, Rosa, che senza di te la mia vita non ha senso?». «Si». E mi bacia, finalmente. Mi sembra di aver aspettato questo momento per tutta la vita. Come se ogni cosa girasse inconsapevolmente attorno a lui. Il suo sapore, il suo profumo, mi mandano letteralmente all’inferno. E so che adesso non fa paura, che voglio restarci in questo mare di fuoco che mi scorre nelle vene. Attorno a noi parte un applauso, mi sento dentro un film, una pellicola che abbiamo creato insieme, ma questo film è solo l’inizio, incomincia da qui questa storia. Da due persone che si amano. «Vieni con me» mormora Andrea prendendo la mia mano e intrecciandola con la sua. Lo seguo in casa e mi fa strada verso la sua camera da letto. Potete immaginare, no? Non c’è mica bisogno che vi spieghi cosa sta succedendo. Anzi, per favore, quando uscite chiudete la porta! È mattina, il sole filtra dalle tende della camera da letto del mio dottore, ma lui non c’è, mh, non è un buon segno. Mi sollevo e il mio corpo protesta, stanotte abbiamo fatto il Cirque du Soleil e i miei poveri muscoli sono tutti indolenziti. Però che notte, eh. Non pensavo esistessero così tante posizioni, cioè potremmo scrivere una versione del kamasutra 2.0. Un odore familiare mi trascina in cucina e boom! È lì super figo che mi prepara la colazione. Cosa posso chiedere di più? Bè in realtà potrei chiedere che quella colazione venga servita sul mio corpo e che… ok la smetto. «Ma buongiorno» sussurro, ancheggiando verso di lui. «Buongiorno a te» ricambia prendendomi tra le sue braccia e donandomi un casto bacio sulle labbra, troppo casto. «Che profumino…ma quelle? Ehi ma sono le brioche del panificio!» esclamo sconvolta. Quando è uscito? «Eh già. Sono andato presto stamattina a parlare con i tuoi genitori». «Ehm… parlare di cosa?».

«Di noi. Sai, quando tu sei scappata e io mi sentivo perso sono andato tutti i giorni a trovare i tuoi genitori nella speranza di rubare qualche informazione e, una cosa tira l’altra, si può dire che è nata un’amicizia». «Cosa?» domando esterrefatta. Ma perché nessuno mi ha detto niente? «Non ti va bene? Insomma, ora che noi stiamo insieme volevo ufficializzare la cosa» ammette lui, scrollando le spalle come se avesse detto una cosa assolutamente normale. «Ufficializzare? Pensavo volessimo fare le cose con calma». «Rosa, piccola, abbiamo perso troppo tempo, non voglio dovermi nascondere o doverti dividere con qualcun altro, ti voglio per me ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette, diciamo… per i prossimi sessant’anni?». «Oh Gesù, io…». «Tranquilla, non è una proposta di matrimonio, non ancora. Voglio solo essere chiaro e farti capire le mie intenzioni. Intenzioni molto serie signorina Cantarella». «Molto bene, dottor Caruso, vuole nutrirmi adesso?» domando licenziosa e accomodandomi sulle sue gambe. «Magari tra un attimo, piccola, ho intenzione di mangiare per primo» e così dicendo mi catapulta sul suo tavolo in mogano. E che ve lo dico a fare… è stato scomodo ma meravigliosamente erotico. Andrea sostiene che dobbiamo “battezzare” ogni superficie di casa sua e un domani anche della mia, la cosa inquietante è una fioriera rettangolare piena di cactus, non vorrà farlo anche su quella spero! In tarda mattinata decidiamo di organizzare un pranzo in un ristorantino sul mare, potevamo essere soli? Certo che no. Si è premurato di chiamare i miei genitori, i miei fratelli e i miei amici. Quando gli ho chiesto perché non invitasse anche i suoi ho scoperto tristemente che Andrea non solo è figlio unico ma che i suoi genitori sono ati a miglior vita quando lui era ancora un bambino, è stato cresciuto da una zia della mamma che

però ormai è molto anziana e vive nel palermitano. Il solo legame “famigliare” nella sua vita è stata Anna l’ex moglie. L’ha conosciuta quando erano ancora due adolescenti, si sono sposati presto e lui è rimasto con lei proprio per quella sensazione di condivisione che non ha mai avuto. Gli ho proposto di mantenere i rapporti con lei, in fondo sono stati insieme tanti anni e hanno condiviso troppe cose per fingere di essere solo due estranei. Lui non è d’accordo ma confido nel fargli cambiare idea. Non sono la fidanzata migliore del mondo? No eh? Il pranzo è forse il migliore in assoluto degli ultimi trent’anni. Tutte le persone che amo sono qui, compresa mia nonna che ovviamente mi ha ripresentato Andrea. Manca solo Bianca ma ci stiamo organizzando, devo solo pazientare ancora un po'. Andrea tiene la mano sulla mia coscia per tutto il tempo, ogni tanto mi sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio o mi pulisce l’angolo della bocca quando mi sporco o mi accarezza una spalla o, ancora, mi solleva la bretellina del reggiseno quando mi scivola, il tutto con naturalezza, senza malizia, come se fosse una cosa che fa da sempre e che gli viene automatica. «Sai tra tutte le cose che amo di te, qual è quella che amo di più?» gli domando sotto il vocio degli altri commensali. «Quale?». «La spontaneità dei piccoli gesti».

Epilogo

Sei mesi dopo…

«Cosa cavolo ci fa lui qui, nudo, sul mio divano?» urlo, fuori di me. «Ops, pensavo fossi uscita!» si scusa Bianca. «Mi fate venire il voltastomaco. Alfio, vestiti» dico, buttando una coperta in faccia a mio fratello che giace mezzo nudo sul divano della mia casa, anzi, casa nostra, mia e di Bianca. Si perché settembre è arrivato portando con sé il mio ex capo. Ho trovato un appartamento molto carino situato strategicamente tra casa di Alfio e casa di Andrea. È piccolo ma efficiente, condividiamo il bagno e la cucina poi ognuna ha la sua stanza singola. Spesso mi ritrovo a dormire da Andrea, lui desiderava mi trasferissi da lui ma non voglio bruciare le tappe. Mi piace che lui i a prendermi, che niente sia scontato o previsto. Mi piace l’idea di fare gli innamoratini adolescenti. Purtroppo però ultimamente Alfio e Bianca si dedicano ad attività piuttosto rumorose e giuro, sentire mio fratello godere mi fa sanguinare le orecchie. A loro dire non hanno una relazione bensì si dedicano ai piaceri effimeri del corpo. Voi gli credete? Perché io no. Io e B abbiamo trovato lavoro al M’Ama un locale notturno situato in centro. In pratica lavoro e a fine turno raggiungo Andrea che giace addormentato, lo abbraccio e condivido con lui le poche ore a disposizione perché poi tocca a lui andare a lavorare. Ci ritagliamo del tempo quando possibile. Adesso stiamo organizzando una fuga d’amore sotto Natale. Il nostro primo Natale insieme, mi auguro il primo di molti altri. Biagio ha diligentemente deciso di fare la proposta a Lucia e lei, con mia grande gioia, ha detto sì. Il matrimonio avverrà il prossimo anno. Loro continuano a battibeccare come sempre ma forse è solo il loro modo di amarsi. Alfio e Bianca come già detto si frequentano continuando a farsi la guerra. Ma non mi preoccupo, come dicevo anche molti mesi fa, la vedo già come mia cognata. Alex e Costantino hanno anche loro ufficializzato. I genitori del primo hanno

accettato subito Costa e sono felici che il figlio ha finalmente trovato una persona con cui condividere la vita e, infatti, sono andati a convivere. I genitori di Costantino non hanno accettato un bel niente ma lui non si dispera più. Ha capito che certe cose non possono cambiare e farne un cruccio non risolverà la situazione. Quindi va avanti per la sua strada. I miei genitori adorano Andrea e mi pressano per renderli al più presto nonni. No, ma dico, siete pazzi? Non sono pronta, né ora, forse mai. Io sono felice, a volte incredula, per la piega che ha preso la mia vita, perché di certo non era quello che mi aspettavo ma molto, molto meglio. Adesso vado a trovare mia nonna che, aimè, non mi riconosce quasi più, ma non importa. Importa che io riconosca lei e che le stia vicino per i suoi ultimi i in questa vita meravigliosa di cui mi ha reso parte. Quando arrivo alla villa la prima cosa che faccio è are a salutare l’amore della mia vita. «Ehi dottore, la disturbo?». «Mai, Rosa, lei non disturba mai». «Mi sei mancato». «Mi sei mancata anche tu». «Vado a salutare nonna, a dopo». «A dopo, piccola». E questo “a dopo” suona di per sempre.

Playlist

Teardrop – Massive Attack Photograph – Ed Sheeran Hurricane – Thirty Seconds To Mars River – Bishop Briggs La Vida Es Un Carnival – Celia Cruz Human – Rag’n’Bone Man Besame Mucho – Cesaria Evora Maracaibo – Lu Colombo Million Years Ago – David Dayel Make me Feel – Janelle Mone

Ringraziamenti

Il primo ringraziamento va a tutti coloro che hanno letto, recensito e commentato il mio primo romanzo “Chiama Quando Arrivi”, siete in tantissimi, mi avete riempito di gioia e speranza, grazie infinte. Il secondo ringraziamento va a voi che avete comprato questo mio secondo romanzo e siete arrivati fino alla fine. Spero abbiate riso, pianto e gioito come me, quando ho scritto questa storia. Grazie a voi di cuore. Ovviamente ringrazio tutta la mia famiglia che è molto numerosa e sparsa per tutta l’Italia. Un grazie speciale va alle mie nonne, dalle quali ho preso spunto per il personaggio di nonna Agata. Vi voglio immensamente bene. Grazie a Bionda e Regina per tutti i lavori che svolgono al posto mio. Riuscirò a sdebitarmi un giorno. Lettori, ci rivediamo alla prossima storia, spero.

L’Autrice

Daniela nasce a Caltagirone, in provincia di Catania, alla fine dei colorati anni ottanta. Vive un po' ovunque ma anche da nessuna parte. Ha studiato economia, niente di più lontano dal mondo della scrittura, ma da piccola scriveva ovunque, anche sopra i bugiardini dei farmaci che si rivelarono, nel tempo, una delle sue letture preferite. La scrittura nasce per caso, in un periodo buio della sua vita. Non era previsto si auto pubblicasse ma alla fine ha vinto la curiosità di scoprire se effettivamente quello che scriveva aveva un riscontro con il pubblico. “Chiama Quando Arrivi” è il suo romanzo d’esordio. “Tutte le cose che Amo di Te” nasce, invece, da un periodo molto divertente ato nell’hinterland Catanese. Continuerà a scrivere perché scrivere non è un mestiere quanto un modo di evadere.

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