Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzione dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
Copyright 2013-2014 by Michael R. Wings Tutti i contenuti sono depositati e se ne vieta la riproduzione anche parziale senza il consenso dell’autore stesso
In copertina “San Giovanni nella Selva (Bacchus)”
Leonardo Da Vinci 1510
DENTRO
Michael R. Wings
Titolo | Dentro
Autore | Michael R. Wings
ISBN | 9788891190987
Prima edizione digitale: 2015
© Tutti i diritti riservati all’Autore
Youcanprint Self-Publishing
Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)
[email protected]
www.youcanprint.it
Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun
modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.
Ai miei genitori…
PA 07-97 (3,4) PA 19-76 (2,1)
La verità è senza menzogna, è certa è autentica. Ciò che è sotto è identico a ciò che è sopra e ciò che è sopra è identico a ciò che è sotto; questo permette di penetrare le meraviglie dell'unità. [cit. Tavola smeraldina - Ermete Trismegisto]
PROLOGO
21 Maggio 1506 – ore 20.46 Firenze
[Lunedì]
audace ragazzo ventitreenne sorrise. Il compito assegnatogli dalla confraternita lo rendeva orgoglioso.
“Dare inizio al percorso”, un grande onore!
Papa Giulio II, uno degli adepti di massimo grado, lo aveva ingaggiato per affrescare la volta e tutte e quattro le pareti della stanza vaticana. Una grande opera, che richiedeva però l’attesa di tre, quattro anni perché i lavori di ristrutturazione terminassero. Poco importava. A contare era solo il fatto che tutto fosse stato deciso e che lui fosse il prescelto. Anche perché, il lavoro da eseguire cominciava subito. Era stato tutto calcolato, nessuno sarebbe riuscito a trovare il filo logico che collegava le due cose. Era certamente la scelta migliore. Al termine dell’ultimo incontro segreto gli fu affidato, trascritto su di un minuto foglio di carta, il disegno che avrebbe cambiato le sorti di tante vite. Avrebbe dovuto lasciare un segno ai posteri, un segno indelebile. E la soluzione giusta non poteva che essere l’oro.
Ancora galvanizzato, fece quasi fatica ad alzare il coperchio del baule riposto sotto il tavolo da lavoro. Tolse i due grossi barattoli di argilla rossastra che vi erano al centro e premette leggermente la base verso il basso. Un meccanismo ben congegnato scattò e la molla metallica rilasciò tutta la sua tensione facendo girare, lentamente, le piccole ruote dentate. Uno sfregamento leggero delle parti in ciliegio e il doppio fondo si aprì. “CT”: la sigla sembrava brillare di luce propria. Il sacchetto di iuta su cui troneggiava era tenuto chiuso da un laccio scuro. Dopo averlo adagiato sul piano, lo aprì ed estrasse la grossa pepita che ammirò per un po’, facendosela girare tra le mani. La luce della candela la faceva splendere ancor di più. Era come se avesse un’anima. Era viva. Con una lima sottile ricavò delicatamente un mucchietto di polvere fine, prestando attenzione a non perderne neanche un granello. Lo aveva già fatto altre volte, ma in questa circostanza era diverso, tutto era nelle sue mani. Sospirò. Era rischioso. Il lavoro doveva essere portato a termine con la massima perfezione, qualsiasi errore significava essere scoperti. Non doveva succedere. Si fermò un secondo e
si asciugò il sudore dalla fronte. Pensare alla responsabilità cui era chiamato lo faceva sentire caldo, quasi febbricitante. Ma ne valeva la pena e non c’era tempo da perdere. Doveva esserne solo felice, nient’altro doveva distrarlo. Si calmò. Il primo strato di gesso, necessario a livellare il legno, lo aveva preparato la sera precedente ed era appena asciugato. Seguì la diagonale del tempo: da sinistra a destra, dal basso in alto. Doveva inserire “il principio”, quindi questa volta avrebbe spostato la sua firma. Intinse la base della piuma d’oca nel vasetto trasparente e iniziò a scrivere. Doveva essere veloce, non poteva permettere che la colla si seccasse prima del tempo. Ora non rimaneva altro che spolverarci delicatamente sopra la limatura dorata e il gioco sarebbe stato fatto. Ricoprì il tutto con un secondo e più spesso strato di gesso e vi applicò la tela su cui, il giorno seguente, avrebbe cominciato a dipingere il suo autoritratto. Seguì fino in fondo le istruzioni ricevute, bruciando sulla fiamma il foglio consegnato. “Una volta cenere nessun più potrà leggerlo!”, le parole di Lionardo gli risuonarono nella mente.
Cinquecento anni dopo
3 Luglio 2012 – ore 14.20 Firenze
[Martedì]
La ragazza, trentaseienne, sorrise emozionata. Il compito assegnatole dalla sorella la rendeva orgogliosa.
“Introdurla nella sua conferenza”, un grande onore!
Era agitata, come il giorno in cui aveva dovuto discutere la sua tesi di laurea. Le sudavano le mani e il discorso, scritto su un foglietto di carta a righe, era quasi sbiadito. “Ce l’hai fatta in quell’occasione, quando avevi dieci anni in meno ed eri molto più ingenua. Stai tranquilla Kate, ce la farai anche adesso” cercava di caricarsi tra sé, quando una robusta mano le strinse il fianco facendola trasalire.
«Pietro! Ma sei matto? Mi hai spaventata!»
«Tesoro, era il mio obiettivo!» rispose sorridendo l’uomo, che era intanto arrivato al suo fianco. «Scommetto che adesso stai meglio». Sapeva sempre farla sorridere. Da quando il padre se ne era andato, si era continuamente preso cura di lei e di sua sorella sca. Era diventato il loro mentore, un punto di riferimento sempre presente nei momenti più importanti della loro vita.
«Che ci fai qui? Non dovevi terminare il restauro?» gli domandò.
«Certo Lisa, ma non potevo non incoraggiare tua sorella per questo evento, né tantomeno perdermi il tuo esordio davanti a una platea del genere…» rispose Pietro euforico. «Sono venuto una scappata, mi ha accompagnato Lodovico, il mio assistente».
Lasciata l’automobile nel parcheggio adiacente il Palazzo dei Congressi, un ragazzo di media altezza mostrò il vip all’addetto alla sicurezza.
«Prego, entri pure». La porticina del cancello si spalancò per permettergli il aggio.
La meraviglia del luogo lo travolse. All’interno di Villa Vittoria, il Palazzo dei Congressi è circondato da un giardino secolare, subito di fronte al Palazzo degli Affari. Una piazza pedonale lo collega alla Fortezza Da Basso, con cui dà vita, nel pieno centro della città, al più importante riferimento fieristico e congressuale di tutta Firenze.
Raggiunto l’auditorium al secondo piano, un piccolo e ben illuminato corridoio lo condusse dietro le quinte della Sala Verde. Ancora pochi i ed eccolo lì, Pietro, intento a chiacchierare amichevolmente con due ragazze vestite di tutto punto.
«Lodovico! Ti presento le mie figliocce», esclamò l’uomo appena lo vide. «sca e Lisa. O meglio, sca e Kate» proseguì sorridendo.
«Ciao ragazze, il piacere è mio» disse il ragazzo con una voce calda.
«Dovete sapere che Lodovico Casiraghi è stato uno dei miei migliori studenti al corso di storia dell’arte» continuò Pietro «e che l’ho seguito anche durante lo svolgimento della sua tesi su Raffaello Sanzio da Urbino».
Lodovico, un poco a disagio, arrossì.
Gli ospiti non erano ancora seduti ai loro posti. Il banchetto d’accoglienza, allestito nell’atrio al pian terreno, aveva destato molto più successo del previsto. Si era già accumulato un ritardo di almeno una ventina di minuti rispetto al programmato inizio della conferenza.
«Pietro, capisco l’importanza del momento, ma la consegna al museo è tassativa per le diciannove» si preoccupò Lodovico «e dobbiamo ancora stendere l’ultimo strato».
«Hai ragione, dobbiamo andare» annuì l’uomo. «Ragazze, mi racconterete tutto stasera a cena». Le abbracciò forte e si congedò incoraggiandole. Anche Lodovico strinse loro le mani.
Fu in quell’istante che l’alchimia dei loro sguardi li isolò in un intenso bagliore dalle tonalità variegate. Per ventisette lunghi secondi Lodovico e Kate si fissarono profondamente negli occhi, finché il richiamo di Pietro riportò i colori al loro posto.
3 luglio 2012 – ore 18.30
[Martedì]
Il risultato di tanto duro lavoro si stagliò finalmente dinnanzi i loro occhi. Sotto la luce decisa dei potenti spot alogeni, dopo più di due mesi di delicate operazioni, notti insonni e parecchio sudore, l’autoritratto di Raffaello Sanzio era tornato al suo originale splendore.
L’emerito professor Pietro Costa ricevette una forte stretta di mano da Lodovico.
Il docente di storia dell’arte alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, titolare della -Restore S.p.a, una delle più grandi società fiorentine impegnate nel restauro e nel recupero di opere d’arte e cimeli di ogni tempo, era elettrizzato.
«Professor Costa complimenti! Mi inchino a lei, grande Maestro» disse Lodovico, piegando la testa in segno d’ossequio.
«Messere Lodovico, la ringrazio dei suoi servigi. Senza di lei non saremmo mai arrivati a questo punto» contraccambiò Pietro.
L’allegria vibrava nell’aria e l’atmosfera festosa faceva luccicare ancor di più il volto dell’artista, che da lì a pochi giorni sarebbe stato di nuovo esposto nello spazio a lui riservato sulla parete est del Corridoio Vasariano.
Dandosi una forte spinta iniziale, procedette facendo slittare i piedi uno dopo l’altro sul lucido parquet, a simulare una pattinata. Era il suo rituale. Ogni volta che era felice lo eseguiva, in ricordo di quando, da ragazzino, in quello sport qualche medaglia la vinceva. Girò la colonna spatolata di giallo che divideva l’ufficio dal resto del laboratorio, fino ad arrivare alla sua scrivania. Come di consueto, per fermarsi, si appoggiò con le cosce al bordo del piano scrittura in legno, che urtò contro il muro. Quel TOC deciso era la giusta chiusura di un progetto finito bene, si trovò a pensare Pietro.
Afferrò con presa sicura la cornetta del suo telefono vintage a ghiera verde e iniziò a comporre il numero.
«Chiamo le ragazze, è ora di festeggiare! Il Da Latini ci aspetta!» esclamò infine, sistemandosi soddisfatto il colletto della camicia.
«Però! Ci trattiamo bene!» replicò divertito Lodovico.
«Certo ragazzo! Il lavoro è stato arduo, ma ora guarda! Affascinante, non trovi? La conferenza e il quadro: due eventi da festeggiare».
Era stato tutto inutile, ancora una volta si doveva fare i conti con un fallimento. Forse la paga non era stata adeguata, forse la paura, chissà… Sta di fatto che era possibile definirlo un vero buco nell’acqua.
Nella penombra di una spaziosa camera affrescata, la luce della luna che penetrava dall’ampia finestra tagliava in due, di netto, l’imponente tavolo in
alabastro; dodici sedie dall’alto schienale borchiato, ricoperte di velluto porpora, si susseguivano ad egual distanza lungo tutto il suo perimetro, e il pesante crocefisso in noce, posto nell’angolo vicino all’entrata, rendeva ancor più mistico e surreale il momento dell’attesa.
Con un movimento rapido, la maniglia della piccola porta si abbassò. Nessuno scricchiolio, solo uno spostamento d’aria appena percettibile; una mano esile e corrugata si poggiò sullo stipite opposto per poi fermarsi là, immobile. Una figura bassa e sottile, con una veste presumibilmente di colore chiaro, si intravide appena mentre il luccichio del grosso anello dorato incuteva un po’ di timore reverenziale.
«Maestro, il nostro contatto interno al museo ci ha informati che il quadro è stato riconsegnato. È risorto a nuova vita, sono riusciti a recuperarlo. L’acqua è defluita con troppa velocità per rovinarlo definitivamente».
«Maledizione!» la voce stridula, con forte inflessione tedesca, rimbombò all’interno della stanza quasi ripetendosi ad eco.
«Dobbiamo pensarci noi. Di persona. Andate! Fatelo appena lo riesporranno!» continuò perentoriamente.
Il suono delle campane di San Pietro scandì le due del mattino.
8 Luglio 2012 Firenze, Cronaca locale
[Domenica]
A distanza di tre mesi, l’autoritratto di Raffaello Sanzio, l’opera olio su tavola (47,5 x 33 cm) risalente al 1505-1507 ca., tornerà da domani 9 luglio a riempire lo spazio lasciato vuoto nel Corridoio Vasariano, il maestoso corridoio sopraelevato che collega Palazzo Vecchio a Palazzo Pitti ando attraverso la Galleria degli Uffizi.
Il restauro dell’opera è stato indispensabile per ripristinare il danno causato dalla perdita d’acqua seguita alla rottura dell’impianto antincendio. Gli inquirenti suppongono che il fatto non sia accaduto per caso. Troppi i recenti tentativi di furto e le tentate manomissioni. Non ci si spiega però il motivo per cui questi siano concentrate tutti e solo sull’opera del Sanzio. Il Vasariano espone infatti, in uno spazio lungo più di un chilometro, tantissimi autoritratti e importanti raccolte di dipinti del Seicento e del Settecento.
Quale mistero si cela dietro questo quadro?
Perché qualcuno vuole rubarlo, deturparlo o addirittura distruggerlo?
C’è qualcosa che Raffaello voleva raccontarci tramite il suo volto e che qualcuno invece vuol far tacere per sempre?
Sono tutte domande a cui gli inquirenti stanno provando a rispondere. Nel frattempo, un potenziamento al sistema d’allarme è stato messo in opera per vigilare meglio sul suo bersagliato viso.
Autoritratto Raffaello Sanzio – Corridoio Vasariano
olio su tavola (47,5 x 33 cm), 1504-1506 ca.
9 luglio 2012 – ore 08:10
[Lunedì]
Il sole che splendeva già alto ed una temperatura intorno ai 28°C facevano prospettare una splendida giornata estiva.
La piscina comunale Goffredo Nannini o, per come la conoscono tutti, la “Bellariva”, lo stava aspettando.
Posta nella parte sud di Firenze, sul lungarno Aldo Moro, con la sua acqua gelata e le vasche olimpioniche, era quello che ci voleva per i suoi allenamenti.
Lodovico aveva un obiettivo: sessanta vasche in un’ora. Erano tre anni che ci provava. Ci andava vicino, ma non era ancora riuscito ad arrivare in meta.
Aveva ottenuto il permesso di entrare a partire da due ore prima rispetto all’apertura, per poter sfruttare al massimo gli spazi ed evitare di dover rallentare dietro ad un bagnante più lento, cosa che sarebbe stata scontata se si fosse tuffato nell’ora di punta.
Le prime due vasche le percorreva sempre a stile libero. Cento metri alla massima velocità per scaldare un po’ tutti i muscoli.
Successivamente tendeva ad alternare metodicamente lo stile con la rana, il dorso e la farfalla all’indietro.
Nuotando a pancia in su, quando gli schizzi d’acqua glielo permettevano, si perdeva nel verde delle piante che facevano da contorno al suo percorso azzurro.
In questa condizione era impossibile pensare. Le filosofie di vita orientali, che da circa un anno aveva incominciato a studiare, avevano ragione. Il continuo frullare dei pensieri allontana l’uomo da ciò che è veramente. Quando la sua mente stava finalmente zitta, infatti, riusciva ad essere più concentrato su stesso e, di conseguenza, più rilassato e in armonia con l’ambiente che lo circondava.
Percepiva ogni parte del suo corpo all’unisono. Riusciva a sentire come tutti i suoi organi svolgessero in sincronia il lavoro per cui erano stati progettati. Il suo respiro era ampio e profondo. Si sentiva veramente appagato, quasi come fosse un dio capace di realizzare qualsiasi cosa volesse.
Non avrebbe cambiato quello stato per nulla al mondo.
Una bracciata tirava l’altra finché, all’improvviso, tutto cambiò. Qualcosa non andava. Si dovette fermare.
Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata quando una sorta di sogno ad occhi aperti gli si palesò dinnanzi.
Pietro urlava frasi incomprensibili, ma la smorfia di dolore dipinta dal suo volto
rivelava la sua lenta e inesorabile agonia.
Si immerse per scrollarsi di dosso quella strana sensazione. Era la prima volta che gli succedeva.
Seppur muta, la visione era estremamente vivida e definita, come se fosse stata proiettata su un enorme schermo cinematografico compresso nello spazio tra le sue sopracciglia.
Rimase fermo per qualche minuto senza saper bene cosa fare, prima di decidersi a tornare a casa.
ore 22:44
Anche il cielo, con il suo ruggito, sembrava volesse testimoniare la tragedia. Un tuono sordo annunciava l’arrivo di un temporale estivo, mentre le nuvole più basse scurivano ancor di più quello che ora aveva tutta l’aria di diventare un giorno veramente nero.
La telefonata di qualche minuto prima ancora le martellava nella mente: «Mi dispiace Kate, ma quello che si temeva di più è successo. Pietro ha subito un’aggressione».
Cercò di essere il più veloce possibile, nonostante i tacchi alti e il tailleur attillato indossato per il concerto di musica classica al Verdi. Correre non le riusciva, sebbene ne avesse una gran voglia, un po’ per far presto, un po’ per stemperare la tensione. Pietro era per Kate la persona che, dopo suo padre, aveva rappresentato di più nella sua vita. Sapere che gli era successo qualcosa la metteva in agitazione.
L’amico e commissario Ferretti, che l’aveva chiamata per avvisarla, non era stato molto chiaro, ma era palese che fosse dispiaciuto per l’accaduto. Non voleva pensare al peggio. Lo aveva appena visto. Era contento, felice! Non poteva essere morto, Pietro! No! Non lo avrebbe mai accettato, figuriamoci permesso.
Entrata nel museo, salì a due a due i gradini dell’ampio scalone che porta al Corridoio Vasariano, notando appena lo spesso nastro giallo con cui gli inquirenti avevano delimitato la zona. Cominciò a pensare a come, pochi giorni prima, alla medesima ora, si stesse rilassando con le amiche di sempre nell’idromassaggio dell’Hotel Raffaello. “Raffaello Sanzio da Urbino e il Corridoio Vasariano in cui è presente il suo più famoso autoritratto, bersagliato
da tempo da anonimi assalitori e da poco restaurato. Che coincidenza!”.
Ferretti le andò subito incontro, non facendo però in tempo a fermarla prima che vedesse il corpo. Disteso prono, con la guancia destra a contatto con il cotto del pavimento, il professore giaceva nel suo sangue. La camicia chiara che indossava al momento della morte evidenziava il rosso cangiante del caldo liquido, che andava scurendosi a contatto con l’aria. Il volto, ormai bianco, aveva ancora gli occhi aperti nell’espressione dell’orrendo terrore che doveva aver provato alla comprensione del suo ultimo respiro.
Kate si sentì svenire.
«Tutto bene?»
«Com’è successo, Riccardo?» chiese dopo un profondo sospiro, cercando di trattenere le lacrime che ormai le annebbiavano la vista.
«Prima di morire Pietro ha lottato per difendere qualcosa e quel qualcosa deve essere stato qui» le spiegò l’ispettore con voce decisa, indicando una parte scavata sulla superficie del quadro, ora a terra.
«L’Autoritratto di Raffaello! Non è possibile! No, non è stato un caso!» trasalì lei.
Non riuscì a fermarsi. Aveva il volto completamente bagnato da un pianto tanto forte da farla singhiozzare.
Le voci rallentarono e la vista le si offuscò ancor di più. Kate si sedette a terra, la testa e le braccia appoggiate sulle ginocchia. Si isolò, non voleva sentire nessuno.
Dopo una manciata di minuti, quando l’ansia che l’aveva assalita si affievolì un poco, alzò il capo, si asciugò il volto con le mani e, per la seconda volta, osservò sbigottita Riccardo dal basso verso l’alto.
«Kate, mi dispiace, davvero. Prendi questo bicchiere d’acqua, ti farà bene» disse lui.
Il liquido fresco la calmò ulteriormente. Dopo aver ripreso un po’ del fiato perso, pretese altre spiegazioni. «Il sistema di telecamere a circuito chiuso riprende Pietro intento a verificare che nel quadro sia tutto a posto, dopo la chiusura serale del corridoio, quando all’improvviso si spegne la luce. Dagli infrarossi si vedono due persone col volto coperto dal amontagna, che riescono a respingere le sue resistenze. Nella colluttazione uno dei due afferra il professore da dietro e, girandolo, lo ferisce a morte con qualcosa di affilato, tanto che non riusciamo a capire se è stato un incidente o se l’omicidio fosse premeditato. Non abbiamo trovato l’arma del delitto».
Ferretti, accovacciato sulle ginocchia, le stava di fianco e la guardava comprensivo.
«Ancora il quadro?» chiese Kate.
«Purtroppo sì», annuì lui. «I due aggressori hanno asportato dall’opera una sua parte, prima di dileguarsi nel nulla. E con quello di oggi fanno dodici attentati. Questa volta ci è scappato l’omicidio, cazzo!» esplose.
Dopo qualche minuto di confusione mentale, Kate si accorse della presenza di Lodovico.
«Ciao. Anche tu qui?» chiese mestamente. «Scusami, non ti avevo visto».
«Ciao Kate» rispose lui. «Non è la circostanza migliore per rivederci, ma eccoci qui».
«Kate - li interruppe Riccardo – dobbiamo portare via il corpo, i carabinieri del RIS e il magistrato hanno finito i rilievi. Vuoi rimanere un attimo da sola con lui?».
«Sì, grazie. Datemi qualche minuto».
Terminato il viavai degli uomini in mascherina e camice bianco, Kate si trovò sola. Quando i vari rumori causati dallo spostamento delle attrezzature cessarono, chiuse gli occhi.
Era primavera, e con le prime giornate calde e soleggiate Pietro aveva accompagnato lei e la sorella ad una gita fuori porta, per far loro vedere le inflorescenze colorate che avevano iniziato a colorare i prati. Dopo un ricco picnic a base di pane, salame e merendine, avevano iniziato a giocare a nascondino
tra gli alberi e i cespugli.
Erano veramente felici finché, per raggiungere la tana, Kate inciampò in un sasso che sporgeva dal terreno. Cadde rovinosamente a terra, ferendosi un ginocchio. Iniziò a piangere e solo l’abbraccio paterno di Pietro era riuscita a calmarla.
Trascorso un tempo che le sembrò una vita, la ragazza, con la faccia piena di lacrime, raggiunse gli altri nel corridoio, si avvicinò a Lodovico e lo abbracciò forte.
«E adesso? Cosa faccio?» gli sussurrò all’orecchio. «Aiutami a trovare chi lo ha ucciso, a capire perché l’ha fatto».
«Sono qui per questo Kate. Anzi, qui non c’è più nulla da fare. Vieni al laboratorio con me, ti faccio vedere una cosa» proseguì il ragazzo, contraccambiando l’abbraccio con tenerezza.
Percorrendo a ritroso la galleria ormai illuminata dalla luce soffusa delle lampade notturne, Lodovico, affranto e basito, non poté fare a meno di constatare l’accuratezza che i due avevano utilizzato per prelevare quella parte del quadro. “È stato asportato almeno mezzo centimetro di legno lungo tutta la superficie mancante. Le incisioni laterali sono state fatte con uno scalpello molto affilato, forse lo stesso che ha tolto la vita a Pietro, spinto sicuramente da un martelletto leggero. La tela è stata tagliata senza rovinarne la pittura e senza rompere i piccoli strati di gesso su cui poggia. Un lavoro da professionisti. Lì dentro ci deve essere qualcosa di importante, molto importante!”. Nel frattempo Kate, cercando di sistemarsi alla meglio, si infilò nella piccola borsa da sera il fazzoletto annerito dall’eyeliner colato. “Sembrerò un mostro, e questo maledetto specchietto si è incastrato!”. L’avere i capelli corti in quel momento si
rivelava un vantaggio.
Dal cortile dei Pappagalli partì una telefonata criptata.
Breve, ma concisa. Non una parola, solo codici sonori ritmati nell’alfabeto Morse. Alla sequenza inviata dal mittente con il tastierino alfanumerico, ne seguì all’istante un’altra molto breve da parte del destinatario:
L’ultratecnologico telefonino satellitare cadde a terra di schianto. Il Maestro rabbrividì impietrito.
Lui voleva essere preciso e riportare i fatti; a lei importava solo il risultato finale. Ogni volta lo costringeva in uno stato di sottomissione. Inutile pensare di odiarla, inutile pensare a come non la sopportasse, inutile pensare a qualsiasi cosa. Lei lo sapeva già.
Del resto funzionava così da sempre. Lei era il suo capo e lui doveva obbedire.
I suoi dipendenti erano ovunque sul pianeta. Presidenti di governo, alti clericati, banchieri, proprietari di industrie farmaceutiche e alimentari, tutti al suo servizio. Impossibile scappare o disobbedire, l’organizzazione che aveva fondato poteva cambiare le sorti della storia dell’umanità in qualsiasi momento, come fino ad oggi aveva fatto.
A questa stregua, cosa poteva significare la vita di un solo uomo, per di più facilmente sostituibile? A volte gli sembrava strano rendersi conto di quanto si diventa instabili una volta divenuti potenti. Era meglio non pensarci. Il lavoro assegnato era stato eseguito, bisognava solo aggiustare il tiro. Roba da poco.
10 luglio 2012 – ore 02:32
[Martedì]
Il rumore dei tacchi sul marciapiede rompeva il silenzio insolito per una nottata estiva, le sirene della Polizia avevano smesso di squarciare l’aria ormai fresca. L’odore di terra bagnata, lasciato dal forte acquazzone che aveva finalmente abbassato la soffocante cappa che attanagliava la città da giorni, fece sospirare Kate. ato il turbine delle angosce, ata la rabbia e la tristezza, anche lei si sentiva un poco più rilassata. Quasi sollevata da terra, in una pellicola mandata a doppia velocità, stava rivivendo uno dei momenti trascorsi con Pietro. Più precisamente, l’attimo in cui le raccontava di come, secondo un’antica leggenda, il santo protettore della città di Firenze, il Giovanni Battista, avesse scalzato dal trono il dio Marte che, a sua volta, si vendicò sulla città, causando un incendio. La visualizzazione del lampo che infuocò Firenze si confuse con il lampeggio arancione e il suo cinguettio elettronico, tanto da farla tornare a terra.
«Ti presento Giada» disse Lodovico.
«Cosa?» domandò lei senza capire.
«Ecco Giada».
Kate corrugò la fronte, i suoi occhi si fecero enormi per guardare meglio il ragazzo di fronte a lei.
«Io non vedo nessuno, siamo solo io e te! Chi è Giada?» chiese infine, basita.
«Giada è la mia auto» accennò.
«Mi prendi in giro? Non mi sembra il momento di scherzare».
«Scusa Kate, hai ragione. Volevo molto bene a Pietro, era quasi un padre anche per me» continuò. «Stavo solo cercando di smorzare gli animi per farti sorridere un po’».
«Sarà difficile riuscirci oggi ma grazie, lo apprezzo molto».
Un altro abbraccio li immobilizzò per alcuni secondi.
«Ho un’idea. Prima di portarti al laboratorio facciamo un salto da Angelino».
«Non so chi sia questo Angelino, ma va bene. Portami dove vuoi, ho bisogno di distrarmi».
«Certo, così sarà! Comunque, per tua informazione, Angelino è un tipo basso, tarchiatello e pelato, con due orecchini alla Mastrolindo, che fa le salamelle più buone di Firenze nel suo baracchino mobile. Usa un metodo tutto suo. Il pane diventa croccante e profumato come fosse appena sfornato, e la carne è talmente tenera che si scioglie in bocca. Vedrai che un boccone ti farà bene».
«Grazie Lodo, forse hai ragione… Scusa, posso chiamarti Lodo? Lodovico è troppo lungo».
«Certo, lo fanno tutti. I miei amici mi chiamano Lodo o addirittura Lo, ma adesso andiamo da Mastrolindo!»
Finalmente un mezzo sorriso rasserenò i loro volti.
Una mezz’oretta dopo, più rilassati e con la pancia piena, sentirono i loro nervi sciogliersi un po’ anche grazie alle battute e alle performance magiche di Fabio, un cabarettista amico di Lodovico incontrato al baracchino.
Con la perfetta tecnica di prestigiazione imparata al circolo di arti magiche e il mentalismo allenato da autodidatta, Fabio riusciva a farti credere che le sorti del gioco fossero nelle tue mani mentre, in realtà, lui ne aveva già delineato la scaletta.
Qualsiasi cosa impugnava spariva nel nulla o forse in una sorta di buco nero, per poi riapparire sotto altra forma. Il pane ancora fumante era diventato il fazzoletto rosso, svanito poco prima, su cui poco prima Kate aveva scarabocchiato la sua firma con un grosso pennarello nero.
Fabio era anche in grado di leggere nel pensiero della gente tant’è che la ragazza dovette immediatamente appuntarsi di cambiare il suo numero di telefono.
Ancora intenta a cercare di capire come fe, si accorse, solo per caso, che Lodovico stava cercando di attirare la sua attenzione.
«Kate, ora posso dirtelo, ma non girarti, osserva SO-L-O dal riflesso di quella vetrina».
«Che c’è? Così mi inquieti! Ero appena riuscita a rasserenarmi un po’!».
«Tranquilla, non ti voltare. È da quando siamo saliti in auto che vedo quella vecchia Mercedes. Abbiamo percorso tantissimi vicoli, ma è ancora qui. Mi sembra chiaro che qualcuno ci stia seguendo e che quest’affare scotti ancor di più di quanto possiamo immaginare».
Alla velocità della luce, la ragazza girò il collo di novanta gradi, concentrò lo sguardo sulla vetrata del negozio riuscendo ad ignorare il paio di Manolo Blahnik esposte e tornò a fissare Lodovico.
«E ora che facciamo?» sussurrò con un filo di voce, per il timore di essere udita e con lo sguardo circospetto alla ricerca di una via di fuga.
«Dobbiamo riuscire a raggiungere il laboratorio, devo recuperare le fotografie che io e Pietro abbiamo scattato prima di restaurare l’opera. Voglio anche visionare lo sviluppo della lastra ai raggi X che abbiamo eseguito come da prassi. Ho il netto sentore che scopriremo qualcosa di inaspettato e, per quanto posso dedurre, credo che quei tipi siano qui per la stessa ragione».
«Ok, come pensi di fare?» proseguì Kate con tono sempre più basso.
«Dobbiamo depistarli. Prendiamoci un altro panino e saliamo in macchina. Ho un’idea, vedrai che ci seguiranno».
Come previsto, non appena Giada si mosse, anche la Mercedes avviò il motore per iniziare il suo pedinamento.
Il ragazzo non poté fare a meno di pensare a quanto Firenze fosse magnifica anche di notte, quando percorrerne i suoi vari vicoli è ancora più piacevole. I semafori che lampeggiano, gli spazi polverizzati, il panorama che ti scorre accanto: Viale Guidoni, Viale Gori, Ponte all’Indiano, Via Canova, Via Martini.
Tuttavia, gli scatti nervosi nella guida lasciavano trasparire la sua agitazione.
Ore 03:48
Arrivata a Siena, con una svolta decisa da Via Scaletta, Giada imboccò via Bruno Bonci e accostò di lato, prima dell’inizio di viale XXV Aprile. La Mercedes, di riflesso, accostò e spense i fari trecento metri dietro, cercando di mimetizzarsi tra le altre auto in sosta. Trascorsa una manciata di minuti, un ragazzo, forse troppo basso, scese dal lato guida di Giada e salì sul marciapiede, verso il distributore automatico di sigarette.
I due uomini balzarono fuori dall’auto e lo raggiunsero in un attimo. Lo bloccarono per le braccia, sollevandolo di peso. Fu in quel momento che James si rese conto di come il guidatore tabagista fosse a loro sconosciuto. «Uno stupido trucco! Maledetti! Ci hanno giocati!» si infervorò. E il sorriso del ragazzo lo rendeva ancor più nervoso.
Avrebbero voluto trattenerlo per un interrogarlo un po’ ma, in men che non si dica, utilizzando una delle sue tecniche di escapologia, Fabio riuscì a divincolarsi e iniziò a scappare. ò velocemente dietro un albero e subito dopo dietro a un altro, senza mai ricomparire alla loro vista. I due uomini illuminarono a giorno con le loro torce le varie fronde per poi arrendersi, impotenti.
Decisero quindi di tornare all’auto da cui era sceso per controllarla. Aprirono il cassettino del cruscotto e sfilarono, dalla custodia in pelle, il libretto di circolazione. Con il suo smartphone, James scattò una foto in modo da averne i dati sempre a disposizione.
«Qui abbiamo finito. Andiamo, torniamo a Firenze!» esclamò.
I due risalirono frettolosamente sulla loro autovettura. Le gomme slittarono stridendo e lasciando una traccia scura sull’asfalto.
«Maestro, sono Boyce. Le prede son fuggite, ci hanno depistato. Torniamo indietro, non dovrebbero essere andate lontano».
Intanto Lodovico e Kate, sgattaiolati fuori da Giada, una volta date le istruzioni sul da farsi a Fabio, avevano divorato di corsa i pochi metri da Piazza Val Delsa a Via Val di Chiana, arrivando al laboratorio poco distante.
Una brezza fresca mista all’odore di solvente li investì, quando aprirono la porta al piano interrato.
La fredda luce al neon si accese all’istante, illuminando l’ampio tavolo sporco di pittura verde. Alla sua sinistra, da un grosso scaffale troneggiava un’ordinata pila di barattoli di vernice, pennelli di ogni misura, martelletti e scalpelli. Dalla parte opposta due poltrone invitavano alle seduta e, subito dietro, una spessa vetrata divideva l’ufficio dal resto della stanza.
«Vieni Kate, ti porto nell’acquario».
La ragazza lo seguì sollevando i sopraccigli.
“O è un pazzo, o è un genio” pensò tra sé.
Lodovico accese il computer e inserì la doppia di sicurezza. Non appena il sistema operativo fu caricato, per la prima volta, si accinse a prendere visione della lastra fatta al dipinto di Raffaello.
Entrambi notarono le iniziali del pittore sul lato in alto a destra e, subito dopo, spostarono l’attenzione sullo spigolo opposto, quello che era stato sottratto.
Brividi freddi percorsero la schiena di Kate.
“Oh cavolo… E questo?”
Notarono l’esistenza di qualcosa sotto la vernice. Qualcosa che doveva essere molto importante, visto che il pittore si era premurato di segnarla con una soluzione a base metallica, molto probabilmente spolverata in foglia d’oro, per farla durare di più nel tempo. Un accorgimento che faceva rimbalzare indietro i raggi X.
Nell’immagine ricostruita erano presenti alcuni simboli, numeri e lettere.
“Un codice?”.
Più precisamente, una figura geometrica irregolare in cima e, subito sotto, una sequenza ordinata di numeri, divisi da virgole e parentesi, posta su più righe. Ciascuna riga era a sua volta preceduta da lettere:
Lodovico selezionò immediatamente la parte interessata e stampò tre copie: una per lui, una per Kate e una come riserva, che nascose tra la soletta e la suola della sua scarpa.
«Questo dev’essere l’esposto» sentenziò Kate.
Esperta di crittogrammi fin da piccola, dedusse subito che la parte simbolica sopra il codice doveva essere l’indicazione per risolvere l’enigma.
«Kate, guarda qua!» esclamò Lodovico. «Ho sovrapposto una delle foto fatte al quadro prima di venir via dal museo con questa ai raggi X. Guarda bene! Parte dell’esposto, come dici tu, è rimasta sul dipinto!».
Forse era proprio per quello che i due uomini li stavano seguendo. Avevano commesso un errore, e adesso volevano rimediare.
In effetti, senza quella parte era impossibile risalire alla chiave del codice.
«Vedi Lo, qui sulla tela è rimasta la lettera N, un bel pezzo di questo cerchio e la parola SEGNATURA. Se come penso si tratta di un esposto, deve essere considerato nel suo intero. Il pezzo che si son portati via è inutilizzabile».
Sovrapposizione quadro con RX
Gli occhi di Lodovico si fecero più pesanti. L’adrenalina accumulata si era ormai esaurita. Sbadigliando, capì che forse era meglio fermarsi un attimo. La lucidità stava lasciando il posto alla stanchezza.
«Kate, abbiamo bisogno di dormire e quegli uomini non ci metteranno molto a capire dove siamo. Cancello il file e andiamo all’hotel qui vicino. Ci sono già stato tante volte, lì saremo al sicuro per un po’. Domattina, a mente più fresca, riprenderemo da dove abbiamo lasciato. Blocco subito due camere».
«Ok, sono d’accordo con te ed già la seconda volta che succede! Ritieniti fortunato, perché di solito non mi faccio comandare da nessuno! Però non vorrei stare da sola stanotte, ho un po’ paura. Prendiamo solo una stanza?» domandò Kate sorridendo.
Dopo una calda doccia rilassante che lavò via le ultime tracce di energia, i due non fecero nemmeno in tempo a toccare il letto che crollarono in un sonno profondo.
Ore 5:24
Ritirato nel suo lussuoso alloggio, il Maestro cercò in tutti i modi di scaricare il nervosismo.
Malgrado le svariate lezioni sul contenimento della rabbia e dell’impulso del corso di diplomazia e studi internazionali della Pontificia Accademia Ecclesiastica, non riuscì nel suo intento.
Sollevò il bastone riccamente decorato su cui poggiava, lo roteò in aria trattenendolo dalla parte ricurva e lo scagliò con tutta la sua forza contro la vetrinetta, dove facevano bella mostra gli antichi vasi Ming che una delegazione cinese gli aveva donato un paio d’anni prima.
“Sono tutti degli inetti!” sentenziò.
Sentendosi barcollare, raccolse il bastone in tutta fretta tagliandosi il pollice destro con alcuni cocci affilati. Osservando le calde gocce rosse che gli colavano sul palmo della mano non poté non ripensare al patto stipulato: “REPROMISSIO”.
L’Imperatrice, così le piaceva farsi chiamare, lo aveva fatto giurare con il sangue. La missione doveva essere portata a termine, l’alternativa era la morte.
Incominciò a sudare copiosamente. La vista gli si annebbiò un po’, tanto che si dovette sedere.
“Vodka gelata, la soluzione perfetta”. Se ne versò più bicchieri, che bevve affannosamente e tutti d’un fiato.
Forse avrebbe dovuto smettere. I medici gli avevano detto che il suo fegato era a rischio, e del resto non era più un ventenne.
Si lasciò sprofondare nella morbida pelle della poltrona Gran Moustache color cognac.
La tensione si trasformò presto in un sorriso, per poi degenerare velocemente in una risata isterica che gli accapponò la pelle. Pochi altri minuti e si addormentò.
Ore 10:30
Il servizio in camera non si era fatto attendere molto oltre l’ora stabilita. Il leggero bussare aveva lasciato il posto a un avvolgente profumo di caffè e di brioches appena sfornate. Kate, come sfiorata da una tenera carezza, si svegliò.
«Buongiorno signorina, ci hanno appena portato questo ben di Dio. Fai colazione con calma, che poi ti mostro cosa ho scoperto» esordì gentilmente Lodovico.
L’alto soffitto decorato svelò la raffinatezza della stanza in cui avevano ato la notte. L’oscurità di poche ore prima le aveva nascosto di essere ospitata in una meravigliosa suite.
Quante volte aveva sognato un risveglio così, magari accoccolata tra le braccia del suo principe azzurro. Si sentì fortunata.
«Ciao Lo, buongiorno…» disse infine con voce bassa e roca.
Si mise seduta e si poggiò il vassoio con la colazione sulle gambe. L’ampio sorriso, stampato sul viso ancora arruffato, distrasse Lodovico.
«Ehi! Ti sei perso? Raccontami subito, non riesco ad aspettare… Guarda, guarda! Mi trema anche la tazzina!».
All’espressione ancor più buffa di lei che, con gli occhi strabici, seguiva la piccola vibrazione, Lodovico cominciò a ridere di gusto.
«Ok, ansiolitica! Come già ti dicevo, ho studiato Raffaello insieme a Pietro sia durante il corso accademico sia per approfondimento durante tutto lo svolgimento della tesi. Ecco qua: il perimetro disegnato nell’esposto del codice, confermato anche dalla scritta a lato, rappresenta la volta della stanza della Segnatura, che Raffaello affrescò con i suoi aiutanti. La cosa strana è che l’affrescatura di questa stanza ha avuto inizio a partire dal 1510. Quindi, il fatto che ce ne sia un riferimento in un quadro dipinto tre, quattro anni prima, mi fa pensare che sia stato tutto organizzato e anche molto bene. Comunque, come vedi qui ci sono due cerchi» disse indicandole il simbolo a cappello del codice numerico. «Non capisco solo quella linea verticale e la X sulla circonferenza del cerchio posto più in alto, ma sono tratti molto più lievi… Molto probabilmente erano dei riferimenti che Raffaello si era dato per effettuare il disegno in seguito, e che poi sono stati ricoperti con un altro strato di gesso. Tornando a noi, nella realtà i cerchi totali nella volta sono quattro, uno per lato. Il fatto che ce ne siano segnati solo due indica che è su questi che dobbiamo lavorare».
«E la N in alto indica il Nord?» domandò Kate.
«Secondo me sì!».
Ormai felice di essere arrivata alla soluzione, la ragazza inghiottì forzatamente il grosso pezzo di brioche che teneva in un lato della bocca e che le creava un’ampia gobba sulla guancia.
«Allora è semplice! Andiamo nella stanza della Segnatura e controlliamo un po’! Dove si trova?»
«Kate, non ti ingozzare! Finisci la colazione con calma… Non vorrei deluderti, ma questa stanza si trova in Vaticano ed è abitata dal Papa. Dubito che ci faranno entrare».
«No! E quindi? Che si fa?».
«Tranquilla, ho impresso nella mia mente ogni centimetro di quella stanza, e poi c’è tutto su Internet» Lodovico, sorridente, indicò una postazione computerizzata nel salottino della stanza da letto.
«Dai racconta, non sto più nella pelle! Sono sicura che hai già guardato…».
Confermando la perspicacia di Kate, Lodovico cominciò a spiegarle come nei quattro cerchi, detti “troni”, vi fossero personificate la Teologia, la Giustizia, la Filosofia e la Poesia. Guardando il disegno, a loro interessavano quelli posti a Nord e a Ovest per cui, rispettivamente, la Poesia e la Teologia.
Volta stanza della Segnatura
«Ora iniziano i problemi. - continuò Lodovico - Cosa possono centrare Poesia e Teologia nella risoluzione del nostro codice?».
«Non tenermi sulle spine! So che hai già la soluzione! Dimmela in meno di dieci secondi altrimenti non rispondo più di me. Non ti ho detto che sono cintura nera di kickboxing?».
Lodovico alzò gli occhi al cielo scuotendo la testa. Dopo un attimo di silenzio, nel quale cercò di capire se la ragazza che aveva di fronte fosse reale o un ologramma di un cartone animato, proseguì:
«Ok, ok, ti dico tutto. Dopo questa minaccia non vorrei trovarmi con qualche arto rotto! Ebbene, la volta, il tetto della stanza, ovviamente è sorretta dalle pareti. Sulla parete nord è rappresentata la Poesia nell’opera de il Monte Parnaso o Parnaso, un monte al centro della Grecia consacrato al culto del dio Apollo e delle nove muse. Vedi?» Le mostrò, nella raffigurazione a video, come le muse presenti nell’opera fossero circondate da una platea di diciotto poeti, divisi in gruppi.
«Invece, nell’opera dipinta sulla parete Ovest, la Disputa del Sacramento, Raffaello vuole far trasparire un interesse nella discussione circa il grande mistero cristiano dell’eucarestia. Nella parte alta è presente la chiesa trionfante con Gesù affiancato da Maria e dal Giovanni Battista; puoi vedere anche i serafini, i cherubini, i santi e i profeti. La parte sotto rappresenta invece la chiesa militante, un vero e proprio concilio in cui figurano teologi, dottori della Chiesa e pontefici, ma anche filantropi, letterati e semplici fedeli anonimi. Noti qualcosa di strano?».
«Aspetta, fammi vedere! Dammi un indizio!» chiese Kate curiosa.
«Ok, guarda bene. C’è qualcosa che si ripete, o meglio c’è qualcuno, sempre la stessa persona, in entrambi i dipinti. Raffaello a parte».
«Trovato! L’unico che riconosco è Dante Alighieri! Mi vuoi dire che l’esposto è “DANTE”, la parola “DANTE”?».
«Credo che non sia Dante in quanto tale, ma qualcosa che unisce la poesia alla teologia, un’opera scritta da lui».
«La Divina Commedia!».
PARNASO
DISPUTA DEL SACRAMENTO
Kate prese subito il foglio con il codice e dedusse che la “I”, all’inizio delle prime righe, stava a rappresentare l’Inferno. Di conseguenza PU doveva indicare il Purgatorio.
La Commedia, lei, la conosceva quasi tutta a memoria. La laurea tanto sofferta in Lettere doveva essere pur servita a qualcosa, e questa era l’occasione giusta per mettersi alla prova.
«Credo che il primo numero dopo la I indichi il canto, e quello successivo il versetto» continuò.
I 9-61 (1,2,3,4,5,6,7)
I 9-62 (1,2,3,4,5,6)
I 9-63 (1,2,3,4,5,6,7)
«Per arrivare al verso 61 del canto IX dovrei ripetere tutto dal principio per potermelo ricordare. Non è che controlliamo su Internet?».
«Certo Madama, sarà fatto! Vediamo un po’…» rispose scherzando Lodovico.
Rapide dita iniziarono a danzare velocemente sulla tastiera posta appena sopra al
cristallo che ricopriva la scrivania.
«Ok, trovato. Inferno, canto IX verso 61.
“O voi ch'avete li 'ntelletti sani”.
Ci sono sette parole e, tra le parentesi del codice, una sequenza di numeri da 1 a 7. Cominciamo a scrivere:
O voi ch'avete li 'ntelletti sani».
Continuarono poi con il verso 62 e il 63, rispettivamente con sei e sette parole.
«mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani».
Leggendo il testo, Kate ipotizzò che Dante suggerisse ai propri lettori di cercare ciò che nei versi ‘strani’ vi era nascosto.
«Sembra voglia dirci di leggere la poesia non interpretandola astrattamente ma più concretamente, per come è stata scritta, soffermandoci sulle parole usate nei versi ‘strani’. Continuiamo con la decrittazione».
Seguendo il codice arono quindi al Purgatorio:
PU 33-52 (1,2)
PU 33-53 (1,3>4/2,4)
PU 33-55 (1,2,3,4,5,6,7,8)
PU 33-57 (1,2,3,4,5,6,7)
PU 33-64 (1,2,3,4,5,6,7)
PU 33-65 (1,2,3,4,5)
PU 33-66 (1,2,3,4,5,6,7)
Purgatorio XXXIII, verso 52:
“Tu nota; e sì come da me son porte,”
Riportarono solo le prime due parole (1,2):
Tu nota
E proseguirono con gli altri versi:
Tu nota; e sì come da me son porte, ..52 così queste parole segna a’ vivi ..53 E aggi a mente, quando tu le scrivi, ..55 ch’è or due volte dirubata quivi. ..57 Dorme lo ’ngegno tuo, se non estima ..64 per singular cagione essere eccelsa ..65 lei tanto e sì travolta ne la cima. ..66
Tu nota
Così parole segna
E aggi a mente, quando tu le scrivi,
ch’è or due volte dirubata quivi.
Dorme lo ’ngegno tuo, se non estima
per singular cagione essere eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima.
«Non mi è tanto chiaro» continuò ancora Kate. «E poi quel 3>4/2 del versetto 53 vorrà dire qualcosa...».
«Secondo me dobbiamo scomporre la parola ‘parole’ in due parti, una di quattro e una di due lettere: ‘paro’ + ‘le’, che potrebbe significare ‘allo stesso modo’. Ma allo stesso modo di cosa? Che ne dici? Sei tu che hai studiato la Commedia a memoria…».
“Adesso lo meno…”. «Dico: UNO che non sei simpatico proprio per nulla, DUE che potrebbe significare: ‘nota’ TU, e allo stesso modo ‘segna’ LE. E continuando... Sembra volerti ricordare quando TULE ‘scrivi’ che è ora per la seconda volta qui rivelata. E prosegue ancora, prendendoci in giro, dicendo come dorme il nostro ingegno se non indoviniamo anche… Ecco, qui poi non capisco... ».
«Credo che TULE sia il nome di qualcosa, di un oggetto, di una località...» propose Lodovico.
«Giusto Lo, bravo! Sai cos’è TULE? L’ultima TULE o THYLE... Anche Virgilio nelle sue Georgiche dice “Tibi serviat ultima Thyle” per augurare a Ottaviano di espandere il suo impero sino alle ultime terre conosciute nel più remoto settentrione. Se hai studiato Dante non puoi non conoscere Virgilio... Credo che TULE sia un’isola e che nella poesia Dante ci voglia spronare dicendoci che siamo dormienti se non troviamo anche un’altra posizione, un’altra coordinata per individuarla o qualcosa del genere. Dobbiamo cercare ancora nella Divina Commedia, da qui a ritroso fino al primo verso del primo canto dell’Inferno. Ci deve essere un altro punto in cui TULE è citata... Riusciamo a stamparla?».
«Sicuramente ci sarà un modo… Aspetta che chiamo la reception».
Con agilità, Lodovico prese la cornetta e premette il tasto 1. Pochi secondi e il suono elettronico si trasformò in voce.
«Mi hanno detto che basta selezionare la stampante dal computer e andare giù a ritirare i fogli. Metto insieme il testo, lancio la stampa e scendo. Già che ci sono la stampo tutta, fino all’ultimo canto del Paradiso. Torno subito!»
«Ottima idea!» approvò Kate. «Potrebbe tornarci utile. Io intanto entro in doccia».
Ore 11:32
Il vecchio clochard, steso nella sua casa di cartone richiudibile, si agitava animatamente. Aveva scelto il posto migliore di tutti. La grata inserita nel muro su cui si appoggiava gli forniva un po’ di refrigerio, mentre i folti alberi che lo coprivano lo proteggevano da eventuali notti piovose.
La sera prima si era addormentato quasi subito. Aveva avuto la fortuna di concedersi un bicchierino in più cancellando così in un istante i pensieri che lo tormentavano.
Una macchina grigia di grossa cilindrata si parcheggiò appena di fianco al marciapiede che delimitava la sua proprietà e rimase ferma in quel punto per diverse ore, ma lui non se ne accorse minimamente.
Fosse stato sveglio l’avrebbe fatta sloggiare. Non sopportava visite, soprattutto se si trattava di sconosciuti.
Aprì di poco gli occhi nello stesso momento in cui un forte vociare lo fece trasalire.
«James, guarda!» esclamò dal lato eggero Boyce. «L’hanno !»
L’email appena arrivata ne indicava la posizione: Viale Alessandro Guidoni 101 – Hotel Alexander.
«Andiamo!».
Il clocherd sentì lo stridere degli pneumatici, poi più nulla. Si girò dalla parte opposta rispetto a come giaceva e si riaddormentò.
Ore 11:44
La moquette azzurra e bianca e un abbassamento fonoassorbente regalavano alla hall dell’hotel un silenzio quasi surreale, quando il suono metallico del camlo d’acciaio posto sulla piccola base in mogano destò l’attenzione dell’addetta alla reception. I due uomini in giacca di velluto e pantaloni eleganti, da poco entrati, erano impazienti di parlare con lei.
«Buongiorno, cosa posso fare per voi?» chiese Alice con fare professionale.
«Buongiorno, siamo due amici di Lodovico Casiraghi. Oggi è il suo compleanno e vorremmo fargli una sorpresa» rispose con marcato accento inglese uno dei due, mostrandole nel contempo un pacchettino azzurro con un bel fiocco intrecciato. «Potrebbe indicarci gentilmente la camera in cui alloggia, senza farci annunciare?».
La ragazza, un po’ confusa ma sempre sorridente, avanzò l’idea di come per la tutela della privacy dei clienti non avrebbe potuto accontentarli. Ma disse che, vista l’occasione, un occhio lo poteva chiudere.
Si apprestò a sbloccare il terminale ando il suo tesserino su un lettore ottico e iniziò a pigiare nervosamente i tasti. “Questi due non mi convincono. Calma Alice, calma. Le tue sensazioni ti hanno sempre portato sulla giusta via, ma non ti puoi far scoprire”.
Dopo una trentina di secondi, ecco il risultato.
«Stanza 202, secondo piano. Appena entrati nel corridoio, la prima sulla destra».
Dopo averla ringraziata i due si apprestarono a salire ma, notando che l’ascensore era occupato, optarono per le scale.
Nello stesso istante in cui la molla posteriore fece appoggiare dolcemente la porta di servizio al suo stipite, al pian terreno, altre due porte metalliche si schio. Un fascio di luce anticipò un ragazzo abbronzato e di media corporatura, che si diresse con tutta tranquillità verso Alice.
«Sono Lodovico Casiraghi, ho chiamato poco fa per delle stampe. Sono pronte?».
«Buongiorno Signor Casiraghi. Sì, gliele porto subito».
Con affanno, Alice prese i fogli e glieli consegnò, ma prima di congedarlo gli raccontò l’accaduto.
«Due uomini, dichiarandosi suoi amici, hanno chiesto di salire da lei per festeggiare, oggi, il suo compleanno. Ho fiutato che c’era qualcosa che non andava e, controllando sul computer per dar loro il numero di stanza, ho dato un’occhiata ai dati della sua carta d’identità. Lei è nato il 22 Agosto! Ho pensato bene di dargli un numero di stanza errato, subito qui al secondo piano. Se vuole chiamo la polizia».
Un po’ sudata e con la faccia corrugata, si lucidò, tremando, la targhetta identificativa posta appena sopra il taschino della divisa di ordinanza.
«Sì, grazie. Li faccia venire. Se riesce si faccia mandare il commissario Ferretti, gli dica che Kate è in pericolo. Quando arriveranno, aggiunga che stiamo cercando di risolvere l’enigma di Raffaello. Lui capirà. Gli dica anche che siamo seguiti e aggiunga i particolari per identificare i due. Intanto io salgo, avviso Kate e cerco di fuggire da qui. Se non ci rivediamo più, grazie dell’aiuto e a buon rendere!».
L’ascensore era già al piano, Lodovico si catapultò dentro e premette il tasto 8.
I due inseguitori, arrivati davanti alla porta 202, non esitarono un secondo a scne la serratura. Con una secca spallata la abbatterono ed entrarono di scatto nella stanza. Un’altra sorpresa si presentò davanti ai loro occhi: la camera era completamente deserta, il letto fatto di tutto punto e anche il bagno non presentava tracce di presenza umana.
Senza perdere altro tempo, James estrasse dalla fodera in pelle il piccolo iPad nero.
«Dalle immagini satellitari risulta che i due ragazzi si trovano ancora in questo stabile e, da una comparazione altimetrica rispetto al punto in cui ci troviamo, risultano essere proprio sopra di noi. Presto! Dobbiamo controllare tutti i piani!».
Furono i ventiquattro secondi più lenti della sua vita; non sembravano finire mai. I raggi luminosi che gli illuminavano i piedi ogni volta che raggiungeva un pianerottolo lo resero nervoso. Lodovico era pronto a scattare come quando, da
piccolo, aspettava il via dallo starter per l’annuale corsa a ostacoli ai giochi della gioventù. ‘Pronti...
Partenza...’ DINN; il suono delicato annunciò l’arrivo al piano.
Affannato, entrò velocemente nella sua camera senza bussare.
Kate, con solo le mutandine addosso, squarciò l’aria con un ruggito acuto. Con una mano si coprì i seni e con l’altra cercò di graffiare Lodovico.
«Kate scusa, non c’è tempo! Mettiti qualcosa addosso, dobbiamo scappare!».
«Cos’è questa sceneggiata? Che bella scusa che ti sei inventato, bravo! Non hai bussato apposta! Sapevi che stavo facendo la doccia! Sei un cafone arrapato, ecco cosa sei! E pure un maniaco!».
«Kate, te lo giuro, non abbiamo tempo, dobbiamo scappare. Tu vestiti, io intanto cancello la cronologia dal computer e raccolgo le carte che abbiamo scritto. Quando siamo fuori di qua ti spiego tutto».
Kate, notata l’angoscia negli occhi dell’amico, capì che le stava dicendo la verità. “Non si tratta di uno scherzo”. Decise all’istante di ascoltarlo senza più fiatare.
In meno di tre minuti Lodovico e Kate lasciarono la stanza e si precipitarono nel
corridoio.
«Aspetta!» esclamò Lodovico. «Hai con te il cellulare?».
«Sì, eccolo» rispose Kate trafelata.
«Maledizione, non ci ho pensato prima. Ecco come hanno fatto a trovarci. Togli subito la SIM e avvia la procedura di ripristino con la cancellazione di tutti i dati. Dobbiamo abbandonarlo qui, mi spiace».
Kate non se lo fece ripetere due volte.
Prima di fuggire, Lodovico premette il tasto del piano terra nell’ascensore come diversivo e, prendendo per mano Kate, si precipitò verso l’uscita di emergenza prima dell’arrivo dei due uomini.
Per pochi istanti ci fu il silenzio. Nel corridoio vuoto, solo la prima pagina in cima al malloppo ancora fresco di stampa fluttuava lentamente nell’aria, fino a posarsi dolcemente sulla moquette.
«Guarda là! Per terra c’è qualcosa, e quella porta è aperta» disse James respirando profondamente. «Io entro, tu raccogli il foglio e controlla qui intorno».
La stanza fu rivoltata come un calzino; il letto divelto e le ante degli armadi
sradicate. Per la rabbia, una sedia venne scagliata contro la parete.
«Niente, sono scappati! Qui non c’è nessuno. Ho trovato solo questo cellulare ormai inutilizzabile. Che c’è in quel foglio?»
«È il primo canto dell’Inferno della Divina Commedia!» dichiarò Boyce inquieto.
I due si guardarono preoccupati e un brivido simultaneo attraversò le loro schiene. Dopo un attimo di smarrimento, notarono che l’ascensore era sceso nella hall.
«Ci hanno fregati ancora, e anche la ragazzetta giù all’ingresso. Lei sa sicuramente qualcosa, andiamo!»
Non fecero in tempo a dirlo che sentirono la sirena di una volante della Polizia spegnersi pochi piani sotto di loro.
«Meglio non rischiare, cerchiamo l’uscita di emergenza e svigniamocela da qua!».
«Maestro, sono Boyce. Li abbiamo localizzati ma siamo stati costretti ad andarcene. Avevamo la Polizia alle calcagna. Ci sono dei problemi… Il primo collegamento al codice è stato svelato e non sono più rintracciabili tramite il cellulare della ragazza. Quali sono le istruzioni adesso?».
Ore 12.22
Per la prima volta, dopo un intenso quarto d’ora d’adrenalina, Kate e Lodovico riuscirono a riprendere fiato, sprofondati sul sedile posteriore di un comodo taxi di aggio nel vicolo sul retro dell’hotel.
«Dove vi porto Signori?» chiese cortesemente l’autista.
«Cozzano, Agriturismo il Palagetto, grazie» rispose Lodovico.
«Va bene, ma vi chiedo un aiuto. Sono nuovo di queste parti e non conosco bene il posto».
«Segua direzione Volterra, poi quando siamo vicini le indico io la strada».
«Agriturismo il Palagetto? Volterra? Dove mi vuoi portare Lo?» si infilò nel discorso Kate.
«Giulia, la proprietaria del posto, è una mia cara amica. Lei ed il suo compagno ci ospiteranno per un po’, così potremo rilassarci e risolvere con più calma l’enigma».
Kate, stringendosi le gambe al petto, borbottò qualcosa di indecifrabile.
“É solo mezzogiorno e sono già stanca. Che ansia!”.
Percependo i suoi pensieri Lodivico la spronò:
«Respiro kapalabhati Kate! O, come direbbe mio padre, espira più volte velocemente comprimendo la pancia. Ti erà tutto, e vedrai che addominali» le sorrise.
Decise di ascoltarlo ancora e, pochi minuti dopo, si addormentò tranquilla, così accovacciata, con la testa appoggiata al finestrino.
Nel contempo il Ferretti non riusciva a capirci un granché. In tutta la sua carriera di poliziotto, da prima come semplice agente, poi come ispettore fino a diventare l’attuale commissario capo, aveva sempre trovato qualche indizio che lo potesse portare alla risoluzione del caso. Questa volta, il nulla più assoluto.
I due uomini entrati poco prima all’hotel, presumibilmente gli stessi che avevano aggredito Pietro al museo, non avevano lasciato la minima traccia per poter essere identificati.
L’unica cosa certa, che era riuscito a dedurre dalle movenze e dalle tecniche utilizzate, era la loro appartenenza a qualche organizzazione con metodologie d’azione di tipo militare, molto ben unta dai piani alti.
Dovevano aver infatti usato una tecnologia molto avanzata per eseguire i loro
raid mirati, senza sprechi inutili di energie.
Proteso verso la moquette della camera 802 spostò le parti in legno di quella che poco prima doveva essere una sedia, e che adesso erano incastrate nell’imbottitura che fuoriusciva dal materasso squarciato.
Il bagno, dopo l’esplosione dello specchio, si era trasformato in un lago di vetri. Illuminato dall’applique a parete, rifletteva raggi di luce che si intrecciavano nell’ambiente ancora caldo. Qualcuno doveva essersi appena fatto una doccia.
Vasi, quadri, pezzi di metallo… C’era di tutto.
‘Sembra una discarica’, pensò.
Non un’impronta, un capello, o qualsiasi altra sorta di materiale biologico da cui estrapolare il DNA era comparso, neppure dopo l’analisi dettagliata della squadra scientifica.
Un barlume istantaneo gli illuminò mente. ‘Kate poteva essere in pericolo!’
Non sapeva che pensare. Forse era riuscita a scappare insieme al suo amico, oppure erano stati presi. La ragazza della reception non sapeva altro oltre a quello che gli aveva già riferito. Doveva agire in fretta, non c’era tempo da perdere.
Ore 13.09
Un altro attacco di panico lo destabilizzò. Non era più così sicuro di riuscire a reggere il suo ruolo. Troppe responsabilità, troppe le cose di cui rendere conto.
Maledisse il giorno in cui aveva deciso di ascoltare i suoi genitori. Lui non lo voleva fare.
In realtà era troppo piccolo per capire a cosa sarebbe andato incontro. Troppo piccolo anche per poter prendere decisioni.
Ancora oggi non era padrone della sua vita e questo pensiero lo deprimeva.
L’unica volta in cui si era sentito importante risaliva ormai a settantatré anni prima. Se lo ricordava molto bene quel giorno. Aveva dodici anni ed era stato proclamato campione del suo cortile nel gioco della nizza.
Un piccolo pezzo di legno ricavato da un manico di scopa, la nizza, veniva smussato ai lati e poi appoggiato a terra. Questo veniva colpito una prima volta con un pezzo di legno più lungo, la mazza, per farlo alzare in aria. Un secondo colpo al volo, invece, aveva l’obiettivo di mandarlo il più lontano possibile. Si era concentrato il più possibile, cercando di ignorare le grida disturbanti lanciate dai suoi avversari.
La goccia di sudore che si staccò dalla sua fronte cadde nel punto esatto in cui avrebbe dovuto colpire.
Forse un segno dal cielo. Lui doveva vincere e quell’indicazione fu preziosa.
Strinse forte le mani, alzò le braccia e, con un movimento leggero, le lasciò ricadere. La nizza iniziò a fluttuare nell’aria rimanendoci in sospensione finché la colpì ancora, con tutta la sua forza.
La traiettoria era perfetta. Né troppo alta né troppo bassa.
Il piccolo oggetto volante oltreò sibilando la siepe situata ai confini del terrapieno su cui lui e i suoi amici si stavano sfidando, andando poi a perdersi tra i fili d’erba più alti.
Fu un trionfo.
Un sorriso stemperato gli cambiò per un po’ l’espressione del viso.
Il Maestro riuscì a calmarsi.
Ore 14.07
A destra della collina su cui si erge Volterra, la terra del Vento, un piccolo vicolo sterrato conduce dalla strada principale verso il fianco sinistro della valle. Un centinaio di metri e fa capolino una salita stretta, delimitata da una fila di alberi ad alto fusto che si ripetono a distanza regolare. Dopo qualche tornante, prima la piscina e poi il parcheggio rompono, pur senza disturbare, l’armonia del paesaggio.
Giulia, la bella ragazza dagli occhi color del mare, era riuscita a costruirsi dopo mille sacrifici e privazioni quel tranquillo paradiso tra la storia, quella vera, di pittori e poeti. A conduzione familiare, con una cucina casereccia e le infinite attività da poter svolgere, quel luogo nel cuore della Toscana aveva fatto innamorare Lodovico, quando qualche anno prima vi si era recato per un appuntamento di lavoro insieme al suo migliore amico.
Con qualche manovra all’interno del piazzale, il taxi impolverato si fermò. Lodovico svegliò Kate, scuotendole leggermente il braccio.
«Kate, svegliati! Siamo arrivati…».
I due scesero e chio le portiere. Kate, ancora frastornata e con un leggero broncio sul viso, si stropicciò gli occhi sollecitati dall’intensa luce estiva.
Recuperato lo zaino con all’interno la stampa della Commedia, il ragazzo congedò l’autista.
«Ciao Amilcare, grazie per la chiacchierata e per il aggio».
«Grazie a te per la compagnia Lodovico, è stato un piacere».
«Amilcare? Lodovico? Hai fatto amicizia con il tassista?» domandò incredula Kate.
«C’era traffico, ci abbiamo messo parecchio tempo e tu dormivi… Diciamo che ne abbiamo approfittato per chiacchierare un po’».
«Immagino gli argomenti! Guarda quella macchina, non sai che stronza quella donna…» lo interruppe lei.
«Sbagliato, io le donne le amo! È solo di te che posso parlare male» una risata divertita si dipinse sul volto del ragazzo.
«Dio, quanto sei arrogante! Io me ne vado!».
«Torna qui! Dove vai? Non vedi che siamo circondati dal nulla?» la risata si fece più sostenuta.
«Ehi amico, ti va bene che mi è venuto un mal di testa insopportabile e che qui intorno ci sono solo campi, altrimenti…».
«Altrimenti che? Mi tiravi una ginocchiata?».
«Perché no? Mi hai dato un’idea!».
«Vieni, ti presento i miei amici» tagliò corto Lodovico.
Poco più in alto rispetto al punto in cui si trovavano i due, un ragazzo e una ragazza sulla trentina si gustavano divertiti la scena.
Lodovico salutò gli amici, li abbracciò e dopo i soliti convenevoli presentò loro Kate.
«Simone, Giulia, questa è Bruce Lee, non vedeva l’ora di conoscervi».
Tutti, tranne Kate, scoppiarono a ridere.
«Piacere, Kate».
Sorrise anche lei, ma con due occhi da sfida che bruciarono lo sguardo di Lodovico. Anche così, con quel broncio da bambina dispettosa, il ragazzo non poté fare a meno di pensare quanto fosse bella.
“Spiritoso... Non vedeva l’ora di conoscervi…” ripeteva tra sé e sé. “Questa me la paghi”.
Dopo aver suggerito a Kate di seguire Giulia per rinfrescarsi un po’, Simone, appoggiando la mano sulla spalla dell’amico, gli chiese cosa ci fe da quelle parti.
«È una lunga storia, Simo. So che fa tanto film di spionaggio, ma prometto che ti spiegherò tutto. Prima posso andare a stendermi qualche minuto? Non mi fermo da giorni».
«Tranquillo, sai che questo posto è a tua disposizione. Anzi, ho appena pulito la piscina, vuoi farti una nuotata?».
«Ottima idea! Hai un costume?».
L’acqua, a filo con il muretto che dava sul belvedere, era magnifica, fresca al punto giusto. Lo invogliava sempre a tuffarvici. Ammirò la campagna per un po’, poi prese lo slancio e si lanciò.
Immerso fino al naso Lodovico sorrise. La vista da quella posizione risultava irreale. Sembrava che la piscina galleggiasse nel nulla e fosse trattenuta solo dall’orizzonte. Si sentiva bene.
Poche decine di minuti dopo, Kate tornò in giardino. Le braccia rassicuranti di Lodovico disegnavano precisi cerchi nello specchio azzurro. Si fermò a
guardarlo.
Era un’osservatrice nata, lei, che degli uomini si fidava poco niente. Ma amava le sfide, e quel ragazzo dal corpo definito e le maniere un po’ brusche ai suoi occhi lo era. Quel loro scherzare, quel prendersi in giro in maniera quasi bambina, le ricordava i corteggiamenti di quando era al liceo, e giocava a respingere tutti quelli che le interessavano. Lodovico era così. Un tuffo nel ato, un’energia improvvisa. Quanto di più lontano ci fosse da lei. Eppure, proprio per quello, ne era affascinata.
Si avvicinò al bordo della vasca.
«Esco e ci mettiamo lassù, sotto l’ombra di quel gazebo, che ne dici?» la sorprese lui.
Appena sopra la piscina, attraversando un piccolo sentiero in terra battuta, un porticato ricoperto da tralci di vite accoglieva sotto di sé un ampio tavolo circondato da tre panche. In quel punto il profumo della natura rilassava la mente, mentre l’oro dei campi di frumento, visibili tutt’attorno, regalava all’ambiente l’aura di un mondo fatato.
«Allora Kate, che mi dici?».
«Ora non ho proprio voglia di continuare a risolvere l’enigma. Lasciami riprendere un po’».
«Volevo solo parlare un pochino di te… Che mi racconti? So solo che ti chiami Kate, che eri abbastanza legata a un mio ex professore, e che hai pressappoco la mia età, niente di più. Considerando che eremo un po’ di tempo insieme, mi piacerebbe conoscerti meglio».
«E va bene… In realtà non mi chiamo Kate, ma Lisa, sono laureata in lettere all’Università degli Studi di Firenze, ho 33 anni e lavoro come copywriter a Milano, in un’agenzia pubblicitaria».
«Kate… Come mai questo soprannome?» domandò Lodovico.
«È il frutto di una scommessa».
«Una scommessa?».
«Quando William d'Inghilterra e Kate Middleton si sono sposati, lei era magrissima, aveva perso un sacco di chili con una dieta che oggi è famosa anche qui, ma che allora si trovava solo sulle riviste inglesi, che io vedo e sfoglio tutti i giorni per lavoro. Beh, trovo la dieta, siamo in estate, tutte le colleghe vogliono farla, ma la leggiamo ed è davvero pazzesca. Iperproteica, con un regime sbilanciatissimo e senza carboidrati per una settimana. Ci sfidiamo. Chi riesce a mantenere il regime per almeno tre giorni sarà Kate. Io sono Kate da allora. Peccato che, appena mangi un rigatone, ingrassi il doppio di quello che avevi perso, ma sai com'è… La competizione è femmina!».
«Poi sarei io a non stare bene?» replicò Lodovico divertito.
«E tu invece, che mi dici?».
«Beh, io sono Lodovico. Lodovico è il mio vero nome. Restando in tema soprannomi, il più bello me l’ha dato il mio migliore amico ed è Rütü, con le dieresi sulle U. Ho 36 anni e abito a Monza, vicino a Milano. Sono, o meglio ero, qui a Firenze per aiutare Pietro nel restauro di alcune opere di Raffaello. Oltre a quello mi occupo di grafica per diverse agenzie. Il nostro lavoro non è poi così diverso…».
Kate iniziò a sorridere, e le lunghe ciglia fecero risaltare il suo sguardo complice.
«Allora piacere, Rütü. Adesso che ci siamo conosciuti, possiamo andare a mangiare?».
«Certo Katlisa, vado a mettermi qualcosa addosso».
Non appena Lodovico si alzò, Kate cominciò a osservargli bene il fondoschiena e un’idea maliziosa le stuzzicò la mente.
“Però… Non male il ragazzo!”.
Percependone quasi telepaticamente il pensiero, Lodovico si voltò a osservarla. Kate abbassò lo sguardo, arrossendo.
“Merda!”. Due mani furtive coprirono rapidamente il suo volto imbarazzato.
Ore 16.15
Ampie e accoglienti, le camere dell’agriturismo Giulia le aveva progettate pensando alle sue estati da bambina, quando si nascondeva tra le stanze della casa di campagna dei nonni. Dalla porta d’ingresso, subito sulla destra un bagno piastrellato in azzurro ospitava una vasca con doccia e sanitari molto spaziati tra loro. Sul lato sinistro, la parete correva spoglia fino a raggiungere il piccolo comodino a due cassetti, sopra cui una abatjour brillava con la lampadina coperta da un mosaico di vetro multicolore. Lì a fianco si estendeva fino al secondo comodino il letto su cui, distesa con i gomiti appoggiati al materasso e le mani a coprire le orecchie, Kate fissava con sguardo intenso una risma di fogli A4.
Un déjà vu. Stessa posizione, stessa opera da analizzare e studiare per l’imminente compito in classe d’italiano. Alessandro, il suo ragazzo, abbracciando lo schienale della sedia su cui era seduto cavalcioni, la rincuorava. “Non ti preoccupare, andrà tutto bene… Oramai la sai a memoria!”. In effetti era vero. Lei era un genio, non le scappava neanche una congiunzione, ma per non avere rimorsi di coscienza preferiva continuare a leggere e rileggere, più e più volte, quegli endecasillabi raggruppati tre a tre.
Come un fulmine a ciel sereno, l’immagine di Pietro, col capo coperto da un aderente cappuccio bordeaux e coronato d’alloro, la fece trasalire. Si concesse qualche istante di assoluto silenzio, giusto il tempo di riprendersi un po’.
«Dov’eravamo rimasti?» chiese infine a Lodovico con voce tremante.
«Dobbiamo trovare in queste pagine un altro punto in cui è contenuta la parola TULE, oppure TU-LE scritto staccato… Ce le dividiamo a metà?» rispose lui,
dondolandosi sullo sgabello ai piedi del letto.
«Certo, mi sembra giusto».
Kate ebbe subito un’intuizione. Forse fu proprio Pietro, vestito come il Sommo Poeta, a fargliela venire.
«Ti ricordi che la prima TULE l’abbiamo trovata nel canto XXXIII del Purgatorio?».
«Certo… Continua».
«Bene, Dante è abbastanza metodico e, come tutti gli enigmi che si rispettino, il secondo punto da trovare deve essere in qualche modo legato al primo. E viceversa, come in questo caso. Io darei subito un’occhiata al canto XXXIII dell’Inferno, anche se comunque poi conviene controllare tutto il malloppo, non si sa mai…».
Sicura di sé, Kate, divise il blocco di fogli in due. Ne posò la prima parte capovolta sul lenzuolo e andò diretta alla fine del canto dell’Inferno.
«Bingo! Ecco Lo, che ti dicevo?
e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia".
TU LE spoglia, verso 63, canto XXXIII»
Quando riprese in mano i fogli, si accorse che ne mancava una pagina e lo fece notare a Lodovico.
«Sì, ho visto. Devo averla persa durante la fuga dall’hotel, ma possiamo recuperarla da Internet».
«No, non ti preoccupare, nessun problema, me la ricordo bene… La riscrivo io».
I due, nel più assoluto silenzio, controllarono scrupolosamente tutto il resto dello scritto, e ne ebbero conferma: l’unico verso in cui TULE compariva era quello del XXXIII canto.
«Dunque… TULE, canto XXXIII, verso 63 Inferno e canto XXXIII, verso 55 Purgatorio… Se ti scrivo 63°N 55°W che mi dici, Kate?»
«Che Tule si trova a quelle coordinate! Andiamo da Simone e controlliamo su Internet a cosa corrispondono. Se ne viene fuori un punto in mezzo al mare o su un’isola direi che ci siamo!».
Presto fatto, Simone consegnò loro il portatile. I due aprirono immediatamente Google Earth e inserirono nel campo di ricerca le presunte coordinate trovate. Il globo digitale iniziò a girare in senso antiorario, scorrendo verso il basso e zoomando simultaneamente sul luogo impostato.
Una certa suspense aleggiava nell’aria, come il colpo di scena che, in un film d’azione, cambia le sorti apparentemente disgraziate di tutta la storia.
Meravigliato, Lodovico indicò lo schermo e attirò l’attenzione della ragazza. Il mirino delle coordinate segnò un punto in mezzo al mare.
«Qui dice Mar del Labrador, al largo di Nuuk, la capitale della Groenlandia. Aspetta un attimo che approfondisco la ricerca».
Inserì i dati in Wikipedia e, pochi secondi dopo, ecco il risultato: “Il Mare del Labrador (in se: Mer du Labrador) (60°00'N, 55°00'W) è un braccio dell'Oceano Atlantico del nord situato fra la penisola del Labrador e la Groenlandia meridionale. La profondità dell'acqua nel suo centro raggiunge circa i tre chilometri ed è fiancheggiato dalle piattaforme continentali a sud-ovest, a nord-ovest ed a nord-est”.
«Osserva bene l’ingrandimento».
I due notarono come il punto in questione sembrasse trovarsi su un distaccamento di una delle placche citate, o forse su quella che una volta era un’isola, e che evidentemente adesso era inabissata.
«Se ci fosse ancora qualche piccolo spuntone in superficie? Un pezzettino di terra, uno scoglio o qualcosa del genere che affiora dalle acque? Direi che la soluzione è solo una… Kate, soffri il freddo?».
Ore 23.27
Le guardie, nella loro divisa ufficiale gialla, blu e rossa, dovettero allontanarsi dalla consueta postazione d’attesa a causa del potente turbine sollevato dalla forza del rotore. L’imponente Agusta Westland Merlin della Royal Air Force stava discendendo nel piccolo eliporto confinato all’estremo spigolo ovest dello stato.
Pochi attimi e le alte mura lo inghiottirono. La manovra precisa gli fece toccare il suolo delicatamente.
Il colore scuro della carrozzeria, nera come la notte più profonda, faceva risaltare il grosso stemma bianco sulla fiancata. Aaron Adler, il comandante, notò subito la sigla RET33 sulla sua coda. Non prometteva nulla di buono. Era Lei, l’Imperatrice.
Con o agile e deciso, a dispetto della sua veneranda età, la bassa figura bardata varcò il portellone, scese i due gradini e salì sulla jeep.
«Andiamo, in fretta!» tuonò.
Il ricciolo argenteo che le sporgeva dal cappuccio avrebbe dovuto incutere rispetto. Non era così, Aaron l’aveva sempre odiata. Saccente, indisponente, da evitare il più possibile. Purtroppo era lei a dirigere l’orchestra e anche in questo caso non poteva far altro che assecondarla in ogni suo ordine.
Dalla riproduzione della grotta di Lourdes attraversarono tutto il viale dell’osservatorio per poi proseguire su via dell’Aquilone. Il cielo era limpido e l’aria fresca; era la nottata perfetta per godersi quei magnifici giardini. Avrebbe preferito mille volte essere di ronda piuttosto che accompagnare lei, con quell’energia negativa che lo disgustava sempre. La voglia di gettarla a terra dal mezzo in movimento era irrefrenabile.
Quasi percependo il suo pensiero, la donna lo inquadrò con uno sguardo intenso che gli ghiacciò il sangue all’istante. Era meglio concentrarsi sulla guida.
Alla Fontana del Sacramento, il Gran Maestro li stava aspettando. Fu lui questa volta a tremare. Ne era succube, e appena la vide s’inchinò per accoglierla.
Indignato, il comandante decise che quella sarebbe stata l’ultima sera in cui avrebbe fatto il loro sporco gioco.
“Da domani sarò un uomo libero, io me ne vado!”. Fermò il motore e spense i fari.
«Aspetta qui, ci metterò poco» gracchiò la donna.
Si avvicinò al Maestro e gli mise una mano sulla spalla. I due si incamminarono lungo la strada che attraversava i giardini, fino a sparire tra le grosse siepi.
Faceva sempre così, era il suo iter e lo seguì alla lettera. Dopo pochi i iniziò a sospirare sempre più velocemente, si fermò e incrociò le braccia al petto. La
rabbia continuava a salire. Per la tensione accumulata, il volto le si irrigidì al punto da deformarsi verso l’esterno, mentre le pupille parevano essere quelle di un gatto.
Come se non bastasse, la luna, inghiottita da nuvole eggere, regalava un'atmosfera surreale, alterando i colori dell'ambiente circostante. L’Imperatrice era diventata un mostro dalla pelle verde.
L’uomo rimase impietrito e cominciò a sentire che stava perdendo le forze. Le gambe cedevano e per stare in piedi dovette spingere forte, con entrambe le mani, sul bastone di sostegno. Impallidì per il senso di oppressione che gli stringeva la gola. Una volta stabilizzato si slacciò, tremando, il paio di bottoni che gli tenevano chiusa la tunica sul collo. Cercò così di ingoiare il grosso peso accusato; respirava a fatica, aveva paura. Abbassò lo sguardo, non riusciva più a guardarla.
«Non va bene! Non vi pago lo stipendio per commettere errori!» lo ammonì con voce rauca e sibilante.
«Ha ragione Signora! Non ho scusanti» ammise scoraggiato. «Mi dia un’altra possibilità, non la deluderò».
Lei aprì la bocca, lasciando che i bianchissimi denti digrignati le dipingessero un ironico sorriso.
«Questa frase l’ho già sentita troppe volte, non mi fido più. Torniamo alla jeep!».
I due ripercorsero la stretta strada sterrata fino a fermarsi a pochi i da Aaron.
Una volta lì, la donna si portò la mano al cuore ed estrasse dal mantello una piccola pistola silenziata. In un batter di ciglio, il comandante, seduto al posto di guida, si accasciò sul volante per poi cadere a terra privo di vita.
Il piccolo foro sulla tempia come unico testimone di quanto accaduto. «Se ne voleva andare? Eccolo accontentato, ho soltanto accelerato i tempi. Non dite che non sono magnanima. Che ti serva da monito: il prossimo sarai tu!» ghignando, l’Imperatrice accese il motore e se ne andò.
L’assordante frastuono dell’elicottero penetrò il suo cervello. Quella notte il Maestro non avrebbe dormito.
12 luglio 2012 – ore 15:42, San Gimignano (SI)
[Giovedì]
«Riccardo, Kate è qui!»
L’agente in borghese, all’interno di un anonimo furgoncino bianco, stava controllando la salita poco distante all’abitazione quando la vide. Avvisò subito il commissario Ferretti.
All’insaputa di sca, per non farla preoccupare, la sua casa e la relativa linea telefonica erano state messe preventivamente sotto stretta sorveglianza. I microfoni ambientali erano attivi e pronti a registrare. Da un momento all’altro sarebbe potuta arrivare una qualsiasi richiesta, o una visita non troppo piacevole.
Così infatti fu, ma il visitatore non aveva nulla a che fare coi componenti della banda dei freddi e meticolosi criminali.
Era lei, e lui le voleva fin troppo bene. Forse provava addirittura qualcosa in più e questa sensazione era talmente forte da spingerlo a mettere in gioco la sua stessa vita pur di tirarla fuori da qualsiasi eventuale impiccio.
Doveva capire cosa stava succedendo. Non voleva essere troppo invasivo, nessuno si sarebbe accorto della sua presenza. Interruppe frettolosamente la
chiamata e saltò sulla sua auto personale per non dare nell’occhio.
14 luglio 2012 – ore 06:13, Aeroporto di Malpensa
[Sabato]
Capelli corti, figura slanciata, un po’ di trucco che ne esaltava l’espressione solare, il solito sorriso stampato sul volto. Indosso, un paio di jeans attillati, un maxipull chiaro di lana pesante e un paio di Converse color puffo. Sì, era lei, con tutta la sua sensuale vitalità. Ogni volta che la vedeva, Lodovico se ne innamorava un po’.
«Eccoti qui Kate! Tutto bene in treno?» esordì, scuotendosi da pensieri a cui lui stesso, razionale e metodico, non era avvezzo.
«Sì, certo! A dire il vero non vedevo l’ora di continuare il nostro viaggio alla scoperta del “sommo mistero”» rispose lei, vagamente ironica.
Il ticchettio ritmato delle ruote sui binari e le leggere ondulazioni della carrozza su cui viaggiava l’avevano trasportata tra le braccia di Morfeo pochi minuti dopo che il Freccia Rossa aveva lasciato la stazione di Santa Maria Novella. Il lucente mezzo, con la sua velocità media intorno ai centonovanta chilometri orari, attraversò la campagna toscana e altre due regioni in men che non si dica. Le sembrava di essere partita solo da pochi minuti, quando la voce metallica proveniente dall’altoparlante collocato sopra la sua testa aveva annunciato l’arrivo a Milano Centrale. Da lì, prendendo la coincidenza con il Malpensa Express, era arrivata dritta all’aeroporto.
«Bene, adesso ti riposerai ancora in aereo... Intanto ti presento Fulvio».
«Il piacere è mio Fulvio» disse lei porgendogli la mano.
I due si osservarono per un attimo. Fulvio pensò a tutte le parole che Lodovico da giorni spendeva per lei. Kate si soffermò curiosa su quel ragazzo di cui sapeva poco niente. Certo non ne conosceva la sua iperattività, né la sua materialità, o quell’amore straordinario per la natura che si portava dietro fin da bambino. Sapeva solo che era il miglior amico di Lodovico, e cercò un qualcosa che lo accomunasse a lui.
«Quindi sei tu l’erudita e mnemonica Kate…» ruppe il ghiaccio Fulvio.
«Sì, presumo di sì…». Arricciando il naso e guardandolo dal basso in alto, Kate diede a Lodovico un forte pizzicotto sul collo.
«Ho la netta sensazione che ti devo delle spiegazioni Kate» mormorò lui a denti stretti.
«Direi proprio di sì».
«Ma voi due fate sempre così?» chiese divertito Fulvio.
«E non hai ancora visto niente…».
Mentre Kate, alzando gli occhi al cielo rassegnata, prese le valigie e fece per andare, i due amici scoppiarono a ridere scambiandosi pacche sulle spalle e saluti gogliardici. Fulvio adorava le donne. E Kate, beh, era davvero bella. Il suo amico aveva visto lungo.
Nei pochi giorni trascorsi da quando Lodovico e Kate si erano salutati all’agriturismo, lui aveva fatto tappa nella sua abitazione brianzola per recuperare qualche vestito invernale e per coinvolgere Fulvio, il suo più caro amico. Spigliato e magrolino fin quasi all’osso, Fulvio sorprendeva tutti con la sua forza disumana e quella voglia di scoprire luoghi sempre nuovi. Era l’amico perfetto per farsi accompagnare nell’avventura che ormai aveva avuto inizio. L’aveva conosciuto da ragazzino, durante un corso di inglese con un’insegnante madrelingua che non perdeva mai l’occasione per correggerli in ogni più piccolo errore di pronuncia o di scrittura. Compiti su compiti e svariati esercizi li avevano forgiati per bene. Quando erano insieme il mondo non aveva più confini.
Seduti al solito tavolo del Bar del Dosso, un piccolo locale nascosto tra gli alberi all’interno delle mura del Parco di Monza, Lodovico e Fulvio avevano approfittato di una colazione per discutere i dettagli del viaggio. Bevuto l’ultimo sorso del suo succo al mirtillo, Fulvio aveva sentito forti brividi percorrergli la schiena. Detestava il freddo, più di qualsiasi altra cosa. Senza il sole aveva la sensazione di spegnersi e di non saper dare il massimo.
«Considerato il clima polare di quel Paese, non sono tanto sicuro di poterlo fare... In Groenlandia ci ano le correnti che arrivano dall’estremo nord e adesso che è metà luglio non si superano i sei gradi di giorno. Lo sai che sono una lucertola…
Potrei rimanerci congelato!» aveva detto dubbioso solamente qualche giorno
prima.
«Poche storie! È uno dei pochi posti in cui non sei mai stato e mal che vada rimarrà sempre un bel viaggio alla scoperta dell’ignoto. Mangeremo zuppe caldissime e poi … Immagina quante ragazze conosceremo!» aveva cercato di convincerlo Lodovico.
«Mmm… Quando e da dove si dovrebbe partire?».
«Sapevo di poter contare su di te! A proposito di ragazze, con noi verrà Kate: è affascinante, spiritosa, intelligente, e ha un broncio che mi fa impazzire!».
Finiva sempre così tra loro. Lodovico conosceva ogni suo aspetto, e convincerlo non era poi così difficile. E poi gli occhi dell’amico non lasciavano spazio ai dubbi. Quella Kate era molto più che un’amica.
Kate, intanto, aveva deciso di tornare a Firenze per fare visita alla madre che, lasciato il suo appartamento nell’hinterland milanese, si era trasferita in Toscana per qualche giorno di vacanza. All’ultimo aveva però deciso di deviare a San Gimignano, per trascorrere un po’ di tempo con la sorella.
Seduta sul comodo divano del salotto appena arredato, le aveva raccontato dell’imminente viaggio sorseggiando una limonata dissetante. sca, che era un po’ preoccupata e che la conosceva fin troppo bene, seppure avvertita con pochissimo anticipo, le aveva fatto trovare tre valigie piene di vestiario e accessori di ogni tipo per quella partenza non programmata.
«Non ti preoccupare Francy, ti spiegherò tutto. Voglio solo capire perché hanno ucciso Pietro. Forse era a conoscenza di un segreto troppo importante ed è giusto che io scopra di cosa si tratti».
«Quando parti?».
«All’una e mezza devo essere a Firenze. Tu adesso vai che se no fai tardi al lavoro, io chiamerò un taxi. Mi raccomando, stai tranquilla e rincuora la mamma, fai finta che stia andando in vacanza… Tra l’altro, con un ragazzo molto carino!».
La tensione sul volto della sorella si sciolse un po’ e gli occhioni, prima sbarrati, si rimpicciolirono dolcemente.
«Visto che sembri decisa, non posso che assecondarti. Stai attenta, però. Tienimi informata il più possibile. E magari cerca anche di divertirti un po’».
Dopo la routine del check-in, pochi altri convenevoli e una tappa obbligata alla toilette e poi al bar, i tre ragazzi si imbarcarono alla volta del loro primo scalo, Copenaghen. Da lì avrebbero poi volato verso Nuuk.
15 luglio 2012 – ore 10:25 (ora locale), Nuuk, Groenlandia
[Domenica]
L’airbus 330-200 rosso dell’Airgreenlad toccò l’asfalto sulla pista numero 1 dell’aeroporto di Godthaab, in perfetto orario. I rotori dei motori, con un’energetica inversione di marcia, prima lo frenarono e poi lo spinsero dolcemente verso il tunnel pedonale mobile, in attesa di agganciarlo.
Kate, Lodovico e Fulvio, recuperati i bagagli, si fiondarono al primo snack-bar.
«Benvenuti in Groenlandia!» esordì Fulvio, spostando dal tavolo le briciole del suo panino alla cotoletta per far posto alla guida. «La Groenlandia (nella lingua locale Kalaallit Nunaat, "Terra degli uomini"; in danese Grønland, "Terra verde") è un'isola del continente americano, la maggiore del mondo per superficie, situata nell'estremo nord dell'Oceano Atlantico tra il Canada e l'Islanda. Dal punto di vista politico, costituisce una nazione in seno al Regno di Danimarca [..] Attualmente la Groenlandia, oltre che dal turismo, è fortemente dipendente dalla pesca e dalle esportazioni dei prodotti ittici. L'industria della pesca del gambero, ma anche dell'halibut è il settore che garantisce la maggiore fonte di reddito.,.»
«Ragazzi, qualcosa mi dice che presto ci imbarcheremo su un bel peschereccio!» lo interruppe Lodovico. «Già m’immagino i titoli dei giornali! Pesca allo scoglio: tre italiani alla ricerca dell’isola perduta sulle tracce del percorso dantesco» scherzò appoggiando il bicchiere con decisione.
«Non male! Hai dei buoni skills da copywriter e pure la verve del narratore! Mai pensato di scrivere un libro?» chiese ironica Kate.
«Non fino ad adesso, ma al ritorno da questo viaggio ci penserò seriamente. Sempre che tu mi dia una mano».
Sornione, Lodovico tese la mano a Kate e i tre si diressero verso l’uscita dell’aeroporto.
L’autobus di linea arancio e bianco li portò in pochi minuti alla pensione Nordbo, dove ricevettero le chiavi dell’appartamento Saqqarliit prenotato su Internet. Non più di una settantina di metri quadrati ben organizzati e con un arredamento minimo, ma essenziale: frigorifero, piano cottura, forno, lettore DVD, stereo, TV satellitare e una lavatrice. Non mancava nulla.
Appena entrati, Lodovico e Kate iniziarono a sistemare i bagagli. Mentre lui non fece altro che accatastare la propria valigia e quella di Fulvio in un angolo della stanza, lei, con puro istinto femminile, incominciò ad aprire tutti i cassetti e le ante di un grosso armadio in legno massello posto al centro della parete in fronte a loro, poi ripose delicatamente tutti i suoi indumenti in ordine di colore.
Intanto Fulvio, ispezionando l’ambiente, si diresse al piano superiore dove, dall’enorme velux, riuscì a intravvedere l’ampia terrazza. “L’oceano, magnifico!”. Immediatamente, non troppo lontano, un gruppetto di macchie scure era seguito da scie più chiare e da sbuffi a lui famigliari. Le balene. “Sì, sarà proprio una bella gita…” si convinse.
Sceso in salotto, si accorse che gli amici si erano ormai sistemati. «Che ne dite se andassimo a fare un po’ di spesa e ad informarci su come raggiungere le nostre coordinate?» domandò loro.
«Ottima idea, tanto qui c’è poco da fare» rispose Kate, lanciando un’occhiata ai bagagli ancora chiusi dei suoi compagni di avventura. «Lodo, porta la macchina fotografica!» continuò poi con tono di compatimento.
Una piacevole camminata attraverso il bel quartiere in cui alloggiavano permise loro di gustare la meravigliosa vista sul mare, di fronte alle maestose montagne. Dieci minuti ed erano in centro.
«Guardate, un punto di informazioni turistiche! Proviamo a chiedere lì!».
«Siete fortunati, signori!» rispose in un inglese molto cadenzato la ragazza al bancone, dopo averli ascoltati. «Per la giornata di domani abbiamo organizzato un’uscita in mare aperto sul peschereccio Berit, ma non è proprio una eggiata…». Spiegò loro che il percorso in programma era di quattrocento chilometri. Sarebbero partiti verso le 4:00 di mattina, per rientrare più o meno intorno a mezzanotte.
«Durante la navigazione ci saranno un massimo di quattro soste da due ore ciascuna a seconda delle condizioni del mare, per la pesca dell’halibut e per ammirare i maestosi cetacei. A bordo ci sarà Ainik, la nostra biologa e tecnologa alimentare, che vi illustrerà in tutte le fasi del viaggio la vita di questi magnifici mammiferi. Durante le pause dedicate alla pesca verrete a conoscenza del complesso sistema della filiera alimentare, della produzione, la trasformazione, la distribuzione e la ristorazione che deriva dall’intensa attività ittica che pratichiamo quotidianamente. Inutile dirlo, è un viaggio sconsigliato se soffrite di mal di mare!».
«Io ci sto!» esclamò Lodovico.
«Sì, anche io!» gli fece eco Fulvio.
«E tu, Kate?».
«Così tante ore in mare non le ho mai fatte, ma del resto cosa farei qui da sola per tutta la giornata? Va bene, le confermiamo subito tre posti».
«Perfetto, partirete dal porto. Fatevi trovare lì per le 3:30, così prenderete confidenza con la Berit. Se volete, il pullman che a qui fuori fa capolinea là e verso le 3:15 effettuerà una corsa apposita per raccogliere i pescatori della città».
Ore 14.45
A soli 1,2 km dall’alloggio affittato dai tre ragazzi, il porto coloniale sorge a fianco del Museo Nazionale della Groenlandia, un piccolo museo ospitato in una casa di legno dipinta di rosso.
Al suo interno fanno bella mostra oggetti appartenuti agli eschimesi prima della colonizzazione danese, giacche a vento, kayak, attrezzi da lavoro, ma la vera attrazione sono le mummie di Qilakitsoq, considerate fra le più antiche e meglio conservate al mondo.
Le loro storie catturarono l’interesse di Fulvio che, senza troppi convenevoli, costrinse gli amici ad acquistare il biglietto per ascoltare la descrizione della guida.
Kate si commosse per la vicenda della bambina di sei mesi sepolta viva che, da più di 3500 anni, aspettava l’abbraccio della madre. Minuta e perfettamente conservata, avvolta in un vestitino di caribù e foca, sembrava una bambola di porcellana. La sua mamma era morta e lei, rimasta sola senza nessuno che se ne potesse prendere cura, fu sepolta nella tomba ghiacciata. La temperatura sotto lo zero e l’aria secca proveniente dall’esterno hanno conservato sino ad oggi la sua espressione di speranza.
Un inspiegabile senso di comunione e unità percorse i corpi dei ragazzi, che si presero per mano. Avevano una missione da compiere e in quel momento si convinsero ancora di più dell’importanza di portarla a termine.
16 luglio 2012 – ore 03:30
[Lunedì]
Usciti dal caldo appartamento, Kate, Lodovico e Fulvio impietrirono al contatto con il freddo pungente. Attorno a loro, solo strilli di gabbiani e profumo di salsedine. Si avvolsero stretti nei cappotti, per contenere il più possibile il tepore dei loro corpi, e scesero la scaletta che dalla strada li condusse verso gli attracchi.
La Berit era la più grande delle navi peschereccio dell’isola; lucente e con qualche graffio, sembrava ignorare le sue 54.000 ore di servizio. I possenti motori, già caldi, indicavano che era pronta per affrontare il consueto viaggio nelle profonde acque ghiacciate.
«Benvenuti a bordo, sono Ainik; oggi vi spiegherò tutto ciò che è riportato nel depliant che vi è stato consegnato. Io, il capitano Borje e tutto
l’equipaggio vi auguriamo buon viaggio e buona pesca».
L’ordinario messaggio accolse i ragazzi ancora assonnati e li caricò per affrontare una giornata che si sperava proficua.
«Lo, ma l’hai vista bene Ainik? Credo di essermi appena innamorato!».
«Sei senza speranze Fulvio!».
Le loro risate ruppero un silenzio quasi irreale.
Mentre la Berit frangeva le onde con la sua possente prua, Ainik spiegava come il viaggio sarebbe stato realizzato sopra le placche continentali e sopra un distaccamento, probabile retaggio di un’isola ora sommersa.
«Bene, era esattamente quello che volevo sentire» sussurrò Lodovico all’orecchio di Kate.
«In questi punti la profondità dell’oceano è di poco più di mille metri, e questo fa sì che le acque siano lievemente più calde rispetto al resto del mare del Labrador. Si trovano qui i pesci più piccoli e ovviamente il plancton, il cibo principale dei cetacei e degli halimut» continuò Ainik.
In lontananza, ecco ancora le balene.
Questa volta un cucciolo continuava ad inabissarsi per poi riemergere da tutt’altra posizione, quasi come volesse giocare a nascondino con la madre poco distante. A quella visione, Fulvio si lasciò trasportare dai suoi pensieri, ricordando quando, durante un viaggio in California, una piccola lontra si era divertita a far sbandare il suo kayak facendogli quasi venire il mal di mare.
Solido nella sua stazza, invece, il peschereccio procedeva dritto senza esitazione. Erano trascorse ormai due ore di navigazione quando fermò i suoi motori.
Il ricordo del ragazzo s’interruppe per il vociare dei pescatori che iniziavano a preparare le loro attrezzature.
Nel frattempo, Ainik aveva invitato tutti gli altri eggeri a recarsi nella sala sottostante, attrezzata con grandi schermi e sonar sottomarini per ammirare la vita nei fondali. Un documentario iniziò a mostrare curiosità su balene, capodogli e delfini.
Lodovico, approfittando della prima sosta, riuscì a raggiungere in cabina di pilotaggio il capitano Borje.
Lo scompartimento grigio era quasi tutto uguale e asettico fatta eccezione per la zona centrale, dove un grosso tavolo retroilluminato faceva da appoggio a una mappa nautica dettagliata. La nebbiolina bluastra generata dalla luce e dall’umidità del locale fluttuava sopra quei fogli, invitando gli astanti ad avvicinarsi. Presto fatto, i due iniziarono a prenderne visione. Osservarono che il punto indicato dalle coordinate riportate sul taccuino del ragazzo si trovava sulla rotta designata per l’uscita giornaliera.
«Sì, perché no? Se le condizioni del mare reggono, la prossima sosta possiamo farla lì. Del resto non è poi così lontano da dove ci fermiamo di solito. Ma… Cosa cercate di preciso?».
«Vorremmo vedere se in quel punto sono presenti delle piccole terre emerse, degli spuntoni o qualcosa del genere. Magari quelle che una volta erano le vette di montagne ora sommerse».
«In effetti ci sono tante increspature del mare in quel punto, essendoci su quel pezzo di placca dei canyon che spingono le acque verso la superficie. È tutto un po’ più mosso ed è un buon punto per pescare, ma a mia memoria non ricordo nulla di emerso. Come diceva prima Ainik, la profondità lì varia da un minimo di settecento a un massimo di milleduecento metri. Fermeremo il peschereccio, ma non credo troverete nulla di interessante… Posso mettervi a disposizione il gommone d’alto mare per gli avvicinamenti ad altre imbarcazioni. Goran, il mio marinaio, vi accompagnerà a fare un giro lì intorno».
«Grazie mille Borje! Ora torno dai miei compagni».
Lodovico raccontò tutto agli altri e, benché in maniera velata, la delusione cominciò ad affiorare sui loro volti.
Erano ate circa sei ore dalla partenza, quando il capitano Borje annunciò le coordinate: 63°N 55°W. Un piccolo tonfo al cuore colse di sorpresa i tre amici.
«Ragazzi, seguite Goran: vi accompagnerà lui. Nel frattempo, per approfondire un po’ il tutto, io utilizzerò il sonar di bordo e la telecamera a infrarossi per vedere se trovo qualcosa qui sotto».
«Grazie ancora Borje, ci rivediamo tra un’oretta».
Kate, Lodovico e Fulvio si allontanarono di circa mezzo miglio. Utilizzando il peschereccio come fosse il centro di un como, con l’aiuto di Goran cominciarono ad eseguire un cerchio perfetto; fatto il maggiore ne seguirono molti altri sempre più piccoli, fino a quando si ritrovarono alla posizione di partenza.
Come previsto, nulla di particolare attirò la loro attenzione.
Giù di morale e infreddolita, Kate concentrò la sua attenzione sull’enorme nuvola che si ergeva sopra la linea dell’orizzonte. Le sembrò che, con la sua forma a freccia, quella nube lontana volesse indicare ironicamente il loro ritorno verso casa. Ancora un o e, sentendosi stabile sulla piattaforma rigata del peschereccio, si rassegnò del tutto.
Appena i tre furono tornati a bordo, il capitano mostrò loro, sullo schermo della sala proiezioni, l’immagine del fondale marino rimbalzata dal sonar: si vedeva solamente una tavola piatta sommersa a più di un chilometro. Nulla di nulla, solo una profonda distesa di acqua gelata.
Ai ragazzi non restò altro che continuare la gita fino a tarda serata, per poi tornare nel loro appartamento. Sfiancati fisicamente dal viaggio e moralmente delusi, iniziarono a pensare che forse il sommo poeta non voleva aggiungere altro alla sua Commedia. Sfiniti, si lasciarono cadere sui loro letti senza dire una parola.
«Per me la giornata non è andata così male… Ho il numero di cellulare di Ainik!» scoppiò improvvisamente a ridere Fulvio.
«Sei sempre il migliore, non c’è che dire!».
«Ehi, voi due maschiacci, che ne dite se spegniamo la luce?».
17 luglio 2012 – ore 08:30
[Martedì]
Mentre Lodovico e Fulvio giacevano ancora profondamente addormentati, Kate si svegliò di soprassalto. Un’inaspettata idea le aveva illuminato la mente, facendola sobbalzare.
«Ragazzi! Dante non voleva prendersi gioco di noi! L’abbiamo solo interpretato male!».
«Come dici Kate? Non ti senti bene? Non ho capito una sola parola di quello che hai detto».
Fremendo per l’improvvisa rivelazione, Kate si mise a sedere ai bordi del letto. Due occhi semichiusi la fissavano. Anche così, con i capelli arruffati e il pigiama che ne nascondeva le forme, Lodovico sentì i suoi battiti farsi più forti. La bellezza di quella ragazza, così innocente e quasi casuale, aveva il potere di togliergli il fiato.
«Ho detto che abbiamo letto in modo sbagliato i dati della Divina Commedia. Pensaci bene... Oggi il Meridiano di riferimento, da cui calcoliamo tutte le altre coordinate, è quello di Greenwich. Però, mentre il parallelo dell’equatore è rimasto sempre uguale, nel corso della storia sono stati usati diversi meridiani primi. Quello di Greenwich è entrato in vigore solo verso la fine del diciannovesimo secolo. Dobbiamo sbrigarci e andare all’Università. Lì potremo sicuramente fare una ricerca».
«D’accordo, anche se suppongo che alla biblioteca possano accedervi solo gli studenti». La voce di Fulvio sembrò soffocare sotto le pesanti coperte.
«Ci sarà sicuramente un’area pubblica. Quando ho fatto l’Erasmus all’Unversity of Cambridge bastava esibire il tesserino universitario di una qualsiasi università internazionale per accedere quantomeno alla parte di consultazione e lettura. Io nel portafogli ho ancora il mio tesserino da studentessa. Ne avevo fatta una copia dopo aver perso l’originale e, quando l’ho ritrovato, ho deciso di tenerlo per gli sconti nei musei e nei cinema. Proviamoci, no?».
Dopo una colazione in piedi, veloce ma ricca abbastanza da permettere loro di affrontare un clima quasi polare, i tre ragazzi raggiunsero la biblioteca della Ilisimatusarfik, la più piccola università del mondo.
Da lontano, pareva di trovarsi di fronte a un quadro. L’edificio, formato da un grosso trapezio in legno a spiovente, tagliato in orizzontale da tre file di vetrate, aveva le sembianze di una nave da crociera arenata tra il piccolo monte sullo sfondo e le rocce scoperte sul davanti.
Una volta attraversato l’ampio salone all’ingresso, riuscirono come previsto ad accedere all’area lettura, in cui troneggiavano numerose postazioni computerizzate.
«Sentite cosa dice Wikipedia: [..Altri meridiani primi usati in ato comprendono Monte Mario a Roma (12° 27' 08.04" a est di Greenwich), Copenaghen, Gerusalemme, San Pietroburgo (Meridiano di Pulkovo, 30° 19' 42.09" a est di Greenwich), Pisa, Parigi (2° 20' 14" a est di Greenwich), e Filadelfia..] Quello di Greenwich.. [..è stato concordato nell'ottobre del 1884 a
Washington alla presenza del Presidente degli Stati uniti d'America, da 41 delegati provenienti da 25 paesi, riuniti per la Conferenza Internazionale dei Meridiani..]..
Gerusalemme! Ma certo! Forse lo sapete già, ma ve lo dico lo stesso: quando Dante ha progettato l’intera architettura della sua Commedia, ha inteso la Terra come una sfera con la superficie costituita da acque e terre emerse. Queste, unite tra loro, formano l'Ecumene, con al centro Gerusalemme: Jerusalem in medio gentium dice la Bibbia. Noi dobbiamo ragionare con la sua testa, non con la nostra!».
«Dunque TULE dovrebbe trovarsi a 63°33’ N e 55°33’ W rispetto a Gerusalemme... Cerchiamo un planisfero».
Fulvio, veloce, scattò in piedi e si diresse verso l’addetta alla biblioteca. Un minuto dopo era di ritorno con un planisfero nuovo di zecca. «Rifacciamo i calcoli. Gerusalemme si trova a 35°30’ est rispetto al nostro riferimento, per cui la nuova longitudine è: 55°33’ – 35°30’ = 20°03’ W. Controlliamo a cosa corrisponde… Perfetto! 63°33’ N e 20°03’ W indica più o meno le foci di questo fiume in Islanda! Dai, alla fine non abbiamo sbagliato di così tanto…».
Mentre Lodovico e Fulvio studiavano il planisfero, Kate tornò al pc e si mise a digitare velocemente, quasi a voler star dietro ai pensieri che si rincorrevano nella sua testa.
Dopo pochi minuti, rompendo il silenzio della stanza, chiamò i due amici.
«Ho voluto controllare meglio le coordinate su Google Earth. Il punto indica la strada n° 254, la ‘Landeyjahafnarvegur’. Se guardate bene la cartina, questa si trova sulla linea di mezzeria verticale dell’Islanda e la percorre in direzione nord, per incontrare poi la strada n°1, la ‘Hringvegur’, una specie di anello che percorre tutta l’isola collegando le diverse regioni tra loro». Kate tracciò uno schizzo su foglio rubato alla stampante, cercando di spiegare ai compagni di viaggio ciò che nella sua mente era ben definito.
«Lo, ti ricorda qualcosa?»
«Ma sì Kate! È il cerchio nell’esposto del codice nel quadro di Raffaello! Quindi il trattino e la X non erano riferimenti per eseguire il disegno, ma dei “riferimenti” per noi!».
Troppo emozionati per rispettare l’ossequioso clima della biblioteca, i tre decisero di stampare il tutto e di continuare i loro discorsi nell’appartamento.
Kate, senza neppure togliersi il giubbotto, andò dritta al tavolo della cucina, mentre i ragazzi cominciarono a fare le valigie.
«Guardate qui» esclamò la ragazza dopo pochi minuti.
Sul cerchio tracciato, segnò una X e mostrò ai due le copia del codice, che da giorni si portava in tasca.
«Probabilmente questa X indica un’altra coordinata…» osservò Fulvio, prendendo possesso delle stampe. «Guardando la cartina del Paese, la X potrebbe corrispondere alla parte inferiore di questo ghiacciaio. Il punto dovrebbe essere in prossimità del vulcano Öræfajökull. Abbiamo stampato tutte le pagine Wikipedia sull’Islanda, giusto?».
«Tutte le principali. Quella sul vulcano dovrebbe esserci» rispose Kate, frugando tra i fogli. «Eccola qui: “Il vulcano Öræfajökull con la sua cima Hvannadalshnjúkur, che coi suoi quasi 2110 metri è la montagna più alta dell’Islanda, fa parte del ghiacciaio Vatnajökull, al confine con il Parco nazionale Skaftafell. L'ambiente naturale è indubbiamente suggestivo in quanto manifestativo di alcune spettacolari forze della natura: ghiaccio e fuoco all’unisono; per questo la bocca del vulcano è stata definita dagli islandesi stessi ‘La porta dell'Inferno’"».
«La Porta dell’Inferno? Non può essere una coincidenza!».
«Dobbiamo andare lì. Per forza» sentenziò Lodovico.
«Se non ricordo male, da quelle parti dovrebbe esserci l’aeroporto di Fagurholsmyri...» suggerì Fulvio, scavando nella sua memoria geografica.
«Perfetto, prenotiamo subito il volo!».
Kate, con il suo inglese perfetto, chiamò la ragazza del punto informazioni che qualche giorno prima aveva organizzato la loro uscita in peschereccio, e si fece dare il numero dell’agenzia viaggi più vicina. Una seconda telefonata e confermò ai ragazzi di aver prenotato il volo.
«Non ci sono voli diretti. Dobbiamo andare a Reykjavik, e da lì prendere l’aereo per Fagurholsmyri. Forza, raccogliamo i bagagli».
18 luglio 2012 – ore 7:49 Reykjavik, Islanda
[Mercoledì]
Puntuali come un orologio svizzero, i bagagli si susseguivano in un giro senza fine sopra il grosso tapis roulant.
Scorgendo l’inconfondibile trolley rosso di Kate, Lodovico riportò alla mente una scena del giorno prima, quando lei, seduta a gambe incrociate sopra la valigia, cercava di sfruttare il suo peso per chiuderla. Non era affatto facile. Gli indumenti avevano raggiunto, seppur compressi all’inverosimile, la densità di una supernova. La cerniera faticava a scorrere, e lei sbuffava di continuo. Un sorriso ebete gli si stampò sul volto.
«Non perdiamo tempo» disse Fulvio, recuperando il suo borsone militare e distogliendo l’amico da quell’immagine. «Abbiamo un altro volo da prendere».
Un centinaio di metri più avanti, una fila di una cinquantina di persone si muoveva lentamente, come un serpente strisciante verso la sua tana.
CHECK-IN C3: Fagurholsmyri Ancora ansimanti per la corsa, i ragazzi si accodarono. Fulvio, un po’ irrigidito dalla tensione, bevve un sorso d’acqua dalla bottiglietta presa al distributore automatico lì vicino.
«Non ho mai preso così tanti aerei in così poco tempo. E, seppure la cosa mi elettrizzi, i controlli mi fanno venire l’ansia ogni volta» ammise.
«Anche lei? Pensi che io, prima di ogni partenza, devo prendere delle gocce calmanti per non stare male». Un signore robusto, vestito con un paio di pantaloni di velluto verde scuro, maglione di lana e impermeabile, si inserì nel discorso. «Scusate, non mi sono presentato: il mio nome è Gunnar. Andate a Fagurholsmyri per l’escursione sul vulcano?».
«Piacere, io sono Fulvio. E, sì, andiamo là per l’escursione. Come ha fatto a indovinare?». «Datemi pure del tu. Si vede che siete turisti e di solito i forestieri vanno là per quello. Avete già un posto in cui dormire?».
«A dire il vero pensavamo di cercare qualcosa appena atterrati» rispose Lodovico.
«Se non vi offendete, io ho una pensioncina a conduzione famigliare ad Hofskirkja a pochi chilometri dall’aeroporto. Di solito i turisti preferiscono l’hotel del centro, quindi ho un paio di stanze libere. Dovrei avere una brochure nella valigetta…» disse l’uomo, estraendo da una vecchia ventiquattrore un piccolo dépliant. Immagini amatoriali parlavano di un ambiente intimo e accogliente, quasi a voler ricordare una calda baita di montagna.
«Perché no? Kate?» chiese Lodovico, cercando l’approvazione della ragazza.
«Per me va bene, purché non sia troppo caro» rispose lei sorridendo.
«Facciamo così. Siamo in bassa stagione, quindi posso venirvi incontro. Voi mi pagate i pasti e io vi omaggio l’alloggio. Dovrete però accontentarvi del laboratorio di mio figlio. Fa l’archeologo, e ora sta seguendo uno scavo in Egitto...».
«Andata!» concordò Kate.
Ore 11:22 Fagurholsmyri, Islanda
Il Defender di Gunnar si fermò. «Siamo arrivati ragazzi».
La struttura triangolare ricoperta interamente di erba e muschio, rendeva quasi invisibile, nell’ambiente naturale circostante, la chiesa di fine 1800 dedicata a San Clemente. Insieme al cimitero ad essa adiacente, costituito da cumuli di terra ricoperti da un manto verde e sormontati da piccole croci bianche, conferiva al paesino un aspetto fatato.
«Ecco le chiavi dell’appartamento, ragazzi. Di qualsiasi cosa abbiate bisogno, chiedete pure».
«Grazie Gunnar. Appoggiamo solo le valigie, vorremmo andare subito al vulcano».
«Certo, sistematevi con calma e poi venite a chiamarmi. Vi accompagnerò io».
Circa una trentina di minuti dopo, Kate, Lodovico e Fulvio si trovavano già al centro informazioni nel parco nazionale di Skaftafell.
«Ora siamo ai piedi del vulcano Öræfajökull, la montagna più alta dell’Islanda». Kristín, una bella donna in tailleur nero con la targhetta identificativa appuntata al petto, iniziò a sciorinare una serie di informazioni sulla natura del luogo. «Le tradizioni locali vogliono che la montagna sia la sede dell'"Huldulfolk", il popolo degli Elfi. Secondo un’antica leggenda islandese, un giorno Dio andò a trovare
Adamo ed Eva. Questi gli mostrarono la loro casa, gli presentarono i figli, e lui se ne fece una buona opinione. Poi Dio chiese ad Eva se avesse altri bambini oltre a quelli, ma lei negò. Non era vero. In realtà, la donna non aveva fatto in tempo a lavare tutti i suoi figli e, vergognandosene, decise di non farli conoscere tutti a Dio. Ma lui, che era a conoscenza di ogni cosa, ammonì la donna: “Ciò che è stato nascosto a me, sarà celato agli uomini”, disse. I bambini che Eva aveva nascosto divennero così invisibili agli occhi dell’umanità e finirono ad abitare al centro della terra. Si dice che gli elfi discendano da loro, mentre l’umanità discenderebbe dai figli che Eva mostrò a Dio. Gli esseri umani non vedranno mai gli elfi, a meno che non siano loro a volerlo, ma gli elfi possono vedere tutti gli uomini. In ogni modo, ragazzi, con le nostre escursioni potrete arrivare fino in cima all’Hvannadalshnjúkur, attraversando il ghiacciaio».
Affascinato da quell’antica leggenda, e anche un po’ abbagliato dalla bellezza della donna, Fulvio esclamò: «Benissimo, siamo qui per questo! Che strada dobbiamo percorrere per arrivare in cima? C’è bisogno di un’attrezzatura specifica?».
«No, niente di particolare. Se volete arrivare fino al negozietto di souvenir di Toña gli scarponcini che avete ai piedi vanno più che bene. Se invece volete arrampicarvi sul ghiacciaio, dovete prenotare una guida e l’attrezzatura necessaria ve la forniamo noi».
«Io direi che per oggi possiamo fermarci al negozietto, no?» propose Kate.
«Certo, cominciamo ad andare lì, poi eventualmente penseremo se è necessario fare il giro sul ghiacciaio e quindi prenotare la guida».
«Bene, allora per salire da Toña avete due possibilità: farvi a piedi tutti i 1800 metri di dislivello oppure prendere una delle nostre jeep e arrivare a 5 chilometri
dal negozietto, che è poco sotto la bocca del vulcano».
«Prendiamo la jeep, vero?».
«Direi proprio di sì, Fulvio».
«Bene, sono 200 Corone a testa. Appena usciti da qui, prendete la salita che vi troverete di fronte. I nostri autisti vi aspettano».
«Grazie Kristín. Scusa, una curiosità: non ho potuto fare a meno di notare il San Giovanni Battista di Leonardo da Vinci sulla parete lì in fondo. Come mai avete scelto proprio quest’opera?» chiese Lodovico prima di lasciare il centro informazioni.
«Indica dove dovete andare!». Una risata divertita rallegrò il gruppo. «É lì da tantissimo tempo, già da prima che prendessimo in gestione il centro, e abbiamo pensato che ci stesse molto bene su quella parete. In fondo un po’ di bella arte non guasta mai, no?».
«Certo, sono d’accordo. Ciao Kristín, grazie ancora».
«Prego signori, accomodatevi. Godetevi l’incantevole paesaggio innevato... Vi spiegherò man mano tutto quello che vedremo e sarò a disposizione per ogni vostra domanda».
Il gentile autista accolse i ragazzi, facendo loro da cicerone.
Un’oretta più tardi, la jeep si fermò nel parcheggio all’imbocco del percorso per la cima del vulcano.
«Da qui al negozio di Toña sono circa due ore di cammino. Se al ritorno vorrete ridiscendere in jeep, tornate qui. C’è sempre qualche macchina pronta. Proseguite per di là. Il percorso è tutto segnalato e agibile per chiunque, non mi resta che augurarvi una buona eggiata».
Ore 13:40
Avvantaggiato dai suoi lunghi allenamenti in bicicletta, Fulvio appoggiò il piede oltre l’ultimo gradino. La scalinata in granito gli aveva consentito di salire in pochi minuti i venti metri che dividevano il sentiero dall’ampio piazzale sterrato, subito sotto la bocca del vulcano.
Sulla destra notò una grossa H, realizzata inserendo ordinatamente tante piccole pietre nel terreno e chiamata a indicare il punto di atterraggio degli elicotteri di soccorso. Più avanti, una piccola costruzione in legno scuro, incastonata nella roccia, contrastava con il candore della neve circostante.
L’aria pulita vibrava sotto un venticello gelido.
“É meglio mettersi sottocosta ad aspettare gli altri, se non voglio rischiare l’ipotermia” pensò, sistemandosi attorno al collo la lunga sciarpa di cachemire. Stringendo tra le dita il bavero della giacca termica, si sedette su una roccia.
Un quarto d’ora più tardi il suo viso iniziò a farsi bluastro. Fulvio portò le braccia verso il petto e sfregò forte le mani alitandoci sopra. I guanti in lana lasciarono are l’aria calda, che gli diede un temporaneo sollievo.
Stava per andare a controllare la situazione, quando vide i due amici affacciarsi sul piazzale.
«Allora! È una vita che vi aspetto! Sto congelando! Vi ha preso la bradiposi o mi
nascondete qualcosa?», chiese sbuffando. «Non è che volevate rimanere soli, eh?».
«Ehi, gazzella cianotica» lo interruppe Kate. «Non abbiamo il tuo o e dobbiamo spostare qualche chiletto in più, noi. Ma se anche fosse? Non dirmi che sei geloso!».
Lodovico scoppiò a ridere e, dandogli una pacca sulla spalla, esortò l’amico ad avanzare verso il rifugio.
«Dai, andiamo a scaldarci un po’» disse poi a Kate, facendole l’occhiolino.
Appena aperta la porta, un caldo tepore avvolse i tre ragazzi. L’ambiente, rustico e accogliente, era dominato da una pimpante donna sulla sessantina che, con due grossi pezzi di legno, stava alimentando il fuoco di una stufa. Ogni tanto corti riccioli le cadevano sul viso e lei, con grazia, se li scostava dal volto, lasciando trasparire i suoi occhi, blu come l’oceano.
Senza neanche guardarli, Toña li pregò di accomodarsi.
«Sedetevi pure a quel tavolo» disse. «Vi porto subito un tè caldo».
Sparì veloce dietro l’ingresso di quella che doveva essere la cucina, per poi uscirne pochi istanti dopo con una teiera fumante tra le mani.
Fulvio la osservò intensamente. Non poteva fare a meno di pensare che avesse qualcosa di strano. “Il suo fare tranquillo e l’eleganza nei movimenti non si addicono molto alla vita quassù”.
Di punto in bianco, la donna sembrò vederli per la prima volta. «Ma voi, oh Madre de Dios! Siete in tre, e tu hai i capelli corti!» esclamò indicando Kate.
«Sì, signora…» rispose lei, massaggiandosi la base della nuca un po’ preoccupata. «É un po’ che porto questo taglio, lo trovo abbastanza pratico… C’è qualcosa che non va?» domandò perplessa.
La donna sorrise, le appoggiò una mano sul braccio e la strinse leggermente.
«No, nessun problema, anzi. Bevete tranquilli il tè. Vi faccio compagnia». Detto questo, la donna si accomodò tra di loro.
Ore 14:07
Dopo essersi scaldati con l’ottima bevanda, il gruppetto ò alle presentazioni.
«Ma allora è vero!» esclamò Toña sempre più eccitata. «Da piccola mi sono state inculcate delle informazioni. Me le han fatte incidere nella memoria obbligandomi a ripeterle più e più volte, tutti i giorni. Sono sempre stata scettica, ma adesso tutto coincide. Negli ultimi giorni si sono verificati strani eventi naturali, tanto da convincermi a consultare lo sciamano del posto, che mi ha parlato di segni premonitori e mi ha predetto il vostro arrivo. Mi ha consegnato questo foglio: “tre visitatori verso le due del pomeriggio del 18 luglio sopraggiungeranno al tuo cospetto..”». Poi proseguì indicando Kate, la cui eccitazione si stava sommando ora ad una certa ansia. «“Consegna alla ragazza dai corti capelli il vaso da te gelosamente custodito ed enunciale questo: pa 4-37 (1); pa 1-21 (2); pa 3-94 (8); pa 2-27 (4); pa 5-11 (2); pa 7-70 (5); pa 7-68 (4)”. Forza, seguitemi nella stanza da letto».
Toña, aprendo un robusto armadio, estrasse il vaso che, fino a quel momento della sua vita, aveva tenuto nascosto, senza farne parola con nessuno. Lo mostrò ai ragazzi, mentre Lodovico si appuntava il codice appena udito.
«Ecco, ora il vaso è vostro. Si tratta dell’unico originale, il modello a cui mi sono ispirata per realizzare le copie che trovate in vendita nel mio negozio di souvenir».
I tre osservarono senza fiatare quel piccolo cilindro di creta, grande quanto una lattina di birra allungata. Una linea a mo’ di vite ne solcava la superficie esterna, dall’alto verso il basso. Era circondato da una strana luce, che sembrava evidenziarne la sommità, indicando l’inizio del solco. Un piccolo intaglio
spiccava all’apice del bordo.
«Che ne pensi Lodo?» commentò un affascinato Fulvio, rompendo il silenzio.
«Ora come ora non so proprio che dire, ma di certo qui c’è l’inizio di questa traccia a spirale. Forse è meglio decrittare il codice prima di fare supposizioni. Osservatelo bene: è scritto nello stesso modo del codice trovato nell’autoritratto di Raffaello. PA indica sicuramente il Paradiso… Kate, prendi la copia della Divina Commedia dallo zaino».
«Vediamo subito se ha senso:
pa 4-37 (1) > qui
pa 1-21 (2) > la
pa 3-94 (8) > parola
pa 2-27 (4) > mia
pa 5-11 (2) > è
pa 7-70 (5) > sanza
pa 7-68 (4) > fine
«“Qui la mia parola è sanza (senza) fine”». Decretò Kate, elettrizzata come ogni volta in cui teneva tra le mani la Divina.
«Qui? Dite che intende “qui” nel vaso?» chiese Fulvio.
«Credo di sì, ma non capisco come.»
«Forse io ho capito. Ultimamente mi sono apionato all’Audio Archeology, o archeoacustica. È una teoria curiosa, che sostiene che nei vari cimeli ritrovati siano impressi i suoni ambientali del momento. Si pensa che dei fili di fieno possano vibrare in maniera diversa a seconda dell’onda sonora alla quale sono sottoposti e in questo modo possano incidere, come in un disco di vinile, le tracce audio su un o ancora malleabile, come l’argilla o la creta di un vaso in costruzione. Questi, una volta solidificati, riporteranno ai posteri tali incisioni. I solchi sono inseriti sotto forma di spirale su oggetti curvi e tendenzialmente piccoli, come nel nostro caso, o in linea retta su lastre lunghe generalmente poste come basi per le costruzioni. Tramite una puntina, o ancora meglio tramite un laser, è possibile ascoltare in un secondo momento ciò che vi è stato scritto. Finora sono stati sempre uditi solo rumori di fondo irriconoscibili, tranne che per un vecchio coperchio cilindrico azteco in cui si sono riconosciuti dei lievi sibili riconducibili a voci umane, ma troppo disturbate per distinguerne le singole parole».
«Non ci resta che provare» lo interruppe Kate.
«Non possiamo farlo qui, abbiamo bisogno di un po’ di materiale. Il laboratorio di Gunnar sarà perfetto».
Prima di infilare il vaso nel capiente marsupio, Fulvio vi inserì alcuni fazzoletti di carta, e lo avvolse all’interno di una salviettina per proteggerlo dagli urti.
«Grazie di tutto Toña, ora dobbiamo proprio andare. Non vediamo l’ora di scoprire cosa questo prezioso vaso vuole rivelarci. Credo che ci rivedremo presto…».
«Ragazzi, ricordate che la vera essenza di ogni cosa si trova nel suo più profondo interno. Inutile cercare altrove. Anche il creatore si trova lì. Concentratevi, focalizzatevi dentro di voi. Ascoltatevi!» li ammonì la donna.
«Prendi la linea, maledetto telefono!».
«Calmati Boyce».
«Come faccio a calmarmi? Stiamo perdendo un sacco di tempo, e a queste altitudini non è il massimo! Oh, finalmente! Maestro, sono Boyce. I nostri ragazzi sono entrati nel negozio di Toña, che li ha accompagnati nella sua stanza. Ha consegnato loro il solito vasetto ricordo e si è soffermata a parlare per un bel po’ di tempo. Poi lo smilzo ha riposto accuratamente il vaso nel suo marsupio. Ora se ne stanno andando... Cosa facciamo?».
«Il vaso! Ecco chi custodiva l’originale! Fermateli e distruggete quel pezzo di
argilla, riducetelo in polvere, non deve restarne traccia. Poi lasciateli andare, non abbiamo bisogno di spargimenti di sangue di cui far parlare la stampa. Senza quel vaso loro non potranno fare più nulla, e il segreto sarà celato per l’eternità».
Una risata, drammaticamente diabolica, impietrì Boyce.
«Ricevuto?».
«Sì, Maestro. Sarà fatto».
«Lasciami bere un goccio d’acqua Lo, la discesa non sarà una eggiata» disse Fulvio prima di partire.
«Nessun problema, anzi. Tienimi lo zaino che faccio una puntatina alla toilette».
«Ok ragazzi, io vi aspetto fuori» aggiunse Kate.
Dopo pochi minuti, con un ampio sorriso a illuminare i loro volti, i tre ragazzi si congedarono dalla donna, che li aveva accompagnati fin al piazzaletto esterno. Imboccarono nella direzione opposta il sentiero con cui erano arrivati fin lì, e ben presto si fecero piccoli punti indistinti.
Ore 15:35
«Certo che in discesa è più semplice starmi dietro, non è vero?».
«Sei davvero simpatico, Fulvio! Vai, accelera pure… Ti conteremo le vesciche poi! Vediamo chi riderà quando te ne starai seduto a piagnucolare!» sbottò Kate, paonazza.
La forte pendenza della strada li fece scendere sotto la linea degli alberi in poco tempo.
Muschi e licheni macchiavano di verde la fresca neve sviluppandosi in rigogliose colonie. Fulvio li accarezzò delicatamente.
«Ragazzi, tra breve dovremmo essere alle jeep. Non vedo l’ora!».
«Sentiamo… Non vedi l’ora di fare cosa? Fermatevi all’istante, tutti e tre!». Dal nulla, due uomini dall’aspetto poco rassicurante, il volto coperto dai amontagna, si palesarono di fronte ai tre amici, bloccando il loro cammino.
«Dove credevate di andare? Avete un oggetto che ci appartiene, e noi siamo molto gelosi delle nostre cose! Biondino, vieni qui! In fretta!».
«Altrimenti?» lo provocò Fulvio.
«Sbrigati, è meglio per tutti!». Con fare minaccioso, James sfilò un enorme coltello dal fodero attaccato alla fibbia dei pantaloni.
«Ve la prendete con me perché sono una taglia small?». Fulvio, nel tentativo di nascondere la paura che iniziava a stringergli lo stomaco, sembrava un bambino capriccioso.
«No! Ce la prendiamo con te perché tu hai ciò che ci serve! Ora basta scherzare, vieni qui!». Boyle tentò di afferrarlo, gettandosi sul suo marsupio.
«No, il vaso no! Scappa Fulvio!» Lodovico, che dei tre era il più robusto, si lanciò con tutte le sue forze contro l’uomo, usando lo zaino come scudo.
Approfittando del diversivo creato dall’amico, Fulvio riuscì ad arretrare a sufficienza da abbassarsi per afferrare una manciata di terra. La lanciò negli occhi dell’aggressore e, sfruttandone la momentanea cecità, gli sferrò un pugno che, per violenza, sorprese pure lui. Boyle cadde a terra intontito.
«Kate, scappiamo! Kate! Kate, dove diamine sei?». Il terrore dipinse gli occhi di Lodovico.
«Spiacenti ragazzi. Vi siete scordati che siamo in due? Se volete che questa lama non ponga fine all’inutile vita della vostra amica, vi consiglio di fermarvi. Subito!». Le robuste braccia di James non lasciavano scampo alla ragazza che, dalla paura, aveva il respiro affannoso e la testa che le girava.
«Va bene, hai vinto. Fulvio, è finita. Non porre più resistenza».
«Boyce, prendi il marsupio dello smilzo! E tu non provare a fare scherzi, altrimenti giuro che l’ammazzo». La sua mano alzò il coltello, che ora premeva forte sulla trachea di Kate. Il suo respirò si fece ancora più debole, e strozzati singhiozzi iniziarono a uscirle dalla bocca.
«Ecco il vaso, James!».
«Bene, ora distruggilo!».
«Polvere eri e polvere ritornerai!». Boyle gettò con violenza il vaso contro una roccia che spuntava dal terreno. Non contento, saltò più e più volte sopra i numerosi cocci.
«Direi che è abbastanza irriconoscibile, ma polverizzandolo con questa pietra non rimarrà più alcun dubbio».
«Ottimo lavoro Boyle, il Maestro sarà contento! Ora voi due state immobili e senza fiatare, e nessuno si farà del male. Noi ce ne andiamo con la vostra ragazza. Al minimo rumore state sicuri che le taglierò la gola».
Kate, rassegnata, lanciò a Lodovico uno sguardo indecifrabile. Avrebbe voluto chiedergli aiuto, ma anche dire addio a quell’amore che, forse, non avrebbe mai visto la luce. Impotente, il ragazzo iniziò a dare evidenti segni di agitazione.
Fulvio, con enorme sforzo, riuscì a trattenerlo fino a che i tre scomparvero dalla loro visuale.
Arrabbiati e impietriti tanto da non riuscire a parlare, i due amici iniziarono a seguire quasi correndo le orme di quegli sconosciuti. Ben presto le tracce abbandonarono il sentiero per addentrarsi tra i fitti alberi. Una figura umana, immobile sul terreno, attirò la loro attenzione; cercando di fare meno rumore possibile, Lodovico e Fulvio si avvicinarono a quel corpo, fino a quando una visione agghiacciante si palesò ai loro occhi. Prono, con le gambe leggermente allargate a disegnare una lunga e stretta ellissi; il braccio sinistro, semiscoperto, disteso verso l’esterno con la mano privata dal guanto che poco prima la teneva al caldo. Appena sotto la testa, appoggiata a terra con la guancia sinistra a contatto del terreno, un rivolo di sangue colorava di rosso la neve candida, aprendosi sotto un viso troppo pallido.
Non c’erano dubbi. Era Kate.
«No, non è vero! Non Kate, non lei! Perché Fulvio? Perché? Kate era… Kate era mia».
Lodovico strinse forte il polso della ragazza, ma non sentì alcun battito. Stava per svenire, quando Fulvio lo sostenne con un abbraccio.
«Maestro, sono Boyce, lavoro eseguito con successo! Abbiamo aspettato un po’ ma nulla, il cuore della ragazza ha smesso di battere, e James ha perso il tesserino di riconoscimento».
«Come smesso di battere? Questa non ci voleva! Ad ogni modo, meglio a lei che
a noi. Per quanto riguarda il tesserino poco importa, i vostri nomi sono in codice. Ne attivo io l’autodistruzione. L’unica cosa che conta, ora, è che nessuno potrà più rivelare il segreto e che noi continueremo a tenere il genere umano sotto controllo. Poveri illusi, anche la loro ultima possibilità di conoscere la verità è andata perduta! Rientrate alla base, il vostro lavoro è finito».
Ore 15:50
L’elegante yacht bianco Queen Elizabeth era fermo da circa un’ora al largo delle coste della Florida, più precisamente nel golfo del Messico, due miglia a sud ovest rispetto a St. Petersburg.
Le gigantesche ancore calate lo tenevano stabilmente immobile, malgrado le onde sollevate dalle ronde delle sue guardie fossero alquanto vivaci.
L’Imperatrice, distesa sulla comoda sdraio fissata sul secondo ponte, aveva appena finito di spalmarsi la crema solare, quando il suo impeccabile maggiordomo le consegnò il cordless della linea privata. Sapeva già chi poteva essere dall’altra parte e, benché fosse ancora irritata, le venne l’acquolina in bocca. Afferrò con foga l’apparecchio, congedò il suo servitore e premette il tasto verde per rispondere alla chiamata.
Un ampio sorriso le divise in due il volto. Le minacce eseguite erano state molto efficaci. Ora si poteva festeggiare.
Si fece portare un Bloody Mary. Era il suo cocktail preferito, e in quel momento le sembrò perfetto per rendere omaggio alla vita di quella ragazza. Lo bevve tutto d’un sorso, per poi gettare il bicchiere in mare. ò solo qualche istante e si tuffò anche lei, con impeccabile grazia. Una freccia scagliata in acqua avrebbe alzato più schizzi di lei.
Malgrado la non più giovane età, sembrava un pesce. La telefonata appena ricevuta aveva aumentato ancor di più le sue energie.
Fece qualche giro intorno alla sua imbarcazione poi, come se niente fosse, risalì a bordo per riaccomodarsi nel suo giaciglio.
Era soddisfatta. Si sentiva ancora più potente. Sì, forse aveva fatto bene a risparmiare la vita del vecchio ecclesiastico.
Il sole bruciava sopra di lei, ma la sua pelle rimaneva fredda come se non ne ricevesse i raggi. Tutto il calore era dentro il suo corpo, dentro le sue vene, e quella magnifica sensazione la tranquillizzò.
Ore 15:55
Lodovico, confuso come poche altre volte nella sua vita, si portò una mano alla fronte per sorreggersi la testa. Un flashback improvvisò lo investì.
La salamella era troppo invitante e il morso inferto troppo deciso. Il ketchup schizzò dappertutto. In bilico ai lati del panino, poche gocce rosso sangue caddero sulla punta della scarpa di Kate. Lodovico la osservò fugacemente. Non si era accorta di nulla, troppo presa com’era dalle performance cabarettistiche di Fabio. Doveva rimediare subito. Posò il panino ancora caldo sul tavolino di plastica e si chinò per allacciarsi una stringa; fingendo di perdere l’equilibrio, si appoggiò a lei e, in men che non si dica, pulì con la mano la parte colpita dalla salsa.
«Che fai Lodo?» chiese Kate, distraendosi per un attimo dallo show.
«Mi stavo allacciando la scarpa e ho perso l’equilibrio» rispose lui balbettando.
Poi, sollevandosi con un sospiro, si asciugò le dita con un fazzolettino di carta. “Missione compiuta!”.
Kate sollevò il sopracciglio destro e lo osservò curiosa.
I loro sguardi s’incrociarono. A Lodovico sembrò di tornare bambino, quando la mamma lo sorprendeva mentre addentava intere tavolette di cioccolata. Non poté fare a meno di sorridere. Era bellissima, Kate.
Gli occhi gli si fecero lucidi. Non piangeva spesso, ma questa volta le lacrime non riusciva proprio a trattenerle.
«Lo, guarda! Non ha battito ma respira ancora!» urlò Fulvio, facendogli salire il cuore in gola.
Il calore del respiro di Kate stava formando ritmicamente piccole nuvole di vapore attorno al suo volto. I due si accorsero che il sangue, ormai raggrumato, non le era fuoriuscito dalla testa ma dalla bocca. Forse si era tagliata un labbro o, vista la quantità, molto probabilmente si era ferita alla lingua.
Lodovico la voltò con prudenza, sollevandole lentamente il capo per appoggiarlo sul suo zaino. Pur procedendo con la massima attenzione, non riuscì a evitare di svegliarla. La ragazza spalancò gli occhi frastornata. Lui la guardò, inebetito. Sì, era davvero bella. In quel momento ancor di più. Provò a ricordarsi un momento in cui era stato più felice di così, ma non ci riuscì.
«Vieni, ti do una mano ad alzarti» disse.
Le infilò un braccio dietro la schiena e l’aiutò a sedersi su una roccia lì vicino.
«Cos’è successo? Mi hai quasi ucciso di paura» le domandò.
«Ho cercato di scappare, ma appena ho tirato degli strattoni per liberarmi dalla presa di uno di loro mi sono trovata a terra con la bocca che bruciava. Poi non
ricordo più nulla» rispose la ragazza.
«Devono averti colpita con qualcosa sulla nuca e hai perso l’equilibrio…» s’intromise Fulvio. «Come stai adesso?».
«Sono un po’ confusa, ma almeno non sono morta» rispose lei, massaggiandosi il grosso bernoccolo dietro l’orecchio sinistro.
«Kate, il tuo cuore non batteva più».
«Sì, vero, se avete cercato di sentirmi i polsi. Ho ereditato questa malformazione da mio padre. Le arterie delle mie braccia sono più corte di quanto dovrebbero, si fermano poco più sotto dei gomiti, e il mio corpo si è adattato a questa situazione. Ho sempre spaventato tutti, medici compresi, però sono ancora qui». Finalmente, una leggera risata le regalò un po’ di colore.
«Meno male», continuò sorridendo Lodovico. «Adesso riprenditi con calma, non abbiamo più fretta. Dante non potrà dirci nient’altro». Il sollievo per la rinascita di Kate aveva lasciato spazio a una velata delusione. Non aveva mai provato così tanti stati d’animo contrastanti, si ritrovò a pensare.
«Non ne sarei così tanto sicuro, Lo». Un ghigno soddisfatto dipinse la bocca di Fulvio. «Mentre bevevo, quando tu eri in bagno e tu, Kate, eri già fuori, Toña ha preso una delle copie del vaso che teneva sullo scaffale, ha spostato quello che avevo io all’interno del tuo zaino e ha messo il suo nel mio marsupio. Mi ha detto che non si fidava e che era meglio non dire nulla proseguendo il viaggio come se niente fosse. Quindi, l’originale è ancora tra noi!».
Con l’entusiasmo a mille, Kate, Lodovico e Fulvio convennero che la cosa giusta da fare fosse andare al laboratorio di Gunnar il più in fretta possibile, per capire cosa il vaso nascondesse. Ovviamente, ogni tutto doveva rimanere segreto. «Finché quei due uomini crederanno che il vaso è stato distrutto, nessuno ci darà la caccia» sentenziò Kate.
Alcune scintille iniziarono a sfrigolare uscendo dalla neve. Qualcosa stava prendendo fuoco.
Fulvio, che era più vicino al punto rispetto ai suoi amici, riuscì a vedere l’oggetto bruciare, ormai deformato. Si trattava di una specie di tesserino di plastica nera, di cui si distingueva ormai solo la sigla dorata.
«MI6: riesco a leggere solo questa sigla!».
«Emme i sei? Ma non sono i servizi segreti britannici?» domandò Kate.
«Sembra anche a me!» rispose Lodovico.
«Mi vuoi dire che il governo inglese ha appena tentato di distruggere il segreto di Dante?».
«Il mistero s’infittisce sempre più! Forza ragazzi, andiamo da Gunnar!» li esortò Fulvio.
Il silenzioso e leggero drone bianco aveva ripreso tutta la scena. Altri piccoli microfoni, inseriti nei bottoni della giacca della ragazza, avevano trasmesso gli impulsi sonori immagazzinati al ricevitore.
Anche se fuori giurisdizione, grazie alle sue conoscenze Riccardo Ferretti era riuscito a percorrere il sentiero che conduceva alla cima della montagna a bordo di un mezzo militare della polizia locale.
Fermo a circa metà strada e camuffato tra gli alberi, aveva individuato il punto perfetto da cui sorvegliare tutto quel versante del vulcano.
Era pronto ad agire in ogni momento, ma i due uomini erano comparsi dal nulla. “Ma come…? Devono aver utilizzato una tecnologia stealth o qualcosa del genere!” sussultò.
Era stato impossibile individuarli prima che le telecamere li inquadrassero, impossibile anche intervenire.
La loro azione fu troppo furtiva e veloce.
La ragazza cercò di liberarsi dalla presa del più grosso dei due e l’altro, per non farla scappare, la colpì con l’impugnatura del coltello.
“Vigliacchi!! A una donna indifesa”.
Lei, svenuta, scivolò dalle braccia del suo carceriere e franò rovinosamente a terra. Un rigolo di sangue cominciò a fuoriuscirle dalla bocca.
Lui visse, esattamente come i ragazzi arrivati poco dopo, tutti i sentimenti e le emozioni che si erano susseguiti dall’apparente morte di Kate alla sua successiva rinascita.
Era sudato fradicio, tremante e distrutto. Oltretutto, era ormai palese che lei provasse qualcosa per Lodovico.
La sua mente cercò di negare, ma il suo cuore no; lui sapeva la verità e ne rimase deluso. Era tempo che lo aveva intuito e non voleva crederci, ma a questo punto era meglio rassegnarsi. Nessun rimpianto, non poteva avere di più, anche le rispettive età erano un po’ troppo distanti. Lei sarebbe comunque stata in ottime mani, in fondo in fondo Lodovico gli piaceva, e lui sarebbe sempre stato il suo caro amico Riccardo. L’amicone, il commissario Ferretti.
Spense la costosa strumentazione: era sufficiente così. Tirò a sé la leva che fece abbassare il sedile su cui poggiava. Allungò le gambe e, facendo un lungo respiro, chiuse gli occhi.
Ore 19.20
Per gli scossoni subiti mentre Lodovico cercava di difendere Fulvio dalla presa dell’energumeno, il vaso si era rotto in tre parti, con spaccature abbastanza nette.
Il ragazzo intinse il pennino di plastica nel contenitore trasparente. Facendo molta attenzione a non farlo sbavare, applicò sui bordi scoperti un leggero strato di colla. Lo aveva già fatto tante volte durante i diversi restauri di cui si era occupato, ma adesso era diverso. Anche se gli sudavano le mani, doveva impedire alla colla di seccare. Era necessario procedere in fretta.
Fece combaciare con cura i vari lembi, con una leggera pressione. La reazione chimica si attivò subito, provocando un intenso calore che fece fondere le molecole silicee tra loro.
Eccolo lì il vaso, come nuovo. Appoggiato su un tavolo chiaro e con la luce di un faretto puntata sopra, sembrava splendere per un qualche segreta ragione. Un’aurea misteriosa lo circondava, quasi a volerlo coronare come un essere divino.
«Ragazzi, guardate!», disse. «Abbiamo tra le mani un oggetto di settecento anni fa, che probabilmente anche Dante Alighieri in persona ha toccato».
L’immagine del Sommo Poeta coronata d’alloro era quasi tangibile. Il ragazzo prese dell’argilla ancora bagnata, fresca e malleabile; la plasmò vigorosamente con le mani, facendole ruotare in sensi opposti. Poi ci alitò sopra con leggerezza, per trasferirle il suo sapere, e posò il vaso davanti agli occhi suoi e dei suoi
amici.
«Qui la mia parola è sanza fine» sembrò pronunciare.
«Come facciamo ad ascoltare il messaggio adesso?» chiese Fulvio.
«Cerchiamo un laser», rispose Lodovico. «Il figlio di Gunnar è un archeologo, deve avere per forza un misuratore di distanze».
Senza fare troppa fatica, Kate ne individuò due, impilati ordinatamente su un ripiano dello scaffale a parete. Prese quello che sembrava in condizioni migliori e ne lesse le caratteristiche. Poteva effettuare misurazioni da 0 a 80 metri, con 1 millimetro di tolleranza.
«Sarebbe servita una precisione maggiore, ma ce lo facciamo andare bene», commentò Lodovico. «Ora non ci resta che trovare il modo per far ruotare il vaso e, nel contempo, farlo traslare verticalmente».
«E se usassimo quello sgabello regolabile?», propose Fulvio. «Si alza e si abbassa a seconda dell’altezza voluta; sembra perfetto!».
Il puntatore laser indicava le misure in tempo reale. Kate lo testò, puntandolo su oggetti situati a varie distanze. Le cifre sul display continuavano a cambiare.
Utilizzando la tecnologia bluetooth era possibile trasmetterne i dati al computer;
da lì, tramite la conversione in numeri binari e l’utilizzo di un software di audio editing, sarebbero stati convertiti in onda sonora.
Il programma per l’acquisizione dati era presente nella confezione del misuratore e Fulvio, da musicista, con la produzione di file sonori aveva grande dimestichezza.
“Abbiamo tutto. Sì, può funzionare. Deve funzionare!”.
Kate notò come la filettatura a spirale del bastone che reggeva la seduta dello sgabello fosse molto simile a quella del vaso. Cominciò a sorridere soddisfatta. Per la prima volta da quando era arrivata nel gelido Nord, si sentiva entusiasta.
Per non intralciare la luce del puntatore, Lodovico scartò l’idea di far girare lo sgabello a mano. Prese la sottile corda trovata in un cassetto del bancone e, dopo aver abbassato lo sgabello al massimo, la legò alla base dello stelo, avvolgendogliela attorno. A quel punto bastava tirarla e la base che reggeva il vaso sarebbe ruotata, alzandosi nel contempo.
«Sei davvero un genio, Lodo!», esclamò la ragazza. «Non vorrei sembrarvi troppo ottimista, ma penso che funzionerà!».
«Verifichiamo subito» disse Lodovico sospirando.
Fulvio avviò il programma di acquisizione. Kate allineò il laser all’imboccatura dell’incisione del solco sul vaso. Lodovico iniziò a tirare lentamente la corda. Il
lavoro di squadra funzionava alla perfezione, l’esperimento era partito.
Malgrado alle attese fosse abituata dai tempi dell’università, Kate teneva gli occhi sgranati fissi sul monitor. Il cuore iniziò a batterle sempre più forte, tanto da sentirlo quasi in gola. Era una routine collaudata, sapeva che avrebbe dovuto chiudere gli occhi e contare fino a sette.
“Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette”.
Il blu dello schermo fu subito tempestato da una sequenza di numeri bianchi separati da virgole. Anche questa volta aveva ottenuto il risultato sperato. Sorrise.
«Ho finito Fulvio» disse Lodovico. «Converti pure i risultati, siamo nelle tue mani».
19 luglio 2012 – ore 10.23
[Giovedì]
La forte scossa elettrica gli attraversò il corpo, facendolo sobbalzare. Di colpo riprese conoscenza.
Un intenso dolore gli partiva dalla mandibola e s’irradiava lungo tutto il lato destro del capo. Voleva massaggiarsi un po’ la tempia, doveva farlo assolutamente, si sentiva scoppiare. Non riuscì ad alzare la mano; era bloccata, qualcosa la teneva immobile.
Cercò di aprire meglio gli occhi, ma dopo diversi tentativi solo il sinistro riuscì a svelargli, almeno in parte, quello che stava succedendo.
Era legato ad una sedia; mani e piedi tenuti ancorati da grossi lacci.
Alzò la testa. La stanza era in penombra e pareva non avere finestre.
L’immagine riflessa nel grande specchio di fronte confermò i suoi timori. Era stato colpito al volto.
Tutta la parte destra era gonfia, il labbro spaccato in più punti.
La fatica nel respirare e la grossa macchia di sangue sulla maglietta gli fecero supporre di avere il setto del naso rotto.
Si ricordò tutto. Lo avevano preso e interrogato, ma lui aveva resistito alle minacce.
“Speriamo che Lodovico e Kate siano riusciti a scappare” rimuginò.
«Bene, vedo che ti sei svegliato!» la voce di James gli rimbombò nel cervello, interrompendo ogni sorta di pensiero. Brividi gli percorsero la schiena.
«Sei un duro, eh?», continuò perentoria. «E chi l’avrebbe mai pensato che uno come te potesse resistere così tanto?».
L’uomo appoggiò davanti ai suoi piedi una grossa scatola nera. Un indicatore rosso e luminoso segnava una percentuale: 0%.
«Hai cinque minuti di tempo per dirci dove si nascondono i tuoi amici» tuonò tassativo James. «Quando il display segnerà il 100% per te sarà finita per sempre. Non credo tu te ne sia accorto, ma questa è una camera a gas. Cinque minuti da ora. Parla e ti salverai!».
L’uomo scomparve dietro le sue spalle, sbattendo con un tonfo la grossa porta metallica.
15%
Fulvio sospirò, chiudendo gli occhi e cercando di riorganizzare le idee.
46%
Sapeva che non avrebbe mai detto nulla. “Quell’uomo ha ragione; è davvero finita”. Iniziò a tremare.
62%
“Ancora due minuti di tempo”. Cercò per l’ultima volta di liberarsi, dando dei forti strattoni prima con le braccia e poi con le gambe. Niente da fare, non ne valeva la pena. Rassegnato, piegò la testa di lato.
98%
Chiuse gli occhi e inspirò profondamente, pensando che quella era l’ultima cosa che avrebbe fatto.
100%
Un sibilo acuto spaccò il tempo e lo fece sobbalzare. Si svegliò di colpo.
Un intenso dolore gli partiva dalla mandibola e s’irradiava lungo tutto il lato destro del capo. Tese la mano per massaggiarsi.
Si era addormentato con la testa sulla scrivania e ora era tutto anchilosato. Si alzò e si stirò braccia e gambe: così era decisamente meglio.
Un altro sibilo richiamò la sua attenzione verso lo schermo del portatile.
100% RENDERING FINISHED.
Il compilatore aveva terminato il suo lavoro; la forma d’onda verde occupava ora metà dell’interfaccia grafica e l’alternanza tra i picchi e i vuoti indicava che i suoni erano ben strutturati.
“C’era davvero un’incisione su quel vaso” considerò, invaso da forte eccitazione.
S’infilò le cuffie e, senza pensarci due volte, cliccò su PLAY. Furono i centotré secondi più interessanti di tutta la sua vita.
«Ragazzi, basta dormire! Venite a sentire!» esclamò.
Una cuscinata in pieno volto svegliò Lodovico.
Kate, senza fare più rumore di quanto ne avesse già fatto Fulvio, scese silenziosamente dal divano.
Prese in mano il soffice cuscino e, con o felpato, si avvicinò al ragazzo.
Il conto alla rovescia era già iniziato:
“Tre, due, uno…”, colpo andato a segno. Iniziò a ridere di gusto.
«Dio, Kate!» brontolò Lodovico, con la voce impastata. Si alzò di colpo e tentò di afferrarla, ma lei era troppo veloce e lui aveva ancora sonno.
«Quando la finite di fare gli idioti, vi faccio ascoltare una cosa incredibile!».
Dei suoni strani e cupi, con riverbero metallico, fecero vibrare gli altoparlanti del piccolo MacBook Pro che il figlio di Gunnar aveva lasciato nell’appartamento. Alcune frasi, incomprensibili per linguaggio ma ben distinte nel suono, lasciarono di stucco i ragazzi.
«Non preoccupatevi» disse divertito Fulvio, osservando le espressioni attonite dei suoi amici. «Mi sono dimenticato di mettere il reverse. Abbiamo sbagliato a pensare che la sommità del vaso fosse l’inizio. La traccia sta girando al contrario… Tenete anche conto che ci voleva più precisione nel rilevamento, per
cui alcune parole sono appena capibili e altre si sentono proprio male. Sentite»:
“La rigurgitante bocca di codesta vetta è un dei due portali d'accesso per la cava terra con Agharta ed Eldorado, l'Atlantide perduta, in perfetto equilibrio col sol centrale di quinta dimensione.
Io non son perito... io son asceso… io son là;
la Commedia, a me dettata da sommi esseri di luce, fu il mio percorso in essa... Omraam Mikhaël Aïvanhov, della bianca ed universale fratellaza, tramite Macheda del pianeta Sole questa chiave d’accesso mi ha donato: H111KAQ34 (acca-centoundici-kappa-a-qu-tre-quattro);
Tre anime, tre voci, tre volte… Con una corretta postura il sigillo romperà.
Quivi, ora, il verbo mio senza fine questo vi ha rivelato.
Presto manifesta sarà la verità;
tutto ciò che voi umani pensate essa sia, perché creder ve l’han fatto, è errato.
Or venite sotto controllo tenuti con regole adattate per convincer voi che siete dei semplici mortali esseri; così non è! Voi siete degli dei!
Un indizio vi era già noto, ma non lo avete colto.
Da dove pensate provenga l'energia che crea le verdastre boreali luci?
Ciò che è sopra è sotto, ciò che si genera in alto è in basso generato.
Agharta ed Eldorado presto vi aiuteran a capire che se uno solo di voi non esiste il tutto non esiste. Voi siete il tutto; tutti siete UNO. Qui l'eterno segreto è celato e al sorger della sesta era verrà svelato”.
11.11
«Agharta… Eldorado.. Non capisco… Cosa sta cercando di dirci Dante?» chiese Kate, incapace, questa volta, di interpretare le parole del Poeta.
«Ricordi le parole di Toña? Cercate dentro di voi…». Lodovico continuò spiegandole come Agharta ed Eldorado fero parte di una teoria secondo cui la Terra, il pianeta su cui viviamo, non sarebbe in realtà una sfera piena, ma cava. Al suo interno sarebbe stata ricreata Atlantide dopo la sua distruzione, separando però il bene dal male per evitare il ripetersi degli eventi che la funestarono.
«Durante la formazione sarebbero stati creati due nuovi continenti: Agharta ed Eldorado. Il primo, a nord, per accogliere le anime cosiddette “cattive”; il secondo, con le anime buone, a sud. Secondo questa teoria, al cento ci sarebbe il sole, chiamato a illuminare il tutto. Kate, tu sai disegnare lo schema principale della Divina Commedia?».
«Certo, perché?».
«Mi è venuta un’intuizione, dai disegnala. Io intanto ti schematizzo quello che ti ho appena detto».
Schema Divina Commedia
Schema Terra Cava
«Mi vuoi dire che i due disegni coincidono?» disse Kate osservando i loro schizzi.
«Esatto! Guarda bene! Se capovolgiamo uno dei due e li sovrapponiamo… Aspetta che lo disegno meglio…».
«Ma quindi… L’inferno è Agharta, su cui molto probabilmente c’è il monte del purgatorio, e così via. Ma allora… Anche per il nostro pianeta la vera essenza sta al suo interno!».
«E ti dirò di più: ricordi il dipinto di Leonardo al centro informazioni, il San Giovanni Battista?».
Kate annuì.
«Bene, non so se ci hai fatto caso, ma nella stanza di Toña c’era un altro dipinto di Leonardo, una seconda raffigurazione del San Giovanni».
«Va bene, ma che c’è di strano? Tutti gli artisti fiorentini tendevano a dipingere il San Giovanni anche più volte. È il patrono della città».
«Giusto, ma rallenta Kate. Secondo l’iconografia religiosa cristiana il San Giovanni Battista è riconoscibile in quanto ritratto sempre mentre indica Gesù. Gesù nei cieli, Gesù in carne e ossa all’interno del dipinto, Gesù rappresentato da un agnello, un ariete o una croce… Il primo San Giovanni indicava la croce rivolta verso l’alto, quindi tutto nella normalità, ma il dipinto nella stanza di Toña, che poi è il “San Giovanni nella selva - Bacchus” è un’opera strana, diversa dalle altre. Ti cerco l’immagine su internet così capisci meglio quello che voglio dire:
San Giovanni Battista nella selva – Bacchus
Leonardo da Vinci 1510
Innanzitutto è ambientato in un bosco, che ricorda vagamente il paesaggio che abbiamo appena visto, e poi la croce, come vedi, in questo caso è rivolta verso il basso. È come se lui dicesse: “Gesù, che di solito è qui (dove indica con la mano destra), adesso e là” (dove indica con la mano sinistra). Guarda bene...» la esortò Lodovico.
«Sì, vedo. Però non indica proprio la croce, mi pare più appoggiato ad essa. Secondo me indica qualcosa più in basso… Sembra un’apertura, un buco nel terreno. E in più l’opera s’intitola San Giovanni nella Selva?
S E L V A! ».
11:44
Kate appoggiò la mano sul tavolo per cercare di sollevarsi, ma ben presto si arrese di fronte alla sua evidente debolezza. Si asciugò la fronte, quasi febbricitante, e si versò un sorso del caffè americano che Fulvio intanto aveva preparato.
«Ricapitoliamo Lo» cominciò lei. «Mi vuoi dire che l’inizio del percorso di Dante attraverso la SELVA OSCURA inizia lì? E che Gesù si trova laggiù, in quello che tu indichi come Paradiso: l’ELDORADO?”».
Sentì un forte calore attraversarle il petto. Il caffè aveva seguito il suo corso, scaldandole lo stomaco.
Lo sguardo di Fulvio, di solito sorridente, si fece serio. Anche Lodovico iniziò a tamburellare con le dita sulla superficie del tavolo.
«Sì, io credo sia così» rispose. «Perché Raffaello, Dante e Leonardo ci hanno indicato questa via? Chissà quanti altri grandi artisti e scrittori hanno sparso i loro indizi per portare là i più arguti...».
«”Io non son perito… io son asceso... io son là… H111KAQ34 (accacentoundici-kappa-a-qu-trequattro)…”» ripetette la ragazza quasi in estasi.
Lo stupore per tutta quella storia aveva ben presto lasciato spazio a una consapevole razionalità. Il fosso indicato nel dipinto doveva rappresentare in
qualche modo la bocca del vulcano Hvannadalshuukur. Una porta, una sorta di stargate che, una volta attivata tramite il codice individuato, avrebbe potuto catapultare chi vi fosse entrato nella quinta dimensione. Una realtà nuova dove, a quanto pare, si avrebbe avuto accesso alla vita eterna.
«Ricordate come gli islandesi chiamano la bocca del vulcano?» chiese Kate. «La porta dell’inferno! Non so voi, ma io ho la pelle d’oca».
20 luglio 2012 – ore 06:20
[Venerdì]
Il cielo grigio cenere non invogliava certo ad una eggiata in alta montagna, ma l’escursione con la guida era ormai confermata. Ne valeva la pena, e inoltre sarebbe ato troppo tempo prima di poterla fissare di nuovo.
Conoscevano la strada. Questa volta, con più determinazione e senza fretta, raggiunsero il negozio di souvenir, da cui partivano anche le escursioni verso la cima del vulcano.
«Ciao Toña! Ci si rivede eh!» disse Kate sorridendo alla donna, in piedi sulla soglia del suo negozio.
«Kate!» rispose questa, stringendola in un abbraccio affettuoso. «Che sorpresa! Proprio stanotte mi sei comparsa in una visione nitida, mi venivi a trovare insieme ai tuoi amici... Dunque il segreto è stato svelato?».
«Proprio così Toña! Quanto prima potremo raccontarti ogni cosa!».
Toña, solitamente tutta d’un pezzo, si intenerì. I suoi occhi si fecero luccicanti, e si sentì appagata come poche altre volte le era successo. Rubò ancora qualche istante a Kate per cercare qualcosa che la sera precedente aveva infilato nella tasca del soprabito.
Un sottile filo verde stringeva, tra due nodi, un piccolo smeraldo grezzo. Lo legò al polso di Kate. «L’arcangelo Raffaele sarà sempre con te. Ciao ragazza mia, a presto».
Einar, la guida, la stava aspettando all’imboccatura est del sentiero per la risalita, insieme a Lodovico e Fulvio.
«Da questa parte la via è un po’ più ripida, ma saremo riparati dai venti freddi. Seguite le mie indicazioni e vedrete che ci divertiremo!».
Kate, in mezzo ai due ragazzi, si sentiva sicura.
Guardando a terra, per vedere dove metteva i piedi, ebbe la sensazione di tornare indietro nel tempo quando, adolescente, andava in gita con l’oratorio. I ricordi si susseguivano nella sua mente, uno dopo l’altro. Gli amici, le chiacchiere spensierate, gli scherzi nelle camerate... “Quanto era bello Alessandro! Prima o poi dovrò confessargli quanto mi pie... Bei tempi quelli!”
CLAP CLAP CLAP
Un battito di mani improvviso fece esplodere, come una bolla di sapone, tutti quei pensieri.
«Sentite che strana eco!» disse Einar ai ragazzi, indicando verso il basso. «Questa bocca assorbe gran parte dei suoni, li devia e li cambia. Nessuno sa
spiegarne il motivo. Affascinante, non è vero?».
Strano era strano. Il suono, di solito, tende ad affievolirsi pian pianino; uno step alla volta, senza però cambiare. Lì era come filtrato da una sorta di colino, che ne separava le singole note. Un po’ come quando un raggio di luce raggiunge il prisma e ne esce l’arcobaleno.
Il suono di un cellulare interruppe l’osservazione. «Scusate ragazzi, mi stanno chiamando sul telefono di servizio. Le solite pratiche da sbrigare… Vi lascio da soli per un po’, riposatevi sotto quella grotta nel frattempo, così sarete riparati dal vento».
Lievemente scocciato, Einar si allontanò dai tre ragazzi.
Kate, Lodovico e Fulvio si sedettero su delle grosse rocce, cercando di riposarsi dalla non troppo facile salita.
«Lo, hai tu il thermos con il tè caldo? Inizio ad avere freddo» chiese Fulvio, cercando di scaldarsi le mani l’una contro l’altra.
«No, mi sa che l’ho lasciato sul tavolo in camera. Ecco perché lo zaino era così leggero…» rispose Lodovico, un po’ imbarazzato. Sapeva bene quanto l’amico odiasse il freddo.
Appoggiando il dorso della mano sinistra sulla fronte, Fulvio socchiuse gli occhi e, con voce cupa e vibrante, incominciò a recitare la sua morte del cigno:
«Ok, ho capito… Morirò! Dì a mia madre che le ho sempre voluto bene. Lascio a te, mia valorosa spalla, la mia Smart, così ogni volta che la guiderai ti verrà in mente il tuo amico. Quello che hai ucciso…».
«Dio, quanto sei pesante! Vieni qua, prendi il bicchiere...» lo interruppe Kate, aprendo la via al caldo vapore dal profumo di limone. «Contento?».
«Adesso sì che si ragiona! Ora le energie mi tornano… Lo sento... Sì, lo sento... Sto risorgendo!» continuò a recitare Fulvio.
Si sentiva euforico, quella mattina. Fin da quando era sceso dal letto. Gli sembrava di essere in uno di quei film d’azione che alla tv non si perdeva mai. Alzando la mano con le dita in segno di vittoria, urtò una roccia piatta, ricoperta di muschio gelato. Un frammento fece uscire dal bicchiere piccoli zampilli bollenti.
«No, ditemi che è un complotto! Voi due volete eliminarmi!» ricominciò.
«Tu non sembri deficiente Fulvio. Tu lo sei proprio!» sentenziò Kate, ridendo di gusto.
«Ragazzi, guardate qui, sotto il muschio! Ci sono dei segni scalfiti nella roccia!» esclamò Lodovico, interrompendo i due amici.
Con attenzione staccò i rimasugli verdastri, fino a che una sorta di basso rilievo
fece capolino. Sebbene fosse stilizzato, il disegno era abbastanza chiaro: una donna e due uomini che si tenevano le mani a formare un cerchio. Poco più sotto, un’apertura circolare sormontata da una piccola tacchetta triangolare penetrava la parete per circa venti centimetri.
Le misure corrispondevano. Non c’era dubbio.
Fulvio si fece serio. Con le mani che gli tremavano, tolse il vaso dallo zaino e lo appoggiò sull’apertura, facendo attenzione a non farlo cadere. Bastarono pochi secondi perché un’inspiegabile attrazione magnetica avvitasse il vaso, seguendo il solco in superficie, fino a farlo sparire all’interno. La voce di Dante, la stessa che avevano sentito in laboratorio ma questa volta molto più nitida, riecheggiò nella caverna:
“La rigurgitante bocca di codesta vetta è un dei due portali d'accesso per la cava terra… Qui l'eterno segreto è celato ed al sorger della sesta era verrà svelato”.
Una luce morbidamente pulsante rimase in attesa della prossima mossa.
«Mi sembra chiaro. Lodo, Fulvio, qui le mani» disse Kate, stupendo anche se stessa per la sicurezza che provava in quel momento.
«Acca centoundici Kappa A Qu tre quattro…
Acca centoundici Kappa A Qu tre quattro...
Acca centoundici Kappa A Qu tre quattro …».
09:33
Un forte bagliore illuminò l’ambiente. La volta della grotta si era aperta e il pavimento sollevato, lasciando vedere il cielo. Un fascio di luce, tanto forte da sembrare tangibile, fuoriuscì dalla bocca vulcanica e squarciò le nuvole subito sopra. L’aria si caricò di tante particelle elettriche, dando vita a piccole esplosioni colorate.
I ragazzi sentirono il loro peso corporeo calare progressivamente finché, come sollevati da un gigante invisibile, si staccarono dal suolo per fermarsi circa una spanna più in alto.
Le comprensibili preoccupazioni lasciarono spazio a uno di stato di grazia. Non riuscivano a smettere di sorridere e neppure a parlare. Ma i loro occhi dicevano tutti la stessa cosa.
“È magnifico. Non ci credo, ma è magnifico!”.
“Entriamoci subito!”.
“Cosa diavolo è quella cosa laggiù?”.
Quello che poco prima era un puntino scuro in lontananza ora si era allargato e, fluttuando delicatamente, era planato ai loro piedi. Non ci fu il bisogno di camminare. I tre, attratti da una forza magnetica, vi slittarono sopra fino a fermarsi nel centro, dove era più chiaro. Come un ascensore richiamato al piano
terra, la piattaforma cominciò la sua discesa.
Un vasto ambiente color smeraldo accolse i tre visitatori. “Che coincidenza” pensò Kate, osservando il braccialetto regalatole poco prima da Toña. La soffice erba su cui poggiarono era attraversata da un viottolo in terra battuta, che si dirigeva a perdita d’occhio verso l’orizzonte. Piccole colline brulle con dolci pendii risaltavano in lontananza nell’azzurro del cielo. L’aria era fresca e frizzante e il canto degli uccelli sembrava intonare una canzone di benvenuto. Anche il piccolo ruscello poco a lato voleva fare da sottofondo, scrosciando allegramente tra un sasso e l’altro.
Non vi era altro tutt’intorno: quella era l’unica via segnata.
Senza pensarci troppo, i tre incominciarono a camminare. Avanzarono per oltre due oore senza neanche accorgersene. Non erano minimamente stanchi; anzi, più si muovevano e più volevano farlo. Malgrado la frescura alzata da un leggero venticello, Fulvio si sentiva bene, aveva quasi caldo. Era proprio un mondo al contrario.
Sempre senza parlare, riuscirono ad intendersi di proseguire ancora un pochino.
Non era trascorso molto tempo quando, in lontananza, avvistarono una macchia rosso rubino. Una figura longilinea si stava avvicinando; pareva una persona.
Ancora qualche o e questa volta lo riconobbero. Era lui in carne ed ossa. Il naso aquilino, gli occhi grandi e la mascella allungata con il labbro inferiore più sporgente di quello superiore. Da malinconico e pensoso, come anche il Boccaccio lo ricorda nel trattato in sua lode, ora era sorridente e radioso; il verde
alloro aveva lasciato il posto a una corona gialla di luce talmente intesa da risultare tangibile. Aprì le braccia per accoglierli e andò loro incontro. Man mano che si avvicinava, Kate, Lodovico e Fulvio notarono che era più corpulento e non ricurvo.
Ridusse l’andatura. Si fermò. Li guardò profondamente e con fierezza incominciò a parlare:
“Iddio di lassù tutto lucente
Al mio veder fermò il carro:
con lampi in guisa di ruote parea ardente.
La di Beatrice mano con una scelta mi riconcesse:
percorrendo ancora una vita terrena, ma eterna
o nel profondo blu della galassia abbracciarla?
La terra, mia madre, io scelsi.
Per immortalar il mio corpo mortal nel centro di essa
mi ritrovai ando dal porton inverso.
O quanto splendor in quell’auro paese:
subito quietata tacque la mente,
la coscienza adesso s’accese.
Un vigor muscolare mi ringiovanì:
il DNA mutò, la pelle si stirò
ed ogni malanno perì;
non più cinque i furono i sensi:
colori, suoni, profumi di altre tonalità,
di altre frequenze,
di altri aromi
tutti mai prima percepiti.
Il co-creativo pensar, tutto materializza,
tutto sintetizza,
tutto armonizza
Diversamente vivo qua m’ assestai
Dentro un esister nuovo di dualità privo”
Un acuto fischio rimbombò nelle orecchie di Kate, facendola sobbalzare. Intorno era tutto nero, come la pece. Sdraiata a pancia in su, allungò un braccio e sentì sotto di sé una morbida superficie vellutata. Portandosi le mani al viso, sollevò la mascherina di seta fucsia che le oscurava gli occhi. Una lama di luce la costrinse a richiuderli.
Le persiane della sua camera non erano state chiuse bene la notte prima. “La mamma deve essersi addormentata prima di me ieri sera”.
Alzò il busto e fece scivolare le gambe giù dal letto, fino a toccare con i piedi il caldo tappeto peloso. Con la mano destra interruppe il fastidioso suono, mentre i cinguettii provenienti dagli alberi di fronte e lo scorrere lontano delle automobili la fecero tornare alla realtà.
Una profonda delusione invase la sua mente.
“Non ci posso credere… Era solo un sogno…” pensò socchiudendo gli occhi. Non le sembrava possibile. Sembrava tutto così reale.
Ancora confusa e con la bocca serrata in un broncio triste si trascinò fino in bagno dove, davanti allo specchio, cercò di risvegliare i muscoli.
Un secondo suono, ancora più stridulo, proveniva dalla stanza a fianco.
«A momenti mi cavo un occhio, fottuta sveglia! Colazione veloce e via» farfugliò rapidamente.
L’agenda del suo cellulare le aveva ricordato della conferenza. Aveva poco tempo.
“Sì, ma quale conferenza? Boh! Meglio far presto, mi verrà in mente durante il tragitto…”.
Una brioche calda la aspettava sulla tavola già apparecchiata. «Scusa mamma
ma sono in disperato ritardo. Prendo solo questa e scappo. Ci vediamo stasera!».
Parcheggiata malamente la macchina, Kate si catapultò giù dalla scala della Linea Rossa. Il solito senegalese vestito di giallo le consegnò la copia omaggio di Leggo.
Poco più avanti, prese anche il Metro e il City. Leggere quei free press faceva parte del suo rituale quotidiano. Le servivano per ingannare il tempo fino alla fermata di Pagano. Si divertiva a leggere l’oroscopo, solo quello, ché la cronaca di prima mattina proprio no. Poi rideva da sola, nel constatare che di tre nessuno somigliava nemmeno un po’ agli altri. “Vediamo quale mi piace di più oggi…”.
Finita la lettura, piegò i giornali e li infilò nella sua inseparabile Louis Vuitton tela Damier Azur. Tastando con la mano alla ricerca dell’ultimo best seller di Alice Kate Wings, la sua autrice preferita, alzò distrattamente gli occhi.
Lo sguardo le cadde sul titolone rosso del Leggo che il eggero di fronte teneva tra le mani: “UNA SCOPERTA SCONVOLGE IL MONDO. LA TERRA È CAVA!”.
Una strana sensazione s’impadronì di lei. Forse non era stato proprio un sogno.
“Oddio, non me ne sono neanche accorta! Stupido oroscopo e stupida me!”. La mano sinistra, ancora immersa nella borsa, si bloccò tremolante. Velocemente, tirò fuori la sua copia.
[Prima pagina – Leggo]
UNA SCOPERTA SCONVOLGE IL MONDO. LA TERRA È CAVA!
“La Terra, il nostro adorato pianeta, la nostra casa, è cava. All'interno sarebbero presenti altri continenti, illuminati da un secondo sole. Esiste quindi un'altra dimensione oltre alla 3a e l’Hvannadalshuukur, vulcano islandese, sembra esserne la porta d’accesso”.
Durante una conferenza al CNR di Milano, alla presenza delle più alte cariche dello stato, Lisa Portinari, Lodovico Casiraghi e Fulvio Fumagalli, tre ragazzi poco più che trentenni, hanno rivelato al mondo la loro straordinaria scoperta, mostrando prove tangibili e inconfutabili.
Sembra incredibile ma a dichiararlo è Dante Alighieri, e non solo celando la verità dietro uno dei tanti enigmi della sua Commedia. È la sua stessa voce, incredibilmente conservata all’interno di un vaso di quasi settecento anni fa, custodito da una discendente Maya, ad affermarlo.
Tanti altri artisti, da Raffaello a Leonardo da Vinci, ne condividevano il segreto, tanto da inserire nelle loro opere più importanti segnali in codice per l’apertura della porta nascosta. Un filo d’Arianna disseminato nella storia, per condurre ad una rivelazione oltremondo.
Sono parecchi gli studi sulla struttura del magnetismo terrestre a confermarlo, su
tutti quelli di Halley, il famoso scienziato che scoprì l’omonima cometa. Mille altre sono le testimonianze a favore della teoria, fino ad ora tutte ignorate, come quella del contrammiraglio della marina degli Stati Uniti Richard E. Byrd che, nel 1947, disse di esservi entrato con un volo aereo e di essersi lì scontrato con un oggetto volante non identificato.
I tre ragazzi, dopo essere discesi, o meglio ascesi, al mondo interno, ‘il DNA della terra’ come lo definiscono loro, sarebbero stati guidati da Dante stesso verso uno sguardo d’insieme dei nuovi confini. Il celebre poeta avrebbe consegnato loro “Cava Terra”, la quarta e inedita cantica della sua monumentale opera, trentatré canti sempre in lingua fiorentina volgare, che narrano come un quarto mondo ultraterreno contenga i primi tre.
Qui la morte è stata sconfitta. ato, presente e futuro fusi in un nuovo spazio senza tempo.
Come cambierà la nostra vita adesso?
Cos’altro ci verrà svelato?
Ma ancora:
Perché l’MI6, il servizio segreto inglese, ha tentato in tutti i modi di bloccarne la scoperta? Perché la legislazione americana, oltre a nascondere i vari percorsi sotterranei di cui è a conoscenza, proibisce ai cittadini di esplorare insenature e grotte sotterranee in modo da evitare che possano raggiungere il centro della terra? (È infatti permesso farlo solamente tramite un apposito permesso federale, oppure sotto il controllo di un esperto federale. NdR).
Che sorta di complotto c’è sotto?
[..]
La testa di Kate fu invasa da un mix di pensieri e sensazioni.
“Ma allora è tutto vero!”.
Le sembrò di impazzire. Non riusciva a togliersi dalla mente la foto in calce all’articolo, con il suo volto e quello dei suoi amici tinti di un sorriso incredulo. Le gambe le tremavano, le mani erano ormai bagnate di sudore. Il volto era una maschera rossa, gli occhi lucidi non sapevano se scoppiare in un pianto o in una risata. Prese gli occhiali scuri dalla borsa e se li infilò veloce. Non voleva essere riconosciuta, tanto meno fermata, ma aveva la sensazione che tutti la stessero guardando. Pensò di riempirsi il viso di fondotinta, poi di nascondersi con un foulard, quando la vibrazione del suo iPhone la fece trasalire.
Guardò lo schermo: “Lodo ♥ Cell”. No, decisamente non era stato un sogno.
Finalmente provò un briciolo di sollievo. “Mi stai salvando da un’immensa figura di merda, forse oggi non ti insulto”.
Appoggiato vicino al distributore delle bibite, l’uomo aveva visto tutto. Era lei. Finalmente l’aveva trovata.
«Maestro, qui è Boyce. Il metrò 36 Bisceglie ha appena lasciato la stazione di
Loreto. La ragazza è sulla seconda carrozza, porta centrale, primo posto a destra, di spalle rispetto l'uscita».
«Perfetto, diamo il via all'operazione. Procedi!».
[..]
Un acuto fischio le rimbombò nelle orecchie, facendola sobbalzare. Intorno era tutto nero, come la pece.
Questa volta, però, qualcosa era diverso. “Plastica, dura e ricurva”. Tastando il sedile del convoglio su cui viaggiava, la ragazza constatò l'agghiacciante verità. “Non sono nel mio letto, decisamente”. Si pizzicò forte la coscia sinistra, sperando che quello fosse solo un sogno e che presto si sarebbe svegliata. Niente da fare. Era fin troppo sveglia.
C’era stato un forte scossone e, subito dopo, una frenata improvvisa aveva stabilizzato il treno ormai fermo in galleria. “Così bardata non respiro… Ho bisogno d’aria, subito!” pensò la giovane, iniziando a ricordare.
Dopo circa dieci minuti di ansia e panico generale, una lucina dondolante si era avvicinata decisa. La voce del controllore aveva placato gli animi:
«Signori tranquilli, è tutto sotto controllo. Non muovetevi, ripartiremo subito. C’è stato un blackout su tutta la linea. Ladies and Gentlemen don’t worry and don’t move! Everything is ok! We will restart immediately».
Era stato in quel momento che James, forzata la porta, da bravo militare, aveva stordito la sua preda, l’aveva prelevata e aveva percorso il marciapiede di servizio, portandola fin sotto le coperture di un’impalcatura alla stazione di Conciliazione.
«Maestro, la ragazza è con me, incappucciata e narcotizzata. Per almeno due ore starà tranquilla» aveva annunciato.
Un operaio con giubbotto catarifrangente arancione ed elmetto antinfortunistico salì inosservato in superficie con una grossa cassetta per gli attrezzi, inclinata e appoggiata su due pneumatici semi sgonfi. Il suo collega lo aspettava sul retro del camioncino, parcheggiato nella zona transennata per lavori all’angolo tra la piazza e via Gian Battista Bazzoni. Spostò il grosso mattone di cemento e aprì la rete mobile per farlo entrare. Appoggiando prima la maniglia superiore e poi le ruote, sollevarono insieme la cassa di legno e sparirono all’interno del mezzo furgonato.
«Apritela! Subito!».
Il corpo della giovane donna giaceva ancora immobile.
Pregustandosi la vittoria le sfilò il cappuccio per poi rimanerne di stucco quando un’ira funesta lo fece irrigidire. «Idiota! Questa chi è?!».
Non ebbe neppure il tempo di capire dove aveva sbagliato, che sentì un bruciore insopportabile in mezzo al petto. La vista gli si oscurò e James cadde a terra, in una pozza di sangue.
«Maestro! Cosa sta facendo?».
Un secondo colpo silenziato, questa volta alla nuca, pose fine alla vita di Boyce.
“Maledetti! Non posso tornare a mani vuote! Questa volta è davvero finita…”. Chiuse gli occhi, e sospirò.
Il tonfo sordo sul pavimento del furgone ne fece sobbalzare gli ammortizzatori. Poi fu il nulla.
EPILOGO
Prima un piccolo bagliore e, subito dopo, un lampo più forte illuminò a giorno il vagone. Pochi secondi e il treno ripartì con delicatezza.
La ragazza che aveva preso il suo posto era sparita. “L’alito pestilenziale di quell’uomo deve averla disintegrata. Del resto, cosa credeva? Che la lasciavo sedere così, per gentilezza? Approfittando del buio se la sarà svignata in fondo alla carrozza…”.
Le porte si aprirono.
“È tardissimo e devo anche tornare indietro, ci mancava il blackout! Ah ecco, mi sembrava! Persino la batteria scarica!”.
L’aula magna dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano era gremita in ogni suo angolo. Giornalisti, operatori, studenti e professori attendevano con ansia l’inizio della conferenza.
«Buongiorno signori e signore, per chi non mi conoscesse sono il rettore di questa università. Ma non dilunghiamoci in chiacchiere inutili. È con immenso piacere che vi presento gli artefici della scoperta più sensazionale di tutti i tempi… Un bell’applauso!».
Un forte battere di mani e un tripudio di flash accolsero i ragazzi ai piedi della platea in fibrillazione.
«Vedo però che siete solo in due... Dov’è la vostra amica?» asserì il rettore.
«Kate? Sempre in ritardo quella donna! Ho provato a chiamarla ma parte la segreteria. O ha il telefono spento oppure sta parlando direttamente con Dante» rispose scherzando Lodovico.
Una risata comune ravvivò il pubblico.
I ragazzi iniziarono a raccontare la loro avventura, rispondendo simultaneamente alle tante domande che gli venivano rivolte. Dopo circa mezz’ora, eccola lì. Tacchi a spillo, gonna nera di poco sopra il ginocchio, giacchettina chiara Dolce&Gabbana, occhiale scuro e il suo riconoscibilissimo capello corto.
L’ennesimo applauso interruppe Lodovico e Fulvio.
«Dove sei stata?» chiese Fulvio.
Abbastanza concitata, la ragazza s’indicò il viso.
«Lo vedete questo cratere? Mi si è aperto uno stargate sulla guancia e questi maledetti trucchi non hanno voluto coprirmelo!».
PA 15-80(5,6) PA 22-100(2) PA 33-145(2)
INSPIRATION:
- Alice K. Peruzzo (Alice K. Wings);
- “I custodi del messaggio” Giancarlo Gianazza, Gian Franco Freguglia;
Mappe:
Google Earth;
Informazioni:
Google, Wikipedia;
Ideazione codice dantesco: Alice K. Peruzzo (c.b.c.);
Codice aperture portale:
H111KAQ34
Omraam Mikhaël Aïvanhov tramite Macheda regina di Saba (dal pianeta sole);
Disegni:
Alice K. Peruzzo, Andrea Scaccabarozzi;
Un ringraziamento speciale ad Alice K. Peruzzo, Laura Alberti, Carlo Scaccabarozzi, Flavio Villa, Giancarlo Gianazza, Giulia Lazzari, Manuela De Pace, Stefania Consonni (Macheda regina di Saba), Elena Tiziano e tutti gli amici senza i quali questo romanzo non sarebbe mai stato pubblicato.
L’AUTORE:
Michael R. Wings,
al secolo Andrea Scaccabarozzi, è un perito elettrotecnico e art director, Classe 1976, è anche venditore di aloe e tagliatore di tessuti d'arredamento.
Un giorno si sveglia con l’irrefrenabile voglia di scrivere un libro.
“Dentro” è il frutto del suo desiderio.
Scriverà altri romanzi? Solo il tempo ce lo dirà.
Indice
Frontespizio
Diritto d'autore
PROLOGO 21 Maggio 1506 – ore 20.46 Firenze
Cinquecento anni dopo 3 Luglio 2012 – ore 14.20 Firenze
3 luglio 2012 – ore 18.30
8 Luglio 2012 Firenze, Cronaca locale
9 luglio 2012 – ore 08:10
ore 22:44
10 luglio 2012 – ore 02:32
Ore 03:48
Ore 5:24
Ore 10:30
Ore 11:32
Ore 11:44
Ore 12.22
Ore 13.09
Ore 14.07
Ore 16.15
Ore 23.27
12 luglio 2012 – ore 15:42, San Gimignano (SI)
14 luglio 2012 – ore 06:13, Aeroporto di Malpensa
15 luglio 2012 – ore 10:25 (ora locale), Nuuk, Groenlandia
Ore 14.45
16 luglio 2012 – ore 03:30
17 luglio 2012 – ore 08:30
18 luglio 2012 – ore 7:49 Reykjavik, Islanda
Ore 11:22 Fagurholsmyri, Islanda
Ore 13:40
Ore 14:07
Ore 15:35
Ore 15:50
Ore 15:55
Ore 19.20
19 luglio 2012 – ore 10.23
11.11
11:44
20 luglio 2012 – ore 06:20
09:33
UNA SCOPERTA SCONVOLGE IL MONDO. LA TERRA È CAVA!
EPILOGO
PA 15-80(5,6) PA 22-100(2) PA 33-145(2)
L’AUTORE: