Tacnodo (edizione 2014) 405r20

Pier De Mos

Tacnodo

Youcanprint Self-Publishing

Titolo | Tacnodo Autore | Pier De Mos ISBN | 9788891138385 Prima edizione digitale: 2014

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La via stretta - foto di Pierluigi Mosca

1

Origine del manoscritto

Mi trovavo nella regione della Loira, in Francia, per far visita ad un caro amico.

Un giorno, mentre camminavo per la Rue de l'Herberie a Le Mans, su di uno stretto marciapiede di fianco ad alcune villette a schiera, d’improvviso fui scosso dalla sirena di un’ambulanza, che arrivò, turbando la quiete sempre verde di quel posto, e si fermò davanti ad un’abitazione a due i da me. Restai a guardare: con la barella portarono fuori un vecchio sofferente, che stringeva al petto dei fogli malconci. Ero molto vicino, praticamente accanto a lui, e riuscivo a vedere le pagine bagnate dalle sue lacrime. Sembrava più preoccupato per quello che aveva con sé, che di se stesso.

“Il tempo, maledetto tempo!” – inveirono le sue labbra.

Si girò verso di me, mi guardò come rapito da uno sprazzo di luce nelle tenebre e, con un cenno, mi porse quelle carte. Sorpreso, le presi senza pensarci, curioso e scioccato da quella situazione improvvisa e inverosimile.

Mi dimenticai presto di quell’emergenza, pervaso dal pensiero di scartare quell’inatteso dono. Svanito l’interesse per quel luogo e per i miei lieti i da

turista, tornai spedito all’albergo, destando probabilmente la preoccupazione del personale, che vide la mia immagine ripresentarsi così presto, troppo per un turista soddisfatto.

L’ascensore sembrava non arrivasse mai, le porte come sigillate, ero troppo impaziente e non avrei mai aperto quei fogli davanti ad estranei occhi indiscreti. Andai per le scale, di tre gradini alla volta e sgusciai nella mia piccola camera, solo con le mie “sudate” carte.

Era un manoscritto, che iniziava così…

Nuvole in un cielo grigio – foto di Pierluigi Mosca

2

Un mattino grigio

Grigio il soffitto umido come quel giorno che imbastiva il cielo di nuvole per colazione. Gerard si è alzato da poco, va in bagno, allo specchio, non ha una bella cera. Non ha voglia di vestirsi e di andare a lavoro. Deve.

In cucina apre il mobile vecchio, proprio vicino ai fornelli e prende la cesta del pane; è duro, stantio, ma quella mattina Gerard ha voglia di un tocco di umiltà. Lo assapora con gusto, accompagnandosi con un caffè freddo.

Sente un vuoto guardando fuori dalla finestra; le nuvole vanno di gran o e non si prospetta certo bel tempo.

Quando era giovane, non avrebbe mai desiderato una vita così tranquilla e futile, senza tutti quei grandi gesti cui anela un ragazzo militante per il suo partito.

Non grandi battaglie, certo, ma neanche così grandi vuoti si sarebbe aspettato e il giorno nuovo arriva, un giorno vecchio andato, bruciato. Così si perdono gli anni e la vita intera.

Quel giorno, però, così non sarebbe andata.

È cinereo il maglione che ha scelto stamane, non ha un bell’aspetto e non vuole certo nascondersi dietro un vestito stravagante. “Son triste mondo, compatiscimi!” – questo sembra dire il suo sguardo perso nel vuoto.

Scende le scale trascinandosi riluttante. È spettinato; a quale scopo pettinarsi per un nuovo giorno privo di emozioni?

L’ufficio è lì a due i, tuttavia Gerard non è mai in orario; saluta a stento con un cenno, finge il sorriso con il capo. Questi, poi, il classico ottimista a vuoto: “Con un sorriso comincia un buon lavoro, da lì si vede l’impegno di un impiegato motivato!”. Un uomo che se ne va in giro con una giacca a fiori con scritto sul retro: “Se ti fa ridere, mi devi un favore!”.

Ne vorrebbe di più in giro di tipi come lui, ad un mondo folle non avrebbe da portar giustificazioni per il suo operato.

Via dietro la scrivania di mogano ricoperta di pratiche, polveroso cartame, frutto di una troppo assurda e disumana burocrazia.

Bussano alla porta del suo ufficio, è il postino, affannato come tutte le mattine. C’è da chiedersi se il suo stipendio copra tutte le sigarette che fuma… Il solito, pensa: pubblicità, bollette e varie per l’ufficio, normale amministrazione. Sta quasi per buttare il tutto in un angolo stipato della scrivania, quando cade una busta rosa, non come le altre, un profumo gradevole di fiori di campo. Nessuna scritta, se non l’indirizzo del destinatario, la apre con un certo ritrovato interesse. La carta è spessa, di quella che si usava un tempo per la corrispondenza

personale, ed è intrisa di un profumo di una certa familiarità.

È scritto:

“Ci conoscemmo in inverno, ma tu eri vestita scollata e di più, avevi caldo e mangiavi gelati; poi ci incontrammo ed era ad aprile, tu eri lì attaccata ad un maglione rosa e ancora non riuscivo a capire. Vienimi a prendere all’aeroporto alle 5.00 p.m.”.

“Giulia!” – proferì con un tono tra il sorpreso e il turbato.

Alle 3.00 p.m. ha una conferenza, cercherà di farcela.

Il palazzo della conferenza – foto di Pierluigi Mosca

3

La conferenza e l’aeroporto

Sente il vociare lento e costante della folla, qualche sbadiglio, a volte un battito di mani o due, lo stridere di una poltrona mossa sbadatamente, il crepitio di un foglio ato sotto il microfono, la voce autorevole, scandita, intensa dell’oratore e il clacson di un’auto che, senza alcun rispetto, è ferma nel traffico sotto il palazzo che ospita la conferenza.

Tante parole scontate, frasi fatte, versi già declamati, espressioni pluristratificate fino all’inverosimile, tuttavia una costanza nel portamento e nella voce, un luccichio di ionalità nello sguardo, tanto calore pervade le parole del conferente, come se stesse illustrando al mondo intero il significato dell’esistenza o stesse fornendo ad esso, in qualche modo, una verità trascendente nascosta da millenni, inarrivabile per la gente comune.

Uno sguardo ad ogni uditore, un messaggio ad ogni orecchio attento, un concitato ringraziamento ad ogni domanda o plauso e un’arrogante fierezza dinanzi ad ogni critica. Un animo indomabile di fronte alla platea entusiasta.

Sono le 5.00 p.m., non può più rimanere, Giulia attende.

Arriva stanco al luogo prefissato; tanta, troppa gente è lì a turbare il silenzio, silenzio che Gerard sta cercando da tutta la notte, fatica sprecata, non ha chiuso occhio per ore. Alessandra, la sua vicina, oggi ha un esame in conservatorio e la notte l’ha trascorsa a provare. Eppure, pensa, di solito il suono del pianoforte lo rilassa, tuttavia quella notte era stato diverso, le mani di lei erano ansiose, preoccupate e non scorrevano come al solito tra le note.

È distratto da questi pensieri, quando Giulia si tuffa nella folla colorata ed irrequieta che la circonda, quasi clatrando i suoi i; si sente torchiata, oppressa, spinta, benché di lì a poco sarebbe uscita all’aria aperta.

Gerard siede su una sedia di abete grezza, semplice, neanche rivestita di un minimo di vernice per darle un po’ di tono, di colore o, semplicemente, di lucidità. Avrebbe evitato volentieri di immergersi nuovamente in un mare di gocce sconosciute, mescolarsi ad altre essenze come a perdere la cognizione di se stesso e teme di non riuscire a trovare Giulia.

Nemmeno rialza il capo pensieroso dal pavimento marmoreo dell’aeroporto che se la ritrova davanti. Uno sguardo, un sorriso, poi un caldo, lieto, tenero, dolce abbraccio.

Le prende la valigia che porta a tracolla e si dirigono fuori.

Un taxi giallo che sfreccia per Parigi è un punto colorato indistinguibile in quegli stralci di arcobaleno delle strade della Romantica, eppure Giulia si sente una stella, avverte attenzioni e sguardi intorno, le piace. “È bello essere qui” – afferma con un tono formale, nonostante la gioia malcelata dai suoi occhi azzurri raggianti e in fremito dall’emozione. Il suo sguardo al di fuori del finestrino aperto a metà scorre le immagini multiformi e i volti parigini come a cercare qualcosa, qualcuno che conosce, come se tutto la sorprendesse. Ecco che la

strada si apre in un lago d’asfalto e lì in fondo la splendida Torre Eiffel, imponente si staglia verso il cielo grigio di Parigi.

“Non credevo conservassi ancora quella lettera, Giulia. Saranno ati anni”.

“Fammi vedere questa splendida città domani, ho da raccontarti tante cose, ma ora portami in albergo”.

Fissano un appuntamento per la mattina seguente, nonostante il lavoro; avrebbero fatto una piacevole gita sulla Senna, su uno di quei caratteristici traghetti a cielo aperto per turisti.

Il galleggiante – foto di Pierluigi Mosca

4

Il sogno

La stanza è piena di oggetti, senza persone, colma di cose vuote, scaffali densi di cartigli e lui legato ad una sedia senza ragione. Una musica dolce si alza lenta e lui aspetta calmo, in silenzio, rassegnato a quella situazione assurda, insensata.

Un rapimento? Un regolamento di conti? Un gioco ionale? Impossibile per Gerard, mister nessuno Gerard.

Al di là della porta appena un rumore, forse un suono di i, un televisore o solo un’allucinazione, la speranza che lì, dietro la porta di quella stanza priva di vita, vi sia qualcuno, il miraggio di una presenza oltre quella parete.

La maniglia si muove, no, solo un’impressione, no no, si sta abbassando, qualcuno sta per entrare, esita per un istante, un respiro profondo, - tic, tac, tic, tac… driiin – la sveglia spezza quell’attesa estenuante, crudele, forse maniacomasochistica del suo folle cervello che riproduce tutte le notti la stessa scena mai vissuta, priva di senso, completamente avulsa dalla realtà, dalla sua normale e tiepida routine, probabilmente troppo tranquilla e questo, si sa, è una cosa insostenibile.

Di quel posto ameno ricostruiva l’essenziale, la sgradevole sensazione della polvere sugli scaffali, la freddezza di quelle carte a simbolo dell’alienante burocrazia moderna, un sentimento di angoscia e, al tempo stesso, il trasalimento di un brivido, un soffio di vita, il tutto ripreso dalla fessura di una porta, quella porta che aveva di fronte e fissava… notte dopo notte.

La cascata della quiete - foto di Pierluigi Mosca

5

La gita

Questa mattina si sveglia con un sorriso, strano, non succedeva da tempo; perché quel sorriso? A volte proprio non lo capisce come riesca a sentirsi bene nonostante quello che pensa di sé e della sua parassitaria esistenza.

Di corsa quest’oggi al lavoro, vuole sentire se ancora può fare come da ragazzino, di corsa a scuola per incontrare i compagni. Non è sempre stato così sobrio e scontato, in fondo.

È tutto più chiaro questa mattina, nondimeno quel grigio Matizé Pizza sotto il Clarissa Workshop, oggi intriso di una sorta di allegria, che in qualche modo gli dà colore, vitalità. Così che il cane caduto sul cassonetto dal balcone di Karina Petrosa gli è sembrato saltare da lì per la gioia di vederlo. “Così” – dice e prende il cane illeso per il guinzaglio – “ora corri con me”. Arriva al lavoro prima quel giorno, davanti agli occhi sconcertati del capo, e con un cane, un insolito sorriso, ah, sì, e con un cornetto preso al caffè all’angolo un momento prima.

“Buongiorno Dana, bei capelli, ciao Antoine, David”. Si chiude in ufficio, lasciando i colleghi increduli in un vociare mal contenuto. Non manca certo malizia tra loro e qualcuno suggerisce: “Alcool?”. Una risata del capo placa le loro dicerie, ma non la loro curiosità.

Gerard è proprio divertito dal clamore che lo ha accompagnato. Sente bussare.

“Dana, ci sono problemi?”

“No, è solo che… beh, ecco, insomma…”.

“Vuoi sapere come mai mi vedi così oggi, vero? Facciamo così, lo dirò a te, a David, ad Antoine, magari anche al boss se mi risolvi questo piccolo rebus: hai 3 x 2 api, si vede il cielo blu sullo sfondo, ma non loro; sono loro + 3 le parole e nell’aria tre volti di donne anziane con l’aureola con la scritta zie.

Capisci? Devi comporre una frase di senso compiuto di nove parole di tre lettere ciascuna. Un aiuto? Inizia con HAI, buon divertimento!”.

Il giovane si alza e va fuori, dice al capo di dover correre fuori per una commissione urgente e di corsa fuori, con fare deciso e un sorriso che proprio non lo vuole abbandonare.

Quella commissione ha il nome di Giulia. Eh, sì, oggi la Senna è più fluida e fulgente che mai. Lungo la sponda destra del fiume si trovano il seicentesco complesso del Louvre, con il suo celebre museo, gli hôtels particuliers di Place Vendôme, la settecentesca Place de la Concorde; sulla sponda sinistra, non meno ricca d’arte e di storia, il Palais du Luxembourg, l’Hôtel des Invalides, antica caserma dei soldati di Luigi XIV, che ospita la tomba di Napoleone e l’incantevole (per alcuni solo ferraglia) Torre Eiffel.

Parigi offre ricche testimonianze della storia artistica europea; il ato si tesse in nodo con la modernità.

Le ore di luce sono state ricche di emozioni per Giulia, che ancora non ha trovato il modo di aprirsi a discorsi seri con Gerard, che, dal canto suo, sta godendosi la sua compagnia tra le immagini monumentali che gli scorrono innanzi; non è in vena di discorsi malinconici, di rinvangare il ato. Scesi dal battello si dirigono al Parc Monceau per una eggiata tra gli alberi, un po’ più intima, lontani da quella moltitudine di quei frenetici turisti, eggeri dell’ansia, escursionisti scalpitanti e stranieri alla quiete.

“È difficile sedurre nei luoghi affollati, negli avvenimenti mondani e sotto i riflettori. Allo stesso tempo non sei tu, ma è l'atmosfera che spesso seduce. Tu devi creare l'atmosfera” [1].

Il verde le era così familiare, le ricordava la casa della zia, in campagna, dove aveva trascorso la sua infanzia, forse gli anni più belli della sua vita. Si sentiva a casa in quel luogo, cullata da ricordi felici, carezzata dal vento, riscaldata dagli occhi di lui. Gerard, quante volte aveva pensato a lui in questi anni, praticamente tutte le notti da quando era andato via da Perugia, lasciandole sul cuscino quella lettera con un petalo di viola, che per lei, romantica e malinconica, conservava ancora il suo odore. Ancora oggi lo tiene con sé, mentre gli cammina di fianco, mentre gli stringe la mano calda ed il suo cuore è in prede ai sussulti, quasi le manca il fiato. Si sente al settimo cielo, una sensazione inebriante, irrazionale e forte, che tiene in una morsa la sua mente, incapace ora di qualsiasi approccio matematico al reale. Non aveva mai avuto il coraggio di andare a Parigi, anche solo di chiamarlo, impaurita, forse, che lui le dicesse di essere stata soltanto un’avventura estiva.

Timori a parte, Gerard non l’aveva mai chiamata, mai una lettera, una cartolina,

nemmeno un biglietto di auguri.

Non una striscia d’asfalto in quel parco, ma sentieri di brecciolino con qualche ciottolo qua e là. L’incanto si rompe quando Giulia inciampa, un dolore alla caviglia. Una brutta distorsione. Gerard non sembra preoccupato, le sorride e la porta sulle spalle. Giulia è ancora più felice di prima, tuttavia il momento è arrivato.

“Gerard, sediamoci lì”.

Siedono su una panchina.

“Siamo quasi al tramonto e non mi hai ancora chiesto perché sono qui”.

“Volevi vedere Parigi…”.

“Volevo vedere te.” – lo interrompe – “Non starò a farti la predica o a chiederti perché non ti sei mai più fatto vivo, ma c’è qualcosa che devo dirti, è importante Gerard, ti prego, non mi interrompere”.

Si alza il vento, le foglie in vortici. Lui è fermo, la fissa impietrito. Un brivido freddo lo attraversa rapido dalle viscere alla nuca.

“Ho pensato molto a te, ti avrei voluto a fianco e non ho mai trovato il coraggio, la forza di venirti a cercare. Ora, però…” – esita – “è tardi per prendere ancora

tempo. Non me ne resta molto, ecco il punto, e ho deciso di arlo con te, Gerard, la persona che amo. Ti amo da quando ci siamo baciati sull’uscio di casa mia, ti ho amato per tutta la notte e ancora oggi, qui, in questo posto meraviglioso.” – lo bacia – “Ma questo lo sapevi già”.

Gerard è sconvolto, il suo sguardo perso. È piombata tanta ione nella sua vita e già sta per perderla?”

“Non fare quella faccia. Ormai me ne sono fatta una ragione, ma non per questo voglio rinunciare ai miei sogni”.

A questo punto prende la sua borsa nera, la apre in fretta e tira fuori una scatola.

“È un anello per te”.

“Non so davvero cosa dirti, mi hai detto tutte queste cose, tutte insieme…” – Giulia lo interrompe carezzandogli le labbra con le sue dita.

“Non dire niente, non voglio sposarti. È solo un pegno d’amore; significa che mi appartieni per questi ultimi mesi”.

E in questa frase ritorna l’eterno desiderio di possesso dell’amante, quasi a garanzia che niente e nessuno possa portarlo via, neanche la morte.

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[1] The Heartbreak Kid (film, 1972)

Cielo soffiato – foto di Pierluigi Mosca

6

Sospiri

Alcuni dicono che si nasca con un contatore addosso, altri che la Morte stessa lo poggi sul capo quando accarezza il feto.

Una malattia che non lascia spazio ai ricordi, al ato, forse ancora meno al futuro. Esiste solo il presente, ora per ora, attimo per attimo. Un percorso fatto di sguardi, di sorrisi, di gesti d’affetto, di espressioni tristi, talora malinconiche, sebbene non abbia più niente da perdere. Giulia si è chiusa nel suo egoismo, un atteggiamento di attaccamento febbrile alla vita che vede scorrere via, la avverte fluire imperturbabile, deve prendere tutto ciò che può, senza tempo per rimandare, per fermarsi a emettere un flebile sospiro. Neanche guarda più fuori dalla finestra i branchi di veicoli a motore che corrono al verde dei semafori, il coro dei motori che gridano sommessi al cerchio purpureo che li blocca lì dietro alla linea maledetta, una barriera forte, sebbene inesistente. Le piaceva tanto starsene lì, dietro il vetro della sua finestra, a cercare un senso mistico al di là di quegli atteggiamenti quotidiani della città, così comuni, eppure così maestosi, come guidati da una forza dall’alto. Un burattinaio celeste, pensava. Le piaceva vedere Dio come la Provvidenza, una signora onnipotente che a il tempo a scrivere un romanzo, che il resto del mondo chiama Storia.

Si era immessa nella via di Gerard di traverso, senza un grande traffico alle spalle, è vero, ma non riflettendo un attimo sui risvolti della sua scelta.

Pensare, beh, non poteva permetterselo.

Gerard, invece, non è così egoista, per lui c’è ancora tempo e non vuole certo negarle il suo affetto. In fondo anche lui si è servito di lei in ato, della sua dolcezza, illimitata almeno quanto quella del cioccolato di Perugia. Voleva che lei da ora vedesse non altro che le caselle bianche della sua piccola scacchiera, da cui la pedina nascente vede già, all’orizzonte non troppo distante, un baratro e non è per l’avanzamento di grado, avanza… per essere mangiata.

Angeli – foto di Pierluigi Mosca

7

La prima notte

La luce si faceva scarsa e il Parc Monceau era ormai troppo buio e tetro per trattenersi ancora. A due i da lì le strade erano pervase da un profumo d’amore. Lo si percepiva ovunque, dalle essenze profumate che adornavano fanciulle in fiore, innamorate e strette in un anello, braccia nelle braccia dei compagni, tra sediziosi sorrisi e ammiccamenti. Nei loro sguardi il tutto, il niente, pensieri dell’oggi, promesse per il domani. L’Amore, quello con la “a” maiuscola, quello spensierato dei ragazzi, il sentimento di chi non ha problemi e responsabilità, quella ione forte di chi non sente, non conosce ancora il peso della vita.

Vita che strappa i piaceri, butta via i ricordi, corre quando è felice e attende, attimo per attimo, nelle ore di tristezza. Vita che non s’arrende, che si riprende e giunge al dolce porto, vita s’accende, poi s’arrende. Vita che se ne va.

eggiano anch’essi in quel mare di miele, finalmente api. Arrivano a casa di Gerard, l’albergo è troppo lontano e Giulia si dice stanca e gli chiede di dormire da lui. L’ascensore è bloccato e Gerard la prende tra le braccia e su per le scale, mentre nei sogni di lei quella è la prima notte di nozze. La mette a letto, fa per salutarla, sente di correre troppo e troppo oltre per un solo giorno.

Arriva alla porta, si volta e Giulia sembra contrariata, uno sguardo penetrante, un gesto di malizia e Gerard chiude la porta appena aperta.

Alcune volte le azioni degli uomini non sono guidate completamente dalla ragione, altre volte non lo sono affatto.

Si avvicina a lei con fare deciso, strappano via le odiate vesti dai loro corpi in fiamme, cercando nei loro baci l’anima dell’altro. Nei loro gesti istinto ed impeto, nella loro ione troppo ardore, troppa poca tenerezza, pensa Giulia, sebbene non riesca a fermarsi. Lo stringe con forza, cerca di entrargli nella pelle, lo vuole suo, brucia nel desiderio di morire tra le sue braccia ed entrare con il suo spirito nel corpo di lui ed ivi restare per sempre, rincorrendo il suo fantasma finanche dopo la morte. Tanti gesti duri, pochi i molli, le carezze, i baci mielati, eppure tanta tanta ione. Pioggia di gocce di lava, un’eruzione dei sensi, una dolce tribolazione, senza sfiorare i loro occhi, i loro sguardi in fuga.

L’attimo esitò, si fermò, si distese e giacque. Durò molto più che un attimo, poi scomparve.

Lei si alza, si riveste dinanzi al suo sguardo attonito, un sorriso malizioso e un’uscita di scena che ha dell’irreale. Perché lo ha fatto?

Un giorno Melville scrisse: “Il mio risentimento era dettato da quell’impulso che alberga in tutte le nature eroiche, la radicata determinazione di afferrare la fetta più grossa o, altrimenti, di lasciare la torta intatta”.

La fetta più grossa è il suo Amore, ancora troppo distante.

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Amore che ci prende e ci abbandona,

che sfavilla sorprendente nel cuore

e si spegne crudelmente.

Amore che ci offende,

che insulta il nostro ego

e ci riaccende.

Amore che ci vede monchi di esso

e ci stringe dolcemente,

poi in silenzio si dilegua.

Amore che non disse amore

se non divenendo immondo

e da allora se ne va ferendo

in giro per il mondo.

[Questi amori sofferenti - Pierluigi Mosca]

Pensieri – foto di Pierluigi Mosca

8

Pensieri

Il buio si impadronì della stanza, mentre la prima nota saliva, poi un’altra; dal pianoforte di Alessandra, toni infelici e malinconici, suoni doloranti. Lui, ancora attonito, fissa il soffitto privo di luce, capisce che qualcosa non è andata nel verso giusto, sente di averla ferita. E l’appartamento vicino ascolta i suoi pensieri e risponde piangendo note gravi, tuttavia senza tormentarlo, bensì cullandolo nel suo dolore, un sentimento sordo, però, poiché gli è chiara l’offesa, ma non il motivo.

Proprio non riusciva a chiudere occhio. Se avesse sognato, quella notte, avrebbe certo rivissuto il suo incubo ricorrente e dietro la porta, questa volta, ci sarebbe stata lei, Giulia, con una lama in mano, pronta a rispondere alla ferita profonda incisa in petto.

Quella ragazza lo faceva impazzire, sebbene portasse certezze, la promessa di una routine, una folle quotidianità non uniforme, non a regime, disomogenea e disorganizzata.

Sonno e follia, seppure di aggio, non vanno d’accordo, quindi le ore notturne così proseguiranno.

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Dormi quieta

vispa creatura

morbido manto ti allieta,

di te si prende cura.

Ti sveglierà un disattento o

di chi ti ha accolto,

ti prenderà un sobbalzo.

Di teneri abbracci

vorresti esser cinto

il pelo tuo tinto.

Dall’alba al mattino

gomitolo inerte,

aspetti un pochino

e alla nera quiete,

lesto, birichino e solerte

mentre il padron

ha le braccia conserte.

[Vispa Creatura – Pierluigi Mosca]

La spaccatura – foto di Vittoria Carfora

9

Il giorno dopo

Gli albori dell’alba invadono la stanza scoprendo un uomo già stanco. Occhi tenaci sbarrati verso l’alto, sguardo pensante assorto nel vuoto.

Alzatosi a fatica, Gerard prende coraggio, chiama l’ufficio, non ci metterà molto ad essere credibile con quella voce cavernosa, per chiedere un giorno di malattia. Chiude la finestra e prende sonno, tanto agognato sonno.

Sveglio alle quattro del pomeriggio, un po’ più leggero, un poco più allegro, specchia il sorriso nel Sole, non meno forte di quel mattino.

Scende in piazzetta e prende un bocciolo di rosa bianca, corre da Giulia con grande fretta; lei è lì all’albergo che lo aspetta. Le porge il fiore, in quel gesto tanta purezza, una richiesta di scuse e nel sorriso di lei che accetta, nel bacio candido sulla sua guancia, il dolce perdono.

Giulia non vuole scuse verbali, troppe parole inutili per un errore di entrambi, vuole godersi la vita, le scaramucce d’amore le lascia agli amanti giovani, in quell’esteso mare che in alto e in basso li porterà con le sue onde di miele e di catrame.

Due giovani nel cuore degli anni non possono che godere delle gioie della gioventù beata, piuttosto che angosciare gli attimi dell’altro con inutili prediche su gesti e parole offensive, poiché tutto offende gli innamorati, tutto ciò che porta il partner al di là della compagna.

Giulia ha l’animo ancora intatto e schietto di un bambino, le basta un fiore a far da caramella per ridipingerle sul volto quel fanciullesco sorriso, raschiandole via quel broncio che l’aveva destata quel mattino.

Ripartono felici da quei momenti, riproponendosi coppia al profumo dolciastro di quelle strade piene zeppe di turisti in luna di miele. E tra di essi, tra i neosposini, ve ne sono alcuni con bimbi ancora infanti. La nostra perugina, non troppo spensierata a dire il vero, sa di non poterne avere, sebbene fantastichi più volte sull’evenienza, ricama un bimbo tra lei e il suo uomo nella sua mente, finanche a carezzarlo e starsene a guardare il viso grato del figlio, che l’ama di un amore incondizionato, quel figlio così simile a Gerard. Il sogno ad occhi aperti svanisce, il bimbo torna un gomitolo confuso di idee, quando Giulia - “Ti piacerebbe un figlio? Un figlio da me, intendo” – divertita fin d’ora dal viso buffo e imbarazzato che si aspetta da lui, che certamente avrebbe inventato un modo per non dirle di no.

“Un figlio, uno solo? No, perché non due?”, replicò lui senza dar peso alle parole. Era un discorso campato in aria, pensava. Aveva ragione…

“Dico sul serio, a volte vorrei comprimere tutti i sogni di una vita in pochi mesi”.

“Vieni qui.”, l’abbraccia, “Non devi mai smettere di sognare, questo non te lo

leverà nessuno. E se hai un sogno da realizzare, sono qui accanto a te e farò tutto ciò che un uomo può fare per renderti felice”.

Sono commossi entrambi, di più Gerard, che ancora non riesce a credere cosa riesca a strappargli di bocca quella ragazza indifesa e tenera con il solo potere del suo sguardo, due occhi di celeste cristallo, così puri che i suoi stessi pensieri non possono tener pudore verso il mondo.

Lei appoggia il capo sul petto di lui, in un gesto che esprime tutto il trasporto di cui l’amore ha bisogno, un momento così penetrante per l’amato, che sente tutto il peso di quel capo sul suo cuore, lo opprime, eppur che sofferenza lieve, che triste gaudio, è la commozione di chi rinsavisce dalla follia dopo un forte schiaffo e dice grazie del martirio, che gli ha ridato la ragione.

Lei è in coma, lui risvegliato dal trance e la vede così, abbandonata su di sé. Che creatura adorabile, pensa.

Da gesti come questi nasce la scintilla, che porta lo spirito ligneo dell’amante dalla cotta all’ustione e, infine, ad ardere di ione. Per l’amante la Croce è più venerabile del Cristo crocifisso, poiché non è Dio di legno, ma la croce che lo ha visto morire… così Egli non può ardere.

Archi mistici – foto di Pierluigi Mosca

10

Il sogno?

Un filo spinato li separava da un prato fiorito, gran brutta grana; quella distesa verde era quello che ci voleva per mettersi in pace col mondo e con se stessi. La vista di quelle spine metalliche era più pungente del loro tocco crudele. Volevano entrare, doveva esserci un modo.

Fecero il giro del campo e, c’era da attenderselo, trovarono un cancello, neanche tanto grande, bloccato da una catena con un catenaccio arrugginito. Gerard sferrò un calcio al cancello, il catenaccio cedette subito e il varco fu ormai aperto dinanzi a loro. Se bastasse soltanto un calcio per scacciare via i problemi, se solo bastasse per scacciarne uno… Le sorrise con occhi languidi, accarezzò il suo viso arrossato e le sussurrò dolcemente: “Principessa, le consegno la sua nuova terra ed il mio cuore”. Entrarono.

C’è un tempo per le spiegazioni, che arriva sempre alla fine. Che senso avrebbe sennò il gioco?

Lì nel campo c’era un vecchio, sedeva su un groviglio di reti da pesca, aveva lo sguardo perso nel vuoto e cantava con tono pacato ballate da pescatori. Nonostante il tono, dai suoi occhi traspariva allegria, una gioia persa nel tempo e nello spazio, il ricordo di una vita ata.

“Una vita ata” – suggerì Gerard alla fanciulla che lo seguiva – “Credo sia questo che intendevano i saggi indiani del ato, poi col tempo la cosa è stata pervasa dal misticismo”. Quell’uomo canuto sembrava non accorgersi di loro, era come una statua, in una dimensione tutta sua e fecero come se non ci fosse stato, proseguendo lungo quel mare di fiori, laddove il pescatore aveva trovato il porto del suo lieto naufragio.

Una dolce via percorre fino al fumo quella fiamma che ha brillato esile e senza pretese lungo il suo toppino.

Quanto tempo spende un uomo guardando ciò che è il vero mondo, la sua natura e le sue piante, quelle figure esili, quelle figure forti, le deboli e splendide, le nobili e fiere e i legni giganti? Quanto tempo a quell’uomo nel grigiore con cui ha dipinto il mondo e preferisce quell’asfalto sudato al verde prato?

Dolce è il loro viaggio in quella terra fuori dal mondo e il vuoto di parole non è silenzio, ma è riempito dei colori di quegli ornamenti profumati che la gente chiama fiori. È l’incanto di quell’ambiente che dava ai loro cuori quelle sensazioni, non c’era in quei sorrisi che coprivano i loro volti e in quelle lacrime di gioia profonda una base razionale, un apprezzabile ato insieme che giustificasse tutto questo, eppure quel luogo così insolito per un parigino forse più che per una perugina, creò l’idillio e aggiunse all’affetto l’amore. Nei i, negli sguardi e negli incanti, nei gesti e nei sussurri non c’era più ansia né paure, svanite le incertezze insieme alla ragione. Probabilmente fu questo luogo a suggerirgli il o o forse la fretta del tempo impaziente di portar via Giulia, che Gerard, quasi cadendo al suolo, pose il ginocchio sinistro a sorreggerlo, le prese le mani e le giunse alle sue in una stretta intensa. Il tempo sembrava fermarsi. Giulia trasalì in un fremito di emozioni misto a sorpresa, ora incredula, ora gioiosa e ferma lì, persa, con le gambe tremanti. Il vento soffiò per qualche istante tra i suoi capelli e un bagliore fece brillare i suoi occhi bagnati di lacrime. Lui le stava innanzi nella sua posa romantica, la guardava come fosse di pietra; per un momento pensò al vecchio e lo raggiunse nel suo mondo di fiabe. Non era

più in quel campo, non su questa Terra ed anche il Tempo aveva perso il o… e tutto intorno il vuoto.

Prese a dar fiato alla bocca: “Giulia…” – e lei cadde al suolo.

Dalla finestra entrò la prima luce dell’alba e una smorfia coprì il viso esposto di Giulia, che riprese i sensi. Si piegò sul letto come per alzarsi e guardò intorno: “Dove sono?” – pensava. Si rese conto presto di essere nella camera da letto di Gerard. In un lampo di terrore, una sensazione di gelo le invase i visceri e sgranò gli occhi: “È stato solo un sogno! Solo un sogno…” – voleva piangere. Sentì un profumo di caffè pervadere l’aria e andò verso la cucina. Pochi i e la figura di lui le si raffigurò davanti. “Buongiorno tesoro” – e lei lo guardava fissa come fosse un alieno – “Tesoro? Forse sei ancora scioccata per ieri. Scommetto che non ti ricordi come sei arrivata qui”. Lei riflettette e in effetti non lo ricordava. “No, non ricordo” – fece lei. Dopo un sorriso, Gerard le disse: “Sei svenuta e ti ho portata qui”. Gli occhi di lei si accesero come se la vita che le era stata strappata il secondo prima, il secondo dopo le fosse stata ridata, con estrema violenza, un’intensa emozione dopo l’altra. Gli si gettò al collo, lo baciò piangendo e lo baciò ancora una volta e un’altra ancora. Era felice.

No, gli altri non possono capire...

non ci vedono quando, da soli,

ci accarezziamo il volto

e ci fissiamo dritto negli occhi,

quegli occhi lucidi dalla gioia immensa

di averci, di donare il nostro cuore

l'un l'altra.

Non possono immaginare

cosa vuol dire ritrovarsi

dopo estenuanti ricerche e sbagli,

dopo una vita a girovagare

e a prender nero per bianco.

E tu che resti sempre qui al mio fianco

ad amarmi, a rendermi il sorriso

ed io che rosso, commosso,

ti confesso quanto tu sia importante

e quanti singhiozzi questa notte

hanno accompagnato le mie lacrime di gioia

dopo quello che mi hai detto,

dopo il tuo "rapimento" e la tua "follia"

e la mia...

nella buona e nella cattiva sorte...

Pannello a poua – foto di Pierluigi Mosca

11

La mostra d’arte moderna

- Ricambiando gli affetti e queste gioie, questi piccoli i, trabocca il bene che ti voglio dall'otre del mio cuore… -

Nella sala semibuia il proiettore dipingeva sul telo immagini di quadri surrealisti: a santi in crisi mistica si accostavano utensili da cucina, animali inconsueti e lattine di bibite famose. Non c’era nulla di artistico in questo, pensava Giulia, quasi irritata da tanta ostentazione per quelle opere di così tanto cattivo gusto. Gerard guardava scolpirsi sul suo viso rughe di indignazione e di disgusto che, proiettati nell’ambiente circostante, erano spruzzi di colore stonati tra quelle facce assorte e rapite, erano toni di viola nel verde chiaro, una camicia di raso su un costume da bagno. Non c’è che dire, era proprio un’atmosfera surrealista, erano immersi in un quadro surrealista. “Niente di meglio riuscito” – pensava. Eppure sapeva che avrebbe dovuto portarla via da lì, ne era rimasta delusa. Lasciò le sue riflessioni sulla poltrona rosso fuoco, la prese, la portò con sé fuori dal locale nell’indifferenza degli astanti, troppo impegnati ad osservare scorci di un mondo fantastico, troppo poco stupiti da quegli accostamenti, che offendevano la logica comune.

Fuori da quel luogo ameno il mondo riprendeva le sue leggi, era tutto dove doveva essere: lattine accartocciate per la strada si intervallavano a cartacce e santini persi per la strada, la polvere ricopriva le macchine, manifesti strappati decoravano i muri e poi i murales e tante tante gomme sull’asfalto. Tutto così…

reale. Forse un santo moderno, guardando in alto con le braccia al cielo, in ginocchio, avrebbe intorno a sé tutto questo e magari una gomma attaccata sotto i suoi calzari. Era così diverso da quei quadri?

Quella sera cenarono insieme agli amici di lei giunti la sera prima da Perugia. Il locale era rustico, umido, ma ben riscaldato. Sulle pareti erano appesi oggetti che richiamavano la caccia e l’allevamento tradizionali; in questo mondo trovava posto anche un’accetta, che catturò l’attenzione di Gerard, perché era proprio sulla testa di quella spensierata Giulia, che dava le spalle a quel muro sinistro. Trasalì al brutto pensiero che quella immagine suggeriva, quindi cercò di distrarsi. La cucina di quella taverna era semplice, casereccia, non c’era niente di speciale, neanche la lista dei vini eccelleva in qualche verso. Questo, nonostante tutto, dava libero sfogo alla convivialità e all’allegria di quelle battute bonarie che invadevano il locale tra un boccale di vino ed uno di sangria, insieme a quell’odore fruttato che accompagnava ogni loro parola, finanche ogni loro sospiro. La serata trascorse lieta, tra volti rossi e brilli, tra fumi di alcool e di tufo bagnato. È lo straordinario miracolo del vino, che diluisce le diffidenze e le inibizioni, apre le menti ai cuori e le labbra trasudano spontaneità e, a volte, qualche nota di folclore. Così Gerard sentì quei versi di ballate umbriane e provò goffamente ad unirsi al coro, ridendo di strane assonanze con ambigui termini si. Non mancava, ogni tanto, di unirsi agli occhi di lei, sussurrandole dolci parole in quella mielosa e romantica lingua d’oltralpe, che la inebriava più del vino, incalzava il suo cuore, le cullava la mente. I baci, le carezze, i gesti d’affetto, il trasporto di lei e di lui li accompagnarono fino all’albergo e si spinsero avanti e di nuovo si incontrarono le labbra, ancora le mani e i volti, ancora la ione li accendeva, i gesti molli e le prese forti, poi l’amore andò avanti da sé, trasportandoli in un carosello fatto di immagini alcoliche e tenere illusioni. Ora dolce, ora violento, ora esaltante. L’umidità di quella sera lasciava poco spazio al sudore dei loro corpi. E si portò la luna fino alla fine dei baci, poi li lasciò nelle braccia di Morfeo.

L’alba è ata, i bar aperti e la strada è già colma di turisti pronti a scattare una nuova foto. Dalla finestra entravano alcuni raggi di Sole, fratelli di quelli che avevano destato Gerard, sceso si corsa al caffè dell’hotel a prendere due cornetti caldi e due cappuccini. Quando la svegliò con la colazione a letto, lei,

sorridendo: “Credevo di essermi svegliata, invece mi accorgo di essere ancora immersa nel mio sogno più bello”.

I due vivono la loro storia come due amanti al culmine della ione, come ad essersi dimenticati del tempo che scorre, dei giorni che si spengono e non ritornano. Fossero cento, dieci o solo un anno, quale sarebbe la differenza? Non viviamo noi in un conto alla rovescia?

- Perduti sono ormai i i dolci,

scorsi i fiumi di latte,

andato il miele... -

L’opera si interrompe qui con un tragico epilogo: l’autore termina qui il suo conto alla rovescia e lascia la penna ancora calda sull’ultima pagina. Il suo male, ormai, ha preso il corpo alla sua anima.

Non una, ma un bagno di lacrime terminano il manoscritto, perché non sia una sola lacrima a dargli un punto, ma una serie di puntini sospensivi, il seguito della vostra nuova vita, della quale non perderete più neanche un momento.

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Scorre un ruscello

guata gli istanti,

bagna il fardello

degli umani istinti.

Vano il fuggire;

gocce raggiungono

l’umano ardire.

Dolce scorre,

tenero e dolente,

penetrante tepore

d’un calore agghiacciante.

Il biondo corre,

il candido va lentamente.

Tempo trascorre.

[Tempo trascorre – Pierluigi Mosca]

Sorrento al crepuscolo – foto di Pierluigi Mosca

Indice

Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11