Marco Guadalupi
Dark Rock Chronicles
Una storia paranormale, tra pupe, alcol e battle rock
Lato A
I componenti dei DRC
(in ordine di apparizione)
MATT - quello sfigato, alla batteria
DUFF - quello volgare, al basso
SAUL - quello figo, alla chitarra
AXL - quello fumato, la voce
MEGAN - la pupa, la voce femminile
CHARLOTTE MICHELLE - quella intelligente, la modificatrice
Track 1#
Porte del paradiso
Avevo un buon motivo per lamentarmi.
“Saremo la prima rock band al mondo a non aver mai debuttato davanti a un pubblico. Ci faranno fuori prima di mettere piede su un palco!”
Ma Duff ne aveva un altro buono per contraddirmi.
“Correremo il rischio. Devo ricordarti quanto ci sta sulle palle? È colpa sua se venerdì non abbiamo suonato!”
“Sì, ma...”
“Niente ‘ma’. Sei dei nostri, no? Non frignare e continua a guidare”.
Portami oltre le porte del Paradiso
Dove i prati sono immense distese di verde
E le ragazze… e le ragazze…
Le ragazze…
Il mangianastri dell’auto a volte si inceppava.
“Dovrei riparare questo aggeggio. Posso abbassare un po’ il volume?”
“Per quale cazzo di motivo devi abbassare il volume? Cioè, me la sto proprio godendo e tu vuoi togliermi la musica?”
Il mio amico Duff: sempre così gentile.
“Non ho detto che te la tolgo. Ho mal di testa”.
“Sei una lagna. Davvero, peggio che a scuola e durante prove. Continua a guidare, siamo quasi arrivati”.
Procedevo lento, il piede pronto sul pedale del freno, la strada appena distinguibile. Sembrava di guidare nel nulla...
“Hai mai guidato nel nulla? Non hai mai guidato nel nulla” fece Duff.
“Però lo immagino così. Tutto opaco e appena dietro la foschia… il buio… l’infinito”.
Duff si prese qualche secondo per ragionare. “Credi negli alieni?” chiese poi.
“Che c’entrano gli alieni?”
“Loro vivono nell’infinito. E se credi nell’infinito credi anche negli alieni”.
No, non sembrava di guidare nel nulla. Sembrava di guidare nella testa di Duff, e probabilmente ci eravamo pure persi, perché il nostro obiettivo non era ancora in vista.
“Per dire, Duff” spiegai, mentre cercavo di fare attenzione alla foschia ed evitare i fossi. “Credo negli alieni. Ma non c’entra con quello che stavo dicendo. Era una metafora, ok?”
Un’altra pausa. Duff pulì il finestrino dalla condensa e scrutò nell’oscurità. “Spero che non spuntino da un momento all’altro, gli alieni”.
Il nostro obiettivo emerse dalla nebbia, scassato e parcheggiato sul ciglio di una strada abbandonata. Era una di quelle sere in cui era meglio starsene a casa a guardare un film, o leggere, o osservare il soffitto e pensare alle cose.
Il punto d’incontro aveva due grossi fari accesi; la luce si rifrangeva sul fitto banco di nebbia che aleggiava nella zona deserta.
“Sono già qui, fermati dietro al furgone” ordinò Duff.
“Ho visto, non darmi ordini. Un attimo che accosto. Ecco, scendiamo”.
ammo dal tepore del riscaldamento dell’abitacolo all’aria fredda e appiccicosa. Duff si calò lo zuccotto stropicciato sui capelli lisci e lunghi fino alla vita. Stiracchiò gambe e braccia, una grattatina là… poi urlò in direzione del furgone. “Oh, siamo noi! Ci siete?”
Nessuno rispose.
“Forse dormono” suggerii.
Duff mugugnò per contraddirmi. “Fumano, te lo dico io. Andiamo a vedere”.
Seguii i suoi i scomposti, chiedendomi come riuscisse a non morire di freddo indossando solo una vecchia t-shirt e un paio di jeans consumati. C’erano tre gradi e non era neppure imbottito d’alcol.
Spiammo dai finestrini abbassati a metà. Il furgone sembrava vuoto.
“Saranno qui da qualche parte, le chiavi sono ancora nel quadro” notai, mentre un forte puzzo dolciastro mi pungeva le narici. “In effetti c’è odore di fumo”.
“E che ti avevo detto? Fumati schifosi. Dove cazzo sono!”
“Li aspettiamo in macchina?” proposi, speranzoso.
Duff mi squadrò sprezzante. “Te la fai sotto? Certo, se si decidessero a venir fuori potremmo anche muoverci. Ma gli stronzi devono sempre cazzeggiare!”
“Voglio aspettare in auto” insistetti. “Dove sono le chiavi?”
“Bel tipetto, eri tu che guidavi”.
Controllai nel giubbotto. Niente. Però ricordavo di averle addosso. “Non le trovo!”
Svuotai le tasche dei pantaloni (mentine alla liquirizia e la scaletta delle nostre canzoni appuntata su un foglio di carta) per dimostrare che non le avevo.
“Guarda meglio, controlla. Ti saranno cadute da qualche parte, no?”
Cercai attorno. Preso dall’irritazione alzai la voce. “Maledizione, non ci sono!”
“Ehi, carino, abbassa il tono, cazzo. Calmati” rispose stizzito Duff, poggiando una spalla al furgone e incrociando le braccia robuste. “Rispunteranno fuori. Le avevi fino a poco fa, no? Hai accostato, hai spento il motore e hai chiuso le portiere quando siamo scesi, no?”
“Sì, ma non le trovo”.
La soglia di sopportazione di Duff ammontava a trenta secondi virgola tre. “Non farmi incazzare anche tu! Continuiamo a cercarle e smettila di piagnucolare come una femminuccia”.
“Non sto piagnucolando” replicai, infastidito. “È che mi secca, la macchina è di mia madre. Lei non immagina che io l’abbia presa di nascosto, sai com’è”.
La nebbia complicava la ricerca. La visibilità era ridottissima e per terra c’erano solo sassi ed erba bagnata.
“Mi ammazzerà” mi lamentai mentre continuavo a cercare, chino sul terreno. “O peggio, mi vieterà la batteria”.
Ripercorsi i i fino all’auto parcheggiata. Duff non si dava un granché da fare, ma almeno non era rimasto addossato al furgone a braccia conserte a esaminare il suo infinito.
All’improvviso un rumore poco distante dietro la foschia. Sia io che Duff ci fermammo nello stesso istante. “Lo hai sentito anche tu?” chiesi.
Il rumore, come di i strascicati, prese forma e si manifestò affiorando dalla nebbia. Ci investì in pieno. Visi bianchi e neri sbraitarono come animali selvaggi. Urlammo di rimando.
Caddi all’indietro, crollando di peso su Duff, che reagì d’istinto dando sfogo a una serie di volgarità a catena. Io invece portai le mani al volto per difendermi dagli aggressori. Ma l’urlo disumano lentamente si tramutò in risate…
Risate familiari.
Duff era un vulcano di rabbia. “Sempre detto che il fumo fa male, teste di cazzo” gridò sbracciandosi. “E toglietevi quelle maschere!”
Forse dovevamo aspettarcelo, ma eravamo comunque terrorizzati. Be’, avrebbe spaventato chiunque: la notte, il silenzio e la nebbia avrebbero suggestionato anche un serial killer. “Potevate risparmiarvelo” fu la mia banale protesta. Ci ero cascato, maledizione.
I volti senza maschere dei nostri amici Axl e Saul ci tranquillizzarono. “È stato troppo forte, dovevate vedervi. Che facce!” sghignazzò Saul.
Continuavano a ridacchiare additandoci. “E la sparizione delle chiavi ha reso tutto più... spaventoso? Perfettamente tetro? E comunque eccole, bello, ti erano
cadute nella ghiaia vicino al furgone”. Saul fece tintinnare le chiavi all’altezza del naso.
“Per fortuna” dissi sollevato, ma ancora con il cuore a mille. “Già immaginavo mia madre... ma dove avete trovato le maschere di Paul e Ace?”
“Nel garage di Axl, bello” rispose Saul. “C’erano tante cose fighissime”.
“Be’, era roba di mio padre” rispose Axl. “Anche se lo odio apprezzo il suo buon gusto. È l’unica cosa che rimpiango del divorzio” si fece triste all’improvviso, poi riprendendo la solita verve aggiunse: “Una volta c’era anche uno scatolone pieno di vecchi numeri di Rock Planet, vero Duff?”
“Sì, cazzone, è vero. C’era anche qualche numero di Tits in Bra” rispose Duff ancora rabbuiato. “Comunque. Abbiamo già perso troppo tempo, c’è una missione da compiere”.
“Duff, rilassati. Abbiamo tutta la notte per rubare la strumentazione di Antony” gli ricordai. “Andrà tutto bene!”
Ovviamente mi sbagliavo di grosso.
Track # 2
Infinito
Rubare strumenti musicali non è semplice. La parte più complicata è trafugare, trasportare e, soprattutto, non danneggiare gli amplificatori, il cuore di ogni rockband. Volevamo il meglio, per questo avevamo preso di mira Antony -un fighetto che poteva permettersi tutto- e il meglio, per noi, voleva dire amplificatori valvolari da cento watt: suono vintage, caldo e potente.
Rubare strumenti musicali non è semplice. Mai fatto prima di allora, nessuno di noi; era il nostro primo furto. Non che ci mancasse qualcosa, ma i nostri strumenti erano usurati e un po’ scassati e poi volevamo farla pagare ad Antony, il che poteva essere giustificabile, visto che ci aveva bellamente impedito di suonare come esordienti al Mr. Brown.
Mi chiamo Matt e sono il batterista dei DRC. Ho buoni voti a scuola e tutti dicono che sono un bravo ragazzo. Credo abbiano ragione, ma iniziavo a dubitarne nel preciso istante in cui la nostra storia ha inizio.
Il piano “Antony” volgeva all’atto pratico, e nel piano io facevo il palo.
“Perché il palo devo farlo io?”
“Perché hai un compito ben preciso, ricordi? E poi sei il più veloce, il più intelligente e... dai Matt, non rompere! Stai qua, almeno eviti il lavoro sporco,
no?”
Feci notare come anche il palo fosse tecnicamente “lavoro sporco”. “Siamo ladri. Voi e io”.
“Ti eri convinto, ora perché rompi?”
Il buon Duff intervenne nella discussione. “Vuoi sapere una cosa, Matt? Sei uno scheggia palle. Fottiti!”
“Calmatevi, ragazzi” si intromise Axl. “Volete far saltare tutto proprio ora che ci siamo? Matt, Duff non ha tutti i torti. Siamo qui, cerchiamo di rispettare il piano. Se ci scoprono tu sei l’ultimo a cui darebbero la colpa, probabilmente non ti prenderebbero nemmeno. E non siamo infami, non spiffereremo nulla. Vero, ragazzi?”
Com’era successo nel garage di Axl (era lì che ci eravamo riuniti per discutere il piano) riuscirono a convincermi. “D’accordo” risposi, stringendomi nelle spalle con una spiacevole sensazione di freddo dietro il collo. Pentimento.
A quel punto Duff, sorridendo come un folle, mi saltò addosso stampandomi in fronte uno dei suoi baci da pervertito. Ridemmo, per poi tornare a concentraci sul furto.
Gli altri si prepararono per dirigersi oltre la campagna nebbiosa e raggiungere la villa di Antony. Duff, Axl e Saul rovistarono dietro al furgone in cerca dei
amontagna e degli attrezzi per il furto.
Oltre al amontagna, calato sull’inseparabile bandana che portava legata in testa a coprire la fluente chioma castano chiaro, Axl si avvolse una pesante sciarpa sulla bocca. Anche lui indossava jeans e t-shirt, ma a differenza di Duff era stretto in un pesante giubbotto di pelle borchiato. Prima di andare, Saul, si specchiò nel vetro del furgone. Aggiustò i capelli in disordine e coprì finalmente il viso col amontagna. Indossava un gilet rosso fuoco e una camicia a scacchi con le maniche arrotolate sugli avambracci a scoprire i polsi pieni di bracciali e catenine.
“Ti muovi, fighettino?” sbottò Duff, innervosito.
“Un momento, bello. Che diavolo!” protestò lui, ma si lasciò spingere lontano dal furgone.
Tutti e tre furono inghiottiti dalla nebbia. C’era da fare un po’ di strada a piedi prima di arrivare al cancello.
Non riuscivo a vedere niente, ma nei pomeriggi prima del colpo ci eravamo appostati varie volte di fronte la villa, memorizzando ogni particolare. Era grande, con un ampio giardino e un muro alto un paio di metri a delimitarne il perimetro. Era un’abitazione antica, come quelle delle storie di fantasmi, ma era stata rimodernata e ora assomigliava più a un casolare abitato da qualche spettro un po’ freak. Gli strumenti si trovavano sul retro, nel garage che Antony usava come sala prove, un prefabbricato aggiunto al complesso in pietra.
Una volta arrivati sul posto, Duff, Axl e Saul dovevano saltare il muretto di
cinta.
Io invece rimasi ad aspettare accanto al furgone e all’auto, cercando di isolarmi dai rumori e dai fruscii della notte.
L’attesa era opprimente. Riflettevo sulla seconda parte del piano -piena di punti interrogativi, certo-, ma ormai eravamo lì, potevo solo sperare che tutto filasse liscio.
Stavo per chiudermi nel furgone, deciso ad accendere qualche minuto il riscaldamento per evitare di congelare, ma la chiave inglese che dovevo usare era stata lasciata in bella mostra sul sedile anteriore. Era arrugginita e malmessa, come tutto ciò che si trovava dentro quell’abitacolo, proprietà del padre di Axl. Afferrai l’attrezzo malvolentieri e richiusi la portiera scorrevole, immaginandomi per un attimo lì a godere del calore del riscaldamento .
Il compito del palo era quello di sorvegliare l’unico accesso alla villa, ovvero il cancello, poi aprirlo agli altri. Ecco a cosa serviva la chiave inglese.
Avvolto nell’infinito sbucai in un viottolo di campagna. Le luci della villa mi indicarono il percorso. Tutto era tranquillo. Non c’erano allarmi; durante la progettazione del piano nessuno di noi era riuscito a spiegarsene il motivo, ma dato che facilitava il lavoro non ce ne preoccupammo.
Ogni o era accentuato dal rumore delle scarpe che affondavano nell’erba umida. Mi avvicinai al cancello e cominciai ad armeggiare sul lucchetto con la chiave. Ci volle un po’ prima di romperlo e farlo cadere a terra con un tonfo. Lo raccolsi. Mi guardai attorno e ritornai indietro.
Rispuntai sulla stradina isolata.
A quel punto dovevo condurre il furgone all’entrata della villa e aspettare. Lanciai il lucchetto sui sedili posteriori e misi in moto. Gorgogliando e soffrendo il freddo, il motore si accese.
Facendo attenzione, guidai fino al muretto. Spensi il furgone e bloccai le portiere, preferendo soffocare per l’odore del fumo dell’abitacolo piuttosto che gelare fuori. La villa sembrava immune alla nebbia. Sopra di essa il cielo era limpido e brillava anche qualche stella. Iniziai a contare i secondi.
Dopo un po’ due figure dal volto coperto si avvicinarono nella mia direzione, attraversando il cancello che avevo scassinato. Feci scattare le sicure.
“Oho! Lucchetto fuori uso. E bravo Matt!” strillò Axl rientrando nel furgone.
Tre custodie rigide (due chitarre e un basso) furono stipate sul retro da Saul, assieme a un mixer, alcuni microfoni, cavi jack, pedaliere multi effetto, piatti e rullanti per batteria.
“Fatto. È tutto tranquillo, possiamo procedere. Andiamo a caricare gli amplificatori, Duff è rimasto nel garage a controllare. Avanti, Matt!”
Aspettai che Axl e Saul si sistemassero a bordo e, dosando attentamente il pedale, condussi il furgone fino al garage.
Per qualche secondo sudai freddo. Per arrivare da Duff e recuperare l’ultimo carico dovevamo per forza are sotto la finestra illuminata della camera di Antony.
Per fortuna non ci fu nessun intoppo, ma non ero tranquillo, a differenza dei miei compagni; un po’ per i postumi del fumo, un po’ per l’emozione del furto, Axl e Saul erano su di giri.
I freni fischiarono appena, il furgone si arrestò. Duff aveva scollegato gli amplificatori dall’impianto elettrico e aspettava il nostro aiuto per caricare i bestioni a bordo.
“Ci esploderanno le orecchie, ragazzi. Vi rendete conto? Cazzo, non vedo l’ora!”
“Io devo ancora capire come fa quello stronzo a non saltare in aria quando suona in questo buco di garage”.
L’eccitazione iniziò a coinvolgere anche me. Fargliela ad Antony sotto il naso era il massimo! Non tanto per il furto in sé (lui comprava strumentazione come se fosse la spesa giornaliera al supermercato), ma l'essere lì a sua insaputa ci pompava ondate di adrenalina mai provate prima.
La parte più delicata della prima fase del piano stava per concludersi senza grossi problemi. Gli amplificatori erano sul furgone, non ci restava che partire senza essere scoperti.
“Ragazzi, i amontagna adesso potete toglierli” dissi, oltreando per la seconda volta la finestra del nostro carissimo nemico. “Come fate a respirare con quei cosi sulla faccia?”
“Cazzo se hai ragione, Matt, ecco perché sudavo come un porco. Mi suda anche il culo... sarà la tensione” esclamò Duff divertito.
Ridemmo di gusto, esultando per l’impresa. Ci avremmo pure guadagnato strumenti nuovi da far modificare.
Ma fu mentre superavamo il cancello e uscivamo dai confini della villa che nello specchietto retrovisore colsi l’immagine di Antony. Era affacciato alla finestra e giurai d’averlo visto sorridere. Fui il solo ad accorgermene.
Continuai a guidare, rifugiandomi nel silenzio…
… fino a quando non notarono in me qualcosa di strano.
“Perché stai zitto zitto? Se non parli ti rutto in faccia per il resto del viaggio” minacciò Duff.
“Non nascondercelo se hai qualche problema” rincarò Axl.
Continuai a starmene in silenzio.
Saul era l’unico a non badare a me; messaggiava al cellulare con la testa evidentemente altrove. Come dagli torto; aveva una discreta quantità di ragazze disposte a tutto pur di strappargli un appuntamento.
Fuori dalla villa fermai il furgone per farmi dare il cambio alla guida. Duff -per quanto inaffidabile- avrebbe preso il mio posto, mentre io sarei ritornato in macchina.
Scendemmo tutti dal furgone. La visibilità in quel punto era ancora scarsa a causa della nebbia. Solo trovandomi a un palmo di distanza dalla macchina di mia madre mi accorsi dei finestrini rotti, delle ruote bucate e della fiancata sfregiata.
“Bello, ma che diavolo...”
“Porca vacca!”
“Merda!”
...
“Ci hanno pure messo la firma” feci notare a denti stretti indicando il parabrezza anteriore: “Antony & C. Boys” a lettere viola spruzzate con una bomboletta.
“Stronzi, figli di puttana!”
Con rabbia, riuscii a trovare le espressioni di Duff perfettamente adeguate al momento. Ma ovvio! Ad Antony non importava degli strumenti, voleva soltanto umiliarci ancora una volta! Ma come aveva fatto a scoprirci?
“Matt... Matt, dobbiamo andare”. Axl era accanto a me con gli altri, ma la sua voce sembrava lontana, come una eco.
Cancellare la propria esistenza entrando in simbiosi con l’infinito: era quello che desideravo in quel preciso momento. Sparire nel tempo.
Risalimmo tutti sul furgone scassato. Non avevo più voglia di proseguire col piano, anche se c’era ancora la fase due da portare a termine.
Saul, che aveva finito di smanettare con il cellulare, cercò di tirarmi su col morale: “Bello, a tua madre ci penserai quando tornerai a casa. Non pensarci ora. Stai su. Ho appena sentito Roxy… cerca un compagno per il ballo. Posso metterci una buona parola, così ce la porti. È carina, sai? Ha due...”
“Saul” lo interruppi brusco stringendo la mani sul volante. “Grazie, davvero. Ma non è il momento. Vorrei solo scoprire come mai Antony ci stava aspettando. Voglio sperare che non sia stato uno di noi a spifferare tutto”.
Nessuno aprì bocca.
Così presi la mia decisione, pensando anche un po’ a Roxy e alla possibilità di accompagnarla al ballo.
Conducevo il furgone carico lontano dalla villa, guidando tra banchi di nebbia e stradine fuorimano. Mi concentravo sulla guida, tuttavia gran parte dei pensieri erano ancora rivolti alla macchina di mia madre, abbandonata e sfasciata. La voce di Duff mi riportò alla realtà, come il fischio acuto dei delle chitarre in una saletta troppo piccola. “Hai sbagliato strada, dovevamo andare di là”.
“Non ho sbagliato. Vi riporto a casa” risposi. In seguito, ci sarebbe stata la reazione animalesca di Duff. Ancora qualche secondo… ecco:
“Ma hai la merda nel cervello? Dopo che ci siamo spaccati il culo, mandi tutto all’aria perché ti girano per la macchina sfasciata di mammina? Non ho idea di come ha fatto quello a sapere del furto, ma nessuno di noi ha cantato! Non avrei voluto mai dirlo, Matt, ma sei un palle mosce! Reagisci, affronta la vecchia, ti becchi la tua fottuta punizione, ma non rovinare il piano!” immediatamente dopo un brutto sfogo era abitudine di Duff alzare il volume dell’autoradio al massimo, ma in quel caso scelse di fare qualche tiro con Axl, collassato tra strumenti e amplificatori. “Tra mezz’ora saremo a casa. Ormai è andata. Per gli strumenti decidete voi. A me non va più di continuare” annunciai ad alta voce, più a me stesso che al resto del gruppo.
Arrivammo in prossimità della zona residenziale, dove la nebbia si faceva man mano meno densa. Iniziavano a spuntare le prime abitazioni e le prime luci. Gialle, fioche, brillanti… rosse, rosse e blu lampeggianti...
“Perché rallentiamo?” bofonchiarono dal sedile posteriore.
“Polizia” risposi. “Ci fanno segno di accostare. Fumate ancora, vero?”
Rallentai fino a pochi metri dal posto di blocco. Finsi di fermarmi, poi affondai il piede sull’acceleratore. L’azione improvvisa disorientò i poliziotti. Le ruote del furgone fischiarono e schizzammo via a tutto gas.
“Ma che... ?”
“Sei andato fuori di testa, Matt?”
Tra la confusione e il rombo del motore, l’ultimo ad accorgersi della volante che avevamo alle calcagna fu Duff. “Gli sbirri ci accompagnano fino a casa?” farfugliò mezzo incosciente. Fuori dai finestrini le immagini delle case e delle strade erano un ammasso di luci in movimento. Le vibrazioni del furgone erano preoccupanti; ridotto com’era non reggeva le alte velocità, e con l’indicatore del carburante rotto avevo il terrore di fermarmi da un momento all’altro. Axl si era preoccupato di fare il pieno?
Sgommai a destra per abbandonare nuovamente il centro abitato. La polizia non mollava. Mi sorprese la freddezza con cui affrontai quell’imprevisto, e la cosa non mi dispiacque. Ero già fregato prima di incrociare il posto di blocco; un inseguimento della polizia sarebbe stata la mia ultima e più bella avventura, quindi tanto valeva viverla fino in fondo. Accesi la radio.
Goditi le luci… goditi le luci e la libertà…
Musica a palla. Velocità. Incoscienza. E una fine, prima o poi.
Track # 3
Turbo!
Duff si schiarì le idee solo quando i poliziotti iniziarono a spararci alle gomme. “Non ci accompagnano a casa! Non ci accompagnano a casa!” ripeteva con voce stridula, ancora stordito. “Matt, dove cazzo stai andando?”
“Non ne ho idea, sto cercando di seminarli” risposi calmo. Il pedale a tavoletta, le mani sudate sul volante, gli occhi puntati tra nebbia e asfalto…
“Ti conosco da una vita, Matt, ma cazzo non sono mai riuscito a capirti. Sei come il tipo di quel libro di Stefenson, lo schizzato dalla doppia personalità”.
“Stevenson. R. L. Stevenson” precisai, conscio di mettere a dura prova la pazienza del mio amico.
“Quello là!” sbraitò. “Tu sei come quel personaggio, Mr. Huid. Mi fai venire i brividi! Cazzo”.
“Si chiamava Mr. Hyde. Gran bel libro, per inciso. Cavolo, ci hanno mancato di poco!” controllai a stento una sterzata. Un proiettile aveva scheggiato il parafanghi; ne scaturì uno spruzzo di scintille rosse.
“Merdamerdamerda… MATT! Ti metti a parlare di cazzate mentre ci sparano a vista? Non voglio ritrovarmi il culo pieno di buchi! E tua madre se n’è accorta, ecco perché ti sta sempre addosso: ti controlla!”
Mi concessi un’altra risposta pacata. “Sei tu che hai tirato fuori Stevenson e Mr. Hyde”.
Non ci furono altre repliche.
L’inseguimento continuava. Controsterzai appena in tempo per evitare un fossato. “Axl, ma da quanto tempo non cambiate le gomme al furgone?” gridai, ma non mi aspettavo che il mio amico rispondesse, alle prese col fumo.
La musica rendeva tutto più elettrizzante. Mi lasciai trasportare dal brivido della velocità. Era più forte di me. Duff aveva ragione? Ero davvero come Mr. Hyde?
Finita la canzone, alla radio iniziarono a are gli interventi divertiti di un certo Benny Diesis a proposito delle battle rock del prossimo Torneo.
Nel frattempo la volante continuava a tallonarci. Con la guida facevo il possibile, ma tra quel trabiccolo scassato e l’alta velocità rischiavamo a ogni metro. Inchiodai, sterzando bruscamente diverse volte. Una curva era comparsa all’ultimo secondo; gli strumenti andarono a sbattere contro la parete di metallo del furbone. Sudai freddo, pensando per un attimo alle delicate valvole degli amplificatori.
Grattando il cambio riuscii a innestare la marcia e ripartire a razzo. Anche la volante sterzò all’improvviso, ristabilendo le distanze con il furgone a gas aperto.
Dopo altri spari e urla stridule di Duff, i poliziotti iniziarono a rallentare e a chiudere il fuoco. Dallo specchietto alla mia sinistra intravidi i contorni blu e rossi della volante tenersi a una ventina di metri di distanza.
Saul si sporse imprudentemente dal finestrino. Un’improvvisa ventata gelata irruppe nell’abitacolo. “Ci ritroveremo macchine della polizia ovunque se non facciamo qualcosa. Stanno chiamando rinforzi”.
“Spero proprio di no. Almeno hanno smesso di spararci” risposi. Avevo assunto un tono così disteso da far paura persino a me stesso. Un sangue freddo che sentivo quasi estraneo al mio corpo. Saul non disse altro, chiuse il finestrino e si risistemò tra la strumentazione e i fumi di Axl.
Avevamo appena raggiunto il centro abitato. Le strade ritornarono scure e isolate. Fui costretto a rallentare per la foschia, alternando brusche accelerate in prossimità delle zone meno nebulose per continuare a tenere a debita distanza i poliziotti.
“Dove siamo?” chiese Duff. Aveva iniziato a mordicchiarsi le unghie.
“Da qualche parte” risposi.
“Che cazzo di risposta è? E abbassa il volume, mi innervosisce”.
Picks! Speed! Turbo!
Oh! Fuck! Gas! Brakes!
Abbassai il volume della musica osservando la volante nello specchietto. “Solo perché non voglio alimentare discussioni” risposi. “Tu mi hai dato addosso quando ti ho chiesto di farlo perché avevo mal di testa”.
“Che cazzo c’entra? Io non mi lagno. E avere mal di testa non vuol dire che devi abbassare il volume. Prendi me, per esempio; quando mi viene me lo faccio are sparandomi musica a tutto volume con le cuffie”.
Decisi di ignorare Duff. Non sapevo dove eravamo. Be’, ci eravamo persi di sicuro perché non avevo mai visto quelle case lì sulla strada, o più in là quelle luci di un aeroporto (abbandonato, pareva) ma in quel momento non mi importava.
La prospettiva di finire in carcere ed essere punito fino alla fine dei miei giorni mi rendeva infelice; avrei perso gli anni migliori. Perché mi ero lasciato coinvolgere? Avevo forzato un posto di blocco e ora ero inseguito dalla polizia. Oh, mio Dio! L’inseguimento e il furto valevano davvero una vita? Erano davvero meglio di una...
“Scopata! Davvero te la sei scopata?”
“Sì… DuFf. PERché dovREi dire… CaZzaTe? Una cosa… peR un’altra?”
“Perché sei fumato fino agli occhi?”
Parlottavano sul retro, Axl e Duff, che aveva abbandonato il posto accanto al guidatore. Li ascoltavo per non dover pensare a quanto triste sarebbe stata la mia vita da lì a… molto presto.
La voce di Axl tornò per un attimo normale. “Lo abbiamo fatto a casa sua. I genitori erano fuori, lei mi ha chiamato mentre guardavo la tivù in camera mia. Mi ha chiesto se ero libero, così nel giro di cinque minuti ero da lei”.
“Abita dall’altra parte della città, come hai fatto ad arrivare da lei in cinque minuti?”
“Uhm. Saranno stati dieci?”
Imboccando un viale alberato mi accorsi che la volante aveva smesso di seguirci ed era sparita (“Cazzo, dove sono andati?” urlava Duff ogni tanto spiando fuori dai finestrini). Potevamo aspettarci di essere fermati e arrestati all’improvviso. Un posto di blocco, un altro… un’imboscata, armi puntate addosso… mani in alto, manette ai polsi! Nel freddo di quel pezzo di universo sperduto.
La tragedia si arricchì di altra sfiga quando una nube di fumo bianco investì il parabrezza. Il furgone ci abbandonò.
“I pistoni sono andati” disse Duff amaramente.
“Spero ritornino” sghignazzò Axl da dietro.
Tranne Axl scendemmo tutti per controllare se era possibile fare qualcosa. Ma il fumo continuava ad addensarsi, confondendosi con la foschia circostante.
“E ora che facciamo, bello?” chiese Saul. “Siamo nella merda, tanto vale costituirsi”
“Non cambierebbe nulla. Ma hai detto bene, siamo fregati” risposi tristemente.
“Sei tu che hai voluto metterci nei casini. Potevi fermarti a quel posto di blocco, bello. Che so, magari gli sbirri non si sarebbero accorti della strumentazione. Che so, magari ci avrebbero solo chiesto le solite stronzate e lasciati andare”.
“Saul, quel posto di blocco aspettava noi! È stato Antony a chiamare la polizia, lo capisci? Si è divertito alle nostre spalle, ha sfasciato la macchina di mia madre ed è quasi riuscito a farci arrestare. La polizia è sulle nostre tracce. Ho agito di impulso, d’accordo? Speravo di farcela”.
“Quindi?”
“Quindi niente. Tu cosa proponi?”
Folgorato da un’illuminazione intervenne Duff, puntando il dito oltre il viale alberato, dove la notte era ancora più nera. “Ragazzi, laggiù vedo delle luci”.
Dopo il furto, abbandonare gli amplificatori nel mezzo del bosco ci fece sentire quattro idioti totali. Anzi tre, perché Axl era collassato in un mondo tutto suo, nel trabiccolo del padre. Lasciare gli strumenti lì, dopo aver rischiato la pelle, solo per spingere il furgone fino a quelle luci, tentare di ripararlo e cercare aiuto...
“Ce li riprenderemo” sentenziò addolorato Duff. Continuò a ripeterlo per altre tre o quattro volte con lo stesso tono monotono.
Ci separammo dalla strumentazione, abbandonandola sotto le radici di un albero come roba vecchia. Che dolore al cuore; troppo pesante da sopportare, troppo pesante da spingere fino alle luci, per minuti e minuti...
... le luci di una villa. La villa... la nostra villa... la seconda parte del piano!
“Un colpo di culo!” commentò Saul. “Bello, sei sicuro che non sapevi dove stavi andando?”
Tirai il freno a mano del furgone. “Abbastanza sicuro” risposi.
Solo i nostri respiri affannati rompevano il silenzio circostante. Non avevo pensieri; la stanchezza li aveva tutti quanti assorbiti. Gambe e piedi mi dolevano, e il sudore mi colava sugli occhi.
Ritornai lucido. Era da non crederci, ma ce l’avevamo proprio di fronte. L’inseguimento, le strade sconosciute, la nebbia e le pallottole ci avevamo condotto al luogo che dovevamo raggiungere: B. House.
Track # 4
Mrs Hate & Mr Love
“Non notate niente di strano?” mi ritrovai così ad attirare l’attenzione dei miei amici. Saul mi guardò con la stessa espressione di quando aveva il cellulare scarico e scosse la testa.
“Duff?”
“Strano cosa? Che c’è, Matt? Parla!”
Sospirai. “Avanti, ragazzi… le luci! Prima non c’erano”.
In tutte le perlustrazioni compiute nelle ultime settimane quelle luci non c’erano mai state. Avevamo scelto B. House come nascondiglio proprio perché credevamo fosse isolata e disabitata; nessuno si sarebbe mai avvicinato.
L’entusiasmo si dissolse nell’aria umida. Desiderai non aver detto nulla. Cercai comunque di mantenere la calma e riflettere. “La strada che abbiamo sempre percorso per arrivare al cancello d’ingresso è sul lato opposto” spiegai osservando i dintorni. “Siamo sbucati sul retro della villa”.
I miei amici osservavano ancora le luci. Saul fece un o indietro, circospetto.
Non volevo starmene lì a fare ipotesi dopo tutto quello che avevamo ato. Se c’era davvero qualcuno nella villa quel qualcuno poteva aiutarci. “Bussiamo” dissi.
“Mai sei scemo?” esclamò Duff, sbracciandosi e facendo anche lui un o indietro. “Prima te la fai addosso e poi vai ad ammazzarti? Cioè, e se fosse una presenza? Gli spiriti dei morti... oh, cazzo, mi si rizzano i peli sul culo”.
Mi feci avanti, spingendo Saul e Duff a seguirmi verso l’entrata della villa. “Se restassimo qui non cambierebbe granché”.
Ci allontanammo dal furgone per avvicinarci a i lenti alla porta.
B. House splendeva come la luna. Le candide pareti esterne spiccavano nelle tenebre del giardino. La villa aveva uno stile raffinato e semplice, un solo piano e grandi vetrate per ogni lato, coperte da spesse tende che nascondevano gli interni. Sorgeva su una collinetta, al limitare di un bosco.
“Le luci accese corrispondono alla cucina e alla sala da pranzo” stabilì Duff.
“Come fai a dirlo?” chiese Saul che non sembrava dello stesso avviso.
“L’odore del fumo che esce dal camino”.
“Ah. E la sala da pranzo?”
“È la parte della villa con le vetrate più larghe. Di solito è così”.
Saul lo squadrò come se sospettasse qualcosa. “Duff?”
“Che vuoi?”
“Tutto bene?”
“Bene”.
Chiusa la breve disquisizione, riprendemmo a camminare e ad avvicinarci, sempre a piccoli i, all’ingresso. Chi o cosa avremmo trovato nella villa?
“Speriamo di trovare qualcuno che ci aiuti”. Mi sentivo teso, eccitato. I battiti accelerati del cuore facevano vibrare le vene.
“No, Matt, non spero un bel cazzo di niente. E sai perché? Perché siamo troppo sfigati! Era andato tutto troppo liscio”.
“Scusa se mi ripeto, bello, ma dovevamo fermarci a quel posto di blocco” disse Saul a voce bassa alle mie spalle.
Arrivati quasi sotto la porta della villa iniziai a riconsiderare l’idea di chiedere soccorso. E se si trattava di un’imboscata di Antony? Stavo per tirarmi indietro. Mille congetture mi bloccavano.
“Tutto andrà bene” dissi. “Tutto andrà bene. Troveremo qualcuno che ci aiuterà a sistemare il furgone, torneremo a casa e non penseremo più a rubare un bel niente. Tutto andrà bene” ripetei, cercando di convincere il mio subconscio in tempesta.
“È più facile che tua madre si faccia impiantare un uccello artificiale”.
“Volgare e schifoso, bello, ma devo darti ragione” fu la risposta di Saul.
Eravamo vicinissimi alla porta. Nonostante le luci e il fumo dall’interno della villa non sembrava provenire alcun suono.
Finalmente bussammo.
Le luci si spensero.
Rumore di i.
La porta si aprì.
“Buonasera” intonò una voce melliflua. “Siete qui per il tè?”
L’uomo davanti a noi era alto e magro, i capelli lunghi e grigi tirati all’indietro. Il viso era smunto e pieno di rughe, sottile e poco curato, come le mani, dalle dita scheletriche.
Ecco, toccava a me parlare. Inspirai forte e cercai di recitare la mia parte. “No, signore” risposi balbettando. La voce che uscì dalla bocca non aveva nulla a che vedere con il mio tono abituale. Sillabe ciancicate, come un ubriaco al mattino presto alle prese col dopo sbronza.
Inspirai profondamente per la seconda volta, voltandomi per controllare se Saul e Duff erano ancora alle mie spalle. “Non siamo qui per il tè, signore. Abbiamo avuto problemi con il nostro furgone e ci chiedevamo… ecco, insomma, ci chiedevamo se poteva aiutarci in qualche modo. Lei abita qui?”
L’uomo abbozzò un sorriso. “Abito qui” rispose. “Sono ritornato oggi da una... vacanza, diciamo”. Il sorriso si allargò. “Non preoccupatevi, ragazzi, penserò io al furgone. Ma prima entrate, vi prego. Rilassiamoci un po’. Gradireste un pezzo di torta? L’ho appena fatta”.
Saul prese coraggio e si fece avanti. “Senta, bello, avremmo una certa urgenza. Vorremmo ritornare a casa prima che faccia luce”.
“Capisco” rispose l’uomo. Il sorriso si spense immediatamente e gli angoli della bocca si curvarono all’ingiù. “Bene, allora. Aspettate qui, torno dentro a
prendere… qualche attrezzo”.
L’uomo si girò di spalle e fu inghiottito dopo pochi i dall’oscurità della casa. La porta rimase socchiusa. Ci guardammo l’un l’altro, aspettando.
“Secondo voi è pazzo?” chiese Saul.
“Non me ne frega un cazzo se è fuori di testa o no” rispose Duff sicuro. “Per me può anche essere un serial killer o quello che volete. Se ci aiuta a sistemare il furgone è a posto”.
“Spero almeno che sappia tenere in mano una chiave. Ma l’avete visto?” ero scettico, ma che altro potevamo fare? Cercai di non pensare al fatto che se avesse davvero riparato il furgone Duff lo avrebbe riempito di baci.
Dopo un po’ la porta di B. House si riaprì. “Eccomi, ragazzi” fece il vecchio. “Dov’è il furgone?”
Stringeva una chiave inglese in mano e una tazza di tè nell’altra. Lo accompagnammo fino al nostro catorcio. “Eccolo qui” dissi osservando il furgone. I nostri guai non erano nemmeno cominciati.
Successe che nel vano posteriore non trovammo più Axl che dormiva.
Duff digrignò i denti come un cane rabbioso. “E ora dove cazzo è andato?”
spinse nervosamente l’anta cigolante del veicolo, imprecando contro il nostro vocalist. Dopo cinque minuti buoni di panico totale cercammo di calmarci e pensare a cosa fare.
“Avrà fatto il giro opposto della villa mentre noi tornavamo qui” dissi speranzoso. L’uomo con la chiave inglese non parlò, evitando qualsiasi reazione. Era immerso a capofitto nel cofano. Armeggiava sul motore, la tazza di tè appoggiata sul paraurti mezzo sfasciato.
“Signore, noi torniamo indietro a cercare il nostro amico” lo avvisai, e senza aspettare una risposta tornammo all’ingresso della villa. Ma non mi aspettavo di trovare lì Axl, che in effetti non c’era.
“E se fosse da qualche parte a pisciare?” disse Duff. “Tipo nel bosco”.
“Può essere ovunque” risposi, nel momento in cui notavo la porta della villa ancora socchiusa.
Non l’avrei fatto in altre circostanze, ma si trattava di Axl e non potevamo lasciarlo in giro ubriaco e fatto. D’altra parte eravamo già nei casini; dovevamo ritrovarlo il prima possibile.
Lentamente aprii la porta. Feci segno a Saul e Duff di seguirmi. Mi fissarono come a dire “ma sei pazzo?”
“Volete trovare Axl e andare via, sì o no?”
Saul -e Duff si dichiarò d’accordo con lui- disse che no, Axl poteva anche perdersi e non essere più ritrovato, finire catturato da qualche creatura strana, o da un assassino, o rapito dagli extraterrestri.
“Ok, allora se non volete seguirmi aspettatemi qui”.
Si guardarono in faccia. “In effetti” riprese Saul, “meglio dentro che fuori con quel tizio. Duff?”
“Vai avanti, ti seguo”.
La casa era buia e completamente silenziosa. Sentii le pupille adattarsi a quell’oscurità. Dopo qualche piccolo o percepii il profumo dolce e cremoso della torta mischiato alla puzza di chiuso e muffa.
ZZZTTT!
“Mi vibra il cellulare, ragazzi. È Megan! Scusate ma a lei devo proprio rispondere. Ho saputo che... Megan! Ma ciao!”
Un classico di Saul; ricevere telefonate nei momenti meno opportuni. La voce di Megan, che suonava metallica grazie all’effetto del cellulare, si sovrappose a un’altra, più vicina e inumana. Così, all’improvviso. La percepivo lontana, come filtrata da un’apparecchiatura.
Tastando al buio trovai finalmente un interruttore. L’ambiente si illuminò, scoprendo mobili vecchi e marci, quadri sbiaditi e pareti ingiallite…
“Proprio come le case infestate dai fantasmi di quel programma della domenica sera” disse Duff.
Un brivido di paura mi punse all’improvviso al collo, scendendo poi lungo la schiena. Drizzai le orecchie. “Il rumore sembra provenire dal salotto”.
Saul continuava a parlare con Megan al cellulare, rapito dalla conversazione. Si era isolato nel suo habitat naturale, ed era l’unico che non se la stava facendo nei pantaloni.
“Matt, amico. Perché non torniamo indietro?”
“Lo vorrei tanto, Duff. Giuro. Ma dobbiamo trovare Axl. Dobbiamo proprio. Davvero vorresti che si perdesse? Tutto questo non sarebbe successo se non avessi accettato di prendere parte al furto, mi spiace ripetermi. Ma ora andiamo avanti e… speriamo in bene, d’accordo?”
“Come dici tu. Va bene, andiamo”.
Parlavamo con un filo di voce, mentre le frasi inopportune, allegre ed equivoche di Saul al telefono continuavano ad accavallarsi al suono incomprensibile che giungeva dal salone da pranzo.
Cauti, entrammo nella stanza. Su un divanetto scuro e ammuffito, dandoci le spalle, due persone guardavano il televisore, i contorni messi in evidenza dalla luce artificiale dello schermo.
Duff si rasserenò e mi tranquillizzai anch’io; era solo la tivù accesa. Trasmettevano un quiz a premi. I signori erano immobili e stretti uno accanto all’altro. Guardai meglio: un uomo e una donna, due anziani.
Duff segnalò la nostra presenza. “Ehm… oh? Cerchiamo il nostro amico Axl”.
Rimanemmo fermi al centro della stanza, a metà strada tra il divanetto e la porta del salone da pranzo. Saul aveva finito la chiacchierata con Megan ed era ritornato tra noi. “Scusate, ma dovevo. Allora” disse ricomponendosi, “questi chi sono?”
Già, chi erano? Un altro brutto presentimento.
“Non rispondono” disse Duff, aggiustandosi lo zuccotto in testa.
La tensione riprese a farsi strada nelle nostre menti.
“Saranno sordi? Magari se urlo nelle orecchie riescono a sentire qualcosa”. Saul si avvicinò al divanetto.
L’urlo ci fu. Agghiacciante, di paura.
Fissai Saul, impietrito di fronte al divano, i bei lineamenti del viso deformati.
And I am not frightened of dying, any time will do,
I don't mind. Why should I be frightened of dying?
There is no reason for it, you've gotta go sometime.
I never said I was frightened of dying.
Avevano uno squarcio profondo nello stomaco, gli occhi sbarrati con le pupille rivoltate, la pelle del viso violacea. Si stringevano per mano. I vestiti erano coperti del loro stesso sangue, colato fino ai piedi del divanetto.
“Carissimi” disse una voce alle nostre spalle.
“Vi presento la signora Love e il signor Hate”.
Con la chiave inglese penzoloni, il vecchio della villa era immobile all’entrata della sala e sorrideva. “Voi ragazzi siete tutti uguali” ci canzonò con una voce diversa da quella che ci aveva accolto poco prima. Più roca, più spenta.
“Sempre a mettere il naso dove non dovreste, vero? Ma non andrete lontano. Tra qualche minuto farete compagnia ai vecchietti. Ve lo assicuro” aggiunse senza smettere di sorridere.
Portò alle labbra la tazza di tè che stringeva nell’altra mano. Mandò giù l’ultimo sorso, poi gettò la tazza per terra che andò in frantumi. La chiave inglese faceva molta più paura in quel momento, stretta nelle mani scheletriche dell’uomo. “Per voi niente buchi nello stomaco. Aprirò le vostre teste. Ho la chiave”.
Track #5
Holy Guitar
Facendo affidamento su tutte le sue forze, il vecchio, in quel momento più “vecchiaccio” di quanto già non apparisse, ci puntava addosso la chiave inglese. Grottesco, eh? Lo era, lo giuro. Guardare negli occhi la morte mentre mamma tivù getta bagliori sull’arma del tuo assassino non può essere altro. Una gran parata di eventi assurdi ci avevano condotti in quel salottino ammuffito, in compagnia di due cadaveri e della voce del presentatore del quiz a premi che urlava “Risposta esatta! Il jackpot è sbancato!”
Soli. Lontano da casa. Quando le nostre famiglie si fossero accorte della nostra assenza probabilmente sarebbe stato già troppo tardi; noi morti qui, agonizzanti in un lago di sangue a esalare gli ultimi respiri, loro fuori a cercarci.
Però eravamo in tre contro uno.
Tre… contro un vecchio che a malapena riusciva a tenere in mano la chiave inglese con cui ci minacciava. Oh no, non avremmo fatto da cavie per i suoi sadici giochetti!
In qualche modo i miei pensieri furono simili a quelli di Duff e Saul, perché nello stesso istante saltammo addosso al vecchio, prendendolo alla sprovvista.
La chiave inglese cadde sul pavimento.
“… E ora tocca al concorrente numero sedici!”
Il folle cadde all’indietro, ansimando e cercando di divincolarsi.
“Stronzo, che cazzo volevi farci?” la voce di Duff tremava appena. Immobilizzammo il vecchio non prima di averlo riempito di pugni e testate.
Lo sfogo ò subito. “Dov’è il telefono? Io chiamo gli sbirri” disse Duff ansando.
“Ma siamo ricercati!” gli urlai contro, mentre lottavo per tenere ferme le mani del vecchio.
“Ah, già. Allora come non detto” rispose il mio amico in evidente stato confusionale. Nella zuffa il vecchio era riuscito a sferrargli un pugno tra l’orecchio e la mascella.
Saul bloccava le gambe del nostro aggressore, ma ancora una volta fu risucchiato dal vortice della comunicazione mobile. “Un messaggio da Rebecca!” nel momento in cui cercò di prendere il cellulare dalla tasca il killer ne approfittò per divincolarsi.
Sentii le sue dita ossute graffiarmi il collo, l’alito dolciastro. Duff si beccò uno sputo in faccia e il vecchio ne approfittò per svignarsela dalla sala da pranzo. Lo vedemmo barcollare nella penombra del corridoio, dimenando braccia e gambe
per mantenere l’equilibrio. Urlava parole senza senso, forse per lo shock, pensai. Anche lui se l’era vista brutta.
Io e Duff ci gettammo subito all’inseguimento, ma era troppo tardi. Privo di ogni controllo, il vecchio si lanciò fuori da B. House continuando a urlare. Tra le frasi che ululava come un alcolizzato riuscii a comprendere parole come “sangue”, “pagare” e “morte”.
Poi sparì nella notte.
Con Duff rimanemmo a fissare il bosco oltre il perimetro della villa. Debito di sangue? Che cavolata.
A testa bassa ritornammo dentro.
“Maledizione” sbottò Duff. “Sempre a smanettare con quel cazzo di coso! L’abbiamo perso!”
“Mi spiace, belli, ma Rebecca…”
“Me ne sbatto di Rebecca, me ne sbatto di Megan e di tutte le altre!” gridava Duff. “Sembri mio nonno con i pornazzi in bagno! Per un pezzo di fica venderesti l’anima al diavolo?”
A Saul convenne non rispondere, e mentre Duff gli urlava contro aveva ricevuto
un altro messaggio.
“Siamo fregati” dissi, interrompendo le grida. “Quel tipo era proprio fuori. E dei cadaveri che ne facciamo?” non riuscivo a smettere di fissarli, nonostante lo stomaco sottosopra. Uniti anche nella morte.
Saul ricacciò il cellulare in tasca. “Quando ci beccheranno racconteremo dell’assassino pazzo agli sbirri e di questi vecchietti innamorati morti stecchiti. Dovremmo assicurarci uno sconto della pena, non trovate? A proposito, quanti anni credete ci daranno?”
Uno sconto della pena? Dovevamo giustificare un bel po’ di cose. Credere in una 'serie di sfortunati eventi' non era da me, ma arrivati a quel punto, credere nell’impossibile era quasi diventato un riflesso incondizionato. “Io mi chiederei il perché della fuga improvvisa del vecchio. Voleva ucciderci, poi ha cambiato idea?”
“Bello, era uno psicopatico! Perché vuoi che l’abbia fatto? Gli sarà venuta la cacarella quando lo abbiamo disarmato” rispose Saul alzando le spalle come se fosse la spiegazione più logica del mondo. “Ora perché non continuiamo a cercare Axl? L’odore di questi cadaveri inizia a farsi sentire. Voi non lo sentite o è solo una mia impressione? Oh, merda merdissima!”
Qualcuno gridò. Era l’inconfondibile voce del nostro amico disperso.
Eravamo certi che si trovasse all’interno di B. House, ma del nostro cantante non c’era traccia da nessuna parte. Rovistammo ogni stanza, mettendo a soqquadro ogni angolo della villa, accendendo lampade e lampadari ancora funzionanti.
C’erano diverse stanze vuote, in cui l’eco dei nostri respiri si faceva più intenso; angoli di camere dimesse che alteravano le voci, facendole diventare simili a lamenti. In alcuni punti la carta da parati era staccata o consumata -incollata, sembrava-, a copertura delle pareti originarie. Non indagai.
“AXL! Dove sei, stronzo? Nasconditi, perché se ti trovo…”
“Lo stiamo cercando perché è già nascosto, Duff”.
Il mio amico reagiva sempre allo stesso modo, la sua sfera emotiva si manifestava sempre con l’“incazzatura”. Quando era triste si incazzava; quando era contento si “incazzava dalla gioia”, ci aveva spiegato una volta; e quando era spaventato si incazzava come una bestia.
“Ho trovato qualcosa qui!” era Saul.
A tentoni lo raggiunsi. Arrivò anche Duff, ricoperto di polvere e ragnatele.
Scoprimmo un vecchio stanzino. Saul era lì. Una volta messo piede all’interno notai un poster ingiallito con su scritto Houses of the Holy che riempiva quasi interamente una parete; in calce all’immagine comparivano delle firme: lettere consumate dalla muffa, nomi incomprensibili. Sulla sinistra erano appesi alcuni dischi d’oro e di platino più vari riconoscimenti. In un angolo, come illuminata da una luce ultraterrena, giaceva un’autentica chitarra elettrica a corpo pieno con forma a otto; il classico modello dei mostri sacri del Rock ‘n’ Roll, color miele fiammante.
L’ammirammo. Saul in particolare era rimasto immobile a fissarla e quasi certamente non si era accorto di essersi messo in ginocchio per adorare lo strumento come se stesse pregando in uno stato di trance. “Ragazzi, è...”
“Meravigliosa?” suggerì Duff sottovoce, in segno di rispetto per lo strumento davanti ai suoi occhi.
“No…”
“Incantevole?”
“No…”
“Allora impolverata!”
“No” ripeté Saul per la terza volta. “È SANTA!” gridò, con tanto di occhi spiritati. Iniziò poi a colloquiare con lo strumento. “Il destino ha voluto che ci incontrassimo. Oh, come te le suonerei quelle corde”. E a quel punto baciò la paletta della chitarra, sfiorandola appena con le labbra.
Nemmeno il sapore della polvere lo riportò con i piedi per terra. Sembrava uno zombi. Gli capitava in alcuni momenti particolari. La prima volta che lo avevo visto in quello stato era stato al compleanno di Mary, una compagna di scuola, l’unica ragazza che fino a quel momento era stata capace di rendere Saul timido, goffo e tutt’altro che loquace… uno zerbino, in poche parole. E la stessa cosa succedeva quando si ritrovava davanti a una bella chitarra.
Non si scompose neppure quando un suono gutturale fece sobbalzare me e Duff. Seguì un brutto tonfo.
TUM!
“Cos’è stato?”
“È qui dentro” risposi. “Axl, sei tu?”
La mano bianchiccia del nostro cantante spuntò da un ammasso di abiti vecchi: un armadio a muro zeppo di vestiti da palcoscenico apparve come per incanto nella semioscurità. Mi feci largo tra la stoffa puzzolente e le nuvolette di polvere, respirando aria stantia. Duff mi aiutava imprecando.
“Sniffavi polvere, stronzo? Ti abbiamo cercato ovunque. Un vecchio schifoso stava pure per sfondarci la testa con una chiave! Rimarrai un cazzone a vita. Lo sono anch’io, ma tu mi superi, dannato vocalist! Ti auguro di morire di intossicazione da polvere, figlio di...”
“Spicciati, Duff. Che palle!” gridai seccato.
“Ehi! Non dire 'che palle' a me, palle mosce!”
Lasciai cadere lì la provocazione, augurandomi che la rabbia di Duff sbollisse un po’. Mi occupai invece di Axl. Era raggomitolato come un gatto ammalato tra gli abiti muffiti, gli occhi semichiusi. “InDo… ViNA chI è UbriA-co?” urlò a un tratto alzando un pugno in segno di vittoria.
“Immagino Axl” lo assecondai.
“BraVo MaTT! HaI Vin-To una sCatoLa di preSerVaTI-vi!”
Preservativi a parte, almeno mi aveva riconosciuto. “Mi fa piacere. Ma puzzi di vodka. Non te la sarai versata addosso?” l’odore era tremendo, ma per fortuna non era vomito.
“Possiamo dargli fuoco e mescolare le ceneri con tutta questa polvere” suggerì Duff a pugni chiusi.
“Aiutami ad alzarlo” replicai, fingendo di non aver sentito. Bastò a fargli capire che stava esagerando. Sollevammo Axl per le braccia, estraendolo prima dal guardaroba e poi dallo stanzino. La testa gli ciondolava sul petto. Mi tornarono in mente i cadaveri in salotto.
“Come va?” chiese Duff.
Axl rispose “bene” con un filo di voce, tipo un fischio, accennando un sorriso di sbieco. Sorrise anche Duff.
Mentre la scena romantica tra i due andava avanti, io rientrai nello stanzino per recuperare l’altro 'disperso' del gruppo. “Saul, ci sei?”
“SANTA!”
Mi avvicinai lentamente, evitando movimenti bruschi. Dovevo interrompere quel mantra folle. Riammirai brevemente i premi e i poster appesi alle pareti. Provai quindi a distrarre Saul frapponendomi tra lui e la chitarra, ma continuava a ripetere “santa” a intervalli regolari.
“Oh!” chiamò Duff, seguito da Axl che finalmente aveva ripreso conoscenza. “Axl qui dice di aver trovato qualcosa nel guardaroba”.
I due rientrarono a piccoli i nello stanzino. Il viso sconvolto del nostro cantante somigliava a un Picasso. “Come hai fatto a riprenderti?” chiesi.
“Duff mi ha preso a schiaffi” fece serio, poi si rivolse al compagno. “Grazie, amico. Ha funzionato. Senza di te starei ancora… ancora… non so cosa, ma starei”.
“Naaa!” fece Duff con un gesto della mano. “È stato un piacere”.
Tra la polvere e il vecchiume Axl indicò un pannello scorrevole.
“Come l’hai scoperto?”
“Ricordo… anche se non ne sono sicuro, di essermi ritrovato in una stanza… come una sala di registrazione. Ricordo solo di essere uscito dal furgone, poi eccomi nella saletta. Poi niente. Così. Dopo non so… mi avete trovato. Sono qui”.
Finito il breve resoconto Axl fece scorrere il pannello, rivelando un aggio. Qualche spiffero d’aria ed ecco una rampa di scale che si perdeva nel buio della fondamenta.
“Volete scendere lì? Cioè, non ne avete abbastanza?” ero esausto.
“Matt-palle-mosce, io direi di fare un giro lì sotto. Ormai siamo soli, possiamo fare quello che ci pare. Hai paura?”
“No” mentii.
“Solo un’occhiata, dai. Qualcosa mi dice che questo stanzino è l’entrata del paradiso! Fottiamocene un attimo di questa storia. Siamo già mezzi fregati, che abbiamo da perdere, no?”
“Come sei poetico, Duff. Vorrei solo evitare altri cadaveri e squilibrati mentali”.
Duff cercò sostegno in Axl. “Amico? Non ci costa nulla, vero?”
“Solo un’occhiata. Credo ne varrà la pena”.
Track # 6
Ragazze bollenti
BANG!
Il rumore di uno sparo. Subito dopo una voce amplificata artificialmente penetrò di prepotenza nei nostri cervelli: “Venite fuori con le mani in alto! Non fate mosse false o aggraverete la situazione!”
La polizia aveva circondato B. House. Ci aspettavano.
Immaginai molto vividamente la sensazione del metallo freddo ai polsi e delle mani dei poliziotti che mi spingevano nella volante.
Consegnarci era un'opzione. Forse era la cosa migliore per non peggiorare la nostra posizione, ma se c’era una possibilità di fuga…
Chi non avrebbe fatto lo stesso? Non è vero?... Vero?
Ci spingemmo frettolosamente nel aggio segreto pieni di speranza. Una volta dentro richiudemmo in fretta il pannello arrugginito per riaprirlo subito dopo; ci eravamo dimenticati di Saul, ancora imbambolato di fronte alla chitarra.
“Il destino ci ha uniti!” strepitava mentre lo trascinavamo nel nascondiglio. “Ci ha uniti! Non potete infrangere il mio sogno… Il mio sogno! Amore mio! Te le devo suonare, le corde!”
“Avanti, Saul” rimbrottai. “Non era il cellulare il tuo grande amore?”
Richiudemmo il pannello. SPRANG!
Il cunicolo era basso e stretto; ci entravo a malapena, sfiorando il soffitto con la testa. L’odore di chiuso era nauseante e le pareti di pietra umide non facevano che renderlo più insopportabile.
“Siamo fuggitivi” aveva detto Axl. “Come nei film. Diventeremo famosi!”
Saul ebbe un sussulto. “Sei troppo cretino! Se non finiremo sui giornali come vittime di un omicida folle ci finiremo comunque. Come ladri, scassinatori e aggressori. Cavolo” sospirò irritato, probabilmente con i pensieri rivolti alla sua 'amata'.
Prestai attenzione ai rumori al piano di sopra. Qualche leggero zampettare, come di topolini in fuga. Poi il silenzio, e una sensazione di smarrimento, come se i miei compagni fossero spariti nell’oscurità del nascondiglio.
Arrivai quasi a credere che Duff non ci fosse più. “Duff, ci sei?” chiesi con voce fin troppo allarmata.
“Qua” mugugnò. Per l’effetto dell’eco, capii che doveva essere poco dietro di me.
Il cunicolo era basso e stretto; ci entravo a malapena, e sfioravo la parete superiore con la testa. Buio, solo buio. Sempre di più.
“Ci penso io, belli. Non sarà molto, ma meglio che brancolare”. Saul si fece largo con il cellulare in mano. Riscosso totalmente dalla trance, era ritornato sulla terra. “Un po’ di luce!” e immediatamente dopo aggiunse: “Oh [bip-bip], un messaggio!”
La galleria sotterranea appariva ancora più stretta al riverbero azzurrognolo del telefonino. Una decina di minuti dopo spuntammo nella saletta descritta da Axl. Piccola, umida, sporca. E piena di strumenti.
“Claustrofobico” commentai.
“Eh?”
“Vuol dire che questo buco fa paura, Duff” spiegai.
“Ah” mugugnò svanito. “Be’, c’hai ragione. Senza questi strumenti sembrerebbe una prigione. Strano, no? Gli sbirri ci cercano, ma noi siamo già belli e incastrati”. Rise.
Non riuscì a trattenere il malumore. “La prendi nel verso giusto. Mi fa piacere”.
“Dovrei piagnucolare come fai tu, palle mosce?”
“Se ci sbattono dentro tu non hai niente da perdere. I tuoi non si preoccuperebbero neppure. Te ne freghi, te ne sei sempre fregato! Tanto a te che te ne importa?” urlai quelle ultime parole. Ero al limite. Mi fermai a raccogliere i pensieri, per calmarmi. Invece continuai. Gli gridai addosso di tutto, in parte cose che pensavo davvero.
“Ce l’hai un cervello, Duff? Certe volte sei proprio un idiota!” il nervosismo stava prendendo il sopravvento. Lui non disse una parola, non se l’aspettava. Nessuno se lo aspettava. Cavolo, non me lo aspettavo nemmeno io.
“Andiamo, calmatevi!” intervenne Axl. “Buoni. Sentite” gesticolò con le mani come quando era alle prese con un assolo di voce. “Perché non ci facciamo tutti quanti una bella suonata? Per tranquillizzarci. Cioè, ma guardate che caspita di strumenti! Non sono da guerrieri rock del Torneo?”
Li osservai per la prima volta. Parevano fossilizzati dal tempo, o da un oscuro sortilegio. Lo spesso strato di polvere brillava alla luce debole dello schermo retroilluminato del cellulare di Saul. “Per la miseria” esclamò, “guardate qua!”
Soffiò sulla tastiera di una delle chitarre. Avevo visto simboli intagliati nel legno come segnatasti, ma non così.
“Sembrano rune” dissi, avvicinandomi per osservare meglio.
“Dune? A me sembrano quelle figure disegnate sulle palle luminose fuori dal ristorante cinese” rispose Duff.
“Rune, non dune. Per essere ideogrammi cinesi sono troppo semplici” chiarii.
Saul soffiò ancora sulla tastiera, fino al dodicesimo tasto. I simboli proseguivano per tutto il manico. “Proprio fico” giudicò ando il cellulare vicino le corde per farsi luce. “Chissà da quanto tempo sono qui. Saranno di quei tizi che abbiamo visto sul poster nello stanzino?”
“Sembrano qui da minimo una ventina d’anni” rispose Axl tamburellando con l’indice sul microfono. L’asta era incrostata di ruggine e circondata da filamenti appiccicosi. “Odio le ragnatele. Vuol dire che ci sono anche i ragni e odio i ragni” balbettò il mio amico.
“Scusa, Axl, ma non c’erano anche prima? Quando sei arrivato qui” feci notare.
“Mmm, non saprei. Prima ero ubriaco”.
“Giusto. Comunque non finirai mummificato in un bozzolo e poi mangiato da un ragno gigante, sta’ tranquillo”.
“Se lo dici tu”.
Duff giochicchiava con il volume di un amplificatore, un cassone alto più di un metro, interamente nero con inserti e scritte rosse. “Secondo voi di che anno è?”
“Trenta, quarant’anni fa. O venti. Ma anche dieci. Sicuramente è meglio del tuo ampli da quindici watt” rispose Axl allontanandosi dal microfono, schifato.
“Ormai sarà fuori produzione. Probabilmente è anche rotto” risposi. A parte le scritte sbiadite del gain e dei volumi, non era contrassegnato da nessuna marca.
Su ogni strumento erano incisi quegli strani simboli simili ad antiche rune. Segni spigolosi, color porpora. Incisi anche sui tasti scuri dei diesis di una tastiera, anch’essa impolverata. Nessuno di noi era tastierista, ma avevo imparato qualche accordo da mio padre, pianista mancato. Provai a suonare qualcosa. I tasti scricchiolarono sotto le dita. Soffi di fumo nero eruppero dalle incanalature e…
I miei amici strillarono. “Matt, che cazzo fai?”
“Che c’è? Provavo soltanto”.
“A spappolarci i timpani?”
“Cosa?”
“Cosa… Cosa?”
“Ho solo premuto dei tasti”.
“Le orecchie!”
“Ma che dite? Non c’è nemmeno corrente. Siete impazziti?”
Mi guardarono agitati e impauriti. Che diavolo stava succedendo?
“Sentite. Cerchiamo di rilassarci suonando qualcosa?” ci invitò di nuovo Axl.
Duff si innervosì. “Porca di quella vacca. Hai visto, in questo buco di merda non c’è corrente. Come ha fatto quella tastiera a…”
Gli interruttori scattarono all’improvviso. Scoppi e scintille ci investirono. Una lampada in bilico sul soffitto schiarì i contorni del posto. Ci ritrovammo sotto un cono di luce ronzante. ZZZZHH… ZZZHHH…
“Oh, m-er-dac-cia! Cioè, l’impianto elettrico funziona ancora” esclamò Axl. “Visto, bassista del mio piffero? Ora ti spiace prendere quel basso laggiù e suonare?”
“Che faccia da culo” borbottò Duff.
Se qualcuno ci stava spiando e aveva l’impianto elettrico per spaventarci (l’assassino era ritornato?) non ce ne preoccupammo. Ora potevamo provare gli strumenti. Ci avevano conquistato. O, più correttamente, stregato. Tuttavia quel momento di giubilo generale stava per costarci caro, ma alla fine della storia capirete quanto fu importante per i DRC.
C’era una canzone che ci piaceva moltissimo e che ascoltavamo fino alla nausea. Faceva così:
Portaci nella bocca dell’inferno
Dove il fuoco brucia
E le ragazze sono bollenti
Non c’erano né ragazze né fiamme infernali, ma quello che successe dopo ci sconvolse. Impugnammo gli strumenti e partì l’improvvisazione.
Collegato il jack e regolati i volumi fu Saul a iniziare. Estrasse un plettro dalla tasca dei jeans.
“Belli, qui si spacca! Riff in Mi minore. Duff, seguimi. Matt, vai col tempo!”
ONE, TWO, THREE, FOUR!
Pian piano Duff memorizzò le note e cominciò a seguire il giro della chitarra. Io davo il tempo. Il sedile imbottito della batteria era scomodissimo. Ogni colpo sulle pelli consumate disperdeva nell’aria dense nubi di polvere e detriti.
I Power Chords andavano a raffica; giri di basso potentissimi che si univano alla batteria creando un impianto ritmico incisivo, anche grazie alla voce acuta e prorompente di Axl. Sperduti nel bosco, in quella casa, sotto quella saletta, dove nessuno poteva vederci o sentirci, eravamo La Rockband Migliore Del Mondo!
Il grugno di Duff e l’espressione concentrata di Saul e Axl mi diedero ulteriore carica. La band seguiva i controtempi della batteria senza errori. L’improvvisazione si tramutò in un brano vero e proprio, degno dei grandi rocker i nostri idoli. Non pensai più a nulla se non alla musica. Già, solo alla musica.
Godevo.
Saul partì con un assolo strappalacrime che sviluppò fino a suonare fraseggi dal tono heavy. L’overdrive fischiava, scalfiva, squarciava l’aria malsana della saletta. Il plettro strideva sulle corde. Miliardi di sfumature musicali che penetravano nelle nostre orecchie e si restringevano nel petto e nella testa. La pelle d’oca dietro il collo. Il sudore. Gli occhi chiusi e il buio…
Successe in un lampo. Axl cantava di noi e della nostra ione, di sesso e di ragazze da conquistare. Per una frazione di secondo pensai a quanto sarebbe stato bello portare quella musica fuori dal sotterraneo. Le goccioline di sudore sulla fronte mi colarono sugli occhi. Li riaprii. Bruciavano. Sbattendo le palpebre misi a fuoco la scena. Sulle pareti in pietra comparivano centinaia di simboli uguali a quelli incisi sugli strumenti. La nube polverosa era scomparsa.
Nessuno se n’era accorto oltre me. Duff continuava a scuotere i lunghi capelli che spuntavano fuori dallo zuccotto, galoppando col basso. Con la chitarra dietro al collo Saul continuava l’assolo. E Axl…
Una voce disincarnata si manifestò venendo fuori dalle pareti. I simboli runici adesso brillavano come sangue caldo. Il testo della canzone cambiò. La voce iniziò a cantare di riti occulti, presagi di sventura e morte.
L’ululato di dolore che seguì ci costrinse a fermarci. Gettai le bacchette e mi allontanai di corsa dalla batteria. Saul e Duff abbandonarono la chitarra e il basso per terra. Spalla contro spalla ci unimmo al centro della saletta osservando i simboli scarlatti sussultare sulla pietra.
Mentre Axl continuava a esibirsi la voce disincarnata copriva la sua.
“Lascia il microfono, Axl! Vieni VIAAA!”
Ma un rumore di ferraglia e una luce accecante lo assorbirono nel microfono. Fu come un effetto speciale; immagini sfocate, bagliori e un casino tremendo. Poi finì all’improvviso mentre tutto attorno ritornava nitido.
Silenzio. Axl era sparito.
Track # 7
Demon
Mi risvegliai come da un incubo, sudato e con lo stomaco sottosopra.
Axl era svanito all’improvviso con un sonoro CRACK seguito da un bagliore rosso, da una tempesta di polvere e dal TUM TUM dei simboli emersi sulle pareti della saletta.
Vidi Duff e Saul stesi sul pavimento. “Ragazzi?” chiamai.
Saul aveva riaperto gli occhi. “Che è successo?” chiese, alzandosi pian piano sui gomiti.
“Quel merdoso di Axl” rispose Duff, ancora per terra. “È sparito di nuovo”.
“Voi state bene?”
“Ma certo, in splendida forma, Matt. Quasi quasi preferivo essere sbattuto in cella dagli sbirri”.
“Duff, ringrazia che sei vivo” risposi. “E che è toccato ad Axl e non a te”.
“Povero” ripeté in una perfetta imitazione della mia voce.
Ci rialzammo. La nube di polvere aveva già ripreso posto sugli strumenti e sulle pareti. I simboli scarlatti erano scomparsi, risucchiati all’interno delle pietre nere. Le chitarre e le bacchette erano rimaste dove le avevamo gettate.
“Quel vecchio la pagherà cara” disse Duff spazzolando lo zuccotto dalla polvere.
“Non credo sia colpa del vecchio, bello” rispose Saul. “È qualcosa di molto più oscuro. Hai sentito quella voce?”
Duff gli scoccò un’occhiataccia. “Vuoi spaventarmi? Se Axl è sparito davvero dentro quel microfono, allora io sono un riccone sfondato”.
“Allora trovalo”.
Duff si guardò un attimo intorno, circospetto, rimettendo lo zuccotto in testa. “Sarà qui da qualche parte, vedrai. Ecco, lo senti questo rumore? Dev’essere lo stronzo”.
Sentimmo un fracasso come di uno sciacquone, o effetto speciale di quei serial televisivi di genere thriller e fantascienza, ma chiaramente non era niente di simile.
“È INTRAPPOLATO NELLA MIA DIMENSIONE. NON LO TROVERETE MAI!”
Lo sciacquone sfumò nel silenzio, poi una voce -la stessa che aveva cantato poco prima che Axl venisse risucchiato nel microfono- parlò da un angolo buio della saletta.
Scattammo all’unisono appiattendoci contro la parete opposta. Non un fiato, né un gemito. La mente pensava ma… le parole erano bloccate da qualche parte tra gola e lingua.
A piccoli i raggiunse il centro della saletta, piazzandosi sotto il cono di luce. Era un omuncolo mezzo nudo dalla pelle rosso fuoco. Due corna nere gli spuntavano sulla fronte. L’attaccatura dei capelli corvini stretti in un codino da samurai partiva dalle tempie ossute. L’avrei preso per un buffo folletto se non fosse stato per quella voce profonda a gutturale. Sputacchiò per terra, come schifato dalla nostra presenza. Dopodiché si mise in posa, le mani ai fianchi: “Sapete chi sono io?”
“Uno spiritello schizzato?” balbettò Duff.
La creatura tremò di rabbia. “Idiota. SONO UN DEMONE!” agitò violentemente le mani, dalle unghie scure e affilate.
“Eri nel microfono?” domandò Saul quando il piccolo demone ritornò calmo.
“Nel microfono, sì. E nelle mura, tra la polvere, nell’aria… Dormivo” gracchiò, “e voi piccoli esserini bianchicci mi avete svegliato”. Stiracchiò le braccia e serrò i pugni come un bambino capriccioso.
“Tu… sei in combutta con il vecchio pazzo?” chiesi guardingo.
“Non so di cosa tu stia parlando”. Il demone sbadigliò sonoramente, mostrando una fila di denti aguzzi e neri.
“Il vecchio. Il proprietario della villa” spiegai. “Voleva ammazzarci”.
“Non lo conosco” rispose il demone, esibendosi in un secondo, disgustoso sbadiglio. La lingua era rosso fuoco come il resto del corpo. “L’unico vero proprietario ce l’avete davanti. Gli eredi legittimi di B. House, alcuni miei lontani parenti, non si sono mai fatti vedere. MAI. Il vecchio di cui parlate io non lo conosco. E buon per me che non vi abbia fatto fuori lui”.
Ci guardò maliziosamente, incrociando le braccia sul petto bitorzoluto e puntandoci addosso gli occhi giallastri iniettati di sangue. “Bella musica, eh? So che vi ha eccitato. Ce l’avete ancora stampato in faccia”.
“Senti, cosetto. Scusaci se abbiamo toccato le tue cose” provò a spiegare Duff staccandosi dalla parete. “Ce la stavamo facendo addosso. Forse siamo già morti e questo è un fottutissimo incubo. L’Oltredilà, o quello che è. Ma se hai Axl” fece una pausa, prima di urlare. “Cazzo, dov’è Axl?”
Il demone assunse un’espressione quasi divertita. “Caro il mio esserino dalla pelle bianca. Primo; questo non è un incubo. Prova a prenderti a schiaffi se non mi credi” intimò sghignazzando. “Secondo: il tuo amico, il ragazzo che chiami Axl, adesso è con me. E ci resterà, se non farete ciò che vi ordinerò”.
Duff si colpì il viso con il dorso della mano. “Ok, ok, allora questo è l’Alditomba. Dove l’hai nascosto… Axl, dov’è?” chiese ancora all’omuncolo. “Non lo vedo. Voi lo vedete, ragazzi? Cosetto, non prenderci per il culo!”
La risposta di Duff scatenò l’ira del demone, che si erse in tutta la sua altezza, gonfiando i muscoli del petto e della braccia come fossero enormi camere d’aria. La saletta divenne di nuovo una bolgia carica di rumori e tensione.
“SEI ANIME DI SEI MUSICISTI PER SEI STRUMENTI! VOI RIAVRETE LA VOCE, IO IL MIO GRUPPO!”
La eco dell’urlo metallico dell’enorme demone rimbalzò sulle pareti più e più volte, assordandoci, picchiandoci, costringendoci a gridare. “CREDETE DI POTERLA FARE ALL’ESSERE PIÙ GRANDE E POTENTE DELLA TERRA!?”
Incuteva timore, ma era un timore grottesco. Forse una porzione del nostro già bistrattato cervello pensava di trovarsi di fronte qualcuno che cercava di spaventarci fasciato in un costume rosso con muscoli di gommapiuma.
Duff prese coraggio e reagì. “Non vorrei smontarti, cosetto, ma se sei davvero l’essere più grande e bla bla bla” cantilenò, “com’è che sei intrappolato qui dentro?”
Così come si era gonfiato il demone tornò delle dimensioni di un bambino, giusto un po’ in carne. In un istante il tono gutturale si trasformò un buffo piagnisteo. “Io… non ce la faccio più!” strillò tra i singhiozzi il piccolo sgorbio cremisi. “Non… non… non ce la faccio proprio più! Sono rinchiuso qui da cinquant’anni e non posso… e non posso… e non riesco… non ho più… non…”
“In astinenza?” suggerì Duff.
Il demonietto, con gli occhi a palla gonfi di lacrime, scoccò un’occhiata stizzita al bassista. “No, sorta di cretino! Non… non… non suono più!”
“Tu suonavi?”
“Non sono sempre stato così” spiegò l’esserino. “No, no! Amavo tanto la musica, così tanto che ha finito per distruggermi. Questo corpo orrendo è la conseguenza delle mie scelte… ed è così complicato conviverci, se non ci credete”.
“Ma chi vuoi prendere in giro” lo canzonò Duff. “La chitarra e tutti quei premi nello stanzino sarebbero tuoi?”
“Dal primo all’ultimo”. Il demone tirò su con il naso, orgoglioso. “Miei e del
mio gruppo. Ex gruppo” precisò sconsolato.
“Figa la chitarra” commentò Saul. “Tanto, tanto figa! Così dolce, nel suo color miele…”
“Grazie” rispose il demone aprendo un corno da cui estrasse un fazzoletto. PRRRRR! Soffiò il naso sgocciolante. “Era la mia preferita. Negli Zed Lep suonavo da solista”.
“Mai sentiti nominare” disse Duff.
Il demone ricacciò dentro le lacrime e il moccio per tornare a gonfiarsi e ululare a squarciagola. “E TU SARESTI UN ROCKER?! TI MANGEREI IL CUORE! MI OFFENDI, RAGAZZINO! GLI ZED LEP HANNO FATTO LA STORIA!”
Duff non si scompose. “Bello, io ho solo diciassette anni. Quando suonavi tu i miei genitori usavano ancora gli anticoncezionali”.
“Perché poi hanno smesso di usarli?” ridacchiò Saul.
Duff ringhiò. “Devo spaccarti quel bel faccino, stronzo?”
“Be’, io almeno conosco gli Zed Lep. Devo averli sentiti nominare qualche volta da mio padre” si difese il chitarrista.
Il demone si miniaturizzò in un istante. PUF! “Smettetela, imbecilli. Se penso che avete toccato i miei amici per suonare…”
“Toccato? Non abbiamo toccato nessuno, eccetto quegli strumenti”.
“Toccato, esatto”. Ci puntò un dito contro, aggrottando le folte sopracciglia. “Negli strumenti sono contenute le anime degli altri Zed Lep. E con quelle vostre luride manacce li avete insultati!”
“No, aspetta… COSA? Avremmo suonato dei cadaveri trasformati in chitarre? Non dirmi che le pelli della batteria…” Duff non finì la frase. Si morse un labbro e si tirò lo zuccotto fin quasi a coprire gli occhi.
Non c’era da schiaffeggiarsi o da pizzicare la pelle per capire. Quella di fronte a noi era la realtà, non un telefilm, o un fumetto. Oddio, perché non si trattata di un incubo?
“Sono stati loro… i tuoi compagni a darci la carica? Abbiamo suonato… non avevamo mai suonato così”.
“Come degli dèi, bello” replicò Saul, l’espressione sognante.
Il demone grugnì in segno d’assenso. “Anche loro sono stati vittime delle mie scelte; diventare il più grande mi è costato tutto”. Tirò su col naso di nuovo, ma questa volta non per orgoglio.
Nella vita accadono cose strane, come accettare di rubare al proprio peggior nemico, o trovarsi in uno stanzino a discutere con un demone. A volte è difficile scindere la realtà dall’immaginazione; le due cose spesso coincidono, sorprendentemente, come il cielo e l’orizzonte.
La domanda fu spontanea. “Com’è successo?”
Così il demone iniziò a raccontare.
Track # 8
Six souls
La bestia ricacciò il fazzoletto nel corno. Con uno schiocco delle dita scatenò una musica pesantissima e trash: una dura prova per i nostri timpani.
Il rumore di un doppio pedale che batteva il tempo cominciò a martellare nell’aria viziata. Non riuscivo a capire da dove provenisse.
Anche se non servì a nulla portammo le mani alle orecchie.
“NOI ZED LEP” risuonò la voce cavernosa del demone, “ERAVAMO I MIGLIORI!”
Mentre il brano trash e il doppio pedale continuavano a picchiarci in testa, il demone schioccò di nuovo le dita. Sulla parete alle sue spalle iniziarono a comparire delle immagini. Ombre scure, figure stilizzate e sproporzionate. Si contorcevano come se una mano invisibile le stesse disegnando in quel momento…
“Eravamo i migliori” ribadì il demone. I disegni sulla pietra mutarono fino a dar vita a un gruppo di musicisti carichi di energia. “Ricchi e con tante pollastre attorno. Il nostro rock aveva conquistato tutti. Concerti, album, appuntamenti esclusivi. Io” sottolineò “ero l’unico a volere altro”.
Sulla parete, il chitarrista del gruppo si allontanò dagli altri musicisti a testa bassa. “Non avevo occhi” riprese a raccontare l’omuncolo, con un leggero accento malinconico. “Non riuscivo a vedere ciò che avevamo guadagnato grazie al nostro talento. Una conquista così bella a pura. Eravamo quasi divinità. Avevamo tutto, me io volevo di più. Desideravo che i musicisti si inchinassero al mio cospetto. Volevo regnare nella musica. Essere il migliore, il Supremo del Rock ‘N’ Roll”.
Le ultime parole del demone obbligarono il suo alter ego scavato nella pietra a levare le mani al cielo e ad allargare il viso sproporzionato in un riso malefico, da pelle d’ora.
“A quel punto entrò in gioco la mia predilezione per le arti occulte. Ne ero apionato da sempre, ma in quel periodo divenne una vera e propria ossessione. Condussi ricerche per anni, pur continuando a lavorare con gli Zed Lep. Mi specializzai in Occultismo e Negromanzia. Col tempo acquisii saggezza e sapere spirituale, scrissi persino alcuni testi per gli Zed Lep celando messaggi oscuri senza motivo, per puro fanatismo.
“Così, di conseguenza, le mie performance live iniziarono a calare, con effetti dannosi per me e il gruppo. Arrivò il declino; venivo fischiato e la gente inneggiava al mio abbandono”.
Sulla pietra, uno scarabocchio che rappresentava i fan degli Zed allontanava il chitarrista.
“Nonostante il sostegno dei miei compagni, che non sospettavano nulla, lasciai la band. Mi sentii un traditore e un irresponsabile; il mio cuore desiderava ancora
il potere assoluto”.
Ascoltavamo rapiti e guardavamo le immagini che scorrevano sulla pietra, difendendoci dal frastuono di sottofondo premendo istintivamente le mani sulle orecchie, anche se presto ci accorgemmo che era inutile. Seduti sul pavimento congelato e sporco eravamo come marmocchi attorno al fuoco di un campeggio.
Duff non mancò di sottolineare la sua sfacciataggine. “Non ti bastava entrare nella Sala della Gloria del Rock?”
Il demone ò le unghie affilate sul muro. “Quello è solo un premio televisivo. Vale meno di una pipì sul ciglio di una strada. Posso continuare, o devi ancora interrompermi?”
“Vai pure, amico”.
“Eccellente. Dov’ero rimasto? Oh, sì”. Gli schizzi alle spalle del demone ricrearono B. House e il paesaggio circostante. “Ebbene, cercai un posto lontano per isolarmi. Acquistai questa casa. Mi costò un bel po’ di denaro, ma non badai a spese”.
“Anche perché di soldi ne avevi a palate” si intromise Saul. “Scusami, bello” aggiunse subito all’occhiataccia di risposta del demone.
L’omuncolo tutto rosso strinse le grandi mascelle, poi riprese il racconto. “Fu in questo posto che iniziai a preparare l’ultimo atto del mio piano. Dopo centinaia e
centinaia di ricerche il rito che avrebbe dovuto donarmi poteri straordinari era quasi pronto. Mancavano solo gli Zed Lep.
“Una sera mi rifeci vivo. Li invitai nella nuova casa e accettarono nonostante gli impegni. Dopo una bevuta li condussi in questo sotterraneo per mostrar loro la saletta che avevo messo su. Spiegai che continuavo a suonare di tanto in tanto, da solo, per non perdere la mano. Era così un bel posticino che non ci misero molto a proporre una suonata… proprio come volevo. Per un attimo dimenticai il piano; l’emozione di riprendere in mano la mia adorata chitarra insieme agli Zed stava per giocarmi un brutto scherzo. Ma tenni duro, al diavolo i ricordi! Fu in quel momento che tutto cambiò”.
“Gli strumenti erano scordati, vero? Ah, che palle, capita sempre anche a noi” interruppe ancora Duff.
La collera del demone si manifestò con una serie di nuvolette che sprizzarono dal naso e dalle orecchie della creatura. “Giuro che se non fossi così importante per il mio piano ti staccherei la testa dal collo e ne farei una paletta per la chitarra!”
“Quale piano?”
“ARRRGHHH! CI STO PER ARRIVARE!” il demone sbuffò, le narici si allargavano e si restringevano velocemente. Poi si riprese. “Dunque. La tragedia”.
Le ombre del paesaggio riprodotto sulla pietra svanirono. Una macchia informe riorganizzò lentamente la sequenza seguendo il racconto.
“Per portare a conclusione il rito serviva il sacrificio dei miei compagni. Una canzone da suonare in gruppo in un ambiente saturo di influssi negativi e incisioni invisibili sulle pareti e sugli strumenti, che avrebbe sprigionato un’energia tale da invadere ogni cellula del mio corpo, trasformandomi in uno spirito potentissimo. Invincibile.
“Quando già pregustavo la vittoria il batterista -caro amico- andò fuori tempo, la canzone subì un blocco e tutti gli Zed Lep furono uccisi all’istante dall’effetto imprevisto delle rune che avevo inciso. Vidi le loro anime, luminose sfere opalescenti, penetrare negli strumenti e sparire”.
Il demone si voltò per guardare il riflesso animato delle sue parole. Gli schizzi che riproducevano i musicisti scomparvero, mentre il chitarrista, furioso, iniziò a dimenarsi. Poi rimpicciolì e dalla testa iniziò a spuntare un paio di corna.
“Visto? Ero disperato” singhiozzò il demone, “il dolore per quelle corna, il colore della pelle che cambiava...”
Il disegno mutò ancora. Il chitarrista, trasfigurato in demone, fu risucchiato in una profonda scalfittura nella pietra che doveva rappresentare un microfono.
“Un minuscolo spazio vitale” commentò l’omino rosso. “Farei di tutto pur di ritornare a suonare. Anche se posso essere evocato dal suono degli strumenti, sono bloccato in questa saletta da cinquant’anni”. Fece una pausa per soffiarsi il nasone sgocciolante. “Ed è qui che entrate in gioco voi”. Sfregò le mani nodose e appuntite, gli occhi giallastri brillarono.
“Sei anime per sei anime… e tutto il resto?”
“Precisamente. Esiste già l’accordo, perché se non farete nulla il vostro amico Axl resterà con me per l’eternità. Io non posso morire. E il contratto che voi firmerete…”
“Col sangue?” chiese Duff tra l’incuriosito e il terrorizzato.
“Il tuo di sicuro, se proverai a sabotare il mio piano. Il contratto che firmerete con me prevede il furto di sei -e dico sei- anime per la vita del vostro amico”.
Al terzo schiocco delle dita, il demone fermò il sottofondo trash e le figurine animate vennero scomparvero nella pietra.
“Non capisco come potremmo riuscirci, bello. Non abbiamo mica poteri tipo succhiare l’anima con un bacio o robaccia del genere” contestò Saul.
“Niente di tutto quello che la tua testolina crede, sciocco ragazzo” rispose il demone spazientito. “Tutto ciò che dovete fare è battere una band rivale nell’esecuzione di un pezzo inedito, in una battaglia tra band. Una canzone che scriverete voi, musica e testo, per dimostrare quanto valete”.
“Noi valiamo molto” si imputò Duff.
“Ha ragione” incoraggiai io.
“Sì, bello, cavolo se valiamo!” sostenne anche Saul.
“Molto? Valete molto? Ma vi siete visti? Ragazzi miei, fate pena”. Il demone sputacchiò saliva viscosa sul pavimento. Iniziò a ridere di noi in modo osceno. “Non vi siete ancora domandati perché non ho catturato direttamente voi? Avrei potuto tralasciare patti e contratti e usarvi per suonare; musicisti per l’eternità. Per me”.
Protestammo vibratamente. Quel mostriciattolo non aveva il diritto di trattarci in quel modo. Mi ricordò Antony e quegli idioti dei suoi compagni. “Ma prima abbiamo spaccato di brutto!”
Il demone sospirò roteando gli occhi e mostrando i denti giallastri. “Erano gli strumenti che suonavano, non voi”.
“Oh. Cazzo. Capisco. Merda” scandì scrupolosamente Duff.
“Rivoglio la mia vita” fece il demone, “voglio tornare a suonare con un gruppo. E voi mi aiuterete” intonò mellifluo, poi con uno scatto e un movimento strano del collo tozzo urlò. “PER TUTTE LE ANIME, RIVOGLIO IL ROCK!”
“Ma stai bene? Sbalzi ormonali? Non è normale agitarsi così di continuo”.
La battutina di Saul fu l’ultima, velenosa goccia. Il demone si pompò al limite, fino a scoperchiare la casa. Un vortice di vento, fulmini e schegge ci catapultò
nel cielo stellato fino a farci atterrare pesantemente sul prato vicino al bosco. Tra i ruderi della villa si ergeva la sagoma imponente del mostro rosso: “PORTATEMI LE SEI ANIME O NON RIVEDRETE MAI PIÙ IL VOSTRO CARO AXL! QUESTO È QUANTO. E ORA SPARITE!”
Track #9
Rock Guerrieri
Quando mi risvegliai, sul prato al limitare del bosco, era quasi l’alba.
Una distesa infinita di rosa pallido iniziava a colorare l’orizzonte, oltre gli alberi, oltre il lago. Sì, c’era anche un lago, sul lato ovest di B. House. Avevo dimenticato di scriverlo prima. Le stelle erano sparite e la luna aveva perso intensità, sbiadita dalle luci del mattino.
Avevo un ricordo vago degli ultimi eventi. Azioni sfocate e scene da incubo, un misto tra un fumetto noir e un serial horror. A fatica mi rialzai e ai una mano sulla nuca. Mi faceva un gran male, come se mi avessero colpito con una chitarra e schiacciato la testa tra due crash!
Mi guardai attorno. Poco lontano vidi il corpo di Saul disteso per terra accanto al furgoncino, con le braccia e le gambe a formare strane angolature. Sbattei le palpebre e scrollai la testa. Il dolore dietro la nuca si intensificò e crollai di nuovo sul prato, in ginocchio.
Trovata la forza per rialzarmi guardai di nuovo nella direzione di Saul. Era rinvenuto e si stava rimettendo lentamente in piedi, aggrappandosi al furgone.
“È successo davvero?” chiesi a me stesso. Fu strano riascoltare la mia voce. Sussurrai quelle parole nel silenzio incontaminato.
Saul barcollava, si portò le mani alle tempie. Poi alzò la testa e ci guardammo a vicenda.
“Stai bene?” urlai. La voce si perse nel vuoto.
“Insomma” urlò in risposta il mio amico.
L’aria fresca del primo mattino fu una manna dal cielo, la fonte benefica di cui avevamo bisogno. La brezza si levò dal bosco, sfiorando le cime degli alberi. Chiusi gli occhi e riacquistai un briciolo della vita che mi era stata strappata via.
“Bello, hai visto Duff?” gridò Saul, trascinandosi verso di me.
Già, Duff! Stavo quasi per dimenticarmi di lui. Dov’era?
Come evocato dai miei pensieri, il bassista dalla parolaccia facile spuntò da dietro un cespuglio, in pessime condizioni, ma vivo. Nelle maglie dello zuccotto erano rimasti incastrati ramoscelli e foglie. Le guance erano arrossate da diversi tagli.
“Sto bene” rispose, la voce roca. “Voi?”
“Bene” feci io.
Saul continuava a tenersi le tempie. “La testa mi sta per esplodere, bello. Mi viene da vomitare”.
Una volta riuniti ci scambiammo occhiate confuse, sullo sfondo B. House. Nessuno aveva il coraggio di ammetterlo. Era accaduto sul serio, ma la nostra coscienza voleva negarlo.
Ma più in profondità, giù nell’anima, nei pensieri e in quella zona di cervello in cui si memorizza ogni cosa della propria vita, sapevamo che Axl non era più con noi, che un demone lo aveva intrappolato con sé e che dovevamo portare a termine un’impresa titanica per salvare il nostro cantante. E quest’ultimo era il particolare peggiore di tutti. Non c’era altro che potevamo escogitare. L’esperienza sotto la villa ci obbligava a partecipare alle leggendarie e truci battaglie del Torneo dei Rock Guerrieri.
“No, assolutamente NO. No e no e ancora NO!”
“Duff. È per Axl, lo capisci? È l’unico modo” cercai di spiegare. Il fatto era che la pensavo esattamente come il mio amico, ma non potevamo lasciare Axl a fare lo schiavetto del demone. “Vuoi lasciarlo lì in quello stanzino assieme a quel coso rosso? Lo ammazzerà!” mi espressi con una determinazione che non provavo davvero.
“Morire per un fumato ubriaco. Vuoi questo? Eh, è questo che vuoi? E tutto questo coraggio da dove esce fuori, Matt?”
La rabbia prese il sopravvento, riempiendomi il petto, e trovò sfogo risalendo fino alle labbra, in un sibilo sprezzante scaturito dal digrignare dei denti. “Sei uno stronzo. Vigliacco e stronzo”.
In un’altra situazione Duff si sarebbe scaraventato addosso scaricando pugni e testate, ma sapeva di avere torto marcio. E io sapevo che la paura lo inchiodava. Che Axl voleva salvarlo, ma che le battle rock lo mettevano in agitazione. Come dargli torto, d’altronde.
“Sai una cosa, Matt? In questo caso meglio stronzo e vigliacco che carne da macello gettata su un palco per divertire il pubblico. Mi piace guardarlo dagli spalti, il Torneo, così come piace a te”.
Non provavo rancore. Era la mia parola contro la sua, le nostre ragioni. Lo capivo. Duff era quello spavaldo, quello sempre in prima linea quando si trattava di correre qualche rischio, e il furto nel garage di Antony era stata l’ennesima dimostrazione.
Non provavo rancore perché il Torneo non era roba da tutti. Ci partecipavano due categorie; quelli bravi che spaccavano di brutto e gli idioti incoscienti che pur sapendo di andare incontro a conseguenze gravi -che prevedevano, tra le altre, anche la morte- si gettavano alla ribalta per avere un breve attimo di popolarità.
Noi non entravamo in nessuna di quelle categorie. Eravamo… gli outsider che avrebbero combattuto per salvare l’amico imprigionato nell’Ade. Un limbo infernale... o quello che era.
Provai a pormi in modo più pacato. “Nemmeno io parteciperei se non fossi costretto”.
“Te la fai sotto anche tu, palle mosce?”
Lo vidi sorridere, finalmente. “Sì” concessi. “Ma so che dobbiamo farlo. Siamo un gruppo. Dimostriamolo! E in queste occasioni che il legame si consolida”.
“Sei sempre stato un gran maestro di belle parole. Il più bravo a riflettere”.
“Non lo dicevo per carineria, Duff. Lo sai”.
“Lo so”. Prese a togliere i ramoscelli e le foglie dallo zuccotto e ad asciugarsi i graffi sul viso con un lembo del gilet di jeans. “Però, che cazzo! Non voglio rimetterci il culo. Il Torneo è una cosa figa, ma chi me lo fa a fare di suonare per morire?”
Saul era rimasto in silenzio fino a quel momento. Sì, messaggiava col cellulare.
“Scusate, era di nuovo Megan. Dicevate?”
“Che faremo un gran bel concerto, Saul. Ti va?”
L’espressione imbronciata di Saul -brutte notizie da Megan?- si ravvivò in mezzo secondo. “Uooou! Non vedo l’ora, belli!” sollevò le braccia al cielo.
L’alba aveva portato con sé nubi temporalesche. Le prime gocce d’acqua iniziarono a cadere piano, ma la pioggia non ci mise molto a diventare fitta e pesante.
“È deciso, quindi. Salveremo… proveremo a salvare Axl partecipando al Torneo dei Rock Guerrieri”. Mi corressi, per ovvi motivi. La possibilità di finire davvero tutti morti stecchiti era all’incirca un dato di fatto: ingloriosa fine per i DRC.
“Torneo… COSA?” la voce di Saul sovrastò anche la pioggia abbondante. “Questo non me lo avevi detto, bello. Ma non ci penso neanche! Mi dispiace, Matt, ma non ci sto. Fate senza di me. Ho voglia di tante ragazze e non posso andare agli appuntamenti da morto o con parti del corpo mancanti”.
“Se è per le ragazze, non ti manca già qualcosa?” Duff posò sarcasticamente gli occhi sulla zip del pantaloni del nostro chitarrista.
Risi alla battuta, e ricordai a Saul che aveva già promesso di partecipare.
“Ma dicevi di un concerto, non di quel massacro del Torneo!”
“La prossima volta lascia stare un po’ quel cellulare”.
Un cipiglio gli oscurò il viso. “Spero tu non lo faccia solo per fare il figo con Charlotte Michelle” rimbeccò, ma sapevamo entrambi che la questione, per fortuna, era chiusa lì.
Mi sentii comunque a disagio. Contro la mia volontà mi ritrovai a guardare altrove, cercando un punto sul quale concentrare la mia attenzione; la punta delle scarpe. “Per Axl. Lo faccio per lui” chiarii. Fu la mia ultima parola.
Paradossalmente ‘sapevamo e non sapevamo’ a cosa andavamo incontro. Vivere o morire (o rimanere orribilmente mutilati). Pensando cinematograficamente la prospettiva era parecchio entusiasmante. Ma dall’altro versante della barricata, oltre il rischio e l’adrenalina, il Torneo poteva essere l’inizio e il capolinea della nostra carriera.
E delle nostre piccole vite.
Figo, no?
Metto in chiaro una cosa: non credo al destino. La partecipazione al Torneo era legata esclusivamente al salvataggio di Axl. C’è gente che magari penserà che è tutta una questione di eventi concatenati tra loro a formare un vero e proprio piano. Una forza che gioca alle nostre spalle. Qualcuno che decide al posto nostro, creando un disegno. Che tutto non succede per caso, eccetera eccetera…
Robaccia da oroscopo del giorno!
Robaccia… da oroscopo del giorno?
Ci allontanammo di corsa dal prato. La pioggia stava rendendo la terra un’enorme pozzanghera.
SPLAT… SPLAT…
A i lunghi, sprofondando nel fango, arrivammo sul vialetto della villa. Le gocce fitte avevano formato una barriera d’acqua su ogni cosa, ma ci accorgemmo lo stesso di un altro sfortunato e oscuro evento; il furgone di Axl non c’era più.
“Merda, ma non è possibile!”
“Siamo troppo sfigati. Ma prima era qui!”
“È stato il pazzoide omicida. L’avrà usato per scappare via”.
Osservai nei dintorni alla ricerca di prove, gli occhi ridotti a una fessura per scrutare nel diluvio. Furto o cosa? Un’altra volta Antony?
Mi soffermai su una zona di vialetto poco distante; tracce di pneumatici. “Guardate, ragazzi” indicai iniziando a sentire il freddo. I vestiti erano zuppi. “Portano nel boschetto”.
“Io lì non ci vado, bello” disse Saul. Infischiandosene della pioggia andò a sedersi sulle scale dell’entrata di B. House. Affondò il viso tra le braccia incrociate e le ginocchia, ma subito dopo la mano scattò nella tasca del giubbino. Lo schermo del cellulare illuminato era un puntino fluorescente immerso in una vasca piena d’acqua.
Al momento di riflessione si associò anche Duff, prendendo posto su uno dei gradini. Io rimasi sotto la pioggia battente al centro del vialetto.
Sconfitto. Mi sentivo così.
Fradicio e avvilito.
Cosa mi fece reagire? Il pensiero che al Torneo del Rock Guerrieri potevamo non solo salvare Axl, ma anche eliminare una volta per sempre Antony & C. Boys.
Track #10
Sognami un po'
“Bella merda” aveva detto Duff, “ci hanno rubato gli strumenti”.
“Che noi avevamo rubato” sospirò Saul.
Erano ancora seduti sugli scalini. La pioggia aveva perso vigore, scoprendo un cielo plumbeo che spirava altre imminenti burrasche.
“Ragazzi, se non volete seguire le tracce del furgone torniamo a casa”.
Duff scattò in piedi, strizzando lo zuccotto pregno d’acqua. “E come la mettiamo con gli sbirri?”
Alzai le spalle. “Non ne ho idea, vorrei non pensarci. Ma non possiamo rimanere per sempre qui”.
“Allora chiama la mammina e falla venire a prenderci”.
“Sarebbe inutile. Le macchina è sfasciata, non so se ricordi”. Io lo ricordavo
benissimo. Dovevo anche pensare a trovare una giustificazione per l’auto completamente scassata. Che casino!
Duff era rassegnato. “Questo vuol dire che ci tocca ritornare a piedi?”
“Non c’è altro modo, a meno che tu non preferisca restare e fare compagnia al demone”.
“Che sfascia palle” esclamò, riprendendo a strizzare lo zuccotto.
Guardai Saul, cercando di includerlo nella conversazione e capire che intenzioni avesse. “Come dice Matt, qui non c’è altro da fare” rispose ricacciando il cellulare in tasca.
Finalmente un po’ di collaborazione. “Bene. Quindi andiamo? La strada è lunga”.
Duff ebbe da ridire anche a Saul. “Ma tu che stai sempre a menartela con quel cazzo di telefono, non puoi chiamare tipo qualcuno per uno strappo fino a casa?”
“Bello, a quest’ora proprio non saprei”.
“C’è tua sorella, no?”
“Dorme. E poi le hanno tolto la patente”.
“Che ha combinato?”
“Incidente. Era ubriaca”.
“Capisco. Sta bene?”
“Commozione al seno e contusione ai glutei. Matt, bello, ma dove vai? Ehi!” la voce di Saul giunse quando avevo già superato il vialetto.
Risposi gridando, senza voltarmi, rimpicciolendo nel giubbotto per cercare riparo dall’aria fredda. “La strada è lunga!”
Rallentai il o e mi lasciai raggiungere. Sentii il respiro affannato dei miei amici alle spalle.
Saul boccheggiava. “Potevi aspettare, bello. Potevi aspettare!”
“Forse. Ma voglio tornare a casa, d’accordo?”
Camminavamo a testa bassa, gli occhi semichiusi e la pioggia a picchiarci inesorabilmente sulla testa, come un’ulteriore punizione.
“Eccolo che si rimette a frignare”.
“Non sto frignando, Duff. Sono stanco, ho freddo. Se vi piaceva tanto potevate restare lì seduti ancora un po’”.
“Hai paura della mammina? Hai paura che non ti ritrovi nel letto?”
“Smettila”.
“Come vuoi”. Fece una pausa. Poi: “Allora hai paura degli sbirri?”
Non ci tenevo a litigare, quindi raccolsi le poche energie rimaste per concentrarle tutte sulla tolleranza.
Per mia fortuna, intraprendendo il viale alberato che ci aveva condotti alla villa, Saul impedì altre noie di Duff: “Belli, i nostri amplificatori sono ancora qui!”
Bagnati e sprofondati nel fango, i cassoni di Antony erano dove li avevamo abbandonati, ma controllando l’emozione continuammo a percorrere il viale in silenzio. Tra i vestiti zuppi si insinuò uno strato gelato di malinconia.
“Con Antony ci rifaremo al Torneo” dissi dopo un po’. Non riuscii a evitare di rimuginare sugli amplificatori valvolari finiti per concimare il terreno.
“Se non diventeremo polvere o carne marcia” aggiunse Saul.
“Cazzo” esclamò Duff con uno starnuto. “Matt ha ragione. Sarà finalmente l’occasione per riempire di merda quel bastardo! A questo non ci avevo ancora pensato. La cosa si fa interessante”.
“Pensavo avessi paura, bello” obiettò Saul.
“E chi non ce l’ha?” risposi io. “Solo, cerchiamo di prenderla nel verso giusto, se no non ne usciamo vivi. Ok?”
Saul alzò la testa di scatto. “Quella era una battuta, bello?” chiese.
“Cosa?”
“Quella sull’uscire vivi, il verso giusto…”
“Non credo, no, che ci trovi di ironico? Mi è uscita così”.
Superammo anche il viale alberato. Davanti, a perdita d’occhio, la lunga strada extraurbana che portava in città illuminata dal sole opaco di mezzo mattino.
L’alba era stata divorata dalla pioggia e dai nuvoloni neri. Con le scarpe e i pantaloni inzaccherati percorremmo i primi i sul ciglio della strada.
Non c’erano macchine ma invitai comunque gli altri a tenersi quanto più possibile lontano dalla carreggiata. Mi presero in giro per la mia premura, ma accettarono il consiglio.
“Ma quando arriviamo?” fece Duff con la lingua penzoloni.
“Stasera” rispose Saul. “Se non crolliamo prima a metà strada”.
Timidi raggi di sole trovavano spazio tra le grandi nuvole, ma non era abbastanza per riscaldarci. Un altro brivido ghiacciato anticipò un mio starnuto. Tirai su con il naso. “Spero che la fermata dell’autobus sia vicina. Dovrebbe essercene una nei paraggi. Da qualche parte devo avere un biglietto. Voi? Vi prego, ditemi ne avete uno”.
“Non credo” rispose Saul, che non si preoccupò nemmeno di controllare nelle tasche.
Guardai Duff. “Io uso biglietti, Matt? Se il servizio fa schifo sono loro a dover pagare noi”.
Mio malgrado mi scappò una parolaccia.
“Non capisco quale sia il problema” esclamò lui. “L’autobus lo prendiamo lo stesso, no? Ho sempre fatto così, no?”
“E ogni volta ti prendi una multa”.
“Ripeto, non capisco il problema. Non uso biglietti e le multe non le pago. E una questione di principio”.
Starnutii ancora. “Dimenticavo che è per questo che hai ato due anni al Carcere dei Rocker Sopra le Righe”.
Un raggio di sole più intenso piovve dal cielo. Non era frutto della nostra immaginazione, nulla di paragonabile al cono celestiale nello stanzino a fare luce sulla chitarra. Cadde dalle nubi, semplicemente, e puntò dritto dritto alla fermata dell’autobus; una piccola speranza nel nostro burrascoso cammino.
Carichi e ansiosi di schiaffarci al caldo e trovare posto sul bus, accelerammo il o, attraversammo la strada e ci accucciammo come tre cani randagi in cerca di cibo sotto la tettoia della fermata.
Non eravamo soli. In attesa c’erano anche due ragazze che fumavano in piedi accanto al tabellone degli orari. Vestivano con minigonne che più mini non si poteva, scarpe con tacchi altissimi, trucco pesante e top in latex con scollatura all’ombelico…
Saul si specchiò alla meglio nello schermo del cellulare. Poi si schiarì la voce e
si rivolse a una delle due. “Ehi, sai che ore sono?”
La ragazza tirò una boccata alla sigaretta. Si voltò flemmatica, guardandoci attraverso la frangia nera che le copriva mezzo volto. Con una smorfia disprezzò me e Duff, mentre a Saul regalò un mezzo sorriso. “Ho la faccia da orologio?”
“Per niente” rispose la voce profonda del mio amico. “Era una scusa per attaccare bottone. Le ragazze ci cascano sempre”. Sorrise anche lui, mostrando una fila perfetta di denti splendenti.
La ragazza ridacchiò divertita, portando una mano sui fianchi accentuati dalla mini, mentre con l’altra richiamò l’attenzione dell’amica. La scenetta andò avanti per un po’.
Concentrai i pensieri al Torneo. Così com’eravamo conciati non avrebbero accettato neanche la nostra iscrizione. Dovevamo trovare altri strumenti, e prima ancora degli strumenti un Modificatore disposto a darci una mano. Un’impresa nell’impresa; chi sarebbe stato disposto a scommettere su di noi?
Strombazzando in acquaplaning l’autobus arrivò. Rosso fiammante, con due piani di seggiolini imbottiti. In una situazione come la nostra mi sembrò più confortevole di camera mia.
Dentro era quasi vuoto. Un vecchietto, due signorotte che dovevano aver trascorso la nottata fuori casa e uno strano ragazzo fasciato in un giaccone di pelle pieno di fibbie e lacci, con un cappello a cilindro tanto grande da sprofondare in testa fino all’altezza della bocca. Sedeva con altri due tipi bizzarri.
Saul e le ragazze continuarono a ciarlare e cinguettare. Occuparono due coppie di posti a quattro. Io timbrai il biglietto e sedetti con Duff una fila dietro le due tipe, guardando Saul dritto negli occhi vivaci, con quella fastidiosa espressione da giovane promessa della moda.
“Non invidiarlo. Non invidiarlo. Non invidiarlo. Non ne hai motivo” ripetevo tra me. “Sono solo due squillo. Sono solo due squillo con mini vertiginose, le labbra carnose, mezze nude…”
“Matt, amico. Sei a posto?” era la voce di Duff.
Starnutendo e tossendo mi ridestai da quelle assurde riflessioni. “Bene, grazie. Avrò qualche linea di febbre, ma tutto bene”.
Duff alzo un sopracciglio. “È per quelle due?”
“Le ragazze?” feci un rumore con la bocca, una via di mezzo tra una pernacchia e un sospiro. “Ma no, figurasi. Sto bene. Le lascio volentieri a lui” risposi incrociando Saul tra i sedili, in mezzo le tett… teste della coppia di squillo.
L’autobus nel frattempo era ripartito. Mi accoccolai contro il vetro, chiudendo gli occhi e godendo della canzone diffusa via radio da uno degli altoparlanti. Era un suono ronzante ma piacevole, che mi portò ad assopirmi.
Le brezze notturne sembrano sussurrare
Oh, quanto sei bona, baby!
Sognami un po’
Di colpo l’autobus si fermò e mi risvegliai col muso schiacciato sul sedile di fronte al mio. Non so se per la brusca frenata o perché dormivo; sta di fatto che finii incollato contro il sedile della ragazza con la frangia. Alle narici mi arrivò il dolce profumo della sua chioma corvina…
“Ma che cazzo! L’autista deve avere qualche problema col freno” esclamò Duff.
Guardai in direzione dell’entrata, massaggiandomi il naso. Un ragazzo con una bombetta nera calcata in testa e una ragazza in gonna scozzese salirono e sedettero davanti.
L’autobus riprese la corsa. Dal finestrino iniziai a scorgere i primi tratti di strada a noi familiari. Curve, alberi, i primi cottage. Eravamo quasi arrivati.
Certo che se ne incontravano tipi strani sugli autobus. Ma evitai altri viaggi mentali. A volte raggiungevo picchi di paranoia allucinanti, accidenti a me.
La musica e il riscaldamento mi ricondussero nell’universo della semi incoscienza, tra il sonno e la veglia. A mio parere, il miglior posto del mondo.
Mi risvegliai con una gomitata di Duff. “Sveglia, palle mosce! Si scende”.
A malincuore (sarei rimasto volentieri lì al caldo per un tempo imprecisato compreso tra qualche mese e tutta la vita) mi alzai e andai verso l’uscita. Saul salutò le ragazze, non prima di aver ottenuto il numero di telefono di entrambe. Mentre aspettavamo l’apertura delle porte automatiche scorsi dai vetri un uomo in impermeabile, impalato vicino alla fermata; alto da far paura, vestiva con un impermeabile scuro e dal colletto alto a nascondere il viso. Il tizio inforcava anche grossi occhiali da sole e guanti di pelle.
Ed eccomi a raccontare e rivivere un altro tragico evento. Non facemmo in tempo a scendere sul marciapiede e a muovere mezzo o. L’uomo in impermeabile si avvicinò ed estrasse un distintivo, bloccandoci la strada.
“Fermi dove siete. Siete in arresto, nel nome della legge!”
Track #11
Tre metri sotto terra
Fregati. Completamente fregati.
“Sono loro che non avevano i biglietti!” gridai puntando il dito su Duff e Saul. Vidi con la coda dell’occhio il ragazzo con la bombetta e la ragazza in gonna scozzese scendere dietro di noi. Per un attimo pensai che volessero aiutarci, poi si allontanarono.
“Ma che stronzo, palle mosce e figlio di buona donna! E tu ce l’avevi e non l’hai timbrato!” Duff mi riempì di insulti ma rimase al suo posto; fissava il distintivo scintillante, all’ombra imponente del tizio in impermeabile. Sembravano conoscersi.
“Ci rivediamo, tu” disse l’uomo conservando il distintivo nel taschino. “Quello che non usa il biglietto e che non paga le multe”.
Duff allargò il petto. “In persona. Se il servizio fa schifo non prendetevela con me. Noi”.
L’uomo aggrottò le sopracciglia. “Sei anche colpevole di furto di riviste, commercio di plettri non a norma e spaccio di falsi accordatori per basso” cantilenò. Poi tolse gli occhiali. Un occhio era del colore del cielo riflesso nella pioggia, mentre l’iride dell’occhio destro era di una stravagante sfumatura dorata
e… si muoveva! Roteava, più precisamente, e si spandeva a formare figure astratte, come un caleidoscopio in miniatura. Quando si accorse che lo stavo fissando spostò l’occhio (quello normale) su di me. Parlò alzando il tono della voce. “Sono un agente del Carcere dei Rocker Sopra le Righe. Siete in arresto per furto di strumenti musicali, violazione privata e mancato uso dei biglietti dell’autobus. Nonché per aver forzato un posto di blocco e” chiuse un attimo gli occhi “per guida spericolata”. L’occhio strambo si riaprì e l’iride mi esaminò da capo a piedi, creando piccole macchie nere sullo sfondo dorato.
…
Completamente, completamente fregati. Era finita! La fuga era durata anche abbastanza.
“Oltre a Duff, abbiamo Saul” proseguì l’uomo come se stesse consultando uno schedario invisibile, “e Matt, entrambi con la fedina pulita. Ma all’appello ne manca un altro. Tale Axl. Quello fumato. Dov’è? Fuori la verità”.
“Tripke vuole solo incastrarci”. Duff digrignò i denti. “Non dategli retta. È solo un esaltato del cazzo”.
“Agente Tripke” specificò lui. “E tieni a freno la lingue, che è meglio. Ripeto la domanda: dov’è questo Axl?”
Cosa potevamo rispondere, che era bloccato in uno stanzino ed era diventato lo schiavetto di un demone musicista?
“Ragazzi, è per il vostro bene. Se collaborate…”
“Cosa? Avremo diritto a uno sconto della pena? Ma se lo sai benissimo che siamo nella merda fino al collo, Tripke! Agente”. Duff sbuffò, sedette sul bordo del marciapiede e incrociò le braccia. “Io di qui non mi muovo”.
La cupola di nuvole lambiva i tetti delle villette. L’azzurro spento che si intravedeva negli spiragli di cielo sgombro donava vita a quei pochi raggi di sole che trovavano sbocco nel mattino.
L’iride dell’agente Tripke iniziò a vorticare veloce. “Il gioco finisce qui. Ora venite con me. Salite in macchina. Un’altra mezza parola e maledirete vostro padre per non aver usato un contraccettivo”.
Duff sbuffò ancora. “Fa sempre così. È bravo solo a parole”.
L’ombra massiccia dell’agente crebbe, oscurando il nostro campo visivo. Crebbe in altezza e larghezza. Come ramoscelli insignificanti, venimmo scaraventati nell’abitacolo di un’auto scura, parcheggiata lì vicino.
L’agente prese posto accanto al conducente, un altro uomo in impermeabile e occhiali. Il motore era già avviato. L’auto partì silenziosa sulla strada ancora bagnata.
Tripke accese una sigaretta. Una striscia di fumo arrivò a pizzicarmi narici e gola. Tossii.
“Hai detto qualcosa, ragazzo?”
Rabbia e fumo divennero una cosa sola, sporcando la mia risposta di malumore cocente. “Niente”.
“È proprio quello che voglio sentire. Niente. Quando arriveremo in centrale, allora ci faremo una bella chiacchierata. Mi andrà di sapere cosa ci facevate dentro quella villa e dov’eravate quando la pattuglia ha fatto irruzione per cercarvi”.
Dallo scherzetto con le maschere di Axl e Saul, al viaggio in autobus. Tutto trovò concentrazione in un flash: colori, suoni, espressioni deformate, urla e pioggia. Pure i seni delle squillo. OGNI COSA. La mente montava le scene creando un videoclip fittizio, psichedelico e a basso costo.
Ci allontanavamo dalle nostre case, di nuovo.
Pensai al faccia a faccia con mia madre con innaturale tranquillità. Stipato in quell’auto con due agenti le mie paure erano tutte convogliate all’interrogatorio che di lì a poco ci avrebbe sconquassato l’esistenza.
La strada ci portò dall’altro lato del centro abitato. Iniziavamo a sentirci troppo stretti l’un l’altro. Non per i sedili, quelli erano comodi e spaziosi. Era l’ansia che ci stava comprimendo.
ZZZZZZ!
Il telefono di Saul vibrò. Lo estrasse dalla tasca, ma non fece in tempo a leggere il messaggio.
“Questo è sequestrato” disse l’agente Tripke, strappando il cellulare dalle mani di Saul. Il mio amico rimase a bocca aperta e dovette pure sopportare la risatina subdola dell’agente con l’iride caleidoscopico. “Lo riavrai se deciderai di collaborare. Oh, siamo già arrivati”.
L’auto svoltò a destra abbandonando la strada principale e superando un cancello in ferro battuto. Il Carcere dei Rocker Sopra le Righe sorgeva in un giardino di ciliegi; il palazzo aveva tre ali e due piani ed era costruito interamente con mattoncini rossi.
L’agente Tripke aprì la portiera. “Scendete”.
Una leggera brezza spirava sul viale fiorito, facendo svolazzare nell’aria centinaia di petali rosa.
Il tipo alla guida rimase in macchina. Io, Duff e Saul seguimmo l’agente a testa bassa. Sulla soglia d’ingresso Tripke bussò colpendo tre volte l’enorme batacchio a forma di nota musicale sbarrata. Il portone si aprì.
Dai ciliegi in fiore cullati dal venticello alla prigione il o fu breve. Ci ritrovammo in una decadente sede collegiale. Una volta Duff mi aveva
accennato che anni prima il Carcere era stato il primo edificio universitario del paese. Era diventata la prigione dei rocker solo da qualche anno. Gran bel guadagno per la città…
Ci avvicinammo alla guardiola. La luce giallastra e smorta illuminava la hall.
“Sono con me, Franky. Finalmente li abbiamo trovati. Li porto di là per scambiare due parole. Lui è arrivato?”
“Vi sta aspettando, signore” rispose distrattamente un ometto calvo, concentrato nella lettura di una rivista di giardinaggio.
“Molto bene” ridacchiò l’agente Tripke sfregandosi le mani. “Seguitemi” ordinò poi, esaminandoci per l’ennesima volta con l’occhio dorato.
“E se non lo facciamo?” lo sfidò Duff. “Sei un patetico, Tripke. Non hai poteri, non sei tu il capo! Un frustrato, ecco cosa sei”.
L’agente accese un’altra sigaretta, ostentando calma, gli occhi piantati su Duff. L’espressione che rivolse al nostro bassista diceva tipo “vali meno di uno scarafaggio morto”. Fece un tiro di sigaretta. “Non ti conviene fare il gradasso. Non hai imparato niente, rinchiuso qui per mesi?”
“Certo. Ho imparato a riconoscere gli stronzi dagli stronzi extra large. Proprio ora ne ho uno davanti”.
La sigaretta era già per metà consumata. L’iride si illuminò. “Verrà il momento in cui ti renderai conto di com’è facile fare il duro a parole invece che dimostrarlo con i fatti”.
“Mi tremano le palle, guarda”.
Lasciata la hall percorremmo l’ala ovest. Seguivamo i i lunghi dell’agente, imbattendoci in numerosissime segnalazioni esposte sulle bacheca del lungo corridoio -cimeli che portavano ancora l’emblema della vecchia università. Su quei pezzi di legno marcio pendevano foto di ragazzi, numeri, liste di oggetti banditi e persino ricompense in denaro per la cattura di alcuni ricercati.
“Non odiamo il rock, ma chi lo fa nel modo sbagliato”, lessi sulla porta che indicava l’ufficio dell’agente Tripke, a metà del corridoio. Le lettere erano serigrafate sul vetro. Sotto la scritta era riportato il nome per esteso dell’agente: Bryan L. Tripke.
Entrammo; dei condannati a morte.
L’interno era piccolo da stare scomodi ma abbastanza grande da contenere tonnellate di strumenti e oggetti di ogni genere. Le quattro mura erano stracolme di chitarre confiscate; bacchette per batteria non a norma; plettri-shuriken; pentagrammi con chiavi di violino disegnate al rovescio; pedaliere smontate pezzo per pezzo e sintetizzatori arrugginiti. Negli spazi vuoti, tra un oggetto e l’altro, altri numeri e foto segnaletiche.
“Ecco lì il nostro rivoluzionario” indicò Saul con un cenno della testa, le mani in tasca a cercare nervosamente qualcosa che purtroppo per lui, non c’era più. Una
foto segnaletica affissa sul muro tra la cassa di un basso acustico e un set di meccaniche per chitarra. Sull’immagine in bianco e nero, a coprire il volto di Duff, un timbro in inchiostro rosso avvertiva: “Altamente pericoloso”.
La scrivania dell’agente era altrettanto disordinata. Tra gli oggetti in bella mostra c’erano delle pelli per batteria.
“E quelle che hanno, sono troppo consumate per il charleston?” chiese Duff, sarcastico.
Tripke sorrise, ciccando la sigaretta. “È pelle umana” rispose lentamente. “Le ho confiscate a una ragazzina. Ha confessato dicendo che era la pelle del nonno morto, scuoiato in sala mortuaria prima che la bara venisse chiusa. Il caso è archiviato, e lei ha rovinato la sua esistenza per sempre”. Sputò l’ultima boccata di fumo, gettando poi il mozzicone tra le scartoffie della sua postazione. “A ridosso del Torneo abbiamo sempre un gran da fare”. Dopodiché alzò lo sguardo su un punto alle nostre spalle. La porta dell’ufficio si era riaperta.
“Catturati i ladruncoli?”
Non riconoscere la voce di Antony rientrava nei fatti impossibili della vita. Era come ammettere che la terra era ancora piatta e che il sole gli girava attorno. O che Duff conosceva il galateo per filo e per segno -o, ancora, che non avrebbe colpito il nostro peggior nemico con un pugno entro tre secondi… due… UNO.
Quando Antony rinvenne un rivolo di sangue gli colava dal naso. “Finirete qui dentro a vita” aveva detto ando una mano tra i capelli ondulati dal gel. Sistemò il colletto della camicia rosa e il cinturino firmato. Antony era un
“fighetto gold deluxe”, come lo definiva Duff.
“Li sistemerò per bene, non preoccupatevene” rispose Tripke rivolgendosi a Antony. Oddio, gli dava anche del voi! Rivoltante.
“Ti piace fare comunella con questi del Carcere? Sei troppo stronzo”. Duff stava per sferrare un secondo pugno, ma l’agente Tripke l’aveva fermato in tempo e…
CLICK, CLICK.
Le manette scattarono ai polsi. Duff fu immobilizzato e la situazione riportata alla calma. “Vi state riscaldando un po’ troppo. Buoni, ora. Chiacchieriamo”.
A Duff e a Antony fu ordinato di sedersi sulle uniche due sedie disponibili. Tripke riprese posto dietro la scrivania. L’ammanettato, rosso in viso, prese a dimenarsi, ma si calmò subito, costretto ad accettare il fatto che era impossibile liberarsi dalla manette come il celebre illusionista.
Tripke giunse la punta della dita vicino al volto contorto dall’eccitazione e parlò. “La verità vi eviterà complicazioni. Dunque, dunque. Motivazioni del furto?”
“Ci servivano strumenti nuovi e non avevamo soldi per comprarli, bello” rispose Saul.
“Volevamo fargliela pagare” risposi guardando Antony.
“Perché è un figlio di puttana”. Duff.
Antony rimase imibile. L’agente ò a un’altra domanda. “Dov’è il furgone con gli strumenti rubati?”
Ci scambiammo una rapida occhiata, poi rispondemmo di nuovo, rispettando i turni: prima Saul, io, infine Duff.
“Gli amplificatori li abbiamo lasciati sotto le radici di un albero”.
“Scomparso nel bosco vicino la villa, con il resto della strumentazione”.
“In culo alla madre di questo gran figlio di… AAAAHHH!”
Il taser di Tripke colpì Duff al collo, irrigidendo il corpo per qualche istante. Poi la testa gli si afflosciò sul petto.
Antony se la rise, cincischiando spasmodicamente il colletto della camicia. Nervoso, eccitato. Forse intimorito dall’effetto dell’arma dell’agente.
“Cosa gli avete fatto?” esclamai avvicinandomi a Duff. Provai a farlo rinvenire schiaffeggiandolo un paio di volte. Il segno rimasto sul collo sanguinava, tipo il morso di un vampiro.
“Si riprenderà” rispose l’agente quasi annoiato dalla mia reazione. Lasciò cadere la pistola elettrica sulla scrivania. “Riprendiamo le domande. Cosa c’era in quella casa? Dov’eravate nascosti durante l’irruzione? Abbiamo messo a soqquadro tutte le stanze”.
Duff rialzò la testa, gli occhi persi nel vuoto. “Merdoso… schifoso…” articolò piano. Sembrava aver perso le forze perché non disse altro.
“Volevamo nascondere gli strumenti” risposi preoccupato per il mio amico.
Saul iniziò a balbettare qualcosa per rispondere. Mentii, per fortuna, come avrebbe dovuto fare. Menzionare il demone? Giammai. “Nel bosco, bello. È lì che eravamo. Non in casa”.
Tripke continuava con la raffica di domande. “E dei cadaveri cosa mi dite? Chi è stato? Dai nostri archivi B. House risulta ufficialmente disabitata, ma occasionalmente è occupata da un tipo disturbato”.
“È stato lui” esclamò Saul, illuminandosi all’improvviso. Colse la palla al balzo. “Lui! Lo abbiamo visto. Voleva uccidere anche noi! Ci aveva promesso un aiuto, ma poi voleva ammazzarci come cani”.
“Che fine ha fatto? Un aiuto per cosa?”
“È fuggito” spiegai. “Lo abbiamo disarmato, ma è riuscito a scappare. Le tracce
del furgone sparito portavano nel bosco, pensiamo che possa essere stato lui. All’inizio si era offerto di aiutarci col furgone. Abbiamo avuto un guasto. Lo abbiamo spinto fino alla villa. È per quello che abbiamo lasciato gli amplificatori sotto gli alberi, non ce l’avremmo fatta con tutto quel peso a bordo”.
“Idioti” esclamò con disgusto Antony. “Dovrò ricomprare tutto. Mi erano costati una fortuna. Tutte quelle belle valvole”.
“Te li ricomprerai, coglione” Duff ebbe un sussulto. “Hai il culo pieno di grana, no?”
“Così pieno che potrai permetterti di pagare i danni alla macchina di mia madre” rincarai.
Antony si pompò tutto. “Quattro morti di fame che fanno i ladri in casa mia, e pretendi che ti paghi i danni dell’auto di mammina?” rise borioso.
L’agente Tripke batté un pugno sulla scrivania, attutito dalle pelli del nonno scuoiato. “Basta così. Anche voi” si rivolse anche a Antony. “Avreste potuto fermarvi al posto di blocco”. Interpellò nuovamente noi interrogati. Non era un consiglio.
“È quello che avevo detto io, bello” gli fece eco Saul.
“Sei un bastardo, Saul” esclamai schifato, poi ricordai che mi ero comportato lo stesso poco prima alla fermata dell’autobus. Ma ragione o no, mi stava vendendo
a Tripke! Volutamente? Mi stava vendendo. Ci sarebbe riuscito? Mi stava vendendo.
“Siete patetici” sghignazzò il ragazzone con la camicia rosa. Era lì solo per umiliarci facendo il leccapiedi dell’agente.
“Chiudi quella fogna”. Trattenni la rabbia a stento. “Ce la pagherai per tutto quello che hai fatto, a cominciare dalla serata al Mr Brown”.
“Aha!” sghignazzò. “Vi fate sotto tutti insieme o a turno?”
Spalancai gli occhi, che iniziarono a bruciare: senza batter ciglio lanciai ufficialmente la sfida. “Il gruppo al completo, al Torneo dei Rock Guerrieri!”
Sotto lo sguardo accorto dell’agente Antony scoppiò a ridere.
E rise.
Rise ancora. “Non sapevo che avessero cambiato il regolamento. Accettano anche i poveracci?”
“Stronzo, figlio di troia in calore! Ti faremo il culo. Te lo spaccheremo. A pezzi. A cubetti. A strisce. Stronzoooooo!”, Duff aveva perso il controllo. E per l’effetto delle manette, e per la faccia di bronzo del nemico in camicia rosa.
Cercai di frenare l’ira del bassista. “Calmati, Duff! Ora non possiamo fare niente. Gliela faremo vedere al Torneo”.
“No, aspettate. Fatemi capire bene. Parlate sul serio? No, cioè, davvero, suonerete al Torneo dei Rock Guerrieri?” il faccione rosso di Antony era ancora scosso dalle risate, gli occhi lacrimavano.
“Il-culo-a-striscie!” urlò di nuovo Duff.
Antony si alzò dalla sedia. “Siete le persone più stupide conosciute in vita mia”.
“Quanto a stupidità veniamo sempre dopo di te” lo attaccai. “Hai mai sentito parlare di 'non sottovalutare il nemico'?”
“Se il nemico è come voi non dovrei avere problemi. Vi pagherò il funerale dopo la prima battle rock. Niente bare, sarebbe troppo. Direi più una fossa comune. Perlomeno sareste utili come concime naturale per la terra”.
Il ruggito animalesco di Duff incoraggiò Tripke a sparare di nuovo con la pistola taser. Il proiettile elettrico si conficcò nel collo. Il sangue schizzò. “Ragazzo, tieni a bada il tuo amico se non vuoi che gli faccia molto male” mi urlò contro con la pistola ancora puntata. L’occhio caleidoscopico dell’agente vorticava in senso antiorario creando piccole croci nere su campo dorato.
Con la stessa fermezza con cui avevo sfidato Antony risposi. “Colpire lui che
non può difendersi, ammanettato com’è. Complimenti. Si faccia un esame di coscienza, se ne ha una”.
La mano armata dell’agente tremò, stava per colpire di nuovo. Me, questa volta.
“Timeout!” sbuffò seccato Antony, le dita sul colletto. “La finiamo qui. Mi sono proprio annoiato. Come volete, ce la vedremo al Torneo. Sarà divertente. Scommetterò con i miei amici sulla vostra morte. Prima o dopo aver messo piede sul palco?” sorrise come un ebete. Tal taschino dei pantaloni firmati estrasse il portafogli, firmato pure quello. “Ecco a lei, Tripke. I DRC li voglio fuori da questo posto. Scagionati da ogni accusa”.
Alla vista del denaro l’agente tentennò.
“Che fa, non li vuole? Tira al rialzo?” Antony aggiunse un’altra sostanziosa mazzetta. “Ora dovrebbero bastare”.
Tripke lottava contro l’impulso di negare al ragazzotto in camicia l’atto di corruzione. “Fuori di qui. Tutti. Adesso” scandì piano, intascando la grana.
E uno a zero per il dio denaro!
“Bene, tutto risolto” disse Antony avviandosi alla porta. “Ci si vede al Torneo. Anche lei, Tripke. Farà parte della Squadra di Sorveglianza? Bene. Matty e voialtri, questa volta ve l’ho fatta scampare, a patto che la vostra performance sarà almeno sosa. Me lo auguro. In caso contrario, be’, sarà sempre compito
mio sistemarvi per l’aldilà. La prospettiva di non avervi più tra i piedi è allentante. Buona fortuna, perdenti”.
Pollici sul cinturone, Antony lasciò la stanza.
Il ragazzone in camicia rosa l’aveva fatta a tutti. Compreso l’agente Tripke, rimasto imbambolato a osservare la porta per qualche istante.
“Posso riavere il cellulare, bello?” chiese Saul rompendo il silenzio. “Tanto è tutto risolto, come ha detto il suo amico riccone”.
Be’, la faccia tosta di Saul avrebbe meritato non solo un paio di colpi di taser.
“FUORI” tuonò l’agente gettando il cellulare tra le mani del mio amico. Poi liberò Duff dalle manette. “Fuori” ripeté.
Lasciammo Tripke ai suoi pensieri e alle sue mazzette. Il corridoio dell’ala ovest era vuoto come quando eravamo arrivati. Dai piani superiori arrivavano i lamenti dei detenuti.
L’omino calvo in guardiola ci guardò are a bocca aperta.
“Siete stati scagionati da Tripke?” strillò con una vocina pungente.
“Non te l’aspettavi, eh, pelatone?” ridacchiò Duff, mostrando indice medio e anulare. “Leggi tra le righe!”
I petali di ciliegio ci riaccolsero all’esterno. Il pomeriggio inoltrato era freddo e ventoso, il cielo ancora imbrattato di nubi.
Il cellulare di Saul riprese a ricevere messaggi, Duff si teneva il collo “morso” e io, o dopo o, godendomi il venticello gelato, raffreddavo i pensieri. Riflessioni che mi sarei trascinato nella tomba, in caso di mancata vittoria al Torneo dei Rock Guerrieri.
E al diavolo, se parte di quei pensieri erano già tre metri sotto terra.
Click: STOP -
Click: INSERIRE LATO B… INSERIRE LATO B… INSERIRE LATO B…
Click.
È il vostro radiofonico Benny Diesis che vi parla!
L’appuntamento con il Torneo dei Rock Guerrieri si avvicina!
Anche quest’anno ci aspetta un’altra infuocata competizione!
Vuoi far esplodere il cervello del tuo peggior nemico a colpi di chitarra?
Batteresti la band avversaria con una scarica di Power Chords?
Strapperesti l’anima al tuo rivale con un Assolo Infernale?
E ti piacerebbe diventare la rockstar più cool del momento?
Ma soprattutto, hai il coraggio di combattere?
Iscriviti al
TORNEO DEI ROCK GUERRIERI
dove tutto è consentito!
E ora un po’ di musica,
un saluto da Benny Diesis!
Dark Rock Chronicles
Una storia paranormale, tra pupe, alcol e battle rock
Lato B
Track #12
Un o alla volta
Fuori dall’ex college, superato il viale e il cancello, c’era parcheggiata la macchina sportiva di Antony. Ci vide arrivare dallo specchietto. Il testone fece capolino dal finestrino abbassato. “Volete un aggio?” si burlò di noi come un bambinetto troppo cresciuto. Poi accelerò all’improvviso, la risata da invasato resa ancora più stridula dal fischio delle gomme sull’asfalto.
Rimanemmo fermi e zitti e impotenti.
“Al Torneo, ragazzi. La pagherà”. La mia voce fu appena udibile. “Vero?”
“Non so come, bello, ma spero sia così” rispose Saul. “Se è vero che tutte le storie hanno un lieto fine e vincono i buoni, allora la fortuna per una volta dovrà darci una mano”.
“Noi siamo i buoni?” domandò Duff.
Feci spallucce, disorientato dalla domanda. “Be’, suppongo di sì, Duff. Antony di sicuro non lo è”.
“Giusto” borbottò il mio amico strofinandosi i segni sul collo. “Ed è vero che
tutte le storie hanno un lieto fine? Secondo me no. Cioè, nei fumetti i protagonisti o gli eroi ci rimettono sempre qualcosa”.
Risposi come si parla a un bambino. “È il prezzo da pagare” spiegai. “Nessuno riceve qualcosa per niente. Non funziona così. Alla fine vincono i buoni nel novanta per cento dei casi, ma ci rimettono sempre qualcosa”.
“Noi ci rimetteremo Axl, tipo?”
“Spero di no. È per salvarlo che parteciperemo al Torneo”.
“E per fare il culo a quel coglione”.
“Anche per quello”.
L’ora del tramonto stava risucchiando il sole dal giorno, lasciando spazio alla luce artificiale dei lampioni; quelli all’entrata del Carcere si accesero con un ronzio.
Presto il crepuscolo divenne notte e sulla strada per casa nessuno trovò nulla da dire. Arrivammo al centro abitato poco prima della mezzanotte, distrutti per la stanchezza.
Ci separammo alla rotatoria, all’ingresso della zona residenziale. Le poche luci accese nelle villette attorno erano occhi indiscreti nell’oscurità.
Fu strano salutarsi dopo tutto quel tempo trascorso insieme e i guai in cui ci eravamo cacciati.
“Matt, spero che tua madre non ti rompa troppo le palle. Se hai bisogno di qualcosa, sai che ci sono”.
Sorridere venne spontaneo. “Grazie, Duff. Ci si vede”.
“Ciao, bello. 'Notte!”
“’Notte, Saul. A presto”.
E imboccando ognuno tre direzioni diverse, sparimmo ingoiati tra le villette.
Il vialetto di casa, illuminato dalla lampade a pelo d’erba, era seminascosto dal sottile strato di umidità notturno. In casa nessuna luce accesa.
Attraversai il prato per andare sul retro.
Alzai lo sguardo in direzione della finestra di camera mia. Quanto poteva essere alta? Quattro, cinque amplificatori messi uno sull’altro?
E così iniziai ad arrampicarmi.
Non guardare in basso, Matt. Un o alla volta, si arriva in cima.
Guardai in basso.
Il senso di vuoto fu come un getto di aria compressa sparato nello stomaco. Gocce di sudore gelato mi graffiarono la schiena. Però non mi fermai.
Non è una montagna.
Per la prima volta in vita mia ero salito in camera arrampicandomi sul muro di casa! Quando arrivai alla finestra mi incollai al vetro cercando di trovare un equilibrio sui piedi. Sollevai l’anta per entrare. Ma prima di trovare l’interruttore della lampada sulla scrivania e prima di sentirmi finalmente al sicuro capii che in camera c’era qualcuno.
“Dove sei stato? Dov’è la macchina?”
Era lì ad attendermi, seduta sul letto a braccia conserte, gli occhi arrossati dalla stanchezza. Mia madre.
“Sono stanco, Ma’”.
“Sparisci senza dirmi nulla, disperso quasi per quarantadue ore, rubi la macchina e la tua risposta è che sei stanco?” si alzò dal letto, sovrastandomi, le labbra sottili. “Dimmi dove sei stato, Matt. Di nuovo con quegli spostasti dei tuoi amici? Anche se considerarli tali mi sembra alquanto pretenzioso. Altro non sono che delinquenti. Sono stati loro a prendere l’auto?”
La mia risposta fu: silenzio e occhi puntati sul pavimento.
“Sto aspettando una risposta, Matt”.
“Sono stato con gli altri” balbettai. “Sto bene”.
“Dove? E, per Dio, la macchina… che fine ha fatto?”
La risposta che avrei dovuto dare, la verità, fu presa d’assalto dalla menzogna, e dalla voglia di gettarmi sul letto e lasciarmi dietro tutto con una bella dormita.
“In giro” risposi. “In giro col furgone di Axl”.
La punta delle mie scarpe non era mai stata così interessante.
“Matt, non dire bugie. Non ho cresciuto un figlio perché se ne andasse in giro con dei delinquenti. Quell’Axl è il peggiore della combriccola assieme a quello coi capelli lunghi fino al sedere! Dio solo sa come perdonarlo”. Mi alitò addosso. Alcol e fumo mischiati con l’odore di farmaci. “La macchina,
comunque. Dov’è?”
“Siamo stati fuori città. E so che me lo avresti impedito, per questo non ti ho detto nulla” risposi mestamente. “La macchina l’hanno sfasciata”.
Mia madre inspirò profondamente. La sentii rantolare per l’esasperazione. “Impedirlo sarebbe stato il minimo! Ti avrei incatenato a questo letto, per Dio! Non sono stata una madre all’altezza, Matt? Oh, per l’amore del cielo e di tutta la terra! Ho cresciuto un figlio irresponsabile e promesso teppista!”
Alzai lo sguardo per ritrovarmi di fronte al viso paonazzo di mia madre. “Non sono un teppista, Ma’. So quello che faccio”.
“Non lo avevi mai fatto prima. LADRO! Com’è potuto accadere?” iniziò a urlare sbracciandosi come un’ossessa. “Mio Dio Illuminato, che vergogna che provo. Dove ho sbagliato? Sono stata una stupida! Dopo tutti gli sforzi per metterti sulla buona strada…”
“Dai, Ma’…”
“… Ho fallito!”
Andò fuori di testa, capitava spesso. Urlava a squarciagola tirandosi i capelli ingrigiti. Rispettava il silenzio del vicinato scrupolosamente, ma quando le girava male… era così fuori di sé che mi aveva lasciato lì in camera senza punirmi.
Se ne andò con le mani ancora nei capelli, sbattendo la porta. Le pareti vibrarono.
arono solo cinque secondi. La porta si riaprì. Mia madre si ricompose in un istante, ma un angolo della bocca era rimasto contorno dalla rabbia. “Sei in punizione” pronunciò con voce piatta, equilibrata e vagamente malvagia.
“Lo so”.
“Tre mesi. Niente batteria. Niente tivù. E soprattutto niente uscite con quelli là. Per tre mesi”.
Alzò su col naso, dopodiché la porta sbatté per la seconda volta e rimase chiusa.
Guardai la batteria nell’angolo vicino la finestra: avrebbe messo su uno strato di polvere come quello nella saletta del demone. I mesi e le settimane l’avrebbero conservata imbalsamata.
Avrei voluto chiudere fuori dalla mia stanza tutto quello che era successo negli ultimi giorni. Crollai sul letto a peso morto. La stanchezza prese il sopravvento. I poster che tappezzavano le pareti erano gli angeli custodi del mio piccolo rifugio. Chiusi gli occhi e mi addormentai. Sognai l’indipendenza e una vita senza mia madre, lontano da casa.
DRRRIIIIIIINN!
La sveglia suonò troppo presto: 7.35.
Un dramma trovare la concentrazione per obbligare il corpo ad alzarsi dal letto. Braccia e gambe erano pesi abnormi, il collo doleva e gli occhi non volevano saperne di rimanere aperti. Guardai appena fuori, il cielo era una cappa monotona di grigio spento.
In bagno mi gettai un po’ di acqua fredda in faccia; sentii gli occhi restringersi e bruciare. Volevo essere già fuori per rivedere i miei amici, ma mi toccava andare in cucina per la colazione. “’Giorno, Ma’”.
Mia madre borbottò qualcosa per rispondermi. Era ancora in vestaglia e fumava in piedi davanti al piccolo televisore posizionato sul frigo. avano le notizie della giornata.
“… la banda è stata quindi sgominata. E ora le brevi: mancano ormai poche settimana all’inizio del Torneo dei…”
“Ehi, stavo ascoltando!”
“Robaccia” mugugnò mia madre. Aveva spento la tivù. “Finisci la colazione e vai a scuola. E vedi di ritornare a casa” disse come disgustata dalla mia presenza.
Del pane carbonizzato da imburrare e del succo. Sul tavolo non c’era altro.
“Parteciperò a quel Torneo, comunque”.
Le narici di mia madre fumarono come quelle di un drago, le labbra serrate. La voce era gracchiante. “Prova solo a ripetere quello che hai appena detto e giuro… giuro che andrai di filata in collegio! Quei teppisti hanno una cattiva influenza su di te, ma non gli permetterò di rovinarti completamente”.
Buttai giù il pane carbonizzato con un sorso di succo d’arancia. “Meglio se vado, è tardi” dissi, percependo il sangue defluire dal volto. “A più tardi”.
“Puoi contarci”.
L’aria frizzantina del mattino era ciò che mi serviva per smaltire la puzza di sigarette in cucina e il pane carbonizzato, anche se il gusto d’arancia aveva già tolto il sapore amaro delle croste abbrustolite.
Rivedere alla luce del giorno le villette a schiera sul viale fu rassicurante. Ero davvero tornato alla vita di tutti i giorni.
L’autobus arrivò puntuale. Salendo a bordo continuai a rivivere la cara, vecchia monotonia: urla, occhiatacce e sorrisini beffardi, risate, mugugni e imprecazioni.
“Palle mosce, dove cazzo vai? Qua, amico. C’è posto!”
“Ciao, Duff”.
Era lui il primo a prendere l’autobus la mattina. Poi salivo io, e due fermate successive Axl e Saul. Loro abitavano a poca distanza l’un l’altro.
“Allora, com’è andata con la mammina?” chiese Duff.
Prima di rispondere lo invitai ad abbassare la voce.
“Male, come puoi immaginare” risposi abbattuto. “Sono entrato dalla finestra di camera mia. Volevo andare a dormire senza problemi, capisci? Evitare la predica. Ma era lì ad aspettarmi”.
“Oh, cazzo” buttò lì Duff, incredulo. “È sempre peggio, amico. Hai i tuoi momenti un po’ così, e a volte capisco perché tua madre ti sta addosso. Ma stavolta… cazzo se ha esagerato! Quella della finestra era una bella idea, comunque”.
“Be’, non era mai successo prima. Un po’ me lo aspettavo, ma… boh. Non così”.
L’autobus si fermò. Era la fermata di Saul. Lo vidi salire, senza Axl, a testa bassa e con i pollici che scattavano velocissimi sul tastierino del cellulare.
“Ciao, bello. Duff”. Salutò senza staccare gli occhi dallo schermo. “Scusate, ma è Megan. Mi assilla. Deve ancora ambientarsi in città. Non ha molti amici,
quindi rompe sempre me per quattro chiacchiere”.
“Mica ci devi spiegazioni” rispose Duff. “Piuttosto, a te com’è andato il rientro? Matt qui dice che se l’è vista brutta”.
“E non vi ho ancora detto della punizione” dissi cupo. L’autobus era ripartito.
Scendemmo alla fermata iniziando a ragionare sul Torneo.
“Belli, se non vogliamo essere tritati come al macello dobbiamo darci da fare”. Saul sembrava tanto sicuro di sé, ma non c’era molto da fidarsi. Era stato lì lì per vendermi all’agente Tripke.
“Questo vale per tutti. Forse dovresti iniziare a usare meno quel cellulare” risposi, evitando però toni sospetti e accusatori.
Saul annui. “Hai ragione, bello. Però tu dovresti evitare di rimbambirti per Charlotte Michelle”.
Al sentire quel nome mi si bloccarono le parole. Duff mi salvò dall’imbarazzo rispondendo al posto mio.
“Giusto” concordò con garbo. “Niente telefono e niente Michelle. E niente fumetti e niente tivù. E niente videogame e niente giochi di ruolo. E niente seghe davanti ai giornaletti”.
“Quelle valgono per te” rispondemmo io e Saul all’unisono.
Duff ridacchiò grottescamente. “Cercherò di smettere, se serve per il Torneo”.
“Se non altro servirà per tirarti fuori dal Tunnel Carpale”.
“Carnale di che? Porca vacca, Matt. Non sono un genietto! Io non o tutto il tempo sui libri a cercare cazzate da scienziati”.
Il vociare nei giardini della scuola ci allontanò per qualche minuto dalle preoccupazioni del Torneo. Mi sentivo estraneo a quella mandria di ragazzi sparsi ovunque, ma con gli anni avevo imparato a convivere discretamente nella giungla scolastica.
A patto che non beccassi quell’idiota di Antony, si intende. Era lì, vicino l’ingresso principale, tutto in ghingheri, stretto in una camicetta azzurra e attorniato dai suoi Boys e da qualche ochetta.
“Coglione senza peli” grugnì Duff, sistemando lo zuccotto in testa. “Quanto vorrei strappargli le palle e friggerle nell’olio schifoso dei fast food”.
“Arriverà il momento” risposi allontanando Duff dalla visuale di Antony. “Ora però preoccupiamoci degli strumenti. Ci serve al più presto un Modificatore”.
“L’hai detto! Ma quale pazzo ci starebbe dietro? Non possiamo nemmeno offrire soldi in cambio”.
“Mr Mongomery non è un approfittatore. È uno economico” propose Saul.
“Ma non possiamo comunque permettercelo” risposi.
Mancava ancora qualche minuto all’inizio delle lezioni. Rimanemmo a parlare vicino a uno dei muretti del campo da calcio.
“E se rubassimo tipo qualche progetto a uno dei Modificatori? Potremmo occuparcene noi delle lavorazioni”.
“Io non ruberò proprio niente” risposi ancora. “E anche se mettessimo le mani su un progetto, chi è che farebbe le modifiche? Né io né voi sappiamo tenere anche solo un cacciavite in mano”.
Percepii appena uno spostamento d’aria dietro di me.
“P-potrei farlo io?”
La gola si seccò in un istante e delle fiammelle invisibili mi bruciacchiarono le orecchie. Mi irrigidì di colpo e dimenticai come mi chiamavo, dove mi trovavo e… chi erano quei due ragazzi al mio fianco appoggiati sul muretto?
Bloccato su due piedi non riuscii a voltarmi. Alle mie spalle, la deliziosa voce di Charlotte Michelle parlò di nuovo. “Non cerco denaro. Se mi prendete nel gruppo sarò felice di essere la vostra modificatrice”.
Track #13
Stand by me
Sottile e dolce, come un angelo che ti culla placidamente. La voce di Charlotte Michelle mi faceva sempre quell’effetto.
Non ci frequentavamo, e l’unica esperienza in comune era stata una volta in sala mensa, dividendo lo stesso tavolo, il primo giorno di scuola di un anno fa. Fu un colpo di fulmine, non me ne vergogno a dirlo. Da quel momento in poi tutto ciò che sapevo di lei l’avevo appreso dal aparola studentesco. Se eri uno figo tutta la scuola ti conosceva, tipo come accadeva con Saul. Ma eri sulla bocca di tutti anche se eri uno strambo, e Charlotte Michelle lo era; di questo ero innamorato.
“Ma sparisci!” l’attaccò Duff sputandole ai piedi.
Cercai di muovere le gambe per voltarmi, ma mi sentivo goffo e brutto. Dopo un po’ riuscii finalmente a sbloccarmi. Incontrai i suoi occhi grandi -resi ancora più grandi dalle lenti degli occhiali spessi- color verde smeraldo. I capelli lunghi e neri a contrasto con la pelle chiarissima; jeans stretti e consumati e una camicia a quadri rossa e nera troppo grande per il suo corpo minuto. Diversa da tutte; la mia ragazza ideale.
Le sue piccole labbra accentuate da un tocco leggero di rossetto si mossero. “Ciao, Matt”.
Riuscii ad articolare una specie di saluto. Fu difficile, e le risatine di Saul e Duff non mi aiutarono per niente.
“‘Oh, amore mio! Mi tremano le palle quando sei così vicina’” fece Duff in un’ottima imitazione della mia voce. “Ragazzi, siete da vomito. Che schifezza. E tu, caramellina, perché non vai in classe? Le lezioni stanno per cominciare”.
Charlotte rimase dov’era dondolando sui talloni, imbarazzata quanto me, in attesa di una risposta.
“Bello, però vuole aiutarci. Forse dovremmo darle retta” rispose Saul. Avrei voluto baciarlo in fronte! Ma lasciai stare perché quella del bacio era una prerogativa di Duff, anche piuttosto squallida.
“Forse dovremmo darle retta. Dovremmo, sì” ripetei automaticamente.
“Questo l’ha già detto lui”. Duff si staccò dal muretto e sbuffò. Si avvicinò a Charlotte ma si rivolse ancora a me. “Ho capito che quando c’è lei quel tuo cervello parte, tipo. No?”
Potevo negarlo?
“Caramellina, allora? La camla è suonata”.
“Io… ehm. Vorrei sapere cosa ne pensate della mia proposta”. Ammirai la perseveranza di Charlotte. Sapeva il fatto suo. “N-non voglio soldi in cambio. Nulla” sottolineò gentile. “Ho sentito dire che quest’anno ci sarà anche un premio al miglior Modificatore del Torneo. Così pensavo di… cercarmi un gruppo per poter partecipare al contest”.
Duff scoppiò a ridere, storcendo il naso in una smorfia e imitando involontariamente l’espressione dura di mia madre. “Vedo che anche tu non sei a posto col cervello, caramellina. Ti ho detto di sparire. Vai a seguire le tue lezioncine e lasciaci in pace. Abbiamo già un mucchio di grane che dobbiamo risolvere, e non ci servono caramelline tra i piedi”.
“Duff, dacci un taglio, ok?” quella reazione impulsiva sciolse tutti i miei freni inibitori. “Nessuno ti ha mai insegnato di essere gentile con chi è gentile con te? Vuole aiutarci, e visto che siamo nella merda fino ai capelli faremmo bene a darle retta”.
Duff prese un brutto cipiglio. “Il gallo rizza le penne vicino alla gallina. Quando ragioni col pisello ti odio”.
“E tu ragioni col culo”.
Eravamo faccia a faccia. Sapevo che le avrei prese fino a rimetterci qualche osso rotto, ma come si era permesso a insultare Charlotte?
“Ehi, ehi! Datevi una calmata. Duff, sta’ buono, bello. Che ci costa provare? Come dice Matt, siamo messi male” aggiunse abbassando il tono e squadrando Charlotte dalla testa ai piedi. “Ma vedi altre soluzioni?”
“Morire” ringhiò Duff, le sopracciglia folte aggrottate come un personaggio dei cartoni animati incavolato nero.
Mi rivolsi a Charlotte, allontanandola da Duff. “Ora è meglio se vai. Ti faccio sapere io, d’accordo?”
Fu crudele, ma non potevo lasciarla lì ad aspettare che il mio amico si decidesse. Duff non voleva proprio saperne. Avrebbe continuato volentieri con quelle scenate per tutta la giornata.
“Ok” rispose lei, puntellandosi coi piedi. “Ci conto. Allora a-a… a presto”.
“Sì. A presto”.
“Ciao, allora”.
“Ciao”.
“Ciao”.
“Vado”.
“Sì”.
“Ciao”.
Fece qualche o all’indietro, poi girò le spalle e si allontanò rapida per andare a lezione.
Troppo carina. Esageratamente. Poteva essere la nostra salvezza, e questo la rese ancora più bella ai miei occhi. E sexy, pure.
“Palle mosce, ti riprendi o devo darti un colpo in testa?”
Convincere Duff fu una battaglia psicologica. Non aveva un gran cervello, questo era palese. La testa dura come il marmo, e persuaderlo a fare qualcosa che non voleva era come scommettere sulla nostra vittoria al Torneo. Per tre giorni interi io e Saul cercammo di convincerlo che non c’erano alternative ad avere una ragazza in squadra.
Da parte mia non avevo mai preso in considerazione Charlotte semplicemente perché non volevo fare la figura dell’imbecille ogni volta. Sarebbe stato troppo evidente, l’avrei scelta perché mi piaceva. Ma avevo imparato a scendere a compromessi quando si andava incontro a situazioni critiche come quella in cui eravamo invischiati.
“Fallo per Axl” continuavamo a ripetere, o: “Non abbiamo soldi per pagare altri Modificatori”. E ancora: “Charlotte lo farebbe gratis!”
Quando anche Jack Beater disse di no perché ‘eravamo ridicoli da far pena anche a un barbone, allora Duff fu costretto a piegarsi al destino.
“Axl” sbraitò mordendo lo zuccotto. “È colpa sua! Quando ritornerà gliela farò pagare. Se non era per lui…”.
Convinto Duff non mi restava che comunicare la notizia a Charlotte. Nei due giorni successivi al battibecco con il mio amico vicino al muretto del campo da calcio, la vedevo aggirarsi furtivamente nei corridoi. Ci seguiva ovunque per origliare le nostre mosse e le conversazioni sul Torneo.
Faceva tenerezza, e dovendola ignorare per concentrarmi sulla frustrazione di Duff mi sentii un gran bastardo.
Così l’aspettai all’uscita della scuola per informarla che era dei nostri. Una formalità; lo aveva probabilmente già appreso mentre ne parlavamo in giro per l’istituto, o per strada, appostata come una spia di un certo livello.
Ero nervoso, eccitato e felice al contempo. Attesi vicino la sua bici, un telaio e due ruote trasformato in un bolide a reazione. Mi piaceva anche per questo; era troppo avanti. Con quel motore avrebbe potuto polverizzare tutte le oche che la prendevano in giro, se solo avesse voluto.
Quando la vidi arrivare, con la solita andatura sulle punte, il cuore iniziò a battere forte. Raddrizzai la schiena, petto in fuori. Per la prima volta, guardandola avvicinarsi, notai che aveva pure un bel fisico. Di nascosto
controllai anche l’alito.
Che idiota, non devo mica baciarla.
“M-Matt? Ciao. Che ci fai qui?” sorrise.
“Charlotte. Ehm… ciao? Ciao”.
Come potevo riuscire a domare tutti quei pensieri e quelle immagini che mi avano in testa? Frasi di film e serie televisive, con stupidi innamorati e stupidi protagonisti.
“Ecco, io… sono qui per…”
“Sì?” mi incoraggiò lei.
Cavolo, che occhi. E adesso dove guardo? Oh, che bello quell’albero! Molto… marrone e verde.
“Volevosolodirticheseideinostri…seilamodificatriceufficialedeiDRC!”
Il suo sorriso si allargò. Era evidentemente colma di gioia. La pelle di porcellana si tinse di imbarazzo.
“Lo sapevo” disse con quella sua vocina dolce portando entrambe le mani al petto.
Mi finsi sorpreso. “Oh, quindi lo immaginavi già?”
“Veramente, io… ho ascoltato le vostre conversazioni” rispose preoccupata. Il sorriso sbiadì. “Scusami”.
“Oh. Nessun problema!” sventolai maldestramente le mani per spiegare che non doveva affatto preoccuparsi. “Davvero, è tutto ok”.
Charlotte ritornò a sorridere. “Ce la metterò tutta, promesso”.
“Fantastico!” sentivo tutti i muscoli della faccia pesanti e per niente elastici, come se si stessero atrofizzando e cementando dietro lo strato di pelle.
Disse che doveva andare a casa a finire un progetto. Ci salutammo, e l’avvisai che il prima possibile avremmo organizzato una riunione col tutto il gruppo. Come avrei fatto ad andarci non lo sapevo; i tre mesi di punizione rimanevano.
In sella alla bici Charlotte cambiò gli occhiali. Inforcò una mascherina da motociclista. Era molto carina anche così.
“Ce la fai a vedere?” chiesi.
“Sono lenti graduate. Le ho montate io” rispose divertita. Poi accelerò azionando dei pulsanti sul manubrio e partì a razzo.
Fu il giorno più bello degli ultimi trascorsi. Il tempo ò così velocemente tanto che persi l’autobus per casa. Quando mi misi in marcia per tornare potevo ancora sentire il rombo della bici motorizzata in lontananza.
A piedi, tagliai per alcune vie che conoscevo poco, ma comunque tutte uguali alle altre, con villette e giardini perfettamente tenuti.
Quando arrivai a casa trovai mia madre ancora davanti al televisore, una sigaretta le penzolava dalle labbra.
“Sono tornato, Ma’”.
“Buon per te” rispose sovrappensiero, catturata dalla puntata del suo reality show preferito. Non si era neanche accorta che avevo fatto tardi; mi fu utile per salire in camera senza beccarmi altri rimproveri.
Gettai lo zaino nell’angolo accanto la batteria. Ancora altri novantadue giorni senza poterla suonare…
Novantuno.
Novanta.
Eccomi al terzo pomeriggio di fila senza suonare. A scuola, nei momenti liberi, discutevamo sempre del Torneo. Charlotte aveva iniziato a elaborare i primi progetti. Aveva preso in consegna la chitarra di Saul e il basso di Duff per fare un check-up dell’elettronica; forse il motivo per cui il mio amico non la chiamava più “caramellina”.
Quel pomeriggio aprii un libro per cominciare a studiare. Ero naturalmente svogliato e privo di attenzione. Fu così, con gli occhi che vagavano da una parte all’altra della stanza, che notai un piccolo lucchetto alla finestra. Lo esaminai, come per assicurarmi che fosse vero. La mia vecchia aveva superato se stessa!
Non mi ero mai sentito così in trappola.
ò del tempo. Avevo continuato a rileggere un paragrafo del libro senza capirci niente. A un certo punto mia madre entrò senza bussare.
“Vado dalla zia. Tornerò stasera” annunciò. Era già vestita e pronta per uscire.
“Ok” risposi soltanto, senza staccare gli occhi dal libro. Non dissi niente a proposito del lucchetto, anche se provavo una gran rabbia dentro. Quella rabbia era pronta a esplodere, ma volevo resistete; non volevo dare a mia madre nessuna soddisfazione.
“Non mi dilungo in inutili raccomandazioni. Vedi come comportarti”.
“Ho da studiare, tranquilla”.
“Buon per te. A più tardi”.
E sbatté la porta.
Non appena sentii la macchina lasciare il vialetto mi precipitai al piano di sotto per attaccarmi al telefono.
0118 …
“Andiamo, Duff, rispondi!”
Niente.
Provai a richiamare dopo qualche minuto ma il telefono risultava staccato. Decisi di lasciar perdere Duff e chiamare Saul sul cellulare.
“Saul? Senti, ce la fate a venire a casa mia per provare? Mia madre è uscita e torna stasera. Abbiamo un po’ di tempo”.
“Bello, siamo fuori casa tua. Apri!”
Me li trovai tutt’e tre di fronte aprendo la porta. Tutti e tre, perché con Duff e Saul c’era anche Charlotte. “Ciao” mi salutò, le gote color cremisi. Indossava delle lenti rosse su occhialoni da lavoro, dei guantoni da saldatore e un camice bianco. La nostra modificatrice!
Senza perderci in chiacchiere salimmo in camera mia.
“Solo una cosa. Mi spiegate come cavolo avete fatto a essere sotto casa subito dopo la telefonata?”
“È stata lei, bello” rispose Saul ammirato, posando la custodia con la chitarra. L’aprì, rivelando la sua malconcia amata. Era ispirata a uno dei suoi chitarristi preferiti, uno che si faceva chiamare The Boss. Era ormai ridotta male. Il colore ambrato era sbiadito e graffiato.
Guardai Charlotte senza capire. Le lenti rosse oscuravano il verde degli occhi.
“Ho saputo della punizione” iniziò incerta cincischiando con un lembo del camice. “Non possiamo permetterci di lasciarti costretto in casa, ho pensato di tenere d’occhio tua madre. So che è illegale ma… l’ho fatto per te… per il gruppo. Ho… ho iniziato a controllare i tabulati telefonici” aggiunse con la vocina che diventava sempre più sottile. “È da due giorni che ascolto le chiamate di tua madre. Sapevo che sarebbe uscita oggi a quest’ora”. Estrasse dalla tasca del camice un aggeggio simile a un cellulare. Me lo mostrò.
“Quindi sapevi dell’appuntamento con mia zia e hai avvisato gli altri per venire a provare da me? Potevate avvisarmi a scuola”. Feci attenzione a non far sembrare la quella frase come un’accusa.
“Ehm, sì. Scusami. Avrei dovuto, ma non volevo…”
“Non voleva sembrare troppo invadente, bello” suggerì cortese Saul. “Avrei fatto lo stesso io. È stata una grande”.
Sentire gli apprezzamenti di Saul mi fece piacere.
“Quindi” ripresi il discorso, “ehm… cosa hai scoperto dai tabulati?”
La spiegazione di Charlotte addolcì le mie preoccupazioni. “Dato che questo Torneo dovete vincerlo a tutti i costi, per salvare il vostro amico, come mi avete detto, ho pensato che, ehm… mi avreste concesso l’uso di mezzi illeciti. Non l’avrei fatto in altri casi” si affrettò ad aggiungere. “E non è dalla zia che è andata tua madre... ops!” portò una mano alla bocca, sbarrando gli occhi. “Questo mi sa non dovevo dirlo”. Il viso candido divenne dello stesso colore delle lenti.
“La madre di Matt se la fa col professore di ginnastica, questo lo sapevano tutti” sghignazzò Duff accordando il suo basso.
Scioccato risposi: “Io non ne sapevo niente”.
Se mia madre se la faceva con uno dei miei insegnanti avevo il diritto di saperlo. Non ce l’avevo con Charlotte, nemmeno con Duff che continuava a ridere senza pudore dimenandosi sul mio letto.
“Be’, saranno fatti suoi”. Cercai di chiudere l’argomento, ma inevitabilmente mi rabbuiai. “Mettiamo da parte questa storia e iniziamo a provare i nuovi strumenti, ok?” suonare mi avrebbe distolto dall’immagine di mia madre a pomiciare in macchina con Mr Talinski. Altra cosa certa è che alla prima occasione buona questo suo segreto l’avrei usato a mio vantaggio, per ricattarla, o anche solo per offenderla.
Vidi Charlotte impietrita e con lo sguardo perso. “È tutto a posto. Non sono arrabbiato” la rassicurai. Avrei voluto farlo con un bacio.
“Eddai che si comincia!” gridò Duff rimettendosi in piedi. ò la tracolla del basso attorno alla spalla tutto eccitato. Il suo strumento era massiccio, color nero pece. Graffiato e usurato come la chitarra di Saul. Duff ci teneva particolarmente perché glielo avevamo regalato noi del gruppo un paio di anni fa per il compleanno.
Per insonorizzare l’ambiente la modificatrice applicò quattro sfere di spugna agli angoli della stanza. “Catturano i suoni” spiegò. “Da fuori sembrerà che in casa non ci sia nessuno”.
“E gli amplificatori?” chiesi. Oltre alla chitarra di Saul e al basso di Duff non c’era altro. C’era una valigetta di Charlotte, ma gli amplificatori naturalmente non potevano essere lì dentro.
“Preinstallati negli strumenti” rispose iniziando ad armeggiare con un telecomando che estrasse dalla tasca. “Questo serve a comandare gli strumenti a distanza. È da considerare anche come misura precauzionale, nel caso di guasti improvvisi, come corto circuiti o piccole esplosioni”.
“Esplosioni?” esclamò Saul. Anche lui era pronto, chitarra in spalla.
Charlotte accese gli strumenti. Un leggerissimo suono acuto rimbalzò sulle pareti della stanza imbottite di poster. “Può capitare” rispose concentrata. “Chiedo scusa”.
“Palle mosce, ti muovi? La batteria è lì!”
Duff era impaziente. E come biasimarlo? Erano i nostri primi strumenti modificati.
Presi posto dietro la mia strumentazione. Duff e Saul provarono un’ultima volta le accordature.
“Cosa suoniamo?”
“Bussa alle nostre porte, Paradiso?”
“Dai, è da poppanti merdosi”.
Tirammo giù una lista di canzoni, nessuna delle quali ci mise d’accordo.
“Ehm. P-potrei dire la mia? Un consiglio” Charlotte richiamò la nostra attenzione alzando la mano, “come fanno i secchioni a scuola” sarebbe stato il commento di Duff se non gli avessi fatto cenno con la bacchetta.
“P-potreste fare… Stai con Me? È una delle mie preferite dei King of Ben. Se vi va, ecco”.
“Ma è da checche!” tuonò Duff sfilandosi il basso. “Se vuoi stare con noi non devi darci ordini, ok? Lavori sui nostri ruderi, ma il fatto è che tu modifichi, e noi suoniamo. E decidiamo cosa fare”.
“A me piace” risposi, sentendo le orecchie riscaldarsi. “Possiamo suonarla”.
“Avanti, belli. Andiamo!” si intromise Saul. “Va bene anche per me, basta che ci diamo una mossa”.
Duff ci avrebbe sbranati se non fosse stato che avevamo i minuti contati.
Diedi il tempo e finalmente iniziammo a suonare.
Non fu il massimo. E se non fosse stato per Charlotte (“Quando arriva la notte e il mondo cade nell’ombra… stai con me” canticchiava tra sé muovendo appena le piccole labbra), che regolava a distanza volumi e distorsioni avremmo fatto letteralmente schifo. Non bastava la voglia di fare, né gli strumenti trasformati. Eravamo privi di talento, di grinta, di rabbia da palco.
Ci bloccammo tutti nel medesimo istante, storpiando il finale.
“Che Axl ci perdoni, belli. Rimarrà a fare la puttanella di quel mostro”.
“Saul, questo non è l’atteggiamento giusto”. Picchiettavo le bacchette una sull’altra, mentre i miei amici sedettero sul pavimento.
“Non era male” rispose la vocina di Michelle.
“Se paragonati allo schifo dello schifo! Siamo da macello” sentenziò Duff cupo. “Mancano tipo due settimane alla prima battle, e non sappiamo fare un cazzo di niente. Merda!”
“Calmati” gli ordinai. “Questo era solo un controllo generale. Era l’approccio con gli strumenti modificati. Che ti aspettavi?”
“Mi aspettavo di suonare altro, prima di tutto. Qualcosa di potente, cazzo, non roba da checche. Dobbiamo decidere cosa portare al primo turno”.
“Decideremo, sta’ tranquillo. Non buttiamoci giù”.
L’apparecchio di Charlotte Michelle iniziò a squillare. “Ehm, ragazzi… la madre di Matt sta arrivando. Dobbiamo fermarci qui”.
“COSA?” gettai le bacchette nel cassetto e mi alzai come una furia dalla batteria. “Come fai a dirlo?”
“Oltre a rintracciare le telefonate questo rilevatore segna anche la posizione del telefono cellulare di tua madre. Si sposta velocemente. Sarà in macchina”. Charlotte si morse un labbro. Il display dell’aggeggio lampeggiava rosso.
“Mi aveva detto che sarebbe tornata per stasera”.
“Dev’essere andata in bianco con Talinski! Buahaha!”
“Duff, non è il momento! Dovete sparire o mi aumenterà la punizione”.
“Ok, ok! Però, cazzo, Matt. Devi trovare una soluzione. Ci servi fuori da qui. Come faremo a provare? Se è andata male con Talinski ce l’avrai sempre in mezzo le palle”.
“Ho detto che non è il momento. Ci penseremo poi”.
Charlotte Michelle recuperò in fretta e furia le sfere cattura rumori e la sua valigetta con gli attrezzi.
Scendemmo le scale rapidi. All’ingresso ci fermammo.
“Vedo la macchina svoltare l’angolo della strada” dissi spiando dalla tenda in salotto. “Ora!”
Saul spalancò la porta, seguito a rotta di collo da Duff e Charlotte. Non ebbero il tempo di lasciare il vialetto perché mia madre era quasi arrivata. Dalla finestra li vidi tuffarsi nei cespugli in giardino con tutti gli strumenti.
La macchina si fermò. Sentii i i di mia madre salire le scale del porticato.
“La zia aveva da fare”. Non fui contento di notare una velata delusione nel tono della sua voce. Mi feci trovare seduto sul divano a guardare la tivù, col cuore ancora in tempesta nel petto.
Al Torneo mancavano due settimane. Dovevo trovare una soluzione. Quella sarebbe stata la prima e ultima volta che avrei nascosto i DRC in giardino.
Track #14
Ciao, ciao mammina!
Il fatto più rilevante dei due giorni successivi fu la visita dell’agente Tripke all’uscita dalla scuola. Ci bloccò ai cancelli mentre andavamo a prendere l’autobus. Con noi c’era anche Charlotte.
“Salve, uomo dall’occhio schizzato” salutò Duff.
“Devo parlarvi” disse l’agente sputando il fumo della sigaretta.
“Io devo prendere l’autobus” intervenni. “Devo tornare a casa” aggiunsi nervoso.
“Vi riaccompagno io” rispose sbrigativo Tripke lanciando il mozzicone nelle aiuole della scuola.
“Non capisce. Devo tornare a casa tra dieci minuti. Devo per forza”. Non mi andava di spiegarne il motivo, ma Duff spiattellò tutto.
“Il mio amico è in punizione, Tripke. Non può fare tardi o la mammina si mette a gridare”.
L’agente soffocò un odioso risolino. “Non vi tratterrò molto. Voglio solo chiedervi del vostro amico”. Ritornò serio. “Avevate detto che è scomparso. Non riusciamo a trovarlo. Il bosco di B. House è stato setacciato da cima a fondo”.
“Ha provato a cercare il corpo nel lago?” Duff non si rese conto di quello che aveva detto. Andava bene mentire, ma non depistare.
“Come hai detto?” gli occhi di Tripke si accesero, quello dorato e caleidoscopio iniziò a formare macchie nere di ogni forma.
Cercai di rimediare. “Nulla, agente. Non sa quello che dice. Non sappiamo dov’è Axl, purtroppo. È scomparso nel bosco, ma a parte questo non sappiamo altro”.
Si mise in mezzo anche Saul. “Perché volete ritrovarlo?”
“Questa dovrebbe essere una domanda intelligente?” rispose ironico Tripke. “Ritrovarlo è il mio compito. Vivo o morto”.
“Axl andrà in carcere?”
“A questo ci penserò quando lo ritroverò. Voi non volete rivedere il vostro amico?”
Ci fu una breve pausa imbarazzante. “Certo che lo vogliamo” risposi. “Vero, ragazzi?”
Duff e Saul annuirono. Charlotte non si espresse; nemmeno lo conosceva Axl. Era invece attenta a osservare l’occhio dell’agente. Lui la squadrò da capo a piedi, formando piccoli schizzi neri sull’iride dorato.
“Mmm” fece Tripke mentre accese un’altra sigaretta. L’iride divenne completamente dorato e le macchie nere scomparvero. Uno scintillio trasformò l’orbita oculare in un piccolo pozzo di luce intensa. “So che state mentendo” disse accigliandosi. “Scoprirò il motivo”.
Deglutii la poca saliva che mi era rimasta. Tripke si congedò e sparì nell’auto scura che ci aveva accompagnati al Carcere.
Dovetti rincorrere l’autobus che era appena partito.
Saul andava da Megan e Duff a fare riparazioni alla veranda di una vecchia per guadagnare qualche spicciolo, mentre Charlotte -la vidi dal finestrino prendendo posto, dopo la corsa per salire a bordo- ritornava a casa bruciando l’asfalto con la sua bici modificata.
A casa mangiai solo un boccone di fretta. Lasciai mia madre in salotto a fumare e a ciarlare con le amiche al telefono. Chissà se Charlotte stava ascoltando quelle conversazioni…
In camera mia mi sentii tranquillo e felice di poter stare lontano dal fumo di sigaretta. Malgrado il lucchetto che lo faceva somigliare a una prigione, quello era comunque il mio rifugio.
Duff aveva ragione; dovevo trovare una soluzione. Non potevo rimanere segregato in casa con il Torneo alle porte, ma parlare a mia madre sarebbe servito solo a litigare.
ai tutto il pomeriggio sul letto a pensare, sparandomi a tutto volume la radio nelle orecchie fino ad assopirmi. Ormai gli spot del Torneo avevano invaso ogni frequenza. In accordo con gli agenti del Carcere dei Rocker sopra le Righe avano anche diversi annunci sulle ricerche di Axl. Ovviamente non c’erano sviluppi sul ragazzo scomparso. Nelle precedenti edizioni vivevo quei giorni con estrema gioia. Andavo con gli altri a fare la fila alla biglietteria per una notte intera, accampandomi davanti i cancelli, con l’adrenalina che contagiava tutti.
Quando arrivava il Torneo dei Rock Guerrieri era il nostro periodo dell’anno preferito, più del Natale, più dell’estate senza la scuola. Da spettatori delle battle rock spendevamo tutti i nostri risparmi di un anno in scemenze inutili, come gadget dell’evento e cibo spazzatura.
Ora invece eravamo sì pieni di adrenalina, ma i risparmi quest’anno li avremmo spesi in cure mediche e riabilitazioni post-traumatiche. O in una bella bara in mogano con interni in pelle scamosciata. Gran kitschiata!
Il sole spense i suoi raggi dietro la schiera di villette. Le riflessioni mi portarono anche a valutare di sce il lucchetto della finestra e scappare. Lasciai stare; non mi andava di rischiare e peggiorare le cose.
Mentre chiudevo i libri e i quaderni arrivai a considerare una cosa importante. Cos’era una punizione, in confronto alla libertà di un amico incatenato da una creatura demoniaca? Dovevo intervenire a monte della questione. Alla radice del problema.
Ed era necessario giocare sporco.
Prima di scendere al piano di sotto feci un bel respiro, concentrandomi sulle conseguenze che di lì a poco avrebbero smosso la situazione.
Convinto di quello che stavo per fare scesi le scale. Mia madre era ancora al telefono, con un mozzicone fumante tra le labbra incrostate di tabacco e saliva. La guardai negli occhi, parlando con voce ferma. “Da ora non sono più in punizione. Basta”.
Quando glielo spiattellai in faccia strabuzzò gli occhi. “Ci risentiamo, Edna. C’è mio figlio che è andato fuori di testa” disse piano, sbattendo le palpebre velocemente, la voce impastata e il mozzicone appeso ancora tra le labbra. Riagganciò la cornetta.
“Hai capito bene, non sono più in punizione”.
L’angolo della bocca di mia madre iniziò a tremare. Ripetei per la terza volta che la punizione finiva lì e che “Parteciperò al Torneo dei Rock Guerrieri. Il mio amico è prigioniero di un demone senza scrupoli tutto rosso e con gli occhi gialli e gli artigli. Non posso rimanere in casa. Devo provare le canzoni, scriverle, dedicarmi al gruppo. Non puoi impedirmelo! La macchina? Be’, te la ripagherò. Come e quando non lo so. Se vinciamo al Torneo, forse quando strapperemo via
le anime degli C. Boys e le daremo al demone in cambio di Axl. Mancano appena due settimane… ROCK, MA’!”
Non mi ero addormentato sul letto con le cuffie e non stavo sognando tutto. Gridai in faccia a mia madre facendo veramente il gesto delle corna!
La sigaretta scivolò dalle dita e cadde sul tappeto indiano immacolato. Mia madre sbiancò di colpo. Rimase e fissarmi per qualche secondo, poi la bocca si spalancò come per urlare, ma non uscì nessun fiato. Solo l’alito pesante, una combinazione di fumo e medicinali.
Ero rimasto con il braccio in aria, indice e mignolo alzati in uno dei gesti più dissacranti a corredo dei grandi rocker; la posa che faceva impazzire qualsiasi madre. La mia poi aveva una repulsione particolare per tutto ciò che facevo e che riguardava i miei amici. Inoltre era già mezza andata di testa; la tivù moderna le aveva maciullato gli ultimi neuroni, colpa anche di quei medicinali che prendeva su consiglio delle amiche. Mandava giù le pasticche come se fossero mentine per l’alito. Io non avevo mai investigato, ma sicuramente non era roba sana. Lei diceva che erano per la pressione alta.
Lì per lì non ne andai fiero, anzi, ebbi paura. Avrei voluto accoccolarmi al sicuro sotto le coperte, nel letto, ma continuai a sventolarle sotto il naso la corna.
Fu come spruzzare con una pompa da giardino l’acqua santa in faccia a un vampiro. La pelle di mia madre non si sciolse, non bruciava né sfrigolava, ma ogni angolo del volto era stato deformato dalla follia, occhi compresi, che spuntarono qualche centimetro fuori dalle orbite.
“Cosa ti hanno fatto?” ansimò. “Cosa? Quei teppisti che segui ovunque. Ti hanno scombinato!”
“Quello scombinato non sono io”.
Gli occhi sporgenti di mia madre rimpicciolirono, mentre mi chiedevo perché non si era ancora messa a urlare. Faceva comunque paura!
“Mi sembra ti sentir parlare tuo padre” disse ando la punta della lingua sulle labbra secche. “Un arrogante egoista”.
Abbassai il braccio, piano. Tremavo. “Se solo fossi meno impasticcata forse non parleresti così di papà. E in generale, abbi un po’ di rispetto per una persona che non c’è più!”
Mia madre sorrise senza rispondere, oppure si trattava di un riflesso incondizionato che le aveva deformato l’espressione. Un ghigno malefico. Non era amichevole, e sapevo benissimo che non mi avrebbe mai perdonato per quello che avevo appena fatto. Quel silenzio mi infastidiva, mi metteva a disagio, così parlai: “Non puoi impedirmi di fare ciò che voglio. Puoi non crederci, ma io devo salvare il mio amico”.
Mia madre abbassò gli occhi. Il mozzicone sul tappeto fumava ancora un po’. “Guarda che hai combinato” disse con una specie di singhiozzo strozzato. “È colpa tua”. ò la punta del piede su ciò che rimaneva della sigaretta. Si rivolse di nuovo a me, squadrandomi. Qualunque punizione stava per infliggermi non sarebbe bastata a fermarmi!
Incrociai di nuovo i suoi occhi piccoli e sporgenti. “Sai cosa? Salva pure il tuo amico, fa’ quello che vuoi. Sono stufa”.
Non riuscii a resistere all’impulso. “Potrei dire la stessa cosa io” risposi sfidandola. Mi guardò con i suoi occhi minuscoli. All’improvviso era diventata spaventosamente calma, anche se le tremava un angolo della bocca. “Vado di là a guardare un film”. Si allontanò da me, trascinandosi dietro una scia densa di fumo puzzolente. Non aggiunse altro, almeno fino a quando non raggiunse il divano. “Ma non dirmi che non ti avevo avvertito, Matt! Un giorno ti ritroverai in carcere o, peggio, per strada a chiedere l’elemosina!” gridò dall’altra parte della casa.
La litigata finì così. Da quel momento in poi potevamo considerarci degli estranei sotto lo stesso tetto. Ero comunque sollevato per non aver beccato un’altra punizione, e naturalmente per aver riconquistato -in un modo o nell’altro- la mia libertà.
Andai in cucina per mangiare un boccone. Lei continuava a seguire un programma in tivù quando squillò il telefono. “Pronto? Oh, Edna”.
Dopo qualche minuto mia madre entrò in cucina, preceduta dal tanfo di fumo. Mangiavo ancora la mia cena, dandole le spalle. “Era Edna” disse. “Mi ha invitato a stare da lei. Non so per quanto”.
“Bene” risposi senza esternare alcuna emozione, ma dentro di me volevo esplodere. “Fumerete e parlerete di telenovela tutti i giorni?”
“Sfrontato. Non sono affari tuoi”.
“Certo. Ognuno è libero di fare le proprie scelte. Giusto?”
Mia madre non rispose, disse solo che un taxi sarebbe venuto a prenderla da lì a poco. Andò a preparare i bagagli. Dalla cucina la vidi salire e scendere dal secondo piano. Accese tre o quattro sigarette, masticando contemporaneamente una gomma. Dopo mezz’ora era già pronta. Portò la valigia vicino l’ingresso. Il taxi era appena arrivato.
“Ti ho avvertito, Matt. Non hai voluto darmi retta. Farai una brutta fine”. Mi guardò per l’ultima volta, poi spalancò la porta di casa e andò, assieme al suo odore nauseante.
“Ciao, Ma’. Ci vediamo”.
Il silenzio trasformò quel pomeriggio in uno spaccato surreale di vita quotidiana. Rimasi in salotto a rivivere quel momento nella mia mente. Avevo trovato la soluzione che Duff mi aveva chiesto. Non ero più in punizione, mamma non era più tra i piedi e la casa era a completa disposizione per le prove dei DRC.
Come ogni persona normale a questo mondo, avevo sempre sognato di avere casa libera e fare quello che mi pareva. Riuscii pian piano a vedere il lato positivo della questione. Nel giro di un paio d’ore avevo dato sfogo al cinismo che mi era mancato negli ultimi anni. Il risentimento che provavo non arrivò a sporcarmi la coscienza. Stavo bene, al diavolo i sensi di colpa! Non dovevo nulla a mia madre. Non mi aveva insegnato niente, né dato qualcosa; lo dovevo a mio padre, che non era più con me .
Prenotai una pizza, guardai un film alla tivù e tirai fino a tardi giocando ai videogame. Una pacchia.
Andai a letto qualche ora dopo mezzanotte. Sperai con tutto me stesso di non ritrovare mia madre la mattina dopo, ubriaca e impasticcata com’era successo altre volte. Almeno fino alla fine dei giochi doveva starsene buona da Edna.
Rivedere Charlotte, riprendere a suonare e togliere il lucchetto alla finestra per ricominciare a essere completamente libero furono gli ultimi pensieri che mi accompagnarono al sonno.
Aspettai che ci fossimo tutti per raccontare quello che era successo la sera prima. Ci ritrovammo al muretto del campo da calcio, aspettando l’arrivo della nostra modificatrice.
“Cazzo. Un altro mese di punizione?” esclamò Duff.
“No. È successa una cosa” risposi evasivo.
“Bello, ti atteggi?” fece Saul. Ora usava molto meno il cellulare e ascoltava e partecipava alle discussioni.
Dopo pochi minuti arrivò anche Charlotte. Disattivò il motore della bici e ci raggiunse al muretto. “Scusate il ritardo” disse riprendendo fiato. “Ho dovuto riparare una cosa a mio nonno. Allora, cosa hai fatto a tua madre?” Lo chiese
come se fosse preoccupata per me. Che dolce! Le mie orecchie iniziarono appena a scaldarsi.
“È di questo che volevo parlarvi” risposi. “Non sono più in punizione. Mia madre è andata via. L’ho fatta veramente arrabbiare, così si è stufata. No, ti prego, non baciarmi!”
Ma non riuscii ad evitare Duff. Mi saltò addosso come un coniglio nella stagione degli amori. “Figlio di una baldracca! Come hai fatto? Allora quando vuoi sai tirarle fuori quelle palle, eh!”
“Il gesto delle corna” spiegai cercando di staccarmelo di dosso. “Eddai, mollami!” sbavava peggio di un cane. Con la coda dell’occhio notai l’espressione imbarazzata di Charlotte. Iniziò a cincischiare con la manica troppo larga della camicia.
“Grandissimo, palle mosce! Che genialata, cazzo. L’hai proprio fatta fuori! Ah, che scena mi sono perso!” Duff saltellava pestando forte i piedi. Fu additato da mezza scolaresca.
“Ben fatto, bello”. Si complimentò anche Saul, dandomi una pacca sulle spalle. “Quindi ora si prova sul serio?”
“Contaci. Suoneremo da me”.
“Sei un grande, cazzo!”
Duff continuava a saltare come un pazzo. “Grande, grande, grande! Ehi, tu non hai nulla da dire?” chiese a Charlotte.
Charlotte prese a cincischiare con più insistenza la camicia. Era lì con noi, eppure distante. Troppo imbarazzata? L’esaltazione senza ritegno di Duff l’aveva spaventata. Lo scemo mi saltò di nuovo addosso per baciarmi.
Mi distrassi un attimo per divincolarmi da quelle folli smancerie. Charlotte se ne stava andando.
“Charlotte? Ehi, dove vai? Aspetta!” con una gomitata riuscii a venire fuori dalla morsa troppo affettuosa del mio amico. Corsi e raggiunsi Charlotte prima che mettesse piede nell’istituto.
“Tutto bene? Scusa, ma fa così di continuo”.
“Di continuo?”
“Charlotte, vuoi aspettare un attimo?” le misi una mano sulla spalla. “Duff è solo un cretino. È l’unico modo che conosce per dimostrare affetto”.
“Io…” iniziò insicura “… io spero che non… che tu, insomma…”
Ecco cos’era! Ma cosa andava pensando!? Stavo per urlarle addosso, ma mi trattenni appena in tempo. “No” spiegai. “Ovviamente tra me e Duff non c’è nulla”.
“Va bene. Non voglio che ci siano segreti nel gruppo. Di nessuno genere”.
“Non ce ne saranno” assicurai. Cercai di sorridere.
“Meglio. Ora però devo andare. Devo continuare i progetti dei vostri strumenti”.
“Non hai lezione di matematica?”
“Sì, ma mi sono portata avanti col programma. Posso saltare l’ora della Finnigan per stare in biblioteca”.
“Grazie”. Era tutto quello che riuscii a dirle e sapevo che non era abbastanza. Lei sorrise appena, tirando su le maniche della camicia, poi iniziò a salire i gradini dell’entrata.
“Sono single, comunque”.
Si voltò, gli occhi verdi luminosi. “Buon per te. Le ragazze sono una gran perdita di tempo”. Mi diede di nuovo le spalle ed entrò a scuola.
L’imponente campagna pubblicitaria aveva ufficialmente dato inizio al cammino di avvicinamento al Torneo. La scritta sui manifesti era inequivocabile:
ROAD TO ROCK!
La scuola, nel frattempo, organizzatrice delle ultime tre edizioni, aveva inaugurato il chiosco per le iscrizioni nel giardino. Pochi erano i gruppi già iscritti. Il primo, neanche a dirlo, fu Antony con i suoi C. Boys. Ma nemmeno il suo faccione da schiaffi ci spinse a compilare il bando di partecipazione; ci mancava ancora il coraggio. Chi non avrebbe esitato nella nostra posizione?
“Aspettiamo qualche altro giorno, belli. Non abbiamo fretta” aveva detto Saul. Dopo giorni di 'astinenza' da cellulare lo vidi di nuovo armeggiare con il suo accessorio preferito; il rapporto con Megan continuava.
Oltre ai manifesti, l’organizzazione iniziava a tappezzare le strade di gigantografie; personaggi dai capelli lunghissimi e bianchi, a torso nudo, brandivano in aria chitarre e bassi, invocando fuoco e fiamme dal cielo nero.
I negozi avevano iniziato a vendere i primi gadget; riproduzioni di chitarre in gomma piuma, poster, cappellini e anche maschere protettive per coprire il viso in caso di esplosioni, fumi nocivi, schizzi di sangue e corpi maciullati.
“Cosa darei per ritornare a spendere tutti i miei soldi in stronzate” mugugnò Duff mentre uscivamo dal nostro consueto giro in fumetteria del sabato pomeriggio.
“Tutte le grandi rockstar vivono sotto gli occhi dei riflettori, bello” disse Saul, serio. “Sentire il fiato sul collo fa parte dello show”.
“Hai ragione” risposi sfogliando i miei acquisti. “Dobbiamo farcene una ragione”. Cercavo di infondere coraggio, ma ero il primo a cui serviva una cura ricostituente di fiducia. Con l’aiuto di Charlotte mi sentivo più al sicuro, anche se di tanto in tanto continuavo a chiedermi quanto le avesse dato fastidio l’episodio con Duff.
“Non vedo l’ora di provare i nuovi strumenti modificati” dissi mentre superavamo una vetrina piena di tivù sintonizzate sugli spot del Torneo.
“Tu non vedi l’ora di fottertela, la modificatrice” rimbeccò Duff.
“Sei uno stronzo”.
“Cacciare mammina da casa te l’ha fatto venire duro?” stavo per prepararmi a un attacco dei suoi, ma l’aria minacciosa cambiò in un sorriso. “Cazzo, così mi piaci! Ma non mi piaci se mi dai dello stronzo”. Fece scrocchiare le nocche della mano. Cercai di distrarlo, parlandogli.
“Intanto grazie a te Charlotte stava quasi per credere a tutt’altra roba” dissi mettendo i fumetti nello zaino.
“Toglitela dalla testa, amico. Quella non pensa a certe cose. I cervelloni così hanno tempo da perdere con cazzi e intrallazzi”.
“Secondo me ti sbagli. È una ragazza sensibile” risposi quasi a muso duro, ma per difendere la mia causa serviva ben altro atteggiamento.
Avevo una gran confusione in testa. Charlotte mi piaceva, ma lei provava qualcosa per me? Come potevo scoprirlo? D’altronde non si sarebbe mai avvicinata a noi se non fosse stato per quel premio a cui teneva. E poi c’era stata quella sua dichiarazione sibillina. “Le ragazze sono una gran perdita di tempo” aveva detto. E se fosse…
“Lesbica? Potrebbe essere” ipotizzò Duff sfilandosi lo zuccotto per grattasi la testa.
“Ed è frustrata e non ne vuole più sapere” aggiunse Saul che si era interessato al discorso. “Però, bello, è come dice Matt. È una sensibile, si vede. Sinceramente non so. Forse hai ragione, a certe cose non ci pensa”.
“Volete piantarla, brutti approfittatori? ” mi avevano fatto arrabbiare. Era frustrante cercare di venire a capo della mia confusione e ascoltare pure quelle stupide supposizioni. Non sapevo cosa pensare di Saul. Duff invece l’avrei voluto lontano da me a riparare verande alle vecchiette.
Per una giornata intera non avemmo notizie della nostra modificatrice. Non era venuta a scuola e non si era fatta sentire.
“Se ci bidona, giuro sul pisello di Axl che quegli occhiali che porta glieli faccio ingoiare” avvertì Duff mentre prendevamo l’autobus per ritornare a casa.
“Magari sta solo lavorando ai nostri strumenti. Stai calmo, bello” rispose Saul salutandoci. Non salì con noi. Doveva aspettare Megan per un appuntamento. Nell’attesa si era messo a chiacchierare con due biondine che lo guardavano ammirate qualunque cosa dicesse.
Cercai di parlare il meno possibile con Duff, mentre tornavano a casa, ma fu lui a riaccendere il problema.
“Matt, amico, sinceramente. Possiamo davvero fidarci di quella Michelle? Dovevi ascoltarmi fin dall’inizio, ma tu hai voluto riflettere col cazzo e non con la testa”.
“È in gamba” risposi soltanto, guardando fuori dal finestrino il cielo grigio.
“In gamba una sega, Matt! E se anche lo fosse, abbiamo un piano alternativo? Che so, chiedere collaborazione a qualcun altro' Mi suda il culo sapere che siamo nella mani di quella stramba senza un piano di riserva”.
Il fantomatico “Piano B”. Effettivamente ne eravamo a corto. “Non dimenticare che siamo dei poveracci” dissi con tutto il garbo possibile. “Nessuno ci farebbe il favore di farci da modificatore, lo hai dimenticato?”
“Mi secca dirlo, ma quella Charlotte il favore ce lo ha fatto”.
“Be’, ha pensato bene di rivolgersi a noi che eravamo disperati, altrimenti non
avrebbe potuto gareggiare per il premio. Solo noi avremmo potuto accettare l’aiuto di una come lei!”
Sputai la verità come un bambino. Avevo appena dato ragione a Duff senza rendermene conto, frantumando le poche certezze e speranze che avevo messo in piedi negli ultimi giorni. E mi sentivo uno stronzo per aver sparlato di Charlotte.
L’autobus era quasi arrivato alla mia fermata. Non ci fu bisogno di rifletterci per ore o per un pomeriggio interno. In breve, spiegai a Duff quello che avevo in mente. “Torniamo a B. House. È l’alternativa che chiedevi. L’unica. Quegli strumenti potrebbero salvarci la pelle”.
Rimettere piede sul viale alberato mise i brividi a tutti. Il sole iniziava la sua parabola discendente della giornata luminosa.
“Dov’erano?”
“Cosa?”
“Gli amplificatori”.
“Laggiù” indicai a Saul. Rovi e radici avevano creato un bozzolo naturale attorno agli amplificatori di Antony, sprofondati per metà nella terra.
“Magari nasceranno alberi mutanti e piante a forma di amplificatori” disse tetro
Duff.
Arrivati alla villa rallentammo il o. Trovammo la porta d’ingresso aperta.
“La volta scorsa l’avevamo chiusa?”
“Sicuri di volerci andare?”
“Palle mosce, guarda che sei stato tu a volerci venire! Dopo di te”.
Avanzai piano verso la porta. Mi voltai a guardare il bosco, poi a guardare il lago. Nonostante la luce del sole l’acqua era nera e piatta come petrolio.
La porta cigolò appena ed entrammo. A una prima occhiata sembrava tutto come lo avevamo lasciato qualche settimana prima; la mobilia divelta dopo l’incursione della polizia e gli schizzi di sangue incrostato sul pavimento a seguito della colluttazione col vecchio assassino. Entrammo nello stanzino e ci mancò poco che Saul ricadesse in trance per via della sua chitarra santa. Duff lo afferrò con forza sbattendolo nel cunicolo.
CLANG!
Richiudemmo il aggio e iniziammo a scendere le scale, mentre mi chiedevo se stavamo facendo la cosa giusta o se avevo portato i miei amici -me compresolì a morire.
Gli strumenti erano per terra, dove gli avevamo gettati. Le pareti aspettavano solo di essere ricoperte si rune e sangue.
“E ora che si fa, belli?”
“Credo che dovremmo usare uno strumento per invocarlo” risposi alla richiesta di Saul.
“Visto che l’idea di ritornare è stata tua, tocca a te, no?” fece Duff, mettendo un o indietro.
Mi avvicinai alla batteria, incerto. Colpì due, tre volte i piatti.
Niente. Mi fermai. “Forse bisogna suonare tutti insieme per forza”.
Duff e Saul guardarono il basso e la chitarra per terra. “Se mi trasformo in un cazzo di fantasma o roba del genere giuro che ti perseguiterò finché campi”.
“Anch’io, bello. Non me ne volere”.
“Se suoniamo insieme moriremo insieme” risposi nervoso. “Ma non accadrà nulla del genere. Non appena sentite la voce mollate subito gli strumenti, d’accordo? Pronti?”
ONE, TWO, THREE, FOUR!
Rieccoci a suonare come dei dannati. Il ritmo era sfrenato. Lì sotto potevamo competere con chiunque. Pensare al Torneo mentre suonavo quella batteria fu un pensiero totalmente positivo; avrei potuto superare qualsiasi battle rock tra Guerrieri!
E poi la sentimmo. La voce fuoriuscì dalle pareti attirando le rune scarlatte. Una luce rossa riempì il sotterraneo spingendoci a continuare.
Ordinavo alle mani di staccare la presa dalle bacchette ma le braccia proseguivano a picchiare su piatti e rullante. Il pedale picchiava impazzito sulla grancassa.
Guardai i miei amici e anche loro combattevano con la forza paranormale che sapevano essere l’anima dei vecchi rocker intrappolati. Ci fu un istante, in cui ci guardammo l’un l’altro negli occhi…
“Ora!” urlai, gettandomi con un tuffo lontano dalla batteria. Duff e Saul fecero lo stesso. Finimmo uno sull’altro al centro della stanza, cozzando pesantemente con le teste.
“Cazzo, che botta…”
“Tutto bene?”
“Sì. Appena in tempo”.
Una forza invisibile ci scaraventò contro le pareti ancora grondanti di rune. “DOVE SONO LE MIE ANIME?”
Riascoltare quella voce, e vedere l’omuncolo rosso sbucare da un angolo buio, fu spaventoso quanto la prima volta.
“Le vuoi, stronzo?” Duff aveva sbattuto forte la testa, ma si era subito ripreso. Sistemò lo zuccotto “Allora dacci gli strumenti”.
Gli occhi gialli del demone avvamparono. Si portò il mignolo all’orecchio, infilandolo per metà nel padiglione auricolare. “Non ho sentito bene, potresti ripetere?” sfilando il dito, sull’unghia era rimasta una sostanza verdognola e fosforescente. Cerume di demone!
“Il Torneo inizia tra pochi giorni” dissi rialzandomi. “Se vuoi le anime allora aiutaci, ne hai il diritto, e sei in dovere di farlo. Se non vinciamo non riavrai un gruppo!”
“Non ho nessun diritto” sbadigliò il demone, mostrando la bocca nera e i denti giallastri. “Non è un problema mio se siete scarsi. Al posto vostro mi rimboccherei le maniche. Ai miei tempi è così che si faceva quando qualcuno era in difficoltà” sputò per terra. “Rivolete Axl?”
Duff stava quasi per saltargli addosso e prenderlo a pugni. “Bello, sta’ buono” lo trattenne Saul, bloccandolo alle spalle. “Non fare coglionate. Ci servi tutti intero. Lui è potente. Quello ti fa il culo, bello”.
“Lusingato” rispose l’ex componente degli Zed Lep sfregandosi le unghie sul petto. “Vi conviene progettare qualcos’altro. Cosa vi ha fatto credere che vi avrei reso gli strumenti, i miei compagni di band?”
“Be’, la faccenda riguarda anche te”. Lo guardai negli occhi con coraggio. Mi tremavano le gambe e, cavolo se me la stavo facendo sotto.
“Non ho mai detto che gli strumenti possono lasciare liberamente questo posto. Avete accettato il patto”.
“Sei tu che ci hai incastrato, bello!” Saul gli puntò in faccia il cellulare. Se lo ritrovò in mano perché era appena arrivato un messaggio.
“Siete voi che siete venuti a disturbare il mio riposo. Siamo pari”.
“Ma ne hai approfittato. Hai rapito Axl, quindi ci devi qualcosa” contestai.
Il demone si espresse in un ghigno perfido. “Vi ho dato l’opportunità di liberarlo. Siamo ancora pari”.
“Perché non vuoi darceli, figlio di puttana?” Duff era piegato sulle ginocchia,
pugni serrati, pronto a colpire.
“Non posso, ecco perché”. I muscoli del demone si gonfiarono, ma non crebbe fino al soffitto come la volta scorsa. “Sono legati a questo posto. Scaveresti nella terra per disseppellire un cadavere? Ne dubito. Per gli strumenti è lo stesso. Tecnicamente possono essere portati fuori da qui, ma voi, umani disgraziati e impenitenti, non siete nella possibilità di farlo. Non vi appartengono” sottolineò ando la lingua sulle labbra.
Il demone aveva preso posto dietro la batteria e iniziò a picchiettare sui tamburi con le unghie. Era un rumore fastidioso, tipo il gessetto strisciato sulla lavagna o le posate strofinata su un piatto, ma più intenso.
“Io invece me li prendo e li porto fuori”. Come al solito con Duff si faceva sempre una gran fatica. “Testa di cazzo demoniaca! Bastardo rosso! Ridacci Axl, pervertito… non è la tua puttanella!”
Il demone ispirò profondamente. “Prendeteli e suonateli, e Axl non rivedrà mai più le vostre brutte, orribili facce umane. Fuori di qui, e portatemi le ANIME!”
E così il demone ci congedò, scomparendo in un soffice vortice di fumo rosso.
“Mi dispiace, ragazzi” dissi mentre ci incamminavamo lungo il vialetto di B. House. Era quasi arrivata l’ora del tramonto. Il bosco a quell’ora metteva ancora più soggezione.
“Non è colpa tua, bello” rincuorò Saul. “Ci abbiamo provato. Speriamo in Charlotte”.
Duff invece non disse una parola. Cercai di pensare a un argomento qualsiasi per intavolare una discussione; mi sarebbe servito per capire che aria tirava nella sua mente contorta. Ma qualcosa mi colpì da dietro all’improvviso, facendomi accasciare per terra.
Prima di perdere i sensi vidi Duff e Saul cadere in ginocchio, sbattendo poi violentemente il viso sulle mattonelle del vialetto. Poi chiusi gli occhi e fu il buio.
ShhhhZzzzzzzzzz…
ShhhhZzzz…
Ghost track
Eredità
“Vuoi dire che tutto questo è mio? La villa, questi strumenti?”
“Tutto”.
“Come sai chi sono, mostro?”
“Il tuo sangue. È lo stesso che sento scorrere nel mio corpo. Ora che farai? Liberami, dannazione!”
Track #15
Splatter
Quando ripresi conoscenza fitte acute di dolore mi spezzarono il fiato. Avevo male dappertutto: alla schiena, in testa, alle gambe. In bocca, un liquido dal sapore metallico mi disgustava. Lo sputai con un colpo di tosse. Alla luce della luna piena, l’erba si sporcò del mio sangue.
Feci per rialzarmi ma corde taglienti mi tenevano legato a un albero. Nello stesso istante vidi Saul e Duff stretti anche loro a un tronco; la testa piegata sul petto e i volti tumefatti che gocciolavano sangue.
Mi prese un colpo. L’assassino era tornato? Si era vendicato! Ci avrebbe tolto la vita finendo ciò che aveva iniziato. Poteva essere ancora nei paragi… anzi, ci osservava. Sicuro. Era lì da qualche parte...
“Cosa vuoi farci… BASTARDO!” urlai strattonando le corde, senza controllo, ma i lacci si strinsero ancora un po’. La pelle bruciava e iniziai a piangere.
“Li hai uccisi” singhiozzai.
Nel silenzio un cellulare iniziò a squillare.
La suoneria aumentava di volume, ma Saul non si mosse e chiunque lo stesse cercando decise di riattaccare.
Avevo letto solo nei libri e nei fumetti di “lacrime mescolate al sangue”. Sapevo ben distinguere il romanzo dalla realtà, ma provarlo sulla pelle cambiava tutto. Non era esaltante come nelle avventure dei nostri eroi; faceva solo un male cane.
Il fruscio dei cespugli fece svanire quei pensieri come fumo spazzato via dal vento. Allertai i sensi. Il vecchio pazzo si stava divertendo.
“Esci fuori!” gridai di nuovo. Mi accorsi di avere un labbro spaccato. Non volevo sfidarlo, ma il terrore caldo che mi aveva insozzato i pantaloni mi spinse a verificare che si trattasse davvero dell’assassino; una specie di conforto autolesionista.
Il cespuglio però non nascondeva nessun assassino, forse solo qualche animale notturno che cercava riparo, o mi ero immaginato tutto. Il vecchio non c’era da nessuna parte perché non era stato lui a ridurci un ammasso di lividi.
I nostri aggressori si mostrarono uscendo da un angolo buio accanto B. House. Non li riconobbi subito. Gli occhi bruciavano dalle lacrime, per il sangue, ma li tenni ben aperti per guardare Antony e i C. Boys avvicinarsi a o fiero armati di spranghe e catene. “Ciao, Matty. Ci rivediamo”.
La camicia rosa era sporca di rosso. “Ho appena fatto una bella chiacchierata con la creatura della villa, lo sai? Mi ha raccontato una storia molto interessante”.
“Muori”. Ingoiai sangue e saliva, cercando di dominare il pianto. Antony fece vibrare il bastone. Un colpo potente, all’altezza dell’orecchio.
“Mi hai stufato, Matty. Pensavate davvero di rubare le nostre anime e di ucciderci? Che storia!” rise, pestando il bastone sull’erba macchiata. “Patetici lo siete sempre stati, ma non credevo sareste arrivati a tanto. Pensavo che la macchina sfasciata e tutto il resto fosse servito a darvi una lezione”. Mi colpì ancora, questa volta allo stomaco, togliendomi il respiro e la dignità che mi rimaneva.
Perché lì? Perché in quel modo? Se proprio dovevo rimetterci la vita, perché non al Torneo? Essere pestato da quello schifoso mi faceva sentire già morto.
L’orecchio fischiava, ma sentii chiaramente le risatine divertite degli scagnozzi di Antony. Sugli occhi era calata inesorabile una patina di sangue e sudore. Ricordavo che ero legato a un tronco d’albero, ma le vertigini mi avevano trasportato al limite di un baratro senza fine.
“Vi ho salvato il culo, con Tripke. Volevo che ce la sbrigassimo al Torneo. Vi ho concesso un’ultima possibilità. Ma la storia del demone non mi è piaciuta, Matty. No no! E non l’avrei mai scoperta se non vi avessi seguito. Questa villa è il vostro rifugio segreto, Matty?”
La terza botta mi mandò in un altro mondo. Lì facevo l’amore con Charlotte Michelle; lei ricambiava il mio profondo sentimento e alla fine la sposavo. Eravamo felici, ma era un incubo. Sentivo le bastonate mentre baciavo mia moglie. Lo spirito di quella felicità che condividevo con la Charlotte immaginaria era sconquassato dai pesanti colpi di mazza.
“Volevate ucciderci tutti?” la furia di Antony era incontenibile. Sentii la testa spaccarsi in due. Sperai che fosse solo una sensazione... sperai che finisse al più presto.
La rabbia del fighetto gold deluxe mi concesse un attimo di tregua. Il dolore ebbe il tempo di penetrare più a fondo nel mio corpo.
Sputai sangue, per l’ennesima volta, e suppliche. “Fermati… ti prego… fermati”.
Quando ci si sente persi, tutto ciò che si è vissuto fino a quel momento scorre nella mente in un lampo; vignette prive di balloon si giustappongono a velocità supersonica. Tutti i ricordi più tristi ritornano, precedendo qualunque pensiero felice. La vita e la morte si concentrano tutte in quel flash di reminiscenze. La vista diventa un tutt’uno con le tenebre, e se gli occhi sono aperti o chiusi non fa differenza.
“… Ti prego”, implorai per l’ultima volta.
Antony si fermò, come a gustare e riflettere sul mio stato. Sentivo il suo respiro eccitato vicinissimo al viso. “Sono l’erede della villa” mi sussurrò all’orecchio.
Quelle parole sovrastarono il fischio acuto che continuava a martellarmi i timpani. Sovrastarono anche il dolore e la paura e il desiderio di morte che subdolamente si era incuneato nella mia residua coscienza.
“Sono sorpreso quanto te”. Lo sentii ridere e gettare il bastone sul prato.
Continuavo a vedere nero. “Ritrovarsi proprietario di una così bella dimora e di tutti i beni al suo interno… merito vostro, DRC”.
Nelle più pessimistiche previsioni non avevo mai creduto né pensato a un epilogo del genere.
“Scordatevi di salvare quell’ubriacone di Axl” esclamò la voce di Antony strascicando le parole. “Adesso sono io che detto le regole”.
Lo sentii allontanarsi per parlottare con i Boys.
Nel caos fatto di dolore, ombre e sibili acuti che mi laceravano i timpani, sentii un tintinnio di ferraglia.
“Vi prego… NOOO!”
Gridare mi iniettò altro dolore nel corpo. Si infilò dietro il collo, diffondendosi verso l’alto e finendo per esplodere nel cranio.
“Le catene le hanno già assaggiate i tuoi amichetti” ridacchiò Antony. Sentii di nuovo i i sull’erba. Era vicino. Mi osservava.
Non lo vidi riprendere il bastone. Il colpo mi arrivò all’improvviso, per la seconda volta alla bocca dello stomaco. Non avevo più sangue ne aria da sputare fuori.
“Questo è per gli amplificatori” esclamò Antony con rabbia repressa. La voce non sembrava più sua.
Agonizzavo come uno zombie impallinato da mille proiettili. Non ne potevo più. Non riuscivo a lottare per sopravvivere. Avrei voluto tanto scusarmi con i miei amici per averli riportati lì a morire.
Antony si fermò. “Li avete presi?”
“Sì, Lionel e Dwyath stanno smontando la batteria. È l’unico pezzo che manca”.
“Bene. E il demone?”
“Il microfono lo abbiano lasciato, come ci avevi ordinato. Lui è… rimasto lì dov’era, bloccato. Ma faceva paura! È diventato enorme all’improvviso”.
La conversazione andò avanti ancora per un po’. La voce di Antony era eccitata. “Questi saranno i nostri strumenti per il Torneo. Quest’anno quei barbari analfabeti con le corna potranno anche scordarselo il primo posto”.
Riuscii ad aprire appena gli occhi. I Boys, un ragazzo di colore e uno magrolino dalla pelle chiara, obbedivano al loro capo. Non li avevo mai visti prima. Conoscevo solo Lionel e Dwyath; bravi ragazzi, un tempo, quando ancora non suonavano con Antony.
A un tratto l’azione divenne più febbrile. Da lontano sentii giungere un’auto. Frenò sgommando sul vialetto di B. House.
“Forza, muovetevi, caricate tutto sulla jeep!” Antony dava ordini, gli altri eseguivano. Poi, all’improvviso, tappò quella brutta boccaccia.
La terra iniziò a tremare. Il tronco dell’albero si scosse e un rombo di tuono deflagrò nell’aria. Ma una benda di oscurità tornò a ricoprire i miei occhi gonfi e non riuscii a capire cosa stava succedendo.
“Tutti in macchina!” sentii gridare Antony, mentre il rombo di tuono continuava a scuotere la terra.
Quando l’urlo straziante del demone emerse dalle viscere della villa, Antony e i Boys erano già ben lontani con gli strumenti. Sentii la macchina oltreare il bosco e imboccare il vialone alberato.
“RIPORTATE QUI I MIEI AMICI! RIPORTATE QUI GLI ZED LEP!”
Ululò quelle parole più e più volte, come se ripeterle ininterrottamente gli avrebbe restituito ciò che gli era stato appena sottratto.
Quando tutto sembra perso, spesso accade qualcosa che salva il didietro al protagonista. Un Deus Ex Machina che risolleva le sorti della storia, che fa pendere l’ago della bilancia dalla parte dei buoni. No, nessuno arrivò a salvarmi.
Nessuno mi liberò dalla corde. Semplicemente, trovai la forza di rispondere al demone.
“Sono andati via” gridai nel dolore. “Li hanno rubati. L’erede… è quello a cui avremmo dovuto rubare le anime!”
Aspettai una risposta. La notte era tornata nel suo silenzio naturale.
“Ci sei?” urlai. Mi costò un’esplosione di dolore nella testa fracassata.
Il demone rispose. “Ragazzo-Matt?”
“Sì… sono io… Matt!”
“LI HANNO… PORTATI… LI HANNO PORTATI… VIAAA!”
“Lo so” risposi comprensivo. “Il patto… dimmi, demone. Il patto è ancora valido?”
“RIVOGLIO QUEGLI STRUMENTI”.
“E libererai Axl?”
“RIPORTATELI DA ME”.
“Axl” provai a spiegare ancora. Il furto degli strumenti lo aveva proprio sconvolto. “Lo lascerai andare? Rispondi!”
Sentii dei lamenti di enorme sofferenza. “PORTATE QUI I MIEI AMICI E LO LASCERO’ ANDARE”.
Furono le ultime parole. La voce di tuono implose, e una colonna d’aria mi arrivò alle spalle, dall’interno del bosco, scuotendomi dalle corde. Una corrente energetica risucchiò tutto e riportò la quiete su B. House.
Charlotte Michelle mi baciava. Con la lingua.
Sentivo la sua saliva bagnarmi la bocca. Il tepore della sua pelle chiara contro la mia. I corpi nudi e il sudore fare da collante al nostro rapporto.
Cos’era? Un letto. Dove mi trovavo? In camera mia.
Doveva essere il mio primo vero, grande orgasmo, invece fui interrotto dall’irruzione di sei bestie cornute, pelose e ributtanti.
Il corpo di Charlotte Michelle svanì da sotto il mio. Le lenzuola bagnate
iniziarono ad avvolgermi, legacci che mi stringevano i polsi; la schiena contro il letto, poi urtai contro qualcosa di più duro e ruvido.
Corde avvolte attorno al tronco di un albero mi tenevano in trappola.
La testa era piegata sul petto. Riaprii gli occhi per vedere i pantaloni bagnati dalla pipì. Paura. Tristezza. Che disperazione! Ma il dolore era più forte di ogni altra emozione.
C’era qualcuno poco distante, potevo vederlo con la coda dell’occhio. Voltai appena la testa, cercando di muovermi il meno possibile per tenere a bada le fitte.
L’immagine era sfocata, ma riconobbi lo stesso i corpi di Duff e Saul legati uno accanto all’altro come me alle radici di un albero.
Mossi le labbra secche e sporche di sangue per chiamare i loro nomi, chiudendo e aprendo piano le palpebre stanche. Ne uscì solo un rantolo.
Gli occhi si chio ancora, pesanti, e rientrai nel tunnel nero delle mie angosce.
Charlotte Michelle urlava impaurita.
“Cosa ti hanno fatto? Mi senti, Matt? Svegliati! Sono qui. M-mi… mi dispiace tanto, Matt” diceva tra i singhiozzi. Sentivo le sue mani scorrere sul mio viso.
“Mi dispiace non essere arrivata in tempo”.
Sparì del mio campo visivo. Un altro incubo.
No. Stava slegando le corde dietro l’albero. I legacci si sciolsero e caddi su un fianco. L’erba soffice attutì il colpo.
ò del tempo, perché quando ripresi i sensi mi trovai steso in un abitacolo puzzolente e in movimento. Duff e Saul erano immobili di fronte a me, stesi su un fianco e come addormentati. Chi era alla guida non riusciva a tenere bene la strada.
“Non sono abituata alle quattro ruote” rispose la voce di Charlotte Michelle come se mi avesse appena letto nel pensiero. Arrivava a malapena al volante. “Come stai?” chiese, osservandomi dallo specchietto retrovisore. Gli occhi verdi si illuminarono.
“Non lo so” risposi. “Cos’è successo?”
La sua voce cambiò. Mascherava male lo sgomento. “Tante cose. Ma riposa, adesso, non è il momento di parlarne”.
“Antony ha rubato gli strumenti?” iniziai a ricordare qualcosa.
“Antony ha fatto molto altro. Lo stavo seguendo da un po’, lui e i suoi boys”.
Mi strinsi nelle spalle. I recenti trascorsi mi ripiombarono nella testa. Allora ricordai. “È la fine” dissi a un certo punto. Charlotte aveva appena imboccato il tratto di strada che portava alla zona residenziale, zigzagando sulla corsia. Osservavo il respiro debole dei miei amici. “Dove andiamo?” chiesi, tastando gli ematomi e le ferite sulla testa.
“A casa mia. Vi aiuterò a recuperare le lezioni nelle ore che non dedicheremo all’allenamento per il Rock Guerrieri. Da domani niente più scuola”.
Charlotte puntò di nuovo gli occhi nello specchietto. Preferivo che non ci fossero barriere di quel tipo quando la guardavo, ma in quel momento andava bene lo stesso.
“Grazie” dissi in un sospiro.
“N-non… non ho fatto nulla. Sono stata un disastro”. Ritornai ad apprezzare la sua vocina dolce. Dolce anche in quel frangente. “Non sono riuscita nemmeno a farvi una sorpresa. Questo, se non te ne sei ancora accorto, è il furgone scomparso di Axl”.
Track #16
The new, hard instruments
Charlotte Michelle spiegò che aveva trovato il nostro furgone per caso, mentre cercava pezzi di ricambio nella discarica fuori città.
“Avrebbe fatto una brutta fine” rispose dispiaciuta. “Ho dovuto smontarlo pezzo per pezzo e portarlo nel mio garage. Pensavo di farvi una sorpresa. Mancano ancora delle piccole modifiche, ma non potevo venire in bici. Almeno sono riuscita a farlo ripartire”.
Ero confuso. “Come facevi a sapere che era il nostro furgone?”
Gli occhi di Michelle evitarono lo specchietto retrovisore. “C’era un adesivo del tuo chitarrista preferito sul cruscotto, e… i sedili” precisò mentre la voce si abbassava e tremava “erano impregnati di fumo e alcol. E ci ho trovato un plettro per basso grosso così”.
Non volevo metterla ulteriormente in imbarazzo. Immaginando la risposta chiesi ugualmente: “Come fai a sapere tutte queste cose di noi?”
“Conosco il gruppo per cui lavoro” rispose spiccia. “È compito di un buon Modificatore sapere con chi ha a che fare”. Fu una risposta perspicace, opportunista, un po’ maliziosa, e dei balbettii di poco prima non c’era più traccia.
“Scusa se te lo chiedo, ma ci vedi come clienti? Non lo siamo. Fai parte anche tu del gruppo”.
Volevo metterlo bene in chiaro una volta per tutte, ma Charlotte lasciò cadere lì la conversazione. Non rispose e accettai a malincuore quel silenzio.
Avevamo superato da poco casa mia, la scuola e il Carcere.
“Chissà come ci è arrivato, alla discarica”. Pensai a voce alta. Non era una domanda, ma Charlotte si sentì tenuta a rispondere.
“Se vi è sparito da sotto il naso e il motore non partiva, forse è meglio non indagare”.
Non indagare. Che cosa voleva dire?
Stavo per chiedere spiegazioni quando il furgone frenò di colpo. Andai a sbattere contro il sedile anteriore.
“Ops! Scusami” strillò Michelle disorientata. “Scusami tanto!” ripeté portando le mani alla bocca per lo spavento. “Non ho calcolato bene lo spazio di frenata. Siamo arrivati, comunque. Scusami ancora, Matt. Scusami”.
“Non c’è problema” risposi mentendo. Il naso aveva ripreso a perdere sangue. “Botta in più, botta in meno…”
Charlotte slacciò la cintura di sicurezza e fece per scendere. “Ce la fai, ti serve una mano?”
“Ce la faccio, non preoccuparti. Hai già fatto abbastanza, davvero” aggiunsi alla sua espressione vagamente risentita. “Grazie”.
Iniziai a muovere una gamba, poi l’altra. Il dolore sopito si rifece vivo. A stento riuscii ad aprire la portiera scorrevole. “Ce la faccio, ecco”.
Poggiai il piede male, la caviglia fece CRACK e caddi come un sacco di sterco sul pavimento del garage, andando a lussare la spalla martoriata dalle bastonate.
Ahu!
Fu l’occasione di tenere a mente che fare il gradasso nei momenti meno opportuni era una pessima, pessima idea.
“Ti sei fatto male?” esclamò Charlotte soccorrendomi.
Ma non fu lei a rimettermi in piedi. Afferrai una mano spuntata in mio soccorso, una familiare mano ossuta. Mi sollevai lentamente ritrovandomi faccia a faccia con il vecchio assassino di B. House.
Se gridai per lo spavento? Ovviamente, e non solo. Dovettero trattenermi dal fuggire via per strada a urlare a squarciagola “È arrivato l’assassino! È arrivato l’assassino!”
Il vecchio e Charlotte mi bloccarono per le gambe e per i piedi. “Tappagli la bocca, o ci sentirà tutto il vicinato”.
Quello squilibrato mi costrinse a tenere ferme le braccia lungo il corpo. Le mani ossute mi stringevano i polsi. “Matt, è tutto ok. Calmati” tentava di spiegare Charlotte mentre mi dimenavo. “Lui è mio nonno”.
Questa volta evitai qualsiasi congettura legata agli incubi. Ero lucido e terrorizzato, tuttavia l’uomo davanti a me non poteva che essere l’assassino della coppia sul divano, lo stesso che aveva cercato di farci fuori. Lo stesso che si era proposto di riparare il furgone. Non era un’allucinazione, non era niente del genere!
“È stato lei a rubare il furgone?” continuavo a dimenarmi ma i dolori e la stanchezza mi portarono ad allentare la resistenza. “Spiegami che sta succedendo, non ci capisco più niente!” urlai a Charlotte.
“Matt, calmati. Sei… sul serio, sei al sicuro, te lo posso giurare”. Aveva le pupille dilatate. Dovevo averla spaventata di brutto. Rimasi fermo ad ascoltarla.
“Lui è nonno Mortimer. Non è il proprietario di B. House e soprattutto non è un assassino”.
Prima che Charlotte potesse continuare l’anta del furgone si aprì. Duff e Saul uscirono come due zombi attirati dalla carne, gli occhi appena aperti… quel tanto che bastò a paralizzarli dall’orrore.
“State calmi” mi trovai a rispondere paradossalmente. “Dovremmo essere al sicuro. Spero”.
A parte il paradosso orripilante, fu una gioia indescrivibile rivedere in piedi i miei amici. Mi sentivo ancora in colpa per quello che era successo alla villa con Antony. Non me la sarei mai perdonata se avessero fatto una brutta fine. Ci stavo già male così.
“Mi stai dicendo che questo qua è un impostore? No, cioè, vorrei capire”. Duff aveva un orecchio sanguinante e vari ematomi sul volto.
“Impostore sarai tu” rispose risentito il vecchio andosi una mano tra i capelli grigi. “Ho i miei problemi, ecco cosa. Chi non ce li ha?”
Intervenne Charlotte. “Nonno Mortimer soffre di amnesia e sonnambulismo. Prende tante medicine”. Si morse un labbro, dondolando carinamente sulle punte dei piedi come suo solito. “Quando dimentica di prendere le dosi, sparisce. A volte lo ritrovo nel bagno a pescare nella tazza. Altra volte fuori città a interpretare personaggi di libri a lui cari”.
L’uomo rispose pomposamente, molto simile a uno di quei personaggi teatrali che cercano di rubare la scena agli altri interpreti. “Quello di B. House non era in
nessun libro, nipote. Se adesso la memoria non mi inganna, in quell’occasione riproponevo l’ambientazione di un famoso gioco da tavolo. Conosci?”
“Non credo. Quei giochi mi annoiano” rispose Charlotte osservando suo nonno da sopra gli occhiali.
“E i cadaveri?” domandò Saul con un acuto della voce. Era probabilmente quello messo peggio. Oltre agli ematomi sul viso aveva gli occhi pesti e un taglio in testa. La pettinatura perfetta era deturpata dal sangue secco tra i capelli.
“Quelli erano veri”.
Gli occhi di tutti, compresi quelli di Charlotte, fissarono il vecchio. Poi le rughe attorno la bocca si piegarono all’insù, trasformandosi nel sorriso sghembo dell’assassino.
“Stavate per crederci! Suvvia, sono un brav’uomo” esclamò simulando un gesto di stizza. “Sono solo un nonno che ama sua nipote, purtroppo vittima di tediosi malanni”.
Credere o non credere alla storia dell’amnesia e del sonnambulismo? Non riuscii a tranquillizzarmi neanche quando il vecchio spiegò che si trattava di manichini trovati in sala da pranzo. Pupazzi conciati come cadaveri che aveva trovato lì per caso? Non mi suonava bene, neanche ai miei amici.
“E il sangue dove l’hai preso, Morty?” chiese Duff. Si era appoggiato al furgone,
braccia conserte.
“Vi ho invitati a prendere il tè e un pezzo di torta”. Il ghigno del vecchio si fece ancora più evidente.
“Che cazzo c’entra col sangue?” sbuffò Duff . “Qui nessuno me la racconta giusta”.
“La torta c’entra, ragazzo. Era un bel dolce di mele e marmellata. Marmellata, capito?”
“Un cazzo”.
“Marmellata, Duff” intervenni. “L’ha usata per fare il sangue. E comunque io non le credo, signore. Non completamente, insomma. A me sembrava proprio sangue” Deglutì, pensando alla scena dei cadaveri. “Un’altra cosa: come fa a ricordare tutto quello che fa da sonnambulo, amnesico?”
Il vecchio mi fissava. La bocca si aprì e, lentamente, iniziò a ridere. Continuò a sbellicarsi fino a perdere le forze.
“Nonno, sta’ buono” lo ammonì la nipote. “Sali in casa e mettiti comodo sul divano. Qui ci penso io”.
“Pensi a cosa, Charlotte? Cos’è questa storia? Non vi credo”. Era la prima volta
che alzavo la voce contro la ragazza che amavo e me ne pentii subito; avrei preferito altre percosse e il tetro tunnel dell’incoscienza.
“S-su… su cosa dovrei giurare per convincerti, Matt? Hai bisogno di essere medicato, e la cosa più importante per te in questo momento è credere o meno a una persona con problemi di salute?” il viso pallido di Charlotte si infuocò appena. Il verde degli occhi divenne più scuro, riuscii a notarlo nonostante la poca luce in garage.
“Io… hai ragione. Mi dispiace” balbettai abbassando gli occhi.
“Voi ragazzi credete sempre che bastino due parole per riaggiustare tutto”. Parlò piano, conservando il suo solito tono delicato. Charlotte mi fece male. “So che è assurdo. Ma ti prego, credimi”.
Forse mi sbagliai, ma quel verde scuro si inumidì di lacrime. Non ero davvero arrabbiato con Charlotte Michelle. Era stata solo una reazione istintiva. Come avrei dovuto reagire? Quel vecchio fino a prova contraria per me era ancora l’assassino, non il nonno buono della nostra modificatrice.
“Presto ti accorgerai che non farebbe mai male a nessuno” disse Charlotte osservando il nonno salire a casa, sparendo in una porta nel buio.
Sorridi, Matt. Avanti, un bel sorriso.
Ascoltai i miei pensieri e sorrisi. Non in quel momento, ma mi promisi di
mettercela tutta per credere a quella strana storia di finti cadaveri ricoperti di marmellata.
In silenzio, la ragazza che mi faceva battere forte il cuore iniziò a medicarci. Prima di estrarre una scatola di pronto soccorso da una cassettiera la vedemmo armeggiare con alcune leve posizionate sulla parete frontale del garage. Scintille elettriche iniziarono a scorrere in dei binari metallici, scorrendo lungo il perimetro delle mura, il tutto accompagnato da un leggerissimo ronzio.
“Fantastico” esclamò Saul. “Quindi sarebbe questo il tuo laboratorio segreto?”
“Sì” rispose la vocina di Charlotte. Sfilò le garze dalla scatola del pronto soccorso. “Ma non è segreto. Ci può entrare chiunque” aggiunse sbirciando da sotto gli occhiali.
“Quante persone sono entrate prima di noi?” chiese Duff.
“Ehm… mio nonno e, be’, credo nessun altro. E voi, ora… siete qui”.
“Merda, quindi perché hai detto che ci entra chiunque?”
“Perché chiunque potrebbe entrare, se avesse un buon motivo per farlo”.
Duff sospirò sonoramente e grugnì chiamandosi fuori dalla discussione. “Tra te e palle mosce…”
Illuminato, il laboratorio di Charlotte era una via di mezzo tra una vecchia autofficina e una camera per gli ospiti. Tra attrezzi sistemati meticolosamente sulle pareti, sfere di vetro, provette, fiammelle e seghetti e altre strane apparecchiature, c’era un letto in ferro battuto e una poltroncina di un tessuto simile al jeans. Pensai alle diapositive di arte minimalista della professoressa Wollheim. Il laboratorio non era per niente come lo immaginavo. Charlotte era più normale e pratica di quanto non apparisse…
“È qui che dormi?” chiesi incuriosito.
“Sì” rispose lei spalmando un unguento giallastro sul viso di Saul. “Nella camera al piano di sopra ci tengo solo i libri. Ho dovuto scegliere tra me e loro”.
“Hai una camera così piena di libri?”
“Ehm… già”. L’espressione della Charlotte che si era presentata ai DRC ritornò in una fugace apparizione.
“Oh, brucia!” gridò Saul. “Che maleee!”
“Ora con la garza andrà meglio. “Scusami. Ecco”.
Saul finì per odiare l’unguento, ma ringraziò Charlotte per le medicazioni. Era così stretto nelle garze che a malapena riusciva a guardare dove metteva i piedi. I capelli però erano rimasti sporchi di sangue. “Dovrò lavarli” disse specchiandosi
nei finestrini del furgone. “Con uno shampoo speciale. E il balsamo per farli risplendere”.
Poi toccò a Duff. Lui strinse i denti e non fece una piega. Le croste sulle ferite furono ripulite e trattate sempre con l’unguento. “Non me lo aspettavo da quel coglione. Si è fatto prendere la mano”. Parlò a voce bassa, e io sapevo che si vergognava di essere stato picchiato da un bamboccio in abiti firmati.
“È colpa mia”. Mi avvicinai ai miei amici. Charlotte richiudeva un taglio sul sopracciglio di Duff, applicando con mano ferma alcuni punti di sutura.
“Stai tranquillo, palle mosce. Non potevi sapere di quello stronzo”.
“Potevate morire. Potevamo morire tutti. Guardate come ci hanno ridotti”.
La eco di quella frase rimase nell’aria assieme all’odore pungente dell’unguento.
“Il Torneo si avvicina” rispose risoluto Duff. Saul era d’accordo con lui. “Già. Basta pensare a questa storia, bello. È acqua ata”.
Sorrisi, ringraziandoli. In bocca percepivo ancora il sapore metallico del sangue. La saracinesca del garage era rimasta per metà alzata. I riflessi rosei sull’asfalto inumidito dalla notte iniziavano a dare spazio all’alba.
Toccò a me provare l’unguento… come bruciava! Mi riempii di bollori sul viso,
poi le garze fresche alleviarono in parte quel fuoco superficiale. Quando anch’io fui imbalsamato per bene, ci portammo al centro del laboratorio.
Charlotte ripose la scatola del pronto soccorso su uno dei tanti scaffali. “Potreste chiudere? Il pulsante è lì vicino la bici”. Indicò un angolo accanto la saracinesca. Andai a premerlo chiudendo all’esterno l’alba nascente e i rumori delle prime auto che lasciavano i vialetti per recarsi a lavoro.
Nel frattempo la nostra modificatrice era sparita tra il banco di lavoro e i macchinari che utilizzava per lavorare sugli strumenti. Dopo un po’ ne emerse tutta accaldata, cercando di sollevare una custodia da basso consumata. Duff si precipitò ad aiutarla, credo più per la curiosità di mettere la mani sul nuovo strumento che per gentilezza.
“Spero ti piaccia” azzardò Charlotte sorridendo timidamente.
“Come si apre?” Duff cercava di capire come allentare i ganci ossidati della custodia.
“Il plettro. Basta poggiarlo sul dorso. Qui, così”. Charlotte rivelò la presenza di una piccola rientranza a forma di plettro. Un incavo. Duff cercò subito in tasca. “Eccolo qua! Che hai detto che devo fare?”
“Posare qui il plettro e poi toglierlo. Funziona come una chiave”.
“Oh. Figo. Tipo così?”
La custodia scattò, scoprendone il contenuto.
Duff spalancò le mascelle, la lingua quasi penzoloni tra i denti. Da come si presentava, il basso mi diede l’impressione di essere l’insieme di più materiali, dal ferro al legno, dalla plastica a…
“Le chiavette sono denti di squalo. La paletta è ispirata ai bastoni da maghi. L’ho chiamato Frustratore Quattro-Corde” spiegò seria Charlotte.
“Per la miseria, bello, che spettacolo” esclamò Saul entusiasta. “Dov’è la mia chitarra?”
“Aspetta, tu” lo interruppe Duff. “Mi prendi per il culo, caramellina?”
“Ehm… no. Sono davvero denti di squalo” rispose lei intimorita dall’esuberanza del mio amico.
“Non so se lo sapevi” intervenni paziente. “Charlotte fa parte dello staff del museo di storia naturale della scuola”. Lei mi guardò quasi sorpresa, facendo cenno di sì con la testa.
“Uhm” mugugnò Duff. “Ok, palle mosce. Tu sai sempre tutto. E tu sei una ladra di denti”. Estrasse il basso dalla custodia. Era già fornito di tracolla.
“Se ne preferisci un’altra posso cambiarla. Al negozio mi hanno detto che potevo farlo entro un mese dall’acquisto”.
Nessuno aveva mai preso così alla sprovvista Duff. Disorientato cercò di trovare qualcosa da dire che non fosse un “grazie, Charlotte” o “sei stata molto gentile, la tracolla mi piace molto”. Con il basso in pugno invece si allontanò a testa bassa, ammutolito.
“Credo che le spiegazioni sul funzionamento gliele comunicherò dopo” disse Charlotte, dolce.
Io e Saul ridacchiammo, mentre lei sparì di nuovo sotto il bancone. Toccò alla nuova chitarra rinvenire dalla custodia. Saul premette il plettro nella rientranza e i ganci scattarono. La chitarra era a forma a otto, come piaceva a Saul. Non so come ci era riuscita, ma Charlotte aveva riprodotto una copia abbastanza fedele della Santa chitarra nello stanzino di B. House. Saul la sfiorò appena con un dito. “Posso piangere?”
Charlotte rise. “Mi scai se non è di legno pregiato, ma ho cercato di riprodurne la stessa consistenza e la stesa fibra per migliorare la risonanza e la frequenze degli accordi. Puoi lanciare potenti onde d’urto utilizzando i potenziometri. L’ho chiamata Guit-Lancia Onde”
“Santa!” urlò Saul con gli occhi spiritati. “Santa!” e portando la tracolla dietro la testa, iniziò a provare accordi e riff, saltando da una parte all’altra del laboratorio.
“Sei stata molto gentile”. Ringraziai Charlotte, mentre i miei amici
familiarizzavano con i loro nuovi compagni di musica, le nostre future armi.
“Dovere” mi sentii rispondere. “Nella speranza che serva a vincere il Torneo e il premio del Modificatore”. Riprese a dondolare sulle punte dei piedi e cincischiare con la manica del camicione. “Tu stai meglio? Come va il dolore?”
“Oh, ehm” farfugliai. “Bene, ora. Pensavo di rimetterci la pellaccia”.
“Eri irriconoscibile, Matt. Ho… avuto paura”. Per un momento pensai di ritrovarmela tra le braccia. “Antony è davvero una persona spregevole”. Attese una risposta che non arrivò. “Ora… vuoi vedere le tue bacchette?”
“Le mie…? Oh, ma certo, le bacchette. Sono proprio curioso”. Era incredibile come riusciva a troncare un argomento per are subito a un altro. Rompere quell’incantevole contatto emotivo, tela di sguardi e lievi pensieri…
Le tirò fuori dal cassetto del bancone. Erano semplici bacchette per batteria, di legno.
“Sono le più economiche, se usate come normali bacchette. Ma ora puoi lanciare scariche elettriche a seconda della pressione sul manico. Sono sensibili al tatto. Più forte le stringi, più potente è la scarica elettrica”.
“Scaricatori Elettrici?”
“Non ho ancora scelto un nome, ma credo vadano benone”. Sorrise incerta. “Che ne pensi? Ho sempre il terrore di non essere capace di soddisfare i vostri gusti”.
Gli occhi verdi brillarono alla luce dei fasci luminosi che correvano lungo il garage. “Ma che dici? Sei fantastica, Charlotte. Ci hai tolto da un bel casino proponendoti al gruppo. E da Antony, pure. Dico davvero, non perché mi…”
Blocco. La lingua era come incollata al palato.
“Non dire niente”. Lo sua voce d’angelo colmò quel vuoto in cui avrei dovuto inserirci la mia confessione. Il grido di Duff non mi diede possibilità di rimediare.
“Ehi, palle mosce. Guarda qua!”
Scuoteva forte la testa, lo zuccotto volò via, ma continuò a lanciarsi da una parte all’altra galoppando col basso. Le dita si muovevano veloci e precise sulle ultime corde. Le note non producevano suoni, ma per Duff era come essere su un palco davanti a centinaia di fan in delirio. Come non comprenderlo? Con la nuova chitarra si unì anche Saul, producendo serie infinite di note silenziose.
Mi lasciai coinvolgere, dimenticando per un istante sentimenti non corrisposti e frasi non dette. Battevo colpi nell’aria… lì c’erano i piatti… là il charleston…
Uno sfrigolio di scintille spuntò da una delle bacchette. Un fuoco elettrico arrivò in un lampo alla saracinesca, rimbalzando poi sul tettuccio del furgone, dove si
estinse.
“SPACCAAA!”
L’urlo indemoniato di Duff alla vista del raggio elettrico caricò l’atmosfera. Tutti sono bravi a fingere di essere mostri sacri del rock simulando musiche senza volume, e tante grazie. Ma chissenefrega!
Per Duff non ci fu nemmeno bisogno delle spiegazioni di Charlotte. Imparò lì per lì. Allentò uno dei denti di squalo, ruotò una levetta accanto ai potenziometri e il Mi basso partì come una frusta. Che colpo! E unendosi all’ondata d’energia della chitarra di Saul creò una combo micidiale.
Nonostante quella forma di eccitazione collettiva fui abbastanza lucido da richiamare l’attenzione del gruppo. Se avessimo continuato avremmo distrutto l’intero laboratorio.
“Cazzocazzocazzo!” Duff era il più euforico. Prese il basso e l’alzò tipo trofeo sulla testa. Con la chitarra che aveva sempre sognato Saul non era di meno.
Quel breve trambusto soddisfò anche Charlotte, divertita dal nostro entusiasmo. Desiderai stringere le bacchette più forte che potevo per dimostrarle tutta la mia approvazione. Chiaramente bloccai sul nascere quella fantasia, ma non vedevo l’ora di prendere le giuste misure alle mie armi.
“Non male come primo test” disse la modificatrice portando alle labbra la
manica della camicia. Ci studiò con interesse. “Nel pomeriggio proveremo con gli amplificatori. Ne ho un paio. Sono piccoli, ma dovrebbero andare bene lo stesso. Ora però dovreste lasciarmi gli strumenti per qualche minuto, vorrei fare alcuni controlli”.
L’adrenalina andò scaricandosi e i dolori per le botte prese ritornarono magicamente a farsi sentire. Ci fermammo in un angolo a riprendere fiato, aspettando il resoconto di Charlotte. Dalle finestrelle del laboratorio penetravano colonne di intenso arancio mattutino.
“Quindi niente più anime, eh?” fece Saul. Aveva ripreso in mano il cellulare.
“Salveremo Axl” risposi. “Dovrebbe essere più semplice che strappare la vita a un’intera rock band, no?”
“Faremo comunque un culo grosso così a quegli stronzi” gridò famelico Duff.
“Ora dovremmo decidere le cover per le prime due battle rock”.
“Che sarà mai! Suoniamo Dolce Baby ed E’ così facile. Le sappiamo a memoria, buttiamoci sul sicuro”.
“Mmm, sì, buona idea. Però c’è anche Bang Bang leccami il ***** che non è da buttar via. Non è malaccio, e avremmo una divisione equa di tutti gli strumenti”.
“Peccato non avere due chitarre”.
“Ci arrangiamo. Anche altri gruppi hanno una sola chitarra. Tu sei bravo, Saul”.
“Grazie, bello! Anche tu”.
Le nostre ispirate chiacchiere furono interrotte da un sonoro, cupo ruggito che fece vibrare l’ingresso al laboratorio. Un rumore animalesco, lontano. Il nostro ego si sgonfiò come i palloncini alla fine delle feste di compleanno.
“Sono arrivati” disse Charlotte. “Quest’anno sono in leggero ritardo”. Sollevò gli occhialoni da lavoro sui capelli scuri, puntando lo sguardo in alto, verso una delle finestrelle del garage.
Alzammo la saracinesca. Nel cielo carico di calde tonalità, cinque enormi draghi neri sorvolavano il centro abitato, spargendo lunghe ombre sui tetti delle villette. I musicisti che cavalcavano quelle bestie erano i vincitori indiscussi delle ultime cinque edizioni del Tornei dei Rock Guerrieri.
Erano i leggendari Vichinghi.
“Se non in finale, li incontreremo e dovremmo batterli” dissi cupo. Eravamo tutti con il naso puntato al cielo, osservando la danza maestosa delle bestie alate.
“Belli, c’e ancora una cosa che ci rimane da risolvere” fece Saul rispondendo a
un messaggio. “Sostituire Axl al microfono”.
Track #17
Rock Rocket
Nei giorni seguenti ci tenemmo ben distanti dalla scuola e dai percorsi del bus scolastico. Duff era sovraeccitato: abbandonare le lezioni per gli allenamenti la prese come una vittoria personale, anche se l’idea era partita da Charlotte.
La modificatrice aveva stilato una tabella con orari fissi per ognuno di noi, così da pianificare i momenti della giornata da dedicare al Torneo. Lì per lì tutto quel carico di lavoro ci pesava, ma come giustamente aveva fatto notare Charlotte: “È il modo migliore per recuperare il tempo perso e studiare buone strategie e non finire ammazzati al primo turno”.
“Sta con noi solo per cercare di vincere quel premio. Com’è che si dice? Opportunista, non vi sembra?” aveva accusato Duff nell’ora libera per pranzo. Avremmo dovuto riprendere gli allenamenti di lì a poco.
“Bello, forse ti do ragione. Ma opportunista o no ci sta togliendo da un sacco di casini” rispose Saul mentre uscivamo da un fast-food del centro con i nostri tranci di pizza conservati in un cartoccio zuppo d’olio. “Tu che dici, Matt? Sembri conoscerla più di tutti. Siete così intimi, bello. State insieme?”
Non era sarcastico, ma il tono di Saul non mi piacque comunque. “Non lo so” risposi sovrappensiero. “Cioè, è ok. E che male ci sarebbe se lo stesse facendo solo per il premio? Noi abbiamo un Modificatore, lei una chance per vincere. Siamo pari”.
Ovviamente non la pensavo esattamente in quel modo, e la mia affermazione era stata solo una risposta di facciata. In realtà non avevo la più pallida idea dei piani di Charlotte Michelle; voleva il premio, poteva vincerlo, se voleva, ma continuava a tenere un certo distacco tra me… noi e il gruppo. Ci vedeva ancora come dei clienti, non come amici. Faceva parte della sua complessità? Tramava qualcosa con la complicità di suo nonno? E se fosse stata colpa nostra? Ma non mi sembrava che l’avessimo accolta con freddezza… se non si contava Duff, che la prendeva ancora un po’ in giro.
Sopra la città si era addensata una perturbazione compatta e minacciosa. Era una giornata ventosa e umida. Il tempo per consumare il pranzo era davvero pochissimo, e cercammo di spicciarci subito.
Gustammo il taglio di pizza seduti su una panchina in una piazzetta isolata, vicino casa di Charlotte. C’erano poche persone in giro. Un paio di coppiette a eggio con il proprio cane, un vecchio che leggeva il giornale e diversi piccioni che razzolavano vicino a una fontanina.
BURP! Ruttò Duff mandando giù l’ultimo boccone. “L’unico pezzo che ci esce davvero bene è Cosa fai per denaro baby. Matt, tu sei troppo moscio. Le bacchette devono buttarono fuoco, cazzo!”
“Sai com’è, devo ancora farci la mano” risposi finendo anch’io il mio pranzo.
“Sei comunque moscio” insistette Duff. “E tu, ciccio. Quella chitarra devi sfruttarla meglio. Se suoni solo tre Power Chords non dovrebbe essere tanto complicato, no? Cazzo, gente! Non abbiamo più quegli strumenti merdosi di prima. Fuori le palle!”
Non avevo voglia di mettermi a discutere. Se Duff era così eccitato non era solo per gli strumenti. Saltare la scuola per suonare tutto il giorno era sempre stato il suo sogno, anche se avrebbe preferito farlo senza avere sulla coscienza la vita di Axl e senza le pianificazioni di Charlotte.
“Sta’ calmo, bello” disse Saul. Era sempre così paziente. Trattare con le ragazze doveva averlo temprato da quel punto di vista. Appallottolò il cartoccio delle pizze e aggiunse: “Ehi, sembri fatto! Stiamo dando il massimo, non criticare. Siamo tutti sulla stessa barca”.
Duff era troppo su di giri per stare ad ascoltarlo. “Il mio Frustatore mozzerà un bel po’ di teste di cazzo! Quest’anno non starò a guardare. Venite qui, culi Vichinghi! Vi farò leccare le parti basse di quei cazzo di draghi. Stronzi. Sono già morti, giuro su questo mio dito, che possa spezzarsi ora!” puntò il medio in cielo come una gloriosa spada, sghignazzando malignamente. I piccioni volarono via spaventati, scomparendo tra le nuvole scure e la selva di tetti delle villette.
Mi alzai dalla panchina e Saul fece lo stesso. “Belli, dobbiamo andare” disse. “Megan mi ha appena mandato un messaggio. È davanti al laboratorio”.
Il fatto che Megan fosse la nostra unica possibilità di trovare una voce la diceva lunga. Ce ne preoccupammo con ritardo, e quello fu il risultato. Zero scelta.
Aspettavamo la ragazza di Saul per le prove del pomeriggio. Sapevo che in qualunque modo fosse andata a finire, sarebbe stata la nostra cantante.
Iniziarono a cadere le prime gocce di pioggia. Ebbi come l’impressione che l’eco di un ruggito arrivasse trasportato dal vento alle mie orecchie. No. Pensavo solo ai Vichinghi e ai draghi, un’attrazione per il pubblico, una nemesi per le band che osavano intralciare il loro cammino.
Ci bagnammo appena, ma la cosa peggiore era il vento freddo che si insinuava come lame gelate nel colletto del giubbotto e negli strappi dei jeans. Dopo cinque minuti di camminata, attraversando la piazzetta sempre più deserta, arrivammo al garage di Charlotte. Megan ci aspettava.
Stretta in un top argentato e in un paio di jeans attillati che risaltavano le sue forme generose, corse nella nostra direzione per gettarsi nelle braccia di Saul. Aveva occhi solo per lui. “Picci, mi sei mancato!”
Era la ragazza under 20 più sexy che avessi mai visto. Un giudizio incontestabile, e a giudicare dalla sua reazione, anche Duff la pensava allo stesso modo; cercava di nascondere un brusco e sorprendente “coniglietto nei pantaloni”.
“Piccola, tutto bene?” Saul la cinse afferrandole la vita snella. Lei schioccò un sonoro bacio sulla guancia di lui, sollevando un piede da terra. Era alta, e i tacchi a spillo le davano giusto quei cinque centimetri in più perché apparisse tremendamente statuaria. I capelli lunghi, lisci e tinti di blu elettrico la facevano sembrare una di quelle reginette del pop che saliva alla ribalta nel giro di qualche giorno per poi sparire altrettanto in fretta.
“Grazie per essere venuta” pronunciò Saul con voce suadente.
“Ma ti pare, picci!” Megan aveva un tono certamente penetrante. “Non vedo l’ora di iniziare. Questi sono i tuoi amici? Piacere, Megan!”
L’espansività di Megan era agghiacciante. Staccandosi dalle braccia di Saul, senza nemmeno sfiorarmi, mi porse una guancia e poi l’altra, facendo boccuccia con le labbra tempestate da glitter argentati. Ripeté quel rituale anche con Duff, rimasto impietrito con le mani ben premute sul coniglietto sbarazzino.
“Il mio picci mi ha detto del vostro amico Axl. Canterò per salvarlo” squittì Megan, ritornando tra le braccia di Saul. “Sarò la vostra mitica e unica cantante!”
Unica di sicuro, dissi tra me. Se non c’erano possibilità di scelta, avremmo dovuto aggrapparci per forza alle menate di quella là, volenti o nolenti.
Bussammo alla saracinesca del garage. L’entrate del laboratorio si aprì lentamente. Charlotte salutò i presenti, irriconoscibile nel lungo e ingombrante camice bianco e gli occhiali protettivi. “Ciao” disse squadrando Megan per qualche secondo, poi voltò subito le spalle per ritornare a lavoro.
“Picci, è qui che provate?”
“Sì” rispose Saul invitandola a entrare. “È la casa di Charlotte”.
“È la nostra modificatrice” puntualizzai, ma Megan mi ignorò.
“Lavora ai nostri strumenti, piccola” cercò di spiegare Saul. “È proprio brava, sai? Di sicuro realizzerà anche per te qualcosa di fantastico per il Torneo”.
“Per ora non credo” rispose la voce minuta di Charlotte, immersa nelle scintille di una saldatura. A giudicare da quello che aveva tra le mani stava rimaneggiando la grancassa e il pedale di una batteria che aveva tanto l’aria di essere la mia. Dilatai le pupille come un tossico…
“Picci, cos’è che ha detto la stramba?”
Saul aprì la bocca per rispondere ma fui più rapido di lui. “Stramba? Potrebbe dire la stessa cosa lei di te”.
Megan emise un mugolio capriccioso. “Picciiiii!”
“Va tutto bene, piccola. Matt voleva dire che presto avrai la tua arma per il Torneo. Vero, bello?” incoraggiò Saul sperando nella mia complicità. Cercò di comunicarmi qualcosa alzano le sopracciglia.
“Più o meno” risposi di malavoglia.
La collaborazione con Megan non iniziava sotto i migliori auspici. Nessuno avrebbe rimpiazzato Axl, mai e poi mai.
Duff nel frattempo si era isolato nel tentativo di rimediare al malinteso nei
pantaloni.
“Quando siete pronti possiamo iniziare” comunicò a un tratto Charlotte riponendo la saldatrice. “La batteria è pronta, Matt. Ho appena finito di aggiungere un piccolo Mitragliatore a Pallini nella grancasse. Si aziona col pedale”.
Mi avvicinai al bancone da lavoro. “Ma quindi… non mi sbagliavo, è proprio la mia batteria!”
“Proprio la tua”.
“Ma come…”
“Nonno” rispose Charlotte, spiccia. “È stato lui. Ha una destrezza senza pari nello sce gli appartamenti”.
“Intendi dire che si è intrufolato in casa mia senza permesso?”
“E io l’ho aiutato. Non ce l’avrebbe mai fatta a trasportare tutti i pezzi da solo”.
Quell’ultima dichiarazione mi lasciò un attimo interdetto. “Mi aiuti a montarla lì nel mezzo?” riprese Charlotte come nulla fosse. “Ho costruito anche un palchetto in legno”.
E così l’aiutai a spostare la batteria dal bancone al palchetto. Era riuscita a trovare anche un paio di amplificatori per il Frustatore e la Guit-Lancia Onde.
“Il furgone dov’è?” chiesi mentre assemblavo la mia strumentazione.
“Ho ordinato a mio nonno di collaudare le gomme nuove e l’impianto idraulico. È andato a fare un giro in città. Ti secca? Doveva anche are dal chiosco a scuola per presentare la vostra iscrizione. Non avevate ancora compilato il modulo”
“Ehm, no” risposi. Mi sentii un completo idiota. Era diventata la nostra balia!
CRKKKKRRKK… Nipote?... CRRRRKKKRKRKR… Nipote, mi senti?
Charlotte estrasse dalla tasca del camice una piccola radio trasmittente. “Ti ricevo, nonno. Qualche problema? o”.
“Missione compiuta, nipote. Rientro a casa. o”.
“Ottimo lavoro, nonno. Chiudo”. Charlotte infilò la trasmittente in tasca. Con un sorrisetto soddisfatto comunicò che il furgone aveva superato il test. “E siete iscritti ufficialmente al Torneo” aggiunse raggiante.
Mi tremarono le gambe. Eravamo ufficialmente fottuti; non c’era più modo di tornare indietro:
“Iniziamo?”
Sperai che l’intraprendenza di Megan fosse direttamente proporzionale alle sue capacità canore, ma troppo presto mi ritrovai faccia a faccia con la triste realtà. Sistemati ognuno ai propri posti eravamo pronti a suonare Cosa fai per denaro baby.
“Dov’è il mio bel microfono?” esclamò più volte Megan prima che Charlotte potesse rendergliene uno.
“E questo cos’è? Dov’è il glam?”
Gli occhi della modificatrice scintillarono da sotto gli occhiali protettivi. “Non… non capisco cosa vuoi dire. Quello è un microfono. Il migliore che ho trovato”.
Megan sbuffò, facendo penzolare le braccia, incredula. “Il glam, il GLAM! Brillantini, luccichii, colori smack smack! Dove sono? Questo coso è tutto nero, non mi piace”.
Charlotte non si scompose. “Può darsi che avrai il tuo glam glam, ma ora non ho altro” rispose calma. “Ora, ehm, credo che dovreste proprio iniziare. Siete già in ritardo di otto minuti”.
“Uffi uffi!” strillò Megan battendo i tacchi.
Saul fece il possibile per convince la sua ragazza. “Piccola, è solo per qualche giorno. Charlotte si inventerà qualcosa”. La baciò.
E sentii la voce stridula di Megan sussurrare all’orecchio del mio amico: “Vorrei tornare indietro a questa estate e non averti mai lasciato”.
“Ora siamo insieme, il ato non conta” rispose con accento da soap opera Saul.
Disgustato, Duff richiamò l’attenzione. “È tutto molto bello e apionato, ma cazzo, vogliamo iniziare? Matt, parti che ti seguo”.
Quando finalmente Megan si decise a stringere tra le mani il microfono…
ONE, TWO, TREE, FOUR!
Duff sostenne il giro di batteria, Saul legò i suoi riff al giro di basso. La musica divenne subito travolgente, ma mancavano la parole. Megan era rimasta al centro del laboratorio, microfono in mano. Aspettava il suo turno. Non aveva un’espressione tanto convinta. Mi chiesi se conoscesse il testo della canzone.
Quando attaccò col canto le parole sovrastarono il suono della musica. Suoni acuti, stonature che ci portarono a fermarci. Gli amplificatori fischiarono.
“Scusatemi, ragazzi. Devo ancora prendere confidenza con la tonalità”. La giustificazione di Megan sembrava più una presa in giro, una parodia nella parodia delle smorfiose attrici moderne.
“Posso riprovare, picci?”
“Certo, piccola”.
Si schiarì la voce con un colpetto di finta tosse e prese il tempo. La batteria partì, il basso anche. La chitarra riprese il riff principale.
Baby, cosa fai per denaro?
Cosa fai per denaro?
Ti soddisfa guadagnare in questo modo?
Gli uomini sono tutti in fila ad aspettarti
Non andò male, se paragonata alle ugole ubriache dei cantanti country. Sculettava e si dimenava, strusciandosi prima su Saul e poi su Duff. Una scena patetica.
Charlotte si teneva ben al riparo dietro al bancone. La vidi smanettare con alcuni aggeggi elettronici. Un modo per estraniarsi da quella tortura ai timpani?
La nota positiva era che, in così poco tempo, avevamo imparato a padroneggiare discretamente gli strumenti. Saul era riuscito a calibrare le onde della Guit, ricreando piccoli e studiati spostamenti d’aria; Duff riusciva a far scattare le fruste con più abilità, manovrando sicuro di sé la levetta al ponte. Mentre io, invece, mi limitavo a spruzzi di scintille, evitando di calcare troppo la mano.
Cosa fai per denaro baby andò alla grande, se non si contava Megan. Finita la canzone dovette togliersi di mezzo. Sbaciucchiò Saul e lasciò la sua postazione per permetterci di provare un allenamento extra. Charlotte voleva testare singolarmente gli strumenti.
Così, prima io, poi Duff e infine Saul, provammo le armi esercitandoci su dei bersagli allestiti al centro del laboratorio.
Le scariche elettriche delle bacchette colpirono una delle sagome in legno in pieno centro, provocando la gioia incontenibile di Duff e ovviamente la mia. Le onde della Guit spazzarono via tre dei cinque bersagli assegnati, ma mentre Saul ci dava dentro, Megan, tutta contenta per la dimostrazione del suo ragazzo, si esibiva in una lap dance improvvisata e senza l’ausilio di un palo. Duff si distrasse; i seni prominenti della nuova vocalist ballonzolavano su e giù, provocando l’ennesimo sconquasso ormonale del bassista frustatore.
Ma anche lui riuscì a ben figurare, fracassando in mille pezzi i bersagli sistemati da Charlotte. Quella fu la fine delle prove di quel pomeriggio.
“La prossima volta spero nel microfono glam!” disse Megan, riprendendo a pomiciare con Saul.
Io e Duff li lasciammo alle loro effusioni ardenti prestando interesse ai test postprove di Charlotte. Iniziò a lubrificare la manovella del basso Frustatore, a controllare i denti di squalo e a ripulire le manopole dei potenziometri della Guit. I miei Scaricatori finirono in una piccola incubatrice per essere ricaricati.
“Funzionano a batteria” spiegò Charlotte, il viso arrossato dal calore della lampada da lavoro. “È l’unico inconveniente. Credo che per il Torneo riuscirò a installare un piccolo rilevatore sui manici così potrai controllare quanta carica rimane”.
“Grazie. Sei straordinaria!”
“Dovere” rispose automaticamente. “Spero che non sia un problema” aggiunse poi alzando lo sguardo dal bancone. Gli occhi verdi indicarono il tentativo di Megan di strozzare Saul con la lingua conficcata nella gola di lui.
“Merda, lo spero proprio” bofonchiò Duff, portando una mano nei pantaloni. “Ecco, io speravo che nel regolamento del Torneo ci fosse tipo qualcosa che impedisse alle cantanti stonate di partecipare. E poi non vorrei preoccuparmi anche del mio amico nelle mutante, mentre suono sul palco”.
Lo disse senza imbarazzo, il che mi fece capire che la situazione era davvero seria. Tuttavia non potei fare a meno di ridere. “Sei tremendo!”
“Cazzo ridi, palle mosce! Qua la faccenda è grave”.
“Ti consiglierei di immaginare il seno di Megan flaccido e raggrinzito” si intromise Charlotte togliendo il camice bianco. “È un buon metodo per contenere la libido”.
“Tu ne sai qualcosa?” grugnì Duff, spalancando gli occhi. “Strano ricevere consigli da una verginella cervellona”.
Charlotte lasciò il camice sul bancone e si allontanò a testa bassa.
Sbuffai, scoccando un’occhiata in tralice a Duff.
“Non è colpa mia se è la verità” si giustificò il bassista.
Megan lasciò il laboratorio dopo la fine della lunga pomiciata con Saul.
“Ma non avete tempo di farlo da un’altra parte?” chiese Duff. “Quella tipa sarà la mia rovina”.
“Bello, stai calmo. Tienilo a bada”. L’occhio di Saul cadde sul rigonfiamento nei pantaloni.
“Dovrebbe essere lei a tenere a bada quelle chiappe e quelle tettone”.
“Siete due pervertiti”.
“Senti chi parla, il palle mosce che vorrebbe farsi la cervellona!”
“Stronzo”.
La scarica di insulti e parolacce di Duff fu coperta da un rombo di motore che proveniva appena fuori il laboratorio. Charlotte aprì la saracinesca e, tra le luci del tramonto e il vialetto bagnato dalla pioggia, ci ritrovammo davanti al nostro furgone e a nonno Mortimer.
“Salve a tutti” gridò il vecchio, finto assassino.
“Ciao, nonno”. Charlotte corse ad abbracciarlo.
“Ehi, sono stato via solo qualche ora”.
“Mi è sembrato molto di più. Allora, com’è andata?”
“Oh, direi benone. Il nuovo motore tira che è una bellezza!”
Il furgone era rimasto . Non aveva quasi più nulla di scassato, e il cofano aveva smesso di sbuffare fumate bianche. La carrozzeria era stata restaurata; ora spiccava lucente un grigio metallizzato con lingue di fuoco aerografate a formare la scritta DRC.
Restammo senza parole. Duff si lanciò a baciare il cofano, mentre io e Saul aprivamo le portiere scorrevoli; l’abitacolo era rimasto intatto e puzzolente.
“Ho pensato che foste legati sentimentalmente ai sedili logori e alla ruggine. Dentro ho lasciato tutto com’era. Ho sistemato solo la radio” disse Charlotte. Il sole che tramontava sottolineava un bel sorriso sul volto delicato.
Ritornammo in laboratorio tutti eccitati, ringraziando fino alla nausea la nostra modificatrice. Charlotte salì in casa a preparare qualcosa per cena mentre io e gli altri fummo intrattenuti dalle chiacchiere di nonno Mortimer.
“Ho notizie interessanti” esclamò solennemente, sventolando per aria una delle mani ossute. “Volete sapere quali?”
“Spara, Morty. Sempre se non si tratta di storie assurde come quella dei cadaveri” sbadigliò Duff sdraiandosi per terra.
“Ho preso le medicine” rispose risentito il vecchio. “Non mi aspettavo certo caldi ringraziamenti da voi sbarbatelli”. Ci ammonì additandoci con le dita
scheletrice. “Volevo mettervi al corrente di alcuni fatti incresciosi legati al Rock Guerrieri. Ma se la mettete così, andrò a fare compagnia in cucina alla mia amata nipotina”.
“Signore” lo bloccai mentre ci dava le spalle, “io sarei interessato. Cos’è successo?”
Ringalluzzito dalla mia attenzione il vecchio non aspettava altro che sputare il rospo. “Ebbene, ragazzacci. Qualcosa di inspiegabile è successo. Ne ho sentito parlare al chiostro della scuola e ho avuto conferma dai giornali. Voi non li leggete, i giornali, ragazzacci?”
“Non tanto” ammisi sincero.
“Ho smesso di leggere all’età di sei anni” rispose Duff.
L’espressione di nonno Mortimer si rabbuiò. “Faccio finta di non aver sentito. Dicevo del Torneo. Non si sa ancora come, ma senza un motivo apparente, alcune band in gara hanno cancellato la loro partecipazione”. Fece una pausa, osservando le nostre espressioni accigliate. “E altre, ancora peggio, sono sparite dalla circolazione”. Parlava come se i muri circostanti avessero le orecchie.
“Quali band?” chiese Saul.
Il vecchio portò una mano vicino alla bocca, pensando. “Non ricorderò mai quei nomi stravaganti. Ma due amici che frequentano il pub in centro mi hanno detto
che i loro nipoti sono spariti nel nulla. Suonavano nelle band che hanno dato forfait”.
Scambiai un’occhiata con Saul. Duff continuava a fregarsene steso nell’angolo.
“Mmm” fece il vecchio grattandosi il mento. “Ogni anno ne succede una. Nella finale dell’anno scorso i draghi dei Vichinghi hanno rotto la recinzione dei box, ricordate? Io c’ero”.
“Non la facevo apionato”. Per un attimo dimenticai l’uomo che mi aveva accolto a B. House con la tazza di tè in mano.
“Amo discutere di cose interessanti” rispose il vecchio. “In una città apatica come la nostra, il Torneo è l’argomento di discussione migliore che si possa trovare in circolazione. Al pub non si parla d’altro, ultimamente”. Cercò di coprire le ultime parole simulando un colpo di tosse. “A ogni modo, credo che quelli del Carcere Sopra le Righe indagheranno sulla scomparsa dei ragazzi”.
“E ci credo! Tripke è sempre tra i piedi” esclamò Saul contrariato. “Non lo sopporto, bello. È uno stronzo venduto che cerca di mettere i bastoni tra le ruote a tutti, solo per tirare affari per sé”.
“Ben detto, ragazzo. Chi dovrebbe far rispettare la legge è un criminale più dei criminali” convenne il vecchio.
Finalmente Charlotte scese per la cena. Aveva preparato succulenti hamburger
per tutti. Il nonno -o presunto assassino, come lo intendevo ancora- si congedò. “Salgo su a prepararmi una zuppa”.
“È già pronta, nonno. Devi solo riscaldarla un po’. È speziata come piace a te”.
“Che cara nipote” La voce si perse tra la porta che dava ai piani superiori e la rampa di scale.
Ci ingozzammo di hamburger e patatine, accompagnando il tutto con una coca ben ghiacciata. Il cibo più buono del mondo! Il nettare degli dèi, come diceva Duff.
A tarda serata la porta automatica del garage si aprì su una notte buia e silenziosa. Lì fuori da qualche parte erano scomparsi ragazzi, draghi e Vichinghi affilavano le corna, armi potentissime erano nelle mani di un gruppo di idioti e qualcosa aveva rubato la luce alle stelle in un cielo privo di nubi. E poi c’era anche un demone disperato che desiderava riabbracciare i suoi amici.
Ringraziai la dolcissima Charlotte per tutto quello che aveva fatto per noi, dopodiché ci ficcammo nel furgone al riparo dalla solita cappa di umidità, dandoci appuntamento per il giorno seguente. Con un colpo leggero di pedale misi in moto, lasciando il vialetto e imboccando, dopo un paio di vie tutte uguali, il viale principale.
La mia casa era diventata una pensione omaggio. Duff e Saul si erano offerti di rimanere da me ogni sera. Piuttosto che dormire da solo o rimanere sveglio tutte le notti fino all’inizio del Torneo, accettai di buon grado la proposta. Il salotto immacolato di mia madre si era trasformato in un luogo di bivacco. Lì
mangiavamo e lì trascorrevamo il tempo libero finite le prove in laboratorio.
Era stata una settimana durissima. Dovevamo sopportare Megan e le sue stonature; Megan e i suoi capricci, Megan e i suoi baci e bacetti lanciati a destra e a sinistra; Megan e le pomiciate con Saul nei momenti meno opportuni; Megan e le sue curve mozzafiato, anche se questo era più un problema di Duff strettamente connesso ai suoi istinti animaleschi.
“Sono troppo grandi” sospirò affondando la testa nei cuscini ricamati sul divano. “Scusa, amico. Mi sento una schifezza a spiattellarti in faccia le mie voglie”.
“Non mi offendo, bello” rispose Saul, seduto comodamente sul prezioso tappeto di mia madre. “Solo che… insomma, credo ti ci vorrebbe una ragazza. Non solo per scopare, bello. Sai, in generale. Così. Ti farebbe bene, tipo”.
Concordai con Saul, ma senza approfondire la questione. Meglio tenere lontano Duff da certe questioni. Avrebbe senza dubbio finito per all’allargare l’argomento parlando di me e delle mie attenzioni nei confronti di Charlotte.
La serata andò avanti con tv, videogame e schifezze da buttar giù nello stomaco.
A un certo punto la stanchezza prese il controllo sulle nostre residue energie vitali e crollammo in un sonno collettivo.
La mattina seguente fui il primo ad aprire gli occhi, svegliato dalla televisione rimasta accesa. avano le notizie al tg locale. Una donna di mezza età parlava
di misteriose sparizione e omicidi:
“È giunta nelle ultime ore la notizia del ritrovamento di tre cadaveri fuori città. Le vittime, totalmente sfigurate, sarebbero i componenti di una rock band arrivata nel nostro paese per partecipare al leggendario Torneo dei Rock Guerrieri, contest per giovani band conosciuto soprattutto per gli incontri al limite della correttezza. Una squadra speciale del Carcere dei Rocker Sopra le Righe sta indagando sull’accaduto, nel tentativo di capire se esistono o no reali collegamenti con l’evento prossimo al via. E ora il meteo…”
“Manca solo la frase 'i prossimi sarete voi'“. La voce di Saul era ancora impastata dal sonno. Duff russava ancora sommerso dai cuscini.
“Dovremmo guardarci le spalle. Se quelli dubitano sui collegamenti tra omicidi e Torneo, io non sono dello stesso avviso” risposi. “Band che cancellano la loro partecipazione. Musicisti morti o che spariscono nel nulla. Di quali altre prove hanno bisogno? È ovvio che qualcuno ha intenzione di sabotare il Torneo”.
“Perché dovrebbero sabotarlo?”
“Non lo so. L’unica persona che mi viene in mente e che potrebbe c’entrare qualcosa è Antony. Ma perché? Non ha senso”.
“E se fosse il demone? Si sta vendicando, Matt. Antony gli ha rubato gli strumenti diventando l’erede di B. House. Bello, era tutto quello che aveva di prezioso”.
“Il demone non può uscire da lì, è bloccato nello stanzino, ricordi? Essendo l’erede di sangue, Antony poteva trasportare gli strumenti fuori dalla villa. Ma il demone è prigioniero lì sotto”.
“Di che cazzo parlate?” Duff si era svegliato. Ci concedeva un’esclusiva sui suoi organi interni spalancando più e più volte la bocca per sbadigliare.
“Nulla” tagliai corto. “Facciamo colazione e prepariamoci. Il treno per l’arena parte tra due ore”.
“Sì, cazzo. Muoio di fame. Ma in treno viene pure Megan?”
“Penso di sì, bello. Perché?”
“E tanti saluti al viaggio tranquillo”.
Consumammo la colazione in cucina, in silenzio. La voce della donna di mezza età continuava a ronzarmi da un orecchio all’altro.
In poco meno di mezz’ora raccogliemmo le nostre cose negli zaini; una capatina in bagno per eliminare le ultime gocce di tensione liquida e via, fuori da casa.
“Spero di ritornarci vivo” disse amaramente chiudendo la porta d’ingresso. Duff e Saul erano pronti alle mie spalle. Non risposero.
Era una mattina assolata, calda abbastanza per godersi una scampagnata al parco. Mia madre l’avrebbe ata in giro a spettegolare con le amiche. Pensai a lei, un ricordo lontano affiorato nel momento peggiore. Stava bene? Mi avrebbe perdonato? Non doveva importarmi.
Charlotte arrivò puntuale, accompagnata da nonno Mortimer.
“Ciao” salutai.
“Ciao. Nonno ha deciso di non venire” spiegò, ma gli occhi tradivano una comprensibile delusione. Il vecchio al suo fianco la strinse a sé e sorrise.
“Troppo sfiancante, ragazzacci. Vi seguirò da casa. Questi sono i vostri biglietti del treno e la ricevuta dell’iscrizione. Attenti e occhi aperti”. Sorrise anche a noi, quel sorriso che purtroppo consideravo un segno negativo. “Buona fortuna, rocker!” gridò con la lingua tra i denti, facendo il gesto delle corna.
Ridemmo divertiti, compresa Charlotte che saltò addosso a suo nonno per abbracciarlo.
Zaino in spalla ci incamminammo a piedi verso la stazione. Per tradizione, le band dovevano raggiungere lo stadio con il Rock Rocket, il treno ufficiale del Torneo. Il nostro furgone era rimasto nel vialetto di casa mia; sarebbe stata la prova da lasciare ai posteri dopo la nostra morte?
“Ho consegnato gli strumenti ieri in stazione, dovrebbero già essere sul treno” ci comunicò Charlotte. “Sono tutti catalogati nel mio database portatile provvisto di sistema di posizionamento satellitare”.
“Praticamente gli strumenti sono a prova di furto?” che mente geniale! Come potevo starmene zitto e annuire soltanto come avevano fatto Duff e Saul.
“È quello che spero” rispose lei imibile. Dopo averla vista per giorni vestita solo del camice bianco, rivederla con il camicione a scacchi fu una gioia per gli occhi. Era la “divisa” ufficiale della Charlotte che mi faceva arrossire a scuola.
Le ombre degli alberi in fiore ci ripararono dai raggi del sole sempre più intensi. Attraversammo il sottoaggio vicino al parco per sbucare all’ingresso della piccola stazione dei treni. Sotto gli archi e i colonnati di mattoncini rossi una marea di rocker della nostra età aspettava la partenza.
Il Rock Rocket color canna di fucile era fermo al binario 9-34. Per tutta la sua lunghezza, su ogni vagone, erano incisi i nomi delle band che avevano partecipato alle edizioni precedenti del Torneo e i nomi dei musicisti deceduti. Scritte rosse sul metallo scuro.
Per una mattinata intera la stazione era riservata ai rocker. Non c’era traccia di pendolari, costretti a sparire dalla circolazione.
Lì nel mezzo eravamo come piccole e succulenti prede in mezzo a un branco di lupi affamati. La vocina di Charlotte ci indicò la via. “Siamo nella carrozza numero sei. È da quella parte” disse, facendosi strada tra le centinaia di facce che ci occhieggiavano. La seguimmo come bambini ubbidienti.
La testa divenne una calotta colma solo di fastidiosi fruscii. Il pensiero di dover vincere contro Antony e riprendere gli strumenti rubati iniziò a scavare enormi buchi nello stomaco! Per Axl, ripetevo, lo facciamo per Axl. Resisti, amico!
“Stai su, bello. Almeno non dobbiamo più rubare anime a nessuno”.
Track #18
Il torneo
Il treno 9831 di Railway Reading delle ore 11:00 per Les Paul Station è in partenza dal binario 1. Non sono previste fermate intermedie.
La voce dagli altoparlanti iniziò a mettere una gran fretta a tutti. Erano le 10:48.
Charlotte fu inghiottita dalla folla, portata via a spallate da un gruppo di punk; quei ragazzi portavano enormi creste viola, tranne una ragazza dalla faccia ricoperta da piercing, completamente rasata.
“Tutto bene?” chiesi recuperandola dalla mischia.
“S-sì… sto bene. Grazie” rispose ricomparendo. Tra la folla mi diede l’impressione di essere davvero una bambina. “Andiamo? Ci siamo quasi”. Gli occhiali le erano scivolati sulla punta del naso. Li rimise a posto prendendo una boccata d’aria prima di immergersi nuovamente nella calca.
Per arrivare alla carrozza dovemmo sgomitare e sudare, e per fortuna non avevamo gli strumenti da trasportare. Sapevo che fino a qualche anno fa le band erano costrette a portare chitarre e bassi in spalla. Solo nelle ultime edizioni l’organizzazione aveva predisposto un check-in valido fino al giorno prima della partenza del Rock Rocket. La nostra roba e quella della altre band era già stipata e al sicuro nei vagone cargo, in coda.
Il treno 9831 di Railway Reading delle ore 11:00 per Les Paul Station…
Le 10:58.
Le carrozze iniziarono a vibrare. Il treno si era messo in moto ed era pronto a partire.
Nel mare umano in subbuglio Charlotte riuscì a sfruttare le spinte dei ragazzi che salivano in carrozza. Fu compressa in un angolino, nel tratto di corridoio che precedeva gli scompartimenti. Anche noi seguimmo il flusso e riuscimmo a salire in tempo.
Sentii Duff dietro di me imprecare assieme ad altri giocolieri della parolaccia. Saul invece era riuscito a sgattaiolare in mezzo a due tipi alti e barbuti. Non so come avesse fatto, ma era riuscito a tenere per mano Megan, incontrata tra la moltitudine di gente in stazione. La cantante era come un lascia are vivente. Al suo aggio nessuno rimaneva indifferente, nemmeno le ragazze. Sorrideva come una diva, tra smorfie e sorrisetti plastici. Saul sembrava prenderla con filosofia, per niente geloso.
Al fischio del Rock Rocket la porta meccanica si chiuse alle nostre spalle, spingendo all’interno chi era rimasto sulle scalette d’ingresso della carrozza. Un altro fischio e le ruote iniziarono a scorrere sui binari.
Dal un angolo del finestrino vidi la banchina vuota.
“Cazzo, che sudata! Fanculo” boccheggiò Duff. “Che fiacca, ragazzi. Ehi, dove vai, palle mosce?”
Mentre Duff era collassato per terra e Saul e Megan avevano iniziato a pomiciare indisturbati, andai avanti per cercare uno scompartimento vuoto assieme a Charlotte.
Sgomitai nel poco spazio a disposizione per superare uno scompartimento occupato da quattro tizi vestiti in giacca e cravatta, stesso taglio a caschetto e occhiali scuri. Dimostravano almeno vent’anni in più di noi. Più avanti una coppia aveva iniziato a riare il testo di una canzone country rock. Vestivano all’antica, con camice dai colletti a punta e bretelle su calzoni arrotolati alla caviglia.
Più in là i posti erano quasi tutti occupati, ma Charlotte, sgattaiolata ancora più avanti, riuscì a trovare uno scompartimento libero. “Qui!” la sentii urlare sventolando una mano per farsi notare.
Riuscii a infilarmi in mezzo a tre ragazzi che avevano sbagliato carrozza e intralciavano il aggio. Entrai nello scompartimento. “Eccomi! Aspettiamo che il corridoio sfolli. Dopo vado a chiamare gli altri”.
“D’accordo” rispose Charlotte, togliendo lo zaino e riponendo la sua valigetta di metallo sotto uno dei sedili.
Lo scompartimento aveva un forte odore di fiori. Le pareti erano foderate di
carta da parati viola e i sedili erano in cuoio consumato. Chiusi la porta a vetri per isolare il vociare continuo che proveniva dal corridoio.
“Tutto bene, Charlotte?” aveva tirato su le maniche della camicia e puliva gli occhiali con un fazzoletto azzurro che aveva cacciato fuori dal taschino. “A parte la gente”. Gli occhi le lacrimavano. Sbatteva ripetutamente le ciglia.
“Non ti piace, la gente?”
“Non ho detto questo” mi corresse inforcando gli occhiali, ma il tono non era acido: era il suo solito, pratico e sincero. “Ho problemi quando ce n’è troppa. A scuola arrivo sempre in ritardo o in mostruoso anticipo. Non lo avevi notato?”
Avrei voluto rispondere che sì, l’avevo notato eccome, ma optai per l’onestà. “A dire la verità no. Be’, ora siamo lontani dalla folla”. E qui mi sarei avvicinato lentamente, puntando alle labbra…
“Ma non ero in pericolo di morte” rispose seria. “Volevo solo trovare un posto a sedere e stare tranquilla. Ho difficoltà a interpormi con più di cinque, sei persone per molto tempo. Mi dispiace, Matt, non riesco… non mi sento a mio agio”.
“Eh, ti capisco” risposi come un ebete. Non trovai altro da aggiungere quindi mi azzittii, sistemando lo zaino sul portabagagli sopra la mia testa.
Una volta sistemato il mio essenziale decisi che era giunto il momento di andare a ripescare gli altri. “Torno subito” annunciai. Non riuscii a nascondere un
pizzico di delusione guardando una taciturna Charlotte seduta accanto al finestrino.
“A dopo” rispose distratta dal panorama oltre il vetro.
Quando anche Saul, Megan e Duff presero sistemazione nello scompartimento il Rock Rocket si era già lasciato alle spalle il panorama cittadino. Al di là del finestrino scorrevano campagne, boschetti e piccoli fiumiciattoli. Il sole sbiadiva tra le immense, soffici nuvole scure che minacciavano di scaricare pioggia prima dell’arrivo in stazione.
La porta dello scompartimento si aprì sul corridoio finalmente vuoto e tranquillo. “Ragazzi, buonasera. Mi chiamo Nath Podollack” salutò un ragazzo sui trenta abbigliato con una tuta color arancio fosforescente. “Faccio parte dello staff del Rock Guerrieri. Questo è il regolamento ufficiale. Vi consiglio di leggerlo con attenzione. Nell’ultima sezione trovate gli accoppiamenti del primo turno e il tabellone completo del Torneo”. Parlò tutto d’un fiato. “Rilassatevi e godetevi il viaggio. Arrivederci”. Mi rese il foglio con il regolamento, richiuse la porta e proseguì il giro nello scompartimento successivo.
Andai direttamente a consultare l’ultima sezione del documento.
“Allora, bello, come siamo combinati? “ chiese Saul al mio fianco, sbirciando sul foglio.
Charlotte era persa nei suoi pensieri. Duff e Megan pendevano dalle mie labbra. “Insomma?” strillò la glam, agitata.
“Un attimo di pazienza” replicai scorrendo la lista degli incontri. “Ecco qui: DRC contro… Splash Inc! Conoscete?”
“Mai sentiti” rispose Duff sprofondando nel sedile. “Buon segno, no? Sarà qualche band scartina che non se la fila nessuno”.
“Conoscere i nomi di qualche band del pub al centro non vuol dire conoscere tutti i gruppi in circolazione, Duff” dissi esitante. “Per il Torneo arrivano band anche da fuori paese. E da chissà dove; vedi i Vichinghi”.
“Li sconfiggeremmo tutti” esclamò ridondante Megan. “Vero, picci?”
“È quello che speriamo, piccola. Dobbiamo salvare Axl, è quello per cui combatteremo, ma nessuno di noi vuole rimetterci l’osso del collo” rispose Saul.
Osservai per un attimo la perplessità sul volto di Charlotte, dopodiché proseguii con la lettura. “Sentite qua” e iniziai a leggere a voce alta:
“Una delle regole fondamentali da rispettare scrupolosamente è; pensare che ci siano regole da rispettare una volta saliti sul palco. Il Torneo dei Rock Guerrieri è uno dei più antichi tornei d’arte creativa che siano stati mai ideati nel nostro paese dai nostri padri fondatori. A scapito della sicurezza dei partecipanti, le regole non sono state mai revisionate e ne conservano ancora oggi fascino e crudeltà di un tempo. Pertanto, il circolo scolastico e la radio locale, organizzatori dell’evento, onde evitare spiacevoli conseguenze, invitano tutte le band in gara a prendere coscienza di ciò e agire secondo una morale atta a
scongiurare tragiche fatalità. Di seguito, le regole da rispettare indiscutibilmente fuori dal palco e per tutto il soggiorno nel campo tende nei pressi dell’arena. I trasgressori colti in flagrante saranno puniti dalle squadre speciali del Carcere dei Rocker Sopra le Righe.
1- Non rubare strumenti ad altre band; 2- Non suonare fuori dall’arena in orari non consentiti...” e così continuava per decine di noiosissime pagine, più postille altrettanto noiose e inutili.
ai il regolamento agli altri, ma nessuno aveva voglia di mettersi a leggere, così continuai a sfogliare il plico di fogli. L’ultima pagina riportava il tabellone completo del Torneo; era stato modificato a penna per via delle sparizioni e delle morti improvvise. Si leggevano lo stesso i vecchi accoppiamenti, con le dodici rock band originarie. Otto ne comparivano ora, compresa la nostra battle con gli Splash Inc.
Ci investì un torpore generale. Non riuscivo più a tenere gli occhi aperti. Indugiai un ultimo istante sul panorama fuori dal finestrino. Figure scure arono veloci oltre le campagne isolate, filamenti di nuvole nere più rapide del vento…
Chiusi gli occhi.
…
I sensi si riattivarono e mi svegliai, ma continuai a tenere gli occhi chiusi.
“Ma ci pensate che gli strumenti del demone sono a qualche carrozza di distanza? Potremmo prenderli e saltare giù dal treno. E niente Torneocarneficina!”
Era la voce di Duff.
“Se posso permettermi” intervenne la voce di Charlotte, seduta al mio fianco. “Se fossi in voi preferirei essere squartata viva in una battle rock che fracassarmi le ossa gettandomi da un treno in corsa”.
Duff disapprovò con un grugnito.
“E fuori dell’arena non si ruba, bello. C’è scritto nel regolamento, non hai sentito Matt, prima?”
“Il Carcere, Duff” dissi aprendo gli occhi. Aveva iniziato a piovere, le gocce sbattevano e scivolavano sui vetri del treno in corsa. “Vuoi ritornarci?”
“Cazzo, no” rispose il mio amico con un brivido nella voce.
“Ci sbatterebbero dentro all’istante”. Fino ad allora non mi ero mai posto il problema. Com’era il Carcere, da prigioniero? “Ce li riprenderemo combattendo sul palco” dissi deciso.
“Gli faremo il culo?”
“Puoi contarci”.
“Sei coraggioso, palle mosce. O scimunito. Ma mi piaci quando parli così. Dovresti farlo più spesso”.
Sorrisi miserevole.
Il treno procedeva lento su un vecchio ponte che attraversava una zona boscosa. Il tardo pomeriggio e le nuvole nere avevano messo fuori gioco il sole e il cielo azzurro. Nello scompartimento si erano accese le luci elettriche.
“Ma non cambi mai quella camicia orrenda?” Megan sonnecchiava sulla spalla di Saul. Svegliata dal nostro parlare aveva lanciato una specie di… provocazione? Affermazione? Le pelle chiara di Charlotte Michelle si arrossò.
“S-scusami? Perché? È… pulita”.
“È uno straccio” protestò Megan gesticolando con le dita smaltate di giallo. “Dovresti venire con me a fare shopping! Ho in mente dei vestitini che ti starebbero d’incanto, tesoro. Anche un bel top rosa e jeans vita bassa non sarebbero da buttar via, vero picci? Always Glam!”
“Non saprei, piccola. Charlotte ha un suo stile” rispose vago Saul che aveva portato una mano sulla coscia scoperta di Megan.
“La mia camicia va benissimo” rispose Charlotte cercando di imporsi. “Io… rinnovo il mio guardaroba una volta l’anno, negli altri trecentosessantaquattro giorni non ho tempo da dedicare alla moda”.
Megan storse il naso ma non demorse. “Verrai con me, non te ne pentirai. E mi ringrazierai quando tutti i ragazzi ti staranno dietro. Sei carina, ma potrei trasformarti in una bomba sexy”.
“Mi spiace ma… non voglio niente del genere”. Per quel che potette Charlotte si nascose nell’abbondante camicia a quadri.
Il treno aveva superato il ponte e la porta dello scompartimento si aprì di nuovo. Era un altro ragazzo dello staff. “Ciao, ragazzi. Leonard Perkins. Che gruppo siete? Devo consegnarvi i bracciali identificativi”.
“Siamo i DRC” risposi. “E la nostra modificatrice”.
Leonard segnò qualcosa su una cartellina. “Perfetto, eccovi qui. Segnati. E questi sono i vostri bracciali. E il badge per la modificatrice. I biglietti del treno? Perfetto, perfetto. Bene. È tutto in regola”.
“Grazie”.
“A voi. In gamba per le battle. Ci vediamo!”
Erano bracciali di gomma rossi. Il badge da portare al collo riportava il nome per esteso di Charlotte. Lo indossò subito. Fu un sollievo notare che Megan era troppo occupata a succhiare la lingua di Saul per riprendere il discorso sulla moda. In quel momento pensai a una cosa: avrei dato un braccio intero per vedere Charlotte in tiro con jeans e top.
“Dovremmo esserci, no? Cazzo, siamo in viaggio da venti milioni di ore”.
“Sì, non dovrebbe mancare molto” risposi a Duff, in piedi e con il naso incollato sul vetro per guardare fuori.
“Che due palle. Vorrei tanto aver già picchiato quel coglione di merda ed essere sul treno del ritorno”.
“A essere sincero non vorrei mai aver preso parte al furto. Tutto è iniziato da lì” dissi cupo.
Duff stava per lanciarsi in qualche sua invettiva epocale, ma un messaggio di servizio lo bloccò. Una voce da donna (da donna o da uomo? Difficile capirlo) parlò.
DIN DON. Tra pochi minuti arriveremo alla stazione di Les Paul con un ritardo di quarantacinque minuti. Ci scusiamo per il disagio.
“E vaffanculo!” sbraitò Duff. “Stronza asessuata”.
Il treno iniziò a fischiare e le ruote a stridere. Le goccioline sul vetro mescolavano i riflessi delle luci della stazione di Les Paul.
Il corridoio andò riempiendosi come alla partenza. Prendemmo i nostri zaini e uscimmo, finendo per essere compressi contro i vetri della carrozza. Un gruppo di metallari con giubbotti di pelle borchiata e pantaloni rosa shocking chiacchierava a proposito di gattini.
“Qualche problema, bel tipetto?” il più grosso di tutti si era accorto che origliavo la conversazione.
“Assolutamente no. Io… ehm, adoro i gattini!” quello rise, un sorriso dolce e stucchevole nascosto tra folta barba incolta.
Dopo vari minuti di fila, l’aria fresca e l’odore della terra bagnata ci accolsero. Per fortuna aveva smesso di piovere.
Anche la stazione di Les Paul era molto piccola. La banchina si riempì in pochi secondi di centinaia di ragazzi. Una squadra di uomini in tuta arancione ci aspettava nell’unica zona franca della banchina, accanto le carrozze di testa del treno. Uno di loro portò un megafono alla bocca. “Attenzione a tutti! Formate file ordinate e non perdete di vista il vostro gruppo. Nominerò in ordine gli accoppiamenti del primo turno. Prego le prime due band che chiamerò di avvicinarsi da questa parte per il controllo d’identificazione. In seguito tutte le altre”.
Accanto al gruppo in tuta arancione scorsi le sagome di tre agenti del Carcere, tra cui Tripke. Aveva l’aria preoccupata e indossava gli occhiali da sole nonostante il buio.
“Odioso” esclamò Saul tra i denti. “E venduto”
“Chi è?” chiese Megan stranita. Un gruppo di ragazzi avevano già allungato gli occhi sulle sue sporgenze.
“Uno degli avvoltoi del Carcere, piccola. Quello che stava per sbatterci dentro. Lo stesso che si è fatto corrompere da quello stronzo lecchino di Antony”.
L’uomo al megafono riprese a parlare. “Torneo Rock Guerrieri, centocinquantesima edizione. Primo turno, prima battle. Le band che si affronteranno nell’incontro di apertura sono gli Slash Inc e i DRC. Da questa parte, prego! Ripeto: DRC, Splash Inc, da questa parte!”
Sentii la voce di Charlotte arrivare da molto lontano. Ma era al mio fianco e cercava di parlarmi urlando, indicando l’uomo al megafono. Non la capivo, per me era una scena muta e carica d’angoscia. Un fischio prima leggero, poi più forte e insistente, mi rimbambì. Seguirono vertigini e, dietro la nuca e sulla fronte, graffi di sudore freddo. Tutti i sintomi che si provano appena prima di uno svenimento. Rimasi comunque perfettamente in piedi, concentrandomi per evitare di afflosciarmi al suolo.
Le carrozze continuavano a sputare gente. Ero nel mezzo del flusso umano, sempre più schiacciato e trafitto da ondate di panico. Mi sentivo davvero malissimo, la vista offuscata.
Riuscii appena a intuire la presenza degli altri al mio fianco. Spinto da Charlotte (“Matt, hanno chiamato la vostra band!”) iniziai a muovermi. I piedi si staccavano da terra pesanti, e li trascinavo come se le scarpe fossero state imbottite di piombo.
“DRC?” l’uomo al megafono in tuta arancione parlò e riuscii di nuovo a udire suoni e voci. Risposi qualcosa.
“Scusa, come dici?” chiese disorientato l’uomo dello staff.
“Credo di sì”. Alzare la voce mi costò un lieve mancamento.
Stavo esagerando? Voi come vi sentireste se, appena scesi da un treno, sballottati da una parte all’altra, vi chiamassero per essere gettati come pupazzetti in un’arena per combattere? Avevo avuto diverso tempo per prepararmi psicologicamente al Torneo, ma essere lì era diverso. Rischiavo già grosso.
“Fatemi vedere il braccialetto. Il badge. Bene. Sarete sul palco tra un’ora. Seguite il sentiero e arriverete al campo e alla vostra tenda. È la numero ottantacinque. Gli strumenti sono già lì. Che il cammino dei guerrieri vi illumini la via!”
L’uomo col megafono pronunciò l’ultima frase con finta cadenza solenne, indicando un sentiero poco più in là.
Era completamente buio, ma all’improvviso decine di lingue di fuoco eruppero dalla terra ai lati della via sterrata, delineando un percorso che si perdeva nell’oscurità di un boschetto.
“Prima di procedere” riprese a parlare l’uomo col megafono “sarete perquisiti dagli agenti del Carcere. Prego. Splash Inc, tocca a voi, da questa parte!”
Prima di fare un altro o, mi voltai. Gli Splah Inc erano il gruppo punk che avevamo incontrato alla partenza. La ragazza piena di piercing aveva una brutta aria, disse qualcosa ai suoi compagni e si fece avanti.
“Eccoci di nuovo faccia a faccia” disse una voce sgradevole. Tripke tolse gli occhiali e ridacchiò ironico assieme ai suoi colleghi, un uomo alto e uno basso con il bavero del giaccone tirato all’insù.
“Purtroppo” ringhiò Duff. “Le teste di cazzo vanno sempre a so”.
L’agente estrasse dalla tasca qualcosa. “Non darmi motivo di usarlo di nuovo, ragazzo”. In mano stringeva il taser. Duff si portò istintivamente la mano al collo.
“Potrei pensare di incastrarti a proposito delle sparizioni e degli omicidi degli ultimi giorni”. Tripke ripose l’arma e, senza perquisirci, disse che potevamo andare. Gli altri due agenti sollevarono gli occhiali abbastanza da godere dello spettacolo che offriva la minigonna e la scollatura di Megan.
Il sentiero di fuoco si inerpicava su una collina. Oltre le fiamme, gli occhi curiosi delle civette ci osservavano spuntando dal buio e dai rami intricati.
“Bello, che fai? Attento!” Saul mi aveva spinto verso di lui, strappandomi dalle mie più funeste riflessioni. “Un altro po’ più in là e andavi a fuoco”.
“Oh… grazie” borbottai incerto, e proseguii.
Charlotte apriva la fila. La valigetta di metallo scintillava al bagliore delle vampate di calore e fuoco.
“Cos’è che tieni lì?” domandò Duff togliendo lo zuccotto per sventolarlo sul viso grondante di sudore.
“I vostri pedalini” rispose Charlotte. “Overdrive per la chitarra ed effetti per il basso”.
“Tutto qui? Che cazzo. Mi aspettavo qualcosa tipo armi da o”.
“Oh, be'” riprese Charlotte, “non sono semplici pedalini come quelli che avevi nello zaino”.
“Chi ti ha detto che ho dei pedalini nello zaino? Ehi, e che cazzo vuol dire avevi?”
“In stazione due ragazzi hanno aperto il tuo zaino e hanno preso qualcosa. Ho visto cosa”.
Duff si fermò e scaraventò bruscamente a terra lo zaino, constatando che la cerniera era effettivamente aperta. “Piccola stronza che non sei altro” urlò. “Perché non me lo hai detto?”
Charlotte scrollò le spalle minute. “Io… non volevo essere la causa di arresti e disordini. Se avessi confessato il furto agli agenti avrei fatto espellere almeno un paio di band dal Torneo”.
“Ma così non ho più i miei pedalini!” Duff era furibondo. Si gettò nuovamente lo zaino in spalla. “Tu non sei normale. Tra te e quel vecchio non so chi sta messo peggio. Ora come faccio senza i miei effetti? Che demente. E tu dovresti far parte dei DRC? La nostra modificatrice? Non dovevo darti retta, palle mosce. Non dovevo!”
Le labbra di Charlotte iniziarono a tremare. Tirò su col naso. Il verde degli occhi brillava come la valigetta metallica. “Non ti serviranno” disse singhiozzando sommessamente. “Credi che… credo davvero che ti avrei lasciato senza strumentazione? Ho tutti i pedalini che vi serviranno. Io… io credo che tu mi odi! Cosa ti ho fatto? Lascia in pace mio nonno!” si lasciò cadere a terra, in ginocchio. Il fuoco del sentiero riempì le lacrime con il riverbero di tante piccole fiammelle.
Mi maledissi più e più volte perché non trovai il coraggio di rincuorarla, dirle che andava tutto bene e che Duff era uno scemo.
Fu Megan a preoccuparsene, staccandosi da Saul. “Tesoro, sta’ tranquilla. Lascia perdere quel tamarro”. L’abbracciò e la consolò come facevano le migliori amiche. Mi rincuorò, ma rimanevo lo stesso un maledetto senza un briciolo di coraggio.
Duff era rimasto sul posto senza aprir bocca. Proprio in quel momento di imbarazzo e tristezza, dal fondo della stradina arrivarono i nostri avversari. Non ci degnarono di uno sguardo. La ragazza con i piercing guidava il gruppo e ò oltre Charlotte e Megan.
Quando la piccola modificatrice si fu ripresa proseguimmo per il sentiero di fuoco. Dopo alcuni minuti il colle su cui sorgeva l’arena si levò dalla notte, illuminato sullo sfondo da un cielo ripulito dalle nubi e carico di stelle. L’arena era così grande che occupava tutta la cime del colle: il familiare ovale immenso e futuristico.
Arrivammo così al campo, che era stato impiantato proprio sotto l’arena. L’ingresso alla tendopoli illuminata da altre torce di fuoco era delimitato da un recinto di ferraglia e un cancello arrugginito.
“Salve, ragazzi. DRC, giusto? La vostra tenda è la terza in fondo a questa fila qui. Prendente gli strumenti e raggiungete l’ingresso ai box sul lato est dell’arena” spiegò un altro membro dello staff in tuta arancio vicino al cancello. “Che la potenza del guerrieri vi entri nelle ossa!”
E proseguimmo. Di tende ce n’erano a centinaia e di tutte le dimensioni. Dietro di noi iniziarono ad arrivare le altre band in gara. Riconobbi la coppia country che provava in treno.
Non avevo voglia di preoccuparmi del perché non ero stato io a consolare Charlotte dalla sfuriata di Duff. Tuttavia i sensi di colpa e mille e più considerazioni in quel momento mi tormentavano. Ero così fuori dal mondo che non mi ero accorto si essere nella tenda numero ottantacinque. La mia coscienza mi aveva abbandonato dopo l’annuncio al megafono. Per questo motivo saltai varie scene.
Nella tenda era successo qualcosa, ma non ero lì a viverlo con i miei amici. Mi ritrovai con gli Scaricatori Elettrici in mano a seguire il gruppo tra la selva di tende.
Alzai gli occhi al cielo. Vista da vicino l’arena era imponente come la ricordavo. Le vecchie edizioni che seguivo da spettatore sembravano lontane decenni.
Saltai altre scene. Ora seguivo Saul e Megan e Duff in un tunnel sotterraneo. Dov’era Charlotte? Eccola, era in testa al gruppo.
Mentre considerazioni e ricordi continuavano a impastarsi nel cervello, il rumore di centinaia e centinaia di voci invase il tunnel sotto l’arena. Sopra la mia testa notai delle grate in ferro comunicanti con gli spalti. Il calpestio degli spettatori faceva tremare le pareti e il contraccolpo di quelle vibrazioni arrivava dritto al cuore.
Alla fine del tunnel e delle grate l’ennesima squadra in tuta arancio, coadiuvata da alcuni agenti del Carcere, ci diede altre istruzioni. “DRC? I vostri avversari sono già ai box. Da questa parte”.
Mostrammo i bracciali e il badge per poi addentrarci in un tratto di tunnel più stretto. Nessuno di noi fiatava. A un certo punto pensai di camminare da solo. Duff starnutì al mio fianco e ricordai di essere in compagnia del mio gruppo. Maledetto, ti prenderei a pugni! Come ti sei permesso di insultare Charlotte?
Un altro balzo temporale e mi ritrovai nel box, sotto il livello del palco. Lì si estendevano le postazioni di tutti i gruppi partecipanti e quelle dello staff e degli agenti, più la postazione del cronista.
I boati si facevano più insistenti e fragorosi.
Cercai di concentrarmi su quello che accadeva nel nostro box. Sul banco di lavoro a disposizione di Charlotte c’erano tutti gli strumenti per le modifiche e le revisioni pre e post battle.
“Manca un quarto d’ora, belli” annunciò Saul controllando il display del cellulare.
Duff aveva iniziato a mordicchiarsi le unghie. Megan era la più calma di tutti. “Ci farai fare un figurone, tesoro” disse a Charlotte. Sorrise e ammiccò come una pop star consumata.
La modificatrice sorrise educata. “Ho fatto del mio meglio”. Aveva aperto la valigetta di metallo. “Questo è per te”. Tirò fuori un microfono pieno di brillantini argentati. “Come lo volevi. Ti piace?”
Megan strillò e saltellò dappertutto agitando il suo nuovo microfono. “È troppo glam! Tesoro, sei la più mitica di tutti! Bacino”. E con tanti smak smack ringraziò una imbarazzatissima Charlotte.
Saul e Duff ricevettero i pedalini speciali. Quello alla chitarre, oltre a essere un overdrive, avrebbe dovuto simulare un piccolo terremoto sul palco, mentre quello per il basso creava una ventata di gas incandescente. Charlotte spiegò anche il funzionamento del microfono a Megan. “Puoi mandare in protezione gli amplificatori avversari per qualche secondo, se premi questo tasto. La batteria te lo permetterà solo una volta per battle”.
Non ero bravo a caricare i miei compagni. Il mio stato in quel momento rendeva tutto più pesante. Provai comunque a dire qualcosa. “Ragazzi, stiamo per debuttare”.
“Nel Torneo dei Rock Guerrieri” completò Charlotte. Parlò senza rancore.
“Non per mettervi pressione al culo, ma vorrei ricordarvi che questo incontro dobbiamo vincerlo per forza se vogliamo incontrare Antony nelle prossime battle” intervenne Duff, il basso già in spalla.
Annuii poco convinto, pregando di vincere, di rimanere vivo, di essere ancora in condizioni accettabili per ammirare gli occhi smeraldo di Charlotte.
Mentre aspettavamo Megan, chiusa nel suo camerino a cambiarsi, mi affacciai dal box. Le luci elettriche roteavano a illuminare gli spalti gremiti, mentre la gigantesca rete metallica che copriva il palcoscenico emetteva preoccupanti ronzii. Al centro del complesso le squadre di sicurezza esaminavano il palco in
ogni centimetro.
Quando il commentatore presentò l’incontro d’apertura si levò un grido pazzesco.
“Dopo settimane d’attesa e, purtroppo, morti e sparizioni inspiegabili, ci siamo! Lo show va avanti. La centocinquantesima edizione del Torneo dei Rock Guerrieri sta per iniziare!” urlò la voce frizzante dello speaker. “Ancora pochi minuti e le prime rock band saliranno sul palco”. Altro boato. “Come da tradizione, nel primo incontro assisteremo alla performance di due gruppi esordienti!”
Ululati e fischi e l’ansia procedeva imperterrita a rodermi dall’interno. Ero lì lì per rimpiangere l’avvertimento di mamma. La immaginai in compagnia di un’amica o di una zia lontana a fumare e sparlare di qualsiasi persona o cosa le venisse in mente.
Ritornai con la testa ai box.
“Ehilà! Guardate un po’ qui? Come sto?”
Megan era uscita dal camerino. La mascella di Duff si afflosciò. Saul ammirava la sua ragazza con occhi spalancati e sbrilluccicosi. Indossava un vestitino nero di pelle lucida. Calze a rete strappate e stivali sotto al ginocchio con zeppe altissime. La scollatura vertiginosa metteva in risalto la taglia sovrabbondante del seno. Nella parrucca scura e scompigliati aveva intrecciato ciocche fucsia piene di brillantini. Il trucco pesante e le lunghe ciglia finte l’avevano resa irriconoscibile.
“Benissimissimo” rispose Saul.
“Benissimissimo” gli fece eco Duff.
“Bene” risposi io soltanto, spostando lo sguardo su Charlotte. Esaminava il costume di Megan. “Sarai un’ottima frontgirl” commentò lei quasi intimidita da quel look troppo spinto.
“Puoi dirlo forte, tesoro!” SMACK! Mandò tanti baci a tutti e sculettando uscì dal box, seguita a ruota da Saul e Duff, imbambolati.
“Hanno dimenticato gli strumenti. Glielo dici tu?” mi chiese Charlotte imbronciata.
Osservai la scena. “Non ti meritano. Mi dispiace. Scusami” aggiunsi, ripensando a quanto successo sul sentiero infuocato. “Per prima, intendo. Avrei dovuto dirne quattro a Duff”.
Charlotte mi guardò comprensiva. “Non hai motivo per scusarti. Non eri obbligato a intervenire. Eri in ansia per la battle, lo capisco”. Iniziò a dondolare sulle punte dei piedi e a prendersela con un bottone della camicia.
“Be’, in ogni caso avrei dovuto fargli capire che aveva esagerato”.
“È ok. Davvero, non eri obbligato in nessun caso. Ero un po’ agitata anch’io. Ora sto bene. Va’, adesso. Fateli secchi quei punk!”
Mostrò tutto il suo splendore in un sorriso. La cosa che mi rodeva lo stomaco si acquietò e smise di rosicchiarmi l’anima.
Una pedana mobile ci sollevò dal piano dei box fin sopra il palco. Spuntammo nella nostra postazione e una valanga di urla, voci, suoni e colori ci cascò addosso come magma fuso. Il nostro silenzio, il chiasso terribile sugli spalti. Fermi là, di fronte ai nostri avversari.
“Signore e signori, la prima battle rock!” annunciò la voce del commentatore potenziata dalle centinaia di casse collocate dappertutto, addirittura sulle maglie metalliche della gabbia soprastante.
“In questa sfida si affronteranno due band piuttosto inesperte, ma non dubitiamo che venderanno cara la pelle per portare a casa la vittoria e are il turno!”
La folla gridò ancora più forte. Percepii la tensione nelle mani fredde che impugnavano le bacchette. La batteria che dovevo suonare era imponente. Il commentatore riprese: “Nella prima postazione, già caldi per la battle… gli Splash Inc!”
Qualche applauso, qualche fischio. Composto delirio.
“E nella seconda postazione, con la conturbante Megan al microfono… I DRC!”
Ululati, una marea di fischi (in parte d’eccitazione dai fan sbavanti). Indecente ripudio.
Poi i riflettori si spensero. Il chiasso variò in un brusio frenetico.
I miei compagni si guardavano intorno. Lo stesso facevo io, bacchette in mano. Uno spruzzo di scintille colava dalla punta dello Scaricatore che impugnavo nella mano destra.
La voce amplificata del commentatore aprì ufficialmente la sfida. “L’esibizione, come di consueto nei primi due turni, prevede l’esecuzione di cover. Quale avranno scelto i nostri guerrieri per questa battle? Siete tutti pronti? Che la sfida rock abbia inizio!”
Alcuni raggi di luce colorata si riaccesero per illuminare il palco, accecandoci. Gli Splash Inc partirono in quarta. One, Two, Three, Four! Abbaiò il batterista, un ragazzone muscoloso dalle orecchie porcine. Il quartetto scosse le creste per darsi la carica, tranne la ragazza dei piercing, al microfono.
… Three, Four! Scandii con le bacchette, e per miracolo Saul cominciò l’intro di Dolce Baby. Però le dita non scorrevano, il plettro incespicava sulle corde e le note creavano solo un paio di fraseggi stonati. Avevamo provato il pezzo tante volte nel garage di Axl. Lo conoscevamo a memoria. Una musica travolgente che ci trasmetteva sempre una gran carica. Per la prima volta nella nostra vita provammo il terribile blocco del musicista inesperto gettato in pasto al pubblico. Un paio d’occhi moltiplicati per centomila presenti, più gli spettatori che seguivano la telecronaca da casa, senza contare quelli che ascoltavano la radiocronaca.
Persi il tempo almeno per tre o quattro volte. Cercai di mettere orecchio ai giri di basso, ma anche Duff non se la ava bene. Il testo cantato da Megan era l’unico appoggio sicuro; il colmo, considerando com’erano andate le prove in laboratorio.
A volte steccava, ma fu in grado di rimediare: la sola presenza fisica sul palcoscenico avrebbe compensato la quasi totale mancanza di doti canore.
Ha gli occhi color del cielo
Come se pensassero alla pioggia
Odio guardare dentro quegli occhi
E vederci una traccia di dolore…
Strimpellare nel mezzo del casino prodotto da centomila bocche urlanti, sul palco leggendario come quello del Torneo dei Rock Guerrieri, era diverso che suonare nel garage. Qualunque sarebbe stato l’esito della battle potevamo ritenerci soddisfatti? Con la figuraccia che stavamo rimediando avrei preferito che la nostra prima volta fosse stata in un pub, a prenderci addosso sputi e bottiglie vuote e pure qualche calcio nel sedere.
Gli Splash Inc organizzarono il primo, vero attacco dell’incontro. I due chitarristi dalle creste aguzze armonizzarono gli accordi della loro cover. Nubi di fumo
azzurro pallido sprizzarono dai pick-up delle chitarre che finirono per avvolgerci in una cortina colorata.
“Sono lacrimogeni!” urlai ai miei compagni. Saul e Duff stavano pian piano superando il blocco. Accordi e note non erano fluide, ma non c’erano più pause imbarazzanti. Eravamo capaci di suonare Dolce Baby anche a occhi chiusi, ma non lì e non immersi nel fumo. L’attacco dei punk ci costrinse a fermarci.
Si fermò anche Megan, affumicata dalla coltre azzurra. La vidi tossire e ansimare, mentre i nostri avversari non perdevano un colpo.
Io, Duff e Saul non riuscimmo a reagire. Fu Megan l’unica che tentò di recuperare le posizioni. Il fumo si diradò e, microfono ben in vista, riprese a cantare. Non se la cavava male: poteva essere l’affetto del pubblico, l’adrenalina del momento, il sintomo di rivalsa per l’attacco subito o che so io, ma gli acuti spacca timpani erano sempre meno evidenti.
Saul le urlò qualcosa nell’orecchio, lei rise e iniziò a ballare. Mosse sexy e baci indirizzati alle prime file ammaliarono il pubblico: ragazzi (ma anche ragazze) iniziarono a urlarle dietro come ossessi.
Anche il commentatore sottolineò la sorprendente prestazione della nostra frontgirl. “I DRC resistono agli attacchi degli Splash Inc! Una grandissima Megan va alla grande, e che bel microfono glam! A sorpresa i ragazzi di ‘Dolce Baby’ tengono testa agli avversari!”
Avrei voluto lanciare alcune Scariche con le bacchette ma avevo paura di mandare fuori tempo i miei compagni, proprio nel momento in cui stavano
prendendo coraggio grazie alle follie di Megan.
Saul attaccò con l’assolo, il suo avversario di ruolo lo imitò. Gradualmente, il susseguirsi delle note era diventato insostenibile.
“Non sento un cazzo! Non sento un cazzo!” urlava Duff dimenando la chioma che spuntava da sotto lo zuccotto. Provò ad attaccare i punk cercando di far scattare il ‘Mi basso’ con una delle quattro manovelle al ponte installate da Charlotte. Purtroppo per lui e per noi agì con troppa foga, finendo per darsi una frustata in pieno petto. Si accasciò al suolo imprecando.
“Tieni duro, la manovella va azionata con delicatezza! Saul, continua così! Anche tu, Matt! Forza, ragazzi!” a bordo palco, Charlotte provò a caricarci. Era l’unica vera fan del gruppo, se non si contavano i cori e i fischi di approvazione per le tette di Megan e per i suoi movimento di bacino.
Adorai l’incitamento di Charlotte. Cercai di usarlo a mio vantaggio.
Saul aveva portato a termine l’assolo. Mancava solo l’outro.
“La battle rock tra Splash Inc e DRC è sempre più avvincente ed equilibrata!” annunciò il cronista. “Sarà la parte finale delle cover a decretare il vincitore!”
Gli Splash Inc attaccarono con un’altra bordata fumogena.
“Cazzoni, è tutto lì quello che sapete fare?” gridò Duff. “Aaaaahhh!” provò a sganciare di nuovo la corda del Frustatore. L’attacco non andò a segno ma evitò di autoflagellarsi una seconda volta.
Improvvisando una lap dance con l’asta del microfono, Megan aveva in pugno l’arena. Dolce Baby! Dolce Baby! Cantava grintosa.
Gli amplificatori alle mie spalle fischiarono. Gli Splash Inc avevano finito l’esecuzione del loro brano e stavano improvvisando un attacco, ma Saul fu più veloce. Colpì energicamente le corde della chitarra con una doppia pennata e, manovrando sui potenziometri, scagliò contro la coppia di chitarristi un’onda d’urto abbastanza potente da disarmali. Le due chitarre avversarie schizzarono in aria contro la gabbia di metallo. Il batterista dalle orecchie porcine iniziò un assolo di batteria mentre la cantante cercava di articolare un acuto agendo su alcuni pulsanti del microfono.
Finalmente Duff riuscì a far scattare correttamente il Frustatore. Girò la manovella, puntò la chiavetta in avanti e colpì. La corda sganciata saettò da una parte all’altra del palco, raggiungendo il bersaglio. Le bacchette del batterista porcello volarono in aria, come pure l’arma del bassista, un tipo impacciato che aveva subito ivamente le azioni di tutto l’incontro.
La cantante punk provò a far riprendere i suoi, gesticolando e inveendo sul batterista caduto nel tentativo di raccogliere le bacchette. Fu tutto vano, perché gli Splash rimasero per terra.
L’ultimo annuncio del cronista ci mandò in paradiso, andata e ritorno. “E i vincitori di questo incontro sono… I DRC!”
Saul baciava la sua Guit-Lancia Onde. Duff urlava, gli occhi arrossati per lo sforzo di sovrastare, senza riuscirci, il baccano degli spettatori. Me lo vidi addosso all’ultimo momento. “Ti bacerei le chiappe per quanto sono contento! Bravo, Matt palle mosce! Siamo stati grandissimi!”
Megan si concedeva qualche scatto con i fan. Se non fosse stato per lei non so se avremmo vinto l’incontro, ma in quel momento era l’ultimo dei miei pensieri.
Abbracciai i miei compagni con le lacrime agli occhi. Nello stesso momento in cui stritolai Duff dalla gioia, vidi Charlotte immobile all’entrata del box. Sorrideva composta. Tutt’intono, il trambusto degli gruppi e dello staff del Torneo, rimasti ad ammirare la nostra performance.
La persi subito di vista, sommerso dagli abbracci dei miei amici guerrieri. L’avrei voluta sul palco a festeggiare. Fu l’unica nota stonata di quell’interminabile serata.
Negli amplificatori gli ultimi accordi in risonanza di Dolce Baby si unirono alle grida generali. Qualcuno ancora ci fischiava, ma avevamo vinto! Vinto il primo incontro al Torneo dei Rock Guerrieri! Il nostro primo live! Un esordio migliore di questo non poteva esserci.
Track #19
Antony & C. Boys
Nessuno aveva intenzione di mettersi a dormire.
L’arena si svuotò dopo qualche ora dalla fine dell’incontro. Gli unici rimasti erano gli addetti alle pulizie e alcuni agenti del Carcere.
Dai box alla tenda numero 85 i festeggiamenti continuarono fino al mattino. Il nostro alloggio era stato insonorizzato dal personale del Torneo -così ci avevano detto a fine battle due ragazzi in tuta arancio- quindi nessuno aveva motivo di lamentarsi delle grida di Duff e degli strilli acuti e lascivi di Megan. Non avrebbero potuto dirci proprio niente anche se la tenda non fosse stata isolata acusticamente! Avevamo il diritto di festeggiare come ci pareva, o no?
“Belli, non ci credo! Abbiamo vinto!” gridava Saul, smanettando col cellulare per scrivere dell’impresa agli amici. Da quando aveva lasciato il palco, Megan era sempre rimasta al suo fianco. Stavo iniziando a rivalutarla, perché era molto più alla mano di quanto mi aspettassi. Se la tirava un casino con i fan, era un’esibizionista nata, ma era stata l’artefice della nostra vittoria, senza nulla togliere agli altri… a Charlotte, in modo particolare. Apprezzai il fatto che non ci guardava dell’alto verso il basso, come capitava spesso con le ochette snob della scuola, che a malapena si scansavano quando ci incrociavano nei corridoi. Con il suo modo di interpretare le cose e l’esibizionismo ostentato ci aveva permesso di tirare fuori un po’ di grinta, tanto quanto ne era bastata per eliminare gli Splash Inc.
“Ci ha detto culo che quei punk del cazzo erano delle schiappone mosce” esclamò Duff ubriaco di risate.
“Tipo noi, bello. Ma loro non avevano una cantante come la nostra” rispose Saul radioso. Baciò Megan apionatamente, causando la perplessità di Charlotte, seduta in un angolo, in silenzio.
“Dici che sono stata brava, picci?” non era all’altezza per fingersi sorpresa. Faceva parte del suo modo di essere, probabilmente non se ne rendeva neanche conto di assomigliare a una bambina capricciosa davvero troppo, troppo cresciuta.
Ci servimmo di barattoli di patatine e bevande analcoliche fornite dall’organizzazione. Riempii i bicchieri e brindammo ad Axl.
“Al nostro amico, al nostro vocalist, puttanella del demone rosso incastrato dentro B. House!”
Il brindisi di Duff accompagnò altre risate e grida di vittoria. Mi sentivo bene e finalmente rilassato. Niente stress da Torneo. Niente riflessioni maciulla cervello. E almeno per quella notte, le paure sarebbero rimaste fuori dalla tenda, all’umido del campo ai piedi dell’arena.
Però, accidenti, non potevo fare a meno di osservare Charlotte nel suo angolino, persa nelle pagine di un vecchio libro, alla luce di una lampada a vetro che aveva assemblato lei stessa. Qualche ora più tardi mi sarei addormentato sulla mia brandina lasciandola immersa nella lettura.
La terra iniziò a tremare e mi svegliai.
Si risvegliarono tutti, di soprassalto, e uscimmo di corsa dalla tenda. Il sole era già alto nel cielo.
Eravamo gli unici fuori dal proprio alloggio. La terra vibrò ancora sotto i nostri piedi quando, per la seconda volta, udimmo il ruggito dei draghi provenire dall’arena.
“Che-cosa-succede?” chiese Megan stropicciandosi gli occhi. Appena sveglia, con la chioma blu scompigliata, era ancora più sexy. Non potevo biasimare il povero Duff, costretto a tirare in dentro il ventre per cercare di nascondere il suo amico 'coniglietto'.
“Piccola, va’ dentro. Prenderai freddo”. Fu l’unica volta in cui vidi Saul in preda a un breve, leggero momento di imbarazzo causato dall’appariscente fidanzata.
“Ma picci! Ci saranno almeno venti gradi” protestò Megan. Saul non trovò risposta e fu costretto ad accettare la presenza della sua ragazza in deshabillé.
Anche Charlotte si era precipitata fuori dalla tenda. Teneva il libro in mano, con l’indice chiuso a tenere il segno della pagina.
“Hai letto finora?” chiesi sbalordito. “È tutto ok, comunque. Avevamo tutti dimenticato quei draghi”.
“Leggevo, sì. Non… non avevo sonno, ecco” abbozzò un sorriso. “Se posso evitare di dormire, lo faccio”.
“Eviti?”
“Credo sia una perdita di tempo” rispose semplicemente.
La mia espressione la costrinse ad altre spiegazioni. “Se non fosse biologicamente una necessità non dormirei affatto. Troppe cose da fare, e i giorni e la vita sono un arco di tempo davvero breve per dare la giusta importanza a tutto. Ritorno dentro, mi manca poco per finire”. Indicò il librò e sparì in tenda.
Mentre Charlotte finiva il libro io e gli altri decidemmo di fare un salto a vedere i draghi. Mostrammo i bracciali all’entrata est e imboccammo il tunnel.
Sbucare nell’arena da spettatore fu raccapricciante e meraviglioso al tempo stesso. Non eravamo certo diventati delle celebrità da un giorno all’altro, ma vederci dall’altra parte della barricata mi causò un leggerò pizzicore all’altezza l’ombelico. Una sensazione né positiva né negativa. Direi… Forte, semplicemente. Intensa a tal punto da voler ritornare sul palco e suonare.
Gli spalti erano semideserti. Al centro dell’arena i membri dello staff cercavano di tenere a bada i bestioni alati. Quattro mostri imponenti, che non volevano saperne di restare fermi. Capii che avrebbero dovuto posare per un servizio fotografico allegato alla rivista ufficiale del Torneo. Delle vere rockstar!
Vidi il fotografo gesticolare in direzione di uno dei ragazzi Vichinghi in groppa al proprio drago, chiedendo poi allo staff di posizionare i draghi più al centro del palco.
“Fanno paura” disse Duff. “Spero di non averceli contro nel prossimo round”.
“Bello, hai ragione. Per loro siamo come bocconcini di carne selezionata” rispose Saul con un brivido nella voce.
“Invece sono carini” disse Megan sporgendosi dalla balaustra. Duff le guardò spudoratamente il sedere, come un vecchio che finge di leggere il giornale su una panchina del parco ma che in realtà è lì per sbavare appresso le ragazze che fanno jogging.
I draghi presero finalmente posizione e il fotografo iniziò a scattare all’impazzata. I Vichinghi non cambiavano mai espressione: arcigna, invariabile e antipatica.
“Se li hanno fatti entrare nell’arena dovrebbero combattere nel pomeriggio” ragionai. “Mi piacerebbe guardare l’incontro, ma forse faremmo meglio a decidere e provare la prossima canzone. Che ne dite?”
“Che hai ragione tu, palle mosce. La prima è ata liscia, ma ora si fa sul serio” rispose Duff distogliendo lo sguardo dal sedere di Megan.
“D’accordo anch’io, bello” convenne Saul.
“E io faccio quello che dice il mio picci” esclamò Megan alzando le mani in alto in segno di vittoria.
Ritornammo al campo ripercorrendo il tunnel dell’entrata est. La mattina era ata da un paio d’ore e il pomeriggio aveva desaturato l’azzurro del cielo: ora era di un pallido turchese.
Prima di ritornare alla tenda 85 facemmo un salto alla mensa per pranzo.
“Stiamo per chiudere”. Ci accolse una ragazza con la divisa arancio. “Oh, ma siete quelli che hanno vinto ieri” aggiunse alzando le sopracciglia. Sorrise complice.
“Guadavamo il servizio sui draghi” risposi a mo’ di scusa. “È possibile mangiare qualcosa?”
Quando ormai ero rassegnato a girare i tacchi la tipa cambiò espressione. “Avanti, andate. Dev’essere rimasto qualcosa. Dite alla cuoca che vi ho fatto entrare io”.
“Gentilissima”.
“Ti pare?” ammiccò, facendoci accomodare nel tendone-mensa ormai vuoto.
“Che la fortuna assista i vostri Power Chords!”
“Che assista anche noi” aggiunse Duff. Approvammo esibendoci nel gesto delle corna. Un po’ patetico circa quel contesto, ma spontaneo.
“Tesoro, eccoti!” strillò Megan facendosi avanti. Charlotte aveva appena finito di pranzare.
“Ciao” disse educatamente cincischiando con il solito bottone della camicia. Spiegò che era riuscita a evitare la folla e che ritornava in tenda a controllare il sistema elettrico degli strumenti. “Ci vediamo dopo” aggiunse infine. E uscì dal tendone.
“Suonata” sbuffò Duff. Questa volta mi trovai d’accordo, ma non ne parlai.
Nel bancone della mensa era rimasta poca roba, ma bastò per tutti. La cuoca era una signorona in carne con tre menti e delle braccia da supereroe. Ci riempì i vassoi un po’ seccata. Squadrò Megan dalla testa ai piedi, disapprovando con una smorfia.
A tavola trovai un numero di The Daily Rocker, il quotidiano del Torneo. L’articolo inequivocabile in prima pagina parlava ancora delle sparizioni. Non c’erano stati nuovi omicidi, le indagini proseguivano sui casi riscontrati prima della partenza per il Torneo.
“’Le autopsie sui corpi non hanno rivelato nulla di utile agli investigatori del
Carcere dei Rocket Sopra le Righe” lessi a voce alta, ma i miei compagni erano tutti con la testa china sul piatto e mangiavano come degli affamanti. Proseguii lo stesso. “… L’agente Tripke non ha voluto lasciare nessuna dichiarazione. Non si esclude nessuna pista…”.
Il caso era ato in secondo piano, sopraffatto dall’inaugurazione della manifestazione e dall’arrivo delle band, ma la faccenda era seria. Possibile che ava tutto sotto silenzio? Quei crimini dovevano essere puniti. Non si trattava di conseguenze da palco… dove tutto era consentito.
“Voi che ne pensate?” chiesi addentando il mio hamburger e richiudendo il giornale.
“Nonèfòideaff” rispose Duff sputacchiando pezzi di insalata. “Machèciintereffa, no? Tranquilloff, pallemoffe!”
Un altro ruggito scosse la terra mentre lasciavamo la mensa. I draghi festeggiavano la sicura vittoria.
Alcune nuvole bianco latte facevano ombra sul campo, dove diversi rocker e fan si mescolavano alla gente concentrata a fare un giro per le bancarelle piene di gadget.
“Picci, mi compri una maglietta? Daidaidaidaidai!” i saltelli di Megan le fecero quasi uscire il seno fuori dal top scollato.
“Quella che vuoi, piccola” rispose Saul con un sorriso luminoso. Erano svenevoli, ma a dispetto di come li avevo immaginati prima di vederli insieme, pienamente innamorati uno dell’altra. Saul teneva molto a Megan, si vedeva. Non gli era mai accaduto di lasciare una ragazza e poi rimettersi con la stessa a distanza di mesi. Era una cosa seria. Li invidiai.
Avvicinarsi agli stand era quasi impossibile. C’era così tanta gente che ci si poteva muovere solo seguendo l’inerzia della folla.
Quando tornammo alla tenda (Megan era andata in estasi per la nuova t-shirt) il sole stava iniziando a scendere dietro la collina sulla quale sorgeva l’arena. Trovammo Charlotte a lavoro sulla “Santa” Guit-Lancia Onde di Saul. “Ciao” ci salutò.
“Tutto bene?” chiesi cercando di nascondere una certa apprensione. “Perché non sei rimasta con noi?”
“Dovevo rivedere gli strumenti. Non volevate provare la prossima cover?”
“Suppongo di sì”.
“Supponi? Non ne sei sicuro?”
“Ehm… sì, provare la cover. Quindi non possiamo prendere gli strumenti?”
“Era solo un controllo generale, posso farlo anche più tardi. Fate pure, non c’è problema”.
“Belli, che ne dite se andiamo a provare sulla collinetta?” propose Saul.
“Andiamo! Andiamo! Qui è molto triste e niente glam!” rispose Megan tutta contenta.
“Per me va bene. Duff?” chiesi.
“Si può fare”.
Guardai Charlotte. “Ti unisci a noi?”
Ci penso un po’, rimettendo al posto il piccolo saldatore a batteria nella sua valigetta metallica. “Suppongo di sì. Grazie”.
Strumenti in spalla raggiungemmo la parte nord dell’arena, zona di collina che si affacciava sulla piccola stazione di Les Paul. Il panorama era impreziosito dalla splendida vista sul lago, screziato dei colori del tramonto.
Tutto era così perfetto, lì in gruppo a provare la cover. Ad anni di distanza, negli anni della vecchiaia, avrei ripensato a quella giornata come una delle migliori trascorse in vita. A parte questa considerazione, non diedi fondo a riflessioni troppo profonde. In quel momento c’era solo la cover da provare (È così facile),
i miei amici, le risate, Charlotte lì vicino che cercava di comunicare con suo nonno attraverso un apparecchietto predisposto per la videochiamata e un panorama che conciliava chiacchiere e musica preamplificata al giusto volume.
Battevo il tempo con gli Scaricatori Elettrici e picchiavo forte su dei piccoli tamburi in legno che Charlotte si era inventata per emergenze come quella.
Smettemmo di provare solo quando l’ultimo raggio di sole fu spento dal cielo notturno.
=
L’arena traboccava di gente.
“Chi è in gara stasera?” chiese Duff.
Avevo recuperato una copia del Daily Rocker. “Ecco qui” dissi aprendo il giornale. “Il tabellone del primo turno. Otto band per quattro incontri, e di gruppi ne mancano quattro, che sono quelli spariti e che hanno dato forfait”.
“Si sono dati da fare per riformulare i raggruppamenti”.
“Già. E sai chi c’è tra poco?”
“Il coglione?”
“Lui” risposi ripiegando il giornale. “Contro i Metal Kittys”.
Sugli spalti non c’era posto quindi scegliemmo di seguire l’incontro dal nostro box. Mostrammo i braccialetti al picchetto di guardia all’entrata sotto il palco e prendemmo posto. Sentii dire da due membri dello staff che la capienza consentita era stata deliberatamente superata, andando così incontro a rischi di sicurezza.
“Figo, no? Arrivare all’ultimo minuto e avere un bel posto in prima fila. Se solo ci fosse quel maledetto di un vocalist”. Per la prima volta da quando era iniziata la competizione Duff accennò ad Axl. Per quanto litigassero tra di loro scorreva una buona amicizia. Duff non era un tipo sentimentale, a certe cose ci pensava poco, ma in quel momento forse anche lui sentiva la mancanza del nostro amico.
Il commentatore prese posto davanti al microfono e alle squadre di pronto intervento. “Buonasera, rocker!” strillò la voce amplificata.
Il pubblico generò un “OOHHH” collettivo.
“Benvenuti a questo nuovo appuntamento con il Torneo dei Rock Guerrieri, centocinquantesima edizione. Questa sera le band che si scontreranno sul 'palco della morte' -per citare un epiteto giornalistico letto questa mattina sul Daily Rocker- sono i ragazzoni dei Metal Kittys e i ragazzi di Antony, ovvero gli C. Boys & Antony!”
Antony. Dovevamo fare il tifo per lui se volevamo incontrarlo sul palco e rubare “legalmente” gli strumenti.
I Metal Kittys emersero issati dalla pedana mobile. Erano i metallari barbuti amanti dei gattini glitterati che avevo incontrato sul treno! Un nutrito gruppo di fan li accolse con un applauso e grida.
“Ecco la prima rockband” annunciò la voce del commentatore. “Brutali e devastanti, ma sotto quella corazza di pelle borchiata non può che nascondersi un animo coccoloso!” qualche risata di scherno, poi il commentatore continuò la presentazione. “Alla loro quinta partecipazione consecutiva… gente, ecco a voi i Metal Kittys!”
I metallari alzarono le braccia in aria per salutare i fan. Sui giubotti, alle spalle, spiccava il viso stereotipato di un gattino bianco con un fiocco rosso in testa.
“Che deviati” borbottò Duff osservando i membri dei Metal Kittys salutare in direzione degli spalti. “Se un giorno dovessi impazzire come quelli vi do il permesso di spararmi nel culo”.
I Kittys presero posto agli strumenti. Adesso era il turno di Antony.
“Con le sue macchine sportive e gli abiti alla moda è il rocker più cool del nostro paese. I suoi ragazzi lo accompagnano ovunque…”
“Sempre, sì, a leccargli il culo” commentò Duff tra i denti.
“… Due anni fa hanno dovuto abbandonare il sogno di vittoria proprio in finale. Attualmente è il loro miglior piazzamento. Pubblico, Antony e i C. Boys!”
Le uniche tifose urlanti facevano parte dei fan club organizzati dalle ochette della scuola. Il resto erano solo fischi e ululati.
“Antony e gli C. Boys!” gridò di nuovo nel microfono il commentatore. Ma Antony non apparve da nessuna parte.
“Credono di potersi permettere un ritardo. Che stronzi. Piccola, meno male che non sei andata appresso a uno come Antony” disse Saul prendendo Megan per mano.
“Non lo farei mai, mio picci!”
I Metal Kittys aspettavano sul palcoscenico. Come tutti si guardavano intorno perplessi. Dagli spalti e dalle tribune si alzò un mormorio basso e continuo.
“Ci siete, Boys? Antony? Il regolamento accetta un ritardo di massimo quindici minuti. Ne mancano cinque per escludervi dalla competizione!” anche il commentatore iniziava a spazientirsi. Annunciò altre tre volte il nome del bamboccio che ci aveva umiliati e bastonati a sangue.
“Coglione senza peli! Se non sale su quel cazzo di palco siamo fottuti. Axl è fottuto!”
Poi, appena venti secondi prima dello scadere dell’ultimatum, Charlotte indicò qualcosa in alto sopra la gabbia metallica. Simulando un effetto domino i presenti alzarono gli occhi.
Figure deformi, dalle spalle larghe e dalle braccia muscolose, erano appollaiate in cima alla rete metallica. Una di loro allargava una maglia d’acciaio come se fosse stata di gomma. Lo squarcio si ingrandiva sempre di più…
Il pubblico iniziò a rumoreggiare. Nei box, i membri dello staff si guardavano impotenti l’un l’altro.
“Signori, stiamo assistendo a qualcosa di estremamente insolito” pronunciò balbettando il commentatore, incredulo come il resto dell’arena. “Dei mostri, o almeno così pare, stanno cercando di rompere la copertura di protezione!”
Una serie di riflettori furono puntati in alto. Illuminati dalla luce artificiale, le creature avevano sembianze umanoidi molto marcate. Niente pelle verdastra come i mostri dei fumetti e dei film, ma un fisico esagerato da sembrare finto.
Il mostro che aveva aperto il varco nella gabbia si tuffò sul palco. Le teste degli spettatori seguirono il volo spettacolare dell’umanoide, che atterrò sui piedi con grazia raccapricciante.
Qualcuno urlò, ma nessuno provò a lasciare l’arena. La creatura, a torso nudo e delle dimensioni di un lupo mannaro, gonfiò i pettorali, portò indietro le spalle e ruggì più forte dei draghi Vichinghi. Anche gli altri mostri saltarono dalla gabbia
per finire sul palco accanto a quello che pareva essere il loro leader. Erano sei, e dietro la schiena muscolosa portavano appesi strumenti da battle rock.
Nei box, lo staff in tuta arancio continuava a non intervenire.
“Mostri” disse lentamente il commentatore, la voce impastata dalla paura. “Antony? C. Boys?”
Le creature risposero con un ruggito unanime. Poi il leader fece un o avanti, avvicinandosi al cantante dei Metal Kittys, minuscolo in confronto alla bestia. L’enorme bocca si aprì in un ghigno familiare, e fu allora che riconobbi Antony.
“Brutto figlio di puttana!” esclamò Duff. “Ma che cazzo…?”
Antony guardò dritto negli occhi il cantante Metal. Al cospetto dei C. Boys mutanti i Metal Kittys erano più simili a dei bambini barbuti di cinque anni.
Un sorriso soddisfatto si tratteggiò nei lineamenti accentuati del viso di Antony, appena prima di sollevare una mano all’altezza delle spalle, chiudere di scatto le dita in un pugno e dare il via a una scarica di lampi che trucidò sul colpo la band avversaria.
L’arena trattenne il fiato per qualche secondo. Il commentatore afferrò il microfono con entrambe le mani, tremando come una foglia. “I vincitori… di questa sfida… sono gli C. Boys e Antony”.
I cadaveri carbonizzati dei Metal Kittys fumavano come carne arrosto. Gli C. Boys riposero gli strumenti in spalla… quelli che dovevamo vincere e conquistare, di proprietà del demone.
Un silenzio surreale aveva zittito almeno centomila persone. Così com’erano arrivati, i mostri uscirono di scena dalla gabbia metallica perforata. Raggiunsero la sommità dell’arena con un balzo e sparirono.
Un’evidente stato di incredulità accomunava tutti i presenti. Guardai verso Tripke e gli agenti, occhiali scuri e colletto ben tirato sul collo. Erano rimasti immobili anche loro. Non avrebbero potuto fare molto. Ma qualcosa mi diceva che non avrebbero mosso un muscolo in ogni caso.
La voce di Saul spalancò le porte a uno degli scenari più apocalittici che il destino avrebbe potuto concederci. Indicò in alto. “Belli, se il tabellone non sbaglia a segnalare gli accoppiamenti per il secondo turno, quei mostri saranno i nostri prossimi avversari”.
Track #20
È così facile
Il tabellone luminoso aveva calcolato automaticamente gli accoppiamenti del secondo round. Lampeggiava e ci avvertiva che avevamo tre giorni di tempo per provare la cover da portare sul palco contro Antony e i nuovi Boys mutanti.
“Belli, non l’ho detto prima ma ora non ho più dubbi: qualcuno di noi porta sfiga, una sfiga tremenda” disse Saul a testa bassa mentre ci univamo al flusso di gente che abbandonava gli spalti; agli uomini in tuta arancio, invece, l’ingrato compito di custodire i cadaveri tostati dei Metal Kittys in sacchi di plastica neri. I corpi vennero successivamente chiusi in fredde feretri di metallo e trasportati fuori dall’arena con le ambulanze.
Era successo tutto così in fretta. Prima il putiferio e la gioia della vittoria contro gli Splah, poi Antony in versione pupazzone cattivo.
Una volta in tenda la paura prese forma, e la consapevolezza di andare incontro alla morte rimise in moto una serie di nefaste previsioni, una più tremenda dell’altra.
“Se non dovessimo farcela, almeno abbiamo debuttato davanti al pubblico” dissi sedendomi sulla branda. Le parole mi uscirono dalla bocca accompagnate dal suono di una risata isterica. “Farò spargere le mie ceneri nel prato di casa mia”.
Duff sbuffò agitato e non rispose. Osservava la tenda steso a pancia in su sulla sua brandina. Saul e Megan si erano uniti in un abbraccio silenzioso, mentre Charlotte, nel suo angolino, scribacchiava nervosamente qualcosa su un taccuino. La lampada di vetro che faceva luce alle pagine creava lunghe ombre sulle facciate della tenda. Mostri mutanti, zanne aguzze, teste mozzate e corpi fumanti…
La luce continuò a proiettare ancora tante ombre per molto tempo. La tenda era pregna d’angoscia e nient’altro. Dopo un arco di tempo imprecisato Charlotte decise di spegnere la lampada e provare a dormire. Le ombre scomparvero.
Nessun incubo mi strappò dalla realtà, perché non chiusi occhio. Il mio orologio segnava le tre del mattino. La branda iniziò a essere troppo scomoda, così uscii dalla tenda.
Il cielo era ricco di corpi celesti che splendevano di vita. No. La luce di quelle stelle si era già spenta; quello era solo il riflesso di un raggio estinto, che arrivava sulla terra e ai nostri occhi con ingannevole ritardo.
Guardai verso il bosco; il cancello, il sentiero di fuoco. La sagoma del Rock Rocket apparve come una proiezione sovrannaturale ricreata dal mio scombussolato subconscio. Su una delle carrozze di metallo andavano a incidersi i nostri nomi, seguiti dalla data di nascita e da quella di morte.
“Ti piace crogiolarti nell’immaginazione?” domandò una voce.
Sobbalzai e mi voltai di scatto. Comparve Charlotte, mani nascoste nelle maniche della camicia e occhi verdi profondi dietro le spesse lenti degli occhiali.
“Come, scusa? Come facevi a…”
Mi guardò stranita e un po’ indignata. “Anche tu mi fai così stramba? Diciamo che ho tirato a indovinare”. Piegò la testa su un lato. “Sei molto pensieroso”.
“Be’, più che pensieroso direi preoccupato. Ho paura” aggiunsi senza vergogna.
“Fai bene ad averne, Matt. Solo gli incoscienti non hanno paura, o meglio, fingono di non averne. Me lo dice sempre mio nonno. E credo sia una delle più usate frasi di circostanza spacciate nelle opere di fantasia”.
Senza che me ne rendessi conto ci ritrovammo a eggiare nel campo in mezzo le tende. Bisbigli e lamenti provenivano dagli alloggi delle altre rockband. Arrivati a un certo punti sentii qualcuno piangere disperatamente.
“Quella” disse piano Charlotte “dev’essere la tenda dei Kittys”.
“Non avremo scampo” dissi, accelerando il o per evitare di prestare attenzione ai singhiozzi di chi commiserava la memoria dei rocker caduti.
“Invece credo che potreste batterli”.
“Non essere sciocca. Ma li hai visti? Hanno ammazzato cinque rocker con un
colpo solo. UNO! Senza contare le band scomparse e quei ragazzi trovati ammazzati. Sono stati loro, ora è logico”.
“Appunto. Fa’ tesoro di quanto accaduto e reagisci. Nel novanta per cento dei casi il fallimento di un’impresa è provocato dalla paura di sbagliare. Sareste mai riusciti a superare il primo turno se Megan non avesse creduto di farcela?”
“Be’, ma Megan voleva solo mettersi in mostra” risposi abbassando la voce e scrollando le spalle.
“Megan sarà tutto quello che vuoi, ma non ha avuto paura. Nemmeno un po’. Mai”.
Arrivammo alla fine del campo, sulla collina dell’arena. Parecchi metri più sotto, dalla stazione di Les Paul partiva il Rock Rocket con i corpi dei Metal Kittys.
“Non credevo avessi una così alta considerazione di Megan” dissi mentre il rumore del treno moriva in lontananza.
“Nemmeno io” rispose schietta Charlotte. “Non mi giudica” aggiunse risoluta. “A parte quella volta nel treno a proposito della mia camicia. Ma è tranquilla, tutto sommato”.
“A me piace la tua camicia” risposi immediatamente. “È figa. E nemmeno io ti giudico” dissi deciso.
Le luci dell’alba stavano cancellando la notte e le stelle dal cielo. A piccoli i ripercorremmo la strada per la tenda 85.
“Io non so se ce la faccio ad andare avanti” ammisi forzandomi a tenere a bada le lacrime. “Che Axl mi perdoni, ma come potrei concentrarmi e pensare solo a suonare E’ così facile senza immaginarmi come un pezzo di carne affumicata?”
La vocina di incoraggiamento di Charlotte sembrava arrivare direttamente dal regno dei cieli. “Puoi evitarlo, prima di tutto ricordando che non sei solo e che non sei l’unico a rischiare la vita. Se sconfiggerete Antony salverete un sacco di vite innocenti, oltre Axl, e ne vendicherete altrettante. Ci pensi?”
Sorrisi amaramente. “Belle frasi, ma non riesco a montarmi la testa e farmi forza”.
“Matt”. Sentirle pronunciava il mio nome mi faceva sempre annodare la bocca dello stomaco. “Parlo con cognizione di causa. Non serve a niente e non sono mai stata brava a montare la gente, ma… Axl è chissà dove, e conta su di voi. Apri gli occhi”.
Eravamo quasi arrivati. Il sole iniziava a illuminare le prime tende.
“E tu perché non li apri per scoprire che non è poi così male stare a contatto con la gente, fare amicizia?”
“Nel mio caso” disse puntando il solito bottone “non sono io a doverli aprire”.
Nelle prime ore della mattinata il campo fu preso d’assalto dai reporter e dalle televisioni locali a caccia di scoop riguardo l’incidente costato la vita ai metallari. Un giornalista armato di penna e taccuino mi aveva bloccato mentre andavo a mettere qualcosa sotto i denti”.
“Cosa hai visto? Cosa hai sentito? Quanti erano?” sparò quelle e altre domande a ripetizione, seguito da un fotografo gobbo e dalla pelle chiara che cercava di scattare delle foto con una macchina vecchio stile.
“Erano sei, gliel’ho detto” risposi spazientito, cercando di divincolarmi. Il fotografo aveva puntato Duff che cercava di scansarsi dall’obbiettivo. “È successo all’improvviso. Un colpo e… la prego, ci lasci in pace” sbottai.
Dopo il giro in mensa ci dirigemmo direttamente verso l’arena per la battle rock pomeridiana: The Bastards contro Orchestra Duo D’Ossa.
Non c’era il tutto esaurito, così decidemmo di lasciar perdere i posti assicurati ai box per mischiarci con la sparuta rappresentanza di fan sugli spalti. Era stata un’idea di Charlotte: sarebbe servito a distoglierci dai pensieri della battle contro Antony e rilassare i nervi, aveva detto.
Servì in parte. Ritornare a essere un semplice spettatore mi riportò indietro di un anno, ma la tranquillità assicurata dalla nostra modificatrice era un’utopia, un livello irraggiungibile. Doveva essere lo stesso per gli altri perché sia Duff che Saul sedevano in silenzio e scuri in volto. Solo Megan sembrava aver preso alla lettera il consiglio della sua 'amica' Charlotte. Sorrideva e sgambettava tra i posti liberi, fermata di tanto in tanto da qualche fan brufoloso che le chiedeva balbettando un autografo.
“Ma non ti dà fastidio? Quegli stronzetti che sbavano dietro la tua ragazza?” chiese Duff grattandosi la testa sullo zuccotto.
“Perché dovrei, bello? Mica se la stanno facendo. Per me è tranquillo” rispose Saul osservando distrattamente la sua ragazza che firmava la maglietta di un ragazzino.
“Guardate chi se ne va in giro nei box” dissi indicando un punto sotto la tribuna d’onore. Era Franky, il tipo calvo del Carcere Sopra le Righe. Parlottava con gli agenti e con Tripke.
“Leccapiedieculo” soffiò Duff massaggiandosi le nocche dei pugni serrati.
Charlotte si intromise nella conversazione. “Ci siete stati?”
“Io una volta. Perché?” il tono di Duff non era molto amichevole.
“Curiosità” rispose Charlotte. “Si dice che un vero rocker deve aver ato almeno sei mesi nel Carcere per essere considerato tale. Tu, ehm… quanto ci sei stato?”
“Sei mesi. E sei giorni”.
“Allora sei un vero rocker”. Charlotte sorrise e realizzò un piccolo miracolo: anche Duff rispose con un sorriso, ringalluzzito dal complimento. “Grazie” aggiunse contento.
Poco prima che iniziasse l’incontro mi avvicinai a Charlotte. Aveva appena chiuso il suo taccuino. “Lo hai fatto apposta?” le chiesi nell’orecchio.
“Cosa?”
“Ingraziarti Duff”.
“Cosa te lo fa pensare?”
“Be', in realtà nulla. Poco fa mi era sembrato… non ho mai sentito della storia dei sei mesi e del vero rocker”.
“Non sono una manipolatrice. Ho solo detto ciò che pensavo e che ho sentito spesso dire in giro. Tu ci sei stato?” sorrise anche a me.
Cercai di inventarmi qualcosa. “Be', direi di sì. Non sei mesi, però. E non come colpevole. Cioè sì, come colpevole, ma poi sono stato scagionato. È uguale?”
Charlotte non ebbe occasione di rispondere. Stavo per aggiungere che neanche Saul c’era mai stato, né Axl. Idem Megan, per quel che ne sapevo, ma l’incontro era appena iniziato. La voce dello speaker commentava i primi colpi sul palco.
“Distorsori al massimo per i Bastards! La rete di note creata nell’aria sembra mettere a dura prova la simpatica Orchestra Duo D’Ossa”.
Il Duo D’Ossa erano composto da solo due musicisti. Erano i ragazzi che provavano in carrozza il pezzo country. Spiccavano per i vestiti antiquati e trasandati. Il testo della canzone non era male. Parlava della libertà e delle piccole soddisfazioni della vita, ma in quanto a musica erano decisamente inferiori agli avversari.
“Perfetta armonizzazione per i chitarristi dei Bastards!” urlò il commentatore che sembrava patteggiare per la band più forte. “Non basta il testo di una canzone per affrontare una battle al Torneo dei Rock Guerrieri” aggiunse con una punta di sarcasmo.
“Poverini” commentò Megan imbronciata. Aveva smesso di firmare autografi e si era lasciata avvolgere dagli abbracci del fidanzato.
“Piccola, però il tizio al microfono ha ragione. Quelli avranno pure la canzone figa, ma è con le chitarre che si vincono le guerre!”
Il Duo D’Ossa continuava a strimpellare imperterrito. Provarono a colpire i Bastards con una breve scarica di armonici naturali. Dalla coppia di chitarre si levarono una serie di bande sonore. Ai Bastards bastarono un paio di accordi di quinta per creare un contrattacco abbastanza potente. Gli armonici naturali del Duo si spensero a metà palco, e i rocker country vennero colpiti in pieno dal contrattacco.
THUMB!
Il Duo D’Ossa cadde sconfitto. Le chitarre deflagrarono fino a diventare polvere e scomparire nell’aria calda del pomeriggio.
“E i vincitori di questo incontro sono i temibili Bastards!” gridò il commentatore a squarciagola.
“È ingiusto” strillò Megan rammaricata. “Erano bravi. Guarda lei che carina, anche se ha perso sorride al suo ragazzo. Non è romantico, picci?”
“Certo, piccola”. Saul finse di sostenere l’emozione della sua fidanzata. Duff stava per aggiungere un suo commento, ma un forte suono di armonica a lo dissuase.
Il ragazzo del Duo D’Ossa si era rialzato e aveva sfilato dalla manica della camicia un’armonica. Con movimento meccanico l’aveva portata alle labbra e suonava un motivetto orecchiabile e potente. La ragazza lo accompagnava cantando di una giovane che si trasferiva in città per amore.
“Cazzo, guardate che roba!” Duff era scattato in piedi.
Lo speaker riprese immediatamente il microfono in mano. “Colpo di scena, signore e signori. Il Duo D’Ossa ritorna clamorosamente in gara. Li davamo per spacciati, e invece!”
“Che stronzetto” strillò Megan all’indirizzo del commentatore. “Eri tu che li davi per spacciati”. Inveì facendo scattare entrambe le braccia in aria, infastidendo un ragazzo con una bombetta in testa seduto lì vicino. Si allontanò con una ragazza in gonna scozzese per cercare un posto lontano dalle turbe motorie di Megan.
“Piccola, come sei sexy quando ti arrabbi” ridacchiò Saul.
Intanto sul palcoscenico l’armonica sparava piccolissimi aghi in direzione dei Bastards, colti alla sprovvista dal diversivo. Riuscii a vedere i proiettili minuscoli solo grazie alla luce del sole. Gli aghi brillavano, finendo per infilzare tutti i componenti dei Bastards.
“Sbalorditivo!” diceva il commentatore, che non riusciva a contenere l’irritazione. “La battle era decisa, ma il Duo D’Ossa ha rimesso tutto in gioco… oh, no! Incredibile, signore e signori, i Bastards… I Bastards… Bastardi, che fate? Niente da fare, i Bastards sono al tappeto”.
Era bastato meno di un minuto. L’incontro era stato capovolto.
“Per averli stesi in pochi secondi gli aghi dovevano essere avvelenati” disse Charlotte. “Geniale”. Riaprì il taccuino e prese appunti.
I corpi dei Bastards erano al tappeto, paralizzati, gli strumenti ancora in mano. L’incontro questa volta era davvero finito. Gli spettatori urlavano e le squadre di soccorso iniziavano a ripulire la scena dai corpi e dai detriti.
Era stata una grande battle rock, una delle migliori, inaspettata. In altre circostanze saremmo ritornati a casa ancora elettrizzati, sul treno, commentando la giornata nell’arena. Invece la vittoria dell’Orchestra Duo D’Ossa era solo un altro o verso la grande battaglia con Antony.
Mancavano due giorni.
Il turno era finito e le prime band erano state eliminate… e carbonizzate.
Da quel momento in poi seguimmo poco il resto del Torneo. avamo la maggior parte del tempo a provare in tenda È così facile, ma nelle ore più calde ci spostavamo sulla collina che dava sulla stazione. Era diventato il nostro punto di ritrovo. A ridosso dell’estate, il clima era perfetto per stare all’aperto.
“Attenti… Attenti… eee VAAAIIII!” Duff si allenava con il Frustatore Quattro Corde, cercando di migliorare la mira e, prima di tutto, di sganciare dolcemente la leva per non ripetere l’esperienza autolesionista della battle contro gli Splash Inc.
STACK! La terza corda del basso sibilò vicino l’orecchio di Saul, scheggiando un ramo di un albero.
“Mi fai saltare un orecchio, bello. Occhio!”
Io provai per la prima volta le grancasse a pallini. Non le avevo usate durante il primo turno perché Charlotte non era ancora sicura che funzionassero. Ora
sembravano a posto e pronte per la battaglia. Le provai su alcuni bersagli che avevo disposto io stesso sul prato della collina. Proprio niente male! Ma dovevo stare attento a non sparare e beccare Saul, o Duff o Megan…
C’erano comunque sempre gli Scaricatori. Battendo a tempo tentavo di sfruttare il contraccolpo sui piatti per far schizzare le scariche elettriche il più lontano possibile. Dopo vari tentativi le scintille azzurre saettarono addirittura oltre la collina, svanendo man mano che cadevano lungo il pendio come fuochi d’artificio delle feste di fine estate.
“Sei migliorato” si complimentò Charlotte avvicinandosi per settare la cassa della batteria.
“Ci provo” risposi convinto. “Niente male l’ultimo colpo, eh?”
Ridacchiò divertita. “Credo che… mi spiace ammetterlo ma, Matt… con i Boys dovrai fare di meglio”.
“Lo so” risposi stringendomi nelle spalle. “Lo so. Lì sarà diverso. Vorrei non trovarmi di fronte a quei mostri. E se non riuscissi a reagire?”
“Prendi esempio da Megan” esortò Charlotte. “Te l’ho detto che non ha paura. Guardala”.
La cantante duettava con Saul saltellando e dando il cinque a un pubblico invisibile.
“Non voglio contare solo su di lei, non ha senso”. Risposi così, risentito, un po’ deluso, ma fermamente intenzionato a non dover dipendere dalla nostra cantante.
“Ecco fatto, puoi riprenderti ad allenarti” mi interruppe Charlotte. “Ho regolato un po’ di cose, ora dovrebbe andare meglio. Matt…” cambiò tono, riprendendo la discussione, “non pensare di essere il solo a rischiare la vita. Io, non l’ho mai detto a nessuno, nemmeno a nonno. Io… avevo paura anche quando dovevo andare in bagno a scuola”. Le guance si arrossarono. “Ma non per questo me la facevo sotto”.
“Paura di andare in bagno?”
“Terry May. Era sempre lì a infastidire tutti. Fumava di nascosto e si divertiva a prendere in giro la gente. Il bagno era il suo regno” spiegò. Rannicchiandosi sulle ginocchia si sedette sul prato. “La sopportavo da quando avevo tre anni. Ma un giorno mi sono detta che non era giusto, che non poteva continuare a… torturarmi”. Singhiozzò, affondando la testa tra le gambe minute. “Sai cosa ho fatto?”
“Immagino che tu abbia organizzato una vendetta coi fiocchi”. Mi avvicinai. Volevo che smettesse subito di piangere.
“Le ho… bruciato la macchina, una sera. Non so se ha capito che ero stata io, ma da allora ha smesso di darmi fastidio”.
“Fantastica”. Sorrisi sincero, complimentandomi per la trovata. “Una vera
bastardata! Oh, è chiaro che terrò l’acqua in bocca”.
“Figurati”.
Non parlammo per un po’. Osservavamo invece gli altri che ce la mettevano tutta negli allenamenti. Duff era partito per la tangente: con il Frustatore era diventato un tutt’uno.
“L’altra sera mi chiedevo se tutto questo è reale. Il Torneo, i morti, capisci? È sempre la paura. È una costante, Charlotte”. Infilzai la bacchetta con forza del terreno soffice.
Charlotte si ritirò nel camicione a scacchi. “Sai che ti capisco. Ma non fare il codardo solo perché questa volta non ti va di rischiare. E scusami per il codardo”.
La guardai comprensivo. Sapevo che aveva ragione. Lo sapevo. “No problem! Come aggettivo mi si addice”.
“Non è vero. È solo un tuo stato mentale. Te lo imponi, ed è sbagliato. Sai anche reagire. Con tua madre lo hai fatto. Affrontarla faccia a faccia non ti ha insegnato nulla?”
“Potrei dire la stessa cosa di te, a questo punto. Rischia anche tu, con la gente. Perché no, Charlotte? Non dirmi perché sono gli altri a doverlo fare per te. Apri gli occhi”.
Il tempo si fermò. Sì, è la tipica frase che spunta fuori nei momenti di maggior impatto emotivo, più o meno. I fumetti che leggo ne sono pieni. È da paraculi, concordo, ma in base alle mie esperienze credo che non ne esistano di migliori per descrivere certe situazioni.
Charlotte aveva pronunciato qualcosa, ma le mie orecchie convertirono quel suono in un fischio acuto, come se un ordigno bellico fosse esploso a pochi metri di distanza da dove mi trovavo.
“Cosa hai detto?” chiesi fissandola a occhi spalancati. “Cosa?”
La bocca si mosse di nuovo. Charlotte ripeté le parole: “Ti amo”.
Il tempo riprese a scorrere, prima lentamente, poi più veloce, fino a raggiungere la normale regolarità. Lei si alzò in piedi, sulle punte, dondolando, come se volesse spiccare il volo e allontanarsi dalla collina in mia compagnia. Come uno scemo, sperai che accadesse da un momento all’altro.
“Davvero?” tra tutto quello che potevo rispondere… dannazione, potevo solo starmene zitto e non fare per l’ennesima volta la figura del fesso!
Ma Charlotte sorrise, abbassò gli occhi, nascondendo poi le piccole mani nelle maniche della camicia. Nessuno avrebbe potuto sentire il suo sì, neanche da vicino, ma per me fu come se l’avesse gridato al microfono dello speaker nell’arena.
Fu un pomeriggio strano. Eravamo rimasti in collina per altre due ore, provando la cover. Nessuno si era accorto di niente. Tanto meglio, perché non volevo che Duff iniziasse a prendermi in giro sulla mia prima storia d’amore appena iniziata. Però avevo di nuovo paura, proprio perché nessuno, eccetto me, poteva testimoniare l’inaspettata confidenza di Charlotte.
“Non mi dici niente?” mi chiese mentre tornavano alla tenda.
Cercai di tenermi lontano dal gruppo, restando dietro accanto a Charlotte. Parlai come se avessi una decina di cubetti di ghiaccio incastrati in bocca. “Ehm… quella cosa che mi hai detto prima. Ricambio”.
“Spero tu non lo dica per comione” rispose Charlotte. “Non voglio tu ti senta obbligato a ricambiare solo perché lo impone la circostanza. Dimmi solo una cosa, e poi di questa storia ne riparleremo alla fine del Torneo. Sei sincero?”
Non avevo bisogno di pensarci troppo. “Non ti mentirei mai” risposi. Glielo sussurrai con attenzione, osservando Duff, Megan e Saul camminare tra le tende del campo, sperando di trovare un momento più opportuno per confidarci, magari tra un bacio e l’altro.
Charlotte sorrise. “Però promettimi che non diventeremo come loro”. Gli occhi si spostarono su Megan e Saul, concentrati a slinguazzare.
“Promesso”.
“Bene. Niente bevute di cervello e lingue attaccate tutto il giorno. Non sei d’accordo?”
“Più che d’accordo”.
Non ritornammo più sull’argomento. Di comune accordo avevamo deciso di essere l’uno il non-fidanzato dell’altro. Non si trattava di fingere. Lo paragonerei a un regalo da scartare per Natale. Godersi l’attesa, emozionarsi, aspettando il fatidico giorno ed esplodere di gioia, che nel mio caso voleva dire mettercela tutta per battere Antony e stringere tra le braccia Charlotte Michelle. Finalmente.
Con il caldo del pomeriggio la tenda 85 era diventata una fornace. Restammo fuori per un paio d’ore, aspettando temperature migliori prima di rientrare nel nostro alloggio.
“Belli, noi andiamo a fare un giro per gli stand” disse Saul. Megan sorrideva furba al suo fianco, tenendogli la mano. “Spero di trovare quello che cerco” ridacchiò.
“Cercate qualcosa di particolare?” chiese Duff sbracato ai piedi della tenda.
“Sì” rispose Megan continuando a sghignazzare. “Vero, picci?”
“Più o meno, piccola”. Tirò a sé Megan e salutò. “A dopo, belli”. Si allontanarono.
“Mah, chissà che avranno da nascondere” commentò Duff. Era rimasto a petto nudo per il caldo. E non era un bello spettacolo.
“Se ho capito bene” disse la vocina di Charlotte, “oggi arrivava uno stand hard sex”.
“Oh” esclamò Duff sbigottito. “Te l’ha detto Megan?” di scatto, riprese la t-shirt e se la gettò sull’amico coniglietto.
“No” rispose Charlotte, ma capii che mentiva.
Arrivata finalmente la sera e con essa il fresco, la mia attuale non-fidanzata riuscì a contattare suo nonno con un apparecchio per la videochiamata. Si apriva come taccuino, ma era solido e d’ottone e senza fogli.
“Ciao, nonno! Allora, ce la fai a venire per dopodomani?”
La voce di Mortimer era metallica e lontana, come l’audio della vecchia televisione del salotto di B. House.
“Dopodomani? Cercherò di ricordarmelo, nipote. Quale treno hai detto che devo prendere?”
“Quello delle 18:35” rispose paziente Charlotte. “Hai preso le medicine per l’amnesia?”
“Prima di cena… tra poco”.
La videochiamata si interruppe per assenza di segnale. “L’unico problema del videodex” spiegò Charlotte. “Almeno sono riuscita a parlare un po’. Spero venga a vederci”.
“Speriamo” risposi giochicchiando con le mie bacchette.
“Incrociamo le dita” disse fiduciosa. “Ora devo andare. Tra dieci minuti iniziano i test per gli strumenti delle band del secondo turno. Tutti i Modificatori sono attesi nell’arena. A dopo”.
Resi i miei Scaricatori Elettrici, poi aiutai Charlotte a caricare il resto della strumentazione su un carrello che avrebbe spinto fino all’erba. Fu l’ultima immagine che ricordo prima dell’inizio della super sfida con i Boys.
Quel dopodomani menzionato da Charlotte nella chiamata con nonno Mortimer arrivò troppo presto, come i titoli di coda del mio film preferito.
La sera era fresca e serena, ma un verso mostruoso in lontananza ci scaricò addosso tutta la paura e la tensione che avevamo tenacemente cacciato via nei giorni scorsi. Saul mi batté una mano sulla spalla. Trasalii. “Bello, non per metterti pressione addosso, ma cerca di non sbagliare il tempo. Quante volte
sono andato in blocco perché non riuscivo a seguirti? Me la sto facendo sotto, bello” aggiunse parlandomi nell’orecchio. “Sono con te, bello. Ci conto”.
Sull’arena iniziarono ad addensarsi nubi. Della luna rimaneva solo un alone biancastro alto nel cielo.
Annuii a Saul cuor-di-leone. Il vociare del campo si faceva più rumoroso di minuto in minuto. Gli spettatori procedevano accalorati in direzione dei tornelli d’entrata. Noi, chiusi in un silenzio di tomba, raggiungevamo il tunnel per i box.
I suoni circostanti sfumarono fino svanire. Riuscivo ad ascoltare solo il cuore nel petto battere e ribattere nella cassa toracica, e poco più giù il nodo allo stomaco che mi torceva dentro all’altezza dell’ombelico.
Nei box ci riappropriammo degli strumenti.
Gli Scaricatori in pugno...
Antony, queste te le infilo su per il…
“Culo! Mi sta male proprio sul culo, indosserò questi pantaloni”. Strillava Megan dal camerino. Charlotte cercava di essere carina e paziente con la vocalist, ma il disagio era evidente. “Questo ti sta bene, davvero. Si intona con i capelli blu”.
“Ma non va con le scarpe! Uffi!”
Un ragazzo in tuta arancio si presentò all’entrata del nostro box. “Ehi, lì, DRC? Entrate tra cinque minuti. Tenetevi pronti!”
“Antony e i suoi sono arrivati?” chiesi.
Il ragazzo controllò la lista sulla cartelletta. “Ehm… non ancora”. Mi guardò comprensivo, poi ci invitò a fare in fretta e andò via.
L’episodio contro i Metal Kittys era ancora un brutto, vivido e intenso ricordo. Poco prima di gettarci nella bolgia infernale dell’arena il sorriso eloquente di Charlotte mi sostenne, appena un po’. Non ci abbracciamo come avrei voluto: faceva parte del patto di non-fidanzati.
Quando presi posto dietro la batteria la vista iniziò ad annebbiarsi. La mente era separata dal corpo. La sentivo galleggiare nel cranio come una mongolfiera in un cielo fosco. La coscienza cercava di comunicarmi qualcosa, mentre il occhi si perdevano a scrutare tra gli spalti, in lontananza.
Battere Antony, batterlo a ogni costo!
“Signore e signori, ancora una volta benvenuti al Torneo dei Rock Guerrieri. Con questa sfida si apre ufficialmente il secondo turno. Primi verdetti e prime esclusioni, ora si entra nel vivo!” la voce dello speaker riscaldò gli animi dei fan. Il tifo a nostro favore era sempre più numeroso. A Megan bastava fare qualche
o o muovere anche solo un braccio per scatenare il delirio. KISS KISS! Mandava agli ammiratori delle prime file.
Sopra la gabbia metallica, riparata e rinforzata dallo squarcio, le nubi nere si fecero più fitte. Un fragore improvviso fece tremare l’arena, ancora una volta, e i nostri avversari si prepararono per l’ingresso in scena.
Trasformati in bestie, Antony e i Boys emersero da una spaccatura nel palco con gli strumenti in spalla. Grugnivano e sbavavano. Le mascelle serrate del batterista sembravano morse capaci di stritolare acciaio temprato…
Smosso da un’inaspettata forza interiore iniziai a suonare. Li colsi alla sprovvista e bastò una scarica elettrica ben assestata a folgorare tutta la band e vincere l’incontro! I miei compagni mi sollevarono in aria per festeggiare la liberazione di Axl. C’era anche lui a fare festa, insieme al demone rosso, che si congratulava con noi per la riuscita dell’impresa. Charlotte arrivò dai box e mi saltò addosso, stritolandomi con un abbraccio. “Finalmente, mio eroe!” mi sussurrò all’orecchio con la voce di mia madre. Charlotte cambiò volto, la pelle chiara si scurì, raggrizendosi sugli zigomi marcati. La mia ragazza crebbe in altezza, una figura scheletrica che bloccava ogni mio movimento; tra le labbra aride iniziò a sputare fumo di sigaretta.
La mia altra madre si era trasformata in una strega, più brutta e malvagia del solito, perché una strega, be’, già lo era. Gracchiò come un corvo con la raucedine. “E ora fila a casa!”
A casa… Fila a casa…
A casa…
Spalancai gli occhi e li richiusi subito. I tecnici delle luci mi puntavano addosso i riflettori. Luci rosse, luci rosse e blu.
Déjà vu.
Riacquistai la vista lentamente, schiudendo le palpebre sulla realtà poco a poco. Antony e i Boys avevano raggiunto la loro postazione salendo dalla voragine al centro del palco. Aspettavano la nostra prima mossa.
“Ehi, bello! Ma che hai? Il tempo!” la voce di Saul arrivò chiara alle mie orecchie sebbene dagli spalti piovessero urla e fischi e grida di libido. Guardai verso i box per trovare gli occhi smeraldo che cercavo.
Quanti buoni motivi per cui valeva la pena lottare.
“SUONA!” il vocione trasformato di Antony stava quasi per disarmarmi. Sentii il sangue salirmi velocemente alla testa, il cuore perdere colpi e restringersi e nascondersi nel petto. Il timbro del nostro nemico non aveva più nulla di umano, anche se ne conservava ancora il tono viscido. Gli C. Boys erano fermi. Antony sembrava volerci concedere un piccolo vantaggio, tanto per umiliarci anche lì.
… THREE… FOUR!
Strinsi così forte le bacchette che una scarica elettrica partì per errore, andando a spegnersi su uno dei riflettori che avevo ancora puntati addosso. Senza volerlo avevo tolto di mezzo quel fastidio agli occhi.
Nessuno dei miei compagni sembrava intimorito. Tutti cercavamo di sfruttare al massimo il misericordioso, vile vantaggio concessoci dagli avversari. Antony sghignazzava, mostrando una fila di zanne aguzze e giallastre. “SUONA” ripeté la voce gutturale dell’ex bamboccio in camicia rosa. Del suo abbigliamento era rimasta la cinta firmata, luccicante più che mai sotto l’imponente sistema di luci che roteavano per l’arena. Non aveva nemmeno più le scarpe, strappate via dai piedoni bitorzoluti.
“Palle mosce, ricordi la promessa?” urlò Duff riproponendo il riff di È così facile.
“Fargli il culo?”
“Fino all’ultimo pelo!” il mio amico era carico e l’esercizio dei pomeriggi liberi trascorsi al campo stava dando i risultati sperati. La sicurezza con cui galoppava con le dita sul basso era impressionante. Non era il massimo dell’intelligenza, ma se c’era una cosa per cui Duff non doveva essere criticato era la capacità di afferrare la meccanica musicale: imparava in fretta.
È così facile, facile
Quando provano a farmi felice
Anche solo il tempo di una bevuta
Ogni notte le auto fanno crash
Creano il fuoco sulle strade
Mentre io mi faccio una pupa
Se Duff galoppava, Megan era già entrata in modalità rock star. Nessuna stonatura e il pubblico era tutto per lei. Il vestito che aveva scelto copriva appena le parti intime, lasciando poco spazio all’immaginazione. A mosse ed espressioni stuzzicanti si aggiungeva anche un buon livello canoro. Continuavo a pensare che la Megan ascoltata la prima volta nel garage doveva potesse essere un’altra persona.
L’esibizione della nostra vocalist piaceva anche ai Boys. Antony approvava battendo il piedone a tempo, rimanendo ancora immobile a osservare le nostre azioni.
I miei amici si erano fatti trasportare dalla musica e dal ritmo, una sbronza di suoni e sudore scaccia paura. Nessuno, però, provava ancora ad attaccare. Per paura?
Cercai di farmi sentire da Saul che era il più vicino alla batteria. “Attaccate, fate qualcosa!”
Saul fece di sì con la testa, ma aveva tutt’altro che compreso. Si portò la “Santa” Guit-Lancia Onde dietro la spalla e iniziando una piccola esibizione personale.
Duff era troppo lontano e nascosto tra la sua chioma scura per sentirmi. Megan lo stesso, ma a parte il canto e le dita smaltate che scivolavano su tutto il corpo nelle più coreografiche mosse hard, non mostrava il minimo interesse ad attaccare i mostri dall’altra parte del palco.
Fino a che punto ci avrebbero dato spazio? Iniziai a pensare che ci fosse sotto qualcosa di sovrannaturale, qualcosa che c’entrava con la trasformazione di Antony e con la storia degli strumenti maledetti.
Presi coraggio e iniziai a riflettere su come colpire. Se gli altri in prima linea non si davano da fare toccava a me fare la prima mossa. Un bel colpo e forse avrei smosso la situazione.
Concentrato a non perdere il tempo puntai lo Scaricatore destro in direzione del chitarrista dei Boys. Il tipo, con la bocca aperta e gli occhi persi nel vuoto, si presentava in apparenza come il più vulnerabile della band, braccia muscolose conserte ed espressione da ebete.
Prima di far partire il colpo dovevo fare molta attenzione a indirizzare la punta della bacchetta: una piccola deviazione in linea d’aria e avrei preso in pieno Saul.
“È una sfida surreale tra DRC e C. Boys” commentò lo speaker tra i mugugni dei presenti. “I mostruosi ragazzi di Antony attendono gli strabilianti avversari, arrivati a sorpresa al secondo turno. La musica è pazzesca, ma finora non
abbiamo assistito a nessun scontro. Forza, gente, incitate i rocker!”
Dita strette sull’arma, direzione presa. Prima di lanciare la scarica aspettai la fine di uno dei primi assoli della canzone. Saul era posseduto dalla musica, l’overdrive allungò l’ultima nota attraverso il muro di amplificatori ai lati del palco.
Cacciai un urlo di rabbia, liberazione, paura e amore per Charlotte. La scarica elettrica blu sfrigolò per tutta la lunghezza del palcoscenico, senza indebolirsi. Si infilò tra la spalla e la tracolla di Saul, superò il cratere da cui erano sbucati i mostruosi Boys e centrò il bersaglio, penetrando nel braccio enorme del chitarrista. A seguire, una scarica di proiettili a pallini scaturì dalla grancassa: avevo azionato il pedale per istinto e avevo fatto centro!
La folla si zittì. Nell’arena, il nostro rock dominava.
“Scossa improvvisa del batterista dei DRC. Attacco a segno!” gridò lo speaker e il pubblico applaudì sportivamente.
Guardai il mostro crollare sulle ginocchia grosse come palloni, mentre nel braccio continuava a scorrere la folgore. La pelle fumava e le grosse dita affondavano nella ferita, tentando di strappare via il mio piccolo ma micidiale fulmine.
Mi sentii un eroe epico consapevole di aver appena scatenato l’ira dei Titani. A quell’attacco risposi con un altro attacco e un altro ancora. I miei Scaricatori lanciavano fulmini a raffica, e rimasi stupito dalla precisione con cui riuscivo a sparare senza perdere il tempo di È così facile.
Antony spalancò la bocca zannuta. Inspirò aiutandosi con le possenti spalle e gridò: quel fragore avrebbe colto in imbarazzo persino i grandi draghi dei Vichinghi. Schizzi di saliva e bava appiccicosa insozzarono Megan, la più esposta al nemico. Disgustata, la vocalist smise per un attimo di cantare preoccupandosi di ripulirsi dal sudiciume.
“Il mio vestito… che schifo!”
“Piccola, attenta!” l’avvertimento di Saul arrivò in leggero ritardo. Megan fu colpita in pieno volto e cadde a terra tramortita. Quello di Antony era un normale microfono, ma nelle sue mani si trasformò in una sorta di clava.
Antony infierì e afferrò Megan con l’altra mano. La sollevò facilmente senza fatica, come se non avesse peso. Ruggendo scaraventò il corpo lontano, oltre la voragine.
Megan finì tra i cavi dei nostri strumenti.
“Piccola! O mio Dio, piccola!” con la chitarra appesa in spalla Saul si lanciò in soccorso della fidanzata. Megan era svenuta ma impugnava ancora il microfono.
Avrei voluto fermare tutto, aiutare i miei amici, ma si doveva continuare. Ripresi a scagliare le scariche elettrice, adesso meno precise di prima. Con Megan e Saul momentaneamente fuori gioco restavamo solo io e Duff.
“E la sfida finalmente entra nel vivo! Non credete ai vostri occhi, amici da casa? Se foste qui sentireste la terra tremare sotto il vostro bel deretano! I C. Boys confermano di essere le mostruose creature che abbiamo visto all’opera nel primo turno, ma la sfida con i DRC sembra tutt’altro che risolta, anche se purtroppo senza Megan la battle perde d’interesse”.
Il pubblico fischiò l’ultimo commento dello speaker, invocando in coro il nome di Megan. Ma la vocalist giaceva immobile nei cavi senza dare segni di ripresa.
Il chitarrista dei Boys continuava la personale lotta contro il fulmine incastonato nel braccio. Il batterista impugnò le bacchette grosse come mazze chiodate e iniziò a colpire la batteria che per qualche istante mi aveva trasformato in una stella del rock, nelle fondamenta di B. House. I Boys mutanti non stavano più a guardare.
“SUONA” sbraitò Antony sputacchiando altra saliva. Tirò su il microfono a mo’ di trofeo. Lo usò per sfondare un’altra parte del palcoscenico. Afferrandolo con entrambe le mani, picchiò l’arma per terra. La base dell’arena tremò.
Fui sbalzato dalla batteria. Duff rimase in piedi, ma aveva interrotto il suo riff. “Che cazzo facciamo?”
“Il pedalino. Usalo!” mi alzai senza problemi, ma Antony menò un altro colpo di microfono. Alcune casse andarono in frantumi, scomparendo poi nella voragine al centro del palco. Fu l’inizio della performance musicale dei C. Boys & Antony.
Il pezzo era molto simile a quello che avevamo suonato nella saletta di B. House,
un miscuglio tremendo di hard rock e trash metal: contro È così facile al momento non c’era storia.
Le creature sbavanti presero altra forza dalle note della canzone, sempre più pesante, accordo dopo accordo. I Power Chords sulle corde più basse erano un’orchestra di tamburi voodoo, un suono lugubre che risucchiò entusiasmo ed energia anche sugli spalti.
Il bassista ripeteva le stesse tre note a oltranza, un lancinante battere e levare che mi avrebbe portato alla pazzia. Non riuscivo più a riprendere a suonare. Le vibrazioni del palco rendevano instabile la mia postazione. Avevo perso un crash che non ero riuscito a tenere al suo posto, volato via e risucchiato nel cratere.
Saul era ancora al capezzale di Megan. Le teneva la testa e la scuoteva, pregandola di riaprire gli occhi. Lottai contro la volontà di andare a soccorrere i miei amici.
Rinunciai a riprendere È così facile. Dopo non so quanto tempo dal primo attacco andato a segno riuscii a riconquistare il controllo delle mie armi. Le scariche elettriche partirono incontrollate, ma nel momento in cui cercavo di indirizzare le scintille su Antony, la bestia mi fu addosso.
Scansarsi fu impossibile. Portai un braccio sul volto, e le zanne strapparono pelle e camicia. Il sangue schizzò sui denti ingialliti di Antony che stava per tentare un altro affondo micidiale.
La saliva mutante e sporca di rosso puzzava di pesce andato a male. Le fauci stavano per chiudersi sul mio braccio, ma in quel momento fui più rapido e
istintivo. Ficcai uno Scaricatore nella bocca spalancata del mostro, a contrasto con il palato. Mi ferii il braccio con una zanna, ma servì a non perdere tutto l’arto. La bacchetta resistette fino a piegarsi dopodiché andò in pezzi.
“SUONA” ruggì per l’ennesima volta Antony sputacchiando schegge di legno. Non sapeva dire altro? Quei poteri l’avevano reso ancora più stupido.
Con un secondo balzo cercò di immobilizzarmi. La musica dei Boys faceva da colonna sonora alla lotta. Feci il possibile per nascondermi dietro al muro di amplificatori, ma nulla resisteva alla forza distrutta del mostro-Antony.
“SUONA!”
Scivolando e inciampando nei cavi riuscii ad arrampicarmi su un amplificatore, ma mentre salivo una zampata mi ferì alla gamba.
“Ti preferivo molto di più in camicia rosa” esclamai sentendo il taglio bruciare. Puntai lo Scaricatore che mi rimaneva negli occhi di Antony. Deboli spruzzi blu elettrico colarono sul viso deformato della creatura, che ululò con la bocca spalancata. Fui travolto da altri schizzi di saliva maleodorante. “Questo è per averci fatto saltare la serata al Mr Brown!”
In cima al muro di amplificatori riuscii a scorgere il disappunto di Tripke, fermo ai box con gli altri agenti. Quello sperava che morissimo, per continuare a intascare indisturbato altre mazzette dal bamboccio con la grana.
Mandai al diavolo gli agenti del Carcere e saltai sul palco per evitare gli artigli di Antony, più imbestialito di prima e alla prese con l’arrampicata. Mi guardò cadere e sfuggire.
Atterrai vicino Saul e Megan. Il mio amico non si accorse che ero lì vicino. “Saul…” provai a dire, ma mi si mozzò il fiato e le parole si spensero in uno sputo d’aria. Antony era atterrato di peso sulle mie spalle lanciandosi dal muro di amplificatori come avevo fatto io. Sentii la spina dorsale piegarsi. La paura fece CRACK e premeva al centro della schiena.
Ebbi la forza di voltarmi verso i box e cercare, ancora, gli occhi di Charlotte. Ma la mano della creatura mi afferrò la testa bloccando il mio tentativo di contatto visivo.
La forza di volontà voleva che reagissi ma ero immobilizzato. Gridare era l’unica replica possibile, ovviamente inutile. I bassi della canzone dei Boys continuavano impietosi a scandire ogni mossa del loro leader.
Antony mi sferrò un pugno con la mano libera. L’alito caldo e puzzolente era appena dietro al collo. Che cosa voleva fare, staccarmi la testa a morsi?
La mano che impugnava lo Scaricatore aveva movimenti limitati. Riuscivo a muovere appena il polso, ma non abbastanza da caricare un colpo. La goduria di Antony la sentivo nelle zanne che premevano sulla testa. Il dolore alla schiena non era scomparso. Tutte le mie attenzioni e le difese erano concentrate su quel morso…
Un flusso caldo e dall’odore pungente mi accarezzò il dorso all’improvviso. Gas
e fuoco. Antony staccò di colpo la dentatura dal cranio, provocandomi altro dolore e altre ferite e strappandomi via anche qualche ciuffo di capelli.
Mi divincolai gattonando più in fretta che potevo e vidi fiamme rosso vivo divampare sugli avambracci muscolosi e sul petto dell’ex fighetto gold deluxe, costringendolo a striduli e animaleschi versi di terrore.
L’attacco di Duff mi aveva salvato. Il fiotto di gas infiammabile del pedalino era riuscito ad allontanare Antony dalla mia schiena ancora scricchiolante.
“Non… ce la facevo più… grazie” dissi, riprendendo fiato.
Duff fece un gesto eloquente con la mano per dire che era tutto a posto, poi senza perdere tempo continuò l’attacco con il pedalino. Accompagnandosi con le note del basso pompava gas nell’aria, avvolgendo Antony in una cerchio di fuoco. I Boys, irretiti dal sortilegio degli strumenti, continuavano a suonare.
“Se non ci attaccano dobbiamo approfittarne, Duff. Mi rimetto alla batteria. Seguimi con il riff!”
Soli contro Antony, nell’arena gremita, ma silenziosa eccetto che per i rumori della battaglia, io e il mio amico attaccavamo a testa bassa.
Ripresi la ritmica di È così facile. Lentamente anche i nostri fan riacquistavano fiducia, anche se i cori di incitamento continuavano ad essere tutti per Megan, ancora fuori dalla battaglia.
“Contromossa dei DRC! Yeeeek! Fortissimi ‘sti ragazzi! Rock Show, Rock Show!” anche la voce del commentatore alimentava gli attacchi a suon di scariche e gas.
La battle avrebbe potuto chiudersi così, con la lenta e sacrosanta agonia di Antony e il nostro trionfo, ma i Boys conclo il pezzo con un assolo da paura del chitarrista. Iniziò un’altra guerra.
Con gli strumenti ancora caldi i mostri si disposero per un attacco combinato, con basso e batteria a sostenere l’armonizzazione di una serie di Power Chords scagliati dalle due chitarre. Lampi di luce incandescente arrivavano dal nostro lato come missili.
“Al riparo!” urlai, coprendomi a ridosso dei tamburi della batteria.
Duff si tuffò con tutto il basso dietro la grancassa, atterrando male su un braccio. “Caaaazooo che doloreee! Stronzi gonfiati, ora vi sparo una scia di gas nel culo. Matt, coprimi le spalle!”
Mentre i missili d’energia colpivano quel che rimaneva della mia strumentazione, scambiai un’occhiata con il mio amico. Non ero convinto, ma che dovevo fare, fermarlo? “Ok” risposi. “Fa’ attenzione”.
“Tranquillo. Dobbiamo fargli il culo, no? E questo pedalino è una bomba, no? Arrivo, stronzi sbavosi!” baciò la tastiera del basso e si catapultò allo scoperto.
Riprendendo a memoria il riff della cover, Duff si lanciò nell’offensiva a mitraglia. Lo raggiunsi.
Ero appena dietro di lui, la bacchetta stretta con due mani. Caricai una scarica elettrica di grossa portata e la lanciai da una sponda all’altra del palco schivando tre raggi esplosivi di un vomitevole verde acido; l’ultimo mi bruciacchiò il colletto della camicia.
Saltavamo da una parte all’altra della nostra postazione. Ce la stavamo mettendo tutta, ma era il massimo che potevamo fare e non sarebbe servito che a tenerli a bada solo per un po’. Due piccoli umani contro cinque mostri del rock.
L’improvvisazione con la quale i Boys ci attaccavano ora suonava di ritmi classici, vagamente blues. Il solista si profuse in un arpeggio con le dita molto orecchiabile; mi deconcentrai, quasi, rapito dalla melodia. Duff aveva smesso di pompare gas.
“Perché ti sei fermato?”
“Matt… È bellissima, no?”
Notai che cercava di stare dietro ai giri di chitarra delle creature e aveva abbandonato il pedalino sull’orlo della voragine al centro della scena.
“Suona! Duff, suona la nostra canzone e attaccali! Non ascoltarli!”
Muoveva dolcemente la testa, portando il ritmo della ballata dei Boys. A un tratto il solista grattò col plettro sulle corde creando uno strano effetto: un canto antico, di voci di donna in coro.
“Non ascoltare, non suonare la loro musica... Duff!” mi gettai su di lui con una spallata. Rovinammo tra i cavi e gli amplificatori fracassati. La ballata proseguiva, ma l’incanto era spezzato.
“Merda” disse Duff. “Ho fatto qualche cazzata?” la voce era ancora velata dalla meraviglia.
“Stavi per farlo” lo avvisai. “Ora stai bene? Ce la fai a riprendere È così facile?”
“Cazzo che sì. Gli abbiamo fatto il culo solo a metà!”
Rotolammo per deviare i colpi. Duff scivolò fino alla voragine per riconquistare la sua arma. Purtroppo per noi l’ultimo spruzzo di fiamme scaricò il pedalino togliendoci dalle mani ogni possibile difesa. “Merdamerdamerda. Non adesso!” gridava Duff.
“Giù!”
Appena in tempo per evitare l’esplosione delle nostre teste. Io la scampai, strisciando dietro la carcassa di un amplificatore, ma Duff ci rimise un pezzo di orecchio. Urlando una tempesta di parolacce lasciò cadere il basso per portare
entrambe le mani alla testa. Il sangue colava tra le dita, scintillando alla luce dei riflettori.
Non avevo mai visto piangere Duff. Le lacrime gli ricoprirono il viso sporco della polvere della battaglia. Nel momento in cui cercai di spingerlo fuori dal palco per toglierlo dalla traiettoria dei Power Chords rivali, qualcosa mi afferrò la caviglia. Caddi e mi voltai di scatto. Antony mi teneva per un piede, lo sguardo iniettato d’odio.
Il corpo dell’umanoide bruciava ancora, anche se le fiamme che lo ricoprivano non erano accese come prima. Il volto, lentamente ritornava a essere quello di sempre, si stava sciogliendo per il calore del fuoco che lo circondava.
“A… A… Aiu… tami” implorò.
Eravamo stesi vicino la voragine. Sentivo la voce del commentatore, le grida della folla, le imprecazioni di Duff nei confronti del pedalino scarico e della ferita all’orecchio. La pelle sciolta di Antony gocciolava come cera fusa, mostrando le ossa degli zigomi e la dentatura priva di zanne.
“Aiu… tami” ripeté il fighetto. La mano che mi teneva la caviglia allentò la presa: le dita erano ritornate normali, come tutti il resto del corpo. Mi avvicinai a fatica al volto sfigurato e irriconoscibile di Antony. Allungai una mano, quella armata di bacchetta. La puntai in mezzo agli occhi di quel grandissimo pezzo di merda e figlio di troia che ci aveva ridotti a sangue e lividi. Tremavo, ma la presa era salda e le scintille iniziarono a sgorgare dalla punta dello Scaricatore.
Poi abbassai l’arma. “Sei già morto. Addio”.
Quando mi rialzai il commento dello speaker mi gelò, ma provai un piacere perverso nell’ascoltare la voce amplificata che diceva all’arena: “Il mostro non si muove più. I Boys hanno perso il loro vocalist!”
Ma quelli, i Boys, non sembravano aver capito un bel niente di quello che era capitato a Antony. La musica degli strumenti continuava a drogarli.
“Matt”. Era la voce di Saul. Imbracciava la chitarra. Vidi che Megan si era ripresa, ma restava per terra, lo sguardo vacuo.
La musica può renderti schiavo, nel bene e nel male. Se decidi di strafare con degli strumenti indemoniati prima o poi devi pagarne le conseguenze, com’era successo al nostro Axl. Perderai il controllo, e continuerai a fare musica finché la morte non ti porterà.
A noi bastò alleviare la pena dei nostri avversari che inesorabilmente perdevano le forze, in una liposuzione di musica e magia oscura.
Saul si diede il tempo con un piede sorridendo alla fidanzata bloccata a bordo palco. Megan alzò il suo microfono in aria ricambiando il sorriso e un boato generale diede inizio alla fine dell’incontro.
Saul si esibì in una schitarrata tutta svolazzi e movenze suonando il finale di È così facile. Io non avevo più né batteria né forze. Mi appoggiai a quel che rimaneva di una cassa per godermi la disfatta dei C. Boys.
È così facile
È così maledettamente facile
Facile!
La Guit-Lancia Onde e i licks improvvisati di Saul spazzarono via i corpi inariditi dei Boys. La chitarra produsse un mare d’energia tale da spingere dal palco gli avversari, disarmati e battuti.
Prestai poca attenzione all’annuncio del commentatore seguito a ruota dall’urlo della folla; parlava di vittoria sofferta ma meritata, e altre inutili frasi di circostanza. La mia attenzione era tutta per Charlotte che era salita sul palco, avvicinandosi a piccoli i. In silenzio, ci abbracciammo.
Quando ci allontanammo uno dall’altra gli spalti dell’arena erano vuoti. Io e Charlotte eravamo a pochi centimetri dalla voragine al centro del palco.
“Ragazzi, qui chiudiamo baracca tra cinque minuti” avvisò un ragazzo in divisa arancio che trasportava pezzi di amplificatori e cavi jack bruciacchiati su un carrello.
Anche la zona box era praticamente desolata. Ad aspettarci c’erano solo Duff e Saul. Li raggiungemmo.
“Megan?” chiesi.
“La stanno curando. Sta bene, bello” rispose Saul, l’espressione distesa.
“Tu, Duff, come va?” aveva la testa fasciata per tamponare la ferita all’orecchio, e usava il basso a mo’ di stampella per reggersi in piedi.
“Una favola” rispose.
Si può odiare un nemico al punto di volerlo morto. Ad Antony era capitato davvero, per mano nostra. Ma non esultammo per la sua disfatta, in particolare Duff, che nessuno portò in trionfo dopo il decisivo intervento con il pedalino multieffetti.
Avevamo combattuto per difesa personale, per dimostrare che eravamo all’altezza del leggendario Torneo e per vendetta: per me tutto questo valeva anche come conquista d’amore. A giochi fatti però contava solo una cosa: Axl libero.
“Questi li portiamo in tenda, belli?” chiese Saul tra un messaggio e l’altro da inviare a Megan. Su un carrello sistemato nel box giacevano ancora caldi e fumanti gli strumenti del demone.
Finalmente eravamo pronti a lasciare l’arena. Imboccammo il tunnel trascinandoci appresso il carrello cigolante: chitarre, basso, tastiera e parti di
batteria erano ancora bollenti.
“Mi fa un po’ schifo sapere di trasportare resti umani, cazzo” disse Duff.
“Strumenti con all’interno pezzi di anima” lo corresse Charlotte. La tenevo per mano. Duff, dietro di noi, grugnì disapprovando la puntualizzazione.
Fuori nella notte del campo il silenzio più totale e il cielo limpido. Surreale, come la nostra impresa.
Non auguro a nessuno rischiare di essere squartati e mangiati da mostri famelici senza cervello. Auguro invece a tutti di vivere un’improbabile ruolino di marcia al Torneo dei Rock Guerrieri.
“Pensateci e riflettete” dissi scorgendo la tenda numero 85. “Siamo in finale”.
Track #21
Delirium
La mattina dopo eravamo pronti a partire con il primo treno. Saul era rimasto tutta la notte in infermeria a tenere compagnia alla sua fidanzata, ancora convalescente e piena di fasciature e cerotti.
“Non preoccuparti per me, picci. Vai con loro” aveva detto Megan. Ma Saul ovviamente aveva insistito per portarla con noi. Intuii il timore del mio amico: lasciarla in balia degli ammiratori? Le avevano già riempito il letto e il comodino di messaggi di pronta guarigione.
“Non ce la fai proprio ad alzarti, piccola?”
“Potrei…”
“Sarebbe meglio evitare sforzi, signorina” disse l’infermiera, entrando, una tipa bassa e minuta.
“Ma ha detto che può” insistette Saul. “Vero, piccola?”
“Più o meno” rispose Megan, e un sorrisetto le piegò gli angoli della bocca. “Non vuoi lasciarmi un solo istante, eh? Che adorabile il mio piccipicci!”
La vocalist lasciò l’infermeria sorretta dal suo ragazzo, soddisfatto per averla allontanata da quel mare di letterine equivoche. Prima di andare l'infermiera aveva pazientemente insistito per rinforzarle almeno le fasciature alla testa.
L’aria fresca mattutina alleviò il calore del sentiero di fuoco. Le fiamme ci sfioravano fino a quasi bruciacchiare i vestiti; si muovevano come se percepissero la nostra presenza. Alla luce del giorno, comunque, e con due vittorie del Torneo alle spalle, il sentiero era meno spaventoso.
Eravamo tutti di poche parole. Invettive di Duff a proposito delle fiamme del sentiero a parte, il gruppo era ammutolito. Con Charlotte al mio fianco pensavo a quante probabilità reali esistessero di dimenticare la morte di Antony e la battle rock. Sentivo spesso parlare del tempo che rimargina ferite, di una guarigione psicologica lenta e graduale. L’eliminazione dei C. Boys aveva scombussolato tutta la band, un effetto opposto a ciò che avevamo sempre desiderato. Era accaduto davvero, così capii quanto la realtà fosse qualcosa di completamente incompatibile da sogni e congetture.
“E che merda, così finisco bruciato come quelli!”
Duff urlò all’improvviso, portandosi avanti a lunghi i. “Ma perché cazzo dobbiamo attraversare un sentiero così? Questi del Torneo sono dei sadici”.
Le fiamme diventavano sempre più ostili, così anche noi ci allontanammo dal fuoco correndo verso la stazione.
Les Paul Station era deserta, il Rock Rocket già sui binari.
Un ragazzo in tuta arancio con gli occhi sporgenti ci aspettava vicino l’entrata della carrozza numero sei. Mostrammo il braccialetto e Charlotte il suo badge da modificatrice.
Il ragazzo fischiò portando due dita alla bocca e due uomini, sempre in tuta arancio, sbucarono dal deposito strumenti trasportando una cassa d’acciaio ermeticamente chiusa da almeno una ventina di grossi lucchetti.
Le manovre andarono avanti come in una missione top secret. I due uomini caricarono la cassa sul treno, comunicarono al collega con gli occhi sporgenti che tutto era andato bene e sparirono nuovamente nel deposito.
“Il treno sta per partire. Salite e arrivederci”. Il ragazzo lasciò il binario ad ampie falcate.
Duff si aggiustò lo zuccotto a disagio. “Porca vacca” esclamò, “non stiamo mica trasportando un artefatto con i poteri”
Gli strumenti sigillati nella cassa non erano né dorati né avrebbero mai costretto i fedeli del Signore in ginocchio. Quelle precauzioni potevano sembrare esagerate, ma era responsabilità dell’organizzazione preoccuparsi degli strumenti stregati, ora che non erano più nelle mani delle creature umanoidi e che tutta la storia delle sparizioni e delle morti improvvise poteva finalmente considerarsi un capitolo chiuso.
Io la presi con filosofia, cercando la vena ironica dell’essere al centro dell’operazione. Ne eravamo gli artefici, ed era eccitante, proprio come nei film d’avventura e spionaggio.
“Fico, no?”
“Sì, Matt, è fico” rispose Duff seccato. “Calma, però. Fino a quando non vedrò quegli strumenti al loro posto le mie brutte chiappe continueranno a essere in pericolo. E Axl. Se non vedo Axl sano e salvo c’è poco da stare allegri”.
“Ha ragione lui, bello” gli fece eco Saul abbracciando e sostenendo Megan. “Axl è ancora prigioniero alla villa”.
Sbuffai innervosito. “Lo so benissimo che Axl è ancora prigioniero”.
Il treno fischiò e partì piano. In lontananza la sagoma dell’arena diventava sempre più piccola fino a essere sommersa dalle cime degli alberi, assieme al mio tentativo di stemperare gli animi. Nessun festeggiamento, ma non avevamo nemmeno il diritto di stare tristi per chi ci aveva ridotto in fin di vita e umiliato enne volte.
Più o meno a metà strada, superato un ponticello di pietra che dava su un lago, il mutismo fu rotto da un commento inaspettato di Duff. Parlò con voce spenta e tremante. Sudava, pure. “Non doveva morire. Sono un assassino, come lui”.
Proprio in quel momento vidi qualcuno muoversi nel corridoio. Cinque ragazzi
arono oltre il nostro scompartimento. Li riconobbi: erano i fan più vicini ad Antony e ai Boys. Ritornavano anche loro a casa. Una ragazza scoprì i denti per la rabbia, mentre un altro diede un pugno forte sul vetro. Non avevano comunque intenzioni ostili, infatti andarono subito via a testa bassa.
Duff rimase al suo posto senza reagire, la testa piegata sul petto e le braccia conserte. Guardai Charlotte per cercare sostegno, ma come me era impreparata. Come si consola un musicista che ha eliminato una band al Torneo Rock Guerrieri? Iniziai dalla cosa più semplice e ovvia. “Non sei un assassino” dissi.
“Non lo sei” ripeté Megan a pappagallo.
Duff alzò la testa di scatto. “Voi come lo chiamate uno che uccide qualcuno?”
“So dove vuoi arrivare, ma non c’entra nulla con il Torneo” risposi. “Lo sai. Il regolamento dice che sul palco tutto è concesso. Dovevi aspettartelo. Perché la stai prendendo a cuore? Non andrai nemmeno in Carcere”.
Capii di essere stato colpito solo dopo aver incassato il pugno di Duff. Crollai addosso a Charlotte.
“Pezzo di merda!” mi gridò in faccia. Mentre cercavo di rimettermi seduto la porta dello scompartimento si spalancò.
Erano gli agenti del Carcere. “Tutti fermi!”
Tripke era armato di taser. Ci stavano spiando dallo scompartimento vicino? Altri due colleghi erano rimasti fermi appena fuori dal corridoio.
“Sempre a fare bordello” pronunciò Tripke strascicando le parole. “E abbiamo anche un pentito. Ritratti la vittoria, ragazzo?”
Puntò l’arma su Duff, ma il mio amico non rispose e non si mosse di un millimetro. “Ti sbatto in cella?” esclamò Tripke assaporando la soddisfazione. “Redenzione, ragazzo. È questo che vuoi? Non avresti una band morta sulla coscienza”.
“C’è l’avrà comunque” gridai alzandomi e premendo una mano sul naso come tampone. Un giramento di testa stava per rimettermi a sedere ma riuscii a restare in piedi e correggermi. “Quello che volevo dire è… cos’ha intenzione di farci?”
La punta del taser ò dal minacciare Duff a intimidire me. Il viso contorto di Tripke era appena a due centimetri dal mio. Potevo contargli i peli del naso; le narici soffiavano aria calda. “Quel ragazzo che avete eliminato mi sganciava un sacco di soldi. Era l’unico motivo per cui continuavo a fare l’agente del Carcere Sopra le Righe. Datemi un buon motivo per non farvela pagare”.
Con la coda dell’occhio mi accorsi che Charlotte armeggiava con qualcosa. Scorsi il riflesso di un luccichio dorato nel vetro dello scompartimento. Tripke aspettava una risposta, il taser attivato e pronto a colpire…
“Non… non è un problema nostro” dissi raccogliendo energie e coraggio. “Racconteremo tutto all’organizzazione del Torneo, delle minacce e delle corruzioni” minacciai con voce nasale. Il sangue tra le dita stava diventando
appiccicoso.
“E invece lo è, ragazzo. Posso escludervi dalla competizione e dalla finale, se voglio” disse agitando un dito in aria. “Vuoi raccontare ogni cosa, ma a chi crederebbero? Siete un gruppo di ragazzini perdenti che ha vinto due battle rock per pura grazia divina”.
Tripke sembrava un invasato. Godeva nell’umiliarci, proprio come Antony. Riprese: “Le attività illecite a B. House. Quei cadaveri, quell’assassino di cui mi avete parlato nel mio studio. Mi basterebbe ritorcervi tutto contro, e di quegli strumenti nella cassa saprei cosa farne, ora che so a cosa servono”. Rise maligno, sfregandosi le mani.
“Ehi, bello, non puoi farlo” intervenne Saul. “Sono nostri, ci servono!”
“Non dirgli nulla” gridai, tenendo d’occhio la punta del taser.
“Dirmi cosa? Non fatemi perdere tempo e pazienza. Tu, parla”. Finalmente Tripke allontanò il taser, ma allungando il braccio nella direzione opposta iniziò a minacciare Saul. “Parla” ripeté.
Saul lo sfidò tenendo alto lo sguardo, proteggendo col corpo e come meglio poteva Megan, rannicchiata sul sedile accanto.
“Ti conviene parlare e dire la verità, ormai siete tutti incastrati. Non lo ripeterò di nuovo. Parla”. Il dito tremava sul grilletto della pistola elettrica.
Bastava una leggera pressione. Il taser avrebbe colpito Saul, sfigurando per sempre il bel viso da rubacuori.
“Se non crederanno alle nostre parole non avranno dubbi quando ascolteranno questa registrazione”.
Tripke si voltò lentamente allentando la presa dal grilletto. Poi abbassò l’arma; negli occhi il luccichio dorato dell’apparecchio di Charlotte.
“E quello a che diavolo serve?” chiese agitato.
“Lo uso per videochiamare l’assassino di B. House” rispose Charlotte con il tono e l’espressione di chi ha in pugno la situazione. “Per memorizzare dati e per registrare suoni. Ci lasci in pace, e non consegnerò la registrazione allo staff del Torneo”.
Tripke fece un o indietro verso la porta dello scompartimento, la fronte imperlata di sudore. Aprì e chiuse la bocca come un pesce fuor d’acqua. Provò ad articolare qualcosa, ma non ne uscì alcun suono.
Spavaldi e fieri scacciammo quel molestatore assieme ai suoi tirapiedi.
“A non rivederla” dissi tra me, quando ormai Tripke e gli agenti erano andati. Anche l’ultimo legame con Antony era stato eliminato.
“Sei stata grandissima!” abbracciai compostamente Charlotte, che oltre ai miei complimenti ricevette le lodi di Saul, di Duff, ancora piuttosto taciturno e rabbuiato, e di Megan, la più eccitata di tutti. “Sei super, amore. Super superissima!”
Charlotte arrossì. “Non è niente” rispose togliendo di mezzo l’apparecchio dorato.
“Sei troppo modesta” dissi sollevato. “Ci hai salvato ancora”.
“Abbassa la voce” disse lei portando una mano alla bocca. “Ho detto che non ho fatto niente perché il mio apparecchio il realtà non è un registratore. Non ho nessuna prova schiacciante da far ascoltare. Ho solo improvvisato”.
Ci guardammo l’un l’altro. In silenzio mi avvicinai alla porta dello scompartimento. L’aprii con attenzione e abbastanza da permettermi di spiare nel corridoio. Tripke e i due agenti erano lontani, all’inizio della carrozza e discutevano animatamente gesticolando come scimmie incavolate.
“È tutto a posto” dissi richiudendo la porta. “Sono di là e non se le mandano a dire”.
Sollevati ma ancora taciturni trascorremmo il resto del viaggio sonnecchiando, baciati dal sole caldo di metà mattino. Charlotte rimase sveglia per tutto il tempo, appuntando alcune parole sul suo taccuino. Ero troppo preso dal torpore per chiederle cosa scriveva. Chiusi gli occhi completamente e non li riaprii fino
all’arrivo.
La stazione era vuota. La cassa d’acciaio fu scaricata sul binario dagli stessi uomini in tuta arancio che l’avevano sistemata sul Rock Rocket. “Arriverà tra pochi minuti” disse Charlotte.
Trasportammo gli strumenti per il sottoaggio. La temperatura lì era più fresca, ma non era un luogo ospitale: troppi cattivi odori e gentaglia che ci guardava di sbieco. Ci mancava solo che ci aggredissero e ci rubassero la cassa.
Faticammo a salire le scale per raggiungere il parco all’esterno della stazione, ma con l’aiuto degli uomini in tuta arancio riuscimmo a tirar su la cassa. Nonno Mortimer era già arrivato e ci aspettava col furgoncino al fresco sotto gli alberi, con buona pace di Duff che poco prima aveva sparlato del vecchio e della sua memoria.
Charlotte si staccò dal gruppo e andò di corsa ad abbracciare suo nonno.
“Ho seguito tutto alla radio” gridò entusiasta l’ex assassino scendendo dall’abitacolo. “Sono stato lì lì per morire di crepacuore, più e più volte. Avete rischiato grosso”. La voce tradiva preoccupazione, ma prevalse la gioia di rivedere e riabbracciare la piccola nipote.
“Ora siamo qui” rispose sorridente Charlotte. “E in finale”.
“Con buone possibilità di vincere il premio come modificatrice. È questo che
vuoi dire?” nonno Mortimer la squadrò minuziosamente, come per controllare se era tutta intera.
“Ehm… già” rispose Charlotte aprendo il sorriso.
Gli uomini in tuta arancio si congedarono. “Noi andiamo. Queste sono le chiavi per i lucchetti. Arrivederci”.
Presi in consegna le chiavi e le conservai in tasca.
“Forse avrebbero dovuto garantirvi una scorta fino alla villa” commentò gravemente nonno Mortimer osservando i due uomini ridiscendere il sottoaggio.
“Sembrava una missione ultra top secret fino a poco fa” disse Saul, anche lui perplesso.
“Mica tanto, se no come te li spieghi gli stronzi in giro?” rispose Duff, alludendo alla discussione con Tripke.
L’ex assassino alzò un sopracciglio. “Adesso però non perdiamoci in chiacchiere. Carichiamo la cassa sul furgone” disse.
Una mano per uno, lavorando di peso sulle ginocchia, issammo gli strumenti sul retro del veicolo.
Mentre gli altri salivano a bordo Charlotte si avvicinò a me. Il sole splendeva e sul viso della mia ragazza non c’erano ombre. Dondolava sulle scarpe e le manine sparirono nelle maniche della camicia, di nuovo. Esitante mi parlò.
“Vorrei… vorrei are da casa per prendere delle cose. Vorrei venire con voi alla villa. So che è una faccenda vostra, ma… sento bisogno di starti accanto. Non… non prenderla per una cosa sdolcinata, ti prego”.
Quel chiamarmi in disparte e confidarsi, quel modo di fare che non avevo mai visto in nessun’altra ragazza… sentirmi importante e considerato. Speciale.
Mi avvicinai fino a sfiorarla col corpo. “Puoi” risposi.
Avrei voluto accarezzare la guancia con la mano, ma avevo intravisto Duff che ci spiava dal retro del furgoncino. E anche nonno Mortimer, al posto di guida, che fingeva di sistemare lo specchietto retrovisore.
“Ci fermeremo a casa di tuo nonno e poi proseguiremo per B. House, tutti insieme”.
“Sicuro che non ti dispiace?”
“Sicuro. Ma spero di non metterti in pericolo”.
“Si tratta solo di consegnare gli strumenti, non è così?”
“In teoria, sì. Ma ti fideresti di un demone? Da quello che ho potuto capire sono dei voltagabbana di prima categoria”.
“È proprio perché non mi fido che voglio ritornare a casa a prendere la mia attrezzatura”.
Sorrisi. “Hai sempre una soluzione per tutto. Di cosa si tratta?”
“Vedrai”.
Non avrei voluto rompere il contatto con il verde dei suoi occhi. Perdermici dentro, lo avete mai provato guardando la persona che vi piace? Questi sentimenti così forti ci fanno letteralmente perdere la testa!
Con il sole e le lenti spesse degli occhiali, gli iridi erano pozze d’acqua marina incontaminata… minerali brillanti provenienti direttamente dalle viscere della terra… gemme preziose…
“Ti muovi?” sbraitò Duff picchiando contro il vetro del furgone per costringerci a salire.
“Che zotico” mi lamentai.
“Lascia perdere” rispose Charlotte rassicurandomi con un sorriso. “Andiamo”.
Percorrendo i viali alberati e osservando le villette ebbi la sensazione di fare ritorno da un lungo viaggio, anche se tutto era rimasto invariato. Mi sentivo esattamente come quei personaggi fantasy alla fine delle storie, e delle guerre apocalittiche. Tutto era andato bene, e nonostante le ferite si ritornava alla vita di sempre.
Il furgone si fermò. “Vi va un pezzo di torta prima di ripartire? L’ho sfornata prima di venire in stazione” disse nonno Mortimer.
“Ehm, no. Grazie” risposi all’assassino. Ex, ex assassino, o quello che era. “Vogliamo concludere la faccenda il prima possibile”.
Nonno e nipote scesero dal furgone ed entrarono in casa. Ne uscirono poco dopo. Charlotte aveva con sé una valigetta, simile a quella che aveva portato in occasione del Torneo. Ripresero posto e ripartimmo.
Credo che il Tempo si diverta a giocare con il nostro vissuto. È una forza potente, una cosa tanto, tanto figa. Cazzeggia coi ricordi, formando situazioni memorabili, alle volte, o momenti che vorremmo evitare di vivere: pomeriggi noiosi, compiti in classe, le urla dei genitori che ti impediscono di uscire da casa perché hai combinato qualche casino…
Ripartire con il furgone -il furgone di Axl- per me era una via di mezzo. Come la notte in cui tutto era iniziato. Il furto, l’inseguimento con la polizia… infine B.
House. Un’esperienza memorabile, ma come aveva detto Duff, fino a quando gli strumenti non fossero ritornati al proprio posto, dovevamo considerare di essere esposti al pericolo.
Immessi sulla strada extraurbana, il caldo divenne più intenso. L’asfalto cuoceva e l’effetto calura in lontananza faceva ondeggiare l’orizzonte stradale.
“Bello, ci serviva un po’ d’acqua” disse Saul, seduto al mio fianco con il finestrino completamente abbassato. “Ho i capelli tutti secchi e disidratati, vero piccola?”
“Solo un po’” rispose Megan che fino a quel momento era rimasta in silenzio. “Ma sei tanto bono lo stesso, mio picci!”
Saul sfoggiò il sorriso plastico. “Lo so, lo so!”
“Tu sei fuori” lo apostrofò Duff da dietro. “Moriresti disidratato per bagnare quei cazzo di capelli? Che malato di mente. Quanto manca per arrivare?”
“Dovremmo essere vicini al viale alberato” risposi.
Infatti gli alberi comparvero man mano, diventando sempre più alti e folti. L’ombra del viale ci accolse e lasciammo la via principale e l’asfalto incandescente. Nonno Mortimer decelerò.
“È qui?”
“Sì, ma non ci sono più. Dev’essere quel rigonfiamento sotto quelle radici”.
Gli amplificatori rubati erano scomparsi, divorati da strati di terra e vegetazione. Rimaneva solo un bozzo enorme ai piedi di un albero alla nostra destra.
Le gomme del furgone scricchiolavano sulla breccia del sentiero e B. House ci apparve luminosa e nivea. Ci allontanammo dal fresco del viale, parcheggiando a pochi metri dalla villa, di fronte al lago, splendente e calmo.
“Belli, ma sentite una cosa. Quando iniziamo a scrivere il pezzo per la finale?” chiese Saul scendendo.
Aprii il retro del furgone. “Ci penseremo dopo che avremo sistemato questa faccenda, ma hai fatto bene a ricordarlo. Qualche idea? Io buio totale. Non voglio pensarci”.
“Se cerchiamo il testo di una canzone sconosciuta e ci suoniamo sopra qualche cazzo di accordo?”
“Non siamo al pub, Duff. Se ne accorgerebbero”.
“Pallemosce! Sai che ci sono milioni di canzoni popolari che sono diventate leggende del rock? Anonime, scritte da qualche contadino che non aveva un
cazzo da fare la sera se non bivaccare sotto al portico di casa. E nessuno ha avuto da ridire su copyright e stronzate del genere! Si tratta solo di andare a pescare il testo giusto”.
“Bello, ma non esistono più cantautori anonimi. Prima era diverso. Prima la gente era meno stronza. Ora prova a copiare una canzone a qualcuno, puoi giurarci che un giorno lo scoprirà e ti farà pentire di averlo fatto”.
“Io posso chiedere ai miei amici una delle loro canzoni” propose Megan, gettando le braccia intorno al collo del suo ragazzo. “Non farebbero problemi. Per loro sarebbe grandiosissimo darci una mano!”
“Non ci servono testi disco” risposi, consapevole di aver spezzato l’entusiasmo di Megan. “Mi date una mano?” aggiunsi dandomi da fare con la cassa.
L’aria era umida e ancora calda. Sudammo tantissimo trascinando la pesante cassa d’acciaio dentro la villa, e finalmente al riparo dal sole a picco, riprendemmo fiato. Prima di richiudere la porta notai lo sguardo di Duff soffermarsi su alcune chiazze di sangue raggrumato sul prato e i pezzi di corda con cui Antony ci aveva legato per massacrarci.
“Io vi aspetterò qui” annunciò allegro nonno Mortimer. “Mi godo questo meraviglioso lago”. Ammiccò alla nipote, poi si allontanò dal vialetto e dal furgone per andare a eggiare.
Tutto era come l’avevamo lasciato e come lo ricordavo. Pareti ingiallite, muffa e cattivi odori. Spingendo la cassa raggiungemmo lo stanzino.
“Meglio se entro prima io” dissi.
“Da quando sei diventato così coraggioso?” fece Duff.
“Devo fare una cosa” insistetti, “aspettate un attimo”.
Entrai, facendo caso a Saul che aveva intuito la mia mossa. Megan lo guardò senza capire.
Una volta nello stanzino mi ricoprii subito di polvere. L’odore di chiuso era fortissimo. Nel disordine cercai qualcosa per coprire la “Santa” chitarra che faceva impazzire il nostro chitarrista. Trovai un giaccone rosso con bottoni dorati opacizzati dal tempo.
Uscii.
“Mi spiace, Saul. Ma così non perderemo tempo. È per Axl” spiegai.
“Per me è tranquillo, bello”.
Prima di rientrare nello stanzino con tutto il gruppo si presentò un altro problema: la cassa era troppo grande per attraversare il aggio che conduceva alla saletta giù nelle fondamenta.
“E ora che si fa? Non vorrei che aprendo qui la cassa succedesse qualcosa di… ehm, sconveniente” dissi osservando le reazioni dei miei amici. Saul, sempre abbracciato stretto a Megan, si trovava in prossimità della “Santa” chitarra, ma resistette all’impulso di sollevare il giaccone rosso dallo strumento.
Duff mi scoccò un’occhiata delle sue. “Prendi le chiavi. Non possiamo rimanere qua con tutta ‘sta roba”.
Riluttante e rassegnato presi le chiavi dalla tasca. Poggiai una mano sull’acciaio freddo per aprire i lucchetti. Un rumore come di bottiglia appena stappata e un soffiò d’aria calda ci fece sobbalzare. La cassa si aprì. Riecco gli strumenti, a pezzi, metà carbonizzati e graffiati dagli artigli delle creature.
“Sono proprio ridotti male” disse Charlotte allungando il collo.
“Già. Spero che funzionino” risposi preoccupato.
Saul si preparò a scendere per primo, imbracciando la chitarra maledetta. “Piccola, ce la fai a camminare?”
Non era poi così convinta, Megan. Ma vedendo Saul già pronto sulla scale, rinunciò a ogni frivolezza. “Ci provo” disse corrucciata.
Con l’aiuto di Duff mi occupai della tastiera, del basso e dei pezzi della batteria. Movimenti complessi e imprecazioni seguirono la discesa nella saletta.
Il sudore mi pizzicava la schiena; una tortura naturale che non riuscivo più a sopportare. La maglietta si era unita alla pelle e ogni o era un fastidio insopportabile.
Nello stanzino ogni rumore venne attutito dalle mura di pietra. Saul azionò l’interruttore della luce… ZZZZZ, ZZZZ ronzava la lampada.
“E adesso?”
“Be', cerchiamo di rimetterli a posto com’erano”.
“… e poi vediamo cosa succede”.
Attenti a possibili e improvvise manifestazioni paranormali collocammo gli strumenti ai loro posti.
Non accadde nulla e nessun demone si rivelò per rivendicarli.
“Cosetto rosso? Axl? Cazzo, fatevi vedere! Dopo tanta fatica…”
“Forse dobbiamo suonarli come quella sera?” supposi.
“Vero” esclamò Saul, illuminandosi. “È così che lo avevamo evocato, bello!”
Senza perderci in altre chiacchiere ognuno prese posto e il Tempo giocò ancora con le nostre vite. Chiamatelo Destino, se siete stufi di sentir parlare di Tempo.
Megan e Charlotte erano rimaste in disparte, vicino le scale. La mia ragazza aveva estratto dalla valigetta uno strumento simile a un tester analogico. Puntò lo strumento a mezz’aria e iniziò a raccogliere dati.
“Cos’è?” chiese curiosa Megan lisciandosi una ciocca di capelli blu che spuntava dalla fasciatura.
“Segnalatore di Presenze Incorporee e Attività Paranormali” rispose Charlotte, ma fu costretta ad aggiungere una spiegazione più spiccia. “Segnala se e quando salterà fuori il demonietto”.
“Oh” fece Megan portando una mano alla testa e un'altra al petto. “E funziona? Secondo me non è molto cool. Non ha niente di glam”.
“Quando usciremo da qui lo riempirò di brillantini”. Fui il solo a trovare divertente la battuta di Charlotte.
Sarcasmo?
Noialtri eravamo pronti per suonare. Ci scambiamo un’occhiata per darci l’ok.
Saul mandò un bacio con la mano a Megan, che lo raccolse e ricambiò. Io non mandai nulla del genere a Charlotte, ma la osservai lavorare con il Segnalatore di Presenze, che era molto più interessante delle smancerie tra Saul e Megan.
Bacchette in mano, volumi regolati, plettri pronti. ONE… FOUR!
Sulle pareti emersero immediatamente le rune scarlatte. Seguivamo quei simboli come note di una tablatura, creando una musica e un’esecuzione impressionante. Se avessi trovato un modo per salvare gli accordi e la ritmica… se avessi trovato un modo per poter suonare quella canzone in finale…
Corpo e mente erano sconvolti da quel sortilegio, ma un brivido di lucidità mi fece pensare a Charlotte, lì a pochi metri da me. Forse lei sarebbe stata in grado di catturare almeno la sequenza degli accordi! Ma in quel momento non sarei mai e poi mai riuscito a chiederle di fare qualcosa: c’era solo spazio per la musica e l’euforia.
Ormai nel vivo della suonata la voce disincarnata finalmente si manifestò. Al brano si accorparono le prime parole, versi gutturali che in certi momenti riuscivano addirittura a sovrastare gli alti della chitarra e i bassi dei riff di Duff.
Qualcuno urlò. Una ragazza. “Allontanatevi da lì!”
Charlotte! Agitava il Segnalatore di Presenze indicando una lancetta impazzita sul display.
Non voglio smettere. Che musica pazzesca…
Volevo restare lì, a suonare per sempre, senza badare alla stanchezza. Tutt’intorno una luce bianca avvolgeva ogni cosa… Tutto ciò che confinava con il mio limitato campo visivo.
Nella confusione vidi anche una chioma blu agitarsi al centro della saletta. Al suo fianco c’era una ragazza con una camicia a quadri e gli occhiali grandi. Le conoscevo?
Inebriata dall’incessante voce profonda, la mente andava svuotandosi di ogni pensiero e la luce bianca diventava sempre più intensa. Le bacchette mi scivolarono dalle mani e decisi di lasciarmi trasportare dal bianco universo che ruotava intorno la mia vita.
Privo di forze fui ripescato dal nulla che mi stava annientando. Gli occhi tornarono a scontrarsi con le ombre della realtà. Avevo di nuovo in pugno le bacchette. Charlotte era vicino a me. “Lasciale” diceva. “Lasciale, ti prego”.
Aprii le mani, le dita si rilassarono e le bacchette caddero sul pavimento duro e nero. Vidi Saul e Duff allontanarsi dagli strumenti, anche loro sani e salvi. Il chitarrista si gettò tra le braccia della fidanzata mentre il basso batteva ancora il tempo, scandendo la eco delle note come i colpi di un cuore morente.
La saletta si riempì di familiari rumori di ferraglia. Poi le pareti e il pavimento tremarono.
TUM, TUM…
TUM.
Axl era seduto a gambe incrociate nel mezzo della saletta. Era sveglio, ma aveva lo sguardo assente. Dietro di lui, corna e artigli e pelle di fuoco modellarono nella semioscurità la creatura mezza nuda. Il demone sputò saliva nera e parlò. “ERA ORA”. ò voluttuosamente le unghie affilate sulla testa di Axl, che non si scompose.
“Cosa gli hai fatto?” alzai la voce, impaurito. Gli occhi del nostro amico si muovevano da una parte all’altra della piccola stanza, lentamente, osservando.
“Soggiornare nella mia dimensione causa effetti collaterali” rispose il demone ando un dito bitorzoluto sulla spalla di Axl. Dopodiché si allontanò dal vocalist per andare a esaminare gli strumenti con attenzione. “Siete stati di parola. Non me lo aspettavo. Da non crederci”.
“Vedi di esserlo pure tu, cazzetto rosso”. Duff tolse lo zuccotto per sventolarlo rabbioso in direzione del demone. Si avvicinò di qualche o ad Axl, allontanandosi dal cono di luce elettrica. Il bagliore rossastro dei simboli sulle pareti andava affievolendosi man mano che le rune venivano risucchiate di nuovo nella pietra.
Mentre il demone era perso nell’analisi, Duff cercava di stabilire un contatto con Axl. “Ci sei, fumato? Oh?”
“Si riprenderà” soffiò il demone. Ci dava le spalle, piegato sulle ginocchia nodose a controllare la grancassa della batteria.
“Svegliati, cazzo. Svegliati!” Duff colpì Axl con un schiaffo ben assestato. La testa del vocalist ciondolò come quella di un pupazzo di gomma. Aprì la bocca impastata e sputacchiò saliva, ricordando i capricci dei bebè davanti a una minestrina stomachevole.
“È ancora nell’Alditomba… che cazzo gli hai fatto? Ci siamo spaccati il culo per rispettare quella merda di patto, e questo è ancora mezzo scimunito. Ho ucciso” gridò Duff a denti stretti, “l’ho fatto per lui”. Indicò l’amico per terra, che nel frattempo si era messo a studiare le sue mani. Le girava e rigirava, le apriva e le chiudeva, scoprendo che poteva piegare tutte le dita contemporaneamente.
Duff non riuscì a trattenersi. Rabbia e sgomento lo indussero a reagire, l’istinto animale a lanciarsi contro il demone. “Io ti ammazzo!”
“Fermo, bello, fermo”. Saul fu più veloce e mi anticipò, balzando verso Duff che aveva preso alle spalle l’odiato demone ancora chino sulla batteria. Si agitava, picchiava, urlava. Ma presto ci accorgemmo che la creatura cornuta era svanita e che Duff prendeva a pugni l’aria.
“INGRATI UMANI!” la voce ci colpì come una folata di vento in tempesta. Il demone si trovava dall’altra parte della saletta, accanto a una delle chitarre e vicinissimo a Charlotte e Megan, quest’ultima paralizzata dall’orrore, con le mani premute sulla testa. La creatura buttò un occhio alla sua scollatura. “Niente male” commentò ando la punta della lingua sulle labbra sottili. Ma riuscì a tenere a bada gli istinti. Alzò di nuovo la voce. “TU” pronunciò puntando il dito
su Duff. “ORA TI PUNISCO!”
“Abbiamo vinto al Torneo, abbiamo riportato i tuoi amici qui” intervenni, lottando per trattenere Duff intenzionato a ripartire alla carica. “Il patto è rispettato. È quello che volevi. Lasciaci andare!”
Il demone non ascoltò, gonfiò il petto e iniziò a crescere. Le corna graffiarono il soffitto e la voce si abbassò di un’ottava. Parlò recitando una cantilena in una strana lingua e unì la punta degli indici e dei pollici formando un triangolo con gli artigli.
Duff mi sfuggì via e caricò a testa bassa. Il pugno che aveva intenzione di scatenare con tutta la forza non andò a segno. Il demone staccò le dita e spezzò il triangolo, paralizzando il mio amico, che cadde sul pavimento rigido come una statua.
La creatura ci sovrastava. Le fauci si aprirono in un ghigno diverto. Strofinò gli artigli sulla pietra. “Due battle rock vinte al Torneo. E avete battuto anche i poteri dei miei strumenti! Non sarebbe una cattiva idea usarvi per riportare in vita i miei vecchi compagni”. D’un tratto iniziò a singhiozzare. “Potrò finalmente scusarmi con loro e… e… ritornare a suonare!”
Estrasse il fazzoletto dal corno cavo per asciugare lacrime nere che gli inumidivano gli occhi gialli. Soffiò il naso bitorzoluto, dopodiché ritornò a inveire con il suo cipiglio ardimentoso. “Preparate a perdere le vostre anime” minacciò.
Saul corse verso Megan per proteggerla, io verso Charlotte. “Grazie per prima.
Qualche idea?”
Track #22
Lo spettacolo continua
Qualcuno se la sente di continuare?
Lo spettacolo deve proseguire
Credo di capire…
Nell’oscurità desidero ardentemente essere libero!
Megan era così impaurita che probabilmente non aveva capito che fine rischiavamo di fare.
“Ci sono io, piccola” le aveva detto Saul per rassicurarla. Ma Megan aveva entrambe le mani sulle orecchie e scuoteva vigorosamente la testa e strizzava gli occhi.
“Dobbiamo darcela a gambe” proposi.
“Come facciamo, bello? Guarda Duff”.
Cercai di pensare in fretta a una soluzione. Presi per mano Charlotte. “Hai qualcosa di utile nella valigetta? Se avessi i miei Scaricatori…”
“Non ci faresti nulla” rispose lei tenendo a bada il panico con un certo aplomb. “Un demone, Matt. Non puoi farlo fuori con qualche fuoco d’artificio”.
“Allora come? In frettaaaaaa… Aaaaah!”
Finii per sbattere schiena e testa al soffitto. Caddi sul grande amplificatore nero vicino al basso. Il demone mi aveva colpito con un colpo del braccio possente, scaraventandomi lontano dai miei amici.
Alzai la testa appena in tempo per accorgermi del secondo attacco. Il demone unì la punta delle dita come aveva con Duff. Evitai il colpo per un soffio, saltando e riavvicinandomi a Charlotte.
“Idee, novità? Qui ci rimaniamo secchi sul serio!”
“Inginocchiati” disse piano, piegandosi e tenendo le mani aperte con i palmi all’ingiù. Credevo di averla perduta per sempre, irretita dalle forze negative che gravitavano nella saletta.
Tirai un sospiro di sollievo quando mi guardò da sopra le lenti spesse. Non parlò, ma capii che dovevo fare come diceva lei perché era giusto: questo era il messaggio. Fiducia.
Saul e Megan rimanevano in piedi stretti l’un l’altro. “Bello, che fai?”
Non risposi, volevo e dovevo concentrarmi. Imitai i movimenti di Charlotte, le mani tese in avanti. Le ginocchia toccarono terra e le mani la pietra fredda.
Non so cosa abbia in mente, Saul, ma fallo anche tu. Anche Megan.
Il demone non attaccò di nuovo. Nella posizione in cui mi trovavo riuscivo soltanto a vedere gli artigli retrattili della creatura. “La ragazzina sa quel che fa” disse schioccando la lingua. “Sarà un onore per voi offrire le vostre anime a me. Qualcuno è ancora indeciso. Preferite morire?”
Saul si staccò dall’abbraccio. Tenendola per mano, invitò Megan a inginocchiarsi. Aveva capito! Si piegò sulle ginocchia e abbassò la testa.
“Spero che non sia un brutto scherzo, bello” disse a voce bassa guardandomi negli occhi. A voce ancora più bassa aggiunse: “Devo ancora proporre a Megan di fidanzarsi con me. Ho un anello in tasca, capisci? L’ho comprato agli stand vicino l’arena”.
E così Saul faceva sul serio. Un anello, addirittura. Il massimo che aveva regalato a una ragazza era stato un bracciale trovato in un sacchetto di patatine, anni fa. E l’aveva reso solo perché a lui non piaceva.
“Andrà tutto bene” risposi.
Il demone riprese a parlare nella lingua incomprensibile. Era ritornato delle dimensioni normali, sgonfiando i muscoli e rimpicciolendo in altezza e larghezza. La cantilena comprendeva rumori di stomaco ed effetti ottenuti con le labbra e con la lingua. Intuì che era contento di vederci in ginocchio davanti a lui.
Charlotte, sicura di sapere quello che fai?
“Alzate la testa, guardatemi negli occhi” pronunciò gracchiante il mostro rosso eccitato.
Alzai la testa. Saul, Megan e Charlotte fecero lo stesso. Muovendo nervosamente le dita, il demone ordinò ai corpi di Axl e Duff di unirsi al sacrificio. Si sollevarono incantati dai prodigiosi effetti della magia oscura. Forze invisibili li costrinsero a piegarsi e a inginocchiarsi. I nostri amici erano come dei burattini!
“Sei ANIME” esclamò il demone sfregando gli artigli. “Non tutti musicisti, ma andrà bene in ogni caso. Troppo a lungo sono stato costretto qui sotto…”
Aspettavo un segnale da parte di Charlotte, ma ancora niente.
Oltre al solito ronzio, la lampada che penzolava dal soffitto iniziò ad affievolirsi. Il demone adesso sedeva a gambe incrociate, con gli indici bitorzoluti puntati alle tempie sporgenti. I cali di tensione proseguirono, le ombre tremolarono e la luce morente si spense definitivamente.
Due punti gialli e un paio di pupille ci osservavano. Sfiorai la mano di Charlotte alla mia destra. Mi afferrò il polso, stringendolo forte. C’eravamo quasi, ma dai piccoli gesti di Charlotte capii che dovevo ancora rimanere calmo e immobile.
Il demone aveva chiuso gli occhi. I due punti gialli erano scomparsi. O era sparito? Era dietro di noi? Avrei preferito affrontare altre cento volte Antony in forma umanoide al Torneo che sentirmi stringere al petto e perdere l’orientamento!
Non mi ero quasi accorto che Duff si era risvegliato. “Figlio di puttana. Dannato. Ehi, accendete la luce!”
“Siamo qui, bello. Qui. Eccomi”.
“Dove cazzo siamo finiti?”
“Non ci siamo mossi. Siamo ancora sotto la villa”.
“Axl?”
“Dovrebbe essere vicino a te, bello”.
“Axl, cazzone, ci sei? Axl?”
“Hmmmhhfff”.
La vista, che si era appena adattata all’oscurità, si preparava a fare i conti con le rune che risorgevano dalle mura. La saletta ritornò a essere parzialmente illuminatà.
Allora il demone si avvicinò agli strumenti e afferrò la sua chitarra. L’esaminò con attenzione, maneggiandola con cura. Dopo aver constatato che era a posto la sistemò sotto braccio con la tracolla e iniziò a suonare.
Steccava, sbagliava tonalità, intrecciava le dita nel tentativo di beccare la pentatonica giusta. Fece schioccare la lingua irritato e riprovò.
Poco prima di sfiorare le corde il demone iniziò a ridacchiare. Increduli e ancora in ginocchio, assistemmo a un arpeggio metal eseguito a una velocità impressionante. Alcuni riff erano familiari, ma non riuscii a collegarli a nessuno dei brani che conoscevo.
“Scale diminuite” disse Saul con gli occhi sgranati puntati sul demone. Megan non fu molto contenta della cosa, ma il fidanzato la ignorò, troppo preso ad ammirare il mostro che si esibiva lì a pochi metri.
Non ero mai stato troppo interessato alle chitarre. Fu la prima volta che ascoltai con ione qualcuno suonare una sei corde.
Se faceva parte del rito probabilmente ero lì a farmi a risucchiare l’anima come se nulla fosse, adescato dalla musica di un demone rocker.
Non ringraziai mai abbastanza Charlotte per avermi dissuaso da quello spettacolo. Mentre gli altri erano rimbecilliti dalle note al secondo plettrate dal nostro aguzzino, mi allontanò dal gruppo. Agimmo indisturbati.
Charlotte iniziò a trafficare con le dita sul colletto della camicia. Mi sentii avvampare, pur sapendo che, beh, non stava per spogliarsi di fronte ai miei occhi.
“Vedi questo?” e mostrò una piccola clessidra contenente sabbia dorata.
“Ci riporta indietro nel tempo così possiamo riaggiustare tutto?”
“No” rispose secca. “È un Cogli Spiriti. L’ho comprato al Torneo. Sai, ho pensato che potesse esserci utile”.
“Un cosa?”
“Serve per scacciare sortilegi, per curare il malocchio e sigillare simboli esoterici. Dovreste saperlo, voi rocker”.
“Dovremmo?”
“Be', ehm… da quanto ne so i gruppi rock vanno pazzi per questa roba, da sempre”.
“Non sapevo ti intendessi di paccottiglia magica” risposi perplesso. “Comunque se ti riferisci alla storia del demone, quella è roba di cinquant’anni fa. Ora i talismani e le fatture per le rock band sono fumetti e televisione, almeno per me e per i miei amici”.
Charlotte alzò le sopracciglia, poi ritornò sul piano. “Ascolta, Matt. Dobbiamo sigillare quei simboli sulle pareti. Dobbiamo farlo ora che è occupato a suonare. Eliminando l’energia delle rune elimineremo i suoi poteri e, se è come spero, anche i poteri degli strumenti. Sono legati a lui dal rito compiuto mezzo secolo fa. Capito?”
“Cioè il demone diventerebbe una creaturina innocua?”
“Purtroppo non è proprio così. Ma sarà vulnerabile agli attacchi da battle rock. Elimineremo tutte le sue difese”.
“E dici che funzionerà?”
“Come dicevo, il Cogli Spiriti dovrebbe agire anche sugli strumenti. Le anime dei musicisti verrebbero sigillate e voi potreste suonare senza rischi”.
“Non mi convince del tutto, ma visto che non abbiamo un altro piano…”
“Esatto. Non c’è un altro piano”. Charlotte mi guardò da sopra gli occhiali. Sorrise nervosa.
Megan era ancora immusonita con Saul, anche se la vidi saltellare di nascosto a tempo con l’arpeggio metal. Axl giocava con le dita dei piedi e Duff scuoteva la chioma e faceva roteare lo zuccotto sopra la testa a ritmo di musica.
Le rune si facevano sempre più vivide e sporgenti. La pietra nera traboccava di simboli infuocati.
“Spero proprio che funzioni. Incrocio le dita” dissi esaminando i riflessi della clessidra. “Dopo tanto sbatterci e arrivati a questo punto ci terrei ad affrontare i draghi in finale”.
Il sorriso appena accennato ma sincero di Charlotte mi rincuorò come sempre. “Sarò lì a fare il tifo per te” rispose. Gli occhi verdi andarono da me al demone che continuava l’esibizione. Picchiò la piccola clessidra contro la parete, raccogliendo il gruzzolo di sabbia in una mano tra i pezzi di vetri andati in frantumi.
La cinsi alla vita come faceva Saul con Megan poggiando il mento sulla sua spalla. Charlotte mi lasciò fare, attenta alla sabbia. “Qualunque cosa accada non allontanarti troppo da me” disse. Poi soffiò…
Soffiò forte e la sabbia volò via, depositandosi sulle pareti
Non accadde nulla per almeno cinque secondi, poi il pavimento iniziò a scuotersi e le rune a brillare ancora più intensamente.
Il demone alzò gli occhi gialli iniettati di sangue. L’arpeggio finì e tutti si risvegliarono dall’incanto, disorientati.
“Che palle” esclamò Duff. “È già finito? Non avevo mai adorato così tanto una chitarra”.
Saul andò a riabbracciare Megan come se niente fosse. Quando tutto il gruppo avvertì le vibrazioni sotto i piedi la villa era stata già scoperchiata da un vortice d’aria. Sopra di noi, il cielo al tramonto.
La pelle del demone si spanse, adattandosi alle ossa e alla massa muscolare che cresceva e cresceva.
“In spalla gli strumenti e via di qui” gridai. “Fuori!”
Charlotte mi era rimasta vicino. Ci aiutammo a vicenda a salire le scale, cercando di non farci portare via dai mobili e dai pezzi di villa che roteavano da tutte le parti.
Il mostro rosso era diventato cinque volte più grande di prima, ma anche più lento e più goffo. Preso dall’ira, sputando cascate di bava nera, afferrò una parte del tetto rimasto in piedi e lo scaraventò lontano verso il lago. Una colonna
d’acqua si alzò in aria; tegole e travi di legno finirono sommerse in breve tempo.
Nonno Mortimer stava risalendo in quel momento la collina. Cercò subito la nipote. “Charlotte, Charlotte!” gridava.
Mano nella mano corremmo verso l’ex assassino, allontanandoci dalla villa che stava crollando a pezzi. Dalla saletta avevo recuperato solo le bacchette e uno dei piatti.
Lontani a sufficienza dai detriti che continuavano a volare a destra e a sinistra, vidi Saul e Megan correre a fatica verso il bosco, oltre il furgoncino. Duff trascinava Axl, vittima del persistente ritorno alla fanciullezza. Erano sulla soglia di B. House e lottavano contro la furia roboante creata dall’effetto della sabbia Cogli Spiriti.
Il demone aveva perso la parola e grugniva soltanto. Le dimensioni del cervello non erano direttamente proporzionali alle dimensioni stratosferiche del corpo. Le spalle potevano coprire il sole e la testa era grande quanto metà della villa andata distrutta.
Della vecchia dimora rimanevano le fondamenta solide e montagne di detriti sparse sul prato. Non avrei voluto notare, invece, la coppia di cadaveri finiti su un albero assieme al divano. Rimasero lì a penzolare, sgocciolando… Marmellata.
“Convito, ragazzo?” si intromise il vecchio Mortimer con il naso all’insù. “Sono esattamente ciò che pensi”.
Un’altra manata del demone colpì l’albero e tutto ciò che era rimasto incastrato tra i rami. Il divanetto volò in aria. Su, su… E cadde di fronte a me, con la coppia di coniugi stretti per mano.
TRACK! La testa di entrambi andò in pezzi. Il cranio era ripieno di pezze aggrovigliate. Non ebbi modo di commentare perché il demone sradicò dalle fondamenta e dai detriti accatastati rovinosamente la sua chitarra.
“Oh porcaccia la vacca” urlò Duff dall’altra parte del prato. Anche B. House era diventata enorme! Faceva ombra su tutto il bosco.
Il demone emise un suono profondo, serrando la mascella e facendo stridere i denti. Alzò lo strumento in aria e, usando l’unghione dell’indice bitorzoluto, riprese l’arpeggio metal.
Le fondamenta saltarono in aria alla prima pennata. Cercammo subito riparo dalla pioggia di rifiuti. Dal cratere della villa ne emerse come una pietra tombale, superando in altezza gli alberi del bosco, l’amplificatore nero.
“Merdaaaaaaaaa!”
Venimmo spazzati via dalla ventata di potenza sviluppata dal cono dell’amplificatore. Duff e Axl mi arono davanti sventolando le braccia e le gambe nel disperato tentativo di aggrapparsi a qualcosa. Volarono dritti nel lago.
Mentre io, Charlotte e suo nonno avevamo trovato appiglio alle radici di un albero, Saul e Megan sfruttarono il furgoncino come copertura, rimasto inchiodato lì dove lo avevamo parcheggiato, nel vialetto di B. House.
Più potente di un muro di centomila amplificatori collegati in serie, il suono della chitarra gigante ci avrebbe presto ridotti in polvere. La creatura era fuori controllo.
“Dobbiamo suonare” urlai per farmi sentire. Le raffiche di vento ed energia si facevano via via sempre più insistenti. “Attaccarlo. Ma ho solo le bacchette e questo piatto. Gli altri sono messi anche peggio. Duff non mi ha ascoltato, non ha nemmeno il basso con sé, accidenti”.
Charlotte si teneva forte alla radice. Urlò anche lei per farsi sentire. “Nel furgone ci sono i vostri vecchi strumenti” disse.
La copertura di Saul e Megan sarebbe potuta volare via da un momento all’altro con tutti gli strumenti… E arrivederci e grazie!
“Ho un’altra idea” dissi. “Forse non ci sarà nemmeno bisogno di suonare. Se il demone è senza poteri si tratta solo di metterlo al tappeto, giusto?”
I dubbi di Charlotte non mi fermarono. “Più o meno, sì. Che hai in mente?”
“Abbatterlo” urlai mentre un Power Chords mi investiva in pieno. Strinsi le dita alla radice con tutta la forza che avevo. Mi sollevai dai piedi, sventolando come
una bandiera, ma riuscii a non volare via. “Prima però dobbiamo recuperare gli altri”.
“Ragazzo, inizia ad accendere il furgone”. Nonno Mortimer alzò la voce fino a diventare tutto rosso. “Non resisteremo ancora per molto. Vai, io e la mia nipotina andiamo a ripescare gli altri due nel lago. Ecco!” Mortimer mi lanciò le chiavi e le presi al volo.
Non volevo allontanarmi da Charlotte, glielo avevo promesso. Non volevo!
Ma il vecchio la tirò per la mano, allontanandola dall’albero e da me. Scesero la collina e sparirono tra il verde e i riflessi accecanti dell’acqua.
Il demone aveva momentaneamente smesso di suonare, così presi coraggio e iniziai a correre verso Saul e Megan, rimasti nascosti dietro il furgone.
L’ombra della chitarra oscurò il prato proprio nel punto in cui mi trovavo. Puntando i talloni all’indietro mi fermai appena in tempo: la parte bombata dell’enorme strumento colpì e affondò nel terreno, sollevando zolle di erba e terriccio.
“BREEEEFHH!” sbraitò il demone, lanciando uno spruzzo di bava nera che andò a insozzare il tettuccio del furgone. Uno schizzo colò anche sulla testa di Megan.
“Ma che schifooo! Picciii! Dovrò rifare la tintura”.
“Giù!” Saul la spostò di peso togliendola dalla traiettoria della seconda nerbata di chitarra. Scivolai vicino il parafanghi anteriore per cercare riparo e Megan cadde tra le mie braccia con perfetto tempismo.
“Ragazzi, ce ne andiamo… Lo attiriamo nel bosco”. Avevo il fiatone e a stento riuscii a mettere insieme due parole. Lo scatto mi aveva fiaccato.
“È un piano, bello? Quello gli alberi li piega con un calcio”.
“Non se lo incastriamo nel fitto del bosco. Tu cosa faresti? Siamo disarmati. Gli strumenti non hanno più poteri e i nostri sono pezzi da bruciare. Forza, salite!”
La chitarrona cadeva pesante sul terreno. THUMB, THUMB! E ancora, THUMB!
Decine di piccoli crateri avevano smantellato quasi tutto il prato che circondava B. House.
“Forza, bello, forza!”
Avevo inserito le chiavi nel quadro. Il motore si accese e ingranai la frizione e subito la retro.
“Dove vai?” strillò Megan frastornata. Del gruppo, e nonostante l’esperienza del Torneo, era quella che stava subendo quell’esperienza nel peggior modo possibile.
“Via da qui” risposi mentre facevo manovra ed evitavo di finire sotto i colpi della chitarra più grande del mondo. “Saul, dobbiamo recuperare Duff e gli altri. Apri il portellone”.
“Subito, bello. Spero che funzioni. Cioè, mi fido di te, bello. Da quando hai sbroccato con tua madre sei diventato più cazzuto”.
Il demone scagliò la chitarra in direzione della scia presa dal furgone. Ci mancò di poco. Al volante riscoprii la lucidità e i riflessi pronti. Non era come le corse automobilistiche giocate comodamente sul divano, ma l’esercizio col joypad non era stato tempo perso. Ma in quel momento pensavo solo a uscire vivo da quella situazione e a Charlotte.
Dallo specchietto retrovisore vidi nonno Mortimer risalire la collina. Portava sotto braccio Duff. Frenai inchiodando, il furgone slittò appena.
“Charlotte, dov’è?”
Dove sei! Dove sei, Charlotte?
“Eccola, bello. È con Axl”.
Dallo specchietto laterale sinistro vidi la sagoma minuta di Charlotte che faticava a trasportare Axl.
Il demone si era portato al di fuori dei confini della villa. Gli occhi gialli cercarono la chitarra, incastrata in una spaccatura del terreno dopo che l’aveva lanciata a mo’ di ascia.
“Stava per affogarmi” disse Axl entrando nel furgone. Il bagno in acqua l’aveva finalmente strappato alla fanciullezza indotta.
“Perché sei un fumato del cazzo” rispose Duff tutto bagnato. Sputò acqua e fango.
“Vai, ragazzo. Portaci via” esclamò nonno Mortimer mentre ingranavo la prima. Gli enormi arti inferiori del demone, nodosi e pelosi, coprivano la visuale sul bosco.
Le ruote posteriori si piantarono nel terreno smosso ma il motore risistemato da Charlotte spinse il veicolo fuori dalla buca.
In un pop-corn movie il guidatore del furgone avrebbe provato a sgusciare tra le gambe del demone, e nello stessa scena a schivare una manata che avrebbe fatto sbandare il veicolo. Girai al largo, invece, sfruttando a nostro vantaggio la goffaggine di quel gigante rosso senza cervello. Il bosco era più vicino.
Seconda e terza marcia, l’acceleratore a tavoletta. Il demone non era veloce
come la volante della polizia, ma gli bastò mezzo o per starci dietro e tentare di affondare gli artigli nelle lamiere.
“Giuro che non ti chiamerò mai più pallemosce” gridò Duff strizzando l’acqua dai vestiti.
“L’avevi già promesso una volta, ma non hai mantenuto la parola”. Non fui io a rispondere ma Charlotte. Duff, imbarazzato (imbarazzato!), non emise un fiato.
Sterzai bruscamente per non finire in uno dei crateri sul prato. Il furgone restò in equilibrio su due ruote poi ritornò all’assetto normale, addentrandosi finalmente nel bosco.
Le unghie nere e affilate del nostro inseguitore strapparono via rami e fogli dalla chioma degli alberi. Alcune zampate erano più forti e più precise di altre. Guidare nel bosco divenne subito un problema. Non avevo considerato la difficoltà di guidare e scansare massi, radici, tronchi d’albero e rovi. Ostacoli dappertutto!
“Mi spiegate cos’è successo? E chi sono questi?” chiese Axl, riferendosi ovviamente a Charlotte, a suo nonno e a Megan. “Dove sono gli strumenti rubati a Antony? E soprattutto… Cos’è quelle cosa che ci insegue?!”
Nello specchietto retrovisore vidi le ginocchia del demone e gli artigli che si muovevano selvaggi, ma anche l’espressione di Duff che cercava di dare una spiegazione. “Merda. Ma non ricordi proprio un cazzo?” chiese incredulo.
“Ricordo sì” rispose Axl risoluto, “siamo dei ladri di strumenti e la polizia ci sta cercando!”
Duff si stampò in fronte una mano per disperazione
“È la nostra cantante, bello” rispose Saul. “Piccola, Axl. Axl, picc… Megan, cioè”.
“La tua ragazza?” fece Axl tutt’altro che contento di fare conoscenza con la vocalist. “Mi state dicendo che ha preso il mio posto?”
I i pesanti del demone erano prossimi a destabilizzare il retro del furgone. Non potevo permetterglielo; se ci avesse trascinati dentro qualche fosso sarebbe stata la fine. Innestai la terza e la quarta e alzai il piede dal freno.
“Dove hai imparato a guidare così, ragazzo? Sei un fenomeno”.
I complimenti di nonno Mortimer pomparono altra adrenalina, il cuore era un tutt’uno con il motore e le vibrazioni della corsa. Figo, eh?
Avevo in mano la situazione, tutto dipendeva da me. Ero padrone dello sterrato. Una sensazione fortissima, simile solo a quella provata sul palco nel corso della prima battle rock.
Ora eravamo nel fitto del bosco. Gli alberi e i rovi si facevano sempre più
intricati. La luce crepuscolare filtrava appena tra le foglie e il demone non aveva intenzione di mollare.
“Quando usciremo da qui? Mi sta venendo il mal d’auto. Amore, hai qualcosa per lo stomaco?”
Presi in pieno un masso, il furgone sobbalzò paurosamente. Non sapendo cosa fare, a Saul non restava che abbracciare ancora più forte Megan, tranquillizzandola. Diedi una breve occhiata al retrovisore: Axl, infastidito, si era appiattito su un lato dell’abitacolo e iniziò a darmi indicazioni sulla posizione del demone.
Finalmente stavo riuscendo a distanziare la creatura impazzita.
“Il tuo ragazzo ci ha tirato fuori da guai” sentii dire da nonno Mortimer. Puntuale, la sfiga ci investì esattamente in quel momento.
In pratica non feci in tempo a bloccare il furgone, le quattro ruote slittarono e ci staccammo da terra, volando per una decina di metri.
Un salto nel vuoto.
La scarpata era nascosta da rovi e sterpaglia e noi ci eravamo finiti dritti dritti dentro!
“AAAAAAAAHHHH… iuuuuutooooo!”
CRASH! SPLASH! TRACK!
Atterrammo in una palude, affondando in poco tempo in una pozza piena di melma nera. Quella robaccia era già arrivata ai finestrini.
“Usciamo, svelti” urlai. “Charlotte!”
Era già troppo tardi. Vidi tutto nero, perdendo contatto con la realtà.
“Sono qui… non riesco a… Matt…”
La melma scura era già penetrata nell’abitacolo. Charlotte stava per finire affogata, incastrata tra il sedile e la lamiera.
“Charlotte!”
“Matt…”
Slacciai la cintura e mi aggrappai ai sedili per raggiungerla. Suo nonno era stato sbalzato fuori per l’impatto, aveva cercato di aiutarla ma era lontano, ricoperto di melma al centro della palude. Agitava le braccia per districarsi.
“Aiuto, qualcuno mi aiuti!” gridava, ma non volevo sentire.
“Nonno… salva il nonno…”
Charlotte aveva perso gli occhiali. Anche lei agitava le mani, muoveva la testa… ma quei movimenti si facevano sempre più lenti, inefficaci, inutili.
L’agguantai da sotto le braccia, ma continuava a scivolarmi e a sprofondare insieme al furgone. “Aiutatemi… aiutatemi a tirarla fuori!” gridavo, e continuai a farlo finché fu possibile.
La melma saliva di livello, il furgone ne era pieno. Mi guardai attorno ma non c’era nessuno. “Aiuto!” urlai per l’ultima volta. Charlotte aveva chiuso gli occhi.
Un paio di mani e di braccia si aggiunsero alle mie. La robaccia nera mi bagnava le labbra. Aveva il sapore amaro della morte.
L’altro paio di mani afferrò la testa di Charlotte. “Ci sono, Matt. Ti aiuto”.
Sporco di melma e con i capelli appiccicati sul viso, Duff riuscii a tenere Charlotte in modo che continuasse a respirare.
“È incastrata, Duff… non ce la faccio… non si muove più, è…”
Lo schiaffo di Duff mi fece lacrimare. “Smettila e cerca di restare lucido. Salviamola insieme”.
Senza il suo aiuto, sarò retorico, non ce l’avrei mai fatta. Le lacrime finirono per bagnarmi la bocca, mischiandosi inevitabilmente all’impasto nero e viscido.
Tirai Charlotte ancora una volta, forte, mentre Duff continuava a tenerle ferma la testa con una mano e con l’altra ad aprire il portellone del furgone.
Il corpicino della mia ragazza si mosse dall’incastro e tutti e tre scivolammo lentamente fuori da quella tomba salmastra. Le ultime forze servirono a evitare di essere risucchiati dal furgone che si inabissava e scompariva.
Una volta fuori, vidi gli altri in salvo sulla terra ferma. Nonno Mortimer, ferito ma vivo, si gettò per soccorrerci, sprofondando nella melma fino alla vita, gli occhi spalancati e la pelle bianca.
“È viva, Morty” lo assicurò Duff. “Togliti di mezzo, lasciaci are”.
Io e il mio amico depositammo Charlotte vicino a un masso, all’asciutto.
In un pop-corn movie ci sarebbe stata la sbrodolosa scena della respirazione artificiale, il bocca a bocca tra ragazzo e ragazza. In un bestseller letterario la descrizione del salvataggio sarebbe finita con minuziosi racconti del primo bacio tra lui e lei.
Charlotte sputò nero e riprese a respirare. Il pianto arrivò spontaneo, dirompente, nel silenzio della palude; fino a quando una marea di rami e rovi caddero giù dalla scarpata. Le grida del demone si spensero solo quando la creatura finì inzaccherata nella melma a faccia in giù. Lì rimase a galleggiare per qualche minuto. Poi il corpo iniziò a restringersi, la pelle a schiarire, diventando man mano di un rosa sempre più chiaro. Le braccia grandi come alberi si ritrassero, le gambe nodose andarono ad adattarsi al resto del corpo.
Un uomo con i capelli bianchi aveva preso il posto del demone. Il sortilegio era rotto, e gli anni e il tempo si accanirono di colpo su ciò che rimaneva del suo corpo, invecchiandolo all’istante.
Lo osservammo a lungo e in silenzio, impietriti.
Non vedemmo mai il suo vero volto. Affondò e sparì per sempre nella palude.
Il mio cuore è infranto
Ogni cosa è andata persa
Ma continuo a sorridere.
Bonus Track
Al Mr Brown
C’è qualcuno che crede
Che sia tutto oro quel che luccica.
I primi versi della nostra vittoria.
A questo punto vi chiederete cosa ne è stato della battle rock contro i Vichinghi, del brano inedito da suonare in finale, di come siamo usciti dalla palude e degli strumenti rimasti senza alcun potere con le anime sigillate per sempre. Salto subito alle conclusioni senza perdere tempo.
Tre giorni dopo la finale ci ritrovammo al Mr Brown per festeggiare ufficialmente la vittoria. Il locale era strapieno e tutti ci aspettavano. La storia della nostra prima partecipazione alla leggendaria competizione per rocker finì come una favola, già.
Non ci credete? Qualcuno ne dubitava? Io penso che ve l’aspettavate. D’altra parte, dopo tutti i casini ati dalla sera del furto, meritavamo un po’ di fortuna, no? Chi era convinto di leggere un responso diverso, che arrivassimo secondi o peggio? Dalla storia col demone avevamo imparato tanto, e come poteva farci paura un branco di draghi cavalcati da guerrieri armati di strumenti a martello?
Detta così può sembrare un’impresa titanica, ma posso assicurare che né io né nessun altro dei DRC avevamo abbassato gli occhi davanti al nemico, in finale, sul palco. Eravamo troppo carichi per fallire. Contro gli Splash Inc poteva essere stata pure fortuna, d’accordo, ma battere sei umanoidi, rischiare di morire schiacciati da un demone e uscire vivi dai fumi e dalla melma di una palude era un’impresa per pochi. Prove vitali con difficoltà crescente, come nei giochi di ruolo. È chiaro che sconfiggere i Vichinghi non fu una eggiata, e tante grazie.
Duff si procurò una cicatrice alla spalla lunga quanto la spina dorsale, “come un morso di uno squalo” aveva detto a fine gara, mostrando il taglio come un vessillo di guerra. Saul aveva perso la sua chitarra: per evitare di perdere entrambe le braccia l’aveva scagliata contro uno dei draghi e… be', fate voi.
Megan aveva ceduto il posto ad Axl per la finale. A metà gara era riuscito a mandare in protezione gli amplificatori dei Vichinghi con uno dei suoi acuti, anche grazie al buon uso del microfono modificato da Charlotte, premiata meritatamente dalla giuria come miglior modificatrice del Torneo.
Per lei fu una vittoria tanto schiacciante quanto inaspettata. Come noi non era mai stata sotto gli occhi dei riflettori, e soprattutto non aveva mai partecipato a una competizione in cui era necessario esibire i propri progetti di laboratorio. Imbarazzatissima, l’accompagnai a bordo arena per la consegna di una targa di riconoscimento. Mi stringeva forte la mano. Alla fatidica domanda dello speaker (“un commento per questa vittoria?”) aveva risposto appena con un 'grazie'. Fu abbastanza. Gli strumenti avevano battuto la concorrenza di Modificatori più esperti e premiati per l’originalità, nonché per la resistenza, dato che ancora oggi, superate ben tre battle rock, continuiamo a usarli.
La palude fu la tomba del demone e il capolinea della nostra avventura a B.
House. Quando Charlotte si fu ripresa iniziammo a scalare la scarpata, arrampicandoci tra i rovi. Alla villa ci ritornammo solo per seppellire quel che restava degli strumenti, così, in segno di rispetto nei confronti di quei musicisti sacrificati.
A casa arrivammo intorno le tre del mattino. Dormii da Charlotte, sistemandomi in un angolo di laboratorio. Il giorno dopo tornai a casa mia per scoprire che era ancora vuota.
La serata al Mr Brown fu un successo. Si trattava del nostro debutto in un locale, un altro sogno che si avverava. Valeva quanto il palcoscenico del Rock Guerrieri, credetemi, sia per me che per i miei amici.
“Come va con l’accordatura?” chiesi a Saul mentre ci preparavamo. Con i soldi risparmiati della paghetta, Megan aveva comprato una nuova chitarra al suo fidanzato.
“La piccola è pronta, bello. Quando vuoi!”
Il pubblicò urlò. Anche Duff mi diede l’ok, tirandosi sugli occhi lo zuccotto. Charlotte era alla console, poco distante dalla batteria. Mi mostrò i pollici per segnalarmi di iniziare. Feci schioccare le vecchie bacchette.
ONE… FOUR!
Le grida dei fan e la nostra canzone riportarono alla vita le emozioni provate
nella saletta. Senza avere a che fare con i pezzi di anime incantate mi sentii il migliore. Eravamo i DRC e basta, guerrieri entrati nella leggenda della musica.
Le note ci porteranno alla ragione
E albeggerà un nuovo giorno
Per coloro che aspettavano da lungo tempo
Cantava la voce graffiante di Axl, saltellando sul palchetto al centro del locale. Lo vidi ridere incredulo in certi momenti: sperai che fosse per l’allegria che ci trasmetteva il pubblico e non per qualche canna fumata prima o per l’alcol.
Ma c’era spazio anche per Megan. Ormai accettata come nuovo membro del gruppo duettava con Axl, sottolineando il ritornello con dei controcanti potentissimi, e se le grida dei ragazzi attorno al palchetto erano così forti era dovuto anche alla sua presenza. Mi secca ammetterlo, ma se avevamo acchiappato il consenso del pubblico era anche grazie alle scollature e alle mini di Megan.
Alla fine la melodia verrà da te
Per mostrare ai tuoi occhi
La via del Paradiso
La nostra canzone, il brano inedito della finale! Suonarla per la seconda volta senza doversi preoccupare di rimanere uccisi da un momento all’altro fu appagante. La cosa più semplice e naturale del mondo.
L’assolo finale di Saul non può essere descritto senza rendergli giustizia. Spostò la chitarra in verticale, poggiando un lato su una gamba. Suonò emozioni. Il riff finale fu un tripudio di applausi a scena aperta. “Ti amo!” urlò una voce di donna in mezzo alla folla. A Megan non piacque.
Io picchiavo come un dannato, liberando tutta la gioia. Roteai la bacchetta tra le dita, lanciandola in aria e riprendendola al volo. Nella folla i volti dei fan di Antony erano come fantasmi. Masticavano amaro, forse meditando vendetta. Alzai il medio, mostrandolo fiero nella loro direzione. “Ve lo facciamo nero o a strisce?”
Charlotte non approvò il gesto. Mi guardò di traverso, ma sarei scoppiato se non mi fossi sfogato.
La notte era nostra, conquistata di diritto con il finale della canzone.
Axl cercò di chiudere accompagnando con uno strillo l’ultimo accordo di Saul, ma si vide rubare la scena da Megan, che si mise in mostra con una sexy spaccata, andando poi a baciare Saul con lingua, strusciando il bacino contro la… chitarra di lui.
La canzone finì. Lanciai una bacchetta tra il pubblico. L’acchiappò al volo
qualcuno; una mano si protese più in alto delle altre. Sparì nel caos e non vidi chi era stato il fortunato. Fortunato… ormai me la tiravo come una rockstar!
Rimanemmo sul palchetto per rimettere a posto mentre il locale si svuotava.
“Signora coscia lunga, guarda che dovevo essere io a finire” diceva Axl a Megan.
“Scusa” fece lei, “ma mi sono fatta prendere dal ritmo. Hai visto come mi guardavano tutti?”
“Per forza, sei una…”
“C’è qualcuno che ti cerca, Axl”. Gli indicai due ragazze che, timide ma decise, se lo stavano mangiando con gli occhi. Chi fa rock è uno figo, pure se sei brutto: è una regola d’oro!
E così Axl andò a fare compagnia alle ragazze, mollandoci il lavoro di sbaraccamento del palchetto.
“Quel gesto potevi risparmiartelo” mi ammonì Charlotte mentre rimetteva a posto la console.
“Mi è scappato, scusa” mi giustificai. Spiegai che era stata la musica a imporsi sulle mie capacità cognitive. “Non ce l’ho fatta a trattenermi. E poi, dai, se lo
meritavano”.
“Ti perdono solo perché è andato tutto liscio”.
“Già. La tua canzone è fantastica. Però in finale è stato diverso. Suonarla di nuovo me l’ha fatta apprezzare fino in fondo. Ti tenevo d’occhio quando scrivevi sul taccuino, sai? Avevo capito che si trattava di una canzone”.
“Come?” Charlotte alzò gli occhi da cavi e pulsanti, incuriosita, aspettando la mia risposta.
“Intuito, credo. È un testo profondo. Le cose che scriviamo noi parlano di… di… be’, di frivolezze”.
“Ognuno ci vede quel che vuole. Conta l’interpretazione. Anche il mio testo potrebbe risultare frivolo a qualcuno. L’ho scritto perché significava qualcosa, per me. Magari a te non dirà nulla”.
“Ho appena detto il contrario. Ora l’ho apprezzata. Sei arrabbiata?”
I meccanismi della valigetta scattarono. La console era di nuovo a posto. “Non fare più quel gesto” disse Charlotte, seria. “Non sentirti superiore a nessuno”. Si avvicinò per guardarmi meglio negli occhi. Ci abbracciammo.
“Raga, ce la facciamo una bevuta?” Axl era ritornato. Alle sue spalle, ridendo
complici, le due ragazze lasciavamo il pub.
Al Mr Brown non era rimasto più nessuno. Lasciammo gli strumenti in un angolo e prendemmo posto a un tavolo. Il tintinnio delle bottiglie rotte spazzate sul legno del pavimento era l’unico rumore di sottofondo.
Una ragazza con le occhiaie venne al tavolo per l’ordinazione.
“JD per tutti!” gridò Axl.
“Io non lo voglio” rispose Megan. “Voglio tante fragole e tanta panna. Un frullato frullatissimo!”
Axl la guardò in cagnesco. “C’è qualcun altro che vuole un frullatissimo?”
La ragazza con le occhiaie annotò cinque JD e un frullato e mentre aspettavamo i bicchieri rinnovammo i complimenti a Charlotte per il lavoro di modifica e per la canzone.
“Ehi, Matty. Ma quella là non è tua madre?” chiese a un tratto Duff. Mi voltai verso il bancone.
Riconoscibile anche di spalle, mia madre si stava scolando una bottiglia di whiskey seduta al bancone, spalle incurvate e fumo di sigaretta che aleggiava intorno alla testa. Rimasi al mio posto. Andare al bancone per dirle cosa? “Ciao,
mamma. Come stai? Sai che presto firmeremo un contratto discografico a sei zeri?”
Ma prima di voltarmi e continuare la chiacchierata con i miei amici vidi che dalla borsetta di mia madre spuntava la mia bacchetta.
Entrarono a lunghi i, picchiettando il pavimento con i tacchi duri delle scarpe eleganti. Il JD che tracannavamo ci andò di traverso. Gli uomini in nero cercavano proprio noi; si avvicinarono al tavolo di corsa non appena ci videro, un uomo e una donna sui quaranta di bella presenza.
“Buongiorno” esordì la donna che stringeva una valigetta in tinta con l’abito scuro. “Ufficio Pratiche da Rocker del Torneo Rock Guerrieri. Siamo qui per conto della vostra scuola”.
“Che ore sono?” chiese Duff. “Cazzo, è così tardi?”
L’uomo ruotò il polso di scatto e con due dita alzò la manica della giacca. L’orologio d’oro luccicò. “È mattino. Le sei e trentadue minuti esatti”.
“E di preciso cos’è che vuole da noi?”
L’uomo si voltò verso la collega. Le tolse la valigetta dalle mani e l’aprì. “Si tratta del contratto discografico relativo alla vincita del Torneo”.
Ce lo sventolò sotto il naso. Ci osservò un po’ prima di strapparlo in due pezzi. “È annullato”.
“Non è la prima volta che accade” fece la donna, parlando con finto dispiacere. “Ma le regole sono regole”.
Duff picchiò il bicchiere vuoto sul tavolo, scheggiandolo. “Abbiamo vinto quel cazzo di Torneo, che c’è che non va?”
“Tu sei Duff, vero?”
“Sì, da me che volete?”
L’uomo sfilò un altro foglio dalla valigetta. “Questa è la scheda con i voti di fine anno, fresca di stampa. È uscita ieri. Come puoi vedere, Duff, non sei stato ammesso al prossimo anno scolastico”.
“Boc-cia-to” disse la donna scandendo le sillabe.
“Nella maniera più corretta, convengo” rispose il collega.
Duff diede un’occhiata al foglio poi lo gettò sul tavolo vicino al bicchiere scheggiato. “E che cazzo, come se non lo sapevo già! Che c’entra con la vittoria al Rock Guerrieri, voglio sapere?”
L’uomo tossicchiò, irritandomi non poco. “È cosa nota che i regolamenti vanno letti con attenzione. E questo” disse estraendo ancora qualcosa dalla valigetta “è quello del Torneo Rock Guerrieri di quest’anno. E quell’altra cosa cerchiata di rosso” proseguì l’uomo, compiaciuto “è la postilla che vi tira fuori da ogni pratica contrattuale con noi. La casa discografica ha già avviato i contatti con i secondi classificati: anche questo è da regolamento”.
Duff lesse ad alta voce il testo cerchiato di rosso. “Qualora uno o più componenti della band vincitrice non dovessero essere ammessi al nuovo anno scolastico, secondo le norme stabilite nel regolamento del Torneo dei Rock Guerrieri, verrà applicata l’immediata esclusione, l’abbandono e l’annullamento del premio. Di conseguenza, la vincita e il contratto per la produzione e la distribuzione di un album inedito è dichiarata ufficialmente nulla”.
Le mani di Duff tremarono. Appallottolò il foglio e lo infilò in bocca, triturandolo con i denti. I pezzi di carta si mescolarono alla saliva, schizzando dappertutto. Si scagliò contro i dirigenti dell’Ufficio Pratiche da Rocker. L’inseguimento continuò fuori dal locale, in strada, per tutto l’isolato, all’alba di un nuovo giorno.
“Be’, poveri in canna” disse Saul sconsolato, mentre la ragazza con le occhiaie toglieva di mezzo i bicchieri. “Non dici nulla, bello?”
Strinsi Charlotte tra le braccia. “Mi sento responsabile. Avrei dovuto leggere bene il regolamento”.
“Bello, non sarebbe cambiato granché. Duff lo bocciavano lo stesso”.
“Sì, ma non ci saremmo illusi. Un contratto… quando ci ricapiterà?”
“Il titolo di vincitori non ve lo toglie nessuno” disse Charlotte. “Adesso avete un nome. Prima neanche vi conoscevano. Notato quanta gente avete fatto divertire stasera?” Si accoccolò sulla mia spalla.
Mia madre beveva ancora quando ci alzammo dal tavolo. Non si voltò.
“Chi lo va a riprendere?” chiesi sulla soglia del pub indicando Duff che tallonava l’uomo e la donna in strada. A quel punto la stanchezza si fece sentire e l’alcol a divertirsi con il mio sistema nervoso.
“Nemmeno io, bello. Ce ne andiamo a casa”.
“Allora ci si becca”.
“’Notte, belli”.
“Buon riposo, amore. Ci vediamo presto” disse Megan a Charlotte.
“A presto”.
Noi rimanemmo lì, sedendoci per terra vicino la vetrina del Mr Brown, osservando le ombre del mattino allungarsi sul mondo.
Ora vi chiederete se è qui che ci siamo baciati per la prima volta. Se abbiamo pomiciato? Scusateci, ma è una cosa che rimarrà tra me e Charlotte.
Da disprezzati strimpellatori del tempo libero eravamo diventati finalmente un gruppo. Senza più la possibilità di registrare un album io la strada non la vedevo spianata. A ogni modo, lì fuori con Charlotte, apprezzai appieno la gloria che ci eravamo guadagnati soffrendo e rischiando l’osso del collo.
“Non vedo l’ora che i nostri nomi finiscano incisi sul Rock Rocket” dissi, e ci allontanammo dal Mr Brown.
ShhhhZzzzzzzzzz…
ShhhhZzzz…
Ghost Track
Hugo & Helly
“I vincitori del Torneo? Io sono Hugo, e lei è mia sorella Helly. Piacere di fare la vostra conoscenza”.
Due ragazzi in uniforme collegiale si presentarono pochi metri dopo, sbucando dal retro del locale. Lui portava una bombetta nera e un bastone da eggio, lei calze al ginocchio sotto una gonna scozzese.
“Abbiamo ascoltato la vostra canzone” disse Hugo, mentre la sorella rimaneva in rigido silenzio al suo fianco, lo sguardo vacuo. “E abbiamo saputo del contratto. Un vero peccato”.
“Cosa volete?” chiesi confuso.
“Naturalmente offrirvi la possibilità di continuare a cavalcare l’onda del successo! Troppi artisti si perdono perché non vengono valorizzati. Noi possiamo darvi una mano, siamo le persone giuste” disse Hugo gingillandosi col bastone. “Il Rock & Rock College aspetta solo voi”.
Click: STOP -
Ringraziamenti
Scrivo quanto segue ascoltando per l’ennesima volta Stairway to Heaven dei Led Zeppelin. Proprio non potevo scegliere un’altra canzone!
Strano arrivare a questo punto. Non me lo aspettavo, eppure eccomi qui. Non sono tantissime le persone che mi sento di ringraziare. Inizio dalla più importante, senza nulla togliere agli altri.
Non ringrazierò mai abbastanza Pia, e lei non capirà mai quanto sia importante per me; è diventata una specie di oracolo. Beninteso, non dipendo da lei, ma dei suoi consigli, dei giudizi schietti e preziosi e degli incoraggiamenti, sempre costanti, non posso farne a meno. DRC non sarebbe lo stesso senza il suo lavoro dietro le quinte. Sinceramente grazie di tutto cuore.
Ringrazio Pierdomenico Baccalario e Mario Pasqualotto. La mia storia ha preso il volo anche grazie il loro aiuto. Era il 2010 quando li ho incontrati per la prima volta in occasione del Lucca Comics & Games. Pier e Mario hanno dato un tocco professionale al progetto.
Ringrazio Fantasy Magazine, la mia culla, che mi ha permesso e mi permette ancora oggi di raggiungere piccoli grandi obbiettivi. Della redazione ringrazio in particolar modo Emanuele Manco e Marina Lenti, figure professionali e amici veri.
Grazie a sco Falconi, esperto consigliere e prolifico romanziere.
Grazie a chi mi ha ispirato, nel bene e nel male.
Grazie a Plesio Editore, a Giordana. Per l’occasione che mi è stata donata, per la professionalità e la ione espressa nei confronti di opere così complesse e delicate quali sono i libri.
Grazie ai miei genitori. Chissà cosa penseranno della storia di un demone preda di sbalzi ormonali, di un vecchietto affetto d’amnesia che gioca a fare il killer e di tutte le parolacce di Duff. Grazie Papà e Mamma, per avermi incoraggiato fin da bambino a leggere e a realizzare intorno a me il mio universo perfetto.
Marco Guadalupi
Il pensiero dell’editore
Quando DRC è giunto in redazione ho subito capito che si trattava di un testo curato, ragionato, architettato egregiamente come raramente capita agli scrittori emergenti.
Questo pensiero dell’editore non si concluderà come i precedenti con una citazione, ma con l’augurio a Marco di mantenere intatto il suo potenziale innovativo, riuscendo sempre a incanalarlo così magistralmente, senza che la sua forza venga deviata o, peggio ancora, dispersa.
Giordana Gradara
Questo romanzo è un’opera di fantasia.
Nomi, personaggi, luoghi o avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore, o comunque usati esclusivamente in chiave fittizia. Qualsiasi rassomiglianza con fatti, luoghi o persone realmente esistenti è puramente casuale.
© 2013 Plesio Editore
P.IVA: 03966240404
ISBN: 9788898585069
Copertina: © Slava Gerj, licenza da shutterstock.com
Finito di creare nel mese di ottobre 2013 presso Plesio Editore