Questo Nostro Amore Sbagliato z6e2z

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Titolo originale: Draw © 2014 by Cora Brent All Rights Reserved

Published by arrangement with Brower Literary & Management and Donzelli Fietta Literary Agency

Traduzione dall'inglese di Paolo Ippoliti

Prima edizione ebook: febbraio 2019 © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

ISBN 978-88-227-3069-5

www.newtoncompton.com

Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per The Bookmakers Studio editoriale, Roma

Cora Brent

Questo nostro amore sbagliato

Gentry Boys Series

Newton Compton editori

Questo libro è dedicato alla mia indulgentissima famiglia, che ha dovuto sopportare le mie lunghe gite nei mondi che popolano la mia immaginazione. Inoltre, un GRAZIE agli autori straordinari che ho incontrato durante questo viaggio, che sono stati così generosi da dispensare consigli, o e amicizia. Ovviamente, niente di tutto questo sarebbe stato possibile senza di voi, miei lettori. Mi sento onorata dal vostro entusiasmo e dalla vostra ione. Vi voglio bene!

«Sii gentile, perché chiunque incontri sta combattendo una dura battaglia»

Platone

Indice

Capitolo uno. Saylor

Capitolo due. Cord

Capitolo tre. Saylor

Capitolo quattro. Cord

Capitolo cinque. Saylor

Capitolo sei. Cord

Capitolo sette. Saylor

Capitolo otto. Cord

Capitolo nove. Saylor

Capitolo dieci. Cord

Capitolo undici. Saylor

Capitolo dodici. Cord

Capitolo tredici. Saylor

Capitolo quattordici. Cord

Capitolo quindici. Saylor

Capitolo sedici. Cord

Capitolo diciassette. Saylor

Capitolo diciotto. Cord

Capitolo diciannove. Saylor

Capitolo venti. Cord

Capitolo ventuno. Saylor

Capitolo ventidue. Cord

Capitolo ventitré. Saylor

Capitolo ventiquattro. Cord

Capitolo venticinque. Saylor

Capitolo ventisei. Cord

Capitolo ventisette. Saylor

Capitolo ventotto. Cord

Capitolo ventinove. Saylor

Epilogo. Cord

La Playlist di Draw

Capitolo uno Saylor

Non eravamo amici. È questa la prima semplice verità che bisogna prendere in considerazione se si vuole capire qualcosa della ione caotica che è venuta poi. Cord Gentry non era mio amico e di sicuro non occupava un posto nei miei pensieri mentre attraversavo l’immensità plumbea della Valle della Morte a bordo di una Civic moribonda, con la mascella ancora dolente. La notte nel deserto è sovrannaturale, ultraterrena. Mi riempii i polmoni del suo profumo dolce, gongolando all’impatto del vento caldo sulla faccia. Avevo tutti i finestrini spalancati, perché l’aria condizionata si era rotta l’estate successiva al primo anno di liceo all’Oxy. Devin, in uno di quei momenti in cui faceva finta di essere dolce, si era offerto di accollarsi la spesa per farla riparare, ma avevo già imparato a diffidare delle cose che mi offriva. Con cautela, quasi senza pensarci, mi portai la punta delle dita sulla faccia gonfia. Mi aveva beccato proprio dove la mascella destra si curvava. Era gonfia. L’indomani si sarebbe visto il livido. Lo sapevo per certo perché la mia pelle delicata mostrava subito il segno. Lo sapevo anche perché mi era già successo. E ripensarci mi portò a galla un’ondata di rabbia su qualcosa che una volta pensavo fosse amore. Finché non ho capito che si trattava esattamente del contrario. La parte peggiore era rendersi conto di quanto mi fossi presa in giro da sola. All’inizio, Devin non ci andava mai giù troppo pesante. Mi stringeva il polso con un sorrisetto infido finché non mi lamentavo, e solo allora si ritirava, dicendomi con tono innocente che non pensava di avermi fatto male. Ma un finale violento deve pur iniziare da qualche parte. «Guarda cos’hai fatto, brutto stronzo», gli ho detto, indignata, la prima volta che

mi era rimasto il segno della sua mano sul braccio. Devin era sconcertato, o meglio, faceva finta di esserlo. «Oh, tesoro», diceva baciando la ferita per poi spogliarmi lentamente. Aveva imparato in fretta a irretirmi e sotto le sue carezze mi squagliavo, fugando ogni dubbio che poteva essermi sorto. Non c’è niente di sbagliato, mi dicevo. Devin mi amava. Me lo aveva detto. E io avevo sempre provato disprezzo per un certo tipo di donne, quelle che vedevo in giro a Emblem, la mia cittadina natale, quelle che sopportavano una umiliazione dopo l’altra, finché non sembrava che le cose dovessero andare esattamente in quel modo. Ma io non ero come loro. Io sapevo come gestire Devin. Quando è successo di nuovo ha frignato: «Mi dispiace, Saylor», con quell’espressione contrita da ragazzetto, continuando ad abbracciarmi sempre troppo stretta. Poi, dopo che mi aveva schiaffeggiata forte perché non ero d’accordo con quello che pensava lui sui nuovi acquisti delle squadre di baseball, mi sono sentita dire: «Oh, Saylor, ti amo un casino». Ero arrabbiata. Mi tenni la faccia e gli dissi che era una testa di cazzo, mentre provava a insinuarsi di nuovo nelle mie grazie, mormorandomi quelle paroline che, lo sapeva bene, avrebbero sollevato il velo di silenzio che mi era calato addosso. «Saylor», aveva sussurrato, facendomi scorrere le labbra sul collo, fino al punto in cui la sua mano aveva fatto il danno. «Ti amo». Restai infuriata, ma gli permisi lo stesso di mettermi sulle ginocchia e di cavalcarmi a lungo, anche se sapevo che così non sarei mai venuta. Lui era rude e io asciutta, riluttante, ma rimasi lì a sorbirmelo tutto comunque. Mentre Devin rivendicava il mio corpo a furia di grugniti, rimasi a fissare il colore neutro del muro che avevo a due palmi dal naso e a mordermi l’interno della guancia per distrarmi. È stato in quell’esatto momento che ho capito che c’era qualcosa che proprio non andava. Devin Berlin era attraente da morire. Era ricco. Suo padre era uno dei grandi feudatari della Silicon Valley che aveva inventato una delle dorsali della tecnologia che ci portiamo in tasca: schede madri, modem e roba del genere. Non ricordo mai i dettagli. Il ghigno arrogante di Devin mi era piombato

addosso durante una classica giornata assolata californiana, quando gli portai un cappuccino al tavolo dove stava seduto da solo. Era stato un semestre desolante, durante il quale non avevo fatto altro che studiare e lavorare come cameriera. Avevo la bocca secca e provai a non tremare quando vidi che mi sorrideva. «Serve altro?» «Un po’ di compagnia», aveva detto, sorseggiando il cappuccino e tirandosi vicino una sedia, convinto che mi ci sarei fiondata sopra. Devin ava tantissimo tempo a scolpire i dettagli del suo corpo abbronzatissimo. Sapeva di provocare un effetto che dava dipendenza peggio dello zucchero. Lo avevo visto in giro per il campus, gonfio di boria e di muscoli. Ero un po’ disgustata al pensiero di essere diventata quel tipo di donna che si bagna così tanto per uno del genere al punto di fottersene del resto. Ma è cambiato tutto quando mi ha rotto il naso. È successo il giorno di san Valentino. Cristo santo, è così ironico da farmi scompisciare dalle risate; la festa immaginaria dell’amore e del cioccolato, coronata da un colpo secco che mi spacca in due la faccia. Non ricordo nemmeno perché. Avevamo litigato in macchina per una qualche stronzata, quelle per le quali litigano le coppie prima di dimenticarsene per sempre. «Porco cazzo», aveva frignato, mentre mi tenevo la faccia con le mani, agonizzante, sentendo il sangue scivolarmi giù dalle dita. «Saylor, sono un mostro. Non riesco a credere di averti fatto una cosa del genere. Ora ti porto alla stazione di polizia. Devi denunciarmi. Oh, tesoro mio. Merito di finire in galera per quello che ti ho fatto». Ma io avevo scosso la testa, dolente. Se c’era una cosa peggiore della polpetta in cui mi aveva ridotto il naso, era doverlo raccontare in una stanza piena di gente. Inoltre, sapevo benissimo che non aveva alcuna intenzione di farmi sporgere denuncia. «No. Ma farai meglio a non riprovarci di nuovo, Devin. Stavolta dico sul serio». Si era messo a piangere. «Cazzo, no, mai più. Ti amo Saylor. Lo sai che ti amo». La macchina si era fermata al semaforo. Devin si era piegato verso di me e mi aveva infilato la mano sotto la gonna, facendola scivolare tra le gambe. Non

l’avevo fermato. Avevo guardato fuori dal finestrino. Non era ancora buio e nella Impala che avevamo a fianco c’erano quattro uomini che mi guardavano incuriositi la faccia sanguinante. Erano uomini rozzi, coperti di tatuaggi, avevano l’aspetto da stupratori. Mi chiesi se anche loro picchiavano le compagne. Con i soldi di suo padre vivevamo in un condominio di lusso fronte mare e una volta giunti lì, lui era tornato a essere un fidanzatino amorevole. Mi aveva ripulita, mi aveva messo una vestaglia e poi mi aveva fatto sentire quanto ce l’aveva duro. Gliel’avevo permesso, pur maledicendo il mio corpo; gli avevo permesso di farmi sdraiare sul letto e avevo allargato le gambe mentre s’infilava il preservativo. Gli avevo guardato la faccia che si contorceva di smorfie mentre raggiungeva l’orgasmo, senza provare niente. Alla fine, il cuore aveva iniziato a indurirsi. Quando finalmente era uscito, gliene ero stata grata. Il giorno dopo scrutavo seria l’occhio nero, nella luce abbagliante dello specchio del bagno. Guardavo e serravo i pugni. In coppia si litiga sempre. Mi venivano in mente le liti dei miei genitori. Un andirivieni di pugnalate verbali davvero insopportabile da ascoltare. Quando si separarono, non rimasi sorpresa. Ma non c’era il suono dei pugni che percuotevano la carne. Non c’erano i lividi, il giorno dopo. Guardando il riflesso nello specchio mi si dilatarono le pupille dal disgusto. Come diamine avevo potuto permettere che accadesse una cosa del genere e riuscire comunque a guardarmi ogni giorno allo specchio? «Sono caduta dallo skate», spiegavo fingendo una risata sardonica a chiunque me lo chiedesse. «Andavo a palla in un parcheggio dopo quattro shottini di vodka». Poi continuavo a ridere a crepapelle. Il suono di quella risata mi dava la nausea. E chiunque me lo aveva chiesto sorrideva con dubbiosa gentilezza e se ne andava via. La verità era sin troppo umiliante. Mi preoccupavo più di cosa volessero dire sul mio conto quelle ferite, che di cosa dicessero sul conto di Devin. Solo Brayden lo sapeva, mio cugino e il mio migliore amico da una vita, che però viveva a trecento miglia di distanza, in Arizona. Minacciava di continuo di salire in macchina per venire ad affrontare Devin, ma sarebbe stato un disastro di portata nucleare. Devin si allenava ogni giorno per diventare più forte. Brayden, invece, non tirava un pugno da quando era stato atterrato nel cortile della scuola da uno

dei fratelli Gentry. Scongiuravo mio cugino di non venire. «Saylor», mi pregava. Nella sua voce potevo sentire la paura, la rassegnazione, il disgusto. Non potevo biasimarlo. Nessuno era più deluso da Saylor McCann che la stessa Saylor McCann. Feci giurare a Brayden di non parlarne con i miei genitori. Non sapevano nulla. Vivevano ancora le loro vite da separati a Emblem, lavorando alla prigione. «Ti meriti di meglio», mi diceva, riagganciando prima che potessi ribattere. Ma sul serio, non avrei saputo cosa rispondere. Né a Brayden, né a me stessa. “Di meglio” si era rivelato un concetto sin troppo elusivo quando c’erano di mezzo i maschi, a partire da quel sacco di merda che, al liceo, mi aveva riempito di paroline dolci per infilarmisi nelle mutande e prendersi la mia verginità. Aveva un motivo, un motivo peggiore degli ormoni di un sedicenne. Cord Gentry aveva fatto una scommessa. E cosa aveva fatto poi quel figlio di puttana? Se n’era andato in giro a farsi grasse risate al riguardo. Tutte le persone che mi conoscevano da una vita si erano messe in fila per spettegolare. Credo che ognuno abbia da raccontare una storia fondamentale sulla sofferenza adolescenziale – questa era la mia. Sapevo bene chi erano i fratelli Gentry. Tre gemelli nati da una famiglia di depravati. Rozzi, sensuali e selvaggi come lupi. Assieme formavano un potente triumvirato che regnava sui giovani di Emblem. Avevo provato a non comparire tra le ragazze che si facevano ingannare dal loro aspetto strepitoso e da quelle spalle larghe. Finché un giorno, Cord Gentry non si era accorto di me e con un sorrisetto mi aveva fatto cenno col dito di avvicinarmi. Non mi ci era voluto molto a spalancare le gambe e a sdraiarmi sul pavimento di un garage lurido. Due secondi dopo la conclusione mi sentivo già male. Ma poi la situazione era peggiorata. Era venuto fuori che era stato tutto un gioco, una scommessa aperta tra fratelli per vedere chi riuscisse per primo a farsi la McCann. Era stato un brutto momento. C’era solo Brayden vicino a me a armi i fazzoletti, mentre stavamo sdraiati sul pavimento della mia cameretta lilla, ascoltando musica grunge dei primi anni Novanta con fervore religioso. Mio cugino, un ragazzo dolce che al liceo stava affrontando un inferno tutto suo, mi toglieva le doppie punte bagnate di lacrime dai capelli e mi guardava triste. Mi diceva la stessa cosa che mi avrebbe detto sei anni dopo al telefono.

«Meriti di meglio». Quando vidi Devin varcare la porta, capii subito che era ubriaco. Capii anche che aveva di nuovo la violenza in corpo. Dal pugno del giorno di san Valentino, mi girava attorno con i piedi di piombo, ma si capiva che stava solo guadagnando tempo, come un gatto. Di lì a due giorni mi sarei laureata e mi ero messa già alla ricerca di un appartamento. Sarebbe stato bello trovare anche un lavoro. A fare la cameriera non guadagnavo molto e avevo scoperto, con grande sorpresa, che ai datori di lavoro non importava granché di una laureata in lettere con una propensione particolare per la scrittura creativa. Sapevo solo di voler fuggire. E presto, prima che potesse colpirmi di nuovo. Perché lo avrebbe fatto. Di questo ne ero sicura. Quando Devin mi vide seduta sul divano col portatile in braccio, mi sorrise. Mi si fermò il cuore. Oh, lo so che suona trito e io detesto le cose trite, ma un modo di dire più appropriato non esiste. Quando ti trovi faccia a faccia con il pericolo, il cuore si ferma davvero. E poi riprende a battere con furia. «Con chi diavolo stai parlando?», biascicò. Chiusi lo schermo del portatile. «Con nessuno, Dev. Sto scrivendo». Tirò le chiavi sul tavolo per la colazione e allungò la mano. «Dammelo qua». Mi strinsi il portatile al petto. Stavo dicendo la verità. Avevo riscritto tre capitoli del mio romanzo, ma non avevo ancora salvato il lavoro. «No», gli dissi, alzandomi in piedi. Avrei dovuto sentirmi pronta – anche se in maniera inadeguata, ferma lì a piedi scalzi, con un top e dei pantaloncini – mentre Devin Berlin chiamava a raccolta la sua forza flettendo i muscoli. Era ubriaco, lento, ma comunque pericoloso. «Pensi che io non lo sappia», grugnì. «Pensi che non sappia nulla di tutti gli altri cazzi che ti becchi di contorno, dolce Say?». Chiusi gli occhi. Dolce Say. Era il nomignolo che mi aveva dato. Una volta suonava tenero. Ora, però, suonava letale. «Non sono stata con nessun altro da quando ti ho conosciuto. Lo sai questo, Devin. Perché non porti la tua paranoia avvinazzata a letto e te ne vai a dormire,

così domattina ne riparliamo?». La voce faceva a botte con i nervi, nel tentativo di farla suonare normale. Non mi si era rotto soltanto il naso. E mentre osservavo la mente di Devin fare i conti con i miei tradimenti immaginari, capii che le cose sarebbero andate sempre in quel modo. Non c’era nessuna via di uscita. Tranne andarsene. Ed era quello il momento giusto per farlo. Strinsi più forte il portatile e provai a sorridere al mio fidanzato. Non avevo nessuna intenzione di parlare con lui il mattino seguente. Perché non avevo nessuna intenzione di trovarmi lì, il mattino seguente. Fece uno scatto e mi raggiunse con una tale velocità, che non feci nemmeno in tempo a sbattere le ciglia. Potevo sentire l’odore del fumo e del liquore che aveva addosso. Una volta mi faceva eccitare, come mi faceva eccitare quando mi infilava bruscamente la mano tra le gambe dentro le mutande. «Prima raccontami la fiaba della buonanotte», disse, ghignando, infilandomi dentro le dita con gesti gretti e violenti. Non era una richiesta. Schifata, cercai di allontanarmi. Quella cosa non aveva nulla di erotico. Sentire le sue dita muoversi a caso nel mio corpo mi faceva ribrezzo. Ma quando vidi la furia ribollirgli nello sguardo, capii che avevo atteso troppo a lungo. Avrei dovuto andarmene prima. Devin mi strappò il portatile dalle mani. Quando se lo portò sopra la testa e lo sbatté con forza a terra, urlai di riflesso. Atterrò con un suono sordo. Mi scagliai contro di lui, spingendogli il torace con i palmi delle mani. «Stronzo!», urlai. Quando mi colpì con una testata, fu maldestro. Altrimenti sarebbe andata peggio. Ma comunque mi fece male, mi fece perdere l’equilibrio e caddi di faccia sul divano. Devin mi fu immediatamente sopra, un turbine di mani e respiri bollenti mentre mi strappava via i pantaloncini. Lo contrastai con tutte le forze, ma mi tenne ferme le braccia. Gli stava diventando duro. Si spingeva con forza contro il culo. Girai la testa, chiamandolo per nome, nella speranza che potesse udirmi. «Devin, no. Fermati, Devin». «Lurida troia», grugnì, col cazzo che gli diventava sempre più duro, mentre

tentavo invano di scalciarlo via. «A quanti ragazzi l’hai data, dolce Say?». Mi dibattei. Ero disperata. Sentirgli il cazzo che tentava di aprirmi in due mi dava la nausea. «Ti odio! Sei un fottuto bastardo! Ti odio! Vaffanculo!». «Lo so che mi ami. Dimmelo, Say. Cristo, quanto ce l’hai stretta». Urlavo dal profondo della mente. Tutte le volte che aveva abusato di me non si era mai spinto fino a questo punto. Avevo capito qualche tempo prima che per lui il sesso e la violenza formavano un tutt’uno. Ma ero sempre stata consenziente. Forse, se non lo fossi stata, avrebbe compiuto un simile gesto brutale molto tempo prima. Quel pensiero mi innescò una ferocia primitiva, che sembrò attraversarmi le vene come una fiammata improvvisa. Avevo sempre sentito storie su persone che si ritrovavano a vivere delle circostanze estreme e che per qualche istante venivano possedute da una forza sovrumana. Madri di famiglia che rovesciano un suv a mani nude. Uomini anziani che combattono branchi di pitbull inferociti. Mentre ero schiacciata sotto il peso dell’abuso di Devin, sentii che quella cascata di adrenalina si era impossessata anche di me. Feci forza con la testa contro il divano e la scagliai all’indietro con una potenza inaudita. Il retro del mio cranio lo colpì sotto il mento e Devin arretrò, stordito. Gli diedi una gomitata nello stomaco e cadde a terra, col cazzo che penzolava in maniera ridicola. Nuda e profondamente offesa, mi alzai in piedi e con calma sollevai un tavolino rovinato da anni di esposizione alla salsedine. Non ero mai stata una ragazza forte e Devin era grosso il doppio di me. La sua bella faccia venne attraversata da qualcosa di molto simile alla sorpresa quando mi vide alzarlo sopra la mia testa. Non ero più Saylor McCann, originaria di un qualche paesello di merda vicino a una prigione nel deserto. Ero potente. Una dea della vendetta. Gli scagliai addosso il tavolo con la forza di almeno cinque donne. L’impatto del legno sulla sua carne fece il suono più bello del mondo. Quando lo sentii stridere come un maiale al macello, riuscii quasi a sorridere. «Cazzo!», urlò. «Mi hai fratturato il braccio, puttana». Devin annaspava ai miei piedi, ancora ubriaco e col braccio ormai piegato in un’angolazione anomala. Una delle gambe del tavolino si era rotta. La afferrai, tenendola stretta come una mazza da baseball e gustandomi il modo in cui vedendola si ritraeva.

Gli toccai la fronte sudata. «Me ne vado», dissi senza giri di parole. «Se provi a fermarmi, ti rompo qualcos’altro. Qualcosa di più importante». Devin mi guardò, con gli occhi carichi di odio. La rabbia sconclusionata che lo agitava dentro era visibile dietro le sue pupille. Non c’era bisogno che dicesse nulla. Potevo praticamente leggerle, quelle parole. Triste zoccola ti ha detto bene che ti ho scopata per tanto tempo avrei dovuto darti un calcio in culo mesi e mesi fa. Mi sentivo la testa stranamente lucida. Dovevo andarmene di lì. Subito, prima che riuscisse a riprendersi. Con un occhio sul mio ex sdraiato a terra e con l’altro sulla borsa da viaggio che riempivo in fretta, continuavo a tenere in mano la gamba del tavolino, in caso anche a Devin prendesse una botta di adrenalina. Infilai nella borsa un paio di pantaloni di una tuta e una scatola da scarpe che conteneva le cose a cui tenevo di più: un piccolo esercito di pennette usb, nelle quali era salvato tutto quello che avevo scritto dall’età di dieci anni. Volevo sempre caricarle da qualche parte. L’avrei fatto una volta capito dov’era che sarei andata. Feci una breve pausa in soggiorno con la borsa già in spalla. Devin pareva sul punto di riprendersi. Tra le schegge del tavolo rotto, sembrava fare di tutto per sfilarsi il telefono dalla tasca posteriore dei pantaloni. «Devin, sei un fottuto bastardo», gli dissi. «Ti auguro una vita miserabile». Mi faceva stare bene, dirgli una cosa del genere. Mi rivolse uno sguardo incomprensibile. «Addio». Me ne andai. Seduta al volante della mia vecchia Civic, pregai che si accendesse senza dare problemi. Poi con un debole sospiro di sollievo puntai verso est. Volevo lasciarmi l’inferno della California alle spalle. L’intero Stato sembrava composto solo da Devin, sembrava composto interamente dai pensieri più nefasti che fossi mai riuscita a fare sul mio conto. Non ero affatto la donna sicura di sé, la donna di successo che avevo sognato di diventare. Ero solo una ragazza debole, senza alcuna forza di volontà. E peggio. Non avevo ancora imparato di chi potessi fidarmi.

Capitolo due Cord

Io odio i sogni. Mia madre era una di quelle tipe che indossano cristalli e leggono i tarocchi, che interpretano ogni guizzo del subconscio come fosse un messaggio dall’universo. O perlomeno, questo era quello che mi diceva quando non era fatta come una scimmia. Ed era quasi sempre fatta come una scimmia. No, i sogni erano solo avanzi inutili, merda risospinta nel retro del cervello per un buon motivo. Erano l’incubo della fame costante durante l’infanzia. Erano l’agonia di vedere tuo fratello che viene pestato a sangue da un folle dentro il quale scorre il tuo stesso sangue. Erano il sapere che dopo sarebbe toccato a te. I sogni erano il posto che ti rendeva chi eri, il posto che odiavi di più. Erano il caldo e la sporcizia e qualche volta anche il sangue e le urla. Peggio ancora, i sogni erano l’isolamento perché dovevi affrontarli da solo, senza le due persone che erano parte di te dal momento in cui avevi iniziato a esistere. Creed e Chase sapevano bene che, dopo un combattimento, preferivo sempre vagabondare un po’ per conto mio e allora mi lasciavano in pace. Ognuno di noi se la gestiva a modo proprio. Nelle rare occasioni in cui toccava a Creed, si rintanava in un luogo buio a lamentarsi di quel bastardo di nostro padre, bevendo fino allo svenimento. Non gli faceva bene stare in quel posto e comunque funzionava meglio nel ruolo dell’agente, a fare affari e organizzare tutto. La gente lo guardava e ci pensava due volte prima di provare a tirargli un brutto scherzo. Chase era diverso: lui aveva bisogno di tenere il cazzo sotto allenamento, finché non si spremeva le palle per intero o ci pensavano le donne che si portava a letto. Ma quando toccava a me, volevo solo un po’ di ore di tranquillità. «È stato un bel combattimento», disse Creed, dandomi una pacca sulla spalla. «Puoi dirlo forte», risposi, togliendo l’ultima striscia di cerotto dalle nocche e arrotolandola in una pallina appiccicosa. Sulle nocche avevo comunque delle ferite da impatto. L’indomani le avrei sentite indolenzite.

«Tre testoni, fratello», disse Chase, usando le banconote come un ventaglio. Creed glieli strappò di mano con una smorfia. «Ti prendi il pick-up?», chiese Creed, mentre mi allontanavo. «No», risposi, infilandomi una vecchia camicia di flanella con le maniche tagliate. Chase mi prendeva sempre in giro per le cose che raschiavo dai banchi dei negozi di abiti usati. Mi urlò dietro che c’era il 1993 al telefono e che voleva indietro le cose che andavano di moda ai suoi tempi. Rise quando gli mostrai il dito medio. Vivevamo in un complesso residenziale a un miglio di distanza dall’università, un posto che pullulava di studenti. Non entravo in una classe dai tempi in cui avevo sentito suonare l’ultima camla nei corridoi polverosi del liceo. I ragazzi che frequentavano l’università sembravano appartenere a un’altra specie: smilzi, tirati a lucido, brancolanti nel buio nei migliori anni delle loro vite. Gli esami erano finiti e si tenevano feste ovunque. Le due ragazze che si spintonavano a tre metri di distanza erano carine. Sapevo che stavano parlando di me. Sembravano delle tipette costose, però, le figlie ricche di Scottsdale che volevano farsi un giro nei bassifondi. Un’altra volta avrei pure accettato l’offerta dei loro occhi truccati a morte. Bastava guardare quelle gambe lunghe e abbronzate per farselo venire duro. Ma con la testa ancora non ci stavo. Non volevo avere a che fare con nulla di più difficile di me stesso. Arrivai al lato nord del complesso prima di riuscire a trovare un palazzo che non si fosse trasformato per l’occasione nella sede di un qualche party orgiastico. Salendo sul davanzale di una veranda di mattoni scuri, mi arrampicai sul balcone del secondo piano e da lì riuscii a salire sul tetto. Conoscevo un tipo che viveva lì, un ragazzo che sembrava un gufo, proveniente da Emblem. Si chiamava Brayden. La prima volta che lo avevo incrociato, davanti alle cassette delle lettere, avevo sentito tutto il suo disprezzo. Non potevo fare finta di non sapere perché. Ma gli anni che avevamo trascorso nella stessa città di merda sembravano cementare un legame ignoto. Un giorno, in piscina, iniziò a parlarmi e da allora siamo diventati più o meno amici. Quel giorno gli avevo chiesto perché non mi avesse sputato in faccia, perché non se ne fosse andato via. Avrebbe avuto tutte le ragioni. Bray McCann aveva fatto dondolare le sue gambe pallide dal bordo della piscina e aveva guardato con attenzione quello schianto della sua fidanzata che si stava asciugando con un telo.

«Dovremmo avere tutti la possibilità di redimerci, Cord». Poi, con quei suoi occhi verdi, mi aveva rivolto uno sguardo intenso che mi aveva fatto sentire a disagio, perché mi ricordava qualcun altro. «Non credi?». Sì che lo credevo. Creed non aveva voluto restare in Arizona, ma Tempe era a un tiro di schioppo da Emblem. E a Chase interessava solo andare dovunque ci fosse abbondanza di fica. Una cittadella universitaria era il posto perfetto per lui. Per i primi anni ci eravamo a malapena arrangiati, lavorando dove potevamo e trascorrendo le notti a fare festa. Era tutto vivace, vivido, pulito. Era molto diverso da Emblem, che distava solo settanta miglia ma sembrava trovarsi sull’altra faccia della luna. Qui, all’ombra di una delle università più grandi della nazione, non dovevamo essere per forza i fratelli Gentry, con tutta la maledizione che quel cognome sembrava portarsi dietro. Non c’era un uomo della nostra stirpe che, a un certo punto, non fosse andato in malora e a Emblem erano tutti convinti che sarebbe toccato lo stesso anche a noi. E dopo un po’, abbiamo iniziato a fare di tutto per dargli ragione. Non eravamo bravi ragazzi. Eravamo una squadra di bulli, che terrorizzava i suoi coetanei e maltrattava ogni figura autoritaria che provava a interessarsi al caso. E quando siamo cresciuti un po’, siamo diventati l’incubo di ogni padre che avesse una figlia. Ma c’era un mondo di dolore del quale nessuno sapeva nulla. Anche quelli che vivevano nella nostra parte di scarno deserto sarebbero rimasti sorpresi di sapere che, per lenire i morsi della fame, eravamo costretti a dare la caccia agli scoiattoli. Nostro padre, Benton Gentry, era il sacco di merda più puzzolente che avesse mai messo piede su questo pianeta. Nel corso della sua lunga, efferata e atroce vita, la cosa peggiore che ha fatto è stata picchiare a sangue sua moglie incinta, costringendola a un parto prematuro. Sotto i ferri del tavolo operatorio, ha rischiato di morire, portandoci tutti e tre con lei. Le ha continuato a fare male la mascella e non è stata più in grado di avere altri figli, ma forse è stato un bene. Benton avrebbe potuto ucciderci tutti, e spesso ho creduto che lo avrebbe fatto. Anche se non è diventato di certo più gentile, una volta usciti di casa, a un certo punto abbiamo imparato a difenderci. Chase, Creed e io siamo stati sempre circondati da una ciurma variopinta di parenti. Le leggende di famiglia narrano che i Gentry erano arrivati a Emblem negli anni Trenta, un branco di balordi disperati provenienti dall’Oklahoma e diretti a ovest sulle loro carrette sputacchianti, verso la promessa dorata della

California, finché uno di loro non notò sul percorso una vasta rete di canali di irrigazione e credette di essere arrivato nei pressi dell’oceano Pacifico. E così decisero di restare lì. E i loro discendenti furono poco più che gusci vuoti, privi di umanità, sempre ubriachi fradici e completamente inutili. Era meglio tenersi alla larga da loro. Così, quando zio Chrome ci fece visita, ci aggrappammo a lui come a un salvagente. Era stato in prigione per aver fatto a un uomo una delle cose peggiori che si possano fare a un uomo, ma sapeva il fatto suo. Sapeva dove colpire, conosceva i punti più morbidi e cedevoli di un corpo. Instancabile, trascorreva con noi pomeriggi interminabili sotto il sole feroce. Aveva il corpo coperto di cicatrici e non gli piaceva raccontare come se le fosse procurate. È andato a finire male, zio Chrome, spiaccicato sulla strada tre anni fa, quando, ubriaco alla guida della sua moto, ha sfondato un guardrail in autostrada, a poca distanza da Flagstaff. Mi faceva ancora male pensarci. Zio Chrome era uno dei pochi adulti ai quali sembrava importare davvero qualcosa di noi. Dietro la mia schiena, la superficie del tetto era bollente. Tolsi la camicia e mi sdraiai, lasciando che il calore del giorno mi impregnasse la pelle mentre guardavo fisso il cielo. Ero sempre alla ricerca dei Tre Re Magi, le tre stelle più brillanti della costellazione di Orione, anche se erano quasi impossibili da scorgere nel bagliore delle luci della città. Mi davano conforto. Mi facevano pensare ai miei fratelli, alla forza imbattibile che rappresentavamo insieme. Creed aveva ragione; era stato un bel combattimento. Il mio sfidante veniva da una confraternita universitaria, ma era più veloce della media. Stavolta la posta in ballo era più alta. Per noi, rappresentava la differenza tra mangiare bene per qualche mese e dover racimolare monetine spezzandoci la schiena sotto il sole cocente con qualche lavoraccio malpagato. Mi aveva assestato un paio di bei colpi nelle costole. Premetti il dito contro i muscoli che mi coprivano la cassa toracica. Sì, l’indomani li avrei sentiti per bene. Dopo quei colpi, il tipo era indietreggiato. Ci siamo girati intorno per un po’, mentre cercavo di riprendere fiato e calmare il dolore, scrutando e soppesando il mio avversario con più cautela. Il modo in cui continuava a guardare i suoi compagni di confraternita esultanti me la diceva lunga sul suo conto, quasi quanto gli anfibi lisi che aveva ai piedi, che doveva aver raschiato in un qualche negozio di indumenti militari dismessi. Creed aveva già organizzato combattimenti con questa gente. Erano ricchi e arroganti, come quasi tutte le persone che gravitavano intorno a questo sport. E

tutto quello che avevano imparato gli era stato insegnato in un contesto sterile e sicuro. Non sapevano combattere. Ma questo qui era diverso. Anche se ci provava disperatamente, non era uno di loro. La confraternita, probabilmente, lo aveva accolto nei suoi ranghi per questo motivo, per scagliarlo sul ring e vedere quanto valeva. Se avesse fallito, lo avrebbero gettato via come una lisca di pesce. Il combattimento si svolgeva in un capannone abbandonato, sull’altra sponda del fiume Salt, che si trovava vicino a un vecchio panificio che non funzionava più da decenni, anche se in qualche modo l’odore del lievito e dell’impasto inacidito gravava ancora nell’aria. La poca luce visibile proveniva da vecchie lanterne da campeggio. Il solo rumore che si udiva era quello delle urla degli uomini assetati di sangue che avevano scommesso su chi avrebbe vinto. Stimolato dalle grida dei suoi sostenitori, il mio avversario si era fatto spavaldo. Si stava esibendo in uno show di parate e schivate che iniziava davvero a darmi fastidio. Sembrava un ballerino del cazzo. Io non ero un ballerino. Qui si trattava di picchiare l’uomo che avevi davanti. Non c’era un cazzo da ballare. Il sorriso del tipo col dente spezzato era rivolto a me, ma si capiva che non era molto concentrato. Sentivo il fuoco bruciarmi nelle vene, l’impeto pulsante che avrebbe messo fine alla serata. Non avevo bisogno di guardare per sapere che Creed e Chase erano lì. I miei fratelli c’erano sempre. Continuai a muovermi in tondo lentamente, sempre più lentamente. Il tipo pensò che avessi paura e iniziò a insultarmi. «Ne hai avuto abbastanza?». Mi prendeva in giro. Aveva una di quelle facce tirate che ti fanno sembrare uno che è stato appena picchiato. Rimasi in silenzio. «Ehi, ragazzi!», urlò. «Mi sa che questo barboncino deve essere portato un po’ a so. Che ne dite?». Distolse lo sguardo per un istante e quando tornò a concentrarsi, gli occhi vitrei vennero attraversati dal panico, vedendo che mi stavo avvicinando. Lo colpii alla mascella e lo feci vacillare. Sputò un fiotto di saliva insanguinata. Quando si riebbe, mi accorsi che aveva riacquistato la concentrazione. Aveva gli occhi carichi di odio. C’ero io, tra lui e qualsivoglia ricompensa gli avessero promesso quelle merde della sua confraternita. Gabe Hernandez ci fissava dalle retrovie, con la mano sul mento e

un’espressione mite e distratta, come se stesse guardando uno sceneggiato noioso. Era un pezzo grosso, il tipo con cui dover parlare quando le scommesse arrivavano a mille dollari e oltre. Creed mi aveva detto che nei bassifondi di Phoenix si combatteva anche per centinaia di migliaia di dollari. Ma più soldi c’erano in palio e più spietato era il combattimento. Così girava voce. Il mio avversario iniziò a usare anche i calci. Scagliò in aria la gamba sinistra ma riuscii a schivarla arretrando velocemente, non abbastanza, però, da evitare un colpo alla spalla. Girai su me stesso e gli piazzai un fendente nel plesso solare. Indietreggiò, col volto contrito, un grumo di paura e dolore. Ma esortato da tutti quelli che facevano il tifo per lui alle sue spalle, serrò la mascella e si fece forza, pronto a buttarsi di nuovo nella mischia. Ma non fu abbastanza. Schivai il suo attacco con facilità e gli spaccai lo zigomo destro. Avevo le mani gonfie. Guardai i miei fratelli. Annuirono all’unisono. Potevo sentirli come se ne avessi uno per lato che mi parlava nell’orecchio. Finiscilo, Cordero. Con un po’ di rincorsa gli assestai un montante per spedirlo definitivamente a terra. I suoi occhi rotearono verso l’alto e cadde all’indietro. L’idiota che aveva annunciato il combattimento cominciò a contare fino a dieci. Il ragazzo della confraternita non si rialzò e io e i miei fratelli avevamo tremila dollari in più in tasca. Saremmo riusciti a pagarci l’affitto, e non solo, per più di qualche mese. Tesi una mano al mio avversario, ma non la prese. Si alzò in piedi vacillando e qualcuno gli tirò la maglia. Tornò dai suoi compagni, d’improvviso meno amichevoli, carico di vergogna, a capo chino. Mi dispiaceva un po’ per lui. I soldi arono di mano e il posto iniziò a svuotarsi. Mi ritrovai faccia a faccia con Gabe Hernandez che mi rivolse un sorriso spietato. «Voi tre Gentry dovreste prendere in considerazione di are a qualcosa di più serio», disse. Creed rispose: «Ma no. Ci piace mantenere le ossa intatte, capito?». Gabe annuì come se non gliene importasse nulla. «Capisco. Ma se cambiate idea, sapete dove trovarmi».

«Ehi», dissi, «mi dispiace se stasera hai perso qualche spiccio». Gabe sorrise. «Non ho perso. Avevo scommesso su di te. Buonanotte, signori». Quando fu fuori portata, Creed sputò a terra. «Fottuta serpe», disse livoroso, guardando Gabe che si allontanava. «Forse lo è», affermò Chase. «Ma non ci sta mica offrendo un macinino senza paraurti». Creed fece una smorfia. «Pensi che per un’auto nuova valga la pena farsi rompere il collo?». Chase agitò una mano in aria. «Certo che no. Ho un collo meraviglioso». Creed mi rivolse un cenno col capo. «Tu che ne dici?». Alzai le spalle. «Mi piace tenere le mie cose dove si trovano, ma cazzo, sarebbe bello non dover raschiare il fondo, di tanto in tanto. Sarebbe una bella ricompensa». Creed distolse lo sguardo e Chase fece una smorfia. Eravamo tre pezzi dello stesso puzzle, ma nessuno ci avrebbe mai scambiati per sbaglio. Creedence era sempre stato il più grosso dei tre, un uomo serioso, propenso a episodi di solennità schiacciante, con cui era meglio non mettersi nemmeno a discutere. Avevo visto una processione di ragazze pronte a provarci, a penetrare quella nebbia burbera che lo avvolgeva, ma nessuna era mai riuscita veramente a scalfirlo. Penso che di tutti e tre, fosse lui quello rimasto più ferito dagli spaventi e dal terrore che avevamo dovuto subire durante l’infanzia, ma si sarebbe incazzato a morte se glielo avessi detto ad alta voce. Chasyn interpretava sempre il ruolo del playboy sciocco, ma era molto più intelligente di quello che dava a vedere. Quando abitavamo a Emblem, lui era quello che riusciva sempre a superare ogni test che gli capitasse davanti a pieni voti. I professori provavano a costringerlo a frequentare le lezioni più difficili, ma lui si opponeva con forza e faceva un casino, finché non lo lasciavano stare e lo rispedivano al mittente. Quanto a me, ero più o meno a metà tra i due. Appena raggiunta l’età sufficiente a lasciare Emblem senza avere la polizia alle calcagna, non avemmo dubbi che

avremmo dovuto farlo insieme. Eravamo sempre stati insieme. Gli eventi della serata continuarono a farmi replay nella testa a casaccio, mentre stavo sdraiato su quel tetto. Quando rimasi a fissare i Tre Re Magi, le stelle della Cinta di Orione, quelle palle di fuoco distanti si annebbiarono in un tutt’uno al mio sguardo, fino a sembrare un’unica linea indistinta. Se il giorno in cui Benton Gentry aveva aggredito sua moglie incinta fossi nato solo io, dubito che sarei riuscito a sopravvivere così a lungo. Le stelle ruotarono di qualche centimetro lungo la volta oscura del cielo. La furia inquieta che a tratti ancora sembrava volermi divorare parve acquietarsi.

Capitolo tre Saylor

Mentre mi immettevo nella I-10, l’arteria vitale che tagliava in due il continente, sapevo benissimo dove stavo andando. Presi il telefono dalla borsa e composi il numero di mio cugino. «Brayden», dissi con voce strozzata, odiando il suono che faceva quand’ero sotto stress. «Ce l’ho fatta, l’ho lasciato. L’ho… Cristo santo, l’ho ridotto male. Sono quasi le dieci. Senti, ho davvero bisogno di parlarti. La scuola è finita. Tra me e Devin è finita. La California è una merda. Non posso più restare qui. Bray, preferirei bere un fiasco di acido muriatico che dover affrontare le solite facce giù a Emblem. Perciò sto venendo da te. Richiamami, Brayden. Ti prego, richiamami». Mentre mettevo giù il telefono, mi scivolò fuori dalle labbra un’imprecazione. Brayden non rispondeva mai al telefono, non riusciva proprio a stargli dietro. Non avevo idea se avrebbe ricevuto quel messaggio. La California del Sud mi scorreva al fianco. Le rivolsi un addio amaro. Per quanto ne sapevo, mio padre aveva in programma di raggiungermi in macchina da lì a due giorni per assistere alla consegna della mia laurea. Qualcuno avrebbe dovuto dirgli che non sarebbe stato necessario farlo, a meno che non volesse restarsene seduto lì, mentre tutti i figli degli altri andavano sul podio a prendersi quel pezzo di carta. La cerimonia non contava nulla. Era solo un pretesto per scattare qualche foto da fighetti. Era il culmine di un lungo viaggio che per molti dei coinvolti sarebbe finito in una montagna di debiti schiacciante e di speranze deluse. Continuai a ripetermelo. Mio padre sarebbe stato di certo lieto di sentirsi sollevato da quell’incarico. Avrebbe potuto restarsene a Emblem durante il fine settimana, tra le braccia flaccide di qualche laida tettona rimasta impigliata ai cerchioni scintillanti della sua Dodge. Quanto a mia madre, era in preda a un nuovo surrogato di amore. Aveva tirato un sospiro di sollievo, quando le avevo detto che non c’era più bisogno di venire. La immaginavo con la sigaretta che le pendeva perennemente dalle labbra,

mentre mi rispondeva: «Sono così orgogliosa di te, Say. Ti spedisco un buono spesa di Target». «Ah, Target. Lo sai che le amo, le cose della Target», le risposi, provando a non sembrare acida. «Senza dubbio, si trova da loro la scelta migliore di carta igienica». Se serbi in cuor tuo un briciolo di iniziativa, Emblem, in Arizona, non è certo il posto dove vuoi restare. Da che ho memoria, il desiderio cocente di fuggirmene da quel budello di deserto della mia cittadina natale ha rasentato il fanatismo. Di tutti i miei coetanei, un terzo è finito a lavorare per la grossa prigione sita poco fuori dalla città, probabilmente per condurre una vita formale e infelice, proprio come i miei genitori. Un altro terzo, stando alle statistiche, è rimasto risucchiato dalle droghe e da cose simili, magari per finire in carcere a sua volta, guardato a vista dai vecchi compagni di classe. E l’ultimo terzo è andato all’università, per poi dirigersi verso un futuro speranzosamente più radioso. Ma anche così, molti di loro sono rimasti nello stesso Stato. Brayden si era iscritto all’università di Stato dell’Arizona. Io avevo trascorso tutta la mia vita in quella decadente cittadella, sorta a ridosso di una prigione, settanta miglia a sud di Phoenix. Volevo andare via. Andare lontano. Anni di lavoro diligente e quasi ottuso mi avevano fatto diventare la prima della classe e quando avevo ottenuto la borsa di studio che mi aveva permesso di frequentare l’Occidental College, ero finalmente riuscita a coronare i miei sogni. Il giorno che me ne andai via, non mi girai nemmeno per rivolgere a Emblem un ultimo saluto. Il panorama californiano era meglio di quello dell’Arizona centrale. Mi sentii subito liberata dalla sensazione di caldo opprimente, dal cast di volti familiari che aveva popolato il mio mondo dal giorno della mia nascita. Non mi piaceva affatto che mi venisse ricordato da dove venivo. I miei coetanei sembravano tutti vivere delle vite disinvolte, con le loro scarpe da trecento dollari al paio. Io avo le estati immersa nello studio, guidando la macchina fino a raggiungere la spiaggia ogni volta che riuscivo a racimolare dieci dollari per fare benzina. Quanto ai miei genitori, sembrarono adattarsi subito alla nuova vita senza la figlia. Mia madre riprese a frequentare più uomini di quanti ne frequentasse a venti anni. Qualche volta all’anno andavo a Emblem a farle visita, sentendomi fortemente a disagio. Altre volte, parlavamo al telefono. Era più che abbastanza. L’unica nota dolente era Brayden. Mi mancava. Mi mancava moltissimo. Negli

ultimi anni, le miglia che si erano frapposte tra le nostre vite avevano finito per pesare sull’intimità che c’era sempre stata tra noi. Ora aveva una fidanzata, sembrava una cosa seria. E dopo un altro anno all’università, si sarebbe laureato in ingegneria meccanica. Lo consideravo ancora il mio migliore amico. Altra amarissima sorpresa fu lo scoprire che i ragazzi della California non erano affatto diversi da quelli dell’Arizona. Uscirci assieme si rivelò presto una routine estremamente deludente, inframezzata da occasionali orgasmi. Quando, nella primavera del terzo anno, conobbi Devin, mi sembrava troppo bello per essere vero. Troppo bello per essere vero. Da qualche parte nella contea di Riverside, ponderai di accostare per provare a richiamare Brayden, magari mandargli un messaggio su Facebook. Dopotutto, non sembrava così corretto piombargli in casa senza nemmeno avvisarlo, come un pacco colmo di disastri, senza avere alcun piano. Bray, lì a Tempe, ormai aveva una vita tutta sua. Aveva… com’è che si chiamava? Millie. L’avevo vista in foto, su Facebook: una bella ragazza asiatica, con un sorriso straordinario incorniciato da lunghi capelli neri. Indossava vestiti bianchi e frequentava corsi di discipline dai nomi altisonanti, tipo antropologia socio-economica o che cazzo ne so io. Le mie mani si aggrapparono al volante mentre attraversavo il confine che, dalla California, mi avrebbe ricondotta nel mio Stato natale. Era quasi mezzanotte e avrei dovuto sentirmi esausta, ma non lo ero affatto. Mi sentivo come se avessi trascorso gli ultimi anni nel desolante oblio di un incubo, e infine mi fossi risvegliata. Mi concentrai sul muro di buio che avevo davanti. Il tratto di strada più desolato degli Stati Uniti, lo giuro, deve essere quello dell’I-10, che dal confine californiano raggiunge la periferia occidentale di Phoenix. Anche se so che non si tratta della verità. Negli Stati su a nord ci sono intere regioni interamente deserte. Ma anche così, del tutto avvilita, pregando in silenzio rivolta alle stelle qualcosa che in ato pensavo che nemmeno esistesse, mi sembrava che sulla terra non ci fosse un luogo più desolato di quello. A cinquanta miglia di distanza da Quartzsite, mi resi conto all’improvviso di avere un urgente bisogno di urinare. Mi lasciai alle spalle due aree di ristoro che erano state chiuse per qualche motivo ignoto, maledicendo i burocrati locali ai quali evidentemente non importava nulla delle vesciche piene di chi si trovava a

are di lì nella notte. Alla fine, le piccole luci esili della vallata occidentale si fecero così vicine che sembrava di poterle toccare. Entrai in un distributore di benzina che sorgeva nei pressi della centrale nucleare. Quando scesi di corsa dall’auto, cercando disperata un bagno, il tipo dietro al vetro della cassa mi guardò sconcertato. Sulle prime pensai che fosse per via della mia faccia gonfia, ma quando mi misi a sedere sulla toilette, notai che mi spuntava il capezzolo sinistro dalla scollatura della t-shirt. «Sono un disastro», farfugliai, rimettendolo al suo posto e pensando che sarebbe stato utile indossare un reggiseno. Una volta svuotata la vescica, mi osservai con attenzione riflessa nello specchio, socchiudendo gli occhi, accecata dalle luci impietose del bagno. Sembrava che chi avesse installato quelle lampadine volesse infliggere la cecità di massa o magari scovare qualche vampiro. Dunque avevo la mascella gonfia e sì, l’indomani si sarebbe visto il livido. Mi fermai i capelli dietro le orecchie e riempii il lavandino di acqua fredda. Mentre mi chinavo a bagnarmi la faccia ricordai la sensazione schifosa che avevo provato mentre Devin mi violava. Mi chiesi se contasse lo stesso come stupro, anche se lui non riusciva a venire perché qualcuno gli aveva spaccato un tavolo in testa. Mentre mi asciugavo la faccia con un tovagliolo di carta, decisi che valeva lo stesso. «Testa di cazzo», mormorai, spaventando una vecchia signora ispanica che proprio in quel momento stava entrando dalla porta. Quando sorrise nervosamente, mi resi conto che con la mia faccia danneggiata, con gli abiti messi a casaccio e la testa scapigliata potevo essere scambiata senza troppi problemi per una prostituta. O una di quelle tossiche di anfetamina che si vedono sui poster che ti vogliono mettere in guardia dalle droghe. Rovistai nella borsa e riuscii a trovare un pettine. Mentre tentavo di sciogliere i nodi tra i capelli, cercai di non prestare attenzione al suono che l’estranea, dietro la porta chiusa, faceva pisciando. Quando uscì dal bagno, evitò di guardarmi. Si lavò le mani e schizzò via, lasciando una banconota da cinque dollari davanti allo specchio rotto. Quasi le corsi dietro per restituirgliela. Volevo dirle che non ero davvero senza speranza come sembravo. Mi ero appena laureata, avevo un

bel corpo e stavo scrivendo un romanzo. Doveva pur significare qualcosa. Fare la carità a una persona del mio livello era un gesto inutile. Sì, andai quasi lì a dirglielo. Poi cambiai idea e usai quei cinque dollari per comprarmi una granita alla ciliegia e un pacchetto di tortilla. Era un ottimo pasto. Mentre facevo benzina, provai a richiamare Brayden. «Cristo santo, Brayden», dissi alla segreteria telefonica, esasperata dal fatto che fosse l’unico ventiduenne del mondo che non ava tutto il suo tempo connesso. «Mi sento molto meno fragile, rispetto all’ultimo messaggio che ti ho lasciato. Ma comunque, sto ancora venendo da te. In macchina ho tutto quello che sono riuscita a caricare. È mezzanotte e da qui si vedono le luci della centrale nucleare. Lo sai cosa vuol dire questo? Significa che tra un’oretta scarsa sarò lì a Tempe. Cristo santo, ho davvero bisogno di una doccia. Spero che tu non sia fuori città, perché qui non conosco nessun altro e se non ci sei tu, dovrò trovarmi qualche parcheggio di supermercato dove are la notte. Ti voglio bene». L’area metropolitana di Phoenix è immensa. Forse non ai livelli di Los Angeles, ma comunque è grande. Per percorrerla da una parte all’altra, devi guidare a lungo. Impiegai un mucchio di tempo per lasciarmi alle spalle la vallata occidentale. Alla fine vidi le strutture torreggianti che svettavano sul centro di Phoenix e poi, più in là, i confini del settore orientale. Avevo già inserito l’indirizzo di Brayden nel navigatore e quando superai la sagoma dello stadio Sun Devil, seppi che ormai non mancava molto. Per i ragazzi provenienti da Emblem, l’università di Stato dell’Arizona era come la statua della Libertà. L’area che circondava il campus era da sempre, e probabilmente lo sarebbe sempre stata, un groviglio intricato di appartamenti e fast food. Mentre ci guidavo dentro, il complesso del Palm Desert sembrava quasi esotico e vivace quanto il Mardi Gras a New Orleans. I balconi e le strade straripavano di gente all’apice del fulgore delle droghe. Misi la testa fuori dal finestrino e rivolsi una domanda a quattro bionde che stavano ferme sul marciapiede. «Ehi, sapete dove si trova l’appartamento 2163?».

Risposero ridendo sguaiatamente, finché una non si girò a vomitare dentro un cespuglio di oleandro. «Grazie», dissi, salutandole con un sorrisetto e con un cenno della mano. «Grazie mille». Ti verrebbe da pensare che un complesso residenziale, grande quasi quanto la città di Buffalo, dovrebbe avere, a un certo punto, una mappa esposta da qualche parte, ma se anche ci fosse stata, non sarei riuscita a trovarla. Non si riuscivano nemmeno a vedere bene i numeri civici. Alla fine, ci rinunciai del tutto e parcheggiai l’auto in un posto a caso. Sarebbe stato comunque un ottimo punto da dove proseguire le ricerche. Anche se sapevo che era inutile, provai a richiamare Brayden. Che ovviamente non rispose. Ovviamente. Vidi un paio di ceffi corpulenti che mi venivano incontro, ubriachi fradici. Non mi andava di rischiare di venire importunata a così poca distanza dall’episodio con Devin. Rovistando sul sedile posteriore, trovai una felpa scura col cappuccio e la indossai. Anche se fuori c’erano almeno trenta gradi, ci tenevo a dare l’impressione di essere una poco di buono che badava ai fatti suoi nell’oscurità. Avrebbe tenuto i malintenzionati alla larga. Nascosi i capelli dentro al cappuccio e incurvai le spalle, avviandomi in quel dedalo di strade e palazzi. Dopo aver trascorso cinque minuti a vagare senza meta, capii che sarebbe stato impossibile per chiunque trovare chicchessia in quel labirinto di fattoni abbronzati e muri stuccati. Poggiai le spalle al muro e mi lasciai sfuggire un sospiro disperato. E quando rialzai la testa, vidi davanti a me il numero 2163. Il momento di gloria durò poco. Bussai alla porta per dieci minuti netti, senza ricevere risposta alcuna. Poggiai la testa alla porta, sconsolata. Ogni briciolo della poca energia residua mi stava fluendo via. «Non piangere, Saylor», tentai di consolarmi. Detestavo piangere. «Non farlo». Dopo aver trascorso lunghi momenti a fissare il vuoto, sentendo che il significato dell’universo mi eludeva via via, decisi che avrei provato a entrare dentro comunque. Quando sbirciai dalla finestra del salone, che era fiocamente illuminato, vidi molte foto di Brayden e Millie appese al muro. Quello era di sicuro il loro appartamento. Provai a sollevare la finestra. Brayden era il tipo che se la dimentica sempre aperta. Magari l’aveva lasciata aperta anche stavolta. Ci riprovai, con più forza.

Certo, mi aspettavo che potesse esser chiusa. Quello che non mi aspettavo era di venire travolta da una montagna. Mi ricordava l’aggressione di Devin. Atterrando sul pavimento duro, cacciai un urlo e presi a scalciare alla cieca. «Cazzo», disse la montagna, incredula. «Sei una ragazza». Mi sentii sollevare da due braccia forti, attaccate a un corpo. E che corpo. Aveva sul torace una scritta in latino, tatuata lungo tutti i pettorali. Sulle spalle c’era un’altra distesa d’inchiostro che lo copriva fino a raggiungere delle braccia possenti. «Tutto bene?», mi chiese. Annuii in silenzio, incapace di staccare lo sguardo da quell’esplosione di mascolinità, che anche in quel contesto desolante non riusciva a non lasciarmi incantata. Poi sbattei gli occhi incredula, quando capii che quel corpo aveva una faccia. Una faccia che conoscevo. «Dalla padella alla brace», bisbigliai tra me e me, scuotendo la testa attonita. Incrociai le braccia e lo guardai dritto negli occhi. «Cord Gentry, che diavolo ci fai qui?».

Capitolo quattro Cord

Sentii un rumore provenire dal basso e fui felice all’idea che Brayden potesse essere tornato a casa. Quando frequentavo Brayden e Millie, la sua ragazza, in qualche modo mi sentivo più completo. A volte avevo la sensazione di essere un po’ disconnesso dal mondo, tranne che con i miei fratelli. Dopo esser sceso di nuovo al balcone del secondo piano ci volle solo un piccolo salto per raggiungere terra e ci riuscii senza emettere suono alcuno. Ma quando mi raddrizzai, vidi solo che davanti alla finestra di Brayden c’era qualcuno che tentava di forzarla. A guardarlo aveva l’aria di un teppistello sottopeso in età da liceo. Sembrava chiedere a gran voce che qualcuno gli insegnasse le buone maniere. Non sapevo se fosse armato di qualcosa di più letale della sua stupidità. Decisi intanto di buttarlo a terra e poi di occuparmi del resto. Stava esitando troppo, si capiva che non doveva essere molto esperto. Sarebbe stato uno scherzo farlo fuori. Non volevo fargli male, volevo soltanto spaventarlo e rispedirlo a casa a riflettere su come diventare una persona migliore. Tutto lì. E se si pisciava addosso dalla paura, tanto meglio. Era un peso piuma e andò giù subito. Fu meglio non averlo aggredito con più violenza, perché l’urlo sconcertato di dolore che cacciò mi lasciò senza fiato. «Cazzo. Sei una ragazza», dissi, scuotendo la testa. Va bene, allora, il potenziale intruso aveva la vagina. Non voleva dire che l’avrebbe ata liscia. Ma, ad ogni modo, non potevo far male a una femmina, nemmeno per un motivo simile. Se lo avessi fatto, sarei diventato un bastardo come mio padre. «Tutto bene?», chiesi, mentre la tiravo su. Le cadde il cappuccio e una cascata di capelli castani si riversò sulle sue spalle. Stava blaterando qualcosa, tutta indignata, poi mi rivolse uno sguardo cattivo che riuscì a raggelarmi. Credo che lei fosse ancora più scioccata di me, anche se prima di parlare riuscì in qualche modo a ricomporsi.

«Dalla padella alla brace», grugnì, fissandomi piena di odio. «Cord Gentry, che diavolo ci fai qui?». Inghiottii. «Ehi, Saylor. Sono felice anche io di rivederti. Quanti anni sono ati? Quattro?» «Sempre troppo pochi e per l’amor di dio, non ho detto di essere felice di rivederti. Ti ho chiesto che diavolo ci fai qui a Tempe, ad aggirarti nel buio come Jack lo Squartatore». Rimasi a fissarla. Saylor McCann era una delle poche cose che ancora mi facevano star male. Qualche volta ero stato tentato di chiedere a Bray cosa stesse facendo, ma non ne avevo mai avuto il coraggio. Dovunque si trovasse, ero sicuro che mi odiava a morte. «Stavo acciuffando un ladruncolo», borbottai, «avevi un aspetto molto sospetto». Saylor si lasciò sfuggire un sibilo e girò la testa, come se stesse sperando che potessi svanire nell’aria per magia. Si sfilò la felpa e mi ritrovai a seguire le curve soffici del suo corpo. Indossava solo una maglia leggera e non aveva il reggiseno. Poi, dal modo in cui incrociò le braccia e tentò di dissimulare, capii che stava cercando di non piangere. Mi avvicinai, ma lei si allontanò subito. Anche se era buio, riuscivo a vedere lo stesso che stava provando a fulminarmi con lo sguardo. «Sei venuta a fare visita a Brayden?» «Che diavolo ne sai tu di mio cugino?» «So che al momento non è in casa». «Wow, sei proprio uno stramaledetto Sherlock Holmes». «Cazzo, stai calma, va bene? Non so dove diavolo si trovi, ma sei la benvenuta nel mio appartamento per un po’ se non sai dove altro andare». Spalancò la bocca, incredula. «A casa tua?», mi fece eco. «Grazie Cord, ma credo che preferirei poggiare la lingua sui carboni ardenti». Sopra le nostre teste c’era una lampada alogena. La sua faccia era immersa nella luce giallognola e impietosa e la guardai con più attenzione. «Cristo santo, non

sono stato io a farti quella cosa sulla faccia, vero?». Alzò le spalle. «No. È stato Devin. È uno stronzo». «Ovvio». Iniziai a sobbollire di rabbia nei confronti di questo stronzo di nome Devin. Saylor sospirò e guardò a terra con espressione triste. «Anche tu sei uno stronzo», disse alla fine. «Non ho mai detto di non esserlo. Ma puoi comunque venire a stare da me e i ragazzi per qualche ora, a meno che tu non preferisca restare qui ad aggirarti nelle tenebre. La prossima persona nella quale potresti imbatterti non è detto che sia gentile quanto me». «I ragazzi», ripeté, con una smorfia. «Che ragazzi?» «Creed e Chase. Te li ricordi?» «Voi fratelli Gentry siete difficili da dimenticare», disse raggelando. Non mi piacque affatto quello che aveva detto. A sedici anni ero una grossa testa di cazzo e lei aveva solo buoni motivi per disprezzarmi. Ma ora mi stava trattando come se meritassi di scivolare nelle fogne. La gente perbene di Emblem aveva sempre provato ribrezzo per quella feccia dei fratelli Gentry. Eravamo violenti, inetti, senza speranza. Giravano pure storie sul fatto che fossimo frutto d’incesto. «Bene, vuol dire che non hai bisogno di aiuto, Saylor, visto quanto sei brava a giudicare le persone». La stavo trattando male. Le ai il dito sulla mascella gonfia e lei si ritrasse. «Si vede che sai riconoscere una brava persona quando ne incontri una». Era un colpo davvero basso da parte mia. Si poggiò al muro con l’espressione devastata. «Togliti dalle palle», ribadì, provocandomi una fitta di rimorso. Quella notte doveva già aver attraversato l’inferno. Non c’era nessun bisogno di peggiorare le cose. «Ascolta», le dissi. «Ti ho fatto un invito, da un reietto di Emblem a un altro. Puoi restare qui a cullarti nell’amarezza se preferisci».

Saylor non rispose. Non mi guardò nemmeno. Scossi la testa e iniziai ad allontanarmi, perché non mi sentivo più in vena di avere a che fare con una ragazza incazzata. «Cord», disse. Mi girai. Sembrava persa. Aveva lo stesso aspetto di quando a sedici anni aveva scoperto che il tizio che le aveva appena preso la verginità era un pezzo di merda ancora più fetente di quello che immaginava. «Bray non mi ha mai detto che stavi anche tu qui». Alzai un sopracciglio, sarcasticamente. «Mi chiedo perché». Mi rivolse un sorriso vago. «Non sapeva che stavo arrivando e non sono riuscita a rintracciarlo». Abbassò lo sguardo e fece una smorfia. «Dio, cosa non darei per una doccia». Restai in attesa. «L’offerta è ancora valida, Say». Saylor annuì stancamente e diede un colpo di tosse. «Ok, senti, devo solo prendere la mia borsa. L’ho lasciata in macchina». La seguii. «Va bene, ti accompagno. Non si sa mai chi si potrebbe nascondere nel buio». Mi guardò di traverso con espressione sarcastica. «Ma non mi dire». La macchina di Saylor era la stessa Civic scassata che aveva al liceo, tranne che ora aveva la targa californiana. Si allungò sul sedile posteriore e prese una borsetta e una sacca da viaggio. Provai a toglierle la sacca dalle mani ma fece cenno di lasciar perdere. «Ce la faccio», disse. Alzai gli occhi al cielo. «Ma certo che ce la fai». Mentre la conducevo all’appartamento da tre stanze che dividevo con i miei fratelli, il silenzio tra noi era dolorosamente imbarazzante. Quando le tenni la porta rimase esitante sulla soglia e mi guardò indecisa. Provai a non fissare la

faccia gonfia e piena di lividi. Non importava chi fosse; quelle cose mi mandavano subito in bestia. Le indicai la prima porta sulla sinistra. «Là c’è il bagno. Oggi l’ho pulito e non dovrebbe fare troppo schifo. Puoi usare tutto quello che ti serve». Annuì senza aggiungere altro, trascinando la borsa dentro la stanza e chiudendosi la porta dietro le spalle. Creed stava giocando assorto con la Xbox a uno di quei giochi militari dove si sparano tutti addosso in uno scenario post-apocalittico. Chase stava stravaccato sul divano con una bionda formosa appiccicata addosso. «E dài», disse la ragazza mentre Chase le toccava le tette sorridendo. Quando mi vide fermo lì in piedi non tolse le mani dalle tette della tipa, che sembrava parecchio impaziente di are ad altro. «Ho sentito male o ti sei portato qualcuna a casa?», mi chiese. Presi una mela da un vassoio sul tavolo della cucina e mi appoggiai a un bracciolo del divano. «Più o meno», dissi, alzando le spalle. Creed distolse lo sguardo dal gioco e si guardò intorno. «E dove l’hai nascosta?». In perfetta sincronia si udì lo scroscio della doccia che partiva. «Oh, merda», disse Chase, palpando con più forza le tette della bionda. «Non avrai mica portato a casa un altro senzatetto, no?». Diedi un morso alla mela e vidi l’amica di mio fratello montarlo a cavalcioni, strusciandogli con insistenza il pube sulla patta come se nella stanza non ci fosse nessun altro. Chase le infilò la mano sotto il top e lei mugolò. «Quello era un tipo a posto», dissi, guardando la faccia della ragazza. Aveva le labbra sottili ed era coperta da grumi di trucco. «Era un musicista. Aveva solo bisogno di un posto dove riposarsi qualche ora». Creed non era d’accordo. «Ha pisciato nella doccia. Si è lasciato dietro la sua puzza per almeno una settimana». Gettò via il controller della console e si

diresse in corridoio. Si vedeva che aveva intenzione di piombare dritto in bagno per cacciare subito via l’ospite. «Ehi», lo bloccai, prendendolo per la maglia. «Non farlo, va bene? Non è quello che pensi. Si tratta di una ragazza». «Una ragazza?», chiese Chase con interesse, mentre la bionda reclinava la testa, muovendosi sempre più veloce e mugolando. Forse era così che si eccitava, in una stanza piena di gente. Chase l’aveva probabilmente raccolta in qualche festa senza nemmeno chiederle come si chiamasse. «Non è quel tipo di ragazza», dissi, indicando la sua amica. Poi abbassai la voce, in caso potesse sentirmi anche attraverso la doccia. «Non ci crederete, ma in bagno c’è Saylor McCann». Creed fischiò e Chase scoppiò a ridere. «Ma sì, come no», urlò. «Se ti trovasse per strada in fin di vita, Saylor McCann ti pianterebbe un tacco in gola per accelerare il tuo trao. Sul serio, chi c’è in bagno?». Gli tirai la mela in testa. «Zitto, sto dicendo sul serio. Stava provando a entrare nell’appartamento di Brayden, ma lui non c’era». Guardai verso il corridoio, dove la doccia ancora scorreva. «Sentite, non trattatela male, va bene?». Creed aveva desistito dall’intento di entrare in bagno, ma aveva ancora un’espressione dubbiosa dipinta sul volto. «Ma non ti odiava a morte? Non ci odiava tutti a morte?». Alzai le spalle. «Probabilmente ci odia ancora. Ma non potevo lasciarla lì a singhiozzare nel buio senza un posto dove andare». Chase sembrava aver perso interesse nell’argomento. La ragazza gli aveva permesso di tirarle su la maglia fino al punto in cui le tette le erano dondolate fuori. Continuava a dimenarsi sulla sua patta e a lasciarsi sfuggire gridolini estasiati. Creed ritornò a immergersi nel videogioco, sparando ai soldati digitali di quel mondo immaginario come se non ci fosse un domani. Guardai di nuovo verso il corridoio, chiedendomi in che diamine d’impiccio mi fossi andato a cacciare.

Sì, conoscevo Saylor dai tempi dell’asilo perché a Emblem era così che funzionava. Era una ragazzina spocchiosa che stava sempre attaccata a suo cugino Brayden, e faceva parte delle persone in gamba, quelle che nella vita ce l’avrebbero fatta. Forse era questo che l’aveva resa ai miei occhi un bersaglio appetibile. Non si preoccupava di nascondere il disprezzo che provava per noi, per i fratelli Gentry e una sera, mentre bevevamo aperitivi rubati attorno a un falò nel deserto, saltò fuori il suo nome. «Secondo me riesco a farmela», disse Chase, sicuro di sé come al solito. «Cazzate», commentò Creed. Tirai una bottiglia nel fuoco, facendola esplodere in una lunga lingua di fiamma. «Sono d’accordo. Cazzate». Chase si avvicinò e mi diede una spinta. «So riconoscere una ragazza affamata quando ne vedo una. Saylor McCann magari pensa di essere tanto meglio di noi, ma vi dico, uno di noi a caso può riuscire a farsela». Creed sembrò all’improvviso pensieroso. «Forse». Sorrisi. «Facciamo una scommessa?». Chase prese un’altra bottiglia. «Due casse di questo?» «Ma dài», dissi. «Per una scommessa del genere, ce ne vogliono almeno cinque». «Affare fatto», accettò Chase. Saylor mi guardò con sospetto quando mi parai davanti a lei il giorno dopo in biblioteca. «Che vuoi da me?», chiese, distogliendo i begli occhi verdi e giocando nervosamente con la punta della treccia. Le rivolsi il miglior sorriso Gentry che avessi in repertorio e le feci scorrere la mano sul braccio. «Volevo solo salutarti, Saylor». Dopo qualche istante di esitazione mi restituì il sorriso. Era più magra delle

ragazze che in genere mi piacevano. Era carina in un modo goffo, quasi represso. Ma soprattutto, si capiva subito che Chase aveva ragione. I suoi occhi vagavano senza tregua sul mio corpo mentre lei arrossiva. Era affamatissima. Saylor non l’avevo mai notata granché. Non andava alle feste e non la vedevi mai in giro a cercare di are un momento spensierato. Di tanto in tanto usciva con quegli stronzetti ricchi dei quali non m’importava molto. Presi i suoi libri sottobraccio e mi incamminai al suo fianco in direzione di casa sua. Viveva nel quartiere che si trovava tra la prigione e il liceo, popolato perlopiù dalle famiglie di chi lavorava nell’istituto di correzione. Era suddiviso da filari di alberi ed era pulitissimo, tutto il contrario della fogna a due miglia di distanza dove vivevo io. Mentre camminavamo le dicevo ogni sorta di cose senza crederci nemmeno per sbaglio. Saylor era tutta risolini. ammo a fianco di una vecchia panchina dove decenni prima era successo qualcosa di storico. Nessuno sembrava sapere esattamente cosa, visto che sulla targa dove stava scritto non si leggeva più nulla. «Sediamoci», le dissi, contento di vedere che lo faceva senza esitare. Eravamo all’ombra di un grosso albero di mesquite. Lei mi guardava nervosa. Con un gesto plateale strappai un foglio dal blocco degli appunti che teneva tra i libri e tirai fuori una penna dalla mia tasca posteriore. Mentre scarabocchiavo rapido avevo i suoi occhi fissi su di me. «Tieni», le dissi, andole infine il foglio. «Cord», sospirò, sgranando gli occhi. Sapevo di essere un artista discreto, specie quando si trattava di ritrarre le persone. Potevo prendere una ragazza dall’aspetto neutro e farla sembrare una top model. A volte tornava utile, specie quando dovevo sfondare una porta chiusa. Le osservai il volto mentre fissava il disegno che la ritraeva. «È bellissimo», disse. «Ma non sembro affatto io». Provai a non strabuzzare gli occhi e invece sorrisi. «Sembri proprio tu, Saylor. Sei molto bella». E poi mi appoggiai a lei. Seppi subito che sarebbe stato ancora più facile di quanto supponeva Chase.

Moriva dalla voglia di essere baciata ed era ovvio che non era stata baciata granché in vita sua. «Saylor», sussurrai, facendole scorrere le mani sulle braccia, sentendola tremare. «Voglio stare da solo con te». Si morse il labbro e distolse lo sguardo. Pensai che mi avrebbe spinto via mandandomi a fare in culo. Sarebbe stata la cosa più saggia da fare e lei sembrava davvero una ragazza saggia. Ma non si stava comportando come tale. «Ok», disse con un filo di voce. Mentre arrivavamo lì mi aveva detto qualcosa a proposito dei genitori che stavano per divorziare. Ma non la stavo ascoltando veramente. Quando raggiungemmo la sua casetta di mattoncini rossi s’innervosì e disse che a casa c’era suo padre. Faceva il turno di notte in prigione e durante il giorno dormiva. La tirai a me e le ai la lingua sulle labbra, notando con soddisfazione l’impazienza con la quale mi si strusciava addosso. «Ce l’hai una stanza tutta tua?», chiesi, massaggiandole il polso fino a farle praticamente fare le fusa. Le guance pallide erano tutte rosse e sembrava diventare più bella ogni momento che ava. Non vedevo l’ora di entrarle sotto i vestiti e iniziare a darmi da fare. Esitò. «Sì, ma… cioè, mio padre sta dormendo e ha il sonno leggero». «Oh», dissi. Non volevo trovarmi davanti a un padre inferocito che difendeva le virtù della sua principessina. Era già successo, lo avevo già fatto. Poi notai il garage. «È vuoto?». Lei capì al volo e annuì. La presi per mano e la condussi attraverso la porta di servizio nella sala buia. Ci baciammo di nuovo e la sentii che mi si premeva addosso con forza, facendomi arrapare come un matto. Già me la ridevo al pensiero di quanto si sarebbe infastidito Chase quando l’avesse saputo. «C’è qualcosa che non va?», chiese Saylor, confusa dal mio sorriso improvviso. «Tutto a posto», risposi, infilandole le mani sotto la maglia. «Sono solo felice di stare qui con te».

Si rilassò e non provò a fermarmi. Non ci provò affatto. Trovai una vecchia coperta arancione e la distesi sul pavimento macchiato di grasso per farla sdraiare. Dovevo guidarla o o, ma imparava in fretta. Giunti a quel punto stavo morendo dalla voglia di scoparla. Le sfilai le mutandine e mi abbassai i pantaloni mentre prendevo un preservativo dalla tasca posteriore, l’ultimo rimasto da una confezione che avevo rubato il mese prima al supermercato. Mi piazzai tra le sue gambe spalancate e la vidi sgranare gli occhi. «Sei sicura di volerlo fare?», le chiesi, pronto a tornare sui miei i finché ancora ce la facevo. Ma Saylor annuì e mi serrò le braccia attorno al collo. «Sono sicura, Cord». Dopo quel momento fu come se fossi uscito dal mio corpo. Non fui gentile perché non stavo veramente pensando a Saylor. All’improvviso quello che stavo facendo si trasformò in una sorta di vendetta malata. Stavo rivendicando ogni singola merdata che avevo dovuto subire o anche solo sentito dire a proposito dei Gentry, mentre allo stesso tempo stavo di fatto dimostrando che gran pezzo di merda potesse essere un Gentry. Pura spazzatura. Maligno. Senza cuore. Senza anima. Fannullone. Buono a nulla. Uno che si scopa sua cugina. E poi, fu tutto finito e non provai nemmeno un accenno di tenerezza mentre Saylor si ricopriva timidamente il corpo e provava a sorridermi. Non provai proprio nulla. Mi accesi una sigaretta per dissimulare e dissi la cosa peggiore che potesse armi per la testa. «È stata una schifezza». Tirai una lunga boccata e vidi l’espressione sconcertata che le si dipingeva sul volto. «Ma ne valeva comunque la pena, per vincere una scommessa». «Una scommessa?». Sorrisi. «Ma certo. Sospettavamo che l’avresti data via senza troppi problemi e avevamo ragione». Continuai a guardarla fumando, mentre un’intera girandola di orrore, dispiacere e rabbia le sfilava sul volto. Sì, avrebbe dovuto immaginare che Cord Gentry non poteva spuntare fuori dal nulla bisognoso di amore. Si alzò in piedi con gli

occhi già bagnati dalle lacrime di rabbia e di vergogna. «Vattene via», farfugliò, per poi iniziare a urlare. «VATTENE VIA!». Tirai una lunga boccata, le soffiai il fumo sulla faccia e scoppiai a ridere. Poi corsi a casa per dire a Chase che aveva perso la scommessa. E Chase, che non sapeva proprio come fare a tenersi un segreto, lo raccontò a tutti. Nei due anni seguenti, finché non ci diplomammo, non riuscii più a guardarla negli occhi. Non avrei mai pensato che un giorno avrei dovuto farlo. Non fino a oggi. Grazie al cielo, Chase si era portato la bionda in camera sua. Potevo sentirli bene che si stavano dando alla pazza gioia, ma almeno non lo stavano più facendo sotto gli occhi di tutti. Ne fui sollevato. Saylor era il tipo di ragazza che non avrebbe reagito bene a una cosa del genere. «Ehi», disse Creed. Capii che mi stava guardando da un po’. «Oh», risposi. Mio fratello annuì solennemente. Qualche volta metteva in mostra un sesto senso soprannaturale, come se riuscisse a sentire cosa stesse ando per la testa a ogni membro del trio di gemelli. «È successo tanto tempo fa». Alzai le spalle, facendo finta che non stesse accadendo nulla. «I Gentry hanno sicuramente fatto di peggio. Cazzo, lo so che è vero». Creed rimase imibile. «Le cose sono diverse oggi, Cord. Non siamo più né sporchi, né tantomeno dei disperati che se ne vanno in giro a vagabondare nel deserto, sperando di non beccarsi qualche legnata sul groppone una volta tornati a casa». «Non valeva, come scusa», borbottai. «Lo sapevo io e lo sapeva anche lei». Creed si lasciò cadere il controller della console dalle mani e si alzò in piedi. Guardò la porta chiusa del bagno. L’acqua della doccia non scorreva più ma Saylor non era ancora uscita. «Va bene», disse alla fine sbadigliando, «io vado tra le braccia di Morfeo».

Indicai la porta della camera di Chase, da dietro la quale proveniva ogni sorta di urti e scossoni. «Non sarebbe meglio metterlo dentro alla bionda?». Creed si stiracchiò e sorrise. «Macché, stasera Morfeo e tutt’al più pippe». Mi abbandonai sul divano e restai in attesa. Dopo un po’ dalla stanza di Chase non provenne più nessun rumore e di Saylor nemmeno l’ombra. Sperai che non stesse combinando nulla di strano. Era sempre stata una persona complicata e qualsiasi cosa le fosse accaduta sembrava averla mandata fuori asse. Mi avvicinai alla porta e rimasi in ascolto, ma non si sentiva nulla. Quando si aprì all’improvviso dovetti fare un salto indietro. «Cristo», esclamò, facendo cadere a terra quello che portava in mano. «Scusa», dissi, mentre un’onda di vapore usciva dal bagno e m’investiva. «Stavo iniziando a preoccuparmi. Credevo che ti stessi tagliando le vene o qualcosa del genere». «No, non mi stavo tagliando le vene». Mi diede un’altra occhiataccia, come se fino a un attimo prima si fosse dimenticata che ero lì. Si era spazzolata i capelli ancora bagnati e ora li portava sciolti. Ignorando la mascella gonfia, aveva un aspetto morbido e immacolato, coronato dalla luminosità dei suoi occhi verdi. Si era rimessa addosso la stessa maglia che indossava prima ma aveva cambiato i pantaloncini, indossandone un paio da palestra. «Perché non ti sposti e mi fai are?». Non mi ero accorto che le stavo bloccando il aggio. Feci marcia indietro e mi diressi in soggiorno, sperando che mi seguisse. «Chase e Creed sono andati a dormire ma ti salutano. Ti va una birra?» «No», disse Saylor, sedendosi sul divano con la borsa in grembo. «Cioè, scusa, volevo dire, no, grazie, Cord». Prese il telefono e cominciò a imprecargli contro. «Se lo perde in continuazione», commentai. Mi guardò dubbiosa. «Brayden, dico. Si perde sempre il telefono». «Oh, lo so», disse annuendo. Si guardò intorno confusa. Il posto era un’accozzaglia di mobili raschiati a caso dai negozi dell’usato della zona. «È da

tanto che vivete qui?». Presi una birra. «Stiamo in questo appartamento da un anno. Prima abbiamo girato come palline del flipper». Diedi un sorso, guardandola mentre si sfregava le mani sulle cosce nude. Probabilmente lo faceva per vizio, ma fece comunque sì che le guardassi le gambe. Erano belle gambe. «Allora, com’è la California?». L’espressione le si rabbuiò. Si sistemò i capelli dietro le orecchie. Sembrava più giovane. «Mi piaceva, ma poi l’ho odiata. Mi laureo tra due giorni. Ma non ho intenzione di andarci». Iniziai a capire cosa intendesse con quelle parole. «Allora questa non è solo una visita». Indicai la sua borsa. «Tutto ciò che possiedi è lì dentro?». Saylor alzò il mento. «No, c’è solo quello che sono riuscita a prendere. Sono andata via di corsa». «Per colpa sua? Di Dylan?» «Di Devin», mi corresse. «Bastardo. È la prima volta che ti fa una cosa del genere?». Rispose dopo un minuto buono. «No», disse quasi sottovoce. Mi stiracchiai, notando che i postumi del combattimento iniziavano a farsi sentire. «Saylor, lo sai che quando qualcuno ti dà una pigna in faccia non vuol dire che ti ama?» «Grazie, dottor Phil. Sai che ti dico? Prendi il tuo amico Lapalisse e vattici a fare un giro». «Magari sì», dissi. «Se solo sapessi chi cazzo è Lapalisse». Mi guardò, arrabbiata ma non infuriata. Sembrava più che altro ferita. «Di me puoi pensare quello che vuoi, Cord. Sì, è successo più di qualche volta e sono rimasta lì a prendermi il resto. Mi dicevo che sarei fuggita e poi non lo facevo mai. Lo so, lo so. Sono stata un’idiota. Ma era la prima volta che…». Saylor non riuscì a finire la frase. Si lasciò andare sul divano e si mise la testa tra le braccia.

Dovetti chiederglielo. «Che cosa?» «Mi ha stuprata», sussurrò, rialzando la testa. Il suo sguardo era peggio di un pugno nello stomaco. «Va bene? Ora conosci tutti i dettagli». «Oh, merda», dissi. Solo allora stavo capendo perché aveva voluto subito farsi una doccia. «Dio, Saylor, mi dispiace». Le ai un fazzoletto di carta col quale si soffiò il naso mentre io scolavo il resto della birra. Stavo ribollendo dalla rabbia. Per Saylor, per mia madre, per ogni donna che aveva dovuto subire un sopruso da uomini che non valevano due lire bucate. Saylor scoppiò a ridere, lasciandomi di stucco. «Cristo santo, sono seduta qui nel cuore della notte a confidarmi con Cord Gentry». «Sì, anche per me è surreale avere Saylor McCann sul divano che si soffia il naso». Restammo a guardarci a lungo, poi, sentendomi a disagio, ripresi a parlare. «Lo sai», dissi cautamente. «Ora che ci penso, Bray mi aveva detto che andava in campeggio in montagna con la fidanzata». «Oh», sospirò Saylor, visibilmente esausta. «Ecco perché non è rimasto a casa col cesto in mano a raccogliere sua cugina che piombava a caso». Si alzò in piedi e si mise la borsa in spalla. «Senti, grazie per avermi dato un po’ di ospitalità». «Be’, ma dove te ne vai ora, a Emblem?». Rise sonoramente. «Ma certo che no. Troverò un motel per stanotte e domani vedrò che fare». Si sfregò gli occhi. «Dopo una notte di sonno, andrà tutto meglio». Presi una decisione. Creed poteva lamentarsi quanto voleva. «Resta qui», le proposi. Raddrizzò la testa e aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiuse. «No», rispose dopo un po’ a voce bassa. «Non posso, Cord».

Mi guardai le mani ferite. Non volevo comportarmi come lo stronzo che lei pensava che fossi. In ato ero stato una ignobile testa di cazzo, ma aveva ragione Creed. Le cose erano cambiate. Avevo fatto di tutto per alleviare la maledizione di essere nato con questo cognome a Emblem. Sembrava una cosa di cattivo gusto lasciare che una povera ragazza abusata della mia cittadella natale se ne andasse in giro per Tempe in quelle condizioni. «Puoi prenderti la mia stanza. Ti giuro che non ti darà fastidio nessuno. Non è un problema. Dormo quasi sempre sul divano». «Cord», disse, con una nota dispiaciuta nella voce. «Ok, prendilo tu il divano, allora. È comodo. Guarda». Lo guardò. «È un divano comodo». Lasciò cadere la borsa a terra e sorrise. «Va bene». Quando tornai dalla mia stanza con una coperta in mano, Saylor si era già rannicchiata. «Grazie», bisbigliò grata mentre la coprivo. Aveva un aspetto così dolce e vulnerabile che mi fece venire un groppo in gola, ma cercai di scuotermelo di dosso. Saylor era solo una ragazza che dormiva sul divano per una notte. Non significava nulla per me. Poi si tirò su poggiandosi su un gomito. La maglia le scivolò giù dalla spalla mettendo in mostra la sommità del suo seno destro, provocando l’indurirsi di qualcos’altro. «Prego», dissi, girandomi per andar via. «No, dico davvero Cord. Grazie». Rimasi a fissarla per qualche istante mentre si rimboccava la coperta e chiudeva gli occhi. «Buonanotte, Saylor».

Capitolo cinque Saylor

Mi risvegliai al suono della Steve Miller Band che cantava e alla visione dei fratelli Gentry che mi sorridevano. Sulle prime pensai che fosse uno di quei sogni dove facevo ritorno a Emblem e restavo intrappolata per sempre in mezzo a facce che non avrei mai più voluto rivedere. Ma quando strizzai gli occhi non scomparvero. E così ricordai il giorno prima. Ricordai Devin. Ricordai Cord. «Hai un aspetto orrendo», disse Chase Gentry sorridendo mentre The Joker risuonava in sottofondo. Creed gli diede un calcio sotto al tavolo. «Non fare lo stronzo». Mi guardò con espressione seria. «Perdona il mio fratellino. Non ha ancora raggiunto la maturità emotiva». «Fratellino?», si lamentò Chase. «Quando la pianti, con questa storia? Cosa sei, novanta secondi più vecchio di me?». Creed si alzò in piedi e toccò il soffitto con le dita, mettendo in mostra il suo fisico possente. «Sì, fratellino. Sarai sempre più piccolo di me». Mi sentivo la mascella foderata di garza. Chase, ne ero convinta, non aveva certo mentito. L’immagine di me che avrei visto davanti a uno specchio non sarebbe stata lusinghiera. Chase s’ingozzava di cereali variopinti mentre Creed armeggiava con la caffettiera. Mi schiarii la gola e i fratelli si misero a guardarmi. Non erano identici, ma si somigliavano in maniera impressionante. Avevano tutti i capelli biondo scuro e sembravano perpetuamente abbronzati, forse per aver trascorso buona parte dell’infanzia sotto il sole del deserto. Il loro aspetto rappresentava

l’epitome della mascolinità. Se non avessi saputo chi fossero, se li avessi visti are per strada, di sicuro sarei rimasta a fissarli. «Tornerà presto», disse Creed. Solo allora capii che stava parlando con me. «Cord?», chiesi, rimboccandomi la coperta che emanava un odore di bucato. «No, Gesù Cristo», mi prese in giro Chase, ridendo della sua stessa battuta. Creed versò una tazza di caffè e me la porse. Rimasi sorpresa e la accettai con gratitudine. «È andato a vedere se trova tuo cugino». Diedi un sorso di caffè. Era forte e aveva un buon sapore. «Allora, Saylor», riprese Chase, guardandomi incuriosito. «Chi ti ha ridotta così?». Vidi Creed rivolgergli un’occhiataccia, ma non gli prestai attenzione. «Il mio fidanzato, anzi, il mio ex, mi picchiava», confessai. Era la prima volta che pronunciavo quelle parole a voce alta. Sembrava liberatorio. «Cazzo», disse Chase. Non sembrava affatto scioccato. «Perciò sei andata via?» «Sì. Ma prima gli ho rotto un tavolo in testa». Chase fece una smorfia. «Davvero gli hai rotto un tavolo in testa?» «Certo. Quando si è spezzato ha fatto un rumore magnifico, come in quella scena di Titanic in cui la nave si spacca a metà. Sono certa di avergli rotto anche il braccio». «Che braccio?», chiese Cord, facendo capolino da dietro un angolo. Non lo avevo sentito rientrare. Mi piantò gli occhi azzurri addosso. Non mi piaceva quello sguardo pietoso. Mi stavo sentendo l’equivalente umano di un cane randagio. «Quello di Devin», dissi. «Oh», rifletté, grattandosi la testa. «Bray non è ancora tornato. Visto che non risponde mai al telefono gli ho lasciato una nota scritta e l’ho infilata sotto la

porta». «Una nota?», rise Chase. «Siamo forse nel 1985?» «Cosa è successo nel 1985?», chiese Creed. «La DeLorean ha superato le ottantotto miglia all’ora», rispose Cord. «Credo che sia nata Madonna», aggiunse Chase. «Vi vedrei bene, tutti e tre, con i capelli anni Ottanta», dissi. I tre fratelli restarono a guardarmi per qualche istante e poi scoppiarono a ridere. «Ehi», disse Cord, picchiando il dito sul braccio di Chase. «Dov’è la tua amichetta?». Chase rispose con la bocca piena. «Se n’è andata dopo un scambio di opinioni. Credo che mi abbia rubato il portafoglio». Creed sospirò e prese qualcosa da sopra al frigo. La tirò sul tavolo. «Non ti ha preso il portafoglio. Eccolo qua». Cord si avvicinò al divano. Mi spostai per fargli spazio ma si mise a sedere dal lato opposto, più lontano possibile, pur rimanendo sullo stesso mobile. «Dunque», disse, un poco a disagio. «Come stai?» «Bene», risposi, alzando le spalle. «Non lo so. Forse fra qualche ora riuscirò a risponderti meglio». Cord aveva la faccia seria. Bevendo il caffè rimasi a osservarlo. Era davvero bello, ma comunque lo era sempre stato. La maturità lo aveva migliorato, indurendogli i lineamenti. Aveva una cicatrice sul sopracciglio sinistro. «Sei diverso», azzardai, pentendomene quasi subito. Mi era ato per la testa che Cord Gentry non fosse uguale a come me lo ricordavo. Ma forse nemmeno io ero come mi ricordava lui. «Lo prendo come un complimento», disse. Diedi un altro sorso di caffè e sentii che Creed stava sgridando Chase per aver

lasciato il piatto sporco nel lavandino. Per quanto potessi ricordare, i fratelli Gentry erano sempre stati dei chiassosi impenitenti che non si facevano mettere i piedi in testa da nessuno. Ma vedendo Chase dare un buffetto affettuoso in testa al fratello, pensai a come non li avessi mai visti in questa luce, come fratelli ai quali importava moltissimo l’uno dell’altro. Sapevo che avevano avuto un’infanzia pessima. A Emblem c’era sempre stata una quantità di Gentry dagli occhi pesti in giro per le strade. Non doveva essere stato semplice fuggire dalla povertà e dalla miseria in cui erano nati. Cord guardava con espressione assente i fratelli che lottavano come cuccioli di leone troppo cresciuti. Creed alla fine vinse e iniziò a battersi il petto come un gorilla. Chase lo spinse via. «Continua a batterti il petto, King Kong». «Sei un perdente», lo apostrofò Chase. «Puzzi di profumo economico». «Va bene. Vado a farmi una doccia per togliermi la puzza di quella ragazza di dosso. Sapete, mi ha chiesto se volevate farvi un giro anche voi. Cristo, che tipo». Cord scoppiò a ridere. «Se vuoi una brava ragazza, devi fare il bravo ragazzo». Chase si fermò vicino al divano e mi guardò alzando un sopracciglio. «Senti chi parla». Fissai il fondo della tazza di caffè mentre Cord mi lanciava un’occhiata fugace. «Me la sono cercata», borbottò, scuotendo la testa. Si picchiettò la coscia con la punta delle dita e per la prima volta feci caso ai tagli che aveva sulle nocche. Li indicai. «Hai fatto a botte con qualcuno?». Cord sorrise. «Sì, si può dire di sì». «Che altro si può dire?» «L’ho fatto per lavoro». «Non capisco».

«A che ti serve capirlo?» «Hai fatto a botte o no?». Cord guardò fisso Creed, che ascoltava la conversazione con enorme interesse. «Più o meno». Iniziai a infastidirmi. «Ma che vuol dire più o meno? Più o meno hai chiuso la mano a pugno e più o meno ci hai colpito qualcuno?». Gli occhi gli lampeggiarono irritati. «Non sono affari tuoi, Saylor». Stavo per controbattere in maniera sagace ma lasciai stare. Aveva ragione, non era affar mio. E chi ero io per giudicarlo, quando avevo ato gli ultimi mesi a letto con un mostro? «Hai ragione». Inghiottii amareggiata. «Ehi», disse, allungando una mano e sfiorandomi il ginocchio. Mi imbarazzò sentire che anche un piccolo tocco da parte sua mi provocava una qualche reazione. «È tutto a posto, Say. Senti, non volevo essere il solito stronzo». Mi sollevai a sedere, rigida. «Ma no, Cord, non sei stato stronzo. Sei stato gentile. Però credo che sia ora di togliermi dai piedi». Non si mise a discutere, non protestò quando dissi che dovevo togliermi dai piedi. Mentre ripiegavo per bene la coperta vidi dove gli stava cadendo lo sguardo e abbassai gli occhi. Nella luce impietosa del primo mattino era difficile tenere nascosti i capezzoli sotto la maglia attillata. Mi chiusi su me stessa, imbarazzata e umiliata. Cord rise del mio disagio ma non distolse lo sguardo. «E va bene», dissi, infilandomi la felpa. «Sono d’accordo». Alzò le spalle, sicuro di sé. «Ma fuori ci sono già trentadue gradi all’ombra. Magari è più semplice se fai come tutte le altre e indossi un reggiseno». «Cazzo», dissi. Mi era venuta in mente una cosa. Presi la mia borsa e iniziai a

rovistarci dentro. «Che succede?». Diedi un calcio alla borsa. «Non ne ho preso nemmeno uno». Mi guardò vitreo. «I reggiseni!», urlai. «Ho messo in borsa sedici paia di mutande e nemmeno un reggiseno». Si sentì Creed ridacchiare in cucina. «Andavo di fretta», mugugnai, prendendo un top nero dalla borsa e infilandomelo sopra la maglietta. «E va bene», disse Cord, accavallando le gambe. «Credo che tu sia nei guai, cara. Qua intorno non c’è nessun negozio». Lo fissai. «Falla finita, dài». Mi guardò in silenzio per un minuto e poi andò in cucina. Prese qualcosa dal freezer e me la porse. «È carne», dissi. «Avrei dovuto pensarci ieri sera», spiegò. «Non muoverti. Tienila sulla faccia per un po’. Anche se sono ate molte ore, può aiutarti a ridurre un po’ il gonfiore». «Oh», dissi a bassa voce, sedendomi di nuovo con la bistecca poggiata sulla faccia. «Ha un aspetto orrendo, vero?» «Non ha un bell’aspetto», confermò. Creed alzò la voce dalla cucina. «Sono contento che tu gliel’abbia fatta vedere, a quel figlio di troia». Sorrisi ma vidi che Cord aveva un’espressione preoccupata. Prese il telefono dalla tasca posteriore e me lo puntò addosso.

«Metti giù un attimo la carne». Ero confusa. «Perché?» «Perché se gli hai rotto davvero un braccio potrebbe denunciarti». «Che cosa?», esclamai. «Mi potrebbe denunciare?» «Non essere così sorpresa», borbottò Cord, scattando una raffica di foto alla mia faccia. «Se lo fa, avrai bisogno di dimostrare che hai agito per autodifesa». «Autodifesa», dissi, scuotendo la testa. «Certo che è stata autodifesa». Cord mise giù il telefono. «Saylor?». Lo guardai. Sembrava non voler dire quello che gli era appena venuto in mente. «Hai bisogno di parlarne con qualcuno?», chiese. «Di quello che ti è successo». «L’ho già fatto. Ne ho parlato con te». «No», continuò, venendosi a sedere vicino a me. «Voglio dire con qualcuno che ti possa aiutare a superare il trauma». «Lo sto già facendo», mormorai, poggiandomi la carne gelida sulla guancia. «Sei sicura?» «Sì, Cord. Ce la posso fare. Non sono di certo la prima ragazza che finisce per essere stuprata da qualcuno che credeva di amare. Non voglio restare sdraiata su un lettino a farmi estrarre chirurgicamente tutti gli orrori che si annidano nella mia psiche. Non voglio mettermi a scrivere poesie incresciose e annegare nella paura. Pochi minuti fa mi hai detto che qualcosa non era affar mio. Be’, questo non è affar tuo». Poi udii il suono isterico della mia voce e capii quanto dovevo essere sembrata brusca. Tirai un respiro profondo e provai a calmarmi. Creed era ancora in cucina, in piedi davanti al bancone, con la faccia di chi desiderava profondamente trovarsi da qualche altra parte. Cord si era fatto silenzioso. Lo guardai ma non riuscii a decifrare la sua espressione enigmatica.

«Non me lo hai detto», dichiarò alla fine con un tono più dolce. «In cosa ti sei laureata, intendo». Espirai, sentendomi più calma. «No, non te l’ho detto. In inglese. Scrittura creativa». «Già», disse, accennando un sorriso. «Questo me lo ricordo. Stavi sempre lì a scribacchiare sui tuoi bloc-notes». «È vero». Il rumore di qualcuno che bussava alla porta ci fece sobbalzare. Probabilmente ero ancora un poco nervosa, perché saltai proprio mezzo metro più in là. «Avanti», disse Cord. «È aperto». Nonostante avessi trascorso tutte quelle ore immersa nel dolore, nella rabbia e nell’incertezza, dovevo ancora piangere una sola lacrima. Ma la vista della faccia di mio cugino, che mi trovava seduta lì con la mascella gonfia, mi fece immediatamente scoppiare a piangere. «Brayden», lo chiamai, alzandomi in piedi. Sentire le sue braccia intorno al collo fu come essere arrivata finalmente a casa. Avevamo solo due settimane di differenza ed eravamo sempre stati inseparabili. Say e Bray. Lui era il fratello protettivo che non avevo mai avuto, il solo vero amico che mi fosse mai servito. «Lo uccido, quel figlio di troia», disse. Mentre arretravo di un o e lo guardavo negli occhi, mi accorsi che diceva sul serio. Non avevo ancora capito quanto mi fosse mancato mio cugino, prima di trovarmelo davanti. Era sempre la stessa persona; nervoso, magro, un paio di enormi occhi verdi dietro gli occhiali spessi. «Va tutto bene, Bray». Le lacrime mi sgorgavano inarrestabili. «Mio Dio, dovevo darti retta». Mi abbracciò di nuovo, dandomi delle piccole pacche sulla spalla, come se fosse un genitore che voleva darmi conforto. «Va tutto bene, Say. È tutto finito». «È tutto finito», confermai. «Non tornerò di certo da lui».

Dietro le sue spalle, vidi un lampo bianco di qualcuno che si muoveva. La riconobbi dalla foto che avevo visto. Millie mi sorrise. «Ciao, Saylor», disse, come se fossimo due amiche di lunga data che si rivedono dopo qualche tempo. Aveva i più spettacolari capelli neri che avessi mai visto ed essudava calore umano praticamente da ogni poro. Mi allungò le mani e io le accolsi con gentilezza tra le mie. «Piacere di conoscerti, Millie. Di persona sei persino più bella». Mi toccai la faccia a disagio. «Vorrei che potessi dire lo stesso di me». Millie sorrise e mi guardò con attenzione il volto. Il sorriso le sparì in fretta. Mi toccò la guancia con un gesto pieno di tenerezza. «Almeno sei scappata», disse sottovoce. «Sì. Mi ci è voluto sin troppo tempo, ma ce l’ho fatta». Brayden cercava con lo sguardo qualcosa nel salotto dei Gentry. Non sapevo cosa gli avesse scritto Cord in quella nota, ma sembrò ovvio che si stava rendendo conto di essere sconcertato di trovarmi lì. Vidi che notava il mio giaciglio improvvisato sul divano, guardando Cord con gli occhi pieni di domande. Da parte sua, Cord si era ritirato in cucina e stava parlando a bassa voce con Creed. Vide la confusione dipinta in volto a Brayden e si avvicinò. «La notte scorsa mi sono imbattuto in Saylor, mentre ti stava cercando», disse, alzando le spalle. «Era tardi, perciò è rimasta qui a dormire sul divano». «Mi sentivo uno schifo», dissi a mio cugino. «Cord è stato gentile a offrirmi un posto dove dormire». Brayden sembrò sorpreso. Non potevo biasimarlo. Anche io ero ancora vagamente sconcertata. Il giorno prima non avrei mai immaginato di poter are anche solo dieci minuti nella stessa stanza con Cord Gentry. Tanto tempo prima, una sera in cui ero ubriaca e mi sentivo in vena di dramma, lo avevo descritto come “la nemesi dei miei anni formativi”. La nemesi mi stava fissando dall’altro capo della stanza. Mi chiesi cosa gli asse veramente dietro a quegli occhi azzurri, ma poi cercai di pensare ad

altro, decidendo che dopotutto non volevo saperlo davvero. Mio cugino doveva aver deciso di affrontare la situazione con tranquillità. Diede una pacca affettuosa sulla spalla a Cord e solo allora ricordai che, prima che io mi presentassi lì, avevano già fatto pace. Mi schiarii la gola e presi Brayden per il braccio. «Comunque, al momento sono abbastanza senza tetto. Non voglio tornarmene a Emblem e visto che…». «Fermati», disse, alzando la mano. «Fermati, Saylor. Ovviamente, resterai qui con noi». Mi abbracciò e provai il dolce sollievo di avere una famiglia. «Magari chiedi a Millie se anche lei è d’accordo», sussurrai. Millie si avvicinò e mi poggiò un braccio intorno ai fianchi. «Millie dice che va più che bene». Brayden le sorrise e lei rispose facendo l’occhiolino e abbracciandomi più stretta. Aveva un accento lieve e mi chiesi da dove venisse. «Tu, mia cara, sei l’unico punto saldo della gioventù tormentata di Brayden in quella spelonca di città. Se lo senti, dice sempre io e Saylor, Saylor e io». Aveva una risata squillante, come un camlino d’argento. «Non riesco a credere che ci sia voluto così tanto per conoscerci». «Be’, già», dissi, arrossendo. «Sono stata fortunata. Lui c’è sempre stato, per me. È stato come un fratello». Mi strinse il braccio con affetto. «Be’, sono felice che tu sia qui, anche se vorrei che fosse per motivi diversi». Il mio umore si rabbuiò pensando a Devin e alla California. Mi chiesi cosa se ne sarebbe fatto del resto delle mie cose. Provavo la brutta sensazione che lo avrei risentito presto. Chase entrò nella stanza con addosso soltanto un asciugamani, mettendo in mostra un grosso tatuaggio sul torace, simile a quello di Cord. Sorrise a tutti e alzò le braccia. «Be’», disse, sbadigliando. «È praticamente una riunione di Emblem».

«Forza Scorpions», affermai ironicamente, riferendomi alla brutta mascotte di quella squadra. «Se tu pungi, noi pungiamo più forte!», urlarono Cord e Creed all’unisono. Era lo stupido motto della scuola. Più che un motto era un modo di farsi prendere in giro. Chase mi rivolse un ampio gesto di saluto e soffiò un bacio nella mia direzione. Poi scomparve lungo il corridoio, mentre si toglieva l’asciugamani, mettendo in mostra un culo estremamente sodo. «Cristo», disse Cord, scuotendo la testa. Ma si vedeva che era divertito. I nostri sguardi si incrociarono per qualche istante, anche se sembrò un tempo infinito. Distolsi io lo sguardo per prima. Brayden prese la mia borsa e guardò in giro. «Hai solo questo o in macchina c’è altro?» «No, è tutto qui. Il resto delle mie cose starà probabilmente bruciando in un falò sulla spiaggia». Bray mi mise il braccio attorno alle spalle. «Va tutto bene. Possiamo procurarci le cose che ti servono. Procurarsi un’altra Saylor, invece, sarebbe stato più difficile». «È vero», confermò Cord. «Di Saylor ce n’è una sola». Lo guardai fisso, ma non sembrava voler dire nulla con quella frase. Ci stava già salutando. «Ciao, Cord», dissi a bassa voce, catturando la sua attenzione. Sbatté le palpebre. «Ci vediamo, Say». «Forse», dissi, prima di seguire Bray e Millie fuori dalla porta. Anche se l’istinto mi diceva di non farlo, mi girai comunque a guardare. Cord mi stava fissando. A parte quando mi aveva gettato a terra la sera prima e quando mi aveva guardato le tette quella mattina, dal momento in cui lo avevo incontrato non aveva compiuto un singolo gesto sconveniente. Si era comportato in maniera

civile e accorta. Ma mentre i nostri occhi si incrociavano per un’ultima volta, notai una versione più penetrante dello sguardo che mi aveva rivolto sul divano. Forse il potere della lussuria non dava mai tregua a un uomo come Cord. O forse tra di noi c’era una connessione antica che era difficile da cancellare. Perché, tra le memorie vecchie e quelle più recenti, la sentivo anche io. Mi sforzai di mantenere un’espressione neutra mentre mi chiudevo la porta alle spalle.

Capitolo sei Cord

Quando mi sembrava che, se non lo avessi infilato al più presto da qualche parte, sarei esploso, sapevo benissimo dove andare. Dopotutto, vivevo a ridosso di una cittadella universitaria che praticamente grondava di giovani corpi attraenti. Quando uscivamo tutti e tre insieme, la sera, le donne strisciavano fuori dal nulla e ci si appiccicavano addosso, come se fossero state calamitate. Mi avrebbe fatto bene riuscire a liberarmi. Da un po’ di tempo mi stavo sentendo troppo carico. Per questo rimasi sorpreso di me stesso quando, invitato da Chase e Creed ad andare a fare un giro su Mill Avenue, decisi di rimanere a casa. Certo, ci sarebbe stata solo la gente che va in giro d’estate, ma valeva comunque la pena di andarci per guardarsi un po’ attorno. Chase sembrava perplesso. «Ma che fai, resti incollato a Netflix tutta la sera? E dài, Cord». «Non lo so», risposi. «Magari più tardi vado a fare una eggiata». «Una eggiata? Una cazzo di eggiata?», borbottò Chase. Creed sembrava divertito. «Hai in mente un qualche posto speciale, dove andartene a eggiare?» «Dovrei?» «L’ho vista ieri sera, sai?» «No che non lo so. Aspetta, ma di chi parli? Dove l’hai vista?» «Ma sì, stava in piscina. Sembrava in forma», incalzò Chase, carezzandosi la patta con un ghigno. «Tu vattene a fare in culo», lo apostrofai.

Creed sospirò. «Ma perché non vai a parlarci?» «Perché? Perché tanto tempo fa me la sono fatta nel garage del padre e poi ho raccontato a tutti di che sapeva la sua fica». «Rinfrescami la memoria», mi provocò Chase. «Di cosa le sapeva la fica?» «Falla finita, testa di cazzo. Comunque, sta ando un momento difficile. Non le servo di certo io tra i piedi». «Forse però ti ci vuole lei, tra i piedi», disse Chase. «No che non mi ci vuole. Cioè, tu credi di sì?». Chase scoppiò a ridere. «Ma no. Però forse ci vuole me». «Tu e Saylor McCann?», dissi esterrefatto. «Perché no? Magari mi sono rotto le palle delle solite trucide. Magari sotto sotto voglio una brava ragazza, come dici tu». «Col cazzo», mugugnai, dando un calcio al divano come un bambino offeso. Chase mi rivolse una smorfia. «Se mi dici di starle alla larga, le starò alla larga». In risposta, restai solo a guardarlo a lungo. Chase alzò le spalle. «D’accordo, allora». «Sei sicuro che non ti va di venire?», chiese Creed. «Sicuro», sospirai, lasciandomi cadere sul divano. Creed e Chase si scambiarono un lungo sguardo prima di lasciarmi alle mie elucubrazioni. Erano ate due settimane da quando avevo aggredito Saylor McCann davanti all’appartamento di suo cugino e ancora non riuscivo a smettere di pensare a lei. Nei primi giorni credevo si trattasse di un qualche rimorso residuo, relativo a quello che era successo quando eravamo tutti e due ragazzi. Ma quando alla fine l’avevo rivista un paio di giorni prima, che guardava fissa nel vuoto seduta sulla ringhiera del patio di Bray, giocando con le punte dei capelli, avevo capito che si trattava di qualcosa di più serio. Sulle prime mi ero

avvicinato per salutarla, ma poi avevo cambiato idea ed ero tornato sui miei i prima che potesse vedermi. Invece, avevo preso un giornaliero in palestra e avevo dato pugni a un sacco fino a ridurmi le nocche a carne macinata. Ma non riuscivo a togliermela dalla testa e là era rimasta anche più tardi, mentre pieno di sensi di colpa mi facevo una sega immaginandomela nuda e calda sotto di me. O sopra. Andava bene qualsiasi cosa. Volevo solo sbatterglielo tutto dentro e scoparmela fino a raggiungere l’estasi. Mentre stavo seduto nell’appartamento silenzioso, non mi sovvenne nessuna idea decente su come ingannare qualche ora. La settimana prima avevo parlato con un tipo che mi aveva detto che poteva procurarmi un lavoro come buttafuori all’Apex, un club su Mill Avenue. Non avrei guadagnato gli stessi soldi di un combattimento, ma per il momento andava più che bene. Più che altro sembrava un bel modo di are il tempo e alla fine, ogni sera, avrei potuto portarmi a letto una tipa che non fosse quella che avevo trattato come una merda tanti anni prima. Mi stavo quasi pentendo di non essere andato con Chase e Creed. «Vaffanculo tutto», dissi alla stanza vuota e mi alzai di scatto dal divano. Restandomene lì da solo non avrei migliorato di certo la situazione. Non che avessi granché voglia di mescolarmi alle masse arrapate, ma avevo bisogno di trovare una risposta all’inquietudine che sembrava essersi impossessata completamente di me. Non appena uscito di casa iniziai a correre. Non avevo la minima idea di dove fossi diretto ma la sensazione di bruciore nel torace metteva a tacere tutto il resto. Feci il giro del complesso residenziale per dirigermi su University Drive e poi tornai indietro. Grondavo di sudore e togliendomi la maglia mi ci asciugai la faccia. Era abbastanza presto. L’ultimo sole del giorno era ancora aggrappato all’orizzonte e bagnava il mondo di toni soffusi prima di scivolare un po’ nella tenebra. Di sicuro non ero finito per caso davanti al palazzo di Brayden. Decisi di non avvicinarmi al portone e lo aggirai tenendomi a distanza. Le luci erano accese e si vedevano delle ombre muoversi dietro le tapparelle. Tentai diverse volte di fare qualche o avanti, con l’intenzione di bussare alla porta, per poi perdere il coraggio e tornare sui miei i. Ero sudato fradicio e stava quasi calando la notte. Sarebbe sembrato strano se fossi piombato lì dal nulla.

Alla fine decisi di andarmene. Potevo ancora raggiungere i miei fratelli per vedere cosa stessero combinando. «Cord». La sua voce non suonava affatto sorpresa, ma nemmeno particolarmente amichevole. Forse era solo curiosa. Mi girai. «Ehi, Saylor». Mi scrutò in lungo e in largo. «Che ci fai qui?». Mi asciugai la fronte. «Ero uscito a fare una corsa. Stavo pensando di are a farvi visita, ma poi, sai com’è…». Lasciai cadere il discorso, con gli occhi rivolti a terra come un coglione. «No», disse, «non lo so com’è». Mi sembrò di notare un tono divertito nella sua voce, e quando rialzai gli occhi per guardarla vidi che stava sorridendo. Aveva anche un bellissimo aspetto. «Vai a farti una nuotata?», le chiesi. Era una domanda inutile, visto che aveva addosso un bikini e portava un telo da mare in mano. Saylor annuì, avviandosi per la sua strada. «Sì, mi piace nuotare di notte. Sono tutti in giro a fare cose più interessanti e in genere ho tutto il posto per me». Immaginai che mi stesse suggerendo di salutarla e rimettermi sui miei i, e stavo per farlo, quando mi sorprese. «Dall’aspetto che hai, una nuotata potrebbe farti bene». «Forse sì». Aspettò che fossi al suo fianco prima di rimettersi in marcia. Intorno alla testa aveva una fascia verde lime che riprendeva il colore del bikini. Se la sfilò, scuotendo i capelli, diffondendo l’odore fruttato del suo shampoo. Fu sufficiente a eccitarmi. Be’, quello e la vista della sua pelle setosa, così vicina da essere praticamente a portata di lingua.

Saylor sembrava all’oscuro di tutto. ammo sotto a un cedro e lei ne raccolse un bocciolo. «Mi piace l’odore che hanno». «Mi ricorda i frutteti alla periferia di Emblem. Ci andavo a fare merenda». «Ho sentito che non ci sono più». «No, non ci sono più», confermai. «Ora là c’è una baraccopoli». Mi guardò pensosa. Non si vedevano più le ferite sul volto. «Credevo che ti avrei rivisto prima». Aprii il cancello della piscina. «Se avessi saputo che mi stavi aspettando, mi sarei fatto vivo prima». Mi spinse giocosamente l’indice sul petto. «Mica ho detto che ti stavo aspettando». Saylor lasciò cadere l’asciugamani su una sdraio e scalciò via le ciabatte. «E tu, non ce l’hai il costume?». Alzò un sopracciglio quando mi calai i jeans. «Ho i boxer». «Oh», farfugliò sottovoce, giocherellando di nuovo con la fascia che aveva in mano. Si capiva benissimo che stava arrossendo, e già solo a pensarci mi veniva duro come un sasso. La guardai, la guardai sul serio. Era sempre stata una ragazza carina, ma con gli anni aveva messo un po’ di carne proprio nei posti giusti. Quelle tette, quei fianchi, all’epoca non c’erano. Ma non finiva lì. Aveva qualcos’altro. Qualcosa di malinconico e dolce che ti faceva venire voglia di affogarle dentro. Mi ero però precluso quella possibilità anni prima. Presi la rincorsa e mi tuffai dove l’acqua era più alta. Quando riemersi la vidi seduta all’altro capo della piscina. Mi immersi di nuovo e nuotai verso di lei. Quando la raggiunsi stava muovendo i piedi nell’acqua. Mi misi a sedere sul bordo della piscina anch’io. «Allora, come va, Say?». Sorrise ai mulinelli che andava creando con le dita dei piedi. «Meglio dell’ultima volta che ci siamo visti. È strano essere piombata in questo vuoto di inattività

dopo quattro anni di lezioni, compiti in classe, esami e tirocinio. Ho trovato un lavoro. Faccio la cameriera, ma è pur sempre qualcosa». «Dove?». Rise. «Alla Gallina Pazza. I baristi devono indossare un cappello a forma di pollo». «Non c’è bisogno di mortificarti. Un lavoro è un lavoro. Comunque, in genere, lì il pollo è sempre buono. Sei riuscita a scrivere qualcosa?». Sembrò sorpresa. «Non molto. Sto usando il computer di Millie, visto che il mio ha fatto una brutta fine». «Be’, almeno non gli sei andata appresso». Forse non era il miglior commento che potessi fare. Gli occhi verde chiaro di Saylor mi fissarono con severità. Volevo ritirare le parole che avevo detto, maledicendomi per averla costretta a ricordare quello che probabilmente già stava facendo fatica a dimenticare. «E ne sono felice», disse, senza sorridere. Dovetti trattenermi dal guardarle il corpo. Mi stava provocando ogni sorta di strani effetti senza che riuscissi a controllarmi. Lei si fissò le lunghe gambe mentre scalciava appena la superficie dell’acqua. Le volevo avvinghiate intorno ai fianchi mentre il mio cazzo gonfio si preparava a entrare nello spazio stretto che ci serbava in mezzo. «Che tipo di cose scrivi?» «Fantasy romantico». Non sapevo bene come diavolo risponderle. Saylor mi guardò e fece una smorfia. «È da un anno che sto lavorando sulla stessa cosa. Si tratta di un mio universo personale, che è bizzarro e imprevedibile come tutti quelli che lo popolano». «Hai detto che è una cosa romantica?».

Sospirò. «Sì, in fondo sì. È la storia di due amanti clandestini, provenienti da mondi diversi, che all’inizio sono nemici». Per qualche motivo starla a sentire mentre parlava delle sue cose immaginarie me lo faceva diventare ancora più duro. «Perché sono nemici?» «Nascono già così. Lei è un’umana che vive in una delle città più sorvegliate del regno. Lui appartiene a una razza di reietti, a metà tra uomini e bestie, che viene vista come una minaccia». Distolse lo sguardo, perdendosi in lontananza, come se stesse visualizzando i personaggi che vivevano nella sua testa. «E qualche volta sono davvero una minaccia». Fece una pausa e mi piantò un dito sul braccio. «Come questo qui». Guardai il tatuaggio che mi ricopriva il bicipite destro. «Il centauro?» «Sì. Nella mitologia venivano di solito considerati selvaggi. Selvaggi e lussuriosi». «E forti», le rammentai, ricordando che Chase me ne aveva parlato, durante una delle sue fasi mitologiche. «Qualche volta, pure saggi». «Qualche volta sì». Saylor era molto apionata del suo lavoro. Si sentiva dalla voce. Mi ritrovai a invidiarla per questo motivo. Volevo anche io sentirmi così apionato di qualcosa. Mi schiarii la gola. «Mi piacerebbe leggere il tuo libro». Non mi credette. «No che non ti piacerebbe. E comunque, al momento langue incompleto». Fece una smorfia, fissandosi il riflesso nell’acqua. «Non so come va a finire». «Non finisce nel modo in cui decidi di farlo finire?» «Sì. Ma è difficile scrivere di amore quando la vita ti dice che potrebbe non esistere». Era venuto in mente anche a me. «Penso che per molte persone esista».

Sembrava non volersi soffermare su quell’argomento. «Magari sì. Guarda Millie e Bray. Sono una bella coppia. Una volta pensavo che tutte le relazioni fossero così». Si immerse nell’acqua fino all’ombelico. «Tu non mi hai ancora detto di cosa ti occupi». Pesto a sangue dei tipi per denaro e spero di non restarci secco. Sospettavo che una ragazza che era già stata pestata per bene come lei non avrebbe apprezzato granché la mia occupazione. Tornai in acqua, pregando che fosse abbastanza buio da non farle notare la grossa sagoma del mio cazzo duro attraverso i boxer. Volevo strapparle quel bikini verde di dosso con i denti. «Hai già fatto un salto a Emblem?». Scosse la testa. «Macché. Ho parlato di sfuggita con mio padre. Credo che sospetti qualcosa ma non è un tipo che fa troppe domande». Sospirò. «Il che non è male, visto che non ho tutte queste risposte da dargli». Nuotò fino a bordo piscina e si appoggiò per riposare. «Tu ci torni spesso?» «Se posso evitarlo è meglio», risposi, pensando con amarezza a mia madre che ancora viveva con quella testa di cazzo. Lei ci stava bene lì e non aveva mai mostrato interesse ad andarsene. O in altro che non fosse la dose successiva. L’ultima volta che eravamo andati a trovarla, un anno prima, era stato durante una delle vacanze da un mese di mio padre. Mia madre, che un tempo era stata una bella donna, aveva praticamente ghermito le banconote che Creed le aveva offerto, e ci aveva sorriso sdentata, brutta come un fantasma. Poi era rientrata di corsa nella roulotte, lasciandoci lì a guardarla con solennità, sapendo che già si era dimenticata della nostra visita. «Non ci vado mai», dissi a Saylor. «Capisco», rispose. Poggiò i gomiti sul cemento e guardò in alto verso il cielo. «Continua a chiamarmi», disse a bassa voce. «Tuo padre?» «No». Con un gesto fulmineo si tuffò sott’acqua e attraversò tutta la piscina. Dunque stava parlando di lui: quel mangiamerda che si eccitava a picchiare la fidanzata. E non solo a picchiare. Venni colto da un’ondata di nausea mentre ricordavo Saylor che mi raccontava cosa aveva dovuto subire. Mi faceva sentire a disagio per i pensieri arrapati che avevo in testa.

Saylor raggiunse l’altro capo della piscina, riemerse per qualche istante e poi si immerse di nuovo. «Sei brava a nuotare», le dissi quando riemerse. «Sei più brava di me». «Grazie all’oceano», rispose annuendo. «Ci andavo ogni volta che potevo. Provare a nuotare tra quelle onde inferocite migliora la tua resistenza». «Come nella vita». Rise. «Dunque Cordero Gentry è un filosofo?» «Cordero Gentry è un mucchio di cose». «Raccontamene qualcuna», disse, scuotendosi i capelli bagnati. Si era fatto completamente buio. Sentivo il rumore della gente che entrava e usciva dal complesso residenziale, ma lì in piscina eravamo ancora soli. Mi avvicinai al suo fianco. «Vuoi sapere come ho imparato a nuotare?» «Spara». «Be’, una sera, quando avevamo otto anni, mio padre ha deciso che dovevamo imparare a nuotare, a costo della vita». Feci una pausa, pensando alle mani crudeli di Benton Gentry che mi tiravano giù da letto. «Ti ricordi la piscina pubblica, sulla Main?». Saylor annuì. «Era quasi mezzanotte e il posto era chiuso. Ma cose del genere non bastavano mai a fermare mio padre. Forzò il lucchetto del cancello e ci trascinò dentro. Ricordo che mi stavo pisciando sotto dalla paura. A quel punto sapevamo già bene che quando a mio padre veniva una delle sue idee, qualcuno finiva per farsi male. E in piscina non ci eravamo mai stati». «Dov’era vostra madre?», chiese Saylor. «Buttata sul letto, fatta come una scimmia». Diedi un’alzata di spalle. «O qualcosa del genere. Comunque, tutte le luci erano spente. Vedevo questo posto buio come la pece e sapevo che lì davanti, da qualche parte, c’era l’acqua e mi

chiedevo se sarei morto». Ripensandoci, mi divenne roca la voce. Solo io e i miei fratelli sapevamo questa storia. Mi schiarii la gola. «Benton ci tirò in acqua uno alla volta. Creed è sempre stato il più veloce e il più forte. Riuscì a raggiungere il bordo piscina e a uscire fuori. Sentivo che mio padre ci urlava di portare il culo fuori dall’acqua. Dietro di me Chase stava facendo un macello per cercare di restare a galla e mio padre rideva come un pazzo. Io continuavo ad affondare ma ogni volta, da sotto, spingevo mio fratello in direzione del bordo. Creed da sopra ci tendeva la mano e ci urlava che ce l’avevamo quasi fatta. Poi andai sotto di nuovo ma non riuscivo più a risalire. Aprii gli occhi ma non si vedeva nulla. Nulla. Sapevo che non sarei riuscito a trattenere il respiro per più di qualche secondo e sapevo anche che se avessi aperto la bocca sarei morto. Quando un paio di mani mi afferrarono pensai che fosse già finita. E affiorai a galla, portato su dai miei fratelli. Creed stava aggrappato al bordo della piscina e teneva Chase che nel frattempo mi aveva preso e mi tirava a lui». «Mio Dio», disse Saylor, scuotendo la testa. Aveva la voce addolorata. «Cord». Le diedi una spinta. «Ehi, mica te l’ho raccontato per farti pena. Volevo solo dirti che succede un mucchio di cose brutte. Succedono e se riesci a sopravvivere hanno il potere di stravolgerti in un modo che poi diventa difficile da risolvere. Saylor, mi dispiace che ti siano successe quelle brutte cose». Era difficilissimo dire quello che stavo per dire. «Mi dispiace tantissimo di averti fatto male». Sospirò rumorosamente. «Pensi che io sia finita con un tipo che mi picchiava a causa tua?». Non mi stavo spiegando bene. «Non esattamente», le risposi. «Ma le cose che ci accadono finiscono per influenzare le nostre scelte future». Aveva il volto triste. «All’epoca mi hai fatto a pezzi. Non ti voglio indorare la pillola. Prima di quel giorno, non avevo mai nemmeno baciato nessuno. Ti ho odiato a morte». Si lasciò sfuggire un lungo sospiro e intrecciò le dita davanti a sé. «Ma quello che è successo poi, con Devin, sono stata io a permetterlo. Stavo lì a inventare scuse sempre più fantasiose per restare con lui. E non è colpa tua, Cord. È solo colpa mia». Volevo abbracciarla più di quanto volevo che il cuore continuasse a battermi. Mi poggiò la testa sulla spalla e d’istinto le baciai la fronte. Sapevo che in quel momento non potevo spingermi oltre.

Saylor abbassò lo sguardo e con un tocco leggerissimo fece scorrere le dita sulle lettere scure della scritta che avevo tatuata sul petto. «Vincit qui se vincit», lesse ad alta voce. «Lo sai che vuol dire?». Arricciò il naso, cercando di trovare una risposta. «Qualcosa riguardo al vincere», provò a indovinare. «Più o meno. Chi conquista se stesso vince. A Chase è sempre piaciuto il latino». La sua faccia era a pochissimi centimetri dalla mia. «E tu? Hai conquistato te stesso?» «Qualche volta», le risposi, con sincerità. Sembrò accettarlo. Restammo per un altro po’ di tempo in piscina, senza dirci granché. Con lei, stavo bene anche così. Mentre la guardavo avvolgersi un asciugamani intorno al corpo smisi di sentirmi in colpa per quanto la desideravo. Avevo scopato una sfilza di ragazze alta fino al cielo e non mi era mai nemmeno ato per la mente. Anche quelle con le quali era durata un po’, non erano mai state nulla di serio. Non riuscivo a trovarne una della quale mi importasse qualcosa. Ma Saylor riusciva a toccarmi dentro in un modo che faceva quasi male. «Ti riaccompagno», le dissi. Annuì e ci incamminammo. «Va bene». Nell’aria si sentivano urla e risate di gente ubriaca. La notte era tiepida. Le persone che non vivevano nel deserto non si rendevano conto di che escursione termica drammatica potesse esserci tra la notte e il giorno. «A che stai pensando?», le chiesi, un poco in apprensione per la sua potenziale risposta, immaginando che stesse ricordando la prima volta che aveva camminato al mio fianco e cos’era successo dopo. Fece una smorfia. «Devo tornare in California». Mi irrigidii. «Perché?»

«Perché è là che ho tutte le mie cose. Non posso prosciugare per sempre il guardaroba di Millie». «Ti rimedio io un po’ di soldi per comprarti qualche vestito nuovo». Le sembrò una proposta divertente. «Che cosa? Ma no, Cord, dài. Devin non proverà a fare nulla. Mi ha giurato che ha cercato aiuto. Gli ho detto che ha fatto bene, perché ha davvero bisogno di aiuto. Lui mi ha detto che posso andare a riprendermi le mie cose quando voglio. Verrà Bray con me». Nella testa mi scattò un camlo di allarme. «Non andare». Mi guardò. «E perché?» «Non ho molte abilità ma in genere riesco a capire quando qualcosa sta per andare a puttane». Roteò gli occhi. «Non ci credo, nelle premonizioni». «E nel buon senso, ci credi? Non ci andare, Saylor». Mi guardò irritata. «Ti prego», aggiunsi, a bassa voce. «Lo so che impressione ti fa. Ma credimi, il prossimo uomo che prova a farmi uno scherzo del genere non tornerà a casa con le palle intatte». «Allora va bene. Ma non penso che dovresti fidarti di lui». Il cervello mi stava lavorando alla svelta. «Quando hai in programma di andare?» «Lunedì non lavoro. Pensavo di approfittarne». «Ma Brayden sta facendo quei corsi estivi, no?». Annuì. «Allora verrò io con te. Ti accompagno in macchina in California, ti aiuto a prendere il resto delle tue cose e faccio vedere a quello stronzo di Devin che non è aria di riprovare a farti del male». «Non devi farlo», disse a bassa voce. «Lo so che non devo. Mi sto offrendo di farlo proprio per questo».

Sorrise. «Cambierai idea in fretta. La mia macchina non ha l’aria condizionata». «Prenderemo il mio pick-up». Non riuscivo a interpretare il suo sguardo. Forse stava provando a capire perché mi fossi offerto. O forse stava ricordandosi di quand’ero un delinquente moccioso. «Perché?», chiese. «Perché il mio pick-up sarà pure un ammasso di ferraglia, ma almeno ha l’aria condizionata, che torna utile se devi attraversare il deserto d’estate». Storse la bocca. «No, voglio dire, perché vuoi farlo? Perché vuoi infilarti nel casino in cui ho ridotto la mia vita?» «Ci credi se ti dico che sto intraprendendo una missione di redenzione personale?». Saylor si morse il labbro. «No. E comunque non ti odio più, Cord. E ti ho già detto che non devi provare pena per me». «Non provo pena per te. Ma il pensiero che tu te ne vada tutta sola a incontrare quel malato di mente mi terrebbe sveglio di notte. E non vuoi che io perda il sonno, vero? Perché se non dormo sto uno schifo. E inizio a fare cose strane, tipo mi metto a placcare le ragazze al buio». «Ma no», rise. «Meglio di no, allora. Va bene, Cord. Se è davvero un’offerta la tua, la accetto. Di sicuro Bray proverà sollievo a non dover venire». Eravamo di fronte all’appartamento di Brayden. Vidi qualcosa muoversi dietro la finestra e immaginai che qualcuno ci stesse guardando. «Allora, a lunedì, giusto?». Saylor annuì. «Sì, ma partiamo presto. Voglio fare in fretta e tornare qui in serata». «Per me va bene. Vengo a prenderti alle sette. Ok?»

«Perfetto». Scosse la testa e sorrise. «Che c’è?». Aveva lo sguardo canzonatorio. «Ho ato tante di quelle ore a sperare che uno scoiattolo con la rabbia ti maciullasse i testicoli». «Sarebbe stato un evento quantomeno sconcertante». «Be’, sono felice che non sia mai accaduto». Abbassai lo sguardo in direzione della patta. «Te ne sono grato». Saylor si mise l’asciugamani sulle spalle. «Sfortunatamente, ho provato tanto rancore per nulla. Sei una persona diversa, ora». «Sono la stessa persona», le dissi serio. «Ma sono cambiate un po’ le dinamiche». Piegò la testa leggermente in avanti. «Be’, ne sono lieta. Sono lieta che tu sia qui e che siamo… che siamo? Amici?» «Credo di sì. Ma certo». «E che non siamo più a Emblem». «Sono d’accordo. Non siamo più a Emblem». Saylor annuì in direzione della porta dell’appartamento. «Bray e Millie sono a casa. Ti va di entrare?» «Vorrei, ma i boxer bagnati mi hanno impregnato i jeans. Sembra che mi sono pisciato addosso». Mi guardò i pantaloni bagnati. «Be’, ti avevo detto di metterti un costume». «La prossima volta ti darò ascolto, Saylor». «E io la prossima volta ti ricorderò di farlo». Un ricciolo di capelli castani le scivolò sulla faccia. Senza pensarci glielo presi e

lo rimisi al suo posto sulla testa. Se fosse stata un’altra, a questo punto l’avrei afferrata e l’avrei trascinata a letto. Ma Saylor non era un’altra. Si girò e s’incamminò verso la porta. «Say, domani lavori alla Gallina Pazza»? «Da mezzogiorno a chiusura». «Magari porto i miei fratelli e facciamo un salto. Il pollo è davvero buono, te l’ho detto». Annuì seriosa. «E fa pure bene». «Il pollo fritto fa bene?» «Sì, usano solo galline allevate a terra e friggono tutto nel lardo organico». «Be’, allora è da scemi non mangiare lì tutti i giorni». «E tu non vuoi fare lo scemo, no?». Poggiò la mano sulla maniglia. «Allora siamo d’accordo per lunedì?» «Siamo d’accordo, e grazie per esserti offerto». «Grazie a te per aver accettato». «Ma certo». Le vidi un lampo birichino negli occhi. «Non sopporterei il pensiero di tenerti sveglio la notte». Ah, se solo sapessi.

Capitolo sette Saylor

Bray e Millie fecero finta di non aver visto nulla, di non aver mai spostato le tapparelle per vedermi là fuori assieme a Cord. Seduti sul divano tenendosi per mano, mi sorrisero come se fossero davvero sorpresi di vedermi lì. «Com’è andata la nuotata?», chiese Millie, continuando a sorridere. Brayden fu più preciso. «Hai trovato qualche pesce, in acqua?». Millie gli diede una gomitata. Sorrisi. «Che carini che siete». E lo erano davvero. Mio cugino era sempre stato quel tipo di ragazzo sensibile al quale le ragazze non prestavano mai attenzione, finché poi crescendo non imparavano ad apprezzare il valore di un animo così premuroso. Al liceo dicevo sempre a Brayden che un giorno o l’altro avrebbe incontrato una donna stupenda e fantastica che avrebbe capito subito quale tesoro le fosse capitato tra le mani. Lui reagiva ogni volta con imbarazzo e mi diceva di smetterla con quelle idiozie sentimentali. Mentre Brayden metteva distrattamente il braccio intorno alle spalle esili di Millie mi sentii contenta del fatto che alla fine avevo avuto ragione. Mi faceva bene vedere che un uomo poteva essere anche così, come lui, non solo crudele come Devin o indifferente come mio padre. «E Cord?», chiese Millie, come se mi stesse leggendo nel pensiero. Scattai sulla difensiva. «Cord che?» «Stavi assieme a lui, no?» «Viviamo in un paese libero. Ha ogni diritto di usare la piscina anche lui». Bray si diede uno schiaffo sulla coscia e scoppiò a ridere. «Oddio, ti piace Cord Gentry!».

Arrossii ferocemente. «Non ho detto questo. Davvero, tu più di tutti dovresti sapere quanto sia difficile per me anche solo guardarlo». «Io l’ho guardato», mi canzonò Millie. «Non è malaccio». «Ehi», protestò Brayden con una smorfia, ma Millie lo baciò rapidamente sulle labbra, per dimostrargli che stava scherzando. «Lo sai che amo solo te, mio caro». «Pensi che si sposeranno?», disse Brayden pensieroso, come se non ci fossi anch’io nella stanza. «Forse sforneranno un branco di piccoli Gentry biondi». «Direi che è praticamente certo», rispose Millie. Mi lasciai cadere sul bracciolo del divano, anche se ero tutta bagnata. «Molto divertente. Stronzi». Brayden agitò un dito nella mia direzione. «Non ti lamentare, Say». Poi la sua espressione divenne molto seria. «Lo sai che ti sto prendendo in giro. Dopo tutto quello che hai dovuto are, è meglio se per un po’ ci vai piano». «Ma sentiti. Chi sei, mio padre?» «No. Vuoi che lo chiamo?» «Chiamalo, ti prego. Così possiamo sentirlo mentre fa finta per cinque minuti che gli importi qualcosa di me, prima che venga distratto da qualche paio di tette». Brayden si alzò in piedi. Quando lo guardavo negli occhi, ci vedevo sempre me stessa. Gli occhi verdi erano il marchio di fabbrica dei McCann. «Questa amarezza non ti si addice». Fece una pausa e si lasciò sfuggire un lungo sospiro. «Voglio solo che tu ti prenda cura di te stessa». Lo fissai. «Ci sto provando». «E va bene», disse, annuendo. Poi prese il portafogli dalla tasca posteriore. «Sentite, faccio un salto qui all’angolo a prendere un po’ di pizza. Che ne dite?»

«Sì Brayden, sembra un’ottima idea». Mi sorrise, baciò Millie con delicatezza e poi se ne andò. Mi rimisi addosso l’asciugamani e sospirai mentre Millie andava in cucina a preparare il tavolo. «Si preoccupa molto per te», disse, quasi a bassa voce. Essendo emigrata dalla Malesia quando non aveva ancora dieci anni, conservava ancora un lieve accento. «Lo so», sospirai. «Anch’io mi preoccupo per me». Millie mi rivolse uno sguardo acuto. «Che mi dici di questo Cordero? Ogni tanto viene a trovare Brayden, ma non lo conosco bene, né lui né i suoi fratelli». «Bray non ti ha mai fatto una lezione sulla vita a Emblem con i fratelli Gentry?». Millie evitò accuratamente di guardare nella mia direzione. «Sì, mi ha raccontato un po’ di loro. Dice che gli facevano paura. E mi ha raccontato anche di te e di Cord». «Me e Cord», sbuffai. «Ho ato più di qualche anno a maledire l’aria che respirava. Se la terra lo avesse inghiottito, non mi sarebbe affatto dispiaciuto. Credo che fosse un disprezzo del tutto motivato». Mi morsi il labbro, ripensando a tutto quello che era successo da allora. «Ma ora è diverso. È cresciuto, è un’altra persona. Non è una bella sensazione, in fondo, credere di aver capito tutto, di aver inquadrato alla perfezione ogni persona che ti circonda. Tipo, questo è uno buono, quello lì è uno cattivo. Perché poi scopri che non è vero, che magari non è mai stato vero. Forse ogni tanto anche le persone a posto fanno qualche schifezza, per nessun motivo in particolare». Non mi ero accorta che avevo iniziato ad avvolgermi un tovagliolo alle dita. Lo lasciai andare e cercai di stirare le pieghe che avevo fatto. «Tu che ne pensi?». Millie mi stava guardando. Senza esitare, disse: «Penso che tu abbia ragione, Saylor. Il cuore delle persone contiene milioni di misteri. Sarebbe idiota credere di poterci raccapezzare qualcosa». Non riuscivo ad articolare quello che avevo dentro. «Di sicuro c’è qualcosa, Millie. Cord lo conosco dai tempi dell’asilo. Era questo ragazzino sporco che cercavo di evitare a tutti i costi. E poi è diventato un figo allucinante e in segreto avevo una cotta per lui, e dopo ancora un gelido stronzo che mi ha fatto del

male…». La mia voce si perse nel nulla e Millie mi fissò. «E ora?», rincalzò. «Non lo so», dissi, senza mentire. Ripensai a Cord che mi raccontava una storia terrificante che aveva vissuto durante l’infanzia. E a come strizzava i suoi occhi azzurri quando mi guardava, come se fossi una sconosciuta. Pensai anche al suo corpo muscoloso coperto solo da quei boxer bagnati e sentii un brivido che mi attraversava. Poi mi venne in mente Devin, il fatto che per un po’ avevo addirittura pensato di amarlo. «Forse in questo momento non mi fido granché della mia facoltà di giudizio», riconobbi. Millie mi diede una lieve pacca sulla spalla, come se mi stesse sgridando. «Di questo non dovresti mai dubitare». «Tu ti senti mai così?» «No», rispose. «No, mai». Stare in compagnia di Millie era come stare in compagnia di Brayden. Sentii un forte moto di affetto nei suoi confronti e d’impulso la abbracciai. Non sobbalzò. Mi riabbracciò e poi ci separammo, ridendo perché puzzavo di cloro. «Be’, è ora di farmi una doccia», dissi. Mettevo sempre l’acqua a una temperatura che rasentava l’ustione e ci rimanevo sotto per un’eternità. Quando l’avevo fatto a casa di Cord, si era preoccupato che mi fossi rinchiusa per tagliarmi le vene perché non uscivo più. Era un pensiero che non mi aveva mai attraversato la testa. Quando il getto bollente della doccia mi ricopriva la pelle e il vapore diventava così spesso da farmi sembrare di essere dentro a una nuvola, tutta la tristezza e le cose spiacevoli del giorno venivano cancellate. Non dovevo pensare alla mia mascella che si serrava di riflesso quando ascoltavo le promesse ingannevoli di Devin, e anche l’incertezza su che impiego avessi potuto trovare in futuro sembrava aver perso buona parte del suo potere. I ricordi dei tempi di Emblem non riuscivano a intrufolarsi in quella nebbia e nemmeno le persone che avrei preferito dimenticare. Cord.

La sua faccia riuscì a raggiungermi. Aumentai la potenza del getto della doccia, fino a sentire le coltellate di acqua bollente che mi si configgevano nella schiena. Quando mi aveva raccontato quella storia tremenda sul padre e la piscina, mi era dispiaciuto enormemente. Non solo per lui, anche per i suoi fratelli. Erano cresciuti in un pessimo scenario. Mio padre e i suoi compagni di poker avevano la loro battuta preconfezionata a riguardo. «Se trovi il gatto in forno e una cagata nel lavandino, in casa tua è ato un Gentry». I Gentry. Erano quasi una barzelletta, in una città dove gli altri non è che se la assero tanto meglio. Il che probabilmente peggiorava le cose. Emblem sorgeva all’ombra di un posto dove rinchiudevano uomini che avevano fatto cose tremende. C’era una simbiosi curiosa tra la città e la prigione, il posto che dava più lavoro nella zona. Senza prigione, Emblem sarebbe avvizzita, sarebbe divenuta una di quelle città fantasma tipiche dell’ovest. Forse era per questo motivo che i lividi di quei tre ragazzini non sconcertavano nessuno. E i lividi di Cord Gentry non venivano tutti dal ato. Ricordai con disagio che la notte che avevo dormito da lui aveva le nocche delle mani gonfie e piene di ferite. Quando gli avevo chiesto come se le fosse procurate, si era chiuso in sé e si era anche risentito. Ma le ferite sulle nocche non si materializzavano dal nulla. Di certo aveva fatto a botte con qualcuno. E quel sorrisetto vago, quando aveva detto che lo aveva fatto per lavoro? Pensare alle nocche ferite di Cord mi provocò una strana sensazione nel ventre, simile a quella che avevo provato da bambina quando Nancy, la mia gatta, era arrivata zoppicando a casa, con la zampetta gonfia, perché era stata punta da uno scorpione. Rimasi sorpresa da quanto mi desse fastidio l’idea che Cord potesse farsi male. Mentre la mia mente vagava al suo corpo quasi nudo in piscina e alla grande forza che sembrava avere in quelle mani, i miei pensieri divennero molto meno a modo. Sì, riconoscevo lo sguardo che aveva negli occhi per quello che era, anche se, a parte quel bacio sulla fronte, che sembrava sgorgare più dall’amicizia che da altro, non aveva provato a fare niente. Era ovvio che Cord avrebbe potuto avere ogni ragazza che desiderava. Lo aveva dimostrato già tanti anni prima. E anche se, quando mi aveva salutato con un cenno della mano fuori dalla biblioteca di Emblem, non aveva nobili intenzioni, anche io lo volevo. Come lo

volevo adesso. Dentro di me prese a urlare una voce. È il fottuto Cord Gentry, idiota! Lo sapevo. Sapevo anche di non volere nessun altro a così poca distanza dal disastro di Devin. Parte di me era ancora una grossa ferita aperta e non sapevo quando sarebbe guarita. Ma volevo lo stesso Cord. Mi ripetei che si trattava di una cosa innocua e insignificante. La mia mano vagò a caso fino a infilarsi tra le mie gambe e nel giro di qualche istante ero dispersa nelle fantasie del mio focoso desiderio. Dopo l’aggressione di Devin non mi ero sentita granché in vena. Mi sorprese scoprire che la persona che immaginavo tra le mie gambe era proprio Cord Gentry, il ragazzo che detestavo. Nel sogno a occhi aperti, le mani forti di Cord mi accarezzavano il corpo mentre sentivo i suoi muscoli rigonfi sotto i palmi delle mie, e lui piegava la testa per mordicchiarmi i seni. Nell’occhio della mente comparvero i tatuaggi che aveva sul torace, che lo facevano sembrare ancora più selvatico. Arrivai quasi a sfiorare l’apice e immaginai il suo organo durissimo, che già prima quei boxer erano riusciti a malapena a contenere, che mi scivolava dentro… «Saylor!», urlò mio cugino, bussando alla porta. «Pizza!». Fu l’equivalente di una improvvisa doccia gelida. Mi si guastò completamente il momento e finii la doccia sentendomi un’idiota. Quando arrivai in cucina Millie e Brayden avevano già spazzolato buona parte della pizza. Ne presi un pezzo, guardandoli distrattamente mentre si facevano gli occhi dolci e si parlavano con quelle vocine che uno riesce a sopportare solo quando è innamorato. Brayden mi diede un calcio sotto al tavolo e alzò le sopracciglia. «Ehi! Tutto bene?». Provai a sorridere. «Tutto bene». Millie mi rivolse uno sguardo comionevole e poi guardò Brayden. Mi concentrai sulla pizza e provai a dimenticare il mio sogno a occhi aperti sotto la doccia. Non volevo certo farmi complicare la vita da una storia furiosa di sesso. Dovevo trovare un lavoro migliore del servire pollo fritto vestita da gallina. Dovevo trovare la mia strada. «Il fottuto Cord Gentry». Non mi ero accorta di averlo detto ad alta voce, finché non notai gli sguardi sconcertati che mi stavano rivolgendo Millie e Brayden.

«A Cord Gentry», disse Brayden, alzando la birra per brindare.

Capitolo otto Cord

Chase non aveva nessuna intenzione di lasciarmela are liscia. «Cosa è successo al tuo look da barbone?». Feci una smorfia, parcheggiando il pick-up. «Ma di che diavolo parli?». Creed scoppiò a ridere dal sedile posteriore. «Ma guardati. Hai addosso panni stirati. Hai le Timberland. Ti sei pure fatto la barba». Lo sportello fece rumore quando Chase lo aprì. «Cristo santo, fai sembrare noi due dei barboni». «Comportatevi bene, d’accordo?», borbottai. «Se non volevi essere mortificato, che ci hai invitato a fare?», disse Chase. «Mortificato?», gli feci eco, scuotendo la testa. «Comunque, non vi ho invitati io. Vi siete attaccati alle costole». Creed mi diede un colpo alla schiena. «Siamo nati così, non ci si può fare niente. Comunque, il pollo fritto piace anche a noi». «Mica solo il pollo», disse Chase, guardando una rossa tutta gambe che ava di lì. «Ci piacciono pure le galline». Il posto puzzava di fritto andato a male. I miei fratelli si misero in fila al bar mentre io occupavo un tavolo sul retro e mi mettevo a guardare il menu. Era domenica sera e il locale era affollato. Mi sovvenne che non l’avevo mai visto deserto. Il ristorante stava al centro di University Drive. L’alto numero di anti che circumnavigava l’università dell’Arizona giorno e notte costituiva buona parte della sua clientela. Con la coda dell’occhio vidi Chase e Creed avvicinarsi a un gruppo di universitarie che rideva sguaiatamente.

«Salve», disse una vocetta impertinente. «Mi chiamo Saylor e stasera sarò la sua cameriera». Cristo santo, ogni volta che la rivedevo era sempre più bella. Aveva le guance arrossate dal trambusto del lavoro e i lunghi capelli castani erano sciolti e le ricadevano luminosi sulle spalle. Sorrise lievemente e piegò un po’ la testa. «Cosa vuoi per antipasto?». Voglio te, tesoro. In braccio. Che ti sbatti questa erezione mostruosa fresca fresca. «Sono venuto per mangiare quel cibo salutare di cui mi parlavi», le dissi. «Be’», proseguì Saylor, facendo scattare la penna, «oggi abbiamo pollo fritto nel grasso, pollo fritto nel pane con i sottaceti, e pollo fritto in stile gourmet con tutte le ossa». «Prendo il pollo fritto nel grasso e una Coca». Accennò con la testa a Creed e Chase, che si stavano sparando shottini al bar. «Guidi tu?». La fissai. «Penso di sì». Mi fissò anche lei, tutta occhi verdi e pelle setosa. Iniziò a dire qualcosa, per poi fermarsi subito dopo, con una espressione preoccupata. «Vuoi ordinare tu per loro?» «Pollo fritto nel grasso per tutti». «Che carini», commentò con una smorfia. «Siete proprio gemelli». Quando mi alzai bruscamente in piedi restò sorpresa. Fece un o indietro, con espressione allarmata. Era stato lui a farle questo, pensai con rabbia. L’aveva spaventata a morte. Mi rimisi a sedere. Mi stava guardando le mani. «Niente lavoro stasera?», chiese. «No», dissi in tono neutro. «Stasera niente lavoro».

Esitò. «Vado a consegnare il tuo ordine e ti porto da bere». «Ehi, Saylor?». Si girò, con la testa piegata, incuriosita. «Sì?» «Hai la targhetta col nome sottosopra». Guardò in basso e si lasciò sfuggire un breve sospiro. «L’ho fatto apposta», disse, mentendo e provando a riaggiustarla. «Per confondere tutti i viscidoni che vogliono provarci». Cercai di mostrarmi disinteressato. «Ce ne sono molti?». Rise di nuovo e scosse la testa. «Non ti preoccupare, Cord. Anche se non sembra, so badare a me stessa». La guardai allontanarsi, immaginando di avere il suo culo nudo tra le mani e di tirarlo a me mentre la sbattevo. Ma non era la serata giusta e provai a sconfiggere la mia erezione con la forza del pensiero, recitando a mente il giuramento di fedeltà alla bandiera americana. Chase diede un calcio a una sedia avvicinandosi al tavolo. Tre tipi smilzi, seduti a un tavolo vicino, lo guardarono male, ma quando lui li riguardò con aria di sfida tornarono in silenzio ai loro nachos. Cercai Creed con lo sguardo. «Dov’è andato tuo fratello?» «Nel bagno delle donne», sorrise. «Gli dice sempre bene. Si è portato una bella bocca coi capelli lunghi, là dentro». Ruotai gli occhi. «Dici sul serio? Lo sai che ti possono arrestare per una cosa del genere. È oltraggio al pudore o qualcosa del genere». Chase scoppiò a ridere. «Ti ho visto fare cose peggiori». Mi diede una spinta. «Piantala di preoccuparti. Saylor non è qui ad ascoltare». La sua espressione divenne pensierosa. «Questa è una storia diversa, vero? Non hai in programma di sbattertela e scomparire, no?». Lo fissai. «Sei tu quello intelligente, Chasyn. Dimmelo tu».

Chase guardò verso il bar, dove Saylor stava digitando qualcosa su un touch screen. «Penso», disse con una rara nota di attenzione nella voce, «che quella sia la ragazza giusta per sconvolgerti completamente». Mi diede una ginocchiata sotto al tavolo. «Non c’è niente di sbagliato, Cord. Che cazzo, se trovassi anche io una che mi tiene sveglio la notte e che mi fa desiderare di non infilare il cazzo in giro a casaccio, mi ci fionderei». Saylor, mentre stava ridendo alla battuta di un collega, scosse la testa e i suoi occhi caddero nella mia direzione. Quando vide che la stavo fissando, arrossì e distolse lo sguardo. «Non si tratta solo di quello», dissi, «c’è tutta una storia dietro». Chase sbuffò. «E allora? Ci portiamo tutti il nostro fardello sulla schiena. Forse riesci a relazionarti a lei proprio grazie a quella storia, invece che il contrario. Una grande scrittrice che si chiamava Pearl Buck una volta ha detto che se vuoi comprendere il presente devi studiare il ato. Capisci che vuol dire?» «Occhio, Einstein, ti si vede tutto il cervello. Lo so che non ti piace». «Vaffanculo, sto dicendo sul serio». «Comunque», aggiunsi a bassa voce, «ho capito. Siamo quello che siamo a causa di tutta la merda che ci è capitata. Le ho detto qualcosa di simile, ieri sera». Saylor scelse proprio quel momento per portarmi la Coca. Mentre era china a sistemare la tovaglietta sul tavolo, Chase colse l’occasione di guardarle il culo ghignando. «Ti vedo», disse lei, senza smettere di lavorare. «Ti vedo anch’io», rispose lui ridendo. Le labbra di Saylor si arricciarono divertite. «Grazie», le dissi, prendendo un sorso dal bicchiere. Lei si guardò intorno. «Dov’è l’altro?» «Creed si stava cagando sotto», disse Chase, facendo finta di niente. «Se fossi in

te, resterei alla larga dai bagni». «D’accordo», annuì Saylor, porgendomi una cannuccia. «Tra poco vi porto il pollo». La squadrò imibile. Non gli piaceva prendere gli argomenti alla larga. «Lo sai, Saylor, sei diventata proprio uno schianto». Lei lo guardò confusa. Restai imibile anche io e dopo un istante lei scoppiò a ridere. «Grazie». Girandosi per andarsene quasi urtò Creed, che si lasciò cadere sulla sedia col respiro appena pesante. «Be’, ci voleva proprio. Ma mi ha messo una fame che non vi dico». Saylor parve di nuovo perplessa, in parte perché Chase le aveva fatto credere che Creed fosse in bagno a cagare. Ma non disse nulla e si incamminò verso la cucina, mentre Chase mi faceva l’occhiolino e si leccava le labbra. «Ha inghiottito?», chiese a Creed. Creed stava facendo cenni con la testa a una moretta che somigliava vagamente a Saylor. «Non si parla di queste cose. Sono sacre, stronzo», rispose infastidito. Chase sorrise. «Sacrissime. Una tipa che non vedrai mai più ti succhia l’uccello in un cesso sporco e tu chiami in causa la religione». Creed gli diede una gomitata. «Falla finita, moccioso». Chase sospirò e alzò lo sguardo al soffitto. «Non so come faccio a sopportare questo gorilla». Creed scoprì lentamente i denti. «Perché se non lo fai, ti piglio a calci in culo». «Cazzate. Sei diventato lento e ciccione». Creed si tirò su la maglia, mettendo in mostra i suoi addominali muscolosissimi, che catturarono lo sguardo di apprezzamento di più di qualcuna delle donne presenti. «Hai solo qualche secondo per rettificare quello che hai detto».

«Vattene a fare in culo». «Ragazzi», li richiamai, picchiando forse troppo forte il pugno sul tavolo. I miei fratelli mi fissarono. «Possiamo far finta almeno per una volta di non essere un branco di selvaggi?». Creed tirò su col naso e si mise a giocare con l’accendino. «Che ti è successo?». Chase fece un cenno a Saylor, che si stava avvicinando a noi con tre cestini bisunti su un vassoio. «Ancora niente. Per questo non lo vedi in forma». Rivolse a Saylor un sorriso smagliante. «Grazie, tesoro». Prese una fetta di pollo fritto e la morse. «Senti, Cordero qui si è offerto di darti uno strappo, a fine turno». Saylor mi guardò. «Grazie ma non serve. Ho la mia macchina». Fece per allontanarsi. «Non parlavo di quello strappo lì», bisbigliò Chase sottovoce. Saylor si girò. «Lo so di che parlavi», controbatté, prima di tornare verso il bar. Diedi uno spintone a mio fratello. «Ti sembro divertito?» «No», sorrise Chase, «ma non lo sembri mai». Creed guardava il telefono bestemmiando. «Basta così, ragazzi. Dobbiamo parlare di una cosa seria». Guardai il mio cestino di pollo fritto. All’improvviso non avevo più fame. «Che succede?». Creed lanciò il telefono al centro del tavolo. «Un messaggio da Gabe. Gli manca un lottatore, domani sera. Vuole sapere se siamo interessati». «Quanto c’è in palio?» «Una bella somma. Se vinciamo ci darà due testoni». Il suo sguardo si fece gelido. «C’è un però. Non si tratta della solita gente. Questi vengono dal sud di Phoenix». Feci una smorfia. «Il che vuol dire che si tratta di gang. Criminali. Mi sembra una pessima idea».

Creed sembrò prendere in considerazione quello che gli dicevo. «Forse sì». «Puoi starne certo. Ci punteranno una tonnellata di ferro alle tempie e resteremo là col cazzo in mano». Chase sbottò a ridere. «Vero, ma messi assieme, i nostri cazzi sono assai potenti». Alzò le spalle. «Per me va bene. Dove si combatte?» «In un qualche posto di merda nei pressi di Van Buren. Alle dieci». Vidi Saylor che portava del cibo a un altro tavolo. Le cadde una ciocca di capelli sulla faccia e provò a scansarla con la spalla. Aveva dei capelli così morbidi. Quando glieli avevo tolti dalla faccia avrei voluto continuare a toccarglieli e a toccarle tutto il resto del corpo. «Sarò di ritorno prima di quell’ora», dissi, continuando a guardarla. Chase piegò la testa. «Di ritorno da dove?» «Lo sai bene da dove. Ne abbiamo parlato venendo qui». Creed sembrava scettico. «Pensi davvero che sia la cosa giusta da fare metterti tra quella ragazza e il suo ex psicotico?» «Sì», dissi, «lo penso». Chase si pulì le dita bisunte sul tovagliolo. «Forse dovremmo andarci tutti. I Gentry che fanno una bella gita. Siamo usciti a malapena fuori da questo Stato. La spiaggia mi piace». Pensai al fatto di trovarmi intrappolato in un veicolo per centinaia di miglia con Chase e Creed che facevano commenti volgari, che avrebbero finito di certo per disgustare Saylor. «Neanche per sogno», dissi. Chase mise su il broncio. «Sono deluso. Volevo andare sulla spiaggia a costruire i castelli di sabbia». Creed si unì al coro. «Anch’io. Volevo andare a fare surf. Inoltre, quella ragazza

non dev’essere affatto male, in bikini». Il ricordo del corpo morbido di Saylor appena coperto dal costume me lo fece ridiventare subito duro. I miei fratelli si divertirono quando mi videro muovermi a disagio sulla sedia. Ci conoscevamo tutti troppo bene. «Chi conquista se stesso vince», brindò Chase, ridendo. «Ti conviene fare un salto in bagno, Cordero». Quando diedi un colpetto sulla spalla a Saylor, andando via, sembrò rispondermi con un sorriso sincero. «Ti prego di scusarli». «Non serve. Sono bravi ragazzi». «Ogni tanto sì». «Sono contenta che tu sia venuto», disse. «Hai interrotto un po’ la monotonia della serata». «Mi piace guardarti», azzardai senza quasi pensarci, per poi mordermi le labbra quando vidi che alzava le sopracciglia. «Be’, domani potrai saziarti. Voglio dire, saremo nella stessa macchina per almeno dieci ore. Sicuro che ne hai voglia?» «Ma certo». Sorrise brevemente. «Grazie Cord. Sul serio. Ora che il nodo sta per venire al pettine, sono felice di non doverci andare da sola, nella tana del leone». Abbassò lo sguardo. «Sono nervosa». Le toccai un braccio per confortarla. «Non essere nervosa. Conosco le teste di cazzo come lui. Non proverà a fare nulla di strano in presenza di qualcuno che potrebbe fargli male». Addolcii il tono. «Pensi che lascerei che ti succeda qualcosa?». Fissò la mano che le avevo appoggiato sul braccio. La tolsi, sentendomi uno stronzo. Si stava probabilmente chiedendo se, dopo essere riuscita a scappare da un uomo di merda, aveva davvero bisogno di mettersene un altro alle costole.

Ma quando Saylor si alzò sulla punta dei piedi per darmi un bacino lievissimo, mi resi conto di non avere la benché minima idea di quello che potesse arle per la testa. Non disse né ciao né buonanotte. Non disse proprio nulla. Girò sui tacchi e si avviò verso la cucina. Mi piaceva il fatto che non avesse detto nulla. Raggiunsi i miei fratelli fuori dal locale e ci incamminammo verso il pick-up nel parcheggio sotto la luce della luna.

Capitolo nove Saylor

Al mattino dopo mi risvegliai con uno zoo di farfalle impazzite nello stomaco. La luce del sole filtrava attraverso le tapparelle e guardando l’albero di parkinsonia fuori dalla finestra, che si piegava leggermente nella brezza, provai a ritrovare la calma. Non avevo nessuna voglia di rivedere Devin. Dalla notte in cui ero fuggita via provavo per lui solo un vago ribrezzo, ma anche questo faceva parte del problema. Pensai alla notte in piscina con Cord, a parlare del ato e del rimpianto. Non avevo mai pensato di essere quel tipo di donna che rimane invischiata in una relazione abusiva. Era difficile ammettere una cosa del genere sul proprio conto, ammettere di non essere forte e decisa come speravo di essere. E Cord? Mi rigirai sul divano di Millie e Brayden, tirandomi una coperta fin sopra la testa. Probabilmente era rimasto più sorpreso di me dal bacio veloce che gli avevo dato la sera prima. Avevo pensato a lui tutto il giorno, provando a far combaciare l’immagine mentale del piantagrane con quella dell’uomo serio che voleva proteggermi. Davvero, forse all’epoca non gli importava nulla di me. Una volta aveva detto di volersi redimere e mi aveva anche dato a intendere di aver provato vari sensi di colpa per quello che era successo tanti anni prima. E si vedeva anche dal modo in cui mi guardava, come se mi volesse portare a letto. Ma tale era la natura bestiale della maggior parte degli uomini. A ogni modo, se Cord mi avesse abbracciata, se mi avesse messo le mani addosso, la sera prima, lo avrei seguito anche in capo al mondo. Invece era rimasto a fissarmi, ammutolito e imperscrutabile, finché non c’era altro da fare che allontanarmi e lasciarlo alla sua serata. Brayden, come al solito, si era svegliato presto. ava sempre qualche ora in biblioteca prima dell’inizio delle lezioni. Millie invece dormiva fino a tardi. Stava facendo un tirocinio estivo presso un rifugio per senzatetto a Phoenix e

iniziava a lavorare alle dieci. Mio cugino, senza dire una parola, mi porse una tazza di caffè alla quale mi aggrappai subito come a un’ancora. «È bollente», dissi. «È caffè, Say. Deve essere bollente». Brayden fece scorrere le dita sul bordo della sua tazza. Gli poggiai la mano sul braccio. «Andrà tutto bene». Aveva sul volto un’espressione dubbiosa. «Forse dovrei venire anche io». «Pensi di riuscire a spaventare Devin più di Cord?». Bray mi rivolse un sorriso vago. «No, penso che nessuno riuscirebbe a spaventarlo più di Cord». «Senti, vado solo a riprendermi le mie cose e torno subito indietro. Devin ha detto che probabilmente nemmeno si farà trovare lì. Non credo che sia così impaziente di rivedermi». «Va bene», sospirò, «ma se ti serve qualcosa, chiamami». «E a che scopo? Non rispondi mai al telefono». Con un gesto sfarzoso si tirò fuori il telefono dalla tasca. «Ormai lo porto sempre dietro». «Mi sembra un’ottima idea. Non sai mai quando un parente disperato può aver bisogno di te». Brayden sospirò. «Fai attenzione, oggi, Saylor». «Stai tranquillo. Credimi, ho imparato la lezione. Devo farmi una doccia prima che Cord venga a prendermi». Visto che avevo poco tempo a disposizione, non potei intrattenermi in una delle mie docce interminabili. Mentre mi vestivo, sentii la voce di Cord che parlava con Brayden. Indossai un abito largo e comodo che avevo preso da Kohl pochi

giorni prima e mi truccai con cura, ripetendomi che non lo stavo facendo per Cord. «Bugiarda», dissi al mio riflesso nello specchio applicandomi il lucidalabbra. Non ero ansiosa soltanto a causa di Devin. Le farfalle nello stomaco si agitavano anche al pensiero di dover are così tante ore con Cord. Ricordai fugacemente la sensazione delle sue labbra sulle mie e venni scossa da un fremito di desiderio. «Eccola qui», disse Brayden mentre finalmente entravo in cucina. Cord mi guardò. Dovetti resistere all’impulso di gemere. I suoi occhi azzurri sembravano capaci di spogliarmi. Dopo un momento sorrise. «Sei pronta, Say?». Presi qualche bottiglia di acqua dal frigo. «Sono pronta». Brayden si avvicinò a Cord e gli diede una spintarella. «Prenditi cura di lei». Cord non mi staccava gli occhi di dosso. «Puoi starne certo», rispose. Bray alzò le sopracciglia. Sembrava perplesso mentre spostava lo sguardo dall’uno all’altra. «Ci vediamo stasera», disse, salutando con la mano mentre chiudeva la porta. Cord guidava un pick-up cabinato della Chevy che sembrava aver conosciuto tempi migliori. Mi spiegò che lo condivideva con i suoi fratelli e, mentre salivo sul sedile del eggero, mi tenne lo sportello aperto. L’interno puzzava molto di dopobarba e di fumo, una combinazione che mi dava alla testa, che rendeva inequivocabile che quello fosse un veicolo guidato da soli uomini. Mentre Cord avviava il motore, mi sentii d’improvviso molto timida, intrappolata dentro un abitacolo che sembrava piccolissimo. Mi ritrovai a fissargli le mani, interrogandomi sulla grande forza che aveva. Non ero attraversata soltanto dalla ione, ma anche da un enorme senso di sicurezza. Poi il mio sguardo vagò sulla sua faccia, agli occhi strizzati per difendersi dal sole che, inerpicandosi a picco sull’orizzonte, lanciava un forte bagliore sulla strada davanti. In realtà dentro di me aveva albergato una cotta segreta per Cord Gentry da molto tempo prima che i tre fratelli avessero deciso di fare una

scommessa su chi mi avrebbe preso la verginità. Era un rito di aggio tipico delle ragazzine di Emblem, quello di innamorarsi perdutamente di uno dei fratelli Gentry. Ma io volevo sempre stare un o avanti a tutti. Facevo finta di non vederli nemmeno. «Che c’è?», chiese Cord, vagamente irritato. «Eh?» «Mi fissi come se mi uscissero dei serpenti dalla bocca». «Oh», dissi arrossendo. «Non ci sono serpenti». Si rassettò sul sedile e mi sorrise. «Hai un bell’aspetto». Non battei ciglio. «Anche tu». Abbassò lo sguardo e fece una smorfia. «Bene. È proprio l’aspetto che volevo avere». Gli diedi una spinta. «Ma falla finita. Sei un figo della madonna». Cord sembrò compiaciuto. «Lo pensi davvero?». Incrociai le braccia. «Esistono donne degne di questo nome che non lo pensino?» «E quelle indegne?» «Be’, quelle sono meno esigenti». Cord scoppiò a ridere. «Hai sempre la risposta pronta, eh?» «No», borbottai a disagio, andomi le mani sul vestito e provando a mettere a tacere le emozioni conflittuali che mi affioravano in testa. «Non per tutto». «Ehi», disse, toccandomi il ginocchio, «non voglio fare il guastafeste. Ecco», girò la manopola del volume della radio, «ascolta questa canzone. È impossibile non essere felici quando trasmettono questa canzone». Mi misi in ascolto. «È Tom Petty».

«Confermo. Hai mai visto quel film con Tom Cruise dove sta cambiando stazione alla radio in macchina alla ricerca di qualcosa che si addica al suo entusiasmo? E quando si imbatte in Free Fallin ha questa enorme rivelazione e inizia a cantare le parole a squarciagola. Non è capace di cantare, ma non fa niente, perché tutto quello che pensa e sente in quel momento è reso magico da quella canzone». Risi. «Quando vuoi, parli molto». «Solo se ho qualcosa di importante da dire». Indicò in direzione dello stadio Sun Devil mentre gli avamo a fianco. «Quel film lo hanno girato proprio lì». «Me lo ricordo. Jerry Maguire, giusto? Mio padre lo guardava sempre». Cord iniziò a cantare dietro alla canzone. Rimasi scioccata dal tono mellifluo della sua voce. «Sei bravo», gli dissi. «Sono bravo in molte cose», si vantò. «Forse sì. Ma parlavo di cantare». «Dovresti sentire Creedence. Potrebbe diventare molto famoso, se solo permettesse a qualcuno di ascoltarlo cantare». Risi. «Creedence, Chasyn e Cordero». «Siamo noi», disse Cord, con espressione semiseria, mentre ci immettevamo sull’interstatale. «Sono nomi poco comuni». Rise sguaiatamente. «Ma certo, Saylor». «È stata un’idea brillante di mia madre. Mentre era in ospedale in attesa che le venisse indotto il travaglio, lesse un articolo sulle scarpe che le modelle avrebbero indossato alla Settimana della Moda». Sembrava confuso. «Mi sono perso la moda delle scarpe Saylor?»

«Ma no. Era il nome dell’autrice dell’articolo». «Ah, be’, allora… Comunque, anche io non sto messo meglio. Porto il nome di un fottuto personaggio di una telenovela. Creedence, ovviamente, porta il nome di quel vecchio gruppo rock. Chasyn viene da un romanzo fantasy, era il nome di un re che domava i draghi, o una qualche cazzata del genere». «Vi si addicono», dissi, «a tutti e tre». Mi rivolse uno sguardo dubbioso. «E perché mai?» «Nomi fuori dalla norma per ragazzi fuori dalla norma». «Ora siamo uomini», mi ricordò. Gli guardai le braccia muscolose. «Come fare a dimenticarlo?». E poi notai di nuovo nei suoi occhi quell’espressione di desiderio selvaggio, nuda e cruda. Mi chiesi se avesse idea di quanto avevo pensato a lui da quella notte buia in cui mi aveva trovata che avevo toccato il fondo, e mi aveva mostrato una tale gentilezza che non mi sarei mai aspettata da un Gentry. Mentre le miglia ci scorrevano alle spalle parlammo senza sforzi, più che altro di Emblem, delle limitazioni implicite nel dover crescere in una cittadina che sorgeva a ridosso di una prigione, della gente stanca che viveva lì rassegnata senza mai riuscire ad andarsene. Facemmo una breve sosta a Blythe, dove decidemmo di mangiare qualcosa. Mentre mi appoggiavo addosso al pick-up, sorseggiando da un bicchiere gigantesco pieno di caffeina, vidi Cord lavare con cura il parabrezza. Qualcosa, sul suo conto, ancora mi preoccupava. «Oggi ti sei preso un giorno di riposo?», gli chiesi casualmente. Si immobilizzò per un istante e poi riprese a lavare il vetro. «Credo che dovrò lavorare stasera». «Sei quantomeno evasivo». Non mi guardò. «Lo faccio apposta».

«Va bene, va bene. Ho capito». Iniziai a girare intorno al pick-up quando Cord all’improvviso mi afferrò la mano. «Saylor?». Essere toccata da lui mi spedì un brivido incredibile che andò a colpirmi diretto la libido. Mi teneva stretta e io restavo ferma. «Senti», gli dissi, «mi dispiace se sembro una ficcanaso. È davvero un bel gesto, da parte tua, rinunciare alla tua giornata per aiutarmi. Non mi devi niente, Cord». Sorrise e scosse la testa, lasciandomi andare la mano. «Mi stavo solo chiedendo se ti andasse di fare un salto dentro a prendermi un pacchetto di gomme mentre faccio gas». «Che gusto vuoi?». Cord mi permise di pagare le gomme, ma si rifiutò di accettare un singolo centesimo per la benzina. Mi faceva sentire un poco in colpa, visto quanto beveva quel pick-up. Mi faceva anche venire dubbi su cosa si aspettasse Cord in cambio. E se alla fine glielo avrei concesso. Più ci avvicinavamo alla costa e più diventavo inquieta. In quella che sembrava una vita fa, avevo fatto questo stesso viaggio, nelle vesti di un’adolescente dal volto raggiante di speranza, piena di promesse per il proprio futuro. Non volevo mai più tornare nel deserto. «Dunque questo è lo smog», osservò Cord, scrutando nella foschia che circondava l’area di Los Angeles. «Oh, ma questo è nulla. C’è di peggio. Non sei mai stato in California?». Si ò una mano tra i capelli corti e assunse un’espressione preoccupata. «Solo due volte. La prima nel corso di una gita in auto disastrosa, per andare a Coachella con Benton. Diceva di voler far visita a dei suoi vecchi amici, un gruppo di scoppiati che ò tre giorni a sbronzarsi con mio padre, mentre noi rimanemmo ad aspettarlo in una capanna lurida». «E la seconda volta?».

Esplose in un sorriso radioso che mi pugnalò al cuore. «Chase si svegliò un mattina e decise che voleva vedere l’oceano. Iniziò a litigare con Creed, perché in quel momento eravamo senza soldi e ci stavamo nutrendo solo di spaghetti istantanei. Ma Chase, quando vuole, sa essere molto teatrale. Disse che voleva vedere l’oceano prima di morire, e visto che non si sa quand’è che uno muore, quello era l’unico momento giusto per farlo». Alzò le spalle. «E così andammo. Restammo sdraiati per ore sulla spiaggia, ci ubriacammo e nuotammo tra le onde dell’oceano. Fu una bella giornata». «Fate quasi tutto assieme, vero?». Ci stavamo addentrando nel traffico e Cord dovette rallentare. Colse l’occasione per rivolgermi un’altra occhiata penetrante. «Non tutto». Arrossii, non sapendo bene come comportarmi davanti a uno sguardo così sexy. Dovetti guardare fuori dal finestrino, per non fargli capire che mi stava lacerando. Quando raggiungemmo la spiaggia, Cord sollevò le sopracciglia guardando la distesa di condomini di lusso e si lasciò sfuggire un fischio. «Il tuo ex è un magnate del cinema, per caso?». Le mani mi si contrassero involontariamente mentre parcheggiavamo. «I soldi sono di suo padre». «Quante cose tue devi riprendere?» «Non molte. Solo abiti e qualche altra stronzatella. Devin ha detto di aver messo tutte le mie cose in delle scatole davanti alla porta. I mobili, sia quelli costosi che quelli da poco, appartengono a lui». «Ok», annuì Cord, aprendo lo sportello. «Aspetta». Lo trattenni per un braccio. «Senti, penso che dovresti rimanere qui per qualche minuto. Fammi andare su da sola, a dare un’occhiata e a dire a Devin di farsi un giro». Era incredulo. «Mi stai prendendo per il culo. Pensi davvero che io me ne resti qui a pensare cose liete mentre tu affronti quella testa di cazzo da sola?»

«Non voglio che ci siano scenate». «Ma ce n’è già stata una», mi ricordò, toccandomi la mascella che ormai era guarita. Dovevo farglielo capire in qualche modo. «Cord, Devin è ricco e violento». «È pure un mucchietto di merda di gallina. Per questo voglio venire con te». Gli tirai il braccio. «Dammi solo cinque minuti, Cord. Ti prego». Mi fissò. «Al limite posso restare fuori dalla porta, Saylor. E credimi, se sento che qualcosa non va la tiro giù con una spallata». Deglutii, notando che teneva i pugni serrati. Devin non poteva nulla contro Cord, nemmeno senza il braccio rotto. «Ti credo». «Va bene. Andiamo». La tensione nei muscoli di Cord era quasi palpabile mentre mi camminava a fianco. Quando raggiungemmo il portone del condominio, vidi che aveva lo stesso aspetto della notte in cui ero fuggita. In qualche modo, questo fatto mi metteva a disagio. Bussai e restai in attesa mentre Cord si appoggiava al muro vicino alla porta. Il mio telefono iniziò a squillare. Sapevo già chi fosse, prima ancora di guardare. «Devin». La voce del mio ex sembrava stanca. «Usa la chiave, Saylor». Frugai nella borsa e la tirai fuori. Cord strinse gli occhi quando gli rivolsi un ultimo sguardo supplice prima di attraversare la porta, chiudendomela con delicatezza alle spalle. Devin era seduto sul divano con un computer in grembo. Aveva il braccio destro coperto di bende. Mi vide e ghignò, alzandosi dal divano. «Fratturato in tre punti diversi. La radiografia era uno spettacolo». «Ne sono sicura». Attraversai la stanza, guardandolo con attenzione, e gettai la

chiave sul tavolo da colazione. «Che cosa hai detto alla gente?». Devin si guardò il braccio e rise. «Ho detto che stavo andando sullo skate». Smise di sorridere e sembrava quasi volersi scusare. «Non era quello che dicevi sempre tu?» «Cosa hai detto di me alla gente?». Fece una smorfia. «Quasi nessuno ha chiesto di te, Saylor. Quando lo fanno, gli dico che hai trovato lavoro in un altro Stato e che abbiamo deciso di evitare il rapporto a lunga distanza». Incrociai le braccia. «Be’, così ti salvi un po’ la faccia». Si sfregò la nuca col braccio buono e sbuffò. «Che diavolo vuoi che dica alla gente, Saylor?». Scossi la testa. «Non me ne frega nulla». Era vero. La gente poteva credere o meno a quello che voleva, vedere o non vedere quello che gli faceva più comodo. Fece un o cauto nella mia direzione. «Non stavo mentendo, quando ho detto che mi dispiaceva». Tossii. Nella stanza sembrava calato all’improvviso il freddo. «Ti dispiace. Ti dispiace. Ma che bello». «È anche vero che ho cercato aiuto per il modo in cui…». «In cui picchiavi a ripetizione la persona che dicevi di amare?». Fece una smorfia. «Già. Ho la testa piena di merda, Saylor. Grazie a mio padre e grazie a quello che tutti si aspettano da me…». Risi forzatamente. «Mi stai prendendo per il culo». I suoi occhi lampeggiarono in un modo che mi era tristemente familiare, ma non mi impedirono di continuare.

«Vivi in una crisalide di lusso, non hai mai dovuto lavorare un singolo giorno in vita tua. Ti è stata donata una bella vita e non riesci comunque a essere una persona decente. Non è che vieni da un’infanzia infernale e non vedi l’ora di diventare una persona migliore». Devin mi fissò. «Ma di che cazzo stai parlando?». Sapevo esattamente di cosa, o di chi, stavo parlando. Ma non volevo certo discuterne con Devin. «Lascia stare. Sono quelle le mie scatole? Voglio solo andarmene via di qui». Stava alzando la voce. «Non c’è bisogno di fare la stronza». Prese un portatile dal tavolo. «Sai, ti avevo preso questo per scusarmi di quello che ti ho rotto. E ho pensato che potevamo andare a cena e provare a restare amici». «A cena?», sibilai incredula. «La cosa strana è che ho cambiato idea e non voglio mai più cenare con una persona che mi ha aggredita. E hai torto, Devin, sì che c’è bisogno di fare la stronza. Prendi quel computer e ficcatelo tra le tue chiappe depilate». La bocca gli assunse la forma comica di una O maiuscola mentre abbassava la mano che teneva il computer. Poi un lampo familiare di rabbia gli attraversò lo sguardo e scagliò il portatile sul pavimento con forza, come aveva già fatto in ato. Iniziai a indietreggiare vedendo che si avvicinava. Si stava mettendo male. Sentendo il rumore della porta che veniva buttata giù mi girai e vidi Cord che la attraversava. Gli correva la follia sul volto. Chiamai il suo nome, provando disperatamente a fermarlo. Non funzionò.

Capitolo dieci Cord

«Ti prego, Cord», mi aveva detto e di certo non potevo rifiutarmi. Dunque, feci come aveva chiesto e rimasi dall’altra parte della porta mentre lei la attraversava per andare ad affrontare quell’incubo da sola. Mi appoggiai allo stipite e rimasi in ascolto, ma si sentiva solo la voce di Saylor. Non c’erano urla, non ancora. Che Dio lo aiuti, se solo prova a farle del male. Non mi importava di quanto fosse ricco o ammanicato; se solo si fosse azzardato a sfiorarla, lo avrei affogato nel suo sangue. Non mi piaceva restare sulle spine come faceva Creed. Piantavo bene i piedi a terra e sapevo sempre quando colpire e quando ritrarmi. Era per questo che finivo per fare più combattimenti di quelli che dovevo. Ero più imparziale, riuscivo meglio a mantenere la calma. Ma quando udii la sua voce, di quell’anonima testa di cazzo che aveva aggredito quel fiore di ragazza, mi ritrovai praticamente sull’orlo dell’abisso. Doveva solo fare un o falso e farsi sentire mentre lo faceva per farmi saltare nel buio che avevo davanti. E poi accadde. Lui si mise a urlare e lei si mise a urlare. Poi si sentì un forte schianto ed era l’unica cosa che stavo aspettando per intervenire. La porta venne giù subito e anche se udii indistintamente Saylor che mi chiamava per nome, mi scagliai subito contro di lui. Era esattamente come me lo aspettavo; curato e molliccio, il prodotto dei soldi e delle palestre. Una delle sue braccia, quella che gli aveva rotto Saylor in un tentativo disperato di autodifesa, era ricoperta da una doccia di gesso. Ma furono i suoi occhi a sorprendermi di meno. Brillavano di paura, non mi avrebbe stupito vedere che si stava pisciando addosso. Gli uomini come lui, sia che venissero da una torre scintillante fronte oceano o da una roulotte scassata nel deserto, erano

tutti uguali. Picchiatori che avevano paura di essere picchiati. Quando lo afferrai per i capelli gli uscì un rumore starnazzante dalla gola. Gli assestai un pugno in faccia che gli spaccò il naso. Gesticolò col braccio in aria, come se si stesse lamentando della mia scorrettezza. Ma lui quando era stato corretto, con Saylor? Mentre continuavo a colpirlo senza dargli tregua, non era solo un povero bastardo ricco sfondato con una vena di crudeltà. Era peggio. Era mio padre e meritava di essere massacrato per l’agonia e il dolore che aveva dispensato in giro. «CORD!». Saylor stava urlando, piangendo, scagliava il suo corpo contro il mio per cercare di fermarmi. Mi arrestai. Saylor mi stava aggrappata. Aveva la testa abbassata e i capelli le coprivano la faccia. Ai miei piedi c’era un mucchio di merda che osava definirsi un uomo. Mi avvicinai al suo orecchio. Sentivo che stavo dicendo qualcosa ma non riuscivo nemmeno a riconoscere la mia voce. «Stammi a sentire, stronzo», sibilai. «Se provi a toccarla di nuovo, ti ammazzo. Se provi a fare una denuncia o qualche cazzata del genere, torno qui e ti ammazzo. Annuisci se hai capito che cazzo ti ho appena detto». Si mise la mano sul naso e si lasciò sfuggire un lamento. Poi annuì. Saylor stava ancora aggrappata a me. Ma non perché volesse starmi vicino. Stava provando a impedirmi di fare un’altra mossa. Indicai le scatole accanto alla porta. «Sono le tue cose, quelle?», le chiesi. «Sì», riuscì a dire. Alzò la testa e mi guardò. Quello che vidi nei suoi occhi mi fece venire la bocca secca. L’avevo terrorizzata. Quando mi guardava vedeva un mostro. Con calma, impilai le scatole una sull’altra e le sollevai. Non ero sicuro se Saylor mi avrebbe seguito fuori. Nella sua testa doveva fare una scelta tremenda: me o Devin.

Saylor non disse nulla, nemmeno quando raggiungemmo il pick-up e ci rimettemmo in strada. Non piangeva più. La guardai qualche volta e vidi che stava fissando avanti con un’espressione di sgomento. Continuò a non parlare, finché non raggiungemmo le pale eoliche poco fuori Palm Springs. «Ora vuoi dirmelo?». Strinsi le mani al volante. «Che cosa?». Aveva uno sguardo neutro. Non provava più orrore guardandomi. Ma invece del calore e della timidezza ai quali mi ero abituato, aveva un’espressione distante. «Vuoi dirmi perché avevi le nocche ferite la notte in cui ci siamo incontrati, come se avessi preso a pugni un muro?» «No, non era un muro». «Una persona?» «Sì». «Perché?». Sarebbe stato inutile continuare a girarci intorno. Ma non volevo parlarne mentre attraversavamo l’interstatale. Saylor restò in attesa mentre imboccavo la prima uscita disponibile. Era il momento più intenso del pomeriggio e faceva un caldo allucinante. Provai a sistemare le manopole dell’aria condizionata mentre lei restava seduta in silenzio. «Io e i miei fratelli racimoliamo soldi vincendo combattimenti». «Vuoi dire combattimenti illegali?». Alzai le spalle. «Combattimenti clandestini. Credo che siano illegali, se proprio vuoi vederla così. Che differenza fa?» «Perché lo fai?» «Perché paga di più di uno stipendio minimo e sono davvero bravo a farlo». Guardò fuori dal finestrino e si mise a giocherellare con un ciuffo di capelli.

Aveva la voce triste, ridotta a un filo. «Mi ricordo che facevi sempre a botte». «Facevo? Vuoi dire a Emblem? Pensavo che l’ora di storia fosse finita. Vuoi rimestare tutte le cazzate che io abbia mai fatto?» «Tu e i tuoi fratelli eravate tremendi. Avete picchiato Brayden più di una volta, solo perché esisteva. E non è stato l’unico». «Gli rode ancora, per questo motivo?» «No». «E allora perché me ne stai parlando adesso?». Fece una smorfia. «È così che ti ricordo. Prima colpisci e poi pensi al resto». «Dunque è così, eh, Saylor? Non posso vincere, con te. Non importa cosa dico, non importa cosa faccio, mi vedrai sempre come un ragazzino che vuole fare a botte». «Cord». Le tremava il labbro. Rimase sul suo lato dell’abitacolo. «No, vaffanculo a tutto. Siamo quegli squallidi dei Gentry. Buoni a far nulla tranne che a fottere e a picchiare. Non è così che dicevate tutti? Be’, ora hai avuto il privilegio di vedere con i tuoi occhi tutti e due i miei talenti». Mi sfregai la patta, con un gesto rude. «Vuoi un’altra dimostrazione, Say? Possiamo prenderci qualche minuto per noi, qui a bordo strada». Si girò dall’altra parte, disgustata. «Falla finita». Le afferrai la mano e me la poggiai contro il cazzo. «Dài, Saylor. Ti ho visto che lo guardavi. Lo so cosa vuoi». Impallidì. Le lasciai andare la mano e aprii il finestrino, mettendo fuori la testa nel caldo impossibile e respirando a fondo. Che cazzo mi diceva la testa? «Non ha conquistato nulla», disse, con un tono colmo di disprezzo, aprendo lo sportello e uscendo fuori, sul ciglio della strada. «Ehi!», le urlai. Mi ignorò e prese a camminare a bordo strada in direzione di un

distributore di benzina. Le tagliai la strada col pick-up. «Saylor!». «Vaffanculo, Cord!». Merda, non potevo andare via e lasciarla lì in mezzo al nulla. «Senti, prometto che non ti toccherò di nuovo, va bene? Te lo giuro sui miei fratelli. Sali sul pickup e lascia che ti riaccompagni a casa». Distolse lo sguardo, scuotendo la testa e mordendosi il labbro. Ma smise di camminare. Spensi il motore, con l’intenzione di restare lì ad aspettarla finché non si fosse decisa a salire. Mi guardò negli occhi. Il disprezzo che provava per me era evidente. Ma comunque aprì lo sportello e salì a bordo. Rimisi in moto il motore e tornai in strada. Potevo dirle che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Era riuscita a colpirmi nel recesso più remoto del mio cuore. Avrei preferito farmi a fette i palmi delle mani un millimetro alla volta che fare qualcosa per ferirla. Vaffanculo. Se ancora non lo aveva capito, di certo non l’avrei presa per mano per supplicarla di vedermi per come ero. La furia che si era impossessata di me ancora non mi abbandonava. In una improvvisa fitta di rabbia, diedi un pugno al volante. Saylor sobbalzò e poi restò a guardarmi, per poi alla fine distogliere lo sguardo e rivolgerlo fuori dal finestrino. Per il resto del viaggio di ritorno a Phoenix non ci fu nulla di cui parlare, e quando alla fine raggiungemmo Tempe, sull’abitacolo regnava un silenzio gelido. Accostai davanti all’appartamento di Brayden, scaricai le scatole di Saylor e le lasciai davanti alla porta. Lei rimase a qualche o di distanza, guardandomi in silenzio. Aveva un’espressione così miserabile che per un istante volli andare da lei. «È tutto», dissi bruscamente. «Lo è, vero?». Non stava parlando delle scatole. «Ciao, Saylor».

Non mi venne dietro. Non ero nemmeno sicuro che lo volessi. Forse Saylor McCann era troppo sommersa dal ato. Mi ero già spinto sin troppo oltre per tentare di redimermi con lei. Probabilmente sarebbe andata via con qualche altra testa di cazzo straricca che l’avrebbe trattata come mobilio usato. Mentre imboccavo una dopo l’altra le svolte necessarie a uscire dal parcheggio per tornare al mio appartamento, sapevo che la notte non era ancora finita. La parte più crudele di me, quella che era figlia di Benton Gentry, stava cercando soddisfazione. Feci irruzione nell’appartamento, alla ricerca dei miei fratelli. Se c’era davvero un combattimento, volevo farlo. Avevo bisogno di farlo.

Capitolo undici Saylor

Spinsi le scatole col piede attraverso la porta e mi sentii all’improvviso priva di energia. Mi lasciai cadere sul divano e mi misi a piangere. Non era un pianto purificante e riscattante. Era quel tipo di singhiozzo strozzato che emerge dal buio che abbiamo dentro e che non riusciamo a trovare modo di arginare. Era il pianto della disperazione e del cuore spezzato. Da quando Cord Gentry era rientrato nella mia vita, mi ero scoperta a pensare a lui più di quanto volessi. All’inizio vederlo mi ricordava tutto quello che avevo disprezzato da ragazza, quand’ero a Emblem. Non riuscivo a ricordare con precisione il momento in cui avevo capito che il mondo era più vasto di quattro roulotte coperte di polvere, ma era più o meno da allora che desideravo di fuggire. E c’era anche il dettaglio di come le persone fossero interconnesse alle proprie memorie. Non riuscivo a pensare a Cord senza ricordare la pessima nomea che i Gentry avevano a Emblem. Anche in mezzo a tanto disprezzo, tutti ne avevano paura. E c’era Cord al centro di quell’aura malefica. Ma il Cord che ricordavo era distante un mondo da quello che mi aveva messo addosso la sua coperta sul divano e da quello che mi aveva rivelato i suoi ricordi più dolorosi. Era per quell’uomo che ora il mio cuore soffocava nel lutto. Quando aveva tirato giù la porta di Devin non riusciva nemmeno a vedermi. Era come una macchina di rabbia incoerente. Se non lo avessi fermato avrebbe continuato a colpire Devin fino a che non ci sarebbe stato più nulla da colpire. Millie mi trovò sul divano, un grumo di lacrime e singhiozzi, e lasciò cadere la sua borsetta a terra allarmata. «Saylor», disse, in tono gentile, cercandomi in quel groviglio il volto e scostandomi i capelli dalla faccia come avrebbe fatto una madre. «Che cosa è successo?». E per qualche istante mi aggrappai a lei come se fossi tornata bambina. Pochi respiri dopo riuscii a parlare.

«Diciamo che in California non è andata bene». Gli occhi luminosi di Millie mi scrutarono con attenzione. «Dannazione, che cosa ti ha fatto? Non c’era Cord lì con te?». Chiusi gli occhi. «Cord c’era. Devin e io abbiamo iniziato a litigare e Devin si è scagliato contro di me. Cord era rimasto fuori e quando ha sentito il trambusto ha sfondato la porta». Millie restò a bocca aperta. «Oh, mio Dio». «Già». Inghiottii e feci una smorfia. «Cristo, Millie, avresti dovuto vederlo. Era completamente invasato. Si è scagliato contro Devin con una furia animale. Per un momento ho pensato che lo avrebbe ammazzato». Millie si piegò le braccia in grembo. «Ma non l’ha fatto». «No. Ho cercato di tenerlo per fermarlo, a urlare mentre continuava a colpire Devin, ma sembrava che nemmeno mi sentisse. E poi all’improvviso mi ha ascoltata. Mi ha guardata come se fosse sorpreso di vedermi lì. Cazzo, ce l’hai un fazzoletto?». Millie mi porse un pacchetto di fazzoletti di carta dalla sua borsetta e mi guardò aspettando che continuassi a raccontare. «E poi cos’è successo, Saylor?». Mi soffiai il naso e ricordai il suono della voce di Cord in quel momento. Era profondo, quasi gutturale. Intendeva proprio dire quello che stava dicendo. «Poi ha detto a Devin che lo avrebbe ammazzato, se provava a chiamare la polizia o ad avvicinarsi a me». «Cosa pensi che farà questo Devin, ora?». Mentre guardavo fuori dal finestrino vedendo uno Stato sfumare nel successivo durante il viaggio di ritorno, ci avevo pensato. «Non lo so. Dubito che farà qualcosa. Devin è fatto così. In fondo è un codardo, non metterebbe a repentaglio niente pur di vendicarsi. Cord lo ha inquadrato subito». Millie fece una smorfia. «Dov’è Cord? Ho l’impressione che ci sia stato un

qualche confronto, tra voi due». Mi poggiai il cuscino in grembo, sentendomi disperatamente infelice. «C’è stato. Non so, quando l’ho visto fuori di sé mi è scattato qualcosa. Poi mi ha detto che si guadagna da vivere facendo combattimenti clandestini». Millie annuì. «Sì, Brayden mi aveva accennato qualcosa del genere». Ne fui sorpresa. «Brayden lo sapeva? Sarebbe stato carino se me ne avesse messo a parte». Alzò le spalle. «Forse credeva che tu già lo sapessi. O magari ha pensato che non avrebbe fatto alcuna differenza». «Ma cazzo, Millie, come avrebbe potuto non fare nessuna differenza? Hai idea di come possa essere stato crescere assieme a queste persone? Vederli picchiare chiunque si imbattesse sul loro cammino? Lo sanno tutti come sono i Gentry». «Io non lo so. Come sono?». Sospirai rumorosamente. «Sexy da morire e spaventosi da morire». «Saylor, temi forse che Cord possa farti del male come te ne ha fatto Devin?» «No», risposi subito. «Cord non mi farebbe mai una cosa del genere, non a me». «Ma non ti fidi di lui». Scossi la testa. «Non lo so», dissi, triste, «credo proprio di no. Cioè, a conti fatti è ancora il tipo che mi ha scopata per scommessa e che picchiava tutti quelli che non erano d’accordo con lui. Forse non è colpa sua. Forse è impossibile sfuggire alla situazione in cui nasci. E Cord è nato tra i Gentry». Millie distolse lo sguardo. Sembrava triste anche lei. «Tu ti giudichi con troppa severità, Saylor. Ma vedo che hai deciso di giudicare con la stessa severità anche il resto del mondo». Le sue parole mi ferirono. Le lacrime sembravano volersi riaffacciare agli occhi. «Lo so, non è molto bello da parte mia, no? Non è affar mio dover giudicare nessuno. Non che abbia poi fatto tante cose di cui andar fiera. Dio, vorrei essere

come Bray, sai? Ha quel modo semplice e giusto di vedere il mondo e tutti quelli che lo abitano. È come se quegli occhiali spessi gli permettano di vedere chiaramente nell’animo delle persone». Mi rivolse un sorriso lieve. «A Brayden non importa nulla di quello che pensano gli altri. Ascolta sempre il suo cuore per capire cosa deve fare». Mi appoggiai a lei e provai a sorridere di rimando. «Sono felice che in questo modo abbia trovato te. E ti voglio bene perché lo fai così felice. Voi due siete l’archetipo della coppia perfetta». Millie sembrava non starmi più a sentire. Spesso, quando una persona sta lottando con qualche doloroso conflitto personale, il trambusto affiora sul volto e si manifesta. Millie aveva un’espressione simile. Tirò un respiro profondo e riprese a parlare. «Quando arrivammo in questo paese i miei genitori decisero di chiamarmi David». Piegò la testa e mi fissò. «Era quello il nome col quale mi conoscevano tutti, finché non mi sono diplomata». «E poi sei diventata Millie?». Sorrise. «Sono sempre stata Millie». Non capivo. Ma poi all’improvviso capii. Millie mi scrutò il volto e quando vide che finalmente avevo compreso, annuì e iniziò a spiegarmi. Mi raccontò com’era ritrovarsi intrappolati in un corpo che da sempre era sembrato alieno, da quando aveva acquisito consapevolezza, com’era ritrovarsi con un’identità che non c’entrava niente con la propria anima. Ed era anche peggio, grazie all’insistenza di chiunque ti circondava nella vita, di tutti quelli che avrebbero dovuto amarti, e che invece continuavano a dirti che eri sbagliato. Guardati allo specchio, dicevano. Guarda, questo è il tuo nome. Ti sbagli. Sei confuso. erà. Quando diventerai un uomo vedrai. «Ci parli ancora?», le chiesi, «con la tua famiglia?». Storse la bocca, per mettere in mostra il dolore che provava. «Loro non mi vogliono più parlare. La mia famiglia è molto tradizionalista. Dicono che Millie non esiste, che sto violando la natura e che il ragazzo che hanno dato alla luce li ha traditi».

Le presi la mano. «Mi dispiace». Millie mi abbracciò. «Perché ti dispiace? Io ancora serbo speranza che un giorno le cose cambieranno. Il mondo diventa sempre più grande. E oggi sono più felice di quanto lo sia mai stata». «Siete comunque una coppia perfetta», le dissi. «Tu e Bray». «Brayden è stato il primo uomo a guardare per intero la mia complessità e ad amarla. La prima volta che abbiamo fatto l’amore mi ha detto che non gli importava cosa ero, solo chi ero. Tuo cugino è un uomo raro. Ma questo lo sai già». «L’ho sempre saputo. Mi fa piacere che ora lo sappia anche qualcun altro. Suo padre, mio zio, era un osso duro. Beveva molto e stava sempre lì a criticarlo perché non era granché combattivo, non faceva il duro, come se un uomo dovesse per forza essere così». Scossi la testa. «Stronzo. Anche io non vado granché d’accordo con i miei, anche se non c’è paragone con quello che hai dovuto are tu». Rimasi in silenzio per qualche istante, facendo mente locale. «Siamo tutti naufraghi, in qualche modo, vero, Millie? Tu, io e Brayden». «Cord», aggiunse. «E anche i suoi fratelli». «Credo che tu abbia ragione», dissi lentamente, pensando ai fratelli Gentry di un tempo e a quelli di oggi. «Una cosa che ricordo bene è che una volta si misero nei guai per essere entrati nella scuola elementare di notte. Rubarono del cibo dalla caffetteria e per tanto tempo non capii che lo avevano fatto perché erano affamati. Mio padre diceva sempre che quei ragazzi non avrebbero fatto una fine migliore del loro padre, che entrava e usciva di prigione». Rabbrividii, pensando al padre dei Gentry. «Era un figlio di puttana che faceva paura. Una volta mise mia madre all’angolo in un negozio e la palpeggiò, prima che lei lo colpisse con un arrosto congelato e fuggisse via prendendomi per mano. Sento ancora il respiro di lui che ansimava rincorrendoci. Mia madre mi fece giurare di non dirlo a mio padre perché temeva che un confronto tra lui e Benton Gentry sarebbe di sicuro finito nel sangue». Smisi di parlare e mi guardai le mani. Cord non era suo padre. Ero stata ingiusta con lui. Avevo notato quanto lo avessi ferito quando lo avevo trattato come se fosse poco meno che umano.

Millie sapeva cosa stavo pensando. «Dovresti andare da lui». «Non so cosa provi. O se provi qualcosa». Alzò un sopracciglio. «Be’, ma sarà divertente scoprirlo, no?» «Non lo so, forse è troppo presto. Forse per un po’ dovrei solo concentrarmi su me stessa, leggere qualche manuale di auto-aiuto, finire il mio romanzo e magari prendere un gingillo a batterie, per godere un po’, perché di quelli veri non se ne vede l’ombra». Millie rise. «È quello che vuoi?» «No», dissi, brutalmente onesta. «Voglio invece che Cord mi smonti in dieci modi diversi». «Sembra un piano più interessante del precedente». «Certo», dissi, già persa nella visione fumosa delle mani di Cord che esploravano con insistenza ogni mio recesso. Ero certa che volesse farlo. Anche se dopo la discussione di quel giorno poteva aver cambiato idea. «Con te è impossibile vincere». Lo aveva detto sentendosi sconfitto. Forse era vero. O forse non si era mai trattato di vincere. Forse si trattava solo di inciampare nel buio finché non trovavi qualcuno adatto a te. Millie mi abbracciò di nuovo. La riabbracciai e la ringraziai di far parte della mia famiglia, così leale e così gentile, che era tutto quello che contava. Mi ritirai in bagno e mi guardai allo specchio. Avevo la pelle rossa e piena di macchie e così feci scorrere l’acqua fredda per sciacquarmi la faccia. L’immagine nello specchio rimase in paziente attesa mentre la ispezionavo. Avevo gli occhi verdi di mio padre e i capelli castani di mia madre. Non avevo più visto nessuno dei due da quando ero tornata in Arizona. All’improvviso la cosa mi diede fastidio, che ci fosse così poco a tenerci uniti, che non fossero loro quelli dai quali potevo correre quando ero nei guai. Ma avevo Brayden. E ora avevo anche Millie. Iniziavo a capire una cosa: che se uno riusciva a trovare un pugno di persone a cui aggrapparsi, in questo triste mondo, poteva dirsi

fortunato. Millie aveva ragione. Avrei dovuto andare da Cord. E ci sarei andata. Avrei dovuto farlo ore prima. Non avevo idea di cosa sarebbe successo. Avrebbe potuto respingermi. Avrebbe potuto decidere che tra noi c’era troppa storia ata, troppe complicazioni. Se aveva voglia di farsi una bella scopata, ci sarebbe riuscito senza doversi sobbarcare i guai che gli causavo. Sentii Millie che parlava a bassa voce in salone e immaginai che stesse parlando con Brayden. Tra di loro, erano molto rilassati. Non sarebbe mai stato così, tra me e Cord. C’era un’elettricità esplosiva che si sarebbe risolta soltanto sbattendoci a vicenda con ferocia. Mentre tiravo giù le spalline del vestito e mi sfilavo il reggiseno, venni inondata da un brivido erotico. Fissai il mio corpo. Non avevo delle forme vertiginose e non ero granché distante dalla media. Vidi i miei capezzoli indurirsi mentre li guardavo, immaginando la bocca di Cord che li succhiava. Presi a tremare, chiudendo gli occhi e aggrappandomi al bordo del lavandino. Quando si era preso la mia verginità sul pavimento del garage di mio padre, aveva dimostrato un briciolo di coscienza, anche se ci erano voluti anni per capire che si era trattato di quello. «Sei sicura di volerlo fare?». Lo ero. Anche se non gli avrei mai potuto perdonare l’umiliazione che ne era seguita, non potevo negare quanto avessi abbandonato in fretta la ragione in favore di qualcosa di più selvaggio e pericoloso. E forse adesso stavo facendo la stessa cosa. Ritirai su lentamente le spalline del vestito, ando una mano sul tessuto per lisciare le pieghe. Dopo essermi lavata la faccia mi riapplicai il trucco che si era dissolto durante il giorno. Alla fine ero pronta. Millie stava ferma in un angolo del salone, col gomito poggiato sul bracciolo del divano, un lieve sorriso dipinto sul volto mentre parlava al telefono. Mi fece un cenno col capo. «Bray vuole assicurarsi che tu sia a posto». «Bray», urlai attraverso la stanza, «sono Say! Va tutto bene!».

Millie scoppiò a ridere e rimase qualche istante in ascolto. «Sta borbottando, ma dice che per ora va bene così». Mi rivolse un sorriso impertinente. «Buonanotte, Saylor». Simulai innocenza. «Torno tra poco». «No», disse con certezza. «Non torni tra poco». Era lunedì, una di quelle notti della settimana in cui c’erano pochi party in giro e tranne degli scoppi improvvisi di risate, il complesso di appartamenti era in larga parte immerso nel silenzio. Camminai lentamente, provando a ricavare un qualche piacere dalla quiete che mi circondava e a calmare i nervi che erano ancora scossi. Quando mi trovai di fronte alla sua porta il cuore mi batteva forte come un tamburo. Ma scoprii che non c’era bisogno di farmi divorare dall’ansia. Dopo aver bussato per diversi minuti e aver sbirciato attraverso le tende, richiamando alla mente una notte di qualche tempo prima, capii che i fratelli Gentry non erano in casa. Forse erano usciti alla ricerca di donne o di alcol, o di entrambi. O forse erano impegnati a fare le cose pericolose che facevano per lavoro. Un’improvvisa immagine mentale di Cord che veniva picchiato a sangue da un malefico avversario senza volto mi fece sobbalzare. Digrignai i denti e mi sedetti a gambe incrociate davanti alla porta. Mandai due messaggi al telefono di Cord, ma non fui sorpresa quando non ricevetti risposta. Non importava dove fosse; a un certo punto avrebbe pur dovuto tornare a casa. Non importava nemmeno cosa stesse facendo, nemmeno se al momento stava in giro con una qualche tipa a caso aggrappata al braccio. Gli avrei detto quello che avevo bisogno di dirgli. Nell’ombra c’era una vecchia sedia pieghevole appoggiata storta al muro. La raddrizzai e mi ci sedetti sopra, fissando nel buio del parcheggio deserto che avevo davanti. Prima o poi avrei messo tutte le carte in tavola. Ora c’era solo bisogno di aspettare.

Capitolo dodici Cord

Di tutti e tre io ero in genere quello più calmo, il fratello che poteva contare, quando richiesto, su una riserva di forza pacata. Ma ovviamente, non ti veniva voglia di pubblicizzare il fatto di essere il più stabile dei fratelli Gentry. La giocosità di Chase era una maschera intenzionale e metà delle volte non si riusciva nemmeno a capire bene cosa gli asse per la testa. E Creed, il possente Creed, era perpetuamente in guerra contro un’armata di demoni personali. Intorno a sé teneva un’armatura spessa che nessuna tenerezza riusciva a perforare. Entrai nell’appartamento ribollendo di rabbia, ancora arrabbiato per il fiasco che era stata quella breve gita in California. Chase stava in piedi vicino a Creed, che era disteso sulla panca da sollevamento pesi piazzata nel patio sul retro. Non notarono subito la mia presenza e restai per qualche istante a fare avanti e indietro, provando a riacquistare il controllo di me stesso e fallendo miseramente. Presi un barattolo pieno di soldi spicci che stava sul tavolo della cucina e lo scagliai in direzione delle librerie, mandandolo in mille pezzi. Chase fu il primo a varcare la porta scorrevole. Mi guardò incredulo mentre continuavo a fare avanti e indietro per la sala come una pantera in gabbia. «Che cazzo fai?». Iniziai a tirare pugni a vuoto contro il muro. Immaginai la sensazione gratificante di infliggere un danno terrificante con ogni gancio. «Brutta testa di merda», grugnii, sollevando una delle squallide sedie della cucina sopra la mia testa, con la sola certezza che dovevo distruggerla. «Cord!». Tutti e due i miei fratelli stavano fermi sulla porta che dava sulla veranda. Si guardarono l’un l’altro per poi tornare a guardare me, che tenevo ancora la sedia

al di sopra della testa. «Non farlo», disse Chase in un tono blando. «Quel culo rotto di Creed ne ha già spaccate un paio. Se non ho più un posto dove sedermi, dove mi metto, a gustarmi i cereali al marzapane?». Mi sorrise, ma non lo fece per prendermi in giro. Si vedeva che era preoccupatissimo. Creed si asciugò il sudore che gli colava sulla fronte e mi guardò mentre abbassavo la sedia a terra per poi sedermici sopra. Mi sentivo come se un uragano mi imperversasse sotto la pelle. «Per il combattimento di stasera, contate su di me. Devo togliermi un po’ di merda dalla testa». Chase mi girò attorno e si mise a sedere su una delle altre sedie. «Sembra che tu ti sia già dato da fare, oggi», commentò, indicando le mie nocche che già sanguinavano. «Solo un po’», dissi, con espressione seria. Creed si scolò una bottiglietta intera d’acqua e mi scrutò. «E com’è andata? Hai vinto tu?» «Tu che dici?». Chase incrociò le mani sul tavolo. «Che cosa è successo?» «Quella faccia da cazzo ha provato ad aggredirla, ma io sono stato più veloce». Sospirai e mi lasciai cadere all’indietro sulla sedia. «Non è stato un bello spettacolo. Sono sicuro di avergli rotto quel corpo costosetto in più punti». «Bene», disse Creed alzando le spalle e aprendo un’altra bottiglietta d’acqua. Chase sembrava agitato. «Ci saranno delle ripercussioni?» «Ma no», risposi, anche se pensavo a Saylor e allo sguardo disgustato che mi aveva rivolto dopo che mi ero offerto di scoparla a bordo strada. «Non da parte sua, almeno».

«E Say?», chiese Chase, intuendo a cosa mi riferivo. «Saylor crede le stesse cose che ha sempre creduto, ovvero che sono un delinquente incallito. Potrebbe anche avere ragione». «Ha detto proprio così?» «Non ce n’è stato bisogno. Per lei non valgo nulla, sono peggio che spazzatura». Chase ridacchiò. «Lo sai che non è vero». Mi girai verso di lui. «Vuoi darmi dei consigli sentimentali? Quand’è stata l’ultima volta che hai usato una ragazza per fare qualcosa di diverso che un po’ di esercizio?». Sorrise. «E tra voi invece che c’è? Amore?». Sbuffai. «La conosco a malapena». Chase si allungò verso di me e mi diede una spintarella. «Ma sì che la conosci». «Basta con queste cazzate. Non voglio più parlare né di Saylor, né di quel babbeo californiano, né di altro. Voglio solo spaccare la faccia a un qualche povero idiota e più tardi magari cercare un buco dove piantare il cazzo. Vi sta bene?» «Certo», sbadigliò Creed. «Vado a darmi una sciacquata». Avevamo ancora molte ore davanti prima del combattimento. Le ai mangiando tre tazze dei cereali di Chase, poi giocando al gioco apocalittico di Creed con una furia inaudita. I miei fratelli si mossero in punta di piedi attorno a me per il resto della serata e io ero concentrato da morire. Se avessi pensato troppo a lungo a tutto il resto, mi sarei dovuto aggrappare alla speranza che a un certo punto avrei sentito bussare piano alla porta e aprendo avrei trovato lei là in piedi. Quando Creed diede voce che era quasi ora di andare, guardai in basso e mi accorsi che avevo i pantaloni insanguinati, e non del mio sangue. Non me ne fotteva un cazzo. Se lo stupratore fattone che avrei dovuto affrontare le vedeva, quelle macchie di sangue, tanto meglio. Mi avvolsi delle bende sulle mani,

poche, perché metterne di più sarebbe stato motivo per deridermi, e comunque non me ne servivano altre. Uscii sulla veranda e sollevai qualche peso per rimettere in moto la circolazione. Anche Chase era lì e stava già bevendo. Sembrava di umore insolitamente serio. «Sotterrala nel fosso, Cordero», disse. Era una cosa tra fratelli, che aveva detto Creed per la prima volta anni prima, quando dovevamo combattere ogni giorno per sopravvivere. Aveva sempre paura che non sarebbe riuscito a controllare la sua follia. Il significato era semplice. Prendi tutta la merda che minaccia di sopraffarti e seppelliscila in profondità, dove non potrà più toccarti. Dalle qualche colpo prima, se serve, così ti rilassi. Ma poi seppelliscila senza pensarci più. Mio fratello mi stava guardando. «Non mi dispiacerebbe combattere, stasera», disse. Scossi la testa con decisione. «Fai combattere me. Poi la sotterro nel fosso». «Ci sotterri anche Saylor?» «Con Saylor avrei dovuto farmi i cazzi miei dall’inizio». Chase grugnì e diede un altro sorso. «Ti chiedi mai se un giorno dovremo pagare il conto di tutte le cazzate che abbiamo fatto? Tipo che c’è un qualche grosso karma universale e un giorno viene fuori che abbiamo uno scoperto sul conto?» «No», dissi, alzandomi in piedi. «La giustizia non esiste. Nemmeno l’equità. Se esistessero, Benton Gentry non sarebbe libero, non respirerebbe ancora». Gli occhi azzurri di Chase si spensero alla menzione di nostro padre. Era un soggetto proibito. Creed una volta mi aveva detto non gli piaceva rimuginare su quei vecchi incubi. Perché se lo avesse fatto, poi avrebbe dovuto uccidere qualcuno. E proprio la testa di Creed sbucò nel buio dalla porta. «È ora di andare, ragazzi». Mio fratello stava per tornare dentro quando decise di guardarmi più attentamente. Aveva le sopracciglia alzate e si stava chiedendo se ce l’avrei davvero fatta.

Annuii e cercai di superare Creedence, quando Chase mi abbracciò da dietro. Ogni tanto lo faceva. Ma fui sorpreso quando Creed ci abbracciò entrambi, stringendo forte. Creed non faceva mai cose del genere. Mi diede una goffa pacca sulla testa, perché anche se aveva il cuore appena più morbido di una pietra, capiva sempre quando stavamo male e cercava di rimettere a posto le cose. Per un momento socchiusi gli occhi e mi sentii grato per il cerchio indistruttibile che io e i miei fratelli avevamo costituito. Creed fu il primo a romperlo. «Andiamo», disse, tenendo la porta per farci are. Il posto era un buco di merda a sud di Phoenix, una vecchia scuola elementare che era stata chiusa una ventina di anni prima, l’immagine vivente del degrado urbano. Nel parcheggio imperversavano orde di motociclisti, in mezzo a file di macchine costose che non c’entravano nulla con quella parte della città e che nessuno, non lì, si sarebbe azzardato a toccare. Specie per via del tipo tatuato che sembrava Godzilla, che si occupava della security nel parcheggio. Seguimmo il rumore e raggiungemmo il vecchio campo da gioco dietro la scuola. Era illuminato da una dozzina di faretti che qualcuno aveva portato lì. In mezzo a tutta quella confusione e quel trambusto, immaginai che dovevano essere stati dati parecchi soldi ai poliziotti sfortunati che lavoravano nel quartiere. C’era già un combattimento in corso. Un tipo smilzo, che si muoveva velocemente e aveva una grossa croce nera tatuata sulla testa rasata, stava spaccando la faccia a uno stronzo col cappello da cowboy. La folla era composta prevalentemente da branchi di uomini che mettevano in bella mostra le loro armi e i simboli delle loro gang, in caso a qualcuno fosse venuta la cattiva idea di guardarli di traverso. Uno di quei gruppi ci vide entrare e ci rise dietro, avvicinandosi e urlandoci insulti in spagnolo. Creed si tese e gonfiò i muscoli, ma bastava dare un’occhiata a uno di quei tipi per capire che non ne saremmo usciti vivi. Gabe Hernandez li interruppe, facendosi largo tra la folla e facendo cenno agli uomini di allontanarsi. Uno di loro sputò a terra con aria di sfida, ma comunque si fece indietro. «I fratelli Gentry», sorrise Gabe. «Quale di voi farà gli onori?»

«Io», dissi, togliendomi la maglia. Gabe sembrò soddisfatto. «Aspetta lì a lato. Appena questo andrà giù, entrerà il tuo sfidante». Fece un gesto in direzione del cowboy coperto di sangue al centro delle luci. Gabe andò a parlare con un gruppo di uomini vestiti bene, che si stavano godendo lo spettacolo visibilmente soddisfatti. Non c’era bisogno che qualcuno mi dicesse di chi si trattava: erano quelli che scommettevano forte, i proprietari delle auto da urlo parcheggiate fuori, quelli che godevano alla vista del sangue ed erano disposti a pagare salato per la loro ione. Chase mi diede una botta e mi girai per vedere cosa mi stesse indicando. Sulle prime non ricordai dov’era che avessi già visto quei tipi. Potevo solo dire che, come noi, erano un po’ fuori luogo lì. Poi uno di loro ci fece un cenno con la testa, perché ci aveva riconosciuti, e ricordai di averli visti nella folla di universitari della confraternita, quando avevo pestato il loro campione qualche settimana prima, la sera in cui avevo buttato accidentalmente a terra Saylor McCann. Ci guardavano con uno sguardo divertito mentre toccavano il culo ad alcune ragazze poco vestite che li accompagnavano. «Tutto bene?», mi chiese Creed. Capii che dovevo aver fatto una qualche smorfia, ripensando a Saylor. «Sono concentrato», rassicurai mio fratello, facendomi scrocchiare le nocche, mentre attendevamo che chiamassero la fine dello scontro in corso. Quando l’arbitro alzò la mano del vincitore e lo sconfitto venne condotto via dal ring, Gabe ci guardò e fece un cenno col capo. L’arbitro era alto solo un metro e mezzo ma aveva una voce tonante. Quando mi chiamò, mi diressi con calma al centro e restai in attesa. «Abbiamo già un bel mucchio di verdoni puntati su questo scontro! Ma c’è ancora tempo per fare le vostre scommesse. Da un lato abbiamo uno dei fratelli Gentry, tra i più cattivi lottatori bianchi del Texas occidentale, che sfiderà lui, la leggenda, Emiliooooo!». L’annunciatore pronunciò quel nome con così tanta enfasi che pensai che da quelle parti volesse dire qualcosa. Gli uomini tra la folla urlavano, le donne avevano l’espressione annoiata, e un mucchio di soldi ava di mano. Dall’altro lato del ring si udì un ruggito e un tipo smilzo, che sembrava poco più

di un ragazzino, si fece avanti in mezzo alle luci, ballando in maniera sgradevole. Sembrava avere al massimo quindici anni e non fui contento di doverlo mettere al tappeto. Non era il tipo di combattimento che avevo in mente. Ma il ragazzo scoprì i denti nella mia direzione e iniziò a ridere sguaiatamente prima di ritornare nell’ombra. La figura che emerse subito dopo era forse un tantino più impegnativa. Era un tipo più grosso di Creed. Era calvo, aveva la pelle color bronzo che sembrava cuoio, il che mi fece supporre che avesse sulle spalle qualche estate in più di me. Si prese tutto il tempo che gli serviva per entrare nel ring, flettendo i muscoli e muovendo il collo a destra e a sinistra. Il suo torace recava una cornucopia di cicatrici e tatuaggi sbiaditi. Pensai che, se anche non aveva visto l’interno del carcere di Emblem, fosse stato comunque in prigione da qualche altra parte. Emilio sorrise e la luce mise in risalto le capsule d’oro che gli ricoprivano i denti. I suoi fan gli urlavano dietro in spagnolo: «Facil victoria!». Mantenni la faccia senza espressione, ma dentro di me già stavo ribollendo. Vittoria facile, stavano dicendo quei tipi. Col cazzo. Emilio arrivò al centro dello spiazzo che era stato eletto a ring. «Signori e signore», urlò l’annunciatore, «dovrei dirvi di stare alla larga, ma che cazzo ve lo direi a fare?». La folla era esagitata e voleva vedere scorrere il sangue. Avevo già visto il cowboy portato via dai suoi amici. Non volevo di certo essere il prossimo. «È così che ti ricordo. Prima colpisci e poi pensi al resto». Forse quel pomeriggio, con la sua voce triste, non aveva detto proprio così, ma ricordare quella frase, negli ultimi istanti prima dell’incontro, mi perforò il cuore. «Va bene così, tesoro», grugnii, alzando i pugni. «Stai parlando con me, teppistello bianco?». Emilio mi girò attorno, con un sorriso orrendo sul volto. «O stai pregando quella troietta del tuo creatore?».

Stavo quasi per sputare fuori un suggerimento su cosa farsene delle sue battute. Ma mi trattenni. Lo stava facendo per distrarmi. Dovevo concentrarmi su quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Emilio si ò la lingua viscida sulle labbra e fece una finta, ridendo quando mi vide reagire. Dunque sarebbe stato quello il suo gioco, provare a confondermi finché non fossi stato abbastanza incazzato da compiere un o falso. Ma da vicino, dietro tutte quelle cicatrici, si vedeva che le sue braccia non erano ben tornite e che intorno allo stomaco aveva una decina di chili di grasso di troppo. Voleva dire qualcosa. Voleva dire che c’erano dei punti deboli. Dovevo solo riuscire a colpirli. Emilio stava di nuovo ridendo. Credeva che fossi come uno dei ragazzi della confraternita, un bianco privilegiato che si eccitava a fare il cattivo di tanto in tanto. Mi assestò un montante sulle costole e io risposi con una serie di colpi veloci al torace. Non aveva granché scelta e dovette restarsene in posizione difensiva mentre gli scagliavo addosso, in una tempesta di furia repressa, un montante dopo l’altro. Questo fece calare il silenzio sul suo corner. Dopo la raffica, Emilio fece qualche o indietro. Dal volto si capiva che stava cambiando idea. Aveva riconosciuto la mia ferocia, aveva capito che ero più simile a lui che agli universitari tra il pubblico. Socchiuse appena gli occhi e con una velocità che non mi aspettavo mi colpì nello stesso punto dove mi aveva centrato la prima volta. Era un colpo pesantissimo e mi servì un momento per riprendere fiato. I suoi amici iniziarono a urlare cose in spagnolo che non capivo. Ma sapevo che mi volevano vedere al tappeto. Immaginai che stesse per assestarmi un altro colpo. Mi preparai a colpirlo sulla parte alta del corpo, ma era una trappola. Mi prese per la testa e mi martellò la gabbia toracica. Era forte come una bestia. Non riuscivo a liberarmi. Abbassai la testa al centro del torace e lo spinsi indietro. Lo sentii grugnire, sentii il suo fiato caldo sul collo mentre perdeva l’equilibrio. Quando inciampò, allentò la presa quel tanto che bastava a liberarmi. Il mio gancio destro era pronto a colpire e glielo piazzai al centro della faccia. Ma non riuscii a colpirlo come volevo, anche se fu abbastanza forte da fargli

colare un rivolo di sangue dal lato della bocca. Ma oltre a sputare saliva rossastra a terra, non sembrava granché turbato. Il suo colpo successivo mi sfiorò la spalla destra e io risposi colpendogli di nuovo la faccia. Ma mi stava aspettando, e prima che riuscissi a mettere le braccia in posizione difensiva mi assestò una mazzata impressionante sul lato destro della testa. Non era abbastanza da fare un vero e proprio danno, ma mi fece fischiare le orecchie in modo assordante. Scossi la testa, provando a ritornare in me. Sentii Creed, o forse era Chase, che urlava il mio nome, provando a ridestarmi. Quando Emilio riuscì a inchiodarmi un altro colpo al centro del petto, l’aria mi abbandonò i polmoni e caddi in ginocchio. La folla sembrava urlare con una voce sola e vidi le grosse gambe di Emilio apprestarsi ad arrecarmi un danno dal quale non mi sarei rialzato tanto facilmente. Quando lo vidi avvicinarsi, mi sembrò che ogni momento della mia vita, tutte le agonie e le pene, avessero congiurato quel caos informe che mi aveva condotto lì in quel momento. Ma si poteva dire la stessa cosa anche del momento successivo. «Dunque Cordero Gentry è un filosofo?» «Cordero Gentry è un mucchio di cose». «Raccontamene qualcuna». Il ricordo della voce di Saylor mi riempì di nuovo i polmoni d’aria. Emilio, con un ruggito bestiale, prese la rincorsa per assestarmi un colpo sul cranio. Mi mancò di poco perché riuscii a rotolare all’indietro, sentendo ogni sorta di rifiuto sparso sul terreno che mi si piantava sulla schiena. Riuscii a rimettermi subito in piedi, prima ancora che Emilio recuperasse l’equilibrio dopo il colpo che aveva tentato. Mi vide arrivare solo all’ultimo momento. Sulla faccia gli si dipinse lo sconcerto di chi non era abituato a perdere uno scontro del genere. Lo colpii duro alla mascella e poi gli piantai una serie di bordate sul torace finché non lo lasciai senza fiato che barcollava all’indietro. Quando cadde, riconobbi le urla gioiose dei miei fratelli, di Chase e Creed, i miei pilastri. Ci fu un tripudio di urla, mucchi di soldi che cambiavano di mano mentre le scommesse venivano pagate. Emilio mi rivolse un sorriso compiaciuto di rispetto prima di essere portato via dalla sua gente. Un paio di ragazzi della

confraternita cercarono il mio sguardo, ma non me ne fregava un cazzo. Se avevano perso i soldi della paghetta, tanto meglio. Dopo aver respirato un paio di volte a fondo capii di non essermi rotto nessuna costola. Ferite sì, ne avevo. Il lato destro della faccia non era rimasto indenne. La guancia si stava già gonfiando e un taglio sul sopracciglio mi riversava sangue nell’occhio. «Bello scontro», disse Creed, lanciandomi la maglia. Andò a raccogliere i nostri soldi e ci allontanammo in fretta da quell’inferno. Era bello sentire il tessuto della maglia sulla pelle sudata. Mi lasciai cadere sul sedile posteriore del pick-up mentre Creed e Chase occupavano i posti davanti. Chase si girò verso di me mentre Creed si immetteva nell’interstatale in direzione della valle orientale. «Che ne dici? Patatine e qualche sfizio per darci la buonanotte?» «No», rifiutai scuotendo la testa, «voglio solo tornare a casa». «A casa?», chiese Chase. «Che cazzo vuol dire a casa?». Creed lo zittì con un colpo alle costole. «Va bene, Cord. Sembri un po’ rovinato». Chase continuò a borbottare per un po’, e io vidi il mio riflesso nello specchietto retrovisore. Ero stato conciato peggio di così per molti meno soldi e non mi aveva mai dato fastidio. Tranne che ora non riuscivo a pensare ad altro che all’espressione inorridita di Saylor quando avrebbe visto, per l’ennesima volta, che non ero meglio degli altri Gentry che imperversavano nel posto dov’eravamo cresciuti. Guardai cupo le luci dei lampioni a bordo strada. Il pensiero di quella ragazza non riusciva ad attraversarmi la mente senza portarsi dietro il modo in cui le pieghe del suo vestito le si avvolgevano intorno al corpo eccitante. Ma quello che veramente mi mandava al tappeto erano gli sguardi insicuri e pieni di affetto che mi rivolgeva, quando per una volta mi azzardavo a pensare di avere diritto a qualcosa di decente.

Non andava bene così. Saylor non sarebbe stata lì ad attendermi quella sera. E anche se era ato un po’ di tempo dall’ultima volta, non ero dell’umore di sbattermi una qualche trucida a casaccio. Chiusi gli occhi, desiderando solo l’oblio del riposo. Poi rallentammo fino a fermarci e Chase mormorò: «Porca troia», in un tono stupito che mi fece riaprire gli occhi. Era inondata dalla luce dei fari, con gli occhi socchiusi per il bagliore, così bella da mandarmi spasmi su per il cazzo. Creed spense il motore e tutti e due i miei fratelli si girarono per vedere cosa avrei fatto. «Cord?», chiamò, con voce incerta. Aprii lo sportello e uscii fuori, ogni muscolo del mio corpo più teso di quanto era stato nei secondi immediatamente precedenti allo scontro con Emilio. Saylor si morse il labbro e si avvicinò. Le scrutai il volto mentre lei osservava a sua volta in che stato era ridotto il mio. Invece dello shock che mi immaginavo, sembrava sollevata. Restò in piedi davanti a me e piegò la testa all’indietro mentre mi toccava la mano. «Mi dispiace», sussurrò, avvicinandosi ancor più, esitante. «Anche a me, Saylor. Anche a me», le dissi, intrecciando le dita alle sue per dimostrarle che dicevo sul serio. Sospirò, evidentemente emozionata. «E ora?». Le feci scorrere il pollice sul palmo della mano. «Dipende, bella. Tu che vuoi?». Mi rivolse un sorriso lieve. «Lo sai già». I miei fratelli mi stavano alle spalle, per una volta senza fiatare. Gliene fui grato. Chase aprì la porta dell’appartamento ed entrò in silenzio assieme a Creed. La spinsi con gentilezza. «Andiamo dentro».

Annuì e le feci scivolare il braccio sulla spalla mentre attraversavamo la soglia. Quella notte avrebbe marcato la fine delle incertezze tra di noi. Non desideravo altro.

Capitolo tredici Saylor

Era ridotto un disastro. Lo capii non appena gli posai gli occhi addosso. Non sapevo se aveva vinto. Non importava. Non volevo nemmeno che me lo raccontasse. Volevo solo lui. Chase e Creed provarono a rimanere sullo sfondo. Meglio così. Li vidi prendere un paio di birre dal frigo e attraversare le porte scorrevoli che davano sulla veranda. Cord entrò in bagno e si esaminò il volto nello specchio, io restai sulla porta a guardarlo. «Dovresti metterci sopra qualcosa», dissi, indicando il taglio che aveva sull’occhio destro. Cord strizzò gli occhi e si tolse la maglia. Mescolati ai tatuaggi, potevo vedere diversi lividi sparsi sul torace ma a lui sembrava non importare nulla, e quando mi vide che lo stavo fissando mi sorrise. «Non è brutto come sembra». «Sono felice di sentirtelo dire». Lo aggirai e, nel mobile vicino allo specchio, mi misi alla ricerca di qualcosa di antibatterico. Anche se mi ero avvicinata al punto che il mio braccio premeva sul suo, Cord non si era affatto ritratto. La sola cosa che trovai nel mobile fu una bottiglia marrone di acqua ossigenata. Gli feci cenno di sedere sulla toilette e impregnai di acqua ossigenata un pezzo di carta igienica. Gli sollevai il mento, guardando l’area gonfia della guancia destra. «Qui ci vuole del ghiaccio». Fece una smorfia. «Non pensi che mi dia più carattere?». Storsi la bocca. «Di quello ne hai già tanto, Cord». Gli premetti la carta sul taglio

e lui si tirò indietro. «Brucia», si lamentò. «Sei un ometto. Ce la fai a sopportarlo». Alzò un sopracciglio e immaginai che stesse per fare una battuta, invece rimase a guardarmi paziente mentre finivo di disinfettare la ferita. «Non sanguina più. Non dev’essere molto profonda», gli dissi, richiudendo la bottiglia. «Ma dovresti prenderti cura di questa testa». Mi sporsi per dargli un bacio sulla fronte, come lui aveva fatto con me quando eravamo seduti sul bordo della piscina. Ma Cord mi precedette e alzò la testa per far sì che le nostre bocche si incontrassero. Mi sentii affondare, rapidamente, e quando dischiuse le labbra mi lasciai sfuggire un gemito, infilandogli la lingua in bocca. Sentivo che il mio corpo si stava preparando, aprendosi come il bocciolo di un fiore, desideroso di accoglierlo dentro. Sapevo che se mi fossi toccata con le mani, mi sarei scoperta bagnata come una palude. Ma Cord si ritrasse un poco e mi rivolse un sorriso dispettoso carico di sesso. Guardò verso il basso e fece una risatina. «Non mi dispiacerebbe fare una doccia». Non sapevo se fosse un invito. Ma avevo anche io uno da fargliene. Feci scorrere la mia mano sulla sua, toccandogli appena la punta delle dita. «Che ne dici di una nuotata?». Cord mi strinse la mano. «Sì», rispose, con un sottotono burbero nella voce, che mi fece capire che aveva intuito cosa gli stessi realmente chiedendo. Prese un paio di asciugamani da una credenza in corridoio. Mi prese per mano e lasciammo l’appartamento, avventurandoci nella notte calda. C’era appena una punta di umidità nell’aria, carica della promessa dei prossimi temporali estivi. Lontano, a oriente, saettate di folgori improvvise si schiantavano sui picchi di montagne invisibili. «Cosa stai guardando?», gli chiesi mentre scrutava il cielo.

«La luna è troppo luminosa», disse alla fine, stringendomi ancor più la mano. «Ho quest’abitudine da quando ero bambino, quella di cercare i Tre Re Magi». «La Cinta di Orione», annuii, sapendo a quale costellazione alludesse. «È più facile da vedere nel deserto. Tre stelle in fila». «Tre fratelli», disse in tono lieve, confermando il motivo per il quale era alla ricerca di una fila di tre stelle che avrebbe brillato in cielo per l’eternità. I fratelli Gentry erano una entità a sé stante, tre vertici inevitabili dello stesso triangolo. La piscina era deserta, come sempre a quell’ora. Cord aprì il cancello e mi condusse ad attraversarlo. Mi tolsi il vestito lentamente, sapendo che mentre si sbottonava i jeans mi stava guardando. «Sei andata a fare shopping», osservò. «Cosa?». Cord gesticolò ridendo. «Il reggiseno». «Ah, già», arrossii, lasciando cadere il vestito a terra. Il sorriso di Cord scomparve mentre mi guardava entrare in piscina in reggiseno nero e mutande. Un attimo dopo mi raggiunse. Stavolta non provò a nascondere l’erezione possente che gli esplodeva nei boxer. Non vedevo l’ora di averlo dentro di me. Mi chiesi cosa vedeva quando mi guardava. Forse stava pensando all’ultima volta che mi aveva spogliata, tanto tempo prima, in un posto diverso. Aveva un aspetto ruvido: coperto di lividi del combattimento, lo sguardo rapito dalla lussuria. «Ti fa male?», gli chiesi. «No», rispose, scendendo l’ultimo gradino e immergendosi completamente, prima di riaffiorare e scuotersi via l’acqua dai capelli corti. Scivolai verso il bordo e lui mi raggiunse, tenendomi nell’angolo con le forti

braccia su ogni lato del mio corpo. Il calore del suo corpo era penetrante e i suoi occhi erano fissi sulla mia faccia come se in tutto il mondo non ci fosse altro da guardare. Stava aspettando, lo sapevo. Stava aspettando che fi la prima mossa. Il mio primo bacio fu per il suo petto. La sua pelle era calda al tocco, sembrava febbrile. Leccai i margini dei suoi tatuaggi nitidi e lasciai che le mie labbra scorressero sui contorni duri dei suoi muscoli mentre la sua testa scivolava all’indietro e lo sentivo respirare pesante. Mi afferrò con una urgenza improvvisa e rude. La accolsi. Con un braccio mi circondò i fianchi mentre l’altro mi risaliva la schiena afferrandomi per i capelli e spingendomi la bocca contro la sua. Mentre esplorava, la sua lingua parlava il linguaggio del desiderio. Cord baciava nel modo in cui faceva quasi tutte le cose, con intensità. Ci immergemmo assieme in acqua, fino alle spalle. Col ginocchio mi aprì le gambe e sentii tutta la sua densa lunghezza chiedere accesso al mio centro palpitante. «Cord», mugolai quando smettemmo di baciarci. Gli circondai le spalle con le braccia, tremando mentre le sue mani imperversavano su tutto il corpo. Sentire l’acqua tutto intorno a noi aumentava la sensazione erotica e quando iniziò a far scivolare le mie mutande sui fianchi ebbi quasi un orgasmo. «Lo senti?», sussurrò spingendomisi contro. Sapeva esattamente cosa stava facendo. La punta rigida del cazzo mi carezzava l’interno delle cosce, facendomi impazzire. «Oh, sì», sospirai, muovendomi a ritmo contro di lui, cercando di condurre lo sfregamento alle mie zone sensibili. «Come non potrei?». Mi fece scorrere la lingua sul collo. «Lo sai cosa voglio farti?». Stavo per uscire di testa. «Posso tirare a indovinare». Me lo appoggiò appena un poco dentro e ridacchiò. «Col cazzo che indovini, Saylor. Voglio farti cose di cui non hai mai nemmeno sentito parlare». Lo spinse poco più dentro, stuzzicandomi intenzionalmente, mentre mi mordevo il labbro e lottavo per resistere, mentre le sue mani mi toccavano i seni. Infilò le dita sotto il reggiseno. Aveva la voce roca. «Sarà bellissimo, dolcezza, te lo giuro. Sarà

indimenticabile». Mi spingevo con forza contro di lui, cercando di infilarmelo dentro più a fondo. «Ti credo. Ti voglio da morire». La pressione che stava esercitando contro di me si trasformava in una dolcissima agonia. Tutto quello che sentivo si andava a concentrare tra le mie gambe. Ero così pronta che avrei potuto urlare. Cord muoveva i fianchi, spingendo il cazzo dentro di qualche centimetro. Mi stava stuzzicando, cercando di trattenersi. «Non qui», mi sussurrò nell’orecchio, tirandosi indietro e rimettendomi a posto le mutandine. «Qui», mugugnai, spingendomi contro di lui, senza volere che si fermasse mai più. «Dappertutto». Scosse la testa e sorrise. «No, perché non sarà veloce e non succederà una volta sola». Mi tirò a sé. «Vieni, bella. Ti faccio vedere io». Quando uscii dalla piscina mi sentivo le ginocchia deboli. Cord mi avvolse un telo sulle spalle e mi tirò a sé, baciandomi con foga. La mia mente partì in una spirale ascendente e pensai che al mondo niente fosse più potente di quello che c’era tra due persone che erano in procinto di diventare amanti. Mi tenne stretta al suo fianco mentre tornavamo all’appartamento. Creed era seduto fuori e suonava la chitarra, fumando una sigaretta. Mentre ammo ci guardò, ma non sembrò sorpreso vedendoci abbracciati e si limitò a fare un cenno con la testa. La stanza di Cord era semplice e ordinata. Dopo aver una lampada da tavolo, chiuse la porta con un calcio e si lasciò cadere l’asciugamani di dosso. Poi, con uno scatto secco e impaziente del polso, fece cadere anche il mio e rimase a guardarmi. Tremai, in parte per il freddo e in parte pensando a quello che sarebbe successo di lì a poco. «Saylor». Il suono della sua voce che pronunciava il mio nome mi fece tremare più forte. Cord tirò giù le spalline del mio reggiseno e mi ò i pollici sui capezzoli per stimolarli. Ma non distolse mai gli occhi dalla mia faccia. «Non ti farei mai del male». Quando pronunciò quelle parole alludeva a un dolore più complesso di quello che mi aveva inferto Devin.

«Lo so», sussurrai, avvicinandomi a lui. «Lo so, Cord». «Lo sai?». Mi sollevò il mento, guardandomi intensamente. «Lo sai che stavolta la conquista non c’entra nulla?» «Sì». Cord si sfilò i boxer, continuando a fissarmi. Era stupendo, con quelle spalle larghe, abbronzato e muscoloso, con un volto finemente cesellato che lasciava ancora trasparire una vulnerabilità adolescenziale che sembrava progettata per far squagliare il cuore. Una serie di tatuaggi tribali gli risaliva i lati del torace, dandogli un aspetto vagamente minaccioso. Il cazzo era enorme, rigido, eretto a puntare al cielo. Il mio ventre era lacerato dalle convulsioni del desiderio di essere sbattuta dal suo impeto pulsante. Cord Gentry mi sollevò come se non pesassi nulla e mi depositò con gentilezza sul letto. «Fidati di me, Say», sussurrò, abbassandomi le mutandine, rievocandomi una memoria lontana che ricacciai subito indietro. Ero nel presente. «Ti scoperò per bene, perché te lo meriti. Sarà una nottata da paura. Devi solo fidarti di me». Fece scorrere le mani sulle mie cosce, facendo scivolare la punta delle dita nell’ansa vibrante tra le mie gambe che trovò fradicia e pronta. «Ti voglio dentro. Subito. Mi stai uccidendo». Mi contorsi sotto di lui. Lo volevo, lo volevo sempre di più. Lo volevo subito. Nessun ragazzo era stato mai così onesto, eppure così gentile, con me durante l’intimità. Dimostrava un potere unico e selvatico. «Mi fido di te», dissi, mugugnando, impedendomi di urlare al cielo quanto lo desiderassi. Sapevo che anche lui covava un desiderio altrettanto forte, forse ancora più possente del mio. Si stava gustando il momento. Dovevo lasciarglielo fare. Con un gesto secco e improvviso mi spalancò le gambe. E quando sentii i suoi grossi pollici farsi strada, cacciai un piccolo urlo perché era una cosa da pazzi. Non sarebbe riuscito a trattenersi ancora a lungo. Ma prima voleva sentirsi dire qualcosa da me. «Stanne certa, Saylor. Stanne pur certa. Te l’ho mai detto?». Continuò ad affondarmi dentro le dita, cercando e trovando il mio centro di controllo. «So esattamente come dominarla».

Le sue parole mi stavano spingendo sull’orlo più di quello che stava facendo con le mani. «Ne sono sicura! Cristo, Cord, ti voglio! Ho bisogno di te, ti prego!». Non mi importava nulla se Chase e Creed potevano sentire che lo stavo implorando. Anche se fossero stati lì in piedi nella stanza non avrei avuto la forza di volontà per fermarmi. «Dio, ragazza, mi hai mandato fuori di testa», disse solenne. E poi si scaraventò dentro di me. Cord aveva finito di trattenersi. Era così grosso che per un frammento di secondo, mentre il mio corpo lo accoglieva dentro, provai una fitta di dolore. Tirai indietro le ginocchia, spalancando le gambe quanto potevo, mentre Cord si ritrasse un poco prima di riaffondare dentro di me con tutto l’impeto impietoso della massa possente del suo corpo. Ma non volevo nessuna pietà. Lo invitai a scoparmi più ferocemente, senza badare al rumore che facevamo o al fatto che non stavamo usando nessuna protezione. Non dovevano esserci barriere tra di noi, né stavolta, né mai. Non c’erano regole qui, non c’era niente oltre lo sbattere forsennato, oltre un abbandono estatico che mi era sino ad allora sconosciuto. Chiusi gli occhi, alzando le mani sopra la testa, annaspando quando mi strinse i polsi con le mani per darsi più spinta e aumentare la velocità. «Cord», fremetti, «sto per venire. Sto per venire». Mi diede un morsetto sul collo. «Lo so che stai per venire. Cristo santo, non ho mai sentito una fica così bagnata e così incredibile». Mi concentrai interamente sull’onda che stava montando. Seppi prima ancora che mi colpisse che non sarebbe stato un rapido colpo che scompariva dopo qualche secondo. Cord mi stava portando in un luogo dove non ero mai stata, che mi avrebbe consumata e fatta a pezzi. Non mollò mentre mi scuotevo sotto di lui. Ogni brandello della mia concentrazione era rivolto a quella possente estasi caotica. Gemetti e urlai, strillando cose oscene che non avevo mai nemmeno sognato di pronunciare. Lui continuò a tenermi, seguitando a spingersi dentro duramente e in profondità, aspettando che raggiungessi la cima dell’onda prima di perdersi a sua volta nella conclusione.

Piazzai le sue mani enormi sui miei seni e ancora gonfio dentro di me ne palpò la carne. Il suo seme era bollente. Ce n’era così tanto: potevo sentirlo colare fuori prima ancora che smettesse di chiavarmi. Mi faceva impazzire pensare alla sua essenza vitale che andava a mescolarsi a parti del mio corpo che non avevo mai né visto, né toccato. Gli strinsi attorno le gambe, provando a costringerlo a restarmi dentro più a lungo possibile. Cord mugolò, ormai esaurito. «Say», ansimò, uscendo e rotolando su un lato. «Cazzo, se è stato bello». Gli presi la mano e me la spinsi sulle labbra mentre Cord apriva un solo occhio e mi sorrideva. «L’originale è stato meglio della mia mano», disse in tono mite. Gli diedi uno schiaffo. «Vuoi dire che ti sei fatto le seghe pensando a me?». Cord si alzò facendo leva su un gomito e mi fece scorrere un dito sul fianco. «Eh, già. Più di qualche volta». «Anch’io», ammisi. Sembrò interessato. «Fammi vedere come». Lo baciai lievemente sul profilo della mascella. «Lo farò. Ricordati, mi hai promesso che non l’avremmo fatto una volta sola». Cord mi afferrò, poggiando il mio corpo sul suo. «Non una volta sola», ribadì, navigando con la mano tra le mie gambe e massaggiandomi i muscoli che ancora tremavano di estasi. «Non solo due volte. Non solo dieci fottute volte. Non penso che ne avrò mai abbastanza di te, bellezza». Gli ai la lingua sulle labbra. «Allora mi vuoi solo per il mio corpo?». Cord alzò le spalle. «Ti voglio perché ti voglio. Dico sul serio. Lo sai che mi basta schioccare le dita per scopare ogni volta che mi va». Non riuscii a evitare di assumere un’espressione triste, ma lui se ne accorse e divenne subito serio. Mi spinse indietro i capelli e mi sollevò il mento. «Mi è uscita male, Saylor. Per me non sei un modo di are il tempo. Sei la prima ragazza con la quale voglio svegliarmi, che voglio tenere tra le braccia dopo aver scopato invece di scendere dal letto alla ricerca frenetica del prossimo episodio. Quello che ti ho detto prima

di infilartelo dentro lo intendevo davvero e non dico mai cose del genere». Mi abbracciò più stretta. «E di regola, cose del genere nemmeno le provo mai». Il suo bacio era così gentile. Lasciai che mi avvolgesse con le braccia mentre le nostre bocche riprendevano a giocare. All’improvviso Cord si interruppe e mi guardò serio. «Non so di preciso cosa sia. Forse è iniziato con i fatti che sono successi tanti anni fa. Forse è perché sembravi sempre avere una risposta per me o perché sei la prima cosa decente sulla quale io abbia mai messo mano. Ma credimi, Saylor… per me conti più di quanto abbia mai contato qualsiasi altra donna». Ti amo, Cord. Non potevo dirlo ad alta voce. Ascoltai il suono di quelle parole nella mia testa e mi appoggiai al suo torace mentre ci copriva entrambi con la stessa coperta che mi aveva prestato settimane prima. Scivolai nel sonno sentendo le sue mani che mi carezzavano la testa. E quando fu di nuovo pronto, me lo fece capire.

Capitolo quattordici Cord

Era fottutamente deliziosa. La mia erezione mattutina acquistò quel pizzico di solidità in più quando le scoprii il corpo nudo. I lunghi capelli castani le ricadevano sul volto delicato mentre gemeva leggermente nel sonno. La morbidezza della sua pelle bianca mi richiamava come una sirena mentre rievocavo alla mente il sapore che aveva. Dovevo assaggiarlo di nuovo. Mentre mi facevo strada verso di lei, Saylor si girò, facendomi ricadere i suoi rosei seni in bocca, prima che riuscissi a metterle la lingua sul ventre. Soffiò il mio nome in un respiro caldo che mi arrivò dritto al cazzo. «Spalancale, bimba», sussurrai, alzandole i fianchi per accogliere la mia spinta. Era così caldo lì dentro. La penetrai ma uscii subito fuori, sorpreso che fosse diventata così bagnata nel giro di pochi istanti. Nel corso della notte l’avevo riempita in tanti di quei modi diversi che non aveva idea di cosa l’avesse colpita. Era la prima volta che partivo con la testa per qualcuna al punto da non voler usare nemmeno il preservativo. Era così bello farlo in quel modo. Le sue gambe mi si avvinghiarono attorno, mentre gemeva impaziente adeguandosi al ritmo e stringendosi più forte. Era quello che faceva in procinto di venire. «Non ancora», le dissi, ritirandomi mentre gemeva, gli occhi verdi spalancati e colmi di uno sguardo frustrato. Prima che potesse replicare la girai su se stessa e la tirai a me. Lei aprì le gambe, credendo che volessi prenderla da dietro, ma le infilai le mani sotto al corpo e la costrinsi ad alzarsi così da farle poggiare la schiena contro il mio torace. «Cord», mugugnò, cercandomi, desiderosa di soddisfare la spinta che la stava facendo uscire di testa.

Mentre la schiacciavo contro il mio torace le misi le mani sulle tette, visto che le piaceva farsele strapazzare e a me piaceva farlo. Mentre mi conduceva dentro di lei, un verso impercettibile le salì dalla gola e iniziai subito a sbatterla forte. Sentire i suoi capelli spazzolarmi la pelle era così sensuale che quasi stavo esplodendo. «Adesso baciami, Say», le ordinai. Lei girò la testa e trovò la mia bocca ad attenderla e interruppe il bacio solo quando venne, contorcendosi sul cazzo, aggrappata alle mie mani. Era un potere così indomito, che riusciva a evocare l’animale in me, ma attesi finché non fosse venuta del tutto prima di piegarla sulle ginocchia e riempirle di nuovo quel soffice corpo. Saylor si lasciò ricadere stremata tra le lenzuola, col volto arrossato. «Cazzo», ansimò. «È un bel modo di iniziare la giornata», concordai, succhiandole giocosamente una spalla. Si coprì interamente con il lenzuolo con un gesto tenero che mi fece venir voglia di tornare a devastarla. Saylor mi stava guardando intensamente e, come la notte prima, ebbi di nuovo la sensazione che volesse dirmi qualcosa. Avevo provato a dirle cosa mi aveva fatto, cosa significasse per me, ma suonava meglio nella mia testa che a esprimerlo a parole. Non aveva mai risposto, non mi aveva ancora spiegato il suo punto di vista, anche se il fatto che fosse rimasta ad attendermi per ore là al buio era probabilmente l’unica spiegazione necessaria. «Hai fame?», le chiesi. Sorrise. «Di cibo vero o del tuo nettare? E non venirmi a dire che contiene proteine», mi mise in guardia, scuotendo i capelli. Mi infilai un paio di boxer, gustandomi il modo in cui i suoi occhi mi perlustravano il corpo. Le avevo promesso che avrei amato ogni istante del tempo che avamo assieme e mi sovvenne all’improvviso, guardando un rossore farsi largo sul suo volto, che era stato così anche per lei. È solo l’inizio, tesoro.

Cristo, non potevo dirglielo. Suonava dannatamente stucchevole. Saylor raccolse una maglia dal pavimento e se la infilò. «Va bene se per adesso mi metto questa addosso?». Alzai le spalle. «Mettiti quello che vuoi. Se non ti metti niente, è meglio». Si ò il colletto della maglia sulla faccia. «Questa mi piace», disse in tono sognante. «Ha il tuo odore». E poi mi rivolse un sorriso così delizioso che quasi mi gettai ai suoi piedi, implorandola di accettare il mio anello. «Ok», dissi brusco, in assenza di una vera risposta da darle. Non si trattava solo di sesso, ma questo lo avevo capito già prima della notte precedente. Mentre Saylor si avvicinava alla finestra e apriva le tapparelle per far entrare i raggi accecanti del sole, pigiai dei punti dolenti del mio torace, là dove Emilio era riuscito a mettere a segno i suoi colpi migliori. «Cord?», mi chiamò, con gli occhi ancora rivolti fuori dalla finestra. «Sì?». Non mi guardò. «La notte scorsa è stata incredibile». «Ti avevo detto che lo sarebbe stata». «Già, l’avevi detto», disse a bassa voce, incrociando le braccia e appoggiando la testa al bordo della finestra. «Ehi». Andai da lei, avvolgendole le braccia intorno ai fianchi e baciandole il collo. «Possiamo farlo tutte le volte che vogliamo, sai. Ci conto». Rise. «A un certo punto dovremmo anche dormire. Altrimenti scivoleremmo in un delirio ninfomaniacale». «Delirio ninfomaniacale», ripetei, «sembra un gruppo heavy metal». Saylor fece scorrere le dita sul mio braccio e si lasciò cadere all’indietro, espirando con un tremore. «Ci tengo tantissimo a te, Cord. Tantissimo». Chiusi gli occhi e la abbracciai più stretta. «Anch’io», bisbigliai, sapendo che

erano parole inadeguate. Si meritava un uomo capace di dirle tutte le cose dolci che voleva sentirsi dire. «Ieri mi hai fatto paura». Ebbi un breve lampo dell’espressione sul suo volto mentre pestavo a sangue il suo ex. Avrei dovuto spiegarle tante cose. Dovevo farle sapere che non era nemmeno lui quello con cui mi stavo battendo. Era una rabbia che proveniva da paure antiche, che riguardava i motivi che non mi facevano ritornare nella nostra città natale. Ma tutto quello che dissi fu: «Mi dispiace, Say». «No», rispose, parandomisi davanti, «non parlo del casino con Devin. Quando sono venuta a cercarti qui e non ho trovato nessuno in casa, ho pensato che le cose fra noi fossero irrimediabilmente compromesse. Non sapevo nemmeno se avessi ancora voglia di rivedermi». Inghiottii. «Be’, ora lo sai». Saylor sorrise. «Una volta mi hai detto che Cord Gentry era un mucchio di cose». «L’ho detto. E lui lo è». Arricciò le labbra per qualche istante e lasciò che le parole seguenti emergessero lentamente. «È anche un fidanzato?» «Un fidanzato?». Risi a quella parola. Suonava infantile e frivola. Ma poi vidi il modo in cui i suoi occhi si annebbiavano, mentre si ritraeva lentamente. «No, ehi, vieni qui. È bene che tu mi ascolti. Non sono mai stato quel tipo lì, prima d’ora». Le presi la faccia tra le mani. «Ma con te, voglio esserlo. Voglio fotterti fino allo svenimento ogni notte e svegliarmi al tuo fianco ogni mattina. Se questo è quello che fa un fidanzato, conta su di me». Mi circondò i fianchi con le braccia e appoggiò la guancia sulla mia spalla. «Mi sta bene», disse, per poi darmi una pacca sul culo. «Che mangiamo a colazione?». Chase era già in cucina. Ci rivolse un ghigno canzonatorio quando entrammo

tenendoci per mano. «A quando le nozze?», rise. «Falla finita», dissi. «Creed è ancora in ibernazione?» «No, è uscito a farsi una corsa. Vi devo avvertire: oggi la bestia è nervosetta, visto che non ha chiuso occhio». Alzò le sopracciglia con solennità. Saylor ci cascò in pieno. «Come mai non ha dormito?» «Be’, ragazza mia», rise Chase, «fai un mucchio di rumore». Pensai che Saylor si sarebbe ritratta dall’imbarazzo, invece si limitò a sorridere lievemente. «Solo quando la scopata è straordinaria», rispose allegramente, facendo sputare a Chase il suo succo su tutto il tavolo. Rovistai tra gli scaffali. «Non abbiamo altro, oltre ai cereali al marzapane?» «Ma certo. Abbiamo le patatine. E cosa c’è che non va con i miei cereali? Contengono calcio e acido folico». Saylor si mise a sedere e incrociò le sue lunghe gambe. «Ma cos’è l’acido folico?» «È un elemento nutritivo essenziale che previene i difetti di nascita nel corso dello sviluppo fetale», rispose Chase mentre gli tiravo addosso un tovagliolo. «Ripulisci il tuo schifo. Come cazzo fai a sapere queste cose?» «Perché», rispose Chase giubilante, «sono io quello intelligente, ricordi?». Si picchiettò la testa. «Qua dentro tengo archiviata ogni sorta di informazione inutile». «Mi ricordo», disse Saylor. «Ti spostarono nella mia classe onoraria per quasi dieci giorni, alle medie». Ridacchiò. «Eri davvero una minaccia per tutti». Chase mi prese per il collo. «Non te l’ha mai detto nessuno, cara? Tutti i Gentry sono una minaccia». «Così ho sentito dire», disse Saylor guardandomi.

Le misi davanti una tazza di cereali e un bicchiere di succo. «Devi lavorare oggi?» «Sì». Si mise in bocca una manciata di cereali e si guardò attorno esasperata. «Come funziona? Non ce l’avete un orologio?». Mi stiracchiai, sbadigliando. «Non ci serve. Il mio cronometro interno mi dice che siamo tra le otto di mattina e mezzogiorno». «Sono le nove e cinquantasette», precisò Chase, guardando il telefono. Saylor annuì. «Devo essere al lavoro a mezzogiorno. Stacco alle nove di sera». Allungai la mano sotto al tavolo e la feci scorrere sulla sua gamba. «Ti va di fare qualcosa dopo?». Mi strinse la mano tra le ginocchia. «Certo che mi va di fare qualcosa», disse con una voce bassa e sensuale. Chase grugnì. «Mi state facendo venire la nausea. E il cazzo duro. Sarei curioso di vedere quale dei due impulsi possa vincere la battaglia. Vaffanculo. Me ne vado in palestra». «Che palestra?», chiesi. «Non abbiamo comprato tutte quelle stronzate di attrezzature per farti allenare in casa?». Chase alzò le spalle. «Mi servono delle belle paia di tette da guardare mentre faccio allenamento. Mi motivano. Ho la tessera al Western Fitness, vicino al campus. Voglio diventare grosso come Creed, così non potrà più darmi fastidio». «Be’», risi, «non farti male». Chase smise di scherzare e ci guardò serio. «Questa è una bella cosa», riconobbe. «Voi due state bene assieme. Dico davvero». Uscì dalla porta fischiettando. Saylor mi sorrise. «Mi piace vederti così». Abbassai lo sguardo. «Ferito e sveglio da poco?»

«Sì. Ma volevo dire, vederti assieme ai tuoi fratelli». Fece una pausa. «All’epoca non ho mai davvero pensato a come doveva essere stato per voi, crescere a Emblem come avete fatto, contro tutte le probabilità». Mescolai il latte sul fondo della mia tazza. Non mi andava di rimestare anche quelle cose lì. «Tutti devono affrontare delle sfide», borbottai. Saylor mi prese la mano. «Tu hai vinto le tue, Cordero. Le hai conquistate». «Dici?», chiesi con tono piatto, facendole sbattere le palpebre e ritrarre la mano. «Ehi», scattai. «Non voglio che tu provi pena per me, va bene?». Saylor parve seccata. «Non provo pena per te, Cord. Ti ammiro. Se ti sembra condiscendente, sono cazzi tuoi». Non avevo mai sentito una ragazza dirmi una cosa del genere. Nemmeno nessun altro, se era per quello. Restai seduto senza muovermi, privo di espressione mentre Saylor, sospirando, riprese a parlare. «Lo capisco che la tua vita è stata una lunga serie di battaglie. Ma non tutte le cose sono un combattimento». Mi premette la mano con urgenza contro il seno sinistro, all’altezza del suo cuore. «Questo», disse con espressione serissima, «è già tuo». Iniziai a massaggiarla e lei si curvò al tocco, mentre il battito cardiaco le prendeva velocità. Mi allontanai dal tavolo con un gesto più rude di quanto sperassi, e Saylor strinse gli occhi. Ma non si ritrasse, nemmeno protestò quando la tirai tra le mie braccia. Ma quando la distesi sul pavimento al centro del soggiorno e le alzai la maglia a scoprirle i fianchi, tentò con tutte le forze di rialzarsi. «I tuoi fratelli...». «Non ci sono», risposi, tirando fuori il cazzo già durissimo. Le feci scorrere le mani sul corpo, soffermandomi in mezzo alle gambe. Lei tremò e provò a raggiungermi, ma la tenni a distanza. «Dunque questa è mia?», le chiesi, affondandole dentro le dita con foga. Avevo già imparato quale punto andare a toccare.

«Sì», mugolò. Mossi le dita in circolo per un po’, prima di infilarle dentro un altro dito. «Tutta quanta?» «Sì! Va bene, Cord?» «Fammi vedere, Saylor». Pensai che avrebbe spalancato le gambe e mi avrebbe tirato dentro. L’avevo sottostimata. Gli occhi le brillarono di una determinazione coraggiosa e si spinse con tutta la sua forza sul mio torace. Prima che potessi battere ciglio, si era messa a cavalcioni e mi aveva montato. Fu una cavalcata selvatica e venimmo assieme in una furia di abbracci e graffi. Poco dopo doveva andarsene, ma prima aveva bisogno di una doccia e di cambiarsi. Ci baciammo a lungo e poi la lasciai andare. Saylor mi toccò la faccia e sussurrò: «Ci vediamo più tardi, Cord Gentry». Provai a reprimere l’ennesimo impulso di afferrarla mentre si metteva i capelli dietro le orecchie e mi rivolgeva un ultimo sorriso felice. Odiavo vederla andare via. In parte perché sapevo che non sarebbe ato molto tempo prima che mi fosse di nuovo venuta voglia di sbatterla. E in parte perché avevo paura che la magia di quelle ore fosse fugace, che le dure realtà del mondo che già mi erano note ci avrebbero cospirato contro. E che quella battaglia avrei potuto perderla.

Capitolo quindici Saylor

Brayden mi stava aspettando. Spalancò la porta dell’appartamento quand’ero ancora a dieci metri di distanza. Rimase sulla soglia grattandosi il collo con un sorriso che faceva capire che sapeva bene quello che avevo fatto. Mi fermai e alzai le spalle. Rise forte prima di abbracciarmi. Pensavo a che benedizione fosse avere anche una sola persona al mondo che riusciva a sapere quello che ti ava per la testa senza avere udito una singola parola provenire dalla tua bocca. Il mio migliore amico mi versò una tazza di caffè e si sedette con me al tavolo della cucina, restando in attesa. «Dov’è Millie?» «È dovuta andare al lavoro. Non è che possiamo tutti rinunciare alla nostra vita in attesa della cugina prodiga». Brayden si tolse gli occhiali e si pulì le lenti sulla polo che indossava. «Dunque ecco cosa stavi facendo. Penso che tu ora voglia sentire tutti i sordidi dettagli?». Agitò il dito. «Non essere volgare, Say. Siamo comunque parenti». «Brutta cosa, la parentela. Ma non importa, ti torturerò comunque. È stato fenomenale, Bray. Fantastico. Cristo, non sapevo di avere tutti quei posti dove poter infilare il pisello». Bray fece finta di cadere dalla sedia e di avere un attacco acuto di appendicite. «Falla finita». Gli diedi un calcetto leggero. Mi sorrise dal pavimento. «Lo sapevo che ti piaceva».

«E avevi ragione, come sempre», borbottai. Brayden si risollevò in piedi, rimettendosi seduto. «Dimmi una cosa, Say: si comporta bene con te?». Velocissimamente, l’occhio della mia mente rievocò ogni momento che avevo ato con Cord nelle settimane precedenti, da quelli teneri, a quelli tesi, a quelli ionali. «Si comporta bene con me», dissi a bassa voce. «Sempre». Brayden annuì pensieroso. «È un po’ il fulcro dell’equazione, no?» «Sei tu l’ingegnere. Spiegamelo». «Quello che posso dirti è che se le fondamenta non sono solide è inutile provare ad aggiustare il resto». Lo guardai. «Tu e Millie avete delle fondamenta molto solide». Piegò la testa da un lato. «Mi ha detto che avete parlato». «Abbiamo parlato. È fantastica, Brayden. Non c’è bisogno che te lo dica». «No, non c’è bisogno. Ma è sempre bello da sentire. E posso dirti una cosa, Say? Potevi fare molto peggio di Cord. Sta cercando di smussare gli spigoli, ma lo vedo con te e so che ci sta provando. Prova a essere uno dei buoni, sai?» «Lo so», sospirai, guardando l’orologio della cucina. «Senti, grazie per avermi aspettata. Devo stare al lavoro tra un’ora, quindi è meglio che mi faccia una doccia». Brayden arricciò il naso. «Sì», confermò disgustato, «e sbrigati pure a fartela. Dopo ieri notte ne hai di sicuro bisogno». «Porco», lo canzonai. «Ehi», disse dopo che ebbi chiuso la porta del bagno, «sei stata tu a vantarti dei gesti creativi del pene del tuo uomo». Risi mentre entravo sotto la doccia. Mi sentivo come se avessi corso dieci miglia

tutte d’un fiato dopo aver ato un mese senza alzarmi dal letto. Ma era una bella sensazione. Il tempo di vestirmi e di raggiungere La Gallina Pazza con la Civic, e stavo già iniziando a sentire il tedio delle ore lunghissime che mi separavano dal rivedere Cord. I clienti si riversarono nel ristorante in un flusso costante, come sempre, e mi ritrovai a guardare la porta con la speranza che quando si fosse aperta, avrei visto comparire Cord. Un’altra cameriera, una ragazza chiamata Truly, mi diede una ditata nel fianco mentre vagavo con espressione assente tra i tavoli. «Fatti vedere attiva, novellina», disse per prendermi in giro, scuotendo la testa. Aveva i capelli nero corvino, parzialmente rasati da un lato. «Hai rimediato ieri sera o cosa? È per questo che vai in giro così sognante?». Feci una smorfia. «Sono più trasparente di quanto pensassi». «Ma no», rispose, «sono io a essere più perspicace della media». Mi scrutò con un’espressione allegra negli occhi scuri. «È stato bravo, vero? È per questo che cammini tutta strana». Dovevo aver assunto un’espressione sorpresa perché scoppiò a ridere. «Non ti preoccupare, non se ne accorgerà nessun altro, tesoro. Solo io, qui, sono un’osservatrice così acuta». Risi e provai a rimettermi a lavorare con rinnovato vigore, controllare l’ora ogni novanta secondi non mi aiutava di certo. Verso le cinque del pomeriggio mi resi conto che stavo morendo di fame, così feci una pausa e chiesi a Martin, lo chef, di prepararmi un sandwich al pollo prima di sedermi al tavolo del personale sul retro. Sentii il telefono vibrare nella tasca posteriore e sperai che fosse Cord. Invece no. «Ciao, mamma». La voce di mia madre suonava roca e nervosa proprio come la ricordavo. «Saylor, come mai devo venire a sapere da quello stronzo di tuo padre che sei ritornata in questo Stato?». Non ero in vena di porgerle le mie scuse. «Già», risposi, «sono tornata. Ti ho lasciato un messaggio in segreteria un paio di settimane fa, ma non mi hai mai più richiamata».

«Be’», sbuffò, «non mi avevi mica detto che si trattava di una cosa importante. Che cosa è successo? John mi ha detto che ti sei lasciata col tuo fidanzato, o qualcosa del genere». «Qualcosa del genere», risposi in tono piatto. Non volevo parlare di Devin. La sentii sospirare all’altro capo della linea. Provai a farmi un’immagine mentale: magra, scorbutica e con una spallina del reggiseno in mostra perpetua. Mio padre era stato il suo fidanzato dai tempi del liceo. Lei aveva vinto una borsa di studio all’Università dell’Arizona, che aveva mandato in malora quando era rimasta incinta e aveva deciso di restare a Emblem. Amy McCann era una di quelle madri che sembravano sempre confuse e stordite da quel ruolo. Quand’ero più giovane stavo male per il fatto che anche richiamare la sua attenzione fosse spesso un’impresa. La sola conversazione onesta tra di noi avvenne quando avevo tredici anni. Se n’era stata in cucina a bere tutto il pomeriggio e quando varcai la soglia, tornando da scuola, mi guardò fissa e mi chiese se volevo diventare come lei. La fissai a mia volta, assorbendo ogni dettaglio della sua capigliatura troppo conciata, le unghie finte coperte di smalto e i residui dell’uniforme da guardia della prigione che aveva in buona parte già tolto. No, che non volevo diventare come lei. Mia madre annuì, come se approvasse la mia scelta e mi disse che dovevo impegnarmi a fondo se volevo che le cose andassero diversamente. Avevo sperato, quando il matrimonio miserabile con mio padre era giunto alla fine e io ero andata via di casa, che avremmo trovato un terreno comune, un poco di affetto reciproco. Ma non era mai successo. «Non ho soldi da darti», disse sbuffando, col suono di un accendino sullo sfondo. «Ah, be’, non preoccuparti. A fare la prostituta ne guadagno un mucchio». «Cosa?» «Niente. Tu come stai?». L’umore le si alleviò d’improvviso. «Oh, cara. Va tutto a gonfie vele. Mi dispiace che non abbiamo ancora avuto occasione di parlarne. Sto per sposarmi, Say!».

«Eh?» «Sabato, al Rooster’s Roast». «Aspetta, cosa?» «La cerimonia è fissata per le quattro del pomeriggio. Pensi di riuscire a are a prendermi un bouquet da sposa? Magari con le gerbere?» «Mamma!». Fece una pausa. «Cosa c’è che non va?». Mi sfregai le tempie e abbassai lo sguardo verso il sandwich al pollo. «Partiamo dal principio. Con chi cavolo ti sposi?» «Gary Chavez. Sono sicura che te lo ricordi». Sbattei gli occhi incredula. «Gary lo Gnomo?». Gary, durante la mia adolescenza, era stato il sindaco di Emblem. Si era guadagnato quel soprannome per ovvi motivi. Provai a immaginarlo che metteva le mani su mia madre. Poi provai a immaginarlo nel ruolo del mio nuovo patrigno. Fallii in entrambi i casi. «Che bello», riuscii a dire. «Ma insomma, sabato prossimo ti sposi al Rooster’s Roast con Gary Chavez e me lo dici soltanto adesso?». Sentii mia madre soffiare il fumo fuori dalla bocca con un sibilo. «Ma te l’ho appena detto, no?». Era inutile mettersi a discutere. «Sì, me lo hai detto. Vuoi le gerbere? Penso di riuscirci. Va bene per te se mi vesto di nero?». Sembrò confusa. «Va bene. Ma avrai caldo. La cerimonia si svolgerà sotto al patio sul retro». «Ok, vuol dire che verrò nuda. Col mio fidanzato». «Il tuo fidanzato. Che fidanzato? John mi ha detto che non ce l’hai più, il fidanzato». «Papà ancora non lo sa. Lo frequento da poco. Si chiama Cord».

«Cord», ripeté, anche se si capiva che stava perdendo interesse per la conversazione. «Fantastico. Senti, sono immersa fino al collo nei preparativi per il matrimonio, perciò devo riattaccare. Ma non vedo l’ora di vederti sabato». «Anch’io. Ehi, mamma, congratulazioni. Sia a te che a Gary». «Saylor? Hai detto che il tuo fidanzato si chiama Cord?» «Sì», risposi con delicatezza. «Cord Gentry». «Cord GENTRY?», ululò, come se le avessi appena detto che mi stavo sbattendo il Conte Dracula. «Ciao, mamma». Riagganciai, soffocando dalle risate. Ricordai di essere ancora affamata e che sarebbero ate ore prima di essere in grado di stuzzicare di nuovo qualcosa, perciò mi strafogai di quello che restava del mio sandwich. Il giorno precedente, venir messa repentinamente a parte che mia madre stava per sposarsi con Gary lo Gnomo mi avrebbe quantomeno sconcertata. Ma ora mi sembrava solo un fatto remotamente divertente. Era fantastico, pensai, quanto sembrasse diverso il mondo quando si riusciva a vedere quanto amore lo impregnasse ovunque. Durante i pochi minuti che mi separavano dalla fine della mia pausa, mi tornò alla mente la sensazione estatica di quelle mani potenti e di quel cazzo ancora più possente. Niente in vita mia era stato bello al pari della notte prima assieme a Cord. Un flusso di sangue mi affiorò alle gote e sentii uno spasmo di desiderio torrido tra le gambe. Truly si avvicinò, agitando un dito. «Lo stai facendo di nuovo». Arrossii imbarazzata e riportai il mio piatto in cucina, facendo ritorno al lavoro. Mentre si avvicinava l’ora di cena, la clientela si faceva più folta. Stavo correndo su e giù dietro al bancone del bar e non mi accorsi di Cord finché non lo vidi a un metro di distanza, che mi fissava. «Ehi», sospirai, uscendo dal bancone e gettandogli le braccia sulle spalle larghe. Odorava di caldo e di dopobarba. Gli spinsi i fianchi contro i suoi. Chi se ne fregava se Ed, il gestore del ristorante, avesse avuto qualcosa da ridire. Mi rispose con un bacio schioccante che innescò ogni terminazione nervosa del mio corpo. Le mani di Cord mi presero per i fianchi, coi pollici che

massaggiavano con insistenza la carne dietro l’elastico della gonna. «Mi sei mancata», bisbigliò, spingendomi contro il muro vicino ai bagni e spingendosi contro di me a sua volta. Gli leccai il lobo dell’orecchio sinistro. «Pensavo che venissi qui solo per il pollo». «Vengo per te», rispose, ridendo del doppio senso. Eravamo appena fuori dalla visuale della clientela. Cordero Gentry mi faceva impazzire, innescando sensi che non sapevo nemmeno di avere. È la sola spiegazione possibile di cosa mi spinse a mettergli le mani sulla patta e a stringergli il bozzo duro che celava, facendo scivolare le dita sul contorno che a malapena i suoi jeans riuscivano a contenere. Cord grugnì e si spinse contro di me inarcandosi, folgorandomi con i suoi occhi azzurri, facendomi capire che si sarebbe spinto senza problemi fin dove l’onda ci avrebbe condotto. Ma quando una vecchietta tenera dai capelli azzurri uscì dal bagno delle donne, persi il coraggio e tolsi la mano. «Dopo», lo pregai, mentre ancora mi stringeva stretta. «Vigliacca», rise. Gli diedi una leggera ginocchiata. «Pagherai caro per quest’insulto». Mi sollevò da terra di qualche centimetro. «Fammela pagare», disse, respirando pesante, «fammela pagare cara». «Te lo prometto». Gli girai intorno e sentii un fischio provenire da un tavolo alle mie spalle. Erano Creed e Chase, che stavano seduti e si stavano probabilmente godendo lo spettacolo. Feci una smorfia. «Cestini di pollo fritto nel lardo per tutti?» «Sicuro», annuì Cord, stiracchiandosi e adottando un’espressione disinvolta mentre tornava dai suoi fratelli. Per il resto della serata fui fuori gioco. I fratelli Gentry decisero di soffermarsi al tavolo dopo aver finito di mangiare. Sapere di avere gli occhi di Cord che

scrutavano ogni mio o mi spogliava di tutte le competenze. Lo intendevo veramente, quella mattina, quando gli avevo detto che ero sua. Le parole che ci eravamo scambiati non venivano dal mondo dei fiori e delle poesie. No. Erano molto di più. Erano lussuria, possesso, mescolati agli aneliti più inarrestabili del cuore. «Voglio fotterti fino allo svenimento ogni notte e svegliarmi al tuo fianco ogni mattina». Alla fine, dopo aver rotto sei bicchieri e aver riversato un vassoio di patatine fritte al formaggio sul grembo di un motociclista corpulento, si erano fatte le nove e il mio turno era finito. Cord allungò il braccio quando mi vide avvicinarmi al tavolo e gli concessi di tirarmi a sedere sulle sue gambe. Chase finì la terza birra e si avvicinò allungandosi sul tavolo. «Sei la peggior cameriera che io abbia mai visto». Gli sorrisi mentre Cord mi carezzava il collo. «Hai trovato le tette che cercavi in palestra?» «Qualcuna», rispose vago, «ma erano loro che non trovavano me». «Brutta cosa». «Sul serio». Creed era stravaccato sulla sedia e guardava il pavimento. Era il più mercuriale dei fratelli Gentry. Non lo avevo mai sentito parlare molto, nemmeno quando eravamo bambini, ma di sicuro dietro quelle quinte doveva esserci un caos impensabile. Cord mi cinse i fianchi e inalò profondamente. «Hai un buon odore». Alzai le sopracciglia. «Io sento puzza di fritto». «E allora? La carne mi piace bella grassa». Gli diedi una gomitata, fingendomi irritata e poi mi girai per guardarlo in faccia. «Sei ancora un poco malconcio, cowboy», gli dissi, facendo scorrere le dita sulla guancia livida.

«Bastardo succhiacazzi», biascicò ad alta voce Creed, dando un calcio forte al tavolo che fece girare più di qualche cliente e anche lo stesso Ed. Chase guardò Cord a disagio. «Ti ho detto che dovevamo fermarlo prima degli ultimi due bicchieri». Cord mi fece alzare dalle sue gambe e afferrò il fratello per il braccio. «Creed», disse con dolcezza. Creed lo scrutò con uno sguardo omicida. Cord si avvicinò lentamente all’orecchio del fratello e sussurrò qualcosa. Guardai Chase con le sopracciglia alzate, ma stava fissando il vuoto oltre il tavolo, con una espressione triste e insicura. Qualsiasi cosa stesse accadendo, riguardava solo il loro mondo privato. Dopo qualche istante Creed annuì e concesse a Cord di aiutarlo ad alzarsi in piedi, poi, in un battito di ciglia, sembrò riacquistare la padronanza di sé. Cord gli teneva comunque le mani ferme addosso mentre attraversavano la sala. Chase si alzò e mi fece un cenno, per indicarmi di seguirli. Una volta fuori, nel parcheggio, Creed si tolse la maglia e si lasciò cadere sul cofano del vecchio pick-up. Notai delle parole in latino sul suo torace, nello stesso punto dove anche Cord le aveva tatuate. Nella luce fioca, non riuscivo a capire cosa ci fosse scritto, ma non sembravano le stesse di Cord. Avevo già visto che anche Chase aveva una scritta simile. Creed tirò un paio di respiri profondi mentre i suoi fratelli restavano in silenzio vicino a lui. Alzò la testa, mi vide lì in piedi e si lasciò sfuggire un sorriso mite. «Ora hai visto quanto sono debole, Saylor». Provai a sorridere a mia volta. «Non fa niente, Creed. Anche tu ne hai vista più di una, delle mie debolezze». Cord si avvicinò e mi avvolse un braccio attorno alle spalle. Gli strinsi la mano. «Ehi», sbadigliò Chase, prendendosi un mazzo di chiavi dalla tasca. «Io riporto il gigante a casa. Voi andate pure a fare un giro». Cord mi carezzò la spalla mentre Chase spingeva Creed nel pick-up. «Sicuro?», chiese. «Sì», rispose Chase. «Si rimetterà presto. Basta dargli un paio d’ore per

schiarirsi le idee». «Sto già meglio», confermò Creed, che era già sdraiato sul sedile del eggero con gli occhi chiusi. Cord fissò Chase per qualche istante. Chase gli rivolse un cenno quasi impercettibile del capo e poi si mise al volante. «Torniamo presto», disse Cord, alzando il braccio in cenno di saluto. Guardò le luci posteriori del pick-up sparire dietro l’angolo e poi mi tirò a sé. Gli carezzai la schiena. «Cord? Ma cosa è successo?». Sospirò. «Creed beve troppo e quando accade si perde. Pensa che siamo ancora alla mercé di nostro padre, a combattere per le nostre vite. Il più delle volte non dà problemi, ma quando si fa qualche bicchierino in più, inizia a fare pensieri strani. Tutto qui». «Oh», commentai mestamente. «Tu ti senti mai perso?». Aveva lo sguardo distante. «Non di recente». All’improvviso si girò a guardarmi. «Senti, Saylor, dopo non parlargliene, va bene?». Annuii. «Capisco. È una tortura far vedere al mondo le tue cicatrici». Mi depose le mani con gentilezza sul volto e piegò la testa a toccare la mia. «Già», disse con voce roca. «Lo so».

Capitolo sedici Cord

Non me la sentivo di seguire i miei fratelli a casa. Saylor mi diede le chiavi della sua macchina e quando il motore si mise in moto scoppiettando alzai le sopracciglia. «Duecentodiecimila miglia, eh?» «E ancora cammina», sorrise. «A malapena». Quando Saylor si mise la cintura la gonna le salì un poco. La mia mano andò diretta tra le sue cosce. Lei sbatté i suoi occhioni verdi. «Dove stiamo andando?». Le massaggiai la gamba, sorridendo quando la sentii scaldarsi, mentre con le dita mi avventuravo più su. Gemette, senza redarguirmi. «Voglio farti vedere un posto, vicino al campus. Ogni tanto ci vado a correre». Saylor mi fece scorrere le dita sulle braccia. «Va bene». Guidai con una mano sul volante e l’altra su di lei, senza ricevere obiezioni. Avevo pensato tutto il giorno a quello che aveva detto, a come fosse mia, nel cuore e nel corpo. Cristo, non avevo le parole per descrivere l’effetto che mi faceva. Io, il tipo che non vedeva mai l’ora di rimettersi i pantaloni e di uscire dal letto, in balìa di una cosa del genere. Dovemmo parcheggiare a un isolato di distanza, vicino a Mill Avenue. Scesi dalla macchina e andai dal lato del eggero prima che potesse aprire lo sportello. Quando la presi tra le braccia per sollevarla, si avvinghiò al mio collo e si lasciò sfuggire un lieve sospiro.

La tenni così per qualche minuto, godendomi la sensazione del suo corpo contro il mio. Alla fine, scese giù e rimase in piedi davanti a me. «È un bel parcheggio», disse sarcasticamente, guardandosi attorno. «Zitta», le risposi, tirandomela dietro e indicando più avanti. «Andiamo a vedere quello». «Sembra un palazzo». «È un palazzo. È il museo dell’arte dell’università. Vedi le scale? Conducono sul tetto». La spinsi davanti a me, più che altro per guardarle il culetto che ballonzolava salendo le scale mentre la seguivo. «Ehi, non puoi andare più veloce? Dobbiamo fare qualcosa per rimetterti in forma». «Vai a farti fottere», rispose, girandosi. Si capiva che stava sorridendo. «Da te? Già fatto», le ricordai. «E presto lo farò di nuovo. Molto presto». «Forse», disse, superando con un saltello l’ultimo scalino per arrivare al piano. «Forse?». La afferrai, per poi ritrarmi subito quando la vidi sobbalzare. Per un istante vidi rosso, ripensando a quella faccia da cazzo californiana del suo ex e sapendo che era colpa sua. «Scusa», farfugliò, incrociando le braccia e abbassando lo sguardo. «Ehi», dissi, sollevandole il mento, «non c’è niente di cui scusarsi. Sappi solo che quando ti tocco, ogni volta che ti tocco, non andrà mai a finire male». Aveva un’espressione tenera e delicata sul volto. «Lo so». Mi baciò e mi avvolse le braccia intorno al collo. Maledissi tutto il tempo che avevo sprecato con delle tipe anonime, delle quali non ricordavo nemmeno il nome, quando invece avrei potuto avere questo. Respirai il suo odore, carezzandola piano e poi invitandola a sdraiarsi a terra. Mi avvicinai al suo fianco e ammo qualche minuto in silenzio a scrutare la volta notturna. Mi ricordai della notte in cui era rientrata

nella mia vita, quando stavo sdraiato sul tetto dell’appartamento di Brayden con le nocche ancora devastate dall’ultimo combattimento, a pensare agli anni di merda che io e i miei fratelli eravamo riusciti in qualche modo a sopportare. «Disegni ancora?», mi chiese all’improvviso. «Qualche volta». Le indicai il mio braccio. «Questo l’ho disegnato per mio cugino, che ogni tanto fa il tatuatore». Si appoggiò su un gomito e rimase a guardarmi. I capelli morbidi le ricadevano sulle spalle. Si mise a esaminare il centauro che avevo sul braccio. «Un guerriero bestiale e leggendario, consegnato all’immortalità. Sei bravo», commentò seria. «Lo eri anche da ragazzo. Me lo ricordo bene». Feci una smorfia, ripensando a come le avevo fatto un ritratto per infilarmi tra le sue gambe. Ma Saylor non sembrava pensare alla stessa cosa. Sembrava assorta. «Ci dev’essere un motivo per il quale vai sul tetto di un museo d’arte. Hai mai pensato di fare qualcosa col talento che ti ritrovi?». Alzai le spalle. «Mia madre era un’artista. Lo sapevi?» «No, non lo sapevo. Non lo è più?», chiese a bassa voce. Risi. «Ormai non è più nulla. Ma comunque aveva in casa scatole piene di vecchi dipinti, fatti prima che le droghe e Benton Gentry la distruggessero». Saylor mi prese la mano e la baciò senza dire nulla. Sospirai, perso nei ricordi. «Aveva anche un mucchio di libri d’arte. Cioè, li aveva finché Benton non si è fatto rodere il culo per chissà che motivo e non glieli ha bruciati tutti in un falò in giardino. Ce n’era uno che guardavo sempre. Un quadro in particolare. Non ne avevo mai abbastanza di guardarlo. C’erano tre orologi che si squagliavano, da qualche parte in una landa desolata. Non lo so. Mi ha sempre suggestionato». «La persistenza della memoria», disse Saylor. «Salvador Dalí». Rimasi sorpreso. «È quello».

Sorrise. «Ho preso qualche lezione di storia dell’arte, al secondo anno di college. Vuoi sentire una cosa divertente? Ne avevo una stampa appesa nella mia stanza». «È una coincidenza interessante». «Hai mai pensato di frequentare delle lezioni di arte?» «No. Ma chi ci va, alle lezioni di arte?» «Non fare lo scemo, Cord. Lo sai bene che la gente ci va alle lezioni di arte». «Non mi sembra un modo saggio di spendere soldi». Si avvicinò e mi infilò la mano sotto la maglia. «Guarda che so come fare a convincerti». «Procedi pure. Non ci riuscirai». «È questo che pensi? Sappi che ho le mie armi». Flettei i muscoli. «Senti, bambina, non ho mai perso in vita mia». «Mai?» «Mai. Non ho nemmeno mai pareggiato». Fece scivolare la mano e mi sbottonò i pantaloni. «E ora sei pronto a pareggiare i conti?». Cominciai a dimenare i fianchi. Capì subito cosa volevo e mi tirò fuori il cazzo, che già era duro, strizzandolo forte mentre la sua piccola mano lo faceva scorrere dalla base alla punta. «Credo di sì», grugnii. Non riuscivo granché a parlare. Lei abbassò la testa e me lo prese in bocca. Guardarle le labbra umide muoversi su e giù era paradisiaco. Teneva gli occhi chiusi e faceva saettare la lingua su tutto il tronco. Le afferrai i capelli quando individuò il punto magico. Mi eccitava da morire che non si fosse nemmeno guardata intorno. Sembrava non le importasse nulla che in teoria, da quelle scale, sarebbe potuto arrivare qualcuno.

«Toglitela», ordinai. Abbandonò il cazzo e si tirò su, guardandomi con gli occhi spalancati. Le indicai i bottoni della blusa. «La maglia, piccola. Toglitela. Voglio venirti sulle tette». «Cristo santo, Cord», disse, ma si capiva bene che l’idea non le dispiaceva affatto. Restai a guardarla mentre si sbottonava la maglia. «Smettila di guardarmi». La sua pelle pallida stava diventando rossa. Si riusciva a vedere anche nel buio. «No», dissi severo, alzandomi e spingendola sulla schiena. Mi misi a cavalcioni sul torace e le sfregai le palle sui capezzoli duri. «Ora voglio sentirti dire di nuovo tutte le cose che mi hai detto stamattina». «Cosa?», chiese sussurrando. Il vento si stava alzando tutto intorno a noi e l’aria puzzava di polvere. In lontananza si udì il rombo di un tuono. Saylor, sotto di me, gemeva impaziente. Le carezzai la pelle vellutata. «Lo sento, che sei fradicia e vogliosa. Non preoccuparti. Ci penso io. Voglio solo sentirtelo dire un’altra volta, che tutto questo», dissi, muovendole le mani su tutto il corpo, «è mio». «È tutto tuo», mugolò, «lo sai che è tutto tuo». «Lo so, Say, ma voglio sentire le parole uscirti dalla bocca». «È tutto tuo, Cord. Il cuore e il corpo. Ti voglio con tutta me stessa. Ti amo, Cristo santo. Volevo dirtelo stamattina ma non ne avevo il coraggio». Il rombo del tuono si fece più vicino e le schiacciai le tette l’una contro l’altra, infilandoci il cazzo in mezzo. I suoi occhi scintillarono nel buio mentre mi guardava eccitarmi sempre di più. Continuò a contorcersi sotto di me e capii che mi voleva dentro. «Tra poco, Say», le promisi, schiacciandomi le tette contro il cazzo mentre le schizzavo fiotti bollenti sul petto. «Oh Cristo, è fantastico». Tremai, esplodendole addosso una pozzanghera di sperma. Lei ridacchiò e si sparse il seme sul corpo con le mani.

«Lo trovi divertente?», sibilai, abbassandole la gonna e facendole scorrere la lingua sul ventre, scendendo finché non si ritrasse. «Cord, aspetta». Abbassai la testa e tirai fuori la lingua, leccandole il clitoride. Era fradicia come l’oceano. Sorridendo la stuzzicai di nuovo, divertendomi a sentirla gemere. «Che c’è?», chiesi innocentemente, abbassandole ancor più la gonna. Saylor si tirò su puntandosi sui gomiti. «È solo che… sono sdraiata nuda sul tetto di una palazzina universitaria… Oh, merda! È straordinario, Cord!». Le affondai la faccia tra le gambe e le infilai la lingua dritta nella fica. Si lasciò sfuggire un gemito e si sfilò del tutto la gonna e le mutande per poter spalancare completamente le gambe. La presi per le chiappe e la sollevai, per riuscire ad andare più a fondo. Mi allontanai un poco per provocarla, dandole rapide bordate con la lingua, colpendo le zone più sensibili. Saylor biascicò qualcosa di incomprensibile e si aggrappò alle mie spalle. Alzai la testa. «Vuoi che mi fermi?» «No», gemette. Le infilai dentro un dito. Cristo, se era sexy. Si abbandonò subito e venne, rapida come un fulmine. «Che cosa vuoi?», le chiesi. «Dimmelo, Say. Svelami le tue fantasie più segrete e ti accontenterò». Mi prese la testa con tutte e due le mani e mi spinse la faccia in mezzo alle gambe. «Finiscimi, Cord. Ti prego. Altrimenti urlo». «Sissignora», dissi con un ghigno, finendola con la lingua mentre tremava e sussultava. Mugugnò il mio nome e poi scivolò nel silenzio, sdraiata a terra, con la testa girata dall’altra parte. Le carezzai i capelli.

«Tutto bene?» «Sì», sussurrò, per poi voltarsi mettendomi la faccia sul torace. «Vuoi andare a casa?» «Con te?» «Certo. La notte è ancora giovane». Saylor iniziò a rimettersi i vestiti. Sembrava sbilanciata e cercai di farle un po’ di spazio. «Cord?». Si era rimessa la gonna e aveva riabbottonato la maglia. La sua voce suonava triste, quasi insicura. «Saylor», risposi, rimettendomi i pantaloni e aspettando. Mi abbracciò stretto, sorprendendomi con la sua forza. Poi si lasciò sfuggire un piccolo sospiro e restò con la testa poggiata sulle spalle. «Ragazza mia», sussurrai, baciandola e stringendola ancor più a me. «Lo sono», rispose. Prima di Saylor non mi ero mai trovato a sperare di sapere cosa asse per la testa di una ragazza. Immaginavo che fosse qualche tipo di sdolcinatezza a base di unicorni e abiti nuziali. Ma Say era più complessa delle altre. Volevo conoscere ogni emozione che la attraversava. Finché non ricordai che mi aveva già detto quello che contava di più. «Anch’io», dissi. Arretrò di qualche centimetro e mi guardò incuriosita. «Anch’io», insistetti, spingendole via i capelli dalla faccia. Non mi chiese cosa intendessi. Chiuse gli occhi per qualche secondo e tirò un respiro profondo, con un sorriso lieve dipinto sul volto. La rimisi in piedi. «Andiamo».

«Non so se ce la faccio a camminare», rise, inciampando malferma sui piedi. «Non ne avrai bisogno. Sali su». Era facile da portare. Arrivammo alla sua macchina un minuto dopo. Si stiracchiò e si sfregò il ventre mentre saliva. «Ho fame». «Io no», dissi, accendendo il motore. «Ho appena mangiato». Saylor incrociò le braccia e arrossì. «Sei proprio un discolo». «Ma questo già lo sapevi». Mi guardò. «Ti conosco bene». «E dunque?» «Sei una persona incredibile, Cordero». Mi aveva praticamente ucciso. Non mi veniva nessuna risposta che non fosse sdolcinata, così rimasi in silenzio. Andammo a un drive-thru della Taco Bell e Saylor ordinò una quesadilla e una bevanda gassata. Quando ordinai una dozzina di tacos, alzò le sopracciglia sconcertata. «Te li mangi tutti stasera?» «No, solo un paio. Il resto va ai miei fratelli». Sorrise. «Che bella cosa». «I tacos?» «No, il modo in cui pensate sempre agli altri fratelli». «Facciamo sempre così», dissi serio. Creed si era addormentato sul pavimento vicino al divano. Meglio così che a fissare la sua tenebra interna, a lamentarsi di merdate varie che non potevano più essere risolte. Saylor aleggiò un poco su di lui, guardandolo incuriosita prima di dileguarsi. Al suo ritorno aveva tra le mani una coperta. Provai una strana sensazione al petto mentre la vidi coprire mio fratello.

Chase finì di ingollare un paio di tacos e mi diede un colpetto al braccio. «Tienitela da conto», disse senza ironia. «Puoi contarci», risposi, mettendo in frigo il resto dei tacos. Una volta che Creed si fosse riavuto dal suo torpore, avrebbe avuto una fame da lupi. «Indovina chi ho visto oggi?», chiese Chase, mentre Saylor ci raggiungeva sul divano, bevendo la sua bibita. «Chi?», chiesi a mia volta, fissandole le labbra che succhiavano dalla cannuccia e ricordando che aspetto avessero quando si trovavano sul mio cazzo. Vide che la guardavo e mi fece la linguaccia. Chase ruttò. «I nostri amici della confraternita». Distolsi la mia attenzione da quei pensieri sconci. «Dove hai incontrato quegli idioti?». Alzò le spalle. «In palestra. Due di loro si sono messi ai lati della mia panca e hanno detto che se mi avessero visto di nuovo nella loro bazzica me l’avrebbero fatta pagare». Scoppiò a ridere. «Hanno detto davvero così. Bazzica. Come se fosse West Side Story. Be’, mi sono alzato e gli ho sollevato qualche peso davanti, per fargli capire che non mi lasciavo spaventare da due fighetti abbronzati. Hanno guaito come cani bastonati e si sono allontanati». Sorrise, sicuro di sé. «Non torneranno, a meno che non gli venga voglia di un po’ di chirurgia estetica». Feci una smorfia. Non mi piaceva questa cosa. Chase si rifiutava di capire che persone del genere non erano mai leali. «Fai attenzione, va bene?», dissi. Grugnì, indicando Saylor. «Di’ al tuo uomo che non è mia madre. Per quello basta Creed». «No», obiettò Saylor, abbracciandomi. «Mi piace il suo lato materno». Chase esitò un po’ e poi scoppiò a ridere. «Non mi tenete sveglio anche stanotte».

«Faremo piano», promise Saylor, proprio mentre dicevo: «Ma mettiti dei cazzo di tappi per le orecchie». Chase accese la Xbox mentre Creed continuava a russare sul pavimento. Li guardai. I miei fratelli, le parti che mi rendevano intero. Per lungo tempo avevo creduto che fossero tutta la mia famiglia, loro tre e nessun altro. «Ehi». Saylor mi agitò una mano all’altezza degli occhi. «Dove sei? Sembri distante». «No». L’abbracciai. «Sono qui con te». Saylor mi sbottonò la camicia e seguì col dito le parole che avevo tatuate sul petto. «Devo fare un salto da Bray, fargli sapere dove sono e prendere un paio di cose». Si morse il labbro. «Cioè, se vuoi che resto qui». «Certo che lo voglio». Ricordai una cosa. «Ieri mentre eri al lavoro ti ho preso un regalo. È una sorpresa». Sembrò colpita. «Che tipo di sorpresa?» «Più tardi vedrai. Fai quello che mi hai appena detto e poi ti faccio vedere tutto». Mi rivolse un’occhiataccia. «Penso di aver già visto tutto». Mi stava diventando di nuovo duro. «Credimi, Say McCann. Non hai ancora visto niente».

Capitolo diciassette Saylor

Cord volle accompagnarmi a casa di Bray. Tenerlo per mano mentre andavamo mi faceva sentire timida e giovanissima, come se fossimo al primo appuntamento. «Stai arrossendo», osservò. «Stai pensando a me?». Gli strinsi più forte la mano. «Lo devo fare. Sei il mio fidanzato». «La buona norma cosa dice su che altro devi fare per me?» «Dice che sabato devo trascinarti al matrimonio di mia madre». Cord si fermò e rimase a fissarmi. «Che cosa?» «Lo so, lo so. Mi ha chiamata oggi pomeriggio e ha sganciato la bomba. Si sposa con Gary lo Gnomo al Rooster’s Roast. Sabato. Io devo pensare agli addobbi floreali. Le piacciono le margherite. Quelle grandi». Stavo parlando a vanvera. «Dovrò convincere Ed a darmi la serata libera, ma penso che Truly mi coprirà». Cord continuò a fissarmi sconcertato. «Rooster’s Roast», disse lentamente. «È quel cesso di posto sulla Main, che ora è gestito da una coppia di greci anziani?» «Sì». Alzai le spalle. «Conoscendo mia madre, dev’essere un posto di classe. Lo dico con tutto il sarcasmo possibile». Sembrava che stesse elaborando la cosa. «È a Emblem». «Certo». Cord si schiarì la gola. «Saylor, non ci vado volentieri a Emblem». «Nemmeno io, Cord. Lascia stare, non fa nulla. Mia madre voleva conoscerti, tutto qui», mentii.

Tirò su col naso. «Credo che già mi conosca. Sono sicuro che venne a casa mia a urlarmi contro dopo quella storia che era successa tra di noi». Restai sorpresa. «Davvero?» «Sicuro», annuì. «Ha minacciato di castrarmi con delle cesoie da giardiniere». «Wow, credevo non gliene fosse mai importato nulla. Questa cosa mi commuove. Ti ha fatto paura? Ti prego, dimmi di sì». Cord alzò le spalle, sorridendo. «Abbastanza. C’era mio zio Chrome a casa. Riuscì a calmarla». «Come ha fatto?». Alzò le sopracciglia. «Come pensi che abbia fatto?». Spalancai la bocca. «Mi stai dicendo che tuo zio si è fatto mia madre?». Cord alzò le spalle. «Ne sono quasi certo. Dopo che le ha tolto le cesoie di mano, si sono dileguati dentro a una vecchia roulotte. La vedevamo muoversi da un isolato di distanza». «Che schifo. Sono davvero disgustata. Ora vomito la quesadilla su quel geco». Cord scoppiò a ridere. Gli diedi uno spintone. «Mi stai prendendo per il culo. Dimmi che mi stai prendendo per il culo». «No», scosse la testa. «Non ho tutta questa fantasia». «Va bene, ora che abbiamo affrontato uno di quei punti che nessuno dovrebbe mai affrontare, che mi dici? Vieni sabato?». Cord inspirò e guardò il cielo. «È molto importante per te?» «Non lo so. No. Forse». Ero indecisa. «Forse volevo solo portarmi dietro un figo da paura». «Davvero?»

«Non ho molta voglia di tornare a Emblem. Anche solo pensarci mi toglie tutte le energie e mi fa venire voglia di non uscire dal letto per dieci giorni. Andarci con te renderebbe l’operazione meno incresciosa. Quando sto con te… mi sento bene». Cord avrà pensato che fossi idiota. A sentire le mie parole, lasciavo poco margine al dubbio. Smise di camminare e si girò verso di me, prendendomi il volto tra le mani e facendo scorrere le sue labbra sulle mie. «Cosa mi darai in cambio?», chiese con voce roca. «Tu che vuoi?». Mi fece scorrere la punta del dito sulla clavicola. Rabbrividii. «Voglio un mucchio di cose». «Dimmene qualcuna». Prese a tamburellare con le dita. «La tua fica, il tuo culo, le tue tette». Sospirai. «Sii serio. Sto parlando di cose importanti». Cord annuì. «Per me sono cose serissime». Serrai le gambe, sentendo la sua mano che mi entrava sotto la maglia. «Che diavolo, Cord. Così mi vai dritto alla testa. Lo sai, vero? Certo che lo sai». Rise. «Bene. Serve che tu sia pronta e bagnata per quando faremo ritorno a casa». Mi prese la mano. «Verrò, Say, se per te è così importante». Lo fermai. «Cord?» «Che c’è?» «Baciami». Lo fece. Le sue mani scivolarono sul fondo della mia schiena e mentre con la lingua mi invadeva la bocca, si spinse forte contro di me. Era uno di quei baci elettrici e incendiari che facevano sperare fervidamente che ogni uomo del

pianeta prendesse lezioni da lui. «Fatela finita!». La voce irritata di Brayden mi strappò via dalle labbra di Cord. Stava in piedi al centro della veranda fuori dal suo appartamento con una grossa smorfia caricaturale dipinta sul volto. «Se fossi venuto ad aprirvi la porta, avrei fatto la muffa». Ruotai gli occhi e aprii la porta dell’appartamento, seguita da Cord. Millie era raggomitolata su una poltrona vicino al televisore e dormiva. Apparve Brayden e si portò un dito alle labbra, come se non avessimo idea che bisognava fare silenzio quando qualcuno stava dormendo. Le scatole che avevamo raccolto durante quell’orrendo viaggio in California stavano impilate sul pavimento, vicino alla porta. Esaminai velocemente il loro contenuto, trovando qualche indumento che infilai nella borsa. Dopo aver preso il mio spazzolino dal bagno ero pronta ad andar via. Brayden stava in piedi, scalzo, fuori dalla porta del salone e guardava Cord con sguardo severo, come fosse un padre pronto a fargli una ramanzina. Rivolse un’occhiata rapida alla sua fidanzata che dormiva e poi ci seguì fuori. «Tu ci vieni al matrimonio?», gli chiesi quando socchiuse la porta. Bray sbatté gli occhi. «Al tuo? Faccio io la damigella?» «Ma no», dissi, mentre Cord rideva. «Mia madre sabato si sposa. Con Gary lo Gnomo». Brayden sembrò sconcertato. «Cazzo. Il mio invito deve essersi perso per strada». «Forse ci saranno i tuoi». «Mio padre chiama tua madre “quella troia acida che si fotteva mio fratello”. Dunque non credo che verrà». «Giusto», borbottai. «Spesso non mi ricordo chi è che odia chi». Mio cugino guardò me e Cord e poi di nuovo me. Sembrava divertito.

«Nemmeno io». Gli rivolsi un’occhiata irritata e lui sollevò le mani in segno di resa. «Stavo solo scherzando». Annuì in direzione di Cord. «Che piano avete? State già vivendo assieme? Se fossi una persona convenzionale vi direi che forse è troppo presto». Lo fulminai con lo sguardo. «Se fossi una persona sensibile ti direi che me la posso sbrogliare da sola». Cord replicò. «Se fossi un tipo virile potrei aggiungere che ho anche io qualcosa da dire a riguardo». «Ma davvero?», esclamò Bray, fingendosi sorpreso. «Fammi sentire un po’, Cordero Gentry. Che intenzioni hai con mia cugina? Dimmi tutto, ti prego». Incrociò le braccia come se fosse in attesa di una lunghissima spiegazione. Cord non batté ciglio. Mise un braccio attorno alle mie spalle e guardò fisso Bray. «So quanto significa Say per te», disse a bassa voce. «Fa parte della tua famiglia come i miei fratelli fanno parte della mia. E anche se hai visto il mio lato peggiore, mi hai teso la mano e mi hai offerto la tua amicizia». Diede un colpo leggero di tosse. «Non le farò del male, Bray. Te lo giuro su quello che vuoi». Brayden sbatté rapidamente gli occhi. Si tolse gli occhiali e fece finta di asciugarsi lacrime immaginarie. «È stato bellissimo. Mio Dio. Fantastico. Sono esterrefatto». «Bray!», sibilai, ma Cord stava ridendo. Brayden gli rivolse una smorfia. «Ti tenderò di nuovo la mano, amico. Se vuoi. In segno di amicizia». Guardai i due uomini che volevano dire tutto per me, abbandonare i vecchi ricordi in favore dei nuovi. Mentre portavano a termine il loro rituale maschile di affettuose pacche sulle spalle, Millie aprì la porta. Aveva la faccia ancora piena di sonno. «State facendo casino», si lamentò. «Scusa, tesoro», le disse Brayden, mentre lei si avvicinava e lo abbracciava ai

fianchi. Cord si mise dietro di me e mi poggiò le mani sulle spalle, massaggiandole piano. Millie lo notò e mi fece l’occhiolino. «Sei pronta?», chiese Cord. Lo ero. Morivo dalla voglia di restare sola con lui. Si sentiva che anche lui aveva voglia di restare da solo con me. «Certo. ’Notte, cugino. ’Notte, Mill». Fecero per girarsi verso la porta quando chiamai Brayden. «Ehi, lo sapevi che mia madre e lo zio di Cord si sono fatti una sveltina nel deserto?». Brayden fece una smorfia. «Certo che lo sapevo. Pensavo che lo sapessero tutti». «Be’», borbottai, «ora lo sanno davvero tutti». Cord, praticamente, mi trascinò al suo appartamento muovendo le mani velocemente e toccandomi di continuo il culo per spingermi avanti. «Che fretta c’è?», lo canzonai, sapendo di avere una smania peggiore della sua. Anche se la nostra avventura sul tetto era stata fantastica, niente era equiparabile all’averlo profondamente dentro di me. Avevo le mutande fradicie di umori e non vedevo l’ora di potermele togliere. «Nessuna fretta», insistette, aprendo la porta. Si sentiva ancora Creed russare a terra. Chase aveva le luci accese ma la porta era chiusa. Appena raggiungemmo la stanza da letto, Cord mi sfilò la maglia e io, automaticamente, presi a leccarmi le labbra, fissando quella scultura muscolosa che aveva al posto del torace. «Oh, già», disse all’improvviso, sfilando una busta da sotto il letto. Feci cadere la mia borsa a terra. «Che cos’è?» «La tua sorpresa. Te ne eri dimenticata?» «Sì». Mi abbandonai sul letto.

Cord aveva l’aspetto di un bambino timido, quando mi mise la busta tra le mani. Guardai la forma che aveva e seppi immediatamente di cosa si trattava. «Non è proprio un modello di lusso», mi spiegò, mentre toglievo la scatola dalla busta. «Ti avrei dato il mio, ma non è meglio di questo. Però almeno puoi ricominciare a scrivere. Say? Tutto bene? Ti fa schifo?» «No», bisbigliai incredula, toccando il logo della Hewlett Packard sulla scatola. «No che non mi fa schifo». «Avevo un po’ di soldi da parte», disse timidamente. Guardai i lividi che aveva sul corpo e capii quale fosse l’origine di quel denaro. Per un portatile basilare del genere ci volevano almeno quattrocento dollari. Sapevo che per molti non si trattava di una grossa somma. Per uno come Devin erano pochi spiccioli. Ma per Cord era una grossa somma. E per me significava tutto. «Stai piangendo?», chiese esterrefatto. «Cazzo, lo so che per te scrivere è una cosa molto personale. Non sto provando a spingerti a…». Lo zittii con la bocca. Lo baciai a lungo, con foga, provando a comunicargli con il mio corpo quello che non riuscivo a esprimere a parole. «Grazie», fu tutto quello che riuscii a dire, non appena ci fermammo a riprendere fiato. Sapevo che Cord non poteva davvero permetterselo. Ma sapevo anche che se non avessi accettato il suo dono lo avrei ferito. «Prego, bimba», disse, sorridendo in un modo che mi tranciò a metà. Poggiai con gentilezza la scatola a terra. Restai lì davanti a lui e seguii il contorno delle sue labbra con il dito, mentre lui mi cingeva i fianchi con le braccia. La mia fronte sfiorò la sua. «Facciamo l’amore, Cord». Emise un suono curioso col fondo della gola e poi infilò le mani sotto la gonna, sfilandomi le mutandine bagnate. «Facciamolo. E poi rifacciamolo». Mi tolsi la maglia e lui mi guardò. Quando mi slacciai il reggiseno e lo lasciai cadere a terra Cord si tirò fuori il cazzo già duro, tenendoselo tra le mani.

«Sei meravigliosa», grugnì, fissando voglioso il mio corpo nudo mentre mi sfilavo anche la gonna. «Sei uno schianto. Lo sei sempre stata, ma ora più che mai». Gli baciai le spalle e il torace. Mi chinai e glielo presi in bocca, gustandomi la gocciolina salata che gli affiorava sulla punta. Ma Cord non voleva quello. Con gentilezza mi spinse via e poi sul letto, sdraiandosi subito sopra di me. «Peso troppo?», chiese, assestandosi sul mio petto, mentre tutta la sua ferrea lunghezza mi vibrava contro il ventre. «Pesi il giusto», risposi. Tirai su le ginocchia e feci scorrere le mani sulla sua schiena liscia e muscolosa. Si cullò avanti e indietro per un po’ di volte, appena fuori da dove lo volevo. Poi si allungò e prese a rovistare nel cassetto del comodino a fianco del letto. Trovò in fretta quello che stava cercando e aprì la piccola confezione usando i denti. «Ci penso io». Glielo presi dalle mani. Si spinse sui palmi delle mani così che potessi infilargli il preservativo sul cazzo. Lo guardai mentre con le mani controllava che fosse sceso fino a giù. «Che c’è?», mi chiese quando mi sentì gemere. «Stavo ricordando quanto mi era piaciuto sentirti venire dentro, ieri sera». Cord respirava pesante. «Se continuiamo in quel modo avrai presto un piccolo Gentry che ti cresce nella pancia». «Ma forse lo voglio, un piccolo Gentry nella pancia». «Cristo, Saylor», grugnì, seppellendomi la faccia nel collo. «Non hai idea di quanto mi ecciti, questa cosa». Decisi di mantenerla, a malapena capace di credere alle parole che sentivo uscire dalla mia bocca. «Forse uno di questi giorni lascerò che tu mi metta incinta». Mi entrò dentro. «Forse già è successo». «Forse». Mi morsi il labbro quando iniziò a spingere più forte. «Ieri notte ti ho

sentito colarmi fuori per ore, Cord. Per ore intere». Si stava muovendo più veloce, più pesante, colpendo il punto che presto mi avrebbe fatta esplodere. «Continua a parlare, Say». «Mi piace sentire il tuo calore dentro». Stavo iniziando a respirare pesante, mentre sentivo l’onda che iniziava a travolgermi, salendo sempre più in alto prima di schiantarsi e trascinarmi via. «Schizzami un bimbo nella fica, Cord. Voglio sentire una parte di te che mi cresce dentro. Ti amo da morire». «Lo farò, dolcezza. Magari non stanotte, ma lo farò. Ti scoperò quella fichetta stretta fino a riempirla di tre gemellini. Che ne dici?». Ero molto, molto vicina. «Sì! Mi piace! Lo voglio! Sto venendo, Cord! Vacci giù pesante! Pesante!». Nel retro della mia mente mi resi conto che stavamo facendo un casino. Ma oltre a sperare che Chase avesse alla fine trovato dei tappi per le orecchie, non mi importava nulla. Cord ghignò e venne ruggendo. Quando crollò sul mio petto gli baciai la fronte sudata. «I parti trigemellari sono ereditari?», risi. «Probabilmente sì», rispose, baciandomi assente il seno destro. «Nella nostra famiglia ci siamo solo noi, ma mio padre era a sua volta un gemello. E nell’albero genealogico avvizzito dei Gentry figura più di qualche gemello». Si sfilò il preservativo e lo gettò nel cestino. Scosse la testa. «Se insisti un po’, Saylor, alla fine avrai un’intera cucciolata di Gentry a circondarti». Provai a immaginare come sarebbe stato, sposare Cord e dare alla luce i suoi figli. Non avevo mai pensato a nulla del genere, con nessun altro. Aver visto il triste declino del matrimonio dei miei genitori e il loro approccio quantomeno scadente all’essere genitori mi aveva lasciato un po’ amareggiata. Non avevo mai creduto granché al “vissero felici e contenti”». «Hai un’espressione curiosa», notò Cord, rilassandosi sul letto, splendidamente nudo.

«Davvero?». Annuì, poi venne vicino e mi carezzò la testa. «Chissà quante cose ci ano, qui dentro. Vorrei tanto avere… com’è che si chiama? La esp». Mi appoggiai a lui, felice della sensazione delle pelli calde a contatto. «Non ti serve la percezione extrasensoriale. Basta chiedere». «Va bene. Allora te lo sto chiedendo». Mi poggiai su un gomito. Schiarii la gola. Toccai le lettere sul suo petto. Chi conquista se stesso vince. «Dài, Say, sputa il rospo». «Va bene. La sola relazione che ho avuto in vita mia è stata quella con Devin, ed è stata…». «Una merdata allucinante», completò la frase Cord, con una smorfia. «Già», mugugnai. «Mi ricordi a scuola, Cord. Non sono mai riuscita a uscire da quel guscio. Ero un tipo solitario, non avevo molti amici». «Nemmeno io». Risi. «Stronzate. Chiunque, nella vostra classe, o aveva paura di voi o voleva scoparvi. Tutti e tre». «Lo so», disse sbadigliando. «Mi faceva sentire molto solo». «Senti, volevi che parlassi sul serio». «Sì. Ti sto ascoltando». Esitai. «Queste cose che ti dico, Cord, non è solo la ione a farmele dire. Le intendo veramente». Non disse nulla. Rimase a guardare il soffitto. Era peggio di una tortura. Quando alla fine parlò, le parole gli uscirono lentamente. Erano difficili da ascoltare.

«Quando ero molto piccolo, forse a cinque o sei anni, ho bevuto dell’acqua cattiva. Era estate, il mattino dopo un forte temporale, e c’era dell’acqua piovana che si era raccolta dentro a un vecchio tamburo buttato sul retro di casa assieme ad altra immondizia. Ci avevano tagliato la fornitura d’acqua, probabilmente perché nostro padre non aveva pagato le bollette. Eravamo assetatissimi ma in giro si trovava solo birra calda. Creed e Chase mi misero in guardia, mi dissero di non toccare quell’acqua marrone. Ma io ero disperato e non me ne importava nulla. Il sapore era orribile. Poco dopo iniziai a vomitare. Dentro dovevano esserci dei brutti batteri, perché per giorni non riuscii a smettere di vomitare. Solo Dio sa dove si fosse andato a cacciare mio padre. Mia madre, per buona parte del tempo, non sapeva nemmeno dove si trovasse. Ma quando ero lì a contorcermi sul terreno lurido, con la sensazione di avere un grumo di serpenti a sonagli nello stomaco, mi trovò. Chiese a mio cugino Declan di portarmi dell’acqua imbottigliata. Poi mi cullò per tutta la notte, costringendomi a bere pochi sorsi alla volta. Saylor, è stata l’unica volta in cui ricordo di aver sentito qualcosa di simile all’amore provenire da uno dei miei genitori. E oltre a Creed e a Chase, non l’ho mai sentito provenire da altre persone. Fino a oggi». Lo abbracciai, piangendo. Cord, invece, aveva gli occhi asciutti. Mi avvinghiò le braccia forti intorno al corpo e mi baciò teneramente. «Vai a dormire, ora, bella mia. Hai trovato il mio cuore. È tutto reale. Domattina sarà qui ad attenderti». Gli abbracciai l’ampio torace. «Sogni d’oro», bisbigliai. Cord rise piano nel buio. «Io non sogno mai. Escono fuori troppe cose brutte. Mi mette di cattivo umore. Tu riposati un po’. Ricordati, ho promesso che ti avrei scopata tutta la notte».

Capitolo diciotto Cord

Non si possono scegliere i luoghi dove il tuo subconscio ti conduce. Mentre Saylor gemeva nel sonno, con un sorriso lieve dipinto sul volto, decisi di abbandonarmi al lusso dell’oblio. Mi portò dritto a Emblem. Il deserto non è come la foresta. Il terreno è piatto e i cespugli sono pochi. Non ci sono molti posti per nascondersi. È ancora più difficile se siete in tre e state scappando assieme, alla ricerca disperata di un posto dove il mostro non possa raggiungervi. Lo potete sentire ululare, avvicinarsi, con le mani già sporche del sangue di vostra madre, furiosamente assetato anche del vostro. Uno dei tuoi fratelli esita nel buio, tra i cespugli di creosoto spinosi. È disperato. A tuo fratello viene in mente che se correte tutti in direzioni diverse, la bestia che vi si è messa alle calcagna si confonderà. Finirà per stancarsi, come succede sempre. Solo così potrete godere di un’altra alba. Dovete solo aspettare. Ma tu scuoti la testa. No. No, no, no. Da solo sei debole. In tre siete forti. Dovete restare assieme. Ma l’altro fratello non è d’accordo e dice che dovete sparpagliarvi. Li ascolti addentrarsi nei recessi più remoti della notte. Il mostro si avvicina, conosce il territorio molto meglio di voi. È più vecchio, più forte, abita da sempre questi luoghi. Urla il tuo nome e fa un suono orribile. Ma esiti a muoverti, vuoi che segua te invece dei tuoi fratelli. Hai già imparato una lezione importante; per quanto sia terribile la sua crudeltà quando riesce a catturarti, l’agonia che provi è peggiore quando prende loro. Non li toccherà.

Non glielo permetterai. Mentre si avvicina, scivoli nel buio nell’ultimo istante possibile. Tutte le cose appuntite che sbucano dal fondo del deserto ti graffiano le gambe nude, ma anche questo non riesce a fermarti. Ma l’urlo angosciato che odi all’improvviso copre tutto. È riuscito a prendere uno dei tuoi fratelli. Accecato dal terrore, segui inciampando il suono dell’agonia di tuo fratello. All’improvviso ricordi una delle cose che ti ha insegnato tuo zio. Quasi inciampi su una grossa roccia, ma sei felice, perché la afferri tra le mani. Quel suono tremendo si fa sempre più vicino. Alzi la voce fino a ruggire mentre senti il caldo che emana da lui, dalla creatura malefica che ti ha dato la vita. Ma stanotte lo sorprenderai. Hai da fargli vedere una cosa. Anche tu sai come essere un mostro. È un talento che ti scorre nel sangue. Mi risvegliai ai piedi del letto. La mano mi doleva. Nel sonno avevo preso a pugni il pavimento che gli incubi mi costringevano a scambiare per qualcos’altro. Flettei le dita per accertarmi che non ci fosse nulla di rotto. Il corpo era coperto di sudore, anche se potevo sentire il rumore dell’aria condizionata al massimo. Le molle del letto cigolarono e guardai Saylor, sdraiata nuda sulle coperte, che dormiva profondamente come quando era scivolata nel sonno tra le mie braccia prima che mi addormentassi anch’io. La avvolsi con una coperta, contento di non averla risvegliata. Non avrei potuto toccarla in quel momento. Davvero non avrei potuto. Mi infilai i boxer e uscii dalla porta della stanza. Tranne che per il ruggito dell’aria condizionata e il raschio lieve di Creed che russava, l’appartamento era immerso nel silenzio. Mi chinai sul lavello del bagno e aprii l’acqua. Era calda, ma mi sciacquai comunque la faccia. Mi sentivo debole e mi tenni ai bordi del lavandino, provando a respirare. Non funzionava nulla. Dovevo continuare a stare male. Saylor mi trovò con la testa dentro al cesso. «Cord?». Avevo lasciato la porta aperta e lei si stava sporgendo dallo stipite, il corpo ancora avvolto dalla coperta. «Tutto bene?».

Tirai lo sciacquone e presi una bottiglia di collutorio. «Sto bene, bimba. Sto bene. Cazzo». Entrò piano in bagno e si inginocchiò vicino a me. Sputai il collutorio nel lavello e mi lasciai cadere contro il muro. Saylor mi toccò. «Stai sudando. Ti sei intossicato col cibo?». Scossi la testa. «Puoi spegnere la luce, per favore?». Restituì la stanza al buio, poi si tirò la mia testa al seno. Mi carezzò il collo. «Che succede?» «I sogni», sussurrai, spingendo la faccia contro la sua pelle calda, cercando conforto. Saylor capì che era meglio non dire nulla. Continuò a tenermi tra le braccia, finché i demoni non decisero di indietreggiare e mi sentii abbastanza forte da riportarla a letto. La penetrai con dolcezza e dopo che tremando raggiunse l’orgasmo le venni copiosamente dentro, proprio come piaceva a lei. Tenendola tra le braccia, scivolai di nuovo nel sonno. Ma stavolta non ci furono sogni, non ci fu nulla oltre una tenebra dolce, finché Creed non andò a sbattere contro qualcosa in soggiorno e prese a urlare come un ossesso. Aprii gli occhi, maledicendo gli impietosi raggi di sole che filtravano dalle tapparelle. Saylor si era già infilata un prendisole giallo. Mi sorrise raggiante. «Buongiorno!». Sbadigliai, sentendo scrocchiarmi la mascella. «Buongiorno, bellezza». Creed si era ferito la caviglia sbattendo alla gamba del tavolino. Zoppicava in giro bestemmiando. Chase si stava già ingozzando dei suoi disgustosi cereali. Tenne in aria il cucchiaio, canzonando Creed. «Per essere uno grosso, hai davvero poca tolleranza al dolore».

Creed lo fulminò con lo sguardo. «Vattene a fare in culo, fighetto». Chase sorrise. «Siamo tutti fighetti». Si accorse della presenza di Saylor. «Tu sai cucinare, tesoro?». Presi due tazze da caffè e ne ai una a Saylor. «No», rispose. «Tu sai cucinare?». Chase borbottò qualcosa nella ciotola di cereali. Creed, cercando di raggiungere il caffè, mi urtò. «L’ultima cosa che ricordo è che stavo mangiando il pollo chiedendomi se una delle ragazze sedute al bar me l’avrebbe data. Mi sono risvegliato con la faccia sulla moquette». Guardò Saylor e fece una piccola smorfia. «Abbiamo parlato, ieri sera?». Lei sbatté gli occhi innocentemente. «No, non ricordo nemmeno di averti visto». «Bene», ribatté annuendo, visibilmente sollevato. Pochi minuti dopo Creed scomparve sotto la doccia e Chase ci offrì due ciotole di quella spazzatura al marzapane. Mi piaceva vedere Saylor che caricava il suo caffè con chili di zucchero, mentre dava del filo da torcere a Chase. A un certo punto notai che ci stava guardando tutti e due pensieroso. Puntò il suo cucchiaio umido nella nostra direzione. «Servirebbe anche a me». Saylor abbassò lo sguardo su di sé e poi alzò le sopracciglia. «Un prendisole?» «No, stupida. Una fidanzata». Saylor scoppiò a ridere. «Sei un tipo da fidanzamento?». Chase mi allungò un calcio. «Lui lo è?».

Gli tirai un cucchiaio e restai a fissarlo. «Finora sta facendo un ottimo lavoro», disse Saylor, guardandomi e arrossendo. Mio fratello trovava questa cosa esilarante. «Ti si sta lavorando per bene, eh? E lo fate pure senza guanto?» «Cristo santo», dissi, «allora stavi sentendo». Chase si alzò in piedi e ruttò. «Be’, non sono mica sordo. Che problema c’è? E comunque, i parti gemellari sono ereditari. Spero che tu abbia abbastanza posto in quella caverna, bambola». Mi alzai in piedi arrabbiato, facendo cadere la sedia. Saylor, dal canto suo, stava solo ridacchiando divertita. Mi tirò il braccio. «Non fa niente, Cord». «Dovrebbe imparare a farsi i cazzi suoi», borbottai. Chase sbuffò. «Più invecchi e più diventi un rompicoglioni, Cord. Tu ne sai qualcosa, Saylor? Me ne vado in palestra». Chase si calcò sulla testa un cappellino da baseball e io ricordai una cosa. «Non credo sia una buona idea, andare in palestra da solo dopo quello che è successo ieri». Chase agitò una mano in aria. «Perché, secondo te permetto a quei cacasotto sbarbati di dirmi dove andare? Torno a pranzo se non trovo nessuna che me la vuole dare, nel qual caso tornerei a cena. Lavori stasera, Say? Mi va un po’ di pollo fritto». «Sì, Chase. Ci vediamo dopo». Scossi la testa. Chase uscì dalla porta fischiettando. Saylor voleva tornare da Bray a rovistare un altro po’ nelle sue scatole prima di andare al lavoro. Mentre camminavamo nell’ombra verso casa di suo cugino mi strinse la mano.

«Dopotutto», sospirò, «non posso lasciargli tutte le mie cose nell’atrio. Quella casa è praticamente un monolocale». «Possiamo portare tutto da me», dissi. Saylor mi guardò e arrossì. «Non voglio che diventi né il mio facchino né il mio spazzino». «Perché no?». Le toccai il culo e lei squittì. «Siamo in pieno giorno!». Continuai a tastarla. «E allora? Ti piace». «Un po’ sì. Cioè, mi piace un mucchio». «Comunque», continuai, pensando a voce alta, «ti meriti un posto dove dormire che sia più duraturo del divano di Brayden». Saylor rise. «Magari mi faccio ospitare da mia madre e dallo Gnomo». «Oppure puoi venire con me». Saylor si fermò. «Cosa?». La abbracciai. «Se tutto questo è mio, dovrei essere in grado di prendermelo quando voglio, no?». Arrossì, dimenandosi. «Che cosa mi stai chiedendo, Cord?». La tirai a me e le feci scorrere un dito sulle labbra. Chiuse gli occhi e rabbrividì. «Voglio stare con te, Say», le dissi, facendo navigare le mani sulla sua schiena e carezzandole le parti scoperte fino ad arrivarle nelle mutandine. «Voglio stare sempre con te. Tu vuoi starci, con me?» «Sì», bisbigliò, premendosi contro il mio corpo. Le baciai la punta del naso e poi gli angoli della bocca. «Bene». Pensai per un istante ai miei fratelli. Non avevamo mai avuto fidanzate di aggio in casa. Ma sapevo che si accorgevano del fatto che Saylor era diversa. Anch’io lo

sapevo. Lei era per sempre. Saylor doveva prepararsi per andare al lavoro. Le dissi che potevamo usare il pick-up per riportare le sue cose a casa mia a fine turno. Prima di salutarci mi guardò incredula. «Cord Gentry», scosse la testa, «da dove diavolo sei sbucato?» «Da un brutto posto», ammisi, carezzandole i capelli morbidi, «ma ora sembra tutto più bello». Tornando a piedi verso casa pensai a cosa avrei detto ai miei fratelli sul fatto che Saylor si sarebbe trasferita da noi. Ero sicuro che a Chase non sarebbe importato nulla, ma Creed avrebbe potuto fare un o indietro. Lo incontrai che era appena uscito dalla doccia e sputai il rospo. Mi guardò con le sopracciglia alzate. «Definitivamente?» «Lo spero proprio». «Va bene, allora. Va bene. Se è quello che vuoi, per me è la benvenuta». «Lo è», risposi. «Cazzo», disse Creed scuotendo la testa, «dev’essere una bella sensazione». Avevo molta energia in circolo, ma non avevo nessun modo d’impiegarla in maniera costruttiva. Alzai un po’ di pesi sulla veranda, ma faceva davvero troppo caldo. Dopo dieci minuti ero bagnato fradicio e feci un salto sotto la doccia. Poi tornai nella mia stanza e mi guardai attorno. Non avevo molto. Non avevo mai avuto soldi o belle cose. Sapevo che a Say non andava granché a genio l’idea che combattessi e all’improvviso anche a me sembrò un modo stupido di buscarsi qualche soldo. La sera prima, quando eravamo saliti sul tetto del museo d’arte dell’università, mi aveva detto delle cose che mi stavano facendo riflettere. Non ero molto convinto che il mio posto fosse a una lezione di arte, come aveva suggerito Say. Mio cugino Declan, per vivere, faceva il tatuatore. Era stato lui a farci tutti i nostri, anni prima, quand’era sbucato dal nulla e si era fermato per un po’ da noi. Era rimasto folgorato dallo schizzo del centauro che avevo fatto e mi aveva detto che avrei dovuto chiamarlo, se mai avessi avuto

intenzione di dedicarmi a quel mestiere, perché così mi avrebbe aiutato a iniziare. Potevo farlo adesso. Avevo sentito dire che ora abitava da qualche parte nei pressi di Emblem. Forse, nel weekend, andando lì con Saylor, avrei potuto fargli visita. Pensare alla mia cittadella natale mi diede la nausea. Con l’occhio della mente vidi le alte palizzate della prigione e la desolazione del deserto che la circondava, quello dove avevo trascorso l’infanzia. Odiavo l’idea di tornarci. Ma non volevo deludere Saylor, non dopo che mi aveva guardato con tanta di quella timidezza e mi aveva detto cosa significasse per lei avermi al suo fianco. Era ora di mettere da parte il ato, anche se questo significava doverlo rivisitare. Potevo farcela. In mancanza di altro da fare, mi misi a dare una bella pulita all’appartamento. Non mi piaceva la sporcizia. Chase mi diceva sempre che ero ossessivocompulsivo e forse aveva ragione, ma davvero non la sopportavo, forse perché per tanti anni ne trovavo dovunque mi girassi. Dopo qualche ora di olio di gomito ero soddisfatto del risultato. Prima avevo sentito Creed uscire di casa, dicendo di andare in centro a comprare qualche spartito. Se tra noi tre c’era uno con un po’ di talento, quello era proprio Creed. Quando avevo detto a Saylor che con la sua voce Creed avrebbe potuto diventare famoso, a patto che scartavetrasse quella patina di ruggine che aveva sul cuore e si fe sentire da qualcuno, non la stavo prendendo in giro. Il mio stomaco brontolò e capii che era ato troppo tempo dall’ultima volta che avevo mangiato. Presi una banana in cucina e mi venne da ridere mentre la sbucciavo, pensando alla bocca di Saylor che mi divorava il cazzo. Era un bel pensiero. Presi in considerazione l’idea di recarmi alla Gallina Pazza per appartarmi da qualche parte con Say. Sapevo che anche lei lo voleva. Saylor faceva spesso la timida, ma sapeva anche essere una sporcacciona. Questo me la faceva amare ancora di più. Amare. Ecco una parola che non mi aveva granché attraversato la testa negli ultimi ventidue anni. Sì, amavo i miei fratelli. Ma non è che stessi sempre lì a strombazzare questo fatto ai quattro venti. Creed bussò alla porta mentre stavo raschiando il pavimento della cucina.

«Che cazzo stai facendo?», chiese. «Sto usando il tuo spazzolino da denti per togliere il nero in mezzo alle piastrelle», risposi ridendo. Creed poggiò a terra la busta che portava e fece finta di darmi un gancio. Continuai a ridere, schivandolo. «Ti sto prendendo in giro». Aprì il frigo. «Non è il mio spazzolino?» «No», sorrisi, «è quello di Chase». Creed non riuscì a trovare nulla di commestibile in frigo e lo chiuse. «Non ci ha fatto caso?» «Non è ancora tornato». Creed guardò il telefono. «Sono quasi le sei. Non dovrebbe essere a casa a questo punto?». Stavo per dire qualcosa di arguto riguardo a Chase e alla sua ricerca infinita di fica, ma venni travolto da un’ondata di disagio. Creed mi guardò incuriosito. «Che c’è?» «Niente. Ti ha detto dei tipi che gli hanno rotto il cazzo ieri in palestra?» «Ho sentito che ne stavate parlando. Se avesse avuto qualche problema, ci avrebbe chiamato». Anche Creed iniziava a sembrare a disagio. C’erano in giro scienziati che avevano dedicato la loro vita a provare che tra gemelli ci fosse una qualche connessione sensoriale di sorta. Una volta, quando Creed si era rotto il polso cadendo dal tetto marcio di un vecchio fienile, ero convinto di aver sentito anche io il dolore, anche se tutto stava accadendo a tre isolati di distanza e ci era voluta un’ora prima che sapessimo cosa fosse successo. Creed stava già chiamando Chase al telefono. Non sembrò sorpreso quando rispose la segreteria. Ci guardammo per un lungo istante.

«Va bene», dissi, già fuori dalla porta. «Andiamo».

Capitolo diciannove Saylor

Se avessi avuto degli amici, mi avrebbero di sicuro fatto notare che sembravo impazzita. Non era poi ato troppo tempo da quando avevo varcato il confine dello Stato coperta di lividi, dopo essere stata violata dall’uomo che diceva di amarmi. Questi amici immaginari avrebbero poi continuato col dirmi che era troppo presto, che ancora dovevo elaborare il trauma che avevo subìto e che stavo confondendo il sesso con l’amore. Avrebbero gettato le braccia all’aria e mi avrebbero sgridata, per aver deciso di fare finta che quel pomeriggio di sei anni prima non fosse successo nulla in quello sporco garage. Ma io non avevo amici. Avevo solo Brayden, il mio pseudo fratello, che sembrava capire che Cord, anche se non era perfetto, non era di certo un criminale. La cosa più importante era che Cordero Gentry fosse molto di più di quello che desideravo. Era quello di cui avevo bisogno. Bray era tornato presto a casa e lo incontrai poco dopo aver salutato Cord. Era riato di lì a prendere una cosa che aveva dimenticato. Millie se n’era già andata e mi dispiaceva. Volevo farle una testa così, parlando di sesso e di amore a qualcuno che non avesse i miei stessi occhi. Altrimenti mi sembrava di parlare allo specchio. «Che succede, Say?», chiese Bray, col tono di chi già sapeva tutto. Sorrisi. «Tutto». Brayden incrociò gli occhi. «Stai ridacchiando? Saylor McCann non ridacchia mai. Si sa che è un’acuta osservatrice delle circostanze e dei dilemmi della vita». Mio cugino sospirò e mi guardò, scuotendo la testa. «È una cosa importante, vero?». Fui onesta. «Penso di sì. Sì che lo è». Sorrise. «Bene».

Quando lo ragguagliai sulla conversazione che avevo avuto con Cord, Brayden si limitò ad annuire. Fui felice che non iniziasse a pressarmi come avevano fatto i miei amici immaginari. Mi baciò sulla guancia e si avviò a proseguire la sua giornata mentre io restai in casa a prepararmi per andare al lavoro. Quando arrivai lì trovai Truly sconvolta. Ed le aveva fatto la ramanzina per come era vestita, dicendole di non lasciarsi i capelli sciolti e di tenere nascosta la parte di testa che si era rasata. «Quell’idiota ha un manico di scopa infilato in culo», sibilò, pulendo un tavolo con un panno umido. L’accento biascicato del sud faceva sembrare tutto quello che diceva ancora più divertente. «Ma che manico di scopa», dissi, rimpolpando le saliere, «secondo me è proprio un tubo innocenti». «Un bel pino silvestre, te lo dico io», rise. Immaginai che fosse un buon momento per chiederle un favore. Mi ascoltò con espressione attonita. Truly era davvero bella. Sembrava una principessa uscita da qualche fiaba, magari un po’ smunta, con delle tette enormi e una nube di espressioni dialettali che le ruotava intorno. «Non è mica colpa tua, tesoro», disse, appoggiando un ginocchio sul tavolo mentre metteva ordine in una pila di menu. «È un capolavoro di mascolinità». «Come darti torto?», risposi, sentendo un’ondata di calore in mezzo alle gambe, abbandonandomi per qualche istante al ricordo di Cord che mi faceva conoscere da vicino quella mascolinità. Non c’era tantissima gente, ma faceva comunque are in fretta le ore del servizio. Ricordai che Chase aveva detto di voler fare un salto per cena e dalle cinque iniziai a scansionare la porta speranzosa, alla ricerca delle sagome dei fratelli Gentry. Alla fine, notando un’ombra che attraversava la porta, vidi Cord scrutare tra la folla. Alcune ragazze sedute lì vicino si accorsero di lui e si rassettarono sul posto, tutte impettite. Mi stavo abituando all’ondata di piacere puro che mi dava vederlo. Agitai un braccio sorridendo.

Cord attraversò la folla ad ampie falcate. Mi avventai addosso a lui, sentendo l’impatto dei muscoli forti contro il mio corpo. Ma quando mi avvicinai per baciarlo vidi che si stava guardando intorno con un’espressione preoccupata. «Cosa c’è che non va?». Alzò le spalle. «Magari non è nulla, ma non riusciamo a trovare Chase. Non lo sentiamo da quando è uscito per andare in palestra». Cord gesticolò in direzione delle finestre, oltre le quali, dall’altro lato della strada, sorgeva l’edificio grigio della Western Fitness Gym. «È uscito a piedi, senza pick-up. Abbiamo provato in palestra, ma non c’è. Creed sta guardando meglio. Qui non è venuto, vero?» «No», dissi, scuotendo la testa. Cord sembrava deluso. Mi massaggiò le braccia con espressione assente e si guardò intorno, come se suo fratello potesse materializzarsi improvvisamente in mezzo ai tavoli bisunti. Gli alzai il mento, cercando il suo sguardo. «Ehi», dissi a bassa voce, «sono sicura che sta bene. Forse ha rimorchiato qualcuna, come ha detto che aveva intenzione di fare». «Già», disse Cord, tossendo. «Forse sì. Ma guardami, qui a cercare mio fratello adulto e vaccinato. È solo che…», Cord sospirò e si ò una mano tra i capelli. «È una persona molto intelligente, ma gli manca comunque qualche rotella. Hai presente l’istinto che mi ha salvato più di qualche volta dai guai? A lui manca completamente. Ha bisogno di qualcuno che badi a lui, capito?». Provai a calmarlo, tenendomelo stretto e baciandogli il collo. Cord mi ò le mani tra i capelli, cercò la mia bocca e la baciò. «Non vedo l’ora di scoparti di nuovo», mi bisbigliò nell’orecchio, mentre premevo i fianchi contro i suoi. Ce l’aveva molto duro. Potevo sentirlo stagliarsi contro la mia pancia. Mi baciò un’altra volta e poi si ritrasse con riluttanza. «Fammi andare a recuperare quel coglione dal buco in cui si è andato a cacciare», rise, afferrandomi e prendendomi in braccio, sibilandomi aria bollente nelle orecchie. «Più tardi te lo caccio a te, nel buco». Mi diede una rapidissima palpata ai seni e poi fece qualche o indietro. Non mi ero resa conto che stavamo dando spettacolo, finché non vidi quante persone erano state distolte dai loro cestini bisunti per guardarci. Truly mi fece ok con

tutti e due i pollici da dietro al bar. Mi morsi il labbro e risi. Prendendo una scopa per spazzare via delle patatine fritte che erano cadute, pensai a quanto profondamente in sintonia fossero i fratelli Gentry. Era una cosa che si vedeva di rado tra uomini cresciuti. Poi ricordai la storia tremenda della piscina e immaginai le centinaia di altre che non avevo ancora ascoltato. I fratelli erano legati dal sangue e dalle tribolazioni. Era solo grazie ai loro sforzi di proteggersi l’un l’altro che erano usciti vivi da Emblem. Misi via la scopa, sentendomi d’improvviso a disagio per la preoccupazione di Cord. Era abituato al pericolo costante e aveva dovuto sviluppare un istinto apposito per riconoscerlo. Senza nemmeno aver mai visto Devin, sapeva già che incontrarlo da sola sarebbe stata una pessima idea, anche se mi aveva promesso che si sarebbe comportato in modo tranquillo. Se Cord era preoccupato del fatto che suo fratello non si fosse messo in contatto, forse c’era davvero motivo di agitarsi. Ed comparve dal nulla e fece schioccare le dita per mettermi in guardia dal gingillarmi. Tornai a lavorare, dimenticandomi di tutto per un po’ e prestando solo attenzione alle richieste dei clienti. In piedi davanti a un tavolo da otto, prendendo il loro ordine mentre fuori faceva buio, sentii suonare delle sirene in lontananza. Non vi prestai attenzione, finché non le sentii avvicinarsi, urlandomi nelle orecchie e riversando bordate di luce bluastra ovunque. Un primo veicolo parcheggiò davanti alla palestra e venne presto raggiunto da altri. Mi avvicinai alla finestra con un nodo di angoscia nello stomaco. Due tipi smilzi entrarono nel ristorante. Li vidi gesticolare, indicando il trambusto dall’altro lato della strada e mi avvicinai. «Sapete cosa è successo?» «Hanno steso un tipo dietro la palestra». «Chi è?», sussurrai. Mi guardarono incuriositi. «Non lo so, chi è», rispose uno di loro. «Dall’aspetto che aveva, secondo me non lo riconosce nemmeno la madre», aggiunse l’altro.

Sentii Truly chiamarmi per nome e, gettando a terra il grembiule, mi precipitai fuori. Il semaforo ci mise vent’anni a scattare. Attraversai la strada, sapendo che non c’era alcun motivo sensato per cui il mio cuore si fosse parcheggiato in gola. Una folla di curiosi si era assembrata sul marciapiede. I poliziotti riuscirono a malapena a tenerli a bada mentre quel pover’uomo veniva caricato sulla barella. Un tipo alto con una barbetta ispida da roditore teneva il telefono sulle teste della folla, riprendendo la scena, di sicuro per soddisfare il suo impeto voyeuristico, come se la tragedia che si stava snodando davanti ai nostri occhi fosse stata messa in scena per il suo intrattenimento. Quando lo spinsi via e gli abbassai il braccio mi guardò incredulo. «Testa di cazzo», inveì, mentre raccoglieva il telefono da terra. Facendomi largo tra la folla e scivolando oltre le braccia di un poliziotto riuscii ad arrivare a pochi i dalla scena. Sulla barella si vedeva la sagoma di un uomo, che alzò un braccio muscoloso per toccarsi il volto insanguinato. I tipi che erano entrati al ristorante avevano ragione. Sua madre avrebbe fatto fatica a riconoscerlo. Ma io no. Aveva l’aspetto di una persona alla quale volevo bene. Una donna di mezz’età, vestita da infermiera, mi impedì di procedere oltre. «Lo conosco», dissi, mentre la barella veniva caricata in ambulanza. «Chase!». Al suono della mia voce provò a girarsi, ma uno degli infermieri lo rimise giù delicatamente, prima di salire in ambulanza con lui. L’infermiera stava parlando con i poliziotti. «Questa ragazza ha detto che lo conosce». Mi poggiò una mano sulla spalla. «Non aveva con sé i documenti», mi spiegò. Il giovane poliziotto, che sembrava fare quel lavoro da non più di dieci giorni, restò in silenzio ad aspettare che gli dicessi qualcosa. «Si chiama Chase Gentry. Se la caverà?». Il poliziotto non rispose. «Lei è una familiare?» «No, sono un’amica. Dio, devo chiamare i suoi fratelli».

Il poliziotto parlava alla radio e ripeteva il nome di Chase. L’infermiera, che sembrava un tipo materno, iniziò a spingermi via. «Sembra che sia stato aggredito nel vicolo dietro la palestra. Ha qualche ferita alla testa e probabilmente anche qualche emorragia interna». «Dove lo stanno portando?», chiesi mentre le porte dell’ambulanza si chiudevano. «Al Saint Luke», rispose, stringendomi la mano. «Se ha modo di contattare i suoi familiari, lo faccia subito». E mi lasciò nel parlottio della folla per salire sull’ambulanza al posto del eggero. Fissai il veicolo che si allontanava sgommando. Una parte del mio cervello si rifiutava di credere che stesse succedendo per davvero, che l’uomo insanguinato che avevo visto sdraiato su quella barella fosse il forte e simpatico Chase. Tranne che lo era. Era proprio lui. Sentii le gambe cedermi e mi lasciai cadere sul marciapiedi, tirando fuori il telefono per pronunciare le parole più difficili di tutta la mia vita. «Quanto è grave?», chiese Cord. «Non lo so. Lo hanno portato al Saint Luke». Sentii che Cord ripeteva la notizia a Creed, che urlò angosciato. «Ci vediamo lì», dissi, alzandomi in piedi a preparandomi ad attraversare la strada. «Cord, mi dispiace. Ti amo». Aveva già riattaccato. Quando Ed mi disse che non era affatto il caso che me ne andassi via proprio durante l’ora di punta della cena, gli risposi di andarsene a fare in culo. Lo guardai mentre gli cadeva la mascella e poi lo oltreai per prendere la mia borsa dall’armadietto. Mi resi conto che probabilmente avevo perso il lavoro, ma non me ne importava nulla. Truly mi tese la mano e la strinse forte prima che andassi via.

«Fammi sapere se hai bisogno di qualcosa», disse. La conoscevo al punto da sapere che diceva sul serio. La mia mente venne travolta da un tornado mentre raggiungevo l’ospedale. Ero preoccupata per Chase, perché ormai vedevo Creed e Chase come qualcosa di più che i due fratelli di Cord. Erano miei amici e mi importava di loro. Ma non ero preoccupata soltanto per le ferite di Chase. Quando Cord aveva sfondato la porta di casa di Devin fiondandosi dritto alla gola di quel bastardo, avevo capito che aveva perso, in quel momento, la sfida, che non era riuscito a contenere la furia che li minacciava tutti. Che effetto gli avrebbe provocato quello che aveva dovuto subire il fratello? E cosa avrebbero fatto Cord e Creed per vendicarsi? Quando raggiunsi l’ospedale, Chase era già stato portato dentro, da qualche parte nei suoi antisettici recessi. Visto che non facevo parte della famiglia, la donna all’accoglienza mi rivolse un sorrisetto e mi invitò ad accomodarmi. Ma non riuscivo a stare seduta. Rimasi davanti all’edificio, sapendo che da un momento all’altro sarebbe arrivato Cord. Il pick-up si fermò sgommando. Uscì prima Creed. Aveva la faccia di chi stava per scoppiare a piangere. «Sai qualcosa?», mi chiese. Scossi la testa. Un tipo che indossava una polo avana con sopra ricamato il logo dell’ospedale si avvicinò a Cord e iniziò a urlargli nelle orecchie che lì non poteva parcheggiare. Cord lo raggelò con lo sguardo e poi gli tirò dietro le chiavi. «Facci quello che cazzo ti pare», gli urlò. Tentai di trattenerlo ma sembrava fatto di legno stagionato. Guardava cupo la palazzina dell’ospedale. «L’hai visto, Saylor?» «Solo per qualche istante», dissi, toccandogli la guancia. «Stava sulla barella. Era conciato male». Gli occhi azzurri di Cord si chio come se stesse provando a cancellare delle brutte immagini.

Creed era già entrato. Misi le mani sulla schiena di Cord e lo spinsi verso la porta. «Andrà tutto bene», gli dissi, provando ad abbracciarlo. Mi guardò incredulo. «Come diavolo fai a saperlo?». Non riuscii a rispondere perché in realtà non potevo saperlo. Era solo una frase di circostanza, che si diceva quando le cose sembravano essersi messe male. Creed stava già fuori al triage e parlava con un dottore, vicino a un gruppo di poliziotti. Cord si avvicinò e io restai qualche o indietro. Qualsiasi cosa il dottore gli stesse dicendo, gli fece crollare le spalle, in un modo che mi spezzò il cuore. Il dottore mise una mano sulla spalla di Cord per confortarlo, ma lui non sembrò nemmeno sentirla. Creed restò un poco in disparte. Mentre il dottore continuava a parlare con Cord, guardava lontano lungo un corridoio. Dietro le mie spalle, mentre una bambina con la gamba fasciata veniva portata via, ci fu un grosso trambusto. La madre disse che era stata morsa da un cane. La ragazzina, che forse non aveva nemmeno cinque anni, mi guardò sgranando gli occhioni tristi. Volevo abbracciarla. Volevo dirle che sarebbe andato tutto bene. Ma Cord aveva ragione: come diavolo facevo a saperlo? Attesi finché il medico non s’incamminò per il corridoio seguito dai poliziotti. I due fratelli rimasero lì in piedi ammutoliti. Cord sembrò non farci caso quando gli misi le braccia attorno alle spalle. Un’infermiera attempata si avvicinò e ci chiese se volevamo accomodarci in un’area più riservata, quella dedicata ai parenti di chi stava in sala operatoria. Fu una lunga e silenziosa camminata lungo una serie di corridoi interminabili. Creed si teneva a distanza, con gli occhi fissi a terra. Ogni tanto guardavo Cord. Sembrava smarrito. «Chirurgia?», chiesi infine a bassa voce, mentre entravamo nella stanza piena di poltrone occupate da gente con la faccia cupa. Cord annuì e si mise a sedere. «Sì, pensano che abbia una perforazione interna. Ha anche una brutta commozione cerebrale. E non so che altro». Inghiottì amareggiato. «Non so che dire, Say».

Creed tossì e si tenne la testa con le mani. «Chi?», chiese. Non mi sfuggì il modo in cui la mascella di Cord si contrasse. «Ne parliamo dopo, Creedence», disse in un tono che mi spaventò. Suonava come sangue e vendetta. Cord si allungò su di me ed espirò a lungo. Gli carezzai la schiena. All’improvviso sembrò tornare in vita e mi abbracciò stretta, affondandomi la testa sul seno. Creed ci guardava con occhi sconsolati e vitrei. Presi il corpo possente di Cord tra le mie braccia come meglio potevo e cercai di ignorare l’attenzione che stavamo attirando. Lo baciai e gli sussurrai delle parole, menzionando di continuo l’amore, sperando che gli fe una qualche differenza. Cord piangeva sommessamente.

Capitolo venti Cord

Non so di preciso quanto tempo ammo in sala d’attesa. Creed restò seduto davanti a me senza fare né dire nulla. I nostri sguardi s’incrociavano spesso e in lui potevo vedere specchiata la mia rabbia. Il sangue feroce dei Gentry, che per tanto tempo avevo cercato di tenere sotto controllo, stava ribollendo. Quando pensavo agli uomini che avevano quasi ucciso mio fratello, mi veniva in mente l’omicidio. Per Creed era lo stesso. Lo sapevo. Saylor mi si agitò in grembo, tenendomi stretto come meglio poteva. Ogni tanto stringeva di più, come se in qualche modo fosse a conoscenza del conflitto che mi stava martoriando l’anima. Ma non era il momento giusto. I poliziotti andavano e venivano. La prima volta che andarono a fargli qualche domanda Chase non era pienamente cosciente. Sapeva di essere stato attaccato, ma non aveva idea di chi fosse stato a farlo. Raccontai ai poliziotti che era stato minacciato dai ragazzi della confraternita. «Li conosce?», chiese uno dei poliziotti, un uomo dalla pelle scura con lo sguardo tagliente, che faceva contrasto col suo partner molliccio e sovrappeso. «Li ho visti in giro», borbottai, beccandomi un’occhiataccia da Creed. Se iniziavamo a parlare in giro dei combattimenti illegali, Chase non sarebbe stato l’unico a finire in ospedale. «Capisco», disse il poliziotto, con un’espressione neutra, che dava l’idea di avere inteso che più di quello non gli avrei detto. Arrivarono anche altri dottori. Ci dissero che Chase aveva una commozione cerebrale, probabilmente per essere stato preso a calci in testa. Le ferite sembravano alludere a molteplici aggressori, cosa che avevo già capito, perché mio fratello se la cavava bene a combattere. Doveva essere rimasto vittima di un agguato.

Il chirurgo, il dottor Nguyen, non ci andò leggero. Le ferite interne di Chase avevano reso necessaria la rimozione della milza. «La milza?», chiese Creed. «Non è niente di che, vero? Non è una cosa che si tolgono tutti?». Il dottor Nguyen parlava lentamente. «Forse sta pensando all’appendicite. La milza è un organo più importante. Anche se non avrà problemi a vivere una vita regolare, la sua assenza renderà difficile al corpo combattere un certo tipo di infezioni». «Oh», commentò Creed, distogliendo lo sguardo e battendo rapidamente gli occhi. Saylor lo prese per mano, ma anche se ci fece caso, non lo diede a vedere. Inghiottii. «Possiamo vederlo?» «Tra poco», annuì il dottore. «Al momento è in rianimazione e da lì verrà spostato in un’altra stanza, dove vorremmo tenerlo in osservazione per tutto il fine settimana». Fece una pausa. Pensai a quanto dovesse essere brutto il suo lavoro, informare le persone delle cose terribili che erano capitate ai loro cari. «È stato fortunato», continuò. «I pestaggi così severi hanno di solito conseguenze peggiori». Capii a cosa stesse alludendo. Chase era stato fortunato a rimanere in vita. Saylor ringraziò il medico e gli chiese se avesse potuto informarci quando Chase fosse stato pronto a ricevere visite. Creed rimase a fissare il muro e io mi lasciai cadere sulla sedia, tirando Saylor a me. Mentre le braccia di Saylor tornavano a circondarmi, provai a spostare l’attenzione su di lei, sul suo tocco. Era un’attività più sicura rispetto al contemplare la violenza che mi sconvolgeva il cuore. Creed ci era dentro fino alle orecchie. Glielo si leggeva in faccia. Bastava una parola da parte mia e si sarebbe scagliato alla carica con tutta la sua forza. Tenni stretta Saylor, provando a respingere tutte quelle ombre. Non ero ancora pronto a seguire Creed. A un certo punto Saylor si allontanò per chiamare Brayden e dirgli cos’era successo. Creed si avvicinò e mi chiamò per nome. «Chiamo un attimo Gabe», disse. Sapevo bene perché voleva farlo. Creed aveva già deciso che quegli universitari fossero i responsabili, e aveva anche deciso

come comportarsi. Gabe Hernandez, l’uomo di punta del mondo delle scommesse clandestine, conosceva tutti. Avrebbe saputo dirci dove trovarli. «Aspetta», risposi, guardando Saylor. «Prima riportiamolo a casa tutto intero e poi occupiamoci di quello che succederà dopo». Creed scosse la testa. Con la mascella serrata e lo sguardo glaciale mi ricordò una persona ancora più spaventosa. Quante volte avevo visto quell’espressione sul volto di mio padre, poco prima che scivolasse nella follia completa? Benton era peggio: a lui piaceva scivolare nella follia. Era la cosa che lo mandava avanti e che lo motivava. Ogni volta che avevo combattuto sul ring, avevo cercato di tenere a bada la soddisfazione di aver assestato un bel colpo, il richiamo del sangue. Venivo colto da una paura alla quale non riuscivo a dare un nome, ma della quale ero ben cosciente. Era la paura che se mi fossi troppo apionato a quei piaceri, sarei finito nella fossa dov’erano cadute intere generazioni di Gentry, una fossa dalla quale non sarei mai più riuscito a risalire. «Non aspetterò a lungo, Cordero», ringhiò Creed. Intendeva dire che sarebbe andato anche senza di me. «Non sappiamo nemmeno di preciso chi sia stato», gli ricordai. Creed mi guardò e strinse i pugni. «Lo so», rispose. «E lo sai bene anche tu. Non ci provare». Saylor tornò silenziosamente nella stanza e io mi raddrizzai a sedere, scegliendo di non rispondere a Creed, per il momento. Saylor mi prese per mano e si mise seduta. «Bray e Millie vogliono sapere se c’è qualcosa che possono fare. Gli ho detto che credevo di no, ma vogliono che sappiate che sono a vostra disposizione». «Mi serve solo una cosa», rimuginò Creed a bassa voce, continuando a fissarmi. Saylor lo guardò a disagio. Sembrava in procinto di dire qualcosa, ma arrivò un’infermiera e chiamò la famiglia di Chasyn Gentry. Creed ci precedette e nel modo in cui camminava potevo leggere la rabbia repressa dentro di lui. In ascensore mantenne un’espressione imibile e non disse una parola. Say restò qualche o indietro quando raggiungemmo la

stanza. Pensò che fosse una buona idea se entravo senza di lei. Creed era già dentro. Saylor mi fece scorrere la mano sul collo. «Ti aspetto qui». Avevo ato moltissime ore in attesa del peggio e a quel punto, qualsiasi cosa più lieve di una catastrofe sarebbe andata bene. Chase aveva un grosso bernoccolo sulla testa e la sua guancia destra aveva un brutto taglio dal quale doveva aver perso molto sangue, che era stato ricucito con dei punti di sutura e coperto con un cerotto. Il naso era visibilmente rotto e una serie di lividi gli ricopriva la superficie della faccia. Creed si chinò vicino al sostegno della flebo e dal respiro pesante capii che riusciva a controllarsi a malapena. «Ehi, fratellino», dissi a bassa voce, tirando una sedia di metallo vicino al letto. Chase aprì un occhio e lo sbatté, provando a mettermi a fuoco. «Non cominciare con queste cazzate», mi mise in guardia con voce roca. «Già ne subisco abbastanza da Creed». Lottò un po’ per tirarsi su e sollevò la veste ospedaliera. «Qualcuno mi tolga questo cazzo di fazzoletto di dosso». «Be’», scherzai, «non dev’essere una cosa seria, se già rompi i coglioni per il tuo guardaroba». Chase si lasciò ricadere sul cuscino con un gemito. Provò a tirarsi via la veste e vide la flebo attaccata al braccio. «Quanto sono ridotto male?» «Hai avuto momenti migliori», ammisi. Si guardò l’addome fasciato, dov’era stato da poco operato. «Che merda», disse. Creed parlò, a voce bassa e livorosa. «Cosa ti ricordi?». Chase fece una smorfia e provò a mettersi comodo. «I poliziotti me lo hanno già chiesto. Ho alzato un po’ di pesi e corso sui tappetini, poi mi sono fatto una doccia e sono uscito dal retro. E poi è come se mi avesse investito un treno, e subito dopo c’era un fottio di luci e la gente mi faceva le foto». Creed strinse gli occhi. «Li hai visti?». Chase scosse la testa e fece un’altra smorfia di dolore. «No, non ho visto un

cazzo. Alla palestra non mi ha rotto le palle nessuno. Il primo colpo è arrivato dal nulla». Creed piegò la testa e Chase provò a raggiungerlo e a toccarlo. «Ehi», disse a bassa voce, «Creed, è tutto a posto. Il dottore ha detto che sopravvivrò ancora per qualche giorno». Mi sentii impotente mentre i miei fratelli si stringevano le mani come due bambini. Chase stava facendo di tutto per dimostrarsi valoroso, ma il dolore che provava lo si poteva leggere sul suo volto, e non c’era nulla che potessi fare. Una volta che Benton era in preda ai fumi dell’alcol, si era scagliato contro Chase. Chase lo aveva affrontato e la cosa aveva fatto incazzare ancora di più il vecchio. Chase aveva capito che la situazione stava sfuggendo al controllo e si era rannicchiato contro il muro sotto lo sguardo vitreo di nostra madre, che stava seduta su una sedia in cucina. Sapendo che Chase stava per confrontarsi con la più infernale delle rabbie di mio padre, mi ero messo in mezzo e avevo preso io le botte. Un forte calcio allo stomaco mi aveva gettato a terra. Se Creed non lo avesse colpito alla nuca con una bottiglia di tequila, Benton mi avrebbe di sicuro ucciso. Era una di innumerevoli battaglie, anche se fu una delle ultime, perché mio padre iniziò a capire che i ragazzini che aveva messo al mondo non sarebbero rimasti dei ragazzini ancora a lungo. Chase provò a mantenere vivo un flusso inarrestabile di chiacchiere, ma si stancò rapidamente e si accasciò esausto. A un certo punto arrivò un’infermiera per dargli le medicine e controllargli la temperatura. Rimboccai le coperte a mio fratello mentre si girava da un lato e socchiudeva gli occhi. Vidi Creed mettersi seduto. Accese la televisione a volume basso. «Senti, resto qui e lo tengo d’occhio. Per te va bene?» «Certo. Perché non ci diamo il cambio? Ci sono gli orari per le visite e non possiamo farci nulla, ma almeno possiamo provare a restare qui più a lungo possibile». «Vi sento», si lamentò Chase dal letto. «Non sono mica un bambino. Non è successo nulla di che». Ma gli osservai le bende e vidi che provava dolore. No, non lo avremmo lasciato solo. Creed mi guardò fisso negli occhi e annuì, comunicandomi in silenzio che per il momento la vendetta era rimandata. Ma solo per il momento.

Trovai Saylor ad attendermi pazientemente su una sedia in corridoio. Mi rivolse un sorriso di sollievo e mi porse le chiavi. L’ultima volta che le avevo viste era stata quando le avevo tirate appresso alla testa di cazzo che mi aveva detto di spostare il pick-up. Mentre ero dentro con Chase, Saylor era scesa di sotto e aveva visto che il pick-up era stato parcheggiato in uno dei parcheggi esterni. Aveva rubato le chiavi contando sulla loro disattenzione. «Grazie, bimba», dissi, commosso all’idea che le fosse venuta in mente una cosa del genere. Volevo dare le chiavi a Creed, ma ci ripensai. Non ero sicuro di cosa gli stesse ando per la testa e non volevo correre il rischio che partisse da solo alla ricerca della vendetta. «Hai fame?», mi chiese Say, mettendomi un braccio intorno al fianco. «Sì, mangerei volentieri qualcosa», ammisi. «Che ore sono?» «Mezzogiorno. Siamo qui in ospedale da sedici ore». «Cristo. Lo sai, non è che devi restare qui con noi tutto il tempo». Sembrò ferita. «Ma certo che devo. Dài, andiamo a mangiarci una qualche schifezza in caffetteria». Prendemmo un paio di sandwich e portammo un po’ di cibo anche a Creed. Mentre Chase dormiva tranquillo, Saylor entrò dentro e gli poggiò piano una mano sulla testa. Creed aveva deciso che avrebbe ato tutto il pomeriggio lì. Non vedeva motivo perché restassimo anche noi due. Ci accordammo affinché rimanesse lui fino alle cinque. Poi sarei tornato io e sarei rimasto lì fino alla fine dell’orario di visita. Non c’era nemmeno bisogno di dire che non serviva avvertire nessuno giù a Emblem. Mi chinai per qualche istante sul letto di Chase e sentii le budella che mi si annodavano. Era una brutta sensazione, simile a quella provata un attimo prima di sfondare quella porta in California. «Sotterrala nel fosso», proclamai, in parte a Creed e in parte a me stesso. Creed mi rivolse un’occhiata e Saylor restò a guardarmi incuriosita. Tornai all’appartamento nell’auto di Say, con una mano sul volante e l’altra sulla mia ragazza. Appoggiò la testa sul sedile e mi guardò con gli occhi stanchi.

L’appartamento era silenzioso in maniera tremenda. Era d’improvviso una cosa orribile trovarmi lì anche per pochi minuti senza i miei fratelli. Saylor si chiuse la porta alle spalle e mi abbracciò, mentre mi concedevo il lusso di toccarla ovunque. Mi fece scorrere le mani sulla schiena e mi baciò con tenerezza. Mi lasciai sfuggire un sospiro e vagai in cucina a prendere un bicchiere d’acqua. Mentre stavo lì, di fronte al lavandino, bevendo l’acqua direttamente dal rubinetto, mi sentivo bene. Sentivo il pieno controllo di me stesso. Avrei fatto meglio a restarci. Poi vidi una scatola sul tavolo. Era stupida. Aveva sopra dei disegni in stile cartone animato, che rappresentavano dei pezzi di marzapane variopinti dalle facce assurde. Ma vedere la scatola di cereali di Chase abbandonata lì mi fece esplodere. Tirai il bicchiere contro il muro e scagliai un pugno al centro del tavolo, che si spaccò. Saylor sussultò. «Cord!». Continuai a picchiare il pugno sul tavolo. «Fermo!». Si era lanciata tra le mie braccia. «Fermati!». Aveva abbastanza forza nel corpo da farmi fare un o indietro e mandarmi a finire con la schiena contro il frigo. Poi, prima che potessi schivarla, Saylor fece una cosa incredibile. Cadde in ginocchio e mi slacciò la patta mentre le mani si adoperavano a spingere giù il tessuto. Ancor prima che se lo infilasse tutto in bocca, avevo il cazzo duro come una pietra. Mentre mi leccava le palle, infilandosele una dopo l’altra in bocca per succhiarle, le misi le mani tra i capelli, avvolgendoli intorno al cazzo. Volevo schizzarle in mezzo a tutto quel soffice tappeto castano, ma sapevo che non sarebbe stato abbastanza, così la sollevai. Aveva la mascella rigida e l’espressione ostinata. Sapevo che stava lottando e che era determinata a mettermi al tappeto. «Ti amo», disse decisa. «Allora amami», risposi, spingendole le braccia sulla testa e sfilandole la maglia. Alla vista del suo corpo setoso non ci vidi più. Volevo usarne ogni singolo millimetro.

«Sì», sibilò, mentre la mia bocca si scagliava sui suoi seni e le mani rovistavano nelle sue mutande, col pube già fradicio che offriva resistenza al mio tocco. Le tolsi tutto: pantaloncini, mutandine, il reggiseno di pizzo nero che una volta già le avevo strappato di dosso. Lei lanciò tutto nell’angolo e mi sfilò la maglia. Mi spinse i palmi delle mani contro le parole incise sul torace e si fece un poco indietro. «È questo che vuoi?», le chiesi, sollevandola a sedere sul bancone e allargandole le gambe. «Vuoi che ti conquisti?» «Sì, lo voglio», rispose decisa, mordendomi il collo con forza, per essere sicura di lasciare il segno, come se fossimo entrambi degli adolescenti bisognosi di pubblicizzare la propria sessualità. Mi faceva impazzire. La afferrai per le chiappe e la tirai a me e lei mi avvolse le gambe strette contro i fianchi. Quando la portai in soggiorno di peso ero già dentro di lei, mentre lei mi succhiava la pelle del collo. Mi lasciai cadere sul divano con Saylor che mi teneva fermo. Si lasciò cadere sul cazzo con tutto il suo peso, infilandoselo dentro più a fondo di quanto pensavo fosse possibile. Sembrava non dovessi più uscirne e andava benissimo così. Si lasciò sfuggire un ululato e sbatté con la fronte contro la mia spalla. «Fottimi, Say. Fottimi più forte che puoi». «Cord», gemette, col corpo che s’imperlava di sudore. Leccai la pelle salata nell’incavo dei seni mentre si spingeva contro il cazzo a ritmo frenetico. Arrivai più volte sul punto di esplodere ma mi trattenni. Trattenni tutto: la paura e la rabbia del giorno prima, la certezza che ci fossero cose ben più tremende ad attendermi. Tutto il buio che mi circondava il cuore e che minacciava di mandarmi al tappeto si dissolse quando Say urlò il mio nome, tremando come un’ossessa mentre continuava a cavalcarmi. «Bene così». La afferrai per i capelli fradici di sudore. «Chi ti sta scopando, bella?» «Oh, Cristo santo. Tu!». «No, bella. Voglio sentire il mio nome!». «Cordero Gentry!», urlò, stringendosi a me così forte che non potei fare altro che

lasciarmi andare, venendole dentro a spasmi furiosi, mentre lei tremava e gemeva. Collassò lievemente e si lasciò andare contro il mio torace. La raccolsi tra le braccia e le mordicchiai il collo con gentilezza. Alzò la testa, spingendosi dietro i capelli, guardando con gli occhioni verdi e tristi. «È abbastanza, Cord?». Feci finta di non capire cosa intendesse. «Come, Say?» «Io», sussurrò. «Noi. È abbastanza per te?». Le baciai brevemente le labbra. «Da quando sei arrivata nella mia vita non desidero più nessun’altra ragazza». Sorrise vagamente. «È bello, questo, ma non è quello che ti ho chiesto». La alzai e ci avviammo verso la camera da letto. «Vieni, andiamo a riposarci un po’». La stanza era fresca e buia. Saylor sospirò e si sdraiò sul letto, mettendosi vicino a me. La abbracciai stretta, stupito da quanto combaciavamo. Come una chiave e la sua serratura. In quel momento esistevamo solo noi due ed era proprio quello che volevo. Mi fece scorrere le dita sul braccio finché non mi sentii inerme come un bambino piccolo. Le baciai la bocca prima di ritrarmi. «Hai bisogno di raderti», osservò. Mi toccai la barba incolta che mi spuntava dal mento. «Hai ragione», ammisi. «Mi ami lo stesso?». Era una domanda stupida, ma la prese sul serio. «Ti amo tantissimo, Cord». «Bene. Allora siamo pari». «Davvero?», sorrise. «Ti accontenti di un pareggio?» «Zitta», dissi, tirandomela al petto e sbadigliando. «Devo chiudere gli occhi per un paio d’ore, altrimenti mi vengono le allucinazioni».

Saylor si addormentò in fretta. Rimasi per un po’ a osservarle le ciglia lunghe che le tremavano. Sembrava così angelica da farmi male. Le stampai un bacio lieve sulla fronte. «Va bene il pareggio, Say», sussurrai. «Va benissimo». Immaginai che non mi avesse sentito, ma forse non stava ancora dormendo oppure la mia voce doveva esserle filtrata nel subconscio. L’ombra d’un sorriso le increspò il volto e si strinse ancora più forte a me. Avrei dovuto addormentarmi anch’io. Ne avevo un fottuto bisogno. Il pensiero di fare qualcos’altro, invece di restare a giacere lì vicino a Saylor, mi faceva gemere di pena. Il volto scuro di Creed, però, continuava a intromettersi nei miei pensieri. C’era anche qualcos’altro. Chiunque avesse fatto male a Chase, lo volevo far soffrire. Serrai i pugni, combattendo contro il prurito di voler far sanguinare qualcuno per l’aggressione a mio fratello. Sarebbe stato bello dispensare un poco di dolore, nello stesso modo in cui era stato bello picchiare Devin per quello che aveva fatto a Saylor. Ma sapevo anche che era una strada spinosa. Molte persone come me l’avevano già percorsa. Io non volevo. Volevo restare lì, tra le braccia della mia amata. «Sei abbastanza», le sussurrai nell’orecchio, anche se non ne ero affatto convinto. Ma forse era già scivolata più a fondo nei suoi sogni, perché sembrò non sentirmi affatto.

Capitolo ventuno Saylor

Mi risvegliai al suono di un rumore fastidioso e capii che si trattava del mio telefono. Cord dormiva profondamente al mio fianco. Mi tirai un lenzuolo contro il corpo nudo e andai in salone, trovando la borsa sul pavimento, dove l’avevo lasciata cadere ore prima. «Brayden», dissi al telefono. «Say. Come sta? Ho chiamato l’ospedale ma hanno detto che non potevano darmi nessuna informazione, se non ero membro della famiglia». Raccontai brevemente a Bray delle ferite che aveva riportato Chase, tralasciando di menzionare l’agitazione che vedevo crescere negli altri due fratelli. Se Cord e Creed pensavano di sapere chi aveva attaccato Chase, cosa avrebbero fatto al riguardo? Bray ribadì la sua offerta. Disse di essere disponibile in ogni modo che potesse essere necessario. Gli promisi che avrei girato il suo messaggio. Il suono della mia voce doveva aver risvegliato Cord, che entrò in salone nudo, sbadigliando. Cercò qualcosa sul pavimento e dopo qualche istante si infilò i boxer. Guardai fuori dalla finestra, sorpresa di vedere che era ancora giorno. Le ultime ventiquattro ore erano state così frenetiche e stancanti che avevo perso completamente traccia del tempo. «Sono le cinque», dissi a Cord. Annuì, prese il telefono e chiamò Creed, tornando in camera da letto per parlargli con più tranquillità. Quando lo raggiunsi aveva già riagganciato. «Ha sofferto molto», sputò fuori Cord, tossendo e guardandomi con gli occhi tristi. «Hanno dovuto dargli un dosaggio più alto di antidolorifici, ma gli è venuta la febbre alta. Potrebbe non essere nulla, oppure un segno di infezione in corso».

«Mi dispiace». Lo abbracciai. «Torniamo in ospedale». Cord volle sapere se mi sarebbe dispiaciuto riportare Creed a casa. Il pick-up era rimasto in ospedale e preferiva lasciarlo lì, almeno fino alla fine dell’orario di visita. Ebbi l’impressione che stesse provando a contenere Creed quanto più possibile. «Inoltre», aggiunse, facendomi scorrere le mani sulle gambe, «voglio che torni qui e tenga il letto caldo». «Posso farlo», risposi, baciandolo. Non impazzivo all’idea di dover are del tempo da sola con Creed in quello stato, ma cercai di non pensarci. Tornati in ospedale, trovammo Chase rosso in volto ma serenamente assonnato. Creed si limitò a fare un cenno col capo quando Cord gli chiese di tornare a casa con me. Mi soffermai sulla sagoma del guitto Chasyn Gentry e mi sentii travolgere da un’ondata di emozioni, come se si trattasse di mio fratello, che venne seguita da un vagito di rabbia diretta a chiunque lo avesse ridotto in quelle condizioni. Provai a immaginare la stessa sensazione moltiplicata per cento nei cuori di Creed e Chase. Tremai al pensiero. «Sei pronta?», mi chiese Creed. Cord mi baciò. «Ci vediamo più tardi, tesoro». Mi diede una pacca leggera sul culo. «Pensami». «Non potrei smettere nemmeno se lo volessi», gli risposi. Mi guardò negli occhi per un istante interminabile, finché Creed, irritato, non si schiarì la gola. Fu già abbastanza imbarazzante camminare in corridoio assieme e prendere l’ascensore fino al piano terra. Creed mi restò a diversi i di distanza e non disse una parola. Chase era una persona più facile: era una versione più imbranata di Cord. Ma Creed ridefiniva completamente il concetto di intensità. Ero sicura che aveva un tornado nella testa. Ed ero altrettanto sicura che non volevo saperne nulla. «Hai fame?», gli chiesi infine, mentre uscivamo nel parcheggio. Restò a guardarmi muto con gli occhi azzurri spalancati.

Mi schiarii la gola. «È ora di cena. Quella dove le persone in genere si nutrono. Pensavo…». «Non ho fame, Saylor», mi interruppe, producendosi in una smorfia mentre provava ad aprire lo sportello del eggero della mia macchina per trovarlo chiuso. «E va bene, allora», borbottai, aprendo le portiere e avviando il motore. Cercai qualcosa da ascoltare alla radio, ma sembrava esserci in corso una congiura di pubblicità tutte uguali. Sospirai e guardai il mio eggero. Occupava molto spazio, anche più di Cord. Era una montagna spaventosa di muscoli, impacchettata in un silenzio gelido. Non sembrava esattamente essere ostile. Ma di sicuro non era nemmeno piacevole. Mentre navigavo lungo le strade di Tempe decisi di controbattere al silenzio di Creed facendo la civetta fastidiosa. Alla fine dell’ennesima pubblicità, iniziò Royals dei Lorde. Anche se non riuscivo a essere intonata nemmeno a costo della vita, iniziai a cantare il testo a voce alta. Creed sembrò un po’ sconcertato ma non lasciai che questo mi dissuadesse. Aumentai il volume della radio e alzai la voce, cacciando la testa fuori dal finestrino, rivolgendo la mia serenata a tutti i anti delle strade di Tempe. «Merda», ridacchiò Creed mentre riprendevo fiato, «sei proprio una chiavica di cantante». «Oh cazzo, ma allora sai anche sorridere! Me lo stavo proprio chiedendo. Aspetta, va tutto bene? O ti fa male la faccia?». Roteò gli occhi. «Falla finita, sembri uno dei miei fratelli. Non ti ci mettere pure tu». «Bene», dissi, sollevata dal fatto che riuscisse a mettere insieme una frase. «Ho sentito dire che tu a cantare sei bravo». «L’ho sentito dire anch’io. Lo sai che ti dico? Entra in quel drive-thru di Burger King. Voglio proprio un Big Mac». «I Big Mac li fanno solo da McDonald», dissi, accostando comunque. «Se vuoi ti offro un Whopper».

Mentre ci allontanavamo in auto col bottino di due buste bisunte, Creed sembrò sciogliersi un poco. «Ti dispiace se mangio in macchina?» «Be’», sospirai, indicando i sedili sfondati e il cruscotto incasinato, «stavo provando a far finta che fosse nuova, ma per stavolta te la o». Creed mi ò una busta di patatine che accettai lieta, ingollandomene subito una bella manciata. Lui divorò l’hamburger in tre morsi e rimase a fissare fuori dal finestrino mentre parcheggiavo fuori casa. Mi ero dimenticata del tavolo che Cord aveva distrutto. Creed alzò le sopracciglia e prese a calci uno dei frammenti a terra. «Che cosa è successo?» «Niente, sono stata io», gli dissi, raccogliendo la scatola di cereali di Chase dal pavimento. «Stai dicendo una cazzata», affermò Creed. «Sul serio». Flettei i muscoli. «Guarda che sono più forte di quello che sembro». Creed guardò il tavolo distrutto e fece una smorfia. «Non fa così tanto spesso, sai». «Cord?». Annuì. «Già. Lui e Chase riescono a trattenersi molto meglio di me». «Oh». Creed mi guardò duramente. «Ti ha raccontato delle cose, vero? Forse non ce n’è stato nemmeno bisogno. Sono sicura che già te ne ricordavi qualcuna dai tempi». Tossii. «Mi dispiace». Creed prese i due pezzi di tavolo, provò a farli combaciare assieme, poi lasciò perdere e li buttò a terra. «Ti dispiace di cosa? È successo tutto tantissimi anni fa. Glielo dico sempre, ai miei fratelli. È quello che ho detto a Cord qualche

settimana fa, la notte che ti ha portata a casa, quando era convinto che tu lo odiassi». «Non lo odio», dissi sottovoce. «Lo amo». Il più imperscrutabile dei fratelli Gentry, sentendo quello che avevo detto, fece un o indietro. «Bene», disse, annuendo, «ne avevo come l’impressione». Si avvicinò al televisore e accese la Xbox. Pochi secondi dopo stava già sparando alle figure animate sullo schermo. «Ehi», dissi. Creed non staccò gli occhi dal televisore. «Che c’è?» «Ti va bene se resto qui ad aspettare Cord?» «Perché non dovrebbe andarmi bene?» «Magari sei stanco e…». «Non sono stanco», mi interruppe. «Ho dormito un po’ in ospedale». «Ok», dissi lentamente, non proprio certa che mi avesse dato davvero una risposta. Mi girai e mi incamminai verso la stanza di Cord, immaginando che Creed volesse restarsene da solo a uccidere gente finta sullo schermo. Si sentì bussare alla porta e Creed si alzò subito in piedi. Mi spinse dietro di lui prima di guardare dallo spioncino e poi si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. «È tuo cugino». Brayden e Millie stavano dall’altro lato della porta, con l’aspetto di due genitori preoccupati. Creed aprì la porta e li invitò a entrare. «avamo di qui», spiegò Brayden, seguendoci in soggiorno, «ho visto che c’erano le luci accese e…». «Sta mentendo», disse Millie sorridendo, «è un’ora che siamo appostati qui fuori». Spostò lo sguardo su Creed e divenne seria. «Come sta?» «Un disastro», ammise Creed, rimettendosi a sedere davanti alla tv.

«I dottori vogliono tenerlo qualche giorno sotto osservazione», aggiunsi, «per monitorare la concussione e l’esito dell’operazione. Cord resterà in ospedale fino alla fine dell’orario di visita». Bray spostò lo sguardo su Creed. «I poliziotti hanno preso quei figli di puttana?» «No», sbottò Creed, picchiettando con le dita sulla gamba. «Qualcuno dovrà pure aver visto qualcosa», dissi. «È successo in pieno giorno. I poliziotti potrebbero…». «Non faranno nulla», tagliò corto Creed, perentorio. «La giustizia che non viene fatta si deve risolvere in un altro modo». Non mi piaceva il suono di quello che aveva appena detto. Non mi piaceva per niente. Guardai impotente Millie e Bray. Brayden mi riguardò triste e Millie prese a fare il giro del soggiorno. «È tua questa?», chiese, prendendo una vecchia chitarra che stava poggiata all’altro capo del divano. Era la stessa che avevo visto suonare a Creed qualche sera prima, quando era seduto di fuori. Ricordai che Cord mi parlava di continuo del talento musicale di Creed. Mise in pausa il videogioco e guardò la chitarra. «Sì», ammise. «È mia». Millie sorrise con dolcezza e gliela porse. «Ti va di suonare qualcosa? Ti prego. La musica guarisce l’anima, lo sai?». Restai in attesa, immaginando che Creed avrebbe farfugliato una qualche scusa per tornarsene al suo videogioco. Invece fissò il volto dolce di Millie per qualche istante e prese la chitarra dalle sue mani, annuendo. Mentre Creed accordava lo strumento, Millie trascinò Brayden sul divano e mi fece cenno di unirmi a loro. Mi sedetti a guardare Creed che finiva di accordare la chitarra. Si schiarì la gola. «In genere non suono mai davanti a un pubblico», borbottò.

«Non siamo un pubblico», gli dissi. «Siamo noi e basta». Creed fissò tutti e tre per un istante, poi chinò la testa. La chitarra gli prese vita tra le mani. Le prime battute mi sembrarono vagamente familiari. E quando Creed iniziò a cantare, venni catturata dalla possente risonanza apionata della sua voce. Sentirlo cantare stravolgeva completamente qualsiasi impressione che una persona si fosse fatta di lui. Le emozioni, che il suo aspetto stoico teneva a bada, venivano invece a galla nel modo in cui cantava. Non mi veniva nemmeno in mente un’altra voce che potesse essere meglio della sua. Quando arrivò al ritornello capii che conoscevo molto bene quel pezzo. Mio padre era un collezionista di vinili con una grossa ione per gli album della fine degli anni Sessanta e dell’inizio degli anni Settanta. Creed stava cantando un pezzo incantevole che ricordavo benissimo. Quando si fermò, ci guardò timidamente. Bray e Millie applaudirono forte sorridendo. «Ecco perché ti lamentavi di come cantavo», risi. Creed alzò le spalle e mise giù la chitarra. «Sei bravissimo», disse Brayden. «Hai mai pensato a suonare dal vivo da qualche parte? I club sono sempre alla ricerca di nuovi talenti». Creed scosse la testa. «Ma no. Non riesco a vedermici, a suonare per un mucchio di gente ubriaca e per le loro ganze». «Danny’s song», dissi, ricordando il titolo del pezzo. Creed annuì sorpreso. «Giusto. Ho la tendenza a gravitare verso i pezzi vecchi. Non so perché». «Kenny Loggins l’ha scritta per suo fratello, il Danny del titolo». «No», mormorò Creed, «non lo sapevo». Sembrava di nuovo travagliato. Probabilmente stava pensando a suo fratello, sdraiato sul letto dell’ospedale a diverse miglia di distanza, magari sperando di scrivere una canzone che potesse cambiare qualcosa. «Cosa c’è scritto lì?», chiese Millie. «Che dice il tuo tatuaggio?».

Creed abbassò lo sguardo. Aveva la camicia sbottonata e si vedeva qualche lettera nera sul torace, nello stesso posto dove anche Cord aveva il suo tatuaggio. Creed si sbottonò di più e mise in mostra la scritta in latino. Millie si avvicinò e lesse le parole. «Concedo nulli». «Non ti arrendere a nessuno», tradusse Brayden, mentre Creed annuiva. «Giusto». Millie e Bray rimasero ancora un po’ a parlare con Creed, prima di tornare a casa. Li accompagnai alla porta e li abbracciai, grata di tanto calore familiare. «Ti chiamo domani», mi promise Brayden, strizzandomi il gomito prima di mettere il braccio sulle spalle di Millie e avventurarsi nella luce del tramonto. Creed non ritornò a giocare. Stava seduto a capo chino, perso nei suoi pensieri. «Ti va di guardare un film?», gli proposi. Scosse la testa. «Non molto». Feci una pausa, aspettando di vedere se dicesse altro. Ma non era un gran chiacchierone. Sceglieva sempre di dire poche parole e poi ava oltre. «Bene», dissi alla fine, «penso che andrò un po’ in camera di Cord finché non torna». Creed non rispose e mi incamminai per il corridoio. «Saylor?». Mi girai e vidi che mi stava fissando. «Sei una tipa a posto», disse. «Questa cosa, tra te e Cord. Sono felice per voi». Arrossii, lusingata. Era quanto di più vicino al ricevere la sua approvazione. Creed si alzò a andò in veranda sul retro, forse a sollevare i pesi che i ragazzi tenevano là. Andai nella stanza di Cord.

La prima cosa che vidi quando accesi la luce fu il computer, che stava ancora chiuso nella sua scatola. Me ne ero completamente dimenticata. Mi sedetti sul bordo del letto e lo tirai fuori dalla confezione. Venni di nuovo sopraffatta da quanta premura aveva dimostrato Cord comprandomelo. Da quando ero ritornata in Arizona non avevo scritto molto. Ogni giorno mi sedevo davanti allo schermo bianco del portatile di Millie e provavo a digitare qualche frase della storia, che, iniziavo a pensare, non avrei mai portato a termine. Avevo detto a Cord che non sapevo come sarebbe andata a finire perché non sapevo come si scriveva di amore. Ma mentre sistemavo il computer, pensai a Cord, alla ione dirompente con la quale il suo corpo invadeva il mio, al suo umorismo distaccato, alla sua tendenza a volermi soddisfare. Il brivido caldo che mi attraversò non era solo lussuria. Mi mancava. Non vedevo l’ora di iniziare a digitare per mettere nero su bianco la natura complessa del cuore. Quando lo guardai vidi un uomo. Vidi anche qualcos’altro. Era selvaggio e ferale. Le paure che tutta la mia gente serbava in cuore erano giustificate. Ma mi aveva salvata più di una volta e la sensazione di protezione che provavo tra le sue braccia non aveva paragoni. Lottavo per sopprimere l’ondata ascendente di emozioni, ma lui non me lo permise. Eravamo nati ai lati opposti di una linea invisibile e mi era stato detto che le nostre specie non sarebbero mai state in pace. Ma quando mi toccava tutto questo non aveva importanza. Era una battaglia che non poteva avere vincitori. L’esito migliore era un pareggio. E alla fine c’eravamo solo noi. «Saylor. Say». Era scivolato nella stanza senza che io lo sentissi. Cord mi sorrise e si sedette sul bordo del letto. Mi avvicinai a lui, chiudendo il computer. «Ti eri persa», disse, carezzandomi i capelli divertito. «Non ero persa», obiettai, salendogli in grembo. «Ero solo ispirata». Guardai l’orologio. Erano le dieci e mezza. «L’orario di visita è finito, immagino». Cord annuì, stanco. «Sì. Dall’ospedale hanno detto che chiameranno, se ci sono novità. Gli stanno somministrando degli antibiotici per scongiurare il pericolo di infezione».

«Come sta Chase?» «Be’, lo conosci Chase. Riderebbe pure dentro alla cassa da morto». Cord cambiò espressione. «Sta male. Il suo orgoglio è rimasto forse più ferito del suo corpo». «È stato aggredito. Non è stato un combattimento leale». Cord spalancò gli occhi. «No», disse serio, «non lo è stato». La sua espressione accigliata mi ricordò quella di Creed. Ripensai al commento criptico che aveva fatto Creed riguardo al dispensare giustizia, ma ora non volevo parlarne. Volevo solo stare tra le braccia di Cord. Mi guardò mentre gli sbottonavo la camicia e gliela sfilavo, scoprendo le sue spalle bronzee. Toccai il segno che gli avevo lasciato sul collo, ricordando il modo in cui ci eravamo accoppiati freneticamente in salone qualche ora prima. «È la prima volta che faccio un succhiotto». Cord fece una smorfia. «Sì, all’ospedale ho ricevuto delle occhiatacce. Chase si è preso un po’ gioco di me, perché diceva che pensavo a soddisfare la mia eccitazione mentre lui si trovava in ospedale». Mi fece scorrere le mani sul seno. «Parlando di eccitazione…». Non importava quante volte eravamo stati assieme e quanto poco tempo fosse ato. Lo volevo sempre. Non potevo immaginare che questa cosa sarebbe cambiata. Mi fece scorrere le mani sotto alla maglia e mi toccò la pelle nuda. «Non la chiudi la porta?», ansimai, non sapendo di preciso dove si trovasse Creed e senza troppa voglia di mettermi in bella mostra. A Cord piaceva farmi eccitare. Mi slacciò il reggiseno e mi tirò la maglia sopra la testa, toccandomi dappertutto. «E se non la chiudo, la porta?». Mi fiondò una mano tra le gambe e con l’altra mi carezzò la nuca. «Allora mi farò scopare comunque», gli dissi.

Cord scoppiò a ridere e si allungò a chiudere la porta. Si calò i pantaloni e mi spalancò le gambe in un batter d’occhio. «Oggi mi sei mancato», gli dissi, dimenandomi e gemendo mentre toccava l’umido centro del mio corpo. «Sono qui», rispose, guardandomi fisso negli occhi. «E allora resta qui», sussurrai. Per tutta risposta, me lo affondò dritto dentro.

Capitolo ventidue Cord

Invidiavo il modo in cui Saylor riusciva a scivolare apparentemente senza sforzo nel sonno. Dopo esserci arrampicati addosso con piacere un’altra volta, si era lasciata cadere all’indietro e dopo cinque minuti già respirava pesante. Restai a fissare nel buio senza battere ciglio. Il suono delle porte scorrevoli che si aprivano mi fece sobbalzare. Avevo bisogno di parlare con Creed e non volevo che Saylor ascoltasse. Mentre mi infilavo un paio di jeans, la avvolsi con una coperta e scivolai fuori dalla porta. Chase mi aveva guardato male, dal letto dell’ospedale, quando mi aveva chiesto cosa avessi in programma. Avevo provato a fare finta di niente, ma non ci era cascato. «Non farlo, Cord», mi aveva messo in guardia, mentre provava a concentrarsi nella nebbia indotta dai medicinali. «Non farlo». In salone trovai Creed, sudato e a petto nudo. Doveva essere rimasto molto tempo in veranda a sollevare pesi, tentando di ricacciare indietro la sua rabbia distruttiva. Indicò il tavolino rotto. «Bella mossa. Forse riusciamo a rincollarlo». «Credi?» «No». «Hai fatto quella chiamata, Creedence?». Esitò. «Non ancora». Mi sedetti sul divano. Creed mi scrutò mentre beveva un bicchiere d’acqua. Gli credetti. Se aveva detto di non aver chiamato Gabe per farsi un’idea della lista

dei sospettati, stava dicendo la verità. Gli indicai il divano. «Mettiti seduto qui». Creed si mise una maglia e si sedette al mio fianco, col volto triste, tamburellando le dita sulla gamba. Aveva da sempre quest’abitudine. Forse era la musica dentro la sua testa che provava a uscire fuori. Creed sospirò. «Ti ha detto qualcosa?» «Poca roba. Sembrava che stesse fuori. Sono tornati i poliziotti. Pare che non ci siano stati testimoni e le telecamere esterne erano puntate sulla strada. Nel vicolo non ce n’erano». «Sono stati loro», disse piatto. Vidi che stava stringendo il pugno. «Cosa vuoi fare, Creed?». Mi rivolse uno sguardo disgustato. «Tu che pensi? Quei figli di puttana hanno quasi ucciso nostro fratello. Stasera staranno lì a bersi shottini e a leccare qualche fica, mentre Chase è in ospedale con le budella sottosopra». «Lo so», sbottai. «Pensi che per me significhi meno che per te? È anche mio fratello. Ucciderei per voi, per tutti e due». Creed mi fulminò con lo sguardo. «Dici davvero?». Mi alzai in piedi, sfidandolo. «È questo che intendi? Che deve morire qualcuno?» «Non lo so. Forse sì». Non ero sicuro che stesse facendo sul serio. «Cristo, sei impazzito. Non voglio are il resto della vita in gabbia. E nemmeno tu. Qui non si tratta di racimolare qualche soldo o di farla franca con Benton. È una strada senza uscita dalla quale non si può più fare ritorno». Sembrava disgustato. «Vaffanculo, Cord. Che ti prende? Ora che hai trovato una bella storia, vuoi fare il casalingo e restare a trastullarti il cazzo?».

Non mi andava di parlare di Saylor. «Lei non ha niente a che fare con questa cosa. Se facciamo come dici tu, se ci dice bene facciamo la fine di nostro padre, o peggio». Creed si alzò e fece qualche o indietro. Era più forte, più grande di me. Lo era sempre stato. Ma io ero più bravo a combattere. Sperai che non accadesse mai. Mentre ci affrontavamo, sbatté gli occhi e capii quanto gli fossero costate le ultime ventiquattro ore. Stava male. Capivo benissimo come si sentiva. Anche io stavo male. Mi schiarii la gola e indicai i pezzi di tavolo sul pavimento. «Lo vedi quello? Ero incazzato e volevo vedere scorrere il sangue. A tratti penso che sia l’unico modo. Ma per stasera dobbiamo lasciar correre». Mi guardò. «E domani?». Mi ai la mano tra i capelli, sentendo all’improvviso il peso del giorno e l’ora tarda. «Domani è domani. Stanotte…». «Sotterriamola nel fosso», annuì Creed. Poi incrociò le braccia e iniziò a parlare a bassa voce. «Prima, quando Chase era confuso dalla febbre e dai medicinali, ha chiamato mamma una volta. Una volta sola». «No, non li chiamiamo. Era il dolore a parlare. Se fosse lucido, non li vorrebbe mai qui». Creed sospirò, stanco. «Ti sei mai chiesto come abbia potuto permettere che accadessero tutte quelle cose, Cord? Lo so che era una tossica, ma era pur sempre nostra madre. Come fa una madre a restarsene lì seduta mentre i suoi figli vengono torturati da un pazzo?». Non volevo pensarci, né quella sera né mai. «Vai a dormire, Creed. Tengo il telefono in caso chiami l’ospedale». Creed rise. «Farai silenzio per il resto della notte? Magari così riesco a dormire». Roteai gli occhi. «Sì, ho capito, scopiamo troppo rumorosamente. Ci faremo attenzione, va bene?».

Socchiuse brevemente gli occhi. «Ok. Senti, svegliami se succede qualcosa». «Certo. E fatti pure una doccia, che puzzi da far schifo». Creed mi spinse sul divano e andò verso il bagno. Quando raggiunse il corridoio si girò a guardarmi. «Domani, Cordero», disse, facendomi capire che intendeva tornare sull’argomento del vendicare Chase, al di là del fatto che Chase lo desiderasse o meno. «Domani», assentii. Composi il numero dell’ospedale. Un’infermiera di nome Anna mi informò che Chase stava dormendo e che la febbre, per il momento, si era abbassata. Disse che se qualcosa fosse cambiato avrebbe chiamato. Il rumore della doccia riecheggiò nell’appartamento. Dopo aver finito, Creed andò diretto nella sua stanza e si chiuse la porta dietro le spalle. Guardai l’ora. La mezzanotte era ata. Alle otto del mattino saremmo dovuti tornare in ospedale. Quando tornai in stanza Saylor era seduta sul letto. Aveva i capelli sciolti sulle spalle nude e si portò le lenzuola sul seno. «Ehi», dissi sorpreso, «cosa ci fai sveglia?» «Vi ho sentito strillare», rispose mettendo giù la testa. «Abbiamo strillato?», dissi. «Non preoccuparti, Say, non è successo nulla». «Cord, cosa farete?» «A riguardo di cosa, Say?». Mi fissò. «Falla finita. Lo sai di che parlo». «Senti, non mi va di parlarti di questo, va bene? Le cose che succedono tra me e i miei fratelli sono fuori questione. Non restarci male. Si vede che stai diventando irascibile».

Sorrise. «Irascibile, eh? Io sarei irascibile?». Sbadigliai. «È una bella cosa. Ti dà quel pizzico di fascino in più». Saylor scoprì le coperte. «Vieni sotto. Sei stanco». Mi infilai sotto le lenzuola e la abbracciai. «Prima stavi scrivendo?». Sorrise. «Sì». «Sei riuscita trovare un finale per la tua storia?» «Più o meno. Voglio che i miei personaggi siano felici. Per lungo tempo ho creduto che non ci fosse modo. Ora penso che non dovrebbe essere altrimenti». «Bene». Sbadigliai di nuovo. «È bello essere felici». «Tu lo sei?» «Ora, qui con te? Sì». Saylor seguì col dito il contorno della scritta sul mio petto. «Pensi che a Chase andrebbe bene se vengo anche io in ospedale domattina?» «Sì», le dissi. «Penso di sì». Si mise a sedere. «Sai cos’è successo prima? Ho sentito cantare Creed». «Mi prendi in giro. Come ci sei riuscita?» «Non sono stata io. È stata Millie. Dovrebbe cantare più spesso». Aveva la voce piena di stupore. «La musica lo riempie di vita. Ma tu lo sai già, no? Non l’avevo mai visto così, prima d’ora». Decisi di prenderla in giro. «Non ti prendere una cotta per mio fratello, però». «Ma dài», disse spintonandomi. «Non fare il geloso. Te l’ho detto per farti sapere che ci tengo ai tuoi fratelli, a tutti e due». Ne rimasi commosso. Sapevo che intendeva veramente quello che aveva detto e sentirselo dire ad alta voce mi addolorava un po’ il cuore. Come potevo anche

solo pensare di fare qualcosa che potesse mettere a repentaglio quello che avevo scoperto in lei? «Dormi, Say», le dissi, con la voce roca, baciandola delicatamente. Scivolò di nuovo nel suo inconscio dopo nemmeno cinque minuti. Prima di farlo mi abbracciò e sussurrò: «Non sognare». Non sognai. Ma al risveglio il cuore mi stava martellando nel petto come se avessi ato la notte a prendere a testate il muro. Ingoiai una manciata di Advil prima di recarmi in ospedale. Creed non era mai stato mattiniero e non sembrava nemmeno di buon umore quando entrò in cucina alla ricerca di una tazza di caffè. Feci tintinnare le chiavi del pick-up. «Quanto ci metti a prepararti?». Alzò le spalle. «Devo solo rimettere in moto le gambe e togliermi le caccole dagli occhi». Mentre la caffettiera finiva di sputacchiare, Creed mi fissò per qualche istante. «Dammi una decina di minuti. Parliamo dopo». «Bene», mormorai, tenendomi la testa dolente. Una volta al volante annegai le pillole con una dose massiccia di caffeina. Arrivati alla stanza di Chase mi sentivo quasi tornato alla normalità. Creed vide il dottore parlare con delle infermiere e andò a scambiarci qualche parola. Chase aveva vinto un compagno di stanza nel corso della notte, un vecchio che pensava di avere il letto pieno di gatti e che lo urlava a tutti. Quando entrammo nella stanza mi rivolse un’occhiata disagiata. «Non mi piace questo hotel», si lamentò. Quando avevo chiamato l’ospedale, appena sveglio, mi avevano detto che a Chase era tornata la febbre. Glielo si poteva leggere in faccia: aveva gli occhi molto lucidi e il volto arrossato sotto ai lividi e al gonfiore. Gli avevano aumentato il dosaggio di antibiotici nella speranza che potessero arginare la situazione. Gli diedi una pacca lieve sulla spalla, lieto di trovarmi nella stessa sua stanza. «Come ti senti?».

L’occhio destro era gonfio al punto da sembrare chiuso. Chiuse anche l’altro e si lasciò cadere sui cuscini. «Non voglio rispondere. Me lo hanno chiesto settecentocinquanta volte nelle ultime ventiquattro ore. Voglio solo andarmene da qui». «Uscirai presto», sospirai, anche se in realtà non ne avevo la più pallida idea. Aprì gli occhi e mi fissò. «Presto quando? Puoi allungare un ventino al dottore per velocizzare le pratiche? Guarda, c’è una bella topa dietro la tenda. Saylor! Vieni qui e fammi vedere qualcosa di bello». Saylor fece capolino, sorridendo timidamente. «Ciao, Chase». Le allungò una mano. «Vieni qui, bimba. Sono ridotto male al momento e non riesco ad essere galante come al solito. Cristo, sei uno schianto». Saylor gli strinse la mano e ridacchiò un po’. «Ti ho portato un regalo». «Bene. È qualcosa dove posso infilare il cazzo?» «Cristo, Chase», risi. «Ma che ti mettono nella flebo?» «Al momento niente. È stare qui su un letto di ospedale che mi rende così. Ho chiesto a un’infermiera da paura di farmi il bagno con la spugna e di farmi vedere le tette. Tornerà tra un’ora e per allora, dovrete già esservene andati». Roteai gli occhi. «Dici un mucchio di stronzate». Saylor pescò qualcosa nella borsa ed estrasse una grossa busta di plastica bianca. «Ecco», disse, andogliela, «il tuo regalo. Non ti consiglio di infilarci il cazzo, altrimenti si rovina il marzapane». «Oh», sorrise, prendendo una manciata di cereali. «Grazie, principessa. Sei la migliore». Guardai la flebo che aveva ancora attaccata al braccio e le bende che gli coprivano l’addome. «Sicuro che li puoi mangiare?» «Forse non posso, ma sto morendo di fame. Cord, perché non ti comporti come un fratello vero e fai un salto in caffetteria a prendermi una bistecca?»

«Sono le otto del mattino», controbattei, «a quest’ora non le hanno mica, le bistecche». «Va bene, allora uova. Portami delle uova. O una ciambella fritta». Scossi la testa e guardai Saylor. «Ti va di venire?» «No», obiettò Chase, tirando Saylor a sé sul letto. «Resterà qui a imboccarmi». «Ehi», grugnii, «solo perché sei al tappeto non sei autorizzato a tastare la mia ragazza». «Certo che è autorizzato. Mettici tutto il tempo che ci vuole, Cordero». Mi allontanai con un sorriso che scomparve in fretta quando lasciai la stanza, mentre ripensavo alle bende sull’addome di Chase. Più di tutto, volevo riportare a casa mio fratello. Mi sarei sorbito le sue battute tutto il santo giorno se fossi riuscito a riportarlo a casa. Figli di puttana, quelli che lo avevano ridotto così. Nei muscoli avevo una tensione insopportabile. Se non mi fossi trovato in un luogo pubblico, avrei ceduto e preso a pugni il muro.

Capitolo ventitré Saylor

Non appena Cord fu fuori portata, Chase non recitò più. Smise di sorridere e mi indicò la sedia vicino al letto. «Siediti». «Smettetela di graffiarmi! Non mi guardate! Vedo leoncini ovunque! Dappertutto!». Chase roteò gli occhi e gridò in direzione della tenda. «Va bene, Larry. Se ne stanno andando, devono fare i bisogni. Staranno via una decina di minuti. Fai una pausa, amico». Il vecchio continuò a lamentarsi, ma a poco a poco si zittì. Chase aveva un’espressione serissima. «Che succede, Say?» «Vuoi dire con Cord?». Provò a sedersi. Vidi il sudore imperlargli la fronte a causa del tentativo. «Sì, con Cord, e anche con Creed. Che diavolo hanno in mente?» «Pensi che ne parlino con me?». Chase sospirò. «Però hanno qualcosa in mente». Mi sentii il cuore affondare. «Credo di sì». «Dannazione», imprecò, stringendo i pugni. «Che bene pensano di poter fare, ad andarsene in missione?». Il cuore iniziò a battere veloce. Sentire Chase che lo diceva chiaro e tondo peggiorò le cose. Il giorno prima avevo visto la rabbia inarrestabile di Cord, ma per il momento era riuscito a domare il mostro che aveva dentro. Anche se non

sarebbe durato a lungo. Chase scosse la testa. «Fermalo, Saylor. Creed non ascolta nessuno, ma Cord ti darà retta». «Tu credi?». Si allungò verso di me e mi prese la mano. «Sì. Ha perso la testa per te, tesoro. Se qualcuno può riuscire a dissuaderlo, sei tu». Una lacrima solitaria mi attraversò la guancia. «Mi piace anche lui, a questo punto». Il ghigno tornò sul volto di Chase. «Ah, allora lo ami. Vuoi farci dei figli e stronzate simili». Arrossii senza rispondere. Non riuscivo nemmeno a descrivere l’ondata di emozioni che mi provocava pensare a Cord. «Ehi», riprese Chase puntandomi un dito sul ginocchio. «Che c’è?». Si schiarì la gola. Sembrava trovarsi a disagio. «C’è una cosa che dovresti sapere. L’episodio tra te e Cord, giù a Emblem?». Feci un cenno col braccio, come a scansarlo. «Ne abbiamo già parlato. È acqua ata. Non è importante». «Devo comunque dirti una cosa. Fu una mia idea, Saylor. Sono stato io a pensare che sarebbe stato facile portarti a letto». Fece una pausa, abbassando tristemente lo sguardo verso le lenzuola. «E sono io che l’ho raccontato a tutti quelli che avessero orecchie per ascoltarlo. Cioè, è stato Cord a fare quello che ha fatto. Non ha scuse. Ma non è stato lui a spargere la voce. Non avrebbe mai potuto farlo. È tutta colpa mia». Si schiarì la gola, addolorato. «Mi dispiace». Restai in silenzio per qualche istante. Se ci provavo, potevo rievocare il dolore e l’umiliazione di quei giorni di tanti anni prima, ma a quale scopo? Era ato moltissimo tempo ed era successo da un’altra parte. All’epoca non conoscevo nessuno dei tre più di quanto loro non conoscessero me. Ma ora li conoscevo.

Chase e Creed erano miei amici. Cord era il mio cuore. Chase era rimasto in attesa che dicessi qualcosa, forse solo di andare all’inferno o sospirare che lo avevo già perdonato. «Cosa significa il tuo?», gli chiesi invece. Sembrò confuso. «Cosa?». Indicai il tatuaggio sul suo torace, che sbucava dalla veste dell’ospedale. «Cord dice che sei tu quello fissato con il latino. Cosa significa il tuo, Chase?». Abbassò lo sguardo e si calò la veste sorridendo. «Leggilo». «Vivo pro hodie», lessi, alzando le spalle. «Vivo… qualcosa». «Tradotto significa “vivo per l’oggi”, ma ci sono delle divergenze accademiche sulla forma corretta». «Mmm. “Vivo per l’oggi”. Molto premonitore». Chase si toccò le bende. «Sembrerebbe, vero?» «Ci proverò», sussurrai, «a non fargli fare niente di stupido». «Provaci, Say». «Mi impegnerò». «Se la persuasione verbale non funziona, usa pure le tette. Anzi, visto che ho dovuto soffrire così tanto, me le fai vedere anche a me per qualche istante?» «Stronzo», risi. «No». Suonò il telefono nella mia borsa. «Merda, è mia madre. Di sicuro chiama per ricordarmi che domani si sposa. Oh be’, la segreteria telefonica l’hanno inventata apposta. Lo sai che mia madre sta per sposarsi con Gary Chavez?». Chase inclinò la testa. «Con lo Gnomo?» «L’unico e solo».

«Parlando delle tope McCann, tua madre ti tiene testa. Mi ricordo una volta in cui lei e mio zio…». «Fermati», lo pregai. «Fermati. Certe cose è meglio lasciarle sepolte negli annali». «Va bene, ma puoi imboccarmi i cereali?» «Meglio ancora, te li faccio mangiare direttamente dal palmo della mia mano». Creed entrò nella stanza proprio sul finire di quella conversazione. Ci rivolse uno sguardo perplesso e sobbalzò quando Larry, dal letto vicino, riprese a urlare che vedeva i gatti. Chase urlò di rimando. «Non preoccuparti, Larry. Sono venuti gli accalappiacani e li hanno portati tutti via». «Ma che cazzo è?», chiese Creed arricciando il naso. Cord arrivò con un vassoio di polistirolo carico di ciambelle fritte e uova strapazzate. Chase annusò l’odore e lo spinse via. «Mi è ata la fame. Da’ tutto a King Kong». «Ho fame», assentì Creed, tuffandosi sul vassoio. Era bello stare insieme a quei tre. Sembrava di essere parte della famiglia. Verso mezzogiorno arono anche Bray e Millie, carichi di fiori e palloncini. Chase chiese a Millie se voleva fargli un bagno con la spugna, ma lei declinò educatamente. Mi chiamò anche Truly. Fui felice di sentirla. Disse di essere riuscita a convincere Ed, il gestore del ristorante, che soffrivo di paranoia premestruale estrema e che mi stavo curando. Rise di gusto. «Dice che non appena avrai risolto i tuoi problemi ormonali, potrai tornare a lavorare». «Sei un tesoro», le risposi, lieta di aver trovato un’altra amica. Ascoltai il messaggio gracchiante che mia madre aveva lasciato in segreteria.

Andava avanti a lungo a parlare di margherite, elencando una serie di cose da ricordare, e dicendo di farmi trovare al ristorante non più tardi delle tre di pomeriggio dell’indomani. Mi limitai a scuotere la testa, decidendo che per il momento non l’avrei richiamata e meravigliandomi di quanto velocemente fossi ata dall’essere pensata a malapena a diventare un ingrediente fondamentale dei suoi festeggiamenti matrimoniali. Non l’avrebbe presa bene, quando le avrei detto che non sarei andata. Dopotutto, non potevo certo pretendere che Cord lasciasse da solo suo fratello per fare una bella gita a Emblem. Non volevo che lo fe. Non volevo andarci nemmeno io. Sembrava più importante restare qui, per Cord e per i suoi fratelli. Cord mi trovò seduta nell’atrio dell’ospedale a fissare vitrea il mio telefono. «Ehi, bella», mi sorrise e sentii un piccolo tuffo allo stomaco. Mi alzai in piedi e mi gettai tra le sue braccia. Aveva un odore così buono. Era bello stare stretta a lui. Volevo restare per sempre tra le sue braccia. Non volevo rivisitare la conversazione tesa che avevo avuto con Chase, le paure su cosa sarebbe successo nei giorni seguenti. Volevo stare con Cord e dire a tutte le crudeltà del mondo di andare a farsi fottere. «Ehi», disse massaggiandomi la schiena. «Qualcosa non va?» «Niente». Inalai il suo odore, quella mistura inconfondibile di sapone e dopobarba, sentendo sorgere un po’ di calore tra le mie gambe. Cord sapeva. Sapeva sempre tutto. Mi tenne stretta così che potessi sentire che gli stava diventando duro. «Ti va di andare a fare un giro?» «Certo». Lo baciai. «Vieni, facciamo prima un salto su e vediamo se i ragazzi hanno bisogno di qualcosa». Mi piaceva essere cinta dal suo braccio. Lo abbracciai e chiusi gli occhi, pensando alla sensazione intossicante del suo torace nudo contro il mio seno. All’improvviso Cord si tese e iniziò a bestemmiare. Aprii gli occhi e vidi una folla di medici fuori dalla stanza di Chase.

«Forse è successo qualcosa al vecchio», ipotizzai, ma la sensazione di panico nelle mie budella si intensificò vedendo Creed fuori dalla porta con un’espressione sofferente. Cord si precipitò da lui. «Che diavolo succede?». Creed riusciva a malapena a parlare. «La febbre è salita troppo. Una delle infermiere ha detto che la frequenza cardiaca è erratica». «Dannazione», si lamentò Cord, provando a sbirciare dentro la stanza. Sopra Chase, stavano chini diversi medici. Uno gli stava togliendo le bende dall’addome. Parlavano a bassa voce. Larry, l’uomo dei gatti, ci notò sulla soglia e agitò un dito. «Ve l’avevo detto di sbarazzarvi dei leoncini», ingiunse in tono triste. Cord fermò un’infermiera che usciva dalla stanza. «Può dirmi cosa sta succedendo a mio fratello?». Gli rivolse un sorriso. Era probabilmente adusa a venire intercettata e strattonata da persone agitate. «Tra poco usciranno dei medici e vi ragguaglieranno». Creed si appoggiò al muro e Cord fissò il pavimento senza parlare. Nemmeno io potevo fare altro che restare a guardare. Non molto tempo dopo, Chase venne portato in barella fuori dalla stanza. Giaceva sulla schiena con gli occhi chiusi e le mani sulla faccia. Cord provò ad avvicinarsi. «Chasyn!», gridò. Chase alzò una mano e fece un debole cenno di saluto. Le notizie erano brutte. Chase stava manifestando il decorso di una pessima infezione. L’incisione si era perforata e c’erano ulteriori emorragie interne. I dottori si affrettarono ad andarsene, promettendo che ci avrebbero dato notizie non appena vi fossero stati aggiornamenti. Poi successe una cosa che mi spezzò il cuore. Cordero e Creedence Gentry si sedettero a terra e iniziarono a piangere.

Capitolo ventiquattro Cord

Dopo un altro giorno e l’ennesima attesa infinita la rabbia si riaffacciò, sottesa dalla paura incombente che mi portavo dentro da quand’ero bambino. Non ero spaventato per il dolore che potevo provare. Era peggio. Era il terrore inesprimibile di perdere i miei fratelli. Saylor provò a tenermi vicino. Mi stringeva. Diceva cose con l’intenzione di alleviare il mio dolore. Provò a fare lo stesso con Creed, ma lui la ignorò. Non riuscivo a spiegarle che quando Chase era stato portato via in barella, non era più un uomo. Era un ragazzino spaventato, lo specchio di me stesso. Per la prima volta, Creed e io non eravamo lì con lui nel momento del bisogno. Lo avevamo tradito. Ci eravamo traditi l’un l’altro e il legame indissolubile che ci teneva assieme da quando avevamo imparato a pronunciare i nostri nomi. Non era una cosa logica, ma era questa l’impressione che dava. Alla fine il dottore tornò e disse che Chase si era stabilizzato. Non c’erano più emorragie e stava iniziando a rispondere agli antibiotici. Sarebbe presto tornato nella sua stanza e avremmo potuto vederlo. Saylor sospirò. «Dio, che sollievo». Allacciò le dita alle mie. «Vuoi che ti porti qualcosa?» «No», dissi, forse troppo bruscamente. Saylor si limitò ad annuire e mi baciò sulla guancia. «Vado in bagno e poi chiamo Brayden. Torno subito». «Va bene». Creed stava tamburellando con le dita sulla gamba e mi guardava. Lo riguardai, comunicandogli una risposta silenziosa alla conversazione avvenuta la sera prima. Aveva ragione. Non si poteva perdonare una cosa del genere. Non si poteva perdonare e basta.

Saylor ci portò delle bevande gassate. Ne stappai una e la bevvi, ma non sapeva di nulla. Ero intorpidito. Mi chiesi se mi sarei riscosso una volta che avessi inflitto dolore a qualcuno, a chi aveva ridotto mio fratello in quel modo. Le mani non vedevano l’ora di chiudersi a pugno per spezzare qualche osso. Sarebbe stato molto più significativo che combattere un estraneo per guadagnarsi i soldi dell’affitto. Sarebbe stata una cosa personale. A metà serata venimmo convocati per andare a fare visita a Chase nella sua stanza. Larry e i suoi gatti se n’erano andati e un signore di mezza età, che era rimasto impallinato sulla schiena da una fucilata a salve mentre stava a caccia su al nord con i suoi amici, aveva preso il suo posto. Vicino al suo letto, la moglie, dal volto rubizzo, gli urlava di continuo una stringa inarrestabile di oscenità. Chase non era più rosso in volto. Era pallido e visibilmente indebolito, anche se provava di nuovo a dissimulare. «Ce l’hanno la birra, giù alla caffetteria?», chiese con un ghigno. «No», risposi, provando a sorridere. «Se ti comporti bene, cerco di portarti un aperitivo». «Ci sto provando», grugnì. Poi vide Saylor. «Ora me le fai vedere le tette?». Lei era incredula. «Lo chiami comportarti bene, questo? Non so nemmeno cosa devo risponderti. Sei fissato». «Ehi», dissi a Creed. «Porto Saylor a casa e poi torno a prenderti». Mi rivolse uno sguardo lungo e profondo. «Va bene, Cord, ti aspetto qui». Toccai la spalla di Chase. Mi guardò come se fe fatica a restare sveglio. «Torno presto». Chase non mi rispose. Pensai che stesse per addormentarsi, ma si allungò ad agguantare il lembo della maglia di Saylor, costringendola a girarsi. «Parla con lui!», disse, per poi ricadere sul letto stremato. Saylor sembrava sul punto di piangere. La condussi fuori dalla stanza verso l’ascensore. Non dicemmo una parola fino al parcheggio.

«Che cosa voleva dire?», chiesi casualmente, aprendo il pick-up. Lei salì e restò ad attendere che prendessi posto al volante prima di rispondere. «Chase pensa che siate in procinto di fare qualcosa di idiota». Avviai il motore. «Davvero?» «Lo siete?» «Cosa?» «Non mi prendere per il culo, Cord. So che avete dei sospetti su chi sia stato ad aggredire Chase. Perché non dite alla polizia tutto quello che sapete?» «Perché non farebbe un’oncia di differenza. Anche se la polizia li arrestasse, i genitori li farebbero uscire di galera dopo mezza giornata. Non andranno mai a finire in prigione». Saylor sibilò tra i denti e guardò fuori dal finestrino. «Ma tu ci andrai. Resterai intrappolato dall’altro lato del filo spinato a Emblem, con tutti gli altri perdenti che hanno buttato in quel modo gli anni della loro vita». Schioccò le dita. Grugnii. «Non so di cosa diamine parli». «Lui lo sa», disse a bassa voce. «Chi?» «Chi?», ripeté, facendomi il verso. «Chasyn. Lo sa che tu e Creed state per fare qualche cazzata. Mi ha pregato di impedirtelo». Mi prese per il braccio. «Che effetto pensi avrà su di lui quando vi porteranno via tutti e due in manette? Pensi che lo aiuterà a rimettersi? Cosa credi che ne sarà di me?». Respirava profondamente mentre iniziavano a scorrerle le lacrime sulle guance. «Per l’amor del cielo, io ti amo». Chiusi gli occhi. Se avessi prestato attenzione al tono agonizzante nella sua voce non mi sarei più risollevato. «Calmati, Saylor. Nessuno andrà in prigione». «Me lo prometti? Sai, vi ho sentiti parlare ieri sera. Mi puoi promettere che tu e

Creed non oltreerete la linea, compiendo un gesto violento che distruggerà le vite di chiunque vi ama?» «Be’», dissi ridacchiando, «almeno in quel caso la lista non è lunga». «Cord», mi implorò e d’improvviso fu troppo. Spensi il pick-up e la tirai a me. «Sono qui, piccola», le sussurrai, anche se stavo mentendo. Non sarei stato lì finché non avessi completato quello che bisognava fare. Saylor si calmò e allentò la presa, pur continuando a guardarmi con ansia. Guidai lentamente per le strade di Tempe. Lei si lasciò sfuggire un sospiro. «Non ho mai più richiamato mia madre». «Oh, già, domani è il gran giorno. Avevo dimenticato. A che ora parti?». Alzò le sopracciglia. «Non vado. Pensi che con questo casino sia opportuno fare anche un salto a Emblem?» «Tua madre si sposa, Say. Dovresti andare». Si guardò intorno e sospirò angosciata. «Mi lasci da Brayden?» «Sì», dissi. «Va bene per te? Cioè, hai ancora molte cose lì. Stanotte comunque tornerò tardi e probabilmente hai voglia di riposare prima del viaggio di domani». Mi puntò addosso gli occhi verdi. «Non è questo il punto. Mi vuoi togliere di mezzo, così da poter scivolare all’inferno con Creed». «Proprio come fa un Gentry, vero?». Distolse lo sguardo, cercando di non scoppiare a piangere. Non lo avrei sopportato. «Verrò a trovare Chase domattina», disse a bassa voce, «prima di andare a Emblem». «Bene, ci sarò anche io». Le toccai la guancia. «Non è un arrivederci. È solo la buonanotte. Ora dammi un bacio, piccola».

Si arrampicò dal suo sedile e mi venne sopra, avvolgendomi con le gambe, con un che di disperato. Ci baciammo a lungo. Volevo di più. Volevo tutto. Mi volevo perdere nel suo dolce corpo per bandire ogni demone della vendetta. Ma venivo da una stirpe di persone violente che sapevano bene che quelle ombre non erano facili da estirpare. Saylor poteva aver ragione. Magari ero sulla strada verso l’inferno. Alla fine, con riluttanza, si ritrasse. «Buonanotte, Cordero», sussurrò, dirigendosi lentamente all’appartamento di suo cugino. Ti amo anch’io, Say. Ma non era il momento giusto per dirglielo. Tornai in ospedale senza guardarmi indietro e trovai Creed ad attendermi. Chase era stato di nuovo sedato e dormiva profondamente. Il suo compagno di stanza guardava la televisione mentre sua moglie si lamentava di tutto il creato. Vide che la stava guardando e sospirò, puntando in direzione di suo marito, e continuò a lamentarsi. «Grazie al cielo l’orario delle visite finirà tra poco, eh?». Creed mi portò fuori dalla stanza, nel corridoio. Aveva gli occhi iniettati di sangue. Mi chiesi se fosse riuscito a chiudere gli occhi da quando Chase era stato aggredito. «Ho lasciato un messaggio, ma non sono stato richiamato». «Gli hai detto cos’era successo?» «In segreteria? Certo che no». Mangiammo robaccia presa dal distributore e restammo al fianco di Chase, finché il personale di corsia non ci disse che dovevamo uscire. Mi fermai a parlare con le infermerie e chiesi di essere chiamato in caso di novità. Quando tornammo all’appartamento Creed si guardò attorno e mi chiese dove fosse Say. «Da Brayden. Non voglio che si mescoli a quello che sta per succedere». Creed si portò le mani ai fianchi e mi guardò con espressione triste. «E poi?»

«Non lo so. Starà a lei decidere». Mio fratello annuì. «Giusto». Il telefono squillò e lui si tese. «È Gabe». Creed attivò il vivavoce. «Ehi, grazie per aver richiamato». «Ma certo. Come posso aiutarti, Mr Gentry?». Creed mi fissò. «Forse hai sentito dire che mio fratello Chase è stato aggredito fuori da una palestra qui a Tempe». Gabe lasciò are del tempo prima di rispondere. «Sì, potrei averne sentito parlare». «Un gruppo di universitari ai quali non piace perdere gli aveva già dato qualche problema». «Be’, non piace a nessuno perdere, ma piace ancora meno alla gente viziata che pensa di dover avere tutte le possibilità a proprio favore». «Li conosci?». Era una domanda retorica. Gabe Hernandez aveva organizzato degli scontri con loro più di qualche volta. Certo che li conosceva. «Stiamo rinunciando a un processo formale?» «Lo sai bene che non finiranno mai e poi mai in un’aula di tribunale». «So pure che mi state chiedendo di favoreggiare qualunque sia il vostro stupido modo di vendicarvi». «Cosa vuoi in cambio, Gabe? Un compenso per il favoreggiamento?». Dallo speaker del telefono venne un suono metallico, come se Gabe stesse giocando con un mazzo di chiavi mentre decideva il da farsi. «Sono stanco di questi scontri da due lire. Voglio are di grado e unirmi ai pezzi grossi. Ci sono tanti soldi da fare, ragazzi. Ma ho bisogno di un lottatore che non abbia paura di sanguinare un po’». Non stava parlando solo di sangue. Creed mi aveva parlato degli scontri con tanti

soldi in palio. Erano brutali. Un uomo si poteva spezzare in due la spina dorsale, o peggio. Non volevo prendere quella strada, nemmeno per tanti soldi. Ma se bisognava farlo per avere l’opportunità di vendicare nostro fratello, allora sì che avrei accettato. Aprii la bocca per dirglielo, ma arrivai tardi. «Consideralo fatto», disse Creed. «Combatterò io». «Cazzo, il gigante cattivo. Hai appena vinto un partner, amico. Ci vorrà un po’ di tempo per trovarti qualcosa che valga la pena, ma stai sicuro che accadrà presto». Creed roteò gli occhi. «Va bene. Ora dicci quello che abbiamo bisogno di sapere». «Certo, ma non posso darti i nomi a secco. Potrei essere incriminato». Restò per qualche istante in silenzio. «Fammi pensare. Ce l’hai un profilo Facebook? Oh, ecco là. C’è Cord. Ti mando qualche suggerimento di amicizia. Usate queste informazioni come volete». Creed esplose. «Credimi, lo faremo». «Ci sentiamo, Creedence». Creed buttò il telefono sul divano. «Non guardarmi così, Cord». «Avrei dovuto farlo io», dissi a bassa voce. «Io». Mio fratello rimase a fissarmi per un minuto intero, respirando pesantemente. «Non deve toccare sempre a te». «Che cazzo vuoi dire?» «Non voglio dire niente, tranne che stavolta non dovrai farne tu le spese. Adesso entra nel tuo e vediamo se Gabe ti ha spedito quelle informazioni. Quando ci dice che farà qualcosa, può metterci dai tre minuti ai tre giorni. Ma prima o poi lo farà». «Puoi stare sicuro che non dimenticherà il vostro accordo. A un certo punto verrà a riscuotere».

Creed distolse lo sguardo. «Lo so». Controllai il telefono. «Non ancora». «Allora ci tocca aspettare. C’è rimasta della birra in frigo?» «Penso di sì. Per me niente, però». Mi sedetti sul divano con un sapore di segatura in bocca. Che diavolo stavamo per fare? Avevo un fratello in ospedale e l’altro che aveva appena fatto un patto col diavolo. Avrei voluto vedere Saylor, ma sapevo che era impossibile andare da lei in quel momento. Questa era una cosa sporca e Say era pulita come un angelo. Dovevo tenerla alla larga e se questo significava perderla per strada, sarebbe stata la giusta punizione per aver scelto l’abisso. Non volevo perderla. Creed si unì a me sul divano. Aveva in mano una birra, ma non la beveva e nemmeno parlava. Non sapevo cosa popolasse il suo purgatorio personale, ma sembravamo tutti e due intrappolati nelle nostre miserie reciproche. Alla fine ci addormentammo l’uno al fianco dell’altro. Quando mi svegliai, i primi raggi di sole stavano già colorando il cielo. Controllai il telefono. Gabe aveva mantenuto la sua parola. Avevo due suggerimenti di amicizia. Li guardai. Riconoscevo le facce. La ragione mi abbandonò. Nelle orecchie sentivo solo il rombo dell’odio e del sangue.

Capitolo venticinque Saylor

Bray e Millie furono così gentili da tenersi alla larga, senza farmi troppe domande che non toccassero argomenti più che superficiali. Gliene fui grata. L’inquietudine mi stava divorando mentre cercavo di rimanere ferma sul divano, guardando il soffitto. Avevo il telefono incollato all’orecchio, anche se sapevo che non mi avrebbe chiamata. Cord non aveva niente di semplice. Non era mai stato una persona semplice. E al momento dentro di lui serbava un conflitto enorme, per il quale non potevo aiutarlo in nessun modo. Gli avevo dato tutto di me, tutto quello che potevo. Se sceglieva comunque di allontanarsi, se sceglieva di fare qualcosa di orrendo, non c’era nulla che potessi farci. Per un momento sentii una fitta di rabbia per Cord Gentry. Si era insinuato nel mio cuore e niente sarebbe stato più lo stesso. Non riuscivo a immaginare di poter sperimentare con qualcun altro la connessione che avevo con lui. Amare qualcuno era davvero una cosa tremenda. La notte trascorse inquieta e al mattino non ero granché dell’umore di parlare. Non avevo alcuna voglia di tornare a Emblem, e ancor meno voglia di partecipare al matrimonio di mia madre. Ma l’idea di restare in attesa di sapere se l’uomo che amavo sarebbe morto o finito in prigione sembrava ancora meno piacevole. «Posso prestarti un vestito», mi propose Millie. «No, grazie», borbottai, lisciando l’abito nero lungo. Era il solo vestito di cui disponevo che non avesse bisogno di un lavaggio a secco. Era quello che avevo addosso il giorno in cui ero partita per la California. Era quello che indossavo la notte che Cord e io avevamo fatto l’amore per la prima volta. La voce di Millie era gentile. «Say? Ti va di parlare?».

Scossi la testa, riempiendo la borsetta con le cose che mi sarebbero servite durante il giorno. Non avevo comprato un regalo di nozze per mia madre, ma non me ne importava nulla. Con un lampo di genio, scovai in fondo alla borsa la card di Target che mi aveva spedito per la laurea. Era un regalo perfetto per lei. «Mi incammino», sospirai. Brayden mi scrutò da dietro gli occhiali spessi. «i prima in ospedale?» «Sì». «Ok», disse Bray, scambiandosi un’occhiata con Millie. «Saluta Emblem da parte mia». «Ma certo. Ti riporto un pezzo di filo spinato dalla recinzione della prigione, come souvenir». Alzò le spalle. «Potrebbe essere la giornata ideale per fare una visita a sorpresa a casa. Stanotte c’è un’esecuzione capitale e ho sentito che ci sono già centinaia di dimostranti in giro». «Fantastico. Non vedo l’ora. Vi voglio bene». Mi avviai fuori. «Saylor?», chiamò Brayden. Mi girai impaziente. «Sì?». Bray mi sorrise goffamente. «Anch’io ti voglio bene». ai dall’appartamento dei fratelli, ma fuori non c’era il pick-up parcheggiato. L’orario di visita all’ospedale era iniziato un’ora prima. Speravo davvero che fossero lì. Se avessi avuto qualcuno da pregare lo avrei fatto. «Grazie», dissi sollevata, quando vidi la sagoma inconfondibile del pick-up sgangherato nel parcheggio dell’ospedale. Creed stava fuori dalla stanza di Chase e teneva in mano una tazza di caffè. «Ciao», lo salutai, facendo un cenno con la mano. Non mi sorrise. «Ciao».

«Come sta Chase?». Creed si lasciò sfuggire un sospiro. «Meglio. La febbre ieri notte è scesa e l’infezione sta migliorando. Tra un paio di giorni dovremmo essere in grado di portarlo a casa». «Bene». Abbassai lo sguardo a terra. «Cord è dentro?» «No, è sceso giù in caffetteria. Chase ha deciso che forse ha di nuovo fame». «Che avete fatto ieri sera?» «Niente». Creed distolse lo sguardo. «Abbiamo giocato con la Xbox e poi siamo andati a dormire». «Giusto». Non riuscivo a non far trasparire il sarcasmo dalla mia voce. «Ci vediamo, Creed». Il compagno di stanza di Chase, l’uomo che si era beccato una fucilata a salve durante una battuta di caccia, stava per essere dimesso. Sua moglie stava sciorinando un arcobaleno di affettuose bestemmie variopinte, mentre il marito cercava di impacchettare le sue cose alla meglio. Mi guardò come se preferisse rimanere in ospedale. Chase aveva gli occhi chiusi. Aprii la tenda che circondava il suo letto e mi misi a sedere sulla sedia. «Ciao, Saylor», disse, senza aprire gli occhi. Gli strinsi piano il braccio. «Ci hai fatto prendere paura ieri». La faccia era meno gonfia del giorno prima, ma la pelle era ancora vergata dalle ferite e il taglio sulla guancia sembrava ancora fresco. «Fammi un favore», chiese. «ami quel catetere». Feci una smorfia. «Non dici sul serio, vero?». Aprì gli occhi. «No». «Bene, perché anche la mia amicizia ha un limite».

Mi studiò. «Hai un bell’aspetto». «Mi sono dovuta agghindare. Vado al matrimonio di mia madre». «Il nero è proprio il colore adatto a un matrimonio. Cord te lo porti dietro?» «Vorrei», dissi a bassa voce. «Ci ho provato, Chase, ho provato a parlargli. Il fatto è che non so cosa abbia deciso». Sul volto di Chase Gentry ò l’espressione più triste del mondo. «Lo so. Lo ignoro anche io». Dietro la tenda, la coppia continuava a litigare per un piatto di ceramica rotto la Pasqua precedente. A un certo punto sembrò che la signora stesse picchiando suo marito con una busta della spesa. Entrò Cord, portando un vassoio pieno di cibo. Quando mi vide si soffermò un istante e poi mi sorrise. Lo maledissi perché mi teneva prigioniero il cuore. Mi abbracciò e ci baciammo. «Mi sei mancata stanotte», mi sussurrò nell’orecchio. Pensai che se fossi riuscita a mantenerlo sano e salvo non avrei avuto mai più bisogno di sperare nient’altro in vita mia. Chase si schiarì la gola e dopo un minuto Cord si ritrasse e mi guardò. «Parti subito?». Gli presi le mani e lo fissai con uno sguardo quanto più implorante possibile. «Vieni con me». Chase diede un morso a una mela e la masticò rumorosamente. «Dovresti partire con lei. Con una bella ragazza e una giornata di sole, che altro ti serve?» «Sì», aggiunsi, «che altro ti serve?». Cord fece una smorfia infastidita. Si allontanò e raggiunse il lato opposto del letto. «Non posso, Saylor». Aveva praticamente scritto in faccia che la decisione di fare altro l’aveva già presa. Non volevo piangere di nuovo. Ma volevo andarmene di lì. Toccai la spalla di

Chase. «Ci vediamo. Farò un salto stasera, se non tornerò troppo tardi». Dopo essere andata quasi a sbattere contro Creed sulla porta, mi affrettai fuori dalla stanza senza dire nulla a Cord. Mi seguì. «Aspetta», disse, prendendomi per il braccio, «ti accompagno alla macchina». Me lo scossi di dosso. «Non disturbarti». «Saylor!». Lo ignorai. «Saylor!». Cord mi prese per le braccia e tentò di tenermi ferma. «Lasciami andare, Cord», sussurrai, incapace di fare altro senza scoppiare a piangere. «Lasciami andare». Spinse la fronte contro la mia e restò così per un minuto, respirando lento e pesante. Alla fine mi lasciò andare senza aggiungere altro, come gli avevo chiesto. Il viaggio verso Emblem fu tremendo. Appena ato Queen Creek iniziai a sentirmi male. Accostai su una strada di terra battuta che circondava una fattoria di cotone, scesi dalla macchina e mi inginocchiai a terra nella polvere, scoppiando a piangere, col cuore che mi doleva. Dopo mezz’ora avevo cacciato ognuna delle lacrime che serbavo dentro senza trovare nessuna delle risposte che cercavo al dolore che avevo dentro. Evidentemente, Cord aveva bisogno di cedere all’impulso buio della sua natura violenta più di quanto avesse bisogno di me. Non me lo aveva detto di preciso, ma non ce n’era affatto bisogno. Quando mi rialzai in piedi, mi sentii invecchiata di vent’anni. Poi, ricordai che avevo dimenticato di prendere il bouquet da sposa per mia madre e mi sentii peggio. Per fortuna sulla strada incrociai un Walmart, ma il reparto dei fiori non aveva

un grande assortimento. Poi ebbi un lampo di intuizione e nel reparto del fai da te presi qualcosa che avrebbe fatto al caso suo. Avevo davanti ancora mezz’ora di viaggio, ma era presto. Decisi di fare un salto da mio padre. Emblem era una cittadina brutta. Percorrendo la strada a due corsie, l’unica che conducesse lì, si vedeva subito la prigione, un ammasso di palazzine basse circondato da recinzioni alte con tanto di filo spinato sulla sommità. Girando intorno al complesso vidi un raduno di gente che protestava e, dall’altro lato della recinzione, diversi uomini in tuta arancione che guardavano la scena. Erano troppo lontani perché potessi distinguere le loro facce, ma iniziai lo stesso a pensare a loro, chiedendomi se da qualche parte avessero degli amici o una famiglia, gente che li avesse a cuore. Cosa avevano mai fatto per trovarsi lì? Se ne erano già pentiti? Ero cresciuta a poca distanza da quel posto. I miei genitori avevano lavorato in prigione per tutta la loro vita, e anche se faceva parte dello scenario, di rado mi ero trovata a pensare alla collezione di miserie umane che doveva essere contenuta tra le sue mura. Mio padre viveva ancora nella casa dove ero cresciuta. Il vicinato era popolato in larga parte dalle famiglie di chi lavorava nella prigione. Si trattava di una delle aree più graziose di Emblem. Mentre mi incamminavo per il viale, ebbi un vagito di dubbio. Non parlavo con mio padre da quando avevo fatto ritorno in Arizona. Non aveva idea che stessi per comparire alla sua porta. Abbandonai ogni esitazione. Non eravamo in buonissimi rapporti, ma di sicuro sarebbe stato felice di vedermi. Lo era sempre. Venne a rispondere alla porta una bionda sciatta con la sigaretta incollata all’angolo della bocca. «Sì?». La donna, che doveva essere la fidanzata più recente di mio padre, mi squadrò come se avesse già deciso che le stavo antipatica. «Salve», provai a sorridere. «Sono Saylor, la figlia di John». Fece un tiro dalla sigaretta e si grattò la parte di pelle scoperta sopra al seno sinistro. «Sì, ti riconosco. Forse anche tu ti ricordi di me». La esaminai meglio. Sembrava vagamente familiare. Poi capii. Era più vecchia e appesantita, ma la faccia era la stessa di una delle mie compagne di classe. «Sei la madre di Marnie Hart. Come sta Marnie?».

Fece una smorfia. «È incinta di un perdigiorno in libertà vigilata». «Oh», dissi, senza sapere di preciso cosa aggiungere. Marnie, comunque, non mi era mai andata a genio. Sua madre stava rapidamente perdendo interesse nella conversazione. «Senti, John fa il turno di notte questa settimana e al momento dorme». «Va bene», dissi, a disagio. «Ho fatto un salto in città, ma non mi fermo. Volevo solo salutarlo». Alzò le spalle e iniziò a chiudere la porta. «Gli dico che sei ata». «Va bene», mugugnai tornando alla macchina. Davanti al garage feci una pausa. La porta principale era chiusa ma mio padre, per abitudine, teneva sempre quella di servizio aperta. Entrai dentro, arricciando il naso per il caldo opprimente e l’odore di muffa. Era sporco e incasinato, come in genere sono tutti i garage. Mio padre non ci metteva l’auto da decenni. Fissai il pavimento dove aveva avuto luogo il mio primo convegno d’amore con Cord Gentry. Era stato veloce e brutale, nulla a che vedere con le cose che facevamo oggi, ma aveva preparato la scena per tutto quello che sarebbe successo poi. Se Cord non mi avesse preso la verginità sul pavimento di quel garage, chissà se mai ci saremmo ritrovati anni dopo? O se non avesse detto niente quella notte in piscina? Si era sporto e mi aveva baciata sulla fronte dopo che avevamo rimuginato sul ato e sul futuro. Mi lasciai sfuggire un sospiro esasperato e chiusi la porta del garage. Visto che era ato mezzogiorno e avevo fame, feci una sosta al solo McDonald della città. Seduta da sola a un tavolino appartato, mi decisi a chiamare la sposa raggiante. Mi urlò dietro perché non le avevo risposto il giorno prima, ma si rilassò quando le dissi del bouquet. Sorseggiai la mia bevanda gassata e la ascoltai mentre si lamentava del pessimo lavoro che aveva fatto il parrucchiere, di tanto in tanto urlando a qualcuno sullo sfondo riguardo a dei tovaglioli coordinati. «Sono già al Roast», disse, parlando dello squallido locale dove aveva deciso di sposarsi di lì a qualche ora. «Sto provando a organizzare tutto ma è difficile, perciò, se non hai altro da fare…».

«Tranquilla, sarò lì tra qualche minuto». «Non vedo l’ora di vederti». Roteai gli occhi, sapendo che stava dicendo una stronzata. Ma non volevo starci a rimuginare sopra. «Anche io non vedo l’ora». Più invecchiavo e meno pensavo a mia madre in termini di mamma e più la vedevo solo come Amy. Credevo che tante donne non fossero nate per fare le madri e Amy McCann era una di quelle. Quando la vidi attraverso la porta del ristorante, un postaccio sito al centro della strada principale della città che aveva cambiato proprietari una volta all’anno da quando riuscivo a ricordare, si stava aggiustando i capelli arricciati, mentre litigava con l’uomo anziano che doveva essere il proprietario attuale. «Ecco la sposa», dissi, muovendo la mano in cenno di saluto. Sulle prime mi guardò infastidita, ma poi coprì tutto con un sorriso smagliante. «La mia bellissima bambina». Mi beccai un bacio fasullo sulla guancia, seguito da un’occhiataccia. «Come vanno le cose, Saylor?» «Bene», mentii. Guardò alle mie spalle. «Sei venuta da sola?» «Sì, Cord non ce l’ha fatta». Amy fece un sorrisetto derisorio. L’ultima cosa che avevo voglia di sentire era lei che demoliva Cord. «Dunque», dissi, «dov’è lo sposo?» «È a casa, si sta preparando». «A casa dove?» «Mi sono trasferita da lui un mese fa». Per quanto ricordavo, Gary lo Gnomo aveva una grossa villa alla fine di Main

Street. «Che bello», risposi. «Ha voluto che lasciassi anche il lavoro». Restai sorpresa. «Non lavori più alla prigione?» «Ho smesso. Ora faccio la casalinga. Cos’è quello?». Mia madre stava indicando la borsa che avevo in mano, che conteneva il mio acquisto variopinto fatto da Walmart. «È il tuo bouquet». Mia madre lo guardò sconcertata. «Ma sono fiori finti». «Be’, sì, sono finti. Cioè, non sono proprio finti. Sono quasi veri. Cioè, sono meglio di quelli veri. Nemmeno apiscono». «Vuoi che vada all’altare con dei fiori finti in mano?» La voce le era salita di tre ottave, lo stesso suono che aveva il giorno che mi aveva chiesto se avessi fatto sesso con Cord Gentry. Era il suono del disgusto mescolato a quello dell’incredulità. «Scusa», farfugliai, desiderando con tutto il mio cuore di non essere mai venuta. Per una volta nella vita, Amy decise di lasciar andare. Prese il mazzo di fiori finti roteando gli occhi e mi ordinò di riempire i vasi a centrotavola con un potpourri di caprifoglio. Fui felice di avere qualcosa da fare. Mentre aiutavo mia madre a preparare tutto per le nozze, cercai di tenere Cord fuori dai miei pensieri. Non ce lo volevo. Ma come sempre, si rifiutava di andare via.

Capitolo ventisei Cord

«Avresti dovuto andarci», mi rimproverò Chase. Nel negozio di souvenir al piano terra avevo trovato un mazzo di carte e stavamo giocando da un’ora sul letto di Chase, usando il vassoio vuoto come tavolo. Abbassai lo sguardo. «Con Saylor?» «Sì, e lo sai bene». «Sì, ma se andavo, chi ci restava qui a intrattenerti?». Chase spinse via le carte e incrociò le braccia. «Vaffanculo, Cord. Non ho bisogno che tu mi faccia da babysitter. Non è questo il motivo per cui stai qui». «Davvero? Mi sembra di esserti rimasto a fianco da quando sei entrato qui». Scosse la testa. «Mi stai usando come scusa». Lo guardai negli occhi. «A che scopo?». Chase si picchiettò la testa e sorrise. «Sono io quello furbo, te lo ricordi?» «Sei un genio». Si guardò attorno. «Dov’è Creed?» «Al cesso», risposi. Ma stavo mentendo. Creed era uscito a fare una battuta di ricerca. Adesso che avevamo anche dei nomi, per le facce di quegli stronzi che avevano aggredito Chase, dovevamo capire come trovarli. Ma non volevo dirlo a Chase. Non aveva bisogno di sapere nulla, come non ne aveva bisogno Saylor. Ce ne saremmo occupati io e Creed e gliene avremmo parlato solo alla fine. Anche lui avrebbe

fatto lo stesso per noi. Era così che avevamo raggiunto l’età adulta. Chase si sollevò la veste ospedaliera e alzò le bende che gli coprivano l’addome, scoprendo il taglio dell’operazione e i lividi che lo circondavano. Indicò le sue ferite. «Lo so che ti fa male, Cord. Lo so che vi sta mangiando vivi. Sono rimasto tutta la notte a cercare di capire come avrei agito io, se fosse successo a uno di voi due». Sospirò e abbandonò la testa all’indietro, fissando il soffitto. «È quasi più facile trovarmi da questa parte. Si vede tutto con più chiarezza». «Secondo me è la concussione che parla». «Cazzo, Cord, nei tuoi panni anche io mi metterei sulle loro tracce. Immaginando di sapere con certezza chi è il responsabile, vorrei anche io strappargli le braccia e dargli fuoco». Guardai la porta. «Dovremmo smetterla di parlare di queste cose». «E perché mai? Non avete ancora fatto niente. Non vi sto chiedendo di farlo. Vi sto pregando di non farlo». Si sporse verso di me e mi afferrò il braccio. «Fratello, richiama Creedence e riportalo qui, dove per noi c’è ancora un futuro. Vai a cercare la ragazza che ti ama e ficcatici dentro finché non ti esce tutta la merda che hai in testa». «Ci ho provato», risposi, «ma ha funzionato solo per un po’». Chase sospirò. «Una volta mi hai detto una cosa». «Ti ho detto tante cose negli ultimi venti anni, Chasyn. A cosa ti stai riferendo?» «Me lo hai detto la notte prima di diplomarci al liceo di Emblem. Forse non avevamo meritato quel diploma, ma l’amministrazione temeva che se non ci avessero fatti diplomare, ci avrebbero avuto tra i piedi per un altro anno. Stavi parlando di andarsene via. Mi hai detto che avevi bisogno di fuggire da quello che significava essere un Gentry a Emblem». Ricordavo bene quella notte. Ci eravamo arrampicati sul vecchio silo dell’acqua per guardare il panorama della città di notte. Fu la prima volta che guardando il mondo capii che era pieno di possibilità, anche per gente come noi.

Chase mi guardava. Volevo dargli quello che chiedeva. Volevo solo che non fosse così dura farlo. «Forse», aggiunsi a bassa voce, «non c’è modo di fuggire da quello che significa essere un Gentry a Emblem. È quello che siamo. Lo sai. Ricordi la citazione che hai fatto l’altra notte? Se vuoi comprendere il presente devi studiare il ato». «Cosa pensi che significhi?» «Vuol dire che non si può fuggire dal ato». Chase soffiò fuori l’aria sibilando. Si stava arrabbiando. Se non si fosse trovato su un letto di ospedale attaccato a una flebo, mi avrebbe dato un colpo in faccia. «Non vuol dire questo e lo sai. Se non si potesse sfuggire al ato, Saylor McCann non ti avrebbe nemmeno guardato, stavolta, e noi non saremmo nemmeno in grado di svegliarci la mattina sapendo che là nel deserto vive un cazzo di mostro. Ritenta, Cord. Che cazzo vuol dire?». Restai in silenzio e raccolsi le carte che erano cadute a terra. Un’infermiera si affacciò alla stanza e ci pregò di fare piano. Presi le carte e le sistemai tutte assieme. Chase stava aspettando la mia risposta. Non si sarebbe arreso finché non gliel’avessi data. «Vuol dire», sospirai, «che il motivo per cui stasera io e Creed dobbiamo uscire a sistemare questa cosa è che è quello che abbiamo sempre fatto, l’uno per l’altro. È come siamo riusciti a vivere così a lungo da trovarci qui adesso. Se non fossimo stati in tre a combattere non ce l’avremmo mai fatta». Mio fratello scosse la testa disgustato e tornò a sdraiarsi sui cuscini. «Manderai tutto a puttane», mormorò. «Tutto. Saylor. Me. Te stesso. E per cosa, Cordero? Cosa ne ricavi in cambio?» «Giustizia», mormorai. «Ah sì? La giustizia di chi?». Non potevo rispondere. Non avevo nemmeno idea di cosa avrei fatto. Ricordai la furia che si era impossessata di me quando avevo visto le facce di quei tipi sul

mio telefono. Potevo ben immaginare quanto mi avrebbe sopraffatto, una volta che me li fossi trovati davanti. Creed entrò nella stanza, notando la tensione che si era creata. Si avvicinò con lo sguardo dubbioso. Chase gli rivolse una smorfia. «Hai fatto una bella cagata?» «Discreta», rispose Creed schiarendosi la gola. «Abbiamo da fare, Cordero». «Bene», annuii, alzandomi dalla sedia. «Avete un combattimento, stasera?», chiese Chase sarcasticamente. «Sì», rispose Creed. «Qualche schiaffo volerà di sicuro». «Dannazione, Creed», borbottò Chase. Stava battendo gli occhi rapidamente, cercando di non scoppiare a piangere. Non lo vedevo piangere da quando eravamo bambini. Faceva male sapere che eravamo noi a farlo piangere. Era la seconda volta, quel giorno, che stavo facendo piangere qualcuno che amavo. Chase sembrava una ferita aperta. Io ero sull’orlo del collasso emotivo. Creed era il solo a restare fermo, stoico. «Andiamo, Cord», disse. «Ti portiamo qualcosa, Chase?» chiesi, tentando di non far tremare la mia voce. «Posso provare a portarti una birra, anche se il tipo alla reception mi guarda sempre male ogni volta che o». «Non mi serve un cazzo», rispose Chase, rimettendosi le bende sulla ferita. Ma non era vero. Mi aveva già detto cosa voleva. Creed gli toccò il braccio. «Torniamo presto, fratellino». «No», rispose Chase, «non tornerete». Chase si girò da un lato, dandoci le spalle. Abbassai la luce della stanza e chiusi la porta. In corridoio Creed mi mostrò una foto, sul telefono, di una casa con una qualche

sorta di simbolo sotto al vertice del tetto. «Li ho trovati», disse, mentre entravamo in ascensore. «Sei sicuro?», chiesi. «Qual è il piano? Entriamo dalla porta principale con le mazze da baseball in mano?». Creed mi rivolse un’occhiataccia. «Avevi detto che eri d’accordo con questa cosa». «E lo sono. Mi sto solo chiedendo cosa sia, questa cosa». «Dovranno rispondere di quello che hanno fatto, a costo di strappargli le corde vocali. Se hai qualche problema, Cord, posso andarci da solo». Sbuffai. «Vengo con te, Creed». Le porte dell’ascensore si aprirono sull’atrio. Buttai un’occhiata all’orologio sulla parete. Erano le sei e mezza. Saylor era già a Emblem, immersa nella miseria del matrimonio di sua madre. Suonò il telefono. Creed mi guardò e rimase in attesa mentre lo tiravo fuori dalla tasca. Era un messaggio di Saylor. Mi manchi. Spinsi il tasto per rispondere. Poi guardai il campo vuoto di testo e capii che non sapevo cosa rispondere. Rimisi lentamente il telefono in tasca. «Sono pronto», dissi.

Capitolo ventisette Saylor

Davanti a un pubblico di una ventina di persone, che in parte conoscevo, anche se avrei sperato di non averle mai conosciute, mia madre smise di lamentarsi il tempo necessario a pronunciare i voti nuziali. Gary lo Gnomo mi strinse la mano e mi diede una pacca sul culo. Fu quello il suo primo gesto in veste ufficiale di patrigno. Poi rimase a fissarmi leccando la cannuccia che fuoriusciva dal suo Long Island. Mi sentivo a disagio. Era tutto sbagliato. Gary conosceva i miei genitori dai tempi del liceo. Mia madre si era rifiutata di andare al ballo di fine anno con lui. O qualcosa del genere. Non ricordavo bene, o forse non avevo mai saputo tutta la storia. Ma sapevo che lui, per lei, era sempre stato una barzelletta, finché non aveva capito che le conveniva cambiare idea. Oltre ad aver fatto il sindaco di Emblem per diversi mandati, era anche il proprietario di un’azienda di trasporti. Guardandolo strusciarsi a mia madre pensai che aveva un soprannome adeguato. Sembrava davvero uno gnomo. Ma se possibile, era anche più brutto. «Miss Saylor», disse una voce, mentre qualcuno mi prendeva per il gomito. «Zio Frank», risposi, vagamente delusa. Il fratello di secondo letto di mia madre era l’apice dello schifo. Mentre mia nonna giaceva sul letto di morte cinque anni prima, lo zio le aveva rubato degli assegni in bianco dal comodino e le aveva ripulito il conto in banca. Dopo qualche minuto di spiacevoli chiacchiere di circostanza, riuscii a sbarazzarmi di lui. Stava calando la sera e la festa si stava riempiendo di gente a casaccio. Vidi mia madre gesticolare infelice in direzione di un gruppo di uomini che era seduto al bar. Non avevano un bell’aspetto. Indossavano giubbotti di pelle e occupavano molto spazio, senza nemmeno darsi il disturbo di guardare male chi li invitava con lo sguardo a farsi un poco da parte. La sposa si stava lamentando della loro

presenza, ma Gary la condusse a testa bassa a un tavolo sul retro. Non fu la sola abitudine che mi spinse a controllare il telefono. Non vedevo l’ora di ricevere un segno da lui. Avrei voluto tanto non averlo spinto via la mattina in ospedale, prima di andarmene. Esitando, gli mandai un messaggio. Mi manchi. In genere non ero una bevitrice ma avevo proprio bisogno di un drink, anche se non volevo rischiare di avere la testa annebbiata per tutto il viaggio di ritorno. Andai al bar e chiesi una birra. L’uomo alla mia sinistra lanciò una banconota da venti sul bancone e si allungò verso di me con un sorrisetto. Era grosso, aveva i capelli neri ed era coperto di tatuaggi e abiti di pelle. «Offro io», disse, spingendo la pinta nella mia direzione. Pensai che forse lo conoscevo, o almeno che lo avessi già visto in giro. Emblem non era una città grande. Qualcosa, nel modo in cui mi fissava, mi metteva a disagio. «Grazie», borbottai. Poi sentii che mia madre mi stava chiamando. Un pugno di invitati aveva occupato la pista da ballo. Zio Frank aveva le mani fisse sul culo di una donna che sembrava la mia preside delle scuole elementari. Amy mi afferrò per il braccio e mi fece sedere su una sedia. Lo Gnomo continuava a fissarmi da dietro i capelli bisunti, mentre si arrampicava col braccio sulla spalla di mia madre. Amy mi diede un colpetto sul ginocchio. «Non siamo ancora riuscite a parlare un po’». Alzai le spalle. Non ero dell’umore di ascoltare mia madre. «Non ci riusciamo mai». Arricciò le labbra. «Ma davvero ti vedi con Cord Gentry?» «Non mi sembra proprio un argomento da festa di matrimonio. Comunque sì». Lo Gnomo inclinò la testa. «Chi è?»

«Uno dei figli di Benton», spiegò mia madre. «I tre gemelli che hanno sempre fatto danni». «Ah, ho capito. Penso che tutte le mie proprietà abbiano acquistato valore, il giorno che sono andati via di qui». Mi rivolse un sorriso viscido. «Ora, se anche il resto dei Gentry fe la valigia e lasciasse le proprie roulotte, sarebbe fantastico». Lo fissai, mentre mia madre ridacchiava per poi guardarmi preoccupata. «Come si chiamava l’altro tipo? Il tuo fidanzato californiano? Quello ricco e bello?» «Be’, aveva anche altre caratteristiche, delle quali non ti ho mai parlato», dissi. Fece finta di non sentire. La sua voce, per effetto dell’alcol, era diventata tonante. «Che hai combinato per mandare tutto all’aria, Saylor? Sei tornata strisciando in Arizona e ti sei portata a letto uno dei Gentry. Non sembri diretta a un futuro radioso, figlia mia». A questo punto intorno a lei si era raccolto del pubblico. Anche gli uomini del bar si erano girati a guardarci. «No», assentii, «sembra proprio di no». All’improvviso divenne serissima. «Non sarai mica incinta, no?» «Cristo, ma’». «No, Saylor. Cazzo, l’ultima cosa che voglio è avere a che fare con un piccolo Gentry moccioso che mi chiama nonna». La guardai. Per lei non provavo nessun affetto. Era mia madre e ci sarebbe sempre stato un qualche tipo di legame, che lo volessi o meno. Ma la sua visione della vita era diventata così involuta che sapevo che, se le avessi raccontato tutto su quella merda di Devin, lo avrebbe comunque preferito a Cord. Non era disposta a dare a Cord nemmeno mezza chance. Mentre mia madre continuava a ciarlare ubriaca col suo nuovo marito, dicendo cose tremende sulla famiglia di Cord, avrei potuto controbattere in un migliaio di

modi. Avrei potuto dirle cosa avevo saputo sulla breve tresca tra Amy McCann e Chrome Gentry. Invece restai lì a guardarli male. «Siete fatti l’uno per l’altra», dissi alla fine. Uscii sul retro e scavalcai la recinzione di ferro battuto che circondava la veranda, sotto lo sguardo attonito dei presenti, per poi salire in macchina. Sarebbe stata un’uscita di scena impeccabile, tranne che la macchina si rifiutò di partire. Dopo aver spiattellato una stringa di orrende bestemmie e aver provato più volte a girare la chiave invano, sentii bussare al finestrino e girandomi vidi che era l’uomo che mi aveva offerto la birra al bar. Mentre saliva sul sedile del eggero riuscii a guardarlo meglio. Era grosso, muscoloso e aveva tutte e due le braccia coperte di tatuaggi. Sollevò un sopracciglio. «Qualche problema?» «Più o meno», ammisi, scuotendo la testa. «Cristo santo, sembra un brutto film. Quante volte hai visto una ragazza in difficoltà per un motore che si pianta?» «Dillo a me», rispose l’uomo dolcemente. Poi si girò a chiamare gli uomini fermi vicino all’ingresso del ristorante, in mezzo a una fila di motociclette. «Apri il cofano», mi ordinò. Gli uomini che aveva chiamato si misero a ispezionare il motore e a parlottare tra loro. Ne arrivò uno, portando cavi per la batteria, che attaccò a un pick-up parcheggiato lì vicino. Pochi istanti dopo la mia macchina tornò in vita. Uscii dall’abitacolo e mi misi anche io a guardare il motore. «È una macchina di merda», disse l’uomo tatuato, «ma se cambi la batteria riuscirai ad usarla ancora per qualche tempo». Restituì i cavi al suo amico e salì sul sedile del eggero. «Andiamo», disse, «guida tu». Misi la testa nel finestrino. «Senti, ti sono grata, ma non così grata. Capisci che voglio dire?». L’uomo mi guardò sconcertato. «Senti, ho udito abbastanza alla tua riunione di famiglia lì dentro da capire che sei la fidanzata di mio cugino».

Mi ritrassi. «Tuo cugino?» E poi ebbi un lampo di ricordi. Un ragazzo che era sempre sembrato già un uomo, anche se non doveva avere che cinque anni più di loro. Sapevo il suo nome. Si diceva che fosse un piantagrane, come tutti in quella famiglia. Ricordai vagamente di aver sentito dire che era andato nei marine. Aveva lo stesso fisico possente che avevano i Gentry ma a differenza dei tre fratelli, aveva i capelli neri e gli occhi scuri e ricordava più da vicino la sua madre messicana. Cord me ne aveva parlato. «Eri Declan Gentry», dissi. «Lo sono ancora», rispose ridendo. «Ora sali in macchina. Ci facciamo un giro. Cristo, non guardarmi così. Sei la ragazza di Cord. Non ti sfiorerei con un dito». Salii con riluttanza. «Dove andiamo?» «Al posto da dove veniamo», rispose. «Senti, non voglio fare la stronza, ma non sarai mica fatto?». Declan si girò verso di me e ghignò. Vidi tracce dei suoi cugini in quel sorriso arrogante da saputello. Mi faceva male al cuore. Cord non aveva ancora risposto al mio messaggio. «Perché me lo chiedi?», mi prese in giro. «Vuoi offrirmi qualcosa?» «No. Ma perché hai bisogno che ti accompagni da qualche parte?» «Perché ti ho fatto un favore e ora me ne fai uno tu». «Parli sempre per indovinelli?» «Non è colpa mia se non ascolti. Gira per Free Road e restaci finché non esci dalla città. Poi prendi la Coyote a sinistra». Declan si allungò sul sedile e aprì il finestrino per concentrarsi sulla strada. Disse qualcosa a bassa voce. «Cosa hai detto?». Declan mi guardò arrabbiato. «Ti ho detto che sto provando a non fare la stessa fine di mio padre».

«E sarebbe a dire?» «Lo hanno messo sotto, cara». Un gatto nero attraversò la strada. Sembrava avesse in bocca uno scoiattolo morto. «Oh», dissi. «Tu sei il figlio di Chrome. Scusa, l’avevo dimenticato». Declan scrollò le spalle. «Non preoccuparti. A volte lo dimentico anche io. È che ho bevuto troppo ed è meglio non salirci nemmeno, sulla mia moto». «Capisco». Free Road era una stradina a due corsie piena di buche che portava a sud-est della città. Non c’erano lampioni e il buio ci inghiottì in fretta. «Dunque sto agendo in veste di tua guidatrice prescelta?» «Costi meno di un taxi», disse, «e di sicuro sei meno pericolosa dei miei amici». Fece una pausa. «E poi, così puoi raccontarmi qualcosa dei miei cugini». «Perché non li chiami?» «Forse li chiamerò domani, dopo essermi svegliato». Guardai la collezione di tatuaggi che aveva sulla pelle. «Fai ancora il tatuatore?». Mise in mostra le braccia. «Cosa te lo fa pensare?». Lo studiai dal mio sedile. Ero certa che questa fosse la prima volta che parlavo con Declan Gentry. A scuola era qualche anno avanti a me e il tempo di arrivare al liceo, lui aveva già finito. Aveva una spavalderia che lo faceva sembrare molto solitario. Gli raccontai delle ferite di Chase e gli rivelai la mia incertezza riguardo alla vendetta di Cord. Sembrava sapere che non gli stavo raccontando tutto, ma non mi chiese altro. Strizzai gli occhi nel buio. «Ci siamo, vero?», chiesi. «È qui che vivete voi Gentry». Declan indicò un punto nel buio. «Sto in una vecchia roulotte singola a mezzo miglio di distanza. Apparteneva a mio padre». Gesticolò nella direzione opposta.

Nel buio riuscivo a intravedere una fila di roulotte in pessime condizioni. Mi fermai a uno stop e restai a guardare la desolazione silenziosa che ci circondava. «Dunque è questo il posto», dissi a bassa voce. «È da qui che vengono i fratelli Gentry». Non lo avevo mai visto prima, non avendo motivo di spingermi fin laggiù. Declan annuì. «Sì, ed è meraviglioso come sembra». «I loro genitori sono ancora qui?». Sospirò. «Certo che sono ancora qui». Quando fermai il motore e scesi dalla macchina, Declan non disse nulla. Avevo bisogno di vedere da vicino il posto che aveva dato i natali alle paure di Cord, il posto che allo stesso tempo lo aveva fatto e lo aveva distrutto. Mi addentrai per un po’, facendo del mio meglio per non inciampare nei cespugli che tentavano di impigliarsi all’orlo del mio vestito. Dal finestrino di una delle roulotte più grosse veniva una luce fioca. Mentre mi avvicinavo, non riuscivo a distogliere lo sguardo. Immaginai Cord, il mio dolce ragazzo forte, che correva fuori da quella porta scassata per sfuggire agli orrori che vi risiedevano dentro. Quella visione mi ridusse quasi in lacrime. Per un momento smisi di pensare ai fratelli Gentry come a degli adulti. Erano ragazzi che restavano a giocare fuori molto dopo che fosse calato il buio perché a casa loro non c’era nessuno a cui importasse. «Cord», sussurrai, pensando al povero piccolo ometto che testardo combatteva per la sua strada, per la sopravvivenza. Per la prima volta stavo riuscendo a capire cosa avesse significato per lui arrivare fino a quel punto nella vita. Pensai anche a quello che Millie aveva provato a dirmi. Non mi stava raccontando soltanto la storia della sua sofferenza. Le nostre identità venivano definite in modi diversi, e talvolta questo riusciva a danneggiarci. Si sentì il rumore di un oggetto che si rompeva, forse una bottiglia, e la voce gutturale di un uomo che urlava qualcosa di incomprensibile. Guardai verso la macchina ma Declan si era sdraiato sul sedile e stava facendo un pisolino. Lo starnazzare di una donna mi fece raggelare il sangue. Mi fermai e provai a

indovinare che effetto potesse fare crescere in un posto del genere. I miei genitori erano distanti e pensavano soltanto ai fatti loro, ma non erano mai stati violenti. Avevo sempre avuto tutto quello che serviva a creare le basi di una vita solida. Cord, invece, era venuto dal nulla. Capii la rabbia e la paura dei fratelli, la disperazione derivante dal credere che nel mondo intero potevano solo aggrapparsi l’uno all’altro per evitare di affogare. Ci fu un altro schianto seguito da una serie di imprecazioni. Da qualche parte là in mezzo c’erano persone che non sapevano che uno dei loro figli si era scontrato con la morte due giorni prima. Non lo sapevano o non gliene importava nulla. Chiusi gli occhi, lasciando che il calore tenue della brezza notturna mi carezzasse i capelli, sentendo la tristezza impossibile di quei tre piccoli ragazzini che non avevano mai conosciuto la sicurezza e la tranquillità. Una lacrima mi scese dalle guance mentre pronunciavo il suo nome. Cordero. Lo sbattere della porta mi riportò nel momento presente. Comparve un uomo grande, che continuava a bestemmiare biascicando le parole. Tirò qualcosa nel buio davanti a lui e mi mancò di pochi centimetri. Si intuiva la sagoma di un corpo che una volta doveva essere stato molto muscoloso, simile a quello dei suoi figli. Non era abbastanza buio da nascondermi nella tenebra e Benton Gentry si accorse della mia presenza. «Che cazzo ci fai lì, ragazzina?». Raggelai. Inghiottii, provando paura mentre avanzava muovendosi più velocemente di quanto avrei supposto. Mentre si avvicinava, riuscivo quasi a sentire la crudeltà dei suoi pensieri. Non era un uomo ragionevole. Era la bestia che tormentava gli incubi di Cord. Dovevo correre, urlare, fare qualsiasi altra cosa che non fosse restare a fissarlo mentre si avvicinava. «Mi dispiace», balbettai, provando maldestramente a indietreggiare. Mi afferrò per le braccia e mi scosse un po’. Fu tremendo, simile a Devin, ma peggiore. Il padre di Cord puzzava di liquore e sudore rancido. Era molto forte. «Ti ho fatto una domanda, ragazzina. Vedi di darmi una cazzo di risposta». All’improvviso venne trascinato via da un’ombra più forte di lui.

«Che cazzo, Deck?», borbottò. Davanti a me comparve Declan. Teneva Benton a un braccio di distanza. «Vai via, zio. Ti faccio le mie scuse. Non volevamo rubarti tempo». Il padre di Cord sembrò ritrarsi. «Lei è tua, dunque?» «Sì», rispose Declan. Prese un rotolo di banconote dalla tasca e ne sfilò un ventino. «Offro io», disse, mettendo la banconota sul palmo untuoso dello zio. «E scusa se ti abbiamo disturbato». Benton aguzzò gli occhi. «Lo sai quanto rode il culo a tua zia Maggie quando vede degli estranei». Declan annuì e gli diede un altro ventino. «Lo so», disse. Mi nascosi dietro a Declan finché Benton non tornò sui suoi i verso la roulotte. Quando aprì la porta vidi la sagoma di una donna magrissima oltre la porta. Indossava una vestaglia larga e sformata nella quale sembrava essersi persa. Non riuscii a vedere la sua faccia. Ne fui grata. Sapevo che mi avrebbe perseguitato. Declan mi spinse. «Dài, fidanzata di Cord. Prima che ci ripensi». «Grazie», dissi. «E comunque, mi chiamo Saylor». «Come hai detto?» «Ho detto Saylor. Mi chiamo Saylor». «Oh, ho capito», disse disinteressato. «Grazie per il aggio, Saylor. Perché non ti lasci questo inferno alle spalle e torni dal tuo uomo? Sono convinto che ti starà aspettando, stasera». «Lo farò», risposi, mordendomi il labbro al pensiero. «Ehi, Declan? Quanto lo fai pagare, un tatuaggio?». Sospirò, come se fosse ormai stanco di me. «Ora vuoi farti un tatuaggio?» «Ne ho bisogno».

«Questa è la prima volta che la sento. Non lo dice mai nessuno, di avere bisogno di un tatuaggio». Sospirai e gli descrissi quello che avevo in mente. «Be’», borbottò, vagamente imbarazzato, «bello. È pure facile. Da lucido mi ci vogliono venti minuti, ma al momento non sono lucido. Potrebbe uscire male, Saylor». «Non deve uscire bene. Deve solo esistere». Dieci minuti dopo ero seduta su una sedia nella roulotte di Declan mentre lui preparava l’ago. Dava una impressione professionale, con quello strumento tra le mani. Sembrava addirittura più sobrio. «Dimmi», chiese, guardandomi il braccio mentre si apprestava a iniziare il lavoro, «Cordero ti ama quanto lo ami tu?» «Lo spero». Declan si limitò ad annuire e restò in silenzio. L’ago faceva più male di quanto credessi ma non m’importava. Non m’importava nulla.

Capitolo ventotto Cord

Creed mi guardò mentre sfilavo il telefono dalla tasca. Restai a fissare a lungo il messaggio di Saylor. «Che c’è?», grugnì, con gli occhi fissi sulla strada. Non stavamo andando da nessuna parte. Dopo aver individuato la palazzina della confraternita nei pressi dell’università, stavamo perdendo tempo guidando in giro, in attesa che la luce del giorno scomparisse completamente. Non volevo azzardarmi a indovinare cosa sarebbe successo dopo. «Niente», risposi, rimettendomi il telefono in tasca. Mi faceva male saperla da qualche parte a Emblem, in attesa di una mia risposta. Creed era concentrato. C’era in lui una dura risolutezza che sembrava cancellare tutto il resto. Non aveva nemmeno chiesto di cosa avessi parlato con Chase o perché nostro fratello sembrasse così abbacchiato quando avevamo lasciato la stanza dell’ospedale. Irritato, diedi un pugno sul cruscotto. «Quanto cazzo dobbiamo restare a guidare in circolo?» «Va bene, allora». Girò a sinistra e fece un’inversione a U. «Iniziamo a sorvegliare il posto». «Cosa stiamo cercando, Creed? Pensi davvero che ne beccheremo uno o due per caso, mentre stanno fuori in cortile ad aspettare che li andiamo a prendere a calci in culo?» «Cord, ti ho detto che posso occuparmene da solo. Non c’è bisogno che ci andiamo di mezzo tutti e due». «Se uno di noi ci va di mezzo, ci andiamo di mezzo tutti. È sempre stato così. E

sempre lo sarà». «Allora piantala con queste moine del cazzo». Nel giro di cinque minuti, eravamo seduti dall’altra parte della strada, a tre case di distanza da quella della confraternita. Sulla porta principale era accesa una luce, ma oltre a quello, non sembrava star succedendo altro. «È sicuro che sia lì?», chiesi. «È lì», borbottò. Aprì il finestrino e si sporse. Mi ero sempre affidato ai miei istinti e non mi avevano mai tradito. Al momento mi stavano urlando di squagliarmela a gambe levate. Ma bastò guardare la faccia decisa di Creed per capire che non mi avrebbe seguito. Così restai. Restai perché non potevo sopportare l’idea di lasciarlo solo. Ma non riuscivo a contenere la mia agitazione. Frugando nello sportello del cruscotto trovai un vecchio taccuino a spirale. «Ce l’hai una penna?», chiesi. «Devi scrivere una lettera?» «Sì, devo fare testamento. Ce l’hai una cazzo di penna?». Creed raggiunse il sedile posteriore e tastò il pavimento finché non trovò una penna a sfera. «Sei contento?». Non risposi. Sfogliai fino a trovare una pagina bianca e mi poggiai il taccuino sulle ginocchia. Lo spazio bianco del foglio sembrava chiamare la penna. Senza un piano in mente, iniziai a fare uno schizzo, consapevole dello sguardo attento di mio fratello. Avevo dimenticato quanto fosse liberatorio creare qualcosa con le proprie mani. Non appena la penna toccò il blocco, sapevo già cosa disegnare. Era la sola faccia che avessi in mente. «Saylor», disse Creed, annuendo.

Proseguii, completando i dettagli come meglio mi riuscisse con i pochi strumenti che avevo a disposizione. L’avevo disegnata di profilo, con un’espressione pensosa e i capelli lunghi che le ricadevano sulla faccia. Era l’aspetto che aveva quando pensava che nessuno la stesse guardando. Sospirai e lasciai cadere la penna. «Mi ha detto che ti ha sentito cantare». Creed sobbalzò. «Che? Ah, sì. La fidanzata del cugino mi ha dato la chitarra e mi ha chiesto se ci facevo qualcosa». «Perché non ci fai qualcosa?». Sembrò irritato. «Ma ora vuoi davvero metterti a parlare di musica?» «No, voglio parlare di te. Ti abbiamo detto mille volte che dovresti farci qualcosa, con tutto quel talento che hai». Creed sospirò e distolse lo sguardo. Guardai la casa. Si era accesa un’altra luce, al piano di sopra. «Come facciamo a saperlo, Creed?» «Di che parli?» «Cazzo, ma mi vuoi almeno guardare? Non sappiamo se sono stati loro. Ci stiamo buttando a indovinare». «Che vuoi, Cord? Una garanzia a prova di bomba? Forse ci conviene aspettare che si consegnino alle autorità per senso civico». Scossi la testa. I minuti avano velocemente. Un paio di tizi uscirono dalla casa e salirono su una decappottabile. Creed si tese e li fissò, ma non erano i tipi che stavamo cercando. Dopo un po’ iniziai a rilassarmi. In quel posto dovevano are decine di persone ogni giorno. Ne stavamo cercando due in particolare, tali Jay Pruitt e Henley Carter. All’improvviso mi sembrò improbabile che arrivassero proprio mentre li stavamo aspettando. Presi la penna e tornai a lavorare sul disegno. Pensai che dopo qualche ora di questa storia sarei riuscito a persuadere Creed a

lasciar stare. Mio fratello si raddrizzò sul sedile. «Be’», disse in tono letale, «eccoci al capolinea». Guardai. L’uomo che stava scendendo da una Prius metallizzata era Jay Pruitt. Si incamminò fischiettando verso la porta principale. Creed uscì dalla portiera prima che potessi battere ciglio. In un flash vidi come sarebbero potute andare le cose. Poteva placcare Pruitt e picchiarlo a sangue, forse ucciderlo, e farsi dare un aggio a Emblem, dove sarebbe rimasto dietro la recinzione del carcere per una decina di anni. Oppure, chiunque si trovasse in quella casa avrebbe potuto udire il trambusto e scagliarsi fuori. Su tutto il cortile ci sarebbero stati combattimenti corpo a corpo, che avrebbero potuto spedirci in ospedale a fianco a Chase, con un bel biglietto per Emblem in tasca. Nessuno dei due esiti era auspicabile. Mentre Creed si incamminava nel buio capii che avevo solo pochi secondi a disposizione per fermarlo. Schizzai fuori dal pick-up, ma era già a diversi metri di distanza. «Stronzo!», urlò, facendo girare Jay Pruitt. Quando vide Creed che lo caricava, con me che lo seguivo alle calcagna, spalancò gli occhi. Pruitt gettò uno sguardo disperato intorno alla ricerca di aiuto ed era in procinto di urlare quando Creed lo raggiunse. Creed lo prese per il bavero della camicia e lo trascinò lontano dalla casa. «Pezzo di merda», stava ringhiando Creed, mentre spingeva in mezzo a dei cespugli Pruitt, che nel frattempo provava a rimettersi in piedi emettendo un rumore strozzato dalla gola. Non era piccolo, ma aveva capito che contro Creed non ce l’avrebbe mai fatta. E aveva già visto come combattevo io. Creed indietreggiò di qualche o. Capii che stava per assestargli un colpo in faccia. Capii anche che non si sarebbe fermato lì. Sarebbe andato avanti finché il tipo non fosse più riuscito a muoversi. Conoscevo quella sensazione. Mi ero sentito così quando avevo aggredito l’ex di Say. Non so come sarebbe finita se lei non mi avesse fermato. Aveva fatto bene a fermarmi.

Era già partito con la rincorsa e quando mi misi in mezzo Creed non fece in tempo a fermarsi. Mi ero girato di modo che il colpo mi prendesse sul braccio destro, ma fece comunque un male cane, perché Creed era forte come un toro. Quando capì di aver colpito me anziché Pruitt, si raddrizzò e restò a fissarmi con una espressione sconcertata. Gli girai intorno e afferrai Jay Pruitt. «Sei stato tu? Hai aggredito mio fratello come un vigliacco?». Anche nel buio si riusciva a capire che Pruitt aveva gli occhi spalancati ed era pietrificato dal terrore. Balbettò: «N-no. Non sono stato io». Ma non riuscì a controllare la sua espressione. Sapevo riconoscere un bugiardo quando ne vedevo uno. O era stato lui, o sapeva chi lo avesse fatto. Volevo ucciderlo con le mie mani. «Vattene!», urlai, spingendolo via. Creed gridò: «Cord!». «Vattene!», ripetei a Pruitt, mentre cercava di rialzarsi in piedi. Dopo pochi i raggiunse l’ingresso della casa della confraternita e bussò alla porta come un pazzo, urlando a squarciagola. Spintonai Creed. «Dobbiamo andarcene di qui». Aveva lasciato le chiavi sul cruscotto. Mi misi al volante, avviai il motore e vidi una folla di universitari che si riversava fuori dalla casa. Alzai il dito medio fuori dal finestrino e mi allontanai rapidamente. Creed era incazzato nero. Mi fulminava con gli occhi guardandomi dal sedile del eggero. Quando raggiungemmo le luci di University Drive mi sfregai il braccio dove mi aveva colpito. «Qui resterà il segno», dissi. «Accosta questa cazzo di macchina», mi intimò. «Torniamo all’appartamento e…».

«Accosta questa cazzo di macchina!». Entrai in un parcheggio deserto. Una volta c’era un ristorante, ma ora sembrava tutto abbandonato. Creed uscì dal pick-up e si allontanò rapidamente, bestemmiando ad alta voce. «Ehi!», gli urlai. Si girò a guardarmi. Era furioso. Sia nei miei confronti che in generale. «Creedence», dissi piano, provando a fare qualche o verso di lui. Sputò a terra. «Ci siamo sempre protetti l’un l’altro. Sempre». Deglutii. «Lo so. È per questo che ora sto davanti a te. Non è la prima volta, lo sai. Sia davanti a te che davanti a Chase, a bloccare le minacce di qualcun altro. Lo so che non lo hai dimenticato». «E anche io ti ho fatto scudo, Cordero. Ho preso colpi che erano diretti a te e ne sono stato felice». «Lo so. Anche io sono felice adesso. Sono felice di averti impedito di fare qualcosa di irreversibile. Abbiamo solo questa vita, Creed, solo questa. Bisogna ponderare bene che tipi di rischi valga la pena correre». Si girò, avviandosi verso la strada con le braccia incrociate sul petto. Feci per afferrarlo per i fianchi, ma era fuori portata. Non volevo più saltare nel buio al suo fianco, volevo solo tendergli una mano e riportarlo al sicuro. Anche lui in ato lo aveva fatto per me. Pronunciai piano il suo nome. «Creed». Non rispose. Non molto distante, il traffico scorreva rumorosamente. «Ti ricordi la prima settimana che siamo arrivati qui? Avevamo racimolato a malapena i soldi per una stanza in quel motel di merda vicino all’autostrada». «No», scosse la testa. Sorrisi. «Ma sì che ti ricordi. Tu da Emblem ti eri portato solo un cambio d’abiti

e la chitarra che avevi preso al banco dei pegni». «E allora? Che cazzo c’entra adesso?». Sospirai, ricordando. «Riuscimmo solo a trovare lavoro a nero, a spalare terra per fare buche giù a Mesa. Mangiavamo sempre pasta in scatola, dormivamo in una topaia e ci chiedevamo come cazzo avremmo fatto a uscire da quell’inferno». Stava ascoltando senza dire una parola. «Un tipo al motel si era avvicinato a Chase e gli aveva proposto di mettersi a spacciare. Lui lo stava prendendo in considerazione. Anche io. Sei stato tu a fermarci e avevi ragione. Avevamo già visto con i nostri occhi cosa potesse fare quella merda a una persona. L’avevamo visto su nostra madre». Guardai il cielo. Le stelle mi restituirono lo sguardo. «Era una notte come questa qui. Eravamo tutti e tre abbacchiati e ci chiedevamo se saremmo dovuti tornare a Emblem per morire assieme agli altri Gentry. Tu hai preso la chitarra e ci hai portati fuori. Hai iniziato a cantare. Era una di quelle vecchie canzoni che piacciono a te. Andavi avanti e dalle stanze usciva la gente a sentirti. E là, in quel posto di merda, in compagnia di gente che stava messa peggio di noi, è stato un momento fottutamente magico. Ero così fiero di chiamarti mio fratello». Creedence socchiuse gli occhi. «E allora?». Lo presi per le spalle e lo costrinsi a guardarmi negli occhi. «Possiamo avere lo stesso finale anche stasera? Ti prego?». Poteva andare in tutti e due i modi. Ci pensò sopra. ò un’eternità prima che lo vedessi sorridere. Poi mi diede un abbraccio fortissimo. Aveva la voce roca di emozione. «Certo, Cordero». Tornammo assieme al pick-up. Creed voleva guidare e glielo lasciai fare. Quando si fermò all’appartamento a prendere una cosa, presi il telefono e scrissi un messaggio.

Ti prego, torna da me.

Capitolo ventinove Saylor

A Emblem ormai avevo fatto tutto quello che dovevo fare ed era giunto il momento di andarmene via. Con un gesto della mano Declan mi disse addio dalla porta della sua roulotte. Nel suo sorriso si vedevano i tre gemelli, specialmente Cord. C’era solo una strada che usciva dalla città, dunque non avevo scelta e dovetti riare davanti alla prigione. Era tutto silenzioso. I manifestanti se n’erano andati e i recinti dell’ora d’aria erano deserti. Sapevo che dentro a quelle mura la storia era diversa, un triste tappeto caotico di fermento. Tremai, chiedendomi come potessero, i miei genitori e i loro colleghi, sopportare di lavorare in un posto simile. Immaginai che dopo un po’ diventasse una cosa normale e perfino noiosa, che non valeva la pena nemmeno prendere in considerazione. Il braccio mi bruciava. Mi sembrava di aver subìto trecento piccoli tagli da carta e di averli disinfettati con l’acqua ossigenata. Era un bel dolore, però. Il tipo di dolore che allude alla speranza e al desiderio, l’epicentro di tutte le cose che contavano qualcosa. Era una cosa che avevo agognato di trovare per tantissimo tempo. Emblem scomparve nello specchietto retrovisore e mi addentrai nella notte, sperando che la macchina tenesse abbastanza a lungo da riportarmi a Tempe. Mi sentivo mancare quando pensavo a Cord. Avrei dato dieci anni di vita solo per sapere che si trovava al sicuro. Quando suonò il telefono immaginai che fosse Bray. Non gli avevo detto a che ora avevo in programma di tornare, ma pensai che si stesse preoccupando per me. Rovistai nella borsa con una sola mano e tirai fuori il telefono. Le parole che lessi sullo schermo mi fecero quasi uscire fuori strada. Ti prego, torna da me. Avevo il dito già pronto a lanciare la chiamata, ma non volevo che andasse così.

Avevo bisogno di vederlo, di abbracciarlo, di godere dell’attrito dei nostri corpi che si strusciavano contro perché era così che funzionava tra noi. Prima di raggiungere Tempe dovevo percorrere altre trenta miglia. Non sapevo come interpretare quel messaggio. Lasciava parecchie questioni irrisolte. Aveva compiuto qualche gesto terribile? Non ero sicura di volerlo sapere. Ma se lo avesse fatto, glielo avrei letto in faccia. Avrei notato il tormento. Non sarebbe stato capace di tenermelo nascosto. Un rivolo di sudore freddo mi scorse sulla nuca quando provai a spingere la macchina oltre il limite di velocità. Lo avrei trovato in ospedale. Mancavano ancora quarantacinque minuti alla fine dell’orario di visita. Il parcheggio dell’ospedale era affollato. Alla fine mi arresi e parcheggiai vicino a un secchione all’esterno. Il giorno non era stato clemente con me e dovevo avere un aspetto tremendo. Sembrava stupido in un momento simile pensare a una cosa del genere, considerando tutto quello che era successo di recente. Inoltre, a Cord non sarebbe importato nulla se avevo i capelli fuori posto o il trucco sbavato. Gli ospedali non erano mai silenziosi. Somigliavano molto alle prigioni. Erano dei serbatoi di piccoli drammi e di bisogni da assecondare. Mentre percorrevo il corridoio verso la stanza di Chase, ai vicino a tante persone, ognuna di loro avviluppata nella propria battaglia emotiva. Immaginai che fosse la stessa cosa per tutti, che lo dicessero o meno. La musica era alta e la sentii non appena girato l’angolo. Mi fermai ad ascoltare e sorrisi. Un gruppo di pazienti e visitatori era radunato sulla porta della stanza e guardava dentro. Lo staff dell’ospedale avrebbe potuto mettere termine a tutto, visto che in teoria creava confusione, ma stavano tutti sorridendo e li lasciava continuare. Erano tutti lì, tutti e tre. Creed era seduto con la chitarra tra le mani e suonava assorto. Chase era sul letto e rideva felice tenendosi il fianco. E Cord stava poggiato contro il muro, cantando assieme a Creed mentre intonavano il testo di The Joker. Arrivarono al ritornello e lo cantarono quasi in falsetto. Chiusi gli occhi e pensai che in quel momento fosse la canzone perfetta. E che i fratelli Gentry, assieme, erano perfetti.

Quando riaprii gli occhi vidi che Cord mi stava fissando. Mi addentrai di qualche o dentro la stanza e restai in attesa. Chase alzò le sopracciglia e guardò suo fratello. Creed era così perso nella canzone che non sembrava nemmeno essersi accorto che fossi arrivata. Quando il pezzo finì applaudirono tutti e le infermiere spinsero via le persone, visto che l’orario di visita era al termine. Cord non si era mosso. Mi sorrideva timidamente mentre mi recavo da Chase e lo baciavo sulla guancia. «Ti avevo detto che sarei tornata in giornata». Chase mi mise le mani intorno al collo e me lo strinse affettuosamente. «Domani forse mi fanno uscire». «Davvero? Che bella notizia». Creed si alzò in piedi e mi rivolse un lieve cenno con la testa per salutarmi. Cord incrociò le braccia, guardandomi con gli occhi che gli scintillavano. «Dunque», dissi, «ho avuto una giornata di merda. E voi?». Non mi sfuggì lo sguardo che si scambiarono Creed e Cord. Ma fu Chase a parlare. «Giornata di merda anche per me, miss McCann. Ma ora va meglio. Cosa hai fatto al braccio?» «Oh, giusto». Guardai la benda pulita con la quale Declan aveva coperto il mio tatuaggio e la scoprii per mettere in mostra la scritta permanente all’interno del mio polso. La pelle, intorno, era rossa e congestionata. Chase mi prese il braccio ed esaminò il tatuaggio. Sorrise. «Amor vincit omnia?». Annuii. «Credo proprio di sì. No, non è giusto dire che lo credo. Lo so e basta». Creed mi guardò il braccio. «Conquista d’amore?» «L’amore conquista tutto», lo corresse Cord.

Creed fischiò e prese la chitarra. «Bene, lascio questa festicciola e me ne vado». Si appoggiò brevemente al bordo del letto. La sua voce era insolitamente gentile. «Buonanotte, fratellino». Chase sbadigliò. «Buonanotte, King Kong». Creed si incamminò, poi all’improvviso si fermò, tirò un pezzo di carta fuori dalla sua tasca e me lo mise tra le mani. Lo guardai e sorrisi debolmente. Cord era ancora fermo a fianco del letto. Mi guardò aprire il foglio piegato e vedere la mia faccia che mi fissava dal pezzo di carta. «Dannazione», dissi. «Grazie». Chase si spostò sul letto e chiuse gli occhi, congedandoci con un gesto della mano. «Buonanotte a tutti. Andate via. Andate a combattere o a fare quello che fanno le persone là fuori. Ricordatevi solo che presto Chase Gentry tornerà tra voi». Mi fece l’occhiolino mentre Cord, finalmente, mi raggiungeva dall’altro lato del letto. Creed era andato avanti e ci allontanammo insieme. Fu una lunga camminata per raggiungere la mia macchina e restammo in silenzio tutto il tempo. Gli ai le chiavi. Le prese senza dire una parola e mi tenne aperta la portiera. Mentre Cord guidava immaginai che fosse diretto all’appartamento. Ma sembrava avere in mente qualcos’altro e quando fermò la macchina nel parcheggio del liceo, capii di cosa si trattava. Era più facile arrampicarsi scalzi per la scalinata ripida della palazzina del museo, così mi sfilai i sandali e mi rimboccai il vestito. Cord mi seguiva. Quando raggiungemmo la cima non riuscivo più ad aspettare. Andai da lui e gli carezzai la guancia con le dita. «Ehi», bisbigliai. «Ciao», rispose, con le mani già serrate sui miei fianchi che mi tiravano a lui. Aveva il volto felice e rilassato. Qualunque fosse il piano che avevano in mente quella sera, non era successo il peggio. «Com’era Emblem?»

«Sempre la stessa». «Ti sei tatuata lì?» «Sì», sorrisi, pensando a Declan. Raccontai tutto a Cord e lui rise di gusto. Avevo tralasciato una cosa, però. «Ho visto i tuoi», dissi esitante, vedendo che gli spariva il sorriso dal volto. «Vuoi che te ne parli?». Scosse la testa e sospirò. «No». Lo abbracciai forte. «Ti adoro, Cordero Gentry». «Sarà meglio che tu lo faccia. Ho intenzione di tenerti al mio fianco». Il mio cuore sobbalzò. «L’idea mi piace». Cord indietreggiò un po’ e mi fece scorrere le dita tra i capelli. «E allora baciami. E quando inizi a farlo, non fermarti». Non c’erano più parole da aggiungere. Era tutto quello che volevo.

Epilogo Cord

«Cazzo, tesoro. Dimmi ancora tutte quelle porcherie». «Mi domini, Cordero. Il tuo grosso cazzo mi domina incontrastato». «E a te piace». «Lo amo. Oh, Cristo, ci sono quasi. Puoi continuare a sbattermi con violenza un altro po’?» «Posso continuare per tutto il tempo che ti ci vuole, bimba». Era metà pomeriggio e ci stavamo fottendo fino a farci uscire il cervello dal naso in camera da letto. Saylor tremò e si bagnò ancora di più, mentre si stringeva contro di me e urlava. Ebbe l’orgasmo più lungo e rumoroso mai provato da una donna nel corso dell’intera storia umana. Era più eccitante del più eccitante dei film porno. Con uno sforzo supremo, riuscii a trattenermi finché non fosse venuta del tutto. «Merda», sussurrò, squagliandosi tra le mie braccia mentre rotolavamo nel letto assieme. La tirai sopra di me, attratto dalla sensazione della sua pelle sudata. Chase bussò alla porta dal salone per farci sapere che non apprezzava tutto quel teatrino pomeridiano. Era tornato a casa dall’ospedale da due settimane ma lo stavamo ancora obbligando a prendersela comoda, e questo lo faceva diventare sempre più nervoso, specie quando lo costringevamo ad ascoltare le nostre attività acrobatiche. «Scusa!», urlò Saylor, mentre mi baciava il collo ridacchiando. Le poggiai la mano sul fianco. «Devi andare a lavorare adesso?» «Sì», sospirò rammaricata. «Non posso lasciare Truly da sola con quell’orda di

affamati. Tu che fai?». Guardai il telefono. «Devo stare là tra un’ora». Quando mio cugino Declan mi aveva chiamato dopo essersi imbattuto in Saylor, gli avevo detto di essere interessato alla sua offerta di introdurmi nel mondo dei tatuatori. Deck, in qualche modo, conosceva tutti ed era addentrato ovunque. Mi trovò un posto in un laboratorio locale, per fare l’apprendista. Scoprii con sorpresa che i clienti amavano i miei disegni e che a me quel lavoro piaceva. Non mi dava tanti soldi quanti ne guadagnavo combattendo, ma era un lavoro regolare e anche bello. Non potevo continuare per sempre a farmi prendere a colpi in testa, non ora che avevo motivo di pensare al mio futuro. Saylor guardava il suo anello con occhi sognanti. Mi ero quasi sentito imbarazzato quando glielo avevo dato. Non era il tipo di anello che le ragazze mostrano alle amiche. Non era nulla di speciale, una semplice fascia d’argento con delle parole incise sopra. Ma, Cristo santo, se le era piaciuto. Si era messa a piangere e mi aveva trascinato in camera da letto a scopare come se fosse invasata. Non lo chiamavo un anello di fidanzamento, perché era un concetto stupido che puzzava di formalità idiota. Ma lei era mia e presto ci saremmo ritrovati di fronte a chiunque volesse trovarsi lì con noi a sentirci pronunciare quelle parole. Le spinsi via i capelli dalla faccia così da poterla vedere meglio. «A cosa stai pensando?». Sorrise. «Diventerò una Gentry». «Non devi mica cambiarlo per forza, il tuo nome». «Stai scherzando?». Rise, baciandomi, per poi poggiarmi la testa sul torace. I suoi begli occhi verdi risplendevano. «Non vedo l’ora». Le diedi un pizzicotto sul culo. «Storicamente, essere un Gentry non è mai stato un punto d’orgoglio». «Be’», rispose testarda, «la storia sta per cambiare. Io ne sarò orgogliosa, Cord. Orgogliosa di stare vicino a te e orgogliosa di essere una Gentry. È quello che sei tu».

Sentii Chase alzarsi e sbattere cose in giro per la cucina. Immaginai che fosse ora di togliergli il guinzaglio e far sì che si sbattesse qualcos’altro. «Ti va di uscire stasera, dopo il lavoro? Noi e i ragazzi?» «Ah, liberiamo pure Chase?» «È ora», dissi, sentendolo bestemmiare ad alto volume nell’altra stanza. «È ora di infliggere di nuovo la sua presenza al resto della società». Saylor fece una pausa. «Pensi che verrà anche Creed?». Mi rabbuiai pensando all’altro mio fratello. Doveva ancora un grosso favore e potevano riscuoterglielo da un momento all’altro. Ci sarebbero potuti volere sei mesi come un solo altro giorno: ma a un certo punto Gabe gli avrebbe chiesto di combattere per lui. Su questo non c’erano dubbi. E quando fosse successo, avremmo dovuto affrontare la situazione come affrontavamo il resto delle cose. Insieme. «Penso che verrà», dissi. Saylor mi leccò il lobo dell’orecchio. «E tu? Verrai per me?» «Sono appena venuto. Lo hai dimenticato?» «No», disse, riaccendendosi tutta. «Quando usciamo, stasera, voglio fare una marachella assieme a te». Anche se avevamo appena finito di scopare, quello che diceva catturò subito la mia attenzione. «Tipo cosa?». Saylor aveva un’immaginazione fervida. Per me andava benissimo. Si leccò le labbra e iniziò a enunciare ogni sorta di gesto creativo che coinvolgeva il mio e il suo corpo. «Cazzo, se sei una maiala», grugnii. «Nel migliore dei modi possibili». «È per questo che mi ami». «È solo uno dei motivi».

Arrossì e abbassò lo sguardo, assumendo quell’espressione seria che mi spezzava sempre il cuore. «Sono davvero fortunata», bisbigliò. La afferrai e la abbracciai stretta. Era un fottuto miracolo. Lo era davvero. A volte non sapevo come dirglielo, ma mentre sospirava tra le mie braccia capii che lo sapeva già. Mi sarei accertato che non lo dimenticasse mai. Saylor mi poggiò il palmo della mano sul torace e io poggiai la mia mano sulla sua, sentendo la sagoma dura dell’anello e pensando alle parole che avevo fatto incidere al suo interno, le stesse che si era fatta incidere sulla pelle. Amor vincit omnia. L’amore conquistava davvero tutto. Ce lo eravamo insegnato a vicenda. E in questa vita, era l’unica lezione che valesse la pena imparare.

La Playlist di Draw

Hate Me – Blue October

Uninvited – Alanis Morissette

Higher Ground – Red Hot Chili Peppers

Sweet Child O’ Mine – Taken By Trees

Free Fallin’ – Tom Petty

Don’t Cry – Guns N’ Roses

‘Til Kingdom Come – Coldplay

Royals – Lorde

Brave – Sarah Bareilles

Carry On – Fun

Danny’s Song – Loggins and Messina

Hook – Blues Traveler

This Is Your Life – Switchfoot

The Joker – Steve Miller Band

All I Want Is You – U2