Indice
Titolo Colophon Quarta di copertina I II III IV V VI Nota
Il Conventaccio I miei ricordi
Liliana Lupi
Edizione digitale: marzo 2014 realizzata da Scrittura a tutto tondo
IL CONVENTACCIO © 2014 Liliana Lupi Tutti i diritti riservati
Copertina: Studio Ariete Creazione dell’eBook: Scrittura a tutto tondo
Questo eBook è stato auto-pubblicato dall’autrice Liliana Lupi tramite Narcissus e può essere utilizzato per sole finalità di carattere personale: senza l’esplicito consenso dell’autrice, il testo, le fotografie e i disegni non possono essere riprodotti o adattati con alcun mezzo, né in tutto né in parte. Chi desiderasse farlo è pregato di richiederne l’autorizzazione qui: http://www.scritturaatuttotondo.it/contatti/
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ISBN: 9788869092770 ASIN: B00J8OWBXS
Versione 1.1 - aprile 2014 (aggiornamento metadati)
Quarta di copertina
Quanto è importante avere solide radici? Quanto conta avere un buon rapporto con l’ambiente sociale dal quale si proviene?
Il lettore de Il conventaccio non potrà non porsi domande come queste. E il discorso sulle “radici” non è casuale, perché questa è una storia molto legata alla terra. Il mondo ritratto dall’autrice, in questo testo autobiografico, è quello della mezzadria: un particolare sistema contadino tipico dell’Umbria, e di buona parte dell’Italia centrale, fino agli anni Sessanta del Novecento. L’istituto mezzadrile è oggi scomparso dalle nostre campagne.
L’autrice descrive la mezzadria da un punto di vista socio-economico e soprattutto offre una vivida rappresentazione degli usi di quel tempo: dalla tosatura delle pecore alla tintura della lana, dall’aratura pre-meccanizzazione al lavaggio dei panni con la cenere e un tipo di sapone fatto in casa, a base di grasso di maiale lavorato con la soda.
Il “conventaccio”, la fortezza medievale semicrollata adattata a casa colonica nella quale l’autrice ha vissuto gli anni felici dell’infanzia, diventa la metafora di un mondo in disfacimento e troppo spesso ignorato, nei confronti del quale non si può non provare una certa nostalgia.
La pubblicazione è arricchita da foto d’epoca e disegni realizzati dall’autrice.
Nata a Ficulle, in provincia di Terni, Liliana Lupi ha vissuto in diverse città italiane, per stabilirsi a Roma nel 1962. Ha lavorato nel campo della moda per quarant’anni; è in pensione dal 2004. Ha un marito, tre figli e cinque bellissimi
nipoti.
I
Sono nata e ho trascorso i miei primi dodici anni, a cavallo del 1950, in una casa di campagna nel Comune di Ficulle, una ventina di chilometri a nord di Orvieto. Al cosiddetto “Conventaccio”, oggi in rovina, sono perciò legati tutti i ricordi della mia infanzia e soprattutto la memoria di mio padre, che ho perso pochi mesi dopo aver lasciato quella casa.
L’aspetto attuale del luogo non è purtroppo tale da aiutarmi a rinfrescare quei ricordi e quella memoria: il lungo, alto muro, che da tre lati circondava la casa, in gran parte crollato; la casa stessa ridotta a un cumulo di macerie; i dintorni, sui quali sta sorgendo una serie di graziose villette, quasi irriconoscibili. Ma non è tutto: molte delle persone con le quali ho diviso quegli anni non ci sono più; quelle che restano conservano ricordi appannati quanto e più dei miei; anche l’ambiente culturale e sociale è profondamente cambiato, persino nel linguaggio.
Le vicende seguite a quel periodo mi hanno privata anche di quegli oggetti materiali che possono richiamare momenti particolari; il modo di vivere di allora non ha consentito nemmeno di costituire e conservare una minima documentazione fotografica del luogo e delle persone. Le poche foto che conservo della casa risalgono a una ventina di anni più tardi, quando era già abbandonata e in cattivo stato. Più recentemente sono tornata sul posto, e la vista del suo stravolgimento, dovuto prima agli effetti del tempo e dell’abbandono, e poi alla presenza di un cantiere, mi ha fatto desiderare di mettere per iscritto i ricordi sempre ricorrenti, vividi, per lo più gai e festosi degli anni felici, troppo pochi, ati con mio padre.
Il Conventaccio, contrariamente a quanto da bambina avevo immaginato, era stato probabilmente un’antica fortezza dei Monaldeschi, un’imponente costruzione medioevale. Posta sul punto più alto della zona, dominava tutta la campagna circostante, ma era, ed è, in una posizione piuttosto isolata e fuori mano (il che non ha mancato di attirare l’attenzione dei costruttori di seconde case). Si trova infatti a circa 2 chilometri e mezzo dalla strada asfaltata, la S.S. 71, da cui si dirama ai 544 metri di altitudine del valico di Monte Nibbio, che dista altri 3 chilometri dal paese di Ficulle; e questo è già un indizio del disagio comportato dagli spostamenti, in un’epoca in cui ci si muoveva prevalentemente a piedi. Venuta meno la sua funzione originaria, la costruzione declinò e cominciò a trasformarsi in un rudere, ma in seguito una parte di essa fu ristrutturata come casa per i mezzadri, nella quale nel 1938 si stabilì la bella e prosperosa famiglia Lupi, dalla quale provengo. Al vertice stava la nonna Giuditta, vedova allora già da circa 20 anni, da quando cioè il nonno Pasquale era morto tragicamente per una caduta da cavallo (mio padre aveva solo pochi mesi). Non ne facevano più parte le zie Margherita e Leonetta, sposate da tempo; c’erano invece tre figli con le loro famiglie, uno dei quali però, lo zio Quinto, andò a vivere altrove proprio in concomitanza con lo sposalizio dei miei genitori. Quindi il podere, che qualche tempo prima era divenuto proprietà degli Antinori ed era stato inserito in una vasta tenuta, fu condotto da allora dalla nonna, da mio padre e suo fratello Ezio con le relative mogli e i figli, che sarebbero diventati in tutto sei, tre per ogni famiglia.
Quella dei miei genitori fu tra le ultime generazioni di mezzadri, dato che negli anni Sessanta l’istituto mezzadrile scomparve, e con esso anche il particolare ambiente socio-economico in cui trascorsi la mia infanzia, ambiente che fu della campagna umbra e di buona parte dell’Italia centrale per alcuni secoli. Era un modo tipico di produzione agricola e di vita rurale, che consisteva nell’associazione del proprietario della terra e della famiglia coltivatrice, allo scopo di ripartire gli utili della gestione; e presupponeva l’esistenza di un’unità tecnico-agraria, il podere, in grado, per estensione e varietà di colture, di coprire il fabbisogno della famiglia, che era a sua volta in grado di assicurare una gestione redditizia. Il proprietario conferiva l’abitazione e l’uso della terra da coltivare e si assumeva il carico della gestione amministrativa e fiscale, la famiglia coltivatrice conferiva l’opera produttiva, mentre il bestiame, le macchine, gli attrezzi, le sementi, i mangimi e i concimi erano in proprietà al cinquanta per cento. Di conseguenza il mezzadro, possedendo una parte del capitale e correndo tutti i rischi dell’impresa, riuniva in sé le caratteristiche di lavoratore autonomo, di imprenditore e di capitalista, sia pure di piccole dimensioni. Il prodotto della gestione, grano, olio, vino, bestiame e legname, veniva ripartito a metà tra i due soci, fatta eccezione dei prodotti orticoli, del pollame e di qualche capo tra suini e pecore, che spettavano per intero al mezzadro. Il rapporto mezzadrile, in quanto praticamente a tempo indeterminato e anzi tramandabile di padre in figlio, legava le generazioni alla terra, al sistema e tra loro stesse, impedendo conflitti e offese a carico della natura, e tutelando, anzi, esaltando e conservando i suoi tesori. La comunione degli interessi causava tra i soci un reciproco atteggiamento privo di pregiudizi di classe, e rendeva compatta la famiglia coltivatrice per una comunione di lavoro e una fruizione piena e assoluta, dalla nascita all’ultimo respiro.
Questo sistema di civiltà rurale, coinvolgendo l’intera popolazione secolo dopo secolo, ha comportato stabilità e sicurezza, uguaglianza e solidarietà, assenza di conflittualità, senso di responsabilità e mancanza di spazio per gli egoismi individuali.
Ben diversa la situazione nel Settentrione, dove si è andato accentuando lo sviluppo industriale anche in agricoltura con la creazione di vaste e ricchissime aziende mediante macchine e personale salariato: il sistema ha portato come conseguenza una conflittualità disumana tra dipendenti e proprietari, aspramente divisi da interessi contrapposti; o nel Meridione dove il prevalere per secoli del latifondo generò la sottomissione servile, quasi una schiavitù dei “cafoni” agli odiati baroni della terra. Di tutt’altra natura fu il panorama umano in cui io crebbi e mi formai: composto da famiglie, quasi tutte numerose, disseminate più o meno a un chilometro di distanza l’una dall’altra, sempre pronte ad aiutarsi, a partecipare di cuore alle rispettive vicende. E a raccogliersi in liete brigate per risolvere insieme e alla svelta le più impegnative faccende come la semina, la mietitura, la trebbiatura, la potatura, la scartocciatura, le fienagioni, la raccolta delle olive, la tosatura delle pecore...
II
Questo mondo non esiste più, per un insieme complesso di motivi. Comportava una vita di duro lavoro, articolato in un’ampia serie di attività e mansioni, tutte richiedenti un serio impegno mentale, ma soprattutto muscolare, solo parzialmente ato dall’energia animale (bovina ed equina), con una precisa e puntuale distribuzione dei compiti fra tutti i membri della famiglia, ad eccezione forse solo dei lattanti. La famiglia doveva perciò essere numerosa: mio nonno Pasquale, morto prematuramente, non riuscì a mettere al mondo più di cinque figli, ma la media nelle campagne era anche più alta. Non solo, ma i figli maschi sposandosi rimanevano tendenzialmente coi genitori e i fratelli, e introducevano con la moglie una nuova forza lavoro. Ne veniva fuori una struttura piramidale su tre generazioni, che poteva raggiungere anche le 20-30 unità, e che aveva bisogno di rinnovarsi continuamente. Solo quando, venuta a mancare la generazione più anziana, si constatava che il numero delle persone diventava troppo alto in rapporto alla redditività del podere, i fratelli potevano decidere di separarsi (oppure di trasferirsi in un podere più grande).
I lavori più pesanti erano naturalmente riservati agli uomini: si arava con l’aratro tirato da bovini, ma bisognava sollevarlo di peso a ogni inversione di solco; non c’erano macchine se non quella per la trebbiatura, che comunque richiedeva un grande lavoro manuale. Ma anche le donne erano sottoposte a gravi fatiche. Non c’era acqua corrente in casa: nei casi più fortunati ci poteva essere un pozzo nelle vicinanze, usato per irrigare un orto e per abbeverare gli animali; l’acqua potabile (o considerata tale) veniva attinta a una sorgente di solito piuttosto lontana e trasportata in grosse e pesanti brocche poste sulle teste femminili, oppure, in casi sporadici, in bigonci posti sul carro. Per fare il bucato, in ambito casalingo c’era il sistema del “ranno” o la tinozza; per il risciacquo si andava, con una cesta sulla testa, al più vicino (o meno lontano) corso d’acqua oppure alla fontana in prossimità della sorgente.
La rete elettrica non raggiungeva le case di campagna, quindi non si potevano usare elettrodomestici (che del resto anche in città avevano appena iniziato a diffondersi). Invece del frigorifero c’era la cantina, scavata in genere nella roccia fino a una certa profondità e piena di tini, botti, bigonci, damigiane, ma anche di formaggi e salumi, che bisognava difendere dai topi. L’illuminazione era affidata a pochi lumi alimentati a olio o a carburo, di cui si cercava di limitare il consumo principalmente andando a letto presto e utilizzando al meglio le ore di luce diurna. Scarsa era l’acqua, e di conseguenza l’igiene; i servizi igienici erano per lo più rudimentali o inesistenti; si economizzava nel lavare le stoviglie. Si cucinava nel grande focolare, che troneggiava nell’ambiente più grande della casa, contenente anche un enorme tavolo circondato da sedie, panche e sgabelli, un credenzone, la madia per impastare e lievitare il pane. Si faceva un gran consumo di legna, anche per riscaldare d’inverno; per lo più si approvvigionava nel vicino bosco, e si accatastava nella legnaia nella stagione opportuna. Niente elettricità, niente radio; la televisione nemmeno esisteva. Le notizie dal mondo esterno arrivavano in modo frammentario, indiretto, intempestivo; il che aveva anche il suo lato positivo, contribuendo a farci vivere serenamente a contatto con la natura e coi nostri cari.
Non si andava in vacanza; invece delle ferie c’era solo un rallentamento delle attività nei mesi invernali. Gli svaghi erano per lo più legati, anch’essi, alle attività agricole, secondo il criterio fondamentale: cercare di trarre dal podere quasi tutto quanto era necessario per vivere, producendolo personalmente, in buona parte, anche il vestiario e le calzature, nonché le attrezzature per i vari lavori. Si riducevano al minimo gli acquisti, sia perché di denaro ne circolava poco, sia perché per quelli bisognava andare, come minimo, al paese, se non al capoluogo, o ancora più lontano. Anche questo era un problema, che tuttavia andava di quando in quando affrontato: c’erano cose che bisognava per forza acquistare, a cominciare dai fiammiferi, e poi alcuni alimenti come il sale e lo zucchero; ci si doveva spostare per problemi di salute, o per recarsi al Comune; non si poteva fare a meno di partecipare alle fiere che si svolgevano periodicamente nel proprio paese e in quelli vicini. E poi chi frequentava la scuola (solo per pochi anni) doveva andarci tutti i giorni, ed era lontana. La motorizzazione di massa è cominciata anni dopo: allora si camminava, qualcuno cavalcava, e per andare al mulino o in altri casi speciali si usava il carro agricolo. Del resto le strade che si percorrevano non avrebbero permesso altri veicoli: niente asfalto, escluse poche strade statali (non esistevano autostrade), fango d’inverno, polverone d’estate.
Era quindi un tipo di vita logorante, si invecchiava presto; a 45/50 anni si poteva essere apprezzati per esperienza e saggezza, ma non più per vigoria fisica. La salute era comunque malcerta anche tra i giovani; non erano lontani i tempi in cui mietevano vittime la polmonite, la tubercolosi, la poliomielite, le malattie infantili. Il pediatra? Chi era? E il dentista? Solo un cavadenti. Gli aspetti positivi di quel tipo di vita non compensavano dunque gli immensi sacrifici, ai quali ho accennato solo in parte. Non appena, negli anni Cinquanta, dopo la Ricostruzione si verificò quello sviluppo industriale che doveva portare al cosiddetto “miracolo economico”, le migliorate condizioni di vita nelle regioni del Nord e nelle grandi città attrassero un numero sempre maggiore di contadini, e in pochi anni l’esodo dalle campagne diventò imponente. Si credette di arrestarlo con misure tardive e inefficaci: dapprima alzando la quota spettante al mezzadro (dal 50 al 53%, poi al 58, al 60), poi abolendo addirittura questo tipo di rapporto, nella illusione che ciò avrebbe favorito l’acquisizione generalizzata della proprietà della terra da parte dei contadini e un loro maggior interesse a restarvi. Ma questo non si verificò, anche per la sempre maggiore tendenza a un’agricoltura intensiva e meccanizzata, cui mal si prestano i terreni prevalentemente collinosi dell’Italia centrale. In altre parole, la produzione agricola della pianura padana tendeva a diventare sufficiente per tutta l’Italia, almeno per le colture più massicce; un’estensione sempre maggiore di terreno dell’Umbria (e di altre regioni) era destinata a rimanere incolta.
Lo Stato non prese dunque quelle misure che avrebbero potuto trattenere i contadini nelle campagne, creando le cosiddette infrastrutture, e cioè portando alle loro case acqua, elettricità, gas, telefono, e inoltre strade percorribili dai mezzi del trasporto pubblico, scuole e quanto necessario a una vita ragionevolmente confortevole; creando inoltre una efficace struttura di tipo consortile in grado di fornire loro i mezzi organizzativi e finanziari per attrezzarsi modernamente, adeguare i tipi e i metodi di coltura alle esigenze del mercato, eccetera. Ma forse l’Italia di allora non se lo poteva permettere... o aveva altro da pensare.
Certo il progresso inarrestabile e sempre più rapido della scienza e della tecnica ha il suo prezzo in termini culturali e sociali, causando mutamenti profondi e continui nelle nostre condizioni di vita, e io non voglio rimpiangere quelle del ato; ma sono anche convinta che per i miei primi anni felici sono debitrice al particolare ambiente socio-economico in cui mi trovai immersa.
III
Questa premessa, utile ad ambientare i ricordi, riguarda però solo in parte il destino mio e della mia famiglia. Noi eravamo una comunità relativamente anomala, costituita soltanto, alla mia nascita, da un’anziana, quattro adulti e tre bambini, e arricchita in seguito da altre tre nascite.
Lasciata la città di Orvieto, e percorrendo la Strada Statale 71, si varca prima il Paglia e poi il Chiani presso la villa Ciconia; continuando a salire si oltrea a sinistra la discesa per il castello della Sala, visibile dall’alto con la sua imponente torre cilindrica tra i vigneti dell’azienda vinicola degli Antinori, e si giunge poi al valico di Monte Nibbio a quota 544 metri, in una bellissima posizione panoramica sul solco del Chiani; da qui, girando a destra per una stradina di campagna tra boschi e prati, dopo circa 4 chilometri si arriva al Conventaccio. Un panorama incantato: ricordo le sere d’estate in cui con mio padre ci divertivamo a individuare i piccoli paesi, macchie di luce tenue che sembravano tanti presepi allestiti sulle colline, mentre il prato e la siepe sul vasto spazio davanti alla casa brillavano anch’essi del chiarore delle lucciole, che noi rincorrevamo cercando di acchiapparle. Il babbo ci indicava Orvieto, dove lui e mio zio si recavano una o due volte al mese a fare acquisti: vestiario, scarpe, stivali per la pioggia e tante altre cose necessarie; malgrado la distanza, che a noi sembrava enorme, a piedi o col somarello loro andavano e tornavano in giornata.
Nei miei ricordi vedo una casa grande e confortevole. Nella parte meglio conservata del muro di cinta, sul lato sud-ovest, si apriva il grande arco in pietra che era stato presumibilmente l’entrata principale dell’antica fortezza; ad esso si accedeva da un breve aggio in salita parzialmente lastricato, abbastanza largo da permettere il aggio dei carri, il cui deposito era un vasto androne che si apriva oltre l’arco. All’interno venivano riposti anche tutti gli attrezzi necessari al lavoro dei campi e ad altre attività collaterali: il contadino infatti doveva sapersela cavare anche come muratore, carpentiere, falegname, calzolaio, eccetera; quindi era lì anche il banco da lavoro costruito e utilizzato da mio padre, che ava le giornate piovose a legare scope, fabbricare manici per le falci, riparare sedie e sgabelli e altro. Ancora nell’androne, subito a destra dell’arco, una lunga e ripida scala in pietra portava all’abitazione. Erano forse 24 scalini, ma mi sembravano tanti di più; e ancor più mi sembrarono quella sera d’estate (dovevo avere sei o sette anni) in cui dovetti farli tutti di corsa insieme ai miei cugini e ad a altri bambini del vicinato che erano venuti a giocare con noi. Eravamo tutti insieme sul piazzale quando vedemmo arrivare il montone scappato giù dal podere dei Bonini, nostri vicini, dirigendosi proprio verso casa nostra. Le donne accompagnarono subito noi bambini su per le scale a rifugiarsi in casa e poi tutti corremmo alle finestre delle camere da letto a goderci come da un comodo palco di prima fila lo spettacolo della cattura della bestia imbizzarrita. Certamente la fantasia infantile ha ingigantito nel ricordo la drammaticità dell’episodio e le dimensioni dell’animale, ma mi è rimasta impressa la scena di mio padre, che insieme allo zio Ezio (munito di un forcone) e al Bonini, nel frattempo sopraggiunto, circondavano un enorme montone, cercando di dirigerlo verso i campi a raggiungere il gregge delle pecore al pascolo.
La casa si estendeva lungo il muro originario dell’antica costruzione fino all’angolo sud del quadrilatero. Sotto di essa, sulla facciata, c’era la porta della stalla dei bovini, che a me sembrava immensa, e in effetti come superficie era circa due terzi dell’intera abitazione soprastante. La stalla era suddivisa in diversi settori: a destra della porta d’entrata lo spazio riservato ai bovini adulti dove, legati alle mangiatoie, i buoi e le vacche erano non meno di dodici, in fondo due recinti contigui per una piccola popolazione di vitelli che si rinnovava continuamente: uno per quelli già svezzati, attaccati anch’essi alla loro mangiatoia, e l’altro per i vitellini da latte; infine in fondo a sinistra c’era il ripostiglio, nei distinti scomparti, dell’erba, del fieno e della paglia per la lettiera; un canaletto di scolo attraversava l’ambiente in tutta la sua lunghezza, mentre sulla parete a sinistra dell’entrata erano appesi o appoggiati gli attrezzi. Di seguito a questo, un ambiente più piccolo ospitava l’asino e, allineate in fondo alla parete di destra, le gabbie dei conigli: piccoli animaletti grigi simpatici e graziosi, che quando ero piccolina mi incantavo a veder brucare dalle mie mani i ciuffi d’erba che porgevo loro, attingendola da grossi cesti poggiati accanto alle gabbie, sempre pieni di erba fresca.
Ero capace di starci delle ore e la nonna mi lasciava fare anche perché, mi spiegò una volta quando ero più grande e tale occupazione non mi attirava più, quel mio gioco aveva una certa utilità; se infatti si metteva l’erba direttamente nelle gabbie, gran parte di essa andava perduta, perché, pestata dalle bestiole in continuo movimento, presto apiva o marciva. Girato l’angolo, sul lato sudorientale del muro di cinta si aprivano altri locali. Prima la stalla delle pecore e delle capre, col recinto per i nuovi nati in un angolo, cosicché agnellini e caprettini avevano sempre pronte a disposizione le poppe delle mamme a cui attaccarsi.
Ma certo non lo finivano loro tutto quel latte: le nostre mamme andavano a mungere con un secchio smaltato di bianco quello che rimaneva per farne del buon formaggio: caciotte, caciottine e ricotta, che buone così non le ho mangiate mai più.
Poi veniva la cantina, una piccola stanza al centro della quale una lunga scalinata scavata nella roccia portava a un vano freddo e buio, dal cui soffitto cadeva sempre qualche goccia d’acqua. Io e mia cugina Lena, quando venivamo incaricate di andare a prendere il vino fresco, vi scendevamo con grande riluttanza e ci fermavamo il minimo indispensabile, perché là sotto terra provavamo una grande paura: ancora oggi, penso che non ci sarei andata mai da sola.
Subito dopo si trovava il recinto delle galline, addossato al muro di cinta con due brevi pareti in muratura, mentre il quarto lato era di rete metallica con un cancelletto. Questo naturalmente era il lato più debole della struttura e infatti ogni tanto nella rete si formava qualche buco, che mio padre era sempre pronto a riparare inchiodando delle tavolette alla rete per evitare che entrassero altri animali, specialmente la volpe. Ma purtroppo una volta questo successe, malgrado la casa fosse sorvegliata da ben tre cani: Stellina, specialista per la caccia; Fido, un grosso cane bianco per la guardia generale; Dora per le pecore al pascolo. Non so proprio perché in quell’occasione non fecero il loro dovere e così la mattina trovammo galline e galletti stramazzati a terra; ricordo il dispiacere della nonna e di tutti, e anche per me fu un episodio conturbante e indelebile.
Poco oltre c’era un altro arco, più piccolo di quello principale, che immetteva alla parte interna dell’antica fortezza, quella esclusa dalla ristrutturazione e pertanto ingombra di macerie, per cui a noi bambini raccomandavano di non andarci e del resto non era un luogo ambito per giocare, con tutti i campi e i boschi che avevamo a disposizione. Ma quando eravamo più grandicelli talvolta ci veniva la voglia di entrarci, giusto per lo sfizio di are poi, attraversate le macerie, sotto il terzo arco che si apriva nel terzo lato delle mura, quello opposto all’entrata; oppure ci scendevamo addirittura da una delle finestre dalla parte interna della casa, nel punto in cui il mucchio di avanzi delle rovine giungeva quasi fino ad essa, e facevamo questo solo per il gusto di uscire subito all’aperto senza dover are per la cucina, la porta di entrata e le scale. Forse in origine esisteva un quarto varco nell’ultimo lato delle mura di cinta, ma questo già allora era completamente crollato e se ne indovinava solo l’esistenza. A sinistra dell’arco di entrata, sulla facciata, appoggiata al muro di cinta, c’era un’altra piccola costruzione col tetto di tegole rosse, alta circa tre metri, che proseguiva fino all’angolo ovest.
Comprendeva il grande forno a legna, la casa dei maiali e quella delle chiocce e pulcini, un angolino simpatico a tutti noi bambini, che avevamo sempre una immensa curiosità di vedere come nascono i pulcini e saremmo andati ogni momento ad affacciarci alla porticina, ma la nonna ci raccomandava di non disturbare mamma chioccia, che doveva stare tranquilla e calda, altrimenti non avrebbe covato a dovere le uova e non sarebbero nati i pulcini. A volte sotto la pancia e le ali calde della gallina erano state messe anche delle uova di anatre o di oche che non erano disposte a covarle, e la nonna aveva recuperato dove erano state deposte, nascoste sotto le siepi e tra i cespugli; e così nascevano anche paperelle e ochette; ed era tanto divertente dopo vedere tra la frotta dei “figli” che seguivano mamma chioccia, alcuni pulcini più grandi e diversi, che accorrevano insieme a tutti gli altri a quel suo particolare richiamo quando li avvertiva che c’era in palio qualche buon bocconcino.
Tra i nostri animali da cortile c’erano anche alcuni esemplari delle cosiddette “gallinelle americane”, tanto carine insieme al loro chiassoso galletto così elegante e sempre impettito, ma molto raramente le galline di quella specie venivano messe alla cova, penso a causa delle loro piccole dimensioni, anche se ogni podere ne allevava almeno una coppia forse solo “per bellezza”; e poi credo che i loro pulcini siano molto delicati e sia difficile farli arrivare all’età adulta. Infatti l’unica volta che mi ricordo ci sia stata una covata “americana”, fu certamente un evento piuttosto drammatico. All’inizio eravamo tutti incantati nel vedere quei batuffoletti minuscoli (eravamo rimasti sorpresi che fossero nati non gialli come i comuni pulcini, ma già con le piume multicolori come quelle dei loro genitori) che zampettavano dietro la piccola chioccia vispi e pigolanti. Ma dopo qualche giorno alcuni di loro cominciarono a barcollare e poi a rimanere inerti per non alzarsi più. Su uno di loro, che a me piaceva particolarmente per il piumaggio quasi blu, punteggiato qua e là di punti di color rosso fucsia, mio cugino Pasquale volle fare un esperimento (chissà se qualcuno glielo aveva suggerito o se l’era inventato lui): gli fece bere alcune gocce di vino rosso, convinto che gli avrebbero dato forza; ma ciò non migliorò la situazione e dopo un po’ anche il mio preferito era morto. Lena e io gli facemmo il funerale sotterrandolo in una scatoletta sotto un alberello. Davanti alla facciata, un praticello digradava verso un grande piazzale, da cui lo divideva una strada di campagna che correva diagonalmente, per poi girare attorno all’angolo meridionale della casa. Al di là della strada, il piazzale si allargava verso l’angolo dell’edificio, dove si trovava un antico bellissimo pozzo coperto (più precisamente una cisterna), che raccoglieva l’acqua piovana per le necessità degli animali e dell’orto, ma anche per lavarsi, o per lavare i panni e i pavimenti. Non era, come si potrebbe immaginare, un pozzo rotondo, come lo si trova nei cortili dei palazzi antichi, o in qualche piazza nei vecchi paesi, ma si presentava come una piccola, bassa costruzione: una torricella quadrata alta meno di due metri e larga poco più di uno, al centro della quale e all’altezza dal suolo di circa 70 cm si apriva una finestrella rettangolare, più larga che alta, chiusa normalmente da un cancelletto di legno a grata, opera di mio padre. Quando doveva essere attinta l’acqua, veniva calato con una lunga fune un secchio che si trovava sempre appeso a un gancio nel muro accanto all’apertura;
non ricordo che ci fosse una carrucola, quindi era un lavoro faticoso, fatto in prevalenza dagli uomini, mentre mio cugino Pasquale, che è stato sempre un gran giocherellone, dietro le spalle del padre o dello zio usava l’estremità della grossa fune, di mano in mano che, col salire del secchio questa si acciambellava per terra, agitandola come una frusta per tenere lontani noi più piccoli.
Di fianco al pozzo si stendeva una folta siepe di una pianta di cui non conosco il nome, ma che noi chiamavamo scopo (perché veniva utilizzata anche per fabbricare robuste scope per spazzare l’aia), che d’estate appariva spesso coperta di panni stesi ad asciugare, e che separava il piazzale dall’orto; era sempre mio padre che con gran dedizione si occupava della sua manutenzione; ed era anche teatro dei nostri giochi a nascondino. Da un lato il pozzo proseguiva per circa due metri con un muretto, e dietro di esso si alzava una maestosa pianta di sambuco, alla cui ombra su due grossi blocchi di pietra, come su comode panchine, trovavano ristoro al caldo estivo grandi e piccini. E quando la pianta era in piena fioritura e invasa da un’infinità di coleotteri verdi e blu, noi li catturavamo, legavamo a una delle loro zampette un lungo filo e li lasciavamo volare in circolo, correndo dietro a loro finché non eravamo stanchi e affannati, e allora li liberavamo (questo sempre con l’aiuto di Pasquale, grande ideatore di giochi). Il piazzale terminava poi sul lato anteriore col proseguimento del muretto che lo divideva dall’aia, alla quale si accedeva da una diramazione della strada. In esso si svolgeva principalmente la nostra vita all’aperto: mi rivedo insieme ai miei cuginetti, una schiera di bimbi eccitati e festanti, rincorrere per ore davanti alla casa centinaia di bestioline, tra galline, pulcini, faraone, papere, gattini, cagnolini, a cui davamo da mangiare insieme alla nonna sempre attenta a noi, a raccomandarci di non avvicinarci troppo al pozzo, perché poteva essere pericoloso.
L’interno della casa era grande come si conveniva a una casa di campagna dell’epoca, che, oltre a ospitare una famiglia numerosa, doveva fornirle anche i locali da adibire a dispensa e magazzino. Il suo cuore pulsante era l’enorme cucina a cui si accedeva dalla porta in cima alla scala (che bisognava stare sempre attenti a chiudere appena entrati o usciti, specialmente d’inverno, per non incorrere nel ritornello della nonna: “Chiudete l’uscio!”). Al centro della parete più interna troneggiava il focolare quasi sempre per cuocere, in pentole di coccio, fagioli, ceci, verdure, minestre, e (perché no?) il pancotto, mentre il paiolo appeso a una catena serviva per cuocere la pasta o la polenta, ovvero per scaldare l’acqua per altri usi. Nel mezzo, il tavolo lungo e largo spesso occupato da una spianatoia su cui la nonna impastava fettuccine o gnocchi. Tutt’intorno, una serie di porte lungo tre pareti conducevano agli altri locali: all’angolo esterno, la camera degli zii; a fianco, quella dei miei genitori, dove dormivamo anche noi figli; di seguito, il magazzino delle granaglie, da cui si accedeva al bagno (si fa per dire: uno sgabuzzino con water che finiva in un pozzo nero) e dalla cui finestra si poteva scendere nel cortile interno, ingombro di macerie. Dietro il focolare c’era la camera più calda della casa, quella della nonna, ampia e ben arredata: ricordo un grande comò in legno di noce massiccio, al centro del quale era poggiata una piccola specchiera fornita di un minuscolo cassettino, e soprattutto il grande letto in ferro, che aveva la testiera dipinta con un motivo floreale e un grosso materasso, che merita di essere descritto perché era allora un elemento caratteristico delle case dei contadini. Era costituito da un involucro di tela grezza riempito con un grosso spessore di foglie secche di granturco, che crocchiavano anche solo appoggiandovisi, con alcune feritoie laterali abbastanza larghe da potervi introdurre le mani, che servivano per riallargare, al mattino, le foglie schiacciate dal peso del corpo dei dormienti, ripristinandone così l’alto spessore e la soffice consistenza; il letto risultava talmente alto dal suolo che anche un adulto aveva qualche difficoltà a salirci, tanto più che sopra quel materasso ne veniva solitamente posto un altro sottile, di lana, per attenuare la ruvidezza delle foglie secche.
Sotto la finestra c’era il lavabo: una struttura circolare in ferro con un cerchio in alto per sostenere il bacile, una tavoletta in basso per la brocca dell’acqua e due bracci ai lati per gli asciugamani, ogni camera da letto aveva il suo, ma quello della nonna era il più bello, col bacile e la brocca di ceramica dipinta, gli asciugamani ricamati sempre lindi e stirati e il secchio per l’acqua sporca grande e di colore blu. Di ceramica era anche il suo grande vaso da notte, tenuto però al riparo dietro lo sportello di uno dei due alti comodini ai lati del letto.
Sulla parete a sinistra del focolare, un piccolo arco conduceva a un grande locale leggermente rialzato che avrebbe dovuto essere il “salotto” della nonna, ma che era poco usato e veniva piuttosto adibito a dispensa: c’era un tavolo con delle sedie e un grande mobile a vetrina pieno delle tazze, dei bicchieri e dei piatti più belli.
Da questo si accedeva ad altri due locali. Sul fondo, un po’ nascosta, una stanzetta che fungeva da magazzino di formaggi e salumi; di fronte a questa, e sopra l’androne di entrata, fu ricavata, con un tramezzo, la camera dei ragazzi, quando eravamo già grandicelli.
IV
La vita si svolgeva con semplicità e grande allegria, con ritmi regolari dettati dalla consuetudine e, di volta in volta, dalle necessità contingenti. I grandi lavoravano nei campi tutto il giorno e poco tempo avevano da dedicarci, ma noi bambini eravamo felici e contenti e non ci annoiavamo di certo, occupandoci talvolta di qualche piccola incombenza alla nostra portata, sotto lo sguardo vigile della nonna. Era lei il capo indiscusso della famiglia, che dirigeva con energia e insieme mitezza da quando aveva dovuto prendere le redini al posto del nonno, che morendo l’aveva lasciata con cinque figli tutti minorenni. Era lei che teneva le chiavi, che teneva i rapporti col fattore (che ne era incaricato dal proprietario della terra, quando questi possedeva molti poderi), che badava ai più piccoli di noi in assenza dei rispettivi genitori, che era sempre prodiga di buoni consigli e incitamenti coi più grandicelli. Piccolina e cicciottella (un po’ come me), si aggirava continuamente indaffarata per la casa e nei paraggi col suo grembiule legato in vita, dalla cui cintura pendeva un mazzo di chiavi che custodiva gelosamente: per noi piccoli quella rappresentava l’accesso a quanto di più goloso c’era nella casa. Le nuore, pur essendo principalmente impegnate nei pesanti lavori dei campi, la aiutavano però validamente in lavori altrettanto pesanti, ma compiuti con la massima disinvoltura; uno di questi era quello di andare quotidianamente a prendere l’acqua potabile alla fonte, che era piuttosto lontana, portando una pesante brocca di coccio sulla testa, poggiata su un cercine fatto con un panno arrotolato strettamente, più un’altra o due in mano, risalendo faticosamente al ritorno per una strada ripida.
Una o due volte la settimana la nonna e le nostre mamme si alzavano prestissimo per cuocere il pane. La sera prima avevano preparato nella madia la pasta mescolando farina e acqua tiepida, nella quale avevano fatto sciogliere un pezzetto di lievito naturale (conservato dalla pasta della volta precedente), ma niente sale, come è tradizione in Toscana e Umbria; solo una volta vollero provare, dietro suggerimento di un cugino di mia madre che abitava in città, ad aggiungerne un po’, ma l’esperimento non ebbe successo e non fu più ripetuto. Al mattino l’impasto veniva lavorato di nuovo e poi suddiviso in porzioni (dieci o quindici) destinate a diventare forme di pane, che mettevano poi a riposare per un paio d’ore su una lunga tavola ben infarinata, in fila e coperte da un panno che ne impedisse il contatto. In attesa che si completasse la lievitazione, si accendeva il forno (che si trovava, come ho già detto, all’esterno, adiacente all’arco di entrata) e lo si alimentava con tanta legna; quando era ben caldo se ne liberava accuratamente la zona centrale da tizzoni, cenere e carboni, poi con la lunga pala di legno si trasferivano dalla tavola all’interno i filoni, che venivano ogni tanto controllati (ma il forno doveva restare aperto il meno possibile) e fatti ruotare da una zona all’altra del forno per ottenere uniformità di cottura. Insieme al pane si cuocevano anche delle focacce salate, condite semplicemente con pomodoro o rosmarino o cipolla, ma gustosissime appena sfornate; noi bimbi cercavamo avidamente di guadagnarcele collaborando nelle operazioni più semplici.
Anche al rito del bucato partecipavano insieme o a turno le tre donne di casa. Sul pianerottolo in cima alla scala, a destra, a lato della porta della cucina, si trovava il recipiente di terracotta smaltata, protetto ai lati da un muretto di mattoni, nel quale si ponevano i panni bianchi, precedentemente insaponati nei punti più sporchi (anche il sapone veniva prodotto in famiglia, a partire dal grasso di maiale lavorato con soda), ben sistemati a strati e ricoperti da un telo di canapa; sopra questo, uno strato di cenere su cui veniva versata molta acqua bollente, proveniente dal paiolo; e lì i panni rimanevano per tutta la notte. Il giorno dopo, tolto il tappo posto in basso, si recuperava l’acqua, utilizzata poi per lavare i capi colorati, e infine tutti i panni venivano caricati in grandi ceste e portati a risciacquare nel lavatoio, o sulla testa col solito cercine oppure in ceste molto grandi fornite di manici, da trasportare in due. Il lavatoio, distante dalla casa un
buon quarto d’ora di cammino, era grande e ben costruito per essere usato anche dalla famiglia del podere confinante, il che costituiva occasione di incontro e di socializzazione con le vicine. La collaborazione in queste operazioni era veramente importante; si pensi alla fatica di sciacquare a mano quelle pesanti lenzuola e quindi di torcerle (altro che centrifuga), per poi rifare il cammino a ritroso, naturalmente in salita, col carico da stendere infine sulle siepi.
Nelle sere d’inverno, dopo il tramonto, la cucina diventava affollata e teatro di varie attività. Gli uomini, dopo aver portato e accatastato in un angolo fardelli di legna per il focolare, avevano provveduto a preparare e accendere le lucerne e la lampade a carburo. La lucerna era una semplice scatola di latta, o anche un piccolo recipiente di terracotta (con un prolungamento, che permetteva di appenderla ai chiodi infissi sul bordo del focolare, e un manico), in cui si metteva dell’olio che imbeveva uno stoppino di fibra di canapa sporgente da un foro, che quando veniva produceva una luce fioca e fumosa, appena sufficiente per muoversi in casa. La lampada a carburo si prestava invece ad essere usata anche all’esterno, per esempio per scendere nella stalla la mattina presto, perché produceva una fiamma più viva e luminosa, che non si spegneva facilmente; era un recipiente di ghisa a doppia tazza (munito di robusto gancio) simile a una caffettiera, contenente acqua nella parte superiore, che, attraverso una valvolina regolabile, gocciolava nella parte inferiore sul carburo (una specie di pietra dura e maleodorante) dosato in modo da durare per la serata, che a contatto con l’acqua produceva acetilene, un gas infiammabile che risaliva uscendo da un ugello.
Le donne, dopo aver riordinato e sbrigato le ultime faccende domestiche, si sedevano accanto al camino e si dedicavano un po’ ai lavori tipicamente femminili: filavano la lana con la rocca e il fuso, lavoravano a maglia, rammendavano. La mia mamma era bravissima nei lavori all’uncinetto, che le erano sempre piaciuti, avendoli appresi fin da quando aveva poco più di dieci anni da una signora che abitava in paese e lavorava per una ditta di Orvieto, specializzata in confezione e commercio di biancheria da casa, e che, vista la sua bravura e precisione, le aveva anche procurato del lavoro, consistente nel confezionare, su ordinazione, col “filo d’Irlanda”, metri e metri di merletto destinato a orlare tovaglie e lenzuola di tela di lino. Faceva anche decine di fiori a rilievo, o altre figure, come farfalle o piccoli tondi dall’elaborato disegno, da inserire in belle tovaglie o eleganti cuscini da salotto. E così per alcuni anni mamma aveva dato un piccolo contributo al bilancio famigliare, cosa non trascurabile, in quel tipo di economia che in casa faceva circolare ben poco denaro. Col matrimonio, quell’occupazione si era interrotta, e d’altra parte non ne avrebbe avuto il tempo; però ogni tanto la vedevo impegnata a fare, per puro diletto, centrini o frange, e questo è rimasto sempre il suo atempo preferito.
Altro lavoro che vedevo fare dalle donne, in cucina, di sera, era la tintura della lana, con un procedimento che mi affascinava. Si faceva bollire in un grande recipiente di terracotta il mallo ancora verde delle noci e poi vi si immergevano le matasse di lana o addirittura i capi già confezionati, che poi, ben risciacquati e asciugati, diventavano di un bel marrone più o meno intenso a seconda del tempo di immersione.
La lana era uno dei prodotti del podere di pertinenza principalmente delle donne, a partire dalla tosatura. Era un’operazione molto divertente e interessante per noi bambini, anche perché si svolgeva annualmente nei mesi caldi. Si portava prima il gregge a lavare in una pozza del fiume Chiani: bastava spingere in acqua la prima pecora perché le altre la seguissero spontaneamente e docilmente una dietro l’altra; generalmente, però, erano necessari diversi aggi, secondo il grado di sporcizia. Quando si vedevano pulite, si aspettava, anche due o tre giorni, che fossero ben asciutte prima di tosarle. A questo scopo, il pavimento della stalla era stato precedentemente vuotato del suo letto, lavato e ricoperto di paglia pulita. Allora le pecore si ponevano sopra una tavola con le zampe legate a due a due e si adoperavano le apposite forbici dai grossi manici, impugnandoli con entrambe le mani, e dalle lame di una curiosa forma arrotondata al centro. Per lo più, la pecora sopportava tranquillamente, ma talvolta faceva un scatto, cui poteva conseguire un piccolo graffio, e allora reagiva con un belato di protesta. Poi le nostre mamme sceglievano la lana più adatta ad essere filata, la lavavano bene prima di are alla filatura, che si effettuava anche durante le occupazioni meno impegnative, come ad esempio il pascolo, per il quale mia madre aveva validissimi aiutanti nei nostri cani. Una volta che i fiocchi di lana erano diventati gomitoli, coi ferri li trasformavano in golfini, calze, cappottini, mantelline, sciarpe e cappelli, cioè il grosso del nostro abbigliamento. La lana non ammessa alla filatura poteva andare a imbottire cuscini o materassi. Le serate, in genere, non si prolungavano molto. Presto le mamme lasciavano il riposante lavoro a maglia per prepararci alla notte, il che comportava, nella stagione più fredda, un’operazione di grande attenzione. Il focolare era l’unica fonte di calore della casa e riscaldava molto bene la cucina, ma le camere da letto erano fredde quasi quanto l’esterno, esclusa quella della nonna. Si provvedeva quindi a riscaldare preventivamente i letti con un elemento molto
caratteristico chiamato “prete”. Era una struttura di legno, di circa un metro di lunghezza e mezzo di larghezza, a forma di navetta fatta con grandi doghe ricurve e un piano in basso, munita in alto, al centro, di un anello in ferro, al quale veniva agganciato uno scaldino contente brace, facendo in modo che nessun frammento, neanche piccolissimo, potesse cadere e bruciare le lenzuola. Ed ecco un episodio, legato a questo attrezzo, di cui fu protagonista quel mattacchione di Pasquale. Veniva da noi ogni tanto l’altro mio cugino Dino ad aiutarci nei lavori collettivi. Quando si trattava della raccolta delle olive, che si svolgeva tra novembre e dicembre e poteva durare più giorni, pernottava anche da noi. Una volta Pasquale si offrì di allestire e riscaldare il letto per Dino (quattro anni più grande di lui), il quale poi vi si avviò tutto fiducioso, ma una volta infilatovisi sbottò in imprecazioni trovandolo insopportabilmente gelido, mentre Pasquale, che aveva fatto una perfetta messinscena col “prete” e il braciere, ma senza i necessari carboni ardenti, se la rideva fino alle lacrime. I primi ad alzarsi erano naturalmente gli uomini, prima delle quattro d’estate, un po’ più tardi d’inverno, per accudire e governare un gran numero di bestie, in modo da essere pronti per recarsi al lavoro nei campi al sorgere del sole. La sveglia però si faceva sentire sonoramente da tutti, anche quelli che non dovevano saltare immediatamente dal letto e che poi riprendevano il loro sonno; ma qualche volta doveva succedere anche a mio padre di riaddormentarsi, perché ho ancora nelle orecchie la voce acuta dello zio che lo chiamava da sotto le finestre: “Elpidio!”. Le donne si alzavano dopo, a meno che non fossero impegnate nelle operazioni periodiche, come il pane o il bucato o altre, e per prima cosa rimettevano in moto la cucina accendendo il fuoco, cosicché quando ci alzavamo noi che dovevamo andare a scuola trovavamo un ambiente già riscaldato e la nonna intenta a preparare: per noi la prima colazione e le fette di pane con prosciutto o formaggio da consumare all’uscita dalla scuola, prima del ritorno; per gli uomini la sostanziosa colazione (fagioli conditi e fette di prosciutto, verdure con salsicce...) che avrebbero consumato in una pausa di lavoro nei campi, a metà mattinata. E alle 7 noi partivamo per la scuola, che era molto lontana, presso il castello della Sala: quattro o cinque chilometri di strade di campagna, nei mesi invernali
coperte di fango, talora di neve e in qualche tratto di ghiaccio (che almeno aveva il vantaggio di sporcare di meno le scarpe); non sempre bastava un’ora e mezza, ma se arrivavamo un po’ in ritardo trovavamo comprensione, perché eravamo gli scolari più lontani da scuola. Quando ne parlo a chi non ha vissuto questi disagi, trovo che destano impressione, quasi incredulità; eppure non ricordo di aver mai pensato che ci fosse qualcosa di straordinario, di essermi sentita scontenta o sfortunata, tanto meno di aver cercato con qualche sotterfugio di sottrarmi a quello che era, sì, un obbligo, ma anche un gioco, per quanto impegnativo, e un’avventura piacevole: esserne all’altezza ci faceva sentire una punta d’orgoglio. Della scuola in sé e del lavoro scolastico ricordo ben poco, se non che lo affrontai con grande disinvoltura e con vero piacere nell’imparare. Dell’edificio scolastico ricordo che era piuttosto piccolo, aveva solo due aule, in una delle quali trovavano posto gli scolari di prima e seconda classe, nell’altra quelli di terza, quarta e quinta. Non ho particolare memoria degli insegnanti che ho avuto in quei cinque anni, e non ho avuto più contatti con nessuno dei miei compagni d’allora. Soltanto ora, ripensandoci, mi è venuto in mente un nome, dovuto evidentemente alla ione che ho sempre avuto per il disegno, tanto che durante gli ultimi tre anni andavo sempre vicino ai compagni più grandi per imparare da loro, e in particolare a quello più bravo: si chiamava Dino Bagni, e lo ammiravo come un vero pittore in erba.
Quello che invece mi è rimasto più impresso è il percorso di andata e ritorno; sono le sensazioni legate ai luoghi e alle persone, alla nostra allegra spensieratezza. Per i miei primi quattro anni di scuola, eravamo io e mio fratello a partire dal nostro podere, poi nel quinto anno si aggiunse mia cugina Ivana che aveva appunto quattro anni meno di me. Dopo un breve tratto di strada però si univano a noi altri tre bambini dei poderi vicini, e di buon o ci inoltravamo nel bosco, nel quale, in fondo a una breve discesa, c’era da attraversare un torrentello, stando attenti a non scivolare sulle pietre che sporgevano dall’acqua (ma dopo tanti aggi conoscevamo bene quelle giuste). Poi per un sentiero sassoso avamo accanto a un casolare (dove non c’erano bambini in età scolare) e finalmente raggiungevamo la strada statale presso il bivio per la Sala e la relativa casa cantoniera, dove eravamo accolti da un’amica dei nostri genitori, che ci faceva cambiare le scarpe, infangate o impolverate, con altre pulite che lasciavamo sempre in deposito da lei, e con queste facevamo di corsa l’ultimo
tratto di strada (in discesa). Al ritorno, dopo una mattinata di lezioni, ce la prendevamo molto più comoda (anche perché si partiva in salita) e il tragitto diventava una bella eggiata. Dopo lo scambio delle scarpe alla casa cantoniera, riprendevamo il cammino fra campi e boschi, ma concedendoci varie soste o distrazioni, o per improvvisare un gioco o per mangiare le provviste non ancora consumate. Spesso poi, quando ci avvicinavamo al bosco, i maschietti correvano avanti per nascondersi e spaventare le bambine facendo il verso di qualche animale selvatico o sbucando fuori all’improvviso con salti e urla. Ma noi non davamo loro molta soddisfazione, benché si vociferasse che quei paraggi erano stati, e potevano ancora essere, infestati da briganti. Finivamo così per arrivare a casa, d’inverno, che era già quasi buio, stanchi ma rilassati e contenti.
V
Al tramonto del sole, genitori e zii tornavano dai campi col carro su cui avevano caricato quanto avevano raccolto: principalmente foraggio per gli animali ma anche, a seconda della stagione, prodotti dell’orto, del frutteto, della vigna, del bosco, ed era ogni volta una gran festa. A volte le serate erano vivacizzate dalla compagnia dei vicini, che venivano a scambiare chiacchiere, o a fare qualche partita a carte, o a partecipare a qualcuna delle operazioni periodiche in cui si cooperava reciprocamente, o a prendere accordi per i giorni successivi, sorseggiando intanto un bicchiere di buon vino, che non mancava di suscitare commenti. A rendere quelle riunioni ancor più allegre era un personaggio straordinario che ogni tanto veniva a trovarci, trattenendosi anche per qualche tempo: zia Zelide, una cugina di mia madre che abitava a Roma. Era una giovane molto simpatica ed estroversa, che rappresentava una vera attrattiva anche per il vicinato e che ogni volta portava una ventata di novità e allegria. Fu lei a farmi conoscere la radio: ne aveva una portatile che teneva quasi sempre accesa, facendoci ascoltare canzoni che non avevamo mai sentite e voci dal mondo esterno e lontano. Fu lei che scattò alcune fotografie, purtroppo in gran parte andate perdute, a tutti tranne la nonna Giuditta, che non volle essere mai ripresa, tanto che di lei non è rimasta alcuna immagine, nemmeno sulla sua lapide. In quelle serate c’era tanta voglia di allegria, ma c’erano anche momenti seri, come quando zia Zelide si metteva a raccontare episodi degli anni di guerra con relative privazioni, fame, paure; allora mi resi conto che per me la guerra era come se non fosse esistita, essendo nata a metà del suo corso, ma del resto anche i miei genitori e la campagna umbra in generale ne avevano risentito assai meno della media degli Italiani. L’unico episodio in cui fui personalmente coinvolta l’ho sentito raccontare da mia madre. Quando avevo ancora pochi mesi, ci furono massicci bombardamenti sulle città industriali e sulle vie di comunicazione del Nord e del Centro Italia. Quasi quotidianamente, dalla nostra posizione elevata i miei vedevano arrivare da sud stormi di bombardieri che, dopo aver colpito pesantemente la stazione di Orvieto, si dirigevano verso quella di Chiusi, sganciando peraltro qualche bomba anche in altri punti, specialmente sui ponti ferroviari e stradali. Quando se ne cominciava a percepire l’impressionante rombo, anche nelle campagne gli
abitanti lasciavano le case e si rifugiavano nelle cantine, nelle grotte, dove potevano. Durante una di queste fughe precipitose mia madre, che si trovava fuori, si unì correndo agli altri provenienti da casa, ma solo quando fu all’interno della cantina si accorse che io ero stata dimenticata placidamente addormentata nella culla. Allora schizzò fuori, salì in casa, mi afferrò e con me stretta in braccio raggiunse di nuovo tutti i fuggitivi; tra la paura delle bombe (aveva solo vent’anni) e l’angoscia per la propria creatura, aveva prevalso l’istinto materno. In una delle sue visite, Zelide chiese che le venisse fatta una cesta in cui voleva mettere la biancheria da stirare e fu subito accontentata perché nella comitiva c’era sempre qualcuno (uomini o donne) specializzato nel costruire canestri e ceste di giunco: si mettevano intorno al grande focolare e tra una chiacchiera e l’altra continuavano a intessere, con una destrezza e una velocità che mi sembrava prodigiosa, quegli oggetti quasi indispensabili al lavoro dei contadini. Di varia grandezza e consistenza, venivano usati per trasportare di tutto: pomodori, altri ortaggi, fichi, l’uva durante la vendemmia e poi, di grana più fine e compatta, le sementi per la semina del grano. E subito, per associazione, ora mi rivedo, con due cesti dal manico curvo pieni d’uva appesi alle braccia piegate al gomito, arrancare dalla vigna verso casa. Era la festa grande di fine estate, la vendemmia, a cui tutti partecipavano con molta allegria. I contadini avano a turno nei poderi vicini a dare una mano e così per un giorno o due la nostra vigna era piena di raccoglitori che scherzavano o cantavano tutto il tempo; a metà della giornata si riunivano in casa a consumare un pasto frugale preparato dalle donne, mentre noi bambini correvamo intorno eccitati sbocconcellando pane e salame o qualche pezzo di pizza e naturalmente... tanta uva; e poi di nuovo alla vigna fino a sera.
La festa continuava poi nei giorni successivi nelle vigne dei vicini. I miei cugini più grandi, Pasquale e Lena, erano reclutati tra i raccoglitori, ma anch’io avevo smania di collaborare, per cui venivo promossa al ruolo di trasportatore e mi venivano affidati dei piccoli cesti pieni d’uva da portare dalla vigna a casa. E mi è rimasto impresso in particolare uno di questi tragitti nel quale mi divertii moltissimo, constatando ancora una volta la giocosità e la simpatia di Pasquale. C’era anche lui sul sentiero davanti a me, con due cesti più grandi dei miei appesi alle braccia, e ogni tanto si fermava, poggiava a terra i cesti, come vinto da una grande fatica, prendeva un grappolino d’uva, se lo mangiava e poi riprendeva il cammino. Io ridevo divertita e solo in seguito ho capito che faceva questo, oltre che per il suo naturale desiderio di gioco, per permettere a me, che camminavo più piano di lui, di raggiungerlo.
Ancora legato ai cestini, ho un altro ricordo molto vivo: l’aratro che percorreva i campi, tirato dai buoi e guidato da mio padre o da mio zio a turno, mentre l’altro lo seguiva con un grande canestro pieno di semi che spargeva sul solco appena formatosi nel terreno; io e Pasquale ci divertivamo a volte a sentire mio zio Ezio, quando era lui addetto all’aratro, borbottare un po’ perché secondo lui il fratello non si affrettava abbastanza a ricoprire con l’erpice i semi appena gettati, prima che gli uccellini si precipitassero a depredarli coi loro becchi. E forse per vendicarsi dell’insidia portata dagli uccelli al lavoro di babbo e zio, Pasquale si divertiva a preparare trappole sotto la siepe che correva foltissima a un lato del pozzo. D’inverno, quando faceva molto freddo e a volte gli alberi erano ricoperti di neve, cercava di catturare tordi e merli ponendo alcuni semi presso i piccoli aggeggi insidiosi allestiti sotto le piante. Erano semplicemente costituiti da una pietra piatta inclinata, appoggiata da un lato su un fuscello che la sosteneva appena (ci voleva molto tempo e una certa destrezza a disporla in modo che restasse in quell’equilibrio precario senza cadere e senza spezzare il sostegno), con un altro paio di fuscelli a terra, appoggiati a quello verticale, e con l’esca sotto la pietra. Era un gioco eccitante: Pasquale ava ore, col freddo e magari la pioggia, avanti e indietro a controllare se era successo qualcosa, e a volte per giorni non succedeva niente, ma quando invece tornava trionfante con la preda pretendeva che gli fosse subito cucinata.
Pasquale, il mio cugino più grande, meriterebbe una penna migliore della mia a descriverlo: affettuoso, paziente, allegro, generoso e giocherellone, sempre pronto a farci qualche scherzo, ma solo per riderne insieme. Volevamo andare sempre tutti dietro a lui perché c’era ogni volta qualche cosa da imparare, o un’occasione per divertirsi. E il mio grande rimpianto è di essermi decisa a scrivere questi ricordi ora che lui purtroppo non c’è più; certamente la cosa gli sarebbe piaciuta e mi avrebbe anche aiutato tantissimo, perché lui è stato quello che ha vissuto più intensamente, e più a lungo, con mio padre, e in seguito, quando eravamo ambedue grandi e con famiglia, nei nostri incontri non mancava mai di raccontarmi un episodio piccolo o grande del ato, invariabilmente legato a quando mio padre era ancora in vita e li accomunava la ione per la caccia. Loro due andavano molto d’accordo e stavano bene insieme, forse perché si somigliavano come carattere, mentre lo zio Ezio, il padre di Pasquale, pur essendo anche lui buono e affettuoso con noi bambini, era sempre un po’ burbero, aggrondato, e anche restio alla lode, all’incoraggiamento, all’approvazione incondizionata, perché c’era sempre qualche cosa che non andava per come la pensava lui. Persino la moglie, la cara zia Malvina, lo rimproverava qualche volta per questo; lei, così dolce e paziente, a me voleva un gran bene, pienamente ricambiato, e provo ancora, dopo più di trent’anni, dispiacere e rimpianto di aver appreso della sua morte improvvisa mentre ero ricoverata in ospedale.
VI
Nel 1952 la nostra cara nonna morì. Fu una morte improvvisa, per infarto: sentendosi mancare si appoggiò al tavolo e vi cadde riversa; quel giorno c’era da noi la zia Zelide, che subito accorse, la sollevò in braccio e la depose sul letto, ma era già morta. Fu una grave perdita per noi, ma chi ne soffrì più di tutti fu certamente mio padre. Ricordo che fui molto impressionata dal vederlo improvvisamente del tutto cambiato di carattere e nel comportamento, tanto che mi successe in seguito di far risalire a quel fatto funesto l’inizio e la causa della malattia che lo portò dopo pochi anni alla morte (cosa impossibile, data la natura del suo male, che peraltro già da qualche anno aveva bussato alla porta), ma forse lui, che era il più piccolo ed era cresciuto senza il padre, non riuscì a sopportare la perdita della madre, con la quale aveva sempre avuto un attaccamento speciale e del resto reciproco, secondo la mia mamma addirittura fuori della norma. Ma certo questo lutto avrà contribuito a farlo riflettere sulla sua stessa condizione, essendo già consapevole di avere davanti a sé un’aspettativa di vita non molto lunga. Questa svolta negativa non deve però far pensare che abbia intaccato o annebbiato la memoria che ho di lui. Il mio più grande rimpianto, anzi, è stato sempre quello di aver potuto godere per un periodo troppo breve della sua presenza: troppo breve veramente, ma comunque intensissimo di ricordi tanto da lasciarmi sensazioni, sentimenti, emozioni, che mi hanno accompagnata per tutta la vita con dolcezza, nei bei momenti e anche in quelli tristi. Ero abbastanza grande per essere in grado di apprezzarne le qualità: uomo buono, onesto, allegro e sorridente, di poche parole, ma sempre quelle giuste al momento giusto, affettuosissimo coi figli, che circondava di quelle piccole, semplici, ma importantissime cose e attenzioni che li rendono felici. Come il preoccuparsi, nell’imminenza del 25 dicembre, di cercare per giorni il ciocco più grande e adatto da mettere nel camino la notte di Natale; la sera della vigilia poi noi bimbi dovevamo andare a letto presto, dopo aver messo accanto al focolare un bicchiere di latte per il divino ospite e dopo che il babbo aveva fatto prender fuoco per bene al suo ciocco, che doveva ardere fino al mattino, di modo che ci sarebbe stato un bel calduccio all’arrivo di Gesù Bambino, venuto a lasciare per noi caramelle e dolcetti; perché, secondo la tradizione ancora viva a quell’epoca e in quell’ambiente culturale, a portare i doni di Natale non era né Babbo Natale,
né la Befana, ma “il Bambinello”. Anche in occasione del Carnevale e della Pasqua, mio padre cercava in ogni modo di rendere più bella la festa, curando i particolari allegri e gioiosi, partecipando con noi e aiutandoci nei preparativi. A Carnevale non mancavano mai le frittelle e le castagnole, preparate dalla nonna, che venivano sgranocchiate da tutti insieme con gran gusto mentre arrivava vestito e truccato qualche Pulcinella o Arlecchino, che sarebbe poi ato in tutte le case del vicinato cantando e ballando, accompagnato da uno stuolo di ragazzini festanti. A Pasqua andava lui (o qualche altro adulto) dal parroco con un gran cesto di uova che erano state raccolte nei giorni precedenti, perché ne occorrevano tante per fare le torte pasquali e poi alcune dovevamo lessarle e in seguito decorarle con fiori di pesco e colorarle con dei disegni che sempre lui ci suggeriva. Il 19 marzo si festeggiava San Giuseppe all’aperto, solitamente sotto una enorme quercia presso la vigna; mio padre improvvisava un focolare radunando grosse pietre (che lì certo non mancavano) e appena la brace era pronta la nonna, in una grande padella dal lungo manico, cominciava a friggere e distribuire le calde frittelle con gli ingredienti portati da casa. Le mamme l’aiutavano, ma era solo lei che poteva impugnare il manico e agitarlo. L’allegria era poi tanto maggiore in quanto a noi, sei ragazzini, se ne aggiungevano altri del vicinato. Mio padre era un bravo cacciatore e non dava tregua alle volpi che insidiavano i nostri pollai e anche i nostri fichi quando erano belli grossi e maturi sull’albero. Si appostava di notte, portandosi Pasquale che era ben felice di andare con lui a tenergli compagnia, in cima a un grande albero di fichi che c’era in prossimità della vigna e aspettava che la volpe arrivasse a tiro. Ho un ricordo vivissimo di una delle volte che riuscì a ucciderne una. La sistemò riempiendo di paglia la pelle dell’animale e poi andò in giro col suo trofeo appeso a un bastone poggiato sulla spalla a visitare i contadini della zona, che tutti si complimentavano divertiti (e lui non meno di loro), e ognuno gli dava un omaggio perché quella volpe non avrebbe più mangiato le loro galline. Un altro episodio, ancora legato alla caccia, mi colpì per la sua drammaticità: quando non ebbe pace finché non riuscì a salvare la sua amata cagnetta Stellina, intrappolata in una tana di tasso.
Un giorno che il babbo andava a caccia con Stellina, che portava sempre con sé, questa a un certo punto si mise a inseguire un tasso che correndo si infilò in una tana a ridosso della montagna nel bosco fittissimo. Ma più il cane, per raggiungere il tasso, cercava di allargare il cunicolo, troppo stretto per lui, scavando con le zampe davanti, più gettava terra dietro di sé chiudendosi anche la via del ritorno. Quando mio padre si rese conto di ciò che era accaduto, si diede subito da fare per liberare la cara Stellina: lui e un suo amico andarono a fornirsi di pala e di piccone e si misero subito all’opera. L’impresa era tutt’altro che facile: l’imboccatura della tana era alla base di una ripida scarpata, in parte rocciosa e ricoperta di arbusti, rovi e alberelli ed era difficile scavare in un punto in cui molte radici opponevano resistenza e sassi e pietre cadevano dall’alto a riempire lo scavo già effettuato; inoltre il cunicolo, subito dopo l’entrata scendeva in profondità, anche se obliquamente, di quasi un metro ed era quindi tanta la terra da asportare. Dovettero lavorare tutto un giorno e l’intera notte seguente alla luce della lampada che Pasquale, sempre partecipe e disponibile, si offrì di reggere loro, finché quasi all’alba riportarono a casa Stellina, accolta da tutti con grandi feste, meno che dallo zio Ezio, che brontolò immancabilmente che si era persa un’intera giornata di lavoro per colpa di una stupida cagnetta.
Come altre volte, mio padre non se la prese per questo, perché conosceva bene quelle sfuriate e sapeva che di lì a un minuto tutto ava; al più si limitava a commentare sorridendo: “È fatto così”. Lui, che aveva frequentato solo la scuola elementare come tutti i contadini della sua generazione (i suoi genitori e specialmente i suoi nonni si erano dovuti contentare al massimo della terza, e di meno ancora o di nessuna frequenza scolastica le donne), era molto interessato alla nostra istruzione; talvolta, quando mi vedeva impegnata nei compiti scolastici mi diceva: “Leggimi qualche cosa, che mi interessa” e poi: “Tu sei molto intelligente e ti farò diventare una brava maestra”. E sono sicura che questa sua fiducia nelle mie capacità mi è stata sempre di sprone e di incitamento nel corso dei miei studi e delle mie attività. Non sono diventata una maestra come lui aveva desiderato e preconizzato (anche se poi questo si è realizzato nella mia discendenza), ma sono soddisfatta di ciò che ho saputo realizzare e non credo di sbagliare pensando che molto di quello che ho conseguito lo devo a lui, che ha saputo instillarmi sicurezza e ambizione, costanza e metodo.
E negli ultimi tempi della sua vita, quando mi vedevo impotente dinanzi alle sue enormi sofferenze, ricordando il piacere che sempre gli aveva fatto sentirmi leggere, mi mettevo accanto a lui con un libro e leggevo, leggevo a lungo, poesie, racconti e soprattutto preghiere (era lui a chiedermele, sperando in una miracolosa guarigione, fino alle sue ultime ore di vita), finché lentamente lui si addormentava e la sua maschera sofferente si spianava. E anche il mio immenso dolore si placava nella sensazione che ora anche io avevo potuto ricambiare un poco di tutto quello che lui aveva dato a me da sempre. Morì il 21 gennaio del 1956; io avevo poco meno di tredici anni. Con la sua scomparsa si è chiusa una fase della mia vita e se n’è aperta un’altra che forse, un giorno, proverò il desiderio di raccontare. Grazie a quanti mi hanno seguita fin qui.
Liliana Lupi
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