Guido Sperandio
QUARANT'ANNI DA COPYWRITER
splendori e miserie
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ISBN: 9788891112101
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Personaggi, fatti e luoghi come pure momenti, cronologie e situazioni sono autentici e reali, e somiglianze con persone viventi o nel frattempo decedute sono ravvisabili da chiunque queste persone abbia conosciute. L’autore, infatti, esclude ogni ricorso alla fantasia. Sia perché non c’era niente da inventare, i fatti di per sé bastando. Sia perché l’autore stesso ammette d’essere pigro e di scarsa immaginazione. Già caffè e fumo erano troppi. C’era anche il cardiologo dell’ASL a dissuadere da ogni velleità.
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Qurant'anni da copywriter
Ciascuno aveva la sua storia. Tutti una gran voglia di arrivare. La generazione che aveva conosciuto la guerra è andata all’assalto della pace. Non più cannoni. Il marketing. Non più bandiere. I logo.
1.
Il futuro sulla punta di una biro.
La mattina di quel primo di settembre mi batteva nel cuore il mondo. Mi ero rasato due volte, la prima per rasarmi, la seconda senza rendermi conto di fare la barba a una palla da biliardo.
Chiamiamola, emozione.
Ad avere l'automobile a quei tempi erano i piazzisti, i capitani d'industria e qualche fortunato vincitore di concorsi, così all'agenzia c’ero andato in tram. Col vestito della festa, come si va dal boia. Che gli si mostra la testa e, previo inchino, gli si dice: «Eccomi qua».
Non trovai nessuno a cui offrire la mia testa, conferma che non era come lavorare in una banca: lì, alla Carey Pearson & Valley, nessuno compariva prima delle dieci.
Tirai una Coca dal distributore.
La Coca a piccoli sorsi per farla durare e farmi sembrare l'attesa meno lunga. Andy Warhol avrebbe avuto tutto il tempo di ritrarla. Ma Andy Warhol stava a New York a copiare le soup della Campbell.
Presi gusto a succhiarmi la Coca, me la tirai anche la mattina dopo, e quella dopo ancora, al posto del cappuccio e brioche.
Diventò abitudine.
La bottiglietta sul tavolo vicino alla macchina da scrivere.
La Coca.all'alba.
Mi aspettavo che tutti mi aspettassero. Invece.
Arrivò finalmente l'art col quale dovevo lavorare. L’art si piazzò al tavolone da disegno.
Se ne guardò bene dal concedermi un’occhiata. Avrebbe perso tempo.
Come nei marines, conta lo spirito di corpo, mi dissi.
L'art si pulì il tavolone. Lo ò e riò con una spazzola, poi con uno straccio.
E io contavo: uno, due, tre… Sicuro che a cento, l’art si sarebbe scopato il tavolone.
Cento!
Non accadde.
Andai verso l’unico tavolo (oltre al tavolone da disegno). Sul piano di vetro erano visibili
il cappuccio di una biro (senza la biro), un foglio scarabocchiato e spiegazzato, due elastichini,
una macchia di birra ancora appiccicosa.
«La macchina da scrivere dov’è?» chiesi.
L'art lanciò un urlo: «Yahuuuuu!».
Poi: «Porca beccaccia» imprecò, strabuzzò gli occhi, mi fissò. «La macchina da scrivere?». Indugiò, scrollò le spalle: «Cosa ne so? Mica faccio il copy, io».
«Quello di prima, al mio posto, come cazzo scriveva?»
«Non scriveva. Diceva che era il copy più geniale e giovane d'Italia, ha litigato col capo, e se ne è andato».
La macchina da scrivere, la trovai. Insieme al telefono sotto cataste di bozzetti. Abbandonati alla
mortificazione dell’oblio nonostante il sangue sparso a concepirli.
(La settimana dopo, mi facevo la doccia. Ancora mi usciva polvere
dall’ombelico.)
«Porca beccaccia!» l'art non smetteva di ululare mentre abbozzava schizzi su schizzi. Infaticabile.
Mi accesi una sigaretta, l'art s'infuriò: «Fumi?». Gettai la sigaretta.
Mi accesi un mezzo sigaro (erano ancora i tempi in cui giravo ben dotato). La stanza fu invasa da una nube spessa, azzurra.
2.
Non era stato facile arrivare lì, avevo dovuto superare una serie di barriere mica male. Le mie personali interne e infine quella esterna, decisiva.
Affrontarla, ci voleva un bel coraggio. Me ne rendo conto solo ora a distanza di un bel po’ di anni. E non finisco di meravigliarmi, mi viene da pensare che al posto mio ci fosse un altro.
Era andata press’ a poco in questo modo.
Inizio favolosi Anni Sessanta. Clima stimolante. Aspettative. I Beatles in procinto di assurgere a Coleotteri Epocali. o la soglia della V, Carey Pearson & Valley, Agenzia di Pubblicità e Marketing. Mi indirizzano da un signore col faccione rosso. Il rosso del faccione cambiava d’intensità ad ogni istante.
Esauriva in un attimo l’intera gamma del Pantone.
Il faccione sogghigna: «E così lei, Bruno, vorrebbe fare il creativo?».
«Sì, io scrivo bene e ho fantasia» dico, piccato.
Alle spalle del faccione stava affisso un poster inglese: un elefante su una lavatrice cercava di sfondarla. Barriva in un fumetto «Per quanto il vostro bucato possa essere pesante…».
La Pubblicità è proprio un bel mestiere, rifletto e godo.
Il faccione prende spunto dal barrito e mi lancia su cultura varia e attualità. Io, pronto: «Bla-bla- bla».
Non mi sembrava vero che qualcuno si degnasse di ascoltarmi. Mentre il faccione rosso si limitava a mugolii ora di assenso ora perplessi. Ogni tanto alzava gli occhi al cielo. Quasi cercassero ispirazione in un’entità ultraterrena nota a lui soltanto.
«Bla, bla, bla…», io imperterrito, intanto.
«Starei attento… D’accordo… Starei attento… D’accordo... Starei attento…», lui il faccione.
«Come mai il cuore è simbolo ricorrente da sempre in ogni cultura e civiltà . E non, che so?, il pancreas», il faccione da rosa a rosso bordò.
Rifletto che il pancreas fa schifo solo a
nominarlo mentre il cuore, fra tutti gli organi umani, è l’unico che si sente, è vivo, batte dentro.
Mi limito a parlare del cuore.
«Cosa pensa del rapporto immagine/parola».
Mi butto: «Si usa dire che un’immagine vale mille parole. Io dico che una parola può uccidere più di mille spade».
Mi avevano colpito i suoi abiti da illusionista. Mi aspettavo di vederne uscire conigli o coppie di candide colombe. Mentre lui, ammirato, non smetteva di osservare le mie scarpe.
Ero uscito di caserma di sfrodo, con un permesso falso. La leva stava per scadermi e il must: trovarmi assolutamente un lavoro, al più presto e che gradissi.
La divisa, i mesi se li portava impressi tutti. Lisa com’era, commuoveva. Faceva pensare a un reduce miracolato dal destino, Vietnam, se non l’ultima Seconda Guerra mondiale. E anche le scarpe calzavo dell’Esercito.
I miei commilitoni le disdegnavano. Se le portavano da casa. Mentre io da dio mi ci trovavo.
Erano da D-Day, sbarco di Normandia. Larghe. E piatte. Ci si poteva stare in tre per scarpa, tre per due, sei: mezzo plotone. Ed erano nere. Dark. Larghe e piatte, e dark: terribili. Dei tank.
Altro che le scarpe del faccione, costose e inglesi, e gialle. Da far supporre che ci volesse lo zabaione a lucidarle.
Era comprensibile la bramosia del faccione per le mie scarpe. Anche se gli sarebbe bastato
arruolarsi nell’Esercito Italiano per averle, e pure gratis. Lo pensai. Ma anche stavolta non lo dissi. Mi era sufficiente avere fatto colpo. Non importa se non s’era udito il botto.
«Starei attento… D’accordo… Starei attento…», uscii assunto.
Le ali alle scarpe.
L’agenzia era in Piazza degli Affari, attraversai volando il Centro. In piazza Cairoli, inquadrai
Garibaldi e i leoni. E un leone mi sorrise e strizzò l’occhio. Sono certo che accadde.
Come pure sono certo che quando riai, pochi mesi dopo, afflitto da un esaurimento nervoso mica male, il leone neanche mi degnò.
Quella stessa sera, il soldato semplice che ero, è in branda. Si a la lingua sulle labbra. Assapora i fasti di una giornata che, sa già, gli resterà impressa.
Perché entrare in Pubblicità non è come con l’Arma dei Carabinieri.
Non esiste bando.
La Pubblicità è più simile al mondo della prostituzione dove le vie al marciapiede sono infinite però non codificate. Ci vuole bene o male un protettore mentre lui, il soldato semplice Bruno Mario, ce l’ha fatta.
E da solo. Senza spinte.
La notte è torrida, bolle anche la luna. La vampata attraversa la camerata. Accende il soldato semplice Bruno che farnetica: sono in Pubblicità, soldi e pupe a volontà!
Si agita.
Scricchiola la rete di ferro e fruscia il pagliericcio.
Il bergamasco di sopra, nel letto a castello, bestemmia: «La pianti!». I bergamaschi hanno tante lacune ma non in fatto di bestemmie.
Bruno Mario tira fuori da sotto il cuscino una polpetta.
Se l’è conservata dalla cena, in mensa.
Il soldato semplice Bruno Mario sapeva che, ata la mezzanotte, gli viene sempre fame.
3.
Anni ruggenti, mancava solo che ruggissero anche i muri. Il che, difatti,
avvenne.
Un ignoto copywriter di Chicago, col tempismo del menestrello di talento, crea per un noto carburante «Put a Tiger in Your Tank».
Quel «Metti un Tigre nel Motore» (versione adottata in Italia) dilaga oltre gli Oceani. Le fauci del «Tigre» spalancate su città e metropoli dall’alto di giganteschi poster.
A futura memoria.
A marchio di un’epoca.
(Con questo, il copywriter che ignoto era, tale resterà. Fosse stato un qualsiasi strimpellatore rockettaro, milioni di fan idolatranti sarebbero tutt’ora prostrati ad adorarne le reliquie.)
4.
Erano i tempi in cui si diceva ai nuovi assunti: «Benvenuto, lei sta entrando a far parte di una grande famiglia».
Come se fosse entusiasmante scoprire di avere un sacco di fratelli rompiballe.
A parte che non ti dicevano chi nell’azienda fosse il padre e chi la madre. Che se eri edipicamente
scompensato, erano guai.
A me il ragioniere del Personale aveva invece detto: «Lei sta entrando nel team di un’ammiraglia». E io avevo visto gabbiani volare, li aveva sentiti proferire il mio nome sulle rotte di un impero dove non tramontava mai il sole.
Perché batteva bandiera inglese, l'agenzia. C'era da esserne orgogliosi. E io lo ero.
Orgoglioso lo fui, a maggior ragione, quando il capo in persona, scese dai piani alti per conoscermi.
John Archibald M. J. R., inglese come la bandiera, era apparso in tutta la sua bassa altezza ma alta dignità.
Sorrisi a pensare che un individuo così piccolo potesse disporre di nomi e cognomi così grandi. Ci si poteva, volendo, ritagliare i nomi e cognomi di altri quattro o cinque inglesi.
Ero riuscito a catturare unicamente la finale «son», per cui, visto che l’agenzia era un’ammiraglia,
avevo deciso di semplificare e soprannominare il capo, Nelson. Nelson non era l’ammiraglio che aveva sconfitto il gran Napoleone?
Ce n’era abbastanza per immaginare John Archibald M. J. R. in alta uniforme con feluca.
Nelson accennò un compito inchino. E l’incontro si era chiuso anche con un inchino, i due inchini stabilendo la parentesi dentro la quale Nelson racchiuse poche e storpiate ma sentite, parole d’italiano.
«Mi hanno parlato molto bene di lei, mi hanno riferito che lei ha del talento» il succo di quanto riuscii a decifrare.
E io avevo amato John Archibald M. J. R., alias Nelson. Da rimpiangere di non conoscere «Dio Salvi la Regina».
Gliel’avrei cantato. Grato. Sull’attenti.
5.
Gli (gli addetti ai contatti col cliente) stavano ai piani alti.
La differenza, loro più su, era indice di una pretesa superiorità sociale, oltreché logistica. Rafforzata dal tenore degli arredi: pregiati tappeti orientali, mobili di mogano, moglie-figli-cane racchiusi in una cornice d’argento sulla scrivania.
Gli si facevano le segretarie che ci stavano con loro, importanti.
Circolava voce che se le fero sulla scrivania - a due piazze. Il ritratto della
moglie davanti per il vantaggio della diretta, caso mai capitasse di sentire il rimorso di chiederle perdono.
I creativi invece, sotto, sul linoleum sbrecciato.
Ma contenti, perché liberi di buttarci i mozziconi, e anche il telefono.
«Hai visto il telefono?»
«Chiedilo a lui che se l'è appena beccato sulla testa.»
«Fanculo.»
Non era un'indicazione. Ma il telefono lo stesso si trovava. Magari nel cestino. E funzionava. (I telefoni, adesso, danno i numeri solo a guardarli.)
Il bello, quando arrivavano i clienti.
Ne arrivavano spesso, ci tenevano a conoscere i creativi.
Il cliente conosceva gli operai che in fabbrica gli facevano il prodotto? A maggior ragione doveva conoscere chi il prodotto poi glielo lanciava.
Gli si precipitavano a precedere il cliente: «Raccomando» supplicavano.
I ragazzi allora si davano da fare: raccattavano dal linoleum i barattoli di Cow, i ritagli di Schoeller e le cartacce sparse, appallottolate. Per il resto, le cicche le lasciavano. Tanto…
A un certo momento, la porta si schiudeva. L' non si fidava, la schiudeva da lasciarci are la mezza testa del cliente per il mezzo secondo di una mezza occhiata.
Lo zoo, io sghignazzavo. Attenti a sporgervi, il giaguaro poi vi mangia.
6.
Gongolavo.
I soldi non erano il granché da me farneticato, ma lo so compensava.
C’erano tipi che non era possibile incontrare altrimenti. Come l’Irlandese. La cui conoscenza era
avvenuta nelle circostanze più inimmaginabili anche per l’ambiente più circense.
Una certa mattina, l’Irlandese aveva fatto irruzione nella mia stanza, convinto di entrare nel bar sotto l’agenzia. Accertato che dietro al mio tavolo non c’erano sfilate di bottiglie e che io stesso non aveva niente che mi assimilasse a un barista, l’Irlandese era uscito barcollando e imprecando, dopo avere compiuto una mezza giravolta.
Perché era ubriaco. Già al mattino.
Ogni mattina.
Anzi, da quando stava in Italia. Anzi, da prima.
Prima di venirci.
Vero che mio ufficio si prestava a penosi equivoci.
Due terzi dello scarso spazio erano occupati dal tavolone da disegno dell’art. Quello che restava era pari agli esigui centimetri del corridoio di un vecchio scompartimento ferroviario di terza classe, di cui, peraltro, era possibile ritrovare lo stesso tanfo di pecora e tabacco. Ma, a parte questo, dall’art confluiva perennemente un viavai di gente. Che, in effetti, poteva far pensare a un bar.
Comunque, l’Irlandese arrivava in agenzia non prima delle undici, per poi subito sparire. Ricompariva verso sera, il tempo di stappare una Guinness, che teneva sempre pronta, e daccapo si eclissava.
Non a caso: era l’ora in cui in Italia si servono deliziosi aperitivi.
Era peli, nient’altro. Rossi. Altro che tizianeschi. Un fuoco. Da pompieri, oltre che da barbieri. In un’epoca, non ancora il '68, in cui la barba folta fino al petto, la si concedeva soltanto a Garibaldi e a Noè.
La barba incerta di un giorno bastava per essere squalificati, malamente giudicati. E le rasature dovevano essere perfette da mento lucido in cui specchiarsi. (Basta vedere la Pubblicità della Gillette dell’epoca.)
Non risultava avesse un cognome. Da far ritenere che non ne avesse mai avuto uno. A meno che non se lo fosse dimenticato a casa, in un cassetto, prima di partire. Con quella testa! E quell’incendio!
Era possibile.
Tutti lo chiamavano semplicemente Pat. (Per Patrick, c’è da immaginare.) Ed era ricercato, invitato:
«Patrick!, come with us, dài, Patrick!» Le donne, poi!
Non si sapeva quale fosse il suo lavoro in agenzia. Nessuno lo sapeva. Qualcuno azzardò: «Studia la scelta dei caratteri».
Il che era una cosa fuori di testa. Soldi buttati.
Come se un pasticcere pagasse un tizio apposta a misurare la circonferenza delle ciliegine da apporre sulle torte.
L’Irlandese non solo non conosceva una parola d’italiano, ma anche l’inglese che parlava, era un presunto celtico (o gaelico). Reso più incomprensibile perché parlato da un irlandese ubriaco, da far dubitare che neanche un compatriota lo capisse.
Figurarsi io! che sputo i denti solo a tentare di spiccicarlo, l’inglese.
Riesco a dire solo «Io»... «AI!»... senza dolore.
7.
In realtà, la mia vita gravitava su un copy più grande di me di qualche anno, Giorgio K.. Personaggio poliedrico.
Trasmutava a perfetta misura del variare delle situazioni: abilità non da poco, se si considera quanto la vita sia multiforme e bizzarra.
Giorgio K. – impegnato a rivestire il ruolo del caso - caso per caso – si trastullava con una pipa dal cannello ricurvo, una Peterson.
Non tanto per amore della pipa (per la foggia particolare del modello o il gusto di fumarla) quanto per lo slogan: «The Thinking Man smokes Peterson».
Ruolo - questo del Thinking Man - in cui Giorgio K. prediligeva apparire in agenzia e non solo, anche fuori, dovunque si trovasse.
Gli bastava infilarsi la pipa in bocca, per assumere il tono grave del comato giudice di un film western.
(Ne aveva anche il gilè. Attraversato da una catenella al cui capo era ancorato un cipollone, il classico vecchio orologio da taschino.)
To be or not to be.
Si attagliava perfettamente a Giorgio K..
Aveva un generico ato di vetrinista, ma avrebbe potuto fare l’art, il fotografo o chissà cos’altro. Per il momento, riusciva a figurare come copywriter. Con la mansione parallela di vice direttore creativo. Carica ufficialmente mai conclamata, ma nota ufficiosamente. E di fatto esercitata a momenti alterni, a misura delle situazioni. Per esempio, quando il direttore creativo se la squagliava per andare a donne o a cavallo (o a praticare le due cose insieme).
Giorgio K. ne prendeva il posto, squagliandosela a sua volta al bar di sotto: complice del direttore ma, nel contempo, alla testa di una rete di complicità con i colleghi per ingannare il direttore.
(Al bar, tra l’altro, bastò che una tale gli chiedesse di arle lo zucchero.
Giorgio K. si ritrovò
sposato. A dispetto della sua leggendaria elusività.)
Era super impegnato a non impegnarsi, cioè a are i suoi lavori.
Riusciva ad essere indispensabile (e si prendeva per questo un bello stipendio) a rendere indispensabili gli altri (che il bello stipendio non se lo prendevano, per niente).
A parte che detestava il lavoro, tutto, in generale… Quello di copywriter, in particolare, lo avversava.
Tirava sera, tirando lunghi accorati profondi sospiri. La sua mole non indifferente, stravaccata sulla sedia. Palpebre socchiuse, ma orecchi irti.
Il gattone.
Assopito apparentemente.
In realtà, pronto allo scatto: al primo accenno di pericolo, il ventilato arrivo di un lavoro.
Era dedito alla lettura.
Nel suo stile. Naturalmente. Al risparmio. Di occhi e fatica.
Bertolt Brecht teneva banco all’epoca, e Giorgio K. si premurava di citarlo. D’altronde, nessuno in
agenzia si preoccupava di leggere. Neanche i copy, contrariamente alla credenza generale.
Unica differenza, i copy, pur avendo lasciati i libri fin dai tempi del liceo, non rinunciavano alla parte di eruditi. Col risultato di esibirsi in massime, trite. Penose.
«Per aspera ad astra», «Carpe diem», «Errare humanum est»...
A me scendevano i brividi allo scroto, reagivo facendo il verso: «Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino».
I colleghi s’incazzavano: «Che c’entra?».
«Come? È Dante… Inferno, Canto XVI» sogghignavo.
Poi, Giorgio K. prese il vezzo di girare per i corridoi dell’agenzia, declamando versi.
Shakespeare.
E mi sorprese asserendo che Shakespeare era il più gran copy di ogni epoca.
Io, secco, allibito.
Mi sono andato a leggere Shakespeare e ho meditato.
Conclusi che, se è vero che la Pubblicità non è di per se stessa una tragedia, dalle tragedie si può
ricavare dell’ottima Pubblicità.
8.
La sera, finito il lavoro, uscivamo tutti insieme a caccia di baldorie. E Giorgio K. era insuperabile. Probabilmente era questa la sua vera vocazione.
Giorgio K. in testa, andavamo per i vicoli di Brera, alla «Torre di Pisa», al «Soldato d’Italia», dalle sorelle Pirovini. E bastava che uno conoscesse qualcun
altro, a un altro tavolo, per conoscersi tutti e brindare, e insieme fare i vispi, o a far finta d’esserlo.
«Siamo o non siamo artisti maledetti?» Giorgio K. strizzava l’occhio. «A noi ci seppelliscono di
notte in terra sconsacrata.» Io godevo.
Jean-Baptiste Poquelin, il meglio ben noto Moliére, mi sorrideva dal suo teschio. Complice.
9.
Giorgio K. era alto e corpulento, aveva i piedi grandi.
Il lunedì sembravano più grandi per il modo greve con cui li strascicava.
Proseguiva così per l’intera settimana, fino al venerdì. Quando allora i piedi gli scattavano, agili e freschi, da aspettarsi di vederli ballare sulle punte.
A quei tempi il sabato era ancora giorno di lavoro. Gli italiani, la parola weekend credevano fosse il nome di un cavallo da giocare alle corse. Ma (come già detto) la mia agenzia era inglese.
Socialmente evoluta. Così al giovedì si incominciava a rallentare, il venerdì mattina si ava a progettare per il sabato, e il sabato si attuava lo so minuziosamente programmato.
Si aggiunga che Giorgio K. aveva l’auto.
Unico creativo (oltre al capo) a possederla.
Era una «Dauphine». Renault. E non importa se ogni volta per chiudere la portiera occorreva
sbatterla che dall'altra parte della città si chiedevano dove l’aereo fosse caduto.
Renault, «dal 1898 non ha sbagliato motore»: la citazione del relativo slogan è d’obbligo, perché a partire da una certa epoca, ogni generazione si distinguerà per gli slogan che l’hanno plagiata.
Insieme alle canzoni.
Mia madre, per esempio - in bilico, in cima a una scala, mentre puliva i vetri alle finestre - cantava a squarciagola «Signorinella pallida» o «Come pioveva».
Note e parole (C'eravamo tanto amati per un anno e forse più eccetera…) venivano gorgheggiate con la retorica e un genere di ione sconosciuta e ripudiata, e disgustosa per me, ragazzo, che puntualmente avevo il problema di reprimere istinti matricidi.
Io che, a mia volta, orgasmavo a sentire il be-bop di Dizzy Gillespie o il sax di Charlie Parker («Lover Man», mi faceva sdilinguire), e poi la tromba di Chet Baker, la voce strappata fuori dall’utero di Billy Holliday…
D’altra parte, gli slogan che avevano scandito l’epoca di mia madre esprimevano gli anni retorici di Gabriele D’Annunzio. Generatori (non a caso) di fasci e gagliardetti, e di successive guerre al grido di locuzioni roboanti.
Copywriter: Benito Mussolini.
Come copywriter, Benito Mussolini se l’è cavata molto meglio che come capo
del governo. Leggere per credere: «L’aratro traccia il solco e la spada lo difende», «Libro e moschetto, Balilla perfetto», «Meglio un giorno da leoni che cento da pecora», «Credere, obbedire, combattere»…
Siccome i media erano quello che erano, gli slogan del copywriter Mussolini venivano diffusi dipinti a grossi caratteri neri sui muri della case dislocate sulla vie d’accesso alle città o sulle provinciali. Le case cantoniere, sede privilegiata.
Ma poi, arrivarono gli americani, la democrazia e il marketing, e la Coca Cola. E proprio in coincidenza alla mia entrata nell’età della ragione. Al grigio dei muri e delle divise (le sconfitte divise italiane era appunto il grigio-verde), si sostituì il kaki dei vincitori insieme a un deflagrare di felicità e di slogan numerosi quanto l’abbondanza prossima a venire.
Gli slogan della Coca Cola erano la perfetta sintesi di ogni felicità, la più assoluta, in quei favolosi Anni Sessanta: «La vita è bella con Coca Cola», «Tutto è meglio con Coca Cola». «Tempo di Coca Cola» e «Coca Cola dà più vita» segneranno l’apice di un entusiasmo caratterizzato parallelamente nelle strade, da lanci di cubetti. Poi dalle sprangate e infine dai morti ammazzati a colpi di pistola e con le bombe senza autore. Anticamera degli Anni di Piombo.
Colonna sonora: «Beatles» e «Rolling Stones».
Forti dell’auto, e della compiacenza di Giorgio K. che ci ammetteva a bordo, io & Compagni puntavamo, pigiati, alla Riviera.
Non c'era ancora l'autostrada. La strada del Bracco era a tornanti, stretta, con la memoria ancora dei briganti che a lungo, per anni, dopo la guerra, avevano
imperversato e saccheggiato camion, corriere e pellegrini.
Era facile fare di un viaggio un'avventura e, in cima al Bracco, ce n'era abbastanza per fermarsi in trattoria.
Si tracannava vino, tutti, tranne Giorgio K. che riusciva a tracannare, senza bere.
Lo stomaco pieno sull’orlo di scoppiare, c'era sempre il cretino che voleva a tutti i costi fare dello
spirito: «Cosa ne dite di due spaghettini olio e aglio? Io c’ho ancora fame».
Tornavamo cantando senza che il mare non fossimo riusciti mai (una volta, una) a vederlo. Giorgio K. al volante della «Dauphine», nel ruolo (stavolta) del nocchiero.
Lo sguardo aggrottato a scrutare gli orizzonti dell’oceano (di pannocchie). Perché lasciata la Liguria, era verso Tortona che stavamoo andando e non in Corsica, come a vedere Giorgio K. veniva da pensare.
Giorgio K., col berretto da capitano di lungo corso.
Se lo calcava in testa al venerdì per lasciarlo solo il lunedì, l’attimo prima di mettere piede in agenzia. Ci dormiva dentro le tre notti. Venerdì, sabato e domenica. C’era da scommetterlo.
Indossava anche il giubbotto (oltre il berretto) esatta copia del marinaio stampato sul pacchetto delle
«Navy Cut», le sigarette inglesi dal trip di un crack (nonostante l’apparenza innocente del tabacco
gentilmente biondo).
Giorgio K. si vestiva col pacchetto delle «Navy Cut» davanti, per modello, al posto dello specchio. Se non lo faceva, era quello il risultato.
Lupo di mare. Senza esserlo.
Venne l’inverno.
Con la brutta stagione sostituirono il brivido del mare con quello dell’estero. Lugano.
Il pretesto, cambiare le gomme alla «Dauphine». («Costano meno in Svizzera.»)
Ogni volta, a sentirla nominare (la «Dauphine»), mi intenerivo. Era come evocarmi il nome di una cara fidanzata di Parigi.
Vedevo la «Dauphine» prendere corpo. Fianchi e curve già li aveva. Le mancava solo una cascata di capelli biondi al posto del tettuccio.
Diventava che a Lugano ci si andava a comperarle le scarpe con i tacchi a spillo, invece dei pneumatici.
A quel tempo, solo in Svizzera era ancora possibile vestirsi come all'epoca del cinema muto. In Italia quelle fogge erano scomparse con l'avvento del sonoro. La guerra ne aveva distrutto definitivamente ogni ricordo a differenza della Svizzera, neutrale, che s’era potuta permettere di restare fedele a Guglielmo Tell, e alle sue griffe.
Giorgio K., a Lugano, ava da un negozio all’altro, a provare e riprovare giacche e gilè. Forte del potere d’acquisto del suo stipendio, se ne approvvigionava generosamente. Infine tutti andavamo a festeggiare. A birra e
salsicce.
(D'obbligo, quando si è a nord di Milano, anche se si è appena oltre la frontiera. E non necessariamente a Dusseldorf o in Baviera.)
Entravamo nella prima birreria, ed eravamo investiti da occhiate di riprovazione e di disgusto: «Les
Italiens… Italienish!».
I nostri schiamazzi d’altronde erano sufficientemente eloquenti da non mettere in dubbio la
nazionalità del aporto.
Col tempo, per non incorrere nel rischio di venire brutalmente estradati (i gendarmi svizzeri non scherzano) imparammo a bere birra e a mangiare le salsicce, zitti, attenti a non disturbare. Anche se Giorgio K. smaniava e mugolava: impazziva a vedere il grembiulino bianco col pizzo delle kellerine ogni volta che lo sollevavano per riporre i soldi nel marsupio, stretto alla vita. Sarà stato per il modo di sollevare il grembiulino, ZACK!… Neanche che le kellerine scoprissero le loro intriganti intimità…
La verità: i ragazzi erano belli e talentosi, artisti. Ma gli mancavano le Muse. (Mettiamola così.)
L’unica donna dell’intero piano dove stavano i creativi, era l’assistente di un art guercio, con la benda su un occhio, e un mezzo toscano perennemente infisso in un angolo della bocca. L’art aveva la fama di estroso, avallata dal guizzo della battuta imprevedibile o del pennarello sulla carta. Il suo comportamento era comunque contenuto nei limiti del bon ton. Del resto era abile diplomatico, godeva di una sua indipendenza e autorità, testimoniata da tutta una stanza a sua disposizione e da un ristretto numero di clienti strategici per l’agenzia, che lui era praticamente unico a gestire, senza intromissioni.
La ragazza, sua assistente, condivideva la stanza con l’art, e approfittava di ogni momento libero per disegnare pupazzetti. Lei stessa sembrava uscire disegnata dalle proprie mani: con la frangetta sulla fronte, e i tratti del viso che, a secondo delle luci o dei momenti, evocavano ora l’aspetto di una vecchietta petulante ora di una ragazzina sbarazzina.
Non era in definitiva proprio una gran bellezza, anche se c’era qualcosa, un frullo. Solo che erano tempi che esigevano condotte pudibonde, senz’altro virginali, specie sul lavoro poi, e tra soli uomini. Look e comportamenti asessuati. Gli occhi bassi. Schivi.
La ragazza, quando usciva dal suo studio, camminava per i corridoi rasente i muri. Le cosce strette come se volassero siluri.
Per un attimo, (scherzi della penuria) ci avevo fatto perfino un pensierino.
M’ero perso a immaginare di trascorrere le lunghe serate invernali con lei, davanti a un caminetto, intenti tutti e due a suonare il violoncello. Non che l’avessi saputo mai suonare, ma l’idea mi mandava su di giri.
Lei, che suonava il violoncello come preambolo a talami sfrenati.
D’altra parte, sui marciapiedi sotto l’agenzia, e per tutto il comprensorio di vicoli lì attorno - con epicentro in via San Giovanni sul Muro, già sede di una storica casa di tolleranza - era sopravissuto il retaggio collaterale di donne e pensioni, pensioncine e alberghetti, annidati nella case basse di ringhiera.
Risolvere certe pulsioni o trovare l’esperta di terapie di amori in standby non era un problema. Bastava un cenno. Non occorreva neanche scomodare Freud, teorie e discepoli. Tantomeno sapere suonare il violoncello.
(Tempo dopo, scoprii che la ragazza era la donna segreta di un dalla carriera emergente. Ho dovuto cambiare agenzia ed essere fuori, lontano, per scoprirlo. «E già, un » mi venne da dire. Uno strafottutissimo . Come da copione.)
10.
Mi divertivo.
E avevo superato il periodo di prova. Tutto bene?
Mica tanto.
Mi aveva detto il ragioniere all’assunzione: «Bisogna vedere se lei risponderà ai
requisiti. Sa, lei
può essere un gran giornalista o gran scrittore e non riuscire come copywriter. Ci vuole un certo tipo d’estro e poi lei parte da zero. Pensi, abbiamo perfino preso un titolista de La Notte e ci crede? ha bucato».
Sonore palle, avevo pensato. Se ne approfittano perché hanno il coltello per il manico. Parole ipocrite. La faccia sporca dal capitalismo.
Bene o male, mi correva nelle vene il sangue di mia madre. Vero. Autentico. Perché m’ero fatto al
suo seno, mica allattato dalla Nestlè. Polvere equivoca.
Quello di mia madre era sangue forte, di chi era abituato a lottare per la vita a partire dal centesimo. Nel nome di una dignità che lei considerava dovuta. E non ammetteva furbastri sfruttatori.
Peraltro, accusavo la minaccia: la spada della prova sospesa sulla testa.
Aveva aggiunto il ragioniere: «E, superata la prova dei primi mesi, poi, magari tra un anno, si può vedere di alzare la cifra a misura della resa. Lei deve capire, lei rappresenta un puro costo».
Puro costo, sottolineato e ripetuto.
A risvegliarmi il rospo in pancia, un giorno, improvvisamente, l’art (quello del «Porca beccaccia»)
mi chiese: «Da quanto tempo sei qua?».
«Mm… Dieci mesi… Più o meno» dissi.
«Mah!» l’art scosse la testa senza smettere di pennarellare. Ora socchiudeva un occhio ora l’altro, valutava l’effetto dell’ultimo colpo di colore.
La domanda dell’art aveva avuto l’effetto di ricordarmi le parole del ragioniere al momento dell’assunzione, circa un aumento di stipendio, una volta superata la prova e un certo tempo.
Già, mi dissi. Determinato ad aggiornare patti e cifre.
Se non che: da che parte incominciare? Come chiedere, soprattutto a chi? Direttamente al ragioniere?
Ma poi il faccione rosso non si sarebbe sentito scavalcato e offeso? Ne era il tipo.
D’altronde, mi fossi rivolto al faccione, mi avrebbe senz’altro risposto che non
rientrava nelle sue
competenze.
Provavo la sensazione di sbagliare, in ogni caso. Stavo imparando poco di Pubblicità.
Ma tanto sull’intricato mondo dei rapporti.
11.
L’art non partecipava alle compagnie di Giorgio K..
Era felicemente coniugato con una signora di nome Fernanda dai modi contenuti e che qualche volta veniva a prendere il marito.
Figlio di un avvocato, si era laureato a sua volta in legge per accontentare la famiglia, ma aveva frequentato anche la scuola serale di grafica al Castello e accumulato una carriera avventurosa di agenzie e stipendi non pagati. (Le agenzie straniere erano sicure, in questo senso).
L’art, all’esatto scadere dell’orario, non un minuto in più, infilava la giacca per correre a casa. Lavorava con dedizione, e gli bastava. Ignorava e voleva essere ignorato. Evitava i giri interni, misurava le parole, era prudente.
Eppure, inaspettatamente, derogando: «Forse è meglio che ti guardi in giro» aveva concluso. «So che cercano dei copy».
L’aveva detto a bassa voce. Approfittava del raro momento in cui nella stanza non c’erano persone.
Orecchie indiscrete. Ed era un consiglio che nasceva dal cuore. E di chi sa, ha l’esperienza. Non dubitai dell’art. E valutai.
Non mi occorse molto per concludere che avo le giornate a chiacchierare. A trascinarmi da una stanza e l’altra. E, se non era io ad andare da Giorgio K. era Giorgio K. a comparire: «Coffee Break?».
Lo diceva dando la risposta per scontata, strizzava l’occhio, ammiccava, si stiracchiava i peli della
barba, trotterellavamo al bar.
Il capo, il faccione rosso, non c’era mai, praticamente. Compariva trafelato se c’era da combinare una campagna. A tempi scaduti, sempre all’ultimo momento. L’acqua alla gola.
Allora convocava gli Stati Generali alla sua Corte: il casino del suo ufficio.
Tutti schiacciati l’uno a ridosso dell’altro. Sigari e sigarette, e pipe. Cortina di fumo. Seduti su quello che capitava. I discepoli attorno al Maestro. Gli Apostoli e Gesù.
Quanto a me, il mozzo, venivo buon ultimo nella complicata gerarchia degli scrivani.
(Giorgio K., in via strettamente confidenziale, da amico, mi aveva diffidato: «Alle riunioni col capo smetti di fare domande, evita commenti, stattene zitto». Il Maestro non gradiva altra voce oltre la propria.)
Il Maestro stava dietro al suo tavolo coperto di carte senza tempo, antiche e nuove. Discettava.
Sbandava tra l’attualità e la cultura classica (appannaggio di un remoto liceo di Forlì o giù di lì). Evitava addentellati con la politica, incentrava essenzialmente sul comportamento umano, chiosava con osservazioni di cui si auto-compiaceva.
Affrontava finalmente la campagna, si addentrava sugli aspetti del prodotto, scattava di quando in quando per fissare con la biro sulla carta mozzichi di frase, spunti o una semplice parola.
A quel tempo la televisione era ai primordi, la Pubblicità appariva per lo più sui giornali e specialmente su riviste e rotocalchi, ed era molto scritta.
(David Ogilvy nelle sue «Confessioni di un pubblicitario» chiama i suoi
copywriter writer, cioè
scrittori, tout court.)
Il testo svolgeva un ruolo decisivo e io ebbi modo di constatare da quale viscerale tormento uscisse ogni singola minima parola.
Il lavoro libero e tutto d’estro all’apparenza era in realtà quanto di più elaborato e contortamente
ragionato.
L’essenza della paranoia. Pura.
«Vi pagano un pacco di soldi per escogitare stupidaggini e ovvietà. Siete i profeti del banale» ci aveva beffeggiati un compagnone serale dei vicoli di Brera.
Architetto emergente, considerava la Pubblicità men che meno di una canzonetta. E Giorgio K. era scattato: «Parli così perché non sai, e chi non sa dovrebbe tacere».
In effetti, obiettivamente, a buon diritto, Giorgio K. avrebbe potuto benissimo parafrasare la famosa frase evangelica: «È più facile che un cammello i nella cruna di un ago che trovare un’idea… E che piaccia pure a Sua Maestà il Cliente». (E questo, non solo per le grandi campagne, ma anche per il più trascurabile dei mailing.)
Avrei dovuto capire la frustrazione che affliggeva i vari Giorgio K., lisi da anni di lotta logorante con le idee e a domare parole renitenti. Scritte e riscritte allo sfinimento e, oltretutto, ricacciate poi in gola nel corso di feroci infiniti esami. Da giudici, peraltro, improvvisati.
Ma mi illudevo che Giorgio K. fosse Giorgio K. Ed io invece ero Mario Bruno, ero grinta: getto
prorompente rispetto all’acqua morta di palude.
Un rodato consumato copy mi ammonirà e non a caso: «Ricordati, e tienitelo bene in testa, questo è un mestiere dove nessuno può dirsi mai arrivato. Sarai messo in discussione eternamente sempre.
Sempre. Qui, in questo campo, non ci sono degli Hemingway o dei Moravia che, conquistata la fama, qualsiasi cosa scrivano in seguito funziona. Un copy non può permettersi di vivere di rendita. Viene giudicato per l’ultimo lavoro, lo manca ed è fottuto».
Ma erano tutte soltanto parole per me. Io ascoltavo, le orecchie di un elefante. Grandi. Pronte ad assorbire. E la magica aura, è vero, incominciava a ridimensionarsi. Ma nell’altalena di sentimenti, tra cedimenti ed euforia, prevaleva l’ambizione.
Ero in ballo, e dovevo assolutamente fare strada, soldi, il salto: lasciare la Pubblicità e scrivere. Ma da scrittore. S maiuscola.
Traguardo, HEMINGWAY.
12.
Avevo dieci anni o dodici, la guerra era finita da poco, quando una domenica sera mio padre mi
aveva portato al Sempione. (Il cinema esiste tutt’ora, adesso è a luci rosse.)
Davano «Per Chi Suona la Campana» e la scritta iniziale sullo schermo recitava: E allora non chiedere per chi suona la campana, suona per te.
Mi aveva colpito. Insieme alla protagonista Ingrid Bergman, di cui mi ero teneramente innamorato. (Le mie masturbazioni, comunque, continuarono equamente dedicate anche a Deborah Kerr, Rita Hayworth e Juliette Greco, di cui conservava in portafoglio le foto ritagliate dal Radiocorriere, non c’era ancora la Tivù.)
Complice mio padre, appresi che l’autore del romanzo da cui era tratta la pellicola, era un certo Hemingway, un americano. Immaginai che, fossi diventato un Hemingway, avrei avuto tutte le Ingrid Bergman di questo mondo. Hemingway, del resto, per quanto grande – pensai – era in fin dei conti uno scrittore ed io ero bravo a scuola a fare i temi.
Peraltro, l’America era da poco sbarcata, aveva vinto e continuava a vincere, al cinema e nei sogni. L’American Dream.
Di lì a poco sarebbero arrivati anche la Monroe e James Dean.
Mentre il mitico James Dean si schiantava con la moto.
Mentre la mitica Marylin Monroe decedeva in circostanze intriganti. Mentre il mitico Ernest Hemingway si sparava in bocca.
Mio padre, preoccupato che il figlio volesse fare lo scrittore (non lo considerava un mestiere ma un suicidio), mi chiese: «Perché vuoi diventare Hemingway? E non, che so?, un commercialista? Un bravo revisore di bilanci?».
«Voglio diventare come Hemingway perché è americano» dissi. Era la prima cosa che mi veniva in mente, la più facile.
«Ma ci sono anche i revisori di bilancio americani» mio padre disse, sempre senza alzare la voce, civilmente.
Mi trincerai in un silenzio carico di umori.
Di Ingrid Bergman, a mio padre, avevo preferito non parlare.
L’argomento Hemingway scomparve dai discorsi di famiglia, sommerso dalle angustie del quotidiano. Perché non era bastato sopravvivere alla guerra. Adesso occorreva sopravvivere alla pace. E la mia famiglia era di quattro persone a carico dell’unico stipendio di mio padre. In AM- Lire peraltro. Dal valore poco più della carta colorata stampata in fretta e furia, e neanche bene.
A rischio, oltretutto, pure quella. Perché la sera, tutti in famiglia ci aspettavamo che papà tornasse a casa per restarci.
Licenziato.
Le Am-lire, Allied Military Currency.
La nuova cartamoneta emessa dagli Alleati appena sbarcati in Sicilia, nel luglio del 1943.
I nuovi biglietti avevano sostituito le lire del tempo monarchico-fascista e restarono in circolazione fino al 1950. Anche a occupazione finita.
Nel frattempo, l’inflazione, fuori controllo, annullava stipendi e salari: un chilo di pane, in poco
tempo, da 10 lire arrivò a 150 lire al chilo.
Non bastasse, le industrie licenziavano. Attrezzate a produrre per la guerra, adesso ch’era cessata, smobilitavano. Le fabbriche andavano riconvertite ma mancavano le materie prime insieme al carbone.
Luce e gas erano erogati a ore.
Mia madre si ingegnava a confezionare salsicciotti di tela ripieni di avanzi di stoffa per isolare i bordi delle finestre malmesse e impedire agli spifferi di aggiungere gelo al freddo.
La cucina era diventata letteralmente il focolare della casa. In tutti i sensi. La metafora si era tradotta in realtà concreta. Era l’unica stanza a godere dell’unica fonte di riscaldamento, il piano a tre fuochi alimentati dal gas di città.
Tutti stipati in cucina. A porte rigorosamente tappate, sigillate. Per uscirne soltanto al momento di andarsi a tuffare sotto le coperte.
(Nottetempo, un po’ per volta, perfino i platani secolari dei viali scomparvero. Segati e trafugati, prezioso combustibile.)
13.
Naturalmente, a casa, di ritorno dall’agenzia, bocca cucita. Non accennavo ai miei problemi.
Rientravo, e mi chiudevo in un anodino mutismo.
L’aria assorta. L’espressione assente.
Non mi costava, d’altronde, gran fatica stare zitto. Il tempo trascorso in famiglia era breve. Sempre di più.
Il mattino, fuori dal letto all’ultimo momento, il tempo giusto di lavarmi, vestirmi, correre al tram.
(Papà, da poco in pensione, da sempre abituato alla sveglia delle sei, già era in piedi. Già era uscito a prendersi il giornale, e già se lo era letto in buona parte. ate le otto, il figlio ancora a letto, mio padre si preoccupava con la moglie: «Ma quel ragazzo… Non va a lavorare? Che genere di ufficio è? Che orari fanno?».)
La sera, riapparivo per la cena. Vigeva la regola ferrea inderogabile che, cascasse il cielo, a quella certa ora, in quell’esatto momento, tutta la famiglia, nessuno escluso, dovesse essere a tavola. Un rito: una Messa presieduta dalla madre. Senza deroghe. Neanche si fosse in caserma.
Ma, trangugiato il pasto, già ero oltre la porta. Accompagnato dalle grida desolate di mia madre:
«Pare che il pavimento ti bruci sotto i piedi. È mai possibile? Questa non è mica una pensione,
sai?… Devi metterti bene in testa che questa è una casa e non un albergo o un ristorante!».
Tirai un sospirone di sollievo quando tutta la famiglia se ne andò in villeggiatura. Ma il sospirone ebbe presto un finale inaspettato. Perchè lo stress di riuscire sul lavoro (l'ambizione!) abbinato al caldo feroce, erano esplosi in insonnia.
La prima notte, a occhi aperti, non vi feci caso. Ma dopo la seconda, a sonno intermittente, e la terza daccapo lucida, incominciai a preoccuparmi. Non peraltro, ma alla mattina testa e gambe non reggevano.
Per ingannare l’angoscia di tirare giorno, m’ero ridotto a leggere tutto quello che di leggibile si trova in una casa. Compresa l’etichetta dell’acqua minerale.
Ne approfittavo anzi per studiare le forme di messaggio specifiche nel caso di una confezione. Il cosiddetto packaging. Come renderlo parlante. (Zelo professionale? Mania? degenerata in psicosi?)
Letto tutto quello che c’era da leggere, mi restava la rubrica telefonica. E, una notte, mi lessi pure quella. Appurai che i cognomi con la X erano più di quelli con la Y. E che tra i cognomi con la X ad averne di più (da battere ogni record) era un tale… Xiao Xi Xiang.
Rifiutavo l’idea di andare dal dottore. Il dottore senz’altro mi avrebbe subito chiesto: «Che lavoro fa?». Ed io non avrei saputo da che parte incominciare.
La Pubblicità era un genere di lavoro ancora sconosciuto (lo è in buona parte ancora adesso) e, visto anche quello che mi stava capitando, nemmeno io avevo chiaro il mestiere che facevo.
Altra domanda tipica di ogni medico: «Lei fuma?».
(«Fuma?» chiedono. Anche se un tizio si è rotto un osso. Come se la nicotina possa nuocere al gesso.)
Alla fine, però, ci andai dal medico. Che mi diede delle pastiglie, tra le ultime novità della farmaceutica, ormai protesa a nuove meraviglie.
Era iniziata infatti l’era dei tranquillanti, subito dopo quella epocale degli antibiotici, arrivati in
anteprima con le truppe Alleate.
Il galoppante progresso - con la diffusione del telefono, di auto, macchine, meccanismi e automatismi, tutte invenzioni create per il confort e il benessere dell’uomo - stava sottoponendo i sistemi nervosi a dura prova. E la Pubblicità, per parte sua, non poteva non restare insensibile al fenomeno. Subito se ne impossessa e lo cavalca. Esalta il carciofo, in versione aperitivo, «Contro il logorio della vita moderna».
Imperverserà per tutti gli anni a seguire, rendendo il carciofo più popolare dei Padri della Patria e dei Dieci Sacri Comandamenti.
Potenza di «Carosello».
14.
Cuore della notte, via Lentasio, storico budello a fondo cieco (oggi, non più), che si dirama dal Corso di Porta Romana.
L’osteria non aveva insegna, ma anche il Duomo non ne ha mai avute, eppure tutti sanno riconoscerlo. Così bastava dire «Ci vediamo da Pino» per sapere dove andare. Almeno tra gli iniziati.
(C’era, a dire la verità, un altro Pino, ma quello era Pino la Parete. La differenza la faceva l’aggiunta, la Parete.)
Era un tipico trani. E i cosidetti trani, a Milano, hanno rivestito per tutto il secolo scorso il valore
di un’istituzione di alta rilevanza sociale non seconda alle parrocchie e alle case di tolleranza.
La presenza capillare dei trani è paragonabile soltanto al numero di chiese e templi, numerabili nella Milano del Milleduecento, al tempo di Bonvesin della Riva, il frate laico dalle dettagliate cronache.
I trani sono stati il santuario del proletariato. Operai e artigiani, senza smettere la tuta, vi celebravano riti e vita.
Il clou: le carte, briscola e scopa - scopone scientifico e tressette per i più sofisticati. Inoltre il campo di bocce per la buona stagione, all’ombra della pergola di uva fragola. Il gioco della morra completava con la colonna audio di fondo, numeri urlati e improperi.
Alla base, a cementare momenti e sentimenti, il vino. Ed era appunto il genere di vino a caratterizzare il nome. Trani.
Perché da Trani, dalle Puglie, proveniva in genere.
Vino grosso, rosso indelebile anzi viola, tempra dura, generoso da prestarsi al taglio, offriva all’oste la discrezione (a misura della sua onestà) di moltiplicare una semplice botte in numero infinito di calici e mezzi litri.
D’altra parte, c’è da dire che l’acqua a Milano allora era buona.
Pino, il titolare, è un ex-pugile, come attestano la massiccia mole di muscoli e il naso rincagnato, e sta dietro al banco. A are uno straccio per lustrarlo, dopo averlo sgomberato dai bicchieri sporchi.
È comunista duro, come G.V., con cui sto seduto a un tavolo.
G.V. è il copy senior di un’agenzia di Pubblicità, quotata tra le maggiori planetarie. (Nella sua sola sede di Madison Avenue occupa tanti addetti quanti sono i creativi in Italia, in quel momento. Dite niente.)
Io e G.V., il copy senior, attingiamo a turno al mezzo litro di vino rosso, piazzato in mezzo al tavolo. E il nostro colloquio corre in perfetta sintonia già al primo mezzo litro. Prosegue in un clima di calda e virile amicizia, che aumenta all’aumentare dei mezzi litri.
«Mi hanno parlato bene di te» dice G.V.
«Succede» dico.
«Ho proprio bisogno di uno come te… Che mi dia una mano e abbia una sua autonomia creativa. Io
da solo ormai non ce la faccio.»
Mi sento lusingato. Accarezzo la proposta: la stessa sottile voluttà con cui si può accarezzare un vellutato seno di sinuosa morbida ragazza.
«Hem, hem» faccio.
«Ti andrebbe uno stipendio di... » G. V. mormora la cifra. Iperbolica.
Più del doppio di quanto mio padre guadagna dopo una vita di traduttore specialistico e interprete, cinque lingue parlate e scritte (in un Paese, dove per
larga parte della popolazione la stessa lingua nazionale è un mistero).
Il giovane che sono io corre col pensiero alla propria madre: quando, un bel mattino, scorgerà la busta dello stipendio lasciata dal suo piccolo sul tavolo di cucina, tra le macchie di latte e le briciole di pane.
Non ho dubbi: mamma dirà che mi sono dato alle grandi rapine. Sorrido a immaginarlo. Ammicco a G.V. simulando un’aria indifferente: «Boh, si potrebbe anche combinare…». Ammicco, trangugia vino e fumo.
Il copy senior, G.V., era famoso nell’ambiente. Per andare alle feste e sparare con la pistola ai
lampadari. Ma soprattutto per la sfiga che portava. Spietato. Inesorabile.
Chi lo conosceva aveva paura solo a nominarlo. Si toccava le palle. (Chi le palle non le aveva, toccava quelle del vicino.)
Io, ovviamente, non lo sapevo, ma in seguito fu avvisato: «Con uno così, non si sa mai. Stai attento».
Si raccontava che G.V., da piccolo, avesse salutato il padre dalla strada: «Ciao, papà!». E il padre, in cima a una scala sul balcone, era precipitato, sfracellato. Pare fossero stati questi gli esordi di G.V.. Fin da bambino. Mica male. Ed io m’ero trovato a lavorarci insieme.
Io ne avevo riso con gli amici, fin quando mi era capitato di andare con G.V. in macchina. Eravamo finiti in un fosso.
La seconda volta (era un altro a guidare e la macchina era sua, e stava viaggiando col motore intonato perfetto come un violino della Scala - il tizio aveva appena finito di decantarla: 180.000 chilometri senza il minimo disturbo) c’eravamo scontrati con un camion.
«Incomincio a pensare che tu mi porti rogna» lui, G.V., a me.
A metà riunione, G.V. improvvisamente impallidiva: «Oddio, mi sento male». Si portava la mano al petto: «Ci siamo, un infarto».
Lo stendevamo sui tavoloni da disegno. Gli allentavamo il nodo della cravatta. Lui ordinava con un filo di voce un gin fizz: «Fa bene, dilata le arterie».
Correvamo al bar all’angolo a prendergli il gin fizz, lui lo ingurgitava.
Si alzava a sedere sul tavolone, sorrideva, sollevato.
Un giorno, che mi lamentavo per la devastante insonnia, G.V. mi aveva raggelato: «Non è che tu sei ipocondriaco?».
Ipocondriaco, io non lo ero mai stato. Ma avevo incominciato effettivamente ad esserlo. Erano trascorsi un mese, un altro, un altro ancora, e non mi davano
l’ombra di un lavoro.
Uscivo per la strada e gironzolavo. Per vincere la noia.
Avevo fatto in tempo a praticare tutti i bar da via Durini a piazza del Duomo fino alla Scala e largo Augusto.
Infine, stanco di girare, m’ero ridotto a contare i mozziconi sparsi sul vecchio parquet sbrecciato della mia stanza, e ati in fumo per are le ore.
Una sera, usciti a bere vino, al Cantinone, di fianco al Dal Verme (al posto del Cantinone adesso sorge un palazzo di dieci piani lugubremente prestigiosi), osai: «Senti, cazzo… Fammi lavorare...».
G.V. scosse la testa: «Sei giovane, impaziente. Dai tempo al tempo. Aspetta… Anche a Raffaello, quand’era a bottega, davano soltanto i colori da macinare, mica lo lasciavano dipingere…».
Ebbi la conferma di un sospetto. Io ero importante per rendere G.V. importante. Non era il lavoro a contare.
Il mio ruolo si limitava al solo fatto d'esserci. I copy senior infatti erano due, lì dentro. E l'altro, un aiutante lo aveva sempre avuto. Poteva G.V. essere da meno, starne senza? Gli aiutanti da esibire come le mostrine, a dimostrazione di un proprio alto grado da imporre al mondo: questa la mia amara constatazione e conclusione.
Ecco una cosa che mai mi sarei immaginato.
Peraltro, il mio omologo, non solo non si prendeva i miei non pochi soldi, ma si beccava pure il vocabolario sulla testa. A compensare. Dal suo copy senior.
L’altro junior era un piccolo ebreo pallido con gli occhialini d'oro, che fumava una sigaretta dopo
l'altra.
Per reggere.
Le sigarette non le fumava, ma risucchiava riducendole in brace vivida, in un attimo. Aspirava, sputava parole e fumo, e subito daccapo aspirava.
Probabilmente perché al colmo (sempre) di una spropositata agitazione e anche po’ per darsi un
tono.
Per convincersi e convincere che anche lui aveva un posto al mondo di cui essere degno.
Il suo senior dalla stanza di fronte (li separava un corridoio) non gli parlava, gli urlava: «L***!... Vocabolario!».
E il piccolo ebreo pallido scattava, glielo portava.
Il tempo per il senior di consultarlo, e il vocabolario tornava scaraventato attraverso il corridoio. Il giovane L*** era diventato abile a schivarlo.
D’altra parte, non era una questione di razzismo.
Il senior, pure, era ebreo.
Qualche anno dopo il piccolo ebreo pallido vivrà il suo quarto d'ora di gloria, come direttore creativo di un’agenzia italiana di buona quotazione in quel momento. Smessi gli occhialini d'oro e - sempre affogato in una nuvola di fumo ma ora anche in una barba messianica, imponente – la sua trasformazione si compirà completa. Da piccolo e pallido copy a kapò.
L'altro senior aveva la peculiarità di scrivere come parlava. E parlava come la Duse, cinquant'anni prima, solo che adesso era ati cinquant'anni e lui non si trovava su un palcoscenico.
Mi divertivo e inorridivo nel contempo quando mi capitava di assistere agli incontri tra G.V. e
l’altro senior.
Questi, ogni volta che apriva bocca, si produceva in uno show da fine dicitore. Magari per dire soltanto che scendeva a prendersi un caffè.
Mi rifacevo con l’altro giovane omologo, il piccolo copy pallido. Gli dicevo: «Come va con
Gabriele?».
«Gabriele? chi?»
«Come chi?... D’Annunzio!»
«D’Annunziooo?»
«Sì, quel coglione del tuo capo» sghignazzavo.
Paradossalmente, l’altro senior curava una gamma di prodotti per elettrauto e camionisti.
Lui, lui proprio. Da cui c’era da aspettarsi, come minimo, che scrivesse per un candela, slogan del tipo: LA SCINTILLA FECONDA CHE ACCENDE IL MOTORE COL FREMITO DELLA IONE ALATA.
Per fortuna, c’era il capo massimo a filtrare.
Niente usciva dall’agenzia che non asse all’esame dei suoi occhi grigi.
15.
Gli occhi grigi erano il tocco finale di un grigio totale. Che cominciava dai capelli. Continuava nell’intero aspetto (abiti, cravatta, modi, toni della voce e contenuto dei discorsi) e si concludeva nella globalità della persona.
Contribuiva anche la statura. Ammesso che alla statura si possa attribuire un suo colore.
Perché era un piccolo uomo che colmava in larghezza i centimetri carenti dell’altezza.
Io, abituato a direttori normalmente anglosassoni (latinizzati o che comunque si sforzavano
d’esserlo), mi trovava spiazzato ogni volta che mi trovavo col grigio del direttore.
Era di origine greca, se si stava al suo prenome (Christodoulos) e cognome (dall’inconfondibile desinenza «opulos»).
In realtà, faceva parte della nutrita schiera evacuata dall’Egitto in seguito alla storica rivoluzione dei colonnelli Naghib e Nasser, che avevano deposto il sovrano re Faruk, noto soprattutto per la sua mondanità gozzovigliesca grazie anche al gossip dei rotocalchi, femminili e non, che ci sguazzavano.
La mitica colonia cosmopolita di Alessandria d’Egitto (ebrei, greci, italiani, inglesi, libanesi,
armeni, russi, si, americani, ciprioti, levantini e arabi di vari Paesi) si era così sfaldata.
Una corrente variegata di borghesi, per lo più benestanti e trafficoni, si era riversata sulle sponde opposte del Mediterraneo, dal Libano alla Spagna, e in Italia.
Qui, i transfughi – usufruendo della loro conoscenza delle lingue, della consuetudine all’internazionalità e di una tela di rapporti – avevano rimediato posti onorevolmente buoni, anche e soprattutto in Pubblicità.
(La Pubblicità, grande madre. Accoglieva al proprio seno generoso ogni genere di randagio, non importa se tale per inquietudini sue interne o perché costretto da contingenze esterne.)
Il direttore grigio se ne fregava dell’agenzia. Tempo prima aveva subito anche un infarto. Tirava a
sopravvivere.
Mentre ferveva la guerra tra i due senior.
Con G.V. che tra i due era il più indomabile e animoso.
G.V., peraltro, aveva anche i connotati del genietto perfido maligno. Era scattante e minuto, scosso da tic che lo percorrevano scuotendolo dagli occhi fin giù alle spalle. Unico punto fermo, in quei momenti, la grossa pipa che teneva costantemente in mano.
La pipa – impugnata saldamente neanche fosse un’arma, una pistola - appariva enorme e sproporzionata rispetto alle dimensioni complessive di G.V., miniatura di esemplare maschio di razza umana.
Esemplare peraltro atipico, perché con i capelli pressoché totalmente bianchi nonostante i quarant’anni forse nemmeno superati. (I capelli, accuratamente stesi fin sulla fronte, dove sbucavano agghindati in tanti graziosi ricciolini candidi.)
Insomma, G.V. era un nonnetto spiritato. Dai due occhietti azzurri sempre in movimento. Che, quando non si strizzavano a causa dei ricorrenti tic, fissavano pungenti. Protesi a raggiungere i meandri più profondi dell’interlocutore. Punte
di fioretto, pronte a reagire e a colpire. A trafiggere.
Ora, G.V. avrebbe preteso che il direttore grigio emarginasse definitivamente l’altro senior,
eleggendo lui, G.V., a unica e indiscussa autorità creativa. Mentre il direttore volava alto su ogni
miseria dell’agenzia. Equanime a contenere le istanze dei due contendenti, e a segarne i lavori. Con un costante (e grigio) ridimensionamento sia dei bozzetti che della personalità esuberante dei due rispettivi presentatori e peroranti.
Così che G.V. si muoveva clandestinamente all’opera. Sia a denigrare l’avversario numero uno, l’altro senior. Sia, subito dopo, il direttore grigio.
Sul conto del quale diffondeva questa storiella:
Christodoulos era greco di nome, bulgaro di nascita, ebreo di razza, ex-egiziano di nazionalità, cittadino attualmente libanese, russo-ortodosso di religione, americano per moglie, panamense di aporto, turco per come fumava, se di studi, tedesco di madre lingua, spagnolo per l’idioma che usava in attesa di imparare l’italiano.
Gli sarebbe mancato qualcosa di inglese, se non avesse provveduto ad acquisirlo tempestivamente a tempo debito. Nel corso della Seconda Guerra mondiale.
Il qualcosa di inglese consisteva niente di meno che in una medaglia. E che medaglia! Al valore militare:
Per essere riuscito, nonostante il fuoco nemico, a provvedere al ristoro delle truppe di Sua Maestà Britannica, vendendo loro coni di gelato nel deserto.
Non poteva naturalmente essere vero. Ma io, che fosse o no vero, me ne sbattevo.
Per saggezza (o codardia), ogni volta che sentivo ripetere la storiella da G.V., ridevo compiacente. Attento a non contraddire mai.
Solidale, sempre. (Almeno all’apparenza.)
16.
Arrivò una copy dall’aria candida che sembrava appena sbucata da un uovo di Pasqua, e invece veniva da Londra. Dalla sede là dell’agenzia.
Era inglese, sempre sorridente, gli occhi celeste/cielo senza ombra di nuvola. Avrà avuto qualche anno più di quaranta, una nonna per me. Che, forte della mia propria prorompente giovinezza, consideravo vecchi tutti quelli oltre i trenta, e vegliardi gli oltre quaranta.
La copy inglese s'era subito lamentata: in Italia la spesa quando si può fare? Esci
dall’ufficio e trovi
i negozi tutti chiusi!
Lo diceva dilatando, inorridita, il celeste/cielo dei suoi occhi.
Ero rimasto profondamente stupito e infine colpito dall’osservazione.
Era un genere di problema a cui non avevo mai pensato. A fare la spesa c’era mia madre. (Le
serviva per poi lamentarsi che doveva fare tutto lei in casa, ed era stanca.)
La spesa d’altronde avessi dovuto farla io, con le giornate che mi ritrovavo da riempire… Avrei
avuto tutto il tempo di provvedervi per me e dieci, cento famiglie, per quanto numerose.
Certo – arrivai a rimuginare - la copy inglese si permette il lusso di lamentarsi di quisquilie come la spesa, quando qui impera un casino che per spararsi ne basterebbe un terzo!
In realtà, il casino doveva rapidamente evolversi. E verso sbocchi, se non inauditi, quanto meno imprevedibili per una mente, come la mia, ancora impreparata ai meccanismi perversi della vita.
Infatti, i due senior, arrivata la copy, avevano immediatamente interrotto le ostilità. E stretto un'alleanza.
Non dichiarata o suggellata. Ma di fatto.
Implicita.
Comunque bastante a sortire i propri effetti.
Perché la copy inglese scriveva e lavorava come se non ci fosse, come se continuasse a farlo a Londra. Scriveva, e più le sue idee erano brillanti, più finivano offuscate dalla polvere dell’abbandono.
Le idee infatti dovevano are dall’uno o dall’altro dei due senior, a secondo del prodotto a loro
in carico, e i due aspettavano la copy al varco come il gatto il sorcio. Riflettevo, e dire che è brava!
Perché, tanto tenera e svagata poteva apparire, tanto dura e determinata era quando si trattava di viaggiare sul bersaglio.
«Bravina, indubbiamente, non c'è che dire» i due senior ammettevano, a bocca stretta, negli angoli bui dei corridoi.
Ma subito aggiungevano: «Peccato che il taglio sia troppo anglosassone, altra mentalità, altra psicologia, altro mercato.»
Nella precedente agenzia – riflettevo erano le massaie a essere cretine. Gli avevano l’ossessione che i testi fossero succinti, facili, niente voli, frasi terra a terra. Qui adesso, a non capire, avrebbe dovuto essere tutta una nazione, l’intera Penisola italiana.
E canticchiavo «Fratelli d’Italia».
E anche «Cambia l’agenzia, non cambia la minestra».
(In questo caso, oltre le parole, ci mettevo anche la musica. Inventarsela non era un gran problema.)
A proposito della «massaia» alias «casalinga» e della sua importanza per l’economia nazionale.
La casalinga di Voghera, piuttosto che di Cuneo, è stata per anni il campionetipo delle ricerche e dei sondaggi, e di riferimento nei discorsi degli operatori del settore della Comunicazione e del Marketing.
Non si sa perché proprio di Voghera invece che di Castelluccio sul Sangro, per esempio.
Di lei si è avuta la pretesa di sviscerare sentimenti, orgogli e pregiudizi, e ogni aspetto della femminilità, con particolare riguardo al momento del bucato e del condire e del fritto, in cucina. Non trascurando la cura della pelle, del viso e del corpo, fino alla sua pretesa igiene, considerata sotto ogni aspetto, fosse il più intimo. (Vedi: la pausa-bidè.)
La figura della casalinga di Voghera o di Cuneo, incarnazione-simbolo della massaia in assoluto, dalle Alpi al Mediterraneo, casalinga-oggetto, considerata alla stregua di un’oca da pȃtè.
E anche derisa come tale.
Sbeffeggiata nei santuari (dalla moquette alta una spanna) degli gnomi della comunicazione.
«Gente, pensiamo alla casalinga di Voghera! Alla testa che c’ha, a quello che una così è in grado di capire…», quante volte mi sono dovuto sorbire questa frase abietta.
Ogni volta riflettevo: Vero, che è anche colpa di tutte queste casalinghe se ci sono le varie Nilla Pizzi e Orietta Berti a imperversare. Però, in compenso, sono loro, le casalinghe, a preparare la pastasciutta e a lavare i calzini alla nazione. Mica gli . Buoni soltanto a beccarsi le donne e a rompere le palle.
17.
In un tentativo di ribellione al regime dei due colonnelli, un art australiano arrivato dagli USA, in
scarpe da tennis, s’era dato a sostenere la copy. Non che lei cercasse il sostegno di qualcuno.
Aveva visto il Duomo e le Colonne di San Lorenzo, e trovato il modo di fare la spesa. Le bastava.
Ma lo scandalo era tale da suscitare l’urlo.
Il guaio: l’australiano incominciava la giornata quando gli altri la finivano. Nel senso che, arrivava alla mattina, ma si svegliava e incazzava quando ormai era sera e tutti se ne andavano.
La mattina, dopo quando ritornava, c'era stata una notte di mezzo. E, Dio sa, cosa non riesce a fare e rimuovere dalla memoria un australiano in scarpe da tennis, in una notte.
Il suo ammutinamento fu morbidamente assorbito. Italian Style.
18.
Poi la copy, com'era arrivata, tornò a Londra. Tante idee, nessuna stampata.
Fui invitato a casa della copy alla festicciola di commiato.
Era libera, non s’era fatta il fidanzato latino, e avesse avuto qualche secolo di meno le avrei chiesto l’indirizzo per seguirla e amarla, a Londra.
Invece, baci e abbracci, noccioline e bollicine. Evaporate.
E tornai a girare i bar da via Durini a piazza del Duomo fino alla Scala e largo Augusto. E poi ancora a contare i mozziconi sparsi sul parquet ati in fumo per are il tempo.
Unica variante: un bel momento, al posto della donna inglese, occhi celesti di cielo senza nuvola, mi approdò in stanza un ligure nero, scuro, scherzi del Mediterraneo.
Poteva essere un saraceno uscito buio dalla pancia di una galea.
Il ligure era fuori di testa, continuava a dire belin senza motivo e a sorridere serafico, rassegnato, come gli ergastolani rei confessi di avere assassinato la famiglia, e a cui non gliene frega niente più di niente.
Fino al giorno in cui stufo di sentirlo dire belin e di vederlo sorridere ai fantasmi che s’era portato da Genova e che era solo lui a vedere, perché a me dei suoi fantasmi non fregava niente - arrivai a una considerazione fondamentale: se non ce l’aveva fatta la copy candida che pure aveva giocato
praticamente in casa (possedeva della «Corporation» l’idioma, look e aporto), io, Bruno Mario, potevo starmene lì anche cent’anni. I mozziconi a forza di contarli, un giorno avrei finito col mangiarmeli.
Cessai di invidiare Silvio Pellico che almeno aveva in cella un ragno con cui parlare e non un ligure pazzo, e mi ricordai che fuori c’era il boom, e che non doveva essere difficile trovarsi un altro posto.
I discorsi fuori tra colleghi erano: «Sai il tale? sta per andare alla Young».
«Chi te l'ha detto?»
«Lo so (aria di mistero), indovina quanto gli danno?» seguiva cifra, esagerata, e il commento: «Ma nooo!».
Ci si lasciava verdi, ciascuno facendo tra sé i propri conti: se a quello là così tanto, a me allora? Quanto mi spetta?
Ero ormai abile a vendermi e a piroettare parole come un pagliaccio le sette palle al circo. Trovai.
19.
Cercavo il battesimo di fuoco? Lo aveva invocato, agognato? L’ho avuto.
Nella nuova agenzia. Subito, allo sbaraglio.
O meglio, al fianco di un art, un veterano scafato agli intrighi di corte, semplice di testa ma con tanto buonsenso e la furbizia di chi ne aveva viste e sentite, e la pelle se l’era fatta a prova di proiettile.
Quando stavo ancora a perdere tempo e cervello sui libri, l’art già stava a tirare il carrello da anni, a
bottega.
Colombo Gianluigi di anni 38, abitante con la vecchia madre (lasciata dal marito, non appena il figlio Gianluigi era venuto al mondo) in casa di ringhiera, zona Bovisa, via Imbriani. Titolo di studio, incerto. Di certo, già disegnatore all’Alfa, ato alla Pubblicità allettato dalle maggiori prospettive di guadagno.
Non tenevo un diario, ne disdegnavo la consuetudine: considerava il diario un
esercizio letterario pari all’auto-erotismo solitario. Ma, lo avessi tenuto, quella data l’avrebbe intitolata: «Cronaca di una giornata da buttare».
La mattina era incominciata azzurra, il pomeriggio meno. La nebbia, fuori, aumentava di pari o allo spessore, dentro, nella stanza, del fumo delle sigarette. La missione era trovare idee per la pasta
di una nota Casa, e le idee, mano a mano estirpate dalla mia propria carne e intrise del proprio sangue, me le vedevo ghigliottinate sul nascere dall’art.
Ne traboccava il cestino.
A un certo punto, vi posai gli occhi. E vidi nero. Accesi la lampada sul tavolo, e continuai a vedere nero. Avessi potuto, mi sarei auto-appallottolato.
Degna fine all’altezza delle idee immolate.
«Non si uccidono così neanche i cavalli» dissi all’art.
La stessa sera, come da time-table, gli si presentarono per prendere il lavoro.
«E adesso cosa porto al cliente, domattina?» disse l’ senior, smarrito, fissando l’unica cosa visibile sul tavolo: un pacchetto di sigarette accartocciato.
Al suo posto, si aspettava di veder risplendere una costellazione di bozzetti, proposte brillanti epocali. Ed io – ingenuo adepto alle prime armi - già mi aspettavo di vedere scorrere del sangue.
Omicidio o suicidio che fosse, o omicidio seguito da suicidio.
L’epilogo non poteva essere altrimenti a giudicare dall’espressione desolata dei due , senior
e junior.
Al contrario.
Imparai molte cose, quella sera. La principale.
In Pubblicità quando il dramma tocca l’apice ed è ora di cena, si va al ristorante a rimpinzarsi. (E a
bere.)
All’uscita dal ristorante, Colombo Gianluigi declamò solennemente: «Stanotte sto su e domani
mattina, ore nove in punto, trovate idee e lavoro fatto, pronto. A rischio di rompermi il cranio». Platea riconoscente, commossa.
Sguardi umidi.
L’art mi tolse di mezzo: «Sei giovane, hai bisogno di fare tanta nanna. Tu vai a casa che ci penso
io».
E il mattino dopo, ore nove, i bozzetti erano pronti. alle stelle.
La salvezza sopraggiunta ancora una volta grazie all’art, il veterano.
Giorni dopo, mi venne l’idea di rovistare in una pila abbandonata di riviste americane. Prese un Esquire a caso, lo sfogliai, beccai un annuncio pubblicitario con l’idea presentata da Colombo Gianluigi.
Non proprio tale quale.
Colombo Gianluigi l’aveva taroccata di quel tanto. L’Uovo di Colombo, pensai, e già.
20.
Bene, molto bene, mormoro alla birra che ho davanti.
Sono seduto in un bar, a un tavolino. Io, unica persona. Oltre al barista che legge la «Gazzetta».
Volasse un moscone, il ronzare in quel silenzio avrebbe l’effetto di un bombardiere in virata. Alla faccia del juke-box in un angolo che sonnecchia muto con le lucine sui capezzoli delle donnine pronte ad accendersi alla musica sparata.
Bene, rifletto, ho cominciato alla Carey Pearson & Valley a comprare libri e speso un capitale. In cazzate di geni americani dell’advertsing. Il mago che scriveva lettere di vendita irresistibili. I trucchi per fare abboccare. Tutti campioni. Un libercolo intero sull’efficacia della parola «NEW!». Sì, l’irrefrenabile richiamo che la parola «NUOVO!» - la più abusata in Pubblicità, e vecchia e antiquata - continua però a esercitare. (Colmo di una contraddizione in termini.)
E adesso, io, eccomi qui ridotto a confidarmi a una birra.
Ho fatto la scorta di una sfilza infinita di parole inglesi: head-line, body-copy, pay-off, rough, lay- out, script, spot, close up, briefing, meeting-report, copyplatform, reason why, gimmick… Sulla bocca di tutti, che guai a non saperle. Parole d’ordine, che se non te le ciucci, mica vieni riconosciuto dell’ambiente.
Così vai dal cliente, le sciorini, e quello ti guarda con gli occhi sbarrati. Supplica: spiegatemi, traducete, io sono ancora fermo all’italiano. E allora, quelli della Pubblicità assumono l’arietta sapiente superiore, degli appartenenti alla casta su, degli up-to-date. E sì, perché tra poco di italiano resterà soltanto la parola mafia, in compenso esportata insieme alla pizza in tutto il mondo. Copyright, made in Corleone, Italy, esclusivo.
Shit! Tutti quei manuali e manualetti che puntualmente incominciano con «Come… bla-bla-bla».
«Come far questo» o «Come fare quello». Tra cui quel David Ogilvy. Anche lui: «Come organizzare grandi campagne», «Come scrivere testi efficaci», «Come illustrare annunci e manifesti», «Come fare una buona Pubblicità televisiva», «Come salire in cima all’albero»…. SALIRE IN CIMA ALL’ALBERO!
David Ogilvy che chiude la sua bibbia di gloria col capitolo: «Si deve abolire la Pubblicità?». (Scontata la risposta. Figurarsi se poi risponde: sì, eccome.)
Undici capitoli, studiati parola per parola dal giovane Bruno Mario. Bevuti come se lui fosse la sabbia del deserto su cui cadono, dono del cielo, undici stille di fresca preziosa rugiada cristallina.
Ma adesso?
Dopo questa storia del Colombo Gianluigi? Mi dico alla seconda birra.
David Ogilvy, questo, mica me l’aveva detto.
Terza birra.
Forse ho sbagliato tutto, mi dico. D’altra parte, un lavoro occorre pure averlo. Certo, questo della Pubblicità è una cosa troppo differente e strana però pagano e bene, e questo basta perché sia considerato un lavoro ad ogni effetto.
Nel mio quartiere, tutti i miei coetanei già sono da anni a tirare il carrello. Chi, finite le elementari, in officina.
E chi, finite le medie, a fare il porta-campionari di qualche commesso viaggiatore o in qualche ufficio con la mansione di fattorino e la speranza (massima aspirazione) di are negli anni a impiegato di concetto.
Io, Bruno Mario, sono un’eccezione. Emarginato per questo dagli ex-compagni di strada e di pallone: «Bella vita, lui! Con la scusa di studiare fa un casso!».
Non importa se poi loro avevano i soldi per le granite o per il latte con la menta e per il sesso avventuroso che i tempi poco generosi concedevano.
Si stavano anche facendo la moto mentre io dovevo mettere insieme rottami da vendere ai robivecchi o fregare vecchi libri e giornali usati dalle soffitte incustodite dei vicini.
Sempre alla rincorsa della lira. Perché non erano tempi in cui era consentito far flanella, e tantomeno c’era famiglia disposta a fare da chioccia a covarti più di tanto.
Uno che voleva diventare Hemingway, e non era in America, l’America doveva inventarsela.
Il surrogato più vicino: la Pubblicità.
Dalle Stelle e Strisce formato ridotto, sbarcate insieme alla Quinta Armata, alla Coca Cola e al chewing-gum.
21.
La porta del bar cigolò.
Il lamento prolungato, simile al miagolio d’un gatto, mi distrasse. Girai la testa. Osservai il tipo ch’era entrato e che, pigramente, o dopo o, stava dirigendosi al bancone.
Riai l’uomo con lo sguardo.
Un mezzo sigaro gli pendeva dall’angolo della bocca, a cui mancavano i denti.
La forcella delle bretelle ballava all’attaccatura con i pantaloni, a cui mancavano i bottoni.
E alle ciabatte, con un buco da cui sbucava un grosso alluce, mancava d’essere buttate.
Il bar era all’angolo delle Cinque Vie e pensai che l’uomo probabilmente era il portiere di qualcuna
delle case di ringhiera lì accanto.
A arci davanti, a quelle case, dalle porticine basse, giusto per poco più di un nano, si intravedevano scale di pietra strette e buie, da cui uscivano zaffi che sapevano di pipì di gatto, di cavoli bolliti e, il venerdì, di pesce. Il puzzo di fritto e grasso che a fermarsi un attimo bastava. Si impregnava la stoffa del paltò.
L’uomo nemmeno parlò, fece un cenno con la testa al barista, che depose la «Gazzetta» e, con aria
annoiata, allungò un braccio sotto il banco. Guardai fuori.
Oltre la vetrina, c’era una donna attempata, ferma. Si guardava attorno, mentre batteva la borsetta sulle ginocchia e con l’altra mano teneva una sigaretta accesa tra le labbra. Ce n’erano sempre almeno tre o quattro, di donne. Attempate. Lì alle Cinque Vie.
Proseguendo con lo sguardo, vidi un manifesto con una grossa suola dentata di gomma (quel tipo di suola era chiamata carrarmato). Campeggiava lo slogan cubitale Camminate Pirelli.
Era lo slogan del momento. Tappezzava i muri, viaggiava sulle fiancate dei tram. Pensai che rappresentava il capolavoro dell’estrema concisione: diecimila concetti in due parole. (I puristi della lingua lo avevano accolto inorriditi, alzando alti lai e gridando allo scandalo.)
Il barista, nel frattempo, aveva afferrato da sotto il banco un bottiglione di vino bianco. Adesso stava riempiendo un calice al presunto portiere dalle ciabatte a cui mancava solo d’essere buttate, e che si stava lambendo i baffi grigi con la punta della lingua.
Tornai con lo sguardo dentro la sua terza birra, e ai miei pensieri.
Considerai che la Pubblicità, in quel momento, era un’onda che montava mentre io ero costretto al
ruolo di spettatore. Io che aspettavo solo di buttarmi nella mischia.
Tra l’altro, sempre fin dagli inizi, avevo covato in fondo in fondo l’idea che prima o poi avrebbe fatto il colpo grosso.
Quale? Boh!
Non l’avevo mai avuto chiaro.
Però era una sensazione che avevo provato.
Insieme a un’altra.
Non c’entrava con la prima, ma altrettanto mi eccitava: l’idea di manovrare folle di persone.
Era un’idea riprovevole.
Pericolosa per sé e per gli altri e disgustosa, anche se allettante per tanti, troppi. Da sempre.
Per sempre.
ando da Mussolini, Stalin e Hitler.
Per quanto, nel mio caso, ci fosse l’attenuante dell’età.
Le energie traboccanti che degenerano in non coscienza, acritica.
L’uomo in ciabatte e il barista alzavano i toni.
«Và a dà via i ciapp! Ti e la to Inter! Con quel’Herera….» il presunto portiere in ciabatte aveva la
voce roca. « Porca sidela!... Damen on alter. »
Il barista era tornato a chinarsi, ad afferrare il bottiglione. Riempì il calice dell’uomo attento a non sbordare dall’orlo: «Nereo Rocco te lo frega cento volte il tuo Herrera!».
Poi i due arono al confronto tra Mazzola e Rivera.
Pensai che c’era anche la storia di mia madre, sullo sfondo, a complicare la situazione già complessa. Era un’altra cosa che David Ogilvy non aveva contemplato nel suo libro.
David Ogilvy non aveva contemplato che un pubblicitario possa avere anche una mamma. E fanno due, pensai.
Altra omissione, e non da poco.
22.
Al mio arrivo alla Carey Pearson & Valley, tra le varie cose che mi avevano colpito e divertito,
c’era una bozza di stampa appesa al muro di uno studio. Non era più grande di un mezzo A4 e
riportava a caratteri cubitali: NON DITE A MIA MADRE CHE SONO IN PUBBLICITÀ. MI CREDE PIANISTA IN UN BORDELLO
Il cartello rifletteva lo spirito dei tempi, l’ottica con cui la Pubblicità era vista. E, guarda caso, si
attagliava alla mia situazione. Neanche fosse stato creato a mia misura.
La decisione da me presa di arruolarmi in Pubblicità, infatti, era nata proprio come conseguenza di un certo episodio.
L’EPISODIO, ATTO PRIMO
Erano i miei ultimi mesi di militare, ero di stanza a Milano così la sera riuscivo a mangiare a casa.
Madre: «E’ arrivato il momento che ti trovi un lavoro».
Bruno Mario: «Okay».
«E non parlare con la bocca piena.»
«Okay.»
«Tuo padre ha lavorato abbastanza, è stanco, e ancora deve continuare, tocca a te adesso dare una mano.»
«Okay.»
«Durante questo tempo ho messo da parte un po' di offerte di impiego.»
«Okay.»
«E smettila con questo Okay e Okay, possibile, non sai dire altro?»
«Okay.»
Mia madre andò a prendere i ritagli di giornale che conservava in camera da letto, sotto la statuetta della Madonna, sul comò. Tornò e li sparse: «Dì un altro Okay e ti trovi piatto e spaghetti in testa».
Okay, lo disse invece mia madre, poco dopo, nella confusione. «Okay» le scappò, finito di sparpagliare i pezzi di giornale.
Si trattava di offerte di banche e cose del genere. «Guarda questa, sembra fatta su misura» disse sua madre.
«Se in banca ci vado, è per fare una rapina.»
«Gesù Santo.»
«Mi faccio i soldi della cassa e, nel minuto che avanza, le impiegate.»
«Gesù mio Santo, perdonalo, non sa cosa si dice.»
«Stasera il sugo sa di rancido.»
«E dire che eri un così bravo ragazzo prima di partire. L’Esercito, cosa v’insegna? Colpa anche di
certe donne, tipo quella... lasciamo perdere.»
Le donne che la madre mi attribuiva, magari ci fossero state. Perché ne frequentavo sì di donne, ma di un genere che mia madre chiaramente non immaginava. E il loro influsso, in ogni caso, non andava oltre alla marchetta. Insufficiente per convincere uno a non andare in banca.
C’era a impedirlo anche il limite della tariffa, calcolata per un tipo di prestazione troppo definita e rapida per prevedere estensioni d’altro genere.
L’avesse saputo mia madre.
(Anche se, magari, sarebbe stata capace pure di tranquillizzarsi: all’idea che si trattasse di roba veloce, di aggio, per cui il suo Mariono comunque le restava, quel suo unico figlio maschio col pisello che il solo fatto di averlo conferiva a lui ogni privilegio e a lei, in quanto madre, il privilegio a sua volta di accordarglielo.)
Madre: «Guarda il ragionier Bell’Amore, lui sì».
Bruno Mario: «Figurarsi, e già!».
Il ragionier Bell’Amore godeva di un’alta considerazione nel palazzo. Perché era ragioniere, e lavorava in banca. Per farlo vedere e sapere a chi non lo sapeva (ch’era ragioniere e lavorava in banca), come segno di distinta distinzione, viaggiava sempre incravattato in doppiopetto e si pettinava con la riga in parte. Un solco nei capelli compatti, lisci. Lucidi di brillantina. I eri ci si potevano specchiare e, volendo, pattinare.
Quando incontravo il ragioniere per le scale, mi affrettavo a cedergli il o, ma il ragioniere neanche mi degnava.
Ci restavo male.
Così gli facevo le corna, alle spalle, e rimuginavo: Hai voglia, stronzo, di condirti di brillantina.
Voglio vedere se mi saluterai quando, questione di tempo, tutti sapranno l’Hemingway che sono!
Gli auguravo di scivolare sui gradini lucidi di cera, e sfracellarsi. Bruno Mario: «Non reggo la stronzeria dei bancari».
Madre: «Parla come si deve!, fin tanto metti i piedi sotto questa tavola.»
«Non posso fare a meno di mirare alto e di volere che il mio nome diventi come minimo, immortale.»
«Ma sei matto?»
«Per niente.»
«Immortale, come? Cosa? Gesummaria, non ti riconosco.»
«Càpita.»
A mia madre non poteva dirlo. Non potevo tirare fuori Hemingway.
E chi è?- lei mi avrebbe detto. - È un altro di quei poco di buono che ti sei messo a frequentare?
Avrei dovuto ripiegare su qualcosa di più semplice e immediato: Scrivo bene e ho fantasia - ma allora lei: Se è così, scrivi subito alle banche – mia madre mi avrebbe senz’altro replicato.
Il fatto è che all’epoca erano gli uomini a comandare. Ma erano le mamme a reggere l’Italia.
Insieme alla Madonna.
23.
ATTO SECONDO
Evitavo di cenare a casa, ma non riuscivo a immaginare alternative valide alla
banca. Tanto valeva, mi dissi, ritornare almeno a mangiar bene. Gli americani avevano vinto la guerra con la potenza dei Liberator? Mia madre vinceva ora a modo suo: con la potenza del ragù.
Madre: «Ah-haa! Ti sei deciso, sei tornato». Bruno Mario: «Non avevo più niente di pulito.»
«Perché non vai da quella là a farti lavare le mutande.»
«Quella là, quale?»
«A tua madre potresti dirlo. Una volta mi dicevi tutto.»
«Quando mai?»
«Potresti anche farcela conoscere.»
«Nemmeno morto.»
«Ma allora c’è! l’immaginavo.»
«Ti dico che non c’è.»
«Sarà. E’ che sei diventato così falso. Bugiarrrdo.»
«Continua, e mi riprendo le mutande.»
«Sarebbe ora che imparassi a lavartele. Che tua madre mica è qui a farti da serva.»
«Okay. Prendo mutande e tutto, e me ne vado.»
«E come fai?»
«Vuol dire che farò senza mutande.»
«Maria Vergine Santissima, non ti riconosco.»
«Cosa c’è da mangiare?»
«Mi fai perdere la testa. Basta che arrivi tu e non mi raccapezzo. Gesù Santo, il sugo brucia. E smettila di girare, siediti. Forza, a tavola, che è pronto.»
«E allora, papà?» mi trovavo sempre meglio a parlare con mio padre. Il quale:
«Abbiamo un governo che di questo o...»
Mia madre lancia un’occhiata fulminante al marito: «Tu e la tua politica, e piantala. Sempre all’ora dei pasti… Che poi non si digerisce. Ho incominciato stamattina presto a preparare. Guarda che sugo, senti – mia madre mi allunga una cucchiaiata fumante - Senti il profumo. Per farlo come piace a te l’ho fatto andare piano, piano. Ore! Me lo sentivo che venivi, sai? La prossima volta, però, o m’avvisi o peggio per te. Te ne vai al ristorante. Che non sono mica qui a tua disposizione».
«Buono, mamma, buono.»
«Ti piace eh? I pomodori sono andata a prenderli fino al mercato, apposta. C’è Mario che li ha
freschi che parlano, maturi. Me li mette via, sa che ci vado. Te lo ricordi, Mario?»
«Buono, mamma, buono.»
«A fare da mangiare per te sì che c’è soddisfazione», segue occhiata muta ma eloquente,
all’indirizzo del marito. Altro che te!
Madre: «Già che ci sei, puoi scrivere alla banca. Così imbuchi stasera stessa mentre vai in caserma. Pregherò la Madonna che ti assumano. Sarebbe proprio una grazia del Signore».
Bruno Mario: «O Cris...!».
Madre: «Bestemmi anche? Solo questo ci mancava».
24.
ATTO TERZO
Sono alle strette.
Scarto la Legione Straniera, penso di andare in Svezia in autostop.
Lassù ci vivono splendide ragazze e incredibilmente disponibili. Ti portano a casa a fare l’amore. Spensierate e garrule, come a un pic-nic, a consumare la merenda. E senza che mamma e papà dicano niente. Anzi. La mattina dopo si fa colazione tutti insieme.
Però, a tentarmi c’è anche Parigi.
L’emozione di condividere il Cafè Flore con Sartre, Godard, i geni, la nouvelle vague, le caves di
Saint-Germain-des-Prés con il jazz nero originale di New Orleans dal clarino di Sidney Bechet.
A Parigi c’è il brivido di ritrovare i posti di Hemingway. La stessa aria.
HEMINGWAY!
Ma tra la Svezia e Parigi, proprio grazie a mia madre - paradossalmente proprio grazie ai suoi ritagli di giornale - apprendo che non ci sono soltanto le banche a cercare. Ci sono anche certe misteriose agenzie di pubblicità. Tanto più seducenti perché misteriose. Da far immaginare che lì dentro il lavoro si compia attraverso chissà quali riti magici. Le agenzie dai nomi inglesi promettenti.
L’America qui in casa!
Soluzione la più rassicurante per un onorevole compromesso. Già.
La sede del Credito Italiano sta in piazza Cordusio e quella della Carey Pearson & Valley in piazza degli Affari. La differenza? La distanza di un centinaio di metri, e basta. Il tram per raggiungerle è lo stesso, è il 12. E anche la Carey ecc. paga i contributi (per la pensione, punto fermo e fissa di mio padre «Non ti credere, è un attimo che ti ritrovi vecchio, e allora…»).
Come ampiamente visto, m’ero guardato bene dallo scrivere a una qualche banca. E - quanto al NON DITE A MIA MADRE CHE SONO IN PUBBLICITÀ, MI CREDE PIANISTA IN UN
BORDELLO – mia madre, giocoforza, aveva appreso (inevitabile!) che il suo piccolo Mariolino… magari pure fosse finito pianista in un bordello.
25.
Pagai e lasciai il bar.
Le tre birre facevano schifo, però costavano poco.
A buon prezzo come le donne fuori, agli angoli delle Cinque Vie.
La donna che poco prima si batteva la borsetta sulle ginocchia era sparita. Lì, dove posteggiava, aveva lasciato mozziconi sparsi di sigaretta. L’impronta d’un rosso carminio impossibile, quasi viola.
Pensai per un attimo alla donna. Era senz’altro con qualcuno da qualche parte su in qualche camera. Ma subito tornai ai miei problemi. E provai allo stomaco un genere di stretta sconosciuta fino a poco tempo prima.
Ultimamente mi tornava ricorrente.
Mi chiesi se non fosse il caso di ammettere d’avere perso definitivamente, non solo con me stesso e
con il mondo, ma anche e soprattutto con mia madre.
M’incamminai furioso per via del Bollo e mi dissi: MAI.
26.
Le telefonate dall’esterno arrivavano tramite centralino e le parole mi colarono nelle orecchie, dolce
musica, assimilabile al sussurro di un’avvenente spia venuta dal freddo. Ne era l’epoca. Si stava erigendo il Muro di Berlino.
Contraccambiai, miele a miele. Subentrò un tuono. Shock. Sussulto.
«Bruno, noi non ci conosciamo di persona, io sono Mario B….» la voce era d’uomo, roca e dura.
Mario B. era il grande Mario B., padreterno e mito. Ricopriva un cumulo di quelle cariche, in
inglese, che a decifrarle… Si fa prima a leggere un’iscrizione in sanscrito antico.
Era creative director supervisor chief, consultant, AD, CEO, e via con le sigle sparate una dopo l’altra. E tutto questo nell’agenzia che, tra i vari super-budget, curava il detersivo leader del momento. (Mica noccioline)
La più acerrima guerra combattuta nell’Emisfero Cristiano Occidentale, dopo il Secondo Conflitto mondiale, è stata senz’altro per la conquista del mercato del bianco più pulito.
Tra i vari effetti collaterali:
l’acqua uscirà dai rubinetti sempre più equivoca per colore e sapore;
Mina canterà «Le Mille Bolle Blu», probabilmente ispirata da fiumi e mari che esplodono in mille suggestive iridescenze;
i camerieri al mare - dopo che avevi macinato chilometri apposta per mangiare il pesce fresco - ti
diranno fieri: «Nossignore, pesce ormai non se ne pesca, ma guardi la tovaglia com’è bianca!».
«Lo vogliamo capire, cazzo? Le ricerche di mercato lo dicono chiaro: alle donne non gliene frega una minchia se poi tirano fuori le lenzuola con i buchi. Le donne vogliono il bianco. E diamoglielo sto’ cazzo di bianco! Gridiamoglielo, stampiamoglielo bene impresso dentro nella testa che siamo noi… noi… quelli del più bianco!»
Era il ritornello – l’urlo belluino – nelle sale-riunione, meeting-room, delle agenzie multinazionali come le company in ballo.
(Mitinrum, che non si sa mai se considerarlo sostantivo femminile in quanto traduzione di sala- riunione, o se maschile in virtù di un vago genere neutro.
Mah! Di certo, il mitinrum si distingueva da ogni altro locale dell’agenzia - anzi dello stesso intero palazzo - perché bastavano pochi minuti di riunione, e già una cortina di fumo si addensava. Spessa che a spararci dentro, le pallottole rimbalzavano respinte.
Sigarette, pipe, toscanelli e sigari, l’intero campionario dei tabaccai meglio forniti e specializzati del Centro di Milano. Bei tempi, a tutto vapore. Vietato non fumare.)
Al colmo dell’epica del pulito appare IL LANCIERE BIANCO: cavaliere candido e fulgente avvolto in un alone di luce, il viso celato in un elmo. Irrompe in sella a un destriero pure candido fulgente, e con un tocco magico di lancia sprizza un’esplosione di bianco.
Ajax, lanciere bianco, è più forte dello sporco. Il Lanciere Bianco in Pubblicità.
Come il Principe Azzurro della fiaba.
27.
La telefonata si risolse con un appuntamento, la sera stessa, in una cantina nota per la selezione dei suoi vini. (Tanto per cambiare.)
La Taverna Morigi, esattamente.
Raccomandazione finale di Mario B.: «È evidente che conto sulla sua più assoluta discrezione, Bruno. Come lei già immagina, nessuno dovrà farne accenno ad alcuno. È un ambiente pettegolo, di serve, e lei sa benissimo cosa succede in questi casi se la voce si diffonde…».
Mancava solo che mi ordinasse di presentarmi con parrucca bionda, occhiali neri, tacchi a spillo. Ma la CIA, la Central Intelligence Agency, ancora non aveva fatto furori al cinema e in TV.
(Apposta, ad aprire la telefonata, era stata usata la ragazza nel ruolo di fidanzatina. Per depistare le centraliniste dalle orecchie lunghe e la bocca ancor più larga.)
La luna intravista in fondo al pozzo, può capitare che ti sbuchi dal filo del telefono, pensai. Quella sera. Alla Taverna Morigi. Mario B. non faceva che ripetermi: «La nostra agenzia è stata riorganizzata. Se lei, Bruno, accettasse, sarebbe responsabile di un gruppo di prodotti: sarebbe padrone di gestirli creativamente come meglio crede. Lei si farebbe le sue campagne senza supervisioni di senior, comitati o altro… Massima snellezza è il nostro nuovo
must».
A sentirlo, mi sentivo sollevare al vertice dei cieli. Stava accadendo quanto mi aspettavo da una vita. Concludemmo alla grande.
28..
Erano ati circa un paio di mesi. Ed era di primo pomeriggio. Stavo seduto al mi tavolo, a districarmi nella giungla di bozze e bozzetti, nel frattempo rutticchiavo.
Avevo appena finito di sbranare un panino mentre discutevo di una copy strategy. Avevo ingurgitato brandelli di prosciutto e di parole, e lo stomaco presentava il conto.
Trillò il telefono. Era il gigante buono: «Vuole venire un attimo?».
[Gigante buono era il soprannome attribuito a Mario B.. Spiegabile per le sue fattezze, ma meno per quanto concerneva il buono. Probabile giustificazione: i suoi modi confidenziali, l’espansività amichevole (all’apparenza). Non a caso, Mario B. si era eletto a profeta dell’empatia in Pubblicità: aveva elucubrato e ripreso una teoria in realtà americana sciorinando concetti fumosi ai confini della mistica.]
Pensai: strano che Mario B. mi voglia vedere.
Dopo la sera alla Taverna Morigi non ci si era praticamente più parlati. Solo sfiorati. Per i corridoi. Ciascuno impegnato a seguire orbite diverse.
Lasciai bozze e bozzetti e mi affrettai.
Rutticchiavo e rimuginavo: sarà per complimentarsi che tutto funziona. Non vedevo altri validi
motivi. Mi affacciai all’ufficio di Mario B..
Stava telefonando stravaccato sulla sedia. La scrivania sgombra. Senza ombra di carte o tracce che inducessero a supporre una qualsivoglia attività lavorativa. Era il piano di scrivania del perfetto alto dirigente.
Mario B. avrebbe potuto benissimo stenderci sopra le gambe ma Mario B. non era americano. In compenso, la sua mole non indifferente faceva apparire la scrivania poco più grande del banco di uno scolaretto.
Sempre parlando al telefono, mi fece un cenno con la mano. Mi indicò una sedia solitaria, che
pareva aspettasse soltanto l’onore di un sedere.
La onorai.
Mi assestai con garbo.
(Attento a non provocare il minimo rumore, che avessi potuto mi sarei annullato.)
La telefonata non finiva. Mi accesi una sigaretta. Accusavo il protrarsi dell’attesa. La tensione acuita dall’incognita. Ero stato convocato perché mai?
Accavallai le gambe. La piega dei pantaloni lasciava a desiderare. (Eppure mia madre ci teneva, e come li smacchiava, stirava e riava!) Accavallando le gambe, la piega si sarebbe ridotta ancora più malconcia. Pensai: E chissenefrega.
Il gigante buono era scuro di pelle e nero pece di capelli. Poteva essere un etrusco. Redivivo. E, paradosso, indossava sempre camicine d’un tenero celeste o d’un vezzoso rosa-bimba. Tipo da contrasti, mi venne da riflettere.
Mi chiesi come potesse piacere tanto alle donne. E pensai che le donne hanno nella testa strani meccanismi. Rutticchiai. Sembra uno scimmione, pensai.
Pensai: ha anche la voce roca, oltre l’aspetto, di un vecchio pugile suonato. Un vecchio pugile roco
e suonato agghindato con le tinte di un bebè.
La camicine, non bastasse, avevano anche il colletto ch’era un collettino. La telefonata finì.
Mario B. schiuse la faccia al più ampio dei sorrisi. Dev’essere l’empatia, regola numero Uno: mi
dissi.
Poi Mario B. assunse di colpo un’espressione triste sconsolata. E supposi che fosse la regola
numero Due: fare leva sulla solidarietà.
Difatti: «Devo scrivere una relazione per la Palmolive» disse il gigante buono. «Ho continuato a rimandarla ma adesso non posso proprio evitarla. Merda!... Me ne mettessero qui una pallina, lei ci crede? me la mangerei piuttosto che scrivere quella fottuta relazione».
Questione di gusti, pensai.
Ma ridimensionai, dissi: «Oh, la capisco, certamente». Ed ero sincero.
Avevo imparato che la gente della Pubblicità era gente da bozzetti, aborriva scrivere. A maggior ragione se si trattava di tutte quelle scartoffie, relazioni e report e roba simile che il contatto col cliente comportava.
Incombeva l’incubo di esporsi, nero su bianco, e la paranoia di dire senza dire ma dando l’impressione di dire. Per non compromettersi.
La più semplice e banale paginetta diventava cimento. Le vene sulle tempie si ingrossavano. Ne usciva un penoso mix di frasi contorte, esempio di negazione del comunicare. (Proprio da chi, della communication, avrebbe dovuto essere L’ESPERTO.)
Comprendevo benissimo, oh sì!, le ambasce di Mario B. alle prese con la sua relazione.
Fissai il gigante buono negli occhi, e gli sciorinai il sorriso di solidarietà e comprensione che si riserva a chi ti è simpatico e ci tieni che lo sappia.
Mario B. ricambiò con mossa fulminea: estrasse un foglio da un cassetto e disse: «Firmi». Allungai il collo, puntai lo sguardo. Vidi tre righe scritte a macchina. Non capivo.
«Sono le sue dimissioni» disse il gigante buono.
Mi avvicinò il foglio con un leggero colpo della mano.
Ero ancora fresco della telefonata in agenzia da parte di mia madre. Soltanto pochi giorni prima.
«Corri, papà stava tornando a casa e s’è sentito male. L’hanno portato all’ospedale». M’ero precipitato. Al Fatebenefratelli. Pronto Soccorso.
«Lei è il figlio?... Suo padre è morto».
29.
Lasciai l’ufficio di Mario B., e il mio primo pensiero fu: E adesso, a casa? Pensare a mia madre fu vederla.
Come la pastorella di Lourdes con la Madonna, ebbi la visione di mia madre. Lì davanti. Netta. Nella penombra del grande corridoio che nei marmi e nei volumi riecheggiava lo stile Piacentini del palazzo.
Mia madre: il volto della Madonna Addolorata dalle sette spade infisse nel costato. Ne udii anche la voce. Distinta. Da poterne, volendo, ripetere le parole. Una per una.
«Hai visto a fare di testa tua? Adesso sarai contento. Io lo sapevo e te l’avevo detto, non poteva finir bene. Mai che tu ne abbia mai combinata una giusta, e c’era anche l’esempio del nipote delle signorine Perissinelli. Lo sai bene, lui, la fine che ha fatto con la Pubblicità. Se non c’era la famiglia a provvedere… Dio mio… Mio Dio, che vita! Già non bastava la morte di papà, anche tu… Anche tu adesso. Bella soddisfazione avere figli. Una mamma fa tanti sacrifici per allevarli, farli studiare perché si facciano una posizione e poi? Ecco poi cosa riceve. Solo disillusioni, preoccupazioni e dispiaceri!».
Mi coprii gli occhi con le mani. Orrore.
Orrore.
Orrore.
30.
Davanti alla porta del mio ufficio, stava socchiusa, indugiai. Pensavo sempre a mia madre. Alla sfida con lei da quando, si può dire, ero nato. Per quanto stordito, la testa vuota, un punto mi era chiaro: mia madre doveva ignorare.
Mi decisi a spingere la porta, entrai. Raggiunsi il mio tavolo. L’art di fronte continuò a sbozzettare.
Indifferente. Di fatto, sbirciava. Pronto a riabbassare gli occhi sul lay-out appena glieli intercettavo. L’altro art, E.P., alla mia vista, s’era accesa una Gauloise. La succhiava. Subito l’aveva ridotta a brace incandescente.
Aveva abbandonato il rough a cui lavorava, e incrociate le braccia, fumava e meditava. Lo sguardo inespressivo.
Fissava, senza vederlo, il viso della donna appena schizzata che gli stava
sorridendo. Di un sorriso ebete da tanto era fuori luogo. Nella cappa greve, di fumo e di silenzio.
Fui colto da un dubbio.
Più volte, E.P., insieme ad altri, aveva fatto pressione perché rivelassi l’entità del mio stipendio. Ma era un segreto a cui mi ero vincolato con Mario B., a sua volta preoccupato di evitare confronti, invidie e dissapori.
D’altronde, qualcosa doveva essere accaduto ai vertici dell’agenzia per arrivare a quello a cui si era
arrivato. Qualcosa cosa?
Avvertii la sensazione che E.P. sapesse molto. E mi fosse amico ma solo all’apparenza.
Troppe ipotesi. Inanellate, conducevano a un labirinto. Stop! Mi dissi. Non avevo tempo, dovevo rimediare. Inutile rivangare melma. Dovevo trovarmi un nuovo posto.
31.
Avevano ottenuto la mia testa? Sgombrato il rospo, adesso potevano anche essermi sinceramente amici. A cominciare da E.P.. E fu così.
«Non so quanto ti davano, di sicuro ti toccherà prendere meno» l’art di fronte si decise a rompere il
silenzio.
Era una brava persona, fuori da ogni congiura, ed era onesto. Pratico. Aggiunse l’art: «Certo, farai
fatica a trovare un altro posto».
Stavo rendendomi conto che la Pubblicità sarà stata anche un mondo attraente, coloratamente svagato e spensierato. Ma all’apparenza, e come alla gente fuori piaceva immaginare. Nei fatti, stavo scoprendo, anche in Pubblicità vigevano le stesse leggi e spietatezze e assurdità del mondo del lavoro. E del business. La stessa logica: o vinci o perdi e se perdi, guai ai vinti.
«Difficilmente assumono uno che, raggiunta una certa posizione, si trova poi a retrocedere» stavolta fu E.P. a parlare.
E poi a quei tempi, la colpa, l’onta, ricadeva puntualmente sul licenziato, per principio, mai
sull’autore del licenziamento.
«Perché non provi alla L*****?» disse l’art di fronte. «Lì cercano sempre».
«Di chi devo chiedere?» dissi.
Intervenne E.P.: «La L*****, sicuro. Vedo di are la voce…».
Riaffioravano in E.P. i principi migliori dell’ideologia che professava. La solidarietà di classe.
32.
E.P. non era che uno dei tanti di quel momento. E proprio per il suo valore emblematico merita due parole.
Per incominciare, proveniva da umile famiglia, ed era oltremodo ambizioso. Lo era senza lasciarlo trapelare. Era di modi misurati, controllato e calcolatore. Freddo da far pensare che l’unico calore di cui riuscisse a essere capace fosse quello delle braci delle Gauloise che risucchiava una dopo l’altra.
Incapace di iniziative proprie, era abile ad accodarsi e ad avvantaggiarsi delle iniziative altrui.
Aveva tutte le doti di un abate di corte, sornione, ne aveva l’intuito e l’intelligenza politica.
Esangue. E pigro. Era probabilmente esangue per la pigrizia di far pompare il cuore, e pigro perché il cuore non pompava.
«Pare che le agenzie in America, i creativi li cerchino apposta di sinistra» E.P. aveva detto un giorno. «Dicono che hanno più spirito critico, sanno cogliere gli aspetti più sottili del Sistema».
E.P., stalinista inossidabile, pensava strabico. Guardava all'URSS con l'altro occhio mirava agli USA. (Il vantaggio delle agenzie in Italia, rispetto a quelle americane, era di trovarseli in casa i creativi ruspanti rivoluzionari. Insieme a fotocopiatrici all’avanguardia… di talento. Le più belle campagne italiane si potevano trovare nei volumi illustrati degli Art Direction americani, questione soltanto di avere la pazienza di sfogliarli. In pratica, cambiava solo il nome del prodotto.)
Ma E.P. riusciva ad essere anche oltre la Manica. Infatti la rivoluzione la faceva in cashmere, che in sterline del Tamigi costava meno e era più bello che in lire da Bardelli. Senza contare che E.P. aveva anche lo spider, una Triumph, inglese. Perché «Solo loro sono capaci di fare cruscotti in radica, così».
In tutta Milano di quegli spider non ce n'era che altri quattro. Lotta per il parcheggio, e lotta di classe.
Aveva anche la donna, inglese (scozzese). Probabilmente per tradurre le istruzioni per il cashmere.
Jane era magrina e difettava di seno. Ma bilanciava con virtù non per questo meno apprezzabili. Come il buonsenso. A parte che aveva i capelli rossi, originalità che non guastava in un paese in cui il rosso se non è di partito o dei tramonti, è di tintura.
C’era solo da capire come una tizia con il suo buonsenso, avesse potuto mettersi con E.P.. O meglio, come E.P. avesse potuto mettersi con una donna di buonsenso.
(A E.P. mancava d'inglese solo il fatto di capirlo. E un cane. A sua discolpa, non era ancora arrivata la moda dei cagnoni pastore delle Highlands che si ordinavano in Scozia e si andavano ad
accogliere come parenti cari, all'aeroporto. Salvo a casa scoprire che lo spazio non c'era, che tutti e due insieme non ci si poteva stare . Così che mettevi il cane a letto, e andavi a dormire all’albergo.)
No, non era un tipo simpatico.
Ma, fatto buffo, proprio dopo il licenziamento, anzi per via di questo, mi ero trovato a frequentare
E.P. anche fuori. Fuori dal lavoro. Scherzi della vita. E della psiche.
Con questo, nessuno dei due parlò mai del fattaccio, dei retroscena e i motivi che potevano averlo provocato.
Neanche fosse mai avvenuto.
E, quanto alla frequentazione, sarà stato che E.P. aveva tratti in comune con i Giorgio K. dell’ormai
lontano tempo. La stessa accortezza e diplomazia, qualità che sapevo di non possedere.
Solo che E.P. non aveva dei Giorgio K. la spensieratezza e creatività a escogitare frizzi e lazzi
appena fuori dall’ufficio. D’altra parte, anch’io non era più lo stesso.
Ero cambiato. Svanite le euforie.
Mi era mancato anche mio padre. Aveva inciso.
Anche adesso andavamo in Svizzera (a Locarno, per l’esattezza, non a Lugano), e E.P., ata la
frontiera, parlava se.
Non voleva essere riconosciuto per italiano.
Gli italiani erano quelli dalle valige di cartone tenute insieme con lo spago. Scendevano dal Lecce- Milano-Basel, a sciami urlanti, si sparpagliavano per le stazioni, gridando oscenità alle fraulein bionde, si lasciavano dietro una scia di cartacce, scaracchi e bucce.
(Sulla porta di cinema e bar, capitava di leggere il cartello: «Vietato l’ingresso a cani e a italiani».)
E poi italiani e zingari rubavano. La stessa fama.
E.P. che era un grande divoratore di carne - bovina, manzo - sbavava davanti a una bistecca: E in Svizzera si trovavano i filetti succulenti, quadrati, alti e spessi.
E.P. li ordinava in se, forte di una remota permanenza (naufragata) a Parigi a far l’artista.
Fece carriera E.P., alla sua maniera, sulla scia di uno dei grandi personaggi del momento. Il quale poi però (suo malgrado) lo dovette scaricare.
E.P. infatti aveva copiato un logo americano. Tale e quale. E non era tanto il fatto di per sé che, come visto, ricorreva. Quanto il frangente. Qualcuno incastrò E.P. recuperando da un water dell’agenzia la pagina incriminata all’origine del plagio e di cui E.P. in extremis si era sbarazzato.
E.P. finì radiato fuori dal giro. Riapparve a Milano anni dopo. Favorito dal tempo che aiuta a dimenticare e a riciclare criminali nazisti e collaborazionisti e puttane.
Fece in tempo, prima di morire (in età prematura) a rifarsi un posto onorevole: se si sta al necrologio scritto da una giovane creativa su un noto giornale del settore. (La giovane creativa piangeva d’avere perso un insostituibile Maestro).
33.
Riuscii a rottamarmi.
(Rottamarsi non è espressione felice, riferibile a un essere umano, ma quale altra usare dato il caso?)
E il aggio avvenne anche rapidamente, nel giro di due settimane o poco più. E proprio alla L*****.
Come da copione.
Stipendio ribassato, mansioni ridimensionate.
La cifra era pur sempre comunque superiore (e di parecchio) a quella di uno spazza-cessi. E, quanto alle mansioni, l’organizzazione dell’agenzia era tale da costituire l’occasione per allargare le mie esperienze. Nonostante tutto,
continuavo a credere a quel genere di mestiere e anche nel genere umano, e nel mio programma stabilito inizialmente.
Si erano verificati dei ritardi. Antipatici contrattempi. È vero. Ma, in fin dei conti, non erano che incidenti di percorso. Così io mi dicevo e consolavo. Ho tutta una vita davanti, mi dicevo.
Risolsi anche il problema di mia madre. Che non venne mai a sapere del licenziamento.
34
Era l'agenzia della margarina e dei detersivi, e di parecchi altri prodotti. E la mission era insegnare agli Italiani come fare a meno del loro ottimo olio d'oliva, del loro burro e del sapone.
Era la punta di diamante della moderna civiltà, e alle quattro del pomeriggio ava il carrello con il tè.
Un certo tempo prima, la casa produttrice di cui l’agenzia era l'house agency era incappata in un deprecabile infortunio: i grassi tutti e solo vegetali avevano condito tanto leggero che in Olanda qualcuno era volato. All’altro mondo.
I grassi tutti e solo vegetali (avallati dall’eminente clinico di turno) continuarono comunque a essere indicati quale condimento superiore. Salubre e gustoso. Raccomandato a difesa della linea e delle arterie.
La margarina.
Per me era ritrovare una delle rivelazioni risalenti alla mia infanzia, a guerra finita. Quando i panetti arrivavano con i pacchi UNRRA, insieme a tante altre novità.
Come l’evaporated milk, che però sciapo senza zucchero, non era come il latte concentrato nostrano. (Dolce più del miele, denso e cremoso, il latte concentrato si usava diluito. Dosato a cucchiaini. Da bambino, me ne sarei fatto tutto un barattolo ne avessi avuto il modo. Mi ci sarei annegato al pari di una vespa, cosa che feci in parte. Quando, non resistendo, in piena guerra, me n’ero fregato un barattolo dalle scorte previdentemente accantonate da mia madre. L’avesse scoperto!)
L’evaporated milk resterà indelebile nella mia memoria per la confezione dall’etichetta metà bianca e rossa, il grande garofano e il logo Carnation. E per tutte le scritte in quel magico idioma così esotico ch’era l’inglese. (Misterioso e nuovo perché bandito per anni dal fascismo in quanto lingua dell’odiato nemico.)
Ma tra le novità UNRRA c’era anche la farina di piselli.
Tutta roba sconosciuta che mia madre maneggiava curiosa e nel contempo circospetta.
Arrivavano anche le scarpe, anche loro così strane. Massicce, di tutto cuoio,
spesso, con i lacci e il puntale. Doppia suola. Anni dopo sarebbero diventati gli esemplari della moda più esclusiva e ricercata. Col nome di Saxon e Church. Dal prezzo esclusivo altrettanto. (Corsi e ricorsi.)
La Pubblicità stava guadagnando spazio. Diventando la stazione dove, questione di tempo, era destino che tutti ci dovessero are. Poco o tanto. O a vario titolo.
Campionata in Pubblicità c’era tutta l'Italia che approdava in quegli anni a Milano. Con laurea o quinta elementare, non importa. (Un tizio ha fatto carriera col diploma di coiffeur.)
C'era il clan dei toscani, di quelli di Parma, dei genovesi e dei giuliani. C'era perfino qualche milanese.
L'Italia meridionale era rappresentata in polizia e nei cantieri, ma sono settori tra i pochi che non hanno a che fare con la Pubblicità. Anche se l'ho incontrato un copy, di San Severo.
Il copy aveva preso il treno a San Severo per andare a Roma a scrivere film, e s'era trovato alla Stazione Centrale invece che a Termini. Non aveva i soldi per un altro biglietto, così era finito in Pubblicità, a Milano.
In realtà, ne avevo trovati altri due pure pugliesi.
Uno portava il colbacco (anche d’agosto) come Totò a Milano nel famoso film.
E a chi gli si
rivolgeva per la strada in milanese, rispondeva: «Nicht verstanden». In tedesco.
Insomma, tutta l’Italia, prima o poi, ava da Milano, dove tutti avano prima o poi dalla
Pubblicità, dove tutti avano prima o poi all’agenzia dov’ero approdato.
35.
Sul pianeta si moriva di fame ed io all’agenzia dei detersivi e della margarina – io, ape laboriosa e di talento, secernevo il mio di miele.
Particolare.
Riguardava i grassi senza calorie.
Fortunata te, così snella, scrivevo, con la coscienza tranquilla di cannare la grammatica, ma non il messaggio.
Certo, le calorie in meno, sarebbe stato forse opportuno dirottarle in Africa, dove per quanto afosa e calda, le calorie difettano.
Ma erano pensieri che non avevano il tempo di attecchire – io e compagnia bella eravamo troppo
concentrati. Mirati a traguardi ben più vicini di quell’Africa nera, così remota e tanto oscura.
A me bastava, in nome della salute, spaventare la gente con lo spauracchio dell'infarto. (A rischio, sul serio, di farglielo venire.)
36.
Nell'agenzia in cui si riusciva a fare felice tutta una nazione con la margarina e il bianco del bucato, era però facile essere infelici.
Testi e bozzetti andavano e venivano dal cliente, sempre gli stessi, avanti e indietro. Fai e disfa.
La tela di Penelope.
Fosse un ping-pong! riflettevo.
La pallina, almeno quella, l’avrebbero cambiata.
La sala riunioni, l’ormai ben nota meeting room, era assimilabile a un aeroporto. Con pista al centro, un tavolone.
Si sapeva quando si atterrava. Non quando se ne ripartiva. I partecipanti non erano meno dei eggeri di un Jumbo.
Arrivava infine il direttore scozzese in una nuvola, i fumi residui di una notte arguibile.
Si stravaccava, allungava le gambe sul tavolone. E, pazienza la noncuranza per i presenti, ma l’onta
per il tavolo, che valeva da solo gli emolumenti delle eccellenze assemblate in quel momento.
Il direttore scozzese subito si copriva gli occhi con le mani. L’aria di chi si immerge concentrato a
meditare.
In realtà, recuperava il sonno perso.
ROMM-ROMM, ogni tanto emetteva un grugnito, accompagnato da vaghi
movimenti della testa. Mentre tutti discutevano tra loro accaniti.
Il suo vice italiano - nel dubbio che movimenti e grugniti esprimessero giudizi riferiti alla discussione in corso – li accompagnava con moti di diniego o di consenso. In sintonia.
Poteva capitare che il movimento della testa o il grugnito del direttore fosse difficile da interpretare per il vice italiano, e questi allora si produceva nel più strabiliante dei contorsionismi: riusciva a riunire consenso e diniego in un solo cenno.
Mai visto collo più snodato, mi dicevo, ammirato se pure disgustato.
Era un’altra pagina di vita che si aggiungeva al mio sempre più nutrito dossier.
Bastava un dettaglio, una foglia d’insalata. Non importa se relegata sullo sfondo di una foto. (Still life, il termine tecnico ovviamente inglese). Toglierla o lasciarla, la foglia? E se sì, come renderla evidente? Anzi no, sfumarla? Magari flou. (Flou altro termine risolutore, magico.)
Salvo concludere che non era il tipo di insalata più idonea. E quindi discutere se era più rappresentativa una foglia di lattuga o di scarola.
Le vie della creatività sono infinite e la foglia costava riunioni, scatti, fotografi stressati allo spasimo e infine ripudiati, cespi acquistati a cassette (l’equivalente di un patrimonio) da un certo verduraio in Montenapoleone le cui vetrine non
avevano niente da invidiare ai gioiellieri della via.
Perché solo lì si reputava di trovare la verdura e i frutti perfetti, coreografici, all’altezza. (Altro che i pomodori di Mario al mercatino di via Fauchè.)
Ebbi modo di imparare che non c’è come lo zelo ispirato di un probo e mediocre funzionario perché le idee più brillanti, proprio in quanto tali, vengano prima mutilate. Poi segate.
37.
Tutti discutevano attorno al tavolone. Creativi, , media e marketing.
Approfittavano dell’occasione per manifestarsi reciprocamente, con tatto, il proprio odio. Fino a che il direttore scozzese si riscoteva.
Si scrollava sulla sedia.
Si toglieva le mani degli occhi, se li stropicciava, e riponeva le gambe sotto il tavolo, come si addice a un rispettabile cristiano.
Il direttore scozzese si raddrizzava nella poltroncina, si schiariva la gola e prendeva la parola. Nel silenzio che calava.
Il silenzio calava immediato.
Solenne.
Parlava pacato il direttore. Autorevole come un libro stampato. Ma mal tradotto. I mozziconi di frase anglo- italiani disinvoltamente uniti risultavano normalmente incomprensibili. D’altronde, erano inappellabili.
Non era ammessa discussione.
Io ascoltavo, non capivo, obbedivo: Oh, Yeeeeessssss!
38.
Finivo col pensare ai candelieri antichi, a casa. Trasformarli in abat-jour? O tenerli com'erano?
Che così antichi forse non stava bene metterci il cappello.
Reagivo alla pubblica noia dandomi al privato.
M’ero buttato a comperare ogni sorta di testimonianza del caro buon tempo antico.
Fosse un portacandela rozzamente abbozzato o una maniglia della porta di una stalla. Una mania.
Mi davo al ato in assenza di un presente, anche se furono i giorni gloriosi in cui presi la patente, e scopersi che c'erano più pali che strada, per la strada.
Non mi era ancora capitato di vivere giorni uguali così uguali, e ricorsi alla risorsa di darmi ammalato. Solo che non potevo insistere a fare l’influenza quando l'epidemia era ata e la nuova nemmeno annunciata.
Non restava che una sana licenza. Matrimoniale.
39.
Eravamo tutti ragazzi della stessa età, più o meno, lì dentro. Qualche volta lavoravamo, ma per lo più avamo le ore a fumare e a chiacchierare. C’era l’aria condizionata e non si potevano aprire le finestre, ma, specie d’estate, ugualmente qualcuna l’aprivamo.
Fuori non c’era niente da vedere, se non altri palazzi anonimi, tirati su dopo la guerra, sulle macerie delle vecchie case di ringhiera. Anche l’aria da fuori era illusione. Ma forse la basculante aperta faceva pensare di vivere meno in prigione.
Erano uffici dove tutti si vedevano tutti. Open office. E avevo imparato che il
mio vicino di tavolo, art o copy che fosse, non ti voleva necessariamente bene. Così apettavo solo di tirare sera, e il fine settimana. Quando pronto scattavo in auto, via da Milano, fino alla sera della domenica.
Adesso in Svizzera ci andavo con Cati, la moglie fresca di zecca.
«Siamo una generazione fottuta, a noi toccano solo gli avanzi» disse uno dei copy, Giuseppe A.. Avrei voluto obiettargli il contrario, ero convinto che ci fosse ancora dello spazio.
A differenza di Giuseppe A., avevo partecipato nel corso del mio peregrinare, a lanci epocali. Non importa se relegato ai margini. Ero stato partecipe dell'avvento dei surgelati, della fotocopiatrice, del colore in televisione e della macchina fotografica che riprendeva e subito stampava…
Certo, i vecchi (che poi erano più grandi di una decina d’anni, al massimo, non di più) avevano fatto in tempo a piazzarsi, in cima all’albero (per dirla alla Ogilvy). Tenevano banco e le fila, stavano in contatto tra loro, da un’agenzia all’altra. Poteva sembrare anche una mafia. Ma pensavo che lo stesso c’era il modo di incunearsi.
Comunque, per tutti, vecchi o no, erano finiti i colpi facili. Del Far West ch’era stata la Pubblicità ai
primordi.
Di quei primordi circolavano storie assurte al livello di leggende.
Si narrava di un certo art director (uno dei primi a essere considerato tale) a cui l’agenzia aveva
messo a disposizione tanto di macchinone con autista (in divisa) per il tragitto casa-agenzia.
Un altro, aspirante giornalista auto-elettosi copy, s’era fatta la Buick col lavoro di un paio di giorni,
per una campagna.
Se ne vantava, esibiva la Buick: «Leccala - diceva -, e sentirai tutto l’aroma e la fragranza del buon
tè A**. Dal paraurti davanti ai fanalini dietro».
(L’art, era finito giusto a sopravvivere: in uno studiolo, in proprio, in periferia, con lavoretti ati da colleghi comprensivi. E il copy, per campare, s’era dovuto inventare un giornaletto di pettegolezzi sull’ambiente. Del giornaletto lui era direttore, redazione, segretaria e fattorino.)
Giuseppe A. covava ambizioni letterarie. Occupava il tempo libero a mettere insieme una specie di rivista culturale (titolo «Billy Budd», a simbolizzare una
sua cervellotica teoria). Ma Giuseppe A. dipingeva anche, seguiva le avanguardie, e s’era affittato uno scantinato, per atelier.
Io scotevo la testa ad ascoltarlo.
Da tempo avevo smesso di leggere i buoni autori. Ero ato alla saggistica, infine avevo smesso di leggere del tutto. Eccetto le riviste che arrivavano in agenzia: praticamente tutte le più importanti dell’emisfero occidentale: maschili, femminili, italiane ed europee e americane. Da «Grazia» a
«Paris Match» a «Look» a… a… a.
Il comportamento usuale di un normale lettore di giornali, che non sia fuori di testa, è di leggere gli articoli e saltare la Pubblicità. Ignorarla. Io facevo il contrario.
Sfogliavo furiosamente e alla vista di un annuncio, mi bloccavo. Lo studiavo. Vivisezionavo. E, se lo giudicavo meritevole, mi accertavo che nessuno mi vedesse, per strapparne la pagina. Che riponevo e conservavo religiosamente.
Hemingway, sepolto.
«Tanto, tutto quello che c’era da scrivere è stato scritto» dicevo a Cati.
«Eppure erano simpatici quei tuoi raccontini gialli che scrivevi da ragazzo» lei
mi diceva.
«Oh!» scrollavo le spalle. Infastidito. Come se Cati mi rispolverasse debolezze vergognose.
Perché ero ormai assorbito dal Verbo della Pubblicità. E guardavo ai colleghi con sufficienza: loro, campioni di incoerenza, che usavano la Pubblicità per sopravvivere ma nel contempo si lamentavano di essere usati. Loro, che si sentivano chiamati a generi più nobili, Letteratura e Arte, maiuscoli.
Puah!
Il risultato, secondo il mio punto di vista: non erano professionisti affidabili né artisti. Ma solo dei presuntuosi. Che pretendevano applausi e considerazione. Sempre e comunque. Qualsiasi conato (anche pubblicitario) sbrodolassero.
Quando mi arrivò un’offerta non aspettavo altro.
Stavo alla L***** ormai da più di un anno, quasi due. Un record.
Non c’era nemmeno più mia madre a incombere, e Cati era un’ottimista senza remore.
Cercavano «Giovani Leoni». Ruggii.
41.
«Conosci David Ogilvy?» esordì il più grande dei due soci. Annuii.
Oh sì, se lo conoscevo!
«Bene, è così che noi lavoriamo» disse il più grande dei due soci.
Disse: «Quella campagna di Ogilvy “A 60 miglia all’ora il rumore più forte sulla Roll Royce è il ticchettio dell’orologio”…. Senti: non è una bomba?..».
Il fantasma di David Ogilvy aleggiava. Imponente. Indisponente. Evocato senza ritegno, limite e pudore. Dal socio più grande.
All’apice dell’esaltazione. Ci si era impersonato, Ogilvy era lui.
Finalmente ò ad altro.
E mi sentii lieve, liberato.
«Vedo che ci capiamo, siamo sulla stessa linea, stesso feeling» concluse il socio
più grande.
Il socio più piccolo faceva eco all’altro. Ne ripeteva ogni volta le parole. E avrei dovuto rilevarlo.
Invece non volli farci caso. Omissione non da poco.
Perché era indizio di una situazione anomala. A cominciare dal vizio di partenza… che tutti e tre eravamo più o meno della stessa età. Messi insieme non raggiungevamo i cent’anni. Il che… poco male se si fosse trattato di combinare una rissa in discoteca. Ma invece era un’azienda. Sebbene di Pubblicità.
È che avevo deciso già in partenza. Già al telefono.
Prima ancora di incontrarli.
E quando poi appresi che l’assunzione avveniva con tanto di contratto bollato, nero su bianco, partecipazione agli utili oltre allo stipendio, DIRETTORE CREATIVO!…
Incominciai.
E subito accertai che non c’era alcun reparto da dirigere. Le uniche altre anime a comporre
l’agenzia erano quattro individui dal ruolo mutevole.
Anziani. Mummie.
Trafugate da chissà quale museo.
Superai lo sconcerto. Proseguii, indefesso. Anzi, mi dissi: Meglio così. Essere direttore di sé stessi è più pratico. Semplifica. Avrò la certezza che i miei ordini vengano eseguiti. E senza defatiganti discussioni. Rimostranze. Odiosi strascichi.
E poi, ero o no un giovane leone?
Sentirsi giovani leoni era facile. Era la zona.
Al di là della piazza, c’erano i Giardini Pubblici con lo zoo. E, pressoché di fronte, al posto delle
ex-Ferrovie Varesine, sorgeva un circo stabile.
Non essendoci , dal cliente andavamo direttamente io e il giovane padrone.
Ci andavamo in tutti i modi contemplati dalla moderne tecnologie nel campo dei collegamenti: aereo, treno, taxi ma soprattutto sull'Alfa coupé condotta dal giovane padrone.
Andare sull’Alfa coupé, con giù la capote, capelli al vento, sarebbe stato anche eccitante. Se non
fosse bastata la prima curva: ebbi chiaro che il giovane padrone era affetto da manie suicide. Quando poi ne conobbi il padre, capii le ragioni suicide del figlio, e le condivisi.
Comunque, non mi andava che il giovane padrone si annientasse insieme a me che non c’entravo.
Il vecchio (il padre) era un genialoide collerico pazzo che aveva prodotto campagne obiettivamente meritevoli.
Il problema: aveva mollato la baracca e non ce la faceva a rinunciarci. Non s’era rassegnato a
mettersi da parte.
D’altronde, il vecchio, che non voleva saperne di morire, aveva buon gioco sul figlio a cui mancava poco a essere morto.
Il vecchio arrivava, o felpato, compariva a tradimento. Allungava lesto l’occhio sui bozzetti
sparsi per lo studio. E subito inveiva. Strillava. Redarguiva.
Il figlio tentava di sbarrargli il o. Protestava. Mentre il socio più grande si eclissava.
Finiva col lancio da parte del vecchio di un pesante cavaliere, un soprammobile, di bronzo massiccio.
Da tempo il cavaliere aveva perso elmo e spada. Il cavallo non ancora. Disarcionato dal lancio, il cavaliere veniva puntualmente raccolto e messo in sella.
L'aspirante suicida era diventato abile a schivarlo, ma io non ancora. Abituato a operare sui meridiani di Rotterdam, New York e Londra, fui colto dal dubbio: Cosa ci sto a fare, qui, in questo Vietnam?
[Oltretutto, non mi capitava mai di vedere Cati prima della mezzanotte. Quando non era l’alba. Come quella volta: arrivato al Cimitero Monumentale, la 500, tornando a casa, si bloccò. Avevo occupato il resto della notte ad arrancare, a piedi. Un'ora di piedi strascicati per raggiungere l'agognato letto.]
Poi.
La notte è calda, calma. Se ne coglie l’ansimo. Attraverso la finestra spalancata.
Su Piazza della Repubblica. Sudo e creo.
Il foglio candido, davanti, attende solo d’essere violato. Mentre la mia mente corre a David Ogilvy.
Ne risento le celebri parole: «Volete il successo? Claude Hopkins ne ha avuto perché, come egli stesso asseriva, lavorava il doppio delle ore lavorate da qualsiasi writer».
Bene, mi chiedo: Io di ore, oggi, quante ne ho lavorate? E ieri, e l’altro ieri? E tutti i giorni prima?
A quest’ora dovrei avere un successo che…
Mi riscuote lo scandire di una campana nella notte.Riconosco ormai le ore e le mezz’ore battute da
ogni campanile.
Vado in bagno a rinfrescarmi.
Mi soffermo allo specchio e mi osservo. Abituato a darmi ordini, direttore di me stesso, ormai mi parlo ad alta voce. «Chi sei? – dico -. Chi è la vecchia che ho davanti?».
Perché quella che vedo è la faccia di una Penelope. Una Penelope che, a forza di aspettare la volta buona, è vecchia da buttare. Del resto, di là, sul tavolo, c’è la tela di parole composte nell’arco di ore. E il cui destino è quello di essere disfatta. Domattina. Dai due cari ragazzi soci.
Prima delle dieci e mezza, undici, non si fanno mai vedere. E così sarà anche domani…
Undici e un quarto. Infatti. Fogli zeppi di frasi esibiti agli occhi distratti dei due aguzzini.
«Non ci siamo» dice il socio più anziano. Pausa.
«Io non imposterei la campagna in questo modo». Pausa.
«No, no, non è roba alla David Ogilvy». Pausa.
«Cosa farebbe David Ogilvy?... Prova… Prova a immaginarlo».
Il socio più giovane annuisce. Ogni volta si riassesta gli occhialetti e fa da eco.
Cati, a casa, ritrovandomi in pieno mezzogiorno, sbatté gli occhi. Stentava a riconoscermi.
«Lei afferma d'essere quel signore che a una certa ora della notte si infila nel mio letto?» mi disse.
42.
«Gli ho rovesciato la scrivania addosso e lui è franato» conclusi e Cati disse: «Hai fatto bene».
Cati stava frugando dentro il frigorifero. La mia apparizione l’aveva spiazzata, doveva improvvisarmi qualcosa da mangiare.
«Non sono un campione di sollevamento pesi, la scrivania era leggera, partivo favorito» dissi.
«Per fortuna. Fosse stata più pesante lo uccidevi» disse Cati.
«Immagina un po’… i giornali del pomeriggio: La Notte, Il Corriere Lombardo, Paese Sera… Gli strilloni in Galleria: ”Ultimissime, sensazionale a Milano! La scrivania come arma di un delitto… Celebre pubblicitario assassinato…».
«Ha telefonato tua madre…» disse Cati.
Smisi di scherzare. «Le mamme sono fatte apposta per telefonare» dissi, cupo. «Cosa voleva?».
«Sentirti. Sentire come stavi. Di me, naturalmente, se n’è guardata bene dall’informarsi o altro.
Comunque è stata fredda ma, a modo suo, corretta».
«Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna. Così fa lei adesso. Ha messo da parte gli anatemi. La chiamano realpolitik».
«Dovresti farti vivo più spesso con lei, è tua madre in fin dei conti. Io dovrei essere l’ultima persona al mondo a ricordartelo…».
«L’ultima persona, sì, senz’altro. Non fai che chiamarla grassona. O culona, quando sei al massimo della tua migliore poesia.»
«Scusa… Non dirmi forse che con me lei è carina. Telefona, chiede di te, sente che non ci sei e
riattacca… Mi sbatte giù la cornetta del telefono. Neanche che io…».
«OK, OK… OK, OK! A proposito, dov’è la tua di madre, adesso?».
«Dove vuoi che sia? A casa sua, al mare».
«Mah! È talmente sempre in giro per il mondo…».
«Ha telefonato proprio ieri, ci ha invitato. Ha chiesto anzi di te, si è interessata… Lo fa sempre…».
«È proprio un tesoro, eh sì, lo so. L’ho già detto, le mamme sono fatte apposta per telefonare».
«Inutile ironia, lei ti stima e apprezza».
«Di mamma ce n’è una, per fortuna. E io ho già la mia. Mi basta e avanza».
Tacqui.
Immerso a rimuginare.
43.
Soltanto poco tempo prima, il rovesciamento della scrivania sarebbe stato motivo di scandalo. Di messa al bando dall’intero universo d’agenzie. («Brutto carattere, quel copy. Meglio evitarlo») Ma il clima era mutato.
Il copy emergente di un’agenzia primaria, durante una presentazione di campagna, all’ennesima obiezione, aveva agguantato il cliente e «OK!»… KO, l’avevo steso.
Era il ’68, il nuovo che avanzava.
In parallelo, i creativi diventavano sempre più lerci, da puzzare. Nonostante i notevoli progressi tecnologici nel campo del bucato.
Già il loro animo era stato sempre torbido.
La schiuma ora dirompeva in spregio e sfida al mondo. Al SISTEMA.
L’eskimo, specie di tonaca, kaki militare, pseudo-impermeabilizzata, cappuccio e tasche, tante, per farci stare i cubetti di porfido da lanciare, era stata eletta a divisa ricorrente del creativo.
Il Che (Guevara) per modello.
I creativi si ricoprono di insofferenza, barbe e baffi.
I vietcong sferravano offensive mimetizzate dal pelo dell’acqua delle risaie?
I creativi sferrano pugni a cielo aperto.
Anch’io, naturalmente, m’ero preso l’eskimo. E la barba alla Che Guevara me l’ero fatta crescere più volte. La prima, guardandomi allo specchio, colto dal dubbio di averla già vista, me l’ero infine tagliata.
Vero che la mia non era rossa come quella di quel certo Irlandese. Ma mi era bastato il richiamo.
Me l’era fatta poi ricrescere e stavolta aveva rischiato le sprangate.
Un commando di fanatici, in giro, in spedizione punitiva, aveva colto nella barba il segno di chissà quale ideologia.
E quanto all’eskimo.
«Sarebbe forse ora che tu smettessi di puzzare» Cati mi disse. «Già mi fanno schifo topi e scarafaggi. Con te mi sembra di convivere con una pantegana».
Fu una scelta dolorosa. E fu quando potei toccare con mano quanto, a volte, un uomo può essere codardo.
Tra Cati e l’eskimo non ebbi il coraggio di optare per quella ch’era ormai la mia identità, seconda
pelle.
I peli della barba nella spazzatura, l’eskimo omaggio al barbone sulla porta della chiesa.
Così può finire, se non una Rivoluzione, un rivoluzionario.
44.
«Sono due fascisti, due squadristi. Ti basti sapere che il maggiore è socialdemocratico. Ti dice niente?»
E.P. al telefono convenne: «Sono i peggiori perché camuffati. I più ipocriti. Comunque, senti, da
noi un copy serve e adesso io ci parlo a… Ti richiamo».
E.P. mi tornava sulla scena.
In realtà, non ne avevo perso mai i contatti.
E.P. era ato da poco all’Ufficio Pubblicità della Grande Fabbrica Italiana del Brodo. E l’Ufficio
era diretto, guarda caso, dal faccione rosso.
(A confermare il giro dei quattro cantoni ch’era la Pubblicità. Anche se aumentavano le facce
nuove.)
La prima mattina, ci arrivai col pullman, da Milano.
Scesi al casello dell’autostrada, mi inoltrai tra i campi di granturco. All’incrocio tra due strade senz’ombra d’essere umano, scorsi una scarpa di donna.
La scarpa, il tacco alto, giaceva sull’asfalto, abbandonata.
Poco distante, delle macchie. Bruno-rossastre. Non ero religioso.
Lo stesso.
Mi feci il segno della Croce. Bel benvenuto, pensai.
Il mattino dopo, la scarpa stava sempre là. Solo spostata verso i bordi della strada. Le macchie bruno-rossastre più sbiadite. Prossime a svanire, cancellate dalle gomme dei TIR. Tornai a farmi il segno della Croce.
Quella scarpa non me la sarei più scordata per parecchio.
45.
I recinti della Grande Fabbrica Italiana del Brodo erano tassativi. Eloquente il messaggio: lasciate ogni speranza o voi ch’entrate. All’ingresso, le guardie con la pistola.
La macchinetta per timbrare il cartellino.
L’ala della Pubblicità era un po’ in disparte. Il fabbricato basso, tirato su al risparmio con la calce del dopoguerra.
Le maniglie restavano in mano. Il sole fulminava.
Più in là, le operaie alla catena dei pelati svenivano dalla calura.
Andai ai cessi. E rivissi l’esperienza della naja. Quand’ero nel buco più nero del culo del mondo, entroterra nocerino. («Cristo si è fermato a Eboli»: il titolo, non a caso, del libro che Carlo Levi ci aveva scritto.)
Adesso, però, qui almeno c’era la catenella da tirare.
Perfino i ritagli squadrati di Gazzetta, qualche volta.
Il faccione rosso aveva mantenuto le abitudini di sempre. Spariva.
Ed E.P. pure continuava con le sue abitudini.
Succhiava le «Gauloises» fino a renderne la brace incandescente mentre cogitava. A ricostruire le trame occulte interne. Mosse e fortune (o disgrazie) del faccione rosso col padrone.
Il faccione rosso ci convocò. Tutti. Fu l’unica volta che si fermò in ufficio più di una scappata.
«Ragazzi - disse -, dovete piantarla con la macchinetta del caffè. Io ho cercato di far presente e di difendervi… Ma voi mi capite, vero. Sapete come vanno queste
cose. Già guardano quelli della Pubblicità in modo strano, vediamo di non peggiorare ulteriormente».
La macchinetta del caffè stava nel cuore della fabbrica, alla distanza di un corridoio dopo l’altro. Lunghi da non finire. Andarci era una gita. Percorrere quei corridoi era già un’occasione di svago. Di per sé. Sarà stata l’illusione di evadere. Di andarsene chissà dove, liberi. Sensazione d’avventura sebbene di formato e limiti aziendali.
Il guaio: era una erella. Sotto gli occhi di tutti gli uffici (interi uffici) che si allineavano ai fianchi. Dove lì dentro, è vero, c’erano compagni di sventura. Ma proprio in quanto tali, primi ad essere nemici. Delatori. Che godevano delle disgrazie dei propri simili. E a procurargliele.
(Specie di rivincita? Modo dei deboli di sentirsi forti?)
Scintilla di residua libertà: la pausa-pranzo.
«Non mi va di andare in quel canile» dissi al grafico accanto.
Intendevo la mensa, e il grafico accanto era lo specialista che decorava confezioni e depliant con
graziose cipolle rosse in miniatura, mazzetti di prezzemolo, spicchi d’aglio e di pomodoro. Li disegnava al tratto e poi colorava all’acquerello.
Era pressoché analfabeta, ma aveva la mano con il tocco magico.
Appena il faccione rosso girava le spalle, estraeva fogli che finiva di riempire di fumetti. Si inventava storie su storie e le mostrava fiero.
Era un altro che aspettava il suo quarto d’ora di notorietà.
«Invece della mensa… Perché non andiamo all’aria in mezzo ai campi?» dissi.
«È un’idea» mi rispose l’artista, quello delle cipolline all’acquerello. Si associò un terzo che aveva scoperto la dieta per l’estate.
L’aveva scoperta su «Grazia» o «Alba» o roba del genere. E la dieta si componeva di latte e di
banane.
«È rinfrescante, disintossicante, studiata apposta per i giorni caldi. Perché è nutriente ma digeribile,
e non ingrassa. Fate conto che una banana totalizza mediamente in calorie…». Il tizio, plagiato dall’ignota delinquenziale redattrice, ci aveva contagiati.
Così, latte&banane, scattavamo all’una in punto, saltavamo in macchina e sgommavamo. Dieci
minuti, frenavamo in una nuvola di polvere. Ci inoltravamo nel granturco, sole allo zenit. Ci spogliavamo, in mutande, via la canotta.
«Ah!», la goduria.
Riaffiorava l’homo neanderthalensis.
Si era a metà luglio circa, il tempo di arrivare ai primi di agosto: fui colto dal febbrone di una congestione fulminante. Latte&banane avevano prodotto il loro effetto.
Impiegai a guarire, ma appena in piedi, mi precipitai con Cati ad acquistare un coupé, rosso da fondere la vista. Freccia di fuoco.
46.
«Non sei andato a lavorare? Non stai bene?» mi dice Cati.
«No.»
Erano le due del pomeriggio, Cati tornava da fuori Milano, dalla scuola dove insegnava. «Cosa ti senti?»
«Fondo la GO Communication. La registro con tutti i sacri crismi e la lancio come una Corporation.»
Sede della GO Communication: l’abitazione dove con Cati stipavamo le nostre minime esistenze.
Reparto Amministrazione: una grossolana imitazione di fratina in un bugigattolo. (Cati continuerà a sommergerla di biancheria, incurante della rilevanza di carte e documenti.)
Reparto Creativo, core del business: in soggiorno. L'unico divano.
Centro Contatti & Sviluppo – operante 24 ore su 24, feste comandate incluse: l’estremità di una libreria a fianco del divano.
Strumenti operativi: un fascio di fogli scritti da riutilizzare sul retro per le minute - una risma di A4, accuratamente scelta extra-strong e centellinata - una seconda risma di carta velina ad uso copie, il cui minor costo ne giustifica un più ampio impiego – quattro fogli di carta carbone - un fascio di biro del supermercato in offerta speciale, l’undicesima gratis – sei plastichine con la scritta
«ARCHIVIO» - un cestino - una vecchia macchina da scrivere di prima della guerra. Strumento-principe: il telefono.
Il tutto, in un’aura olezzante di cavoli bolliti e soffritto di cipolle.
Fatto un giro di telefonate, caricai sul giradischi l’Inno dei Marine e, pipa in bocca, attendevo spalmato sul divano. Pronto a schizzare, lo spirito di chi, la biro tra i denti, va all’assalto.
Ma. SILENZIO.
Potevo seguire i miei fremiti e pensieri. Il principale: sono freelance. Lancia libera, soldato di ventura. (Freelance, altro termine inglese che si aggiungeva al mio sempre più ibrido vocabolario.)
Free, LIBERO, lo ero veramente, doppiamente: senza l'ombra di un cliente, ma importa?
Free, mi bastava. Per ritrovare la carica del mio primo giorno. Quel primo giorno di settembre ormai remoto.
Un direttore creativo à la page (veniva dalla grossa sede brasiliana di una multinazionale nord- americana) aveva stroncato la mia idea. «Non capisco – mi aveva detto -, come un copy, dico un copy, possa lavorare da solo, esterno a un team, a una struttura… Fuori da un contesto».
Quel direttore creativo, purtroppo, riassumeva il pensiero dominante. Ed era un bel gas trovarmi nel ruolo di pioniere.
Lì, spalmato sul divano, esaurite le riflessioni e il flusso dei pensieri, incominciai a percepire il ticchettio dell’orologio. Sempre più impietoso. Scandiva l’attesa del lavoro che incominciavo a temere non sarebbe mai arrivato.
Per coprire, ignorare il ticchettio, l’Inno dei Marines girava-girava, sempre più assordante. Il vinile incandescente. In compenso, Cati non rinunciava ad essere l’anima allegra che era, non mancava di cantare a squarciagola per la casa.
Il telefono squillò.
E dopo tornò a squillare. Anche per i giorni a seguire.
La puntina del giradischi garantita a vita poteva anche spuntarsi, il disco volare UFO in cielo.
Epilogo
Sì, ce l'ho fatta.
In compenso, la gente continua a non capire il lavoro che faccio nè io ho trovato il modo di spiegarlo. E dire che dovrei essere un esperto nel campo della communication.
Il massimo a cui sono arrivato, quando mi chiedono: «Lei lavora ancora? Che lavoro fa?» è rispondere che faccio il carpentiere… Il carpentiere di lusso. Le ultime parole ricalcate.
Accompagnate da un sorriso ebete.
L’altro giorno, però, ho trovato un etiope con la bancarella in piazzale Lotto. Vende abbigliamento, ed ero salito nel cassone del furgone a fianco, per provarmi dei blue jeans.
«Che cosa fai nella vita?» l’etiope mi ha chiesto.
«Il creativo pubblicitario» stavolta m'è scappato detto, che tanto, ero sicuro, le mie parole sarebbero volate via nel vuoto.
Invece: «Ah!» l’etiope ha scosso la testa. «Anche tu sei uno di quelli... A fregare noi, poveri
emarginati».
A fregare noi, poveri emarginati.
Già. Ho pensato. L'etiope aveva enunciato una verità. Ignorando che verità ce n'era un'altra di verità: tutta mia, stavolta, personale, e non da poco.
Perchè, a mio modo, avevo venduto il mio Cristo per un pugno di denari e l'ambizione di riuscire a tutti i costi a venderlo.
Mi riscuote la voce dell’addetto: «Può vederla».
Ho risalito i gradini del tempietto ch’era l’obitorio dell’ospedale. A destra si apriva la piccola stanza con la salma. Mi sono fermato sulla soglia. La salma stava al centro, illuminata dal fascio di luce che irrompeva dall’unica apertura e riscattava lo squallore delle pareti senz'ombra di arredo.
Ho inquadrato il viso. Era composto. Quieto. Come immerso in un profondo sonno. Il pallore usuale che da anni aveva ormai assunto. È mia madre, mi sono detto, MIA MADRE.
Mi sembrava tutto impossibile, di vivere in un sogno. Né bello né brutto. Senza colori. Un sogno neutro. Nel contempo sentivo intensa la voglia di scappare. Fuori. Dove c’era la vita, e la città che continuava.
Ciao, mamma.
Chi dei due poteva dire di avere vinto o perso?
Lei, mia madre, per cui il figlio era tutto, ci aveva scommesso e ne aveva tratto il contrario.
Io, l’avevo sfidata mancando il mio scopo ultimo, anch’io.
E adesso tutti e due eravamo là. Così.
Lei stesa con dei fiori sulla pancia.
Io, stordito, col berrettino in mano.
C’è da ridere, da ridere, a pensare come le cose finiscono, in che modo.
FINE
Vienimi a trovare: http://guidosperandio.wordpress.com, a presto!
...1936 Odiug!
Indice
Cover Quarant'anni da copywriter