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Acquaviva Mnemosyne e Lethe

Fernando D'Amico

Copyright 2011 Fernando D'Amico Pubblicato da ALVIS Editions at Smashwords

Copertina: C. Alvani W. A. Bouguereau, Evening Mood National Museum of Art, Havana

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All’inossidabile memoria di mia Nonna, curvata all’Eterno da un secolo di vita.

“La poesia è la chiave che apre la porta di tutti i Cuori”.

INDICE Prefazione Primi Sguardi Infatuazioni Amori e Altro Intermittenze Vertigine Lassitudini Distacco e Retorica Inversi Ritorni

Prefazione

Desidero esprimere sincera gratitudine agli amici ed ai membri tutti del Salotto Letterario Parmense, Artemisia Gentileschi, per il loro solidale apprezzamento e per avermi dato l’opportunità di pubblicare questa silloge di poesie, la maggior parte delle quali scritte in età giovanile. Mi sia inoltre consentito rivolgere un particolare ringraziamento ad Alberto Sestrieri e Cinzia Alvani che hanno collaborato attivamente, fornendo il o tecnico necessario alla redazione grafica dell’opera.

Primi Sguardi

Forse, è per sempre che le ali piumate del vento fanno nitrire le onde del mare e schiudere in bianco candore il seme dell’anima.

Tra i bagliori dell’imponderabile dove palpita il tempo, danza la musa discinta e velata dal peplo di ombre. Con i felpati costeggia sentieri indiscreti sulle rive del cuore, ridesta col canto fronde apite di corposa memoria.

Coperta dall’onda, testa bruna di roccia tagliente, col tuo muso di coccodrillo ansimante, frangi nel vento di un sibilare remoto. Quando nel tuo occhio di giallo vetroso lo specchio d’acqua si rinnova, il bianco salino dell’estate è già solo ricordo.

Attraverso le rasili foglie del tempo, decanta silente l’azzurro cielo dell’anima, nei distinti sentimenti che la quiete di un solco raduna.

In oscure regole è rinchiuso un tormento radente che incide la memoria dei sogni, come un vissuto denso di nubi nel fosco brusìo del ricordo.

Nell’andare e nel tornare di una mattina, scorre vuoto un dolore nevralgico, anche se è sabato. Qualche giorno fa è scesa la neve ed è quasi Natale.

Nel sole d’estate, non può restare un fisso pensiero, tutto è dissolto in un bacio breve, ma intenso, che apre la radice di motivi profondi, per celare un istante che si risveglia negli abissi del cuore.

Anelare tra i vapori dell’anima, due braccia tese di porto verso il mare. La foschia della sera avvolge il tramonto e addensa sul volto la ragnatela di ombre, un silenzio ancor più cupo insinua il ritorno.

Nei tuoi occhi si specchia tenera vita, il colore dell’iride mi dice che la tua gente amò, un tempo, il verde dei boschi e l’azzurro cielo del mare, nei miei, se vi guardi, scorgerai l’amore per la fertile terra.

Del senno di poi sono piene le fosse, ma le fosse sono memoria e la memoria è tutto ciò che resta del senno.

Un foglio di giornale volante in riva al mare ed un palo di metallo che la ruggine intride. Il grigio delle nuvole come strati orizzontali tra solchi di terra e di mare, rattristano il cielo. Una panchina bianca sulla piazzetta deserta, ricorda un frammento di remota presenza.

Le mani degli amanti schiacciano zanzare, tra alberi di ulivo, su una strada in dissesto verso il mare.

Dopo la bufera è spiovuto, lungo la strada il o è lento. Un lampione di luce giallastra disegna, sullo schiumare dell’onda in burrasca, un cerchio d’ombrello scuro e cangiante. Sulla rotonda parata dal muretto l’ombrello tangente il bordo estremo ed io riflessi, per tutto il giro, sul bianco dell’onda, ora più piccoli, ora più grandi.

Le tue nuvole che dal finestrino del treno guardavi sembravano montagne di zucchero filato che si possono prendere e mangiare. Quella Corsica, cadeva giù dal dipinto, come lacrima sul confine fessurato. Una stazione mancata, ed io intento a leggere storie di dei e di caos, nel fallo del tempo che di Venere torna.

Il pollice di Aristotele e giovani ragazzi con vassoi sottobraccio come scudi macedoni. Le sciarpe sono a buon mercato, le ragazze per lo più belle. L’olio della chiesa è consacrato e la croce dalla fronte scende obliqua sulle mani. L’altra chiesa era chiusa o pareva. La ragazza col cocker era alta e gentile ed il tempo corto.

Nessuno mi ha detto vai, nessuno mi ha detto torna. Nessuno mi ha detto. In questa estate muta.

Un riflesso chiaro d’argento, era solo una sfumatura di luce tra i capelli.

Qualche dolore nella notte senza fine, senza nulla, Mi rispondevi con un tenero mugulare di piccole labbra.

Quello che ti aspetti dal tempo è un po’ ciò che sei, ma ciò che sei quasi mai è ciò che ti aspetti dal tempo.

Le teche dei libri sono antri di polvere che si addensa nelle attese notturne, la pietra di corallo sarà testimone quando le mani si poseranno sul dorso di cartelle sgualcite.

La notte avvolge in un vortice lento il mistero dei giorni. Camice bianche al sole di feste paesane, santi in processione, noccioline e cupete insieme a bancarelle di giocattoli, musicanti stanchi, sudati e seduti sull’angolo della piazza, mentre la bombarda a salve, d’improvviso, salta nel cuore.

I petali del tempo sono apiti, ma non ancora caduti, qualche dente mordace è rimasto sulla bocca del ato per mordere i fianchi al presente.

Nell’idillio dell’alba, spente le brame, fugge la luna, tra le rughe di parole non dette i contorni del tuo volto stentano a prendere luce.

Non fu per gioco che dicesti un giorno, promettimi. Dopo tempo, a tergo di una foto ingiallita, lessi qualcosa, ma tutto è ancora tra le ali della sfinge che apre il futuro di ignoti astri lontani.

Infatuazioni

Non è oblio e neppure ricordo. Del nostro ieri, scale angosciate perlate d’avorio, citrine speranze di bozze corrette tra cosce di pollo. Ragazze in panchina, con libri aperti sulle gambe in attesa di numeri, strade battute e corrose tra vapori di asfalto bagnato.

Piccole mani di bimbo, per andare lontano e tornare al tramonto, in una casa di luci oscurate per essere ancora né presente, né altrove.

La mia casa natia, col soffitto di travi d’ulivo imbiancato di calce, dava su un vico: il Tanaro. Come affluente uscito dal verde portone della Rosa d’Ignazio si immetteva sulla via dei Fuortes dove incrociava, all’altezza dell’arco, le contrade smarrite dell’essere tra un parto di vacca, campi di grano e acquitrini infestati di erba palustre.

In un lontano ritorno, un piccolo gatto si affacciò dal terrazzo per dare volto ad una materna resilenza sopita sul confine di allusioni verosimili, mentre l’anno volgeva radioso e sonoro in quel mese che si oppone al presente.

Il viale, oltre la grata, si annebbia di muschio sottile. Leggero pensare e scrivere, come mangiare, digerire ed altro; stanco e contrito, si appalesa l’altrove, pudico e assorto, sul confine radente.

Un riflesso di ghiaccio lastrica il pavimento, come residuo di lungo ricordo, che valica il o oltre ogni tempo, nel cerchio inerte di un giorno che indugia tra lassitudini di sterili forme.

L’aurora racconta una leggenda di cose non ancora avvenute, ma solo e insieme si dice andare nel buio, dove il tutto è radice profonda di un silenzio relitto.

Il volto sfiorito da persistenze lontane, come bava di pioggia su vetri fumanti di treni in ritardo.

Il sentiero del cuore attraversa anse pendenti di mare, dove il dolore si stempra, lasciando il vuoto che un silenzio interrotto ricolma di innato spessore.

Alberi verdi, misteri assopiti tra radici di fittile terra salmastra. La rugiada che imbrina le foglie è acqua di mare, che si alza leggera nel tepore notturno.

Ho attraversato quattro frammenti di palma, rami sterili di un giorno, nel vapore mattutino di fine autunno.

Nel cortile, per vie ignote e silenti, si allunga un fuoco d’orizzonte dove cielo e mare si baciano con labbra sottili.

Stagioni cangianti, frammenti interiori, relitti curvati da uno spazio discreto, senza confini, né ombre, dove il giorno e la notte, la gioia e il dolore, la vita e la morte, non sono altro che un breve segmento del cuore.

In questo giorno non ci sono numeri che vanno oltre il due. Ieri faceva un freddo polare. E’ inverno, ma il fuoco non è ancora vento di colori, perché occhi di bimbo possano vederlo, come primo e nuovo, dopo un’eclissi di vita.

Dirò, di quelli che non sono e che silenti, si contorcono.

Dicevi, che la vita bisogna saperla tenere. Fammi luce dalle profondità del tuo dire, sul pensiero che si nasconde dietro non facili strofe.

Un giorno diverso non è altro che tempo futuro sul quadrante deserto di obliqua presenza, tra tegole fessurate da aghi di pino e finestre di abete sformate dal peso indocile di umidi giorni.

Nei loculi scuri ogni fiammella di lentulo cero nasconde nel lembo inferiore il ricordo, fra tenebra e luce, di un nostro congiunto.

Cosa dire del grigio di un cielo che piove sul volto di un bimbo che è tuo?

Ciò che manca, non si può contare, come è scritto sulle pagine eterne; quello che rimane è un profondo delirio di ombre tra monti desolati nella becera notte, dove la fertile luna intride le fessure dell’essere di inquieto candore.

Quel tuo inizio in cui si dà ogni possibile, mi ha velato lo sguardo di umido pensiero vagante tra profondi dispersi.

Ho visto qualcosa che somiglia a bellezza, il messaggio di una donna che pareva andare oltre il banale di oscure cavità.

Quando il decreto di Creonte si abbatterà su queste contrade, nessun Polinice comparirà all’orizzonte. Sarà cosa buona per i mortali, come dissero le faconde figlie di Zeus che mi diedero, in cambio di nulla, un ramo di alloro non ancora fiorito.

Anima nudula di sterile pioggia, nel bosco profondo, le verdi foglie si vestono di zirconi brillanti. Del tempo che ingenua, non è ancora giunta la vivida semente. La vita ti coglie nel solco gracile e asperso di un lento torpore.

Fluida puledra, caseo biancore, letizia e dolore su morbide piume di un triangolo scuro tra colonne fiorite di marmo rosato venato d’azzurro.

Cosa dire, dei segni sul volto, quando bambino nascondevi denti da latte in buchi di muro sul bianco cortile, segnando di chiodo un piccolo cerchio dal quale usciva, tra polvere e calce, un filo memorante di cotone ingiallito.

Freddo di luna sul mare d’inverno, due ruote di palma nel cielo di nuvole. Luci di candela ombrano vetri di vecchie finestre nel borgo di pietra dal cuore tenero.

Lo specchio non mente, ma dice di un mondo simile e altro, le cose di questo, come una traduzione radicale di immagini che si imprimono sul vetro convesso dell’anima.

Amori e Altro

Non riesco a dimenticare il tuo volto, quando mi guardi dall’alto di sogni intessuti su veli trasparenti.

Presenza ondivaga di allusioni domestiche. Il respiro pesante cadenza lo spazio, il dopo è un altrove senza fissa dimora, l’adesso è qui, fra queste parole, dove lento si estenua il tuo serico sguardo.

Quando si scioglierà la nebbia del cielo, la mia anima sarà ricoperta dal bianco lunare delle tue mani.

La dorsa della giraffa, è un cuore sospeso, che batte stranito la curva del tempo. L’immagine vera, memoria stanca di algide cose dense e rapprese.

Il tempo che a, ignoto ritorna. Le ali del vento girano intorno, oltre le luci, sull’ombra leggera di anemiche porte. Tra isole deserte dal sogno, fuochi non fatui segneranno il dodecaneso del tempo.

Lumi e silenzio dinanzi al cancello di terre native, ricordi scomposti di affetti profondi. Sentinella di sabbia nel gorgheggio del mare, un viaggio per dove l’altrove è intrigato da stridule voci che annaspano ebbre su crepuscoli barcollanti e cadenti fra le braccia della notte.

Sul cielo della mia anima, in questo giorno d’inverno, un silenzio di ghiaccio si specchia nel disco forato della luna.

Quello che dissero gli altri, lo dissero perché non avevano niente da dire, invece di fare e non fare, invece di vedere o non vedere, invece di capire e non capire.

Ali di rondine portano lontano, fili di seta si annodano per ritrovare un senso compiuto, mentre l’inverno lavora di oltre le cose di sempre.

La luce diffusa implica le cose. Nella sequenza remota del tempo, oziosi spazi si inventano distesi al pallido sole d’inverno.

Ciò che si trova oltre la vita, a volte mi prende, a volte mi lascia. Di tanto, intanto, è meglio tacere, per non confonde arbusti verdi con radici apite.

L’umido intride le fenditure della terra, di altri colori. Il velo vespertino rosseggia nel crudo gioco di un mare che anela sparuti solchi di scoglio e viventi creature di minuscolo e orribile aspetto.

Il sentiero di canne fa tenda al eggio e, nel chiaro cadere dei i, si allunga oltre il confine, un grigio silenzio di rupe.

Il posto del tiglio nasconde un’antologia del ato che apre i racconti sul quieto pendìo di gente seduta al fresco vociare di sere d’estate.

Il ricordo del tuo sorriso abita ancora le stanze del mio presente, tra finestre socchiuse sulla radura dell’essere, come un incontro di petali bianchi tra dune di corallo in un luogo segreto che aleggia fra pilastri di pietra intarsiati di senso.

Tra le pieghe silenti della mia anima, è sbocciato un piccolo fiore che porta il tuo nome, come la terra il cognome, nascosto tra foglie di virente colore.

Ovunque tu vada, non troverai alcun segno che porta oltre il cammino.

Una piccola fiammella di candela è fuoco per bimbi.

Nel mare deserto si intravedono aloni sospetti di parole equivoche, dove il grezzo dei gesti si terge nel giorno di festa che accinge all’ultima vetta.

Il reticolo dei pensieri si schiude tra foglie d’argento ossidate dal tempo. La parvenza del cuore non è in ogni dove, ma lì, dove tu sei, dove il mio orizzonte di cervo smarrito agguata il tuo umido sguardo.

Povero cuore, deserto di sabbia dove ragnatele hanno appannato la fresca pupilla di un bianco velo.

I tensori della notte sono contorti, sulla riva la risacca allunga la sponda. Le basse fronde sono sommerse nel fango di letame taurino che nel buio della notte hanno oscurato radici centenarie.

Se alla fine permanesse un solo disegno nella mia mente, sarebbe quello del tuo volto che sorvola l’opale sulla carta quadrettata di un nebbioso giorno d’inverno.

Nell’intorno è l’usura del tempo che a. Il ragno, staccato dalla tela, ondeggia nel vuoto in apprensione di cose consunte in carcasse di atrabili forme.

Le perle maculate di rosso hanno sostato in capanni di bambù, vicino ad un sacco di tè, per raccontare, in salotti di velluto londinese, angoli di vita distratta e remota su evanescenti turbanti.

Nella foresta intricata del tuo essere, si apre una radura, dove il mio amore intermittente coltiva abbozzi di fiori variopinti insieme a rampicanti sensi di colpa.

Sulle tue labbra si addensa diffuso un vago e sottile senso del nulla, come un velo di tulle su un vestito di nuvole.

Ti ho rivisto, eri un’altra, col tuo cuore accasato e composto tra pesanti suppellettili e rottami di tempo che muta ogni cosa nella discreta sobrietà dell’indifferenza.

L’amore è un essere con, ma non dovunque, né sempre. L’amore è un essere con in un luogo, per un certo tempo. L’ amore è un essere con per un qualche tempo, in un qualche luogo.

L’albero di fico ha dato i suoi frutti alla Pizia di Apollo ed Orfeo felice scende negli inferi. Ganimede ha versato qualcosa nelle coppe di Giove, e Venere ha asperso olio d’ulivo sul vello dorato perché scivoli in fretta tra le mani di Giasone.

Intermittenze

Foglie tremanti in luogo solitario, l’insonnia del tempo ha smosso la pietra svelando alla luce vermi indifesi.

I luoghi del recarsi sono fedeli compagni che insegnano vita. Nel tempo che ingenua soffia l’abisso di una placida notte che racchiude suoni d’infanzia, cuori di donna e sveglie in rovina.

La trasparenza della tua maglia, nel meriggio d’estate, disegna sagome incerte nell’epica muta di labili parvenze.

Rimanesti immobile e assorta nella brezza fresca d’autunno, sulla verde distesa dove ogni cosa prende andamenti incompiuti.

Il sole e l’arsura, la ruota che gira e inverte la marcia. Nel bruire del vento, oltre la tenda, la vita dissolta.

Fronte lucida di nebbia perenne. L’arte del dopo è un andare in difetto. I greppi dei campi annodano mani.

Ombre di luna si addensano asfittiche sul tuo esile volto. I petali rossi del tempo sono lì, dove vorrei parlarti d’amore e di altre simili cose.

Il cielo d’autunno ha steso le sue ali sulla fiaba insidiosa della nostra vita, come l’incrocio di opposti elementari nel contesto di storie verosimili.

Nasci dal nulla, tra le mute astrazioni dell’essere e poi ti inabissi, perplessa, tra un groviglio di fili d’inchiostro.

Lo specchio del mare è rinchiuso nei paraggi della mia lontananza che apre le porte alla quiete dei sogni. E’ questo il luogo dove occhi roteanti disvelano l’insufficienza dell’essere tra scarne parole, relitte dal cuore, come spine di pesce sul fondo del mare.

Un sacro silenzio nella stanza di quiete, neutra e sgombra. Un senso di pace cavalca indomito l’ultimo respiro.

Il volo delle farfalle è simile al destino. Il fascino del tuo volto è un orto discreto dove fiumi di cera irrorano fiori malinconici.

Dopo un breve grondare di pioggia, bruchi ritorti, casine rosse e chiuse finestre, odore di fieno e volo di rondini.

L’ispido della barba si nutre di bruno sull’intreccio corrosivo di una seconda avanguardia letteraria.

L’inverno correva bianco di freddo tra i racconti del borgo e le mezze parole. Piccola terra di armonia e sedimento dove il granulare volgere del tempo ha fatto dei sogni un crudo risveglio. Qui, non è altro che una dolce follia dell’arcano.

Fumare, bere liquori e ingannare la donna, è un nulla di fronte al duro e curvo senso della vita.

La vicinanza è segno delle cose, come acqua che gronda dal soffitto insieme a storie finite nell’ignoto.

Inopportuna e bassa sulla riva del mare, dubiti e credi, e solo per questo racconti, tra scogli e alghe, frammenti di te.

Il frutto indeciso è un membro mordace che batte stranito nel ventre dell’alba, tra un barlume di azzurro e l’ansia del niente.

Nel precario raduno, l’impulso ragiona e collide di senso sulla foggia malsana dove lenta putredine di foglie apite e liquami spossati inurbano fenditure latenti.

Dove il ronzio dei giorni si placa rasente, un cappello di paglia ha fissato il suo abituale recapito nelle sere d’estate.

Nitide creste su porte mal chiuse, pulviscolo giallo di pollini cedui portati dal vento di rasile pioggia.

Acqua lucente su rive assolate di verde e di mare, un velo di resina posata sul gelso, effonde, tra muri di calce, aromi decotti.

La melodia dell’autunno è tutta in un giorno di foglie secche e baccanti tra giri di vento.

I primi stratagemmi sono affini, il sospetto di qualcosa ricoglie sostanze, oltre la forma di affabili apparenze.

Così, a il giorno, e le sue ragioni sono riposte in ciò che rimane della sera.

I luoghi remoti, sono segni del tempo. Nella stessa Università, solo due maestri possono essere ricordati, ed entrambi fanno pagare il loro insegnamento.

Siamo natura di eguale origine; al tatto, invece, appare distante. Solo la notte dice la gioia della tua flebile voce.

Vertigine

Tutto sarebbe diverso se l’ombelico fosse in corrispondenza del cuore.

Parole ferrate sulla riva del mare che abbatte barriere. Tenebra e oblio, vorticosa memoria che risale abissi profondi, per nutrire un palpito struggente di nuda vertigine.

L’armadio stretto e alto di lato, insieme un attaccapanni con segni di ruggine, cromature screpolate, ed intorno, un senso di scarno metallico. Una temperanza di vesti succinte, avvolge il teatro di un sipario notturno.

I rami del fico sono grigi e spogli e le anatre volano basso. Lungo la via novelle e profezie insieme ad una ragazza che guarda dallo specchietto retrovisore dell’auto.

E’ tutto d’intorno silenzio, un sole sbiadito stride sullo sfondo di cime innevate che sovrastano monti lontani, nell’altrove di un giorno uscito insonne dalla notte e dissolto per sempre tra le fauci sanguigne della sera.

Sul mare d’inverno, un umido fitto corrode le ossa, come la pagina di un vecchio libro invasa dal tarlo. La scia della luna largheggia di luce ramata sull’acqua notturna. Nuvole sparse di algido velo riflettono in chiaro bacini di luna.

La festa del silenzio si stempra nel quadro che prende vita dalla luce di un lume a ridosso di una stanza bianca di freddo, vuota e non muta.

Luci di finestre in parallelo, fogli di giornale sotto la porta chiudono il o a piccoli vermi che spesso si insinuano, quando la pioggia batte su i verdi cardini tra deboli radici, dove ombre tortuose inseguono le cadenze del tempo.

Sei entrata nel giorno, varcando l’ossuta porta dell’alba, avevi sandali sotto i piedi, e fiori di corallo tra le mani, che frantumando hai federato, in tessere divergenti, sul mosaico dei nostri incontri.

Nel verde del mare fra scale di marmo, capelli scomposti scendono dalla fronte tra nubi di tabacco.

La sua arroganza è l’altro volto della mia pigrizia, sul cammino di buche infangate oltre la rete. Un senso del niente, andante e veniente, su strada lucida.

Eri qui, un attimo prima che le nubi si sciogliessero in acqua, e andasti via, insieme, seguendo sentieri tortuosi.

Cosa si apre dopo la vita di così grande da spingerti oltre. Mi tenevi per mano, quando bambino rompevi la sottile lastra di ghiaccio citrato con la tua capasa di coccio, sulla vasca d’acqua fiorita di resine verdi. Mi tenevi per mano, quando nel buio, alle spalle del letto, si nascondevano spettri e fantasmi, scheletri e morte. Una mano invisibile ti ha rapito nell’abisso dell’eterno riposo,

come nel sogno. E dal sogno, voltandoti indietro, mi sei tornata; ti appoggiavi, ora al tavolo della sala da pranzo, ora al termosifone sotto la grande finestra, tra le mani avevi un piatto di mele cotte ed io tenevo, in un piccolo cesto, fragole rosse. Dalle calze di lana le gambe sembravano forti, come una volta, quando, sul fare del giorno, ti ungevi le ciocche dei grigi capelli

col nero di fumo nutrito nell’incavo di un mestolo rovesciato.

L’estraneità si insinua nella luce mattutina, come un radente disgusto per realtà virtuali che disvelano l’incessante groviglio di siti in esplorazioni ansiose, oltre i ritagli del tempo.

La vertigine è un petalo ansimante nelle viscere della notte, venuto fuori dal castello di sabbia di una sgretolante esistenza, amica prima e sola del noi che si intreccia nel grigiore muto di luci lunari che sovrastano fossili attese solcate dal vento di oscure stagioni.

Tenere foglie, sull’umida terra di sempre, si addensano tremule a ridosso di pietre invaghite di brezza salmastra; cristalli iridescenti, tracce di bava al o lento di pintule lumache.

Leoni ruggenti tra i canti della notte, bagliori all’orizzonte sul mare increspato di bianco. Nelle spirali del vento ogni forma parla del contrario che era, estasi di sopita parvenza tra sconfinate distese di pioggia.

Un sibilare metallico di voci confuse cavalca ombre sottili sul muro di fronte arso di tempo, tra solchi distratti di ancillare presenza.

Il modo degli dei, agli umani, è abisso lontano.

Ricorrevi nel tempo, all’appeso finito di un giorno e compresse d’aspirina per non sentire brividi di muschio nella voce stridula di nuovi cantori, acerbi e irritanti, come un graffio di unghie su lastre di marmo.

Del vento e degli altri sparsi pensieri, fiori raccolti sul piano inclinato di vita latente, come il ricordo di inerti momenti che battono esangui.

Prensile pioggia, sospesa memoria di terre lontane, cade e confonde parti del tutto nel nulla ossidante di grani lucenti.

Mentre vago intorno al tuo cuore non dire, non fare, non smettere di sognare. Ancora è notte, alba forse, non giorno. Non è ancora tempo, né amore, né gioia, ma dolce stormire di foglie.

Ai quattro angoli della notte giace relitta l’insonne memoria della partenza. Gli ulivi ed alberi altri, di cui ignoro il nome, si stringono nel vuoto reciso del tempo rimasto.

Non aspettar la sera, quando il sibilare del vento si quieta di altro, è tempo di vivere. Il vigore delle foglie apite è grave d’affetto per l’umida terra, come bruma monente al primo raggio di sole.

Le pietre riarse, ora si bagnano di veli lucenti. I cocci di argilla portano i segni di tempi remoti, memoria fossile di pagine agresti che si chiudono lente su ritagli d’inverno.

Tra piogge d’autunno è giunta l’ora del rientro per i dolci pensieri, come fiori vaganti dalla pianta al seme e dal seme allo stame. Così, dal nulla in poi, solo invisibili tracce di radici consunte.

Lassitudini

In questa mattina di uggia biancastra, accendo una lampada sul tavolo affollato di carte confuse nell’antro riverso di mordaci silenzi.

Vento di natura, anima che modella lettere di sabbia nel tugurio che socchiude, tra sentimenti e ragioni, aride labbra.

L’albero del basso sentire è ancora spoglio, ignoti mari di profughe coste portano il dono di legni lontani, come gabbiani che piegano ali cinte dal vento.

Angelo mio, frangeva quel giorno un’onda mortale, su roccia di sponda; caparbia e confusa, ti ha trascinato nel flusso vorticoso che apriva sulla coda canuta. In quell’attimo colmo di niente, hai posato sulle alghe del mare il tuo mesto sorriso. Un riflesso di luce guizzante su occhi di pesce, un battito d’ ali nei labirinti del cuore.

Eri con me, mentre si alzava l’ultimo quarto di luna, per un giorno non proprio, ma comune e simile ad altri.

Oltre ogni fiore, tra verdi campi, i raggi del cielo rincorrono la fertile terra. Sull’aia deserta, né grano, né pula, ma telai di tabacco affastellati e relitti su un calesse in rovina.

Perché nulla i invano ho legato un filo sottile fra le dita del tempo, nelle remote regioni dove il ricordo rumina e torna, in quel mese che di fiori bianchi dal profumo oleoso si rivestono le ultime dimore, tra corone di ceri, in un presente lungo di marmi silenti.

La prime luci dell’alba, parlano di te che ti alzi leggera su ali di gabbiano, fra i colori di un cielo ancora stellato, quando il vento gemente dei tuoi quattro piccoli cuori porta i canti del mattino oltre la valle dei sogni, dove ogni nebbia traa in rugiada seguendo i primi raggi del sole.

Sulle fauci del gatto si è posata una mosca, nel brusìo caotico di sostanze immutabili, l’alba nascente si nutre di gravidi cieli.

Sulle scale di valori consueti si inerpica lo spirito incerto di giorni non nati.

Guardavi i monti della luna tra gli spazi vuoti delle bianche case, come un niente che allude un vago stormire di esili argenti.

Il seminatore tiene all’opera e alla ruota. Di nuovi nastri si avvolge il verde vestire che scende nel sonno di loculi stanchi mormorando incomprensibili cose.

Ricordo formiche che portavano via piccoli lembi di vivida carne su una spiaggia di squallidi arenili. Il contrasto sanguigno del tempo imprime immagini tetre su pellicole inermi ossidate di attesa.

Nel mare grigio d’azzurro, frammenti di corallo riempiono buchi di ossuta memoria, dove tesi ricordi si rincorrono sul fondo amidato da laminate conchiglie di prosa vagante.

Stelle del mare, riflessi lucenti sul cielo dell’anima, nel tramonto di un insolito giorno che esala pungenti profumi di erba marina e ossi di riccio dalle spine smussate di bianca salsedine.

Mite autunno, rami di sole tra le vene del mare, l’occhio del vento non è ancora sedato e indugia vagante nel fitto vociare di un brusìo rarefatto, che rilassa il respiro di ataviche ansie.

Roccia corrosa nei vuoti riposti, dispensa di oracoli nel flusso di cose incerte e nascoste che toccano in sorte. Su legni leggeri, le curve del tempo solcano il mare, tra piccoli pesci vestiti di scaglie di rosso colore.

La barca ava e nulla toglieva all’onda vagante, sulla scia biancastra tutto rimane un nascosto diletto. Fiori di quarzo, sul pallido volto di un sole nascente. La brina si allerta nel vuoto discreto di una quiete fendente.

Del tempo scorso tra noi, quasi nulla è rimasto, se non cocci sparsi di fine porcellana.

Una gita d’infanzia, poche lire legate in un fazzoletto da naso. Una stanza con banchi vuoti dove sedevano muti versi latini. Una luce intensa faceva risplendere il vestito di porpora. Il salvadanaio era un piccolo mappamondo di plastica.

Quando di notte vuoterai il sacco, nulla di ciò che è accaduto tornerà a consolarti.

Il vascello colmo di anticaglie è vicino alla meta, ed innumerevoli sensi si celano muti sotto vele spiegate, come una teoria di pipistrelli in balìa del vento tra lenzuola di lino.

La mia poesia si nutre di dolore, ma a me solo poco ne resta, e non è tutto mio.

Quando sarai nella notte, guardati intorno, troverai pungoli di ghiaccio fra le stelle, mani di chiaro cobalto sfioreranno insonne il tuo volto, un silenzio verdastro ti erà accanto, e porterà via un piccolo fiore di rosso vermiglio.

Il fluire del tempo, non è altro che il sonoro fruscio delle cose, come i quadri colorati di attesa che vegliando hai dipinto sui teli della notte.

Mi sei apparsa come colomba dalle ali battenti, in un giorno di primavera, nella stanza del bianco ricordo, attratta dal rumore dei sogni che si alzano dai nuovi vapori di fumo, tra grumi di parole scritte in altra lingua, dove ato non torna ed il domani svolta da un angolo buio, come tempo nascosto da ombra furtiva.

Un manto di visone sullo scoglio, incrocio di antiche filastrocche, dove mormora il segreto del tempo come acqua fluente sull’alga muschiata, in quel mitico luogo dove il tuo sguardo ha lasciato sulle onde del mare un fresco riflesso d’azzurro.

Distacco e Retorica

Nubi telluriche, gocce di pioggia intrise di terra. Il grappolo rosso del ribes è in bilico sulla banchina. Una fresca leggerezza settembrina rinnova i vicoli limati.

Frugherai in ogni angolo la cenere dei nostri giorni, fra le tenebre della mia indifferenza, l’ansimare profondo delle tue incertezze, come l’eco di pensieri mai risolti, rimbalzava contro i muri asettici di quella stanza: troppo squallida per un addio, troppo buia per un sorriso. Adesso ricordo, il punto rosso della tua sigaretta, un’isola infiammata, non so dove, ai margini dell’Egeo, pulsava di luce, fra le pieghe delle mie parole che infrangevano

gli spazi sofferti del tuo silenzio; mentre l’alba pestava le ombre, un buio contratto sul volto ti scopriva negli occhi un lucore pesante, come un velo di pianto. Un fluido sottile mi attraversò le meningi, gettandomi addosso il magma dei ricordi. Sentii un brivido scivolarmi sulla pelle fino ai testicoli ed il sudore, frutto di non so quale alchimia, congelarsi sotto i colpi di una sensazione metallica. Anche tu,

hai varcato i campi blu della notte, e farai di quel sonno perduto la tomba di un amore mai detto, che ha il sapore del vento, come quello sguardo corvino che gettasti all’orizzonte per distinguere il colore del mare dal colore del cielo, dimenticando la terra.

Le ali della luna sono cobalto, oltre la porta, lungo sospira il silenzio. Anse di luce, ancelle di un gelo lontano, sono i ricordi. Oltre le dune, palpitanti nell’ombra, i cristalli del cuore battono in taglio d’amore.

Specchio di mare gaudente, onde di tenue libidine, su ardenti riflessi di luna. Nella quiete notturna, vivide alghe effondono umori intriganti. Ricordi lontani si schiudono in segreti pertugi, luoghi relitti dal cuore di giovani amanti.

Oltre la sera, una luce è ferma, come di lampada che annebbia il dirupo. Un velo di luna inargenta il tuo volto sulle ali del porto alle soglie d’estate.

Su cunicoli roventi, ondeggia il ricordo di eccitazioni lontane, che pian piano svaniscono, come un frammento d’alba fra gli ossuti solchi di un tempo gitante.

Cavità sospesa tra lo scoglio ed il mare. Ad un chiodo corroso è appeso il silenzio del tempo.

Non angosciarti, ho visto il bulbo estuante del vento viaggiare sulle tue membra ad occaso, raccolte di acre luce felina, di sacrale notizia.

Nei labirinti del cuore, ogni lacrima esala poco prima di giungere agli occhi.

Rivedo, il palpito lento dei nostri i su sentieri consunti dal tempo, levigati dal primo sudore di primavera, quando, tra lo schiumare verdescente del mare, un sole pungente faceva presagire gemme d’amore.

Ho scovato uno squarcio di cielo tra un coacervo di rifiuti frustrato di tempo, pesante d’inerzia, ossidato di compunzione gregaria. E’ una calcificazione d’ebbrezza, intrisa d’ipostasi, come una fluttuanza di cellule sulla superficie di fiori cartacei, sul tuo viso larvato di seta, che scivola giù, fra bagliori dissolti.

Spore di luce, crepe di memoria tra efebici scogli limati dal vento corrosi di sale, anneriti dal sole.

L’azzurro che l’anima incanta, come un brivido fresco di vita, ricompone sul verderame l’unità del ricordo, quando lunare e notturna fluisce l’ebbrezza, tra il respiro fossile di un tempo arcuato su comignoli fumanti.

Luce che vibra negli occhi, ben oltre le ombre desuete del cuore si allunga lo sguardo nell’intorno randagio di sentieri nascosti.

Nel viale, giù, più a levante, tra i smarriti si aggira il ricordo, che parte dal cuore ed al cuore ritorna.

Un frammentarsi di immagini tremule sullo specchio nero di luce di un pozzo traudito da infantile attenzione.

Ellittiche sfere del tempo che non desta dolore. Nel seno della notte puntinato di stelle un moto perenne, che di coerenza non soffre, nutre algebrici respiri.

Figura di sostanza oltre la forma è il maestro. Del grillo morto, dopo l’ultima pioggia, quasi nulla è rimasto, fuorché un salmonato petalo di rosa.

Le uova si schiudono, la luce è netta nel taglio. Pochi i della mia piccola donna, dicono che il pavimento è asciutto e si può andare oltre.

I fiori di bougainville restano alla deriva, oltre il cancello, mentre il letto attende un restauro. La centrifuga, col suo rumore vorticoso, toglie dai panni l’estivo sudore.

Piccole cose di natura grezza girano nella mente dove si tengono stretti, in un continuo rimando di sensi nascosti, i monti dell’alba.

Nuotare è scrivere una breve poesia sull’immenso foglio del mare.

Pericolando nella notte sui bordi di un letto, si desta aguzzo un intenso profumo di geranio.

Volo di gabbiani tra frammenti di nebbia, fiori di smeraldo sul fondo del mare catturano il canto. Sulle piume, una sottile patina di salmastro lucente.

Di tanti quadretti, la carta è bianca, quasi distratta da un’attrazione fatale per il nero seme d’inchiostro. La seduzione del segno, intride di altro. Il o lento consuma la felpata agonia del sentire che decanta in tracce d’assenza.

Screziato di luce, mare d’infanzia e di luna. E rocce aggredite, corrose di storia, levigate dall’uso di pensieri ancestrali. Anima vagula, traviata di un azzurro metallico e da reti che piangono mare, precipiti nel pallore sapiente dell’alba sotto le unghie di Dio sporche di prassi, avvelenate di saio. Ed ancora, e poi ancora, teoresi, stelle, vita, attrizione.

L’ultimo giorno d’estate cade nel segno delle tue mani imbrunite da un sole archiviato in pittoreschi tramonti sul fresco argento di nuove cornici cittadine.

Canti diversi invadono i silenzi del tempo, nel transito lento di un frangente riposto.

Inversi Ritorni

In luoghi remoti il rumore del vento, pungente e leggero, copre d’incanto le onde del mare. Bianca scogliera, scalza creatura, dove l’eco silente avvolge su sponde congiunte nubili pensieri e celibi emozioni.

La percezione del mito nella selva radente dell’anima ronzava velato e ramingo nel solco intonato del tuo nome conciso.

Luci lontane, come di terra abitata dal rimorso di omesse attenzioni, sono le tue parole. Fuori dal seme, la verde stagione ha messo radici tra profili di ombre che ti somigliano. Profonde assenze fratturano il tempo di ansiosi risvegli.

Tra speroni rugosi la luce dell’alba ridesta il sorriso su verdi sentieri di ignoti ritorni.

L’acqua tetra del divenire sulla prua ondeggiante del mio ato schiude un leggero livore non ancora raccolto dalla introversa caduta del tempo.

Accerchiato sul volto un senso di colpa, cristallo innervato di cattivi pensieri che rasentano umidi bordi.

La chiusura del segno cade capovolta sulle fessure dell’anima, che si aprono, corte di luce, come un giorno di nuvole nel solstizio d’inverno, tra ciglia socchiuse che filtrano bagliori di marmo sulle tese navate di innumerevoli volte.

Il piede incerto vaga slacciato nello specchio di scarpe lustrate, confonde e divide, con un gesto desueto, sottili frontiere tra qualcosa e qualcuno sul plantare dell’essere.

Le ombre del giorno si allungano, gravano indocili su ricordi fossili di infantile purezza. Riferimenti sbiaditi di minute parvenze si rincorrono tenuti per mano fra labirinti di panni stesi all’ombra di salici piangenti, come dita trasparenti che vagano incerte su floride guance.

Sapori crudi di fichi macilenti Nella notte, vapori di luce sull’acqua e molte armi per mediare o ferire quella parte di vita che l’anima inclina.

Un cuore di mandorla chiude il circolo delle opportunità, lasciate e non perse, nel ricordo che si affievolisce, ridente e sbilenco, tra pupille sognanti.

Il continuo vagare dei giorni avvolge i vicoli della rottura, nel celeste grigiore di un cielo dove la sera, calzando zoccoli di legno striati di rubino, inventa di caotico il moto della memoria.

L’incompiuto mosaico di tessere mute nel pallido ritorno di azioni banali, è incidente di tensioni in ricerca.

Ho scoperto una scala, che porta in quel luogo, dove insiste un pertugio segreto che chiude la porta a richieste di senso. Uccelli rapaci con piume acetate poi, si nascondono.

eggere trasparenze di notturni paesaggi senza stagione filtrano liquide tra le crepe di rappresentazioni che sbocciano da intruse. La risposta alla vita è vomito di natura che nutre sagome informi di valori putrefatti.

Facile dissonanza di storie seducenti, dove voci notturne rinchiudono la ferraglia delle astrazioni nel reticolo grezzo di spazi incandescenti che si aprono acerbi su ritorni che sanno di fisso morboso.

La tela di ragno, ha una maglia strappata dove sgusciano multiformi parzialità di evidenza nel contesto abusato di un messaggio continuo.

Ricordo ancora il soffio leggero del tuo gesto, l’immagine che si riflette sul cerchio d’acqua di un pozzo profondo, tra frammenti di luce e ritagli d’orgasmo.

Insignificanti raggiri di paralleli sorrisi, dove ogni cosa disvela l’insipido che si decompone, tra bave di larva, nel lento suicidio di meridiani angosciati.

Un’ intuizione metallica nel simmetrico circolo di pensieri metabolici, venuta fuori dal caso, per attinenza, dichiara in un processo segreto la contumacia di ignari sentimenti.

Il bisogno di solitudine è raccolta di tempo senza ritorno, in un luogo di provvisoria memoria dove venire di persona è un saggio consiglio.

Un pullulare di immagini si addensano intorno a parole sconnesse che centrano il cuore come luce abbagliante, sguardi indiscreti.

Nel volgere ingenuo dei fatti di vita, le tue parole sapevano di altro vissuto, come una confluenza di tranquilli discorsi in salotti di pregiato damasco.

La sabbia dorata, i suoni e le immagini, odori lontani, frammenti di canto. Sulle ruvide coste, l’incessante bruire di lenito dolore, ritorna neutrale e insidioso a venare d’incanto la luce del giorno.

Simultaneo essere di soluzioni possibili, incorrotta memoria vagante tra ginepri fioriti da macchie relitte sulle volte del cielo, dove citrine illusioni nutrono con semi di cristallo possenti aquile d’oblio.

Né amore, né tempo, né altro ritorna. il fertile pianto della scura terra è un fuoco che alimenta le ceneri di sterili giorni.

Calma monotona che di altro lavora note emotive, come sera che cade su eduli tramonti.

Sul tavolo della cucina una tovaglia decorata di quadri fioriti si arrotola nuda nella densità del nulla che avvolge suppellettili stanche di attese infinite.

Discromie di finali, fatale distanza di secondi momenti che si aprono inermi, quando il tempo, dallo sguardo smagrito, regala finestre sull’ anima.

Il peso delle cose ha stretto d’assedio le mura del senso e unito per sempre il silenzio dei giorni col filo trasparente di un incanto perduto, dove il pensiero fluisce seguendo l’acclive sentiero che porta sulle autentiche impronte dell’essere.

Tra belle costruzioni, coerenti e contate, i nostri discorsi dicevano nulla di nuovo. Cucivi insieme a calzini sfondati parole ed immagini di insoliti fatti, tra bottoni perlati di senso comune.

Verso sera l’occhio allungato del vento tornava a incresparsi sull’acqua vetrosa, stelle cadenti pungevano il cielo di tenui bagliori, come denti affioranti fra le gengive di un bimbo.

Il o lento delle abitudini è una tara invisibile, il solito giro di tante faccende e di poche parole.

Lo spessore leggero dell’aria intrigante, sulle soglie di anni ruggenti, era denso di vita, come una una pallina di vetro spinta dal pollice in buche distanti.

La strega è tornata, scende le scale arrossa le guance, porta nelle tasche del nero mantello mandorle e fichi da unire in sortilegio sul fondo di fittili giare.

Un posto lontano, un lembo di terra dove risolvere in chiaro questa memoria intrisa di voci inquietanti.

La zanzare di notte assetate di ostro han preso d’assalto braccia infantili, nude e scoperte tra bianche lenzuola, come pasta di mandorle tra veli di zucchero.

Il lungo finale di ballerini danzanti su verdi prati e piazze lucenti, attardano il ritorno di intrepide gambe verso stazioni lontane.

Parti di memoria che si aprono in acque profonde. Tra le continuità del flusso, ogni piccola goccia di pioggia è segno di un incessante travaglio del cielo, un movimento alternato di pensante e pensato che si trasforma nel suo essudato contrario.

Sotterranea agitazione della memoria, il contagio diffuso di frangenti marosi tra banchi di nebbia. Nel supino tacere, qualcosa rovescia l’unità del ricordo. All’ombra dei cespugli l’attesa incapace avvolge un angolo inerte di vita sommersa.

Un sospiro strano e non riducibile segna il confine rarefatto di una profonda inquietudine.

L’enigma dei tuoi occhi è una parola che esprime nel mezzo ogni parte di se, come assi che si aprono tra regine di cuori su una scala di poker.

Il vecchio cappello di lana infeltrita scandiva l’istante alla luce di una lampada da mezza candela: lettura stentata di trame confuse tra maglie scarnite sul risvolto interiore.

Sospetta andatura di riferimenti allusivi, dolci canditi sul variopinto discorso che intende, tra esili cose, note persone e infinite distanze.

Profilo metallico di polsi sudati cinti da orologi dal quadrante capovolto fermano il tempo, come il cadere di un numero dispari sulla faccia di un dado.

Prima di partire, hai lasciato sulla foderina di un disco queste parole: “Il vento consumò le sponde, scia rossa di sole, il fremito del gabbiano volò sul mare, scivolò lieve su di lui, ne bevve l’essenza, poi squarciò la nube e il cielo pianse lacrime di pioggia.”

Eri fra le mie braccia come terra avvolta dal cielo, nuvole bianche le nostre parole sopivano il cuore e la luce del giorno mescolava i colori del mare con l’etereo incarnato di promesse infinite.

Questa è la storia: angoli consumati, graffio di una puntina, segni velenosi di inquieta presenza tra simboli ludici di fallico amore.

Torre vetusta centinata di rondini, nelle tue stanze segreti e ricordi. Sentinella del mare mirato dall’alto, legni agareni con vele oscurate ti sorpresero un tempo prima del giorno. Scampato il periglio col favore dell’Assunta, ora sei pallida e muta, il sale marino portato dal vento ha screpolato la tua memoria di tufo sulle pagine sparse di un diario perduto. Per salvarti dall’incuria del tempo e degli enti,

ombre interessate ti hanno concesso per quasi cent’anni di stare al servizio di privati signori che ti tengono stretta, tra porte ferrate, contestate dal mare con proteste di ruggine.

In questa mattina una luce densa si è posata sui citeriori contorni di case appiattite, tra gambe divaricate di pali telefonici che sfilano obliqui su strade in discesa. Un gioco di sguardi, dietro grovigli di sottile stanchezza che vena invisibile il sangue sugli occhi, come pruni rubenti di rami contorti.

Frammenti di cristallo si acuiscono lenti come fitte nel grembo di flussi mensili. Un silenzio canuto su tempie arcuate dove tristezza e dolore, gioia e sorrisi incidono solchi di inversi ritorni.

Ho seguito le tue parole come cose importanti che si rimandano sempre.

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